p
p arole
delle religioni
Dio e gli dei
Le fedi monoteiste
e la traducibilità delle culture
È
accusa ripetuta e da non prendere alla leggera che la
comparsa di religioni, per comodità classificatoria
chiamate monoteiste, abbia inferto un duro colpo alla traducibilità delle culture. Il confronto con riflessioni del tipo di quelle proposte da Jan Assmann1 si pone, in effetti, come un terreno inevitabile per ogni persona di fede che non
voglia abdicare alla dignità del pensiero. Una linea di risposta
a questa obiezione sta nel chiedersi quale grado di permeabilità reciproca sia restata entro le stesse religioni monoteiste e
in particolare in quelle che – anche qui a motivo di un’accettata consuetudine – si dicono abramiche. Va comunque subito precisato che, all’interno di questo filone, altro è il discorso
relativo ai fatti e altro quello concernente il diritto.
Sul piano fattuale gli influssi e gli scambievoli prestiti tra
ebraismo, cristianesimo e islam sono stati continui e reciproci, anche se asimmetrici. Sul versante di alcune definizioni di
sé stesse avanzate dalle singole tradizioni religiose, queste
realtà indubitabili sono state invece più volte negate. Da ciò
deriva la lunga trafila storica nella quale la verità propria implicava, specularmente, la falsità altrui. Le parti in causa dovevano perciò essere pensate prive di contatto reciproco.
Questa tendenza ha implicato più volte la necessità di inventarsi il proprio passato.
Anche Gesù Cristo è nato ebreo
Muovendosi lungo questa rotta i rabbini dei primi secoli
dell’era volgare hanno fatto risalire i loro insegnamenti al
monte Sinai. Essi, in effetti, sapevano che non era così, tuttavia operavano come se lo fosse. Giocando su tale ambiguità,
un detto talmudico giunge ad affermare che quanto un discepolo di ingegno ha detto di fronte al suo maestro è stato rivelato a Mosè sul Sinai (j. Peà 2,4). Dal canto loro i musulmani
fanno risalire l’islam ad Abramo, anzi ad Adamo, o addirittura ancor prima secondo il mito in base al quale tutta l’umanità fu convocata di fronte ad Allah ancor prima della creazione del mondo (Corano 7,171). In ambito cristiano i padri
parlavano di Ecclesia ab Abel. Riferimento espresso in modo
diretto e alto nello stesso canone romano, in cui è attestata
una forte continuità tra le offerte di Abele, di Abramo, di
Melchisedek e quanto sta avvenendo sull’altare. Tuttavia inventare il proprio passato non è ormai operazione semplice
da accettare.
354
IL REGNO -
AT T UA L I T À
10/2010
Nel 1526 Martin Lutero scrisse un’opera intitolata Dass Jesus Christus ein geboren Jude sei (Anche Gesù Cristo è nato
ebreo). Il tono è molto diverso da quello, aspro, che avrebbe
fatto la propria comparsa vent’anni dopo (cf. Degli ebrei e delle loro menzogne).2 L’intento principale dell’opuscolo in realtà
sta nel colpire i «papisti»; gli ebrei infatti servono soprattutto
da cartina di tornasole: non ci si poteva certo attendere che
essi si convertissero all’Evangelo fino a quando lo spettacolo
loro offerto era quello fornito dal cattolicesimo romano. Tuttavia, se fosse mutato il quadro ed essi fossero stati effettivamente posti di fronte a un vero cristianesimo, allora sarebbero potute insorgere le condizioni nelle quali sarebbe divenuto
ancora credibile rivolgere loro l’invito a ritornare alla fede dei
patriarchi e dei profeti.
Qui Lutero non fa altro che dichiarare in modo implicito
quanto nel suo ambito il Corano afferma apertis verbis: «O
pretendete voi che Abramo e Ismaele e Isacco e Giacobbe e
le dodici Tribù fossero ebrei o cristiani?» (Corano 2,140). La
domanda retorica implica che evidentemente essi vanno considerati dei musulmani in quanto dediti tutti a Dio. Analogamente per Lutero (ma in ciò egli non era certo isolato) patriarchi e profeti vissuti molti secoli prima di Gesù Cristo erano
nella fede già cristiani. Per gli ebrei l’atto di convertirsi a Cristo doveva perciò essere inteso come un ritorno.
