L’ARBORE DELLA CARITÀ
RIVISTA DELL’UNIONE S. CATERINA DA SIENA
DELLE MISSIONARIE DELLA SCUOLA
A. LX
N. 1
POSTE ITALIANE S.p.A. - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE
D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB ROMA
2009
Rubrica « L’ARBORE DELLA CARITÀ »
RIVISTA
DELL’UNIONE
SANTA CATERINA DA SIENA DELLE MISSIONARIE DELLA SCUOLA
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A. LX
N. 1
2009
SOMMARIO
EDITORIALE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3
EDUCARE AL SENSO DEL LAVORO
C. BROGGI
– Il senso umano e cristiano del lavoro negli scritti di
Luigia Tincani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4
G. P. VENTURI
– Senso del lavoro, senso della vita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8
VOCI DALLA MISSIONE
S. MARCZAC
– Chi manderò e chi andrà per me? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .11
N. JORIO
– Dall’Oriente un richiamo senza fine ... . . . . . . . . . . . . . . . . . .14
VITA DI FAMIGLIA
N. J.
– Anna Cappella: una vita dedicata alla promozione
della vita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .18
NOTIZIE IN BREVE
In arrivo dal Pakistan . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .25
In partenza verso l’India . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .25
EVENTI
C. BROGGI
N. JORIO
REDAZIONE
G. DALLA TORRE
REDAZIONE
ARBORE GIOVANI
M. SPARACIO
M. ALBERTINI
E. FRANZESE
A. D.
–
–
–
–
–
L’anno paolino con Luigia Tincani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .26
Giorgio Petrocchi: vent’anni dopo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .29
Luigia Tincani e il P. Gemelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .33
Dopo il terremoto in Abruzzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .34
Un convegno in Campidoglio nel 630° anniversario
del soggiorno a Roma di s. Caterina da Siena . . . . . . . . . . . .35
– Testimonianza di Monica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .37
– Il racconto del viaggio al campo di Auschwitz.
Viaggio nel dolore infinito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .38
– I giovedì culturali al Teatro Argentina . . . . . . . . . . . . . . . . . .40
– Lo studio atto di culto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .41
AMICI SCRIVONO
A.M. MARTINELLI – La Via Appia vista dai visitatori polacchi . . . . . . . . . . . . . . .43
N. SAJEVA
– Il numero dei piatti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .45
ADOZIONI A DISTANZA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .47
CAUSA DI CANONIZZAZIONE DELLA SERVA DI DIO
LUIGIA TINCANI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .48
NELLA PACE DEL SIGNORE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .50
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Annuale € 20 — Sostenitore € 30 — d’Amicizia € 40
Con approv. del Vicariato di Roma — Dirett. respons.: Giuseppe Dalla Torre Del Tempio di Sanguinetto
Autorizz.ne del Trib. di Roma n. 1434 del 27-2-1950 e del 9-1-1967
Tipografia Domograf s.n.c. — Circ.ne Tuscolana 38 - Roma — Tel. 06.7100644 — Maggio 2009
Editoriale
Educare al senso del lavoro
Educare al senso del lavoro o, piuttosto, educarsi al senso del lavoro?
Non sembri paradossale o addirittura provocatorio se, per sciogliere l’interrogativo, si propone di partire da una riflessione sulla povertà alla luce della dottrina
cristiana. Per la quale esiste una povertà subita, che va combattuta e debellata: di
qui l’enorme impegno dispiegato nei secoli dai cristiani, sul modello del Signore che,
come attestano gli Atti degli Apostoli, “pertransiit benefaciendo”, passò facendo del
bene.
Ma esiste anche una povertà scelta che diviene via privilegiata di perfezionamento
spirituale e di ascesi, secondo l’insuperabile insegnamento che ci viene dal Poverello
di Assisi.
Specularmente si può dire del lavoro, qualunque esso sia, intellettuale o
manuale, più sofisticato o più semplice. Difatti se subìto è causa di lagrime e sangue, è fattore di alienazione e di schiavizzazione dell’uomo, è strumento di dominio
e di violenza dell’uomo sull’uomo; viceversa se è voluto ed accolto diviene mezzo di
realizzazione di sé, espressione del comandamento biblico fatto all’uomo – nella sua
preminente dignità su ogni altro vivente – di dominare la terra, manifestazione della
partecipazione di ciascuno all’opera creatrice di Dio, sorgente di gioia e di soddisfazione interiori.
Dunque educare al lavoro significa condurre ogni persona a non subire ma ad
accettare il lavoro, ad avere di esso una visione non afflittiva ma positiva, a sostituire alla passività la attività operosa. L’opera educativa in tal senso è meritoria sia perché fa acquisire senso e ragione di una appartenenza responsabile e solidale al consorzio umano, sia perché dà ragioni e stimoli alla crescita di questo nella direzione
del bene comune.
Ma è evidente che educare al senso del lavoro comporta anche un educarsi al
senso del lavoro. Perché l’azione paidetica non è mai a senso unico, ma presuppone
sempre la libera e positiva risposta dell’educando. Ma anche perché l’educazione al
senso del lavoro non si svolge una volta per tutte, non si raggiunge mai compiutamente.
Sicché, raggiunta la maturità, spetta a ciascuno di noi il rinnovare continuamente il senso positivo del nostro intervento plasmatore del creato; di ritrovare
sempre, nel mutare dei contesti e nel volgere delle stagioni, l’entusiasmo necessario
per contribuire a rendere la società un poco migliore rispetto a come la si è trovata.
In copertina: Silvestro Lega, L’educazione al lavoro, olio su tela, 1863
–3–
Educare al senso del lavoro
Il senso umano e cristiano del lavoro negli scritti di Luigia Tincani
“Il lavoro è sempre intenso e non
sono sempre capace di far tutto e in
tempo e questa lotta ad oltranza tra
tempo e desideri, tra possibilità e lavoro
è la pena di tutti i giorni. Speriamo che
serva anche questa a farci essere umili
pazienti benevoli, cioè a santificarci”.
Così scrive Luigia Tincani nell’aprile del 1962. Lavorava molto, sempre,
il tempo non le bastava. Non c’è rammarico nelle sue parole. Semplicemente
un dato di fatto, non le basta il tempo
per tutto quello che deve fare, ma da ciò
verrà un bene grande, la santificazione.
Non troviamo negli scritti della
Tincani una sistematica trattazione sul
lavoro, ma ci imbattiamo in parole
sapienti, dettate dallo Spirito e impreziosite dall’esperienza personale, che
danno al lavoro il senso cristiano e il
genuino significato umano. A lei interessa la persona che svolge il lavoro,
lavoro che la coinvolge tutta con i suoi
desideri; che misura e regola le relazioni con gli altri, che è creatività, fonte di
successo e di insuccesso. Animata da
una grande fede, vede nel lavoro la
gioiosa collaborazione all’opera creatrice di Dio, e la fatica del lavoro diventa
sofferta partecipazione all’opera redentrice di Gesù Crocifisso.
E’ interessante accostare le affermazioni della Tincani all’enciclica
Laborem exercens che sembra confermare le sue intuizioni sul lavoro.
mette gli uni accanto agli altri, dipendenti gli uni dagli altri con la nostra attività. Tale consapevolezza di partecipare
all’opera creativa del Padre diventa un
movente della propria attività, fa amare
il lavoro, fa lavorare bene, con ordine, fa
crescere, sviluppa le capacità della persona, rende veramente efficienti e utili
agli altri.
Scrive la Tincani: “Se vogliamo
riflettere in noi stesse l’ordine che il
Creatore ha impresso in tutto l’universo,
ognuna di noi deve dirsi: se voglio stare
nella volontà di Dio, devo vedermi come
mi vede Dio, come Dio mi ha posto nel
mondo. Sono una creatura chiamata
alla nobiltà di essere strumento della
volontà divina per il bene universale”(1934).
Esorta le sorelle a essere contente
del lavoro, ad amarlo:
“Bisogna che impariamo ad
amare il nostro lavoro, a farlo bene, a
volerlo fare sempre meglio con fervore
di intelligenza e di cuore, per poterlo
offrire a Dio più bello e più buono
anche agli occhi degli uomini e nel suo
valore pratico”(1927). “Dobbiamo
amare veramente il nostro lavoro qualunque esso sia, saper sentire i buoni
entusiasmi per le cose belle e buone,
anche naturali; non diventare un’anima
fredda e indifferente di fronte a ciò che
interessa e entusiasma giustamente gli
altri: arte, scienza, patria, debbono dire
qualche cosa e commuovere”(1927). “E’
un dovere quello di fare meglio che si
può il proprio dovere”(1936).
Se siamo contenti di collaborare
con il Creatore per il bene di tutti dob-
La gioia del lavoro
Il lavoro è alacre, umile, gioiosa
risposta all’invito del Creatore che ci
comanda di governare il mondo e ci
–4–
Educare al senso del lavoro
biamo essere attenti e concreti nella
nostra attività: “Il nostro lavoro deve
sempre essere vivo e se è vivo deve sempre essere presente dinanzi a
noi”(1942).
L’ottimismo fondato sulla fede
toglie pesantezza al nostro operare, gli
dà il significato che esso ha agli occhi di
Dio, ci rende disinvolti, padroni delle
situazioni: “Il dovere va preso come è:
bisogna sapervi vedere sempre il lato
migliore e dimenticare l’altro per utilizzare al massimo questo. Non perdiamoci troppo a enumerare e lamentare i
pericoli e le miseriuole in cui possiamo
inciampare, ma guardiamo al meglio e
al sommo, e ringraziamo Dio di questo”(1928).
sione per irrobustirsi spiritualmente,
come scrive a una giovanissima compagna di università, alle prese con le prime
esperienze di lavoro nella scuola:
“Un lamento giustificato ti usciva
dal cuore alla fine della tua lettera: «che
brutta cosa dover pensare al proprio
pane e dover sacrificare per questo tanti
buoni desideri!»… bisogna fare di
necessità virtù e santificarsi così, animando questi sacrifici da un vero spirito di povertà e di rinuncia. Per un’anima veramente fondata nella virtù e
salda nell’unione con Dio, anche la lotta
per il pane quotidiano non sarebbe un
impedimento, ma un mezzo di ascesa”(1923).
Ma c’è qualcosa di più, c’è la partecipazione al mistero pasquale di croce
e resurrezione: “Nel lavoro umano – leggiamo nella Laborem exercens - il cristiano ritrova una piccola parte della
croce di Cristo e l’accetta nello stesso
spirito di redenzione, nel quale il Cristo
ha accettato per noi la sua croce”(n. 27).
In una lettera alle sue Missionarie
la Tincani scrive alla luce della fede:
“Dobbiamo amare la croce perché sulla
croce è confitto il nostro Sposo e
Signore Gesù e solo sulla croce potremo
unirci e identificarci a Lui. La nostra
croce quotidiana è la croce del lavoro. Il
lavoro deve quindi essere la legge austera della nostra vita”(1941).
Il lavoro è penitenza vera e fonte
di meriti. Scrive in altra occasione:
“Buona Quaresima! Che la fatica e ogni
altra pena del tuo lavoro siano offerte
con amore in riparazione e in omaggio
di lode a Dio, per la sua gloria, e per l’acquisto di meriti a vantaggio delle anime
che tu avvicini”(1955).
La fatica del lavoro
In una spiritualità dell’incarnazione quale Madre Tincani ce la propone,
in un’ascetica fondata sulla realtà della
vita quotidiana e inserita nella condivisione con il vissuto di un’umanità sofferente, il lavoro con le fatiche che lo
accompagnano diventa occasione di
crescita nell’attuazione della volontà di
Dio. In tale ottica “il lavoro è mezzo di
perfezione, perché è fatica, è sacrificio,
è, soprattutto, rinunzia di sé e dono di
sé; è cammino verso l’unione con Dio e
verso la carità perfetta, perché, nella
visione e nel contatto col male del
mondo, ci distacca sempre più dalle
cose terrene e ci libera dall’amore naturale delle creature e di noi stesse, perché, nel continuo sacrificio e nel continuo rinnegamento di sé, alimenta in noi
il fuoco della perfetta carità” (1955).
Il lavoro che porta con sé necessariamente il sudore e la fatica è l’occa-
–5–
Educare al senso del lavoro
Come lavorare
menti, e la calma serena anche di fronte ai più gravi inconvenienti e fatiche,
che dovrebbe essere la caratteristica di
un cristiano, sparisce; interviene l’agitazione, l’affanno, la facilità ai turbamenti, allo scoraggiamento o all’eccessivo
compiacimento e godimento del buon
successo. E’ un grosso sbaglio quello di
correre dietro alla quantità del lavoro”(1943).
Non è da tutti rispettare il tempo
di lavoro e dargli un ordine, eppure è la
strada verso l’acquisto della prudenza:
“Il buon uso del tempo è una gran bella
virtù, preziosissima per tutti. Presi
come siamo dal lavoro esterno, siamo
sempre nel pericolo di perdere la saggia
misura nella distribuzione delle nostre
occupazioni: arte e prudenza sono
necessarie per riuscire a far tutto e tutto
bene”(1927).
Troppo lavoro no, neanche sotto
pretesto di ascesi: è un insegnamento
importante oggi per mantenere il contatto con la realtà e reagire alle sollecitazioni di una vita virtuale inculcata
dalle odierne tecnologie: “Uno dei punti
intorno al quale bisogna addestrarsi a
trovare sempre il giusto mezzo è la
quantità del lavoro. Attenta dunque a
saper stare nei limiti, e a non presumere delle proprie forze… occorre difendersi dall’eccesso di lavoro”(1956).
Sapiente è la sottolineatura sul
come lavorare con gli altri quando si ha
una responsabilità e si rischia di incombere su di loro per ottenere un miglior
rendimento: “Facciano il loro compito
con piena libertà e autonomia e responsabilità e il lavoro procederà più svelto,
più ordinato e con meno errori.
Penseranno a rivolgersi alla responsabi-
“L’uomo lavorando deve imitare
Dio, suo Creatore, perché porta in sé egli solo - il singolare elemento della
somiglianza con lui. L’uomo deve imitare Dio sia lavorando come pure riposando, dato che Dio stesso ha voluto
presentargli la propria opera creatrice
sotto la forma del lavoro e del riposo”(n.
25), ammonisce Giovanni Paolo II.
La Tincani sa che se il lavoro deve
aiutare l’uomo a vivere la sua vocazione,
a essere di aiuto ai fratelli, a divenire
partecipe del mistero pasquale, ha bisogno di essere saggiamente regolato. E
qui c’è la sua originalità, la sapiente prudenza a tutti nota.
Essa ritorna spesso sul saper riposare e nell’epistolario ripete l’invito
severo a dormire le giuste ore di sonno,
con energia richiama ai momenti di
distensione; a una sorella particolarmente affaticata scrive: “Col tuo gran
lavoro, di cui non puoi tenere le redini
in mano tu, il buon uso degli intervalli è
cosa preziosa! “(1954).
