leggi_prima Leggi prima Questa versione stampabile è pensata per pagine A4; peraltro la scalabilità del formato .pdf del file consente anche formati diversi (che non consiglio). La stampa dovrebbe essere in colore, ma anche in bianconero la leggibilità è possibile, pur con uno scadimento della qualità grafica soprattutto di molte delle immagini. Rispetto ai files della versione elettronica il layout di tutte le pagine è stato reso simmetrico, il che consente di stampare in bianca e volta (come dicevano i grafici di una volta, quando la qualità della carta poteva essere diversa sulle due facce: oggi si dice fronte-retro) senza avere successivi problemi di fascicolatura (e con un certo risparmio di carta). Ovviamente nella versione stampata su carta si perdono i pur semplici links dei testi tra loro e con le figure che possiede la versione elettronica. Questo è certamente un limite, perché quei links non sono banali effetti speciali, ma dànno un contributo non secondario (mi pare) alla funzione formativa dell’intero lavoro. Non solo per questo la versione stampata mi piace meno. La versione elettronica può essere manipolata, smontata, rimontata a piacimento; può essere diffusa senza problemi e senza oneri; può essere usata con la stessa comodità sia nello studio personale che in presentazioni pubbliche. Amo i libri non solo come strumenti di emancipazione, ma anche come oggetti: che, come tali, si toccano, si portano appresso, si accumulano nella vana ricerca di un ordine, si usano per costruire scenari alla vita. Eppure sono convinto che la lettura su monitor, che molti oggi trovano intollerabile, piano piano si affermerà come prassi consueta. Quando accadrà il libro non perderà per questo la sua importanza, ma probabilmente rafforzerà il suo status di oggetto; tanto vale quindi continuare ad accumulare libri e contemporaneamente allenarsi a leggere sul monitor. Ed anche cominciare a concepire lavori che lo presuppongano, come quello che qui è stato (riduttivamente) trasferito su carta. Ecco allora il link alla versione in rete: http://www.iuav.it/Ateneo1/docenti/architettu/docenti-st/Domenico-B/ materiali-/index.htm 1 0.ABC 0. ABC Facturusne operae pretium sim si a primordio urbis res populi Romani perscripserim nec satis scio nec, si sciam, dicere ausim, quippe qui cum veterem tum volgatam esse rem videam, dum novi semper scriptores aut in rebus certius aliquid allaturos se aut scribendi arte rudem vetustatem superaturos credunt. Anni fa un professore di latino, sinceramente convinto che fosse per il nostro bene, costrinse me ed altri malcapitati della prima D ad imparare a memoria il proemio della monumentale Storia di Roma del padovano Tito Livio. Allora lo avremmo (metaforicamente) strozzato; col senno di poi mi viene il dubbio che forse quel professore non si sbagliava: ricordo ancora piuttosto bene quel testo e, quasi dimenticata la storia di Roma, mi è rimasto impresso il suo ineguagliabile esempio di understatement compiaciuto. Non so abbastanza, né, se sapessi, oserei dire ... grandioso! Così vorrei io con questo lavoro, esito del secondo ed ultimo anno sabatico (con una sola /b/: viene da sabato, non da sabba) della mia ormai lunga carriera universitaria. E se non credo di saper portare qualcosa di più sicuro, credo invece, in tutta modestia, di saper superare un rude vecchio modo di scrivere. Questo lavoro si intitola ABC perché è rivolto a studenti di architettura esordienti; esso parte da una prima constatazione. Tranne qualche eccezione (che conferma la regola?) gli studenti leggono poco, non sono motivati alla lettura, mancano anche di tecnica della lettura. Personalmente trovo la cosa piuttosto deplorevole, ma mi rendo anche conto che non è con il moralismo che si può superare una situazione che si è andata determinando nel tempo, come effetto di cause molteplici e non tutte analizzate abbastanza. Così ho rinunciato a compilare un testo tradizionale che nessuno (o quasi) leggerà, il che potrà anche tranquillizzare la coscienza di chi scrive, ma non dà alcun contributo alla crescita culturale di alcuno. Ho cercato invece una formula comunicativa diversa: ho tentato un testo (illustrato) che preferisce l’allusione all’informazione. L’idea che sta alla base di una simile scelta è che l’informazione che può essere trasmessa nell’economia di un corso universitario sia poca ed effimera in confronto all’informazione personalmente acquisita. 3 0.ABC La semplice trasmissione di informazioni si scontra con il diffuso comportamento studentesco di limitarsi alla comunicazione orale, più o meno attentamente accolta, senza sentire il bisogno di letture collaterali e di appoggio. Così, paradossalmente, più la trasmissione di informazioni si sforza di diventare esauriente, più alimenta quel comportamento, e più allontana dallo studio personale ed autonomo. E comunque l’informazione trasmessa ha limiti intrinseci che solo l’informazione personalmente acquisita consente di superare: occorre quindi stimolare questa piuttosto che praticare quella. Sarà’ l’allusione il modo giusto per ottenere questo risultato? E se lo è, sarà giusto il modo con cui l’ho fatto? Sarò riuscito ad incuriosire? E se lo sono, sarà quel tipo giusto di curiosità che sa provocare la ricerca autonoma? La pratica didattica ce lo dirà. Vediamo ora nel dettaglio come questo scritto illustrato allusivo è organizzato. La parte didattica vera e propria è formata da 14 capitoli suddivisi in tre parti denominate dispense, architetture e libri, di 5, 3 e 6 capitoli rispettivamente. Ciascuna parte è presentata da una propria introduzione e le tre introduzioni sono presentate da uno scritto di informazione generale: questo! Il tutto è contenuto tra una prefazione di informazioni tecniche (leggi_prima) ed una postfazione di considerazioni finali (leggi_dopo). Ciascuno dei 14 capitoli didattici è formato da testo e figure. Non viene detto da dove vengano le figure, né che cosa rappresentino, né quale sia il loro rapporto con il testo: ma un rapporto c’è sempre e può essere un esercizio didatticamente utile tentare di individuarlo. Come si suole, i testi, pur brevi e suddivisi in paragrafi stringati, contengono citazioni e riferimenti; ma gli autori citati e le fonti sono per lo più taciuti: mancano di conseguenza anche le note. La nota, tradizionalmente ritenuta una presenza necessaria in qualunque lavoro che abbia la pretesa del saggio, non è priva di una inevitabile ambiguità. Infatti qual’è la ragione delle note? 1. per indurre il lettore ad approfondire: ma questo contraddice il comportamento studentesco sopra osservato; 4 0.ABC se questa è la ragione, allora le note sono inutili; 2. per dimostrare le affermazioni dell’Autore: ma è un ben povero Autore quello che ha bisogno del sostegno di autorevolezze diverse; se questa è la ragione, allora le note sono inutili. E’ pur vero che è oggi piuttosto diffusa la pratica delle citazioni ad orecchio, con poca attenzione alla loro precisione e pertinenza, per lo più come strumento per simulare profondità di studi e letture forse non del tutto esistenti o assimilate. A questo proposito assicuro che i riferimenti e le citazioni dei testi sono accurati ... e anche in questo caso può essere didatticamente utile tentare di individuarli. Ecco infine la mappa di questo lavoro. leggi_prima 1.1. composizione 1.2. costruzione 1. dispense 1.3. misura 1.4. geometria 1.5. disegno 2.1. villa Savoye 0. ABC 2. architetture 2.2. casa Esherick 2.3. casa Smith 3.1. Durand 3.2. Le Corbusier 3.3. Neufert 3. libri 3.4. Klein 3.5. Rogers 3.6. Rossi leggi_dopo 5 Dispense: 1.0. Premessa 1.0. Premessa 1: elogio della dispensa Quando ero studente erano in grande auge le dispense, che il dizionario del famoso Tullio de Mauro definisce fascicolo che contiene il testo delle lezioni tenute durante un corso. All’epoca il livello tecnologico nella riproduzione grafica era assai primitivo e quindi la veste delle dispense era piuttosto deplorevole: niente colore, carta scadente, contrasto debole, risoluzione bassa. Ciò nonostante erano piuttosto costose e rappresentavano un cespite per arrotondare il poco salario di bidelli e custodi, che le distribuivano in regime di monopolio. Era opinione degli studenti che lo studio sulla dispensa fosse necessario, ma non sufficiente e che non escludesse quindi né la sana abitudine di prendere appunti durante le lezioni né la necessità di ricorrere a testi più approfonditi. Al compagno che chiedeva: “Dove hai studiato?” non si doveva mai rispondere: “Sulle dispense!”, perché in questo modo si sarebbe palesata una superficialità indegna di uno studente universitario. Erano altri tempi. Poi la dispensa iniziò a declinare, con la motivazione piuttosto snob che forniva un sapere affrettato e superficiale; prova ne sia che anche buoni dizionari italiani alla voce corrispondente non ne registrano più quel significato; anche i bidelli videro erodersi le loro entrate, ma del resto il turn-over dei bidelli si era già bloccato. Sempre più spesso in luogo delle dispense erano fornite allo studente interminabili e scoraggianti bibliografie, che questi non iniziava neppure ad affrontare: così l’altezzosa idea che la dispensa fornisse un sapere troppo superficiale iniziò a produrre l’effetto di allontanare lo studente anche da quel poco. Dal punto di vista del docente la dispensa, nel suo carattere di scritto sintetico, non troppo attento alla qualità letteraria ed al rigore tradizionale e rituale della costruzione scientifica (poca bibliografia, niente note, ...), è un atto di competenza professionale e di lealtà intellettuale: 1. di competenza professionale, in quanto fornisce agli studenti uno strumento di consultazione agile per ritrovare i contenuti della didattica; 2. di lealtà intellettuale, in quanto dichiara esplicitamente e da subito quei contenuti, senza alcuna concessione all’oscurità spacciata per profondità. 7 Dispense: 1.0. Premessa Paiono questi motivi in sé sufficienti per rilanciare lo strumento didattico della dispensa, sia pure con alcuni adattamenti indotti dai tempi nuovi, e cioè: 1. una ostinata ricerca della leggerezza, che possa almeno in parte bilanciare la diffusa desuetudine studentesca alla lettura; 2. una costante attenzione ad evitare eccessi di problematicità delle affermazioni, nella consapevolezza che troppo spesso essi sembrano voler stimolare il senso critico del lettore, ma in realtà sono motivati solo da ragioni di autodifesa dell’autore; 3. una generosa indulgenza al messaggio visivo, usato sia per fini esplicativi che come suggestione metaforica. Non sembri banale: banale è il messaggio che non arriva, perché non aggiunge nulla alla conoscenza che già esiste; ed alla esigua conoscenza dello studente esordiente possono all’inizio bastare esigue aggiunte: quindi è essenziale che il messaggio, pur debole, arrivi. Altro potrà arrivare in seguito; e magari arriverà anche l’automotivazione a sapere di più e ad agire di conseguenza, con il che il risultato didattico sarebbe raggiunto. Oppure nient’altro arriverà: ma allora resterà ancora a quello studente esordiente il tempo per riflettere sulle sue scelte universitarie ed eventualmente rivederle senza troppo spreco di tempo. I suddetti adattamenti indotti dai tempi nuovi consistono nel ragionare quasi per aforismi intorno a parole chiave: i testi sono quindi costruiti come sequenze di affermazioni stringate e piuttosto perentorie. Ciascuna dispensa propone un tema seguito da alcune variazioni; ad ogni tema ed ad ogni variazione corrisponde una figura, che può essere esplicativa o (più spesso) evocativa. La connessione logica tra testo e figura esiste sempre, ma per motivi di understatement è sempre taciuta. Del resto essa è, mi pare, quasi sempre piuttosto evidente; e se tale subito non appare, allora penso che la sua ricerca possa essere anch’essa uno strumento per approfondire. Per lo stesso motivo sono taciuti gli Autori e le fonti delle citazioni: perché la loro scoperta può essere una piccola avventura dello studio. 8 Dispense: 1.0. Premessa Le dispense sono cinque, intorno alle seguenti parole chiave: 1. 2. 3. 4. 5. Composizione Costruzione Misura Geometria Disegno tema tema tema tema tema e e e e e 8 variazioni 11 variazioni 6 variazioni 6 variazioni 7 variazioni Nell’insieme 43 asserzioni, ciascuna accompagnata da una figura, ciascuna sufficiente per costruire una lezione o per fornire uno spunto di studio o di ricerca. 1.0.1. Un messaggio ai colleghi Non so se qualche collega (in particolare tra quelli impegnati ai primi anni) troverà questo lavoro di una qualche utilità, tanto da consigliarlo ai suoi studenti. Nel fortunato caso, vorrei segnalare la costruzione modulare dei testi, che ne permette una certa flessibilità d’uso. Alle parole chiave altre potrebbero essere aggiunte; con più fatica qualcuna di quelle proposte potrebbe essere eliminata e, con essa, il tema e le variazioni che la riguardano. Assunte le parole chiave, i temi dovrebbero proprio essere condivisi. Meno necessaria la condivisione delle variazioni, alcune delle quali possono essere eliminate ed altre differenti aggiunte. 9 Dispense: 1.1. Composizione 1.1. Composizione 1.1.1. Tema figura 00 Comporre significa, in tutta modestia, mettere insieme delle cose in vista di una qualche finalità; la composizione architettonica mette insieme elementi costruttivi: ed è conveniente pensare che gli spazi non siano qualcosa di primitivo, ma il derivato della disposizione di quelli. Il concetto di elemento costruttivo è quello del buon senso: muri, pareti, tramezze, scale, pavimenti, soffitti, tetti, finestre, porte e molti altri ancora sono elementi costruttivi. Riguardo poi alla finalità, si può citare un architetto italiano del Novecento condividendo che essa non è il comporre l’omogeneo, cioè volume con volume, colore con colore, linea con linea: è comporre l’eterogeneo. Questa è (...) la vera difficoltà: [mettere] la funzione insieme con la statica, insieme con l’economia, e, sì, con la suggestione o con la poetica. In sintesi l’architetto che compone si trova a fronteggiare il problema di rendere coerenti valori culturali, estetici e morali con esigenze materiali, gli uni e le altre a loro volta non privi di interne contraddizioni. 1.1.2. Variazioni 01. Composizione è sostantivo di tanti significati, perché diverse sono le cose che possono essere messe insieme e gli scopi per cui lo si fa. Eppure con fatica, anche in voci di dizionario o enciclopedia non sbrigative, lo si troverà accostato all’aggettivo architettonica, mentre lo sarà a molti altri; anche nel parlare comune suona normale dire (per esempio) composizione di Beethoven ed un poco eccentrico dire composizione di Le Corbusier. La causa di questo sta probabilmente proprio nella eterogeneità delle cose che l’Architettura impone di comporre e dei fini per i quali impone di farlo. Eppure in altre Arti la composizione dell’eterogeneo è solo apparentemente assente: come, ad esempio, in Pittura, ove essa appare inaspettatamente negli innovatori, per poi velocemente (questo sì: molto velocemente) pacificarsi in una nuova ortodossia della prassi. figura 01 11 Dispense: 1.1. Composizione 02. Si può con giusta ragione parlare di due livelli di eterogeneità: 1. 2. tra le cose; tra i fini. L’eterogeneità tra le cose contrappone il funzionamento degli spazi alla stabilità dell’edificio: è l’antica questione del rapporto tra utilitas e firmitas intuito dal primo trattatista degno di tal nome nel primo Secolo avanti era volgare. L’eterogeneità tra i fini contrappone funzionamento e stabilità (adesso considerati unitariamente come un insieme di scopi materiali) a estetica, etica e cultura (anch’esse considerate unitariamente, come un insieme di scopi spirituali). L’eterogeneità tra i fini può essere elusa evitando l’uno o l’altro dei suddetti insiemi: evitando il secondo si ottiene, nel migliore dei casi, Edilizia; evitando il primo si ottiene, nel migliore dei casi, Scultura. Si può quindi concludere che la differenza tra l’Architettura e l’Edilizia è spirituale, quella tra l’Architettura e la Scultura è materiale. figura 02 03. Si chiede alla Composizione di garantire collegamenti agevoli e ragionevoli tra i diversi spazi disponendo gli elementi costruttivi dell’edificio di conseguenza. Esseri umani percorrono l’edificio: devono poterlo fare con efficienza, agio, sicurezza. Devono poter comprendere a prima vista dove andare e perché. Devono farlo nel più economico dei modi, senza tortuosità di itinerari e conseguenti sprechi di energia. Un tempo la disciplina che si occupava di questo si chiamava Caratteri Distributivi: oggi essa appare o dimenticata o appesantita da contenuti sempre più astrusi che dovrebbero riscattarla dalle sue umili origini. Così si perde di vista la semplice desiderabilità di spazi facili da comprendere e da percorrere. figura 03 04. Si chiede alla Composizione di garantire spazi di misura confortevole per potervi svolgere le attività alle quali l’edificio è destinato. 