Il nome di Dio è Amore.
La dimensione teo-logica della carità
di Giuseppe Lorizio*
«Chi è Dio?», la domanda risuonava nella
ricordava molto da vicino quello aristotelichiesetta adibita ad aula di catechismo, deco, cui l’enciclica Deus caritas est dedica
un’importante citazione, in un passaggio
clamata dalla voce stridula ma decisa della
decisivo e fondasuora e non passava
mentale, nel quale,
che qualche secondo
Il prof. Lorizio ci offre una dotta riflessione
mentre da un lato
perché il folto grupsull’enciclica di Benedetto XVI «Deus carinon si nega il
po di fanciulli, rigotas est». Mettendo a confronto metafisica
profondo valore del
rosamente diviso fra
dell’essere e metafisica dell’amore, il testo
pensiero greco-arimaschietti e femmipapale viene attentamente riletto, riporstotelico, si marca
nucce, scandisse a
tando con ampiezza gli autori che vi sono
anche la differenza
sua volta la risposta:
citati, in particolare lo Pseudo Dionigi, di
teo-logica rispetto al
«Dio è l’Essere percui viene messo in luce l’apporto innovatomessaggio biblico,
fettissimo Creatore e
re rispetto alla precedente tradizione pagagià veterotestamentaSignore del cielo e
na (Platone), giudaica (Filone) e cristiana
rio: «La potenza didella terra», per ag(Gregorio Nisseno e Origene). Confrontanvina che Aristotele,
giungere, poco più
dosi con la più recente riflessione teologica,
al culmine della filoavanti che Egli «ci ha
l’autore argomenta che la presunta opposisofia greca, cercò di
creati per conoscerlo,
zione tra verità e carità è solo un falso dicogliere mediante la
amarlo e servirlo in
lemma. La presentazione della riflessione
riflessione, è sì per
questa vita, e per godi A. Rosmini sul tema dell’amore e le posogni essere oggetto
derlo poi nell’altra,
sibili applicazioni all’IRC concludono questo impegnativo contributo, che può aiutadel desiderio e dell’ain paradiso». Formure gli IdR a comprendere meglio – e dunmore — come realtà
le la cui comprensioque
sfruttare
in
maniera
ottimale
anche
amata questa divine, nonostante le
nell’attività didattica – l’enciclica.
nità muove il mondo
maldestre spiegazio—, ma essa stessa
ni che ci venivano
non ha bisogno di niente e non ama, solofferte, ci sfuggiva, ma che racchiudevano e
tanto viene amata. L’unico Dio in cui Israecustodivano una sapienza antica, richiamale crede, invece, ama personalmente. Il suo
ta a salvaguardia della trascendenza divina,
amore, inoltre, è un amore elettivo: tra tutti
che il pensiero moderno in modalità diveri popoli Egli sceglie Israele e lo ama — con
se, ma sempre ideologicamente configurate,
lo scopo però di guarire, proprio in tal mocercava di negare ed eludere. Si trattava ando, l’intera umanità. Egli ama, e questo suo
che di formule il cui impianto speculativo
* Preside dell’ISSR “Ecclesia Mater” e ordinario di Teologia Fondamentale nella Pontificia Università Lateranense.
6
Fonografo Pathé, modello 1907
Riprodurre è un’azione che descrive e connota
un obiettivo dell’insegnare. È sinonimo (un po’
sintetico) di azioni che mirano a verificare le
capacità dello studente di riproporre, dire a memoria, indicare qualcosa di precedentemente visto/ascoltato…, insomma un «fare memoria».
Cioè si chiede al ragazzo di essere un riproduttore, un fonografo (per usare un termine arcaico). E tale abilità riguarda tutto ciò che fa parte
del passato, di ciò che è già avvenuto, è già stato
detto, visto, fatto… È quella parte del passato
che deve diventare memoria. Solo in relazione
alla memoria lo studente può fare da fonografo.
Diversamente sarebbe un immemore ripetitore
“temporis acti”, allorquando l’insegnante inserisce un gettone o comincia a girare quella manovella che dà motore e movimento al fonografo
che – se non è rotto – comincia a riprodurre.
Oggi gli studenti spesso sono molto “rotti” ad
avere a che fare con un passato trapassato, che
non permette di acquisire competenze e spesso
restituisce soltanto l’odore di muffa e non il profumo della tradizione e dell’antichità.
amore può essere qualificato senz’altro come eros, che tuttavia è anche e totalmente
agape» (DCE, n. 9, sottolineatura mia).
1. Metafisica dell’esodo
Una lunga tradizione speculativa, nata da
un geniale fraintendimento del testo biblico, aveva alimentato la “metafisica dell’Esodo”, elaborata su base agostiniana, strutturata e formulata nelle diverse tonalità
dell’ontologia ispirate dalle dottrine tommasiane dell’«Ipsum esse subsistens» e
dell’«actus essendi», secondo le due linee
convergenti, caratteristiche della «filosofia
cristiana», disegnate da É. Gilson: quella
della perfezione e quella dell’infinità, entrambi qualificazioni dell’Essere da cui si
diramano1. Felix culpa! dovremmo dunque
esclamare di fronte a questo fraintendi1
mento di Es 3,14, se da esso si è generata
tanta e così alta speculazione non solo teologica, ma filosofica. Quanto ad Agostino,
al di là dei problemi filologici che una corretta ricostruzione del testo di Confessioni
XIII, 31,46 pone, penso possa essere utile
sottolineare l’orizzonte pneumatologico in
cui situa il nostro rapportarci al bene. «Attraverso lo Spirito – scrive l’Ipponate – noi
vediamo come tutto ciò che in qualche
modo è, è buono, poiché è da colui che
non è in qualche modo, ma è Colui che è»
[«per quem videmus, quia bonum est, quidquid aliquo modo est: ab illo enim est, qui
non aliquo modo est, sed quod est est»]. Non
bisogna tuttavia dimenticare che una lettura (fraintendimento) in chiave ontologica
del testo veterotestamentario era già stata
intravista da quel grande mediatore cultu-
Cfr É. GILSON, Lo spirito della filosofia medievale, Morcelliana, Brescia 19833, p. 65.
7
rale fra Bibbia e filosofia (Atene e Gerusalemme) che fu Filone Alessandrino: «Fra le
virtù quella di Dio sussiste davvero dal
punto di vista ontologico, poiché Dio è il
solo che resti saldo nell’essere. “Io sono colui che è” (Es 3,14) fa comprendere che le
realtà a Lui inferiori non sono, dal punto
di vista ontologico, veri e propri esseri,
bensì sono considerate sussistenti solo nell’opinione corrente» 2. Che è come dire
l’ente o è creato o è nulla, ossia o è amato
o non esiste. Ma con questo siamo ancora
nell’orizzonte ebraico, ovvero possiamo ancora intendere questo rapporto di amore
come rapporto fra Dio, il mondo e
l’uomo3. Il messaggio cristiano interviene a
dire che Dio è amore in sé e non solo in
rapporto al mondo e all’uomo, ossia offre
la prospettiva trinitaria come unico possibile coerente svolgimento della metafisica
agapica. La Rivelazione sarà dunque manifestazione di questo amore e la sua credibilità apparterrà unicamente alla sua virtus
amativa4.
