Articoli > Concetto di progresso e storia d’Italia 1861-1922
della Scuola superiore dell'economia e delle finanze
a cura del Ce.R.D.E.F - Centro Ricerche Documentazione Economica e Finanziaria
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Concetto di progresso e storia d’Italia 1861-1922
Sommario: 1. Premessa – 2. Il Risorgimento – 3. La Destra storica – 4. La Sinistra al potere – 5. Dall’età
giolittiana al fascismo.
1. PREMESSA
Il concetto di progresso trae origine dal latino progressus (cammino) e si compone di pro (avanti) e
gressus (passo), che indica una gradualità del suo avanzamento come sviluppo storico. Esso, seppure sia
presente in tutta la storia dell’umanità, si afferma gradualmente dal XV secolo con l’invenzione della
stampa, definendosi meglio con la nascita della scienza moderna[1]. Nel XVII secolo l’immagine
ottimistica della scienza riaccende la speranza di una crescita del sapere e spegne ogni residuo della
concezione negativa del progresso, prevalsa nei secoli precedenti come continua decadenza dell’umanità.
Una svolta decisiva provenne da Jean Bodin (1529-1596) e da Louis Leroy (1510-1577), i quali – nelle
loro storie universali pubblicate tra il 1560 e il 1580 – fornirono un’immagine positiva della storia europea
e rinnovarono la concezione unitaria dell’umanità nella sua varietà di razze, costumi, lingue e rapporti con
l’ambiente naturale[2]. Cominciò così ad affermarsi la tendenza a indagare i processi storici secondo una
nozione di progresso volta a un incremento di civiltà e a una narrazione degli eventi in grado di
caratterizzare la fisionomia di un’epoca. Il sospetto – avanzato da alcuni che le invenzioni più famose
come la bussola, il cannone e la stampa venissero dalla Cina – non impedì ad altri di presentare l’Europa
moderna in una posizione di eccellenza grazie agli sviluppi scientifici della sua storia: scrittori come Pierre
de la Ramée (1515-1572), Daniele Barbaro (1513-1570), Antonio Persio (1542-1612), Tommaso
Campanella (1568-1639), Giordano Bruno (1548-1600) o Francesco Bacone (1561-1626) diffusero un
messaggio razionale e un’analisi dei trascorsi progressi e regressi per proporre formule nuove nello
sviluppo delle scienze storiche, filosofiche, teologiche e politiche.
Il concetto di progresso, impostosi in ambito scientifico e umanistico tra il 1620 e il 1720, trovò pieno
svolgimento in quello storico-politico con le opere di scrittori come l’abate Saint Pierre, Montesquieu,
Voltaire, Turgot, Mercier, Smith, Godwin, Herder, Kant, Rousseau, Malthus e altri. L’aspetto comune
riguardò una formulazione positiva del concetto, pur con alcune eccezioni dirette a presentarlo come
«ondulante» successione di ascese e cadute.
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Frase
Articoli > Concetto di progresso e storia d’Italia 1861-1922
In alcune opere di Charles-Irénée Castel de Saint-Pierre (1658-1743) il progresso dell’Europa fu collegato
a una Confederazione di Stati, la cui «unione» doveva poggiare su un’esplicita rinuncia della guerra
mediante un patto diretto alla risoluzione pacifica delle controversie internazionali[3]. Lo sviluppo delle
scienze tecniche e del commercio, la diffusione della stampa, l’alfabetizzazione furono i «segni» che
l’abate indicò nel processo di modernizzazione, perché l’Europa potesse procedere sulla via del progresso.
Il suo progetto, scarsamente incisivo nella politica del tempo, fu seguito da quello di Charles-Louis de
Secondat, barone di la Brède e di Montesquieu (1689-1755), che diede un forte contributo allo sviluppo
delle scienze politiche con la teoria della divisione dei poteri e l’analisi del rapporto fra ambiente, società e
istituzione pubblica[4]. Lo scrittore francese, nonostante il rifiuto dell’assolutismo, utilizzò le coordinate
storiche di libertà e progresso per elaborare una concezione politica in grado di coniugare i diritti
individuali e le esigenze sociali. Motivi che emersero nella sua preferenza per le repubbliche (Olanda e
Venezia) e per il dinamismo produttivo della società europea. Le Lettere persiane (1721), stampate
anonime ad Amsterdam ma a lui attribuite, innalzarono un elogio al progresso delle scienze e delle arti
«coltivate in Occidente» e precorsero i tempi per la critica che Montesquieu mosse al cattivo uso di alcune
invenzioni rivolte a fine di conquista e di dominio brutale[5]. Nello Spirito delle leggi (1748) egli innalzò
un inno all’Europa, contrapponendo la sua civiltà a quella dei Paesi asiatici, sottomessi al dispotismo e alla
stagnazione economica e commerciale. L’antitesi del progresso europeo all’immobilità asiatica apparve
allo scrittore francese l’aspetto peculiare delle scienze e delle arti, che fu una caratteristica «d’importanza
decisiva nella formazione del mondo moderno»[6].
Lungo il percorso tracciato da Montesquieu si inserirono le elaborazioni di F. Marie Arouet Voltaire (16941778) e quelle di A. Robert Jacques Turgot (1727-1781), entrambi fiduciosi in un moto positivo
dell’evoluzione storica e in un progresso indefinito nelle arti meccaniche, nel commercio e in alcuni aspetti
del costume[7]. Da Sébastien Mercier (1740-1814) a M.-J.-Antoine Nicolas Caritat de Condorcet (17431794) si ebbe un susseguirsi di elogi al concetto di progresso, il cui processo evolutivo era considerato
ininterrotto fino a quando l’intera specie umana vivrà sotto l’insegna di un ordine pacifico retto dalle
medesime leggi e dalla convinzione che il progresso culturale svilupperà quello sociale[8].
Questo progetto, forse dettato da una necessità storica, sfociò in un sogno utopistico di un’altra società,
quella della felicità umana che ben presto avrebbe ridefinito un nuovo ordine politico. La rappresentazione
elaborata dagli Illuministi si tradusse in una mitologia rivoluzionaria, che avrebbe dato inizio ad un nuovo
corso della storia, formato da uomini nuovi e liberi da ogni pregiudizio[9].
Nel XVIII secolo, sotto l’influsso delle elaborazioni d’oltralpe, il concetto di progresso ricevette un notevole
impulso dall’opera di Giambattista Vico (1668-1744) e di Pietro Giannone (1676-1748). Il loro
collegamento alla cultura europea s’inserì in un nuovo campo d’indagine, su cui innestare un processo di
rinnovamento civile. Se per Vico la funzione della scienza doveva essere svolta nelle «certe origini e non
interrotti progressi delle nazioni» secondo un disegno di carattere ciclico, per Giannone il progresso
sociale era possibile non solo mediante l’avvio di un riformismo paternalista, ma anche attraverso la
separazione tra Chiesa e Stato sulla base di una specifica distinzione delle rispettive sfere d’azione[10].
Un programma riformatore pressoché identico fu sostenuto da Ludovico Antonio Muratori (1672-1750),
che con il suo paternalismo di orientamento cattolico rivolse particolare attenzione al mondo del lavoro,
dalla cui centralità poteva discendere il «progresso umano» e l’acquisizione della dignità del cittadino[11].
Con altro indirizzo e con diversa formazione, più giuridica, fu concepita la teoria del progresso da Gaetano
Filangieri (1752-1788). Egli propose una riforma civile, in linea con il pensiero illuministico, ma si rivolse
al despota illuminato, perché novello demiurgo assumesse il compito di mutare il volto delle società
moderne. La critica alla grande proprietà, l’invito a riformare il sistema della legislazione penale, dei
tributi e dell’esercito fece parte di un grande disegno riformatore volto ad attenuare le diseguaglianze
sociali e ad avviare il processo innovativo dell’«incivilimento» inteso come «inevitabile e necessario
progresso»[12].
Al grandioso progetto di Filangieri seguì quello di Francesco Mario Pagano (1748-1799) la cui opera
tracciava un excursus storico attraverso le vicende passate dell’umanità per ricavarne leggi di sviluppo e
speranze di progresso: «un tentativo di sociologia simbolica»[13] che, seppure ispirata alla filosofia
vichiana della storia, presentava non poche incertezze fra il ritmo critico e quello progressivo. Tuttavia
nell’età dell’Illuminismo l’idea di una crescita e di uno sviluppo del genere umano si consolidò in una vera
e propria visione, in cui entravano in gioco la nozione di perfettibilità dell’uomo o di una sua natura
alterabile e modificabile, l’idea di una storia unitaria o «universale» del genere umano, il discorso sul
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passaggio dalla «barbarie» alla «civiltà» e, soprattutto, l’affermazione di costanti o di «leggi» operanti nel
processo storico[14]. Questa visione, unita alla convinzione dell’esistenza di un nuovo ordine, favorirà
l’incontro tra la cultura illuministica e quella positivista e l’assunzione di nuove sembianze del concetto di
progresso, che troverà nel positivismo europeo gli interpreti più genuini e i sostenitori della sua
«linearità»[15].
Come eredi della concezione illuministica del progresso, i positivisti posero l’accento sulle scienze sociali e
ribadirono la loro fede nella scienza e nello sviluppo storico come «legge immanente, di destino
irresistibile e quindi inarrestabile»[16]. I primi positivisti, come Auguste Comte (1798-1857) e Herbert
Spencer (1820-1903), assunsero il concetto di progresso per definire il «passaggio dalla società militare
alla società industriale, da una società di ceti controllata da sacerdoti a una società di libere classi in lotta
tra loro, regolata dal sapere scientifico»[17]. Nel XIX secolo l’idea di progresso come crescita del sapere
accompagna tutti i programmi scientifici, costituendone lo sfondo comune e manifestando un’eccessiva
fiducia nel futuro[18]. In quello successivo siffatta idea, sostituita con quella di modernizzazione, fu
travolta «dalle carneficine delle due guerre mondiali, dallo sterminio degli ebrei, dal terrore di massa
staliniano, dalla morte atomica di Hiroshima e Nagasaki e da innumerevoli atrocità»[19].
