REGATT 04-2011.qxd
25/02/2011
15.50
Pagina
99
L
L ibri del mese
Del mutare dei tempi
Marisa Rodano: speranze e responsabilità della mia generazione
tanti per capire che tipo di opera si abbia
tra le mani. Considerazione generale, come una premessa: «La ricerca di un filo
nel labirinto della memoria è un percorso accidentato; conduce verso vicoli ciechi: l’autoritratto, l’autobiografia, le confessioni, il cahier intime, l’evocazione
proustiana, l’aneddotica, la divagazione
saggistica... Difficile è scoprire cosa io voglia o possa scrivere, o più semplicemente cosa sia in grado di scrivere».3
L
eggendo e qua e là rileggendo i due corposi volumi dei diari di Marisa
Rodanol una prima osservazione impertinente
che mi è venuta naturale concerne la denominazione «Diario minimo» preposta
al titolo vero e proprio, Del mutare dei
tempi, che riecheggia la Cronaca delle due
città di Ottone di Frisinga.
Non c’è nulla di minimo o di minimalista in queste pagine che scorrono ra-
XXI
pide e gonfie come un fiume in piena,
sorrette da un interno, palpabile vigore, e
sono quanto mai lontane dalla diffusa
propensione intimistica e solipsistica di
altri diari; anzi, l’«io narrante» appare
decisamente refrattario alla tentazione
del ripiegamento su di sé, più estroflesso
che introflesso (benché non manchino
guizzi vividi sulle zone interne),2 e del tutto convinto delle buone ragioni di tale atteggiamento. In proposito, il capitolo 9
offre una serie di considerazioni impor-
Una donna protagonista
Dopo aver richiamato il tema della
soggettività della memoria, «meraviglioso strumento d’eliminazione e di trasformazione» dei vissuti individuali e collettivi, l’autrice passa dal piano generale a
quello suo particolare, spiegando perché
abbia a lungo recalcitrato all’idea di raccogliere le proprie memorie: «Ho sempre
pensato che scrivere le proprie memorie
sia un preoccupante segno di senilità: un
indizio certo di ripiegamento sul passato.
La mia ritrosia, forse, ancor più, una vera e propria reazione di rigetto verso questo genere letterario, nasce dall’impressione che nelle memorie, nei diari, nelle
confidenze affidate alla carta vi sia un
che di impudico; che sovente vi ristagni
quel sottile, forse inconsapevole compiacimento vanitoso che sia Franco sia io abbiamo sempre avvertito con insopportabile fastidio: “Il passato è passato – diceva Franco – pietà l’è morta...”. In realtà
abbiamo sempre provato fastidio per il
garibaldinismo: l’essere quel che si è stati. Fin da giovanissimi vedevamo in quei
vecchietti con le camicie rosse, chiamati a
partecipare a sfilate e cerimonie, un fenomeno a un tempo patetico e ridicolo e, in
definitiva, mortuario».4
Il brano si apre e si chiude con un riferimento alla senilità; quest’ultimo, perfino impietoso. Ma è una chiave impor-
IL REGNO -
AT T UA L I T À
4/2011
99
REGATT 04-2011.qxd
L
25/02/2011
15.50
Pagina
ibri del mese
tante di accesso all’opera, che si dichiara
nata malgrado una serie di resistenze
mentali – e non credo sia finzione retorica – all’esibizione dei propri vissuti che è
intrinseca a questo genere di scritti; e, assieme a questo tratto di pudore, a questo
freno contro scivolamenti narcisistici, colpisce la nettezza dell’ancoraggio al presente, il rifiuto di sopravvivere a sé stessi
come ingessati e imprigionati in un’immagine: appunto, il rigetto del «garibaldinismo», sfilata di vecchie glorie che
perdono smalto e non si arrendono al
«mutare dei tempi», non si accorgono o
non vogliono accorgersi di quanto siano
diverse le emozioni suscitate negli astanti
di ieri e di oggi, di quanto possa sembrare patetico perpetuare l’essere quel che
«si è stati». E davvero, il diario di Marisa
Rodano, redatto da una donna alle soglie
dei novant’anni, lascia un’impressione
assai viva di non-senilità, di non-ripiegamento sul passato.
Certo, ci possono essere tocchi di nostalgia, come nel ricordo di cari amici
scomparsi,5 ma nell’insieme e sostanzialmente questa è un’opera dettata o scritta
con la rara capacità di riandare al passato e ripercorrerne tappe salienti senza restarne ingabbiati e senza coltivare quello
sguardo all’indietro che svuota il presente di nuovi possibili sensi. E di vita. Questi diari appartengono a una cultura, e a
una personalità, che ha vissuto intensamente il presente, ogni suo presente, nel
tempo lungo di un’esistenza collocata in
un «oggi» che, momento per momento, è
stato il luogo di una convocazione e di un
compito verso l’avvenire.
Un’esistenza sicuramente non ordinaria, non fosse altro per la quantità e
l’importanza delle frequentazioni che da
subito si affacciano nel testo, dall’epoca
dei ricordi d’infanzia in un’agiata e privilegiata famiglia ben introdotta nell’alta
società romana6 al periodo intenso e cruciale della giovinezza e della maturazione
della scelta antifascista, e poi della lotta
clandestina, quando Marisa insieme a
Franco Rodano e ad altri giovani amici
assiste e partecipa assai da vicino, a contatto con grandi protagonisti del Comitato di liberazione nazionale (CLN) e dell’intellighenzia dissidente,7 per giungere
fino agli anni non meno intensi del lungo
dopoguerra,8 quando l’impegno politico
esce dall’emergenza e gli incarichi istituzionali rendono più ovvio l’esser contornata da personaggi di primo piano.
Elencare tutti i nomi di calibro che
affollano le pagine del diario9 sarebbe
100
100
IL REGNO -
AT T UA L I T À
4/2011
un’operazione forse meccanica, ma non
inutile a visualizzare il reticolo di rapporti che fanno di quest’opera un ricchissimo contenitore non solo di memorie, ma
di «storia» nazionale, dei conflitti e dei
traguardi, delle passioni e delle contraddizioni che l’hanno accompagnata. E allora perché «Diario minimo»? Ancora
nel capitolo 9, sul quale tornerò anche in
seguito perché denso di elementi esplicativi, si trova un breve passaggio che forse
dà ragione di quell’aggettivo apparentemente incongruo: «Quando il soggetto
narrante è una donna, tutto diventa più
complicato, il bisogno e insieme l’impossibilità culturale e psicologica di dire “io”
si intrecciano in modo inestricabile. Nella vita di una donna, pubblico e privato
costituiscono un continuum, una matassa
aggrovigliata che è impossibile sciogliere,
un tessuto delicato che è arduo disfare,
quasi gli avvenimenti della vita quotidiana, i dettagli minori avessero la stessa rilevanza dei grandi eventi…».10
È un punto di vista probabilmente
non allineato con certo femminismo duro e puro che ormai sta alle nostre spalle,
ma vicino al sentire di molte donne che,
pur non rinunciando agli obiettivi di
un’emancipazione costata tanto cara ad
altre donne, nemmeno vogliono privarsi
di una realizzazione personale, familiare,
affettiva.
