Scuola media “A.GRANDI” CONCORSO Parlamento…parliamone Nel mondo classico, in particolare in Grecia, dove era presente una realtà politica definita città-stato, l’assemblea di tutti i cittadini della polis rappresentava la forma più compiuta della democrazia intesa come partecipazione di tutti al governo della città. Le deliberazioni dell’assemblea popolare rappresentavano, infatti, decisioni partecipate con l’affermazione della volontà politica della maggioranza. Questa, infatti, disponeva materialmente del voto diretto, non delegato, nelle delibere più importanti e incisive. Agorà di Atene, piazza dove si riunivano anticamente i cittadini ateniesi per legiferare « Il nostro sistema politico non si propone di imitare le leggi di altri popoli: noi non copiamo nessuno, piuttosto siamo noi a costituire un modello per gli altri. Si chiama democrazia, poiché nell’amministrare si qualifica non rispetto ai pochi, ma alla maggioranza. »(Pericle, discorso riportato in Tucidide, II, 37, 1) Due affreschi di Ambrogio Lorenzetti (pittore prerinascimentale del XIV secolo) fanno bella mostra di sé nella Sala del Consiglio comunale di Siena. Due affreschi di cui l’uno è il contraltare dell’altro, nel senso che nel primo si raffigurano gli aspetti del Buon Governo (operosità economica, vitalità sociale), nell’altro, invece, l’incuria e l’inerzia campeggiano tra le stesse strutture, rese ancora più desolate dall’uso sapiente dei colori scuri (Cattivo Governo). Negli affreschi, eseguiti tra il 1337 e il 1339 nel Palazzo Pubblico di Siena, è riuscito a tradurre in altissima poesia figurativa un contenuto dottrinario e simbolico. Sulla parete di fondo della sala è raffigurato il Buon Governo, o il Buon Comune, sotto la specie di un magnanimo veglio abbigliato da un manto bianco e nero (i colori della “Balzana”, lo stemma di Siena), circondato dalle virtù politiche, tra le quali la bellissima Pace; a lui giungono i ventiquattro consiglieri del comune, reggendosi a due corde intrecciate (cioè concordus), che a loro volta, dopo essere passate dalla mano della Concordia, scendono dai due piatti della bilancia della Giustizia, che volge gli occhi in alto verso la Sapienza. Sulla parete attigua gli Effetti del Buon Governo vengono illustrati in un’amplissima panoramica che dal fantasmagorico scenario della Siena del 1300, coi suoi palazzi, con le sue piazze e le sue strade ferventi di traffici, attraversale mura e le porte della città trapassa ad una distesa e serena visione della campagna ben curata anch’essa (terre dissodate, campi delimitati da siepi, strade, ponti, cascinali), con i contadini al lavoro e percorse da liete brigate di cacciatori e gli uomini si aggirano sicuri (Securitas). Si scorge, nella dimensione dell’allegoria che tipizza la produzione artistica medioevale, la sinistra figura del tiranno, esecrabile e terribile nell’aspetto, che troneggia con accanto le personificazioni di Frode, Crudeltà, Inganno, Furore, Discordia, Perfidia. La Giustizia è, invece, incatenata: nulla può (“Le leggi vi son, ma chi può mano ad elle?” dice Dante) e regna il Timor (al contrario della Securitas). L’ingresso nella sala era posto in modo che si incontrasse per primo l’affresco del Cattivo Governo per cui il Lorenzetti ha realizzato un itinerarium molto simile a quello di Dante: dall’Inferno al Paradiso. Con colori violenti e cupi sono rappresentate le città in cui le case sono sbarrate e le campagne aride e desolate in cui non vi è alcuno che lavora. Platone, particolare della Scuola di Atene di Raffaello Sembra quasi che l’autorevole pittore abbia tradotto nei colori e nelle forme quanto va dicendo Platone in Un elogio della democrazia ateniese: «La costituzione dello Stato è il mezzo con il quale si formano gli uomini: buona, se buoni cittadini produce; cattiva, se cattivi. E a noi incombe l’obbligo di far manifesto che in buona costituzione i nostri antenati furono cresciuti. Per suo merito, quegli antichi furono valenti ed i contemporanei pure lo sono, e di questi fanno parte i nostri caduti (nelle guerre per la libertà). In realtà eguale è il governo, allora e oggi: un governo aristocratico. E così, oggi, siamo governati; ma sempre, per lo più da allora, secondo perenne vicenda di tempo. Qualcuno la chiama democrazia; un altro con quel nome che più gli piace; in realtà è sempre aristocrazia, pur con il beneplacito del popolo. I Re sempre per noi vi sono; scelti, in certi periodi, per ragioni di nascita; in altri, invece, con un sistema