Perché lottare per il salario garantito
Indice
» Introduzione – L'epoca che Viviamo
» Quattro Fronti
» Salario Vs Reddito
» Conclusioni
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- Introduzione – L'epoca che viviamo
Nella fase di crisi attuale, che continua a perdurare soprattutto nell'Europa Occidentale, e con particolare
virulenza in Italia e negli altri paesi cosiddetti PIIGS, assistiamo a tassi di disoccupazione senza precedenti
almeno dalla crisi del 1929: va considerato che i tassi di disoccupazione ufficiali pubblicati dall'ISTAT e resi
noti dai principali mass media, sono estremamente ritoccati al ribasso attraverso una serie di espedienti, tra
cui:
a) vengono considerate “non forze di lavoro” e quindi non computate nel calcolo, tutti coloro che vengono
definiti “non più alla ricerca di lavoro”, ovvero non più iscritti al collocamento e non registrati presso le agenzie
di lavoro interinale: si tratta di una quota di proletari che presumibilmente ammonta a qualche milione di
individui, la maggioranza dei quali (al netto di coloro che scelgono di rimanere a casa a carico dei familiari)
sono evidentemente lavoratori a nero o donne che scelgono la “professione” di casalinga a reddito zero;
b) vengono considerati lavoratori a tutti gli effetti le mille figure precarie, le quali oscillano permanentemente
tra una condizione di lavoro e una di non lavoro, nonché la massa abnorme di lavoratori in cassa integrazione.
È noto come queste figure (Co.Co.Pro., contratti a termine, finte partite IVA, contratti di apprendistato,
formazione lavoro, ecc.) costituiscano oramai da anni la percentuale maggioritaria dei nuovi assunti.
Dunque, ogni anno la quota dei lavoratori “garantiti” sul totale degli assunti va progressivamente
restringendosi a fronte di un incremento numerico sempre più consistente delle figure cosiddette precarie. Si
tratta di un fenomeno consolidatosi in tutti i Paesi a capitalismo avanzato a seguito dell'onda lunga di sconfitte
e arretramenti subiti dalla classe operaia occidentale nel corso degli anni '80 e '90, del crollo del cosiddetto
“socialismo reale” nell'Est-Europa e della susseguente accelerazione della competizione sul mercato
internazionale tra le grandi multinazionali. Tale processo, già in atto, è stato istituzionalizzato dagli stati
borghesi con una serie interminabile di leggi e “riforme” del mercato del lavoro: da noi la legge 223/91 sui
licenziamenti collettivi (la cosiddetta “mobilità”); l'abolizione della scala mobile introdotta già dal governo
Craxi e portata a compimento dal governo del suo delfino Giuliano Amato del 1992 (accordi di luglio) al fine di
consentire ai padroni di comprimere i livelli salariali a loro piacimento; il pacchetto Treu del 1997 che ha
definitivamente legalizzato la precarietà e il lavoro interinale; la legge Biagi del 2001, ecc.
La barbarie attuale con la quale si trovano a dover fare i conti milioni di lavoratori dipendenti, di precari e di
disoccupati è frutto del lungo processo appena descritto, su cui la crisi attuale ha agito da moltiplicatore e non
certo da fattore scatenante.
Lo smantellamento delle cosiddette garanzie, alimentato dal processo di mondializzazione dei mercati, e
soprattutto dal sempre maggior peso acquisito sullo scenario mondiale da nuove potenze quali Cina e India,
risponde alla necessità da parte del capitale occidentale di reggere la competizione sul “costo del lavoro” con
queste ultime, implementandone, quando possibile, i modelli produttivi fondati su beni di scarsa qualità e
soprattutto su salari da fame, quando non è possibile facendo migrare le proprie attività verso le nuove oasi
del supersfruttamento (vedi Europa dell'Est) oppure facendo migrare masse enormi di capitali nei lidi “sicuri”
della rendita e della speculazione improduttiva (fenomeno quest'ultimo, che è alla base della crisi attuale ma
che da quest'ultima è stato tutt'altro che arrestato o rallentato).
Alla luce di questo quadro è dunque evidente che almeno in Occidente il capitale, per alimentarsi, abbia
bisogno di un sempre minor numero di “posti di lavoro” e, a causa di una crisi che si abbatte in primo luogo sui
livelli di consumo, è sempre meno sinonimo di produzione di ricchezza in termini e sempre più di precarietà e
disoccupazione.
Si tratta di un fenomeno che possiamo osservare da decenni, a stento frenato o ritardato da una debole e
frammentaria resistenza operaia: un fenomeno che, con buona pace di keynesiani e “regolamentatori” di ogni
genere, è a nostro avviso irreversibile in assenza di una forte e decisa ripresa dello scontro di classe e
soprattutto del rilancio di una prospettiva di rovesciamento di questo sistema.