L e b e l le co m p ag n e
In tale difficile equilibrio di sfera pubblica e sfera privata, gestito peraltro da
Marisa come da moltissime altre non
senza fatica, ma con saggezza e perfino
con disinvoltura,11 mi pare debba leggersi, sotto traccia, qualcosa di più ampio di
un empirico progetto di vita capace di
destreggiarsi fra le due sfere: un diverso
modello, una diversa scala di giudizio,
un’articolazione dissimile delle priorità.
In definitiva, si tratta forse di un «giudizio politico» e non soltanto di una riflessione, tradizionale, sulla natura e la sensibilità femminili. Scrivere che, in quel continuum fra pubblico e privato che contraddistingue l’esperienza di tante donne
come Marisa, non semplicemente prestate alla politica, ma realmente e in modo
pieno militanti, i «dettagli minori» assumono «quasi» la stessa rilevanza dei
«grandi eventi», è un’affermazione da
prendere sul serio: vera e umanissima.
A volte, sono tocchi di puro «colore»,
che però trasmettono vividamente l’atmosfera di un periodo o di una corrente
politica, ben al di là di un’asettica descri-
zione o di un giudizio astratto: restando
nell’area del protagonismo politico delle
donne, per cui Marisa, fra le altre, ha
tanto lavorato,13 si veda l’attacco del capitolo 22, relativo al settembre 1944,
quando iniziano i pourparler per la fondazione dell’Unione donne in Italia
(UDI): «Anima dell’iniziativa era il Partito comunista italiano (PCI) e, per esso,
Rita Montagnana, allora compagna di
Togliatti. Rita sottolineava sempre quanto fosse difficile organizzare le donne e lo
faceva con un’immagine pittoresca: “Le
donne sono come la polenta, più la tiri su
e più si affloscia sul tagliere; e poi sono
tormentate dai bambini, che si attaccano
alle loro gonne e non le vogliono far
muovere...”».14
O, nel capitolo successivo, dedicato ai
mesi febbrili – per l’Italia e per le sorti
della guerra – tra il novembre 1944 e gli
esordi del 1945, mentre si andava anche
rafforzando l’accordo trasversale per richiedere il voto alle donne,15 il breve passaggio in cui l’estetica fa breccia nel ragionamento politico: l’autrice ricorda
l’effetto galvanizzante del «vento del
Nord» anche sull’UDI, che si sarebbe arricchita di nuove compagne dal solido retroterra militante, «operaie e lavoratrici
di Milano, di Torino, di Bologna avevano
avuto un ruolo decisivo nella Resistenza e
nel moto insurrezionale»; inoltre, le dirigenti dei Gruppi di difesa della donna
(GDD) occupavano già incarichi di responsabilità nella vita pubblica.16 Poi, all’interno di questo spaccato serio e stringente, ecco il ritratto di alcune compagne: Lucia Corti, nominata dal CLN dell’Alta Italia (CLNAI) alto commissario
per l’assistenza ai reduci: «Lucia era
bionda, bella e autorevole, ne ero affascinata»; e Gisa (Gisella Floreanini, nome
di battaglia Valli, che era stata ministro
nel governo della Repubblica partigiana
della Val d’Ossola): «Un personaggio per
me leggendario... anche lei bellissima».
Ma più interessante è la notazione che
segue: «Mi viene fatto di sottolineare la
bellezza delle compagne forse perché già
allora uno dei leitmotiv della campagna
anticomunista era che le donne comuniste erano “brutte e baffute”. In questo tipo di campagna si era specializzato l’Uomo qualunque».17
Qui si ha la riprova che la precedente notazione circa l’avvenenza delle compagne non è soltanto una leggera pennellata femminile – dare risalto all’apparenza –, ma corrisponde a un retro-pensiero
di carattere squisitamente politico e pole-
XXII
REGATT 04-2011.qxd
25/02/2011
15.50
Pagina
mico nei riguardi di un diffuso pregiudizio che veniva gonfiato dalla propaganda
delle destre: così come, in altri casi, si enfatizzava l’equivalenza fra donne partigiane e femmine di facili costumi,18 meno
volgare ma ugualmente spregiativo è
l’accostamento fra le donne comuniste
(inquadrate, emancipate, battagliere) e
un rozzo modello virile agli antipodi della femminilità; lo si ritrova ancora, avvolto da una comicità non troppo greve, in
uno dei film della serie di Don Camillo.
Ed è proprio a questo uso politico, a
questa generalizzazione provocatoria che
attribuisce alla parte avversa perfino il
brutto capovolgimento della «natura»
femminile, che Marisa reagisce: en passant, garbatamente: a lei, le compagne
comuniste sono sembrate, anzi, davvero
erano, molto belle, caso mai ciò abbia a
che fare col lavoro politico e le tante cose
urgenti di cui abbisogna un paese disastrato. Un’ultima postilla vorrei fare su
questo alterno dosaggio di grandi questioni dell’assetto politico e del confronto/scontro sociale, di cui il diario è costellato, di notazioni minori, di osservazione
del «dettaglio» curioso, apparentemente
marginale, che affiora anche nel mezzo
di discorsi seriosi.
In più di un caso, una mescolanza
che ricalca semplicemente la fluttuante
corrente dei ricordi, ma in altri casi ne ho
ricavato l’impressione di uno sguardo sul
reale veramente stratificato, capace di
connettere più elementi in una singolare
arte combinatoria che, forse, ha a che fare con la predisposizione di Marisa alla
pittura, coltivata fin dalla prima giovinezza con buoni risultati e valenti maestri.19
È uno sguardo che inoltre, in qualche
modo, sembra richiamare la prospettiva
manzoniana e cristiana di una storia dove gli umili pesano poco sulla bilancia del
potere, ma non sono affatto comparse
anonime ed evanescenti, tutt’altro: presso
di loro è spesso deposto un tesoro immateriale di doti umane che, senza con ciò
mitizzarli, può offrire gratuitamente una
lezione di vita, tenacia, generosità, coraggio, a chiunque voglia usufruirne. Lezione di solito negletta, perché i «grandi» seguono la propria orbita divergente, e lo
sguardo che volgono in basso è sovente
dirigista, paternalistico, distratto.
I grandi e i piccoli
Nel diario «minimo» di Marisa – così pieno di persone di cultura e di potere
che in notevole misura hanno segnato le
sorti della nazione – si affollano anche fi-
XXIII
101
gure di «piccoli» la cui dignità non è mai
negletta e spesso buca la pagina in vividi
fotogrammi.
