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Bernadette Majorana
La devota meraviglia.
Feste in Italia per le canonizzazioni dei santi (XVII secolo e inizio del
XVIII) *
La relazione della festa indetta a Firenze per la canonizzazione del carmelitano Andrea
Corsini si apre con un lungo richiamo normativo: pur se tenuto in fama di santità,
nessuno può essere invocato come santo e taumaturgo e onorato «solennemente»
con feste, nelle diverse diocesi, senza che prima il pontefice si sia dichiarato con
autorità infallibile e definitiva[1]. Il testo esce nel 1632, quando la Chiesa cattolica ha
già realizzato un importante rinnovamento dell’istituto giuridico della canonizzazione e
dei contenuti stessi della santità. La competenza del processo di verifica è assegnata
alla Congregazione dei Riti, fondata a questo scopo da Sisto V nel 1583, nell’ambito
della riorganizzazione della Curia romana: di una persona vengono accertate, secondo
la fama sanctitatis popolare, e su base testimoniale, le virtù eroiche e le capacità
d’intermediazione miracolosa. È esclusiva potestà del pontefice pronunciarsi in
maniera conclusiva: fino alla proclamazione, il culto pubblico del candidato è proibito,
tranne che egli – secondo quanto stabilito da Urbano VIII nel 1625 e nel 1634 – non
abbia già raggiunto il riconoscimento della condizione di beato, la quale fa sì che il
culto pubblico sia concesso provvisoriamente e localmente. Con la successiva
eventuale canonizzazione il culto viene invece imposto, e imposto senza limiti né
spaziali né temporali.
L’estensore della relazione fa riferimento al vincolo tra centro e periferia come
principio regolatore delle feste pubbliche da indirsi localmente. Al cuore del suo
ragionamento c’è l’atto della canonizzazione, riformulato insieme con i provvedimenti
cinque-secenteschi, che suggellano un percorso di verticizzazione e centralizzazione
della santità originatosi nel XII secolo. Il papa scioglie la propria riserva nel corso di
un grandioso rito celebrato nella basilica di San Pietro: proclama la santità del servo di
Dio, indicandolo come modello di virtù e intercessore, assegnandogli gli onori liturgici
e prescrivendone il culto pubblico, da praticarsi in ogni luogo e presso tutti i cattolici,
nel presente e nell’avvenire, illimitatamente[2]. Allora e solo allora (come sottolinea
l’autore fiorentino), quando l’atto fondativo del pontefice si è compiuto, le feste
possono avere luogo a Roma e in molte altre parti dell’orbe cattolico, ovunque vi siano
devoti del nuovo santo.
Generate dall’atto del pontefice, da esso dipendenti, le solennità locali per le
canonizzazioni dei santi si qualificano come attività festive al servizio della volontà
suprema che in quell’atto precettivo si esprime. La concezione stessa di questo genere
di iniziative – una invenzione di età moderna, del tutto coerente con la riforma della
santità canonizzata – è insita nella universalità e nella perpetuità del culto prescritto,
che ne motiva anche la larga diffusione: feste straordinarie, ciascuna di esse si
costituisce come un segmento strutturato della promotio ad cultum.
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Lo mostrano chiaramente quei tipici documenti secenteschi che sono le relazioni di
festa, testi a stampa di schietta natura retorica[3], redatti per costruire della festa –
per sua natura effimera – una memoria felice, largamente emendata, ma durevole,
depositata in un libro e affidata alla lettura di coloro che hanno partecipato perché
possano ricordare, e di coloro che non hanno partecipato perché possano immaginare.
Le relazioni costituiscono un oggetto di indagine limitato e parziale, ma
particolarmente interessante nel caso nostro proprio perché, oltre a fornire
testimonianza delle feste, assecondano a propria volta la propagazione del nuovo
culto imposta dal provvedimento pontificio. Sono opuscoli per lo più di poche pagine
(talvolta corredati di immagini), atti a circolare diffondendo la notizia dell’evento
potenzialmente a dismisura, finché essa ha forza di risuonare e di essere acclamata; e
atti a trasmettersi fino a noi, che li disseppelliamo dai luoghi dove si sono conservati –
quando si sono conservati e quando riusciamo a reperirli.
La ricerca delle relazioni a stampa di feste italiane secentesce che ho condotto finora
ha dato esiti diseguali: restringendomi all’Italia, e fatta esclusione per quelle
riguardanti le iniziative svoltesi in Vaticano e poi a Roma (le più studiate)[4], ne ho
rinvenute sette di feste svoltesi a Milano[5], una di Firenze[6], tre di Palermo[7] e una
di Messina[8]. Ho trovato due relazioni di feste napoletane del primo ’700[9] e
nessuna del secolo precedente. Ne considererò particolarmente alcune nelle quali la
descrizione dei molteplici apparati, delle azioni spettacolari, dei comportamenti e dei
sentimenti prodotti permette di individuare, meglio che nelle altre, il progetto e gli
scopi della festa. Riguardano tutte santi appartenenti a ordini religiosi.
Di impianto promozionale, queste feste svolgono un programma persuasivo volto a
suscitare e a orientare la devozione, attivando – lungo gli otto giorni in cui ciascuna di
esse si articola – le facoltà percettive, affettive, intellettive dei partecipanti, sollecitate
dalle azioni spettacolari compiute in onore del nuovo santo e dalla visione degli spazi
cittadini, trasformati per l’occasione e mirabilmente accresciuti di forme e di
significati. Festeggiare il santo e attarrre potenziali futuri devoti ne è lo scopo. La
festa deve essere tale da tenere desti i cuori, e da penetrarli, ove riuscirà.
L’improvvisa manifestazione della gioia è il segnale che, in un dato luogo, i membri
della famiglia religiosa del santo e la cerchia dei suoi devoti hanno ricevuto la notizia
ufficiale della canonizzazione: il passaggio dalla condizione sub iudice alla santità
dichiarata esalta il potere dell’autorità legittimante il culto e valorizza, al contempo, le
comunità che si investono del compito di promuoverlo pubblicamente. La notizia
comporta la trasmissione di due dati essenziali: la bolla di canonizzazione e la
concessione dell’indulgenza plenaria[10], condizioni che qualificano il rapporto tra la
Santa sede e le collettività festeggianti. I devoti esprimono tutto intero il sentimento
dell’attesa lungamente trattenuta e il desiderio di un’ampia condivisione, finalmente
consacrata dall’atto pontificio: «ognuno si può pensare quello che si facessero hora
che si dava licenza alli desiderii trattenuti per tanti mesi»[11], si legge al proposito nel
testo messinese.
L’annuncio alla città si può organizzare in un segmento autonomo che precede di
giorni o addirittura di mesi l’ottavario, come è consuetudine a Milano[12]; oppure può
essere dato alla vigilia. Il fuoco contraddistingue pressoché ovunque la notizia:
fiamme di ogni dimensione e potenza luminosa (torce, candele, lanterne), macchine
pirotecniche, fuochi d’artificio disposti sulle parti alte degli edifici, sono il segno più
visibile a distanza, un segno che stupisce, ma che soprattutto richiama; un invito a
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partecipare.
A Palermo, secondo tutte e tre le relazioni, l’inaugurazione della festa cade il giorno
che precede l’ottavario e coincide con lo svelamento del cosiddetto «teatro», che della
festa è il centro ed è posto nella chiesa dell’ordine religioso di appartenenza del santo.
Il ripetersi della circostanza indica una opzione strategica: il tempo richiesto
dall’allestimento del teatro crea grande attesa per quel che apparirà. Non si tratta
soltanto di un tempo tecnico, allora: lo si potrebbe dire piuttosto un tempo retorico. Si
legge nella relazione di Loyola e Saverio del 1622: «Mentre quest’apparato si stava
così fabbricando, per comparir poi nuovo, stette per venti giorni serrata la chiesa,
restando solo aperta un’ala per le messe, e confessioni»[13]. Per Borgia, nel 1671,
«tolti via i ponti e le tende, la vigilia della festa», ecco che «l’opra» compare, «con
grido, applauso & approvatione di tutti»[14]. E vent’anni dopo, nel 1691 (a quasi un
anno dalla canonizzazione), per il fondatore dei fatebenefratelli Giovanni di Dio,
«spalancate all’ammirazione de’ popoli le porte e della chiesa e del cortile, viddesi
negl’occhi de’ risguardanti sospesa in estasi la divota meraviglia»[15]. Attirare sulla
fabbrica segreta del teatro la curiosità dei cittadini, al fine di accrescere l’effetto
sorprendente della visione finale, sembra essere, nel corso del secolo, un dispositivo
palermitano costante.
Le feste di canonizzazione non mancano mai di due fulcri obbligati. L’uno si organizza
nello spazio chiuso della chiesa dove è disposto l’apparato fisso principale, il teatro;
l’altro si organizza all’aperto, nella porzione di strade – esse pure apparate – dove si
snoda la processione con l’immagine del santo. Entrambi necessari, sempre associati,
i due poli corrispondono a un progetto composito, concepito per ottenere nei
partecipanti effetti complementari: meraviglia e pietà ovvero stupore e devozione,
diletto e venerazione, secondo le formule proposte dalle relazioni, e ricorrenti
ovunque, identiche o sinonime. Sono condizioni presenti in ogni festa barocca di segno
religioso: tuttavia l’interdipendenza dei due elementi, nelle solennità indette per le
canonizzazioni, e la coerenza con cui vi sono trattati è capitale ai fini della promotio
ad cultum.
