IL POSTMODERNO: L’ERA DELLA COMPLESSITÀ Alcune riflessioni sul valore formativo dell’arte contemporanea Dott.ssa Federica Goffi [email protected] “Il modello complessità è emerso con forza (quasi con prepotenza) nella riflessione culturale degli ultimi vent’anni, imponendosi come neoparadigma per pensare, ormai, tutti i saperi e, nel contempo, la realtà”. (F. Cambi, La complessità come paradigma formativo, in M. Callari Galli, F. Cambi, M. Ceruti, Formare alla complessità, Carocci, Roma, 2003, p. 127). Gli aspetti, che dal punto di vista sociale riguardano tale paradigma sono lo sviluppo tecnologico e massmediale, e un concetto allargato di cittadinanza in seguito all’intensificarsi dei fenomeni migratori. «Così cresce l’incertezza, il nomadismo, una forma plurale di coscienza, che sono – insieme – elementi positivi o negativi» (Ivi, p. 125) Come teorizzato da E. Morin in Francia a partire dalla Testa ben fatta, lo scenario appena delineato implica una riforma del pensiero e dell’insegnamento per educare l’uomo postmoderno a formarsi alla complessità, appunto, a partire da un diverso approccio verso la conoscenza. (Cfr. E. Morin, La testa ben fatta, cit., p. 6, dove è scritto che “la sfida della globalità è dunque nello stesso tempo una sfida di complessità. In effetti, c’è complessità quando sono inseparabili le diverse componenti che costituiscono un tutto […] e quando c’è un tessuto indipendente, inter-retroattivo fra le parti e il tutto e fra il tutto e le parti”). In seguito all’elogio da parte del sociologo francese del disordine e del caos, accanto ad un’astratta razionalità, incapace appunto di rappresentare la complessità umana, l’educazione deve avere come obiettivo anche quello di stimolare il pensiero divergente e la creatività, al fine di agevolare la transdisciplinarietà, e tale aspetto rende ancora più pertinente la validità e il contributo dell’educazione estetica, che dovrebbe concentrare il proprio punto di forza sulla comunicazione. (Cfr. E. Morin, Educare nell’era planetaria, Raffaello Cortina, Milano, 2001, dove a p. 54 fa notare che da un punto di vista etimologico la parola ‘complessità’ deriva da complectere, la cui radice è plectere, che significa intrecciare, collegare. Dal rapporto, invece, tra le parole: ‘perplesso’ e ‘complesso’ (perplexus significava anche ingarbugliato, aggrovigliato, ecc.) Morin afferma che “la complessità si presenta sotto l’aspetto inquietante della perplessità, vale a dire di ciò che è ingarbugliato, inestricabile, del disordine, dell’ambizione e dell’incertezza” (Ivi, p. 55). L’IDENTITÀ DELL’UOMO POSTMODERNO Come evidenzia Cambi, l’identità della persona ha perduto unità e stabilità, ha acquistato debolezza, così che “al centro del suo farsi etico si pone la responsabilità, la scelta di sé, la volontà di volersi, l’azione formativa, ma nel suo aperto proiettarsi nel mondo, dove abitano altri io e proprio nella loro diffrattiva differenza, si valorizza la tensione del dialogo”. (F. Cambi, La complessità come paradigma formativo, in M. Callari Galli, F. Cambi, M. Ceruti Formare alla complessità, cit., p. 127 Per un’educazione all’era planetaria c’è dunque da chiedersi se esista un nucleo essenziale di saperi e comportamenti, un nucleo etico che possa accomunare e avvicinare la specie umana, ed è a questa domanda che la scuola dovrebbe cercare di rispondere. LA SOCIETÀ DELLA CONOSCENZA COME SOCIETÀ DELLA COMPRENSIONE. “Si dovrebbe, pertanto, riflettere sul fatto che ‘la società della conoscenza’ rischia l’asservimento alle regole ed agli imperativi del tecnopolio, se non è finalizzata e può trovare la sua motivazione profonda nella ‘società della comprensione’”. L’elemento che consentirebbe al soggetto di far fronte al disorientamento provocato dalla globalizzazione sarebbe proprio il mantenere vivo il senso dell’umanità, sviluppare una forma di intenzionalità etica che abbia per oggetto ciò che accomuna popoli e culture. (G. Mollo, Globalizzazione ed espansione della coscienza, in “Rassegna di pedagogia”, LXIII, luglio-dicembre, 2005, p. 255). Il sentimento etico profondo di cui si parla è allora la volontà di comprensione, allo sviluppo del quale la società odierna potrebbe frapporre degli ostacoli se, ad esempio, si tengono presenti “le seduzioni del mondo dell’immagine e le continue istigazioni al disimpegno, indotte anche dai pervasivi messaggi centrati sull’apparire e sul consumare”. (Ivi, p. 256) Difatti, “l’estetico può esercitare una funzione di opposizione nei confronti di una realtà mortificante in quanto i modelli esistenziali che esso contiene si dimostrano capaci sia di denunziare una realtà da respingere sia di contribuire apprezzabilmente a progettare una realtà umana da inventare”. (B. Rossi, Parole e linguaggi dell’educazione, p. 100) Il rischio del ‘nuovo macchinismo’ sollecitato dall’informatica, dalla telematica ecc. sarebbe quello di stimolare la formazione dell’uomo ‘technologicus’ che sopprime e mortifica la propria essenziale ricchezza interiore. L’ARTE CONTEMPORANEA COME ARTE ERMETICA. Per coscienza estetica, dunque, si intende una coscienza che si oppone al vivere all’insegna dello stereotipo, dell’uniformità, dell’irrazionalismo, traendo invece dall’arte e dagli artisti la volontà e il desiderio di una rigenerazione integrale della personalità. La forma artistica, di solito, si comunica mediante la sua stessa struttura ma, come sostiene G. Dorfles, può risultare pienamente comprensibile proprio attraverso la conoscenza del contesto in cui è inserita, che ne enfatizza il valore informativo. Come conseguenze dello sviluppo delle tecnologie nella società contemporanea, l’involontarietà della fruizione e la diffusione di opere d’arte false sarebbero responsabili di quella sorta di ‘ascolto disattento’ da parte del fruitore che, in tal, senso andrebbe educato. “La comunicazione – e dunque la stessa comprensione dell’arte – in definitiva è solo in parte istintiva, autonoma […]. Anche l’arte, invece, deve essere imparata; anche la comunicazione attraverso l’arte per avvenire presuppone la presenza di un ‘codice’ in parte almeno istituzionalizzato”. (G. Dorfles, Le oscillazioni del gusto, Lerici, Milano, 1966, pp. 81-82). Dall’altro lato, però, data la tendenza di rinnovarsi costantemente, di tendere all’astratto, al complicato, l’arte contemporanea viene spesso considerata come un’ottima giustificazione per non incontrare l’arte, poiché ritenuta incomprensibile. “Può, al riguardo, apparire legittima l’ipotesi di una mancata o errata educazione o di una insufficiente attenzione alla funzione dell’artista oggi”. (G. Dorfles, Le oscillazioni del gusto, Lerici, Milano, 1966, pp. p. 108) L’EDUCAZIONE ESTETICA COME EDUCAZIONE AD “APPRENDERE AD APPRENDERE”. Da qui l’esigenza, insomma, di sostenere la pertinenza dell’educazione estetica nelle istituzioni scolastiche, cercando innanzitutto di coniugare l’estetico all’apprendimento, intendendolo come proattività creativa. “Tale concezione dell’apprendimento delinea un soggetto protagonista del processo apprenditivo, impegnato totalmente, coinvolto nelle sue funzioni più profonde, orientato all’affermazione del suo Io”. (B. Rossi, Parole e linguaggi nell’educazione, cit., p. 111.) B. Rossi, Parole e linguaggi nell’educazione, cit., p. 111. La questione ‘dell’apprendere ad apprendere’, in particolare, viene connessa all’esperienza estetica, in quanto con Varchetta possiamo ritenerla una metacompetenza che si avvale della capacità negativa, cioè “passerebbe attraverso la capacità di persistere nel sopportare l’incertezza, il mistero, il dubbio […]”. (G. Varchetta, Organizzazione e management delle istituzioni dell’arte e della cultura: la sfida delle meta-competenze, in U. Morelli, G. De Fino (a cura di), Management dell’arte e della cultura, Franco Angeli, Milano, 2010, p. 139). È dunque interessante notare come la capacità negativa, nella prospettiva bioniana, venga esplicitamente connessa alla capacità di sostenere l’ambiguità, lo stupore e la meraviglia. “Si vuole, attraverso ‘la capacità negativa’, preservare l’autonomia di un pensiero orientato da una ragione possibile, contro ogni totalizzante positività. Attraverso tali prospettive si salvaguardia la suggestione meta-razionale di un pensiero narrativo, di un qualcosa non parcellizzato compiutamente e capace di nutrire un residuo non completamente analizzabile”. (Ivi, p. 141). Affinché, dunque, l’educazione estetica possa costituirsi come uno strumento con cui impedire l’uniformità del gusto, con cui sviluppare una certa dose di giudizio critico, che spinga l’educando a reagire contro il conformismo e la consumazione passiva di forme, è importante che le forme dell’arte ma anche quelle offerte dai paesaggi della vita quotidiana non vengano decodificate secondo schemi prefissati ma in base alla propria intelligenza creativa. Si afferma insomma l’esigenza di un’educazione al potere di discernimento e di apprezzamento della forma, alla conoscenza dei più svariati linguaggi artistici, anche quelli ritenuti minori; come dunque l’arte contemporanea può assumere in tal senso un ruolo significativo? IL CONCETTO DI FORMA NELL’ETÀ POSTMODERNA Il concetto di forma, con i suoi paradigmi, si trova ad essere il vero protagonista della nostra condizione postmoderna, ma cosa si intende con questo termine? “Secondo alcuni il postmoderno va identificato col nichilismo (e omologando il nichilismo stesso) e va visto come l’ultima tentazione di una secolarizzazione che produce