Io mi arrabbio, noi parliamo.
La gestione dei conflitti in classe.
STEFANO VITALE
CEMEA PIEMONTE
Torino, 10 febbraio 2011
LA VIOLENZA NON A CASO: IL RUOLO
DELL’URBANIZZAZIONE.
Mano a mano che si è andato affermando il trasporto
automobilistico privato di massa, in nome o con il
pretesto dell’insicurezza è stato progressivamente
negato ai bambini lo spazio pubblico (strade,
spiazzi, slarghi, ecc.) come spazio di vita, di gioco, di
interazione sociale.
Parlare di “protezione”, anziché di “segregazione” in
casa o in spazi controllati dagli adulti non è forse
una forma di violenza culturale?
La violenza della città e dell’ambiente si ribalta nei
bambini che rischiano di diventare anch’essi
sempre più violenti.
IL RUOLO DELLA FAMIGLIA.
Aggressività e violenza sono spesso confuse, mentre
all’aggressività va riconosciuta anche una funzione
adattiva in quanto costituisce uno degli elementi che
contribuiscono a determinare la spinta
all’autoaffermazione, e quindi al raggiungimento di
nuove conquiste, all’ATTO CREATIVO.
La violenza subentra quando veniamo invasi da quei
sentimenti che ci portano a desiderare di
SOPRAFFARE l’altro, considerato responsabile del
nostro dolore, dei nostri vissuti di impotenza e
umiliazione.
Non sempre si diventa violenti quando la rabbia ci
invade; questo avviene quando si riconosce l’umanità
dell’altro, tramite l’EMPATIA, ossia la capacità di
mettersi nei panni dell’altro e di riconoscere che è un
nostro simile, che sente come noi sentiamo.
La capacità di essere empatici deriva dalle nostre prime
esperienze affettive, dalle relazioni di cui abbiamo potuto
godere.
Dei genitori caldi e affettuosi permettono al bambino di
interiorizzare delle figure genitoriali amorevoli, ma anche
un senso di se stesso degno di amore e pertanto pieno di
valore. Il senso del valore del proprio sé, quando si è
formato, può essere esteso alle altre persone che
possono essere, di conseguenza, riconosciute come
simili e degne di stima.
Che cosa succede se le prime esperienze del bambino
sono improntate invece alla deprivazione?
Egli interiorizzerà una relazione di rifiuto, di non
comprensione, di sopraffazione; diventerà un bambino
costretto, molto probabilmente, a rimettere in scena
all’infinito una relazione di sopraffazione, in cui l’unica
libertà che avrà sarà quella di scegliere, di volta in
volta, a seconda delle circostanze, se impersonare la
vittima o il carnefice.
Tutto ciò che farà riaffiorare il senso di
sopraffacente impotenza sarà sentito come una
nuova insopportabile minaccia all’integrità del sé e,
come tale, andrà colpito.
Un genitore (padre o madre) che abbia subito tali
esperienze da bambino potrà infierire sul proprio
bambino, che, in quel momento, non sarà altro che
la personificazione del proprio sé piccolo,
bisognoso, debole, impotente e come tale da
schiacciare e annullare, pena l’invasione, nella
mente, di un’angoscia intollerabile.
Una situazione traumatica infantile, quindi, condiziona la
crescita e crea il terreno in cui la violenza si può
perpetuare.
LA VIOLENZA E I MEDIA.
I media offrono esempi di violenza rappresentata, che
è dichiaratamente finta.
Essi danno inoltre la possibilità di usufruire di una
visione collettiva della violenza, creando e quindi
collettività: a questo proposito si parla di grandi
cerimonie dei media, nelle quali essi diventano
officianti di riti che coinvolgono tutto il mondo,
comunicando emozioni collettive.
La violenza, inoltre, garantisce audience.
Molti ragazzi amano il “genere horror” e organizzano
pomeriggi o serate di visioni collettive, per dimostrarsi
reciprocamente di essere in grado di confrontarsi con
l’orrore e la paura, in una sorta di rito iniziatico, in una
società in cui tali momenti non sono più presenti, ma di
cui i ragazzi sentono ancora il bisogno.
Anche la TV si fa portatrice di messaggi carichi di
violenza tramite film, informazione, pubblicità, che
riempie l’immaginario con la promessa di una felicità
ridotta ai soli soddisfacimenti materiali.
Il passaggio dai messaggi violenti a comportamenti
concreti e ad abitudini di pensiero non è mai (non
potrebbe mai essere) né diretto, né automatico.
