Il nome di Dio è Amore. La dimensione teo-logica della carità di Giuseppe Lorizio* «Chi è Dio?», la domanda risuonava nella ricordava molto da vicino quello aristotelichiesetta adibita ad aula di catechismo, deco, cui l’enciclica Deus caritas est dedica un’importante citazione, in un passaggio clamata dalla voce stridula ma decisa della decisivo e fondasuora e non passava mentale, nel quale, che qualche secondo Il prof. Lorizio ci offre una dotta riflessione mentre da un lato perché il folto grupsull’enciclica di Benedetto XVI «Deus carinon si nega il po di fanciulli, rigotas est». Mettendo a confronto metafisica profondo valore del rosamente diviso fra dell’essere e metafisica dell’amore, il testo pensiero greco-arimaschietti e femmipapale viene attentamente riletto, riporstotelico, si marca nucce, scandisse a tando con ampiezza gli autori che vi sono anche la differenza sua volta la risposta: citati, in particolare lo Pseudo Dionigi, di teo-logica rispetto al «Dio è l’Essere percui viene messo in luce l’apporto innovatomessaggio biblico, fettissimo Creatore e re rispetto alla precedente tradizione pagagià veterotestamentaSignore del cielo e na (Platone), giudaica (Filone) e cristiana rio: «La potenza didella terra», per ag(Gregorio Nisseno e Origene). Confrontanvina che Aristotele, giungere, poco più dosi con la più recente riflessione teologica, al culmine della filoavanti che Egli «ci ha l’autore argomenta che la presunta opposisofia greca, cercò di creati per conoscerlo, zione tra verità e carità è solo un falso dicogliere mediante la amarlo e servirlo in lemma. La presentazione della riflessione riflessione, è sì per questa vita, e per godi A. Rosmini sul tema dell’amore e le posogni essere oggetto derlo poi nell’altra, sibili applicazioni all’IRC concludono questo impegnativo contributo, che può aiutadel desiderio e dell’ain paradiso». Formure gli IdR a comprendere meglio – e dunmore — come realtà le la cui comprensioque sfruttare in maniera ottimale anche amata questa divine, nonostante le nell’attività didattica – l’enciclica. nità muove il mondo maldestre spiegazio—, ma essa stessa ni che ci venivano non ha bisogno di niente e non ama, solofferte, ci sfuggiva, ma che racchiudevano e tanto viene amata. L’unico Dio in cui Israecustodivano una sapienza antica, richiamale crede, invece, ama personalmente. Il suo ta a salvaguardia della trascendenza divina, amore, inoltre, è un amore elettivo: tra tutti che il pensiero moderno in modalità diveri popoli Egli sceglie Israele e lo ama — con se, ma sempre ideologicamente configurate, lo scopo però di guarire, proprio in tal mocercava di negare ed eludere. Si trattava ando, l’intera umanità. Egli ama, e questo suo che di formule il cui impianto speculativo * Preside dell’ISSR “Ecclesia Mater” e ordinario di Teologia Fondamentale nella Pontificia Università Lateranense. 6 Fonografo Pathé, modello 1907 Riprodurre è un’azione che descrive e connota un obiettivo dell’insegnare. È sinonimo (un po’ sintetico) di azioni che mirano a verificare le capacità dello studente di riproporre, dire a memoria, indicare qualcosa di precedentemente visto/ascoltato…, insomma un «fare memoria». Cioè si chiede al ragazzo di essere un riproduttore, un fonografo (per usare un termine arcaico). E tale abilità riguarda tutto ciò che fa parte del passato, di ciò che è già avvenuto, è già stato detto, visto, fatto… È quella parte del passato che deve diventare memoria. Solo in relazione alla memoria lo studente può fare da fonografo. Diversamente sarebbe un immemore ripetitore “temporis acti”, allorquando l’insegnante inserisce un gettone o comincia a girare quella manovella che dà motore e movimento al fonografo che – se non è rotto – comincia a riprodurre. Oggi gli studenti spesso sono molto “rotti” ad avere a che fare con un passato trapassato, che non permette di acquisire competenze e spesso restituisce soltanto l’odore di muffa e non il profumo della tradizione e dell’antichità. amore può essere qualificato senz’altro come eros, che tuttavia è anche e totalmente agape» (DCE, n. 9, sottolineatura mia). 1. Metafisica dell’esodo Una lunga tradizione speculativa, nata da un geniale fraintendimento del testo biblico, aveva alimentato la “metafisica dell’Esodo”, elaborata su base agostiniana, strutturata e formulata nelle diverse tonalità dell’ontologia ispirate dalle dottrine tommasiane dell’«Ipsum esse subsistens» e dell’«actus essendi», secondo le due linee convergenti, caratteristiche della «filosofia cristiana», disegnate da É. Gilson: quella della perfezione e quella dell’infinità, entrambi qualificazioni dell’Essere da cui si diramano1. Felix culpa! dovremmo dunque esclamare di fronte a questo fraintendi1 mento di Es 3,14, se da esso si è generata tanta e così alta speculazione non solo teologica, ma filosofica. Quanto ad Agostino, al di là dei problemi filologici che una corretta ricostruzione del testo di Confessioni XIII, 31,46 pone, penso possa essere utile sottolineare l’orizzonte pneumatologico in cui situa il nostro rapportarci al bene. «Attraverso lo Spirito – scrive l’Ipponate – noi vediamo come tutto ciò che in qualche modo è, è buono, poiché è da colui che non è in qualche modo, ma è Colui che è» [«per quem videmus, quia bonum est, quidquid aliquo modo est: ab illo enim est, qui non aliquo modo est, sed quod est est»]. Non bisogna tuttavia dimenticare che una lettura (fraintendimento) in chiave ontologica del testo veterotestamentario era già stata intravista da quel grande mediatore cultu- Cfr É. GILSON, Lo spirito della filosofia medievale, Morcelliana, Brescia 19833, p. 65. 