Nella chiesa dell’Ordine del santo – e perciò all’interno dell’apparato che la occupa – si
celebra la messa e si cantano i vespri quotidianamente, alla presenza del popolo e dei
rappresentanti di chiesa e governo cittadini. Lungo tutto l’ottavario vi sono installati i
palchi per l’esecuzione musicale (corale e strumentale), la quale ha un ruolo
importante e viene sempre esaltata per quantità e qualità (a Firenze, per Corsini, le
musiche sono affidate al «celeberrimo» Girolamo Frescobaldi)[16]. Un predicatore
ogni giorno diverso recita un panegirico del santo, in una accesa gara oratoria (nella
relazione messinese del 1622 le prediche vengono indicate come «giuochi
festivi»[17]). E giacché i predicatori sono vere attrazioni delle feste religiose, i
resoconti non tralasciano mai di fornire i loro nomi[18].
Il teatro è sempre caratterizzato da una profusione di argenti, lumi e cera, da tessuti
preziosi, colorati, ricamati e sapientemente disposti in molteplici modi (annodati,
dispiegati, drappeggiati, cascanti), da statue e da rilievi di stucco, da iscrizioni e
quadri. Esso può essere il risultato della mera (e sapiente) combinazione di questi
materiali, come può essere un’opera di concezione ingegnosa e originale. Richiede,
allora, una ideazione e una esecuzione materiale impegnative, competenze
specialistiche di tipo retorico, artistico, artigianale, che coinvolgono molte persone.
La complessità d’invenzione e l’indispensabile perizia di realizzazione dell’apparato
principale emergono esemplarmente nelle relazioni per la festa di Ignazio e Saverio a
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Palermo, nel 1622, e per quella dell’agostiniano Tommaso da Villanova nel 1659 a
Milano. In tutti e due i casi gli autori del testo sono coinvolti nella ideazione. Il primo,
Tomaso d’Afflitto, laico, segretario della Congregazione dell’Annunziata eretta nella
casa professa dei gesuiti palermitani, oltre al resoconto della festa redige per i
visitatori anche L’idea dell’apparato, una guida alla comprensione di quanto si vede
rappresentato nel teatro del Gesù; del quale, pur senza che lo dichiari apertamente,
pare essere appunto uno degli inventori. Esplicito è invece il ruolo dell’altro, fra
Ottavio Secchi, priore del convento di San Marco, nella cui chiesa si allestisce il teatro
per Villanova.
Al Gesù di Palermo, «fingemmo», scrive D’Afflitto, «che il mondo superiore & inferiore
fossero in questa chiesa comparuti» per celebrare le azioni dei santi festeggiati[19].
Su supporti di tela sono dipinti Dio padre, di scorcio nella cupola e circondato da
angioletti danzanti, il quale «parea, che bandisse festa alla terra»; mentre nelle
quattro vele e nelle lunette della navata centrale, alternate ai pilastri con le storie dei
santi, si vedono ventisei figure femminili che impersonano le quattro parti della terra e
le province e i regni raggiunti dalla Compagnia, «qui al comandamento del Cielo
comparute per festeggiare i santi»[20]. Nella controfacciata, inginocchiati, compaiono
invece papi, imperatori, re con i quali i santi hanno tenuto relazione, e coloro i quali –
uomini e donne di alto lignaggio – si sono fatti sostenitori della causa di
canonizzazione[21].
La diffusione della fede mediante l’opera missionaria della Compagnia è soggetto
presente anche in altre feste del 1622 precedenti la palermitana, la quale a propria
volta lo replica con una insistenza certamente competitiva. Seguendo la successione
cronologica delle solennità di quell’anno, il tema si trova infatti a Milano nell’apparato
della chiesa del collegio (sedici figure di donna dipinte e cucite su damasco, a fasciare
altrettante colonne della navata centrale)[22]; ed è accennato nelle allegorie della
processione solenne di Messina, da dove riecheggia l’apparato della facciata del
collegio davanti al quale essa staziona[23]. A Palermo vi si allude anche nell’arco
trionfale allestito vicino al collegio[24]; e ritornerà cinquant’anni dopo nell’apparato
per Borgia, in alcuni quadri della navata centrale del Gesù, che articolano
descrittivamente «lo stato, e li progressi» della Compagnia (sulla facciata si ritrovano
anche i ritratti di sette papi e sette re legati alla casata del santo)[25].
Nonostante l’evidenza apologetica e propagandistica del tema – cattolico romano e
gesuitico, fortunatissimo, per altro, nella tradizione iconologica della Compagnia,
almeno fino alla cupola di Andrea Pozzo nella chiesa romana di Sant’Ignazio – e
nonostante la preponderanza rispetto all’insieme della rappresentazione, la vera idea
ispiratrice dell’apparato palermitano tuttavia non è questa. È l’altra: che dal cielo e da
ogni parte della terra, tutti coloro che conoscono le azioni dei santi e ne godono gli
effetti convengano in quella chiesa a festeggiare i due gesuiti canonizzati e a
compiacersi della loro gloria. L’argomento dell’apparato della festa è dunque la
rappresentazione di quella stessa festa. È una festa nella festa. La scelta si avvale di
un’efficace nozione metateatrale: anche le figure effigiate sono presenze, partecipanti,
mentre coloro che via via giungono, nel corso dell’ottavario, sono a loro volta parte
dell’apparato, della festa rappresentata, e a un tempo di essa spettatori.
Nel teatro palermitano del Gesù, come in quelli di tutte le altre feste di
canonizzazione, si uniscono alle immagini – dipinti essi pure – brevi testi e iscrizioni
didascaliche, in latino e in italiano, versi e componimenti laudativi in onore dei santi,
esortazioni spirituali dirette ai partecipanti, motti uniti a figure simboliche in forma di
emblemi e imprese. L’apparato concepito a Milano dall’agostiniano Ottavio Secchi per
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Tommaso da Villanova è, in questo senso, una prova geniale.
Percorso retorico combinato con un’esperienza sensoriale e con un esercizio
intellettivo spiritoso, che fa appello largamente alla fantasia e al coinvolgimento del
corpo, l’idea è cavata dal nome scomponibile del festeggiato e trae di lì la gravità e
l’amenità che la caratterizzano. Il teatro della chiesa di San Marco rappresenta infatti
un giardino, una villa, appunto, latinamente intesa: un luogo di delizia. Allude
antonomasticamente al paradiso terrestre; ma l’altra parte del nome, nova, fa da
richiamo alla necessaria rigenerazione che deve affrontare l’uomo peccatore – che
proprio nell’Eden è caduto – per vivere da cristiano e ritrovarsi un giorno in paradiso,
nella comunione di san Tommaso con Dio e tutti i santi[26]. L’apparato trasforma
l’interno dell’edificio in un luogo ingannevole, ricolmo di alberi e fiori, dipinti o ricamati
o tessuti con tale perizia che «non sapeva l’occhio distinguere» se fossero fatti con
l’ago o col pennello; e che, nel coro dell’altare maggiore, trapassano in autentiche
piante[27].
Il gusto dell’artificio specioso e della perfezione esecutiva (sempre intensissimo,
secondo le relazioni) è sollecitato nei visitatori anche riguardo agli elementi testuali
dell’apparato. Secchi affianca alle scritte esplicative varie sorti di componimenti tratti
dall’arsenale retorico: «cartelli scritti con versi musicali, ne’ quali le note do, re, mi,
fa, sol, la, servivano per sillabe» e di fronte ai quali anche chi sa poco o niente di
musica si intrattiene «specolando per leggergli, e tal’hora con qualche espositione
gratiosa». E ancora: anagrammi e certe composizioni dette «laberinti» o «luchetti
perché, a somiglianza di questi, s’aprono con lettere»; oppure «epigrammi in versi
[...] espressi con imagini», fatti «per pascere la vista», i quali «più degl’altri
dilettavano e rapivano la turba, principalmente gl’idioti». Cosicché «Correvano le
genti, affollandosi a veder quei versi dipinti: la varietà delle figure, tal’hora ridicolose,
dava loro materia di contemplare, & era cosa piacevole l’udire le loro
interpretationi»[28]. L’autore dell’apparato punta sulla molteplicità sensoriale della
percezione e si rivolge sempre, unitamente, a sapienti e illetterati. Nella festa
secentesca, d’altronde, ogni elemento è concepito per essere disponibile al godimento
e alla comprensione di tutti gli intervenuti[29].
In questo e in tutti i teatri l’invenzione dilettevole e suggestiva si accompagna sempre
nel corrispettivo figurativo della storia del santo: quadroni – come sono definiti quelli
di maggior dimensione – e quadri, dove sono rappresentati i fatti occorsigli, le azioni
virtuose e prodigiose compiute. Le persone coltivate vi individueranno il rapporto con
le orazioni dei panegiristi; mentre gli ignoranti, che faticano a intendere parole
sontuose e ricercate, si affideranno decisamente alle immagini, come a una agiografia
pauperum.