Perché ciò avvenga c’è bisogno di almeno due fattori:
1) Chi o che cosa produce il messaggio;
2) Chi è predisposto a farlo proprio, a tradurre cioè quel
messaggio in apprendimento;
Il messaggio e il contesto entro cui prende forma devono
RIPETERSI più e più volte. Solo in questa maniera si
genera il radicarsi dell’apprendimento, con la conseguente
assuefazione.
IL FENOMENO DEL BULLISMO A
SCUOLA.
Il bullismo si può definire sinteticamente con la parola
PREPOTENZA.
La forma più consueta è l’aggressione verbale, a essa
si aggiunge spesso anche quella fisica.
Secondo D.Olweus si tratta di una ripetuta oppressione
psicologica o fisica di una persona più forte nei
confronti di una più debole.
Perché si possa parlare di bullismo è necessario che
l’azione di prevaricazione sia stabile e continuata nel
tempo e che vi sia una relazione asimmetrica tra le due
parti.
Due studenti che litigano non necessariamente sono il
prodotto di un’azione di bullismo.
I FATTORI DI RISCHIO
• Fattori individuali legati alla persona
• Fattori familiari relativi al contesto culturale
• Fattori sociali
Tali fattori possono trovarsi intrecciati tra loro, cosa
che rende difficile il “trattamento” del bullismo.
Fattori individuali legati alla persona.
I bulli tendono ad avere di sé un’idea di persone
dominanti, coraggiose, il che può nascondere
insicurezze e ansie; questo dato è stato per lo più
rilevato tra coloro che prendono parte ad azioni di
bullismo di gruppo (bulli passivi).
Alcuni bulli sono portatori di un deficit di percezione
della realtà e dei pericoli che hanno davanti.
Il “bullismo di gruppo” pare essere dominante
rispetto a quello individuale, poiché la responsabilità
personale nei confronti di un’azione negativa tende
ad essere mitigata se si agisce in gruppo e la rende
più facile e “giustificata” (si è in tanti a condividere un
giudizio negativo sulla vittima).
La “deumanizzazione” della vittima va di pari passo
con la sua svalutazione personale e rende “meno
grave” (agli occhi del bullo) l’atto violento compiuto.
Fattori familiari relativi al contesto culturale.
Altre ricerche hanno evidenziato una relazione tra
aggressività e scarsa presenza dei genitori, disarmonia
della coppia e basso coinvolgimento affettivo degli
stessi nei confronti dei ragazzi.
L’autonomia del ragazzo, equilibrata con uno stile
educativo autorevole, fungerebbe da “fattore protettivo”
verso l’insorgere di tendenze bullistiche.
D’altro canto, genitori troppo severi, che non danno
spazio all’autonomia del giovane, imponendo uno stile
autoritario basato sull’esclusivo rispetto delle regole
imposte da loro, non aiutano certo a controllare la
nascita del fenomeno del bullismo.
In generale, la condizione sia della vittima che
dell’aggressore appare legata a difficoltà nel
riconoscimento delle proprie emozioni. Sembrano
entrambi “sgrammaticati” in una competenza
fondamentale: quella di cogliere e gestire i segnali
emotivi che provengono da altri.
Tra gli aggressori predominano i maschi: il 79,4%. Le
percentuali più alte si registrano nella terza media: il
38%. Tra loro superiore è il numero di ripetenti e di
coloro che amano poco andare a scuola.
Tra le vittime la maggioranza sono maschi: il 65,4%
ha prevalentemente 13 anni, il 33,4% si trova più
frequentemente nelle prime e nelle seconde delle
scuole medie. Quelli che vivono con un solo
genitore sono in numero maggiore rispetto agli altri,
amano poco andare a scuola e denunciano un certo
disagio. Si sentono poco soddisfatti di se stessi.
Gli interventi non possono limitarsi ai singoli soggetti
direttamente coinvolti, ma debbono connotarsi per un
aspetto globale, ecologico.
L’obiettivo è favorire la formazione di abilità
sociali nei ragazzi (social skills training),
cercando di attivare processi di cambiamento a
molteplici livelli dell’esperienza scolastica.
È fondamentale superare un atteggiamento
prescrittivo e repressivo al fine di lavorare sulla
relazione.
Ciò che si deve fare è passare dalla sorveglianza
all’ascolto, favorendo l’abitudine nei ragazzi a parlare,
con gli adulti e tra loro, di se stessi e su stessi, tramite:
• lavoro con la classe come gruppo
• lavoro sui vissuti e sulle emozioni
• coinvolgimento del consiglio di classe
• introduzione di strumenti nuovi al posto (o al fianco)
del registro, come il diario di bordo, sia per gli
insegnanti che per gli allievi
• promozione di attività di stimolo: storie da
completare, visione di film, lettura di libri, svolgimento
di giochi di ruolo e drammatizzazioni.