Il lavoro amato in maniera sbagliata diventa infatti il padrone delle
nostre esistenze:
“Amare troppo il lavoro, godere
del lavoro per il lavoro è la corruzione
dell’ottimo e voi conoscete il detto antico: Corruptio optimi, pessima. …è bene
sentire il sacrificio e le difficoltà per non
buttarci ad esso seguendo la natura”(1936). Così inteso, “il lavoro diventa
il padrone e fa sentire tutto il suo peso;
a poco a poco prende tutto il posto nell’anima: si prende la mente e il ritorno a
Dio nell’orazione non riesce più; si
prende tutta la volontà e tutti i senti-
–6–
Educare al senso del lavoro
le quando sentiranno il bisogno di consultare la sua esperienza, e lo faranno
più frequentemente e più facilmente se
l’autorità non incomberà sempre con
inesorabile immanenza su tutta la loro
attività”(1952).
Le espressioni più felici della
Tincani sulla misura nel lavoro sono a
proposito del suo timore che il troppo
lavoro tolga alla donna, sposa o consacrata, la peculiarità del suo esistere:
“Qualunque professione o ufficio, come
qualunque mestiere o lavoro, che allontani totalmente e sistematicamente la
donna dalla famiglia, impedendole l’adempimento di questo fondamentale
compito nella vita civile, non è un bene
e va contro l’ordine provvidenziale della
società umana”(1934). Nella Laborem
exercens, culmine di una riflessione
secolare della Chiesa sul lavoro della
donna, leggiamo: “La vera promozione
della donna esige che il lavoro sia strutturato in tal modo che essa non debba
pagare la sua promozione con l’abbandono della propria specificità e a danno
della famiglia, nella quale ha come
madre un ruolo insostituibile” (n. 19).
Parlando alle sue Missionarie
dirà: “Non è giusto che i doveri verso lo
Sposo divino siano soffocati tra le molte
ore di lavoro. E’ un diritto e un dovere
poter riposare, come Maria Maddalena,
ai piedi di Gesù. Gesù ha preferito l’otium di Maria, che gli dava tutto il suo
essere, raccolta ai suoi Piedi. Noi, con la
nostra speciale vocazione, siamo sempre in pericolo di calpestare i diritti di
Dio e nostri, sopraffatte, con la più retta
intenzione, dalle attività del nostro apostolato professionale! Siamo quasi tutte
in queste condizioni! Le circostanze ci
vincono, e Gesù può chiederci :’Sei o
non sei la mia Sposa? O sei solo una che
vuole servirmi col lavoro?’Le circostanze sono prepotenti, ed è difficile difendersene!” (1964).
Il lavoro della Missionaria sarà
sempre molto e spesso incalzante.
Condividendo le difficoltà delle sorelle,
la Tincani si domanda: “Ma come accordare la vita interiore con una intensa
attività di lavoro e di studio, quale la
nostra vocazione ci impone”( 1950).
C’è il modo di salvarsi: “Hai bisogno di essere così immersa in Dio che,
quando sei tutta presa dal lavoro, niente ti possa allontanare da Lui e da te
irradi invece la luce della carità cristiana. Bonus odor Christi, motivo vivente
di credibilità!”( 1954).
E quando, a ottant’anni, l’esperienza e la grazia dello Spirito l’avranno
arricchita di sapienza, pur continuando
a lavorare con alacrità, potrà rivelare la
sua libertà interiore: “Solo con la pratica fedele e costante della preghiera
umile e fiduciosa, che accompagni il
nostro operare; solo con la pratica fervente e costante della orazione contemplativa, che mantenga il nostro spirito al
di sopra delle cose terrene, libero dalle
contingenze della vita di ogni giorno,
potremo perdere noi stesse e vivere nella
serena pace dell’anima che è tutta di
Dio” (1970).
CESARINA BROGGI
–7–
Educare al senso del lavoro
Senso del lavoro, senso della vita
è certo un elemento di realizzazione di
sè – in quanto elemento di carriera, specie per la parte femminile; è valutato in
base alla risposta finanziaria; è qualsiasi modo di accrescere le proprie entrate,
e soddisfare cosi meglio le proprie esigenze; quindi, anche modalità discutibili, in teoria (come prostituirsi, per le studentesse universitarie, dicono le statistiche); è valido a questo fine. Certo, Dio
poteva bene pensare meglio il mondo,
piuttosto che affliggerci con queste
necessità – il lavoro, intendo; ma anche
lo strumento che vi si collega, il denaro.
Chi abbia consuetudine con il
magistero, e in particolare con quello
sociale, sa che l’errore parte dall’inizio,
dall’idea che il lavoro sia una attività
inevitabile per campare, ma non intrinseca all’uomo, La lunga storia del lavoro
non facilita la comprensione, sia perché
se ne sbaglia facilmente la lettura, sia,
più semplicemente perché, per più
motivi concorrenti, generazione dopo
generazione, è una storia di sofferenze e
di delusioni. Si è dovuto arrivare, nei
nostri Paesi, all’invenzione comunitaria
europea perché il mondo contadino
uscisse dal tunnel nel quale si trovava da
secoli – per non dire da millenni. Si è
dovuto arrivare ad un ulteriore livello
tecnologico, perché la tendenza, apparentemente inarrestabile, della classe
“operaia” (delle fabbriche) cambiasse, e
altri settori del mondo del lavoro (es.
l’informatica e telematica) avanzassero
prepotentemente.
A questo punto viene il difficile,
sia a livello di comprensione, sia a livello di accettazione. I due aspetti vanno
E’ antica tradizione, anche
pedagogica, che lavoro sia l’attività che
dà luogo a compenso, gioco, quella gratuita. Sarebbe divertente enumerare i
casi nei quali questa interpretazione dà
luogo a effetti quanto meno curiosi: i
giocatori, pagati, e come! O il fine settimana così impegnativo, tra i propri
hobby e i viaggi fuori città, e così via. Per
non parlare della alternativa fra l’andare
bene a scuola e l’andare a lavorare –
fatto ormai quasi solo di valore storico.
Ma forse è meglio richiamare l’attenzione sul fatto che, in questa interpretazione, il lavoro è semplicemente un male, e
stare bene equivale a non dovere fare
nulla, passare la giornata in ozio, con
espressione moderna, essere liberi, volersi bene, ecc.; il che, è certo il modo di
sentire dei più; quindi, può essere interessante considerare quanto, in questa
impostazione, la vita del “buon selvaggio”, magari nella foresta amazzonica,
sia vista un po’ come quella dei progenitori nel Paradiso terrestre; qualcuno
direbbe: era il primo campo
nudista…l’antenato dei concerti rock…
Però…, sempre nel sentire contemporaneo, una vita incompleta, perché non le
si accompagnava la disponibilità di tutti
i beni, prima di tutto tecnologici, raggiunti dalla società attuale, dei quali,
come fare a meno? L’auto, il telefono,l’ipod,il video,il computer, Internet, i luoghi di intrattenimento, il tabacco, gli
alcolici…
Trovare un lavoro, per le nuove
generazioni, si identifica sempre più
come l’unico mezzo per soddisfare queste esigenze – viaggi compresi; il lavoro
–8–
Educare al senso del lavoro
insieme.
Come è noto ( si fa per dire), il
Cristianesimo incentra la sua attenzione su una persona, che fa da realizzazione visibile ad una Persona, così che
ogni uomo possa riconoscersi e realizzarsi come persona. Certo, tutto questo
si traduce in concetti, in contenuti, in
progetti; ma è prima di tutto, potremmo
dire, osservazione, apprendimento,
ripetizione. Come il bambino impara a
leggere, scrivere, a comportarsi per imitazione, così il “cristiano” impara a vivere, valutare, decidere, realizzare, per
imitazione del Cristo; che, in quanto
“Dio fatto uomo”, è il “metro” dello stesso essere dell’uomo, che è appunto
“fatto a immagine e somiglianza di
Dio”.
Ora, è evidente che tutta la vita
del Cristo è stata “servizio”; d’altra
parte, anche la creazione lo è stata.
Cristo ha lavorato, per di più in un’azienda familiare; nella quale, è da supporre, tutto il guadagno era messo in
comune; poi, ha cambiato lavoro, e si è
messo interamente al servizio – degli
altri.
Perché anche la seconda parte
della sua vita è “lavoro”. Quindi, lavoro
non è una attività pagata; non è incentrata su di sé; non è mezzo per fare carriera. E’ attuazione di sè, sì ma come
vocazione, come mezzo di contribuire
al bene di tutti, in possibile reciprocità.
Il monachesimo occidentale, sviluppando queste idee, ha realizzato tutta la storia che sappiamo, e questa, a sua volta,
ha “contagiato” costantemente la
società di ogni tempo. Il monaco non
smette di realizzare le proprie caratteristiche; ma rinuncia preliminarmente
alla dimensione individualistica:la
rinuncia, consente poi la fruizione,
nello scambio reciproco. Un concetto
così forte, ma, insieme, così operativo,
da stare alla base della fondazione del
sistema comunitario di Schuman, De
Gasperi, Adenauer...E, che funzioni, è
impossibile negarlo.
Ecco perché, accanto alla fatica
di capire questi concetti, sta la fatica
maggiore di condividerli; non in sé –
finchè lo fanno altri…; ma ponendosi in
questa prospettiva. Si badi: questa
impostazione non esclude il pagamento
di un lavoro effettuato; ne sposta semplicemente i termini. “L’operaio è degno
della sua mercede” è un imperativo per
chi ha commissionato il lavoro; sta a lui
dare il giusto, e, se vuole, di più. Fino a
scoprire ( da Francesco di Assisi a
Candia) che, non solo dare è meglio che
ricevere, ma che il massimo della soddisfazione, nel lavoro – salvo il fatto…che
dobbiamo campare – è nel lavorare
senza nulla chiedere.
G. Marcel – così poco letto, purtroppo – ha distinto, una volta per tutte
(e questo concetto è arrivato ai documenti pontifici), fra “essere” e “avere”.
L’essere rende veri, l’avere oggettiva,
disumanizza. L’avere, predicato come
obiettivo, ostacola inevitabilmente la
nostra possibilità di capire il senso del
lavoro. Come fare, allora, per avviare le
nuove generazioni all’essere, liberandole
dalla catena dell’avere? Ardua domanda,
alla quale si potrebbe rispondere che, al
momento, non c’è una via. Perfino i
seminaristi vanno in seminario in automobile. Non si vuole più essere diversi;
si vogliono fare “ le cose che fanno
–9–
Educare al senso del lavoro
tutti”. Il fatto è che tutte le “agenzie” di
formazione, su questo argomento sono
un po’ assenti. La scuola, la famiglia, gli
amici,i mezzi di comunicazione,le stesse associazioni e oratori… Tante belle
parole, tanta retorica. Ma, chi parla
veramente del senso del lavoro? Si parlerà di situazione economica e finanziaria, si finirà nella politica/partitica, bene
che vada. Poi, ognuno per la sua strada.
Ah, ecco perché Francesco lasciò a suo
padre tutto, vestiti compresi… Ecco
perché G.Bersani ha ripetuto tante
volte: “Bisogna lasciarci un pezzo della
propria pelle”. Eppure, una via dovremo trovarla; perché il senso del lavoro
dà il senso alla vita.
G. VENTURI
“Non è da tutti rispettare il tempo di lavoro e dargli un ordine,
eppure è la strada verso l’acquisto della prudenza:
il buon uso del tempo è una gran bella virtù, preziosissima
per tutti. Presi come siamo dal lavoro esterno, siamo sempre
nel pericolo di perdere la saggia misura nella distribuzione
delle nostre occupazioni: arte e prudenza sono necessarie
per riuscire a far tutto e tutto bene.
Troppo lavoro no, neanche sotto pretesto di ascesi:
è un insegnamento importante oggi per mantenere
il contatto con la realtà e reagire alle sollecitazioni
di una vita virtuale inculcata dalle odierne tecnologie:
uno dei punti intorno al quale bisogna addestrarsi a
trovare sempre il giusto mezzo è la quantità del lavoro.
Attenta dunque a saper stare nei limiti,
e a non presumere delle proprie forze...
occorre difendersi dall’eccesso di lavoro”
L. Tincani (1956)
– 10 –
Voci dalla Missione
Chi manderò e chi andrà per me (Dal libro del profeta Isaia)
In molti paesi del mondo si
parla oggi di “crisi di vocazioni”.
Dobbiamo ricordarci, però, che ogni
vocazione è opera di Dio; la Madre
Tincani diceva che solo Dio può portar
via dal mondo un’anima per farla essere tutta sua (30 agosto 1975). Come ha
detto qualcun altro, Lui chiama sempre e non è mai in crisi; noi, uomini
invece, possiamo essere in crisi con le
nostre risposte, con gli ostacoli che
creiamo nella vita nostra o degli altri.
Ma dove sono oggi i giovani
desiderosi di servire il Signore Dio con
il cuore indiviso? Sono convinta che ci
siano, anche se non molto “visibili”.
Ed è un segno dei tempi che molti di
loro usino Internet anche nella ricerca
della propria vocazione.
Proprio
“navigando”
in
Internet ho trovato un sito in lingua
polacca chiamato: Barca – aiuto vocazionale. Che barca? Quella del canto
vocazionale tanto amato da Giovanni
Paolo II. Il sito è stato creato due anni
e mezzo fa da alcuni giovani laici. Una
delle pioniere così ne ha presentato la
nascita: Praticamente tutti siamo in
tempo di discernimento vocazionale e
sappiamo che chi si trova in questa
condizione ha molto bisogno di preghiera, di cui ben conosciamo la forza.
Perciò abbiamo deciso di unire i nostri
desideri e di pregare gli uni per gli altri.
Ogni giorno ci ricordiamo a vicenda
con una decina di Rosario, pregando
anche per gli altri giovani, nel tempo
difficile del discernimento. Ogni prima
domenica del mese partecipiamo alla
Messa per la nostra “comunità”, per
quelli che sono in ricerca e perchè le
vocazioni sacerdotali e religiose siano
numerose e sante; ci confessiamo almeno una volta al mese. Vorremmo anche
aiutarci vicendevolmente nel discernimento vocazionale.
In vista di questo eventuale
aiuto, è sorto il forum di “Barca” che
offre la possibilità di discutere in pubblico su vari temi legati soprattutto,
ma non solo, al discernimento vocazionale. In questo periodo di due anni
e mezzo vi si sono registrate mille persone (non poche solo di passaggio), tra
le quali alcuni consacrati (inclusa la
sottoscritta). Il forum è – in breve –
uno spazio di scambio di informazioni, domande, proposte, avvisi di attività vocazionali, di presentazioni di
varie forme di consacrazione, di congregazioni religiose, di testimonianze
(sia positive, sia negative).
Cosa emerge da queste discussioni? Anzitutto una grande sete di Dio
e un grande bisogno di autenticità.
Secondo quei giovani, i chiamati
dovrebbero condividere maggiormente con gli altri la bellezza del dono
ricevuto da Dio. Una ragazza ha scritto: Se mi ricordo bene, nei tre anni nella
pastorale scolastica... e nei due anni
della pastorale universitaria ho sentito
poco (per non dire: niente) delle vocazioni. Della chiamata alla santità – si’.
Ma non di strade concrete. Come posso
pensare che un sentiero verso la santità
sia apprezzabile, se i chiamati a perseguirlo ne tacciono?