D'altra parte è anche vero, come evidenziava già Marx, che la crescita delle forze produttive e l'aumento della
produttività reso possibile dai miglioramenti tecnologici e in ultimo dalla cosiddetta rivoluzione telematica
obbliga il capitale, in ossequio alla sua natura di entità che ha come ultimo fine quello di massimizzare i profitti,
ad incrementare lo sfruttamento principalmente attraverso l'estrazione di maggior plusvalore relativo, ovvero
da un lato liberandosi nel minor tempo possibile di quella manodopera da esso considerata in eccesso,
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dall'altro sfruttando maggiormente i proletari che restano a lavoro, attraverso un allungamento sia dei tempi
che dei ritmi. Se non si comprende questo è impossibile comprendere le ragioni profonde che ispirano, solo
per fare l'esempio più noto, la filosofia di fondo del piano Marchionne: a Pomigliano mentre si mettono in
cassa integrazione da anni circa tremila lavoratori tra Fiat e indotto, avviandoli lentamente verso il
licenziamento, chi resta sulle linee di montaggio è costretto a ritmi e turni massacranti e a un controllo
poliziesco dei livelli di produttività singoli o di squadra. E non è un caso che tale modello venga fatto proprio in
innumerevoli fabbriche della media e grande industria. Infatti, non è che Marchionne abbia inventato chissà
cosa: nelle piccole aziende, che le “garanzie” offerte dallo Statuto dei Lavoratori non le hanno mai conosciute,
e soprattutto in quell'universo di aziende che sfruttano manodopera precaria e sottopagata come nel quadro
sopra descritto, il modello Marchionne è per i lavoratori una triste realtà già da qualche decennio.
Se tutto ciò è vero, si tratta per il movimento operaio e proletario di avviare, anche alla luce della serie
interminabile di sconfitte patite negli ultimi tre decenni, una profonda riconsiderazione analitica in base al
quadro e alla fase con la quale dobbiamo fare i conti. In un contesto segnato da licenziamenti, chiusure di
fabbriche e ondate di casse integrazioni, il più grave errore che a nostro avviso possono commettere le
avanguardie politiche e sindacali è quello di attestarsi su un livello meramente difensivo. Per questo riteniamo
oggi arretrata la rivendicazione sic et simpliciter della difesa dei posti di lavoro esistenti : con questo non
intendiamo dire che i compagni non debbano stare in prima fila ovunque si sviluppino lotte sindacali difensive
per difendere qui ed ora le condizioni di vita di chi si trova a dover fare i conti col licenziamento. Diciamo al
contrario che nell'attuale quadro il movimento di classe debba oggi più di prima riappropriarsi di parole
d'ordine realmente ricompositive e funzionali a riunificare sotto un unico fronte una classe frammentata in una
miriade di vertenze: un quadro che il capitale conosce bene e che non a caso non solo alimenta, ma usa
altresì a suo piacimento per dividere e contrapporre il fronte di classe, scatenando “guerre tra poveri” tra
assunti e licenziati, occupati e disoccupati, precari e “garantiti”. La parola d'ordine “difesa dei posti di lavoro”,
se, ripetiamo, può anche andar bene su un piano “sindacal-vertenziale” fuori a una fabbrica in cui si licenzia,
su un piano politico, ovvero di lotta per il superamento dell'esistente e per un'alternativa di sistema, non solo
rappresenta una parola d'ordine difensiva e quindi fuorviante, ma soprattutto manca di quell'elemento
ricompositivo essenziale per una reale ripresa dello scontro di classe nel nostro Paese. Infatti ci chiediamo:
cosa avrebbero da difendere i milioni di disoccupati? E cosa avrebbero da guadagnarci quei milioni di precari
che un lavoro ce l'hanno ma il più delle volte non gli serve neanche per arrivare alla metà del mese ed è
sinonimo di livelli di sfruttamento aberranti? Oppure come nel caso dell'Ilva di Taranto e di tante fabbriche che
devastano l'ambiente e i territori circostanti, condannando ad una morte lenta e atroce i loro stessi operai, le
loro famiglie e gli abitanti dei quartieri circostanti, possono mai i comunisti rivendicare il diritto al “lavoro”
dunque conformandosi alle richieste di Riva e dei padroni delle fabbriche di morte? Per quanto ci riguarda, su
vicende come quest'ultima, noi non esitiamo a prendere posizione a fianco di chi, come ad esempio il
Comitato Cittadini Liberi e Pensanti di Taranto, chiede a gran voce la chiusura delle fabbriche di morte
rivendicando un lavoro e un salario per vivere e non per morire.