Alla precedente indicazione ontologica
possiamo accostare almeno due altre acute
osservazioni filoniane, la prima delle quali
ha il senso di un monito: «Egli dice: Io sono
colui che è il che equivale a la mia natura è
di essere, non di essere nominato. Ma perché
il genere umano non sia privato del tutto
di una denominazione da dare al Bene supremo, Egli concede loro di servirsi di questo nome: Signore Iddio delle tre nature:
l’insegnamento, la perfezione e l’esercizio,
di cui nelle Scritture sono simboli Abramo,
Isacco e Giacobbe»5. Infine un invito: la
“risposta oracolare” data a Mosé è tale da
lasciar intendere che «non essendovi in Dio
alcuna cosa che l’uomo sia in grado di afferrare con la mente, egli ne conosca almeno l’esistenza»6.
Rispetto alle questioni connesse con la “metafisica dell’Esodo”, Edith Stein, rifacendosi
proprio al luogo agostiniano sopra citato,
annoterà: «Mi sembra molto importante
che a questo punto non si dica: “Io sono
l’essere” oppure “Io sono l’ente”, ma invece
“Io sono colui che sono”. Quasi non si osa
chiarire queste parole con altre. Tuttavia, se
l’interpretazione agostiniana è esatta, si può
dedurre: colui il cui nome è “Io sono”, è
l’essere in persona»7. Solo un essere personale, infatti, può creare. E qui incrociamo il
luogo forse speculativamente più rilevante
della nostra enciclica, dove leggiamo: «L’amore appassionato di Dio per il suo popolo
– per l’uomo – è nello stesso tempo un
amore che perdona. Esso è talmente grande
da rivolgere Dio contro se stesso, il suo
amore contro la sua giustizia. Il cristiano
vede, in questo, già profilarsi velatamente il
mistero della Croce: Dio ama tanto l’uomo
che, facendosi uomo Egli stesso, lo segue
fin nella morte e in questo modo riconcilia
giustizia e amore. L’aspetto filosofico e storico-religioso da rilevare in questa visione
della Bibbia sta nel fatto che, da una parte,
ci troviamo di fronte ad un’immagine strettamente metafisica di Dio: Dio è in assoluto la sorgente originaria di ogni essere; ma
questo principio creativo di tutte le cose –
il Logos, la ragione primordiale – è al contempo un amante con tutta la passione di
2
Quod deterius, 159, in FILONE DI ALESSANDRIA, Tutti i trattati del commentario allegorico alla Bibbia, Bompiani, Milano 2005,
p. 525.
3
Cfr F. ROSENZWEIG, La stella della redenzione, Vita e Pensiero, Milano 2005.
4
Cfr H.U. VON BALTHASAR, Solo l’amore è credibile, Borla, Roma 1977.
5
De mutatione nominum, II, 11-12, in FILONE DI ALESSANDRIA, Tutti i trattati…, cit., p. 1549.
6
De somniis, I 231, in ibid., p. 1735.
7
E. STEIN, Essere finito ed essere eterno. Per un’elevazione al senso dell’essere, Città Nuova, Roma 19994, p. 367.
8
un vero amore. In questo modo l’eros è nobilitato al massimo, ma contemporaneamente così purificato da fondersi con l’agape» (DCE, 10).
2. Metafisica agapica
Questa visione erotico-agapica di Dio
affonda le sue radici in un’antica tradizione,
quella che potremmo denominare, senza
volerla in alcun modo contrapporre alla
precedente, della “metafisica agapica” o
“metafisica della carità”. Lo stesso pontefice, acuto interprete di Agostino, rimanda
non solo a questo grande maestro del pensiero credente, in alcuni passaggi significativi dell’enciclica, ma svela la fonte della sua
visione erotico-agapica del Dio cristiano rimandando al cap. IV del De divinis nominibus dello Pseudo Dionigi. E questo riferimento precede quelli agostiniani, invertendo così la cronologia dei personaggi. Siamo
in ogni caso anche qui di fronte a un’antica
sapienza, non tanto nutrita della metafisica
aristotelica, quanto del pensiero platonico,
nonché di quel neoplatonismo meritevole
dei primi tentativi di conciliazione fra le
due grandi figure speculative dell’antica
Grecia. Si tratta, per dirla con una certa
brutalità determinata dall’impossibilità di
fornire in questa sede adeguati approfondimenti, di declinare quella “filosofia dinamica” dell’essere, richiamata anche dalla Fides
et ratio (FeR, 97) e di indicare con chiarezza
e determinazione nella vis amativa la dynamis che muove Dio, il mondo e l’uomo (i
tre elementi della Stella della Redenzione) e
ne determina il rapporto.
L’autore del corpus dionisiano osa molto (e
siamo grati al suo coraggio speculativo, che
tante pagine della grande filosofia cristiana
ha ispirato) perché, pur nell’orizzonte apofatico, ci suggerisce di nominare Dio, nella
maniera meno impropria e idolatrica possi-
bile ed indica all’enciclica la prospettiva
teologica ispiratrice della prima parte. Segnaliamo qui, perché a nostro avviso particolarmente istruttivi, tre luoghi o momenti
attraverso cui si esprime la trasgressione
nell’opera dello Pseudo Dionigi: a) rispetto
a Filone; b) rispetto a Platone; c) rispetto a
Gregorio di Nissa e ad Origene. Né mi
sembra troppo lontana dal vero l’ipotesi interpretativa secondo cui è forse proprio a
causa di queste trasgressioni (riconducibili
ad un unico movimento speculativo) che
l’autore non solo resta anonimo, ma chiede
al suo lettore-interlocutore Timoteo di custodire nel segreto quanto è andato esponendo.