7 rale fra Bibbia e filosofia (Atene e Gerusalemme) che fu Filone Alessandrino: «Fra le virtù quella di Dio sussiste davvero dal punto di vista ontologico, poiché Dio è il solo che resti saldo nell’essere. “Io sono colui che è” (Es 3,14) fa comprendere che le realtà a Lui inferiori non sono, dal punto di vista ontologico, veri e propri esseri, bensì sono considerate sussistenti solo nell’opinione corrente» 2. Che è come dire l’ente o è creato o è nulla, ossia o è amato o non esiste. Ma con questo siamo ancora nell’orizzonte ebraico, ovvero possiamo ancora intendere questo rapporto di amore come rapporto fra Dio, il mondo e l’uomo3. Il messaggio cristiano interviene a dire che Dio è amore in sé e non solo in rapporto al mondo e all’uomo, ossia offre la prospettiva trinitaria come unico possibile coerente svolgimento della metafisica agapica. La Rivelazione sarà dunque manifestazione di questo amore e la sua credibilità apparterrà unicamente alla sua virtus amativa4. Alla precedente indicazione ontologica possiamo accostare almeno due altre acute osservazioni filoniane, la prima delle quali ha il senso di un monito: «Egli dice: Io sono colui che è il che equivale a la mia natura è di essere, non di essere nominato. Ma perché il genere umano non sia privato del tutto di una denominazione da dare al Bene supremo, Egli concede loro di servirsi di questo nome: Signore Iddio delle tre nature: l’insegnamento, la perfezione e l’esercizio, di cui nelle Scritture sono simboli Abramo, Isacco e Giacobbe»5. Infine un invito: la “risposta oracolare” data a Mosé è tale da lasciar intendere che «non essendovi in Dio alcuna cosa che l’uomo sia in grado di afferrare con la mente, egli ne conosca almeno l’esistenza»6. Rispetto alle questioni connesse con la “metafisica dell’Esodo”, Edith Stein, rifacendosi proprio al luogo agostiniano sopra citato, annoterà: «Mi sembra molto importante che a questo punto non si dica: “Io sono l’essere” oppure “Io sono l’ente”, ma invece “Io sono colui che sono”. Quasi non si osa chiarire queste parole con altre. Tuttavia, se l’interpretazione agostiniana è esatta, si può dedurre: colui il cui nome è “Io sono”, è l’essere in persona»7. Solo un essere personale, infatti, può creare. E qui incrociamo il luogo forse speculativamente più rilevante della nostra enciclica, dove leggiamo: «L’amore appassionato di Dio per il suo popolo – per l’uomo – è nello stesso tempo un amore che perdona. Esso è talmente grande da rivolgere Dio contro se stesso, il suo amore contro la sua giustizia. Il cristiano vede, in questo, già profilarsi velatamente il mistero della Croce: Dio ama tanto l’uomo che, facendosi uomo Egli stesso, lo segue fin nella morte e in questo modo riconcilia giustizia e amore. L’aspetto filosofico e storico-religioso da rilevare in questa visione della Bibbia sta nel fatto che, da una parte, ci troviamo di fronte ad un’immagine strettamente metafisica di Dio: Dio è in assoluto la sorgente originaria di ogni essere; ma questo principio creativo di tutte le cose – il Logos, la ragione primordiale – è al contempo un amante con tutta la passione di 2 Quod deterius, 159, in FILONE DI ALESSANDRIA, Tutti i trattati del commentario allegorico alla Bibbia, Bompiani, Milano 2005, p. 525. 3 Cfr F. ROSENZWEIG, La stella della redenzione, Vita e Pensiero, Milano 2005. 4 Cfr H.U. VON BALTHASAR, Solo l’amore è credibile, Borla, Roma 1977. 5 De mutatione nominum, II, 11-12, in FILONE DI ALESSANDRIA, Tutti i trattati…, cit., p. 1549. 6 De somniis, I 231, in ibid., p. 1735. 7 E. STEIN, Essere finito ed essere eterno. Per un’elevazione al senso dell’essere, Città Nuova, Roma 19994, p. 367. 8 un vero amore. In questo modo l’eros è nobilitato al massimo, ma contemporaneamente così purificato da fondersi con l’agape» (DCE, 10). 2. Metafisica agapica Questa visione erotico-agapica di Dio affonda le sue radici in un’antica tradizione, quella che potremmo denominare, senza volerla in alcun modo contrapporre alla precedente, della “metafisica agapica” o “metafisica della carità”. Lo stesso pontefice, acuto interprete di Agostino, rimanda non solo a questo grande maestro del pensiero credente, in alcuni passaggi significativi dell’enciclica, ma svela la fonte della sua visione erotico-agapica del Dio cristiano rimandando al cap. IV del De divinis nominibus dello Pseudo Dionigi. E questo riferimento precede quelli agostiniani, invertendo così la cronologia dei personaggi. Siamo in ogni caso anche qui di fronte a un’antica sapienza, non tanto nutrita della metafisica aristotelica, quanto del pensiero platonico, nonché di quel neoplatonismo meritevole dei primi tentativi di conciliazione fra le due grandi figure speculative dell’antica Grecia. Si tratta, per dirla con una certa brutalità determinata dall’impossibilità di fornire in questa sede adeguati approfondimenti, di declinare quella “filosofia dinamica” dell’essere, richiamata anche dalla Fides et ratio (FeR, 97) e di indicare con chiarezza e determinazione nella vis amativa la dynamis che muove Dio, il mondo e l’uomo (i tre elementi della Stella della Redenzione) e ne determina il rapporto. L’autore del corpus dionisiano osa molto (e siamo grati al suo coraggio speculativo, che tante pagine della grande filosofia cristiana ha ispirato) perché, pur nell’orizzonte apofatico, ci suggerisce di nominare Dio, nella maniera meno impropria e idolatrica possi- bile ed indica all’enciclica la prospettiva teologica ispiratrice della prima parte. Segnaliamo qui, perché a nostro avviso particolarmente istruttivi, tre luoghi o momenti attraverso cui si esprime la trasgressione nell’opera dello Pseudo Dionigi: a) rispetto a Filone; b) rispetto a Platone; c) rispetto a Gregorio di Nissa e ad Origene. Né mi sembra troppo lontana dal vero l’ipotesi interpretativa secondo cui è forse proprio a causa di queste trasgressioni (riconducibili ad un unico movimento speculativo) che l’autore non solo resta anonimo, ma chiede al suo lettore-interlocutore Timoteo di custodire nel segreto quanto è andato esponendo. a) La trasgressione rispetto a Filone riguarda il divieto di nominare Dio. Divieto sostanzialmente accolto dallo Pseudo Dionigi in linea teorica, ma di fatto trasgredito nelle pagine della sua opera sui nomi divini. Potremmo raccogliere intorno al senso di questa trasgressione alcune riflessioni, la prima delle quali concerne la pertinenza della proibizione rispetto alle possibilità dell’uomo di nominare Dio. È Lui al contrario che si nomina e nominandosi denomina gli uomini e le cose. In questo senso il nome proprio di Dio può essere solo rivelato e non attinto razionalmente. La ragione – diceva già Filone – potrà giungere ad indicarne l’esistenza, ma non a chiamare per nome il Creatore del cielo e della terra. Ma, proprio perché innominabile, a Dio si addicono molti nomi, anzi tutti i nomi: «Così dunque – scrive l’anonimo – alla Causa di tutte le cose e che è superiore a tutte le cose non si addice nessun nome e si addicono tutti i nomi delle cose che sono, perché sia regina [il termine greco è basilèa] di tutte le cose e tutte le cose gravitino intorno a lei e da lei dipendano come causa, principio e come fine ed ella, secondo il sacro detto, sia tutta 9 in tutti e sia veramente