ACHAB
Rivista di Antropologia
2005 numero VI
Università degli Studi di Milano -Bicocca
AChAB - Rivista di Antropologia
Numero VI - ottobre 2005
Direttore Responsabile
Matteo Scanni
Direzione editoriale
Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi
Redazione
Paolo Borghi, Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi, Fabio Vicini
Progetto Grafico
Lorenzo D'Angelo
Tiratura: 500 copie
Pubblicazione realizza con il finanziamento del Bando "1000 lire", Università degli Studi di Milano
Bicocca
Autorizzazione del Tribunale di Milano
n. 697 - 27 settembre 2005
Non siamo riusciti a rintracciare i titolari del dominio di alcune immagini qui pubblicate. Gli autori
sono invitati a contattarci.
* Immagine in copertina di Michele Parodi:"videoclube di Sambizanga"(Angola)
* Immagine in retro di copertina tratta da: http://www.repubblica.it/
Se volete collaborare con la rivista inviando vostri articoli o contattare gli autori,
scrivete a: [email protected]
In questo numero...
2
Ismaele, il testimone
Per un’etica della testimonianza in antropologia
di Lorenzo D’Angelo
5
Fra antenati e giocatori di calcio
A proposito della Casa della felicità di Bandjoun, Camerun
di Ivan Bargna
Dossier Antropologia e Media
14
Etnografia e media
di Monica Fagioli e Sara Zambotti
17
La rappresentazione del conflitto del Vietnam attraverso Hollywood
Analisi comparata di Apocalypse now di Coppola e Full Metal Jacket di Kubrick
di Fiammetta Martegani
26
Lo tzunami del 26 dicembre 2004 e le comunicazioni mediali in una famiglia srilankese
di Silvana Negro
30
Ma cosa ascolti in un non-luogo?
Un esperimento di etnografia di un paesaggio sonoro caratterizzato dai media
di Tullia Gianoncelli
38
10 Corso Como, Milano
Luogo come discorso e media
di Serena Bottelli
42
Il pubblico televisivo e la negoziazione del senso
Note su una telenovela indiana
di Gianni Trimarchi
47
Libri e poesie
a cura di Antonio De Lauri
1
Ismaele, il testimone
Per un'etica della testimonianza in antropologia
di Lorenzo D’Angelo
Il dramma è finito. Perché allora qualcuno si fa
innanzi? Perché uno solo sopravvisse alla rovina.
(Melville H., Moby Dick, Mondadori, 1998)
"Chiamatemi Ismaele". Ismaele, il protagonista-narratore di Moby
Dick, colui che è "tormentato da una smania perenne di cose
remote" ed ama viaggiare "per mari proibiti e prender terra su
coste barbariche", si rapporta al suo lettore da un punto di vista
privilegiato. Egli, infatti, è l'unico superstite del naufragio del
Pequod ed è il solo pertanto a poter raccontare quanto è successo
al suo equipaggio.
Il racconto di Ismaele è a suo modo una testimonianza e come
ogni testimonianza contiene una lacuna. Tuttavia essa vale
proprio per ciò che questa mancanza segnala: dice qualcosa per
conto di qualcun altro che non può dire. Ismaele è testimone
innanzi tutto di un non-testimoniabile e in ciò risiede la sua
autorità di narratore.
etnografico" per rappresentare i suoi "oggetti"; predilige il
discorso indiretto e la terza persona plurale; utilizza il "noi"
scientifico; abbonda di dettagli e di riferimenti che gli scrittoriantropologi disseminano nel testo lasciando intendere che questi
possono essere forniti solo da chi ha vissuto l'esperienza in prima
persona (Kilani 1997) ma, senza spiegare "come sono riusciti a
derivare, da un'esperienza unica, quell'insieme di conoscenze di
cui chiedono di accettare la validità" (Fabietti e al. 2002 p.46). In
quest'ottica così poco riflessiva per i nostri standard
"postmoderni", e che sembra quasi voler mimare il "reale",
l'autore persuade il lettore sulla validità e l'autenticità del suo
resoconto dimostrando di essere stato davvero lì, di essere entrato
in intimità con la comunità locale di cui si è occupato grazie ad
una permanenza prolungata sul campo. La raccolta dei dati, delle
interviste, dei materiali e dei documenti, contribuiscono a
legittimare il suo discorso, ad oggettivare e a costituire,
materialmente, la prova del suo essere stato là. Autorizzano
l'autore quindi, ma ciò che più conta, fondano etnograficamente la
sua autorità di testimone dei fatti contribuendo a renderla
paradigmatica. Altri ricercatori saranno poi autorizzati a seguire e
portare avanti i discorsi antropologici che si sono imposti così
autorevolmente da diventare punti di riferimento per ulteriori
elaborazioni teoriche (Geertz 1990).
Tutto contribuisce a creare quell'artificio retorico che, da un lato,
da al lettore la sensazione di una coesistenza temporale e spaziale
tra etnografo e nativo e, dall'altro, occulta la presenza di chi
scrive, al punto che "la peculiarità della retorica della monografia
tradizionale consiste nel dare ad intendere che non vi è retorica"
(Kilani 1997, p.42). Parallelamente all'io c'ero, quindi,
l'antropologo opera un peculiare occultamento della propria
presenza dal testo, come se uno stile neutro ed asettico fosse un
prerequisito di "scientificità" irrinunciabile per qualsiasi
resoconto (Clifford, Marcus 1995; Fabietti 1999).
L'antropologo, in breve, parla per conto di coloro che non hanno
voce ma la sua stessa voce sembra scaturire da nessun luogo
particolare e questo, in un qualche modo, rende il suo punto di
vista privilegiato. Tuttavia, nel momento in cui l'etnografo - uno
Spesso si fa notare come i testi etnografici classici abbiano forti
analogie con i resoconti di viaggiatori, esploratori, missionari e
funzionari coloniali. Gli antropologi, per questo motivo, hanno da
sempre cercato di distinguere e caratterizzare il proprio lavoro di
ricerca e la propria professionalità rispetto ad altri saperi affini e
a figure che, per una ragione o per l'altra, si trovano impegnate
nelle stesse aree di contatto con i nativi (Marcus, Fischer 1998).
Così come Ismaele, anche l'etnografo si è spesso presentato al suo
lettore come uno scienziato sociale testimone "unico" del proprio
campo di indagine. Per molto tempo, anzi, l'antropologia, in
quanto "sapere che si legittima per la produzione di una
conoscenza mediata dalla rappresentazione di un Altro assente"
(Hastrup, Elsass 1990), si è pensata e distinta da altre discipline
anche grazie a questa sua caratterizzazione (Kuklick 1997). La
non-ripetibilità dei fenomeni, la conoscenza temporalmente e
spazialmente situata dei "fatti sociali", ha fatto dell'antropologo
un interprete privilegiato. E, a lungo, la consapevolezza o,
semplicemente, la convinzione, di agire in un campo "unico" e
irriproducibile - ma da interpretare, comunque, in maniera
"scientifica" -, ha significato un preciso atteggiamento etico e
delle specifiche convenzioni metodologiche; una precisa idea di
come costruire il testo etnografico e dell'autorità che lo sostiene.
Il testo monografico classico adotta, infatti, il "presente
2
studioso colto che ha seguito un certo percorso accademico dimostra di essere stato davvero là e riesce a fornire garanzie circa
l'aver fatto un'esperienza prolungata nel tempo, di prima mano,
sembra essere il solo autorizzato ad interpretare i fatti e a parlare
per conto di qualcun altro. In questo senso egli è necessariamente
testimone e portavoce di un discorso monofonico o
monodialogico.
privilegiato, così come da più parti si è disposti ad ammettere, ci
sono contesti in cui la sua "testimonianza" non è solo una
possibilità ma anche, e soprattutto, un dovere che la relazione
stessa tra l'antropologo e i suoi informatori reclama (Hastrup,
Elsass 1990; Scheper-Hughes 1995). Se si accetta questa torsione
inclusiva della nozione di testimonianza, dall'"epistemico"
all'"etico", è chiaro che occorre rivedere gran parte degli assunti
su cui si basa la pratica etnografica e, più in generale,
l'elaborazione antropologica. A queste considerazioni si aggiunga
poi il fatto che, da un lato, le critiche del dopoguerra al
colonialismo e la globalizzazione sempre più diffusa di persone,
idee e cose, hanno messo in crisi il tradizionale (e ideale) campo
di indagine dell'antropologia - la piccola e isolata tribù esotica - e,
dall'altro, con l'emergere della corrente postmodernista e
l'affermarsi della svolta riflessiva, si sono create le premesse per
un ripensamento e un rinnovamento epistemologico,
metodologico ed etico che tocca i fondamenti stessi della
disciplina (Flaherty 2002). Se, inoltre, come sottolineano Hastrup
ed Elsass, nella prospettiva postmoderna, teoria e applicazione,
soggetto e oggetto, non sono più nettamente distinguibili - se non
su un piano analitico - allora può non bastare limitarsi ad
esaminare le conseguenze pratiche di ciò, come suggeriscono i
due antropologi. Occorre ripensare l'idea di un'antropologia come
testimonianza all'interno di un discorso che comprenda, fino in
fondo, e assuma, consapevolmente, la dimensione etica e politica
della ricerca antropologica. Un approccio deontologico a tali
questioni o, peggio ancora, "moralizzante" non ne può cogliere il
fondamento né, tanto meno, svelarne la genealogia.
La tesi di fondo di questo spunto di riflessione è che tale
ripensamento passa necessariamente attraverso una radicale
rielaborazione ontologica. Un'etica della testimonianza non può
prescindere, infatti, da un'ontologia della testimonianza.
E' significativo come questo modo di intendere il lavoro di ricerca
sul campo, di costruire le prove e le evidenze per dare garanzie di
autenticità e validità scientificità al proprio resoconto abbia
suggerito forme di impegno basate sul "motivo della
salvaguardia", sull'idea, cioè, che solo un intervento esterno di
registrazione delle differenze culturali e di denuncia delle
ingerenze esterne potesse "salvare" le popolazioni indagate prima
di una loro definitiva scomparsa ad opera di un temuto, quanto
presunto, processo di omogeneizzazione del mondo (Marcus,
Fischer 1998). In altri termini, partendo dall'assunto olistico
secondo cui le società osservate sono un tutto omogeneo che
occorre preservare da ogni contatto contaminante e
potenzialmente distruttivo di ogni differenza culturale,
l'antropologia moderna, a partire dagli inizi del XX secolo (e
sicuramente da Malinowski in poi), ha trovato nel "motivo della
salvaguardia" un suo fine e una sua legittimazione morale
coerente con i suoi assunti epistemologici, metodologici ed
ontologici. Il progetto di un'etnografia "di urgenza" si basa,
infatti, su un'etica concepita come sfera autonoma di standards
universali ed impersonali e, parallelamente, su una concezione
della verità come sapere disinteressato, universale, al servizio del
genere umano; una verità, quindi, di per sé morale. Da questo
punto di vista, inoltre, la professionalità dell'antropologo si
misura nella possibilità e nella capacità di mantenere un certo
grado di distacco scientifico e di neutralità politica rispetto ai
fenomeni e agli "oggetti di studio" indagati. Ritroviamo quindi,
ancora una volta, quella duplicità riscontrata sul piano della
scrittura, quel gioco ambivalente tra l'esserci e il non esserci, tra
l'affermazione dell'etico e la negazione del politico: l'antropologia
ha una sua moralità ma non deve essere contaminata da interessi
e politiche contingenti (Pels 1999). Non è un caso che
Malinowski e i suoi allievi riservassero all'antropologia
"applicata" lo studio del cambiamento sociale e alla "vera"
antropologia, quello delle strutture sociali (Hastrup, Elsass 1990);
la prima direttamente coinvolta nella cooperazione con i governi
locali - seppure dichiaratamente svincolata da ogni responsabilita’
morale e politica (cfr. Malighetti 2001)-, la seconda arroccata
nella torre d'avorio del mondo accademico.
Pensare la questione etica della testimonianza a partire da una
prospettiva ontologica significa dover occuparsi della questione
della differenza ontologica. Questo è il nostro assunto di
partenza.
Che l'essere non è l'Ente, né tanto meno un ente, è secondo
Heidegger il rimosso del pensiero occidentale. Da Cartesio in poi,
infatti, diventa chiaro che l'uomo è soggetto nel senso di subjectum (ciò che sta sotto) ossia, il fondamento che rapportandosi
all'essere per conoscerlo o rappresentarlo, lo riduce ad oggetto,
ente tra gli enti. Dal nostro punto di vista è interessante notare
come l'oblio della differenza tra essere ed ente abbia un risvolto
etico immediato poiché, tale indifferenza, implica un preciso
modo d'essere dell'uomo con gli altri enti (Recalcati 2001)
Nel paragrafo 25 di Essere e Tempo, Heidegger, dopo averci
messo in guardia sul rischio di interpretare il soggetto sul modello
ontologico della semplice presenza, e quindi su un modo di essere
dell'ente difforme dall'esserci, affronta la questione dell'esserecon [mitsein]. Contro ogni prospettiva solipstica, il filosofo
tedesco ribadisce che, così come "non è mai dato un soggetto
Che l'antropologia si occupi, in senso lato, di conoscere gli altri,
non sembra aver mai sollecitato una radicale e diffusa presa di
coscienza della peculiare responsabilità etica e politica del
lavoro sul campo, almeno fino a tempi recenti (cfr. Hymes 1969).
Se è vero infatti che l'antropologo è un osservatore o un uditore
3
senza mondo", allo stesso modo "non è mai dato un io isolato,
senza gli altri". Nel paragrafo successivo il punto in questione è
sottolineato in maniera ancora più esplicita nella consueta
terminologia heideggeriana: "l'esserci è in se stesso
essenzialmente con-essere". Fatte queste precisazioni Heidegger
distingue due diversi modi dell'esserci di rapportarsi agli altri enti:
il "prendersi cura" [besorgen] - riservato ai mezzi utilizzabili,
ossia agli enti in quanto semplici presenze -, e l'"aver cura"
[fursorge], vale a dire la costituzione d'essere dell'esserci in cui
quest'ultimo incontra altri esserci. Proponiamo di considerare
l'atto del testimoniare come una delle modalità dell'aver cura.
Detto ciò, però, non basta. Heidegger, infatti, riconosce due
possibilità estreme e positive dell'aver cura. In un caso l'aver cura
dell'esserci fa sì che questi si sostituisca agli altri
"intromettendosi" e sollevandoli, per così dire, dalla possibilità di
prendersi cura da sé. All'opposto, si può aver cura degli altri
"presupponendoli" senza cioè retrocederli in una posizione in cui
è impedito loro di aver cura di sé in maniera autentica: "Questa
forma di aver cura, che riguarda essenzialmente la cura autentica,
cioè l'esistenza degli altri e non qualcosa di cui essi si prendano
cura, aiuta gli altri a divenire consapevoli e liberi per la propria
cura" (Heidegger 1977, 158). E' a questa seconda accezione
dell'aver cura che fa riferimento il concetto di testimonianza che
qui abbiamo cominciato ad elaborare in direzione di un'etica della
testimonianza.
Possiamo perciò affermare che Ismaele, a suo modo, "ha cura" dei
suoi sfortunati compagni di viaggio sebbene, giocoforza, il suo
resoconto sia un "esserci senza esser-ci"; ma è l'antropologo a
trovarsi in una posizione in cui non può semplicemente sostituirsi
agli altri bensì, li deve "presupporre". Solo così il suo fare può
essere davvero un testimoniare.
Bibliografia
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SCHEPER-HUGHES, N. (1995), "The primacy of ethical. Propositions for a militant anthropology", in: Current Anthropology, 16,
3, pp.409-420.
4
Fra antenati e giocatori di calcio
A proposito della Casa della felicità di Bandjoun, Camerun
di Ivan Bargna
Quel che intendo proporre in questo articolo è una riflessione sul nesso modernità-secolarizzazione quale può apparire da
un'analisi delle espressioni artistiche contemporanee in Africa. Più in particolare ne discuterò con riferimento al mio lavoro sul
campo che ha avuto per oggetto la ricostruzione del bung die, la "Casa del popolo" o "Casa della felicità", della chefferie
bamileke di Bandjoun in Camerun. La mia ricerca ha avuto luogo nel 2002-2003 su un periodo di due mesi e per certi aspetti (cui
accennerò alla fine) ha avuto quest'anno una fine forzata. Cosa che mi ha spinto a scriverne prima del previsto. Un terzo
soggiorno, per altro, nell'agosto di quest'anno, mi ha stimolato a rilanciare ulteriormente.
Questo testo è una versione leggermente rimaneggiata di una relazione presentata in un convegno all'Università della California
(Davis) nel marzo di quest'anno1 . Dell'oggetto della mia ricerca appaiono dunque gli aspetti che potevano essere pertinenti in
relazione al tema dell'incontro.
Nel luglio del 2002, quando sono arrivato a Bandjoun con notare l'introduzione del cemento per il pavimento e il pilastro
l'intento di studiare il ruolo giocato dall'arte e più in generale dalle centrale che sosteneva il grande tetto conico; mattoni di cemento
immagini nelle rappresentazioni dell'identità bamileke, a decidere erano stati usati anche per i muri ma, significativamente, erano
della focalizzazione dell'oggetto di indagine è stato proprio lo completamente invisibili perché "rivestiti" (habillés) con
sconcerto che ho provato di fronte a quella che era la recente "bambù" (in realtà le nervature delle foglie della palma da rafia).
ricostruzione del bung die, la "maison du peuple". Tutte le mie Inoltre la capanna era dotata di impianto elettrico e non è raro
aspettative alimentate da mucchi di fotografie e libri sull'arte vedere turisti e locali ricaricare il cellulare a una delle prese di
tradizionale bamileke, che facevano di questo edificio un corrente esterne.
A dire il vero anche se lo sconcerto è stato reale, avevo, come è
"classico" del genere, venivano brutalmente disattese2.
Negli edifici precedenti infatti, sui pali scolpiti che circondavano ovvio, i mezzi per reagire a questo evento: la retorica del
postmoderno, della globalizzazione e
la"grande capanna" c'erano le figure
della società multiculturale mi offriva i
degli antenati che in forma visibile
mezzi per reinterpretare questa situazione
connettevano presente e passato, la
in termini di "patchwork", "bricolage" o
monarchia ereditaria e la comunità. Il
"métissage". Avevo così nella mia valigia
bung die si presentava quindi come il
un'estetica del "frammento" e della
cuore o meglio, nei termini usati dagli
stessi Bamileke, il "ventre" (vam) di
"citazione" pronta a prendere il posto
della vecchia estetica della "tradizione
Bandjoun, la sua parte apparentemente
africana"; scenari prefabbricati che
più interna.
facevano da sfondo al mio tentativo di
Nell'ultimo bung die costruito nel 2001
capire qualcosa circa la percezione locale
se alcuni dei vecchi pali della precedente
di questo evento. Al fine di raggiungere
costruzione erano ancora presenti erano
questo obiettivo ho intervistato artisti,
però collocati più indietro, sui lati
Bung die di Bandjoun
falegnami, alcuni dignitari, servitori di
dell'edificio. Sui nuovi pali posti davanti
alla facciata dell'edificio che, scendendo dalla piazza del mercato corte, intellettuali e gente comune. Sfortunatamente non ho avuto
al quartiere del re, è la sua parte più visibile, c'erano ora le figure la possibilità di incontrare Sua Maestà Ngnie Kamga, Chef
di due musicisti jazz, di un giocatore di calcio, di papa Giovanni Supérieur di Bandjoun, perché era a Parigi per cure mediche, a
Paolo II, di un inviato della banca mondiale con la valigetta piena causa di una lunga malattia che lo avrebbe poi condotto alla
morte.
di denaro e diversi re in giacca e cravatta.
I cambiamenti non riguardano solo l'iconografia ma anche lo stile, In particolare ero interessato a capire se il bung die sempre
divenuto più naturalistico, e alcune importanti innovazioni nella presentato come il centro della ]chefferie e in particolare come "il
tecnica e nei materiali di costruzione. In particolare si poteva centro nervoso del tsa"3 - il luogo sacro dove il re ha la sua
5
residenza - continui a rappresentare un elemento importante
dell'identità Bandjoun o se al contrario sia divenuto solo
un'attrazione turistica. In altri termini: dobbiamo interpretare
questo sorprendente cambiamento, in termini lineari, come uno
spostamento dal sacro al profano, dall'arte religiosa a quella
turistica, dalla tradizione alla modernità? La mia opinione è che
questi concetti dicotomici profondamente radicati nella visione
occidentale della storia, che siano dati in termini di progresso o di
decadenza, non sono molto utili per comprendere le dinamiche
artistiche e religiose che hanno luogo in Africa.
sua sopravvivenza corporea nelle generazioni che lo seguono.
Attraverso i sacrifici che vengono loro rivolti, spiriti e divinità
sono mantenuti in vita dagli uomini per il proprio benessere. Per
quanto aperte al "sacro" (l'uomo comprende se stesso solo
riferendosi ad altro da sé), le religioni africane non sono
teocentriche. Questo è particolarmente evidente nella grande
importanza che il culto degli antenati assume rispetto al culto
della divinità primordiale. Il dio creatore appare spesso distante e
remoto se non interamente indifferente alle sofferenze degli
umani, ed anche l'arte trova qui i suoi limiti, poiché la divinità
sembra inimmaginabile o insensibile alla rappresentazione
artistica. Questo sembra valere anche per i Bamileke: per quanto
il dio creatore sembri più prossimo agli uomini che in altre
religioni africane, anche in questo caso non si danno
rappresentazioni e gran parte delle attività sacrificali poggia sul
culto degli antenati o di spiriti protettori di luoghi determinati.
Le immagini artistiche ciò non di meno influiscono su altri esseri.
Per esempio l'antropomorfismo della
scultura africana attraverso la sua
"deformazione"
delle
proporzioni
corporee manifesta queste relazioni di
dipendenza reciproca fra uomini, antenati,
spiriti e divinità. Gli dei non si
identificano alla loro immagine (quindi gli
oggetti non sono feticci); tuttavia queste
forme appartengono loro e sono loro
indispensabili ( e quindi non si riducono a
segni di devozione). Si tratta
dell'apparizione di "entità spirituali" entro
forme umane; non si tratta di una finzione
ma di una presenza. Le forme umane
rendono la divinità avvicinabile; la
distanza dalle proporzioni naturali
preserva la loro differenza.5
La religiosità dei Bamileke di Bandjoun ruota intorno all'energia
mistica, alla forza (kè), al dio Si e al culto degli spiriti e degli
antenati. Il kè, uno e plurimo, è fonte di ogni forma di vita, ed è
tanto in Dio che nell'uomo e in tutto ciò che esiste. Presente allo
stato diffuso, può cristallizzarsi in determinate situazioni (in
particolare durante le celebrazioni biennali del ]gu kè, l'anno del
kè, attraverso le quali si procede a una
periodica rigenerazione del cosmo) o in certi
oggetti (come certe statuine antropomorfe, o
vasi o corni di capra o, ancora, la doppia
cloche che è uno degli oggetti bamileke più
sacri) o ancora può condensarsi in particolari
categorie di persone come il re (fo), i guaritori
(gè kè) o gli stregoni (gè sue)4 . Una
caratteristica che ne consente l'appropriazione
e la manipolazione da parte dell'uomo, sia per
usi leciti che per quelli illeciti, come il
vampirismo finalizzato all'acquisizione di
ricchezze o al prolungamento della propria
vita.
In questo contesto non appare possibile
opporre una "magia" che poggia e fa ricorso
alla forza manipolabile del kè a una
devozione religiosa che guarda a un Si
puramente trascendente.
In questo contesto, come ha osservato
In Africa, l'identità e le relazioni fra persone,
Marc Augé, la distinzione fra
cose, animali, spiriti e divinità si sviluppano
comportamenti disinteressati e socializzati
sullo sfondo di una consistenza comune. E' la
espressi dalla religione da un lato, e
Palo della Casa della felicita’ raffigurante
stessa forza, impersonale e divisibile, che
atteggiamenti individualisti e utilitari
suonatori jazz
nella sua differente distribuzione costituisce la
convogliati dalla magia dall'altra, si rivela
realtà in tutti i suoi aspetti. Quel che ritroviamo nella come inadeguata6 . Significato e funzione, morale e relazioni di
rappresentazioni africane del mondo è una visione monistica che forza, vanno considerate insieme. Il bene coincide con il
esclude ogni dualismo ontologico, e che rende inservibile ogni potenziamento della vita, il male con il suo indebolimento. Il
categoria che tenti di introdurre differenze sostanziali fra i diversi peccato o meglio, l'errore, non deriva da una mancanza morale ma
aspetti della realtà, categorie come materiale-spirituale, naturale- dall'insuccesso nell'adempiere a certe pratiche rituali. Il sacrificio
sovrannaturale, sacro-profano e magico-religioso. Questo e l'altro che rappresenta un rimedio non persegue la salvezza dell'anima
mondo non sono quindi mondi incommensurabili ma due aspetti ma il riordino del mondo. Bene e male (come bello e brutto) non
della stessa realtà. La reversibilità di vita e morte nel ciclo della sono definiti in termini assoluti ma sempre in relazione a
reincarnazione mostra il continuo andirivieni che li caratterizza. specifiche relazioni, tempi e persone. Per questo un oggetto che
Questo e l'altro mondo traggono la loro realtà dai bordi porosi che protegge il suo proprietario può essere dannoso per gli estranei
li dividono e che li uniscono.
che ignorano le specifiche prescrizioni e proibizioni ad esso
Più cha a Dio l'attenzione delle religioni africane va all'uomo, alla associate.
6
Religione e arte ruotano così in gran parte intorno alle pratiche
che favoriscono la fecondità e l'appropriazione della forza.
E' qui che l'arte trova il suo potere e i suoi limiti, come tentativo
che può essere rinnovato, variato o abbandonato in vista di altre
strategie ritenute più proficue7 .
Questa consapevolezza dei limiti spiega il carattere sincretico,
tollerante e aperto delle religioni africane che, sempre alla ricerca
di nuove vie di potenziamento estendono i limiti del loro
pantheon includendo contributi esterni, così come rende conto
delle contrazioni che pragmaticamente
eliminano gli spiriti meno favorevoli o gli
antenati meno solleciti.
ai sogni, alle emozioni e all'immaginazione di molta gente. Il
calcio per l'Africa e per il Camerun in particolare rappresenta, a
livello collettivo, una delle rare possibilità di essere competitivi
nell'arena internazionale e di modellare un'immagine positiva
della propria identità nazionale e africana di fronte al mondo8 . A
livello individuale invece il calcio offre parecchi esempi di
giovani Africani che hanno avuto successo nella vita: una via
immaginaria di sfuggire alla povertà e di entrare nella modernità
grazie al proprio talento. Per questo motivo vittorie e disfatte della
squadra nazionale dei Lions indomptables
assumono una grande importanza emotiva
per le singole persone e per l'insieme della
collettività.
Ora, sulle basi di quanto detto, torniamo
In questo contesto il calcio è molto più che
alla "casa del popolo" ed esaminiamo una
intrattenimento, esprime speranze e paure,
delle immagini più sconcertanti che
simbologgia mete, riuscite e fallimenti.
appaiono sui suoi pali lignei. Mi riferisco
Come dice l'artista Bandjoun Célestin
Tawadje: "Se molte persone si
alla figura del giocatore di calcio posto
sulla cima di uno dei pali della facciata. In
comportassero come Roger Milla,
rapporto al passato le trasformazioni
avremmo molti eroi nella nostra
avvengono non solo nel soggetto ma
comunità". Il calcio legittima la propria
anche nello stile: la figura non è posta di
presenza nel bung die come una nuova
fronte allo spettatore ma di profilo; il
versione di un antico dovere: " calcio non
corpo non è rappresentato in forme
significa semplicemente dare un calcio
simmetriche e tendenzialmente statiche
alla palla ma tanto duro lavoro per
ma in modo dinamico, nell'atto di calciare
raggiungere grandi risultati; ognuno nel
il pallone. Infine, anche nelle proporzioni
proprio lavoro dovrebbe fare lo stesso"9 .
