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Leggi prima
Questa versione stampabile è pensata per pagine A4; peraltro la
scalabilità del formato .pdf del file consente anche formati diversi (che
non consiglio).
La stampa dovrebbe essere in colore, ma anche in bianconero la
leggibilità è possibile, pur con uno scadimento della qualità grafica
soprattutto di molte delle immagini.
Rispetto ai files della versione elettronica il layout di tutte le pagine è
stato reso simmetrico, il che consente di stampare in bianca e volta
(come dicevano i grafici di una volta, quando la qualità della carta
poteva essere diversa sulle due facce: oggi si dice fronte-retro) senza
avere successivi problemi di fascicolatura (e con un certo risparmio di
carta).
Ovviamente nella versione stampata su carta si perdono i pur semplici
links dei testi tra loro e con le figure che possiede la versione
elettronica.
Questo è certamente un limite, perché quei links non sono banali effetti
speciali, ma dànno un contributo non secondario (mi pare) alla
funzione formativa dell’intero lavoro.
Non solo per questo la versione stampata mi piace meno.
La versione elettronica può essere manipolata, smontata, rimontata a
piacimento; può essere diffusa senza problemi e senza oneri; può
essere usata con la stessa comodità sia nello studio personale che in
presentazioni pubbliche.
Amo i libri non solo come strumenti di emancipazione, ma anche come
oggetti: che, come tali, si toccano, si portano appresso, si accumulano
nella vana ricerca di un ordine, si usano per costruire scenari alla vita.
Eppure sono convinto che la lettura su monitor, che molti oggi trovano
intollerabile, piano piano si affermerà come prassi consueta.
Quando accadrà il libro non perderà per questo la sua importanza, ma
probabilmente rafforzerà il suo status di oggetto; tanto vale quindi
continuare ad accumulare libri e contemporaneamente allenarsi a
leggere sul monitor.
Ed anche cominciare a concepire lavori che lo presuppongano, come
quello che qui è stato (riduttivamente) trasferito su carta.
Ecco allora il link alla versione in rete:
http://www.iuav.it/Ateneo1/docenti/architettu/docenti-st/Domenico-B/
materiali-/index.htm
1
0.ABC
0.
ABC
Facturusne operae pretium sim si a primordio urbis res
populi Romani perscripserim nec satis scio nec, si sciam,
dicere ausim, quippe qui cum veterem tum volgatam esse
rem videam, dum novi semper scriptores aut in rebus
certius aliquid allaturos se aut scribendi arte rudem
vetustatem superaturos credunt.
Anni fa un professore di latino, sinceramente convinto che fosse per il
nostro bene, costrinse me ed altri malcapitati della prima D ad
imparare a memoria il proemio della monumentale Storia di Roma del
padovano Tito Livio.
Allora lo avremmo (metaforicamente) strozzato; col senno di poi mi
viene il dubbio che forse quel professore non si sbagliava: ricordo
ancora piuttosto bene quel testo e, quasi dimenticata la storia di Roma,
mi è rimasto impresso il suo ineguagliabile esempio di understatement
compiaciuto.
Non so abbastanza, né, se sapessi, oserei dire ... grandioso!
Così vorrei io con questo lavoro, esito del secondo ed ultimo anno
sabatico (con una sola /b/: viene da sabato, non da sabba) della mia
ormai lunga carriera universitaria.
E se non credo di saper portare qualcosa di più sicuro, credo invece, in
tutta modestia, di saper superare un rude vecchio modo di scrivere.
Questo lavoro si intitola ABC perché è rivolto a studenti di architettura
esordienti; esso parte da una prima constatazione.
Tranne qualche eccezione (che conferma la regola?) gli studenti
leggono poco, non sono motivati alla lettura, mancano anche di tecnica
della lettura.
Personalmente trovo la cosa piuttosto deplorevole, ma mi rendo anche
conto che non è con il moralismo che si può superare una situazione
che si è andata determinando nel tempo, come effetto di cause
molteplici e non tutte analizzate abbastanza.
Così ho rinunciato a compilare un testo tradizionale che nessuno (o
quasi) leggerà, il che potrà anche tranquillizzare la coscienza di chi
scrive, ma non dà alcun contributo alla crescita culturale di alcuno.
Ho cercato invece una formula comunicativa diversa: ho tentato un
testo (illustrato) che preferisce l’allusione all’informazione.
L’idea che sta alla base di una simile scelta è che l’informazione che
può essere trasmessa nell’economia di un corso universitario sia poca
ed effimera in confronto all’informazione personalmente acquisita.
3
0.ABC
La semplice trasmissione di informazioni si scontra con il diffuso
comportamento studentesco di limitarsi alla comunicazione orale, più o
meno attentamente accolta, senza sentire il bisogno di letture
collaterali e di appoggio.
Così, paradossalmente, più la trasmissione di informazioni si sforza di
diventare esauriente, più alimenta quel comportamento, e più allontana
dallo studio personale ed autonomo.
E comunque l’informazione trasmessa ha limiti intrinseci che solo
l’informazione personalmente acquisita consente di superare: occorre
quindi stimolare questa piuttosto che praticare quella.
Sarà’ l’allusione il modo giusto per ottenere questo risultato?
E se lo è, sarà giusto il modo con cui l’ho fatto? Sarò riuscito ad
incuriosire? E se lo sono, sarà quel tipo giusto di curiosità che sa
provocare la ricerca autonoma?
La pratica didattica ce lo dirà.
Vediamo ora nel dettaglio come questo scritto illustrato allusivo è
organizzato.
La parte didattica vera e propria è formata da 14 capitoli suddivisi in tre
parti denominate dispense, architetture e libri, di 5, 3 e 6 capitoli
rispettivamente.
Ciascuna parte è presentata da una propria introduzione e le tre
introduzioni sono presentate da uno scritto di informazione generale:
questo!
Il tutto è contenuto tra una prefazione di informazioni tecniche
(leggi_prima) ed una postfazione di considerazioni finali (leggi_dopo).
Ciascuno dei 14 capitoli didattici è formato da testo e figure.
Non viene detto da dove vengano le figure, né che cosa rappresentino,
né quale sia il loro rapporto con il testo: ma un rapporto c’è sempre e
può essere un esercizio didatticamente utile tentare di individuarlo.
Come si suole, i testi, pur brevi e suddivisi in paragrafi stringati,
contengono citazioni e riferimenti; ma gli autori citati e le fonti sono per
lo più taciuti: mancano di conseguenza anche le note.
La nota, tradizionalmente ritenuta una presenza necessaria in
qualunque lavoro che abbia la pretesa del saggio, non è priva di una
inevitabile ambiguità.
Infatti qual’è la ragione delle note?
1.
per indurre il lettore ad approfondire: ma questo contraddice il
comportamento studentesco sopra osservato;
4
0.ABC
se questa è la ragione, allora le note sono inutili;
2.
per dimostrare le affermazioni dell’Autore: ma è un ben povero
Autore quello che ha bisogno del sostegno di autorevolezze
diverse;
se questa è la ragione, allora le note sono inutili.
E’ pur vero che è oggi piuttosto diffusa la pratica delle citazioni ad
orecchio, con poca attenzione alla loro precisione e pertinenza, per lo
più come strumento per simulare profondità di studi e letture forse non
del tutto esistenti o assimilate.
A questo proposito assicuro che i riferimenti e le citazioni dei testi sono
accurati ... e anche in questo caso può essere didatticamente utile
tentare di individuarli.
Ecco infine la mappa di questo lavoro.
leggi_prima
1.1. composizione
1.2. costruzione
1. dispense
1.3. misura
1.4. geometria
1.5. disegno
2.1. villa Savoye
0. ABC
2. architetture
2.2. casa Esherick
2.3. casa Smith
3.1. Durand
3.2. Le Corbusier
3.3. Neufert
3. libri
3.4. Klein
3.5. Rogers
3.6. Rossi
leggi_dopo
5
Dispense: 1.0. Premessa
1.0.
Premessa 1: elogio della dispensa
Quando ero studente erano in grande auge le dispense, che il
dizionario del famoso Tullio de Mauro definisce fascicolo che contiene
il testo delle lezioni tenute durante un corso.
All’epoca il livello tecnologico nella riproduzione grafica era assai
primitivo e quindi la veste delle dispense era piuttosto deplorevole:
niente colore, carta scadente, contrasto debole, risoluzione bassa.
Ciò nonostante erano piuttosto costose e rappresentavano un cespite
per arrotondare il poco salario di bidelli e custodi, che le distribuivano
in regime di monopolio.
Era opinione degli studenti che lo studio sulla dispensa fosse
necessario, ma non sufficiente e che non escludesse quindi né la sana
abitudine di prendere appunti durante le lezioni né la necessità di
ricorrere a testi più approfonditi.
Al compagno che chiedeva: “Dove hai studiato?” non si doveva mai
rispondere: “Sulle dispense!”, perché in questo modo si sarebbe
palesata una superficialità indegna di uno studente universitario.
Erano altri tempi.
Poi la dispensa iniziò a declinare, con la motivazione piuttosto snob
che forniva un sapere affrettato e superficiale; prova ne sia che anche
buoni dizionari italiani alla voce corrispondente non ne registrano più
quel significato; anche i bidelli videro erodersi le loro entrate, ma del
resto il turn-over dei bidelli si era già bloccato.
Sempre più spesso in luogo delle dispense erano fornite allo studente
interminabili e scoraggianti bibliografie, che questi non iniziava neppure
ad affrontare: così l’altezzosa idea che la dispensa fornisse un sapere
troppo superficiale iniziò a produrre l’effetto di allontanare lo studente
anche da quel poco.
Dal punto di vista del docente la dispensa, nel suo carattere di scritto
sintetico, non troppo attento alla qualità letteraria ed al rigore
tradizionale e rituale della costruzione scientifica (poca bibliografia,
niente note, ...), è un atto di competenza professionale e di lealtà
intellettuale:
1.
di competenza professionale, in quanto fornisce agli studenti
uno strumento di consultazione agile per ritrovare i contenuti
della didattica;
2.
di lealtà intellettuale, in quanto dichiara esplicitamente e da
subito quei contenuti, senza alcuna concessione all’oscurità
spacciata per profondità.
7
Dispense: 1.0. Premessa
Paiono questi motivi in sé sufficienti per rilanciare lo strumento
didattico della dispensa, sia pure con alcuni adattamenti indotti dai
tempi nuovi, e cioè:
1.
una ostinata ricerca della leggerezza, che possa almeno in parte
bilanciare la diffusa desuetudine studentesca alla lettura;
2.
una costante attenzione ad evitare eccessi di problematicità
delle affermazioni, nella consapevolezza che troppo spesso essi
sembrano voler stimolare il senso critico del lettore, ma in realtà
sono motivati solo da ragioni di autodifesa dell’autore;
3.
una generosa indulgenza al messaggio visivo, usato sia per fini
esplicativi che come suggestione metaforica.
Non sembri banale: banale è il messaggio che non arriva, perché non
aggiunge nulla alla conoscenza che già esiste; ed alla esigua
conoscenza dello studente esordiente possono all’inizio bastare esigue
aggiunte: quindi è essenziale che il messaggio, pur debole, arrivi.
Altro potrà arrivare in seguito; e magari arriverà anche l’automotivazione a sapere di più e ad agire di conseguenza, con il che il
risultato didattico sarebbe raggiunto.
Oppure nient’altro arriverà: ma allora resterà ancora a quello studente
esordiente il tempo per riflettere sulle sue scelte universitarie ed
eventualmente rivederle senza troppo spreco di tempo.
I suddetti adattamenti indotti dai tempi nuovi consistono nel ragionare
quasi per aforismi intorno a parole chiave: i testi sono quindi costruiti
come sequenze di affermazioni stringate e piuttosto perentorie.
Ciascuna dispensa propone un tema seguito da alcune variazioni; ad
ogni tema ed ad ogni variazione corrisponde una figura, che può
essere esplicativa o (più spesso) evocativa.
La connessione logica tra testo e figura esiste sempre, ma per motivi di
understatement è sempre taciuta.
Del resto essa è, mi pare, quasi sempre piuttosto evidente; e se tale
subito non appare, allora penso che la sua ricerca possa essere
anch’essa uno strumento per approfondire.
Per lo stesso motivo sono taciuti gli Autori e le fonti delle citazioni:
perché la loro scoperta può essere una piccola avventura dello studio.
8
Dispense: 1.0. Premessa
Le dispense sono cinque, intorno alle seguenti parole chiave:
1.
2.
3.
4.
5.
Composizione
Costruzione
Misura
Geometria
Disegno
tema
tema
tema
tema
tema
e
e
e
e
e
8 variazioni
11 variazioni
6 variazioni
6 variazioni
7 variazioni
Nell’insieme 43 asserzioni, ciascuna accompagnata da una figura,
ciascuna sufficiente per costruire una lezione o per fornire uno spunto
di studio o di ricerca.
1.0.1.
Un messaggio ai colleghi
Non so se qualche collega (in particolare tra quelli impegnati ai primi
anni) troverà questo lavoro di una qualche utilità, tanto da consigliarlo
ai suoi studenti.
Nel fortunato caso, vorrei segnalare la costruzione modulare dei testi,
che ne permette una certa flessibilità d’uso.
Alle parole chiave altre potrebbero essere aggiunte; con più fatica
qualcuna di quelle proposte potrebbe essere eliminata e, con essa, il
tema e le variazioni che la riguardano.
Assunte le parole chiave, i temi dovrebbero proprio essere condivisi.
Meno necessaria la condivisione delle variazioni, alcune delle quali
possono essere eliminate ed altre differenti aggiunte.
9
Dispense: 1.1. Composizione
1.1.
Composizione
1.1.1.
Tema
figura 00
Comporre significa, in tutta modestia, mettere insieme delle cose in
vista di una qualche finalità; la composizione architettonica mette
insieme elementi costruttivi: ed è conveniente pensare che gli spazi
non siano qualcosa di primitivo, ma il derivato della disposizione di
quelli.
Il concetto di elemento costruttivo è quello del buon senso: muri, pareti,
tramezze, scale, pavimenti, soffitti, tetti, finestre, porte e molti altri
ancora sono elementi costruttivi.
Riguardo poi alla finalità, si può citare un architetto italiano del
Novecento condividendo che essa non è il comporre l’omogeneo, cioè
volume con volume, colore con colore, linea con linea: è comporre
l’eterogeneo.
Questa è (...) la vera difficoltà: [mettere] la funzione insieme con la
statica, insieme con l’economia, e, sì, con la suggestione o con la
poetica.
In sintesi l’architetto che compone si trova a fronteggiare il problema di
rendere coerenti valori culturali, estetici e morali con esigenze
materiali, gli uni e le altre a loro volta non privi di interne contraddizioni.
1.1.2.
Variazioni
01.
Composizione è sostantivo di tanti significati, perché diverse sono le
cose che possono essere messe insieme e gli scopi per cui lo si fa.
Eppure con fatica, anche in voci di dizionario o enciclopedia non
sbrigative, lo si troverà accostato all’aggettivo architettonica, mentre lo
sarà a molti altri; anche nel parlare comune suona normale dire (per
esempio) composizione di Beethoven ed un poco eccentrico dire
composizione di Le Corbusier.
La causa di questo sta probabilmente proprio nella eterogeneità delle
cose che l’Architettura impone di comporre e dei fini per i quali impone
di farlo.
Eppure in altre Arti la composizione dell’eterogeneo è solo
apparentemente assente: come, ad esempio, in Pittura, ove essa
appare inaspettatamente negli innovatori, per poi velocemente (questo
sì: molto velocemente) pacificarsi in una nuova ortodossia della prassi.
figura 01
11
Dispense: 1.1. Composizione
02.
Si può con giusta ragione parlare di due livelli di eterogeneità:
1.
2.
tra le cose;
tra i fini.
L’eterogeneità tra le cose contrappone il funzionamento degli spazi alla
stabilità dell’edificio: è l’antica questione del rapporto tra utilitas e
firmitas intuito dal primo trattatista degno di tal nome nel primo Secolo
avanti era volgare.
L’eterogeneità tra i fini contrappone funzionamento e stabilità (adesso
considerati unitariamente come un insieme di scopi materiali) a
estetica, etica e cultura (anch’esse considerate unitariamente, come un
insieme di scopi spirituali).
L’eterogeneità tra i fini può essere elusa evitando l’uno o l’altro dei
suddetti insiemi: evitando il secondo si ottiene, nel migliore dei casi,
Edilizia; evitando il primo si ottiene, nel migliore dei casi, Scultura.
Si può quindi concludere che la differenza tra l’Architettura e l’Edilizia è
spirituale, quella tra l’Architettura e la Scultura è materiale.
figura 02
03.
Si chiede alla Composizione di garantire collegamenti agevoli e
ragionevoli tra i diversi spazi disponendo gli elementi costruttivi
dell’edificio di conseguenza.
Esseri umani percorrono l’edificio: devono poterlo fare con efficienza,
agio, sicurezza.
Devono poter comprendere a prima vista dove andare e perché.
Devono farlo nel più economico dei modi, senza tortuosità di itinerari e
conseguenti sprechi di energia.