Solitamente dipinte in occasione della festa, e spesso da artisti di grido o da specialisti
del genere[30], corredate da iscrizioni con valore combinato di spiegazione e
allusione, queste storie offrono del santo la ricostruzione critica derivata dal
procedimento che ha condotto alla canonizzazione: una scelta di fatti vagliati e
accertati che i testimoni hanno riferito durante il processo[31]. Finalmente legittimati,
allora, ma anche fortemente istituzionalizzati, gli episodi rappresentati nell’apparato
configurano una restituzione dei contenuti della fama sanctitatis alle comunità dei
fedeli che alla fama avevano dato voce e che se l’erano trasmessa, tenendola viva nel
corso dell’inchiesta probatoria, pur al prezzo di un gravoso controllo della spiritualità e
delle pratiche pubbliche di pietà[32].
Le virtù – raffigurate per lo più sotto forma di allegorie – sono i principi che hanno
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presieduto alla esistenza del santo, e indicano i fondamenti del modello sublime,
l’universale emulabile a cui ciascuno può accostare la propria personale vicenda allo
scopo di imitarlo; le azioni illustrano momenti dell’esercizio di perfezione cristiana nel
quale il santo si è cimentato, esemplari pur se irripetibili nella loro specificità ed
eroicità; i miracoli mostrano le operazioni che il santo ha compiuto in favore degli
uomini per volere di Dio, e legittimano le preghiere dei fedeli, le loro ulteriori richieste
di mediazione[33].
La serie degli episodi agiografici posti nel teatro sembra ripercorrere la consuetudine
pittorica tradizionale dei cicli di affreschi o di tele con le vite dei santi. Ma rispetto a
questo genere di opere, la natura effimera – cioè festiva – del prodotto realizzato per
le canonizzazioni ne fa altra cosa, collocandolo nel contesto della eccezionalità e della
straordinarietà; e lo assume, in quanto dispositivo di riappropriazione-illustrazioneconoscenza-imitazione del nuovo santo, fra i segni inaugurali del culto pubblicamente
propagandato.
Affinché i modi e i contenuti del culto si radichino nei fedeli, già durante l’esperienza
della festa, è necessario che il diletto istruttivo del teatro si colleghi alla pietà: la
processione con l’immagine del santo è la situazione in cui, nell’ambito dell’ottavario,
il segno devoto è più profondo e incisivo. Alla complementarità di scopi che motivano
la festa corrispondono due tipi d’immagine: numerose e varie quelle collocate
nell’apparato fisso, rappresentazione descrittiva e articolata della «maniera di vivere
menata» dal santo[34], esse forniscono, come già si è detto, la storia da conoscere,
l’esempio da imitare. Non vi è traccia infatti, nelle relazioni, di preghiere e devozioni di
fronte a queste immagini, e mai si fa riferimento a istanze d’ordine o di silenzio nella
visita al teatro della chiesa; dove al contrario, come già si è notato riguardo ai
prodotti di natura retorica, si auspica una manifesta e vivace risposta alle
sollecitazioni prodotte dalla visione. Una soltanto è invece l’immagine portata in
processione, la quale – come dice l’autore del resoconto della festa milanese del 1690
per i francescani Capestrano e Baylon – deve «dare a conoscere» quale sia «il
rimanente dell’altre pitture» (i quadri del teatro, cioè), come «un compendio di tutti li
misteri, che si dovevano esprimere»[35]. Composizione araldica, dunque, che
concentra in sé, simbolicamente, pochi elementi essenziali, gli attributi della nuova
condizione celeste del santo, l’immagine della processione è quella che si venera e si
prega. In essa si materializza il sacro, la presenza efficace del nuovo santo, che
durante la festa muove incontro ai fedeli, per essere chiamato per nome, adorato,
invocato «per aggiuto [...] ne’ [...] bisogni»[36].
È dipinta solitamente su uno stendardo, che ha per prototipo quello del rito della
basilica di San Pietro, dove viene posto nella cupola e, alla proclamazione, svelato.
Talvolta, nelle feste locali, si tratta di quel medesimo oggetto: è il caso, per esempio,
dello stendardo di Ignazio e Saverio ricevuto con grande privilegio nel 1622 da
Messina, in quanto città importante per la Compagnia sin dalle origini, dove viene
portato in processione, la vigilia dell’ottavario, dal Duomo al Gesù con una solenne
cavalcata, tra spari e suoni e luminarie magnifiche; nonché di quello di Corsini, dato a
Firenze in quanto città di nascita del santo, e portato in processione il primo giorno
dell’ottava[37]. Quando non si tratta dello stendardo romano, quasi sempre, tuttavia,
la collocazione è la medesima; e pur senza averne il crisma, di quello che ha
partecipato dell’atto compiuto dal pontefice conserva il valore e la forza. Per
rimarcarne l’efficacia alcune relazioni evocano la soggezione dei fedeli o l’intervento
oppositore del demonio di fronte allo svelamento dello stendardo, come pure
l’influenza che la sua presenza esercita sulle condotte dei partecipanti[38]. Questo
tipo d’immagine funge inoltre da modello per le immagini correnti del santo, che da
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allora saranno realizzate e replicate con ogni genere di tecnica[39]. È matrice di
incorruttibile continuità, dunque; tramite di una devozione personale, fatta di parole
bisbigliate e di piccoli gesti, che si rinnovano da una generazione all’altra[40].
La processione milanese dello stendardo di Corsini, nel 1629, è aperta da una fanciulla
che rappresenta sant’Orsola, accompagnata da «un ordinato stuolo di vergini, con
palme e dardi nelle mani, & vagamente vestite per le undecimilla compagne»;
seguono «molt’altre fanciulle, riccamente adobbate & ornate» come vergini e martiri,
con simboli della loro condizione; e ancora fanciulle «vestite da angioli», le quali, «con
molto decoro», portano «i geroglifici delle virtù essercitate dal santo»[41]. La
composizione araldica delle figure che sfilano in stretta sequenza paratattica accentua
il tratto allegorico della processione, singolare anche per la forte componente
femminile, legata – come è detto – alla devozione per la Madonna del Carmine. E che
ritorna per Maria Maddalena de’ Pazzi, nel 1669, quando lo stendardo della santa
viene preceduto da «ottanta fanciulline, bene e riccamente vestite», a due a due,
«con modestia non ordinaria» (un «trionfo dell’innocenza»), seguite dalle dame della
Compagnia della Vergine del Carmine[42].
Sempre a Milano è nuovamente notevole il caso di Tommaso di Villanova: passando
attraverso le strade fittamente addobbate (che «senza fallo potea credersi di passar
per una chiesa continuata») la processione con lo stendardo incontra «alcuni luoghi
apparati con varij cartelloni di composizioni [...] distribuiti sopra varie porte e
botteghe», i quali «alludevano all’attioni del santo & alle professioni di tali artefici che
gli esposero»[43]. Il legame con il santo si istituisce qui mediante prodotti letterari
(versi latini, forse realizzati ancora da Ottavio Secchi) sul tema della affinità ideale tra
il santo e coloro che hanno esposto gli elogi come insegne della loro bottega: un
cartaro, un pittore, un intagliatore, due stampatori, due librai, uno speziale. Ma è
evidente che, nel gioco apparentemente lieve della invenzione poetica, si esalta l’avvio
di un processo di imitazione perfettamente consentaneo con gli scopi della
canonizzazione.
Solenni e di complessa struttura, le processioni con l’immagine del santo si
protraggono per alcune ore lungo itinerari anche molto estesi e possono raggiungere
un numero elevato di partecipanti. Le compongono i membri dell’Ordine religioso del
santo e i laici appartenenti a confraternite e congregazioni; e ancora: alti prelati,
ecclesiastici, nobili, rappresentanti del governo e della milizia. Possono variare
considerevolmente: in tutte, però, la qualità esteriore dell’azione deve essere tale da
esprimere una dedizione disciplinata che è già atto devoto. Il ritmo, l’andatura (a piedi
o a cavallo), il contegno, l’avanzare coeso, senza discontinuità, frammentazioni,
interruzioni[44], l’abito indossato, legato all’occasione (ufficiale e di rappresentanza,
insignito dagli attributi del rango), gli oggetti portati in mano, torce e candele o
simboli della Passione di Cristo e attributi del santo, le vesti da angeli dei bambini:
ciascuno di questi elementi qualifica la percezione di sé, rispetto a quella quotidiana,
fino ad accrescere il sentimento d’importanza del proprio ruolo, che si esalta
nell’autocontrollo come attributo visibile della propria persona. Ma soprattutto
ciascuno di essi costituisce una costrizione regolatrice, percepita – all’interno della
esperienza condivisa – anche come norma a cui subordinare le condotte individuali. In
quanto appartenenti al gruppo delle persone elette a fare da corteo al santo,
l’«andare» e la «compositione del volto e del corpo»[45] devono suscitare una
edificante meraviglia, tanto che, secondo le relazioni, l’incedere composto e
obbediente di bambini, ragazzi o cavalieri produce sorpresa e tenerezza in coloro che
guardano, a sottolineare come, in questi soggetti, intemperanze e scostumatezze
siano abituali, ed è perciò la straordinarietà del comportamento devoto a lasciare
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stupefatti, in quanto indizio della influenza del santo[46].
