ACHAB Rivista di Antropologia 2005 numero VI Università degli Studi di Milano -Bicocca AChAB - Rivista di Antropologia Numero VI - ottobre 2005 Direttore Responsabile Matteo Scanni Direzione editoriale Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi Redazione Paolo Borghi, Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi, Fabio Vicini Progetto Grafico Lorenzo D'Angelo Tiratura: 500 copie Pubblicazione realizza con il finanziamento del Bando "1000 lire", Università degli Studi di Milano Bicocca Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 697 - 27 settembre 2005 Non siamo riusciti a rintracciare i titolari del dominio di alcune immagini qui pubblicate. Gli autori sono invitati a contattarci. * Immagine in copertina di Michele Parodi:"videoclube di Sambizanga"(Angola) * Immagine in retro di copertina tratta da: http://www.repubblica.it/ Se volete collaborare con la rivista inviando vostri articoli o contattare gli autori, scrivete a: [email protected] In questo numero... 2 Ismaele, il testimone Per un’etica della testimonianza in antropologia di Lorenzo D’Angelo 5 Fra antenati e giocatori di calcio A proposito della Casa della felicità di Bandjoun, Camerun di Ivan Bargna Dossier Antropologia e Media 14 Etnografia e media di Monica Fagioli e Sara Zambotti 17 La rappresentazione del conflitto del Vietnam attraverso Hollywood Analisi comparata di Apocalypse now di Coppola e Full Metal Jacket di Kubrick di Fiammetta Martegani 26 Lo tzunami del 26 dicembre 2004 e le comunicazioni mediali in una famiglia srilankese di Silvana Negro 30 Ma cosa ascolti in un non-luogo? Un esperimento di etnografia di un paesaggio sonoro caratterizzato dai media di Tullia Gianoncelli 38 10 Corso Como, Milano Luogo come discorso e media di Serena Bottelli 42 Il pubblico televisivo e la negoziazione del senso Note su una telenovela indiana di Gianni Trimarchi 47 Libri e poesie a cura di Antonio De Lauri 1 Ismaele, il testimone Per un'etica della testimonianza in antropologia di Lorenzo D’Angelo Il dramma è finito. Perché allora qualcuno si fa innanzi? Perché uno solo sopravvisse alla rovina. (Melville H., Moby Dick, Mondadori, 1998) "Chiamatemi Ismaele". Ismaele, il protagonista-narratore di Moby Dick, colui che è "tormentato da una smania perenne di cose remote" ed ama viaggiare "per mari proibiti e prender terra su coste barbariche", si rapporta al suo lettore da un punto di vista privilegiato. Egli, infatti, è l'unico superstite del naufragio del Pequod ed è il solo pertanto a poter raccontare quanto è successo al suo equipaggio. Il racconto di Ismaele è a suo modo una testimonianza e come ogni testimonianza contiene una lacuna. Tuttavia essa vale proprio per ciò che questa mancanza segnala: dice qualcosa per conto di qualcun altro che non può dire. Ismaele è testimone innanzi tutto di un non-testimoniabile e in ciò risiede la sua autorità di narratore. etnografico" per rappresentare i suoi "oggetti"; predilige il discorso indiretto e la terza persona plurale; utilizza il "noi" scientifico; abbonda di dettagli e di riferimenti che gli scrittoriantropologi disseminano nel testo lasciando intendere che questi possono essere forniti solo da chi ha vissuto l'esperienza in prima persona (Kilani 1997) ma, senza spiegare "come sono riusciti a derivare, da un'esperienza unica, quell'insieme di conoscenze di cui chiedono di accettare la validità" (Fabietti e al. 2002 p.46). In quest'ottica così poco riflessiva per i nostri standard "postmoderni", e che sembra quasi voler mimare il "reale", l'autore persuade il lettore sulla validità e l'autenticità del suo resoconto dimostrando di essere stato davvero lì, di essere entrato in intimità con la comunità locale di cui si è occupato grazie ad una permanenza prolungata sul campo. La raccolta dei dati, delle interviste, dei materiali e dei documenti, contribuiscono a legittimare il suo discorso, ad oggettivare e a costituire, materialmente, la prova del suo essere stato là. Autorizzano l'autore quindi, ma ciò che più conta, fondano etnograficamente la sua autorità di testimone dei fatti contribuendo a renderla paradigmatica. Altri ricercatori saranno poi autorizzati a seguire e portare avanti i discorsi antropologici che si sono imposti così autorevolmente da diventare punti di riferimento per ulteriori elaborazioni teoriche (Geertz 1990). Tutto contribuisce a creare quell'artificio retorico che, da un lato, da al lettore la sensazione di una coesistenza temporale e spaziale tra etnografo e nativo e, dall'altro, occulta la presenza di chi scrive, al punto che "la peculiarità della retorica della monografia tradizionale consiste nel dare ad intendere che non vi è retorica" (Kilani 1997, p.42). Parallelamente all'io c'ero, quindi, l'antropologo opera un peculiare occultamento della propria presenza dal testo, come se uno stile neutro ed asettico fosse un prerequisito di "scientificità" irrinunciabile per qualsiasi resoconto (Clifford, Marcus 1995; Fabietti 1999). L'antropologo, in breve, parla per conto di coloro che non hanno voce ma la sua stessa voce sembra scaturire da nessun luogo particolare e questo, in un qualche modo, rende il suo punto di vista privilegiato. Tuttavia, nel momento in cui l'etnografo - uno Spesso si fa notare come i testi etnografici classici abbiano forti analogie con i resoconti di viaggiatori, esploratori, missionari e funzionari coloniali. Gli antropologi, per questo motivo, hanno da sempre cercato di distinguere e caratterizzare il proprio lavoro di ricerca e la propria professionalità rispetto ad altri saperi affini e a figure che, per una ragione o per l'altra, si trovano impegnate nelle stesse aree di contatto con i nativi (Marcus, Fischer 1998). Così come Ismaele, anche l'etnografo si è spesso presentato al suo lettore come uno scienziato sociale testimone "unico" del proprio campo di indagine. Per molto tempo, anzi, l'antropologia, in quanto "sapere che si legittima per la produzione di una conoscenza mediata dalla rappresentazione di un Altro assente" (Hastrup, Elsass 1990), si è pensata e distinta da altre discipline anche grazie a questa sua caratterizzazione (Kuklick 1997). La non-ripetibilità dei fenomeni, la conoscenza temporalmente e spazialmente situata dei "fatti sociali", ha fatto dell'antropologo un interprete privilegiato. E, a lungo, la consapevolezza o, semplicemente, la convinzione, di agire in un campo "unico" e irriproducibile - ma da interpretare, comunque, in maniera "scientifica" -, ha significato un preciso atteggiamento etico e delle specifiche convenzioni metodologiche; una precisa idea di come costruire il testo etnografico e dell'autorità che lo sostiene. Il testo monografico classico adotta, infatti, il "presente 2 studioso colto che ha seguito un certo percorso accademico dimostra di essere stato davvero là e riesce a fornire garanzie circa l'aver fatto un'esperienza prolungata nel tempo, di prima mano, sembra essere il solo autorizzato ad interpretare i fatti e a parlare per conto di qualcun altro. In questo senso egli è necessariamente testimone e portavoce di un discorso monofonico o monodialogico. privilegiato, così come da più parti si è disposti ad ammettere, ci sono contesti in cui la sua "testimonianza" non è solo una possibilità ma anche, e soprattutto, un dovere che la relazione stessa tra l'antropologo e i suoi informatori reclama (Hastrup, Elsass 1990; Scheper-Hughes 1995). Se si accetta questa torsione inclusiva della nozione di testimonianza, dall'"epistemico" all'"etico", è chiaro che occorre rivedere gran parte degli assunti su cui si basa la pratica etnografica e, più in generale, l'elaborazione antropologica. A queste considerazioni si aggiunga poi il fatto che, da un lato, le critiche del dopoguerra al colonialismo e la globalizzazione sempre più diffusa di persone, idee e cose, hanno messo in crisi il tradizionale (e ideale) campo di indagine dell'antropologia - la piccola e isolata tribù esotica - e, dall'altro, con l'emergere della corrente postmodernista e l'affermarsi della svolta riflessiva, si sono create le premesse per un ripensamento e un rinnovamento epistemologico, metodologico ed etico che tocca i fondamenti stessi della disciplina (Flaherty 2002). Se, inoltre, come sottolineano Hastrup ed Elsass, nella prospettiva postmoderna, teoria e applicazione, soggetto e oggetto, non sono più nettamente distinguibili - se non su un piano analitico - allora può non bastare limitarsi ad esaminare le conseguenze pratiche di ciò, come suggeriscono i due antropologi. Occorre ripensare l'idea di un'antropologia come testimonianza all'interno di un discorso che comprenda, fino in fondo, e assuma, consapevolmente, la dimensione etica e politica della ricerca antropologica. Un approccio deontologico a tali questioni o, peggio ancora, "moralizzante" non ne può cogliere il fondamento né, tanto meno, svelarne la genealogia. La tesi di fondo di questo spunto di riflessione è che tale ripensamento passa necessariamente attraverso una radicale rielaborazione ontologica. Un'etica della testimonianza non può prescindere, infatti, da un'ontologia della testimonianza. E' significativo come questo modo di intendere il lavoro di ricerca sul campo, di costruire le prove e le evidenze per dare garanzie di autenticità e validità scientificità al proprio resoconto abbia suggerito forme di impegno basate sul "motivo della salvaguardia", sull'idea, cioè, che solo un intervento esterno di registrazione delle differenze culturali e di denuncia delle ingerenze esterne potesse "salvare" le popolazioni indagate prima di una loro definitiva scomparsa ad opera di un temuto, quanto presunto, processo di omogeneizzazione del mondo (Marcus, Fischer 1998). In altri termini, partendo dall'assunto olistico secondo cui le società osservate sono un tutto omogeneo che occorre preservare da ogni contatto contaminante e potenzialmente distruttivo di ogni differenza culturale, l'antropologia moderna, a partire dagli inizi del XX secolo (e sicuramente da Malinowski in poi), ha trovato nel "motivo della salvaguardia" un suo fine e una sua legittimazione morale coerente con i suoi assunti epistemologici, metodologici ed ontologici. Il progetto di un'etnografia "di urgenza" si basa, infatti, su un'etica concepita come sfera autonoma di standards universali ed impersonali e, parallelamente, su una concezione della verità come sapere disinteressato, universale, al servizio del genere umano; una verità, quindi, di per sé morale. Da questo punto di vista, inoltre, la professionalità dell'antropologo si misura nella possibilità e nella capacità di mantenere un certo grado di distacco scientifico e di neutralità politica rispetto ai fenomeni e agli "oggetti di studio" indagati. Ritroviamo quindi, ancora una volta, quella duplicità riscontrata sul piano della scrittura, quel gioco ambivalente tra l'esserci e il non esserci, tra l'affermazione dell'etico e la negazione del politico: l'antropologia ha una sua moralità ma non deve essere contaminata da interessi e politiche contingenti (Pels 1999). Non è un caso che Malinowski e i suoi allievi riservassero all'antropologia "applicata" lo studio del cambiamento sociale e alla "vera" antropologia, quello delle strutture sociali (Hastrup, Elsass 1990); la prima direttamente coinvolta nella cooperazione con i governi locali - seppure dichiaratamente svincolata da ogni responsabilita’ morale e politica (cfr. Malighetti 2001)-, la seconda arroccata nella torre d'avorio del mondo accademico. Pensare la questione etica della testimonianza a partire da una prospettiva ontologica significa dover occuparsi della questione della differenza ontologica. Questo è il nostro assunto di partenza. Che l'essere non è l'Ente, né tanto meno un ente, è secondo Heidegger il rimosso del pensiero occidentale. Da Cartesio in poi, infatti, diventa chiaro che l'uomo è soggetto nel senso di subjectum (ciò che sta sotto) ossia, il fondamento che rapportandosi all'essere per conoscerlo o rappresentarlo, lo riduce ad oggetto, ente tra gli enti. Dal nostro punto di vista è interessante notare come l'oblio della differenza tra essere ed ente abbia un risvolto etico immediato poiché, tale indifferenza, implica un preciso modo d'essere dell'uomo con gli altri enti (Recalcati 2001) Nel paragrafo 25 di Essere e Tempo, Heidegger, dopo averci messo in guardia sul rischio di interpretare il soggetto sul modello ontologico della semplice presenza, e quindi su un modo di essere dell'ente difforme dall'esserci, affronta la questione dell'esserecon [mitsein]. Contro ogni prospettiva solipstica, il filosofo tedesco ribadisce che, così come "non è mai dato un soggetto Che l'antropologia si occupi, in senso lato, di conoscere gli altri, non sembra aver mai sollecitato una radicale e diffusa presa di coscienza della peculiare responsabilità etica e politica del lavoro sul campo, almeno fino a tempi recenti (cfr. Hymes 1969). Se è vero infatti che l'antropologo è un osservatore o un uditore 3 senza mondo", allo stesso modo "non è mai dato un io isolato, senza gli altri". Nel paragrafo successivo il punto in questione è sottolineato in maniera ancora più esplicita nella consueta terminologia heideggeriana: "l'esserci è in se stesso essenzialmente con-essere". Fatte queste precisazioni Heidegger distingue due diversi modi dell'esserci di rapportarsi agli altri enti: il "prendersi cura" [besorgen] - riservato ai mezzi utilizzabili, ossia agli enti in quanto semplici presenze -, e l'"aver cura" [fursorge], vale a dire la costituzione d'essere dell'esserci in cui quest'ultimo incontra altri esserci. Proponiamo di considerare l'atto del testimoniare come una delle modalità dell'aver cura. Detto ciò, però, non basta. Heidegger, infatti, riconosce due possibilità estreme e positive dell'aver cura. In un caso l'aver cura dell'esserci fa sì che questi si sostituisca agli altri "intromettendosi" e sollevandoli, per così dire, dalla possibilità di prendersi cura da sé. All'opposto, si può aver cura degli altri "presupponendoli" senza cioè retrocederli in una posizione in cui è impedito loro di aver cura di sé in maniera autentica: "Questa forma di aver cura, che riguarda essenzialmente la cura autentica, cioè l'esistenza degli altri e non qualcosa di cui essi si prendano cura, aiuta gli altri a divenire consapevoli e liberi per la propria cura" (Heidegger 1977, 158). E' a questa seconda accezione dell'aver cura che fa riferimento il concetto di testimonianza che qui abbiamo cominciato ad elaborare in direzione di un'etica della testimonianza. Possiamo perciò affermare che Ismaele, a suo modo, "ha cura" dei suoi sfortunati compagni di viaggio sebbene, giocoforza, il suo resoconto sia un "esserci senza esser-ci"; ma è l'antropologo a trovarsi in una posizione in cui non può semplicemente sostituirsi agli altri bensì, li deve "presupporre". Solo così il suo fare può essere davvero un testimoniare. Bibliografia CLIFFORD, J., MARCUS, G. E. (1995), Scrivere le culture. Poetiche e politiche in etnografia, Meltemi, Roma. DEI, F. (2005), "Descrivere, interpretare, testimoniare la violenza", in: Dei, F. (a cura di), Antropologia della violenza, Meltemi, Roma. FABIETTI U. (1999), Antropologia culturale. L'esperienza e l'interpretazione, Laterza, Bari. FABIETTI, U., MALIGHETTI, R., MATERA, V. (2002), Dal tribale al globale. Introduzione all'antropologia, Bruno Mondadori, Milano FLAHERTY, M. G. (2002), "The crisis in representation: a brief history and some questions", in: Journal of Contemporary Ethnography, 31, 4, pp. 478-516. GEERTZ, C. (1990), Opere e vite. L'antropologo come autore, Il Mulino, Bologna. HASTRUP, K., ELSASS, P. (1990), "Anthropological advocacy. A contradiction in terms?", in: Current Anthropology, 31, 3, pp.301-308. HEIDEGGER, M. (1977), Essere e tempo, Longanesi, Milano. HYMES. D. (1969), Reinventing anthropology, Random House, London. KILANI, M. (1997), L'invenzione dell'altro. Saggi sul discorso antropologico, Dedalo, Bari. KUKLICK, H. (1997), "After Ishmael: the fieldwork tradition and its future", in: Gupta, A., Ferguson, J. (a cura di), Anthropological locations. Boundaries and grounds of a field science, University of California Press, Berkeley-Los AngelesLondon. MALIGHETTI, R. (2001), Antropologia applicata. Dal nativo che cambia al mondo ibrido, Unicopli, Milano. MARCUS, G. E., FISCHER, M. J. (1998), Antropologia come critica culturale, Meltemi, Roma. PELS, P. (1999), "Professions of duplexity. A prehistory of ethical codes in anthropology", in: Current Anthropology, 40, 2, pp. 101114. RECALCATI, M. (2001), Il vuoto e il resto. Il problema del reale in J. Lacan, Cuem, Milano. SCHEPER-HUGHES, N. (1995), "The primacy of ethical. Propositions for a militant anthropology", in: Current Anthropology, 16, 3, pp.409-420. 4 Fra antenati e giocatori di calcio A proposito della Casa della felicità di Bandjoun, Camerun di Ivan Bargna Quel che intendo proporre in questo articolo è una riflessione sul nesso modernità-secolarizzazione quale può apparire da un'analisi delle espressioni artistiche contemporanee in Africa. Più in particolare ne discuterò con riferimento al mio lavoro sul campo che ha avuto per oggetto la ricostruzione del bung die, la "Casa del popolo" o "Casa della felicità", della chefferie bamileke di Bandjoun in Camerun. La mia ricerca ha avuto luogo nel 2002-2003 su un periodo di due mesi e per certi aspetti (cui accennerò alla fine) ha avuto quest'anno una fine forzata. Cosa che mi ha spinto a scriverne prima del previsto. Un terzo soggiorno, per altro, nell'agosto di quest'anno, mi ha stimolato a rilanciare ulteriormente. Questo testo è una versione leggermente rimaneggiata di una relazione presentata in un convegno all'Università della California (Davis) nel marzo di quest'anno1 . Dell'oggetto della mia ricerca appaiono dunque gli aspetti che potevano essere pertinenti in relazione al tema dell'incontro. Nel luglio del 2002, quando sono arrivato a Bandjoun con notare l'introduzione del cemento per il pavimento e il pilastro l'intento di studiare il ruolo giocato dall'arte e più in generale dalle centrale che sosteneva il grande tetto conico; mattoni di cemento immagini nelle rappresentazioni dell'identità bamileke, a decidere erano stati usati anche per i muri ma, significativamente, erano della focalizzazione dell'oggetto di indagine è stato proprio lo completamente invisibili perché "rivestiti" (habillés) con sconcerto che ho provato di fronte a quella che era la recente "bambù" (in realtà le nervature delle foglie della palma da rafia). ricostruzione del bung die, la "maison du peuple". Tutte le mie Inoltre la capanna era dotata di impianto elettrico e non è raro aspettative alimentate da mucchi di fotografie e libri sull'arte vedere turisti e locali ricaricare il cellulare a una delle prese di tradizionale bamileke, che facevano di questo edificio un corrente esterne. A dire il vero anche se lo sconcerto è stato reale, avevo, come è "classico" del genere, venivano brutalmente disattese2. Negli edifici precedenti infatti, sui pali scolpiti che circondavano ovvio, i mezzi per reagire a questo evento: la retorica del postmoderno, della globalizzazione e la"grande capanna" c'erano le figure della società multiculturale mi offriva i degli antenati che in forma visibile mezzi per reinterpretare questa situazione connettevano presente e passato, la in termini di "patchwork", "bricolage" o monarchia ereditaria e la comunità. Il "métissage". Avevo così nella mia valigia bung die si presentava quindi come il un'estetica del "frammento" e della cuore o meglio, nei termini usati dagli stessi Bamileke, il "ventre" (vam) di "citazione" pronta a prendere il posto della vecchia estetica della "tradizione Bandjoun, la sua parte apparentemente africana"; scenari prefabbricati che più interna. facevano da sfondo al mio tentativo di Nell'ultimo bung die costruito nel 2001 capire qualcosa circa la percezione locale se alcuni dei vecchi pali della precedente di questo evento. Al fine di raggiungere costruzione erano ancora presenti erano questo obiettivo ho intervistato artisti, però collocati più indietro, sui lati Bung die di Bandjoun falegnami, alcuni dignitari, servitori di dell'edificio. Sui nuovi pali posti davanti alla facciata dell'edificio che, scendendo dalla piazza del mercato corte, intellettuali e gente comune. Sfortunatamente non ho avuto al quartiere del re, è la sua parte più visibile, c'erano ora le figure la possibilità di incontrare Sua Maestà Ngnie Kamga, Chef di due musicisti jazz, di un giocatore di calcio, di papa Giovanni Supérieur di Bandjoun, perché era a Parigi per cure mediche, a Paolo II, di un inviato della banca mondiale con la valigetta piena causa di una lunga malattia che lo avrebbe poi condotto alla morte. di denaro e diversi re in giacca e cravatta. I cambiamenti non riguardano solo l'iconografia ma anche lo stile, In particolare ero interessato a capire se il bung die sempre divenuto più naturalistico, e alcune importanti innovazioni nella presentato come il centro della ]chefferie e in particolare come "il tecnica e nei materiali di costruzione. In particolare si poteva centro nervoso del tsa"3 - il luogo sacro dove il re ha la sua 5 residenza - continui a rappresentare un elemento importante dell'identità Bandjoun o se al contrario sia divenuto solo un'attrazione turistica. In altri termini: dobbiamo interpretare questo sorprendente cambiamento, in termini lineari, come uno spostamento dal sacro al profano, dall'arte religiosa a quella turistica, dalla tradizione alla modernità? La mia opinione è che questi concetti dicotomici profondamente radicati nella visione occidentale della storia, che siano dati in termini di progresso o di decadenza, non sono molto utili per comprendere le dinamiche artistiche e religiose che hanno luogo in Africa. sua sopravvivenza corporea nelle generazioni che lo seguono. Attraverso i sacrifici che vengono loro rivolti, spiriti e divinità sono mantenuti in vita dagli uomini per il proprio benessere. Per quanto aperte al "sacro" (l'uomo comprende se stesso solo riferendosi ad altro da sé), le religioni africane non sono teocentriche. Questo è particolarmente evidente nella grande importanza che il culto degli antenati assume rispetto al culto della divinità primordiale. Il dio creatore appare spesso distante e remoto se non interamente indifferente alle sofferenze degli umani, ed anche l'arte trova qui i suoi limiti, poiché la divinità sembra inimmaginabile o insensibile alla rappresentazione artistica. Questo sembra valere anche per i Bamileke: per quanto il dio creatore sembri più prossimo agli uomini che in altre religioni africane, anche in questo caso non si danno rappresentazioni e gran parte delle attività sacrificali poggia sul culto degli antenati o di spiriti protettori di luoghi determinati. Le immagini artistiche ciò non di meno influiscono su altri esseri. Per esempio l'antropomorfismo della scultura africana attraverso la sua "deformazione" delle proporzioni corporee manifesta queste relazioni di dipendenza reciproca fra uomini, antenati, spiriti e divinità. Gli dei non si identificano alla loro immagine (quindi gli oggetti non sono feticci); tuttavia queste forme appartengono loro e sono loro indispensabili ( e quindi non si riducono a segni di devozione). Si tratta dell'apparizione di "entità spirituali" entro forme umane; non si tratta di una finzione ma di una presenza. Le forme umane rendono la divinità avvicinabile; la distanza dalle proporzioni naturali preserva la loro differenza.5 La religiosità dei Bamileke di Bandjoun ruota intorno all'energia mistica, alla forza (kè), al dio Si e al culto degli spiriti e degli antenati. Il kè, uno e plurimo, è fonte di ogni forma di vita, ed è tanto in Dio che nell'uomo e in tutto ciò che esiste. Presente allo stato diffuso, può cristallizzarsi in determinate situazioni (in particolare durante le celebrazioni biennali del ]gu kè, l'anno del kè, attraverso le quali si procede a una periodica rigenerazione del cosmo) o in certi oggetti (come certe statuine antropomorfe, o vasi o corni di capra o, ancora, la doppia cloche che è uno degli oggetti bamileke più sacri) o ancora può condensarsi in particolari categorie di persone come il re (fo), i guaritori (gè kè) o gli stregoni (gè sue)4 . Una caratteristica che ne consente l'appropriazione e la manipolazione da parte dell'uomo, sia per usi leciti che per quelli illeciti, come il vampirismo finalizzato all'acquisizione di ricchezze o al prolungamento della propria vita. In questo contesto non appare possibile opporre una "magia" che poggia e fa ricorso alla forza manipolabile del kè a una devozione religiosa che guarda a un Si puramente trascendente. In questo contesto, come ha osservato In Africa, l'identità e le relazioni fra persone, Marc Augé, la distinzione fra cose, animali, spiriti e divinità si sviluppano comportamenti disinteressati e socializzati sullo sfondo di una consistenza comune. E' la espressi dalla religione da un lato, e Palo della Casa della felicita’ raffigurante stessa forza, impersonale e divisibile, che atteggiamenti individualisti e utilitari suonatori jazz nella sua differente distribuzione costituisce la convogliati dalla magia dall'altra, si rivela realtà in tutti i suoi aspetti. Quel che ritroviamo nella come inadeguata6 . Significato e funzione, morale e relazioni di rappresentazioni africane del mondo è una visione monistica che forza, vanno considerate insieme. Il bene coincide con il esclude ogni dualismo ontologico, e che rende inservibile ogni potenziamento della vita, il male con il suo indebolimento. Il categoria che tenti di introdurre differenze sostanziali fra i diversi peccato o meglio, l'errore, non deriva da una mancanza morale ma aspetti della realtà, categorie come materiale-spirituale, naturale- dall'insuccesso nell'adempiere a certe pratiche rituali. Il sacrificio sovrannaturale, sacro-profano e magico-religioso. Questo e l'altro che rappresenta un rimedio non persegue la salvezza dell'anima mondo non sono quindi mondi incommensurabili ma due aspetti ma il riordino del mondo. Bene e male (come bello e brutto) non della stessa realtà. La reversibilità di vita e morte nel ciclo della sono definiti in termini assoluti ma sempre in relazione a reincarnazione mostra il continuo andirivieni che li caratterizza. specifiche relazioni, tempi e persone. Per questo un oggetto che Questo e l'altro mondo traggono la loro realtà dai bordi porosi che protegge il suo proprietario può essere dannoso per gli estranei li dividono e che li uniscono. che ignorano le specifiche prescrizioni e proibizioni ad esso Più cha a Dio l'attenzione delle religioni africane va all'uomo, alla associate. 