Due tipologie di incipit Gérard Genette, Nuovo discorso del racconto (1983): “Se opponiamo grossolanamente due tipi di incipit, il tipo A che suppone il personaggio ignoto al lettore, lo considera in un primo momento dall’esterno assumendo in un certo senso tale ignoranza, poi lo presenta formalmente [...], e il tipo B che lo suppone di primo acchito già noto, designandolo immediatamente col cognome, o col nome, o addirittura con un semplice pronome personale o con l’articolo determinativo “familiarizzante”, possiamo osservare nella storia del romanzo moderno un’evoluzione significativa, che consiste grosso modo in un passaggio dal tipo A, dominante fino a Zola escluso […], al tipo B [...]. L’uso del tipo B è lampante del XX secolo nei romanzi come Ulysses, il Processo o il Castello” (57-58). Il punto di vista • Si tratta della prospettiva da cui la storia viene osservata e comunicata al lettore • E’ uno strumento di regolazione dell’informazione narrativa, cioè seleziona le informazioni che il narratore decide di trasmetterci Il punto di vista Opzioni narrative fondamentali: • Narrazione onnisciente (focalizzazione zero secondo Genette): il narratore dispone di un livello di sapere superiore ai personaggi (N>P) • Prospettiva ristretta (focalizzazione interna): il narratore dispone di un livello di sapere uguale a quello del personaggio (N=P) • (Focalizzazione esterna: il narratore dispone di un livello di sapere inferiore ai personaggi: N<P) Un nuovo sistema di coordinate Alcune “rivoluzioni” tra Otto e Novecento: Ambito politico-sociale –1896-1908: Seconda rivoluzione industriale –1914-18: Grande guerra –1917: Rivoluzione d’Ottobre Scienza e filosofia: –1899: Freud pubblica L’interpretazione dei sogni –1905: Einstein formula la teoria della relatività ristretta (a cui seguirà, nel 1916, la teoria della relatività generale) –1903-1911: Planck sviluppa la teoria dei quanti –1900-01: Husserl pubblica le Ricerche logiche (e nel 1913 le Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica) Un nuovo sistema di coordinate Campo della tecnica e delle invenzioni tecnologiche: –Tra fine 800 e primi anni del 900, Marconi inventa la radio, e in generale si sviluppano le telecomunicazioni (telegrafo, telefono ecc.) –Negli stessi anni, i fratelli Lumière inventano il cinema; –Grande sviluppo dei trasporti: auto, aereo, grandi transatlantici ecc. Un nuovo sistema di coordinate Stephen Kern, Il tempo e lo spazio: La percezione del mondo tra Otto e Novecento (The Culture of Time and Space 18801918, 1983): “Nel periodo che va dal 1880 allo scoppio della prima guerra mondiale una serie di radicali cambiamenti nella tecnologia e nella cultura creò nuovi, caratteristici modi di pensare e di esperire lo spazio e il tempo. Innovazioni tecnologiche che comprendono il telefono, la radiotelegrafia, i raggi X, il cinema, la bicicletta, l’automobile e l’aeroplano posero il fondamento materiale per questo nuovo orientamento; sviluppi culturali indipendenti quali il romanzo del ‘flusso di coscienza’, la psicoanalisi, il cubismo e la teoria della relatività plasmarono direttamente la coscienza: il risultato fu una trasformazione delle dimensioni della vita e del pensiero” (p. 7). Un nuovo sistema di coordinate Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento (1971): “Le prime origini della pittura cubista cadono suppergiù negli stessi anni, i primi di questo secolo, in cui Planck formula la teoria dei quanta, Einstein trasformando l’equazione di MichelsonMorley scrive le equazioni della relatività e Freud porta la psicologia del profondo a quella tappa decisiva che è rappresentata dal libro sull’interpretazione dei sogni. Sono altrettanti avvenimenti che sfaccettano e significano, nei loro campi diversi e rispettivi, quello che [si può chiamare] un nuovo sistema di coordinate dell’uomo nel mondo, una nuova percezione che l’uomo ha della struttura e quindi un nuovo sentimento e giudizio del mondo, e del proprio essere ed esserci nel mondo. E senza dubbio, nella misura in cui si è davvero stabilito un nuovo sistema di coordinate, se ne debbono riscontrare gli effetti anche in letteratura, e tanto più nel romanzo” (pp. 3-4). Un nuovo sistema di coordinate Mario Lavagetto, Svevo e la crisi del romanzo europeo (2000): “Il secolo [...] nasce in modo fortemente traumatico, grazie a una cesura radicale dopo la quale “niente sarà più come prima” e i confini del possibile e dell’impossibile risulteranno drasticamente modificati. È come se lungo un arco molto ampio – che va dalla musica alla filosofia, dalla fisica al romanzo – fossero stati predisposti dei detonatori che, in rapida sequenza, innescheranno formidabili esplosioni destinate a rivoluzionare i presupposti, i riferimenti e le condizioni stesse di lavoro; a trasformare il modo in cui i singoli pensano se stessi e il mondo che li circonda” (251). Un nuovo sistema di coordinate Erich Auerbach, Mimesis (1946): “I cambiamenti veloci produssero una confusione tanto maggiore, in quanto non era possibile abbracciarli nel loro insieme; essi si manifestarono contemporaneamente in molte singole sfere della scienza, della tecnica e dell’economia, cosicché nessuno, neanche coloro che ne erano a capo, poterono prevedere e giudicare le situazioni nuove che ne risultarono. […] dappertutto nel mondo sorsero crisi di adattamento, si accumularono e si fecero minacciose, condussero a quegli sconvolgimenti che non abbiamo ancora superato” (II,334). Un nuovo sistema di coordinate Robert Musil, L’uomo senza qualità (1930-33): “Dalla mentalità, liscia come un olio, degli ultimi due decenni del diciannovesimo secolo era insorta improvvisamente in tutta l’Europa una febbre vivificante. Nessuno sapeva bene cosa stesse nascendo; nessuno avrebbe potuto dire se sarebbe sorta una nuova arte, un uomo nuovo, una nuova morale o magari un nuovo ordinamento della società. Perciò ognuno ne diceva quel che voleva. Ma dappertutto si levavano uomini a combattere contro il passato. […] Erano diversissimi fra loro, e il contrasto fra i loro scopi non avrebbe potuto essere maggiore. Si amava il superuomo, e si amava il sottouomo; si adorava il sole e la salute, e si adorava la fragilità delle fanciulle malate di consunzione; si professava il culto dell’eroe e il culto socialista dell’umanità; si era credenti e scettici, naturisti e raffinati, robusti e morbosi […] Chi avesse voluto scomporre e anlizzare quel periodo avrebbe trovato un nonsenso, qualcosa come un circolo quadrato fatto di ferro ligneo, ma in realtà tutto si era amalgamato e aveva un senso baluginante” (61-62). Un nuovo sistema di coordinate Franz Marc, Vassily Kandinsky, Il cavaliere azzurro (Der Blaue Reiter, 1912): “Si apre, anzi si è già aperta, una grande stagione: il risveglio spritituale […] Siamo sulla soglia di una delle più grandi epoche che l’umanità abbia mai vissuto, l’epoca della grande spiritualità. […] Rispecchiare gli avvenimenti artistici direttamente connessi a questa svolta e i fatti necessari a