Scuola media “A.GRANDI”
CONCORSO
Parlamento…parliamone
Nel mondo classico, in
particolare in Grecia, dove era
presente una realtà politica
definita città-stato,
l’assemblea di tutti i cittadini
della polis rappresentava la
forma più compiuta della
democrazia intesa come
partecipazione di tutti al
governo della città. Le
deliberazioni dell’assemblea
popolare rappresentavano,
infatti, decisioni partecipate
con l’affermazione della
volontà politica della
maggioranza. Questa, infatti,
disponeva materialmente del
voto diretto, non delegato,
nelle delibere più importanti e
incisive.
Agorà di Atene, piazza dove si riunivano
anticamente i cittadini ateniesi per legiferare

« Il nostro sistema politico non si propone di
imitare le leggi di altri popoli: noi non
copiamo nessuno, piuttosto siamo noi a
costituire un modello per gli altri. Si chiama
democrazia, poiché nell’amministrare si
qualifica non rispetto ai pochi, ma alla
maggioranza. »(Pericle, discorso riportato
in Tucidide, II, 37, 1)
Due affreschi di Ambrogio Lorenzetti (pittore
prerinascimentale del XIV secolo) fanno bella mostra
di sé nella Sala del Consiglio comunale di Siena. Due
affreschi di cui l’uno è il contraltare dell’altro, nel
senso che nel primo si raffigurano gli aspetti del Buon
Governo (operosità economica, vitalità sociale),
nell’altro, invece, l’incuria e l’inerzia campeggiano tra
le stesse strutture, rese ancora più desolate dall’uso
sapiente dei colori scuri (Cattivo Governo). Negli
affreschi, eseguiti tra il 1337 e il 1339 nel Palazzo
Pubblico di Siena, è riuscito a tradurre in altissima
poesia figurativa un contenuto dottrinario e simbolico.
Sulla parete di fondo della sala è raffigurato il Buon
Governo, o il Buon Comune, sotto la specie di un
magnanimo veglio abbigliato da un manto bianco e
nero (i colori della “Balzana”, lo stemma di Siena),
circondato dalle virtù politiche, tra le quali la
bellissima Pace; a lui giungono i ventiquattro
consiglieri del comune, reggendosi a due corde
intrecciate (cioè concordus), che a loro volta, dopo
essere passate dalla mano della Concordia,
scendono dai due piatti della bilancia della
Giustizia, che volge gli occhi in alto verso la
Sapienza.
Sulla parete attigua gli
Effetti del Buon
Governo vengono
illustrati in
un’amplissima
panoramica che dal
fantasmagorico scenario
della Siena del 1300, coi
suoi palazzi, con le sue
piazze e le sue strade
ferventi di traffici,
attraversale mura e le
porte della città trapassa
ad una distesa e serena
visione della campagna
ben curata anch’essa
(terre dissodate, campi
delimitati da siepi,
strade, ponti, cascinali),
con i contadini al lavoro
e percorse da liete
brigate di cacciatori e gli
uomini si aggirano sicuri
(Securitas).
Si scorge, nella dimensione dell’allegoria che tipizza la
produzione artistica medioevale, la sinistra figura del
tiranno, esecrabile e terribile nell’aspetto, che troneggia con
accanto le personificazioni di Frode, Crudeltà, Inganno,
Furore, Discordia, Perfidia. La Giustizia è, invece,
incatenata: nulla può (“Le leggi vi son, ma chi può mano ad
elle?” dice Dante) e regna il Timor (al contrario della
Securitas). L’ingresso nella sala era posto in modo che si
incontrasse per primo l’affresco del Cattivo Governo per cui
il Lorenzetti ha realizzato un itinerarium molto simile a
quello di Dante: dall’Inferno al Paradiso. Con colori violenti
e cupi sono rappresentate le città in cui le case sono sbarrate
e le campagne aride e desolate in cui non vi è alcuno che
lavora.
Platone, particolare della Scuola
di Atene di Raffaello
Sembra quasi che l’autorevole pittore abbia
tradotto nei colori e nelle forme quanto va
dicendo Platone in Un elogio della democrazia
ateniese: «La costituzione dello Stato è il
mezzo con il quale si formano gli uomini:
buona, se buoni cittadini produce; cattiva, se
cattivi. E a noi incombe l’obbligo di far
manifesto che in buona costituzione i nostri
antenati furono cresciuti. Per suo merito,
quegli antichi furono valenti ed i
contemporanei pure lo sono, e di questi fanno
parte i nostri caduti (nelle guerre per la
libertà). In realtà eguale è il governo, allora e
oggi: un governo aristocratico. E così, oggi,
siamo governati; ma sempre, per lo più da
allora, secondo perenne vicenda di tempo.
Qualcuno la chiama democrazia; un altro con
quel nome che più gli piace; in realtà è sempre
aristocrazia, pur con il beneplacito del popolo.
