Dirit to di Simona Morosini Marconi, Responsabile Servizio giuridico Cc-Ti Impedimento al lavoro in caso di malattia e assicurazione del datore di lavoro: qualche consiglio pratico Per ovviare al versamento del salario in caso di malattia del lavoratore, spesso il datore di lavoro stipula un’apposita polizza assicurativa che si sostituisce (a determinate condizioni) alle norme legali minime, segnatamente all’art. 324a del Codice delle obbligazioni (CO). Può accadere che datore di lavoro e dipendente credano in buona fede di avere stipulato un valido regime sostitutivo, quando invece non è il caso. E può persino capitare che, nonostante tale polizza sia stata prevista nel contratto, il datore di lavoro non la stipuli. Le conseguenze per i datori di lavoro possono essere dolorose… Mancata stipula dell’assicurazione Se il datore tenuto per CCL a stipulare una polizza d’indennità giornaliera in caso di malattia omette di farlo, egli rischia di dover colmare il vuoto assicurativo e sopportare l’onere salariale, pagando di tasca propria l’assenza per malattia del dipendente, ossia l’80% del salario per un massimo di 720 giorni anziché i 6 mesi della scala bernese. Lo stesso accadrebbe nel caso in cui il datore di lavoro si fosse impegnato a stipulare una tale polizza al momento della conclusione del contratto individuale di lavoro, omettendo però di dare seguito a tale impegno. Regime legale Ricordiamo che il CO prevede all’art. 324a che se il lavoratore è impedito senza sua colpa di lavorare per motivi inerenti la sua persona, come malattia, infortunio, adempimento d’un obbligo legale o d’una funzione pubblica, il datore di lavoro deve comunque versare il salario per un tempo limitato, a seconda della durata del rapporto di lavoro. Il capoverso 4 dell’art. 324a dispone che a tale regime può essere derogato mediante accordo scritto, contratto normale o contratto collettivo, che sancisca un ordinamento almeno equivalente per il lavoratore. Il vizio di forma e altre dimenticanze Il vizio di forma (ad esempio, il mancato rispetto della forma scritta), oppure la mancata indicazione degli elementi essenziali del regime sostitutivo (percentuale di salario assicurato, durata della copertura, ecc.) porterà invece alla conseguenza che non è stato stipulato alcun valido regime sostitutivo. Il datore di lavoro dovrà quindi rispondere versando il salario sulla base dei parametri previsti all’art. 324a CO (scala bernese). Se però, nonostante l’assenza di forma scritta del regime sostitutivo, il datore di lavoro ha comunque stipulato un’assicurazione di indennità per perdita di guadagno, il lavoratore beneficerà sia delle prestazioni del datore di lavoro secondo l'art. 324a, sia delle prestazioni assicurative, escluso ovviamente un sovraindennizzo. Regime sostitutivo: l’assicurazione Le assicurazioni di indennità per perdita guadagno in caso di malattia hanno assunto sempre maggiore importanza quale regime sostitutivo dell’art. 324a e della scala bernese. Va premesso che l’assicurazione collettiva perdita di guadagno conclusa dal datore di lavoro per il personale copre di solito le conseguenze della malattia non professionale. I rischi infortunio e malattia professionale sono infatti coperti dall’assicurazione infortuni fino a concorrenza del guadagno massimo assicurato. Per la parte eccedente tale importo, solitamente il datore di lavoro stipula un’assicurazione complementare. Condizioni del regime sostitutivo Per sostituire validamente il regime previsto all’art. 324a occorre anzitutto un accordo scritto tra datore di lavoro e dipendente. Non basta un accordo verbale, a meno che il regime sostitutivo concordato verbalmente sia chiaramente più favorevole al lavoratore, e non solo “equivalente”. Inoltre, l’accordo deve indicare in modo chiaro i seguenti elementi essenziali: percentuale di salario assicurata, rischi coperti, durata delle prestazioni, modalità di finanziamento dei premi, durata di un eventuale periodo di attesa. Per essere considerati equivalenti al minimo legale, tali regimi sostitutivi devono prevedere una copertura pari ad almeno l’80% del salario, per almeno 720 giorni sull’arco di 900 giorni consecutivi. Sono inoltre ammessi 2 giorni di carenza (ossia il periodo di attesa durante il quale il dipendente non è remunerato in caso di malattia). Il Tribunale federale ha in particolare ritenuto equivalente un regime sostitutivo che prevedeva il pagamento dell’80% a partire dal terzo giorno e l’assunzione dei premi da parte del datore di lavoro in ragione di 2/3. Regimi sostitutivi previsti nei CCL Di regola i contratti collettivi di lavoro (CCL) prevedono un obbligo a carico dei datori di lavoro di stipulare un’assicurazione collettiva perdita di guadagno in caso di malattia, comportante il versamento dell’80% del salario a partire dal primo giorno di assenza, con riparto dei premi in ragione di metà ciascuno fra lavoratore e datore di lavoro. A titolo di confronto, si ricorderà che il regime legale dell’art. 324a cpv. 2 CO prevede invece che il datore di lavoro debba coprire il 100% del salario in caso di malattia, per un periodo che, nella migliore delle ipotesi e applicando la “scala bernese”, varierà da un minimo di tre settimane sino ad un massimo di 6 mesi, a seconda della durata del rapporto lavorativo. Assicurazione LAMAL oppure LCA? A meno che un CCL o il contratto individuale non prevedano diversamente, il datore di lavoro può scegliere se assicurare il personale secondo il regime di indennità giornaliera della LAMAL oppure secondo la Legge sul contratto d’assicurazione (LCA). È consigliabile che il contratto di lavoro contenga un rinvio esplicito alle condizioni generali d’assicurazione, poiché esse prevedono spesso delle riserve (in particolare, in relazione all’età e allo stato di salute preesistente dell’assicurato). Attenzione all’informazione nei confronti del lavoratore La differenza fra il regime assicurativo della LAMAL e quello della LCA risiede essenzialmente nel fatto che le prestazioni dipendono nel primo caso dall’affiliazione all’assicuratore malattia. In altri termini, la copertura LAMAL cessa al momento della cessazione del rapporto lavorativo. Se l’incapacità perdura oltre la fine dei rapporti di lavoro, le prestazioni assicurative saranno erogate solo nella misura in cui il lavoratore rimane affiliato alla cassa malati. L’assicurato può esercitare il diritto di passaggio nell’assicurazione individuale entro tre mesi dalla data in cui ha ricevuto la comunicazione dell’assicuratore malattia. Se omette di esercitare tale diritto, non potrà rivalersi sul datore di lavoro in caso di mancata copertura. Nell’assicurazione secondo la LCA, il diritto alle prestazioni dipende invece dalla sopravvenienza dell’evento pregiudizievole durante il periodo di copertura. Salvo accordo contrario, la copertura può quindi sussistere oltre la fine del rapporto di lavoro. Occorre però prestare attenzione al fatto che, spesso, le condizioni generali degli assicuratori LCA riversano sul datore di lavoro l’obbligo di informare il dipendente sul dritto di passaggio all’assicurazione individuale. L’omissione di informazione nei confronti del dipendente può provocare un vuoto assicurativo di cui il datore di lavoro potrà essere chiamato a rispondere! In ogni caso, il datore di lavoro si cautelerà sin dall’inizio, inserendo nel contatto individuale di lavoro un rinvio esplicito alle condizioni generali di assicurazione e ricordando al dipendente (al più tardi al momento della disdetta e preferibilmente per iscritto) i suoi diritti di passaggio nell’assicurazione individuale. 27 Dirit to di Simona Morosini Marconi, Responsabile Servizio giuridico Cc-Ti Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di merci: tra notifica dei difetti e prescrizione c’è di mezzo il mare? Nell’ambito di un contratto di compravendita, il fornitore è spesso confrontato a contestazioni dell’acquirente in relazione alla difettosità della merce fornita. Nella vendita internazionale, si incorre sovente nell’incertezza per quanto riguarda i termini di notifica dei difetti ed i termini di prescrizione, segnatamente laddove si applicasse un regime diverso rispetto al Codice svizzero delle obbligazioni. La Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di merci (CVIM) si sostituisce di regola alle legislazioni nazionali degli Stati che l’hanno sottoscritta (fra cui la Svizzera) quando le parti contraenti sono domiciliate in Paesi diversi. Uno dei problemi nell’applicazione della CVIM è però quello della prescrizione in relazione alla notifica dei difetti. In una sentenza del maggio 2009, il Tribunale federale ha avuto modo di giudicare il caso di un’azienda basilese che nel 2000 aveva venduto ad un’azienda spagnola un macchinario per la produzione d’imballaggi. Constatato che il macchinario consentiva di raggiungere una produzione massima di 52 flaconi al minuto, anziché i 180 pattuiti, nel 2003 l’azienda spagnola aveva dichiarato di rescindere il contratto e di voler restituire il macchinario, pretendendo dal venditore che restituisse a sua volta il prezzo corrisposto. I tribunali basilesi hanno accolto la richiesta dell’acquirente e condannato il venditore a rimborsare il prezzo ed a riprendere il macchinario. Il venditore ha però contestato tale decisione innanzi al Tribunale federale, adducendo che l’acquirente non ha agito tempestivamente, violando l’art. 210 cpv. 1 del Codice delle obbligazioni , il quale prevede che le azioni di garanzia per i difetti si prescrivono con il decorso di un anno dalla consegna al compratore, anche se questi dovesse averli scoperti più tardi. Il Tribunale federale (TF) ha comunque dato ragione all’acquirente. Interessanti sono però le consi- 18 Ticino Business derazioni sulle quali il TF ha fondato la decisione. Anzitutto, ha rilevato che la CVIM, a differenza del Codice delle obbligazioni, non regola la questione della prescrizione, ossia il termine entro il quale occorre agire per far valere i difetti. Per esaminare tale questione occorre dunque riferirsi alla legislazione nazionale. Dato che l'azienda venditrice era domiciliata in Svizzera, la legislazione nazionale di riferimento era per l’appunto il Codice delle obbligazioni che, come testé esposto, prevede all’art. 210 cpv. 1 un termine di prescrizione di un anno. Sennonché, la CVIM prevede all’art. 39 cpv. 2 un termine di 2 anni dalla consegna della merce, per notificare vizi di conformità al venditore. In altri termini, la CVIM accorda due anni di tempo all’acquirente, dal momento della consegna delle merce, per denunciare il difetto, mentre il Codice svizzero delle obbligazioni accorda al venditore solo un anno di tempo dalla consegna per far valere giudizialmente tale difetto. Il TF ha quindi rilevato che, nella compravendita internazionale, potrebbe accadere che un difetto denunciato per tempo al venditore secondo la CVIM, sia prescritto secondo il Codice delle obbligazioni (ossia non possa più essere fatto valere giudizialmente). Tale risultato sarebbe paradossale e contrario al diritto internazionale. Nella sua decisione il TF ha quindi rilevato che, nella vendita internazionale di merci, il termine di prescrizione annuale dell’art. 210 cpv. 1 del Codice delle obbligazioni non può trovare applicazione in quanto suscettibile di entrare in conflitto con il termine biennale per la notifica dei difetti previsto all’art. 39 cpv. 2 CVIM. Ma quale termine di prescrizione è dunque applicabile? Come spesso accade, per sua fortuna il TF ha potuto lasciare aperta la questione, limitandosi ad accennare ad una possibile prescrizione biennale, in analogia al termine di due anni previsto nella CVIM per la notifica dei difetti, rispettivamente ad una pre- il tuo partner... AGENZIA VIAGGI Visitate il nostro nuovo sito, troverete proposte di viaggi fino a dicembre 2010! CH-6900 Lugano Cassarate - Viale dei Faggi 10 - Tel. +41 91 970 17 18 Fax +41 91 971 54 18 [email protected] - www.gabbianoviaggi.ch ASSICURAZIONI Giuseppe Cassina scrizione di dieci anni, prevista all’art. 127 del Codice delle obbligazioni. Per dovere di cronaca, riportiamo il seguito della vicenda summenzionata. Il TF ha ritenuto che l’azione dell’acquirente non fosse prescritta poiché il suo decorso era stato nel frattempo “interrotto”. Questa interruzione della prescrizione era da attribuire, da un lato, al fatto che il venditore si era recato in Spagna a più riprese per cercare di rimediare al difetto (difetto che era dunque stato riconosciuto come tale dal venditore). Dall’altro lato, era stato appurato che l’acquirente aveva potuto accertare solo nel febbraio 2004 la persistenza del difetto, dopo che il venditore era intervenuto, di modo che l’acquirente era ancora in tempo per agire giudizialmente. La prescrizione, interrotta a più riprese da questi interventi, non aveva quindi nemmeno raggiunto un anno. Pertanto, la dibattuta questione del suo decorso nemmeno si è posta al TF, se non in termini teorici. Nell’ambito di una contestazione relativa ad un contratto di vendita si devono dunque tenere presenti questi aspetti, in particolare il fatto che ciò che a prima vista può apparire prescritto, in realtà potrebbe non esserlo. Nel caso in cui dovesse applicarsi la CVIM, occorre tenere presente questa potenziale (e per il momento irrisolta) “incompatibilità” tra termine di notifica secondo tale convenzione e la prescrizione secondo il Codice delle obbligazioni. All’acquirente insoddisfatto che volesse far valere giudizialmente un difetto potrebbe dunque essere applicata una prescrizione di 2, se non addirittura 10 anni (!), ben più favorevole a quella annuale (non applicabile) prevista all’art. 210 CO. Pertanto, quand’anche il termine di un anno del CO fosse già decorso, il venditore non potrà ancora ritenersi del tutto al riparo da contestazioni relative ai difetti dell’oggetto venduto. Agente Generale Agenzia Generale Lugano Via R. Simen 5 - 6904 Lugano Tel. 058 471 17 17 Fax 058 471 17 18 [email protected] Centro Prestazioni 058 471 17 77 CARTOLERIA - TUTTO PER L’UFFICIO IMMOBILIARE Centro Polus Spazi modulari in affitto e luogo per incontrarsi Via Corti 5 CH-6828 Balerna Tel. +4191 683 35 05 Fax +4191 683 35 06 [email protected] - www.polus.ch IMPIEGO TEMPORANEO E FISSO Kelly Services (Svizzera) SA Impiego temporaneo e fisso Lugano Via Magatti 3 Tel. 091 910 51 00 [email protected] Lei ha talento. Noi abbiamo il Più di 45 succursali e dipartimenti specializzati in Svizzera. www.kellyservices.ch PUBBLICITÀ di fiducia! 