1 http://www.teatroestoria.it/Docs/Offici/MAI-2007-01.htm © Copyright Tutti i diritti riservati. Si garantisce qui il permesso di citare facendo riferimento a questo sito (www.teatroestoria.it). Per altre richieste e il permesso di pubblicare per intero si prega di contattare la redazione [email protected] Bernadette Majorana La devota meraviglia. Feste in Italia per le canonizzazioni dei santi (XVII secolo e inizio del XVIII) * La relazione della festa indetta a Firenze per la canonizzazione del carmelitano Andrea Corsini si apre con un lungo richiamo normativo: pur se tenuto in fama di santità, nessuno può essere invocato come santo e taumaturgo e onorato «solennemente» con feste, nelle diverse diocesi, senza che prima il pontefice si sia dichiarato con autorità infallibile e definitiva[1]. Il testo esce nel 1632, quando la Chiesa cattolica ha già realizzato un importante rinnovamento dell’istituto giuridico della canonizzazione e dei contenuti stessi della santità. La competenza del processo di verifica è assegnata alla Congregazione dei Riti, fondata a questo scopo da Sisto V nel 1583, nell’ambito della riorganizzazione della Curia romana: di una persona vengono accertate, secondo la fama sanctitatis popolare, e su base testimoniale, le virtù eroiche e le capacità d’intermediazione miracolosa. È esclusiva potestà del pontefice pronunciarsi in maniera conclusiva: fino alla proclamazione, il culto pubblico del candidato è proibito, tranne che egli – secondo quanto stabilito da Urbano VIII nel 1625 e nel 1634 – non abbia già raggiunto il riconoscimento della condizione di beato, la quale fa sì che il culto pubblico sia concesso provvisoriamente e localmente. Con la successiva eventuale canonizzazione il culto viene invece imposto, e imposto senza limiti né spaziali né temporali. L’estensore della relazione fa riferimento al vincolo tra centro e periferia come principio regolatore delle feste pubbliche da indirsi localmente. Al cuore del suo ragionamento c’è l’atto della canonizzazione, riformulato insieme con i provvedimenti cinque-secenteschi, che suggellano un percorso di verticizzazione e centralizzazione della santità originatosi nel XII secolo. Il papa scioglie la propria riserva nel corso di un grandioso rito celebrato nella basilica di San Pietro: proclama la santità del servo di Dio, indicandolo come modello di virtù e intercessore, assegnandogli gli onori liturgici e prescrivendone il culto pubblico, da praticarsi in ogni luogo e presso tutti i cattolici, nel presente e nell’avvenire, illimitatamente[2]. Allora e solo allora (come sottolinea l’autore fiorentino), quando l’atto fondativo del pontefice si è compiuto, le feste possono avere luogo a Roma e in molte altre parti dell’orbe cattolico, ovunque vi siano devoti del nuovo santo. Generate dall’atto del pontefice, da esso dipendenti, le solennità locali per le canonizzazioni dei santi si qualificano come attività festive al servizio della volontà suprema che in quell’atto precettivo si esprime. La concezione stessa di questo genere di iniziative – una invenzione di età moderna, del tutto coerente con la riforma della santità canonizzata – è insita nella universalità e nella perpetuità del culto prescritto, che ne motiva anche la larga diffusione: feste straordinarie, ciascuna di esse si costituisce come un segmento strutturato della promotio ad cultum. 2 Lo mostrano chiaramente quei tipici documenti secenteschi che sono le relazioni di festa, testi a stampa di schietta natura retorica[3], redatti per costruire della festa – per sua natura effimera – una memoria felice, largamente emendata, ma durevole, depositata in un libro e affidata alla lettura di coloro che hanno partecipato perché possano ricordare, e di coloro che non hanno partecipato perché possano immaginare. Le relazioni costituiscono un oggetto di indagine limitato e parziale, ma particolarmente interessante nel caso nostro proprio perché, oltre a fornire testimonianza delle feste, assecondano a propria volta la propagazione del nuovo culto imposta dal provvedimento pontificio. Sono opuscoli per lo più di poche pagine (talvolta corredati di immagini), atti a circolare diffondendo la notizia dell’evento potenzialmente a dismisura, finché essa ha forza di risuonare e di essere acclamata; e atti a trasmettersi fino a noi, che li disseppelliamo dai luoghi dove si sono conservati – quando si sono conservati e quando riusciamo a reperirli. La ricerca delle relazioni a stampa di feste italiane secentesce che ho condotto finora ha dato esiti diseguali: restringendomi all’Italia, e fatta esclusione per quelle riguardanti le iniziative svoltesi in Vaticano e poi a Roma (le più studiate)[4], ne ho rinvenute sette di feste svoltesi a Milano[5], una di Firenze[6], tre di Palermo[7] e una di Messina[8]. Ho trovato due relazioni di feste napoletane del primo ’700[9] e nessuna del secolo precedente. Ne considererò particolarmente alcune nelle quali la descrizione dei molteplici apparati, delle azioni spettacolari, dei comportamenti e dei sentimenti prodotti permette di individuare, meglio che nelle altre, il progetto e gli scopi della festa. Riguardano tutte santi appartenenti a ordini religiosi. Di impianto promozionale, queste feste svolgono un programma persuasivo volto a suscitare e a orientare la devozione, attivando – lungo gli otto giorni in cui ciascuna di esse si articola – le facoltà percettive, affettive, intellettive dei partecipanti, sollecitate dalle azioni spettacolari compiute in onore del nuovo santo e dalla visione degli spazi cittadini, trasformati per l’occasione e mirabilmente accresciuti di forme e di significati. Festeggiare il santo e attarrre potenziali futuri devoti ne è lo scopo. La festa deve essere tale da tenere desti i cuori, e da penetrarli, ove riuscirà. L’improvvisa manifestazione della gioia è il segnale che, in un dato luogo, i membri della famiglia religiosa del santo e la cerchia dei suoi devoti hanno ricevuto la notizia ufficiale della canonizzazione: il passaggio dalla condizione sub iudice alla santità dichiarata esalta il potere dell’autorità legittimante il culto e valorizza, al contempo, le comunità che si investono del compito di promuoverlo pubblicamente. La notizia comporta la trasmissione di due dati essenziali: la bolla di canonizzazione e la concessione dell’indulgenza plenaria[10], condizioni che qualificano il rapporto tra la Santa sede e le collettività festeggianti. I devoti esprimono tutto intero il sentimento dell’attesa lungamente trattenuta e il desiderio di un’ampia condivisione, finalmente consacrata dall’atto pontificio: «ognuno si può pensare quello che si facessero hora che si dava licenza alli desiderii trattenuti per tanti mesi»[11], si legge al proposito nel testo messinese. L’annuncio alla città si può organizzare in un segmento autonomo che precede di giorni o addirittura di mesi l’ottavario, come è consuetudine a Milano[12]; oppure può essere dato alla vigilia. Il fuoco contraddistingue pressoché ovunque la notizia: fiamme di ogni dimensione e potenza luminosa (torce, candele, lanterne), macchine pirotecniche, fuochi d’artificio disposti sulle parti alte degli edifici, sono il segno più visibile a distanza, un segno che stupisce, ma che soprattutto richiama; un invito a 3 partecipare. A Palermo, secondo tutte e tre le relazioni, l’inaugurazione della festa cade il giorno che precede l’ottavario e coincide con lo svelamento del cosiddetto «teatro», che della festa è il centro ed è posto nella chiesa dell’ordine religioso di appartenenza del santo. Il ripetersi della circostanza indica una opzione strategica: il tempo richiesto dall’allestimento del teatro crea grande attesa per quel che apparirà. Non si tratta soltanto di un tempo tecnico, allora: lo si potrebbe dire piuttosto un tempo retorico. Si legge nella relazione di Loyola e Saverio del 1622: «Mentre quest’apparato si stava così fabbricando, per comparir poi nuovo, stette per venti giorni serrata la chiesa, restando solo aperta un’ala per le messe, e confessioni»[13]. Per Borgia, nel 1671, «tolti via i ponti e le tende, la vigilia della festa», ecco che «l’opra» compare, «con grido, applauso & approvatione di tutti»[14]. E vent’anni dopo, nel 1691 (a quasi un anno dalla canonizzazione), per il fondatore dei fatebenefratelli Giovanni di Dio, «spalancate all’ammirazione de’ popoli le porte e della chiesa e del cortile, viddesi negl’occhi de’ risguardanti sospesa in estasi la divota meraviglia»[15]. Attirare sulla fabbrica segreta del