Non sempre, tuttavia, nella processione si trasporta uno stendardo o esclusivamente
uno stendardo. E non sempre la processione è una soltanto, nel corso dell’ottavario, e
di segno unicamente devozionale. Nei tre casi siciliani, le processioni hanno un fulcro
ulteriore: la cosiddetta «bara», statua-reliquiario del santo, il cui trasporto si configura
come un antico trionfo. La struttura processionale si presta allora a una ideazione
complessa, e l’attrazione si affida a un forte accento spettacolare.
Il primo giorno dell’ottavario del 1622, a Messina, nel tardo pomeriggio, un’altra
processione solenne si avvia dal Gesù fra trombe e tamburi. È aperta da un carro
trionfale ricoperto di «rilievi d’argento & oro». Vi sta «assisa in alto seggio Messina
[...] difesa dalle Virtù d’Ignatio, che intorno li sedevano nelli proprii habiti
leggiadramente adorne». Un coro di musici, sulla parte inferiore del carro, suona e
acclama i santi. I quattro capi di altrettante schiere di giovani nobili a cavallo portano
le insegne delle quattro parti del mondo e dei regni in cui la Compagnia è giunta. Con
«bella ordinanza, e senza interrottione alcuna» – come si deve, perciò – seguono i
padri e ottocentocinquanta membri di otto congregazioni mariane; quindi una
macchina che «piacque a tutti, a meraviglia», con le figure dei martiri gesuiti a rilievo
e più di cento strumenti di martirio, di grandezza quasi naturale; angeli distribuiscono
loro palme e corone. C’è l’arcivescovo con il clero. E sotto il baldacchino «la bara»,
con i busti d’argento dei due santi[47].
Similmente a Palermo lo stesso 1622 e sempre ad apertura dell’ottava: anche qui
viene trasportata la «maestosa bara con i busti [...] d’argento» di Ignazio e Saverio,
accompagnata da quindici stendardi con figure dei due santi, innalzati dai
rappresentanti di congregazioni mariane, da scolari (tutti «nobilissimi giovinetti»:
«rettorici» i primi, poi «grammatici» e in fine «humanisti») e da gruppi di cittadini,
ogni stendardo circondato da un coro di musici: milleottocentoventiquattro persone
che passano lungo strade – i cui edifici sono «da’ tetti fino a terra con apparato tanto
magnifico adornate, che anzi chiese leggiadramente acconcie sembravano che case» –
fra invenzioni che «trattenevano con gusto la gente», macchine pirotecniche e
idrauliche, altari «tutti ricchi e pomposi», disposti all’aperto dai devoti dei due santi,
che ne incensano il passaggio e le reliquie[48]. E ancora, nel 1671, per Borgia, si
portano lo stendardo di «taffetà d’oro» con l’immagine del santo ricamata e, oltre a
quello dei padri gesuiti, otto stendardi delle congregazioni del collegio e della casa
professa sui quali, «con leggiadrissime e divotissime positure, ondeggiava l’effigie del
santo»; in fine «la bara trionfale del santo», una complessa macchina divisa in due
ordini, con statue di pontefici e angeli e quella del santo alla sommità[49].
Analogamente, nel 1691, per Giovanni di Dio, non il primo giorno dell’ottavario, però,
ma il quarto[50].
A Napoli, le feste esaminate hanno in comune con quelle siciliane l’elemento
caratterizzante del trasporto di statue, benché le reliquie non vi siano ugualmente
rilevanti: la grandiosa processione – che è anche l’apertura ufficiale dell’ottavario, la
sera della domenica – conosce qui la variante suggestiva del corteggio di tutti i beati e
santi dell’Ordine.
Per il domenicano Pio V, nel 1713, dietro allo stendardo del santo, accompagnato da
confraternite del Rosario e da un coro di fiati, e dopo sessanta sacerdoti dell’Ordine e
dodici «fanciulletti [...] vestiti a forma d’angioli» – di «ale e perrucche nobilmente
forniti», che «con il loro portamento facevano una bellissima vista» – compaiono
ventidue statue d’argento di grandezza naturale, poste su alti piedistalli e coperte di
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gioie offerte dai cittadini per un valore stimato di cinque milioni. Con alla testa
Domenico, «condottiero» di quella schiera impressionante, «le statue de’ santi
passavano» fra «centinaia di migliaia di persone» secondo l’ordine «che tien la Chiesa
nel venerarli»: vedove, vergini, confessori, dottori, vescovi e martiri, (ultimi, questi,
«come i più degni»). In fine, su un enorme «catafalco ovato», arriva la statua del
nuovo santo, in abiti pontificali, con una reliquia incastonata nella cintura. Ogni statua
è accompagnata da dodici coppie di domenicani, ed è preceduta e seguita da una
macchina trionfale, da musici, alabardieri, fanciulli; san Pietro Martire ha con sé
sessanta domenicani e cinquanta musici; mentre il simulacro di Pio V è preceduto da
cento seminaristi e seguito dal cardinale con tutta la corte. Come già a Palermo, lungo
l’itinerario, con edifici addobbati in modo tale da far «comparire quella gran strada un
de’ più degni teatri», la processione staziona almeno dieci volte vicino ad altari eretti
davanti alle chiese degli Ordini religiosi che vogliono rendere speciale omaggio al
santo incensandone la statua[51] (ma si può dire che si tratti di un omaggio all’Ordine
del santo e che queste soste, come già l’alternarsi dei panegiristi sul pulpito, disegnino
una mappa dei legami fra i religiosi di ciascuna città al tempo della festa).
È dello stesso tipo la processione serale per l’apertura solenne dell’ottavario di Luigi
Gonzaga e Stanislao Kostka, nel 1729 (a due anni e mezzo dalla canonizzazione),
dove non c’è, però, alcuna reliquia. Nel percorso con le consuete soste (undici altari
per l’«ossequio dell’incenzo» a ogni statua della processione, e l’«offerta di mazzolini
di fiori in seta» da parte delle religiose degli ordini femminili, lungo prospetti adornati
in modo tale da sembrare «un continuato teatro»), tre santi e quattro beati
dell’Ordine – di cui tre martiri, quelli giapponesi, beatificati nel 1627 – accompagnano
i due stendardi e le due statue d’argento dei nuovi canonizzati, poste al di sopra di
una statua rappresentante la Fede, nell’alto di un grande carro trionfale portato a
spalla da cinquanta facchini[52].
A voler considerare deliberata la continuità formale riscontrabile tra le due
processioni, nelle feste napoletane si rende visibile il contrasto tra un Ordine religioso
che con la sfilata di ventidue santi si rappresenta nella sua antica, illustre genealogia e
un Ordine che mostra la propria nascita recente, ma anche – con i suoi nove santi e
beati – la capacità di incidere esemplarmente sulla contemporaneità.
Parrebbe di poter dire che, nelle feste siciliane e napoletane, la statua del santo (e,
dove sono presenti, le reliquie, traccia di una devozione locale preesistente e del
prestigio che esse conferiscono alla comunità che le possiede), solidamente disposta
sulla gran macchina che la trasporta al livello del lastricato, un corpo tra i corpi degli
stessi partecipanti, sia il nume della comunità, che invita a cimentarsi in invenzioni di
ogni sorte e al quale ancora una volta e più grandiosamente si rende omaggio: è
l’offerta festiva della quale viene infatti rimarcata la molteplicità dei segni e delle
soluzioni, accentuata dal valore materiale dei prodotti effimeri realizzati,
dettagliatamente descritti e calcolati nei costi, in una gara dove lo spreco economico è
segno e senso costitutivo della festa. È altra cosa dalla presenza celeste e immateriale
del santo che si palesa sull’esile stendardo inalberato, grande immagine aerea solitaria
rispetto alla folla, tutt’uno con la seta leggera su cui è dipinta, pronta ad apparire e a
sfuggire alla vista per un colpo di vento o una mossa inconsulta dei portatori, o per
uno sbuffo dell’incenso bruciatole intorno: il vertice della devozione che deve farsi
esperienza interiore e pratica di vita.
Lo sviluppo urbano delle solennità, come si è visto, ha un corrispettivo rilevante
nell’addobbo degli edifici: tappezzerie, arazzi, drappi, lumi esposti alle finestre, fregi
pendenti, porte ornate. Strade come chiese e come teatri, si legge nelle relazioni.
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Questo tipo di apparato segnala la partecipazione materiale dei cittadini alla festa[53]
e rende riconoscibili gli itinerari lungo mi quali si svolgono i movimenti preordinati di
gruppi e persone.
La città si trasforma anche verticalmente. E verticalmente si anima: le finestre sono il
punto d’incontro fra l’interno e l’esterno, il limitare sul quale l’universo privato e quello
pubblico entrano in relazione. Affacciarsi alla finestra durante la festa significa non
distaccarsi interamente dal proprio quotidiano; e tuttavia è un’azione che impone una
condotta diversa da quella domestica: oltre che guardare si è guardati, e tale duplicità
dà la consapevolezza di dover essere – o di doversi almeno mostrare – pertinenti alla
straordinarietà della festa. Il corpo, l’abito, il gesto, lo sguardo (al pari dei decori con i
quali si è modificato il proprio spazio privato lì dove esso coincide con quello pubblico),
tutto deve essere sottomesso alla eccezione festiva e alla pietà che alcune iniziative,
come la processione delle immagini dei santi, esigono. Guardare la festa dalla finestra,
essere puri spettatori, non è allora una condizione meno partecipativa dello stare per
strada (si pensi all’esito cerimoniale che produce questa azione comune, quando a
guardare dalle finestre sono alti rappresentanti del governo civile e religioso),
soprattutto in un genere di festa dove l’invenzione di oggetti dello sguardo è requisito
di riuscita e l’azione del guardare è azione capitale, epicentro della esperienza.
