Notiziario settimanale n. 571 del 29/01/2016
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Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella
versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace
"Se voi però avete il diritto di dividere il mondo in italiani e
stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho
Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati
e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro.
Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri"
don Lorenzo Milani, "L'obbedienza non è più una virtù"
30/01/2016: Ricordo dell'assassinio di Gandhi avvenuto il 30 gennaio
1948 a Nuova Delhi
E’ morto nell’ospedale di Nairobi, Salah Farah, l’insegnante musulmano
che fu ferito dai terroristi di Al Shabaab per avere difeso i cristiani sul
bus il 24 dicembre scorso.
Farah è morto per le ferite riportate. Gli assassini di Al Shabaab avevano
tentato di dividere sul bus i musulmani dai cristiani. Farah, padre di
cinque figli, si oppose alla divisione e disse: “Uccideteci tutti o
andatevene. Siamo fratelli. Io penso che cristiani e musulmani debbano
aiutarsi reciprocamente”.
Centro Studi Sereno Regis
Indice generale
Editoriale......................................................... 1
La natura ci educa alla fiducia, la politica rinasca dalla “grotta” (di
Antonio Vermigli)...................................................................................... 1
Approfondimenti.............................................2
L’economia delle diseguaglianze (di Andrea Baranes)............................... 2
Il filo della memoria (di Rosaria Gasparro)................................................ 2
Il Coraggio della Memoria (di Laura Tussi)............................................... 5
Lesbo. Il dovere di restare umani (di Giacomo Capriotti – Un ponte per...)
................................................................................................................... 8
Benvenuto 2016! Rinnoviamo l’impegno per la pace e la solidarietà (di La
redazione di Unimondo)............................................................................. 9
Nuovi impegni per la pace e il disarmo................9
Fede e cultura per Bergoglio. Conflitto e pace (di Enrico Peyretti) ..........10
Il Vangelo del conflitto (di Alberto Asor Rosa)........................................ 10
Costituzione, la controriforma di Renzi (di Maria Luisa Pesante) ............11
#HeForShe: la parità di genere riguarda anche lui (di Anna Toro)...........12
L’indice di Colonia (di Ida Dominijanni)................................................. 13
Notizie dal mondo......................................... 14
Gabbia Europa (di Stefano Galieni)......................................................... 14
Come le colonie israeliane soffocano l’economia palestinese (di Nur
Arafeh, Samia al-Botmeh, Leila Farsakh)................................................ 15
1
Editoriale
La natura ci educa alla fiducia, la politica rinasca
dalla “grotta” (di Antonio Vermigli)
L’angoscia, la paura, la diffidenza, l’incertezza e il sospetto sembrano
essere i sentimenti prevalenti in questa nostra epoca in cui molte certezze
e sicurezze del passato stanno crollando. Anche la nostra fiducia granitica
del passato subisce forti scrolloni. Credere in dei valori forti voleva dire
possedere certezze, avere risposte su tutti i problemi, sentirsi dalla parte
giusta, fare blocco. Oggi questo credo non è più scontato, tutto è messo
seriamente in discussione.
Oggi, che questi valori vengono meno, pensiamo più ad aver fiducia nella
nostra vita personale e siamo piuttosto critici verso le istituzioni.
Questi nostri valori sono messi alla prova in modo particolare in questo
momento e sostituiti dalla paura della vita che abbiamo intorno e che ci
attende. Perfino la la terra, la madre Terra, è diventata fonte di minaccia
incombente, dato gli sconvolgimenti che abbiamo indotto nell’equilibrio
ecologico.
Non è da ingenui, in questo momento, pretendere di muoversi seminando
fiducia. Comunque una fiducia credibile e incisiva non può che venire da
una nuova relazione tra noi, tra noi e la natura.
Le persone che attorno a noi ci ispirano fiducia sono in genere ben
ancorate nella loro umanità, sono persone che sanno ascoltare, che sono in
ricerca, che danno valore al nostro stesso cercare, che sono disposte a
rischiare, che ci permettono e possono permettersi di sbagliare. Senza
rendersi forse conto stanno sostituendo ideologie mal praticate, ideali
astratti che piovevano dall’alto, con una nuova partecipazione dal basso,
legata alla concretezza del quotidiano. alla pazienza e alla volontà, al se ci
impegniamo le cose avvengano, alla fiducia nella forza della vita.
Medesimi valori, con applicazioni diverse.
Rintracciare ognuno la forza della vita, la forza del bambino trascurato che
è in noi, mi sembra il segreto per scoprire nuovamente il vero ancoraggio
di una nuova fiducia.
La fiducia nella forza della vita ha un radicamento ben più profondo che
la sfiducia indotta dagli scombussolamenti di superficie legati al momento
storico che stiamo vivendo. Questa fiducia è inscritta nel nostro codice
genetico, nel nostro stesso organismo, specie se lo lasciamo interagire
correttamente con gli altri e la natura. E’ una compagna di strada che non
ci abbandona mai. Penso alla grande moltitudine degli impoveriti, alcuni
miliardi, che questa loro fiducia, speranza nella vita la mettono in gioco
ogni giorno, camminando migranti da uno stato all’altro, stanchi,
trascinandosi, ma lordi di fiducia e del senso profondo dell’essere ancorati
alla vita, nonostante le loro immense e devastanti povertà.
E’ la natura stessa che ci educa alla fiducia. Già nel ventre materno ci
siamo allenati a questo, a godere di questo ambito protetto e rassicurante;
fino a prepararci a collaborare con la mamma al travaglio del parto, ossia
agli inevitabili rischi che chi scommette sulla vita deve saper affrontare. E’
su questa fiducia fondamentale che continuiamo di fatto a crescere. Senza
fiducia non avremmo imparato a succhiare, a parlare, a camminare, a
interagire, a sorridere, a protestare... E’ il contatto corporeo che spinge il
bambino ad apprendere, a godere, a meravigliarsi, a perlustrare.
Il bambino che è in noi ha bisogno però di non perdere l’ancoraggio in se
stesso, di non diventare funzionale alle attese angoscianti degli adulti, di
non trascurare la propria fiducia di base, la propria autostima.
Ecco perché: dalla famiglia alla politica, dalle relazioni affettive a quelle
sociali, un affidamento eccessivo a quanti vorrebbero renderlo funzionale
alle loro aspettative, finirebbe col rafforzare il loro potere a scapito del
proprio potere-autonomia personale. Vorrebbe dire svuotarsi fino a perdere
la propria identità, diventando così schiavo.
Rinascere continuamente, in semplicità, nella “stalla” della vita con il
tepore del bue e l’asinello, il calore dei genitori, ancorato alla terra-natura,
questa può essere la sfida per instaurare una nuova politica.
Buon Natale
Antonio
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2427
Approfondimenti
Economia
L’economia
Baranes)
delle
diseguaglianze
(di
Andrea
Sessantadue persone sono più ricche di 3,6 miliardi di esseri umani.
Sessantadue persone che in cinque anni hanno visto la propria ricchezza
crescere del 44%, oltre 500miliardi, mentre la metà più povera del pianeta
si impoveriva del 41%. I dati divulgati da Oxfam sono un affronto e una
vergogna dal punto di vista della giustizia […]
Quando il movimento Occupy Wall Street lanciò lo slogan “siamo il 99%”
probabilmente non immaginava che solamente pochi anni dopo quel 99%
sarebbe realmente stato la parte più povera del pianeta. Eppure oggi l’1%
più ricco della popolazione ha un patrimonio superiore a quello del
rimanente 99%. Sono alcuni dati contenuti nell’ultimo rapporto di Oxfam
sulle diseguaglianze, presentato in vista del Forum di Davos dei prossimi
giorni.
Sempre secondo il rapporto “An economy for the 1%”, non solo le
diseguaglianze stanno aumentando, ma stanno addirittura accelerando. Nel
2010 bisognava prendere i 388 miliardari più ricchi per arrivare al
patrimonio della metà più povera del pianeta. Nel 2014 bastava fermarsi
all’ottantesimo. Oggi sono 62. Sessantadue persone sono più ricche di 3,6
miliardi di esseri umani. Sessantadue persone che in cinque anni hanno
visto la propria ricchezza crescere del 44%, oltre 500miliardi, mentre la
metà più povera del pianeta si impoveriva del 41%.
Ancora, dall’inizio del secolo alla metà più povera del mondo è andato
l’1% dell’aumento di ricchezza, mentre l’1% più ricco se ne accaparrava
la metà. E’ un fenomeno particolarmente drammatico nei Paesi più poveri,
ma che accomuna tutto il mondo. Nel Sud, il 10% più povero ha visto il
proprio salario aumentare di meno di 3$ l’anno nell’ultimo quarto di
secolo. Se le diseguaglianze non fossero cresciute durante questo periodo,
200 milioni di persone sarebbero uscite dalla povertà estrema. Nello stesso
arco di tempo, negli USA lo stipendio medio è cresciuto del 10,9%, quello
di un amministratore delegato del 997%.
In questo quadro, di quale ripresa, di quale crescita, di quale economia
parliamo? Tralasciamo l’insostenibilità ambientale e persino l’ingiustizia
sociale. Guardiamo unicamente le conseguenze economiche. In uno studio
recente l’OCSE ricorda che le diseguaglianze hanno causato una perdita di
oltre 8 punti di PIL in vent’anni. Un’enormità. Il motivo è semplice: se
famiglie e lavoratori sono sempre più poveri, calano i consumi e quindi la
domanda aggregata. Una “soluzione” è indebitare famiglie e imprese per
drogare la crescita del PIL. E’ il modello subprime, un’economia del
debito che può funzionare per qualche anno, finché inevitabilmente la
bolla non scoppia.
L’altra soluzione è scaricare il problema sul vicino, puntando tutto sulle
esportazioni. Tagliamo stipendi e diritti di lavoratrici e lavoratori, tagliamo
le tasse alle imprese e il welfare. Ovviamente aumenteranno le
diseguaglianze e crollerà la domanda interna, ma saremo più competitivi e
quindi esporteremo di più. E’ l’attuale modello italiano ed europeo,
riassunto nel documento “dei cinque presidenti”, promosso da tutte le
istituzioni europee per tracciare la linea dei prossimi anni. Nel capitolo
dedicato alla “convergenza, prosperità e coesione sociale” si riesce
2
nell’impresa di non menzionare mai parole quali “diritti”, “reddito” o
“diseguaglianze”, mentre viene utilizzata per diciassette volte la parola
“competitività” (17!).
Un modello in cui la crescita delle diseguaglianze non è quindi un
fastidioso effetto collaterale, ma la base stessa di un gioco pensato e
tagliato su misura per l’1%. Una gara verso il fondo in ambito sociale,
ambientale, fiscale, monetario, per vincere la competizione internazionale.
La semplice domanda è: se le diseguaglianze aumentano ovunque e la gara
è globale, è possibile che tutti esportino più di tutti? In attesa che la NASA
scopra che c’è vita su Marte per potere esportare anche li, questa
economia dell’1% non sembra particolarmente lungimirante, come
mostrano le cronache di questi giorni.
A chi deve esportare una UE che nel suo insieme ha già oggi il maggior
surplus commerciale del pianeta? Si guarda all’Asia e alle economie
emergenti come mercato di sbocco, ma ecco che un calo della Borsa di
Shanghai rischia di diventare una tragedia per l’economia italiana. Siamo
arrivati al paradosso che pur importando petrolio dobbiamo sperare che il
prezzo del greggio non continui a scendere, altrimenti i Paesi esportatori
non potranno acquistare il nostro made in Italy.
I dati divulgati da Oxfam sono un affronto e una vergogna dal punto di
vista della giustizia sociale, ma sono disastrosi anche da quello meramente
economico. Una ricetta per una nuova crisi. Il problema è che l’aumento
delle diseguaglianze dal 2008 a oggi è anche un segnale fin troppo
evidente di chi rimane con il cerino in mano quando questa crisi scoppia.
Ed è allora difficile che il messaggio venga recepito a Davos, all’incontro
annuale di quell’1% – anzi, di quel zero virgola – che continua a guardare
dall’alto, sempre più dall’alto, oltre il 99% dell’umanità.
(fonte: Sbilanciamoci Info)
link: http://sbilanciamoci.info/leconomia-delle-diseguaglianze/
Fare memoria
Il filo della memoria (di Rosaria Gasparro)
Non mi piacciono le giornate fine a se stesse. La retorica che le svuota, le
irretisce in ritualità statiche che spengono ogni forza di trasformazione. Mi
piacciono le giornate che si allungano nel prima e nel dopo, che ti
tallonano con la loro ragione e chiedono un esercizio quotidiano di
passione e impegno. Perché ognuno può essere ebreo di qualcuno, come
diceva Primo Levi.
Si tratta di costruire una storia militante, che vale ancora oggi con nomi
diversi eppure uguali, a cui partecipare nei luoghi abitati con la fragilità
del ricordo – un filo sottile che bisogna continuare a filare e ad annodare,
perché ogni passato è a suo modo un presente strappato – l’occupazione
del giorno e la tenacia della speranza. Perché il futuro viene da lontano e si
lascia inghiottire dall’indifferenza.
La storia militante è una storia attiva, si costruisce con tante piccole storie
da cercare e ascoltare. Una narrazione composita di biografie e poesie,
canti, musiche e danze, lettere e diari, filmati, voci e volti. Un ricondurre
al cuore per una memoria emozionale, che se ti tocca col dolore degli altri
non si fa dimenticare. Anche quando risulta difficile capire come e perché
tutto è potuto accadere. L’idea di memoria di Alberto Savinio:
«Piace in ogni modo la forma francese (connaître par coeur), che la cosa
che noi conosciamo a memoria, ossia senza bisogno di strumenti o
documenti intermedi, la conosciamo “per mezzo del cuore”, ossia
l’amiamo; quasi il ricordare sia amare – come infatti è…».
La mia didattica della memoria è questo filo che intessiamo insieme. Una
storia animata, dotata di anima.
L’alfabeto della Memoria
Nella ninna nanna ebraica Oyfn pripetshik – la stessa che con tutta
probabilità, le madri cantavano ai propri figli mentre li accompagnavano
alle camere a gas – il rabbino insegna ai bambini l’alfabeto e dice loro:
«Vedete, bambini, pensateci cari a quello che studiate. Dite ancora una
volta e ancora una volta “A b c, a b c”. Prenderete forza da queste lettere e
guardate ancora in esse».
Con i bambini e le bambine della mia classe abbiamo guardato in ogni
lettera per capire, conoscere e scolpire dentro di noi il ricordo. E abbiamo
scritto il nostro “Alfabeto della Memoria”.
A seguire le lettere esplorate col doppio sguardo, storico e poetico.
Vocabolarietto e tautogramma per l’unico sguardo che conta, quello
umano.
A
A come aiuto!
Ad Auschwitz non voglio andare!
Non voglio essere ammazzato
non voglio essere annientato.
Non avranno la mia anima.
ARBEIT MACHT FREI:
non è vero,
il lavoro non rende liberi gli ebrei
ma ci scava l’abisso.
B
B come basta con questa barbarie,
dov’è finita la bontà?
Partivano dal binario 21
forse non se n’è salvato nessuno.
A Birkenau e a Buchenwald
c’erano belve con la faccia da uomo,
i bambini nelle baracche di notte
avevano le speranze rotte.
C
C come ciao casa,
chissà se ti rivedrò.
Né cibo né carezze né calore,
nel campo di concentramento
si è perso il cuore.
I miei capelli tagliati per terra
anche questa è la guerra.
Lo so non crescerò
non arriverò a maggio,
mi hanno detto delle camere a gas
ed io prego il Dio del coraggio.
Passerò davvero in un camino
anche se sono un bambino?
D
D come Dio dov’è?
Perché non è qui con me?
A Dachau sono deportato
e da tutti disprezzato.
Qui è tutto disumano
dolore e distruzione
un’unica disperazione.
Nelle docce
delle donne sono entrate
e non sono più ritornate.
Ogni diritto è cancellato
e il mio diario è bruciato.
Tutto muore ma non il desiderio
di essere liberato.
3
E
E come eccomi:
sono ebreo,
mi chiamano anche giudeo.
Un essere umano come te
come puoi fare gli esperimenti
su di me?
F
F come figlio
alla sua famiglia strappato
e chiuso dietro ad un filo spinato,
nel fango con la fame e il freddo
qualcuno viene fucilato.
Führer chiamano il loro capo
e nel forno crematorio
milioni ne hanno bruciato.
Nel fumo denso che saliva
la gente in silenzio moriva.
G
G come Giornata della Memoria
per ricordare ciò che è accaduto
nella seconda guerra mondiale
quando grande fu il male.
Per ricordare che nessuno
va chiuso in un ghetto,
nessuno strappato al suo tetto.
Che la Gestapo
tanta gente arrestava
e che un genocidio
la Germania preparava.
Giudei e gitani
ebbero la stessa sorte,
alcuni “giusti”
li salvarono dalla morte.