elettivo. Padrone dello Stato è il popolo; e attribuisce gli onori ed il potere a quanti via via ne sembrano più degni. Infermità, povertà, oscura nascita non escludono dagli onori; nemmeno per le contrarie ragioni un altro trova estimazione, come pure avviene negli latri Stati. Uno invece il criterio: chi è ritenuto sapiente, chi ha valore domina e governa». Rappresentazione di una seduta del Senato: Cicerone attacca Catilina da un affresco del XIX secolo di Cesare Maccari Il passo dà ragione di quei fondamenti etici che hanno anche caratterizzato la nascita della Repubblica romana in cui era presente «la coscienza della perpetuità dello Stato non meno viva di quella della famiglia». Il rispetto del cittadino per le tradizioni non si limitava al culto meschino delle forme esteriori. Esso era alimentato dalla convinzione della necessità che in ogni occasione l’interesse comune prevalesse su quello del singolo. La più alta aspirazione del cittadino romano era quella di contribuire nel limite delle sue forze alla grandezza dello Stato, compito che egli considerava un dovere imprescindibile. La volontà di vivere una vita esemplare entro il dettato della legge era radicata nella coscienza civile del cittadino romano. Obbediva di buon grado ai magistrati e, qualora fosse egli stesso magistrato, teneva in gran conto il parere del Senato. La stima di cui godevano i magistrati romani dipendeva dal fatto che, in generale, essi erano davvero all’altezza dei loro compiti per la loro formazione intellettuale e morale, per gloria degli antenati, per l’impegno e per il valore dimostrato sui campi di battaglia. Il voto del popolo null’altro era se non il riconoscimento pieno del loro diritto a detenere il comando. Questo alto ideale politico stimolò l’attività individuale indirizzandola verso la vita pubblica, tant’è che ogni occupazione diversa da quella politica ed economica veniva considerata otium, vale a dire inerzia, mera occupazione del tempo libero diremmo oggi. SPUNTI DI RIFLESSIONE a) Dall’elogio della democrazia ateniese agli affreschi del Lorenzetti corrono duemila anni di storia: il principio ispiratore è lo stesso ed è rintracciabile nelle parole del sommo filosofo (Platone) come nella composizione dell’artista prerinascimentale, dove l’homo novus, rinato dalle ceneri del Medioevo, riprende la vita dell’operosità e del progresso in tutti i campi. Meditando sull’osservazione, produrre una significativa e personale rielaborazione sottolineando l’eterna validità dei valori (bene comune, concordia, interessi) che animano le parole e la scenografia. Il sistema dei valori è ancora valido? È ancora presente nell’attuale mondo globalizzato oppure si avverte oggi carenza degli stessi? Nelle comunità civili in cui il Bene Comune, la concordia, gli interessi non alimentano una progettualità finalizzata, ogni buona intenzione si perde per strada e la vita pubblica risente direttamente del dissesto organizzativo. Nell’attuale mondo globalizzato il sistema dei valori non regge al cospetto di forti interessi economici “organizzati” che tendono a prevalere sull’interesse collettivo generando emarginazione economica e civile e soprattutto forti malcontenti che destabilizzano il sistema di governo. Il Bene comune spesso e volentieri è sostituito con quello privato; regna la discordia tra i ceti e gli interessi economici sono prevalenti su tutto. Il cammino di Roma verso la democratizzazione non fu semplice né di breve periodo. Il patriziato in Roma continuò a detenere il potere anche quando furono istituiti i Comizi curiati, organizzati su base familiare: ogni cittadino veniva iscritto nelle Curie secondo la gens a cui apparteneva. Di questa suddivisione si avvantaggiarono i patrizi perché nei comizi curiati, forti dell’appoggio dei clienti, potevano spadroneggiare nelle singole curie a loro piacimento. Nella lotta per la rivendicazione dei suoi diritti, la plebe ebbe il primo sostegno nell’istituzione delle 17 tribù territoriali. In tali tribù, dette rustiche, in contrapposizione alle tre urbane, furono approvati (nei comizi tributi) tutti gli ordinamenti rivoluzionari che permisero alla plebe di ottenere in seguito le sue vittorie. La Curia julia, l'edificio sito nel Foro romano che ospitava il Senato « Senatores probi viri, Senatus autem bestia » (Cicerone) Interno della Curia, antica sede del Senato. Esse, quindi, ridussero il potere dei patrizi e favorirono la nuova classe dei piccoli proprietari rurali che, riuniti nelle assemblee