teatro la curiosità dei cittadini, al fine di accrescere l’effetto sorprendente della visione finale, sembra essere, nel corso del secolo, un dispositivo palermitano costante. Le feste di canonizzazione non mancano mai di due fulcri obbligati. L’uno si organizza nello spazio chiuso della chiesa dove è disposto l’apparato fisso principale, il teatro; l’altro si organizza all’aperto, nella porzione di strade – esse pure apparate – dove si snoda la processione con l’immagine del santo. Entrambi necessari, sempre associati, i due poli corrispondono a un progetto composito, concepito per ottenere nei partecipanti effetti complementari: meraviglia e pietà ovvero stupore e devozione, diletto e venerazione, secondo le formule proposte dalle relazioni, e ricorrenti ovunque, identiche o sinonime. Sono condizioni presenti in ogni festa barocca di segno religioso: tuttavia l’interdipendenza dei due elementi, nelle solennità indette per le canonizzazioni, e la coerenza con cui vi sono trattati è capitale ai fini della promotio ad cultum. Nella chiesa dell’Ordine del santo – e perciò all’interno dell’apparato che la occupa – si celebra la messa e si cantano i vespri quotidianamente, alla presenza del popolo e dei rappresentanti di chiesa e governo cittadini. Lungo tutto l’ottavario vi sono installati i palchi per l’esecuzione musicale (corale e strumentale), la quale ha un ruolo importante e viene sempre esaltata per quantità e qualità (a Firenze, per Corsini, le musiche sono affidate al «celeberrimo» Girolamo Frescobaldi)[16]. Un predicatore ogni giorno diverso recita un panegirico del santo, in una accesa gara oratoria (nella relazione messinese del 1622 le prediche vengono indicate come «giuochi festivi»[17]). E giacché i predicatori sono vere attrazioni delle feste religiose, i resoconti non tralasciano mai di fornire i loro nomi[18]. Il teatro è sempre caratterizzato da una profusione di argenti, lumi e cera, da tessuti preziosi, colorati, ricamati e sapientemente disposti in molteplici modi (annodati, dispiegati, drappeggiati, cascanti), da statue e da rilievi di stucco, da iscrizioni e quadri. Esso può essere il risultato della mera (e sapiente) combinazione di questi materiali, come può essere un’opera di concezione ingegnosa e originale. Richiede, allora, una ideazione e una esecuzione materiale impegnative, competenze specialistiche di tipo retorico, artistico, artigianale, che coinvolgono molte persone. La complessità d’invenzione e l’indispensabile perizia di realizzazione dell’apparato principale emergono esemplarmente nelle relazioni per la festa di Ignazio e Saverio a 4 Palermo, nel 1622, e per quella dell’agostiniano Tommaso da Villanova nel 1659 a Milano. In tutti e due i casi gli autori del testo sono coinvolti nella ideazione. Il primo, Tomaso d’Afflitto, laico, segretario della Congregazione dell’Annunziata eretta nella casa professa dei gesuiti palermitani, oltre al resoconto della festa redige per i visitatori anche L’idea dell’apparato, una guida alla comprensione di quanto si vede rappresentato nel teatro del Gesù; del quale, pur senza che lo dichiari apertamente, pare essere appunto uno degli inventori. Esplicito è invece il ruolo dell’altro, fra Ottavio Secchi, priore del convento di San Marco, nella cui chiesa si allestisce il teatro per Villanova. Al Gesù di Palermo, «fingemmo», scrive D’Afflitto, «che il mondo superiore & inferiore fossero in questa chiesa comparuti» per celebrare le azioni dei santi festeggiati[19]. Su supporti di tela sono dipinti Dio padre, di scorcio nella cupola e circondato da angioletti danzanti, il quale «parea, che bandisse festa alla terra»; mentre nelle quattro vele e nelle lunette della navata centrale, alternate ai pilastri con le storie dei santi, si vedono ventisei figure femminili che impersonano le quattro parti della terra e le province e i regni raggiunti dalla Compagnia, «qui al comandamento del Cielo comparute per festeggiare i santi»[20]. Nella controfacciata, inginocchiati, compaiono invece papi, imperatori, re con i quali i santi hanno tenuto relazione, e coloro i quali – uomini e donne di alto lignaggio – si sono fatti sostenitori della causa di canonizzazione[21]. La diffusione della fede mediante l’opera missionaria della Compagnia è soggetto presente anche in altre feste del 1622 precedenti la palermitana, la quale a propria volta lo replica con una insistenza certamente competitiva. Seguendo la successione cronologica delle solennità di quell’anno, il tema si trova infatti a Milano nell’apparato della chiesa del collegio (sedici figure di donna dipinte e cucite su damasco, a fasciare altrettante colonne della navata centrale)[22]; ed è accennato nelle allegorie della processione solenne di Messina, da dove riecheggia l’apparato della facciata del collegio davanti al quale essa staziona[23]. A Palermo vi si allude anche nell’arco trionfale allestito vicino al collegio[24]; e ritornerà cinquant’anni dopo nell’apparato per Borgia, in alcuni quadri della navata centrale del Gesù, che articolano descrittivamente «lo stato, e li progressi» della Compagnia (sulla facciata si ritrovano anche i ritratti di sette papi e sette re legati alla casata del santo)[25]. Nonostante l’evidenza apologetica e propagandistica del tema – cattolico romano e gesuitico, fortunatissimo, per altro, nella tradizione iconologica della Compagnia, almeno fino alla cupola di Andrea Pozzo nella chiesa romana di Sant’Ignazio – e nonostante la preponderanza rispetto all’insieme della rappresentazione, la vera idea ispiratrice dell’apparato palermitano tuttavia non è questa. È l’altra: che dal cielo e da ogni parte della terra, tutti coloro che conoscono le azioni dei santi e ne godono gli effetti convengano in quella chiesa a festeggiare i due gesuiti canonizzati e a compiacersi della loro gloria. L’argomento dell’apparato della festa è dunque la rappresentazione di quella stessa festa. È una festa nella festa. La scelta si avvale di un’efficace nozione metateatrale: anche le figure effigiate sono presenze, partecipanti, mentre coloro che via via giungono, nel corso dell’ottavario, sono a loro volta parte dell’apparato, della festa rappresentata, e a un tempo di essa spettatori. Nel teatro palermitano del Gesù, come in quelli di tutte le altre feste di canonizzazione, si uniscono alle immagini – dipinti essi pure – brevi testi e iscrizioni didascaliche, in latino e in italiano, versi e componimenti laudativi in onore dei santi, esortazioni spirituali dirette ai partecipanti, motti uniti a figure simboliche in forma di emblemi e imprese. L’apparato concepito a Milano dall’agostiniano Ottavio Secchi per 5 Tommaso da Villanova è, in questo senso, una prova geniale. Percorso retorico combinato con un’esperienza sensoriale e con un esercizio intellettivo spiritoso, che fa appello largamente alla fantasia e al coinvolgimento del corpo, l’idea è cavata dal nome scomponibile del festeggiato e trae di lì la gravità e l’amenità che la caratterizzano. Il teatro della chiesa di San Marco rappresenta infatti un giardino, una villa, appunto, latinamente intesa: un luogo di delizia. Allude antonomasticamente al paradiso terrestre; ma l’altra parte del nome, nova, fa da richiamo alla necessaria rigenerazione che deve affrontare l’uomo peccatore – che proprio nell’Eden è caduto – per vivere da cristiano e ritrovarsi un giorno in paradiso, nella comunione di san Tommaso con Dio e tutti i santi[26]. L’apparato trasforma l’interno dell’edificio in un luogo ingannevole, ricolmo di alberi e fiori, dipinti o ricamati o tessuti con tale perizia che «non sapeva l’occhio distinguere» se fossero fatti con l’ago o col pennello; e che, nel coro dell’altare maggiore, trapassano in autentiche piante[27]. Il gusto dell’artificio specioso e della perfezione esecutiva (sempre intensissimo, secondo le relazioni) è sollecitato nei visitatori anche riguardo agli elementi testuali dell’apparato. Secchi affianca alle scritte esplicative varie sorti di componimenti tratti dall’arsenale retorico: «cartelli scritti con versi musicali, ne’ quali le note do, re, mi, fa, sol, la, servivano per sillabe» e di fronte ai quali anche chi sa poco o niente di musica si intrattiene «specolando per leggergli, e tal’hora con qualche espositione gratiosa». E ancora: anagrammi e certe composizioni dette «laberinti» o «luchetti perché, a somiglianza di questi, s’aprono con lettere»; oppure «epigrammi in versi [...] espressi con imagini», fatti «per pascere la vista», i quali «più degl’altri dilettavano