XXIX CONFERENZA ITALIANA DI SCIENZE REGIONALI MODELLI REGIONALI DI INNOVAZIONE IN ITALIA° Augusto CUSINATO1, Renato GIBIN2 1 Università Iuav, Dipartimento di Pianificazione, S. Croce 1957, 30135, Venezia 2 Università Iuav, Dipartimento di Pianificazione, S. Croce 1957, 30135, Venezia SOMMARIO A partire dal lavoro con cui, nel 1911, Schumpeter ha formulato i primi elementi di una teoria dell’innovazione, numerose e differenti interpretazioni si sono succedute, in parte quale effetto degli avanzamenti realizzati in campo disciplinare e nella riflessione sulla conoscenza, e in parte conseguenti ai mutamenti verificatisi sul piano tecnologico e organizzativo. Una storia delle teorie dell’innovazione condotta secondo l’una o l’altra ottica (o entrambe) può indurre a ritenere che quelle formulate più di recente siano anche le più adeguate a spiegare il fenomeno della medesima innovazione e, in particolare, la sua variegata geografia a livello mondiale e nazionale. Il presente contributo intende testare (falsificandola) la validità di questa ipotesi su base empirica. Con riferimento al caso italiano, si dimostra che teorie fondate sulla figura dell’imprenditore, sulle caratteristiche dell’industria o su quelle del milieu socio-culturale sono parimenti appropriate per spiegare il fenomeno dell’innovazione, quando siano riferite a contesti caratterizzati da paradigmi tecnico-economici ed anche territoriali differenti, com’è nel caso delle Tre Italie. Ne deriva che diverse devono anche essere le politiche volte a migliorare le performance innovative, in accordo ai differenti modelli di sviluppo regionali. ° La presente ricerca è stata svolta all’interno del PRIN 2006147720. Le elaborazioni statistiche sono di Renato Gibin. Il testo è di Augusto Cusinato. 1 INTRODUZIONE Da quando, negli ultimi decenni, l’innovazione è nuovamente riconosciuta come il principale fattore dei vantaggi competitivi a livello d’impresa, di regione e anche di sistema economico nazionale, una crescente attenzione è dedicata alla ricerca delle condizioni che ne favoriscono l’ideazione e l’effettiva realizzazione. La più recente letteratura suggerisce che l’intera gamma delle condizioni tecnologiche, istituzionali e anche territoriali di un sistema economico concorre nel configurare le opportunità, gli incentivi e le stesse attitudini affinché ciò si produca (Freeman, 1982; Morgan, 1997; Lundvall, 1992; Bryson et al., 2000; Breschi, Malerba, 2001). Le ampie differenze esistenti a livello nazionale e regionale nella produzione di innovazione rifletterebbero pertanto una disuguale distribuzione di quelle condizioni e, di riflesso, delle opportunità di sviluppo. Alcuni brevi dati sono in grado di restituire la variabilità spaziale della produzione di innovazione nonché il legame intercorrente con la geografia dello sviluppo. Assumendo le domande di brevetto come indicatore della capacità innovativa1, esso varia da 0,09 per milione di abitanti in Romania a 125,83 in Svizzera in un campione di trentaquattro paesi nel 2002 (Tabella A1 nell’Appendice), mostrando una consistente correlazione positiva con il PNL pro capite (r2 = 0,81 su scala doppiologaritmica). Un comportamento analogo è osservabile anche a livello infra-nazionale. Con riferimento all’Italia, il numero di domande di brevetto per milione di abitanti varia da 46,13 nella Sardegna a 441,72 nell’Emilia Romagna (Tabella A2)2, mostrando anche in questo caso una buona correlazione positiva con il PIL pro capite (r2 = 0,66 su scala doppio-logaritmica)3. Per l’interpretazione di una così variegata geografia si è fatto generalmente ricorso a due famiglie di teorie dell’innovazione rispetto alle tre che si sono formate nel corso di questi decenni: una prima famiglia, d’impronta funzionalista, che trova i suoi fondamenti nell’opera di Schumpeter (1942) e in alcune sistematizzazioni successive (Arrow, 1962; Griliches, 1990), secondo cui l’innovazione costituisce l’output di un’attività preordinata − la R&S; una seconda famiglia, di orientamento strutturalista, che considera invece l’innovazione come un fenomeno emergente da dinamiche ambientali − riassumibili nel concetto di “milieu” − per molta parte esulanti dalle capacità di controllo degli individui e delle imprese (per una rassegna, Moulaert, Sekia, 2003). Il ricorso alla terza e più originaria famiglia, incentrata sulla figura nell’imprenditore individuale (Schumpeter, 1971; or. 1911), pur non essendo espressamente rifiutato è di fatto abbandonato in favore dello studio delle condizioni che plasmano le performance innovative dei soggetti e delle organizzazioni. Nell’effettuare un confronto sul piano della capacità esplicativa, più fattori concorrono a privilegiare l’approccio del genere “milieu”: primo, perché, essendo il più recente, si reputa (peraltro non ingiustificatamente) che meglio rispecchi gli avanzamenti intervenuti nel frattempo sia 1 Sui pregi e i limiti di questo indicatore quale proxy dell’innovazione, si vedano Pavitt (1988), Griliches (1990). Non è possibile effettuare confronti fra i dati relativi ai brevetti rilevati a livello internazionale e a livello nazionale, riferendosi i primi a brevetti Triadic e i secondi a brevetti nazionali (si vedano le note alle tabelle A1 e A2). 3 Entrambe le correlazioni sono significative con α<0,01. 2 in campo disciplinare che nella più ampia riflessione epistemologica. Secondo, perché è opinione diffusa che la scansione con cui le diverse teorie dell’innovazione si sono succedute nel tempo rifletta la specificità delle condizioni tecnico-economiche proprie dei periodi in cui sono state rispettivamente formulate (ad esempio, Sundbo, 1998; Malerba, 2000), sicché le più recenti sarebbero le più appropriate per interpretare le dinamiche in atto anche sul piano sostanziale. Terzo, perché esse prospettano, nel loro succedersi, un processo di spostamento e progressivo allargamento dell’ambiente ritenuto propizio al realizzarsi dell’innovazione, che inizialmente era stato collocato nella mente dell’imprenditore, per essere quindi indicato nell’impresa e nella rete delle sue relazioni esterne (con altre imprese, i clienti, gli organismi di ricerca) ed infine, nel complessivo milieu socio-economico-istituzionale nel quale operano soggetti ed organizzazioni. In questo scritto avanziamo l’ipotesi che l’approccio del genere “milieu” sia effettivamente il più adeguato, in termini assoluti, per spiegare il fenomeno dell’innovazione, a patto però che il milieu non sia interpretato come una struttura omogenea al suo interno, eventualmente scomponibile in sottosistemi isomorfi tra loro, bensì sia inteso come costituito da sottosistemi di diversa natura e progressivamente inclusivi tra loro: la mente individuale, l’impresa, l’industria e, infine, il milieu esterno all’industria. Questa opzione deriva dalla constatazione che, pur dovendosi riconoscere che l’atto creativo e la scelta di innovare prendono necessariamente forma nella mente individuale (Howells, 2000), si deve anche ammettere come sia l’ambiente di appartenenza − nelle sue diverse dimensioni − a fornire all’individuo le opportunità e gli incentivi per innovare, così come il materiale simbolico per “disegnare” concretamente l’innovazione e rappresentarsene le implicazioni. Merita anche osservare che eventuali cambiamenti del paradigma tecnico-economico non comportano mutamenti in questo tipo di rappresentazione del milieu (ragione per la quale appaiono limitanti le teorie incentrate esclusivamente sulla figura dell’imprenditore o sull’attività di R&S), bensì modificano il peso che ciascun sottosistema vi svolge, così che in un ambiente fordista o caratterizzato dall’eredità del fordismo dovrebbe risultare prevalente il ruolo del sistema impresa (comprensivo del fattore umano) e/o dell’industria, mentre in un ambiente caratterizzato da forme distrettuali, il ruolo preminente dovrebbe spettare al sistema delle relazioni tra imprese e/o a fattori e condizioni esterni all’industria (vale a dire, al milieu). Il paper intende testare la bontà di questa ipotesi mediante una ricerca empirica condotta sul caso italiano. Per la varietà storica dei suoi ambienti socio-economici, si presume infatti che l’Italia costituisca un promettente banco di prova per verificare la compresenza di differenti pattern di innovazione, in corrispondenza dei differenti modelli di sviluppo regionali che la caratterizzano. Il paper è organizzato nel modo seguente. Nel paragrafo 2 viene compiuta una rassegna delle teorie dell’innovazione, intesa a restituire il processo di progressivo allargamento e articolazione dell’ambiente ritenuto generativo del fenomeno innovazione. Nel paragrafo 3 si procede ad una delineazione della geografia economica italiana, assumendo come riferimento lo schema delle Tre Italie (Bagnasco, 1977). Nel paragrafo 4 viene presentato il modello per la verifica dell’ipotesi secondo la quale, in corrispondenza dei diversi pattern di sviluppo regionali, muta il ruolo esercitato dalle componenti sopra elencate nel favorire la produzione di innovazione. Il paragrafo 5 è dedicato alle conclusioni. 