Un tempo la disciplina che si occupava di questo si chiamava Caratteri
Distributivi: oggi essa appare o dimenticata o appesantita da contenuti
sempre più astrusi che dovrebbero riscattarla dalle sue umili origini.
Così si perde di vista la semplice desiderabilità di spazi facili da
comprendere e da percorrere.
figura 03
04.
Si chiede alla Composizione di garantire spazi di misura confortevole
per potervi svolgere le attività alle quali l’edificio è destinato.
12
Dispense: 1.1. Composizione
Esseri umani dotati di misura agiscono nell’edificio, si servono di
oggetti e di suppellettili a loro volta dotati di misura.
Oggetti e suppellettili devono poter essere agevolmente ospitati negli
spazi dell’edificio.
I movimenti degli esseri umani che se ne servono producono inviluppi
che devono avere la possibilità di svolgersi senza intralci.
Esiste un rapporto tra la misura di uno spazio ed il suo uso che quasi
un secolo fa fu indagato a fondo; e non mancarono allora motivazioni
nobili per farlo.
Poi quella sensibilità è andata declinando, di pari passo con il crescere
di una opulenza superficiale che insieme con le sue indicazioni
operative e pratiche ne ha offuscato anche i valori di sobrietà e
moderazione di cui era portatrice.
Così si perde di vista la semplice desiderabilità di spazi dimensionati
con equilibrio e perciò comodi da usare.
figura 04
05.
Si chiede alla Composizione di non produrre incoerenze tra gli elementi
costruttivi delle strutture e gli spazi dell’edificio.
Esseri umani circolano ed agiscono in esso e non possono essere
intralciati da posizioni disattente di muri, pilastri, scale, travi o solai.
Le misure degli elementi costruttivi ed i ritmi della loro disposizione non
possono contraddire la disposizione e le misure degli spazi, cioè
l’efficienza delle loro relazioni e l’equilibrio dei loro dimensionamenti.
Contemporaneamente quelle misure e quei ritmi devono poter
garantire in modo razionale ed economico la statica dell’edificio: di qui
la necessità di non separare le concezioni spaziali da quelle
costruttive, riconducendo il ragionamento primitivo agli elementi
costruttivi.
Spesso le discipline della Composizione e quelle della Costruzione
sono sentite come appartenenti ad ambiti del sapere separati e poco
comunicanti.
Così si perde di vista la semplice desiderabilità della economia
materiale, ma anche mentale, che possono dare spazi nella cui
concezione sia percepibile l’unità concettuale della disposizione, delle
misure, della fisicità, della statica.
figura 05
13
Dispense: 1.1. Composizione
06.
Si chiede alla Composizione di produrre ambienti nei quali sia comodo
e piacevole vivere.
Frequentano l’edificio esseri umani con il loro carico di bisogni materiali
e spirituali.
Ai primi la Composizione risponde producendo microclimi piacevoli
attraverso il sapiente orientamento degli spazi e l’attenzione nella
misura e nella disposizione delle aperture tra l’interno e l’esterno
dell’edificio.
In tale impresa la Composizione trova importanti alleate nelle discipline
dell’Igiene, della Fisica Tecnica e degli Impianti.
Ai secondi la Composizione risponde con la bellezza, che è qui intesa
come la capacità di dare forma e luce agli spazi in modo che chi li
frequenta ritrovi in essi la realizzazione, o anche solo la metafora, di
valori che ha cari; e li giudichi uno scenario adatto ove questi valori
possano manifestarsi con facilità e compiutezza.
figura 06
07.
Si chiede alla Composizione di produrre edifici capaci di inserirsi nel
luogo nel quale sono collocati e contemporaneamente di comunicare
un giudizio critico su di esso.
Citando un architetto italiano del Novecento si può sostenere che ogni
luogo possiede una atmosfera ineffabile eppure percepibile.
In quanto ineffabile, quella atmosfera non può essere raccontata; ma
può essere riassunta culturalmente in un’opera di Architettura della
quale allora diventa simbolo, o alla quale è capace di alludere.
Quell’opera non ricalcherà il linguaggio di nessuno degli altri edifici del
luogo, non sarà un’esercitazione di revival, rifiuterà mimetismi e
mascheramenti.
Quell’opera perseguirà un linguaggio attuale, ma inserito come
immagine nella continuità della tradizione; oppure con essa in palese
rottura.
In ogni caso si tratterà di un linguaggio in grado di dialogare alla pari
con la tradizione, e che quindi non sarà su di essa appiattito.
figura 07
14
Dispense: 1.1. Composizione
08.
Si chiede alla Composizione di produrre edifici capaci di inserirsi nel
tempo nel quale sono collocati e contemporaneamente di comunicare
un giudizio critico su di esso.
Autentica espressione dello spirito del tempo, l’Architettura è lo
specchio fedele d’una società e gli edifici ne sono i documenti più
rivelatori.
Ma gli edifici tendono a durare nel tempo; e una ideologia ormai
consolidata e diffusa induce a difendere, prolungare, garantire quella
durata.
Così, più che del tempo, l’Architettura esprime lo spirito dei tempi, della
loro successione, della coerenza, dell’incoerenza di questa.
E allora ogni nuova opera di Architettura sarà, che lo desideri o meno,
anche un giudizio sul presente e sul passato da cui proviene: come
dice il Poeta, sulle morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei.
Quell’opera perseguirà un linguaggio attuale, ma capace, se
confrontato con gli altri linguaggi contemporanei, di esprimere
continuità oppure discontinuità, apertura oppure isolamento,
compassione oppure alterigia.
figura 08
15
Dispense: 1.1. Composizione
16
Dispense: 1.1. Composizione
17
Dispense: 1.1. Composizione
18
Dispense: 1.1. Composizione
19
Dispense: 1.1. Composizione
20
Dispense: 1.2. Costruzione
1.2.
Costruzione
1.2.1.
Tema
figura 00
In Architettura si progetta sempre per costruire.
Il fatto che poi si costruisca davvero quanto si è progettato o non lo si
faccia è del tutto irrilevante; ed altrettanto irrilevante è il fatto che
quanto viene costruito è una piccola parte di quanto viene progettato.
E’ invece rilevante l’affermazione, che deriva direttamente dalle
asserzioni precedenti, che il progetto contiene insieme ed in maniera
inseparabile sia la Composizione che la Costruzione.
La Costruzione che il progetto contiene può essere suddivisa in due
parti, che riguardano:
1.
2.
1.2.2.
le scelte strutturali,
le scelte dei materiali.
Variazioni
01.
Solo una simile concezione può rendere attendibile l’affermazione di un
filosofo italiano del Novecento secondo il quale l’opera d’arte è il
progetto (...): un architetto può essere giudicato grande artista (...)
anche senza aver edificato materialmente nulla.
Se Composizione e Costruzione fossero separabili, allora l’architetto
potrebbe essere giudicato grande artista solo per la qualità grafica dei
suoi disegni: non si capisce, in tale caso, in che cosa egli sarebbe
distinguibile da un pittore.
Questo non significa che un architetto non possa essere anche un
pittore: la Storia ce ne offre numerosi esempi, e non tutti remoti nel
tempo, quando le arti del disegno erano più mescolate.
Ma è proprio confrontando i disegni di uno stesso doppio artista
quando agisce da pittore con quelli di quando agisce da architetto e
soffermandosi sulle loro differenze che si scopre che non sono
nella composizione, comune ad entrambi, ma nell’assenza o nella
presenza di contenuti costruttivi.
figura 01
02.
Per un lungo volgere di anni Composizione e Costruzione sono state
sentite come non distinguibili.
21
Dispense: 1.2. Costruzione
Nei Trattati di Architettura che si sono susseguiti nel corso della storia,
partendo dall’epoca remota di Vitruvio fino al Barocco compreso,
precetti estetici e compositivi sono intrecciati con regole di statica, di
concezione e realizzazione delle strutture portanti, di prestazioni e di
uso dei materiali.
Solo con la nostra mentalità odierna possiamo sostenere che
Architettura e Costruzione erano intrecciate: ragionando nella corretta
prospettiva storica è più giusto affermare che non erano sentite come
diverse.
Predicare oggi la loro unità significa innanzi tutto recuperare una
concezione antica del fare Architettura che ne esalta le componenti
materiali e non le sente come vincoli alla libertà di invenzione.
La Costruzione è innanzi tutto disciplina, quella ferrea della statica, e
creatività non vuol dire improvvisazione senza metodo, come scriveva
un designer italiano del Novecento; ed aggiungeva: in questo modo si
fa solo confusione e si illudono i giovani.
figura 02
03.
La Costruzione non è la sola componente materiale dell’Architettura,
ma è certo quella più influente ed evidente.
La separazione dalla Composizione si produsse in epoca illuminista e
va inquadrata nel più ampio processo di scomposizione disciplinare
che la caratterizzò: qualche insistente e fondata preoccupazione per il
fenomeno si inizia infatti a leggere dalla metà dell’Ottocento, per
esempio in un dizionario di allora che, a dispetto degli anni, continua
ad essere apprezzato.
La osservata scomposizione disciplinare consentì un rapido progresso
delle discipline della Costruzione e la loro costituzione in scienze
dotate di statuto solido.
Questo produsse a sua volta il formarsi di specialismi professionali che
resero ancora più difficile il dialogo con i compositori, che per parte loro
non avevano goduto di un parallelo processo di definizione ed
oggettivazione della loro professionalità.
Deve peraltro essere chiaro che predicare oggi (la necessità di
ritrovare) l’unità tra Composizione e Costruzione non significa in
nessun modo esprimere un giudizio negativo sull’epoca storia in cui la
separazione si produsse, che va comunque considerata come uno dei
momenti più alti dell’intera storia del pensiero umano.
figura 03
22
Dispense: 1.2. Costruzione
04.
La scomposizione disciplinare non consentì un analogo progresso
delle discipline della Composizione.
La ragione di questo è che esso non può svilupparsi con modalità
analoghe a quelle della Costruzione e della altre cosiddette scienze
positive.
Per la Composizione non è praticabile l’idea di perseguire uno statuto
solido e la ragione di questo risiede nel fatto che le sue procedure non
sono formalizzabili: questo potrà essere possibile per alcuni segmenti
di esse, ma mai per la loro totalità.
La gloriosa logica di antiche radici greche che consente di giungere a
conclusioni inoppugnabili, partendo da premesse evidenti e seguendo
passaggi di sicura oggettività non è applicabile alla Composizione, né a
nessuna delle discipline che si usa chiamare artistiche.
Eppure non sono mancati tentativi in tal senso, che hanno con il loro
fallimento confermato la suddetta impraticabilità.
Del resto anche le cosiddette discipline a statuto solido funzionano solo
applicando tecniche riduzioniste, oggi non in grande auge dal punto di
vista ideologico; ma pur sempre oggetto di una certa invidia da parte di
chi si rende conto di non poterle usare.
figura 04
05.
Le scelte strutturali possibili si riducono a due grandi classi:
1.
2.
a pilastri e travi;
a muratura portante.
La più significativa differenza tra le due va vista nella diversa forma dei
vincoli che impongono all’uso dello spazio in pianta:
1.
2.
puntiforme e discontinua nel primo caso;
lineare e continua nel secondo.
Nel primo caso si producono le condizioni per una maggiore libertà
d’uso dello spazio in pianta, ma pagando il prezzo di una maggiore
complicazione costruttiva.
Questa deriva soprattutto dalla necessità di far coesistere i materiali
della struttura ridotti ad una pura ossatura con i materiali di
tamponamento e di chiusura, diversi da quelli per misure, risposta
fisica alle condizioni ambientali, comportamento nel tempo.
Una simile scelta può essere coerente ad esigenze di spazi ampi e
singolari.
23
Dispense: 1.2. Costruzione
Nel secondo caso lo spazio in pianta è maggiormente vincolato, ma la
costruzione risulta più semplificata.
Il particolare il muro può svolgere ad un tempo ruoli strutturali, divisori
e di chiusura e non costringere al ricorso di materiali diversi per
caratteristiche e per misure.
Una simile scelta può essere coerente ad esigenze di spazi limitati e
ripetuti.
figura 05
06.
La libertà di pianta che la scelta strutturale a travi e pilastri consente
deve meritarsi: cioè essere sostenuta da forti ragioni funzionali o
espressive: diversamente comunica disordine, ricerca compositiva
insufficiente, pigrizia mentale del progettista.
Anche in questo caso siamo in presenza dell’eterna diatriba tra libertà
ed arbitrio e di dove si collochi il confine tra i due.
La libertà di pianta richiede grande maturità compositiva proprio perché
con grande facilità si presta ad essere banalizzata: in assenza di tale
maturità conviene confluire sui più sicuri percorsi della pianta vincolata
dagli elementi murari.
figura 06
07.
La muratura portante vincola la libertà di pianta, ma svolge ad un
tempo sia compiti statici che divisori: corrisponde quindi ad un principio
caro alla cultura occidentale almeno da quando un filosofo inglese del
Trecento scrisse (nella lingua internazionale di allora) frustra fit per
plura quod fieri potest per pauciora.
L’idea che sta dietro a questo concetto è che la povertà dei mezzi con i
quali si raggiunge un certo risultato si traduca automaticamente in una
maggiore qualità di quel risultato.
Nel giudizio valutativo (o critico) l’esito non è quindi separabile dal
processo che ha condotto a quell’esito: e a parità di esiti, quello ottenuto
con maggiore economia di mezzi prevale in qualità.
Si tratta di pura ideologia, che tuttavia sottende una concezione
austera dell’essere e del vivere che non dispiace e che fa sentire in
armonia con le proprie radici culturali.
Ad essa sembra essersi riferito il Maestro del Novecento che ha
affermato less is more; ed a molti appare volgare l’ostentazione di chi
la contesta, come chi a quel Maestro replicò less is a bore.
24
Dispense: 1.2. Costruzione
figura 07
08.
Di regola i solai sono formati da piccole travi accostate e quindi
possiedono una direzione.
Questa direzione influenza la disposizione degli elementi strutturali
principali (muri o travi e pilastri che siano), delle rampe di scala, delle
aperture per porte e finestre e talvolta di altro ancora.
Le scale comportano fori nei solai e tali fori hanno forma rettangolare:
sarà conveniente prevedere che il loro lato lungo sia nella direzione dei
solai, piuttosto che ortogonalmente a quella.
Delle quattro pareti che idealmente perimetrano uno spazio solo due
contrapposte hanno rilevanza strutturale: sarà conveniente che siano
pareti nelle quali i fori per porte o finestre siano pochi o nulli.
Fin qui si tratta di principi di banalo buon senso; ma più in generale le
scelte strutturali possono determinare una sorta di anisotropia della
complessiva organizzazione planimetrica degli spazi dell’edificio.
figura 08
09.
E’ desiderabile che la scelta strutturale sia omogenea nell’insieme
dell’edificio: o travi e pilastri o murature portanti.
La presenza nello stesso edificio di entrambe le opzioni, cioè di una
scelta strutturale mista è sostenibile solo se scelte diverse
corrispondono ad ambiti spaziali diversi ed i cui spazi hanno
caratteristiche diverse.
L’edificio è allora pensato come due edifici accostati (e comunicanti) in
ciascuno dei quali la scelta strutturale corrisponde ad esigenze spaziali
specifiche.
Uno spazio vasto ed unitario (come un ampio soggiorno) potrà
occupare la parte risolta con travi e pilastri, mentre spazi piccoli e
ripetuti (come stanze da letto, cucina, servizi) potranno occupare la
parte risolta con murature portanti.
In casi simili la presenza nello stesso edificio di concezioni strutturali
diverse può essere ricondotta ad una ragione sostenibile, perché
direttamente discendente dalla composizione.
Non soddisfa invece la mescolanza in ordine sparso di travi, pilastri ed
elementi murari che non sia riconducibile a motivazioni compositive,
ma solo a banali esigenze statiche.
figura 09
25
Dispense: 1.2. Costruzione
10.
In ogni caso, qualunque sia la scelta operata, il buon funzionamento
fisico ed economico della struttura trae vantaggio da una concezione
geometricamente regolare e semplice degli spazi e nella unificazione
delle loro misure.
Angoli retti e luci uguali determinano strutture semplici da realizzare,
economiche e prevedibili nei comportamenti: anche questa è una
piccola dimostrazione dell’intuizione di un fisico del Novecento che
comprese che la fisica è geometrizzabile e che esiste una sorta di
isomorfismo tra i fenomeni fisici e la regolarità geometrica.
Questo tuttavia contraddice l’esigenza di variare forme e misure degli
spazi per evitarne la banalità e la monotonia, migliorarne il
funzionamento, attribuire ad essi valori comunicativi e simbolici.
La diversità degli usi degli spazi di un edificio può renderne
desiderabile una corrispondente diversità di misure; spazi importanti
possono essere dichiarati tali solo con l’artificio di farli più vasti (in
area, in altezza) del necessario; spazi uguali ripetuti appaiono spesso
noiosi e suggeriscono varietà, non importa se fine a se stessa.