È per queste ragioni che riteniamo il diritto a un salario garantito e la lotta per la riduzione generalizzata
dell'orario di lavoro nella fase attuale le uniche parole d'ordine realmente ricompositive per l'intera classe. Per
salario garantito intendiamo una campagna generale che si articoli su quattro fronti:
- Quattro Fronti
1. Una lotta per il diritto a un salario monetario adeguato al costo della vita per tutti i disoccupati,
i precari e i sottoccupati.
Su questa rivendicazione si sono scritti fiumi d'inchiostro, soprattutto in alcuni ambienti della sinistra
“tardo-togliattiana”, la quale sostiene che tale rivendicazione finirebbe per contrapporre occupati e
disoccupati, farebbe pagare i costi economici del salario garantito ai primi ad esclusivo vantaggio dei
secondi o finirebbe per generare una sorta di passività e di appagamento tra i proletari.
Sulla prima obiezione ci sentiamo di rispondere che non vi è nulla di più falso, per il semplice motivo
che, ammettendo che un giorno un qualsivoglia governo borghese si decidesse a concedere ai
disoccupati un salario garantito integrale, non solo verrebbe meno il principale strumento di ricatto che
da duecento anni a questa parte il capitale utilizza per mettere in concorrenza tra loro i proletari
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usando i disoccupati come clava e perenne pistola alla tempia nei confronti dei “garantiti” al fine di
disincentivarne le richieste di aumenti salariali o di maggiori diritti e tutele, ma entrerebbe in tilt anche
quel processo di generale precarizzazione delle condizioni di vita e di lavoro generato dalle miriadi di
figure contrattuali atipiche e sottopagate. È così evidente che la lotta per il salario garantito costituisce
l'unico strumento per rompere questa spirale, e contrastare la tendenza del capitale a trasformare il
lavoro in una merce sempre più a basso costo, che solo chi è viziato da una deformazione “ultralavorista” può usare tali argomentazioni per scartare a priori l'impegno in tale campagna.
La seconda obiezione ci sembra altrettanto inconsistente. Facciamo un esempio molto semplice: per
tutto il secondo dopoguerra il movimento di classe ha avuto come suo fiore all'occhiello battaglie
sociali di prim'ordine come ad esempio quella per il diritto allo studio e per la creazione dell'SSN
(Sistema Sanitario Nazionale). Allora l'intera sinistra di classe (compreso finanche il PCI di Togliatti e
Longo) non si è certo ritirata da queste battaglie usando l'alibi di non sapere poi dalle tasche di chi la
DC al governo avrebbe preso i soldi per finanziare il diritto alla salute e quello allo studio: eppure
come sappiamo nel paese degli evasori fiscali tale gettito è stato prelevato prevalentemente dalle
tasche del lavoro dipendente... Se questi compagni fossero dotati di coerenza allora dovrebbero
chiedere (o meglio sostenere, visto che lo stanno già facendo da anni i governi borghesi) l'abolizione
del diritto allo studio o di quello alla salute, per il semplice fatto che ne beneficia, insieme alla
borghesia, anche chi è nullatenente, per il semplice fatto di essere “reo” di non produrre ricchezza. Nel
caso del salario garantito, possiamo almeno dire con la quasi certezza che a beneficiarne non è la
borghesia.
Un altro esempio: la massa dei cosiddetti “lavoratori improduttivi”, degli impiegati e dei dipendenti
pubblici, alla luce di Marx, non traggono essi stessi parte del loro stipendio dalla ricchezza e dal valore
prodotto dagli operai di fabbrica? Se il “dogma” esplicitato in maniera categorica dalla galassia tardotogliattiana valesse per tutti e non fosse solo un espediente per far passare la logica che il lavoro,
anche nell'epoca della barbarie capitalistica, “nobiliti l'uomo”, dovrebbero affiancarsi ai Brunetta e agli
Ichino di turno che bollano come fannulloni i dipendenti pubblici e cercano in ogni modo di
smantellarne tutele e livelli salariali. Semmai si tratta di accompagnare la campagna per il salario
garantito ad una altrettanto generale campagna finalizzata a colpire i profitti affinché siano questi
ultimi, e non certo i proletari, a pagare i costi sociali ed economici della disoccupazione e della
precarietà che essi hanno creato: quindi campagna per l'abolizione e/o la diminuzione delle spese
militari (il tema degli F-35 ci sembra di straordinaria attualità), contro la grande evasione fiscale, contro
i privilegi del clero, per colpire e tassare le grandi rendite, i grandi capitali e gli stipendi faraonici dei
manager pubblici e privati... Se si pensa che il solo Marchionne ha uno stipendio annuo di circa 10
milioni di euro e che l'aguzzino degli operai Fiat non è certo il solo manager privato a guadagnare tali
cifre, è chiaro a tutti che i soldi per finanziare il salario ai disoccupati ci sono e si trovano nelle tasche
dei padroni.