e rapivano la turba, principalmente gl’idioti». Cosicché «Correvano le genti, affollandosi a veder quei versi dipinti: la varietà delle figure, tal’hora ridicolose, dava loro materia di contemplare, & era cosa piacevole l’udire le loro interpretationi»[28]. L’autore dell’apparato punta sulla molteplicità sensoriale della percezione e si rivolge sempre, unitamente, a sapienti e illetterati. Nella festa secentesca, d’altronde, ogni elemento è concepito per essere disponibile al godimento e alla comprensione di tutti gli intervenuti[29]. In questo e in tutti i teatri l’invenzione dilettevole e suggestiva si accompagna sempre nel corrispettivo figurativo della storia del santo: quadroni – come sono definiti quelli di maggior dimensione – e quadri, dove sono rappresentati i fatti occorsigli, le azioni virtuose e prodigiose compiute. Le persone coltivate vi individueranno il rapporto con le orazioni dei panegiristi; mentre gli ignoranti, che faticano a intendere parole sontuose e ricercate, si affideranno decisamente alle immagini, come a una agiografia pauperum. Solitamente dipinte in occasione della festa, e spesso da artisti di grido o da specialisti del genere[30], corredate da iscrizioni con valore combinato di spiegazione e allusione, queste storie offrono del santo la ricostruzione critica derivata dal procedimento che ha condotto alla canonizzazione: una scelta di fatti vagliati e accertati che i testimoni hanno riferito durante il processo[31]. Finalmente legittimati, allora, ma anche fortemente istituzionalizzati, gli episodi rappresentati nell’apparato configurano una restituzione dei contenuti della fama sanctitatis alle comunità dei fedeli che alla fama avevano dato voce e che se l’erano trasmessa, tenendola viva nel corso dell’inchiesta probatoria, pur al prezzo di un gravoso controllo della spiritualità e delle pratiche pubbliche di pietà[32]. Le virtù – raffigurate per lo più sotto forma di allegorie – sono i principi che hanno 6 presieduto alla esistenza del santo, e indicano i fondamenti del modello sublime, l’universale emulabile a cui ciascuno può accostare la propria personale vicenda allo scopo di imitarlo; le azioni illustrano momenti dell’esercizio di perfezione cristiana nel quale il santo si è cimentato, esemplari pur se irripetibili nella loro specificità ed eroicità; i miracoli mostrano le operazioni che il santo ha compiuto in favore degli uomini per volere di Dio, e legittimano le preghiere dei fedeli, le loro ulteriori richieste di mediazione[33]. La serie degli episodi agiografici posti nel teatro sembra ripercorrere la consuetudine pittorica tradizionale dei cicli di affreschi o di tele con le vite dei santi. Ma rispetto a questo genere di opere, la natura effimera – cioè festiva – del prodotto realizzato per le canonizzazioni ne fa altra cosa, collocandolo nel contesto della eccezionalità e della straordinarietà; e lo assume, in quanto dispositivo di riappropriazione-illustrazioneconoscenza-imitazione del nuovo santo, fra i segni inaugurali del culto pubblicamente propagandato. Affinché i modi e i contenuti del culto si radichino nei fedeli, già durante l’esperienza della festa, è necessario che il diletto istruttivo del teatro si colleghi alla pietà: la processione con l’immagine del santo è la situazione in cui, nell’ambito dell’ottavario, il segno devoto è più profondo e incisivo. Alla complementarità di scopi che motivano la festa corrispondono due tipi d’immagine: numerose e varie quelle collocate nell’apparato fisso, rappresentazione descrittiva e articolata della «maniera di vivere menata» dal santo[34], esse forniscono, come già si è detto, la storia da conoscere, l’esempio da imitare. Non vi è traccia infatti, nelle relazioni, di preghiere e devozioni di fronte a queste immagini, e mai si fa riferimento a istanze d’ordine o di silenzio nella visita al teatro della chiesa; dove al contrario, come già si è notato riguardo ai prodotti di natura retorica, si auspica una manifesta e vivace risposta alle sollecitazioni prodotte dalla visione. Una soltanto è invece l’immagine portata in processione, la quale – come dice l’autore del resoconto della festa milanese del 1690 per i francescani Capestrano e Baylon – deve «dare a conoscere» quale sia «il rimanente dell’altre pitture» (i quadri del teatro, cioè), come «un compendio di tutti li misteri, che si dovevano esprimere»[35]. Composizione araldica, dunque, che concentra in sé, simbolicamente, pochi elementi essenziali, gli attributi della nuova condizione celeste del santo, l’immagine della processione è quella che si venera e si prega. In essa si materializza il sacro, la presenza efficace del nuovo santo, che durante la festa muove incontro ai fedeli, per essere chiamato per nome, adorato, invocato «per aggiuto [...] ne’ [...] bisogni»[36]. È dipinta solitamente su uno stendardo, che ha per prototipo quello del rito della basilica di San Pietro, dove viene posto nella cupola e, alla proclamazione, svelato. Talvolta, nelle feste locali, si tratta di quel medesimo oggetto: è il caso, per esempio, dello stendardo di Ignazio e Saverio ricevuto con grande privilegio nel 1622 da Messina, in quanto città importante per la Compagnia sin dalle origini, dove viene portato in processione, la vigilia dell’ottavario, dal Duomo al Gesù con una solenne cavalcata, tra spari e suoni e luminarie magnifiche; nonché di quello di Corsini, dato a Firenze in quanto città di nascita del santo, e portato in processione il primo giorno dell’ottava[37]. Quando non si tratta dello stendardo romano, quasi sempre, tuttavia, la collocazione è la medesima; e pur senza averne il crisma, di quello che ha partecipato dell’atto compiuto dal pontefice conserva il valore e la forza. Per rimarcarne l’efficacia alcune relazioni evocano la soggezione dei fedeli o l’intervento oppositore del demonio di fronte allo svelamento dello stendardo, come pure l’influenza che la sua presenza esercita sulle condotte dei partecipanti[38]. Questo tipo d’immagine funge inoltre da modello per le immagini correnti del santo, che da 7 allora saranno realizzate e replicate con ogni genere di tecnica[39]. È matrice di incorruttibile continuità, dunque; tramite di una devozione personale, fatta di parole bisbigliate e di piccoli gesti, che si rinnovano da una generazione all’altra[40]. La processione milanese dello stendardo di Corsini, nel 1629, è aperta da una fanciulla che rappresenta sant’Orsola, accompagnata da «un ordinato stuolo di vergini, con palme e dardi nelle mani, & vagamente vestite per le undecimilla compagne»; seguono «molt’altre fanciulle, riccamente adobbate & ornate» come vergini e martiri, con simboli della loro condizione; e ancora fanciulle «vestite da angioli», le quali, «con molto decoro», portano «i geroglifici delle virtù essercitate dal santo»[41]. La composizione araldica delle figure che sfilano in stretta sequenza paratattica accentua il tratto allegorico della processione, singolare anche per la forte componente femminile, legata – come è detto – alla devozione per la Madonna del Carmine. E che ritorna per Maria Maddalena de’ Pazzi, nel 1669, quando lo stendardo della santa viene preceduto da «ottanta fanciulline, bene e riccamente vestite», a due a due, «con modestia non ordinaria» (un «trionfo dell’innocenza»), seguite dalle dame della Compagnia della Vergine del Carmine[42]. Sempre a Milano è nuovamente notevole il caso di Tommaso di Villanova: passando attraverso le strade fittamente addobbate (che «senza fallo potea credersi di passar per una chiesa continuata») la processione con lo stendardo incontra «alcuni luoghi apparati con varij cartelloni di composizioni [...] distribuiti sopra varie porte e botteghe», i quali «alludevano all’attioni del santo & alle professioni di tali artefici che gli esposero»[43]. Il legame con il santo si istituisce qui mediante prodotti letterari (versi latini, forse realizzati ancora da Ottavio Secchi) sul tema della affinità ideale tra il santo e coloro che hanno esposto gli elogi come insegne della loro bottega: un cartaro, un pittore, un intagliatore, due stampatori, due librai, uno speziale. Ma è evidente che, nel gioco apparentemente lieve della invenzione poetica, si esalta l’avvio di un processo di imitazione perfettamente consentaneo con gli scopi della canonizzazione. Solenni e di complessa struttura, le processioni con l’immagine del santo si protraggono per alcune ore lungo itinerari anche molto estesi e possono raggiungere un numero elevato di partecipanti. Le