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Copertina: grafica Bose Giesse
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SALVATORE RENNA
TRIPISCIANO e BELLI
UN SICILIANO PER ROMA
Storia di un monumento
PREFAZIONE di MAURO MELLINI
Bonfirraro Editore
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© 2012 by Bonfirraro Editore
Viale Ritrovato, 5 94012 Barrafranca Enna
Tel. 0934.464646 0934.400091 telefax 0934.1936565
E-mail: [email protected]
ISBN 978-88-6272-052-6
prima edizione: ottobre 2012
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A chi ha creduto in me,
ai miei genitori
e alla piccola Giada
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Ringraziamenti
L’Autore ringrazia la professoressa Rosanna Zaffuto
Rovello, ordinatrice e direttrice del Museo Tripisciano a
Caltanissetta, che, illustrandogli il ricco materiale conservato nel Museo in occasione di una sua visita ad esso, gli ha suggerito l’idea di questo lavoro.
Ringrazia l’avvocato Mauro Mellini che, si può dire,
dopo averlo in passato portato a conoscere ed apprezzare la poesia del Belli, lo ha “tenuto per mano” durante
tutta l’elaborazione dell’opera, fornendogli notizie, valutazioni e suggerimenti.
Ringrazia Franco Onorati del Centro Studi G.G. Belli
dei suggerimenti per le necessarie ricerche.
Un ringraziamento particolare alla dottoressa Paola Puglisi della Biblioteca Nazionale di Roma.
Un ringraziamento anche a Paola Manzaroli per l’opera paziente di sistemazione del testo.
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PREFAZIONE
Posso dire oggi che è per me motivo di vanto aver dato a Salvatore Renna, allora studente all’Università di Roma, l’occasione dell’ “incontro” con G.G. Belli. Ricorsi
a lui, Figlio di miei amici Siciliani, che sapevo essere abbastanza esperto in fotografia, per la riproduzione di lapidi, targhe e documenti che volevo inserire nel mio lavoro “Sta povera Giustizzia”, raccolta di 164 sonetti del
Belli aventi ad oggetto la giustizia del suo tempo (e non
solo).
Non si limitò alle fotografie e volle rendersi conto dei
sonetti cui specialmente sembravano riferirsi le varie illustrazioni e poi del loro Autore, di cui subito comprese
l’originalità e la grandezza. Scrisse poi un opuscolo in
cui raccolse una ventina di sonetti che riguardavano “gli
albori del turismo”, Roma Forestiera, su viaggiatori forestieri, Romani “in trasferta” etc. (egli era studente nel
corso di Scienze del Turismo). Ma già in quella sua “opera prima” era evidente che egli aveva versato i suoi sentimenti di “immigrato” nella Capitale, di aspirante ad una
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“romanità di adozione”, di cui credo sia e sarà ben degno.
Attraverso la poesia del Belli, Salvatore Renna si è inteso, meglio di quanto non gli sarebbe stato altrimenti
possibile, “Siciliano de Roma”.
Per questo, quando, per la copertina di quel suo opuscolo, andò a fotografare il monumento del Belli in Trastevere e seppe che autore ne era un Siciliano, Michele
Tripisciano, un altro “Siciliano de Roma”, ne fu assai impressionato e di Tripisciano volle sapere altro, soprattutto del suo rapporto con Roma, andandone a conoscere i
cimeli nel Museo di Caltanissetta, “scoprendo” quella
“romanità romanesca” di quell’Artista, venuto dalla bottega del Padre “quartararo” nella Capitale d’Italia, nella
Roma che era stata del Belli. Ed ha scoperto, ché questo
poi è il succo di questo suo nuovo lavoro, che anche per
quello scultore, Giuseppe Gioachino Belli era stato essenziale per questa metamorfosi, che, poi, non era propriamente una metamorfosi perché anche per Tripisciano, come per lui, Salvatore, “diventar” romano non aveva affatto significato dismettere la sua “sicilianità”.