2. IL RISORGIMENTO
Nella storia del Risorgimento, collocabile questo evento storico nel periodo compreso tra la fine del XVIII
secolo al 1860, si affermò l’idea della nazione italiana e si sviluppò il concetto di progresso come
emancipazione politica del popolo per il suo riscatto dallo stato plurisecolare di servitù e di decadenza
[20]. Il primo ventennio del XIX secolo fu caratterizzato da una fase in cui siffatto concetto prendeva
forma in molte istituzioni come la legislazione civile o la coscrizione dell’istruzione elementare. La nuova
situazione rispecchiò un profondo cambiamento di mentalità e un diverso rapporto dei gruppi intellettuali
di fronte al potere vigente nelle due entità statali autonome del Regno Italico e di quello di Napoli. In
entrambi gli Stati fu espresso un ampio livello di partecipazione politica, civile e militare alla vita delle
istituzioni: una situazione che ebbe riflessi evidenti in tutta la penisola, dove determinò mutamenti di
cultura e di linguaggio nei gruppi intellettuali dei vari Stati italiani[21]. Per esempio, nel settembre 1828,
il periodico l’«Antologia» pubblicò un articolo di Enrico Mayer (1802-1877) che inquadrava queste
esigenze in una visione più generale dell’evoluzione sociale delle nazioni. Le nazioni – per il collaboratore
del periodico fiorentino – potevano progredire a condizione che si consolidasse «il legame morale» delle
masse nell’intera nazione e si operasse una riduzione delle distanze che separavano i vari ceti sociali. Era
questa una formulazione di una generale visione del progresso che costituiva lo sfondo comune delle
diverse ideologie sociali. La fede nell’«incivilimento» come mezzo di elevazione materiale e morale dei ceti
meno abbienti ricongiungeva il problema sociale a quello educativo, cementando il legame ideale che unì
il diverso pensiero dei gruppi intellettuali progressisti, i quali – come ha scritto Rodolfo Mondolfo –
avevano in comune, fra l’altro, «la visione del movimento ascensionale delle plebi a popolo, come fatto
spirituale e non soltanto economico, come un processo di evoluzione, nel quale si opera la coscienza
civile»[22].
La fase più feconda per lo sviluppo del concetto di progresso fu quella iniziata nell’età della Restaurazione
e conclusasi nei moti del ’48: una fase che vide l’affermarsi di tre filoni culturali connessi al cattolicesimo
liberale, al progressismo di origine illuministica e al movimento democratico repubblicano.
In questo ambito il cattolicesimo liberale, quale si caratterizzò nei suoi maggiori rappresentanti, fu
caratterizzato da una varietà di posizioni, le cui radici affondavano nel ricco humus del Romanticismo di
fine Settecento con la rivalutazione del sentimento contro (o accanto) l’intelletto[23]. Fra il 1820 e il 1848
– secondo un autorevole storico cattolico – non vi fu una rottura netta fra i cattolici liberali e lo spirito
illuministico del progresso: se ne rinvengono tracce nel pensiero di Alessandro Manzoni (1785-1873), di
Antonio Rosmini-Serbati (1797-1855) e di Vincenzo Gioberti (1801-1852). Così nell’opera di Manzoni che
informò la sua opera a «separare la religione dagli interessi e dalle passioni del secolo»; in quella di
Gioberti che sottolineò «il mito dell’antica sapienza italica» nella missione civilizzatrice del papato[24]; o
nell’altra di Rosmini che propose la soluzione della «estremità della miseria» e la fine del «traboccameno
della ricchezza» in una concordia sociale, considerata il vero mezzo suggerito dalla natura per attuare
l’«incivilimento delle infime classi»[25]. In questo anelito progressista l’atteggiamento di Rosmini, dedito
a un confronto con la cultura illuministica, cercò di verificarne i risultati e dimostrarne la fallacia. Sulla
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base di questo principio, egli avversò il sorgere dei movimenti socialisti per la loro scarsa aderenza alla
realtà, per il rifiuto della libertà o per le loro vaghe e irrealizzabili promesse di felicità, le quali
determinerebbero la scomparsa della civiltà e di ogni forma di progresso. Nell’opera Del Primato civile e
morale degl’Italiani (1843) Gioberti avanzò un’apologia entusiasta del progresso, ponendo a metà strada
il suo ideale di «religione civile» fra il cattolicesimo «ufficiale» e il vago deismo progressista professato
intorno agli ’30 per stendere la mano ai democratici della Giovine Italia[26].
Fin dall’enciclica Mirari Vos (1832), il pontefice Gregorio XVI (Bartolomeo Cappellari, 1765-1846), che
respinse l’opera di Gioberti e condannò altri cattolici liberali, considerò «insolente la scienza» e definì la
«trazione a vapore» un’espressione di Satana. Alcuni anni dopo Pio IX (Giovanni Mastai Ferretti, 17921878), nell’enciclica Qui pluribus (1846), non esitò a condannare quello «spirito del secolo», che attingeva
alla fede nell’«umano progresso» per «conculcare insieme i diritti della civile potestà e della sacra»[27].
La possibilità d’inserimento della Chiesa nella cultura progressista fu invece contrastata da Terenzio
Mamiani (1799-1885), la cui «religione civile», pur avendo una sua essenza spirituale, fu coniugata con le
forme moderne della civiltà e della scienza[28]. Il papato fu criticato anche da Gabriele Rossetti (17831854), che rivolse aspre critiche al potere temporale, ritenuto ostile alla libertà e al progresso per le sue
degenerazioni sul piano religioso e politico[29]. Giacomo Durando (1807-1894) sostenne la inconciliabilità
tra i principi del cattolicesimo e il progresso della nazione sulla base di un valore destinato a prevalere per
la critica razionale e lo sviluppo del sapere scientifico[30].
In una miriade di opere il concetto di progresso fu utilizzato per proporre diverse ideologie sociali
sull’esempio di pensieri analoghi a quelli dei Paesi più evoluti. Nell’opera Dell’Italia nei suoi rapporti con la
libertà e la civiltà moderna (1847) Andrea Luigi Mazzini (1814-1849) pose il concetto di progresso «come
cominciamento di una nuova era sociale nella storia della europea civiltà», costituendo così «uno dei tanti
anelli di congiunzione tra il pensiero dell’età della Restaurazione a quello dell’Europa quarantottesca e
postquarantottesca»[31]. Giambattista Passerini (1793-1864), per nulla entusiasta dell’indirizzo neoguelfo
di Gioberti e delle sue speranze egemoniche riposte nel papato, propose gli ideali del Risorgimento per il
«rinnovamento progressivo di tutto il popolo italiano», sottolineando come nell’«idea del progresso
dell’umanità [si] fondava il cammino verso un ideale di una società migliore della presente»[32].
Le idee di origine illuministica furono riprese da altri scrittori laici, che espressero una netta ostilità al
cattolicesimo tradizionale, ricollegandosi in varia misura al romanticismo, al liberalismo progressista e al
socialismo francese o inglese. Il centro più vivo dell’illuminismo fu quello legato all’ambiente culturale
milanese, animato da Melchiorre Gioia (1767-1825) e Gian Domenico Romagnosi (1761-1835). Nel
progetto illuminista di Gioia il progresso era assunto come premessa necessaria all’Unità d’Italia, la cui
forma politica doveva essere ispirata a una democrazia rappresentativa basata sull’equilibrio dei poteri,
sul rifiuto dell’accentramento statale e su una moderata eguaglianza[33]. Con Romagnosi la dottrina del
progresso assunse un aspetto di rinnovamento civile della nazione, ossia uno specifico connotato di
«scienza dell’incivilimento». La sua concezione politica si addentrò nel processo multiforme
dell’«incivilimento», scandagliando la vita storica degli Stati ed esaltando il valore dell’unione umana dove
il potere appariva funzionale a un modello ideale di Stato e la società doveva assumere «il massimo di
faccende, ed il Governo il minimo di affari»[34]. Nacque e si sviluppò così la dottrina dell’etnicarchia
(dominio nazionale), che fornì una nuova sintesi politica rivolta a formare gli uomini nel loro
perfezionamento culturale e morale, nonché a costruire un’organizzazione costituzionale funzionale e
conseguente con il concetto di «incivilimento», inteso come «processo aperto e continuo, non già come
dato cristallizzato e definitivamente acquisito in una forma istituzionale»[35].
Da questo assunto della storia come lento svolgimento dell’«incivilimento» e somma di distinti contributi
individuali, prese le mosse Carlo Cattaneo (1801-1869), che sviluppò la concezione del progresso in una
forma più organica. Con l’esigenza di agire sulla realtà culturale del suo tempo, Cattaneo contrappose
all’eccessivo individualismo del XVIII secolo la «consolante» dottrina del progresso che nasceva dalla
storia e promuoveva «un’interpretazione benigna di tutte le transazioni scalari e successive della civil
società»[36]. L’«incivilimento» progrediva in un processo continuo di traguardi, ciascuno dei quali
rendeva possibile il passaggio ai successivi in una catena ininterrotta, cosicché gradualmente la giustizia
poteva prevalere sull’arbitrio, la libertà sulla schiavitù e la dignità umana sulla costrizione della pena.
Questa visione del progresso, collocabile in una posizione mediana tra quella illuministica e quella
positivistica, si trasformava in una filosofia della storia, le cui leggi di tendenza erano applicate nello
studio delle lingue e dei costumi, delle religioni e delle istituzioni[37].
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Diversa la posizione di Francesco Ferrara (1810-1900), che espresse una concezione del progresso
pervasa da una profonda fede nella divina Provvidenza. Ma la sua ispirazione – come è stato ben rilevato
da Faucci – non derivava tanto da una convinzione soprannaturale, quanto da una razionalistica fiducia
nelle capacità dell’uomo di «occupare» con successo la natura[38]. Quella di Ferrara, certamente non
assimilabile al progresso positivo di stampo scientista, si svolse al di fuori di un percorso prefissato,
lasciando ampio spazio al caso, all’individualità e alla peculiarità storico-geografica. Le sue critiche furono
rivolte al concetto di «incivilimento» di Romagnosi e di Cattaneo, criticati di voler responsabilmente
perseguire un modello aprioristico, ossia uno «stato ideale» non riscontrabile in nessuna società storica e
reale[39].