illuminarli anche in altri campi della vita spirituale, è il nostro primo e massimo obiettivo” (249). “Noi ci avventuriamo in nuove terre e viviamo una grande, sconvolgente esperienza: scopriamo che tutto è ancora intatto, inespresso, vergine, inesplorato. Il mondo si apre dinanzi a noi in tutta la sua purezza: i nostri passi tremano. Se vogliamo osare e camminare, dobbiamo tagliare il cordone ombelicale che ci unisce al passato materno. Il mondo partorisce un’età nuova” (259). Un nuovo sistema di coordinate Virginia Woolf, Bennett and Mrs Brown (1924): individua una “frattura generazionale” tra i romanzieri della sua generazione (georgiani) e quelli della generazione precedente (edoardiani): “Nel o intorno al dicembre 1910 la natura umana è cambiata […] Tutte le relazioni umane sono mutate – quelle tra padroni e servi, mariti e mogli, genitori e figli. E quando le relazioni umane cambiano, c’è un contemporaneo cambiamento nella religione, nel comportamento, nella politica, e nella letteratura. […] E così si è iniziato a fracassare e a distruggere. È ciò che sentiamo tutto intorno anoi, nelle poesie e nei romanzi e nelle biografie, perfino negli articoli di giornale e nei saggi, il rumore di rottura e di crolli, di rovina e distruzione. […] I segni di tutto questo sono evidenti ovunque. La grammatica è violata; la sintassi disintegrata […]”. Contro il Naturalismo, per una poetica nuova I presupposti del realismo e del naturalismo ottocentesco vengono contestati: 1) Non esiste una realtà “oggettiva” (soggettivismo e relativismo) Contro il Naturalismo, per una poetica nuova 2) Cambia la gerarchia tra fenomeni significativi e fenomeni “insignificanti” Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento: “L’oggetto [...], per il romanzo tradizionale, prenovecentesco, non può, non deve mai essere insignificante; se lo assume e lo rappresenta è proprio perché è in qualche modo significativo o utilmente significativo: porta il suo contributo” Contro il Naturalismo, per una poetica nuova 2) Cambia la gerarchia tra fenomeni significativi e fenomeni “insignificanti” Umberto Eco, Le poetiche di Joyce: “Il principio dell’essenziale [...] fa sì che nel romanzo tradizionale non si dica affatto che il protagonista si è soffiato il naso, a meno che questo atto “conti” qualcosa al fine dell’azione. Se non conta è un atto insignificante, romanzescamente “stupido”. Ora, con Joyce [sta parlando di Ulisse] abbiamo l’assunzione di pieno diritto di tutti gli atti stupidi della vita quotidiana quale materia narrativa. [...] ciò che prima era inessenziale diventa centro dell’azione, nel romanzo non accadono più grandi cose importanti, ma accadono tutte le piccole cose, senza mutuo legame, nel flusso incoerente del loro sopravvenire, i pensieri come i gesti, le associazioni di idee come tutti gli automatismi del comportamento” (71-72) Contro il Naturalismo, per una poetica nuova 2) Cambia la gerarchia tra fenomeni significativi e fenomeni “insignificanti” Erich Auerbach, Mimesis: “Ai tempi nostri si è avuto uno spostamento di accento; molti scrittori rappresentano i piccoli fatti insignificanti per amore dei fatti stessi, o piuttosto quale fonte di motivi, di penetrazione prospettica in un ambiente, in una coscienza o nello sfondo del tempo; essi hanno rinunciato a rappresentare la storia dei loro personaggi con la pretesa di una compiutezza esteriore, conservando la successione cronologica e concentrando tutta l’attenzione sulle importanti svolte esteriori del destino. Il romanzo gigantesco di James Joyce, un’opera enciclopedica, specchio di Dublino, dell’Irlanda, specchio anche dell’Europa e dei suoi millenni, ha per cornice la giornata esteriormente insignificante d’un professore di ginnasio e d’un agente di avvisi pubblicitari”. Contro il Naturalismo, per una poetica nuova 2) Cambia la gerarchia tra fenomeni significativi e fenomeni “insignificanti”: “Esso comprende meno di 24 ore della loro vita, simile al romanzo To the Lighthouse di Virginia Woolf, che rappresenta parti di due giorni molto distanti nel tempo [...]. Proust rappresenta giornate e ore singole di epoche diverse, però alle svolte esteriori del destino, che frattanto hanno colpito i personaggi del romanzo, si accenna soltanto occasionalmente o retrospettivamente o con anticipazioni, senza che in esse sia posta la mira del racconto; spesso devono essere completate dal lettore; il modo in cui nel testo citato si parla della morte del padre, cioè occasionalmente, per accenni o anticipazioni, ne è un buon esempio”. Contro il Naturalismo, per una poetica nuova 2) Cambia la gerarchia tra fenomeni significativi e fenomeni “insignificanti”: “Questo spostamento del centro di gravità esprime quasi uno spostamento di fiducia; si attribuisce meno importanza alle grandi svolte esteriori e ai colpi del destino, come se da essi non possa scaturire nulla di decisivo per l’oggetto; si ha fiducia invece che un qualunque fatto della vita scelto casualmente contenga in ogni momento e possa rappresentare la somma dei destini; si ha fiducia maggiore nelle sintesi, ottenute con l’esaurire un fatto quotidiano, piuttosto che nella trattazione completa in ordine cronologico” (II,331-32). Contro il Naturalismo, per una poetica nuova 2) Si cerca di rappresentare una “seconda realtà”: Cfr. Luigi Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore (1925). Una prima versione esce nel 1916, con il titolo Si gira. “C’è un oltre in tutto” Contro il Naturalismo, per una poetica nuova 2) Si cerca di rappresentare una “seconda realtà”: Debenedetti, Il romanzo del Novecento: “I Quaderni sono proprio il romanzo in cui la liquidazione del naturalismo viene effettuata nel modo più fermo. Si direbbe che la vicenda stessa, che l’affabulazione di quel romanzo, per una specie di condensazione inconscia di motivi che l’autore viveva, ma forse non si proponeva di esprimere in quella forma, delineino simbolicamente il destino di morte del naturalismo. Si ricorderà infatti che Serafino, il protagonista, si ribella di continuo alla sua sorte di operatore, di uomo che gira la manovella della macchina da ripresa, cioè di strumento passivo che fotografa la vita e i suoi drammi come altrettanti “dal vero”: quel “dal vero”, appunto, che fu la prima ambizione del verismo, e gli diede addirittura il nome italiano”. Contro il Naturalismo, per una poetica nuova 2) Si cerca di rappresentare una “seconda realtà”: “E l’epilogo del romanzo è che Serafino, dopo avere eroicamente fotografato un catastrofico dal vero, è colpito da un trauma che gli toglie l’uso della parola. Nella sua carica di simbolo e di allusione, la vicenda dei Quaderni arriva dunque a dirci che il naturalismo diventa muto, inservibile” (451-52) Contro il Naturalismo, per una poetica nuova 2) Si cerca di rappresentare una “seconda realtà”: Debenedetti, Il romanzo del Novecento “Il compito è di vedere “che cosa si nasconde dietro le cose”. Una seconda realtà, per dirla in breve, più profonda e stabile e vera di quella