I Re sempre per noi vi sono; scelti, in certi
periodi, per ragioni di nascita; in altri, invece,
con un sistema elettivo. Padrone dello Stato è
il popolo; e attribuisce gli onori ed il potere a
quanti via via ne sembrano più degni.
Infermità, povertà, oscura nascita non
escludono dagli onori; nemmeno per le
contrarie ragioni un altro trova estimazione,
come pure avviene negli latri Stati. Uno invece
il criterio: chi è ritenuto sapiente, chi ha valore
domina e governa».
Rappresentazione di
una seduta del Senato:
Cicerone attacca
Catilina da un affresco
del XIX secolo di
Cesare Maccari
Il passo dà ragione di quei fondamenti etici che hanno anche caratterizzato la nascita della
Repubblica romana in cui era presente «la coscienza della perpetuità dello Stato non meno viva
di quella della famiglia». Il rispetto del cittadino per le tradizioni non si limitava al culto
meschino delle forme esteriori. Esso era alimentato dalla convinzione della necessità che in ogni
occasione l’interesse comune prevalesse su quello del singolo. La più alta aspirazione del
cittadino romano era quella di contribuire nel limite delle sue forze alla grandezza dello Stato,
compito che egli considerava un dovere imprescindibile. La volontà di vivere una vita esemplare
entro il dettato della legge era radicata nella coscienza civile del cittadino romano. Obbediva di
buon grado ai magistrati e, qualora fosse egli stesso magistrato, teneva in gran conto il parere del
Senato.
La stima di cui godevano i magistrati romani
dipendeva dal fatto che, in generale, essi erano
davvero all’altezza dei loro compiti per la loro
formazione intellettuale e morale, per gloria degli
antenati, per l’impegno e per il valore dimostrato sui
campi di battaglia. Il voto del popolo null’altro era se
non il riconoscimento pieno del loro diritto a detenere
il comando. Questo alto ideale politico stimolò
l’attività individuale indirizzandola verso la vita
pubblica, tant’è che ogni occupazione diversa da
quella politica ed economica veniva considerata
otium, vale a dire inerzia, mera occupazione del
tempo libero diremmo oggi.
SPUNTI DI RIFLESSIONE
a) Dall’elogio della democrazia ateniese agli affreschi del Lorenzetti
corrono duemila anni di storia: il principio ispiratore è lo stesso ed è
rintracciabile nelle parole del sommo filosofo (Platone) come nella
composizione dell’artista prerinascimentale, dove l’homo novus, rinato
dalle ceneri del Medioevo, riprende la vita dell’operosità e del progresso
in tutti i campi. Meditando sull’osservazione, produrre una significativa e
personale rielaborazione sottolineando l’eterna validità dei valori (bene
comune, concordia, interessi) che animano le parole e la scenografia. Il
sistema dei valori è ancora valido? È ancora presente nell’attuale mondo
globalizzato oppure si avverte oggi carenza degli stessi?
Nelle comunità civili in cui il Bene Comune, la concordia, gli interessi
non alimentano una progettualità finalizzata, ogni buona intenzione si
perde per strada e la vita pubblica risente direttamente del dissesto
organizzativo. Nell’attuale mondo globalizzato il sistema dei valori non
regge al cospetto di forti interessi economici “organizzati” che tendono
a prevalere sull’interesse collettivo generando emarginazione economica
e civile e soprattutto forti malcontenti che destabilizzano il sistema di
governo. Il Bene comune spesso e volentieri è sostituito con quello
privato; regna la discordia tra i ceti e gli interessi economici sono
prevalenti su tutto.
Il cammino di Roma verso la
democratizzazione non fu semplice
né di breve periodo. Il patriziato in
Roma continuò a detenere il potere
anche quando furono istituiti i
Comizi curiati, organizzati su base
familiare: ogni cittadino veniva
iscritto nelle Curie secondo la gens a
cui apparteneva. Di questa
suddivisione si avvantaggiarono i
patrizi perché nei comizi curiati, forti
dell’appoggio dei clienti, potevano
spadroneggiare nelle singole curie a
loro piacimento. Nella lotta per la
rivendicazione dei suoi diritti, la
plebe ebbe il primo sostegno
nell’istituzione delle 17 tribù
territoriali. In tali tribù, dette
rustiche, in contrapposizione alle tre
urbane, furono approvati (nei comizi
tributi) tutti gli ordinamenti
rivoluzionari che permisero alla
plebe di ottenere in seguito le sue
vittorie.
La Curia julia, l'edificio sito nel
Foro romano che ospitava il Senato
« Senatores probi viri,
Senatus autem bestia »
(Cicerone)
Interno della Curia,
antica sede del Senato.
