Una, nessuna, centomila. Dinamiche e forme della didattica universitaria. ABSTRACT - draft version Note per una riflessione storica sul tema della didattica universitariai. Fabio Pruneri - prof. Storia dell’Educazione - Facoltà di Lettere e Filosofia I nostri studenti e, talvolta anche qualche collega, ignorano che nella storia dell’università la centralità del discente non costituisce l’esito delle battaglie di democratizzazione degli atenei avviate in tutto il mondo a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, ma, semmai, rappresenta la cifra più significativa dell’origine di questa istituzione nel medioevo, come luogo autonomo di ricerca e di trasmissione libera del sapere. Basti considerare che nelle più antiche università italiane: Bologna e Padova, tanto per fare due esempi illustri, il ruolo degli studenti era di gran lunga più influente di quanto possa accadere oggi. Gli studenti approvavano gli statuti degli atenei, ad essi spettava la scelta dei docenti e la retribuzione degli stessi, persino il rettore - figura da sempre molto autorevole non solo per l’attività dell’ateneo, ma anche nel contesto civile - era un membro del corpo studentesco. Gli effetti che tale sistema regolativo aveva sull’efficacia della didattica sono facilmente intuibili. Quello che potrebbe apparire come un gioco goliardico o il suggerimento tematico per un simpatico carnevale, cioè l’inversione delle parti con gli studenti “detentori” del potere accademico, liberi di scegliere di partecipare o meno alle lezioni e i docenti modestamente occupati nella ricerca e nella trasmissione alla comunità degli allievi delle conoscenze acquisite, è stato in passato un modello equilibrato ed efficiente. Se accettiamo questa provocazione che ci viene dalla storia dell’università molte questioni oggetto dell’incontro di oggi verrebbero facilmente risolte. Quale professore potrebbe permettersi di ripetere nozionisticamente una lezione sapendo d’aver di fronte non un passivo gruppo di allievi, ma coloro che direttamente finanziano la sua attività? Quali docenti si arrischierebbero ad assentarsi dall’aula avendo cognizione che questo comportamento potrebbe costare loro la perdita del posto da parte dell’esigente pubblico che assiste alle dissertazioni? Quali piste di ricerca sarebbero incoraggiate da un rettore scelto tra i nostri allievi? L’evoluzione dell’università, per ragioni che non è il caso ora di approfondire, ha assunto nei secoli una diversa piega, al punto che nell’ultimo decennio si è avvertita l’esigenza di introdurre strumenti di verifica e certificazione dell’insegnamento sempre più stringenti. La questione dell’efficacia e della qualità della didattica universitaria, non è però del tutto nuova: una costante nostalgia della gioventù studiosa del medioevo, pronta a confrontarsi con il sapere dei maestri anche in dispute pubbliche, accompagna la storia dell’università anche dopo l’Unità. Il modello di didattica che il ministero intendeva perseguire nel periodo post risorgimentale era strettamente intrecciato ai compiti che l’istruzione superiore voleva assumere in ordine alla formazione della futura classe dirigente. Così Ruggero Bonghi, che fu il ministro della Pubblica Istruzione dal 1874 al 1876, a proposito del modo di condurre l’insegnamento accademico nell’Ottocento, lamentava la passività degli allievi: “oggi lo scolaro ascolta le lezioni, per lo più lette, talora recitate, e poi del suo professore non sa né sente altro; questi sta troppo in su perché la vista del suo occhio arrivi sino a lui”ii. E’ possibile trovare giudizi analoghi, per esempio nel rettore dell’università di Pavia, il professore di filosofia Carlo Cantoni, il quale metteva in guardia dalla “lebbra universitaria dello studio mnemonico”iii. Un’altra guida della cultura italiana, Francesco De Sanctis, invocava un maggior protagonismo degli atenei: “le Università italiane, scriveva nel 1872, oggi sono come tagliate fuori dal movimento nazionale, senz’alcuna azione sullo Stato [...] e con piccolissima azione sulla società, di cui non osano interrogare le viscere”iv. Non era però facile trovare una soluzione al dilemma che oggi stesso ci poniamo: come accrescere l’influenza del sapere universitario? Come migliorare la qualità della didattica rispettando autonomia e libertà docente? Le proposte messe in atto in passato in questa direzione non suscitarono il consenso dei docenti. I limiti erano evidenti: la rigidità di un metodo “ufficiale” rischiava di vanificare l’autonomia, lo spirito di ricerca e in ultima analisi, l’originalità della trasmissione delle conoscenze disciplinari. Se monitorare la produttività docente ha costituito e costituisce una sfida ardua, ancor più impegnativo era il