6 Religione e arte ruotano così in gran parte intorno alle pratiche che favoriscono la fecondità e l'appropriazione della forza. E' qui che l'arte trova il suo potere e i suoi limiti, come tentativo che può essere rinnovato, variato o abbandonato in vista di altre strategie ritenute più proficue7 . Questa consapevolezza dei limiti spiega il carattere sincretico, tollerante e aperto delle religioni africane che, sempre alla ricerca di nuove vie di potenziamento estendono i limiti del loro pantheon includendo contributi esterni, così come rende conto delle contrazioni che pragmaticamente eliminano gli spiriti meno favorevoli o gli antenati meno solleciti. ai sogni, alle emozioni e all'immaginazione di molta gente. Il calcio per l'Africa e per il Camerun in particolare rappresenta, a livello collettivo, una delle rare possibilità di essere competitivi nell'arena internazionale e di modellare un'immagine positiva della propria identità nazionale e africana di fronte al mondo8 . A livello individuale invece il calcio offre parecchi esempi di giovani Africani che hanno avuto successo nella vita: una via immaginaria di sfuggire alla povertà e di entrare nella modernità grazie al proprio talento. Per questo motivo vittorie e disfatte della squadra nazionale dei Lions indomptables assumono una grande importanza emotiva per le singole persone e per l'insieme della collettività. Ora, sulle basi di quanto detto, torniamo In questo contesto il calcio è molto più che alla "casa del popolo" ed esaminiamo una intrattenimento, esprime speranze e paure, delle immagini più sconcertanti che simbologgia mete, riuscite e fallimenti. appaiono sui suoi pali lignei. Mi riferisco Come dice l'artista Bandjoun Célestin Tawadje: "Se molte persone si alla figura del giocatore di calcio posto sulla cima di uno dei pali della facciata. In comportassero come Roger Milla, rapporto al passato le trasformazioni avremmo molti eroi nella nostra avvengono non solo nel soggetto ma comunità". Il calcio legittima la propria anche nello stile: la figura non è posta di presenza nel bung die come una nuova fronte allo spettatore ma di profilo; il versione di un antico dovere: " calcio non corpo non è rappresentato in forme significa semplicemente dare un calcio simmetriche e tendenzialmente statiche alla palla ma tanto duro lavoro per ma in modo dinamico, nell'atto di calciare raggiungere grandi risultati; ognuno nel il pallone. Infine, anche nelle proporzioni proprio lavoro dovrebbe fare lo stesso"9 . Ciò che conta non è tanto Roger Milla in e nei dettagli del corpo si assiste a un maggior mimetismo. Queste differenze sé - il più famoso giocatore camerunese, stilistiche mostrano una chiara influenza che lì è ritratto - ma la possibilità di usare Palo della Casa della felicita’ raffigurante del naturalismo occidentale anche se il suo esempio per attrarre i giovani e un giocatore di calcio dobbiamo pensare più al cinema, alla mostrare che la modernità e la tradizione televisione, alle riviste illustrate e alle fotografie che alla storia non sono incompatibili. dell'arte. In realtà questi cambiamenti non esprimono solo una Un piccolo curioso dettaglio di questa scultura offre altri scelta artistica ma un mutamento più esteso e complesso interessanti elementi alla nostra riflessione. Roger Milla stringe in mano una bottiglia. Non si tratta di una generica bottiglia ma di dell'esperienza quotidiana. Le preoccupazioni per il futuro sembrano prendere il posto di una bottiglia di birra. A uno sguardo più attento possiamo anche quelle per la propria origine e per la connessione fra presente e individuare le tracce di un'etichetta. E in effetti l'artista mi diceva che si tratta di una marca speciale: questa è una bottiglia di passato. Il mondo esterno sembra sostituire quello interno. Apparentemente abbiamo semplicemente a che fare con Guinnes. un'immagine secolarizzata e triviale dell'industria Cosa pensare davanti a ciò? A un ritrarsi della religione sotto dell'intrattenimento e niente sembra essere più lontano dalle l'incalzare della merce? All'inserzione di uno spot pubblicitario in tradizionali figure degli antenati, ma credo che sbaglieremmo a quello che è un luogo sacro? In effetti giravano voci secondo cui interpretare questo cambiamento in termini di opposizione il re era stato pagato dalla Guinness. Più probabilmente si è esclusiva. E' significativo che, sebbene gli artisti che hanno trattato di un'iniziativa personale dell'artista ingenuamente in scolpito i pali enfatizzino il cambiamento in termini di progresso, cerca di sponsor. Ma al di là dei moventi e delle motivazioni i dignitari e la gente che vive in prossimità del tsa (la residenza individuali quello che conta è che la bottiglia di birra sia lì, che la sua presenza sia stata accolta dentro il bung die: questo ne fa un del re) affermino invece che "niente è cambiato". Certo il calcio è uno dei simboli della modernità più diffusi al fatto sociale. mondo e la sua diffusione è nel contempo una conseguenza e un In effetti il mercato della birra in Camerun ha dimensioni fattore attivo dell'espansione del processo di globalizzazione. Il notevoli: i manifesti pubblicitari e i camion che trasportano la calcio è una dei più importanti elementi dello show business birra raggiungono anche i villaggi più remoti. La birra è divenuta mediatico mondiale e svolge una parte importante nel dare forma un importante mezzo di socializazione al punto che sembrano 7 esistere "associazioni della Guinness", "associazioni della Thirty- una classe media bamileke negli anni '60 è andata di pari passo Three Export" e via dicendo, a fianco di associazioni più con l'affermarsi della famla, una nuova forma di sorcellerie che, tradizionali: nei funerali l'abito distintivo dei gruppi di danza, diversamente dal passato, non divora i corpi dei parenti durante i porta spesso stampato come motivo decorativo il logo di una festini degli stregoni ma li usa come zombie per i lavori di fatica. brasserie. Fa parte infatti della politica pubblicitaria dei birrifici In questo modo i Bamileke - come osserva Paul Geschiere - hanno donare una certa metratura di tessuto che finiscono con il potuto spiegare le improvvise accumulazioni di ricchezza e di contrassegnare visivamente il gruppo che li indossa. potere. Operando entro questa stessa cornice di senso i ricchi a In particolare è interressante notare che c'è una connessione molto loro volta riescono a difendere la loro ricchezza contro le pretese stretta fra birra e calcio: i birrifici camerunesi sponsorizzano gli dl proprio gruppo di parentela: amministrando il terrore che la eventi sportivi " e le pubblicità delle loro birre appaiono sulle loro reputazione ispira o, attraverso una strategia differente e recinzioni dei campi di calcio alla vista del pubblico che è lì complementare, possono ripulire la loro ricchezza attraverso presente e di quello televisivo. La sponsorizzazione di eventi l'acquisto di titoli di prestigio tradizionali rilasciati dal re. pubblici, dalle partite del campionato nazionale di calcio, Come ha sottolineato Jean-Pierre Warnier, proprio riferendosi ai all'annuale Mount Cameroon race e a festival locali, sono pratica Bamileke, la modernità è più la conseguenza del mantenimento di comune"10. I marchi di birra sono massicciamente presenti durante vecchie disuguaglianze che il risultato di un rovesciamento della importanti cerimonie "sacre" come i funerali dei re, in occasione tradizione. La stregoneria è chiamata anche a spiegare la fortuna dei quali le aziende montano i loro stand ed offrono gratuitamente e sfortuna di ciascuno nel corso della vita: un certo successo negli ai notabili un certo quantitativo di birra e ombrelloni con marchio affari può essere considerato - forse in modo non dissimile in vista11 . Anche in questo caso il successo commerciale e la piaga dall'etica calvinista secondo Max Weber - come un segno del dell'alcolismo non sono completamente opposti o separati agli supporto degli antenati. aspetti "religiosi": nelle pubblicità il legame fra calcio e birra è basato sulla "potenza" (sui grandi manifesti pubblicitari della Senza voler negare il drammatico fenomeno della deculturazione Guinness con la foto di giocatori della nazionale camerunese lo che è spesso l'effetto principale dell'impatto della modernità, mi slogan era: "nous croyons dans votre sembra che l'opposizione radicale fra puissance") e potrebbe trarre la sua capacità di un'Africa tradizionale e una moderna, in persuasione dalle credenze tradizionali nei particolare nel caso dell'arte, sia dovuta agli trattamenti "magici". Mi è stato riferito che fino stereotipi occidentali, alla polarizzazione al 1960 la Guinness era venduta solo in nell'immaginario occidentale fra un'Africa farmacia, nella vicina Bafoussam12 . L'artista "autentica" sottratta al tempo e consegnata che aveva scolpito il palo mi ha detto che lui alle radici, all'inconscio, alla natura, e beve abitualmente la Guinness per avere la un'Africa "spuria" ridotta a periferia "potenza" necessaria al suo lavoro. La sua dell'occidente, così mettendo l'Africa e le sue origine europea e il prezzo (costa più di altre arti al di fuori della storia. In questo modo marche di birra) sono garanzia della sua alla purezza delle origini si è contrapposta la efficacia. corruzione del presente. In ogni contatto si è Bisogna comunque sottolineare che fino a oggi vista una diluizione dell'identità, una la birra occidentale non è riuscita a penetrare in contaminazione: "arte tribale" da un lato e tutte le cerimonie tradizionali: nei matrimoni e "arte turistica" dall'altro. nei sacrifici agli antenati il locale vino di palma In realtà le società tradizionali conoscono il gli è ancora preferito anche se la ragione sta disordine e il cambiamento. La tradizione forse semplicemente nel fatto che gli antenati implica la capacità di trattare il futuro. La sua non avevano familiarità con la birra europea. immutabilità è solo formale e cela un Manifesto pubblicitario della E' anche interessante notare come il calcio sia Guinness in un locale di Bandjoun sostanziale rinnovamento di contenuti. Se contemporaneamente un "segno di modernità" e infatti è la tradizione a disciplinare il gioco il terreno per pratiche di stregoneria (sorcellerie): sia i singoli gioco delle relazioni, la tradizione è anche , comunque, il frutto di giocatori che le squadre locali e la nazionale, hanno i loro quel gioco e cambia con esso. marabutti e sono solite "blindare" i loro campi di gioco prima Il passato diviene quindi un oggetto di scelta. Il valore di una della partita (talvolta, pare, con l'intervento di maschere)13 . Il tradizione è nella sua capacità di persistere, di fare i conti con il calcio che è molto più di un semplice divertimento appare come presente14 . la forma moderna di antichi combattimenti ritualizzati. In realtà la tradizione è reinventata continuamente e questo è In contrasto con le aspettative delle teorie della secolarizzazione, anche il caso del bung die. la diffusione dell'economia moderna e della politica statuale Secondo Dominique Malaquais è molto improbabile che il bung hanno condotto a un aumento della stregoneria: l'espansione di die si esistito dagli inizi del regno Bandjoun; è più probabile che 8 la prima "casa del popolo" sia stata costruita fra 1926 e 1931 dal re Kamga II; nello stesso periodo e nei pressi della "grande capanna" veniva edificato, in stile europeo, il nuovo palazzo del re15 . Mai prima di allora edifici legati alla figura del re - di solito collocati in una posizione nascosta e protetta - erano stati costruiti in posizione così elevata e visibile. La ragione stava nei sommovimenti che avevano colpito il paese bamileke: la diffusione delle idee democratiche, la pericolosa influenza degli ideali egualitari del cristianesimo, le nuove possibilità di riuscita personale offerte dalle scuole missionarie e dall'economia coloniale agli inizi del XX secolo). Si trattava dunque di innovazioni intese a realizzare una politica di apertura nei confronti dell'amministrazione coloniale e gli strati sociali inferiori: il palazzo adempiva al primo scopo e il bung die - una casa costruita dal popolo e per il popolo - al secondo. Per la prima volta la gente comune poteva, in certe circostanze, scendere al quartiere del re. Il bung die doveva essere l'espressione visibile della ricostituita unità fra re e popolo ma allo stesso tempo funzionare - a livello materiale e simbolico - come una barriera aggiuntiva che rinforzava la separazione degli insediamenti reali più remoti. Il bung die quindi ha operato dall'inizio come un "discorso doppio"16 che incorpora il progetto di una "modernizzazione conservatrice"17 ; in questa prospettiva guardando alla sua recente ricostruzione dobbiamo allora ritenere che, a dispetto di ogni disorientamento iniziale di fronte alle sue immagini apparentemente dirompenti, stia completamente dentro la propria tradizione. Quando i servitori di palazzo e i dignitari mi assicuravano che "niente è cambiato", mi spiegavano che l'uso del cemento non è contro la tradizione ma, al contrario, mira a preservarla in modo più efficace. I muri di cemento rivestiti di "bambu" non rappresentano una resa alla modernità o un simulacro postmoderno ma la tradizione attuale che dinamicamente cerca di mantenersi nei tempi duri del presente. Similmente il pavimento all'interno è fatto completamente in cemento ma ciò nonostante "niente è cambiato" perché al centro vi è un punto in cui la terra è stata lasciata e in cui si può continuare a eseguire i rituali. Anche in passato d'altronde la tradizionale propensione verso la novità che è attestata anche in parecchie altre estetiche africane18 procedeva di pari passo con la conservazione così che in ogni nuovo bung die c'erano sempre alcuni pali di quello vecchio. E questo anche nel caso delle immagini. Infatti alcune delle trasformazioni iconografiche - come abbiamo visto nel caso del giocatore di calcio - sono più apparenti che effettive. In particolare questo è probabilmente il caso della disposizione dei pali e, su ogni singolo palo, del posto attribuito alle diverse figure. Se per esempio guardiamo ai concetti di "alto" e "basso" scopriamo che hanno un valore inverso rispetto a quello che assumono in occidente: "basso" è meglio di "alto"19 ; per questo motivo re e dignitari vivono nelle terre in basso mentre la gente comune vive sulle colline; la ragione sta nel fatto che le prime sono terre fertili vicine ai fiumi e che le seconde sono suoli poco produttivi posti sulle colline. La stessa prospettiva presiede alla disposizione dei soggetti sui pali: i musicisti jazz e il giocatore di calcio sono sulla cima dei pali, e cioè nella posizione meno importante; diversamente le figure dei re sono in basso, cioè nel luogo più importante. Questo è confermato a livello percettivo: quando ci poniamo di fronte alla costruzione, a una distanza da cui possiamo riconoscere i soggetti sui pali (ad esempio la distanza da cui le guide locali raccontano le loro storie ai turisti), abbiamo le figure principali davanti agli occhi, mentre per guardare le immagini sulla cima dobbiamo alzare la testa e ne abbiamo comunque una visione incompleta. Le figure poste in alto inoltre sono spesso scolpite con minor cura e con minori dettagli. Considerazioni simili si possono fare anche a proposito della disposizione dei pali intorno all'edificio sebbene in questo caso sembri esserci una sfasatura fra punto di vista simbolico e percettivo. Apparentemente gli antenati (specialmente quelli scolpiti sui pali della vecchia costruzione, nello stile "tradizionale") arretrano, posti come sono sui lati, meno visibili, del bung die, lontano dall'entrata principale. Sul retro, normalmente non visibile ai turisti e alla gente comune perché dà sullo spazio proibito della residenza reale, ci sono alcuni vecchi pali non scolpiti. Questa circostanza conferma da un lato che c'è una scala di valori visivi che procede in modo decrescente dall'accesso principale sulla facciata, lungo i lati fino al retro e dall'altro lato ci mostra che non c'è armonia e sovrapposizione fra valori simbolici e visivi. In realtà il meno visibile è il più importante. A questo proposito alcuni dignitari - parlando delle figure degli antenati - mi dicevano che "come in guerra i soldati stanno davanti e i comandanti stanno dietro". Questa enfasi sul segreto poggia sulla figura del fo (il re) che non è considerato un dio ma che è visto tuttavia come una figura sacra i cui poteri vengono dagli antenati: un re infatti non muore mai ma vive nel suo successore. In questo contesto si suppone che il fo governi in accordo con Si (Dio) e gli spiriti per garantire la fertilità delle donne e della terra e si ritiene possieda poteri magici come la capacità di trasformarsi in un leopardo, in un elefante, in un bufalo o in un boa20 . Quindi, in modo simile ad altri re africani, la sua figura possiede un lato terribile e oscuro. Come tutto ciò che è sacro il re è allo stesso tempo benefico e pericoloso e per questo è necessario che sia tanto visibile quanto nascosto. Questo spiega la prudenza che l'uso delle immagini richiede quando si ha a che fare con il "sacro". In questo contesto, in cui il segreto e l'invisibilità dei poteri sacrali è così importante, le forme visibili dell'arte rischiano apparentemente di cadere nel profano. Ma ancora una volta i due aspetti non sono separati ma fra loro connessi. Il bung die è collocato non solo al centro ma anche alla frontiera, o meglio, con la sua presenza costituisce la frontiera come spazio abitabile. Come rappresentazione metonimica dell'attuale mondo bamileke nella sua complessità, appare come un tentativo di tenere insieme passato e presente, interno ed esterno, locale e globale, offrendo in questo modo un orientamento riguardo al futuro. A dispetto 9 della sua sconcertante diversità possiamo vedervi lo sforzo di che si presta quindi a riscontri. In effetti sembra che gran parte elaborare un'immagine coerente della vita della comunità della popolazione di Bandjoun abbia cooperato all'impresa tracciando una mappa del mondo che produca senso per tutti e per raccogliendo e devolvendo il denaro necessario all'opera. Ad ciascuno. Non riflette semplicemente un'identità esistente ma dà essere stati coinvolti sono stati non solo i residenti nella chefferie ad essa forma. ma anche gli emigrati nelle grandi città camerunesi di Yaounde e Il nuovo bung die esprime la rappresentazione del mondo dei Douala o all'estero, in Europa o negli Stati Uniti. Tutto questo ha nuovi dignitari appartenenti alla nuova classe medio-alta degli comportato un'intensa attività diplomatica che ha impegnato il re emigrati nelle città che a partire dagli anni '80 ha favorito il in parecchi viaggi tesi a rafforzare le sue relazioni con tutti i salvataggio e la reinvenzione del regno dopo i disordini degli Bandjoun. E' interessante notare a questo proposito quanto anni '50 e '60 che avevano portato all'incendio di numerose importante sia la connessione fra i Bandjoun della diaspora e chefferie colpendo anche il bung die21 . Una riconfigurazione della quelli residenti nel villaggio di origine: cosa confermata anche dal tradizione che avviene nel contesto della costume diffuso, quando nasce un bambino, di distruzione della vecchia nobiltà e nella ritornare a Bandjoun per seppellire il suo cornice di una politica nazionale che è sempre cordone ombelicale25 ; e quando questo non è 22 più basata sulle identità etniche . A questo possibile, di spedire il cordone ai propri parenti che dando loro l'incarico di eseguire il livello il bung die non rappresenta solo rito. l'identità Bandjoun ma una più ampia identità Tuttavia nelle mie interviste ho notato - a bamileke da giocare non nel contesto locale dispetto delle ripetute affermazioni circa ma in quello nazionale, nel confronto con gli l'esistenza di un consenso unanime - un altri gruppi etnici camerunesi. E oltre a ciò, diffuso malcontento: il re era sospettato di aver un'immagine di se stessi data all'occidente, ai speso altrimenti il denaro e falegnami e artisti turisti in visita o su internet23. Certamente questa operazione è funzionale agli interessi lamentavano di non aver ricevuto i titoli di una borghesia aperta sul mondo ma è onorifici che il fo aveva loro promesso di comunque significativo che le sue chance di conferire. Un problema di rapporti che in realtà risale alla designazione del re Ngnié successo si alimentino anche dalla Kamga II nel 1975: molta gente vi ha visto un mobilitazione dei repertori simbolici usurpatore che ha spezzato la linea ereditaria tradizionali. In realtà continuità e cambiamento, tradizione legittima. Vi è quindi un dissenso non e modernità vanno insieme e prendono corpo apertamente dichiarato che colpisce il re in non in persone diverse ma nelle stesse quanto uomo ma al fine di riaffermare l'integrità dell'istituto monarchico. persone che rivestono ruoli differenti su Palo della Casa della felicita’ Anche le trasformazioni nei materiali e nelle scenari parzialmente separati: la nostra raffigurante uno chef bamileke tecniche di costruzione possono essere distinzione fra "moderno" e "tradizionale" corrisponde in una certa misura alla distinzione locale fra "nero" interpretate tanto come un segno di questa disaffezione da parte e "bianco", che non è una differenza razziale basata sul colore del popolo che come indice dei dubbi e delle preoccupazioni della pelle ma il risultato delle diverse posizioni occupate nella circa il futuro nutriti dalle elite. Se il bung die opera come un vita sociale; per questa ragione, in luoghi e tempi diversi, le stesse mezzo per attrarre il popolo intorno al re, questo avviene persone possono essere "nere" o "bianche": un impiegato è bianco attraverso il lavoro collettivo che richiede. La raccolta, il trasporto in città ma diviene "nero" quando torna al proprio villaggio. Allo e il lavoro del "bambu", della terra rossa e delle liane usate per la stesso modo "agli occhi del suo popolo il capo supremo, costruzione coinvolgono l'insieme della popolazione facendo di naturalmente è "nero", ma la sua posizione è talvolta ambivalente ogni quartiere il responsabile di un particolare lato dell'edificio. poiché il governo lo considera "bianco" per le sue funzioni La deperibilità dei materiali richiede periodici restauri e consente nell''amministrazione"24 . nel contempo un rinnovo dell'alleanza fra re, capi minori e popolo. In questo evento ciclico il potere trova una fonte di Ma la situazione è anche più complicata poiché quello che legittimazione ma corre anche il rischio di un rifiuto. A partire da abbiamo appena descritto è in realtà solo ciò che supponiamo questa prospettiva possiamo forse vedere nella commistione di essere il punto di vista del re e dei dignitari, ma non ci dice nulla materiali vecchi e nuovi del bung die un problematico tentativo di circa la percezione effettiva delle altre parti e persone coinvolte. fissare e preservare la "tradizione" evitando il rischio della In realtà l'unione fra il popolo e il re di cui il bung die è la verifica periodica. Oltre a questa volontà politica vi è anche la manifestazione simbolica visibile dovrebbe effettivamente preoccupazione circa la perdita di competenze tecniche che sta prodursi nelle relazioni che si realizzano intorno alle diverse fasi colpendo Bandjoun (gli scultori per esempio, hanno pochissimi della costruzione dell'edificio, cosa che avviene pubblicamente e apprendisti cui trasmettere la loro arte) e quindi, da questo lato, la 10 nuova "grande capanna" è un tentativo - così mi è stato detto - di guadagnare tempo in vista di una futura generazione più qualificata e coinvolta nelle attività tradizionali. Nel trattare le questioni del sacro e della religione, dobbiamo quindi considerare il ruolo svolto dagli individui che dai repertori tradizionali di simboli e credenze attingono utilizzandoli strategicamente come risorse per accrescere i propri benefici nel contesto dell'interazione sociale. Non è quindi sufficiente descrivere sistemi o strutture, ma bisogna considerarle come insiemi di vincoli e opportunità entro le quali gli individui negoziano la loro posizione attraverso la manipolazione di significati comuni e condivisi. Non si tratta dell'uso cinico di un simulacro ideologico, conseguente al ritrarsi della religione e all'avanzare della secolarizzazione; piuttosto abbiamo a che fare con pratiche e credenze normalmente connesse al sacro e in particolare all'uso delle immagini nei luoghi sacri. L'antropologia attribuendo alla credenza un senso collettivo ha talvolta presupposto un'uniformità di atteggiamento e coinvolgimento da parte di tutti gli individui facenti parte del gruppo, ma la distribuzione degli atteggiamenti verso una certa credenza non è necessariamente uniforme. Nel parlare di "credenza" non dobbiamo pensare solo " alla fede assoluta e alla convinzione inalterabile. Le cose che uno dice, quello che sente, quello che fa, non è detto siano fra loro coerenti. (…) Le persone possono differire individualmente nel modo in cui vedono la verità di quello che sostengono in comune con gli altri membri della loro comunità"26 . Alla fine, come afferma Roy Rappaport, ciò che conta nelle performance rituali non è la sincerità della credenza, che è uno stato privato, ma l'accettazione dell'impegno richiesto che è un atto pubblico"27. Questo è il caso, in particolare dell'atteggiamento nei confronti delle immagini: le figure del bung die condividono la sacralità del luogo ma non sono oggetto di adorazione; i riti sono eseguiti all'interno dove non ci sono immagini. E tuttavia queste immagini contribuiscono a creare il contesto significativo entro il quale opera il "sacro": mostrano i problemi, le risorse e le mete perché lo scopo non è di guadagnarsi la salvezza in un mondo trascendente ma di accrescere la forza della comunità in questo mondo. Immagini che comunque non compongono una storia coerente; abbiamo piuttosto una molteplicità di simboli diversamente attivati dalle interpretazioni, secondo le aspettative e gli scopi di ciascuno. molto probabilmente da un incendio doloso, il 19 gennaio di quest'anno. Anche il palazzo, gli archivi e una parte del tesoro reale sono stati danneggiati28 . Ma proprio con la sua sparizione e l'enorme emozione che ha suscitato a Bandjoun continua a mostrare la sua importanza29. A questo proposito è significativo il gran numero di persone che si è recato sul luogo dell'incendio per eseguire il rito Pimuk: versando un po' d'acqua sulle rovine dell'edificio, lavandosi il volto, si attesta la propria innocenza e si scongiura il ripetersi di eventi simili30 . Sebbene nessuno sia stato incolpato per questo crimine è opinione diffusa che si tratti di un fatto maturato nel contesto delle lotte che hanno seguito la morte di re Ngnié Kamga (il costruttore del bung die andato distrutto) nel dicembre 2003 e la designazione del nuovo re, Djomo Kamga Honoré nel gennaio 200431 . Da un lato i membri della famiglia del re defunto sono accusati di volersi vendicare e dall'altra il re attuale è sospettato di aver voluto cancellare la memoria del suo predecessore colpendone quella che è la sua eredità maggiormente visibile. Il giornale camerunese La Nouvelle Expression parlava di uno scenario in cui "la rabbia degli antenati" era monito ai figli di Bandjoun affinchè vadano d'accordo32 . In questi atteggiamenti possiamo vedere all'opera non solo una lotta politica ed economica ma anche e nel contempo la presenza di credenze religiose che hanno i caratteri che Marc Augé ha attribuito al paganesimo: pragmatismo, immanenza e dimensione persecutiva33 . Anche questi incendi d'altra parte appartengono alla tradizione del bung die e ne testimoniano l'importanza: come la sua costruzione dà corpo all'unità ideale del popolo Bandjoun così la sua distruzione ne esprime le lacerazioni. Così nel rogo non è l'esistenza del bung die in quanto tale a essere messa in questione ed è quindi certo che ne avremo un altro molto presto. Così chiudevo il mio testo nel mese di marzo. Nell'ultimo viaggio lo scorso agosto ho trovato che i lavori di ricostruzione erano già iniziati; quanto meno gli artisti avevano già cominciato a scolpire i pali (ancora una volta con significative variazioni rispetto al passato). Molti problemi sembrano tuttora aperti, da quello finanziario a quelli concernenti la sicurezza nonché, soprattutto, la composizione dei dissidi che hanno portato alla distruzione del precedente bung die e che potrebbero continuare pesare anche sull'esistenza del successivo. Significativo è però il fatto che Sua Maestà Djomo Kamga Honoré e le elite di Bandjoun abbiano ritenuto di dover comunque dare inizio ai lavori al fine di riaffermare in modo visibile la continuità del potere e dell'unità di Bandjoun. Vi si gioca una prova di forza. E per me, naturalmente, si riapre un terreno di ricerca. Il bung die di Bandjoun non c'è più. E' stato distrutto dal fuoco, 11 Note * Le immagini che compaiono nell’articolo sono dell’autore. "Rethinking Secularization", 2005 International Society for Intellectual History, University of California, Davis, 31 marzo - 3 aprile 2005. 