Per citarne solo alcune: la cameriera
Assuntina, che faceva parte del personale domestico della famiglia d’origine di
Marisa, toscana, di Poggibonsi, verosimilmente di famiglia socialista, molto
compita nel servizio, si licenziò dopo
un’accesa discussione con la padrona di
casa: «Difendeva i suoi diritti, non si faceva certo mettere i piedi in testa»;20 il colono Zacchilli, «capoccia» di una grande
famiglia mezzadrile che risiedeva in uno
dei poderi del padre di Marisa e che, durante le lotte per il riparto dei prodotti fra
mezzadri e padroni,21 praticamente tenne il padrone sotto sequestro e bloccò la
battitura del grano fino a che non ebbe
partita vinta: ma il tutto gestito con estrema gentilezza, evitando l’intervento della
forza pubblica: «Fu cortesissimo, offrì il
vino fresco di cantina, pregò il padrone
di mettersi comodo nel luogo più ombroso e ventilato, ma fu irremovibile: “Signor padrone, non si trova bene qui? Noi
siamo felici che lei resti, è un onore averla a casa nostra, ma qui la ‘battitura’ non
continua e non si conclude finché non ci
siamo messi d’accordo di dividere secondo la legge”».
Poco sopra, così l’autrice aveva introdotto i1 soggetto: «Era persona di animo
nobile, dotato di una singolare e non comune gentilezza innata; e per giunta aveva un’intelligenza politica acuta e una
buona dose di astuzia».22
La galleria potrebbe continuare con
le compagne di cella al carcere delle
Mantellate, dove Marisa fu portata dopo
l’arresto per attività sovversiva, nel maggio 1943: qui c’erano «legioni di meretrici», borsaneriste, detenute per procurato
aborto o altri gravi reati. Per qualche
tempo ella divide la cella con una ladra e
una ricettatrice: «Popolane, un po’ sboccate, cordiali e protettive nei miei confronti, ricevevano pacchi con minestrone
e meravigliose frittate di patate che, data
la temperatura, dovevano essere consumate subito. Tutto veniva messo in comune e si imbandivano autentici festini».23
E ancora, con le reiterate scene della
gente che si affolla nelle piazze dei paesi
durante i comizi per i vari giri elettorali,
che si stringe intorno agli oratori, che offre mazzi di fiori presi dai campi o dall’orto; ed ecco, in Abruzzo, le donne:
«Tantissime donne, il capo coperto da
fazzoletti scuri, i volti segnati dal lavoro e
dalle intemperie, che ponendo la mano
sulla mia pancia, ormai di sette mesi,
pronunciavano in dialetto frasi misteriose, penso benedizioni all’indirizzo del nascituro».24
Un’Italia profonda, rurale, primitiva
sotto molti aspetti, rispetto alla quale
Marisa, al pari di altri politici «cittadini»,
appare una presenza aliena: eppure è
gente che aspetta con pazienza per ore,
talvolta, l’arrivo degli esponenti di partito e ne segue «appassionatamente» i discorsi; e in quel gesto antico, non ben decifrato, da donna a donna, si compie un
rito di accoglienza, una propiziazione, un
diverso e fisico contatto con quel popolo
che il politico intende risvegliare e rappresentare.
Dieci anni dopo, nel 1955, non è molto diversa la Sicilia dove Marisa si porta
per una delle tante campagne elettorali, a
Ciminna, «un borgo di braccianti poverissimi, dove mancava anche l’acqua»;25
pochi giorni prima, a Sciara, una località
nei paraggi, è stato assassinato dalla mafia
un capolega socialista. Il clima è teso,
l’autista si rifiuta perfino di rientrare di
notte a Palermo, per non attraversare
quella zona pericolosa; anche qui, una
scena che ha tratti arcaici e, al contempo,
familiari: i «compagni braccianti» che
scortano Marisa, non volendo lasciarla
sola sulla strada; il desiderio e l’imbarazzo di offrire ospitalità, a lei e all’altra compagna, da parte di gente così povera che
abitava «in tuguri di una sola stanza, privi di servizi igienici, con un solo letto in
cui dormiva tutta la famiglia...».
La cosa è risolta chiedendo al medico
condotto, le cui sorelle allestiscono alla
meglio un giaciglio rimediato in salotto.
Ma questo non importa. Importa invece
notare, in questa sorta di film senza parole, potente piccolo racconto dentro il racconto complessivo, la forza icastica di
quell’immagine: «Attendemmo, io e un
gruppo di compagni braccianti che non
volevano lasciarmi sola di notte, camminando su e giù per la strada che usciva
dal paese».26
Ai gradini più bassi della scala sociale, più miseri che solo poveri, ma non miserabili, questi uomini sembrano avvolgere Marisa, la «continentale», la politica
di città, in una specie di abbraccio protettivo, in un’assunzione di responsabilità e
di coraggio civile che – quale che fosse il
rischio reale – si pone in antitesi con la
supposta passività e rassegnazione della
gente del Sud e dà il senso di un vincolo
forte con quell’ospite occasionale che, co-
IL REGNO -
AT T UA L I T À
4/2011
101
REGATT 04-2011.qxd
L
25/02/2011
15.50
Pagina
ibri del mese
me è venuta, presto se ne andrà: un vincolo orizzontale, al di là della distanza fra
il loro mondo e quello di lei, che transita
simbolicamente attraverso la potente parola «compagno», «compagna».
È questa la cifra di un mutuo riconoscimento, della stipula di un patto sociale, di un impegno comune verso l’eguaglianza che comincia col sentirsi eguali,
«compagni», appunto: anche il linguaggio, che pure può contenere tante finzioni, è un’arma efficace per lo scardinamento delle differenze, per il recupero
dell’umana dignità.
Quantitativamente, il diario di Marisa Rodano è senz’altro occupato, per la
maggior parte, dalla ricostruzione, ora
analitica, ora più impressionistica, di avvenimenti, dibattiti, svolte che maturano
a livelli «alti» della politica, sia dei partiti
sia della nazione. Come già si è richiamato più volte, quello dell’autrice è un osservatorio privilegiato; per una serie di circostanze, talora anche fortuite, più spesso
collegate a quel laboratorio operoso e appassionato, ma in fondo gravitante su circuiti ristretti, che fu la lotta clandestina,
Marisa si trova proiettata molto precocemente a incarichi di notevole rilievo su
scala nazionale,27 fino a divenire vicepresidente della Camera dei deputati.
L’inevitabile scollamento dal lavoro
«di base» non le impedisce però di conservare – ed è uno dei tratti più significativi dell’opera – una coscienza vigilante
sul rischio mortale che tale scollamento
può produrre nei professionisti della politica; e la nozione, starei per dire l’orgoglio, di essere stata parte di una tradizione politica – qui non si può non parlare
al passato – che più di altre ha custodito
a lungo l’idea di un nesso forte fra la base e il vertice, e la lezione che ne promana, a saperla vedere. Ancora un esempio:
«Sulla via del ritorno passai per Teramo
a salutare Vittorio Tranquilli e sua moglie Elisabetta Scudder che vivevano accampati nella sede della Federterra, in
uno stanzone disadorno che serviva anche da deposito per le sementi e i concimi che l’organizzazione vendeva ai soci.