controllo del corpo insegnante dal punto di vista disciplinare. Nei verbali del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione negli anni immediatamente successivi all’Unità, troviamo considerazioni del seguente tenore: il professore non aveva “altro capo immediato fuorché il bidello”, il docente redigeva i programmi ma non era chiaro se li seguisse o meno; inoltre, mancando una competente autorità che sorvegliasse l’andamento degli studi unici giudici della didattica erano gli studenti “i quali per la loro posizione verso il professore non po[tevano] parlare se non dopo l’esame”v. La mancata partecipazione attiva degli studenti alla lezione, che a livello universitario significava la non condivisione nelle ricerche sostenute dei docenti, produceva effetti deleteri: l’insegnante al termine del corso forniva l’elenco delle domande d’esame ed era cura degli studenti attenersi strettamente alle questioni affrontate a lezione evitando ogni “sbandamento” creativo in questioni secondarie. Il risultato di questa prassi era che la frequenza anziché ampliare gli orizzonti conoscitivi e gli interessi degli allievi finiva per restringerne i confini. Pasquale Villari cita in proposito l’abitudine degli scolari più diligenti di “cavare” “dalle lezioni del professore le risposte ai temi, per sé e per i compagni”. “Nelle grandi città scriveva negli anni Settanta del XIX sec. - quest’arte di cavar le risposte è divenuta una vera industria. Con una o due lire, voi avete un opuscolo di 45 o 50 pagine che, imparate a memoria, vi fanno passare l’esame”vi. Alla luce del passato viene da chiedersi quanta strada si sia percorsa nella direzione d’emancipare la lezione dalle forme della semplice ripetizione e trasmissione di informazioni. Anche oggi, pur in un quadro fortemente mutato, si corre il rischio di fornire prontuari o percorsi preconfezionati, magari presentati in schemi accattivanti quali quelli offerti dalle moderne tecnologie. Si tratta di un pericolo evidente perché la distribuzione di prospetti, vademecum e appunti costituisce un punto d’intesa tra il bisogno degli studenti di avere delle cognizioni “rassicuranti” (una specie di apprendimento just in time, che evita la giacenza di inutile scorte nei magazzini delle loro conoscenze) e la parallela necessità del professore di fornire quel minimo d’istruzioni per raggiungere i crediti di un semestre. La rottura di questo tacito accordo consensuale è, per esempio, possibile nel momento in cui si chiede agli studenti di concorrere a svolgere piccoli percorsi di ricerca autonomi. Quando questo avviene, in presenza di numeri contenuti di frequentanti, di ragazzi particolarmente motivati, di collaboratori o tutor d’aula, la lezione ripercorre i sentieri dell’esplorazione e della scoperta, due tratti fondamentali di ogni buona didattica. Valutare processi e risultati Tenendo conto anche dei bisogni e delle esigenze del territorio Brevi note di Fausto Telleri Docente di Pedagogia generale e sociale Facoltà di lettere e filosofia Solamente alcuni punti che mi sembra utile ribadire nell’incontro sulla didattica: 1. Nella vita di un’organizzazione aziendale, il momento della valutazione può costituire un rito formale oppure un momento cardine e vitale. Pur non potendo equiparare l’università ad un’azienda qualsiasi, ma riconoscendole il suo ruolo primario di comunità formativa, ritengo che non sarebbe fuori luogo verificare, anche attraverso incontri periodici con i propri laureati, la valutazione che gli stessi danno del percorso di studi effettuato, a distanza di qualche anno, soprattutto se confrontato con il mondo del lavoro in cui essi sono o non sono inseriti come avrebbero voluto. Iniziative di studio, come questa, sulla didattica universitaria, credo che potrebbero trovare grande giovamento da un feed-back periodico che si riproponesse l’obiettivo di dare la parola ad un campione significativo di laureati nei diversi settori per verificare se i saperi e le metodologie di approccio alla conoscenza, offerte nei corsi universitari, sono ancora considerati utili e in che misura. 2. Analogo giovamento potrebbe derivare alla nostra ricerca dall’ascolto periodico dei più stretti referenti e collaboratori, presenti sul territorio e che ospitano i nostri studenti nell’esperienza di tirocinio, ormai obbligatorio per tutti i corsi di laurea. Credo che un paio d’incontri annuali, di programmazione e di verifica periodica, non solo sull’andamento delle esperienze di tirocinio ma anche dell’evoluzione della professione, del suo statuto ed eventuale riconoscimento giuridico, com’è il caso della professione d’educatore sociale, potrebbero giovare non solo alla crescita di una più chiara identità professionale degli studenti in formazione ma anche alla puntualizzazione e chiarificazione delle esigenze e bisogni educativi e formativi territoriali. L’università, infatti, non può mai rinunciare ad essere il luogo privilegiato della ricerca e della formazione permanente, in tutti i settori e per tutte le discipline. 