REGATT 04-2011.qxd 25/02/2011 15.50 Pagina 99 L L ibri del mese Del mutare dei tempi Marisa Rodano: speranze e responsabilità della mia generazione tanti per capire che tipo di opera si abbia tra le mani. Considerazione generale, come una premessa: «La ricerca di un filo nel labirinto della memoria è un percorso accidentato; conduce verso vicoli ciechi: l’autoritratto, l’autobiografia, le confessioni, il cahier intime, l’evocazione proustiana, l’aneddotica, la divagazione saggistica... Difficile è scoprire cosa io voglia o possa scrivere, o più semplicemente cosa sia in grado di scrivere».3 L eggendo e qua e là rileggendo i due corposi volumi dei diari di Marisa Rodanol una prima osservazione impertinente che mi è venuta naturale concerne la denominazione «Diario minimo» preposta al titolo vero e proprio, Del mutare dei tempi, che riecheggia la Cronaca delle due città di Ottone di Frisinga. Non c’è nulla di minimo o di minimalista in queste pagine che scorrono ra- XXI pide e gonfie come un fiume in piena, sorrette da un interno, palpabile vigore, e sono quanto mai lontane dalla diffusa propensione intimistica e solipsistica di altri diari; anzi, l’«io narrante» appare decisamente refrattario alla tentazione del ripiegamento su di sé, più estroflesso che introflesso (benché non manchino guizzi vividi sulle zone interne),2 e del tutto convinto delle buone ragioni di tale atteggiamento. In proposito, il capitolo 9 offre una serie di considerazioni impor- Una donna protagonista Dopo aver richiamato il tema della soggettività della memoria, «meraviglioso strumento d’eliminazione e di trasformazione» dei vissuti individuali e collettivi, l’autrice passa dal piano generale a quello suo particolare, spiegando perché abbia a lungo recalcitrato all’idea di raccogliere le proprie memorie: «Ho sempre pensato che scrivere le proprie memorie sia un preoccupante segno di senilità: un indizio certo di ripiegamento sul passato. La mia ritrosia, forse, ancor più, una vera e propria reazione di rigetto verso questo genere letterario, nasce dall’impressione che nelle memorie, nei diari, nelle confidenze affidate alla carta vi sia un che di impudico; che sovente vi ristagni quel sottile, forse inconsapevole compiacimento vanitoso che sia Franco sia io abbiamo sempre avvertito con insopportabile fastidio: “Il passato è passato – diceva Franco – pietà l’è morta...”. In realtà abbiamo sempre provato fastidio per il garibaldinismo: l’essere quel che si è stati. Fin da giovanissimi vedevamo in quei vecchietti con le camicie rosse, chiamati a partecipare a sfilate e cerimonie, un fenomeno a un tempo patetico e ridicolo e, in definitiva, mortuario».4 Il brano si apre e si chiude con un riferimento alla senilità; quest’ultimo, perfino impietoso. Ma è una chiave impor- IL REGNO - AT T UA L I T À 4/2011 99 REGATT 04-2011.qxd L 25/02/2011 15.50 Pagina ibri del mese tante di accesso all’opera, che si dichiara nata malgrado una serie di resistenze mentali – e non credo sia finzione retorica – all’esibizione dei propri vissuti che è intrinseca a questo genere di scritti; e, assieme a questo tratto di pudore, a questo freno contro scivolamenti narcisistici, colpisce la nettezza dell’ancoraggio al presente, il rifiuto di sopravvivere a sé stessi come ingessati e imprigionati in un’immagine: appunto, il rigetto del «garibaldinismo», sfilata di vecchie glorie che perdono smalto e non si arrendono al «mutare dei tempi», non si accorgono o non vogliono accorgersi di quanto siano diverse le emozioni suscitate negli astanti di ieri e di oggi, di quanto possa sembrare patetico perpetuare l’essere quel che «si è stati». E davvero, il diario di Marisa Rodano, redatto da una donna alle soglie dei novant’anni, lascia un’impressione assai viva di non-senilità, di non-ripiegamento sul passato. Certo, ci possono essere tocchi di nostalgia, come nel ricordo di cari amici scomparsi,5 ma nell’insieme e sostanzialmente questa è un’opera dettata o scritta con la rara capacità di riandare al passato e ripercorrerne tappe salienti senza restarne ingabbiati e senza coltivare quello sguardo all’indietro che svuota il presente di nuovi possibili sensi. E di vita. Questi diari appartengono a una cultura, e a una personalità, che ha vissuto intensamente il presente, ogni suo presente, nel tempo lungo di un’esistenza collocata in un «oggi» che, momento per momento, è stato il luogo di una convocazione e di un compito verso l’avvenire. Un’esistenza sicuramente non ordinaria, non fosse altro per la quantità e l’importanza delle frequentazioni che da subito si affacciano nel testo, dall’epoca dei ricordi d’infanzia in un’agiata e privilegiata famiglia ben introdotta nell’alta società romana6 al periodo intenso e cruciale della giovinezza e della maturazione della scelta antifascista, e poi della lotta clandestina, quando Marisa insieme a Franco Rodano e ad altri giovani amici assiste e partecipa assai da vicino, a contatto con grandi protagonisti del Comitato di liberazione nazionale (CLN) e dell’intellighenzia dissidente,7 per giungere fino agli anni non meno intensi del lungo dopoguerra,8 quando l’impegno politico esce dall’emergenza e gli incarichi istituzionali rendono più ovvio l’esser contornata da personaggi di primo piano. Elencare tutti i nomi di calibro che affollano le pagine del diario9 sarebbe 100 100 IL REGNO - AT T UA L I T À 4/2011 un’operazione forse meccanica, ma non inutile a visualizzare il reticolo di rapporti che fanno di quest’opera un ricchissimo contenitore non solo di memorie, ma di «storia» nazionale, dei conflitti e dei traguardi, delle passioni e delle contraddizioni che l’hanno accompagnata. E allora perché «Diario minimo»? Ancora nel capitolo 9, sul quale tornerò anche in seguito perché denso di elementi esplicativi, si trova un breve passaggio che forse dà ragione di quell’aggettivo apparentemente incongruo: «Quando il soggetto narrante è una donna, tutto diventa più complicato, il bisogno e insieme l’impossibilità culturale e psicologica di dire “io” si intrecciano in modo inestricabile. Nella vita di una donna, pubblico e privato costituiscono un continuum, una matassa aggrovigliata che è impossibile sciogliere, un tessuto delicato che è arduo disfare, quasi gli avvenimenti della vita quotidiana, i dettagli minori avessero la