A parte le condizioni di estremo disagio in cui dimoravano, facevano letteralmente la fame. E difatti di lì a poco si ammalarono gravemente. Ho spesso ripensato a quell’esperienza, a quella così palpabile e drammatica testimonianza dell’ardore rivoluzionario e del disinteresse
che animava tanti compagni in quegli
anni e che ha permesso di costruire un
grande PCI».28
102
102
IL REGNO -
AT T UA L I T À
4/2011
La politica come fede
e come testimonianza
«Ardore», «disinteresse», «testimonianza»: chi legge vede attraverso gli occhi di Marisa – simpatetici ma non appannati – la differenza fra una politica fatta di parole, manifestazioni e proclami, e
una politica fatta di cose e di persone che
ne inverano gli obiettivi e le parole d’ordine nell’impegno quotidiano. Crescendo
in esperienza e in età, Marisa si accorgerà
anche delle astuzie della politica, capace
di strumentalizzare ai propri fini l’ingenuo ardore dei neofiti e abitata non esclusivamente da cavalieri dell’ideale: «A posteriori, non posso escludere che qualcuno già allora facesse calcoli personali».29
Ma, soprattutto nella fase del transito
difficile quanto esaltante verso lo stato democratico, ciò che si è iscritto nella memoria personale e non tollera di essere
negato o svilito, è il sapere per certo che la
grande illusione di costruire una società
nuova, libera, eguale e giusta, venne perseguita dai più con autenticità e abnegazione, come un servizio: «Tutto si presentava in forme inedite e sentivamo di agire
nel cuore di un processo di rottura di portata storica, rivoluzionario nel senso che
Lenin dà al termine: una fase in cui milioni di uomini fanno politica».30
Una visione che si colloca all’opposto
della politica come mestiere e carriera
(anche se essa richiede un severo apprendistato e l’acquisizione di precisi strumenti).31 Chi fa politica attiva assomiglia per
certi versi più a un «apostolo» che a un
funzionario di partito, o a un gregario:
specie se, come spesso accadeva, è stato
«chiamato» all’opera più che averla scelta
di sua iniziativa e se, per una attività che
tende a farsi totalizzante, ha dovuto rinunciare a disporre del proprio tempo, e
perfino di sé: «Di conseguenza, dove ti
mettevano, stavi, quel che ti chiedevano,
facevi; era impensabile brigare per essere
in lista o rifiutare se si veniva indicati».32
Nasce spontaneo l’accostamento di
questa concezione del lavoro politico a
una missione, della politica stessa a una
«fede»; è del resto trasparente in tante altre fonti, come negli scritti della Rodano,
una terminologia mutuata dall’ambito religioso e chiesastico.
Luogo comune, quello del «partitoChiesa», sul quale è facile oggi ironizzare
e scrollare la testa; sul quale anche i due
volumi tornano a più riprese, senza sconti, nemmeno troppo nascondendosi dietro gli eroici paraventi di un’epoca che fece della politica un’ideologia, e dell’ideo-
logia una scelta di vita: pur essendo giovani, audaci al limite dell’incoscienza, convinti senza riserve che la lotta al fianco dei
comunisti e in seguito l’iscrizione al Partito comunista fossero la scelta giusta, necessitata dalle pressioni della storia, Marisa, Franco e gli altri loro amici cattolici,
che si affacciano nel diario, non appaiono
affatto sprovveduti né acritici.
Soprattutto Franco, con la sua precoce intelligenza, il suo rigore argomentativo, l’attitudine a spaccare il capello in
quattro, accanto alla sua fede robusta e
fervente, presto comprende e aiuta gli altri a comprendere «che la tensione “religiosa” intrinseca al marxismo e al pensiero di Marx, la “rapina dell’assoluto” (come egli si esprimeva) non potesse non
portare a sbocchi totalitari e ad avvitamenti inevitabilmente catastrofici...».33
Eppure, proprio questa tensione religiosa, trasportata indebitamente nell’orizzonte dell’immanenza – la storia, la politica, il progetto della futura società – rappresenta l’elemento di maggiore somiglianza e di possibile sinergia fra i giovani
antifascisti cattolici e i militanti legati al
Partito comunista: ci furono delle circostanze – casuali, provvidenziali – che li fecero incontrare fra il 1939 e i primi mesi
del 1940 in circuiti studenteschi di una
Roma ancora intatta, splendida vetrina
del regime fascista, fra le quali ricordo la
venuta di Paolo Bufalini come supplente
di filosofia al liceo Visconti nella classe di
Marisa e Franco.34 Ma al di là delle occasioni che si trasformano in opportunità,
colpisce nel racconto dell’autrice il dato di
una precisa intenzionalità, di una «scelta»
che non era l’unica possibile: anche solo a
livello giovanile, pur se spesso piccoli e
scollegati, fiorivano a Roma numerosi
gruppi politici di diverso segno, critici o
dissidenti nei confronti del regime.
Nel PCI: dal la to lleranza
al riconoscimento
E merita sottolineare ancora che in
quello che diventerà il Movimento dei
cattolici comunisti35 appare ben chiara fin
da subito la riserva verso la pregiudiziale
antireligiosa del comunismo: di qui, non
intendendo mettere fra parentesi la propria fede cristiana e cattolica, il mantenimento d’autonomia organizzativa anche
durante la fase della lotta clandestina: l’identità rimane distinta, pur se la collaborazione s’intensifica via via.36 Per converso, anche da parte comunista si continua
a rimarcare, fra attestazioni di stima esplicite per la «qualità e la combattività» dei
XXIV
REGATT 04-2011.qxd
25/02/2011
15.50
Pagina
giovani cattolici, una netta linea di demarcazione: ricordando un’espressione
di L. Lombardo Radice, scrive la Rodano che «li si considerava dei compagni,
ma non li si accettava come comunisti».37
Posizione a più riprese riconfermata,
malgrado le sollecitazioni e i sensati argomenti dei «compagni» cattolici affinché il Partito comunista lasciasse finalmente cadere i propri dogmatismi e le
chiusure settarie, recependo senza sospetti l’adesione di quei credenti che ne
condividevano la linea politica, ma non i
postulati filosofici materialisti. Un tiro alla fune durato a lungo. Ripercorrerne le
tappe lasciandosi guidare dalla narrazione sinuosa di Marisa, che movimenta
l’asse cronologico con inclusioni per associazioni tematiche o mentali, e con rimandi alle sue carte private o a quelle di
Franco, prenderebbe qui troppo spazio,
ma è una vicenda quanto mai istruttiva e
curiosa. Assomiglia a quella di un amore
a tutta prova, testardo e non rassegnato
dinanzi all’ottusità ideologica della struttura di partito: come quando Togliatti,
oltre al resto un «amico», e senza dubbio
più attento di altri del suo schieramento
al problema dei cattolici, alla riunione
del II Consiglio nazionale del PCI si limita a parlare di «tolleranza nei confronti della presenza dei cattolici dentro
un partito di massa».38
Ma, se tale era la consapevolezza, ci
si potrebbe chiedere perché questi giovani di matrice cattolica abbiano tenuto fede, nonostante tutto, all’opzione comunista. La cosa appare spiegabile nella fase più drammatica della resistenza al nazifascismo, quando si accorciano le distanze fra i gruppi di opposizione e, nello sforzo comune, l’audacia, lo spirito di
sacrificio e l’efficiente organizzazione dei
comunisti assegnano loro in molti casi
un indiscutibile primato. Ma dopo?