Infine, sulle obiezioni che fanno leva sul rischio che il salario garantito diventi veicolo di passivit à e di
appagamento nella classe, anche qui a nostro avviso si solleva un falso problema, in quanto da un
lato la storia ci dimostra che anche la mera difesa del posto di lavoro diviene per gli operai veicolo di
pace sociale e di abbandono delle lotte una volta che l'obiettivo è stato raggiunto (e non per questo
non ci si mobilita in tal senso), dall'altro non si comprende che il salario garantito si pone l'obiettivo di
assicurare il diritto sacrosanto all'esistenza per chi è disoccupato o sottoccupato non certo per scelta
o per hobby, ma a causa di un sistema di sfruttamento che per alimentarsi ha bisogno di milioni di
disoccupati da usare come spauracchio per chi un lavoro ce l'ha.
2. Una campagna generale per il diritto al salario indiretto (scuola, trasporti, casa, servizi sociali).
Negli ultimi decenni l'attacco al salario indiretto ha rappresentato uno degli assi privilegiati attraverso
cui la classe dominante ha articolato la sua offensiva a tutto campo contro le condizioni di vita dei
proletari. Oltre all'attacco all'istruzione noto da anni all'opinione pubblica grazie alle mobilitazioni di
studenti e insegnanti, due tra i terreni principali attraverso cui il capitale ha incrementato i suoi profitti
sono rappresentati dai trasporti e dalla casa. Nel primo caso assistiamo da anni al progressivo
smantellamento del sistema nazionale dei trasporti: milioni di proletari che già devono fare i conti con
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un lavoro precario e condizioni di vita sempre più da fame, da anni vivono sempre più come un incubo
la propria condizione di pendolare, ammassati su treni o autobus sempre più simili a carri bestiame
per via della riduzione generalizzata delle corse, della mancanza di manutenzione dei mezzi e dei
convogli e del vertiginoso aumento del costo delle tariffe causati dalle politiche di tagli al trasporto
pubblico. Inutile sottolineare come lo smantellamento del trasporto pubblico vada a colpire quasi
esclusivamente lavoratori e proletari, così come ci appare quasi superfluo evidenziare come questo
sfascio vada di pari passo con l'attacco alle condizioni di lavoro degli autoferrotranvieri: è in
quest'ottica e non certo per una generica e interclassista “difesa dei beni comuni” o peggio ancora di
un'indistinta utenza, che in questi mesi abbiamo dato vita al Comitato Utenti e Lavoratori del Trasporto
Pubblico, al fine di unificare le rivendicazioni dei lavoratori del TPL e in prospettiva anche del trasporto
nazionale col diritto dei proletari ad usufruire di un trasporto pubblico efficiente e di qualità. Anche in
questo caso, come nel caso della lotta per il salario monetario, rivendichiamo la gratuità del servizio
per disoccupati e precari e tariffe sociali agevolate per i proletari occupati, il cui costo deve essere
accollato integralmente su chi dispone di tre o quattro veicoli privati, yacht e quant'altro. Discorso
analogo e forse ancora più stringente vale per l'emergenza abitativa, diventata sempre più
drammatica, prima con l'abolizione dell'equo canone, poi a seguito della legge 31/01, votata come
sempre dall'intera sinistra parlamentare, e della conseguente totale liberalizzazione del mercato degli
affitti, per non parlare del boom delle speculazioni edilizie e dei mutui sempre più da rapina.
C'è da dire che su quest'ultimo fronte non siamo all'anno zero: in molte città, in primo luogo a Roma
(che ha una tradizione storica di movimenti di lotta per la casa), ma anche in città come Napoli,
Milano, Torino e Livorno, si stanno negli ultimi mesi sviluppando numerose iniziative di occupazioni di
edifici pubblici dismessi, e ultimamente anche di immobili privati sfitti a fini speculativi . Si tratta di un
panorama da tenere d'occhio e con cui sviluppare sinergie volte non solo a rafforzare il movimento
delle occupazioni, ma a dar vita a una campagna generale per il diritto alla casa che coinvolga anche
tutti coloro che, pur avendo un tetto, si trovano quotidianamente sotto il ricatto degli sfratti e
dell'aumento di fitti e mutui.