12 Dispense: 1.1. Composizione Esseri umani dotati di misura agiscono nell’edificio, si servono di oggetti e di suppellettili a loro volta dotati di misura. Oggetti e suppellettili devono poter essere agevolmente ospitati negli spazi dell’edificio. I movimenti degli esseri umani che se ne servono producono inviluppi che devono avere la possibilità di svolgersi senza intralci. Esiste un rapporto tra la misura di uno spazio ed il suo uso che quasi un secolo fa fu indagato a fondo; e non mancarono allora motivazioni nobili per farlo. Poi quella sensibilità è andata declinando, di pari passo con il crescere di una opulenza superficiale che insieme con le sue indicazioni operative e pratiche ne ha offuscato anche i valori di sobrietà e moderazione di cui era portatrice. Così si perde di vista la semplice desiderabilità di spazi dimensionati con equilibrio e perciò comodi da usare. figura 04 05. Si chiede alla Composizione di non produrre incoerenze tra gli elementi costruttivi delle strutture e gli spazi dell’edificio. Esseri umani circolano ed agiscono in esso e non possono essere intralciati da posizioni disattente di muri, pilastri, scale, travi o solai. Le misure degli elementi costruttivi ed i ritmi della loro disposizione non possono contraddire la disposizione e le misure degli spazi, cioè l’efficienza delle loro relazioni e l’equilibrio dei loro dimensionamenti. Contemporaneamente quelle misure e quei ritmi devono poter garantire in modo razionale ed economico la statica dell’edificio: di qui la necessità di non separare le concezioni spaziali da quelle costruttive, riconducendo il ragionamento primitivo agli elementi costruttivi. Spesso le discipline della Composizione e quelle della Costruzione sono sentite come appartenenti ad ambiti del sapere separati e poco comunicanti. Così si perde di vista la semplice desiderabilità della economia materiale, ma anche mentale, che possono dare spazi nella cui concezione sia percepibile l’unità concettuale della disposizione, delle misure, della fisicità, della statica. figura 05 13 Dispense: 1.1. Composizione 06. Si chiede alla Composizione di produrre ambienti nei quali sia comodo e piacevole vivere. Frequentano l’edificio esseri umani con il loro carico di bisogni materiali e spirituali. Ai primi la Composizione risponde producendo microclimi piacevoli attraverso il sapiente orientamento degli spazi e l’attenzione nella misura e nella disposizione delle aperture tra l’interno e l’esterno dell’edificio. In tale impresa la Composizione trova importanti alleate nelle discipline dell’Igiene, della Fisica Tecnica e degli Impianti. Ai secondi la Composizione risponde con la bellezza, che è qui intesa come la capacità di dare forma e luce agli spazi in modo che chi li frequenta ritrovi in essi la realizzazione, o anche solo la metafora, di valori che ha cari; e li giudichi uno scenario adatto ove questi valori possano manifestarsi con facilità e compiutezza. figura 06 07. Si chiede alla Composizione di produrre edifici capaci di inserirsi nel luogo nel quale sono collocati e contemporaneamente di comunicare un giudizio critico su di esso. Citando un architetto italiano del Novecento si può sostenere che ogni luogo possiede una atmosfera ineffabile eppure percepibile. In quanto ineffabile, quella atmosfera non può essere raccontata; ma può essere riassunta culturalmente in un’opera di Architettura della quale allora diventa simbolo, o alla quale è capace di alludere. Quell’opera non ricalcherà il linguaggio di nessuno degli altri edifici del luogo, non sarà un’esercitazione di revival, rifiuterà mimetismi e mascheramenti. Quell’opera perseguirà un linguaggio attuale, ma inserito come immagine nella continuità della tradizione; oppure con essa in palese rottura. In ogni caso si tratterà di un linguaggio in grado di dialogare alla pari con la tradizione, e che quindi non sarà su di essa appiattito. figura 07 14 Dispense: 1.1. Composizione 08. Si chiede alla Composizione di produrre edifici capaci di inserirsi nel tempo nel quale sono collocati e contemporaneamente di comunicare un giudizio critico su di esso. Autentica espressione dello spirito del tempo, l’Architettura è lo specchio fedele d’una società e gli edifici ne sono i documenti più rivelatori. Ma gli edifici tendono a durare nel tempo; e una ideologia ormai consolidata e diffusa induce a difendere, prolungare, garantire quella durata. Così, più che del tempo, l’Architettura esprime lo spirito dei tempi, della loro successione, della coerenza, dell’incoerenza di questa. E allora ogni nuova opera di Architettura sarà, che lo desideri o meno, anche un giudizio sul presente e sul passato da cui proviene: come dice il Poeta, sulle morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Quell’opera perseguirà un linguaggio attuale, ma capace, se confrontato con gli altri linguaggi contemporanei, di esprimere continuità oppure discontinuità, apertura oppure isolamento, compassione oppure alterigia. figura 08 15 Dispense: 1.1. Composizione 16 Dispense: 1.1. Composizione 17 Dispense: 1.1. Composizione 18 Dispense: 1.1. Composizione 19 Dispense: 1.1. Composizione 20 Dispense: 1.2. Costruzione 1.2. Costruzione 1.2.1. Tema figura 00 In Architettura si progetta sempre per costruire. Il fatto che poi si costruisca davvero quanto si è progettato o non lo si faccia è del tutto irrilevante; ed altrettanto irrilevante è il fatto che quanto viene costruito è una piccola parte di quanto viene progettato. E’ invece rilevante l’affermazione, che deriva direttamente dalle asserzioni precedenti, che il progetto contiene insieme ed in maniera inseparabile sia la Composizione che la Costruzione. La Costruzione che il progetto contiene può essere suddivisa in due parti, che riguardano: 1. 2. 1.2.2. le scelte strutturali, le scelte dei materiali. Variazioni 01. Solo una simile concezione può rendere attendibile l’affermazione di un filosofo italiano del Novecento secondo il quale l’opera d’arte è il progetto (...): un architetto può essere giudicato grande artista (...) anche senza aver edificato materialmente nulla. Se Composizione e Costruzione fossero separabili, allora l’architetto potrebbe essere giudicato grande artista solo per la qualità grafica dei suoi disegni: non si capisce, in tale caso, in che cosa egli sarebbe distinguibile da un pittore. Questo non significa che un architetto non possa essere anche un pittore: la Storia ce ne offre numerosi esempi, e non tutti remoti nel tempo, quando le arti del disegno erano più mescolate. Ma è proprio confrontando i disegni di uno stesso doppio artista quando agisce da pittore con quelli di quando agisce da architetto e soffermandosi sulle loro differenze che si scopre che non sono nella composizione, comune ad entrambi, ma nell’assenza o nella presenza di contenuti costruttivi. figura 01 02. Per un lungo volgere di anni Composizione e Costruzione sono state sentite come non distinguibili. 21 Dispense: 1.2. Costruzione Nei Trattati di Architettura che si sono susseguiti nel corso della storia, partendo dall’epoca remota di Vitruvio fino al Barocco compreso, precetti estetici e compositivi sono intrecciati con regole di statica, di concezione e realizzazione delle strutture portanti, di prestazioni e di uso dei materiali. Solo con la nostra mentalità odierna possiamo sostenere che Architettura e Costruzione erano intrecciate: ragionando nella corretta prospettiva storica è più giusto affermare che non erano sentite come diverse. Predicare oggi la loro unità significa innanzi tutto recuperare una concezione antica del fare Architettura che ne esalta le componenti materiali e non le sente come vincoli alla libertà di invenzione. La Costruzione è innanzi tutto disciplina, quella ferrea della statica, e creatività non vuol dire improvvisazione senza metodo, come scriveva un designer italiano del Novecento; ed aggiungeva: in questo modo si fa solo confusione e si illudono i giovani. figura 02 03. La Costruzione non è la sola componente materiale dell’Architettura, ma è certo quella più influente ed evidente. La separazione dalla Composizione si produsse in epoca illuminista e va inquadrata nel più ampio processo di scomposizione disciplinare che la caratterizzò: qualche insistente e fondata preoccupazione per il fenomeno si inizia infatti a leggere dalla metà dell’Ottocento, per esempio in un dizionario di allora che, a dispetto degli anni, continua ad essere apprezzato. La osservata scomposizione disciplinare consentì un rapido progresso delle discipline della Costruzione e la loro costituzione in scienze dotate di statuto solido. Questo produsse a sua volta il formarsi di specialismi professionali che resero ancora più difficile il dialogo con i compositori, che per parte loro non avevano goduto di un parallelo processo di definizione ed oggettivazione della loro professionalità. Deve peraltro essere chiaro che predicare oggi (la necessità di ritrovare) l’unità tra Composizione e Costruzione non significa in nessun modo esprimere un giudizio negativo sull’epoca storia in cui la separazione si produsse, che va comunque considerata come uno dei momenti più alti dell’intera storia del pensiero umano. figura 03 22 Dispense: 1.2. Costruzione 04. La scomposizione disciplinare non consentì un analogo progresso delle discipline della Composizione. La ragione di questo è che esso non può svilupparsi con modalità analoghe a quelle della Costruzione e della altre cosiddette scienze positive. Per la Composizione non è praticabile l’idea di perseguire uno statuto solido e la ragione di questo risiede nel fatto che le sue procedure non sono formalizzabili: questo potrà essere possibile per alcuni segmenti di esse, ma mai per la loro totalità. La gloriosa logica di antiche radici greche che consente di giungere a conclusioni inoppugnabili, partendo da premesse evidenti e seguendo passaggi di sicura oggettività non è applicabile alla Composizione, né a nessuna delle discipline che si usa chiamare artistiche. Eppure non sono mancati tentativi in tal senso, che hanno con il loro fallimento confermato la suddetta impraticabilità. Del resto anche le cosiddette discipline a statuto solido funzionano solo applicando tecniche riduzioniste, oggi non in grande auge dal punto di vista ideologico; ma pur sempre oggetto di una certa invidia da parte di chi si rende conto di non poterle usare. figura 04 05. Le scelte strutturali possibili si riducono a due grandi classi: 1. 2. a pilastri e travi; a muratura portante. La più significativa differenza tra le due va vista nella diversa forma dei vincoli che impongono all’uso dello spazio in pianta: 1. 2. puntiforme e discontinua nel primo caso; lineare e continua nel secondo. Nel primo caso si producono le condizioni per una maggiore libertà d’uso dello spazio in pianta, ma pagando il prezzo di una maggiore complicazione costruttiva. Questa deriva soprattutto dalla necessità di far coesistere i materiali della struttura ridotti ad una pura ossatura con i materiali di tamponamento e di chiusura, diversi da quelli per misure, risposta fisica alle condizioni ambientali, comportamento nel tempo. Una simile scelta può essere coerente ad esigenze di spazi ampi e singolari. 23 Dispense: 1.2. Costruzione Nel secondo caso lo spazio in pianta è maggiormente vincolato, ma la costruzione risulta più semplificata. Il particolare il muro può svolgere ad un tempo ruoli strutturali, divisori e di chiusura e non costringere al ricorso di materiali diversi per caratteristiche e per misure. Una simile scelta può essere coerente ad esigenze di spazi limitati e ripetuti. figura 05 06. La libertà di pianta che la scelta strutturale a travi e pilastri consente deve meritarsi: cioè essere sostenuta da forti ragioni funzionali o espressive: diversamente comunica disordine, ricerca compositiva insufficiente, pigrizia mentale del progettista. Anche in questo caso siamo in presenza dell’eterna diatriba tra libertà ed arbitrio e di dove si collochi il confine tra i due. La libertà di pianta richiede grande maturità compositiva proprio perché con grande facilità si presta ad essere banalizzata: in assenza di tale maturità conviene confluire sui più sicuri percorsi della pianta vincolata dagli elementi murari. figura 06 07. La muratura portante vincola la libertà di pianta, ma svolge ad un tempo sia compiti statici che divisori: corrisponde quindi ad un principio caro alla cultura occidentale almeno da quando un filosofo inglese del Trecento scrisse (nella lingua internazionale di allora) frustra fit per plura quod fieri potest per pauciora. L’idea che sta dietro a questo concetto è che la povertà dei mezzi con i quali si raggiunge un certo risultato si traduca automaticamente in una maggiore qualità di quel risultato. Nel giudizio valutativo (o critico) l’esito non è quindi separabile dal processo che ha condotto a quell’esito: e a parità di esiti, quello ottenuto con maggiore economia di mezzi prevale in qualità. Si tratta di pura ideologia, che tuttavia sottende una concezione austera dell’essere e del vivere che non dispiace e che fa sentire in armonia con le proprie radici culturali. Ad essa sembra essersi riferito il Maestro del Novecento che ha affermato less is more; ed a molti appare volgare l’ostentazione di chi la contesta, come chi a quel Maestro replicò less is a bore. 24 Dispense: 1.2. Costruzione figura 07 08. Di regola i solai sono formati da piccole travi accostate e quindi possiedono una direzione. Questa direzione influenza la disposizione degli elementi strutturali principali (muri o travi e pilastri che siano), delle rampe di scala, delle aperture per porte e finestre e talvolta di altro ancora. Le scale comportano fori nei solai e tali fori hanno forma rettangolare: sarà conveniente prevedere che il loro lato lungo sia nella direzione dei solai, piuttosto che ortogonalmente a quella. Delle quattro pareti che idealmente perimetrano uno spazio solo due contrapposte hanno rilevanza strutturale: sarà conveniente che siano pareti nelle quali i fori per porte o finestre siano pochi o nulli. Fin qui si tratta di principi di banalo buon senso; ma più in generale le scelte strutturali possono determinare una sorta di anisotropia della complessiva organizzazione planimetrica degli spazi dell’edificio. figura 08 09. E’ desiderabile che la scelta strutturale sia omogenea nell’insieme dell’edificio: o travi e pilastri o murature portanti. La presenza nello stesso edificio di entrambe le opzioni, cioè di una scelta strutturale mista è sostenibile solo se scelte diverse corrispondono ad ambiti spaziali diversi ed i cui spazi hanno caratteristiche diverse. L’edificio è allora pensato come due edifici accostati (e comunicanti) in ciascuno dei quali la scelta strutturale corrisponde ad esigenze spaziali specifiche. Uno spazio vasto ed unitario (come un ampio soggiorno) potrà occupare la parte risolta con travi e pilastri, mentre spazi piccoli e ripetuti (come stanze da letto, cucina, servizi) potranno occupare la parte risolta con murature portanti. In casi simili la presenza nello stesso edificio di concezioni strutturali diverse può essere ricondotta ad una ragione sostenibile, perché direttamente discendente dalla composizione. Non soddisfa invece la mescolanza in ordine sparso di travi, pilastri ed elementi murari che non sia riconducibile a motivazioni compositive, ma solo a banali esigenze statiche. figura 09 25 Dispense: 1.2. Costruzione 10. In ogni caso, qualunque sia la scelta operata, il buon funzionamento fisico ed economico della struttura trae vantaggio da una concezione geometricamente regolare e semplice degli spazi e nella unificazione delle loro misure. Angoli retti e luci uguali determinano strutture semplici da realizzare, economiche e prevedibili nei comportamenti: anche questa è una piccola dimostrazione dell’intuizione di un fisico del Novecento che comprese che la fisica è geometrizzabile e che esiste una sorta di isomorfismo tra i fenomeni fisici e la regolarità geometrica. Questo tuttavia contraddice l’esigenza di variare forme e misure degli spazi per evitarne la banalità e la monotonia, migliorarne il funzionamento, attribuire ad essi valori comunicativi e simbolici. La diversità degli usi degli spazi di un edificio può renderne desiderabile una corrispondente diversità di misure; spazi importanti possono essere dichiarati tali solo con l’artificio di farli più vasti (in area, in altezza) del necessario; spazi uguali ripetuti appaiono spesso noiosi e suggeriscono varietà, non importa se fine a se stessa. E’ quindi necessario trovare la giusta misura delle variazioni spaziali possibili e fissare le regole entro le quali esse possono avvenire: in modo da non avvilire le esigenze suddette e contemporaneamente non offuscare la razionalità delle scelte strutturali. figura 10 11. Si sono nel tempo prodotte associazioni tra materiali e tecniche costruttive da un lato e luoghi geografici, momenti storici, congiunture economiche dall’altro; e continuamente se ne producono. In forza di esse il laterizio evoca l’Inghilterra o l’Italia ed in una qualche misura le simboleggia; così come il legno evoca gli Usa; così come più locali e circoscritte materie prime disponibili evocano particolari modi di costruire, e i luoghi e le genti di essi. Ugualmente i discontinui successi di materiali prodotti industrialmente evocano momenti di sviluppo o di recessione di economie diverse. Tali associazioni tendono a permanere nel tempo, entrando a far parte del bagaglio culturale di singoli e di gruppi, anche quando l’incessante evoluzione umana e materiale fa venir meno le ragioni che le avevano determinate. 26 Dispense: 1.2. Costruzione Si dimostra in questo modo come la storia della tecnologia edilizia sia una componente essenziale della storia dell’umanità: di conseguenza ogni scelta tecnologica è anche ed inevitabilmente una manifestazione ed un esercizio della critica sulla condizione umana e sui processi nei quali è coinvolta. figura 11 27 Dispense: 1.2. Costruzione 28 Dispense: 1.2. Costruzione 29 Dispense: 1.2. Costruzione 30 Dispense: 1.2. Costruzione 31 Dispense: 1.2. Costruzione 32 Dispense: 1.2. Costruzione 33 Dispense: 1.3. Misura 1.3. Misura 1.3.1. Tema figura 00 Le misure degli spazi di un edificio, e quindi la sua misura totale, possono essere ricondotte a principi e criteri oggettivi. Questo permette la costituzione di una disciplina a statuto solido, al pari di altre (il calcolo delle strutture, degli impianti ...) che il progetto di Architettura coinvolge: è di conseguenza del tutto sensato e pienamente sostenibile parlare di calcolo delle misure (degli spazi), o di dimensionamento, come brevemente si usa dire. Va peraltro ribadito che il progetto di Architettura non contiene solo discipline a statuto solido e quindi non può esaurirsi solo in esse. Base del calcolo sono le misure del corpo umano, la loro ipotizzata costanza, le loro svelate interne proporzioni. 1.3.2. Variazioni 01. Qualunque spazio di un edificio può essere considerato in rapporto al suo uso: un uso esiste sempre ed anzi proprio qui sta la specificità dell’architettura, quello che soprattutto la distingue dalle altre arti del disegno: che gli spazi dell’architettura sono sempre utili. Qualunque spazio di un edificio esiste fisicamente e quindi può essere descritto geometricamente: di conseguenza esso è sempre dotato non solo di una forma, ma anche di una misura. Uno spazio architettonico quindi è sempre dotato contemporaneamente sia di misura (in quanto spazio) sia di uso (in quanto architettonico). La sistematica ed inevitabile presenza di entrambi gli attributi induce a pensare che non siano del tutto indipendenti, ma che esista un rapporto tra essi: cioè esista un rapporto tra misura ed uso e che tale rapporto possa essere definito, indagato e studiato. Ed in effetti le cose stanno proprio così e quel rapporto è il primo sul quale fondare lo statuto solido della disciplina del dimensionamento. figura 01 35 Dispense: 1.3. Misura 02. Il rapporto sul quale iniziare a fondare la disciplina del dimensionamento è con la misura dello spazio, non con la sua forma: in quella fondazione disciplinare la questione della forma rimane aperta. Non occorre ricordare che a parità di misura infinite possono essere le forme. E se può essere postulato un rapporto anche tra forma ed uso, tale rapporto appare tuttavia troppo variabile ed influenzato da fattori occasionali (geografici, storici, culturali) per poter essere indagato con quelle sane tecniche riduttive sulle quali si fondano le scienze positive (e quindi tutte le discipline a statuto solido). Il rapporto tra forma ed uso può essere studiato solo con le tecniche olistiche delle discipline storiche, il che toglie qualunque valore assoluto al glorioso principio secondo il quale la forma segue la funzione e lo consegna a sua volta alla storia. figura 02 03. Il dimensionamento determinato dall’uso può essere chiamato normale; esso è completamente oggettivabile in quanto dipende, come insegnava decenni fa a Venezia uno scomodo architetto italiano, dalle misure degli oggetti e degli arredi che si collocano nello spazio abitato e dagli inviluppi dei gesti che l’abitante compie per usarli. Ovviamente l’affermazione può essere estesa dall’abitante a qualunque essere umano si serva di un edificio per qualunque finalità. Definito il concetto di normalità è allora possibile attribuire un significato alle anormalità, che nel caso qui considerato consistono nel sovradimensionamento o nel sottodimensionamento. Il primo caso può esprimere la prevalenza materiale o culturale di uno spazio, o degli usi per i quali è costruito: esprimere, cioè, un’idea di gerarchia. Più difficile trovare possibili espressività del secondo caso, troppo legato all’idea (o alla memoria) di una condizione di vita miserevole. Possono forse essere ricercati a partire dalla constatazione della miniaturizzazione di molti oggetti d’uso, ed in particolare di quelli più avanzati tecnologicamente. Ed anche dalla constatazione della connotazione volgare che con sempre maggiore frequenza acquistano oggetti inutilmente sovradimensionati (come, per esempio, i suv). 