vistosamente e sensibilmente presentata dalla loro apparenza” (295). Nuove strutture del romanzo 1) Tende a sparire la figura autorevole del narratore “onnisciente” 2) L’intreccio tradizionale viene destrutturato 3) L’orologio del romanzo “si rompe” e subentra una temporalità soggettiva e relativa, una durata interiore 4) L’identità del personaggio entra in crisi 5) Si sperimentano nuove tecniche di rappresentazione della vita interiore (monologo interiore, stream of consciousness) James Joyce Nasce a Dublino il 3 feb. 1882, primo dei dieci figli di John Stanislaus Joyce e di Mary Jane Murray James Joyce La sua formazione scolastica avviene per lo più in ambienti religiosi: – 1888-91: Frequenta il Clongowes Wood College, un prestigioso collegio di gesuiti nella contea di Kildare. – 1892-99: Si trasferisce in una scuola secondaria cattolica meno prestigiosa, retta sempre dai gesuiti, il Belvedere College di Dublino. – 1899-1902: Si iscrive allo University College, l’università cattolica di Dublino. Impara diverse lingue, tra cui francese, tedesco, italiano. Legge di tutto, dai classici antichi ai moderni, e si distingue per una cultura enciclopedica. Si appassiona all’opera di Ibsen (a Ibsen dedica uno dei suoi primi articoli, pubblicato su una rivista prestigiosa). James Joyce Fine del 1902: Dopo la laurea, si trasferisce a Parigi con il pretesto di studiare medicina. Alcuni mesi dopo viene richiamato a Dublino per una grave malattia della madre, che dopo una lunga agonia muore il 14 agosto 1903. A Dublino ritrova i vecchi compagni dell’università, con cui stringe forti amicizie che dureranno tutta la vita. Conosce Nora Barnacle, con la quale ha il primo appuntamento il 16 giugno 1904 (cfr. Ulysses). James Joyce Incomincia a inserirsi nell’ambiente letterario dublinese, e scrive i suoi primi lavori: – Prime novelle dei futuri Dubliners; – Un breve testo – via di mezzo tra un saggio e un racconto – steso di getto nella notte del 7 gennaio 1904: A Portrait of the Artist. James Joyce 8 ottobre 1904: Fugge con Nora diretto a Zurigo, dove ha trovato un impiego come insegnante di inglese. Ma il posto in realtà non c’è, e iniziano vari trasferimenti: Fine ottobre 1904: Si stabilisce a Pola, dove insegna per alcuni mesi; Marzo 1905: Si stabilisce a Trieste, dove resterà circa dieci anni (a parte brevi soggiorni a Roma e Dublino); vi rimarrà fino allo scoppio della guerra; qui nasceranno i suoi due figli; conoscerà Svevo. La genesi del Portrait Dal Portrait of the Artist allo Stephen Hero 7 gennaio 1904: Saggio-racconto, A Portrait of the Artist. Inizio febbraio 1904: Decide di sviluppare alcuni nuclei del saggio e di scrivere un romanzo autobiografico Diario di Stanislaus Joyce: “Ha deciso di trasformare il suo saggio in un romanzo. [...] Io ho suggerito come titolo quello stesso del saggio, ‘Ritratto dell’artista’, e questa sera, seduto in cucina, Jim mi ha detto la sua idea del romanzo. Deve essere quasi autobiografico, e naturalmente, venendo da Jim, satirico. Ci mette dentro moltissimi suoi conoscenti e i gesuiti con cui è stato in contatto. Non credo che farà loro piacere. Non ha deciso il titolo, e ancora una volta sono stato io a suggerirne la maggior parte. Finalmente ha accettato un mio titolo: ‘Stephen Hero’, dal nome di Jim nel libro: Stephen Daedalus. Il titolo, al pari del libro, è satirico”. [Il titolo ricalca una ballata settecentesca inglese, Turpin Hero, che celebra in chiave eroicomica le gesta di un famoso fuorilegge, Dick Turpin]. La genesi del Portrait Stephen Hero 1904: Inizia a scrivere il libro a Dublino e continua la stesura durante le tappe dei suoi spostamenti, tra Zurigo, Pola e Trieste; Lavora fino al giugno 1905, quindi interrompe la stesura e lo lascia incompiuto; Il romanzo aveva assunto enormi proporzioni (circa 1000 pagine), ma è in gran parte perduto, probabilmente distrutto dallo stesso Joyce: sopravvivono solo alcuni frammenti e i capp. 16-26; La prima edizione postuma esce nel 1946. La genesi del Portrait Dallo Stephen Hero al Portrait Dopo avere interrotto la stesura del romanzo, si dedica ai racconti dei Dubliners (1905-07), che incomincia a pensare di raccogliere in un volume organico (uscirà nel 1914); Settembre 1907: Dopo avere scritto l’ultimo racconto dei Dubliners, decide di riscrivere il romanzo autobiografico, con il titolo A Portrait of the Artist as a Young Man; 1907-1912: scrive i primi tre capitoli; 1912-1915: gli altri due; 1911: In una crisi di sconforto, getta nella stufa il manoscritto, e solo l’intervento dei familiari salva i fogli dalle fiamme; La genesi del Portrait Dallo Stephen Hero al Portrait 1914-1915: Grazie all’interessamento di Pound, il romanzo viene pubblicato a puntate sulla rivista londinese “The Egoist” (2 feb. 1914–10 set. 1915); Fine 1916: Il romanzo viene ripubblicato in volume (Huebsch, New York). Prima ed. inglese, 1917 Prima ed. americana, 1916 La struttura del Portrait Nel processo di elaborazione, i capitoli diventano cinque, ognuno dedicato a una fase ben precisa della vita del protagonista: 1) Infanzia 2) Adolescenza e scoperta del sesso 3) Crisi religiosa 4) Scoperta della vocazione artistica 5) Università e sviluppo della riflessione estetica La struttura del Portrait Albert Thibaudet, L’esthétique du roman: “Il romanziere autentico crea i suoi personaggi con le direzioni infinite della sua vita possibile, il romanziere fasullo li crea con la linea unica della sua vita reale. Il vero romanzo è come un’autobiografia del possibile. [...] Se [i romanzieri] prendono a soggetto della loro opera l’esperienza reale, essa si riduce in cenere, diventa un fantasma sotto la mano che la tocca. [...] Il genio del romanzo fa vivere il possibile, non fa rivivere il reale” (p. 12) La struttura del Portrait Nel romanzo si intrecciano due modelli narrativi: – Il Romanzo di formazione, o Bildungsroman (domina nei primi capitoli) – Il Romanzo dell’artista, o Kunstlerroman (domina negli ultimi capitoli) Joyce, Portrait, cap. I (ed. Mondadori, p. 46) Stephen closed his eyes and held out in the air his trembling HAND with the palm upwards. He felt the prefect of studies touch it for a moment at the fingers to straighten it and then the swish of the sleeve of the soutane as the pandybat was lifted to strike. A hot burning stinging tingling blow like the loud crack of a broken stick made his trembling HAND crumple together like a leaf in the fire: and at the sound and the pain scalding tears were driven into his eyes. His whole body was shaking with fright, his arm was shaking and his crumpled burning livid HAND shook like a loose leaf in the air. A cry sprang to his lips, a prayer to be let off. But though the tears scalded his eyes and his limbs quivered with pain and fright he held back the hot tears and the cry that scalded his throat. - Other HAND! shouted the prefect of studies. Stephen drew back his maimed and quivering right arm and held out his left HAND. The soutane sleeve swished again as the pandybat was