19 Dirit to di Simona Morosini Marconi, Responsabile Servizio giuridico Cc-Ti La successione d’impresa: il futuro delle PMI Nei prossimi cinque anni 77’270 imprese in Svizzera, pari al 26 % di tutte le aziende, si troveranno a dover affrontare la gestione della successione aziendale. Ciò avrà degli effetti su approssimativamente 976’220 posti di lavoro, ovvero sul 30% circa della totalità degli occupati. Per quanto riguarda il Ticino, si stima che oltre 5’500 PMI ticinesi dovranno risolvere le questioni legate alla loro successione nei prossimi 5 anni, ciò che riguarda più di 65’000 posti di lavoro. Un altro dato eloquente: il 60% delle aziende che impiegano meno di 9 persone non ha pensato alla questione della successione. Le proporzioni del fenomeno sono quindi importanti per la nostra realtà economica. Questi dati dovrebbero far riflettere, senza però creare inutili allarmismi. Quel che è certo, è che occorre promuovere la successione d’impresa per mantenere intatto il nostro patrimonio aziendale e conservare i posti di lavoro. La fiscalità è un elemento centrale della localizzazione aziendale: sarebbe però uno sforzo vano se, in presenza di condizioni fiscali (ottimali o ottimizzabili) venisse a mancare una cultura della successione imprenditoriale. L’associazione Futuro PMI Nel corso del mese di aprile scorso si è tenuta, presso la sede bellinzonese di BancaStato, la presentazione ufficiale di “Futuro PMI”, un’associazione voluta dal Dipartimento federale dell’economia, che si propone di promuovere la sopravvivenza e continuità delle PMI svizzere tramite una pianificazione tempestiva del passaggio generazionale delle aziende. Partners di questo progetto di sensibilizzazione nel Cantone Ticino sono la Cc-Ti, AITI, il Cantone, BancaStato, BDO e La Mobiliare. Oltre alla sensibilizzazione, Futuro PMI propone due strumenti concreti: NEXTcheck (audit online gratuito sulla successione) e NEXTmarket (piattaforma di negoziazione online che propone un sito per l’annuncio di vendita di aziende). Per conoscere il funzionamento di questi strumenti, si invita a consultare il seguente sito: www.futuropmi.ch. Soluzioni di successione interne ed esterne alla famiglia Quasi il 90% del totale delle imprese in Svizzera sono società a carattere familiare. Pertanto si potrebbe pensare che la successione all’interno della famiglia costituisca l’obiettivo strategico della maggioranza degli imprenditori. Ad infirmare tale tesi vi è il fatto, confermato da diversi studi, che il 50% delle aziende viene tramandato esternamente alla famiglia. Vi è quindi una parte importante di aziende che cercano dei successori esternamente alla famiglia, ciò che richiede un notevole sforzo in termini di tempo e di pianificazione. Alcune fra le varianti più gettonate di successione extra-familiare implicano la vendita ad uno o più dirigenti (cosiddetto “Management buyout”), rispettivamente ad un’altra impresa in qualità di investitore strategico. Ma in linea di conto entrano anche la vendita ad amici o ad altre persone esterne. Nelle successioni esterne alla famiglia la quota da finanziare per rilevare l’azienda è spesso più elevata rispetto alle successioni interne alla famiglia. In tale contesto il finanziamento tramite credito bancario è quindi più diffuso. Per quanto riguarda la successione interna alla famiglia, essa deve rispondere a precise esigenze, fra cui (ovviamente) la volontà di mantenere l’azienda all’interno del nucleo familiare, la ripartizione equa dell’eredità e, di riflesso, la prevenzione dei conflitti familiari. Nella pratica si constata però che proprio questi aspetti costituiscono un 16 Ticino Business ostacolo importante ed un motivo in più per cercare una soluzione esterna alla famiglia. La tempistica e la forma societaria Da cinque a dieci anni. Tale è il lasso di tempo che, si stima, occorre per pianificare e mettere in atto una successione d’impresa, tenuto anche conto del tempo necessario ad individuare un successore interno o esterno. La successione può peraltro implicare la ricerca di soluzioni societarie e/o contrattuali più o meno complesse. È indispensabile preparare con cura la successione della propria impresa se si vuole che essa funzioni al momento in cui avverrà il passaggio di testimone. Specialmente in seno alle aziende di famiglia, occorre una struttura societaria in grado di assicurare una “family governance” efficace, in cui il controllo e la presa di decisioni non siano ostacolate dalla concentrazione del potere. Spesso le aziende di famiglia vedono il potere riunito nelle mani delle medesime persone che, oltre alla comproprietà, svolgono ruoli di amministrazione e direzione. Questo, unitamente ad un deficit di trasparenza, può favorire le disfunzioni. Si devono inoltre regolare i diritti patrimoniali dei membri della famiglia, tenuto conto del fatto che il sostentamento di alcuni di essi può in prevalenza dipendere dagli utili distribuiti, mentre altri membri della famiglia - direttamente coinvolti nella sua gestione e non necessariamente interessati distribuzione di utili - ricaveranno il loro salario dall’azienda. Una struttura che non tenga conto di tali contrapposti interessi fra i membri può portare a conflitti. La scelta delle forme societarie ipotizzabili può variare (società semplice, in nome collettivo, in accomandita, SA, Sagl, società in accomandita per azioni). Ciascuna con i propri vantaggi e svantaggi, nessuna perfetta. Il ricorso ad una pluralità di società oppure alla struttura “holding” o alle convenzioni fra azionisti può consentire di trattare su un piano di eguaglianza pecuniaria i membri della famiglia, conferendo però un accresciuto potere decisionale unicamente a taluni membri. Trattasi di questioni che, evidentemente, non si risolvono durante un comizio di famiglia, ma sarebbero da pianificare per tempo, avvalendosi di un coaching professionale in materia di successione aziendale. Successione d’impresa e previdenza professionale Una fetta importante degli imprenditori oltre i 65 anni non ha ancora pianificato la previdenza per la vecchiaia. Occorre tenere presente che in buona parte dei casi l’azienda costituisce una parte del piano previdenziale dell’imprenditore. Il ricavato dalla vendita può quindi assumere un’importanza eccessiva e disattendere le aspettative dell’imprenditore qualora non fosse sufficiente a coprire il tenore di vita. Se l’imprenditore non ha pensato a soluzioni assicurative complementari adeguate per garantirsi una vecchiaia, dovrà cercare di ricavare un massimo dalla vendita. Ciò può ritardare (se non ostacolare) il trasferimento. La riuscita di una successione aziendale dipende quindi anche da questo fattore, come pure da fattori psicologici. Ad ostacolare la successione può infatti contribuire il lato emotivo legato al timore di perdita di status sociale o da un complesso di insostituibilità. Tale timore può ritardare la riflessione dell’imprenditore sulla successione della propria azienda o addirittura ostacolarla, in una sorta di autosabotaggio. A tale difficoltà, assai diffusa, si può ovviare mantenendo comunque una posizione operativa in seno all’azienda ceduta. Dirit to di Simona Morosini Marconi, Responsabile Servizio giuridico Cc-Ti Progetto "Swissness": secondo round… Nell’edizione di Ticino Business del marzo 2008 avevamo ampiamente trattato la revisione legislativa denominata “Swissness”. Di seguito cercheremo di fare il punto della situazione su questo progetto che non suscita unanimi consensi e, per talune cerchie interessate, sfora completamente gli obiettivi perseguiti, ponendo in particolare il settore industriale e l’industria alimentare di fronte a regole più severe e di difficile applicazione Fasi del progetto di revisione Il 28 novembre 2007 Consiglio federale ha avviato una procedura di consultazione sull’avanprogetto di revisione della legge sulla protezione dei marchi e delle indicazioni di provenienza e della legge per la protezione degli stemmi pubblici e di altri segni pubblici. Negli intenti del Consiglio federale, tale revisione è finalizzata a due obiettivi principali: rafforzare la tutela della designazione "Svizzera" e quella della croce svizzera a livello nazionale e all’estero, nonché fornire maggiore chiarezza e sicurezza giuridica. Un numero crescente di imprese utilizza per i propri servizi e prodotti indicazioni quali “Svizzera”, “qualità svizzera”, “made in Switzerland”, oppure appone la croce svizzera (ciò che secondo la legislazione attuale è vietato fare sui prodotti, ancorché tale divieto sia puntualmente disatteso). Il valore dell’indicazione “made in Switzerland” è stata valutato e quantificato da uno studio dell’Università di San Gallo. Le conclusioni di questo studio rilevano come tale indicazione contribuisca in modo rilevante (20%) al valore aggiunto dei beni di consumo e, quindi, al miglior posizionamento del prodotto sul mercato. Per l’industria meccanica, tale valore aggiunto si aggira tra l’uno e il 2% della cifra d’affari. Altro aspetto interessante, rilevato dall’Istituto della proprietà intellettuale in occasione di un incontro con rappresentanti delle Camere di commercio e dell’industria lo scorso mese di gennaio, è che l’uso della croce svizzera sul prodotto costituisce uno strumento di marketing ancora 14 Ticino Business più efficace rispetto all’indicazione “swiss made”. Non sorprende quindi che sul piano svizzero ed internazionale vi sia un grande interesse a poter utilizzare tali indicazioni, ciò che conduce altresì al moltiplicarsi di comportamenti abusivi da parte di aziende il cui prodotto o servizio non rientra nei parametri dello “swiss made”. La procedura di consultazione sull’avanprogetto, cui hanno partecipato innumerevoli associazioni, fra cui la Camera di commercio e dell’industria svizzera, l’USAM ed economiesuisse, si è conclusa il 31 marzo 2008. Il 15 ottobre 2009 è stato pubblicato un rapporto di 61 pagne. Fra le novità, la revisione prevede che l’Istituto federale della proprietà intellettuale possa d’ora in poi sporgere querela e prendere parte alle proce- dure a livello nazionale in caso di utilizzo abusivo dell’indicazione di provenienza e della croce svizzera. Il progetto prevede inoltre che gli stemmi ufficiali della Svizzera (croce svizzera su uno scudo) siano riservate alla Confederazione e possano essere utilizzati solo da quest’ultima. La bandiera e la croce svizzera potranno invece essere usati da tutti, non solo in rapporto ai servizi, bensì anche per i prodotti, qualora essi provengano effettivamente dalla Svizzera. Se si considera che la croce svizzera l’indicazione di provenienza svizzera più preziosa in termini di marketing, l’abbandono della distinzione tra l’uso della croce svizzera per i prodotti e per i servizi appare del tutto giustificata. glio federale ha ritenuto di proseguire su questa linea, con argomentazioni non del tutto consistenti. Percentuali di “svizzerità” nei prodotti naturali trasformati Fra le modifiche più significative e controverse vi è quella relativa ai prodotti naturali trasformati. Per poter essere designato come svizzero, almeno l’80% del peso delle materie prime o degli ingredienti che compongono il prodotto deve provenire dalla Svizzera. Il luogo di trasformazione deve inoltre trovarsi in Svizzera. Non sono presi in Il 15 ottobre 2008 il Consiglio federale ha preso conoscenza dei risultati della consultazione ed ha deciso di integrare parte delle proposte di modifica formulate dalle cerchie interessate. Come esporremo qui di seguito, nonostante le forti divergenze, non tutte le proposte di modifica sono state riprese dal Consiglio federale nel Messaggio del 18 novembre 2009. Prodotti industriali e artigianali: regole più rigorose per lo “swiss made” Come già menzionato nel precedente contributo, la revisione posta in consultazione prevede criteri che definiscono in maniera più rigorosa, rispetto a quanto in vigore oggi, la provenienza di un prodotto. Affinché un prodotto possa essere considerato proveniente dalla Svizzera, il 60% dei costi di produzione (ossia i costi generati dal prodotto) dovrà essere ivi realizzato. Nel calcolo potranno essere inclusi, oltre ai costi di produzione, i costi di assemblaggio, ricerca e sviluppo. I costi relativi a imballaggio, marketing e assistenza post-vendita non sono invece computabili. Due ulteriori condizioni esigono che l’attività che ha conferito al prodotto le sue caratteristiche essenziali, rispettivamente una tappa fondamentale della produzione, si siano svolte in Svizzera (quest’ultimo criterio è automaticamente soddisfatto se l’attività che ha conferito al prodotto le sue caratteristiche essenziali si identifica con la tappa fondamentale della produzione). Il consumatore dovrà quindi potersi aspettare che tali prodotti, se targati “swiss made”, abbiano generato, durante la loro fabbricazione, almeno un 60% di costi realizzati in Svizzera. Nonostante la ferma reazione di dissenso sulla regola del 60%, giudicata troppo severa da svariate associazioni, fra cui Camera di commercio e dell’industria svizzera e USAM, nonché dalla commissione extraparlamentare “Forum PMI”, il Consi- considerazione i costi di ricerca e sviluppo. Delle deroghe alla regola dell'80% sono possibili per gli ingredienti e le materie prime che non esistono in Svizzera (per esempio il cacao, l’oro, i chicci di caffè) o che vengono a mancare, esclusi però i motivi puramente economici, come ad esempio prezzi più vantaggiosi sul mercato estero. Nel caso in cui la materia prima non fosse disponibile in quantità sufficiente in Svizzera a medio-lungo termine, la deroga alla regola dell’80% potrà però essere invocata solo se tale insufficienza è fissata in una specifica ordinanza del Consiglio federale. Cumulativamente a queste condizioni, l’attività che conferisce al prodotto le sue caratteristiche essenziali deve svolgersi in Svizzera. Per citare un esempio, il consumatore di uno yogurt al müesli contrassegnato come “made in Switzerland” dovrà in linea di principio potersi aspettare che l’80% del peso delle materie prime ivi contenute siano di provenienza svizzera. Lo stesso dicasi dei biscotti e di numerosi prodotti del settore alimentare e agroalimentare (ivi compreso il celebre “Aromat”) che, con la nuova regolamentazione, rischiano di non poter più essere designati come “swiss made”. Il progetto di