36 Dispense: 1.3. Misura Ovviamente il ragionamento funziona se e solo se esiste una concezione austera degli oggetti e degli arredi. figura 03 04. Postulare un rapporto oggettivabile tra misura ed uso non significa postulare la fissità degli usi. Poiché di regola più usi elementari sono organizzati nello stesso spazio, può essere interessante scomporre e ricomporre quei gruppi di usi e, di volta in volta, immaginare gli spazi conseguenti. Simili ricerche sono incoraggiate dalla constatazione che la coesistenza (o perfino la coerenza) di usi diversi nello stesso spazio è diversamente teorizzata e praticata da culture diverse. Ed anche uno stesso gruppo culturale, nella sua evoluzione, teorizza e pratica abbinamenti d’uso (nello stesso spazio) mutevoli nel tempo. figura 04 05. L’architetto disdegna i millimetri e, un poco, anche i centimetri; l’architetto non quota gli spessori. Gli spessori non si sommano alle misure nette degli spazi, ma si sottraggono dalle loro misure lorde. Non sembri questo un inutile arzigogolo: tra il pensare le lunghezze, larghezze ed altezze degli spazi come somma di misure nette e di spessori, e pensarle invece come scansioni di ritmi (nei quali anche gli spessori troveranno luogo) corre un mondo. Si tratta di un mondo concettuale, ovviamente: cioè un atteggiamento mentale capace di cogliere le grandi regole di organizzazione degli spazi e di non farsi distrarre dai dettagli perturbatori; che non corre il pericolo che gli alberi gli impediscano di vedere il bosco, come paventava in tutt’altro contesto un rivoluzionario novecentesco. E questo è di fondamentale importanza, perché così ragionando quelle misure lorde possono con facilità essere ricondotte a multipli interi di misure base, possono non avere parti frazionarie, possono essere legate tra loro da poche regole semplici. Ed è in questo modo possibile attribuire alle misure degli spazi di un edificio coerenza, eleganza, proporzione. figura 05 37 Dispense: 1.3. Misura 06. Per propensione all’arrotondamento spinto a quotare (tipicamente) in decine di centimetri l’architetto non perde tuttavia di vista quanto sia astratto il rapporto tra quella unità di misura, imposta dalla pratica e dalle convenzioni internazionali, e le misure del corpo umano, unità non strumentali, ma concettuali del dimensionamento degli spazi di un edificio. E’ noto che la prima convenzione definiva il metro come la distanza tra l'equatore e il Polo Nord, calcolata lungo il meridiano passante per Parigi, e divisa per 10000000. Successive crescenti esigenze di precisione hanno reso necessarie nuove convenzioni che rendessero meno approssimativa quella misura, che deve il suo indiscutibile successo non al suo valore, ma al fatto di essere stata abbinata ad un sistema di moltiplicazione e divisione su base decimale, cosa che a qualunque unità di misura sarebbe potuta accadere. E’ accaduto ad una unità che non ha nulla di antropomorfo: niente di umano è lungo un metro. Così è necessario armonizzare le grandezze umane con unità di misura ad esse lontane; questo è un piccolo ostacolo al perseguimento di dimensionamenti equilibrati, che gli antichi non avevano e che i feet e gli inches anglosassoni riducono non di poco. Tanto che quotare in piedi può facilitare l’ideazione; e solo alla fine convertire il piede sulla base di un valore dell’ordine di 30÷35 centimetri, al quale possono essere ricondotti quasi tutti i piedi della storia. Anche il massimo Maestro del Novecento aveva pensato per le sue architetture un uomo alto sei piedi, poco disturbato dal fatto che corrispondessero a 1829 (!) millimetri. figura 06 38 Dispense: 1.3. Misura 39 Dispense: 1.3. Misura 40 Dispense: 1.3. Misura 41 Dispense: 1.3. Misura 42 Dispense: 1.4. Geometria 1.4. Geometria 1.4.1. Tema figura 00 La geometria è lo strumento con il quale si definiscono regole in grado di portare a coerenza la composizione degli elementi costruttivi e quindi la formazione degli spazi di un edificio. Il campo di validità delle regole che con la geometria possono essere definite va dal limite minimo di un unico edificio al limite massimo di una classe di edifici, che si diranno allora appartenere allo stesso tipo. Il controllo geometrico della disposizione degli elementi di un edificio occupa lo spazio tridimensionale: come insegnava un docente parigino del Settecento, i vari elementi (...) possono essere posti gli uni vicino agli altri, oppure gli uni sopra gli altri; quando si compone un edificio queste due specie di combinazioni devono presentarsi simultaneamente allo spirito. 1.4.2. Variazioni 01. Ma quando si studia [aggiunge subito dopo il suddetto docente] per facilitare lo studio si può, anzi si deve considerarle separatamente. Pare esserci un paradosso in questa affermazione: è fuori di dubbio che una dote dell’architetto debba essere l’immaginazione tridimensionale, per chiamare così la facile capacità di figurarsi sinteticamente i volumi, non importa quanto complicati. L’immaginazione tridimensionale è per l’architetto quello che l’orecchio assoluto è per il musicista o la percezione cromatica è per il pittore: una potenzialità coltivabile come tutte, ma all’origine probabilmente innata. Se la geometria è il linguaggio per figurarsi, elaborare e comunicare idee spaziali, allora la geometria dell’architetto è solida. La geometria piana è considerata per quello che è: un’astrazione le cui relazioni con lo spazio sono convenzionali o simboliche: fatto questo peraltro ben chiaro a chiunque si occupi di educazione della prima infanzia, quando convenzioni e simbolismi non offuscano ancora la percezione diretta. Peccato che questa condizione di natura duri poco e la geometria piana, col tempo diventi spesso un buco nero, dal quale non si esce più: il pensiero a due dimensioni è facile e facilmente comunicabile, di qui il suo successo; ma è anche inevitabilmente riduttivo. figura 01 43 Dispense: 1.4. Geometria 02. Eppure la geometria piana è comoda; ed il suo uso da parte dell’architetto è l’effetto di una più o meno consapevole applicazione di tecniche riduzioniste nella quale, se si vuole, si può vedere una sua mai superata invidia per le scienze positive. Così l’architetto pensa a tre dimensioni, ma disegna a due. E’ vero che, in una sorta di transitorio ravvedimento per aver represso il suo desiderio di spazio, costruisce anche plastici. Ma quando disegna resta intrappolato nella superficie del foglio: deve allora decidere se partire dalla disposizione orizzontale, rappresentata dalle piante, o dalla disposizione verticale, rappresentata dagli spaccati e dai profili (tanto per continuare ad usare le parole dell’antico docente). La questione è sempre stata e resta aperta; non si tratta di teorizzare la superiorità di un approccio rispetto all’altro (come pure qualcuno ha fatto), ma di prendere partito. Partire dalle piante facilita la soluzione dei problemi materiali di un edificio, ma rischia anche di banalizzarlo; partire dagli alzati e dalle sezioni mantiene un fastidioso retrogusto intellettualista. figura 02 03. La pianta è la generatrice si legge nella stessa Parigi un paio di secoli dopo le parole dell’antico docente: e la scelta della disposizione orizzontale è di qui fortemente legittimata. Nella pianta c’è già quasi tutto l’edificio, nelle piante sovrapposte si esprime il volume; nella pianta trovano coerenza la più attiva immaginazione e la più severa disciplina. Lo schema compositivo, cioè la regola geometrica che tiene insieme gli elementi di un edificio è allora innanzi tutto uno schema di pianta. Anche perché la fisica si occupa di definire alcune regole di collocazione degli elementi di un edificio gli uni sopra gli altri, per la ovvia ragione che quegli elementi pesano ed il peso è diretto in verticale. La fisica (e precisamente la statica) aiuta quindi la definizione delle regole geometriche di spaccati e profili: del resto i nessi tra fisica e geometria sono molto profondi, come uno scienziato del Novecento aveva capito e fatto capire. 44 Dispense: 1.4. Geometria Ma non aiuta quella delle regole geometriche delle piante, che è perciò molto più influenzata dall’ideologia, nel senso di assunzione a priori di verità e valori. figura 03 04. Ragionando empiricamente, si constata come l’esperienza abbia tuttavia dimostrato che alcuni schemi di pianta appaiono più efficaci nel conciliare l’unificazione delle misure, opportuna per la soluzione delle questioni statiche, con la loro variazione, opportuna per la soluzione delle questioni funzionali. Per la loro efficacia, quegli schemi sono stati più e più volte ripetuti, spesso sempre eguali o con variazioni modestissime. La loro validità pratica, pur senza venire meno come tale, si è allora convertita in forma culturale, cioè in rappresentazione di un’esperienza, di un’epoca, di un gruppo sociale, di un sistema politico. Così è stato per la griglia, incontrastata forma simbolica del razionalismo occidentale, dalle remote origini greche, alle sistemazioni metodologiche del Seicento, al novecentesco sogno scientista, oggi talmente ripudiato da meritare forse un momento di meno prevenuta riconsiderazione. La griglia determina spazi che cambiano non con continuità, ma a scatti, cioè secondo intervalli (che nel parlare comune sono chiamati moduli): abbastanza variabili per rispondere alle esigenze dei diversi usi dell’edificio, abbastanza rigidi per rispondere alle sue esigenze strutturali. Dopo essersi imposta come felice compromesso, la griglia si presta ad essere moderatamente (ma anche smodatamente) manipolata con stiramenti, rotazioni, traslazioni ed altre deformazioni geometriche. Tanto per cercare qualcosa di nuovo fuggendo dalla banale prevedibilità, ma stando anche bene attenti a non perdere i vantaggi pratici che la griglia ha dimostrato nel tempo di saper dare. figura 04 05. Partire dalle piante significa pensare al volume come all’estrusione di un piano; sebbene questo modo di pensare sia del tutto legittimo e diffuso, esso può essere anche fonte di banalizzazione del progetto. 45 Dispense: 1.4. Geometria Occorre allora pensare all’estrusione come a qualche cosa di più articolato (ed articolabile) della pura e semplice attribuzione di spessore. Architravi, archi, volte, cupole e falde possono essere promessi dalla pianta, ma non già latenti in essa o da essa completamente determinati. Le stesse superfici di estrusione sono piuttosto prefigurate nella direzione parallela al piano di pianta, ma libere in quella ortogonale. Immaginando che l’estrusione parta dal livello del suolo e sia orientata verso l’alto, essa è interrotta da altri schemi di pianta, sovrapposti a quello di partenza, certamente con quello coerenti, ma non necessariamente a quello uguali. Essa incontra quindi nel suo sviluppo fattori di possibile discontinuità o deviazione, sorta di clinamen che può dare a se stessa, e per essa all’intero edificio, forme che le menti semplici non avrebbero potuto prevedere. Come se nella concezione rigorosamente razionale del progetto fosse nascosta un’aberrazione infinitesimale, una flessione fondamentale, che tuttavia sbilancia tutto. figura 05 06. L’architetto non usa la geometria solo come strumento per raggiungere la coerenza, ma anche come strumento di ricerca estetica. Alcune figure geometriche sia piane che solide sembrano possedere una sorta di eleganza intrinseca che le classifica come utili per conseguire risultati di bellezza. Si tratta di figure osservate con imprevista frequenza in fenomeni diversi, artificiali come i templi, naturali come le conchiglie; e forse la loro eleganza è nient’altro che l’effetto di tale frequenza: cioè effetto di abitudine. Questo non ha impedito studi numerosi e talora profondi di quelle figure, alla ricerca di presunte ragioni nascoste della loro bellezza, che si riteneva risiedessero in qualche loro proprietà intrinseca e misteriosa, piuttosto che nel loro apparire come forme simboliche di una quantità di fenomeni naturali e culturali. L’attenzione alle figure eleganti, che in definitiva si riduce ad un particolare rigore nella determinazione delle loro misure lineari (di lati, di raggi, di spigoli) sentita come dovere intellettuale, innalza il ruolo strumentale della geometria a valore spirituale. 46 Dispense: 1.4. Geometria Ma non sfugge neppure la meccanica monotonia alla quale quell’attenzione può condurre, quando essa si limiti a cogliere solo il meccanismo di costruzione delle figure eleganti, si appaghi di esso e non sia capace di esaltarne le possibilità espressive. figura 06 47 Dispense: 1.4. Geometria 48 Dispense: 1.4. Geometria 49 Dispense: 1.4. Geometria 50 Dispense: 1.4. Geometria 51 Dispense: 1.5. Disegno 1.5. Disegno 1.5.1. Tema figura 00 Il disegno è lo strumento primario sia per comunicare il progetto che per idearlo. Il pensiero ha sempre bisogno di un linguaggio e linguaggi diversi determinano modi diversi di pensare, sia nei contenuti e nelle concatenazioni che nel livello di profondità e di acume. Su questo pare aver detto parole definitive un pensatore viennese del primo Novecento: forzando al quale la mano, si può sostenere allora che esiste un rapporto diretto tra la padronanza del linguaggio e la qualità del pensiero. Diversi sono peraltro i linguaggi di competenza umana, come insegnano i semiologi: al diffuso, ovvio e maltrattato linguaggio verbale si affiancano altri linguaggi che solo per l’invadenza di quello vengono tutti riassunti nella classe unica dei linguaggi non verbali. Tra questi una particolare attenzione meriterebbero almeno i linguaggi grafici ed i linguaggi del corpo, che hanno entrambi la caratteristica di essere preculturali, con quanto di animalità unita a sensi di paradise lost questo comporta. Noi, che siamo architetti e non danzatori, siamo particolarmente interessati al linguaggio grafico: se il disegno è il linguaggio per pensare il progetto, la padronanza sicura di quello è la precondizione per la pertinenza, la coerenza, la consistenza di questo. 1.5.2. Variazioni 01. Avere padronanza del linguaggio grafico non significa essere disegnatori dotati in senso accademico. Come un animale mitologico, un centauro, una sirena, la scuola di Architettura in Italia si forma forzando a coesistere un troncone di belle arti con uno di ingegneria civile. Tanto che a Venezia il primo corso speciale di Architettura trova alloggio in alcune stanze dell’Accademia di Belle Arti, dove rimane per una quarantina di anni. Eppure molti architetti, anche di prima grandezza, anche decisivi per la storia stessa dell’Architettura, avrebbero frequentato con difficoltà un’accademia. 53 Dispense: 1.5. Disegno Se la capacità grafica si riducesse al talento nell’ornato, allora molti architetti anche importanti dovrebbero essere giudicati disegnatori meno che mediocri. Il disegno dell’architetto non orna, ma esprime: è in senso stretto un linguaggio per comunicare e per pensare; e come tale non manca di cadenze dialettali, predilezioni o idiosincrasie lessicali, abitudini dialettiche. figura 01 02. Padronanza del linguaggio grafico significa saper essere espressivi con disegni molto piccoli, saper concentrare molte informazioni in poco spazio. Tempo fa un famoso professore veneziano mostrava ai suoi studenti un normale foglio di carta (A4) dicendo: comportatevi come se questo foglio costasse un milione ... ... di lire italiane, ma quando lo diceva con una simile somma (poco più di 500 euro) una famiglia viveva un anno. Il disegno minuto è elegante ed aiuta la concentrazione della mente; ma soprattutto consente di abbracciare con un solo sguardo, senza muovere gli occhi, il proprio prodotto; e quindi essere in grado di giudicarne la coerenza, la compiutezza, il grado di sintesi raggiunto. Nel formulare la prima ipotesi compositiva, l’architetto disegna l’insieme e poi verifica se può essere scomposto in parti coerenti e funzionanti; non costruisce mai l’insieme come somma di parti; l’insieme non è ciò che risulta, ma ciò che viene prima. figura 02 03. Padronanza del linguaggio grafico significa disegnare con sicurezza a mano libera su carta bianca opaca. Sebbene sia desiderabile (indispensabile) che gli elementi di un edificio siano disposti secondo criteri geometrici regolari e semplici, vanno bandite carte quadrettate, rigate o in qualunque modo facilitanti. Meno perentoria può essere l’indicazione che la carta sia bianca ed opaca: potrebbe anche essere colorata o (più o meno) trasparente, anche se il ricorso a tali supporti pare essere motivato più dalla ricerca di una grafica accattivante ed originale che dall’idea che essi possano facilitare la riflessione compositiva. 54 Dispense: 1.5. Disegno Del resto non sono pochi gli architetti che ricavano un utile anche dalla vendita dei loro disegni; o che, con minore venalità, tengono anche alla qualità grafica del loro archivio (e, soprattutto, non gettano via nulla). Essenziale invece è il ricorso alla mano libera; e l’agilità di mano è solo questione di allenamento, per il quale peraltro, come per ogni tipo di allenamento, bisogna essere motivati. L’agilità di mano consente l’uso di matite dalla mina tenera, con la possibilità di affidare solo al controllo del peso della mano una gerarchia dei segni nella quale si può riflettere la pensata gerarchia interna del progetto. E solo se la mano è davvero molto agile, allora può starci anche l’uso di un righello o una squadretta, che completano l’abilità grafica e in nessun modo suppliscono alla sua mancanza. figura 03 04. Il disegno a mano libera consente un immediato ed ineguagliabile feed back delle proprie azioni. Si è spesso osservato come l’architetto sia un artista sfortunato, perché non può controllare la crescita della propria opera mentre la fa; un pittore o uno scultore verificano in tempo reale gli effetti del loro lavoro: quando questo è finito, anche l’opera lo è; pure un musicista può ascoltarsi fin che compone. Un architetto non può costruire mentre progetta: tra il progetto e la costruzione esiste una inevitabile discontinuità, nella quale ultimamente si sono gettate nuove e non sempre convincenti professionalità, senza che peraltro al progettista ne sia venuto qualche vantaggio. L’architetto controlla la sua opera attraverso i suoi disegni; produce disegni, ma si figura l’edificio: quindi nella sua mente esiste già un processo di decodifica del linguaggio grafico che con l’esperienza avviene in maniera subconscia, ma che comunque la occupa e la affatica. Per questo è utile che la verifica del disegno sia immediata, che alla già osservata discontinuità tra il disegno e l’edificio non se ne aggiunga un’altra tra l’occhio ed il disegno: e questo è possibile solo col disegno a mano libera. figura 04 55 Dispense: 1.5. Disegno 05. L’immediato feed back che il disegno a mano libera consente non è invece consentito dal disegno eseguito col computer. Disegnando con il computer la fatica aumenta, perché alla inevitabile discontinuità tra il foglio e l’edificio si aggiunge quella tra lo schermo ed il foglio. Essa è soprattutto dovuta alla diversa percezione delle proporzioni che quello induce, non solo a causa della facilità con la quale si può zoomare avanti ed indietro, ma anche perché (più o meno consapevolmente) lo schermo è interpretato come una finestra su di un mondo più vasto. Il disegno sulla carta finisce, mentre quello sullo schermo è sentito come illimitato. A questo si aggiunge la difficoltà di attribuire ai segni sullo schermo spessori differenziati e l’uso simbolico piuttosto che iconico del colore. Né paiono ancora convincenti alcune soluzioni trovate dai produttori di software, come lo spazio carta (layout) di quello che va per la maggiore. Questo non significa che l’affermarsi del disegno al computer abbia in qualche modo danneggiato la ricerca progettuale in Architettura: al contrario, l’abilità nelle cosiddette nuove tecnologie è un requisito ormai indispensabile a tutti i livelli. Ma è necessario comprendere che esse non possono essere pensate come strumenti sostitutivi, ma integrativi di quelli preesistenti, che conservano la loro valida efficacia, pur ridefinendo il loro campo di applicazione e la loro stessa utilità. figura 05 06. I modi d’uso del computer nel progetto possono essere di due tipi. Al primo tipo appartengono i modi che interpretano il computer come uno strumento per allargare il campo della ricerca progettuale, sfruttandone le capacità di simulazione e di velocissima raffigurazione di spazi, non importa (quasi) quanto complicati. Per qualcuno tali modi sono gli unici degni di essere presi in considerazione: a che serve, argomentano costoro, una nuova tecnologia, se non apre nuovi orizzonti di ricerca? E la cosa, messa così, pare convincente. 