2 Paul Gebauer, Art of Cameroon, Portland Art Asoociation, Portland, 1979; Tamara Northern, Art of Cameroon, Smithsonian Instituition Press, Washington DC, 1984; Pierre Hartier, Art anciens au Cameroun, Editions Arts d'Afrique Noire, Arnouville, 1986; Louis Perrois, Les rois sculpteurs, art et pouvoir dans le Grassland camerounais, Musée national des Arts d'Afrique et d'Océanie / Réunion des Musées Nationaux, Paris, 1993; Louis Perrois, Jean-Pierre Notué, Rois et sculpteurs de l'ouest Cameroun. La panthère et la mygale, Editions Karthala Orstom, Paris, 1997; Jean-Pierre Notué, Batcham. Sculptures du Cameroun, Musées de Marseille / Réunion des Musées Nationaux, Avignon, 1993 3 L. Perrois, 1993, p. 53 4 Bernard Maillard, Pouvoir et religion. Les structures socio-religieuses de la chefferie de Bandjoun (Cameroun), Peter Lang, Berne, Francfort s. Main, New York, 1984, 1984, pp. 131-171 5 Ivan Bargna, Arte africana, Jaca Book, Milano, 2003 6 Marc Augé, Génie du pagansime, Gallimard, Paris, 1982 7 Jack Goody, Representations and Contradictions. AmbivalencesTowards Images, Theatre, Fictions, Relics and Sexuality, Blackwell, London, 1999 (tr. it. Le ambiguità della rappresentazione. Cultura, ideologia, religione, Feltrinelli, Milano, 2000) 8 Paul Darby, Africa Football and Fifa Politics Colonialism and Resistance, 2001; G. Armstrong, R. Giulianotti, Football in Africa : Conflict, Conciliation and Community, McMillan 2004; E. Mv´e Elemva, Le livre blanc du football camerounais, Editions le matin, Yaounde, 1998. 9 Ivan Bargna, Intervista a Célestin Tawadje, Bandjoun, luglio 2002 10 Susan Diduk, "European Alcohol, History and State in Cameroon", African Studies Review , 36,1,1993 11 10 agosto 2002, funerale della regina madre della chefferie di Bangangte 12 Ivan Bargna, intervista con Patrice Kayo (University of Yaounde, Cameroon), Bafoussam, agosto 2003 13 Peter Geschiere, Sorcellerie et politique en Afrique. La viande des autres, Editions Karthala, Paris, 1995, p. 9 14 Eric J. Hobsbwam, Terence Ranger, The Invention of Tradition, Cambridge University Press, Cambridge, 1983 (tr. It. L'invenzione della tradizione,Einaudi, Torino, 1994) 15 Dominique Malaquais, Architecture, pouvoir et dissidence au Cameroun, Karthala, Paris - Presse de l'UCAC, Yaoundé, 2002, pp. 344-352 16 Malaquais, Op. Cit., p. 350 17 Jean-Pierre Warnier, L'esprit d'entreprise au Cameorun, Editions Karthala, Paris, 1993, p. 281; Dan Soen, Patrice de Comarmond, "Savings associations among the Bamileke. Traditional and modern cooperation in south west Cameroon", Journal de la Société des Africainistes, 41,2,1971 18 Wilfried Van Damne, A comparative analysis concerning beauty and ugliness in Sub-Saharian Africa, Africa Gandensia, Gand, 1987 19 Charles-Henry Pradelles de Latour, Le crâne qui parle. Ethnopsychanalise en pays bamiléké, E.P.E.L., Paris, 1997, pp. 45-53 20 Jaques Hurault, La structure sociale des Bamiléké, Mouton, Paris, 1962, pp. 59-63; Bernard Maillard, Op. Cit., pp. 50-87 21 Jean-Paul Warnier, Op. Cit. , pp. 197-222 22 Dieudonné Zognong ," La question bamiléké pendant l'ouverture démocratique au Cameroun", Publications du CIREPE, n°1 , http://www.unesco.org/most/p95cir1.htm; Joseph-Patrice Onana Onomo, "Symétries hégémoniques béti-bamiléké et rivalités politiques au Cameroun", Publications du CIREPE, n°1 , http://www.unesco.org/most/p95cir1.htm 23 si veda per esempio: http://festivalbamileke.org/ 24 Jan H. B. Ouden, "In Search of Personal Mobility: Changing Interpersonal Relations in Two Bamileke Chiefdoms, Cameroon", Africa, 57,1, 1987, p. 3 25 D. Malaquais, 2002, p. 199 26 Gilbert Lewis , "Magic, Religion and the rationality of Belief" in Tim Ingold (ed.), Companion Encyclopedya of Anthropology, Routledge & Kegan Paul, London New York, 1994 pp. 567-568 27 Roy A. Rappaport, Ritual and Religion in the Making of Humanity, Cambridge University Press, Cambridge, 1999, pp. 107-138 28 Alain C. Godonou, Sèdéhou E. Koutinh, Rapport technique mission chefferie de Bandjoun (Cameroun), Ecole du Patrimoine African di Porto-Novo,Bénin, 2005 (dattiloscritto) 29 Si vedano per esempio,Tâ Defo Fô Fotué, "Incendie criminel à Bandjoun", Jeune AfriqueEcononomie, 360, February, 2005; The 1 12 forum http://festivalbamileke.org/article.php3?id_article=61 30 Alain C. Godonou, Sèdéhou E. Koutinh, Op. Cit. 31 Emblematico il titolo di copertina con cui il mensile Jeune Afrique Economie, diretto da Blaise-Pascal Talla, un notabile di Bandjoun, salutava il nuovo re: "Dopo 19 anni senza re Bandjoun festeggia l'arrivo di Sua Maestà Djomo Honoré": i "diciannove anni senza re" sono quelli del regno del fo precedente, Ngnie Kamga. 32 Edmond Kamguia, "Chefferie de Bandjoun. Un incendie comme bougie d'anniversaire", La Nouvelle Expression, Douala, 1/26/2005. 33 Marc Augé, Op. Cit. Maschera Elefante Bamileke Il re e i membri della società Kuosi in Bandjoun, 1930 (fonte: http://www.randafricanart.com) 13 dossier Etnografia e media di Monica Fagioli e Sara Zambotti Lo studio dei media da una prospettiva antropologica ha rinvigorito il mercato editoriale anglofono dei testi di antropologia, istituendo nuovi corsi e nuovi programmi di studio in diverse università americane e inglesi, per fare alcuni esempi tra i più conosciuti. Anche qui all'Università degli studi di MilanoBicocca, Ugo Fabietti ha avviato nel 2004 un corso di Antropologia dei Media all’interno della laurea Triennale in Scienze della Comunicazione. Lo scorso anno l’insegnamento di Sociologia dei Media per la specialistica di antropologia, tenuto l'anno precedente da Paolo Ferri, è stato affidato a noi. Date le nostre rispettive competenze e interessi di studio, il corso è stato impostato accostando alcuni esempi della letteratura antropologica sui media e testi di sociologia dei media aventi in comune alcune premesse metodologiche. Questa non è la prima volta che Achab accoglie e pubblica alcune etnografie prodotte all'interno dei corsi di antropologia della Facoltà (cfr. N. 2, giugno 2004). Questo tipo di spazio editoriale è particolarmente importante perché permette di rendere accessibile ad un pubblico più ampio dei soli partecipanti ai corsi i materiali didattici prodotti. Inoltre, questo tipo di pubblicazione impone una nuova scadenza e insieme un'occasione per rivedere il proprio lavoro e riorganizzarlo in tempi successivi alla fine del corso (questo sia per gli studenti che per i docenti). Così, prendendo spunto dalla pratica già sperimentata da diversi docenti di antropologia della facoltà, abbiamo richiesto agli studenti di realizzare un'etnografia dei media a partire dalla premessa, data per scontata al livello della specialistica, che intende l'etnografia soprattutto come pratica per la produzione di un sapere critico. Per quanto i tempi imposti dal calendario didattico siano ristretti e limitanti, abbiamo ritenuto che valesse comunque la pena proporre ai partecipanti di provare a progettare e realizzare un proprio percorso di ricerca a partire dagli spunti teorici e metodologici presentati durante le lezioni; un percorso in cui scegliere autonomamente l'argomento e la tipologia di media da trattare. In questo senso, se le etnografie qui presentate (una selezione di tutte quelle prodotte), sono prima di tutto frutto di un lavoro personale, tuttavia esse sono anche il risultato dei contenuti presentati durante le lezioni. Per presentare questi lavori vorremmo, quindi, spendere qualche parola riguardo alle principali questioni affrontate durante il corso e ai contributi più significativi che sono stati presentati al suo interno, non solo da parte nostra, ma soprattutto da altri docenti, sociologi dei media (Federico Boni, Gianpiero Mazzoleni, Paolo Ferri), antropologi (Setrag Manoukian, Vicente Rafael, Simona Vittorini) e filmmaker (Vision Machine Film Project). In un momento in cui la sociologia dei media si sta aprendo alla ricerca sul campo, attingendo sia alla letteratura della propria tradizione disciplinare sia all'antropologia, ci sembrava importante vedere quali potevano essere nella ricerca antropologica i contributi specifici, e quindi le assonanze e divergenze metodologiche con la sociologia dei media. Il corso si è quindi concentrato sulla pratica etnografica dei media, cercando di fare incontrare sociologia e antropologia sul terreno comune della ricerca sul campo. Ma come si fa un'etnografia dei media? Fare etnografia dei media, non è una cosa semplice da spiegare e neanche illustrare i vari filoni teorici della ricerca sociologica sui media era un compito facile, considerato il vasto corpo di lavori che esistono in materia e le varie ramificazioni, ma soprattutto non era scontato per noi che non avevamo una formazione disciplinare in sociologia. Come accennato all'inizio l'antropologia dei media nasce, invece, come sottodisciplina dell'antropologia nel momento in cui alcuni antropologi finalmente si accorgono che, nei loro lavori, lo studio dei mezzi di comunicazione non aveva trovato uno spazio rilevante o che questa dimensione non era mai stata esplorata fino in fondo. Da una parte, troviamo antropologi che si ritagliano una fetta di sapere nominandola antropologia dei media conferendole lo statuto di sottodisciplina, dall'altra, ci sono lavori che appartengono ad un ambito di studi non identificabili necessariamente con l'antropologia, ma a cui gli antropologi attingono per costituire il loro bagaglio di letture e riflessioni: come gli studi sull'estetica, gli studi culturali, gli studi sul cinema, sul genere, sulla religione e gli studi postcoloniali che nelle diverse prospettive si sono occupati di media e di pratiche mediatiche. Questi lavori non sono riconducibili ad un'unica definizione di ciò che si intende per antropologia dei media, ma insieme contribuiscono tutti, talvolta in maniera originale, allo studio dei media in una prospettiva multidisciplinare aggiornando la letteratura sugli studi della comunicazione di massa e quella antropologica allo stesso tempo. Tra questi molteplici aspetti, durante il corso, prima di passare alla lettura di ricerche etnografiche, sono stati presentati due saggi 14 più teorici che intendevano definire due distinte possibilità di approccio allo studio dei media, di cui ci interessava successivamente indagare le possibili "ricadute" e "applicazioni" etnografiche. Da una parte, la Discourse Network Analysis di Friedrich Kittler che riprende il modello di analisi del discorso di Foucault per "riaprirlo" e integrarvi l'attenzione all'interazione corpo/tecnologia così come è stata approfondita da McLuhan. A questo segue un'analisi di come in ogni dato momento storico il sistema delle tecnologie comunicative, gestito e diffuso da strutture di potere, influenza il nostro modo di processare informazioni e di come le tecnologie danno forma (in suoni, immagini e testi) alle nostre percezioni autorizzando particolari rappresentazioni di realtà a discapito di altre. Dall'altra, il modello Encoding-Decoding di Stuart Hall che, attingendo anche alla semiotica, applica i concetti di ideologia, articolazione (Althusser) e egemonia (Gramsci) allo studio dei processi comunicativi, non più pensati come lineari e omogenei ma come discorsi significativi, generati da lotte e negoziazioni di codici oppositivi, spostando quindi l'attenzione sulle pratiche e i discorsi mediatici e sui loro significati ideologici. Il primo passo è stato quello di contestualizzare questi due approcci richiamando brevemente, per il primo, le innovazioni portate da quei ricercatori che a partire dagli anni '50 hanno prodotto studi in cui la storia e l'analisi dell'effetto dei mezzi di comunicazione venivano ripensate mettendo in luce l'evoluzione degli aspetti tecnologici e funzionali dei mezzi. McLuhan e Innis (poi identificati come gli studiosi canadesi della Media Theory), ognuno a suo modo, hanno sottolineato l'importanza del funzionamento e della struttura materiale del mezzo come elementi da considerare per comprenderne l'effetto sulle percezioni umane, pensando le tecnologie e la sensorialità come elementi integrati e inscindibili (McLuhan). Per il secondo, invece, inquadrando lo sviluppo degli studi culturali dal secondo dopoguerra, come studio della working class e come critica agli approcci empirici e quantitativi americani nello studio dei media, attraverso il ricorso alla semiotica, al metodo etnografico e alla teorie neomarxiste, con l'avvio di studi sulla cultura popolare, sul concetto di razza e di genere. In seguito si è cercato di discutere quali potevano essere le ricadute etnografiche di questo tipo di approcci, non tanto in termini di rigida applicazione di paradigmi, ma sotto forma di domande: che cosa significa fare un'etnografia dei media che si interroghi sulle modalità specifiche in cui le tecnologie processano informazioni? Come integrare la tecnologia all'interno dell'etnografia senza che questa diventi una dimensione schiacciante, deterministica e meccanica? Come cambia il concetto di media se a "medium" sostituiamo "tecnologia"? Come cambia la collocazione della dimensione del potere? E, sull'altro versante, quali sono gli schemi di significazione che sottendono ad una rappresentazione? Le nostre aspettative, i nostri pareri, opinioni, rimandano ad un ideale di oggettività nel giornalismo o nei media in generale? Come si compone il discorso mediatico, quali sono i suoi posizionamenti e le sue lacune? A questo tentativo di traduzione dei testi teorici in domande, è seguita l'analisi di alcune etnografie in cerca di possibili risposte. Rudolf Mrazek usa fonti storiche d'archivio e letterarie per analizzare la colonizzazione olandese delle isole nell'attuale arcipelago indonesiano guardando alle trasformazioni delle modalità di sentire introdotte dall'importazione di tecnologie dalla madrepatria. L'uso della radio, dell'elettricità' e dell'automobile (per citare alcuni esempi) trasformarono i modi di vivere e di sentire in colonia e introdussero nuovi modelli comportamentali. L'etnografia di Vicente Rafael, che ricostruisce i recenti sviluppi politici nelle Filippine attraverso l'analisi del ruolo del telefono cellulare nell'aggregare e dar forma alle proteste popolari nelle strade di Manila, apre su altre dimensioni del rapporto tra soggetti e tecnologie come, per esempio, quella delle "fantasie telecomunicative", sui significati culturali attribuiti alla possibilità di comunicare a distanza (e quindi in assenza) e sulla loro ricaduta politica. O ancora, su come si costruisce in un certo contesto sociale la credenza e la fiducia nell'attendibilità di un testo (messaggio, suono, immagine) mediatica e su quali sono le dimensioni e le fonti da indagare per capire come e perché un messaggio o una rappresentazione è ritenuta più veritiera di un'altra. Lo studio etnografico di Arvind Rajagopal, invece, guarda alla programmazione televisiva di un film epico hindu nella televisione di stato indiana e alla sua audience come dimensione in cui non solo è possibile rintracciare i frammenti dell'idea di nazione indiana e ricostruire i vari significati contrastanti di appartenenza nazionale, ma è anche possibile constatare l'inadeguatezza del concetto di nazione come "comunità immaginata" applicato al contesto indiano, composto di elementi premoderni e in via di modernizzazione. Guardando agli esempi di queste e altre etnografie sono emerse prevalentemente alcune critiche a certe categorie e teorie nello studio dei media che accusavano di eurocentrismo sia la lettura mediacentrica delle media theories canadesi, sia alcuni assunti degli studi culturali sui media che non tengono conto delle pratiche e dei contesti non occidentali in cui i media vengono fruiti o praticati. Le etnografie emerse dall'ambito degli studi sul multiculturalismo e gli studi postcoloniali, hanno spinto così la nostra riflessione etnografica sul contesto e sulle rappresentazioni eurocentriche che concorrono alla formazione dell'immaginario cinematografico, televisivo o che popolano le testate giornalistiche . Grazie a questi esempi, il nostro intento è stato prima di tutto quello di trasmettere uno degli assunti che ha caratterizzato il nostro apprendimento in ambito etnografico che consiste nel pensare l'etnografia come una ricerca che si deve costruire nel tempo come sintesi dinamica, mutevole e riflessiva di diversi approcci e strumenti. Andando avanti nel corso delle lezioni, quella che era stata la distinzione iniziale tra tecnologie e politica della significazione (su cui avevamo impostato anche le nostre rispettive specificità didattiche) ha perso molto del suo potere 15 classificatorio. Il confronto con le etnografie, infatti, ha presto rivelato come entrambe queste dimensioni (insieme a molte altre) sono presenti nella complessità delle pratiche sociali comunicative. Inoltre, la fluidità e la pervasività di una categoria come quella di comunicazione contribuiscono a rendere l'ambito di studi vasto e difficilmente etichettabile. Tuttavia, la nostra richiesta è stata quella di cercare di fare emergere la presenza di questi aspetti nelle ricerche individuali, invitando gli studenti a praticare percorsi di ricerca anche poco battuti (come nell'etnografia dello spazio sonoro nell'area Europlex-Bicocca elaborata da Tullia Gianoncelli). Avremmo voluto anche poter integrare nel corso la pratica di un mezzo di comunicazione video o audio, se avessimo avuto il tempo e le risorse, ma questo non è stato possibile. La manipolazione, l'uso, la conoscenza dei meccanismi attraverso cui si producono testi, suoni, immagini può essere un metodologia didattica efficace tanto quanto l'etnografia per impadronirsi della "lingua" dei mezzi e capire maggiormente come questa influisca sui contesti e le pratiche. Il contributo di altri docenti (Federico Boni che ha presentato come l'etnografia si inserisce negli studi sociologici sui media, Gianpiero Mazzoleni che ha analizzato l'assetto della proprietà dei media in Italia proponendo cosi un esempio di analisi attenta al potere dei mezzi di comunicazione, Setrag Manoukian che ha presentato alcune parti della sua etnografia sulle pratiche di "editing" nell'Iran contemporaneo e Simona Vittorini infine ha illustrato alcuni aspetti della politica contemporanea in India a partire dalle immagini di manifesti politici e serials televisivi) hanno ulteriormente allargato lo spettro dei possibili approcci etnografici allo studio dei media. Inoltre Michael Uwemedimo, e Andrea Zimmermann, hanno presentato il lavoro del loro collettivo, i Vision Machine Film Project, che combinano la pratica video all'antropologia, al cinema e alla storia ispirandosi al lavoro del filmmaker francese Jean Rouch e adoperando parte della metodologia partecipativa che Rouch utilizzava nella produzione dei suoi film in Africa, (il gioco dei ruoli, la reinterpretazione, la rinarrazione, l'impiego dell'immaginario cinematografico e di attori non professionisti come protagonisti) sul loro lavoro in Indonesia e negli USA che indaga sul circuito o loop tra violenza spettrale e spettacolare, la violenza della colonizzazione e delle politiche neocoloniali americane. Le etnografie scritte da Fiammetta Martegani, Silvana Calzolari, Tullia Gianoncelli, Serena Bottelli sono alcuni esempi di come si possa condurre una prima ricerca etnografica a partire da un testo mediatico (messaggio, suono, immagine), da luoghi di produzione di "svago" più o meno commercializzato e standardizzato o, ancora, a partire dall'immaginario tecnologico. Nel testo di Fiammetta Martegani, la comparazione di due testi filmici e delle rappresentazioni simboliche che compongono l'immaginario sulla guerra nel cinema occidentale anglofono mette in rilievo quali siano i tropi della rappresentazione nell'immaginare la guerra in Vietnam e far emergere così alcune caratteristiche della società per le quali questo immaginario è stato creato. L'analisi semiotica di uno spazio espositivo milanese nel cuore della città, condotta da Serena Bottelli osserva invece quali siano le pratiche di fruizione di quello spazio e i significati ad esso connessi, secondo un tipo di analisi formale degli spazi e di un luogo come mezzo di comunicazione. Silvana Calzolari ha condotto un'etnografia sul cellulare guardando all'evento Tsunami. La promessa legata alla possibilità data dal cellulare di far pervenire gli aiuti dalle famiglie srilankesi residenti in Italia ai loro parenti e amici in Sri Lanka emerge da un'attenta analisi del mezzo come tecnologia comunicativa che partecipa alla costruzione dell'immaginario tecnologico e influenza le pratiche quotidiane. Attraverso un'immersione attenta alla sonorità di alcuni spazi "ricreativi" di un centro commerciale nella periferia milanese, l'etnografia di Tullia Gianoncelli svela le modalità in cui questo design sonoro è stato pensato e presenta diverse modalità di subirlo e/o percepirlo da parte di coloro che lo abitano e lo attraversano. Nello stesso modo il paesaggio sonoro pone una serie di domande all'etnografa riguardo a quali strumenti usare per analizzarlo (paesaggi e spazi, forse non a caso, ripropongono metafore visuali) e a come raccontare, utilizzare, definire l'ascolto come pratica di ricerca. 16 La rappresentazione del conflitto del Vietnam attraverso Hollywood Analisi comparata di Apocalypse now di Coppola e Full Metal Jacket di Kubrick di Fiammetta Martegani 1. Introduzione: dal war movie al viet movie strategicamente di collocarsi non solo al di fuori della tradizione del war film, ma più in generale al di fuori di ogni ipotesi di tipo mimetico, rifiutando a priori di raccontare la guerra attraverso i codici del realismo, peculiari al genere bellico, e optando invece per una rappresentazione simbolica e metastorica. Sarà dunque grazie all'exploit Cimino-Coppola che gli anni ottanta vedranno una vera e propria fioritura del viet movie come genere autonomo, del resto, non a caso, in corrispondenza al clima di orgoglio patriottico creato dalla presidenza Reagan, che, impiegato in una nuova guerra fredda contro il comunismo mondiale, farà in modo che il Vietnam venga riletto non più come una pagina oscura da dimenticare in fretta, bensì come un episodio glorioso, seppure segnato dalla sconfitta, in cui i soldati americani si sono fatti onore. Nel marzo 1983 Reagan arriverà a firmare la "National Security Decision Directive 75". Tale direttiva, come analizzato da Virilio, annunciava la realizzazione del "Progetto Democrazia", vale a dire il richiamo ad un accresciuto impegno americano in materiali di propaganda per accompagnare le misure di sanzione economica e l'impegno militare americano. A tal fine, l'Amministrazione reclamava 85.000.000 di dollari di credito in "film, libri e mezzi di comunicazione, per promuovere le forme di democrazia"3. L'esperienza vietnamita spezza così, usando le parole di Valantin4, il "complesso militar-cinematografico" in due poli: uno conservatore che si rivolge alla maggioranza silenziosa, e l'altro liberale che denuncia con virulenza la guerra in Vietnam, i suoi effetti sociali ed ideologici, così come l'apparato politico e strategico che l'ha sostenuta. Come analizzato efficacemente da Stefano Ghislotti5, la costruzione dell'eroe forgiato dall'esperienza vietnamita occuperà il cinema americano a partire dagli anni ottanta anche attraverso film che non parleranno direttamente della guerra: in questo contesto emergeranno quei diversi generi di film che spaziano dal missing in action alla Rambo (Kotcheff, 1982) al tema del "ritorno", come nel caso di Taxi Driver (Scorsese, 1976). Molteplici e spesso diametralmente diversi tra di loro saranno dunque i punti di vista con cui il cinema americano tenterà di rappresentare il vissuto del Vietnam. La dining-room war, la guerra vista in televisione, costata drammaticamente sia in termini finanziari che umani (il bilancio a guerra finita è di oltre 58.000 morti) e alla fine abbandonata, è rimasta nel corso degli anni settanta come una ferita Il 30 aprile 1975, con la firma dell'armistizio e la caduta definitiva di Saigon, cessano ufficialmente le ostilità che hanno segnato in modo drammatico la storia non soltanto del Vietnam, ma anche, e in modo decisamente significativo, degli Stati Uniti d'America. Se, come afferma lo storico militare inglese John Keegan, "tutte le guerra dei tempi moderni hanno provocato una risposta letteraria, ma sempre a una certa distanza dalla fine delle ostilità"1, anche nel caso del conflitto del Vietnam, Hollywood inizierà a interessarsi alla sua rappresentazione soltanto sul finire degli anni settanta, "per poi inondare gli schermi come seduta psicoanalitica di massa a partire dagli anni ottanta"2. Le resistenze da parte delle majors nell'affrontare il tema del Vietnam negli anni in cui la guerra era in corso e nell'immediato dopoguerra, vanno individuate in più fattori concomitanti, , ma che tendenzialmente convergerebbero in ragioni più di tipo finanziario che non politico. I produttori hollywoodiani hanno infatti sempre dimostrato grande prudenza nel finanziare film riguardanti temi politicamente controversi, per timore di eventuali boicottaggi ai botteghini. Tuttavia l'assenza di film hollywoodiani sul tema del Vietnam tra il 1964 e il biennio 1978-1979 non può non essere ricondotta anche all'inevitabile difficoltà da parte dei registi cinematografici di parlare in maniera diretta di un argomento così violentemente dibattuto in tutto il Paese, tanto che i primi tentativi da parte dei cineasti di avvicinarsi al delicato argomento, avverranno in maniera obliqua, attraverso l'allegoria del western filo-pellerossa, come in Piccolo grande uomo di Penn e in Soldato blu di Nelson, entrambi girati nel 1970. Altre modalità con cui verrà colmato il vuoto lasciato da Hollywood, saranno la produzione documentaristica underground, legata alla controcultura e al movimento pacifista, da un lato, e i B-movies dall'altro, che, oltre a puntare su bassissimi costi di produzione, vedranno nel viet movie una modalità attraverso cui poter parlare di temi scottanti come violenza, droga e sesso, argomenti con cui potersi assicurare uno spazio di nicchia anche all'interno di un mercato dominato dalle majors. Ma il biennio in cui le grandi produzioni inizieranno ad affrontare direttamente il tema della dirty war sarà soltanto quello del 197879, ovvero con l'uscita rispettivamente di Il cacciatore di Cimino e Apocalypse now di Coppola, che peraltro sceglieranno entrambi 17 irrimarginabile nel sentimento nazionale americano. Negli anni ottanta, alle prese con questa ferita ancora aperta, l'industria culturale americana, e quella hollywoodiana in particolare, manifesterà orientamenti diversi che oscilleranno tra l'adesione alle ragioni dell'intervento, attraverso la ricerca di una rivincita morale, alla denuncia esplicita nei confronti di una guerra mai dichiarata, combattuta con i mezzi tecnologici più avanzati, costata migliaia di vite umane, e alla fine perduta. Punti di vista e quindi modalità di rappresentazioni diametralmente differenti, non soltanto nella produzione dei contenuti, ma, con conseguenze significative e pervasive, soprattutto attraverso la codifica delle forme. Sia in Apocalypse Now che in Full Metal Jacket (Kubrick, 1987) si ha a che fare con l'iniziazione di un anti-eroe, viaggio iniziatico che si svolge attraverso l'esperienza nel corpo dei marines, culminante nella metabolizzazione del diritto legittimo di uccidere, in modo da poter rientrare all'interno di quel sistema, da cui il soggetto, nel momento stesso in cui cerca di emanciparvisi, viene, de facto, inevitabilmente inglobato. Tuttavia le forme con cui verranno rappresentati i due diversi percorsi di iniziazione prenderanno strade talmente antitetiche da determinare uno stravolgimento degli stessi contenuti, ed è con questa prospettiva che si intende effettuare un'analisi comparata dei due film, attraverso una decodifica delle strutture narrative e dei riferimenti letterari, dell'ausilio della colonna sonora, della scelta dell'ambientazione e dell'uso della luce. americano ottocentesco (Alonge, portando avanti quest'ipotesi, fa riferimento a Cooper, Melville e Twain)6, incentrato nella figura di un uomo bianco in fuga dalla civiltà, il quale, in compagnia di un "selvaggio" (a seconda dei casi: pellerossa, polinesiano o nero), si inoltra in un territorio incontaminato, una