stessa rilevanza dei grandi eventi…».10 È un punto di vista probabilmente non allineato con certo femminismo duro e puro che ormai sta alle nostre spalle, ma vicino al sentire di molte donne che, pur non rinunciando agli obiettivi di un’emancipazione costata tanto cara ad altre donne, nemmeno vogliono privarsi di una realizzazione personale, familiare, affettiva. L e b e l le co m p ag n e In tale difficile equilibrio di sfera pubblica e sfera privata, gestito peraltro da Marisa come da moltissime altre non senza fatica, ma con saggezza e perfino con disinvoltura,11 mi pare debba leggersi, sotto traccia, qualcosa di più ampio di un empirico progetto di vita capace di destreggiarsi fra le due sfere: un diverso modello, una diversa scala di giudizio, un’articolazione dissimile delle priorità. In definitiva, si tratta forse di un «giudizio politico» e non soltanto di una riflessione, tradizionale, sulla natura e la sensibilità femminili. Scrivere che, in quel continuum fra pubblico e privato che contraddistingue l’esperienza di tante donne come Marisa, non semplicemente prestate alla politica, ma realmente e in modo pieno militanti, i «dettagli minori» assumono «quasi» la stessa rilevanza dei «grandi eventi», è un’affermazione da prendere sul serio: vera e umanissima. A volte, sono tocchi di puro «colore», che però trasmettono vividamente l’atmosfera di un periodo o di una corrente politica, ben al di là di un’asettica descri- zione o di un giudizio astratto: restando nell’area del protagonismo politico delle donne, per cui Marisa, fra le altre, ha tanto lavorato,13 si veda l’attacco del capitolo 22, relativo al settembre 1944, quando iniziano i pourparler per la fondazione dell’Unione donne in Italia (UDI): «Anima dell’iniziativa era il Partito comunista italiano (PCI) e, per esso, Rita Montagnana, allora compagna di Togliatti. Rita sottolineava sempre quanto fosse difficile organizzare le donne e lo faceva con un’immagine pittoresca: “Le donne sono come la polenta, più la tiri su e più si affloscia sul tagliere; e poi sono tormentate dai bambini, che si attaccano alle loro gonne e non le vogliono far muovere...”».14 O, nel capitolo successivo, dedicato ai mesi febbrili – per l’Italia e per le sorti della guerra – tra il novembre 1944 e gli esordi del 1945, mentre si andava anche rafforzando l’accordo trasversale per richiedere il voto alle donne,15 il breve passaggio in cui l’estetica fa breccia nel ragionamento politico: l’autrice ricorda l’effetto galvanizzante del «vento del Nord» anche sull’UDI, che si sarebbe arricchita di nuove compagne dal solido retroterra militante, «operaie e lavoratrici di Milano, di Torino, di Bologna avevano avuto un ruolo decisivo nella Resistenza e nel moto insurrezionale»; inoltre, le dirigenti dei Gruppi di difesa della donna (GDD) occupavano già incarichi di responsabilità nella vita pubblica.16 Poi, all’interno di questo spaccato serio e stringente, ecco il ritratto di alcune compagne: Lucia Corti, nominata dal CLN dell’Alta Italia (CLNAI) alto commissario per l’assistenza ai reduci: «Lucia era bionda, bella e autorevole, ne ero affascinata»; e Gisa (Gisella Floreanini, nome di battaglia Valli, che era stata ministro nel governo della Repubblica partigiana della Val d’Ossola): «Un personaggio per me leggendario... anche lei bellissima». Ma più interessante è la notazione che segue: «Mi viene fatto di sottolineare la bellezza delle compagne forse perché già allora uno dei leitmotiv della campagna anticomunista era che le donne comuniste erano “brutte e baffute”. In questo tipo di campagna si era specializzato l’Uomo qualunque».17 Qui si ha la riprova che la precedente notazione circa l’avvenenza delle compagne non è soltanto una leggera pennellata femminile – dare risalto all’apparenza –, ma corrisponde a un retro-pensiero di carattere squisitamente politico e pole- XXII REGATT 04-2011.qxd 25/02/2011 15.50 Pagina mico nei riguardi di un diffuso pregiudizio che veniva gonfiato dalla propaganda delle destre: così come, in altri casi, si enfatizzava l’equivalenza fra donne partigiane e femmine di facili costumi,18 meno volgare ma ugualmente spregiativo è l’accostamento fra le donne comuniste (inquadrate, emancipate, battagliere) e un rozzo modello virile agli antipodi della femminilità; lo si ritrova ancora, avvolto da una comicità non troppo greve, in uno dei film della serie di Don Camillo. Ed è proprio a questo uso politico, a questa generalizzazione provocatoria che attribuisce alla parte avversa perfino il brutto capovolgimento della «natura» femminile, che Marisa reagisce: en passant, garbatamente: a lei, le compagne comuniste sono sembrate, anzi, davvero erano, molto belle, caso mai ciò abbia a che fare col lavoro politico e le tante cose urgenti di cui abbisogna un paese disastrato. Un’ultima postilla vorrei fare su questo alterno dosaggio di grandi questioni dell’assetto politico e del confronto/scontro sociale, di cui il diario è costellato, di notazioni minori, di osservazione del «dettaglio» curioso, apparentemente marginale, che affiora anche nel mezzo di discorsi seriosi. In più di un caso, una mescolanza che ricalca semplicemente la fluttuante corrente dei ricordi, ma in altri casi ne ho ricavato l’impressione di uno sguardo sul reale veramente stratificato, capace di connettere più elementi in una singolare arte combinatoria che, forse, ha a che fare con la predisposizione di Marisa alla pittura, coltivata fin dalla prima giovinezza con buoni risultati e valenti maestri.19 È uno sguardo che inoltre, in qualche modo, sembra richiamare la prospettiva manzoniana e cristiana di una storia dove gli umili pesano poco sulla bilancia del potere, ma non sono affatto comparse anonime ed evanescenti, tutt’altro: presso di loro è spesso deposto un tesoro immateriale di doti umane che, senza con ciò mitizzarli, può offrire gratuitamente una lezione di vita, tenacia, generosità, coraggio, a chiunque voglia usufruirne. Lezione di solito negletta, perché i «grandi» seguono la propria orbita divergente, e lo sguardo che volgono in basso è sovente dirigista, paternalistico, distratto. I grandi e i piccoli Nel diario «minimo» di Marisa – così pieno di persone di cultura e di potere che in notevole misura hanno segnato le sorti della nazione – si affollano anche fi- XXIII 