LEVI E SCOTELLARO TRA
I CONTADINI DI CALABRIA
Carlo Levi and Rocco Scotellaro went to some villages in Calabria in december 1952 in
order to understand the way the reformation worked.
Carlo Levi’s “Contadini in Calabria” and some pages from Rocco Scotellaro’s «15 cartelle di appunti» are a clear witness of what was happening in the rural country at that stage.
At the same time, they give an idea of the significant changes in the agricultural politics.
P
rima di rientrare a
Roma dopo il suo
viaggio in Sicilia attorno alle terre dell’Etna,
Carlo Levi decise di addentrarsi nei paesi della
Calabria per rendersi conto di “come funzionasse la
Riforma, e di quali cambiamenti quel tanto di
riforma agraria che era
stata realizzata avesse portato nella vita e nei pensieri dei contadini1”.
Una lunga descrizione,
o racconto-inchiesta, di
quel rapidissimo viaggio
venne pubblicata su “L’Illustrazione Italiana” nel
1953 a firma dello stesso
Levi2.
In quel viaggio in terra
calabra dal 4 al 6 dicembre 1952 lo scrittore torinese venne accompagnato
dal dr. Gigliotti del servizio sociale e da Rocco Scotellaro, che lo raggiunse
presso l’albergo Imperiale
di Cosenza viaggiando in
treno di notte da Napoli.
Per Scotellaro fu “il primo viaggio in Calabria”
nelle terre della riforma.
Vi avrebbe trovato, come
preannunciatogli “a viva
voce” da Manlio Rossi-
Doria “un mondo sconvolto dal di fuori con l’applicazione della legge per
la Sila e intimamente restio e incredulo e cinico
come l’asino tirato a cavezza dal nuovo padrone
su una nuova strada3”.
Partiti di buon’ora dall’albergo, tra le discussioni
sulla riforma che occupavano i pensieri di commercianti, viaggiatori impiegati e contadini di quel
capoluogo di provincia in
fermento, si diressero verso i confini del comprensorio interessato alla riforma.
A Spezzano visitarono la
sala sociale dell’Opera Sila
dove “un funzionario del
reparto assistenza” fornì
loro alcuni opuscoli, aggiornandoli sulle assegnazioni fatte in quel centro
(308 assegnatari di cui 40
con poderi e altri con
quote minori) e preavvertendoli sulla diffidenza dei
contadini e sul “sabotaggio” posto in essere dai
“comunisti”.
Attraversarono poi la
splendida foresta della Sila
Grande e Piccola e dopo il
valico di Monte Scuro, su-
perato Camigliatello, si
fermarono sotto una pioggia dirotta presso l’azienda
dimostrativa sperimentale
di Molarotta “270 ettari
coltivati da salariati sotto
la direzione dell’Opera Sila”. Anche lì il funzionario
locale dell’Ente fu lesto a
sussurrare all’orecchio dei
visitatori la tendenza politica del capo-coltivatore
che li accompagnava, “un
comunista” disse e Levi ne
annotò con prontezza la
segreta speranza: “ Chissà,
forse ora cambierà. Speriamo”.
Transitarono per Croce
di Megara e Valle Piccola
prima di giungere verso
mezzogiorno a S. Giovanni in Fiore “la capitale
contadina della Sila”, patria dell’abate Gioachino
da Fiore “di spirito profetico dotato”. Fecero colazione presso l’albergo Audia, mangiando salami e
formaggi di Milano, pur
producendosene di ottimi
a livello locale. Ma al proprietario dell’albergo quei
discorsi e quelli sulla riforma non interessavano
in alcun modo. Eppure in
quel centro erano stati
— 103 —
di Giuseppe Settembrino
espropriati “3.200 ettari
provvisoriamente divisi in
644 quote, 250 poderi di
cui 44 più piccoli destinati alle vedove”. Nella sala
sociale dell’Opera Sila
quanti avevano ottenuto
assegnazioni provvisorie
(braccianti, manovali, piccoli proprietari, ovvero figure marginali del mondo
contadino) prospettarono
loro la propria situazione
fra reticenze e lamentele
varie. Le terre espropriate
erano poche e non bastavano per tutti e ognuno
cercava di “apparire più
povero per averne di più”.