56 Dispense: 1.5. Disegno Peccato che l’eccesso di facilità con il quale il computer consente le più cervellotiche manipolazioni dello spazio immaginato ne faccia sovente perdere di vista il carattere virtuale e faccia ritenere che esso possa essere sempre e comunque attualizzato. Peccato che l’eccesso di facilità con il quale il computer consente le più ridondanti rielaborazioni grafiche induca a sovraccaricare i disegni (e talvolta anche gli edifici rappresentati) di orpelli decorativi superflui, materialmente e (soprattutto) spiritualmente non necessari. Il primo caso conduce a sperimentazioni decostruenti che sembrano perdere di vista la semplice fisica che governa gli edifici; la quale perciò, viene ipocritamente occultata, non potendo nel mondo reale essere abolita, come lo può in quello virtuale. Il secondo caso conduce a rendering stucchevoli e ripetitivi, che paiono fondali dismessi di videogiochi vetusti, essendosi anche l’ultimo borghese da sorprendere ormai abbastanza smaliziato. figura 06 07. I modi d’uso del computer nel progetto possono essere di due tipi. Al secondo tipo appartengono i modi che interpretano il computer come un grande tecnigrafo, uno strumento per disegnare che riassume in sé i tanti strumenti d’un tempo (dal compasso al tratteggigrafo), per di più permettendo un’accuratezza ed una precisione allora sconosciute. Per qualcuno tali modi sono, senza mezzi termini, indegni, in quanto riduttivi ed incapaci di cogliere la carica innovativa che il computer possiede. Per altri, favorevoli al lavoro, ma contrari alla fatica, qualunque strumento che consenta di ridurla, recuperando energie per il pensiero, è un fattore di progresso. In fondo il pensiero non ha bisogno di mezzi tecnici, tranne che di un linguaggio; mentre di mezzi tecnici hanno sovente bisogno i prodotti del pensiero: e quanto più questi sono efficienti, tanto meglio è, tanto più il pensiero sarà libero. E così anche i vecchi strumenti di disegno divenuti obsoleti saranno guardati con commozione, come tappe di un illimitato processo di liberazione che anche attraverso di essi sarà passato. figura 07 57 Dispense: 1.5. Disegno 58 Dispense: 1.5. Disegno 59 Dispense: 1.5. Disegno 60 Dispense: 1.5. Disegno 61 Architetture: 2.0. Premessa 2.0. Premessa 2: elogio del copiare L’Architettura si fa con altre architetture: come tante, anche questa è una massima che viene di volta in volta attribuita ad autorità diverse (da Francesco Milizia a Ernesto Nathan Rogers), quasi che la paternità illustre dovesse corroborarne la profondità e la verità. In realtà l’affermazione pare sensata in sé, e neppure troppo originale. Anche la Pittura si fa con altre pitture, anche la Scultura con altre sculture, anche la Musica con altre musiche, anche la Poesia con altre poesie, anche ... Qualunque azione umana riparte da dove era arrivata il giorno prima: eppure per le attività che si usa chiamare artistiche questo principio del tutto elementare viene talvolta messo in dubbio. Principio che è invece facilmente ritenuto indiscutibile nelle attività che si usa chiamare scientifiche o tecnologiche, ed anche in quel caso con una buona dose di superficialità. Nessuno scienziato nella sua ricerca, nessun ingegnere nella sua prassi ripartono mai da zero: ed anche le innovazioni (o le autentiche rivoluzioni), che possono venire da qualcuno di loro tra i più dotati, sono certamente dovute alla genialità di costui, ma altrettanto certamente già contenute in nuce nelle ricerche e nelle prassi precedenti. E’ invece diffusa l’idea che un artista possa ripartire da zero: non tenere conto di tutto quanto è accaduto prima di lui e divenire il protagonista di una nuova palingenesi. Su questa diffusa idea molti artisti ci marciano, contribuendo a rialimentarla ed a mantenerla in vita; tanto da provocare, per contrappeso, ricorrenti rispettose o nostalgiche ideologie del passato. E’ vero che all’artista sono permesse più discontinuità (con il passato) che allo scienziato o all’ingegnere; è vero che il successo delle innovazioni di quello segue logiche diverse dal successo di questi; è vero che la Storia dell’Arte registra più irregolarità di quelle della Scienza o della Tecnologia; ma le differenze si fermano qui. L’assimilazione dell’esperienza del passato, che è qualcosa di più intimo e profondo del mero studio della Storia, è componente irrinunciabile di qualunque formazione: che fare, allora, perché tale assimilazione si inneschi? Risposta (limitata agli architetti?): copiare. 63 Architetture: 2.0. Premessa Cioè ridisegnare, perché solo ridisegnando si riesce ad entrare nel dettaglio di un edificio e comprenderne le coerenze profonde: cosa per la quale nessuno sguardo, anche esperto e non superficiale, è sufficiente. La pratica del ridisegno, un tempo diffusa, è stata progressivamente abbandonata, nell’idea che lo studio libresco potesse bastare; in questo modo si è andato perdendo quel rapporto con la materialità del progetto, che è indispensabile per la sua comprensione. Occorre quindi costruirsi un repertorio di architetture che sempre si guardano, sempre si analizzano, sempre si scompongono, sempre si (ri)disegnano. Con il tempo e l’esperienza, tale repertorio diventerà vasto; da dove iniziare? Costruire un’antologia, specie se stringata ed elementare, è molto difficile; è come esercitare con modestia, responsabilità e senso di misura, la difficile professione del critico. Ecco qualche criterio: 1. iniziare da edifici di piccola misura e destinati ad un numero esiguo di usi: non è conveniente aggiungere alla complessità intrinseca di qualunque edificio quella supplementare di edifici grandi e per un ventaglio ampio di funzioni; 2. iniziare da edifici non troppo lontani nel tempo, ma contemporaneamente non troppo vicini al presente, evitando così sia di dover ricorrere agli strumenti della critica storica sia di dover confrontarsi con oggetti di studio sui quali il giudizio è ancora troppo poco stabilizzato; 3. iniziare da edifici che hanno lasciato traccia nella Storia dell’Architettura, che sono stati cioè in qualche modo legittimati come costruttori della cultura corrente; 4. iniziare da edifici prodotti in ambiti socio-economici e culturali non troppo lontani da quello nel quale ci troviamo oggi ad operare e che, con termine piuttosto sbrigativo, si usa chiamare occidentale. Quella che segue è una proposta coerente a questi criteri, una prima antologia minima formata solo da tre edifici: tre case per una sola famiglia (ciascuna!), realizzate nella parte centrale del Novecento, già consegnate alla Storia e collocate in Europa e negli Stati Uniti. Si tratta di: 1. 2. 3. villa Savoye di Le Corbusier (secondo progetto del 1930); casa Esherick di Louis Kahn (1959); casa Smith di Richard Meier (1965). 64 Architetture: 2.0. Premessa Il loro valore antologico è dato da una sorta di complementarità delle loro caratteristiche. Sono tre edifici costruiti, tuttora esistenti e, almeno per una parte della loro vita, effettivamente utilizzati per lo scopo per il quale furono realizzati: quindi fisicamente e funzionalmente verificati. Sono tre edifici suburbani e per questo privi delle complicazioni determinate dal rapporto con contesti ricchi e complessi: nei quali quindi il rapporto con il luogo, per la semplicità di questo, è chiaro e facilmente comprensibile. Sono tre edifici costruiti da architetti di tre diverse generazioni (del Novecento): Le Corbusier (1887-1965) appartiene alla generazione dei Maestri; Louis Kahn (1901-1974) appartiene alla generazione di mezzo; Richard Meier (1934-vivente) appartiene alla generazione attiva. Sono tre edifici diversi per concezione compositiva: villa Savoye è aperta lungo tutto il suo perimetro; casa Esherick è chiusa su se stessa; casa Smith è orientata secondo un asse. Sono tre edifici diversi per scelta strutturale: pilastri e travi in villa Savoye; setti portanti in casa Esherick; entrambi in casa Smith. Sono tre edifici diversi per schema compositivo delle piante: a griglia in villa Savoye; in linea a casa Esherick; a (due) nuclei, ciascuno con diverso schema, in casa Smith. Fin qui le ragioni che li rendono adatti ad avviare la compilazione di un’antologia; ma se compilare un’antologia è, come si è detto, esercitare il mestiere del critico, allora non può mancare, accanto alle ragioni suddette, piuttosto oggettive, una non sopprimibile quota di tendenziosità. Villa Savoye è in Europa ed è un edificio-manifesto del Razionalismo (altrimenti, e più spesso, detto Movimento Moderno); casa Esherick e casa Smith sono negli Usa: di più, in luoghi dove risiedono le pur recenti radici culturali degli Usa: la Pennsylvania ed il Connecticut. Essi costituiscono quindi ad un tempo una continuazione coerente di quell’esperienza europea e le basi per una sua nuova declinazione in un nuovo contesto (talvolta ostile). I tre edifici proposti, presi nel loro insieme, intendono anche trasmettere un giudizio di vitalità di un approccio all’Architettura che trova le sue radici in Europa negli anni tra le due guerre mondiali e che pare non avere ancora esaurito la sua spinta propulsiva. 65 Architetture: 2.0. Premessa 2.0.1. Un messaggio ai colleghi Non so se qualche collega (in particolare tra quelli impegnati ai primi anni) troverà questo lavoro di una qualche utilità, tanto da consigliarlo ai suoi studenti. Nel fortunato caso, vorrei segnalare la costruzione standardizzata dei testi, delle immagini e dei files riferiti a ciascun edificio. Per ogni edificio sono fornite alcune informazioni essenziali su: 1. Autore: non (più di tanto) notizie sulla vita e sulle opere, facilissimamente reperibili da Wikipedia in giù e, di lì, in vaste bibliografie; ma piuttosto qualche informazione meno scontata e più focalizzata sull’edificio trattato; 2. luogo: in quanto questione spesso trascurata; eppure molte delle scelte compositive sono riconducibili ai caratteri del luogo, peraltro nei casi considerati piuttosto semplici; 3. schema compositivo: mettendo in risalto le coerenze che esso consente con il complesso degli spazi dell’edificio, nella loro misura e nel loro uso; 4. soluzioni costruttive: non tanto nelle loro ragioni e logiche intrinseche, che potranno assai meglio essere trattate dai colleghi tecnici e tecnologi, ma nelle loro relazioni con la concezione compositiva. Sono inoltre fornite alcune immagini: 1. 2. 3. foto (molto poche), disegni bidimensionali, disegni tridimensionali, I disegni derivano da files AutoCad in formato .dwg che sono forniti in una directory dedicata. Il tutto si ferma al di qua di ulteriori possibili elaborazioni come il ridisegno, la scomposizione, l’interpretazione critica e quant’altro la fantasia didattica possa suggerire. Per questo ritengo che possa trattarsi di un materiale di base suscettibile di utilizzazioni diverse, nella più ampia libertà e ben al di là dei ristretti orizzonti del suo primo compilatore. 66 Architetture: 2.1. Le Corbusier - villa Savoye 2.1. Le Corbusier - Villa Savoye Autore figura 00 Charles-Edouard Jeanneret-Gris assumerà il nome d’arte di Le Corbusier (storpiando un poco il nome di un nonno: questa di storpiare i nomi era una sua piccola mania) all’apertura di uno studio tutto suo in rue de Sèvres a Parigi nel 1922. Gli incantati dicono che lo fece per distinguere la sua attività di architetto da quella precedente di pittore; i disincantati dicono che lo fece come gesto di rottura da un passato di orizzonti ristretti e non privo di fallimenti anche economici. Le Corbusier è ancora giovane: era nato a La Chaux-de-Fonds (nel Cantone svizzero del Giura) nel 1887 (il 06 ottobre): ha quindi 35 anni; ne vivrà altri 43, morendo nel 1965 (il 27 agosto) durante una solitaria vacanza a Roquebrune-Cap-Martin sulla Côte d’Azur. Gli basteranno per diventare il protagonista assoluto dell’Architettura del Novecento. Affermare ancora che Le Corbusier è il più grande Maestro del Novecento rischia più che altro di rialimentare polemiche vecchie ed un poco stantìe, dove è stato di volta in volta contrapposto a Walter Gropius, a Mies Van Der Rohe e, soprattutto, a Frank Lloyd Wright. Viene allora in mente una raccomandazione di un altro Maestro (triestino, milanese, di una ventina d’anni più giovane) che ha detto che questi quattro grandi (...) sono i nostri maestri: (...) le loro differenze sembrano a tutta prima ben più evidenti di qualche identità (...): ma se frughiamo fino alle fondamenta della nostra struttura artistica, li troviamo come solide ed insostituibili basi del nostro edificio culturale. Raccomandazione tuttora da seguire, anche da parte dei più giovani: ma se si ragiona a mente sgombra, allora è difficile negare che per trovare un Autore che abbia avuto altrettanta influenza di Le Corbusier su chi è venuto dopo bisogna forse risalire fino a Palladio. Villa Savoye è stata progettata e costruita a cavallo tra gli anni Venti e Trenta per un amministratore di una compagnia di assicurazioni e la sua famiglia; di essa esiste un primo progetto abbandonato (perché ritenuto troppo dispendioso) ed un secondo progetto realizzato. Il confronto tra i due progetti è piuttosto istruttivo per gli indizi che fornisce su come ragiona un progettista (uno dei migliori ...). 67 Architetture: 2.1. Le Corbusier - villa Savoye Villa Savoye è diventata un edificio-manifesto del Movimento Moderno; dopo varie vicissitudini (tra le quali il suo uso come sede delle SS durante l’occupazione nazista della Francia) è stata restaurata, dichiarata nel 1965 monumento nazionale (essendo ministro della cultura André Malraux) ed è oggi visitabile. Nella rete è facile trovare indicazioni: con i mezzi pubblici occorre circa un’ora e mezza dal centro di Parigi, ma ne vale la pena. Luogo figura 01 Poissy è un borgo di circa 35000 abitanti a W-NW di Parigi, sulla riva sinistra della Senna. Villa Savoye fu costruita sul colmo di una piccola altura in uno spazio allora piuttosto libero: perciò si comprende la sua apertura verso il paesaggio, materializzata dall’elemento costruttivo della finestra in lunghezza su tutto il suo perimetro. L’inarrestabile e disordinata espansione edilizia delle banlieues parigine ha in parte fatto venir meno quella iniziale condizione di apertura verso il mondo. Ma è necessario non dimenticarla: villa Savoye è un edificio polare, fu pensato come il centro di qualcosa, era il centro di qualcosa; in nessun modo può essere pensato come un edificio (sia pure) geniale su di un lotto qualunque di una lottizzazione qualunque. figura 02 figura 03 figura 04 Schema compositivo della pianta La pianta è impostata su di una griglia a maglia quadrata di 4.75 metri di passo con qualche anomalia soprattutto in corrispondenza della rampa centrale, la cosiddetta promenade architecturale, che lega i diversi piani tra di loro, a differenza di una scala fatta di gradini, che invece li separerebbe. Sulla rampa si cammina lentamente, contemplando; ma talvolta il tempo per contemplare manca: così esiste anche una scala che, nel progetto realizzato, assume una plastica forma ad elica. Nel primo progetto, abbandonato, essa era a rampa rettilinea e piuttosto fuori dalla vista: un elemento di puro servizio. Nel primo progetto il passo della griglia era di 5.00 metri, e la rampa rettilinea ci stava; avendolo ridotto (per motivi di budget) a 4.75 metri, la rampa rettilinea non ci sta più ed occorre una soluzione diversa: di qui l’invenzione dell’elica. 