Esse, quindi, ridussero il potere dei patrizi e
favorirono la nuova classe dei piccoli
proprietari rurali che, riuniti nelle
assemblee tribute, crearono un nuovo
stato entro lo Stato, con leggi proprie ed
autonome, dette leges sacratae, cioè
giurate da tutti i partecipanti alle
assemblee. Queste leggi erano vincolanti
solo per la plebe e non garantite
dall’autorità dello Stato. Eppure la plebe,
servendosi di esse, riuscì ad influire sulla
vita dello Stato, fino al punto da imporre
la loro osservanza. Infatti, per effetto
della prima lex sacrata, i capi delle tribù,
che erano sempre intervenuti nella tutela
degli interessi della plebe, si
trasformarono in veri e propri funzionari
(tribuni della plebe) con un’autorità che
divenne sempre più grande. la lotta per i
diritti civili ebbe come primo obiettivo
quello di ottenere un corpo di leggi
scritte, uguali per tutti, contro l’arbitrio
dei patrizi. Da questo momento in poi, la
plebe acquisterà in Roma sempre più
potere ed i plebisciti (interrogazioni,
consultazioni popolari) acquisteranno
forza di leggi. L’ultima conquista in
ordine di tempo fu l’ingresso al
Consolato, suprema magistratura romana.
A questo riguardo è opportuno leggere un passo dei
Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio del
Machiavelli, in cui l’autore si sofferma sulle aspre
lotte in Roma tra aristocrazia (patrizi) e popolo
(plebei), lotte che, a suo detto, dalla morte dei
Tarquinii alla creazione dei Tribuni condussero la
Repubblica romana ad una costituzione
esemplare, espressione di tutte le energie vive
dello Stato. È un passo fortemente significativo
dell’acume politico posseduto dallo studioso
fiorentino: egli, infatti, si pone contro il giudizio
comune espresso nei confronti di quei tumulti che
spesso e volentieri funestavano il passaggio di
Roma alle istituzioni repubblicane.
Quei tumulti, infatti, osserva acutamente il
Machiavelli, furono estremamente funzionali a
trasformare e modellare di continuo gli istituti e le
leggi al cui risultato si pervenne dopo lunghe e
travagliate vicende.
Il bene comune e il buon governo nascono da una
gagliarda e vivace partecipazione di tutte le forze
politiche anche nella forma del tumulto!
SPUNTI DI RIFLESSIONE
b) Esaminando il processo di democratizzazione
della Roma antica, condividete l’acuta
osservazione del Machiavelli a riguardo, quando
afferma che le lotte fra patrizi e plebei siano
state decisive nell’indirizzare gli ordinamenti al
bene comune e al senso della giustizia?
Da Tarquinio, ultimo re di Roma, all’istituzione
del Tribunato della plebe, organo fondamentale
per la difesa degli interessi del popolo, una serie
di episodi tumultuosi fece sì che la plebe
conquistasse la partecipazione al potere e le
costituzioni si adeguassero agli interessi comuni.
Le ottime istituzioni repubblicane, infatti,
si hanno nel I sec. a.C. per gli
sconvolgimenti delle guerre civili nelle
quali lo storico latino Sallustio vede
l’origine del periodo più oscuro della
storia di Roma. Sinteticamente l’illustre
storico espresse il suo amaro giudizio che
è rimasto come una sorta di sentenza a
significare, come sempre accade e
accadrà, che “Concordiā parvae res
crescunt, discordiā maxumae
dilabuntur”. Infatti dalla catastrofe delle
lotte civili avrà origine l’Impero…
Nel periodo imperiale in Roma tacque
ogni forma collettiva di partecipazione,
essendo il governo nelle mani di uno solo
che deliberava in modo pressoché
autonomo e, a seconda della convenienza
politica, cercava di soddisfare le richieste
delle grandi masse popolari per conquistarsi il consenso delle stesse e spesso
contro le norme del buon senso.
Sallustio in un'incisione
ottocentesca
Alla fine del mondo romano, con la
caduta dell’Impero e le invasioni
barbariche, politicamente si ebbe la
continuazione del verticismo, solo
che più vertici (i regni romanobarbarici) si erano diffusi
nell’Europa cristiana ed anche con la
ripresa dell’antico sistema imperiale
(Carlo Magno) ed il Feudalesimo più
ancora si ebbe una netta chiusura
politica in cui le più ardite decisioni
erano riservate ad una ristretta
frangia di nobiltà che era
intimamente legata alle sorti
dell’Imperatore. Il sistema feudale,
infatti (da foèd = pezzo di terra, in
antico germanico), chiudeva sempre
più l’area politica in posizioni di
estremo privilegio esclusi dalla plebe
e dal popolo minuto (commercianti,
artigiani, operai, piccoli
imprenditori). In questa area di
privilegio si contavano i nobili, la
gerarchia feudale sempre piuttosto
rissosa ed insubordinata all’Istituto
dell’Impero.
Il lavoro nei campi, miniatura.