tribute, crearono un nuovo stato entro lo Stato, con leggi proprie ed autonome, dette leges sacratae, cioè giurate da tutti i partecipanti alle assemblee. Queste leggi erano vincolanti solo per la plebe e non garantite dall’autorità dello Stato. Eppure la plebe, servendosi di esse, riuscì ad influire sulla vita dello Stato, fino al punto da imporre la loro osservanza. Infatti, per effetto della prima lex sacrata, i capi delle tribù, che erano sempre intervenuti nella tutela degli interessi della plebe, si trasformarono in veri e propri funzionari (tribuni della plebe) con un’autorità che divenne sempre più grande. la lotta per i diritti civili ebbe come primo obiettivo quello di ottenere un corpo di leggi scritte, uguali per tutti, contro l’arbitrio dei patrizi. Da questo momento in poi, la plebe acquisterà in Roma sempre più potere ed i plebisciti (interrogazioni, consultazioni popolari) acquisteranno forza di leggi. L’ultima conquista in ordine di tempo fu l’ingresso al Consolato, suprema magistratura romana. A questo riguardo è opportuno leggere un passo dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio del Machiavelli, in cui l’autore si sofferma sulle aspre lotte in Roma tra aristocrazia (patrizi) e popolo (plebei), lotte che, a suo detto, dalla morte dei Tarquinii alla creazione dei Tribuni condussero la Repubblica romana ad una costituzione esemplare, espressione di tutte le energie vive dello Stato. È un passo fortemente significativo dell’acume politico posseduto dallo studioso fiorentino: egli, infatti, si pone contro il giudizio comune espresso nei confronti di quei tumulti che spesso e volentieri funestavano il passaggio di Roma alle istituzioni repubblicane. Quei tumulti, infatti, osserva acutamente il Machiavelli, furono estremamente funzionali a trasformare e modellare di continuo gli istituti e le leggi al cui risultato si pervenne dopo lunghe e travagliate vicende. Il bene comune e il buon governo nascono da una gagliarda e vivace partecipazione di tutte le forze politiche anche nella forma del tumulto! SPUNTI DI RIFLESSIONE b) Esaminando il processo di democratizzazione della Roma antica, condividete l’acuta osservazione del Machiavelli a riguardo, quando afferma che le lotte fra patrizi e plebei siano state decisive nell’indirizzare gli ordinamenti al bene comune e al senso della giustizia? Da Tarquinio, ultimo re di Roma, all’istituzione del Tribunato della plebe, organo fondamentale per la difesa degli interessi del popolo, una serie di episodi tumultuosi fece sì che la plebe conquistasse la partecipazione al potere e le costituzioni si adeguassero agli interessi comuni. Le ottime istituzioni repubblicane, infatti, si hanno nel I sec. a.C. per gli sconvolgimenti delle guerre civili nelle quali lo storico latino Sallustio vede l’origine del periodo più oscuro della storia di Roma. Sinteticamente l’illustre storico espresse il suo amaro giudizio che è rimasto come una sorta di sentenza a significare, come sempre accade e accadrà, che “Concordiā parvae res crescunt, discordiā maxumae dilabuntur”. Infatti dalla catastrofe delle lotte civili avrà origine l’Impero… Nel periodo imperiale in Roma tacque ogni forma collettiva di partecipazione, essendo il governo nelle mani di uno solo che deliberava in modo pressoché autonomo e, a seconda della convenienza politica, cercava di soddisfare le richieste delle grandi masse popolari per conquistarsi il consenso delle stesse e spesso contro le norme del buon senso. Sallustio in un'incisione ottocentesca Alla fine del mondo romano, con la caduta dell’Impero e le invasioni barbariche, politicamente si ebbe la continuazione del verticismo, solo che più vertici (i regni romanobarbarici) si erano diffusi nell’Europa cristiana ed anche con la ripresa dell’antico sistema imperiale (Carlo Magno) ed il Feudalesimo più ancora si ebbe una netta chiusura politica in cui le più ardite decisioni erano riservate ad una ristretta frangia di nobiltà che era intimamente legata alle sorti dell’Imperatore. Il sistema feudale, infatti (da foèd = pezzo di terra, in antico germanico), chiudeva sempre più l’area politica in posizioni di estremo privilegio esclusi dalla plebe e dal popolo minuto (commercianti, artigiani, operai, piccoli imprenditori). In questa area di privilegio si contavano i nobili, la gerarchia feudale sempre piuttosto rissosa ed insubordinata all’Istituto dell’Impero. Il lavoro nei campi, miniatura. Nella nostra penisola, invasa da genti di origine germanica, le