101 gure di «piccoli» la cui dignità non è mai negletta e spesso buca la pagina in vividi fotogrammi. Per citarne solo alcune: la cameriera Assuntina, che faceva parte del personale domestico della famiglia d’origine di Marisa, toscana, di Poggibonsi, verosimilmente di famiglia socialista, molto compita nel servizio, si licenziò dopo un’accesa discussione con la padrona di casa: «Difendeva i suoi diritti, non si faceva certo mettere i piedi in testa»;20 il colono Zacchilli, «capoccia» di una grande famiglia mezzadrile che risiedeva in uno dei poderi del padre di Marisa e che, durante le lotte per il riparto dei prodotti fra mezzadri e padroni,21 praticamente tenne il padrone sotto sequestro e bloccò la battitura del grano fino a che non ebbe partita vinta: ma il tutto gestito con estrema gentilezza, evitando l’intervento della forza pubblica: «Fu cortesissimo, offrì il vino fresco di cantina, pregò il padrone di mettersi comodo nel luogo più ombroso e ventilato, ma fu irremovibile: “Signor padrone, non si trova bene qui? Noi siamo felici che lei resti, è un onore averla a casa nostra, ma qui la ‘battitura’ non continua e non si conclude finché non ci siamo messi d’accordo di dividere secondo la legge”». Poco sopra, così l’autrice aveva introdotto i1 soggetto: «Era persona di animo nobile, dotato di una singolare e non comune gentilezza innata; e per giunta aveva un’intelligenza politica acuta e una buona dose di astuzia».22 La galleria potrebbe continuare con le compagne di cella al carcere delle Mantellate, dove Marisa fu portata dopo l’arresto per attività sovversiva, nel maggio 1943: qui c’erano «legioni di meretrici», borsaneriste, detenute per procurato aborto o altri gravi reati. Per qualche tempo ella divide la cella con una ladra e una ricettatrice: «Popolane, un po’ sboccate, cordiali e protettive nei miei confronti, ricevevano pacchi con minestrone e meravigliose frittate di patate che, data la temperatura, dovevano essere consumate subito. Tutto veniva messo in comune e si imbandivano autentici festini».23 E ancora, con le reiterate scene della gente che si affolla nelle piazze dei paesi durante i comizi per i vari giri elettorali, che si stringe intorno agli oratori, che offre mazzi di fiori presi dai campi o dall’orto; ed ecco, in Abruzzo, le donne: «Tantissime donne, il capo coperto da fazzoletti scuri, i volti segnati dal lavoro e dalle intemperie, che ponendo la mano sulla mia pancia, ormai di sette mesi, pronunciavano in dialetto frasi misteriose, penso benedizioni all’indirizzo del nascituro».24 Un’Italia profonda, rurale, primitiva sotto molti aspetti, rispetto alla quale Marisa, al pari di altri politici «cittadini», appare una presenza aliena: eppure è gente che aspetta con pazienza per ore, talvolta, l’arrivo degli esponenti di partito e ne segue «appassionatamente» i discorsi; e in quel gesto antico, non ben decifrato, da donna a donna, si compie un rito di accoglienza, una propiziazione, un diverso e fisico contatto con quel popolo che il politico intende risvegliare e rappresentare. Dieci anni dopo, nel 1955, non è molto diversa la Sicilia dove Marisa si porta per una delle tante campagne elettorali, a Ciminna, «un borgo di braccianti poverissimi, dove mancava anche l’acqua»;25 pochi giorni prima, a Sciara, una località nei paraggi, è stato assassinato dalla mafia un capolega socialista. Il clima è teso, l’autista si rifiuta perfino di rientrare di notte a Palermo, per non attraversare quella zona pericolosa; anche qui, una scena che ha tratti arcaici e, al contempo, familiari: i «compagni braccianti» che scortano Marisa, non volendo lasciarla sola sulla strada; il desiderio e l’imbarazzo di offrire ospitalità, a lei e all’altra compagna, da parte di gente così povera che abitava «in tuguri di una sola stanza, privi di servizi igienici, con un solo letto in cui dormiva tutta la famiglia...». La cosa è risolta chiedendo al medico condotto, le cui sorelle allestiscono alla meglio un giaciglio rimediato in salotto. Ma questo non importa. Importa invece notare, in questa sorta di film senza parole, potente piccolo racconto dentro il racconto complessivo, la forza icastica di quell’immagine: «Attendemmo, io e un gruppo di compagni braccianti che non volevano lasciarmi sola di notte, camminando su e giù per la strada che usciva dal paese».26 Ai gradini più bassi della scala sociale, più miseri che solo poveri, ma non miserabili, questi uomini sembrano avvolgere Marisa, la «continentale», la politica di città, in una specie di abbraccio protettivo, in un’assunzione di responsabilità e di coraggio civile che – quale che fosse il rischio reale – si pone in antitesi con la supposta passività e rassegnazione della gente del Sud e dà il senso di un vincolo forte con quell’ospite occasionale che, co- IL REGNO - AT T UA L I T À 4/2011 101 REGATT 04-2011.qxd L 25/02/2011 15.50 Pagina ibri del mese me è venuta, presto se ne andrà: un vincolo orizzontale, al di là della distanza fra il loro mondo e quello di lei, che transita simbolicamente attraverso la potente parola «compagno», «compagna». È questa la cifra di un mutuo riconoscimento, della stipula di un patto sociale, di un impegno comune verso l’eguaglianza che comincia col sentirsi eguali, «compagni», appunto: anche il linguaggio, che pure può contenere tante finzioni, è un’arma efficace per lo scardinamento delle differenze, per il recupero dell’umana dignità. Quantitativamente, il diario di Marisa Rodano è senz’altro occupato, per la maggior parte, dalla ricostruzione, ora analitica, ora più impressionistica, di avvenimenti, dibattiti, svolte che maturano a livelli «alti» della politica, sia dei partiti sia della nazione. Come già si è richiamato più volte, quello dell’autrice è un osservatorio privilegiato; per una serie di circostanze, talora anche fortuite, più spesso collegate a quel laboratorio operoso e appassionato, ma in fondo gravitante su circuiti ristretti, che fu la lotta clandestina, Marisa si trova proiettata molto precocemente a incarichi di notevole rilievo su scala nazionale,27 fino a divenire vicepresidente della Camera dei deputati. L’inevitabile scollamento dal lavoro «di base» non le impedisce però di conservare – ed è uno dei tratti più significativi dell’opera – una coscienza vigilante sul rischio mortale