D:\Chiti\Opuscoli\Pluralità.doc
27 novembre 1998
Andrea CHITI-BATELLI
C’È UN RIMEDIO ALLA GLOTTOFAGIA DELL’INGLESE?
PER UNA LINGUA DELLA PLURALITÀ DI
LINGUE E CULTURE
Qui andrà inserita la
figura
Piero Lacaita Editore
Manduria, 1998
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27 novembre 1998
Andrea CHITI-BATELLI
C’È UN RIMEDIO ALLA GLOTTOFAGIA DELL’INGLESE?
PER UNA LINGUA DELLA PLURALITÀ DI
LINGUE E CULTURE
Piero Lacaita Editore
Manduria, 1998
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INDICE
Breve sintesi .......................................................................................... pag. 7
I. – L’«IMPASSE»: IL LUCCIO E IL PESCECANE
I rischi di «glottofagia» che minacciano i gruppi etnici …, p. 9 – … e i pericoli nuovi che
minacciano anche le lingue dominanti, p. 10 – Le «ragioni» dell’inglese, idioma colonizzatore …, p. 10 – … e i rischi che ciò implica: l’insegnamento della storia, p. 11 – La «diacronia», p. 11 – L’inglese, lingua disadatta alla funzione di lingua franca universale, p. 12 –
Conclusione della parte prima, p. 13.
II.–VERSO UNA SOLUZIONE ALTERNATIVA?
UNA STRATEGIA POLITICA PER DOMANI …
Ancora l’insegnamento della storia: i vantaggi di una lingua morta, p. 14 – La soluzione:
una lingua pianificata, p. 14 – Il «préalable» politico, p. 16 – L’ipotesi europea …, p. 17 –
… e l’ipotesi «planetaria», p. 18.
III.- ... E UNA TATTICA LINGUISTICA PER L’IMMEDIATO
Il metodo di Paderborn, p. 19 – Importanza del metodo di Paderborn, p. 20 – Contro il mito
del plurilinguismo di massa, p. 21.
CONCLUSIONE: «RUIT HORA»
Contro la «Cernobyl culturale», per la democrazia linguistica, p. 22 – Concludendo: ora o
mai, p. 23.
Codicillo: parlando agli europei ............................................................ p. 23
Bibliografia essenziale............................................................................ p. 25
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Questo saggio riproduce con poche aggiunte un articolo apparso in «Federalismo e
Libertà» (Bologna), 1998, n. 3, a sua volta traduzione, con alcune abbreviazioni,
dell’originale francese apparso, col titolo «Pour une politique de l’Espéranto», a Rotterdam,
presso l’Universala Esperanto Asocio, 1996 (e da questa pubblicato anche in inglese e in
esperanto).
Eccone anzitutto una
BREVE SINTESI
1. I difensori delle minoranze etniche e gli specialisti del diritto alla
lingua si preoccupano soltanto del rischio che le grandi lingue nazionali
costituiscono per le parlate minoritarie e «senza Stato». Ma in realtà un pericolo ancora più grave minaccia le une e le altre: l’inglese, che diviene
sempre più, di fatto, la lingua franca universale, secondo un processo che
sarà ben presto irreversibile.
Una sola è la via per prevenire tale «ecocatastrofe», linguistica e culturale, di dimensioni planetarie (un rischio ignorato da tutti, e invece imminente): il ricorso a una lingua pianificata, per sua natura non «glottofaga»
in quanto non materna per nessuno. E solo l’Esperanto è, hic et nunc, immediatamente pronto per l’uso.
2. Certo esso non ha, rebus sic stantibus, alcuna possibilità di affermarsi giacché gli manca un potere politico che lo sostenga, paragonabile a
quello che sostiene l’inglese e capace di opporsi ad esso. Ma la Federazione
Europea; grandi potenze in fieri, come la Cina (dove si guarda con simpatia
all’esperanto); altre Unioni continentali, di cui è da auspicare la formazione, potrebbero fornirgli questa forza, in un domani non lontano, sol che lo
si volesse.
L’Europa federata, in particolare – per la quale una lingua federale ufficiale sarà comunque indispensabile – avrà un duplice interesse in tal senso, una sua «ragion di Stato»: interna, per preservare la pluralità delle sue
culture e mettere tutti i suoi popoli su un piede di parità; ed esterna, per far
valere la propria indipendenza, non appiattirsi sulla cultura americana, af7
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fermare la propria leadership sul Terzo mondo; esempio e guida – attraverso le auspicate Unioni continentali – verso, in un avvenire più lontano, un
governo mondiale, di cui le Nazioni unite sono solo una caricatura.
3. È questa la strategia politica che è indispensabile seguire da parte di
coloro a cui stia realmente a cuore la difesa delle parlate regionali come
delle lingue nazionali. Ma accanto a questo vi è un obiettivo tattico che
s’impone immediatamente: più modesto ma indispensabile. Tale obiettivo è
l’insegnamento dell’esperanto durante due anni in tutte le scuole, per ora
solo come strumento didattico preliminare che consente di apprender meglio e più facilmente le lingue: secondo una proposta, d’importanza fondamentale, dell’Istituto di Cibernetica dell’Università di Paderborn, il quale
ha dimostrato con rigore matematico i grandi risparmi di tempo consentiti
da un tale metodo, colpevolmente ignorato, tamquam non esset, da tutti i
glottodidatti.
In tal modo si potrà realizzare una conoscenza «endemica» dell’esperanto (come mezzo, strumento propedeutico) che renderà più facile, domani,
la sua diffusione «epidemica» (e cioè la sua adozione anche come fine, come lingua ausiliaria prima dell’Europa e poi del pianeta), quando le condizioni politiche per agire in tal senso, sopra indicate, si realizzeranno.