Per l’odierna cultura occidentale la posizione espressa da
Lutero suona quasi incomprensibile. Ciò è dovuto a molteplici ragioni, tra le quali primeggia un fattore: l’incidenza dell’approccio storico. I trionfi dello storicismo sono da un pezzo alle nostre spalle; l’approccio ermeneutico ha allargato gli
orizzonti e la lettura sincronica dei testi ha rivendicato a sé un
giusto spazio. La postmodernità ha rimescolato le carte culturali; con tutto ciò, questo periodo rimane qualificato con un
prefisso che indica un venire dopo che non può dimenticare
quanto lo ha preceduto.
Il postmoderno non si configura affatto come un ritorno
al premoderno. Chi, per esempio, oggi può davvero far propria una lettura provvidenzialistica della storia spinta fino al
punto in cui è il «dopo» a spiegare integralmente il «prima»?
Chi può intimamente credere che il farsi della storia equivalga a srotolare un tappeto rosso lungo una guida già prefissata? In realtà siamo di fronte a una specie di paradosso: si è in
grado di comprendere il ragionare astorico di chi ci ha preceduto solo perché abbiamo una cultura storica capace di collocare nel suo tempo quell’interpretazione.
Vi è un secondo ordine di fattori, sia pure meno rilevante,
che rende problematico un simile approccio. Esso è legato alla volontà affermativa di attuare un dialogo interreligioso.
Espressioni, correnti in ambito cristiano, che parlano in senso positivo degli ebrei come «nostra radice» sono evidentemente impossibilitate a pensare che la fede cristiana sia antica quanto quella degli ebrei. La precedenza ebraica è perciò
considerata base indiscutibile per lo svolgimento di un qualsiasi dialogo ebraico-cristiano.
L’ipotesi secondo la quale questo dialogo sarebbe asimmetrico (gli ebrei per definirsi come tali non avrebbero bisogno dei cristiani, mentre questi ultimi necessitano degli ebrei
per sapere chi sono) è, a un tempo, legata al senso storico e
avulsa da esso. È storica perché si presuppone che il «prima»
non si possa spiegare con il «dopo»; è astorica perché incapace di conformarsi agli intricati grovigli della ricerca. In virtù
di questi ultimi, da un lato, la nascita del giudaismo rabbinico avviene su uno sfondo in cui operano componenti ebraiche che manifestavano in vari modi di aver fede in Gesù,
mentre, dall’altro, resta impossibile comprendere la diffusione dell’Evangelo senza collocarlo nell’ambito del polimorfo
ebraismo del I secolo.
Quando i cristiani erano ebrei
Vi è un’espressione efficace e allusiva per riferirsi alle origini; essa suona così: «quando i cristiani erano ebrei».3 Il detto, collocato a un livello più rigoroso, implica non solo che,
nell’ambito della Chiesa primitiva, i cristiani non fossero
quelli di oggi, ma anche che neppure gli ebrei attuali abbiano molto da spartire con quelli del I secolo.
La permeabilità delle culture si riverbera nel fatto che all’interno di ciascuna tradizione religiosa vi sono stati – e vi sono – confini non troppo netti. Ancor più precisamente, bisogna affermare che l’invenzione di spartiacque giudicati insuperabili, come per esempio quelli tra canonico e apocrifo, o
tra ortodossia ed eresia, fa risultare astratto un approccio che
giudica separati procedimenti storicamente legati tra loro in
modo indissolubile. Non stupisce perciò che quanto è messo
ufficialmente fuori della porta, più volte rientri poi di soppiatto dalla finestra.
Per concentrare tutto in poco, basti procedere attraverso
un esempio. La distinzione tra canonico e apocrifo presentata come netta sul piano dogmatico è semplicemente impensabile all’interno della tradizione iconografica cristiana. È sufficiente pensare in proposito alle immagini dell’infanzia di Gesù, dipendenti in larga misura dall’apocrifo protovangelo di
Giacomo. Rispetto all’iconografia della Biblia pauperum, la
traducibilità tra canonico e apocrifo è all’ordine del giorno.