legge è passato al vaglio della Commissione affari giuridici del Consiglio Nazionale il 15 Dirit to di Simona Morosini Marconi, Responsabile Servizio giuridico Cc-Ti 28 gennaio scorso. I lavori sono in corso e le lobbies delle cerchie economiche maggiormente interessate (e penalizzate) da questo progetto, si sono mobilitate per “salvare il salvabile”, dopo che il CF ha passato in rassegna le 126 prese di posizione pervenutegli e deciso di fucilare quelle più sensate. Conseguenze per le aziende svizzere Per effetto della globalizzazione, molte aziende svizzere incontreranno difficoltà nel raggiungere una percentuale del 60%, rispettivamente dell’80%. Ancora meno scontata è la reperibilità immediata e incondizionata, sul mercato indigeno, di quelle materie prime (peraltro soggette a variazioni di produzione e di prezzi), che vanno a comporre un prodotto naturale trasformato (tra cui figura la maggior parte delle derrate alimentari). Non sorprende quindi che aziende che da sempre producono un (sinora indiscusso) made in Switzerland, quali Emmi, Kambly e Hug, siano sul piede di guerra e considerino questo progetto come un tiro al piattello, laddove la fine del piattello la stanno facendo proprio le stesse aziende svizzere e non di certo quelle del continente asiatico che, più o meno impunemente, potranno continuare ad abusare dell’indicazione “swiss made” e della croce svizzera (leggi articolo Handelszeitung del 10-16 febbraio 2010, “Die Guetzli-Bäcker wehren sich”). Il Consiglio federale ha tuttavia previsto la possibilità di deroghe alle regole percentuali del 60% e 80%, tramite ordinanze specifiche per singoli settori. Saranno però detti settori a dover prendere l’iniziativa e battersi in maniera concertata (e qui già risiederà la difficoltà) per ottenere l’ordinanza cucita su misura per le rispettive necessità settoriali, verosimilmente a colpi di moschetto, come si prospetta ad esempio per prodotti naturali trasformati come la carne “dei Grigioni”, la cui produzio- 16 Ticino Business ne dipende moltissimo dalla disponibilità di carne (indigena, ma anche estera). A complicare il tutto, vi è il fatto che tali ordinanze conterranno una clausola di revisione periodica e non saranno immutabili nel tempo, proprio per adattarsi alle variazioni di disponibilità delle materie prime. Quella delle deroghe alle regole percentuali tramite ordinanze settoriali costituisce un’impalcatura teorico-giuridica la cui efficacia sarà duramente messa alla prova dalla realtà operativa delle aziende produttrici, le quali esigeranno tempi di reazione brevi. E pensando ai tempi biblici di reazione del legislatore, la prospettiva non è per nulla rallegrante. Bisogna dare atto che il progetto contiene puntuali ed auspicabili modifiche, fra cui l’abrogazione del divieto di apporre la croce svizzera sui prodotti (fermo restando che essi devono essere “svizzeri” secondo i criteri citati) e maggiori possibilità di intervento conferiti alle autorità di denunciare e perseguire i casi di abuso. Per quanto riguarda la tutela a livello internazionale, essa è rafforzata dall’istituzione del registro delle indicazioni geografiche anche per i prodotti non agricoli e la possibilità di deposito di marchi geografici. Lo scopo perseguito dal Consiglio federale, del tutto lodevole e condivisibile nel suo intento di proteggere il consumatore ed il plusvalore economico della “svizzerità”, sembra però sconfinare in scrupoli protezionistici volti a tutelare la piazza svizzera come luogo di produzione e di approvvigionamento, con particolare riguardo al settore dell’agricoltura. A tal proposito, si veda la panoramica delle probabili ripercussioni del progetto sull’economia (pag. 7547 del Messaggio): “mantenimento e creazione di posti di lavoro, soprattutto per le imprese tradizionali e regionali, nel settore della produzione di prodotti naturali (agricoltura)”. Anziché ricercare un equilibrio tra questi legittimi interessi e la tutela della “svizzerità” come elemento della competitività in un contesto di fortissima globalizzazione e concorrenza, nel quale è ancora più necessario poter distinguere il proprio prodotto da quello della concorrenza estera, il Consiglio federale sembra legittimamente preoccupato di creare posti di lavoro nel settore dell’agricoltura. Sennonché, pur di raggiungere tale scopo è disposto ad introdurre quote percentuali proibitive per i prodotti naturali trasformati. Con tale manovra vi è il rischio di assecondare il gioco delle aziende estere e degli importatori che designano abusivamente il proprio prodotto come swiss made, escludendo invece le aziende svizzere che sinora avevano potuto utiliz- anni. Senza contare che, per determinare se il prodotto potrà essere o meno designato come “swiss made” secondo la nuova regola del 60%, nella fase iniziale le aziende dovranno gioco forza far capo alla consulenza di istituti ed esperti, oltre a dover sostituire parte dei fornitori, con conseguenti maggiori oneri che si ripercuoteranno sul consumatore. Inoltre, la differenza percentuale (+10%) rischia di essere impercettibile per il consumatore che si è sinora accontentato del 50%, mentre può essere di estrema importanza per le aziende il cui prodotto designato come “swiss made” da decenni, rischia di essere declassato. zarlo conformemente ai criteri in vigore, a determinati costi, rifornendosi presso determinati fornitori. Conclusioni In sintesi, al di là delle modifiche di indubbia utilità, ve ne sono almeno due – macroscopiche – che paiono invece studiate a tavolino per penalizzare le aziende svizzere rispetto alla concorrenza estera, la quale se ne infischia se l’utilizzo di designazioni quali “swiss made” sia contrario alla legislazione svizzera. Per di più, almeno per quanto riguarda i prodotti industriali, tali modifiche poco o nulla aggiungono alla tutela del consumatore (+10%), tutela peraltro già consolidata attraverso altre leggi, direttamente o indirettamente (vedi legge sulle derrate alimentari e legge contro la concorrenza sleale). I pirati ci saranno sempre, ma non per questo bisogna affondare i propri vascelli… Per i prodotti del settore industriale, il passaggio dalla regola del 50% - attualmente in vigore e derivante da una nota giurisprudenza sangallese - a quella del 60%, viene da un lato giustificato con l’esigenza di distinguere le regole della proprietà intellettuale da quelle doganali sull’origine non preferenziale e, dall’altro lato, dall’ l’esigenza (ormai riflesso incondizionato del legislatore) di tutelare il consumatore. Viene però da chiedersi perché mai la regola sull’origine non preferenziale, che consente di definire di origine svizzera un prodotto in base ad un criterio quantitativo del 50%, debba per forza cozzare con le medesima regola percentuale applicata allo “swiss made” e che si vorrebbe ora portare al 60% per un non meglio sostanziato quanto ininfluente “rischio di confusione” tra i due regimi. Il mantenimento della regola del 50% sancita dalla giurisprudenza, che sarebbe sufficiente precisare e codificare nella legge, permetterebbe anzi alle imprese di evitare inutili dispendi e di mantenere inalterata la designazione utilizzata da Non computabilità dei costi del servizio dopo vendita Tanto meno si comprende il motivo per cui nella percentuale del 60% non possano essere inclusi i costi del servizio dopo vendita, segnatamente i costi legati alla messa in funzione. Si pensi ai grossi macchinari industriali, dove il servizio di messa in funzione e tutte le prestazioni riconducibili alla garanzia del prodotto costituiscono un fattore di qualità decisivo, comportante costi molto elevati per l’azienda produttrice. L’argomentazione addotta dai fautori della revisione vuole che il servizio di istallazione e messa in funzione sia una mera “prestazione accessoria” e, pertanto, non computabile. Ciò può apparire sensato per determinati prodotti industriali di largo consumo, mentre lo è meno per i beni industriali d’investimento. Nel corso del mese di gennaio, anche le Camere di commercio e dell’industria si sono mobilitate per fare in modo che i membri delle Commissioni degli affari giuridici del Consiglio Nazionale e degli Stati prestino attenzione a queste problematiche e non si lascino abbagliare da argomentazioni di facile presa... 17 Dirit to di Simona Morosini Marconi, Responsabile Servizio giuridico Cc-Ti Conciliare lavoro e bambini aprendo un asilo nido aziendale In Ticino sono ancora poche le aziende che propongono un sevizio di nido aziendale per i dipendenti con bambini. All’estero, questa pratica di “wellness aziendale” è maggiormente diffusa e contribuisce, unitamente ad altri vantaggi, a rendere più piacevole il clima aziendale, a migliorare la qualità di vita dei lavoratori e delle lavoratrici, migliorando al contempo l’immagine dell’azienda e distinguendola da quelle concorrenti. L’azienda che intende aprire un asilo nido aziendale dovrà anzitutto determinare, ad esempio tramite un sondaggio presso il personale, se esiste un domanda in tal senso. Se a seguito di questo rilevamento si constata che il numero di interessati è limitato, può essere valutata l’opportunità di unirsi ad altre aziende per realizzare congiuntamente un nido interaziendale, oppure ospitare bambini provenienti da altri Comuni. In Ticino la creazione di un asilo nido deve rispettare le esigenze poste dalla Legge sul sostegno alle attività delle famiglie e di protezione dei minorenni (Legge per le famiglie del 15 settembre 2003) e relativo Regolamento (Regolamento della Legge per le famiglie). Tali norme discendono dall’Ordinanza federale sull’accoglimento a scopo di affiliazione e di adozione (OAMin). Definizione di asilo nido aziendale e forma giuridica La legge non contiene la nozione di asilo nido “aziendale”, termine utilizzato nel linguaggio comune per definire la struttura presente all’interno o in prossimità dell’azienda, voluta e creata dall’azienda medesima. Essa si limita a definire i “nidi dell’infanzia” come centri diurni con una capacità di accoglienza superiore a 5 bambini, aperti più di 15 ore alla settimana (art. 8 del Regolamento). I nidi dell’infanzia possono nascere dall’iniziativa di una o più aziende. È tuttavia utile sapere che l’autorizzazione è rilasciata unicamente alla persona del Direttore dell’asilo nido. Inoltre, eventuali sussidi sono accordati esclusivamente ad entità senza scopo di lucro, che assicurano un’apertura regolare durante tutto l’anno civile. Per questo motivo gli asili nido, compresi quelli cosiddetti “aziendali”, sono costituiti nella forma dell’associazione o della fondazione avente per scopo la gestione di tale attività. Se il nido è costituito nella forma dell’associazione, questa dovrà essere iscritta a registro di commercio. Quali autorizzazioni sono necessarie? Come detto, per aprire e gestire un nido occorre un’autorizzazione, da richiedere al Cantone (Divisione dell’azione sociale e delle famiglie, DASF) che viene rilasciata nominalmente al Direttore responsabile del nido. L’autorizzazione determina quanti bambini e in quali fasce d’età possono essere accolti e specifica quanto personale educativo è necessario. Essa è a tempo indeterminato e revocabile allorquando i requisiti per il suo rilascio non sono più soddisfatti. Come accennato poc’anzi non è quindi possibile rilasciare l’autorizzazione nominalmente all’azienda. Inoltre, se cambia il Direttore responsabile del nido, dovrà essere richiesta una nuova autorizzazione (art. 16 OAMin), la quale viene rilasciata in tempi brevi se il nuovo Direttore dispone dei requisiti minimi richiesti. Il percorso di autorizzazione inizia con un sondaggio di valutazione del bisogno. Vi sono infatti zone già piuttosto coperte dove l’ulteriore apertura di un nido non sarebbe necessaria. Ha inoltre luogo un incontro preliminare con la Divisione dell’azione sociale e delle famiglie. In seguito, si passa alla verifica e all’adeguamento degli spazi che ospiteranno il nido e che dovranno rispettare tutta una serie di norme. L’azienda dovrà inoltrare tutta la documentazione richiesta. In tale fase, vi è la possibilità di beneficiare della consulenza dell’Ufficio delle famiglie e dei giovani, rispettivamente dell’Associazione ticinese degli asili nido (ATAN). Dal momento della consegna della documentazione completa all’Ufficio preposto, in 1-2 mesi è possibile ottenere l’autorizzazione. Esempi di nidi aziendali sono quelli costituiti da RSI, SUPSI e IBSA, le quali hanno costituito delle fondazioni ad hoc. Quali requisiti devono essere soddisfatti per ottenere l’autorizzazione? Uno degli ostacoli maggiori alla creazione di un asilo nido è probabilmente dato dalla severità delle condizioni poste, la cui finalità è quella di garantire il benessere dei bambini ospitati. Da qui la necessità di predisporre delle condizioni organizzative e educative volte a garantire un contesto d’accoglienza adeguato, se non ottimale. Tali condizioni sono raggruppabili in tre categorie. Anzitutto, vi sono delle rigorose condizioni relative all’adeguatezza degli spazi, arredamento, sicurezza, salute e igiene. Per quanto riguarda l’adeguatezza degli spazi, segnaliamo ad esempio che occorrono diversi ambienti separati, fra cui uno spazio multiuso per le attività creative, i giochi, il movimento ed i pasti, di una superficie minima di 3 m2 per bambino, oltre ad uno spazio esterno (giardino o ampio terrazzo con un parco giochi). Una seconda categoria di requisiti riguarda il personale: oltre al Direttore, che deve essere (in linea di principio) al beneficio di una formazione terziaria in ambito pedagogico o sociale, oppure sanitaria con specializzazione in prima infanzia, anche l’équipe educativa deve disporre di una persona con una formazione idonea (delle deroghe sono possibili). Deve inoltre essere rispettato un preciso rapporto numerico tra personale educativo presente ed il numero di bambini, a 17 Dirit to di Simona Morosini Marconi, Responsabile Servizio giuridico Cc-Ti dipendenza della loro età: un educatore può occuparsi al massimo di 4 bambini nella fascia di età da 0 a 12 mesi, di 5 bambini nella fascia da 13 a 24 mesi, di 8 per la fascia dai 2 ai 3 anni e di 12 per bambini nella fascia dai tre anni compiuti. Una terza categoria di esigenze è legata alle attività domestiche e di preparazione dei pasti, che deve essere assunta da personale non occupato con i bambini e adeguatamente formato o con comprovata esperienza. Sebbene