Il compito è arduo, ma non impossibile. Bisogna dunque dedicarsi ad
esso subito, o sarà troppo tardi: e in giuoco la nostra stessa «identità», non
solo linguistica, ma anche culturale. E la diversità e pluralità delle lingue e
delle culture è l’essenza stessa dell’«identità» europea.
***
In copertina
L’uomo al centro dell’Universo (Cod. Lat. 1942, Lucca, Biblioteca Nazionale; da «Federalismo e Libertà». 1998, n. 2, p. 218).
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I. – L’«IMPASSE»: IL LUCCIO E IL PESCECANE
As sociedades a que se nega o diálogo-comunicação
– e, em seu lugar, se lhes oferecem «cumunicados»,
resultantes de compulsão ou, «doação», se fazem
preponderantemente «mudas».
(Paolo Freire, «Edcaçao como prática da libertade»,
Rio de Janeiro, Paz e Terra, 1967).
Callaremos ahora para llorar después?
(Ruben Dario)
I rischi di «glottofagia» che minacciano i gruppi etnici …
Fino ad oggi l’attenzione degli etnopolitologi così come degli specialisti di «diritto linguistico» si è concentrata sui pericoli che minacciano direttamente le etnie e minoranze «senza Stato»: ed essi hanno illustrato più volte
le strette connessioni che vi sono fra lingua e cultura, per cui la difesa
dell’idioma di questi gruppi e condizione sine qua non per preservare la loro
«identità» e il loro way of life (si veda, ad esempio, la rivista Europa Ethnica, Vienna, che ha spesso difeso questa tesi). Essi hanno aggiunto che la
causa fondamentale dell’alienazione di quei gruppi etnici è l’esser privi di
un potere politico effettivo, l’esser minoranza in seno a uno Stato avente
come lingua (e cultura) ufficiale un altro idioma (Calvet, 1974). Hanno concluso che solo un’autonomia politica reale, unita a un’effettiva indipendenza
anche nel campo finanziario e di bilancio, può rovesciare la tendenza attuale
che va verso l’estinzione progressiva di questi idiomi (Salvi, 1973 e 1975).
E hanno precisato che ciò è possibile grazie a un’organizzazione federale
dello Stato che le controlla (Héraud, 1967 e 1993): solo mezzo per garantire
in modo permanente la rivivescenza che le etnie e micro-nazioni conoscono
oggi un po’ dovunque nel mondo, e specialmente in Europa, in particolare
dopo il crollo dell’impero sovietico (Peeters), revivescenza altrimenti condannata ad esser solo effimera (e autodistruttiva), come in Jugoslavia, giacché una piena indipendenza e «sovranità» di queste micro-nazioni è solo
un’illusione (si vedano in argomento le due riviste Il Federalista, Pavia e Il
Dibattito Federalista, Firenze).
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… e i pericoli nuovi che minacciano anche le lingue dominanti
Gli specialisti sopra ricordati, invece, hanno interamente trascurato un
altro aspetto del problema. Hanno concentrato la loro attenzione, per dire
così, sul «luccio nazionale» (il francese che «divora» il bretone o l’alsaziano;
lo spagnolo che mette in pericolo il basco e il galego ecc.); e non hanno notato, dietro a questo «luccio nazionale», un pescecane internazionale ancor
più pericoloso, che sta divorando gli uni e gli altri, parlate minoritarie dominate e idiomi «statali» dominanti.
Questo pescecane è l’inglese.
Tale affermazione può sembrare esagerata solo a chi non tenga conto:
a) delle ragioni obiettive che spingono all’affermazione progressiva
dell’inglese come lingua franca del pianeta;
b) degli insegnamenti della storia circa gli effetti al tempo stesso «glottofagici» ed «etnolitici» (cioè distruttori non solo delle lingue, ma anche delle culture) operati da una lingua viva che assuma le funzioni di lingua ausiliaria universale. (I due neologismi – «glottofagia» ed «etnolisi» – sono stati
inventati rispettivamente da Calvet, 1974, e da Rimet);
c) del carattere diacronico di ogni fenomeno storico, e cioè delle mutazioni non solo quantitative, ma anche qualitative che una lingua subisce nel
tempo. Sono questi i tre punti che è ora opportuno considerare.
Le «ragioni» dell’inglese, idioma colonizzatore …
Il duplice pericolo sopra posto in luce – per le lingue e per le culture – è
grave, giacché l’esigenza di una lingua unica per la comunicazione internazionale è al tempo stesso grande, profonda e sempre più urgente. Tale esigenza è grande, perché relativa ad ogni campo: dai livelli più bassi (turismo,
lavoratori all’estero) fino a quelli medi (commercio, traffico aereo) e a quelli
più elevati (multinazionali, finanza mondiale, scienza). Tale esigenza è profonda, perché vi sono settori (ad esempio la ricerca scientifica) nei quali una
lingua ausiliaria unica è condizione sine qua non della rapidità e multilateralità della comunicazione, indispensabili per evitare ritardi e doppi impieghi e
per garantire il progresso più rapido della scienza, grazie alla sua «trasparenza» universale. Infine tale esigenza ha un crescente carattere di urgenza, per10
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ché viviamo in un mondo sempre più integrato, in seno al quale la comunicazione internazionale è sempre più intensa e dove, pertanto, i risparmi e i
vantaggi che si possono ottenere grazie all’uso di una lingua unica (e le perdite che così si eviteranno) saranno sempre più notevoli.
È questa la ragione per cui il pericolo è qualitativamente diverso e più
grave rispetto a fenomeni come la «gallicizzazione» delle lingue europee nel
Settecento, sì da assomigliare sempre più alla distruzione progressiva dei
dialetti ad opera delle lingue «nazionali», che li allontana sempre di più dalla
comunicazione culturale, letteraria, scientifica: esclusione che è anticamera
dell’estinzione.