Ciò che conta non è tanto Roger Milla in
e nei dettagli del corpo si assiste a un
maggior mimetismo. Queste differenze
sé - il più famoso giocatore camerunese,
stilistiche mostrano una chiara influenza
che lì è ritratto - ma la possibilità di usare
Palo della Casa della felicita’ raffigurante
del naturalismo occidentale anche se
il suo esempio per attrarre i giovani e
un giocatore di calcio
dobbiamo pensare più al cinema, alla
mostrare che la modernità e la tradizione
televisione, alle riviste illustrate e alle fotografie che alla storia non sono incompatibili.
dell'arte. In realtà questi cambiamenti non esprimono solo una Un piccolo curioso dettaglio di questa scultura offre altri
scelta artistica ma un mutamento più esteso e complesso interessanti elementi alla nostra riflessione. Roger Milla stringe in
mano una bottiglia. Non si tratta di una generica bottiglia ma di
dell'esperienza quotidiana.
Le preoccupazioni per il futuro sembrano prendere il posto di una bottiglia di birra. A uno sguardo più attento possiamo anche
quelle per la propria origine e per la connessione fra presente e individuare le tracce di un'etichetta. E in effetti l'artista mi diceva
che si tratta di una marca speciale: questa è una bottiglia di
passato. Il mondo esterno sembra sostituire quello interno.
Apparentemente abbiamo semplicemente a che fare con Guinnes.
un'immagine
secolarizzata
e
triviale
dell'industria Cosa pensare davanti a ciò? A un ritrarsi della religione sotto
dell'intrattenimento e niente sembra essere più lontano dalle l'incalzare della merce? All'inserzione di uno spot pubblicitario in
tradizionali figure degli antenati, ma credo che sbaglieremmo a quello che è un luogo sacro? In effetti giravano voci secondo cui
interpretare questo cambiamento in termini di opposizione il re era stato pagato dalla Guinness. Più probabilmente si è
esclusiva. E' significativo che, sebbene gli artisti che hanno trattato di un'iniziativa personale dell'artista ingenuamente in
scolpito i pali enfatizzino il cambiamento in termini di progresso, cerca di sponsor. Ma al di là dei moventi e delle motivazioni
i dignitari e la gente che vive in prossimità del tsa (la residenza individuali quello che conta è che la bottiglia di birra sia lì, che la
sua presenza sia stata accolta dentro il bung die: questo ne fa un
del re) affermino invece che "niente è cambiato".
Certo il calcio è uno dei simboli della modernità più diffusi al fatto sociale.
mondo e la sua diffusione è nel contempo una conseguenza e un In effetti il mercato della birra in Camerun ha dimensioni
fattore attivo dell'espansione del processo di globalizzazione. Il notevoli: i manifesti pubblicitari e i camion che trasportano la
calcio è una dei più importanti elementi dello show business birra raggiungono anche i villaggi più remoti. La birra è divenuta
mediatico mondiale e svolge una parte importante nel dare forma un importante mezzo di socializazione al punto che sembrano
7
esistere "associazioni della Guinness", "associazioni della Thirty- una classe media bamileke negli anni '60 è andata di pari passo
Three Export" e via dicendo, a fianco di associazioni più con l'affermarsi della famla, una nuova forma di sorcellerie che,
tradizionali: nei funerali l'abito distintivo dei gruppi di danza, diversamente dal passato, non divora i corpi dei parenti durante i
porta spesso stampato come motivo decorativo il logo di una festini degli stregoni ma li usa come zombie per i lavori di fatica.
brasserie. Fa parte infatti della politica pubblicitaria dei birrifici In questo modo i Bamileke - come osserva Paul Geschiere - hanno
donare una certa metratura di tessuto che finiscono con il potuto spiegare le improvvise accumulazioni di ricchezza e di
contrassegnare visivamente il gruppo che li indossa.
potere. Operando entro questa stessa cornice di senso i ricchi a
In particolare è interressante notare che c'è una connessione molto loro volta riescono a difendere la loro ricchezza contro le pretese
stretta fra birra e calcio: i birrifici camerunesi sponsorizzano gli dl proprio gruppo di parentela: amministrando il terrore che la
eventi sportivi " e le pubblicità delle loro birre appaiono sulle loro reputazione ispira o, attraverso una strategia differente e
recinzioni dei campi di calcio alla vista del pubblico che è lì complementare, possono ripulire la loro ricchezza attraverso
presente e di quello televisivo. La sponsorizzazione di eventi l'acquisto di titoli di prestigio tradizionali rilasciati dal re.
pubblici, dalle partite del campionato nazionale di calcio, Come ha sottolineato Jean-Pierre Warnier, proprio riferendosi ai
all'annuale Mount Cameroon race e a festival locali, sono pratica Bamileke, la modernità è più la conseguenza del mantenimento di
comune"10. I marchi di birra sono massicciamente presenti durante vecchie disuguaglianze che il risultato di un rovesciamento della
importanti cerimonie "sacre" come i funerali dei re, in occasione tradizione. La stregoneria è chiamata anche a spiegare la fortuna
dei quali le aziende montano i loro stand ed offrono gratuitamente e sfortuna di ciascuno nel corso della vita: un certo successo negli
ai notabili un certo quantitativo di birra e ombrelloni con marchio affari può essere considerato - forse in modo non dissimile
in vista11 . Anche in questo caso il successo commerciale e la piaga dall'etica calvinista secondo Max Weber - come un segno del
dell'alcolismo non sono completamente opposti o separati agli supporto degli antenati.
aspetti "religiosi": nelle pubblicità il legame fra calcio e birra è
basato sulla "potenza" (sui grandi manifesti pubblicitari della Senza voler negare il drammatico fenomeno della deculturazione
Guinness con la foto di giocatori della nazionale camerunese lo che è spesso l'effetto principale dell'impatto della modernità, mi
slogan era: "nous croyons dans votre
sembra che l'opposizione radicale fra
puissance") e potrebbe trarre la sua capacità di
un'Africa tradizionale e una moderna, in
persuasione dalle credenze tradizionali nei
particolare nel caso dell'arte, sia dovuta agli
trattamenti "magici". Mi è stato riferito che fino
stereotipi occidentali, alla polarizzazione
al 1960 la Guinness era venduta solo in
nell'immaginario occidentale fra un'Africa
farmacia, nella vicina Bafoussam12 . L'artista
"autentica" sottratta al tempo e consegnata
che aveva scolpito il palo mi ha detto che lui
alle radici, all'inconscio, alla natura, e
beve abitualmente la Guinness per avere la
un'Africa "spuria" ridotta a periferia
"potenza" necessaria al suo lavoro. La sua
dell'occidente, così mettendo l'Africa e le sue
origine europea e il prezzo (costa più di altre
arti al di fuori della storia. In questo modo
marche di birra) sono garanzia della sua
alla purezza delle origini si è contrapposta la
efficacia.
corruzione del presente. In ogni contatto si è
Bisogna comunque sottolineare che fino a oggi
vista una diluizione dell'identità, una
la birra occidentale non è riuscita a penetrare in
contaminazione: "arte tribale" da un lato e
tutte le cerimonie tradizionali: nei matrimoni e
"arte turistica" dall'altro.
nei sacrifici agli antenati il locale vino di palma
In realtà le società tradizionali conoscono il
gli è ancora preferito anche se la ragione sta
disordine e il cambiamento. La tradizione
forse semplicemente nel fatto che gli antenati
implica la capacità di trattare il futuro. La sua
non avevano familiarità con la birra europea.
immutabilità è solo formale e cela un
Manifesto pubblicitario della
E' anche interessante notare come il calcio sia Guinness in un locale di Bandjoun sostanziale rinnovamento di contenuti. Se
contemporaneamente un "segno di modernità" e
infatti è la tradizione a disciplinare il gioco il
terreno per pratiche di stregoneria (sorcellerie): sia i singoli gioco delle relazioni, la tradizione è anche , comunque, il frutto di
giocatori che le squadre locali e la nazionale, hanno i loro quel gioco e cambia con esso.
marabutti e sono solite "blindare" i loro campi di gioco prima Il passato diviene quindi un oggetto di scelta. Il valore di una
della partita (talvolta, pare, con l'intervento di maschere)13 . Il tradizione è nella sua capacità di persistere, di fare i conti con il
calcio che è molto più di un semplice divertimento appare come presente14 .
la forma moderna di antichi combattimenti ritualizzati.
In realtà la tradizione è reinventata continuamente e questo è
In contrasto con le aspettative delle teorie della secolarizzazione, anche il caso del bung die.
la diffusione dell'economia moderna e della politica statuale Secondo Dominique Malaquais è molto improbabile che il bung
hanno condotto a un aumento della stregoneria: l'espansione di die si esistito dagli inizi del regno Bandjoun; è più probabile che
8
la prima "casa del popolo" sia stata costruita fra 1926 e 1931 dal
re Kamga II; nello stesso periodo e nei pressi della "grande
capanna" veniva edificato, in stile europeo, il nuovo palazzo del
re15 . Mai prima di allora edifici legati alla figura del re - di solito
collocati in una posizione nascosta e protetta - erano stati costruiti
in posizione così elevata e visibile. La ragione stava nei
sommovimenti che avevano colpito il paese bamileke: la
diffusione delle idee democratiche, la pericolosa influenza degli
ideali egualitari del cristianesimo, le nuove possibilità di riuscita
personale offerte dalle scuole missionarie e dall'economia
coloniale agli inizi del XX secolo). Si trattava dunque di
innovazioni intese a realizzare una politica di apertura nei
confronti dell'amministrazione coloniale e gli strati sociali
inferiori: il palazzo adempiva al primo scopo e il bung die - una
casa costruita dal popolo e per il popolo - al secondo. Per la prima
volta la gente comune poteva, in certe circostanze, scendere al
quartiere del re. Il bung die doveva essere l'espressione visibile
della ricostituita unità fra re e popolo ma allo stesso tempo
funzionare - a livello materiale e simbolico - come una barriera
aggiuntiva che rinforzava la separazione degli insediamenti reali
più remoti.
Il bung die quindi ha operato dall'inizio come un "discorso
doppio"16 che incorpora il progetto di una "modernizzazione
conservatrice"17 ; in questa prospettiva guardando alla sua recente
ricostruzione dobbiamo allora ritenere che, a dispetto di ogni
disorientamento iniziale di fronte alle sue immagini
apparentemente dirompenti, stia completamente dentro la propria
tradizione.
Quando i servitori di palazzo e i dignitari mi assicuravano che
"niente è cambiato", mi spiegavano che l'uso del cemento non è
contro la tradizione ma, al contrario, mira a preservarla in modo
più efficace. I muri di cemento rivestiti di "bambu" non
rappresentano una resa alla modernità o un simulacro
postmoderno ma la tradizione attuale che dinamicamente cerca di
mantenersi nei tempi duri del presente. Similmente il pavimento
all'interno è fatto completamente in cemento ma ciò nonostante
"niente è cambiato" perché al centro vi è un punto in cui la terra è
stata lasciata e in cui si può continuare a eseguire i rituali. Anche
in passato d'altronde la tradizionale propensione verso la novità che è attestata anche in parecchie altre estetiche africane18 procedeva di pari passo con la conservazione così che in ogni
nuovo bung die c'erano sempre alcuni pali di quello vecchio.
E questo anche nel caso delle immagini. Infatti alcune delle
trasformazioni iconografiche - come abbiamo visto nel caso del
giocatore di calcio - sono più apparenti che effettive. In
particolare questo è probabilmente il caso della disposizione dei
pali e, su ogni singolo palo, del posto attribuito alle diverse figure.
Se per esempio guardiamo ai concetti di "alto" e "basso"
scopriamo che hanno un valore inverso rispetto a quello che
assumono in occidente: "basso" è meglio di "alto"19 ; per questo
motivo re e dignitari vivono nelle terre in basso mentre la gente
comune vive sulle colline; la ragione sta nel fatto che le prime
sono terre fertili vicine ai fiumi e che le seconde sono suoli poco
produttivi posti sulle colline. La stessa prospettiva presiede alla
disposizione dei soggetti sui pali: i musicisti jazz e il giocatore di
calcio sono sulla cima dei pali, e cioè nella posizione meno
importante; diversamente le figure dei re sono in basso, cioè nel
luogo più importante. Questo è confermato a livello percettivo:
quando ci poniamo di fronte alla costruzione, a una distanza da
cui possiamo riconoscere i soggetti sui pali (ad esempio la
distanza da cui le guide locali raccontano le loro storie ai turisti),
abbiamo le figure principali davanti agli occhi, mentre per
guardare le immagini sulla cima dobbiamo alzare la testa e ne
abbiamo comunque una visione incompleta. Le figure poste in
alto inoltre sono spesso scolpite con minor cura e con minori
dettagli.
Considerazioni simili si possono fare anche a proposito della
disposizione dei pali intorno all'edificio sebbene in questo caso
sembri esserci una sfasatura fra punto di vista simbolico e
percettivo. Apparentemente gli antenati (specialmente quelli
scolpiti sui pali della vecchia costruzione, nello stile
"tradizionale") arretrano, posti come sono sui lati, meno visibili,
del bung die, lontano dall'entrata principale. Sul retro,
normalmente non visibile ai turisti e alla gente comune perché dà
sullo spazio proibito della residenza reale, ci sono alcuni vecchi
pali non scolpiti. Questa circostanza conferma da un lato che c'è
una scala di valori visivi che procede in modo decrescente
dall'accesso principale sulla facciata, lungo i lati fino al retro e
dall'altro lato ci mostra che non c'è armonia e sovrapposizione fra
valori simbolici e visivi. In realtà il meno visibile è il più
importante. A questo proposito alcuni dignitari - parlando delle
figure degli antenati - mi dicevano che "come in guerra i soldati
stanno davanti e i comandanti stanno dietro".
Questa enfasi sul segreto poggia sulla figura del fo (il re) che non
è considerato un dio ma che è visto tuttavia come una figura sacra
i cui poteri vengono dagli antenati: un re infatti non muore mai ma
vive nel suo successore. In questo contesto si suppone che il fo
governi in accordo con Si (Dio) e gli spiriti per garantire la
fertilità delle donne e della terra e si ritiene possieda poteri magici
come la capacità di trasformarsi in un leopardo, in un elefante, in
un bufalo o in un boa20 . Quindi, in modo simile ad altri re africani,
la sua figura possiede un lato terribile e oscuro. Come tutto ciò
che è sacro il re è allo stesso tempo benefico e pericoloso e per
questo è necessario che sia tanto visibile quanto nascosto. Questo
spiega la prudenza che l'uso delle immagini richiede quando si ha
a che fare con il "sacro".
In questo contesto, in cui il segreto e l'invisibilità dei poteri sacrali
è così importante, le forme visibili dell'arte rischiano
apparentemente di cadere nel profano. Ma ancora una volta i due
aspetti non sono separati ma fra loro connessi. Il bung die è
collocato non solo al centro ma anche alla frontiera, o meglio, con
la sua presenza costituisce la frontiera come spazio abitabile.
Come rappresentazione metonimica dell'attuale mondo bamileke
nella sua complessità, appare come un tentativo di tenere insieme
passato e presente, interno ed esterno, locale e globale, offrendo
in questo modo un orientamento riguardo al futuro. A dispetto
9
della sua sconcertante diversità possiamo vedervi lo sforzo di che si presta quindi a riscontri. In effetti sembra che gran parte
elaborare un'immagine coerente della vita della comunità della popolazione di Bandjoun abbia cooperato all'impresa
tracciando una mappa del mondo che produca senso per tutti e per raccogliendo e devolvendo il denaro necessario all'opera. Ad
ciascuno. Non riflette semplicemente un'identità esistente ma dà essere stati coinvolti sono stati non solo i residenti nella chefferie
ad essa forma.
ma anche gli emigrati nelle grandi città camerunesi di Yaounde e
Il nuovo bung die esprime la rappresentazione del mondo dei Douala o all'estero, in Europa o negli Stati Uniti. Tutto questo ha
nuovi dignitari appartenenti alla nuova classe medio-alta degli comportato un'intensa attività diplomatica che ha impegnato il re
emigrati nelle città che a partire dagli anni '80 ha favorito il in parecchi viaggi tesi a rafforzare le sue relazioni con tutti i
salvataggio e la reinvenzione del regno dopo i disordini degli Bandjoun. E' interessante notare a questo proposito quanto
anni '50 e '60 che avevano portato all'incendio di numerose importante sia la connessione fra i Bandjoun della diaspora e
chefferie colpendo anche il bung die21 . Una riconfigurazione della quelli residenti nel villaggio di origine: cosa confermata anche dal
tradizione che avviene nel contesto della
costume diffuso, quando nasce un bambino, di
distruzione della vecchia nobiltà e nella
ritornare a Bandjoun per seppellire il suo
cornice di una politica nazionale che è sempre
cordone ombelicale25 ; e quando questo non è
22
più basata sulle identità etniche . A questo
possibile, di spedire il cordone ai propri
parenti che dando loro l'incarico di eseguire il
livello il bung die non rappresenta solo
rito.
l'identità Bandjoun ma una più ampia identità
Tuttavia nelle mie interviste ho notato - a
bamileke da giocare non nel contesto locale
dispetto delle ripetute affermazioni circa
ma in quello nazionale, nel confronto con gli
l'esistenza di un consenso unanime - un
altri gruppi etnici camerunesi. E oltre a ciò,
diffuso malcontento: il re era sospettato di aver
un'immagine di se stessi data all'occidente, ai
speso altrimenti il denaro e falegnami e artisti
turisti in visita o su internet23. Certamente
questa operazione è funzionale agli interessi
lamentavano di non aver ricevuto i titoli
di una borghesia aperta sul mondo ma è
onorifici che il fo aveva loro promesso di
comunque significativo che le sue chance di
conferire. Un problema di rapporti che in
realtà risale alla designazione del re Ngnié
successo si alimentino anche dalla
Kamga II nel 1975: molta gente vi ha visto un
mobilitazione dei repertori simbolici
usurpatore che ha spezzato la linea ereditaria
tradizionali.
In realtà continuità e cambiamento, tradizione
legittima. Vi è quindi un dissenso non
e modernità vanno insieme e prendono corpo
apertamente dichiarato che colpisce il re in
non in persone diverse ma nelle stesse
quanto uomo ma al fine di riaffermare
l'integrità dell'istituto monarchico.
persone che rivestono ruoli differenti su
Palo della Casa della felicita’
Anche le trasformazioni nei materiali e nelle
scenari parzialmente separati: la nostra
raffigurante uno chef bamileke
tecniche di costruzione possono essere
distinzione fra "moderno" e "tradizionale"
corrisponde in una certa misura alla distinzione locale fra "nero" interpretate tanto come un segno di questa disaffezione da parte
e "bianco", che non è una differenza razziale basata sul colore del popolo che come indice dei dubbi e delle preoccupazioni
della pelle ma il risultato delle diverse posizioni occupate nella circa il futuro nutriti dalle elite. Se il bung die opera come un
vita sociale; per questa ragione, in luoghi e tempi diversi, le stesse mezzo per attrarre il popolo intorno al re, questo avviene
persone possono essere "nere" o "bianche": un impiegato è bianco attraverso il lavoro collettivo che richiede. La raccolta, il trasporto
in città ma diviene "nero" quando torna al proprio villaggio. Allo e il lavoro del "bambu", della terra rossa e delle liane usate per la
stesso modo "agli occhi del suo popolo il capo supremo, costruzione coinvolgono l'insieme della popolazione facendo di
naturalmente è "nero", ma la sua posizione è talvolta ambivalente ogni quartiere il responsabile di un particolare lato dell'edificio.
poiché il governo lo considera "bianco" per le sue funzioni La deperibilità dei materiali richiede periodici restauri e consente
nell''amministrazione"24 .
nel contempo un rinnovo dell'alleanza fra re, capi minori e
popolo. In questo evento ciclico il potere trova una fonte di
Ma la situazione è anche più complicata poiché quello che legittimazione ma corre anche il rischio di un rifiuto. A partire da
abbiamo appena descritto è in realtà solo ciò che supponiamo questa prospettiva possiamo forse vedere nella commistione di
essere il punto di vista del re e dei dignitari, ma non ci dice nulla materiali vecchi e nuovi del bung die un problematico tentativo di
circa la percezione effettiva delle altre parti e persone coinvolte.
fissare e preservare la "tradizione" evitando il rischio della
In realtà l'unione fra il popolo e il re di cui il bung die è la verifica periodica. Oltre a questa volontà politica vi è anche la
manifestazione simbolica visibile dovrebbe effettivamente preoccupazione circa la perdita di competenze tecniche che sta
prodursi nelle relazioni che si realizzano intorno alle diverse fasi colpendo Bandjoun (gli scultori per esempio, hanno pochissimi
della costruzione dell'edificio, cosa che avviene pubblicamente e apprendisti cui trasmettere la loro arte) e quindi, da questo lato, la
10
nuova "grande capanna" è un tentativo - così mi è stato detto - di
guadagnare tempo in vista di una futura generazione più
qualificata e coinvolta nelle attività tradizionali.
Nel trattare le questioni del sacro e della religione, dobbiamo
quindi considerare il ruolo svolto dagli individui che dai repertori
tradizionali di simboli e credenze attingono utilizzandoli
strategicamente come risorse per accrescere i propri benefici nel
contesto dell'interazione sociale.
Non è quindi sufficiente descrivere sistemi o strutture, ma bisogna
considerarle come insiemi di vincoli e opportunità entro le quali
gli individui negoziano la loro posizione attraverso la
manipolazione di significati comuni e condivisi.
Non si tratta dell'uso cinico di un simulacro ideologico,
conseguente al ritrarsi della religione e all'avanzare della
secolarizzazione; piuttosto abbiamo a che fare con pratiche e
credenze normalmente connesse al sacro e in particolare all'uso
delle immagini nei luoghi sacri.
L'antropologia attribuendo alla credenza un senso collettivo ha
talvolta presupposto un'uniformità di atteggiamento e
coinvolgimento da parte di tutti gli individui facenti parte del
gruppo, ma la distribuzione degli atteggiamenti verso una certa
credenza non è necessariamente uniforme. Nel parlare di
"credenza" non dobbiamo pensare solo " alla fede assoluta e alla
convinzione inalterabile. Le cose che uno dice, quello che sente,
quello che fa, non è detto siano fra loro coerenti. (…) Le persone
possono differire individualmente nel modo in cui vedono la
verità di quello che sostengono in comune con gli altri membri
della loro comunità"26 .
Alla fine, come afferma Roy Rappaport, ciò che conta nelle
performance rituali non è la sincerità della credenza, che è uno
stato privato, ma l'accettazione dell'impegno richiesto che è un
atto pubblico"27.
Questo è il caso, in particolare dell'atteggiamento nei confronti
delle immagini: le figure del bung die condividono la sacralità del
luogo ma non sono oggetto di adorazione; i riti sono eseguiti
all'interno dove non ci sono immagini. E tuttavia queste immagini
contribuiscono a creare il contesto significativo entro il quale
opera il "sacro": mostrano i problemi, le risorse e le mete perché
lo scopo non è di guadagnarsi la salvezza in un mondo
trascendente ma di accrescere la forza della comunità in questo
mondo. Immagini che comunque non compongono una storia
coerente; abbiamo piuttosto una molteplicità di simboli
diversamente attivati dalle interpretazioni, secondo le aspettative
e gli scopi di ciascuno.
molto probabilmente da un incendio doloso, il 19 gennaio di
quest'anno. Anche il palazzo, gli archivi e una parte del tesoro
reale sono stati danneggiati28 . Ma proprio con la sua sparizione e
l'enorme emozione che ha suscitato a Bandjoun continua a
mostrare la sua importanza29. A questo proposito è significativo il
gran numero di persone che si è recato sul luogo dell'incendio per
eseguire il rito Pimuk: versando un po' d'acqua sulle rovine
dell'edificio, lavandosi il volto, si attesta la propria innocenza e si
scongiura il ripetersi di eventi simili30 .
Sebbene nessuno sia stato incolpato per questo crimine è opinione
diffusa che si tratti di un fatto maturato nel contesto delle lotte
che hanno seguito la morte di re Ngnié Kamga (il costruttore del
bung die andato distrutto) nel dicembre 2003 e la designazione del
nuovo re, Djomo Kamga Honoré nel gennaio 200431 . Da un lato
i membri della famiglia del re defunto sono accusati di volersi
vendicare e dall'altra il re attuale è sospettato di aver voluto
cancellare la memoria del suo predecessore colpendone quella
che è la sua eredità maggiormente visibile. Il giornale camerunese
La Nouvelle Expression parlava di uno scenario in cui "la rabbia
degli antenati" era monito ai figli di Bandjoun affinchè vadano
d'accordo32 . In questi atteggiamenti possiamo vedere all'opera
non solo una lotta politica ed economica ma anche e nel contempo
la presenza di credenze religiose che hanno i caratteri che Marc
Augé ha attribuito al paganesimo: pragmatismo, immanenza e
dimensione persecutiva33 .
Anche questi incendi d'altra parte appartengono alla tradizione del
bung die e ne testimoniano l'importanza: come la sua costruzione
dà corpo all'unità ideale del popolo Bandjoun così la sua
distruzione ne esprime le lacerazioni. Così nel rogo non è
l'esistenza del bung die in quanto tale a essere messa in questione
ed è quindi certo che ne avremo un altro molto presto.
Così chiudevo il mio testo nel mese di marzo. Nell'ultimo viaggio
lo scorso agosto ho trovato che i lavori di ricostruzione erano già
iniziati; quanto meno gli artisti avevano già cominciato a scolpire
i pali (ancora una volta con significative variazioni rispetto al
passato). Molti problemi sembrano tuttora aperti, da quello
finanziario a quelli concernenti la sicurezza nonché, soprattutto,
la composizione dei dissidi che hanno portato alla distruzione del
precedente bung die e che potrebbero continuare pesare anche
sull'esistenza del successivo. Significativo è però il fatto che Sua
Maestà Djomo Kamga Honoré e le elite di Bandjoun abbiano
ritenuto di dover comunque dare inizio ai lavori al fine di
riaffermare in modo visibile la continuità del potere e dell'unità di
Bandjoun. Vi si gioca una prova di forza. E per me, naturalmente,
si riapre un terreno di ricerca.
Il bung die di Bandjoun non c'è più. E' stato distrutto dal fuoco,
11
Note
*
Le immagini che compaiono nell’articolo sono dell’autore.
"Rethinking Secularization", 2005 International Society for Intellectual History, University of California, Davis, 31 marzo - 3 aprile
2005.
2
Paul Gebauer, Art of Cameroon, Portland Art Asoociation, Portland, 1979; Tamara Northern, Art of Cameroon, Smithsonian
Instituition Press, Washington DC, 1984; Pierre Hartier, Art anciens au Cameroun, Editions Arts d'Afrique Noire, Arnouville, 1986;
Louis Perrois, Les rois sculpteurs, art et pouvoir dans le Grassland camerounais, Musée national des Arts d'Afrique et d'Océanie /
Réunion des Musées Nationaux, Paris, 1993; Louis Perrois, Jean-Pierre Notué, Rois et sculpteurs de l'ouest Cameroun. La panthère et
la mygale, Editions Karthala Orstom, Paris, 1997; Jean-Pierre Notué, Batcham. Sculptures du Cameroun, Musées de Marseille /
Réunion des Musées Nationaux, Avignon, 1993
3
L. Perrois, 1993, p. 53
4
Bernard Maillard, Pouvoir et religion. Les structures socio-religieuses de la chefferie de Bandjoun (Cameroun), Peter Lang, Berne,
Francfort s. Main, New York, 1984, 1984, pp. 131-171
5
Ivan Bargna, Arte africana, Jaca Book, Milano, 2003
6
Marc Augé, Génie du pagansime, Gallimard, Paris, 1982
7
Jack Goody, Representations and Contradictions. AmbivalencesTowards Images, Theatre, Fictions, Relics and Sexuality, Blackwell,
London, 1999 (tr. it. Le ambiguità della rappresentazione. Cultura, ideologia, religione, Feltrinelli, Milano, 2000)
8
Paul Darby, Africa Football and Fifa Politics Colonialism and Resistance, 2001; G. Armstrong, R. Giulianotti, Football in Africa :
Conflict, Conciliation and Community, McMillan 2004; E. Mv´e Elemva, Le livre blanc du football camerounais, Editions le matin,
Yaounde, 1998.