Il concetto di progresso trovò larga accoglienza nell’opera di Giuseppe Mazzini (1805-1872), che lo utilizzò
per condurre la sua battaglia nella costituzione dell’Italia in uno Stato repubblicano. Il suo rifiuto della
monarchia come negazione della libertà era dettato da una necessità storica connessa con il progresso
civile della società europea. Con il concetto di progresso, per alcuni attinto dall’opera Esquisse d’un
tableau historique des progrès de l’esprit humain (1795) di Condorcet, Mazzini ricorse ad esso «per
spiegare la sua scelta repubblicana» e per realizzare il progetto graduale di perfettibilità delle attività
umane. L’idea di progresso, che il cattolicesimo liberale si sforzò di conciliare e di subordinare alla
tradizione, fu alla base della dottrina mazziniana, la quale sotto l’influenza del Condorcet le attribuì un
significato politico-sociale per l’interesse rivolto all’educazione popolare e soprattutto all’indicazione del
progresso come processo inevitabile nel trapasso dai regimi dispotici e autocratici ai governi democraticirappresentativi. Ma a differenza dello scrittore francese, Mazzini ritenne necessario un principio politico
unitario dell’organizzazione centrale, che non doveva ostacolare lo sviluppo delle autonomie
amministrative. I suoi argomenti a favore della Repubblica – come è stato sottolineato da alcuni storici –
derivavano da una visione democratica-egualitaria, e furono in parte giustificati con la dottrina religiosa
del progresso e in parte assunti dalla storia d’Italia e dalle condizioni particolari in cui si trovavano ad
operare i democratici italiani[40]. Più che a Condorcet per l’estraneità a qualsiasi afflato religioso, Mazzini
si ricollegò al filosofo e drammaturgo tedesco Gotthold E. Lessing (1729-1781), autore del saggio
L’educazione del genere umano (1780) e assertore di una teoria del progresso come rivelazione della
verità divina[41]. Ma – come è stato sottolineato di recente – il concetto mazziniano di progresso fu
diverso da quello concepito dai positivisti per il suo carattere religioso e per il rifiuto di ogni forma di
discriminazione imputabile alle differenze di nascita, di censo, di sesso e di razza[42].
3. LA DESTRA STORICA
Il liberalismo e l’idea di nazione, seppure in un’accezione diversa nella prospettiva di «incivilimento» o di
«progresso» indicata da Cattaneo o da Mazzini, furono un ideale caro alla classe politica che assunse il
potere al momento dell’unità d’Italia (marzo 1861). Con l’unificazione, le cui basi furono poste e
sviluppate nel periodo del Risorgimento, l’Italia si risollevò dallo stato plurisecolare di decadenza per
riprendere il suo cammino progressivo. La drastica riduzione della frammentazione politica, la creazione di
un mercato nazionale e la costruzione di civili infrastrutture furono gli episodi più emblematici messi in
atto dal ceto politico liberale e dai gruppi economici più dinamici direttamente interessati ai mutamenti di
modernizzazione e ai processi di sviluppo storico.
Gli storici sono ormai concordi nel considerare l’unità d’Italia come l’evento più significativo della storia
del nostro Paese. Quasi tutte le storie dell’Italia contemporanea (se non tutte) riconoscono l’incipit del
nuovo progresso che la nascita dello Stato unitario impresse nella vita civile, politica ed economica di un
Paese «caratterizzato per secoli dal frazionamento politico, dal predominio straniero e dall’assolutismo
dinastico»[43].
L’incontro tra l’ideale del sentimento politico nazionale e lo svolgimento di libertà – come sostenne Croce
– s’inscrisse nella continuità della storia d’Italia e acquisì vigore nel nuovo ceto politico[44]. Progresso e
libertà si può dire che siano strettamente associati come un binomio indissolubile nella visione di Camillo
Benso di Cavour (1810-1861), i cui stimoli culturali gli provennero dal mondo politico francese e dal
mondo produttivo inglese[45]. Una concezione cui rimase fedele per tutta la vita ed espressa alcuni mesi
prima della morte, quando egli indicò nel binomio nazione e libertà l’anello di congiunzione all’idea di
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Articoli > Concetto di progresso e storia d’Italia 1861-1922
progresso e all’ardua opera che gli italiani dovevano intraprendere sul cammino della civiltà moderna:
«così facendo – affermò Cavour il 16 ottobre 1860 – renderemo un gran servizio […] a quest’Italia, che
sarà finalmente richiamata a vita novella e potrà finalmente prendere parte al banchetto delle nazioni, e
portare la sua pietra al grande edifizio della civiltà moderna»[46]. Il 10 maggio dello stesso anno
Bertrando Spaventa (1817-1889) riconfermò il medesimo concetto, cogliendo l’«essenza della civiltà» nel
progresso della ragione e della libertà, come emancipazione intellettuale e morale dell’individuo e
dell’umanità attraverso il progresso delle singole nazioni[47].
In questo senso l’«idea di progresso», prevalente nella cultura politica del tempo, si pose come
caratteristica peculiare nei diversi gruppi intellettuali che costituirono l’intellighenzia italiana. Tra il
programma dei liberali moderati cavouriani e quello degli hegeliani napoletani, di cui Spaventa fu
portavoce, esistono «notevoli affinità», che li spinsero a riconoscersi nella Destra storica e a giustificare
sul piano culturale le istituzioni monarchiche. L’incipit della nuova organizzazione statale fu dato dalla
statualità politica, la cui funzione doveva svolgersi sulla promozione della libertà e sulla rigenerazione del
carattere degli italiani piuttosto che sull’elevazione dei ceti meno abbienti. Una posizione espressa anche
dalla Chiesa cattolica, che nel Sillabo (1864) considerò necessaria una conciliazione con il «Romano
pontefice», quando affermò che egli «può e deve conciliarsi e venire a composizione col progresso, col
liberalismo e colla moderna civiltà» (art. 80)[48].
Sul versante repubblicano, due anni dopo l’enciclica papale, Mazzini riaffermò il suo concetto di progresso
nel manifesto dell’Alleanza repubblicana, con cui rimproverò alla monarchia il suo ruolo negativo nella
storia d’Italia e il difetto peggiore di frenare l’emancipazione umana. «In Italia la monarchia – scrisse egli
– non rappresentò mai un elemento di progresso, non s’immedesimò mai colla vita e collo sviluppo del
paese»[49]. Il filo conduttore del progresso doveva essere ricercato nella tradizione repubblicana, ossia
nel processo di emancipazione dai tiranni interni ed esterni, perché la storia era progredita solo «sotto
l’insegna repubblicana» durante la quale «crebbero e fiorirono, da noi diffondendosi ai popoli dell’Europa,
le industrie, i commerci marittimi, le influenze colonizzatrici, le lettere e l’arte»[50]. Persino nei
melodrammi di Giuseppe Verdi (1813-1901) il mito del progresso era congiunto agli ideali di patria e di
libertà: nella versione del Don Carlos (1867) il conte di Posa, nel suo dialogo con Filippo II, si appellò al
progresso dell’umanità e all’ideale di libertà, che – come sostiene uno studioso – subirono una variazione
nella versione successiva (1884). La soppressione dell’accenno al progresso, venuto meno per la
delusione politica del musicista, lasciò il posto solo all’ideale di libertà[51].
La centralità dell’istituzione monarchica fu invece assunta da Angelo Camillo De Meis (1817-1891), che
nel suo pamphlet Il Sovrano (1868) attribuì al monarca il compito di operare per il progresso,
scongiurando il pericolo della «guerra civile» sempre in agguato per la struttura gerarchica della società.
La presenza varia e articolata dei ceti sociali, portatori di interessi differenziati e contrastanti, non poteva
realizzare il progresso generale della nazione se non mediante un «dispotismo illuminato» sorretto
dall’egemonia degli intellettuali sull’intero corpo sociale[52]. Ma la funzione del ceto intellettuale per
l’ammodernamento nazionale coincideva in gran parte con quella svolta dalla classe politica, che non
cercò mai d’indebolire la carica carismatica della monarchia, sollecitando sempre i reali a non affievolire il
legame effettivo (o affettivo) con la popolazione[53].
Da questa consapevolezza, unita alla tensione modernizzatrice, nacque e si affermò l’avversione verso i
democratici e i cattolici da parte dei moderati, i quali delegarono allo Stato e alla sua amministrazione il
compito di intervenire sulla società per garantirne la libertà e dirigerla sulla via della civiltà. Per Silvio
Spaventa (1822-1893) «lo Stato moderno dirige un popolo verso la civiltà, non si restringe solamente a
distribuire la giustizia e difendere la società, ma vuole dirigerla per quelle vie, che conducono ai fini più
alti dell’umanità»[54].
Nonostante questa indicazione di tipo giacobino e gli aspetti conservatori presenti nell’ordinamento
accentrato, la Destra storica adottò una linea statalista e industrialista, avviando il risanamento del
bilancio nel vano tentativo di «dare alla struttura economica del paese un assetto più rispondente ai
bisogni della sua modernizzazione»[55]. Con la liberazione di Roma nel 1870, e la successiva emanazione
della legge sulle Guarentigie, il dibattito sul concetto di progresso coincise con quello relativo al ruolo della
Chiesa cattolica nella società italiana ed europea. La scienza – come ha scritto Chabod – entusiasmò non
pochi intellettuali, i quali elevarono un inno al progresso, esprimendo «la convinzione della inconciliabilità
assoluta tra Chiesa e libertà, tra Papato e pensiero moderno»[56]. Per Francesco De Sanctis (1817-1883)
Roma doveva diventare «la capitale dello spirito moderno», mentre per Quintino Sella (1827-1884)
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doveva essere il «centro di scienza, di pensiero laico rinnovatore del mondo»[57]. E alla missione
emancipatrice di Roma si richiamarono Benedetto Cairoli (1825-1889) e Giuseppe Garibaldi (1807-1882),
quando richiesero la scomparsa della tirannia dei preti e della loro ostilità alla civiltà con lo scopo di
sostituire a tutte le religioni rivelate «la religione del vero, religione senza preti basata sulla ragione e la
scienza»[58].