lifted and a loud crashing sound and a fierce maddening tingling burning pain made his HAND shrink together with the palms and fingers in a livid quivering mass. The scalding water burst forth from his eyes and, burning with shame and agony and fear, he drew back his shaking arm in terror and burst out into a whine of pain. His body shook with a palsy of fright and in shame and rage he felt the scalding cry come from his throat and the scalding tears falling out of his eyes and down his flaming cheeks. - Kneel down, cried the prefect of studies. Stephen knelt down quickly pressing his beaten HANDS to his sides. To think of them beaten and swollen with pain all in a moment made him feel so sorry for them as if they were not his own but someone else's that he felt sorry for. And as he knelt, calming the last sobs in his throat and feeling the burning tingling pain pressed into his sides, he thought of the HANDS which he had held out in the air with the palms up and of the firm touch of the prefect of studies when he had steadied the shaking fingers and of the beaten swollen reddened mass of palm and fingers that shook helplessly in the air. Valery Larbaud, conferenza su Joyce, 1921 “Veniamo sempre più trasportati all’interno del pensiero dei personaggi; vediamo questi pensieri che si formano, li seguiamo, assistiamo all’arrivo di sensazioni alla coscienza, ed è attraverso ciò che pensa il personaggio che impariamo chi è, ciò che fa, dove si trova e ciò che accade intorno a lui”. Joyce, La dottrina dell’epifania Portrait, cap. 5: Durante una conversazione con un compagno d’università, Lynch, Stephen espone una complessa teoria estetica, articolata in cinque argomenti principali: 1) L’autonomia dell’arte; 2) La natura dell’emozione estetica; 3) L’oggettività e l’impersonalità dell’opera d’arte; 4 )La suddivisione delle forme artistiche nei tre generi, lirico, epico e drammatico; 5) Il problema della bellezza (dal quale si sviluppa la dottrina dell’epifania) Joyce, La dottrina dell’epifania “Aquinas says: AD PULCHRITUDINEM TRIA REQUIRUNTUR INTEGRITAS, CONSONANTIA, CLARITAS. I translate it so: THREE THINGS ARE NEEDED FOR BEAUTY, WHOLENESS, HARMONY, AND RADIANCE. Do these correspond to the phases of apprehension? Are you following?” Joyce, La dottrina dell’epifania 1. Integritas: “What is audible is presented in time, what is visible is presented in space. But, temporal or spatial, the esthetic image is first luminously apprehended as selfbounded and selfcontained upon the immeasurable background of space or time which is not it. You apprehended it as ONE thing. You see it as one whole. You apprehend its wholeness. That is INTEGRITAS”. Joyce, La dottrina dell’epifania 2. Consonantia: “-Then, said Stephen, you pass from point to point, led by its formal lines; you apprehend it as balanced part against part within its limits; you feel the rhythm of its structure.[…] Having first felt that it is ONE thing you feel now that it is a THING. You apprehend it as complex, multiple, divisible, separable, made up of its parts, the result of its parts and their sum, harmonious. That is CONSONANTIA”. Joyce, La dottrina dell’epifania 3. Claritas: “-The connotation of the word, Stephen said, is rather vague. Aquinas uses a term which seems to be inexact. It baffled me for a long time. It would lead you to believe that he had in mind symbolism or idealism, the supreme quality of beauty being a light from some other world, the idea of which the matter is but the shadow, the reality of which it is but the symbol. I thought he might mean that CLARITAS is the artistic discovery and representation of the divine purpose in anything or a force of generalization which would make the esthetic image a universal one, make it outshine its proper conditions. But that is literary talk”. Joyce, La dottrina dell’epifania 3. Claritas (=Quidditas): “I understand it so. When you have apprehended that basket as one thing and have then analysed it according to its form and apprehended it as a thing you make the only synthesis which is logically and esthetically permissible. You see that it is that thing which it is and no other thing. The radiance of which he speaks in the scholastic QUIDDITAS, the WHATNESS of a thing. This supreme quality is felt by the artist when the esthetic image is first conceived in his imagination. The mind in that mysterious instant Shelley likened beautifully to a fading coal. The instant wherein that supreme quality of beauty, the clear radiance of the esthetic image, is apprehended luminously by the mind which has been arrested by its wholeness and fascinated by its harmony is the luminous silent stasis of esthetic pleasure”. Joyce, La dottrina dell’epifania James Joyce, Stephen Hero: “Ora veniamo alla terza qualità. Per molto tempo non sono riuscito a capire che cosa intendesse l’Aquinate. Si serve di una parola figurativa (cosa molto insolita in lui) ma io sono arrivato a comprenderla. Claritas è quidditas. Dopo che con l’analisi s’è scoperta la seconda qualità, la mente compie la sola sintesi logicamente possibile e scopre la terza qualità. Questo è il momento ch’io chiamo epifania. Dapprima noi riconosciamo che l’oggetto è un’unica cosa integrale, poi riconosciamo che è una struttura organizzata e composita, una cosa in fatto: finalmente, quando la relazione tra le parti è perfetta, riconosciamo che è quella cosa che è. La sua anima, la sua identità, balzano fuori a noi dai veli dell’apparenza. L’anima dell’oggetto più comune ci appare radiante. L’oggetto compie la sua epifania” (211). Joyce, La dottrina dell’epifania James Joyce, Stephen Hero: “[Stephen] passava una sera nebbiosa per Eccles’ Street quando un incidente insignificante lo spinse a comporre alcuni ardenti versi che intitolò: “La Villanella della Tentatrice”. Una signorina stava ritta sui gradini di una di quelle scuore case di mattoni che sembrano l’incarnazione della paralisi irlandese. Un giovanotto s’appoggiava alla ringhiera arrugginita del recinto davanti alla casa. Stephen passando udì un frammento di colloquio da cui ricevette una impressione così acura da colpirlo. La Signorina (modulando discretamente): “Oh sì… sono stata… in… chie… sa…”. Il Giovane (sussurrando impercettibilmente): “Io…” (ancora più impercettibilmente) “io…”. La Signorina (piano): “Oh… ma voi sie… te… mol… to… cattivo”. Joyce, La dottrina dell’epifania James Joyce, Stephen Hero: “Questa banale scenetta lo fece pensare alla possibilità di raccogliere insieme molti di quei momenti in un libro d’epifanie. Per epifania intendeva Stephen un’improvvisa manifestazione spirituale, o in un discorso o in un gesto o in un giro di pensieri, degni di essere ricordati. Stimava cosa degna per un uomo di lettere registrare queste epifanie con estrema cura, considerando ch’erano attimi assai delicati ed evanescenti”. Joyce, La dottrina dell’epifania James Joyce, Stephen Hero: “[...] e disse a Cranly che l’orologio del Ballast Office era capace di comunicare un’epifania. Cranly interrogò con lo sguardo l’inscrutabile quadrante del Ballast Office con un’aria non meno inscrutabile”. “Sì” disse Stephen. “Io gli passo davanti di tanto in tanto, me ne ricordo, mi riferisco ad esso, gli do un’occhiata: è soltanto un pezzo dell’arredamento di una strada di Dublino: poi tutto a un tratto ecco ch’io lo vedo, e lo ravviso per quello che è: un’epifania”. “Che vuoi dire?” “Immagina che gli sguardi che gli dò siano come il frugare nel buio di un occhio spirituale il quale cerca di mettere a fuoco la sua visione, e nel momento che questo fuoco è raggiunto, ecco, l’oggetto è epifanizzato. È appunto con l’epifania che si tocca il terzo, il supremo stadio della bellezza””. Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento “Notiamo fin d'ora che le epifanie, questo sentimento di epifania, costituiscono il metodo narrativo di Joyce. […]Noi che viviamo in un paese dove questo evento della vita di Gesù è molto familiare ed annualmente festeggiato non abbiamo bisogno di arrivare alla didascalica pedanteria di Tindall che ricorda come l’Epifania cada il sei gennaio e commemori l’arrivo dei tre Re Magi ad una mangiatoia dove “mentre videro nient’altro che un bambino, videro qualcosa d’altro”. Ci importa questo fenomeno di seconda vista per cui la cosa, percepita nell’oggettività materiale, naturale del suo apparire, invita a scorgere ed effettivamente fa scorgere qualche cosa d’altro” (288). Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento “A noi importa di mettere in luce un altro aspetto di questa poetica delle epifanie: e proprio ai fini della grande svolta compiuta dal romanzo nel Novecento, svolta constatabile nei più autorevoli capostipiti del nuovo romanzo. […] Fino agli albori del nostro secolo si erano visti tanti tipi di romanzo, che prendono vari nomi: naturalista, psicologico, simbolisa, per esempio. Ma tutti condividono un carattere comune: il romanzo è una verifica di una certa ipotesi o idea del romanziere circa i decorsi e i comportamenti della vita, verifica ottenuta mediante gli sviluppi e lo scioglimento di una vicenda, o mediante la registrazione di ciò che uno o più personaggi sono costretti a fare o a subire. […]”+ Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento “Gli oggetti, fatti, eventi, apparizioni umane, momenti e aspetti della natura, che si affollano a dare consistenza alla stoffa del romanzo, non contano per il significato specifico di ciascuno, quanto per il contributo che essi portano alla verifica; insomma, per la loro funzionalità nella vicenda o nella costruzione del personaggio”. Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento “[…] Invece lo Stefano di Joyce […] si sente colpito da fatti per sé insignificanti, che, in quanto non servono, e perciò si epifanizzano, arrivano a un potere manifestante. […] Ma che cosa viene manifestato? Stefano dice: claritas è quidditas. Quiddità è anch’essa una parola della scolastica (con cui Dante ci ha resi familiari) e significa la qualità essenziale, il quid, per cui una cosa è quella che è. La claritas sarebbe dunque quel raggiungimento artistico, grazie al quale la cosa rivela, attraverso la sua rappresentazione, la propria qualità essenziale. […] Ma l’esempio dell’epifania [quello dei due ragazzi che dialogano] è dato con un’apparizione insignificante. Insignificante soprattutto perché non entra nella storia di Stefano”(291,293). Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento “L’altro esempio di epifania è quello dell’orologio della Dogana, che solitamente, cioè quando non si epifanizza, appare a Stefano come un pezzo dell’’ammobiliamento di Dublino’, di questa città immersa nella ‘paralisi irlandese’ […] Anche in questo secondo esempio, un’apparizione insignificante, perché non entra in rapporto con nulla o nessuno che le dia un significato. E’ fuori di qualunque contesto drammatico o narrativo” (293-94). Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento “Attraverso quel momento labile, il narratore ha toccato l’eterno, o almeno qualcosa che è al di fuori della transitorietà. Nella scheggia di una piccola storia umana, appena intravvista, ha afferrato un’essenza etxtratemporale. […] Ha ghermito un aspetto del tempo eterno, irrelativo, fuori di ogni misurazione, perché sempre uguale a se stesso, e ha perduto il tempo della clessidra e dell’orologio, ch’era quello specifico della narrativa tradizionale. Tutto questo dipende dall’aver sentito che le cose dicono qualcos’altro da ciò che è scritto nella loro immediata presenza; e che quell’altro, quel segreto, quella realtà seconda è la sola qualità che le renda degne di essere raffigurate. […] Il compito è di vedere “che cosa si nasconde dietro le cose”. Una seconda realtà, per dirla in breve, più profonda e stabile e vera di quella vistosamente e sensibilmente presentata dalla loro apparenza” (294-95). Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento “Come recuperare e riscattare quel passato? Come trovare il senso della propria vita? Qui Proust fa la grande scoperta, ha la grande rivelazione: certi attimi, epifanizzandosi, epifanizzano il passato. Abbandoniamo la parola di Joyce, sostituiamola con quella trovata da Proust a battezzare quegli attimi rivelatori, il fenomeno grazie a cui si rivelano. Proust li chiama ‘intermittenze del cuore’” (297). Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento “ Ecco dunque cos’è un’intermittenza del cuore: un risorgere del tempo perduto, di un tratto del tempo perduto, grazie all’opera – meglio la si chiamerebbe intercessione – della memoria involontaria stimolata da una sensazione, da un oggetto, che talvolta con quelle immagini, con la viva e folta anima di quelle immagini, ha poca somiglianza, poche analogie, spesso puramente casuali. Le intermittenze del cuore sono il metodo narrativo di Proust in una maniera anche più evidente di quanto le epifanie lo siano per Joyce. A quella prima parte del romanzo, dedicata per quasi una metà a evocare i giorni di Combray, Proust voleva dare addirittura il titolo: Giardini in una tazza di tè, tanto quella risurrezione gli pareva autrice e conduttrice di tutto il racconto. Ma tutto intero il romanzo, costellato di simili risurrezioni minori, si può scandire in un succedersi di intermittenze del cuore che ricuperano la materia narrativa” Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento “Ne concludiamo che i due grandi romanzieri che inaugurano il romanzo del Novecento e gli danno l'impronta (fino a loro si erano vedute repliche del romanzo precedente) perseguono, per vie diverse, analoghi metodi di conoscenza della realtà con cui tessono e costruiscono le loro narrazioni. L’analogia tra epifanie e intermittenze del cuore mi pare, dopo quanto abbiamo detto, innegabile. Le une e le altre stabiliscono che la rappresentazione delle cose ha valore, interesse poetico narrativo solo in quanto quella rappresentazione riveli la quiddità o l'anima infusa nelle cose, come avrebbe detto