a) La trasgressione rispetto a Filone riguarda il divieto di nominare Dio. Divieto sostanzialmente accolto dallo Pseudo Dionigi
in linea teorica, ma di fatto trasgredito nelle
pagine della sua opera sui nomi divini. Potremmo raccogliere intorno al senso di questa trasgressione alcune riflessioni, la prima
delle quali concerne la pertinenza della
proibizione rispetto alle possibilità dell’uomo di nominare Dio. È Lui al contrario che
si nomina e nominandosi denomina gli uomini e le cose. In questo senso il nome proprio di Dio può essere solo rivelato e non
attinto razionalmente. La ragione – diceva
già Filone – potrà giungere ad indicarne l’esistenza, ma non a chiamare per nome il
Creatore del cielo e della terra. Ma, proprio
perché innominabile, a Dio si addicono
molti nomi, anzi tutti i nomi: «Così dunque – scrive l’anonimo – alla Causa di tutte
le cose e che è superiore a tutte le cose non
si addice nessun nome e si addicono tutti i
nomi delle cose che sono, perché sia regina
[il termine greco è basilèa] di tutte le cose e
tutte le cose gravitino intorno a lei e da lei
dipendano come causa, principio e come fine ed ella, secondo il sacro detto, sia tutta
9
in tutti e sia veramente celebrata come […]
custodia e domicilio [di tutte le cose]»8. Di
qui dunque non l’indicazione di un solo
nome, ma di una pluralità di nomi, in analogia col famoso passo della metafisica aristotelica dove si dice che l’essere si dice in
molti modi [tò dé òn lèghetai mèn pôllachôs:
Metafisica G 2 1003 a 33-349]. E tuttavia la
polisemia non degenera in anarchia, in
quanto si offre in una “gerarchia” (termine
caro all’anonimo) dei nomi, che così avranno una struttura piramidale. In questo quadro alla sfera del primo nome, che è il Bene, appartengono i tre nomi di Luce, Bellezza, Amore e, solo successivamente i tre
nomi di Essere, Vita, Sapienza, cui seguono
tutti gli altri.
b) La trasgressione rispetto a Platone riguarda l’attribuzione del termine Eros a Dio
e quindi l’identificazione Eros-Agape. Il “divino” filosofo non aveva osato tanto. Egli
giunge fino al punto di indicare Eros come
demone, attribuendogli un ruolo di mediazione, fra il cielo e la terra, i divini e gli
umani. E non è certo un caso se tale identificazione venga asserita da una donna, quella Diotima di Mantinea, il cui nome evoca
la mitica figura dell’amante che ha ispirato
il grande poeta F. Hölderlin, cantore peraltro della nostalgia degli dei e della Grecia
felice, casa di tutti i celesti. Ma la figura
dell’«eterno femminino che ci trae verso
l’alto» (W. Goethe) non è solo immanente
e pagana, si pensi all’Afrodite terrena e a
quella celeste delle Enneadi plotiniane, richiamata proprio a proposito di Eros e della sua dimensione divina. Teilhard de Chardin ed Henri de Lubac ci hanno insegnato
ad interpretare cristianamente l’eterno femminino in riferimento alla Vergine Madre,
la quale «ci mostra che cos’è l’amore e da
dove esso trae la sua origine, la sua forza
sempre rinnovata» (DCE, 42). I commentatori non mancano di rilevare la cautela
con la quale lo Pseudo Dionigi si accinge a
parlare di Dio in termini erotici, soprattutto in considerazione del fatto che le Scritture non indicano mai Dio col nome di eros e
solo due volte dicono che gli uomini lo devono amare usando il relativo verbo, mentre comunemente si usa come noto la terminologia legata all’agape. Ciò accade, dice
l’Autore, perché il termine eros è troppo
spesso inteso in senso volgare. Abbiamo bisogno quindi di una sorta di «purificazione
della ragione» (formula che l’enciclica ripete tre volte, in altri contesti ai nn. 28 e 29)
per poter accedere ad una prospettiva erotico-agapica, che non sia fuorviante o addirittura irriverente. Ed è la ragione purificata
(o redenta) che riesce a cogliere ed esprimere il senso autentico dell’eros, ossia il suo
carattere estatico. Ancora una volta la dipendenza dallo Pseudo Dionigi risulta evidente: non è l’eros ebbro e indisciplinato che
può esprimere il nome divino, ma appunto
l’eros estatico (DCE, 4), di cui ad esempio
in questo passaggio del presunto areopagita:
«L’Amore divino è estatico, in quanto non
permette che gli amanti appartengano a se
stessi, ma a quelli che essi amano»10, cui fa
eco l’enciclica: «Sì, l’eros vuole sollevarci “in
estasi” verso il Divino, condurci al di là di
noi stessi, ma proprio per questo richiede
un cammino di ascesa, di rinunce, di purificazioni e di guarigioni» (DCE, 5), e, più
De divinis nominibus, I, 7, in DIONIGI AREOPAGITA, Tutte le opere. Gerarchia celeste - Gerarchia ecclesiastica - Nomi divini - Teologia mistica - Lettere, Rusconi, Milano 1981, pp. 262-263.
9
ARISTOTELE, Metafisica, saggio introduttivo, testo greco a fronte e commentario di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1993, II,
pp. 130-131.
10
De divinis nominibus, IV, 134, in DIONIGI AREOPAGITA, Tutte le opere, cit., 310-311.
8
10
avanti: «amore è “estasi”, ma estasi non nel
senso di un momento di ebbrezza, ma estasi
come cammino, come esodo permanente
dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il
ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di
Dio» (DCE, 6).
c) La trasgressione rispetto ai precedenti patristici (il Nisseno e Origene) si situa sulle
precedenti considerazioni e riguarda l’annotazione dei commentatori secondo cui l’originalità dell’anonimo sta proprio nell’aver
innestato in Dio la prospettiva agapico-erotica, laddove chi lo ha preceduto non ha ritenuto di dover valicare il limite antropologico, interpretando i due termini e il loro
nesso come atteggiamenti fondamentali
dell’uomo verso Dio. La prospettiva squisitamente teologica viene comunque salvaguardata per il fatto che si tratta appunto di
una erotica della grazia, pur sempre antropologicamente declinata e non innestata
nella vita divina stessa e nel mistero del Dio
unitrino.
Richiamando ancora una volta l’Agostino,
caro al teologo Ratzinger, per indicare questo percorso propriamente speculativo e, direi, metafisico, si è evocata la figura della
“terza navigazione”. La navigazione a gonfie
vele secondo le indicazioni della “filosofia
naturalista”, a dire di Eustazio, aveva condotto Platone nelle secche dell’immanentismo, la seconda navigazione che egli intraprende coi remi lo conduce a percepire la
trascendenza dell’essere, sola capace di spiegare a fondo gli stessi fenomeni fisici. Ma il
grande filosofo era giunto a un limite, da
lui stesso profondamente avvertito, allorché
aveva intravisto la necessità di una rivelazione divina per poter procedere nel cammino:
così afferma nel Fedone 85d: «Perché su tali
11
questioni a me pare, o Socrate, come forse
anche a te, che avere in questa nostra vita
una idea sicura, sia o impossibile o molto
difficile; ma d’altra parte non tentare ogni
modo per mettere alla prova quello che se
ne dice, e cessare di insistervi prima di aver
esaurita ogni indagine da ogni punto di vista, questo, o Socrate, non mi par degno di
uno spirito saldo e sano. Perché insomma,
trattandosi di tali argomenti, non c’è che
una cosa sola da fare di queste tre: o apprendere da altri dove sia la soluzione; o
trovarla da sé; oppure, se questo non è possibile, accogliere quello dei ragionamenti
umani che sia se non altro il migliore e il
meno confutabile, e, lasciandosi trarre su
codesto come sopra una zattera, attraversare
così, a proprio rischio, il mare della vita:
salvo che uno non sia in grado di fare il tragitto più sicuramente e meno pericolosamente su più solida barca, affidandosi a una
divina rivelazione». Ora questa terza navigazione – come suggerisce un autorevole interprete sia di Platone che di Agostino – si
compie col legno-barca della croce,11 che,
come abbiamo avuto già modo di constatare, l’enciclica richiama in maniera decisa e
decisiva.
