LEVI E SCOTELLARO TRA I CONTADINI DI CALABRIA Carlo Levi and Rocco Scotellaro went to some villages in Calabria in december 1952 in order to understand the way the reformation worked. Carlo Levi’s “Contadini in Calabria” and some pages from Rocco Scotellaro’s «15 cartelle di appunti» are a clear witness of what was happening in the rural country at that stage. At the same time, they give an idea of the significant changes in the agricultural politics. P rima di rientrare a Roma dopo il suo viaggio in Sicilia attorno alle terre dell’Etna, Carlo Levi decise di addentrarsi nei paesi della Calabria per rendersi conto di “come funzionasse la Riforma, e di quali cambiamenti quel tanto di riforma agraria che era stata realizzata avesse portato nella vita e nei pensieri dei contadini1”. Una lunga descrizione, o racconto-inchiesta, di quel rapidissimo viaggio venne pubblicata su “L’Illustrazione Italiana” nel 1953 a firma dello stesso Levi2. In quel viaggio in terra calabra dal 4 al 6 dicembre 1952 lo scrittore torinese venne accompagnato dal dr. Gigliotti del servizio sociale e da Rocco Scotellaro, che lo raggiunse presso l’albergo Imperiale di Cosenza viaggiando in treno di notte da Napoli. Per Scotellaro fu “il primo viaggio in Calabria” nelle terre della riforma. Vi avrebbe trovato, come preannunciatogli “a viva voce” da Manlio Rossi- Doria “un mondo sconvolto dal di fuori con l’applicazione della legge per la Sila e intimamente restio e incredulo e cinico come l’asino tirato a cavezza dal nuovo padrone su una nuova strada3”. Partiti di buon’ora dall’albergo, tra le discussioni sulla riforma che occupavano i pensieri di commercianti, viaggiatori impiegati e contadini di quel capoluogo di provincia in fermento, si diressero verso i confini del comprensorio interessato alla riforma. A Spezzano visitarono la sala sociale dell’Opera Sila dove “un funzionario del reparto assistenza” fornì loro alcuni opuscoli, aggiornandoli sulle assegnazioni fatte in quel centro (308 assegnatari di cui 40 con poderi e altri con quote minori) e preavvertendoli sulla diffidenza dei contadini e sul “sabotaggio” posto in essere dai “comunisti”. Attraversarono poi la splendida foresta della Sila Grande e Piccola e dopo il valico di Monte Scuro, su- perato Camigliatello, si fermarono sotto una pioggia dirotta presso l’azienda dimostrativa sperimentale di Molarotta “270 ettari coltivati da salariati sotto la direzione dell’Opera Sila”. Anche lì il funzionario locale dell’Ente fu lesto a sussurrare all’orecchio dei visitatori la tendenza politica del capo-coltivatore che li accompagnava, “un comunista” disse e Levi ne annotò con prontezza la segreta speranza: “ Chissà, forse ora cambierà. Speriamo”. Transitarono per Croce di Megara e Valle Piccola prima di giungere verso mezzogiorno a S. Giovanni in Fiore “la capitale contadina della Sila”, patria dell’abate Gioachino da Fiore “di spirito profetico dotato”. Fecero colazione presso l’albergo Audia, mangiando salami e formaggi di Milano, pur producendosene di ottimi a livello locale. Ma al proprietario dell’albergo quei discorsi e quelli sulla riforma non interessavano in alcun modo. Eppure in quel centro erano stati — 103 — di Giuseppe Settembrino espropriati “3.200 ettari provvisoriamente divisi in 644 quote, 250 poderi di cui 44 più piccoli destinati alle vedove”. Nella sala sociale dell’Opera Sila quanti avevano ottenuto assegnazioni provvisorie (braccianti, manovali, piccoli proprietari, ovvero figure marginali del mondo contadino) prospettarono loro la propria situazione fra reticenze e lamentele varie. Le terre espropriate erano poche e non bastavano per tutti e ognuno cercava di “apparire più povero per averne di più”. Diversa l’atmosfera alla Camera del Lavoro dove i contadini erano in riunione con il sindaco del paese. Parlavano della riforma criticandola “da ogni possibile punto di vista”, spesso in modo superficiale e ingiusto. Le critiche maggiori si appuntavano sui ritardi nella assegnazione delle terre e nella distribuzione delle