3. La valutazione da parte degli studenti di ciascun corso di studi può essere effettivamente utile se compiuta in itinere e a conclusione d’ogni percorso semestrale o annuale di studi, in maniera dialogica, in presenza, e non in forma anonima e differita nel tempo. Caso contrario, una valutazione anonima e differita può essere vista esclusivamente come una forma di inquisizione o di processo ritardato di un percorso che avrebbe invece dovuto vedere impegnati docenti e discenti per il raggiungimento di un obiettivo comune: l’aumento delle conoscenze di entrambi, secondo i principi di una didattica attiva e partecipata. Il mantenere forme di valutazione anonima della didattica, se può essere utile ai fini statistici, non lo è certo ai fini di una crescita e di un miglioramento complessivo della didattica stessa. Difficilmente strumenti di tipo inquisitorio possono aiutare processi di maturazione e di crescita in un rapporto educativo e formativo come dovrebbe/vorrebbe essere quello tra docente/educatore e allievo/educando. Appunti per una riflessione didattica sull’insegnamento/apprendimento nell’università Paolo Calidoni – Corsi di Laurea in Scienze dell’Educazione – Università di Sassari L’esplorazione di casi reperibili in rete, di ambito locale ed oltre, evidenzia, anzitutto, la pluralità di accezioni e pratiche di ‘didattica universitaria’ disponibili ed in uso. Conseguentemente, segnala l’esigenza di una definizione stipulativa degli attributi definienti della ‘didattica universitaria’. La griglia di riferimento criteriale per descrivere, progettare, implementare e valutare le forme della didattica considera i seguenti indicatori: Soggetto in apprendimento -es.: giovane vs adulto; destinatario vs partner … Oggetto/obiettivi d’insegnamento/apprendimento - es.:sapere consolidato vs sapere in fieri; conoscenze vs competenze; disciplinari vs trasversali … Mediatori dell’insegnamento/apprendimento – es.: tecnologie della comunicazione, azione diretta vs indiretta, individuale - di gruppo (docente e discente) – collettiva Setting (condizioni ed organizzazione)-es.: presenza vs distanza, sequenzialità prescritta vs opzionalità e facoltatività … … Alcuni elementi qualificanti specifici della didattica universitaria che la caratterizzano rispetto ad altri contesti formativi e si pongono in continuità innovativa con la tradizione accademica, sono –come evidenziano anche le note storiche- : relazione tra adulti partecipazione alla ricerca anticipazione tecnologica promozione dell’originalità … In conclusione, a fronte di una dinamica che va nella direzione della moltiplicazione e diversificazione delle modalità operative dell’insegnamento/apprendimento nell’università, con evidenti e forti rischi di frammentazione e perdita di identità e di qualità, c’è l’ esigenza di (ri)trovare a livello formale (più che operativo) ciò che qualifica e specifica la didattica universitaria, costituendone il valore aggiunto, e su questa base può essere adeguatamente progettata, gestita e valutata. i Le presenti considerazioni di carattere storico sono un pretesto per una più articolata riflessione sul tema della didattica universitaria oggi. Lo sviluppo dell’argomento richiederebbe, com’è naturale, una maggiore articolazione e riferimenti bibliografici più ampi, ai quali rimandiamo nella successiva pubblicazione degli atti. ii R. BONGHI, L’Università italiana, Tipografia Cavour, Firenze 1866, pp. 17-18, riprodotto in S. POLENGHI, La politica universitaria italiana nell’età della Destra storica 1848-1876, Editrice La Scuola, Brescia 1993, p. 227. iii C. CANTONI, Scritti vari, Tipografia Bizzoni, Pavia 1908, p. 462, riprodotto in ibidem. iv F. DE SANCTIS, La scienza e la vita, Antonio Morano, Napoli 1872, 339-340, riprodotto in POLENGHI, La politica universitaria italiana nell’età della Destra storica 1848-1876, p. 180. v MINISTERO PUBBLICA ISTRUZIONE, Verbali Consiglio Superiore, 1863, I, 18 gennaio, pp. 65-6, riprodotto in POLENGHI, Autonomia e decentramento nell’università italiana. Dalla Destra storica al secondo ministero Coppino (1859-78) in F. PRUNERI (a cura di), Il cerchio e l’ellisse. Centralismo e autonomia nella storia della scuola dal XIX al XX secolo, Carocci, Roma 2005, p. 71. vi P. VILLARI, Scritti pedagogici, G.B. Paravia e comp., Firenze 1868, pp. 389-390 riprodotto in POLENGHI, La politica universitaria italiana nell’età della Destra storica 1848-1876, cit., p. 338.