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Voci dalla Missione
Nelle ultime settimane è stata
arricchente la discussione su come
dovrebbe essere una religiosa del XXI
secolo. Le risposte sono state molte;
eccone alcune:
Simile a Cristo: umile, povera,
pronta a salvare le anime a tutti i
costi...
sempre
innamorata
del
Signore...
autentica, convincente... un
esempio per noi, come una mano tesa
di aiuto, un mezzo abile nelle mani di
Dio.
Dovrebbe... ma d’altra parte
[sappiamo] che non esistono uomini
perfetti, che anche una suora è un essere umano, con le sue virtù e i suoi difetti...
La suora è semplicemente una
mamma che vive una maternità spirituale, e che, quindi, dovrebbe essere
come tutte le mamme. E ognuno sa
come esse sono.
Una buona religiosa, un buon
religioso sono coloro che sono fedeli a
Cristo. Tutto sta qui.
I ragazzi del forum si interrogano anche sulla loro responsabilità
personale su questo tema. Uno ha
scritto: Ho pensato che abbiamo le
suore “che ci meritiamo”; la stessa cosa
per i preti... Forse dobbiamo cambiare
noi. Forse non preghiamo abbastanza
per le vocazioni. Ognuno risponda nel
proprio cuore..., e una ragazza ha
aggiunto: È importante pregare tanto
per le vocazioni sacerdotali e religiose,
p.es. nella nostra chiesa non si prega
quasi mai... È anche importante come
preghiamo... Preghiamo: “Manda loro”
o “Manda noi”? Perchè se ognuno
prega: “Manda loro”... – rispondetevi da
soli. Qualcun altro ha sospirato: Che
non succeda mai che le case religiose si
svuotino; sarebbe una grande tragedia
per il mondo intero. Ma lo Spirito Santo
agisce...
Perciò alcuni di “Barca” si
stanno veramente impegnando a pregare. Secondo me questo è uno degli
aspetti più belli del sito. In questo
momento sono 40 le persone impegnate nella pratica del rosario vivente per
le vocazioni. Altri offrono un giorno di
preghiera a turno per i sacerdoti e per
le suore in crisi.
Ed infine nel forum di “Barca”
appaiono saluti e ringraziamenti di chi
si è deciso a lasciare tutto per il
Signore. Mi ha commosso una volta lo
scambio di saluti da parte di due giovani che si sono conosciuti on line,
tutti e due decisi per i domenicani: ci
incontreremo in quel convento. Sono i
nostri futuri fratelli.
È vero: una persona nascosta
dietro uno pseudonimo può scrivere
qualunque cosa, vera o lontanissima
dalla verità. Non conosco quei giovani,
perchè non li ho mai incontrati di persona. Ma sono in contatto personale
con altri che cercano di discernere la
volontà di Dio per la loro vita. Sono
veramente decisi di compierla, qualunque essa sia, ma chiedono al
Signore la luce dello Spirito e agli altri
un aiuto per la realizzazione delle loro
scelte. Perchè il clima culturale e spirituale dominante nel mondo di oggi
non li aiuta nè a decidersi per sempre,
nè a perseverare. Per giunta i progetti
delle scelte fatte per Dio incontrano
non raramente un’opposizione forte
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Voci dalla Missione
nelle famiglie. Specie se si parla di vita
religiosa.
Aumenta il numero dei giovani
che hanno incontrato, nella famiglia o
nel loro ambiente, persone divorziate,
risposate, o spretate... Alcuni di loro
nella vita religiosa o matrimoniale si
arrendono alla vista delle difficoltà e
ripetono gli errori degli altri.
Che cosa dobbiamo fare noi nel
campo vocazionale? Prima di tutto
vivere in pienezza la nostra vita cristiana, in conformità con le scelte iniziali:
vivere da veri consacrati, sposati o
sacerdoti.
Vivere ogni
giorno e fino
alla
morte
con perseveranza gioiosa
perchè solo
essa
porta
frutti buoni,
maturi
e
nutrienti per
noi e per gli altri.
È Dio che chiama..., perciò la
Chiesa ci invita continuamente a pregare per le vocazioni. Come rispondiamo a questo appello?
Preghiamo di cuore per chiedere a Dio di mandare nuovi, buoni
operai nella sua messe. Ricordiamoci,
nella preghiera, dei chiamati che cercano la volontà di Dio, delle loro famiglie di provenienza e dei direttori spirituali. E infine chiediamo, per noi e
per gli altri, la perseveranza fino alla
morte
per
perseguire
nella strada
scelta.
Vocazione al bivio: quale scelta?
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SABINA
MARCZAK
Missionaria
dellaScuola
(Cracovia,
Polonia)
Voci dalla Missione
Dall’Oriente un richiamo senza fine...
Da sempre l’Oriente ha esercitato un forte fascino su quanti lo hanno
visitato, fascino al quale è difficile sottrarsi.
Ma quando a toccare quelle
terre lontane sono i missionari, coloro
cioè che vi si dirigono non come meta
turistica ma perchè spinti dallo spirito
e dalla forza del Vangelo – “andate,
ammaestrate, portate la buona novella...“(cfr. Mt 28,19-20; Mc 16,15) – allora quel richiamo diventa una passione
irresistibile, quasi una forza sovrumana che dà il coraggio di osare anche l’umanamente impossibile.
In una di quelle suggestive
zone, nel PAKISTAN – come i nostri lettori abituali sanno - è presente e opera
la nostra Famiglia religiosa fin dal lontano 1948; vi giunse, dopo un lungo
periglioso viaggio per mare, con il
primo drappello guidato dalla coraggiosa missionaria siciliana Carmelina
Giambusso, da noi sempre considerata
la fondatrice della nostra missione in
Oriente. A lei la Madre Tincani aveva
affiancato alcune missionarie indiane
della prima ora le quali, dopo aver percorso regolare corso di studi nella
Università di Roma “La Sapienza” conseguendovi lauree in Medicina, Scienze
Naturali,
Lettere,
Matematica,
Filosofia, erano ritornate come pioniere non più nella loro patria d’origine,
l’India, ma nel vicino Pakistan, proprio
nel momento storico in cui avveniva la
Primi anni della fondazione in Pakistan: a sinistra, in primo piano, la missionaria animatrice
Carmelina Giambusso
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Voci dalla Missione
Benedetta D’Souza, novantaquattrenne, unica superstite del generoso gruppo di indiane della prima
ora, viene spesso attorniata da grandi e piccoli, perché è simbolo di una donazione di sé che non ha
conosciuto limiti.
scissione politica tra i due Stati.
Le circostanze del momento
imposero loro una non facile opzione –
cittadinanza pakistana o indiana - che
tutte seppero effettuare con scelta eroica, alla quale mantennero fede fino alla
fine della loro esistenza. Anche il loro
corpo riposa là dove per decenni hanno
speso la vita, offrendo con generosità
forze fisiche, capacità intellettuali,
competenza, spirito di sacrificio e gioia
del cuore.
Di tutte loro sopravvive oggi la
sola Benedetta D’Souza, sorella di grande spiritualità e cultura, per lunghi
anni Preside e animatrice instancabile
di scuole affollate da studenti cristiani e
musulmani, molti dei quali passati poi
a ricoprire posti di primo piano nelle
cariche pubbliche e nella guida sociale
e politica del loro Paese, avvalendosi
anche della formazione e dei valori
ricevuti nelle nostre scuole. La maggior
parte di loro ha dimostrato negli anni
grande rispetto e gratitudine verso le
Sisters.
Lungo i sessant’anni decorsi, le
Missionarie della Scuola – pakistane,
indiane, italiane, ungheresi - si sono
avvicendate nella direzione delle varie
scuole e nell’insegnamento, avendo
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Voci dalla Missione
sempre a cuore la formazione integrale della persona degli allievi, senza
discriminazione tra cristiani e non cristiani, e con costante attenzione anche
alla formazione delle insegnanti, affinchè a loro volta queste potessero poi
tenere in alta considerazione la propria
formazione umana, morale, professionale e, sempre, la formazione completa dell’alunno, con grande rispetto
per la dignità del singolo.
Aspetti, questi, non sempre
ovvi e scontati in tutte le culture.
E l’Oriente esercita ancora oggi
il suo richiamo incessante: le missionarie sollecitano interscambio, comunicazione con il mondo vicino e lontano
e comunione con il centro della nostra
Congregazione, che si trova in Roma.
Da alcuni mesi la nostra
Superiora generale in carica – Livia
Violoni – aspettava il momento propizio per poter effettuare il suo ennesimo
viaggio in Pakistan per essere vicina
alle sorelle, conoscere, consigliare,
ascoltare, programmare. Ma la situazione socio-politica in atto in quella
parte del globo sconsigliava ogni tentativo di viaggio. Tuttavia, non appena le
nubi fosche si sono alquanto diradate,
lei ha preso il coraggio con ambo le
mani e si è alzata in volo verso il
Pakistan, fidando soltanto nella
Provvidenza che non è venuta meno.
Ha trascorso colà un mese,
includendovi la Settimana Santa e la
Pasqua, spostandosi continuamente
dall’una all’altra delle sei comunità di
nostre sorelle ivi operanti, ascoltando e
partecipando alla vita e alle problema-
In India il numero degli alunni non si conta: quando Celestine (a Eluru) esce di casa, sa che si
troverà davanti un mare di testine attente e occhi puntati su di lei...
– 16 –
Voci dalla Missione
La Superiora Generale, Livia Violoni, con un gruppo di Missionarie a Karachi (Pak.)
tiche, prendendo visione delle opere
ampliate, facendo più diretta conoscenza delle giovani in formazione, incoraggiando le missionarie più anziane che
portano avanti con coraggio e sacrificio
la vita interna delle comunità e quella
delle scuole e delle altre attività apostoliche esterne. E’ stato un intenso scambio da cuore a cuore, da anima ad
anima, per far sì che il carisma resti
sempre vivo e operante, secondo le
finalità e le modalità volute dalla nostra
Fondatrice Luigia Tincani, pur nell’adeguamento ai tempi.
le problematiche che il mese trascorso
in Pakistan vi ha fatto sedimentare dentro.
La preghiera aiuterà ora a sciogliere gli eventuali nodi e a programmare con serenità il futuro, sempre con
occhio attento ai segni dei tempi che
indicano la rotta della volontà di Dio.
A nome di tutta la nostra
Congregazione, operante in Europa e
in Asia, Le diciamo il nostro più vivo
grazie per quanto fa per la nostra
Famiglia religiosa e per tutti i faticosi
itinerari ai quali si dedica con vera
gioia missionaria.
La Superiora generale ha fatto
ritorno a Roma il 14 Aprile, in pieno
clima pasquale, portandosi nel cuore le
parole, i colori, i volti, le gioie, le ansie,
N. JORIO
– 17 –
Vita di famiglia
Anna Cappella: una vita dedicata alla promozione della vita.
All’alba del 20 Aprile 2009, nella
pienezza della liturgia pasquale da lei
sempre intensamente amata, è ritornata
alla casa del Padre la nostra consorella
Anna Cappella, Missionaria della
Scuola dal 1949. Ha trascorso gli ultimi
due anni della sua vita nella nostra
comunità di Firenze, amorosamente
assistita dalle consorelle e da personale
esterno di fiducia.
Era nata a Fara Sabina (Rieti) il 12
Agosto 1924.
Non è facile sintetizzare la sua
personalità e il vasto ventaglio operativo
della sua non breve esistenza.
Giunse giovanissima (poco più
che ventenne) nel noviziato delle
Missionarie della Scuola, visibilmente
ferita da profondi dolori provocati dalla
seconda guerra mondiale, che le aveva
strappato gli affetti più cari, provata
nello spirito e nel fisico, come un fiore
flagellato da una violenta bufera. Ma,
come sul fiore umiliato ha la meglio il
primo squarcio di cielo sereno con il
primo raggio di sole, così su Anna ebbe
ben presto il sopravvento l’atmosfera di
serenità, di affetto che l’accolse nel
nostro convento S. Domenico di
Gubbio. Si sprofondava spesso nella
preghiera, quasi rifugiandovisi, e si
capiva che andava dolcemente raccogliendo le fila per tessere una nuova
trama di vita nel presente e per il futuro. Amabile nei modi e nella parola, fu
subito da tutti amata: di giorno in giorno, con decisione e senza lasciarsi tradire dalle difficoltà iniziali, andava recu-
perando la piena serenità della mente e
del cuore, al quale aveva dato ormai un
oggetto d’amore totalmente nuovo.
Amore che fu sempre davvero totale,
fino alla fine della vita, e che ha poi permeato del suo sapore e colore tutta la
spiritualità di Anna e la sua intensa attività professionale e missionaria.
Non a caso Anna rinunciò alla
Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università di Roma “La Sapienza”,
alla quale era iscritta, per passare alla
Facoltà di Medicina e Chirurgia: riteneva che per questa strada potesse vedere
più facilmente spalancate davanti a sé le
vie che l’avrebbero guidata là dove il
cuore la chiamava: i più poveri, i più
bisognosi, spesso i più soli; e poiché tra
i soli e sofferenti volle privilegiare la
vita, soprattuttto dei più piccoli e indifesi, delle mamme e delle coppie in difficoltà, scelse la specializzazione in
Giovanni Paolo II stimava Anna Cappella,
la ascoltava, la consigliava, la incoraggiava ...
– 18 –
Vita di famiglia
Ostetricia e Ginecologia. Si laureò alla
“Sapienza” nel 1952, con il massimo
dei voti e si dedicò immediatamente
alla specializzazione in Ostetricia e
Ginecologia, presso la Università “La
Sapienza” prima, poi in USA, avendo
ottenuto un posto come residente in
Ostetricia e Ginecologia presso il St.
Francis Hospital ad HARTFORD
(Connecticut).
Qui seguì un intenso tirocinio,
essendole stato subito affidato molto
lavoro in ospedale, che le richiedeva il
massimo di applicazione teorica e pratica, con risultati ottimali sia a livello di
acquisizione di competenza professionale, sia per quanto concerneva il rapporto con pazienti, coppie, famiglie.
Non fu, questo, periodo facile
per la nostra Anna, che peraltro ancora
non aveva una spedita conoscenza della
lingua, ma il suo temperamento di studiosa molto seria, e attenta agli altri, la
mise presto in condizione di superare
ogni difficoltà e di poter governare e
offrire, con semplicità e disponibilità
totale, la propria ormai acquisita professionalità e la ricca dolce umanità.
Continuava a studiare, per
poter stare al passo, ma anche si raccoglieva spesso in preghiera nella
Cappella dell’ospedale, per attingere la
forza e il coraggio di cui sentiva bisogno per andare avanti con dedizione
totale. Da Roma la Madre Tincani,
Fondatrice della Congregazione cui
Anna apparteneva, la seguiva e l’accompagnava con lettere frequenti, piene di
stima attenzione affetto consigli, ben
sapendo (poiché Anna nulla le taceva
della sua esperienza colà) che la quotidianità di quella sua giovane missionaria non era esente da prove interne ed
esterne alla professione medica, non
ultimi i pregiudizi verso una professionista donna, e per giunta straniera; e
assai spesso la concorrenza nel lavoro.