2 TEORIE DELL’INNOVAZIONE Il debutto della riflessione economica sull’innovazione è concordemente attribuito alla Teoria dello sviluppo economico di Schumpeter (1911). In quel lavoro, non soltanto il tema del progresso tecnologico è riportato al centro dell’analisi economica dopo che, con l’avvento del paradigma neoclassico, l’attenzione si era spostata sul tema dell’equilibrio, ma s’individua nell’innovazione l’operatore concettuale elementare per costruire una teoria dello sviluppo. A partire da allora − e con un’accelerazione nell’ultimo quarto di secolo − le teorie dell’innovazione hanno subito dei notevoli cambiamenti, in corrispondenza di importanti mutamenti intervenuti sia sul piano speculativo e, in particolare, nella teoria della conoscenza, che su quello materiale, negli aspetti tecnico-economici della produzione. Nel corso del secolo si è in effetti assistito a dei veri e propri mutamenti di paradigma, a seguito del passaggio, sul versante delle teorie della conoscenza, dal cognitivismo al costruttivismo e, più estesamente, all’approccio ecologico-evoluzionista (Bateson, 1976; Gibbons et al., 1994) e, sul versante della produzione materiale, dalle tecnologie legate all’energia termica e idraulica, a quelle connesse all’energia elettrica e, infine, all’elettronica. L’effetto che questi mutamenti hanno congiuntamente esercitato sull’interpretazione dell’innovazione può essere sinteticamente rappresentato come uno spostamento e una contestuale articolazione del “luogo” considerato idoneo al suo prodursi. In un ambiente capitalistico emergente, prevalentemente composto da piccole e medie imprese in forte competizione tra loro, quale era quello dettato nel diciannovesimo secolo dall’ancora prevalente ricorso all’energia idraulica e termica (con i forti vincoli alla localizzazione e alla realizzazione di economie di scala che ne derivavano), dominava la figura dell’imprenditore individuale il quale, non a caso, era indicato come il protagonista dell’innovazione. Successivamente, con l’ampliamento della dimensione aziendale resa possibile dall’affermazione dell’elettro-meccanica, la fonte “normale” dell’innovazione è stata dislocata nei laboratori di R&S, tanto che è divenuto possibile compendiarne il processo in una funzione di produzione. Infine, con il diffondersi della configurazione reticolare dei sistemi produttivi, facilitata dall’avvento delle ICT, e con il concomitante affermarsi della concezione costruttivistico-relazionale dei processi cognitivi, la fonte dell’innovazione è stata ulteriormente dislocata nel multiforme e aperto sistema di relazioni nel quale operano individui, gruppi e organizzazioni. La Tavola 1 contiene un quadro sinottico delle teorie dell’innovazione secondo questa griglia interpretativa. Nella prima riga sono indicate le aree (o luoghi) in cui il processo innovativo si realizza secondo i principali approcci considerati: la mente del solitario inventore/imprenditore; l’unità di R&S nell’impresa o in istituzioni collegate; il sistema dell’industria e, infine, il più ampio milieu (distinguendo, per quanto si dirà successivamente, tra milieu orto- ed eterogenetico). Nella seconda riga sono elencati i principali fattori e/o condizioni favorenti l’innovazione in corrispondenza di ciascuno dei luoghi ritenuti idonei alla sua produzione. Nel terzo blocco di righe sono infine elencate le principali teorie dell’innovazione. A loro volta, queste sono raggruppate entro i paradigmi cognitivista ed evoluzionista, che segnano una discriminante nell’interpretazione della conoscenza e, di riflesso, dell’informazione e dell’innovazione. Nel prosieguo del paragrafo, questi approcci sono esaminati più dettagliatamente. Tavola 1 Un quadro sinottico delle principali teorie dell’innovazione Luogo dell’innovazione Mente individuale Impresa Industria Principali fattori e/o condizioni generatrici Inventore/ Imprenditore Team di specialisti in R&S Relazioni tra imprese Milieu socio-economico Milieu ortogenetico Milieu eterogenetico Paradigma cognitivista Teorie dell’innovazione correlate Economisti classici Schumpeter I Schumpeter II Relazioni produttori-utilizzatori (von Hippel) Paradigma evoluzionista Milieu Innovateur Sistema locale di innovazione Learning Region 2.1 Il genio solitario Il tema del progresso tecnico non era affatto estraneo agli economisti classici, i quali anzi lo consideravano come l’elemento chiave per spiegare la ricchezza delle nazioni (Smith, 1973) se non il complessivo movimento della storia (Marx, 1964). Anche se nell’opera di Smith il termine “innovazione” non compare, due sono i tipi di innovazione considerati, entrambi interpretati nell’ottica della divisione del lavoro: uno di natura organizzativa, consistente nell’assegnazione di distinte operazioni a distinti lavoratori, e l’altro di natura tecnica, relativo all’introduzione di macchine che consentono di velocizzare e decomporre ulteriormente le operazioni4. Particolarmente interessanti sono le indicazioni sulle figure degli innovatori, che sono di tre tipi: in primo luogo, i lavoratori, i quali sarebbero naturalmente inclini a cercare soluzioni utili a razionalizzare le proprie mansioni, quindi i produttori di macchine e infine gli scienziati o, nelle parole di Smith, [...] i cosiddetti filosofi, o speculativi, la cui professione non consiste nel fare qualche cosa, ma nell’osservare ogni cosa, sicché proprio per questo sono in grado di combinare e unificare le possibilità insite negli aspetti più dissimili e lontani fra loro. (Smith, 1973, p. 14). 4 È interessante notare come, concordemente alla natura della prima rivoluzione industriale, l’introduzione di macchine fosse considerata come maggiormente rispondente alla logica della divisione del lavoro piuttosto che a quella della sostituzione del lavoro con capitale, come sarebbe stato invece nell’opera di Marx, scritta alla soglia della seconda rivoluzione industriale. Due osservazioni possono essere avanzate rispetto a questa elencazione. Innanzitutto, Smith non opera alcuna distinzione tra inventori e innovatori: si tratta di una lacuna non irrilevante, poiché gli impedisce di prendere in considerazione le relazioni che si instaurano all’interno dell’impresa tra lavoratori e decisori sul terreno della formazione di una conoscenza condivisa, aspetto sulla cui importanza si sofferma attualmente la letteratura. Secondariamente, nello spazio di poche righe egli fornisce due interpretazioni contrastanti del processo attraverso il quale l’innovazione prende forma. Trattando dei lavoratori, sostiene l’idea che la messa in atto di una nuova e conveniente soluzione deriva dall’incessante attenzione che il lavoratore pone nello svolgimento della sua particolare e ripetitiva mansione, in una sorta di isolamento mentale dall’ambiente circostante; trattando invece dei “filosofi”, questi alimenterebbero la loro creatività “nell’osservare ogni cosa” e combinando “gli aspetti più dissimili tra loro” tra loro. Si possono formulare due ipotesi per spiegare questa opposta interpretazione: o Smith effettivamente si contraddice oppure implicitamente ritiene che in circostanze diverse siano all’opera differenti processi di creatività, anticipando così le più recenti acquisizioni in materia. Al di là di queste osservazioni, l’Indagine propone una teoria soggettivistica della creatività e dell’innovazione, poiché entrambe prendono forma in una dimensione strettamente individuale e, specificatamente, nello spazio della relazione intercorrente tra il soggetto e l’ambiente (“environnement”), a prescindere dal fatto che questa relazione sia di carattere operativo o speculativo (cfr. Freeman, 1992): nell’osservare la realtà − come le cose sono artificialmente prodotte o come gli elementi si combinano naturalmente per realizzarle − ed essendo sollecitato da una funzione-obiettivo, il soggetto riesce a concepire nuovi e più efficaci metodi per produrre le medesime cose, o per produrne di migliori. Questo tipo di approccio è stato successivamente affinato da Jean-Baptiste Say (1855), al quale va il merito di aver reso esplicito il ruolo dell’imprenditore nel processo innovativo, anche se nella sua visione esso è sovente confuso con quello del manager: ruolo che, con acutezza, egli identifica nella capacità di convertire la conoscenza in nuovi prodotti. Sarebbe stato tuttavia Schumpeter (1911) a operare una sistematizzazione analitica di questa rappresentazione. Nella sua visione, il motore dello sviluppo non consiste tanto nella ricerca dell’efficienza statica o dinamica, come allora indicava la teoria neoclassica, bensì nell’innovazione. E l’artefice dell’innovazione è indicato nella figura dell’imprenditore, com’egli risolutamente dichiara: Chiamiamo “impresa” l’introduzione di nuove combinazioni, e chiamiamo “imprenditori” quei soggetti economici la cui funzione consiste nell’introdurle. (Schumpeter, 1971, p. 84). Al di sotto di questa celebrazione dello spirito d’iniziativa individuale vi sono due elementi, rispettivamente di natura storica ed epistemologica, che conviene esplicitare. Il primo si riferisce al fatto che Schumpeter scriveva in un periodo di forte ripresa economica, caratterizzato da un infittimento delle iniziative imprenditoriali e dalla diffusione della piccola impresa (anche se le grandi corporate firm avevano già fatto la loro comparsa nella seconda metà del diciannovesimo secolo). Il secondo elemento concerne la teoria della conoscenza sottostante a quella visione − il cognitivismo − e il concetto di informazione che ne deriva. Quale convinto assertore del neopositivismo, Schumpeter credeva fermamente nella capacità della mente umana di avvicinarsi alla