celebrata come […] custodia e domicilio [di tutte le cose]»8. Di qui dunque non l’indicazione di un solo nome, ma di una pluralità di nomi, in analogia col famoso passo della metafisica aristotelica dove si dice che l’essere si dice in molti modi [tò dé òn lèghetai mèn pôllachôs: Metafisica G 2 1003 a 33-349]. E tuttavia la polisemia non degenera in anarchia, in quanto si offre in una “gerarchia” (termine caro all’anonimo) dei nomi, che così avranno una struttura piramidale. In questo quadro alla sfera del primo nome, che è il Bene, appartengono i tre nomi di Luce, Bellezza, Amore e, solo successivamente i tre nomi di Essere, Vita, Sapienza, cui seguono tutti gli altri. b) La trasgressione rispetto a Platone riguarda l’attribuzione del termine Eros a Dio e quindi l’identificazione Eros-Agape. Il “divino” filosofo non aveva osato tanto. Egli giunge fino al punto di indicare Eros come demone, attribuendogli un ruolo di mediazione, fra il cielo e la terra, i divini e gli umani. E non è certo un caso se tale identificazione venga asserita da una donna, quella Diotima di Mantinea, il cui nome evoca la mitica figura dell’amante che ha ispirato il grande poeta F. Hölderlin, cantore peraltro della nostalgia degli dei e della Grecia felice, casa di tutti i celesti. Ma la figura dell’«eterno femminino che ci trae verso l’alto» (W. Goethe) non è solo immanente e pagana, si pensi all’Afrodite terrena e a quella celeste delle Enneadi plotiniane, richiamata proprio a proposito di Eros e della sua dimensione divina. Teilhard de Chardin ed Henri de Lubac ci hanno insegnato ad interpretare cristianamente l’eterno femminino in riferimento alla Vergine Madre, la quale «ci mostra che cos’è l’amore e da dove esso trae la sua origine, la sua forza sempre rinnovata» (DCE, 42). I commentatori non mancano di rilevare la cautela con la quale lo Pseudo Dionigi si accinge a parlare di Dio in termini erotici, soprattutto in considerazione del fatto che le Scritture non indicano mai Dio col nome di eros e solo due volte dicono che gli uomini lo devono amare usando il relativo verbo, mentre comunemente si usa come noto la terminologia legata all’agape. Ciò accade, dice l’Autore, perché il termine eros è troppo spesso inteso in senso volgare. Abbiamo bisogno quindi di una sorta di «purificazione della ragione» (formula che l’enciclica ripete tre volte, in altri contesti ai nn. 28 e 29) per poter accedere ad una prospettiva erotico-agapica, che non sia fuorviante o addirittura irriverente. Ed è la ragione purificata (o redenta) che riesce a cogliere ed esprimere il senso autentico dell’eros, ossia il suo carattere estatico. Ancora una volta la dipendenza dallo Pseudo Dionigi risulta evidente: non è l’eros ebbro e indisciplinato che può esprimere il nome divino, ma appunto l’eros estatico (DCE, 4), di cui ad esempio in questo passaggio del presunto areopagita: «L’Amore divino è estatico, in quanto non permette che gli amanti appartengano a se stessi, ma a quelli che essi amano»10, cui fa eco l’enciclica: «Sì, l’eros vuole sollevarci “in estasi” verso il Divino, condurci al di là di noi stessi, ma proprio per questo richiede un cammino di ascesa, di rinunce, di purificazioni e di guarigioni» (DCE, 5), e, più De divinis nominibus, I, 7, in DIONIGI AREOPAGITA, Tutte le opere. Gerarchia celeste - Gerarchia ecclesiastica - Nomi divini - Teologia mistica - Lettere, Rusconi, Milano 1981, pp. 262-263. 9 ARISTOTELE, Metafisica, saggio introduttivo, testo greco a fronte e commentario di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1993, II, pp. 130-131. 10 De divinis nominibus, IV, 134, in DIONIGI AREOPAGITA, Tutte le opere, cit., 310-311. 8 10 avanti: «amore è “estasi”, ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio» (DCE, 6). c) La trasgressione rispetto ai precedenti patristici (il Nisseno e Origene) si situa sulle precedenti considerazioni e riguarda l’annotazione dei commentatori secondo cui l’originalità dell’anonimo sta proprio nell’aver innestato in Dio la prospettiva agapico-erotica, laddove chi lo ha preceduto non ha ritenuto di dover valicare il limite antropologico, interpretando i due termini e il loro nesso come atteggiamenti fondamentali dell’uomo verso Dio. La prospettiva squisitamente teologica viene comunque salvaguardata per il fatto che si tratta appunto di una erotica della grazia, pur sempre antropologicamente declinata e non innestata nella vita divina stessa e nel mistero del Dio unitrino. Richiamando ancora una volta l’Agostino, caro al teologo Ratzinger, per indicare questo percorso propriamente speculativo e, direi, metafisico, si è evocata la figura della “terza navigazione”. La navigazione a gonfie vele secondo le indicazioni della “filosofia naturalista”, a dire di Eustazio, aveva condotto Platone nelle secche dell’immanentismo, la seconda navigazione che egli intraprende coi remi lo conduce a percepire la trascendenza dell’essere, sola capace di spiegare a fondo gli stessi fenomeni fisici. Ma il grande filosofo era giunto a un limite, da lui stesso profondamente avvertito, allorché aveva intravisto la necessità di una rivelazione divina per poter procedere nel cammino: così afferma nel Fedone 85d: «Perché su tali 11 questioni a me pare, o Socrate, come forse anche a te, che avere in questa nostra vita una idea sicura, sia o impossibile o molto difficile; ma d’altra parte non tentare ogni modo per mettere alla prova quello che se ne dice, e cessare di insistervi prima di aver esaurita ogni indagine da ogni punto di vista, questo, o Socrate, non mi par degno di uno spirito saldo e sano. Perché insomma, trattandosi di tali argomenti, non c’è che una cosa sola da fare di queste tre: o apprendere da altri dove sia la soluzione; o trovarla da sé; oppure, se questo non è possibile, accogliere quello dei ragionamenti umani che sia se non altro il migliore e il meno confutabile, e, lasciandosi trarre su codesto come sopra una zattera, attraversare così, a proprio rischio, il mare della vita: salvo che uno non sia in grado di fare il tragitto più sicuramente e meno pericolosamente su più solida barca, affidandosi a una divina rivelazione». Ora questa terza navigazione – come suggerisce un autorevole interprete sia di Platone che di Agostino – si compie col legno-barca della croce,11 che, come abbiamo avuto già modo di constatare, l’enciclica richiama in maniera decisa e decisiva. La possibilità dunque di “raccogliere”, ossia tener insieme l’essere e Dio passa attraverso la logica dell’incarnazione e della redenzione, sicché il teologo Ratzinger, così poteva affermare: «Il primato del Logos e il primato dell’amore si rivelano identici. Il Logos non apparve più solo come ragione matematica alla base di tutte le cose ma come amore creatore fino a diventare compassione verso al creatura. La dimensione cosmica della religione che venera il Creatore nella potenza dell’essere, e la sua dimensione esistenziale, la questione della redenzione, si compenetrarono e Cfr AGOSTINO, Amore Assoluto e “Terza navigazione”, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000. 