La possibilità dunque di “raccogliere”, ossia
tener insieme l’essere e Dio passa attraverso
la logica dell’incarnazione e della redenzione,
sicché il teologo Ratzinger, così poteva affermare: «Il primato del Logos e il primato dell’amore si rivelano identici. Il Logos non apparve più solo come ragione matematica alla
base di tutte le cose ma come amore creatore
fino a diventare compassione verso al creatura. La dimensione cosmica della religione
che venera il Creatore nella potenza dell’essere, e la sua dimensione esistenziale, la questione della redenzione, si compenetrarono e
Cfr AGOSTINO, Amore Assoluto e “Terza navigazione”, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000.
11
divennero una cosa sola […]. Il tentativo di
ridare, in questa crisi dell’umanità, un senso
comprensibile alla nozione di cristianesimo
come religio vera deve, per così dire, puntare
ugualmente sull’ortoprassia e sull’ortodossia.
Al livello più profondo il suo contenuto dovrà consistere oggi – come sempre in ultima
analisi – nel fatto che l’amore e la ragione
coincidono in quanto veri e propri pilastri
fondamentali del reale: la ragione vera è l’amore e l’amore è la ragione vera. Nella loro
unità essi sono il vero fondamento e lo scopo
di tutto il reale»12. Il fondamento agapicoerotico che Benedetto XVI ci mostra nell’enciclica rinviando implicitamente a quella che
amiamo denominare una “metafisica della
carità”, induce ovviamente ad escludere ogni
contrapposizione dialettica fra questa prospettiva teoretica e quella derivante dalla metafisica dell’essere o dell’esodo come l’abbiamo sopra descritta. E a questo proposito ci
sia consentito richiamare un altro grande
maestro del pensiero credente, studiato dal
teologo Ratzinger, San Bonaventura e l’icona
dei due cherubini: «Il primo fissa lo sguardo,
innanzi tutto e principalmente sull’Essere
stesso, affermando che il primo nome di Dio
è “Colui che è”. Il secondo fissa lo sguardo
sul Bene stesso, affermando che questo è il
primo nome di Dio. Il primo modo riguarda
in particolare il Vecchio Testamento, il quale
proclama soprattutto l’unità dell’essenza divina, per cui fu detto a Mosé: “Io sono Colui
che sono”. Il secondo riguarda il Nuovo Testamento, il quale determina la pluralità delle Persone divine, battezzando “nel nome del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”» (Itinerarium mentis in Deum, V, 2).
A questo riguardo bisognerà altresì annotare come il tentativo di conciliare i nomi di-
vini del bene e dell’essere e quindi la metafisica della carità con la metafisica ontologica (o ontoteologica) secondo cui il bene o
dilectio riguarderebbe il mistero di Dio
quoad nos, mentre l’essere indicherebbe tale
mistero in sé risulti poco convincente e teologicamente non pertinente se si considera
il Dio del Nuovo Testamento nella prospettiva che gli è più propria, che è quella del
“Dio Padre del Signore nostro Gesù Cristo”
e dello “Spirito di Cristo”. L’articolazione
trinitaria della formula Deus caritas risulta
quindi decisiva ed imprescindibile proprio
sul piano o livello fondativo, ed è in questo
orizzonte o fondamento agapico che si situa
il principio kenotico, attraverso cui il dinamismo estatico dell’eros trova espressione e
configurazione storica. «“Se vedi la carità,
vedi la Trinità” scriveva sant’Agostino»
(DCE, 19). La citazione del De Trinitate risulta particolarmente significativa ed apre
alla necessità dell’articolazione trinitaria
della metafisica agapica, escludendo altresì
il falso dilemma, molto attuale in alcuni
settori della teologia contemporanea, tendente a contrapporre verità e carità.
3. Tra verità dell’essere e verità dell’amore
L’attitudine antimetafisica di alcuni esiti del
pensiero Novecento, soprattutto in quello
che è stato definito l’ambito continentale, e
che si potrebbe anche denominare ermeneutico, mette in campo un ulteriore falso
dilemma, coinvolgendo in esso lo stesso cristianesimo, la cui concezione della carità sarebbe radicalmente alternativa rispetto al
concetto di verità elaborato in sede metafisica13. In questa sede propriamente filosofica stupisce in particolare la confusione, ripetuta a mo’ di ritornello, fra la dimensione
J. RATZINGER, «La verità cattolica», in Micromega 2/2000, p. 53.
Si pensi alle posizioni convergenti di G. Vattimo e R. Rorty, recentemente riproposte in R. RORTY – G. VATTIMO, Il futuro
della religione. Solidarietà, carità, ironia, Garzanti, Milano 2005.
12
13
12
oggettiva del vero (che ovviamente dal nostro punto di vista è irrinunciabile) con la
prospettiva oggettivante (attribuita appunto
ad una interpretazione in chiave metafisica
della verità). Il rifiuto, certamente condivisibile, della seconda prospettiva, sembrerebbe dover necessariamente determinare la rinuncia ad ogni forma di oggettività, in particolare in ambito religioso, la cui appartenenza va ancora una volta reclusa nel privato delle coscienze, appunto soggettive.
Queste tesi, peraltro molto diffuse non solo
in Italia, in quanto tendenti ad esasperare la
tematica della kenosi, come autosvuotamento
di Dio, non mancano di esercitare un influsso non marginale anche su alcune proposte
teologiche recenti14, tendenti ad esempio ad
indicare il dinamismo kenotico in sede intratrinitaria15, come principio e fondamento
della logica della fede cristiana, che a questo
punto andrebbe meglio denominata come
una vera e propria (il)logica16. Dal punto di
vista invece di un’autentica logica della fede,
mi sembra sia più corretto esprimersi in questi termini: la logica della fede cristiana ri-conosce il proprio principio nella kenosi del Logos, ovvero nel Lògos sarx eghèneto (Gv 1,18),
dove il verbo dice riferimento al carattere storico di tale principio, e attraverso tale principio scopre il proprio fondamento nel nome
del Dio neotestamentario che è ho Theòs agàpe estìn (1Gv 4,8). Sicché la logica della fede
cristiana ha un principio kenotico e un fondamento agapico su cui poggia e attraverso i
quali si costituisce e si esprime. Il principio
kenotico va tuttavia interpretato e riflesso
nella dinamica propria dell’inno della lettera
ai Filippesi (2,6-11) in cui è attestato, dove alla kenosi del servo fa riscontro la sua esaltazione e glorificazione. Questa impostazione
14
«Con la fine della metafisica, scopo delle attività intellettuali non è più propriamente la conoscenza della verità, bensì quella
“conversazione” nella quale ogni argomento ha il fondato diritto di trovare un accordo senza ricorrere ad alcuna autorità. Lo
spazio lasciato vuoto dalla metafisica non deve più essere riempito da nuove filosofie che pretendano di esibire un fondamento
estraneo alla “conversazione”. Nella cultura contemporanea questa posizione non è rappresentata solo dall’ermeneutica, ma anche da scienziati come Thomas Kuhn e Artur Fine, da filosofi come Robert Brandom e Bas van Frassen e di teologi come Jack
Miles e Carmelo Dotolo [di quest’ultimo si cita La rivelazione cristiana. Storia, evento, mistero, Paoline, Milano 2002]» (S. ZABALA, «Introduzione. Una religione senza teisti e ateisti», in R. RORTY – G. VATTIMO, op. cit., p. 21). Un’analoga tendenza, forse
molto meglio mascherata, a contrapporre carità e verità, nell’orizzonte antimetafisico, la rinveniamo in V. MANCUSO, Per amore.