verità sulla base di una rigorosa verifica degli asserti riguardanti lo stato del mondo. Benché la verità ultima sia destinata a rimanerle inaccessibile, la mente riuscirebbe infatti a formulare congetture sulla realtà esterna e queste, nella misura in cui sono sottoponibili, almeno in linea di principio, a prove di validazione e riescono a superarle, possono essere considerate come congrue approssimazioni della verità. Ne consegue che, qualora le regole metodologiche siano rispettate, il processo cognitivo comporta un progressivo accrescimento del contenuto di verità nel soggetto. Ma ne consegue anche che ogni informazione convalidata5 costituisce un bit di verità, ed è proprio sulla base di questa premessa che l’apprendimento può essere interpretato in termini cumulativi e il processo innovativo può essere a sua volta condensato in una funzione di produzione, come hanno successivamente proposto Arrow (1962) e Griliches (1990). Questi sviluppi avrebbero trovato un terreno di applicazione particolarmente fertile con il diffondersi della grande industria nella prima metà del Novecento e con il parallelo affermarsi del paradigma cognitivista: le grandi scoperte scientifiche del tempo, le vastissime prospettive di applicazione che ne derivavano e le forti economie di scala insite in queste ultime, avrebbero infatti fornito l’occasione per organizzare in forma industriale e su basi scientifiche il processo di ideazione, sviluppo e applicazione dell’innovazione, il quale prima era lasciato all’estro e al coraggio di singoli inventori e imprenditori. 2.2 L’organizzazione per la R&S Il principale, benché meno appariscente aspetto della trasformazione industriale intervenuta a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, è consistito nella sistematica applicazione della scienza alla produzione (Freeman, 1992). Le scoperte e le invenzioni realizzate particolarmente nei campi dell’elettricità e della chimica aprirono prospettive formidabili sul terreno delle applicazioni industriali, facendo emergere per converso la necessità di procedere ad importanti investimenti nella ricerca e nella realizzazione di impianti e infrastrutture, con ripercussioni di amplissima portata sulla struttura delle imprese, dei mercati e anche della società. In primo luogo, le imprese furono indotte ad aumentare di dimensione, per beneficiare delle economie di scala insite nelle nuove tecnologie. Il conseguente allargamento dei mercati e la necessità di recuperare gli alti costi fissi connessi alle indivisibilità tecnico-economiche favorirono a loro volta la formazione di strutture monopolistiche e l’endogenizzazione dell’attività di R&S (Schmooker, 1966)6. Per altro verso, il fabbisogno di elevate quantità di risorse finanziarie 5 Qui l’informazione è interpretata in maniera sostantiva, diversamente dall’approccio informatico (Shannon, 1948) nel quale è trattata in maniera puramente formale, ovvero astraendo da ogni risvolto semantico (cfr. Ermine, 1996). 6 Si dimostra peraltro che non tutta l’attività di R&S può essere convenientemente svolta all’interno dell’impresa o dell’industria, per almeno tre ordini di ragioni (Arrow, 1962). Primo, perché l’input e l’output di questo tipo di attività consistono in informazione, la quale non è un bene completamente appropriabile. Secondo, perché il trattamento dell’informazione comporta rendimenti crescenti. Infine, a causa della presenza d’incertezza radicale circa i risultati incoraggiò la formazione di contratti societari, portando ad una netta distinzione dei ruoli all’interno dell’impresa tra prestatori di capitali di rischio e non di rischio, imprenditore e management. La nuova configurazione industriale emergente da queste dinamiche è nitidamente raffigurata in Capitalismo, socialismo e democrazia (Schumpeter 1942). In questa rappresentazione, così diversa da quella contenuta nel lavoro del 1911 da indurre a distinguere tra Schumpeter I e II (Phillips, 1971), non c’è più spazio per la figura dell’imprenditore individuale, che ora è sostituito da processi decisionali collettivi, regolati secondo i canoni di una rigida burocrazia, tanto da suggerire l’analogia tra la grande impresa del tempo e l’organizzazione militare (Sennet, 2006). Su questo aspetto concordiamo con Langlois (2003), nell’indicare che la più rilevante implicazione del mutamento tecnico-economico intervenuto con la diffusione della grande impresa è consistito nella formalizzazione dell’intero processo decisionale ad essa interno. Il declino stesso della figura dell’imprenditore non avviene pertanto, come aveva indicato Schumpeter, “because so many things can be strictly calculated that had of old to be visualized in a flash of genius” (Schumpeter, 1942, p. 132; corsivo nostro), bensì perché con l’avvento della big corporate firm quelle medesime “cose” devono essere minuziosamente calcolate, essendo ciascun decisore tenuto a rendere conto agli altri stake-holder delle scelte compiute. Anche le pratiche dell’ideazione, dello sviluppo e dell’applicazione dell’innovazione subiscono un processo di organizzazione e attribuzione a specifiche istituzioni all’interno o all’esterno dell’impresa − i laboratori di R&S −, sulla base dell’ipotesi che l’innovazione proceda in maniera lineare dall’attività di raccolta ed elaborazione dell’informazione (cfr. Malerba, 2000). Il limite di questo approccio consiste nel fatto che, nel considerare la ricerca come un’attività produttiva mediante la quale si ottiene nuova informazione dalla combinazione dell’informazione disponibile, non ci s’interroga adeguatamente sulle modalità con le quali l’informazione rilevante è selezionata per essere immessa nel processo. Per farlo è infatti necessario disporre di ulteriore informazione nella forma di un codice interpretativo il quale, o esiste in forma innata nella mente dei soggetti, oppure si deve riconoscere che costituisce una costruzione culturale. Il cognitivismo − e proprio in questo punto sta la radice del suo limite − ritiene che tale costruzione sia realizzabile (e sia effettivamente realizzata) per il tramite delle sole facoltà logiche del soggetto: ma qualora si riesca a dimostrare l’infondatezza di questo assunto, l’intera costruzione cognitivista è messa in discussione e, con essa, l’ipotesi che la conoscenza (e l’innovazione) derivino dalla raccolta ed elaborazione di informazioni, secondo una relazione di natura funzionale. Prima di approfondire questo aspetto, conviene citare un terzo approccio all’innovazione il quale, pur connotato dall’impronta cognitivista, opera un ampliamento dell’ambiente generativo, aprendo la riflessione agli aspetti relazionali esterni all’impresa (benché interni all’industria). Sulla base di una ragguardevole e minuziosa raccolta di studi di caso, von Hippel (1988) sostiene che __________________________________________ dell’attività di ricerca. Il rimedio è indicato nell’intervento diretto dello Stato e/o di altre istituzioni, in particolare nel campo della ricerca di base dove l’incertezza sui risultati è particolarmente elevata e questi, una volta ottenuti, presentano notevoli economie di scopo. l’innovazione scaturisce in via ordinaria dagli scambi di informazione che avvengono tra produttori e utilizzatori circa le proprietà dei prodotti. Lo scarso livello di appropriabilità dell’informazione relativa alla maggior parte dei processi produttivi, come pure, in positivo, la prospettiva della reciprocità da parte dell’interlocutore possono infatti favorire lo scambio di informazioni tra imprese dello stesso settore e tra produttori e utilizzatori, particolarmente al livello del personale tecnico, il quale vi è particolarmente interessato sia per migliorare le proprie capacità professionali che per aumentare il proprio potere contrattuale all’interno delle rispettive imprese. 2.3 Il milieu cognitivo Da quanto si è venuti dicendo, la principale critica mossa al cognitivismo concerne l’ipotesi che la mente umana sia in grado di approssimarsi alla vera rappresentazione del mondo sulla base delle sole facoltà logiche, ovvero della capacità di predisporre prove di verifica idonee a rigettare tutte le possibili false asserzioni. La critica deriva dalla constatazione che tale capacità non attiene esclusivamente alle facoltà logiche, bensì coinvolge anche quelle percettive, le quali soffrono, costitutivamente, di un vizio di parzialità nella selezione degli elementi rilevanti del mondo esterno. A causa, infatti, del prevalere della tendenza assimilatrice delle novità al già noto, rispetto alla capacità di riconoscerne il carattere originale e di adattare conseguentemente gli schemi interpretativi (Piaget, 1967), il soggetto può essere indotto a tralasciare sistematicamente proprio quegli aspetti della realtà che potrebbero rivelarsi cruciali nel rigettare determinate asserzioni (von Glasersfeld, 1988). In effetti, mentre egli è capace di riconoscere gli errori di natura logica, percorrendo ripetutamente la catena delle deduzioni mentali, non possiede, di per sé, alcuno strumento per identificare le fallacie del suo campo percettivo, in quanto le relative abilità dipendono dalle sue stesse attitudini culturali (Coe, Wilden, 1978; Allen, 2000). Una volta insinuato il dubbio, in questo modo, che la mente non disponga di un criterio affidabile di convergenza alla verità, la soluzione consiste, non tanto nell’abbandonare la