Nella nostra penisola, invasa da
genti di origine germanica, le
città, spopolatesi via via perché
durante le invasioni
rappresentavano il punto di
riferimento dove principalmente
stanziarsi per dette popolazioni –
pensare che Roma, nel periodo di
maggiore floridezza economica e
politica, contava più di un
milione di abitanti, mentre
nell’alto Medioevo (sec. VI-X)
ne contava appena ventimila –
erano prevalentemente governate,
difese e protette da vescovi: il
Cristianesimo, infatti, fu il
collante d’elezione che fece
sopravvivere usi, costumi,
tradizioni civili e culturali della
romanità più gloriosa.
La Curia vescovile, infatti,
rappresentò per lungo tempo il centro
di interessi non solo spirituali delle
città ma anche politici e soprattutto
economici. Attorno al vescovo rifiorì
la vita produttiva e vivace della
nascente borghesia, operosa in
inventiva economica e nei commerci.
Alcune fiere d’oltralpe, come quella
della Champagne e più ancora quelle
fiamminghe, assumeranno nel corso
del secolo XII il carattere di grandi
mercati internazionali. In esse avranno
luogo per la prima volta quelle
operazioni (lettera di cambio e lettera
di credito) che sono proprie della
nostra età e che prescindono sia dalla
presenza del denaro contante e sia
dalla presenza delle merci: operazioni
nelle quali si distinguevano, favoriti
dai loro contatti con il mondo
orientale, mercanti ed operatori
italiani. È la nuova economia di
scambio che trionfa sul chiuso mondo
feudale.
Nell’Età precomunale, le città
italiane presentano un tessuto
composito di elementi eterogenei che
si differenziano sia socialmente che
economicamente. La classe sociale di
maggiore prestigio, dopo il clero, è
quella dei nobili (piccola nobiltà
feudale dei valvassori, valvassini e
milites, venuti ad abitare in città pur
conservando feudi e possessi in
campagna). Accanto ad essa si
sviluppano nuovi ceti, in ragione
dell’articolarsi di più specifiche
attività economiche e di più
complessi rapporti imposti dalla vita
cittadina: uomini di legge (giudici e
notai), medici, mercanti, piccoli
artigiani, che costituiscono il
“popolo”.
Il governo è nelle mani del vescovo-conte (quando non si tratti
di un feudatario laico) ma già i cittadini, quelli più influenti,
hanno preso a radunarsi insieme a parlamento (parlascio o
arengo), con l’assenso del vescovo e alla presenza di un suo
delegato, nella piazza grande o in qualche chiesa, a discutere
delle cose di comune interesse, della costruzione di strade e
ponti, della restaurazione delle mura, del mercato cittadino.
Fra essi il Parlamento scegle i cosiddetti bonis homines, che
hanno il compito di affiancare il vescovo e di curare
l’esecuzione dei deliberati dell’assemblea stessa.
Non parliamo di democrazia, poiché l’autorità rimane ancora
nelle mani del vescovo o del conte laico e non v’è parità tra i
vari ordini della cittadinanza. Già in queste forme di
autogoverno, tuttavia, si manifesta la tendenza a ricostruire la
società dal basso nella direzione opposta a quella propria della
società feudale, con la sua struttura rigidamente gerarchica che
non concepisce altra autorità se non quella che promana
dall’alto.
L’Età moderna e contemporanea,
dopo alterne vicende, prende le
mosse proprio da quest’ambito di
libertà comunali e di patti stipulati
per garantire ordinamento giuridico
e libertà economica agli associati
(cittadini). Non a caso, nel nostro
Risorgimento, scrittori di romanzi
storici, per istillare il senso della
libertà e dell’unità, si sono ispirati a
vicende legate al periodo comunale,
ravvisando in esso i semi della
ribellione, dell’autonomia e della
libertà dallo straniero, allorché i
Comuni lombardi e veneti si
unirono in giuramento per
combattere l’usurpatore delle loro
libertà. In due componimenti
carducciani – Il Giuramento di
Pontida e La canzone di Legnano –
si evidenzia il primo emergere della
coscienza nazionale che non tollera
la soggezione al potere imperiale.
Nel primo passo si dà voce allo
storico episodio del Giuramento di
Pontida (1167).
Secondo gli ordini dettati dal
Barbarossa a Roncaglia, spettavano
al Re («Quod principi placuit, legis
habet vigorem»), i diritti di emanare
le leggi, nominare i magistrati,
armare eserciti, coniare moneta e
imporre tasse (le cosiddette regalìe).
Federico, infatti, a Roncaglia ordinò
che le regalìe, usurpate, dovessero
essere restituite ed in ogni comune i
magistrati cittadini dovessero cedere
il posto ai messi o podestà imperiali.
Crema e Milano insorsero. Crema fu
distrutta, Milano rasa al suolo, il
popolo disperso. Le città del Veneto
e della Lombardia allora si riunirono
in Lega Veronese e Lega di Pontida,
poi in Lega Lombarda che abbracciò
36 città dell’Italia settentrionale.