città, spopolatesi via via perché durante le invasioni rappresentavano il punto di riferimento dove principalmente stanziarsi per dette popolazioni – pensare che Roma, nel periodo di maggiore floridezza economica e politica, contava più di un milione di abitanti, mentre nell’alto Medioevo (sec. VI-X) ne contava appena ventimila – erano prevalentemente governate, difese e protette da vescovi: il Cristianesimo, infatti, fu il collante d’elezione che fece sopravvivere usi, costumi, tradizioni civili e culturali della romanità più gloriosa. La Curia vescovile, infatti, rappresentò per lungo tempo il centro di interessi non solo spirituali delle città ma anche politici e soprattutto economici. Attorno al vescovo rifiorì la vita produttiva e vivace della nascente borghesia, operosa in inventiva economica e nei commerci. Alcune fiere d’oltralpe, come quella della Champagne e più ancora quelle fiamminghe, assumeranno nel corso del secolo XII il carattere di grandi mercati internazionali. In esse avranno luogo per la prima volta quelle operazioni (lettera di cambio e lettera di credito) che sono proprie della nostra età e che prescindono sia dalla presenza del denaro contante e sia dalla presenza delle merci: operazioni nelle quali si distinguevano, favoriti dai loro contatti con il mondo orientale, mercanti ed operatori italiani. È la nuova economia di scambio che trionfa sul chiuso mondo feudale. Nell’Età precomunale, le città italiane presentano un tessuto composito di elementi eterogenei che si differenziano sia socialmente che economicamente. La classe sociale di maggiore prestigio, dopo il clero, è quella dei nobili (piccola nobiltà feudale dei valvassori, valvassini e milites, venuti ad abitare in città pur conservando feudi e possessi in campagna). Accanto ad essa si sviluppano nuovi ceti, in ragione dell’articolarsi di più specifiche attività economiche e di più complessi rapporti imposti dalla vita cittadina: uomini di legge (giudici e notai), medici, mercanti, piccoli artigiani, che costituiscono il “popolo”. Il governo è nelle mani del vescovo-conte (quando non si tratti di un feudatario laico) ma già i cittadini, quelli più influenti, hanno preso a radunarsi insieme a parlamento (parlascio o arengo), con l’assenso del vescovo e alla presenza di un suo delegato, nella piazza grande o in qualche chiesa, a discutere delle cose di comune interesse, della costruzione di strade e ponti, della restaurazione delle mura, del mercato cittadino. Fra essi il Parlamento scegle i cosiddetti bonis homines, che hanno il compito di affiancare il vescovo e di curare l’esecuzione dei deliberati dell’assemblea stessa. Non parliamo di democrazia, poiché l’autorità rimane ancora nelle mani del vescovo o del conte laico e non v’è parità tra i vari ordini della cittadinanza. Già in queste forme di autogoverno, tuttavia, si manifesta la tendenza a ricostruire la società dal basso nella direzione opposta a quella propria della società feudale, con la sua struttura rigidamente gerarchica che non concepisce altra autorità se non quella che promana dall’alto. L’Età moderna e contemporanea, dopo alterne vicende, prende le mosse proprio da quest’ambito di libertà comunali e di patti stipulati per garantire ordinamento giuridico e libertà economica agli associati (cittadini). Non a caso, nel nostro Risorgimento, scrittori di romanzi storici, per istillare il senso della libertà e dell’unità, si sono ispirati a vicende legate al periodo comunale, ravvisando in esso i semi della ribellione, dell’autonomia e della libertà dallo straniero, allorché i Comuni lombardi e veneti si unirono in giuramento per combattere l’usurpatore delle loro libertà. In due componimenti carducciani – Il Giuramento di Pontida e La canzone di Legnano – si evidenzia il primo emergere della coscienza nazionale che non tollera la soggezione al potere imperiale. Nel primo passo si dà voce allo storico episodio del Giuramento di Pontida (1167). Secondo gli ordini dettati dal Barbarossa a Roncaglia, spettavano al Re («Quod principi placuit, legis habet vigorem»), i diritti di emanare le leggi, nominare i magistrati, armare eserciti, coniare moneta e imporre tasse (le cosiddette regalìe). Federico, infatti, a Roncaglia ordinò che le regalìe, usurpate, dovessero essere restituite ed in ogni comune i magistrati cittadini dovessero cedere il posto ai messi o podestà imperiali. Crema e Milano insorsero. Crema fu distrutta, Milano rasa al suolo, il popolo disperso. Le città del Veneto