sperimentazione, bensì nell’ampliare le capacità percettive. L’unica modalità finora esperita in questo senso consiste nell’esporre la mente ad una dose adeguata di novità, dove “adeguata” sta ad indicare che la dose non deve eccedere le capacità del soggetto di elaborare le novità e che queste devono essere di intensità sufficiente per indurlo a prenderle in considerazione (Nooteboom, 2000). Il prospettarsi di eventi inaspettati − quali i risultati inattesi dell’azione e, in particolare, i fallimenti della medesima, oppure i comportamenti imprevisti di altri o di se medesimi − si presenta come una condizione particolarmente favorevole per l’articolazione delle abilità percettive (Piaget, 1974), anche se l’elemento risolutivo consiste nella capacità del soggetto di sospendere la propensione a ridurre automaticamente la novità al già noto fino a rifiutarne l’ingresso nel campo percettivo (Rovatti, 1992). Le situazioni di natura dialogica appaiono le più confacenti a realizzare anche quest’ultima condizione, per almeno due ordini di motivi. Primo, perché il dialogo favorisce la comparsa di malintesi − che sono in effetti novità − a causa delle differenti visioni e competenze linguistiche degli interlocutori (Howells, 2000). Secondo, perché nella misura in cui i soggetti intendono alimentare il rapporto, sono indotti a sospendere la propensione a rigettare il malinteso quale rumore, essendo anzi incoraggiati a ricercarne il significato, e per farlo non resta loro che ammettere la possibilità che Alter disponga di un codice interpretativo (e linguistico) diverso da quello di Ego. A partire da questo riconoscimento, il rapporto dialogico è verosimilmente destinato a svilupparsi su due livelli: quello referenziale, attraverso il quale i soggetti si scambiano informazioni sullo stato del mondo, e quello riflessivo, per il cui tramite cercano di scambiarsi informazioni sui codici interpretativi rispettivamente utilizzati e, con ogni probabilità, sulla loro comune matrice. In questa prospettiva, le basi dell’innovazione si ampliano immensamente. Essa non scaturisce più, semplicemente, dall’elaborazione delle informazioni secondo un determinato codice interpretativo − il quale rappresenterebbe la migliore approssimazione disponibile all’ipotetico vero codice −, quanto dalla costruzione di metacodici (Atlan, 1979) e propriamente consiste nella proiezione di un sistema di relazioni originali sul patrimonio informativo esistente: ... innovation is a set of processes, extended on time, which involve the construction of new agents, artifacts and attributions − and new kinds of relations among them. (Lane, Maxfield, 2003, p. 4). Il “luogo” propizio per la generazione dell’innovazione si allarga pertanto al milieu complessivo − e a quello urbano, in particolare (Hall, 1998; Acs, 2002; Glaeser, 2004; Cusinato, 2007) −, per la maggiore probabilità di sperimentarvi eventi e comportamenti inattesi e di entrare in relazione con codici interpretativi diversi. Questa prospettiva ha fatto il suo ingresso nella riflessione economica a seguito della trasposizione dell’approccio evoluzionista dal campo biologico a quello socio-culturale. Una volta istituita l’analogia tra il patrimonio genetico in campo biologico e le istituzioni in quello sociale, e che il meccanismo selettivo sia stato indicato nel mercato, l’innovazione assume il ruolo della mutazione darwiniana: un artificio realizzato per il tramite della reinterpretazione di una sezione del mondo, inteso a massimizzare una funzione obiettivo in un ambiente competitivo e connotato da incertezza radicale (Dosi et al., 1988). È tuttavia possibile tracciare una discriminante all’interno delle teorie dell’innovazione d’impronta evoluzionista, in relazione al ruolo attribuito all’eterogeneità dei codici (corrispondente al tema della varietà delle specie). Avendo riconosciuto che il presupposto della creatività consiste nella capacità di rielaborare i codici interpretativi, tre sono gli elementi necessari al costituirsi di un ambiente propizio all’innovazione: (a) la presenza di una pluralità di codici relativamente eterogenei tra loro nonché di un meccanismo atto ad alimentare la stessa eterogeneità (Sennet, 1970); (b) la presenza di un meccanismo capace di risolvere, almeno temporaneamente, l’eterogeneità tramite l’integrazione dei codici esistenti in un metacodice (Atlan, 1979) e (c) la presenza di una funzione obiettivo. A livello di sistema, la creatività affonderebbe insomma le radici in un appropriato dosaggio tra sollecitazioni centrifughe (e in qualche misura dirompenti) verso la sperimentazione di nuovi codici, da un lato, e l’agire una forza centripeta, dall’altro, intesa a “incanalare” l’eterogeneità verso soluzioni socialmente utili (o, almeno, accettabili) che si è usi denotare appunto, come innovazioni. Sulla scia di queste considerazioni e della tassonomia operata da Redfield e Singer (1954) in tema di milieu urbano, riteniamo opportuno distinguere tra milieu etero- ed ortogenetico, a seconda che le dinamiche in esso prevalenti operino nel verso di generare oppure incanalare l’eterogeneità, ed assumiamo questa distinzione quale criterio per qualificare le (principali) teorie dell’innovazione riconducibili all’approccio evoluzionista. Sotto questo profilo, appare chiaramente, orientata verso un’interpretazione ortogenetica la teoria del milieu innovatore (MI) (Aydalot, 1986; Camagni, 1991), mentre quelle dei sistemi locali di innovazione (SLI) e dei Learning Systems dedicano maggiore attenzione al tema della diversità interna ed anche endogena ai sistemi. Il MI è definito “come un insieme di relazioni che portano a unità un sistema locale di produzione, un insieme di attori e di rappresentazioni e una cultura industriale, e che genera un processo localizzato di apprendimento collettivo” (Camagni, s.d., p. 2). La condizione affinché questo effetto si produca è indicata nella prossimità spaziale degli attori, la quale, in presenza di condizioni di interdipendenza, di relazioni fiduciarie e di una rappresentazione condivisa degli interessi comuni, è destinata a tradursi in prossimità culturale e in processi di apprendimento e azione collettivi. Il limite di questo approccio consiste nell’enfasi posta sul tema dell’“incanalamento” delle visioni e dei comportamenti individuali a scapito degli aspetti connessi alla coltivazione dell’eterogeneità interna al sistema, i quali sono altrettanto rilevanti per evitare che un eccesso di “incanalamento” deprima le capacità di apprendimento e innovazione (Boschma, 2005). Il MI è infatti concepito come un dispositivo idoneo a trattare essenzialmente le perturbazioni provenienti dall’esterno, convertendole in informazione condivisa e quindi in opportunità per soluzioni innovative. Per converso, le perturbazioni provenienti dall’interno sono implicitamente considerate come un fattore di disturbo, dimenticando che il rumore endogenamente prodotto, proprio perché è il più inatteso ed anche indesiderato, offre un’opportunità più feconda per apprendere il non facile esercizio dell’adattamento degli schemi mentali, che non il rumore, assai meglio prevedibile, proveniente dall’esterno. Più spostata sul versante eterogenetico è la teoria dei SLI. Un SLI, sia esso di dimensione nazionale, regionale, propriamente locale o anche settoriale, è inteso, nella sua accezione più generale, come un insieme di attori, istituzioni e relazioni orientato all’innovazione (Saviotti, 1997). È tuttavia il nesso istituito tra innovazione e apprendimento a qualificare gli elementi di un SLI. In accordo al paradigma evoluzionista, l’innovazione è considerata come un fenomeno emergente dalla reinterpetazione effettuata da un attore o un’organizzazione delle opportunità offerte dal mutevole quadro delle relazioni ambientali, così che essa sostanzialmente si attua attraverso un processo di riorganizzazione della conoscenza, ossia di apprendimento (Calafati, 2007). Su questo aspetto, ma con un dosaggio differente tra i diversi autori, viene sottolineato sia il ruolo svolto dalle istituzioni (routine) nel favorire i processi di ricerca, selezione ed organizzazione dell’informazione (Lundvall, 1992), sia quello svolto dall’eterogeneità − in “information, skill, knowledge, competence, incentives and values” (Johnson, 1992, p. 36) − nel predisporre i materiali e gli stimoli affinché il processo di apprendimento prenda avvio e rimanga sostenuto nel tempo. Il tema dell’eterogeneità è trattato più esplicitamente nell’approccio Learning Region, il quale non a caso è indicato come una sintesi promettente delle teorie sull’innovazione (Moulaert, Sekia, 2003)7. Pure esso dichiaratamente collegato al paradigma evoluzionista, si concentra sulle modalità con cui gli attori adattano gli schemi interpretativi al fine di conseguire una visione utile sul mondo in presenza d’incertezza radicale sulle conseguenze delle loro azioni e, quindi, sulla verosimiglianza delle loro stesse rappresentazioni. Poiché gli attori apprendono − soprattutto, circa le modalità e i limiti dei loro processi di apprendimento − in maniera eminentemente dialogica (Cooke, Piccaluga, 2004; Lorenzen, Maskell, 2004), appare indispensabile l’intervento di un apparato istituzionale − in primo luogo, di un clima di fiducia reciproca e generalizzata e, più ampiamente, di un’idonea dotazione di capitale sociale (Hauser et al., 2007) − non soltanto al fine di incanalare il dialogo e l’interazione verso una visione condivisa, ma anche al fine di promuoverli proprio in ragione degli sviluppi inattesi cui danno luogo: ed è esattamente in questo passaggio che s’inserisce il tema dell’eterogeneità considerata quale presupposto ed alimento dell’esperienza innovativa. Conviene tuttavia notare che, nonostante la sottolineatura del ruolo attribuito all’eterogeneità nel promuovere l’apprendimento e l’innovazione (Bartlett, Ghoshal, 1994; Nonaka, Takeuchi, 1995; Nonaka, Nishiguchi, 2001), gli sviluppi di indirizzo normativo tendono a privilegiare l’aspetto della convergenza verso interpretazioni condivise (Morgan, 1997; Cooke, Morgan, 2003), quasi che l’eterogeneità costituisca una proprietà naturale dei sistemi sociali, la quale non necessita di interventi preordinati per essere alimentata8. 