La dolcezza del tratto e la competenza che andava sempre più acquisendo l’aiutarono a superare anche
situazioni complesse.
Altro tirocinio per lei importante fu quello svolto a Boston presso il
St’Elizabeth Hospital, sebbene sia stata
poi costretta a interromperlo per motivi di salute.
Anna discusse brillantemente la
tesi in specializzazione presso “La
Sapienza” di Roma con il prof.
Cattaneo.
Nel Gennaio 1960 ritornò ancora in USA, dove incominciò l’anno di
internato al Mary Immaculate Hospital
di New York; sostenne gli esami di
Stato per il Post graduale Course al
New York Poly Clinic e nel 1963 fu resi-
... e la esortava a proseguire nel suo impegno
per difendere la vita dei nascituri e l’unione
della coppia e della famiglia.
– 19 –
Vita di famiglia
dente in medicina al Carney Hospital di
Boston Mass.
Nel 1964, dopo un’esperienza di
assistentato
presso
l’Università
Cattolica del S. Cuore in Roma, partì
nuovamente alla volta di New York
dove lavorò un anno come medico
ginecologo presso il Mary Immaculate
Hospital.
Nel luglio 1965 otteneva la cittadinanza americana.
Sul cuore di Anna, che aveva
scelto la medicina per mettersi a servizio dei più poveri, fece subito breccia
l’invito del Vescovo di Multan
(Pakistan), S. Ecc. Mons. Benedetto
Cialeo O.P., che la invitava come medico missionario nel St. Dominic’s
Hospital di Bahawalpur e partì con
grande slancio per il Pakistan nel
Maggio 1972, sempre con il pieno
appoggio della Madre Tincani.
Furono anni di intenso lavoro e
di profonda passione del cuore, che
Anna visse in tutta la sua capacità di
offerta e, spesso, anche di “riparazione”
per quanto le accadeva intorno; mentre
contemplava quasi estasiata, cullata nel
palmo delle sue mani, la fragile bellezza di un bimbo che lei stessa aveva
appena aiutato a venire al mondo, non
dimenticava, per contrasto, i tanti nonnati ai quali la vita veniva negata, quasi
sbattendo loro la porta in faccia.
Una vita dedicata alla promozione della vita: sì, questo è stata Anna
Cappella.
In Pakistan ebbe la fortuna di
conoscere da vicino i coniugi John ed
Evelyn Billings, di passaggio da
Karachi, e da allora la vita di questa
Ci fu un’affettuosa intesa tra Anna Cappella e Madre Teresa di Calcutta,
che aveva chiesto ad Anna di erudire le sue missionarie sul metodo Billings.
– 20 –
Vita di famiglia
25 Novembre 2005, aula “Vito” del Policlinico Gemelli di Roma: i coniugi John ed Evelin Billings
gioiscono con Anna Cappella per la targa a lei attribuita in riconoscimento dell’intensa opera svolta per la diffusione del metodo sulla Regolazione naturale delle nascite e per la difesa della famiglia.
stesso anno veniva contattata dal prof.
Adriano Bompiani e da Mons. Elio
Sgreccia, dell’Università Cattolica in
Roma, i quali la proponevano come
direttrice del nascente Consultorio
Familiare della stessa Università; Anna
accettò e attivò al massimo la competenza acquisita per insegnare e diffondere il metodo dell’ovulazione Billings.
Immediatamente raccolse e formò
attorno a sé una valida schiera di giovani medici e collaboratori, in prevalenza donne, i quali si fecero carico di
approfondire e diffondere il metodo.
L’insegnamento della dott.
Cappella si amplia, si diffonde, riscuote
consenso e nel 1980 nasce nella
Cattolica un “Centro Studi e Ricerche
per la regolazione naturale della fertilità”; la dott. Cappella ne viene nomi-
giovane dolce dottoressa, fragile all’apparenza ma decisa e coraggiosa, prese
un orientamento dal quale non osò mai
minimamente deviare.
E senza indugi nel 1974 dal
Pakistan volò a Sidney, in Australia, per
seguire un corso di formazione sulla
Regolazione naturale delle nascite,
metodo che dai coniugi Billings aveva
preso vita e impostazione scientifica e
che Anna fece subito totalmente suo,
quasi come sua creatura.
Si deve certamente moltissimo a lei se il
metodo venne diffuso e fatto conoscere
in Asia, Africa, Europa, particolarmente in Italia. I coniugi Billings ebbero in
lei, oltre che una vera amica, una intelligente instancabile collaboratrice.
Nel 1975 Anna rientrava definitivamente in Italia e nell’agosto dello
– 21 –
Vita di famiglia
nata direttore, con la collaborazione di
tutta la équipe da lei formata.
Nel 1980 viene invitata a partecipare al Sinodo dei Vescovi, che si svolge a Roma sul tema: “La famiglia: educazione all’amore e alla vita”.
Giovanni Paolo II aveva avuto
modo di conoscere bene Anna Cappella,
ne stimava la capacità professionale e la
passione missionaria e le era molto
grato per l’amore e il coraggio di cui
dava prova in tutta la sua azione, senza
timore di rischiare l’impopolarità;
soprattutto la ringraziava, nei frequenti
incontri, per lo studio e lo zelo con cui
si era impegnata nella difesa della vita
umana e per averne saputo rilevare
sempre, con chiarezza, i principi fondanti sul piano biologico come sul
piano morale. La trattava come una
figlia – “la mia Anna”, le diceva – da cui
venivano a lui luce e conforto.
Volle il di lei esplicito parere e
consiglio per l’istituendo “Istituto per
la Famiglia Giovanni Paolo II” (1983)
e la volle poi docente nell’Istituto stesso,
dove Anna collaborò con l’attuale
Arcivescovo di Bologna, Card. Carlo
Caffarra.
Nel Marzo 1991 Giovanni Paolo
II nominò Anna Cappella Membro del
Pontificio Consiglio della Pastorale per
gli Operatori Sanitari. Fu da lui ricevuta molto spesso in udienza, sia in privato, sia insieme ai partecipanti ai corsi e
congressi internazionali che Anna organizzava di frequente, sempre con il decisivo contributo della sua affezionata
équipe del “Centro Studi di Ricerche”
della Cattolica. Si preoccupava di preparare e formare mediatori capaci e
convinti, che potessero poi, a loro volta,
impegnarsi nell’insegnamento e nella
divulgazione del Metodo Billings sempre più a vasto raggio.
Anna Cappella in festa con i coniugi Billings e con tutta la sua équipe del Policlinico Gemelli
– 22 –
Vita di famiglia
Anna con i coniugi Billings e due segretarie all’ingresso del Centro Universitario “Regina Mundi”
di Roma, dove mise radice la sua prima ispirazione a consacrarsi missionaria.
Non senza motivo la stessa dott.
Evelyn Billings, in una intervista rilasciata al giornalista Angelo Montonati
nel 1998, definiva Anna Cappella una
collaboratrice davvero meravigliosa e
aggiungeva:
“Fin dal nostro primo incontro –
in Pakistan – la vedemmo particolarmente interessata alla filosofia della pianificazione naturale delle nascite: in
effetti, si era subito resa conto che si
trattava soprattutto di un messaggio di
attenzione e d’amore per le famiglie.
Anna ha svolto in questi anni uno
straordinario lavoro, insegnando il
metodo ai missionari e alle missionarie
che passavano da Roma e organizzando
conferenze e convegni per l’Africa,
l’Europa, e insegnando in varie parti del
mondo. Inoltre ha dato vita a concreti
programmi d’insegnamento in tutta
Italia, riunendo intorno a sé un gruppo
validissimo di donne motivate e altamente qualificate per quanto riguarda
la filosofia del metodo e fedeli all’insegnamento della Chiesa”.
Il 25 Novembre 2005, nell’aula
VITO del Policlinico Agostino Gemelli
della Cattolica di Roma, per le mani di
Mons. Elio Sgreccia, già ordinario di
Bioetica alla Cattolica e Presidente della
– 23 –
Vita di famiglia
Pontificia Accademia per la Vita, veniva
conferita ad Anna Cappella una targa,
quale premio alla carriera; nella laudatio, tenuta dallo stesso Ms. Prof.
Sgreccia, era detto testualmente:
“Nel 1980 nasce il Centro
Studi e Ricerche per la regolazione
naturale della fertilità come struttura autonoma in seguito all’ampliamento dell’attività del servizio di
insegnamento dei metodi naturali e
la dottoressa Cappella ne è nominata
direttore. Un vero dono per la
Cattolica. La dottoressa Cappella ha
portato avanti un centro, una scuola
e un insegnamento scientificamente
curato con scrupolo, che voleva
abbracciare non solo una tecnica, ma
tutta la visione dell’uomo, della
donna, del matrimonio ispirato alla
promozione della dignità della persona umana”.
Presenti alla cerimonia erano
anche i coniugi Billings, ormai amici
intimi di Anna Cappella, ai quali nel
giorno precedente era stata conferita la
laurea honoris causa dalla Università
statale “Tor Vergata” di Roma, quale
riconoscimento al valore del metodo da
loro scoperto e messo a disposizione
dell’intera umanità.
Dopo questa cerimonia ufficiale
Anna Cappella non è più apparsa in
pubblico, fatta eccezione per una fugace comparsa in Vaticano, allo scopo di
rendere una visita di cortesia al neo
Cardinale Carlo Caffarra, da poco eletto
Arcivescovo metropolita di Bologna. Fu
un commosso incontro da ambedue le
parti, nel ricordo della intensa collabo-
razione negli anni di comune dedizione
al “Pontificio Istituto per la Famiglia
Giovanni Paolo II”.
Sono seguiti alcuni anni di vita
ritirata, raccolta, di preghiera, spesso
anche di sofferenza, sempre confortata
dalla comunità in cui viveva e sempre
nella chiara coscienza della sua vita
consacrata a Dio e del lavoro compiuto
sempre con grande gioia e dedizione,
quasi custodita dal suo camice bianco.
La visione, anche fugace, di
camici bianchi, di corsie di ospedali, di
primi piani di neonati – anche soltanto
sul monitor TV o su qualche rivista – era
sufficiente per far scattare in lei un
effetto emotivo che la ringiovaniva
all’improvviso e la rendeva capace di
comunicare e partecipare la sua gioia.
I telegrammi e la partecipazione a noi giunti per la sua scomparsa,
dalla
Università
Cattolica,
da
Istituzioni e da privati, la presenza
commossa e partecipe ai funerali della
sua équipe del “Gemelli” di Roma ci
dicono – se ce ne fosse bisogno – che la
nostra Anna ha lavorato, sì, nel silenzio, non sotto i riflettori, ma non ha
lavorato invano né per compiacere se
stessa.
Addio, Anna da tutti noi, e grazie per quello che hai fatto e per quello che sei stata!
N.J.
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Vita di famiglia
Notizie in breve
In arrivo dal Pakistan
Il 17 Aprile 2009 in Pakistan, presso l’Istituto
Superiore “Notre Dame” di Karachi, le nostre
juniores SOSAN SARDAR, SUMERA INAYAT
e KANEEZ YOUSAF hanno partecipato alla
solenne cerimonia accademica durante la
quale sono stati loro consegnati i certificati
che attestano la felice conclusione dei rispettivi corsi di studi:
certificato di BACHELOR of EDUCATION (BED), dall’Università di Karachi, e
INTERNATIONAL GRADUATE CERTIFICA- All’Istituto”Notre Dame” di Karachi con il
che attesta la felice conclusione
TE of EDUCATION, dall’Università Cattolica diploma
dei due corsi di studio.
dell’Australia.
Conclusi i loro studi, le tre sono ora giunte a Roma, al Centro di Formazione
della nostra Congregazione, per l’ultima fase formativa che le accompagnerà alla
Professione Perpetua, che emetteranno nel 2010.
In partenza verso l’India
Un volo aereo in senso
inverso – diretto in India –
hanno preso invece le nostre
due giovani MAXI BORGES e
PRAMILA RODRIGUES che il
10 Maggio 2009, terminata la
loro ultima formazione, hanno
emesso i Voti Perpetui e ora
sono ritornate in patria per
entrare nel pieno della nostra
missione.
A tutte auguri affettuosi
e l’assicurazione della preghiera e di tutta la nostra fraternità.
LA REDAZIONE
Davanti all’altare Pramila e Maxi rispondono
alle domande della superiora generale
– 25 –
Eventi
L’anno paolino con Luigia Tincani
Da tutta la dottrina spirituale di Madre
Tincani emerge la robustezza di fede,
speranza e carità tipica di San Paolo,
molto amato da lei come dalla sua maestra Caterina da Siena. In una lettera
invita una sorella ad assumere un
atteggiamento profondo e totale dell’anima, in cui
“cercare di stabilire la mente e il
cuore, tutto l’essere nostro. Questo
atteggiamento potrebbe essere la
conformità assoluta, senza condizioni, di tutte noi con l’Anima di
Gesù, o meglio la sostituzione in
noi del suo cuore al nostro, il nostro
annientamento in Cristo. Ed è infine il programma paolino della vita
cristiana” (1941).
Con Paolo definisce la vita cristiana
come amicizia, intimità con Gesù che
viene a noi e ci trasforma:
“ Il mistero più divino sta nel fatto
di questa unione intima e reale stabilita fra la creatura e il Creatore, in
questa discesa di Dio nell’anima, in
questo divenire l’anima sposa del
Figlio di Dio, in questo trasumanar
che non si può significar per verba1
e che non è infine se non l’attuazione massima della vita cristiana la
quale non è altro se non una discesa di Gesù nelle nostre anime per
unirle a sé, trasformarle in sé. «Vivo
ego, dice san Paolo, iam non ego,
vivit vero in me Christus»!”2(1920).
Non sono i nostri sforzi che ci salvano
e preparano la nostra felicità, ma la grazia di Dio in noi, per mezzo di Cristo
Gesù:
“«Dio che è ricco in misericordia
portato dal suo infinito amore con
cui ci ha amati, quando ancora noi
eravamo morti a causa dei nostri
peccati ci ha convivificati con
Cristo»3. E’ caratteristica della
grande anima di san Paolo un’esultanza e un rapimento del cuore in
un amore immenso nella contemplazione della misericordia e della
grazia sovrabbondanti su di noi per
la passione di Cristo. E ciò che
rende ancor più dolce e più caro
all’anima questo sentimento di
riconoscenza è questo: che la salvezza non si distingue dalla partecipazione a Gesù, dalla incorporazione in Cristo. Il cristiano redento da
Cristo vive di Cristo e in Cristo.
«Vivo ego iam non ego, vivit vero in
me Christus»4.
“L’affermazione e l’insegnamento di
questa verità fu particolarmente
affidato a s. Paolo che ne parla in
modo tutto proprio” (1922).
Siamo chiamati ad essere Chiesa:
“ Cristo non ha abbandonato la
terra completamente; egli vi è rimasto, potremmo dire con Paolo, in
forma di Chiesa. La Chiesa è il
corpo di Cristo; Cristo e la Chiesa
sono una sola persona: Cristo è il
capo, i singoli fedeli le membra. Ed
ecco allora la necessità per le membra di conformarsi al capo, di vivere la sua stessa vita. Si comprende
allora come possa dirsi che rimane
qualcosa da compiere nella passio-
– 26 –
Eventi
ne di Cristo, non già nel suo corpo
fisico e reale, ma nelle sue membra
mistiche”5(1922).