Apparentemente dedicata al trasporto del sacro stendardo è un’altra iniziativa
processionale realizzata a Palermo nel 1622, per Ignazio e Saverio: si tratta di «una
venuta d’ambasciadore, che da Roma portava al collegio de’ padri lo stendardo».
Verso il tramonto del penultimo giorno, un brigantino seguito da una squadra di
barche si stacca dal porto fino a raggiungere una insenatura distante tre miglia, dove
l’ambasciatore sbarca «a suon di trombe, pifari, tamburi», accompagnato da una
«honorata soldatesca de’ congregati della Purificatione di Nostra Signora, sotto il suo
capitano e bandiera, chiascheduno col suo archibugio, spada, banda, pennacchio e
collane vagamente vestito». Sparando a salve, lo salutano dal pontile altre due
compagnie di congregati, in tutto simili alle precedenti, e alle quali risponde
l’artiglieria della «soldatesca spagnuola» – il corpo di guardia del castello – mentre
viene issato il vessillo reale. Fra rumori, grida e lumi e un enorme numero di
spettatori cittadini e forestieri, sopraggiungono a cavallo, andando incontro
all’ambasciatore, il senato palermitano col suo corteo da una parte e da un’altra i
rappresentanti del patriziato. Si muovono alla volta del collegio per il Cassaro, la
strada che collega il porto al centro della città appena ridisegnato e lungo la quale
sorgono alcuni edifici della Compagnia[54]: i battaglioni fanno largo alla processione
in mezzo alla folla, seguiti dai cavalieri, disposti a tre a tre, ognuno con paggi e
palafrenieri, e da «tutti gli ufficiali della città», dietro i quali «compariva
l’ambasciadore» a cavallo, affiancato da due signori di altissimo rango. Entrato nel
collegio con «l’honorata sua comitiva» e dette «alcune poche, ma ben composte
parole», l’ambasciatore presenta lo stendardo al rettore, «che lo ricevette,
ringratiandolo con altre tante parole»[55].
Già sappiamo che nessuno stendardo arriva da Roma a Palermo, giacché quello
benedetto dal pontefice vine inviato a Messina (e non si può escludere che l’azione
processionale appena riferita si inscriva in un’aperta competizione fra le due città). Ma
anche l’ambasciatore altri non è che un quindicenne palermitano, Francesco del Bosco
conte di Vicari, il quale già si era distinto, alla testa di «giovinetti suoi pari», nella
cavalcata che aveva preceduto la processione con le bare dei santi il primo giorno, e
nella quale aveva portato lo stendardo dei retorici. Bisogna ritenere che sia appunto
come studente di retorica che egli fa qui la parte dell’ambasciatore, compiendo una
prova recitativa tipicamente connessa a quella classe scolastica e a quegli studi. Ma
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veri sono invece i dignitari che lo accolgono, veri i soldati che sparano dal castello del
viceré, veri i padri gesuiti che ricevono l’immagine; mentre è finta la milizia che
accompagna il giovinetto.
La solenne processione fatta a Palermo con il cosiddetto stendardo romano è
verosimile, allora, ma non è vera: il rapporto fra presenza e rappresentazione – che è
cruciale, come si è già visto, nelle processioni devozionali con lo stendardo del santo –
è impostato ricorrendo all’ambiguità teatrale. Il resoconto lo introduce proprio in
questi termini, quando dice: «Si rappresentò una venuta d’ambasciadore» (e non dà
poi alcuna notizia del destino di quel bellissimo stendardo «di tela d’argento con
l’effigie de’ santi»[56], strumento esso pure della finzione). Il gioco del teatro è serio,
tuttavia. Giacché seria, e importante, è la capacità dei giovani di formazione gesuitica
di investirsi di ruoli pubblici secondo modelli ambiziosi (re, santi, eroi sulle scene dei
teatri di collegio; qui un ambasciatore del papa, insieme con le figure esemplari di
quegli anziani della città che si prestano a partecipare, sostenendo la parte di se
stessi, e con i quali il giovane attore interagisce direttamente), esibendosi in
un’impegnativa actio di fronte alla comunità che li giudica. È un saggio di quello che
essi vanno acquistando nelle scuole della Compagnia a tutto vantaggio del proprio
futuro e responsabile contributo di decoro, dignità e modestia alla città cristiana, in
quelle azioni prefigurato[57]. L’elemento teatrale converge nella festa in quanto prova
virtuosa di governo di sé ed espressione altamente significativa della pedagodia
gesuitica, cioè della identità stessa dell’Ordine e dei suoi santi (lo si vedrà espresso
programmaticamente nel caso del trionfo milanese); ma vi converge anche per fornire
una rappresentazione ideale della città sacralizzata dallo stendardo, attorno al quale
l’intera drammatizzazione ruota.
Quello appena illustrato non è l’unico esempio di esaltazione dei giovani offerto dalle
relazioni: nelle feste gesuitiche l’attività pedagogica ha largo spazio sia mediante la
partecipazione diretta degli studenti, sia mediante il ricorso al tema allegorico delle
scienze insegnate nei collegi.
Invenzione retorica e recitazione sono affidate nel 1622, a Milano, per l’apparato del
collegio e della chiesa di Brera, agli scolari appartenenti alle classi di grammatica,
umanità e retorica[58]. Ai quali, lo stesso anno, nel penultimo giorno dell’ottavario, si
deve la realizzazione più grandiosa della festa: ancora un omaggio trionfale a Ignazio
e Saverio e l’offerta di stendardi con la loro immagine. Si tratta di un corteo di carri,
trainati da cavalli e sormontati da giovani scolari in abiti femminili, che impersonano –
«finsero» – le scienze previste dalla Ratio studiorum. Sull’ultimo carro sta la «Charità
zelante» in trono, contornata dalle virtù esemplari dei due santi, intese come
fondamento e scopo degli studi. Tra la folla plaudente, dopo un lunghissimo giro, i
carri fanno ritorno di notte a Santa Maria di Brera, dove ogni studente-attore recita
versi convenienti al proprio personaggio[59]. La sera appresso – dopo una
processione di duecento scolari vestiti di sacco, membri della Congregazione della
Penitenza – ne recita nuovamente «un giovinetto [...] con elmo, & habito di velo
d’argento, e bastone in mano», mentre fra musiche si offre ai santi un altro stendardo
con la loro effigie[60]. Ma anche a Messina, la settimana successiva all’ottavario, gli
scolari del collegio onorano le scienze con un ciclo di azioni recitative, che si chiudono
con un grandioso «trionfo della Sapienza», intesa come strumento di evangelizzazione
e il cui carro è preceduto da una lunga teoria di uomini illustri e di scienze a
cavallo[61].
Recitano «in scena», nel salone del collegio che essi stessi hanno apparato, anche «i
rettorici» palermitani[62]. Ed è un’invenzione retorica e un’azione teatrale realizzata
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dalla Congregazione dei Filosofi quella che a Palermo chiude l’ottavario: un trionfo di
Ignazio e Saverio, riproposizione animata del soggetto dipinto nell’apparato del Gesù
e di un altro, quello della fontana costruita nel cortile del collegio[63]. Trainato da
dodici cavalli, parte dal mare – seguendo lo stesso itinerario verso il collegio percorso
dall’ambasciatore – un «magnificentissimo» carro a forma di galeone, ricoperto di
iscrizioni, emblemi, imprese e geroglifici: trasporta due statue di Ignazio e Saverio e
quattro statue raffiguranti le quattro parti del mondo con le loro insegne. Lungo la
strada, le vittorie dei santi vengono cantate da musici, «ciascun di loro vestito alla
foggia di qualche regno», mentre vengono trascinati il Demonio, l’Eresia e l’Idolatria
«da’ santi debellate». Precede il galeone una macchina pirotecnica, affiancata da due
squadre composte l’una da membri della Congregazione della missione per la
comunione generale, in abito di archibugieri, l’altra da scolari del collegio, «a gara
quel giorno ornati alla soldatesca»: stanno armati sotto due stendardi dei santi, con
tabelle e il nome di Gesù[64].
Qui – e già prima, accanto all’ambasciatore – bisogna ritenere che i soldati compaiano
come figura della Compagnia, alludendo metaforicamente alla ecclesia militans che i
membri dell’Ordine incarnano; e che siano una ulteriore proiezione del tema della
espansione della fede sotto la bandiera di Cristo, che rimanda, d’altra parte, alla
meditazione-guida della seconda settimana degli Esercizi spirituali. Ma il costume da
soldato è anche una memoria di Ignazio prima della conversione, come è detto nella
relazione milanese riguardo a un «artificio militare», compiuto lo stesso anno il primo
giorno dell’ottava – e replicato l’ultimo – da seicento scolari di Brera[65]. Ancora una
volta l’azione teatrale è esercizio d’incorporazione di un modello di esperienza
possibile (la risposta personale alla vocazione missionaria della Compagnia) e
metafora di una identità religiosa che nella città trasfigurata celebra se stessa e che,
in virtù del potere unificante del tempo e dello spazio della festa, in quei giorni intende
radunare sotto le proprie insegne tutta la comunità.