3 LE TRE ITALIE Nella tradizionale partizione tra Settentrione e Mezzogiorno, le regioni centrali e nord-orientali risultano come delle terre di mezzo, in parte assimilabili all’una o all’altra porzione del paese. Senza confutare la fondatezza storica di questa partizione, Bagnasco (1977) ne sottolinea l’inattualità nel descrivere la geografia economica italiana degli anni settanta. In effetti, accanto ai processi di industrializzazione fondati sul modello fordista, che avevano interessato principalmente le regioni del nord-ovest, i poli di Marghera, Monfalcone e alcune circoscritte realtà meridionali, si era formata una costellazione di sistemi locali di piccola e media impresa particolarmente nelle regioni del nord-est e in alcune aree centrali. Bagnasco rileva come questi sistemi non costituiscano una soluzione di ripiego rispetto al modello fordista, per cui sarebbero destinati a operare negli interstizi di quest’ultimo mediante il ricorso a tecniche di produzione tradizionali: al contrario, si rivelano delle realtà competitive fortemente orientate all’esportazione, operanti principalmente nel 7 Molto prossimo al concetto di Learning System è quello di Creative Field formulato da Scott (2006): “The creative field [...] is represented by sets of industrial activities and related social phenomena forming geographicallydifferentiated webs of interaction giving rise to diverse entrepreneurial and innovative outcomes” (p. 3). 8 Di opposto parere, Cohendet, Llerena (1997). segmento di quei beni finali (e dei beni intermedi ad essi collegati) richiedenti elevati livelli di creatività e di flessibilità − il cosiddetto “made in Italy” (Becattini, 1998) −, laddove la grande impresa incontra difficoltà di adattamento a causa delle rigidità dovute alla sua dimensione e alle connesse relazioni industriali (Garofoli, 1992). La differenza tra i due modelli può essere riassunta osservando come quello fordista fondi il suo vantaggio competitivo sulle economie di scala e sul connesso potere monopolistico, mentre quello dei sistemi di piccola e media impresa beneficia prevalentemente delle economie esterne all’impresa, da un lato, e della flessibilità della produzione e delle relazioni industriali, dall’altro. Sarebbe dunque sulla base di questi sistemi, fortemente radicati nel territorio grazie a legami relazionali specifici, che una Terza Italia si sarebbe formata accanto alle due tradizionalmente descritte. Benché le fonti statistiche non consentano di restituirne appieno l’intima natura, in quanto solitamente non indagano su aspetti immateriali quali i sistemi di valore e i legami relazionali, esse permettono comunque di delinearne i confini sulla base di alcuni sintetici indicatori. Assumendo come primo elemento di differenziazione l’indice di industrializzazione (II)9, e considerando come industrializzate le regioni che presentano un valore superiore all’unità, nel 1971 queste risultavano essere soltanto il Piemonte, la Lombardia, il Veneto, il Friuli Venezia Giulia e la Toscana (Tabella 1). Tabella 1 Profili industriali delle regioni italiane (1971-2001)a Indice di industrializzazione Regioni 1971 2001 Indice della dimensione aziendale 1971 Indice di industrializzazione Regioni 2001 Prima Italia 1971 Indice della dimensione aziendale 2001 1971 2001 Terza Italia Valle d’Aosta 0,96 0,61 0,72 1,39 Veneto 1,14 1,29 0,61 0,72 Piemonte 1,42 1,19 1,45 1,64 Friuli Venezia Giulia 1,07 1,15 1,08 1,13 Lombardia 1,52 1,18 1,20 1,12 Emilia Romagna 0,97 1,13 0,47 0,99 Liguria 0,85 0,64 1,51 1,26 Marche 0,87 1,34 0,29 0,54 Toscana 1,17 1,07 0,46 0,47 0,26 0,89 0,0 0,31 Umbria 0,91 1,03 0,70 0,73 0,60 1,13 0,58 0,91 Mezzogiorno Molise Campania 0,66 0,76 0,59 0,42 Abruzzo Puglia 0,50 0,80 0,36 0,46 Altre regioni Basilicata 0,36 0,87 0,30 1,12 Trentino Alto Adige 0,79 0,74 0,51 0,68 Lazio 0,65 0,53 1,48 2,12 Italia 1,00 1,00 1,00 1,00 Calabria 0,31 0,45 0,05 0,06 Sicilia 0,46 0,55 0,51 0,16 Sardegna 0,56 0,60 0,54 0,44 a Fonte: Elaborazioni da dati Istat. I dati si riferiscono all’industria in senso stretto. In grassetto sono indicati i valori superiori alla media nazionale. In particolare, le prime due, che erano state il fulcro dell’industrializzazione italiana, mostravano un indice abbondantemente superiore rispetto alle rimanenti, le quali stavano sperimentando in quel mentre il loro ingresso nell’industria. Trent’anni dopo, l’insieme delle regioni più industrializzate si 9 L’indice di industrializzazione è calcolato come segue: II i = (E iI /E i )/(E I /E) dove EiI è il numero di addetti I occupati nell’industria (in senso stretto) nella regione i, Ei è il totale degli addetti nella medesima regione, E e E sono i corrispondenti valori a livello nazionale. espande a comprendere l’Emilia Romagna, le Marche, l’Umbria e l’Abruzzo, mentre il primato passa al Veneto e alle Marche. All’interno delle regioni industrializzate, è possibile operare una seconda distinzione, relativamente alla dimensione delle imprese. Nel 2001, soltanto le regioni del nord-ovest (Valle d’Aosta, Piemonte, Lombardia, Liguria) più alcune altre isolate regioni (Friuli Venezia Giulia, Lazio, Basilicata) mostrano un Indice di dimensione aziendale (ID) superiore all’unità10. Diviene in questo modo possibile suddividere l’Italia in tre macro-regioni (Tabella 2): a) la Prima Italia, incentrata sul Piemonte e la Lombardia, ma che per ragioni storiche e di contiguità viene estesa a comprendere la Valle d’Aosta e la Liguria, la quale costituisce tuttora il regno della grande industria, con quasi un terzo dei posti di lavoro industriali collocati in imprese con almeno 250 addetti. Essa ha tuttavia perduto il suo primato a favore della Terza Italia relativamente ad altri aspetti chiave, quali il numero di posti di lavoro in assoluto e per mille abitanti, l’II e la propensione all’esportazione. b) La Seconda Italia, corrispondente al tradizionale Mezzogiorno, che mostra delle performance industriali molto basse: il minor numero di posti di lavoro industriali in assoluto e in relazione alla popolazione, la minore presenza di grandi imprese e la più bassa propensione all’esportazione11. c) La Terza Italia, il nuovo protagonista della scena industriale, comprende un’ampia porzione del Nord-est e del Centro (Veneto, Friuli Venezia Giulia12, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Umbria, Abruzzo). Conta il più elevato numero di posti di lavoro nell’industria in termini assoluti e relativi, distribuiti prevalentemente tra piccole e medie imprese, nonché la maggiore propensione all’esportazione. Tabella 2 Principali indicatori economici delle Tre Italiea Macroregioni Prima Italia 1971 1971 2001 2001 Addetti all’industria per 1000 abitanti 1971 2001 Percentuale di addetti in unità locali industriali con almeno 250 addetti 1971 Esportazioni su Pil (%) 2001 2003 1.868.762 1,33 1,10 191,1 125,1 53,2 31,0 29,7 518.992 730.671 0,54 0,75 29,3 38,0 19,0 9,7 8,5 1.618.872 2.165.347 0,90 1,16 101,4 129,3 22,8 18,7 30,4 419.468 293.300 0,86 0,56 75,8 48,5 55,1 44,5 10,5 5.411.570 5.058.080 1,00 1,00 100,0 88,7 41,0 24,3 22,7 Altre regioni Italia Indice di industrializzazione 2.854.238 Mezzogiorno Terza Italia Addetti all’industria a Fonte: Elaborazioni da dati Istat. I dati si riferiscono all’industria in senso stretto. 10 L’indice di dimensione aziendale è calcolato come segue: ID i = ( E iI ≥ 250 / E iI ) /( E I ≥ 250 / E I ) dove EiI ≥250 esprime il numero di addetti occupati nelle imprese industriali (in senso stretto) con almeno 250 addetti nella I regione i, Ei il totale degli addetti all’industria (in senso stretto) nella regione i, mentre E I ≥ 250 e E I sono i corrispondenti valori a livello nazionale. Ovviamente, molte altre sono le differenze intercorrenti tra il Mezzogiorno e le altre regioni italiane, di natura sia economica che sociale. Valgano, per tutte, il divario nel PIL pro-capite che ammonta a quasi la metà rispetto alle regioni del nord, e quello nel tasso di disoccupazione, che nel Mezzogiorno è più che triplo rispetto al nord. 12 Il Friuli Venezia Giulia viene aggregato alla Terza Italia per ragioni di contiguità, pur avendo ID>1. 