H
H come di Hitler ho paura!
Come gli handicappati eliminati
per questa rovina della razza pura.
Help me!
I
I come chi ha fatto l’indifferente
chi non si interessava di niente,
chi ignorava ciò che accadeva
l’ingiustizia che si commetteva.
Internati e in isolamento
io, tu, lei a cento a cento.
Un incubo tremendo
le nostre identità nel vento.
Indicibile.
Inverno
inferno.
L
L come le leggi razziali
che mi hanno cancellato
come le lacrime che ho versato
come le lettere che ho scritto.
Chiuso nel lager con i lavori forzati
e poi la liberazione degli alleati.
M
M come matricola 34796
ma tu mamma dove sei?
Vieni, prendimi per mano
chiamami per nome piano piano.
Hans, Magdala, Amos, Edna, Daniel…
Lot, Marisha, Isaac, Sarah, Rah’el…
La Memoria di chi siamo
chiamateci
e per un po’ viviamo.
N
N è il mio nome che si presero
il numero che mi lasciarono.
Avevamo un nascondiglio
ci trovarono, non era per gioco.
Qui la notte è nera e lunga
non vedono i nostri occhi tristi
cade la neve e urlano i nazisti.
“Numi numi nim”
Fai la ninna, fai la nanna
canta canta la mia mamma,
prendo forza dalle sue parole
scivola dentro un goccio di sole.
Qualcuno un giorno negherà…
O
O come orchestra
ma qui non c’è festa.
In ogni campo ce n’è una
copre il suono della sfortuna.
Un’orchestra piccolina
per placare la paura.
Per chi scende dai treni
per coprire i suoni della morte
dolci e amare sono le note.
L’orrore suona più forte
il suo concerto d’odio
e non è ancora esausto
in diretta c’è l’olocausto.
P
P come prigionieri,
come popolo da perseguitare,
non solo l’ebraico
anche il popolo del vento
volevano eliminare.
Porrajmos, divoramento,
lo diciamo.
P come propaganda
di un popolo superiore
e di un altro inferiore.
Q
Q come Questo è stato,
meditate…
«Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore».
(Primo Levi)
R
R come rastrellamento
siamo stati catturati in un momento,
requisiti gli oggetti e i beni personali
si sono scordati di essere umani.
La razza è una menzogna
ci mette contro ed è una vergogna.
R come ricordo di quella violenza
4
a cui si oppose la resistenza.
S
S come stella a sei punte:
la storia di sei milioni
di stelle rubate al cielo
e spente sul petto
di donne, bambini,
uomini, anziani.
Esclusi dalle scuole
catturati dalle SS
portati nei campi di sterminio
per la selezione
e la soluzione finale.
Un grande silenzio.
Questa è stata la shoah.
S come Shalom aleikem.
T
T come treni merci
al posto del bestiame
T come Terezin
il campo dei bambin
T come terrore
come tremore
come tatuaggio
sul braccio
T come triangoli colorati
per essere distinti
e comunque maltrattati:
rosso, verde, rosa,
marrone, blu, nero…
E questo è tutto vero.
Quello dei Testimoni di Geova
era del colore delle viole
e non c’erano più parole.
U
U come uomini…
ma che uomini sono
se umiliano i loro fratelli
se li considerano nemici
se li offendono
se li uccidono?
Che storia è questa qua
che distrugge l’umanità?
V
V come le valigie che lasciammo
come i vagoni su cui viaggiammo
come i vestiti tolti
come i nostri pallidi volti
come le vittime che diventammo.
Erano ebrei novanta su cento
la loro verità viaggia nel vento.
Un violino suona nel tempo
della vita il valzer lento.
Z
Z come zingari,
rom e sinti,
senza zuppa
con la zappa
senza una zolletta
di zucchero.
In cinquecentomila
li misero in fila
a morire di sicuro
con lo Zyklon B,
gas a base di cianuro.
(fonte: Comune-info - Associazione Persone Comuni)
link: http://comune-info.net/2016/01/il-filo-della-memoria/
Il Coraggio della Memoria (di Laura Tussi)
All’interno della comunità educante il ruolo dei testimoni e la
trasmissione della memoria: scuola e giovani generazioni.
I cultori della storia, gli insegnanti, gli educatori, i testimoni degli eventi
devono mantenere il rapporto con il concreto relazionarsi delle comunità,
con la testimonianza dei singoli, ma anche, in una prospettiva di
trasformazione delle memorie, in un tessuto storico e sociale robusto, che
confluisca in progetti e consista in una fonte di energia e di riflessione per
le nuove generazioni. Questo passaggio dal ricordo, dalla narrazione
alla memoria, alla storia, alla riflessione è un processo che deve
avvenire tramite il contributo della scuola, non concepita meramente
come domicilio, insieme di persone, ma come una comunità di studio,
contesto di comunità educante intesa nel senso e significato culturale di
progettazione di idee e di confronto; perché l’attenzione e dimensione
specifica dell’istituto scolastico consiste nella trasmissione culturale,
lavorando, interagendo con le nuove generazioni, attraverso il metodo, lo
strumento, la modalità ultima, pedagogica dell’impegno culturale,
educativo del confronto, dell’interscambio di progetti e di idee e
costruzione, elaborazione collettiva di basi valoriali. Il rapporto “memoria
e testimonianza” è l’importante filo rosso educativo come il riferimento
all’aspetto di documentazioni di studio e ricerche, elaborate, a diversi
livelli, sia come eco di studi e indagini qualitative a livello nazionale
(CEDEC, ANED, ANPI), sia di progetti di ricerca, attività di studio e
documentazione, intrapresi dalla scuola, da insegnanti e da esperti e
tecnici di settore. Dunque veramente la scuola diventa comunità di
ricerca, dove gli studiosi sono operatori sociali, insegnanti, impegnati
a livello storico non avulso e disancorato dal territorio circostante, dal
sistema formativo: per cui i progetti di recupero storico si intraprendono
in interazione con i vari enti ed agenzie educative operanti nell’ambito
territoriale stesso, dove la comunità scolastica si apre al sistema formativo
nella sua complessità ed auspicabile integrazione. Pertanto i ricercatori si
trovano ad operare utilizzando ed animando pedagogicamente le agenzie
educative, dalle biblioteche, agli oratori, al volontariato associazionistico
culturale, pubblico e privato, in prospettive auspicabili e realizzabili
positivamente, di senso compiuto, perché prodotto di interazione tra parti,
per un passaggio di idee ed un’intermediazione effettiva, efficiente ed
efficace. La voce culturale e la memoria che scaturisce e si raccoglie nella
scuola, attraverso di essa deve poi avere un suo deposito, un simbolo, una
rappresentazione, senza essere lasciata solo al ricordo delle persone
intervistate, dei testimoni o dei ricercatori, per cui si approntano i
documenti in opuscoli, ingenti annuari, manuali di storia locale ecc…per
seminare e diffondere valori, ottenere un seguito di idee, retaggi di
memorie significative nel tessuto sociale. I punti cardinali sono il ruolo
educativo dei testimoni nella formazione e tradizione di una memoria
collettiva di esperienze e documenti recuperati, considerando le figure
pedagogiche dei testimoni e le questioni salienti dei processi di
partecipazione: come partecipare, rendere partecipi a tali esperienze,
tradotte in testimonianze, le giovani generazioni. Come passare e
tramandare la memoria è il nodo del rapporto di formazione nella
interazione tra memoria e storia, tra testimonianze e fonti di diverso tipo,
per chiudere un cerchio ideale per giungere ad una trama di storia da
proporre ai nostri giovani.
Il rapporto memoria e storia.
Ipartigiani italiani ammettono che è importante la memoria, perché
aiuta a superare situazioni anche estremamente difficili collegate alle
vicende, agli avvenimenti ed eventi inerenti la conquista della democrazia,
vissuti in prima persona dagli ormai anziani testimoni.
5
La memoria della resistenza costituisce un ingente patrimonio morale,
culturale, etico, da difendere e valorizzare perché, purtroppo, molte volte
viene dimenticato, ignorato, in quanto rischia, sottovalutato di importanza,
di cadere in oblio, nella società italiana, insieme alla complessa memoria
storica di quel periodo caratterizzato dalla lotta, dalla guerriglia, nella
resistenza alle leggi, alle regole, ai dettami dell’antifascismo, che ha
portato il nostro Paese ai principi cardine della Costituzione ed all’identità
di Repubblica: questo non dobbiamo dimenticare…Sono valori sacri che
devono essere portati a conoscenza e trasmessi soprattutto alle giovani
generazioni per far comprendere il senso del sacrificio, l’impegno, le lotte
per rivendicare la libertà, condotte per la democrazia, con la conseguente
deportazione di parte del popolo italiano, militante nel movimento
antifascista, nei campi di concentramento e sottocampi di sterminio… e
centinaia di migliaia di morti conoscenti, amici, compagni, partigiani,
donne, bambini senza nome, senza età, senza sesso, senza più identità e
dignità, ridotti a larve umane senza volto… Oggi dobbiamo ricordare
questo passato di terribile vergogna per impedire che il danno possa
rivivere, ripresentificarsi, reiterarsi nella vita morale e politica del
nostro Paese. Anche nell’ultima campagna elettorale ANPI ed ANED
hanno apportato l’esempio, con la loro fattiva presenza, dell’impegno,
nell’importanza del ricordare e tramandare la memoria storica e il
significato che rappresenta la militanza del popolo nella società italiana
per la conquista della democrazia e della libertà. L’impegno fondamentale
contemporaneo di tutte le forze politiche, morali, sindacali, culturali deve
consistere nella difesa dei valori della Costituzione, il che significa
mantenere fede al sacrificio di più di 60.000 uomini e donne, giovani e
anziani, battuti per difendere la libertà, la democrazia a vantaggio delle
giovani e future generazioni. Lo spirito dell’antifascismo e l’anelito della
resistenza è ancora in gran parte presente nella coscienza della società
italiana, del popolo. Occorre tenere presente e far rivivere la memoria
storica, ma soprattutto nell’impegno della difesa della Costituzione
Repubblicana, che per il popolo italiano assume importante significato di
libertà, democrazia, giustizia sociale: la nostra Costituzione è una delle più
avanzate in tutta Europa. Per questo motivo le nuove generazioni devono
conoscerla e rispettarla in un continuo rapporto dialogico con la memoria
storica.
La generazione della Resistenza, che è sopravvissuta alla guerra, ha
voluto testimoniare, tramandare le vicende, gli avvenimenti,
mostrando così una grande attenzione nei confronti dei giovani. Ma le
generazioni intermedie dell’Italia Repubblicana hanno sicuramente
subito un’interruzione di memoria. Quando l’ex Ministro della Pubblica
Istruzione Berlinguer, nel novembre del ’96 ha inserito d’autorità la storia
contemporanea nell’ultimo anno delle scuole superiori, improvvisamente
ci si è resi conto di quanto fosse difficile coniugare la memoria individuale
e collettiva con l’interpretazione e la narrazione storica che ha aperto
nuovi problemi agli insegnanti, sfide innovative alla scuola. Secondo
Norberto Bobbio, il mestiere dell’insegnante è contemporaneamente
terribile ed affascinante: terribile per le responsabilità che comporta;
affascinante perché stabilisce il dialogo con le giovani generazioni, con il
nuovo, il futuro, tra differenti contesti epocali e diverse identità sociali
formatesi nell’evoluzione dei tempi…per questo risulta un mestiere
estremamente difficile. Gli insegnanti, tra gli intellettuali, sono coloro che
più di tutti esercitano direttamente la funzione dell’autodidatta, perché
molto spesso devono adattarsi a cambiamenti decisi altrove e studiare,
intervenire ed aggiornarsi o meglio autoaggiornarsi.
Scuola e storia contemporanea: laboratori e corsi organizzati dal
Ministero della Pubblica Istruzione rivolti agli insegnanti.
Per la storia contemporanea è sortito un immenso lavoro del Ministero
della Pubblica Istruzione dedito all’aggiornamento degli insegnanti a cui
l’Istituto Nazionale della Resistenza ed i distretti decentrati su tutto il
territorio italiano hanno collaborato a livello centrale e locale, con grandi
esperienze dove si è messo a punto, anche grazie a ispettrici preposte, un
modello di corso di aggiornamento che è poi stato utilizzato in altre
circostanze, partendo dal presupposto che non è sufficiente
l’aggiornamento relativo ai contenuti, appunto di tipo passivo e parziale,
ma è risultato necessario facilitare l’intervento di altri elementi nella
conoscenza storica: sicuramente la metodologia storica e la didattica della
storia, ma, per esempio, anche oltre la storiografia, l’inserimento del tema
delle testimonianze e delle memorie di vita. Alcuni corsi erano giocati
appunto non sulla tematica della memoria divisa, ma sull’argomento
relativo alla pluralità delle memorie, sia per quanto riguarda e concerne la
seconda guerra mondiale, la resistenza, i movimenti del ’68, ma per
esempio, anche la tragica diatriba tra palestinesi ed israeliani, argomento,
oggi, di una sconvolgente e drammatica attualità. Quindi pluralità di
memorie, ma anche di interpretazioni storiche a confronto. Sulla base
di queste esperienze di iniziative ed attività educative concretizzatesi in
corsi di didattica e divulgazione in tutta Italia a livello regionale per
l’aggiornamento del corpo insegnanti e di laboratori con giovani studenti
di discussioni relative alle condizioni di vita, focalizzate, al centro di
situazioni esperienziali in rapporto al loro tempo, sortiva il concetto di
deprivazione di memoria nei giovani, deprivati, appunto di storia,
depauperati di volontà di memoria e conseguentemente di motivazione ai
perché, agli eventi, alle vicende storiche. La responsabilità non è
certamente da attribuire ai ragazzi che non ricordano, perché
essenzialmente non hanno vissuto gli eventi, “non c’erano”… Il problema
sostanzialmente consiste nell’assenza di memoria, di consapevolezza del
proprio vissuto che evita, impedisce a ciascun soggetto di recuperare il
senso dell’esistere e di esserci nella storia, l’esercizio passivo o attivo del
vivere nella storia come primari, principali fattori causanti, attori nel
palcoscenico del divenire, nel teatro dell’avvicendarsi inesorabile degli
eventi, del susseguirsi incessante degli avvenimenti.
Certamente alcuni periodi storici favoriscono la solitudine,
l’individualismo, il disimpegno politico, la non partecipazione,
l’astensione, nella “solitudine della società globalizzata”, a cui susseguono
altri momenti, periodi più alti, elevati di impegno politico, collettivo che
favoriscono, aiutano la trasmissione della memoria storica.
Era accaduto un dato su cui ci si è molto soffermati nella ricerca da parte
del Ministero della Pubblica Istruzione “Memoria ed insegnamento della
storia”: proprio la generazione che ha vissuto gli anni ’70 di maggior
conflitto ideologico non ha passato, trasmesso, tramandato memoria, non
avendo metabolizzato e rivissuto criticamente anche il sentimento, il senso
diffuso di un fallimento che alcuni dei partecipanti alle lotte politiche di
quel tempo hanno sperimentato e reso proprio, personale, a livello di
bagaglio culturale. I corsi ministeriali hanno centrato storicamente
questo tema della memoria nei confronti degli insegnanti, attraverso
gli anni della formazione individuale e professionale e culturale nel
periodo prossimo al dopoguerra (anni 50 e 60) che coincide con la
grande trasformazione economica, culturale e sociale del nostro
Paese. Sussiste una difficoltà dell’educazione alla memoria per cercare gli
strumenti finalizzati alla ricostruzione di memoria a scuola e sul metodo
didattico da impiegare, non solo per l’utilizzo (il far tesoro) del testimone
durante la spiegazione storica in determinati contesti, ma anche per usare
criticamente la propria, personale memoria percettiva in modo che lo
studente costruisca, in rapporto reciproco, relazioni interpersonali e possa
sperimentare sulla propria persona la situazione che lo psicologo Giuseppe
Mantovani sostiene in una conversazione in atto :”i giovani entrano in un
flusso e processo di tipo storico e gli adulti devono loro spiegare a che
punto si trova la conversazione, attribuendo loro gli strumenti perché
intervengano nel processo di trasmissione di memoria”.