68 Architetture: 2.1. Le Corbusier - villa Savoye La griglia ordina la struttura, mentre gli spazi si articolano più liberamente (ma non poi così tanto: solo con piccole traslazioni dai rami della griglia) secondo il principio della pianta libera, che, come si vede, è usato con grande senso di misura dal suo stesso inventore. Su due lati opposti della pianta (quello NW e quello SE) il primo piano aggetta di circa 1.20 metri: è un’altra traslazione rispetto alla griglia, motivata soprattutto dal trovare una soluzione pulita per gli angoli delle finestre in lunghezza. figura 05 Soluzioni costruttive La scelta strutturale è a travi e pilastri di calcestruzzo armato; anche i solai sono realizzati con lastre piane di calcestruzzo, il che negli anni ha prodotto qualche inconveniente a causa del fenomeno che i tecnici chiamano fluage. Le proprietà della collaborazione tra conglomerato di cemento ed acciaio erano note da circa un secolo, ma solo nei primi anni del Novecento il materiale iniziava a diffondersi come concreta alternativa alle ingombranti strutture murarie ed alle costose strutture metalliche. E’ la libertà dal muro resa economicamente accessibile: da essa quindi non viene solo una innovazione delle tecniche costruttive, pur importante, ma può venire anche un rinnovamento della composizione e della figurazione. Sono anni in cui è di gran voga la redazione di manifesti artistici e sono molti quelli che si dedicano a scrivere intorno alle diverse arti parole che pretendono di essere definitive. Charles-Edouard Jeanneret-Gris lo aveva già fatto nel 1918 sulla Pittura con l’opuscolo Après le Cubisme scritto a quattro mani con il pittore Amédée Ozenfant. Divenuto Le Corbusier lo rifà nel 1926 sull’Architettura con l’opuscolo Les Cinq Points d'une Nouvelle Architecture scritto a quattro mani con il cugino Pierre Jeanneret, socio dello studio parigino di rue de Sèvres. I cinq points (pilotis, toit-terrasse, plan libre, fenêtre en bandeaux, façade libre) sono totalmente tributari alla tecnologia del calcestruzzo armato; e villa Savoye è un edificio-manifesto soprattutto in quanto è un esempio evidente e compiuto di loro applicazione. figura 06 figura 07 figura 08 69 figura 09 Architetture: 2.1. Le Corbusier - villa Savoye 70 Architetture: 2.1. Le Corbusier - villa Savoye 71 Architetture: 2.1. Le Corbusier - villa Savoye 72 Architetture: 2.1. Le Corbusier - villa Savoye 73 Architetture: 2.1. Le Corbusier - villa Savoye 74 Architetture: 2.2. Louis Kahn - casa Esherick 2.2. Louis Kahn - Casa Esherick Autore figura 00 Nel 1905 la poverissima famiglia Kahn lascia l’Isola di Osel in Estonia (oggi Saaremaa) per gli Stati Uniti d’America; il bambino Louis Isidore ha quattro anni, essendo nato nel 1901 (il 20 febbraio). E’ l’inizio di un sogno americano realizzato (solo in parte: morì povero): Louis Kahn, nato già nel nuovo secolo ed attivo soprattutto nella seconda metà di esso, è forse l’unico Maestro che può stare alla pari dei quattro grandi della prima metà (Wright, Gropius, Mies e Le Corbusier). Eppure Kahn non è stato un talento precoce: cittadino americano dal 1914, dopo varie collaborazioni e consulenze apre uno studio proprio a Philadelphia nel 1947 e riceve il primo incarico importante nel 1952, con il quale inizia ad avere una certa visibilità. E’ un progetto urbanistico per la sua città, col governo della quale aveva peraltro rapporti stabili soprattutto attraverso la locale azienda della casa (per così dire: PHA - Philadelphia Housing Authority). Urbanistica ed Architettura sono inestricabili nella sua attività di progettista; ed anche da quella di insegnante: a Yale dal 1947 al 1957 ed alla Penn (University of Pennsylvania) dal 1957 al 1974, anno della sua morte avvenuta a New York il 17 marzo. Per Kahn l’ordine (o la forma, parole che nel suo linguaggio paiono intercambiabili) viene prima del disegno; e questo non è che l’attualizzazione di quella. Quindi l’ordine, o la forma, assumono quasi una consistenza metafisica: fatto che più che da qualunque saggio critico può essere compreso appieno dal film su di lui che il suo ultimo figlio Nathaniel (avuto dalla terza ed ultima compagna ed a malapena conosciuto) ha scritto e diretto nel 2003 e che si intitola My Architect - a Son’s Journey. Se avvicinarsi all’Architettura può essere paragonato all’avvicinarsi ad una religione (come ha sostenuto un architetto ticinese che lo conobbe personalmente), allora l’architettura di Kahn è la più adatta per una simile avventura dello spirito. Casa Esherick è stata progettata e costruita a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta per la colta signora Margaret, che viveva da sola. 75 Architetture: 2.2. Louis Kahn - casa Esherick La casa è un esempio ammirevole e commovente di estetica della chiarezza: la regolarità delle sue geometrie; la doppia altezza del soggiorno, che lo palesa come spazio principale; la simmetria dei camini, che ne rendono tangibile la compiutezza di forma dimostrano l’esistenza di una forza figurativa della semplicità e la possibilità di praticarla. Per questo l’edificio è anche molto didattico. Luogo figura 01 Chestnut Hill è un sobborgo di Philadelphia a N-NW del centro, dal quale dista una decina di km. Casa Esherick è al termine di una via cieca (Sunrise Lane), ai margini di un parco (Pastorius Park) e letteralmente immersa in una vegetazione ricca e fitta: le aperture inventate da Kahn filtrano verso l’interno della casa una luce da quella già prima filtrata. Così l’edificio ed il suo giardino determinano uno spazio che può essere definito introverso, privo di lunghe visuali, riflesso su se stesso. La non grande misura della casa (il suo ingombro a terra è di meno di mq 130) è bilanciata dallo stretto rapporto tra interno ed esterno, quest’ultimo a sua volta delimitato da pavimentazioni ed arredi fissi nella parte più immediatamente contigua all’edificio. figura 02 figura 03 figura 04 Schema compositivo della pianta La pianta è impostata su di una sequenza di quattro ambiti rettangolari accostati linearmente sui loro lati lunghi, di profondità uniforme e di larghezza frontale variabile. Non è difficile trovare una coerente (e piuttosto precisa) concezione modulare nel dimensionamento degli ambiti: la loro profondità uniforme è di 28 ft mentre la larghezza di ciascuno (da NE a SW) è di 10, 12, 6, 12 ft, per un totale di 40 ft. Ricordando a questo punto una classificazione degli spazi di un edificio proposta dallo stesso Kahn e che ha avuto successo, gli ambiti stretti contengono spazi serventi (cioè per i collegamenti ed i servizi) e quelli larghi contengono spazi serviti (cioè per gli usi specifici dell’edificio: in questo caso quelli della casa: il soggiorno, il pranzo, la stanza da letto). 76 Architetture: 2.2. Louis Kahn - casa Esherick La linea degli ambiti è anche visivamente terminata da due camini collocati sulle opposte testate: uno (in uno spazio servito) per l’arredo del soggiorno ed uno (in uno spazio servente e più complesso) in dotazione alla cucina e come elemento di un originale sistema di climatizzazione dell’intero edificio. La facilità con la quale la composizione di casa Esherick può essere descritta a parole è essa stessa un’ulteriore modo (metalinguistico) per significare l’idea di ordine (o di forma) dell’Autore. figura 05 Soluzioni costruttive La scelta strutturale é a murature portanti, in forma di setti disposti trasversalmente alla linea degli ambiti e coincidenti con i lati lunghi di questi. In una linea la disposizione trasversale dei setti portanti è la più ragionevole, perché libera da incombenze strutturali quelle parti delle facciate nelle quali è più opportuna la finestratura. Così come l’ordine viene prima del disegno in Kahn anche il pensiero costruttivo viene prima della concreta messa in opera degli elementi strutturali ed abita negli spazi astratti delle idee generali, dove tutto si tiene. Il muro non è quindi una costrizione o un vincolo: quindi non occorre liberarsi dalla sua schiavitù, che non esiste; il muro è al contrario un modo per dare caratteri agli spazi, renderne evidente la forma e la compiutezza, distinguere i serventi dai serviti. Sono passati pochi decenni dalle profezie lecorbuseriane sulla pianta libera e già si afferma una concezione più matura del rapporto tra spazio e costruzione, in forza della quale i bordi degli spazi e gli ingombri strutturali tendenzialmente coincidono, a meno a che ... A meno a che potenti ragioni espressive (e null’altro che ragioni espressive) non inducano a qualche licenza (cauta licenza) rispetto a quel principio. figura 06 figura 07 figura 08 77 figura 09 Architetture: 2.2. Louis Kahn - casa Esherick 78 Architetture: 2.2. Louis Kahn - casa Esherick 79 Architetture: 2.2. Louis Kahn - casa Esherick 80 Architetture: 2.2. Louis Kahn - casa Esherick 81 Architetture: 2.2. Louis Kahn - casa Esherick 82 Architetture: 2.3. Richard Meier - casa Smith 2.3. Richard Meier - Casa Smith Autore figura 00 Nel 1979 l’americano Jay Pritzker, proprietario di una catena di alberghi, istituì un premio annuale per un architetto che, oltre che bravo, fosse anche vivente ed avesse costruito molto; sostenne così di aver colmato una svista di Alfred Nobel. Pur evitando paragoni troppo facili e superficiali, è indubbio che nei suoi trent’anni di esistenza il premio si sia conquistato ed abbia mantenuto un elevato prestigio, il che lo rende molto ambito. Richard Meier lo conseguì nel 1984, quando aveva (quasi) cinquant’anni, essendo nato a Newark, NJ nel Columbus Day del 1934: in quel momento era il più giovane dei già premiati (la cui età media era di 64.4 anni) e lo è tuttora anche rispetto a tutti i premiati dopo (la cui età media è di 63.8 anni). Uno studio statistico sul premio può essere interessante per capire qualcosa sul mondo della professione: per esempio dei 33 ai quali è stato conferito (nel 1988 e nel 2001 furono in due), si trovano solo una donna (Zaha Hadid) e solo due italiani (Rossi e Piano). Meier si afferma presto: a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta una mostra del MoMA ed un libro importante presentano l’opera di cinque architetti (gli altri quattro sono Hejduk, Eisenmann, Graves e Gwathmey), che acquisteranno visibilità come gruppo, dal titolo del libro denominato Five Architects. Il sodalizio, peraltro presente più in giudizi critici pur molto autorevoli che in una prassi di lavoro comune, si scioglie pochi anni dopo e ciascuno dei Five intraprende e segue un percorso autonomo (solo quello di John Hejduk si interrompe, prematuramente, nel 2000). In comune avevano forse la resistenza ad una concezione riduttiva dell’Architettura che si manifestata nel brutalismo costruttivo e nel funzionalismo spaziale, esiti banali di un indebolimento in atto della spinta propulsiva del razionalismo europeo: e quindi l’obiettivo di contrastare quell’indebolimento. In comune avevano di sicuro la città di New York, che in quegli anni stava conquistando il rango di capitale culturale del mondo (che peraltro, a causa dei processi di globalizzazione, fatica a tenere). Casa Smith fu progettata e costruita tra il 1965 ed il 1967 ed è uno dei progetti esposti alla mostra del MoMA, dove le opere presentate erano quasi tutte ville residenziali per committenze danarose. 83 Architetture: 2.3. Richard Meier - casa Smith Casa Smith esprime in modo chiaro l’idea di Meier che un edificio sia un sistema di sistemi e che il compito della Composizione sia quindi di cogliere la specificità di ciascuno di quei sistemi e di condurre tutti a coerenza entro un unico sistema. Meier stesso, con pochi disegnetti elementari quanto efficaci, esprime questa non facile prassi, attraverso la quale riesce a fare in modo che le sue architetture appaiano, come ha osservato un famoso professore polacco-inglese, le espressioni di un ordine inevitabile, il quale è ritenuto esistente a priori. Non sfugge una certa quota di metafisica, che è forse la più caratteristica marca della declinazione americana dell’esperienza del Movimento Moderno europeo; ed è quindi il riconoscimento, leale e misurato, di un riconosciuto tributo culturale. Luogo figura 01 Darien è una piccola città che si affaccia sul Long Island Sound, un braccio di mare dell’Oceano Atlantico compreso tra la costa dello stato del Connecticut e l’isola di Long Island, parte della quale è occupata da Queens, primo borough per estensione (e secondo per popolazione) della città di New York. Casa Smith si affaccia direttamente sulla costa, schermata verso terra dalla vegetazione ed aperta verso il mare. Questa posizione induce una forte assialità nella sua composizione in direzione ortogonale alla riva; le grandi vetrate del soggiorno consentono di godere della vista del mare, lontano solo una cinquantina di metri, e di un ridosso per piccole barche, ancora più vicino. Dalla parte opposta alla riva prevalgono invece le facciate chiuse, con piccole aperture per le stanze da letto ed i servizi. figura 02 figura 03 figura 04 Schema compositivo della pianta La pianta è impostata sulla giustapposizione sul lato lungo di due ambiti rettangolari simili nelle misure, ma diversi per concezione compositiva, contenuti funzionali e soluzioni costruttive. L’ambito di SE, verso il mare, è occupato soprattutto dal grande volume del soggiorno, parzialmente sviluppato in doppia e tripla altezza. 84 Architetture: 2.3. Richard Meier - casa Smith L’ambito di NW, verso l’entroterra, è suddiviso sia in verticale da solai che in orizzontale da setti ed è occupato dai piccoli spazi della cucina, dei servizi e delle stanze da letto. L’ambito di SE rimanda alla pianta libera, quello di NW alla organizzazione seriale degli spazi. Due concezioni planimetriche diverse, ciascuna coerente in sé, sono forzate a coesistere con il semplice provvedimento dell’accostamento, rinforzato ed enfatizzato dal sistema della circolazione orizzontale e verticale. Gli spazi della distribuzione sia orizzontale (corridoi, ballatoi) che verticale (scale, rampe), cioè il sistema della circolazione ha per Meier un ruolo primario nel condurre a coerenza gli altri sistemi: in questo non è difficile riconoscere un riferimento lecorbuseriano, seppure depurato dalla carica simbolica che esso aveva nel Maestro e risolto con la semplice (si fa per dire!) maestria compositiva. figura 05 Soluzioni costruttive I due ambiti che formano la pianta sono diversi anche per scelte strutturali. Nell’ambito di SE la scelta è per travi e pilastri, questi ultimi svincolati tanto dalla pianta che dalla facciata (e non è chi non veda, anche qui, un riferimento lecorbuseriano); nell’ambito di NW la scelta è per setti portanti disposti parallelamente ai lati corti. Un simile ibrido strutturale (che Meier userà anche in altre sue opere) sembra contenere un insegnamento: che esso è sostenibile se e solo se scelte strutturali diverse sono chiaramente delimitate in ambiti diversi e coerenti a diverse esigenze funzionali ed a diverse concezioni spaziali. I pilastri dell’ambito a pianta libera sono di acciaio inox e questo sembra corrispondere solo al fatto che si tratta di un materiale all’epoca molto comune nelle finiture e nel design. I setti e le pareti perimetrali dell’altro ambito sono di legno e questo induce ad interpretazioni più sottili. La casa di legno, che nel sud dell’Europa evoca la baracca e quindi i baraccati, è piuttosto normale negli Stati Uniti; anzi, un certo modo di mettere in opera il legno (chiamato balloon frame) corrisponde ad un contesto di grande disponibilità di materia prima e di bassa qualificazione operaia che doveva caratterizzare gli Usa degli inizi. 85 Architetture: 2.3. Richard Meier - casa Smith Certo quella tecnologia del legno si è evoluta e perfezionata, ma è tuttora impiegata in modi concettualmente e praticamente non troppo diversi da quelli delle origini. Così se in Meier la composizione è europea, la costruzione è americana e la ricerca del coerente connubio tra le due esprime compiutamente il suo stesso consistere culturale in equilibrio tra le radici (intellettuali) europee ed il presente (pratico) americano. Casa Smith è di acciaio, di vetro e di legno, solo il camino è di muro: ed anche in questo si potrebbe forse trovare qualche significato. figura 06 figura 07 figura 08 86 figura 09 Architetture: 2.3. Richard Meier - casa Smith 87 Architetture: 2.3. Richard Meier - casa Smith 88 Architetture: 2.3. Richard Meier - casa Smith 89 Architetture: 2.3. Richard Meier - casa Smith 90 Architetture: 2.3. Richard Meier - casa Smith 91 Libri: 3.0. Premessa 3.0. Premessa 3: elogio del canone 233 è la conversione nei (per noi) consueti gradi centigradi di 451 gradi fahrenheit, temperatura alla quale la carta prende fuoco, come ricordano un racconto scritto da un americano e, dopo, un film diretto da un francese. Nella ricca simbologia che si è andata consolidando intorno al libro, il rogo dei libri rappresenta la repressione, l’eclisse della civiltà, l’eterno ritorno della barbarie. Il rogo, peraltro, non elimina il libro tout court, ma elimina il libro scomodo, antagonista, degenerato: anch’esso è quindi, paradossalmente, una conferma della necessità del libro. E’ la solita suddivisione tra canonici ed apocrifi: in forza della quale talvolta si teorizza (e si pratica) che la difesa dei primi comporti necessariamente la distruzione dei secondi. Cioè: sempre di libri si tratta. Oggi le deprimenti statistiche (che è facile trovare nella rete) intorno alla lettura in Italia ci convincono che lo scontro si è spostato: non è più tra libri e libri, ma è tra libri e nulla. Con solo apparente paradosso, questo riabilita il canone, pur con qualche necessario aggiornamento del concetto. Canonici non sono più gli unici libri che è lecito leggere e necessario per essere degni di una religione o di una ideologia; canonici non sono più i libri che contengono l’unica ed indiscutibile verità; canonici sono adesso i libri che è utile leggere per primi, per formarsi un’attitudine critica che permetta di non restare prigionieri di qualche integralismo religioso o ideologico. Se questo è possibile, allora qualunque cosa può essere letta dopo, perché su di essa potrà esercitarsi la riflessione critica; il rogo non solo non è più necessario, ma anzi potrebbe essere controproducente allo sviluppo della libera personalità individuale e sociale, che ormai è compresa e sentita come un valore. In questo senso qui viene proposto un canone di sei libri facili da trovare e da leggere; è molto meno di quello che è richiesto per aderire ad una qualunque delle religioni monoteiste e del resto l’Architettura non è una religione, malgrado quello che anche grandi Maestri possono al riguardo aver pensato ed anche esternato. Di ogni libro sarà compilata una scheda standard, uguale per tutti e formata da quattro parti: qualche nota sull’Autore più l’individuazione di tre parole chiave e qualche nota su ciascuna. 93 Libri: 3.0. Premessa I testi sono integrati con figure pertinenti, anche se non sempre provenienti dal libro. E’ presente anche qui una sorta di furia simmetrica che caratterizza l’insieme di questo lavoro e che corrisponde alla mentalità di chi scrive, al quale sembra che gli schematismi e le forzature che essa può introdurre siano ad abundantiam controbilanciati dalla facilità di memorizzare per questa via alcune nozioni fondamentali. Dell’Autore del libro non si racconterà la vita, ma piuttosto il contesto nel quale si trovò ad agire; del libro non si racconteranno i contenuti, ma alcune riflessioni che essi possono provocare, integrate talvolta da alcune citazioni da altri libri che essepossono suggerire. Come sempre, mancheranno note e riferimenti, peraltro (come sempre) accurati; ed il gioco di scoprirli continua ... Raccontare i libri è una pratica deplorevole, quasi quanto quella di prestarli; i libri vanno letti e le schede che seguono ne vogliono promuovere, ma anche rendere inevitabile, la lettura. Pure nella scelta dei libri canonici non è estranea una certa voglia di simmetria. I libri sono sei: uno di un Maestro antico (si fa per dire: tra il XVIII ed il XIX Secolo); tre di tre costruttori europei dell’Architettura del Novecento; due di due italiani del secondo dopoguerra. Si disegna così un percorso: dalle origini, alla fondazione teorica, alle verifiche pratiche, alla declinazione locale; ecco allora i libri, nella edizione italiana utilizzata (che è quella della mia biblioteca personale), ma anche con indicazione del luogo e dell’anno della prima edizione. 1. Durand, Jean-Nicolas Louis Lezioni di Architettura CittàStudi - Milano, 1986 prima edizione: Paris, 1821 2. Le Corbusier Verso una Architettura Longanesi & C. - Milano, 1984 prima edizione: Paris, 1923 3. Neufert, Ernst Enciclopedia Pratica per Progettare Costruire Hoepli - Milano, 1958 prima edizione: Berlin, 1936 94 Libri: 3.0. Premessa 4. Klein, Alexander a cura di Baffa Rivolta, Matilde e Rossari, Augusto Scritti e Progetti dal 1906 al 1957 Mazzotta - Milano, 1975 prima edizione: editori vari, anni vari 5. Rogers, Ernesto Nathan Esperienza dell’Architettura Skira - Milano 1997 prima edizione: Torino, 1958 6. Rossi, Aldo L’Architettura della Città Marsilio - Padova, 1966 prima edizione: Padova, 1966 Questi non sono i libri scevri di dubbi dati come guida per i timorati di Dio i quali credono nell’Invisibile; sono piuttosto libri forniti ai dubbiosi, che tuttavia vogliono vedere: ma che, con l’ausilio di essi, potranno rendere i loro sguardi più profondi e guardare con più disincanto. 3.0.1. Un messaggio ai colleghi Non so se qualche collega (in particolare tra quelli impegnati ai primi anni) troverà questo lavoro di una qualche utilità, tanto da consigliarlo ai suoi studenti. Nel fortunato caso, vorrei segnalare la costruzione modulare delle schede, che ne permette facili emendamenti. Sono consapevole che sia l’individuazione dei libri (per coloro che non si accontentano di credere nell’Invisibile) che il modo con il quale sono schedati (parola desueta in riferimento ai libri: peccato!) sono pesantemente tendenziosi. Non pretendo di avere trovato i libri giusti ed anzi sono sinceramente convinto che i libri giusti non esistano: ma questo non significa che allora si debba smettere di cercarli. In altre parole mi pare giusta l’idea di indicare le letture per cominciare, mi pare che tutti coloro che hanno a che fare con studenti esordienti dovrebbero faro: per ragioni (credo) abbastanza evidenti ed anche perché è un gesto di lealtà intellettuale. Intorno a quali letture indicare (e perché) ed intorno a come indicarle (e perché così) il campo è aperto: ho solo tentato una proposta che spero funzioni. 