11 Rimangono escluse da questa partizione il Trentino Alto Adige e il Lazio, in ragione delle loro specificità. La prima è una regione molto prospera, con un PIL pro-capite superiore di circa un terzo rispetto alla media nazionale, un’economia basata sull’agricoltura specializzata, il turismo e i servizi. Benché la presenza dell’industria non sia trascurabile (II = 0,74 nel 2001), non può essere considerata una regione industrializzata e quindi non è associata alla Terza Italia, pur essendone contigua. Per altro verso, l’economia del Lazio è fortemente influenzata dalla presenza della capitale che comporta un’elevata incidenza dei servizi. La regione annovera anche alcune grandi imprese industriali, tanto che presenta l’ID più elevato tra le regioni italiane. Il basso indice di industrializzazione nonché sua localizzazione periferica rispetto alla Prima Italia suggeriscono tuttavia di trattarla come un caso isolato. A questo punto, se l’ipotesi avanzata più sopra è fondata, ci si aspetta di trovare differenti modelli d’innovazione in ciascuna delle Tre Italie: un modello in cui prevalgono fattori interni all’impresa o all’industria nelle regioni del nord-ovest e un modello in cui prevalgono fattori relazionali e ambientali nella Terza Italia. Più incerta appare la previsione relativa alle regioni meridionali, a motivo del loro ridotto livello di industrializzazione. 4 IL MODELLO DI ANALISI EMPIRICA Il modello si propone di verificare l’esistenza di una relazione statistica tra la produzione di innovazione, assunta quale variabile dipendente, e un insieme di variabili esplicative attinenti alla dimensione individuale, dell’impresa, dell’industria e del milieu esterno all’industria. Come indicatore dell’attività innovativa si assume il numero di domande di brevetto nazionale presentate da soggetti residenti. Sulla capacità di questo indicatore di rappresentare la propensione all’innovazione, è stato osservato che le domande di brevetto misurano più l’invenzione che l’innovazione (Griliches, 1990). Tuttavia, considerato che sono prodotte per finalità applicative ed eminentemente commerciali, si ritiene che costituiscano una proxy sufficientemente adeguata dell’attività innovativa (Pavitt, 1988). Una seconda questione concerne il loro grado di copertura rispetto all’attività innovativa: in effetti, ne rappresentano soltanto una parte sia perché riguardano quasi esclusivamente le innovazioni di prodotto e di processo, sia perché non tutte queste innovazioni sono registrate, dipendendo la scelta dal rapporto costi-benefici dell’operazione. A fronte di queste limitazioni, l’indicatore presenta tuttavia l’impareggiabile vantaggio di essere facilmente accessibile, aggiornato con procedure standardizzate e pertanto confrontabile a livello sia temporale che spaziale. Nel nostro caso, l’indicatore si riferisce alle domande di brevetto presentate nel quinquennio 20022006 presso le Camere di Commercio italiane. Le informazioni sono state fornite da InfoCamere − Società Consortile delle Camere di Commercio Italiane, con riferimento al comune di residenza del richiedente e sono state successivamente aggregate per Sistema Locale del lavoro (SLL). La scelta di condurre l’indagine a livello di SSL, piuttosto che al livello provinciale o regionale solitamente assunto in questo tipo d’indagine per la maggiore disponibilità delle fonti (ad esempio, Feldman, 1993; Guerrero, Seró, 1997; Co, 2002; Zabala-Iturriagagoitia et al., 2007), è stata compiuta per esaminare il fenomeno con riferimento all’unità territoriale minima di riferimento per la produzione di innovazione (l’unità funzionale rimanendo ovviamente l’impresa). La provincia e la regione non costituiscono infatti delle realtà territoriali omogenee, essendo generalmente possibile individuare al loro interno una pluralità di sottosistemi dotati di una relativa autonomia relativamente alle condizioni della riproduzione sociale (Barbieri, Pellegrini, 2000). Nella ragionevole ipotesi che queste condizioni concernano primariamente gli aspetti legati alla produzione ed assumendo come criterio di identificazione dei sottosistemi l’autocontenimento degli spostamenti giornalieri casalavoro dei residenti, l’Istat ha ripartito il territorio nazionale in 686 aggregazioni di comuni contigui13, denominati SLL (Istat, 1997, 2005). Questi sistemi rappresentano le unità territoriali minime di habitat sociale, incentrate su una realtà produttiva specifica che funge da generatore dei flussi di pendolarismo e, in definitiva, da fattore di differenziazione rispetto ai sistemi contigui. La specificità della loro struttura produttiva e del sistema di relazioni che vi si genera consente pertanto di considerarli come unità territoriali minime dei processi innovativi. La scelta presenta tuttavia un risvolto negativo, in quanto non tutte le informazioni sui fattori e le condizioni ritenuti rilevanti per la produzione di innovazione sono reperibili a livello di SLL, prima fra tutte quella relativa alla spesa in ricerca delle imprese e delle istituzioni, che l’Istat fornisce con dettaglio regionale. La soluzione, ovviamente di ripiego, sarà di ripartire il valore fornito a scala superiore ai SSL sulla base di opportuni criteri, come sarà specificato nei pochi casi in cui si è dovuto ricorrere a questa procedura. Il modello calcola la regressione multipla tra le variabili esplicative introdotte e la variabile dipendente “Domande di brevetto per abitante”. Per il calcolo si è ricorsi a SPSS (Statistical Package for the Social Sciences), utilizzando il metodo STEPWISE14. Sono state introdotte 55 variabili esplicative, rappresentative dei quattro ambienti generativi dell’innovazione (Fattore umano, Impresa, Industria, Milieu esterno) e distinguendo tra SLL specializzati e non specializzati nell’industria (ossia aventi rispettivamente II>1 e II≤1). In particolare, per quanto riguarda gli ambienti “Industria” e “Milieu esterno”, le variabili consentono anche di rappresentare le quattro dimensioni indicate come rilevanti per la caratterizzazione di ogni tipo di ambiente, ossia la numerosità di elementi e la densità di relazioni interne (Durkheim, 1895), l’eterogeneità (Jacobs, 1969) e l’apertura (Boschma, 2005). I risultati sono esposti nella Tabella 3, distintamente per le Tre Italie. Il modello spiega in quasi tutti casi considerati oltre il sessanta per cento della variabilità nella produzione di innovazione nella Prima e nelle Terza Italia con un elevato livello di significatività (α<0,001); la sua capacità 13 Con riferimento al 2001. L’Istat ne aveva individuati 784 nel 1991 e 955 nel 1981. Mediante il metodo STEPWISE il programma introduce come prima variabile quella per la quale risulta minima la probabilità α(F) di commettere un errore di prima specie, nel rispetto della condizione α<0,05. Utilizzando il medesimo criterio il modello introduce le variabili successive, verificando tuttavia l’impatto che ciascuna di esse ha sulla probabilità α associata ai valori F delle precedenti variabili, escludendo quelle per cui si ottiene α≥0,10. 14 esplicativa risulta invece molto ridotta relativamente al Mezzogiorno, dove R2 non supera il valore di 0,28 (pur con α<0,001). Tabella 3 Variabili esplicative significative del numero di domande di brevetto per abitantea Macroregioni SSL non specializzati nell’industria Prima Italia Terza Italia Mezzogiorno SSL specializzati nell’indust ria Prima Italia Terza Italia Mezzogiorno a Variabili esplicative b Ambiente ∆R2 R2 F α{F} Gradi di libertà 2 Numero di imprese (v.a.) Reddito disponibile pro capite M M ,451 ,582 ,451 ,131 30,381 25,061 ,000 ,000 37 36 Numero di imprese (v.a.) Quota addetti alle UL della produzione simbolica Reddito disponibile pro capite Quota addetti delle imprese con almeno 100 addetti Quota popolazione con laurea Quota addetti alle UL dell’industria M IM M ,550 ,621 ,655 ,550 ,071 ,034 68,424 45,037 34,228 ,000 ,000 ,000 56 55 54 IM U IN ,085 ,104 ,128 ,085 ,019 ,025 20,228 12,593 10,644 ,000 ,000 ,000 219 218 217 Quota addetti alle UL dell’industria Quota popolazione con laurea ISCO1 ISCO7 ISCO6 Indice di attrazione su pendolarismo totale IN U U U U M ,219 ,435 ,490 ,550 ,603 ,640 ,219 ,216 ,055 ,059 ,053 ,037 20,496 27,719 22,769 21,358 20,965 20,189 ,000 ,000 ,000 ,000 ,000 ,000 73 72 71 70 69 68 Ln (addetti UL) (v.a.) Quota addetti alle UL dell’industria Valore aggiunto per occupato nel terziario ISCO4 ISCO1 Quota addetti alle UL delle attività culturali Propensione all’esportazione Indice di pendolarismo totale Indice di Shannon su addetti alle UL M IN M U U M IN M M ,205 ,404 ,466 ,511 ,555 ,579 ,593 ,610 ,280 ,205 ,198 ,062 ,045 ,044 ,025 ,014 ,017 ,280 37,992 49,384 42,095 37,588 35,650 32,601 29,340 27,342 14,798 ,000 ,000 ,000 ,000 ,000 ,000 ,000 ,000 ,000 147 146 145 144 143 142 141 140 38 Per la descrizione del contenuto delle variabili si veda la Tabella A3. Quando non diversamente indicato, i dati sono espressi come quoziente rispetto al valore medio b nazionale. U = fattore umano; IM = Impresa; IN = Industria; M = Milieu esterno all’industria Per conoscere il contributo delle singole variabili alla spiegazione variabilità complessiva, è possibile utilizzare l’incremento del coefficiente di determinazione (∆R2) conseguente all’introduzione di ogni successiva variabile. In Figura 1 sono rappresentati tali contributi per gruppi di variabili e distintamente per SLL specializzati o meno nell’industria. Nei SLL meno industrializzati (Figura 1a), il comportamento del modello appare pressoché identico nella Prima e nella Terza Italia: la variabilità è spiegata per oltre la metà da fattori esterni all’industria e tra questi, principalmente dalla numerosità delle imprese (l’effetto “massa” preconizzato da Durkheim, 1895). Contribuisce