Nella società precapitalistica tradizionale i cui momenti apicali erano
scanditi da feste popolari in comunità, saghe narrate e cantate, rituali
stagionali reiterati, ciclici in rapporto al divenire della natura circostante,
di memorie povere o grandiose tramandate di padre in figlio, condizioni
non più esistenti né in territori di campagna né di città, nell’ambito del
nostro Paese d’appartenenza, gli anziani in questo tempo mitico, in illo
tempore, svolgevano e praticavano l’importante e vitale funzione di
spiegare ai giovani come si viveva, cosa era la vita nel presente, nella
quotidianità… la situazione patriarcale chiusa, anche autoritaria,
evidentemente, permetteva che sussistesse una rituale trasmissione di
memoria anche a livello di quotidiano di piccole esperienze, di personali
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vissuti. Nella società contemporanea ancora una volta la scuola deve
assumersi un compito che forse non le è proprio, appunto, la funzione
basilare relazionale tra generazioni di trasmissione della memoria
storica, ma in assenza di un sistema formativo efficientemente
integrato, di una più ampia ed estesa società educante in contesti di
comunità. L’unico luogo educativo molto prezioso a tal fine risulta
appunto l’istituzione scolastica, con tutti i suoi problemi irrisolti, le
questioni pesanti, le difficoltà evidenti, sia a livello burocratico sia sulla
base dei rapporti di incontro ed interscambio dialogico e culturale tra
generazioni, di intesa ed accordo comuni nei processi didattici ed
educativi. Questo rapporto tra memoria e storia risulta un binomio
relazionale tra le singole soggettività. Una frase di Holfam,
nell’introduzione del “secolo breve”, che descrive la condizione dello
storico nello studiare storia contemporanea, si adegua proprio alla
posizione ed al ruolo degli insegnanti. Sostiene Holfam: “parliamo dei
nostri ricordi ampliandoli e correggendoli e li rievochiamo come uomini e
donne di un tempo e di uno spazio particolari, coinvolti in varie guise,
ruoli, aspetti, nella storia, come attori di un dramma, per quanto siano state
insignificanti le nostre parti, come osservatori del nostro tempo e, non da
ultimo, come persone le cui opinioni sono state formate da ciò che noi
siamo giunti a considerare come eventi cruciali: siamo portatori di questo
secolo che è parte di noi”. Questo spiega, per esempio, l’attenzione per lo
sterminio, per la Shoah, come parte fondante della coscienza successiva
alla seconda guerra mondiale. Ma il problema consiste nel fatto che senza
memoria diventa molto difficile presentare, prospettare, progettare il
futuro. La memoria è una mappa di orientamento del presente in
quanto permeabile, muta nel tempo, si trasforma, è proteiforme…per
esempio, un problema emerso tra i colleghi del gruppo di progettazione di
ricerca consisteva nel quesito: cosa può ricordare una generazione che non
ha vissuto situazioni estreme e precarie da ricordare, eventi eroici da
raccontare, condizioni traumatiche come la guerra da scongiurare…cosa
ha da ricordare?
Nei laboratori ministeriali si sono svolti esercizi di memoria considerando
e valutando che per la generazione degli anni ’50 e ’60 tra i colleghi non
sussisteva tanto una memoria politica quanto di tipo sociale riflessa nei
grandi cambiamenti intervenuti nella storia italiana. Siamo partiti dal
presupposto, messo in luce dal pedagogista Alessandro Cavalli,
nell’ambito della ricerca dal titolo “i giovani ed il tempo”, per cui ha
evidenziato la netta cesura di memoria politica come elemento che non ha
permesso il passaggio di consegna delle eredità conquistate come monito
ed indicazione riguardo alla storia contemporanea trasmessa alle nuove
generazioni. Il rapporto tra adulti e giovani consiste nel necessario
passaggio di memoria come elemento di costruzione e di confronto della
storia.
Riflessioni sulle “memorie”…
La memoria rappresenta per colui che racconta la ricerca del senso di un
fatto accaduto nel passato in base alle indicazioni del presente: questo è di
grande stimolo dal punto di vista della didattica della storia. Sono le
domande del presente che portano ad evidenziare certe situazioni e
condizioni vissute nel passato. Sempre più gli insegnanti sono chiamati
alla responsabilità della scelta dei contenuti da sottoporre ai ragazzi,
perché più si allarga il campo della storia, più la cernita responsabile,
critica, storiograficamente accettabile e pertinente risulta importante ed
insostituibile. Quando i giovani si rivolgono ad adulti o ad anziani per
sentirsi raccontare dei fatti accaduti in un passato prossimo o remoto
della storia del nostro secolo, essi stessi cercano e vogliono attribuire
senso alla propria vita ed esistenza trovando radici, matrici di
significato in ciò che è stato ed è accaduto, agli eventi della storia
individuale e collettiva che li ha causati direttamente, a tutti gli effetti.
Questo è il grande dono di colui che ha esperienza consolidata, rispetto a
chi si deve costruire da solo un proprio senso dell’esistenza, per ragioni
individuali e personali: molto spesso non si consolida tale utilizzo ed
impiego proficuo, saggio, della memoria nella società contemporanea
occidentale, in quanto si cerca di vivere in un eterno presente e
probabilmente si sperimenta la difficoltà di attribuire senso anche alle
singole esistenze e di costruire personalità strutturate, il che consiste di
conseguenza nel compito precipuo dell’educazione, della pratica
pedagogica volta alla formazione della persona ed all’istruzione di cultura.
Jedlowskji sottolinea la memoria come esperienza, come saper fare, ed
esperienza di sapere. Spesso nella scuola il “saper fare” non è
sufficientemente sottolineato nel lavoro generale, nelle mansioni
quotidiane, nei compiti propri dell’insegnante.
Jedlowskji è un sociologo, ma compie una riflessione sostenendo che la
forte accelerazione della nostra vita porta ad una crescente
intellettualizzazione dei contesti artistici e culturali e per converso a non
valutare, non assorbire e metabolizzare le emozioni su cui la memoria si
basa soprattutto, come sugli affetti, sugli aspetti emozionali, nell’ambito
dei sentimenti, delle passioni che comportano gli eventi. Quindi può
avvenire una divaricazione tra memoria collettiva, sedimentata e memoria
individuale, per cui il singolo individuo si manifesta in difficoltà, non
riesce ad intrecciare ad interagire la propria esistenza con le altrui
esperienze di vita. Se rapportiamo tale riflessione al mondo degli studenti,
osserviamo che essi stessi non riescono ad attivare un interesse con la
storia insegnata ed a rapportarsi con colui che la tramanda (insegnante,
storico, studioso, testimone, operatore culturale). La memoria è la storia
commentata dell’esperienza dell’uomo, come sostiene la Yourcenar,
che fa dire ad Adriano: “ho ricostruito molto e ricostruire significa
collaborare con il tempo nel suo aspetto di passato, coglierne lo spirito e
modificarlo, protenderlo quasi verso un più lungo avvenire…significa
scoprire sotto le pietre il segreto della sorgente”. La testimonianza a
scuola porta l’uomo e la donna in carne ed ossa, come protagonisti
esistenti e viventi della storia passata, con i loro sentimenti, passioni e
scelte di vita con un impatto emotivo diretto ai ragazzi nei confronti degli
eventi storici di elevatissima efficacia didattica, nei cui racconti e
narrazioni sottesi all’impercettibile filo rosso del sentimento, del ricordo
emotivo, si scopre “la sorgente sotto le rocce” sedimentate del tempo…La
testimonianza riconsegna al legittimo attore degli eventi ed all’attento
ascoltatore il senso dell’essere nella storia, in sé stessi e per sé stessi,
nell’immanenza dell’attualità del momento presente.
Le parole testimonianti di Giovanni Pesce, Presidente nazionale
dell’ANPI, rese note nelle scuole di ogni ordine e grado, scandiscono le
date salienti della storia italiana, coincidenti con le scansioni, gli eventi,
gli avvenimenti, le scelte, i cambiamenti della sua vita di militante,
narrando i fatti storici collettivi, comuni che lo hanno visto protagonista,
senza parlare di sé, in prima persona, risparmiando la testimonianza della
ricchezza della personale, unica ed irripetibile esperienza di vita, volendo
però ricordare date collettive, ma in cui Pesce stesso c’era, era presente e
militante, nella contemporaneità immanente di quegli eventi.
Lo psicologo Mantovani considera la memoria una mappa per
orientarsi tra passato, presente e futuro. Senza la memoria non esiste
scansione storica, non ci si connette al passato ma neanche al futuro, non
esiste il prezzo del senso della vita e questo fenomeno accade nelle società
in crisi che cambiano radicalmente i parametri della vita collettiva. A
proposito del processo di pacificazione del Sud Africa dove si è attuata
un’esperienza diversa ed originale rispetto ad altri paesi, perché il governo
ha presieduto una commissione dove sono stati chiamati a presenziare
vittime e carnefici della guerra civile per raccontare le ingiustizie subite,
sofferte o perpetrate. La ragione di tale fatto è che memorie così diverse,
conflittuali, di forte contrasto venivano così a creare il variopinto ed
astratto mosaico della memoria collettiva di un Paese che doveva uscire da
una storia tragica. Questo processo di pacificazione, tramite il filo sublime
e nobile della memoria, non è accaduto in molti Paesi europei, anche se la
Germania, per quanto riguarda la Shoah ed il nazismo, ha elaborato e
praticato forse un lavoro più approfondito e capillare rispetto a quello che
è avvenuto in Italia o in altri Paesi successivamente.
La memoria è soggetta all’oblio del tempo, a cancellazione e
rimozione: è continuamente manipolata. Chi plasma oggi la memoria
collettiva? Si oscilla tra l’opinione che non esista memoria o che è
partorita dai media. Anche se più che memoria i media generano un senso
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comune condiviso. La costruzione di memoria richiede necessariamente
un intreccio interpersonale, mentre i mezzi di comunicazione di massa
compiono un’operazione autoritaria, perché il messaggio risulta univoco e
con cui non si può interferire ed interagire: è un contenuto non partecipato
dialogicamente, dialetticamente, attraverso l’interazione relazionale e
razionale tra soggetti.
L’istituzione scolastica, in primis responsabile della trasmissione di
memoria storica contemporanea.
Per lavorare come insegnanti a scuola in progetti riguardanti la storia
contemporanea e la memoria storica occorre affrontare in modo critico
l’uso pubblico delle fonti e dei documenti che testimoniano gli eventi
storici. La scuola per molto tempo ha trasmesso la storia patria: un
processo finito, compiuto. Sicuramente l’istituzione scolastica ha perso
una centralità educativa di comunicazione di molte informazioni e
conoscenze che attualmente sono retaggio specifico dei mass media, anche
perché gli insegnanti usano moltissimo gli strumenti visivi, sapendo che
consistono in rielaborazioni anche rispetto ai documenti che citano, perché
spesso il commento di un documento storico viene elaborato sulla base
delle immagini che si sono trovate a disposizione, e non necessariamente
con quelle più convergenti e congruenti rispetto al contenuto specifico da
trasmettere. Poiché l’impatto visivo è emotivamente molto più alto
rispetto al messaggio verbale, i media hanno compiuto un’operazione che
contraddice in parte anche quello che i sociologi ottengono come risultato
delle inchieste, perché mai come negli ultimi anni si sono riprese parti,
frammenti, momenti della nostra storia con annesse reinterpretazioni,
adattando certi aspetti ed estrapolandone altri dal contesto, e si è compiuta
così un’immensa operazione di memoria collettiva. Dunque si è passati da
una fase in cui la memoria della seconda guerra mondiale, della resistenza,
dell’internamento, della deportazione, del complesso fenomeno
concentrazionario nella sua globalità, erano rievocati, rammentati,
rimembrati dai testimoni in ambiti e contesti collettivi e socioculturali, alla
fase in cui è stata elaborata dalla storiografia, come è giusto, fino ad
approdare a questo ultimo stadio di ricerca in cui è soprattutto il
documento ricostruito con tutte le componenti necessarie della
drammatizzazione, a volte persino della fiction, che hanno veicolato una
certa memoria. Occorre anche considerare le memorie di vita, le
narrazioni autobiografiche, pluralità di memorie del contesto storico
che contiene esperienze plurime e diverse, mentre molto spesso si
individua in un personaggio, in un evento, in una giustificazione il senso
della storia ed in questo uso pubblico e decisamente politico della storia è
subentrato un grande coinvolgimento che non ha ottenuto altro che un
dibattito di contrapposizioni. Sono legittime le posizioni ed opinioni di
storici cosiddetti revisionisti, che contrastano la visione della resistenza
connessa strettamente alla nostra democrazia e che attua un vero
riferimento ai testimoni ancora in vita, militanti nell’associazionismo
storico culturale (ANED e ANPI) ed alle vittime, con reali interpretazioni.
Esiste una differenza tra queste due modalità e visioni interpretative di
leggere la storia più recente del nostro Paese, che consiste appunto
nell’opinione anche di storici relativa al lavoro storiografico: il parere può
essere formulato sulla base di ipotesi, di ideologie e convinzioni, mentre la
storia si costruisce in base alla fonte dei documenti, per cui si parla di uso
pubblico della storiografia, perché il documento viene messo in secondo
piano e si preferisce elaborare riproposizioni dell’accaduto sulla base di
un’interpretazione che spesso non fa riferimento ai documenti a
disposizione, vale a dire le fonti normali, cartacee, testimonianze,
memorie raccolte ed elementi visivi che nel lavoro dello storico vanno
tenute insieme per essere lette ed interpretate globalmente ed utilizzate
criticamente.
Perché ci soffermiamo tanto sulla costruzione di memoria storica?
Non esiste solo il problema di motivare i ragazzi all’apprendimento della
storia, perché questa materia, per sua definizione, è una disciplina
nomotetica. Non è un caso che la discussione di una riforma della scuola
si sia poi focalizzata sul programma e sul curricolo di storia.
La storia è anche educazione alla convivenza civile di un Paese ed allora
questo termine della responsabilità della memoria, emerso dalle interviste
dei docenti che partecipano alle ricerche di memoria ed insegnamento
della storia, è un tema della responsabilità educativa che riemerge
attualmente con molta evidenza all’interno del corpo docenti anche con la
prova dell’autonomia della scuola, dove il ruolo dell’insegnante diventa
necessariamente di scelta, di orientamenti di indirizzi, di contenuti e di
organizzazione collettiva della dimensione scolastica, concedendo,
trasmettendo ai ragazzi, gli strumenti per costruire, riabilitare la memoria
al fine nobile di interagire con essi tra passato, presente e futuro, da
interiorizzare come responsabilità educativa primaria, al pari della
costruzione di tematiche rigorose della storia. I docenti sono organizzatori
di sapere nella loro funzione specifica e nel caso della storia
contemporanea e soprattutto nel caso della seconda parte del novecento,
diventano attori primari degli eventi trascorsi e testimoni principali degli
avvenimenti che raccontano e trasmettono perché vissuti in prima persona
in un contesto storico globale. Gli insegnanti prima di affrontare un lavoro
congiunto con gli studenti, relativo alla memoria storica, devono compiere
un lavoro molto serio sul concetto di memoria. In un momento epocale per
cui molti individui si sentono singoli ed isolati, perseguono l’interesse
personale e non collettivo, vivono in situazioni estreme di solitudine
esistenziale, intellettuale e sociale, avere memoria significa assumersi la
responsabilità della propria vita ed anche di un modo di esserci di esistere,
di partecipare, nel processo storico che viviamo. Il coraggio della
memoria, vale a dire andare alla ricerca della storia non è di per sé un
fatto che ci porta a valutare anche il presente. I fatti della storia sono
sempre la conseguenza e la continuazione di altri eventi, altri avvenimenti,
e quindi non è possibile ignorare una parte del passato se si vuole pensare
al presente e proiettarsi nel futuro. Quando si parla di storia
contemporanea si dimostra la fortuna della ricerca di atti, di fatti e
testimonianze che offrono certamente agli storici la possibilità di valutare
e di trasmettere queste esperienze e dati di ricerca ai giovani. Negli
incontri dei testimoni della resistenza con i giovani si è maturata negli
anni una maggiore consapevolezza e coscienza storica.