derive, rovine, perdite […] Per altri il postmoderno è un tempo da accogliere e proprio perché libera, certo, anche da governare, rimettendo al centro un impegno sociale (la solidarietà) o la formazione dei soggetti (il soggetto-come-persona), in modo da eclissare ogni lettura del postmoderno come deriva. In altri ancora la postmodernità è l’avvento della Tecnica, o nel bene o nel male […]”. (F. Cambi, Abitare il disincanto, Utet, Torino, 2006, p. 26.) La società postmoderna, nell’accezione appena esposta, è dunque caratterizzata dall’avvento della complessità, fatta di pluralismi, di progettazioni, di confronti, di tensioni e di aperture, un tempo di de-costruzioni e di ri-costruzioni, come sottolinea Cambi, che vede come protagonista un soggetto “che si fa carico del proprio orientamento di senso e lo fa formandosi nell’autonomia/responsabilità/progettualità”. (Ibidem) È in questo panorama che si è affermata un’idea di forma nuovissima, fatta di squilibri e di lacerazioni. “Si può parlare, allora, ancora di forma? Sì, poiché dà struttura e ha struttura. Anche se il modello è radicalmente altro rispetto al passato, storicamente inedito, proiettato sul possibile, l’incerto, l’irraggiungibile anche. Una forma tragica? Sì, se si vuole. Ma senza annichilimenti e frustrazioni”. Cambi traduce questa situazione, che si sarebbe delineata a partire dall’Illuminismo, con il trionfo della ragione e del giudizio critico, con il termine di ‘dis-incanto’, preso a prestito da M. Weber. (F. Cambi, Abitare il disincanto, cit., p. 28). Se l’arte astratta tendeva a rappresentare l’essenza del fenomeno artistico, l’arte contemporanea vede la scomparsa graduale dell’oggetto con il fine di mettere in discussione l’arte stessa come istituzione. “L’apparenza dell’opera e dell’oggetto estetico in generale si presenta ai nostri occhi nei termini di una forma o struttura indecidibile, edificata spesso con un’operazione di bricolage sui resti della tradizione passata […]”. (F. Carmagnola, M. Senaldi, Synopsis. Introduzione all’educazione estetica, Guerini, Milano, 2005, p. 57). Questi concetti, con cui M. Senaldi e F. Carmagnola definiscono il concetto di forma ricavabile da tante opere d’arte contemporanea, sono dunque strettamente collegati alla tematica della morte di Dio e del nichilismo, il mondo ultraterreno perde di significato, i valori razionali moderni cercano di predominare sulla vita e sul mondo e soddisfano il bisogno di verità insito nell’uomo. «CHE CI VUOLE, POTEVO FARLO ANCH’IO!» «Cercherò di mostrarvi perché non tutti possiamo essere artisti, anche se può sembrare facile fare certi obrobri». «Vi invito a guardare all’arte contemporanea […] come a un’espressione necessaria della realtà del mondo che ci circonda e del tentativo di comprenderla». (F. Bonami, Lo sapevo fare anch’io, Mondadori, 2007, p. 5) «In una società che considera geniali dei programmi televisivi i cui protagonisti hanno un quoziente d’intelligenza più basso di quello di un bruco, possiamo adirarci se esiste qualcuno capace di trasformare la banalità in arte?». (Ivi, p. 15) R. Ryman Untitled, 1970 G. De Chirico, Enigma di un pomeriggio D’autunno, 1909 G. De Dominicis, Mozzerella in carrozza, 1970 P. Manzoni, Merda d’artista, 1961 GIORGIO DE CHIRICO: molto più di un quadro «La metafisica in realtà con la pittura ha ben poco a che fare, l’aveva inventata il filosofo Aristotele […] De Chirico prende a prestito il termine solo per capire se un dipinto può anche raccontare qualcosa d’invisibile, qualcosa che, come un’idea, sta solo dentro la mente». (F. Bonami, Lo sapevo fare anch’io, p. 142) «Poi comincerà ad invecchiare davvero dichiarandosi antimoderno, senza rendersi conto che stava anticipando il postmoderno, uno strano termine diventato di moda verso la metà degli anni ‘70 e che non si è mai ben capito cosa volesse dire, se non la possibilità di mescolare un po’ tutti gli stili creando delle cose un po’ di cattivo gusto». GINO DE DOMINICIS e PIERO MANZONI: trovate o capolavori? «[…] espose mozzarelle in carrozza, che altro non era se non quanto descritto dal titolo, una bella bufala seduta dentro una carrozza.»; «Il problema di questa arte è che si basa sull’idea, non sulla tecnica». (Ivi, p. 14; 16) «Piero Manzoni voleva dirci che essere artisti significa trasformare tutta la propria vita in arte, comprese le proprie scorie». ROBERT RYMAN: il nulla che precede ogni creazione. «Dipinge le sue tele interamente di bianco. […]. L’insegnante in questo caso dice all’allievo: ‘Non ho idee oltre la tela bianca, e tu?. L’allievo quindi deve affrontare un problema che non riguarda solo Ryman, ma tutti noi, vale a dire il dramma del vuoto e del modo in cui può essere colmato, nell’arte ma anche nella nostra vita quotidiana». «Su un quadro di Ryman la nostra fantasia può proiettare tutto. […] (Ivi, p. 16; p. 17) […]Potevo farlo anch’io, ma non ci ho pensato! …E ANCHE LA FOTOGRAFIA DIVENTA ‘CONTEMPORANEA’ Bernd and Hilla Becher Charleroi-Montignies, B 1971 Gabriele Basilico, Roma U. Mulas, Eugenio Montale, 1962 Luigi Ghirri D. Perrone, I pensatori di buchi, 2002 L’ESTETIZZAZIONE DELLA VITA G. Vattimo, trattando della fine della modernità e della morte dell’arte in seguito al generale processo di estetizzazione della vita quotidiana, nota come già le avanguardie novecentesche avessero provocato l’esplosione dell’arte fuori dai limiti imposti dalla tradizione, mentre le neoavanguardie negano i luoghi ufficialmente deputati all’arte: l’opera, insomma, mette in discussione il proprio statuto. Questo perché con l’affermarsi della società tecnologica si assiste all’identificazione dell’estetica con i media, che distribuiscono informazioni e che creano anche il consenso, uniformando i gusti e il sentire comuni L’arte, dunque, nella contemporaneità sembra diventare l’antidoto della forma, o come direbbe Adorno ‘si eguaglia al mondo’ mimando l’apparenza più squallida e banale, a causa dell’estetizzazione della Lebenswelt. Nell’arte contemporanea si assiste insomma all’indistinguibilità formale dell’artefatto rispetto alla merce o al consumo, poiché è lo stesso soggetto che “si compone piuttosto come un bricolage di comportamenti, solo alcuni dei quali, una minoranza, sono effettivamente motivabili alla luce di scelte coscienti”. (F. Carmagnola, Il consumo delle immagini, Mondadori, Milano, 2006, p. 152). Se il concetto di lifestyle, per intendere la progressiva estetizzazione della vita, riempie di senso eccessivo l’esistenza quotidiana, l’arte si pone come un antidoto all’avvelenamento da stile attraverso l’indifferenza o l’inapparente inespressività. La nostra società è dominata dall’apparenza, dalla superficie dei prodotti d’uso che non dipendono più dalla funzione che svolgono; anche in questo caso l’estetico predomina rispetto all’effettiva sostanza del prodotto dal punto di vista tecnologico e strutturale. La forma diventa l’elemento che cerca insomma di colpire il fruitore, indipendentemente dal reale valore funzionale dell’oggetto. DAL READY-MADE E ALLA POP ART Il postmoderno è caratterizzato dalla decostruzione del gusto e la sfera estetica si allarga sino a raggiungere il mondo delle merci. Duchamp sposta lo sguardo dell’artista su determinati oggetti, non li produce, poiché il readymade “stabilisce un’equivalenza tra scegliere e fabbricare, consumare e produrre”. (N. Bourriaud, Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo, trad. it., Postmedia Books, Milano, 2004, p. 17). “Ciò che il ready-made mette in evidenza non è solo l’assenza di originalità della produzione in serie, ma anche il fatto che tale produzione produce un eccesso di originalità, una serie potenzialmente infinita di ‘originali’ […]”. (M. Senaldi, Enjoy! Il godimento estetico, Meltemi, Roma, 2006, p. 45). Un caso emblematico in tal senso è rappresentato dalla Pop art che “è una reazione a una domanda filosofica sulla natura dell’arte: perché qualcosa è arte quando qualcosa di esattamente uguale non lo è?”. (A. Mecacci, Impercettibilmente pop. La “second-hand reality” estetica di Wharol, in F. Desideri , G. Matteucci (a cura di), Estetiche della percezione, University Press, Firenze, 2007, p. 199). Possiamo prendere come oggetto di analisi l’arte di Wharol. Chi non ha presente le opere che ritraggono in serie il volto di Marylin, le lattine di cocacola o della minestra Campbell? “L’arte di Wharol ha sempre a che fare con il Merchandising perché è la nostra stessa vita che si confronta con la superficie del mondo: noi non vediamo mai le zuppe, ma l’oggetto o la marca di un cibo che non è più un’elaborazione culturale della natura da parte dell’uomo, ma qualcosa prodotto dalle macchine”. (Ivi, p. 200) L’altro aspetto interessante è che l’opera di Wharol conduce anche alla tematica della maschera, dell’identità dell’individuo, che è esemplare negli stessi ritratti di Marylin, di cui ne viene rappresentato in serie solo il volto in quanto simbolo del suo essere diva o star, resa tale dalla stessa cultura di massa; “di qualsiasi media si tratti, l’intervistato indossa sempre la propria personalità pubblica e mediatica”, (A. Warhol, America, Donzelli Editore, Roma, 2009, p. 20.) I nostri modelli quindi possono essere considerati delle persone a metà. “I media possono trasformare chiunque in una persona dimezzata, e possono spingere chiunque a pensare che dovrebbe provare a diventare una persona dimezzata”. (Ivi, p. 22). Wharol insomma sembra farci riflettere sul fatto che ogni esperienza, oggi, è mediata dalla forza iconica