9
Ivan Bargna, Intervista a Célestin Tawadje, Bandjoun, luglio 2002
10
Susan Diduk, "European Alcohol, History and State in Cameroon", African Studies Review , 36,1,1993
11
10 agosto 2002, funerale della regina madre della chefferie di Bangangte
12
Ivan Bargna, intervista con Patrice Kayo (University of Yaounde, Cameroon), Bafoussam, agosto 2003
13
Peter Geschiere, Sorcellerie et politique en Afrique. La viande des autres, Editions Karthala, Paris, 1995, p. 9
14
Eric J. Hobsbwam, Terence Ranger, The Invention of Tradition, Cambridge University Press, Cambridge, 1983 (tr. It. L'invenzione
della tradizione,Einaudi, Torino, 1994)
15
Dominique Malaquais, Architecture, pouvoir et dissidence au Cameroun, Karthala, Paris - Presse de l'UCAC, Yaoundé, 2002, pp.
344-352
16
Malaquais, Op. Cit., p. 350
17
Jean-Pierre Warnier, L'esprit d'entreprise au Cameorun, Editions Karthala, Paris, 1993, p. 281; Dan Soen, Patrice de Comarmond,
"Savings associations among the Bamileke. Traditional and modern cooperation in south west Cameroon", Journal de la Société des
Africainistes, 41,2,1971
18
Wilfried Van Damne, A comparative analysis concerning beauty and ugliness in Sub-Saharian Africa, Africa Gandensia, Gand, 1987
19
Charles-Henry Pradelles de Latour, Le crâne qui parle. Ethnopsychanalise en pays bamiléké, E.P.E.L., Paris, 1997, pp. 45-53
20
Jaques Hurault, La structure sociale des Bamiléké, Mouton, Paris, 1962, pp. 59-63; Bernard Maillard, Op. Cit., pp. 50-87
21
Jean-Paul Warnier, Op. Cit. , pp. 197-222
22
Dieudonné Zognong ," La question bamiléké pendant l'ouverture démocratique au Cameroun", Publications du CIREPE, n°1 ,
http://www.unesco.org/most/p95cir1.htm; Joseph-Patrice Onana Onomo, "Symétries hégémoniques béti-bamiléké et rivalités
politiques au Cameroun", Publications du CIREPE, n°1 , http://www.unesco.org/most/p95cir1.htm
23
si veda per esempio: http://festivalbamileke.org/
24
Jan H. B. Ouden, "In Search of Personal Mobility: Changing Interpersonal Relations in Two Bamileke Chiefdoms, Cameroon",
Africa, 57,1, 1987, p. 3
25
D. Malaquais, 2002, p. 199
26
Gilbert Lewis , "Magic, Religion and the rationality of Belief" in Tim Ingold (ed.), Companion Encyclopedya of Anthropology,
Routledge & Kegan Paul, London New York, 1994 pp. 567-568
27
Roy A. Rappaport, Ritual and Religion in the Making of Humanity, Cambridge University Press, Cambridge, 1999, pp. 107-138
28
Alain C. Godonou, Sèdéhou E. Koutinh, Rapport technique mission chefferie de Bandjoun (Cameroun), Ecole du Patrimoine African
di Porto-Novo,Bénin, 2005 (dattiloscritto)
29
Si vedano per esempio,Tâ Defo Fô Fotué, "Incendie criminel à Bandjoun", Jeune AfriqueEcononomie, 360, February, 2005; The
1
12
forum http://festivalbamileke.org/article.php3?id_article=61
30
Alain C. Godonou, Sèdéhou E. Koutinh, Op. Cit.
31
Emblematico il titolo di copertina con cui il mensile Jeune Afrique Economie, diretto da Blaise-Pascal Talla, un notabile di Bandjoun,
salutava il nuovo re: "Dopo 19 anni senza re Bandjoun festeggia l'arrivo di Sua Maestà Djomo Honoré": i "diciannove anni senza re"
sono quelli del regno del fo precedente, Ngnie Kamga.
32
Edmond Kamguia, "Chefferie de Bandjoun. Un incendie comme bougie d'anniversaire", La Nouvelle Expression, Douala,
1/26/2005.
33
Marc Augé, Op. Cit.
Maschera Elefante Bamileke
Il re e i membri della società Kuosi in Bandjoun, 1930
(fonte: http://www.randafricanart.com)
13
dossier
Etnografia e media
di Monica Fagioli e Sara Zambotti
Lo studio dei media da una prospettiva antropologica ha
rinvigorito il mercato editoriale anglofono dei testi di
antropologia, istituendo nuovi corsi e nuovi programmi di studio
in diverse università americane e inglesi, per fare alcuni esempi
tra i più conosciuti. Anche qui all'Università degli studi di MilanoBicocca, Ugo Fabietti ha avviato nel 2004 un corso di
Antropologia dei Media all’interno della laurea Triennale in
Scienze della Comunicazione. Lo scorso anno l’insegnamento di
Sociologia dei Media per la specialistica di antropologia, tenuto
l'anno precedente da Paolo Ferri, è stato affidato a noi. Date le
nostre rispettive competenze e interessi di studio, il corso è stato
impostato accostando alcuni esempi della letteratura
antropologica sui media e testi di sociologia dei media aventi in
comune alcune premesse metodologiche.
Questa non è la prima volta che Achab accoglie e pubblica alcune
etnografie prodotte all'interno dei corsi di antropologia della
Facoltà (cfr. N. 2, giugno 2004). Questo tipo di spazio editoriale
è particolarmente importante perché permette di rendere
accessibile ad un pubblico più ampio dei soli partecipanti ai corsi
i materiali didattici prodotti. Inoltre, questo tipo di pubblicazione
impone una nuova scadenza e insieme un'occasione per rivedere
il proprio lavoro e riorganizzarlo in tempi successivi alla fine del
corso (questo sia per gli studenti che per i docenti). Così,
prendendo spunto dalla pratica già sperimentata da diversi docenti
di antropologia della facoltà, abbiamo richiesto agli studenti di
realizzare un'etnografia dei media a partire dalla premessa, data
per scontata al livello della specialistica, che intende l'etnografia
soprattutto come pratica per la produzione di un sapere critico.
Per quanto i tempi imposti dal calendario didattico siano ristretti
e limitanti, abbiamo ritenuto che valesse comunque la pena
proporre ai partecipanti di provare a progettare e realizzare un
proprio percorso di ricerca a partire dagli spunti teorici e
metodologici presentati durante le lezioni; un percorso in cui
scegliere autonomamente l'argomento e la tipologia di media da
trattare. In questo senso, se le etnografie qui presentate (una
selezione di tutte quelle prodotte), sono prima di tutto frutto di un
lavoro personale, tuttavia esse sono anche il risultato dei contenuti
presentati durante le lezioni. Per presentare questi lavori
vorremmo, quindi, spendere qualche parola riguardo alle
principali questioni affrontate durante il corso e ai contributi più
significativi che sono stati presentati al suo interno, non solo da
parte nostra, ma soprattutto da altri docenti, sociologi dei media
(Federico Boni, Gianpiero Mazzoleni, Paolo Ferri), antropologi
(Setrag Manoukian, Vicente Rafael, Simona Vittorini) e
filmmaker (Vision Machine Film Project).
In un momento in cui la sociologia dei media si sta aprendo alla
ricerca sul campo, attingendo sia alla letteratura della propria
tradizione disciplinare sia all'antropologia, ci sembrava
importante vedere quali potevano essere nella ricerca
antropologica i contributi specifici, e quindi le assonanze e
divergenze metodologiche con la sociologia dei media. Il corso si
è quindi concentrato sulla pratica etnografica dei media, cercando
di fare incontrare sociologia e antropologia sul terreno comune
della ricerca sul campo. Ma come si fa un'etnografia dei media?
Fare etnografia dei media, non è una cosa semplice da spiegare e
neanche illustrare i vari filoni teorici della ricerca sociologica sui
media era un compito facile, considerato il vasto corpo di lavori
che esistono in materia e le varie ramificazioni, ma soprattutto
non era scontato per noi che non avevamo una formazione
disciplinare in sociologia. Come accennato all'inizio
l'antropologia dei media nasce, invece, come sottodisciplina
dell'antropologia nel momento in cui alcuni antropologi
finalmente si accorgono che, nei loro lavori, lo studio dei mezzi di
comunicazione non aveva trovato uno spazio rilevante o che
questa dimensione non era mai stata esplorata fino in fondo. Da
una parte, troviamo antropologi che si ritagliano una fetta di
sapere nominandola
antropologia dei media
conferendole lo statuto
di
sottodisciplina,
dall'altra, ci sono lavori
che appartengono ad
un ambito di studi non
identificabili
necessariamente con
l'antropologia, ma a cui
gli
antropologi
attingono per costituire
il loro bagaglio di
letture e riflessioni:
come
gli
studi
sull'estetica, gli studi culturali, gli studi sul cinema, sul genere,
sulla religione e gli studi postcoloniali che nelle diverse
prospettive si sono occupati di media e di pratiche mediatiche.
Questi lavori non sono riconducibili ad un'unica definizione di ciò
che si intende per antropologia dei media, ma insieme
contribuiscono tutti, talvolta in maniera originale, allo studio dei
media in una prospettiva multidisciplinare aggiornando la
letteratura sugli studi della comunicazione di massa e quella
antropologica allo stesso tempo.
Tra questi molteplici aspetti, durante il corso, prima di passare
alla lettura di ricerche etnografiche, sono stati presentati due saggi
14
più teorici che intendevano definire due distinte possibilità di
approccio allo studio dei media, di cui ci interessava
successivamente indagare le possibili "ricadute" e "applicazioni"
etnografiche. Da una parte, la Discourse Network Analysis di
Friedrich Kittler che riprende il modello di analisi del discorso di
Foucault per "riaprirlo" e integrarvi l'attenzione all'interazione
corpo/tecnologia così come è stata approfondita da McLuhan. A
questo segue un'analisi di come in ogni dato momento storico il
sistema delle tecnologie comunicative, gestito e diffuso da
strutture di potere, influenza il nostro modo di processare
informazioni e di come le tecnologie danno forma (in suoni,
immagini e testi) alle nostre percezioni autorizzando particolari
rappresentazioni di realtà a discapito di altre. Dall'altra, il modello
Encoding-Decoding di Stuart Hall che, attingendo anche alla
semiotica, applica i concetti di ideologia, articolazione
(Althusser) e egemonia (Gramsci) allo studio dei processi
comunicativi, non più pensati come lineari e omogenei ma come
discorsi significativi, generati da lotte e negoziazioni di codici
oppositivi, spostando quindi l'attenzione sulle pratiche e i discorsi
mediatici e sui loro significati ideologici.
Il primo passo è stato quello di contestualizzare questi due
approcci richiamando brevemente, per il primo, le innovazioni
portate da quei ricercatori che a partire dagli anni '50 hanno
prodotto studi in cui la storia e l'analisi dell'effetto dei mezzi di
comunicazione venivano ripensate mettendo in luce l'evoluzione
degli aspetti tecnologici e funzionali dei mezzi. McLuhan e Innis
(poi identificati come gli studiosi canadesi della Media Theory),
ognuno a suo modo, hanno sottolineato l'importanza del
funzionamento e della struttura materiale del mezzo come
elementi da considerare per comprenderne l'effetto sulle
percezioni umane, pensando le tecnologie e la sensorialità come
elementi integrati e inscindibili (McLuhan). Per il secondo,
invece, inquadrando lo sviluppo degli studi culturali dal secondo
dopoguerra, come studio della working class e come critica agli
approcci empirici e quantitativi americani nello studio dei media,
attraverso il ricorso alla semiotica, al metodo etnografico e alla
teorie neomarxiste, con l'avvio di studi sulla cultura popolare, sul
concetto di razza e di genere.
In seguito si è cercato di discutere quali potevano essere le
ricadute etnografiche di questo tipo di approcci, non tanto in
termini di rigida applicazione di paradigmi, ma sotto forma di
domande: che cosa significa fare un'etnografia dei media che si
interroghi sulle modalità specifiche in cui le tecnologie
processano informazioni? Come integrare la tecnologia all'interno
dell'etnografia senza che questa diventi una dimensione
schiacciante, deterministica e meccanica? Come cambia il
concetto di media se a "medium" sostituiamo "tecnologia"?
Come cambia la collocazione della dimensione del potere? E,
sull'altro versante, quali sono gli schemi di significazione che
sottendono ad una rappresentazione? Le nostre aspettative, i
nostri pareri, opinioni, rimandano ad un ideale di oggettività nel
giornalismo o nei media in generale? Come si compone il
discorso mediatico, quali sono i suoi posizionamenti e le sue
lacune?
A questo tentativo di traduzione dei testi teorici in domande, è
seguita l'analisi di alcune etnografie in cerca di possibili risposte.
Rudolf Mrazek usa fonti storiche d'archivio e letterarie per
analizzare la colonizzazione olandese delle isole nell'attuale
arcipelago indonesiano guardando alle trasformazioni delle
modalità di sentire introdotte dall'importazione di tecnologie dalla
madrepatria. L'uso della radio, dell'elettricità' e dell'automobile
(per citare alcuni esempi) trasformarono i modi di vivere e di
sentire in colonia e introdussero nuovi modelli comportamentali.
L'etnografia di Vicente Rafael, che ricostruisce i recenti sviluppi
politici nelle Filippine attraverso l'analisi del ruolo del telefono
cellulare nell'aggregare e dar forma alle proteste popolari nelle
strade di Manila, apre su altre dimensioni del rapporto tra soggetti
e tecnologie come, per esempio, quella delle "fantasie
telecomunicative", sui significati culturali attribuiti alla
possibilità di comunicare a distanza (e quindi in assenza) e sulla
loro ricaduta politica. O ancora, su come si costruisce in un certo
contesto sociale la credenza e la fiducia nell'attendibilità di un
testo (messaggio, suono, immagine) mediatica e su quali sono le
dimensioni e le fonti da indagare per capire come e perché un
messaggio o una rappresentazione è ritenuta più veritiera di
un'altra.
Lo studio etnografico di Arvind Rajagopal, invece,
guarda alla programmazione televisiva di un film epico hindu
nella televisione di stato indiana e alla sua audience come
dimensione in cui non solo è possibile rintracciare i frammenti
dell'idea di nazione indiana e ricostruire i vari significati
contrastanti di appartenenza nazionale, ma è anche possibile
constatare l'inadeguatezza del concetto di nazione come
"comunità immaginata" applicato al contesto indiano, composto
di elementi premoderni e in via di modernizzazione.
Guardando agli esempi di queste e altre etnografie sono emerse
prevalentemente alcune critiche a certe categorie e teorie nello
studio dei media che accusavano di eurocentrismo sia la lettura
mediacentrica delle media theories canadesi, sia alcuni assunti
degli studi culturali sui media che non tengono conto delle
pratiche e dei contesti non occidentali in cui i media vengono
fruiti o praticati. Le etnografie emerse dall'ambito degli studi sul
multiculturalismo e gli studi postcoloniali, hanno spinto così la
nostra riflessione etnografica sul contesto e sulle rappresentazioni
eurocentriche che concorrono alla formazione dell'immaginario
cinematografico, televisivo o che popolano le testate
giornalistiche .
Grazie a questi esempi, il nostro intento è stato prima di tutto
quello di trasmettere uno degli assunti che ha caratterizzato il
nostro apprendimento in ambito etnografico che consiste nel
pensare l'etnografia come una ricerca che si deve costruire nel
tempo come sintesi dinamica, mutevole e riflessiva di diversi
approcci e strumenti. Andando avanti nel corso delle lezioni,
quella che era stata la distinzione iniziale tra tecnologie e politica
della significazione (su cui avevamo impostato anche le nostre
rispettive specificità didattiche) ha perso molto del suo potere
15
classificatorio. Il confronto con le etnografie, infatti, ha presto
rivelato come entrambe queste dimensioni (insieme a molte altre)
sono presenti nella complessità delle pratiche sociali
comunicative. Inoltre, la fluidità e la pervasività di una categoria
come quella di comunicazione contribuiscono a rendere l'ambito
di studi vasto e difficilmente etichettabile. Tuttavia, la nostra
richiesta è stata quella di cercare di fare emergere la presenza di
questi aspetti nelle ricerche individuali, invitando gli studenti a
praticare percorsi di ricerca anche poco battuti (come
nell'etnografia dello spazio sonoro nell'area Europlex-Bicocca
elaborata da Tullia Gianoncelli). Avremmo voluto anche poter
integrare nel corso la pratica di un mezzo di comunicazione video
o audio, se avessimo avuto il tempo e le risorse, ma questo non è
stato possibile. La manipolazione, l'uso, la conoscenza dei
meccanismi attraverso cui si producono testi, suoni, immagini
può essere un metodologia didattica efficace tanto quanto
l'etnografia per impadronirsi della "lingua" dei mezzi e capire
maggiormente come questa influisca sui contesti e le pratiche.
Il contributo di altri docenti (Federico Boni che ha presentato
come l'etnografia si inserisce negli studi sociologici sui media,
Gianpiero Mazzoleni che ha analizzato l'assetto della proprietà
dei media in Italia proponendo cosi un esempio di analisi attenta
al potere dei mezzi di comunicazione, Setrag Manoukian che ha
presentato alcune parti della sua etnografia sulle pratiche di
"editing" nell'Iran contemporaneo e Simona Vittorini infine ha
illustrato alcuni aspetti della politica contemporanea in India a
partire dalle immagini di manifesti politici e serials televisivi)
hanno ulteriormente allargato lo spettro dei possibili approcci
etnografici allo studio dei media. Inoltre Michael Uwemedimo, e
Andrea Zimmermann, hanno presentato il lavoro del loro
collettivo, i Vision Machine Film Project, che combinano la
pratica video all'antropologia, al cinema e alla storia ispirandosi al
lavoro del filmmaker francese Jean Rouch e adoperando parte
della metodologia partecipativa che Rouch utilizzava nella
produzione dei suoi film in Africa, (il gioco dei ruoli, la reinterpretazione, la rinarrazione, l'impiego dell'immaginario
cinematografico e di attori non professionisti come protagonisti)
sul loro lavoro in Indonesia e negli USA che indaga sul circuito o
loop tra violenza spettrale e spettacolare, la violenza della
colonizzazione e delle politiche neocoloniali americane.
Le etnografie scritte da Fiammetta Martegani, Silvana
Calzolari, Tullia Gianoncelli, Serena Bottelli sono alcuni esempi
di come si possa condurre una prima ricerca etnografica a partire
da un testo mediatico (messaggio, suono, immagine), da luoghi di
produzione di "svago" più o meno commercializzato e
standardizzato o, ancora, a partire dall'immaginario tecnologico.
Nel testo di Fiammetta Martegani, la comparazione di due testi
filmici e delle rappresentazioni simboliche che compongono
l'immaginario sulla guerra nel cinema occidentale anglofono
mette in rilievo quali siano i tropi della rappresentazione
nell'immaginare la guerra in Vietnam e far emergere così alcune
caratteristiche della società per le quali questo immaginario è
stato creato. L'analisi semiotica di uno spazio espositivo milanese
nel cuore della città, condotta da Serena Bottelli osserva invece
quali siano le pratiche di fruizione di quello spazio e i significati
ad esso connessi, secondo un tipo di analisi formale degli spazi e
di un luogo come mezzo di comunicazione. Silvana Calzolari ha
condotto un'etnografia sul cellulare guardando all'evento
Tsunami. La promessa legata alla possibilità data dal cellulare di
far pervenire gli aiuti dalle famiglie srilankesi residenti in Italia ai
loro parenti e amici in Sri Lanka emerge da un'attenta analisi del
mezzo come tecnologia comunicativa che partecipa alla
costruzione dell'immaginario tecnologico e influenza le pratiche
quotidiane. Attraverso un'immersione attenta alla sonorità di
alcuni spazi "ricreativi" di un centro commerciale nella periferia
milanese, l'etnografia di Tullia Gianoncelli svela le modalità in
cui questo design sonoro è stato pensato e presenta diverse
modalità di subirlo e/o percepirlo da parte di coloro che lo abitano
e lo attraversano. Nello stesso modo il paesaggio sonoro pone una
serie di domande all'etnografa riguardo a quali strumenti usare per
analizzarlo (paesaggi e spazi, forse non a caso, ripropongono
metafore visuali) e a come raccontare, utilizzare, definire l'ascolto
come pratica di ricerca.
16
La rappresentazione del conflitto del Vietnam
attraverso Hollywood
Analisi comparata di Apocalypse now di Coppola e Full Metal Jacket di Kubrick
di Fiammetta Martegani
1. Introduzione: dal war movie al viet movie
strategicamente di collocarsi non solo al di fuori della tradizione
del war film, ma più in generale al di fuori di ogni ipotesi di tipo
mimetico, rifiutando a priori di raccontare la guerra attraverso i
codici del realismo, peculiari al genere bellico, e optando invece
per una rappresentazione simbolica e metastorica.
Sarà dunque grazie all'exploit Cimino-Coppola che gli anni
ottanta vedranno una vera e propria fioritura del viet movie come
genere autonomo, del resto, non a caso, in corrispondenza al
clima di orgoglio patriottico creato dalla presidenza Reagan, che,
impiegato in una nuova guerra fredda contro il comunismo
mondiale, farà in modo che il Vietnam venga riletto non più come
una pagina oscura da dimenticare in fretta, bensì come un
episodio glorioso, seppure segnato dalla sconfitta, in cui i soldati
americani si sono fatti onore.
Nel marzo 1983 Reagan arriverà a firmare la "National Security
Decision Directive 75". Tale direttiva, come analizzato da Virilio,
annunciava la realizzazione del "Progetto Democrazia", vale a
dire il richiamo ad un accresciuto impegno americano in materiali
di propaganda per accompagnare le misure di sanzione
economica e l'impegno militare americano. A tal fine,
l'Amministrazione reclamava 85.000.000 di dollari di credito in
"film, libri e mezzi di comunicazione, per promuovere le forme di
democrazia"3.
L'esperienza vietnamita spezza così, usando le parole di Valantin4,
il "complesso militar-cinematografico" in due poli: uno
conservatore che si rivolge alla maggioranza silenziosa, e l'altro
liberale che denuncia con virulenza la guerra in Vietnam, i suoi
effetti sociali ed ideologici, così come l'apparato politico e
strategico che l'ha sostenuta.
Come analizzato efficacemente da Stefano Ghislotti5, la
costruzione dell'eroe forgiato dall'esperienza vietnamita occuperà
il cinema americano a partire dagli anni ottanta anche attraverso
film che non parleranno direttamente della guerra: in questo
contesto emergeranno quei diversi generi di film che spaziano dal
missing in action alla Rambo (Kotcheff, 1982) al tema del
"ritorno", come nel caso di Taxi Driver (Scorsese, 1976).
Molteplici e spesso diametralmente diversi tra di loro saranno
dunque i punti di vista con cui il cinema americano tenterà di
rappresentare il vissuto del Vietnam.
La dining-room war, la guerra vista in televisione, costata
drammaticamente sia in termini finanziari che umani (il bilancio
a guerra finita è di oltre 58.000 morti) e alla fine abbandonata, è
rimasta nel corso degli anni settanta come una ferita
Il 30 aprile 1975, con la firma dell'armistizio e la caduta definitiva
di Saigon, cessano ufficialmente le ostilità che hanno segnato in
modo drammatico la storia non soltanto del Vietnam, ma anche, e
in modo decisamente significativo, degli Stati Uniti d'America.
Se, come afferma lo storico militare inglese John Keegan, "tutte
le guerra dei tempi moderni hanno provocato una risposta
letteraria, ma sempre a una certa distanza dalla fine delle ostilità"1,
anche nel caso del conflitto del Vietnam, Hollywood inizierà a
interessarsi alla sua rappresentazione soltanto sul finire degli anni
settanta, "per poi inondare gli schermi come seduta psicoanalitica
di massa a partire dagli anni ottanta"2.
Le resistenze da parte delle majors nell'affrontare il tema del
Vietnam negli anni in cui la guerra era in corso e nell'immediato
dopoguerra, vanno individuate in più fattori concomitanti, , ma
che tendenzialmente convergerebbero in ragioni più di tipo
finanziario che non politico. I produttori hollywoodiani hanno
infatti sempre dimostrato grande prudenza nel finanziare film
riguardanti temi politicamente controversi, per timore di eventuali
boicottaggi ai botteghini.
Tuttavia l'assenza di film hollywoodiani sul tema del Vietnam tra
il 1964 e il biennio 1978-1979 non può non essere ricondotta
anche all'inevitabile difficoltà da parte dei registi cinematografici
di parlare in maniera diretta di un argomento così violentemente
dibattuto in tutto il Paese, tanto che i primi tentativi da parte dei
cineasti di avvicinarsi al delicato argomento, avverranno in
maniera obliqua, attraverso l'allegoria del western filo-pellerossa,
come in Piccolo grande uomo di Penn e in Soldato blu di Nelson,
entrambi girati nel 1970.
Altre modalità con cui verrà colmato il vuoto lasciato da
Hollywood, saranno la produzione documentaristica
underground, legata alla controcultura e al movimento pacifista,
da un lato, e i B-movies dall'altro, che, oltre a puntare su
bassissimi costi di produzione, vedranno nel viet movie una
modalità attraverso cui poter parlare di temi scottanti come
violenza, droga e sesso, argomenti con cui potersi assicurare uno
spazio di nicchia anche all'interno di un mercato dominato dalle
majors.
Ma il biennio in cui le grandi produzioni inizieranno ad affrontare
direttamente il tema della dirty war sarà soltanto quello del 197879, ovvero con l'uscita rispettivamente di Il cacciatore di Cimino
e Apocalypse now di Coppola, che peraltro sceglieranno entrambi
17
irrimarginabile nel sentimento nazionale americano. Negli anni
ottanta, alle prese con questa ferita ancora aperta, l'industria
culturale americana, e quella hollywoodiana in particolare,
manifesterà orientamenti diversi che oscilleranno tra l'adesione
alle ragioni dell'intervento, attraverso la ricerca di una rivincita
morale, alla denuncia esplicita nei confronti di una guerra mai
dichiarata, combattuta con i mezzi tecnologici più avanzati,
costata migliaia di vite umane, e alla fine perduta.
Punti di vista e quindi modalità di rappresentazioni
diametralmente differenti, non soltanto nella produzione dei
contenuti, ma, con conseguenze significative e pervasive,
soprattutto attraverso la codifica delle forme.
Sia in Apocalypse Now che in Full Metal Jacket (Kubrick, 1987)
si ha a che fare con l'iniziazione di un anti-eroe, viaggio iniziatico
che si svolge attraverso l'esperienza nel corpo dei marines,
culminante nella metabolizzazione del diritto legittimo di
uccidere, in modo da poter rientrare all'interno di quel sistema, da
cui il soggetto, nel momento stesso in cui cerca di emanciparvisi,
viene, de facto, inevitabilmente inglobato.
Tuttavia le forme con cui verranno rappresentati i due diversi
percorsi di iniziazione prenderanno strade talmente antitetiche da
determinare uno stravolgimento degli stessi contenuti, ed è con
questa prospettiva che si intende effettuare un'analisi comparata
dei due film, attraverso una decodifica delle strutture narrative e
dei riferimenti letterari, dell'ausilio della colonna sonora, della
scelta dell'ambientazione e dell'uso della luce.
americano ottocentesco (Alonge, portando avanti quest'ipotesi, fa
riferimento a Cooper, Melville e Twain)6, incentrato nella figura
di un uomo bianco in fuga dalla civiltà, il quale, in compagnia di
un "selvaggio" (a seconda dei casi: pellerossa, polinesiano o
nero), si inoltra in un territorio incontaminato, una wilderness di
cui l' "altro" ne risulta espressione fisica.
Vedremo infatti che in Apocalypse now la giungla non si presenta
mai come un luogo "reale", connotato in termini tattici e
geografici, ambiente in cui un esercito occidentale ha difficoltà ad
operare, come avviene ad esempio in Platoon (Stone, 1986). Nel
film di Coppola, sulla falsa riga del romanzo di Conrad, la massa
scura degli alberi si configura piuttosto come il simbolo di una
natura arcaica e incomprensibile rispetto ai canoni della
razionalità dell'"uomo bianco".
Per quanto Apocalypse now non sia una trasposizione
cinematografica in senso stretto, (nei credits non si fa alcun
riferimento all'opera di Conrad, e la sceneggiatura viene attribuita
soltanto a Coppola e Milius) i "modi della narrazione"7 con cui
viene rappresentato il
prodotto discorsivo, hanno
subito inequivocabilmente
una decisa influenza da
parte di Cuore di tenebra.