la legge non lo specifichi, è ammissibile che i pasti vengano preparati nella mensa aziendale. L’autorità richiede alle aziende - trattasi di una raccomandazione - che si avvalgono di un servizio di catering, che stipulino un contratto con un fornitore che possa garantire la qualità nel servizio pasti per bambini da zero a 3 anni. Queste sono le principali esigenze a livello organizzativo e logistico. Per una panoramica completa, si invita a voler esaminare il regolamento summenzionato, in particolare gli articoli 9 sino a 19. Copertura assicurativa L’apertura di un nido aziendale non può prescindere da una riflessione circa le responsabilità che possono sorgere in caso di problemi. Sarebbe però peccato che l’azienda abbandonasse il progetto di creazione di un nido aziendale unicamente per questo motivo. Come per gran parte delle attività comportanti rischi, vi è infatti la possibilità di assicurarsi. Anzi, la legge prevedere l’obbligo di stipulare un’adeguata copertura assicurativa di Responsabilità civile per i danni cagionati dai bambini e dal personale. Possibilità di sussidiamento Possono beneficiare di sussidi per l’esercizio i nidi dell’infanzia autorizzati che dispongono di almeno 10 posti, assicurano un’apertura di almeno 220 giorni all’anno e di almeno 10 ore continuate al giorno (delle deroghe su questo requisito sono possibili), offrono un servizio di refezione di qualità, presentano un piano di finanziamento sostenibile di almeno 3 anni, tengono conto degli interessi ed esigenze delle famiglie, presentano la documentazione richiesta e destinano almeno il 2% del preventivo di spesa riconosciuto alla formazione permanente del personale (art. 26 del Regolamento). Inoltre, gli organi esecutivo e di revisione devono essere indipendenti (nessun membro alle dipendenze del nido in seno all’esecutivo, rispettivamente nessun membro dell’esecutivo in seno all’organo di revisione). Fra le condizioni di sussidiamento, l’art. 26 del Regolamento prevede inoltre che il richiedente abbia richiesto “eventuali contributi previsti dalla legislazione federale in materia”. Si tratta di contributi previsti dalla Legge federale sugli aiuti finanziari per la custodia di bambini complementare alla famiglia, in vigore dal 1° febbraio 2003. Essa è alla base di un programma d’incentivazione, limitato a 8 anni, volto a promuovere la creazione di posti supplementari per la custodia di bambini, di modo che i genitori possano conciliare meglio l’attività lavorativa o la propria formazione con i compiti familiari. Vengono concessi importi forfettari per un massimo di 5’000 franchi per posto e anno (offerta a tempo pieno). Il contributo forfettario è calcolato in base al numero di giorni e di ore di apertura dell'istituzione: un'offerta a tempo pieno corrisponde ad un'apertura annua minima di 9 ore al giorno per 225 giorni. Per un numero minore di giorni o di ore di apertura il contributo forfettario viene ridotto in modo proporzionale. Gli aiuti finanziari vengono 18 Ticino Business concessi per un periodo di 2 anni. Per maggiori informazioni è possibile consultare il sito dell’amministrazione federale: www.bsv.admin.ch/praxis/kinderbetreuung/01153/ index.html?lang=it. Va precisato che la legge cantonale prevede che il sussidio federale venga dedotto dal sussidio cantonale. È inoltre possibile ottenere un sussidio per l’acquisto di arredamento e attrezzature, che deve essere richiesto prima dell’acquisto. Come viene erogato il sussidio cantonale? Il sussidio cantonale per l’esercizio si basa sulla determinazione di un contributo fisso calcolato in base alle spese riconosciute (40% dei salari e degli oneri sociali del personale educativo, delle spese di formazione e del materiale ludico) ed in base alle giornate di presenza. Nel nido possono essere ospitati anche bambini in provenienza da altri Comuni. Ciò è del tutto auspicabile, segnatamente nelle regioni scoperte di posti nido. Avendo una valenza non solo locale, bensì regionale il nido può dunque accogliere bambini provenienti da altri Comuni e, naturalmente, da altre aziende. Un asilo nido può accogliere anche bambini domiciliati all’estero (ad esempio i figli di frontalieri), ma in tal caso le giornate di presenza di questi bambini non vengono considerate nel calcolo per il sussidio. Principali voci di costo di un nido aziendale In base ai dati gentilmente forniti dal DASF, un nido medio di 23 posti autorizzati, aperto 11 ore per 228 giorni all’anno, dispone di 5 unità (4.84) di personale educativo ed ha un costo globale di fr. 333'000, di cui 226'000.- sono costituiti dai costi del personale. Le altre spese rilevanti sono costituite dall’eventuale locazione di spazi e dalla spese per l’alimentazione. Il sussidio cantonale si aggira attorno a fr. 93'000.-, mentre quello comunale è di ca. fr. 25'000.-. La parte restante deve essere coperta dalle rette o da capitale proprio. Determinazione delle rette applicabili Spetta all’ente gestore stabilire la retta applicabile. Di regola, la retta è calcolata in base alle ore di permanenza. Della quarantina di nidi esistenti in Ticino, solo un quarto fattura in base al reddito delle famiglie, mentre i nidi che fatturano in base all’età del bambino sono un’esigua minoranza. Criteri di favore possono ad esempio essere dati dal domicilio (nidi comunali) o dall’impiego in un’azienda (nidi aziendali). Le rette non soggiacciono al controllo dell’autorità cantonale. Il Cantone verifica però che il piano finanziario sia solido. Elemento determinante di tale piano finanziario è la parte costituita dall’insieme delle rette. Dovendo presentare un piano finanziario solido, l’ente gestore dovrà mantenere un certo equilibrio tra convenienza, sostenibilità ed esigenze di bilancio. In caso di nidi che presentano dei piani finanziari fragili, uno dei primi parametri che l’autorità verifica, unitamente al tasso di occupazione, è l’ammontare delle rette. Se del caso, il Cantone comunica al nido il proprio parere in merito, invitandolo a verificare la pertinenza delle rette. Si ringrazia la Divisione dell’azione sociale e delle famiglie (DASF) per i dati e le precisazioni gentilmente forniti. Dirit to di Simona Morosini Marconi, Responsabile Servizio giuridico Cc-Ti la modifica del contratto di lavoro In tempi di crisi, la questione se licenziare o meno parte del personale può togliere il sonno a molti imprenditori. Per evitare licenziamenti, il primo riflesso di un’impresa che si trova ad affrontare difficoltà temporanee è quello di far capo alle indennità per lavoro ridotto. Il riconoscimento dell’indennità per lavoro ridotto soggiace però a precise condizioni, anche quantitative, che potrebbero non essere adempite. Inoltre, il lavoro ridotto non può soccorrere l’azienda qualora le difficoltà di quest’ultima siano esclusivamente riconducibili a problemi di liquidità. Quanto al licenziamento (individuale o collettivo), esso può essere doloroso per l’azienda, oltre che per il personale toccato dalla misura, proprio perché implica la separazione da collaboratori che, una volta sormontate le difficoltà, occorrerà nuovamente cercare sul mercato del lavoro e formare. Il dilemma per i datori di lavoro, fra mantenere il personale nonostante le difficoltà economiche, oppure rinunciarvi, può risultare a volte di difficile ponderazione. Fra i due scenari possono però insinuarsi delle alternative. Una di queste consiste nella modifica del contratto. Ogni modifica contrattuale che peggiora le condizioni di lavoro del collaboratore (ad esempio il salario) necessita però il consenso del medesimo. In tempi di crisi, non è escluso che il personale sia disposto, pur di mantenere il posto di lavoro, ad accettare dei sacrifici. Una seconda alternativa, qualora non fosse possibile raggiungere un accordo, consiste nella notifica di una disdetta con riserva di modifica. Di cosa si tratta e come procedere? Tramite una disdetta con riserva di modifica, il datore di lavoro che intende modificare le condizioni di un contratto di lavoro di durata indeterminata, presenterà al dipendente delle nuove condizioni menzionando che, in assenza di accettazione, il contratto terminerà allo 12 Ticino Business scadere del termine di disdetta contrattuale o legale. Una simile disdetta tende a mantenere il rapporto di lavoro, ma ad altre condizioni. La legge è silente in merito alle condizioni del contratto di lavoro che, per essere modificate, necessitano della disdetta con riserva di modifica. La dottrina ritiene che fra queste figurino senza dubbio le condizioni “essenziali” del contratto di lavoro, ovvero: il tipo di attività, il principio della remunerazione, la durata determinata o indeterminata del contratto e, in linea di principio, il luogo di lavoro (a meno che il cambiamento del luogo di lavoro non comporti particolari inconvenienti per il collaboratore). La modifica di questi elementi del contratto deve quindi essere oggetto di una manifestazione di volontà reciproca e concordante e non possono in linea di massima essere modificati in modo unilaterale, se le modifiche svantaggiano il dipendente. Per essere valida, la disdetta con riserva di modifica del contratto di lavoro deve quindi rispettare determinate condizioni. La giurisprudenza ritiene che, in linea di principio, una disdetta con riserva di modifica a sfavore del dipendente è possibile e non abusiva, se risponde a nuove necessità economiche dell’azienda. In altri termini, la disdetta pronunciata in assenza di una vera necessità economica potrebbe rivelarsi abusiva e comportare una sanzione sotto forma di versamento di un'indennità al dipendente. Tipologie di disdetta con riserva di modifica Occorre distinguere fra la disdetta con riserva di modifica “in senso stretto” e quella “in senso lato”. La prima viene notificata contemporaneamente alla proposta di nuove condizioni di lavoro. Si consiglia, per evitare controversie, di procedere con atti scritti, menzionando quali condizioni sono modificate, le conseguenze di una mancata accettazione, il termine e le modalità di comu- nicazione dell’accettazione o del rifiuto, nonché il momento in cui il contratto terminerà in caso di mancata accettazione. Sarà anche opportuno precisare che in caso di accettazione le nuove condizioni verranno applicate alla scadenza del termine di disdetta. La seconda si attua invece notificando al dipendente la disdetta solo dopo che questi ha rifiutato una determinata modifica di elementi essenziali del contratto di lavoro. La disdetta con riserva di modifica in senso lato è insidiosa perché, in caso di contestazione, corre maggiori rischi di risultare abusiva. Infatti, a seconda delle circostanze, la disdetta potrà apparire come una rappresaglia del datore di lavoro per la mancata accettazione della modifica da parte del dipendente. Sarà segnatamente il caso quando la disdetta non si fonda su un motivo oggettivamente fondato e le modalità della disdetta abbiano violato il principio della buona fede. Anche in questo caso, occorre fare delle distinzioni. Il datore di lavoro che, informando il dipendente che una determinata modifica dettata da concrete necessità economiche entrerà in vigore alla fine del termine di disdetta (legale o contrattuale), invita quest’ultimo a negoziare le nuove condizioni del contratto senza diffidare o imporre al dipendente di accettare immediatamente la modifica, agisce correttamente dal profilo della buona fede. In tal caso, la disdetta notificata dopo il rifiuto del dipendente di accettare le nuove condizioni, non sarà considerata abusiva. Una riduzione unilaterale e sostanziale del salario senza attendere la fine del termine di disdetta, comporta invece il carattere abusivo della medesima. È opportuno rammentare che le modifiche a sfavore del dipendente potranno entrare in vigore solo allo scadere del periodo di disdetta legale o contrattuale. In altri termini, durante il perio- do di disdetta le vigenti condizioni contrattuali dovranno continuare ad essere applicate. La disdetta con riserva di modifica “collettiva” Anche se più insidiosa, la disdetta con riserva di modifica “in senso lato” può risultare vantaggiosa nel caso in cui si dovessero modificare molti contratti. Di seguito, illustreremo il motivo. Qualora il datore di lavoro fosse costretto dalle circostanze a modificare l’insieme dei contratti dei dipendenti o di una parte consistente dei medesimi, dovrà tenere in considerazione le disposizioni del Codice delle obbligazioni relative al licenziamento collettivo (articoli 335d-335g). Se il datore di lavoro procede a delle disdette con riserva di modifica “in senso stretto” nei confronti di un numero di dipendenti uguale o superiore ai valori menzionati all’art. 335d (ad esempio, almeno dieci nelle imprese che occupano più di venti dipendenti e meno di cento), egli dovrà rispettare la procedura di licenziamento collettivo anche se la maggioranza dei lavoratori dovesse accettare le modifiche e non essere pertanto licenziata. Al contrario, l’azienda che attua una disdetta con riserva di modifica “in senso lato” proponendo dapprima la modifica dei contratti e licenziando unicamente i collaboratori che l’avranno rifiutata, sottostarrà alle disposizioni sul licenziamento collettivo solamente nella misura in cui il numero di lavoratori effettivamente licenziati supererà i valori di cui all’art. 335d. Queste, in sintesi, le principali possibilità di intervento dell’azienda, per affrontare i periodi di incertezza senza perdere validi collaboratori, premesso che siano utilizzate conformemente ai principi enunciati. 13 Dirit to di Simona Morosini Marconi, Responsabile Servizio giuridico Cc-Ti nuOvO dirittO della SaGl: Si avviCina il 31 diCembre 2009 per eventuali adeGuamenti Il 1° gennaio 2008 è entrato in vigore il nuovo diritto della Società a garanzia limitata (Sagl). Tra i principali cambiamenti, ricordiamo in particolare i seguenti (la lista non vuole essere esaustiva, per questioni di spazio): • possibilità di costituzione di Sagl unipersonali; • capitale sociale minimo di 20'000, da versare integralmente al momento della costituzione della società, rispettivamente abolizione del tetto massimo di fr. 2'000'000; • soppressione della responsabilità sussidiaria e solidale dei soci in relazione al capitale sociale non liberato; • soppressione della possibilità di chiedere il fallimento della società in caso di fallimento di uno dei soci gerenti; • possibilità per i soci di detenere più di una quota sociale e abbandono dell’obbligo della forma autentica per la cessione di quote; • abbassamento del valore minimo delle quote sociali da fr. 1'000.