Sostiene Giovanni Pesce Presidente Nazionale dell’ANPI :”Noi
abbiamo vissuto esperienze tali, che rievocate oggi, mi danno
l’impressione di essere al di fuori della mia persona. Riconosco i fatti,
cito i casi, i dati, i protagonisti, ma talvolta avverto la sensazione di
stare seduto in una platea e di vedere questi eventi rappresentati in
palcoscenico. Con lo scorrere degli anni non si prova più la passione,
l’emozione che cresceva dentro di noi in passato e forse i fatti risultano
forse anche più chiari, più luminosi ed il discorso, il dialogo, anche con gli
insegnanti difficilmente riporta alle singole esperienze personali”. Gli
eventi si considerano in una dimensione diversa ed in qualche caso con
cartine geografiche o film si riescono ad approntare dibattiti estremamente
vivaci che riportano alla memoria non solo i fatti, gli avvenimenti, ma i
motivi, le cause. Gli aspetti ignorati maggiormente sono i documenti che
precedentemente, all’inizio della guerra, durante il conflitto, sono stati
emessi e che denunciano, in primo luogo come gli eventi bellici si sono
verificati per certi obiettivi (l’accordo prima con la Germania, poi con la
Germania ed il Giappone). Questo disegno strategico in atto che i
partigiani, oggi testimoni, non riuscivano allora a comprendere bene,
mentre si viveva l’evoluzione dei momenti bellici, ha portato poi, col
tempo, e per le modalità in cui si è svolta la Grande Guerra, ad intuire che
la strategia bellica era mortale per l’intero globo. Quando l’esercito
tedesco è giunto al Volga e si è bloccato a Stalingrado, in quel momento si
è capito che se Hitler avesse vinto quella battaglia e fosse riuscito ad
ottenere i petrolio del Caspio, probabilmente la guerra avrebbe assunto
una dimensione diversa. Il fatto che i giapponesi abbiano attaccato
nell’Indocina e nella Cina, il ricongiungimento di tale disegno strategico
degli eserciti fascisti che volevano dominare il mondo, oggi se avesse
vinto, avrebbe creato una terribile situazione di regresso per l’umanità. E
allora qual è stato poi il motivo, la ragione per cui, battuti il nazismo ed il
fascismo, rotto il patto antifascista, si è cercato, in anni che sono diventati
terribili, bui, dopo la guerra, di dimenticare o di far dimenticare i risultati
ottenuti con la resistenza, con il movimento antifascista. Il disegno era
questo: il mondo occidentale era diviso in due ed allora bisognava
recuperare la Germania, il popolo tedesco che diventava importante per
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l’occidente. E allora ecco nascondere i fascicoli che riguardavano le stragi
avvenute in Italia, in Francia e nei Balcani, e di cercare di ignorare che la
guerriglia partigiana e la lotta antifascista avessero portato questo aspetto
alla società moderna, all’Italia di oggi, alla Repubblica. Infatti attualmente
quelli che tendono ad ignorare questi aspetti tentano di nascondere i
motivi per i quali è scoppiato il conflitto per cui il mondo diviso in due
doveva produrre certi effetti. E’ importante ricercare nei documenti (i
giornali, le biblioteche, nei ministeri) tutto ciò che può far comprendere
come si viveva allora, quali erano le ragioni fondanti per cui si è
organizzata la resistenza, si è combattuto contro il fascismo. L’aspetto più
qualificante della storiografia è andare alla ricerca delle memorie per la
possibilità del pensiero di ricordare, di rielaborare, di parlare, di proferire
il passato, l’accaduto… ma questo non basta perché è evidente che poi le
memorie vanno inserite in un contesto unitario, storico comune: questa è
la funzione primaria della scuola. L’istituzione scolastica è la prima
forma sociale che l’individuo incontra nel suo percorso di formazione
ed in cui si plasma l’avvenire delle future generazioni.
Laura TussidadaPeaceLink.it
Relazione riassuntiva dell’incontro di presentazione dell’Annuario
“Agorà” del Liceo scientifico G. Ferraris di Varese, Maggio 2001: ”Il
coraggio della memoria e la storia europea del ‘900”
(fonte: Unimondo newsletter)
link: http://www.unimondo.org/Notizie/Il-Coraggio-della-Memoria-154334
Immigrazione
Lesbo. Il dovere di restare umani (di Giacomo
Capriotti – Un ponte per...)
Si è conclusa la nostra missione a Lesbo, dove eravamo arrivati il 2
gennaio per aiutare il lavoro dal basso dei volontari nell’accoglienza dei
migranti. Ecco com’è andata.
Lesbo: isola greca di fronte alla Turchia, ma soprattutto anticamera di
quell’Europa che per chi fugge dalla guerra, dalle persecuzioni e dalla
miseria rappresenta spesso l’unica possibilità di salvezza.
La prima tappa forzata di un crocevia per centinaia di migliaia di siriani,
iracheni, afghani, ma anche nordafricani, pakistani, bengalesi, iraniani,
che una volta superato il controllo appaltato ad Erdogan dall’Unione
Europea, decidono che vale la pena tentare.
Vale la pena avere una seconda chance.
Vale la pena fuggire da una guerra che non hanno voluto e che sta
devastando milioni di vite. Vale la pena imbarcarsi anche con il mare in
tempesta, rischiando la propria vita e quella dei propri cari, perché oltre
quella traversata c’è forse l’unica alternativa ad un futuro che non ha più
nulla da offrire.
Siamo partiti perché volevamo vedere con i nostri occhi quanto grande
fosse il portato di questa crisi umanitaria, e per raccontare una storia
diversa da quella che viene offerta nel dibattito politico italiano ed
europeo.
Una storia fatta da uomini e donne che, nonostante tutto, decidono di
restare umani.
Se da una parte le istituzioni municipali dell’isola, il governo greco e la
governance europea cercano di porre un freno a questo flusso umano,
mascherandosi dietro problemi di natura securitaria, dall’altra volontari
indipendenti e piccole Ong si adoperano quotidianamente per soccorrere,
accogliere e in certi casi sostituirsi ai meccanismi istituzionali.
Meccanismi che escludono dal sistema di accoglienza migliaia di migranti
sulla base di una selezione etnica, o con la pretesa di valutare se le
motivazioni che li hanno spinti a fuggire siano valide o no, di decidere se
la presenza di un essere umano in questo o quel territorio sia legale o
meno.
Ci sono volontari che lavorano nei campi, nei magazzini, che si
coordinano tra di loro portando da una parte all’altra dell’isola ciò di cui si
ha maggior bisogno.
C’è tra di loro chi passa giorno e notte aspettando segnalazioni di SOS dai
barconi in arrivo per poi correre freneticamente da una parte all’altra della
costa con torce, coperte ed acqua per poterli soccorrere.
Ad attendere queste persone in fuga non ci sono istituzioni democratiche
pronte a dar loro il benvenuto o a preoccuparsi di come un diritto sancito
dalle Convenzioni Onu venga rispettato. Non ci sono presidi medici o
ambulanze. Non c’è neanche la polizia.
Ci sono solo i volontari.
Sono loro che si gettano in mare per segnalare il miglior punto di attracco.
Loro che si preoccupano di soccorrere uomini e donne stanchi e
vulnerabili, bambini terrorizzati, anziani impossibilitati anche a scendere
da soli dai gommoni. Tutto sotto lo sguardo vigile dei radar di Frontex,
posti sulle alture adiacenti alle spiagge. Loro controllano, come un grande
fratello che non si scomoda, chiude un occhio e non muove un dito.
Nemmeno in caso di naufragio.
Padri e madri che ringraziano dio per avercela fatta, che abbracciano i
bambini per rassicurarli, che sperano in cuor loro sia tutto finito. Ma non è
così.
L’Europa dell’austerity, delle sanzioni economiche, che finanzia guerre ed
erge muri in nome di quei valori democratici che dice voler difendere, è
più preoccupata ad attivare sistemi di controllo che di accoglienza.
A seconda della provenienza ci sono differenti meccanismi di
registrazione, e differenti tempi di permanenza nei campi.
C’è chi aspetta per giorni, chi per mesi, chi non ha trovato riparo nelle
strutture istituzionali organizzate e vive in tenda in quelle autogestite. C’è
chi è già stato rimpatriato ed è al suo secondo tentativo; chi non ha voglia
di raccontare e non si capacita di non poter proseguire il viaggio. E poi c’è
chi ha in mano un foglio di via (scritto in greco) ed è convinto che tra
pochi giorni potrà lasciare l’isola e raggiungere la famiglia in Svezia.
Nessuno dei pretesti utilizzati dai nostri governi può giustificare il
mantenimento di una simile condizione umanitaria.
Non c’è crisi economica, mercato del lavoro o rischio infiltrazione
terroristica che tenga…come se Daesh, forte dei miliardi di dollari
guadagnati a seguito di scambi commerciali con ben più conosciuti partner
internazionali, Europa compresa, inviasse tagliagole sui gommoni.
L’unico scontro di civiltà in atto a Lesbo è tra chi ritiene la presenza di
esseri umani un problema da declinare in termini economici e di pubblica
sicurezza, e tra chi invece considera la solidarietà, l’accoglienza e la
cooperazione come valori umani imprescindibili in qualsiasi condizione e
in qualsiasi momento storico.
*La missione di Un ponte per…a Lesbo si è svolta dal 2 al 9 gennaio
2016. Nove i/le volontari/e che hanno partecipato. Clicca qui per leggere il
loro diario.
Giacomo Capriotti – Un ponte per..
(fonte: Un ponte per... - newsletter)
link: http://www.unponteper.it/lesvos-calling/
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Nonviolenza
Benvenuto 2016! Rinnoviamo l’impegno per la pace
e la solidarietà (di La redazione di Unimondo)
Anche nel 2015 Unimondo ha continuato ad informare sulle numerose
iniziative delle associazioni della società civile per promuovere l’impegno
per la pace, lo sviluppo sostenibile, il rispetto dei diritti umani, la
salvaguardia dell’ambiente, i beni comuni e il consumo critico,
l’accoglienza dei migranti, per citare solo alcune delle voci presenti nelle
nostre guide. Sono già quasi 15mila gli articoli pubblicati sul nostro
portale in questi 17 anni – tutti accessibili gratuitamente nell'archivio–
che costituiscono una miniera preziosa di informazioni e di memoria
storica per i lettori. Le informazioni di Unimondo, e tante altre che non
siamo riusciti a pubblicare sul sito, hanno trovato spazio anche sulla
pagina “Unimondo Face2Facebook” e sono state rilanciate dal nostro
profilo Twitter.
Il 2015 è stato un anno difficile per molte popolazioni. Vogliamo
ricordare in particolare il dramma dei profughi e dei migranti: un dramma
spesso nascosto, oppure sbandierato soprattutto per creare tensioni
ansiogene. Ma che ha visto anche la solidarietà vera di moltissime
associazioni tra cui, proprio in questi giorni, quella di Benvenuti Rifugiati
Italia.
Vogliamo anche ricordare il conflitto in Yemen, una delle numerose
“guerre dimenticate”, soprattutto dai nostri media nazionali. Un conflitto
che – come riportano le agenzie dell’Onu – ha già causato più di 5.880
morti di cui più di 2.700tra la popolazione civile(di cui 600 bambini) e
milioni di sfollati. Un conflitto che si è esacerbato a seguito
dell’intervento militare di una coalizione guidata dall’Arabia Saudita: un
intervento svolto senza alcuna legittimazione da parte delle Nazioni Unite
che, anzi, hanno ripetutamente stigmatizzato gli “attacchi sproporzionati”
da parte delle forze aeree della coalizione saudita. Nonostante il Consiglio
europeo si sia dichiarato “estremamente preoccupato per l'impatto delle
ostilità in corso in Yemen”, inclusi i bombardamenti e per gli attacchi
indiscriminati contro le infrastrutture civili, in particolare le strutture
sanitarie e le scuole, l’Italia ha continuato ad inviare bombe alle forze
armate dell’Arabia Saudita. Unimondo ha documentato che diversi
ordigni inesplosi di provenienza italiana sono stati ritrovati in Yemen nelle
zone civili bombardate dall’aeronautica militare saudita. Rete italiana per
il Disarmo, Amnesty Itala e l’Osservatorio OPAL di Brescia hanno
ripetutamente chiesto al governo italiano di sospendere l’invio di bombe ai
sauditi: i ministri degli Esteri e della Difesa non hanno accettato di
incontrare gli esponenti delle tre associazioni e anzi si sono spesso
giustificati dicendo pubblicamente che sarebbe “tutto regolare”.
Tutto questo fa capire come sia assolutamente necessario mettere
nell’agenda del nuovo anno un impegno specifico per il controllo delle
esportazioni di armamenti. Lo scorso luglio, Rete Disarmo ha promosso
alla Camera una conferenza stampa (qui il video) per fare un bilancioa 25
anni dall’entrata in vigore della legge 185 che dopo decenni di
mobilitazioni delle associazioni della società civile, nel 1990 ha introdotto
nel nostro Paese “Nuove norme sul controllo dell’esportazione,
importazione e transito dei materiali di armamento”.Come ha evidenziato
Unimondo, in questi 25 anni la legge 185 è stata applicata dai vari
esecutivi con pochissimo rigore,ma soprattutto è stata fortemente intaccata
la trasparenza tanto che dalle Relazioni consegnate al Parlamento negli
ultimi anni non è più possibile conoscere i dettagli dei miliardi di euro
di sistemi militari esportati dall’Italia nei vari paesi del mondo.
Nuovi impegni per la pace e il disarmo
I conflitti in varie zone del mondo, le tensioni internazionali e gli annunci
di nuovi missioni militari da parte dell'Italia non hanno tolto la voce al
popolo della pace che lo scorso anno ha continuato a promuovere
numerose iniziative. Ne vogliamo ricordare in particolare una: la
Campagna “Un’altra difesa è possibile” ha raccolto e consegnato alla
Camera le 50mila firme necessarie per presentare la “Legge di iniziativa
popolare per la Difesa civile, non armata e nonviolenta”. Inoltre, il 15
dicembre (Giornata dell’obiezione di coscienza e del servizio civile) è
stata annunciata in Parlamento la presentazione di un progetto di Legge
sulla Difesa civile non armata e nonviolenta che ripropone lo stesso testo
della legge di iniziativa popolare. “Nel 2016 – scrive il comitato
promotore – tutti i gruppi territoriali della Campagna sono invitati a
interpellare i Parlamentari del proprio collegio per promuoverne la
discussione e i contenuti”. E’ questo l’impegno più importante che ci
attende nel nuovo anno.
E, proprio allo scadere del 2015, è stato pubblicato sul sito dell’Ufficio
Nazionale del Servizio Civile il bando per gli enti che vorranno presentare
progetti per la sperimentazione dei Corpi Civili di Pace. Un passo
importante che pone le basi per la realizzazione di più ampia e strutturata
della “difesa civile, non armata e nonviolenta” in situazioni di conflitto e
di emergenze ambientale. Pur evidenziando alcune criticità, le
associazioni del Tavolo Interventi Civili di Pace “esprimono
soddisfazione per l’atteso avvio di questa esperienza, alla quale
parteciperanno apportando il proprio contributo in termini di personale,
formatori, conoscenza del contesto e partenariati in luoghi di conflitto
nella consapevolezza che un nuovo modello di intervento civile e
nonviolento nei conflitti può interrompere la spirale di guerra e terrorismo,
e consentire al nostro paese di farsi promotore un modello originale,
innovativo e sostenibile di azione per la pace e la sicurezza anche a livello
internazionale”.
In questo contesto vogliamo anche segnalare una notizia che forse è
sfuggita ai molti lettori: lo scorso 28 ottobre una stanza della Camera
dei Deputati è stata intitolata a Massimo Paolicelli, storico esponente
del movimento pacifista morto due anni fa dopo una lunga malattia. “Un
riconoscimento importante per un uomo che si è sempre battuto per la
pace” – ha commentato Giulio Marcon, deputato di Sinistra Ecologia e
Libertà. Nella sua ultima lettera agli amici Massimo ci ha regalato alcune
parole che vogliamo assumere come impegno per il nuovo anno: “Tante
gocce possono scalfire la roccia: cerchiamo di scalfire la roccia
dell’indifferenza e dell’egoismo e costruiamo, in nome di Dio, un mondo
di
giustizia,
pace
e
solidarietà”.
Buon 2016 a tutti!
La redazione di Unimondo
(fonte: Unimondo newsletter)
link: http://www.unimondo.org/Notizie/Benvenuto-2016!-Rinnoviamo-l-impegnoper-la-pace-e-la-solidarieta-154480
Pace
Fede e cultura per Bergoglio. Conflitto e pace (di
Enrico Peyretti)
Questo testo di Bergoglio, papa Francesco, ripreso oggi, interessa non solo
chiesa e cultura laica, come mostra Asor Rosa nel suo articolo "Il vangelo
del conflitto". A me sembra interessante per la cultura della pace, nella
linea tolstojana-gandhiana, che è la più seria e profonda e realistica, non
moralistico-esortativa, ma culturale-politica .
In questa peace research, il tema laico del conflitto è centrale. Il conflitto
va assunto, tutt'altro che eluso o coperto. Azione di pace giusta,
nonviolenta (non è pace se non è nonviolenta nei mezzi, nel fine voluto,
nel risultato ottenuto), è smascherare il conflitto occulto, che non può
avere giustizia, verità e pace. La vittima del conflitto violento e occulto
resta vittima. C'è silenzio, ma non c'è pace. Azione di pace è la
trasformazione nonviolenta del conflitto aperto, liberato dagli elementi di
violenza con cui appare.
Il termine misericordia oggi corrente non è altro che l'amore positivo e
attivo a favore delle varie forme di vita, dei suoi bisogni, della sua ripresa,
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e della stessa terra viva che noi abitiamo. La pace è atto di riconoscimento,
rispetto, tutela della realtà, perciò è cura d'amore, occhio e sentimento
positivo, di stima, di bene diretto dall'io responsabile a tutta la realtà.
Perciò è impegno immediato a non distruggere, non ferire né offendere, a
comprendere le ragioni altrui, a cercare la composizione di diritti,
interessi, gusti e bisogni. E' un lavoro di intelligenza, di analisi e strategia.
Tutte le arti messe in campo dal potere degli uni sugli altri, l'umanità può
volgerle all'azione educativa-culturale-politica-storica per lo sviluppo
umano degli uni con gli altri e per gli altri, in una linea evolutiva
umanizzante che possiamo con umile concreterzza favorire e rpomuovere.