Ciò che compie Coppola è
un trasferimento della
colonizzazione belga del
Congo
della
fine
d e l l ' o t t o c e n t o
nell'occupazione americana
avvenuta in Vietnam.
In entrambe i casi, come
afferma Alonge, i due
autori muovono il loro
attacco
alla
Kultur
occidentale, facendo uso (e
sovvertendoli dall'interno)
dei codici e delle forme
culturali che quello stesso
modello culturale aveva prodotto e utilizzato per la
giustificazione ideologica del proprio operato: Conrad si serve del
romanzo esotico-avventuroso dell'età vittoriana, che in scrittori
come Kipling era servito da veicolo di propaganda per la teoria
del "fardello dell'uomo bianco"; allo stesso modo Coppola
utilizza il film bellico, tradizionale canale per la creazione del
consenso intorno alla politica dell'establishment americano8.
Si potrebbe dunque affermare, rifacendosi all'approccio analitico
di Metz9, che sia nell'opera di Conrad che in quella di Coppola è
possibile leggere più sotto-livelli testuali: un primo livello, più
evidente e immediato, di tipo storico-politico (l'impresa coloniale
belga in Congo e l'occupazione americana del Vietnam); un
secondo livello più implicito, definibile psicanalitico-iniziatico,
costituito dal viaggio come romance, culminante con l'incontro
con il proprio doppio malefico; un ultimo e più sottile livello di
2. Strutture narrative e riferimenti letterari
Come si era accennato in anticipo, le modalità adottate da
Coppola nel rappresentare il conflitto del Vietnam risultano del
tutto innovative rispetto alla dinamiche di rappresentazione dei
film di guerra canonici.
Intimamente vincolato al romanzo di guerra novecentesco, il war
movie canonico, da Niente di nuovo sul fronte occidentale
(Milestone, 1928) in avanti, tenderà a seguire quella tipica
tripartizione della trama, schematizzabile in:
1.addestramento
2.arrivo al fronte, battesimo del fuoco e perdita dell'innocenza
3.rigenerazione attraverso la violenza
Questi ritmi narrativi, ben accolti da Kubrick in FMJ, verranno
invece rifiutati da Coppola in Apocalypse now, e questi due
antitetici tipi di scelte non saranno casuali, ma strettamente legati
ai romanzi da cui i due film vengono rispettivamente tratti: Nato
per uccidere di Gustav Hasford, del 1979, e Cuore di tenebra di
Joseph Conrad, del 1902.
Volendo dunque parlare delle strutture narrative peculiari a generi
letterari specifici, se Nato per uccidere tende a rispettare la
tradizione del romanzo bellico novecentesco (per quanto, come
vedremo in seguito, Kubrick opererà degli stravolgimenti
significativi rispetto alla dimensione onirica del testo), Cuore di
tenebra si colloca piuttosto nella tradizione del romance
18
tipo metalinguistico, ovvero un racconto sullo stesso raccontare, o
meglio, sull'impossibilità di raccontare, ragion per cui la deriva
stilistica in cui soccombono entrambi gli autori, viene a esplicarsi
nel ricorso a una dimensione di tipo onirico-esoticizzante.
Il tal senso il viaggio attraverso il fiume risulta in entrambe i casi
un viaggio verso l'inferno: attraverso la navigazione avviene una
progressiva perdita di contatto con la civiltà, una caduta in un
universo primordiale che si concretizza man mano che
l'imbarcazione risale il fiume, e che raggiunge il suo culmine alla
fine del viaggio, in un'atmosfera di nebbia e malattia, incorniciata
da un paesaggio di teste mozzate e di riti pagani, tanto che nella
scena finale di Apocalypse now Willard, prima di uccidere Kurtz,
si immergerà in un bagno rituale da cui emergerà brandendo
un'arma primitiva con cui compirà una sorta di assassiniosacrificio. L'immersione di Willard viene così a rappresentare
un'immersione totale nella wilderness, da cui, una volta inglobati,
diverrà impossibile uscirne.
In modo completamente antitetico si muove invece Kubrick, con
un deciso rifiuto verso tutto ciò che avrebbe potuto rischiare di
farlo rimanere imprigionato in una dimensione di tipo oniricoesoticizzante.
Come si è accennato precedentemente, Nato per uccidere è un
romanzo di guerra che rispetta buona parte degli snodi narrativi
codificati dalla letteratura di genere: addestramento, campo di
battaglia, esperienza e maturazione. Ma ciò che avviene di
innovativo, e che viene invece appositamente rifiutato da
Kubrick, è il ricorso ad un registro di tipo onirico-surreale: nel
romanzo di Hasford compare a un certo punto un colonnellovampiro, e non solo Palla di lardo finisce a parlare da solo con il
proprio fucile, come accade in FMJ, ma il fucile stesso detiene il
dono della parola.
Questa necessità di aderenza al verosimile è tale da portare
addirittura Kubrick a stravolgere, in modo tutt'altro che poco
significativo, la macro-struttura dell'intreccio.
Hasford suddivide gli avvenimenti in tre grandi capitoli: "Lo
spirito della baionetta", "La conta dei caduti" e "Combattimenti".
Rispetto a questa tripartizione Kubrick opta invece per un disegno
duale, che contrappone l'addestramento a Parris Island
all'esperienza sul fronte in Vietnam.
Il terzo capitolo di Nato per uccidere, in cui avviene
l'emblematico episodio del cecchino, si svolge nella giungla,
Kubrick, invece, sceglie volutamene di girare la sequenza in
questione presso un ex-stabilimento industriale, situato nei
sobborghi di Londra.
La strategia adottata è dunque quella della voluta nonrappresentazione della giungla, una sorta di dis-ambientamento
attraverso l'architettura delle rovine moderniste.
Inoltre in Nato per uccidere, una volta che Cowboy viene ferito
dal cecchino, Joker decide di finire l'amico con una fucilata, in
modo tale che il reparto possa ripiegare, dal momento in cui non
c'è più nessuno da andare a salvare. Laddove nel romanzo il
protagonista rimane dunque un out-sider fino all'ultima pagina,
nel film invece Joker non riesce a ribellarsi alla cultura
autodistruttiva dell'esercito, per cui una volta morto Cowboy (che
perirà al primo colpo, per opera del cecchino) Joker deciderà di
uccidere il cecchino stesso, e una volta avvenuto il battesimo da
killer, si uniformerà alla logica del branco cantando assieme agli
altri la canzone Mickey Mouse club, jingle scelto volutamente dal
regista, come stiamo per accingerci ad analizzare, in quanto
emblema della cultura di massa peculiare all'american way of life.
3. Ruolo della colonna sonora
In Apocalypse now non appaiono titoli di testa, bensì l'inizio delle
sequenze è scandito dalle note di una canzone il cui titolo, nonché
il cui testo, detiene un forte significato nell'incorniciare e quindi
nel codificare il messaggio, o meglio, i più livelli di messaggi,
dell'opera di Coppola: stiamo parlando di The End (Doors, 1967).
"This is the end". L'incipit del brano musicale, e quindi anche del
film, risulta esplicito: la storia che sta per avere inizio non è solo
una narrazione sul Vietnam, ma una narrazione sull'Apocalisse.
La scelta di utilizzare una canzone intitolata The end come
prologo del film, può infatti essere interpretata come volontà di
compiere una denuncia politica, di far percepire il significato più
profondo del dramma del Vietnam: "la fine" della razionalità
umana e quindi della sua sopravvivenza; non tanto la morte,
quanto l'incapacità di reagire al dolore e all'orrore, subiti e
provocati. Willard, fin dall'inizio, dalle prime riprese, é un uomo
"finito", e in tal senso le parole della canzone assumono un
significato anche di tipo prolettico: l'inizio anticipa la fine, tanto
che le note finali della canzone verranno riprese al termine del
film, durante l'assassinio-scacrificio di Kurtz, che potrebbe
donare a Willard un ultimo barlume di speranza, ma il cui gesto
(il sacrificio di una vita umana) racchiude già in sé il seme della
"fine". L'estremo sacrificio, l'uccisione della vittima sacrificale, si
compie quando l'improvvisazione sonora é ormai al culmine:
chitarra, batteria e organo raggiungono la perfetta fusione ed
ipnotizzano. Morrison urla: "C'mon, Yeah, Kill, kill, kill, kill, kill,
kill". E Willard ucciderà.
Se le parole dei Doors svolgono la funzione di incorniciare, e
quindi meta-commentare le immagini girate da Coppola, scelta
altrettanto significativa sul piano simbolico è quella dell'utilizzo
da parte del colonnello Kilgore ("Io uso Wagner, fa cagare sotto i
vietnamiti!") della Cavalcata delle valchirie (Wagner,1856) come
sottofondo musicale, durante la, ormai passata alla storia,
sequenza del bombardamento al napalm.
Come spiega il curatore del montaggio Walter Munch: "Era una
coreografia su larga scala di uomini, macchine, cinepresa e
paesaggio; come una specie di giocattolo diabolico caricato a
molla e poi lasciato andare. Non appena Francis diceva 'azione' le
riprese sembravano un vero e proprio combattimento. Otto
cineprese che giravano simultaneamente (alcune a terra e altre
sugli elicotteri), ognuna caricata con 300 metri (11 minuti) di
pellicola. Alla fine di ogni ripresa si cambiavano le posizioni delle
cineprese e tutto veniva ripetuto, e poi un'altra volta, e poi ancora.
19
(…) 380.000 metri, che vuol dire più di 230 ore. Siccome il film
finito dura poco meno di due ore e 25 minuti, questo significa un
rapporto di 95 a 1. Cioè 95 minuti 'invisibili' per ogni minuto che
ha trovato posto nel prodotto finito. In confronto, il rapporto
medio per un film è di circa 20 a 1"10.
Il decollo della Cavalleria dell'Aria viene segnato dallo squillo
della tromba e dal coro femminile che si odono in questo prologo
anticipando gli ottoni e il canto delle Valchirie: ciò a cui si assiste
non è soltanto la rappresentazione di un attacco, ma la sua
teatralizzazione, in cui persino le deflagrazioni, perpendicolari
rispetto agli aeromobili (fenomeno tecnicamente impossibile),
risultano spettacolari e irrealistiche, producendo suggestioni
estetizzanti e iperboliche.
Se la grandezza della sequenza dell'attacco degli elicotteri
consiste nel fatto che esprime pienamente il senso della velocità
futurista di una battaglia del XX secolo, la scelta di un'opera quale
la Cavalcata e di un autore come Wagner, sembra dunque
tutt'altro che casuale: in questo contesto, come
afferma Alonge, Wagner assurge a simbolo
sonoro del potere dell'Occidente nella sua
esperienza storica. La sequenza del
bombardamento del villaggio diventa in tal
modo una visualizzazione della natura
ambivalente della potenza dell'uomo faustiano,
terribile e affascinante al contempo11.
L'utilizzo della musica in Apocalypse now
risulta dunque, più che un ausilio alla struttura
narrativa, vero e proprio elemento portante per
la costituzione della struttura narrativa stessa.
Con tutt'altre finalità viene scelta invece la
colonna sonora di FMJ, per altro curata dalla
figlia di Kubrick stesso, Vivian Kubrick,
meglio conosciuta con lo pseudonimo di
Abigail Mead.
In perfetta conformità col genere del viet
movie, padre e figlia, nella scelta delle canzoni,
attingeranno ad un repertorio esclusivamente anni '60,
proponendo quindi i testi delle canzoni che ascoltavano
effettivamente i marines al fronte. In tal senso, come analizzato da
Bassetti12, l'unica mediazione sonora in grado di sfuggire ai
trabocchetti della retorica è quella dell'autenticità, in forma di
insulse canzoni d'epoca.
Il film ha inizio con le note di Hello Vietnam (Johnny Wright,
1965), country militante e patriottico, espressione del "falchismo"
interventista, che, secondo una visione popolare e sentimentale
della guerra, esalta l'avventura americana nel Vietnam: il testo
recita "dobbiamo fermare il comunismo in quel Paese [...]
dobbiamo salvaguardare la libertà ad ogni costo o un giorno la
nostra stessa libertà andrà perduta."
Su queste note si apre il film con la celebre immagine delle teste
di 17 militari che vengono completamente rasate a zero, primo
segno inequivocabile del subire l'assimilazione in un corpo,
quello dei marines, in cui, per poter sopravvivere, non si prospetta
alcun'alternativa se non quella di accettare in toto il sistema,
facendo quindi del proprio corpo il primo veicolo per tale
processo di assimilazione.
Nel corso dell'addestramento i marines marceranno al ritmo del
Marines Hymn, rap composto direttamente da Vivian Kubrick e
interpretato magistralmente da Lee Ermey, scelto appositamente
da Kubrick per via della sua esperienza di trenta mesi nei marines
come sergente istruttore durante il conflitto in Vietnam. Nel giro
di pochissimi giorni dall'uscita del film nelle sale, il rap dei
marines raggiungerà addirittura il secondo posto nelle classifiche
pop ingelsi.
Dopo la dissolvenza in nero che chiude il capitolo di Parris Island,
la prima scena ambientata in Vietnam sarà sarcasticamente
rappresentata dall'arrivo di una prostituta vietnamita, segnato
dalle note dell'ironica These Boots Are Made for Walkin' (Nancy
Sinatra, 1965).
Le parole di Chapel of love (Dixie Cups, 1964) allieteranno
invece le chiacchiere di Joker e compagni
nella tenda dell'accampamento (qui "chapel
of love"), fino a quando verranno interrotte
bruscamente dalle sirene che annunciano
l'attacco dei vietnamiti durante il capodanno
Tet.
Al controcanto cinico di Wolly Bully (The
Pharoas, 1960) spetterà invece accompagnare
i dialoghi grotteschi (dal gergo tipicamente
militaresco) tra i marines, durante l'incontro
sul fronte tra Joker e Cowboy.
Subito dopo il primo attacco da parte del
plotone, la demenziale e sguainatamene
energizzante Surfin bird (The Trashman,
1963) farà da sottofondo all'euforia dei
vincitori. Qui il ritmo della musica sembrerà
quasi scandire il ritmo della marcia dei
trasportatori di barelle e dei cameraman della
TV americana.
Infine, come si era accennato precedentemente, dopo aver ucciso
il cecchino, Joker e gli altri si riuniscono col plotone e marciano
di fronte ad edifici in fiamme, cantando in coro la Mickey Mouse
Club March (Jimmie Dodd, 1955). Come analizzato da Enrico
Ghezzi13, con tutto il suo bagaglio di innocenza, Joker si aggrega
alla comunità dei dannati che scompare nell'oscurità dei fuochi
cantando la marcia di Mickey Mouse. La regressione è avvenuta
per intero: il soldato Joker è diventato l'assassino Joker, e come
tale può unirsi al resto del branco, della massa, dei fruitori di
quell'industria culturale di massa di cui Mickey Mouse è l'icona.
Con questo brano si conclude il film, poi l'immagine diviene
completamente nera e tale permane per alcuni secondi, mentre il
sitar attacca con Paint it black (Rolling Stones, 1963) con cui
hanno inizio i titoli di coda.
Si potrebbe dunque concludere l'analisi delle due colonne sonore
sottolineando come la musica in FMJ venga utilizzata come
strumento in grado di concorrere a una produzione di tipo
20
realistico degli eventi, con intenti dunque assolutamente antiretorici, rispetto a quanto invece ci è parso verificarsi in
Apocalypse now.
contrapposizione tra Storia e Natura, tecnologia e stato selvaggio,
verrà giocato dalla componente cromatica. Nella parte finale del
film, dopo essere passati dal bianco della luminosità tecnologica,
al verde della giungla e della Natura selvaggia, grazie all'ausilio
di un'illuminazione con sfumature arancioni, si arriverà al rosso
del sangue e della morte, che culminerà nell'assassinio rituale di
Kurtz, e quindi alla totale assenza della luce, a vantaggio del buio
e delle tenebre conradiane.
Il confronto tra Willard e Kurtz avviene infatti in un contesto
totalmente avulso da qualunque referente spazio-temporale, in un
universo quasi primordiale. I monologhi di Marlon Brando,
peraltro costantemente vestito di nero, avvengono sempre nel
buio, di lui si vede esclusivamente il volto, spesso solo parte di
esso, mentre il resto dello schermo è nero: Kurtz sembra così
essere totalmente sprofondato nella darkness.
E quando Willard commetterà l'assassinio rituale, mentre la tribù
di Kurtz (un'intera tribù di 250 persone, gli Ifugau, originari del
nord delle Filippine, trasportata, accampata e mantenuta sul set
per l'intera produzione) celebra un rito pagano, l'ordigno
impiegato sarà una sorta di machete, improbabile arma primitiva
nel bel mezzo di un conflitto ipertecnologico.
Significativo in tal senso sarà il dilemma di Coppola sul come far
concludere il film, nonché il metadiscorso sulla wilderness. La
conclusione più congruente rispetto a questo iter degenerativo da
Storia a Natura sarebbe stata, come nel finale proposto a Cannes,
quella della scelta di Willard di rimanere nella tribù e di
diventarne il nuovo capo, sostituendosi a Kurtz. Coppola ha del
resto affermato più volte che la conclusione più "autentica" del
suo film sarebbe stata effettivamente quella presentata a Cannes.
Tuttavia nell'edizione effettivamente distribuita, per ragioni più
squisitamente commerciali, Coppola sceglierà di far tornare
Willard indietro, per quanto non si possa certo parlare di un happy
end: nell'ultima inquadratura, in sovrimpressione al volto di
Willard, sfreccieranno infatti due elicotteri (sovrimpressione
peraltro analoga alla sequenza iniziale) e si sentirà la voce di
Kurtz ripetere le sue ultime parole: "l'orrore, l'orrore", con la cui
eco, quasi a sottolineare l'inestinguibilità del dualismo StoriaNatura, avrà termine il film.
In contrapposizione a questa rappresentazione dicotomizzata e
fortemente stereotipizzata dell'iconografia del Vietnam, Kubrick
ci propone in FMJ un'iconografia del Vietnam che addirittura
sovverte i modelli canonici del viet movie.
Nella seconda parte del film, infatti, quella dedicata al
combattimento al fronte, la fitta vegetazione dell'iconografia
tradizionale viene sostituita da un complesso edilizio di cemento
armato. Si tratta di un'ex-officina della British Gas situata nei
pressi di Londra, a Beckton, bombardata durante la seconda
guerra mondiale, che Kubrick ha scoperto, ottenendo poi il
permesso di distruggerla. Come analizzato attentamente da
Claudio Bisoni15, l'edificio risente dell'influenza architettonica
dello stile cubista della Bauhaus, i cui architetti, immigrati dalla
Germania dopo il 1934, andarono a lavorare un po' dappertutto, a
Londra come in Vietnam. La costruzione potrebbe quindi
4. Uso degli ambienti e della luce
Sinora si è visto come a Coppola in Apocalypse now non interessi
raccontare una storia che illustri le caratteristiche politico-militari
del conflitto del Vietnam: la stessa rappresentazione geografica
del film è totalmente fittizia.
Al di fuori dell'ubicazione delle sole prime due scene,
rispettivamente a Saigon e Nha Trang, ciò che maggiormente
caratterizza la scelta di Coppola nella rappresentazione del
paesaggio vietnamita è la totale mancanza di riferimenti
geografici precisi e realistici.
Il paese scelto per le riprese sono le Filippine, sia per la
somiglianza paesaggistica con il Vietnam, sia perché l'esercito
filippino dispone di materiale bellico analogo a quello impiegato
dagli americani durante il conflitto, permettendo in questo modo
a Coppola, per la prima volta nella storia dei war movies
hollywoodiani, di poter girare le scene rimanendo
finanziariamente indipendente dal Pentagono14.
Il fiume, su cui si snodano gli avvenimenti principali dell'impresa,
è chiaramente il Mekong, sia perché scorre tra Cambogia e
Vietnam, sia perché più volte si fa riferimento al suo delta.
Tuttavia Coppola opterà per una toponomastica immaginaria e lo
chiamerà Nung, scelta volutamente irrealistica, non esistendo
alcun corso d'acqua con questo nome tra Cambogia e Vietnam.
Così come risulta minimo l'inquadramento della vicenda
all'interno di un contesto storico definito: l'eliminazione in sede di
montaggio della scena della piantagione francese (una delle scene
più costose del film, successivamente reinserita nella versione
Redux del 2001, le cui riprese dureranno peraltro oltre due
settimane), nel corso della quale i personaggi discutevano della
guerra di Indocina, è rivelatrice dell'intento del regista di non dare
al film alcun taglio di tipo realistico-documentaristico.
Accade così che anche la rappresentazione della giungla non
venga utilizzata per descrivere il problema pratico di un esercito
che deve combattere in un ambiente naturale ostile, piuttosto in
quanto simbolo della wilderness all'interno di un più ampio
discorso astorico.
Ciò che risulta rappresentato attraverso l'uso dei luoghi e delle
luci è una sorta di opposizione Storia-Natura, tecnologiawilderness, che si rivela sin dalle immagini iniziali, tutte giocate
sul dualismo tra elicotteri e giungla.
Se le immagini wagneriane dei bombardamenti al napalm sono
caratterizzate dalla presenza intensa della luce, che quasi fa
brillare al sole l'ordine e la simmetria degli elicotteri, la tecnologia
statunitense arriverà a mutare la notte in giorno trasportando un
beach-party californiano sull'altra sponda dell'oceano, con tanto
di bunnies, non a caso travestite con costumi western.
Man mano che si procederà lungo il fiume un ruolo centrale nella
21
assomigliare a quella che era la città di Hue, anch'essa progettata
da architetti tedeschi della scuola di Dessau, su incarico dei
francesi che all'epoca occupavano il Paese.
La scelta di un'ambientazione urbana per le riprese di una
battaglia, risulterebbe in tal senso tutt'altro che arbitraria: il
rischio di ambientare il film nella giungla sarebbe stato infatti
quello di ricadere in una speculazione sulla wilderness ormai fin
troppo usurata. Scegliere di girare le riprese della guerra non in un
paesaggio esotico ma addirittura nel cuore dell'"occidente"
significherebbe invece rompere l'illusione della darkness della
giungla e affermare che il fenomeno della guerra coinvolge tutti,
in Vietnam, come a Londra.
Il rifiuto della darkness è tale che la scelta di girare il film
interamente attraverso l'uso della luce naturale, diventa per
Kubrick quasi un obbligo etico, in quanto sinonimo di
verosimiglianza e autenticità della realtà bellica.
Non soltanto la guerra è dappertutto e riguarda tutti, ma
soprattutto i centri di produzione dei conflitti sono spesso
assolutamente delocalizzati rispetto ai luoghi in cui tali conflitti
avvengono. In tal senso si spiega l'importanza di dedicare quasi la
metà del film alla fabbrica in cui la guerra si prepara: la fabbrica
dei marines.
Il dormitorio del campo di addestramento di Parris Island, infatti,
più che un dormitorio ci viene rappresentato come una vera e
propria fabbrica industriale. L'edificio ha una pianta rettangolare
ed è costituito dal solo piano-terra. L'ambiente, completamente
asettico, funzionale e spoglio, è attraversato da colonne che
suddividono lo spazio in una struttura simmetrica costituita da un
corridoio centrale fiancheggiato da due navate laterali.
Perfetto progetto di evacuazione celebrale, il campo di
addestramento risulterebbe così assimilabile ai campi di sterminio
analizzati da Giorgio Agamben, dove "tutto è possibile, fatto e
diritto si confondono senza residui. Gli abitanti dei campi si
muovevano, così, in una zona di indistinzione tra interno ed
esterno, eccezione e regola, lecito e illecito. Essi erano stati
spogliati di ogni statuto politico e ridotti alle condizioni della
nuda vita, quella di chi può essere ucciso senza che sia commesso
omicidio. E questo, normalmente, ossia, nonostante tutto,
all'interno di una qualche norma"16.
A Parris Island l'istituzione risulta così come una grande stiratrice
industriale, dove vengono ciclostilati soldati come se fossero
oggetti in serie, all'interno di un sistema del tutto autoreferenziale
dove si instaura una produzione seriale che porta continuamente a
riprodurre comportamenti, soldati e sergenti.
In tal senso il campo di addestramento così rappresentato diventa
lo spazio speculare a quello del campo di battaglia che occupa la
seconda parte del film.
FMJ non vuole dunque essere solo un film sulla guerra in
Vietnam (tanto che del Vietnam non si vede nulla: persino i 200
alberi di palma impiegati per le scene in strada furono importati
dalla Spagna, e gli attori e le comparse vietnamite erano in realtà
tutti immigrati londinesi17), ma un film sulla guerra in generale, o
meglio, su quella novecentesca in particolare, per via della
peculiarità dovuta alla sua organizzazione industriale su larga
scala, funzionale a conflitti su larga scala umana.
In questa prospettiva, FMJ potrebbe risultare il terzo episodio di
una sorta di triologia antimilitarista, iniziata con Orizzonti di
gloria (1957), di cui il secondo episodio sarebbe costituito da
Dottor Stranamore (1964).
In Orizzonti di gloria, infatti, capovolgendo i canoni del cinema
bellico in cui la battaglia viene mostrata come uno scontro binario
tra un gruppo di soldati e un esercito di nemici, la macchina da
presa si sofferma solo all'interno delle file amiche. In
contrapposizione allo spazio del nemico, abitualmente
rappresentato dello spazio delle trincee, ci viene piuttosto
proposto lo spazio delle settecentesche e linde sale in cui i
generali giocano a scacchi con la vita degli uomini.
In Dottor Stranamore, addirittura, la guerra, ormai cibernetica,
non sarà neppure più combattuta, ma proiettata soltanto,
"modellizzata" sugli enormi schermi dalla war-room.
Ciò che a Kubrick interessa dunque rappresentare in FMJ non è
tanto la guerra del Vietnam in sé, quanto il sottile e perverso
intreccio tra modernizzazione e guerra, ovvero tra progresso e
distruzione, sovvertendo in tal modo la prospettiva dicotomicoesotizzante portata avanti da Coppola in Apocalypse now.
5. Conclusioni
A partire dagli anni novanta, un certo tipo di riflessione postmoderna proposta dalla così autodefinitasi critical geopolitics,
solleverà nuovi interrogativi di ricerca nel campo della
geopolitica, contribuendo alla formulazione di visioni alternative
rispetto al pensiero geopolitico tradizionale. Scopo della critical
geopolitics è decostruire i testi che, attingendo dal taken-forgranted dell'universo culturale in cui sono stati concepiti e diffusi,
contribuiscono a costruire una determinata visione del mondo e
anche la sua progressiva naturalizzazione18.
Nel suo esplicarsi, il discorso geopolitico tende a manifestarsi
trasversalmente attraverso tre principali tipologie di produzione
discorsiva.
A livello "formale", attraverso quella produzione di idee e principi
altamente formalizzati da parte di specialisti, esperti, studiosi e
accademici nel campo della politica estera, per guidare la politica
dei governanti sulla scena internazionale. Come scrive Gerard
Toal: "To understand the appeal of formal geopolitics to certain
intellectuals, institutions and would be strategists, one has to
appreciate the mythic qualities of geopolitics. Geopolitics is
mythic because it promises uncanny clarity and insight in a
complex world. (...) The plurality of the world is reduced to
certain "trascendent truths"about strategy"19.
Un esempio di formal geopolitics può essere la tesi del "clash of
civilizations" di Samuel Hungtington, il quale postulava che "i
principali conflitti delle politiche globali avverranno tra nazioni e
gruppi di civiltà differenti". Come sostiene la Todorova, il
pensiero di Hungtington non poteva non colpire per l'eccessivo
22
meccanicismo, tracciato per suggerire una prescrizione piuttosto
che una prospettiva. Ma l'affascinante semplicità delle sue idee
assicurò che l'espressione "scontro di civiltà" si diffondesse
abbondantemente, specie tra accademici e giornalisti che non
avevano letto né Hungtington né i suoi critici20.
A livello "pratico", il discorso geopolitico si esplica attraverso
quella serie di assunti comunemente accettati riguardo ai luoghi e
alle nazioni, impiegati dagli attori politici nell'esercizio
quotidiano delle loro funzioni.