11 divennero una cosa sola […]. Il tentativo di ridare, in questa crisi dell’umanità, un senso comprensibile alla nozione di cristianesimo come religio vera deve, per così dire, puntare ugualmente sull’ortoprassia e sull’ortodossia. Al livello più profondo il suo contenuto dovrà consistere oggi – come sempre in ultima analisi – nel fatto che l’amore e la ragione coincidono in quanto veri e propri pilastri fondamentali del reale: la ragione vera è l’amore e l’amore è la ragione vera. Nella loro unità essi sono il vero fondamento e lo scopo di tutto il reale»12. Il fondamento agapicoerotico che Benedetto XVI ci mostra nell’enciclica rinviando implicitamente a quella che amiamo denominare una “metafisica della carità”, induce ovviamente ad escludere ogni contrapposizione dialettica fra questa prospettiva teoretica e quella derivante dalla metafisica dell’essere o dell’esodo come l’abbiamo sopra descritta. E a questo proposito ci sia consentito richiamare un altro grande maestro del pensiero credente, studiato dal teologo Ratzinger, San Bonaventura e l’icona dei due cherubini: «Il primo fissa lo sguardo, innanzi tutto e principalmente sull’Essere stesso, affermando che il primo nome di Dio è “Colui che è”. Il secondo fissa lo sguardo sul Bene stesso, affermando che questo è il primo nome di Dio. Il primo modo riguarda in particolare il Vecchio Testamento, il quale proclama soprattutto l’unità dell’essenza divina, per cui fu detto a Mosé: “Io sono Colui che sono”. Il secondo riguarda il Nuovo Testamento, il quale determina la pluralità delle Persone divine, battezzando “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”» (Itinerarium mentis in Deum, V, 2). A questo riguardo bisognerà altresì annotare come il tentativo di conciliare i nomi di- vini del bene e dell’essere e quindi la metafisica della carità con la metafisica ontologica (o ontoteologica) secondo cui il bene o dilectio riguarderebbe il mistero di Dio quoad nos, mentre l’essere indicherebbe tale mistero in sé risulti poco convincente e teologicamente non pertinente se si considera il Dio del Nuovo Testamento nella prospettiva che gli è più propria, che è quella del “Dio Padre del Signore nostro Gesù Cristo” e dello “Spirito di Cristo”. L’articolazione trinitaria della formula Deus caritas risulta quindi decisiva ed imprescindibile proprio sul piano o livello fondativo, ed è in questo orizzonte o fondamento agapico che si situa il principio kenotico, attraverso cui il dinamismo estatico dell’eros trova espressione e configurazione storica. «“Se vedi la carità, vedi la Trinità” scriveva sant’Agostino» (DCE, 19). La citazione del De Trinitate risulta particolarmente significativa ed apre alla necessità dell’articolazione trinitaria della metafisica agapica, escludendo altresì il falso dilemma, molto attuale in alcuni settori della teologia contemporanea, tendente a contrapporre verità e carità. 3. Tra verità dell’essere e verità dell’amore L’attitudine antimetafisica di alcuni esiti del pensiero Novecento, soprattutto in quello che è stato definito l’ambito continentale, e che si potrebbe anche denominare ermeneutico, mette in campo un ulteriore falso dilemma, coinvolgendo in esso lo stesso cristianesimo, la cui concezione della carità sarebbe radicalmente alternativa rispetto al concetto di verità elaborato in sede metafisica13. In questa sede propriamente filosofica stupisce in particolare la confusione, ripetuta a mo’ di ritornello, fra la dimensione J. RATZINGER, «La verità cattolica», in Micromega 2/2000, p. 53. Si pensi alle posizioni convergenti di G. Vattimo e R. Rorty, recentemente riproposte in R. RORTY – G. VATTIMO, Il futuro della religione. Solidarietà, carità, ironia, Garzanti, Milano 2005. 12 13 12 oggettiva del vero (che ovviamente dal nostro punto di vista è irrinunciabile) con la prospettiva oggettivante (attribuita appunto ad una interpretazione in chiave metafisica della verità). Il rifiuto, certamente condivisibile, della seconda prospettiva, sembrerebbe dover necessariamente determinare la rinuncia ad ogni forma di oggettività, in particolare in ambito religioso, la cui appartenenza va ancora una volta reclusa nel privato delle coscienze, appunto soggettive. Queste tesi, peraltro molto diffuse non solo in Italia, in quanto tendenti ad esasperare la tematica della kenosi, come autosvuotamento di Dio, non mancano di esercitare un influsso non marginale anche su alcune proposte teologiche recenti14, tendenti ad esempio ad indicare il dinamismo kenotico in sede intratrinitaria15, come principio e fondamento della logica della fede cristiana, che a questo punto andrebbe meglio denominata come una vera e propria (il)logica16. Dal punto di vista invece di un’autentica logica della fede, mi sembra sia più corretto esprimersi in questi termini: la logica della fede cristiana ri-conosce il proprio principio nella kenosi del Logos, ovvero nel Lògos sarx eghèneto (Gv 1,18), dove il verbo dice riferimento al carattere storico di tale principio, e attraverso tale principio scopre il proprio fondamento nel nome del Dio neotestamentario che è ho Theòs agàpe estìn (1Gv 4,8). Sicché la logica della fede cristiana ha un principio kenotico e un fondamento agapico su cui poggia e attraverso i quali si costituisce e si esprime. Il principio kenotico va tuttavia interpretato e riflesso nella dinamica propria dell’inno della lettera ai Filippesi (2,6-11) in cui è attestato, dove alla kenosi del servo fa riscontro la sua esaltazione e glorificazione. Questa impostazione 14 «Con la fine della metafisica, scopo delle attività intellettuali non è più propriamente la conoscenza della verità, bensì quella “conversazione” nella quale ogni argomento ha il fondato diritto di trovare un accordo senza ricorrere ad alcuna