… e i rischi che ciò implica: l’insegnamento della storia
Si deve insistere su queste conseguenze, troppo spesso minimizzate. I
danni dell’inglese, una volta che esso sarà divenuto definitivamente lingua
franca universale, saranno immensi. L’esempio del latino è, sotto questo
profilo, decisivo. Portatore al tempo stesso di una cultura letteraria e scientifica dominante, e lingua di un potere politico anch’esso dominante, il latino
ha distrutto in radice tutte le lingue e culture dell’Europa antica, dalla Penisola iberica alla Dacia, compresa la lingua e la cultura di un popolo così civile e sviluppato come gli Etruschi. L’inglese, il francese, lo spagnolo, il
portoghese hanno avuto lo stesso effetto distruttore nelle due Americhe. È
dunque certo che l’inglese produrrà anche oggi gli stessi risultati. Occorre
davvero rassegnarsi alla sparizione di tutte le altre lingue e ways of life?
La «diacronia»
Una tale previsione può apparire gratuita, o addirittura «paranoica»,
come l’ha definita un autore francese (Calvet 1993). Ma chi così pensa dimentica da un lato l’«accelerazione della storia» (dovuta essenzialmente, nel
nostro caso, allo sviluppo vertiginoso dei mezzi di comunicazione di massa)
e dall’altro non riesce a rendersi conto delle modifiche nel tempo, quantitative e qualitative, dei fenomeni storici in generale e linguistici in particolare.
Quella previsione non è dunque paranoica e si è pertanto costretti, per
assurdo che possa sembrare, a «pensare l’impensabile», per riprendere il ti11
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tolo di un volume di trent’anni addietro sulle conseguenze della guerra atomica1. E infatti vi sono studiosi, anche se per ora rari nantes in gurgite vasto, che cominciano a farlo, pronosticando la fine non solo di lingue a diffusione relativamente modesta come il greco (Pavlidou) o il danese (Jørgenson), ma anche di lingue diffusissime e di grande risonanza culturale, come
il tedesco (Posner, Lohse): autori tutti ai quali faccio più preciso riferimento
nella nota che segue2.
Non è senza significato che già oggi le grandi banche dati immagazzinino informazioni solo in inglese (ciò che è stato scritto in altre lingue verrà
dunque inesorabilmente dimenticato), mentre è sempre più frequente imbattersi in libri – e non solo americani – i quali non citano in bibliografia se non
opere in inglese, e le più apparse oltre-Atlantico.
L’inglese, lingua disadatta alla funzione di lingua franca universale
L’ultimo argomento che consiglia di cercare una soluzione alternativa
all’inglese è il fatto che questa lingua è particolarmente disadatta, ancor più
che non altri idiomi, alla comunicazione internazionale (tra le lingue «occidentali» più diffuse la meno disadatta, secondo i linguisti, è lo spagnolo3).
L’inglese, infatti, non solo ha in comune con le altre lingue vive le difficoltà,
irregolarità e illogicità proprie di queste; ma ha, oltre a ciò, un’ortografia
1
2
3
Hermann Kahn, «Thinking the Unthinkable», New York Horizon Press, 1962.
Theodossia Pavlidou, (glottodidatta greca), contributo al volume, a cura di Florian
Coulmas, «A Language Policy for the European Community», Berlino-New York, Mouton de Gruyter, 1991; J. Normann Jørgenson (a cura di) «Det danske sprogs status ar
2001 – er dansk et truet sprog?» («La lingua danese è una lingua minacciata?»): si veda,
in questo volume, l’ultimo contributo, nonché la recensione di esso apparsa nella rivista
Language, Culture and Curriculum,1991, n. 3, pp. 259-261; R. Posner, «Goodbye lingua
teutonica?», Target, Amsterdam, 1992, n. 2, pp. 145-170 (soprattutto pp. 163-4); Johannes Lohse (rappresentante permanente della Germania presso l’Unesco), contributo al
volume, a cura di A. R. Bunz e altri, «Nachdenken über» Europa, 2° vol., Berlino, Volk
und Welt, 1993. Minacce analoghe ad opera dell’inglese paventa Pietro U. Dini per «le
lingue nazionali dei Paesi Baltici», in un articolo con tale titolo apparso nel «Bulletin Européen», organo della Fondazione Europea Dragan, Roma, settembre 1997.
Hans Martin Gauger, «Das Spanische – eine leichte Sprache», nel vol., a cura di Wolfang
Pöckl, «Europäische Mehrsprachigkeit», Tubinga, Max Niemeyer, 1981.
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complicata e assurda, una ventina di vocali che lo rendono mal comprensibile (difetto accresciuto dal suo monosillabismo), la ricchezza dei suoi idiotismi, l’assenza, infine, di ogni standard pronunciation, il che nuocerà gravemente, domani, all’uniformità dell’inglese divenuto lingua universale. E
questi difetti sono ben più gravi che non il modesto vantaggio di una grammatica relativamente facile (Pei, Piron, Schulz, Wells 1985).
Conclusione della parte prima
La conclusione di questa pars destruens può enunciarsi in tre punti:
1) il prezzo della soluzione «inglese» è troppo elevato (la «glottofagia»
e l’«etnolisi»);
2) il giuoco non vale la candela (non vi è alcuna garanzia che tale lingua, elevata al rango di lingua franca del pianeta, non perda ancor più
quell’uniformità di cui è già oggi carente, frantumandosi in un inglese, poniamo, asiatico, sud-americano, africano ecc.);
3) la disuguaglianza delle condizioni e dei punti di partenza che una tale soluzione implicherà appare inaccettabile e contraria a ogni principio democratico (popoli dominanti e favoriti, che parlano l’inglese come lingua
materna, e popoli dominati e svantaggiati, obbligati ad apprenderlo). Effetto
egemonico che occorre tanto più condannare, in quanto destinato, rebus sic
stantibus, ad accrescersi, in circolo vizioso. Come si dice in italiano, «chi
domina nomina» e «chi nomina domina»: ossia: l’egemonia politica impone
la propria lingua, e tale imposizione rafforza quell’egemonia4: in particolare
generando l’ideologia» secondo cui la lingua dominante occuperebbe di pieno diritto la sua posizione, non per il peso politico del Paese egemone, ma
grazie alla sua bellezza, perfezione, semplicità, maggior capacità espressiva.