E’ quindi necessario trovare la giusta misura delle variazioni spaziali
possibili e fissare le regole entro le quali esse possono avvenire: in
modo da non avvilire le esigenze suddette e contemporaneamente non
offuscare la razionalità delle scelte strutturali.
figura 10
11.
Si sono nel tempo prodotte associazioni tra materiali e tecniche
costruttive da un lato e luoghi geografici, momenti storici, congiunture
economiche dall’altro; e continuamente se ne producono.
In forza di esse il laterizio evoca l’Inghilterra o l’Italia ed in una qualche
misura le simboleggia; così come il legno evoca gli Usa; così come più
locali e circoscritte materie prime disponibili evocano particolari modi di
costruire, e i luoghi e le genti di essi.
Ugualmente i discontinui successi di materiali prodotti industrialmente
evocano momenti di sviluppo o di recessione di economie diverse.
Tali associazioni tendono a permanere nel tempo, entrando a far parte
del bagaglio culturale di singoli e di gruppi, anche quando l’incessante
evoluzione umana e materiale fa venir meno le ragioni che le avevano
determinate.
26
Dispense: 1.2. Costruzione
Si dimostra in questo modo come la storia della tecnologia edilizia sia
una componente essenziale della storia dell’umanità: di conseguenza
ogni scelta tecnologica è anche ed inevitabilmente una manifestazione
ed un esercizio della critica sulla condizione umana e sui processi nei
quali è coinvolta.
figura 11
27
Dispense: 1.2. Costruzione
28
Dispense: 1.2. Costruzione
29
Dispense: 1.2. Costruzione
30
Dispense: 1.2. Costruzione
31
Dispense: 1.2. Costruzione
32
Dispense: 1.2. Costruzione
33
Dispense: 1.3. Misura
1.3.
Misura
1.3.1.
Tema
figura 00
Le misure degli spazi di un edificio, e quindi la sua misura totale,
possono essere ricondotte a principi e criteri oggettivi.
Questo permette la costituzione di una disciplina a statuto solido, al
pari di altre (il calcolo delle strutture, degli impianti ...) che il progetto di
Architettura coinvolge: è di conseguenza del tutto sensato e
pienamente sostenibile parlare di calcolo delle misure (degli spazi), o di
dimensionamento, come brevemente si usa dire.
Va peraltro ribadito che il progetto di Architettura non contiene solo
discipline a statuto solido e quindi non può esaurirsi solo in esse.
Base del calcolo sono le misure del corpo umano, la loro ipotizzata
costanza, le loro svelate interne proporzioni.
1.3.2.
Variazioni
01.
Qualunque spazio di un edificio può essere considerato in rapporto al
suo uso: un uso esiste sempre ed anzi proprio qui sta la specificità
dell’architettura, quello che soprattutto la distingue dalle altre arti del
disegno: che gli spazi dell’architettura sono sempre utili.
Qualunque spazio di un edificio esiste fisicamente e quindi può essere
descritto geometricamente: di conseguenza esso è sempre dotato non
solo di una forma, ma anche di una misura.
Uno
spazio
architettonico
quindi
è
sempre
dotato
contemporaneamente sia di misura (in quanto spazio) sia di uso (in
quanto architettonico).
La sistematica ed inevitabile presenza di entrambi gli attributi induce a
pensare che non siano del tutto indipendenti, ma che esista un
rapporto tra essi: cioè esista un rapporto tra misura ed uso e che tale
rapporto possa essere definito, indagato e studiato.
Ed in effetti le cose stanno proprio così e quel rapporto è il primo sul
quale fondare lo statuto solido della disciplina del dimensionamento.
figura 01
35
Dispense: 1.3. Misura
02.
Il rapporto sul quale iniziare a fondare la disciplina del
dimensionamento è con la misura dello spazio, non con la sua forma:
in quella fondazione disciplinare la questione della forma rimane
aperta.
Non occorre ricordare che a parità di misura infinite possono essere le
forme.
E se può essere postulato un rapporto anche tra forma ed uso, tale
rapporto appare tuttavia troppo variabile ed influenzato da fattori
occasionali (geografici, storici, culturali) per poter essere indagato con
quelle sane tecniche riduttive sulle quali si fondano le scienze positive
(e quindi tutte le discipline a statuto solido).
Il rapporto tra forma ed uso può essere studiato solo con le tecniche
olistiche delle discipline storiche, il che toglie qualunque valore
assoluto al glorioso principio secondo il quale la forma segue la
funzione e lo consegna a sua volta alla storia.
figura 02
03.
Il dimensionamento determinato dall’uso può essere chiamato
normale; esso è completamente oggettivabile in quanto dipende, come
insegnava decenni fa a Venezia uno scomodo architetto italiano, dalle
misure degli oggetti e degli arredi che si collocano nello spazio abitato
e dagli inviluppi dei gesti che l’abitante compie per usarli.
Ovviamente l’affermazione può essere estesa dall’abitante a
qualunque essere umano si serva di un edificio per qualunque finalità.
Definito il concetto di normalità è allora possibile attribuire un
significato alle anormalità, che nel caso qui considerato consistono nel
sovradimensionamento o nel sottodimensionamento.
Il primo caso può esprimere la prevalenza materiale o culturale di uno
spazio, o degli usi per i quali è costruito: esprimere, cioè, un’idea di
gerarchia.
Più difficile trovare possibili espressività del secondo caso, troppo
legato all’idea (o alla memoria) di una condizione di vita miserevole.
Possono forse essere ricercati a partire dalla constatazione della
miniaturizzazione di molti oggetti d’uso, ed in particolare di quelli più
avanzati tecnologicamente.
Ed anche dalla constatazione della connotazione volgare che con
sempre maggiore frequenza acquistano oggetti inutilmente
sovradimensionati (come, per esempio, i suv).
36
Dispense: 1.3. Misura
Ovviamente il ragionamento funziona se e solo se esiste una
concezione austera degli oggetti e degli arredi.
figura 03
04.
Postulare un rapporto oggettivabile tra misura ed uso non significa
postulare la fissità degli usi.
Poiché di regola più usi elementari sono organizzati nello stesso
spazio, può essere interessante scomporre e ricomporre quei gruppi di
usi e, di volta in volta, immaginare gli spazi conseguenti.
Simili ricerche sono incoraggiate dalla constatazione che la
coesistenza (o perfino la coerenza) di usi diversi nello stesso spazio è
diversamente teorizzata e praticata da culture diverse.
Ed anche uno stesso gruppo culturale, nella sua evoluzione, teorizza e
pratica abbinamenti d’uso (nello stesso spazio) mutevoli nel tempo.
figura 04
05.
L’architetto disdegna i millimetri e, un poco, anche i centimetri;
l’architetto non quota gli spessori.
Gli spessori non si sommano alle misure nette degli spazi, ma si
sottraggono dalle loro misure lorde.
Non sembri questo un inutile arzigogolo: tra il pensare le lunghezze,
larghezze ed altezze degli spazi come somma di misure nette e di
spessori, e pensarle invece come scansioni di ritmi (nei quali anche gli
spessori troveranno luogo) corre un mondo.
Si tratta di un mondo concettuale, ovviamente: cioè un atteggiamento
mentale capace di cogliere le grandi regole di organizzazione degli
spazi e di non farsi distrarre dai dettagli perturbatori; che non corre il
pericolo che gli alberi gli impediscano di vedere il bosco, come
paventava in tutt’altro contesto un rivoluzionario novecentesco.
E questo è di fondamentale importanza, perché così ragionando quelle
misure lorde possono con facilità essere ricondotte a multipli interi di
misure base, possono non avere parti frazionarie, possono essere
legate tra loro da poche regole semplici.
Ed è in questo modo possibile attribuire alle misure degli spazi di un
edificio coerenza, eleganza, proporzione.
figura 05
37
Dispense: 1.3. Misura
06.
Per propensione all’arrotondamento spinto a quotare (tipicamente) in
decine di centimetri l’architetto non perde tuttavia di vista quanto sia
astratto il rapporto tra quella unità di misura, imposta dalla pratica e
dalle convenzioni internazionali, e le misure del corpo umano, unità
non strumentali, ma concettuali del dimensionamento degli spazi di un
edificio.
E’ noto che la prima convenzione definiva il metro come la distanza tra
l'equatore e il Polo Nord, calcolata lungo il meridiano passante per
Parigi, e divisa per 10000000.
Successive crescenti esigenze di precisione hanno reso necessarie
nuove convenzioni che rendessero meno approssimativa quella
misura, che deve il suo indiscutibile successo non al suo valore, ma al
fatto di essere stata abbinata ad un sistema di moltiplicazione e
divisione su base decimale, cosa che a qualunque unità di misura
sarebbe potuta accadere.
E’ accaduto ad una unità che non ha nulla di antropomorfo: niente di
umano è lungo un metro.
Così è necessario armonizzare le grandezze umane con unità di
misura ad esse lontane; questo è un piccolo ostacolo al perseguimento
di dimensionamenti equilibrati, che gli antichi non avevano e che i feet
e gli inches anglosassoni riducono non di poco.
Tanto che quotare in piedi può facilitare l’ideazione; e solo alla fine
convertire il piede sulla base di un valore dell’ordine di 30÷35
centimetri, al quale possono essere ricondotti quasi tutti i piedi della
storia.
Anche il massimo Maestro del Novecento aveva pensato per le sue
architetture un uomo alto sei piedi, poco disturbato dal fatto che
corrispondessero a 1829 (!) millimetri.
figura 06
38
Dispense: 1.3. Misura
39
Dispense: 1.3. Misura
40
Dispense: 1.3. Misura
41
Dispense: 1.3. Misura
42
Dispense: 1.4. Geometria
1.4.
Geometria
1.4.1.
Tema
figura 00
La geometria è lo strumento con il quale si definiscono regole in grado
di portare a coerenza la composizione degli elementi costruttivi e
quindi la formazione degli spazi di un edificio.
Il campo di validità delle regole che con la geometria possono essere
definite va dal limite minimo di un unico edificio al limite massimo di
una classe di edifici, che si diranno allora appartenere allo stesso tipo.
Il controllo geometrico della disposizione degli elementi di un edificio
occupa lo spazio tridimensionale: come insegnava un docente parigino
del Settecento, i vari elementi (...) possono essere posti gli uni vicino
agli altri, oppure gli uni sopra gli altri; quando si compone un edificio
queste
due
specie
di
combinazioni
devono
presentarsi
simultaneamente allo spirito.
1.4.2.
Variazioni
01.
Ma quando si studia [aggiunge subito dopo il suddetto docente] per
facilitare lo studio si può, anzi si deve considerarle separatamente.
Pare esserci un paradosso in questa affermazione: è fuori di dubbio
che una dote dell’architetto debba essere l’immaginazione
tridimensionale, per chiamare così la facile capacità di figurarsi
sinteticamente i volumi, non importa quanto complicati.
L’immaginazione tridimensionale è per l’architetto quello che l’orecchio
assoluto è per il musicista o la percezione cromatica è per il pittore:
una potenzialità coltivabile come tutte, ma all’origine probabilmente
innata.
Se la geometria è il linguaggio per figurarsi, elaborare e comunicare
idee spaziali, allora la geometria dell’architetto è solida.
La geometria piana è considerata per quello che è: un’astrazione le cui
relazioni con lo spazio sono convenzionali o simboliche: fatto questo
peraltro ben chiaro a chiunque si occupi di educazione della prima
infanzia, quando convenzioni e simbolismi non offuscano ancora la
percezione diretta.
Peccato che questa condizione di natura duri poco e la geometria
piana, col tempo diventi spesso un buco nero, dal quale non si esce
più: il pensiero a due dimensioni è facile e facilmente comunicabile, di
qui il suo successo; ma è anche inevitabilmente riduttivo.
figura 01
43
Dispense: 1.4. Geometria
02.
Eppure la geometria piana è comoda; ed il suo uso da parte
dell’architetto è l’effetto di una più o meno consapevole applicazione di
tecniche riduzioniste nella quale, se si vuole, si può vedere una sua
mai superata invidia per le scienze positive.
Così l’architetto pensa a tre dimensioni, ma disegna a due.
E’ vero che, in una sorta di transitorio ravvedimento per aver represso
il suo desiderio di spazio, costruisce anche plastici.
Ma quando disegna resta intrappolato nella superficie del foglio: deve
allora decidere se partire dalla disposizione orizzontale, rappresentata
dalle piante, o dalla disposizione verticale, rappresentata dagli spaccati
e dai profili (tanto per continuare ad usare le parole dell’antico
docente).
La questione è sempre stata e resta aperta; non si tratta di teorizzare
la superiorità di un approccio rispetto all’altro (come pure qualcuno ha
fatto), ma di prendere partito.
Partire dalle piante facilita la soluzione dei problemi materiali di un
edificio, ma rischia anche di banalizzarlo; partire dagli alzati e dalle
sezioni mantiene un fastidioso retrogusto intellettualista.
figura 02
03.
La pianta è la generatrice si legge nella stessa Parigi un paio di secoli
dopo le parole dell’antico docente: e la scelta della disposizione
orizzontale è di qui fortemente legittimata.
Nella pianta c’è già quasi tutto l’edificio, nelle piante sovrapposte si
esprime il volume; nella pianta trovano coerenza la più attiva
immaginazione e la più severa disciplina.
Lo schema compositivo, cioè la regola geometrica che tiene insieme gli
elementi di un edificio è allora innanzi tutto uno schema di pianta.
Anche perché la fisica si occupa di definire alcune regole di
collocazione degli elementi di un edificio gli uni sopra gli altri, per la
ovvia ragione che quegli elementi pesano ed il peso è diretto in
verticale.
La fisica (e precisamente la statica) aiuta quindi la definizione delle
regole geometriche di spaccati e profili: del resto i nessi tra fisica e
geometria sono molto profondi, come uno scienziato del Novecento
aveva capito e fatto capire.
44
Dispense: 1.4. Geometria
Ma non aiuta quella delle regole geometriche delle piante, che è perciò
molto più influenzata dall’ideologia, nel senso di assunzione a priori di
verità e valori.
figura 03
04.
Ragionando empiricamente, si constata come l’esperienza abbia
tuttavia dimostrato che alcuni schemi di pianta appaiono più efficaci nel
conciliare l’unificazione delle misure, opportuna per la soluzione delle
questioni statiche, con la loro variazione, opportuna per la soluzione
delle questioni funzionali.
Per la loro efficacia, quegli schemi sono stati più e più volte ripetuti,
spesso sempre eguali o con variazioni modestissime.
La loro validità pratica, pur senza venire meno come tale, si è allora
convertita in forma culturale, cioè in rappresentazione di un’esperienza,
di un’epoca, di un gruppo sociale, di un sistema politico.
Così è stato per la griglia, incontrastata forma simbolica del
razionalismo occidentale, dalle remote origini greche, alle sistemazioni
metodologiche del Seicento, al novecentesco sogno scientista, oggi
talmente ripudiato da meritare forse un momento di meno prevenuta
riconsiderazione.
La griglia determina spazi che cambiano non con continuità, ma a
scatti, cioè secondo intervalli (che nel parlare comune sono chiamati
moduli): abbastanza variabili per rispondere alle esigenze dei diversi
usi dell’edificio, abbastanza rigidi per rispondere alle sue esigenze
strutturali.
Dopo essersi imposta come felice compromesso, la griglia si presta ad
essere moderatamente (ma anche smodatamente) manipolata con
stiramenti, rotazioni, traslazioni ed altre deformazioni geometriche.
Tanto per cercare qualcosa di nuovo fuggendo dalla banale
prevedibilità, ma stando anche bene attenti a non perdere i vantaggi
pratici che la griglia ha dimostrato nel tempo di saper dare.
figura 04
05.
Partire dalle piante significa pensare al volume come all’estrusione di
un piano; sebbene questo modo di pensare sia del tutto legittimo e
diffuso, esso può essere anche fonte di banalizzazione del progetto.
45
Dispense: 1.4. Geometria
Occorre allora pensare all’estrusione come a qualche cosa di più
articolato (ed articolabile) della pura e semplice attribuzione di
spessore.
Architravi, archi, volte, cupole e falde possono essere promessi dalla
pianta, ma non già latenti in essa o da essa completamente
determinati.
Le stesse superfici di estrusione sono piuttosto prefigurate nella
direzione parallela al piano di pianta, ma libere in quella ortogonale.
Immaginando che l’estrusione parta dal livello del suolo e sia orientata
verso l’alto, essa è interrotta da altri schemi di pianta, sovrapposti a
quello di partenza, certamente con quello coerenti, ma non
necessariamente a quello uguali.
Essa incontra quindi nel suo sviluppo fattori di possibile discontinuità o
deviazione, sorta di clinamen che può dare a se stessa, e per essa
all’intero edificio, forme che le menti semplici non avrebbero potuto
prevedere.
Come se nella concezione rigorosamente razionale del progetto fosse
nascosta un’aberrazione infinitesimale, una flessione fondamentale,
che tuttavia sbilancia tutto.
figura 05
06.
L’architetto non usa la geometria solo come strumento per raggiungere
la coerenza, ma anche come strumento di ricerca estetica.