IL GIOCO COME STRUMENTO EDUCATIVO
NELLA GESTIONE DEI CONFLITTI.
Coi ragazzi a scuola non sempre è facile discutere di
fatti ed emozioni profonde quali sono quelle chiamate in
causa dall’aggressività, dai conflitti, dalla violenza. Il
gioco può essere uno strumento importante per
superare questa difficoltà, favorendo il naturale
emergere di temi e problemi altrimenti difficilmente
abbordabili.
Secondo Françoise Dolto (1995, p.123) il gioco ha
l’essenziale funzione di garantire un dialogo tra il
soggetto, il suo mondo interno e l’esperienza
dell’esterno.
Il gioco è anche un “rivelatore” comunicativo che,
aprendosi verso l’esterno, può permettere a un
osservatore attento di rilevare elementi “interni”: la
postura del giocatore, il suo umore, il grado di
coinvolgimento, tutto il contesto della comunicazione
ludica sono elementi da tenere in seria considerazione.
AFFRONTARE I CONFLITTI A
SCUOLA.
Andare oltre la logica della
polarizzazione.
Una delle modalità di gestione del conflitto è quella
detta “modalità violenta”, che si fonda sulla distinzione
rigida tra le parti in conflitto, in una logica di
polarizzazione che pone il bene da una parte e il male
dall’altra, e che vede la conclusione del conflitto nella
prevalenza di una parte sull’altra.
Ciascuna parte in causa attribuisce all’altra la colpa del
conflitto, la violenza, mentre si genera un meccanismo
di auto assolvimento per se stessi.
La trattabilità di un problema dipende anche dagli
strumenti di cui si dota e dall’approccio, in questo caso di
tipo educativo, che si intende privilegiare.
Il compito dev’essere quello di costruire un MODELLO
NON VIOLENTO.
Il modello educativo non violento.
• Saper riconoscere anche la propria violenza e non solo
quella dell’altro, per non rischiare di sottostimare le
motivazioni degli altri e quindi essere in difficoltà nel
trovare risoluzioni accettabili di eventuali conflitti. La
violenza non va confusa con la COLLERA, la quale può
essere una reazione al senso di frustrazione che può
trasformarsi in desiderio di affermazione di sé, in
autostima che può generare processi positivi ed
equilibrati. Spesso è l’impotenza nell’esprimere i propri
bisogni.
• Sviluppare capacità di “decentramento”: assumere un
punto di vista diverso e sviluppare l’empatia. Bisogna
porsi in situazione di ascolto e di percezione del
quadro di riferimento interno anche dell’altro,
prendendo le distanze da sé e dalle proprie abituali
modalità di comportamento e di giudizio. Non ci sono
solo i nostri problemi, non esiste solo la nostra
sofferenza.
• Preferire la cooperazione alla competizione e la creatività
alla routine relazionale nella gestione dei conflitti. Occorre
allora percepire il conflitto come sfida alla cui soluzione tutte
le parti possono e devono partecipare. La mediazione
significa dunque trovare non una via di mezzo, ma una
nuova situazione che sia soddisfacente per tutti e possa
essere una soluzione “altra”.
CONCRETAMENTE tale modello educativo può tradursi
nei seguenti comportamenti (Demetrio, 1992), i quali
danno luogo al cosiddetto PARADIGMA DELLA
COOPERAZIONE:
• ESPLORARE vs ASPETTARE
• COMUNICARE vs TACERE
• PROGETTARE vs ACCETTARE
• FARE vs GUARDARE
• NEGOZIARE vs BELLIGERARE
• IMMAGINARE vs RIPETERE
• VERIFICARE vs DIMENTICARE
Conflitti e mediazione.
Nella nostra cultura, specie a scuola, il conflitto è
associato ad un’immagine negativa.
Ci possono essere microconflitti (il litigio tra due o più
ragazzi) e macroconflitti (la guerra tra più Stati) che non
possono venire trattati allo stesso modo.
In generale si può parlare di conflitto quando le
divergenze tra due parti non permettono loro di
realizzare le proprie aspirazioni.
Il conflitto si può definire anche a partire
dall’incompatibilità di comportamenti, sentimenti,
concezioni tra individui o gruppi.
La MEDIAZIONE non interviene dunque per negare il
conflitto, ma per “gestirlo” partendo da situazioni concrete.