che tale scollamento può produrre nei professionisti della politica; e la nozione, starei per dire l’orgoglio, di essere stata parte di una tradizione politica – qui non si può non parlare al passato – che più di altre ha custodito a lungo l’idea di un nesso forte fra la base e il vertice, e la lezione che ne promana, a saperla vedere. Ancora un esempio: «Sulla via del ritorno passai per Teramo a salutare Vittorio Tranquilli e sua moglie Elisabetta Scudder che vivevano accampati nella sede della Federterra, in uno stanzone disadorno che serviva anche da deposito per le sementi e i concimi che l’organizzazione vendeva ai soci. A parte le condizioni di estremo disagio in cui dimoravano, facevano letteralmente la fame. E difatti di lì a poco si ammalarono gravemente. Ho spesso ripensato a quell’esperienza, a quella così palpabile e drammatica testimonianza dell’ardore rivoluzionario e del disinteresse che animava tanti compagni in quegli anni e che ha permesso di costruire un grande PCI».28 102 102 IL REGNO - AT T UA L I T À 4/2011 La politica come fede e come testimonianza «Ardore», «disinteresse», «testimonianza»: chi legge vede attraverso gli occhi di Marisa – simpatetici ma non appannati – la differenza fra una politica fatta di parole, manifestazioni e proclami, e una politica fatta di cose e di persone che ne inverano gli obiettivi e le parole d’ordine nell’impegno quotidiano. Crescendo in esperienza e in età, Marisa si accorgerà anche delle astuzie della politica, capace di strumentalizzare ai propri fini l’ingenuo ardore dei neofiti e abitata non esclusivamente da cavalieri dell’ideale: «A posteriori, non posso escludere che qualcuno già allora facesse calcoli personali».29 Ma, soprattutto nella fase del transito difficile quanto esaltante verso lo stato democratico, ciò che si è iscritto nella memoria personale e non tollera di essere negato o svilito, è il sapere per certo che la grande illusione di costruire una società nuova, libera, eguale e giusta, venne perseguita dai più con autenticità e abnegazione, come un servizio: «Tutto si presentava in forme inedite e sentivamo di agire nel cuore di un processo di rottura di portata storica, rivoluzionario nel senso che Lenin dà al termine: una fase in cui milioni di uomini fanno politica».30 Una visione che si colloca all’opposto della politica come mestiere e carriera (anche se essa richiede un severo apprendistato e l’acquisizione di precisi strumenti).31 Chi fa politica attiva assomiglia per certi versi più a un «apostolo» che a un funzionario di partito, o a un gregario: specie se, come spesso accadeva, è stato «chiamato» all’opera più che averla scelta di sua iniziativa e se, per una attività che tende a farsi totalizzante, ha dovuto rinunciare a disporre del proprio tempo, e perfino di sé: «Di conseguenza, dove ti mettevano, stavi, quel che ti chiedevano, facevi; era impensabile brigare per essere in lista o rifiutare se si veniva indicati».32 Nasce spontaneo l’accostamento di questa concezione del lavoro politico a una missione, della politica stessa a una «fede»; è del resto trasparente in tante altre fonti, come negli scritti della Rodano, una terminologia mutuata dall’ambito religioso e chiesastico. Luogo comune, quello del «partitoChiesa», sul quale è facile oggi ironizzare e scrollare la testa; sul quale anche i due volumi tornano a più riprese, senza sconti, nemmeno troppo nascondendosi dietro gli eroici paraventi di un’epoca che fece della politica un’ideologia, e dell’ideo- logia una scelta di vita: pur essendo giovani, audaci al limite dell’incoscienza, convinti senza riserve che la lotta al fianco dei comunisti e in seguito l’iscrizione al Partito comunista fossero la scelta giusta, necessitata dalle pressioni della storia, Marisa, Franco e gli altri loro amici cattolici, che si affacciano nel diario, non appaiono affatto sprovveduti né acritici. Soprattutto Franco, con la sua precoce intelligenza, il suo rigore argomentativo, l’attitudine a spaccare il capello in quattro, accanto alla sua fede robusta e fervente, presto comprende e aiuta gli altri a comprendere «che la tensione “religiosa” intrinseca al marxismo e al pensiero di Marx, la “rapina dell’assoluto” (come egli si esprimeva) non potesse non portare a sbocchi totalitari e ad avvitamenti inevitabilmente catastrofici...».33 Eppure, proprio questa tensione religiosa, trasportata indebitamente nell’orizzonte dell’immanenza – la storia, la politica, il progetto della futura società – rappresenta l’elemento di maggiore somiglianza e di possibile sinergia fra i giovani antifascisti cattolici e i militanti legati al Partito comunista: ci furono delle circostanze – casuali, provvidenziali – che li fecero incontrare fra il 1939 e i primi mesi del 1940 in circuiti studenteschi di una Roma ancora intatta, splendida vetrina del regime fascista, fra le quali ricordo la venuta di Paolo Bufalini come supplente di filosofia al liceo Visconti nella classe di Marisa e Franco.34 Ma al di là delle occasioni che si trasformano in opportunità, colpisce nel racconto dell’autrice il dato di una precisa intenzionalità, di una «scelta» che non era l’unica possibile: anche solo a livello giovanile, pur se spesso piccoli e scollegati, fiorivano a Roma numerosi gruppi politici di diverso segno, critici o dissidenti nei confronti del regime. Nel PCI: dal la to lleranza al riconoscimento E merita sottolineare ancora che in quello che diventerà il Movimento dei cattolici comunisti35 appare ben chiara fin da subito la riserva verso la pregiudiziale antireligiosa del comunismo: di qui, non intendendo mettere fra parentesi la propria fede cristiana e cattolica, il mantenimento d’autonomia organizzativa anche durante la fase della lotta clandestina: l’identità rimane distinta, pur se la collaborazione s’intensifica via via.36 Per converso, anche da parte comunista si continua a rimarcare, fra attestazioni di stima esplicite per la «qualità e la combattività» dei XXIV REGATT 04-2011.qxd 25/02/2011 15.50 Pagina giovani cattolici, una netta linea di demarcazione: ricordando un’espressione di L. Lombardo Radice, scrive la Rodano che «li si considerava dei compagni, ma non li si accettava come comunisti».37 Posizione a più riprese riconfermata, malgrado le sollecitazioni e i sensati argomenti dei «compagni» cattolici affinché il Partito comunista lasciasse finalmente cadere i propri dogmatismi e le chiusure settarie, recependo senza sospetti l’adesione di quei credenti che ne condividevano la linea politica, ma non i postulati filosofici materialisti. Un tiro alla fune durato a lungo. Ripercorrerne le tappe lasciandosi guidare dalla narrazione sinuosa di Marisa, che movimenta l’asse cronologico con inclusioni per associazioni tematiche o mentali, e con rimandi alle sue carte private o a quelle di Franco, prenderebbe qui troppo spazio, ma è una vicenda quanto mai istruttiva e curiosa. Assomiglia a quella di un amore a tutta prova, testardo e non rassegnato dinanzi all’ottusità ideologica della struttura di partito: come quando Togliatti, oltre al resto un «amico», e senza dubbio più attento di altri del suo schieramento al problema dei cattolici, alla riunione del II Consiglio nazionale del PCI si limita a parlare di «tolleranza nei confronti della presenza dei cattolici dentro un partito di massa».38 Ma, se tale era la consapevolezza, ci si potrebbe chiedere perché questi giovani di matrice cattolica abbiano tenuto fede, nonostante tutto, all’opzione comunista. La cosa appare spiegabile nella fase più drammatica della resistenza al nazifascismo, quando si accorciano le distanze fra i gruppi di opposizione e, nello sforzo comune, l’audacia, lo spirito di sacrificio e l’efficiente organizzazione dei comunisti assegnano loro in molti casi un indiscutibile primato. Ma dopo? Semplificando, individuo tre fattori principali che, non senza dubbi e valutazioni critiche, assicurano in un primo tempo leale collaborazione, poi duratura partecipazione alla causa comunista, fino a dissolvere la Sinistra cristiana entro il PCI.39 Il tutto, nella cornice di quell’«ardore, disinteresse, testimonianza» sopra richiamati, cioè di un’«anima» della politica, un’etica della politica, che questi cattolici – né troppo ingenui né troppo smaliziati – ritrovano più chiara che altrove fra i compagni del PCI. Il primo è un fattore pragmatico: lo chiamerei la persistenza delle cose che XXV 103 stanno al principio di ciò che si è diventati. Il diario, con puntuali riferimenti al quadro militare, allo stato d’animo del paese in guerra, alle ingravescenti condizioni materiali, ci mette dinanzi agli occhi il cupo scenario dell’Europa schiacciata dalle vittorie del Reich e l’altalena di speranze e delusioni per l’andamento delle vicende belliche. In questo crogiolo, dove la scelta resistenziale, mano a mano che cresce la stretta repressiva, impone disciplina, senso del rischio e coraggio di affrontarlo, i ragazzi di questa cerchia scoprono la cogenza dell’azione, il primato dell’azione. Deposta la veste di intellettuali (o per lo meno, studenti o neolaureati) dissidenti – fino allora, in fondo, non troppo esposti – assumono per intero un ruolo operativo, nel quale è determinante l’incontro con i comunisti: «Il problema era passare dal proselitismo e dalla propaganda a una azione di lotta politica, capace di preparare il popolo italiano a prendere in mano il proprio destino, convinti che fosse un errore limitarsi ad attendere la sconfitta militare del regime».40 Ma a ciò viene aggiunta un’ulteriore motivazione. Non solo i comunisti appaiono i più attrezzati alla lotta, ma altre componenti del Comitato delle opposizioni, per lo meno nell’area di Roma, si mostrano irresolute fino alla paralisi. Il giornale clandestino dei Cattolici comunisti, Voce operaia, conduce allora «una polemica serrata nei confronti sia degli atteggiamenti di passività, di attendismo e di freno che la Democrazia cristiana (DC) sosteneva all’interno del CLN sia delle posizioni “equidistanti” di non pochi esponenti della gerarchia cattolica e del Vaticano».41 È dunque una valutazione politica, sia pure contingente, con la quale introduco il secondo elemento, di ordine teorico. Eccezion fatta per Ossicini e alcuni altri, il nucleo dei Cattolici comunisti, in primis lo stesso Franco Rodano, Marisa, Tonino Tatò,42 non proviene dalla tradizione del cattolicesimo politico e perciò non ne ha introiettato il radicato anticomunismo. In compenso, le letture, il rapporto con insegnanti antifascisti sia al liceo sia all’università, la frequentazione di settori particolarmente aperti dell’associazionismo ecclesiale (Congregazione mariana, AC e FUCI), stanno forse alla base di quella visione «antiborghese» e in senso lato «rivoluzionaria» che si riscontra in tanti ambienti intellettuali dell’epoca. Inoltre, la cattiva prova fornita dalla borghesia liberale e conservatrice dei paesi democratici – i tanti compromessi con Hitler, la politica del non-intervento che ha portato alla vittoria del franchismo – contribuiscono a distogliere i membri del Movimento, in rapida crescita numerica, dalla prospettiva astrattamente illuministica dei grandi principi liberali, spingendoli verso una più radicale: «Che avessimo poca fiducia nelle democrazie europee era comprensibile perché, come ha scritto Paolo Bufalini, urgeva la contraddizione tra la religione della libertà e la realtà di una tradizione liberal-democratica che non aveva saputo impedire la vittoria del fascismo o non sapeva indicare la via per abbatterlo».43 Condizionare il par tito, convincere la Chiesa In certo modo, si afferma di nuovo la precedenza della prassi, la necessità di assecondare la lezione della storia, schierandosi, da credenti e in quanto tali, contro la dittatura, la guerra, l’ingiustizia, a fianco delle classi oppresse. Il soggetto politico capace d’incanalare le energie e le speranze verso la costruzione di una società nuova, già esiste. Il patto d’unità d’azione con i socialisti44 e, ancor più, la flessibile strategia togliattiana; la parola d’ordine del «partito nuovo» che senza incrinare la fedeltà al «campo socialista» e all’«internazionalismo proletario», esordisce nell’Italia liberata come partito di governo e dell’arco costituzionale, sono processi che sembrano contenere la premessa di un’evoluzione nella linea auspicata da Franco Rodano e compagni: una grande formazione politica capace di farsi carico non solo degli interessi «di classe», ma delle sorti del paese, e di deporre via via i vecchi schemi ideologici e le ingiustificate chiusure verso la componente cattolica.45 A questa fiducia di poter