Gli esempi non mancano neppure nel confronto tra sistemi religiosi più polarizzati. Anche qui testi non canonici entrano e sono letti con un occhio tutto diverso da quelli canonici. È appena uscito in edizione italiana Il viaggio notturno e
l’ascensione del profeta nel racconto di ibn ‘Abbas.4 Si tratta
dello stesso tema del Libro della scala, più noto in virtù della
secolare ipotesi dei suoi influssi sulla Commedia dantesca.5
Quanto però ora interessa di questa descrizione del viaggio di
Muhammad nell’aldilà è la sorte diversa, che differenzia le
sue traduzioni latine da quelle del Corano.
Nella sua introduzione al volume la curatrice Ida ZilioGrandi fa osservare che il racconto del viaggio notturno e del-
IL REGNO -
AT T UA L I T À
10/2010
355
l’ascensione narra l’esperienza di un percorso mirabile attribuito al profeta Muhammad, diffuso in molteplici versioni in
tutta la letteratura musulmana. A questo punto si aggiunge:
«Com’è ormai piuttosto noto, questo racconto circolò anche
nell’Europa medievale cristiana dove, riprodotto in latino o in
volgare, curiosamente mantenne il proprio obiettivo principale cioè quello di glorificare il profeta dell’islam».6
Occorre ora rivolgere il nostro sguardo anche alla nota
che accompagna l’affermazione (per il suo contenuto la curatrice afferma di essere in debito nei confronti di un altro grande islamista italiano, Alberto Ventura). In essa si legge che un
andamento di questo genere costituisce un caso unico, «visto
che la traduzione del Corano si ebbe solo perché ne fosse confutato il contenuto». Occorre forse concludere che l’«apocrifo» unisce e il «canonico» divide?
Ormai l’indagine sulla traducibilità delle culture è un tema che esula dall’ambito in cui è stato rinserrato da tempo:
l’erudizione. A essa sono affidati compiti più urgenti, anche se
difficili da circoscrivere. Tuttavia, per farlo, resta immutata la
necessità di studiare con paziente tenacia quanto si trova alle
nostre spalle.
Piero Stefani
1
Cf. J. ASSMANN, Dio e gli dei. Egitto, Israele e la nascita del monoteismo,
Il Mulino, Bologna 2009.
2
M. LUTERO, Degli ebrei e delle loro menzogne, introduzione di A. Prosperi, a cura di A. Malena, Einaudi, Torino 2000.
3
Cf. AA. VV., Quando i cristiani erano ebrei, a cura di P. Stefani, Morcelliana, Brescia 2010; n. 5 della collana «I libri di Biblia – Studi».
4
I. ZILIO-GRANDI (a cura di), Il viaggio notturno e l’ascensione del profeta nel racconto di ibn ‘Abbas, prefazione di C. Segre, postfazione di M. Piccoli, Einaudi, Torino 2010.
5
Cf. C. SACCONI (a cura di), Il Libro della Scala di Maometto, Mondadori, Milano 1999 (ristampa).
6
ZILIO-GRANDI (a cura di), Il viaggio notturno, XIX.
Servizio Nazionale per il Progetto Culturale della CEI
L’«emergenza educativa»
Persona, intelligenza,
libertà, amore
IX Forum del Progetto Culturale
enedetto XVI è stato il primo a
parlare di «emergenza educativa»:
l’educazione è alla base degli orientamenti pastorali della Chiesa italiana
per il prossimo decennio. Il IX Forum
del Progetto Culturale (Roma 2728.3.2009) ha tematizzato il legame
tra la capacità di costruire il futuro e
quella di generare persone autenticamente umane. Il volume ripropone
relazioni e interventi dei partecipanti.
B
«Oggi e domani»
pp. 424 - € 25,00
EDB
Edizioni
Dehoniane
Bologna
Via Nosadella 6 - 40123 Bologna
Tel. 051 4290011 - Fax 051 4290099
www.dehoniane.it
Scarica

Dio e gli dei - Edizioni Dehoniane