Semplificando, individuo tre fattori principali che, non senza dubbi e valutazioni
critiche, assicurano in un primo tempo
leale collaborazione, poi duratura partecipazione alla causa comunista, fino a
dissolvere la Sinistra cristiana entro il
PCI.39 Il tutto, nella cornice di quell’«ardore, disinteresse, testimonianza» sopra
richiamati, cioè di un’«anima» della politica, un’etica della politica, che questi
cattolici – né troppo ingenui né troppo
smaliziati – ritrovano più chiara che altrove fra i compagni del PCI.
Il primo è un fattore pragmatico: lo
chiamerei la persistenza delle cose che
XXV
103
stanno al principio di ciò che si è diventati. Il diario, con puntuali riferimenti al
quadro militare, allo stato d’animo del
paese in guerra, alle ingravescenti condizioni materiali, ci mette dinanzi agli occhi il cupo scenario dell’Europa schiacciata dalle vittorie del Reich e l’altalena
di speranze e delusioni per l’andamento
delle vicende belliche. In questo crogiolo, dove la scelta resistenziale, mano a
mano che cresce la stretta repressiva, impone disciplina, senso del rischio e coraggio di affrontarlo, i ragazzi di questa
cerchia scoprono la cogenza dell’azione,
il primato dell’azione. Deposta la veste
di intellettuali (o per lo meno, studenti o
neolaureati) dissidenti – fino allora, in
fondo, non troppo esposti – assumono
per intero un ruolo operativo, nel quale
è determinante l’incontro con i comunisti: «Il problema era passare dal proselitismo e dalla propaganda a una azione
di lotta politica, capace di preparare il
popolo italiano a prendere in mano il
proprio destino, convinti che fosse un errore limitarsi ad attendere la sconfitta
militare del regime».40
Ma a ciò viene aggiunta un’ulteriore
motivazione. Non solo i comunisti appaiono i più attrezzati alla lotta, ma altre
componenti del Comitato delle opposizioni, per lo meno nell’area di Roma, si
mostrano irresolute fino alla paralisi. Il
giornale clandestino dei Cattolici comunisti, Voce operaia, conduce allora «una
polemica serrata nei confronti sia degli
atteggiamenti di passività, di attendismo
e di freno che la Democrazia cristiana
(DC) sosteneva all’interno del CLN sia
delle posizioni “equidistanti” di non pochi esponenti della gerarchia cattolica e
del Vaticano».41
È dunque una valutazione politica,
sia pure contingente, con la quale introduco il secondo elemento, di ordine teorico. Eccezion fatta per Ossicini e alcuni
altri, il nucleo dei Cattolici comunisti, in
primis lo stesso Franco Rodano, Marisa,
Tonino Tatò,42 non proviene dalla tradizione del cattolicesimo politico e perciò
non ne ha introiettato il radicato anticomunismo. In compenso, le letture, il rapporto con insegnanti antifascisti sia al liceo sia all’università, la frequentazione
di settori particolarmente aperti dell’associazionismo ecclesiale (Congregazione
mariana, AC e FUCI), stanno forse alla
base di quella visione «antiborghese» e
in senso lato «rivoluzionaria» che si riscontra in tanti ambienti intellettuali dell’epoca.
Inoltre, la cattiva prova fornita dalla
borghesia liberale e conservatrice dei
paesi democratici – i tanti compromessi
con Hitler, la politica del non-intervento
che ha portato alla vittoria del franchismo – contribuiscono a distogliere i
membri del Movimento, in rapida crescita numerica, dalla prospettiva astrattamente illuministica dei grandi principi
liberali, spingendoli verso una più radicale: «Che avessimo poca fiducia nelle
democrazie europee era comprensibile
perché, come ha scritto Paolo Bufalini,
urgeva la contraddizione tra la religione
della libertà e la realtà di una tradizione
liberal-democratica che non aveva saputo impedire la vittoria del fascismo o non
sapeva indicare la via per abbatterlo».43
Condizionare il par tito,
convincere la Chiesa
In certo modo, si afferma di nuovo la
precedenza della prassi, la necessità di
assecondare la lezione della storia, schierandosi, da credenti e in quanto tali,
contro la dittatura, la guerra, l’ingiustizia, a fianco delle classi oppresse. Il soggetto politico capace d’incanalare le
energie e le speranze verso la costruzione di una società nuova, già esiste. Il patto d’unità d’azione con i socialisti44 e, ancor più, la flessibile strategia togliattiana;
la parola d’ordine del «partito nuovo»
che senza incrinare la fedeltà al «campo
socialista» e all’«internazionalismo proletario», esordisce nell’Italia liberata come partito di governo e dell’arco costituzionale, sono processi che sembrano
contenere la premessa di un’evoluzione
nella linea auspicata da Franco Rodano
e compagni: una grande formazione politica capace di farsi carico non solo degli interessi «di classe», ma delle sorti del
paese, e di deporre via via i vecchi schemi ideologici e le ingiustificate chiusure
verso la componente cattolica.45
A questa fiducia di poter incidere sul
PCI contribuendo – come in parte è stato – alla correzione della sua linea, specialmente l’opzione ateistica, fa pendant
il tenace, appassionato quanto inutile
tentativo, da parte dei Cattolici comunisti, di far abbandonare alla Chiesa la
pregiudiziale anticomunista. Questo terzo punto è, insieme, di ordine politico e
«teologico», concernendo la questione
del nesso fede-storia e ci porta nel cuore
di una doppia, non simmetrica, appartenenza. Avvicinandosi e quindi interagendo strettamente con i «compagni»
comunisti, Franco e gli altri – alcuni dei
IL REGNO -
AT T UA L I T À
4/2011
103
REGATT 04-2011.qxd
L
104
25/02/2011
15.50
Pagina
104
ibri del mese
quali, poi, in realtà lasceranno il partito
rifluendo nell’obbedienza ecclesiale46 –
non intendono affatto rinunciare alla loro identità cattolica né alla loro sincera
e intensa pratica religiosa.47 Anzi, la
stessa denominazione di «comunismo
cristiano», in seguito abbandonata per
la sua venatura integralista, viene adottata dai nostri con la precisa intenzione
di fare breccia negli ambienti cattolici,
guadagnando anche lì proseliti alla causa antifascista e rivoluzionaria. Col candore di giovani poco più che ventenni, si
diceva nel 1942: «La religione cattolica
non è uno strumento della reazione, ma
può essere fonte delle più estreme ed
energiche iniziative rivoluzionarie».48
Facciamo – con Marisa stessa – la tara a questa e altre frasi che suonano datate e approssimative, come la famosa
espressione usata nell’opuscolo «I cattolici e il comunismo» – testo a carattere divulgativo redatto da Lele d’Amico – che
parlava di un «inveramento cristiano del
marxismo».49 Ma il senso profondo della
sollecitazione rodaniana, affinata nell’ela-
borazione successiva, rimane forse attuale, malgrado il «mutare dei tempi», la fine
del PCI vecchio modello e gli altri cambiamenti di scenario ecclesiale e politico –
in primis la caduta del Muro di Berlino –
che sono sopraggiunti. E l’attualità rispetto al punto specifico sopra indicato, mi
pare consista nella domanda se l’essere
cristiani comporti di necessità posizionarsi, in politica, nello schieramento moderato; se la Chiesa possa correre il rischio di
apparire schiacciata su un’unica «parte»;
se il credente non possa o non debba riaf-
1
M. RODANO, Del mutare dei tempi, vol. I,
L’età dell’inconsapevolezza; il tempo della speranza 1921-1948; vol. II, L’ora dell’azione; la
stagione del raccolto 1948-1968, Editrice Memori, Roma 2008, 381 e 395, € 18,00 e 18,00.