autorità. Lo spazio lasciato vuoto dalla metafisica non deve più essere riempito da nuove filosofie che pretendano di esibire un fondamento estraneo alla “conversazione”. Nella cultura contemporanea questa posizione non è rappresentata solo dall’ermeneutica, ma anche da scienziati come Thomas Kuhn e Artur Fine, da filosofi come Robert Brandom e Bas van Frassen e di teologi come Jack Miles e Carmelo Dotolo [di quest’ultimo si cita La rivelazione cristiana. Storia, evento, mistero, Paoline, Milano 2002]» (S. ZABALA, «Introduzione. Una religione senza teisti e ateisti», in R. RORTY – G. VATTIMO, op. cit., p. 21). Un’analoga tendenza, forse molto meglio mascherata, a contrapporre carità e verità, nell’orizzonte antimetafisico, la rinveniamo in V. MANCUSO, Per amore. Rifondazione della fede, Mondadori, Milano 2005, dove leggiamo: «La verità infatti non è un teatro metafisico nascosto dietro chissà quale stella, ma è il bene degli uomini all’interno della vita concreta che coincide, ultimamente, con il bene della loro anima» (p. 39), e più avanti: «Ciò che è in gioco nella fede non è il soprannaturale; di esso “non si deve farne un oggetto, altrimenti lo si abbassa”, insegna Simone Weil. Ciò che è in gioco, piuttosto è questo mondo» (p. 40), «Se si vuol essere cristiani, non si tratta di professare una dottrina. Si tratta di lavorare» (p. 252) ecc. con i soliti luoghi comuni contro l’intellettualismo che caratterizzerebbe la sottolineatura della valenza veritativa della fede cristiana. Tra le altre posizioni teologiche nelle quali la tematica della kenosi assume un rilievo fondativo ed esclusivo, cfr K. RUHSTORFER «Credere e pensare: la presenza della rivelazione in occidente», in Il regno attualità 50 (2005) pp. 343-355. 15 Ad esempio H. U. von Balthasar sostiene che «l’annichilamento di Dio (nell’incarnazione) ha la sua possibilità ontologica nell’autorinuncia eterna di Dio, la sua donazione tripersonale». Di qui deriverebbero e qui si fonderebbero la kenosi della creazione, con particolare riferimento alla libertà creata e quella della croce. Per questa sintesi del pensiero balthasariano utilizziamo F. G. BRAMBILLA, Il Crocifisso risorto. Risurrezione di Gesù e fede dei discepoli, Queriniana, Brescia 1998, pp. 241-242, il quale non manca di rilevare il debito balthasariano verso Bulgakov, «liberato dalle sue escrescenze sociologiche» (ib., p. 241). Giustamente, a nostro avviso, L. Ladaria rileva come la tesi di von Balthasar risulti certamente suggestiva e particolarmente significativa in ordine al tentativo di pensare l’Assoluto in prospettiva agapica, ma anche come il termine kenosi vada più realisticamente applicato alla vicenda del Figlio e quindi alla sua vicenda storica e risulti problematico inserirlo nella trinità immanente, se non attraverso un’analogia troppo spinta, che finisce con lo smarrire il senso stesso della parola (cfr a tal proposito L. LADARIA, La Trinità mistero di comunione, Paoline, Milano 2004, pp. 226-227). Analoghe osservazioni critiche si possono altresì rivolgere all’utilizzo del termine kenosi in rapporto alla creazione. Come abbiamo rilevato in altra occasione, rifacendoci a Rosmini, il nascondersi di Dio va posto piuttosto in relazione alla vicenda del peccato e trova un suo ulteriore momento drammatico di nascondimento nella croce. 16 Coerentemente con una prospettiva radicalmente antimetafisica o postmetafisica, questa tendenza alla illogica viene richiamata da V. VITIELLO, «La metafisica della seconda persona», in Hermeneutica. Annuario di filosofia e di teologia, Morcelliana, Brescia 2005, pp. 34-37. 13 fondamentale del tema impone un’articolazione che ci sembra di poter esporre secondo i seguenti passaggi: a livello gnoseologico, la logica della fede cristiana esige un pensiero rivelativo, nel quale il riconoscimento del vero non può mai essere disgiunto dall’esercizio della libertà e dal coinvolgimento della carità; in secondo luogo la logica della fede cristiana è una logica del paradosso (nei tre sensi – dirompenza, antinomia e compimento – che abbiamo indicato altrove); in terzo luogo la logica della fede cristiana è una logica simbolico-sacramentale, o se si vuole “eucaristica” (anche per questo aspetto rimandiamo ad altri nostri lavori). Il fondamento agapico della logica cristiana esige a sua volta che l’ontologia e la metafisica che vi si dischiudono debbano essere intese e sviluppate nel senso di una ontologia trinitaria e di una metafisica della carità. Si tratta, per il teologo fondamentale, della capacità di credibilità che solo l’amore può ingenerare e sviluppare e l’aggancio con le precedenti riflessioni è costituito dalla possibilità (che per chi scrive è una vera e propria necessità) di innestare la tematica della “credibilità” dell’amore nel quadro della prospettiva agapica. In questo senso vengono a coincidere la credibilità della Rivelazione con quella dell’amore17. Questo momento della nostra riflessione può felicemente incrociare un famoso frammento 582 di Pascal: «Ci facciamo un idolo della stessa verità; perché la verità senza la carità non è Dio, è la sua immagine e un idolo che non bisogna amare né adorare; e meno ancora bisogna amare o adorare il suo contrario che è la menzogna»18. Una pro- spettiva di particolare interesse, nella quale l’orizzonte amativo si coniuga felicemente con l’istanza veritativa e la riflessione sulla libertà e il suo esercizio, possiamo rinvenirla in sede fenomenologica, frequentando sia la prospettiva scheleriana dell’«amore che fa vedere»19, dove si ha modo di ritrovare una feconda attenzione alla figura del “pensiero rivelativo”, sia le riflessioni di Dietrich von Hildebrand, dove l’essenza dell’amore, come “risposta al valore”, assumendo la forma della Überverantwort, si declina in termini di coinvolgimento fra l’aspetto del dono e quello della libertà. Il luogo in cui queste dimensioni si armonizzano è da rinvenirsi nell’affettività, dove conoscenza e volontà svolgono ciascuna nel suo ambito il loro ruolo. La figura dell’amore sponsale, in questa prospettiva fenomenologica, svolge un ruolo paradigmatico rispetto alle altre forme di amore e alle loro espressioni. In ogni caso la dimensione della gratuità del dono non viene ad annientare la responsabilità della volontà libera, bensì a farle assumere un atteggiamento di cooperazione nella sanzione della relazione affettiva. Hildebrand così riassume il proprio pensiero a riguardo: «Vediamo dunque che ci sono due dimensioni della donazione di sé. La prima è di natura puramente affettiva. Ha il carattere di un dono che non ci possiamo dare volendolo, che è una pure voce del cuore. [La seconda è la voce del nostro libero nucleo personale = Die Zweite ist die Stimme unseres freien Personzentrums – espressione non presente nella traduzione italiana]. La seconda è il sanzionamento della presa di 17 Cfr H. U. VON BALTHASAR, Solo l’amore è credibile, cit.; su questo tema balthasariano cfr R. FISICHELLA, Hans Urs von Balthasar. Dinamica dell’amore e credibilità del Cristianesimo, Città Nuova, Roma 1981. Alla “credibilità dell’amore” è stato intitolato il convegno celebrativo del centenario della nascita del teologo svizzero organizzato per ottobre 2005 presso la Pontificia Università Lateranense. 