Joyce, il segreto che costituisce la verità permanente delle cose, come avrebbe detto [ ... ] Marcel Proust” (300). Franco Moretti, Il romanzo di formazione “In un episodio di iniziazione e rinascita […] l’epifania redime l’insensatezza del passato, rivelando che la gioventù di Stephen aveva sempre avuto uno scopo segreto – la scoperta della sua ‘anima’ di artista – e che lo ha finalmente raggiunto. Davvero, non c’è conclusione migliore per l’ambizioso Künstlerroman del giovane Joyce. / Tranne che, come sappiamo, il Ritratto continua, e il capitolo seguente, paragonato a tutti quelli che lo precedono, è stranamente piatto e privo di scopo. Né visioni né rinascite, qui, ma chiacchiere oziose per passare il tempo; niente istituzioni traumatizzanti, ma una quotidianità banale; il veggente è diventato un giovane pedante, che nell’epifania vede solo un gustoso indovinello filologico. Comunque lo si guardi, questo quinto capitolo sembra avere la funzione, meramente negativa, di invalidare ciò che fino a quel punto era stato proposto come il senso del romanzo” (269-70). Virginia Woolf Nasce a Londra il 25 gennaio 1882: – Padre: Leslie Stephen, critico e storiografo, tra le altre cose fondatore del Dictionary of National Biography; – Madre: Julia Duckworth (nata Jackson); quando sposa Stephen nel 1878 è alla sua seconda esperienza di matrimonio: vedova con tre figli; dal secondo matrimonio avrà altri quattro figli – Virginia sarà la terza. L’infanzia è scandita da esperienze traumatiche e da una catena di lutti che la segneranno profondamente: – 1895: Muore la madre, e in questa occasione ha la sua prima crisi nervosa; – La sorellastra Stella prende il posto della madre, ma lei stessa muore due anni dopo; – 1904: Muore il padre, dopo una lunga malattia. Virginia Woolf Dopo la morte del padre, l’avventura intellettuale di V. Woolf entra nel vivo: Già negli anni precedenti, grazie al fratello Thoby, era entrata in contatto con alcuni intellettuali di spicco della cultura inglese; 1904: Si trasferisce con i due fratelli – Thoby e Adrian – e con la sorella Vanessa nel quartiere di Bloomsbury, e dà vita a una sorta di cenacolo di artisti e di intellettuali – conosciuto come “gruppo di Bloomsbury”; 1905: Nuovo lutto familiare: muore anche il fratello Thoby, di tifo; 1912: Sposa uno dei membri del gruppo, Leonard Woolf, noto intellettuale, scienziato politico; con lui darà vita (1917) a una casa editrice – la “Hogarth Press” – che pubblicherà, oltre agli stessi libri della Woolf, varie opere dei maggiori scrittori modernisti (T.S. Eliot, Forster, Mansfield ecc.) Virginia Woolf In questo periodo incomincia a dedicarsi alla narrativa: 1913: Esce il suo primo romanzo, The Voyage Out; 1920: Secondo romanzo, Night and Day; 1921: Raccolta di racconti, Monday or Tuesday; 1922: Altro romanzo, Jacob’s Room, che era stato iniziato nel 1920; 1923: Inizia a lavorare a uno dei suoi capolavori, Mrs Dalloway, che uscirà nel 1925. Virginia Woolf La produzione narrativa è accompagnata anche da una consistente produzione critica: 1913: Inizia a tenere un diario in cui annota riflessioni sulla scrittura (pubblicato parzialmente nel 1953, con il titolo A Writer’s Diary, Diario di una scrittrice); 1917: Inizia a collaborare con il “Times Literary Supplement”, per il quale scrive articoli e recensioni; 1918: Legge il manoscritto dell’Ulisse di Joyce; 1923: Pubblica Mr Bennett and Mrs Brown; 1925: Esce una raccolta di saggi, The Common Reader. To the Lighthouse: Ideazione (Citazioni tratte dal Diario di una scrittrice) Giovedì 14 maggio 1925: “Ora sono tutta tesa verso il desiderio di abbandonare il giornalismo e mettermi al lavoro su To the Lighthouse. Sarà piuttosto corto; vi sarà un ritratto completo di papà; e della mamma; e poi St. Ives; e l’infanzia; e tutte le solite cose che cerco di metterci dentro: vita, morte, ecc. Ma il centro è il personaggio di papà, seduto in barca, che recita ‘Noi perimmo, ciascuno era solo’, mentre schiaccia uno sgombro morente” (p. 119). To the Lighthouse: Ideazione Domenica 14 giugno 1925: “Ho escogitato, forse anche troppo chiaramente, tutto To the Lighthouse” (p. 121) Sabato 27 giugno 1925: “Mentre cerco di scrivere, continuo a costruire To the Lighthouse: per tutto il libro si deve sentire il mare. Ho l’idea di inventare un nome nuovo per i miei libri, che sostituisca ‘romanzo’. Un nuovo… di Virginia Woolf. Ma che cosa? Elegia?” (p. 123) To the Lighthouse: Ideazione Lunedì 20 luglio 1925: “[…] ho un desiderio superstizioso di cominciare To the Lighthouse il primo giorno a Monk’s House. Credo che lo finirò nei due mesi laggiù. La parola ‘sentimentale’ mi sta sullo stomaco […] Ma questo tema potrebbe essere anche sentimentale; padre madre bambina in giardino; la morte; la gita in barca al faro. Credo però che una volta cominciato lo arricchirò di mille cose diverse; lo addenserò; gli darò fronde e radici che ora non distinguo. Potrebbe contenere tutti i personaggi riassunti; e la fanciullezza; e poi questa cosa impersonale, che gli amici mi sfidano a raggiungere, il trascorrere del tempo e la conseguente soluzione di continuità nel mio disegno. Quel passaggio (immagino il libro in tre parti: 1. alla finestra del salotto; 2. sette anni trascorsi; 3. il viaggio) m’interessa moltissimo” (p. 123-24) Giovedì 30 luglio 1925: “Penso di poter fare qualcosa, in To the Lighthouse, per analizzare le emozioni con finezza ancora maggiore. Penso di lavorare in quella direzione” (p. 125) To the Lighthouse: Stesura Sabato 5 settembre 1925: “Ho dato ugualmente un avvio rapido e rigoglioso a To the Lighthouse – ventidue pagine di fila in meno di due settimane” (p. 125) Martedì 23 febbraio 1926: “Sono sbattuta come una vecchia bandiera dal mio romanzo: To the Lighthouse. […] adesso scrivo più rapida di quanto ho scritto in tutta la mia vita […] Credo sia la prova che mi trovo sulla strada giusta […] Ci vivo dentro, e risalgo alla superficie piuttosto confusamente, spesso incapace a quel che devo dire […] È che sento di poter buttare fuori tutto, ora; e ‘tutto’ è un affollarsi, un peso, una confusione nella mente” (pp. 129-30) To the Lighthouse: Stesura Venerdì 30 aprile 1926: “Ieri ho terminato l’ultima parte di To the Lighthouse, e oggi ho cominciato la seconda. Non so come metterla insieme, ecco il pezzo più difficile e astratto: devo rappresentare una casa vuota, nessun personaggio umano, il passare del tempo, tutto senz’occhi e senza lineamenti, nessun punto d’appoggio […] Quando nel leggo un pezzetto mi sembra baldanzoso; va condensato, ma non molto di più” (pp. 133-34) Martedì 25 maggio 1926: “Ho finito – buttato giù – la seconda parte di To the Lighthouse” (p. 134) Venerdì 3 settembre 1926: “Il romanzo è in vista della fine, ma questa, misteriosamente, non s’avvicina. Scrivo di Lily sul prato; ma se si tratti della sua ultima apparizione, questo non lo so. […] In questo momento sono alla ricerca di un finale. Il problema è come avvicinare Lily e il signor R. e creare una comunanza di