Ideologia completamente falsa, certo (Piron), ma creduta in buona fede da
molti – e alimentata, in malafede, dai cultori di didattica delle lingue, tutti
asserviti all’inglese (Chiti-Batelli 1987).
Occorre dunque trovare una soluzione alternativa: quale?
4
Così Martin Greiffenhagen, «Zur Rolle der Sprache in der Politik», introd. al vol. da lui
curato, «Kampf um Wörter?», Bonn, Bundeszentrale für politische Bildung, 1980.
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II.–VERSO UNA SOLUZIONE ALTERNATIVA?
UNA STRATEGIA POLITICA PER DOMANI …
Ancora l’insegnamento della storia: i vantaggi di una lingua morta
Passiamo ora alla pars construens. È ancora la storia indicarci una via
d’uscita, ed è ancora il latino che ci suggerisce una soluzione. Questa lingua,
anche dopo la caduta dell’Impero Romano, ha continuato ad essere, durante
quasi mille anni, la sola lingua di comunicazione internazionale della cultura, della filosofia, della scienza e – last but not least – della Chiesa. E tuttavia questo idioma:
– avendo cessato di esser lingua materna di un popolo dominante e lingua ufficiale del «Supergrande» dell’antichità, nel frattempo crollato, ha interamente perduto la capacità glottofagica ed etnolitica che aveva un tempo:
le parlate neo-latine hanno potuto svilupparsi liberamente nel corso del Medioevo;
– essendo decaduto al rango di lingua morta (e, in questo senso, «artificiale», giacché nessuno più l’apprendeva ormai dalle labbra materne), il latino non ha più subito modifiche nel tempo: grammatica, morfologia, sintassi
sono rimaste immobili, nei versi dell’Africa del Petrarca come nella prosa
dell’«Ethica» di Spinoza, passando per le encicliche del Papa o la poesia latina del Pascoli.
La soluzione: una lingua pianificata
Il rimedio che permette di preservare la pluralità delle lingue, pur assicurando, per quanto possibile, l’unita, la chiarezza e l’uniformità nel tempo
della comunicazione internazionale è pertanto il ricorso a una lingua morta –
o che ne abbia le caratteristiche. E se questa poi è una lingua pianificata –
cioè concepita ed elaborata appositamente per esser semplice, senza eccezioni, facile a imparare, e con doti analoghe, e per le stesse ragioni, di invarianza nel tempo – essa unisce allora a questi vantaggi (e a quello di mettere
tutti su un piede d’uguaglianza), il pregio supplementare di ridurre al mini14
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mo gli sforzi e le perdite di tempo necessarie per impararla: riducendo così,
al tempo stesso, le ingiustizie e le disparità che sussistono oggi fra le classi
più ricche (i cui figli sono i soli in grado di apprendere realmente l’inglese) e
tutti gli altri: il che assicura ai primi – così come ai popoli anglotoni – un
vantaggio (e di quale importanza!) che nulla giustifica (Chiti Batelli 1987 e
1988).
E non basta ancora: l’esperanto – composto, sì, di parole prese in prestito soprattutto dal francese e da altre lingue indo-europee, ma avente una
struttura che lo avvicina alle lingue agglutinanti c isolanti – riduce in tal
modo, per quanto possibile, le disparità fra i popoli che parlano queste ultime lingue e i popoli occidentali che parlano lingue flessive: tutti si trovano,
almeno in linea di principio, su un piede di uguaglianza quando studiano la
lingua di Zamenhof (Janton, Piron, Wells 1987).
Rinuncio qui a dimostrare le tesi seguenti, adeguatamente sviluppate
dagli autori citati in bibliografia (Jespersen, Pei, Piron, Sapir, Selten):
1) l’esperanto è la sola lingua pianificata hic et nunc pronta per l’uso,
dato che esiste da oltre un secolo e dispone ormai – a differenza di altre lingue pianificate – di un cospus imponente di testi letterari, scientifici ecc.,
così come di comunicazioni orali, congressi, rappresentazioni teatrali ecc.
(Broccatelli);
2) tale vitalità prova coi fatti che le qualità dell’esperanto – la sua flessibilità, la sua capacità di esprimere le più piccole sfumature del pensiero astratto come i sentimenti più intimi della poesia – sono uguali, anzi superiori
a quelle delle lingue vive (Jespersen);
3) tutte le obiezioni che negano o mettono in dubbio tutto ciò sono dovute all’ignoranza o ai pregiudizi, o all’una e agli altri insieme (Piron).
Mi rimetto, ripeto – per uno sviluppo di quei tre punti – alla bibliografia che ho dato nei miei volumi dedicati all’argomento, e soprattutto alle opere degli autori indicati poc’anzi: tutte indispensabili, tra l’altro, per una
confutazione dell’obiezione romantica e storicistica (quest’ultima tanto idealista come marxista) che una lingua «inventata» non sarebbe per definizione
capace di esprimere la complessità e ricchezza dei pensieri e dei sentimenti
dell’anima umana. Un secolo di esperanto prova il contrario (Jespersen, Piron). «L’esperanto è una lingua che funziona», diceva anche un famoso lin15
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guista francese, Antoine Meillet, pur ostile alla lingua di Zamenhof. Per dirla con Disraeli, You cannot fight against facts: they don’t mind at all.
Il «préalable» politico
Si on doit débattre de l’espéranto comme un moyen
de lotte contre la colonisation linguistique, il faut voir
de quels phénomènes politiques l’espéranto peut être
le versant linguistique.