95 Libri: 3.1.Durand 3.1. Lezioni di Architettura - di Jean-Nicolas Louis Durand Autore figura 00 Jean-Nicolas Louis Durand nacque a Parigi nel 1760 (18 settembre) e morì poco lontano, a Thiais nel 1834 (31 dicembre). Fu allievo di Etienne-Louis Boullée (1728-1799) e, come il (suo) Maestro, tendenzialmente un eclettico erudito, attratto dalle strutture rinascimentali e anche medievali. Erano quelli anni di rifondazione culturale; la rivoluzione francese induceva in molti intellettuali una sentita necessità di palingenesi; per di più, i nuovi valori stavano imponendosi in Europa; con la forza del convincimento ed ancor più sulla punta delle baionette di Bonaparte. Come in ogni fase di transizione, si poneva ad un tempo il problema di immaginare il futuro e di non sprecare il passato. Nel libro Durand espone la sua soluzione ad esso, che può essere riassunta in una nuova razionalità per la disposizione di vecchi stilemi. Il libro è principalmente un ausilio alla sua attività didattica, che si sviluppò all’ École Polytechnique dal 1795 al 1830, con la quale fissò alcuni canoni dell'architettura ottocentesca e contemporaneamente anticipò alcuni aspetti del Razionalismo moderno. Con la sua attività teorica Durand esercitò grande influenza in Francia ed in Germania; risulta peraltro che abbia costruito un solo edificio: casa Lathuile a Parigi, demolita, ma il cui disegno è visibile in una delle tante tavole grafiche del libro. figura 01 Parole chiave dell’opera figura 02 Dopo alcune anticipazioni, la prima edizione definitiva del libro è del 1821 a Parigi. La lettura di Lezioni di Architettura, il cui titolo originale è Précis des Leçons d’Architecture, può, tra le altre, suggerire le seguenti parole chiave: • • • Ragione, Schema, Interasse. 97 Libri: 3.1.Durand Ragione Durand dà forma compiuta all’idea che l’Architettura sia riconducibile a criteri oggettivi, segnando così una tappa importante in un processo avviatosi (soprattutto in Italia) in epoca post-barocca e al suo tempo ancora in atto Secondo Durand scopi dell'architettura sono: 1. 2. 3. l'utilità pubblica e privata, la conservazione, il benessere degli individui, delle famiglie e della società, che sono ottenuti attraverso principi costruttivi: 1. 2. relativi alla convenienza: la solidità, la salubrità, la comodità; relativi all'economia: la simmetria, la regolarità, la semplicità. Arriva ad affermare che “... non si deve cercar di rendere piacevole un edificio, poiché se ci si dedica interamente a rispondere alle esigenze pratiche, è impossibile che l’opera non sia anche piacevole”. Con la sensibilità di oggi questa posizione pare contenere un eccesso di estremismo: ma non è così se essa (come sempre si dovrebbe fare) viene collocata nel suo tempo, e cioè nella battaglia per l’affermazione di nuove forme di pensiero; e nel suo luogo, e cioè nella profonda rivoluzione colà in atto, culturale oltre che politica. Aldo Rossi sosterrà che non solo la costruzione di un ambiente propizio alla vita, ma anche l’intenzionalità estetica sono caratteri stabili dell’architettura: ma Rossi arriva un secolo e mezzo dopo, quando alcuni valori ancora in bilico ai tempi di Durand si sono ormai affermati e stabilizzati. figura 03 Schema Uno schema geometrico astratto ordina gli spazi di un edificio sia in pianta che in alzato, cioè nelle tre dimensioni: lo schema si forma per accostamento di figure semplici, così come l’edificio è una composizione di elementi semplici. Durand può con puntigliosa analiticità elencare gli elementi semplici (nella prima parte del libro) e gli edifici semplici (nella seconda parte del libro) dimostrando che la sua semplificazione dei processi compositivi non impedisce la varietà degli esiti: cioè non inibisce l’invenzione, il che è possibile perché la sua è una semplificazione concettuale piuttosto che operativa. 98 Libri: 3.1.Durand Quella semplificazione consente inoltre di evitare le insidie nascoste in qualunque arbitraria suddivisione in parti dell’Architettura: in particolare quella che la vorrebbe suddivisa in decorazione, distribuzione e costruzione. La suddivisione dell’Architettura in parti impedisce di vedere l’idea generale dalla quale le idee particolari delle diverse parti derivano: l’Architettura è quindi sostanzialmente un fatto unitario che trova la sua unità in un’unica idea semplice. E questa idea semplice è esprimibile in termini geometrici, anzi è essa stessa geometria. Le conclusioni di Durand sono riduzioniste: tutte le attività umane sono solo apparentemente complicate: ciascuna può essere chiarita se si scopre il fattore dal quale deriva; e (fideisticamente) questo è di sicuro unico e semplice. Il Secolo XIX, all’inizio del quale Durand si colloca, sarà ampiamente percorso da questa ingenua fiducia, che porterà, ad esempio a pensare il comportamento sociale come determinato dal denaro o il comportamento individuale dalla sessualità. A questa ingenua fiducia, alla quale oggi tendiamo a guardare con disincantata sufficienza, dobbiamo progressi materiali e spirituali irreversibili: conserviamo quindi il presente disincanto, ma non indulgiamo troppo nella sufficienza. figura 04 Interasse La ricerca compositiva ignora gli spessori. Questa nozione piuttosto elementare, ma (chissà perché ...) difficile da assimilare, può essere vista e compresa anche solo guardando attentamente qualche progetto ben anteriore al XIX Secolo. Durand la porta a definitiva chiarezza definendo il concetto di entr’axe, normalmente tradotto con interasse: termine corretto, ma che in italiano evoca l’Ingegneria Meccanica piuttosto che l’Architettura e che quindi, parlando di questa, appare improprio. Parlando di Architettura ha più successo il termine modulo ed in effetti in molti passi di Durand la sua sostituzione ad interasse non ne falsa il senso. Ma esiste una sottile differenza: l’interasse è un concetto geometrico, mentre il modulo è un concetto metrico; il primo riguarda le forme, il secondo riguarda le misure. 99 Libri: 3.1.Durand Il primo è anche relativamente indipendente dal concetto di misura, limitandosi a determinare rapporti: non quindi valori assoluti, ma proporzioni; il secondo è invece propriamente una misura, anzi, una piccola misura (modulus è diminutivo di modus: è latino!) e quindi derivante da ragioni funzionali più che compositive. Come un aneddoto, ricorderemo che quando il signor Savoye contestò a Le Corbusier l’eccessivo preventivo per la villa di Poissy, il Maestro ridusse le spese (anche) agendo sull’ entr’axe: portandolo dai 5.00 metri del primo progetto ai 4.75 di quello poi realizzato. Anche lui doveva essere stato a lezione da Durand. figura 05 100 Libri: 3.1.Durand 101 Libri: 3.1.Durand 102 Libri: 3.1.Durand 103 Libri: 3.2.Le Corbusier 3.2. Verso una Architettura - di Le Corbusier Autore figura 00 Le Corbusier, principale Maestro del Novecento, nato a La Chaux- deFonds nel 1887 (il 06 ottobre) e morto a Roquebrune-Cap-Martin nel 1965 (il 27 agosto) fu all’inizio della sua carriera anche uno scrittore di manifesti. Nel 1918, insieme con il pittore Amédée Ozenfant pubblica un manifesto sulla Pittura (Aprés le Cubisme) nel quale postula la necessità di purezza nel fare Arte: “... l'opera non deve essere accidentale, eccezionale, impressionista, inorganica, protestataria, pittoresca, ma piuttosto generale, statica, espressiva dell'invariante ...”. Nel 1923, insieme con il suo (sottovalutato) socio e cugino Pierre Jeanneret pubblica un manifesto sull’Architettura (Vers une Architecture) dove raccoglie ed integra articoli ed interventi degli ultimi anni sulla sua rivista Esprit Nouveau. Quelli erano anni in cui si scrivevano molti manifesti artistici in Europa. Già prima della Prima Guerra Mondiale (1914 - 1918) il sistema di equilibri europei uscito un secolo prima dalla caduta di Napoleone e dal congresso di Vienna (1815) mostrava evidenti segni di logoramento. La guerra, da essi provocata, ne provoca un’imprevedibile accelerazione: non solo sistemi politici, ma anche sociali e culturali collassano e si diffonde (nel mondo, ma soprattutto nel vecchio mondo) un clima da nuovo inizio. E’ in questo contesto che Le Corbusier inizia il suo cammino. figura 01 Parole chiave dell’opera figura 02 La prima edizione del libro è del 1923 a Parigi. La lettura di Verso una Architettura, traduzione letterale del titolo originale Vers une Architecture (compreso il vezzo di non apostrofare una, perché in francese non si fa), può, tra le altre, suggerire le seguenti parole chiave: • • • Manifesto, Matematica, Semplicità. 105 Libri: 3.2.Le Corbusier Manifesto Il manifesto è uno scritto breve e perentorio: afferma con decisione escludendo dubbi e problematicità. Tutto il contrario del trattato, dal quale ci si aspetta invece che sia esauriente ed argomentato. Fin dagli splendori della civiltà romana l’evoluzione dell’Architettura si riflette nella successione dei trattati, l’impianto concettuale dei quali si mantiene per secoli omogeneo e consiste nella presenza simultanea di norme, consigli e regole pratiche (tipici del manuale) con precetti filosofici, figurativi ed estetici (tipici del canone). Nel Novecento questo ha fine: dalla trattatistica dei secoli precedenti si stacca una pratica manualistica, che si limita a sistematizzare e trasmettere quelle regole dell’arte che apparivano più consolidate. Del vecchio trattato resta esclusa la componente di fondazione culturale, che si costituisce in modo autonomo ed assume la forma del libello apodittico e predicatorio. Mentre il manuale implica in sé la prassi dell’aggiornamento, il manifesto ha la pretesa di essere definitivo, obiettivo che sistematicamente gli sfugge proprio per la sua strutturale, e perciò inevitabile, astrattezza. Del manifesto restano allora alcuni brandelli, tuttavia in sé sufficienti al progresso del pensiero nelle discipline delle quali si occupa e sulle quali ha inteso dire parole finali. E se il manifesto ha colto davvero il senso del tempo che lo ha prodotto, allora quei brandelli sono anche imprescindibili per qualunque ragionamento dei tempi successivi: e davvero per un’opera di costruzione culturale come Verso una Architettura non si sarebbe potuto desiderare destino un migliore. figura 03 Matematica Un uomo ingenuo afferma che a scuola era un disastro in matematica, materia che gli ispirava solo angoscia e ripugnanza; giorno dopo giorno questo ingenuo si rende conto che la sua arte è governata da una regola; si accorge che avendo oltrepassato la porta dei miracoli, la sua buona stella lo ha condotto in un giardino dove fioriscono i numeri. Da Verso una Architettura passano 25 anni prima che alcune affermazioni là contenute in modo sparso e non privo di emotività si coagulino in una simile conclusione tanto decisa e lucida. 106 Libri: 3.2.Le Corbusier L’uomo ingenuo riconosce la regola e la saluta con gioia; quindi la regola esisteva da sempre, ma è difficile da cogliere, perché si fa vedere lentamente, giorno dopo giorno. All’inizio essa può solo essere intuita. Oggi gli architetti non realizzano più le forme semplici. Operando col calcolo, gli ingegneri usano forme geometriche, appagano gli occhi con la geometria e lo spirito con la matematica. La geometria appaga gli occhi, la matematica appaga lo spirito: e poiché la sensibilità umana è (deve essere) essenzialmente unitaria, allora deve esistere da qualche parte un ambito in cui geometria e matematica coincidono. Alcuni sinceramente lo pensano: tale ambito non esaurisce tutta la geometria, né tutta la matematica, ma esiste; è grazie ad esso che un architetto, come tale necessariamente dotato di occhio spaziale, può cavarsela con onore in matematica. E anche, più di rado, un buon matematico può simulare di essere un discreto architetto; ma non c’è dubbio a quale delle due suddette categorie il Nostro (disastro in matematica in gioventù) appartenesse. figura 04 Semplicità Un abbondante secolo prima uno scrittore neoclassico compilò un dizionario di Architettura dove si legge: “... lo studio della composizione non deve consistere nel disegnare sulla carta (...). Avverrà bene spesso che tutti questi sforzi, di cui l’immaginazione è feconda in disegno, o presenteranno delle parti ineseguibili, o esigeranno, per essere realizzate, incalcolabili spese. (...) Dobbiamo pur dirlo, i tempi moderni introducono forse troppo (...). E’ senza dubbio ottima cosa l’esercitare la immaginazione, ma questo deve farsi con molta cautela ...”. Esiste una semplicità che è l’esatto contrario della semplificazione che tutto banalizza e riduce a luogo (senso) comune; esiste una semplicità che è un faticoso punto di arrivo raggiunto attraverso una rigida disciplina, l’eliminazione del superfluo, la critica dell’inutile, il costante esercizio del senso della misura. Tale sobrietà attraversa la cultura europea, almeno dai tempi dell’aurea mediocritas oraziana in poi, con alterno successo ed una costante condizione, paradossale perché ad un tempo minoritaria e nobile. 107 Libri: 3.2.Le Corbusier In Architettura quella sobria semplicità è da molti considerata un valore (assoluto): che cos’è l’Architettura? Gioco di forme semplici che la luce esalta, superfici che non devono distruggere i volumi, piante che contengono già in sé quelle superfici e quei volumi, pura creazione dello spirito ... La semplicità concettuale ed esistenziale si riflette in Architettura nella semplicità costruttiva: la coerenza tra spazio e struttura, così come l’economia dell’impresa, sono garantite. Piroscafi, aerei ed auto hanno già raggiunto questo stadio; l’Architettura può farcela: ed una casa che lo dimostra si chiama quasi come un’auto. figura 05 108 Libri: 3.2.Le Corbusier 109 Libri: 3.2.Le Corbusier 110 Libri: 3.2.Le Corbusier 111 Libri: 3.3.Neufert 3.3. Enciclopedia Pratica ... - di Ernst Neufert Autore figura 00 La vicenda di Ernst Neufert, nato a Friburgo nel 1900 (il 15 marzo) e morto a Bugeaux-sur-Rolle nel 1986 (il 23 febbraio), sembra una di quelle che riassumono in sé la fatica di vivere in un secolo contraddittorio come il Novecento. Operaio minorile, si fa poi notare in una scuola per muratori, il che gli propizia l’incontro con Gropius e la sua scuola; durante un viaggio in Spagna è folgorato da Gaudì, ma poi torna come insegnante alla Bauhaus dove trova anche moglie; quando il governo nazista chiude la Bauhaus cambia scuola, ma poco dopo il governo chiude anche quella. Costruisce qualcosa, ma soprattutto scrive il libro; va in America e prende contatto con Wright, nella speranza che lo aiuti a trovare lavoro lì; non lo aiuta e quindi torna in Germania, anche perché il libro sta andando molto bene; Speer gli offre un incarico pubblico che accetta. Passa indenne i disastri (e le responsabilità tedesche) della guerra e nel dopoguerra insegna (a Darmstadt) e progetta insieme con il primogenito Peter; muore vecchio abbastanza nel suo buen retiro svizzero. Diversamente dalle note sugli altri Autori, in questa ci si è un poco dilungati sulla vita del personaggio, tanto superficiale ed ideologicamente malferma quanto il suo libro, per il quale è passato alla Storia, è coerente e rigoroso. Forse per questo la Storia, che glorifica il libro, ricorda poco l’Autore; forse non riesce a spiegare come un’opera tanto controllata e severa possa essere venuta da uno che si muoveva con apparente indifferenza tra il misticismo catalano, il pragmatismo della frontiera americana ed il delirio di onnipotenza della Germania nazista. Resta il dato della imprescindibilità del libro, ineguagliabile strumento di formazione ed utensile all life long per chi si occupi di dare misura, coerenza, funzionalità ed organizzazione agli spazi dell’Architettura. figura 01 Parole chiave dell’opera figura 02 La prima edizione del libro è del 1936 a Berlino. 113 Libri: 3.3.Neufert La lettura del libro di Neufert, il cui pur ellittico titolo italiano completo ha richiesto cinque parole (Enciclopedia Pratica per Progettare Costruire) contro una del titolo originale (Bauentwurfslehre),può, tra le altre, suggerire le seguenti parole chiave: • • • Misura Umana, Classificazione, Standardizzazione. Ma prima di occuparsene pare necessario non eludere una domanda: è l’Enciclopedia ... di Neufert un libro da leggere? O non è solo un manuale da consultare? La salomonica risposta (ed anche quella più convincente) è che il libro è entrambe le cose: usarlo come un’opera solo da consultare può essere riduttivo, perché proprio nella sua puntigliosa esaustività e nell’ordine con cui questa è esposta si annida una visione del mestiere (di architetto) che solo la lettura sistematica (da pag. 1 in poi ...) può svelare. Giova anche osservare che questo è possibile ed ha senso solo se si usa un’edizione datata del libro, prima che le aggiunte apocrife delle edizioni recenti, nell’irrealizzabile ed insensata idea di aggiornarlo, non ne avessero snaturato la concezione. Misura Umana Noi ci rendiamo (...) subito esattamente conto delle dimensioni di un oggetto quando vi vediamo vicino un uomo sia ciò al vero che nella sua rappresentazione grafica. Le misure del corpo umano non sono quindi solamente (e banalmente) un insieme di dati di partenza per calcolare la misura giusta di oggetti e di spazi, cioè di quelle cose create dall’uomo per servirlo e quindi (...) dimensionate in rapporto a lui. Esse sono anche un punto di riferimento per l’idea stessa di misura che ciascuno (chi più, chi meno) porta in sé: il concetto della grandezza di qualsiasi cosa è per noi, ancora oggi, meglio afferrabile se ... viene comparata alle misure del corpo umano o di sue parti (braccio, piede, spanna, pollice ...): questi sono concetti innati in noi e che stanno, si può dire, nel nostro sangue. E’ passato del tempo, ed oggi, con maggiore precisione scientifica, si direbbe nel nostro codice genetico; ma per il resto la cosa è nella sostanza ancora del tutto sostenibile. Per questo il libro si presta alla doppia lettura prima osservata; per questo nelle sue versioni primitive è e resta di gran lunga superiore alle tante opere simili stampate in seguito, incluso il nostrano Manuale dell’Architetto (tranne la sua prima edizione, imbarazzante calco del libro di Neufert allora non ancora edito in Italia). 