interessi alla fine. Mi gingillo con varie idee […]” (p. 146) To the Lighthouse: Revisione e pubblicazione Lunedì 13 settembre 1926: “Oh che sollievo svegliarsi e pensare è fatta: sollievo e delusione, suppongo. Sto parlando di To the Lighthouse” (p. 148) Martedì 23 novembre 1926: “Sto rifacendo sei pagine al giorno di To the Lighthouse. […] La mia opinione attuale è che sia di gran lunga il migliore dei miei libri” (p. 150) Venerdì 14 gennaio 1927: “Ho terminato in questo momento la sfacchinata finale. Ora è completo e pronto per la lettura di Leonard, lunedì prossimo. Così l’ho scritto in un anno meno qualche giorno e ringrazio il cielo di esserne fuori di nuovo. Dal 25 ottobre non ho fatto che rivederlo e ricopiarlo (certe parti fino a tre volte) e senza dubbio dovrei lavorarci ancora; ma non ci riesco. Lo sento come un libro duro e muscoloso” (p. 151) To the Lighthouse: Revisione e pubblicazione Domenica 23 gennaio 1927: “Be’, Leonard ha letto To the Lighthouse e dice che è di gran lunga il mio miglior libro e che è un ‘capolavoro’” (p. 151) Domenica 1 maggio 1927: “E poi ricordo che il mio libro sta per uscire” (p. 155) Giovedì 5 maggio 1927: “Uscito il libro” (p. 155) To the Lighthouse: Autobiografismo 28 novembre 1928: “Compleanno di papà. Avrebbe avuto 96 anni, sì, 96 anni oggi; e avrebbe potuto avere 96 anni come altre persone che abbiamo conosciuto; ma per fortuna non è stato così. La sua vita avrebbe distrutto completamente la mia. Che sarebbe avvenuto? Niente scrivere, niente libri: inconcepibile. Una volta pensavo ogni giorno a lui e alla mamma; ma scrivere To the Lighthouse li ha placati nel mio spirito. Ed ora egli torna, a volte, ma in un modo diverso. (Credo che sia vero; che io fossi morbosamente ossessionata da entrambi, e che scrivere di loro fosse un atto necessario). Ora ritorna piuttosto come un contemporaneo” (p. 188). To the Lighthouse: Autobiografismo Lettera di Vanessa, 11 mag. 1927: “A me sembra che tu abbia tracciato un ritratto della mamma che le somiglia più di quanto avrei creduto possibile. È quasi doloroso vedersela risuscitare davanti. Sei riuscita a far sentire la straordinaria bellezza del suo carattere […]. È stato come incontrarla di nuovo, ormai adulti e su un piano di parità. Essere riuscita a vederla in questo modo a me sembra un’impresa creativa che ha del miracoloso […]. L’immagine che dai di lei sta in piedi da sola e non solo perché evoca ricordi. Mi sento eccitata e turbata e trascinata in un altro mondo come lo si è solo da una grande opera d’arte”. Diario, Lunedì 16 maggio 1927: “Nessa entusiasta: uno spettacolo sublime, quasi sconvolgente. Dice che è un sorprendente ritratto della mamma; io una suprema ritrattista; ci ha vissuto dentro; la risurrezione dei morti le è parsa quasi dolorosa” (p. 156) Auerbach, Mimesis (dall’ultimo cap.: Il calzerotto marrone) “Dalla nostra analisi del brano risultano alcune caratteristiche di stile che vogliamo precisare. L’autore, quale narratore di fatti obiettivi, passa quasi completamente in secondo piano; quasi tutto ciò che è detto, è il riflesso nella coscienza dei personaggi. […] Non veniamo neanche a conoscere quello che la Woolf sa del carattere della signora Ramsay, ma il riflesso di questo su diversi personaggi: sul signor Bankes, […] sulla gente che fa congetture su di lei. Cosicché non sembra esistere fuori dal romanzo stesso nessun punto dal quale vengono osservati gli uomini e gli avvenimenti e neanche una realtà obiettiva diversa da quella soggettiva della coscienza dei personaggi” (317-18). Auerbach, Mimesis (dall’ultimo cap.: Il calzerotto marrone) “Caratteristica fondamentale della maniera di Virginia Woolf è che essa non tratta soltanto di un solo oggetto e delle impressioni del mondo esterno sulla coscienza di questo, ma di molti soggetti, che cambiano spesso. In questo senso appaiono nel nostro capoverso la signora Ramsay, ‘people’, il signor Bankes, ogni tanto per pochi attimi James, la domestica svizzera di riflesso e i senza nome che fanno le loro supposizioni sulla lacrima. Dalla molteplicità dei soggetti si deduce che si tratta dell’esplorazione di una realtà obiettiva e precisamente qui della ‘vera’ signora Ramsay. Auerbach, Mimesis (dall’ultimo cap.: Il calzerotto marrone) Questa, a dir vero, è un mistero e lo resta per principio, ma viene quasi accerchiata dalle varie coscienze (compresa la sua) convergenti su di lei; si tenta di avvicinarla da molte parti – fino al limite concesso alle possibilità umane della conoscenza e dell’espressione. L’intento di avvicinarsi a una vera realtà obiettiva con l’aiuto di molte impressioni soggettive avute da molte persone (e in momenti diversi), è una caratteristica essenziale del procedimento moderno qui trattato” (319-20). Auerbach, Mimesis (dall’ultimo cap.: Il calzerotto marrone) “In modo sorprendente, del tutto insolito in epoche precedenti, il contrasto risalta così fra la breve spanna di tempo dell’azione esteriore e la ricchezza dei fatti interiori comprendenti un mondo intero. Le caratteristiche nuove del procedimento sono queste: un movente occasionale che provoca i movimenti interiori; un’espressione naturale […] dei medesimi nella loro libertà non limitata da nessuna intenzione, senza un preciso indirizzo del pensiero; il dar spicco al contrasto fra tempo ‘esteriore’ e ‘interiore’. Auerbach, Mimesis (dall’ultimo cap.: Il calzerotto marrone) Tutte e tre queste caratteristiche hanno qualche cosa in comune, in quanto tradiscono l’atteggiamento dello scrittore: questi si abbandona a un caso qualunque della realtà in misura molto maggiore di quanto fosse avvenuto prima nelle opere realistiche, e anche se, come naturale, egli ordina e stilizza il materiale che la realtà gli offre, ciò non succede in modo razionale e con l’intenzione di portare a compimento secondo un piano preordinato una concatenazione di fatti esteriori” (321-22). Auerbach, Mimesis (dall’ultimo cap.: Il calzerotto marrone) “Ambedue le digressioni sono tentativi di cogliere una realtà più vera, più reale – mentre il fatto che le provoca sembra del tutto occasionale ed è povero di contenuto. […] Comunque è di importanza decisiva che un fatto esteriore insignificante provochi immagini o serie di immagini che si allontanano da esso per muoversi liberamente nella profondità del tempo. […] La tecnica particolare di Virginia Woolf, come risulta dal nostro testo, consiste in ciò, che la realtà esteriore obiettiva, rappresentata direttamente dall’autore, e che appare come un fatto sicuro, il misurare il calzerotto, non è che un movente, anche se non del tutto occasionale; importante è solo quanto da esso è provocato, che non è visto direttamente, ma di riflesso, e che non è legato al filo dell’azione esteriore” (32425). V. Woolf, Modern Fiction (1919) – In questo saggio, V. Woolf In cui critica la generazione dei romanzieri inglesi immediatamente precedenti (gli “edoardiani”), che definisce “materialisti”; – Si riferisce in particolare a Bennett, Wells e Galsworthy; – In