3. Una campagna generale per il diritto di chi lavora a un salario pieno e intercategoriale. Si tratta
di un tema che coinvolge storicamente tutti i lavoratori precari e sottopagati, e che negli ultimi anni è
divenuto di stringente attualità anche per le centinaia di migliaia di cassintegrati espulsi dai processi
produttivi. Anche in questo caso il nodo di fondo è quello di dichiarare guerra alla frantumazione delle
forme contrattuali affermando il principio del diritto a un salario di base inalienabile per tutti i lavoratori.
La lotta degli operai della logistica riassume a nostro avviso meglio di ogni esempio o dissertazione
analitica il senso e la portata di questa battaglia: migliaia di lavoratori, in gran parte immigrati, che un
“lavoro garantito” già ce l'avevano ma che spesso si traduceva in livelli di sfruttamento indescrivibili,
hanno alzato la testa lottando per l'applicazione alla lettera del contratto nazionale di categoria e per
consistenti aumenti salariali.
Analogamente, sempre il caso della Fiat di Pomigliano pone oggettivamente in essere questa
necessità: per una famiglia operaia non è possibile sopravvivere con 700-800 euro al mese, dunque o
si trasforma l'istituto della CIG prevedendo la copertura a salario pieno dei periodi di non lavoro con i
costi a carico del padrone, oppure si tratta di aprire il fronte di lotta con lo Stato rivendicando che
quest'ultimo si faccia carico di garantire il salario pieno ai cassintegrati analogamente a quanto
chiediamo per i disoccupati e i precari.
4. Salario minimo europeo intercategoriale. Sinora l'UE ha rappresentato unicamente un processo di
unificazione dei mercati e di omogeneizzazione delle politiche monetarie ad uso e consumo del
grande capitale industriale e soprattutto bancario. Da questo punto di vista fanno bene dunque alcuni
spezzoni del movimento e del sindacalismo di base a denunciare l'essenza classista e anti-operaia
del Trattato di Maastricht e degli accordi che l'hanno seguito fino al Fiscal Compact e al Patto di
Stabilità. Tutto ciò però ci pare abbia ben poco, anzi nulla, a che vedere con alcuni rigurgiti di tipo
nazionalista che emergono attraverso proposte come l'uscita dall'euro, la creazione di nuove monete,
o peggio ancora, la sostanziale subalternità a fermenti populisti di carattere antieuropeista e/o
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antitedesco.
Al contrario, il quadro di crisi legato a disoccupazione e bassi salari soprattutto in Grecia, Spagna,
Portogallo e Italia (cui fa da contraltare la crescita o almeno la stabilità della locomotiva tedesca)
dovrebbe portare le realtà della sinistra di classe nostrana a rivendicare non certo una maggiore
autonomia dall'UE quanto piuttosto a organizzare i proletari in una lotta a tutto campo per
l'equiparazione dei salari in tutta Europa almeno ai livelli di quelli della grande industria tedesca e
francese, quale elemento di ricomposizione delle condizioni materiali dei proletari su scala
continentale e quindi elemento programmatico di centrale importanza per aprire una nuova stagione di
scontro di classe dispiegato in una dimensione adeguata ai livelli di attacco sferrati dalla classe
padronale.
Sia chiaro, e ci sembra quasi scontato doverlo ribadire, che questo tipo di rivendicazione non ha nulla
a che vedere con chi vaneggia di “modello sociale tedesco”: siamo ben consapevoli che il processo di
attacco ai salari, di precarizzazione crescente e di smantellamento delle garanzie procede
speditamente anche nel cuore della “locomotiva” europea (basti pensare alle riforme “Hartz”, che non
a caso prendono il nome da uno dei capi della Volkswagen). Si tratta, al contrario, di intraprendere
una lotta in tutta l'area euro contro le “gabbie salariali”, per equiparare i salari sui livelli più alti,
sganciandoli dal dogma della “produttivit à” e rivendicando l'applicazione di contratti collettivi di lavoro
europei. E' altresì evidente che una battaglia di questo tipo non può concepirsi al di fuori della più
generale lotta contro la precarietà e le mille forme di lavoro sottopagato, in Italia come in Germania...