inoltre, in misura più importante nel nord-ovest, il livello del reddito pro-capite, il che fa pensare ad un effetto pull esercitato dalla domanda sulla produzione di innovazione (Porter, 1990). Oltre ai fattori ambientali, nella Terza Italia contribuisce anche la presenza di addetti occupati in attività di “symbolic analysis”, secondo la definizione fornita da Reich (1992), benché in misura contenuta (∆R2=7,1%). Il modello non è invece in grado di spiegare la variabilità nella produzione locale di innovazione nei SLL “non specializzati nell’industria” del Mezzogiorno: il valore di R2 si attesta infatti ad un modesto 0,128, al quale concorrono un fattore interno alle imprese (la quota di addetti alle UL con almeno 100 addetti), un fattore interno all’industria (la quota di addetti all’industria in senso stretto) ed, infine, il fattore umano (la quota di popolazione con laurea). Fattore umano Milieu 0,6 0,4 0,2 0 Milieu 0,4 Industria Prima Italia Mezzogiorno Terza Italia 0,2 0 Fattore umano Industria Impresa a) SLL non specializzati nell'industria b) SLL specializzati nell'industria Figura 1 Contributi marginali dei gruppi di predittori alla spiegazione della variabilità delle “Domande di brevetto per abitante”, per macroregione e tipo di SSL15 I pattern regionali si differenziano assai più nettamente nel caso dei SLL “industrializzati” (Figura 1b). Mentre il contributo del fattore “Industria” appare pressoché uguale nella Prima e nella Terza Italia (intorno al 21-22%), nella Prima Italia risulta preminente il ruolo del fattore umano (∆R2=0,38). Esaminando con maggior dettaglio questa componente, si rileva come concorrano a determinarne il valore in misura pressoché eguale il “capitale intellettuale” (misurato dalla popolazione laureata) e una variegata compagine di “competenze professionali” (misurate dalla presenza delle categorie Isco “imprenditori-dirigenti”, “artigiani e operai specializzati”, “operai qualificati”). Questa concorrenza di fattori induce ad affermare che una condizione favorevole alla generazione d’innovazione in ambienti caratterizzati da medio-grandi imprese è costituita, non soltanto da una combinazione tra un buon livello di formazione e di competenze professionali, ma anche da un mix di quest’ultime, a conferma dell’ipotesi, inizialmente proposta da Adam Smith, ma sostenuta anche nella recente letteratura, che l’innovazione nasce sia dall’iniziativa degli imprenditori (individuali o, più verosimilmente, collettivi in un ambiente a forte presenza di industria medio-grande), sia dal contributo dei lavoratori più direttamente a contatto con i processi produttivi, verosimilmente tramite processi di learning by doing e d’interazione con i livelli superiori. Da rilevare, infine, come nel nord-ovest il sessanta per cento del fenomeno innovazione è spiegato da fattori interni all’industria, ivi compreso il fattore umano, mentre appare quasi irrilevante l’apporto del fattore “milieu” (∆R2=0,037). Pressoché opposta è la situazione nella Terza Italia. Qui prevale infatti il fattore “milieu” (∆R2=0,31), mentre risulta contenuto l’apporto del fattore umano (∆R2=0,09). In particolare, appaiono significativamente correlate alla produzione di innovazione la massa del milieu (misurata 15 Nella Figura 1a, le linee sul ramo “Milieu” relative alla Prima e alla Terza Italia sono sovrapposte: compare soltanto quella relativa alla Prima Italia. dal numero degli addetti), il livello di produttività dei servizi, la presenza di attività culturali e l’intensità delle relazioni con altri SLL. Infine, nel Mezzogiorno, l’unico fattore significativamente correlato con l’innovazione è costituito dall’eterogeneità del sistema produttivo, misurata dall’indice di Shannon: da solo (e, purtroppo esso solo), questo fattore spiega il 28% della variabilità complessiva nella produzione locale di innovazione. 5 CONCLUSIONI L’ipotesi formulata in apertura, secondo la quale in ambienti caratterizzati dall’eredità del fordismo le condizioni favorevoli alla produzione di innovazione sono situate prevalentemente nell’industria (comprensiva del fattore umano che vi opera), mentre appartengono prevalentemente al milieu esterno all’industria in ambienti di piccola e media impresa ha trovato una soddisfacente conferma nell’analisi empirica. Nei SLL del lavoro maggiormente industrializzati del primo tipo di ambiente, il congiunto dei fattori legati all’industria e al capitale umano concorre a formare la quasi totalità della variabilità complessivamente spiegata nella produzione locale di innovazione, mentre vi concorre per poco meno della metà nel secondo tipo di ambiente. Per converso, il ruolo del fattore “milieu” risulta preponderante in quest’ultimo, mentre è modesto nel primo. Trovano altresì conferma le ipotesi, variamente diffuse in letteratura, che collegano l’innovazione alle componenti push o pull, espresse rispettivamente dalle dinamiche interne al sistema industriale e dalla domanda. Nel nord-ovest prevale nettamente la prima componente, com’è da aspettarsi in presenza di imprese aventi un potere monopolistico, mentre nella Terza Italia le due componenti si equivalgono, segno comunque di un effetto di trascinamento della domanda. Significativo (benché isolato al caso meridionale) risulta infine l’apporto del fattore “eterogeneità” delle attività produttive. Sotto il profilo normativo, i grafici esposti nella Figura 1b costituiscono un analogo del diamante della competitività di Porter (1990). Per migliorare le performance innovative, le regioni dovrebbero pertanto operare per incrementare il contributo delle componenti in cui risultano relativamente deboli, nella consapevolezza peraltro che non tutte queste componenti sono egualmente suscettibili di intervento: l’osservazione vale, in particolare, per le componenti di milieu il cui ruolo prescinde per larga parte dall’azione preordinata dei soggetti. Pur con queste limitazioni, è possibile affermare che nella Terza Italia le politiche dovrebbero concentrarsi sul rafforzamento del fattore umano, relativamente al quale non appare evidente, ad esempio, l’apporto della popolazione laureata (il quale si dimostra al contrario rilevante nel nord-ovest). Nella Prima Italia, le politiche dovrebbero invece tendere alla valorizzazione delle componenti del milieu più facilmente governabili, come può esserlo la presenza di una domanda interna qualificata, il cui ruolo non risulta significativo nei SLL industrializzati, contrariamente a quanto avviene in quelli poco industrializzati. Assai più problematico è fornire indicazioni per il Mezzogiorno, se non per osservare che l’avvio di un processo di industrializzazione (e/o di regolarizzazione dell’industria operante nel sommerso) costituisce la condizione preliminare per l’innesco di processi di innovazione (o per la loro ufficializzazione, laddove già operino senza che ve ne sia traccia nelle statistiche ufficiali). Bibliografia Acs Z.J. (ed.) (2002) Innovation and the Growth of Cities, Edward Elgar, Cheltenham. Allen J. (2000) “Power/Economic Knowledge”, in J.R. Bryson et al., 15-33. Arrow K.J. 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APPENDICE Tabella A1 Domande di Triadic Patents per milione di abitanti e PNL pro capite in un campione di 34 paesi al 2002 Stati Domande di brevetto per milione di abitantia PNL pro capite (US$)b Stati Domande di brevetto per milione di abitanti PNL pro capite (US$) Svizzera 125,83 36.170 Irlanda 15,27 23.030 Finlandia 114,12 23.890 Italia 14,48 19.080 Giappone 103,54 34.010 Corea 13,23 9.930 Svezia 100,41 25.970 Nuova Zelanda 10,24 13.260 14.580 Germania 88,16 22.740 Spagna 2,90 Stati Uniti 63,57 35.400 Ungheria 2,69 5.290 Olanda 59,81 23.390 Repubblica Ceca 1,15 5.480 Israele 49,99 16.020 Sud Africa 0,85 2.500 Danimarca 40,15 30.260 Grecia 0,66 11.660 10.720 Francia 39,83 22.240 Portogallo 0,59 Belgio 38,46 22.940 Federazione Russa 0,41 2.130 Austria 34,88 23.860 Polonia 0,24 4.750 Regno Unito 34,46 25.510 Argentina 0,22 4.220 Norvegia 23,32 38.730 Messico 0,15 5.920 Canada 21,08 22.390 Turchia 0,13 2.490 Singapore 20,28 20.690 Cina 0,11 960 Australia 18.56 19,530 Romania 0.09 1,870 a Fonte: OECD (2005). b Fonte: World Bank (2004). Tabella A2 Domande di brevetto nazionale per milione di abitanti e PIL pro capite nelle regioni italiane (valori medi 2002-06) per milione di abitantia PIL pro capite (€)b Emilia Romagna 441,72 28.013 Lazio 157,03 27.063 Marche 430,07 22.824 Liguria 144,57 23.164 Veneto 408,28 26.444 Valle d’Aosta 98,04 29.604 Regioni Domande di brevetto Regioni Domande di brevetto per milione di abitanti PIL pro capite (€) Friuli Venezia Giulia 371,11 25.238 Basilicata 72,51 15.879 Lombardia 325,59 29.514 Molise 71,61 16.588 Toscana 264,16 24.898 Puglia 68,00 14.966 Piemonte 244,03 24.941 Campania 63,55 14.766 14.586 Umbria 229,65 21.454 Calabria 56,89 Trentino Alto Adige 189,65 28.330 Sardegna 55,40 17.639 Abruzzo 157,37 18.816 Sicilia 46,13 14.828 a Fonte: InfoCamere − Società Consortile delle Camere di Commercio Italiane. b Fonte: Istat. Tabella A3 Contenuti e fonti delle variabili esplicative risultate significative nel modello SPSSa Variabili esplicative Quota addetti alle imprese con almeno 100 addetti Quota addetti alle UL della produzione simbolica Quota addetti alle UL delle attività culturali Quota addetti alle UL dell’industria Indice di attrazione su pendolarismo totale Indice di