Nei primi anni ’70, proprio in coincidenza del dibattito sui rapporti tra Stato e Chiesa e sotto l’influenza di
altri eventi coevi come la Commune parigina, cominciò a diffondersi la convinzione che progresso e
democrazia fossero strettamente associati. Una nuova élite intellettuale e politica avanzò l’esigenza di
staccarsi dalla Destra storica, che sembrava destinata a soccombere a causa dei suo ritardi storici e delle
sue contraddizioni interne. Il nuovo gruppo politico, che nel marzo del 1876 assunse le redini del potere,
doveva rispondere alle attese di una società in crescita e alle nuove richieste di democrazia politica e
sociale.
4. LA SINISTRA AL POTERE
L’ascesa al potere della Sinistra, guidata da Agostino Depretis (1813-1887), alimentò la fiducia nel
progresso, suscitando non poche speranze e aspettative negli ambienti democratici e in parte in quelli
radicali[59]. Nel marzo 1876 la sinistra progressista, compresa quella riunita intorno ad Agostino Bertani
(1812-1886), attese fiduciosa il varo della riforma elettorale e l’abolizione della tassa sul macinato[60]. Di
fronte alle nuove istanze democratiche fu approvata l’anno successivo la legge sull’obbligatorietà della
scuola elementare, che impresse un «preciso valore» alla scuola laica d’impronta progressista[61]. Con la
nuova legge l’insegnamento religioso nelle scuole elementari divenne facoltativo e non fu indicato tra le
materie di studio nel corso obbligatorio delle elementari. Ne seguirono vivaci polemiche, che si
protrassero per decenni a causa dell’indirizzo laico impresso alla scuola dal nuovo governo. Lo stesso
presidente del Consiglio Depretis esaltò la scuola come «la chiesa dei tempi moderni», mentre Silvio
Spaventa considerò la scuola come l’unico mezzo d’azione in grado di contrastare «l’influenza morale della
Chiesa» sulle masse[62].
Dai gruppi più avanzati, anzi, l’istruzione obbligatoria fu connessa con il suffragio elettorale, che ebbe un
parziale riconoscimento nel 1882. La riforma elettorale, seppure approvata con fini politici strumentali,
«costituì un notevole passo innanzi sulla via del progresso democratico in Italia»[63]. Questa spinta
democratica ridusse i limiti di censo (da 40 a 19 lire) e di età (da 25 a 21 anni), concedendo il voto a due
milioni di cittadini maschi e triplicando il numero dei votanti. La nuova riforma diffuse ben presto gravi
preoccupazioni tra gli stessi artefici della legge, che temettero «un profondo sovvertimento nelle
istituzioni» e ricorsero «ai ripari, opponendo robusti argini alle paventate fiumane»[64]. Da questo timore
nacque il «trasformismo» e la politica corrosiva dei partiti con lo scopo preciso di unire le forze
conservatrici e arginare il pericolo incombente del movimento repubblicano-socialista[65]. Così il
progresso sociale cedette il passo alla libertà, sia nella questione del riscatto delle ferrovie e del suo
esercizio statale, sia in quella dell’istituzione delle casse di risparmio postali oppure dell’obbligatorietà
dell’istruzione elementare. La prassi politica di Depretis e dei suoi alleati, nonostante il trasformismo
politico, mantenne tuttavia una caratteristica intellettuale peculiare improntata ad una visione del
progresso civile, il cui fondamento fu quello di preservare il Paese dalle minacce delle forze antisistema,
ossia di allontanare lo spettro di una «rivoluzione» distruttiva dei «neri» e dei «rossi»[66]. Il
trasformismo, considerato secondo un giudizio storiografico ormai consolidato un tipico episodio della
politica italiana e una prosecuzione del connubio cavouriano, rispondeva certamente «a una logica di
sistema» per l’«emarginazione delle estreme», ma riusciva a coniugare una visione ottocentesca del
progresso e alcune istanze rivendicative emerse nel movimento repubblicano e socialista[67]. Alla riforma
elettorale si aggiunse l’abolizione del corso forzoso (1881) e della tassa sul macinato (1884), cui seguì il
riconoscimento delle società di mutuo soccorso, la limitazione del lavoro dei minori a 9 anni e 8 ore
giornaliere, l’introduzione di un’assicurazione facoltativa contro gli infortuni sul lavoro.
La politica trasformista di Depretis, volta alla ricerca di una maggioranza ministeriale, fu tuttavia
contrastata dagli eredi del movimento mazziniano, che pubblicarono saggi e interventi polemici per
opporsi alle involuzioni conservatrici messe in atto nella Sinistra parlamentare. Una fede progressista,
unita al metodo positivo allora in auge, spinse non pochi intellettuali democratici a reclamare l’estensione
e la tutela dei diritti civili, il suffragio universale, la revisione dello Statuto, la progressività delle imposte,
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l’abolizione della pena di morte e la riforma del sistema carcerario.
Nel vivo fermento della politica trasformista volta alla ricerca di una maggioranza parlamentare si ebbe
così una riorganizzazione culturale delle forze democratiche e radicali. Proprio sulla «Rivista
Repubblicana», pubblicata dal 1878 al 1881, Robertò Ardigò (1828-1920) rese noti i suoi scritti su La
morale dei positivisti (1879), nei quali indicò nella democrazia e nella internazionalità i grandi principi
dell’epoca moderna[68]. L’analisi positiva della realtà spinse lo scrittore a farsi promotore di un
riformismo graduale nello sviluppo storico, la cui forza era impressa dall’evoluzione e dalle sue
conseguenze etico-politiche. Sul medesimo periodico Gabriele Rosa (1812-1897) si ricollegò alla posizione
cattaneana del progresso, accogliendo il monito del federalista milanese, secondo cui «l’arte d’aggregare
tutte le nazioni al progresso commune dell’intelligenza, della civiltà, dell’umanità, col minor dispendio di
tempo, di tesoro, di fatica e di sangue». Si trattava di un riconoscimento postumo al federalismo
cattaneano inteso come «legge naturale delle aggregazioni» umane[69].
Collocatisi all’Estrema sinistra dello schieramento politico, i radicali e i repubblicani dichiararono di battersi
per i principi dell’89, che nei fatti significavano progresso, piena esplicazione d’una civiltà urbana, con
preferenza per l’iniziativa privata, per la difesa della piccola proprietà e del lavoro artigianale. La base
sociale, che sosteneva i due gruppi politici, costituiva quella più ampia e progressista nel Paese,
specialmente nell’area regionale lombarda e in quella emiliano-romagnolo-toscano[70]. Il dato più
significativo della compagine radical-repubblicana fu una presenza pressoché identica durante l’età
depretisiana per poi mutare con le lezioni del 1890, che ridisegnarono «le linee complessive della
geografia della rappresentanza dell’Estrema» sinistra con un allargamento ai deputati meridionali[71].
Ma con la morte di Depretis (1887) e il passaggio delle redini del governo a Francesco Crispi (1818-1901),
la morfologia del progresso assunse nuove caratteristiche. La sua ascesa al potere segnò una svolta nella
storia politica dell’Italia unita, i cui caratteri principali furono una politica estera più dinamica e una
politica interna autoritaria[72]. Essa coincise con una crescita organizzativa dei lavoratori, che venne
osteggiata dall’uomo politico siciliano sulla base di un disegno politico volto a contrastare la radicale
diversità della sfida democratico-socialista sul terreno del progresso e della modernizzazione Questo
disegno di «ammodernamento autoritario», presentato come l’espressione più «vera» del progresso e
concepito come una necessità storica «graduale e ininterrotta», cercò di porre rimedio agli squilibri sociali
«con fede illuministica» nelle buone leggi[73]. Nell’attuazione di quella «forma di democrazia autoritaria
di ascendenza bismarckiana», che trovò applicazione nei suoi ministeri (1887-1891, 1893-1896) Crispi
introdusse una serie di leggi che «ebbero come effetto una notevole modernizzazione dello Stato»[74]: la
riforma dell’ordinamento comunale e provinciale (1888), quella igienico-sanitaria (1888), l’istituzione degli
enti di beneficienza (1890), il testo unico di pubblica sicurezza e il codice penale (1889)[75].
Proprio nell’intermezzo dei ministeri dominati dal politico siciliano, l’evento più importante fu la nascita del
Partito dei lavoratori italiani (agosto 1892), che impresse notevole impulso al concetto di progresso.
Propagandato soprattutto dalla rivista «Critica Sociale», il nuovo partito svolse un ruolo rilevante nella
funzione educativa dei lavoratori con la diffusione dei temi connessi ai progressi della scienza e della
tecnica[76]. La cultura socialista, sviluppatasi sulla scia dell’indirizzo positivista, costituì un imponente
veicolo di modernizzazione e di trasformazione sociale. Sulla stampa socialista l’esaltazione del progresso
scientifico e tecnologico fu strettamente associato all’idea di evoluzione come positivo mutamento sociale.
Il progresso delle scienze, da quelle sociali a quelle biologiche e mediche, fu presentato come una sicura
garanzia di una nuova società, come si ricava dai numerosi periodici e opuscoli, che furono pubblicati
senza interruzione negli ultimi lustri del XIX secolo fino alla prima guerra mondiale[77].
5. DALL’ETA’ GIOLITTIANA AL FASCISMO
L’ascesa al potere di Giovanni Giolitti (1842-1928) segnò una svolta nel sistema politico italiano. La
cosiddetta «età giolittiana», che da lui prese il nome per indicare il periodo compreso tra l’inizio del
Novecento e la prima guerra mondiale, fu – secondo uno storico – caratterizzata da grandi «mutamenti
politici, economici, sociali e culturali»[78]. I quindici anni della sua egemonia parlamentare, sia pur
caratterizzati da profondi contrasti sociali, innescarono un processo di trasformazione economica ed
impressero un forte impulso di progresso nelle scienze fisiche, chimiche e filosofiche. L’avvio della
rivoluzione industriale determinò un progresso economico senza precedenti, che ebbe forti ripercussioni
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su quello sociale con la nascita di nuovi movimenti politici, con il miglioramento dell’istruzione e con
l’introduzione del suffragio maschile.