wilderness di cui l' "altro" ne risulta espressione fisica. Vedremo infatti che in Apocalypse now la giungla non si presenta mai come un luogo "reale", connotato in termini tattici e geografici, ambiente in cui un esercito occidentale ha difficoltà ad operare, come avviene ad esempio in Platoon (Stone, 1986). Nel film di Coppola, sulla falsa riga del romanzo di Conrad, la massa scura degli alberi si configura piuttosto come il simbolo di una natura arcaica e incomprensibile rispetto ai canoni della razionalità dell'"uomo bianco". Per quanto Apocalypse now non sia una trasposizione cinematografica in senso stretto, (nei credits non si fa alcun riferimento all'opera di Conrad, e la sceneggiatura viene attribuita soltanto a Coppola e Milius) i "modi della narrazione"7 con cui viene rappresentato il prodotto discorsivo, hanno subito inequivocabilmente una decisa influenza da parte di Cuore di tenebra. Ciò che compie Coppola è un trasferimento della colonizzazione belga del Congo della fine d e l l ' o t t o c e n t o nell'occupazione americana avvenuta in Vietnam. In entrambe i casi, come afferma Alonge, i due autori muovono il loro attacco alla Kultur occidentale, facendo uso (e sovvertendoli dall'interno) dei codici e delle forme culturali che quello stesso modello culturale aveva prodotto e utilizzato per la giustificazione ideologica del proprio operato: Conrad si serve del romanzo esotico-avventuroso dell'età vittoriana, che in scrittori come Kipling era servito da veicolo di propaganda per la teoria del "fardello dell'uomo bianco"; allo stesso modo Coppola utilizza il film bellico, tradizionale canale per la creazione del consenso intorno alla politica dell'establishment americano8. Si potrebbe dunque affermare, rifacendosi all'approccio analitico di Metz9, che sia nell'opera di Conrad che in quella di Coppola è possibile leggere più sotto-livelli testuali: un primo livello, più evidente e immediato, di tipo storico-politico (l'impresa coloniale belga in Congo e l'occupazione americana del Vietnam); un secondo livello più implicito, definibile psicanalitico-iniziatico, costituito dal viaggio come romance, culminante con l'incontro con il proprio doppio malefico; un ultimo e più sottile livello di 2. Strutture narrative e riferimenti letterari Come si era accennato in anticipo, le modalità adottate da Coppola nel rappresentare il conflitto del Vietnam risultano del tutto innovative rispetto alla dinamiche di rappresentazione dei film di guerra canonici. Intimamente vincolato al romanzo di guerra novecentesco, il war movie canonico, da Niente di nuovo sul fronte occidentale (Milestone, 1928) in avanti, tenderà a seguire quella tipica tripartizione della trama, schematizzabile in: 1.addestramento 2.arrivo al fronte, battesimo del fuoco e perdita dell'innocenza 3.rigenerazione attraverso la violenza Questi ritmi narrativi, ben accolti da Kubrick in FMJ, verranno invece rifiutati da Coppola in Apocalypse now, e questi due antitetici tipi di scelte non saranno casuali, ma strettamente legati ai romanzi da cui i due film vengono rispettivamente tratti: Nato per uccidere di Gustav Hasford, del 1979, e Cuore di tenebra di Joseph Conrad, del 1902. Volendo dunque parlare delle strutture narrative peculiari a generi letterari specifici, se Nato per uccidere tende a rispettare la tradizione del romanzo bellico novecentesco (per quanto, come vedremo in seguito, Kubrick opererà degli stravolgimenti significativi rispetto alla dimensione onirica del testo), Cuore di tenebra si colloca piuttosto nella tradizione del romance 18 tipo metalinguistico, ovvero un racconto sullo stesso raccontare, o meglio, sull'impossibilità di raccontare, ragion per cui la deriva stilistica in cui soccombono entrambi gli autori, viene a esplicarsi nel ricorso a una dimensione di tipo onirico-esoticizzante. Il tal senso il viaggio attraverso il fiume risulta in entrambe i casi un viaggio verso l'inferno: attraverso la navigazione avviene una progressiva perdita di contatto con la civiltà, una caduta in un universo primordiale che si concretizza man mano che l'imbarcazione risale il fiume, e che raggiunge il suo culmine alla fine del viaggio, in un'atmosfera di nebbia e malattia, incorniciata da un paesaggio di teste mozzate e di riti pagani, tanto che nella scena finale di Apocalypse now Willard, prima di uccidere Kurtz, si immergerà in un bagno rituale da cui emergerà brandendo un'arma primitiva con cui compirà una sorta di assassiniosacrificio. L'immersione di Willard viene così a rappresentare un'immersione totale nella wilderness, da cui, una volta inglobati, diverrà impossibile uscirne. In modo completamente antitetico si muove invece Kubrick, con un deciso rifiuto verso tutto ciò che avrebbe potuto rischiare di farlo rimanere imprigionato in una dimensione di tipo oniricoesoticizzante. Come si è accennato precedentemente, Nato per uccidere è un romanzo di guerra che rispetta buona parte degli snodi narrativi codificati dalla letteratura di genere: addestramento, campo di battaglia, esperienza e maturazione. Ma ciò che avviene di innovativo, e che viene invece appositamente rifiutato da Kubrick, è il ricorso ad un registro di tipo onirico-surreale: nel romanzo di Hasford compare a un certo punto un colonnellovampiro, e non solo Palla di lardo finisce a parlare da solo con il proprio fucile, come accade in FMJ, ma il fucile stesso detiene il dono della parola. Questa necessità di aderenza al verosimile è tale da portare addirittura Kubrick a stravolgere, in modo tutt'altro che poco significativo, la macro-struttura dell'intreccio. Hasford suddivide gli avvenimenti in tre grandi capitoli: "Lo spirito della baionetta", "La conta dei caduti" e "Combattimenti". Rispetto a questa tripartizione Kubrick opta invece per un disegno duale, che contrappone l'addestramento a Parris Island all'esperienza sul fronte in Vietnam. Il terzo capitolo di Nato per uccidere, in cui avviene l'emblematico episodio del cecchino, si svolge nella giungla, Kubrick, invece, sceglie volutamene di girare la sequenza in questione presso un ex-stabilimento industriale, situato nei sobborghi di Londra. La strategia adottata è dunque quella della voluta nonrappresentazione della giungla, una sorta di dis-ambientamento attraverso l'architettura delle rovine moderniste. Inoltre in Nato per uccidere, una volta che Cowboy viene ferito dal cecchino, Joker decide di finire l'amico con una fucilata, in modo tale che il reparto possa ripiegare, dal momento in cui non c'è più nessuno da andare a salvare. Laddove nel romanzo il protagonista rimane dunque un out-sider fino all'ultima pagina, nel film invece Joker non riesce a ribellarsi alla cultura autodistruttiva dell'esercito, per cui una volta morto Cowboy (che perirà al primo colpo, per opera del cecchino) Joker deciderà di uccidere il cecchino stesso, e una volta avvenuto il battesimo da killer, si uniformerà alla logica del branco cantando assieme agli altri la canzone Mickey Mouse club, jingle scelto volutamente dal regista, come stiamo per accingerci ad analizzare, in quanto emblema della cultura di massa peculiare all'american way of life. 3. Ruolo della colonna sonora In Apocalypse now non appaiono titoli di testa, bensì l'inizio delle sequenze è scandito dalle note di una canzone il cui titolo, nonché il cui testo, detiene un forte significato nell'incorniciare e quindi nel codificare il messaggio, o meglio, i più livelli di messaggi, dell'opera di Coppola: stiamo parlando di The End (Doors, 1967). "This is the end". L'incipit del brano musicale, e quindi anche del film, risulta esplicito: la storia che sta per avere inizio non è solo una narrazione sul Vietnam, ma una narrazione sull'Apocalisse. La scelta di utilizzare una canzone intitolata The end come prologo del film, può infatti essere interpretata come volontà di compiere una denuncia politica, di far percepire il significato più profondo del dramma del Vietnam: "la fine" della razionalità umana e quindi della sua sopravvivenza; non tanto la morte, quanto l'incapacità di reagire al dolore e all'orrore, subiti e provocati. Willard, fin dall'inizio, dalle prime riprese, é un uomo "finito", e in tal senso le parole della canzone assumono un significato anche di tipo prolettico: l'inizio anticipa la fine, tanto che le note finali della canzone verranno riprese al termine del film, durante l'assassinio-scacrificio di Kurtz, che potrebbe donare a Willard un ultimo barlume di speranza, ma il cui gesto (il sacrificio di una vita umana) racchiude già in sé il seme della "fine". L'estremo sacrificio, l'uccisione della vittima sacrificale, si compie quando l'improvvisazione sonora é ormai al culmine: chitarra, batteria e organo raggiungono la perfetta fusione ed ipnotizzano. Morrison urla: "C'mon, Yeah, Kill, kill, kill, kill, kill, kill". E Willard ucciderà. Se le parole dei Doors svolgono la funzione di incorniciare, e quindi meta-commentare le immagini girate da Coppola, scelta altrettanto significativa sul piano simbolico è quella dell'utilizzo da parte del colonnello Kilgore ("Io uso Wagner, fa cagare sotto i vietnamiti!") della Cavalcata delle valchirie (Wagner,1856) come sottofondo musicale, durante la, ormai passata alla storia, sequenza del bombardamento al napalm. Come spiega il curatore del montaggio Walter Munch: "Era una coreografia su larga scala di uomini, macchine, cinepresa e paesaggio; come una specie di giocattolo diabolico caricato a molla e poi lasciato andare. Non appena Francis diceva 'azione' le riprese sembravano un vero e proprio combattimento. Otto cineprese che giravano simultaneamente (alcune a terra e altre sugli elicotteri), ognuna caricata con 300 metri (11 minuti) di pellicola. Alla fine di ogni ripresa si cambiavano le posizioni delle cineprese e tutto veniva ripetuto, e poi un'altra volta, e poi ancora. 19 (…) 380.000 metri, che vuol dire più di 230 ore. Siccome il film finito dura poco meno di due ore e 25 minuti, questo significa un rapporto di 95 a 1. Cioè 95 minuti 'invisibili' per ogni minuto che ha trovato posto nel prodotto finito. In confronto, il rapporto medio per un film è di circa 20 a 1"10. Il decollo della Cavalleria dell'Aria viene segnato dallo squillo della tromba e dal coro femminile che si odono in questo prologo anticipando gli ottoni e il canto delle Valchirie: ciò a cui si assiste non è soltanto la rappresentazione di un attacco, ma la sua teatralizzazione, in cui persino le deflagrazioni, perpendicolari rispetto agli aeromobili (fenomeno tecnicamente impossibile), risultano spettacolari e irrealistiche, producendo suggestioni estetizzanti e iperboliche. Se la grandezza della sequenza dell'attacco degli elicotteri consiste nel fatto che esprime pienamente il senso della velocità futurista di una battaglia del XX secolo, la scelta di un'opera quale la Cavalcata e di un autore come Wagner, sembra dunque tutt'altro che casuale: in questo contesto, come afferma Alonge, Wagner assurge a simbolo sonoro del potere dell'Occidente nella sua esperienza storica. La sequenza del bombardamento del villaggio diventa in tal modo una visualizzazione della natura ambivalente della potenza dell'uomo faustiano, terribile e affascinante al contempo11. L'utilizzo della musica in Apocalypse now risulta dunque, più che un ausilio alla struttura narrativa, vero e proprio elemento portante per la costituzione della struttura narrativa stessa. Con tutt'altre finalità viene scelta invece la colonna sonora di FMJ, per altro curata dalla figlia di Kubrick stesso, Vivian Kubrick, meglio conosciuta con lo pseudonimo di Abigail Mead. In perfetta conformità col genere del viet movie, padre e figlia, nella scelta delle canzoni, attingeranno ad un repertorio esclusivamente anni '60, proponendo quindi i testi delle canzoni che ascoltavano effettivamente i marines al fronte. In tal senso, come analizzato da Bassetti12, l'unica mediazione sonora in grado di sfuggire ai trabocchetti della retorica è quella dell'autenticità, in forma di insulse canzoni d'epoca. Il film ha inizio con le note di Hello Vietnam (Johnny Wright, 1965), country militante e patriottico, espressione del "falchismo" interventista, che, secondo una visione popolare e sentimentale della guerra, esalta l'avventura americana nel Vietnam: il testo recita "dobbiamo fermare il comunismo in quel Paese [...] dobbiamo salvaguardare la libertà ad ogni costo o un giorno la nostra stessa libertà andrà perduta." Su queste note si apre il film con la celebre immagine delle teste di 17 militari che vengono completamente rasate a zero, primo segno inequivocabile del subire l'assimilazione in un corpo, quello dei marines, in cui, per poter sopravvivere, non si prospetta alcun'alternativa se non quella di accettare in toto il sistema, facendo quindi del proprio corpo il primo veicolo per tale processo di assimilazione. Nel corso dell'addestramento i marines marceranno al ritmo del Marines Hymn, rap composto direttamente da Vivian Kubrick e interpretato magistralmente da Lee Ermey, scelto appositamente da Kubrick per via della sua esperienza di trenta mesi nei marines come sergente istruttore durante il conflitto in Vietnam. Nel giro di pochissimi giorni dall'uscita del film nelle sale, il rap dei marines raggiungerà addirittura il secondo posto nelle classifiche pop ingelsi. Dopo la dissolvenza in nero che chiude il capitolo di Parris Island, la prima scena ambientata in Vietnam sarà sarcasticamente rappresentata dall'arrivo di una prostituta vietnamita, segnato dalle note dell'ironica These Boots Are Made for Walkin' (Nancy Sinatra, 1965). Le parole di Chapel of love (Dixie Cups, 1964) allieteranno invece le chiacchiere di Joker e compagni nella tenda dell'accampamento (qui "chapel of love"), fino a quando verranno interrotte bruscamente dalle sirene che annunciano l'attacco dei vietnamiti durante il capodanno Tet. Al controcanto cinico di Wolly Bully (The Pharoas, 1960) spetterà invece accompagnare i dialoghi grotteschi (dal gergo tipicamente militaresco) tra i marines, durante l'incontro sul fronte tra Joker e Cowboy. Subito dopo il primo attacco da parte del plotone, la demenziale e sguainatamene energizzante Surfin bird (The Trashman, 1963) farà da sottofondo all'euforia dei vincitori. Qui il ritmo della musica sembrerà quasi scandire il ritmo della marcia dei trasportatori di barelle e dei cameraman della TV americana. Infine, come si era accennato precedentemente, dopo aver ucciso il cecchino, Joker e gli altri si riuniscono col plotone e marciano di fronte ad edifici in fiamme, cantando in coro la Mickey Mouse Club March (Jimmie Dodd, 1955). Come analizzato da Enrico Ghezzi13, con tutto il suo bagaglio di innocenza, Joker si aggrega alla comunità dei dannati che scompare nell'oscurità dei fuochi cantando la marcia di Mickey Mouse. La regressione è avvenuta per intero: il soldato Joker è diventato l'assassino Joker, e come tale può unirsi al resto del branco, della massa, dei fruitori di quell'industria culturale di massa di cui Mickey Mouse è l'icona. Con questo brano si conclude il film, poi l'immagine diviene completamente nera e tale permane per alcuni secondi, mentre il sitar attacca con Paint it black (Rolling Stones, 1963) con cui hanno inizio i titoli di coda. Si potrebbe dunque concludere l'analisi delle due colonne sonore sottolineando come la musica in FMJ venga utilizzata come strumento in grado di concorrere a una produzione di tipo 20 realistico degli eventi, con intenti dunque assolutamente antiretorici, rispetto a quanto invece ci è parso verificarsi in Apocalypse now. contrapposizione tra Storia e Natura, tecnologia e stato selvaggio, verrà giocato dalla componente cromatica. Nella parte finale del film, dopo essere passati dal bianco della luminosità tecnologica, al verde della giungla e della Natura selvaggia, grazie all'ausilio di un'illuminazione con sfumature arancioni, si arriverà al rosso del sangue e della morte, che culminerà nell'assassinio rituale di Kurtz, e quindi alla totale assenza della luce, a vantaggio del buio e delle tenebre conradiane. Il confronto tra Willard e Kurtz avviene infatti in un contesto totalmente avulso da qualunque referente spazio-temporale, in un universo quasi primordiale. I monologhi di Marlon Brando, peraltro costantemente vestito di nero, avvengono sempre nel buio, di lui si vede esclusivamente il volto, spesso solo parte di esso, mentre il resto dello schermo è nero: Kurtz sembra così essere totalmente sprofondato nella darkness. E quando Willard commetterà l'assassinio rituale, mentre la tribù di Kurtz (un'intera tribù di 250 persone, gli Ifugau, originari del nord delle Filippine, trasportata, accampata e mantenuta sul set per l'intera produzione) celebra un rito pagano, l'ordigno impiegato sarà una sorta di machete, improbabile arma primitiva nel bel mezzo di un conflitto ipertecnologico. Significativo in tal senso sarà il dilemma di Coppola sul come far concludere il film, nonché il metadiscorso sulla wilderness. La conclusione più congruente rispetto a questo iter degenerativo da Storia a Natura sarebbe stata, come nel finale proposto a Cannes, quella della scelta di Willard di rimanere nella tribù e di diventarne il nuovo capo, sostituendosi a Kurtz. Coppola ha del resto affermato più volte che la conclusione più "autentica" del suo film sarebbe stata effettivamente quella presentata a Cannes. Tuttavia nell'edizione effettivamente distribuita, per ragioni più squisitamente commerciali, Coppola sceglierà di far tornare Willard indietro, per quanto non si possa certo parlare di un happy end: nell'ultima inquadratura, in sovrimpressione al volto di Willard, sfreccieranno infatti due elicotteri (sovrimpressione peraltro analoga alla sequenza iniziale) e si sentirà la voce di Kurtz ripetere le sue ultime parole: "l'orrore, l'orrore", con la cui eco, quasi a sottolineare l'inestinguibilità del dualismo StoriaNatura, avrà termine il film. In contrapposizione a questa rappresentazione dicotomizzata e fortemente stereotipizzata dell'iconografia del Vietnam, Kubrick ci propone in FMJ un'iconografia del Vietnam che addirittura sovverte i modelli canonici del viet movie. Nella seconda parte del film, infatti, quella dedicata al combattimento al fronte, la fitta vegetazione dell'iconografia tradizionale viene sostituita da un complesso edilizio di cemento armato. Si tratta di un'ex-officina della British Gas situata nei pressi di Londra, a Beckton, bombardata durante la seconda guerra mondiale, che Kubrick ha scoperto, ottenendo poi il permesso di distruggerla. Come analizzato attentamente da Claudio Bisoni15, l'edificio risente dell'influenza architettonica dello stile cubista della Bauhaus, i cui architetti, immigrati dalla Germania dopo il 1934, andarono a lavorare un po' dappertutto, a Londra come in Vietnam. La costruzione potrebbe quindi 4. Uso degli ambienti e della luce Sinora si è visto come a Coppola in Apocalypse now non interessi raccontare una storia che illustri le caratteristiche politico-militari del conflitto del Vietnam: la stessa rappresentazione geografica del film è totalmente fittizia. Al di fuori dell'ubicazione delle sole prime due scene, rispettivamente a Saigon e Nha Trang, ciò che maggiormente caratterizza la scelta di Coppola nella rappresentazione del paesaggio vietnamita è la totale mancanza di riferimenti geografici precisi e realistici. Il paese scelto per le riprese sono le Filippine, sia per la somiglianza paesaggistica con il Vietnam, sia perché l'esercito filippino dispone di materiale bellico analogo a quello impiegato dagli americani durante il conflitto, permettendo in questo modo a Coppola, per la prima volta nella storia dei war movies hollywoodiani, di poter girare le scene rimanendo finanziariamente indipendente dal Pentagono14. Il fiume, su cui si snodano gli avvenimenti principali dell'impresa, è chiaramente il Mekong, sia perché scorre tra Cambogia e Vietnam, sia perché più volte si fa riferimento al suo delta. Tuttavia Coppola opterà per una toponomastica immaginaria e lo chiamerà Nung, scelta volutamente irrealistica, non esistendo alcun corso d'acqua con questo nome tra Cambogia e Vietnam. Così come risulta minimo l'inquadramento della vicenda all'interno di un contesto storico definito: l'eliminazione in sede di montaggio della scena della piantagione francese (una delle scene più costose del film, successivamente reinserita nella versione Redux del 2001, le cui riprese dureranno peraltro oltre due settimane), nel corso della quale i personaggi discutevano della guerra di Indocina, è rivelatrice dell'intento del regista di non dare al film alcun taglio di tipo realistico-documentaristico. Accade così che anche la rappresentazione della giungla non venga utilizzata per descrivere il problema pratico di un esercito che deve combattere in un ambiente naturale ostile, piuttosto in quanto simbolo della wilderness all'interno di un più ampio discorso astorico. Ciò che risulta rappresentato attraverso l'uso dei luoghi e delle luci è una sorta di opposizione Storia-Natura, tecnologiawilderness, che si rivela sin dalle immagini iniziali, tutte giocate sul dualismo tra elicotteri e giungla. Se le immagini wagneriane dei bombardamenti al napalm sono caratterizzate dalla presenza intensa della luce, che quasi fa brillare al sole l'ordine e la simmetria degli elicotteri, la tecnologia statunitense arriverà a mutare la notte in giorno trasportando un beach-party californiano sull'altra sponda dell'oceano, con tanto di bunnies, non a caso travestite con costumi western. Man mano che si procederà lungo il fiume un ruolo centrale nella 21 assomigliare a quella che era la città di Hue, anch'essa progettata da architetti tedeschi della scuola di Dessau, su incarico dei francesi che all'epoca occupavano il Paese. La scelta di un'ambientazione urbana per le riprese di una battaglia, risulterebbe in tal senso tutt'altro che arbitraria: il rischio di ambientare il film nella giungla sarebbe stato infatti quello di ricadere in una speculazione sulla wilderness ormai fin troppo usurata. Scegliere di girare le riprese della guerra non in un paesaggio esotico ma addirittura nel cuore dell'"occidente" significherebbe invece rompere l'illusione della darkness della giungla e affermare che il fenomeno della guerra coinvolge tutti, in Vietnam, come a Londra. Il rifiuto della darkness è tale che la scelta di girare il film interamente attraverso l'uso della luce naturale, diventa per Kubrick quasi un obbligo etico, in quanto sinonimo di verosimiglianza e autenticità della realtà bellica. Non soltanto la guerra è dappertutto e riguarda tutti, ma soprattutto i centri di produzione dei conflitti sono spesso assolutamente delocalizzati rispetto ai luoghi in cui tali conflitti avvengono. In tal senso si spiega l'importanza di dedicare quasi la metà del film alla fabbrica in cui la guerra si prepara: la fabbrica dei marines. Il dormitorio del campo di addestramento di Parris Island, infatti, più che un dormitorio ci viene rappresentato come una vera e propria fabbrica industriale. L'edificio ha una pianta rettangolare ed è costituito dal solo piano-terra. L'ambiente, completamente asettico, funzionale e spoglio, è attraversato da colonne che suddividono lo spazio in una struttura simmetrica costituita da un corridoio centrale fiancheggiato da due navate laterali. Perfetto progetto di evacuazione celebrale, il campo di addestramento risulterebbe così assimilabile ai campi di sterminio analizzati da Giorgio Agamben, dove "tutto è possibile, fatto e diritto si confondono senza residui. Gli abitanti dei campi si muovevano, così, in una zona di indistinzione tra interno ed esterno, eccezione e regola, lecito e illecito. Essi erano stati spogliati di ogni statuto politico e ridotti alle condizioni della nuda vita, quella di chi può essere ucciso senza che sia commesso omicidio. E questo, normalmente, ossia, nonostante tutto, all'interno di una qualche norma"16. A Parris Island l'istituzione risulta così come una grande stiratrice industriale, dove vengono ciclostilati soldati come se fossero oggetti in serie, all'interno di un sistema del tutto autoreferenziale dove si instaura una produzione seriale che porta continuamente a riprodurre comportamenti, soldati e sergenti. In tal senso il campo di addestramento così rappresentato diventa lo spazio speculare a quello del campo di battaglia che occupa la seconda parte del film. FMJ non vuole dunque essere solo un film sulla guerra in Vietnam (tanto che del Vietnam non si vede nulla: persino i 200 alberi di palma impiegati per le scene in strada furono importati dalla Spagna, e gli attori e le comparse vietnamite erano in realtà tutti immigrati londinesi17), ma un film sulla guerra in generale, o meglio, su quella novecentesca in particolare, per via della peculiarità dovuta alla sua organizzazione industriale su larga scala, funzionale a conflitti su larga scala umana. In questa prospettiva, FMJ potrebbe risultare il terzo episodio di una sorta di triologia antimilitarista, iniziata con Orizzonti di gloria (1957), di cui il secondo episodio sarebbe costituito da Dottor Stranamore (1964). In Orizzonti di gloria, infatti, capovolgendo i canoni del cinema bellico in cui la battaglia viene mostrata come uno scontro binario tra un gruppo di soldati e un esercito di nemici, la macchina da presa si sofferma solo all'interno delle file amiche. In contrapposizione allo spazio del nemico, abitualmente rappresentato dello spazio delle trincee, ci viene piuttosto proposto lo spazio delle settecentesche e linde sale in cui i generali giocano a scacchi con la vita degli uomini. In Dottor Stranamore, addirittura, la guerra, ormai cibernetica, non sarà neppure più combattuta, ma proiettata soltanto, "modellizzata" sugli enormi schermi dalla war-room. Ciò che a Kubrick interessa dunque rappresentare in FMJ non è tanto la guerra del Vietnam in sé, quanto il sottile e perverso intreccio tra modernizzazione e guerra, ovvero tra progresso e distruzione, sovvertendo in tal modo la prospettiva dicotomicoesotizzante portata avanti da Coppola in Apocalypse now. 5. Conclusioni A partire dagli anni novanta, un certo tipo di riflessione postmoderna proposta dalla così autodefinitasi critical geopolitics, solleverà nuovi interrogativi di ricerca nel campo della geopolitica, contribuendo alla formulazione di visioni alternative rispetto al pensiero geopolitico tradizionale. Scopo della critical geopolitics è decostruire i testi che, attingendo dal taken-forgranted dell'universo culturale in cui sono stati concepiti e diffusi, contribuiscono a costruire una determinata visione del mondo e anche la sua progressiva naturalizzazione18. Nel suo esplicarsi, il discorso geopolitico tende a manifestarsi trasversalmente attraverso tre principali tipologie di produzione discorsiva. A livello "formale", attraverso quella produzione di idee e principi altamente formalizzati da parte di specialisti, esperti, studiosi e accademici nel campo della politica estera, per guidare la politica dei governanti sulla scena internazionale. Come scrive Gerard Toal: "To understand the appeal of formal geopolitics to certain intellectuals, institutions and would be strategists, one has to appreciate the mythic qualities of geopolitics. Geopolitics is mythic because it promises uncanny clarity and insight in a complex world. (...) The plurality of the world is reduced to certain "trascendent truths"about strategy"19. Un esempio di formal geopolitics può essere la tesi del "clash of civilizations" di Samuel Hungtington, il quale postulava che "i principali conflitti delle politiche globali avverranno tra nazioni e gruppi di civiltà differenti". Come sostiene la Todorova, il pensiero di Hungtington non poteva non colpire per l'eccessivo 22 meccanicismo, tracciato per suggerire una prescrizione piuttosto che una prospettiva. Ma l'affascinante semplicità delle sue idee assicurò che l'espressione "scontro di civiltà" si diffondesse abbondantemente, specie tra accademici e giornalisti che non avevano letto né Hungtington né i suoi critici20. A livello "pratico", il discorso geopolitico si esplica attraverso quella serie di assunti comunemente accettati riguardo ai luoghi e alle nazioni, impiegati dagli attori politici nell'esercizio quotidiano delle loro funzioni. Scrive in proposito Gerard Toal: "Pratical geopolitical is ordinary and informal everyday discourse. [...] Part of the socialization of individuals into certain "national" identities and geographical/historical consciousness"21. Un esempio di pratical geopolitics é il continuo utilizzo di pseudo-identità geopolitiche, generalmente basate su arbitrarie distinzioni binarie, in grado di ridurre la complessità della realtà geografica a banali stereotipi (est/ovest, nord/sud, democratico/totalitario, barbaro/civilizzato, asse-del-bene/assedel-male). A livello "popolare" il discorso geopolitico tende invece a esplicarsi attraverso l'indusria culturale, in cui i mass media giocano un ruolo fondamentale. Secondo Joanne Sharp infatti, il concetto gramsciano di egemonia rimanda, più che alle grandi ideologie politiche formalizzate, proprio alla cultura popolare, la quale, in modo più immediato, informa la vita quotidiana dei cittadini. Questa cultura popolare contribuisce, tra l'altro, a plasmare il nostro "senso comune" riguardo, ad esempio, all'idea di identità nazionale22. E' in tale prospettiva che Klaus Dodds sostiene la necessità di analizzare criticamente quelle forme di popular geopolitics che rimandano a materiale iconografico di vario genere: immagini televisive, cinematografiche, fotografiche23. Sia Dodds che la Sharp cercano di esplorare la forza delle immagini nel concorrere alla produzione di un "geopolitical unconscious" con cui incorniciare gli eventi internazionali, attraverso la costruzione di "mappe cognitive globali"24. Anche nel caso della costruzione dell'immaginario collettivo del conflitto del Vietnam, il ruolo giocato dai media, e come analizzato in questo caso, dal cinema di Hollywood, è stato fondamentale. "I media sono materie prime o risorse naturali, esattamente come il carbone, il cotone o il petrolio" scriveva McLuhan nel testo Il medium è il messaggio25. Attraverso l'analisi comparata dei due film, si è dunque cercato di esplorare la pervasività della forma del medium nel determinare effetti significativi sul contenuto stesso del messaggio. Pur essendoci imbattuti in film in cui in entrambi i casi risultava evidente un forte messaggio antimilitarista, abbiamo avuto modo di analizzare come le differenti modalità d'uso dei diversi media di cui i registi si sono serviti (la letteratura da cui hanno attinto per la sceneggiatura, l'utilizzo della colonna sonora, delle ambientazioni, della luce) abbiano de facto incorniciato il messaggio in modo tale da determinare produzioni discorsive completamente autonome, se non antitetiche. Tuttavia, in entrambe i casi, si ha avuto a che fare con produzioni cinematografiche che non soltanto hanno segnato la storia del viet movie, ma che, più in generale, hanno contribuito, attraverso la forza del loro messaggio, non solo dal punto di vista contenutistico, ma soprattutto in quanto forma mediatica, alla costruzione dell'immaginario collettivo del conflitto del Vietnam. Stabilire in tal senso un confine netto e impermeabile tra realtà e fiction, diventa, anche dal punto di vista storiografico, impresa sempre più complessa, e aggravata dalla natura polifonica e pervasiva peculiare alla logica mediatica. Concludendo con le parole di Giaime Alonge "In quello che è stato probabilmente l'evento bellico più fortemente mediatico del XX secolo, la guerra del Vietnam, l'immagine documentaria della bambina vietnamita che corre nuda, con il corpo bruciato dal napalm, interagisce con gli elicotteri di Apocalypse now che vanno all'attacco sulle note della Cavalcata delle Valchirie, finendo con il confondersi - soprattutto a distanza di decenniall'interno di un unico paradigma iconografico. […] In quanto 'discorsi storici', da un lato testimoniano e dall'altro producono, insieme ad altre forme di comunicazione, i grandi mutamenti della mentalità collettiva"26. 