e della Lombardia allora si riunirono in Lega Veronese e Lega di Pontida, poi in Lega Lombarda che abbracciò 36 città dell’Italia settentrionale. Miniatura di Federico I Barbarossa Il monumento di Alberto da Giussano a Legnano Il Giuramento di Pontida (Bergamo), dal luogo dove fu sottoscritto il patto, l’abbazia di Pontida, è commovente per la passione ed il vigore degli accenti. Si giura sui sacri Evangeli che non si farà pace o tregua con Federico né con il di lui figlio, né con la di lui moglie, né con altri della sua famiglia e di impedire con qualsiasi mezzo ad ogni esercito tedesco di entrare in Italia. Diversamente l’esercito nemico sarebbe stato combattuto fino a quando non fosse uscito dall’Italia. Ciò avvenne a Legnano, il 29 maggio 1176, in uno scontro tra i comuni ribelli e l’Imperatore Federico Barbarossa. Il primo Parlamento, arengo, quindi era l’effettiva espressione diretta del popolo tutto, fortemente democratico, come è giusto che sia. Come scrive il nostro poeta del Risorgimento G. Carducci, nella poesia Il Parlamento, ciò avvenne perché il popolo tutto, comprese le donne, aveva deciso di resistere all’Imperatore tedesco e di ucciderlo: «uccidete il Barbarossa!». Nel suo canto spiegato ed arioso La canzone di Legnano, il Carducci si sofferma sulla figura del Console che chiede al popolo raccolto a parlamento: «… fra i ruderi che neri verdeggiavan di spine, fra le basse case di legno, ne la breve piazza, i milanesi tenner parlamento» (II strofa, vv. 15 e segg.) il coraggio di combattere contro Federico Barbarossa, che più di una volta aveva piegato ed umiliato Milano. G. Carducci Il Parlamento era, quindi, il luogo delle deliberazioni collettive, il luogo delle iniziative più ardite, scaturite da solenni promesse dinanzi alle sacre insegne della municipalità. Il basso Medioevo è, infatti, da considerare il tempo della formazione della modernità, del moderno modo di sentire le istituzioni ed il ruolo di rapportarsi ad esse. L’esperienza del periodo comunale, detto consolare, si consumò in breve giro di anni e subentrarono le forme del Comune podestarile. Si giunse così al Principato, dove ogni voce di pubblica partecipazione cessò. Così anche nel periodo delle Signorie. Niccolò Machiavelli Nel Principe, Niccolò Machiavelli illustra bene la nuova condizione politica dell’Italia messa a soqquadro da guerre intestine tra Principati. Occorreranno molti anni prima che si ridesti in Italia una volontà politica di libertà non solo dallo straniero ma anche dagli istituti di governo la cui reggenza era priva di ogni forma di partecipazione popolare. Quanti moti insurrezionali si ebbero per ottenere la Carta costituzionale, la legge prima di ogni legge! Fu la filosofia dei cosiddetti illuministi (Montesquieu) a destare le coscienze sopite sotto il giogo del potere. E la Rivoluzione francese fu l’esito naturale di quel teorizzare intorno ai diritti ed alle libertà civili. Con Napoleone si ebbe un ritorno al passato: la figura politica del Bonaparte aveva escluso e schiacciato ogni forma di opposizione al suo decisionismo politico e militare. Ma i semi rivoluzionari germogliarono un po’ dovunque in Europa ed in Italia. In quest’ultima si ebbero addirittura dei prìncipi “illuminati”, come Leopoldo II in Toscana, che cercarono di conciliare le ragioni del potere con una certa volontà popolare. Altrove, però, in Italia era dispotismo e verticismo. Solo in seguito ad alcuni eventi storici di particolare coinvolgimento popolare, sotto la guida di intellettuali di alto profilo (Mazzini prima, Cavour poi) si ebbe una svolta decisiva, in senso parlamentare, dell’azione politica. Leopoldo II di Toscana Nelle pagine de La vita privata, Cesare Balbo — uno di quegli intellettuali pre-unitari che formularono dei sistemi di governo per l’imminente unità, che era ormai nell’aria – con grande fortuna e con calorosa analisi, tenta di dare una risposta ai mali d’Italia, spesso e volentieri sottolineati da scrittori d’oltralpe (Goethe, Staël, Bayron, Lamartine) nei quali l’Italia è vista come territorio da diporto per vacanze impareggiabili sotto un profilo paesaggistico e museale, ma non sotto quello antropologico. L’Italia, infatti, è vista come «la terra dei morti» (v. Lamartine) anche se a questi il Foscolo rispose: «se sono morti risorgeranno». Il Balbo, ideologo del neoguelfismo, sosteneva da buon torinese e laico che l’Unità d’Italia si sarebbe potuta realizzare in una confederazione di stati sotto l’egida (lo scudo) della