Alcune figure geometriche sia piane che solide sembrano possedere
una sorta di eleganza intrinseca che le classifica come utili per
conseguire risultati di bellezza.
Si tratta di figure osservate con imprevista frequenza in fenomeni
diversi, artificiali come i templi, naturali come le conchiglie; e forse la
loro eleganza è nient’altro che l’effetto di tale frequenza: cioè effetto di
abitudine.
Questo non ha impedito studi numerosi e talora profondi di quelle
figure, alla ricerca di presunte ragioni nascoste della loro bellezza, che
si riteneva risiedessero in qualche loro proprietà intrinseca e
misteriosa, piuttosto che nel loro apparire come forme simboliche di
una quantità di fenomeni naturali e culturali.
L’attenzione alle figure eleganti, che in definitiva si riduce ad un
particolare rigore nella determinazione delle loro misure lineari (di lati,
di raggi, di spigoli) sentita come dovere intellettuale, innalza il ruolo
strumentale della geometria a valore spirituale.
46
Dispense: 1.4. Geometria
Ma non sfugge neppure la meccanica monotonia alla quale
quell’attenzione può condurre, quando essa si limiti a cogliere solo il
meccanismo di costruzione delle figure eleganti, si appaghi di esso e
non sia capace di esaltarne le possibilità espressive.
figura 06
47
Dispense: 1.4. Geometria
48
Dispense: 1.4. Geometria
49
Dispense: 1.4. Geometria
50
Dispense: 1.4. Geometria
51
Dispense: 1.5. Disegno
1.5.
Disegno
1.5.1.
Tema
figura 00
Il disegno è lo strumento primario sia per comunicare il progetto che
per idearlo.
Il pensiero ha sempre bisogno di un linguaggio e linguaggi diversi
determinano modi diversi di pensare, sia nei contenuti e nelle
concatenazioni che nel livello di profondità e di acume.
Su questo pare aver detto parole definitive un pensatore viennese del
primo Novecento: forzando al quale la mano, si può sostenere allora
che esiste un rapporto diretto tra la padronanza del linguaggio e la
qualità del pensiero.
Diversi sono peraltro i linguaggi di competenza umana, come
insegnano i semiologi: al diffuso, ovvio e maltrattato linguaggio verbale
si affiancano altri linguaggi che solo per l’invadenza di quello vengono
tutti riassunti nella classe unica dei linguaggi non verbali.
Tra questi una particolare attenzione meriterebbero almeno i linguaggi
grafici ed i linguaggi del corpo, che hanno entrambi la caratteristica di
essere preculturali, con quanto di animalità unita a sensi di paradise
lost questo comporta.
Noi, che siamo architetti e non danzatori, siamo particolarmente
interessati al linguaggio grafico: se il disegno è il linguaggio per
pensare il progetto, la padronanza sicura di quello è la precondizione
per la pertinenza, la coerenza, la consistenza di questo.
1.5.2.
Variazioni
01.
Avere padronanza del linguaggio grafico non significa essere
disegnatori dotati in senso accademico.
Come un animale mitologico, un centauro, una sirena, la scuola di
Architettura in Italia si forma forzando a coesistere un troncone di belle
arti con uno di ingegneria civile.
Tanto che a Venezia il primo corso speciale di Architettura trova
alloggio in alcune stanze dell’Accademia di Belle Arti, dove rimane per
una quarantina di anni.
Eppure molti architetti, anche di prima grandezza, anche decisivi per la
storia stessa dell’Architettura, avrebbero frequentato con difficoltà
un’accademia.
53
Dispense: 1.5. Disegno
Se la capacità grafica si riducesse al talento nell’ornato, allora molti
architetti anche importanti dovrebbero essere giudicati disegnatori
meno che mediocri.
Il disegno dell’architetto non orna, ma esprime: è in senso stretto un
linguaggio per comunicare e per pensare; e come tale non manca di
cadenze dialettali, predilezioni o idiosincrasie lessicali, abitudini
dialettiche.
figura 01
02.
Padronanza del linguaggio grafico significa saper essere espressivi
con disegni molto piccoli, saper concentrare molte informazioni in poco
spazio.
Tempo fa un famoso professore veneziano mostrava ai suoi studenti
un normale foglio di carta (A4) dicendo: comportatevi come se questo
foglio costasse un milione ...
... di lire italiane, ma quando lo diceva con una simile somma (poco più
di 500 euro) una famiglia viveva un anno.
Il disegno minuto è elegante ed aiuta la concentrazione della mente;
ma soprattutto consente di abbracciare con un solo sguardo, senza
muovere gli occhi, il proprio prodotto; e quindi essere in grado di
giudicarne la coerenza, la compiutezza, il grado di sintesi raggiunto.
Nel formulare la prima ipotesi compositiva, l’architetto disegna
l’insieme e poi verifica se può essere scomposto in parti coerenti e
funzionanti; non costruisce mai l’insieme come somma di parti;
l’insieme non è ciò che risulta, ma ciò che viene prima.
figura 02
03.
Padronanza del linguaggio grafico significa disegnare con sicurezza a
mano libera su carta bianca opaca.
Sebbene sia desiderabile (indispensabile) che gli elementi di un edificio
siano disposti secondo criteri geometrici regolari e semplici, vanno
bandite carte quadrettate, rigate o in qualunque modo facilitanti.
Meno perentoria può essere l’indicazione che la carta sia bianca ed
opaca: potrebbe anche essere colorata o (più o meno) trasparente,
anche se il ricorso a tali supporti pare essere motivato più dalla ricerca
di una grafica accattivante ed originale che dall’idea che essi possano
facilitare la riflessione compositiva.
54
Dispense: 1.5. Disegno
Del resto non sono pochi gli architetti che ricavano un utile anche dalla
vendita dei loro disegni; o che, con minore venalità, tengono anche alla
qualità grafica del loro archivio (e, soprattutto, non gettano via nulla).
Essenziale invece è il ricorso alla mano libera; e l’agilità di mano è solo
questione di allenamento, per il quale peraltro, come per ogni tipo di
allenamento, bisogna essere motivati.
L’agilità di mano consente l’uso di matite dalla mina tenera, con la
possibilità di affidare solo al controllo del peso della mano una
gerarchia dei segni nella quale si può riflettere la pensata gerarchia
interna del progetto.
E solo se la mano è davvero molto agile, allora può starci anche l’uso
di un righello o una squadretta, che completano l’abilità grafica e in
nessun modo suppliscono alla sua mancanza.
figura 03
04.
Il disegno a mano libera consente un immediato ed ineguagliabile feed
back delle proprie azioni.
Si è spesso osservato come l’architetto sia un artista sfortunato,
perché non può controllare la crescita della propria opera mentre la fa;
un pittore o uno scultore verificano in tempo reale gli effetti del loro
lavoro: quando questo è finito, anche l’opera lo è; pure un musicista
può ascoltarsi fin che compone.
Un architetto non può costruire mentre progetta: tra il progetto e la
costruzione esiste una inevitabile discontinuità, nella quale
ultimamente si sono gettate nuove e non sempre convincenti
professionalità, senza che peraltro al progettista ne sia venuto qualche
vantaggio.
L’architetto controlla la sua opera attraverso i suoi disegni; produce
disegni, ma si figura l’edificio: quindi nella sua mente esiste già un
processo di decodifica del linguaggio grafico che con l’esperienza
avviene in maniera subconscia, ma che comunque la occupa e la
affatica.
Per questo è utile che la verifica del disegno sia immediata, che alla
già osservata discontinuità tra il disegno e l’edificio non se ne aggiunga
un’altra tra l’occhio ed il disegno: e questo è possibile solo col disegno
a mano libera.
figura 04
55
Dispense: 1.5. Disegno
05.
L’immediato feed back che il disegno a mano libera consente non è
invece consentito dal disegno eseguito col computer.
Disegnando con il computer la fatica aumenta, perché alla inevitabile
discontinuità tra il foglio e l’edificio si aggiunge quella tra lo schermo ed
il foglio.
Essa è soprattutto dovuta alla diversa percezione delle proporzioni che
quello induce, non solo a causa della facilità con la quale si può
zoomare avanti ed indietro, ma anche perché (più o meno
consapevolmente) lo schermo è interpretato come una finestra su di un
mondo più vasto.
Il disegno sulla carta finisce, mentre quello sullo schermo è sentito
come illimitato.
A questo si aggiunge la difficoltà di attribuire ai segni sullo schermo
spessori differenziati e l’uso simbolico piuttosto che iconico del colore.
Né paiono ancora convincenti alcune soluzioni trovate dai produttori di
software, come lo spazio carta (layout) di quello che va per la
maggiore.
Questo non significa che l’affermarsi del disegno al computer abbia in
qualche modo danneggiato la ricerca progettuale in Architettura: al
contrario, l’abilità nelle cosiddette nuove tecnologie è un requisito
ormai indispensabile a tutti i livelli.
Ma è necessario comprendere che esse non possono essere pensate
come strumenti sostitutivi, ma integrativi di quelli preesistenti, che
conservano la loro valida efficacia, pur ridefinendo il loro campo di
applicazione e la loro stessa utilità.
figura 05
06.
I modi d’uso del computer nel progetto possono essere di due tipi.
Al primo tipo appartengono i modi che interpretano il computer come
uno strumento per allargare il campo della ricerca progettuale,
sfruttandone le capacità di simulazione e di velocissima raffigurazione
di spazi, non importa (quasi) quanto complicati.
Per qualcuno tali modi sono gli unici degni di essere presi in
considerazione: a che serve, argomentano costoro, una nuova
tecnologia, se non apre nuovi orizzonti di ricerca?
E la cosa, messa così, pare convincente.
56
Dispense: 1.5. Disegno
Peccato che l’eccesso di facilità con il quale il computer consente le più
cervellotiche manipolazioni dello spazio immaginato ne faccia sovente
perdere di vista il carattere virtuale e faccia ritenere che esso possa
essere sempre e comunque attualizzato.
Peccato che l’eccesso di facilità con il quale il computer consente le più
ridondanti rielaborazioni grafiche induca a sovraccaricare i disegni (e
talvolta anche gli edifici rappresentati) di orpelli decorativi superflui,
materialmente e (soprattutto) spiritualmente non necessari.
Il primo caso conduce a sperimentazioni decostruenti che sembrano
perdere di vista la semplice fisica che governa gli edifici; la quale
perciò, viene ipocritamente occultata, non potendo nel mondo reale
essere abolita, come lo può in quello virtuale.
Il secondo caso conduce a rendering stucchevoli e ripetitivi, che paiono
fondali dismessi di videogiochi vetusti, essendosi anche l’ultimo
borghese da sorprendere ormai abbastanza smaliziato.
figura 06
07.
I modi d’uso del computer nel progetto possono essere di due tipi.
Al secondo tipo appartengono i modi che interpretano il computer
come un grande tecnigrafo, uno strumento per disegnare che riassume
in sé i tanti strumenti d’un tempo (dal compasso al tratteggigrafo), per
di più permettendo un’accuratezza ed una precisione allora
sconosciute.
Per qualcuno tali modi sono, senza mezzi termini, indegni, in quanto
riduttivi ed incapaci di cogliere la carica innovativa che il computer
possiede.
Per altri, favorevoli al lavoro, ma contrari alla fatica, qualunque
strumento che consenta di ridurla, recuperando energie per il pensiero,
è un fattore di progresso.
In fondo il pensiero non ha bisogno di mezzi tecnici, tranne che di un
linguaggio; mentre di mezzi tecnici hanno sovente bisogno i prodotti
del pensiero: e quanto più questi sono efficienti, tanto meglio è, tanto
più il pensiero sarà libero.
E così anche i vecchi strumenti di disegno divenuti obsoleti saranno
guardati con commozione, come tappe di un illimitato processo di
liberazione che anche attraverso di essi sarà passato.
figura 07
57
Dispense: 1.5. Disegno
58
Dispense: 1.5. Disegno
59
Dispense: 1.5. Disegno
60
Dispense: 1.5. Disegno
61
Architetture: 2.0. Premessa
2.0.
Premessa 2: elogio del copiare
L’Architettura si fa con altre architetture: come tante, anche questa è
una massima che viene di volta in volta attribuita ad autorità diverse
(da Francesco Milizia a Ernesto Nathan Rogers), quasi che la paternità
illustre dovesse corroborarne la profondità e la verità.
In realtà l’affermazione pare sensata in sé, e neppure troppo originale.
Anche la Pittura si fa con altre pitture, anche la Scultura con altre
sculture, anche la Musica con altre musiche, anche la Poesia con altre
poesie, anche ...
Qualunque azione umana riparte da dove era arrivata il giorno prima:
eppure per le attività che si usa chiamare artistiche questo principio del
tutto elementare viene talvolta messo in dubbio.
Principio che è invece facilmente ritenuto indiscutibile nelle attività che
si usa chiamare scientifiche o tecnologiche, ed anche in quel caso con
una buona dose di superficialità.
Nessuno scienziato nella sua ricerca, nessun ingegnere nella sua
prassi ripartono mai da zero: ed anche le innovazioni (o le autentiche
rivoluzioni), che possono venire da qualcuno di loro tra i più dotati,
sono certamente dovute alla genialità di costui, ma altrettanto
certamente già contenute in nuce nelle ricerche e nelle prassi
precedenti.
E’ invece diffusa l’idea che un artista possa ripartire da zero: non
tenere conto di tutto quanto è accaduto prima di lui e divenire il
protagonista di una nuova palingenesi.
Su questa diffusa idea molti artisti ci marciano, contribuendo a
rialimentarla ed a mantenerla in vita; tanto da provocare, per
contrappeso, ricorrenti rispettose o nostalgiche ideologie del passato.
E’ vero che all’artista sono permesse più discontinuità (con il passato)
che allo scienziato o all’ingegnere; è vero che il successo delle
innovazioni di quello segue logiche diverse dal successo di questi; è
vero che la Storia dell’Arte registra più irregolarità di quelle della
Scienza o della Tecnologia; ma le differenze si fermano qui.
L’assimilazione dell’esperienza del passato, che è qualcosa di più
intimo e profondo del mero studio della Storia, è componente
irrinunciabile di qualunque formazione: che fare, allora, perché tale
assimilazione si inneschi?
Risposta (limitata agli architetti?): copiare.
63
Architetture: 2.0. Premessa
Cioè ridisegnare, perché solo ridisegnando si riesce ad entrare nel
dettaglio di un edificio e comprenderne le coerenze profonde: cosa per
la quale nessuno sguardo, anche esperto e non superficiale, è
sufficiente.
La pratica del ridisegno, un tempo diffusa, è stata progressivamente
abbandonata, nell’idea che lo studio libresco potesse bastare; in
questo modo si è andato perdendo quel rapporto con la materialità del
progetto, che è indispensabile per la sua comprensione.
Occorre quindi costruirsi un repertorio di architetture che sempre si
guardano, sempre si analizzano, sempre si scompongono, sempre si
(ri)disegnano.
Con il tempo e l’esperienza, tale repertorio diventerà vasto; da dove
iniziare? Costruire un’antologia, specie se stringata ed elementare, è
molto difficile; è come esercitare con modestia, responsabilità e senso
di misura, la difficile professione del critico.
Ecco qualche criterio:
1.
iniziare da edifici di piccola misura e destinati ad un numero
esiguo di usi: non è conveniente aggiungere alla complessità
intrinseca di qualunque edificio quella supplementare di edifici
grandi e per un ventaglio ampio di funzioni;
2.
iniziare da edifici non troppo lontani nel tempo, ma
contemporaneamente non troppo vicini al presente, evitando
così sia di dover ricorrere agli strumenti della critica storica sia di
dover confrontarsi con oggetti di studio sui quali il giudizio è
ancora troppo poco stabilizzato;
3.
iniziare da edifici che hanno lasciato traccia nella Storia
dell’Architettura, che sono stati cioè in qualche modo legittimati
come costruttori della cultura corrente;
4.
iniziare da edifici prodotti in ambiti socio-economici e culturali
non troppo lontani da quello nel quale ci troviamo oggi ad
operare e che, con termine piuttosto sbrigativo, si usa chiamare
occidentale.
Quella che segue è una proposta coerente a questi criteri, una prima
antologia minima formata solo da tre edifici: tre case per una sola
famiglia (ciascuna!), realizzate nella parte centrale del Novecento, già
consegnate alla Storia e collocate in Europa e negli Stati Uniti.
Si tratta di:
1.
2.
3.
villa Savoye di Le Corbusier (secondo progetto del 1930);
casa Esherick di Louis Kahn (1959);
casa Smith di Richard Meier (1965).
64
Architetture: 2.0. Premessa
Il loro valore antologico è dato da una sorta di complementarità delle
loro caratteristiche.
Sono tre edifici costruiti, tuttora esistenti e, almeno per una parte della
loro vita, effettivamente utilizzati per lo scopo per il quale furono
realizzati: quindi fisicamente e funzionalmente verificati.
Sono tre edifici suburbani e per questo privi delle complicazioni
determinate dal rapporto con contesti ricchi e complessi: nei quali
quindi il rapporto con il luogo, per la semplicità di questo, è chiaro e
facilmente comprensibile.