incidere sul PCI contribuendo – come in parte è stato – alla correzione della sua linea, specialmente l’opzione ateistica, fa pendant il tenace, appassionato quanto inutile tentativo, da parte dei Cattolici comunisti, di far abbandonare alla Chiesa la pregiudiziale anticomunista. Questo terzo punto è, insieme, di ordine politico e «teologico», concernendo la questione del nesso fede-storia e ci porta nel cuore di una doppia, non simmetrica, appartenenza. Avvicinandosi e quindi interagendo strettamente con i «compagni» comunisti, Franco e gli altri – alcuni dei IL REGNO - AT T UA L I T À 4/2011 103 REGATT 04-2011.qxd L 104 25/02/2011 15.50 Pagina 104 ibri del mese quali, poi, in realtà lasceranno il partito rifluendo nell’obbedienza ecclesiale46 – non intendono affatto rinunciare alla loro identità cattolica né alla loro sincera e intensa pratica religiosa.47 Anzi, la stessa denominazione di «comunismo cristiano», in seguito abbandonata per la sua venatura integralista, viene adottata dai nostri con la precisa intenzione di fare breccia negli ambienti cattolici, guadagnando anche lì proseliti alla causa antifascista e rivoluzionaria. Col candore di giovani poco più che ventenni, si diceva nel 1942: «La religione cattolica non è uno strumento della reazione, ma può essere fonte delle più estreme ed energiche iniziative rivoluzionarie».48 Facciamo – con Marisa stessa – la tara a questa e altre frasi che suonano datate e approssimative, come la famosa espressione usata nell’opuscolo «I cattolici e il comunismo» – testo a carattere divulgativo redatto da Lele d’Amico – che parlava di un «inveramento cristiano del marxismo».49 Ma il senso profondo della sollecitazione rodaniana, affinata nell’ela- borazione successiva, rimane forse attuale, malgrado il «mutare dei tempi», la fine del PCI vecchio modello e gli altri cambiamenti di scenario ecclesiale e politico – in primis la caduta del Muro di Berlino – che sono sopraggiunti. E l’attualità rispetto al punto specifico sopra indicato, mi pare consista nella domanda se l’essere cristiani comporti di necessità posizionarsi, in politica, nello schieramento moderato; se la Chiesa possa correre il rischio di apparire schiacciata su un’unica «parte»; se il credente non possa o non debba riaf- 1 M. RODANO, Del mutare dei tempi, vol. I, L’età dell’inconsapevolezza; il tempo della speranza 1921-1948; vol. II, L’ora dell’azione; la stagione del raccolto 1948-1968, Editrice Memori, Roma 2008, 381 e 395, € 18,00 e 18,00. In realtà la distribuzione dell’opera, almeno a Bologna, è stata piuttosto tardiva. 2 Segnalo appena la figura della madre che lungo il diario ritorna più volte come un’apparizione fugace, in momenti chiave della vita di Marisa, fino alla morte inaspettata (1955) che lascia alla figlia uno strascico di rimorsi (vol. II, 168). «Ho amato mia madre di un amore appassionato e sconfinato; sottrarmi alla sua influenza e al suo modo di pensare, oppormi alle sue decisioni è stato estremamente difficile e penoso ed è nella contrapposizione con lei che si è costruita la mia autonomia e formata la mia identità» (vol. I, 33-34). 3 Vol. I, 81. 4 Vol. I, 83. 5 Fra essi, G. PINTOR, «enfant prodige», come lo definisce Marisa, consulente dell’Einaudi, molto stimato benché giovanissimo sia come intellettuale sia come politico. Muore per lo scoppio di una mina, mentre dal Sud stava cercando di rientrare a Roma. Il primo figlio di Marisa e Franco prenderà il suo nome (vol. I, 203). 6 Marisa nasce il 21 gennaio 1921. L’ampia e colorita ricostruzione dell’ambiente familiare e delle ramificazioni parentali occupa parte dei primi 10 cc. del vol. I. La madre, cattolica ma di ascendenza ebraica, proviene da Mantova: la sua famiglia, benestante e raffinata, appare ancora avvolta da un’aura mitteleuropea. Il padre di Marisa, commendator Francesco («Checchino») Cinciari, industriale del porto e poi podestà di Civitavecchia, esce da una famiglia di grandi proprietari terrieri. Una di queste tenute, Monterado, nelle Marche, occupa un posto importante nella cronistoria domestica di Marisa e Franco e dei loro cinque figli. Lì è la tomba della madre, sepolta in terra all’uso ebraico: sulla stele, un’iscrizione composta da don Giuseppe De Luca. Lì, nel 1983, viene sepolto anche Franco. 7 Cf. vol. I, 148-200. Vi troviamo menzionati, fra gli altri, professori dell’Università come Natalino Sapegno e Guido Calogero; Paolo Bufalini, Mario Alicata, Antonio Amendola, Pietro Ingrao, Bruno Zevi, Bruno Sanguinetti (più anziano degli altri, già esule in Francia), Giacinto Cardona, Giuseppe Spataro (un popolare abruzzese), Giorgio Amendola, Pompeo Colajanni, Cecino (Felice) Balbo, Ennio Parrelli, Tonino Tatò, Lucio Lombardo Radice, Pietro Secchia e Guido Gonella. 8 «Cominciavano i problemi della pace», scrive Marisa sul finire del 1945. L’ultima, contrastata fase ciellenistica è percorsa a partire dal c. 23 del vol. I. Marisa dal dicembre 1945 è membro del Comitato direttivo dell’UDI, e vi lavora a tempo pieno (come volontaria e senza alcun rimborso spese, precisa: cf. vol. I, 315); nel novembre 1946, nato da qualche mese il secondo figlio, Giorgio, è candidata alle amministrative nella lista del «Blocco del popolo» e viene eletta in Consiglio comunale, dove sarà ripetutamente rieletta. Il 18 aprile del 1948 viene eletta alla Camera dei deputati, di cui sarà vicepresidente dal 1963 al 1968. 9 Accanto ai personaggi citati alla nota 7 e alla lunga teoria degli altri che riempiono il vol. II, dalla prima Legislatura della Repubblica fino alle soglie degli «anni di piombo», rimando ai quattro penetranti ritratti del c. 20 del vol. I: Raffaele Mattioli, Palmiro Togliatti, don Giuseppe De Luca, Filippo Sacconi, «uomini così radicalmente diversi per storia, collocazione e convinzioni» (vol. I, 236) che per gli strani casi della vita, nei tumultuosi mesi del 1944, poco dopo la liberazione di Roma, incrociano la strada di Franco e Marisa, ne frequentano la casa, ne segnano durevolmente, di lì in avanti, l’esistenza personale e l’esperienza intellettuale. (vol. I, 231-264). 10 Vol. I, 82. 11 Vedi, fra i numerosi esempi, la briosa descrizione del ménage domestico all’indomani della nascita di Giaime, tra le sette poppate giornaliere, la crosta lattea del bambino, la ricerca disperante di latte di mucca o di latte condensato al mercato nero, in combinata con il lavoro politico e le manifestazioni di protesta contro il governo Bonomi (cf. vol. I, 281-286). 