- Salario VS Reddito
La rivendicazione del salario garantito, così come evidenziato da quanto esposto fino ad ora, è ben altra cosa
rispetto alla richiesta di un reddito universale così come formulata da Marco Fumagalli e ripresa su per giù con
lo stesso impianto da svariate realtà della “sinistra” politica e di movimento. Molti compagni spesso
interpretano tale puntualizzazione come se si trattasse di una questione puramente terminologica atta a
generare polemiche su elementi non sostanziali ovvero non attinenti il piano concreto e materiale della lotta
rivendicativa in sé, o al massimo tendono a ricondurre le differenze terminologiche esclusivamente ad un
differente bagaglio e/o ad una differente estrazione politico-culturale tra coloro che innalzano le rispettive
bandiere. In realtà la questione non è così semplice come si può credere, poiché dietro questa semplice
differenza terminologica non si cela semplicemente una differente impronta culturale quanto la linea di
demarcazione che separa un punto di vista di classe da un mero vertenzialismo interclassista.
Non riteniamo opportuno in questa sede entrare nel merito del corpus di rivendicazioni elaborato da Marco
Fumagalli, rimandando a tal proposito, tra gli altri, all'efficace critica svolta da Dante Lepore nel recente
opuscolo “Reddito universale...o salario garantito?” (PonSinMor edizioni, 2013), ma ci preme sottolineare
alcuni aspetti di fondamentale rilevanza sull'agire politico di noi tutti.
1. La rivendicazione del salario garantito non ha e non può avere alcun carattere di “universalità”: noi
partiamo dalla considerazione – per certi aspetti anche banale – che il costo delle ristrutturazioni, delle
dismissioni e dello smantellamento di interi impianti produttivi in Occidente, correlati alla crisi di
valorizzazione con cui il capitale si trova a fare i conti da circa trent'anni, è pagato quasi
esclusivamente dai lavoratori dipendenti e dalle loro famiglie. Sia chiaro, nessuno di noi intende
negare l'evidenza dei fatti caratterizzata da un sempre più marcato processo di “proletarizzazione” dei
ceti medi: ci sembra tuttavia proprio questo il punto che le teorie di Fumagalli & Co eludono
clamorosamente, nella misura in cui non si pongono il problema di chi materialmente dovrebbe
beneficiare di tali misure e soprattutto di chi dovrebbe mobilitarsi per ottenerle. Il parlare di basic
income ancorandolo ad una generica ed indistinta “cittadinanza”, della quale evidentemente farebbero
parte a pari titolo operai e padroni (magari evasori fiscali), disoccupati di lunga durata e padroncini
finiti sul lastrico (magari dopo aver sfruttato fino al midollo i loro operai), finisce per fare da contraltare,
avallandole, a quelle “critiche” che nelle righe precedenti abbiamo confutato in relazione al tema del
salario garantito, per il semplice motivo che, qualora la proposta di reddito di cittadinanza universale
divenisse realtà, essa avrebbe come esito un colossale trasferimento di ricchezza dalla classe operaia
ai “ceti non produttivi” della società. Al contrario per noi la rivendicazione del salario garantito poggia
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sulla convinzione della netta inconciliabilità del conflitto tra capitale e lavoro e si pone come
obiettivo strategico quello della ricomposizione di un fronte di classe omogeneo e combattivo.
Dunque, non “reddito per tutti”, bensì salario garantito per i proletari a spese del padrone . Scegliamo
quest'accezione poiché il reddito in quanto tale può essere da lavoro, da impresa o da rendita, e può
corrispondere a 500 euro mensili così come a 500 mila, mentre il salario è e resta nient'altro che il
costo di riproduzione della forza-lavoro, ovvero quanto serve mediamente all'operaio per vivere. Il
termine “salario” ci serve dunque per lanciare un ponte tra manodopera occupata e manodopera
inoccupata, entrambe appartenenti alla stessa classe in quanto detentrici di sola forza-lavoro da
vendere, ma divise surrettiziamente dal padrone in base all'opportunità o meno di utilizzare tali forze
nei processi di produzione di merci e servizi e di valorizzazione del capitale.