Rifondazione della fede, Mondadori, Milano 2005, dove leggiamo: «La verità infatti non è un teatro metafisico nascosto dietro
chissà quale stella, ma è il bene degli uomini all’interno della vita concreta che coincide, ultimamente, con il bene della loro anima» (p. 39), e più avanti: «Ciò che è in gioco nella fede non è il soprannaturale; di esso “non si deve farne un oggetto, altrimenti
lo si abbassa”, insegna Simone Weil. Ciò che è in gioco, piuttosto è questo mondo» (p. 40), «Se si vuol essere cristiani, non si
tratta di professare una dottrina. Si tratta di lavorare» (p. 252) ecc. con i soliti luoghi comuni contro l’intellettualismo che caratterizzerebbe la sottolineatura della valenza veritativa della fede cristiana. Tra le altre posizioni teologiche nelle quali la tematica
della kenosi assume un rilievo fondativo ed esclusivo, cfr K. RUHSTORFER «Credere e pensare: la presenza della rivelazione in
occidente», in Il regno attualità 50 (2005) pp. 343-355.
15
Ad esempio H. U. von Balthasar sostiene che «l’annichilamento di Dio (nell’incarnazione) ha la sua possibilità ontologica nell’autorinuncia eterna di Dio, la sua donazione tripersonale». Di qui deriverebbero e qui si fonderebbero la kenosi della creazione, con particolare riferimento alla libertà creata e quella della croce. Per questa sintesi del pensiero balthasariano utilizziamo F.
G. BRAMBILLA, Il Crocifisso risorto. Risurrezione di Gesù e fede dei discepoli, Queriniana, Brescia 1998, pp. 241-242, il quale
non manca di rilevare il debito balthasariano verso Bulgakov, «liberato dalle sue escrescenze sociologiche» (ib., p. 241). Giustamente, a nostro avviso, L. Ladaria rileva come la tesi di von Balthasar risulti certamente suggestiva e particolarmente significativa in ordine al tentativo di pensare l’Assoluto in prospettiva agapica, ma anche come il termine kenosi vada più realisticamente
applicato alla vicenda del Figlio e quindi alla sua vicenda storica e risulti problematico inserirlo nella trinità immanente, se non
attraverso un’analogia troppo spinta, che finisce con lo smarrire il senso stesso della parola (cfr a tal proposito L. LADARIA, La
Trinità mistero di comunione, Paoline, Milano 2004, pp. 226-227). Analoghe osservazioni critiche si possono altresì rivolgere all’utilizzo del termine kenosi in rapporto alla creazione. Come abbiamo rilevato in altra occasione, rifacendoci a Rosmini, il nascondersi di Dio va posto piuttosto in relazione alla vicenda del peccato e trova un suo ulteriore momento drammatico di nascondimento nella croce.
16
Coerentemente con una prospettiva radicalmente antimetafisica o postmetafisica, questa tendenza alla illogica viene richiamata da V. VITIELLO, «La metafisica della seconda persona», in Hermeneutica. Annuario di filosofia e di teologia, Morcelliana, Brescia 2005, pp. 34-37.
13
fondamentale del tema impone un’articolazione che ci sembra di poter esporre secondo
i seguenti passaggi: a livello gnoseologico, la
logica della fede cristiana esige un pensiero rivelativo, nel quale il riconoscimento del vero
non può mai essere disgiunto dall’esercizio
della libertà e dal coinvolgimento della carità;
in secondo luogo la logica della fede cristiana
è una logica del paradosso (nei tre sensi – dirompenza, antinomia e compimento – che
abbiamo indicato altrove); in terzo luogo la
logica della fede cristiana è una logica simbolico-sacramentale, o se si vuole “eucaristica”
(anche per questo aspetto rimandiamo ad altri nostri lavori). Il fondamento agapico della
logica cristiana esige a sua volta che l’ontologia e la metafisica che vi si dischiudono debbano essere intese e sviluppate nel senso di
una ontologia trinitaria e di una metafisica
della carità. Si tratta, per il teologo fondamentale, della capacità di credibilità che solo
l’amore può ingenerare e sviluppare e l’aggancio con le precedenti riflessioni è costituito dalla possibilità (che per chi scrive è una
vera e propria necessità) di innestare la tematica della “credibilità” dell’amore nel quadro
della prospettiva agapica. In questo senso
vengono a coincidere la credibilità della Rivelazione con quella dell’amore17.
Questo momento della nostra riflessione
può felicemente incrociare un famoso frammento 582 di Pascal: «Ci facciamo un idolo
della stessa verità; perché la verità senza la
carità non è Dio, è la sua immagine e un
idolo che non bisogna amare né adorare; e
meno ancora bisogna amare o adorare il suo
contrario che è la menzogna»18. Una pro-
spettiva di particolare interesse, nella quale
l’orizzonte amativo si coniuga felicemente
con l’istanza veritativa e la riflessione sulla
libertà e il suo esercizio, possiamo rinvenirla
in sede fenomenologica, frequentando sia la
prospettiva scheleriana dell’«amore che fa
vedere»19, dove si ha modo di ritrovare una
feconda attenzione alla figura del “pensiero
rivelativo”, sia le riflessioni di Dietrich von
Hildebrand, dove l’essenza dell’amore, come “risposta al valore”, assumendo la forma
della Überverantwort, si declina in termini
di coinvolgimento fra l’aspetto del dono e
quello della libertà. Il luogo in cui queste
dimensioni si armonizzano è da rinvenirsi
nell’affettività, dove conoscenza e volontà
svolgono ciascuna nel suo ambito il loro
ruolo. La figura dell’amore sponsale, in
questa prospettiva fenomenologica, svolge
un ruolo paradigmatico rispetto alle altre
forme di amore e alle loro espressioni. In
ogni caso la dimensione della gratuità del
dono non viene ad annientare la responsabilità della volontà libera, bensì a farle assumere un atteggiamento di cooperazione nella sanzione della relazione affettiva. Hildebrand così riassume il proprio pensiero a riguardo: «Vediamo dunque che ci sono due
dimensioni della donazione di sé. La prima
è di natura puramente affettiva. Ha il carattere di un dono che non ci possiamo dare
volendolo, che è una pure voce del cuore.