- a fr. 100.-; • possibilità di imporre un divieto di concorrenza ai soci non gerenti; • introduzione del principio della revisione dei conti (ordinaria o limitata), rispettivamente possibilità della rinuncia al revisore (“opting out”); • possibilità di far valere giudiziariamente un diritto di uscita dalla società, rispettivamente di escludere un socio in via giudiziaria, per motivi gravi, oppure possibilità di far valere un diritto di recesso, rispettivamente di esclusione di un socio, se previsto negli statuti; • limitazione dell’obbligo statutario per i soci di effettuare versamenti suppletivi e prestazioni accessorie; • soppressione dell’obbligo di consegnare annualmente presso l’Ufficio registri l’elenco dei nomi dei soci e l’ammontare dei conferimenti e prestazioni da essi effettuati; • mantenimento delle restrizioni alla trasmissione delle quote sociali, ma introduzione di agevolazioni (delibera dell’assemblea dei soci approvata da almeno due terzi dei voti rappresentati e dalla maggioranza assoluta del capitale sociale per il quale può essere esercitato il diritto di voto; possibilità di prevedere negli statuti un regime diverso, ad esempio l’esclusione della cessione delle quote, oppure la rinuncia all’approvazione della cessione; • nuovi art. 808a e 809 cpv. 4 2a frase, che introducono il principio del voto preponderante del Presidente dell’assemblea dei soci, rispettivamente del Presidente dei gerenti. A partire da quando si applica il nuovo diritto? Al fine di determinare quale sarà il regime applicabile alle Sagl costituite prima del 1° gennaio 2008, è indispensabile riferirsi agli articoli da 1 a 11 delle disposizioni transitorie del Codice delle obbligazioni (CO) relative a tale modifica. Secondo il principio generale previsto all’art. 1 delle disposizioni transitorie, le nuove disposizioni di legge si applicano dal 1° gennaio 2008 anche alle Sagl già esistenti. A seconda dei casi, è però previsto un termine di 2 anni, che scadrà dunque il 31.12.2009, affinché le Sagl esistenti adeguino i loro statuti e regolamenti, se non conformi alle nuove disposizioni. In caso di mancato adeguamento degli statuti entro tale termine, non vi è però alcun rischio di dissoluzione giudiziaria della società. Occorre inoltre precisare che la maggior parte delle nuove diposizioni non ha carattere imperativo. Effetti del mancato adeguamento Fra i possibili effetti, citiamo in particolare quello derivante dall’art. 3 delle disposizioni transitorie, il quale prevede che se i conferimenti non sono stati eseguiti sino a concorrenza del prezzo di emissione dell’insieme delle quote sociali entro due anni (ossia entro il 31 dicembre 2009), i soci risponderanno conformemente al previgente art. 802 CO. Ciò significa che, in caso di mancato adeguamento tramite liberazione integrale dei conferimenti, i soci continueranno a rispondere in modo solidale e sussidiario per il capitale sociale non liberato. In termini ancora più concreti, in assenza di versamento integrale del capitale sociale entro il 31.12.2009, può accadere che un socio titolare di una quota sociale minima (ad esempio fr. 1'000) debba rispondere per il capitale sociale (fissato ad esempio a fr. 2 Mio) qualora, a sua insaputa, il capitale sociale sia stato rimborsato 17 Dirit to di Simona Morosini Marconi, Responsabile Servizio giuridico Cc-Ti agli altri soci o non sia stato versato. Inoltre, se vengono trasferite quote sociali non interamente liberate, la responsabilità solidale e sussidiaria passa all’acquirente. Spetta a quest’ultimo premurarsi, procedendo alle opportune verifiche prima di acquisire le quote. L’art. 2 cpv. 3 delle disposizioni transitorie prevede inoltre che le nuove disposizioni che sanciscono il regime legale secondo cui il Presidente dell’assemblea dei soci, rispettivamente il Presidente dei gerenti, hanno voto preponderante, si applicheranno alle Sagl già esistenti che non dovessero aver escluso tale principio nei loro statuti entro il 31.12.2009. Tale applicazione potrà però avvenire solo dopo la scadenza del termine per l’adeguamento (ossia dal 1° gennaio 2010). In assenza di esclusione statutaria entro il 31.12.2009, i Presidenti summenzionati avranno pertanto, per legge, voto preponderante. Sempre con riferimento al diritto di voto, l’articolo 9 delle disposizioni transitorie prevede che se la Sagl ha semplicemente riprodotto nello statuto disposizioni del diritto previgente che prevedono maggioranze qualificate per le deliberazioni dell’assemblea dei soci, questa può, entro il 31.12.2009, decidere a maggioranza dei voti rappresentati di adeguare tali disposizioni al nuovo diritto. Se ne deduce che, in assenza di tale adeguamento, la Sagl rimane assoggettata al diritto previgente, riprodotto negli statuti. Agli articoli 4, 5, 6, 7, 8 e 10 delle disposizioni transitorie si trovano ulteriori indicazioni circa la sorte dei buoni di partecipazione e buoni di godimento, l’acquisto di quote sociali proprie, determinati versamenti suppletivi, l’ufficio di revisione, il diritto di voto in caso di emissione di nuove quote sociali, nonché la soppressione di azioni e di quote sociali in caso di risanamento. Reminder di altre modifiche: gestione e rappresentanza Un'altra rilevante modifica del diritto della Sagl riguarda la rappresentanza e la gerenza della società. A differenza 18 Ticino Business del diritto previgente, che era assai impreciso, i nuovi disposti si prefiggono di enunciare in modo chiaro le attribuzioni dell’assemblea dei soci (art. 804 cpv. 2), dei gerenti (art. 810 cpv. 2) e, per quanto esistente, dell’organo di revisione (art. 818 cpv. 1). Il nuovo diritto distingue in modo chiaro gestione e rappresentanza della società. In materia di “gestione”, l’art. 809 instaura il principio della gestione collettiva da parte dei soci, a meno di diverso disciplinamento previsto negli statuti (ad esempio: delega ad un gerente). Per quanto riguarda invece la “rappresentanza”, l’art. 814 chiarisce che “ogni gerente” ha il potere di rappresentare la società (a meno di diverso disciplinamento previsto negli statuti e premesso che almeno un gerente sia autorizzato a rappresentare la società). Nel diritto previgente “tutti i soci” avevano invece di principio diritto alla rappresentanza in comune della società (salvo disposizione diversa prevista negli statuti). Tale principio non rispondeva più ai bisogni delle imprese e complicava le relazioni con i terzi. Tale modifica dovrebbe contribuire a portare maggiore chiarezza e sicurezza nei rapporti giuridici con terzi. Vi sono molte possibilità di deroga statutaria al principio della rappresentanza da parte dei gerenti. La rappresentanza può ad esempio essere affidata a dei soci gerenti, a dei soci non gerenti, oppure a dei terzi gerenti o non gerenti. La legge pone però due limiti in caso di deroga statutaria: il primo vuole che almeno un gerente abbia qualità per rappresentare (da solo) la società (art. 814. cpv. 1 CO). Il secondo limite è enunciato all’art. 814 cpv. 3 CO ed esige che almeno una persona autorizzata a rappresentare la società (ad esempio un direttore o un gerente con firma individuale) sia domiciliato in Svizzera (a tal fine, è sufficiente il permesso B). Le persone autorizzate a rappresentare la società devono in ogni caso essere iscritte nel registro di commercio. Avete domande su questa o altre tematiche? Contattateci: www.cc-ti.ch Dirit to di Simona Morosini Marconi, Responsabile Servizio giuridico Cc-Ti Novità dai tribunali Gravidanza annunciata dopo il licenziamento: un inconveniente per i datori di lavoro Il Tribunale federale (TF), sconfessando i tribunali del Canton Vaud, ha sentenziato che le donne in gravidanza sono in linea di principio protette dai licenziamenti anche se comunicano la loro gravidanza all’ex datore di lavoro solo dopo la fine dei rapporti di lavoro, riservato tuttavia il caso dell’abuso di diritto (sentenza 4A_552/2008 del 12 marzo 2009). I giudici federali hanno così accolto il ricorso di una cameriera licenziata il 24 gennaio 2006 con effetto al 28 febbraio 2006. Il licenziamento era stato notificato a seguito dell’avvicendamento nella gestione dell’esercizio pubblico. Contestualmente era stata prevista l’assunzione di una nuova cameriera, la quale aveva ripreso l’attività a partire dal 1° marzo 2006. Sennonché, il 28 marzo 2006 la “ex” dipendente informava il datore di lavoro che al momento della disdetta si trovava in gravidanza e che riteneva pertanto nullo il licenziamento, offrendo altresì di riprendere l’attività. Aditi dalla dipendente, i tribunali vodesi hanno ritenuto tardivo e contrario al principio della buona fede l’annuncio ex post della gravidanza. Avendo la dipendente taciuto la propria gravidanza, andrebbe presunto ch’ella abbia irrevocabilmente accettato la disdetta. I primi giudici hanno quindi negato qualsivoglia obbligo di pagamento del salario da parte del datore di lavoro per il periodo successivo la fine dei rapporti di lavoro. Il TF ha invece rammentato che l’art. 336c cpv. 1 lett.c del Codice delle obbligazioni non subordina la protezione dal licenziamento all’annuncio dello stato di gravidanza. In altre parole la legge non prevede un termine entro il quale comunicare tale informazione al datore di lavoro. Inoltre, secondo il TF, solo circostanze eccezionali consentono al datore di lavoro di prevalersi dell’abuso di diritto. I giudici federali hanno quindi esaminato le circostanze del caso, onde assicurarsi che non vi fosse abuso da parte della dipendente. Ne hanno concluso che tutto “portasse a credere” che la dipendente non fosse conscia del fatto che un licenziamento durante la gravidanza fosse nullo. Nella misura in cui, ancora prima del licenziamento, era stata prevista la sostituzione della dipendente, non le poteva peraltro essere rimproverato di non avere tempestivamente informato il datore di lavoro. Così, l’interesse della dipendente alla protezione dal 14 Ticino Business licenziamento prevale su quella del datore di lavoro ad organizzarsi per occupare un posto vacante. Le conseguenze pecuniarie, per il datore di lavoro, non sono state decise dal TF, il quale ha rinviato il dossier per decisione su questo punto al Tribunale cantonale. Interessante rilevare che, a differenza della Svizzera, le legislazioni francese e germanica prevedono espressamente un termine entro il quale, in caso di licenziamento, la dipendente è tenuta ad informare il datore di lavoro sulla gravidanza in corso, pena la perenzione del diritto al salario. Tale soluzione ci sembra del tutto sensata ed equilibrata. Casi come quello suesposto sarebbero quasi certamente evitati, ivi comprese le acrobatiche argomentazioni per scartare l’ipotesi dell’abuso, con enorme risparmio di tempo e denaro per i datori di lavoro e pace dei tribunali. Parità salariale uomo-donna: attenzione alla questione della proporzionalità Il Tribunale federale si è recentemente pronunciato anche su un caso di discriminazione salariale tra due dipendenti di sesso opposto (Sentenza 4A_449/2008 del 25 febbraio 2009). La dipendente, un’assistente sociale al servizio di una fondazione del Cantone Friborgo, obiettava al fatto che un suo collega guadagnasse il 16% più di lei (ovvero circa 1000 franchi mensili), nonostante una formazione (diploma di assistente sociale), mansioni e responsabilità identiche. La donna era stata alle dipendenze della fondazione dal 1996 al 2004. Il datore di lavoro ha però addotto che il dipendente di sesso maschile era stato assunto un anno e mezzo prima e vantava sette anni di esperienza in più rispetto alla donna. Egli era inoltre bilingue e, considerando il Cantone di attività, poteva interagire con clientela sia germanofona che francofona. La donna aveva inoltre lavorato per 3 anni al 70%, sull’arco dei 9 anni in cui era stata alle dipendenze della Fondazione. Secondo l’art. 6 della Legge federale sulla parità dei sessi, una discriminazione è presunta se il lavoratore la rende verosimile. Spetta invece al datore di lavoro provare (e non solo rendere verosimile) che non vi è discriminazione salariale legata al sesso dei dipendenti e che la disparità di trattamento verte su motivi oggettivi. Non è sufficiente che il datore di lavoro invochi un qualsivoglia motivo: deve dimostrare di perseguire uno scopo obiettivo rispondente ad un bisogno aziendale e che le misure discriminatorie adottate mirano al raggiungimento di tale scopo. In genere, la formazione, l’anzianità di servizio, le qualifiche, l’esperienza, il settore di attività, le prestazioni effettuate, i rischi oppure i compiti inclusi nel mansionario influiscono sul valore della prestazione lavorativa e giustificano una disparità di salario. Le differenze possono anche giustificarsi per motivi non direttamente inerenti l’attività in causa e fondarsi su considerazioni sociali quali gli oneri familiari o l’età. Occorre inoltre che la disparità rispetti il principio della proporzionalità. L’anzianità di servizio e l’esperienza professionale sono state nel caso concreto riconosciute come fattori suscettibili d’influenzare il valore stesso del lavoro e giustificare una differenza di trattamento. Quanto al bilinguismo, il fatto che nel caso esaminato dal TF il collega potesse occuparsi anche dei clienti germanofoni è stato pure giudicato come un aspetto della prestazione lavorativa meritante un riconoscimento salariale, segnatamente in un Cantone bilingue come Friborgo. Dovendo però esaminare la proporzionalità nella disparità salariale, il Tribunale federale ha ritenuto che la differenza d’anzianità di servizio di un anno e mezzo, rispettivamente il fatto che la donna avesse lavorato al 70% per alcuni anni fossero fattori ininfluenti e non giustificanti una differenza salariale. Secondo il Tribunale federale, la datrice di lavoro non ha quindi provato che la disparità di trattamento non fosse “in alcun modo” dettata da motivi legati al sesso e, pertanto, ha ritenuto una violazione della Legge federale sulla parità dei sessi. Detto Tribunale ha inoltre ritenuto che i 7 anni di esperienza supplementari vantati dal dipendente di sesso maschile, unitamente al fattore linguistico, giustificassero uno scarto salariale, ma non ampio come quello attuato dal datore di lavoro (16%). Ha pertanto