In realtà la distribuzione dell’opera, almeno a
Bologna, è stata piuttosto tardiva.
2
Segnalo appena la figura della madre
che lungo il diario ritorna più volte come
un’apparizione fugace, in momenti chiave della vita di Marisa, fino alla morte inaspettata
(1955) che lascia alla figlia uno strascico di rimorsi (vol. II, 168). «Ho amato mia madre di
un amore appassionato e sconfinato; sottrarmi
alla sua influenza e al suo modo di pensare,
oppormi alle sue decisioni è stato estremamente difficile e penoso ed è nella contrapposizione con lei che si è costruita la mia autonomia e formata la mia identità» (vol. I, 33-34).
3
Vol. I, 81.
4
Vol. I, 83.
5
Fra essi, G. PINTOR, «enfant prodige», come lo definisce Marisa, consulente dell’Einaudi, molto stimato benché giovanissimo sia come intellettuale sia come politico. Muore per
lo scoppio di una mina, mentre dal Sud stava
cercando di rientrare a Roma. Il primo figlio
di Marisa e Franco prenderà il suo nome (vol.
I, 203).
6
Marisa nasce il 21 gennaio 1921. L’ampia e colorita ricostruzione dell’ambiente familiare e delle ramificazioni parentali occupa
parte dei primi 10 cc. del vol. I. La madre, cattolica ma di ascendenza ebraica, proviene da
Mantova: la sua famiglia, benestante e raffinata, appare ancora avvolta da un’aura mitteleuropea. Il padre di Marisa, commendator Francesco («Checchino») Cinciari, industriale del
porto e poi podestà di Civitavecchia, esce da
una famiglia di grandi proprietari terrieri.
Una di queste tenute, Monterado, nelle Marche, occupa un posto importante nella cronistoria domestica di Marisa e Franco e dei loro
cinque figli. Lì è la tomba della madre, sepolta in terra all’uso ebraico: sulla stele, un’iscrizione composta da don Giuseppe De Luca. Lì,
nel 1983, viene sepolto anche Franco.
7
Cf. vol. I, 148-200. Vi troviamo menzionati, fra gli altri, professori dell’Università come Natalino Sapegno e Guido Calogero; Paolo Bufalini, Mario Alicata, Antonio Amendola, Pietro Ingrao, Bruno Zevi, Bruno Sanguinetti (più anziano degli altri, già esule in Francia), Giacinto Cardona, Giuseppe Spataro (un
popolare abruzzese), Giorgio Amendola,
Pompeo Colajanni, Cecino (Felice) Balbo, Ennio Parrelli, Tonino Tatò, Lucio Lombardo
Radice, Pietro Secchia e Guido Gonella.
8
«Cominciavano i problemi della pace»,
scrive Marisa sul finire del 1945. L’ultima,
contrastata fase ciellenistica è percorsa a partire dal c. 23 del vol. I. Marisa dal dicembre
1945 è membro del Comitato direttivo dell’UDI, e vi lavora a tempo pieno (come volontaria e senza alcun rimborso spese, precisa: cf.
vol. I, 315); nel novembre 1946, nato da qualche mese il secondo figlio, Giorgio, è candidata alle amministrative nella lista del «Blocco
del popolo» e viene eletta in Consiglio comunale, dove sarà ripetutamente rieletta. Il 18
aprile del 1948 viene eletta alla Camera dei
deputati, di cui sarà vicepresidente dal 1963 al
1968.
9
Accanto ai personaggi citati alla nota 7
e alla lunga teoria degli altri che riempiono il
vol. II, dalla prima Legislatura della Repubblica fino alle soglie degli «anni di piombo»,
rimando ai quattro penetranti ritratti del c.
20 del vol. I: Raffaele Mattioli, Palmiro Togliatti, don Giuseppe De Luca, Filippo Sacconi, «uomini così radicalmente diversi per
storia, collocazione e convinzioni» (vol. I,
236) che per gli strani casi della vita, nei tumultuosi mesi del 1944, poco dopo la liberazione di Roma, incrociano la strada di Franco e Marisa, ne frequentano la casa, ne segnano durevolmente, di lì in avanti, l’esistenza personale e l’esperienza intellettuale. (vol.
I, 231-264).
10
Vol. I, 82.
11
Vedi, fra i numerosi esempi, la briosa
descrizione del ménage domestico all’indomani della nascita di Giaime, tra le sette poppate giornaliere, la crosta lattea del bambino,
la ricerca disperante di latte di mucca o di latte condensato al mercato nero, in combinata
con il lavoro politico e le manifestazioni di
protesta contro il governo Bonomi (cf. vol. I,
281-286).
12
Cf. le considerazioni sull’«indimenticabile 1956», anno in cui, per gli stessi militanti del PCI, si sgretola la visione di un mondo
manicheo, «dove il bianco e il nero erano
nettamente distinti, dove si sapeva – come
nelle fiabe – chi erano i buoni e chi i cattivi»
(vol. I, 171). Sugli avvenimenti di quell’anno,
respingendo la «vulgata del revanchismo
acritico», il diario riporta le aspre discussioni
entro il partito, e le acute osservazioni di Rodano su un certo «rischio di avventurismo
nella spregiudicata politica di Krusciov» (vol.
II, 171-182 e 195-196).