compongono i membri dell’Ordine religioso del santo e i laici appartenenti a confraternite e congregazioni; e ancora: alti prelati, ecclesiastici, nobili, rappresentanti del governo e della milizia. Possono variare considerevolmente: in tutte, però, la qualità esteriore dell’azione deve essere tale da esprimere una dedizione disciplinata che è già atto devoto. Il ritmo, l’andatura (a piedi o a cavallo), il contegno, l’avanzare coeso, senza discontinuità, frammentazioni, interruzioni[44], l’abito indossato, legato all’occasione (ufficiale e di rappresentanza, insignito dagli attributi del rango), gli oggetti portati in mano, torce e candele o simboli della Passione di Cristo e attributi del santo, le vesti da angeli dei bambini: ciascuno di questi elementi qualifica la percezione di sé, rispetto a quella quotidiana, fino ad accrescere il sentimento d’importanza del proprio ruolo, che si esalta nell’autocontrollo come attributo visibile della propria persona. Ma soprattutto ciascuno di essi costituisce una costrizione regolatrice, percepita – all’interno della esperienza condivisa – anche come norma a cui subordinare le condotte individuali. In quanto appartenenti al gruppo delle persone elette a fare da corteo al santo, l’«andare» e la «compositione del volto e del corpo»[45] devono suscitare una edificante meraviglia, tanto che, secondo le relazioni, l’incedere composto e obbediente di bambini, ragazzi o cavalieri produce sorpresa e tenerezza in coloro che guardano, a sottolineare come, in questi soggetti, intemperanze e scostumatezze siano abituali, ed è perciò la straordinarietà del comportamento devoto a lasciare 8 stupefatti, in quanto indizio della influenza del santo[46]. Non sempre, tuttavia, nella processione si trasporta uno stendardo o esclusivamente uno stendardo. E non sempre la processione è una soltanto, nel corso dell’ottavario, e di segno unicamente devozionale. Nei tre casi siciliani, le processioni hanno un fulcro ulteriore: la cosiddetta «bara», statua-reliquiario del santo, il cui trasporto si configura come un antico trionfo. La struttura processionale si presta allora a una ideazione complessa, e l’attrazione si affida a un forte accento spettacolare. Il primo giorno dell’ottavario del 1622, a Messina, nel tardo pomeriggio, un’altra processione solenne si avvia dal Gesù fra trombe e tamburi. È aperta da un carro trionfale ricoperto di «rilievi d’argento & oro». Vi sta «assisa in alto seggio Messina [...] difesa dalle Virtù d’Ignatio, che intorno li sedevano nelli proprii habiti leggiadramente adorne». Un coro di musici, sulla parte inferiore del carro, suona e acclama i santi. I quattro capi di altrettante schiere di giovani nobili a cavallo portano le insegne delle quattro parti del mondo e dei regni in cui la Compagnia è giunta. Con «bella ordinanza, e senza interrottione alcuna» – come si deve, perciò – seguono i padri e ottocentocinquanta membri di otto congregazioni mariane; quindi una macchina che «piacque a tutti, a meraviglia», con le figure dei martiri gesuiti a rilievo e più di cento strumenti di martirio, di grandezza quasi naturale; angeli distribuiscono loro palme e corone. C’è l’arcivescovo con il clero. E sotto il baldacchino «la bara», con i busti d’argento dei due santi[47]. Similmente a Palermo lo stesso 1622 e sempre ad apertura dell’ottava: anche qui viene trasportata la «maestosa bara con i busti [...] d’argento» di Ignazio e Saverio, accompagnata da quindici stendardi con figure dei due santi, innalzati dai rappresentanti di congregazioni mariane, da scolari (tutti «nobilissimi giovinetti»: «rettorici» i primi, poi «grammatici» e in fine «humanisti») e da gruppi di cittadini, ogni stendardo circondato da un coro di musici: milleottocentoventiquattro persone che passano lungo strade – i cui edifici sono «da’ tetti fino a terra con apparato tanto magnifico adornate, che anzi chiese leggiadramente acconcie sembravano che case» – fra invenzioni che «trattenevano con gusto la gente», macchine pirotecniche e idrauliche, altari «tutti ricchi e pomposi», disposti all’aperto dai devoti dei due santi, che ne incensano il passaggio e le reliquie[48]. E ancora, nel 1671, per Borgia, si portano lo stendardo di «taffetà d’oro» con l’immagine del santo ricamata e, oltre a quello dei padri gesuiti, otto stendardi delle congregazioni del collegio e della casa professa sui quali, «con leggiadrissime e divotissime positure, ondeggiava l’effigie del santo»; in fine «la bara trionfale del santo», una complessa macchina divisa in due ordini, con statue di pontefici e angeli e quella del santo alla sommità[49]. Analogamente, nel 1691, per Giovanni di Dio, non il primo giorno dell’ottavario, però, ma il quarto[50]. A Napoli, le feste esaminate hanno in comune con quelle siciliane l’elemento caratterizzante del trasporto di statue, benché le reliquie non vi siano ugualmente rilevanti: la grandiosa processione – che è anche l’apertura ufficiale dell’ottavario, la sera della domenica – conosce qui la variante suggestiva del corteggio di tutti i beati e santi dell’Ordine. Per il domenicano Pio V, nel 1713, dietro allo stendardo del santo, accompagnato da confraternite del Rosario e da un coro di fiati, e dopo sessanta sacerdoti dell’Ordine e dodici «fanciulletti [...] vestiti a forma d’angioli» – di «ale e perrucche nobilmente forniti», che «con il loro portamento facevano una bellissima vista» – compaiono ventidue statue d’argento di grandezza naturale, poste su alti piedistalli e coperte di 9 gioie offerte dai cittadini per un valore stimato di cinque milioni. Con alla testa Domenico, «condottiero» di quella schiera impressionante, «le statue de’ santi passavano» fra «centinaia di migliaia di persone» secondo l’ordine «che tien la Chiesa nel venerarli»: vedove, vergini, confessori, dottori, vescovi e martiri, (ultimi, questi, «come i più degni»). In fine, su un enorme «catafalco ovato», arriva la statua del nuovo santo, in abiti pontificali, con una reliquia incastonata nella cintura. Ogni statua è accompagnata da dodici coppie di domenicani, ed è preceduta e seguita da una macchina trionfale, da musici, alabardieri, fanciulli; san Pietro Martire ha con sé sessanta domenicani e cinquanta musici; mentre il simulacro di Pio V è preceduto da cento seminaristi e seguito dal cardinale con tutta la corte. Come già a Palermo, lungo l’itinerario, con edifici addobbati in modo tale da far «comparire quella gran strada un de’ più degni teatri», la processione staziona almeno dieci volte vicino ad altari eretti davanti alle chiese degli Ordini religiosi che vogliono rendere speciale omaggio al santo incensandone la statua[51] (ma si può dire che si tratti di un omaggio all’Ordine del santo e che queste soste, come già l’alternarsi dei panegiristi sul pulpito, disegnino una mappa dei legami fra i religiosi di ciascuna città al tempo della festa). È dello stesso tipo la processione serale per l’apertura solenne dell’ottavario di Luigi Gonzaga e Stanislao Kostka, nel 1729 (a due anni e mezzo dalla canonizzazione), dove non c’è, però, alcuna reliquia. Nel percorso con le consuete soste (undici altari per l’«ossequio dell’incenzo» a ogni statua della processione, e l’«offerta di mazzolini di fiori in seta» da parte delle religiose degli ordini femminili, lungo prospetti adornati in modo tale da sembrare «un continuato teatro»), tre santi e quattro beati dell’Ordine – di cui tre martiri, quelli giapponesi, beatificati nel 1627 – accompagnano i due stendardi e le due statue d’argento dei nuovi canonizzati, poste al di sopra di una statua rappresentante la Fede, nell’alto di un grande carro trionfale portato a spalla da cinquanta facchini[52]. A voler considerare deliberata la continuità formale riscontrabile tra le due processioni, nelle feste napoletane si rende visibile il contrasto tra un Ordine religioso che con la sfilata di ventidue santi si rappresenta nella sua antica, illustre genealogia e un Ordine che mostra la propria nascita recente, ma anche – con i suoi nove santi e beati – la capacità di incidere esemplarmente sulla contemporaneità. Parrebbe di poter dire che, nelle feste siciliane e napoletane, la statua del santo (e, dove sono presenti, le reliquie, traccia di una devozione locale preesistente e del prestigio che esse conferiscono alla comunità che le possiede), solidamente disposta sulla gran macchina che la trasporta al livello del lastricato, un corpo tra i corpi degli stessi partecipanti, sia il nume della comunità, che invita a cimentarsi in invenzioni di ogni sorte e al quale ancora una volta e più grandiosamente si rende omaggio: è l’offerta festiva della quale viene infatti rimarcata la molteplicità dei segni e delle soluzioni, accentuata dal valore materiale dei prodotti effimeri realizzati, dettagliatamente descritti e calcolati nei costi, in una gara dove lo spreco economico è segno e senso costitutivo della festa. È altra cosa dalla presenza celeste e immateriale del santo che si palesa sull’esile stendardo inalberato, grande immagine aerea solitaria rispetto alla folla, tutt’uno con la seta leggera su cui è dipinta, pronta ad apparire e a sfuggire alla vista per un colpo di vento o una mossa inconsulta dei portatori, o per uno sbuffo dell’incenso bruciatole intorno: il vertice della devozione che deve farsi esperienza interiore e pratica di vita. Lo sviluppo urbano delle solennità, come si è visto, ha un corrispettivo rilevante nell’addobbo degli edifici: tappezzerie, arazzi, drappi, lumi esposti alle finestre, fregi pendenti, porte ornate. Strade come chiese e come teatri, si legge nelle relazioni. 