Nel 1729, nella relazione della festa napoletana per Gonzaga e Kostka, si legge che «il
rito comune di Santa Chiesa» esige che «si solennizino con ogni possibil pompa le
feste de’ santi novellamente canonizati»[66]: sul finire del primo trentennio del ’700,
una prassi festiva si è dunque consolidata, come i casi osservati testimoniano. Il
campione delle feste considerate ha una coerenza che pare delineare un genere, ma
anche un sistema festivo, un ‘rito comune’ appunto.
Sincronicamente o diacronicamente lette, le relazioni e i racconti in esse contenuti
permettono di ipotizzare quale sia la funzione attribuita a queste feste rispetto alla
lunga durata della santità di un individuo, nel passaggio dal tempo della festa al
tempo della quotidianità. L’intenzione di promuovere e contestualmente affermare il
nuovo culto fa sì che queste feste, iuxta propria principia[67], ambiscano a costituirsi
come esperienze inaugurali, pregnanti; dispositivi che coinvolgano il corpo e
attraggano i sensi e le menti; prove devote, alle quali sottoporre i cuori e le condotte;
e in cui l’effimero, consumandosi, fondi pratiche religiose destinate a radicarsi e a
durare[68].
L’abbozzo comparativo proposto (nel quale il nucleo delle feste gesuitiche del 1622,
precedenti la distinzione urbaniana di beati e santi, risulta molto esaltato anche per la
preponderanza quantitativa delle relazioni reperite[69]) lascia intravvedere molte
lacune, e concomitanze forse casuali. L’ampliamento delle fonti, non ultime quelle
iconografiche, è necessario per colmare i vuoti informativi e per porre altri
interrogativi. Ed è altrettanto necessario l’approfondimento delle fonti già impiegate,
le relazioni (autori e dedicatari, caratteri della narrazione, orientamento delle notizie).
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Molti aspetti compresenti nella festa e indicati anche nelle relazioni – talvolta
dettagliatamente descritti o riferiti – sono stati qui trascurati[70]: musiche e canti,
anche in rapporto con la liturgia solenne, contenuti e modi dei panegirici, dettaglio dei
dipinti con storie dei santi e iscrizioni, luci artificiali negli apparati e nelle azioni
processionali, condizioni prodotte dal giorno e dalla notte sono elementi rilevanti della
concezione e della ricezione di queste feste, ed è necessario considerarli come
linguaggi non gerarchizzabili. Sono ugualmente da prendere in esame le questioni
normative (qui appena sfiorate), le componenti istituzionali e la dimensione sociale,
comportamentale, politica e religiosa dei partecipanti; nonché gli artisti e gli artigiani
coinvolti e l’economia della festa. I singoli episodi vanno ricondotti ai rispettivi contesti
festivi, quelli cittadini (laici e religiosi) come pure quelli di ciascun Ordine. Non meno
importante è l’assetto urbanistico delle città in cui l’evento si svolge[71].
Un’indagine che prescinda dalle cerimonie di canonizzazione in Vaticano, nonché dalle
successive feste romane è certamente decapitata e l’unità va ricostituita: la Roma
pontificia è modello festivo indiscutibile, e credo che se ne possa prescindere – come
ho fatto qui – solo in sede di riflessione provvisoria, a maggior ragione se si tiene
come valido il criterio interpretativo assunto e che procede dalla subordinazione delle
feste locali al rito ufficiale compiuto nella basilica di San Pietro.
Resta confermata, infine, come una più ampia e condivisibile esigenza di ricerca, una
parte essenziale delle premesse: l’assunzione di un oggetto d’indagine che, nella
prospettiva universalistica della promotio ad cultum, permetta di verificare il formarsi
di un sistema complessivo di feste nell’Europa cattolica, nelle aree sottratte alla
protesta e ancora oltre, valutandone la consistenza in ragione del processo di
espansione missionaria che caratterizza la Chiesa di Roma di età moderna, dei cui
motivi e scopi essenziali le feste per la canonizzazione dei santi diventano parte
integrante e occasione di affermazione, laboratori politici e devoti che coinvolgono
gerarchie civili ed ecclesiastiche, ordini religiosi e popolo anche a Oriente e a
Occidente dell’Europa[72].
* Destinato agli Atti del Convegno Internazionale di studi Les cérémonies
extraordinaires du catholicisme baroque, Le Puy-en-Velay, 27-29 ottobre 2005, a
cura di Bernard Dompnier, Editions de l’Université Blaise Pascal, Clermont-Ferrand, di
prossima pubblicazione.
[1] Cfr. An., Descrizion delle feste fatte in Firenze per la canonizzazione di s.to
Andrea Corsini, Fiorenza, Zanobi Pignoni, 1632, pp. 1-3 (d’ora in avanti CorsiniFirenze).
[2] Cfr. Giuseppe Dalla Torre, Processo di beatificazione e canonizzazione, in AA.VV.
Processo canonico, in Enciclopedia del diritto, vol. XXXVI, Milano, Giuffré, 1987, pp.
931-943, ad vocem; Id., Santità ed economia processuale. L’esperienza giuridica da
Urbano VIII a Benedetto XIV, in Gabriella Zarri (a cura di), Finzione e santità tra
medioevo ed età moderna, Torino, Rosenberg & Sellier 1991, p. 231-263. Spunti di
notevole interesse sono offerti da Christian Renoux, Canonizzazione e santità
femminile in età moderna, in Luigi Fiorani e Adriano Prosperi (dir.), Storia d’Italia,
Annali 16: Roma, la città del papa. Vita civile e religiosa dal giubileo di Bonifacio
VIII al giubileo di papa Wojtila, Torino, Einaudi, 2000, pp. 729-751. Riguardo
all’importanza dell’atto della canonizzazione cfr. le osservazioni di Martine Boiteux,
Les Rituels romain de canonisation et ses représentations à l’époque moderne, in
Gábor Klaniczay (dir.), Procès de canonisation au Moyen Age. Aspects juridiques et
14
religieux, Roma, Ecole Française de Rome 2004, pp. 327-355. Rimando anche a
Bernadette Majorana, Feste a Milano per la canonizzazione di santi spagnoli (secolo
XVII), in «Teatro e storia», www.teatroestoria.it e di prossima pubblicazione in Pierre
Civil et al. (dir.), Usos y espacios de la imagen religiosa en la Monarquía hispánica
del siglo XVII, Madrid-Paris, Ed. de la Casa de Velázquez.
[3] Cfr. Renato Diez, Il trionfo della parola. Studio sulle relazioni di feste nella Roma
barocca. 1623-1667, Roma, Bulzoni, 1986.
[4] Fra gli studi italiani, cfr. molti importanti elementi in Maurizio Fagiolo dell’Arco e
Silvia Carandini, L’effimero barocco. Strutture della festa nella Roma del ’600, vol. I:
Catalogo, vol. II: Testi, Roma, 1977-1978 (un’opera di documentazione e
inquadramento ermeneutico della festa romana che resta fondamentale); in
prospettiva storico-artistica cfr. Vittorio Casale, Gloria ai beati e ai santi. Le feste di
beatificazione e canonizzazione, in Marcello Fagiolo (a cura di), La Festa a Roma. Dal
Rinascimento al 1870, vol. I, Torino, Allemandi, 1997, pp. 124-141, e Id., Addobbi
per beatificazioni e canonizzazioni. La rappresentazione della santità, La festa a
Roma. Dal Rinascimento al 1870, II: Atlante, Torino, Allemandi, 1997, pp. 56-65,
entrambi i testi con particolare attenzione al ’700. L’argomento è solitamente
accennato (quasi esclusivamente a proposito di Roma) nelle ricapitolazioni sul teatro
di età moderna: per esempio Franca Angelini, Teatri moderni, in Alberto Asor Rosa
(dir.), Letteratura italiana, vol. VI: Teatro, musica, tradizione dei classici, Torino,
Einaudi, 1986, pp. 69-225; Ead., Barocco italiano, in Roberto Alonge e Guido Davico
Bonino (dir.), Storia del teatro moderno e contemporaneo, vol. I: La nascita del
teatro moderno. Cinquecento-Seicento, Torino, Einaudi, 2000, pp. 193-275; Sivia
Carandini, Teatro e spettacolo nel Seicento, Roma-Bari, Laterza, 1990, pp. 53-54,
184-185; Ead., L’effimero spirituale. Feste e manifestazioni religiose nella Roma dei
papi in età moderna, in Fiorani e Prosperi (dir.), Storia d’Italia, pp. 519-553.