L’«età giolittiana», considerata da un altro studioso «uno dei pochi periodi di progresso civile»[79] della
storia italiana, conservò per Gaetano Salvemini (1873-1957) gravi difetti originari imputabili alla natura
politica del regime liberale intrisa di autoritarismo e pervasa da corruzione elettorale. Secondo
l’intellettuale pugliese Giolitti doveva essere considerato «il ministro della malavita» per la manipolazione
delle istituzioni e il controllo esercitato sulle prefetture, perché indirizzassero i flussi clientelari verso le
candidature governative[80]. Il concetto di progresso, dopo la sua uscita dal Partito socialista e
l’assunzione di posizioni democratiche, fu identificato con «lo sviluppo della ricchezza nazionale» e il
consolidamento delle fragili istituzioni liberali[81]. La straordinaria peculiarità delle idee politiche
salveminiane passò inosservata, suscitando aspre critiche tra i liberali coevi. Benedetto Croce (18661952) considerò l’età giolittiana un periodo aureo durante il quale «meglio si attuò l’idea di un governo
liberale», rivendicando i meriti di Giolitti contro le denunce di Salvemini. Il filosofo napoletano elogiò le
virtù della classe politica, che avviò a sicuro progresso la società italiana e favorì quel «risveglio
culturale», oscurato dall’«oppressura dell’età positivistica»[82]. Il riferimento era chiaramente rivolto
all’esaltazione dell’idealismo e alla rinascita del liberalismo, il cui lento sviluppo cominciò nell’età della
Destra storica e giunse a maturazione all’inizio del Novecento. Un’immagine storica dell’Italia, vista –
come sostenne Gioacchino Volpe (1876-1971) – «quasi teleogicamente come il progressivo realizzarsi del
liberalismo e del metodo liberale, connesso, alla sua volta, col rinnovamento della filosofia in senso
idealistico» [83]. Lo storico nazionalista espresse un giudizio politico diverso da quello crociano nella
valutazione di Giolitti, criticato per la sua incapacità a coinvolgere la collettività nazionale nell’agone dei
conflitti imperialistici, ma identico nel riconoscere all’«età giolittiana» un progresso vivificatore della vita
italiana.
Nell’opera di Vilfredo Pareto (1848-1923) non si trova indicata alcuna legge (o tendenza) di sviluppo
storico che non rimandi in ultima analisi alle motivazioni psicologiche dell’azione individuale. Egli, pur
ribadendo con assiduità la teoria dell’interdipendenza dei fenomeni sociali, indagò le ragioni del progresso
e della decadenza dei popoli in una prospettiva atomistica-individualistica. La visione gerarchica e
minoritaria della società trova significative rispondenze in un’interpretazione storica aristocratica che
attribuisce a elette minoranze il merito di ogni reale progresso, contrapponendole alla pigra massa di
mediocri, destinati sempre ad accordarsi all’iniziativa di quelle[84].
Il termine progresso è identificato da Napoleone Colajanni con quello di civiltà che, pur «difficilmente
definibile con precisione», può essere raffigurato come «un insieme di condizioni morali, intellettuali,
politiche ed economiche»[85]. Nelle pagine di Latini e anglo-sassoni egli afferma che «ogni popolo ed ogni
razza ha posto la sua pietra miliare sulla via maestosa del progresso dello incivilimento con uno di quelli
avvenimenti politico-religiosi grandiosi, che sono stati massimi propulsori di trasformazioni multiple, e che
non hanno esercitato la loro azione nel campo ristretto delle singole nazioni»[86]. I fattori dell’evoluzione
sociale, ovvero dell’«incivilimento» del consorzio umano, sono il risultato di diverse condizioni positive, il
cui scopo precipuo è quello di arrestare e modificare il rapporto dicotomico «di civiltà o di barbarie, di
progresso o di decadenza». L’inferiorità di determinati popoli, causata da un sistema arretrato di
convivenza civile, è destinata a sparire con la propagazione del benessere materiale, la diffusione
dell’istruzione, lo sviluppo del «senso morale» e la crescente «globalizzazione» delle scoperte. Rilevando
una tendenziale legge del progresso nella storia umana, Colajanni assunse una posizione intermedia tra
quella espressa da Condorcet e quella sostenuta da Charles Rappoport (1865-1941), l’una diretta a «dare
ad essa un valore assoluto» «dare ad essa un valore assoluto» e l’altra diretta a sminuire «troppo il
significato della tendenza» nonché a distinguere tra la religione del progresso e la scienza[87].
Il recupero del concetto di progresso, effettuato da Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), fu svincolato
dal quadro politico democratico-evoluzionista e assunto «come valore in sé che non riconosce altri valori
fuori della propria intrinseca lotta di sviluppo»[88]. Il dinamismo futurista, che intendeva esaltare il
progresso tecnologico e soprattutto il trionfo del veicolo a motore, rappresentò il moderno attraverso
espedienti ancora connessi con la mimesi della realtà. Alla base del futurismo vi fu l’esaltazione della
velocità e della grandiosità dei cambiamenti che si stavano verificando nel mondo della tecnologia in
Europa e soprattutto in America: il ruolo sempre più decisivo che la macchina stava assumendo nella
società contemporanea. A queste trasformazioni il futurismo – come giustamente affermò Renzo De Felice
in un suo lucido saggio – non reagì arroccandosi in difesa della civiltà tradizionali, ma sentì
profondamente la potenzialità liberatoria del progresso tecnico[89].
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Nel 1911 il cinquantenario dell’unità d’Italia diede l’occasione a molti scrittori e uomini politici di compiere
una riflessione sui risultati conseguiti nella civiltà moderna durante mezzo secolo di vita unitaria. Esso,
con le spettacolari mostre a Roma e a Torino, sottolineerà questo orientamento, certo gradito alla
monarchia desiderosa di presentare l’evento storico come il culmine di un’epoca di progresso. Nelle opere
storiche, pubblicate in quella occasione, lo Stato nazionale fu raffigurato come un’istituzione, che - per
quanto opera di minoranze illuminate – aveva avviato gli Italiani sulla via del progresso, emancipando i
ceti meno evoluti, corroborando la coscienza dell’identità nazionale e collocando l’Italia nel consesso delle
nazioni più progredite d’Europa. Proprio nel 1911, il poeta romagnolo Giovanni Pascoli (1855-1912),
commemorando il 9 gennaio l’anniversario della morte di Vittorio Emanuele II, esaltò il culto della patria
che grazie alla fede nel progresso della nazione italiana poté risorgere dall’abisso di una plurisecolare
decadenza[90]. Per il poeta vate della Grande Italia, il culto del progresso era strettamente connesso a
quello della tradizione, che doveva custodire le memorie di un’antica grandezza ed evocare fra le nazioni
moderne la sua missione di civiltà. Questo giudizio, pur con l’enfasi retorica della circostanza dettata dalle
celebrazioni patriottiche, si ritrova in altri saggi degli scrittori coevi, che misero in rilievo come nel
cinquantennio unitario vi sia stato un «enorme progresso morale» e si «sia formata una nuova civiltà»,
che ha permesso all’Italia di «conquistare uno dei primissimi posti tra le grandi nazioni»[91].
Questa rivendicazione della «morale della storia» sulla politica sembrava riecheggiare l’eco delle istanze
nazionaliste di Alfredo Oriani, che collegò la visione del progresso all’intraprendenza militare dell’Italia e
all’espansione della cultura nel mondo[92]. L’aspetto più retrivo del suo pensiero, che trovò larga
accoglienza nella formulazione teorica del nazionalismo, fu riadattato alle esigenze politiche del momento,
soprattutto per iniziativa di Enrico Corradini (1865-1931).
Sulla rivista «Il Regno», pubblicata dal 1903 al 1906, Corradini legò il concetto di progresso con quello di
nazione, il cui sviluppo poteva essere salvaguardato solo dall’unione sacra delle diverse classi sociali per
l’espansione del genio e del lavoro italiano nel mondo. I temi ricorrenti della visione politica corradiniana
furono l’invocazione martellante di nuove colonie, la denuncia della decadenza della borghesia,
l’avversione alla legislazione sociale e l’esaltazione della guerra. Anzi fu proprio la guerra, considerata la
più elevata espressione della civiltà industriale, ad essere innalzata come evento benefico della modernità
[93].
Decisamente ostile alla guerra e al militarismo fu invece Napoleone Colajanni, che non mancò di
riconoscere il «prodigioso risveglio economico», che aveva caratterizzato l’Italia nel cinquantennio
trascorso[94]. Ma, di fronte alle velleità egemoniche dell’Italia per la conquista della Libia, egli condannò il
colonialismo e la guerra intesa come una crociata civilizzatrice contro i turchi. Così non mancò di
denunciare le scelte del governo, che poneva le conquiste della produzione industriale al servizio degli
interessi materiali della borghesia. L’inaugurazione del monumento a Vittorio Emanuele II, compiuta nel
giugno 1911, fu sottoposta a dura critica dal deputato siciliano, che vide in quella celebrazione un
tradimento del mito nazionale del Risorgimento e criticò le istituzioni liberali per le responsabilità di
deviare l’Italia dalla strada del progresso e dalla conquista della civiltà moderna[95].
Con la prima guerra mondiale l’idea di progresso entrò in crisi e segnò l’inizio di un diffuso pessimismo
per raggiungere il suo apice nel successivo conflitto bellico[96]. La profonda ostilità verso gli Imperi
centrali, considerati dagli interventisti italiani come la tipica espressione del militarismo, si tradusse in una
critica della civiltà prodotta dalle nazioni austro-tedesche. Così la politica di espansione dell’impero
germanico, quale si era manifestata durante l’età guglielmina e culminata in quella che è stata definito
«l’assalto al potere mondiale»[97], venne inserita in un progetto che mirava alla conquista dell’Europa.
Nel corso della guerra gli intellettuali interventisti pubblicarono numerosi saggi, con i quali denunciarono
la Germania e l’Austria per le loro mire egemoniche volte ad imporre la loro «civiltà superiore» su quelle
considerate inferiori. Nel 1915 Teresa Labriola (1873-1941) criticò la Germania per l’attacco contro la
Francia, la cui missione era stata quella promuovere le idee di progresso e di libertà nel loro significato
universale[98]. Nello stesso anno Ezio Maria Gray (1884-1969) condannò la volontà di dominio insita
nelle popolazioni germaniche[99], mentre nel 1916 Guido Podrecca (1865-1923) fece un confronto tra il
«genio» italiano con la «Kultur» germanica, sostenendo che il contributo dei latini al progresso era
superiore a quello dei «teutoni»[100]. Nel 1917 Flavia Steno (1877-1946) denunciò le mire espansioniste
della Germania, la quale avrebbe diviso in caso di vittoria l’umanità in tre gruppi: i tedeschi puri, i meticci
e i «latini», che sarebbero stati ridotti in schiavitù oppure «eliminati ed estirpati progressivamente con
tutti i mezzi»[101].