[La seconda è la voce del nostro libero nucleo personale = Die Zweite ist die Stimme
unseres freien Personzentrums – espressione
non presente nella traduzione italiana]. La
seconda è il sanzionamento della presa di
17
Cfr H. U. VON BALTHASAR, Solo l’amore è credibile, cit.; su questo tema balthasariano cfr R. FISICHELLA, Hans Urs von Balthasar. Dinamica dell’amore e credibilità del Cristianesimo, Città Nuova, Roma 1981. Alla “credibilità dell’amore” è stato intitolato il convegno celebrativo del centenario della nascita del teologo svizzero organizzato per ottobre 2005 presso la Pontificia Università Lateranense.
18
B. PASCAL, Pensieri, Opuscoli e Lettere, a cura di A. BAUSOLA, Rusconi, Milano 1978, p. 661 (fr. 582 Brunschvicg = 597 Chevalier).
19
Cfr il bel libro di G. DE SIMONE, L’amore fa vedere. Rivelazione e conoscenza nella filosofia della religione di Max Scheler, San
Paolo, Cinisello Balsamo 2005.
14
posizione donativa, affettiva dell’amore. Solo quando si hanno entrambe, la donazione
di sé raggiunge il suo carattere pieno»20. La
fenomenologia, anche quando tratta dell’amore di Dio, evita accuratamente ogni riferimento intradivino e, coerentemente col
suo metodo e con le sue impostazioni, resta
sul terreno più propriamente antropologico
ed ontologico, lasciando alla teologia ulteriori approfondimenti.
Concluderei osservando che la riflessione
sul rapporto fede/ragione, sviluppata nell’ambito della “metafisica agapica” da un lato non intende instaurare alcuna alternativa
rispetto alla classica “metafisica dell’essere”,
ma consentire al lumen Revelationis di rivestirla della nuova luce che emana dal Vangelo; d’altro lato rende fondamentalmente
estrinseca la domanda circa il rapporto della fede con la ragione e della teologia con la
filosofia nei termini di una “filosofia prima”
oppure di una “filosofia ermeneutica”. Inoltre il ricorso alla prospettiva della “metafisica agapica” consente di evitare una sorta di
“riduzionismo ontologico”, nonché di ripensare radicalmente il modulo teologicofondamentale della triplex demonstratio, che
– spesso anche per ragioni condivisibili –
stenta a lasciarsi superare soprattutto nelle
proposte elaborate in ambito tedesco, anche
di recente21, intrecciandosi e non di rado
confondendosi col “modello antropologico
trascendentale”, magari rivisitato e riproposto in forme diverse. Infine la prospettiva
da noi adottata consente di smascherare il
falso dilemma tendente a porre in alternativa verità e carità.
A questo proposito vale la pena richiamare
un passaggio dell’omelia pro eligendo Pontifice, nella quale l’allora, ancora per poco,
cardinale J. Ratzinger così si esprimeva: «Ed
è questa fede – solo la fede – che crea unità
e si realizza nella carità. San Paolo ci offre a
questo proposito – in contrasto con le continue peripezie di coloro che sono come
fanciulli sballottati dalle onde – una bella
parola: fare la verità nella carità, come formula fondamentale dell’esistenza cristiana.
In Cristo, coincidono verità e carità. Nella
misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono. La carità senza verità sarebbe cieca; la
verità senza carità sarebbe come “un cembalo che tintinna” (1Cor 13, 1)».
4. Le forme della carità in Antonio Rosmini
La tematica del Deus Caritas ha svolto un
ruolo preminente nella speculazione rosminiana. L’unità e trinità di Dio risplende nell’essere uno e triniforme. Da notare che è
l’essere che riflette Dio, non viceversa, e la
struttura agapica è determinante, anche
perché, come Dio e l’essere, la carità è una e
trina: alla forma dell’essere reale corrisponde la carità temporale (quella per es. esercitata dalle nostre Caritas); all’essere ideale, la
carità intellettuale (penso ad esempio al
progetto culturale e ad ogni attività di servizio teologico nella Chiesa); all’essere morale, la carità spirituale (penso al dono di sé
di quanti sono perseguitati e messi a morte
solo perché cristiani, ma anche alla martyria
testimonianza che siamo chiamati ad vivere
nel quotidiano).
D. VON HILDEBRAND, Essenza dell’amore, introduzione, traduzione, note e apparati di P. PREMOLI DE MARCHI, Bompiani,
Milano 2003, p. 191.
21
Risulta fin troppo evidente nella strutturazione dell’Handbuch der Fundamentaltheologie l’adozione di questo modulo: Cfr W. KERN H. J. POTTMEYER - M. SECKLER (edd.), Corso di teologia fondamentale. Vol. I: Trattato sulla religione; vol. II: Trattato sulla rivelazione;
vol. II: Trattato sulla Chiesa; vol. IV: Trattato sulla gnoseologia teologica, trad. it. Queriniana, Brescia 1990; ma esso viene a determinare strutturalmente ad esempio anche le proposte di H. VERWEYEN, La Parola definitiva di Dio. Compendio di teologia fondamentale,
Queriniana, Brescia 2001; J. WERBICK, Essere responsabili della fede. Una teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 2002.
20
15
Il cap. VI della sezione VIII delle Costituzioni dell’Istituto della Carità22 contiene la
descrizione e la gerarchizzazione delle tre
forme della carità. Tutta la sezione, che riguarda le diverse opere di carità, si apre con
un articolo concernente l’universalità della
virtù teologale, espressa in questi termini:
«L’amore è l’atto con cui la volontà tende
verso il bene, ed è puro e perfetto quando
non tende che verso il bene: infatti allora
l’uomo vuole solo il bene, e perché è bene.
Perciò questa volontà ama il bene dovunque sia, e ama di più quello che è più bene,
e in tutto cerca il massimo bene. Quindi
chi non ama Dio, che è il massimo bene,
semplicemente neppure ama: se infatti
amasse veramente, certo amerebbe Dio. E
perciò la Scrittura parla semplicemente dell’amore come della vera carità, quando dice: “Chi non ama rimane nella morte” (1
Gv 3,14); e: “le sono perdonati i suoi molti
peccati, poiché ha molto amato” (Lc 7,47).