23 Note 1 Keegan, 1978, pp.304-305 Menarini-Moretti-Alonge, 1999, p.13 3 Virilio, 1996, p.64 4 Valantin, 2005, p.37 5 Ghislotti-Rosso, 1996 6 Menarini-Moretti-Alonge, 1999, p.22 7 Barthes, 1990, pp. 33-43 8 Alonge, 1993, p.12 9 Metz, 1977, cap. IV e X. 10 Murch, 2000, pp.15-16 11 Alonge, 1993, pp.43,88 12 Bassetti, 2002, p.150 13 Ghezzi, 2002, p.153 14 Valantin, 2005, p.36 15 Menarini-Bisoni 2002, p.43 16 Agamben, 1995, p.187 17 Duncan, 2001, p.99 18 Minca, 2001, p.59 19 Toal, 1999, p.8 20 Todorova, 2002, pp.218,219 21 Toal,1999, p.9 22 Sharp (1996), in Antonsich, 2001, p.739 23 Dodds (1998), in Antonsich, 2001, p.740 24 Toal e Dalby,1998, p.4 25 Mc Luhan,1964, p.30 26 Alonge, 2001, pp.23-24 2 24 Bibliografia Agamben, Homo sacer,Torino, Einaudi, 1995 Alonge, Cinema e guerra, Torino, Utet, 2001 Tra Saigon e Bayreuth,Torino, Tirrenia Stampatori, 1993 Antonsich, "Critical Geopolitics" la geopolitica del discorso moderno, Roma, Bollettino Società Geografica Italiana, Vol.VI, 2001 Barthes, Introduzione all'analisi strutturale dei racconti, in AA.VV., L'analisi del racconto, Milano, Bompaini, 1990 Bassetti, La musica secondo Kubrick, Torino, Lindau, 2002 Conrad, Cuore di tenebra, Milano, Feltrinelli, 1954 (ed.or. 1902) Duncan, Tutti i film di Stanley Kubrick,Torino,Lindau, 2001 Ghezzi, Stanley Kubrick, Milano, Il Castoro, 2002 Ghislotti-Rosso, Vietnam e ritorno,Milano, Marcos y Marcos, 1996 Hasford, Nato per uccidere, Milano, Bompiani, 1987 (ed.or. 1979) Keegan, Il volto della battaglia, Milano, Mondatori, 1978 Mc Luhan, Gli strumenti del comunicare, Milano, Il Saggiatore, 2000 (ed.or.1964) Menarini-Moretti-Alonge, Il cinema di guerra americano 1968-1999, Genova, Le Mani, 1999 Menarini-Bisoni, Full Metal Racket, Torino, Lindau, 2002 Metz, Linguaggio e cinema, Milano, Bompiani, 1977 Minca, Introduzione alla geografia postmoderna, Cedam, 2001 Murch, Un batter d'occhi,Torino,Lindau, 2000 Toal, Understanding Critical Geopolitics: Geopolitics and Risk Society, dal sito www.majbill.vt.edu/geog/faculty/toal/papers, 1999 Toal and Dalby, Rethinking Geopolitics, ?, Routledge, 1998 Todorova, Immaginando i Balcani, Argo, 2002 (ed.or. 1997) Valantin, Hollywood, il Pentagono e Washington,Roma, Fazi ed., 2005 Virilio, Guerra e cinema, logistica della percezione,Torino, Lindau,1996 Discografia Cavalcata delle Valchirie, Wagner, 1856 Chapel of love, The Dixie Cups, 1964 Hello Vietnam, Johnny Wright, 1965 The Marines Hymn,Lee Ermey, 1987 Mickey Mouse Club March, Jimmie Dodd, 1955 Paint it black,Rolling Stones, 1963 Surfin bird,The Trashman, 1963 The End,The Doors, 1967 These boots are made for walkin',Nancy Sinatra, 1965 Wolly Bully,Sam the Sham, 1960 25 Lo tzunami del 26 dicembre 2004 e le comunicazioni mediali in una famiglia srilankese di Silvana Negro Questa relazione si avvale di interviste a persone appartenenti ad un gruppo familiare srilankese, la maggior parte delle quali vive e lavora in Italia. La famiglia è originaria della costa settentrionale dello Sri Lanka, dove il padre era proprietario di due pescherecci d'altura e svolgeva un'attività di pesca piuttosto florida che impiegava anche personale dipendente. quali zone costiere fossero state colpite e le dimensioni del disastro. M. D., una delle due sorelle, è stata l'unica che è riuscita a parlare quasi subito al telefono cellulare con il fratello in Sri Lanka. E' stata una telefonata breve, concitata e drammatica. In quel momento il fratello si trovava nel porto e parlava avendo davanti a sé uno dei due pescherecci di famiglia che stava affondando sotto ai suoi occhi. Egli era corso subito al porto dopo aver sentito la notizia del maremoto alla radio. Per fortuna la violenza dell'acqua non aveva raggiunto l'abitazione, lontana dal mare. Il peschereccio che stava affondando rappresentava però molto per loro, ed era stato acquistato con i risparmi di diversi anni di lavoro in Italia. I figli, due femmine e tre maschi, hanno ricevuto un'educazione scolastica media in scuole cattoliche. Alla fine degli anni '80 i pescherecci e la casa di famiglia furono distrutti nel conflitto, particolarmente violento nel nord del paese, tra Tamili e gli altri srilankesi. La famiglia si trasferì allora sulla costa meridionale, a circa trenta chilometri a sud di Colombo, ove il padre e il figlio più grande riuscirono, dopo qualche anno di impegno e di lavoro, ad acquistare due nuovi pescherecci e a costruire una nuova abitazione. Negli anni successivi tutti i figli, uno alla volta, sono emigrati in Italia mentre il padre continuava l'attività di pesca. Quella telefonata dava a M. D. che la ascoltava dall'Italia, un'immagine viva e simultanea di un evento disastroso e comunicava la disperazione del fratello che non tratteneva il suo pianto al telefono. Subito dopo la linea era caduta interrompendo la comunicazione. Tutti hanno trovato un lavoro regolare in Italia e si sono sposati con connazionali. Mantengono uno stretto contatto con i genitori e gli altri parenti rimasti in Sri Lanka. La loro prospettiva è quella di tornare in Sri Lanka dopo aver messo da parte risparmi sufficienti per costruirsi ognuno la propria casa e continuare ad allargare l'attività paterna di pesca. I fratelli e le sorelle residenti in Italia passarono quella giornata e quelle seguenti alternando l'ascolto delle notizie alla televisione italiana alle comunicazioni telefoniche tra di loro e ai tentativi di parlare al cellulare con il padre e il fratello in Sri Lanka. Le comunicazioni erano tuttavia impossibili perché le linee telefoniche erano interrotte e quelle dei cellulari sovraccariche. Il 26 dicembre 2004 nella casa paterna si trovavano i due genitori e uno dei fratelli, quello che aveva già iniziato ad occuparsi dell'attività di pesca. Il resto della famiglia era in Italia, ognuno nella sua casa, essendo giorno festivo. E' stato attraverso la televisione italiana che tutti loro sono venuti a conoscenza dello tzunami che aveva investito gran parte delle coste indonesiane e una parte delle coste dello Sri Lanka. Solo dopo quattro giorni fu possibile ristabilire i contatti, questa volta tramite sms. Gli sms inviati dall'Italia arrivavano a destinazione e il fratello, appena riceveva un sms, riusciva a richiamare al cellulare dallo Sri Lanka. Così sono stati informati che nessun parente era morto o ferito, e che la casa non era stata danneggiata. Immediatamente fratelli e sorelle hanno tentato di mettersi in contatto con i genitori e con il fratello tramite telefono fisso e cellulare. Erano molto preoccupati per la loro vita: la casa di famiglia si trova a qualche chilometro di distanza dal mare, ma temevano che il padre e il fratello potessero essersi trovati sul peschereccio in mare. Durante i quattro giorni di perdita del contatto diretto, l'unica fonte di informazione per fratelli, sorelle, cognati e cognate è stata la televisione italiana che iniziavano a guardare alle 6 del mattino, scambiandosi poi telefonate tra di loro. Nei giorni successivi si sono intensificati anche i contatti con connazionali residenti in Italia, e i racconti di coloro che in Sri Lanka avevano perso dei familiari. Le prime notizie fornite dalla televisione davano l'idea di una grande catastrofe ma senza che fosse possibile capire esattamente 26 L'altra fonte di informazione per tutti i componenti della famiglia in Italia sono stati due giornali srilankesi, quotidiani con edizione speciale settimanale. Molti emigrati cingalesi sono abbonati a questi giornali, che essi ricevono in tempi rapidi nell'edizione speciale settimanale, direttamente a domicilio. Questi giornali costituiscono un legame forte tra gli emigrati e il loro paese di cui, in tempi normali, la stampa italiana non parla. Il giornale antigovernativo ha dato in quelle circostanze informazioni più precise rispetto alla stampa italiana sia sulle zone interessate direttamente dall'onda sia sul numero delle vittime e sulle situazioni di emergenza. Ha pubblicato inoltre commenti, in alcuni casi critici, sull'operato del governo e su aspetti lasciati in ombra dalla stampa e dalla televisione italiana. In particolare, dava notizia di episodi di sciacallaggio, violenze e stupri, compiuti in maggioranza da detenuti evasi da una prigione. Su questi episodi la televisione italiana si è limitata a pochi accenni, seguiti da smentite da parte di organi ufficiali dell'ONU. Anche il numero delle vittime dato dal giornale srilankese è risultato più alto di quello annunciato dalle nostre televisioni. violenza dell'onda ha anche avuto un significato simbolico: la forza della natura non fa distinzioni tra ricchi e poveri, tra "noi" e "loro". Un luogo desiderato per la sua bellezza può diventare una tragedia in cui tutto sembra suggerire che la natura si vendica. Questi elementi hanno concorso a determinare la concentrazione dei media su questo evento e la diffusa partecipazione a forme di solidarietà. In particolare, è stata organizzata per la prima volta in maniera significativa la raccolta di fondi tramite sms: una telefonata, un euro. Il cellulare ha costituito un mezzo semplice e rapido per inviare un aiuto. L'idea di sollecitare l'invio di un importo esiguo, pressoché irrilevante per chiunque dal punto di vista economico e per nulla impegnativo sotto il profilo del tempo occorrente per aderirvi, ha determinato la risposta immediata di moltissimi utenti di cellulare e ottenuto un risultato economico ingente, superiore alle somme raccolte dalle organizzazioni di volontariato. Molti fecero sms ripetuti per aumentare l'importo da donare. Questo tipo nuovo di raccolta di fondi ha messo in luce come l'utilizzo degli sms, divenuto sempre più frequente negli ultimi anni, si possa prestare non soltanto ad iniziative che hanno il carattere della rapidissima diffusione collettiva di un messaggio, ma anche, nel nostro caso, dare luogo ad un'azione collettiva di solidarietà. In altri casi, ad esempio nelle Filippine, gli sms sono stati utilizzati come mezzo per mobilitare una grande folla a scendere in piazza per una manifestazione di carattere politico. A questo punto, si possono fare alcune considerazioni generali sui mezzi di comunicazione in relazione allo tzunami e, successivamente, su come la famiglia di cui ci stiamo occupando ha recepito e decodificato l'informazione mediatica. Il rilievo e il tempo dedicato dalla televisione italiana, pressoché in tutti i canali, è stato ampio. I telegiornali aprivano le loro edizioni sullo tzunami e dedicavano molti servizi speciali all'argomento. Lo stesso hanno fatto i giornali e le radio. La concentrazione dei mass media sull'evento è continuata per circa 15 giorni. Tempo notevolmente lungo rispetto agli standard di trattazione degli eventi disastrosi in genere, soprattutto se riguardano paesi lontani. Nel nostro caso la novità è consistita nel sentimento di partecipazione ad un dramma che si svolgeva altrove, in un luogo lontano, concretizzando questa partecipazione in una azione semplice e rapida, per dare una mano in prima persona. Si è creata una sorta di vasta comunità di donatori, tra i quali si propagava un'onda emotiva che determinava l'identità collettiva formata dai "soccorritori d'urgenza". Ai trasmettitori di sms appariva ovvio ritenere che l'aiuto da essi fornito giungesse rapidamente a destinazione. Il gesto della mano che digita i tasti veniva a rappresentare nell'immaginario il gesto della mano che si tende verso chi è colpito in un posto lontano, e riesce a dare soccorso nel momento in cui il dramma si sta svolgendo, quasi all'istante. Determinanti in tal senso possono essere stati 1) l'elevato numero di vittime e di dispersi; 2) il fatto che tra di essi vi fossero italiani (od occidentali in genere) in vacanza nei luoghi colpiti; 3) l'eccezionalità e la rarità dell'evento con caratteristiche diverse da quelle di un terremoto o di un'alluvione, ai quali le televisioni dedicano attenzione al massimo per due o tre giorni. 4) Lo tzunami ha avuto un impatto visivo ed emotivo legato all'immagine inconscia dell'onda che travolge ogni cosa e alla forza minacciosa del mare che diventa alto come una montagna Questa immagine non corrispondeva per la verità alle immagini trasmesse dalle televisioni, che mostravano un'onda devastante più per la violenza trascinante dell'acqua che per l'altezza, tuttavia, nell'immaginario collettivo, lo tzunami era pensato come un'onda altissima che si avvicina sovrastando dall'alto gli uomini e poi si infrange sulla terra sommergendo tutto. 5) Il fatto che molte delle coste colpite sia in Indonesia che nello Sri Lanka rappresentassero nell'immaginario collettivo dei "paradisi esotici" per le vacanze dei ricchi. Vedere gli alberghi di lusso e le spiagge pubblicizzate nei dépliant degli operatori turistici travolte dalla La rapidità e la semplicità degli sms come mezzo di aiuto ha però prodotto anche un effetto distorsivo: l'idea che anche la distribuzione degli aiuti nelle zone colpite sarebbe stata altrettanto rapida e semplice. Così, evidentemente, non è stato. I 67 milioni di euro raccolti in tal modo dai gestori di telefonia mobile non sono ancora oggi, a sei mesi dal disastro, arrivati a destinazione, e i fondi si trovano ancora presumibilmente in Italia in attesa di decisioni intorno alla loro distribuzione. A mio avviso questa nuova pratica e le aspettative che ha suscitato 27 mettono in luce come l'abitudine di trasmettere e ricevere messaggi "in tempo reale" abbia alimentato una sopravvalutazione dei risultati effettivi possibili, come se anche le procedure successive a quel semplice gesto potessero godere della stessa accelerazione di tempi e fluidità di cui dispongono le comunicazioni elettroniche. circa lo tzunami e i drammi che riguardavano da vicino i loro genitori, i parenti e gli altri connazionali. E' stata forte l'impressione derivata dall'attenzione del mondo verso quanto accadeva nel loro paese, solitamente trascurato dai media, e la percezione positiva di solidarietà da parte degli italiani. Effettivamente sentivano che i loro parenti e i connazionali in Sri Lanka non erano soli nella tragedia. La raccolta tramite sms ha dato loro l'impressione che gli aiuti sarebbero giunti nello Sri Lanka in tempi brevi: uno dei fratelli che lavorava in Italia è tornato in Sri Lanka a cinque giorni dal maremoto, pensando che bisognasse affrettarsi a riceverli. Si è prodotta la rappresentazione di una realtà virtuale che si attualizza e realizza. Tale rappresentazione funziona innestandosi su una percezione generalizzata di potenzialità illimitate fornite dai mezzi elettronici e dalle nuove tecnologie. Secondo l'immagine costantemente enfatizzata della tecnologia, ciò che permane lento, rigido e regolato da norme appare come superabile nella connessione fluida e libera che sembra realizzarsi attraverso le reti illusoriamente immateriali. Basta pensare al fenomeno dell' e-commerce di alcuni anni fa. Improvvisamente si sono moltiplicati su internet siti di aziende che proponevano di velocizzare gli acquisti di qualsiasi genere di merce mettendo in contatto i consumatori con le aziende produttrici. Sembrava che ci volessero pochi minuti per ordinare e ricevere qualsiasi cosa, ma per la consegna materiale i tempi di attesa si sono rivelati spesso lunghissimi, anche di due o tre mesi. A seguito di ciò molte aziende di e-commerce sono scomparse. Tutta la famiglia coltivava la speranza che si potesse riacquistare uno o anche entrambi i pescherecci e riprendere in poco tempo l'attività di pesca. Il fratello in partenza non si era dato neppure il tempo di organizzare la sua assenza in modo da non avere troppi problemi con il lavoro di autotrasportatore che stava svolgendo in Italia. Pensava, inoltre, di potere ricevere gli aiuti in Sri Lanka e riassumere una trentina di dipendenti rimasti a bordo dei pescherecci senza il lavoro e in gravi difficoltà. Confusamente, era presente nelle loro menti l'idea che i gestori della telefonia mobile avessero provveduto alla trasmissione immediata del denaro, e che la distribuzione sarebbe avvenuta tramite le società di gestori della telefonia mobile in Sri Lanka. Ad essi sembrava naturale che il denaro raccolto da questi gestori fosse automaticamente pronto per essere distribuito alle vittime dello tzunami. Dalla rappresentazione collettiva degli immigrati srilankesi emergeva l'idea che le organizzazioni del tipo Croce Rossa e Charitas avrebbero impiegato molto tempo a distribuire gli aiuti, mentre la tecnologia utilizzata dalle reti di comunicazione avrebbe consentito una distribuzione facile e rapida. A formare questo immaginario collettivo a proposito della semplicità e della velocità con cui si ottengono risultati concorre la pubblicità dei gestori della telefonia mobile. Gli spot sui cellulari sono focalizzati sulla equivalenza tra la velocità della comunicazione e la realizzazione del desiderio. Uno di questi spot mostra, ad esempio, un chitarrista con due compagni suonatori sperduti al centro delle rovine di un teatro greco, in un luogo ovviamente solitario e remoto. Il ragazzo con la chitarra invia sms e arrivano subito, come per magia, alcuni giovani che, in breve, diventano una folla. Si avvicinano e sorridendo attorniano il gruppetto. Anche lo slogan "Tutto il mondo attorno a te" esprime efficacemente l'idea che cellulari e sms non solo permettono di comunicare con chiunque da qualsiasi luogo, ma consentono un avvicinamento reale, fisico con gli altri, e presuppongono una generale disponibilità di tutti ai propri desideri. Il raccogliersi immediato di tanta gente amica e bendisposta convocata dagli sms non è molto lontano dall'idea che gli sms di solidarietà inviati per portare aiuto possano realizzare in modo pressoché magico una vicinanza con persone che vivono lontano e in realtà profondamente diverse. Solo dopo tre mesi di permanenza in Sri Lanka e di inutile attesa, il fratello si rassegnò al fatto che i contributi dei donatori tramite sms non sarebbero stati distribuiti, esattamente come gli altri contributi, e tornò in Italia con un sentimento di amarezza e delusione, accresciuto dall'aver perso tre mesi di lavoro e guadagno. Sempre nella rappresentazione collettiva di questa famiglia, sensibilmente condivisa anche dal resto della comunità, la responsabilità della mancata distribuzione degli aiuti è imputata al governo dello Sri Lanka. Oggi, essi si rendono conto che soltanto i piccoli aiuti passati direttamente "da persona a persona" sono giunti a destinazione. Si è trattato di contributi economici spontanei dati da singoli datori di lavoro italiani o da altri soggetti con cui erano in contatto. Questi contributi sono stati inviati tramite agenzie bancarie di cui gli immigrati si servono abitualmente, e ricevuti dai loro familiari in sole 24 ore! Ma la delusione relativa al mancato ricevimento dei fondi raccolti con L'aspettativa di un rapido beneficio non soltanto si è diffusa tra i trasmettitori italiani di sms ma è stata anche intensamente sentita nelle comunità srilankesi in Italia, alimentando speranze e provocando comportamenti conseguenti. Torniamo dunque alla nostra famiglia di srilankesi in Italia e a come essi hanno interpretato le comunicazioni massmediatiche 28 interventi umanitari internazionali o la gestione delle emergenze umanitarie da parte del mondo occidentale. Essi non hanno sentito il bisogno di chiedere conto a nessuno o di interrogarsi su come funziona il sistema internazionale degli aiuti umanitari, o di chiedere conto ai gestori di telefonia mobile del danaro raccolto in questo specifico caso. gli sms non ha portato a mettere in discussione l'iniziativa dei gestori di telefonia mobile né il silenzio totale da essi tenuto sugli sviluppi successivi e sull'eventuale distribuzione futura delle somme raccolte. Non si pongono interrogativi sul fatto che avrebbero il diritto di essere informati al riguardo da enti che pretendono di essere promotori e monopolizzatori della comunicazione. Non è un caso che non soltanto gli srilankesi in Italia ma anche gli italiani trasmettitori di sms di aiuto non si siano interessati di sapere cosa ne è stato. La sopravvalutazione delle possibilità della tecnologia funziona come un meccanismo di autoconferma e autoavveramento: al riparo dal principio di realtà. Il gesto compiuto di trasmettere gli euro tramite sms ha costituito di per sé una conferma delle illimitate possibilità introdotte dalle tecnologia elettroniche, ed ha di per sé avvalorato il convincimento che le distanze si possono annullare. Verifiche successive sugli esiti non sono state né previste né pensate da nessuno. Come avviene su internet, ciò rappresenta uno svuotamento del principio di responsabilità. Si può dire, e anche fare, qualcosa senza dovere rendere conto di niente a nessuno. E in tal modo varie rappresentazioni individuali e collettive fluiscono al di fuori e al di sopra della realtà. E' stato solo per caso, durante una riunione nella parrocchia del proprio quartiere, che uno dei fratelli ha appreso che il denaro degli sms se ne stava del tutto immobile in Italia. Questa mancanza di reazione critica si può in parte spiegare con il significato positivo da essi attribuito ai cellulari, in quanto strumenti che consentono di mantenere i contatti tra loro e con i familiari nel paese d'origine in una situazione di accentuata frammentazione, mobilità e distanza caratteristica della realtà dell'emigrazione. La fiducia da loro riposta nella rapidità degli aiuti tramite sms si fonda dunque su una pratica quotidiana per essi di importanza vitale. Dopo molti mesi di attesa delusa, la critica da parte dei membri della famiglia di cui abbiamo parlato è rivolta solo verso il proprio governo e non coinvolge in alcun modo le modalità degli 29 Ma cosa ascolti in un non-luogo? Un esperimento di etnografia di un paesaggio sonoro caratterizzato dai media di Tullia Gianoncelli distinte: "quegli spazi costituiti in rapporto a certi fini (trasporto, transito, commercio, tempo libero), e il rapporto che gli individui intrattengono con questi spazi". (1993 p. 87) Bicocca Village infatti è uno spazio che si presenta esplicitamente come centro commerciale3 e del tempo libero e si connota come una costruzione-imposizione di consumi e divertimenti. L'insieme si presenta come uno spazio di fruizione in cui le persone diventano dei consumatori, "clienti" o "soci" di un club; ad essi vengono formulate proposte in una ampia gamma di scelte, anche se queste sono già confezionate, pronte per l'usoconsumo. Questa lettura trova riferimento nella teorizzazione critica dell'industria culturale formulata dagli studiosi della Scuola di Francoforte, in particolare M. Horkheimer e T.Adorno, che in Dialettica dell'illuminismo, analizzando aspetti della società americana degli anni '30 e '40, sostengono che l'industria culturale, nello sviluppo dei media si sia costituita come industria del divertimento che produce bisogni e consumi omologati. Ma molte persone affollano questo spazio, quindi ciò che appare come un'evidente imposizione e progettazione secondo i criteri della teoria critica dell'industria culturale, può rappresentare anche delle opportunità e richiede almeno un tentativo di indagine. La mia idea è che tale "luogo" si costruisca nella dinamica tra un'imposizione generalizzata "dall'alto" di produzioni mediatiche, e quindi di consumi, e altre forme di costruzione da parte di coloro i quali vivono quello spazio lavorativo nella quotidianità. La scelta degli interlocutori cui riferirmi sul campo è ricaduta non sui consumatori o i frequentatori di tali aree, ma piuttosto sulle persone che in questi luoghi svolgono la propria attività lavorativa, ponendo l'accento in particolare sulle loro possibilità di scelta o competenza di intervento nella costruzione sia dello spazio sonoro che delle pratiche sociali che si attuano all'interno di aree specifiche. Durante la ricerca, durata da marzo a fine maggio 2005, ho distribuito la mia presenza sul campo in diversi giorni della settimana e secondo diverse