13
Cf. vol. I, 172-173, relativo alla costruzione della rete di «ragazze» in appoggio alla
rete clandestina, prima e durante l’occupazione nazista. Fra loro, l’amica del cuore Rita Pozzilli, Lola Berardelli (poi Lola Balbo),
Marisa Musu, Rossana Banti.
14
Vol. I, 275. Il I Congresso dell’UDI si
sarebbe tenuto a Firenze dal 20 al 23 ottobre
1945.
15
Mentre i contatti con la DC in vista della costituzione dell’UDI non ebbero esito favorevole (da parte democristiana sarebbe poi
sorto il Centro italiano femminile [CIF]), il
dialogo fra le esponenti dei partiti del CLN e
l’appoggio dei due maggiori partiti all’ipotesi
del suffragio universale produssero il risultato
sperato (cf. vol. I, 278).
16
Vol. I, 289.
17
Vol. I, 290.
18
Nel diario della Rodano non ho trovato
nessun accenno in tal senso, ma la cosa è risaputa. Scrive ad esempio Miriam Mafai, nel
suo bel libro Pane nero, che alla sfilata del 1°
maggio 1945, a Torino, i «compagni» impedirono alle donne delle formazioni garibaldine
di marciare in mezzo a loro, per evitare insinuazioni. Una staffetta partigiana che voleva
infilarsi nella manifestazione è bruscamente
redarguita: «Tu non vieni, se no ti pigliamo a
calci in culo! La gente non sa cosa hai fatto in
mezzo a noi, e noi dobbiamo qualificarci con
estrema serietà». Sentendo in seguito i commenti della gente al passaggio di formazioni
autonome in mezzo alle quali c’erano anche
delle donne, la staffetta commenta: «Mamma
mia, per fortuna che non ero andata anch’io!
La gente diceva che erano delle puttane» (M.
MAFAI, Pane nero. Donne e vita quotidiana nella Seconda guerra mondiale, Arnoldo Mondadori editore, Milano 1987, 262).
19
Intorno ai 16 anni Marisa è mandata a
scuola di pittura da Giacomo Balla che aveva
ormai abbandonato la moda futurista, «uomo
allegro e vitale... non era particolarmente fascista» (vol. I, 75-76); durante la Resistenza,
frequentò invece lo studio di Renato Guttuso:
più che altro, una copertura per riprodurre
materiale clandestino su ciclostile (vol. I, 78).
20
Cf. vol. I, 39.
21
Il c. 7 parla estesamente delle lotte per
la terra che seguirono i decreti Gullo, a norma
dei quali terre incolte o in semi abbandono
dovevano essere assegnate a contadini e braccianti. Molto attiva fu la Federterra che, forzando i tempi e l’interpretazione restrittiva
della legge, organizzava l’occupazione dei terreni, con frequenti, relativi interventi della polizia. In questo stesso periodo, intorno agli anni 1946-1949, il lodo De Gasperi, per le zone
di mezzadria classica, stabiliva l’attribuzione al
mezzadro del 53% del prodotto (vol. I, 61-72).
22
Vol. I, 71-72.
23
Vol. I, 189. Una grossa «retata», complice un infiltrato, coinvolge l’intero gruppo dirigente dei comunisti cristiani, assieme ad altri
IL REGNO -
AT T UA L I T À
4/2011
XXVI
REGATT 04-2011.qxd
25/02/2011
15.50
Pagina
105
fermare la piena autonomia dell’agire politico – la laicità della politica – rispetto all’appartenenza ecclesiale.50
Molte pagine del «Diario minimo»
sono dedicate a tratteggiare, con uno
sguardo dall’interno – dall’interno della
famiglia Rodano, dall’interno del gruppo della Sinistra cristiana, dall’interno di
una Chiesa che non si è mai cessato di
amare – il difficile rapporto dei Cattolici
comunisti, e di Franco in prima persona,
con l’istituzione ecclesiastica: è una storia nota, molte volte già descritta: le pri-
me censure su L’Osservatore romano,
l’interdetto a Franco, le tornate elettorali che si trasformano in scelta di religione
e di civiltà, la «scomunica dei comunisti», ovvero il decreto del Sant’Uffizio
del 15 luglio 1949 e ciò che ne segue, soprattutto per la fede dei semplici, fino al
lento mutare del clima ecclesiale, anticipazione o eco del disgelo nella politica
mondiale.51 Merita ripercorrerla, questa
storia, sul filo della narrazione di Marisa,
sempre vivace, garbatamente pugnace,
dove i ripensamenti non sono pentimen-
ti, dove la forza delle convinzioni non è
opacizzata. Ma è un racconto senza
astio, anche nei passaggi più dolorosi:
«Noi distinguevamo tra la trasgressione
alle regole o l’infrazione dell’ordinamento, e la rinuncia alla comunione di vita
con Dio, che è l’essenza del peccato. Si
può insomma trasgredire senza sentirsi
peccatori; ciononostante si può ritener
necessario accettare con umiltà la pena
connessa con la trasgressione delle regole della comunità».52
Alessandra Deoriti
comunisti: anche L. Lombardo Radice, da poco uscito dal carcere e arruolato come soldato
semplice, torna in prigione. Franco e Marisa
sono arrestati, ciascuno a casa sua, la mattina
del 23 maggio. Il 23 luglio Marisa torna in libertà, mentre Franco è deferito al Tribunale
speciale. Ma il 25 luglio cade Mussolini... La
breve permanenza in carcere è per Marisa
una cesura psicologica decisiva verso l’autonomia delle scelte: «Non ero più figlia di famiglia... Al vecchio mondo della mia adolescenza non appartenevo più» (cf vol. I, 18l-l92).
24
Vol. I, 331.
25
Vol. II, 165.
26
Vol. I, 331.
27
Oltre a quanto anticipato nella nota 8,
dal 1947-1948 Marisa diviene responsabile
dell’UDI provinciale di Roma. Nell’aprile
1956 subentra a M. Maddalena Rossi alla presidenza dell’UDI nazionale (cf. vol. II, 185l87). È ripetutamente rieletta nel Comitato
centrale del PCI.
28
Vol. I, 331.
29
Vol. I, 338. Merita di essere riportata
anche una constatazione più amara: «Ad anni
di distanza ho potuto vedere come alle compagne “storiche” del carcere e dell’esilio (a Estella, a Rita, a Rina Picolato, a tante altre) sarebbe toccata in tempi ravvicinati l’esperienza
dell’emarginazione: gli uomini se ne liberavano senza problemi» (vol. I, 339).
30
Vol. I, 266.
31
Si vedano le gustose pagine sull’impatto
di Marisa, allora ventisettenne, con le regole,
le consuetudini e il gergo parlamentare: «imbarazzi da principiante», rapidamente superati (vol. II, 35-41).
32
Vol. I, 338.
33
Vol. I, 103-104.