Scrive in proposito Gerard Toal: "Pratical geopolitical is ordinary
and informal everyday discourse. [...] Part of the socialization of
individuals
into
certain
"national"
identities
and
geographical/historical consciousness"21.
Un esempio di pratical geopolitics é il continuo utilizzo di
pseudo-identità geopolitiche, generalmente basate su arbitrarie
distinzioni binarie, in grado di ridurre la complessità della realtà
geografica a banali stereotipi (est/ovest, nord/sud,
democratico/totalitario, barbaro/civilizzato, asse-del-bene/assedel-male).
A livello "popolare" il discorso geopolitico tende invece a
esplicarsi attraverso l'indusria culturale, in cui i mass media
giocano un ruolo fondamentale. Secondo Joanne Sharp infatti, il
concetto gramsciano di egemonia rimanda, più che alle grandi
ideologie politiche formalizzate, proprio alla cultura popolare, la
quale, in modo più immediato, informa la vita quotidiana dei
cittadini. Questa cultura popolare contribuisce, tra l'altro, a
plasmare il nostro "senso comune" riguardo, ad esempio, all'idea
di identità nazionale22. E' in tale prospettiva che Klaus Dodds
sostiene la necessità di analizzare criticamente quelle forme di
popular geopolitics che rimandano a materiale iconografico di
vario genere: immagini televisive, cinematografiche,
fotografiche23.
Sia Dodds che la Sharp cercano di esplorare la forza delle
immagini nel concorrere alla produzione di un "geopolitical
unconscious" con cui incorniciare gli eventi internazionali,
attraverso la costruzione di "mappe cognitive globali"24.
Anche nel caso della costruzione dell'immaginario collettivo del
conflitto del Vietnam, il ruolo giocato dai media, e come
analizzato in questo caso, dal cinema di Hollywood, è stato
fondamentale.
"I media sono materie prime o risorse naturali, esattamente come
il carbone, il cotone o il petrolio" scriveva McLuhan nel testo Il
medium è il messaggio25.
Attraverso l'analisi comparata dei due film, si è dunque cercato di
esplorare la pervasività della forma del medium nel determinare
effetti significativi sul contenuto stesso del messaggio.
Pur essendoci imbattuti in film in cui in entrambi i casi risultava
evidente un forte messaggio antimilitarista, abbiamo avuto modo
di analizzare come le differenti modalità d'uso dei diversi media
di cui i registi si sono serviti (la letteratura da cui hanno attinto per
la sceneggiatura, l'utilizzo della colonna sonora, delle
ambientazioni, della luce) abbiano de facto incorniciato il
messaggio in modo tale da determinare produzioni discorsive
completamente autonome, se non antitetiche.
Tuttavia, in entrambe i casi, si ha avuto a che fare con produzioni
cinematografiche che non soltanto hanno segnato la storia del viet
movie, ma che, più in generale, hanno contribuito, attraverso la
forza del loro messaggio, non solo dal punto di vista
contenutistico, ma soprattutto in quanto forma mediatica, alla
costruzione dell'immaginario collettivo del conflitto del Vietnam.
Stabilire in tal senso un confine netto e impermeabile tra realtà e
fiction, diventa, anche dal punto di vista storiografico, impresa
sempre più complessa, e aggravata dalla natura polifonica e
pervasiva peculiare alla logica mediatica.
Concludendo con le parole di Giaime Alonge "In quello che è
stato probabilmente l'evento bellico più fortemente mediatico del
XX secolo, la guerra del Vietnam, l'immagine documentaria della
bambina vietnamita che corre nuda, con il corpo bruciato dal
napalm, interagisce con gli elicotteri di Apocalypse now che
vanno all'attacco sulle note della Cavalcata delle Valchirie,
finendo con il confondersi - soprattutto a distanza di decenniall'interno di un unico paradigma iconografico. […] In quanto
'discorsi storici', da un lato testimoniano e dall'altro producono,
insieme ad altre forme di comunicazione, i grandi mutamenti
della mentalità collettiva"26.
23
Note
1
Keegan, 1978, pp.304-305
Menarini-Moretti-Alonge, 1999, p.13
3
Virilio, 1996, p.64
4
Valantin, 2005, p.37
5
Ghislotti-Rosso, 1996
6
Menarini-Moretti-Alonge, 1999, p.22
7
Barthes, 1990, pp. 33-43
8
Alonge, 1993, p.12
9
Metz, 1977, cap. IV e X.
10
Murch, 2000, pp.15-16
11
Alonge, 1993, pp.43,88
12
Bassetti, 2002, p.150
13
Ghezzi, 2002, p.153
14
Valantin, 2005, p.36
15
Menarini-Bisoni 2002, p.43
16
Agamben, 1995, p.187
17
Duncan, 2001, p.99
18
Minca, 2001, p.59
19
Toal, 1999, p.8
20
Todorova, 2002, pp.218,219
21
Toal,1999, p.9
22
Sharp (1996), in Antonsich, 2001, p.739
23
Dodds (1998), in Antonsich, 2001, p.740
24
Toal e Dalby,1998, p.4
25
Mc Luhan,1964, p.30
26
Alonge, 2001, pp.23-24
2
24
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Virilio, Guerra e cinema, logistica della percezione,Torino, Lindau,1996
Discografia
Cavalcata delle Valchirie, Wagner, 1856
Chapel of love, The Dixie Cups, 1964
Hello Vietnam, Johnny Wright, 1965
The Marines Hymn,Lee Ermey, 1987
Mickey Mouse Club March, Jimmie Dodd, 1955
Paint it black,Rolling Stones, 1963
Surfin bird,The Trashman, 1963
The End,The Doors, 1967
These boots are made for walkin',Nancy Sinatra, 1965
Wolly Bully,Sam the Sham, 1960
25
Lo tzunami del 26 dicembre 2004 e le comunicazioni
mediali in una famiglia srilankese
di Silvana Negro
Questa relazione si avvale di interviste a persone appartenenti ad
un gruppo familiare srilankese, la maggior parte delle quali vive e
lavora in Italia. La famiglia è originaria della costa settentrionale
dello Sri Lanka, dove il padre era proprietario di due pescherecci
d'altura e svolgeva un'attività di pesca piuttosto florida che
impiegava anche personale dipendente.
quali zone costiere fossero state colpite e le dimensioni del
disastro.
M. D., una delle due sorelle, è stata l'unica che è riuscita a parlare
quasi subito al telefono cellulare con il fratello in Sri Lanka. E'
stata una telefonata breve, concitata e drammatica. In quel
momento il fratello si trovava nel porto e parlava avendo davanti
a sé uno dei due pescherecci di famiglia che stava affondando
sotto ai suoi occhi. Egli era corso subito al porto dopo aver sentito
la notizia del maremoto alla radio. Per fortuna la violenza
dell'acqua non aveva raggiunto l'abitazione, lontana dal mare. Il
peschereccio che stava affondando rappresentava però molto per
loro, ed era stato acquistato con i risparmi di diversi anni di lavoro
in Italia.
I figli, due femmine e tre maschi, hanno ricevuto un'educazione
scolastica media in scuole cattoliche. Alla fine degli anni '80 i
pescherecci e la casa di famiglia furono distrutti nel conflitto,
particolarmente violento nel nord del paese, tra Tamili e gli altri
srilankesi.
La famiglia si trasferì allora sulla costa meridionale, a circa trenta
chilometri a sud di Colombo, ove il padre e il figlio più grande
riuscirono, dopo qualche anno di impegno e di lavoro, ad
acquistare due nuovi pescherecci e a costruire una nuova
abitazione. Negli anni successivi tutti i figli, uno alla volta, sono
emigrati in Italia mentre il padre continuava l'attività di pesca.
Quella telefonata dava a M. D. che la ascoltava dall'Italia,
un'immagine viva e simultanea di un evento disastroso e
comunicava la disperazione del fratello che non tratteneva il suo
pianto al telefono. Subito dopo la linea era caduta interrompendo
la comunicazione.
Tutti hanno trovato un lavoro regolare in Italia e si sono sposati
con connazionali. Mantengono uno stretto contatto con i genitori
e gli altri parenti rimasti in Sri Lanka. La loro prospettiva è quella
di tornare in Sri Lanka dopo aver messo da parte risparmi
sufficienti per costruirsi ognuno la propria casa e continuare ad
allargare l'attività paterna di pesca.
I fratelli e le sorelle residenti in Italia passarono quella giornata e
quelle seguenti alternando l'ascolto delle notizie alla televisione
italiana alle comunicazioni telefoniche tra di loro e ai tentativi di
parlare al cellulare con il padre e il fratello in Sri Lanka. Le
comunicazioni erano tuttavia impossibili perché le linee
telefoniche erano interrotte e quelle dei cellulari sovraccariche.
Il 26 dicembre 2004 nella casa paterna si trovavano i due genitori
e uno dei fratelli, quello che aveva già iniziato ad occuparsi
dell'attività di pesca. Il resto della famiglia era in Italia, ognuno
nella sua casa, essendo giorno festivo. E' stato attraverso la
televisione italiana che tutti loro sono venuti a conoscenza dello
tzunami che aveva investito gran parte delle coste indonesiane e
una parte delle coste dello Sri Lanka.
Solo dopo quattro giorni fu possibile ristabilire i contatti, questa
volta tramite sms. Gli sms inviati dall'Italia arrivavano a
destinazione e il fratello, appena riceveva un sms, riusciva a
richiamare al cellulare dallo Sri Lanka. Così sono stati informati
che nessun parente era morto o ferito, e che la casa non era stata
danneggiata.
Immediatamente fratelli e sorelle hanno tentato di mettersi in
contatto con i genitori e con il fratello tramite telefono fisso e
cellulare. Erano molto preoccupati per la loro vita: la casa di
famiglia si trova a qualche chilometro di distanza dal mare, ma
temevano che il padre e il fratello potessero essersi trovati sul
peschereccio in mare.
Durante i quattro giorni di perdita del contatto diretto, l'unica
fonte di informazione per fratelli, sorelle, cognati e cognate è stata
la televisione italiana che iniziavano a guardare alle 6 del mattino,
scambiandosi poi telefonate tra di loro.
Nei giorni successivi si sono intensificati anche i contatti con
connazionali residenti in Italia, e i racconti di coloro che in Sri
Lanka avevano perso dei familiari.
Le prime notizie fornite dalla televisione davano l'idea di una
grande catastrofe ma senza che fosse possibile capire esattamente
26
L'altra fonte di informazione per tutti i componenti della famiglia
in Italia sono stati due giornali srilankesi, quotidiani con edizione
speciale settimanale. Molti emigrati cingalesi sono abbonati a
questi giornali, che essi ricevono in tempi rapidi nell'edizione
speciale settimanale, direttamente a domicilio. Questi giornali
costituiscono un legame forte tra gli emigrati e il loro paese di cui,
in tempi normali, la stampa italiana non parla. Il giornale
antigovernativo ha dato in quelle circostanze informazioni più
precise rispetto alla stampa italiana sia sulle zone interessate
direttamente dall'onda sia sul numero delle vittime e sulle
situazioni di emergenza. Ha pubblicato inoltre commenti, in
alcuni casi critici, sull'operato del governo e su aspetti lasciati in
ombra dalla stampa e dalla televisione italiana. In particolare,
dava notizia di episodi di sciacallaggio, violenze e stupri,
compiuti in maggioranza da detenuti evasi da una prigione. Su
questi episodi la televisione italiana si è limitata a pochi accenni,
seguiti da smentite da parte di organi ufficiali dell'ONU. Anche il
numero delle vittime dato dal giornale srilankese è risultato più
alto di quello annunciato dalle nostre televisioni.
violenza dell'onda ha anche avuto un significato simbolico: la
forza della natura non fa distinzioni tra ricchi e poveri, tra "noi" e
"loro". Un luogo desiderato per la sua bellezza può diventare una
tragedia in cui tutto sembra suggerire che la natura si vendica.
Questi elementi hanno concorso a determinare la concentrazione
dei media su questo evento e la diffusa partecipazione a forme di
solidarietà. In particolare, è stata organizzata per la prima volta in
maniera significativa la raccolta di fondi tramite sms: una
telefonata, un euro. Il cellulare ha costituito un mezzo semplice e
rapido per inviare un aiuto. L'idea di sollecitare l'invio di un
importo esiguo, pressoché irrilevante per chiunque dal punto di
vista economico e per nulla impegnativo sotto il profilo del tempo
occorrente per aderirvi, ha determinato la risposta immediata di
moltissimi utenti di cellulare e ottenuto un risultato economico
ingente, superiore alle somme raccolte dalle organizzazioni di
volontariato. Molti fecero sms ripetuti per aumentare l'importo da
donare.
Questo tipo nuovo di raccolta di fondi ha messo in luce come
l'utilizzo degli sms, divenuto sempre più frequente negli ultimi
anni, si possa prestare non soltanto ad iniziative che hanno il
carattere della rapidissima diffusione collettiva di un messaggio,
ma anche, nel nostro caso, dare luogo ad un'azione collettiva di
solidarietà. In altri casi, ad esempio nelle Filippine, gli sms sono
stati utilizzati come mezzo per mobilitare una grande folla a
scendere in piazza per una manifestazione di carattere politico.
A questo punto, si possono fare alcune considerazioni generali sui
mezzi di comunicazione in relazione allo tzunami e,
successivamente, su come la famiglia di cui ci stiamo occupando
ha recepito e decodificato l'informazione mediatica.
Il rilievo e il tempo dedicato dalla televisione italiana, pressoché
in tutti i canali, è stato ampio. I telegiornali aprivano le loro
edizioni sullo tzunami e dedicavano molti servizi speciali
all'argomento. Lo stesso hanno fatto i giornali e le radio. La
concentrazione dei mass media sull'evento è continuata per circa
15 giorni. Tempo notevolmente lungo rispetto agli standard di
trattazione degli eventi disastrosi in genere, soprattutto se
riguardano paesi lontani.
Nel nostro caso la novità è consistita nel sentimento di
partecipazione ad un dramma che si svolgeva altrove, in un luogo
lontano, concretizzando questa partecipazione in una azione
semplice e rapida, per dare una mano in prima persona. Si è creata
una sorta di vasta comunità di donatori, tra i quali si propagava
un'onda emotiva che determinava l'identità collettiva formata dai
"soccorritori d'urgenza". Ai trasmettitori di sms appariva ovvio
ritenere che l'aiuto da essi fornito giungesse rapidamente a
destinazione. Il gesto della mano che digita i tasti veniva a
rappresentare nell'immaginario il gesto della mano che si tende
verso chi è colpito in un posto lontano, e riesce a dare soccorso
nel momento in cui il dramma si sta svolgendo, quasi all'istante.
Determinanti in tal senso possono essere stati 1) l'elevato numero
di vittime e di dispersi; 2) il fatto che tra di essi vi fossero italiani
(od occidentali in genere) in vacanza nei luoghi colpiti; 3)
l'eccezionalità e la rarità dell'evento con caratteristiche diverse da
quelle di un terremoto o di un'alluvione, ai quali le televisioni
dedicano attenzione al massimo per due o tre giorni. 4) Lo
tzunami ha avuto un impatto visivo ed emotivo legato
all'immagine inconscia dell'onda che travolge ogni cosa e alla
forza minacciosa del mare che diventa alto come una montagna
Questa immagine non corrispondeva per la verità alle immagini
trasmesse dalle televisioni, che mostravano un'onda devastante
più per la violenza trascinante dell'acqua che per l'altezza,
tuttavia, nell'immaginario collettivo, lo tzunami era pensato come
un'onda altissima che si avvicina sovrastando dall'alto gli uomini
e poi si infrange sulla terra sommergendo tutto. 5) Il fatto che
molte delle coste colpite sia in Indonesia che nello Sri Lanka
rappresentassero nell'immaginario collettivo dei "paradisi esotici"
per le vacanze dei ricchi. Vedere gli alberghi di lusso e le spiagge
pubblicizzate nei dépliant degli operatori turistici travolte dalla
La rapidità e la semplicità degli sms come mezzo di aiuto ha però
prodotto anche un effetto distorsivo: l'idea che anche la
distribuzione degli aiuti nelle zone colpite sarebbe stata altrettanto
rapida e semplice.
Così, evidentemente, non è stato. I 67 milioni di euro raccolti in
tal modo dai gestori di telefonia mobile non sono ancora oggi, a
sei mesi dal disastro, arrivati a destinazione, e i fondi si trovano
ancora presumibilmente in Italia in attesa di decisioni intorno alla
loro distribuzione.
A mio avviso questa nuova pratica e le aspettative che ha suscitato
27
mettono in luce come l'abitudine di trasmettere e ricevere
messaggi "in tempo reale" abbia alimentato una
sopravvalutazione dei risultati effettivi possibili, come se anche le
procedure successive a quel semplice gesto potessero godere della
stessa accelerazione di tempi e fluidità di cui dispongono le
comunicazioni elettroniche.
circa lo tzunami e i drammi che riguardavano da vicino i loro
genitori, i parenti e gli altri connazionali.
E' stata forte l'impressione derivata dall'attenzione del mondo
verso quanto accadeva nel loro paese, solitamente trascurato dai
media, e la percezione positiva di solidarietà da parte degli
italiani. Effettivamente sentivano che i loro parenti e i
connazionali in Sri Lanka non erano soli nella tragedia. La
raccolta tramite sms ha dato loro l'impressione che gli aiuti
sarebbero giunti nello Sri Lanka in tempi brevi: uno dei fratelli
che lavorava in Italia è tornato in Sri Lanka a cinque giorni dal
maremoto, pensando che bisognasse affrettarsi a riceverli.
Si è prodotta la rappresentazione di una realtà virtuale che si
attualizza e realizza. Tale rappresentazione funziona innestandosi
su una percezione generalizzata di potenzialità illimitate fornite
dai mezzi elettronici e dalle nuove tecnologie.
Secondo l'immagine costantemente enfatizzata della tecnologia,
ciò che permane lento, rigido e regolato da norme appare come
superabile nella connessione fluida e libera che sembra realizzarsi
attraverso le reti illusoriamente immateriali. Basta pensare al
fenomeno dell' e-commerce di alcuni anni fa. Improvvisamente si
sono moltiplicati su internet siti di aziende che proponevano di
velocizzare gli acquisti di qualsiasi genere di merce mettendo in
contatto i consumatori con le aziende produttrici. Sembrava che ci
volessero pochi minuti per ordinare e ricevere qualsiasi cosa, ma
per la consegna materiale i tempi di attesa si sono rivelati spesso
lunghissimi, anche di due o tre mesi. A seguito di ciò molte
aziende di e-commerce sono scomparse.
Tutta la famiglia coltivava la speranza che si potesse riacquistare
uno o anche entrambi i pescherecci e riprendere in poco tempo
l'attività di pesca. Il fratello in partenza non si era dato neppure il
tempo di organizzare la sua assenza in modo da non avere troppi
problemi con il lavoro di autotrasportatore che stava svolgendo in
Italia. Pensava, inoltre, di potere ricevere gli aiuti in Sri Lanka e
riassumere una trentina di dipendenti rimasti a bordo dei
pescherecci senza il lavoro e in gravi difficoltà.
Confusamente, era presente nelle loro menti l'idea che i gestori
della telefonia mobile avessero provveduto alla trasmissione
immediata del denaro, e che la distribuzione sarebbe avvenuta
tramite le società di gestori della telefonia mobile in Sri Lanka.
Ad essi sembrava naturale che il denaro raccolto da questi gestori
fosse automaticamente pronto per essere distribuito alle vittime
dello tzunami. Dalla rappresentazione collettiva degli immigrati
srilankesi emergeva l'idea che le organizzazioni del tipo Croce
Rossa e Charitas avrebbero impiegato molto tempo a distribuire
gli aiuti, mentre la tecnologia utilizzata dalle reti di
comunicazione avrebbe consentito una distribuzione facile e
rapida.
A formare questo immaginario collettivo a proposito della
semplicità e della velocità con cui si ottengono risultati concorre
la pubblicità dei gestori della telefonia mobile. Gli spot sui
cellulari sono focalizzati sulla equivalenza tra la velocità della
comunicazione e la realizzazione del desiderio. Uno di questi spot
mostra, ad esempio, un chitarrista con due compagni suonatori
sperduti al centro delle rovine di un teatro greco, in un luogo
ovviamente solitario e remoto. Il ragazzo con la chitarra invia sms
e arrivano subito, come per magia, alcuni giovani che, in breve,
diventano una folla. Si avvicinano e sorridendo attorniano il
gruppetto. Anche lo slogan "Tutto il mondo attorno a te" esprime
efficacemente l'idea che cellulari e sms non solo permettono di
comunicare con chiunque da qualsiasi luogo, ma consentono un
avvicinamento reale, fisico con gli altri, e presuppongono una
generale disponibilità di tutti ai propri desideri. Il raccogliersi
immediato di tanta gente amica e bendisposta convocata dagli
sms non è molto lontano dall'idea che gli sms di solidarietà inviati
per portare aiuto possano realizzare in modo pressoché magico
una vicinanza con persone che vivono lontano e in realtà
profondamente diverse.
Solo dopo tre mesi di permanenza in Sri Lanka e di inutile attesa,
il fratello si rassegnò al fatto che i contributi dei donatori tramite
sms non sarebbero stati distribuiti, esattamente come gli altri
contributi, e tornò in Italia con un sentimento di amarezza e
delusione, accresciuto dall'aver perso tre mesi di lavoro e
guadagno.
Sempre nella rappresentazione collettiva di questa famiglia,
sensibilmente condivisa anche dal resto della comunità, la
responsabilità della mancata distribuzione degli aiuti è imputata al
governo dello Sri Lanka. Oggi, essi si rendono conto che soltanto
i piccoli aiuti passati direttamente "da persona a persona" sono
giunti a destinazione. Si è trattato di contributi economici
spontanei dati da singoli datori di lavoro italiani o da altri soggetti
con cui erano in contatto. Questi contributi sono stati inviati
tramite agenzie bancarie di cui gli immigrati si servono
abitualmente, e ricevuti dai loro familiari in sole 24 ore! Ma la
delusione relativa al mancato ricevimento dei fondi raccolti con
L'aspettativa di un rapido beneficio non soltanto si è diffusa tra i
trasmettitori italiani di sms ma è stata anche intensamente sentita
nelle comunità srilankesi in Italia, alimentando speranze e
provocando comportamenti conseguenti.
Torniamo dunque alla nostra famiglia di srilankesi in Italia e a
come essi hanno interpretato le comunicazioni massmediatiche
28
interventi umanitari internazionali o la gestione delle emergenze
umanitarie da parte del mondo occidentale. Essi non hanno sentito
il bisogno di chiedere conto a nessuno o di interrogarsi su come
funziona il sistema internazionale degli aiuti umanitari, o di
chiedere conto ai gestori di telefonia mobile del danaro raccolto
in questo specifico caso.
gli sms non ha portato a mettere in discussione l'iniziativa dei
gestori di telefonia mobile né il silenzio totale da essi tenuto sugli
sviluppi successivi e sull'eventuale distribuzione futura delle
somme raccolte. Non si pongono interrogativi sul fatto che
avrebbero il diritto di essere informati al riguardo da enti che
pretendono di essere promotori e monopolizzatori della
comunicazione.
Non è un caso che non soltanto gli srilankesi in Italia ma anche gli
italiani trasmettitori di sms di aiuto non si siano interessati di
sapere cosa ne è stato. La sopravvalutazione delle possibilità della
tecnologia funziona come un meccanismo di autoconferma e
autoavveramento: al riparo dal principio di realtà. Il gesto
compiuto di trasmettere gli euro tramite sms ha costituito di per sé
una conferma delle illimitate possibilità introdotte dalle
tecnologia elettroniche, ed ha di per sé avvalorato il
convincimento che le distanze si possono annullare. Verifiche
successive sugli esiti non sono state né previste né pensate da
nessuno. Come avviene su internet, ciò rappresenta uno
svuotamento del principio di responsabilità. Si può dire, e anche
fare, qualcosa senza dovere rendere conto di niente a nessuno. E
in tal modo varie rappresentazioni individuali e collettive
fluiscono al di fuori e al di sopra della realtà.
E' stato solo per caso, durante una riunione nella parrocchia del
proprio quartiere, che uno dei fratelli ha appreso che il denaro
degli sms se ne stava del tutto immobile in Italia.
Questa mancanza di reazione critica si può in parte spiegare con
il significato positivo da essi attribuito ai cellulari, in quanto
strumenti che consentono di mantenere i contatti tra loro e con i
familiari nel paese d'origine in una situazione di accentuata
frammentazione, mobilità e distanza caratteristica della realtà
dell'emigrazione. La fiducia da loro riposta nella rapidità degli
aiuti tramite sms si fonda dunque su una pratica quotidiana per
essi di importanza vitale.
Dopo molti mesi di attesa delusa, la critica da parte dei membri
della famiglia di cui abbiamo parlato è rivolta solo verso il proprio
governo e non coinvolge in alcun modo le modalità degli
29
Ma cosa ascolti in un non-luogo?
Un esperimento di etnografia di un paesaggio sonoro caratterizzato dai
media
di Tullia Gianoncelli
distinte: "quegli spazi costituiti in rapporto a certi fini (trasporto,
transito, commercio, tempo libero), e il rapporto che gli individui
intrattengono con questi spazi". (1993 p. 87)
Bicocca Village infatti è uno spazio che si presenta esplicitamente
come centro commerciale3 e del tempo libero e si connota come
una costruzione-imposizione di consumi e divertimenti.
L'insieme si presenta come uno spazio di fruizione in cui le
persone diventano dei consumatori, "clienti" o "soci" di un club;
ad essi vengono formulate proposte in una ampia gamma di
scelte, anche se queste sono già confezionate, pronte per l'usoconsumo.
Questa lettura trova riferimento nella teorizzazione critica
dell'industria culturale formulata dagli studiosi della Scuola di
Francoforte, in particolare M. Horkheimer e T.Adorno, che in
Dialettica dell'illuminismo, analizzando aspetti della società
americana degli anni '30 e '40, sostengono che l'industria
culturale, nello sviluppo dei media si sia costituita come industria
del divertimento che produce bisogni e consumi omologati.
Ma molte persone affollano questo spazio, quindi ciò che appare
come un'evidente imposizione e progettazione secondo i criteri
della teoria critica dell'industria culturale, può rappresentare
anche delle opportunità e richiede almeno un tentativo di
indagine.
La mia idea è che tale "luogo" si costruisca nella dinamica tra
un'imposizione generalizzata "dall'alto" di produzioni mediatiche,
e quindi di consumi, e altre forme di costruzione da parte di
coloro i quali vivono quello spazio lavorativo nella quotidianità.
La scelta degli interlocutori cui riferirmi sul campo è ricaduta non
sui consumatori o i frequentatori di tali aree, ma piuttosto sulle
persone che in questi luoghi svolgono la propria attività
lavorativa, ponendo l'accento in particolare sulle loro possibilità
di scelta o competenza di intervento nella costruzione sia dello
spazio sonoro che delle pratiche sociali che si attuano all'interno
di aree specifiche.
Durante la ricerca, durata da marzo a fine maggio 2005, ho
distribuito la mia presenza sul campo in diversi giorni della
settimana e secondo diverse fasce orarie, utilizzando una
metodologia basata sull'ascolto-osservazione e una serie di
colloqui con diversi interlocutori.
Nella scrittura etnografica ho cercato di fornire una descrizione di
alcuni spazi sonori e delle tecnologie presenti nei diversi
ambienti considerati, unitamente alle voci dei miei interlocutori.
Introduzione
Paesaggio sonoro e media sono gli oggetti principali che
caratterizzano questa ricerca, realizzata a partire da una
"passeggiata d'ascolto", cioè una passeggiata durante la quale
l'attenzione è dedicata all'ascolto degli eventi sonori. E' un primo
passo per avvicinarsi con consapevolezza ad un "paesaggio
sonoro", quello che M. Schafer definisce come "un campo di
interazioni", costituito da un insieme di eventi sonori in un
contesto.1
L'idea è stata di provare ad esplorare uno specifico luogo, il
Bicocca Village e in particolare alcune aree al suo interno,
affidandomi alla dimensione sensoriale dell'ascolto come
elemento guida nel percorso. La sensorialità uditiva viene quindi
ad assumere importanza prioritaria come modalità percettiva nella
consapevolezza della sua complementarità rispetto agli altri
canali sensoriali.2
Il mio tentativo è stato di individuare e sottolineare la presenza e
l'importanza della costruzione sonora di uno spazio ponendo
attenzione ad alcuni aspetti culturali che tendono ad essere dati
per scontati, naturalizzati, e quindi non più analizzati criticamente
rispetto al ruolo e all'importanza che assumono nella costruzione
dell'esperienza.