Non c’è un’unica forma di mediazione, così come non c’è
un’unica forma di conflitto.
MEDIARE = aprire nel mezzo.
L’etimo stesso della parola suggerisce un possibile
percorso che mira a far evolvere dinamicamente una
situazione problematica di conflitto e ad aprire canali di
comunicazione altrimenti bloccati.
Per un’educazione non violenta.
Galtung (1995) descrive il conflitto come un triangolo che
si articola su tre vertici:
ATTEGGIAMENTI
L’oggetto del
contendere
CONTRADDIZIONE
Insieme di
rappresentazioni,
percezioni e vissuti.
Comportamento visibile
delle parti che rende
manifesta la violenza
COMPORTAMENTO
In ogni conflitto è importante individuare questa
struttura e individuare le dinamiche nel tempo: prima,
dopo e durante l’interazione conflittuale, entrando in
una logica di TRASFORMAZIONE dei tre vertici del
triangolo del conflitto:
Sul vertice degli atteggiamenti si interviene con
l’empatia, su quello dei comportamenti con la
nonviolenza (dialogo) e su quello della contraddizione
con un pensiero creativo.
Educarsi alla nonviolenza significa promuovere
concretamente situazioni in cui si rifiuti la svalorizzazione
degli altri e si promuova la valorizzazione dei diversi
punti di vista in una logica paritaria; si rifiuti la pretesa di
fare l’altro simile a se’ (assimilazione) e si promuova il
rispetto delle differenze. Si rifiuti l’eccesso di
competizione con l’altro sino a concepirlo come pericolo
da eliminare e si promuova una cultura quotidiana della
cooperazione e del lavoro di gruppo.
Le dinamiche del gruppo. Relazioni e
ruoli.
Il gruppo classe è prima di tutto “un gruppo” alla ricerca
di un suo equilibrio.
Secondo la letteratura psicosociale esistono due tipi di
gruppi: PRIMARI e SECONDARI.
GRUPPI PRIMARI
Sono di dimensioni ridotte, rassicuranti, la cui attività
principale e incontrarsi e scambiare vissuti in maniera
informale.
La spinta aggregante è il piacere di stare assieme
(progettualità debole, come chiacchierare, ascoltare
musica, ecc.), grazie alla similitudine tra i membri.
All’interno di questo gruppo a volte ci si sente autorizzati
a comportamenti al limite delle regole: bere alcolici, gioco
d’azzardo, ecc.
GRUPPI SECONDARI
Hanno dimensione più ampia. Sono gruppi allargati e più
fluttuanti, che consentono la realizzazione di attività sociali
più ampie e l’incontro tra persone di culture ed esperienze
diverse.
In questo ambito si possono individuare sia gruppi
educativi (o politici), con valori e principi sovraindividuali,
senso di solidarietà e appartenenza, sia gruppi di
opportunità: gruppi sportivi, corsi, vacanze, ma anche
classi scolastiche e gruppi di lavoro.
A scuola la classe ha anche una funzione intermedia tra
la sfera personale e la società.
Nella classe vi è un’interdipendenza che trasforma il
gruppo disaggregato in un gruppo che condivide obiettivi
e percorsi comuni. Subentra la coesione e si fa strada la
consapevolezza di dipendere, almeno in parte, gli uni
dagli altri.
Il gruppo classe ha anche dei “costi”: può far maturare il
senso di rinuncia ad alcune soddisfazioni personali in
cambio dei vantaggi che possono derivare dalla
sperimentazione di forme attive di collaborazione,
negoziazione, confronto e condivisione di esperienze
relazionali e d’apprendimento di qualità.
IL GRUPPO DI LAVORO
La classe può essere intesa come un gruppo di lavoro, ed
ha bisogno dei seguenti elementi per essere considerata
tale:
• OBIETTIVI: sono una “tensione verso il futuro” e creano
una forma di identificazione dei membri di un gruppo.
• METODO: va inteso in due sensi, da un lato la
definizione dei criteri che guidano l’azione del gruppo e
dall’altro la messa a punto delle modalità che strutturano,
nel tempo e nello spazio, l’intervento di un gruppo.
• RUOLI:ciascun membro del gruppo può apprendere, se
trova il giusto spazio, ad assumersi ruoli diversi ed
esserne mano a mano sempre più consapevole ( il
conservatore, il negoziatore, il realizzatore, il creativo, il
comunicatore, ecc.)