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La propaganda contro i tedeschi, svoltasi per l’intera durata della guerra, si basò sul ruolo della tecnica e
sul suo incontro con la scienza, di cui la loro aspirazione al dominio mondiale era l’aspetto più
emblematico. Nella demonizzazione del nemico i tedeschi furono raffigurati come portatori di una
modernità disumana e di una visione decadente della civiltà occidentale a causa della diffusione
dell’industrialismo per fini bellici. Così il concetto di progresso, sorto per migliorare la condizione
dell’uomo grazie alla scienza e alle invenzioni tecniche, si trasformava in forza distruttiva, sempre più
indispensabile dalla volontà umana e dalle sue capacità di controllo[102]. Gli stessi futuristi, esaltatori per
eccellenza della civiltà meccanica, cominciarono a rivedere il loro concetto di modernità, attenuando la
visione «igienica» della guerra ed esprimendo non pochi dubbi sulla tecnica per la sua brutalità
distruttiva. La subordinazione della scienza alla totalità rappresentata dalla nazione rimase costante
nell’atteggiamento politico di Benito Mussolini (1883-1945), la cui concezione della modernità fu collegata
ad una volontà di conquista e di dominio. Dai giudizi espressi durante il Primo conflitto mondiale fino alla
costituzione dei Fasci di combattimento (1919) e alla conquista del potere (ottobre 1922), Mussolini mirò
– come giustamente ha scritto Ventrone nel suo interessante volume – «a sostituire una modernità
meccanica, ripetitiva, involontaria, con una modernità qualitativa, creativa, consapevole; il dominio della
materia e dell’economia, con il dominio dello spirito e della politica. Proprio su questo terreno si sarebbero
incontrate, in modo solo apparentemente contraddittorio, esaltazione della tecnica come mezzo per
accrescere la potenza nazionale ed esaltazione della società rurale e dei suoi valori»[103].
Nunzio Dell’Erba
Ricercatore di storia contemporanea
Facoltà di Scienze politiche di Torino
[1] Per una sintesi storica del concetto di progresso si rinvia alle voci di J. Le Goff, Progresso/reazione, in
«Enciclopedia», vol. XI, Einaudi, Torino 1980, pp. 198-230; G. Sasso, Progresso, in «Enciclopedia del
Novecento», vol. V, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1980, pp. 623-643; S. Testoni Binetti,
Progresso, in N. Bobbio, G. Pasquino, Dizionario di politica, Utet, Torino 1983, pp. 895-900; R. Marchese
e B. Mancini, Progresso, in «Dizionario di politica e scienze sociali», La Nuova Italia, Scandicci (Firenze)
1991, pp. 715-719. Ma per un excursus storico si veda anche L. Franchini, L’idea di progresso. Teoria e
storia, Giannini, Napoli 1979, pp. 53-164.
[2] J. B. Bury, Storia dell’idea di progresso, Feltrinelli, Milano 1964 (l° ed. London 1920), pp. 43-49;
Alistair C. Crombie, Alcuni atteggiamenti nei confronti del progresso scientifico: Antichità, medioevo, inizi
dell’Era moderna, in Aa. Vv., Il concetto di progresso nella scienza, introduzione e cura di E. Agazzi,
Feltrinelli, Milano 1976, p. 32.
[3] Sull’abate francese esistono in Italia pochi studi, tra i quali segnalo l’antologia di C. Curcio, Progetti
per la pace perpetua. Saint-Pierre, Rousseau, Kant, Colombo, Roma 1946.
[4] D. Felice, Leggere lo «Esprit de lois». Stato, società e storia del pensiero di Montesquieu, Liguori,
Napoli 1998.
[5] Cfr. Lettere persiane, a cura di J. Starobinski, Fabbri, Milano 2004.
[6] F. Chabod, Storia dell’idea di Europa, Laterza, Roma-Bari 2005 (I° ed. 1961), p. 96 e p. 106. Fra le
numerose traduzioni dell’Esprit des lois cfr. Lo spirito delle leggi, a cura di S. Cotta, Utet, Torino 1965.
[7] C. Luporini, Voltaire e le “Lettres philosophiques”. Il concetto della storia e l’illuminismo, Sansoni,
Firenze 1955; T. Besterman, Voltaire, Feltrinelli, Milano 1971 (ediz. inglese 1969); Alfred J. Ayer, Voltaire,
il Mulino, Bologna 1990 (ediz. inglese 1986); C. Signorile, Il progresso e la storia in A. J. R. Turgot (17461761), Marsilio, Padova 1974.
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Articoli > Concetto di progresso e storia d’Italia 1861-1922
[8] M.-J-A.-Nicolas Caritat, marchese di Condorcet, Quadro storico dei progressi dello spirito umano,
Rizzoli, Milano 1989. Sul personaggio si veda A. Cento, Condorcet e l’idea di progresso, Parenti, Firenze
1956; ma si tenga presente il giudizio di uno storico italiano, che considera l’opera di Condorcet «un
frutto maturo e, forse, tardivo» dell’Illuminismo francese; cfr. S. Moravia, Il tramonto dell’illuminismo.
Filosofia e politica nella società francese (1770-1810), Laterza, Bari 1968, p. 216.
[9] Massimo L. Salvadori, L’idea di progresso. Possiamo farne a meno?, Donzelli, Roma 2006, p. 17. Il
volumetto riprende ed amplia un saggio precedente con alcuni ritocchi formali; cfr. Id., Progresso, in A.
d’Orsi (a cura di), Alla ricerca della politica. Voci di un dizionario, Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 168178.
[10] B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, Laterza, Bari 1965 (I° ed. 1911); G. Giarrizzo, Vico, la
politica e la storia, in Aa. Vv., Vico, Napoli 1981, pp. 55-122; B. Vigezzi, Pietro Giannone riformatore e
storico, Feltrinelli, Milano 1961; G. Ricuperati, L’esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Ricciardi,
Milano-Napoli 1970.
[11] S. Bertelli, Erudizione e storia in Ludovico Antonio Muratori, Istituto italiano per gli studi storici,
Napoli 1960; A. Andreoli, Nel mondo di Lodovico Antonio Muratori, il Mulino, Bologna 1972.
[12] Per la bibliografia e per una esposizione più ampia del pensiero di Filangieri si rinvia a V. Ferrone, I
profeti dell’illuminsimo. La metamorfosi della ragione nel tardo Settecento italiano, Laterza, Roma-Bari
1989, pp. 338-359. L’autore usa indifferentemente «incivilimento» e «progresso» (p. 340 e p. 342).
[13] F. Venturi (a cura di), Riformatori napoletani, Ricciardi, Napoli 1972, p. 805.
[14] P. Rossi, Sulle origini dell’idea di progresso, in Aa. Vv., Il concetto di progresso nella scienza cit., p.
81.
[15] Sui rapporti tra tardo illuminismo e positivismo si veda il saggio di F. Barbano, Sociologia e
positivismo in Italia: 1850-1910. Un capitolo di sociologia storica, in Aa. Vv., Il positivismo e la cultura
italiana, a cura di Emilio R. Papa, prefazione di N. Bobbio, Franco Angeli, Milano 1985, pp. 163-225. Un
giudizio diverso emerge nell’opera di un altro storico secondo cui il positivismo «si era manifestato in
Italia come un’ibridazione» per il «culto “romantico” della scienza e del progresso»; cfr. G. Carlo Marino,
Le generazioni italiane dall’Unità alla Repubblica, Bompiani, Milano 2006, p. 43.
[16] Massimo L. Salvadori, L’idea di progresso. Possiamo farne a meno?, cit. p. 18; Id., Progresso, in A.
d’Orsi (a cura di), Alla ricerca della politica. Voci di un dizionario cit., p. 171.
[17] N. Bobbio, Profilo ideologico del Novecento, Garzanti, Milano 1990, p. 9.
[18] R. Koselleck, C. Meier, Concetti della politica. Il progresso, Marsilio, Padova 1991; G. Sasso, Il
tramonto di un mito. L’idea di “progresso” tra Ottocento e Novecento, il Mulino, Bologna 1988; C.
Dawson, Progresso e religione, Comunità, Milano 1948 (I° ed. 1929).
[19] T. Detti, G. Gozzini, Storia contemporanea II. Il Novecento, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. XI.
[20] Uno storico marxista ha sottolineato come il Risorgimento, inteso come «processo storico che portò
alla formazione in Italia dello stato unitario», ha «un’evidente origine ideologica» per la sua «visione
tendenzialmente universalistica» diretta a «riprendere nel mondo la “missione” di guida morale e civile
che aveva avuto nell’Antichità e nel Medioevo o comunque assumere una funzione di civiltà e di progresso
degna delle grandi tradizioni»; cfr. G. Candeloro, Risorgimento, in W. Besson (a cura di), Storia,
Feltrinelli, Milano 1971, pp. 282-295. La citazione si trova alla p. 282.
[21] Ettore A. Albertoni, Storia delle dottrine politiche in Italia, Mondadori, Milano 1985, pp. 227-228.
[22] Citato da Salvatore F. Romano, in Le classi sociali in Italia. Dal Medioevo all’età contemporanea,
http://www.rivista.ssef.it/site.php?page=20070206132728209&edition=2006-07-01 (12 of 18)14/02/2007 9.03.23
Articoli > Concetto di progresso e storia d’Italia 1861-1922
Einaudi, Torino 1977 (I° ed. 1965), pp. 144-145.
[23] Sul cattolicesimo liberale e sul rapporto tra il concetto di progresso e la questione religiosa si veda E.
Passerin d’Entrèves, Il cattolicesimo liberale in Europa ed il movimento neoguelfo in Italia, in «Nuove
questioni di storia del Risorgimento e dell’unità d’Italia», vol. I, Marzorati, Milano 1961, pp. 565-606. Il
riferimento è alla p. 565.