Partecipiamo intimamente alla passione di Gesù:
“Il mistero della mortificazione e
del sacrificio è essenziale alla vita
cristiana, è la partecipazione alla
vita di Cristo e quindi alla sua passione e alla sua croce, poiché se il
capo ha sofferto non possono non
soffrire le membra; è inoltre un
disporre sempre meglio la nostra
natura a partecipare della vita divina di Cristo combattendo e mortificando le inclinazioni scorrette della
natura, per conquistare e godere di
una vera e completa libertà in noi
stessi, che apra le anime nostre
all’avvento di Gesù. La mortificazione deve inoltre essere accompagnata dal pensiero della comunione
dei santi, quindi dall’intenzione di
offrire le nostre sofferenze e i nostri
meriti per le anime dei nostri fratelli in Cristo. «Pro corpore eius, dice
s. Paolo, quod est Ecclesia»”6
(1922).
e alla sua resurrezione:
“«Se soffriamo insieme a Gesù saremo con lui glorificati»7. E’ un dato
di fede ed è la fede che anima e corrobora l’amore nostro a Gesù crocifisso e la certezza della gloria che ci
viene dalla croce: «Se infatti siamo
uniti a lui con una morte simile alla
sua, lo saremo pure con una somigliante resurrezione»8.
Stabilità nel bene e stabilità di
amore sono nella nostra anima e
nella nostra vita come il riflesso
della resurrezione di Gesù: «Se
dunque moriamo con Cristo noi
crediamo che vivremo anche con
Lui, sapendo che Cristo risuscitato
dai morti non muore più, che la
morte non ha più dominio su di
Lui. Ciò che morì, morì al peccato,
una volta per sempre; ma ciò che
vive, vive per Dio. Così anche voi
consideratevi di essere morti al peccato e di vivere per Dio in Cristo
Gesù»”9 (1922).
La creatura ricambia l’amore con l’amore
“La forma più alta dell’amore è l’amore di adorazione, l’amore che
ama Dio per quello che egli è in se
stesso, nella grandezza nella bellezza nella bontà infinita della sua
natura una e trina; l’amore che
gode e si diletta della gloria di Dio
per cui l’anima dimentica veramente se stessa - perdere sé - per fare di
tutto il proprio essere una lode di
gloria a Dio, unita all’Anima di
Gesù, «nascosta con Cristo in
Dio»”10 (1922).
L’adorazione apre il cuore del cristiano
alla “carità della verità”:
“Vogliamo condurre fino alle ultime
conseguenze la contemplazione
della verità per giungere alla perfetta carità e a poter diventare quello
che diceva san Paolo: «Veritatem
facientes in caritate»”11 (1934).
La Tincani condivide con Paolo la
nostalgia del paradiso, il desiderio
profondo del cielo, l’ansia di vedere e
– 27 –
Eventi
godere Dio:
“Nella vita un po’ di nostalgia del
paradiso ci vuole, sia per mantenerci costanti nelle difficoltà che così
spesso incontriamo, sia per elevare
lo spirito ai beni eterni e non lasciare che il cuore si attacchi alle cose
di quaggiù per aspirare solo ai beni
terreni, distogliendo il nostro desiderio da quelli eterni: «Se dunque
siete risuscitati con Cristo, cercate
le cose dell’alto, dov’è il Cristo assiso alla destra di Dio: pensate alle
cose dell’alto e non a quelle che
sono sulla terra»12. «Cupio dissolvi
et esse cum Christo - dice s. Paolo desidero andarmene ed essere con
Cristo»13, e questo desiderio gli fa
consacrare tutto al Signore, fino
all’ultimo attimo di vita.
Così pure noi. Usiamo di tutto, soffriamo con pace i dolori della vita,
godiamo anche di ogni bene che ci
venga da Dio, senza mai perdere di
vista i beni eterni e la nostra vera
patria. Non disprezziamo niente
della vita, perché tutto consideriamo come dono di Dio, come un
mezzo per guadagnare il paradiso:
qualunque creatura, qualunque
condizione di vita, ogni attimo di
esistenza, tutto ci deve servire per
andare a Dio per incontrarci con
Gesù e assimilarci a Lui: “Nessuno
dunque si glori negli uomini, perché tutto appartiene a voi, sia il
mondo, sia la vita, sia la morte, sia
le cose presenti, sia le future, tutto
è vostro; ma voi siete di Cristo e
Cristo è di Dio”14. Questo significa
vivere di fede. Dobbiamo saper
vivere sulla terra considerandoci
come cittadini del Cielo: «Nostra
conversatio in caelis est»15, sempre
pronti ad entrare a far parte dell’amore perfetto di Dio”(1922).
La basilica di S. Paolo
fuori le mura, nella suggestività della sua architettura e del suo silenzio,
accoglie le migliaia di
pellegrini che giungono
dall’Italia e dal mondo
per l’anno paolino.
– 28 –
Eventi
GIORGIO PETROCCHI: vent’anni dopo
Ricordare qui il mai dimenticato prof. Giorgio Petrocchi, a vent’anni
dalla sua scomparsa (7 Febbraio 1989)
è, prima che un dovere, un vero bisogno dell’animo.
come sempre accade per i veri maestri.
Maestro egli forse non volle mai
ritenersi, ma di fatto lo era, poichè la
sua tempra interiore e intellettuale,
dalla cultura alta e versatile, lo rendeva
per colleghi e allievi punto di riferimento, uomo di vero dialogo, pronto sempre al confronto anche dialettico, alla
condivisione mai gelosa di un sapere
che era intriso di sapienza, senza preclusioni o esclusioni di sorta, senza mai
interporre distanze.
L’allora Magistero “Maria ss.
Assunta” (oggi Libera Università), sull’altra sponda del Tevere, a metà strada
tra Castel Sant’Angelo e piazza S.
Pietro, lo ebbe e lo vide protagonista
per quasi un quarantennio. Avemmo
modo, e diciamo fortuna, di conoscere
molto da vicino la sua eccezionale personalità umana, morale
intellettuale, in una consuetudine di vita quasi quotidiana.
Al “Maria Assunta” –
com’egli amava chiamarlo –
giunse nel 1951 appena trentenne, ma già titolare della cattedra
di
letteratura
italiana
nell’Università di Messina e
ormai studioso di rilievo, affermato nel campo dell’italianistica.
Non a caso era stato presentato al “Maria ss. Assunta” da
studiosi quali Manfredi Porena,
Bonaventura Tecchi, Vittore
Branca.
Lo si vide protagonista,
ho detto, nella vita di quella
nuova struttura accademica, ma
mai lo scoprimmo vittima del
virus del protagonismo, nè lì nè,
come sappiamo, altrove.
L’uomo come lo studioso
Petrocchi non aveva bisogno di
Giorgio Petrocchi durante una delle inaugurazioni accaassumere maschere, poichè pro- demiche; il suo sguardo e la sua parola, mossi dal
tagonista egli era per natura, profondo dell’animo, erano sempre penetranti ...
– 29 –
Eventi
Il suo insegnamento non scendeva mai da un podio, ma filtrava dal
suo spirito libero e partecipe.
L’apporto da lui dato alla critica letteraria contemporanea era maturato da una indagine penetrante, acuta,
sempre da interprete originale.
Ma non della sua opera di dantista e di critico intendo qui parlare;
– ‘80, quando la contestazione nel
mondo universitario montava di giorno in giorno e sempre più si accumulavano le amare considerazioni e cose
che andavano a mettere in crisi l’equilibrata temperie di chi, come lui, era
entrato nel mondo accademico per
vocazione e per merito, non per cavalcare proteste e arrivismi.
E anche in quel difficile passaggio epocale egli seppe essere maestro di discernimento, di tolleranza, di equilibrio insegnando ai più
giovani, allievi e collaboratori
emergenti in campo accademico,
come leggere in profondità i segni
dei tempi, anche quelli più funesti
all’apparenza, per trarne una lezione di comportamento e per pensare a prospettive future, da impostare e da far progredire.
Uomo di costante intima riflessione, sapeva vivere anche molto
fuori di sè, cioè attento agli altri;
9 marzo 1985: Giorgio Petrocchi accoglie Giovanni
ma la chiarezza e l’equilibrio che
Paolo II in visita al Magistero “Maria ss. Assunta”, prelo distinguevano li attingeva dal
sente il Card. Vicario Ugo Poletti
suo animo profondo, dove convivevano, in armonia e in costante conben altre voci di indiscussa competenfronto tra loro, l’alta cultura, la Fede
za lo hanno fatto e lo faranno.
senza orpelli e deviazioni, la passione
Vogliamo piuttosto ripensare,
per la propria vocazione di studioso e
in maniera modesta ma sincera, l’uodi educatore di razza, l’attaccamento
mo maestro Petrocchi che ha lasciato
alla famiglia, con occhio sempre attenincancellabile memoria in quanti
to alle cose anche minime della quotihanno avuto il privilegio di conoscerlo
dianità, che richiedessero e meritassee di frequentarlo anche nelle pieghe
della quotidianità più riservata.
ro attenzione.
La sua rapidità, nel pensiero e
Il “Maria Assunta” era diventanell’agire concreto, gli rendeva agevole
to per lui quasi seconda casa, ove in
far fronte alle tante richieste che lo solqualche modo riusciva a far decantare
lecitavano da più parti, fino a consendelusioni e amarezze accumulate altrotirgli di applicarsi in concomitanza a
ve, soprattutto negli anni roventi 1968
impegni disparati.
– 30 –
Eventi
L’esperienza fatta accanto a lui
ci convinse che fosse proprio vero
quanto spesso ci diceva scherzosamente di sé: “mi sono abituato da ragazzo a
tradurre le tragedie greche mentre cantavo le opere liriche a cavalcioni su una
sedia!”
Amava le cose alte dello spirito
e della intelligenza, scendeva in profondità nelle pieghe nascoste della verità
non palese a prima vista, insegnava, e
praticava egli stesso, come custodire la
serenità e la forza della speranza e
come saperle attingere dall’Alto, ove
trova spiegazione tutto ciò che sfugge
alla logica umana.
E’ illuminante della sua personalità quanto citiamo da lui stesso in
“Segnali e messaggi”, a proposito del
“Lino della Veronica”:
“... E anche attraverso il mito
della Veronica possiamo sentire in noi
l’impressione dello sguardo del
Redentore sofferente quale uno degli elementi più difficili di quel “segno di contraddizione” recato dalla sua stessa presenza vivente all’interno della Chiesa:
l’impulso incessante della carità del
Padre che offre le tracce del proprio dolore al ricordo dei figli, il sigillo del sangue
divino sulla conturbata, inquieta, travagliosa coscienza umana. La vita è stata
creata non perchè scorra sempre limpida e serena, indenne da fangosi
detriti. I segni del dolore degli uomini,
della povertà dei fratelli, anche delle
incertezze e dei dubbi di molti, s’imprimono sul candido specchio spirituale
________________
1
G. Petrocchi: “Segnali e messaggi”. RM,
Rusconi 1981 pg. 15
ricevuto in retaggio dalla Redenzione,
come i lineamenti del volto insanguinato
dalla Passione sul bianchissimo sudario.
Quel volto è stato, sia pur per un solo
momento, deterso da mano umana.
L’uomo non è stato testimone indifferente, ma ha sottratto qualche parte della
sofferenza divina per trasmetterla.” 1
Tenne la sua ultima lezione nell’allora “Maria ss. Assunta” il 26
Gennaio 1989 e il caso volle che in quella lezione, che fu anche il suo inconsapevole commiato, egli dovesse commentare, per esigenze di programma su
Torquato Tasso, la morte di Clorinda.
Attraverso le ottave del poema tassiano
egli fece emergere, facendone quasi
una ‘consegna’, le sue certezze sulla
vita, la morte, la fede, l’amore.
Petrocchi consegnava in qualche misura se stesso, come ebbe a scrivere allora chi aveva assistito a quella lezione
risultata poi l’ultima!
Si sarebbe allontanato da Roma
alcuni giorni per un Congresso dantesco a Zurigo, perciò andando via dal
suo “Maria Assunta” si volse indietro
ancora una volta, prima di scomparire
dietro l’angolo di Via Traspontina, per
rinnovare un caldo festoso “arrivederci”, alzando al massimo entrambe le
braccia.
Quelle due braccia per noi non
si sono più abbassate e ci appaiono
sempre alte, quasi segno di benedizione.
Non lo vedemmo al suo ritorno
da Zurigo, nè sentimmo più la sua voce
calda e armoniosa.
Appena rientrato a Roma la sua
vita ebbe un’improvvisa svolta senza
– 31 –
Eventi
ritorno e tutti ne vivemmo con ansia e
impotente dolore il drammatico epilogo.
Ma non si spegneva in noi la
fiducia in quella da noi ipotizzata benedizione.
Le parole, appena percepibili,
che da lui giunsero con grande fatica
sul filo del telefono il 6 Febbraio, ossia
la vigilia della sua “partenza”, da una
stanza del Policlinico “Gemelli”, rimangono ancora di chiaro monito e incoraggiamento per chi allora le udiva con
incredulità: “Dobbiamo guardare in faccia la realtà, non possiamo far finta di
non vederla, bisogna pensare al futuro.”
Quel giorno stesso, dal suo letto
del Policlinico “Gemelli”, firmava la
delega per la collega Margherita
Guidacci Pinna.
Certo, prof. Petrocchi: “bisogna
pensare al futuro”; tentiamo di farlo,
con viva speranza, giorno dopo giorno,
anche facendo affidamento che quella
sua benedizione perduri...!
NICOLINA JORIO
... al termine della visita, presenta a Giovanni Paolo II il corpo accademico,
gli illustra le pubblicazioni dell’Ateneo e lo invita a firmare la pergamena e il registro delle visite.
– 32 –
Eventi
Luigia Tincani e il Padre Gemelli
Nel cinquantesimo anniversario
della scomparsa terrena del P. Agostino
Gemelli, le Missionarie della Scuola desiderano unire la propria voce al coro delle
molte che si levano dal mondo della cultura e della formazione giovanile, per
ricordare colui che fu una presenza di
rilievo nel mondo culturale cattolico; tra
lui e la Madre Luigia Tincani vi furono
significativa collaborazione, solidale intesa e forte comunione di ideali.
La figura di Padre Gemelli
interessò molto la Tincani: lo apprezzava per la sua pronta e schietta conversione, per il suo pensiero e la sua
vita, per la coraggiosa professione di
fede. Lo sentiva vicino per una certa
somiglianza nel modo di affrontare
con chiarezza, decisione e fiducia i
problemi e soprattutto per la scelta di
educare le intelligenze e le coscienze
attraverso lo studio e con lo sguardo a
S. Tommaso.
La Tincani lo conobbe direttamente nei Congressi cattolici, nelle
Settimane
sociali,
nell’attività
dell’Azione Cattolica e ne condivise
subito, apertamente, il pensiero e la
passione apostolica. Gina accolse con
un interesse tutto particolare l’attuazione del progetto dell’Università
Cattolica e contribuì con entusiasmo a
organizzare nelle parrocchie di Roma
i primi gruppi di Amici dell’Università
Cattolica. Animò a Roma la prima
Giornata Universitaria della Cattolica
superando i risultati milanesi. P.