Miniatura di Federico I
Barbarossa
Il monumento di Alberto da
Giussano a Legnano
Il Giuramento di Pontida (Bergamo),
dal luogo dove fu sottoscritto
il patto, l’abbazia di Pontida, è
commovente per la passione ed il
vigore degli accenti. Si giura sui
sacri Evangeli che non si farà pace
o tregua con Federico né con il di
lui figlio, né con la di lui moglie, né
con altri della sua famiglia e di
impedire con qualsiasi mezzo ad
ogni esercito tedesco di entrare in
Italia. Diversamente l’esercito
nemico sarebbe stato combattuto
fino a quando non fosse uscito
dall’Italia. Ciò avvenne a Legnano,
il 29 maggio 1176, in uno scontro
tra i comuni ribelli e l’Imperatore
Federico Barbarossa.
Il primo Parlamento, arengo, quindi
era l’effettiva espressione diretta
del popolo tutto, fortemente
democratico, come è giusto che sia.
Come scrive il nostro poeta del
Risorgimento G. Carducci, nella
poesia Il Parlamento, ciò
avvenne perché il popolo tutto,
comprese le donne, aveva deciso
di resistere all’Imperatore tedesco
e di ucciderlo: «uccidete il
Barbarossa!».
Nel suo canto spiegato ed arioso
La canzone di Legnano, il
Carducci si sofferma sulla figura
del Console che chiede al popolo
raccolto a parlamento: «… fra i
ruderi che neri verdeggiavan di
spine, fra le basse case di legno,
ne la breve piazza, i milanesi
tenner parlamento» (II strofa, vv.
15 e segg.) il coraggio di
combattere contro Federico
Barbarossa, che più di una volta
aveva piegato ed umiliato
Milano.
G. Carducci
Il Parlamento era, quindi, il luogo delle
deliberazioni collettive, il luogo delle iniziative
più ardite, scaturite da solenni promesse
dinanzi alle sacre insegne della municipalità. Il
basso Medioevo è, infatti, da considerare il
tempo della formazione della modernità, del
moderno modo di sentire le istituzioni ed il
ruolo di rapportarsi ad esse. L’esperienza del
periodo comunale, detto consolare, si consumò
in breve giro di anni e subentrarono le forme
del Comune podestarile. Si giunse così al
Principato, dove ogni voce di pubblica
partecipazione cessò. Così anche nel periodo
delle Signorie.
Niccolò Machiavelli
Nel Principe, Niccolò
Machiavelli illustra bene la
nuova condizione politica
dell’Italia messa a soqquadro da
guerre intestine tra Principati.
Occorreranno molti anni prima
che si ridesti in Italia una volontà
politica di libertà non solo dallo
straniero ma anche dagli istituti
di governo la cui reggenza era
priva di ogni forma di
partecipazione popolare. Quanti
moti insurrezionali si ebbero per
ottenere la Carta costituzionale,
la legge prima di ogni legge!
Fu la filosofia dei cosiddetti illuministi
(Montesquieu) a destare le coscienze
sopite sotto il giogo del potere. E la
Rivoluzione francese fu l’esito naturale
di quel teorizzare intorno ai diritti ed
alle libertà civili. Con Napoleone si
ebbe un ritorno al passato: la figura
politica del Bonaparte aveva escluso e
schiacciato ogni forma di opposizione
al suo decisionismo politico e militare.
Ma i semi rivoluzionari germogliarono un
po’ dovunque in Europa ed in Italia. In
quest’ultima si ebbero addirittura dei
prìncipi “illuminati”, come Leopoldo II
in Toscana, che cercarono di conciliare
le ragioni del potere con una certa
volontà popolare. Altrove, però, in
Italia era dispotismo e verticismo.
Solo in seguito ad alcuni eventi storici di
particolare coinvolgimento popolare,
sotto la guida di intellettuali di alto
profilo (Mazzini prima, Cavour poi) si
ebbe una svolta decisiva, in senso
parlamentare, dell’azione politica.
Leopoldo II di Toscana
Nelle pagine de La vita privata,
Cesare Balbo — uno di quegli
intellettuali pre-unitari che
formularono dei sistemi di governo per
l’imminente unità, che era ormai
nell’aria – con grande fortuna e con
calorosa analisi, tenta di dare una
risposta ai mali d’Italia, spesso e
volentieri sottolineati da scrittori
d’oltralpe (Goethe, Staël, Bayron,
Lamartine) nei quali l’Italia è vista
come territorio da diporto per vacanze
impareggiabili sotto un profilo
paesaggistico e museale, ma non sotto
quello antropologico. L’Italia, infatti, è
vista come «la terra dei morti»
(v. Lamartine) anche se a questi il
Foscolo rispose: «se sono morti
risorgeranno». Il Balbo, ideologo del
neoguelfismo, sosteneva da buon
torinese e laico che l’Unità d’Italia si
sarebbe potuta realizzare in una
confederazione di stati sotto l’egida
(lo scudo) della casa savoiarda.