ammesso una differenza salariale limitatamente all’8,5%, condannando di conseguenza la datrice di lavoro a corrispondere fr. 17'926 a titolo di salari arretrati, oltre interessi. Prepress Press Postpress TBS, La Buona Stampa sa Via Fola 11 CH - 6963 Pregassona Tel. +41 (0)91 973 31 71 Fax +41 (0)91 973 31 72 [email protected] www.tbssa.ch nicazione u m o c la er P ✔ azione ✔ Per l’inform ✔ Per l’ufficio ella vita ✔ Per i fatti d Trasformare ogni stampato in un’opera d’arte 15 Dirit to di Simona Morosini Marconi, Responsabile del Servizio Giuridico Cc-Ti Architetti, Concessionari, Lavoratori…: alcune novità dai tribunali Di seguito vi proponiamo una panoramica riassuntiva di alcune recenti sentenze che toccano diversi ambiti giuridici. Troverete ulteriori tematiche ed approfondimenti sul nostro sito, alla voce “Area Soci” Contratto d’architetto: attenzione agli errori di calcolo nei preventivi Dalla qualifica del contratto dipende il termine di prescrizione applicabile alla responsabilità dell’architetto. Un contratto avente per oggetto l’allestimento di piani dev’essere qualificato come contratto d’appalto. In caso di opere mobiliari, la responsabilità per eventuali difetti si prescrive in un anno (5 anni, per opere immobiliari). Lo stesso principio vale in caso di un errore nel preventivo riconducibile esclusivamente a difetti dei piani. Diversamente, la responsabilità dell’architetto per una valutazione sbagliata dei costi di costruzione soggiace di principio alle regole del mandato. Con il preventivo, l’architetto fornisce al committente informazioni circa i presumibili costi della costruzione. Non si tratta dei costi derivanti dalla sua attività di architetto – ciò che differenzia questo preventivo dal “computo approssimativo” fornito dall’appaltatore – bensì dei costi connessi all’attività di terzi che interverranno sul cantiere, per cui egli non è in grado di “garantire” un risultato misurabile secondo criteri oggettivi, rimanendo un margine d’incertezza. Il preventivo non è quindi un’«opera», bensì configura un pronostico che l’architetto è comunque tenuto ad eseguire con la massima diligenza. Egli è quindi chiamato a garantire la qualità del proprio lavoro (attenendosi ad un margine d’incertezza comunque limitato ed accettabile), e non il risultato. Egli fornisce quindi un apprezzamento, alla stregua del perito incaricato di effettuare la stima di un immobile. Il Tribunale federale ha ritenuto che le pretese di risarcimento nei confronti dell’architetto per l’errore commesso nell’allestimento del preventivo si prescrivono nel termine di 10 anni. Nel caso esaminato dal TF, l’architetto aveva commesso un errore nel sommare gli importi preventivati, nella fase precedente l’inizio dei lavori. Rappresentante esclusivo: diritto all’indennità per la clientela? Il Tribunale federale ha precisato la sua giurisprudenza, aprendo una breccia a favore dell’indennità per clientela ai rappresentanti esclusivi, a determinate condizioni. Tale indennità è infatti prevista unicamente nel contratto d’agenzia, laddove l’agente abbia considerevolmente aumentato il numero di clienti del mandante, di modo che questi trae un notevole profitto dalle sue relazioni d’affari con detti clienti anche dopo lo scioglimento del contratto. Trattasi quindi di una forma di compensazione per il profitto conseguito dal mandante, grazie all’aumento del numero di clienti ottenuto dall’agente. Tale indennità non può sorpassare il guadagno annuo netto risultante dal contratto e calcolato secondo la media degli ultimi 5 anni o secondo la media della durata contrattuale effettiva, se questa è più breve. Ad eccezione del Vallese, i tribunali cantonali avevano sinora negato la possibilità che anche il rappresentante esclusivo, alla stregua dell’agente, potesse far valere un’indennità per clientela. Il Tribunale federale ha ora chiarito questa controversa questione, ammettendo la possibilità di un’applicazione per analogia dell’indennità per clientela. I criteri per ammettere tale applicazione sono, in sostanza, l’integrazione nella rete di vendita del concedente e l’autonomia limitata del concessionario dal profilo economico, benché giuridicamente indipendente (ad esempio, il concessionario è sottoposto ad un ampio controllo da parte del concedente, deve sottostare ai prezzi fissati dal concedente o ad altre restrizioni, ad obblighi di acquisto minimi, ad una strategia pubblicitaria prestabilita, all’approvazione per l’apertura di nuovi punti vendita, alla presentazione di liste e rapporti sulle vendite effettuate, alla comunicazione dei nomi e indirizzi dei clienti acquisiti). Diversamente, nel caso del rappresentante esclusivo “puro”, ossia colui che agisce come un commerciante indipendente e che dirige i propri affari esclusivamente secondo il suo volere, limitandosi ad acquistare presso il concedente i prodotti in seguito rivenduti, rimane di principio escluso il diritto all’indennità per clientela alla fine della relazione contrattuale. Contratto di lavoro: metodo di calcolo per la sospensione della disdetta Il Tribunale federale ha abbandonato la teoria del bonus, a favore del sistema retroattivo. A differenza di quanto accadeva con il sistema del bonus, con il sistema retroattivo il periodo di disdetta non comincia a decorrere dal momento della notifica della disdetta, ma viene calcolato retroattivamente dal momento in cui essa avrebbe effetto. Si prenda il caso di un dipendente al quale, ad inizio marzo, viene notificata la disdetta con un preavviso di 4 mesi (anziché, ad esempio, 3 mesi previsti contrattualmente). La disdetta avrà effetto al 30 giugno. Il dipendente si ammala per due giorni dopo aver ricevuto la disdetta. Nel sistema retroattivo, confermato dal Tribunale federale, un’assenza per malattia intervenuta nel mese di marzo non sospenderà la disdetta. Diversamente, se tale malattia interviene tra il 1°aprile ed il 30 giugno (ossia nei 3 mesi di preavviso previsti contrattualmente), tale assenza sospenderà la disdetta, con la conseguenza che la fine del rapporto di lavoro slitterà al 31 luglio. Questo sistema, già applicato in molti Cantoni, trova ora definitiva conferma nella giurisprudenza. 17 Diritto di Simona Morosini Marconi, Responsabile del Servizio Giuridico Cc-Ti Regolamento REACH: “La Sua produzione potrebbe cessare…” È con queste sibilline parole che la Confederazione ha intitolato l’opuscolo informativo datato giugno 2008, destinato alle aziende svizzere confrontate con la problematica REACH. Ma di quale problematica tratta il cosiddetto regolamento REACH dell’Unione Europea? Le aziende del Cantone Ticino (ma non solo quelle) sono state a dir poco colte alla sprovvista dall’entrata in scena di questo regolamento, il quale si prefigge di tutelare la salute e l’ambiente dagli effetti nocivi dei prodotti chimici. REACH è l’acronimo di Registration, Evaluation, Authorisation and Restriction of Chemicals. Sollecitata anche dalla Cc-Ti nel corso del mese di luglio, la Confederazione ha di recente attivato un Helpdesk REACH, nonché creato una “Task Force REACH”, ai quali le aziende possono rivolgersi per i ragguagli del caso. Obbligo di pre-registrazione delle sostanze chimiche Il regolamento REACH prevede anzitutto un obbligo a carico di fabbricanti o importatori con sede nell’UE di pre-registrare determinate sostanze chimiche presso l’Agenzia europea delle sostanze chimiche (ECHA) basata a Helsinki. Giacché la Svizzera non fa parte dello Spazio Economico Europeo, né è membro dell’UE, essa non è giuridicamente assoggettata al Regolamento REACH. Nemmeno l’appartenenza della Svizzera ai Paesi AELS fonda degli obblighi derivanti dal REACH per le aziende elvetiche. In linea di principio, solo i produttori e gli importatori dell’UE (esclusi quindi gli svizzeri) devono esaminare tutte le sostanze chimiche, comprese quelle vecchie già impiegate, al fine di stabilire eventuali effetti nocivi e farle pre-registrare. In assenza di una pre-registrazione, tali sostanze non potranno più essere commercializzate nell’UE. Il termine per la pre-registrazione 24 Ticino Business per le sostanze vecchie (cosiddette “phase-in substances”) scadrà il 1° dicembre 2008. Conseguenze per le imprese con sede fuori dal territorio UE Abbiamo detto che le aziende elvetiche non hanno obblighi particolari, ossia non sottostanno al Regolamento REACH. Giuridicamente ciò corrisponde al vero, ma nei fatti la situazione è ben più insidiosa, perché ad essere toccate dal Regolamento REACH sono, eccome, anche le aziende elvetiche che esportano nell’UE direttamente o tramite i loro clienti, "una quantità superiore ad una tonnellata all’anno di sostanze chimiche come tali, oppure sotto forma di preparati (miscele di sostanze chimiche, incluse le leghe metalliche), rispettivamente di sostanze chimiche presenti in prodotti o manufatti dai quali si possono in seguito liberare (ad esempio, candele odorose, cartucce d’inchiostro), prodotti contenenti sostanze «particolarmente pericolose» in una concentrazione superiore allo 0.1 percento che figurano nell’elenco all’allegato XIV del Regolamento REACH". Occorre precisare che il REACH non concerne le derrate alimentari, i medicamenti e le sostanze naturali che non sono pericolose e che non hanno subito trasformazioni chimiche. Di fatto, il Regolamento obbliga i fabbricanti svizzeri che esportano nell’UE ad esaminare tutte le sostanze chimiche prodotte o utilizzate nei loro manufatti e a valutare se queste debbano essere pre-registrate, qualora rientrino in una delle categorie sopra indicate. Ma questo vale anche per le aziende con sede nell’UE. La penalizzazione per le aziende elvetiche risiede però nell’incertezza quanto all’effettiva possibilità di registrazione. Di principio, le pre-registrazioni possono essere effettuate soltanto dalle aziende che hanno sede sociale nell’UE. Per i fabbricanti che operano al di fuori dell’UE (ossia le aziende elvetiche), la pre-registrazione può quindi essere effettuata solo dall’importatore con sede nell’UE, oppure da un rappresentante esclusivo (nominato dall’azienda elvetica) che adempia a tale obbligo, sgravando così l’importatore UE da tale obbligo. Il rischio è evidente, per le aziende elvetiche, che in assenza di una delega ad un rappresentante esclusivo, l’importatore UE sul quale dovesse ricadere l’obbligo di pre-registrazione si rivolga ad un altro fornitore (di preferenza con sede nell’UE), la cui sostanza sia già pre-registrata, escludendo così il fornitore elvetico. Per quanto riguarda la delega ad un rappresentante esclusivo per la pre-registrazione (delega che potrà essere data ad un unico rappresentante per sostanza da pre-registrare) vi è inoltre poca chiarezza sui requisiti e sulla prassi adottata dai vari Stati membri dell’UE. Il Regolamento prevede che il rappresentante possieda l’esperienza necessaria alla manipolazione pratica di sostanze e che disponga delle necessarie informazioni sulla sostanza in questione. Per quanto riguarda il rappresentante esclusivo per importatori “extracomunitari” tra cui la Svizzera, il rappresentante deve inoltre essere una persona giuridica. Per le aziende svizzere che si occupano esclusivamente di import-export di sostanze o prodotti finiti in provenienza da Paesi terzi, la difficoltà è ancora maggiore poiché queste ultime non possono avvalersi di un rappresentante esclusivo per la pre-registrazione, non essendovi alcuna lavorazione della sostanza e non trat- tandosi quindi di “fabbricanti” ai sensi del Regolamento REACH. A dipendenza della sostanza o del prodotto, l’importatore UE valuterà se rivolgersi ad un altro distributore, oppure farsi carico della pre-registrazione. Possibili conseguenze sul processo produttivo interno delle aziende Oltre a costituire un potenziale ostacolo tecnico al commercio per l’industria d’esportazione elvetica, con il regolamento REACH vi saranno ripercussioni sull’accessibilità delle sostanze chimiche, poiché tale regolamento costringerà molte imprese (sia in Svizzera che nell’UE) a fabbricare i propri prodotti con altre sostanze di base. Il regolamento REACH può segnatamente comportare costi notevoli per gli utilizzatori di prodotti chimici (ad esempio, per l’industria tessile) qualora determinate sostanze non siano più disponibili. Come agire? Per i motivi esposti, è fondamentale che le aziende che esportano nell’UE si interroghino a brevissima scadenza sull’impatto del Regolamento REACH sulla propria produzione, risalendo la supply chain, per individuare eventuali “falle”, ossia sostanze per cui sia eventualmente necessaria la pre-registrazione. A tale scopo, è consigliabile che le aziende si organizzino per allestire un inventario dei prodotti utilizzati, identificandone la pericolosità, la quantità impiegata, quelli essenziali per il processo produttivo e identificando le alternative. È inoltre importante assicurarsi che i fornitori effettuino la pre-registrazione. A tale scopo, è consigliabile richiedere ai fornitori la lista delle sostanze che potrebbero essere soggette a restrizioni e richiedere conferma di adempimento degli obblighi REACH. Conclusioni In sintesi, si può affermare che le aziende elvetiche sono maggiormente penalizzate rispetto a quelle comunitarie, soprattutto per la questione della pre-registrazione e dell’accessibilità dell’informazione, non essendo la Svizzera membro dell’UE. Il Regolamento tocca però in maniera incisiva tutte le aziende che operano con sostanze chimiche, comprese quelle con sede nell’UE. Per la Svizzera sarà pertanto fondamentale adeguare tempestivamente la propria legislazione, in modo da eliminare gli ostacoli tecnici derivanti dall’introduzione del regolamento REACH. 