[5] [Angelo De Grossi], Relatione della festa fatta in Milano per la canonizatione di
s.to Carlo card. di S. Prassede, & arcivescovo di detta città, nell’anno 1610 [...],
Milano, Pontio e Piccaglia, [1610] (dove, per esempio, si attesta che in area lombarda
furono indette molte feste per Borromeo: ivi. p. 32); An., Breve relatione delle
solennissime feste, apparati, et allegrezze fatte nella città di Milano, per la
canonizatione de’ santi Ignazio Loyola [...] e Francesco Saverio [...], Milano,
Malatesta e Piccaglia, 1622 (d’ora in avanti Loyola e Saverio-Milano); [Giovanni Paolo
Fontana], Relatione delle solennissime feste, allegrezze, apparati, et sacre
cerimonie fatte nella chiesa di S. Giovanni in Conca di Milano [...] per celebrare la
canonizatione di santo Andrea Corsini [...], Milano, Marco Tullio Paganello, 1629
(d’ora in avanti Corsini-Milano); [Ottavio Secchi], Relatione delle feste fatte in Milano
[...] per la canonizatione di s. Tomaso da Villanova, Pavia, G.A. Magri, [1659] (d’ora
in avanti Villanova-Milano); Nonatio Amari Chiuzzam [Antonio Maria Mazzucchi],
Brieve, e sincera relazione delli trionfali applausi, e solenni palinodie, decantate
all’immortali glorie della [...] gloriosa vergine s. Maria Maddalena de’ Pazzi [...] nel
tempio di s. Gio. in Conca di Milano [...], Milano, Gio. Battista Beltramino, [1669]
(d’ora in avanti Maria Maddalena-Milano); [Giuseppe Orrigone], Descrittione
dell’apparato e feste solenni fatte in Milano [...] in occasione della canonizzatione di
s. Gaetano Tiene [...], Milano, Lodovico Monza, 1671 (d’ora in avanti Gaetano
Thiene-Milano); Angelico Canevese, Il Giardino di Milano, overo Descrittione
dell’insigne apparato fatto [...] per la festa della canonizatione di santo Giovanni di
Capistrano, e di s. Pasquale Baylon [...], Milano, Federico Francesco Maietta, [1691]
(d’ora in avanti Capistrano e Baylon-Milano).
15
[6] Corsini-Firenze.
[7] Tomaso d’Afflitto, Ragguaglio degli apparati, e feste fatte in Palermo per la
canonizatione de’ santi Ignatio, e Francesco Xavier 1622, Palermo, Gio. Batt.
Maringo, 1622 (d’ora in avanti Ragguaglio Loyola e Saverio-Palermo); Id., L’dea
dell’apparato fatto per la canonizatione de’ santi Ignatio Loiola e Francesco Xavier
nella chiesa della casa professa della Compagnia di Giesù in Palermo [...], Palermo,
Giovan Battista Maringo, 1622 (d’ora in avanti Idea Loyola e Saverio-Palermo); An.,
Narratione delle feste fatte in Palermo nel MDCLXXI per la canonizzatione di s.
Francesco Borgia, Palermo, Pietro Camagna, 1722 (d’ora in avanti Borgia-Palermo);
[Francesco Mannelli], L’Aquila d’Oreto alla nuova stella del Vaticano s. Giovanni di
Dio. Trionfi festivi [...], Palermo, Giacomo Epiro, 1691 (d’ora in avanti Giovanni di
Dio-Palermo).
[8] An., Trionfi sacri di s. Ignatio Loiola, e s. Francesco Xaverio celebrati in Messina
[...] nell’anno della loro canonizatione [...], Messina, Gio. Ftancesco [sic] Bianco,
1622 (d’ora in avanti Loyola e Saverio-Messina).
[9] Nicodemo Nisandri, Relazione della solennissima festa fatta in Napoli [...] per la
santificazione di s. Pio V [...], Napoli, Giovan-Francesco Paci, 1714 (d’ora in avanti
Pio V-Napoli); An., Breve ragguaglio del solenne ottavario celebrato in Napoli [...]
per la canonizazione de’ due beati Luigi Gonzaga e Stanislao Kostka [...], s.l.,
[1729] (d’ora in avanti Gonzaga e Kostka-Napoli).
[10] Cfr. per esempio Borromeo-Milano, pp. 23-24; Capistrano e Baylon-Milano, pp.
50, 63; Pio V-Napoli, p. [17].
[11] Loyola e Saverio-Messina, p. 5.
[12] Il dispositivo dell’annuncio delle feste milanesi sembra avere il suo prototipo in
quella per Carlo Borromeo: cfr. Majorana, Feste a Milano.
[13] Ragguaglio Loyola e Saverio-Palermo, p. 12.
[14] Borgia-Palermo, p. 5.
[15] Giovanni di Dio-Palermo, p. 28.
[16] Cfr. Corsini-Firenze, p. 65. Per il rapporto tra musica e festa cfr. Gino Stefani,
Musica barocca. Poetica e ideologia, Milano, Bompiani, 1974 e Id., Musica barocca 2.
Angeli e sirene, Milano, Bompiani, 1987.
[17] Loyola e Saverio-Messina, p. 19.
[18] I testi dei panegirici sono spesso pubblicati a stampa, in appendice alla relazione
della festa o separatamente.
[19] Idea Loyola e Saverio-Palermo, p. 41.
[20] Ragguaglio Loyola e Saverio-Palermo, pp. 6 e 7.
[21] Cfr. Idea Loyola e Saverio-Palermo, pp. 41-43 e Ragguaglio Loyola e SaverioPalermo, pp. 6-11.
[22] Cfr. Loyola e Saverio-Milano, pp. 27.
16
[23] Cfr. Loyola e Saverio-Messina, pp. 12-13 (facciata) e 16-19.
[24] Cfr. Ragguaglio Loyola e Saverio-Palermo, pp. 16.
[25] Borgia-Palermo, p. 5 e cfr. pp. 7-9, 27-41.
[26] Cfr. Villanova-Milano, pp. 9-10.
[27] Ivi, p. 13. Ringrazio Martine Boiteux per avermi segnalato l’esposizione delle
tappezzerie con storie di Ignazio e Saverio realizzate in occasione della canonizzazione
del 1622 per l’apparato del Gesù di Roma, e visibili nella stessa chiesa nel 2006, per il
quinto centenario della nascita di Saverio: collocate nella posizione originaria, tra
un’arcata e l’altra delle navate laterali, risulta in effetti ben difficile capire,
guardandole dalla navata centrale, se si tratti di figure dipinte, ricamate o tessute.
[28] Ivi, p. 14. Per la «fioritura secentesca» della poesia figurata cfr. Giovanni Pozzi,
La parola dipinta, Milano, Adelphi, 1981, in particolare le pp. 205-275.
[29] Cfr. Stefani, Musica barocca. Poetica, p. 10 e passim; e Andrea Battistini,
Galileo e i gesuiti. Miti letterari e retorica della scienza, Milano, Vita e pensiero,
2000, pp. 230 e 231, 234-237, pertinente anche al caso agostiniano in esame, per il
quale cfr. anche Majorana, Feste a Milano.
[30] Cfr. Casale, Gloria ai beati e Id., Addobbi per beatificazioni, che si è
particolarmente soffermato su questi prodotti artistici, riguardo alla committenza, alla
esecuzione, alla conservazione; si veda anche Marco Rosci, I quadroni di san Carlo
del Duomo di Milano, Milano, Ceschina, 1965, sui dipinti dell’apparato milanese per la
festa di canonizzazione di Borromeo; Simonetta Coppa, Le feste milanesi per la
canonizzazione di s. Gaetano nel 1671, in «Regnum Dei», n° 106, 1980, pp. 31-51,
su dieci quadri provenienti dall’apparato della festa di cui al titolo dell’articolo e
conservatisi.
[31] Se ne ha l’esempio nelle venti immagini che corredano la relazione fiorentina di
Corsini e nell’unica presente nelle relazioni milanesi sia di Corsini sia di Maria
Maddalena de’ Pazzi; due immagini dell’insieme dell’apparato, all’interno e all’esterno
della chiesa milanese di San Fedele, sono nella relazione gesuitica del 1622.
[32] Credo che le feste locali secentesche si possano considerare un esito significativo
di quella partecipazione «a posteriori» alla costruzione della santità, che la
centralizzazione delle procedure e dei controlli impone al popolo con l’età moderna e
di cui parla Paolo Prodi, Prefazione, in Angelo Turchini, La Fabbrica di un santo. Il
processo di canonizzazione di Carlo Borromeo e la Controriforma, Casale
Monferrato, Marietti, 1984, pp. XI-XII.
[33] Cfr. Giulia Barone et al. (a cura di), Modelli di santità e modelli di
comportamento. Contrasti, intersezioni, complementarità, Torino, Rosenberg &
Sellier, 1994. Il fatto che il santo sia «insieme imitabile e inimitabile» è una
«oscillazione» tra «dialettica e contraddizione» che caratterizza i caratteri della santità
cristiana: Sofia Boesch Gajano, La santità, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 116. La
preponderanza dell’interesse all’accertamento dei miracoli, nelle indagini, rispetto a
quello relativo alla virtù eroica, pur prioritaria sotto il profilo giuridico-canonico, è
sottolineata da Giulio Sodano, Miracolo e canonizzazione. Processi napoletani tra XVI
e XVIII secolo, in Sofia Boesch Gajano e Marilena Modica (a cura di), Miracoli. Dai
segni alla storia, Roma, Viella, 1999, pp. 171-195.