fasce orarie, utilizzando una metodologia basata sull'ascolto-osservazione e una serie di colloqui con diversi interlocutori. Nella scrittura etnografica ho cercato di fornire una descrizione di alcuni spazi sonori e delle tecnologie presenti nei diversi ambienti considerati, unitamente alle voci dei miei interlocutori. Introduzione Paesaggio sonoro e media sono gli oggetti principali che caratterizzano questa ricerca, realizzata a partire da una "passeggiata d'ascolto", cioè una passeggiata durante la quale l'attenzione è dedicata all'ascolto degli eventi sonori. E' un primo passo per avvicinarsi con consapevolezza ad un "paesaggio sonoro", quello che M. Schafer definisce come "un campo di interazioni", costituito da un insieme di eventi sonori in un contesto.1 L'idea è stata di provare ad esplorare uno specifico luogo, il Bicocca Village e in particolare alcune aree al suo interno, affidandomi alla dimensione sensoriale dell'ascolto come elemento guida nel percorso. La sensorialità uditiva viene quindi ad assumere importanza prioritaria come modalità percettiva nella consapevolezza della sua complementarità rispetto agli altri canali sensoriali.2 Il mio tentativo è stato di individuare e sottolineare la presenza e l'importanza della costruzione sonora di uno spazio ponendo attenzione ad alcuni aspetti culturali che tendono ad essere dati per scontati, naturalizzati, e quindi non più analizzati criticamente rispetto al ruolo e all'importanza che assumono nella costruzione dell'esperienza. Il gioco tra suono e silenzio, tra rumore e musica, è ampio, così come è sfaccettato il rapporto tra la costruzione di uno spazio sonoro in cui si realizzano specifiche pratiche sociali e le tecnologie che ne permettono la realizzazione. La scelta di indagare in particolare lo spazio di Virgin Active, un'area specifica all'interno del Bicocca Village, è legata al fatto che presenta nella sua struttura di funzionamento l'uso di media e di tecnologie che lo definiscono e caratterizzano come particolare paesaggio sonoro. Le attività proposte, legate al tempo libero, al fitness e al divertimento sono connesse a produzioni mediatiche e all'utilizzo e fruizione delle relative tecnologie: dalla TV alla radio, all'uso di CD, computer e reti informatiche, accessi Internet. Oltre l'interesse per il paesaggio sonoro e i media che lo costituiscono, un'altra ragione che mi ha portata ad indagare alcune aree di Bicocca Village è la sua caratterizzazione come "non luogo", cioè uno spazio dove molte persone transitano, ma nelle rispettive solitudini. I non-luoghi secondo M.Augé sono due realtà complementari ma 30 Un percorso sonoro all'interno del Bicocca Village relazioni attraverso l'uso della stereotipia e la ripetizione dell'identico, dove "i prodotti dell'industria culturale possono contare di essere consumati alacremente anche in stato di distrazione"(Horkheimer -Adorno, 1966, p. 137). Rispetto alle diverse aree che compongono il Bicocca Village e le stratificazioni sonore che lo riempiono, ho scelto di prendere in considerazione, nella mia indagine, lo spazio Virgin Active che ritengo emblematico in quanto strutturato al suo interno in diverse ulteriori aree che si articolano sonoricamente secondo caratteristiche differenti. Il paesaggio sonoro di Virgin Active è prodotto e si costruisce nell'interazione tra le tecnologie e coloro che abitano tale spazio. La produzione sonora è legata in gran parte alle tecnologie e al loro uso: da quelle necessarie alla diffusione musicale, a quelle che producono sonorità/rumorosità. Ne sono un esempio il funzionamento delle attrezzature per il fitness, la diffusione dell'aria condizionata, i suoni prodotti dall'area bar o relativi al lavoro della reception. A queste stratificazioni si sommano le produzioni sonore dei singoli istruttori che organizzano le proprie attività in stretto rapporto con una progettazione sonora e musicale specifica. Infine un'ulteriore stratificazione sonora è data dalle interazioni comunicative. La componente fondamentale, l'interazione verbale, avviene a vario titolo e a diversi livelli di relazione. Il parlato entra in questo paesaggio sonoro come modalità acusticamente più discreta della diffusione musicale, ma pervasiva, nelle forme dello scambio tra conoscenti e amici, al bar, al banco della reception per le informazioni, oppure con lo staff o con gli istruttori per le attività specifiche. Utilizzando una metafora mediatica ho considerato il complesso del Bicocca Village come un ipertesto, dove il filo conduttore è costituito dalla musica che viene diffusa in modo generalizzato e lo spostamento nello spazio permette di entrare nei diversi luoghi sonori che lo compongono, in particolare in quelli che ho identificato come oggetto della mia ricerca, che a loro volta presentano altri ipertesti da esplorare. E' quindi il suono diffuso che mi guida nella costruzione di un percorso "sonoro", nell'indagine sonoro-acustica dei diversi luoghi, e che realizza lo spostamento dall'uno all'altro e li riconnette. Ormai so cosa aspettarmi quando entro Bicocca Village, eppure ogni volta è un po' diverso e mi sorprende. Il passaggio dall'esterno sonoro cittadino segna, sulla soglia, un momento di smarrimento: dov'è il suono, quello musicale, quello di fondo che segna la tonica4 di questo non luogo/paesaggio e che se non consapevolmente ascoltato rischia di assomigliare al silenzio? Appena due metri oltre l'ingresso, ecco che ritorna, familiare ormai, e so anche da dove viene: "il suono musicale piove dall'alto". Intorno invece c'è una gran quantità di suoni prodotti dai cantieri che ancora caratterizzano questo luogo in costruzione. La musica in diffusione riempie genericamente gli spazi di passaggio; variano i brani mandati in onda ma sono riconoscibili come appartenenti ad un genere che viene definito moozak5 dove la musica assume una funzione di "sfondo". M. Schafer indica tale produzione musicale come "quella musica che non ha bisogno di essere ascoltata", in riferimento al genere solitamente diffuso in luoghi pubblici: centri commerciali, aeroporti, sale d'attesa, ecc…, quegli spazi che Augé definisce non-luoghi. La moozak, con una funzione di sfondo e di intrattenimento, prodotta dall'industria musicale secondo un modello che prevede produzione e ricezione "a bassa fedeltà" (Schafer, 1985, p. 142), ci fa avvicinare al concetto di "produzione e distribuzione di massa" che viene evidenziato dalla teoria critica dell'industria culturale. L'analisi degli studiosi della Scuola di Francoforte considera criticamente la produzione di massa in quanto porta all'impoverimento e svilimento culturale degli individui e delle All'interno di Virgin Active, dove i suoni e le tecnologie portano in luoghi diversi Ho effettuato un'esplorazione di Virgin Active6 seguendo vari percorsi e in momenti diversi poiché la sua caratterizzazione sonora si modifica col variare della frequentazione nelle diverse fasce orarie della giornata e nei diversi giorni della settimana. Virgin Active è una grande palestra con attrezzature per il fitness "di nuova generazione", dotate di monitor che permettono una fruizione mediatica attraverso la sintonizzazione su canali di diffusione radio e TV; gli stessi sono in onda, solo in modalità visiva, sugli schermi appesi al soffitto "ad altezza uomo". Sia la presenza che il flusso di utenti vengono contenuti in uno spazio sonoro di musica in diffusione. Essa è la principale caratterizzazione sonora dell'ambiente: parecchi diffusori incassati nel soffitto ne permettono la fruizione ovunque. Ma le tecnologie offrono anche altre possibilità: ad esempio l'uso di cuffie, personali o acquistabili alla reception, che permettono la sintonizzazione sui canali di diffusione Tv o radio previsti all'interno dello spazio Virgin. La mia attenzione è stata attirata dal fatto che indossare una cuffia, permette di fruire di una qualche "sonorità" secondo una modalità individuale, all'interno di una fruizione che si presenta come collettiva, condivisa. 31 Infatti la diffusione musicale generalizzata, resa possibile attraverso l'amplificazione, comporta la costruzione di un contesto in cui tutti i presenti fruiscono contemporaneamente di quanto viene mandato in diffusione. Secondo McLuhan tale esperienza ha la funzione di riunificare gli esseri umani; "il suono stereofonico è un suono "avvolgente", è un suono in profondità, dove "profondità significa in rapporto reciproco, non in isolamento"(McLuhan, Gli strumenti del comunicare, 2002, pp. 299, 300). Mentre l'ascolto in cuffia è secondo Schafer "lo spazio acustico più personale possibile: i suoi messaggi sono sempre proprietà privata"(1985, p. 170). A maggior ragione se tale modalità di fruizione avviene all'interno di una fruizione collettiva. Una breve descrizione dello spazio permette di rappresentarsi una mappa approssimata del luogo. L' ambiente, ampio, è suddiviso in diverse aree di attività e si sviluppa su due piani. Oltre la reception, sulla destra, si trovano l'area Kidsville - una zona separata da vetrate che offre attività ricreative e di gioco per i bambini più piccoli - e più lontano l'area bar, l'area Internet e una piccola biblioteca. Vetrate fino al soffitto isolano questo spazio rispetto alla piscina situata al piano inferiore. Sul lato sinistro, prima del tornello di ingresso, una porta a vetri dà accesso alla reception dell'area DaySPA. Tutto lo spazio rimanente è dedicato al fitness con attrezzature di varia tipologia, utilizzabili in modo autonomo o con la supervisione di un personal-trainer. Diversi cartelli appesi al soffitto indicano le aree di specialità o di genere (es. Area donne). Scritte colorate in sintonia con i colori delle pareti si trovano variamente distribuite su pareti e pilastri, posizionate in punti di passaggio tra le diverse aree attrezzate e riportano claims o indicazioni di tipo salutista. Si può dire che la tonica di questa area è costituita dalla musica diffusa, che si stratifica con il rumore di fondo dovuto al funzionamento delle varie attrezzature e le sonorità delle interazioni verbali che avvengono nell'ambiente. Continuando l'ascolto, rilevo che al termine di una canzone dal ritmo sostenuto si crea un momento di "silenzio" che porta in primo piano il rumore, abbastanza forte, delle tante attrezzature in funzione. Una scala porta al piano inferiore e agli spogliatoi, alla piscina con annessa area sauna e idromassaggio - e alle palestre dedicate ai corsi collettivi. Il piano inferiore rappresenta a sua volta un ipertesto sonoro e si articola in ambienti sonoricamente differenti. La tonica resta simile nelle aree di passaggio e negli spogliatoi, mentre cambia in altre aree. Nell'area della piscina non c'è diffusione musicale e le sonorità presenti sono quelle tipiche delle piscine; mentre esiste una diffusione generale nelle zone sauna e idromassaggio, ma è appena percepibile, poichè il ribollire acquatico la fa da padrone. I singoli spazi dedicati alle attività collettive sono dotati di un impianto di amplificazione autonomo utilizzato dai trainers per i vari corsi. La chiusura delle porte isola dall'esterno e trattiene le sonorità presenti all'interno. Alcuni corsi sono particolarmente "silenziosi" perché dedicati ad attività di rilassamento e tonificazione, altri, che riguardano attività aerobiche, sono caratterizzati da un accompagnamento sonoro con funzione ritmica e di sostegno. Le informazioni raccolte durante diversi colloqui, sulle modalità di scelta e diffusione sonora musicale nello spazio Virgin Active, evidenziano che la musica diffusa in modo generalizzato non viene scelta "localmente" dallo staff ma arriva "già confezionata, selezionata secondo certi standard, dal brand internazionale", come dice il mio interlocutore. Un mio interesse in questa ricerca riguarda anche il rapporto che le persone, che lavorano in questi ambienti, intrattengono con l' esposizione continuativa quotidiana agli stimoli sonori presenti. Dai colloqui emerge che la percezione dell'ambiente sonoro varia secondo le individualità, sia rispetto al volume di diffusione che alla densità di stimoli sonori, ma emergono spesso commenti che segnalano l'effetto di saturazione dato dalla ripetitività del repertorio. Ed emerge che la principale strategia "di contrasto" che viene attivata è quella di non-ascolto. Si tratta di un meccanismo psicologico che permette di filtrare i suoni indesiderati rispetto a quelli graditi, ma, come scrive Schafer, "il senso dell'udito non può essere chiuso a piacere. L'orecchio non ha palpebre" (1985, pp. 24-25 ) e la percezione sonora avviene anche senza un ascolto consapevole. Una mia interlocutrice spiega così il suo rapporto con quello specifico ambiente sonoro: "da anni sono abituata a stare nella musica, in contesti simili a questo, quindi non mi dà fastidio; sono abituata, anche se a volte, quando ho molti impegni o sono molto stanca, è pesante". Nel suo commento prosegue evidenziando che lo spazio Virgin è un posto "pensato per chi ci sta due ore, viene qui per fare fitness; questo è un luogo dove devi divertirti, muoverti, essere allegro, e un conto è starci due ore, un altro è starci una giornata intera". Continuando la mia ricerca di informazioni rispetto alle sonorità, alle modalità di diffusione musicale e alle tecnologie impiegate, vengono in luce anche le finalità principali legate all'uso della musica in questo spazio. Uno dei manager mi parla della musica e della sua fondamentale presenza in uno spazio fitness ben funzionante. Riguardo agli aspetti tecnici evidenzia che l'impianto acustico di Virgin Active, in particolare per l'area fitness, è stato 32 pensato accuratamente e realizzato con attenzione affinchè la musica sia presente in ogni spazio in modo equilibrato. Enfatizza la necessità di avere un ambiente equilibrato rispetto a tutte le sue componenti, compresa la diffusione dell'aria condizionata. Questo comporta un monitoraggio delle varie condizioni e interventi di regolazione: solo in parte sono realizzati automaticamente mediante le tecnologie (ad esempio il controllo ph della piscina), perchè "alcuni aspetti vengono rilevati solo dalle persone", sottolinea il mio interlocutore. Esiste quindi un'interazione tra addetti ai lavori, tecnologie, automatismi e interventi legati alle caratteristiche di contesto. Tra le "regolazioni" che richiedono un intervento umano competente, c'è quella della diffusione musicale: il volume viene variato secondo le condizioni dell'ambiente, è legato al numero di persone presenti, che segue flussi poco prevedibili, salvo che nei momenti di punta (le ore serali e il fine settimana). "L'equilibrio sonoro deve stare tra la giusta intensità che invogli e sostenga l'attività fisica e la possibilità che le persone possano interagire, parlando e sentendosi". Perciò, "quando aumentano le persone, viene aumentato il volume per mantenere l'intensità, per non lasciar cadere la tensione al movimento". Chiedo qualche informazione in più rispetto alla scelta della musica da mandare in diffusione e mi spiega che hanno pensato a 4 possibilità di scelta secondo i diversi ambienti (spogliatoi, area fitness, DaySPA). Mentre negli spogliatoi la musica è più "soft", come modalità di avvicinamento e chiusura dell'attività fisica, "quella diffusa nell'area fitness è molto più commerciale" perché è in diffusione anche nell'area bar e deve assicurare il divertimento a tutti. Vale la pena ricordare qui che il claim di VirginActive è "Divertimento!"7. Una volta scelto il filone adatto che caratterizza ogni ambiente, la programmazione avviene attraverso il computer centrale che accede ad un repertorio di migliaia di brani mandati in diffusione automaticamente in modalità random. Alla mia domanda sul perché la scelta venga affidata al computer la risposta è: "perché è comodo"; infatti effettuare direttamente la programmazione scegliendo i brani ogni giorno per 16 ore (tempo giornaliero di apertura al pubblico) diventerebbe un lavoro insostenibile. Inoltre l'aggiornamento dell'archivio musicale avviene automaticamente una volta al mese. Al contrario, la musica che viene utilizzata dai singoli trainer per i corsi viene scelta personalmente da loro secondo criteri propri e utilizzando CD personali. Chiedo anche al mio interlocutore se capita che i frequentatori esprimano idee o preferenze rispetto alla musica che si sente in diffusione: "si qualcuno, specialmente per i brani un po' datati, che rimandano a ricordi, esperienze personali, capita" e aggiunge: "questo perché la musica ha un grande potere evocativo..." Da questi commenti traspare una grande consapevolezza della gestione e degli effetti della musica che viene messa in onda. L'importanza dell'aspetto relazionale e del permettere (a livello di volume sonoro) e favorire l'interazione vengono sottolineati più volte. Dal suo punto di vista Virgin Active si caratterizza per l'insieme delle sue proposte ma anche come luogo per socializzare, e sottolinea che "l'idea è di offrire uno spazio che stia fuori dalla realtà quotidiana stressante e opprimente". Nei momenti in cui non c'è musica per il passaggio da un brano all'altro si sente il "silenzio della mancanza" che lascia spazio alla percezione del rumore di fondo, amplificandolo. Mi viene in mente una frase di Schafer, "Le mura sonore nascondono sotto la finzione il paesaggio sonoro autentico" (1985, p. 144), dove il muro sonoro è quello che viene costruito con l'uso della moozak. Ma ciò di cui devo prendere atto dai vari colloqui è che l'aspetto di rumorosità nascosta - che comunque il sistema sensoriale percepisce - camuffata dalla musica, continua ad essere sottovalutato, dato per scontato o addirittura negato dai miei interlocutori. Un percorso all'interno di DaySPA: una progettazione complementare Durante vari colloqui, parlando della sonorità che caratterizza lo spazio Virgin, è emerso spesso il riferimento all'area DaySPA come spazio totalmente "altro" con una netta differenziazione sonora e musicale. In effetti appena entro nello spazio SPA sento distintamente la musica in diffusione e l'impressione è di stacco totale con quanto c'è fuori. Varcata la porta mi accoglie una sonorità totalmente diversa, musicale e silenziosa allo stesso tempo - qui non ci sono attrezzature in funzione - e l'insieme della musica diffusa, le luci e gli arredi introducono in uno spazio totalmente "altro". Questa infatti è la particolarità di progettazione dell'area SPA, di uno spazio pensato, realizzato e gestito come totalmente "altro" rispetto all'area fitness e al mondo esterno. Nella sua realizzazione, mi dicono, è una novità inventata dal club Virgin Active di Milano improntata ad una filosofia particolare di quiete e benessere, che pur seguendo la moda del momento, si è strutturata in modo particolare. Dalla reception dell'area DaySPA, la responsabile, mi introduce nello spazio interno dove mi accoglie una musica "soffusa", come le luci, e suoni d'acqua. Mi accompagna nella visita del centro, costruito secondo i principi del Feng Shui, seguendo un percorso nella disposizione dei 5 elementi (legno, acqua, fuoco, metallo, terra) che caratterizzano i diversi ambienti a tema, passando anche dalla stanza dell'hammam. La musica diffusa è la stessa in tutto lo spazio, anche se è possibile scegliere tra due canali: uno di musica lounge, con suoni della natura e musica etnica, l'altro, quello attivo al momento, scelto perché "è più musica, di solito scegliamo questo". Esiste la possibilità di variare il volume all'interno di ogni cabina, mentre nell'hammam non c'è diffusione (per motivi tecnici). L'altra sonorità che accompagna costantemente all'interno di questo spazio è il gocciolare dell'acqua nella vasca posta al centro del percorso. Nell'insieme l'effetto è molto gradevole e rilassante, secondo i desideri di chi 33 ha progettato tutto ciò: la filosofia sottesa a questa costruzione è pone un interrogativo: se nella progettazione dei due spazi sia di stimolare tutti i sensi. stata considerata tale complementarità. In un colloquio successivo Infatti una sapiente scelta di colori, luci e profumi, un'accurata ho conferma del fatto che la dimensione sonora nella disposizione di arredi, e una discreta diffusione sonora accolgono progettazione di questo luogo è stata prioritaria. Tra le questioni chi entra. Ai trattamenti estetico-rilassanti previsti dal menu, si che ho indagato con le mie interlocutrici c'è anche quella della aggiunge l'offerta di tisane o frutta fresca durante una pausa di percezione della differenza sonora tra questo spazio e l'area relax prevista in spazi dedicati. L'udito è stimolato dalla musica fitness. Lo spostamento tra i due spazi durante le giornate diffusa, dai suoni acquatici della fontana e dal "silenzio", che si lavorative, che avviene o per motivi di lavoro o per accedere al percepisce, nonostante la presenza dei suoni. Questo silenzio bar, comporta sensazioni di sfasamento, di discrepanza tra i due particolare, costruito ad hoc, è il risultato sia dell'assenza di spazi; non così quando la frequentazione dell'area fitness avviene rumori di fondo e di funzionamento di attrezzature, che della nei giorni liberi. Così, sottolinea Ivana, "la sensazione è che va mancanza di interazioni verbali tra le persone. Questo luogo non bene così, è tutto al posto giusto, adeguato all'ambiente e a ciò è pensato per la socializzazione, al massimo è prevista la presenza che si fa lì, così come qui è adeguata questa musica". contemporanea di due clienti che difficilmente si incontrano. Qui Diventa quindi evidente che questi due luoghi così diversi sono emerge la fruizione individuale, quasi "privata", di questo spazio, stati progettati e costruiti in modo da essere funzionalmente in contrasto con quella "collettiva" dell'area fitness. complementari, nella frequentazione da parte degli utenti, nel loro Ritorno altre volte ad ascoltare le sonorità di DaySPA e le persone essere percettivamente riconoscibili come separati e caratterizzati che lavorano lì, e discutendo sulla dimensione sonora particolare da specifiche sonorità e generi musicali. di questo spazio e sulla fruizione nell'immersione quotidiana di chi ci lavora, emergono le diverse sensibilità e modalità personali nel porre attenzione all'ambiente sonoro. Le mie interlocutrici pur La questione della scelta … riconoscendo la particolarità sonora di questo spazio e del canale musicale utilizzato, evidenziano che l'esposizione continuativa Si è evidenziato dalle esplorazioni sonore nell'area fitness e in porta ad attivare meccanismi di presa di distanza, nella forma di DaySPA che la possibilità di scelta della musica che viene diffusa "staccare l'ascolto". Inoltre la programmazione, con selezione non esiste o è molto limitata. automatica e casuale, nonostante gli aggiornamenti, è ripetitiva. Un ulteriore percorso sonoro mi ha portata ad esplorare alcuni dei Entrano in gioco riconoscimenti di segnali8, cioè l'attivazione luoghi di Virgin Active dove invece la possilità di scelta musicale da parte dei singoli istruttori dell'ascolto intenzionale, costituisce e costruisce la rivolto, secondo le sensibilità area caratterizzazione sonora degli personali, a ciò che piace o a acqua spazi dei diversi corsi. Nei ciò che infastidisce o non area legno colloqui con alcuni trainers viene apprezzato. Viene area terra ho avuto modo di parlare evidenziato che il genere di della modalità e dei criteri di musica in diffusione è adatto area scelta e gestione della musica al contesto specifico, ma area fuoco metallo durante le varie lezioni. Ogni questo non comporta il trainer gestisce e seleziona i desiderio di ascoltare, fuori, brani secondo le sue questo genere di musica, né preferenze. In generale gli modifica i propri gusti istruttori possono accedere a musicali. Ciò che emerge Virgin Active DaySPA repertori già selezionati nell'insieme è che per chi lavora "comunque questa musica appartiene al lavoro", mentre secondo le diverse attività e modalità di allenamento. Uno degli appartiene ad un tempo di sospensione, rappresenta una pausa istruttori evidenzia che i CD usati per i corsi "musicali"(cioè i nella quotidianità, per chi usufruisce di questo luogo come corsi che usano la musica come sostegno ritmico) sono musicalmente più "commerciali" e sono funzionali anche per un cliente. Prima di uscire dall'area SPA di solito mi fermo un momento in mese o più; inoltre sono reperibili in filoni di repertorio che ascolto alla reception: si sentono entrambe le musiche in tengono conto dei gusti del pubblico in generale, "per diffusione, quella di SPA e quella dell'area fitness, mentre accontentare un po' tutti". Per lo spinning il discorso è diverso all'entrata è chiara la sensazione di stacco e di percezione soltanto perché ciò che lo caratterizza è il fatto che ogni lezione è diversa, della musica in diffusione all'interno di DaySPA. Riemergere "quindi i CD che mi preparo a casa per lo spinning sono sempre nell'area fitness dopo un'ora nell'area SPA procura un impatto diversi" mi dice Mauro, il trainer che mi ha fatto assistere ad una molto forte: l'idea è di un frastuono infernale, e immagino come lezione. Il colloquio con Gianna, fa emergere anche altri aspetti. possa essere rilassante il passaggio inverso. Questa esperienza mi La musica che utilizza è scelta secondo il suo gusto personale e in 34 modo che sia funzionale alle lezioni, ma con l'attenzione a variare il repertorio, rispetto a quanto viene proposto a tutti i trainers come "stile Virgin". Vengono organizzati dei corsi interni di formazione per i trainers, secondo lo stile Virgin, in modo che tutti adottino certi standard, non solo all'interno dello stesso centro, ma ovunque esista un centro Virgin Active. Lo stile deve essere uniformato, poiché è previsto che un socio Virgin possa accedere a tutti i centri Virgin esistenti in giro per il mondo, sicuro di trovare spazi e stili riconoscibili e familiari. Questo comporta una tendenza ad uniformare anche i repertori musicali utilizzati dagli istruttori. Ciò che la mia interlocutrice tiene ad evidenziare è che ogni trainer ha uno stile proprio che lo diversifica dagli altri, quindi a maggior ragione questo stile personale si riflette nelle musiche che sceglie per le lezioni. all'interno di uno spazio che offre proposte omologate. I luoghi che ho cercato di indagare dal punto di vista sonoro sono caratterizzati dalla presenza della musica, selezionata secondo criteri di funzionalità: come sostegno in un allenamento fisico faticoso o noioso oppure come parte integrante di attività volte al benessere e al rilassamento. E il ruolo che la tecnologia assume ha un'importanza fondamentale in questi contesti. Kittler nella prospettiva teorica di Discourse Network considera la tecnologia come la "materialità" dei media, che produce specifiche modalità di percezione sensoriale secondo le evoluzioni nei diversi contesti storici. Riporto un esempio dell'effetto "costruttivo" delle tecnologie rintracciabile nello spazio Virgin: la tecnologia dell'amplificazione permette di operare selettivamente sui livelli di volume di diffusione della musica rendendola adeguata alle differenti finalità d'uso. Così ad esempio un allenamento fisico molto faticoso quale lo spinning, verrà sostenuto e costruito utilizzando la musica diffusa a volume altissimo e il trainer potrà condurre la lezione utilizzando un microfono per far arrivare la sua voce a tutti i presenti. McLuhan riferendosi alla tecnologia della stereofonia sostiene che essa ha la capacità di promuovere una "forma di unione audio-tattile"(2002, p. 299). Ne ho fatto esperienza assistendo a una lezione di spinning dove il risuonare della musica dentro il corpo diventava "tangibile", dove udito e tatto diventano coincidenti e si confondono. Questo mi fa considerare l'aspetto sinestesico e multisensoriale della fruizione musicale in questi contesti che porta a un'incorporazione delle pratiche sociali ad essa collegate. La connessione tra musica e movimento è alla base dell'utilizzo di determinati generi musicali nelle attività di fitness, dove la fruizione