Non dice “Chi non ama il fratello”, ma solo: “Chi non ama”, e neppure: “Poiché ha
amato me”, ma “Poiché ha amato”. Infatti
l’uomo che ha veramente in sé l’amore vuole ogni bene, perché vuole solo il bene, e
così vuole il bene che c’è in Dio, il quale è
bene senza attributi, e il bene che può esserci nell’uomo per qualità e partecipazione. E ciò significa amare Dio e l’uomo. Da
ciò si vede che la carità è di sua natura universale, perché si estende a tutti i beni, secondo la specie e il grado di bontà per cui
ciascuna cosa è buona»23.
Ma, aggiunge il testo, sebbene l’uomo sia
dotato da Dio di un cuore capace dell’infinito, tuttavia egli «per la limitatezza delle sue
forze e soprattutto per la piccolezza del suo
corpo, non può fare, per quanto sta in lui, se
non poche delle molte cose che vorrebbe.
Perciò ognuno, nell’esercizio pratico della carità deve porsi saggiamente un limite, perché
i suoi sforzi, rivolti a molte cose, non si disperdano inutilmente. E quindi in questa
comunione di fratelli, per valutare le forze
dei singoli e adattare loro gli uffici di carità,
sono stabiliti coloro che si giudicano più dotati di scienza e discrezione, con il compito
di adattare i pesi alle forze di ciascuno e distribuire gli uffici di carità fra molti in modo
che ognuno compia il massimo bene possibile, e dalle opere dei singoli messe insieme
provenga il massimo bene che si può ottenere con il lavoro concorde di molti. E dato
che dallo sforzo di molti, che collaborano
concordemente e sono mossi da un’unica intenzione, si può avere un bene maggiore che
se le stesse persone lavorassero singolarmente
e separate, seguendo il loro giudizio personale; da ciò si capisce quanto tutti coloro che
amano veramente debbano amare questa comunione di fratelli, poiché essa è il mezzo
senza cui non si può compiere il bene maggiore»24. Dalla universalità della carità si fa
provenire «quell’aurea indifferenza a qualunque opera di carità. Infatti, chi desidera il
maggior bene possibile, deve guardare non
solo a quello che fa lui direttamente, ma a
tutto ciò che dall’opera sua ridonda nella
somma di tutti i singoli beni. Quindi, anche
se a lui sembra di fare poco bene, capirà tuttavia quanto grande diverrà quel poco di bene per il fatto che serve al grande bene che si
accumula dall’opera di tutto il corpo della
Società; e certo lui da solo non potrebbe fare
22
Il testo, pubblicato per la prima volta in edizione integrale, naturalmente in lingua latina, nel 1875 a Londra, porta come titolo completo Constitutiones Societatis a Charitate nuncupatae. Qui utilizzeremo la traduzione italiana che accompagna l’edizione
critica curata da D. SARTORI (Città Nuova – CISR, Roma, Stresa 1996 = EC, 50).
23
EC, 50, pp. 436-437.
24
EC, 50, pp. 436-439.
16
di più, e nemmeno i singoli senza un’unica
direzione»25.
A proposito delle forme della carità, bisogna ricordare che il testo richiama ai membri dell’Istituto una indicazione fondamentale, che, ispirata alla suprema regola dell’umiltà, li invita a rimanere nello stato di vita
comune a tutti i fedeli (il laicato) e a non
cercare di diventare presbiteri o dottori se
non in seguito alla chiamata divina e al suo
severo discernimento26. Ed ecco come vengono descritte le tre forme di carità:
«Gli uffici di carità, rispetto al bene del
prossimo, a cui tendono direttamente, sono
di tre specie. La prima specie comprende
quegli uffici che tendono a giovare immediatamente al prossimo in ciò che riguarda
la vita temporale: e questa si può chiamare
carità temporale. La seconda specie comprende quegli uffici che tendono a giovare
immediatamente al prossimo nella formazione del suo intelletto e nello sviluppo delle sue facoltà intellettuali: e questa si può
chiamare carità intellettuale. La terza specie
comprende gli uffici di carità che tendono a
giovare al prossimo in ciò che spetta alla
salvezza delle anime: e questa si può chiamare carità morale e spirituale»27.
La terza forma della carità viene chiamata
morale, in quanto «dispone l’uomo a compiere i doveri morali» e spirituale, in quanto
è la stessa carità «elevata all’ordine soprannaturale, per cui l’uomo aderisce a Dio, ciò
a cui tendono i mezzi religiosi con cui l’uomo, ottenuta la divina grazia, può adempiere gli obblighi morali»28.
In analogia con le tre forme dell’essere si dà
dunque un primato della terza forma sulle
altre due, poiché «la carità spirituale tende a
dare al prossimo ciò che è bene di per sé e
solo bene, cioè la vita eterna. Invece la carità temporale e l’intellettuale offrono agli
uomini soltanto beni relativi e parziali, che
si possono dire beni solo in quanto sono ordinati con l’intenzione al bene assoluto della carità spirituale e ad esso in qualche modo dispongono. Perciò, parlando in senso
stretto, le tre suddette specie di carità appartengono ad una sola [...], e quindi dobbiamo esercitare la carità temporale e l’intellettuale solo al fine di salvare le anime e
di onorare nelle persone il nostro Dio e Signore Gesù, che volle prendere su di sé i bisogni di tutti noi»29. E aggiunge: «La principale e suprema specie di carità è la terza,
che tende ad un bene più grande e più vero; poi eccelle la seconda specie, perché la
formazione dell’intelletto è la più importante delle cose temporali e serve più da vicino alla specie suprema; la prima invece è
la minima specie di carità»30.
Il lavoro di chi si occupa di teologia (e conseguentemente di chi insegna religione)
nella Chiesa e nella società civile va dunque
annoverato nell’esercizio della forma intellettuale della carità e chiama in causa il rapporto fra Verità e Carità. La carità viene descritta come “via” della verità e sua “pienezza”, per cui l’Istituto dovrà «custodire in
modo preclaro, contemplare ed indagare la
verità, promuovendo in modo ottimo ed
instancabile la cognizione della verità fra gli
EC, 50, pp. 438-441.
«Poiché lo stato che noi scegliamo è quello dell’umiltà e ci collochiamo fra i discepoli e non fra i maestri d’Israele, non dobbiamo abbandonare questo stato a noi carissimo senza un valido motivo e, quando possiamo, dobbiamo preferire quella carità che
è propria di tutti i fedeli, assumendo lo stato di dottori e pastori solo quando si rende evidente la divina chiamata» (EC, 50, pp.
468-469).
27
EC, 50, pp. 466-469.
28
EC, 50, pp. 468-469.
29
EC, 50, pp. 468-469.
30
EC, 50, pp. 468-469.
25
26
17
uomini. Di qui deriva il genere di carità che
abbiamo chiamato intellettuale, il quale
tende immediatamente ad illuminare ed arricchire di cognizioni l’intelletto umano»31.