18 B. PASCAL, Pensieri, Opuscoli e Lettere, a cura di A. BAUSOLA, Rusconi, Milano 1978, p. 661 (fr. 582 Brunschvicg = 597 Chevalier). 19 Cfr il bel libro di G. DE SIMONE, L’amore fa vedere. Rivelazione e conoscenza nella filosofia della religione di Max Scheler, San Paolo, Cinisello Balsamo 2005. 14 posizione donativa, affettiva dell’amore. Solo quando si hanno entrambe, la donazione di sé raggiunge il suo carattere pieno»20. La fenomenologia, anche quando tratta dell’amore di Dio, evita accuratamente ogni riferimento intradivino e, coerentemente col suo metodo e con le sue impostazioni, resta sul terreno più propriamente antropologico ed ontologico, lasciando alla teologia ulteriori approfondimenti. Concluderei osservando che la riflessione sul rapporto fede/ragione, sviluppata nell’ambito della “metafisica agapica” da un lato non intende instaurare alcuna alternativa rispetto alla classica “metafisica dell’essere”, ma consentire al lumen Revelationis di rivestirla della nuova luce che emana dal Vangelo; d’altro lato rende fondamentalmente estrinseca la domanda circa il rapporto della fede con la ragione e della teologia con la filosofia nei termini di una “filosofia prima” oppure di una “filosofia ermeneutica”. Inoltre il ricorso alla prospettiva della “metafisica agapica” consente di evitare una sorta di “riduzionismo ontologico”, nonché di ripensare radicalmente il modulo teologicofondamentale della triplex demonstratio, che – spesso anche per ragioni condivisibili – stenta a lasciarsi superare soprattutto nelle proposte elaborate in ambito tedesco, anche di recente21, intrecciandosi e non di rado confondendosi col “modello antropologico trascendentale”, magari rivisitato e riproposto in forme diverse. Infine la prospettiva da noi adottata consente di smascherare il falso dilemma tendente a porre in alternativa verità e carità. A questo proposito vale la pena richiamare un passaggio dell’omelia pro eligendo Pontifice, nella quale l’allora, ancora per poco, cardinale J. Ratzinger così si esprimeva: «Ed è questa fede – solo la fede – che crea unità e si realizza nella carità. San Paolo ci offre a questo proposito – in contrasto con le continue peripezie di coloro che sono come fanciulli sballottati dalle onde – una bella parola: fare la verità nella carità, come formula fondamentale dell’esistenza cristiana. In Cristo, coincidono verità e carità. Nella misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono. La carità senza verità sarebbe cieca; la verità senza carità sarebbe come “un cembalo che tintinna” (1Cor 13, 1)». 4. Le forme della carità in Antonio Rosmini La tematica del Deus Caritas ha svolto un ruolo preminente nella speculazione rosminiana. L’unità e trinità di Dio risplende nell’essere uno e triniforme. Da notare che è l’essere che riflette Dio, non viceversa, e la struttura agapica è determinante, anche perché, come Dio e l’essere, la carità è una e trina: alla forma dell’essere reale corrisponde la carità temporale (quella per es. esercitata dalle nostre Caritas); all’essere ideale, la carità intellettuale (penso ad esempio al progetto culturale e ad ogni attività di servizio teologico nella Chiesa); all’essere morale, la carità spirituale (penso al dono di sé di quanti sono perseguitati e messi a morte solo perché cristiani, ma anche alla martyria testimonianza che siamo chiamati ad vivere nel quotidiano). D. VON HILDEBRAND, Essenza dell’amore, introduzione, traduzione, note e apparati di P. PREMOLI DE MARCHI, Bompiani, Milano 2003, p. 191. 21 Risulta fin troppo evidente nella strutturazione dell’Handbuch der Fundamentaltheologie l’adozione di questo modulo: Cfr W. KERN H. J. POTTMEYER - M. SECKLER (edd.), Corso di teologia fondamentale. Vol. I: Trattato sulla religione; vol. II: Trattato sulla rivelazione; vol. II: Trattato sulla Chiesa; vol. IV: Trattato sulla gnoseologia teologica, trad. it. Queriniana, Brescia 1990; ma esso viene a determinare strutturalmente ad esempio anche le proposte di H. VERWEYEN, La Parola definitiva di Dio. Compendio di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 2001; J. WERBICK, Essere responsabili della fede. Una teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 2002. 20 15 Il cap. VI della sezione VIII delle Costituzioni dell’Istituto della Carità22 contiene la descrizione e la gerarchizzazione delle tre forme della carità. Tutta la sezione, che riguarda le diverse opere di carità, si apre con un articolo concernente l’universalità della virtù teologale, espressa in questi termini: «L’amore è l’atto con cui la volontà tende verso il bene, ed è puro e perfetto quando non tende che verso il bene: infatti allora l’uomo vuole solo il bene, e perché è bene. Perciò questa volontà ama il bene dovunque sia, e ama di più quello che è più bene, e in tutto cerca il massimo bene. Quindi chi non ama Dio, che è il massimo bene, semplicemente neppure ama: se infatti amasse veramente, certo amerebbe Dio. E perciò la Scrittura parla semplicemente dell’amore come della vera carità, quando dice: “Chi non ama rimane nella morte” (1 Gv 3,14); e: “le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato” (Lc 7,47). Non dice “Chi non ama il fratello”, ma solo: “Chi non ama”, e neppure: “Poiché ha amato me”, ma “Poiché ha amato”. Infatti l’uomo che ha veramente in sé l’amore vuole ogni bene, perché vuole solo il bene, e così vuole il bene che c’è in Dio, il quale è bene senza attributi, e il bene che può esserci nell’uomo per qualità e partecipazione. E ciò significa amare Dio e l’uomo. Da ciò si vede che la carità è di sua natura universale, perché