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[34] Gaetano Thiene-Milano, p. 48.
[35] Capistrano e Baylon-Milano, p. 10.
[36] Ivi, p. 48 (e cfr. Majorana, Feste a Milano).
[37] Cfr. Loyola e Saverio-Messina, pp. 3-8 e Corsini-Firenze, pp. 3-4, 67-80.
[38] Cfr. Loyola e Saverio-Messina, p. 6; Gaetano Thiene-Milano, pp. 57-58;
Capistrano e Baylon-Milano, p. 48; e cfr. anche An., Relatione sommaria della
solenne processione fatta nella translatione dei stendardi doppo la canonizatione di
santo Carlo Borromeo [...], dalla chiesa di Santo Pietro à quella di Santo Ambrogio
[...], Roma e Milano, Gio. Iacomo Como, [1610], p. [8]. Caratterizzato da una
«atemporale iconicità» nella cerimonia a San Pietro e nel trasporto processionale per
le strade e nelle chiese di Roma, lo stendardo è, fra tutte, l’immagine del santo che
«tocca il livello massimo di valenza simbolica» e ha un ruolo centrale, «quasi si
trattasse di una reale presenza» (Casale, Addobbi per beatificazioni, p. 64).
[39] Cfr. Casale, Gloria ai beati, p. 126.
[40] Un’ampia classificazione delle immagini prodotte a Roma in occasione delle
canonizzazioni è in Boiteux, Les Rituels.
[41] Corsini-Milano, p. 36.
[42] Maria Maddalena-Milano, pp. 44-45.
[43] Villanova-Milano, pp. 4-5.
[44] Cfr. quest’ultima sottolineatura per esempio in Pio V-Napoli, p. 12 e in Gonzaga
e Kostka-Napoli, pp. 27 e 28.
[45] Loyola e Saverio-Messina, p. 17.
[46] Cfr., per esempio, Ragguaglio Loyola e Saverio-Palermo, p. 14; Maria
Maddalena-Milano, pp. 44-45; Capistrano e Baylon-Milano, p. 54; Gonzaga e
Kostka-Napoli, p. 7.
[47] Loyola e Saverio-Messina, pp. 16-19.
[48] Ragguaglio Loyola e Saverio-Palermo, pp. 15-16.
[49] Borgia-Palermo, pp. 44-47.
[50] Giovanni di Dio-Palermo, pp. 68-80, in particolare p. 77. Sull’artigianato e i
materiali delle feste palermitane cfr. Giovanni Isgrò, La scenotecnica a Palermo nelle
feste del ’600 e del ’700, in «Quaderni di teatro», a. III, n° 10, 1980, pp. 27-48; e
Teresa Augello e Rosalba Guarneri Enea, La Sicilia e i fuochi di gioja. Spettacoli
pirotecnici nella festa siciliana dal ’500 all’800, Palermo, Priulla, 1996 (sono grata alle
autrici e ad Angela Tagliavia per l’aiuto ricevuto nella ricerca di fonti palermitane in
vista del presente lavoro).
[51] Pio V-Napoli, pp. 6-9 (l’esemplare della relazione che ho consultato non reca le
immagini dell’apparato, a cui il testo fa invece riferimento, e che si possono consultare
in Franco Mancini, Feste ed apparati religiosi e civili in Napoli dal viceregno alla
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capitale raccolti, commentati e descritti da Franco Mancini, Napoli, Edizioni
scientifiche italiane, 1968).
[52] Gonzaga e Kostka-Napoli, pp. 24-28.
[53] Le relazioni riferiscono di molte invenzioni originali disposte dai devoti nell’area
antistante la loro casa o per addobbo delle facciate; si tratta per lo più di una
adesione sollecitata tramite l’affissione e la circolazione di avvisi: cfr., per esempio,
Villanova-Milano, pp. 3-4.
[54] La conformazione fisica di Palermo e il suo recente riassetto urbanistico incidono
profondamente nell’invenzione e fanno sì che il mare diventi un elemento importante
della festa. Per gli interventi urbanistici a Palermo tra ’500 e ’600 cfr. Giorgio
Simoncini, Città e società nel Rinascimento, vol. I, Torino, Einaudi, 1974, pp. 180186.
[55] Ragguaglio Loyola e Saverio-Palermo, pp. 22-23.
[56] Ivi, p. 23.
[57] Al proposito, tra i molti studi sulla pedagogia teatrale gesuitica, cfr. il saggio
sempre importante di Marc Fumaroli, Il “Crispus” e la “Flavia” di Bernardino Stefonio,
in Id., Eroi e oratori. Retorica e drammaturgia secentesche, Bologna, Il mulino,
1990, pp. 197-232.
[58] Cfr. Loyola e Saverio-Milano, pp. 24-29.
[59] Ivi, pp. 16-22, con sei immagini che illustrano i sei carri trionfali (e cfr. Majorana,
Feste a Milano).
[60] Loyola e Saverio-Milano, pp. 22-23.
[61] Loyola e Saverio-Messina pp. 21-28.
[62] Ragguaglio Loyola e Saverio-Palermo pp. 20-21 (e cfr. ivi, p. 18, per l’apparato
del collegio e i quadri nei portici).
[63] Ivi, p. 19.
[64] Ivi, pp. 23-24.
[65] Loyola e Saverio-Milano p. 14 e cfr. p. 22.
[66] Gonzaga e Kostka-Napoli, p. 5.
[67] Mi rifaccio a Fabrizio Cruciani, Per lo studio del teatro rinascimentale: la festa,
in «Biblioteca teatrale», n° 5, 1972, pp. 1-16, quando avverte della necessità di
rivisitare le feste «iuxta propria principia», appunto, e assumendo «come elemento
forse primario dell’analisi il modo in cui i contemporanei parlano degli spettacoli» (ivi,
p. 2). L’articolo di Cruciani e la sua definizione di festa rinascimentale «come unità
strutturante» di «diverse forme espressive» (ibidem) sono state capitali per la
fondazione epistemologica della festa e restano tali anche nel lavoro sulle esperienze
barocche.
[68] Cfr. anche Majorana, Feste a Milano, conclusioni.
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[69] La canonizzazione di Ignazio e Saverio si celebra a Roma il 12 marzo 1622 (con
altri tre santi, come è noto); le feste di cui si è trattato sono indette nei giorni 17-24
aprile a Milano, 23-30 luglio a Messina, 31 luglio-7 agosto a Palermo.
[70] Elementi di integrazione in Majorana, Feste a Milano.
[71] Opere di riferimento sono Mancini, Feste ed apparati; Giovanni Isgrò, Feste
barocche a Palermo, Palermo, Flaccovio, 1981; Annamaria Cascetta e Roberta
Carpani (a cura di), La Scena della gloria. Drammaturgia e spettacolo a Milano in età
spagnola, Milano, Vita e pensiero 1995.
[72] Si veda per esempio la festa gesuitica del 1622 a Salvador de Bahia, analizzata
da Charlotte de Castelnau-L’Estoile, Les Ouvriers d’une vigne stérile. Les Jésuites et
la conversion des Indiens au Brésil. 1580-1620, Lisboa-Paris, Fundação Calouste
Gulbenkian-Centre Culturel Calouste Gulbenkian, 2000, pp. 477-493. Elementi sui
festeggiamenti e sulla produzione emblematica e iconografica, nonché sui panegirici
legati alla beatificazione e alla canonizzazione di Rosa da Lima (1668 e 1671) sono
reperibili in Ramón Mujica Pinilla, Rosa Limensis. Mística, política e iconografía en
torno a la patrona de América, Lima, Instituto Francés de Estudios Andinos-Fondo de
Cultura Económica-Banco Central de Reserva del Perú, 2001, pp. 249-360. Su alcune
feste messicane si veda il contributo di Pierre Ragon, Les Cérémonies de béatification
et de canonisation en Nouvelle-Espagne, in Bernard Dompnier (dir.), Les cérémonies
extraordinaires du catholicisme baroque, Atti del convegno internazionale di studi
(Le Puy-en-Velay, 27-29 ottobre 2005), Editions de l’Université Blaise Pascal,
Clermont-Ferrand, di prossima pubblicazione. Osservazioni di grande interesse sulla
politica della santità canonizzata nella Lima del XVII secolo si devono a Juan Carlos
Estenssoro Fuchs, Del paganismo a la santidad. La incorporación de los indios del
Perú al catolicismo. 1532-1750, Lima, Instituto Francés de Estudios Andinos, 2003,
pp. 480-492. Una lista dei santi venerati in Nouvelle-France tra il 1610 e il 1700 è in
Dominique Deslandres, Croire et faire croire. Les missions françaises au XVIIe
siècle, [Paris], Fayard, 2003, p. 417 (e cfr. ivi, pp. 415-424). Alcuni spunti anche in
Gabriella Zarri (a cura di), Ordini religiosi, santità e culti: prospettive di ricerca tra
Europa e America Latina, Atti del seminario (Roma 21-22 giugno 2001), Galatina
(Lecce), Congedo, 2003, particolarmente nei saggi di Cantù, Cabibbo e Beozzo.
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XVII secolo e - Università degli studi di Bergamo