sonora, "si fa" esercizio fisico. Nella ripetizione dell'allenamento, movimenti specifici vengono associati a ritmi e sonorità definiti, e viceversa, creando così un'incorporazione di stilemi a partire dalle realizzazioni pratiche. Ritengo che ci sia "naturalizzazione" del legame tra generi musicali e pratiche specifiche quando i modelli diventano ripetitivi, omologati, e scontati, quindi non più sottoposti a interrogativi e critica. In questo senso penso che le categorizzazioni operate sui generi musicali dalle industrie della musica possano creare naturalizzazione di pratiche sociali. Nei contesti che ho indagato "il divertimento" o "il benessere" sono presentati come categorie culturali "naturalizzate", che passano attraverso il "dover essere"12 o il "dover fare". La musica piove dall'alto "La musica piove dall'alto" è una frase dal significato duplice. Da un lato si riferisce alla collocazione fisica delle casse per la diffusione musicale in grandi spazi, posizionate nel soffitto; dall'altro si riferisce all'idea di monopolio e dominio che caratterizza l'industria musicale, in quanto industria culturale, che impone il "consumo" di determinati generi e secondo determinate modalità, ad esempio nella "riproduzione del sempre uguale" (Horkheimer, Adorno, 1966, p. 145) Questo comporta riconoscere l'esistenza delle categorizzazioni dei generi musicali, che portano alla "naturalizzazione" di alcune pratiche sociali. Secondo S. Hall, ciò che viene riconosciuto come "naturale" in un processo comunicativo ha l'effetto ideologico di nascondere le pratiche di codificazione.9 Con il termine categorizzazione mi riferisco alla modalità di catalogazione delle produzioni musicali e alla loro definizione in specifici generi musicali che vengono effettuate dalle case editrici secondo criteri eurocentrici e legati alle esigenze dei mercati globalizzati. Un'analisi molto interessante di tali costruzioni, operate attraverso meccanismi di decontestualizzazione e ricontestualizzazione arbitrarie, si trova negli articoli di S. Feld, A sweet lullaby for World Music, e di J. Shannon, Sultan of Spin: Syrian Sacred Music on the World Stage.10 Ma la categorizzazione dei generi musicali definisce in partenza anche le stesse possibilità di scelta in termini di accesso ai repertori disponibili oppure a quelli già definiti e selezionati per "addetti ai lavori". Un esempio di tale effetto si vede all'opera nello spazio Virgin Active sia rispetto alla determinazione dei canali di musica da mandare in diffusione, sia rispetto alla scelta all'interno dei repertori stessi, operata dal computer oppure dai singoli istruttori. L'effetto di "virginizzazione"11 è la modalità per imporre lo stile Virgin in tutti i Virgin Club a livello globale. La costruzione personalizzata di repertori, mediante l'uso di CD, di cui alcuni trainers mi hanno parlato, è una modalità che permette di uscire parzialmente dalla "virginizzazione", e che si pone come tentativo di costruzione identitaria in termini di professionalità, Conclusioni Nel corso della ricerca è emerso che la potenzialità tecnologica insita nelle modalità di scelta casuale di brani musicali all'interno di un archivio vastissimo contiene anche un limite: la ripetizione, lamentata da tutti i miei interlocutori. Essa si crea poiché la scelta è limitata in partenza in quanto legata solo a repertori relativi a specifici generi musicali. La ripetizione porta al non-ascolto, modalità che è stata 35 evidenziata da tutti i miei interlocutori, anche se con sfumature diverse. Un aspetto che ho rilevato con sorpresa, durante i colloqui con i miei interlocutori, è il non riconoscimento o la negazione delle rumorosità diffuse, presenti nei luoghi sonori che ho esplorato. Infatti, mentre tutti riconoscevano la presenza della sonorità musicale, con diversi gradi di apprezzamento, non ho riscontrato attenzione alle altre sonorità e rumorosità dell'ambiente. Alcuni esempi: Fabrizio, che pur dimostrando grande consapevolezza della gestione musicale, ad una mia domanda esplicita risponde negando l'esistenza di rumorosità dovute al funzionamento delle varie attrezzature. Analogamente Barbara, oppure Claudia e Anna che lavorano nell'area SPA, non riconoscono l'esistenza di rumorosità di funzionamento nell'area Virgin fitness. Questa mi sembra una dimostrazione dell'efficacia della moozak che nasconde un paesaggio sonoro sotto un'apparenza di gradevolezza superficiale e poco coinvolgente, dove "se la musica può essere usata per mascherare il rumore, anche il rumore può essere usato per mascherare la musica" (Schafer, 1985, p. 143). Le tematiche emerse durante questa breve ricerca pongono ulteriori interrogativi , richiedono approfondimenti e la loro complessità apre ad altre possibili analisi. Alcuni concetti della teoria critica dell'industria culturale (Horkheimer - Adorno) mi sono stati utili per analizzare lo spazio di Virgin Active come parte di una produzione culturale del divertimento che impone modalità di consumo stereotipate e ripetitive e per provare ad affrontare la questione delle reali possibilità di scelta. Un altro approccio teorico cui mi sono riferita è quello che guarda al ruolo delle tecnologie mediatiche che nella loro materialità sono produttrici di specifiche modalità percettive (McLuhan, Kittler). Infine si pone una questione problematica rispetto alla possibilità di restituire, scrivendo, un'etnografia del suono: la fissità spaziale della visione-scrittura esclude il fluire della temporalità che caratteriza gli eventi sonori. Ciò che è scrivibile quindi è la descrizione nella contestualizzazione degli eventi e il "detto" dei propri interlocutori. Schafer in Il paesaggio sonoro si poneva il problema di come fornire un'immagine di un paesaggio sonoro, fatto di "eventi uditi": dovendoli "presentare su pagine silenziose" (1985, p. 19) è possibile far riferimento a metodi di proiezione visiva e di notazione musicale. Egli comunque auspicava la possibilità di disporre di nuovi metodi descrittivi. Infatti queste rappresentazioni visive hanno valore di documentazione ma comunque escludono la dimensione temporale e l'esperienza percettiva del suono che è un elemento fondamentale in un'etnografia sonora. Essa è riproducibile attraverso la registrazione sonora, la riproduzione e l'ascolto. Ma queste modalità a loro volta presuppongono disponibilità di tempo e strumentazioni adeguate da parte dei destinatari dell'etnografia. La lettura di un testo scritto richiede un impiego di tempo minore rispetto a quello necessario per l'ascolto di un brano registrato. E' possibile leggere in qualunque luogo, mentre un ascolto richiede strumentazioni adeguate e luoghi dedicati. Credo che questi aspetti pongano la questione in termini epistemologici. Steven Feld si era posto il problema già nella sua monografia Sound and Sentiment (1982), un'etnografia del suono considerato come sistema simbolico dei Kaluli di Papua New Guinea. In scritti successivi ha sviluppato il concetto di acoustemology13 come modalità di conoscere un "luogo" sonoro nella contestualizzazione dello spazio-tempo. E' possibile cioè fare esperienza e conoscere un luogo attraverso l'interazione complessa tra visivo e uditivo, così come attraverso gli altri processi di percezione intersensoriale. In un articolo-intervista recente in cui ripercorre i sui lavori etnografici a partire dall'etnografia sui Kaluli, mette in risalto le modalità di editing dialogico con i suoi interlocutori sul campo rispetto alle registrazioni da lui effettuate e pubblicate in diverse occasioni: l'aspetto fondamentale che emerge è l'attenzione alla qualità di tali produzioni. L'autore, critico rispetto alla qualità dei documenti sonori (CD) che accompagnano le etnografie presentati in occasione di incontri o congressi, auspica che venga posta la stessa attenzione e professionalità dedicata alla scrittura anche alle registrazioni del suono, da considerare come "tecnologia di mediazione creativa e analitica".14 36 Note 1 Cfr. R. M. Schafer, Il paesaggio sonoro, Ricordi-Unicopli , 1985 p. 183. Questo approccio di ricerca fa riferimento agli sviluppi più recenti dell'Antropologia sensoriale (D. Howes, C. Classen, S. Feld, P. Stoller ) 3 Il Bicocca Village, una realizzazione di Pirelli-RE nell'ambito della riconversione dell'ex-area industriale della Bicocca, viene definito come centro commerciale nelle presentazioni su Internet: www.PirelliRE.it 4 Nello studio del paesaggio sonoro con questo termine si intende lo sfondo sul quale vengono percepiti gli altri suoni. Cfr. R. M. Schafer, op. cit. 5 Il termine deriva dall'industria Moozak (USA) e si riferisce alla produzione di musica a partire da studi psicologici, per una distribuzione di massa. Cfr. R. M. Schafer, op. cit., p. 143 6 Il Club Virgin Active di Milano è uno dei 5 Club Virgin in Italia; è stato aperto al Bicocca Village a gennaio 2005. Virgin Active è una delle componenti del gruppo multinazionale Virgin, ed è presente in Sud Africa con 77 club e in GB con 14 club. 7 Vedi l'opuscolo "Fun guide" in distribuzione nel centro che illustra la filosofia del gruppo Virgin Active e le varie attività che vengono proposte. 8 Cfr. R. M. Schafer, op. cit. Con il termine "segnale" l'autore intende qualsiasi suono che richiami l'attenzione in modo particolare. 9 Cfr. S. Hall, Codifica/decodifica, in M. Fagioli, S. Zambotti (a cura di) Antropologia e media, Ibis, 2005, p. 69 10 Cfr. S. Feld, A sweet lullaby for World Music, in Public Culture, 12 (1), 2000: 145-171 - J. Shannon, Sultan of Spin: Syrian Sacred Music on the World Stage, in American Anthropologist, 105 (2), 2003: 266-277 11 Ho utilizzato il termine "virginizzazione" parafrasandolo da "macdonaldizzazione" che si riferisce alla diffusione di MacDonald che offre gli stessi ambienti, stili e menù a livello globale 12 Riporto alcune affermazioni dei miei interlocutori: Barbara: "questo è un posto(…) dove devi divertirti, muoverti, essere allegro…"; Fabrizio: "l'idea è di offrire uno spazio che stia fuori dalla realtà quotidiana stressante e opprimente"; Ivana: "(da questo posto) non si può non uscire rilassati" 13 Cfr. S. Feld, Waterfalls of Song, in H. Basso e S. Feld (edited by), Senses of Place, Santa Fe, School of American Research Press, 1996 14 Cfr. S. Feld, D. Brenneis, Doing anthropology in sound, in American Ethnologist, 31 (4), pp.461-474 2 Bibliografia M. Augé, Non luoghi, Elèuthera, 1993 M. Fagioli, S. Zambotti, (a cura di) Antropologia e media, Como-Pavia, Ibis, 2005 S. Feld, Sound and sentiment, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1982 H. Basso e S. Feld (edited by) , Senses of Place, Santa Fe, School of American Research Press, 1996 M. Horkheimer - T.Adorno, Dialettica dell'illuminismo, Torino, Einaudi, 1966 M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Milano, Net, 2002 R. M. Schafer, Il paesaggio sonoro, Milano, Ricordi-Unicopli, 1985 37 10 CORSO COMO, MILANO Luogo come discorso e media Di Serena Bottelli 1. Perché l'etnografia su di uno spazio-luogo? dell'articolazione dei significati di un discorso in genere. In proposito sosteneva, 'Secondo me, esiste la possibilità che la finzione operi all'interno della verità, che un discorso immaginario provochi effetti di verità e che si verifichi che un discorso vero generi o inventi qualcosa che ancora non esiste, cioè che lo finga' (Miller,1994,p.240). Quanto detto fin qui, vuole indirizzare chi legge all'oggetto di questa etnografia. Di seguito, infatti, parlerò di un 'luogo', '10 Corso Como', spazio polifunzionale, che nasce dalla commistione di spazi che assolvono a finalità diverse, compresi in un discorso culturale univoco. Situato nel centro di Milano, ho scelto di parlare di questo centro per esemplificare il discorso pocanzi fatto sul concetto di luogo. Ed ho scelto uno spazio delimitato, per indagare le significazioni da cui è culturalmente definito, le codifiche, le adozioni di senso che sono state pensate da chi l' ha progettato, perché acquisisse lo statuto di luogo. Per far questo mi servirò degli strumenti metodologici propri della semiologia, letteralmente la decodifica dei 'semos', o segni, che definiscono i messaggi che compongono l'humus di questo luogo. Ma perché un'analisi di tipo semiologico per comprendere il discorso culturale sul luogo? Per rispondere, è importante citare il contributo di Clifford Geertz, che in 'Antropologia interpretativa' parlando di semiotica, scienza sorella della semiologia, sostiene: 'Una semiotica … dovrebbe impegnarci in una specie di storia naturale di segni e simboli, una etnografia dei veicoli del significato. Questi segni o simboli, questi veicoli del significato, svolgono un ruolo nella vita di una società… ed è questo che li fa vivere… qui il significato è l'uso, o meglio sorge dall'uso… bisogna passare da un'investigazione dei segni in astratto ad una investigazione degli stessi nel loro habitat naturale il mondo comune in cui gli uomini guardano, nominano, ascoltano e fanno… E' per cercare le radici della forma in quella da me chiamata… la storia sociale dell'immaginazione' (1988, pp.150151). Quotidianamente, nei trasferimenti che compio per raggiungere l'Università o i centri città della mia zona, da un tram sferragliante che di viale in viale mi porta dal centro di Milano in periferia o da casa alla stazione o da casa in centro, osservo come le città si presentano come veri e propri luoghi contenitori, collettori e propulsori di messaggi. Messaggi affidati alla cartellonistica, risolti in immagini statiche o in movimento, scritte e slogan che percorrono la pancia metallica di un tram, un autobus, un' auto o un treno. Ancora, strisce di informazioni, pubblicità che corrono da un albero all'altro su di un filo sopra la tua testa o che lampeggiano da una vetrina di un negozio attraverso i video minimalisti, esilissimi di nuova generazione. E dall'immagine al lettering, dai suoni alle composizioni musicali, agli spot, alla tipologia di media cui è affidato, tutto concorre a definire il messaggio. Esso è studiato, calcolato fin nei minimi dettagli, impaginato, colorato o in bianco e nero, patinato o opaco, affidato ad una melodia dolce o ad un suono frastornante, risolto in grafiche sofisticate o minimali. E' un insieme composito, sistemato per definire e delimitare un determinato spazio. Spazio che viene ad essere abitato, profuso di segni, simboli che lo inscrivono nell'ordine sociale e culturale in cui viviamo e di cui ci serviamo. Da cui deriva, quindi, il concetto di spazio significato, dove per significazione s'intende la costruzione concreta e simbolica attorno ad uno spazio, che lo consacra e lo trasforma in luogo. Un luogo, in sostanza è la risultante di uno spazio investito di senso. Esso è un contenitore di codici, la cui decodifica ci porta a svelare, comprendere il messaggio sotteso, ed il discorso di cui è portatore. Perché ogni luogo, diventa depositario ed è lo spazio in cui si articola un vero e proprio discordo mediatico - discorso inteso nel senso foucaultiano del termine. Il filosofo francese, ci ha svelato i lati più sottili e reconditi 38 2. Il luogo '10 Corso Como' Scritta nero su bianco, non a caso la scelta di due non colori, che rimanda ad un'idea di semplicità, originarietà, originalità, primitivismo. Questo conduce ad un ordine del discorso che proietta verso paesi lontani. Lontano o altrove inteso nel senso culturale del termine, in cui le modalità di scrittura odierne, rigorosamente soggette alla tecnica, precisione, chiarezza e riproduzione sono ancora sconosciute, che vuol significare paesi arretrati, dal punto di vista tecnologico. La cui distanza culturale viene ad essere manipolata e esaltata secondo l'ordine del discorso proprio dell'esotismo -considerando tutto il potere che assume oggi questo argomento, che risente del discorso sull'Orientalismo fatto da Said. Nel nome che identifica questo luogo ravvisiamo un contrasto netto e opposto tra due produzioni di significato. L'una mira ad orientare lo spazio idealmente oltre oceano proiettandolo in un nuovo ordine di pensiero, forse migliore, più pragmatico, l'altra che riporta il centro a influenze esotiche, di paesi lontani (tecnologicamente arretrati,affascinanti perché lontani) . Proseguendo e riportando l'attenzione allo spazio fisico, accedendo nel cortile ci si trova immersi in un labirinto di spazi che compongono l'intero luogo. Per indagare questi ultimi procederò dai caratteri che li accomunano e che legano con un filo rosso tutto l'ambiente. In generale, come suggerito dalla guida, viene indicato che tutto il centro è ricavato da un ex garage e da una casa a ringhiera, riadattati per accogliere i diversi ambienti: 'lo spazio originario non viene annullato ma sottolineato'. Questi ultimi sono open space, spazi aperti che ribadiscono costantemente il concetto di originarietà, che ritroviamo affidato ai motivi decorativi, che ricalcano le linee imprecise e le sbavature dell'insegna/logo, che percorrono pareti, porte, finestre, complementi d'arredo, tende, tavoli e sedie, piastrelle, fino alle carte da pacco . Cerchi indefiniti, linee ondulate, rette, rese in modo difforme, segni informi, forme semplici, giocano sulla maggior parte delle superfici ricordando elementi naturali, motivi vegetali e floreali, ribadendo un'idea di manualità, originalità, naturalità, artigianalità. C'è in questa simbologia fatta di segni minimali il desiderio di allacciare un contatto con un passato ancestrale. E sono questi i concetti che costituiscono la linea guida di tutti gli ambienti, e che tratteggiano il tema principe del luogo. Il concetto di artigianalità, poi, viene ribadito come idea di genuinità ed armonia nel testo di presentazione quando parla di 'una commistione inedita di linguaggi che si vivono: ascoltando la musica, guardando l'arte, i libri i colori, toccando gli oggetti i 'Il progetto 10 corso como inizia a Milano nel 1990 negli ampi locali di un ex garage, all'interno di un cortile. Somma di luoghi in successione ed integrati: la galleria d'arte e fotografia, la libreria, la sala dedicata alla musica, il negozio di design e moda - uno dei primi concept store al mondo, il ristorante, il bar, la sala da thè, il cortile giardino, il nuovo bed & breakfast'. Si presenta così, in un libretto appositamente stampato per chi vi accede, il luogo di cui voglio parlare. Situato nel pieno centro di Milano, nei pressi della Stazione Garibaldi (una delle stazioni della città, forse la seconda per importanza) '10 Corso Como', prende il nome dalla Via in cui nasce, Corso Como, dove si possono trovare anche alcuni dei locali più frequentati della Milano mondana. Dai media in generale è definita una delle zone 'alla moda', con tutti i significati che il termine include, che si propone di offrire 24 ore su 24 il 'meglio', dai cibi ai vestiti alle tendenze in voga del momento. '10 Corso Como', si affaccia su questo corso, ed è un cortile ricavato da un ex garage, come indicato dall'opuscolo, ben identificabile per l'insegna che è inquadrata al centro del cornicione sovrastante l'entrata. Prima di proseguire è necessario spendere due parole sul nome e l'insegna: '10 Corso Como'. Il nome del luogo è definito, infatti, dallo stesso indirizzo, ma, osservando, l'ordine logico di scrittura dell'indirizzo cui siamo culturalmente abituati viene sovvertito. Il numero 10, precede il nome della via, Corso Como, seguendo una disposizione che è tipicamente anglosassone. Se prendiamo ad esempio il Solomon Guggenheim di New York negli Stati Uniti, si trova nella 1071 fifth avenue. Questo ci dice qualcosa circa il luogo ideologico cui ci si vuole riferire. La modalità di scrittura dell'indirizzo vuole presentare lo spazio significandolo a partire da convenzioni altre, con la volontà di ricontestualizzarlo altrove. Altrove nel senso di dimensione fisica ed immaginata, che vuole comporsi dei valori che fanno riferimento ad un determinato contesto, ma anche modo di pensare: quello anglosassone e Americano in questo particolare caso. Proseguendo nell'analisi dell'insegna c'è una curiosità, mentre l'ordine dell'indirizzo è volutamente sovvertito seguendo logiche anglosassoni, la grafica orienta chi guarda in un altrove ancora diverso dal precedente. Le lettere che compongono la scritta, volutamente rimandano ad una scrittura manuale, sono imprecise, definite da un segno poco lineare a tratti tremolante e sbavato con dei tondini a decorare le 'o' ed a inframezzare le parole. 39 tessuti le materie, gustando i cibi, le bevande, odorando i fiori i profumi, gli aromi'. Idea di genuinità ed armonia presente nel testo con il riferimento ai cinque sensi, che l'immersione in questa realtà dà modo di esercitare risvegliare ed esperire. Effettivamente, in tutti gli ambienti risuonano i ritmi di una musica che riprende suoni new age, echi di natura: da rivoli d'acqua a cinguetti d'uccelli, che si alternano a melodie etniche, dominate da rullare di tamburi e flauti di pan, fino a ritmi drum & base. Eccoci ancora ridestinati a collegarci idealmente ad un ambito che è altrove, pseudo naturale, visivamente per via delle piante di bambù, che ci sono ma che sono anche ricordate dalle stilizzazioni dei motivi che decorano l'intero spazio, e per via dei suoni che riprendono gli elementi di natura. Oltre ai suoni pervadono l'aria odori di ogni genere, dai cibi in elaborazione nell' immediato ristorante, agli incensi speziati della libreria e del negozio di moda. Ancora i colori, riecheggiano dai complementi d'arredo, dai testi di design e d'arte in vendita, dai mosaici decorativi del bar, al linoleum del negozio di moda ai piatti, bicchieri, vasi e cornici, vestiti, all'arredo delle stanze progettate per il B&B. Gli oggetti, i vestiti in vendita, bevande e cibi, tutto molto costoso, anzi costosissimo. Questo indica che l'insieme è pensato per un certo livello di persone, per una tipologia ben precisa, di nicchia. Ecco che il canone di riferimento, la semplicità, ricordato in ogni dove, ed anche nell'ultimo esempio per la possibilità offerta in questo posto di esercitare i cinque sensi, non è poi così semplicemente accessibile se non si è economicamente ben provvisti. Quanto detto fin qui, stride fortemente con il leit motiv della 'semplicità' ed armonia esibito, (oltre che dalla possibilità uditiva, visiva, tattile di materiali, tessuti, oggetti ecc, a quella di degustazione, di cibi dagli aromi variegati ecc.) che si limita ad un discorso puramente superficiale e serve a ritrarre un'immagine fittizia, alla quale non si può accedere in profondità senza soldi. A stridere e scontrarsi sono il concetto di semplicità al cospetto di quello economico. Proseguendo, i colori sono anche quelli di fotografie di reportage (ad esempio quelle dell'ultima mostra in programma, della world press photo: 'Fotografia e giornalismo le immagini premiate nel 2005') che ritraggono scenari e situazioni tra le più diverse ed emotivamente forti. Si tratta di foto che hanno preso immagini dai più recenti scenari tragici, da guerre, quella Iraqena ed Afgana, ad attacchi terroristici, quello nella scuola di Beslam, ad esodi di profughi, quelli del Darfur, ai segni di violenza su donne di diverse provenienze.. e così, il tutto giocando sull'onda di una forte sollecitazione emotiva. Anche in questo caso, riesce difficile accostare il discorso imperante di semplicità ed armonia ad immagini così cariche di significazione, che informano su tematiche delicatissime , terribilmente drammatiche e assolutamente profonde. 3. Lo spazio: come si struttura Quando si accede dal portone cui è affidata l'insegna, si è accolti da un muro composto da una vegetazione fitta di canne di bambù, fitte ed alte fino al soffitto dell'ingresso, che hanno la finalità di s e p a r a r e l ' i n t e r n o dall'esterno. Avanzando, ci si trova immersi in un cortile che ospita il primo degli ambienti sopra elencati, il bar-giardino, che percorre la quasi totalità della superficie dello spazio all'aperto, lasciando libera solo una striscia destinata al passaggio. Passaggio che orienta verso gli altri ambienti, il bar che abita lo spazio al piano terra, immediatamente collocato alla sinistra dell'entrata. Il negozio di design e moda, invece, si trova oltre il bar sempre sulla sinistra che di rimpetto vede aprirsi, sulla destra, il ristorante. Ai piani rialzati troviamo, sulla sinistra, ad un mezzo piano sollevato da terra, una parte della galleria d'arte fotografica che continua al primo piano al seguito di altri due spazi, la libreria e la sala della musica. Sopra il portone d'entrata infine, si trovano i tre spazi dedicati al bed & breakfast. 4.Conclusioni Quanto detto fin qui dimostra come un luogo, con le sue significazioni prodotte da codici, segni, simboli e linguaggi che lo abitano, lo definiscono, origina un vero e proprio discorso culturale. Discorsi culturali che, come sostiene Geertz, non sono astratti dal contesto in cui un uomo vive. Essi, anzi, prendono forma dall' humus vitale. Si caricano delle significazioni che gli diamo e, in fondo, sono il prodotto di ciò che pensiamo e immaginiamo. A proposito della nozione di 'discorso', è impossibile prescindere 40 dal contributo di Michel Foucault. Un'analisi di questo concetto è messa in luce nei testi 'L'Archeologie du savoir' (1969) e 'Surveiller et punir' (1975). Nel 1967, in un'intervista, Foucault dichiarava che il linguaggio era diventato la sua ossessione 'pende sopra di noi, e ci guida innanzi nella nostra cecità… fin dall'infanzia sono perseguito da un incubo. Ho davanti agli occhi un testo che non sono capace di leggere, del quale posso decifrare solo una piccola parte; faccio finta di leggerlo, ma so che lo sto inventando…' ( Miller, 1994, p.140). Interessato allo strutturalismo e alla semiologia di Roland Barthes, allettato dal mondo come un vasto testo, Foucault era impegnato a introdurre e sondare il concetto di 'finzione', come l'elemento di trascendenza del linguaggio. Ed è determinante il suo apporto teorico, per l'analisi sin qui condotta, perché svela quali strategie si celano nell'ambito della costruzione del discorso, del linguaggio, della cultura e del sapere, codici che informano il luogo da me esaminato. 