114 Libri: 3.3.Neufert figura 03 Classificazione Dopo i capitoli iniziali intorno agli studi preparatori ed al progetto (da non sottovalutare: si tratta di un’autentica proposta di metodo), l’impianto del libro è classificatorio ed ordinato dal particolare al generale: dai particolari costruttivi; alle disposizione e dimensioni delle aree, dei vani e degli impianti; ai vari tipi di edifici; ad alcune tavole generali conclusive. Pregio principale dell’opera è di aver riunito in un solo libro, in concisa sintesi, tutto l’essenziale per progettare e costruire. E’ nota, quasi un luogo comune, la totale mancanza di senso dell’umorismo di chi si occupa di tassonomie, parola tremenda perché contiene contemporaneamente i concetti di regola e di ordine (ciascuno rispettabile in sé, ma inquietanti se messi insieme). Su questo un Maestro argentino, capace di nascondere il sarcasmo sotto un’erudizione vastissima, ma non ostentata, ha scritto parole forse decisive. Neufert non fa eccezione: la sua seriosa vis classificatoria, unita ad un corrispondente desiderio di esaustività, lo hanno condotto verso alcune forzature dalle quali ci si poteva aspettare una veloce caducità del libro. E invece il successo editoriale continua, segno evidente che le parti vitali dei suoi contenuti riescono comunque a prevalere su quelle che il tempo che passa rende obsolete. Per questo è impresa futile e vana tentare di aggiornarlo: perché si corre il rischio di offuscarne le parti vitali, che consistono nella più esauriente trattazione del rapporto tra le misure degli esseri umani e quelle degli spazi e degli oggetti di cui si servono. Non ha importanza se gli oggetti delle vecchie edizioni appaiono un poco demodé: le loro misure continuano ad essere sensate nei valori assoluti ed in rapporto con le misure umane. Ed il fatto che anche queste si siano (lievemente) modificate dai tempi di Neufert, quando gli esseri umani erano di statura inferiore e vivevano meno a lungo di oggi (e non solo per le guerre), non ha ancora messo fuori gioco il suo generoso lavoro. figura 04 Standardizzazione La vis classificatoria non è stata peraltro solo un tratto del carattere personale. 115 Libri: 3.3.Neufert In quegli anni l’affermazione planetaria della produzione industriale in serie imponeva scelte di unificazione e di standardizzazione in una vasta fattispecie di manufatti. Il comitato tedesco per l’unificazione (Din) si costituisce nel 1917 ... per sviluppare norme e standard come un servizio per l’industria, lo stato e la società considerati come un tutto. Contemporaneamente artisti diversi, ed anche tra loro intellettualmente e politicamente lontani, cantavano in coro le qualità estetiche del prodotto industriale, fornendo per questa via una base culturale internazionale a quei processi che, proprio perché confinati entro limiti nazionali, porteranno nel Novecento a due terrificanti conflitti. Gli architetti non sono estranei a tutto questo: è anche nel loro sentire comune ... l’utilità di un coordinamento tra l’industria e l’edilizia, come si esprime (in piena seconda guerra mondiale) l’ente italiano di Unificazione (Uni), che aggiunge: “... questo coordinamento è attuabile attraverso la semplificazione e l’unificazione; è per questo che l’Uni (...) ha fino dal 1940 intrapreso i lavori di unificazione nel campo dell’edilizia ...”. Anche qui l’Italia pare un poco in ritardo, ma il processo è davvero travolgente e pervasivo su scala planetaria. Queste considerazioni dànno una chiave in più per comprendere il lavoro di Neufert: non è solo uno strumento per non sbagliare la pendenza di una scala o la misura di una sala da bagno, ma è ben altro. E’ uno sforzo di semplificazione e di unificazione che si propone di aggiornare ai tempi nuovi il settore dell’edilizia, ritenuto tecnologicamente arretrato; e che trova nella classificazione e nella normalizzazione gli strumenti efficaci ed opportuni (ed anche desiderabili) per farlo. figura 05 116 Libri: 3.3.Neufert 117 Libri: 3.3.Neufert 118 Libri: 3.3.Neufert 119 Libri: 3.4.Klein 3.4. Scritti e Progetti - di Alexander Klein Autore figura 00 Una vita da fuggiasco: così si potrebbe sintetizzare la vicenda di Alexander Klein, nato ad Odessa nel 1879 (il 17 giugno) e morto a New York nel 1961 (il 15 novembre). In Russia studia e riesce anche a costruire qualcosa; si interessa in particolare al problema dell’abitazione, sul quale darà nel corso della sua vita i maggiori contributi; ottiene un incarico di insegnamento; come tutti dovrebbero fare (tanto più adesso, che è facile) viaggia. Per incompatibilità politica nel 1920 lascia la Russia e va a Berlino: non una felice scelta per un ebreo; continua a studiare il problema della casa, continua ad insegnare; nel 1933, era fatale, lascia la Germania a causa delle persecuzioni razziali. Sosta brevemente in Francia, ma nel 1935 approda in Palestina, con 13 anni di anticipo sulla formazione dello Stato di Israele, alla quale dà un contributo intellettuale, trovando nella terra promessa il campo per applicare, verificare, affinare le sue teorie. Continua ad insegnare; anzi a Ben-Gurion, padre della Patria, socialista ed ateo in cuor suo e laburista pubblicamente, deve anche una certa carriera che lo porta a dirigere la facoltà di Architettura di Haifa. Naturalmente è un modo di dire: la carriera di Klein in quella fase non è dovuta all’individuo Ben-Gurion, ma al clima politico e culturale che questi aveva saputo instaurare e che mostrerà una certa tenuta fino agli anni Sessanta, logorandosi definitivamente in concomitanza con la cosiddetta guerra dei sei giorni. Non si sa se fu a causa delle avvisaglie di quel logoramento che all’inizio degli anni Sessanta Klein fugge di nuovo, questa volta a New York dove poco dopo conclude la sua vita. figura 01 Parole chiave dell’opera figura 02 L’edizione italiana del libro (1975) è un’antologia di scritti e disegni tra il 1906 ed il 1957, editi la prima volta in anni vari e luoghi vari. I curatori hanno per un breve tempo rimediato al paradosso di un Klein tanto frequentemente citato quanto scarsamente pubblicato; anche il rimedio non è durato: oggi il libro è fuori catalogo ed al momento non sono in vista ristampe. 121 Libri: 3.4.Klein Né Klein pare essere più che tanto l’oggetto attuale di ricerche storiche o di riflessioni critiche, tanto che l’odierna storia ufficiale, impegnata com’è nel ripudiare le glorie del razionalismo, lo sta lentamente dimenticando. La lettura dell’antologia di Klein può, tra le altre, suggerire le seguenti parole chiave: • • • Analisi, Spazio Minimo, Sobrietà. Analisi Klein studia le piante, condividendo con questo l’idea che la pianta è la generatrice e senza pianta c’è disordine, arbitrio. Ma il rigore della pianta non può rimanere solo un auspicio da affidare al buon senso o all’intuizione: esso deve necessariamente trovare un metodo scientifico sul quale fondarsi. Il metodo può servirsi di un questionario mediante il quale accertare o meno il possesso di alcuni requisiti ed il valore di alcuni parametri, come l’area coperta lorda pro capite (betteffekt), o il rapporto tra soggiorno più stanze da letto (servizi esclusi) e l’area coperta lorda (wohneffekt), o il rapporto tra l’area utile di pavimento e l’area coperta lorda (nutzeffekt). E con questo si è già piombati in una selva di tecnicismi che spiegano perché gli elaborati delle prime analisi di Klein hanno l’aspetto di complicate tabelle alfanumeriche con qualche sporadico disegnetto. Ma un simile approccio non basta: una seconda idea è di rielaborare uno schema di pianta a parità di requisiti e parametri variandone la profondità e quindi l’ingombro di facciata. Questa tecnica permette di individuare la metrica più opportuna non solo per il singolo alloggio, ma anche per l’edificio che la sua ripetizione produrrà; il risultato è un abaco di piante molto citato e perciò diventato piuttosto famoso come icona della concezione razionalista del progetto; ma ancora non basta. I due metodi (...) non possono essere considerati del tutto scientifici. Il salto verso la completa scientificità è possibile solo attraverso un metodo grafico che, fornendo non solo misure, ma fornendo insieme misure e forme, consenta di leggere oggettivamente ed in modo evidente le caratteristiche di una pianta. Il metodo grafico permette di controllare • l’andamento dei percorsi, • la disposizione delle aree per la circolazione, 122 Libri: 3.4.Klein • • • la concentrazione delle superfici libere, l’incidenza delle ombre portate, eccetera. Può essere che l’analisi proposta da Klein appaia cervellotica, attenta più alle procedure che alla sostanza, legata a concezioni scientifiche sorpassate, complicata ed onerosa rispetto ai risultati che con essa si ottengono. Ma non sono irrilevanti o obsolete le questioni sulle quali concentra l’attenzione ed il suo (presunto) invecchiamento non rende quelle questioni meno importanti. Va anche detto che non appare facile estendere un simile metodo ad edifici diversi da quelli per l’abitazione; Klein non lo fece ed il suo metodo non fu fecondo abbastanza perché lo facesse qualcun altro. figura 03 Spazio Minimo Sebbene Klein abbia vissuto in Germania solo 13 dei suoi 82 anni è da qualche fonte considerato un architetto tedesco; da altre, più caute, russo-tedesco oppure tedesco-israeliano. E se la Storia fosse ricerca della metafora anziché della verità vi si potrebbe vedere una certa fondatezza: i pochi anni tedeschi furono decisivi, ma più per ragioni oggettive (di contesto) che soggettive o personali. Nel gennaio del 1923 un chilo di pane costava 250 marchi ed era già una bella somma; in dicembre dello stesso anno i marchi necessari per un chilo di pane erano diventati 399000000000 (trecentonovantanove miliardi). Il compito più importante dell’economia edilizia attuale è la realizzazione di alloggi a superficie minima con affitti sopportabili dalla popolazione meno abbiente. Poco dopo a Francoforte le migliori intelligenze architettoniche in circolazione in Europa affronteranno a fondo la questione: il minimo d’abitazione (existenzminimum); questo minimo può essere visto da due direzioni. Può essere visto come rivendicazione contro la promiscuità ed il sovraffollamento, cioè come livello al di sotto del quale la condizione di vita non è degna degli esseri umani; oppure può essere visto come punto d’arrivo ancora sostenibile di un necessario risparmio economico. 123 Libri: 3.4.Klein Klein sostiene soprattutto questa necessità; i congressisti di Francoforte parevano più interessati a quella rivendicazione; ma, a ben vedere, non c’è contraddizione: perché la redistribuzione della ricchezza, cara ad entrambi, passa sempre attraverso l’uso oculato delle risorse; infatti le grandi diseguaglianze sono sempre concomitanti con grandi sprechi. figura 04 Sobrietà E’ proprio l’obiettivo della redistribuzione, frutto di una tensione politica che con linguaggio odierno si potrebbe chiamare socialdemocratica, che fa superare alla ricerca del minimo d’abitazione i confini delle pure messe a punto tecniche e la carica di valori etici. L’uomo non possiede solo un corpo; è composto di anima e corpo; le abitazioni attuali non corrispondono sufficientemente ai bisogni spirituali degli abitanti. Allora il minimo d’abitazione non è più solo un fatto reso necessario dalla congiuntura economica, ma diventa lo scenario di un particolare stile di vita: quello secondo il quale si dà il giusto peso ai bisogni reali e si tende ad eliminare quelli imposti. Un simile atteggiamento si fonda su di un costante ed infaticabile esercizio critico: quali bisogni sono reali? Quelli materiali elementari, ovviamente; ma la cui definizione non è poi così elementare come una facile tautologia indurrebbe a pensare. E, giusta l’affermazione precedente, sono reali anche i bisogni spirituali: quali? E questi sono definiti una volta per tutte? O possono variare nel tempo e quindi deve essere consentita la variazione? E poi: quali sono i bisogni imposti? Ed i bisogni imposti sono perciò stesso non reali? O possono esistere bisogni che sono contemporaneamente reali ed imposti? E come comportarsi in tale caso? E poi: perché l’eliminazione dei bisogni imposti dovrebbe essere moralmente superiore? Essa è certamente una manifestazione di libertà individuale, ma può essere anche un atto che conduce all’emarginazione: e allora quando il bilancio tra emarginazione e libertà è equilibrato? Si usa chiamare sobria una simile vita, alla quale una certa inclinazione dello spirito individuale, ma sempre più frequentemente anche qualche gruppo di tendenza tendono a dare un giudizio incondizionatamente positivo. figura 05 124 Libri: 3.4.Klein 125 Libri: 3.4.Klein 126 Libri: 3.4.Klein 127 Libri: 3.5.Rogers 3.5. Esperienza dell’Architettura - di Ernesto Nathan Rogers Autore figura 00 Diversamente dalle altre figure 00, nelle quali appare la faccia dell’Autore di turno, qui le facce che appaiono sono quattro: è l’immagine celeberrima (e forse unica) di quattro giovani architetti che all’inizio degli anni Trenta (subito dopo la laurea) pensarono di mettere su uno studio insieme. Con una certa sobrietà lo chiamarono semplicemente con le iniziali in ordine alfabetico dei loro cognomi: BBPR, cioè Banfi, Belgiojoso, Peressutti e Rogers; nella foto Ernesto Nathan Rogers è quello con la pipa. E’ facile verificare che in un gruppo di successo, oltre che il talento dei singoli, conta molto il complementare equilibrio delle doti personali di ciascuno; Rogers, nato a Trieste nel 1909 (il 16 marzo) e morto a Gardone Riviera nel 1969 (il 07 novembre), era la maggiore personalità teorica del gruppo; potrebbe per questo essere paragonato a John Lennon ... E verrebbe voglia di continuare il gioco, se per la sua arbitraria futilità non diventasse velocemente irriverente soprattutto nei confronti di Gianluigi Banfi (George Harrison?), assassinato trentacinquenne a Mauthausen-Gusen; anche Lodovico Barbiano di Belgiojoso (Paul McCartney?) vi fu deportato, ma riuscì a tornare. Dopo l’interruzione dovuta alla guerra lo Studio mantenendo lo stesso nome fatto di quattro iniziali. si ricostituì Rogers ebbe successo nel doppio impegno di svolgere un ruolo attivo e spesso determinante nei lavori dello Studio e di affermarsi nel contempo come uno dei principali intellettuali della scena architettonica milanese, nazionale, internazionale. Oltre che nel suo insegnamento al Politecnico, tale ruolo si espresse compiutamente nella direzione di riviste di Architettura tra le quali due dalla testata famosa (e tuttora viva), che forse conobbero con lui il loro momento più alto, il che non impedì la brusca interruzione di entrambi i rapporti. Con la prima (Domus) si impegna nell’immediato dopoguerra nell’opera di ricostruzione non solo materiale dell’Italia devastata: lo fa dando al dibattito architettonico respiro europeo e confrontando l’Architettura con altre forme della cultura e dell’arte; lo fa, ancora giovane, circondandosi di giovani. 129 Libri: 3.5.Rogers La situazione di allora è stata ben descritta da un altro grandissimo architetto-professore di una decina d’anni più anziano: “... il nostro Paese dopo la guerra ha dovuto ricostruire se stesso non solo negli elementi concreti dell’economia (...), ma altresì nello spirito (...), coatto da una forma di governo dittatoriale che l’aveva disabituato ai principi basilari della vita democratica ...”. Come in una sorta di bilancio, l’impegno di Rogers è riassunto nel suo ultimo (moderatamente risentito) editoriale: “ ... dopo la Liberazione v’era tanto fervore di progresso che tutti incoraggiavano la nostra battaglia, poiché vi sono rari momenti nella storia in cui gli ideali sembrano così prossimi a realizzarsi da destare l’interesse concreto anche di coloro che altrimenti non sanno apprezzarli se non come strumento e mezzo ai propri scopi pratici ...”. Della seconda (Casabella), Rogers assume la direzione circa sei anni dopo l’estromissione dalla prima ed aggiunge alla testata la parola Continuità; Casabella era una testata banale, ma era anche già un progresso rispetto a quella originaria (La Casa Bella); la inventarono due direttori che prima della guerra tentarono di darle rilevanza internazionale: e la continuità è con loro. I tempi erano cambiati, lo stato democratico adesso esisteva, ma non era ancora esente dalla volgarità, che anzi pareva ricrescere, sia pure con sembianze diverse: di qui la necessità di continuità, cioè di riscoprire e riaffermare le radici nobili che condussero la rivista oltre gli anni oscuri verso la meta (...) delle definizioni, delle scoperte, delle invenzioni, delle fantasie. La cosa durò fino al 1964, poco prima del manifestarsi della patologia che porterà Rogers a prematura scomparsa. figura 01 Parole chiave dell’opera figura 02 La prima edizione del libro è del 1958 a Torino. La lettura di Esperienza dell’Architettura può, tra le altre, suggerire le seguenti parole chiave: • • • Etica, Resistenza, Boom. 130 Libri: 3.5.Rogers Etica Rogers raccontava ai suoi studenti l’assimilazione, se non l’identificazione essenziale, tra estetica ed etica; non solo pensava questo, ma soprattutto non perdeva occasione di raccontarlo: di modo che l’etica tendeva anche a coincidere con la didattica. Compito del Maestro non è quello di trasmettere la propria poetica, bensì il proprio rigore culturale e morale: perché agli studenti (poiché diverranno professionisti) bisogna dire che un professionista considera ogni poetica un oggetto di interesse al pari di ogni altra (a prescindere dalle pur ovvie ed umane preferenze personali). Invece il rigore culturale e morale non è uguale per tutti e quello di alcuni desta più ammirazione di quello di altri: così si selezionano gli Autori da studiare (cioè si riconoscono i Maestri) non sulla base delle loro poetiche (tutte, di principio, interessanti), ma piuttosto sulla base delle loro più complessive doti culturali ed umane. Uno storico italiano, anch’egli di quegli anni, sostenne che “... l’elemento qualificante della personalità di Ernesto Nathan Rogers era questa fede nella poesia dell’Architettura, proiezione ed insieme promozione di un riscatto civile ...”. Proiezione (il riscatto è nell’Architettura) ed insieme promozione (il riscatto si può conquistare diffondendo l’Architettura): questo dà senso all’insegnare, riscatta anche la didattica da quel ghetto delle attività umane minori nel quale spesso (e proverbialmente) è cacciata. Non è un caso che tanti architetti (ultra)settantenni di oggi, studenti quando Rogers insegnava, si siano per tutta la vita dichiarati suoi allievi; e non è neppure un caso che tanti altri architetti che per ragioni anagrafiche non lo incontrarono, ne riconoscano l’insegnamento, vuoi attraverso i suoi libri, vuoi attraverso i suoi allievi divenuti loro maestri. figura 03 Resistenza Se si crede che il compito del Maestro sia quello di trasmettere il proprio rigore culturale e morale, allora questo non può essere semplicemente raccontato, ma va necessariamente testimoniato. E testimoniare siffatto rigore significa partecipare: essere presenti al confronto delle idee, prendere posizione, dichiarare i propri convincimenti, essere per essi disposti a pagare prezzi anche personali. 131 Libri: 3.5.Rogers Poco dopo l’apertura dello Studio BBPR la situazione in Italia precipita velocemente: “... è tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti (...); la questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose; la concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l'indirizzo ariano-nordico ...”. Dai proclami alle leggi razziali il passo fu breve; e lo scivolamento verso l’entrata in guerra divenne inarrestabile; e allora che fare? Resistere (resistere, resistere)! Lo Studio BBPR diventa un centro della Resistenza milanese, legato alle formazioni di Giustizia e Libertà: “... provenienti da diverse correnti politiche, archiviamo per ora le tessere dei partiti e fondiamo un’unità di azione (...); repubblicani, socialisti e democratici, ci battiamo per la libertà, per la repubblica, per la giustizia sociale:non siamo più tre espressioni differenti ma un trinomio inscindibile ...”