34
Vol. I, 122: «Franco, che aveva già sentito parlare di lui, mi disse subito che conoscerlo era importante. Bufalini era già da anni in
contatto con antifascisti e comunisti e nel 1931
aveva partecipato all’organizzazione della fuga all’estero di Giorgio Amendola». Franco,
scrive Marisa, era «molto più maturo intellettualmente di tutti noi»; «era indiscutibilmente
non solo il più bravo della classe, ma un vero
leader della nostra comunità scolastica» (vol. I,
124). Nato a Roma nel 1920 da una famiglia
della piccola borghesia impiegatizia, negli anni del liceo e dell’università frequenta i padri
gesuiti della «Scaletta», gli ambienti dell’Azione cattolica, la FUCI che dal 1943 sarà presieduta da Aldo Moro. L’amore tra Marisa e
Franco si rivela nel corso della II liceo.
35
La denominazione cambia nel tempo,
nella costante ricerca di trovare una piattaforma unificante: nel 1941, con Adriano Ossicini
e Paolo Pecoraro, Franco lavora alla redazione
del manifesto dei Cooperativisti sinarchici (cf.
vol. I, 164), che nel 1942 diviene «Partito comunista cristiano» (cf. vol. I, 171) e, durante i
nove mesi dell’occupazione nazista di Roma,
Movimento dei cattolici comunisti (MCC), il
cui organo è il foglio Voce operaia (cf. vol. I,
207-212, passim). Dopo la liberazione di Roma, il MCC assume il nome di Partito della sinistra cristiana.
36
Dalla primavera del 1942 Franco entra,
assieme a Mario Alicata e Pietro Ingrao, nel
cosiddetto «triumvirato», organo dirigente le
due organizzazioni clandestine di comunisti e
comunisti cristiani (vol. I, 17).
37
Vol. I, 174.
38
Vol. I, 307. Il passaggio dalla tolleranza
alla possibilità di una piena cittadinanza si sarebbe prodotto solo nel 1946, durante il V
Congresso del PCI, con quella formulazione
dell’art. 2 dello Statuto «secondo la quale ci si
poteva iscrivere al PCI indipendentemente
dalle convinzioni filosofiche o religiose» (vol. I,
328-329). Un passo ancora molto cauto, tenuto conto che lo stesso Luigi Longo, promotore
ufficiale della modifica statutaria, si affrettò a
restringerne la portata (cf. vol. II, 127, n. 1).
Comunque, un passo epocale, alla luce della
storia del comunismo internazionale.
39
La mozione di auto-scioglimento del
Partito della sinistra cristiana viene approvata
a larga maggioranza il 9.12.1945, a conclusione del Congresso straordinario indetto a Roma per il 7 dicembre. Marisa riporta una sintesi degli argomenti dispiegati da Franco a sostegno di questa decisione (vol. I, 318-325).
40
Vol. I, 172.
41
Vol. I, 213.
42
La prima comparsa di questo amico
fraterno con il quale si sarebbe stretto un sodalizio di lavoro politico e anche di vita (i Rodano condivisero per diverso tempo con Tonino
e sua moglie anche lo stesso appartamento) risale alla fine del 1939. Figlio di un avvocato
nittiano e antifascista, Tonino era un giovane
«intelligente, bello (dicevamo scherzosamente
che assomigliava a Gérard Philippe), entusiasta e appassionato». Dopo la fine dell’ esperienza della Sinistra cristiana, sceglie l’impegno in CGIL. Tramite lui, Franco e Marisa
conosceranno un altro dei più grandi amici,
Cecino Balbo (vol. I, 148-149).
43
Vol. I, 148.
44
Il patto d’unità d’azione con i socialisti
nella fase resistenziale (vol. I, 200) venne discusso nel corso di un’importante riunione
clandestina tenutasi nel luglio 1943 nella villa
di via di Porta Latina, dove Marisa era tornata dopo la scarcerazione. Circa la discussione
sulla fusione di comunisti e socialisti nel «partito unico» della classe operaia, il diario vi accenna a più riprese, nella fase della crisi del
CLN (vol. I, 310).
45
Vol. I, 243 e 311-313.
46
Nell’aprile del 1951 L’Osservatore romano pubblica la discussa autocritica di alcuni
membri della ex Sinistra cristiana confluiti nel
PCI: Balbo, Motta, Fè d’Ostiani, Scassellati a
Sebregondi (cf. vol. II, 80). Particolarmente penosa la rottura con Cecino Balbo (vol. II, 124).
47
Nella pagina in cui rievoca la mattina
del suo arresto, Marisa parla dell’abitudine di
trovarsi con Franco in ore antelucane: «Solevamo darci appuntamento in qualche chiesa...
e ascoltare la messa. La messa e la comunione
quotidiana erano pratiche che il pontificato di
Pio XI aveva fortemente incentivato ed erano
seguite specie dai giovani fucini e di Azione
cattolica. Facevamo poi colazione insieme in
qualche latteria...» (vol. I, 182). Il loro matrimonio religioso è celebrato il 13.2.1944.
48
Vol. I, 174.
49
Su questo testo e sull’autore, musicologo di mestiere e scrittore su Voce operaia, marito della più celebre Suso Cecchi D’Amico
vedi vol. I, 213-14 e 268.
50
Per un approfondimento di queste e altre tematiche, la stessa Marisa Rodano rinvia a
due saggi: l’ormai classico C.F. CASULA, Cattolici comunisti e Sinistra cristiana, Il Mulino,
Bologna 1976 e M. MUSTÈ, Franco Rodano:
critica delle ideologie e ricerca della laicità, Il
Mulino, Bologna 1993. Si può consultare anche il più recente testo di G. CHIARANTE, Tra
De Gasperi e Togliatti. Memorie degli anni Cinquanta, Carocci, Roma 2006.
51
Le posizioni della gerarchia intorno all’unità politica dei cattolici in seno alla DC non
erano univoche, e lo mostra bene anche lo
spaccato su don G. De Luca (vol. I, 250-259).
Il diario riporta le critiche vaticane e i tentativi
di risposta e patteggiamento dei Cattolici comunisti, fino a escludere dalla dirigenza i nomi
più incriminati Franco e Lele D’Amico (vol. I,
266-273 e 306-307). L’interdetto comminato a
Franco nel dicembre 1947 dalla Sacra congregazione del Concilio, a causa di due articoli
pubblicati su Rinascita sulla perequazione dei
beni del clero, che si attirarono le sanzioni previste dal can. 2344 del Codice di diritto canonico, viene rievocato puntualmente alle pp. 370374. Vent’anni dopo, nel 1967, il vento ancor
giovane del Concilio propizia la fine della pena
(vol. II, 315-321). Della scomunica ai comunisti Marisa ne parla sinteticamente (vol. II, 5051) e più ampiamente, anche con precisi riferimenti autobiografici, (vol. I, 90-100, passim).
52
Vol. I, 98.
XXVII
IL REGNO -
AT T UA L I T À
4/2011
105
Scarica

REGDOC 21-2008 indici.qxd - Edizioni Dehoniane