Diversa l’atmosfera alla
Camera del Lavoro dove i
contadini erano in riunione con il sindaco del paese. Parlavano della riforma
criticandola “da ogni possibile punto di vista”,
spesso in modo superficiale e ingiusto. Le critiche
maggiori si appuntavano
sui ritardi nella assegnazione delle terre e nella distribuzione delle sementi,
sulla cattiva ripartizione e
scarsità delle terre espropriate, su pretesi favoritismi e altro. Critiche a volte preconcette, timorose,
cavillose, comunque accomunate da una “volontà
confusa ma vivace di non
essere oggetto […] ma
soggetto della riforma; di
non essere soltanto diretti
e magari beneficati, ma di
essere invece parte attiva,
di dirigere o di controllare
l’opera della riforma” da
protagonisti così come i
versi dei poeti contadini
Domenico e Pasquale Jacquinta cantavano, sollecitando tra i presenti l’orgoglio e i sentimenti più vivi. “Bastava guardarliscrive Levi- per capire che
malgrado la loro ostilità,
non erano essi i veri nemici della Riforma: che anzi
Carlo Levi e Rocco Scotellaro a Melissa il 6 dicembre 1952
(da Un poeta come Scotellaro, Edizioni della Cometa, Roma MCMLXXXIV)
sarebbero stati e sarebbero
i suoi migliori difensori,
se l’avessero sentita e potessero sentirla come propria”. Bisognava però che
quel “dubbioso interregno
di buone intenzioni e di
reciproca diffidenza sapesse diventare un tempo di
fiducia reciproca e di pace
[…] sentendosi non argomento e oggetto passivo
della Riforma, ma suoi attori e protagonisti”.
Scendendo verso il Neto
e la costa del Mar Jonio
furono a Santa Severina, il
primo centro di tutta la
Calabria dove erano state
distribuite le prime terre e
costruite le prime case. In
una di queste, composta
da due stanze e da una
stalla per le bestie, viveva
una donna quarantenne,
madre di tre figli piccoli e
di uno di 19 anni. Nella
stalla una maestra faceva
scuola serale. Ai visitatori,
scambiati per funzionari,
la donna affidò il proprio
desiderio di avere un’altra
stanza per il figlio maggiore che doveva sposarsi e di
ottenere un lotto diverso
da quello assegnatole, perché “troppo dirupato”.
Presso gli uffici del centro
di colonizzazione i tecnici
erano intenti a progettare
altre 180 case da costruire
in quell’agro, sicché il corrispondente locale del servizio sociale li accompagnò a visitare la nuova
cooperativa di consumo,
ovvero un modesto spaccio di generi vari.
Passando per Scandale
arrivarono a Crotone che
era già notte. Il giorno dopo, pieni di sonno ma già
in viaggio “sotto il sole
leggero del primo mattino”, furono –così come
consigliato loro da un
funzionario dell’Entenella piana ondulata di S.
Anna, territorio del comune di Isola Capo Rizzuto. I 7.000 ettari espropriati in quell’area erano
stati già “scarificati e spietrati con lame adatte”, con
l’impiego di diversi braccianti e grandi lavori di
aratura meccanica e di
affossatura per i canali di
irrigazione erano stati fatti. Si stavano costruendo
ancora grandi vasche di irrigazione per raccogliervi
le acque di irrigazione
provenienti da S. Andrea.