[24] Ivi, p. 572 e p. 582.
[25] Sull’opera di Rosmini si veda F. Traniello, Società religiosa e società civile in Rosmini, il Mulino,
Bologna 1966.
[26] Ivi, p. 583. A differenza di E. Passerin d’Entrèves, Giorgio Candeloro ha colto nel cattolicesimo
liberale risorgimentale un atteggiamento religioso conservatore, «accompagnato da una certa
idealizzazione del cattolicesimo e più tardi da aspirazione ad una riforma della Chiesa cattolica»; cfr. G.
Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. II: Dalla Restaurazione alla Rivoluzione nazionale 1815-1846,
Feltrinelli, Milano 1962, p. 41.
[27] G. Spadolini, L’opposizione cattolica da Porta Pia al ’98, Mondadori, Milano 1976, p. 3. Le due
encicliche possono essere lette nel sito www.totustuus.biz/users/magistero.
[28] M. Pincherle, Moderatismo politico e riforma religiosa in Terenzio Mamiani, Giuffré, Milano 1973.
[29] G. Luzzi, Le idee religiose di Gabriele Rossetti, Claudiana, Firenze 1903. Nella sua opera principale
Rossetti scrisse: «Il cristianesimo nella sua purità eleva le nazioni ad alto punto di prosperità, ma nella
sua corruzione le trascina a miseranda decadenza»; cfr. G. Rossetti, Roma verso la metà del secolo
decimonono. Considerazioni, s. e., Parigi 1846, p. 16.
[30] Pietro M. Toesca, Italia e cattolicesimo nel pensiero di Giacomo Durando (dagli inediti), Edizioni
Gheroni, Torino 1953. Sulla sua visione della nazionalità come «prodotto dell’insediamento e
ambientamento di un popolo in una data regione» e dei «limiti della sua espansione nei confini naturali di
questo, dati per lo più da rilievi montani e catene spartiacque»; cfr. P. Pieri, Storia militare del
Risorgimento, Einaudi, Torino 1962, p. 152.
[31] A. Saitta, Sinistra hegeliana e problema italiano negli scritti di A. L. Mazzini, Istituto Storico Italiano
per l’età moderna e contemporanea, Roma 1968, p. 364.
[32] L. Bulferetti, Socialismo risorgimentale, Einaudi, Torino 1975 (I° ed. 1949), p. 122.
[33] P. Barucci, Il pensiero economico di Melchiorre Gioia, Giuffré, Milano 1965; M. Paganella, Alle origini
dell’unità d’Italia. Il progetto politico-costituzionale di Melchiorre Gioia, Ares, Milano 1999.
[34] Cfr. lettera seconda a G. Valeri, in G. Domenico Romagnosi, Opere, a cura di A. De Giorgi, vol. III,
parte I, Perelli e Mariani, Milano-Padova 1842, p. 13.
[35] Ettore A. Albertoni, Storia delle dottrine politiche in Italia cit., p. 255.
[36] C. Cattaneo, Su la scienza nuova di Vico (1839), in Id., Industria e scienza nuova. Scritti 1833-1839,
a cura di D. Castelnuovo Frigessi, Einaudi, Torino 1972, p. 324. Sulla questione del positivismo e il
concetto di progresso cfr. N. Bobbio, Una filosofia militante. Studi su Carlo Cattaneo, Einaudi, Torino
1971.
[37] Per un quadro più completo della visione cattaneana si vedano N. Dell’Erba, Carlo Cattaneo e la
teoria del progresso, in «Il Ponte» (Firenze), dicembre 1990, a. XLVI, n. 12, pp. 58-65; Carlo G. Lacaita,
Modernità e modernizzazione in Carlo Cattaneo, in Aa. Vv., Cattaneo e Garibaldi. Federalismo e
Mezzogiorno, a cura di A. Trova e G. Zichi, Carocci, Roma 2004, pp. 21-36.
http://www.rivista.ssef.it/site.php?page=20070206132728209&edition=2006-07-01 (13 of 18)14/02/2007 9.03.23
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[38] R. Faucci, L’economista scomodo. Vita e opere di Francesco Ferrara, Sellerio, Palermo 1995, pp. 2930.
[39] Esagerato mi sembra un recente giudizio, secondo cui la «riflessione romagnosiana
sull’incivilimento» abbia svolto un ruolo decisivo nell’avere «fortemente condizionato la filosofia politica
quanto l’economia politica del Risorgimento»; cfr. F. Simon, Economisti in Parlamento (1861-1922), in «Il
Pensiero Politico» (Firenze), 2006, a. XXXIX, n. 1, p. 130. Il saggio prende spunto dalla pubblicazione di
due volumi: Massimo M. Augello e Marco E. L. Guidi (a cura di), La scienza economica in Parlamento 18611922. Una storia dell’economia politica dell’Italia liberale – I, FrancoAngeli, Milano 2002; Gli economisti in
Parlamento 1861-1922. Una storia dell’economia politica dell’Italia liberale – II, FrancoAngeli, Milano
2003.
[40] G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna. Dalla Restaurazione alla Rivoluzione nazionale 1815-1846,
vol. II, Feltrinelli, Milano 1962, pp. 210-211; A. Scirocco, L’Italia del Risorgimento, il Mulino, Bologna
1990, pp. 177-193. Ma sull’idea mazziniana di Repubblica come fondamentale aspetto religioso del
progresso cfr. le osservazioni di E. Morelli, Il mazzinianesimo fino all’Unità, in «Rassegna storica toscana»,
1971, a. XVI, n. 17, pp. 188-189.
[41] M. Scioscioli, Prefazione a G. Mazzini, Doveri dell’uomo, Editori Riuniti, Roma 2005, pp. 27-36.
[42] Ivi, p. 45.
[43] G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. V: La costruzione dello Stato unitario, Feltrinelli, Milano
1968, p. 9.
[44] B. Croce, Storia della storiografia nel secolo decimonono, Laterza, Bari 1921. La priorità crociana
della «religione della libertà» fu respinta da Rosario Romeo, che considerò la «fede nel progresso» «la più
vera religione del secolo»; cfr. R. Romeo, Cavour e il suo tempo, Laterza, Bari 1977, vol. II, p. 244.
[45] L. Cafagna, Cavour, il Mulino, Bologna 1999, p. 93. Ma per la «religione della libertà» cfr. B. Croce,
Storia d’Europa nel secolo decimonono, Laterza, Bari 1943 (I° ed. 1932), pp. 3-21.
[46] C. Benso di Cavour, Discorsi parlamentari, vol. XC, a cura di A. Saitta, La Nuova Italia, Firenze 1973,
p. 412.
[47] B. Spaventa, Unificazione nazionale ed egemonia culturale, a cura e con introduzione di G. Vacca,
Laterza, Bari 1969, p. 195 e pp. 204-205.
[48] Cfr. l’enciclica pontificia, in Le encicliche sociali dei Papi da Pio IX a Pio XII (1864-1946), a cura di I.
Giordani, Edizioni Studium, Roma 1948 (III° ed.), pp. 737-749.
[49] G. Mazzini, Alleanza repubblicana (1866), in Id., Scritti politici, Unione Tipografico-Editrice Torinese,
Torino 2005 (I° ed. 1972), pp. 998-1014. La citazione si trova alla p. 1009.
[50] Ivi, p. 1009. In un’opera recente si legge che «il filo giacobino che, nell’umanitarismo mazzinianogaribaldino, aveva legato l’aspirazione alla giustizia sociale al riscatto nazionale e a una generica ideologia
del progresso cominciava a spezzarsi»; cfr. G. Carlo Marino, Le generazioni italiane dall’Unità alla
Repubblica cit., p. 58.
[51] J. Budden, Le opere di Verdi, vol. III: Da Don Carlos a Falstaff, Edt-musica, Torino 1988, p. 97. Ma
per altre notizie cfr. Interviste e incontri con Verdi, a cura di M. Conati, Emme edizioni, Trento 1981, ad
indicem.
[52] A. Camillo De Meis, Il Sovrano. Saggio di filosofia politica con riferenza all’Italia (1868), a cura di B.
Croce, Laterza, Bari 1927. Per la formulazione sociologica di De Meis e la sua proposta politica si rinvia
all’analisi di A. Asor Rosa, che sopravvaluta il ruolo assegnato al ceto intellettuale nella sua capacità di
«assicurare al tempo stesso il progresso ordinato e la (liberale) conservazione della società» (p. 879); cfr.
http://www.rivista.ssef.it/site.php?page=20070206132728209&edition=2006-07-01 (14 of 18)14/02/2007 9.03.23
Articoli > Concetto di progresso e storia d’Italia 1861-1922
A. Asor Rosa, Storia d’Italia, vol. IV, t. 2, Einaudi, Torino 1975, pp. 873-879. Sul personaggio si veda G.
Sorgi, Angelo Camillo De Meis. Dal naturalismo dinamico alla teoria del sovrano, ESI, Napoli 2003.
[53] R. Romanelli, L’Italia liberale (1861-1900), il Mulino, Bologna 1979, p. 45. Una posizione diversa è
sostenuta da un altro storico, secondo cui la monarchia non aveva alcuna base popolare; cfr. G. Carlo
Marino, Le generazioni italiane dall’Unità alla Repubblica cit., p. 61.
[54] R. Romanelli, L’Italia liberale (1861-1900) cit., p. 31.
[55] G. Carocci, Destra e sinistra nella storia d’Italia, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 14.
[56] F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, vol. 1°, Laterza, Bari 1965 (I° ed.
1951), p. 249.
[57] Ivi, p. 249. Per la posizione dell’uomo politico biellese cfr. F. Bartoccini, Quintino Sella e Roma: idea,
mito e realtà, in AaVv., Quintino Sella tra politica e cultura 1827-1884, Silvestrelli-Cappelletti, Torino
1986, pp. 245-265.
[58] Ivi, p. 251. Sulle posizioni dei due personaggi cfr. M. Rosi, I Cairoli, vol. I, Cappelli, Bologna 1929, p.
245; G. Garibaldi, Scritti e discorsi politici, vol. III (1868-1882), Cappelli, Bologna 1937, p. 99 e sgg.