25 Diritto Ticino Business - 7-8/2008 • 16 Compensazione del diritto alle vacanze Durante il rapporto di lavoro, o alla fine del medesimo, si pone spesso la questione della compensazione del credito vacanze del dipendente. Ecco alcune regole per orientarsi di Simona Morosini, Responsabile del servizio giuridico Cc-Ti È possibile compensare in denaro il saldo vacanze del dipendente? Occorre rammentare il principio secondo cui, finché dura il rapporto di lavoro, le vacanze non possono essere compensate con denaro o altre prestazioni (art. 329 d cpv. 2 CO). Tale divieto di compensazione pecuniaria non è tuttavia applicabile nel caso di rapporti di lavoro disdetti. In siffatti casi, spesso non rimane altra possibilità che accordare all’ex dipendente un’indennità pecuniaria corrispondente al salario per i giorni di vacanza non goduti. Va precisato che tale diritto di compensazione include anche i giorni di vacanza maturati durante il periodo di disdetta. Il Tribunale federale ammette anche eccezioni al divieto di compensazione in taluni casi particolari come il lavoro irregolare a tempo parziale, il lavoro interinale e a domicilio, se le prestazioni sono molto brevi ed irregolari. Il diritto alle vacanze è soggetto a prescrizione? L’art. 329c CO prescrive che, di regola, le vacanze debbano essere assegnate durante il corrispondente anno di lavoro. In linea di principio è il datore di lavoro che determina il momento delle vacanze. Egli non può tuttavia differirle ripetutamente, poiché il dipendente ha diritto a goderne entro l’anno lavorativo. Qualora le vacanze non fossero effettivamente godute durante tale lasso di tempo, non significa che il dipendente perda il proprio diritto alle vacanze. Non ha quindi alcun valore giuridico un cartello apposto all’entrata della mensa aziendale, indicante che l’eventuale saldo vacanze dovrà essere preso entro una certa data, ad esempio il mese di marzo dell’anno seguente. Spetta peraltro al datore di lavoro assicurarsi che le vacanze siano state assegnate. In linea di principio, dovrà quindi assumersi la responsabilità qualora il dipendente dovesse fare valere il proprio diritto anche molto tempo dopo. Ma quanto tempo dopo? La legge non prevede un termine annuale entro il quale esercitare il diritto alle vacanze. Se queste non sono prese entro l’anno lavorativo, il dipendente non perde quindi il suo diritto. Ne discende, ad esempio, che il credito vacanze del 2006 si sommerà a quello del 2007 e 2008, senza che il datore di lavoro possa opporre la prescrizione annuale. Il credito in vacanze del dipendente non è però imprescrittibile! Secondo la giurisprudenza del Tribunale federale (DTF 130 III 19, consid. 3.2), tornano applicabili gli art. 127 e 128 del CO sulla prescrizione, i quali prevedono un termine di 10 anni, rispettivamente 5 anni. Il Tribunale federale ha sinora lasciato aperta la questione su quale dei due termini si applichi. La dottrina maggioritaria, dal canto suo, scarta la prescrizione decennale, e ritiene che al contratto di lavoro si applichi esclusivamente la prescrizione di 5 anni. Da quale momento decorre la prescrizione? La prescrizione comincia quando il credito del lavoratore è esigibile. È bene non trarre conclusioni affrettate, pensando che la prescrizione decorra dalla fine del rapporto di lavoro. Secondo la dottrina giuridica, in un contratto prevedente 4 settimane di vacanza, l’esigibilità decorrerà dal momento in cui saranno trascorsi i 48/52 dell’anno lavorativo. Nel caso in cui il datore di lavoro abbia fissato in anticipo la data delle vacanze, la prescrizione decorrerà da tale data. A chi spetta l’onere della prova sull’entità del saldo vacanze? Se alla fine di un rapporto di lavoro il dipendente dovesse rivolgersi al giudice per ottenere la compensazione pecuniaria dei giorni di vacanza non goduti, spetterà al datore di lavoro provare il momento e il numero dei giorni di vacanza presi dal dipendente. In effetti, si considera che è il datore di lavoro a detenere i mezzi di controllo necessari alla verifica della presenza, rispettivamente assenza, dei propri dipendenti (Sentenza del Tribunale federale DTF 128 III 271, consid. 2a). Conversione del saldo vacanze in denaro Il saldo vacanze si determina pro rata temporis, ossia in funzione della durata del rapporto di lavoro durante l’anno considerato (art. 329a cpv. 3 CO). Ai fini della conversione, è consigliabile riferirsi ai parametri stabiliti nelle tabelle edite dall’Ufficio dell’industria delle arti e mestieri e del lavoro (UFIAMIL). Secondo le tavole di conversione UFIAMIL, quattro settimane di vacanza all’anno corrispondono a 1,67 giorni di vacanza al mese. Se il contratto di lavoro inizia il 1 gennaio e termina anticipatamente il 30 settembre, il saldo vacanze sarà di 1,67 x 9, ossia 15 giorni, dai quali vanno evidentemente dedotti eventuali giorni di vacanza già presi dal dipendente. Il valore in denaro dei 15 giorni dovrà essere così calcolato: 15/30 di 8,33% del salario annuo lordo, previa deduzione di eventuali assegni familiari. Diritto Ticino Business - 5/2008 • 12 Licenziamento collettivo la recente giurisprudenza del Tribunale federale di Simona Morosini, Responsabile del Servizio giuridico Cc-Ti I licenziamenti di massa, o collettivi, hanno innegabili conseguenze economiche e sociali. I rischi di una destabilizzazione degli equilibri socioeconomici ed istituzionali sono affiorati in modo evidente nell’ambito dalla crisi di FFS Cargo di Bellinzona. Non è peraltro un caso che le disposizioni del Codice delle obbligazioni, relative alla procedura di consultazione nell’ambito del licenziamento collettivo, perseguano la tutela di interessi pubblici e non solo privati. Esse hanno, per così dire, una sfumatura di diritto pubblico. Il datore di lavoro che intende licenziare deve in particolare valutare in modo serio le richieste dei lavoratori sorte nell’ambito di una trattativa. Se così non fosse, lo scopo di tali normative sarebbe vanificato. Recentemente il Tribunale federale (TF) si è di nuovo chinato sulla tematica del licenziamento collettivo, con particolare riguardo alla questione dell’indennità nel caso di licenziamento abusivo (sentenza del 16 novembre 2007: 4A_346/2007). Va sottolineato che la sentenza della massima istanza federale nulla ha a che vedere con la crisi di FFS Cargo. Trattasi però di una fattispecie, quella esaminata dal TF, che evoca alcune lampanti similitudini. Nel quadro di un licenziamento collettivo, il datore di lavoro è tenuto a rispettare una determinata procedura di consultazione dei dipendenti e delle competenti autorità cantonali (gli uffici cantonali del lavoro). Tale procedura è finalizzata a favorire l’avvio di trattative in vista del mantenimento di posti di lavoro, anziché la loro soppressione. Essa dev’essere avviata e terminata prima ancora della decisione definitiva di procedere al licenziamento collettivo. Qualora tale procedura di consultazione non fosse rispettata, le disdette notificate nel quadro d’un licenziamento collettivo sono da ritenersi abusive. In tal caso, oltre al salario dovuto sino al termine del rapporto di lavoro, i dipendenti hanno diritto ad un’indennità equivalente ad un massimo di due mesi di salario, secondo le disposizioni del Codice delle obbligazioni. Il caso esaminato dal TF riguarda un’azienda che, trovandosi in difficoltà finanziarie, in meno d’una settimana aveva sommariamente consultato i lavoratori che intendeva licenziare, informando l’autorità cantonale competente e pronunciando effettivamente i licenziamenti. In seguito, avendo individuato un’azienda disposta a riprendere l’attività, aveva informato i dipendenti a quel momento ancora vincolati dal contratto, del fatto che la disdetta veniva ritirata e che i contratti di lavoro venivano trasferiti all’azienda acquisitrice. I dipendenti toccati dalla misura hanno in seguito effettivamente proseguito la loro attività presso il nuovo datore di lavoro, senza sollevare opposizione al trasferimento. Alcuni di loro hanno invece rivendicato l’indennità per licenziamento abusivo, adducendo il mancato rispetto della procedura di consultazione, e facendo altresì valere tali pretese nei confronti di entrambe le aziende. Il Tribunale federale ha rammentato che i dipendenti che si considerano vittima di licenziamento abusivo e che intendono chiedere un’indennità devono anzitutto inoltrare opposizione scritta contro la disdetta, al più tardi alla scadenza del termine della medesima. Se l’opposizione è fatta validamente e le parti non si accordano per la continuazione del rapporto di lavoro, il dipendente può far valere il diritto all’indennità tramite azione innanzi al giudice entro 180 giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro. Se, al contrario, le parti decidono di mantenere il rapporto di lavoro, il diritto all’indennità si estingue. Il TF ha sottolineato che nell’ambito di una trattativa il lavoratore non ha alcun dovere di accettare modifiche del suo contratto. Deve invece accettare la revoca della disdetta da parte del datore di lavoro. Quand’anche rifiutasse, tale revoca estinguerebbe comunque la pretesa d’indennizzo del dipendente. Nel caso esaminato dal TF, è stato in sostanza confermato il carattere abusivo del licenziamento, essendo mancata la consultazione dei dipendenti. Tuttavia, con l’accettazione a proseguire il rapporto di lavoro presso l’azienda acquisitrice, essi avevano tacitamente accettato la revoca della disdetta, con conseguente estinzione del diritto all’indennità. Il TF ha altresì sottolineato che il meccanismo di opposizione alla disdetta tende proprio al perseguimento della trattativa e all’eventuale mantenimento del rapporto di lavoro. Ha quindi rifiutato l’argomentazione addotta dai lavoratori ricorrenti, stante la quale la revoca delle disdette non era stata il frutto di trattative con loro, bensì una scappatoia consecutiva al trasferimento dei rapporti di lavoro ad un’altra azienda. Secondo il TF, è del tutto normale che gli impieghi compromessi da difficoltà finanziarie vengano salvaguardati tramite un trasferimento d’impresa o di una parte di essa, ad un altro datore di lavoro. Altrettanto interessante è la questione di sapere se possa essere considerato come abusivo il licenziamento collettivo consecutivo ad una fallita trattativa “di pura facciata”, ossia quella in cui interviene il rispetto della forma, ma non della sostanza. Si pensi in particolare al caso della mancata osservanza, da parte del datore di lavoro, di un presupposto fondamentale della consultazione, ossia la disponibilità effettiva ad esaminare le proposte dei dipendenti. Invero, in una sentenza del 1997, il TF ha ritenuto che, anche nell’imminenza di un fallimento, configura un abuso consultare i dipendenti un giorno prima del loro licenziamento (sentenza del 21 aprile 1997: DTF 123 III 176). La dottrina giuridica ravvisa pure un abuso nel caso di occultamento o esposizione inveritiera dei fatti all’origine del licenziamento. Ogni situazione va ovviamente valutata alla luce delle circostanze concrete. Diritto Ticino Business - 3/2008 • 12 Avanprogetto di revisione “Swissness” di Simona Morosini, responsabile del Servizio giuridico Cc-Ti Premessa Il 28 novembre 2007 il Consiglio federale ha avviato una procedura di consultazione relativa alla revisione della Legge federale sulla protezione dei marchi e delle indicazioni di provenienza (LPM) e della Legge federale per la protezione degli stemmi pubblici (LPSP), progetto di revisione denominato “Swissness”. Riscoperta come strumento di marketing, la “svizzerità” induce un numero crescente di imprese ad apporre la croce svizzera o indicazioni quali “Svizzera” sui loro prodotti nonché ad utilizzarle per designare i propri servizi e per fare pubblicità nella Confederazione e all’estero. Alla designazione “Svizzera” vengono associati valori quali precisione, diligenza, affidabilità e alta qualità, attribuendo ai prodotti un vantaggio competitivo sul mercato internazionale. Tuttavia, gli usi ritenuti abusivi si moltiplicano e ciò ha suscitato la reazione delle cerchie economiche e una maggiore consapevolezza nel pubblico e da parte della stampa. I continui abusi dell’indicazione “Svizzera” e della croce svizzera sono ritenuti preoccupanti, poiché diminuiscono con il tempo il valore dei contrassegni. Da questo punto di vista, la nuova regolamentazione si propone di portare maggiore chiarezza, trasparenza e certezza giuridica. Fra i casi che hanno suscitato più scalpore vi è quello di pentole vendute da una delle maggiori catene del commercio al dettaglio nel quadro di un’offerta promozionale. Le pentole ed il loro imballaggio contenevano la designazione “Switzerland”, nonché la croce svizzera, benché fossero state fabbricate in Cina. Nel presente articolo, verranno presentate le proposte più significative del Consiglio federale in materia di indicazioni di provenienza. Le proposte di modifica in materia di uso della croce svizzera, degli stemmi pubblici e altri segni pubblici, saranno oggetto di un ulteriore contribu- to. Anticipiamo comunque sin d’ora che il Consiglio federale prevede di rendere più restrittive le disposizioni di legge che regolamentano l’uso di tali segni. Definizione della “provenienza” secondo le disposizioni attualmente in vigore Ad oggi, la legge sulla protezione dei marchi definisce in termini molto generici le condizioni che regolano l’uso di un’indicazione di provenienza, ivi compreso l’uso della designazione “Svizzera” sui prodotti. Secondo le disposizioni attualmente in vigore, la provenienza è determinata dal luogo di fabbricazione o dall’origine delle materie di base e delle componenti usate. Il Consiglio federale può precisare tali condizioni nell’interesse dell’economia o di un singolo settore. Sinora lo ha fatto in un’unica occasione, nell’ordinanza del 23 dicembre 1971 concernente l’uso della designazione “Svizzera” per gli orologi (ordinanza “Swiss made” per gli orologi). Per quanto riguarda i servizi, secondo la regolamentazione in vigore, la provenienza è determinata dalla sede sociale di chi fornisce il servizio oppure dalla nazionalità o dal domicilio delle persone che esercitano il controllo effettivo sulla politica commerciale e sulla gestione. Attualmente, una società con sede in Moldavia può lecitamente usare il nome “Swiss Consulting” in relazione ai suoi servizi, a condizione che la persona che esercita il controllo effettivo sulla società (ad esempio il direttore) sia di nazionalità svizzera. Quali sono i nuovi criteri proposti per determinare la provenienza di prodotti e servizi? L’avanprogetto messo in consultazione dal Consiglio federale si prefigge di rafforzare la protezione delle indicazioni di provenienza in Svizzera e all’estero. A tal scopo, esso prevede di inserire una serie di criteri che consentirà di definire in modo più preciso la provenienza di un prodotto svizzero, sia esso un prodotto naturale, un prodotto naturale trasformato o un prodotto industriale. Il Consiglio federale propone in particolare l’introduzione di un criterio generale, secondo cui “la provenienza d’un prodotto corrisponde al luogo in cui è realizzato almeno il 60 percento dei costi di