. A dispetto del suo programma unitario, Giustizia e Libertà rimase un movimento d’élite; questo non evitò ai Nostri persecuzione e repressione, pesanti per tutti, tragiche per Banfi. Il raro momento in cui gli ideali sembravano prossimi a realizzarsi, se mai aveva raggiunto una significativa rilevanza, di certo si esaurì velocemente, lasciando spazio ad un periodo storico contraddittorio, nel quale lo sviluppo materiale e l’impoverimento culturale sembrarono procedere di pari passo ed anzi alimentarsi reciprocamente. figura 04 Boom Solo nel 1950 il prodotto interno lordo nazionale superò quello dl 1939, ma le devastazioni della guerra continuarono ancora per qualche anno a pesare sulle condizioni di vita degli italiani. Poi, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta si innescò un processo di crescita materiale che trasformò la penisola da paese prevalentemente agricolo e sostanzialmente sottosviluppato in un moderno paese industrializzato. Fu in quegli anni che la città di Milano, centro di quei processi, si guadagnò il titolo di capitale morale; non lo terrà a lungo: fino alla Milano da bere, che, fuori di metafora, significò fino a quando l’astuzia della speculazione prevalse sull’etica del lavoro. Tra il 1959 ed i 1963 il prodotto interno lordo crebbe circa del 28% (quasi il 7% per anno); quello che fu chiamato miracolo economico (o, più stringatamente, boom) fu possibile grazie ad un’ampia disponibilità di manodopera a basso costo formata da immigrati meridionali nelle regioni in via di industrializzazione del nord-ovest. 132 Libri: 3.5.Rogers Le culture si mescolarono, ma rimasero per lungo tempo ostili; si aggravò il divario tra nord e sud d’Italia, il superamento del quale pochi decenni prima un filosofo aveva sostenuto essere essenziale per lo sviluppo (vero) del Paese. Gran parte di quella crescita fu dovuta all’attività edilizia; per le imprese edili e per i progettisti erano anni floridi; ma ancor più floridi per la speculazione e le nuove costruzioni entrarono velocemente in contraddizione con il giacimento di monumenti (ma anche di pregevole edilizia minore) più ricco al mondo. Infuriava la polemica tra i demolitori ed i salvaguardanti: insieme con pochissimi altri, Rogers si inserì nello scontro, tentando con moderazione la sintesi tra le ragioni dello sviluppo economico e quelle del rispetto della tradizione: come costruire nelle preesistenze ambientali? Come superare i pregiudizi formali che fanno ritenere che il nuovo e il vecchio si oppongano invece di rappresentare la dialettica continuità del processo storico? Nel 1958 i BBPR rispondono a queste questioni costruendo il loro edificio più famoso (la Torre Velasca a Milano); in quegli anni altri fermenti percorrono le altre Arti, in particolare quelle nazional-popolari: dalla musica (Modugno: Nel Blu Dipinto di Blu; e gli altri Cantautori) al cinema (Fellini: La Dolce Vita; Visconti: Rocco e i Suoi Fratelli; Monicelli: La Grande Guerra). Occorrerà ancora un decennio perché nuove sensibilità si affermino, perché il Paese sembri in grado di uscire non solo dal sottosviluppo economico, ma anche da quello sociale e culturale. Rogers non farà in tempo a vedere se questo sarebbe effettivamente accaduto; forse, proprio a causa della sua straordinaria passione civile, è un bene che non abbia potuto verificare che non è accaduto. figura 05 133 Libri: 3.5.Rogers 134 Libri: 3.5.Rogers 135 Libri: 3.5.Rogers 136 Libri: 3.6.Rossi 3.6. L’Architettura della Città - di Aldo Rossi Autore figura 00 Solo due architetti italiani hanno (finora) conseguito quella sorta di Nobel dell’Architettura che è il Premio Pritzker e dei due solo Aldo Rossi, nato a Milano nel 1931 (il 03 maggio) e morto ivi nel 1997 (il 04 settembre), ha avuto anche una carriera accademica di una qualche rilevanza. Anzi, per Rossi l’insegnamento universitario viene prima (1963) sia del primo progetto realizzato di una qualche rilevanza (1967), reso possibile dalla generosità e dalla lungimiranza di Carlo Aymonino, che di quello della consacrazione (cimitero a Modena, 1971). E proprio nel 1971 il suo insegnamento al Politecnico di Milano si interrompe a causa di un forse affrettato provvedimento dell’allora ministro dell’Istruzione (peraltro all’epoca ancora Pubblica) che sospese l’intero consiglio della facoltà di Architettura, i cui docenti avevano a suo dire regalato promozioni. L’insegnante Rossi allora emigrò in Svizzera, fino alla positiva soluzione della vicenda, qualche anno dopo, alla quale non furono estranei alcuni concomitanti successi della sinistra politica e che consentì il suo rientro in una università italiana, questa volta a Venezia. La vicenda del consiglio di facoltà del Politecnico Architettura milanese non dovrebbe essere dimenticata: eppure è già difficile trovarne documentazione. Essa si collocò tra il manifestarsi della vasta domanda di emancipazione che alla fine degli anni Sessanta interessò, sull’onda di più globali processi, anche i giovani e le donne italiani, e la diffusione della violenza terrorista nella seconda metà degli anni Settanta. La scelta di repressione del ministro (e del governo) di allora, come altri atti dello stesso segno, ottennero il solo risultato di radicalizzare lo scontro, allontanando ed in parte impedendo per sempre la soluzione politica delle (piuttosto fondate) istanze che le masse giovanili e femminili avevano manifestato. Fu un’occasione perduta di modernizzazione del Paese e, qualcuno ritiene, una premessa per successivi processi involutivi. figura 01 Parole chiave dell’opera figura 02 La prima edizione del libro è del 1966 a Padova. 137 Libri: 3.6.Rossi La lettura di L’Architettura della città può, tra le altre, suggerire le seguenti parole chiave: • • • Libro Definitivo, Città, Architettura. Libro Definitivo “... Nel 1960 circa avevo scritto L’Architettura della Città, un libro fortunato. Allora non avevo ancora trent’anni e volevo scrivere un libro definitivo: mi sembrava che tutto, una volta chiarito, fosse definito ...”. L’aspirazione al libro definitivo è comprensibile in un trentenne (che, per di più, della Russia amava tutto ...) ed è coerente a quel momento storico, quando la razionalità astratta godeva ancora di un grande prestigio, che sarebbe peraltro andata perdendo negli anni successivi. Anticamente il libro definitivo aveva la forma del trattato, che deve essere documentato ed esauriente. A cavallo tra l’Otto ed il Novecento al trattato subentra il manifesto, che deve essere breve ed apodittico. Più o meno consapevolmente Rossi propone una terza forma di libro definitivo: L’Architettura della Città non è né un trattato né un manifesto, ma un diario intimista travestito da saggio scientifico. Rossi applica la maschera dell’oggettività al suo individualismo sentimentale; e con un simile gesto rende palese una crisi del pensiero che, come ogni persona dotata, riesce a vedere un poco prima che essa si manifesti compiutamente. Comincia a cadere in quegli anni la fiducia positivista nella ragione e riappaiono forme di soggettivismo che per decenni erano state compresse. Ma l’alternativa ad una razionalità insufficiente non può essere l’assenza di razionalità, ma semmai una razionalità riformata: o come la si vorrà chiamare, ma in ogni caso qualcosa che dovrà essere definito in positivo, per ciò che è e non per ciò che non è. L’affermazione e la negazione non sono (quasi) mai simmetriche: potranno anche essere alternative, ma non saranno (quasi) mai intercambiabili. L’individualismo sentimentale non può accontentarsi di sé, deve assumere la maschera dell’oggettività per poter dimostrare non tanto che l’oggettività è possibile, ma che essa è necessaria. 138 Libri: 3.6.Rossi In questo modo però l’oggettività perde i caratteri dell’unicità e dell’universalità: non si applica più al mondo, ma a segmenti di esso; è il prezzo che deve pagare per poter continuare ad esistere, e davvero non è caro. Al lettore resta il compito di capire di quali segmenti di mondo ci si sta di volta in volta occupando: e non è cosa facile; per questo, perché continua a proporre sfide ed offrire materiale al pensiero, il libro è per davvero definitivo. figura 03 Città Se si considera l’Architettura non come un insieme di esiti statici, ma come un processo dinamico (quello del costruire) allora non esiste differenza tra Città ed Architettura. Progettare l’Architettura significa portare a coerenza le spinte della contemporaneità e quelle della memoria: e la città è il deposito della memoria. Lo aveva ben compreso un politico ottocentesco (milanese come Rossi) quando giunse al punto di dire che “... la città sia l’unico principio per cui possano i trenta secoli delle istorie italiane ridursi a esposizione evidente e continua ...”. La città è il prodotto di un lavoro incessante, è anche un immenso deposito di fatica umana: quindi in essa memoria e fatica tendono a coincidere; la memoria non è un repertorio statico di oggetti passati; è invece la consapevolezza di un processo che è stato, ma che si allunga nel presente e nel futuro. La città si forma per accumulo, quindi è conoscibile solo per accumulo: e le parti più interessanti di essa sono proprio quelle più singolari, anomale, imprevedibili; quelle refrattarie a qualunque classificazione e che perciò rendono qualunque tentativo di classificazione fallito in partenza. C’è in questo una rivalutazione della erudizione anche nella sua versione (ritenuta) deteriore e chiamata nozionismo. Può essere che in alcuni campi la semplice memorizzazione di nozioni che non le inquadri in costrutti logici sistematizzati produca un sapere inadeguato ed incompiuto. Ma non esistono costrutti logici sistematizzati per organizzare compiutamente la conoscenza dei fenomeni urbani, solo un numero esiguo dei quali riesce a collocarsi in quelli fin qui proposti. Per il resto non resta che memorizzare nozioni: l’architetto non è solo un intellettuale, ma anche un erudito. 139 Libri: 3.6.Rossi Come si vede, torna la questione che pervade l’intero libro: è vana la ricerca delle leggi immobili di una tipologia senza tempo, ma la conseguenza non può essere la rinuncia alle leggi. figura 04 Architettura “... Alla soddisfazione di un bisogno va sempre unito un piacere ...” scriveva centoventi anni fa un letterato dai molti soprannomi ad un amico che aveva pubblicato un libro di cucina. “... Condizione di un ambiente più propizio alla vita e intenzionalità estetica sono i caratteri stabili dell’architettura ...” scrive Rossi settant’anni dopo, mosso da considerazioni analoghe. Pare quasi che in questo consista la vera differenza tra gli esseri umani e le altre bestie: che i primi (almeno i migliori di essi) non si appagano della pura soddisfazione di un bisogno, ma cercano ... il piacere, l’intenzionalità estetica, l’eleganza formale, l’armonia dei modi ... e quant’altro del genere Si potrebbe dire, riassumendo la cosa in un’unica formula, che gli esseri umani sono tali perché dànno ai loro atti non solo una funzione utilitaristica, ma anche un significato culturale. E poiché la cultura è per definizione il prodotto di un lavoro collettivo, ecco che l’Architettura è una creazione che non può essere separata dalla vita civile e dalla società in cui si manifesta. La città, che si è formata per accumulo, e che è conoscibile solo per accumulo, testimonia le vite civili e le società che l’hanno prodotta; e quindi fornisce consapevolezza sulla vita civile e sulla società del presente, con le quali l’Architettura dovrà unirsi. L’Architettura di Rossi si affermò con fatica: una certa critica snob non comprese all’inizio la malinconica poesia delle sue semplificazioni formali, bollandole come infantili. Poi, dopo il successo arrivato oltre i suoi quarant’anni, alcune sue invenzioni figurative diventarono i luoghi comuni di imitatori superficialii: si pensi, ad esempio, alle falde a 45° o ai parapetti ad elementi quadrati con le diagonali in evidenza (ancora 45° ...). Rossi fu sempre capace di restare un passo avanti i suoi epigoni pigri, in questo modo continuamente spiazzandoli, finché i postumi di un incidente stradale misero fine in modo inaspettato e prematuro alla sua vicenda artistica ed umana. figura 05 140 Libri: 3.6.Rossi 141 Libri: 3.6.Rossi 142 Libri: 3.6.Rossi 143 leggi_dopo Leggi dopo L’universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, bordati di basse ringhiere. Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente. La distribuzione degli oggetti nelle gallerie è invariabile. Venticinque vasti scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati meno uno; la loro altezza, che è quella stessa di ciascun piano, non supera di molto quella d’una biblioteca normale. Il lato libero dà su un angusto corridoio che porta a un’altra galleria, identica alla prima e a tutte. A destra e a sinistra del corridoio vi sono due gabinetti minuscoli. Uno permette di dormire in piedi; l’altro di soddisfare le necessità fecali. Di qui passa la scala spirale, che s’inabissa e s’innalza nel remoto. Nel corridoio è uno specchio, che fedelmente duplica le apparenze. Gli uomini sogliono inferire da questo specchio che la Biblioteca non è infinita (se realmente fosse tale, perché questa duplicazione illusoria?); io preferisco sognare che queste superfici argentate figurino e promettano l’infinito... La luce procede da frutti sferici che hanno il nome di lampade. Ve ne sono due per esagono, su una trasversale. La luce che emettono è insufficiente, incessante. Spero che molti abbiano riconosciuto l’incipit de La Biblioteca di Babele, racconto della raccolta Finzioni di Jorge Luis Borges: ho pensato di farne il tema di questa postfazione per tre ragioni. La prima ragione (di tre) è il realizzarsi di un sogno. Non esiste domanda la cui risposta non sia già scritta da qualche parte: il problema è scoprire dove. A questo atto di fede in una religione umana, razionale e laica (che non mi dispiace) è collegato il sogno di una biblioteca totale: Borges tratta con una maestria inarrivabile un tema che non è originale, come egli stesso precisa elencando un gruppo eterogeneo (e forse improbabile) di Autori precedenti. 145 leggi_dopo “... la Biblioteca è totale ed i suoi scaffali registrano tutte le possibili combinazioni dei venticinque simboli ortografici (numero, anche se vastissimo, non infinito) cioè tutto ciò ch’è dato esprimere, in tutte le lingue ...”. Ma la Biblioteca è anche disordinata: non ne esiste una mappa e non si sa se da qualche parte ci sia il catalogo; e, a sentire autorevoli matematici, la sua ricerca sarebbe comunque disperata, perché il catalogo di una simile biblioteca non può esistere. Eppure da qualche tempo il quadro appare meno disperato e comincia ad esistere qualcosa che assomiglia ad una Biblioteca Totale: si chiama Internet. Non è costruita con la forza bruta delle permutazioni con ripetizione ed è ancora lontana dall’essere totale, ma è già un deposito mai immaginato di informazioni e di idiozie, che chiede di sapersi muovere nelle sue metaforiche gallerie (esagonali?). Manca il catalogo, forse neppure in questo caso può esistere, ma esiste Google, che una certa mano la dà. Una simile fonte di informazioni tanto facilmente accessibili modifica nel profondo gli atteggiamenti di studio e di ricerca. L’informazione raccolta non è sempre affidabile: il tempo risparmiato nel raccoglierla va usato per esercitare la critica; ma per fare questo occorre preparazione ed attitudine che l’informazione in sé non è in grado di dare. Internet libera tempo al pensiero, ma è essa stessa in grado di sostenere il pensiero? Se sì, come? Se no, allora che cosa d’altro lo sostiene? La seconda ragione (di tre) è l’inquietante fascino dell’analisi combinatoria. All’inizio degli anni Sessanta un francese pubblicò 142 pagine non rilegate, suggerendo al lettore di mescolarle come un mazzo di carte (e tagliarle se voleva, magari con la mano sinistra), per costruirsi il suo proprio racconto. La fascetta pubblicitaria diceva: per ogni lettore un libro diverso; ed in questo sbagliava clamorosamente, perché i lettori al mondo potranno nella più rosea ipotesi essere qualche miliardo (un numero di dieci cifre), mentre per contare tutti i possibili racconti diversi di cifre ne occorrono oltre duecentoquaranta. Autore e libro sono ormai poco ricordati: quell’esperimento fu forse un caso estremo, ma non fu un caso isolato: molti altri Autori, tra i quali qualcuno che ha trovato un posto stabile nella Storia, si sono dedicati a quella che si usa chiamare letteratura combinatoria. 146 leggi_dopo Combinazioni, disposizioni, permutazioni con o senza ripetizioni sono per alcune mentalità (tra le quali la mia) una fonte di continua stupita curiosità, per la grande quantità di casi che con pochi elementi iniziali si possono produrre. C’è in questo, credo, un certo convincimento scientista: alla base delle numerosissime apparenze del mondo possono essere trovati pochi e semplici elementi costitutivi; ed è nella conoscenza di questi che risiede la sapienza. E se la Ragione si occupa di confutare quel convincimento, con le combinazioni (disposizioni, permutazioni, eccetera) resta sempre la possibilità di giocare. Ciascuno dei quattordici capitoli di questo lavoro è compiuto in sé (da cui qualche ripetizione tra un capitolo e l’altro): essi possono quindi essere letti in qualunque ordine. Per ogni studente una formazione di base diversa: ed anche qui si perdono di vista gli ordini di grandezza, perché il numero delle possibili formazioni diverse supera gli ottanta miliardi. Per avere tanti studenti, l’Università IUAV di Venezia, alla quale pure auguro lunga vita, dovrà durare per oltre quindici milioni di anni ancora. La terza ragione (di tre) è il ricordo di un episodio della mia attività didattica. Qualche anno fa proposi ai miei studenti esordienti di disegnare la biblioteca di Babele, che Borges solo descrive. Si trattava di un esercizio estemporaneo di inizio d’anno, utile a me per capire le condizioni di partenza degli studenti quanto a padronanza grafica e percezione spaziale, notoriamente diversissime da persona a persona, anche per la loro eterogenea provenienza. Ma accanto a quello scopo, piuttosto grossolano, ve n’erano altri due meno scontati (e che non resi espliciti): il primo era quello di provocare l’incontro con un Autore letterario di prima grandezza e (constatai) non troppo popolare tra i giovani. Il secondo scopo era ancora più sottile, e non privo di una lieve perfidia: derivava dal fatto che la descrizione di Borges appare spazialmente incoerente. Solo un certo tempo dopo scoprii che l’incoerenza era (banalmente) dovuta ad un errore nella traduzione italiana; allora credevo che dipendesse dalla proverbiale mancanza di senso dello spazio dei letterati, che colpiva anche un grandissimo come Borges (e invece colpiva solo il suo traduttore ...). 147 leggi_dopo Quindi allora pensavo che l’unico modo per disegnare quanto (la traduzione italiana) descriveva comportasse necessariamente il rifugiarsi nel simbolico: l’idea era bella, e non sono poche le belle idee che nascono da errori. Pochissimi ragazzi lo capirono ed agirono di conseguenza; pochissimi, ma qualcuno ci fu; ogni anno c’è qualcuno o qualcuna e questa è la vera ragione per la quale si continua ad aspettare con curiosità l’anno successivo. 148 Indice 0. Leggi prima ABC 1 3 1.0. 1.1. 1.2. 1.3. 1.4. 1.5. Premessa alle dispense Composizione Costruzione Misura Geometria Disegno 7 11 21 35 43 53 2.0. 2.1. 2.2. 2.3. Premessa alle architetture Villa Savoye Casa Esherick Casa Smith 63 67 75 83 3.0. 3.1. 3.2. 3.3. 3.4. 3.5. 3.6. Premessa ai libri Jean Nicolas Louis Durand Le Corbusier Ernst Neufert Alexander Klein Ernesto Nathan Rogers Aldo Rossi 93 97 105 113 121 129 137 Leggi dopo Indice 145 149