sementi, sulla cattiva ripartizione e scarsità delle terre espropriate, su pretesi favoritismi e altro. Critiche a volte preconcette, timorose, cavillose, comunque accomunate da una “volontà confusa ma vivace di non essere oggetto […] ma soggetto della riforma; di non essere soltanto diretti e magari beneficati, ma di essere invece parte attiva, di dirigere o di controllare l’opera della riforma” da protagonisti così come i versi dei poeti contadini Domenico e Pasquale Jacquinta cantavano, sollecitando tra i presenti l’orgoglio e i sentimenti più vivi. “Bastava guardarliscrive Levi- per capire che malgrado la loro ostilità, non erano essi i veri nemici della Riforma: che anzi Carlo Levi e Rocco Scotellaro a Melissa il 6 dicembre 1952 (da Un poeta come Scotellaro, Edizioni della Cometa, Roma MCMLXXXIV) sarebbero stati e sarebbero i suoi migliori difensori, se l’avessero sentita e potessero sentirla come propria”. Bisognava però che quel “dubbioso interregno di buone intenzioni e di reciproca diffidenza sapesse diventare un tempo di fiducia reciproca e di pace […] sentendosi non argomento e oggetto passivo della Riforma, ma suoi attori e protagonisti”. Scendendo verso il Neto e la costa del Mar Jonio furono a Santa Severina, il primo centro di tutta la Calabria dove erano state distribuite le prime terre e costruite le prime case. In una di queste, composta da due stanze e da una stalla per le bestie, viveva una donna quarantenne, madre di tre figli piccoli e di uno di 19 anni. Nella stalla una maestra faceva scuola serale. Ai visitatori, scambiati per funzionari, la donna affidò il proprio desiderio di avere un’altra stanza per il figlio maggiore che doveva sposarsi e di ottenere un lotto diverso da quello assegnatole, perché “troppo dirupato”. Presso gli uffici del centro di colonizzazione i tecnici erano intenti a progettare altre 180 case da costruire in quell’agro, sicché il corrispondente locale del servizio sociale li accompagnò a visitare la nuova cooperativa di consumo, ovvero un modesto spaccio di generi vari. Passando per Scandale arrivarono a Crotone che era già notte. Il giorno dopo, pieni di sonno ma già in viaggio “sotto il sole leggero del primo mattino”, furono –così come consigliato loro da un funzionario dell’Entenella piana ondulata di S. Anna, territorio del comune di Isola Capo Rizzuto. I 7.000 ettari espropriati in quell’area erano stati già “scarificati e spietrati con lame adatte”, con l’impiego di diversi braccianti e grandi lavori di aratura meccanica e di affossatura per i canali di irrigazione erano stati fatti. Si stavano costruendo ancora grandi vasche di irrigazione per raccogliervi le acque di irrigazione provenienti da S. Andrea. — 104 — Era quella, scrive Levi forse la maggiore realizzazione tecnica dell’Opera Sila in quelle terre, che di certo “né i proprietari né i contadini da soli o riuniti in cooperativa avrebbero potuto, senza i grandi mezzi dello Stato, senza le macchine, senza il capitale largamente profuso, bonificare” per renderle adatte ad una coltivazione intensiva. La terra era stata divisa in poderi di due, tre o sette ettari e le strade erano state fatte. L’impressione che se ne ricavava era quella di una fattoria industrializzata con cavalli, macchine in circolazione e trattori in fila, mentre un moto continuo di gente attiva e festosa convergeva su strade e sentieri verso la palazzina della direzione, dove erano un centinaio di persone fra braccianti, contadini e donne. In attesa della paga prospettavano al direttore tecnico e all’ispettore “pazienti e attenti alle proteste dei contadini” le proprie lagnanze e i propri desideri. Gli intervistati (vecchi, giovani, uomini, donne e bambini) lamentavano soprattutto l’esiguità degli ettari assegnati rispetto alla consistenza del proprio nucleo familiare e l’imposizione di colture suggerite dai tecnici, i giovani rivendicando l’assegnazione di nuove terre e altri nuova occupazione e lavoro. Si trattava, commenta Levi, di un insieme di “speranza e malcontento, di protesta e di