10 Questo tipo di apparato segnala la partecipazione materiale dei cittadini alla festa[53] e rende riconoscibili gli itinerari lungo mi quali si svolgono i movimenti preordinati di gruppi e persone. La città si trasforma anche verticalmente. E verticalmente si anima: le finestre sono il punto d’incontro fra l’interno e l’esterno, il limitare sul quale l’universo privato e quello pubblico entrano in relazione. Affacciarsi alla finestra durante la festa significa non distaccarsi interamente dal proprio quotidiano; e tuttavia è un’azione che impone una condotta diversa da quella domestica: oltre che guardare si è guardati, e tale duplicità dà la consapevolezza di dover essere – o di doversi almeno mostrare – pertinenti alla straordinarietà della festa. Il corpo, l’abito, il gesto, lo sguardo (al pari dei decori con i quali si è modificato il proprio spazio privato lì dove esso coincide con quello pubblico), tutto deve essere sottomesso alla eccezione festiva e alla pietà che alcune iniziative, come la processione delle immagini dei santi, esigono. Guardare la festa dalla finestra, essere puri spettatori, non è allora una condizione meno partecipativa dello stare per strada (si pensi all’esito cerimoniale che produce questa azione comune, quando a guardare dalle finestre sono alti rappresentanti del governo civile e religioso), soprattutto in un genere di festa dove l’invenzione di oggetti dello sguardo è requisito di riuscita e l’azione del guardare è azione capitale, epicentro della esperienza. Apparentemente dedicata al trasporto del sacro stendardo è un’altra iniziativa processionale realizzata a Palermo nel 1622, per Ignazio e Saverio: si tratta di «una venuta d’ambasciadore, che da Roma portava al collegio de’ padri lo stendardo». Verso il tramonto del penultimo giorno, un brigantino seguito da una squadra di barche si stacca dal porto fino a raggiungere una insenatura distante tre miglia, dove l’ambasciatore sbarca «a suon di trombe, pifari, tamburi», accompagnato da una «honorata soldatesca de’ congregati della Purificatione di Nostra Signora, sotto il suo capitano e bandiera, chiascheduno col suo archibugio, spada, banda, pennacchio e collane vagamente vestito». Sparando a salve, lo salutano dal pontile altre due compagnie di congregati, in tutto simili alle precedenti, e alle quali risponde l’artiglieria della «soldatesca spagnuola» – il corpo di guardia del castello – mentre viene issato il vessillo reale. Fra rumori, grida e lumi e un enorme numero di spettatori cittadini e forestieri, sopraggiungono a cavallo, andando incontro all’ambasciatore, il senato palermitano col suo corteo da una parte e da un’altra i rappresentanti del patriziato. Si muovono alla volta del collegio per il Cassaro, la strada che collega il porto al centro della città appena ridisegnato e lungo la quale sorgono alcuni edifici della Compagnia[54]: i battaglioni fanno largo alla processione in mezzo alla folla, seguiti dai cavalieri, disposti a tre a tre, ognuno con paggi e palafrenieri, e da «tutti gli ufficiali della città», dietro i quali «compariva l’ambasciadore» a cavallo, affiancato da due signori di altissimo rango. Entrato nel collegio con «l’honorata sua comitiva» e dette «alcune poche, ma ben composte parole», l’ambasciatore presenta lo stendardo al rettore, «che lo ricevette, ringratiandolo con altre tante parole»[55]. Già sappiamo che nessuno stendardo arriva da Roma a Palermo, giacché quello benedetto dal pontefice vine inviato a Messina (e non si può escludere che l’azione processionale appena riferita si inscriva in un’aperta competizione fra le due città). Ma anche l’ambasciatore altri non è che un quindicenne palermitano, Francesco del Bosco conte di Vicari, il quale già si era distinto, alla testa di «giovinetti suoi pari», nella cavalcata che aveva preceduto la processione con le bare dei santi il primo giorno, e nella quale aveva portato lo stendardo dei retorici. Bisogna ritenere che sia appunto come studente di retorica che egli fa qui la parte dell’ambasciatore, compiendo una prova recitativa tipicamente connessa a quella classe scolastica e a quegli studi. Ma 11 veri sono invece i dignitari che lo accolgono, veri i soldati che sparano dal castello del viceré, veri i padri gesuiti che ricevono l’immagine; mentre è finta la milizia che accompagna il giovinetto. La solenne processione fatta a Palermo con il cosiddetto stendardo romano è verosimile, allora, ma non è vera: il rapporto fra presenza e rappresentazione – che è cruciale, come si è già visto, nelle processioni devozionali con lo stendardo del santo – è impostato ricorrendo all’ambiguità teatrale. Il resoconto lo introduce proprio in questi termini, quando dice: «Si rappresentò una venuta d’ambasciadore» (e non dà poi alcuna notizia del destino di quel bellissimo stendardo «di tela d’argento con l’effigie de’ santi»[56], strumento esso pure della finzione). Il gioco del teatro è serio, tuttavia. Giacché seria, e importante, è la capacità dei giovani di formazione gesuitica di investirsi di ruoli pubblici secondo modelli ambiziosi (re, santi, eroi sulle scene dei teatri di collegio; qui un ambasciatore del papa, insieme con le figure esemplari di quegli anziani della città che si prestano a partecipare, sostenendo la parte di se stessi, e con i quali il giovane attore interagisce direttamente), esibendosi in un’impegnativa actio di fronte alla comunità che li giudica. È un saggio di quello che essi vanno acquistando nelle scuole della Compagnia a tutto vantaggio del proprio futuro e responsabile contributo di decoro, dignità e modestia alla città cristiana, in quelle azioni prefigurato[57]. L’elemento teatrale converge nella festa in quanto prova virtuosa di governo di sé ed espressione altamente significativa della pedagodia gesuitica, cioè della identità stessa dell’Ordine e dei suoi santi (lo si vedrà espresso programmaticamente nel caso del trionfo milanese); ma vi converge anche per fornire una rappresentazione ideale della città sacralizzata dallo stendardo, attorno al quale l’intera drammatizzazione ruota. Quello appena illustrato non è l’unico esempio di esaltazione dei giovani offerto dalle relazioni: nelle feste gesuitiche l’attività pedagogica ha largo spazio sia mediante la partecipazione diretta degli studenti, sia mediante il ricorso al tema allegorico delle scienze insegnate nei collegi. Invenzione retorica e recitazione sono affidate nel 1622, a Milano, per l’apparato del collegio e della chiesa di Brera, agli scolari appartenenti alle classi di grammatica, umanità e retorica[58]. Ai quali, lo stesso anno, nel penultimo giorno dell’ottavario, si deve la realizzazione più grandiosa della festa: ancora un omaggio trionfale a Ignazio e Saverio e l’offerta di stendardi con la loro immagine. Si tratta di un corteo di carri, trainati da cavalli e sormontati da giovani scolari in abiti femminili, che impersonano – «finsero» – le scienze previste dalla Ratio studiorum. Sull’ultimo carro sta la «Charità zelante» in trono, contornata dalle virtù esemplari dei due santi, intese come fondamento e scopo degli studi. Tra la folla plaudente, dopo un lunghissimo giro, i carri fanno ritorno di notte a Santa Maria di Brera, dove ogni studente-attore recita versi convenienti al proprio personaggio[59]. La sera appresso – dopo una processione di duecento scolari vestiti di sacco, membri della Congregazione della Penitenza – ne recita nuovamente «un giovinetto [...] con elmo, & habito di velo d’argento, e bastone in mano», mentre fra musiche si offre ai santi un altro stendardo con la loro effigie[60]. Ma anche a Messina, la settimana successiva all’ottavario, gli scolari del collegio onorano le scienze con un ciclo di azioni recitative, che si chiudono con un grandioso «trionfo della Sapienza», intesa come strumento di evangelizzazione e il cui carro è preceduto da una lunga teoria di uomini illustri e di scienze a cavallo[61]. Recitano «in scena», nel salone del collegio che essi stessi hanno apparato, anche «i rettorici» palermitani[62]. Ed è un’invenzione retorica e un’azione teatrale realizzata 12 dalla Congregazione dei Filosofi quella che a Palermo chiude l’ottavario: un trionfo di Ignazio e Saverio, riproposizione animata del soggetto dipinto nell’apparato del Gesù e di un altro, quello della fontana costruita nel cortile del collegio[63]. Trainato da dodici cavalli, parte dal mare – seguendo lo stesso itinerario verso il collegio percorso dall’ambasciatore – un «magnificentissimo» carro a forma di galeone, ricoperto di iscrizioni, emblemi, imprese e geroglifici: trasporta due statue di Ignazio e Saverio e quattro statue raffiguranti le quattro parti del mondo con le loro insegne. Lungo la strada, le vittorie dei santi vengono cantate da musici, «ciascun di loro vestito alla foggia di qualche regno», mentre vengono trascinati il Demonio, l’Eresia e l’Idolatria «da’ santi debellate». Precede il galeone una macchina pirotecnica, affiancata da due squadre composte l’una da membri della Congregazione della missione per la comunione generale, in abito di archibugieri, l’altra da scolari del collegio, «a gara quel giorno ornati alla soldatesca»: stanno armati sotto due stendardi dei santi, con tabelle e il nome di Gesù[64]. Qui – e già prima, accanto all’ambasciatore – bisogna ritenere che i soldati compaiano come figura della Compagnia, alludendo metaforicamente alla ecclesia militans che i membri dell’Ordine incarnano; e che siano una ulteriore proiezione del tema della espansione della fede sotto la bandiera di Cristo, che rimanda, d’altra parte, alla meditazione-guida della seconda settimana degli Esercizi spirituali. Ma il costume da soldato è anche una memoria di Ignazio prima della conversione, come è detto nella relazione milanese riguardo a un «artificio militare», compiuto lo stesso anno il primo giorno dell’ottava – e replicato l’ultimo – da seicento scolari di Brera[65]. Ancora una volta l’azione teatrale è esercizio d’incorporazione di un modello di esperienza possibile (la risposta personale alla vocazione missionaria della Compagnia) e metafora di una identità religiosa che nella città trasfigurata celebra se stessa e che, in virtù del potere unificante del tempo e dello spazio della festa, in quei giorni intende radunare sotto le proprie insegne tutta la comunità. Nel 1729, nella relazione della festa napoletana per Gonzaga e Kostka, si legge che «il rito comune di Santa Chiesa» esige che «si solennizino con ogni possibil pompa le feste de’ santi novellamente canonizati»[66]: sul finire del primo trentennio del ’700, una prassi festiva si è dunque consolidata, come i casi osservati testimoniano. Il campione delle feste considerate ha una coerenza che pare delineare un genere, ma anche un sistema festivo, un ‘rito comune’ appunto. Sincronicamente o diacronicamente lette, le relazioni e i racconti in esse contenuti permettono di ipotizzare quale sia la funzione attribuita a queste feste rispetto alla lunga durata della santità di un individuo, nel passaggio dal tempo della festa al tempo della quotidianità. L’intenzione di promuovere e contestualmente affermare il nuovo culto fa sì che queste feste, iuxta propria principia[67], ambiscano a costituirsi come esperienze inaugurali, pregnanti; dispositivi che coinvolgano il corpo e attraggano i sensi e le menti; prove devote, alle quali sottoporre i cuori e le condotte; e in cui l’effimero, consumandosi, fondi pratiche religiose destinate a radicarsi e a durare[68]. L’abbozzo comparativo proposto (nel quale il nucleo delle feste gesuitiche del 1622, precedenti la distinzione urbaniana di beati e santi, risulta molto esaltato anche per la preponderanza quantitativa delle relazioni reperite[69]) lascia intravvedere molte lacune, e concomitanze forse casuali. L’ampliamento delle fonti, non ultime quelle iconografiche, è necessario per colmare i vuoti informativi e per porre altri interrogativi. Ed è altrettanto necessario l’approfondimento delle fonti già impiegate, le relazioni (autori e dedicatari, caratteri della narrazione, orientamento delle notizie). 13 Molti aspetti compresenti nella festa e indicati anche nelle relazioni – talvolta dettagliatamente descritti o riferiti – sono stati qui trascurati[70]: musiche e canti, anche in rapporto con la liturgia solenne, contenuti e modi dei panegirici, dettaglio dei dipinti con storie dei santi e iscrizioni, luci artificiali negli apparati e nelle azioni processionali, condizioni prodotte dal giorno e dalla notte sono elementi rilevanti della concezione e della ricezione di queste feste, ed è necessario considerarli come linguaggi non gerarchizzabili. Sono ugualmente da prendere in esame le questioni normative (qui appena sfiorate), le componenti istituzionali e la dimensione sociale, comportamentale, politica e religiosa dei partecipanti; nonché gli artisti e gli artigiani coinvolti e l’economia della festa. I singoli episodi vanno ricondotti ai rispettivi contesti festivi, quelli cittadini (laici e religiosi) come pure quelli di ciascun Ordine. Non meno importante è l’assetto urbanistico delle città in cui l’evento si svolge[71]. Un’indagine che prescinda dalle cerimonie di canonizzazione in Vaticano, nonché dalle successive feste romane è certamente decapitata e l’unità va ricostituita: la Roma pontificia è modello festivo indiscutibile, e credo che se ne possa prescindere – come ho fatto qui – solo in sede di riflessione provvisoria, a maggior ragione se si tiene come valido il criterio interpretativo assunto e che procede dalla subordinazione delle feste locali al rito ufficiale compiuto nella basilica di San Pietro. Resta confermata, infine, come una più ampia e condivisibile esigenza di ricerca, una parte essenziale delle premesse: l’assunzione di un oggetto d’indagine che, nella prospettiva universalistica della promotio ad cultum, permetta di verificare il formarsi di un sistema complessivo di feste nell’Europa cattolica, nelle aree sottratte alla protesta e ancora oltre, valutandone la consistenza in ragione del processo di espansione missionaria che caratterizza la Chiesa di Roma di età moderna, dei cui motivi e scopi essenziali le feste per la canonizzazione dei santi diventano parte integrante e occasione di affermazione, laboratori politici e devoti che coinvolgono gerarchie civili ed ecclesiastiche, ordini religiosi e popolo anche a Oriente e a Occidente dell’Europa[72]. * Destinato agli Atti del Convegno Internazionale di studi Les cérémonies extraordinaires du catholicisme baroque, Le Puy-en-Velay, 27-29 ottobre 2005, a cura di Bernard Dompnier, Editions de l’Université Blaise Pascal, Clermont-Ferrand, di prossima pubblicazione. [1] Cfr. An., Descrizion delle feste fatte in Firenze per la canonizzazione di s.to Andrea Corsini, Fiorenza, Zanobi Pignoni, 1632, pp. 1-3 (d’ora in avanti CorsiniFirenze). [2] Cfr. Giuseppe Dalla Torre, Processo di beatificazione e canonizzazione, in AA.VV. Processo canonico, in Enciclopedia del diritto, vol. XXXVI, Milano, Giuffré, 1987, pp. 931-943, ad vocem; Id., Santità ed economia processuale. L’esperienza giuridica da Urbano VIII a Benedetto XIV, in Gabriella Zarri (a cura di), Finzione e santità tra medioevo ed età moderna, Torino, Rosenberg & Sellier 1991, p. 231-263. Spunti di notevole interesse sono offerti da Christian Renoux, Canonizzazione e santità femminile in età moderna, in Luigi Fiorani e Adriano Prosperi (dir.), Storia d’Italia, Annali 16: Roma, la città del papa. Vita civile e religiosa dal giubileo di Bonifacio VIII al giubileo di papa Wojtila, Torino, Einaudi, 2000, pp. 729-751. Riguardo all’importanza dell’atto della canonizzazione cfr. le osservazioni di Martine Boiteux, Les Rituels romain de canonisation et ses représentations à l’époque moderne, in Gábor Klaniczay (dir.), Procès de canonisation au Moyen Age. Aspects juridiques et 14 religieux, Roma, Ecole Française de Rome 2004, pp. 327-355. Rimando anche a Bernadette Majorana, Feste a Milano per la canonizzazione di santi spagnoli (secolo XVII), in «Teatro e storia», www.teatroestoria.it e di prossima pubblicazione in Pierre Civil et al. (dir.), Usos y espacios de la imagen religiosa en la Monarquía hispánica del siglo XVII, Madrid-Paris, Ed. de la Casa de Velázquez. [3] Cfr. Renato Diez, Il trionfo della parola. Studio sulle relazioni di feste nella Roma barocca. 