Si potrebbe dire che, in fondo, il libro è tutto qui. Ma,
in qualche modo sarebbe fargli torto, perché sicuramente, attorno a questa idea centrale, c’è una grande ricchezza di notizie sulla Roma di cento anni fa, sull’ambiente
dei “romanisti”, sulla questione lingua-dialetto, sui personaggi che appaiono nella storia di quel monumento.
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E c’è una ammirevole reverenza per un ambiente politico, per un costume amministrativo, per uno spirito civico improntato al disinteresse che caratterizzò quell’omaggio che Roma volle rendere al suo Poeta.
La capacità di comprendere il valore di certe prassi, della semplicità e schiettezza con le quali si procedette, il
sentimento che in proposito esprime il nostro giovane
Autore sono qualcosa di cui dobbiamo essere grati a lui,
perché rappresentano la speranza nel domani. Una speranza che viene dalla storia. C’è da augurarsi che altro
ancora possa darci in futuro la passione e l’acume di questo giovane cultore di cose antiche e della loro presenza
nella nostra vita.
Mauro Mellini
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I
BELLI A CALTANISSETTA
Il turista che voglia visitare Caltanissetta non limitandosi ad un giro della Città, che pure potrà dargli un’idea
del passato di “capitale industriale” della Sicilia (ché, anzi, essa fu per molti anni, “capitale mondiale dello zolfo”) e di una certa opulenza borghese che ne derivò, lasciandovi un segno nell’edilizia otto-novecentesca, non
mancherà di visitare, nell’antico Palazzo Moncada, il
Museo Tripisciano, dedicato al cittadino nisseno Michele Tripisciano, notevolissimo scultore che visse ed operò a Roma tra lo scorcio dell’800 e la prima decade del
‘900 e che quanto nel suo studio romano vi conservava
delle sue sculture, dei bozzetti e delle prove di molte sue
opere più importanti, lasciò per testamento la proprietà
alla Sua Città natale.
Il Museo è sito in quell’antico palazzo, singolare costruzione seicentesca, dalle possenti muraglie destinate a
sostenere altri piani, mai costruiti, della dimora di un Vicerè ambizioso. Tanto da essere sospettato di velleità di
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rivolta al suo Re di Spagna, così da essere richiamato in
patria ed allontanato da quello che forse aveva sognato
segretamente potesse diventare il suo regno.
Quel palazzo, concepito con tanta superba possanza ed
incompiuto, può ben rappresentare la parabola politica di
questo personaggio.
Nel piano “ammezzato” del Palazzo Moncada è sito,
appunto, il Museo Tripisciano, dove quanto lasciato dallo Scultore alla Sua Città (in cui si ergono il monumento ad Umberto I e la fontana del “Cavallo Marino e del
Tritone”, opere sue, e che a Tripisciano ha eretto a sua
volta un busto) è stato raccolto dalla professoressa Rosanna Zaffuto Rovello e sistemato con criteri e gusto non
comuni.
Il visitatore si meraviglierà probabilmente, notando che
una delle sale del Museo è denominata “Sala del Belli”.
Eppure quella intitolazione è tutt’altro che casuale. È,
per così dire, naturale, non solo perché in quella sala sono conservati il bozzetto (con il quale Tripisciano vinse
il concorso per il monumento al Poeta) e varie prove e
copie di particolari di quella che fu l’ultima opera dello
Scultore nisseno, ma perché Tripisciano, pur così legato
alla Sua Città ed alla Sua Sicilia, come dimostrano le sue
ultime volontà, nato e morto a Caltanissetta, fu, al contempo, artista pienamente romano e, per certi versi addirittura “romanesco”, non solo per la scuola dell’arte sua,
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che fu romana (quella del popolare Ospizio del San Michele e poi dello studio di Francesco Fabi Altini, dove
lavorò per anni) ma per i legami intensi con artisti e letterati romani, che lo accolsero nell’ambito di quel rifiorito culto per la tradizione popolare e dialettale romana,
di cui sono prova due sonetti (di cui uno finora inedito)
in dialetto romanesco a lui dedicati che ci sono pervenuti, l’uno celebrativo di quell’opera ultima dedicata al Poeta della Plebe Romana, l’altro scritto in occasione della
morte dello stesso Tripisciano, che poco dopo intervenne a Caltanissetta.