dei nuovi mezzi di comunicazione, così come l’artista contemporaneo usa l’arte per riflettere sulla condizione umana dettata dalla contemporaneità. “Noi infanti simbolici riusciamo forse a narrarci, attraverso l’arte contemporanea, come non ci siamo mai narrati e ci stupiamo di vederci; ci stupiamo di smettere almeno per un po’ di ‘non vedere di non vedere’”. (U. Morelli, La mente del fruitore d’arte. L’esperienza estetica come avventura affettivo-cognitiva e i paesaggi mentali del fruitore d’arte, in U. Morelli (a cura di), Management dell’arte e della cultura, cit., p. 88) F. De Bartolomeis, quando afferma che: “contro ogni apparenza anche la pop resta fedele, ma con un rovesciamento, al compito di sempre dell’arte: rendere visibile l’invisibile. E se l’invisibile fosse proprio ciò che continuamente abbiamo sotto gli occhi o abitualmente adoperiamo? È sostanzialmente invisibile in quanto dispone di noi, sopprime in noi scelta e invenzione”. (Cfr. F. De Bartolomeis, L’esperienza dell’arte, La Nuova Italia, Scandicci, p. 289). M. Duchamp, Scolabottiglie, 1914 M. Duchamp, Duchamp come Rose Sélavy (foto di Man Ray, 1920) M. Duchamp, Fountain, 1917 A. Wharol, foto di R. Mappelthorpe A. Wharol, Marylin Monroe, 1962 A. Wharol, Minestra in scatola Campbell, 1968 DUCHAMP: il maestro dell’ironia… «Marcel Duchamp, il padre di tutto ciò che vi farà esclamare: ‘Ma sarà arte questa?’». «L’arte per Duchamp era il già fatto, quello che egli stesso definiva ‘ready made’, una sorta di arte ‘precotta’. (F. Bonami, Lo sapevo fare anch’io, pp. 27-28) WHAROL: un ciarlatano? «Wharol è un ciarlatano, allora, quando con la sua arte insiste nel farci credere che la superficie delle cose e la superficialità delle persone sono le uniche cose che veramente contano?» «Partendo dalla banalità, invece, Wharol riesce alla fine a farci afferrare con più chiarezza di cosa la nostra vita, oggi, sia veramente fatta e quali rischi corriamo». (Ivi, p. 43) A. Danto, rifacendosi all’opera «Fountain» di Duchamp, si chiede: «Ma allora qual è il fulcro concettuale di quest’opera ancora tanto controversa? La mia idea è che risieda nell’interrogativo che l’opera pone […] «Duchamp non si limitò a porre la domanda «che cos’è l’arte?», ma piuttosto chiese ‘perché una certa cosa è opera d’arte quando un’altra esattamente uguale non lo è?’». (A. Danto, La destituzione filosofica dell’arte, p. 54) Poiché oggi l’oggetto artistico ha perduto la sua forma, così come la cultura stessa è diventata un aggregato di reperti disomogenei, è opportuno riflettere sul concetto di educazione estetica, “che esce dai suoi confini alti, si configura come una riflessione rispetto ad un ‘averci a che fare’, un orientarsi dell’essere umano adulto rispetto alla complessità iconica e narrativa del mondo delle merci e dei media, là fuori, oltre il testo, oltre l’opera e la sua chiusura formale (F. Carmagnola, M. Senaldi, Synopsis. Introduzione all’educazione estetica, cit., p. 60.) Dal periodo delle avanguardie storiche, a partire da Duchamp, entra in crisi la nozione kantiana di gusto, che può essere sostituita da quella che precedentemente abbiamo definito lifestyle, collegabile al concetto di macdonaldizzazione coniato da G. Ritzer nel suo saggio, del 1996, intitolato Il mondo alla McDonald’s, “un termine del marketing postindustriale, per il quale le merci sono valori d’uso ma portatrici di mondi di senso”, e pertanto “nulla rimane al potenziale emancipativo del gusto in questa visione”. Persino l’immaginario sembra alimentarsi dalle merci, a partire dalla forma stessa dell’oggetto e, poiché si parla di omologazione del gusto, risulta particolarmente significativo riflettere di nuovo sul concetto di senso comune kantiano, e su che cosa esso possa significare nella società odierna. Lo stile e il gusto presentano due facce, una socializzata e un’altra individualizzata, pertanto l’educazione estetica in questo senso può anche significare un’educazione a riflettere sul proprio stile, a quanto cioè di indotto e di autentico ci sia nelle nostre scelte. “La figura del giudizio riflettente kantiano assume qui tutta la sua importanza come una sorta di comportamento cognitivo e di auto-orientamento per determinare l’apprendimento come un processo di scoperta accentrato e reticolare”. (F. Carmagnola, M. Senaldi, Synopsis. Introduzione all’educazione estetica, cit., p. 60). Quanto detto sembra sufficiente per tentare un discorso incentrato sugli aspetti pedagogici dell’arte contemporanea, che rifletta sul tipo di rapporto che c’è tra quest’ultima e l’odierna società consumistica: caratteristiche quali la reiterabilità, la riproducibilità, la seriabilità non possono, infatti, non riversarsi sul comportamento e i gusti del consumatore, bisognoso oggi più che mai anche di un’educazione all’apprezzamento estetico. «L’arte si assume compiti pedagogici: si vuole insegnare a vedere e perciò si presentano forme che di solito si è portati a trascurare: più banale è il soggetto e più accurata, si presume, è la funzione dell’arte che attira l’attenzione su di esso». (F. De Bartolomeis, L’arte contemporanea e noi, p. 428). “I principi della ristorazione fast food vanno imponendosi sempre più in un numero crescente nei settori della società americana e del resto del mondo” (Ivi, p. 135), provocando l’affermarsi di aspetti quali la prevedibilità, l’efficienza e il calcolo che si riflettono anche nel mondo dell’educazione, quando ad esempio si prediligono dei test a scelta multipla, lezioni e libri di testo tutti uguali, e lo stesso diffondersi della computerizzazione rischia di rendere l’apprendimento povero di esperienza, contribuendo a formare delle menti tutt’altro che creative. L’attività creatrice dipende dalla precedente esperienza dell’individuo, “per questo, esperienze in serie, tutte uguali a se stesse, hanno in realtà poco del valore di esperienza”. (Ivi, p. 142). Quello a cui si sta assistendo, secondo Regni, è una progressiva perdita di esperienza, un fenomeno provocato dalla moda, dallo scambio tra illusione e realtà, tra desideri e bisogni: “il consumo è infatti uno dei diversi surrogati, in cui il guadagno di esperienza è esonerato dall’esperienza stessa, allontanato dall’esperienza in quanto tale”. (Ivi, p. 183) La tendenza al continuo cambiamento, generata dall’alternarsi delle mode, produrrebbe un indebolimento di quelle caratteristiche della personalità come il gusto, la critica, la capacità di giudicare. Dunque “l’aumento della potenza tecnologica porta ad un mondo disincantato, oggettivizzato, razionalizzato” (R. Regni, Geopedagogia, cit., p. 138) con il rischio di produrre un deficit etico. «La felicità come godimento totale o interiore, quella felicità indipendente da segni che potrebbero manifestarla agli occhi degli altri e ai nostri, quella felicità di prove è dunque decisamente bandita dall’ideale del consumismo, in cui la felicità è soprattutto esigenza di uguaglianza (o ben inteso) di distinzione e deve perciò sempre significarsi con riguardo a criteri visibili». (J. Baudrillard, La società dei consumi, p. 39, Il Mulino, Bologna, 1976). «Il colmo […] è raggiunto dall’espressione «personalizzate voi stessi, il vostro appartenere a voi stessi! […] Quel che dice tutta questa retorica è che non c’è più nessuna persona. La «persona in valore assoluto, con i suoi tratti irriducibili, […] con le sue passioni, la sua volontà, il suo carattere […] è assente, spezzata via da questo universo funzionale. Ed è questa persona assente che si intende personalizzare» (Ivi, p. 90). «Una delle categorie più importanti dell’oggetto moderno, oltre al gadget, è il kitsch. L’oggetto kitsch è comunemente tutta quella massa di oggetti senza gusto, in stucco, fasulli, di accessori, […] di souvenir […] (Ivi, p. 120) «Mentre tutta l’arte sino alla Pop si fonda su una visione del mondo in profondità, la Pop vuole essere omogenea a quest’ordine immanente di segni: omogenea alla loro produzione industriale e seriale […] (ivi, p. 128) «Nella panoplia del consumo vi è un oggetto più bello, più prezioso, più splendente di tutti ancora più ricco di connotazione dell’automobile – che tuttavia li riassume tutti: il corpo» (ivi, p. 152). «Il corpo così riappropriato lo è prima di tutto in funzione di obiettivi capitalistici» (Ibidem). Con la Body art l’opera si incarna nel corpo dell’artista stesso. Quest’ultima corrente in particolare, che vede tra i principali esponenti artisti come G. Pane, V. Acconci, B. Nauman ecc., mette in scena l’ossessione nevrotica estetizzante della società contemporanea o la normalizzazione della patologia, che si nota ad esempio nell’attenzione eccessiva diretta verso l’identità come apparenza e aspetto fisico. Pane, ad esempio, infliggendosi ferite sul proprio corpo vuole coinvolgere lo spettatore in un’autentica esperienza Vito Acconci e Gina Pane LA “TRISTE SCIENZA”, OVVERO LA CRISI DELL’IMMAGINARIO L’arte contemporanea mette in luce la crisi del reale e dell’immaginario in quanto non ha un’alterità a cui rapportarsi; l’Altro dell’arte, come suggerisce Senaldi, è l’arte stessa come istituzione. Il miscuglio che dunque si è venuto a creare tra vita quotidiana e arte ha provocato una totale immersione dello spettatore nella non-arte. L’esperienza estetica nell’era contemporanea (Cfr. M. Carboni, P. Montani, Lo stato dell’arte. L’esperienza estetica nell’era della tecnica, Laterza, RomaBari, 2005) …è caratterizzata da una labile separazione tra reale e immaginario, che viene emblematicamente definito