Cesare Balbo
Il De Sanctis trent’anni più tardi ad un congresso di dotti stranieri avrebbe
pronunziato: «c’era una volta un popolo italiano che, accoccolato nel suo
dolce far niente, andava in sollucchero quando i forestieri venivano qui a
cantargli le lodi degli avi… Ma queste lodi oggi non ci bastano più … Noi
oggi ci sentiamo un popolo vivo, e vogliamo vivere di una vita nostra, e
vogliamo divenire un popolo moderno… Voi venivate un giorno a visitare
non noi, ma i nostri musei, le tracce dei nostri antenati; ed ora noi speriamo
mostrarvi che non vogliamo più ricordare la storia del nostro passato, ma la
storia vogliamo farla noi!».
Bei propositi, belle intenzioni quelle del De Sanctis ma, se noi osserviamo bene
l’attuale nostra civiltà, emerge, ancora, al confronto delle nazioni europee, un
gap (differenza) in negativo. Tornando alle note di Balbo sulla vita italiana e
sul concetto di virtù poco praticata dalle famiglie costatiamo che «manca in
Italia una virtù severa, forte e sufficiente» in paragone di altre nazioni
cristiane contemporanee.
Queste notizie, che a tutta prima possono essere avvertite come inutili nei
confronti del nostro assegno, costituiscono, invece, dei passi dovuti
nell’affrontare le tematiche del nostro attuale sistema parlamentare tenendo
sempre conto della “massima” del nostro Machiavelli che «ogni popolo ha il
governo che merita».
SPUNTI DI RIFLESSIONE
c) Dopo la lettura del passo di Cesare Balbo e in seguito ad
una vostra attenta riflessione sull’attuale costume
mentale degli Italiani, ritenete di poter affermare che
questo sia radicalmente mutato o ritenete che ancora
oggi manchi in Italia una “virtù severa forte e
sufficiente”?
Si ritiene di poter dire che, attualmente, in Italia, si è
creata una frattura tra mondo politico e mondo reale
nella misura in cui ciascuno e ciascun gruppo di individui
cerca di conseguire il “particolare”, gli obiettivi che
riguardano da vicino. Mancano ideali e, quindi, virtù che
facciano tendere al bene Comune, come si verificava ai
tempi della gloriosa indipendenza dei Comuni, laddove il
Bene comune era il sommo bene a cui riferirsi nell’azione
politica e militare (v. Leghe lombarde).
Carlo Alberto di Savoia firma lo
Statuto albertino
La nascita dello Stato
italiano
Nel 1861 si ebbe il primo
Parlamento italiano, a
Torino, con l’annessione dei
diversi stati della penisola.
Allo Stato con forti
autonomie regionali si
preferì quello accentrato,
rappresentato nelle Province
dai Prefetti. Ai territori
annessi fu esteso
l’ordinamento giuridico
piemontese e, quindi, anche
lo Statuto albertino, la
Costituzione del Regno di
Sardegna emanata nel 1848.
Lo Statuto albertino, concesso al popolo, aveva limitato i poteri
del monarca assoluto in favore del popolo. Si trattava di una
Costituzione flessibile perché poteva essere modificata da una
legge ordinaria. Con lo Statuto si stabilisce un sistema
monarchico costituzionale perché il Re creava un Parlamento
costituito dal Senato, i cui membri erano nominati a vita dal
Re e da una Camera dei deputati, che erano eletti ogni cinque
anni dai cittadini più ricchi: si era ancora lontani dalla
democrazia. Più innovativa la parte dello Statuto riguardante i
diritti civili, ispirata alle “dichiarazioni” della Rivoluzione
americana e della Rivoluzione francese (l’uguaglianza dei
cittadini davanti alla legge; la garanzia della libertà
individuale; l’inviolabilità del domicilio; la libertà di stampa;
la libertà di riunione; l’inviolabilità della proprietà). Nessun
impegno per garantire ai cittadini il diritto al lavoro o per
migliorare le condizioni sociali.
Palazzo Madama
nel XVIII secolo
Con il tempo i poteri del Parlamento del Regno d’Italia si ampliarono per
cui il Re ed anche il Senato si sentirono impegnati a non fare scelte che non
fossero condivise dalla Camera dei deputati. La Monarchia costituzionale
pura si trasformò di fatto in Monarchia costituzionale parlamentare. Alla
caduta del Fascismo, periodo nel quale tacque il Parlamento, con le
votazioni che si svolsero il 2 giugno 1946 (a suffragio universale) con
il voto alle donne per la prima volta nel nostro Paese, il popolo italiano
scelse la Repubblica. Il 25 giugno 1946 si riunì per la prima volta
l’Assemblea Costituente (eletta da tutti i cittadini italiani).
Il Presidente
Enrico De Nicola
firma la Costituzione
La Costituzione del nuovo Stato fu approvata il 22
dicembre 1947 ed entrò in vigore il 1° gennaio 1948
(cento anni dopo la promulgazione dello Statuto
albertino). Si stabiliva così tra i cittadini un nuovo
patto che dava origine allo Stato democratico nella
forma della Repubblica parlamentare.