casa savoiarda. Cesare Balbo Il De Sanctis trent’anni più tardi ad un congresso di dotti stranieri avrebbe pronunziato: «c’era una volta un popolo italiano che, accoccolato nel suo dolce far niente, andava in sollucchero quando i forestieri venivano qui a cantargli le lodi degli avi… Ma queste lodi oggi non ci bastano più … Noi oggi ci sentiamo un popolo vivo, e vogliamo vivere di una vita nostra, e vogliamo divenire un popolo moderno… Voi venivate un giorno a visitare non noi, ma i nostri musei, le tracce dei nostri antenati; ed ora noi speriamo mostrarvi che non vogliamo più ricordare la storia del nostro passato, ma la storia vogliamo farla noi!». Bei propositi, belle intenzioni quelle del De Sanctis ma, se noi osserviamo bene l’attuale nostra civiltà, emerge, ancora, al confronto delle nazioni europee, un gap (differenza) in negativo. Tornando alle note di Balbo sulla vita italiana e sul concetto di virtù poco praticata dalle famiglie costatiamo che «manca in Italia una virtù severa, forte e sufficiente» in paragone di altre nazioni cristiane contemporanee. Queste notizie, che a tutta prima possono essere avvertite come inutili nei confronti del nostro assegno, costituiscono, invece, dei passi dovuti nell’affrontare le tematiche del nostro attuale sistema parlamentare tenendo sempre conto della “massima” del nostro Machiavelli che «ogni popolo ha il governo che merita». SPUNTI DI RIFLESSIONE c) Dopo la lettura del passo di Cesare Balbo e in seguito ad una vostra attenta riflessione sull’attuale costume mentale degli Italiani, ritenete di poter affermare che questo sia radicalmente mutato o ritenete che ancora oggi manchi in Italia una “virtù severa forte e sufficiente”? Si ritiene di poter dire che, attualmente, in Italia, si è creata una frattura tra mondo politico e mondo reale nella misura in cui ciascuno e ciascun gruppo di individui cerca di conseguire il “particolare”, gli obiettivi che riguardano da vicino. Mancano ideali e, quindi, virtù che facciano tendere al bene Comune, come si verificava ai tempi della gloriosa indipendenza dei Comuni, laddove il Bene comune era il sommo bene a cui riferirsi nell’azione politica e militare (v. Leghe lombarde). Carlo Alberto di Savoia firma lo Statuto albertino La nascita dello Stato italiano Nel 1861 si ebbe il primo Parlamento italiano, a Torino, con l’annessione dei diversi stati della penisola. Allo Stato con forti autonomie regionali si preferì quello accentrato, rappresentato nelle Province dai Prefetti. Ai territori annessi fu esteso l’ordinamento giuridico piemontese e, quindi, anche lo Statuto albertino, la Costituzione del Regno di Sardegna emanata nel 1848. Lo Statuto albertino, concesso al popolo, aveva limitato i poteri del monarca assoluto in favore del popolo. Si trattava di una Costituzione flessibile perché poteva essere modificata da una legge ordinaria. Con lo Statuto si stabilisce un sistema monarchico costituzionale perché il Re creava un Parlamento costituito dal Senato, i cui membri erano nominati a vita dal Re e da una Camera dei deputati, che erano eletti ogni cinque anni dai cittadini più ricchi: si era ancora lontani dalla democrazia. Più innovativa la parte dello Statuto riguardante i diritti civili, ispirata alle “dichiarazioni” della Rivoluzione americana e della Rivoluzione francese (l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge; la garanzia della libertà individuale; l’inviolabilità del domicilio; la libertà di stampa; la libertà di riunione; l’inviolabilità della proprietà). Nessun impegno per garantire ai cittadini il diritto al lavoro o per migliorare le condizioni sociali. Palazzo Madama nel XVIII secolo Con il tempo i poteri del Parlamento del Regno d’Italia si ampliarono per cui il Re ed anche il Senato si sentirono impegnati a non fare scelte che non fossero condivise dalla Camera dei deputati. La Monarchia costituzionale pura si trasformò di fatto in Monarchia costituzionale parlamentare. Alla caduta del Fascismo, periodo nel quale tacque il Parlamento, con le votazioni che si svolsero il 2 giugno 1946 (a suffragio universale) con il voto alle donne per la prima volta nel nostro Paese, il popolo italiano scelse la Repubblica. Il 25 giugno 1946 si riunì per la prima volta l’Assemblea Costituente (eletta da tutti i cittadini italiani). Il Presidente Enrico De Nicola firma la Costituzione La Costituzione del nuovo Stato fu approvata il 22 dicembre 1947 ed entrò in vigore il 1° gennaio 1948 (cento anni dopo la promulgazione