da Carmagnola con l’espressione di ‘triste scienza’: “l’immaginario con come sporgenza utopica, motivo di speranza rispetto all’effettuale, ma come velo o sintomo spettrale”. (F. Carmagnola, La triste scienza, Meltemi, Roma, 2002, p. 42.) «Dietro tutto il movimento convulsivo dell’arte contemporanea c’è una specie di inerzia, qualcosa che non riesce più a superare se stessa»; L’arte oggi non ci invita più alla dimensione estetica dello sguardo, ma […] ad un assorbimento vertigionoso, esattamente come il mondo che ci circonda». (J. Baudrillard, La sparizione delll’arte, p. 45). J. Pollock, n. 5, 1948 R. Rauschenberg, Combines, 1960 ca. R. Rauschenberg, Rebus, 1955 C. Oldenburg, Giant Hamburger, 1962 JACKSON POLLOCK: la pittura è azione «Capisce che non può più stare, come un gonzo, davanti alla tela ma deve entrarci dentro, come si entra nella vita e nel mondo. Nasce così quella che sarà chiamata la pittura d’azione, dove l’artista si getta sopra la sua creazione». «Pollock seguiva un percorso spirituale, un istinto, una direzione precisi, sapendo benissimo quando era giunto il momento dell’ultima goccia da lasciar cadere sulla tela distesa sul pavimento. […[ La poderosa energia che ha sprigionato sulla tela è come un vortice che lo risucchia negli abissi» (F. Bonami, Lo sapevo fare anch’io, p. 38; p. 39) ROBERT RAUSCHENBERG: guardatevi intorno! «Esperimenti sull’origine del mondo che ci circonda, fatto di cose, di aggeggi, ammennicoli vari, che tolleriamo se li troviamo sul cassettone di casa nostra ma che disprezziamo se li vediamo esposti in un museo». (Ivi, p. 67) LA DIDATTICA DELL’ARTE CONTEMPORANEA Merita rimarcare, inoltre, che approcci costruttivisti nella didattica si pongono in linea con il paradigma della complessità, si configurano ovvero come quella metodologia capace di prospettare applicazioni didattiche che traducono nella pratica il pensiero complesso. “Per i metodi va fissato il valore del metodo costruttivista che guarda all’impresa della conoscenza fondata sul principio della ricerca, e di una ricerca che tiene costantemente aperta la rosa dei propri metodi, implicando una costante meta-cognizione di se stessa”. (F. Cambi, La complessità come paradigma formativo, in M. Callari Galli, F. Cambi, M. Ceruti, Formare alla complessità, cit., p. 133.) Quanto affermato basta per evidenziare il ruolo attivo del soggetto nella formazione delle sue conoscenze, in quanto “il soggetto che conosce è proteso non ad accumulare informazioni, ma a coglierne l’organizzazione: le parti vengono coniugate con il tutto”. (Ivi, p. 61) Numerose e tra le più svariate sono state le esperienze didattiche con l’arte contemporanea che si sono svolte in Italia, tanto per ritornare al contesto dei nostri studi nazionali. Esemplificativa in tal senso l’esperienza narrata da C. Francucci presso la galleria d’arte Moderna di Bologna, e che pone l’enfasi proprio sull’uso dei materiali anomali, di cui si sono avvalsi gli artisti soprattutto a partire dagli ultimi quarant’anni; si pensi ai sacchi di A. Burri, ai tagli di L. Fontana. A. Kapoor, Cloudgate, 2004, Millenium Park, Chicago. L. Fontana, Concetto spaziale, 1961 A. Kapoor, Untitled, 2007 A. Kapoor, Leviathan, 2011, Parigi, Grand Palais ANISH KAPOOR: l’angoscia si trasforma in meraviglia «Il suo successo è dovuto al fatto che una sua opera, in un sol colpo, si presenta come un monumento, architettura, quadro monocromo e attrazione da luna park» «Si potrebbe dire che Kapoor parla, con la sua arte, della superficialità dell’anima e della voragine del pensiero». (F. Bonami, Lo sapevo fare anch’io, pp. 54; 55) LUCIO FONTANA: che ci vuole a fare un taglio? «Avere il coraggio di distruggere il proprio lavoro trasformandolo in qualcosa di migliore non è cosa da poco!» «L’idea di concetto spaziale rinvia chiaramente al fatto che tagliando una superficie si crea uno spazio, quello che attraversa da una parte all’altra la tela». (Ivi, p. 34; 35) Da questi esempi insomma risulta palese come la nozione di quadro sia ormai ristretta e obsoleta, e che l’artista contemporaneo desideri più che altro avere a che fare con il dato reale, allo stesso modo anche le esperienze didattiche che si ispirano all’arte contemporanea accantonano matite, colori e pennelli, o meglio, questi strumenti sono applicati ad oggetti e materiali reali, ad ambienti, a spazi veri e propri. “Ecco allora che l’approccio all’arte contemporanea sarà plurisensoriale; dovremmo, davanti a un’opera, ‘riaprire’ tutti i nostri sensi, perché per poter entrare in contatto con lei potremmo doverla ascoltare, toccare, odorare, gustare o vedere”; Queste esperienze plurisensoriali consentono, tra le altre cose, di considerare da altri punti di vista quegli oggetti e materiali di uso comune che ormai fanno parte dei nostri contesti quotidiani, tanto che Francucci può concludere che se da queste esperienze didattiche con l’arte contemporanea, svolte con bambini delle scuole di ogni ordine e grado, dovesse consentire “anche solo ad alcuni di loro, di toccare, guardare e ascoltare gli oggetti che quotidianamente li circondano, dopo aver partecipato a questa esperienza, riscoprendoli come nuovi, noi avremmo vinto una grande scommessa”. (C. Francucci, Spazio, in M. Dallari, C. Francucci (a cura di), L’esperienza pedagogica dell’arte, cit., p. 144. Cfr. anche, M. Squillaciotti, Laborarte, Meltemi Roma, 2004; S. Gori, B. Guarducci, Il bambino e l’arte contemporanea, Gli ori, Prato, 2005). D. Hirst: For the love of God, 2007. D. Hirst, The physical impossibility of death in the mind of someone living, 1991 D. Hirst, parte dell’installazione Thousands years, 1989 Christo, Impacchettamento del Reichstag di Berlino, 1971 Christo, Impacchettamento del monumento a Vittorio Emanuele II a Milano, 1970 CHRISTO: la città si trasforma in atelier! «Nel 1969 hanno impacchettato con tela di plastica e corde il Museo d’arte contemporanea di Chicago, nel 1970 il Monumento a Vittorio Emanuele in piazza Duomo e quello di Leonardo da Vinci in piazza della Scala, come se avesse deciso di portarsi via un pezzo della storia d’Italia e un pezzo della storia dell’arte.» «Ma il più simbolico di tutti gli impacchettamenti rimane il Reichstag di Berlino […]». «Per Christo e Jeanne-Claude la natura diventa la tela dove ambientare il gesto dei loro astratti interventi […] dove noi diventiamo per un attimo, se ci va, i protagonisti». (Ivi, p. 75; p. 77; p. 78) DAMIEN HIRST: la tensione tra la vita e la morte «Lo squalo e le teste marce di Hirst forse appartengono a questo tipo di storia, quella che ci guida in un territorio sconosciuto e poi ci abbandona alla nostra curiosità, alle nostre emozioni e ai nostri ricordi». «Hirst in ogni suo lavoro si assume il compito di far emergere la vita dal marcio, mettendo a nudo l’assurdità della nostra esistenza, fatta delle più banali idiozie e delle più terribili tragedie». (Ivi, p. 85) R. Mappelthorp, R. Prince M. Barney, 1996-2003 ROBERT MAPPELTHORPE: l’amore per il corpo «Le visioni superfinite di Mappelthorpe, invece, provano a farci scordare che solo pochi fortunati muscoli non sono sostenuti da quello scheletro, unisex, che il tempo fa venire inevitabilmente alla luce. […] Negli anni Ottanta le anime e i corpi venivano smerciati all’ingrosso[…]». (Ivi, p. 58; p. 59) RICHARD PRINCE: la pubblicità diventa arte «La serie di fotografie più belle e riuscite sono quelle copiate dalla pubblicità delle Marlboro, quelle con i cowboy […] Rifotografando quella pubblicità ed esponendola ingrandita e incorniciata in un museo e in una galleria l’artista la trasforma in arte». «La società contemporanea è diventata schiava di una mitologia del consumo e ha perso i suoi miti originari, quelli che l’avevano spinta, oltre che a consumare, anche e soprattutto a costruire». (Ivi, p. 61; p. 62; p. 63) MATTHEW BARNEY: il cinema come arte «La sua saga di cinque film intitolata Cremaster […] si riferisce al muscolo cremastico che fa salire i testicoli di un maschio. […] L’artista è quindi interessato all’incertezza dell’identità, all’ambiguità del genere». (Ivi, p. 80) IL RUOLO ATTIVO DELLO SPETTATORE Quello che ci interessa comunque dell’arte contemporanea è tende a sollecitare “un certo sforzo interpretativo da parte del fruitore […], la collaborazione nel portare a termine, nell’esplicitare e fare emergere il senso di quel ‘pezzo semilavorato’ che viene prodotto da parte dell’autore”. (F. Carmagnola, M. Senaldi, Synopsis. Introduzione all’educazione estetica, cit., p. 169). L’opera d’arte contemporanea “non può essere fruita senza anche essere agita”, si parla dunque del carattere performativo delle arti che, come vedremo, può essere sfruttato anche a livello didattico. Quello che importa è che l’essenza dell’opera, non essendo più necessariamente legata ad artefatti materiali, si identifica con il processo, può cioè essere costituita anche da gesti, eventi, azioni. M. Merz, Igloo, 1962 ca. J. Kounellis, Senza titolo, 1988 L. Fabro, Il giorno mi pesa sulla notte, 1995 G. Paolini, Senza Titolo, 1962 MARIO MERZ , JANNIS KOUNELLIS, GINO PAOLINI […]: il movimento dell’arte povera Nel 1967 G. Celant lanciava il movimento dell’arte povera, nome che di per sé garantiva un certo risparmio di mezzi e di spese. «Alcuni sostengono che il nome fosse un riferimento ai materiali usati dagli artisti […] come il carbone, la paglia, l’acqua, un cesto di insalata, la terra […]» «Jannis Kounellis usava il cotone grezzo, Mario Merz che usava il suo impermeabile e la sua macchina […] Giulio Paolini che esponeva il retro delle tele». «A volte rimanevano ermetici e intraducibili […] tra i lavori che hanno attraversato l’oceano troviamo gli Igloo di Mario Merz, che si vede proprio che sono degli Igloo […]». (Ivi, pp. 108-110) L’arte contemporanea ha un carattere performativo: a partire ad esempio dagli happenings di J. Cage, che portarono alle estreme conseguenze l’amplificazione del caso e della non-intenzionalità duchampiana, superando la frattura arte-vita. Con la sonata 4’ 33’’ del ’52 anche l’udire il silenzio diventa un’esperienza estetica, e nel ’77, l’opera teatrale Empty words è costituita interamente da un monologo di non-sense, rappresentando, così, il puro vuoto. In tal senso risultano particolarmente significative le considerazioni di Dorfles che giustificano in qualche modo l’esigenza del vuoto espressa dall’arte contemporanea, connettendola al bisogno dell’uomo di recuperare quello che egli definisce ‘l’intervallo perduto’. “Perdere l’intervallo (e, soprattutto, la coscienza dell’intervallo) significa ottundere la nostra sensibilità temporale e accostarsi a una situazione di annichilimento della propria cronoestesia: della propria sensibilità per il passare del tempo e per la discontinuità del suo procedere”. Recuperare dunque la capacità di ritrovare il tempo per soffermarsi e riflettere, non sarebbe solo congeniale per liberarsi dalle continue sollecitazioni sensoriali offerte dalla nostra società, ma anche per riappropriarsi di quelle funzioni che non hanno nulla a che vedere con il mondo consumistico che, invece, incute nell’uomo l’horror vacui e di conseguenza un annichilimento dell’immaginazione, come dimostrano molte opere di arte concettuale o di Land art. (G. Dorfles, L’intervallo perduto, Einaudi, Torino, 1980, p. 3). L’arte contemporanea, quindi, richiede un approccio e un impegno particolare da parte del fruitore, che deve distaccarsi dagli stereotipi della visione che condizionano il suo sguardo. “Lo strumento che aiuta però lo spettatore, il fruitore d’arte contemporanea, a penetrare questo senso, a dargli una direzione trasformandolo in significato, è la didattica dell’arte”. (A. Centonze, Arte contemporanea: la ricerca identitaria, in “Quaderno di comunicazione”, volume 7, 2007, p. 89). Insomma, interessanti percorsi di riflessione dal punto di vista educativo potrebbero delinearsi nel considerare il ruolo dello spettatore richiesto da un’opera d’arte contemporanea; in tal senso l’educazione all’arte si dimostra indispensabile per acquisire il bagaglio necessario per intraprendere dei percorsi di interpretazione. “In questo modo ‘il contemporaneo’ è aiutato a trasformare la propria sensibilità in cognizione e l’arte può diventare uno strumento di conoscenza della contemporaneità”. (Ibidem) Il ruolo della mediazione sta nel guidare, nell’accompagnare lo spettatore con tutta una serie di informazioni che lo aiutino ad instaurare una giusta relazione con l’opera. Tali interventi possono consistere nel diffondere informazioni sull’artista e l’opera, oppure nell’incontrare l’artista al lavoro, o in ultimo nel lavorare sulla scenografia, ovvero sull’atmosfera in cui il fruitore percepisce l’opera. (Cfr. M. L. Ceva, L’art contemporain demande-t-il de nouvelles formes de mediation?, in “Culture e Musées”, 2004, in www.persee.fr/.../pumus_1766-292..., accesso web: 10/09/2012). Su questo aspetto cfr. anche M. Giosi, Attraversare i mondi dell’arte, cit., in cui a p. 132 si tratta esplicitamente dell’intellettualizzazione dell’arte contemporanea, ovvero della tendenza di quest’ultima di fondersi sempre più con il pensiero critico sull’arte, con quell’istanza metariflessiva che accompagna l’artista nell’atto stesso del processo creativo. “E questo è anche il risultato di quella perdita del carattere di ‘immediatezza’ dell’opera d’arte, ossia il suo darsi a noi come oggetto/evento connotato da un’organica fusione di forma e contenuto, e il subentrare di quella ‘mediazione’ che appare essere esattamente il segno del superamento dell’arte ad opera della filosofia e che trasforma ogni atto di creazione artistica in una riflessione critica nei riguardi del suo stesso processo di produzione in atto” (Ibidem). La situazione appena descritta contribuirebbe a rendere l’arte contemporanea particolarmente adatta ad instaurare uno ‘spazio dialogico’ tra autore, opera e fruitore, “chiamati a loro volta a sviluppare habitus di riflessività critica e non soltanto di empatia e distanziamento nei confronti dell’oggetto-arte” (Ivi, p. 134). Tale spazio dialogico sarebbe particolarmente carico di implicazione pedagogiche, rispecchiando il dialogo con se stessi e con gli altri, tipico di ogni percorso educativo. Inoltre, il lettore/fruitore viene chiamato ad assumere un ruolo interpretativo attivo e compartecipe, di cui possiede una chiara consapevolezza. Il contributo a cui faccio riferimento colloca la mediazione artistica non tanto in un oggetto artistico, ma in un processo; prendendo un termine da A. Bonito Oliva, si parla, nell’ambito di un’educazione attraverso l’arte, di Aesthetic operations, diverse a seconda dell’opera o dell’artista preso in considerazione; quindi ad esempio in ambito educativo possiamo attuare l’Operazione Duchamp, Operazione Warhol ecc., in cui si sfrutta per l’appunto il metodo, o meglio il processo messo in pratica da un artista per formare una mentalità estetica, quanto mai necessaria per combattere la mentalità economica e consumistica. Così si individua il metodo di un artista e, usandolo, si può anche ottenere come risultato quello di dirigersi in una direzione totalmente opposta. (Cfr. P. Maset, Aesthetic operations, in S. Sonvilla Weiss, (e) pedagogy, Visual Knowledge Building, Peter Lang, 2005, pp.59-66) Il concetto di mediazione quando si parla di arte contemporanea ed educazione risulta avere un ruolo centrale perché il più delle volte certe creazioni hanno un senso che si determina proprio in rapporto ad un contesto e a delle situazioni comunicative ben precise. Si può infatti determinare un senso esplicito che è, possiamo dire, quello letterale e mostrato dall’opera, poi vi sono i significati impliciti che necessitano di alcune conoscenze supplementari, e in ultimo l’opera richiede un’azione condotta con degli interlocutori e non delle verità affermate unilateralmente. Le opere d’arte contemporanea si augurano di agire sul mondo servendosi dell’azione dello spettatore; l’azione dell’artista quindi si trasforma in interazione, gli artisti cioè chiamano gli spettatori a collaborare nella ‘costruzione’ del senso dell’opera per completarne il significato, che dunque si costruisce in rapporto ad un mondo esterno sul quale essa getta una sorta di sguardo critico in grado di coinvolgere. La conseguenza per così dire rischiosa di tale operazione è che se i fruitori non comprendono ciò che vuole dire l’artista, l’opera non è riuscita, ed è per questo che “un lavoro di mediazione tra l’arte contemporanea e gli spettatori può diventare necessario”. L’arte contemporanea è infatti “una forma d’arte la cui intersoggettività forma il substrato e che assume come tema centrale l’essere-insieme, l’incontro tra osservatore e quadro, l’elaborazione collettiva del senso”. (N. Bourriaud, Estetica relazionale, Postmedia Books, Milano, 2010, p. 11). «Nell’arte contemporanea “è proprio la relazione sociale che costituisce la forma […], non il materiale fisico eventualmente impiegato”. (Ivi, p. 9) Bourriaud sostiene che un’esposizione d’arte contemporanea sarebbe capace di produrre quella che lui stesso definisce la civiltà della prossimità, delle zone di comunicazione che favoriscono spazi e tempi diversi da quelli della vita quotidiana. Questi concetti si comprendono appieno se si intende la forma come “un incontro durevole che offre nuove possibilità di vita”, allo stesso modo l’arte attuale dimostra che non vi è forma se non nell’incontro: “L’individuo quando crede di guardarsi oggettivamente, in fin dei conti non contempla null’altro che il risultato di perpetue transazioni con la soggettività altrui”. (Ivi, p. 21). Il produrre una forma, così, si carica di una forte intenzionalità etica, perché in tale ottica può anche significare creare incontri possibili, in quanto è la rappresentazione di un desiderio che, a sua volta, attraverso lo sguardo dello spettatore può portare a nuovi ed ulteriori sviluppi. Il co-creare relazioni, infatti, si configura come uno dei principali punti di riferimento della postmodernità. “L’unica realtà a cui possiamo appellarci non è il nostro dentro, ma il nostro entrare in contatto con l’altro, con il diverso, è il farsi della relazione l’unico punto di riferimento possibile nella nostra società post-moderna”. (R.G. Romano, Ciclo di vita e dinamiche educative nella società postmoderna, Franco Angeli, Milano, 2005, p. 213.) J. Beyus, I like America and America likes me, 1974 M. Cattelan: La nona ora, 1999 M. Cattelan, Him, 2001 A. Pomodoro, Sfera Grande, 1998 M. Cattelan, La rivoluzione siamo noi, 2000 MAURIZIO CATTELAN: tra rivoluzione estetica e sovversione sociale «Ha ripiegato su animali impigliati e scheletri. […] […] Dopo gli animali ha preso in giro se stesso. Eccolo appeso a un attaccapanni con il vestito di feltro del famoso artista Joseph Beuys». «il povero Woytila, colpito da un meteorite su un lungo tappeto rosso. […] Ha catturato Hitler riducendolo a un povero bambino inerme che prega con gli occhi gonfi e languidi». «L’arte di Cattelan funziona