Sono tre edifici costruiti da architetti di tre diverse generazioni (del
Novecento): Le Corbusier (1887-1965) appartiene alla generazione dei
Maestri; Louis Kahn (1901-1974) appartiene alla generazione di
mezzo; Richard Meier (1934-vivente) appartiene alla generazione
attiva.
Sono tre edifici diversi per concezione compositiva: villa Savoye è
aperta lungo tutto il suo perimetro; casa Esherick è chiusa su se
stessa; casa Smith è orientata secondo un asse.
Sono tre edifici diversi per scelta strutturale: pilastri e travi in villa
Savoye; setti portanti in casa Esherick; entrambi in casa Smith.
Sono tre edifici diversi per schema compositivo delle piante: a griglia in
villa Savoye; in linea a casa Esherick; a (due) nuclei, ciascuno con
diverso schema, in casa Smith.
Fin qui le ragioni che li rendono adatti ad avviare la compilazione di
un’antologia; ma se compilare un’antologia è, come si è detto,
esercitare il mestiere del critico, allora non può mancare, accanto alle
ragioni suddette, piuttosto oggettive, una non sopprimibile quota di
tendenziosità.
Villa Savoye è in Europa ed è un edificio-manifesto del Razionalismo
(altrimenti, e più spesso, detto Movimento Moderno); casa Esherick e
casa Smith sono negli Usa: di più, in luoghi dove risiedono le pur
recenti radici culturali degli Usa: la Pennsylvania ed il Connecticut.
Essi costituiscono quindi ad un tempo una continuazione coerente di
quell’esperienza europea e le basi per una sua nuova declinazione in
un nuovo contesto (talvolta ostile).
I tre edifici proposti, presi nel loro insieme, intendono anche
trasmettere un giudizio di vitalità di un approccio all’Architettura che
trova le sue radici in Europa negli anni tra le due guerre mondiali e che
pare non avere ancora esaurito la sua spinta propulsiva.
65
Architetture: 2.0. Premessa
2.0.1.
Un messaggio ai colleghi
Non so se qualche collega (in particolare tra quelli impegnati ai primi
anni) troverà questo lavoro di una qualche utilità, tanto da consigliarlo
ai suoi studenti.
Nel fortunato caso, vorrei segnalare la costruzione standardizzata dei
testi, delle immagini e dei files riferiti a ciascun edificio.
Per ogni edificio sono fornite alcune informazioni essenziali su:
1.
Autore: non (più di tanto) notizie sulla vita e sulle opere,
facilissimamente reperibili da Wikipedia in giù e, di lì, in vaste
bibliografie; ma piuttosto qualche informazione meno scontata e
più focalizzata sull’edificio trattato;
2.
luogo: in quanto questione spesso trascurata; eppure molte
delle scelte compositive sono riconducibili ai caratteri del luogo,
peraltro nei casi considerati piuttosto semplici;
3.
schema compositivo: mettendo in risalto le coerenze che esso
consente con il complesso degli spazi dell’edificio, nella loro
misura e nel loro uso;
4.
soluzioni costruttive: non tanto nelle loro ragioni e logiche
intrinseche, che potranno assai meglio essere trattate dai
colleghi tecnici e tecnologi, ma nelle loro relazioni con la
concezione compositiva.
Sono inoltre fornite alcune immagini:
1.
2.
3.
foto (molto poche),
disegni bidimensionali,
disegni tridimensionali,
I disegni derivano da files AutoCad in formato .dwg che sono forniti in
una directory dedicata.
Il tutto si ferma al di qua di ulteriori possibili elaborazioni come il
ridisegno, la scomposizione, l’interpretazione critica e quant’altro la
fantasia didattica possa suggerire.
Per questo ritengo che possa trattarsi di un materiale di base
suscettibile di utilizzazioni diverse, nella più ampia libertà e ben al di là
dei ristretti orizzonti del suo primo compilatore.
66
Architetture: 2.1. Le Corbusier - villa Savoye
2.1.
Le Corbusier - Villa Savoye
Autore
figura 00
Charles-Edouard Jeanneret-Gris assumerà il nome d’arte di Le
Corbusier (storpiando un poco il nome di un nonno: questa di storpiare
i nomi era una sua piccola mania) all’apertura di uno studio tutto suo in
rue de Sèvres a Parigi nel 1922.
Gli incantati dicono che lo fece per distinguere la sua attività di
architetto da quella precedente di pittore; i disincantati dicono che lo
fece come gesto di rottura da un passato di orizzonti ristretti e non
privo di fallimenti anche economici.
Le Corbusier è ancora giovane: era nato a La Chaux-de-Fonds (nel
Cantone svizzero del Giura) nel 1887 (il 06 ottobre): ha quindi 35 anni;
ne vivrà altri 43, morendo nel 1965 (il 27 agosto) durante una solitaria
vacanza a Roquebrune-Cap-Martin sulla Côte d’Azur.
Gli basteranno per diventare il protagonista assoluto dell’Architettura
del Novecento.
Affermare ancora che Le Corbusier è il più grande Maestro del
Novecento rischia più che altro di rialimentare polemiche vecchie ed un
poco stantìe, dove è stato di volta in volta contrapposto a Walter
Gropius, a Mies Van Der Rohe e, soprattutto, a Frank Lloyd Wright.
Viene allora in mente una raccomandazione di un altro Maestro
(triestino, milanese, di una ventina d’anni più giovane) che ha detto che
questi quattro grandi (...) sono i nostri maestri: (...) le loro differenze
sembrano a tutta prima ben più evidenti di qualche identità (...): ma se
frughiamo fino alle fondamenta della nostra struttura artistica, li
troviamo come solide ed insostituibili basi del nostro edificio culturale.
Raccomandazione tuttora da seguire, anche da parte dei più giovani:
ma se si ragiona a mente sgombra, allora è difficile negare che per
trovare un Autore che abbia avuto altrettanta influenza di Le Corbusier
su chi è venuto dopo bisogna forse risalire fino a Palladio.
Villa Savoye è stata progettata e costruita a cavallo tra gli anni Venti e
Trenta per un amministratore di una compagnia di assicurazioni e la
sua famiglia; di essa esiste un primo progetto abbandonato (perché
ritenuto troppo dispendioso) ed un secondo progetto realizzato.
Il confronto tra i due progetti è piuttosto istruttivo per gli indizi che
fornisce su come ragiona un progettista (uno dei migliori ...).
67
Architetture: 2.1. Le Corbusier - villa Savoye
Villa Savoye è diventata un edificio-manifesto del Movimento Moderno;
dopo varie vicissitudini (tra le quali il suo uso come sede delle SS
durante l’occupazione nazista della Francia) è stata restaurata,
dichiarata nel 1965 monumento nazionale (essendo ministro della
cultura André Malraux) ed è oggi visitabile.
Nella rete è facile trovare indicazioni: con i mezzi pubblici occorre circa
un’ora e mezza dal centro di Parigi, ma ne vale la pena.
Luogo
figura 01
Poissy è un borgo di circa 35000 abitanti a W-NW di Parigi, sulla riva
sinistra della Senna.
Villa Savoye fu costruita sul colmo di una piccola altura in uno spazio
allora piuttosto libero: perciò si comprende la sua apertura verso il
paesaggio, materializzata dall’elemento costruttivo della finestra in
lunghezza su tutto il suo perimetro.
L’inarrestabile e disordinata espansione edilizia delle banlieues
parigine ha in parte fatto venir meno quella iniziale condizione di
apertura verso il mondo.
Ma è necessario non dimenticarla: villa Savoye è un edificio polare, fu
pensato come il centro di qualcosa, era il centro di qualcosa; in nessun
modo può essere pensato come un edificio (sia pure) geniale su di un
lotto qualunque di una lottizzazione qualunque.
figura 02
figura 03
figura 04
Schema compositivo della pianta
La pianta è impostata su di una griglia a maglia quadrata di 4.75 metri
di passo con qualche anomalia soprattutto in corrispondenza della
rampa centrale, la cosiddetta promenade architecturale, che lega i
diversi piani tra di loro, a differenza di una scala fatta di gradini, che
invece li separerebbe.
Sulla rampa si cammina lentamente, contemplando; ma talvolta il
tempo per contemplare manca: così esiste anche una scala che, nel
progetto realizzato, assume una plastica forma ad elica.
Nel primo progetto, abbandonato, essa era a rampa rettilinea e
piuttosto fuori dalla vista: un elemento di puro servizio.
Nel primo progetto il passo della griglia era di 5.00 metri, e la rampa
rettilinea ci stava; avendolo ridotto (per motivi di budget) a 4.75 metri,
la rampa rettilinea non ci sta più ed occorre una soluzione diversa: di
qui l’invenzione dell’elica.
68
Architetture: 2.1. Le Corbusier - villa Savoye
La griglia ordina la struttura, mentre gli spazi si articolano più
liberamente (ma non poi così tanto: solo con piccole traslazioni dai
rami della griglia) secondo il principio della pianta libera, che, come si
vede, è usato con grande senso di misura dal suo stesso inventore.
Su due lati opposti della pianta (quello NW e quello SE) il primo piano
aggetta di circa 1.20 metri: è un’altra traslazione rispetto alla griglia,
motivata soprattutto dal trovare una soluzione pulita per gli angoli delle
finestre in lunghezza.
figura 05
Soluzioni costruttive
La scelta strutturale è a travi e pilastri di calcestruzzo armato; anche i
solai sono realizzati con lastre piane di calcestruzzo, il che negli anni
ha prodotto qualche inconveniente a causa del fenomeno che i tecnici
chiamano fluage.
Le proprietà della collaborazione tra conglomerato di cemento ed
acciaio erano note da circa un secolo, ma solo nei primi anni del
Novecento il materiale iniziava a diffondersi come concreta alternativa
alle ingombranti strutture murarie ed alle costose strutture metalliche.
E’ la libertà dal muro resa economicamente accessibile: da essa quindi
non viene solo una innovazione delle tecniche costruttive, pur
importante, ma può venire anche un rinnovamento della composizione
e della figurazione.
Sono anni in cui è di gran voga la redazione di manifesti artistici e sono
molti quelli che si dedicano a scrivere intorno alle diverse arti parole
che pretendono di essere definitive.
Charles-Edouard Jeanneret-Gris lo aveva già fatto nel 1918 sulla
Pittura con l’opuscolo Après le Cubisme scritto a quattro mani con il
pittore Amédée Ozenfant.
Divenuto Le Corbusier lo rifà nel 1926 sull’Architettura con l’opuscolo
Les Cinq Points d'une Nouvelle Architecture scritto a quattro mani con
il cugino Pierre Jeanneret, socio dello studio parigino di rue de Sèvres.
I cinq points (pilotis, toit-terrasse, plan libre, fenêtre en bandeaux,
façade libre) sono totalmente tributari alla tecnologia del calcestruzzo
armato; e villa Savoye è un edificio-manifesto soprattutto in quanto è
un esempio evidente e compiuto di loro applicazione.
figura 06
figura 07
figura 08
69
figura 09
Architetture: 2.1. Le Corbusier - villa Savoye
70
Architetture: 2.1. Le Corbusier - villa Savoye
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Architetture: 2.1. Le Corbusier - villa Savoye
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Architetture: 2.1. Le Corbusier - villa Savoye
73
Architetture: 2.1. Le Corbusier - villa Savoye
74
Architetture: 2.2. Louis Kahn - casa Esherick
2.2.
Louis Kahn - Casa Esherick
Autore
figura 00
Nel 1905 la poverissima famiglia Kahn lascia l’Isola di Osel in Estonia
(oggi Saaremaa) per gli Stati Uniti d’America; il bambino Louis Isidore
ha quattro anni, essendo nato nel 1901 (il 20 febbraio).
E’ l’inizio di un sogno americano realizzato (solo in parte: morì povero):
Louis Kahn, nato già nel nuovo secolo ed attivo soprattutto nella
seconda metà di esso, è forse l’unico Maestro che può stare alla pari
dei quattro grandi della prima metà (Wright, Gropius, Mies e Le
Corbusier).
Eppure Kahn non è stato un talento precoce: cittadino americano dal
1914, dopo varie collaborazioni e consulenze apre uno studio proprio a
Philadelphia nel 1947 e riceve il primo incarico importante nel 1952,
con il quale inizia ad avere una certa visibilità.
E’ un progetto urbanistico per la sua città, col governo della quale
aveva peraltro rapporti stabili soprattutto attraverso la locale azienda
della casa (per così dire: PHA - Philadelphia Housing Authority).
Urbanistica ed Architettura sono inestricabili nella sua attività di
progettista; ed anche da quella di insegnante: a Yale dal 1947 al 1957
ed alla Penn (University of Pennsylvania) dal 1957 al 1974, anno della
sua morte avvenuta a New York il 17 marzo.
Per Kahn l’ordine (o la forma, parole che nel suo linguaggio paiono
intercambiabili) viene prima del disegno; e questo non è che
l’attualizzazione di quella.
Quindi l’ordine, o la forma, assumono quasi una consistenza
metafisica: fatto che più che da qualunque saggio critico può essere
compreso appieno dal film su di lui che il suo ultimo figlio Nathaniel
(avuto dalla terza ed ultima compagna ed a malapena conosciuto) ha
scritto e diretto nel 2003 e che si intitola My Architect - a Son’s
Journey.
Se avvicinarsi all’Architettura può essere paragonato all’avvicinarsi ad
una religione (come ha sostenuto un architetto ticinese che lo conobbe
personalmente), allora l’architettura di Kahn è la più adatta per una
simile avventura dello spirito.
Casa Esherick è stata progettata e costruita a cavallo tra gli anni
Cinquanta e Sessanta per la colta signora Margaret, che viveva da
sola.
75
Architetture: 2.2. Louis Kahn - casa Esherick
La casa è un esempio ammirevole e commovente di estetica della
chiarezza: la regolarità delle sue geometrie; la doppia altezza del
soggiorno, che lo palesa come spazio principale; la simmetria dei
camini, che ne rendono tangibile la compiutezza di forma dimostrano
l’esistenza di una forza figurativa della semplicità e la possibilità di
praticarla.
Per questo l’edificio è anche molto didattico.
Luogo
figura 01
Chestnut Hill è un sobborgo di Philadelphia a N-NW del centro, dal
quale dista una decina di km.
Casa Esherick è al termine di una via cieca (Sunrise Lane), ai margini
di un parco (Pastorius Park) e letteralmente immersa in una
vegetazione ricca e fitta: le aperture inventate da Kahn filtrano verso
l’interno della casa una luce da quella già prima filtrata.
Così l’edificio ed il suo giardino determinano uno spazio che può
essere definito introverso, privo di lunghe visuali, riflesso su se stesso.
La non grande misura della casa (il suo ingombro a terra è di meno di
mq 130) è bilanciata dallo stretto rapporto tra interno ed esterno,
quest’ultimo a sua volta delimitato da pavimentazioni ed arredi fissi
nella parte più immediatamente contigua all’edificio.
figura 02
figura 03
figura 04
Schema compositivo della pianta
La pianta è impostata su di una sequenza di quattro ambiti rettangolari
accostati linearmente sui loro lati lunghi, di profondità uniforme e di
larghezza frontale variabile.
Non è difficile trovare una coerente (e piuttosto precisa) concezione
modulare nel dimensionamento degli ambiti: la loro profondità uniforme
è di 28 ft mentre la larghezza di ciascuno (da NE a SW) è di 10, 12, 6,
12 ft, per un totale di 40 ft.
Ricordando a questo punto una classificazione degli spazi di un edificio
proposta dallo stesso Kahn e che ha avuto successo, gli ambiti stretti
contengono spazi serventi (cioè per i collegamenti ed i servizi) e quelli
larghi contengono spazi serviti (cioè per gli usi specifici dell’edificio: in
questo caso quelli della casa: il soggiorno, il pranzo, la stanza da letto).
76
Architetture: 2.2. Louis Kahn - casa Esherick
La linea degli ambiti è anche visivamente terminata da due camini
collocati sulle opposte testate: uno (in uno spazio servito) per l’arredo
del soggiorno ed uno (in uno spazio servente e più complesso) in
dotazione alla cucina e come elemento di un originale sistema di
climatizzazione dell’intero edificio.
La facilità con la quale la composizione di casa Esherick può essere
descritta a parole è essa stessa un’ulteriore modo (metalinguistico) per
significare l’idea di ordine (o di forma) dell’Autore.
figura 05
Soluzioni costruttive
La scelta strutturale é a murature portanti, in forma di setti disposti
trasversalmente alla linea degli ambiti e coincidenti con i lati lunghi di
questi.
In una linea la disposizione trasversale dei setti portanti è la più
ragionevole, perché libera da incombenze strutturali quelle parti delle
facciate nelle quali è più opportuna la finestratura.
Così come l’ordine viene prima del disegno in Kahn anche il pensiero
costruttivo viene prima della concreta messa in opera degli elementi
strutturali ed abita negli spazi astratti delle idee generali, dove tutto si
tiene.
Il muro non è quindi una costrizione o un vincolo: quindi non occorre
liberarsi dalla sua schiavitù, che non esiste; il muro è al contrario un
modo per dare caratteri agli spazi, renderne evidente la forma e la
compiutezza, distinguere i serventi dai serviti.