Ciò che la spiritualità, l'etica, chiama amore è quella benevolenza,
comprensione, perdono, aiuto e stima che compongono una antropologia
realistica ma positiva, pensata e praticata per la costruzione della pace,
dalle relazioni prossime fino a quelle cosmopolitiche.
Voglio solo dire che quel rapporto costruttivo e dialettico che Bergoglio
propspettava nel 1985 e che rilancia oggi da papa, tra, da un lato, fede
evangelica che è prassi di amore e giustizia, e, dall'altro lato, cultura laica
di una società plurale e correttamente conflittuale, è, espresso in termini
analoghi, proprio il lavoro che i movimenti pensanti e operanti per la pace
nonviolenta gandhiana, o pace giusta, intendono fare col costruire la
cultura e la prassi della trasformazione nonviolenta dei conflitti.
Le due culture ristrette, o soltanto al religioso o soltanto al laico,
raramente (e non nelle loro espressioni più note e di successo) colgono e
coltivano questo rapporto fecondo per tutti tra l'amore prevalentemente
donativo (l'agape evangelica; la compassione buddhista) e il confrontoconflitto politico genuinamente democratico. Il quale, per potere essere
davvero libero e aperto, ha bisogno di essere basato, non su scontri di
cieche forze centripete, ma sulla giustizia distributiva, sui diritti umani e
sulla dignità umana inviolabile. Personalmente, io tengo a testimoniare
che, nei decenni del mio impegno e partecipazione, ho vissuto uno
stimolante contatto e appartenenza ad entrambe queste culture, laica e
religiosa, e sperimento, dalla mia formazione alla mia vecchiaia, che si
fecondano l'una l'altra, senza assimilazione. C'è chi alimenta la guerra tra
civiltà e culture. C'è chi sperimenta che è possibile, a livello locale e
planetario, la collaborazione dialettica tra le umane visioni e azioni,
dirette a custodire e sviluppare la realtà. Questa è la pace.
E. P.
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2440
Il Vangelo del conflitto (di Alberto Asor Rosa)
Bergoglio lo ha scritto trent’anni fa e ora lo ha rivisto: un testo che riflette
sul rapporto tra fede e cultura, tra paura e misericordia. Integrando
concetti cristiani e laici.
Nelle settimane passate è apparso in Italia un testo di Papa Bergoglio, che
a me sembra di grande importanza. Si tratta dell’intervento da lui
pronunciato a un Congresso internazionale di teologia (da lui stesso voluto
e preparato), svoltosi a San Miguel in Argentina dal 2 al 6 settembre 1985,
sul tema “Evangelizzazione della cultura e inculturazione del Vangelo”.
L’intervento, nella forma pubblicata da Civiltà cattolica, porta il titolo
“Fede in Cristo e Umanesimo”. Ritengo però che il suo vero tema sia più
esemplarmente testimoniato da quello del convegno.
Andrò per accenni, limitandomi a segnalare quello che, dal mio punto di
vista, spicca per novità e intelligenza del discorso. In effetti, trovo, per
cominciare dagli inizi, che ipotizzare questa doppia missione – che è
anche un doppio movimento di andata e ritorno per ognuno dei due
elementi che lo compongono, e cioè: “evangelizzazione della cultura” e
“inculturazione del Vangelo”– significa offrire una visione nuova dei
rapporti tra la “fede cristiana” e “il mondo”. Bergoglio, infatti, non dice:
“questa” o “quella cultura”. Dice: “cultura”. A chiarimento della tesi
scrive: «Stiamo rivendicando all’incontro tra fede e cultura, nel suo
duplice aspetto di evangelizzazione della cultura e di inculturazione del
Vangelo, “un momento sapienziale”, essenzialmente mediatore, che è
garanzia sia dell’origine (movimento di creazione) sia della sua pienezza e
fine (movimento di rivelazione)». «Un momento sapienziale,
essenzialmente mediatore…»: se la traduzione dallo spagnolo in italiano
non ha deformato qualche senso, questo vuol dire che tra “fede” e
“cultura” si può stabilire un confronto, i cui momenti di reciprocità sono
destinati a influenzare sia l’una sia l’altra parte, producendo, attraverso la
“mediazione”, un accrescimento di sapere e di conoscenza per tutti.
Bergoglio chiama in causa una parola-concetto tipicamente laica o quanto
meno mondana: “mediatore”, mediazione. Tale impressione però si
accentua, in misura significativa, nella lettura di un brano seguente, che
qui riporto per intero, perché lo trovo denso di parole-concetti
sorprendenti: «La base di questo sforzo è sapere che nel compito di
evangelizzare le culture e di inculturare il Vangelo è necessaria una santità
che non teme il conflitto ed è capace di costanza e pazienza. Innanzi tutto,
la santità implica che non si abbia paura del conflitto: implica parresia,
come dice San Paolo. Affrontare il conflitto non per restarvi impigliati, ma
per superarlo senza eluderlo. E questo coraggio ha un enorme nemico: la
paura. Paura che, nei confronti degli estremismi di un segno o di un altro,
può condurci al peggiore estremismo che si possa toccare: l’“estremismo
di centro”».
In questo caso, la parola-concetto centrale è: “conflitto”. Si deve
ammettere che siamo di fronte a una acquisizione inedita nel campo della
cultura cristiano-cattolica. Il termine infatti ricorre nel pensiero e nelle
problematiche del pensiero dialettico e sociologico europeo e americano
degli ultimi due secoli: da Hegel a Marx, e poi Simmel, von Wiese,
Dahrendorf… Nessun equivalente, almeno della stessa portata, nel
pensiero cristiano-cattolico dello stesso periodo, e si capisce perché: la
predicazione evangelica sembrerebbe escludere una virata di tale natura.
Ma la sorpresa è destinata persino ad aumentare se si procede nell’analisi
del ragionamento. «Affrontare il conflitto », scrive Bergoglio, «per
superarlo », ma «senza eluderlo»; si misura con «un enorme nemico: la
paura». Paura di che? Paura dei possibili estremismi, che dal conflitto
possono scaturire. Ma tale paura, se incontrollata, è destinata a condurre
«al peggiore estremismo che si possa toccare: l’“estremismo di centro”,
che vanifica qualsiasi messaggio». L’“estremismo di centro”! In un paese
come l’Italia, spesso arrivato a catastrofiche conclusioni proprio a causa di
un sistematico e prevaricante “estremismo di centro”, tale messaggio
dovrebbe risultare più comprensibile che altrove. Anche il riferimento alla
parresia s’inserisce in questo contesto: solo chi parla alto e libero può
vincere la paura.
Quali considerazioni si possono fare su posizioni, di questa natura? Su
Bergoglio sono stati scritti molti articoli (bellissimi quelli di Eugenio
Scalfari). Pochi, però, si sono soffermati sulla scaturigine storica delle sue
prese di posizione, che è inequivocabilmente gesuitica. I gesuiti, nel corso
della loro lunga storia, ne hanno combinate di tutti i colori, nella difesa
perinde ac cadaver della Chiesa di Roma. E però… Molti anni or sono ho
studiato a lungo la cultura gesuitica del Seicento in Italia. Mi risultò chiaro
allora che carattere perspicuo della cultura gesuitica, nei momenti
migliori, è sempre stato il tentativo «di operare la saldatura fra cultura
laica e cultura ecclesiastica, fra tradizione e rinnovamento… »; e questo su
base mondiale.
Se le cose stanno così, la domanda (provvisoriamente) finale di questa
ricostruzione è: quale rapporto esiste fra la centralità della parola-concetto
“conflitto” e la centralità della parola-concetto “misericordia”, alla quale
Papa Francesco ha voluto dedicare il Giubileo? La risposta più semplice è:
nessuno. “Misericordia” è parola evangelica, pochissimo usata in ambito
laico, come pochissimo “conflitto” in ambito ecclesiale. Sono passati
trent’anni dalla prima formulazione, padre Jorge Mario Bergoglio,
divenuto Papa Francesco, ha ripensato radicalmente le sue posizioni,
rientrando nell’ambito più tradizionale della cultura ecclesiastica. Come
tutte le soluzioni troppo semplici, anche questa però si presta a
un’obiezione di fondo. Una noticina al testo pubblicato da Civiltà cattolica
informa infatti che il testo è stato ripresentato «in forma rivista dal Santo
Padre ». Questo ci rende lecito pensare che nel pensiero di Papa Francesco
“conflitto” e “misericordia” possano stare insieme. Cioè: il prodotto di una
cultura laica può stare insieme con il prodotto tipico di una cultura
evangelico- cristiana. Non può esserci “misericordia” se non c’è stato
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“conflitto”; il “conflitto” è buono, anzi, addirittura indispensabile, se è
necessario per superare la paura, e superare la paura è necessario per
arrivare alla “misericordia”. Sarebbe troppo pretendere che Bergoglio,
divenuto Pontefice, dopo averci additato come il conflitto sia necessario
per attivare la misericordia, ci additi come la misericordia sia necessaria
per attivare il conflitto, motivo quest’ultimo inesauribile – e positivo,
quando c’è – delle azioni umane. Però la connessione possibile – il prima
e il dopo, insomma, che però è anche o può essere anche, un dopo e un
prima – almeno a noi laici e non credenti, risulta – credo – ben chiara.
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2441
Politica e democrazia
Costituzione, la controriforma di Renzi (di Maria
Luisa Pesante)
Di fronte all’obiettivo – ampiamente condiviso nel paese – di uscire dal
bicameralismo perfetto, Renzi, tra le molte soluzioni tecnicamente
possibili, ne ha scelto una così gravemente contestabile.
Perché di fronte all’obiettivo – ampiamente condiviso nel paese – di uscire
dal bicameralismo perfetto, conferendo la prerogativa dell’investitura
governativa a una sola camera, Renzi, tra le molte soluzioni tecnicamente
possibili, ne ha scelto una così gravemente contestabile, e contestata? La
domanda non riguarda le intenzioni di Renzi, ma la logica dello sconcio
costituzionale che sta per essere definitivamente approvato. Esso contiene
tre elementi fondamentali, il ritorno a un accentramento del potere
politico, la creazione di una seconda Camera con funzioni improprie e
distorsive, una soppressione del carattere rappresentativo di un organo
politico. Queste tre connesse operazioni vengono compiute nel modo
meno lineare possibile, in modo da creare oscurità e confusione, e quindi
il massimo di difficoltà a capire il merito della posta in gioco per i
cittadini che saranno chiamati a pronunciarsi.
In primo luogo, la controriforma renziana riduce in modo molto forte le
competenze delle Regioni, soprattutto in tema di politiche economiche e
sociali; e non definisce in nessun modo né il baluardo della loro residua
autonomia di scelta né lo strumento necessario ai loro compiti, ossia le
fonti di finanziamento da attribuire loro in via istituzionale, lasciandole
invece interamente all’arbitrio del governo. Al tempo stesso, però, nessuna
modifica riguarda i punti cruciali dell’istituzione regionale che in questi
anni, in generale, non ha certo brillato per efficienza, onestà, capacità
progettuale: la configurazione dei suoi organi, con un assurdo
presidenzialismo locale; le leggi elettorali fatte su misura delle contingenti
prevalenze partitiche; la mancanza di ogni efficace modalità di controllo
della spesa. Questo accentramento è coerente anche con una prassi di
governo che avoca in continuazione alla Presidenza del consiglio compiti
di decisione di pertinenza di vari ministeri; nomina commissioni ad hoc,
con compiti giudiziali o consultivi, sui più diversi problemi; usa i prefetti
– funzionari integerrimi, ma dipendenti dal governo – contro le
amministrazioni locali elette.
In secondo luogo, queste regioni svuotate, ma non riformate, vanno a
costituire, attraverso il proprio processo elettorale, il corpo politico del
nuovo Senato, a cui sono attribuite funzioni di intervento nelle revisioni
costituzionali, e nell’elezione di organi costituzionali di garanzia. In altre
parole, la repubblica italiana è assai lontana da uno stato federale, ma
attribuisce alla seconda Camera funzioni tipiche di quest’ultimo, in cui i
Länder, o i cantoni, o gli stati dell’Unione sono le unità originarie dal cui
patto nasce lo stato centrale, e perciò hanno funzioni costituzionali. Perciò
gli eletti dei corpi politici federati che costituiscono la seconda Camera
rappresentano, secondo diversi processi elettorali, un definito segmento di
cittadini, a cui rispondono direttamente, o indirettamente: a uno specifico
collegio elettorale, come negli Stati Uniti, o al governo parlamentare del
Land, frutto di una legge elettorale proporzionale, come nel Bund tedesco.
Da chi sono eletti – in terzo luogo – e a chi rispondono i membri del
previsto nuovo Senato italiano? Sono eletti dai cittadini con una scelta in
cui si confonde la funzione di consigliere ragionale e quella di presumibile
senatore, e poi sono nominati dal potere esecutivo della regione, a cui però
non dovranno rispondere, perché non avranno vincoli di mandato. La
risibile e penosa battaglia di una parte del PD per ottenere simile risultato,
come se questo fosse un decente sostituto di un’elezione pulita, ha
contribuito a oscurare il disegno complessivo della controriforma, in sé e
nella sua connessione con la legge elettorale per la Camera dei deputati.
Essa, a sua volta, magicamente trasforma una minoranza dei suffragi
elettorali in sicura maggioranza per un governo, con un disprezzo per la
rappresentatività del parlamento che non credo si fosse ancora vista. Se
poi il governo così benedetto sarà quello che il governo attuale era sicuro
di essere è tutto da scoprire: quando in un sistema oramai saldamente
tripolare,e per il momento molto bilanciato, la scelta dei partiti che vanno
al ballottaggio non dipende da una ragionevole soglia minima che può
lasciare in corsa più di due liste, come in Francia, ma dalla casualità di un
voto in più o in meno per tornare in gara al secondo turno, tutto può
succedere.
Accentramento presso il potere esecutivo centrale, funzioni improprie o
finte di organi con competenze costituzionali, svuotamento o distorsione
del rapporto tra elettori ed eletti ammontano a uno smantellamento
dell’equilibrio tra poteri che è parte integrante di qualsiasi costituzione. E
su questo terreno è particolarmente preoccupante quanto le maggioranze
previste per la nomina dei giudici costituzionali, pensate per un sistema
politico dotato di legge elettorale proporzionale, perdano gran parte del
proprio potere di tutela. Ogni costituzione ha infatti come funzione
primaria quella di porre limiti precisi al potere legislativo cui il popolo
sovrano si affida periodicamente; e i giudici costituzionali hanno il
compito di difendere quei limiti. Se a questo si aggiunge che, come si è
visto in occasione della controriforma e come si vedrà ancora di più se
essa entrerà in vigore, il potere esecutivo controlla il legislativo e non
viceversa, è lecito formulare l’ipotesi che ci stiamo avvicinando non già a
un qualche peggioramento della Costituzione, bella o brutta che fosse, ma
a un limite nei pressi del quale la carta non è più in grado di esercitare la
sua funzione di dare forma e limite al monopolio del potere.
Si può comprendere attraverso queste considerazioni perché un problema
che poteva essere consensualmente risolto sia diventato un tale oggetto di
contesa: l’obbiettivo raggiunto, e non interessa se per intenzione,
incompetenza tecnica, o semplice iattanza in contese meschine, va molto
al di là di quel problema. Bisogna ricordare che questo obiettivo è la
cristallizzazione di una lunga serie di attacchi alla Costituzione, cominciati
negli anni ’80, proseguiti nella stagione berlusconiana, sostenuti in
maniera irridente o felpata da più di un presunto custode della
costituzione, approvati da una rilevante parte dei produttori di opinione
pubblica nel centrosinistra. Senza che, tra chi a questo indirizzo era
contrario, si formasse, oltre all’onorevole opposizione, anche una almeno
implicita alternativa in positivo. La debolezza della risposta al progetto
neogollista di Quagliariello nella Commissione voluta da Napolitano e
Letta era già un segnale preoccupante. Il risultato che Renzi ottiene oggi è
molto di più di quel progetto, e un danno è stato prodotto, anche se quel
risultato gli fosse sottratto dal referendum. Senza formulare davanti ai
cittadini, almeno sommariamente, una chiara alternativa, sarebbe
impossibile dissipare la mistificazione che copre, e ancora più coprirà, la
situazione costituzionale, o piuttosto a-costituzionale, che si prefigura.
(fonte: Sbilanciamoci Info)
link: http://sbilanciamoci.info/6797-2/
Prospettiva di genere
#HeForShe: la parità di genere riguarda anche lui
(di Anna Toro)
“Uomini, vorrei cogliere questa opportunità per farvi un invito formale. La
parità di genere è anche un problema vostro”.