perché davanti ad un suo personaggio non ci colpisce la forma, ma la psicologia, la sua anima, i suoi pensieri, i suoi dubbi». (Ivi, p. 103; p. 104) JOSEPH BEUYS: l’impegno nel sociale «[…] parlava di energia e spiritualità, piantava alberi, dormiva con i coyote… raccontava di essere stato vittima di un incidente aereo in Crimea, poi salvato dai tartari locali che lo avevano coperto di grasso e avvolto nel feltro, due materiali che avranno un ruolo fondamentale nelle sue opere». (Ivi, p. 70). ARNALDO POMODORO: lo sfogo urbanistico «[…] se per sfogo urbanistico si intende una specie di acne artistica che si manifesta in un grande numero di piazze e viali d’Italia […] Forse Pomodoro piace perché ci ricorda sempre qualcosa, che siano le antiche civiltà o i caduti, di qualsiasi tipo […]» (Ivi, p. 133) L. Freud, Riflesso con due bambini, 1965 R. Botero, Ballerina In movimento, 1988 R. Guttuso, Crocefissione, 1944 Mimmo Paladino, Medusa, 1984 LUCIAN FREUD: non a tutti piace fare la rivoluzione «Le pennellate, con le quali costruisce la creta umana dei suoi soggetti, sono come i minuti che si accumulano su di noi giorno dopo giorno […] in ogni suo quadro Lucien Freud ci ricorda che […] s’invecchia […]». (Ivi, pp. 45-46) MIMMO PALADINO, ENZO CUCCHI, SANDRO CHIA…: la transavanguardia «Mentre il linguaggio creativo dell’arte povera non ha mia cessato di influenzare gli artisti di mezzo mondo, la Transavanguardia è stata una brutta influenza di stagione […] incapace di scrollarsi di dosso il peso della storia dell’arte passata». (Ivi, p.114). RENATO GUTTUSO: il pittore ufficiale della corte del Pci «La Crocefissione del 1941 mandò su tutte le furie il vaticano perché raffigurava Maria Maddalena e la Madonna nude, intente a pulire il corpo di Cristo sulla croce. […] Il suo genuino bisogno di descrivere, più che di rappresentare i dintorni della realtà» (Ivi, p. 137-138) BOTERO: ci fa gonfiare, gonfiare, ma non ci fa scoppiare! «Le sue figure, non grasse ma gonfie, danno pace e tranquillità, ispirano simpatia come un tempo l’omino Michelin […] Di Botero invece ricordiamo tutto quello che si vede, nulla, se mai ci fosse, di ciò che rappresenta» (Ivi, p. 127-128) Alcuni artisti di Fluxus B. Vautier, W. Vostell Daniel Spoerri DANIEL SPOERRI: i ristoranti e le cene con gli amici si trasformano nel suo atelier! «Negli anni sessanta poteva succedere di vedere appese alle pareti di una galleria d’arte tavole apparecchiate con avanzi di cibo appiccicati sopra». «Spoerri faceva parte del famoso gruppo di Fluxus, ai cui esponenti piaceva improvvisare le proprie opere lasciando che tutto «fluisse», da qui il nome «fluxus». L’EAST VILLAGE «Gli anni Ottanta si avviano alla fine […] e gli artisti invece che in movimenti e gruppi preferiscono radunarsi dentro un nuovo quartiere: L’East Village» «Così nel giugno del 1981 aprì la Fun Gallery, dove iniziarono ad esporre graffitari doc come Kenny Scharf, Keith Haring e Samo, destinato a diventare una celebrità con il nome di Basquiat». M. Basquiait Kate Haring Takashi Murakami G. Richter, Eule, 1992 G. Richter, Confrontation, 2, 1988 KATE HARING: un dolce tristissimo fumetto «[…] Nessuna parola, nessuna frase, solo tanti geroglifici che anche gli analfabeti potevano contemplare senza il timore di ritrovarsi poi a saper leggere». «[…] i graffiti realizzati sui vagoni della metropolitana newyorkese. Immediatamente sente il destino di immergersi negli intestini della città e inventa il suo linguaggio di figurine, cagnetti e dischi volanti». (Ivi, pp. 91-92) MURAKAMI: il super-flat «[…] la popolarità dei graffiti di Haring, dopo quasi vent’anni, sembrano trovare la loro reincarnazione nel lavoro di Murakami. […] Super-flat […] di cosa stiamo parlando? Un orologio? Un cellulare? […] Superflat è una società dove arte popolare e arte colta si mischiano e si confondono, anzi non vengono quasi mai divise». I personaggi […] sono esseri ambigui, a metà tra bestie mitologiche e animali domestici, eroi della fanstascienza. […]fluttuano […] in questo universo irreale, a metà tra programma televisivo per bambini e fantascienza. […] Il pubblico di Murakami è costituito da […] ragazzi che divorano fumetti e comunicano solo con sms […]. (Ivi, pp. 97-98) GERARD RICHTER: l’universo delle immagini «Ha capito che tutto quello che ci circonda sarebbe diventato parte di una realtà parallela, il mondo delle immagini e delle fotografie». Richter realizza i quadri astratti con molteplici tonalità di colore, mentre quelli figurativi hanno toni grigi». «vi accorgerete della sua grandezza e di quanto sia difficile oggi, rimbambiti da jpg e mms e dei telefonini, fare un quadro, bello o brutto che sia, che dica verità sulla vita. (Ivi, p. 49, p. 52) L’ARTE CONTEMPORANEA E I NUOVI MEDIA C’è inoltre da considerare “la medialità come legittimo campo di esercizio della creatività e della fruizione estetica: la medialità costituisce infatti l’ultima dilatazione del territorio estetico”. (Ivi, p. 143) I media interattivi, e con essi l’idea di spazio virtuale o di cyberspazio, hanno infatti contribuito ad abbattere la distanza della contemplazione, propria dell’esperienza estetica tradizionalmente intesa, per favorire una forma di immersione ‘colpevole’ di provocare due atteggiamenti contrapposti: da una parte la perdita di orientamento, dall’altra lo sviluppo di un senso di onnipotenza, favorito dalla sensazione di vivere in un tempo continuo, di ‘infinita prossimità’. I confini tra vivente e non vivente tendono a sfumare, con la conseguenza che è ancora più difficile per il soggetto pronunciare giudizi, anche per la confusione tra sentire e capire. Le nuove tecnologie hanno dunque lanciato una nuova indagine sulla funzione delle immagini, si veda ad esempio la Net art che sfrutta Internet come materiale artistico. La teoria dell’Art education postmoderna si basa sull’utilizzo di software digitali che rendono più semplice l’uso delle immagini, che spesso sono reinventate a partire da altre. La conseguenza è che lo spettatore non cerca più il dialogo con le immagini offerte dai diversi media, ma si abbandona ad esse, e tale fenomeno sembra che sia stato messo in evidenza proprio dalla video-arte, ovvero: “l’uso artistico del video, le cui immagini spesso evocano quegli effetti di ‘deriva’ e di ‘dissoluzione’, di fluidità che richiamano l’operazione di sfaldamento di senso e di struttura messo in atto dalla neo-televisione”. (A. Piromallo Gambardella, Al di là dello sguardo di medusa ovvero al di là del reale, in A. Piromallo Gambardella (a cura di), Luoghi dell’apparenza. Mass media e formazione del sapere, cit., p. 64). Con Dallari, possiamo individuare uno stretto rapporto tra il sapere narrativo e le nuove tecnologie, quando per esempio afferma che “il sapere narrativo contemporaneo è senz’altro rappresentato dal mondo della multimedialità e in particolare della comunicazione massmediologica”, e definisce gli artisti, proprio per la capacità che hanno di mediare tra lo spazio reale e l’immaginario, i tecnici della comunicazione di massa. Il pedagogista si concentra sull’importanza che ha per il bambino assumere un occhio critico, che consisterebbe, rapportato all’educazione estetica, nella volontà di ridefinire i significati di un’opera in base al contesto e al significato. Nella società odierna il bambino è dunque immerso in una grande quantità di stimoli visivi di natura massmediologica e di fronte all’opera d’arte l’educatore dovrebbe prima di tutto invitare l’educando a descrivere ciò che vede, così da offrire la possibilità di innescare percorsi metaforici e interpretativi propri di un narratore. (M. Dallari , a cura di, Guardare intorno, La Nuova Italia, Scandicci, 1986). «La videoarte, in Italia così come in tutto il resto del mondo, è conosciuta nella forma della videoinstallazione: una struttura fatta di monitor e videoproiezioni all’interno di uno spazio museale, di una galleria o anche di un luogo meno convenzionale Le immagini, frazionate nello spazio, accolgono lo spettatore in un ambiente che può avere anche componenti tecnologicamente interattive […] con le quali chi guarda deve o può intraprendere delle relazioni. (A. Amaducci, Banda anomala, Lindau, Torino, 2003) La data di nascita ufficiale della videoarte è il 1963, quando Nam June Paik che realizza la mostra 13 Distorted TV Sets presso la galleria Wuppertall in Germania. In Germania Vostell adopera carcasse di televisori… in Italia Fabrizio Plessi nel 1974 realizza il video Travel, legato ad un’attività artistica performativa… è l’epoca in cui gli artisti usano se stessi come opera d’arte in movimento (Si veda l’attività di Vito Acconci). Theo Eshetu, Monica Pietrazzi ecc.: il corpo vissuto diventa «luogo dell’azione artistica da un lato, mercificazione del mercato dell’audiovisivo dall’altro, e ancora il culto del corpo, eccessivo ed estetizzato oltre ogni misura». (Ivi, p. 121). G. Barberi e De Castri riprendono le sculture installazioni di un altro artista del video: «Claudio Parmiggiani. Una scultura (1991)». I video degli artisti spesso sono una proposta di una televisione migliore […] sfruttano «l’idea di flusso, di magma suggerito dall’analogico […]e il calcolo discreto del digitale […] la grana dell’immagine spappola le forme e i colori diventano protagonisti di uno stadio di realtà differente, magico e misterioso (Ivi, p. 133134). J. Naum Paik, Aunt and uncle, 1986 J. Naum Paik, TV Buddha, 1974 F. Plessi, Water, 1976 Monica Petracci, Appunti per un esserci, 2006 Cfr. anche