Il gioco tra suono e silenzio, tra rumore e musica, è ampio, così
come è sfaccettato il rapporto tra la costruzione di uno spazio
sonoro in cui si realizzano specifiche pratiche sociali e le
tecnologie che ne permettono la realizzazione.
La scelta di indagare in particolare lo spazio di Virgin Active,
un'area specifica all'interno del Bicocca Village, è legata al fatto
che presenta nella sua struttura di funzionamento l'uso di media
e di tecnologie che lo definiscono e caratterizzano come
particolare paesaggio sonoro. Le attività proposte, legate al tempo
libero, al fitness e al divertimento sono connesse a produzioni
mediatiche e all'utilizzo e fruizione delle relative tecnologie: dalla
TV alla radio, all'uso di CD, computer e reti informatiche, accessi
Internet.
Oltre l'interesse per il paesaggio sonoro e i media che lo
costituiscono, un'altra ragione che mi ha portata ad indagare
alcune aree di Bicocca Village è la sua caratterizzazione come
"non luogo", cioè uno spazio dove molte persone transitano, ma
nelle rispettive solitudini.
I non-luoghi secondo M.Augé sono due realtà complementari ma
30
Un percorso sonoro all'interno del Bicocca Village
relazioni attraverso l'uso della stereotipia e la ripetizione
dell'identico, dove "i prodotti dell'industria culturale possono
contare di essere consumati alacremente anche in stato di
distrazione"(Horkheimer -Adorno, 1966, p. 137).
Rispetto alle diverse aree che compongono il Bicocca Village e le
stratificazioni sonore che lo riempiono, ho scelto di prendere in
considerazione, nella mia indagine, lo spazio Virgin Active che
ritengo emblematico in quanto strutturato al suo interno in diverse
ulteriori aree che si articolano sonoricamente secondo
caratteristiche differenti. Il paesaggio sonoro di Virgin Active è
prodotto e si costruisce nell'interazione tra le tecnologie e coloro
che abitano tale spazio. La produzione sonora è legata in gran
parte alle tecnologie e al loro uso: da quelle necessarie alla
diffusione musicale, a quelle che producono sonorità/rumorosità.
Ne sono un esempio il funzionamento delle attrezzature per il
fitness, la diffusione dell'aria condizionata, i suoni prodotti
dall'area bar o relativi al lavoro della reception. A queste
stratificazioni si sommano le produzioni sonore dei singoli
istruttori che organizzano le proprie attività in stretto rapporto con
una progettazione sonora e musicale specifica. Infine un'ulteriore
stratificazione sonora è data dalle interazioni comunicative. La
componente fondamentale, l'interazione verbale, avviene a vario
titolo e a diversi livelli di relazione. Il parlato entra in questo
paesaggio sonoro come modalità acusticamente più discreta della
diffusione musicale, ma pervasiva, nelle forme dello scambio tra
conoscenti e amici, al bar, al banco della reception per le
informazioni, oppure con lo staff o con gli istruttori per le attività
specifiche.
Utilizzando una metafora mediatica ho considerato il complesso
del Bicocca Village come un ipertesto, dove il filo conduttore è
costituito dalla musica che viene diffusa in modo generalizzato e
lo spostamento nello spazio permette di entrare nei diversi luoghi
sonori che lo compongono, in particolare in quelli che ho
identificato come oggetto della mia ricerca, che a loro volta
presentano altri ipertesti da esplorare. E' quindi il suono diffuso
che mi guida nella costruzione di un percorso "sonoro",
nell'indagine sonoro-acustica dei diversi luoghi, e che realizza lo
spostamento dall'uno all'altro e li riconnette.
Ormai so cosa aspettarmi quando entro Bicocca Village, eppure
ogni volta è un po' diverso e mi sorprende. Il passaggio
dall'esterno sonoro cittadino segna, sulla soglia, un momento di
smarrimento: dov'è il suono, quello musicale, quello di fondo che
segna la tonica4 di questo non luogo/paesaggio e che se non
consapevolmente ascoltato rischia di assomigliare al silenzio?
Appena due metri oltre l'ingresso, ecco che ritorna, familiare
ormai, e so anche da dove viene: "il suono musicale piove
dall'alto". Intorno invece c'è una gran quantità di suoni prodotti
dai cantieri che ancora caratterizzano questo luogo in costruzione.
La musica in diffusione riempie genericamente gli spazi di
passaggio; variano i brani mandati in onda ma sono riconoscibili
come appartenenti ad un genere che viene definito moozak5 dove
la musica assume una funzione di "sfondo". M. Schafer indica tale
produzione musicale come "quella musica che non ha bisogno di
essere ascoltata", in riferimento al genere solitamente diffuso in
luoghi pubblici: centri commerciali, aeroporti, sale d'attesa,
ecc…, quegli spazi che Augé definisce non-luoghi. La moozak,
con una funzione di sfondo e di intrattenimento, prodotta
dall'industria musicale secondo un modello che prevede
produzione e ricezione "a bassa fedeltà" (Schafer, 1985, p. 142),
ci fa avvicinare al concetto di "produzione e distribuzione di
massa" che viene evidenziato dalla teoria critica dell'industria
culturale. L'analisi degli studiosi della Scuola di Francoforte
considera criticamente la produzione di massa in quanto porta
all'impoverimento e svilimento culturale degli individui e delle
All'interno di Virgin Active, dove i suoni e le tecnologie
portano in luoghi diversi
Ho effettuato un'esplorazione di Virgin Active6 seguendo vari
percorsi e in momenti diversi poiché la sua caratterizzazione
sonora si modifica col variare della frequentazione nelle diverse
fasce orarie della giornata e nei diversi giorni della settimana.
Virgin Active è una grande palestra con attrezzature per il fitness
"di nuova generazione", dotate di monitor che permettono una
fruizione mediatica attraverso la sintonizzazione su canali di
diffusione radio e TV; gli stessi sono in onda, solo in modalità
visiva, sugli schermi appesi al soffitto "ad altezza uomo". Sia la
presenza che il flusso di utenti vengono contenuti in uno spazio
sonoro di musica in diffusione.
Essa è la principale
caratterizzazione sonora dell'ambiente: parecchi diffusori
incassati nel soffitto ne permettono la fruizione ovunque.
Ma le tecnologie offrono anche altre possibilità: ad esempio l'uso
di cuffie, personali o acquistabili alla reception, che permettono la
sintonizzazione sui canali di diffusione Tv o radio previsti
all'interno dello spazio Virgin. La mia attenzione è stata attirata
dal fatto che indossare una cuffia, permette di fruire di una
qualche "sonorità" secondo una modalità individuale, all'interno
di una fruizione che si presenta come collettiva, condivisa.
31
Infatti la diffusione musicale generalizzata, resa possibile
attraverso l'amplificazione, comporta la costruzione di un
contesto in cui tutti i presenti fruiscono contemporaneamente di
quanto viene mandato in diffusione. Secondo McLuhan tale
esperienza ha la funzione di riunificare gli esseri umani; "il suono
stereofonico è un suono "avvolgente", è un suono in profondità,
dove "profondità significa in rapporto reciproco, non in
isolamento"(McLuhan, Gli strumenti del comunicare, 2002, pp.
299, 300). Mentre l'ascolto in cuffia è secondo Schafer "lo spazio
acustico più personale possibile: i suoi messaggi sono sempre
proprietà privata"(1985, p. 170). A maggior ragione se tale
modalità di fruizione avviene all'interno di una fruizione
collettiva.
Una breve descrizione dello spazio permette di rappresentarsi una
mappa approssimata del luogo. L' ambiente, ampio, è suddiviso in
diverse aree di attività e si sviluppa su due piani. Oltre la
reception, sulla destra, si trovano l'area Kidsville - una zona
separata da vetrate che offre attività ricreative e di gioco per i
bambini più piccoli - e più lontano l'area bar, l'area Internet e una
piccola biblioteca. Vetrate fino al soffitto isolano questo spazio
rispetto alla piscina situata al piano inferiore.
Sul lato sinistro, prima del tornello di ingresso, una porta a vetri
dà accesso alla reception dell'area DaySPA. Tutto lo spazio
rimanente è dedicato al fitness con attrezzature di varia tipologia,
utilizzabili in modo autonomo o con la supervisione di un
personal-trainer. Diversi cartelli appesi al soffitto indicano le aree
di specialità o di genere (es. Area donne). Scritte colorate in
sintonia con i colori delle pareti si trovano variamente distribuite
su pareti e pilastri, posizionate in punti di passaggio tra le diverse
aree attrezzate e riportano claims o indicazioni di tipo salutista.
Si può dire che la tonica di questa area è costituita dalla musica
diffusa, che si stratifica con il rumore di fondo dovuto al
funzionamento delle varie attrezzature e le sonorità delle
interazioni verbali che avvengono nell'ambiente. Continuando
l'ascolto, rilevo che al termine di una canzone dal ritmo sostenuto
si crea un momento di "silenzio" che porta in primo piano il
rumore, abbastanza forte, delle tante attrezzature in funzione.
Una scala porta al piano inferiore e agli spogliatoi, alla piscina con annessa area sauna e idromassaggio - e alle palestre dedicate
ai corsi collettivi. Il piano inferiore rappresenta a sua volta un
ipertesto sonoro e si articola in ambienti sonoricamente differenti.
La tonica resta simile nelle aree di passaggio e negli spogliatoi,
mentre cambia in altre aree. Nell'area della piscina non c'è
diffusione musicale e le sonorità presenti sono quelle tipiche delle
piscine; mentre esiste una diffusione generale nelle zone sauna e
idromassaggio, ma è appena percepibile, poichè il ribollire
acquatico la fa da padrone.
I singoli spazi dedicati alle attività collettive sono dotati di un
impianto di amplificazione autonomo utilizzato dai trainers per i
vari corsi. La chiusura delle porte isola dall'esterno e trattiene le
sonorità presenti all'interno. Alcuni corsi sono particolarmente
"silenziosi" perché dedicati ad attività di rilassamento e
tonificazione, altri, che riguardano attività aerobiche, sono
caratterizzati da un accompagnamento sonoro con funzione
ritmica e di sostegno.
Le informazioni raccolte durante diversi colloqui, sulle modalità
di scelta e diffusione sonora musicale nello spazio Virgin Active,
evidenziano che la musica diffusa in modo generalizzato non
viene scelta "localmente" dallo staff ma arriva "già confezionata,
selezionata secondo certi standard, dal brand internazionale",
come dice il mio interlocutore.
Un mio interesse in questa ricerca riguarda anche il rapporto che
le persone, che lavorano in questi ambienti, intrattengono con l'
esposizione continuativa quotidiana agli stimoli sonori presenti.
Dai colloqui emerge che la percezione dell'ambiente sonoro varia
secondo le individualità, sia rispetto al volume di diffusione che
alla densità di stimoli sonori, ma emergono spesso commenti che
segnalano l'effetto di saturazione dato dalla ripetitività del
repertorio. Ed emerge che la principale strategia "di contrasto"
che viene attivata è quella di non-ascolto. Si tratta di un
meccanismo psicologico che permette di filtrare i suoni
indesiderati rispetto a quelli graditi, ma, come scrive Schafer, "il
senso dell'udito non può essere chiuso a piacere. L'orecchio non
ha palpebre" (1985, pp. 24-25 ) e la percezione sonora avviene
anche senza un ascolto consapevole.
Una mia interlocutrice spiega così il suo rapporto con quello
specifico ambiente sonoro: "da anni sono abituata a stare nella
musica, in contesti simili a questo, quindi non mi dà fastidio; sono
abituata, anche se a volte, quando ho molti impegni o sono molto
stanca, è pesante". Nel suo commento prosegue evidenziando che
lo spazio Virgin è un posto "pensato per chi ci sta due ore, viene
qui per fare fitness; questo è un luogo dove devi divertirti,
muoverti, essere allegro, e un conto è starci due ore, un altro è
starci una giornata intera".
Continuando la mia ricerca di informazioni rispetto alle sonorità,
alle modalità di diffusione musicale e alle tecnologie impiegate,
vengono in luce anche le finalità principali legate all'uso della
musica in questo spazio. Uno dei manager mi parla della musica
e della sua fondamentale presenza in uno spazio fitness ben
funzionante. Riguardo agli aspetti tecnici evidenzia che l'impianto
acustico di Virgin Active, in particolare per l'area fitness, è stato
32
pensato accuratamente e realizzato con attenzione affinchè la
musica sia presente in ogni spazio in modo equilibrato. Enfatizza
la necessità di avere un ambiente equilibrato rispetto a tutte le sue
componenti, compresa la diffusione dell'aria condizionata. Questo
comporta un monitoraggio delle varie condizioni e interventi di
regolazione: solo in parte sono realizzati automaticamente
mediante le tecnologie (ad esempio il controllo ph della piscina),
perchè "alcuni aspetti vengono rilevati solo dalle persone",
sottolinea il mio interlocutore. Esiste quindi un'interazione tra
addetti ai lavori, tecnologie, automatismi e interventi legati alle
caratteristiche di contesto. Tra le "regolazioni" che richiedono un
intervento umano competente, c'è quella della diffusione
musicale: il volume viene variato secondo le condizioni
dell'ambiente, è legato al numero di persone presenti, che segue
flussi poco prevedibili, salvo che nei momenti di punta (le ore
serali e il fine settimana). "L'equilibrio sonoro deve stare tra la
giusta intensità che invogli e sostenga l'attività fisica e la
possibilità che le persone possano interagire, parlando e
sentendosi". Perciò, "quando aumentano le persone, viene
aumentato il volume per mantenere l'intensità, per non lasciar
cadere la tensione al movimento".
Chiedo qualche informazione in più rispetto alla scelta della
musica da mandare in diffusione e mi spiega che hanno pensato
a 4 possibilità di scelta secondo i diversi ambienti (spogliatoi, area
fitness, DaySPA). Mentre negli spogliatoi la musica è più "soft",
come modalità di avvicinamento e chiusura dell'attività fisica,
"quella diffusa nell'area fitness è molto più commerciale" perché
è in diffusione anche nell'area bar e deve assicurare il
divertimento a tutti. Vale la pena ricordare qui che il claim di
VirginActive è "Divertimento!"7.
Una volta scelto il filone adatto che caratterizza ogni ambiente, la
programmazione avviene attraverso il computer centrale che
accede ad un repertorio di migliaia di brani mandati in diffusione
automaticamente in modalità random. Alla mia domanda sul
perché la scelta venga affidata al computer la risposta è: "perché
è comodo"; infatti effettuare direttamente la programmazione
scegliendo i brani ogni giorno per 16 ore (tempo giornaliero di
apertura al pubblico) diventerebbe un lavoro insostenibile. Inoltre
l'aggiornamento dell'archivio musicale avviene automaticamente
una volta al mese. Al contrario, la musica che viene utilizzata dai
singoli trainer per i corsi viene scelta personalmente da loro
secondo criteri propri e utilizzando CD personali.
Chiedo anche al mio interlocutore se capita che i frequentatori
esprimano idee o preferenze rispetto alla musica che si sente in
diffusione: "si qualcuno, specialmente per i brani un po' datati,
che rimandano a ricordi, esperienze personali, capita" e
aggiunge: "questo perché la musica ha un grande potere
evocativo..."
Da questi commenti traspare una grande consapevolezza della
gestione e degli effetti della musica che viene messa in onda.
L'importanza dell'aspetto relazionale e del permettere (a livello di
volume sonoro) e favorire l'interazione vengono sottolineati più
volte.
Dal suo punto di vista Virgin Active si caratterizza per l'insieme
delle sue proposte ma anche come luogo per socializzare, e
sottolinea che "l'idea è di offrire uno spazio che stia fuori dalla
realtà quotidiana stressante e opprimente".
Nei momenti in cui non c'è musica per il passaggio da un brano
all'altro si sente il "silenzio della mancanza" che lascia spazio alla
percezione del rumore di fondo, amplificandolo. Mi viene in
mente una frase di Schafer, "Le mura sonore nascondono sotto la
finzione il paesaggio sonoro autentico" (1985, p. 144), dove il
muro sonoro è quello che viene costruito con l'uso della moozak.
Ma ciò di cui devo prendere atto dai vari colloqui è che l'aspetto
di rumorosità nascosta - che comunque il sistema sensoriale
percepisce - camuffata dalla musica, continua ad essere
sottovalutato, dato per scontato o addirittura negato dai miei
interlocutori.
Un percorso all'interno di DaySPA: una progettazione
complementare
Durante vari colloqui, parlando della sonorità che caratterizza lo
spazio Virgin, è emerso spesso il riferimento all'area DaySPA
come spazio totalmente "altro" con una netta differenziazione
sonora e musicale. In effetti appena entro nello spazio SPA sento
distintamente la musica in diffusione e l'impressione è di stacco
totale con quanto c'è fuori. Varcata la porta mi accoglie una
sonorità totalmente diversa, musicale e silenziosa allo stesso
tempo - qui non ci sono attrezzature in funzione - e l'insieme della
musica diffusa, le luci e gli arredi introducono in uno spazio
totalmente "altro".
Questa infatti è la particolarità di
progettazione dell'area SPA, di uno spazio pensato, realizzato e
gestito come totalmente "altro" rispetto all'area fitness e al mondo
esterno.
Nella sua realizzazione, mi dicono, è una novità inventata dal club
Virgin Active di Milano improntata ad una filosofia particolare di
quiete e benessere, che pur seguendo la moda del momento, si è
strutturata in modo particolare. Dalla reception dell'area DaySPA,
la responsabile, mi introduce nello spazio interno dove mi
accoglie una musica "soffusa", come le luci, e suoni d'acqua. Mi
accompagna nella visita del centro, costruito secondo i principi
del Feng Shui, seguendo un percorso nella disposizione dei 5
elementi (legno, acqua, fuoco, metallo, terra) che caratterizzano i
diversi ambienti a tema, passando anche dalla stanza
dell'hammam. La musica diffusa è la stessa in tutto lo spazio,
anche se è possibile scegliere tra due canali: uno di musica
lounge, con suoni della natura e musica etnica, l'altro, quello
attivo al momento, scelto perché "è più musica, di solito
scegliamo questo". Esiste la possibilità di variare il volume
all'interno di ogni cabina, mentre nell'hammam non c'è diffusione
(per motivi tecnici). L'altra sonorità che accompagna
costantemente all'interno di questo spazio è il gocciolare
dell'acqua nella vasca posta al centro del percorso. Nell'insieme
l'effetto è molto gradevole e rilassante, secondo i desideri di chi
33
ha progettato tutto ciò: la filosofia sottesa a questa costruzione è pone un interrogativo: se nella progettazione dei due spazi sia
di stimolare tutti i sensi.
stata considerata tale complementarità. In un colloquio successivo
Infatti una sapiente scelta di colori, luci e profumi, un'accurata ho conferma del fatto che la dimensione sonora nella
disposizione di arredi, e una discreta diffusione sonora accolgono progettazione di questo luogo è stata prioritaria. Tra le questioni
chi entra. Ai trattamenti estetico-rilassanti previsti dal menu, si che ho indagato con le mie interlocutrici c'è anche quella della
aggiunge l'offerta di tisane o frutta fresca durante una pausa di percezione della differenza sonora tra questo spazio e l'area
relax prevista in spazi dedicati. L'udito è stimolato dalla musica fitness. Lo spostamento tra i due spazi durante le giornate
diffusa, dai suoni acquatici della fontana e dal "silenzio", che si lavorative, che avviene o per motivi di lavoro o per accedere al
percepisce, nonostante la presenza dei suoni. Questo silenzio bar, comporta sensazioni di sfasamento, di discrepanza tra i due
particolare, costruito ad hoc, è il risultato sia dell'assenza di spazi; non così quando la frequentazione dell'area fitness avviene
rumori di fondo e di funzionamento di attrezzature, che della nei giorni liberi. Così, sottolinea Ivana, "la sensazione è che va
mancanza di interazioni verbali tra le persone. Questo luogo non bene così, è tutto al posto giusto, adeguato all'ambiente e a ciò
è pensato per la socializzazione, al massimo è prevista la presenza che si fa lì, così come qui è adeguata questa musica".
contemporanea di due clienti che difficilmente si incontrano. Qui Diventa quindi evidente che questi due luoghi così diversi sono
emerge la fruizione individuale, quasi "privata", di questo spazio, stati progettati e costruiti in modo da essere funzionalmente
in contrasto con quella "collettiva" dell'area fitness.
complementari, nella frequentazione da parte degli utenti, nel loro
Ritorno altre volte ad ascoltare le sonorità di DaySPA e le persone essere percettivamente riconoscibili come separati e caratterizzati
che lavorano lì, e discutendo sulla dimensione sonora particolare da specifiche sonorità e generi musicali.
di questo spazio e sulla fruizione nell'immersione quotidiana di
chi ci lavora, emergono le diverse sensibilità e modalità personali
nel porre attenzione all'ambiente sonoro. Le mie interlocutrici pur La questione della scelta …
riconoscendo la particolarità sonora di questo spazio e del canale
musicale utilizzato, evidenziano che l'esposizione continuativa Si è evidenziato dalle esplorazioni sonore nell'area fitness e in
porta ad attivare meccanismi di presa di distanza, nella forma di DaySPA che la possibilità di scelta della musica che viene diffusa
"staccare l'ascolto". Inoltre la programmazione, con selezione non esiste o è molto limitata.
automatica e casuale, nonostante gli aggiornamenti, è ripetitiva. Un ulteriore percorso sonoro mi ha portata ad esplorare alcuni dei
Entrano in gioco riconoscimenti di segnali8, cioè l'attivazione luoghi di Virgin Active dove invece la possilità di scelta musicale
da parte dei singoli istruttori
dell'ascolto
intenzionale,
costituisce e costruisce la
rivolto, secondo le sensibilità
area
caratterizzazione sonora degli
personali, a ciò che piace o a
acqua
spazi dei diversi corsi. Nei
ciò che infastidisce o non
area
legno
colloqui con alcuni trainers
viene apprezzato. Viene
area
terra
ho avuto modo di parlare
evidenziato che il genere di
della modalità e dei criteri di
musica in diffusione è adatto
area
scelta e gestione della musica
al contesto specifico, ma
area
fuoco
metallo
durante le varie lezioni. Ogni
questo non comporta il
trainer gestisce e seleziona i
desiderio di ascoltare, fuori,
brani secondo le sue
questo genere di musica, né
preferenze. In generale gli
modifica i propri gusti
istruttori possono accedere a
musicali. Ciò che emerge
Virgin Active DaySPA
repertori già selezionati
nell'insieme è che per chi
lavora "comunque questa musica appartiene al lavoro", mentre secondo le diverse attività e modalità di allenamento. Uno degli
appartiene ad un tempo di sospensione, rappresenta una pausa istruttori evidenzia che i CD usati per i corsi "musicali"(cioè i
nella quotidianità, per chi usufruisce di questo luogo come corsi che usano la musica come sostegno ritmico) sono
musicalmente più "commerciali" e sono funzionali anche per un
cliente.
Prima di uscire dall'area SPA di solito mi fermo un momento in mese o più; inoltre sono reperibili in filoni di repertorio che
ascolto alla reception: si sentono entrambe le musiche in tengono conto dei gusti del pubblico in generale, "per
diffusione, quella di SPA e quella dell'area fitness, mentre accontentare un po' tutti". Per lo spinning il discorso è diverso
all'entrata è chiara la sensazione di stacco e di percezione soltanto perché ciò che lo caratterizza è il fatto che ogni lezione è diversa,
della musica in diffusione all'interno di DaySPA. Riemergere "quindi i CD che mi preparo a casa per lo spinning sono sempre
nell'area fitness dopo un'ora nell'area SPA procura un impatto diversi" mi dice Mauro, il trainer che mi ha fatto assistere ad una
molto forte: l'idea è di un frastuono infernale, e immagino come lezione. Il colloquio con Gianna, fa emergere anche altri aspetti.
possa essere rilassante il passaggio inverso. Questa esperienza mi La musica che utilizza è scelta secondo il suo gusto personale e in
34
modo che sia funzionale alle lezioni, ma con l'attenzione a variare
il repertorio, rispetto a quanto viene proposto a tutti i trainers
come "stile Virgin". Vengono organizzati dei corsi interni di
formazione per i trainers, secondo lo stile Virgin, in modo che
tutti adottino certi standard, non solo all'interno dello stesso
centro, ma ovunque esista un centro Virgin Active. Lo stile deve
essere uniformato, poiché è previsto che un socio Virgin possa
accedere a tutti i centri Virgin esistenti in giro per il mondo, sicuro
di trovare spazi e stili riconoscibili e familiari. Questo comporta
una tendenza ad uniformare anche i repertori musicali utilizzati
dagli istruttori. Ciò che la mia interlocutrice tiene ad evidenziare
è che ogni trainer ha uno stile proprio che lo diversifica dagli altri,
quindi a maggior ragione questo stile personale si riflette nelle
musiche che sceglie per le lezioni.
all'interno di uno spazio che offre proposte omologate.
I luoghi che ho cercato di indagare dal punto di vista sonoro sono
caratterizzati dalla presenza della musica, selezionata secondo
criteri di funzionalità: come sostegno in un allenamento fisico
faticoso o noioso oppure come parte integrante di attività volte al
benessere e al rilassamento. E il ruolo che la tecnologia assume ha
un'importanza fondamentale in questi contesti. Kittler nella
prospettiva teorica di Discourse Network considera la tecnologia
come la "materialità" dei media, che produce specifiche modalità
di percezione sensoriale secondo le evoluzioni nei diversi contesti
storici. Riporto un esempio dell'effetto "costruttivo" delle
tecnologie rintracciabile nello spazio Virgin: la tecnologia
dell'amplificazione permette di operare selettivamente sui livelli
di volume di diffusione della musica rendendola adeguata alle
differenti finalità d'uso. Così ad esempio un allenamento fisico
molto faticoso quale lo spinning, verrà sostenuto e costruito
utilizzando la musica diffusa a volume altissimo e il trainer potrà
condurre la lezione utilizzando un microfono per far arrivare la
sua voce a tutti i presenti. McLuhan riferendosi alla tecnologia
della stereofonia sostiene che essa ha la capacità di promuovere
una "forma di unione audio-tattile"(2002, p. 299). Ne ho fatto
esperienza assistendo a una lezione di spinning dove il risuonare
della musica dentro il corpo diventava "tangibile", dove udito e
tatto diventano coincidenti e si confondono.
Questo mi fa considerare l'aspetto sinestesico e multisensoriale
della fruizione musicale in questi contesti che porta a
un'incorporazione delle pratiche sociali ad essa collegate. La
connessione tra musica e movimento è alla base dell'utilizzo di
determinati generi musicali nelle attività di fitness, dove la
fruizione sonora, "si fa" esercizio fisico. Nella ripetizione
dell'allenamento, movimenti specifici vengono associati a ritmi e
sonorità definiti, e viceversa, creando così un'incorporazione di
stilemi a partire dalle realizzazioni pratiche.
Ritengo che ci sia "naturalizzazione" del legame tra generi
musicali e pratiche specifiche quando i modelli diventano
ripetitivi, omologati, e scontati, quindi non più sottoposti a
interrogativi e critica. In questo senso penso che le
categorizzazioni operate sui generi musicali dalle industrie della
musica possano creare naturalizzazione di pratiche sociali.
Nei contesti che ho indagato "il divertimento" o "il benessere"
sono presentati come categorie culturali "naturalizzate", che
passano attraverso il "dover essere"12 o il "dover fare".
La musica piove dall'alto
"La musica piove dall'alto" è una frase dal significato duplice.