collaborazione, una ambiguità, di fronte a “un improvviso cambiamento”, “ad un inter vento esterno su cui non si ha né potere né controllo”. E naturalmente “di fronte ai benefici dati dallo Stato come una indiscutibile elargizione celeste” molti si limitavano “a chiedere, e anche a mendicare, con umiltà e prepotenza a seconda dei caratteri”. Ma nell’aria si sentiva, malgrado tutto, che ormai era “in corso un mutamento reale, il difficile e contrastato avvio di un’opera collettiva”. Risalendo in macchina verso Rocca di Neto costeggiarono un terreno diboscato, sino all’anno prima “un bosco pieno di cinghiali, di animali selvatici, di grandi alberi secolari e di macchia mediterranea”. Il paesaggio variava verso Strongoli “alta e tragica sul colle grigiastro”. Abbandonata la costa ionica e la strada nazionale, imboccarono sulla sinistra un vallone solitario e dopo diversi chilometri tra salite e dirupi di argille furono a Melissa “alveare senza miele, dalla cui terra bucherellata e sconosciuta prese avvio la riforma”. Vi giunsero nel giorno in cui si celebrava la festività religiosa di San Nicola di Bari. Si avvertiva, però, nell’aria una tensione “nel paese ormai sacro al sangue e alla protesta”, scrive Levi ricordando l’occupazione da parte dei contadini delle terre del feudo Fragalà e l’eccidio che ne seguì con la morte di Francesco Nigro (contadino del M.S.I.) Giovanni Zito, Angelina Mauro e il ferimento di diverse persone. I vecchi erano ormai diffidenti e rifiutavano di lasciarsi fotografare. L’esperto dell’Opera Sila, che li ricevette al caffè della piazza centrale, raccontò loro la storia dell’eccidio Rocco Scotellaro, Alberto Carocci, Anne Rossi-Doria, Eva Carocci, M. Rossi-Doria, Carlo Levi, al matrimonio di Manlio Rossi-Doria a Portici nell’aprile del 1953 (da Un poeta come Scotellaro, Edizioni della Cometa, Roma MCMLXXXIV) di cui, a suo dire, avevano profittato i comunisti, maggioranza in quel centro. Assicurò loro che “il 90 per cento dei contadini” era “contento della quota ricevuta e del lavoro dell’Opera Sila”. Le terre disponibili erano state tutte assegnate né vi erano più grosse proprietà nel territorio di Melissa, fatta eccezione per le terre della Chiesa, per legge escluse dalla riforma. Una esenzione invisa ai contadini desiderosi di terra che, con tono acceso e senza timori, polemizzarono in piazza con il funzionario dell’Ente sulle quote ottenute e sulla natura dei terreni ricevuti, tra puntualizzazioni e repliche reciproche. In piazza venne anche sollevata da un contadino la questione del debito contratto nei confronti dell’Opera Sila. Annotato sul libretto colonico non consentiva ulteriori crediti né di poter ottenere sementi o animali da fatica. Eppure i debiti venivano spesso contratti per cause di forza maggio- re, come, nel caso, per la malattia della propria moglie, incalzò il contadino che ottenne dal funzionario, dopo il riconoscimento dell’errore, la promessa di ottenere le sementi, sicché altri si sentirono incoraggiati a prospettare ulteriori casi personali. Insieme visitarono, così, le loro povere case e le grotte in cui abitavano. Ma il tempo incalzava e bisognava proseguire il viaggio. Partirono alla volta di Cirò Marina per poi giungere sul far della sera nell’agro di Corigliano. Tra i poderi della piana di San Nicola, in una di quelle identiche piccole case di due stanze allineate lungo la nuova strada, i figli più piccoli della famiglia di un contadino dormivano nei cassetti del comò, che fungevano da letto e da culla. Ma le casette, disse il funzionario, piccole dapprincipio potevano essere ingrandite dai contadini già con il nuovo anno per ricavarvi nuove stanze. Il buio avanzava e biso- — 105 — gnava rientrare a Cosenza. Con l’autista decisero di tagliare per Spezzano Albanese. Vi sostarono per un caffè, mentre il tempo si era rimesso a nevischio. Sarebbero rimasti tutta la sera ad ascoltare i canti albanesi d’amore, di esilio e di nostalgia del coro di sole voci improvvisato dall’autista Brunetti, dal clarinettista della banda