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E’ passato più di un anno dal famoso discorso dell’attrice britannica
Emma Watson di fronte alle Nazioni Unite, in occasione del lancio della
campagna “He for She” (“lui per lei”): una chiamata all’azione rivolta
soprattutto agli uomini affinché si attivino anch’essi in prima persona per
ridurre le disuguaglianze di genere. Il video ha raggiunto una viralità
straordinaria, e mentre le adesioni fioccavano in tutto il mondo – da capi
di stato come Barack Obama ad attori e personalità del mondo
accademico, sportivo e dello spettacolo – in Italia la campagna ha stentato
a decollare. A prendere le redini della situazione ci ha pensato il comitato
italiano di UN Women guidato da Simone Ovart, che il 15 dicembre l’ha
lanciata anche nel nostro paese, alla presenza del presidente del Senato
Pietro Grasso e della Vicepresidente Valeria Fedeli.
“La campagna ha come principale obiettivo quello di coinvolgere i
ragazzi, gli uomini, e di renderli più coscienti e consapevoli rispetto agli
ostacoli che impediscono la piena realizzazione della parità di genere in
Italia, in Europa e nel mondo” ha spiegato il presidente Grasso, che ha
rimarcato il punto focale della campagna, ovvero come “gli stereotipi
costruiti per le donne presentino una doppia faccia della stessa medaglia”
e come le pari opportunità e gli uguali diritti che spettano a ciascuno in
quanto individuo portino invece a “una società migliore con meno abusi e
prevaricazione per tutti”.
Sebbene siano tantissimi i progressi fatti dalla Conferenza di Pechino del
1995, molti paesi restano ancora parecchio indietro rispetto all’obiettivo
principale di ridurre in modo costante i numerosi gap esistenti tra uomo e
donna. Neanche le nazioni che si autoproclamano alfieri dei diritti umani e
della parità di genere sono immuni dal problema, anzi: violenze, sessismo,
stereotipi e luoghi comuni continuano a condizionare in modo subdolo e
sottile scelte e comportamenti in ogni campo della vita della donna, anche
nel nostro paese.
“La ricerca presentata dal dipartimento Pari opportunità della Presidenza
del Consiglio dei Ministri e dall' Istat ci consegna in effetti il ritratto di
una nazione dove gli stereotipi sessisti sono tuttora duri a morire –
sottolinea il presidente del Senato –. Ci dice che, nonostante per il 40 per
cento dei cittadini le donne sul subiscano evidente discriminazione di
genere, un italiano su due ritiene che gli uomini siano meno adatti ad
occuparsi delle faccende domestiche, e la metà della popolazione trova
giusto che, in un tempo di crisi, i datori di lavoro debbano dare la
precedenza ai maschi in ambito lavorativo. Ci dice che le donne sono più
svantaggiate nel trovare una professione adeguata loro titolo di studio, nel
fare carriera, nel conservare il posto di lavoro. Infatti il 44,1 per cento
delle donne contro il 19,9 per cento degli uomini ammette di aver
rinunciato ad opportunità lavorative per essersi dovuta occupare della
famiglia o dei figli”.
Il video presentato durante la stessa giornata dal presidente di Pubblicità
Progresso, Alberto Contri, non è scelto a caso: nel clip infatti si vede una
donna che viene mandata allo stesso colloquio di lavoro prima truccata
perfettamente da uomo, e poi come donna, sempre ripresa da una
telecamera nascosta. A parità di esperienze e di curriculum, quando si
arriva a parlare della retribuzione, ecco che con la donna il datore di
lavoro passa improvvisamente al “tu”, per poi dirle: “Ma non ti pare un
po’ troppo?” La classica domanda sui figli viene qui risparmiata, ma i
recenti casi di cronaca mostrano che anche l’attenzione che i selezionatori
destinano alla vita sentimentale delle donne non è la stessa che rivolgono a
quella dei maschi. A questo si aggiunga l’odiosa pratica delle dimissioni in
bianco in caso di maternità (problema che la legislazione italiana sta
cercando di arginare), o la difficoltà di fare carriera appunto perché
penalizzate da figli e famiglia (e la carenza di asili e l’inadeguatezza dei
permessi parentali per gli uomini non aiuta), o ancora le critiche e i
biasimi per le donne che scelgono la strada completamente opposta.
E poi c’è la violenza, quella fisica, verbale, psicologica, a dimostrare il
lungo lavoro che c’è ancora da fare, a partire soprattutto da un cambio di
mentalità. Si pensi al Rapporto sulla violenza contro le donne e gli
stereotipi di genere “Rosa shocking 2” curato da WeWorld Onlus insieme
a Ipsos, secondo cui in Italia sono 6 milioni 788 mila le donne che hanno
subito, nel corso della propria vita, una qualche forma di violenza fisica o
sessuale. Ma a sconvolgere sono soprattutto i dati che riguardano i ragazzi
e la loro percezione del fenomeno: per un giovane tra i 18 e i 29 anni su
cinque, quello che accade in una coppia non deve interessare agli altri; per
uno su quattro, la violenza sulle donne è dovuta a "raptus momentanei,
giustificati dal troppo amore”; per uno su tre, gli episodi di violenza
domestica "vanno affrontati dentro le mura di casa". E se oggi le donne
sono sempre più organizzate e consapevoli, sempre meno timorose di
definirsi femministe e di reagire e lottare contro abusi e discriminazioni,
coinvolgere gli uomini diventa l’imperativo che i promotori di HeForShe
vorrebbero portare avanti, al di là di paternalismi e, si spera, vuota
retorica.
Anche per questo in Italia si è deciso di puntare innanzitutto sul mondo
dello sport – di grande impatto per le giovani generazioni – grazie al
testimonial Filippo Magnini, due volte campione mondiale di nuoto, così
come sul mondo accademico, con 19 delle maggiori università italiane che
hanno già risposto positivamente e attivamente all’appello. La
Sottosegretaria all’Istruzione Angela D’Onghia ha espresso a questo
proposito pieno sostegno da parte del Miur, ricordando che attraverso il
comma 16 della Legge 107/2013 l’educazione alla parità di genere sarà
promossa in tutte le scuole. Un modo anche questo affinché della
campagna HeForShe non rimangano solo parole, quelle stesse sottoscritte
per ora da circa 560.000 persone nel mondo, ma che i promotori
vorrebbero portare presto a un milione. “C’è ancora molta strada da fare e
speriamo si organizzino altre iniziative – ha commentato il presidente de
Senato Pietro Grasso – ma i passi avanti si fanno insieme, donne e uomini
fianco a fianco, donne e uomini sullo stesso piano. Magari, mano nella
mano”.
(fonte: Unimondo newsletter)
link:
http://www.unimondo.org/Notizie/HeForShe-la-parita-di-genere-riguardaanche-lui-154521
Violenza
L’indice di Colonia (di Ida Dominijanni)
Un branco di maschi è un branco di maschi. A qualunque latitudine e di
qualunque colore (anzi: “colore presunto”) essi siano. Con rara onestà
intellettuale e morale, l’ha ricordato ieri su Repubblica Gabriele
Romagnoli, a partire dalla sua propria esperienza di studente universitario
bolognese, nonché di “maschio sessualmente arretrato”, che quarant’anni
fa partecipava, o assisteva, ai riti goliardici di carnevale che ogni anno
contemplavano caccia, molestie e palpeggiamento delle ragazze.
E lo si potrebbe ricordare con svariati altri esempi presi dal mondo
occidentale, bianco e libero, dove stupri di gruppo, molestie di varia
natura, femminicidi di varia efferatezza non smettono di accadere. Oppure
con altri esempi tratti dal circuito militare, occidentale e orientale,
settentrionale e meridionale, dato che sempre nelle guerre, e in qualunque
guerra, le donne continuano a essere la preda succulenta che gli eserciti di
maschi si contendono, o il marchio etnico che cercano di conquistare, o la
presunta altrui proprietà che cercano di rapinare.
Lo si ricorda per sminuire i fatti di Colonia, Francoforte, Amburgo,
Düsseldorf e Stoccarda? No. I fatti della notte di capodanno non vanno
sminuiti: sono fatti brutti, e, se fossero come si sospetta l’effetto di
un’azione coordinata di bande di maschi “nordafricani” – ma attenzione,
basta interpellare delle amiche che abitano in quelle città per sapere che la
notte di capodanno l’aria che tira è sempre la stessa –, sono fatti
inquietanti. Segnalano che la provocazione dei maschi islamici contro i
maschi occidentali tramite l’aggressione delle “loro” donne entra
ufficialmente, dichiaratamente, a far parte delle tattiche della guerra civile
globale in corso. E questa è certamente una pessima notizia, che non va
derubricata.
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Ma che non va nemmeno distorta, o piegata ad altri fini, l’altro fine
essendo il titillamento dell’ideologia dello “scontro di civiltà” cui si presta
egregiamente: che è precisamente quello che gli islamisti radicali cercano
di fomentare e dovrebbe essere precisamente la trappola in cui evitare di
cadere. Intendiamoci, c’è pochissimo di nuovo sotto il sole. È
dall’indomani dell’11 settembre americano che tutto l’occidente suona la
grancassa dell’oppressione femminile come marchio d’inferiorità della
cultura islamica, e della liberazione delle donne dal patriarcato islamico
come legittimazione per le guerre occidentali di “democratizzazione” del
Medio Oriente. Non per caso, questa grancassa suona soprattutto nel
fronte conservatore americano ed europeo, che è tanto pronto a difendere
la libertà femminile delle donne contro l’aggressione degli “altri” maschi
quanto è pronto a tacitarla, all’occorrenza, in casa propria: che dire
dell’allarme per i fatti di Colonia di un commentatore come Sallusti, che
ai tempi del Berlusconi-gate non aveva mezzo dubbio sulla libertà
maschile di comprarsi il corpo femminile? Oppure che dire delle certezze
del Corriere della Sera, che dagli attentati di Parigi porta avanti una
strenua battaglia a difesa dello “stile di vita” occidentale assimilando la
libertà femminile alla libertà di andare a teatro o a prendersi un aperitivo
al bar? Difese sospette, cui consegue sempre l’ingiunzione alla sinistra, o a
ciò che ne resta, a non sacrificare i diritti delle donne alla bandiera del
multiculturalismo.
Ma qui non è questione di multiculturalismo, se per multiculturalismo si
intende il rovescio dello scontro di civiltà, ovvero l’accettazione acritica di
una cultura diversa dalla propria e la giustificazione delle sue gerarchie e
sopraffazioni interne, a partire dalla gerarchia uomo/donna e dalla
sopraffazione delle donne da parte degli uomini. I branchi di maschi che
assalgono donne non sono giustificabili in nome di niente, né nella cultura
islamica né nella cultura occidentale, né fra gli immigrati di Colonia né nei
campus americani o nelle scuole “bianche” italiane. Assumere davvero lo
stato dei rapporti fra i sessi e la libertà femminile come indici dello stato
di una civiltà – o meglio, della crisi di civiltà in cui il mondo intero si
trova – significa affrontare le contraddizioni comuni e trasversali alle
civiltà che vengono rappresentate come contrapposte e in lotta fra loro.
Significa combattere la brutalità del patriarcato islamico come i residui, o i
rigurgiti, patriarcali nelle democrazie occidentali. E viceversa: significa
anche e forse oggi soprattutto riconoscere i segni positivi di libertà
femminile non solo nelle democrazie occidentali, ma anche nei paesi più
patriarcali dei nostri. Solo pochi giorni fa Shirin Neshat, un’artista che in
materia di rapporti tra i sessi nel mondo islamico non ha uguali e non teme
confronti, in un’intervista sul Manifesto interpretava l’efferatezza contro
le donne nel radicalismo islamico come il segno non tanto di una
permanente oppressione femminile, quanto di una inquietante arretratezza
e reattività della cultura politica di fronte a una libertà femminile sempre
più diffusa.
È una sindrome che in occidente conosciamo bene: il patriarcato diventa
più aggressivo proprio quando scricchiola. Se cominciassimo a leggere il
disordine mondiale nei termini di una crisi planetaria del patriarcato, e non
nei termini autorassicuranti di un Eden occidentale della libertà femminile
in guerra contro l’inferno patriarcale islamico, probabilmente
cominceremmo finalmente a fare un po’ d’ordine, a capodanno e tutti i
giorni.
(fonte: Internazionale)
link:
http://www.internazionale.it/opinione/ida-dominijanni/2016/01/08/coloniacapodanno-molestie
Notizie dal mondo
Europa
Gabbia Europa (di Stefano Galieni)
Avete presente l’Europa che conoscevamo fino ad un anno fa?
Scordatevela, non esiste più. Ha gettato la maschera. È diventata
ufficialmente quello che in molti capivamo sarebbe diventata. Una
moneta, un sistema gerarchico di rapporti sociali fondati sulla ricchezza.
La libera circolazione delle merci e dei capitali. Il controllo da Stato
totalitario delle persone.
Si esagera? Proviamo a guardare da vicino. Sin dalla sua fondazione, dai
trattati che hanno definito lo Spazio Schengen. Solo alcuni potevano
circolare senza controlli di sorta. E per entrare a far parte di questo spazio
privilegiato bisognava di saper controllare le frontiere esterne e saper
cacciare chi non aveva diritto (ricchezza sufficiente) a restare nel
Continente.
Lo Spazio Schengen nasce prima dell’Europa stessa per affermare chiaro e
tondo a chi si avvicina: «Noi saremo una fortezza. Faremo entrare chi ci
serve, da sfruttare, magari anche da inserire, ma ci terremo il privilegio di
cacciare e respingere chiunque. Si per ora rispetteremo qualche
Convenzione internazionale». E dopo che era crollato con gioia di molti di
noi, il Muro di Berlino, simbolo di un’epoca cupa, di muri, lentamente, se
ne alzavano altri. E si creavano spazi interni di reclusione per chi doveva
essere identificato ed espulso.
Sistemi fallimentari di detenzione, privazione della libertà personale e
della dignità, luoghi di violenza sparsi per tutta Europa, oltre 400 ad un
certo punto. E chi voleva entrare in UE doveva a sua volta costruirne e
contemporaneamente assicurarsi che i paesi limitrofi ne creassero in loco,
per esternalizzare le frontiere ed allontanare il pericolo di un’invasione.
C’era l’invasione? No. Ma in questa maniera milioni di persone sono
entrate in condizioni di irregolarità e precarietà, hanno lavorato, non solo
in Italia (in questo leader del settore) al nero e sottopagati, contribuendo
ad abbassare anche i salari e le condizioni di vita degli autoctoni e
scatenando guerre fra ultimi e penultimi.
Il sistema si è per anni gerarchizzato: all’ultimo posto le donne,
ovviamente, e poi via via chi riusciva ad imporsi e a riscattarsi, attraverso
i mille cavilli con cui ogni singolo Stato ha gestito la questione, in
un’ottica di controllo del mercato del lavoro su base “etnica”. Ogni uomo,
donna che entrava nel “paradiso” ci entrava a condizioni specifiche, ogni
volta scavalcando muri o “bruciando frontiere”, ma ci entrava con una
speranza di ascesa sociale. E oggi?
Oggi il mercato del lavoro si è ristretto, soprattutto nei paesi del Sud
Europa che grazie alle politiche di austerity e di liberismo sfrenato, hanno
visto frantumarsi interi settori produttivi. Nel frattempo il mondo davanti a
noi continuava ad esplodere, grazie a conflitti provocati anche da interessi
Occidentali e alle ritorsioni terroristiche, grazie al frantumarsi di Stati e
all’imporsi di nuovi orizzonti reazionari altrettanto catastrofici come quelli
che ci governano.
Oggi abbiamo un Europa fondamentalista in un contesto esterno ove altri
fondamentalismi attecchiscono, anche per reazione. Non è lo “Scontro di
civiltà” tanto paventato da una visione perennemente colonialista ed
eurocentrica del pianeta, ma quello fra poteri diffusi, ognuno a suo modo
nefasto.
I risultati sono muri e frontiere.
Il risultato è un bilancio da guerra di morti nel Mediterraneo, vera fossa
comune, oltre 25 mila vittime in 15 anni. Vittime delle leggi e della
guerra, non del fato, del mare cattivo, della nave in panne o dei biechi
14
trafficanti, quelle sono concause. E questa è una frontiera.
E poi ci sono quelle frontiere sorte nei Balcani, da quando l’emergenza
umanitaria siriana, per tre anni dimenticata, ha bussato alle nostre porte.
Mentre i potenti si divertivano col risiko della geopolitica applicato a
esseri umani in carne ed ossa: Turchia, Grecia, Bulgaria, Ungheria,
Slovenia, Repubblica Ceca, ergevano lentamente muri, reti di filo spinato,
inutili quanto crudeli, funzionali ad ottenere risorse dai bilanci UE.
E intanto si presidiava il confine fra Ventimiglia e Mentone, fra Francia e
Italia, quello del Brennero, fra Italia ed Austria, a breve, molto
probabilmente, fra Italia e Slovenia, quello di Calais, fra Regno Unito e
Francia.
Oggi – se ne parla poco – in quella che chiamano la giungla di Calais,
vivono in condizioni disumane 6000 persone, ne sono morte 11 di stenti in
pochi giorni a dicembre, nel silenzio assoluto.