— 104 —
Era quella, scrive Levi forse la maggiore realizzazione tecnica dell’Opera Sila
in quelle terre, che di certo “né i proprietari né i
contadini da soli o riuniti
in cooperativa avrebbero
potuto, senza i grandi
mezzi dello Stato, senza le
macchine, senza il capitale
largamente profuso, bonificare” per renderle adatte
ad una coltivazione intensiva. La terra era stata divisa in poderi di due, tre o
sette ettari e le strade erano state fatte. L’impressione che se ne ricavava era
quella di una fattoria industrializzata con cavalli,
macchine in circolazione e
trattori in fila, mentre un
moto continuo di gente
attiva e festosa convergeva
su strade e sentieri verso la
palazzina della direzione,
dove erano un centinaio
di persone fra braccianti,
contadini e donne. In attesa della paga prospettavano al direttore tecnico e
all’ispettore “pazienti e attenti alle proteste dei contadini” le proprie lagnanze
e i propri desideri. Gli intervistati (vecchi, giovani,
uomini, donne e bambini)
lamentavano soprattutto
l’esiguità degli ettari assegnati rispetto alla consistenza del proprio nucleo
familiare e l’imposizione
di colture suggerite dai
tecnici, i giovani rivendicando l’assegnazione di
nuove terre e altri nuova
occupazione e lavoro. Si
trattava, commenta Levi,
di un insieme di “speranza
e malcontento, di protesta
e di collaborazione, una
ambiguità, di fronte a “un
improvviso cambiamento”, “ad un inter vento
esterno su cui non si ha né
potere né controllo”. E
naturalmente “di fronte ai
benefici dati dallo Stato
come una indiscutibile
elargizione celeste” molti
si limitavano “a chiedere,
e anche a mendicare, con
umiltà e prepotenza a seconda dei caratteri”. Ma
nell’aria si sentiva, malgrado tutto, che ormai era
“in corso un mutamento
reale, il difficile e contrastato avvio di un’opera
collettiva”.
Risalendo in macchina
verso Rocca di Neto costeggiarono un terreno diboscato, sino all’anno prima “un bosco pieno di
cinghiali, di animali selvatici, di grandi alberi secolari e di macchia mediterranea”. Il paesaggio variava verso Strongoli “alta e
tragica sul colle grigiastro”.
Abbandonata la costa
ionica e la strada nazionale, imboccarono sulla sinistra un vallone solitario e
dopo diversi chilometri
tra salite e dirupi di argille
furono a Melissa “alveare
senza miele, dalla cui terra
bucherellata e sconosciuta
prese avvio la riforma”. Vi
giunsero nel giorno in cui
si celebrava la festività religiosa di San Nicola di
Bari. Si avvertiva, però,
nell’aria una tensione “nel
paese ormai sacro al sangue e alla protesta”, scrive
Levi ricordando l’occupazione da parte dei contadini delle terre del feudo
Fragalà e l’eccidio che ne
seguì con la morte di
Francesco Nigro (contadino del M.S.I.) Giovanni
Zito, Angelina Mauro e il
ferimento di diverse persone.
I vecchi erano ormai
diffidenti e rifiutavano di
lasciarsi fotografare. L’esperto dell’Opera Sila, che
li ricevette al caffè della
piazza centrale, raccontò
loro la storia dell’eccidio
Rocco Scotellaro, Alberto Carocci, Anne Rossi-Doria, Eva Carocci, M. Rossi-Doria,
Carlo Levi, al matrimonio di Manlio Rossi-Doria a Portici nell’aprile del 1953
(da Un poeta come Scotellaro, Edizioni della Cometa, Roma MCMLXXXIV)
di cui, a suo dire, avevano
profittato i comunisti,
maggioranza in quel centro. Assicurò loro che “il
90 per cento dei contadini” era “contento della
quota ricevuta e del lavoro
dell’Opera Sila”. Le terre
disponibili erano state tutte assegnate né vi erano
più grosse proprietà nel
territorio di Melissa, fatta
eccezione per le terre della
Chiesa, per legge escluse
dalla riforma. Una esenzione invisa ai contadini
desiderosi di terra che,
con tono acceso e senza timori, polemizzarono in
piazza con il funzionario
dell’Ente sulle quote ottenute e sulla natura dei terreni ricevuti, tra puntualizzazioni e repliche reciproche. In piazza venne
anche sollevata da un contadino la questione del debito contratto nei confronti dell’Opera Sila. Annotato sul libretto colonico non consentiva ulteriori crediti né di poter ottenere sementi o animali da
fatica. Eppure i debiti venivano spesso contratti
per cause di forza maggio-
re, come, nel caso, per la
malattia della propria moglie, incalzò il contadino
che ottenne dal funzionario, dopo il riconoscimento dell’errore, la promessa
di ottenere le sementi, sicché altri si sentirono incoraggiati a prospettare ulteriori casi personali. Insieme visitarono, così, le loro
povere case e le grotte in
cui abitavano. Ma il tempo incalzava e bisognava
proseguire il viaggio.