• LEADERSHIP: un buon leader deve avere una serie di
caratteristiche come la flessibilità, l’orientamento al
dialogo, l’inserimento nelle situazioni, la lealtà verso le
decisioni del gruppo, l’attenzione alle relazioni personali,
il riconoscimento della competenza.
• COMUNICAZIONE: la comunicazione “fa” il gruppo.
• AMBIENTE: è dato dall’insieme delle percezioni, dei
vissuti, dei sentimenti del gruppo e dipende dai modelli
culturali dei gruppi.
Superare i “circoli viziosi”.
Il “circolo vizioso” è quello per il quale le condizioni
psicologiche di una persona che vive in un conflitto (sia
vittima che aggressore) vengono aggravate dal giudizio
negativo dato, direttamente o indirettamente, dalle
persone che la circondano, producendo un ulteriore
giudizio negativo sulle proprie capacità e personalità.
IL CIRCOLO VIZIOSO
Condizioni psicofisiche
di disagio
Giudizio negativo da
Parte del bambino
Sulla propria persona
Giudizio negativo
Sui comportamenti
Del bambino
IL CIRCOLO VIRTUOSO
È il circolo di benessere che produce le condizioni
affinchè lo stato psicologico del ragazzo sia positivo
grazie ad incentivi costanti, trovando così motivazioni
per un positivo mantenimento di quello stato di
benessere.
Stato di benessere psicofisico
Del bambino
Incentivi al
Mantenimento
Dello stato
Di benessere
Conservazione e
Rafforzamento
Della stima di sé
L’attività del gruppo deve assumere una valenza di
supporto “educativo” nel momento in cui favorisce
l’instaurarsi di uno scambio positivo tra il bambino ed il
mondo che in quel contesto lo circonda e restituisce al
bambino e agli altri un’immagine più equilibrata e
realistica dei conflitti e dei malesseri collegati.
Spazi e tempi per una “vita di gruppo”.
Il più delle volte, a scuola, i ragazzi agiscono
individualmente: fa un compito, legge un testo, crea un
disegno… ma si dimentica che lo fa comunque
all’interno di un gruppo: ciascuno è accolto con altre
persone che condividono con lui un tempo e uno spazio.
I ragazzi aggressivi o aggrediti sono accomunati dalla
tendenza più o meno manifesta a essere isolati e a
isolarsi.
Lavorare sul gruppo, allora, non per nascondere i
problemi del singolo, ma per trovare nuove forme
espressive.
L’insegnante, l’educatore possono offrire ai bambini la
possibilità di sperimentare “gruppi positivi”, che mirano a:
• strutturare progressive relazioni di aiuto e di confronto,
riducendo il tasso di conflitto interpersonale;
• stimolare la possibilità di scoprire nuove potenzialità
comunicative entro una situazione protetta, regolata e
accogliente;
Ritrovarsi in gruppo, per fare insieme delle attività, con
degli adulti che “si stanno occupando di te”, fa sì che ogni
individuo abbia la possibilità di costruirsi nuove “mappe
cognitive” della propria identità.
Ogni soggetto che entra in un gruppo rompe il suo
isolamento e si rende conto di non essere solo a soffrire di
idee morbose, ansietà e paure, rilevando così l’esistenza di
problemi simili ai suoi. (Foulkes, 1967)
Il gruppo ha quindi un effetto “terapeutico” sui singoli
membri.
Uno spazio per il cambiamento.
L’attività di gruppo può diventare uno “spazio per un
cambiamento osservabile”, per predisporre, realizzare,
valutare trasformazioni nelle seguenti relazioni:
• relazione con se stesso (autorappresentazione)
• relazione con gli altri ( rappresentazione della comunità)
• relazione con gli adulti (rappresentazione di un
riferimento)
Nell’elaborazione di un progetto operativo volto al
cambiamento è fondamentale tenere conto delle seguenti
variabili:
TEMPORALITA’
Ogni cambiamento avviene nel tempo, non si
cambia sempre e in qualsiasi circostanza;
NOVITA’
Assunzione di eventi sconosciuti, irruzione o
innesto di situazioni inedite in un contesto per
l’altro “sicuro”;
SPAZIALITA’
Il cambiamento non avviene ovunque;
DIREZIONALITA’
Ogni trasformazione avviene per uno scopo,
spontaneo o intenzionale che sia, e va
indirizzata verso una “direzione”;
EMOZIONALITA’
Ogni cambiamento provoca uno scarto tra
un “prima” e un “dopo”;
REVERSIBILITA’
Ogni trasformazione toglie anche qualcosa, si
abbandona una forma precedente: affettiva,
cognitiva, ecc.
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i conflitti e la loro risoluzione creativa