1623-1667, Roma, Bulzoni, 1986. [4] Fra gli studi italiani, cfr. molti importanti elementi in Maurizio Fagiolo dell’Arco e Silvia Carandini, L’effimero barocco. Strutture della festa nella Roma del ’600, vol. I: Catalogo, vol. II: Testi, Roma, 1977-1978 (un’opera di documentazione e inquadramento ermeneutico della festa romana che resta fondamentale); in prospettiva storico-artistica cfr. Vittorio Casale, Gloria ai beati e ai santi. Le feste di beatificazione e canonizzazione, in Marcello Fagiolo (a cura di), La Festa a Roma. Dal Rinascimento al 1870, vol. I, Torino, Allemandi, 1997, pp. 124-141, e Id., Addobbi per beatificazioni e canonizzazioni. La rappresentazione della santità, La festa a Roma. Dal Rinascimento al 1870, II: Atlante, Torino, Allemandi, 1997, pp. 56-65, entrambi i testi con particolare attenzione al ’700. L’argomento è solitamente accennato (quasi esclusivamente a proposito di Roma) nelle ricapitolazioni sul teatro di età moderna: per esempio Franca Angelini, Teatri moderni, in Alberto Asor Rosa (dir.), Letteratura italiana, vol. VI: Teatro, musica, tradizione dei classici, Torino, Einaudi, 1986, pp. 69-225; Ead., Barocco italiano, in Roberto Alonge e Guido Davico Bonino (dir.), Storia del teatro moderno e contemporaneo, vol. I: La nascita del teatro moderno. Cinquecento-Seicento, Torino, Einaudi, 2000, pp. 193-275; Sivia Carandini, Teatro e spettacolo nel Seicento, Roma-Bari, Laterza, 1990, pp. 53-54, 184-185; Ead., L’effimero spirituale. Feste e manifestazioni religiose nella Roma dei papi in età moderna, in Fiorani e Prosperi (dir.), Storia d’Italia, pp. 519-553. [5] [Angelo De Grossi], Relatione della festa fatta in Milano per la canonizatione di s.to Carlo card. di S. Prassede, & arcivescovo di detta città, nell’anno 1610 [...], Milano, Pontio e Piccaglia, [1610] (dove, per esempio, si attesta che in area lombarda furono indette molte feste per Borromeo: ivi. p. 32); An., Breve relatione delle solennissime feste, apparati, et allegrezze fatte nella città di Milano, per la canonizatione de’ santi Ignazio Loyola [...] e Francesco Saverio [...], Milano, Malatesta e Piccaglia, 1622 (d’ora in avanti Loyola e Saverio-Milano); [Giovanni Paolo Fontana], Relatione delle solennissime feste, allegrezze, apparati, et sacre cerimonie fatte nella chiesa di S. Giovanni in Conca di Milano [...] per celebrare la canonizatione di santo Andrea Corsini [...], Milano, Marco Tullio Paganello, 1629 (d’ora in avanti Corsini-Milano); [Ottavio Secchi], Relatione delle feste fatte in Milano [...] per la canonizatione di s. Tomaso da Villanova, Pavia, G.A. Magri, [1659] (d’ora in avanti Villanova-Milano); Nonatio Amari Chiuzzam [Antonio Maria Mazzucchi], Brieve, e sincera relazione delli trionfali applausi, e solenni palinodie, decantate all’immortali glorie della [...] gloriosa vergine s. Maria Maddalena de’ Pazzi [...] nel tempio di s. Gio. in Conca di Milano [...], Milano, Gio. Battista Beltramino, [1669] (d’ora in avanti Maria Maddalena-Milano); [Giuseppe Orrigone], Descrittione dell’apparato e feste solenni fatte in Milano [...] in occasione della canonizzatione di s. Gaetano Tiene [...], Milano, Lodovico Monza, 1671 (d’ora in avanti Gaetano Thiene-Milano); Angelico Canevese, Il Giardino di Milano, overo Descrittione dell’insigne apparato fatto [...] per la festa della canonizatione di santo Giovanni di Capistrano, e di s. Pasquale Baylon [...], Milano, Federico Francesco Maietta, [1691] (d’ora in avanti Capistrano e Baylon-Milano). 15 [6] Corsini-Firenze. [7] Tomaso d’Afflitto, Ragguaglio degli apparati, e feste fatte in Palermo per la canonizatione de’ santi Ignatio, e Francesco Xavier 1622, Palermo, Gio. Batt. Maringo, 1622 (d’ora in avanti Ragguaglio Loyola e Saverio-Palermo); Id., L’dea dell’apparato fatto per la canonizatione de’ santi Ignatio Loiola e Francesco Xavier nella chiesa della casa professa della Compagnia di Giesù in Palermo [...], Palermo, Giovan Battista Maringo, 1622 (d’ora in avanti Idea Loyola e Saverio-Palermo); An., Narratione delle feste fatte in Palermo nel MDCLXXI per la canonizzatione di s. Francesco Borgia, Palermo, Pietro Camagna, 1722 (d’ora in avanti Borgia-Palermo); [Francesco Mannelli], L’Aquila d’Oreto alla nuova stella del Vaticano s. Giovanni di Dio. Trionfi festivi [...], Palermo, Giacomo Epiro, 1691 (d’ora in avanti Giovanni di Dio-Palermo). [8] An., Trionfi sacri di s. Ignatio Loiola, e s. Francesco Xaverio celebrati in Messina [...] nell’anno della loro canonizatione [...], Messina, Gio. Ftancesco [sic] Bianco, 1622 (d’ora in avanti Loyola e Saverio-Messina). [9] Nicodemo Nisandri, Relazione della solennissima festa fatta in Napoli [...] per la santificazione di s. Pio V [...], Napoli, Giovan-Francesco Paci, 1714 (d’ora in avanti Pio V-Napoli); An., Breve ragguaglio del solenne ottavario celebrato in Napoli [...] per la canonizazione de’ due beati Luigi Gonzaga e Stanislao Kostka [...], s.l., [1729] (d’ora in avanti Gonzaga e Kostka-Napoli). [10] Cfr. per esempio Borromeo-Milano, pp. 23-24; Capistrano e Baylon-Milano, pp. 50, 63; Pio V-Napoli, p. [17]. [11] Loyola e Saverio-Messina, p. 5. [12] Il dispositivo dell’annuncio delle feste milanesi sembra avere il suo prototipo in quella per Carlo Borromeo: cfr. Majorana, Feste a Milano. [13] Ragguaglio Loyola e Saverio-Palermo, p. 12. [14] Borgia-Palermo, p. 5. [15] Giovanni di Dio-Palermo, p. 28. [16] Cfr. Corsini-Firenze, p. 65. Per il rapporto tra musica e festa cfr. Gino Stefani, Musica barocca. Poetica e ideologia, Milano, Bompiani, 1974 e Id., Musica barocca 2. Angeli e sirene, Milano, Bompiani, 1987. [17] Loyola e Saverio-Messina, p. 19. [18] I testi dei panegirici sono spesso pubblicati a stampa, in appendice alla relazione della festa o separatamente. [19] Idea Loyola e Saverio-Palermo, p. 41. [20] Ragguaglio Loyola e Saverio-Palermo, pp. 6 e 7. [21] Cfr. Idea Loyola e Saverio-Palermo, pp. 41-43 e Ragguaglio Loyola e SaverioPalermo, pp. 6-11. [22] Cfr. Loyola e Saverio-Milano, pp. 27. 16 [23] Cfr. Loyola e Saverio-Messina, pp. 12-13 (facciata) e 16-19. [24] Cfr. Ragguaglio Loyola e Saverio-Palermo, pp. 16. [25] Borgia-Palermo, p. 5 e cfr. pp. 7-9, 27-41. [26] Cfr. Villanova-Milano, pp. 9-10. [27] Ivi, p. 13. Ringrazio Martine Boiteux per avermi segnalato l’esposizione delle tappezzerie con storie di Ignazio e Saverio realizzate in occasione della canonizzazione del 1622 per l’apparato del Gesù di Roma, e visibili nella stessa chiesa nel 2006, per il quinto centenario della nascita di Saverio: collocate nella posizione originaria, tra un’arcata e l’altra delle navate laterali, risulta in effetti ben difficile capire, guardandole dalla navata centrale, se si tratti di figure dipinte, ricamate o tessute. [28] Ivi, p. 14. Per la «fioritura secentesca» della poesia figurata cfr. Giovanni Pozzi, La parola dipinta, Milano, Adelphi, 1981, in particolare le pp. 205-275. [29] Cfr. Stefani, Musica barocca. Poetica, p. 10 e passim; e Andrea Battistini, Galileo e i gesuiti. Miti letterari e retorica della scienza, Milano, Vita e pensiero, 2000, pp. 230 e 231, 234-237, pertinente anche al caso agostiniano in esame, per il quale cfr. anche Majorana, Feste a Milano. [30] Cfr. Casale, Gloria ai beati e Id., Addobbi per beatificazioni, che si è particolarmente soffermato su questi prodotti artistici, riguardo alla committenza, alla esecuzione, alla conservazione; si veda anche Marco Rosci, I quadroni di san Carlo del Duomo di Milano, Milano, Ceschina, 1965, sui dipinti dell’apparato milanese per la festa di canonizzazione di Borromeo; Simonetta Coppa, Le feste milanesi per la canonizzazione di s. Gaetano nel 1671, in «Regnum Dei», n° 106, 1980, pp. 31-51, su dieci quadri provenienti dall’apparato della festa di cui al titolo dell’articolo e conservatisi. [31] Se ne ha l’esempio nelle venti immagini che corredano la relazione fiorentina di Corsini e nell’unica presente nelle relazioni milanesi sia di Corsini sia di Maria Maddalena de’ Pazzi; due immagini dell’insieme dell’apparato, all’interno e all’esterno della chiesa milanese di San Fedele, sono nella relazione gesuitica del 1622. [32] Credo che le feste locali secentesche si possano considerare un esito significativo di quella partecipazione «a posteriori» alla costruzione della santità, che la centralizzazione delle procedure e dei controlli impone al popolo con l’età moderna e di cui parla Paolo Prodi, Prefazione, in Angelo Turchini, La Fabbrica di un santo. Il processo di canonizzazione di Carlo Borromeo e la Controriforma, Casale Monferrato, Marietti, 1984, pp. XI-XII. [33] Cfr. Giulia Barone et al. (a cura di), Modelli di santità e modelli di comportamento. Contrasti, intersezioni, complementarità, Torino, Rosenberg & Sellier, 1994. Il fatto che il santo sia «insieme imitabile e inimitabile» è una «oscillazione» tra «dialettica e contraddizione» che caratterizza i caratteri della santità cristiana: Sofia Boesch Gajano, La santità, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 116. La preponderanza dell’interesse all’accertamento dei miracoli, nelle indagini, rispetto a quello relativo alla virtù eroica, pur prioritaria sotto il profilo giuridico-canonico, è sottolineata da Giulio Sodano, Miracolo e canonizzazione. Processi napoletani tra XVI e XVIII secolo, in Sofia Boesch Gajano e Marilena Modica (a cura di), Miracoli. Dai segni alla storia, Roma, Viella, 1999, pp. 171-195. 