Il cardinale Segretario di
Stato Pietro Gasparri e
Benito Mussolini, firmano i
Patti Lateranensi
L’Assemblea Costituente, dopo lunga discussione, approvò l’art. 7, che
prevede che i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica siano regolati dai
Patti lateranensi (1929). Si volle evitare una spaccatura fra laici e
cattolici ed assicurare all’Italia la pace religiosa. Nel 1984 lo Stato
italiano ha rinnovato il Concordato con la Chiesa cattolica. Il nuovo
concordato si ispira a principi di maggiore indipendenza reciproca tra
Stato e Chiesa e di maggiore rispetto per la libertà religiosa di tutti i
cittadini.
Dopo l’esperienza della dittatura, il popolo italiano
aspirava ad un ordinamento che non solo ripristinasse
i diritti civili violati dal Fascismo, ma che garantisse
la partecipazione di tutti i cittadini alla gestione del
potere (diritti politici a tutti). L’Assemblea costituente
dette forza alle ragioni di una lotta contro le
ingiustizie che da sempre colpivano le classi più
povere. Così si stabilirono nella nuova Carta
costituzionale una serie di diritti sociali che
costituiscono ancora oggi la parte più innovativa,
in quanto mirano a «rimuovere gli ostacoli che
impediscono il pieno sviluppo della persona umana»
(il diritto al lavoro, all’istruzione, alla salute,
all’assistenza, alla casa).
SPUNTI DI RIFLESSIONE
d) L’attuale nostra Costituzione nata con l’apporto delle
vitali e sofferte forze della resistenza, ha stabilito un
nuovo patto sociale, dando origine allo stato democratico
nella forma della Repubblica Parlamentare. Innovativa e
sostanzialmente giusta, non ha ancora visto realizzati
alcuni suoi fondamentali istituti. Parlatene.
Non ancora la nostra Costituzione ha dato vita ad
interventi legislativi tesi “a rimuovere gli ostacoli” che
“impediscono il pieno sviluppo della persona umana.
Alcuni diritti, infatti, previsti sulla carta, non hanno
trovato spazi legislativi sufficienti a che siano pienamente
realizzati. Pensiamo al diritto al lavoro, alla casa… sono
questi ben lontani dall’essere realizzati.
I principi ispiratori della nostra
Costituzione vengono
solennemente affermati nei
primi articoli (1-12) e anche
nella Parte I (artt. 13-54)
che riguarda i diritti e i
doveri dei cittadini.
Nella Parte II (artt. 55-139) la
Costituzione tratta
dell’ordinamento della
Repubblica e si conclude
con alcune Disposizioni
transitorie e finali.
Il sistema parlamentare
Il Parlamento è il perno dell’intero sistema costituzionale
italiano:
esercita il potere legislativo;
elegge il Capo dello Stato;
determina l’orientamento politico del Governo, il quale deve
avere la sua fiducia e deve rendergli conto del suo operato.
Per questo noi definiamo la nostra Repubblica parlamentare.
In altri sistemi politici, invece, il Parlamento ha soltanto il
compito di fare le legge ed il Governo deve rendere conto delle
sue scelte al Presidente della Repubblica. Siamo così in
presenza di una Repubblica presidenziale. In quest’ultimo tipo
di repubblica (es. Stati Uniti), il Presidente della R., eletto
direttamente dai cittadini, è anche il Capo del Governo.
Le repubbliche parlamentari non funzionano tutte allo stesso modo. Il nostro fino
a poco tempo fa è stato un sistema parlamentare rappresentativo nel quale il
meccanismo elettorale consentiva che nel Parlamento fossero rappresentati i
vari orientamenti politici in modo “proporzionale” alla loro presenza nel Paese.
Però, poiché nessuna formazione politica riusciva ad avere la maggioranza
assoluta, per formare il Governo (che deve avere il voto favorevole della
maggioranza parlamentare) era necessaria l’alleanza fra più partiti. Il Governo
risultava, così, instabile perché se veniva meno l’accordo tra le forze politiche
che lo sostenevano, era costretto alle dimissioni. Proprio per evitare questo, in
Italia si è deciso di introdurre un nuovo sistema elettorale, di tipo
maggioritario, che, rendendo difficile l’ingresso in Parlamento dei partiti
minori, dovrebbe favorire l’aggregazione degli elettori intorno ai due maggiori
schieramenti politici. In questo modo è più facile che lo schieramento che vince
le elezioni abbia la maggioranza necessaria per sostenere stabilmente il
governo. Con questa riforma il nostro sistema politico si è trasformato in un
sistema parlamentare maggioritario in cui la maggioranza ha il compito di
esprimere il Governo mentre la minoranza, facendo opposizione al Governo, ne
controlla l’operato. In un sistema democratico deve sempre essere possibile che
la minoranza, facendo valere le sue proposte presso gli elettori, diventi
a sua volta maggioranza. In particolare, le decisioni che riguardano il
funzionamento delle Istituzioni, o che investono i diritti del cittadino, non
possono essere prese dalla sola maggioranza, ma richiedono un più largo
consenso.