Coppola, dal contadino Arcuri e dal muratore Francesco Credindio, mentre il dottor Candreva parlava loro della lingua albanese. Giunti a Cosenza, dove nel buio delle strade “il palazzo dell’Ente brillava da tutte le finestre”, rifatte le valigie all’albero Imperiale raggiunsero Paola appena in tempo per salire sul treno che li avrebbe riportati alle rispettive dimore. Nelle ultime pagine del racconto-inchiesta Carlo Levi riepiloga nuovamente le impressioni e le discussioni di quei giorni attorno alla riforma, analizzando i diversi atteggiamenti e comportamenti del variegato mondo contadino in relazione alle diverse situazioni e all’intervento dello Stato. Documentava, richiamando Guido Dorso, come la storica lotta per il possesso politico della terra fosse “ricominciata su basi nuove”. Attorno alla riforma “avvenimento politico importante” si muovevano “da parti diverse e con diversi atteggiamenti, tutte le forze politiche tradizionali del Mezzogiorno”. Ognuno voleva impadronirsene per “stabilire il proprio potere politico”, per cui i contadini venivano “sollecitati in direzioni opposte, considerati, stru- menti o oggetti di politiche incomprensibili ed esterne, e spinti perciò, ancora una volta ai margini, indotti, ancora una volta, a disinteressarsi di quello che avveniva e che pure li riguardava direttamente”. Da ciò la supposizione espressa nel paradosso che della riforma “i veri difensori sarebbero i suoi nemici”. Ad Antonio Bertoldo, contadino di Lucania “coscienza profonda e aperta al senso delle cose e ai valori del mondo”, Levi affidava in conclusione “le parole giuste sul confuso problema della riforma”. La possibilità che essa mutasse e divenisse “in futuro un fatto reale e positivo, una creazione di vita nuova aveva un solo nome; e questo era: autogoverno, autonomia contadina”. Sin qui Carlo Levi in «Contadini di Calabria. Rocco Stotellaro, quattro giorni dopo quel viaggio nella lettera indirizzata da Portici a Manlio Rossi-Doria così sintetizzava quanto a lui detto da Carlo Levi nel corso delle poche battute scambiate tra di loro: “-Ho l’impressione che due debolezze, le due parti politiche, si combattano tra loro; che è un errore far coincidere ogni atto dell’Ente con la politica governativa; che i tecnici vanno, gli altri no.-”. Così puntualizzava inoltre a Rossi-Doria: “Accompagnati non da Buri, ma dal Dr. Gigliotti del Servizio Sociale, ho interrogato nel lungo giro di 2 giorni centinaia di contadini, parlato con Sindaci e preti, con tecnici e politici (Spezzano e Crotone deluse molto Carlo, che mi lasciava polemizzare e ascol- Alcune pagine degli appunti di Rocco Scotellaro su “Riforma agraria e politica agraria” stilati subito dopo il viaggio tra i contadini di Calabria con Carlo Levi, dicembre 1952 — 106 — tava pacifico e attento). Sono venute 15 cartelle di appunti. Te le manderei, non so che valgano. Al ritorno, sono rimasto ospite in casa Buri e ho parlato molto con lui, che è, in un certo senso, il più vicino e il più lontano da te. Da Cosenza a Spezzano Sila, Molarotta, S. Giovanni in Fiore, Santa Caterina, Crotone, Sant’Anna di Isola Capo Rizzuto, Melissa, Cirò Marina, Poderi San Nicola di Corigliano, Spezzano Albanese, Cosenza: due giorni sono certamente pochi, ma l’impressione generale si coglie abbastanza bene. A Santa Severina abbiamo visto anche l’arcivescovo. Ed eccoti che ne penso: Ti è mai capitato di vedere trasportato sul letto operatorio una persona la cui vita o morte interessa la famiglia e tutto il paese? Un piccolo paese meridionale, dove le donne si mettono a strillare e non muovono una mano, gli uomini si accalcano con le mani penzoloni, guardie e carabinieri accorrono a fare i cordoni, e i medici bisogna andare a cercarli a casa e arrivano alla spicciolata, e la malattia e l’intervento del povero uomo vengono discussi mille volte, e quello sta lì con gli occhi feroci, non parla e non si muove, ma, dicono le donne, l’angelo e il diavolo se lo litigano?”