Gemelli rispose esprimendo con un
autografo la sua gratitudine. Egli
accolse subito affermativamente il
desiderio della Tincani quando, nel
1925, ella gli chiese il passaggio
Autografo: Alla sig.na Tincani, con l’augurio
che il Sacro Cuore di Gesù le dia abbondanti
grazie in compenso del lavoro fatto per il suo
regno e per la sua Università
A. Gemelli
dall’Università statale di Roma alla
Cattolica per discutere la tesi. La
Tincani conseguì una delle prime lauree con valore legale rilasciate dalla
Università Cattolica del S. Cuore e la
tesi riscosse le congratulazioni e il vivo
compiacimento anche del Magnifico
Rettore, P. Agostino Gemelli, che ne
diede notizia insieme a quella di
Bontadini nel discorso di inaugurazione dell’anno accademico 1925/26. Nel
medesimo anno P. Gemelli incoraggiò
e sostenne la Tincani nell’aprire un
piccolo pensionato universitario a
Milano per le studenti della Cattolica.
– 33 –
Eventi
Dopo il terremoto in Abruzzo
Il terremoto che ha squassato
l’Abruzzo è venuto ad aprire lancinanti
ferite nelle persone, nelle comunità
locali, nel tessuto urbano e nel territorio, nel patrimonio storico-artistico, in
particolare quello di carattere religioso.
In pochi attimi si è consumato
un dramma che solo in parte, e chissà
in che tempi, potrà essere superato.
Le popolazioni abruzzesi hanno
dimostrato, ancora una volta, una grande dignità, una grande forza, un grande
coraggio, una grande e genuina fede. È
nelle esperienze dolorose che la fede
viene messa alla prova e che, al contempo, ha modo di manifestarsi in
tutta la sua disarmante, semplice
autenticità.
Ma come sempre accade in evenienze del genere torna nella mente la
tentazione tormentosa, l’interrogativo
implacabile e dilacerante: Signore, ma
dov’eri? Perché hai permesso tanto
dolore? Perché il sacrificio di piccoli
innocenti?
È umano che l’interrogativo
venga a porsi ma, per il credente, è un
interrogativo senza senso. Pur non
escludendo, naturalmente, che Dio
possa intervenire sospendendo o modificando, col miracolo, le leggi di natura,
il credente non può non ricordare il
nucleo essenziale del credo cristiano, il
suo principio fondamentale: l’Incarnazione. Perché Dio, incarnandosi, cioè
assumendo vera natura umana, si pone
a fianco dell’uomo, partecipa delle sue
gioie ma anche delle sue sofferenze,
subisce pienamente – ad eccezione del
peccato – l’esperienza della fragilità
creaturale.
Dov’era, dunque, Dio ad Aquila,
ad Onna, nelle altre località sulle quali
è passata l’onda distruttrice? Era
accanto a quegli uomini, a quelle
donne, a quei bambini; soffriva con
loro il dolore, la paura, il disorientamento, l’umiliazione, la povertà, il freddo, il buio, la solitudine dei sopravvissuti.
Riprendendo la bellissima pagina evangelica dei discepoli di Emmaus,
potremmo allora chiederci: Non ci
ardeva, forse, qualcosa nel petto guardando attoniti le crude immagini della
tragedia? Non vedevamo, dentro quei
volti spauriti ed angosciati, il volto del
Signore? Non ci parlava, attraverso le
crude immagini, il Signore, spiegandoci il senso dell’uomo e della vita? Non
veniva ad attizzare in noi quella fede,
quella speranza, quella carità che,
forse, sono tiepide o un po’ dormienti
sotto la cenere del nostro cristianesimo
abitudinario?
Per questo l’aiuto che, tutti,
siamo chiamati a dare ai nostri fratelli
abruzzesi acquista un senso davvero
particolare. Un aiuto innanzitutto di
preghiera, ma anche di tangibile e fattiva operosità.
GIUSEPPE DALLA TORRE
Le macerie
non hanno
travolto la
Vergine,
rimasta
presente a
vigilare su
tutti e sul
dolore di
ognuno...
– 34 –
Eventi
Un convegno in Campidoglio nel 630° anniversario
del soggiorno a Roma di s. Caterina da Siena
Il
29
aprile
2009
in
Campidoglio, cuore della vita civica di
Roma, si è tenuto il convegno “CATERINA DA SIENA E ROMA” per commemorare un anno intenso e difficile
del soggiorno romano della senese – il
1379 – speso, sino al dono di sé, per l’unità della Chiesa e per Roma.
Organizzato dal Consigliere del
Comune di Roma, On. Lavinia
Mennuni, Delegata del Sindaco per le
Pari opportunità e per lo Sviluppo dei
rapporti con il mondo cattolico, e dal
Centro Internazionale di Studi
Cateriniani (CISC), il convegno si è
svolto nella Sala “Pietro da Cortona”,
ubicata nel complesso dei Musei
Capitolini.
Dopo il saluto delle Autorità,
sono seguiti tre interventi:
- Roma nel Trecento, prof. Francesco
Sisinni, Direttore del Master Studi
Storico-artistici nella LUMSA di Roma.
- L’azione di Caterina da Siena tra
Vaticano e Campidoglio, prof. Diega
Giunta, Presidente del CISC.
- Caterina agli amministratori locali: la
ricerca del bene comune, prof. Giuseppe
dalla Torre, Rettore della Libera
Università “Maria SS. Assunta”, Roma
(LUMSA).
Il 28 novembre 1378, per volere
di papa Urbano VI, la Senese giunge a
Roma. Il pontefice la riceve nella sua
sede provvisoria in S. Maria in
Trastevere: le truppe bretoni, fedeli
all’antipapa Clemente VII e di stanza a
Castel Sant’Angelo, non permettono
che il pontefice risieda in Vaticano.
Caterina si mette all’opera con tutte le
sue forze per la strenua difesa della
legittima elezione di papa Urbano VI,
per far cessare lo scisma sorto con l’elezione dell’antipapa (20 settembre
1378), per tentare con ogni mezzo di
far migliorare la difficile situazione di
Roma e dei Romani, che ella ama e dai
quali è riamata.
L’evento capitolino del 29 aprile
2009 ha messo in luce quanto Caterina
abbia fatto, scritto, pregato, sofferto
per la “navicella di Pietro”, scossa e
sballottata dai marosi dello scisma – il
grande Scisma d’Occidente (13781417) – per Roma e per i Romani talvolta in dissapori con Urbano VI, i
figlioli per i quali Caterina prega e ai
quali osa dare consigli anche per la corretta conduzione della “cosa pubblica”.
Nel ‘cuore’ di Roma l’ardore di
Caterina vibra ancora una volta, attraverso la parola del prof. Dalla Torre: il
bene comune, egli sottolinea attingendo al pensiero della Senese, è un obiettivo preciso da perseguire, ma lo si consegue con l’apporto di tutti; nel pensiero di Caterina gli artefici del bene
comune sono certamente gli amministratori, i quali debbono prima imparare a governare se stessi se vogliono poi
governare bene gli altri; ma il bene
comune è impegno di governanti e
‘governati’ al tempo stesso: i governati
non debbono essere solo coloro che
vengono ‘condotti’, ma debbono a loro
volta collaborare per il bene comune.
Responsabilità solidale.
– 35 –
Eventi
La Santa risiede ed opera dapprima in una casa del Rione Colonna
(di difficile identificazione) e successivamente in Via del Papa, l’odierna
Piazza di S. Chiara, 14, dove chiuderà
la sua esistenza terrena il 29 aprile
1380. Sebbene in questo luogo la
Cappella del Transito ricordi la presenza
della santa, la casa romana di Caterina
è caduta in totale oblio. Memoria storica che il CISC tenta di far rivivere,
avendovi anche trasferito la propria
sede con annessa Biblioteca specialistica cateriniana.
Sala ‘Pietro da Cortona’ nei Musei capitolini.
Da sin.: prof. D. Giunta, prof. G. Dalla Torre, on. L. Mennuni, prof. F. Sisinni, dott. Aldo Bernabei,
vice-presidente CISC.
– 36 –
Arbore giovani
Testimonianza di Monica
In Italia ci sono tante Eluana
Englaro, una di queste è mia mamma
Angela, che versa da quattro anni in
stato di coma post-anossico a causa di
un grave errore medico. Errore che ha
distrutto l’armonia della mia famiglia,
costringendomi a diventare grande,
perdere la spensieratezza e conoscere il
dolore e la sofferenza.
Così a 22 anni sono diventata io
“mamma” della mia mamma, la mia
vita è cominciata a ruotare in funzione
delle sue esigenze e del suo costante
bisogno di cure ed attenzioni. Ho dovuto rallentare i miei studi per stare
accanto a lei e rispondere alle sue esigenze momento per momento.
Anche se ho dovuto rinunciare
a momenti di svago non rimpiango
assolutamente nulla perché so che se la
mia mamma oggi è ancora vicino a me
è anche merito mio oltre che ovviamente dei medici che le hanno salvato
la vita; e di questo sono fiera ed orgogliosa. Il dolore mi ha maturata, sono
più ricca di valori e accanto a lei arrivo
a percepire persino la presenza del
Signore e mi dà forza la frase di Gesù
che dice: “Quello che avete fatto a uno
di questi piccoli l’avete fatto a me”
La sua vulnerabilità mi porta a
dedicarle tutto il mio amore, riempiendo i suoi silenzi di baci e carezze.
Lo stato di coma non è lo spegnersi di una persona, ma una condizione che rende drammaticamente
impotente chi ne è colpito e chi lo assiste; è per questa ragione che va curata e
protetta facendole percepire tanto
amore e la speranza di potersi risvegliare.
La vita è amore, è speranza, è
lotta, è dolore ma è soprattutto un dono
di Dio. La vita è un valore assoluto, la
nascita e la morte sono leggi naturali
che non possono essere regolamentate
nè dall’uomo né dalla giurisprudenza.
E’ inaccettabile disporre della vita,
quando la persona è incapace di intendere, anzi dobbiamo salvaguardarla e
tutelarla ancora di più e rendere la sua
vita degna di essere vissuta fino a quando Dio, e solo Lui, deciderà di spegnere
la sua luce. L’uomo va riconosciuto e
rispettato in qualsiasi condizione di
salute, disabilità, infermità.
Anche quella della persona in
coma o stato vegetativo è vita, ed è vita
anche quella delle famiglie che sperano
in un risveglio anche se spesso sanno
che dal punto di vista scientifico un
risveglio è difficilmente possibile.
La scienza non ha mai escluso la possibilità di un risveglio, dal momento
che, nonostante numerosi studi scienti-
Monica Sparacio
accanto alla mamma Angela,
alla quale da quattro anni dedica
tutta se stessa.
fici sull’organo del cervello, non si è
mai giunti ad una prognosi e diagnosi
definitiva.
Si sostiene infatti che nonostante ci
– 37 –
Arbore giovani
possano essere delle aree cerebrali gravemente compromesse, lo stesso cervello possa trovare delle vie alternative che
svolgono le stesse funzioni svolte prima
dalle aree danneggiate.
Questa mia lettera, nella sua semplicità vuole invitare a pensare a quanto
ognuno di noi sia un tassello prezioso
ed essenziale nel piano Divino sulla
terra. Nessuno è inutile, ogni nostro
gesto può rendere la vita di qualcuno
meravigliosa.
Se in alcuni frangenti vi si presenta la
sofferenza e non trovate via d’uscita, mi
raccomando! Ricordatevi che la vita è
veramente un dono prezioso ed è ricca
di amore anche in quei momenti.
MONICA MARIA SPARACIO
IV anno Giurisprudenza
LUMSA Palermo
Il racconto del viaggio al
campo di Auschwitz.
Viaggio nel dolore infinito.
Parlare dei crimini contro l’umanità è più difficile di quanto non si
pensi. Quando si affronta un argomento del genere, le naturali reazioni sono
sempre di condanna e commozione.
Questo sino a quando non si
mette piede in un campo di concentramento: i pensieri diventano confusi, si
ha poca voglia di parlare, anche con gli
amici con i quali, fino a poche ore
prima, si era riso e scherzato.
Il significato del viaggio in
Polonia di un gruppo di ragazzi italiani
(fortemente voluto da Alessandro
Colorio, commissario romano FI giovani verso il PDL, per visitare, oltre alla
bellissima città di Cracovia, soprattutto
il Campo di concentramento di
Auschwitz-Birkenau) è semplicemente
tutto lì: di fronte agli orrori del nazismo
non si può che rimanere atterriti, increduli, senza parole. Allo smarrimento
iniziale, segue poi un senso di partecipazione al dolore delle vittime dell’olocausto.
Nel campo la quotidianità era la
morte: la vita si svolgeva tra lavori
durissimi, punizioni inflitte anche per
lievi trasgressioni e crudeli esecuzioni.
Alcuni sopravvissuti hanno raccontato
della punizione subita da un loro compagno solo per aver cercato di ripararsi
dal freddo con alcuni fogli di giornale
infilati sotto la casacca. I guardiani non
esitarono a rinchiuderlo nella terribile
“cella del buio”: un’angusta e “claustrofobica” cella sotterranea così chiamata perché illuminata, attraverso piccoli pertugi, solo da deboli fasci di luce
esterni. Del prigioniero rinchiuso in
quel luogo infernale si sa solo che vi
rimase oltre un mese ma non se sia riuscito a sopravvivere.
I deportati, dunque, non vivevano, bensì morivano giorno dopo giorno: vivevano per morire. Era una condizione ai limiti della follia.
Commuove a pensare alle
madri di Auschwitz, strette ai loro bambini nella consapevolezza che i loro
figli, benché le SS non avessero rivelato
le loro reali intenzioni, sarebbero potuti essere uccisi o che esse stesse avrebbero potuto subire la stessa sorte
lasciando i loro piccoli, rimasti orfani,
a quelle mani sanguinarie. Vestitini,
– 38 –
Arbore giovani
scarpette, una bambola rotta, un ciuccio: è quanto rimane di alcune delle
piccole vittime degli orribili massacri
nazisti.
Uno sterminio organizzato efficacemente e senza alcuna esitazione
con mezzi estranei ad esseri umani
degni di essere definiti tali, allo scopo
di annientare definitivamente un popolo, la sua cultura, le sue tradizioni; ecco
cosa fu la “shoah”. Nessuna innovazione tecnologica o scientifica fu trascurata per compiere questo abominevole
progetto: camere a gas mascherate da
docce per uccidere in breve tempo,
attraverso una sostanza venefica chiamata Zyklon B, quante più persone
possibile: forni crematori per bruciarne
in fretta i corpi. Una vera e propria
“fabbrica della morte” in piena attività,
dove l’orrore non conosceva limiti.
Prova ne è, che le donne, come vere e
proprie cavie, venivano sottoposte a
tecniche di sterilizzazione al fine di
arrestare definitivamente la generazione di altri ebrei.