(L.-J. CALVET, in Journées d’études sur I’Espéranto
(actes), Université de Paris VIII, 1983).
Desidero invece insistere su un argomento troppo spesso trascurato.
Tutte le qualità dell’esperanto enumerate un momento fa costituiscono solo
la prima condizione – necessaria ma non sufficiente – per il suo successo:
giacché una lingua riesce ad affermarsi come lingua internazionale solo se
ha dietro di sé un potere politico analogo a quello a cui dispone l’inglese.
Il latino non ha assunto la posizione dominante che ha avuto
nell’Europa antica grazie all’eleganza della prosa di Cicerone o alla bellezza
dei versi di Virgilio, bensì grazie alla superiorità delle legioni imperiali, del
diritto romano, degli architetti e degli ingegneri di Roma. Lo stesso accade
per l’inglese, che si avvale del potere degli Stati Uniti (e degli altri paesi anglofoni nei cinque continenti): potere preponderante che si manifesta nel
campo economico come in quello scientifico, in quello militare come in
quello tecnologico e trova il suo fondamento, ripeto, nel potere della Superpotenza americana. L’esperanto invece non dispone di nessuno di tali atouts: e il fatto che gli esperantisti trascurano completamente questo préalable politico – legge di bronzo della sociolinguistica – nulla toglie
all’importanza di esso.
«Quante divisioni ha il Papa?», chiedeva Stalin, dimenticando che il
Papa dispone, almeno, di un’autorità morale che gli dà un peso e
un’influenza internazionali incontestabili, quale che sia il giudizio che si
voglia dare su questo fatto. L’esperanto, invece, manca anche di una tale influenza e non ha dunque, rebus sic stantibus, la più piccola possibilità di sostituirsi all’inglese. La sua facilità, razionalità, conformità al fine costituiscono certo un argomento importante in suo favore, anzi una condizione ne16
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cessaria, ma niente affatto sufficiente. E il misconoscimento, da parte degli
esperantisti, di una verità così elementare non sarà mai condannato abbastanza come ragione di fondo della loro debolezza.
Bisogna dunque abbandonare senza rimpianti questo «esperantismo utopistico» senz’avvenire e sostituirlo con un «esperantismo scientifico» che
ancora deve esser creato di sana pianta. Louis-Jean Calvet, con le parole citate in epigrafe a questo paragrafo, ci indica il concetto centrale e il problema da porre: come dare a quest’idioma la forza, il propulsore capace di
«metterlo in orbita»; in una parola, come procurargli l’appoggio di un potere
politico che sia in grado di contrapporsi efficacemente agli enormi interessi
che spingono l’inglese verso la sua vittoria definitiva? – That is the question.
L’ipotesi europea …
L’autore di questo scritto – convinto militante del movimento per
l’unità federale dell’Europa – ha sempre difeso la tesi che, se si riuscirà a realizzare la Federazione europea, questa:
– da un lato disporrà del potere al tempo stesso politico e culturale capace di
colmare la distanza che favorisce oggi l’inglese e lo rende per ora senz’alternative;
– dall’altro tale Unione Europea sarà spinta a favorire l’esperanto tanto
dalla sua «ragione di stato interna» come dalla sua «ragion di stato esterna» .
Ragion di stato interna: la lingua federale ufficiale, comunque indispensabile, dovrà garantire la parità fra le grandi lingue dell’Unione e render al tempo stesso più facili la difesa e la promozione delle parlate minoritarie, Ragion di stato esterna: esigenza di sottrarre l’Europa – e, grazie al suo esempio, il resto del mondo – all’egemonia dell’inglese e a quella degli Stati che
parlano questa lingua.
(Credo di essere il solo a difender questa duplice tesi; mi vedo dunque
costretto a far riferimento, in proposito, a due miei scritti, oltre a quelli indicati infra in bibliografia, che cito in nota5).
5
Alludo ai miei due voll. «Una lingua per l’Europa», Padova, Cedam, 1987 e «Cos’e
l’“identità politica” europea? Memoria storica e progetto politico», Manduria, Lacaita,
1994.
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… e l’ipotesi «planetaria»
Ma tale strategia resta quella dell’europeo che io sono, e di essa perciò
dirò meglio nel Codicillo finale. A livello planetario è forse possibile immaginarne un’altra, soprattutto da parte di coloro che siano meno scettici di me
sulla capacità e le possibilità future delle Nazioni Unite, o piuttosto da parte
di coloro che hanno fiducia nell’azione di una delle nuove grandi potenze
che caratterizzeranno il XXI secolo, come la Cina (dove – notiamolo di
sfuggita – l’esperanto è assai apprezzato e ove si pubblica, in questa lingua,
un’importante rivista, El Popola Cinio), o in un’azione analoga di altre unioni continentali la cui realizzazione deve esser auspicata, anche fuori
d’Europa (unioni il cui interesse per una lingua universale non «colonialista»
sarà altrettanto importante).
Un punto ad ogni modo resta essenziale: non c’è più tempo da perdere.
Se non si riesce a trovare ora una soluzione alternativa all’inglese; se non vi
è una volontà sufficientemente forte per realizzare tale alternativa; se, infine
non esisterà un potere politico che consenta a quella volontà di realizzarsi, la
vittoria definitiva – e irreversibile – dell’inglese sarà una questione di decenni (o, al massimo, di una o due generazioni), con le conseguenze devastanti che abbiamo indicato.
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III.- ... E UNA TATTICA LINGUISTICA PER L’IMMEDIATO
Il metodo di Paderborn
Finora ho parlato della strategia politica che sola può consentire di preservare in modo definitivo il plurilinguismo, dell’Europa come del pianeta, e
in particolare quello delle etnie. Vi è tuttavia anche una tattica educativa –
meno ambiziosa e, per così dire, provvisoria, ma non meno importante né
meno indispensabile – che si può, e dunque si deve, perseguire subito. È
quella che può definirsi il «metodo di Paderborn».