. Rocco Scotellaro scrisse, dunque, su quel viaggio “15 cartelle di appunti”, dichiarando a Rossi-Doria la propria disponibilità a spedirglieli, con la schiva, ma concreta precisazione: “non so che valgano”. Tale affermazione trova puntuale riscontro in uno scritto di Rossi-Doria che riferendo di “appunti ritrovati tra le carte” di Scotellaro e di “lettere agli amici” ancora disperse ne anticipò alcuni brani contenenti una stringente analisi sulla riforma “realizzata senza una chiara visione di politica agraria”. Avrebbe portato quale conseguenza politica scrisse Scotellaro- alla “instaurazione di una politica di regime” e alla “resurrezione dei vecchi partiti di tipo clientelare4”. Le “15 cartelle di appunti” dell’ex sindaco di Tricarico erano sicuramente note anche a Carlo Levi per la puntuale convergenza di vedute e di analisi riscontrabile negli scritti leviani e per il pregnante ricordo di quell’ultimo viaggio compiuto con Rocco contenuto nella introduzione a “Le parole sono pietre”5. Da quel libro Levi, pur tra ripensamenti e rimpianti, decise di escludere il racconto “Contadini di Calabria” perché risentiva troppo dello stile dell’inchiesta. Ai brani pubblicati da Manlio Rossi-Doria riferibili alle “15 cartelle di appunti” di Rocco Scotellaro siamo in grado di aggiungere altre due pagine recuperate da Nicola Rocco6 e a me fornite in fotocopia in occasione del convegno interregionale, organizzato a Matera e Tricarico l’11 e il 12 gennaio 1974 dalla F.G.S.I., su “Scotellaro, il Mezzogiorno, le nuove generazioni”. Consapevole, tra l’altro, del problema della “formazione di una vera classe contadina”, Rocco Scotellaro, ancora per poco consigliere comunale di Tricarico, apriva così quel Rocco Scotellaro al Palazzo Reale di Portici sede dell’Istituto di Economia e Politica Agraria, 1952 (da Un poeta come Scotellaro, Edizioni della Cometa, Roma MCMLXXXIV) “discorso più ragionato” sulle forze in campo, di cui scrive nella lettera da Portici a Rossi-Doria, stilando ancora una volta, da consapevole dirigente politico una preziosa analisi e proposta politica su “Riforma agraria e politica agraria” che di seguito trascriviamo. I problemi della riforma agraria e della politica agraria sono di importanza essenziale sia di per sé sia per gli infiniti rapporti in tutta la struttura economica e sociale del Paese e in particolare del Mezzogiorno, le cui condizioni di arretratezza sono legate all’immutato regime della proprietà fondiaria. Il movimento contadino del dopoguerra ha mostrato che il problema della modificazione della struttura agraria e fondiaria era maturo non solo nei fatti ma nelle coscienze ed è stato compito dei partiti democratici dopo la caduta del fascismo dare il dovuto rilievo al problema nei loro programmi e cercare di affrontarne la soluzione. L’esperimento di riforma agraria, a cui abbiamo assistito negli ultimi due anni è stato affrontato con uno spirito paternalistico e tecnicistico e soprattutto con fini espliciti di conser- — 107 — vazione sociale e di arginamento dello spontaneo moto di rinnovamento delle campagne. Bisogna che la riforma agraria non si riduca a una riforma burocratica né a una riforma politica di spirito conservatore, ma diventi una riforma contadina, fatta con i contadini, nell’interesse dei contadini, e che abbia come condizione e come punto di arrivo la formazione di una nuova classe dirigente nelle campagne e la soppressione del possesso politico della terra da parte delle vecchie classi. È dunque necessario estendere i limiti della riforma evidentemente in modo differenziato secondo le condizioni delle zone interessate, tenendo conto della disponibilità della terra in relazione al suo grado di sviluppo produttivo e dei bisogni sociali. I contadini devono essere il soggetto e non l’oggetto della Riforma. Gli Enti della Riforma devono essere sburocratizzati e uniformati al criterio del controllo democratico. Devono essere costituiti Comitati Contadini con funzioni di consulenza e di controllo sulla direzione e l’amministrazione degli Enti e su tutti i loro organi locali. A tal scopo molte funzioni di