Il terribile elenco potrebbe continuare
per pagine e pagine.
Un’ultima considerazione sulle
condizioni di quanti, invece, venivano
tenuti in vita. A Birkenau sorgono delle
“baracche sanitarie”, una sorta di enormi latrine destinate ai bisogni fisiologici di centinaia e centinaia di deportati.
Si presentano come enormi stalle, in
cui le condizioni di vita sono paragonabili a quelle degli animali. Questa ennesima prova della violazione dei diritti
umani rappresenta un elemento ulteriore per comprendere la volontà dei
nazisti: distruggere gli ebrei, oltre che
nel corpo, anche nell’anima, privandoli
anche della loro dignità di uomini.
Così, privati della dignità, indeboliti
dalle torture (fisiche e psicologiche) e
dai lavori forzati, gli ebrei furono resi
incapaci di ribellarsi.
L’olocausto di milioni di ebrei è
una tragedia universale, riguarda tutti:
qualunque popolo, infatti, sarebbe
potuto essere vittima di un progetto
tanto inenarrabile da sembrare, quasi,
non appartenere a questo mondo.
Le parole di Primo Levi, incise
su una targa all’interno del capannone
dove furono imprigionati gli ebrei italiani, restano le più adatte per dare un
senso a tutto questo male che, appena
sessant’anni fa, inondò l’Europa del
sangue di milioni di innocenti:
“Visitatore, osserva le vestigia di questo campo e medita:
da qualunque Paese tu venga, tu non sei un estraneo.
Fa che il tuo viaggio non sia stato inutile,
che non sia stata inutile la nostra morte.
Per te e per i tuoi figli, le ceneri di OĞwiĊcim valgono di ammonimento:
fa che il frutto orrendo dell’odio, di cui hai visto qui le tracce,
non dia nuovo seme, né domani né mai.”
MERY ALBERTINI
GIURISPRUDENZA – LUMSA (RM)
– 39 –
Arbore giovani
I giovedì culturali al Teatro
Argentina
Da alcuni anni è attivo il coordinamento dei collegi universitari
promosso dall’ufficio di Pastorale
Universitaria del Vicariato di Roma
diretto da Mons. Lorenzo Leuzzi.
Alcune nostre compagne della
residenza ne fanno parte; si riuniscono una volta al mese e programmano i
giovedì culturali e altri eventi di
pastorale, per gli universitari residenti nei collegi romani e per tutti gli universitari della città. Esiste una buona
intesa e aperta collaborazione tra i
membri facenti parte del coordinamento.
L’ultimo incontro culturale è
stato tenuto il 29 gennaio 2009.
Abbiamo avuto l’onore di avere con
noi Mons. Bruno Forte e il
dott.Pierluigi Celli.
Il dialogo si è svolto su domande poste dai nostri colleghi: l’uomo di
fronte al male e se può esserci speranza di uscirne.
Mons Bruno Forte, o Don
Bruno come desidera essere chiamato,
ha esordito con la domanda: quale
bellezza salverà il mondo? citando
L’Idiota di F. Dostoevskij. Di fronte a
mali quali la fame la guerra e ogni
altra forma di egoismo, come può esistere una bellezza di vita?
Occorre allora interrogarsi su
Dio, se Lui sia spettatore del male o
se se ne lasci coinvolgere.
La risposta è che Dio, in Cristo
Crocifisso, ha preso su di sé il male e
la sofferenza del mondo, ha abitato la
tragedia dell’uomo. Questa bellezza è
terribile e misteriosa e il campo di battaglia è il cuore dell’uomo. Il male non
è né premio né castigo, è la sfida dell’amore per fare una scelta.
Il dott. Celli, manager e dirigente di aziende importanti, ha sottolineato che a fare esperienza di mancanza di speranza sono soprattutto i
giovani che non abbiamo attrezzati a
navigare nei mari della vita con ancore solide di valori, non stiamo aprendo
loro un futuro e la possibilità di raccontare una storia edificante in cui
potersi rispecchiare; infatti perché si
possa raccontare una storia, è necessario che sia riconosciuta l’identità a
qualcuno, cioè che si attribuisca senso
ed importanza alla persona. Stiamo
oggi purtroppo scambiando i mezzi
con il fine e siamo sempre più abbarbicati al presente.
Occorre attrezzare e incoraggiare i giovani a stare sui confini, perché sui confini si sviluppano le innovazioni, lingue e culture diverse e si
viene messi alla prova. Ma i maestri
ricchi di
saggezza che sanno dare
tempo alle nuove generazioni, dove
sono? Ecco la sfida: recuperare la
capacità di ascolto, la capacità di
innovazione e quella, ancora più
grande, dell’amore. Senza amore non
c’è riconoscimento, quindi identità,
quindi storia.
Al termine Mons. Forte ha suggerito un pensiero di E.Kant sul problema del male. Kant, da laico, ha
compreso che esiste un principe avversario del bene, lo spirito maligno. Cosa
del resto già sottolineata da Paolo
– 40 –
Arbore giovani
nella Lettera ai Romani:” Non compio
il bene che voglio, ma faccio il male che
non voglio” (Rom.7); può essere questo
tema preludio di dialogo tra credenti e
non credenti.
Universitarie del “Regina Mundi” al Teatro
Argentina di Roma
L’incontro si è chiuso con la lettura di
un brano di Qoèlet, letto molto bene
dalla nostra Giulia, e con l’ esibizione
del Coro Interuniversiario di Roma.
ELISENA FRANZESE
IV medicina La Sapienza
Lo Studio atto di culto
In questo periodo mi sono tornate in mente alcune parole che Madre
Tincani scriveva nel 1916 alle sue figlie
spirituali:” Vedo che sei immersa nella
fatica ma anche nel godimento dello studio. Così deve essere. E’ un dovere, ma è
anche il soddisfacimento di un bisogno
dell’anima nostra, della “umana fame”,
come la chiama Dante. Accostati sempre
allo studio con riverenza perché ogni verità nuova conosciuta, ci avvicina a Dio”.
L’occasione mi si è presentata
considerando il silenzio che regna qui
nella nostra residenza in questo periodo
di studio più intenso per preparare gli
esami e le tesi e sfogliando due opuscoli avuti tra mano: il testo di Armando
Matteo Onora la tua intelligenza, lettera a
uno studente, con le sue otto parole
esplicative: stupore ricerca conoscenza
inquietudine passione mistero disciplina sapienza e l’opuscolo curato da
Giancarlo Pani Studio e sapienza la passione per la verità e l’assoluto.
In verità già all’inizio dell’anno
accademico avevamo riflettuto sullo studio. La Prof. M.G.Bianco ci aveva aiutato a comprendere il rapporto tra studio
e vita e a considerare le caratteristiche di
uno studio vissuto in un orientamento di
fede, cioè studio come “via” per crescere
in umanità, in servizio e conoscenza di
ogni verità e nella direzione verso la
Verità, in comunicazione con gli altri.
Mi piace qui riportare un pensiero di T. de Chardin e il commento di
G.Pani, nella seconda pagina di copertina del testo sopra indicato:
“Ciò che l’uomo cerca di più nel
corso della sua vita, più del pane e di tutto
il benessere materiale, è il sapere. L’essenza stessa della nostra vita non è tendere a
star meglio, ma ad essere di più: e “per
essere di più”occorre innanzitutto sapere
di più”.
(T. de Chardin,
Science et Christ, 1921)
– 41 –
Arbore giovani
Quando si entra nella sala di lettura di una biblioteca, dove tutti sono
immersi nel lavoro, si coglie una dimensione nuova, insolita, del silenzio: un’atmosfera di raccoglimento, di impegno,
di concentrazione, che ha un carattere si direbbe- quasi religioso.
Lo studio serio, fatto non per curiosità o
sfoggio di scienza, né tantomeno per
guadagno o ricerca di onori, ha una relazione diretta con la vita interiore, ci
proietta in una realtà che sembra avvicinarsi al trascendente, in una pienezza
che confina con l’assoluto.
Per una coscienza responsabile, studiare
è soprattutto dialogare con l’argomento
che è oggetto di studio: è reagire, prendere posizione, gustare la scoperta, assimilare il nuovo e gioirne, perché il sapere penetri nel proprio intimo, divenga
parte di sé, operi una trasformazione
interiore e spirituale.
Ma lo studio non è fine a se stesso: è un
privilegio e comporta un impegno.
Richiede la povertà del cuore, l’umiltà
disponibile al confronto e capace di
accettare la critica, la generosità che sa
porre a servizio di altri quello che si è
conquistato con sudore e fatica.
E la tensione verso la verità, nella diaconia del prossimo, “è il culto più vero che
si possa rendere a Dio”. (Giancarlo Pani)
AD
“Intendo parlare dello studio inteso come l’opera fondamentale della propria vita e praticato come
un culto e come un apostolato. Porsi allo studio con
umiltà e con fervore sentendo che ogni piccola verità
conquistata è un passo verso la Verità suprema.
Sentire che la scienza è come un cammino nascosto in
cui si cela Dio: ogni essere della natura ne porta
impresse le vestigia, ogni fatto della storia umana ne
cela il segreto, ogni proprietà degli esseri ne riflette la
luce eterna, ogni dono delle anime ne rivela le grandezze infinite.” (L. Tincani, 1925)
– 42 –
Amici scrivono
La Via Appia vista dai visitatori polacchi
I Polacchi hanno sempre avuto un’ammirazione straordinaria per la campagna romana, fino quasi a mitizzarla. Essa è tema frequente degli scrittori del passato, in particolare dei
romantici, ma continua ad esserlo anche ai nostri tempi, come si vede da questo brano di un
quasi contemporaneo. Quando ne parlano, scrivono sempre Campagna con la maiuscola,
come fosse un luogo particolare, definibile con confini colori odori.
A chi la parola ‘Via Appia’, oltre ad indicare una delle celebri vie dell’antica Roma, anzi
la “Regina viarum”, indica anche la casa del cuore, queste descrizioni poetiche udite o lette in
luoghi tanto lontani da Roma, scritti in una lingua raramente abbordabile da un italiano,
fanno tenerezza, producono anche nostalgia e malinconia.
Roman Brandstaetter
Cronache di Assisi. 1947
“La Via Appia è stata, secoli fa,
una via di morte. Qui lungo la strada dei
cipressi si elevavano le tombe illustri dei
patrizi romani. A noi oggi è difficile
immaginare questo gioioso paesaggio
della Campagna romana chiuso con un
corteo di tombe di pietra come un fermaglio. Poveri patrizi romani! Della loro
immortalità sulla Via Appia, trasformata
in pietra sepolcrale sono rimaste solo
rovine. Le tombe si sono polverizzate, l’edera flessibile si è avviticchiata intorno
alle colonne frantumate, sui capitelli
ammassati a terra è cresciuta l’erba, le
piogge hanno distrutto la bellezza dei
fregi, che avrebbero dovuto simbolizzare
l’eternità della vita di qualcuno. Il paesaggio ha inghiottito tutto quello che la
mano dell’uomo gli ha posto sopra con
violenza nei secoli passati, tutto quello in
cui l’uomo vedeva la sua vittoria sull’anima dei prati, del cielo e delle montagne.
Questa terra si oppone alla
morte. La sua eternità è nelle ali colorate
delle farfalle che volano sulle pergole di
canneti, nel ronzio dei bombi e nel brusio da violino delle api nelle anfore scure
dei cipressi piene di cielo fino all’orlo,
nelle lucertole che si dileguano come
verdi lampi ai nostri piedi. Tale è l’eternità
di questa terra.
Abbiamo continuamente davanti
agli occhi la tozza mole della tomba di
Cecilia Metella, stagliantesi col suo color
grigio sul verde degli olivi tarchiati e sentiamo sulle labbra il profumo acre del
vino che abbiamo bevuto sulla terrazza,
all’ombra di una fitta pergola, direzionata
verso i colli Albani.
Indubbiamente si tratta di particolari insignificanti, forse talmente insignificanti che non vale la pena scriverne.
E probabilmente non avremmo mai scritto di quell’attimo di poco conto della
nostra alleanza con la Campagna romana
se non ci fosse stata l’invadente consapevolezza che proprio lì, all’ombra tremolante della pergola con la vista sui vigneti,
i colli Albani e la Via Appia, sarebbe
rimasta una parte della nostra anima.
All’inizio ci sembrava – ma si trattava di una superficiale illusione – che
fossimo l’idea dominante di quel paesaggio. Poi, dopo un momento prolungato di
attenzione al soffio di un vento caldo e al
fruscio della vigna abbiamo capito di
essere solo un particolare decorativo,
una macchia di colore, posta sullo sfondo del verde e del cielo. Idea dominante
del paesaggio è la sua composizione.
Guardando dunque al paesaggio, sappia-
– 43 –
Amici scrivono
della terra, forse il tocco della
vigna che sfiorava le nostre dita
era troppo leggero e provocatorio.
Sappiamo che neppure l’analisi
più penetrante risolvererà tale
problema, dato che non si sa mai
in quale modo l’uomo si incarni in
un paesaggio, arricchendolo di
tutta la musica del suo essere.
Un giorno, quando staremo di nuovo all’ombra della pergola direzionata verso i colli
Albani e della tomba di Cecilia
Metella, senza difficoltà ci ritroveremo in questo eterno paesaggio.
Esso ci conserverà con tale fedeltà
che indicheremo quasi a dito tutti
questi frammenti di Campagna
romana, nei quali continuiamo ad
essere, in perfetta forma, tali quali
eravamo anni addietro, quando
per la prima volta abbiamo ascoltato la musica di questa terra.
Perché la musica può essere anche
la forma del silenzio”.
Il fascino della Via Appia, ‘Regina viarum’
mo che non siamo noi a costituirlo, ma
che esso costituisce noi. Questa impressione talmente suggestiva che possiamo
riconoscere i confini del nostro esistere
fissato nell’incanto di questa terra, così
come si riconoscono con lo sguardo i
confini di un bosco, il profilo di un
cipresso o la linea di un fiume.
Come ci è difficile, oggi, precisare in quale modo si è formato questo
meraviglioso sposalizio con la Campagna romana! Forse l’azzurro è stato
troppo cocente e di conseguenza ci ha
dato agli occhi col suo ardore, forse nel
sapore acre del vino c’era il profumo
Roman Brandstaetter, scrittore, poeta, dramamturgo, traduttore polacco. Nacque a Poznań nel
1906 e vi morì nel 1987. Di famiglia, educazione
e religione ebraica, laureato in filosofia e filologia
polacca a Cracovia, evidenziò fin dal tempo degli
studi le sue qualità di scrittore. Risiedette successivamente in varie città della Polonia, d’Europa,
dei Paesi del Mediterraneo, per motivi di studio
e per sfuggire alle persecuzioni contro gli Ebrei,
specie durante la II guerra mondiale. In un suo
lungo soggiorno a Gerusalemme incontrò la
figura di Gesù, che gli cambiò la vita. A Roma
ricevette il battesimo e sposò la polacca Regina.
Il suo capolavoro, che lo rese anche candidato al
premio Nobel, fu Gesù di Nazaret, un romanzo
storico in 4 volumi.