si estende a tutti i beni, secondo la specie e il grado di bontà per cui ciascuna cosa è buona»23. Ma, aggiunge il testo, sebbene l’uomo sia dotato da Dio di un cuore capace dell’infinito, tuttavia egli «per la limitatezza delle sue forze e soprattutto per la piccolezza del suo corpo, non può fare, per quanto sta in lui, se non poche delle molte cose che vorrebbe. Perciò ognuno, nell’esercizio pratico della carità deve porsi saggiamente un limite, perché i suoi sforzi, rivolti a molte cose, non si disperdano inutilmente. E quindi in questa comunione di fratelli, per valutare le forze dei singoli e adattare loro gli uffici di carità, sono stabiliti coloro che si giudicano più dotati di scienza e discrezione, con il compito di adattare i pesi alle forze di ciascuno e distribuire gli uffici di carità fra molti in modo che ognuno compia il massimo bene possibile, e dalle opere dei singoli messe insieme provenga il massimo bene che si può ottenere con il lavoro concorde di molti. E dato che dallo sforzo di molti, che collaborano concordemente e sono mossi da un’unica intenzione, si può avere un bene maggiore che se le stesse persone lavorassero singolarmente e separate, seguendo il loro giudizio personale; da ciò si capisce quanto tutti coloro che amano veramente debbano amare questa comunione di fratelli, poiché essa è il mezzo senza cui non si può compiere il bene maggiore»24. Dalla universalità della carità si fa provenire «quell’aurea indifferenza a qualunque opera di carità. Infatti, chi desidera il maggior bene possibile, deve guardare non solo a quello che fa lui direttamente, ma a tutto ciò che dall’opera sua ridonda nella somma di tutti i singoli beni. Quindi, anche se a lui sembra di fare poco bene, capirà tuttavia quanto grande diverrà quel poco di bene per il fatto che serve al grande bene che si accumula dall’opera di tutto il corpo della Società; e certo lui da solo non potrebbe fare 22 Il testo, pubblicato per la prima volta in edizione integrale, naturalmente in lingua latina, nel 1875 a Londra, porta come titolo completo Constitutiones Societatis a Charitate nuncupatae. Qui utilizzeremo la traduzione italiana che accompagna l’edizione critica curata da D. SARTORI (Città Nuova – CISR, Roma, Stresa 1996 = EC, 50). 23 EC, 50, pp. 436-437. 24 EC, 50, pp. 436-439. 16 di più, e nemmeno i singoli senza un’unica direzione»25. A proposito delle forme della carità, bisogna ricordare che il testo richiama ai membri dell’Istituto una indicazione fondamentale, che, ispirata alla suprema regola dell’umiltà, li invita a rimanere nello stato di vita comune a tutti i fedeli (il laicato) e a non cercare di diventare presbiteri o dottori se non in seguito alla chiamata divina e al suo severo discernimento26. Ed ecco come vengono descritte le tre forme di carità: «Gli uffici di carità, rispetto al bene del prossimo, a cui tendono direttamente, sono di tre specie. La prima specie comprende quegli uffici che tendono a giovare immediatamente al prossimo in ciò che riguarda la vita temporale: e questa si può chiamare carità temporale. La seconda specie comprende quegli uffici che tendono a giovare immediatamente al prossimo nella formazione del suo intelletto e nello sviluppo delle sue facoltà intellettuali: e questa si può chiamare carità intellettuale. La terza specie comprende gli uffici di carità che tendono a giovare al prossimo in ciò che spetta alla salvezza delle anime: e questa si può chiamare carità morale e spirituale»27. La terza forma della carità viene chiamata morale, in quanto «dispone l’uomo a compiere i doveri morali» e spirituale, in quanto è la stessa carità «elevata all’ordine soprannaturale, per cui l’uomo aderisce a Dio, ciò a cui tendono i mezzi religiosi con cui l’uomo, ottenuta la divina grazia, può adempiere gli obblighi morali»28. In analogia con le tre forme dell’essere si dà dunque un primato della terza forma sulle altre due, poiché «la carità spirituale tende a dare al prossimo ciò che è bene di per sé e solo bene, cioè la vita eterna. Invece la carità temporale e l’intellettuale offrono agli uomini soltanto beni relativi e parziali, che si possono dire beni solo in quanto sono ordinati con l’intenzione al bene assoluto della carità spirituale e ad esso in qualche modo dispongono. Perciò, parlando in senso stretto, le tre suddette specie di carità appartengono ad una sola [...], e quindi dobbiamo esercitare la carità temporale e l’intellettuale solo al fine di salvare le anime e di onorare nelle persone il nostro Dio e Signore Gesù, che volle prendere su di sé i bisogni di tutti noi»29. E aggiunge: «La principale e suprema specie di carità è la terza, che tende ad un bene più grande e più vero; poi eccelle la seconda specie, perché la formazione dell’intelletto è la più importante delle cose temporali e serve più da vicino alla specie suprema; la prima invece è la minima specie di carità»30. Il lavoro di chi si occupa di teologia (e conseguentemente di chi insegna religione) nella Chiesa e nella società civile va dunque annoverato nell’esercizio della forma intellettuale della carità e chiama in causa il rapporto fra Verità e Carità. La carità viene descritta come “via” della verità e sua “pienezza”, per cui l’Istituto dovrà «custodire in modo preclaro, contemplare ed indagare la verità, promuovendo in modo ottimo ed instancabile la cognizione della verità fra gli EC, 50, pp. 438-441. «Poiché lo stato che noi scegliamo è quello dell’umiltà e ci collochiamo fra i discepoli e non fra i maestri d’Israele, non dobbiamo abbandonare questo stato a noi carissimo senza un valido motivo e, quando possiamo, dobbiamo preferire quella carità che è propria di tutti i fedeli, assumendo lo stato di dottori e pastori solo quando si rende evidente la divina chiamata» (EC, 50, pp. 468-469). 27 EC, 50, pp. 466-469. 28 EC, 50, pp. 468-469. 29 EC, 50, pp. 468-469. 30 EC, 50, pp. 468-469. 