A. Tursi, Sull’arte digitale, in D. Parmigiani (a cura di), Tecnologie per la didattica, Franco Angeli, Milano, 2004, pp. 60-75; A.M. Repetto, L’interattività del video: percorsi di riflessione, in D. Parmigiani (a cura di), Tecnologie per la didattica, Franco Angeli, Milano, 2004, pp. 84-104, dove si approfondisce la questione del rapporto tra educazione estetica e nuove tecnologie, mettendo in evidenza come il simultaneo impiego di immagini, musica, animazione e testi aumenti il coinvolgimento personale del fruitore, che risponde agli stimoli del video con delle risposte irriflesse del proprio corpo. Quello che ci interessa ai fini del nostro discorso è la necessità di porre attenzione all’alterazione dei vincoli relazionali tra uomo e interfaccia elettronico. A tal proposito D. De Kerchove, ne La pelle della cultura, ha affermato la presenza di risposte neuromuscolari del fruitore di fronte al video, che dunque intrattiene un vero e proprio dialogo comunicativo con l’utente. Tuttavia il montaggio del video, essendo imposto da un ente esterno, esercita un forte potere persuasivo sull’utente, è come se ne catturasse lo sguardo sfruttando un canale di comunicazione visiva. “Il bambino di oggi, nella società della rete, viene continuamente stimolato dai media a costruire percorsi soggettivi. La sua curiosità, se non sorretta da criteri selettivi, lo mette in condizione di navigare a vuoto, di essere vittima di nuove seduzioni di cui non è consapevole”. (C. Volpi (a cura di), I rischi dell’educazione, Armando, Roma, 2003, p. 9). In particolare, due sono gli elementi che contribuiscono a formare l’identità dell’uomo contemporaneo: Internet, che soddisfa l’esigenza “di comunicare, sempre e da qualunque luogo”, e il consumo, anche quest’ultimo fattore, infatti, può essere usato per comunicare agli altri il proprio modo di essere. Internet e il consumo esprimono e soddisfano la ‘voglia di comunità’, l’esigenza di condividere le stesse esperienze. Se dunque da una parte la mediazione tecnologica rende possibile e crea nuove forme di socialità, dall’altra “la funzione aggregativa della rete […] segnala una certa debolezza dell’area relazionale […]”. (M.G. Simone, Nuovi media, consumo sociale e identità personale, in P. Limone (a cura di), Nuovi media e formazione, cit., p. 241.) Si veda Z. Bauman, Conversazioni sull’educazione, Erickson, Trento, 2012, p. 116, dove, nel tentativo di dimostrare il rapporto tra il consumismo e l’indebolimento dei legami interumani, l’Autore sostiene che “svuotare il portafoglio o saccheggiare la propria carta di credito prende il posto dell’abbandono e del sacrificio di sé che la responsabilità dell’Altro richiede”. Rirkrirt Tiravanija Rirkrirt Tiravanija: il ristorarte «Tiravanija decise di rispolverare lo spirito di Fluxus. Organizzò una mostra dove l’opera d’arte non era né una scultura né un quadro e nemmeno avanzi di cena, ma l’artista medesimo impegnato ogni giorno a cucinare per i visitatori che seduti, impegnati a divorare i fusilli asiatici, diventavano sculture viventi […]». «Anche l’artista thailandese vede nel cibo, nella cucina e nel dividere un buon pasto con gli spettatori un modo per celebrare le cose e il tempo della quotidianità […] ci offre l’occasione di goderci la vita così com’è, in modo artistico, trasformando momenti comuni in momenti unici, che è poi quello che un’opera d’arte che si rispetti dovrebbe essere in grado di fare». (Ivi, p. 120, p. 121) LA COMUNITÀ ESTETICA Ora l’aspetto interessante è che in una società come la nostra, caratterizzata da un dominio di esteticità diffusa, sarebbe proprio il concetto di forma a costituire comunità, a consentire il passaggio dall’estetica all’etica. La tendenza a valorizzare tutti quegli aspetti del quotidiano che fanno leva sull’apparenza contribuisce, infatti, a creare un ideale comunitario proprio veicolato dalla dimensione estetica. I media dunque hanno fatto sì che la ‘massa’ possa definire un orizzonte comune di senso, di gusto, di sensibilità e la dimensione estetica allora diventa sinonimo di emozione condivisa, di quel ‘sentire comune’ che fa leva sull’immaginario, sull’emotività, che dando modo di considerare la postmodernità come cultura della forma. Z. Bauman parla della “voglia di comunità”, appunto, del soggetto postmoderno. La comunità estetica, secondo il sociologo, sarebbe quella più adatta a soddisfare le esigenze dell’identità dell’uomo contemporaneo, in quanto consente di costruire un’identità per così dire flessibile: “la possibilità di disfarsi di un’identità nel momento in cui cessa di soddisfare o perde attrattiva rispetto alle altre e più seducenti identità disponibili è più importante che non ‘il realismo’ dell’identità attualmente ricercata o momentaneamente acquistata e goduta”. (Z. Bauman, Voglia di comunità, trad. it., Laterza, Roma, 2001, p. 63). La funzione di guida in tale comunità sembra essere assolta dall’industria dello spettacolo, con a capo dei leader che sono personaggi pubblici senza alcuna autorità morale. Nella comunità estetica emergono i divi, i personaggi famosi che si mostrano carismatici quanto pronti a scomparire qualora non rientrino più nei canoni delle mode e delle tendenze dominanti. “Il trucco attuato dalle comunità estetiche fondate sugli idoli consiste nel trasformare la ‘comunità’ da temuto nemico della libertà di scelta individuale in dimostrazione pratica e riconfermata (reale o illusoria) dell’autonomia individuale”. (Ivi, p. 69). Risulta spontaneo collegare tali considerazioni di Bauman ad alcune opere d’arte contemporanea, basti pensare ai già citati ritratti di Warhol, o ai simulacri di Koons, che sembrano mettere il fruitore davanti a quella che è l’essenza della comunità estetica. Quest’ultimo artista, attraverso le sue opere ‘banali’, è come se ci suggerisse di appropriarci degli eroi che la nostra società produce. Su questo aspetto si veda anche F. De Bartolomeis, L’esperienza dell’arte, cit., p. 284, dove si afferma che “la banalizzazione […] stimola l’attenzione a concentrarsi su cose che hanno grande peso, ci determinano, ma che pure lasciamo scorrere indifferenti nella visione e nell’uso”. Jeff Koons: Jeff and Ilona, 1991 Jeff Koons: Micheal Jackson and Bubbles, 1991 Jeff Koons: Buster Keaton, 1998 Jeff Koons, Ushering In banality, 1988 Jeff Koons: Balloon Dog, 1994 JEFF KOONS: La banalità si trasforma in estasi del consumo «Koons ha pensato che forse sarebbe stato possibile trasformare in capolavori cose comuni e insignificanti. […] Come? Traducendo in materiali preziosi e sofisticati materiali poveri e comuni, ad esempio la plastica. […] Un esempio di questo è Rabbit, dove l’artista vede una forma classica che si nasconde all’occhio del consumatore comune» «Se anche il corpo è ormai interamente mercificato, si comprende allora il significato del matrimonio di Jeff Koons con Ilona Staller». (Ivi, p. 88; 89) Koons, insomma, ci mostra come il compito più difficile dell’artista oggi è quello di mediare tra la realtà di essere un piccolo sé e il sistema massmediale che ci impone di crescere, di raggiungere necessariamente il successo. Da questo punto di vista, il sistema massmediale sembra restituirci la nostra immagine, e Koons ci vuole comunicare che la più grande opera d’arte siamo noi stessi, e lo fa esponendo pubblicità ed icone kitsch, confermando il fatto che gli oggetti sono vettori del desiderio e contribuiscono a forgiare l’identità dell’individuo. “Jeff Koons celebra la felicità e l’amore per l’individuo attraverso l’immenso universo degli oggetti, trasformando la banalità in una specie di estasi del consumo”. (Cfr. F. Bonami, Lo sapevo fare anch’io. Perché l’arte contemporanea è davvero arte, Mondadori, Milano, 2007, p. 87). Koons, insomma, ci mostra come il compito più difficile dell’artista oggi è quello di mediare tra la realtà di essere un piccolo sé e il sistema massmediale che ci impone di crescere, di raggiungere necessariamente il successo. Da questo punto di vista, il sistema massmediale sembra restituirci la nostra immagine, e Koons ci vuole comunicare che la più grande opera d’arte siamo noi stessi, e lo fa esponendo pubblicità ed icone kitsch, confermando il fatto che gli oggetti sono vettori del desiderio e contribuiscono a forgiare l’identità dell’individuo. In realtà Koons aveva la speranza che attraverso le sue opere i fruitori diventassero più sicuri del proprio giudizio e del proprio gusto. Come sostiene A. Danto, nella serie Banality il messaggio è “sii te stesso, non pretendere di essere un altro superiore a te stesso. Il tuo gusto va bene così com’è”. (A. Danto, Banale e celebrativa; l’arte di J. Koons, in E. Molinaro, G. Romano, Retrospettivamente, Postmedia Books, Milano, 2007.) Ritornando all’analisi di Bauman, per divi possiamo intendere, non solo i personaggi del mondo dello spettacolo, ma qualsiasi problematica o aspetto fondato sull’apparenza, come il peso forma, o ogni evento mondano e occasionale. “Qualunque sia il loro asse portante, il tratto comune a tutte le comunità estetiche è la natura superficiale e frivola, nonché transitoria, dei legami che si instaurano tra i rispettivi membri”. Il carattere per così dire negativo che accomuna le comunità estetiche è per Bauman la volontà di non creare legami stabili, che implicherebbero un forte senso di responsabilità etica. Sembra dunque che il compito dell’educazione estetica, nel XXI secolo, sia proprio quello di tentare di sostituire all’idolo l’icona, in quanto strumento di