Partirono alla volta di
Cirò Marina per poi giungere sul far della sera
nell’agro di Corigliano.
Tra i poderi della piana di
San Nicola, in una di
quelle identiche piccole
case di due stanze allineate
lungo la nuova strada, i figli più piccoli della famiglia di un contadino dormivano nei cassetti del
comò, che fungevano da
letto e da culla. Ma le casette, disse il funzionario,
piccole dapprincipio potevano essere ingrandite dai
contadini già con il nuovo
anno per ricavarvi nuove
stanze.
Il buio avanzava e biso-
— 105 —
gnava rientrare a Cosenza.
Con l’autista decisero di
tagliare per Spezzano Albanese. Vi sostarono per
un caffè, mentre il tempo
si era rimesso a nevischio.
Sarebbero rimasti tutta la
sera ad ascoltare i canti albanesi d’amore, di esilio e
di nostalgia del coro di sole voci improvvisato dall’autista Brunetti, dal clarinettista della banda Coppola, dal contadino Arcuri
e dal muratore Francesco
Credindio, mentre il dottor Candreva parlava loro
della lingua albanese.
Giunti a Cosenza, dove
nel buio delle strade “il
palazzo dell’Ente brillava
da tutte le finestre”, rifatte
le valigie all’albero Imperiale raggiunsero Paola appena in tempo per salire
sul treno che li avrebbe riportati alle rispettive dimore.
Nelle ultime pagine del
racconto-inchiesta Carlo
Levi riepiloga nuovamente le impressioni e le discussioni di quei giorni attorno alla riforma, analizzando i diversi atteggiamenti e comportamenti
del variegato mondo contadino in relazione alle diverse situazioni e all’intervento dello Stato.
Documentava, richiamando Guido Dorso, come la storica lotta per il
possesso politico della terra fosse “ricominciata su
basi nuove”. Attorno alla
riforma “avvenimento politico importante” si muovevano “da parti diverse e
con diversi atteggiamenti,
tutte le forze politiche tradizionali del Mezzogiorno”. Ognuno voleva impadronirsene per “stabilire
il proprio potere politico”,
per cui i contadini venivano “sollecitati in direzioni
opposte, considerati, stru-
menti o oggetti di politiche incomprensibili ed
esterne, e spinti perciò,
ancora una volta ai margini, indotti, ancora una
volta, a disinteressarsi di
quello che avveniva e che
pure li riguardava direttamente”. Da ciò la supposizione espressa nel paradosso che della riforma “i
veri difensori sarebbero i
suoi nemici”.
Ad Antonio Bertoldo,
contadino di Lucania “coscienza profonda e aperta
al senso delle cose e ai valori del mondo”, Levi affidava in conclusione “le
parole giuste sul confuso
problema della riforma”.
La possibilità che essa mutasse e divenisse “in futuro
un fatto reale e positivo,
una creazione di vita nuova aveva un solo nome; e
questo era: autogoverno,
autonomia contadina”.