Anna Maria Martinelli
Marzo 2009
– 44 –
Amici scrivono
Il numero dei piatti
Tra le attrazioni dello spettacolo circense c’è, quasi sempre, il numero dei piatti: ci sono delle aste non rigide, ci sono dei piatti con un buco fuori
centro, c’è un artista pronto a mostrare la sua abilità nel mantenere, il più a
lungo possibile, il movimento rotatorio dei piatti sistemati all’estremità
delle aste. Durante l’esibizione i piatti
perdono velocità e rischiano di cadere
se viene meno l’intervento dell’artista
che, muovendo opportunamente le
aste, riesce a ravvivarne il movimento.
Qualcosa di simile succede alla
nostra quotidianità. Al posto dei piatti
mettiamo tutti i valori destinati ad
ottimizzare la convivenza civile e al
posto dell’artista ci siamo tutti noi,
responsabili dell’incarnazione dei
valori nei contesti sociali di cui facciamo parte.
All’artista circense si chiedeva
attenzione, vigilanza, prontezza di
intervento; a noi tutti si chiede la stessa attenzione, la stessa vigilanza, la
stessa prontezza di intervento.
Abbiamo la responsabilità di individuare il valore che, in un particolare
momento storico, ha bisogno di essere
attenzionato e potenziato. Se i piatti
cadono abbiamo la sconfitta dell’artista, se i valori non sopravvivono o
diventano reperti archeologici il
degrado della società diventa inevitabile.
Crisi economica, crisi morale,
voglia disordinata di possedere, perdita dei valori, scelta di stili di vita proibitivi, preoccupante vuoto spirituale,
divario crescente tra Paesi ricchi e
Paesi poveri, consumismo che predispone allo spreco, gestazione di desideri sempre più schiavizzanti sono
fenomeni che non sono stati misconosciuti sia da Benedetto XVI sia da
Giorgio Napolitano, all’interno dei
loro Messaggi per l’inizio del nuovo
anno.
Cosa hanno proposto? Quale
valore hanno ritenuto opportuno
rimettere in circolo nella nostra
società? Quale invito ci hanno offerto?
Hanno entrambi visto nella sobrietà
una ricchezza spirituale, un’indicazione possibile, un valore che può predisporre il nostro cuore a rimettere nella
giusta gradualità le motivazioni principali della nostra esistenza.
Una sobrietà raggiunta non
dopo aver accettato, con sacrificio,
alcuni stili di vita imposti dall’austerità, ma come risultato esaltante di
una vittoria sulle mille schiavitù che,
nel tempo, prendono d’assedio il
nostro cuore. Nell’austerità siamo portati ad evocare con malinconia i tempi
delle vacche grasse, nella sobrietà
accogliamo con serenità e gioia i concetti di essenzialità, di semplicità, di
temperanza. L’austerità ci porta ad
una limitazione forzata dei consumi,
la sobrietà ci fa scegliere la strada
migliore per sentirci più liberi e ci
introduce a percepire l’importanza
“dell’essere”, regalandoci inoltre tutta
la gioia “del semplicemente vivere”.
Di quest’ultima espressione
sono debitore ad una teologa domeni-
– 45 –
Amici scrivono
cana che dal 1994 vive in Bolivia condividendo l’esistenza di alcune famiglie
indigene
ed
insegnando
all’Università di Cochabamba e di La
Paz: Antonietta Potente. Il libretto
“Semplicemente vivere” raccoglie
alcune sue riflessioni sulla essenzialità e sulla semplicità che sono da considerare tra le principali virtù caratterizzanti la testimonianza cristiana.
Ecco qualche goccia sapienziale di Antonietta: “Più le persone sono
semplici, essenziali, vicine alla vita
quotidiana, più sono profeti… I veri
costruttori di vita sono coloro che
conoscono l’essenzialità della vita; più
uno ha difficoltà nella vita, più impara
a crescere e a ricostruire mille volte la
vita e a ricrearla in modo nuovo”.
Viene ricordato anche Francesco
d’Assisi che “ci ha fatto venire la
nostalgia di una vita più libera e quindi più semplice”.
Benedetto XVI e Giorgio
Napolitano, consapevoli della crisi
economica e valoriale del mondo occidentale, ma soprattutto sensibili alla
difficoltà di sopravvivenza del Terzo
Mondo, entrambi vigili, attenti e pronti, come gli artisti del circo durante il
numero dei piatti, hanno pensato bene
di dare energia propositiva al valore di
una sobrietà aperta alla solidarietà,
alla condivisione, alla civiltà dell’amore.
NICOLA SAJEVA
“I grandi principi, quando sono entrati nella mente, devono
essere padroni di tutta la vita. E’ necessario essere padroni di
sé, fare che la volontà illuminata ci governi, e non gli impulsi
e le passioni, che ci fanno agire inconsideratamente. Anche le
passioni sono forze che ci spingono all’azione, ma non sono
strettamente legate con l’intelligenza. Bisogna che sia la
volontà razionale a illuminarle e governarle. Si deve dunque
dare il primo posto ai grandi principi, che siano i padroni
della nostra anima, e le altre forze in noi stiano al loro posto.”
(L. Tincani, 1942)
– 46 –
Adozioni a distanza
Caro amico, con la somma minima di € 180,00
potrai assicurare a un bambino o ad una bambina,
dell’India o del Pakistan, il necessario per una vita dignitosa
e la possibilità di studiare per tutto l’anno.
Riceverai le foto e tutti i dati del bambino,
insieme alle notizie necessarie per metterti in contatto con lui,
se vuoi, tramite le nostre Missionarie.
Puoi fare la tua offerta anche in più rate durante l’anno, usando il bollettino
di conto corrente postale allegato a questa rivista.
Grazie della tua generosità e delle tue preghiere!
– 47 –
Causa di canonizzazione della serva di Dio Madre Luigia Tincani
O
Spirito
Paraclito,
fonte di ogni verità e di ogni bene, che
hai ricolmato della tua sapienza e del
tuo amore la tua Serva Luigia Tincani,
concedimi per sua intercessione di essere docile a te nella ricerca della verità e
di saperla comunicare con coraggio,
limpidezza e santità di vita, per arrivare
con tutti i miei fratelli alla verità dell’amore.
E se è conforme alla tua volontà, ti
prego di glorificare la tua Serva fedele,
concedendomi ciò che ti chiedo con
illimitata fiducia.
Amen.
Chiunque ricevesse grazie per l’intercessione della Serva di Dio
Madre LUIGIA TINCANI, Fondatrice delle Missionarie
della Scuola, è vivamente pregato di darne comunicazione alla
CURIA GENERALIZIA, via Appia Antica, 226 — 00178 Roma
Tel. 06.784411 — Fax 06.78441124
e-mail: [email protected]
Con approvazione ecclesiastica
– 48 –
Causa di canonizzazione della serva di Dio Madre Luigia Tincani
– 49 –
Nella pace del Signore
Raccomandiamo alla misericordia del Signore familiari, consorelle e persone care
ritornati alla casa del Padre; il Signore accolga tutti nell’abbraccio della Sua misericordia e dia conforto a quanti rimaniamo nella nostalgia del distacco:
CINZIA RAPARO,
ANNA CAPPELLA,
GIOVANNI MARCHI,
LEONARD,
cognata della nostra Maria
Missionaria della Scuola
docente della LUMSA
padre della nostra consorella Grace
Prof. Giovanni Marchi
Il 27 Aprile è deceduto in Roma il
prof. GIOVANNI MARCHI, docente di
Lingua e letteratura francese nell’Università
“La Sapienza” di Roma. Lo ricordiamo con
viva gratitudine per la sua collaborazione
nella LUMSA di Roma, sia come docente di
Storia del Teatro e dello Spettacolo, sia
come membro nominato dal Ministero
dell’Università nel Comitato tecnico ordinatore della nuova Facoltà di Lettere e
Filosofia.
Vicino a lui, studioso di alto profilo,
di fine umanità e dal colloquio profondo e
cordiale, abbiamo sperimentato il garbo del
rapporto umano, oltre al suo grande amore
a Don Orione da lui conosciuto molto da
vicino.
Esprimiamo la nostra viva partecipazione al dolore della famiglia.
Nel primo anniversario della sua partenza da noi - 24
giugno 2008 - vogliamo ricordare qui con affetto e nostalgia la dolcissima Giovanna Dalla Torre. Lei ci ha fatto
sempre dono del suo sorriso e della sua bontà, noi vogliamo ricambiare a lei e alla famiglia carissima il nostro
costante ricordo e soprattutto la preghiera. Viva in pace!
– 50 –
Offerte per l’Arbore della Carità
PER L'ARBORE DELLA CARITA'
ACUTO: Giuseppina Anagni Ricci;
BAISO: Adriana Lugari;
BARI: Alessandro Datta;
BASELGA di PINE’: Aldina Martinelli
BIBBIENA: Padri Domenicani;
CANEPINA: Eva Ferri Corona Marandino;
CENTA di S. NICOLO’: Giovanna Martinelli;
COMO: Elvira Broggi Compare;
FRASCATI: don Filiberto Salnitro;
GIUSTINO: Luigi Frizzi;
LIZZANO: Dora e Anna Maria Mele;
LUMEZZANE: Norita Bonomi;
MILANO: Giampiero Rossi;
MODENA: Riccardo e Maria Chiara Dal Zotto;
MONTEROTONDO: Francesca Cavallini;
PALERMO: Maria Consolata Leone; Anna e
Maria Parrino;
PASSOSCURO: Domenica Santori
PAVIA: Aleide Vallicchia;
RIBERA: Rosetta Sajeva;
ROMA: Nunzia Ardizzone; Laura Serafini;
Ottorino Calcagni;
TERAMO: Lucia Del Deo;
TORINO: Giuseppe Pitisci;
TRIESTE: don Pier Emilio Salvadè;
VERONA: Silvana Tardini;
VESCOVATO: Luigina Scandolara;
PER LE MISSIONI IN INDIA,
IN PAKSTAN E IN POLONIA
(Offerte, Adozioni a distanza, Borse di Studio)
ALBA ADRIATICA: Tiziana Ciaffoni; Evaristo
Pavoni; Concetta Iacono in Clementoni;
ALBARETO: Amalia Benassi;
AREZZO: Chiara Gasperi;
BARCAROLA: Sonia Lorenzini;
BARI: Giacomo Metta;
BOLOGNA: Luciano Simoni; Stefano Sassoli;
CALTABELLOTTA: Maria Turturici; Calogera
La Bella; Conf. Maria SS. Dei Miracoli;
Alunni e Ins. M. Colletti Augello;
CANEPINA: Eva Ferri Corona Marandino;
CAPISTRELLO: Gilda Liberati;
CASALECCHIO DI RENO: Giorgio Tufariello;
CATANIA: Maria Aprile;
CINGOLI: G. Piermattei; Elia Violoni; Roberto
Compagnucci;
CORIGLIANO CALABRO: Francesco Pistoia;
FALCADE: Gemma De Pellegrini;
FIRENZE: Roberta Gori Dovichi; Rita Cozza;
Adele Tarasco; Anita Pianeschi;
LAVINIO: Ass. Culturale “Terra d’Enea”;
LECCE NEI MARSI: Giovanna Morgani;
LORETO: Francesca Pettorossi;
MACERATA: Giuliana Caldarelli;
S. Crocetti;
MARINO: Giovanna Cavallini;
MAROSTICA: Nadia Parise;
MONTECASSIANO: Fam. Fabiani
Caporaletti;
NOVA MILANESE: Maria Lupo;
NOVENTA VICENTINA: E. Vendramin;
Ugolina Santimaria;
OLGIATE OLONA: Maria Giovane;
PALERMO: Famiglia Viola; Vincenzo Lo
Presti; M.Grazia La Spina; Clara ed
Enrico Procenzano;
PAVIA: Aleide Vallicchia;
PEZZE DI GRECO FASANO: Domenica
Barletta;
POLLENZA: Stefania e Renzo Properzi
REGGIO CALABRIA: Gennaro Morrone;
REZZATO: Parrocchia San Carlo; A.
Zuccali; Antonietta Cerutti;
ROMA: Lucia Failla; Fam. Malizia; Oriana
Castignani; Stefano Defalchidu; Pina
Gambelli; Helene Fiorentino; M.Teresa
Matta; Francesco Ramiconi; Antonella
Reibaldi; Alberto Neri; Bruna e Pino
Clemente; M. Cristina Ruta; Augusta
Succi Condemi; Graziella Paddeu; Luigi
e Maria Roverselli;
ROSETO DEGLI ABBRUZZI: Marosanna
Ceci;
SALCEDO: Raffaella Meneghini
SFORZACOSTA: Paola Ciccarelli;
S. GIOVANNI LA PUNTA: M. Grazia
Reibaldi;
S. SEVERINO MARCHE: Elide Violoni;
TARANTO: Diega Aguanno; Famiglia
Sebastio; Concettina Spano;
TERAMO: Maria Rosaria Del Deo;
VELO D’ASTICO: Giuseppina Sadler;
VESCOVATO: Luigina Scandolara;
VILLA CASTELLI: Paola Nisi; Vita Leone;
Domenico Giovane;
PER LA CAUSA DI CANONIZZAZIONE
DELLA MADRE TINCANI
ALBARETO: Amalia Benassi;
GUASTALLA: Maurizio Alessandri;
MACERATA: Giuliana Caldarelli;
ROMA: Società Servizio Sociale
Missionario;
TRIESTE: Velleda Bonanni Fonda;
– 51 –
“I diritti umani sono divenuti il
punto di riferimento di un ethos universale condiviso, almeno a livello di aspirazione, dalla maggior parte dell’umanità. Questi diritti sono stati ratificati da
quasi tutti gli Stati del mondo. Il
Vaticano II, nella dichiarazione
Dignitatis humanae, e i miei predecessori Paolo VI e Giovanni Paolo II, hanno
fatto riferimento con vigori ai diritti di
libertà di coscienza e di religione che
devono essere al centro di quei diritti che
scaturiscono dalla natura umana stessa.
In senso stretto, questi diritti umani non
sono verità di fede, sebbene si possano
scoprire, e di fatto acquistano piena luce,
nel messaggio di Cristo che “rivela l’uomo all’uomo stesso” (Gaudium et spes,
n. 22). Essi ricevono ulteriore conferma
dalla fede. Tuttavia non si può negare
che, vivendo e agendo nel modo fisico
come esseri spirituali, uomini e donne
constatano la presenza pervasiva di un
logos che permette loro di distinguere
non solo fra vero e falso, ma anche fra buono e cattivo, migliore e peggiore, giustizia e
ingiustizia. Quest’abilità di discernere, questo intervento radicale, rende ogni persona
in grado di cogliere la legge naturale che non è altro che una partecipazione alla legge
eterna: «unde... lex universalis nihil aliud est quam posticipatio legis aeternae in rationali creatura» (San Tommaso d’Acquino, ST I-II, 91, 2). La Legge naturale è una guida
riconoscibile da tutti, sulla base della quale tutti possono reciprocamente comprendersi e amarsi”
Benedetto XVI
O.R. 4-5 maggio 2009
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