Sono passati pochi decenni dalle profezie lecorbuseriane sulla pianta
libera e già si afferma una concezione più matura del rapporto tra
spazio e costruzione, in forza della quale i bordi degli spazi e gli
ingombri strutturali tendenzialmente coincidono, a meno a che ...
A meno a che potenti ragioni espressive (e null’altro che ragioni
espressive) non inducano a qualche licenza (cauta licenza) rispetto a
quel principio.
figura 06
figura 07
figura 08
77
figura 09
Architetture: 2.2. Louis Kahn - casa Esherick
78
Architetture: 2.2. Louis Kahn - casa Esherick
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Architetture: 2.2. Louis Kahn - casa Esherick
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Architetture: 2.2. Louis Kahn - casa Esherick
81
Architetture: 2.2. Louis Kahn - casa Esherick
82
Architetture: 2.3. Richard Meier - casa Smith
2.3.
Richard Meier - Casa Smith
Autore
figura 00
Nel 1979 l’americano Jay Pritzker, proprietario di una catena di
alberghi, istituì un premio annuale per un architetto che, oltre che
bravo, fosse anche vivente ed avesse costruito molto; sostenne così di
aver colmato una svista di Alfred Nobel.
Pur evitando paragoni troppo facili e superficiali, è indubbio che nei
suoi trent’anni di esistenza il premio si sia conquistato ed abbia
mantenuto un elevato prestigio, il che lo rende molto ambito.
Richard Meier lo conseguì nel 1984, quando aveva (quasi)
cinquant’anni, essendo nato a Newark, NJ nel Columbus Day del 1934:
in quel momento era il più giovane dei già premiati (la cui età media
era di 64.4 anni) e lo è tuttora anche rispetto a tutti i premiati dopo (la
cui età media è di 63.8 anni).
Uno studio statistico sul premio può essere interessante per capire
qualcosa sul mondo della professione: per esempio dei 33 ai quali è
stato conferito (nel 1988 e nel 2001 furono in due), si trovano solo una
donna (Zaha Hadid) e solo due italiani (Rossi e Piano).
Meier si afferma presto: a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta una
mostra del MoMA ed un libro importante presentano l’opera di cinque
architetti (gli altri quattro sono Hejduk, Eisenmann, Graves e
Gwathmey), che acquisteranno visibilità come gruppo, dal titolo del
libro denominato Five Architects.
Il sodalizio, peraltro presente più in giudizi critici pur molto autorevoli
che in una prassi di lavoro comune, si scioglie pochi anni dopo e
ciascuno dei Five intraprende e segue un percorso autonomo (solo
quello di John Hejduk si interrompe, prematuramente, nel 2000).
In comune avevano forse la resistenza ad una concezione riduttiva
dell’Architettura che si manifestata nel brutalismo costruttivo e nel
funzionalismo spaziale, esiti banali di un indebolimento in atto della
spinta propulsiva del razionalismo europeo: e quindi l’obiettivo di
contrastare quell’indebolimento.
In comune avevano di sicuro la città di New York, che in quegli anni
stava conquistando il rango di capitale culturale del mondo (che
peraltro, a causa dei processi di globalizzazione, fatica a tenere).
Casa Smith fu progettata e costruita tra il 1965 ed il 1967 ed è uno dei
progetti esposti alla mostra del MoMA, dove le opere presentate erano
quasi tutte ville residenziali per committenze danarose.
83
Architetture: 2.3. Richard Meier - casa Smith
Casa Smith esprime in modo chiaro l’idea di Meier che un edificio sia
un sistema di sistemi e che il compito della Composizione sia quindi di
cogliere la specificità di ciascuno di quei sistemi e di condurre tutti a
coerenza entro un unico sistema.
Meier stesso, con pochi disegnetti elementari quanto efficaci, esprime
questa non facile prassi, attraverso la quale riesce a fare in modo che
le sue architetture appaiano, come ha osservato un famoso professore
polacco-inglese, le espressioni di un ordine inevitabile, il quale è
ritenuto esistente a priori.
Non sfugge una certa quota di metafisica, che è forse la più
caratteristica marca della declinazione americana dell’esperienza del
Movimento Moderno europeo; ed è quindi il riconoscimento, leale e
misurato, di un riconosciuto tributo culturale.
Luogo
figura 01
Darien è una piccola città che si affaccia sul Long Island Sound, un
braccio di mare dell’Oceano Atlantico compreso tra la costa dello stato
del Connecticut e l’isola di Long Island, parte della quale è occupata da
Queens, primo borough per estensione (e secondo per popolazione)
della città di New York.
Casa Smith si affaccia direttamente sulla costa, schermata verso terra
dalla vegetazione ed aperta verso il mare.
Questa posizione induce una forte assialità nella sua composizione in
direzione ortogonale alla riva; le grandi vetrate del soggiorno
consentono di godere della vista del mare, lontano solo una
cinquantina di metri, e di un ridosso per piccole barche, ancora più
vicino.
Dalla parte opposta alla riva prevalgono invece le facciate chiuse, con
piccole aperture per le stanze da letto ed i servizi.
figura 02
figura 03
figura 04
Schema compositivo della pianta
La pianta è impostata sulla giustapposizione sul lato lungo di due
ambiti rettangolari simili nelle misure, ma diversi per concezione
compositiva, contenuti funzionali e soluzioni costruttive.
L’ambito di SE, verso il mare, è occupato soprattutto dal grande
volume del soggiorno, parzialmente sviluppato in doppia e tripla
altezza.
84
Architetture: 2.3. Richard Meier - casa Smith
L’ambito di NW, verso l’entroterra, è suddiviso sia in verticale da solai
che in orizzontale da setti ed è occupato dai piccoli spazi della cucina,
dei servizi e delle stanze da letto.
L’ambito di SE rimanda alla pianta libera, quello di NW alla
organizzazione seriale degli spazi.
Due concezioni planimetriche diverse, ciascuna coerente in sé, sono
forzate a coesistere con il semplice provvedimento dell’accostamento,
rinforzato ed enfatizzato dal sistema della circolazione orizzontale e
verticale.
Gli spazi della distribuzione sia orizzontale (corridoi, ballatoi) che
verticale (scale, rampe), cioè il sistema della circolazione ha per Meier
un ruolo primario nel condurre a coerenza gli altri sistemi: in questo
non è difficile riconoscere un riferimento lecorbuseriano, seppure
depurato dalla carica simbolica che esso aveva nel Maestro e risolto
con la semplice (si fa per dire!) maestria compositiva.
figura 05
Soluzioni costruttive
I due ambiti che formano la pianta sono diversi anche per scelte
strutturali.
Nell’ambito di SE la scelta è per travi e pilastri, questi ultimi svincolati
tanto dalla pianta che dalla facciata (e non è chi non veda, anche qui,
un riferimento lecorbuseriano); nell’ambito di NW la scelta è per setti
portanti disposti parallelamente ai lati corti.
Un simile ibrido strutturale (che Meier userà anche in altre sue opere)
sembra contenere un insegnamento: che esso è sostenibile se e solo
se scelte strutturali diverse sono chiaramente delimitate in ambiti
diversi e coerenti a diverse esigenze funzionali ed a diverse concezioni
spaziali.
I pilastri dell’ambito a pianta libera sono di acciaio inox e questo
sembra corrispondere solo al fatto che si tratta di un materiale
all’epoca molto comune nelle finiture e nel design.
I setti e le pareti perimetrali dell’altro ambito sono di legno e questo
induce ad interpretazioni più sottili.
La casa di legno, che nel sud dell’Europa evoca la baracca e quindi i
baraccati, è piuttosto normale negli Stati Uniti; anzi, un certo modo di
mettere in opera il legno (chiamato balloon frame) corrisponde ad un
contesto di grande disponibilità di materia prima e di bassa
qualificazione operaia che doveva caratterizzare gli Usa degli inizi.
85
Architetture: 2.3. Richard Meier - casa Smith
Certo quella tecnologia del legno si è evoluta e perfezionata, ma è
tuttora impiegata in modi concettualmente e praticamente non troppo
diversi da quelli delle origini.
Così se in Meier la composizione è europea, la costruzione è
americana e la ricerca del coerente connubio tra le due esprime
compiutamente il suo stesso consistere culturale in equilibrio tra le
radici (intellettuali) europee ed il presente (pratico) americano.
Casa Smith è di acciaio, di vetro e di legno, solo il camino è di muro:
ed anche in questo si potrebbe forse trovare qualche significato.
figura 06
figura 07
figura 08
86
figura 09
Architetture: 2.3. Richard Meier - casa Smith
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Architetture: 2.3. Richard Meier - casa Smith
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Architetture: 2.3. Richard Meier - casa Smith
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Architetture: 2.3. Richard Meier - casa Smith
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Architetture: 2.3. Richard Meier - casa Smith
91
Libri: 3.0. Premessa
3.0.
Premessa 3: elogio del canone
233 è la conversione nei (per noi) consueti gradi centigradi di 451 gradi
fahrenheit, temperatura alla quale la carta prende fuoco, come
ricordano un racconto scritto da un americano e, dopo, un film diretto
da un francese.
Nella ricca simbologia che si è andata consolidando intorno al libro, il
rogo dei libri rappresenta la repressione, l’eclisse della civiltà, l’eterno
ritorno della barbarie.
Il rogo, peraltro, non elimina il libro tout court, ma elimina il libro
scomodo,
antagonista,
degenerato:
anch’esso
è
quindi,
paradossalmente, una conferma della necessità del libro.
E’ la solita suddivisione tra canonici ed apocrifi: in forza della quale
talvolta si teorizza (e si pratica) che la difesa dei primi comporti
necessariamente la distruzione dei secondi.
Cioè: sempre di libri si tratta.
Oggi le deprimenti statistiche (che è facile trovare nella rete) intorno
alla lettura in Italia ci convincono che lo scontro si è spostato: non è più
tra libri e libri, ma è tra libri e nulla.
Con solo apparente paradosso, questo riabilita il canone, pur con
qualche necessario aggiornamento del concetto.
Canonici non sono più gli unici libri che è lecito leggere e necessario
per essere degni di una religione o di una ideologia; canonici non sono
più i libri che contengono l’unica ed indiscutibile verità; canonici sono
adesso i libri che è utile leggere per primi, per formarsi un’attitudine
critica che permetta di non restare prigionieri di qualche integralismo
religioso o ideologico.
Se questo è possibile, allora qualunque cosa può essere letta dopo,
perché su di essa potrà esercitarsi la riflessione critica; il rogo non solo
non è più necessario, ma anzi potrebbe essere controproducente allo
sviluppo della libera personalità individuale e sociale, che ormai è
compresa e sentita come un valore.
In questo senso qui viene proposto un canone di sei libri facili da
trovare e da leggere; è molto meno di quello che è richiesto per aderire
ad una qualunque delle religioni monoteiste e del resto l’Architettura
non è una religione, malgrado quello che anche grandi Maestri
possono al riguardo aver pensato ed anche esternato.
Di ogni libro sarà compilata una scheda standard, uguale per tutti e
formata da quattro parti: qualche nota sull’Autore più l’individuazione di
tre parole chiave e qualche nota su ciascuna.
93
Libri: 3.0. Premessa
I testi sono integrati con figure pertinenti, anche se non sempre
provenienti dal libro.
E’ presente anche qui una sorta di furia simmetrica che caratterizza
l’insieme di questo lavoro e che corrisponde alla mentalità di chi scrive,
al quale sembra che gli schematismi e le forzature che essa può
introdurre siano ad abundantiam controbilanciati dalla facilità di
memorizzare per questa via alcune nozioni fondamentali.
Dell’Autore del libro non si racconterà la vita, ma piuttosto il contesto
nel quale si trovò ad agire; del libro non si racconteranno i contenuti,
ma alcune riflessioni che essi possono provocare, integrate talvolta da
alcune citazioni da altri libri che essepossono suggerire.
Come sempre, mancheranno note e riferimenti, peraltro (come
sempre) accurati; ed il gioco di scoprirli continua ...
Raccontare i libri è una pratica deplorevole, quasi quanto quella di
prestarli; i libri vanno letti e le schede che seguono ne vogliono
promuovere, ma anche rendere inevitabile, la lettura.
Pure nella scelta dei libri canonici non è estranea una certa voglia di
simmetria.
I libri sono sei: uno di un Maestro antico (si fa per dire: tra il XVIII ed il
XIX Secolo); tre di tre costruttori europei dell’Architettura del
Novecento; due di due italiani del secondo dopoguerra.
Si disegna così un percorso: dalle origini, alla fondazione teorica, alle
verifiche pratiche, alla declinazione locale; ecco allora i libri, nella
edizione italiana utilizzata (che è quella della mia biblioteca personale),
ma anche con indicazione del luogo e dell’anno della prima edizione.
1.
Durand, Jean-Nicolas Louis
Lezioni di Architettura
CittàStudi - Milano, 1986
prima edizione: Paris, 1821
2.
Le Corbusier
Verso una Architettura
Longanesi & C. - Milano, 1984
prima edizione: Paris, 1923
3.
Neufert, Ernst
Enciclopedia Pratica per Progettare Costruire
Hoepli - Milano, 1958
prima edizione: Berlin, 1936
94
Libri: 3.0. Premessa
4.
Klein, Alexander
a cura di Baffa Rivolta, Matilde e Rossari, Augusto
Scritti e Progetti dal 1906 al 1957
Mazzotta - Milano, 1975
prima edizione: editori vari, anni vari
5.
Rogers, Ernesto Nathan
Esperienza dell’Architettura
Skira - Milano 1997
prima edizione: Torino, 1958
6.
Rossi, Aldo
L’Architettura della Città
Marsilio - Padova, 1966
prima edizione: Padova, 1966
Questi non sono i libri scevri di dubbi dati come guida per i timorati di
Dio i quali credono nell’Invisibile; sono piuttosto libri forniti ai dubbiosi,
che tuttavia vogliono vedere: ma che, con l’ausilio di essi, potranno
rendere i loro sguardi più profondi e guardare con più disincanto.
3.0.1.
Un messaggio ai colleghi
Non so se qualche collega (in particolare tra quelli impegnati ai primi
anni) troverà questo lavoro di una qualche utilità, tanto da consigliarlo
ai suoi studenti.
Nel fortunato caso, vorrei segnalare la costruzione modulare delle
schede, che ne permette facili emendamenti.
Sono consapevole che sia l’individuazione dei libri (per coloro che non
si accontentano di credere nell’Invisibile) che il modo con il quale sono
schedati (parola desueta in riferimento ai libri: peccato!) sono
pesantemente tendenziosi.
Non pretendo di avere trovato i libri giusti ed anzi sono sinceramente
convinto che i libri giusti non esistano: ma questo non significa che
allora si debba smettere di cercarli.
In altre parole mi pare giusta l’idea di indicare le letture per cominciare,
mi pare che tutti coloro che hanno a che fare con studenti esordienti
dovrebbero faro: per ragioni (credo) abbastanza evidenti ed anche
perché è un gesto di lealtà intellettuale.
Intorno a quali letture indicare (e perché) ed intorno a come indicarle (e
perché così) il campo è aperto: ho solo tentato una proposta che spero
funzioni.
95
Libri: 3.1.Durand
3.1.
Lezioni di Architettura - di Jean-Nicolas Louis Durand
Autore
figura 00
Jean-Nicolas Louis Durand nacque a Parigi nel 1760 (18 settembre) e
morì poco lontano, a Thiais nel 1834 (31 dicembre).
Fu allievo di Etienne-Louis Boullée (1728-1799) e, come il (suo)
Maestro, tendenzialmente un eclettico erudito, attratto dalle strutture
rinascimentali e anche medievali.
Erano quelli anni di rifondazione culturale; la rivoluzione francese
induceva in molti intellettuali una sentita necessità di palingenesi; per di
più, i nuovi valori stavano imponendosi in Europa; con la forza del
convincimento ed ancor più sulla punta delle baionette di Bonaparte.
Come in ogni fase di transizione, si poneva ad un tempo il problema di
immaginare il futuro e di non sprecare il passato.
Nel libro Durand espone la sua soluzione ad esso, che può essere
riassunta in una nuova razionalità per la disposizione di vecchi stilemi.
Il libro è principalmente un ausilio alla sua attività didattica, che si
sviluppò all’ École Polytechnique dal 1795 al 1830, con la quale fissò
alcuni canoni dell'architettura ottocentesca e contemporaneamente
anticipò alcuni aspetti del Razionalismo moderno.
Con la sua attività teorica Durand esercitò grande influenza in Francia
ed in Germania; risulta peraltro che abbia costruito un solo edificio:
casa Lathuile a Parigi, demolita, ma il cui disegno è visibile in una delle
tante tavole grafiche del libro.
figura 01
Parole chiave dell’opera
figura 02
Dopo alcune anticipazioni, la prima edizione definitiva del libro è del
1821 a Parigi.
La lettura di Lezioni di Architettura, il cui titolo originale è Précis des
Leçons d’Architecture, può, tra le altre, suggerire le seguenti parole
chiave:
•
•
•
Ragione,
Schema,
Interasse.