Da un lato si riferisce alla collocazione fisica delle casse per la
diffusione musicale in grandi spazi, posizionate nel soffitto;
dall'altro si riferisce all'idea di monopolio e dominio che
caratterizza l'industria musicale, in quanto industria culturale, che
impone il "consumo" di determinati generi e secondo determinate
modalità, ad esempio nella "riproduzione del sempre uguale"
(Horkheimer, Adorno, 1966, p. 145)
Questo comporta riconoscere l'esistenza delle categorizzazioni
dei generi musicali, che portano alla "naturalizzazione" di alcune
pratiche sociali. Secondo S. Hall, ciò che viene riconosciuto come
"naturale" in un processo comunicativo ha l'effetto ideologico di
nascondere le pratiche di codificazione.9
Con il termine categorizzazione mi riferisco alla modalità di
catalogazione delle produzioni musicali e alla loro definizione in
specifici generi musicali che vengono effettuate dalle case editrici
secondo criteri eurocentrici e legati alle esigenze dei mercati
globalizzati. Un'analisi molto interessante di tali costruzioni,
operate attraverso meccanismi di decontestualizzazione e
ricontestualizzazione arbitrarie, si trova negli articoli di S. Feld, A
sweet lullaby for World Music, e di J. Shannon, Sultan of Spin:
Syrian Sacred Music on the World Stage.10
Ma la categorizzazione dei generi musicali definisce in partenza
anche le stesse possibilità di scelta in termini di accesso ai
repertori disponibili oppure a quelli già definiti e selezionati per
"addetti ai lavori". Un esempio di tale effetto si vede all'opera
nello spazio Virgin Active sia rispetto alla determinazione dei
canali di musica da mandare in diffusione, sia rispetto alla scelta
all'interno dei repertori stessi, operata dal computer oppure dai
singoli istruttori. L'effetto di "virginizzazione"11 è la modalità per
imporre lo stile Virgin in tutti i Virgin Club a livello globale. La
costruzione personalizzata di repertori, mediante l'uso di CD, di
cui alcuni trainers mi hanno parlato, è una modalità che permette
di uscire parzialmente dalla "virginizzazione", e che si pone come
tentativo di costruzione identitaria in termini di professionalità,
Conclusioni
Nel corso della ricerca è emerso che la potenzialità tecnologica
insita nelle modalità di scelta casuale di brani musicali all'interno
di un archivio vastissimo contiene anche un limite: la ripetizione,
lamentata da tutti i miei interlocutori. Essa si crea poiché la scelta
è limitata in partenza in quanto legata solo a repertori relativi a
specifici generi musicali.
La ripetizione porta al non-ascolto, modalità che è stata
35
evidenziata da tutti i miei interlocutori, anche se con sfumature
diverse. Un aspetto che ho rilevato con sorpresa, durante
i colloqui con i miei interlocutori, è il non riconoscimento o la
negazione delle rumorosità diffuse, presenti nei luoghi sonori che
ho esplorato. Infatti, mentre tutti riconoscevano la presenza della
sonorità musicale, con diversi gradi di apprezzamento, non ho
riscontrato attenzione alle altre sonorità e rumorosità
dell'ambiente. Alcuni esempi: Fabrizio, che pur dimostrando
grande consapevolezza della gestione musicale, ad una mia
domanda esplicita risponde negando l'esistenza di rumorosità
dovute al funzionamento delle varie attrezzature. Analogamente
Barbara, oppure Claudia e Anna che lavorano nell'area SPA, non
riconoscono l'esistenza di rumorosità di funzionamento nell'area
Virgin fitness.
Questa mi sembra una dimostrazione dell'efficacia della moozak
che nasconde un paesaggio sonoro sotto un'apparenza di
gradevolezza superficiale e poco coinvolgente, dove "se la musica
può essere usata per mascherare il rumore, anche il rumore può
essere usato per mascherare la musica" (Schafer, 1985, p. 143).
Le tematiche emerse durante questa breve ricerca pongono
ulteriori interrogativi , richiedono approfondimenti e la loro
complessità apre ad altre possibili analisi.
Alcuni concetti della teoria critica dell'industria culturale
(Horkheimer - Adorno) mi sono stati utili per analizzare lo spazio
di Virgin Active come parte di una produzione culturale del
divertimento che impone modalità di consumo stereotipate e
ripetitive e per provare ad affrontare la questione delle reali
possibilità di scelta. Un altro approccio teorico cui mi sono
riferita è quello che guarda al ruolo delle tecnologie mediatiche
che nella loro materialità sono produttrici di specifiche modalità
percettive (McLuhan, Kittler).
Infine si pone una questione problematica rispetto alla possibilità
di restituire, scrivendo, un'etnografia del suono: la fissità spaziale
della visione-scrittura esclude il fluire della temporalità che
caratteriza gli eventi sonori. Ciò che è scrivibile quindi è la
descrizione nella contestualizzazione degli eventi e il "detto" dei
propri interlocutori.
Schafer in Il paesaggio sonoro si poneva il problema di come
fornire un'immagine di un paesaggio sonoro, fatto di "eventi
uditi": dovendoli "presentare su pagine silenziose" (1985, p. 19) è
possibile far riferimento a metodi di proiezione visiva e di
notazione musicale. Egli comunque auspicava la possibilità di
disporre di nuovi metodi descrittivi.
Infatti queste rappresentazioni visive hanno valore di
documentazione ma comunque escludono la dimensione
temporale e l'esperienza percettiva del suono che è un elemento
fondamentale in un'etnografia sonora. Essa è riproducibile
attraverso la registrazione sonora, la riproduzione e l'ascolto. Ma
queste modalità a loro volta presuppongono disponibilità di
tempo e strumentazioni adeguate da parte dei destinatari
dell'etnografia.
La lettura di un testo scritto richiede un impiego di tempo minore
rispetto a quello necessario per l'ascolto di un brano registrato. E'
possibile leggere in qualunque luogo, mentre un ascolto richiede
strumentazioni adeguate e luoghi dedicati.
Credo che questi aspetti pongano la questione in termini
epistemologici. Steven Feld si era posto il problema già nella sua
monografia Sound and Sentiment (1982), un'etnografia del suono
considerato come sistema simbolico dei Kaluli di Papua New
Guinea.
In scritti successivi ha sviluppato il concetto di acoustemology13
come modalità di conoscere un "luogo" sonoro nella
contestualizzazione dello spazio-tempo. E' possibile cioè fare
esperienza e conoscere un luogo attraverso l'interazione
complessa tra visivo e uditivo, così come attraverso gli altri
processi di percezione intersensoriale.
In un articolo-intervista recente in cui ripercorre i sui lavori
etnografici a partire dall'etnografia sui Kaluli, mette in risalto le
modalità di editing dialogico con i suoi interlocutori sul campo
rispetto alle registrazioni da lui effettuate e pubblicate in diverse
occasioni: l'aspetto fondamentale che emerge è l'attenzione alla
qualità di tali produzioni. L'autore, critico rispetto alla qualità dei
documenti sonori (CD) che accompagnano le etnografie
presentati in occasione di incontri o congressi, auspica che venga
posta la stessa attenzione e professionalità dedicata alla scrittura
anche alle registrazioni del suono, da considerare come
"tecnologia di mediazione creativa e analitica".14
36
Note
1
Cfr. R. M. Schafer, Il paesaggio sonoro, Ricordi-Unicopli , 1985 p. 183.
Questo approccio di ricerca fa riferimento agli sviluppi più recenti dell'Antropologia sensoriale (D. Howes, C. Classen, S. Feld, P.
Stoller )
3
Il Bicocca Village, una realizzazione di Pirelli-RE nell'ambito della riconversione dell'ex-area industriale della Bicocca, viene
definito come centro commerciale nelle presentazioni su Internet: www.PirelliRE.it
4
Nello studio del paesaggio sonoro con questo termine si intende lo sfondo sul quale vengono percepiti gli altri suoni. Cfr. R. M.
Schafer, op. cit.
5
Il termine deriva dall'industria Moozak (USA) e si riferisce alla produzione di musica a partire da studi psicologici, per una
distribuzione di massa. Cfr. R. M. Schafer, op. cit., p. 143
6
Il Club Virgin Active di Milano è uno dei 5 Club Virgin in Italia; è stato aperto al Bicocca Village a gennaio 2005. Virgin Active è
una delle componenti del gruppo multinazionale Virgin, ed è presente in Sud Africa con 77 club e in GB con 14 club.
7
Vedi l'opuscolo "Fun guide" in distribuzione nel centro che illustra la filosofia del gruppo Virgin Active e le varie attività che vengono
proposte.
8
Cfr. R. M. Schafer, op. cit. Con il termine "segnale" l'autore intende qualsiasi suono che richiami l'attenzione in modo particolare.
9
Cfr. S. Hall, Codifica/decodifica, in M. Fagioli, S. Zambotti (a cura di) Antropologia e media, Ibis, 2005, p. 69
10
Cfr. S. Feld, A sweet lullaby for World Music, in Public Culture, 12 (1), 2000: 145-171 - J. Shannon, Sultan of Spin: Syrian Sacred
Music on the World Stage, in American Anthropologist, 105 (2), 2003: 266-277
11
Ho utilizzato il termine "virginizzazione" parafrasandolo da "macdonaldizzazione" che si riferisce alla diffusione di MacDonald che
offre gli stessi ambienti, stili e menù a livello globale
12
Riporto alcune affermazioni dei miei interlocutori: Barbara: "questo è un posto(…) dove devi divertirti, muoverti, essere allegro…";
Fabrizio: "l'idea è di offrire uno spazio che stia fuori dalla realtà quotidiana stressante e opprimente"; Ivana: "(da questo posto) non
si può non uscire rilassati"
13
Cfr. S. Feld, Waterfalls of Song, in H. Basso e S. Feld (edited by), Senses of Place, Santa Fe, School of American Research Press,
1996
14
Cfr. S. Feld, D. Brenneis, Doing anthropology in sound, in American Ethnologist, 31 (4), pp.461-474
2
Bibliografia
M. Augé, Non luoghi, Elèuthera, 1993
M. Fagioli, S. Zambotti, (a cura di) Antropologia e media, Como-Pavia, Ibis, 2005
S. Feld, Sound and sentiment, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1982
H. Basso e S. Feld (edited by) , Senses of Place, Santa Fe, School of American Research Press, 1996
M. Horkheimer - T.Adorno, Dialettica dell'illuminismo, Torino, Einaudi, 1966
M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Milano, Net, 2002
R. M. Schafer, Il paesaggio sonoro, Milano, Ricordi-Unicopli, 1985
37
10 CORSO COMO, MILANO
Luogo come discorso e media
Di Serena Bottelli
1. Perché l'etnografia su di uno spazio-luogo?
dell'articolazione dei significati di un discorso in genere. In
proposito sosteneva, 'Secondo me, esiste la possibilità che la
finzione operi all'interno della verità, che un discorso
immaginario provochi effetti di verità e che si verifichi che un
discorso vero generi o inventi qualcosa che ancora non esiste,
cioè che lo finga' (Miller,1994,p.240).
Quanto detto fin qui, vuole indirizzare chi legge all'oggetto di
questa etnografia.
Di seguito, infatti, parlerò di un 'luogo', '10 Corso Como', spazio
polifunzionale, che nasce dalla commistione di spazi che
assolvono a finalità diverse, compresi in un discorso culturale
univoco.
Situato nel centro di Milano, ho scelto di parlare di questo centro
per esemplificare il discorso pocanzi fatto sul concetto di luogo.
Ed ho scelto uno spazio delimitato, per indagare le significazioni
da cui è culturalmente definito, le codifiche, le adozioni di senso
che sono state pensate da chi l' ha progettato, perché acquisisse lo
statuto di luogo.
Per far questo mi servirò degli strumenti metodologici propri
della semiologia, letteralmente la decodifica dei 'semos', o segni,
che definiscono i messaggi che compongono l'humus di questo
luogo.
Ma perché un'analisi di tipo semiologico per comprendere il
discorso culturale sul luogo? Per rispondere, è importante citare il
contributo di Clifford Geertz, che in 'Antropologia interpretativa'
parlando di semiotica, scienza sorella della semiologia, sostiene:
'Una semiotica … dovrebbe impegnarci in una specie di storia
naturale di segni e simboli, una etnografia dei veicoli del
significato. Questi segni o simboli, questi veicoli del significato,
svolgono un ruolo nella vita di una società… ed è questo che li fa
vivere… qui il significato è l'uso, o meglio sorge dall'uso…
bisogna passare da un'investigazione dei segni in astratto ad una
investigazione degli stessi nel loro habitat naturale il mondo
comune in cui gli uomini guardano, nominano, ascoltano e
fanno… E' per cercare le radici della forma in quella da me
chiamata… la storia sociale dell'immaginazione' (1988, pp.150151).
Quotidianamente, nei trasferimenti che compio per raggiungere
l'Università o i centri città della mia zona, da un tram sferragliante
che di viale in viale mi porta dal centro di Milano in periferia o da
casa alla stazione o da casa in centro, osservo come le città si
presentano come veri e propri luoghi contenitori, collettori e
propulsori di messaggi.
Messaggi affidati alla cartellonistica, risolti in immagini statiche
o in movimento, scritte e slogan che percorrono la pancia
metallica di un tram, un autobus, un' auto o un treno. Ancora,
strisce di informazioni, pubblicità che corrono da un albero
all'altro su di un filo sopra la tua testa o che lampeggiano da una
vetrina di un negozio attraverso i video minimalisti, esilissimi di
nuova generazione.
E dall'immagine al lettering, dai suoni alle composizioni musicali,
agli spot, alla tipologia di media cui è affidato, tutto concorre a
definire il messaggio.
Esso è studiato, calcolato fin nei minimi dettagli, impaginato,
colorato o in bianco e nero, patinato o opaco, affidato ad una
melodia dolce o ad un suono frastornante, risolto in grafiche
sofisticate o minimali.
E' un insieme composito, sistemato per definire e delimitare un
determinato spazio.
Spazio che viene ad essere abitato, profuso di segni, simboli che
lo inscrivono nell'ordine sociale e culturale in cui viviamo e di cui
ci serviamo. Da cui deriva, quindi, il concetto di spazio
significato, dove per significazione s'intende la costruzione
concreta e simbolica attorno ad uno spazio, che lo consacra e lo
trasforma in luogo. Un luogo, in sostanza è la risultante di uno
spazio investito di senso. Esso è un contenitore di codici, la cui
decodifica ci porta a svelare, comprendere il messaggio sotteso,
ed il discorso di cui è portatore. Perché ogni luogo, diventa
depositario ed è lo spazio in cui si articola un vero e proprio
discordo mediatico - discorso inteso nel senso foucaultiano del
termine.
Il filosofo francese, ci ha svelato i lati più sottili e reconditi
38
2. Il luogo '10 Corso Como'
Scritta nero su bianco, non a caso la scelta di due non colori, che
rimanda ad un'idea di semplicità, originarietà, originalità,
primitivismo. Questo conduce ad un ordine del discorso che
proietta verso paesi lontani. Lontano o altrove inteso nel senso
culturale del termine, in cui le modalità di scrittura odierne,
rigorosamente soggette alla tecnica, precisione, chiarezza e
riproduzione sono ancora sconosciute, che vuol significare paesi
arretrati, dal punto di vista tecnologico. La cui distanza culturale
viene ad essere manipolata e esaltata secondo l'ordine del discorso
proprio dell'esotismo -considerando tutto il potere che assume
oggi questo argomento, che risente del discorso sull'Orientalismo
fatto da Said.
Nel nome che identifica questo luogo ravvisiamo un contrasto
netto e opposto tra due produzioni di significato. L'una mira ad
orientare lo spazio idealmente oltre oceano proiettandolo in un
nuovo ordine di pensiero, forse migliore, più pragmatico, l'altra
che riporta il centro a influenze esotiche, di paesi lontani
(tecnologicamente arretrati,affascinanti perché lontani) .
Proseguendo e riportando l'attenzione allo spazio fisico,
accedendo nel cortile ci si trova
immersi in un labirinto di spazi che
compongono l'intero luogo.
Per indagare questi ultimi procederò dai
caratteri che li accomunano e che
legano con un filo rosso tutto
l'ambiente.
In generale, come suggerito dalla guida,
viene indicato che tutto il centro è
ricavato da un ex garage e da una casa a
ringhiera, riadattati per accogliere i
diversi ambienti: 'lo spazio originario
non viene annullato ma sottolineato'.
Questi ultimi sono open space, spazi
aperti che ribadiscono costantemente il
concetto di originarietà, che ritroviamo
affidato ai motivi decorativi, che
ricalcano le linee imprecise e le
sbavature dell'insegna/logo, che percorrono pareti, porte, finestre,
complementi d'arredo, tende, tavoli e sedie, piastrelle, fino alle
carte da pacco .
Cerchi indefiniti, linee ondulate, rette, rese in modo difforme,
segni informi, forme semplici, giocano sulla maggior parte delle
superfici ricordando elementi naturali, motivi vegetali e floreali,
ribadendo un'idea di manualità, originalità, naturalità,
artigianalità.
C'è in questa simbologia fatta di segni minimali il desiderio di
allacciare un contatto con un passato ancestrale. E sono questi i
concetti che costituiscono la linea guida di tutti gli ambienti, e che
tratteggiano il tema principe del luogo.
Il concetto di artigianalità, poi, viene ribadito come idea di
genuinità ed armonia nel testo di presentazione quando parla di
'una commistione inedita di linguaggi che si vivono: ascoltando
la musica, guardando l'arte, i libri i colori, toccando gli oggetti i
'Il progetto 10 corso como inizia a Milano nel 1990 negli ampi
locali di un ex garage, all'interno di un cortile. Somma di luoghi
in successione ed integrati: la galleria d'arte e fotografia, la
libreria, la sala dedicata alla musica, il negozio di design e moda
- uno dei primi concept store al mondo, il ristorante, il bar, la sala
da thè, il cortile giardino, il nuovo bed & breakfast'.
Si presenta così, in un libretto appositamente stampato per chi vi
accede, il luogo di cui voglio parlare.
Situato nel pieno centro di Milano, nei pressi della Stazione
Garibaldi (una delle stazioni della città, forse la seconda per
importanza) '10 Corso Como', prende il nome dalla Via in cui
nasce, Corso Como, dove si possono trovare anche alcuni dei
locali più frequentati della Milano mondana.
Dai media in generale è definita una delle zone 'alla moda', con
tutti i significati che il termine include, che si propone di offrire
24 ore su 24 il 'meglio', dai cibi ai vestiti alle tendenze in voga del
momento.
'10 Corso Como', si affaccia su questo
corso, ed è un cortile ricavato da un ex
garage, come indicato dall'opuscolo,
ben identificabile per l'insegna che è
inquadrata al centro del cornicione
sovrastante l'entrata. Prima di
proseguire è necessario spendere due
parole sul nome e l'insegna: '10 Corso
Como'. Il nome del luogo è definito,
infatti, dallo stesso indirizzo, ma,
osservando, l'ordine logico di scrittura
dell'indirizzo cui siamo culturalmente
abituati viene sovvertito. Il numero 10,
precede il nome della via, Corso Como,
seguendo una disposizione che è
tipicamente
anglosassone.
Se
prendiamo ad esempio il Solomon
Guggenheim di New York negli Stati
Uniti, si trova nella 1071 fifth avenue. Questo ci dice qualcosa
circa il luogo ideologico cui ci si vuole riferire. La modalità di
scrittura dell'indirizzo vuole presentare lo spazio significandolo a
partire da convenzioni altre, con la volontà di ricontestualizzarlo
altrove. Altrove nel senso di dimensione fisica ed immaginata,
che vuole comporsi dei valori che fanno riferimento ad un
determinato contesto, ma anche modo di pensare: quello
anglosassone e Americano in questo particolare caso.
Proseguendo nell'analisi dell'insegna c'è una curiosità, mentre
l'ordine dell'indirizzo è volutamente sovvertito seguendo logiche
anglosassoni, la grafica orienta chi guarda in un altrove ancora
diverso dal precedente.
Le lettere che compongono la scritta, volutamente rimandano ad
una scrittura manuale, sono imprecise, definite da un segno poco
lineare a tratti tremolante e sbavato con dei tondini a decorare le
'o' ed a inframezzare le parole.
39
tessuti le materie, gustando i cibi, le bevande, odorando i fiori i
profumi, gli aromi'.
Idea di genuinità ed armonia presente nel testo con il riferimento
ai cinque sensi, che l'immersione in questa realtà dà modo di
esercitare risvegliare ed esperire.
Effettivamente, in tutti gli ambienti risuonano i ritmi di una
musica che riprende suoni new age, echi di natura: da rivoli
d'acqua a cinguetti d'uccelli, che si alternano a melodie etniche,
dominate da rullare di tamburi e flauti di pan, fino a ritmi drum &
base.
Eccoci ancora ridestinati a collegarci idealmente ad un ambito che
è altrove, pseudo naturale, visivamente per via
delle piante di bambù, che ci sono ma che sono
anche ricordate dalle stilizzazioni dei motivi che
decorano l'intero spazio, e per via dei suoni che
riprendono gli elementi di natura.
Oltre ai suoni pervadono l'aria odori di ogni
genere, dai cibi in elaborazione nell' immediato
ristorante, agli incensi speziati della libreria e
del negozio di moda.
Ancora i colori, riecheggiano dai complementi
d'arredo, dai testi di design e d'arte in vendita,
dai mosaici decorativi del bar, al linoleum del
negozio di moda ai piatti, bicchieri, vasi e
cornici, vestiti, all'arredo delle stanze progettate
per il B&B. Gli oggetti, i vestiti in vendita,
bevande e cibi, tutto molto costoso, anzi
costosissimo. Questo indica che l'insieme è
pensato per un certo livello di persone, per una
tipologia ben precisa, di nicchia.
Ecco che il canone di riferimento, la semplicità, ricordato in ogni
dove, ed anche nell'ultimo esempio per la possibilità offerta in
questo posto di esercitare i cinque sensi, non è poi così
semplicemente accessibile se non si è economicamente ben
provvisti.
Quanto detto fin qui, stride fortemente con il leit motiv della
'semplicità' ed armonia esibito, (oltre che dalla possibilità uditiva,
visiva, tattile di materiali, tessuti, oggetti ecc, a quella di
degustazione, di cibi dagli aromi variegati ecc.) che si limita ad un
discorso puramente superficiale e serve a ritrarre un'immagine
fittizia, alla quale non si può accedere in profondità senza soldi. A
stridere e scontrarsi sono il concetto di semplicità al cospetto di
quello economico.
Proseguendo, i colori sono anche quelli di fotografie di reportage
(ad esempio quelle dell'ultima mostra in programma, della world
press photo: 'Fotografia e giornalismo le immagini premiate nel
2005') che ritraggono scenari e situazioni tra le più diverse ed
emotivamente forti.
Si tratta di foto che hanno preso immagini dai più recenti scenari
tragici, da guerre, quella Iraqena ed Afgana, ad attacchi
terroristici, quello nella scuola di Beslam, ad esodi di profughi,
quelli del Darfur, ai segni di violenza su donne di diverse
provenienze.. e così, il tutto giocando sull'onda di una forte
sollecitazione emotiva.
Anche in questo caso, riesce difficile accostare il discorso
imperante di semplicità ed armonia ad immagini così cariche di
significazione, che informano su tematiche delicatissime ,
terribilmente drammatiche e assolutamente profonde.
3. Lo spazio: come si struttura
Quando si accede dal portone cui è affidata l'insegna, si è accolti
da un muro composto da una vegetazione fitta di canne di bambù,
fitte ed alte fino
al
soffitto
dell'ingresso,
che hanno la
finalità
di
s e p a r a r e
l ' i n t e r n o
dall'esterno.
Avanzando, ci si
trova immersi in
un cortile che
ospita il primo
degli ambienti
sopra elencati, il
bar-giardino,
che percorre la
quasi
totalità
della superficie
dello spazio all'aperto, lasciando libera solo una striscia destinata
al passaggio.
Passaggio che orienta verso gli altri ambienti, il bar che abita lo
spazio al piano terra, immediatamente collocato alla sinistra
dell'entrata. Il negozio di design e moda, invece, si trova oltre il
bar sempre sulla sinistra che di rimpetto vede aprirsi, sulla destra,
il ristorante. Ai piani rialzati troviamo, sulla sinistra, ad un mezzo
piano sollevato da terra, una parte della galleria d'arte fotografica
che continua al primo piano al seguito di altri due spazi, la libreria
e la sala della musica. Sopra il portone d'entrata infine, si trovano
i tre spazi dedicati al bed & breakfast.
4.Conclusioni
Quanto detto fin qui dimostra come un luogo, con le sue
significazioni prodotte da codici, segni, simboli e linguaggi che lo
abitano, lo definiscono, origina un vero e proprio discorso
culturale.
Discorsi culturali che, come sostiene Geertz, non sono astratti dal
contesto in cui un uomo vive. Essi, anzi, prendono forma dall'
humus vitale. Si caricano delle significazioni che gli diamo e, in
fondo, sono il prodotto di ciò che pensiamo e immaginiamo.
A proposito della nozione di 'discorso', è impossibile prescindere
40
dal contributo di Michel Foucault. Un'analisi di questo concetto è
messa in luce nei testi 'L'Archeologie du savoir' (1969) e
'Surveiller et punir' (1975). Nel 1967, in un'intervista, Foucault
dichiarava che il linguaggio era diventato la sua ossessione 'pende
sopra di noi, e ci guida innanzi nella nostra cecità… fin
dall'infanzia sono perseguito da un incubo. Ho davanti agli occhi
un testo che non sono capace di leggere, del quale posso decifrare
solo una piccola parte; faccio finta di leggerlo, ma so che lo sto
inventando…' ( Miller, 1994, p.140).
Interessato allo strutturalismo e alla semiologia di Roland
Barthes, allettato dal mondo come un vasto testo, Foucault era
impegnato a introdurre e sondare il concetto di 'finzione', come
l'elemento di trascendenza del linguaggio.
Ed è determinante il suo apporto teorico, per l'analisi sin qui
condotta, perché svela quali strategie si celano nell'ambito della
costruzione del discorso, del linguaggio, della cultura e del
sapere, codici che informano il luogo da me esaminato. 'Il sapere
è un'invenzione dietro alla quale si trova… un gioco di istinti, di
impulsi,di desideri,di paura,una volontà di approvazione… viene
prodotto sul palcoscenico dove si scontrano questi elementi…
Esso è sempre schiavo, dipendente e asservito… E se si presenta
come conoscenza della verità, è perché esso produce la verità
attraverso la rappresentazione di una falsificazione iniziale e
sempre ricreata, che determina la distinzione tra vero e falso'
(Miller, 1994,p.243).
Il luogo da me indagato, origina da un ordine di discorsi ben
definiti, discorsi che, come si è visto, si avvalgono dei linguaggi
compresi dai cinque sensi, spaziando da immagini a suoni a odori
ad oggetti a testi…
Ho parlato poco sopra della volontà, infusa nella progettazione e
realizzazione dello spazio, di ricontestualizzarlo in diversi
'altrove' ideologici. Passando dal pragmatismo anglosassone,
all'esotismo, dalla semplicità, alla genuinità, fino all'armonia.
A riguardo, un grande contributo esplicativo è d'obbligo ed è
quello fornito da Edward Said che sulla costruzione del discorso
sull'Oriente diceva: 'L'Oriente presentato dall'Orientalismo è un
sistema di rappresentazioni, circoscritto da un insieme di forze
che introdussero l'Oriente nella cultura occidentale…
L'Orientalismo non è soltanto una dottrina positiva… è anche
un'autorevole tradizione accademica, con i propri specialisti…
per i quali l'Oriente è un determinato tipo di conoscenza su
determinati luoghi, popoli e civiltà… l'Orientalismo è il sistema
di quelle verità, verità nel senso proposto da Nietzsche' (Said,
1991, p.213,214).
In ultimo è importante non tralasciare questo riferimento che Said
riserva a Nietzsche. Citato nel testo a proposito delle 'verità
trasmesse attraverso la lingua' il filosofo tedesco, parla di
quest'ultima come di 'un mobile esercito di metafore, metonimie,
antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che
sono state potenziate poeticamente e retoricamente,… trasferite e
abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide,
canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è
dimenticata la natura illusoria' (Said, 1991,p.213).
Perché proprio un luogo per un'etnografia sui media? Perché
quello che è emerso e si è delineato dalla mia indagine è che un
luogo viene strutturato secondo discorsi ben definiti, codificati,
veicolati e rivelati dalle modalità, dalle logiche con cui viene
pensato, organizzato, strutturato. In quanto tale esso è un grande
collettore e diffusore di messaggi. Esso informa nel senso di
formare un ambito ideologico destinato ad una certa di tipologia
di persone. In questo senso è un media.