L’Istituto di Cibernetica dell’Università di questa città – e in particolare
il suo direttore, il professor Helmar Frank – ha definitivamente dimostrato,
con il rigore matematico della scienza che essi professano, ciò che altri ricercatori avevano già empiricamente rilevato. La natura logica, semplice e
chiara dell’esperanto fa di questo idioma una sorta di sistema decimale delle
lingue: giacché l’una e l’altro – la lingua di Zamenhof come il sistema decimale – s’ispirano allo stesso principio di razionalità, di semplificazione, di
minimo sforzo.
Si comprende allora ciò che a prima vista sembra paradossale: gli alunni che studiano per due anni l’esperanto acquisiscono conoscenze linguistiche di base tali che, dedicandosi durante i due anni successivi allo studio di
una lingua viva (per esempio l’inglese, o il tedesco ecc.) riescono a raggiungere, e poi a superare, altri alunni della loro stessa età che abbiano studiato
la lingua viva fin dal primo anno. L’esperanto è dunque uno strumento propedeutico d’importanza fondamentale per imparar meglio e più rapidamente
gli altri idiomi (il silenzio totale dei glottodidatti su questo argomento è solo
una conferma supplementare, ma di particolare importanza, del loro spirito
anti-scientifico, del loro partito preso, soprattutto del loro servilismo rispetto
alla «lingua del padrone»).
Orbene: poiché tanto l’opinione pubblica quanto le classi dirigenti dei
diversi paesi non sono ancora disposte ad adottare l’esperanto come fine
(cioè come lingua franca internazionale), Frank propone di usarlo provvisoriamente come mezzo, e cioè appunto come strumento per imparare una lin19
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gua viva. Se si giungesse a generalizzare l’adozione di questo metodo, si sarebbe contribuito non solo a migliorare l’apprendimento delle lingue, ma
anche a diffondere la conoscenza dell’esperanto, il che renderebbe successivamente molto più facile la sua adozione anche come fine.
Invero, se le nostre lingue hanno il loro nemico principale nell’inglese,
l’esperanto invece ha, in più, un nemico ancora più pericoloso: l’ostilità pregiudiziale – largamente diffusa e alimentata dall’ignoranza – contro una lingua pianificata: pregiudizio che costituisce un alleato dell’inglese ancor più
temibile che non il servilismo, ipocrita e dissimulato, dei glottodidatti. È appunto tale ostilità che il «metodo di Paderborn» potrà contribuire in modo
decisivo a eliminare.
Importanza del metodo di Paderborn
Mi limito, in ordine al tema di questa terza parte, a ciò che ho detto, rimettendomi, per precisazioni ulteriori, agli autori che qui cito in nota6.
Resta che il tema «Paderborn» richiederebbe un’attenzione particolare –
finora a torto negatagli – da parte di tutti coloro che s’interessano non solo
di pedagogia, di didattica delle lingue e di docimologia, ma anche di politica
scolastica e dell’insegnamento – e in primo luogo, di educazione europea e
internazionale. Il loro colpevole silenzio in materia – programmatico e senza
eccezioni – non sarà mai abbastanza severamente condannato (Chiti-Batelli,
1987).
6
La presentazione più semplice e chiara del metodo di Vaderborn e delle ragioni che lo
giustificano, è stata data nel volume, in esperanto, di Sonabend, cit. in bibliografia.
L’essenziale è stato da me riassunto nei miei scritti indicati anch’essi in bibliografia e –
in modo più breve, ma particolarmente efficace – dallo stesso Helmar Frank, nel suo contributo a un’opera di Giordano Formizzi, «La lingua internazionale nella storia della pedagogia», vol. II, Documenti, Verona, Libreria Editrice Universitaria, 1987. Si veda anche, di Frank, «Pedagogia e cibernetica», Roma, Armando, 1974. L’esposizione più
completa e scientificamente più rigorosa del metodo di Paderborn si trova nei volumi,
degl’Istituti di Cibernetica di Paderborn e di Berlino, «Kybernetische Pädgagogik»
(l’ultimo finora e il VI, a cura di V.K. Barandovská-Frank, Bratislava, Esprima, e San
Marino, Agenzia Internazionale di Edizioni e Pubblicità, 1993).
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Contro il mito del plurilinguismo di massa
Al tema di Paderborn si collega quello della politica delle lingue seguita
oggi dalla maggior parte degli Stati come dagli specialisti (e sostenuta dal
Consiglio d’Europa, cosi come dall’Unione Europea e dall’UNESCO): la
politica del plurilinguismo.
Non è necessario essere grand clerc, come dicono i francesi, per comprendere che tale politica – certo validissima e indispensabile per le future
élites – e al tempo stesso irrealizzabile e insufficiente per le masse (fra le
quali anche in Europa – non bisogna dimenticarlo – il numero degli analfabeti rimane considerevole). Irrealizzabile (oltre che inutile) perché non è assolutamente possibile, allo stato, insegnar davvero a tutti tre o quattro lingue. Insufficiente, perché le lingue dell’Unione europea sono, e soprattutto
saranno, molte di più.
Sarebbe pertanto opportuno, se lo spazio lo consentisse, sviluppare,
come ho fatto nei miei scritti cit. in bibliografia, una critica particolareggiata, e documentata, della politica linguistica, interamente asservita all’inglese,
delle istituzioni internazionali sopra ricordate (e, ancora una volta, delle
gravissime responsabilità, in proposito, dei glottodidatti).
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CONCLUSIONE: «RUIT HORA»
Contro la «Cernobyl culturale», per la democrazia linguistica
«Dum Romæ consulitur, Saguntum expugnatur»
(Tito Livio)
Riassumendo, tutto sembra confermare il carattere profetico di quanto
Rubén Darío scriveva all’inizio del secolo, nella sua lirica «Los cisnes»:
Seremos entregados a los barbaros fieros?