2. La bandiera del reddito di cittadinanza è sempre stata fatta propria da un settore della sinistra
affascinato dalle sirene del rifiuto del lavoro e del diritto all'ozio: queste fascinazioni di tipo precapitalista hanno il grosso limite di concentrare le loro invettive contro le conseguenze del sistema di
sfruttamento capitalistico (il lavoro salariato, ovvero l'obbligo del proletario a vendere la propria mercelavoro in cambio di un salario), e non viceversa sulle sue cause (il capitale e i suoi meccanismi di
riproduzione-accumulazione). Noi che lottiamo per una società di liberi ed uguali, da raggiungere
attraverso un mutamento rivoluzionario dello stato di cose esistente, non possiamo esimerci
dal comprendere che nessuna società futura potrà essere libera dal “lavoro” in quanto tale per
il semplice motivo che, anche nell'epoca dello sviluppo globale dei mezzi di comunicazione di
massa e della robotizzazione, il lavoro umano sia materiale che intellettivo è e rimarrà un
fattore essenziale per il progresso dell'umanità. Ciò che noi combattiamo invece è il lavoro
salariato, ovvero il meccanismo predatorio di estrazione di plusvalore intimamente connesso con la
struttura stessa del sistema capitalista, delle economie “di mercato” e dei capitalismi di stato più o
meno realizzati. In quest'ottica non esitiamo ad affermare che il nostro obiettivo è e resta lo stesso
obiettivo che si prefissavano Marx ed Engels nel corso della loro elaborazione teorica: il
rovesciamento dei rapporti sociali attraverso l'abolizione del lavoro salariato, l'abolizione di ogni
distinzione tra lavoro materiale e lavoro intellettuale e il superamento della legge del valore come
metro e misura delle relazioni umane ed economiche. Tornando all'attualità, l'esperienza materiale
sembra averci dimostrato che dietro agli slogan del superamento del lavoro o del diritto all'ozio si
celano in realtà logiche “micro-imprenditoriali” o di cosiddetto auto-reddito del tutto funzionali e
compatibili con la preservazione dei meccanismi di valorizzazione e quindi di sfruttamento dell'uomo
sull'uomo. Per giunta, l'enunciazione astratta di tali proponimenti si coniuga, qui ed ora, con una
sostanziale e supina accettazione della “flessibilità” del mercato del lavoro, considerata da gran parte
dei sostenitori del reddito universale di cittadinanza non solo come un qualcosa di ineluttabile nella
fase attuale del capitalismo “globalizzato”, ma addirittura un fattore di potenziale liberazione dai ritmi e
dalle “rigidità” proprie del fordismo novecentesco... Un bel modo, a nostro avviso, di prendere fischi
per applausi, o, per citare Lenin, di “fare ironia di un funerale”: questi compagni confondono i loro
desideri con la materialità dei rapporti sociali, finendo per non vedere che i meccanismi di “flessibilità”
– in realtà precarietà – attuali, lungi dal contenere in sé potenziali elementi di liberazione dal comando
capitalistico, hanno come propria precondizione essenziale proprio la riproduzione e la
generalizzazione delle forme più brutali di sfruttamento accompagnate alla totale cancellazione di
qualsivoglia garanzia salariale, unico possibile metro di valutazione delle “convenienze proletarie” in
regime capitalistico.
D'altra parte, è anche utile sottolineare come la precarietà del lavoro non sia certo una caratteristica
“nuova” nella storia del capitalismo, quanto piuttosto una tendenza correlata al suo normale
funzionamento: da questo punto di vista, sono le “rigidità” e le garanzie strappate con la lotta dalla
classe operaia nel secondo dopoguerra a rappresentare un eccezione nella storia del capitalismo,
mentre il quadro di insicurezza e deregolamentazione attuale ricorda molto le condizioni di vita e di
lavoro vissute dai proletari tra metà '800 e metà '900.
3. Ciò che però rileva maggiormente ai fini dello sviluppo di una campagna efficace realmente unitaria
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non sono tanto le differenze terminologiche, e neanche quelle teorico-analitiche, quanto piuttosto le
modalità attraverso le quali sviluppare un'iniziativa concreta sul terreno della disoccupazione e della
precarietà. In questi anni abbiamo assistito a numerose iniziative legislative, petizioni, raccolte di firme
e quant'altro sul tema del reddito: iniziative a nostro avviso senz'altro generose e mosse da buona
volontà, ma i cui esiti sono stati praticamente nulli per il semplice fatto che tali iniziative sono rimaste
impelagate ed incardinate nello schema classico della delega e dell'“affidamento” ai partiti
parlamentari e al potere legislativo dei destini di milioni di proletari. Per noi i termini della questione
sono esattamente rovesciati: se non si è capaci di mettere in campo e costruire nella quotidianità dello
scontro di classe dei percorsi di lotta reali che coinvolgano in primo luogo i disoccupati e i precari
stessi, possiamo stare certi che nessuno ci regalerà niente!
A tal proposito pensiamo sia anche giunto il momento di tracciare un bilancio sulle cosiddette
campagne contro la precarietà così come le abbiamo viste articolarsi nell'ultimo decennio. In
particolare, i percorsi legati alle ritualità festaiole e danzerecce della May-Day e alla retorica del
“siamo tutti precari” hanno avuto come unico esito un sostanziale “esodo” (voluto?) di migliaia di
giovani e studenti dal terreno concreto e quotidiano del conflitto sociale, che è andato di pari passo
con un sempre maggiore accomodamento nei confronti delle logiche consociative e concertative del
sindacalismo di Stato (CGIL) e della “sinistra” di governo. Dunque, aldilà delle buone intenzioni, finora
l'evocazione di un reddito universale per tutti ha sostanzialmente assunto le caratteristiche più di una
mera dichiarazione d'intenti da evocare “nei giorni di festa” che di una guida per l'azione e per
l'intervento sistematico all'interno della classe.