25 26 17 uomini. Di qui deriva il genere di carità che abbiamo chiamato intellettuale, il quale tende immediatamente ad illuminare ed arricchire di cognizioni l’intelletto umano»31. La ricerca e la condivisione del vero, in quanto esercizio della carità intellettuale, si deve compiere nell’orizzonte della profonda unità, che, nella prospettiva sapienziale propria del Roveretano, caratterizza l’autentico sapere. A questo proposito le Costituzioni distinguono fra l’ordine assoluto della verità e quello relativo, laddove il primo fa sì che «tutte le scienze diventano una sola, ammirevole per chi la contempla e per l’unica essenza, in cui si scorgono tante cognizioni, la quale essenza è l’oggetto della beatitudine umana, cioè Dio; e per l’unico e fecondissimo principio, cioè Dio, da cui derivano tutte le cose; e infine per l’unico ottimo fine, che è sempre Dio, a cui tutte tornano. E quando si pensano tutte le cose unificate nella loro essenza, principio e fine, in tutte si onora e si conosce il principio e il fine di tutte, per cui Cristo disse: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesú Cristo” (Gv 17,3). Quando dunque ci dedichiamo alle scienze con l’unico fine di conoscere Dio, di obbedirgli e di aderire a lui con tutte le forze, lo studio di tutte le scienze diventa la scienza pratica di Dio, la sapienza, poiché allora in ogni cosa meditiamo la sua legge e la sua volontà, e consideriamo i suoi precetti; e di questa scienza Cristo dice ancora: “E io so che il suo comandamento è vita eterna” (Gv 12,50)»32. Nella prima forma di carità doniamo ciò che abbiamo, nella seconda ciò che sappiamo, nella terza noi stessi. Se l’essere ha a che fare con la carità e viceversa, questa, nel 31 32 EC, 50, 620-621. EC, 50, 620-623. 18 suo esercizio concreto e quotidiano, non può non ispirarsi alla triadicità delle sue forme, esprimendo, attraverso tale fondamentale riferimento, la propria origine trinitaria ed il proprio radicamento nel Dio uno e trino. La forma intellettuale della carità svolge un importante ruolo di mediazione tra il pensiero e il vissuto, fra la carità oggetto di speculazione teosofica e l’esercizio di essa nella concretezza dell’esistenza. Questo ruolo di mediazione risulta imprescindibile se non si vuole che la carità temporale diventi mero assistenzialismo e la martyria si offra in forme di fanatismo. 5. Spunti per l’IRC Una prima indicazione fondamentale che a mio avviso l’insegnante di religione può assumere da un’attenta lettura dell’enciclica si aggancia immediatamente alle riflessioni appena svolte ed in particolare alla sottolineatura del carattere intellettuale della carità. In questo orizzonte il lavoro quotidianamente svolto da chi insegna religione cattolica può, anzi deve, essere percepito e vissuto come autentico esercizio della carità, soprattutto in quella forma che Rosmini chiamava intellettuale e che noi potremmo definire culturale. Mostrare infatti la rilevanza dell’evento Cristo nell’ambito proprio della realtà scolastica, che eminentemente è quello della cultura, è infatti compito proprio, tra gli altri, dell’insegnante di religione. Tale collocazione del proprio insegnamento infatti consente che esso venga sottratto da un’interpretazione meramente nozionale dello stesso, senza tuttavia proporsi in forma di pura e semplice presenza accogliente e attenta ai bisogni delle persone che lavorano e abitano l’ambiente scolastico. La formazione degli insegnanti dovrebbe forse maggiormente tener conto di questo orizzonte agapico del sapere, nel quale – come direbbe K. Barth – si vive e si inserisce quello erotico della scienza. In questo senso allora non si tratta di un’opzionalità affidata al capriccio delle persone, ma di qualcosa che riguarda la natura stessa del messaggio e della comunità credente, cui ne è affidata la custrodia e la missione. Una seconda indicazione generale può innestarsi sulla necessità di mostrare la dimensione affettivo-erotica della fede, all’interno di un’attenta e adeguata educazione dell’affettività, così complessa e difficile soprattutto se rivolta all’età evolutiva. Qui è questione di equilibrio: l’insistenza su questa dimensione emozionale del credere può infatti facilmente generare impulsi sporadici di rapporto con Dio, dimenticandone la fatica della ragione e della volontà. Compito del docente-educatore sarà dunque sempre e comunque quello di aiutare e favorire il recupero delle dimensioni conoscitiva e volitiva, allorché emergesse con prevalenza schiacciante l’appiattirsi della fede dei propri interlocutori sulla dimensione meramente affettiva. E viceversa, sostenere e promuovere tale dimensione, quando essa fosse dimenticata o abbandonata o ritenuta avulsa dall’atto del credere cristiano. Una terza indicazione generale riguarda l’esperienza della carità come gratuità e il suo rapporto con la giustizia. È connessa alla credibilità di un insegnamento la necessità del docente di valutare giustamente i risultati raggiunti dai propri allievi, senza tuttavia mai confondere la valutazione dei risultati stessi con un giudizio sulla persona. Riuscire a far percepire questa differenza comporta certamente grande fatica, ma alla fine ripaga, anche in termini di riconoscimento del proprio lavoro da parte di studenti e colleghi. Posso testimoniare personalmente di contatti positivi, ad anni di distanza, con studenti cui magari avevo assegnato una valutazione bassa. Ricordiamo sempre il messaggio bonhoefferiano della “grazia a caro prezzo”. Altri spunti, soprattutto in relazione alla specificità della rivelazione cristiana del nome di Dio credo possano essere facilmente colti a partire dai confronti con la filosofia e le religioni monoteiste presenti in questo mio breve commento soprattutto alla prima parte dell’enciclica Deus caritas est. Si tratta della consapevolezza dell’unicità-universalità del messaggio cristiano da cui nasce un autentico dialogo interreligioso e interculturale, ma si tratta anche di cogliere e far cogliere l’amore umano (si pensi alla metafora sponsale che l’enciclica richiama) nella sua irriducibile peculiarità e nella sua indiscutibile universalità. Vorrei ora concludere tornando allo Pseudo Dionigi e richiamando l’invocazione alla Trinità, riportata nella Teosofia rosminiana: «Trinità sovrasostanziale superdivina e superbuona, custode della teosofia dei cristiani, conduci noi direttamente al vertice superinconoscibile e splendido e altissimo delle Scritture occulte, là dove i misteri semplici e assoluti e immutabili della teologia sono svelati, nella caligine luminosissima del silenzio che insegna in modo arcano; caligine che fa risplendere in maniera superiore nella massima oscurità ciò che è splendidissimo, e che in maniera esuberante riempie le intelligenze prive di occhi di splendori meravigliosi, nella piena intangibilità e invisibilità».33 Mistica Teologia, 997b-1000a. La traduzione cui facciamo riferimento è DIONIGI AREOPAGITA, Tutte le opere, cit. 33 19