rinvio, di rimando all’altro da sé, e pertanto capace di generare una molteplicità di punti di vista. Per resistere alla seduzione degli idoli ci vogliono le icone e compito dell’educatore “è educare a uno ‘sguardo’ non idolatrico ma iconico […]”; (A. Nanni, Una nuova paideia: prospettive educative per il XXI secolo, Bologna, EMI, 2000, p. 152) se possiamo definire la seduzione idolatrica devastante, quella iconologica al contrario è educativa, perché si dimostra capace di produrre uno sguardo che ha voglia ed è capace di trascendere il dato immediato. “La nostra società dei consumi conosce bene la potenza dell’aisthesis pathos e la utilizza per rendere sempre più appetibili i propri prodotti, fino alla più smaccata seduzione”, (E. Bottero, Il sapere didattico, Clueb, Bologna, 2003, p. 249) […] pertanto, secondo Bottero, il didatta dovrebbe sfruttare questo pathos estetico per infondere nell’educando il senso di stupore verso l’oggetto da conoscere o per coinvolgerlo nell’apprendimento di aspetti eticamente rilevanti. (E. Bottero, Il sapere didattico, Clueb, Bologna, 2003, p. 249). INCONTRI DIDATTICI ISPIRATI ALLA PERFORMANCE Rivoltella parla dell’azione didattica come di una performance: “la didattica è tecnologia della performance […] e si può considerare allo stesso titolo del teatro come una tecnologia dello sguardo”. (P.C. Rivoltella, Neurodidattica, p. 159). Cfr. anche R. Barilli, Il ciclo del post-moderno, Milano, Feltrinelli, 1987, dove si afferma che tutte le arti tendono alla performance, poiché in particolare l’arte visiva negli ultimi anni ha visto “l’abbandono del quadro, o più in generale della superficie, e l’invasione dello spazio e del tempo reali” (Ivi, p. 79). L’interesse per il movimento reale offerto dall’energia muscolare del corpo trova come alleate paradossalmente proprio le tecnologie, come il film, il videonastro, che permettono di registrare fedelmente le performance. Un utile contributo in tal senso si può ricavare, dal concetto di performatività, intesa come quella serie di comportamenti sociali che costituiscono l’identità di ciascuno, e performance, rappresentata, invece, dai comportamenti inscenati e costruiti liberamente da un individuo. Quest’ultimo concetto ci ha permesso di analizzare il modo un cui alcune video-installazioni sono state percepite o meglio rivissute nei contesti didattici. Tali incontri estetici sono stati capaci di generare nei ragazzi delle esperienze che essi stessi hanno definito immediate, che li ha coinvolti in una sorta di ‘sentire totale’. La sfida didattica dell’arte contemporanea nell’età postmoderna vede “da una parte l’opera non concepita come oggetto ma come una forma di relazione sociale, e dall’altra la formazione concepita come autocostruzione dell’individuo”. (Cfr. H. Illeris, Il corpo nell’incontro didattico con l’arte contemporanea. Processi di formazione estetica come atti performativi, in www.humanamente.eu/PDF/Issue14_Paper_Illeris.pdf, accesso web 20/09/2012). L’arte contemporanea utilizza la performance, ed è questo, altresì, che dev’essere sfruttato, per così dire anche in sede didattica, alimentando un diverso concetto di corporeità anche nell’incontro tra l’opera d’arte e lo studente. Corpo contemplativo: nelle lezioni tradizionali al museo, ci si avvaleva di un corpo contemplativo, quello tipico dello studente che, come un qualunque visitatore, passeggia e contempla con ammirazione ma piuttosto passivamente le varie opere d’arte… Corpo che apprende: …a partire dagli anni ’70 già si parla di un corpo che apprende, in seguito a quelle brevi lezioni frontali che gli insegnanti impartiscono nei musei di fronte alle opere prese a riferimento. In questo secondo caso il corpo costituisce il ricevitore e riproduttore del sapere trasmesso dall’insegnante, ma è sveglio e attento. Corpo pseudo-produttivo: che accetta le sfide che l’arte contemporanea lancia alla stessa didattica dell’arte. Sotto quest’ottica l’opera d’arte instaura una relazione con il corpo dello spettatore, dando adito ad un insegnamento in cui è lo studente ad essere il protagonista e dove l’opera contribuisce a rafforzare il senso di identità personale. L’opera d’arte consiste dunque sempre di più nelle relazioni sociali che è in grado di instaurare tra artisti, ragazzi, materiali e lavoro. Le installazioni, e più in generale la video arte, consentono agli studenti dl fare esperienza di un corpo diverso da quello posizionato in un museo o dall’insegnante, un corpo che diventa tutt’uno con l’esperienza. Ora, la mediazione attraverso l’arte contemporanea può andare oltre il classico concetto di interpretazione e concentrarsi su lavori produttivi e relazioni corporee tra arte e pubblico. Le performance degli artisti, dunque, possono costituire un fattore di ispirazione per come organizzare incontri didattici tra coinvolgimento e riflessione. IL CONTESTO DIDATTICO DEL LABORATORIO F. Cambi afferma che “nel Novecento il panorama estetico (e artistico) muta completamente. Si va alla demolizione della forma. Viene rotta la sua unità e declassata la sua funzione. Le forme sono infrante: dipendono dai punti di vista, dalla tipologia percettiva, dalla struttura della mente”. (F. Cambi, Il valore formativo dell’arte contemporanea, in “Rassegna di pedagogia”, n. 3-4, 2005, p. 247. Da qui la necessità che la scuola possa assumersi il compito di educare all’arte di oggi, diversa da quella del passato in quanto richiede al fruitore di vedere, analizzare e comprendere per potersi aprire al nuovo che caratterizza il mondo odierno, che “ci raggiunge da ogni parte e che ci costituisce come soggetti storici”. Cambi a tal proposito, con l’intento di applicare sul piano didattico quanto esposto in teoria, oltre che dell’inserimento della storia dell’arte contemporanea nei curricoli, parla del fatto che “nella scuola si può e si deve pensare un laboratorio (anche extracurricolare) che si disponga su queste frontiere. Un laboratorio che ne sperimenti i linguaggi, ne ‘analizzi’ e ‘copi’ le forme, che metta i giovani in condizione di stimolare la propria creatività, con percorsi guidati da un mondo di esperti in modo da entrare nel ‘magma’ dell’arte contemporanea”. (Ivi, p. 251). Un laboratorio speciale è proprio il museo, che può e anzi dovrebbe collaborare con la scuola: Cambi definisce infatti il museo ‘un cantiere di laboratori’, che inquadra l’opera in uno spazio ideale, facilitandone la comprensione riflessiva, stimolata dai valori estetici e dunque espressivi e formali, e una lettura aperta alle svariate interpretazioni, poiché l’arte contemporanea è una sorta di specchio della nostra società ‘complessa’. «Il museo è, ancora più, un modo di vedere. […] L’arte contemporanea indica al visitatore una direzione da seguire […] suggerendo itinerari e significati che vengono modificati e selezionati nell’incontro con il pubblico. J.M. Labelle parla di reciprocità educativa: conduzione semiotica a due sensi. (M. Squillaciotti, Laborarte, cit., p. 66). «L’attività di laboratorio è intesa come esperienza aggiuntiva e diversifica rispetto alla visita guidata e ruota sulla convinzione che la conoscenza abbia anche un carattere pratico-costruttivo» (Ivi, p. 85) Compito dell’educatore è programmare l’incontro con le opere d’arte, favorire la contemplazione e il silenzio, senza suggerire l’interpretazione. È importante “mettere il bambino davanti al fenomeno, un’apparizione che provoca uno scompenso, una rottura del flusso ordinario di percezione”. Il laboratorio, pertanto, non va tanto intesto come spazio fisico, in quanto potrebbe iniziare in un luogo e finire in un altro, ma come un atteggiamento mentale che dall’incontro con l’opera d’arte sviluppi la ‘terza dimensione’, quello che Dallari definisce il commento, con il quale non si intende solo un discorso orale, ma anche appunti visivi o ispirati ad altri linguaggi artistici. (M. Dallari, Un modo di vedere le cose. Arte e stupore infantile, in http://www.irre.toscana.it/scuolaebeniculturali/.../contributi/dallari.htm, accesso web: 3/07/2012). …E PER CONCLUDERE P. Picasso, Guernica, 1937 Ogni volta che scoppia una guerra nel mondo dell’arte si torna a discutere di Guernica, ultima capacità dell’arte di essere ancora politica e di non sottomettersi alle logiche commerciali […]. (Ivi, p. 146, p. 148) «Chi afferma che l’arte, ossessionata solo dal mercato, non ha più impatto sulla società, s’informi meglio e più che altro si chieda se non è la società, superficialmente coinvolta con il mondo, a non avere più impatto sull’arte». (p. 148) «Molto popolare oggi è il brutto, che ha da sempre avuto il suo seguito, ma che si questi tempi sembra diventato il nuovo bello. […] spesso non ci si accorge che si infiltra nel vivere comune» (Ivi, p. 153) «Spesso dimentichiamo la guerra che è necessario combattere contro il letargo sociale e culturale, la stagnazione delle idee, l’avidità del brutto, tutti batteri che ammalano il futuro» (Ivi, p. 156) Quindi, per concludere, il creare relazioni estetiche e sperimentali tra allievo e l’arte contemporanea può significare, nello stesso tempo, favorire la comprensione del mondo contemporaneo e «risvegliare l’esperienza» Su questo aspetto cfr. anche M. Senaldi, Art as experience e l’arte contemporanea, in L. Russo (a cura di), L’esperienza estetica. A partire da John Dewey, cit., pp. 49-70, in cui l’Autore sostiene che l’arte contemporanea, focalizzandosi sul processo e non solo sul prodotto, realizza il concetto deweyeano di arte come esperienza.