Sin qui Carlo Levi in
«Contadini di Calabria.
Rocco Stotellaro, quattro giorni dopo quel viaggio nella lettera indirizzata da Portici a Manlio
Rossi-Doria così sintetizzava quanto a lui detto da
Carlo Levi nel corso delle
poche battute scambiate
tra di loro: “-Ho l’impressione che due debolezze,
le due parti politiche, si
combattano tra loro; che
è un errore far coincidere
ogni atto dell’Ente con la
politica governativa; che i
tecnici vanno, gli altri no.-”.
Così puntualizzava inoltre a Rossi-Doria: “Accompagnati non da Buri,
ma dal Dr. Gigliotti del
Servizio Sociale, ho interrogato nel lungo giro di 2
giorni centinaia di contadini, parlato con Sindaci e
preti, con tecnici e politici
(Spezzano e Crotone deluse molto Carlo, che mi lasciava polemizzare e ascol-
Alcune pagine degli appunti di Rocco Scotellaro su “Riforma agraria e politica
agraria” stilati subito dopo il viaggio tra i contadini di Calabria con Carlo Levi, dicembre 1952
— 106 —
tava pacifico e attento).
Sono venute 15 cartelle
di appunti. Te le manderei, non so che valgano. Al
ritorno, sono rimasto
ospite in casa Buri e ho
parlato molto con lui, che
è, in un certo senso, il più
vicino e il più lontano da
te.
Da Cosenza a Spezzano
Sila, Molarotta, S. Giovanni in Fiore, Santa Caterina, Crotone, Sant’Anna di Isola Capo Rizzuto,
Melissa, Cirò Marina, Poderi San Nicola di Corigliano, Spezzano Albanese, Cosenza: due giorni
sono certamente pochi,
ma l’impressione generale
si coglie abbastanza bene.
A Santa Severina abbiamo
visto anche l’arcivescovo.
Ed eccoti che ne penso: Ti
è mai capitato di vedere
trasportato sul letto operatorio una persona la cui
vita o morte interessa la
famiglia e tutto il paese?
Un piccolo paese meridionale, dove le donne si
mettono a strillare e non
muovono una mano, gli
uomini si accalcano con le
mani penzoloni, guardie e
carabinieri accorrono a fare i cordoni, e i medici bisogna andare a cercarli a
casa e arrivano alla spicciolata, e la malattia e l’intervento del povero uomo
vengono discussi mille
volte, e quello sta lì con gli
occhi feroci, non parla e
non si muove, ma, dicono
le donne, l’angelo e il diavolo se lo litigano?”.
Rocco Scotellaro scrisse,
dunque, su quel viaggio
“15 cartelle di appunti”,
dichiarando a Rossi-Doria
la propria disponibilità a
spedirglieli, con la schiva,
ma concreta precisazione:
“non so che valgano”.
Tale affermazione trova
puntuale riscontro in uno
scritto di Rossi-Doria che
riferendo di “appunti ritrovati tra le carte” di Scotellaro e di “lettere agli
amici” ancora disperse ne
anticipò alcuni brani contenenti una stringente
analisi sulla riforma “realizzata senza una chiara visione di politica agraria”.
Avrebbe portato quale
conseguenza politica scrisse Scotellaro- alla “instaurazione di una politica
di regime” e alla “resurrezione dei vecchi partiti di
tipo clientelare4”.
Le “15 cartelle di appunti” dell’ex sindaco di
Tricarico erano sicuramente note anche a Carlo
Levi per la puntuale convergenza di vedute e di
analisi riscontrabile negli
scritti leviani e per il pregnante ricordo di quell’ultimo viaggio compiuto
con Rocco contenuto nella introduzione a “Le parole sono pietre”5. Da quel
libro Levi, pur tra ripensamenti e rimpianti, decise
di escludere il racconto
“Contadini di Calabria”
perché risentiva troppo
dello stile dell’inchiesta.