dello Statuto albertino). Si stabiliva così tra i cittadini un nuovo patto che dava origine allo Stato democratico nella forma della Repubblica parlamentare. Il cardinale Segretario di Stato Pietro Gasparri e Benito Mussolini, firmano i Patti Lateranensi L’Assemblea Costituente, dopo lunga discussione, approvò l’art. 7, che prevede che i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica siano regolati dai Patti lateranensi (1929). Si volle evitare una spaccatura fra laici e cattolici ed assicurare all’Italia la pace religiosa. Nel 1984 lo Stato italiano ha rinnovato il Concordato con la Chiesa cattolica. Il nuovo concordato si ispira a principi di maggiore indipendenza reciproca tra Stato e Chiesa e di maggiore rispetto per la libertà religiosa di tutti i cittadini. Dopo l’esperienza della dittatura, il popolo italiano aspirava ad un ordinamento che non solo ripristinasse i diritti civili violati dal Fascismo, ma che garantisse la partecipazione di tutti i cittadini alla gestione del potere (diritti politici a tutti). L’Assemblea costituente dette forza alle ragioni di una lotta contro le ingiustizie che da sempre colpivano le classi più povere. Così si stabilirono nella nuova Carta costituzionale una serie di diritti sociali che costituiscono ancora oggi la parte più innovativa, in quanto mirano a «rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana» (il diritto al lavoro, all’istruzione, alla salute, all’assistenza, alla casa). SPUNTI DI RIFLESSIONE d) L’attuale nostra Costituzione nata con l’apporto delle vitali e sofferte forze della resistenza, ha stabilito un nuovo patto sociale, dando origine allo stato democratico nella forma della Repubblica Parlamentare. Innovativa e sostanzialmente giusta, non ha ancora visto realizzati alcuni suoi fondamentali istituti. Parlatene. Non ancora la nostra Costituzione ha dato vita ad interventi legislativi tesi “a rimuovere gli ostacoli” che “impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Alcuni diritti, infatti, previsti sulla carta, non hanno trovato spazi legislativi sufficienti a che siano pienamente realizzati. Pensiamo al diritto al lavoro, alla casa… sono questi ben lontani dall’essere realizzati. I principi ispiratori della nostra Costituzione vengono solennemente affermati nei primi articoli (1-12) e anche nella Parte I (artt. 13-54) che riguarda i diritti e i doveri dei cittadini. Nella Parte II (artt. 55-139) la Costituzione tratta dell’ordinamento della Repubblica e si conclude con alcune Disposizioni transitorie e finali. Il sistema parlamentare Il Parlamento è il perno dell’intero sistema costituzionale italiano: esercita il potere legislativo; elegge il Capo dello Stato; determina l’orientamento politico del Governo, il quale deve avere la sua fiducia e deve rendergli conto del suo operato. Per questo noi definiamo la nostra Repubblica parlamentare. In altri sistemi politici, invece, il Parlamento ha soltanto il compito di fare le legge ed il Governo deve rendere conto delle sue scelte al Presidente della Repubblica. Siamo così in presenza di una Repubblica presidenziale. In quest’ultimo tipo di repubblica (es. Stati Uniti), il Presidente della R., eletto direttamente dai cittadini, è anche il Capo del Governo. Le repubbliche parlamentari non funzionano tutte allo stesso modo. Il nostro fino a poco tempo fa è stato un sistema parlamentare rappresentativo nel quale il meccanismo elettorale consentiva che nel Parlamento fossero rappresentati i vari orientamenti politici in modo “proporzionale” alla loro presenza nel Paese. Però, poiché nessuna formazione politica riusciva ad avere la maggioranza assoluta, per formare il Governo (che deve avere il voto favorevole della maggioranza parlamentare) era necessaria l’alleanza fra più partiti. Il Governo risultava, così, instabile perché se veniva meno l’accordo tra le forze politiche che lo sostenevano, era costretto alle dimissioni. Proprio per evitare questo, in Italia si è deciso di introdurre un nuovo sistema elettorale, di tipo maggioritario, che, rendendo difficile l’ingresso in Parlamento dei partiti minori, dovrebbe favorire l’aggregazione degli elettori intorno ai due maggiori schieramenti politici. In questo modo è più facile che lo schieramento che vince le elezioni abbia la maggioranza necessaria per sostenere stabilmente il governo. Con questa riforma il nostro sistema politico si è trasformato in un sistema parlamentare maggioritario in cui la maggioranza ha il compito di esprimere il Governo