generale, manifesta l’esigenza di segnare una svolta, di rinnovare gli strumenti espressivi e di tendere verso nuovi obiettivi artistici (cfr. anche Bennett e Mrs Brown, 1923). V. Woolf, Modern Fiction (1919) “La vita sfugge [Life escapes]; e senza la vita null’altro vale la pena. Servirci di questa figura retorica equivale a una confessione d’insicurezza ma la questione migliora di poco se parliamo, come in genere fanno i critici, di realtà. Pur riconoscendo l’incertezza in cui si dibatte la critica letteraria, vogliamo arrischiarci a sostenere che il romanzo oggi più in voga elude anziché cogliere la cosa che cerchiamo [the thing we seek]. Vita o spirito, verità o realtà [life or spirit, truth or reality], chiamiamola come si vuole, questa cosa, che è essenziale [this, the essential thing], si è dissolta o è andata troppo oltre, e rifiuta di lasciarsi ancora imbrigliare nella veste inadatta che sola sappiamo fornirle. […]” V. Woolf, Modern Fiction (1919) “Gran parte dell’enorme fatica compiuta per dimostrare la solidità, la verosimiglianza del racconto [the solidity, the likeness to life] è non solo fatica sprecata, ma fatica inutile al punto da oscurare e annullare la luminosità dell’idea originale. E’ come se lo scrittore fosse costretto […] a provvedere all’intreccio, alla commedia, alla tragedia, alla storia d’amore e a un’atmosfera di probabilità capace di imbalsamare l’insieme in modo tanto perfetto che, se tutti i personaggi dovessero acquistare vita, si troverebbero vestiti fino all’ultimo dettaglio secondo la moda del momento. Il tiranno è ubbidito; il romanzo scritto a regola d’arte. Ma a volte, sempre più spesso col passar del tempo, mentre le pagine si riempiono veloci nel solito modo, intuiamo un dubbio fugace, uno spasimo di ribellione. E’ così la vita? E’ così che devono essere i romanzi?”. V. Woolf, Modern Fiction (1919) “Fermatevi a osservarla: la vita è molto diversa da ‘così’ [life, it seems, is very far from being ‘like this’]. Esaminate per un momento una mente qualsiasi in un giorno qualsiasi. Riceve una miriade di impressioni – banali, fantastiche, evanescenti o incise con l’acutezza di una punta d’acciaio, che piovono da ogni parte, come un diluvio incessante di atomi [an incessant shower of innumerable atoms]; e mentre cadono, mentre assumono la forma di vita del lunedì o del martedì, l’accento si posa in modo sempre differente; il momento essenziale [the moment of importance] non si è verificato qui, ma lì”. V. Woolf, Modern Fiction (1919) “Col risultato che se lo scrittore fosse un uomo libero e non uno schiavo, se potesse scrivere quel che vuole e non quel che deve, se potesse basare la sua opera su quel che sente e non sulle convenzioni, non ci sarebbe intreccio, non ci sarebbe commedia, tragedia, storia d’amore o catastrofe nel consueto stile […] La vita non è una serie di lanterne disposte in modo simmetrico; la vita è un alone luminoso, un involucro trasparente [life is a luminous halo, a semi-transparent envelope] che ci avviluppa da quando cominciamo ad aver coscienza fino alla fine” V. Woolf, Modern Fiction (1919) “Ci sembra pressappoco questa la definizione della qualità che distingue l’opera di molti giovani scrittori, tra i quali James Joyce è il più bravo [the most notable], da quella dei loro predecessori. Costoro cercano di avvicinarsi di più alla vita e di conservare con maggiore sincerità e precisione ciò che li interessa e li emoziona anche se, per farlo, debbono respingere molte delle convenzioni comunemente accettate da un romanziere. Registriamo quindi gli atomi mentre cadono sulla mente nell’ordine in cui cadono, tracciamo il disegno, per quanto sconnesso e incoerente in apparenza, che ogni visione, ogni avvenimento segna sulla coscienza. Rifiutiamoci di dar per scontato che ci sia più vita [that life exists more fully ] in quanto è generalmente ritenuto grandioso che in quanto è generalmente ritenuto modesto”. V. Woolf, Modern Fiction (1919) “Per i moderni ‘quello’, il punto d’interesse [‘that’, the point of interest], molto probabilmente risiede nei meandri oscuri della psicologia. Subito l’accento cade in modo un po’ diverso; si pone l’enfasi si una cosa fino a oggi ignorata; diventa necessario un differente contorno per la forma, difficile per noi, incomprensibile per i nostri predecessori”. V. Woolf, Modern Fiction (1919) “Chiunque abbia letto il Portrait of the Artist as a Young Man o un’opera che promette di essere più interessante, Ulysses, ora in parte pubblicata sulla ‘Little Review’, avrà azzardato una teoria simile riguardo alle intenzioni di James Joyce. Quanto a noi, davanti a quel frammento, vogliamo arrischiare un’ipotesi piuttosto che un’affermazione; qualunque sia l’intenzione dell’opera completa, non si può dubitare della sua assoluta sincerità. Per quanto difficile o sgradevole lo si possa giudicare, il risultato è innegabilmente rilevante”. V. Woolf, Modern Fiction (1919) “In contrasto con coloro che abbiamo definito materialisti [cioè i romanzieri della generazione precedente], Joyce è spirituale; a lui interessa a qualunque costo rivelare le oscillazioni di quella fiamma interiore [the innermost flame] che lancia messaggi attraverso il cervello, e, pur di tenerla viva, trascura con estremo coraggio tutto quanto gli pare accidentale, che si tratti di probabilità, di coerenza o comunque di uno di quei pali indicatori che, da generazioni, puntellano la mente del lettore, sollecitata a immaginare ciò che non può toccare e nemmeno vedere”. Moments of being Diario, 19 giugno 1923: “Non ho il dono di questa realtà... Io disincarno, e fino a un certo punto volontariamente, perché non mi fido della realtà, del suo basso prezzo. Voglio andare oltre. Ma ho il potere di esprimere la vera realtà?” [I haven’t that ‘reality’ gift. I insubstantise, wilfully to some extent, distrusing reality - its cheapness. But to get further. Have I the power of conveying the true reality?] “Se scrivo è per andare verso le cose centrali” Moments of being Diario, 27 febbraio 1926: “Perché non esiste una scoperta, nella vita? Qualcosa su cui si possa mettere le mani e dire: ‘Eccolo’? […] Poi (mentre ieri sera passavo per Russel Square) vedo montagne nel cielo: le grandi nubi; e la luna che è sorta sulla Persia; ho la grande e stupefacente sensazione di qualche cosa, lassù, che è ‘quello’, ‘la cosa’. Non mi riferisco alla bellezza, non esattamente. È che la cosa basta in se stessa: soddisfacente, compiuta. È la sensazione della mia straordinarietà, di me che cammino sulla terra: dell’infinita stranezza della condizione umana […] Mi accade spesso di imbattermi in questo ‘qualcosa’ e mi sento allora in perfetta pace”. Moments of being Da un saggio su J. Conrad, recensione a Lord Jim (1917): “Quello che ci colpisce è il modo in cui funziona la mente di Conrad; egli ha un “momento di visione” [a moment of vision] in cui vede le persone come se non le avesse mai viste prima; descrive questa visione, e anche noi ne siamo folgorati”.