[59] R. Romanelli, L’Italia liberale (1861-1900) cit., p. 204.
[60] Sull’interesse di Bertani verso la condizione contadina cfr. G. Carocci, Agostino Depretis e la politica
interna italiana dal 1876 al 1887, Einaudi, Torino 1956, p. 255.
[61] F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 cit., p. 255.
[62] Discorso alla Camera del 5 maggio, in Discorsi parlamentari di Agostino Depretis, Tipografia della
Camera dei deputati, Roma 1891, vol. VII, p. 681; S. Spaventa, La politica della Destra. Scritti e discorsi
raccolti da Benedetto Croce, Laterza, Bari 1910, p. 199.
[63] A. Galante Garrone, I radicali in Italia (1849-1925), Garzanti, Milano 1973, p. 206.
[64] F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 cit., p. 419 e sgg.
[65] Ivi, p. 419. Sebbene il termine trasformismo entri nel linguaggio politico italiano tra la fine del 1882
e l’inizio del 1883 per definire la politica inaugurata da Agostino Depretis, il vocabolo fu usato nel 1874
con il medesimo significato da Carlo Alfieri di Sostegno in una lettera a Francesco De Sanctis, pubblicata
anche in forma di opuscolo; cfr. Il trasformismo nella politica. Lettera del senatore Carlo Alfieri
all’onorevole deputato Francesco De Sanctis, Firenze 1874. La notizia è tratta dal libro di G. Sabbatucci, Il
trasformismo come sistema. Saggio sulla storia politica dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 21.
[66] F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 cit., p. 401. La tesi dell’illustre
storico, ricavata da un opuscolo coevo (A. Gualdo, La riforma elettorale, Venezia 1979, p. 12 e p. 14) è
ripresa pedissequamente da tutti gli storici; F. Cammarano, Il progresso moderato. Un’opposizione
liberale nella svolta dell’Italia crispina (1887-1892), il Mulino, Bologna 1990, p. 32 e p. 33; L. Cafagna,
Cavour cit., pp. 229-235; G. Sabatucci, Il trasformismo come sistema cit., p. 37.
[67] Ivi, p. 36.
[68] R. Ardigò, La morale dei positivisti, Natale e Battezzati, Milano 1879.
[69] G. Rosa, Federazioni comunali, in «Rivista Repubblicana», 1880, a. III, n. 4, p. 305. Per la citazione
si veda C. Cattaneo, Milano e l’Europa. Scritti 1839-1846, a cura di D. Castelnuovo Frigessi, Einaudi,
Torino 1972, p. 54.
http://www.rivista.ssef.it/site.php?page=20070206132728209&edition=2006-07-01 (15 of 18)14/02/2007 9.03.23
Articoli > Concetto di progresso e storia d’Italia 1861-1922
[70] Per un quadro più completo si rinvia a A. Galante Garrone, I radicali in Italia 1849-1925 cit., p. 208 e
sgg.
[71] E. Mana, La democrazia radicale italiana e le forme della politica, in «Annali della Fondazione
Giangiacomo Feltrinelli», 2003, pp. 189-218. Sulla geografia elettorale e la presenza dell’Estrema nella
realtà italiana si vedano le pagine 202-203.
[72] D. Adorni, Francesco Crispi. Un progetto di governo, Olschki, Firenze 1999; C. Duggan, Creare la
nazione. Vita di Francesco Crispi, Laterza, Roma-Bari 2000.
[73] U. Levra, Crispi, in B. Bongiovanni e N. Tranfaglia (a cura di), Dizionario storico dell’Italia unita,
Laterza, Roma-Bari 1996, p. 221. Il giudizio, già enunciato dal Candeloro, considera il progetto crispino
improntato ad alcuni aspetti peculiari del democraticismo risorgimentale come «la fede nel progresso e
nella scienza, il laicismo, l’anticlericalismo, il patriottismo di tipo giacobino»; cfr. G. Candeloro, Storia
dell’Italia moderna, vol. VI: Lo sviluppo del capitalismo e del movimento operaio, Feltrinelli, Milano 1970,
p. 329.
[74] T. Detti, G. Gozzini, Storia contemporanea I. L’Ottocento, Bruno Mondadori, Milano 2000, p. 290.
[75] P. Nuvolone, Giuseppe Zanardelli e il codice penale del 1889, in R. Chiarini (a cura di), Giuseppe
Zanardelli, Angeli, Milano 1985, pp. 163-182.
[76] Sui socialisti e la loro funzione educativa cfr. G. Turi, Intellettuali e propaganda nel movimento
socialista, in Id. e S. Soldani (a cura di), Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, il
Mulino, Bologna 1993, pp. 459-501.
[77] P. Audenino, Cinquant’anni di stampa operaia. Dall’unità alla guerra di Libia, Guanda, Milano 1976.
[78] E. Gentile, Le origini dell’Italia contemporanea. L’età giolittiana, Laterza, Roma-Bari 2003, p. V. La
«belle époque» è considerata «un’età di pace, di entusiasmo e di fede nel progresso»; cfr. S. Testoni
Binetti, Progresso, in N. Bobbio, G. Pasquino, Dizionario di politica cit., p. 898.
[79] N Bobbio, Profilo ideologico del Novecento cit., p. 19.
[80] G. Salvemini Il ministro della mala vita e altri scritti sull’Italia giolittiana, a cura di E. Apih, Feltrinelli,
Milano 1966 (I° ed. 1962).
[81] G. Salvemini, Che cosa vogliamo?, in «L’Unità», 1912, a. I, n. 13, pp. 49-50.
[82] B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Laterza, Bari 1928, p. 249.
[83] G. Volpe, L’Italia in cammino. L’ultimo cinquantennio, Treves, Milano 1928, p. XXI.
[84] Nel 1902 Pareto affermò: «Questo fenomeno delle nuove élite, che, per un incessante moto di
circolazione, sorgono dagli strati inferiori della società, salgono negli strati superiori, vi si espandono e, in
seguito, cadono in decadenza, sono annientate, scompaiono, è uno dei principali fatti storici, ed è
indispensabile tenerne conto, per comprendere i grandi movimenti sociali»; cfr. V. Pareto, I sistemi
socialisti, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1974, p. 136.
[85] N. Colajanni, Latini e anglo-sassoni. (Razze inferiori e razze superiori), con prefazione di G. Novicow,
presso la Rivista Popolare, Roma-Napoli 1906, p. 58.
[86] Ivi, pp. 73-74.
[87] Ivi, p. 429. Colajanni cita il volume di C. Rappoport, La philosophie de l’histoire comme science de
l’évolution (1904) senza alcuna indicazione bibliografica, ma per la posizione dello scrittore russo-francese
si veda la seconda edizione (Rivière, Paris 1925).
http://www.rivista.ssef.it/site.php?page=20070206132728209&edition=2006-07-01 (16 of 18)14/02/2007 9.03.23
Articoli > Concetto di progresso e storia d’Italia 1861-1922
[88] M. Isnenghi, Il mito della grande guerra, Laterza, Bari 1973, p. 58 (nota 66).
[89] R. De Felice, L’avanguardia futurista, in F. T. Marinetti, Taccuini 1915/1921, il Mulino, Bologna 1987,
p. XII.
[90] G. Pascoli, Patria e umanità, Zanichelli, Bologna 1914.
[91] G. Fortunato, Carteggio 1865-1911, a cura di E. Gentile, Laterza, Roma-Bari 1978, p. 68; Aa. Vv.,
Cinquant’anni dopo (1861-1911), Milano 1911, p. V.
[92] In uno dei testi classici del nazionalismo italiano, Oriani scrisse: «Essere forti per essere grandi, ecco
il dovere: espandersi, conquistare spiritualmente, materialmente, coll’emigrazione, coi trattati, coi
commerci, coll’industria, colla scienza, coll’arte, colla religione, colla guerra. Ritirarsi dalla gara è
impossibile: bisogna dunque trionfarvi»; cfr. A. Oriani, La rivolta ideale, Gherardi, Bologna 1912 (I° ed.
1908), pp. 256-257.
[93] E. Corradini, La guerra, in «Il Regno», 1904, a. II, n. 14, pp. 2-4, poi in La cultura italiana del ’900
attraverso le riviste «Leonardo» «Hermes» «Il Regno», tomo secondo, a cura di D. Castelnuovo Frigessi,
Einaudi, Torino 1979 (I° ed. 1960), pp. 482-485. Sulle posizioni nazionaliste di Corradini si veda L.
Strappini, Introduzione a E. Corradini, Scritti e discorsi 1901-1914, Einaudi, Torino 1980, pp. VII-LIX
[94] N. Colajanni, Il progresso economico, Bontempelli, Roma 1913, vol. I, p. 8. «Oggi quel prodigioso
risveglio economico – scrisse egli – è un fatto innegabile, che s’impone a tutti e che sfugge soltanto agli
accecati partigiani di certe dottrine economiche: ai liberi scambisti».
[95] Sull’attività politica di Colajanni rinvio al mio saggio Napoleone Colajanni dall’impresa libica alla
guerra mondiale, in «Rassegna siciliana di storia e cultura» (Palermo), maggio-agosto 2006, a. X, n. 28,
pp. 7-29.
[96] T. Detti, G. Gozzini, Storia contemporanea II. Il Novecento cit., p. 26.
[97] F. Fischer, Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918, Einaudi, Torino 1971.
[98] T. Labriola, La conquista. La guerra nostra nelle conflagrazione europea, Stab. Ind. Grafico, Pescara
1915.
[99] E. Maria Gray, L’invasione tedesca in Italia: professori, commercianti, spie, Bemporad, Firenze 1915.
[100] G. Podrecca, Genio e Kultur (Latini e tedeschi), Tipografia editrice nazionale, Roma 1915, pp. 4546.
[101] Ariel [F. Steno], Il germanesimo senza maschera, Treves, Milano 1917, pp. 35-36.
[102] Sulla crisi di progresso durante il Primo conflitto mondiale cfr. P. Fussel, La Grande Guerra e la
memoria moderna, il Mulino, Bologna 1984 (ed. or. 1975); A. Ventrone, La seduzione totalitaria. Guerra,
modernità, violenza politica (1914-1918), Donzelli, Roma 2003.
[103] Ivi, p. 138.
2004
2005
2006
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