pendolarismo totale Indice di Shannon su addetti alle UL ISCO1 Contenuto Istat, 8° Censimento Industria e servizi Quota di addetti alle UL che esercitano le seguenti attività: Edizione di libri, opuscoli, libri di musica e altre pubblicazioni; Edizione di giornali; Edizione di riviste e periodici; Edizione di supporti sonori registrati; Altre edizioni; Composizione e fotoincisione; Consulenza per installazione di elaboratori elettronici; Fornitura di software e consulenza in materia di informatica; Ricerca e sviluppo sperimentale nel campo delle scienze naturali e ingegneria; Ricerca e sviluppo sperimentale nel campo delle scienze sociali e umanistiche; Attività degli studi legali; Attività degli studi notarili; Studi di mercato e sondaggi di opinione; Consulenze finanziarie; Consulenze del lavoro; Consulenze agrarie; Amministrazione di società ed enti, consulenza e pianificazione aziendale; Pubbliche relazioni; Agenzie di informazioni commerciali; Attività di gestione delle società di controllo finanziario (holding operative); Studi di architettura; Studi di promozione pubblicitaria; Servizi di ricerca, selezione e fornitura di personale; Servizi di investigazione; Design e stiling di tessili, abbigliamento, calzature, gioielli, mobili, ecc.; Attività di pianificazione generale e servizi statistici generali; Corsi di diploma universitario; Corsi di laurea; Istituti, cliniche e policlinici universitari; Attività di organizzazioni di datori di lavoro ed associazioni di categoria; Organizzazioni economiche; Attività di associazioni professionali; Attività dei sindacati di lavoratori dipendenti; Attività dei partiti e delle associazioni politiche; Attività di altre organizzazioni associative n.c.a.; Produzioni cinematografiche e di video; Attività radiotelevisive; Creazioni e interpretazioni artistiche e letterarie; Attività delle agenzie di stampa Quota di addetti alle UL che esercitano le seguenti attività: Edizione di libri, opuscoli, libri di musica e altre pubblicazioni; Edizione di giornali; Edizione di riviste e periodici; Edizione di supporti sonori registrati; Altre edizioni; Stampa di giornali; Altre stampe di arti grafiche; Rilegatura e finitura di libri; Composizione e fotoincisione; Altri servizi connessi alla stampa; Riproduzione di supporti sonori registrati; Riproduzione di supporti video registrati; Riproduzione di supporti informatici registrati; Grandi magazzini; Altri esercizi non specializzati; Commercio al dettaglio di macchine e attrezzature per ufficio; Commercio al dettaglio di materiale per ottica,fotografia, cinematografia, strumenti di precisione; Commercio al dettaglio di orologi, articoli di gioielleria e argenteria; Commercio al dettaglio di giochi e giocattoli; Commercio al dettaglio di articoli sportivi, biciclette, armi e munizioni; di articoli per il tempo libero; Commercio al dettaglio di oggetti d'arte, di culto e di decorazione; Commercio al dettaglio di combustibili per uso domestico; Commercio al dettaglio di natanti ed accessori; Commercio al dettaglio di altri prodotti n.c.a.; Commercio al dettaglio di libri usati; Commercio al dettaglio di mobili usati; Commercio al dettaglio di indumenti e oggetti usati; Case di vendite all'asta; Vendita diretta di prodotti vari mediante l'intervento di un dimostratore; Commercio effettuato per mezzo di distributori automatici; Commercio al dettaglio ambulante a posteggio mobile di alimentari e bevande; Commercio al dettaglio ambulante a posteggio mobile di tessuti e articoli di abbigliamento; Altro commercio ambulante a posteggio mobile; Fornitura di software e consulenza in materia di informatica; Studi di architettura; Studi di ingegneria; Servizi di ingegneria integrata; Attività di aerofotogrammetria e cartografia; Attività di ricerca mineraria; Altre attività tecniche ; Studi di promozione pubblicitaria; Agenzie di concessione degli spazi pubblicitari; Studi fotografici; Laboratori fotografici per lo sviluppo e stampa; Attività di aerofotocinematografia; Organizzazione di convegni; Agenzie di distribuzione di libri, giornali e riviste; Design e stiling relativo a tessili, abbigliamento, calzature, gioielleria, mobili e altri beni personali; Altre attività di servizi n.c.a.; Produzioni cinematografiche e di video; Distribuzioni cinematografiche e di video; Proiezioni cinematografiche; Attività radiotelevisive; Creazioni e interpretazioni artistiche e letterarie; Gestione di sale di spettacolo e attività connesse; Discoteche, sale da ballo, night clubs e simili; Sale giochi e biliardi; Circhi e altre attività itineranti di intrattenimento e di spettacolo; Altre attività di intrattenimento e di spettacolo; Attività delle agenzie di stampa; Attività di biblioteche e archivi; Attività dei musei e conservazione dei luoghi e dei monumenti storici; Attività degli orti botanici, dei giardini zoologici e delle riserve naturali; Stabilimenti balneari (marittimi, lacuali e fluviali); Altre attività ricreative n.c.a. Quota di addetti alle UL dell’industria in senso stretto sul totale degli addetti Istat, 8° Censimento Industria e servizi Rapporto fra il totale dei flussi pendolari che hanno per destinazione il SLL ed il totale dei flussi pendolari che hanno per origine lo stesso SLL. L’indice è il prodotto di due quantità. La prima è data dal rapporto fra i flussi in uscita dal SLL e il totale dei flussi originati dallo stesso SLL; la seconda è data dal rapporto fra i flussi provenienti da altri SLL e il totale dei flussi che hanno per destinazione lo stesso SLL. Indice di Shannon relativo calcolato sugli addetti alle UL, secondo la classificazione Ateco a 5 cifre Ln (addetti UL) Quota di residenti in condizione professionale secondo la classificazione ISCO-88-COM, Categoria “Legislatori, dirigenti e imprenditori” Quota di residenti in condizione professionale secondo la classificazione ISCO-88-COM, Categoria “Impiegati” Quota di residenti in condizione professionale secondo la classificazione ISCO-88-COM, Categoria “Artigiani, operai specializzati e agricoltori” Quota di residenti in condizione professionale secondo la classificazione ISCO-88-COM, Categoria “Conduttori di impianti e operai semiqualificati addetti a macchinari fissi e mobili” Logaritmo naturale degli addetti alle UL delle imprese e delle istituzioni Numero di imprese Numero di imprese aventi sede nel SSL Quota popolazione con laurea Propensione all’esportazione Reddito disponibile pro capite Quota di residenti con laurea sulla popolazione di 6 anni e più ISCO4 ISCO6 ISCO7 Valore aggiunto per occupato nel terziario a Fonte Quota di addetti alle imprese con almeno 100 addetti (esclusa pubblica amministrazione) sul totale degli addetti Rapporto tra il valore dell’esportazione e il PIL (2006). L’indicatore provinciale è stato assegnato ai SLL attraverso una media pesata che utilizza il criterio della popolazione residente nei comuni del SLL. Reddito che rimane a disposizione delle famiglie per consumi e risparmio, depurato dalle detrazioni fiscali (2004). L’indicatore provinciale è stato assegnato ai SLL attraverso una media pesata che utilizza il criterio della popolazione residente nei comuni del SLL. Valore aggiunto ai prezzi base, al lordo SIFIM, per addetto nel settore dei servizi (2003) UL sta per “Unità locali delle imprese” Istat, 8° Censimento Industria e servizi. L’elenco delle attività è tratto da OECD (2007). Istat, 8° Censimento Industria e servizi Istat, 14° Censimento della popolazione e delle abitazioni Istat, 14° Censimento della popolazione e delle abitazioni Istat, 8° Censimento Industria e servizi Istat, 14° Censimento della popolazione e delle abitazioni Istat, 14° Censimento della popolazione e delle abitazioni Istat, 14° Censimento della popolazione e delle abitazioni Istat, 14° Censimento della popolazione e delle abitazioni Istat, 8° Censimento Industria e servizi Istat, 8° Censimento Industria e servizi Istat, 14° Censimento della popolazione e delle abitazioni Istituto Guglielmo Tagliacarne − Unioncamere (2007) Istituto Guglielmo Tagliacarne − Unioncamere (2007) Istat, Valore aggiunto e occupati interni per sistema locale del lavoro, 2007. REGIONAL PATTERNS OF INNOVATION IN ITALY Abstract Since Schumpeter’s seminal work of 1911, with which the first basis of a theory of innovation was laid down, numerous and different theories have succeeded, in part as a result of the advancements attained in the disciplinary domain and in a wider theory of knowledge and in part as a consequence of changes which occurred in the technological and organisational domains. A history of theories of innovation written according to the first and/or second perspective might induce one to think that the most recent theories are also the most appropriate to explain the phenomenon of innovation and, in particular, the varied geography it assumes at a world and national level. This paper aims to challenge this hypothesis on empirical grounds. With reference to the Italian case, it shows that theories centred on the figure of the entrepreneur, the industrial structure or the milieu’s features are at present equally adequate to explain innovation, in so far as they refer to contexts characterised by different techno-economic and also spatial paradigms. It follows that policies devoted to enhance innovative attitudes must be fitted according to the specific regional patterns of development.