È alla luce di queste considerazioni che riteniamo quanto mai attuale il tema della costruzione di un fronte di
lotta unitario su scala almeno nazionale che abbia come suo tratto distintivo la battaglia per il salario pieno e
garantito. Sulla base di quanto fin qui detto, risulterà evidente che tale proposta di lavoro, sottraendosi alla
inconsistente e oramai alquanto stucchevole dicotomia tra diritto al lavoro e diritto all'ozio non può non
assumere come suo asse imprescindibile la battaglia, storica e quanto mai attuale, del movimento operaio per
la riduzione generalizzata della giornata lavorativa a parità di salario. Riduzione dell'orario di lavoro e
salario garantito rappresentano in quest'ottica due facce della stessa medaglia in cui una non può esistere
senza l'altra, nonché pilastro di una piattaforma generale unificante per tutto il mondo del lavoro e del non
lavoro. Oltre alla già menzionata battaglia per la riappropriazione di quote di salario indiretto, piuttosto che
rivendicare genericamente lavoro per tutti o reddito per tutti, occorre che le avanguardie di classe, e in primo
luogo coloro che svolgono attività sindacale nel vivo delle vertenze, inizino casomai ad interrogarsi su che tipo
di lavoro rivendicare: alle logiche assistenzialiste “micro-imprenditoriali” e/o di autodeterminazione della
propria miseria, va contrapposta la centralità del reintegro sul luogo di lavoro a salario pieno per tutti i
licenziati; in tutti i luoghi di lavoro in cui non si licenzia, alla frammentazione delle figure contrattuali all'interno
della medesima azienda va contrapposta una battaglia generale per la stabilizzazione dei precari e la
cancellazione delle leggi precarizzanti e/o per l'applicazione del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro
qualora la sua applicazione comporti miglioramenti nelle condizioni salariali e di lavoro; ovunque il livello di
conflittualità lo consenta diviene sempre più centrale lottare per consistenti aumenti salariali, come insegna
empiricamente l'esperienza degli operai della logistica.
- Conclusioni
Tutto ciò, ribadiamo, per noi non vuol essere un decalogo delle buone intenzioni, né tanto meno un elenco di
precetti rigidi e schematici da applicare dovunque: siamo consapevoli del fatto che ogni rivendicazione, anche
le più generali quali quelle per il salario garantito e per la riduzione dell'orario di lavoro, nel momento stesso in
cui fuoriescono dal mondo delle semplici enunciazioni per divenire pratica di lotta quotidiana si trovano a
dialettizzarsi e scontrarsi con una realtà regolata dalla ferrea legge dei rapporti di forza e soprattutto devono
fare i conti con un livello di coscienza di classe ancora lontano da quello che desidereremmo. Gli attacchi e le
controriforme a cascata avvenuti negli ultimi anni ci consegnano però una sola certezza, ovvero che di difesa
in difesa siamo quasi giunti al punto di non aver più nulla da dover difendere, e quindi nei prossimi mesi e nei
prossimi anni ogni battaglia rivendicativa potrà dare qualche risultato e/o avanzamento in termini reali solo
qualora saprà configurarsi materialmente e nell'immaginario collettivo della classe come battaglia offensiva
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(ovvero di riconquista e non di meramente resistenziale), e soprattutto ricompositiva, ovvero capace di parlare
all'intera classe sfruttata, indicarle la strada e spingerla all'azione. Ciò senza perdere mai di vista il dato
“storico”, ovvero l'inevitabile transitorietà di qualsiasi conquista parziale e dunque la necessità, per ogni
comunista e/o coerente anticapitalista, di collocare ogni battaglia vertenziale nella prospettiva del
superamento rivoluzionario di questo sistema, unica garanzia certa e duratura per sottrarre l'intero proletariato
alla barbarie della disoccupazione e dello sfruttamento.
Io vedo un giorno di nuove rivolte,
vedo la classe operaia insorgere ancora.
Non difesa, ma attacco
dev’essere la parola delle masse. [Per Lenin - V. V. Majakovskij]
Luglio 2013
Laboratorio Politico Iskra
Comunisti per l'Organizzazione di Classe - Napoli
www.laboratoriopoliticoiskra.org
www.combat-coc.org
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