E poi i vecchi reticolati in Marocco delle enclave spagnole di Ceuta e
Mililla, dove si spara a chi esce, il Mar Egeo, dove nel tentativo di
scappare dalla Turchia per andare verso la Grecia sono morte nel 2015
oltre 700 persone, molti i bambini. Il 2016 si è inaugurato con altri 36
morti e anche lì molti i minori.
La foto di Aylam, il bambino siriano trovato morto sulla spiaggia di
Bodrum, Turchia, ha fatto male, come hanno fatto male e commosso i
naufragi che sono continuati al largo della Libia, ma si dimentica
facilmente.
Basta erigere muri e allontanare il problema.
Ma questo non basta. L’impossibilità della Grecia a fermare le persone ha
portato l’UE a proporre la sospensione per due anni e per tutto il
continente, delle misure di libera circolazione nello Spazio Schengen. La
minaccia è rientrata dopo che la Grecia, con lo stesso ricatto con cui ha
dovuto accettare il memorandum economico, ha dovuto accettare le
guardie di frontiera e il personale di Frontex per fermare, controllare,
cacciare.
Oggi la libera circolazione sta morendo, anche con l’alibi dell’“allarme
terrorismo”, e si utilizzano due strumenti a tenaglia.
Da una parte le frontiere si chiudono, dal civile Nord Europa, Danimarca,
Svezia, Germania, in Belgio e in Francia, dove ormai il controllo al
confine riguarda tutti. Si promette di accogliere un numero limitato di
richiedenti asilo ma poi prevalgono gli egoismi dei singoli Paesi, prevale il
fatto che, al di là di alcuni gesti propagandistici, si vorrebbe fermare
ognuno nel paese in cui è scappato.
E si accettano come rifugiati solo coloro che provengono dai paesi in cui
almeno il 75% dei richiedenti asilo ottiene risposta positiva, attualmente
Siria, Iraq, Eritrea, Repubblica Democratica del Congo. Gli altri sono
“migranti economici” e debbono tornare nel loro paese che è considerato
“sicuro”.
Leggiamo di quanto accade in Nigeria, Afghanistan, Pakistan, Turchia,
Somalia, solo per citare alcuni esempi, ci indigniamo, ma poi lasciamo che
le persone vengano deportate negli stessi luoghi in cui si muore ogni
giorno. E nel frattempo ci si rimpalla le persone come fossero pacchi, fra
un Paese e l’altro, usando un’altra volgare violenza, il Regolamento di
Dublino che obbliga a fermarsi nel paese in cui, spesso a forza, vengono
prese le impronte ai profughi.
E la seconda tenaglia è quella dei soldi. Soldi da dare ai paesi terzi
affinché fermino i profughi, certo per aiutarli, si dice. Il rapporto di
Amnesty International sulla Turchia parla di costanti violazioni dei diritti
basilari di chi è trattenuto nei centri ma nel frattempo l’UE destina 3 mld
di euro alla Turchia per aiuti.
Saranno utilizzati per alzare le mura delle gabbie, per riportare in patria
chi non è siriano o iracheno, per imprigionare minoranze come quella
kurda. La Turchia di Erdogan, quello che cita un certo Hitler come
esempio di presidenzialismo, incassa e ricatta: «O ci date i soldi o noi i
2,200 mila profughi non riusciamo a “trattenerli”.
E soldi ai regimi africani, in cambio della costruzione di campi per
rifugiati per ora in Niger, ma poi chissà magari anche in Sudan e Mali. Il
Processo di Khartoum, quello con cui si è ridata legittimità a dittatori
atroci come Isaias Afawerke in Eritrea, va avanti, l’incontro che c’è stato a
Malta a novembre, fra UE e Stati Africani non ha ancora prodotto i
risultati sperati per l’avarizia degli Stati europei ma l’intenzione è quella
di far divenire anche paesi a sud della incontrollabile Libia, campi di
concentramento pagati dall’UE.
argomenti addotti da Israele contro la decisione dell’Unione Europea di
etichettare i prodotti delle colonie, dimostrando l’impatto devastante che il
sistema delle colonie israeliane ha avuto sull’economia palestinese
togliendo ai palestinesi la terra, l’acqua e altre risorse e creando una
massiccia disoccupazione. Affrontano anche la condizione di quei
lavoratori palestinesi – una minoranza della forza lavoro – che sono stati
obbligati a guadagnarsi da vivere proprio nelle colonie che hanno
danneggiato in modo così grave l’economia dei palestinesi e più in
generale i loro diritti. Proseguono esaminando il passo dell’Unione
Europea (UE) e suggeriscono le iniziative successive che l’UE dovrebbe
prendere per rispettare pienamente le leggi internazionali ed europee1.
Il contesto
1.800 milioni di Euro sono già disponibili, la stessa somma dovrebbe
essere messa a disposizione come sommatoria di raccolta dai singoli Stati
e quella ancora manca. Intanto si sperimentano collaborazioni con le
polizie delle dittature per fermare gli arrivi delle persone.
In questo orrido gioco Italia e Grecia dovranno fare una parte consistente
del lavoro sporco. Avvalendosi di risorse europee e dell’Agenzia Frontex,
dovranno, nel silenzio degli organismi internazionali, provvedere ai
rimpatri. Il meccanismo ferruginoso è già pronto: chi arriva finirà negli
hotspots, dove difficilmente potrà chiedere asilo.
Una parte consistente di coloro che fuggono da Paesi non ritenuti a rischio
(la richiesta di asilo dovrebbe avere carattere totalmente individuale)
potrebbe essere rimpatriati. Ma dove? Nel proprio paese o in altri di
transito? Cosa importa. L’importante è che non tocchino il sacro territorio
europeo.
Il 2016 si è aperto con la morte per freddo in Turchia, di un bambino
siriano di 4 mesi, ma questo non cambia nulla, la macchina deve andare
avanti. Inceppiamolo questo meccanismo infernale, con la politica, quella
alta che ancora a volte riesce a farsi flebilmente sentire, quella delle città
meticce dove ci si aiuta anche in emergenza e in quella sociale, dove
invece di far diventare i profughi fonte di profitto per delinquenti si può
provare a costruire vera alternativa. Inceppiamola con vera informazione,
raccontiamo perché si fugge, da cosa si fugge, per colpa di chi e in quali
reali dimensioni, raccontiamo il fallimento di una politica estera europea
misera e criminale, facciamo comprendere che il pericolo è in chi ci
comanda e non in chi bussa.
Altrimenti si resta nel gioco delle mille frontiere, in cui, come nel Gioco
dell’Oca che qualcuno forse ricorda, molto spesso tiravi i dadi, tentavi la
sorte e una casella beffarda e maligna ti faceva tornare da dove eri partito.
L’Europa di oggi somiglia troppo a quel tabellone. A percorrerlo non sono
pedine ma persone. E si diffidi di chi dice “non mi riguarda”. In un anno
oltre 100 mila cittadini italiani sono andati a cercare fortuna in altri paesi
europei. Anche i vostri figli potrebbero diventare simili a quelle pedine.
(fonte: Zeroviolenza)
link: http://www.zeroviolenza.it/editoriali/item/73680-gabbia-europa
Palestina e Israele
Come le colonie israeliane soffocano l’economia
palestinese (di Nur Arafeh, Samia al-Botmeh, Leila
Farsakh)
Israele vede le linee giuda recentemente emanate dall’Unione Europea per
l’etichettatura di alcuni prodotti delle sue colonie come la punta
dell’iceberg. Teme che ciò aprirà la porta a misure più dure contro la sua
colonizzazione illegale e sta mettendo in campo le forze filo-israeliane in
Europa e negli Stati Uniti. Uno degli argomenti continuamente ripetuti è
che l’etichettatura danneggia i lavoratori palestinesi.
In questo documento la responsabile politica di Al-Shabaka Nur Arafeh e
le consulenti politiche Samia al-Botmeh e Leila Farsakh sfatano gli
15
Ci sono voluti anni all’Unione Europea per sviluppare la sua posizione
sull’etichettatura dei prodotti delle colonie che Israele ha costruito sui
territori palestinesi e siriani [le Alture del Golan. Ndtr.] fin da quando li ha
occupati nel 1967. La Commissione Europea ha emanato una decisione
nel 1998 in cui si sospettava che Israele stesse violando l’accordo di
associazione con l’UE, firmato nel 1995 e entrato in vigore nel 2000, che
esentava i prodotti israeliani dal pagamento di dazi doganali. Nel 2010 la
Corte Europea di Giustizia ha confermato che i prodotti provenienti dalla
Cisgiordania non beneficiavano del trattamento doganale preferenziale in
base all’accordo di associazione dell’UE con Israele e che le affermazioni
delle autorità israeliane non erano vincolanti per le autorità doganali
dell’UE.
Tuttavia è stato solo nel 2015 che l’UE ha preso la decisione a lungo attesa
di adeguare le proprie azioni alle sue stesse regole, in parte come risposta
alla crescente pressione da parte della società civile perché riconoscesse
l’illegalità delle colonie. Il 10 settembre il Parlamento Europeo ha
approvato una risoluzione che chiede l’etichettatura dei beni delle colonie
israeliane in quanto prodotti negli “insediamenti israeliani” piuttosto che
in “Israele” e che garantisce che non beneficino del trattamento
preferenziale sugli scambi in base al Trattato di Associazione tra l’Ue ed
Israele. Due mesi dopo, l’11 novembre, l’UE ha emanato le linee guida
attese da molto tempo riguardo all’etichettatura, che ha definito in un
linguaggio molto discreto come una “Comunicazione Interpretativa”.
Tuttavia i prodotti delle colonie saranno ancora commerciati con l’Unione
Europea (EU), lasciando ai consumatori la “decisione informata” se
comprare o meno questi prodotti.
Israele sostiene che l’iniziativa dell’UE è “discriminatoria” e che è
dannosa per l’economia palestinese in generale e per i lavoratori
palestinesi in particolare. E’ chiaramente un tentativo da parte di Israele di
distogliere l’attenzione internazionale dalla realtà dell’illegale
colonizzazione israeliana, dei suoi effetti profondamente negativi per
l’economia palestinese e degli obblighi morali e giuridici dell’UE. In
effetti, l’intera colonizzazione da parte di Israele è illegale in base al
diritto internazionale, come riconfermato dalla Corte Internazionale di
Giustizia nel suo “Parere consultivo” del 2004 sul Muro di Separazione
costruito da Israele. Il trasferimento da parte di Israele della sua
popolazione nei territori occupati è una violazione della Convenzione
dell’Aja del 1907 e della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949.
Lo sfruttamento economico dei Territori Palestinesi Occupati da parte
delle colonie
Il presente rapporto riguarda i territori occupati da Israele nel 1967 – la
Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, la Striscia di Gaza e le Alture
del Golan, e più specificamente le colonie israeliane e gli avamposti
costruiti nei Territori Palestinesi Occupati (TPO)2. Non affronta tutte le
violazioni delle leggi internazionali e dei diritti dei palestinesi da parte di
Israele.
Il fatto che la costruzione delle colonie israeliane si sia basata sullo
sfruttamento economico dei TPO è stato ampiamente documentato. Ciò ha
incluso la confisca di ampie zone di terra palestinese e la distruzione di
proprietà palestinesi per utilizzarle a scopi edilizi ed agricoli; la confisca
di risorse idriche, al punto che 599.901 coloni utilizzano sei volte più
acqua che tutta la popolazione palestinese della Cisgiordania, composta da
2.86 milioni di abitanti; l’appropriazione di luoghi turistici e archeologici;
lo sfruttamento di cave, miniere, risorse del Mar Morto e di altre risorse
naturali non rinnovabili dei palestinesi, come sarà argomentato in seguito.
Le colonie sono anche state agevolate da un sistema infrastrutturale di
strade, di checkpoint e dal Muro di Separazione, portando alla creazione
di bantustan isolati in Cisgiordania e all’appropriazione di altra terra
palestinese.
In conseguenza di ciò attualmente le colonie israeliane controllano circa il
42% della terra della Cisgiordania. Questo dato comprende aree edificate
così come i confini municipali delle colonie israeliane. Questi confini
attualmente comprendono un’area 9,4 volte più ampia di quelle edificate
nelle colonie della Cisgiordania e sono proibiti ai palestinesi che non
hanno un permesso per accedervi.
La maggioranza delle colonie della Cisgiordania sono costruite nell’Area
C, che rappresenta il 60% della Cisgiordania e che è molto ricca di risorse
naturali3. Secondo uno studio della Banca Mondiale, il 68% dell’Area C è
stato destinato alle colonie israeliane, mentre meno dell’1% è stato
concesso all’utilizzo da parte dei palestinesi.
Gerusalemme creati da Israele dopo l’inizio dell’occupazione, nel 1967.
Un’economia palestinese strangolata dalle colonie
La colonizzazione illegale da parte di Israele ha avuto decisamente un
effetto profondamente negativo sull’economia palestinese. Il controllo
israeliano su acqua e terra ha contribuito a ridurre la produttività del
lavoro del settore agricolo ed il suo contributo al PIL: l’apporto di
agricoltura, settore forestale e della pesca è sceso dal 13,3% del 1994 al
4,7% nel 2012, ai prezzi attuali. Lo sversamento di rifiuti solidi e liquidi
dalle zone industriali delle colonie nei TPO ha ulteriormente inquinato
l’ambiente, la terra e l’acqua dei palestinesi.
L’accesso limitato alle cospicue risorse del Mar Morto ha impedito ai
palestinesi di sviluppare il settore dei cosmetici e altre industrie, basate
sull’estrazione di minerali. Uno studio della Banca Mondiale stima che se
non ci fossero state restrizioni alla disponibilità di queste risorse, la
produzione e la vendita di magnesio, potassio e bromo avrebbe
comportato un valore annuo di 918 milioni di dollari [circa 844 milioni di
euro. Ndtr.] per l’economia palestinese, l’equivalente del 9% del PIL nel
2011.
All’interno dell’Area C lo sfruttamento da parte delle colonie israeliane è
concentrato nella Valle del Giordano e nella parte settentrionale del Mar
Morto. Le colonie israeliane controllano l’85,2% di queste zone, che sono
le terre più fertili della Cisgiordania. L’abbondante disponibilità di acqua e
il clima favorevole forniscono le migliori condizioni per l’agricoltura. Di
conseguenza producono il 40% delle esportazioni di datteri da Israele. Nel
contempo i palestinesi hanno il divieto di vivere lì, costruire o persino
pascolare il loro bestiame con il pretesto che si tratta di “terre statali”, di ”
zona militare” oppure di “riserve naturali”.
Le drastiche limitazioni nell’accesso alle miniere e alle cave nell’Area C
ha anche ostacolato la possibilità per i palestinesi di estrarre ghiaia e
pietre. Il valore lordo annuo stimato come perdita per l’economia
palestinese per l’estrazione da cave e miniere è di 575 milioni di dollari
[circa 529 milioni di euro. Ndtr.]. In totale, si stima che le limitazioni
all’accesso ed alla produzione nell’Area C sono costate all’economia
palestinese 3.4 miliardi di dollari [più di 3.1 miliardi di euro Ndtr.]. Come
esaminato in un precedente documento di Al-Shabaka, Israele controlla
persino l’accesso dei palestinesi al loro stesso campo elettromagnetico –
una politica a cui contribuiscono le colonie – creando perdite tra gli 80 ed
i 100 milioni di dollari annui [dai 73 ai 92 milioni di euro. Ndtr.] per gli
operatori palestinesi delle telecomunicazioni.
Israele ricorre anche ad altri metodi per espellere i palestinesi dalle loro
terre, distruggendo le case, proibendo la costruzione di scuole e ospedali e
negando ai residenti l’accesso a servizi essenziali come l’elettricità,
l’acqua e l’escavazione di pozzi. Al contrario, molte colonie sono definite
“aree di priorità nazionale”, permettendo loro di ricevere incentivi
finanziari dal governo israeliano nei settori dell’educazione, della salute,
dell’edilizia, dello sviluppo industriale ed agricolo4.
Inoltre l’assenza di contiguità territoriale all’interno della Cisgiordania,
unita ad altre restrizioni israeliane al movimento ed all’accesso, ha
frammentato la sua economia in piccoli mercati non connessi tra loro. Ciò
ha incrementato i tempi ed i costi di trasporto delle merci da una zona
della Cisgiordania ad un’altra e dalla Cisgiordania al resto del mondo. In
seguito a ciò, la competitività dei prodotti palestinesi sui mercati locali e
internazionali è stata indebolita.
I proventi israeliani derivanti dallo sfruttamento della terra palestinese e
delle risorse della Valle del Giordano e dell’area settentrionale del Mar
Morto sono stimati attorno ai 500 milioni di shekel all’anno (circa 118
milioni di euro). Per avere un’idea dell’impatto sull’economia palestinese,
vale la pena di notare che i costi indiretti delle restrizioni imposte da
Israele all’accesso palestinese all’acqua nella Valle del Giordano – e di
conseguenza l’impossibilità di coltivare la loro terra – erano pari a 663
milioni di dollari [circa 616 milioni di euro. Ndtr.], l’equivalente
dell’8,2% del prodotto interno lordo palestinese nel 2010.