97
Libri: 3.1.Durand
Ragione
Durand dà forma compiuta all’idea che l’Architettura sia riconducibile a
criteri oggettivi, segnando così una tappa importante in un processo
avviatosi (soprattutto in Italia) in epoca post-barocca e al suo tempo
ancora in atto
Secondo Durand scopi dell'architettura sono:
1.
2.
3.
l'utilità pubblica e privata,
la conservazione,
il benessere degli individui, delle famiglie e della società,
che sono ottenuti attraverso principi costruttivi:
1.
2.
relativi alla convenienza: la solidità, la salubrità, la
comodità;
relativi all'economia: la simmetria, la regolarità, la
semplicità.
Arriva ad affermare che “... non si deve cercar di rendere piacevole un
edificio, poiché se ci si dedica interamente a rispondere alle esigenze
pratiche, è impossibile che l’opera non sia anche piacevole”.
Con la sensibilità di oggi questa posizione pare contenere un eccesso
di estremismo: ma non è così se essa (come sempre si dovrebbe fare)
viene collocata nel suo tempo, e cioè nella battaglia per l’affermazione
di nuove forme di pensiero; e nel suo luogo, e cioè nella profonda
rivoluzione colà in atto, culturale oltre che politica.
Aldo Rossi sosterrà che non solo la costruzione di un ambiente
propizio alla vita, ma anche l’intenzionalità estetica sono caratteri stabili
dell’architettura: ma Rossi arriva un secolo e mezzo dopo, quando
alcuni valori ancora in bilico ai tempi di Durand si sono ormai affermati
e stabilizzati.
figura 03
Schema
Uno schema geometrico astratto ordina gli spazi di un edificio sia in
pianta che in alzato, cioè nelle tre dimensioni: lo schema si forma per
accostamento di figure semplici, così come l’edificio è una
composizione di elementi semplici.
Durand può con puntigliosa analiticità elencare gli elementi semplici
(nella prima parte del libro) e gli edifici semplici (nella seconda parte
del libro) dimostrando che la sua semplificazione dei processi
compositivi non impedisce la varietà degli esiti: cioè non inibisce
l’invenzione, il che è possibile perché la sua è una semplificazione
concettuale piuttosto che operativa.
98
Libri: 3.1.Durand
Quella semplificazione consente inoltre di evitare le insidie nascoste in
qualunque arbitraria suddivisione in parti dell’Architettura: in particolare
quella che la vorrebbe suddivisa in decorazione, distribuzione e
costruzione.
La suddivisione dell’Architettura in parti impedisce di vedere l’idea
generale dalla quale le idee particolari delle diverse parti derivano:
l’Architettura è quindi sostanzialmente un fatto unitario che trova la sua
unità in un’unica idea semplice.
E questa idea semplice è esprimibile in termini geometrici, anzi è essa
stessa geometria.
Le conclusioni di Durand sono riduzioniste: tutte le attività umane sono
solo apparentemente complicate: ciascuna può essere chiarita se si
scopre il fattore dal quale deriva; e (fideisticamente) questo è di sicuro
unico e semplice.
Il Secolo XIX, all’inizio del quale Durand si colloca, sarà ampiamente
percorso da questa ingenua fiducia, che porterà, ad esempio a
pensare il comportamento sociale come determinato dal denaro o il
comportamento individuale dalla sessualità.
A questa ingenua fiducia, alla quale oggi tendiamo a guardare con
disincantata sufficienza, dobbiamo progressi materiali e spirituali
irreversibili: conserviamo quindi il presente disincanto, ma non
indulgiamo troppo nella sufficienza.
figura 04
Interasse
La ricerca compositiva ignora gli spessori.
Questa nozione piuttosto elementare, ma (chissà perché ...) difficile da
assimilare, può essere vista e compresa anche solo guardando
attentamente qualche progetto ben anteriore al XIX Secolo.
Durand la porta a definitiva chiarezza definendo il concetto di entr’axe,
normalmente tradotto con interasse: termine corretto, ma che in
italiano evoca l’Ingegneria Meccanica piuttosto che l’Architettura e che
quindi, parlando di questa, appare improprio.
Parlando di Architettura ha più successo il termine modulo ed in effetti
in molti passi di Durand la sua sostituzione ad interasse non ne falsa il
senso.
Ma esiste una sottile differenza: l’interasse è un concetto geometrico,
mentre il modulo è un concetto metrico; il primo riguarda le forme, il
secondo riguarda le misure.
99
Libri: 3.1.Durand
Il primo è anche relativamente indipendente dal concetto di misura,
limitandosi a determinare rapporti: non quindi valori assoluti, ma
proporzioni; il secondo è invece propriamente una misura, anzi, una
piccola misura (modulus è diminutivo di modus: è latino!) e quindi
derivante da ragioni funzionali più che compositive.
Come un aneddoto, ricorderemo che quando il signor Savoye contestò
a Le Corbusier l’eccessivo preventivo per la villa di Poissy, il Maestro
ridusse le spese (anche) agendo sull’ entr’axe: portandolo dai 5.00
metri del primo progetto ai 4.75 di quello poi realizzato.
Anche lui doveva essere stato a lezione da Durand.
figura 05
100
Libri: 3.1.Durand
101
Libri: 3.1.Durand
102
Libri: 3.1.Durand
103
Libri: 3.2.Le Corbusier
3.2.
Verso una Architettura - di Le Corbusier
Autore
figura 00
Le Corbusier, principale Maestro del Novecento, nato a La Chaux- deFonds nel 1887 (il 06 ottobre) e morto a Roquebrune-Cap-Martin nel
1965 (il 27 agosto) fu all’inizio della sua carriera anche uno scrittore di
manifesti.
Nel 1918, insieme con il pittore Amédée Ozenfant pubblica un
manifesto sulla Pittura (Aprés le Cubisme) nel quale postula la
necessità di purezza nel fare Arte: “... l'opera non deve essere
accidentale, eccezionale, impressionista, inorganica, protestataria,
pittoresca, ma piuttosto generale, statica, espressiva dell'invariante ...”.
Nel 1923, insieme con il suo (sottovalutato) socio e cugino Pierre
Jeanneret pubblica un manifesto sull’Architettura (Vers une
Architecture) dove raccoglie ed integra articoli ed interventi degli ultimi
anni sulla sua rivista Esprit Nouveau.
Quelli erano anni in cui si scrivevano molti manifesti artistici in Europa.
Già prima della Prima Guerra Mondiale (1914 - 1918) il sistema di
equilibri europei uscito un secolo prima dalla caduta di Napoleone e dal
congresso di Vienna (1815) mostrava evidenti segni di logoramento.
La guerra, da essi provocata, ne provoca un’imprevedibile
accelerazione: non solo sistemi politici, ma anche sociali e culturali
collassano e si diffonde (nel mondo, ma soprattutto nel vecchio mondo)
un clima da nuovo inizio.
E’ in questo contesto che Le Corbusier inizia il suo cammino.
figura 01
Parole chiave dell’opera
figura 02
La prima edizione del libro è del 1923 a Parigi.
La lettura di Verso una Architettura, traduzione letterale del titolo
originale Vers une Architecture (compreso il vezzo di non apostrofare
una, perché in francese non si fa), può, tra le altre, suggerire le
seguenti parole chiave:
•
•
•
Manifesto,
Matematica,
Semplicità.
105
Libri: 3.2.Le Corbusier
Manifesto
Il manifesto è uno scritto breve e perentorio: afferma con decisione
escludendo dubbi e problematicità.
Tutto il contrario del trattato, dal quale ci si aspetta invece che sia
esauriente ed argomentato.
Fin dagli splendori della civiltà romana l’evoluzione dell’Architettura si
riflette nella successione dei trattati, l’impianto concettuale dei quali si
mantiene per secoli omogeneo e consiste nella presenza simultanea di
norme, consigli e regole pratiche (tipici del manuale) con precetti
filosofici, figurativi ed estetici (tipici del canone).
Nel Novecento questo ha fine: dalla trattatistica dei secoli precedenti si
stacca una pratica manualistica, che si limita a sistematizzare e
trasmettere quelle regole dell’arte che apparivano più consolidate.
Del vecchio trattato resta esclusa la componente di fondazione
culturale, che si costituisce in modo autonomo ed assume la forma del
libello apodittico e predicatorio.
Mentre il manuale implica in sé la prassi dell’aggiornamento, il
manifesto ha la pretesa di essere definitivo, obiettivo che
sistematicamente gli sfugge proprio per la sua strutturale, e perciò
inevitabile, astrattezza.
Del manifesto restano allora alcuni brandelli, tuttavia in sé sufficienti al
progresso del pensiero nelle discipline delle quali si occupa e sulle
quali ha inteso dire parole finali.
E se il manifesto ha colto davvero il senso del tempo che lo ha
prodotto, allora quei brandelli sono anche imprescindibili per qualunque
ragionamento dei tempi successivi: e davvero per un’opera di
costruzione culturale come Verso una Architettura non si sarebbe
potuto desiderare destino un migliore.
figura 03
Matematica
Un uomo ingenuo afferma che a scuola era un disastro in matematica,
materia che gli ispirava solo angoscia e ripugnanza; giorno dopo giorno
questo ingenuo si rende conto che la sua arte è governata da una
regola; si accorge che avendo oltrepassato la porta dei miracoli, la sua
buona stella lo ha condotto in un giardino dove fioriscono i numeri.
Da Verso una Architettura passano 25 anni prima che alcune
affermazioni là contenute in modo sparso e non privo di emotività si
coagulino in una simile conclusione tanto decisa e lucida.
106
Libri: 3.2.Le Corbusier
L’uomo ingenuo riconosce la regola e la saluta con gioia; quindi la
regola esisteva da sempre, ma è difficile da cogliere, perché si fa
vedere lentamente, giorno dopo giorno.
All’inizio essa può solo essere intuita.
Oggi gli architetti non realizzano più le forme semplici.
Operando col calcolo, gli ingegneri usano forme geometriche,
appagano gli occhi con la geometria e lo spirito con la matematica.
La geometria appaga gli occhi, la matematica appaga lo spirito: e
poiché la sensibilità umana è (deve essere) essenzialmente unitaria,
allora deve esistere da qualche parte un ambito in cui geometria e
matematica coincidono.
Alcuni sinceramente lo pensano: tale ambito non esaurisce tutta la
geometria, né tutta la matematica, ma esiste; è grazie ad esso che un
architetto, come tale necessariamente dotato di occhio spaziale, può
cavarsela con onore in matematica.
E anche, più di rado, un buon matematico può simulare di essere un
discreto architetto; ma non c’è dubbio a quale delle due suddette
categorie il Nostro (disastro in matematica in gioventù) appartenesse.
figura 04
Semplicità
Un abbondante secolo prima uno scrittore neoclassico compilò un
dizionario di Architettura dove si legge: “... lo studio della composizione
non deve consistere nel disegnare sulla carta (...). Avverrà bene
spesso che tutti questi sforzi, di cui l’immaginazione è feconda in
disegno, o presenteranno delle parti ineseguibili, o esigeranno, per
essere realizzate, incalcolabili spese. (...) Dobbiamo pur dirlo, i tempi
moderni introducono forse troppo (...). E’ senza dubbio ottima cosa
l’esercitare la immaginazione, ma questo deve farsi con molta cautela
...”.
Esiste una semplicità che è l’esatto contrario della semplificazione che
tutto banalizza e riduce a luogo (senso) comune; esiste una semplicità
che è un faticoso punto di arrivo raggiunto attraverso una rigida
disciplina, l’eliminazione del superfluo, la critica dell’inutile, il costante
esercizio del senso della misura.
Tale sobrietà attraversa la cultura europea, almeno dai tempi dell’aurea
mediocritas oraziana in poi, con alterno successo ed una costante
condizione, paradossale perché ad un tempo minoritaria e nobile.
107
Libri: 3.2.Le Corbusier
In Architettura quella sobria semplicità è da molti considerata un valore
(assoluto): che cos’è l’Architettura? Gioco di forme semplici che la luce
esalta, superfici che non devono distruggere i volumi, piante che
contengono già in sé quelle superfici e quei volumi, pura creazione
dello spirito ...
La semplicità concettuale ed esistenziale si riflette in Architettura nella
semplicità costruttiva: la coerenza tra spazio e struttura, così come
l’economia dell’impresa, sono garantite.
Piroscafi, aerei ed auto hanno già raggiunto questo stadio;
l’Architettura può farcela: ed una casa che lo dimostra si chiama quasi
come un’auto.
figura 05
108
Libri: 3.2.Le Corbusier
109
Libri: 3.2.Le Corbusier
110
Libri: 3.2.Le Corbusier
111
Libri: 3.3.Neufert
3.3.
Enciclopedia Pratica ... - di Ernst Neufert
Autore
figura 00
La vicenda di Ernst Neufert, nato a Friburgo nel 1900 (il 15 marzo) e
morto a Bugeaux-sur-Rolle nel 1986 (il 23 febbraio), sembra una di
quelle che riassumono in sé la fatica di vivere in un secolo
contraddittorio come il Novecento.
Operaio minorile, si fa poi notare in una scuola per muratori, il che gli
propizia l’incontro con Gropius e la sua scuola; durante un viaggio in
Spagna è folgorato da Gaudì, ma poi torna come insegnante alla
Bauhaus dove trova anche moglie; quando il governo nazista chiude la
Bauhaus cambia scuola, ma poco dopo il governo chiude anche quella.
Costruisce qualcosa, ma soprattutto scrive il libro; va in America e
prende contatto con Wright, nella speranza che lo aiuti a trovare lavoro
lì; non lo aiuta e quindi torna in Germania, anche perché il libro sta
andando molto bene; Speer gli offre un incarico pubblico che accetta.
Passa indenne i disastri (e le responsabilità tedesche) della guerra e
nel dopoguerra insegna (a Darmstadt) e progetta insieme con il
primogenito Peter; muore vecchio abbastanza nel suo buen retiro
svizzero.
Diversamente dalle note sugli altri Autori, in questa ci si è un poco
dilungati sulla vita del personaggio, tanto superficiale ed
ideologicamente malferma quanto il suo libro, per il quale è passato
alla Storia, è coerente e rigoroso.
Forse per questo la Storia, che glorifica il libro, ricorda poco l’Autore;
forse non riesce a spiegare come un’opera tanto controllata e severa
possa essere venuta da uno che si muoveva con apparente
indifferenza tra il misticismo catalano, il pragmatismo della frontiera
americana ed il delirio di onnipotenza della Germania nazista.
Resta il dato della imprescindibilità del libro, ineguagliabile strumento di
formazione ed utensile all life long per chi si occupi di dare misura,
coerenza, funzionalità ed organizzazione agli spazi dell’Architettura.
figura 01
Parole chiave dell’opera
figura 02
La prima edizione del libro è del 1936 a Berlino.
113
Libri: 3.3.Neufert
La lettura del libro di Neufert, il cui pur ellittico titolo italiano completo
ha richiesto cinque parole (Enciclopedia Pratica per Progettare
Costruire) contro una del titolo originale (Bauentwurfslehre),può, tra le
altre, suggerire le seguenti parole chiave:
•
•
•
Misura Umana,
Classificazione,
Standardizzazione.
Ma prima di occuparsene pare necessario non eludere una domanda:
è l’Enciclopedia ... di Neufert un libro da leggere? O non è solo un
manuale da consultare?
La salomonica risposta (ed anche quella più convincente) è che il libro
è entrambe le cose: usarlo come un’opera solo da consultare può
essere riduttivo, perché proprio nella sua puntigliosa esaustività e
nell’ordine con cui questa è esposta si annida una visione del mestiere
(di architetto) che solo la lettura sistematica (da pag. 1 in poi ...) può
svelare.
Giova anche osservare che questo è possibile ed ha senso solo se si
usa un’edizione datata del libro, prima che le aggiunte apocrife delle
edizioni recenti, nell’irrealizzabile ed insensata idea di aggiornarlo, non
ne avessero snaturato la concezione.
Misura Umana
Noi ci rendiamo (...) subito esattamente conto delle dimensioni di un
oggetto quando vi vediamo vicino un uomo sia ciò al vero che nella sua
rappresentazione grafica.
Le misure del corpo umano non sono quindi solamente (e banalmente)
un insieme di dati di partenza per calcolare la misura giusta di oggetti e
di spazi, cioè di quelle cose create dall’uomo per servirlo e quindi (...)
dimensionate in rapporto a lui.
Esse sono anche un punto di riferimento per l’idea stessa di misura
che ciascuno (chi più, chi meno) porta in sé: il concetto della
grandezza di qualsiasi cosa è per noi, ancora oggi, meglio afferrabile
se ... viene comparata alle misure del corpo umano o di sue parti
(braccio, piede, spanna, pollice ...): questi sono concetti innati in noi e
che stanno, si può dire, nel nostro sangue.
E’ passato del tempo, ed oggi, con maggiore precisione scientifica, si
direbbe nel nostro codice genetico; ma per il resto la cosa è nella
sostanza ancora del tutto sostenibile.