Tantos millones de hombres hablaremos inglés?
No hay mas nobles hidalgos ni bravos caballeros?
Callaremos ahora para lloras después?
Non è esagerato infatti affermare che si assiste oggi a un fenomeno
planetario di «inquinamento linguistico» analogo al fenomeno più noto di
inquinamento della terra, dell’aria, dell’acqua: l’uno e l’altro inquinamento
avanzano con rapidità crescente, fino a minacciare, il primo la sopravvivenza stessa dell’umanità, la «vivibilità» della terra; il secondo le nostre lingue
e la nostra identità culturale e umana. Domani sarà troppo tardi per battersi
in favore della difesa di specie animali e vegetali ormai scomparse. Lo stesso è da dirsi nel nostro caso: è in gioco infatti la sopravvivenza stessa delle
lingue (e delle culture) diverse dall’inglese.
L’elaborazione scientifica, ad opera della dottrina giuridica e della
scienza politica, di una concezione organica, e sempre più approfondita e
completa, del diritto alla lingua, all’identità culturale, all’«autoctonia» delle
minoranze è certo essenziale, voglio ribadirlo ancora una volta. Ma se non si
perviene a scongiurare quanto prima i rischi dell’inglese, tale elaborazione
sarà in larga proporzione inutile, giacché l’oggetto stesso di tali studi sarà
nel frattempo scomparso e non ci saranno più lingue da difendere, dominate
o dominanti, con o senza Stato. Antea vivere deinde philosophari.
Le aporie che abbiamo denunziate, e la soluzione politica proposta, non
rappresentano dunque un à côté, un elemento accessorio e marginale rispetto
alla dottrina del diritto alla lingua, o dell’autonomia politica e autoctonia dei
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gruppi etnici. Tale soluzione è non solo essenziale, ma costituisce un préalable indispensabile. Il fatto che tale préalable sia ignorato e, come direbbe
uno psicologo, «scotomizzato» da tutti deve esser incitamento ulteriore, in
particolare per i difensori delle minoranze, a colmare tale lacuna: non solo
nell’ordo et connexio idearum, ma anche, e soprattutto, nell’ordo et connexio rerum.
Concludendo: ora o mai
In breve: il tempo delle riflessioni e delle discussioni teoriche è ormai
passato; occorre passar all’azione. Invero, il pericolo e grande; il «punto di
non ritorno» si avvicina non sono più consentiti indugi e occorre agire subito, nella tattica come nella strategia; where there is a will there is a way.
Come diceva Max Weber, «il possibile non sarebbe mai raggiunto, se non vi
fossero uomini che chiedono ostinatamente l’irnpossibile» – quello che oggi
sembra impossibile.
CODICILLO: PARLANDO AGLI EUROPEI
Le pagine che precedono considerano di proposito il problema prevalentemente da un punto di vista planetario. Ma, concludendo, è necessario
esaminare in modo più specifico la questione anche dal punto di vista europeo, sottolineando maggiormente:
1) L’illusione che consiste nel creder che sia possibile controllare e frenare gli effetti glottofagici dell’inglese, senza tuttavia contestarne il rango di
lingua franca universale: ritenere cioè che si possa «limitarlo alla funzione di
lingua puramente strumentale al livello dell’informazione internazionale»7.
È invece proprio questa funzione «strumentale» che è la causa della sua
glottofagia.
2) La falsa soluzione proposta da coloro che – vittime di un’illusione
analoga – propongono che l’inglese resti lingua ausiliaria del pianeta, ma
7
Henri Gobard, «L’aliénation linguistique», Parigi, Flammarion, 1976 (p. 270).
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che il francese lo sia dell’Europa8. I popoli europei non francofoni, costretti
a imparar due lingue, sarebbero ancora più svantaggiati, sì che proporre una
simile soluzione è il modo più sicuro per costringerli, in mancanza di meglio, ad accettare anch’essi in via definitiva l’inglese.
3) Il valore fondamentale dell’unità federale dell’Europa, potere politico indispensabile per render possibile la soluzione alternativa all’inglese –
quella di una lingua pianificata – che abbiamo proposto nelle pagine precedenti: un argomento in più, e di particolare importanza, in favore di tale Unione –
e un argomento che gli europeisti hanno troppo spesso trascurato.
4) Il fatto che la soluzione che abbiamo suggerita, nell’ambito
dell’Europa federata, ci sembra imposta da una duplice esigenza: quella della razionalità dei mezzi da impiegare e quella dell’uguaglianza fra tutti i popoli, giacché essa sostituisce al diritto della forza la forza del diritto e alle
imperfezioni della natura i rimedi della riflessione e della scienza. Soluzione
che appare dunque doppiamente in armonia con la concezione federalista:
tanto dal punto di vista della ragione astratta come da quello dell’etica; in
ordine alle esigenze della ricerca come rispetto alle necessità concrete della
comunicazione internazionale9.
5) Ultimo rilievo, ma non meno importante: tale soluzione non intende
trasformare l’esperanto da lingua internazionale, ideata e voluta da Zamenhof e da tutti i suoi seguaci come lingua del pianeta, in lingua dell’Europa e
limitata all’Europa. Essa intende solo proporre un primo passo indispensabile – appunto quello europeo – nell’ambito di una «politica dell’esperanto»
che i suoi seguaci non sono mai riusciti neppure a intravedere. E fino a
quando non ne saranno capaci … «lungi fia dal becco l’erba».
8
9
Jean-François Deniau, «L’Europe interdite», Parigi, Seuil, 1977 (p. 258 ss.) e «Le Figaro», 30 agosto 1993; Philippe Lalalanne Berdouticq, «Appel aux francophones pour le
français langue d’Europe», Parigi, La Pensée Universelle, 1979.