12 Cf. le considerazioni sull’«indimenticabile 1956», anno in cui, per gli stessi militanti del PCI, si sgretola la visione di un mondo manicheo, «dove il bianco e il nero erano nettamente distinti, dove si sapeva – come nelle fiabe – chi erano i buoni e chi i cattivi» (vol. I, 171). Sugli avvenimenti di quell’anno, respingendo la «vulgata del revanchismo acritico», il diario riporta le aspre discussioni entro il partito, e le acute osservazioni di Rodano su un certo «rischio di avventurismo nella spregiudicata politica di Krusciov» (vol. II, 171-182 e 195-196). 13 Cf. vol. I, 172-173, relativo alla costruzione della rete di «ragazze» in appoggio alla rete clandestina, prima e durante l’occupazione nazista. Fra loro, l’amica del cuore Rita Pozzilli, Lola Berardelli (poi Lola Balbo), Marisa Musu, Rossana Banti. 14 Vol. I, 275. Il I Congresso dell’UDI si sarebbe tenuto a Firenze dal 20 al 23 ottobre 1945. 15 Mentre i contatti con la DC in vista della costituzione dell’UDI non ebbero esito favorevole (da parte democristiana sarebbe poi sorto il Centro italiano femminile [CIF]), il dialogo fra le esponenti dei partiti del CLN e l’appoggio dei due maggiori partiti all’ipotesi del suffragio universale produssero il risultato sperato (cf. vol. I, 278). 16 Vol. I, 289. 17 Vol. I, 290. 18 Nel diario della Rodano non ho trovato nessun accenno in tal senso, ma la cosa è risaputa. Scrive ad esempio Miriam Mafai, nel suo bel libro Pane nero, che alla sfilata del 1° maggio 1945, a Torino, i «compagni» impedirono alle donne delle formazioni garibaldine di marciare in mezzo a loro, per evitare insinuazioni. Una staffetta partigiana che voleva infilarsi nella manifestazione è bruscamente redarguita: «Tu non vieni, se no ti pigliamo a calci in culo! La gente non sa cosa hai fatto in mezzo a noi, e noi dobbiamo qualificarci con estrema serietà». Sentendo in seguito i commenti della gente al passaggio di formazioni autonome in mezzo alle quali c’erano anche delle donne, la staffetta commenta: «Mamma mia, per fortuna che non ero andata anch’io! La gente diceva che erano delle puttane» (M. MAFAI, Pane nero. Donne e vita quotidiana nella Seconda guerra mondiale, Arnoldo Mondadori editore, Milano 1987, 262). 19 Intorno ai 16 anni Marisa è mandata a scuola di pittura da Giacomo Balla che aveva ormai abbandonato la moda futurista, «uomo allegro e vitale... non era particolarmente fascista» (vol. I, 75-76); durante la Resistenza, frequentò invece lo studio di Renato Guttuso: più che altro, una copertura per riprodurre materiale clandestino su ciclostile (vol. I, 78). 20 Cf. vol. I, 39. 21 Il c. 7 parla estesamente delle lotte per la terra che seguirono i decreti Gullo, a norma dei quali terre incolte o in semi abbandono dovevano essere assegnate a contadini e braccianti. Molto attiva fu la Federterra che, forzando i tempi e l’interpretazione restrittiva della legge, organizzava l’occupazione dei terreni, con frequenti, relativi interventi della polizia. In questo stesso periodo, intorno agli anni 1946-1949, il lodo De Gasperi, per le zone di mezzadria classica, stabiliva l’attribuzione al mezzadro del 53% del prodotto (vol. I, 61-72). 22 Vol. I, 71-72. 23 Vol. I, 189. Una grossa «retata», complice un infiltrato, coinvolge l’intero gruppo dirigente dei comunisti cristiani, assieme ad altri IL REGNO - AT T UA L I T À 4/2011 XXVI REGATT 04-2011.qxd 25/02/2011 15.50 Pagina 105 fermare la piena autonomia dell’agire politico – la laicità della politica – rispetto all’appartenenza ecclesiale.50 Molte pagine del «Diario minimo» sono dedicate a tratteggiare, con uno sguardo dall’interno – dall’interno della famiglia Rodano, dall’interno del gruppo della Sinistra cristiana, dall’interno di una Chiesa che non si è mai cessato di amare – il difficile rapporto dei Cattolici comunisti, e di Franco in prima persona, con l’istituzione ecclesiastica: è una storia nota, molte volte già descritta: le pri- me censure su L’Osservatore romano, l’interdetto a Franco, le tornate elettorali che si trasformano in scelta di religione e di civiltà, la «scomunica dei comunisti», ovvero il decreto del Sant’Uffizio del 15 luglio 1949 e ciò che ne segue, soprattutto per la fede dei semplici, fino al lento mutare del clima ecclesiale, anticipazione o eco del disgelo nella politica mondiale.51 Merita ripercorrerla, questa storia, sul filo della narrazione di Marisa, sempre vivace, garbatamente pugnace, dove i ripensamenti non sono pentimen- ti, dove la forza delle convinzioni non è opacizzata. Ma è un racconto senza astio, anche nei passaggi più dolorosi: «Noi distinguevamo tra la trasgressione alle regole o l’infrazione dell’ordinamento, e la rinuncia alla comunione di vita con Dio, che è l’essenza del peccato. Si può insomma trasgredire senza sentirsi peccatori; ciononostante si può ritener necessario accettare con umiltà la pena connessa con la trasgressione delle regole della comunità».52 Alessandra Deoriti comunisti: anche L. Lombardo Radice, da poco uscito dal carcere e arruolato come soldato semplice, torna in prigione. Franco e Marisa sono arrestati, ciascuno a casa sua, la mattina del 23 maggio. Il 23 luglio Marisa torna in libertà, mentre Franco è deferito al Tribunale speciale. Ma il 25 luglio cade Mussolini... La breve permanenza in carcere è per Marisa una cesura psicologica decisiva verso l’autonomia delle scelte: «Non ero più figlia di famiglia... Al vecchio mondo della mia adolescenza non appartenevo più» (cf vol. I, 18l-l92). 24 Vol. I, 331. 25 Vol. II, 165. 26 Vol. I, 331. 27 Oltre a quanto anticipato nella nota 8, dal 1947-1948 Marisa diviene responsabile dell’UDI provinciale di Roma. Nell’aprile 1956 subentra a M. Maddalena Rossi alla presidenza dell’UDI nazionale (cf. vol. II, 185l87). È ripetutamente rieletta nel Comitato centrale del PCI. 28 Vol. I, 331. 29 Vol. I, 338. Merita di essere riportata anche una constatazione più amara: «Ad anni di distanza ho potuto vedere come alle compagne “storiche” del carcere e dell’esilio (a Estella, a Rita, a Rina Picolato, a tante altre) sarebbe toccata in tempi ravvicinati l’esperienza dell’emarginazione: gli uomini se ne liberavano senza problemi» (vol. I, 339). 