Ai brani pubblicati da
Manlio Rossi-Doria riferibili alle “15 cartelle di appunti” di Rocco Scotellaro
siamo in grado di aggiungere altre due pagine recuperate da Nicola Rocco6 e
a me fornite in fotocopia
in occasione del convegno
interregionale, organizzato a Matera e Tricarico
l’11 e il 12 gennaio 1974
dalla F.G.S.I., su “Scotellaro, il Mezzogiorno, le
nuove generazioni”.
Consapevole, tra l’altro,
del problema della “formazione di una vera classe contadina”, Rocco Scotellaro, ancora per poco
consigliere comunale di
Tricarico, apriva così quel
Rocco Scotellaro al Palazzo Reale di Portici sede dell’Istituto di Economia e Politica
Agraria, 1952
(da Un poeta come Scotellaro, Edizioni della Cometa, Roma MCMLXXXIV)
“discorso più ragionato”
sulle forze in campo, di
cui scrive nella lettera da
Portici a Rossi-Doria, stilando ancora una volta, da
consapevole dirigente politico una preziosa analisi
e proposta politica su
“Riforma agraria e politica
agraria” che di seguito trascriviamo.
I problemi della riforma
agraria e della politica
agraria sono di importanza essenziale sia di per sé
sia per gli infiniti rapporti
in tutta la struttura economica e sociale del Paese e
in particolare del Mezzogiorno, le cui condizioni
di arretratezza sono legate
all’immutato regime della
proprietà fondiaria.
Il movimento contadino
del dopoguerra ha mostrato che il problema della
modificazione della struttura agraria e fondiaria era
maturo non solo nei fatti
ma nelle coscienze ed è
stato compito dei partiti
democratici dopo la caduta del fascismo dare il dovuto rilievo al problema
nei loro programmi e cercare di affrontarne la soluzione.
L’esperimento di riforma agraria, a cui abbiamo
assistito negli ultimi due
anni è stato affrontato con
uno spirito paternalistico
e tecnicistico e soprattutto
con fini espliciti di conser-
— 107 —
vazione sociale e di arginamento dello spontaneo
moto di rinnovamento
delle campagne.
Bisogna che la riforma
agraria non si riduca a una
riforma burocratica né a
una riforma politica di
spirito conservatore, ma
diventi una riforma contadina, fatta con i contadini,
nell’interesse dei contadini, e che abbia come condizione e come punto di
arrivo la formazione di
una nuova classe dirigente
nelle campagne e la soppressione del possesso politico della terra da parte
delle vecchie classi.
È dunque necessario
estendere i limiti della
riforma evidentemente in
modo differenziato secondo le condizioni delle zone interessate, tenendo
conto della disponibilità
della terra in relazione al
suo grado di sviluppo produttivo e dei bisogni sociali.
I contadini devono essere il soggetto e non l’oggetto della Riforma.
Gli Enti della Riforma
devono essere sburocratizzati e uniformati al criterio del controllo democratico.
Devono essere costituiti
Comitati Contadini con
funzioni di consulenza e
di controllo sulla direzione e l’amministrazione degli Enti e su tutti i loro
organi locali.
A tal scopo molte funzioni di controllo ed esecutive devono essere affidate ai Comuni. È quindi
necessario per il successo
della riforma la modificazione delle Legge comunale e provinciale per la
funzione autonomistica
dei comuni. (Vedi problemi costituzionali).
Deve essere abbandona-
il tempo e lo spazio tiranni constringono a rinviare
l’approfondimento di tali
questioni ad un’occasione
più propizia.
Occupazione di terre nell’agro del comune di Spezzano Albanese. (Foto Dante Volpintesta)
(da AA.VV. Campagne e movimento contadino nel Mezzogiorno d’Italia, Vol. primo, De Donato editore, Bari 1979)
ta l’uniformità del criterio
della creazione della piccola proprietà coltivatrice
come solo scopo della
riforma affiancando alla
piccola proprietà - laddove le condizioni economiche e sociali lo consentono- i sistemi di conduzione cooperativa e collettiva
e comunale.