mentre la minoranza, facendo opposizione al Governo, ne controlla l’operato. In un sistema democratico deve sempre essere possibile che la minoranza, facendo valere le sue proposte presso gli elettori, diventi a sua volta maggioranza. In particolare, le decisioni che riguardano il funzionamento delle Istituzioni, o che investono i diritti del cittadino, non possono essere prese dalla sola maggioranza, ma richiedono un più largo consenso. Camera dei deputati Struttura e prerogative del Parlamento È un organo complesso, costituito da due assemblee distinte: la Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica. La Camera comprende 630 membri tutti eletti, il Senato 315 membri eletti ed un piccolo numero di senatori a vita (gli ex Presidenti della Repubblica, senatori di diritto e sino a 5 membri nominati dal Presidente della Repubblica per loro meriti particolari). Le due Camere hanno identiche funzioni e poteri e perciò diciamo che il nostro è un sistema bicamerale perfetto. Le elezioni per il rinnovo del Parlamento (elezioni politiche) si svolgono di norma ogni 5 anni. Come lavora il Parlamento Quando dopo le elezioni si costituisce il nuovo Parlamento, ha inizio una legislatura, che dura 5 anni, a meno che il Presidente della Repubblica proceda allo scioglimento anticipato delle Camere. Ciascuna Camera elegge un suo Presidente che ha il compito di dirigere i lavori dell’assemblea; quando le due Camere si riuniscono in “seduta congiunta”, la presidenza è affidata al Presidente della Camera dei deputati. Palazzo di Montecitorio L’approvazione delle leggi è la funzione fondamentale del Parlamento, che è, infatti, l’organo che esercita il potere legislativo. Nel nostro sistema bicamerale ogni legge deve essere approvata separatamente dalla Camera dei deputati e dal Senato, per essere successivamente promulgata dal Presidente della Repubblica. Queste procedure, nate dall’esigenza di garantire un’attenta riflessione sulle norme che vengono emanate, comportano, però, una notevole lentezza nella formazione delle leggi. Anche per questo si pensa di riformulare il Parlamento riducendolo ad una sola Camera, oppure attribuendo alle due Camere competenze diverse. Riteniamo fortemente attuale e densa di futuro l’autorevole considerazione del prof. Aldo Moro: «Questo Paese non si salverà se non nascerà una nuova stagione dei doveri». Le due Camere, poi, costituiscono nel loro interno delle Commissioni (in cui sono presenti parlamentari di diverso orientamento politico) che si occupano di settori specifici (Commissione per la pubblica istruzione, per i lavori pubblici, per le finanze). Scopo di queste Commissioni è quello di preparare e snellire i lavori del Parlamento. Una Commissione, ad esempio, può avere l’incarico di definire il testo di una legge su cui, poi, riferisce alla Camera cui appartiene, la quale lo approva o lo respinge (la Commissione, in questo caso, lavora in sede referente) oppure può avere l’incarico di procedere direttamente anche all’approvazione della legge, allora si dice che lavora in sede deliberante). SPUNTI DI RIFLESSIONE e) Avete qualcosa da porre in rilievo circa l’iter procedurale attuale tenuto dal Parlamento nella formazione delle leggi? Condividete anche la considerazione del Prof. Aldo Moro che abbiamo posto alla fine del nostro lavoro? L’iter parlamentare fino all’approvazione della legge è piuttosto lento e ciò comporta un notevole ritardo nella formulazione della legge. In effetti, in una società moderna in rapida evoluzione ciò produce effetti non certo positivi. Molto spesso si è sentito parlare di riformare il Parlamento, riducendo il numero dei membri e attribuendo alle due Camere compiti diversi. Ma tra il dire e il fare… La considerazione dell’onorevole Moro è densa di futuro. L’illustre Politico ha colto bene nel segno il difetto di fondo delle nostre politiche adottate negli ultimi decenni. Per procedere ad un sano rinnovamento dei modi e delle forme del vivere associato occorre ridisegnare la mappa dei doveri ricordando che ad ogni diritto corrisponde sempre un dovere. REALIZZATO DA: ALTAVILLA Elisa BRUNO Giuliana BUSCICCHIO Veronica CAPODICASA Bruna CINTI Nicolò DE AMICIS Giulia DE RICCARDIS Cristiano DE VITIS Camilla DI TOLLA Grazia GALATI Eleonora LEZZI Giulia LONGO Francesco LUPERTO Luca MARASCO Giulia MAURO Matteo MIGLIETTA Clara NATALI Federica PANARESE Benedetta PESKHOPIA Astrida ROLLO Moreno SCARATI Giulia SERIO Francesca VALGUARNERA Elisa Tutor Prof.ssa TURRISI Rosa Anna