Possiamo dire, dunque, che Michele Tripisciano fu uno
di quei Siciliani che nel secolo seguente l’Unità d’Italia
andarono ad infoltire la schiera dei “Romani d’Italia”, se
non dei “Romani de Roma” e per i quali la conoscenza
dell’animo popolare delle loro Terre, della loro Isola fu
strumento di penetrazione e di comprensione della complessità e contraddittorietà dell’anima popolare romana.
D’altro canto quell’ultima opera scultorea di Michele
Tripisciano, suggello della sua breve vita di artista (morì
a 53 anni il 21 settembre 1913 esssendo nato il 13 luglio
1860) fu degno omaggio della Città di Roma al suo Poeta e la sua erezione ed inaugurazione segnò qualcosa d’assai di più di una semplice celebrazione di una data. Il “Poeta segreto” di Roma che, perché segreto, perché dialettale, perché, in modo così romanesco al contempo “fedel
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cristiano” ed impietoso fustigatore di Papi, di Cardinali,
di riti più superstiziosi che religiosi, di ipocrisie e grossolanità di una religione esangue e divenuta meschina, di
un clero sonnolento e corrotto, che aveva suscitato lo stupore di personaggi stranieri come Gogol, usciva davvero dalla clandestinità nella quale lo avevano racchiuso
dapprima l’esigenza “de non finì in Castello” di farsi tollerare dalla Polizia Pontificia, poi una certa chiusura della cultura ufficiale della nuova Italia, di cui è riprova il
silenzio sul conto del Belli, del grande storico della letteratura Italiana, Francesco De Santis.
L’inaugurazione del monumento a Giuseppe Gioachino Belli, nel centenario della morte del Poeta, nel 1913,
faceva seguito alla celebrazione del cinquantenario dell’Unità d’Italia (17 marzo 1911) nel quale nuove opere
pubbliche, destinate a segnare nella pietra i fasti di una
“Terza Roma”, erano state inaugurate nella Capitale: dal
monumento a Vittorio Emanuele II, concepito come glorificazione della nuova Italia e delle sue libertà (“Patriae
Unitati Civium libertati” è il motto che corona l’opera)
al Palazzo di Giustizia di Piazza Cavour, al Ponte Risorgimento sul Tevere (il primo in cemento armato), ad una
sola campata, tra i due quartieri, allora ancora da edificare, di Delle Vittorie e Flaminio.
Le opere e le celebrazioni del Cinquantenario dell’Unità,
furono concepite in chiave monarchica, conservatrice e
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“statale” (il monumento a Vittorio Emanuele, infatti, celebrava il Risorgimento come opera del “Gran Re” e di
Casa Savoia, mentre alcuni avrebbero invano voluto che
in quel sacrario del Risorgimento, accanto al Re Vittorio
fossero esaltate le figure degli altri grandi artefici: Cavour, Garibaldi, Mazzini).
Al contrario il monumento al Belli e la celebrazione del
cinquantenario della sua morte, oltre ad avere tono, comprensibilmente, più dimesso, ebbero carattere decisamente popolare, come del resto si conveniva all’omaggio al Poeta della Plebe di Roma. Ed il fatto che il monumento non fosse scolpito ed eretto ad opera del Comune (o di altro ente pubblico) ma per pubblica sottoscrizione popolare, fu del tutto conforme a questo diverso
modo di celebrare il nuovo ruolo di Roma, della sua cultura e della sua anima.
Forse un’altra considerazione può esser fatta, riguardante, appunto l’autore della scultura. La “sicilianità”,
(che non impediva la contemporanea “romanità”) di Tripisciano ben si adattava a questo nuovo ruolo di Roma,
popolare e nazionale, che, al contempo, vedeva celebrato nel marmo il suo più genuino poeta da un figlio del
popolo di Sicilia, dal figlio di Ferdinando Tripisciano, un
“quartararo” di Caltanissetta.
La storia è fatta anche di certe coincidenze.