Bibliografia
Boni F., 2004, Etnografia dei media, Editori Laterza, Bari
DeFleur M.,J.Ball Rockeach S. 1995, Teoria delle comunicazioni di Massa, il Mulino, Bologna, (1989)
Fabietti U.,2002, Culture in bilico, Bruno Mondatori ,Milano
Foucault M.,1976, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino
Foucault M.,1980, L'Archeologia del sapere, Rizzoli, Milano
Geertz C., 1988, Antropologia interpretativa, il Mulino, Bologna
Meyrowitz, 1995, Oltre il senso del luogo. Come i media elettronici influenzano il comportamento sociale, Baskerville, Bologna,
(1985)
Miller J., 1994, La passione di Michel Foucault, Longanesi, Milano
Moro W., 1992, Didattica della comunicazione visiva, La Nuova Italia Editrice, Scandicci (Firenze)
Said E.W., 1991, Orientalismo, Bollati Boringhieri, Torino,(1978)
41
Il pubblico televisivo e la negoziazione del senso
(note su una telenovela indiana)
di Gianni Trimarchi
Si tratta di sapere hic et nunc in che misura la cultura di massa procura
divertimento, evasione, compensazione, espulsione, purificazione
(catarsi) e in che misura dà vita a fantasmi ossessivi; in che misura
fornisce modelli di vita, dando forma e rilievo a quei bisogni che
aspirano a realizzarsi. Vale a dire in che misura l'estetica infirma e
informa la vita pratica. (E. Morin L'industria culturale p. 90)
Introduzione
La percezione del tempo da parte del regista interviene sempre
come una forma di violenza esercitata sullo spettatore. Lo
spettatore o prende il tuo ritmo, oppure non lo prende e in tal caso
il contatto non si stabilisce6
Fin dai primi anni, la televisione ebbe un grande
successo presso tutto il pubblico che fu in grado di fruirne. In un
testo delle origini1 leggiamo: "Un certo giorno arriva in una
famiglia uno scatolone […] e all'improvviso tutta la vita della
famiglia si organizza intorno a quello scatolone" convalidando
sostanzialmente senza critica la quasi totalità dei programmi
mandati in onda. Secondo alcuni autori, come Horkheimer e
Adorno, addirittura la domanda era un prodotto dei grandi
apparati, e non degli spettatori, nonostante la "grande mediocrità"
della programmazione. Questo però avveniva in un mondo in cui
l'emittenza si confrontava con un pubblico circoscritto e
sostanzialmente omogeneo.
Con l'apparire negli ultimi anni del satellite e della
parabola, la nozione di pubblico è cambiata, facendo emergere in
forma assai evidente la soggettività dello spettatore e la sua
capacità di partecipare in forma attiva alla costruzione del senso.
Questa capacità del pubblico è emersa in forma assai evidente nel
caso di alcune produzioni, come quella indiana che fra breve
prenderemo in esame, si presume che emergerà sempre di più col
passare del tempo e con il progredire delle funzioni interattive dei
nuovi media, ma non è una funzione nuova, dal momento che la
teoria cinematografica l'ha sempre prevista.
Va ricordata in questo ambito la teoria di Vertov che
parla della visione intesa come un "commento infinito"2 e dei
"film che producono film", inducendo fin dagli anni venti una
nozione dinamica del rapporto fra autore, spettatore e opera.3
Saltando ad un momento successivo, potremmo
accennare a Bazin, che "parlava di presentare sullo schermo la
realtà in tutta la sua ricchezza, lasciando allo spettatore il compito
di decifrarla"4 ovviamente in modi diversi, non programmabili a
priori. Va poi ricordata in questo ambito anche la concezione di
Tarkovskij, per il quale
Tutto questo ci configura il rapporto fra il regista e il suo pubblico
come una sorta di braccio di ferro, una lotta, fra il regista e il suo
pubblico; l'uno decostruisce la realtà secondo un suo modello
percettivo, l'altro invece lo contrasta, mettendo in atto un proprio
lavoro di ristrutturazione, "al di là dello schermo", in un ambito
profondo, legato non certo alla riflessione critica, ma
all'immaginazione che, kantianamente, "schematizza senza
concetto"7
Come si accennava, benché questo modello, in linea di
principio, sia applicabile non solo al cinema, ma anche agli altri
media, gli esempi fruizione attiva da parte dello spettatore
mediatico sono molto rari. Fra questi potremmo ricordare la
famosa trasmissione di O. Welles sull'invasione dei marziani,
mandata in onda nel 1938 durante la sera di Halloween. Un
milione di spettatori su un totale di sei percepì, o negoziò, come
realistica la storia raccontata, con gli esiti catastrofici che
conosciamo, mentre però gli altri cinque milioni rimasero
compostamente davanti alla radio, immaginando lo spettacolo
come tale.
Tratta in sostanza di negoziazione anche un passo di un
articolo uscito negli anni cinquanta, in Italia, in cui si parla degli
effetti della televisione, pensata essenzialmente per il triangolo
industriale, ma fruita anche in provincia, con esiti assai diversi,
causati per l'appunto dalla diversità dello spettatore.
La televisione, piaccia o no ai signori che ne detengono le chiavi
e la vorrebbero stupida e addormentatrice, sta lentamente
minando, nelle campagne, sulle montagne e sulle isole, tutto un
modo di vivere quieto e immobile da secoli. Mette mille fermenti,
sveglia, induce alle impazienze, e ai confronti; agita la sete del
nuovo e del meglio, porta un soffio di civiltà comunque essa sia.8
L'immagine nel cinema si fonda sulla capacità di far passare per
osservazione la propria percezione dell'oggetto5
42
Un caso di lettura a piu’ registri: il Ramayana come telenovela
funzione "trasformando in familiare e intimo lo spazio astratto
della nazione moderna e utilizzando il mito hindu per raccontare
parabole sullo sviluppo"14 ,rafforzando così l'immagine del partito
di governo in tutta la nazione.
Prendiamo qui in esame un programma trasmesso in
India nel 1987, costituito da una rilettura in forma di "telenovela"9
del Ramayana, con il coinvolgimento di ottanta milioni di
persone. Sul piano quantitativo si trattò dello stesso pubblico da
record che Dallas aveva avuto in america una decina di anni prima
(1978)10, attuando uno dei più grandi successi nella storia della
televisione. Uno degli aspetti significativi di questo lavoro
tuttavia non riguarda la quantità di audience, ma il fatto che il suo
significato complessivo fu costituito dagli spettatori a quattro
livelli completamente diversi. Questo fenomeno, come abbiamo
visto, non era ignoto in linea di principio in occidente, ma non si
era mai verificato in una forma così clamorosa.
Nel trattare questo argomento, faccio riferimento in
particolar modo al saggio di A. Rajagopal, reperibile in un testo
recentemente pubblicato, a cura di due giovani studiose italiane11.
Il discorso che emerge nel suo insieme è così inedito da indurre
ad alcune riflessioni generali, valide anche per l'occidente, in una
situazione in cui continuità e diversità si intrecciano
indissolubilmente fra loro.
Uno sceneggiato tratto da un grande classico come il
Ramayana non rappresenta in linea di principio una novità, basti
pensare a una serie infinita di film holliwoodiani, tratti da grandi
opere del passato, fra cui anche testi sacri, come quelli biblici, in
certa misura paragonabili al grande poema indiano.
Nemmeno costituiva una novità il carattere melodrammatico di
questa trasmissione, che consente in genere la sopravvivenza di
ben pochi degli elementi del testo di origine, appiattendo tutto il
testo ad un livello molto basso.
Dal punto di vista dei contenuti si trattava di
un'esaltazione del senso religioso hindu, di un' "età dell'oro"12
priva di conflitti, piena di senso del sacrificio per amore dei
genitori, o dei fratelli e di rispetto reciproco fra tutti gli esseri
umani. Sul piano della forma, pare che il programma consistesse
in un succedersi di formule iperboliche e stereotipate,
ampiamente note alla tradizione occidentale, per di più peggiorate
dalla lentezza della scansione.13
Seconda lettura: l'opinione dei mediologi indiani
I giornalisti indiani di lingua inglese mostrarono quella
che Rajagopal definisce come "incomprensione colta"15, trovando
il programma essenzialmente brutto e addirittura di "cattivo
gusto"16. Essi avrebbero voluto un film ad alto livello artistico e il
fatto che il pubblico indiano partecipasse entusiasticamente
creava loro un grande imbarazzo, al quale non si associava nessun
tentativo di comprensione del processo mediologico in atto. Essi
sembravano ignorare che nello stesso anno (1987) negli Stati
Uniti andava in onda con grande successo Beautifull, forse
migliore del Ramayana sul piano della tecnica spicciola, ma non
necessariamente per quanto riguarda il significato complessivo
dell'opera. Essi dimenticavano anche che un anno prima (1986) in
Cina aveva avuto enorme successo "New star", una soap opera
altrettanto brutta e altrettanto mirata a fini ideologici, quanto il
programma indiano.17
La "bocciatura" del Ramayana da parte degli intellettuali
non impedì tuttavia il suo successo, benché si trattasse di un
lavoro obiettivamente "brutto", perché le variabili in gioco, come
sempre in televisione, non erano a carattere artistico.
Terza lettura: il parere di ottanta milioni di indiani che
seguono la trasmissione
Il pubblico era assolutamente entusiasta di rileggere
un'antica storia dal punto di vista della "potenza del concreto",
legata alla messa in scena, lasciando tracce ben più profonde di un
discorso raccontato, proprio per la sua dimensione sensibile. Dice
un operaio intervistato:
All'inizio abbiamo letto qualcosa del Ramayana, poi ne
abbiamo sentito parlare, ma ora l'abbiamo visto, lo conosciamo e
ci crediamo.18
Giustamente Rajagopal fa riferimento anche alle dinamiche del
"c'era una volta".
L'argomento è un'"età dell'oro", in cui una
"idealizzazione di impossibili relazioni di famiglia" acquista un
senso, ove intesa come critica di un presente deludente. "Era la
storia del loro passato e, come ogni storia, offriva lezioni valide
per il presente…il serial ha diffuso nuovamente la fiducia nei
vecchi ideali."19
In un difficile e sofferto momento di transizione, in cui
gli indiani avevano bisogno di un sistema di valori in cui credere.
Anche qui, come in altri casi l'antichità era in parte reale, ma in
parte immaginata. Per comprendere meglio la vicenda
bisognerebbe avere più dati, ma, in relazione ai materiali di cui
Prima lettura: l'ipotesi del committente
Lo sceneggiato in questione era stato commissionato dal
partito del congresso, per aumentare i propri consensi in un
momento di difficoltà. Il partito in questione si era sempre
dichiarato laico, ritenendo che questa fosse la soluzione migliore
per mantenere l'unità fra cittadini di religione diversa e intendeva
riproporre il Ramayana per offrire nuovamente al pubblico
un'espressione della cultura nazionale, che aveva avuto un ruolo
essenziale nella lotta contro il colonialismo. Il committente
vedeva quindi questo programma come l'espressione di una
tradizione patriottica sostanzialmente laica e progressista.
La telenovela mitologica doveva svolgere la sua
43
capace tuttavia di "offrire lezioni valide per il presente"28, per
quanto questo risultasse deludente. Secondo alcuni giornali del
periodo: "Da tempi immemorabili (sic!) Il Ramayan e il
Mahabarat hanno offerto alla mente indiana motivi di conforto in
un mondo che è invece turbolento."29
Data la rilevanza emotiva di questo schema di base che
costituisce la narrazione, non stupisce che la dimensione artistica
sia rimasta in secondo piano per la sensibilità dei fruitori. Non si
tratta del resto di una novità: Già nel 1842, in un testo lucidissimo,
dedicato a una retrospettiva sul melodramma nell'epoca
napoleonica, Charles Nodier scriveva che il pubblico ha bisogno
di un certo tipo di brutto30, a dispetto degli artisti.
dispongo, sembra che questa telenovela possa rientrare
nell'ambito dei "processi di etnicizzazione voluti e delle
rappresentazioni contingenti che spesso hanno poco a che vedere
con la storia"20, ma possono avere un grande seguito nelle
comunità disorientate.
Quarta lettura: quella del soggetto politico che ci guadagna
Alla fine, tutta questa celebrazione a carattere religioso
del passato remoto indiano finì col creare consensi e suffragi un
certo tipo di conservatori, che non avevano avuto nessuna parte
nel processo, ma avevano voce in capitolo per giudicarlo. Qui
Rajagopal fa riferimento a "quelle comunità religiose che cercano
di definire la nazione a propria immagine"21, in un ambito fondato
sull'emergere dell'esperienza vissuta, e sulla fantasia, intesa come
"consapevolezza persistente e nascosta dell'esperienza esclusa," 22
in polemica con ogni forma di razionalismo.
Tutto questo si concretizzò in una precisa presa di
posizione: "Contro un Rama così pseudolaico viene dunque
affermata la pretesa in sé esplicita di "Hinduità" che regna nella
sfera pubblica."23
Questa polemica su un'espressione narrativa dell'identità
indiana ebbe un ruolo non trascurabile nel compattare la destra
hindu, a tutto scapito del partito di governo che aveva messo in
atto lo sceneggiato.
…Faites mieux: mettez-y quelque chose de plus maniéré, de plus
contourné, de plus hyperbolique, et vous entendrez retentir un
tonnerre de applaudissements. Tel est le goût de la multitude et ce
goût qu'il fallait satisfaire était un écueil de tous les moments
pour le talent de l'auteur.31
Il brutto, codificato in certi termini, sembra quindi
costituire un grosso ostacolo per il buon gusto di un autore, ma ad
un tempo contiene elementi essenziali per il gradimento del
pubblico, che cerca proprio quelle forme, anche in certo senso a
prescindere dal contenuto.
Les classes inférieures allaient chercher alors au spectacle des
émotions qui étaient toujours sans danger… et ce n'est pas ici une
vaine hyperbole…[ il y avait des] conversations touchantes de ces
spectateurs mal vêtus qu'un irrésistible intérêt associait pendant
trois heures à toutes les angoisses de l'innocence persécutée et qui
saluaient d'un cris de joie unanime la punition du méchant...Il
n'est pas question ici de l'apologie du mélodrame considéré
comme ouvrage d'art...32
Quinta lettura: uno sguardo dall'esterno
Per quanto ci è dato di capire, questo testo televisivo non
ha mai costituito per nessun indiano la riscoperta di un'antico
strato dell'inconscio collettivo, ma si colloca pur sempre
nell'ambito delle "comunità immaginate".
Rajagopal parla infatti di "cammino disomogeneo e
doloroso verso la modernità, che trasformò le memorie[…] in
ideale e nostalgia, o in critica[...], da utilizzare all'occorrenza
come rifugio e come riforma"24
Qui la storia raccontata sugli schermi telelevisivi sembra
collimare con il dramma reale di una nazione, che faticosamente
si accinge a nascere, dando luogo ad un processo che in qualche
misura può far pensare all'interpretazione del melodramma data
da Franco Fornari.
Questi fattori, indicati con chiarezza da Nodier già nella
prima metà dell'Ottocento, sembrano spiegare molte cose sul
successo di tutta una serie di programmi televisivi prodotti in
luoghi diversi, ma con caratteristiche tutto sommato analoghe.33
Conclusione
Dal punto di vista della cronaca, molto probabilmente il
Ramayana televisivo si potrebbe definire come un programma
sfuggito di mano agli apprendisti stregoni che lo avevano
progettato, proprio agli albori della produzione televisiva indiana.
Era del resto ben difficile, dato il tema trattato, pensare che il
pubblico si mantenesse in un equilibrio instabile fra l'identificarsi
nella dimensione religiosa vera e propria, costituendosi
addirittura come "antipubblico" e il mantenere un laico rispetto
per l'antica tradizione religiosa, vedendola per così dire dal di
fuori. Un'ipotesi di questo genere sarebbe già stata difficile in
Europa, ma divenne impossibile in India.
L'essenza del melodramma ha una sua archeologia che
affonda le sue radici nel significato originario della musica, in
relazione alla perdita e al recupero del rapporto di amore
primario…[vi
sono]
contenuti
specifici,
definibili
metaforicamente come "paradiso perduto"25 […] uscire dalla
situazione uterina significa la rottura dell'unità originaria (42).26
Non a caso Rajagopal scrive che "la storia veniva
apprezzata, perché riportava a un mondo utopico ormai perduto"27
44
squisitamente americani.
A prescindere da tutto ciò, l'elemento formale veramente
inedito rivestito da questa trasmissione consiste nella pluralità di
letture possibili, pur nella semplicità e nell'ingenuità del testo. In
via ipotetica, come abbiamo visto all'inizio, questa pluralità era
già stata prevista da più di uno fra i grandi teorici del cinema, però
non si era mai realizzata nell'ambito di uno sceneggiato di grande
successo.
Questa ri-mediazione del testo, operata essenzialmente
nelle menti dei fruitori, costituisce un grosso spunto di riflessione,
soprattutto nell'ambito della diffusione dei nuovi media che, al di
là delle tecnologie, si caratterizzano sul piano del linguaggio
proprio per la pluralità di letture possibili. Queste risultano poi
ulteriormente amplificate dalle possibilità di interazione permesse
dalle nuove tecnologie e dai conflitti cognitivi che tutto questo
suscita nei protagonisti della comunicazione. La loro tendenza
infatti sembra essere sempre più quella di costituirsi ad un tempo
come spettatori ed autori, rompendo la "cristallizzazione testuale"
e rimettendo in atto sostanzialmente la teorizzazione dei "film
fatti da film" e del "commento infinito", di cui parlavamo
all'inizio a proposito di Vertov.
In sostanza l'equivocità del Ramajana nasce sicuramente
da un errore di programmazione, ma si tratta per noi di un errore
"vincente", che apre spunti di riflessione non banali per quanto
riguarda la "comprensione culturale fra mondi diversi",
l'"antropologia condivisa" e la "geografia del desiderio".34
Ben più facile era stata la strada scelta solamente un
anno prima dalla TV cinese, che faceva l'elogio, marcatamente
realistico, di un funzionario del nuovo corso, duro e ineluttabile,
tutto teso al miglioramento della vita sociale. Certo va osservato
che le condizioni storiche dell'India avevano un loro specifico,
non facilmente riducibile alle esigenze e alle problematiche di
altre nazioni.
La trasmissione indiana "funzionò", nel senso di dare un
nome a desideri inespressi di identità e costituire una sorta di
"comunità immaginata", capace di riscattare in un sogno fuori del
tempo i disagi del presente. Questo avvenne però a scapito del
committente che mancò il bersaglio in relazione ai suoi fini.
Se passiamo dai contenuti alle forme, possiamo notare
che nel Ramajana non sembra comparire nulla di specifico,
rispetto a quanto già noto nella tradizione occidentale, vuoi per
quanto riguarda l'estetica dello stupore, vuoi per quanto concerne
l'estetica del brutto. Entrambi questi fattori sono ampiamente
diffusi in tutti i grandi sceneggiati dell'occidente, compresi Dallas
(1978) e Beautiful (1986), che compaiono negli stessi anni del
Ramayana e comunque, come abbiamo visto, erano stati
codificati in relazione agli spettacoli popolari già da Nodier, fin
dal 1842.
Anche il contenuto etnico del Ramajana non sembra
costituire una novità. Secondo quanto riferiscono Liebes e Katz,
anche "Dallas", nonostante le pretese di fruibilità universale, è un
serial che può essere letto come l'espressione di valori
Note
1
Schramm, Lile, Parker La televisione nella vita dei nostri figli, Milano F. Angeli 1971
P. Montani 1999 p. 41
3
Ibid p. 77
4
F. Casetti 1978 p. 30
5
A. Tarkovskij 2002 p. 99
6
A. Tarkovskij 2002 p. 114
7
P. Montani cit p. 18
8
P. Dallamano Il televisore in Il contemporaneo n. 36, 1956. Citato da: M. Sorice 2002, p. 28
9
A. Rajagopal Mediare la modernità. Teoria della ricezione in una società non occidentale in: Antropologia, etnografie e critica
culturale, a cura di Monica Fagioli e Sara Zambotti, Pavia, Ibis 2005.p 181
10
Sulla fortuna di Dallas a livello internazionale cfr Liebes -Katz 1990
11
A. Rajagopal cit., pp. 173-196
12
Ibid p. 187
13
Ibid p. 185
14
Rajagopal cit. p. 181
15
Ibid p. 185
16
Ibid p. 182
17
Si trattava di un "docudrama" molto laico, che effettivamente riuscì a creare molti consensi per il nuovo corso in atto nella Cina di
quegli anni. Cfr Lull 2003, pp. 153-214.
18
Rajagopal cit p. 186
19
Ibid p. 188
2
45
20
Fabietti 2005, pp. 22-24
Rajagopal cit. p. 185
22
Ibid p. 190
23
Ibid. p. 191
24
Ibid p. 193-194
25
F. Fornari 1984 p. 47
26
Ibid p. 42
27
Rajagopal cit. p. 186
28
Ibid p. 188
29
Ibid p. 183
30
Per un'accurata disamina del brutto come categoria estetica v. Scaramuzza 1995.
31
C. Nodier 1842 pp. XII-XIII
32
Ibid pp. VI-VII
33
V. il mio articolo Alle origini della televisione: il melodramma e la formazione dello spettatore distratto, 2002.
34
Per quanto riguarda le nuove forme di comunicazione in questo ambito cfr P. Ferri 2002 p 144 e segg.
21
Bibliografia
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Th. W. Adorno, Televisione e modelli di cultura di massa, in M. Livolsi, Comunicazione e cultura di massa, Milano Hoepli 1969
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P. Brooks, L'immaginazione melodrammatica, Parma ed. Pratiche 1985
F. Carmagnola, Plot, il tempo del raccontare, Roma, Meltemi, 2004
F. Casetti, Teorie del cinema dal dopoguerra a oggi Roma, L'Espresso 1978
F. Casetti, Dentro lo sguardo, Milano Bompiani 1986
G. Deleuze, L'immagine tempo, Milano Ubulibri 1989
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U. Fabietti, Antropologia culturale. L'esperienza e l'interpretazione, Roma-Bari Laterza 2001
P. Ferri, Teoria e tecniche dei nuovi media, Milano Guerini Studio 2002
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M. Horkheimer, Th. W. Adorno, L'industria culturale in La dialettica dell'illuminismo, Milano Einaudi 1966, pp. 130-180
T. Liebes, E. Katz, The export of meaning, New York Oxford University Press 1989
J. Lull, In famiglia davanti alla TV, a cura di Michele Sorice, Roma, Meltemi 2003
M. Mazzocut-Mis, Lo spazio melodrammatico: le teorie e i testi, Milano Cuem 2005
P. Montani, L'immaginazione narrativa, Milano, Guerini e Associati 1999
E. Morin, L'industria culturale, Bologna, il Mulino 1963
C. Nodier, Introduction à "R. G. de Pixérécourt: théatre choisi,
Paris-Nancy 1841-43, vol. 1
G. Scaramuzza, Il brutto nell'arte, Napoli Il Tripode 1995
G. Scaramuzza, Derive del melodrammatico, Milano CUEM 2004
M. Sorice, Lo specchio magico, Roma Ed Riuniti 2002
A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, Milano Ubulibri 2002
G. Trimarchi, Alle origini della televisione: il melodramma e la formazione dello spettatore distratto, in: Materiali di Estetica,
Milano CUEM n. 7 del 2002 pp. 168-186
G. Trimarchi, La riproduzione mediatica fra tautologia e apprendimento significativo, in: Itinera.aprile 2004 rivista in rete del
Dipartimento di Filosofia dell'Università Statale di Milano.
46
Libri e poesie
A cura di Antonio De Lauri
In questo numero la sezione "libri e poesie" è interamente dedicata al tema della guerra. Achab continua a riflettere, e a suggerire
riflessioni, su una problematica complessa e drammatica, e che interessa, da vicino, ognuno di noi.
Pace E. "Perché le religioni scendono in guerra?" (2004)
Laterza, Roma-Bari.
Lévy B.-H. "I dannati della guerra" (2002) Il Saggiatore,
Milano.
"Perché le religioni scendono in guerra? È una domanda che sorge
spontanea, guardando, un po' sgomenti, quanti atti di violenza
sono commessi in nome di un dio o di una fede. L'elenco è
diventato ormai lungo. Monaci-guerrieri, martiri politicoreligiosi, predicatori della fine del mondo appassionati di armi
chimiche, combattenti per l'indipendenza nazionale che, per
marcare meglio la distanza dal nemico, contro cui si è in guerra,
fanno appello alla loro identità religiosa,
miti e pii uomini di fede ai quali, nel fuoco
della cruenta lotta interna, si trasformano
in guardiani della causa di Dio, arrivando
a concepire la possibilità di uccidere chi, ai
loro occhi, è il traditore della causa. E poi
leader politici, di grandi e piccole nazioni,
sparse nel mondo, i quali armano il loro
linguaggio di riferimenti a simboli
religiosi, per renderlo più efficace, quando
desiderano mobilitare le coscienze, le
menti e i cuori dei loro cittadini. In seno
alle grandi religioni mondiali emergono, perciò, figure e
movimenti che utilizzano le bussole religiose, che orientano il
pensiero e i sentimenti collettivi, per disegnare le mappe
cognitive, sulle quali si muoverà la macchina mentale della
guerra, quella per intenderci che crea il Nemico da combattere e
da abbattere, prima ancora che tutto ciò avvenga nella realtà".
"Ci sono guerre di cui sappiamo tutto: i media forniscono
informazioni in dosi massicce e in tempo reale, le fanno sembrare
l'unico conflitto al momento in atto. E l'aggiornamento è
continuo, come per le notizie di politica interna e l'indice della
borsa. Poi ci sono le altre. Guerre in angoli remoti del pianeta, di
cui nessuno ricorda le motivazioni o gli schieramenti, alimentate
da un miscuglio di ideologie nuove o resuscitate oppure da
interessi economici di cui non sa nulla proprio chi combatte e
muore. Conflitti in cui le prime vittime sono i civili: uccisi e
torturati, armati e mandati in prima linea al posto di truppe ben
più preziose,trasformati in scudi umani o schiavi, popolazioni
disperate e dimenticate dal mondo intero."
Enzo Pace è professore di Sociologia e Sociologia della religione
all'Università di Padova.
Bernard-Henri Lévy è scrittore, giornalista e filosofo. Esponente
di maggior prestigio dei "nouveaux pholosophe", tra la fine degli
anni '70 e gli anni '80 ha rivendicato la funzione dell'intellettuale
nell'analisi della storia e della politica contemporanea.
47
A mio figlio Alì
Mia triste luna
il mare è morto e le sue nere onde
hanno allontanato la vela di Sindibàd.
I suoi figli non schiamazzano più con i gabbiani,
e rauco l'eco risuona,
l'orizzonte è avvolto dalle ceneri.
Per chi cantano le sirene?
se il mare è morto,
e sulla sua fronte galleggiano le alghe,
mondi pieni di memorie galleggiano
mentre canta il menestrello.
La nostra isola è sommersa,
ed il canto non è altro che pianto.
Le allodole son volate via, mia triste luna.
Il tesoro è sepolto sulla riva del ruscello
in fondo al bosco, sotto un albero di limoni,
laddove l'ha nascosto Sindibàd,
ma il forziere è vuoto,
e la cenere, la neve, l'oscurità
e le foglie degli alberi l'occultano,
e il mondo è avvolto nella nebbia.
Moriremo così in questa terra devastata?
La luce dell'infanzia si spegnerà nella polvere?
Così il sole del giorno tramonterà,
e si spegnerà il fuoco sul cammino dei poveri?
Abdul Al-Wahhab Al-Bayati (Iraq)
www.iraqweb.it
48
La rivista è disponibile on line all’indirizzo:
www.studentibicocca.it/achab
Foto di Fabio Vicini (Istambul, 2005)
Note per la consegna e la stesura degli articoli.
Gli articoli dvono essere in formato Word o Rich Text Format (.rtf). Si consiglia di usare il carattere times
o times new roman corpo 12.
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Si consiglia di ridurre al minimo le note che non dovranno essere inserite in automatico ma digitate come
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Gli articoli devono essere spediti al seguente indirizzo: [email protected]. La redazione provvederà a
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Manifesto celebrativo, Monrovia (Liberia), Ottobre 2004
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