'Il sapere è un'invenzione dietro alla quale si trova… un gioco di istinti, di impulsi,di desideri,di paura,una volontà di approvazione… viene prodotto sul palcoscenico dove si scontrano questi elementi… Esso è sempre schiavo, dipendente e asservito… E se si presenta come conoscenza della verità, è perché esso produce la verità attraverso la rappresentazione di una falsificazione iniziale e sempre ricreata, che determina la distinzione tra vero e falso' (Miller, 1994,p.243). Il luogo da me indagato, origina da un ordine di discorsi ben definiti, discorsi che, come si è visto, si avvalgono dei linguaggi compresi dai cinque sensi, spaziando da immagini a suoni a odori ad oggetti a testi… Ho parlato poco sopra della volontà, infusa nella progettazione e realizzazione dello spazio, di ricontestualizzarlo in diversi 'altrove' ideologici. Passando dal pragmatismo anglosassone, all'esotismo, dalla semplicità, alla genuinità, fino all'armonia. A riguardo, un grande contributo esplicativo è d'obbligo ed è quello fornito da Edward Said che sulla costruzione del discorso sull'Oriente diceva: 'L'Oriente presentato dall'Orientalismo è un sistema di rappresentazioni, circoscritto da un insieme di forze che introdussero l'Oriente nella cultura occidentale… L'Orientalismo non è soltanto una dottrina positiva… è anche un'autorevole tradizione accademica, con i propri specialisti… per i quali l'Oriente è un determinato tipo di conoscenza su determinati luoghi, popoli e civiltà… l'Orientalismo è il sistema di quelle verità, verità nel senso proposto da Nietzsche' (Said, 1991, p.213,214). In ultimo è importante non tralasciare questo riferimento che Said riserva a Nietzsche. Citato nel testo a proposito delle 'verità trasmesse attraverso la lingua' il filosofo tedesco, parla di quest'ultima come di 'un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente,… trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria' (Said, 1991,p.213). Perché proprio un luogo per un'etnografia sui media? Perché quello che è emerso e si è delineato dalla mia indagine è che un luogo viene strutturato secondo discorsi ben definiti, codificati, veicolati e rivelati dalle modalità, dalle logiche con cui viene pensato, organizzato, strutturato. In quanto tale esso è un grande collettore e diffusore di messaggi. Esso informa nel senso di formare un ambito ideologico destinato ad una certa di tipologia di persone. In questo senso è un media. Bibliografia Boni F., 2004, Etnografia dei media, Editori Laterza, Bari DeFleur M.,J.Ball Rockeach S. 1995, Teoria delle comunicazioni di Massa, il Mulino, Bologna, (1989) Fabietti U.,2002, Culture in bilico, Bruno Mondatori ,Milano Foucault M.,1976, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino Foucault M.,1980, L'Archeologia del sapere, Rizzoli, Milano Geertz C., 1988, Antropologia interpretativa, il Mulino, Bologna Meyrowitz, 1995, Oltre il senso del luogo. Come i media elettronici influenzano il comportamento sociale, Baskerville, Bologna, (1985) Miller J., 1994, La passione di Michel Foucault, Longanesi, Milano Moro W., 1992, Didattica della comunicazione visiva, La Nuova Italia Editrice, Scandicci (Firenze) Said E.W., 1991, Orientalismo, Bollati Boringhieri, Torino,(1978) 41 Il pubblico televisivo e la negoziazione del senso (note su una telenovela indiana) di Gianni Trimarchi Si tratta di sapere hic et nunc in che misura la cultura di massa procura divertimento, evasione, compensazione, espulsione, purificazione (catarsi) e in che misura dà vita a fantasmi ossessivi; in che misura fornisce modelli di vita, dando forma e rilievo a quei bisogni che aspirano a realizzarsi. Vale a dire in che misura l'estetica infirma e informa la vita pratica. (E. Morin L'industria culturale p. 90) Introduzione La percezione del tempo da parte del regista interviene sempre come una forma di violenza esercitata sullo spettatore. Lo spettatore o prende il tuo ritmo, oppure non lo prende e in tal caso il contatto non si stabilisce6 Fin dai primi anni, la televisione ebbe un grande successo presso tutto il pubblico che fu in grado di fruirne. In un testo delle origini1 leggiamo: "Un certo giorno arriva in una famiglia uno scatolone […] e all'improvviso tutta la vita della famiglia si organizza intorno a quello scatolone" convalidando sostanzialmente senza critica la quasi totalità dei programmi mandati in onda. Secondo alcuni autori, come Horkheimer e Adorno, addirittura la domanda era un prodotto dei grandi apparati, e non degli spettatori, nonostante la "grande mediocrità" della programmazione. Questo però avveniva in un mondo in cui l'emittenza si confrontava con un pubblico circoscritto e sostanzialmente omogeneo. Con l'apparire negli ultimi anni del satellite e della parabola, la nozione di pubblico è cambiata, facendo emergere in forma assai evidente la soggettività dello spettatore e la sua capacità di partecipare in forma attiva alla costruzione del senso. Questa capacità del pubblico è emersa in forma assai evidente nel caso di alcune produzioni, come quella indiana che fra breve prenderemo in esame, si presume che emergerà sempre di più col passare del tempo e con il progredire delle funzioni interattive dei nuovi media, ma non è una funzione nuova, dal momento che la teoria cinematografica l'ha sempre prevista. Va ricordata in questo ambito la teoria di Vertov che parla della visione intesa come un "commento infinito"2 e dei "film che producono film", inducendo fin dagli anni venti una nozione dinamica del rapporto fra autore, spettatore e opera.3 Saltando ad un momento successivo, potremmo accennare a Bazin, che "parlava di presentare sullo schermo la realtà in tutta la sua ricchezza, lasciando allo spettatore il compito di decifrarla"4 ovviamente in modi diversi, non programmabili a priori. Va poi ricordata in questo ambito anche la concezione di Tarkovskij, per il quale Tutto questo ci configura il rapporto fra il regista e il suo pubblico come una sorta di braccio di ferro, una lotta, fra il regista e il suo pubblico; l'uno decostruisce la realtà secondo un suo modello percettivo, l'altro invece lo contrasta, mettendo in atto un proprio lavoro di ristrutturazione, "al di là dello schermo", in un ambito profondo, legato non certo alla riflessione critica, ma all'immaginazione che, kantianamente, "schematizza senza concetto"7 Come si accennava, benché questo modello, in linea di principio, sia applicabile non solo al cinema, ma anche agli altri media, gli esempi fruizione attiva da parte dello spettatore mediatico sono molto rari. Fra questi potremmo ricordare la famosa trasmissione di O. Welles sull'invasione dei marziani, mandata in onda nel 1938 durante la sera di Halloween. Un milione di spettatori su un totale di sei percepì, o negoziò, come realistica la storia raccontata, con gli esiti catastrofici che conosciamo, mentre però gli altri cinque milioni rimasero compostamente davanti alla radio, immaginando lo spettacolo come tale. Tratta in sostanza di negoziazione anche un passo di un articolo uscito negli anni cinquanta, in Italia, in cui si parla degli effetti della televisione, pensata essenzialmente per il triangolo industriale, ma fruita anche in provincia, con esiti assai diversi, causati per l'appunto dalla diversità dello spettatore. La televisione, piaccia o no ai signori che ne detengono le chiavi e la vorrebbero stupida e addormentatrice, sta lentamente minando, nelle campagne, sulle montagne e sulle isole, tutto un modo di vivere quieto e immobile da secoli. Mette mille fermenti, sveglia, induce alle impazienze, e ai confronti; agita la sete del nuovo e del meglio, porta un soffio di civiltà comunque essa sia.8 L'immagine nel cinema si fonda sulla capacità di far passare per osservazione la propria percezione dell'oggetto5 42 Un caso di lettura a piu’ registri: il Ramayana come telenovela funzione "trasformando in familiare e intimo lo spazio astratto della nazione moderna e utilizzando il mito hindu per raccontare parabole sullo sviluppo"14 ,rafforzando così l'immagine del partito di governo in tutta la nazione. Prendiamo qui in esame un programma trasmesso in India nel 1987, costituito da una rilettura in forma di "telenovela"9 del Ramayana, con il coinvolgimento di ottanta milioni di persone. Sul piano quantitativo si trattò dello stesso pubblico da record che Dallas aveva avuto in america una decina di anni prima (1978)10, attuando uno dei più grandi successi nella storia della televisione. Uno degli aspetti significativi di questo lavoro tuttavia non riguarda la quantità di audience, ma il fatto che il suo significato complessivo fu costituito dagli spettatori a quattro livelli completamente diversi. Questo fenomeno, come abbiamo visto, non era ignoto in linea di principio in occidente, ma non si era mai verificato in una forma così clamorosa. Nel trattare questo argomento, faccio riferimento in particolar modo al saggio di A. Rajagopal, reperibile in un testo recentemente pubblicato, a cura di due giovani studiose italiane11. Il discorso che emerge nel suo insieme è così inedito da indurre ad alcune riflessioni generali, valide anche per l'occidente, in una situazione in cui continuità e diversità si intrecciano indissolubilmente fra loro. Uno sceneggiato tratto da un grande classico come il Ramayana non rappresenta in linea di principio una novità, basti pensare a una serie infinita di film holliwoodiani, tratti da grandi opere del passato, fra cui anche testi sacri, come quelli biblici, in certa misura paragonabili al grande poema indiano. Nemmeno costituiva una novità il carattere melodrammatico di questa trasmissione, che consente in genere la sopravvivenza di ben pochi degli elementi del testo di origine, appiattendo tutto il testo ad un livello molto basso. Dal punto di vista dei contenuti si trattava di un'esaltazione del senso religioso hindu, di un' "età dell'oro"12 priva di conflitti, piena di senso del sacrificio per amore dei genitori, o dei fratelli e di rispetto reciproco fra tutti gli esseri umani. Sul piano della forma, pare che il programma consistesse in un succedersi di formule iperboliche e stereotipate, ampiamente note alla tradizione occidentale, per di più peggiorate dalla lentezza della scansione.13 Seconda lettura: l'opinione dei mediologi indiani I giornalisti indiani di lingua inglese mostrarono quella che Rajagopal definisce come "incomprensione colta"15, trovando il programma essenzialmente brutto e addirittura di "cattivo gusto"16. Essi avrebbero voluto un film ad alto livello artistico e il fatto che il pubblico indiano partecipasse entusiasticamente creava loro un grande imbarazzo, al quale non si associava nessun tentativo di comprensione del processo mediologico in atto. Essi sembravano ignorare che nello stesso anno (1987) negli Stati Uniti andava in onda con grande successo Beautifull, forse migliore del Ramayana sul piano della tecnica spicciola, ma non necessariamente per quanto riguarda il significato complessivo dell'opera. Essi dimenticavano anche che un anno prima (1986) in Cina aveva avuto enorme successo "New star", una soap opera altrettanto brutta e altrettanto mirata a fini ideologici, quanto il programma indiano.17 La "bocciatura" del Ramayana da parte degli intellettuali non impedì tuttavia il suo successo, benché si trattasse di un lavoro obiettivamente "brutto", perché le variabili in gioco, come sempre in televisione, non erano a carattere artistico. Terza lettura: il parere di ottanta milioni di indiani che seguono la trasmissione Il pubblico era assolutamente entusiasta di rileggere un'antica storia dal punto di vista della "potenza del concreto", legata alla messa in scena, lasciando tracce ben più profonde di un discorso raccontato, proprio per la sua dimensione sensibile. Dice un operaio intervistato: All'inizio abbiamo letto qualcosa del Ramayana, poi ne abbiamo sentito parlare, ma ora l'abbiamo visto, lo conosciamo e ci crediamo.18 Giustamente Rajagopal fa riferimento anche alle dinamiche del "c'era una volta". L'argomento è un'"età dell'oro", in cui una "idealizzazione di impossibili relazioni di famiglia" acquista un senso, ove intesa come critica di un presente deludente. "Era la storia del loro passato e, come ogni storia, offriva lezioni valide per il presente…il serial ha diffuso nuovamente la fiducia nei vecchi ideali."19 In un difficile e sofferto momento di transizione, in cui gli indiani avevano bisogno di un sistema di valori in cui credere. Anche qui, come in altri casi l'antichità era in parte reale, ma in parte immaginata. Per comprendere meglio la vicenda bisognerebbe avere più dati, ma, in relazione ai materiali di cui Prima lettura: l'ipotesi del committente Lo sceneggiato in questione era stato commissionato dal partito del congresso, per aumentare i propri consensi in un momento di difficoltà. Il partito in questione si era sempre dichiarato laico, ritenendo che questa fosse la soluzione migliore per mantenere l'unità fra cittadini di religione diversa e intendeva riproporre il Ramayana per offrire nuovamente al pubblico un'espressione della cultura nazionale, che aveva avuto un ruolo essenziale nella lotta contro il colonialismo. Il committente vedeva quindi questo programma come l'espressione di una tradizione patriottica sostanzialmente laica e progressista. La telenovela mitologica doveva svolgere la sua 43 capace tuttavia di "offrire lezioni valide per il presente"28, per quanto questo risultasse deludente. Secondo alcuni giornali del periodo: "Da tempi immemorabili (sic!) Il Ramayan e il Mahabarat hanno offerto alla mente indiana motivi di conforto in un mondo che è invece turbolento."29 Data la rilevanza emotiva di questo schema di base che costituisce la narrazione, non stupisce che la dimensione artistica sia rimasta in secondo piano per la sensibilità dei fruitori. Non si tratta del resto di una novità: Già nel 1842, in un testo lucidissimo, dedicato a una retrospettiva sul melodramma nell'epoca napoleonica, Charles Nodier scriveva che il pubblico ha bisogno di un certo tipo di brutto30, a dispetto degli artisti. dispongo, sembra che questa telenovela possa rientrare nell'ambito dei "processi di etnicizzazione voluti e delle rappresentazioni contingenti che spesso hanno poco a che vedere con la storia"20, ma possono avere un grande seguito nelle comunità disorientate. Quarta lettura: quella del soggetto politico che ci guadagna Alla fine, tutta questa celebrazione a carattere religioso del passato remoto indiano finì col creare consensi e suffragi un certo tipo di conservatori, che non avevano avuto nessuna parte nel processo, ma avevano voce in capitolo per giudicarlo. Qui Rajagopal fa riferimento a "quelle comunità religiose che cercano di definire la nazione a propria immagine"21, in un ambito fondato sull'emergere dell'esperienza vissuta, e sulla fantasia, intesa come "consapevolezza persistente e nascosta dell'esperienza esclusa," 22 in polemica con ogni forma di razionalismo. Tutto questo si concretizzò in una precisa presa di posizione: "Contro un Rama così pseudolaico viene dunque affermata la pretesa in sé esplicita di "Hinduità" che regna nella sfera pubblica."23 Questa polemica su un'espressione narrativa dell'identità indiana ebbe un ruolo non trascurabile nel compattare la destra hindu, a tutto scapito del partito di governo che aveva messo in atto lo sceneggiato. …Faites mieux: mettez-y quelque chose de plus maniéré, de plus contourné, de plus hyperbolique, et vous entendrez retentir un tonnerre de applaudissements. Tel est le goût de la multitude et ce goût qu'il fallait satisfaire était un écueil de tous les moments pour le talent de l'auteur.31 Il brutto, codificato in certi termini, sembra quindi costituire un grosso ostacolo per il buon gusto di un autore, ma ad un tempo contiene elementi essenziali per il gradimento del pubblico, che cerca proprio quelle forme, anche in certo senso a prescindere dal contenuto. Les classes inférieures allaient chercher alors au spectacle des émotions qui étaient toujours sans danger… et ce n'est pas ici une vaine hyperbole…[ il y avait des] conversations touchantes de ces spectateurs mal vêtus qu'un irrésistible intérêt associait pendant trois heures à toutes les angoisses de l'innocence persécutée et qui saluaient d'un cris de joie unanime la punition du méchant...Il n'est pas question ici de l'apologie du mélodrame considéré comme ouvrage d'art...32 Quinta lettura: uno sguardo dall'esterno Per quanto ci è dato di capire, questo testo televisivo non ha mai costituito per nessun indiano la riscoperta di un'antico strato dell'inconscio collettivo, ma si colloca pur sempre nell'ambito delle "comunità immaginate". Rajagopal parla infatti di "cammino disomogeneo e doloroso verso la modernità, che trasformò le memorie[…] in ideale e nostalgia, o in critica[...], da utilizzare all'occorrenza come rifugio e come riforma"24 Qui la storia raccontata sugli schermi telelevisivi sembra collimare con il dramma reale di una nazione, che faticosamente si accinge a nascere, dando luogo ad un processo che in qualche misura può far pensare all'interpretazione del melodramma data da Franco Fornari. Questi fattori, indicati con chiarezza da Nodier già nella prima metà dell'Ottocento, sembrano spiegare molte cose sul successo di tutta una serie di programmi televisivi prodotti in luoghi diversi, ma con caratteristiche tutto sommato analoghe.33 Conclusione Dal punto di vista della cronaca, molto probabilmente il Ramayana televisivo si potrebbe definire come un programma sfuggito di mano agli apprendisti stregoni che lo avevano progettato, proprio agli albori della produzione televisiva indiana. Era del resto ben difficile, dato il tema trattato, pensare che il pubblico si mantenesse in un equilibrio instabile fra l'identificarsi nella dimensione religiosa vera e propria, costituendosi addirittura come "antipubblico" e il mantenere un laico rispetto per l'antica tradizione religiosa, vedendola per così dire dal di fuori. Un'ipotesi di questo genere sarebbe già stata difficile in Europa, ma divenne impossibile in India. L'essenza del melodramma ha una sua archeologia che affonda le sue radici nel significato originario della musica, in relazione alla perdita e al recupero del rapporto di amore primario…[vi sono] contenuti specifici, definibili metaforicamente come "paradiso perduto"25 […] uscire dalla situazione uterina significa la rottura dell'unità originaria (42).26 Non a caso Rajagopal scrive che "la storia veniva apprezzata, perché riportava a un mondo utopico ormai perduto"27 44 squisitamente americani. A prescindere da tutto ciò, l'elemento formale veramente inedito rivestito da questa trasmissione consiste nella pluralità di letture possibili, pur nella semplicità e nell'ingenuità del testo. In via ipotetica, come abbiamo visto all'inizio, questa pluralità era già stata prevista da più di uno fra i grandi teorici del cinema, però non si era mai realizzata nell'ambito di uno sceneggiato di grande successo. Questa ri-mediazione del testo, operata essenzialmente nelle menti dei fruitori, costituisce un grosso spunto di riflessione, soprattutto nell'ambito della diffusione dei nuovi media che, al di là delle tecnologie, si caratterizzano sul piano del linguaggio proprio per la pluralità di letture possibili. Queste risultano poi ulteriormente amplificate dalle possibilità di interazione permesse dalle nuove tecnologie e dai conflitti cognitivi che tutto questo suscita nei protagonisti della comunicazione. La loro tendenza infatti sembra essere sempre più quella di costituirsi ad un tempo come spettatori ed autori, rompendo la "cristallizzazione testuale" e rimettendo in atto sostanzialmente la teorizzazione dei "film fatti da film" e del "commento infinito", di cui parlavamo all'inizio a proposito di Vertov. In sostanza l'equivocità del Ramajana nasce sicuramente da un errore di programmazione, ma si tratta per noi di un errore "vincente", che apre spunti di riflessione non banali per quanto riguarda la "comprensione culturale fra mondi diversi", l'"antropologia condivisa" e la "geografia del desiderio".34 Ben più facile era stata la strada scelta solamente un anno prima dalla TV cinese, che faceva l'elogio, marcatamente realistico, di un funzionario del nuovo corso, duro e ineluttabile, tutto teso al miglioramento della vita sociale. Certo va osservato che le condizioni storiche dell'India avevano un loro specifico, non facilmente riducibile alle esigenze e alle problematiche di altre nazioni. La trasmissione indiana "funzionò", nel senso di dare un nome a desideri inespressi di identità e costituire una sorta di "comunità immaginata", capace di riscattare in un sogno fuori del tempo i disagi del presente. Questo avvenne però a scapito del committente che mancò il bersaglio in relazione ai suoi fini. Se passiamo dai contenuti alle forme, possiamo notare che nel Ramajana non sembra comparire nulla di specifico, rispetto a quanto già noto nella tradizione occidentale, vuoi per quanto riguarda l'estetica dello stupore, vuoi per quanto concerne l'estetica del brutto. Entrambi questi fattori sono ampiamente diffusi in tutti i grandi sceneggiati dell'occidente, compresi Dallas (1978) e Beautiful (1986), che compaiono negli stessi anni del Ramayana e comunque, come abbiamo visto, erano stati codificati in relazione agli spettacoli popolari già da Nodier, fin dal 1842. Anche il contenuto etnico del Ramajana non sembra costituire una novità. Secondo quanto riferiscono Liebes e Katz, anche "Dallas", nonostante le pretese di fruibilità universale, è un serial che può essere letto come l'espressione di valori Note 1 Schramm, Lile, Parker La televisione nella vita dei nostri figli, Milano F. Angeli 1971 P. Montani 1999 p. 41 3 Ibid p. 77 4 F. Casetti 1978 p. 30 5 A. Tarkovskij 2002 p. 99 6 A. Tarkovskij 2002 p. 114 7 P. Montani cit p. 18 8 P. Dallamano Il televisore in Il contemporaneo n. 36, 1956. Citato da: M. Sorice 2002, p. 28 9 A. Rajagopal Mediare la modernità. Teoria della ricezione in una società non occidentale in: Antropologia, etnografie e critica culturale, a cura di Monica Fagioli e Sara Zambotti, Pavia, Ibis 2005.p 181 10 Sulla fortuna di Dallas a livello internazionale cfr Liebes -Katz 1990 11 A. Rajagopal cit., pp. 173-196 12 Ibid p. 187 13 Ibid p. 185 14 Rajagopal cit. p. 181 15 Ibid p. 185 16 Ibid p. 182 17 Si trattava di un "docudrama" molto laico, che effettivamente riuscì a creare molti consensi per il nuovo corso in atto nella Cina di quegli anni. Cfr Lull 2003, pp. 153-214. 18 Rajagopal cit p. 186 19 Ibid p. 188 2 45 20 Fabietti 2005, pp. 22-24 Rajagopal cit. p. 185 22 Ibid p. 190 23 Ibid. p. 191 24 Ibid p. 193-194 25 F. Fornari 1984 p. 47 26 Ibid p. 42 27 Rajagopal cit. p. 186 28 Ibid p. 188 29 Ibid p. 183 30 Per un'accurata disamina del brutto come categoria estetica v. Scaramuzza 1995. 31 C. Nodier 1842 pp. XII-XIII 32 Ibid pp. VI-VII 33 V. il mio articolo Alle origini della televisione: il melodramma e la formazione dello spettatore distratto, 2002. 34 Per quanto riguarda le nuove forme di comunicazione in questo ambito cfr P. Ferri 2002 p 144 e segg. 21 Bibliografia B. Anderson, Comunità immaginate, Roma Manifestolibri 2000 Th. W. Adorno, Televisione e modelli di cultura di massa, in M. Livolsi, Comunicazione e cultura di massa, Milano Hoepli 1969 Antropologia, etnografie e critica culturale, a cura di Monica Fagioli e Sara Zambotti, Pavia, Ibis 2005. A. Bazin, Che cos'è il cinema?, Milano Garzanti 1986 P. Brooks, L'immaginazione melodrammatica, Parma ed. Pratiche 1985 F. Carmagnola, Plot, il tempo del raccontare, Roma, Meltemi, 2004 F. Casetti, Teorie del cinema dal dopoguerra a oggi Roma, L'Espresso 1978 F. Casetti, Dentro lo sguardo, Milano Bompiani 1986 G. Deleuze, L'immagine tempo, Milano Ubulibri 1989 U. Fabietti, L'identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, Roma, Carocci 2005 U. Fabietti, Antropologia culturale. L'esperienza e l'interpretazione, Roma-Bari Laterza 2001 P. Ferri, Teoria e tecniche dei nuovi media, Milano Guerini Studio 2002 F. Fornari, Psicoanalisi della musica, Milano Longanesi 1984 J. Habermas, Storia e critica dell'opinione pubblica, Bari, Laterza 1977 M. Horkheimer, Th. W. Adorno, L'industria culturale in La dialettica dell'illuminismo, Milano Einaudi 1966, pp. 130-180 T. Liebes, E. Katz, The export of meaning, New York Oxford University Press 1989 J. Lull, In famiglia davanti alla TV, a cura di Michele Sorice, Roma, Meltemi 2003 M. Mazzocut-Mis, Lo spazio melodrammatico: le teorie e i testi, Milano Cuem 2005 P. Montani, L'immaginazione narrativa, Milano, Guerini e Associati 1999 E. Morin, L'industria culturale, Bologna, il Mulino 1963 C. Nodier, Introduction à "R. G. de Pixérécourt: théatre choisi, Paris-Nancy 1841-43, vol. 1 G. Scaramuzza, Il brutto nell'arte, Napoli Il Tripode 1995 G. Scaramuzza, Derive del melodrammatico, Milano CUEM 2004 M. Sorice, Lo specchio magico, Roma Ed Riuniti 2002 A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, Milano Ubulibri 2002 G. Trimarchi, Alle origini della televisione: il melodramma e la formazione dello spettatore distratto, in: Materiali di Estetica, Milano CUEM n. 7 del 2002 pp. 168-186 G. Trimarchi, La riproduzione mediatica fra tautologia e apprendimento significativo, in: Itinera.aprile 2004 rivista in rete del Dipartimento di Filosofia dell'Università Statale di Milano. 46 Libri e poesie A cura di Antonio De Lauri In questo numero la sezione "libri e poesie" è interamente dedicata al tema della guerra. Achab continua a riflettere, e a suggerire riflessioni, su una problematica complessa e drammatica, e che interessa, da vicino, ognuno di noi. Pace E. "Perché le religioni scendono in guerra?" (2004) Laterza, Roma-Bari. Lévy B.-H. "I dannati della guerra" (2002) Il Saggiatore, Milano. "Perché le religioni scendono in guerra? È una domanda che sorge spontanea, guardando, un po' sgomenti, quanti atti di violenza sono commessi in nome di un dio o di una fede. L'elenco è diventato ormai lungo. Monaci-guerrieri, martiri politicoreligiosi, predicatori della fine del mondo appassionati di armi chimiche, combattenti per l'indipendenza nazionale che, per marcare meglio la distanza dal nemico, contro cui si è in guerra, fanno appello alla loro identità religiosa, miti e pii uomini di fede ai quali, nel fuoco della cruenta lotta interna, si trasformano in guardiani della causa di Dio, arrivando a concepire la possibilità di uccidere chi, ai loro occhi, è il traditore della causa. E poi leader politici, di grandi e piccole nazioni, sparse nel mondo, i quali armano il loro linguaggio di riferimenti a simboli religiosi, per renderlo più efficace, quando desiderano mobilitare le coscienze, le menti e i cuori dei loro cittadini. In seno alle grandi religioni mondiali emergono, perciò, figure e movimenti che utilizzano le bussole religiose, che orientano il pensiero e i sentimenti collettivi, per disegnare le mappe cognitive, sulle quali si muoverà la macchina mentale della guerra, quella per intenderci che crea il Nemico da combattere e da abbattere, prima ancora che tutto ciò avvenga nella realtà". "Ci sono guerre di cui sappiamo tutto: i media forniscono informazioni in dosi massicce e in tempo reale, le fanno sembrare l'unico conflitto al momento in atto. E l'aggiornamento è continuo, come per le notizie di politica interna e l'indice della borsa. Poi ci sono le altre. Guerre in angoli remoti del pianeta, di cui nessuno ricorda le motivazioni o gli schieramenti, alimentate da un miscuglio di ideologie nuove o resuscitate oppure da interessi economici di cui non sa nulla proprio chi combatte e muore. Conflitti in cui le prime vittime sono i civili: uccisi e torturati, armati e mandati in prima linea al posto di truppe ben più preziose,trasformati in scudi umani o schiavi, popolazioni disperate e dimenticate dal mondo intero." Enzo Pace è professore di Sociologia e Sociologia della religione all'Università di Padova. Bernard-Henri Lévy è scrittore, giornalista e filosofo. Esponente di maggior prestigio dei "nouveaux pholosophe", tra la fine degli anni '70 e gli anni '80 ha rivendicato la funzione dell'intellettuale nell'analisi della storia e della politica contemporanea. 47 A mio figlio Alì Mia triste luna il mare è morto e le sue nere onde hanno allontanato la vela di Sindibàd. I suoi figli non schiamazzano più con i gabbiani, e rauco l'eco risuona, l'orizzonte è avvolto dalle ceneri. Per chi cantano le sirene? se il mare è morto, e sulla sua fronte galleggiano le alghe, mondi pieni di memorie galleggiano mentre canta il menestrello. La nostra isola è sommersa, ed il canto non è altro che pianto. Le allodole son volate via, mia triste luna. Il tesoro è sepolto sulla riva del ruscello in fondo al bosco, sotto un albero di limoni, laddove l'ha nascosto Sindibàd, ma il forziere è vuoto, e la cenere, la neve, l'oscurità e le foglie degli alberi l'occultano, e il mondo è avvolto nella nebbia. Moriremo così in questa terra devastata? La luce dell'infanzia si spegnerà nella polvere? Così il sole del giorno tramonterà, e si spegnerà il fuoco sul cammino dei poveri? Abdul Al-Wahhab Al-Bayati (Iraq) www.iraqweb.it 48 La rivista è disponibile on line all’indirizzo: www.studentibicocca.it/achab Foto di Fabio Vicini (Istambul, 2005) Note per la consegna e la stesura degli articoli. Gli articoli dvono essere in formato Word o Rich Text Format (.rtf). Si consiglia di usare il carattere times o times new roman corpo 12. L'articolo deve avere una lunghezza minima di 3 cartelle e massima di 15 (interlinea 1,5; corpo 12). Si consiglia di ridurre al minimo le note che non dovranno essere inserite in automatico ma digitate come testo alla fine dell'articolo. Nel testo il numero della nota deve essere inserito mettendolo tra parentesi. Gli articoli devono essere spediti al seguente indirizzo: [email protected]. La redazione provvederà a contattare gli autori. Manifesto celebrativo, Monrovia (Liberia), Ottobre 2004