La ricerca e la condivisione del vero, in
quanto esercizio della carità intellettuale, si
deve compiere nell’orizzonte della profonda
unità, che, nella prospettiva sapienziale propria del Roveretano, caratterizza l’autentico
sapere. A questo proposito le Costituzioni
distinguono fra l’ordine assoluto della verità e quello relativo, laddove il primo fa sì
che «tutte le scienze diventano una sola,
ammirevole per chi la contempla e per l’unica essenza, in cui si scorgono tante cognizioni, la quale essenza è l’oggetto della beatitudine umana, cioè Dio; e per l’unico e
fecondissimo principio, cioè Dio, da cui
derivano tutte le cose; e infine per l’unico
ottimo fine, che è sempre Dio, a cui tutte
tornano. E quando si pensano tutte le cose
unificate nella loro essenza, principio e fine,
in tutte si onora e si conosce il principio e il
fine di tutte, per cui Cristo disse: “Questa è
la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesú Cristo” (Gv 17,3). Quando dunque ci dedichiamo alle scienze con l’unico fine di conoscere Dio, di obbedirgli e di aderire a lui
con tutte le forze, lo studio di tutte le scienze diventa la scienza pratica di Dio, la sapienza, poiché allora in ogni cosa meditiamo la sua legge e la sua volontà, e consideriamo i suoi precetti; e di questa scienza
Cristo dice ancora: “E io so che il suo comandamento è vita eterna” (Gv 12,50)»32.
Nella prima forma di carità doniamo ciò
che abbiamo, nella seconda ciò che sappiamo, nella terza noi stessi. Se l’essere ha a
che fare con la carità e viceversa, questa, nel
31
32
EC, 50, 620-621.
EC, 50, 620-623.
18
suo esercizio concreto e quotidiano, non
può non ispirarsi alla triadicità delle sue
forme, esprimendo, attraverso tale fondamentale riferimento, la propria origine trinitaria ed il proprio radicamento nel Dio
uno e trino. La forma intellettuale della carità svolge un importante ruolo di mediazione tra il pensiero e il vissuto, fra la carità
oggetto di speculazione teosofica e l’esercizio di essa nella concretezza dell’esistenza.
Questo ruolo di mediazione risulta imprescindibile se non si vuole che la carità temporale diventi mero assistenzialismo e la
martyria si offra in forme di fanatismo.
5. Spunti per l’IRC
Una prima indicazione fondamentale che a
mio avviso l’insegnante di religione può assumere da un’attenta lettura dell’enciclica si
aggancia immediatamente alle riflessioni appena svolte ed in particolare alla sottolineatura del carattere intellettuale della carità. In
questo orizzonte il lavoro quotidianamente
svolto da chi insegna religione cattolica può,
anzi deve, essere percepito e vissuto come
autentico esercizio della carità, soprattutto
in quella forma che Rosmini chiamava intellettuale e che noi potremmo definire culturale. Mostrare infatti la rilevanza dell’evento Cristo nell’ambito proprio della realtà
scolastica, che eminentemente è quello della
cultura, è infatti compito proprio, tra gli altri, dell’insegnante di religione. Tale collocazione del proprio insegnamento infatti consente che esso venga sottratto da un’interpretazione meramente nozionale dello stesso, senza tuttavia proporsi in forma di pura
e semplice presenza accogliente e attenta ai
bisogni delle persone che lavorano e abitano
l’ambiente scolastico.
La formazione degli insegnanti dovrebbe
forse maggiormente tener conto di questo
orizzonte agapico del sapere, nel quale – come direbbe K. Barth – si vive e si inserisce
quello erotico della scienza. In questo senso
allora non si tratta di un’opzionalità affidata
al capriccio delle persone, ma di qualcosa
che riguarda la natura stessa del messaggio e
della comunità credente, cui ne è affidata la
custrodia e la missione.
Una seconda indicazione generale può innestarsi sulla necessità di mostrare la dimensione affettivo-erotica della fede, all’interno di un’attenta e adeguata educazione
dell’affettività, così complessa e difficile soprattutto se rivolta all’età evolutiva. Qui è
questione di equilibrio: l’insistenza su questa dimensione emozionale del credere può
infatti facilmente generare impulsi sporadici di rapporto con Dio, dimenticandone la
fatica della ragione e della volontà. Compito del docente-educatore sarà dunque sempre e comunque quello di aiutare e favorire
il recupero delle dimensioni conoscitiva e
volitiva, allorché emergesse con prevalenza
schiacciante l’appiattirsi della fede dei propri interlocutori sulla dimensione meramente affettiva. E viceversa, sostenere e
promuovere tale dimensione, quando essa
fosse dimenticata o abbandonata o ritenuta
avulsa dall’atto del credere cristiano.
Una terza indicazione generale riguarda l’esperienza della carità come gratuità e il suo
rapporto con la giustizia. È connessa alla
credibilità di un insegnamento la necessità
del docente di valutare giustamente i risultati raggiunti dai propri allievi, senza tuttavia mai confondere la valutazione dei risultati stessi con un giudizio sulla persona.
Riuscire a far percepire questa differenza
comporta certamente grande fatica, ma alla
fine ripaga, anche in termini di riconoscimento del proprio lavoro da parte di studenti e colleghi. Posso testimoniare personalmente di contatti positivi, ad anni di distanza, con studenti cui magari avevo assegnato una valutazione bassa. Ricordiamo
sempre il messaggio bonhoefferiano della
“grazia a caro prezzo”.
Altri spunti, soprattutto in relazione alla specificità della rivelazione cristiana del nome di
Dio credo possano essere facilmente colti a
partire dai confronti con la filosofia e le religioni monoteiste presenti in questo mio breve commento soprattutto alla prima parte
dell’enciclica Deus caritas est. Si tratta della
consapevolezza dell’unicità-universalità del
messaggio cristiano da cui nasce un autentico
dialogo interreligioso e interculturale, ma si
tratta anche di cogliere e far cogliere l’amore
umano (si pensi alla metafora sponsale che
l’enciclica richiama) nella sua irriducibile peculiarità e nella sua indiscutibile universalità.
Vorrei ora concludere tornando allo Pseudo
Dionigi e richiamando l’invocazione alla
Trinità, riportata nella Teosofia rosminiana:
«Trinità sovrasostanziale superdivina e superbuona, custode della teosofia dei cristiani, conduci noi direttamente al vertice superinconoscibile e splendido e altissimo
delle Scritture occulte, là dove i misteri
semplici e assoluti e immutabili della teologia sono svelati, nella caligine luminosissima del silenzio che insegna in modo arcano; caligine che fa risplendere in maniera
superiore nella massima oscurità ciò che è
splendidissimo, e che in maniera esuberante
riempie le intelligenze prive di occhi di
splendori meravigliosi, nella piena intangibilità e invisibilità».33
Mistica Teologia, 997b-1000a. La traduzione cui facciamo riferimento è DIONIGI AREOPAGITA, Tutte le opere, cit.
33
19
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Il nome di Dio è Amore. La dimensione teo-logica