Disgraziatamente vi è per ora solo un’organizzazione internazionale che si sforza – nei
limiti delle sue modeste possibilità – di affermare questo préalable politico europeo come indispensabile al successo dell’esperanto: la «Radikala “Esperanto” Asocio», Via di
Torre Argentina, n. 76, 00186 Roma – tel. 06/689.791, (indirizzo elettr.
[email protected]; http://esperanto.stm.it).
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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Umberto BROCCATELLI, «Una lingua federale per l’Europa federata», contributo al vol., a cura di Andrea Chiti-Batelli, «Comunicazione internazionale tra
politica e glottodidattica», con prefazione di Arrigo Castellani, Milano (oggi Settimo Milanese), Marzorati, 1987.
Louis-Jean CALVET, «Linguistique et colonialisme», Parigi, Payot, 1974. È
fondamentale per comprendere il valore del préalable politico su cui abbiamo insistito nel testo.
Louis-Jean CALVET, «L’Europe et ses langues», Parigi, Plon, 1993. È interessante per mostrare quanto grande sia la cecità circa il rischio di «glottofagia»
universale ad opera dell’inglese perfino in un autore che pur ha inventato questa
parola (a proposito delle parlate comunitarie).
Andrea CHlTI-BATELLI, «Communication internationale et avenir des langues et des parlers en Europe», Nizza, Presses d’Europe, 1987. Illustra
l’importanza di una lingua internazionale neutra per le minoranze, critica la politica europea delle lingue del Consiglio d’Europa e della Comunità europea e sviluppa il tema di Calvet: condizione indispensabile per l’affermazione di tale lingua è
che essa abbia dalla sua uno Stato di peso internazionale (nel nostro caso la Federazione Europea).
Andrea CHITI-BATELLI, «La politica d’insegnamento delle lingue nella Comunità Europea. Stato attuale e prospettive future», Roma, Armando, 1988. Discute, con l’ausilio di molta bibliografia, gli aspetti linguistici, interlinguistici e didattici del problema di una lingua internazionale; riprende il tema politico del suo volume in francese; fornisce informazioni essenziali sul «metodo di Paderborn».
Guy HÉRAUD, «Popoli e lingue d’Europa», Milano, Ferro, 1967.
Guy HÉRAUD, «L’Europe des ethnies», Bruxelles, Bruylant, 1993. Héraud è,
insieme a Salvi (e più di Salvi), l’autore a cui mi ispiro per una concezione di
un’Europa federata di Grandi Regioni e di «Comunità» (nel senso belga della parola).
Pierre JANTON, «L’espéranto», Parigi, P.U.F., Più volte ristampato (tr. ingl.:
«Esperanto», University of New York Press, 1993). È la presentazione
dell’Esperanto al tempo stesso più semplice, chiara e completa.
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Otto JESPERSEN, «An International Language», Londra, Allen e Unwin,
1928. II grande linguista danese, specialista d’inglese, è stato uno dei massimi fautori di una lingua pianificata come lingua franca internazionale, e il suo volume ha
pertanto particolare importanza.
Mario PEI, «One Language for the World», New York, Devin-Adair, 1958 e
New York, Biblo and Tannen. 1968. Pei è stato un linguista, di origine italiana,
che ha goduto, e non solo negli Stati Uniti, di particolare autorità. È uno dei massimi esperantisti americani.
Yvo PETERS, «Volk und Staat. Die Zukunft kleiner Völker und ethnischer
Minderheiten im neuen Europa», «Junges Forum» (Amburgo), primavera 1993.
Claude PIRON, «Le défì des langues», Parigi, L’Harmattan, 1994. Mostra, tra
l’altro, fino a che punto possa giunger l’ignoranza, anche di persone colte e accademici, che non si peritano di esprimer giudizi, per lo più negativi, sull’esperanto
senza aver assunto, prima, neanche la più elementare informazione.
Michel RIMET, «Contacts. Interférences ethniques et culturelles», Montpelier, presso l’autore, 1970.
Sergio SALVI, «Le nazioni proibite», Firenze, Vallecchi, 1973.
Sergio SALVI, «Le lingue tagliate», Milano, Rizzoli, 1975.
Edward SAPIR, «The Function of an International Language» contributo alla
brochure, di N. Shelton e altri, «International communication», Londra, Kegan
Paul, 1931. – Sapir, scienziato particolarmente noto per la sua «teoria della relatività linguistica», è forse, insieme a Pei, lo studioso statunitense più autorevole e
più noto che sia stato attivo esperantista.
Richard SCHULZ, «Was nun Esperanto betrifft …», Gerlinger, Bleicher,
1986.
Reinhard SELTEN (a cura di), «I costi della (non) comunicazione linguistica
europea», Roma, «Esperanto» Radikala Asocio, 1997 (esiste anche in inglese e in
esperanto).
Helmut SONABEND, «Esperanto: lerneja eksperimento», Pisa, Edistudio,
1979 (in esperanto).
John WELLS, «Why not English?», 1985 (conferenza che si può ottenere in
cassetta dall’Universala Esperanto-Asocio, Rotterdam). Wells, linguista e interlinguista britannico e specialista d’inglese (sono suoi i tre volumi «The Accents of
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English», Cambridge University Press, 1983), espone con grande lucidità i gravissimi difetti che sono proprî della sua lingua come lingua franca internazionale (tema ulteriormente sviluppato da Schulz).
John WELLS, «Linguistische Aspekte der Plansplache Esperanto», Saarbrücken, Saarländischer Esperanto-Bund, 1987 (originale in esperanto: «Lingvistikaj
aspektoj de esperanto», Rotterdam, Universala Esperanto Asocio, 1978). Espone in
breve, con molta competenza linguistica e chiarezza espositiva, la struttura e le
qualità dell’Esperanto.
Lo specchio come attributo della Conoscenza e delle sue virtù: incisione del sec. XVI
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