Oltretutto, poiché l’economia in Cisgiordania è stata viziata
dall’imprevedibilità e dall’incertezza – il che non è sorprendente, in
quanto l’area è sottoposta a un’occupazione militare – il costo ed i rischi
di fare impresa sono aumentati. Ciò ha peggiorato il clima per gli
investimenti, limitato lo sviluppo economico e aumentato la
disoccupazione e la povertà. Nel complesso si stima che il costo diretto ed
indiretto dell’occupazione sia stato di circa 7 miliardi di dollari [6,4
miliardi di euro. Ndtr] nel 2010 – circa l’85% del PIL palestinese
stimato5.
Nel frattempo Israele continua a costruire nuove colonie. Netanyahu,
durante il suo discorso all’US Center for American Progress
[organizzazione liberal vicina ai Clinton e ad Obama. Ndtr.] in novembre,
ha sostenuto che nessuna nuova colonia è stata edificata negli ultimi
vent’anni. Di fatto 20 colonie israeliane sono state approvate durante i
suoi mandati, tre delle quali erano avamposti illegali che sono state
successivamente regolarizzate dal governo.
Spossessati: i lavoratori palestinesi nelle colonie israeliane
La manifestazione più recente della politica di colonizzazione israeliana è
la ripresa della costruzione del Muro di Separazione nei pressi di Beit Jala
in Cisgiordania, che di fatto separa gli abitanti del villaggio dalle terre
coltivate di loro proprietà nella valle di Cremisan. Il percorso di questo
tratto di Muro è stato disegnato per permettere l’annessione della colonia
di Har Gilo, a sud di Gerusalemme, mettendola in collegamento con la
colonia di Gilo, che si trova all’interno dei confini del Comune di
16
L’economia palestinese è stata quindi colpita da fragilità strutturali e
settoriali che sono principalmente dovute all’occupazione israeliana e alla
colonizzazione. L’espropriazione di terra, acqua e risorse naturali da parte
delle colonie e il controllo restrittivo di Israele sui movimenti,
l’accessibilità e altre libertà ha indebolito la base produttiva
dell’economia, che non è più in grado di generare occupazione e
investimenti sufficienti ed è sempre più dipendente dall’economia
israeliana e dagli aiuti dall’estero.
Questa dura realtà economica è il fattore principale che porta alcuni
palestinesi a lavorare nelle colonie israeliane – si stima che siano state
solo il 3,2% del totale degli occupati della Cisgiordania nel terzo
quadrimestre del 20156. Invece di essere auto-sufficienti proprietari dei
mezzi di produzione, i palestinesi sono stati spossessati delle loro risorse
economiche e dei loro diritti dall’occupazione militare e dalle colonie
israeliane e sono stati trasformati in manodopera a basso costo.
Infatti la maggior parte dei lavoratori palestinesi nelle colonie è impiegata
in lavoro di bassa qualifica e retribuzione: almeno la metà di loro è
utilizzata nel settore edile. Ciò significa che meno del 2% del totale della
popolazione palestinese occupata sarebbe colpita nel caso di chiusura
delle industrie israeliane nelle colonie.
I lavoratori palestinesi nelle colonie sono sottoposti a condizioni di lavoro
difficili e a volte pericolose, e si stima che il 93% di loro non abbia un
sindacato che li rappresenti. Di conseguenza sono soggetti a licenziamenti
arbitrari ed alla revoca del permesso di lavoro se rivendicano i propri
diritti o cercano di sindacalizzarsi. Una ricerca del 2011 ha scoperto che la
maggioranza dei lavoratori palestinesi avrebbe lasciato il proprio lavoro
nelle colonie se avesse trovato un’alternativa nel mercato del lavoro
palestinese.
Mentre si sostiene che i lavoratori palestinesi nelle colonie ricevono un
salario superiore a quello del mercato del lavoro palestinese, è il caso di
notare che sono pagati in media meno della metà del salario minimo
israeliano. Ad esempio a Beqa’ot, una colonia israeliana nella Valle del
Giordano, i palestinesi sono pagati il 35% del salario minimo legale. E’ da
notare che gli impianti di impacchettamento della Mehadrin, il più grande
esportatore israeliano di frutta e verdura nell’UE, si trovano in questa
colonia.
In breve, è proprio il colonialismo di insediamento israeliano che nuoce ai
palestinesi, molto più che l’etichettatura da parte dell’UE dei prodotti
delle colonie. Quello di cui i palestinesi hanno bisogno non è più lavoro
nelle colonie o più dipendenza dall’economia israeliana. Piuttosto quello
di cui i palestinesi hanno bisogno è lo smantellamento delle colonie
israeliane, la fine dell’occupazione e la piena realizzazione dei loro diritti
in base alle leggi internazionali. Solo allora potranno realmente migliorare
la base produttiva dell’economia palestinese, generare opportunità di
lavoro, garantirsi autonomia e auto-sufficienza e smettere di essere
dipendenti dagli aiuti internazionali.
La distanza tra la retorica dell’UE e le sue azioni
E’ contro questo contesto che il ruolo dell’UE nei riguardi delle colonie
israeliane deve essere messo in discussione. L’UE riconosce che le colonie
israeliane costruite nei TPO sono illegali. La sua “Comunicazione
Interpretativa” stabilisce chiaramente che l’UE, “in linea con le leggi
internazionali, non riconosce la sovranità di Israele sui territori occupati
da Israele dal giugno 1967.” Tuttavia l’UE continua ad importare beni
dalle colonie israeliane (soprattutto frutta e verdura fresche coltivate nella
Valle del Giordano) per un valore annuo stimato in 300 milioni di dollari
[276 milioni di euro. Ndtr.]. E’ più di 17 volte il valore medio annuale dei
prodotti esportati dai TPO nell’UE tra il 2004 e il 2014.
Nonostante la “Comunicazione Interpretativa”, rimane una grande
discrepanza tra i discorsi dell’UE e le sue azioni, e la “Comunicazione” è
insufficiente per adempiere agli obblighi legali dell’UE per varie ragioni.
In primo luogo, non tutti i prodotti provenienti dalle colonie israeliane
devono essere etichettati. Solo la frutta fresca e le verdure, il pollame,
l’olio d’oliva, il miele, l’olio, le uova, il vino, i cosmetici e i prodotti
organici sono soggetti all’indicazione obbligatoria dell’origine. Cibi preconfezionati e prodotti industriali che non siano cosmetici sono soggetti
solo all’indicazione volontaria dell’origine.
In più le imprese israeliane che operano nelle colonie possono facilmente
aggirare l’etichettatura dei loro prodotti. Ad esempio, possono mettere
insieme beni prodotti nelle colonie con altri prodotti in Israele per evitare
che siano etichettati come “prodotti nelle colonie”. Possono utilizzare
l’indirizzo di un ufficio all’interno dei confini di Israele
internazionalmente riconosciuti come l’indirizzo ufficiale dell’impresa
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piuttosto che l’effettivo luogo di produzione. L’UE dovrebbe anche
rilevare il fatto che le imprese che etichettano i propri prodotti come
provenienti dalle colonie possono ricevere delle compensazioni dal
governo israeliano per le eventuali perdite. Si stima che il bilancio dello
Stato abbia destinato circa 2 milioni di dollari [1,8 milioni di euro. Ndtr.]
ogni anno negli ultimi 10 anni per compensare le imprese israeliane delle
colonie per le perdite cui devono far fronte a causa della fine del
trattamento doganale di favore e di altre agevolazioni.
Nel contempo le stesse linee guida per l’etichettatura sono un’arma
spuntata, in quanto “l’applicazione delle attuali disposizioni ricade sotto la
responsabilità principale degli Stati membri”, come stabilisce la
“Comunicazione Interpretativa” dell’UE. Cosa ancora più importante,
limitandosi ad etichettare i prodotti provenienti dalle colonie e
mantenendo al contempo relazioni commerciali e investimenti con queste
ultime, l’UE sta in realtà continuando a finanziare l’espansione degli
insediamenti ed a perpetuare l’occupazione israeliana, lo sfruttamento
delle risorse naturali e l’appropriazione delle terre palestinesi – una
situazione illegale che l’UE sostiene di non “riconoscere”.
Inoltre, in chiara opposizione con quanto sostiene, l’UE intraprende
progetti con imprese israeliane che sono profondamente coinvolte nelle
colonie e nell’occupazione. Per esempio, l’UE ha approvato 205 progetti
con la partecipazione israeliana a “Horizon 2020”, il più vasto programma
di ricerca e innovazione dell’UE. Le imprese israeliane che vi partecipano
comprendono Elbit, che è direttamente coinvolta nella costruzione degli
insediamenti e del Muro; le Israel Aerospace Industries [industrie
aerospaziali israeliane], che forniscono i macchinari necessari per la
costruzione del Muro; l’università Technion, che lavora con il complesso
militare israeliano. Banche europee sono anche legate a banche israeliane
che forniscono mutui ipotecari ai coloni, finanziano le autorità israeliane
nelle colonie e nella costruzione di insediamenti che godono del sostegno
da parte dello Stato e altre attività economiche che promuovono la
colonizzazione.
Pertanto la “Comunicazione Interpretativa” dell’UE sembra essere
principalmente un atto simbolico, attraverso il quale [l’UE] risponde solo
formalmente alla crescente richiesta della società civile europea, sempre
più favorevole al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le
Sanzioni (BDS) guidato dai palestinesi, che vuole che essa rispetti i propri
regolamenti e che Israele sia chiamato a rendere conto delle proprie
azioni. In base alle leggi internazionali gli Stati terzi sono obbligati a non
riconoscere come lecita una situazione illegale, a non fornire alcun tipo di
assistenza per mantenere una situazione illegale e a collaborare per
garantire che Israele rispetti le leggi umanitarie internazionali. In altre
parole, l’UE e i suoi Stati membri dovrebbero fare quanto possibile per
porre fine alla colonizzazione da parte di Israele.
Come l’UE potrebbe rispettare meglio la legge
L’UE dovrebbe iniziare a trasformare le sue parole in misure concrete per
rendere Israele responsabile, istituendo un blocco totale su ogni attività
economica, finanziaria, commerciale e di investimenti diretta o indiretta
con le colonie israeliane, seguendo le orme di Copenhagen, Reykjavik e
recentemente Amsterdam. Come raccomandato poco tempo fa in un
rapporto del Consiglio Europeo delle Relazioni Estere [centro studi
paneuropeo, i cui membri sono ex-ministri degli esteri, imprenditori,
intellettuali ed attivisti, il cui scopo è promuovere il dibattito e favorire
una politica estera efficace fondata sui valori europei. Ndtr.], dovrebbe
anche sospendere le relazioni finanziarie con le banche israeliane,
soprattutto quelle che finanziano l’occupazione e la costruzione delle
colonie. In più, da parte loro gli Stati membri dell’UE dovrebbero cessare
ogni relazione con le colonie israeliane.
Va qui osservato che l’UE è il principale partner commerciale di Israele,
con scambi totali attorno ai 30 miliardi di euro nel 2014, che
rappresentano circa il 33% del totale delle esportazioni israeliane di beni e
servizi nel 20147. Il commercio dell’UE con le colonie israeliane
rappresenta meno dell’1% del commercio dell’UE con Israele. Una
iniziativa seria da parte dell’UE avrebbe un impatto consistente sulla
colonizzazione israeliana e sulla prolungata occupazione militare.
Oltre a passare dall’etichettatura dei prodotti delle colonie a porre fine ad
ogni relazione con gli insediamenti israeliani, i Paesi europei dovrebbero
prendere in considerazione un embargo di tutti i prodotti israeliani. Fin da
quando l’UE ha riconosciuto che il controllo di Israele sui TPO è una
situazione di occupazione – un’occupazione militare che dura da circa 50
anni – avrebbe dovuto affrontare le cause profonde dell’occupazione, cioè
la politica del governo israeliano, piuttosto che solo il suo effetto, ossia le
colonie.
Per esempio, nel caso dell’apartheid in Sud Africa, un boicottaggio
concentrato solo sugli affari che riguardavano le township non avrebbe
avuto un grande effetto sul sistema di apartheid. Allo stesso modo,
boicottare solo i prodotti degli insediamenti israeliani avrebbe un impatto
molto minore che boicottare il sistema concreto che sta organizzando la
colonizzazione dei territori per fare pressione su Israele perché ponga fine
all’occupazione. Per questo è importante vietare ogni prodotto israeliano e
non solo quelli delle colonie. Un simile passo prenderebbe di mira, tra le
altre cose, l’inganno israeliano riguardo all’origine dei prodotti e delle
materie prime che provengono dagli insediamenti. E’ difficile controllare,
a meno che siano realmente boicottate le imprese e non solo i loro beni e
servizi. In effetti molte delle imprese che lavorano nelle colonie
provengono da Israele piuttosto che dai territori del 1967.
Gli appelli per un boicottaggio totale stanno aumentando e trovando
adesioni in luoghi imprevisti. Per esempio, due docenti universitari
statunitensi hanno recentemente sostenuto in un editoriale sul ”
Washington Post” che boicottare solo i prodotti delle colonie “non avrebbe
un impatto sufficiente”. Hanno invece proposto “un ritiro dell’aiuto e del
supporto diplomatico USA e il boicottaggio e il disinvestimento
dall’economia israeliana” per modificare i piani strategici di Israele.
Per la Palestina, un simile divieto aiuterebbe a proteggere i prodotti
palestinesi, aumenterebbe la loro competitività e aiuterebbe in futuro a
rafforzare la capacità dell’economia palestinese di integrarsi con quella
internazionale, una volta che la libertà sia garantita. Il boicottaggio di tutti
i prodotti ed i servizi israeliani sarebbe un modo efficace per dare la
possibilità ai palestinesi di sconfiggere il colonialismo israeliano. Ciò
sarebbe molto più efficace che fornire assistenza per lo sviluppo a settori
specifici e risponderebbe direttamente alla richiesta del popolo palestinese
di libertà e diritti umani.
Note:
Le autrici ringraziano l’ufficio Palestina/Giordania della fondazione
Heinrich-Böll per la cooperazione e la collaborazione con Al-Shabaka in
Palestina. Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità delle
autrici e non riflettono necessariamente l’opinione della fondazione
Heinrich-Böll.
Gli avamposti delle colonie sono costruiti senza l’autorizzazione
ufficiale del governo israeliano. Tuttavia ricevono supporto finanziario da
ministeri, agenzie governative, fondazioni locali ed internazionali e da
privati (soprattutto dagli USA). Spesso Israele dopo un certo lasso di
tempo li “legalizza”.
In base agli accordi di Oslo, la Cisgiordania è stata divisa
provvisoriamente in Area A, che dovrebbe essere sotto il controllo
dell’Autorità Nazionale Palestinese ma è sottoposta a frequenti incursioni
militari israeliane, Area B, sotto controllo condiviso di israeliani e
palestinesi, ed Area C, sotto controllo esclusivo di Israele. Questo periodo
provvisorio è scaduto nel maggio 1999.
Per maggiori informazioni vedi “Trading Away Peace: How Europe
helps sustain illegal Israeli settlements.” [“Vendere la pace: come l’Europa
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aiuta a sostenere le illegali colonie israeliane “]
I costi diretti sono i costi supplementari sostenuti dai palestinesi in
conseguenza delle restrizioni imposte dagli israeliani all’accesso ed al
movimento, compresi i maggiori costi dell’acqua e dell’elettricità. I costi
indiretti sono le perdite di entrate provenienti dalla produzione che i
palestinesi avrebbero potuto fare se non ci fossero state queste limitazioni
da parte israeliana. Un esempio di costi indiretti è rappresentato dal valore
aggiunto dell’estrazione delle risorse del Mar Morto.
In base all’inchiesta sulla forza lavoro realizzata nel novembre 2015 dal
PCBS [Palestinian Central Bureau of Statistics, istituzione ufficiale del
governo palestinese. Ndtr.], nel periodo luglio-settembre 2015 il numero
di lavoratori palestinesi nelle colonie israeliane in Cisgiordania era di
22.100, su un totale di 674.900 lavoratori in Cisgiordania.
Da confrontare con il commercio dell’UE con i TPO, che nel 2014 è
stato di circa 154 milioni di euro.
Nur Arafeh, Samia al-Botmeh, Leila Farsakh fanno parte di Al-Shabaka,
un’organizzazione indipendente senza scopo di lucro la cui missione è
quella di educare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani
palestinesi e l’autodeterminazione nel quadro del diritto internazionale.
Originale in Al-Shabaka, 15 dicembre 2015, traduzione di Amedeo Rossi
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link:
http://serenoregis.org/2015/12/28/come-le-colonie-israeliane-soffocanoleconomia-palestinese/
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