Camera dei deputati
Struttura e prerogative del Parlamento
È un organo complesso, costituito da due assemblee distinte: la Camera dei deputati ed
il Senato della Repubblica. La Camera comprende 630 membri tutti eletti, il Senato
315 membri eletti ed un piccolo numero di senatori a vita (gli ex Presidenti della
Repubblica, senatori di diritto e sino a 5 membri nominati dal Presidente della
Repubblica per loro meriti particolari).
Le due Camere hanno identiche funzioni e poteri e perciò diciamo che il nostro è un
sistema bicamerale perfetto. Le elezioni per il rinnovo del Parlamento (elezioni
politiche) si svolgono di norma ogni 5 anni.
Come lavora il Parlamento
Quando dopo le elezioni si
costituisce il nuovo
Parlamento, ha inizio una
legislatura, che dura 5 anni, a
meno che il Presidente della
Repubblica proceda allo
scioglimento anticipato delle
Camere. Ciascuna Camera
elegge un suo Presidente che
ha il compito di dirigere i
lavori dell’assemblea; quando
le due Camere si riuniscono in
“seduta congiunta”, la
presidenza è affidata al
Presidente della Camera dei
deputati.
Palazzo di Montecitorio
L’approvazione delle leggi è la funzione fondamentale del
Parlamento, che è, infatti, l’organo che esercita il potere
legislativo. Nel nostro sistema bicamerale ogni legge deve
essere approvata separatamente dalla Camera dei deputati e
dal Senato, per essere successivamente promulgata dal
Presidente della Repubblica. Queste procedure, nate
dall’esigenza di garantire un’attenta riflessione sulle norme
che vengono emanate, comportano, però, una notevole
lentezza nella formazione delle leggi. Anche per questo si
pensa di riformulare il Parlamento riducendolo ad una sola
Camera, oppure attribuendo alle due Camere competenze
diverse.
Riteniamo fortemente attuale e densa di futuro l’autorevole
considerazione del prof. Aldo Moro: «Questo Paese non si
salverà se non nascerà una nuova stagione dei doveri».
Le due Camere, poi, costituiscono nel loro interno
delle Commissioni (in cui sono presenti parlamentari
di diverso orientamento politico) che si occupano di
settori specifici (Commissione per la pubblica istruzione, per i lavori pubblici, per le finanze). Scopo di
queste Commissioni è quello di preparare e snellire i
lavori del Parlamento. Una Commissione, ad
esempio, può avere l’incarico di definire il testo di
una legge su cui, poi, riferisce alla Camera cui
appartiene, la quale lo approva o lo respinge (la
Commissione, in questo caso, lavora in sede
referente) oppure può avere l’incarico di procedere
direttamente anche all’approvazione della legge,
allora si dice che lavora in sede deliberante).
SPUNTI DI RIFLESSIONE
e) Avete qualcosa da porre in rilievo circa l’iter procedurale
attuale tenuto dal Parlamento nella formazione delle leggi?
Condividete anche la considerazione del Prof. Aldo Moro che
abbiamo posto alla fine del nostro lavoro?
L’iter parlamentare fino all’approvazione della legge è piuttosto
lento e ciò comporta un notevole ritardo nella formulazione
della legge. In effetti, in una società moderna in rapida
evoluzione ciò produce effetti non certo positivi. Molto spesso
si è sentito parlare di riformare il Parlamento, riducendo il
numero dei membri e attribuendo alle due Camere compiti
diversi. Ma tra il dire e il fare…
La considerazione dell’onorevole Moro è densa di futuro.
L’illustre Politico ha colto bene nel segno il difetto di fondo
delle nostre politiche adottate negli ultimi decenni. Per
procedere ad un sano rinnovamento dei modi e delle forme del
vivere associato occorre ridisegnare la mappa dei doveri
ricordando che ad ogni diritto corrisponde sempre un dovere.
REALIZZATO DA:
ALTAVILLA Elisa
BRUNO Giuliana
BUSCICCHIO Veronica
CAPODICASA Bruna
CINTI Nicolò
DE AMICIS Giulia
DE RICCARDIS Cristiano
DE VITIS Camilla
DI TOLLA Grazia
GALATI Eleonora
LEZZI Giulia
LONGO Francesco
LUPERTO Luca
MARASCO Giulia
MAURO Matteo
MIGLIETTA Clara
NATALI Federica
PANARESE Benedetta
PESKHOPIA Astrida
ROLLO Moreno
SCARATI Giulia
SERIO Francesca
VALGUARNERA Elisa
Tutor Prof.ssa TURRISI Rosa Anna
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