controllo ed esecutive devono essere affidate ai Comuni. È quindi necessario per il successo della riforma la modificazione delle Legge comunale e provinciale per la funzione autonomistica dei comuni. (Vedi problemi costituzionali). Deve essere abbandona- il tempo e lo spazio tiranni constringono a rinviare l’approfondimento di tali questioni ad un’occasione più propizia. Occupazione di terre nell’agro del comune di Spezzano Albanese. (Foto Dante Volpintesta) (da AA.VV. Campagne e movimento contadino nel Mezzogiorno d’Italia, Vol. primo, De Donato editore, Bari 1979) ta l’uniformità del criterio della creazione della piccola proprietà coltivatrice come solo scopo della riforma affiancando alla piccola proprietà - laddove le condizioni economiche e sociali lo consentono- i sistemi di conduzione cooperativa e collettiva e comunale. La Riforma è condizionata e deve essere accompagnata da un’opportuna politica agraria, che va dalla modifica dei contratti agrari all’aumento e alla più diretta organizzazione del credito per l’agricoltura, allo studio pianificato delle possibilità industriali delle zone agricole, al più intenso processo delle industrie trasformatrici, a una larga effettuazione di investimenti pubblici nel settore agricolo e nelle comunità rurali, a una più estesa bonifica, agli sgravi fiscali, alla lotta contro il parassitismo dei Consorzi agrari, al controllo popolare sugli Enti di Bonifica, nel quadro di una politica generale economica che valga ad attenuare il divario tra i prezzi agricoli e quelli industriali. Attraverso l’attuazione di una simile politica agraria si potrà realizzare una più tenace e concreta attività sindacale che oggi consiste spesso in un’azione di pura difesa. Riforma agraria e politica agraria incidendo sui rapporti sociali e sulla vita intera delle campagne già spontaneamente in movimento sono legate a tutti i problemi della struttura del paese, toccando non soltanto le condizioni economiche, ma anche quelle della cultura (lotta contro l’analfabetismo, scuole differenziate e professionali), della salute pubblica (assistenza medica, farmaceutica e ospedaliera) e soprattutto di una profonda trasformazione delle relazioni tradizionali tra i diversi Enti e gruppi sociali in funzione dell’elevazione del tenore di vita e della formazione di una vera classe dirigente contadina”. Altro è il discorso su “i problemi delle trasformazioni fondiarie” visti nell’immediato dopoguerra e ancora nel 1950 “prevalentemente in termini di politica sociale”; sulle ragioni dell’esodo e sul suo processo irreversibile e sostanzialmente liberatorio che in Basilicata assunse “caratteri e proporzioni tali da provocare una crisi definitiva, una crisi strutturale nell’organizzazione tradizionale dell’agricoltura”, come più volte Manlio Rossi-Doria ha avuto modo di sottolineare7. Ma — 108 — Note 1 C. LEVI, Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia, Einaudi editore, Torino 1956, pp. 17-18. 2 C. LEVI, Contadini di Calabria, in “L’Illustrazione Italiana”, n. 5, 1953, pp. 27-30, 77-78; n. 6, 1953, pp. 2832, 81. 3 Lettera di Rocco (Scotellaro) a Manlio (Rossi-Doria), Portici 11-12.1952. La lettera, oltre al brano citato, riepiloga il percorso del viaggio compiuto con Levi, alcune impressioni sue e di Levi e annotazioni sulle forze in campo. 4 M. ROSSI-DORIA, Scotellaro vent’anni dopo , in AA. VV., Il sindaco poeta di Tricarico , Basilicata editrice, Roma-Matera 1974, pp. 2720, M. ROSSI-DORIA, Gli uomini e la storia. Ricordi di contemporanei, a cura di Piero Bevilacqua, ed. Laterza 1990. 5 C. LEVI, Introduzione a “Le parole sono pietre”, cit., pp. 21-27. 6 N. ROCCO, L’azione sociale e politica di Rocco Scotellaro attraverso documenti inediti, Università degli Studi di Bari, Facoltà di Magistero. Tesi di laurea in Letteratura italiana, relatore prof. Michele Dell’Aquila, anno accademico 1974-1975. 7 M. ROSSI-DORIA, Scritti sul Mezzogiorno, Enaudi editore, 1982; AA. VV., Manlio Rossi-Doria e la Basilicata: il Mezzogiorno difficile, F. Angeli ed., Milano 1992.