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II
DAL SEGRETO AL MONUMENTO
Giuseppe Gioachino Belli, grandissimo poeta oggi pienamente riconosciuto tale, non fu solamente singolare per
aver raggiunto le vette dell’arte letteraria valendosi del
dialetto anziché della lingua forbita della grande letteratura, ed, anzi, del dialetto della plebe “infima” della sua
Città, della parlata degli artigiani, facchini, servitori, cocchieri, mendicanti, fatta pure di corruzione del linguaggio “colto” dei padroni e dei monsignori, di spropositi
derivati dallo stesso linguaggio liturgico latino. Fu singolare, unico probabilmente nella storia letteraria d’ogni
paese del Mondo, per essere rimasto sempre, in vita,
“poeta segreto”.
Tale lo definirono alcuni grandi della letteratura europea.
Nel “Carnet de voyage” Charles Augustine de SainteBeuve scriveva: “Straordinario! Un grande poeta a Roma, un poeta originale Belli (o Beli) Gogol lo conosce e
me ne ha parlato a fondo, scrive… in dialetto trasteverino… sembra che sia un poeta raro, nel senso serio del
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termine…”. E, poi, in una lettera a Charles Labitte (1839):
“C’è a Roma… un poeta… sembra proprio che sia un
grande poeta… egli non pubblica, le sue opere restano
manoscritte e non circolano quasi del tutto” e sul “Premiers lundis: … questo Belli è rimasto così perfettamente sconosciuto a tutti i viaggiatori…”.
È lo stesso Belli, che dei suoi sonetti faceva delle deliziose letture ai suoi intimi amici, aveva scritto che quei
sonetti erano destinati unicamente alla sua intima soddisfazione. Ma lo aveva scritto e ribadito con tanta compunzione, da far ritenere che con quelle dichiarazioni intendesse precostituirsi una difesa nel caso la polizia pontificia, che probabilmente sapeva più di quel che mostrava di sapere di quel grande affastellarsi di feroci e blasfeme satire al Papa, ai preti, al loro governo ed alla società
soggetta al dominio clericale, aprisse ambedue gli occhi
e mettesse le mani su quei “corpi di reato”. C’è chi sostiene (ad esempio, Mauro Mellini in “Sta’povera giustizzia”)
che sono le stesse note di cui il Belli muniva i sonetti che
dimostrano che egli volesse che fossero, almeno, predisposti per la pubblicazione e destinati, anzi, ad un pubblico non soltanto romano. Ma anche tra le righe di Gogol
appare la notizia dell’intenzione, o della speranza, nutrite
dal Belli di poter arrivare un giorno o l’altro, alla pubblicazione. Poi, con il chiudersi dell’uomo in sé stesso, dopo le vicende del 1849, nella vecchiaia e nello sgomento
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dell’approssimarsi della fine, venne quella che sembra
essere stata un’effettiva resipiscenza, il disconoscimento e l’esecrazione della sua opera, il pentimento, cui seguì la “condanna” alla distruzione di quei capolavori. Che
però, pur potendolo, non volle egli stesso eseguire. Lasciandone il compito, per testamento, ai suoi eredi. Che
disconobbero, grazie all’intervento di Monsignor Tizzani, grande amico del Poeta, tale sua ultima volontà, salvando quell’inestimabile patrimonio dell’arte e della cultura. Un’altra singolare stranezza dunque: era toccato ad
un prete, ad un vescovo, salvare uno dei più taglienti ed
impietosi atti di accusa di una fase di disfacimento della
vita della Chiesa e del Clero di Roma.
Il “segreto”, del resto relativo ed alquanto “all’italiana”
in cui, quale che fossero le altrettanto segrete speranze e
intenzioni del Belli, questi ebbe a sviluppare la sua grandiosa opera poetica, non rimase tuttavia un fatto estrinseco, una condizione esteriore della sua arte ed, anzi, della storia di essa.
Se la figura del “poeta segreto” era tale da esaltare le
fantasie romantiche di letterati ed artisti stranieri, per i
quali quella stessa strana figura andava ad aggiungersi
agli altri segreti italiani e romani, per loro così intricanti e deliziosi, è certo che quella particolare condizione fece sì che paradossalmente, più libera e genuina si sprigionasse nella penna del Poeta la voglia di verità e di
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bellì 26 settembre.qxp