La Riforma è condizionata e deve essere accompagnata da un’opportuna
politica agraria, che va
dalla modifica dei contratti agrari all’aumento e
alla più diretta organizzazione del credito per l’agricoltura, allo studio pianificato delle possibilità
industriali delle zone agricole, al più intenso processo delle industrie trasformatrici, a una larga effettuazione di investimenti pubblici nel settore agricolo e nelle comunità rurali, a una più estesa bonifica, agli sgravi fiscali, alla
lotta contro il parassitismo dei Consorzi agrari,
al controllo popolare sugli
Enti di Bonifica, nel quadro di una politica generale economica che valga ad
attenuare il divario tra i
prezzi agricoli e quelli industriali.
Attraverso l’attuazione
di una simile politica agraria si potrà realizzare una
più tenace e concreta attività sindacale che oggi
consiste spesso in un’azione di pura difesa.
Riforma agraria e politica agraria incidendo sui
rapporti sociali e sulla vita
intera delle campagne già
spontaneamente in movimento sono legate a tutti i
problemi della struttura
del paese, toccando non
soltanto le condizioni economiche, ma anche quelle
della cultura (lotta contro
l’analfabetismo, scuole
differenziate e professionali), della salute pubblica
(assistenza medica, farmaceutica e ospedaliera) e soprattutto di una profonda
trasformazione delle relazioni tradizionali tra i diversi Enti e gruppi sociali
in funzione dell’elevazione del tenore di vita e della formazione di una vera
classe dirigente contadina”.
Altro è il discorso su “i
problemi delle trasformazioni fondiarie” visti nell’immediato dopoguerra e
ancora nel 1950 “prevalentemente in termini di
politica sociale”; sulle ragioni dell’esodo e sul suo
processo irreversibile e sostanzialmente liberatorio
che in Basilicata assunse
“caratteri e proporzioni
tali da provocare una crisi
definitiva, una crisi strutturale nell’organizzazione
tradizionale dell’agricoltura”, come più volte Manlio Rossi-Doria ha avuto
modo di sottolineare7. Ma
— 108 —
Note
1
C. LEVI, Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia, Einaudi editore, Torino 1956,
pp. 17-18.
2
C. LEVI, Contadini di Calabria, in “L’Illustrazione Italiana”, n. 5, 1953, pp. 27-30,
77-78; n. 6, 1953, pp. 2832, 81.
3
Lettera di Rocco (Scotellaro) a Manlio (Rossi-Doria),
Portici 11-12.1952. La lettera, oltre al brano citato, riepiloga il percorso del viaggio
compiuto con Levi, alcune impressioni sue e di Levi e annotazioni sulle forze in campo.
4
M. ROSSI-DORIA, Scotellaro vent’anni dopo , in AA.
VV., Il sindaco poeta di Tricarico , Basilicata editrice,
Roma-Matera 1974, pp. 2720, M. ROSSI-DORIA, Gli
uomini e la storia. Ricordi di
contemporanei, a cura di Piero Bevilacqua, ed. Laterza
1990.
5
C. LEVI, Introduzione a “Le
parole sono pietre”, cit., pp.
21-27.
6
N. ROCCO, L’azione sociale e politica di Rocco Scotellaro attraverso documenti
inediti, Università degli Studi
di Bari, Facoltà di Magistero.
Tesi di laurea in Letteratura
italiana, relatore prof. Michele Dell’Aquila, anno accademico 1974-1975.
7
M. ROSSI-DORIA, Scritti
sul Mezzogiorno, Enaudi editore, 1982; AA. VV., Manlio
Rossi-Doria e la Basilicata: il
Mezzogiorno difficile, F. Angeli ed., Milano 1992.
Scarica

di Giuseppe Settembrino - Consiglio Regionale della Basilicata