produzione. Non sono considerati costi di produzione in particolare le spese di commercializzazione, quali le spese per la promozione e il servizio ai clienti dopo la vendita”. Nel rapporto esplicativo il Consiglio federale specifica inoltre che nei costi di produzione sono computabili “i costi di ricerca e sviluppo” (il rapporto esplicativo relativo all’avanprogetto è scaricabile dal seguente sito: www.ipi.ch/i/jurinfo/ documents/j10807i.pdf). Per ognuna delle tre categorie di prodotti è inoltre previsto un criterio supplementare, cumulativo, onde stabilire un legame tra il prodotto ed il suo luogo di provenienza. Per i prodotti industriali, esso sarà il luogo ove si è svolta l’attività che ha dato al prodotto le sue caratteristiche essenziali (ad esempio, il luogo di montaggio, di fabbricazione e/o di ricerca e sviluppo). Per i prodotti naturali, si tratterà del luogo d’estrazione o del luogo dove il prodotto è cresciuto integralmente. Per i prodotti naturali trasformati, esso coinciderà con il luogo dove si è svolta la trasformazione che ha dato al prodotto le caratteristiche essenziali. Uno degli obiettivi delle misure di regolamentazione è proprio quello di impedire che i processi di produzione decisivi di “prodotti svizzeri” vengano trasferiti all’estero, in modo da non indebolire l’indicazione della provenienza. Come anzidetto, le nuove disposizioni offrono inoltre esplicitamente la possibilità alle aziende di tenere conto, in particolare per i prodotti industriali, anche di 13 • Ticino Business - Diritto 3/2008 altre tappe della produzione (ad esempio la ricerca e lo sviluppo), oltre a quelle tradizionali della fabbricazione. Per quanto riguarda i servizi, la provenienza sarà invece determinata dalla sede sociale di chi lo fornisce oppure dal domicilio delle persone che esercitano il controllo effettivo sulla politica commerciale e sulla gestione. II criterio della nazionalità, previsto dall’attuale normativa, sarà dunque soppresso. Nella sua proposta, il Consiglio federale precisa che non potranno essere computati i costi per la logistica, la pubblicità e quelli legati al servizio clienti dopo la vendita. L’avanprogetto prevede comunque ulteriori strumenti per rafforzare a livello nazionale la protezione delle indicazioni di provenienza in Svizzera e all’estero, segnatamente la creazione di un registro nazionale, di cui diremo in un ulteriore contributo. Quali reazioni? La prevista abolizione del criterio della nazionalità per quanto riguarda la determinazione della provenienza dei servizi non sta suscitando particolari critiche tra le cerchie interessate ed appare anzi essere accolta positivamente. Per quanto riguarda i criteri di determinazione della provenienza dei prodotti, anche sulla scorta delle osservazioni pervenute alla Camera di commercio da parte di aziende che seguono i lavori in corso, si può invece affermare che l’avanprogetto suscita un certo scetticismo, con particolare riferimento al criterio quantitativo del 60%. Vi è segnatamente chi ritiene che tale criterio vada precisato e che occorra definire in modo più dettagliato, direttamente nel testo di legge, quali sono i “costi di produzione” compresi in tale percentuale. Vi è anche chi si chiede se per “costi di produzione del prodotto” debba intendersi il costo del processo industriale, indipendentemente dall’origine e dal costo dei materiali e della componentistica utilizzata. L’incertezza si pone in termini piuttosto marcati per i prodotti industriali, in cui la parte di costo delle componenti estere può difficilmente essere contenuta ad un livello inferiore o uguale al 40%, pur mantenendo in Svizzera le attività principali della fabbricazione. Tale problematica potrebbe tuttavia porsi anche per i prodotti d’uso e consumo. Il criterio del 60% incontra inoltre criti- che riferite al rischio di confusione con le regole d’origine non preferenziali, dove vige il criterio del 50%. Tale rischio potrebbe provocare ulteriori difficoltà amministrative alle aziende esportatrici. Un prodotto certificato originario della Svizzera, secondo le regole non preferenziali, potrebbe invece non essere contrassegnabile con l’indicazione “swiss made” secondo le regole della LPM, allorquando il 60% dei costi di produzione non fosse realizzato in Svizzera. Questa dicotomia si ripercuoterebbe sull’etichettatura del prodotto, poiché a seconda della sua destinazione il produttore dovrà applicare etichettature differenziate. Critiche sono mosse anche al carattere cumulativo dei due criteri di definizione della provenienza. Da un lato, la provenienza è determinata dal luogo in cui è realizzato almeno il 60% dei costi di produzione. A tale criterio si aggiungerebbe, ad esempio per i prodotti industriali, quello specifico del luogo ove si è svolta l’attività che ha dato al prodotto la sua caratteristica principale e dove deve essersi svolta almeno una tappa della produzione. I critici del carattere cumulativo ritengono, in sostanza, che anche tale cumulo introduce in maniera ingiustificata un regime più severo rispetto a quello delle regole d’origine. Quale variante rispetto al criterio del 60%? Una variante alla proposta del Consiglio federale potrebbe consistere nell’adozione del criterio del 50%, così come in vigore nell’ambito delle regole di origine non preferenziali. Va qui precisato che queste ultime discendono dal diritto doganale, segnatamente dall’Ordinanza sull’attestazione dell’origine e dall’Ordinanza del DFEP (ora denominato Dipartimento federale dell’economia, DFE) sull’origine. L’indicazione di provenienza dei prodotti secondo la LPM, qui in discussione, sebbene presenti delle analogie rispetto alle regole doganali, persegue scopi diversi. La prima mira, fra l’altro, alla tutela d’un bene collettivo, ossia la protezione della designazione “Svizzera” come veicolo d’informazione veridica e non ingannevole nei confronti del consumatore finale e come garanzia di concorrenza leale. Le regole doganali perseguono invece determinati obiettivi di politica commerciale, segnatamente per quanto riguarda i dazi doganali. A detta del Consiglio federale, gli obiettivi divergenti delle due regolamentazioni giustificano anche il loro contenuto divergente. Tale affermazione non viene però corroborata da ulteriori argomenti chiarificatori e suscita, in particolare la seguente domanda: obiettivi diversi giustificano modalità di tutela e regolamentazioni divergenti? Quando entreranno in vigore le nuove disposizioni? L’avanprogetto del Consiglio federale è annunciato nelle linee direttive del programma di legislatura 2007-2011. Pertanto, dato che la fase consultiva si è aperta nel novembre del 2007, le modifiche non entreranno in vigore a breve scadenza, né è dato per scontato che il progetto attuale passerà indenne la fase di consultazione delle cerchie economiche interessate. Questo non significa però che si debba attendere passivamente l’eventuale entrata in vigore. Le aziende hanno tutto l’interesse a seguire le fasi dell’iter legislativo e ad intervenire nel dibattito per portare critiche e proposte. Come esprimere opinioni e avanzare proposte sul tema Segnaliamo che la questione “Swissness” verrà trattata durante il mese di marzo in seno al Forum PMI, di cui si è parlato nel numero di gennaio/ febbraio di Ticino Business (pag. 17), il quale si riunisce a Berna a scadenze regolari. Quale commissione di esperti extra-parlamentare, il Forum PMI ha ricevuto dal Consiglio federale il mandato di ridurre gli oneri amministrativi che gravano sulle piccole e medie imprese. Esso ha segnatamente il compito di formulare, nell’ambito di procedure di consultazione federali, prese di posizione che rispecchino la posizione delle PMI, analizzare le regolamentazioni esistenti che implicano per le imprese un onere amministrativo considerevole, nonché proporre alle competenti unità amministrative delle semplificazioni e delle regolamentazioni alternative. La Camera di commercio si tiene a disposizione delle aziende ticinesi che volessero esprimere le loro preoccupazioni o i loro suggerimenti nell’ambito del Forum, affinché tali contributi pervengano ai rappresentanti ticinesi (in realtà trattasi di due autorevoli imprenditrici ticinesi) nominati in seno a tale gremio. Attualità Ticino Business - 1-2/2008 t Novità nell’ambito delle assicurazioni sociali Il 1° gennaio 2008 sono entrate in vigore importanti modifiche riguardanti le assicurazioni sociali. Di seguito, segnaleremo i principali cambiamenti di Simona Morosini, Responsabile del Servizio giuridico della Cc-Ti Contributi degli assicurati salariati Il contributo globale del 10,1% per AVS/AI/ IPG dovuto sui salari rimane invariato. Il contributo per l’assicurazione disoccupazione (AD) rimane pure invariato al 2%, ma il limite massimo del guadagno assicurato viene aumentato a 10’500 franchi al mese o 126’000 franchi all’anno (in precedenza, 8’900 franchi mensili o 106’800 all’anno). Sulle parti eccedenti i 126’000 franchi non vengono prelevati contributi AD. Anche il guadagno massimo assicurato nell’assicurazione infortuni obbligatoria passa, dal 1° gennaio 2008, da 106’800 franchi a 126’000 franchi all’anno. Salario di poco conto: qualora il salario non ecceda i 2’200 franchi per anno civile e per datore di lavoro, i contributi saranno riscossi solo su richiesta dell’assicurato. Per le persone occupate in un’economia domestica privata i contributi vanno invece riscossi. Prestazioni versate in caso di licenziamento per motivi aziendali: di regola le retribuzioni versate in caso di disdetta del rapporto di lavoro fanno parte del salario determinante. Tuttavia, nel caso in cui tale salario sia versato per contingenze quali la chiusura, fusione o ristrutturazione dell’azienda, come pure nel quadro di un licenziamento collettivo disciplinato da un piano sociale, vi è esenzione per le prestazioni inferiori a 53’040 franchi. Procedura di conteggio semplificata: a seguito dell’entrata in vigore, il 1°gennaio 2008, della legge contro il lavoro nero (LLN), le imprese potranno scegliere la procedura di conteggio semplificata. Essa è destinata ai piccoli datori di lavoro, segnatamente per le attività di breve durata o di poca importanza. Questa nuova procedura vuole agevolare l’onere burocratico del datore di lavoro al momento dell’annuncio dei propri collaboratori alle diverse istanze cantonali. Tramite essa viene infatti ridotto il numero di istanze a cui deve rivolgersi il datore di lavoro al momento dell’assunzione, versando i contributi e le imposte (alla fonte) presso un’unica istituzione: la cassa di compensazione AVS. Per beneficiare della procedura semplificata il salario annuale di ogni dipendente non deve superare i 19’890 franchi e la massa salariale annuale totale dell’azienda non deve eccedere i 53’040 franchi. Inoltre, il conteggio dei salari dovrà essere effettuato secondo questa procedura per la totalità del personale. L’annuncio dovrà essere dato entro il 31 gennaio presso la cassa di compensazione. Questo, per tutte le assicurazioni interessate dalla procedura semplificata (AVS/ AI/ IPG/ AD/ AINF/ assegni familiari), come pure per l’imposta alla fonte. L’azienda avrà dunque un solo interlocutore, ossia la cassa di compensazione. Il conteggio e la riscossione dei contributi sociali e dell’imposta alla fonte sono effettuati una volta all’anno. Contributi degli indipendenti I contributi personali AVS/AI/IPG rimangono fissi al 9,5% del reddito, ma il tasso è degressivo per i redditi compresi tra 8’900 e 53’100 franchi. Il contributo minimo annuale rimane fisso a 445 franchi. Compensazione delle perdite: solo le perdite d’esercizio subite e contabilizzate durante l’anno contributivo e in quello immediatamente precedente potranno essere compensate. Reddito da attività lucrativa indipendente accessoria di poco conto: allorquando il reddito di tale attività non eccede i 2’200 franchi annui, i contributi saranno riscossi solo su richiesta dell’assicurato. Controlli nei confronti dei datori di lavoro Dal 1° gennaio 2008 entreranno in vigore nuove regole concernenti i controlli nell’ambito dell’AVS. La frequenza dei controlli sarà adattata al profilo del datore di lavoro, in base al criterio del rischio aziendale. I datori di lavoro che avranno annunciato salari per oltre 100’000 franchi saranno oggetto di controlli. Nondimeno, un certo numero di datori di lavori con una massa salariale compresa tra 50’000 e 100’000 franchi potrà anche essere oggetto di controlli. Lo stesso accadrà in situazioni particolari, segnatamente in caso di costituzione, scioglimento d’impresa, cambiamento di cassa, fallimento. Prestazioni AVS/AI Gli importi in vigore dal 1°gennaio 2007 delle rendite e degli assegni per grandi invalidi dell’AVS e dell’AI rimangono invariati. È utile segnalare che a seguito della 5a revisione dell’AI, in vigore dal 1° gennaio 2008, il datore di lavoro è tenuto ad annunciare all’ufficio AI i casi di incapacità lavorativa ininterrotta di almeno 30 giorni, oppure le assenze ripetute di breve durata verificatesi nel corso di un anno. La persona assicurata deve essere informata che il suo caso è stato comunicato all’AI. Perdita di guadagno È importante che le persone che prestano servizio trasmettano tempestivamente il questionario IPG. I datori di lavoro iscrivono nel questionario IPG il salario da loro corrisposto al dipendente prima dell’entrata in servizio e lo inoltrano immediatamente alla cassa di compensazione AVS. In tal modo, le indennità per perdita di guadagno potranno essere versate al più presto. Pilastro 3a aperto alle persone attive dopo l’età pensionabile Al fine d’incoraggiare la permanenza sul mercato del lavoro, il Consiglio federale ha deciso che le persone che continueranno a lavorare oltre l’età di pensionamento ordinaria (64 anni per le donne, 65 per gli uomini) potranno differire, per 5 anni al massimo, la riscossione delle prestazioni di vecchiaia del pilastro 3a (previdenza vincolata), rispettivamente continuare a versare i contributi, beneficiando così di vantaggi fiscali. A tale scopo, l’ordinanza sulla legittimazione alle deduzioni fiscali per i contributi a forme di previdenza riconosciute (OPP3) è stata modificata con effetto dal 1° gennaio 2008. Per ulteriori informazioni: Ufficio federale delle assicurazioni sociali (UFAS) Effingerstrasse 20, 3003 Berna Tel. +41 31 322 90 11 Fax +41 31 322 78 80 www.bsv.admin.ch/themen/ahv/00018/ 00465/index.html?lang=it