30 Vol. I, 266. 31 Si vedano le gustose pagine sull’impatto di Marisa, allora ventisettenne, con le regole, le consuetudini e il gergo parlamentare: «imbarazzi da principiante», rapidamente superati (vol. II, 35-41). 32 Vol. I, 338. 33 Vol. I, 103-104. 34 Vol. I, 122: «Franco, che aveva già sentito parlare di lui, mi disse subito che conoscerlo era importante. Bufalini era già da anni in contatto con antifascisti e comunisti e nel 1931 aveva partecipato all’organizzazione della fuga all’estero di Giorgio Amendola». Franco, scrive Marisa, era «molto più maturo intellettualmente di tutti noi»; «era indiscutibilmente non solo il più bravo della classe, ma un vero leader della nostra comunità scolastica» (vol. I, 124). Nato a Roma nel 1920 da una famiglia della piccola borghesia impiegatizia, negli anni del liceo e dell’università frequenta i padri gesuiti della «Scaletta», gli ambienti dell’Azione cattolica, la FUCI che dal 1943 sarà presieduta da Aldo Moro. L’amore tra Marisa e Franco si rivela nel corso della II liceo. 35 La denominazione cambia nel tempo, nella costante ricerca di trovare una piattaforma unificante: nel 1941, con Adriano Ossicini e Paolo Pecoraro, Franco lavora alla redazione del manifesto dei Cooperativisti sinarchici (cf. vol. I, 164), che nel 1942 diviene «Partito comunista cristiano» (cf. vol. I, 171) e, durante i nove mesi dell’occupazione nazista di Roma, Movimento dei cattolici comunisti (MCC), il cui organo è il foglio Voce operaia (cf. vol. I, 207-212, passim). Dopo la liberazione di Roma, il MCC assume il nome di Partito della sinistra cristiana. 36 Dalla primavera del 1942 Franco entra, assieme a Mario Alicata e Pietro Ingrao, nel cosiddetto «triumvirato», organo dirigente le due organizzazioni clandestine di comunisti e comunisti cristiani (vol. I, 17). 37 Vol. I, 174. 38 Vol. I, 307. Il passaggio dalla tolleranza alla possibilità di una piena cittadinanza si sarebbe prodotto solo nel 1946, durante il V Congresso del PCI, con quella formulazione dell’art. 2 dello Statuto «secondo la quale ci si poteva iscrivere al PCI indipendentemente dalle convinzioni filosofiche o religiose» (vol. I, 328-329). Un passo ancora molto cauto, tenuto conto che lo stesso Luigi Longo, promotore ufficiale della modifica statutaria, si affrettò a restringerne la portata (cf. vol. II, 127, n. 1). Comunque, un passo epocale, alla luce della storia del comunismo internazionale. 39 La mozione di auto-scioglimento del Partito della sinistra cristiana viene approvata a larga maggioranza il 9.12.1945, a conclusione del Congresso straordinario indetto a Roma per il 7 dicembre. Marisa riporta una sintesi degli argomenti dispiegati da Franco a sostegno di questa decisione (vol. I, 318-325). 40 Vol. I, 172. 41 Vol. I, 213. 42 La prima comparsa di questo amico fraterno con il quale si sarebbe stretto un sodalizio di lavoro politico e anche di vita (i Rodano condivisero per diverso tempo con Tonino e sua moglie anche lo stesso appartamento) risale alla fine del 1939. Figlio di un avvocato nittiano e antifascista, Tonino era un giovane «intelligente, bello (dicevamo scherzosamente che assomigliava a Gérard Philippe), entusiasta e appassionato». Dopo la fine dell’ esperienza della Sinistra cristiana, sceglie l’impegno in CGIL. Tramite lui, Franco e Marisa conosceranno un altro dei più grandi amici, Cecino Balbo (vol. I, 148-149). 43 Vol. I, 148. 44 Il patto d’unità d’azione con i socialisti nella fase resistenziale (vol. I, 200) venne discusso nel corso di un’importante riunione clandestina tenutasi nel luglio 1943 nella villa di via di Porta Latina, dove Marisa era tornata dopo la scarcerazione. Circa la discussione sulla fusione di comunisti e socialisti nel «partito unico» della classe operaia, il diario vi accenna a più riprese, nella fase della crisi del CLN (vol. I, 310). 45 Vol. I, 243 e 311-313. 46 Nell’aprile del 1951 L’Osservatore romano pubblica la discussa autocritica di alcuni membri della ex Sinistra cristiana confluiti nel PCI: Balbo, Motta, Fè d’Ostiani, Scassellati a Sebregondi (cf. vol. II, 80). Particolarmente penosa la rottura con Cecino Balbo (vol. II, 124). 47 Nella pagina in cui rievoca la mattina del suo arresto, Marisa parla dell’abitudine di trovarsi con Franco in ore antelucane: «Solevamo darci appuntamento in qualche chiesa... e ascoltare la messa. La messa e la comunione quotidiana erano pratiche che il pontificato di Pio XI aveva fortemente incentivato ed erano seguite specie dai giovani fucini e di Azione cattolica. Facevamo poi colazione insieme in qualche latteria...» (vol. I, 182). Il loro matrimonio religioso è celebrato il 13.2.1944. 48 Vol. I, 174. 49 Su questo testo e sull’autore, musicologo di mestiere e scrittore su Voce operaia, marito della più celebre Suso Cecchi D’Amico vedi vol. I, 213-14 e 268. 50 Per un approfondimento di queste e altre tematiche, la stessa Marisa Rodano rinvia a due saggi: l’ormai classico C.F. CASULA, Cattolici comunisti e Sinistra cristiana, Il Mulino, Bologna 1976 e M. MUSTÈ, Franco Rodano: critica delle ideologie e ricerca della laicità, Il Mulino, Bologna 1993. Si può consultare anche il più recente testo di G. CHIARANTE, Tra De Gasperi e Togliatti. Memorie degli anni Cinquanta, Carocci, Roma 2006. 51 Le posizioni della gerarchia intorno all’unità politica dei cattolici in seno alla DC non erano univoche, e lo mostra bene anche lo spaccato su don G. De Luca (vol. I, 250-259). Il diario riporta le critiche vaticane e i tentativi di risposta e patteggiamento dei Cattolici comunisti, fino a escludere dalla dirigenza i nomi più incriminati Franco e Lele D’Amico (vol. I, 266-273 e 306-307). L’interdetto comminato a Franco nel dicembre 1947 dalla Sacra congregazione del Concilio, a causa di due articoli pubblicati su Rinascita sulla perequazione dei beni del clero, che si attirarono le sanzioni previste dal can. 2344 del Codice di diritto canonico, viene rievocato puntualmente alle pp. 370374. Vent’anni dopo, nel 1967, il vento ancor giovane del Concilio propizia la fine della pena (vol. II, 315-321). Della scomunica ai comunisti Marisa ne parla sinteticamente (vol. II, 5051) e più ampiamente, anche con precisi riferimenti autobiografici, (vol. I, 90-100, passim). 52 Vol. I, 98. XXVII IL REGNO - AT T UA L I T À 4/2011 105