17 [34] Gaetano Thiene-Milano, p. 48. [35] Capistrano e Baylon-Milano, p. 10. [36] Ivi, p. 48 (e cfr. Majorana, Feste a Milano). [37] Cfr. Loyola e Saverio-Messina, pp. 3-8 e Corsini-Firenze, pp. 3-4, 67-80. [38] Cfr. Loyola e Saverio-Messina, p. 6; Gaetano Thiene-Milano, pp. 57-58; Capistrano e Baylon-Milano, p. 48; e cfr. anche An., Relatione sommaria della solenne processione fatta nella translatione dei stendardi doppo la canonizatione di santo Carlo Borromeo [...], dalla chiesa di Santo Pietro à quella di Santo Ambrogio [...], Roma e Milano, Gio. Iacomo Como, [1610], p. [8]. Caratterizzato da una «atemporale iconicità» nella cerimonia a San Pietro e nel trasporto processionale per le strade e nelle chiese di Roma, lo stendardo è, fra tutte, l’immagine del santo che «tocca il livello massimo di valenza simbolica» e ha un ruolo centrale, «quasi si trattasse di una reale presenza» (Casale, Addobbi per beatificazioni, p. 64). [39] Cfr. Casale, Gloria ai beati, p. 126. [40] Un’ampia classificazione delle immagini prodotte a Roma in occasione delle canonizzazioni è in Boiteux, Les Rituels. [41] Corsini-Milano, p. 36. [42] Maria Maddalena-Milano, pp. 44-45. [43] Villanova-Milano, pp. 4-5. [44] Cfr. quest’ultima sottolineatura per esempio in Pio V-Napoli, p. 12 e in Gonzaga e Kostka-Napoli, pp. 27 e 28. [45] Loyola e Saverio-Messina, p. 17. [46] Cfr., per esempio, Ragguaglio Loyola e Saverio-Palermo, p. 14; Maria Maddalena-Milano, pp. 44-45; Capistrano e Baylon-Milano, p. 54; Gonzaga e Kostka-Napoli, p. 7. [47] Loyola e Saverio-Messina, pp. 16-19. [48] Ragguaglio Loyola e Saverio-Palermo, pp. 15-16. [49] Borgia-Palermo, pp. 44-47. [50] Giovanni di Dio-Palermo, pp. 68-80, in particolare p. 77. Sull’artigianato e i materiali delle feste palermitane cfr. Giovanni Isgrò, La scenotecnica a Palermo nelle feste del ’600 e del ’700, in «Quaderni di teatro», a. III, n° 10, 1980, pp. 27-48; e Teresa Augello e Rosalba Guarneri Enea, La Sicilia e i fuochi di gioja. Spettacoli pirotecnici nella festa siciliana dal ’500 all’800, Palermo, Priulla, 1996 (sono grata alle autrici e ad Angela Tagliavia per l’aiuto ricevuto nella ricerca di fonti palermitane in vista del presente lavoro). [51] Pio V-Napoli, pp. 6-9 (l’esemplare della relazione che ho consultato non reca le immagini dell’apparato, a cui il testo fa invece riferimento, e che si possono consultare in Franco Mancini, Feste ed apparati religiosi e civili in Napoli dal viceregno alla 18 capitale raccolti, commentati e descritti da Franco Mancini, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1968). [52] Gonzaga e Kostka-Napoli, pp. 24-28. [53] Le relazioni riferiscono di molte invenzioni originali disposte dai devoti nell’area antistante la loro casa o per addobbo delle facciate; si tratta per lo più di una adesione sollecitata tramite l’affissione e la circolazione di avvisi: cfr., per esempio, Villanova-Milano, pp. 3-4. [54] La conformazione fisica di Palermo e il suo recente riassetto urbanistico incidono profondamente nell’invenzione e fanno sì che il mare diventi un elemento importante della festa. Per gli interventi urbanistici a Palermo tra ’500 e ’600 cfr. Giorgio Simoncini, Città e società nel Rinascimento, vol. I, Torino, Einaudi, 1974, pp. 180186. [55] Ragguaglio Loyola e Saverio-Palermo, pp. 22-23. [56] Ivi, p. 23. [57] Al proposito, tra i molti studi sulla pedagogia teatrale gesuitica, cfr. il saggio sempre importante di Marc Fumaroli, Il “Crispus” e la “Flavia” di Bernardino Stefonio, in Id., Eroi e oratori. Retorica e drammaturgia secentesche, Bologna, Il mulino, 1990, pp. 197-232. [58] Cfr. Loyola e Saverio-Milano, pp. 24-29. [59] Ivi, pp. 16-22, con sei immagini che illustrano i sei carri trionfali (e cfr. Majorana, Feste a Milano). [60] Loyola e Saverio-Milano, pp. 22-23. [61] Loyola e Saverio-Messina pp. 21-28. [62] Ragguaglio Loyola e Saverio-Palermo pp. 20-21 (e cfr. ivi, p. 18, per l’apparato del collegio e i quadri nei portici). [63] Ivi, p. 19. [64] Ivi, pp. 23-24. [65] Loyola e Saverio-Milano p. 14 e cfr. p. 22. [66] Gonzaga e Kostka-Napoli, p. 5. [67] Mi rifaccio a Fabrizio Cruciani, Per lo studio del teatro rinascimentale: la festa, in «Biblioteca teatrale», n° 5, 1972, pp. 1-16, quando avverte della necessità di rivisitare le feste «iuxta propria principia», appunto, e assumendo «come elemento forse primario dell’analisi il modo in cui i contemporanei parlano degli spettacoli» (ivi, p. 2). L’articolo di Cruciani e la sua definizione di festa rinascimentale «come unità strutturante» di «diverse forme espressive» (ibidem) sono state capitali per la fondazione epistemologica della festa e restano tali anche nel lavoro sulle esperienze barocche. [68] Cfr. anche Majorana, Feste a Milano, conclusioni. 19 [69] La canonizzazione di Ignazio e Saverio si celebra a Roma il 12 marzo 1622 (con altri tre santi, come è noto); le feste di cui si è trattato sono indette nei giorni 17-24 aprile a Milano, 23-30 luglio a Messina, 31 luglio-7 agosto a Palermo. [70] Elementi di integrazione in Majorana, Feste a Milano. [71] Opere di riferimento sono Mancini, Feste ed apparati; Giovanni Isgrò, Feste barocche a Palermo, Palermo, Flaccovio, 1981; Annamaria Cascetta e Roberta Carpani (a cura di), La Scena della gloria. Drammaturgia e spettacolo a Milano in età spagnola, Milano, Vita e pensiero 1995. [72] Si veda per esempio la festa gesuitica del 1622 a Salvador de Bahia, analizzata da Charlotte de Castelnau-L’Estoile, Les Ouvriers d’une vigne stérile. Les Jésuites et la conversion des Indiens au Brésil. 1580-1620, Lisboa-Paris, Fundação Calouste Gulbenkian-Centre Culturel Calouste Gulbenkian, 2000, pp. 477-493. Elementi sui festeggiamenti e sulla produzione emblematica e iconografica, nonché sui panegirici legati alla beatificazione e alla canonizzazione di Rosa da Lima (1668 e 1671) sono reperibili in Ramón Mujica Pinilla, Rosa Limensis. Mística, política e iconografía en torno a la patrona de América, Lima, Instituto Francés de Estudios Andinos-Fondo de Cultura Económica-Banco Central de Reserva del Perú, 2001, pp. 249-360. Su alcune feste messicane si veda il contributo di Pierre Ragon, Les Cérémonies de béatification et de canonisation en Nouvelle-Espagne, in Bernard Dompnier (dir.), Les cérémonies extraordinaires du catholicisme baroque, Atti del convegno internazionale di studi (Le Puy-en-Velay, 27-29 ottobre 2005), Editions de l’Université Blaise Pascal, Clermont-Ferrand, di prossima pubblicazione. Osservazioni di grande interesse sulla politica della santità canonizzata nella Lima del XVII secolo si devono a Juan Carlos Estenssoro Fuchs, Del paganismo a la santidad. La incorporación de los indios del Perú al catolicismo. 1532-1750, Lima, Instituto Francés de Estudios Andinos, 2003, pp. 480-492. Una lista dei santi venerati in Nouvelle-France tra il 1610 e il 1700 è in Dominique Deslandres, Croire et faire croire. Les missions françaises au XVIIe siècle, [Paris], Fayard, 2003, p. 417 (e cfr. ivi, pp. 415-424). Alcuni spunti anche in Gabriella Zarri (a cura di), Ordini religiosi, santità e culti: prospettive di ricerca tra Europa e America Latina, Atti del seminario (Roma 21-22 giugno 2001), Galatina (Lecce), Congedo, 2003, particolarmente nei saggi di Cantù, Cabibbo e Beozzo.