Per questo il libro si presta alla doppia lettura prima osservata; per
questo nelle sue versioni primitive è e resta di gran lunga superiore alle
tante opere simili stampate in seguito, incluso il nostrano Manuale
dell’Architetto (tranne la sua prima edizione, imbarazzante calco del
libro di Neufert allora non ancora edito in Italia).
114
Libri: 3.3.Neufert
figura 03
Classificazione
Dopo i capitoli iniziali intorno agli studi preparatori ed al progetto (da
non sottovalutare: si tratta di un’autentica proposta di metodo),
l’impianto del libro è classificatorio ed ordinato dal particolare al
generale: dai particolari costruttivi; alle disposizione e dimensioni delle
aree, dei vani e degli impianti; ai vari tipi di edifici; ad alcune tavole
generali conclusive.
Pregio principale dell’opera è di aver riunito in un solo libro, in concisa
sintesi, tutto l’essenziale per progettare e costruire.
E’ nota, quasi un luogo comune, la totale mancanza di senso
dell’umorismo di chi si occupa di tassonomie, parola tremenda perché
contiene contemporaneamente i concetti di regola e di ordine
(ciascuno rispettabile in sé, ma inquietanti se messi insieme).
Su questo un Maestro argentino, capace di nascondere il sarcasmo
sotto un’erudizione vastissima, ma non ostentata, ha scritto parole
forse decisive.
Neufert non fa eccezione: la sua seriosa vis classificatoria, unita ad un
corrispondente desiderio di esaustività, lo hanno condotto verso alcune
forzature dalle quali ci si poteva aspettare una veloce caducità del
libro.
E invece il successo editoriale continua, segno evidente che le parti
vitali dei suoi contenuti riescono comunque a prevalere su quelle che il
tempo che passa rende obsolete.
Per questo è impresa futile e vana tentare di aggiornarlo: perché si
corre il rischio di offuscarne le parti vitali, che consistono nella più
esauriente trattazione del rapporto tra le misure degli esseri umani e
quelle degli spazi e degli oggetti di cui si servono.
Non ha importanza se gli oggetti delle vecchie edizioni appaiono un
poco demodé: le loro misure continuano ad essere sensate nei valori
assoluti ed in rapporto con le misure umane.
Ed il fatto che anche queste si siano (lievemente) modificate dai tempi
di Neufert, quando gli esseri umani erano di statura inferiore e
vivevano meno a lungo di oggi (e non solo per le guerre), non ha
ancora messo fuori gioco il suo generoso lavoro.
figura 04
Standardizzazione
La vis classificatoria non è stata peraltro solo un tratto del carattere
personale.
115
Libri: 3.3.Neufert
In quegli anni l’affermazione planetaria della produzione industriale in
serie imponeva scelte di unificazione e di standardizzazione in una
vasta fattispecie di manufatti.
Il comitato tedesco per l’unificazione (Din) si costituisce nel 1917 ... per
sviluppare norme e standard come un servizio per l’industria, lo stato e
la società considerati come un tutto.
Contemporaneamente artisti diversi, ed anche tra loro intellettualmente
e politicamente lontani, cantavano in coro le qualità estetiche del
prodotto industriale, fornendo per questa via una base culturale
internazionale a quei processi che, proprio perché confinati entro limiti
nazionali, porteranno nel Novecento a due terrificanti conflitti.
Gli architetti non sono estranei a tutto questo: è anche nel loro sentire
comune ... l’utilità di un coordinamento tra l’industria e l’edilizia, come
si esprime (in piena seconda guerra mondiale) l’ente italiano di
Unificazione (Uni), che aggiunge: “... questo coordinamento è attuabile
attraverso la semplificazione e l’unificazione; è per questo che l’Uni (...)
ha fino dal 1940 intrapreso i lavori di unificazione nel campo
dell’edilizia ...”.
Anche qui l’Italia pare un poco in ritardo, ma il processo è davvero
travolgente e pervasivo su scala planetaria.
Queste considerazioni dànno una chiave in più per comprendere il
lavoro di Neufert: non è solo uno strumento per non sbagliare la
pendenza di una scala o la misura di una sala da bagno, ma è ben
altro.
E’ uno sforzo di semplificazione e di unificazione che si propone di
aggiornare ai tempi nuovi il settore dell’edilizia, ritenuto
tecnologicamente arretrato; e che trova nella classificazione e nella
normalizzazione gli strumenti efficaci ed opportuni (ed anche
desiderabili) per farlo.
figura 05
116
Libri: 3.3.Neufert
117
Libri: 3.3.Neufert
118
Libri: 3.3.Neufert
119
Libri: 3.4.Klein
3.4.
Scritti e Progetti - di Alexander Klein
Autore
figura 00
Una vita da fuggiasco: così si potrebbe sintetizzare la vicenda di
Alexander Klein, nato ad Odessa nel 1879 (il 17 giugno) e morto a New
York nel 1961 (il 15 novembre).
In Russia studia e riesce anche a costruire qualcosa; si interessa in
particolare al problema dell’abitazione, sul quale darà nel corso della
sua vita i maggiori contributi; ottiene un incarico di insegnamento;
come tutti dovrebbero fare (tanto più adesso, che è facile) viaggia.
Per incompatibilità politica nel 1920 lascia la Russia e va a Berlino: non
una felice scelta per un ebreo; continua a studiare il problema della
casa, continua ad insegnare; nel 1933, era fatale, lascia la Germania a
causa delle persecuzioni razziali.
Sosta brevemente in Francia, ma nel 1935 approda in Palestina, con
13 anni di anticipo sulla formazione dello Stato di Israele, alla quale dà
un contributo intellettuale, trovando nella terra promessa il campo per
applicare, verificare, affinare le sue teorie.
Continua ad insegnare; anzi a Ben-Gurion, padre della Patria,
socialista ed ateo in cuor suo e laburista pubblicamente, deve anche
una certa carriera che lo porta a dirigere la facoltà di Architettura di
Haifa.
Naturalmente è un modo di dire: la carriera di Klein in quella fase non è
dovuta all’individuo Ben-Gurion, ma al clima politico e culturale che
questi aveva saputo instaurare e che mostrerà una certa tenuta fino
agli anni Sessanta, logorandosi definitivamente in concomitanza con la
cosiddetta guerra dei sei giorni.
Non si sa se fu a causa delle avvisaglie di quel logoramento che
all’inizio degli anni Sessanta Klein fugge di nuovo, questa volta a New
York dove poco dopo conclude la sua vita.
figura 01
Parole chiave dell’opera
figura 02
L’edizione italiana del libro (1975) è un’antologia di scritti e disegni tra il
1906 ed il 1957, editi la prima volta in anni vari e luoghi vari.
I curatori hanno per un breve tempo rimediato al paradosso di un Klein
tanto frequentemente citato quanto scarsamente pubblicato; anche il
rimedio non è durato: oggi il libro è fuori catalogo ed al momento non
sono in vista ristampe.
121
Libri: 3.4.Klein
Né Klein pare essere più che tanto l’oggetto attuale di ricerche storiche
o di riflessioni critiche, tanto che l’odierna storia ufficiale, impegnata
com’è nel ripudiare le glorie del razionalismo, lo sta lentamente
dimenticando.
La lettura dell’antologia di Klein può, tra le altre, suggerire le seguenti
parole chiave:
•
•
•
Analisi,
Spazio Minimo,
Sobrietà.
Analisi
Klein studia le piante, condividendo con questo l’idea che la pianta è la
generatrice e senza pianta c’è disordine, arbitrio.
Ma il rigore della pianta non può rimanere solo un auspicio da affidare
al buon senso o all’intuizione: esso deve necessariamente trovare un
metodo scientifico sul quale fondarsi.
Il metodo può servirsi di un questionario mediante il quale accertare o
meno il possesso di alcuni requisiti ed il valore di alcuni parametri,
come l’area coperta lorda pro capite (betteffekt), o il rapporto tra
soggiorno più stanze da letto (servizi esclusi) e l’area coperta lorda
(wohneffekt), o il rapporto tra l’area utile di pavimento e l’area coperta
lorda (nutzeffekt).
E con questo si è già piombati in una selva di tecnicismi che spiegano
perché gli elaborati delle prime analisi di Klein hanno l’aspetto di
complicate tabelle alfanumeriche con qualche sporadico disegnetto.
Ma un simile approccio non basta: una seconda idea è di rielaborare
uno schema di pianta a parità di requisiti e parametri variandone la
profondità e quindi l’ingombro di facciata.
Questa tecnica permette di individuare la metrica più opportuna non
solo per il singolo alloggio, ma anche per l’edificio che la sua
ripetizione produrrà; il risultato è un abaco di piante molto citato e
perciò diventato piuttosto famoso come icona della concezione
razionalista del progetto; ma ancora non basta.
I due metodi (...) non possono essere considerati del tutto scientifici.
Il salto verso la completa scientificità è possibile solo attraverso un
metodo grafico che, fornendo non solo misure, ma fornendo insieme
misure e forme, consenta di leggere oggettivamente ed in modo
evidente le caratteristiche di una pianta.
Il metodo grafico permette di controllare
•
l’andamento dei percorsi,
•
la disposizione delle aree per la circolazione,
122
Libri: 3.4.Klein
•
•
•
la concentrazione delle superfici libere,
l’incidenza delle ombre portate,
eccetera.
Può essere che l’analisi proposta da Klein appaia cervellotica, attenta
più alle procedure che alla sostanza, legata a concezioni scientifiche
sorpassate, complicata ed onerosa rispetto ai risultati che con essa si
ottengono.
Ma non sono irrilevanti o obsolete le questioni sulle quali concentra
l’attenzione ed il suo (presunto) invecchiamento non rende quelle
questioni meno importanti.
Va anche detto che non appare facile estendere un simile metodo ad
edifici diversi da quelli per l’abitazione; Klein non lo fece ed il suo
metodo non fu fecondo abbastanza perché lo facesse qualcun altro.
figura 03
Spazio Minimo
Sebbene Klein abbia vissuto in Germania solo 13 dei suoi 82 anni è da
qualche fonte considerato un architetto tedesco; da altre, più caute,
russo-tedesco oppure tedesco-israeliano.
E se la Storia fosse ricerca della metafora anziché della verità vi si
potrebbe vedere una certa fondatezza: i pochi anni tedeschi furono
decisivi, ma più per ragioni oggettive (di contesto) che soggettive o
personali.
Nel gennaio del 1923 un chilo di pane costava 250 marchi ed era già
una bella somma; in dicembre dello stesso anno i marchi necessari per
un chilo di pane erano diventati 399000000000 (trecentonovantanove
miliardi).
Il compito più importante dell’economia edilizia attuale è la
realizzazione di alloggi a superficie minima con affitti sopportabili dalla
popolazione meno abbiente.
Poco dopo a Francoforte le migliori intelligenze architettoniche in
circolazione in Europa affronteranno a fondo la questione: il minimo
d’abitazione (existenzminimum); questo minimo può essere visto da
due direzioni.
Può essere visto come rivendicazione contro la promiscuità ed il
sovraffollamento, cioè come livello al di sotto del quale la condizione di
vita non è degna degli esseri umani; oppure può essere visto come
punto d’arrivo ancora sostenibile di un necessario risparmio
economico.
123
Libri: 3.4.Klein
Klein sostiene soprattutto questa necessità; i congressisti di
Francoforte parevano più interessati a quella rivendicazione; ma, a ben
vedere, non c’è contraddizione: perché la redistribuzione della
ricchezza, cara ad entrambi, passa sempre attraverso l’uso oculato
delle risorse; infatti le grandi diseguaglianze sono sempre concomitanti
con grandi sprechi.
figura 04
Sobrietà
E’ proprio l’obiettivo della redistribuzione, frutto di una tensione politica
che con linguaggio odierno si potrebbe chiamare socialdemocratica,
che fa superare alla ricerca del minimo d’abitazione i confini delle pure
messe a punto tecniche e la carica di valori etici.
L’uomo non possiede solo un corpo; è composto di anima e corpo; le
abitazioni attuali non corrispondono sufficientemente ai bisogni
spirituali degli abitanti.
Allora il minimo d’abitazione non è più solo un fatto reso necessario
dalla congiuntura economica, ma diventa lo scenario di un particolare
stile di vita: quello secondo il quale si dà il giusto peso ai bisogni reali e
si tende ad eliminare quelli imposti.
Un simile atteggiamento si fonda su di un costante ed infaticabile
esercizio critico: quali bisogni sono reali? Quelli materiali elementari,
ovviamente; ma la cui definizione non è poi così elementare come una
facile tautologia indurrebbe a pensare.
E, giusta l’affermazione precedente, sono reali anche i bisogni
spirituali: quali? E questi sono definiti una volta per tutte? O possono
variare nel tempo e quindi deve essere consentita la variazione?
E poi: quali sono i bisogni imposti? Ed i bisogni imposti sono perciò
stesso non reali? O possono esistere bisogni che sono
contemporaneamente reali ed imposti? E come comportarsi in tale
caso?
E poi: perché l’eliminazione dei bisogni imposti dovrebbe essere
moralmente superiore? Essa è certamente una manifestazione di
libertà individuale, ma può essere anche un atto che conduce
all’emarginazione: e allora quando il bilancio tra emarginazione e
libertà è equilibrato?
Si usa chiamare sobria una simile vita, alla quale una certa inclinazione
dello spirito individuale, ma sempre più frequentemente anche qualche
gruppo di tendenza tendono a dare un giudizio incondizionatamente
positivo.
figura 05
124
Libri: 3.4.Klein
125
Libri: 3.4.Klein
126
Libri: 3.4.Klein
127
Libri: 3.5.Rogers
3.5.
Esperienza dell’Architettura - di Ernesto Nathan Rogers
Autore
figura 00
Diversamente dalle altre figure 00, nelle quali appare la faccia
dell’Autore di turno, qui le facce che appaiono sono quattro: è
l’immagine celeberrima (e forse unica) di quattro giovani architetti che
all’inizio degli anni Trenta (subito dopo la laurea) pensarono di mettere
su uno studio insieme.
Con una certa sobrietà lo chiamarono semplicemente con le iniziali in
ordine alfabetico dei loro cognomi: BBPR, cioè Banfi, Belgiojoso,
Peressutti e Rogers; nella foto Ernesto Nathan Rogers è quello con la
pipa.
E’ facile verificare che in un gruppo di successo, oltre che il talento dei
singoli, conta molto il complementare equilibrio delle doti personali di
ciascuno; Rogers, nato a Trieste nel 1909 (il 16 marzo) e morto a
Gardone Riviera nel 1969 (il 07 novembre), era la maggiore personalità
teorica del gruppo; potrebbe per questo essere paragonato a John
Lennon ...
E verrebbe voglia di continuare il gioco, se per la sua arbitraria futilità
non diventasse velocemente irriverente soprattutto nei confronti di
Gianluigi Banfi (George Harrison?), assassinato trentacinquenne a
Mauthausen-Gusen; anche Lodovico Barbiano di Belgiojoso (Paul
McCartney?) vi fu deportato, ma riuscì a tornare.
Dopo l’interruzione dovuta alla guerra lo Studio
mantenendo lo stesso nome fatto di quattro iniziali.
si
ricostituì
Rogers ebbe successo nel doppio impegno di svolgere un ruolo attivo
e spesso determinante nei lavori dello Studio e di affermarsi nel
contempo come uno dei principali intellettuali della scena architettonica
milanese, nazionale, internazionale.
Oltre che nel suo insegnamento al Politecnico, tale ruolo si espresse
compiutamente nella direzione di riviste di Architettura tra le quali due
dalla testata famosa (e tuttora viva), che forse conobbero con lui il loro
momento più alto, il che non impedì la brusca interruzione di entrambi i
rapporti.
Con la prima (Domus) si impegna nell’immediato dopoguerra nell’opera
di ricostruzione non solo materiale dell’Italia devastata: lo fa dando al
dibattito architettonico respiro europeo e confrontando l’Architettura
con altre forme della cultura e dell’arte; lo fa, ancora giovane,
circondandosi di giovani.
129
Libri: 3.5.Rogers
La situazione di allora è stata ben descritta da un altro grandissimo
architetto-professore di una decina d’anni più anziano: “... il nostro
Paese dopo la guerra ha dovuto ricostruire se stesso non solo negli
elementi concreti dell’economia (...), ma altresì nello spirito (...), coatto
da una forma di governo dittatoriale che l’aveva disabituato ai principi
basilari della vita democratica ...”.
Come in una sorta di bilancio, l’impegno di Rogers è riassunto nel suo
ultimo (moderatamente risentito) editoriale: “ ... dopo la Liberazione
v’era tanto fervore di progresso che tutti incoraggiavano la nostra
battaglia, poiché vi sono rari momenti nella storia in cui gli ideali
sembrano così prossimi a realizzarsi da destare l’interesse concreto
anche di coloro che altrimenti non sanno apprezzarli se non come
strumento e mezzo ai propri scopi pratici ...”.
Della seconda (Casabella), Rogers assume la direzione circa sei anni
dopo l’estromissione dalla prima ed aggiunge alla testata la parola
Continuità; Casabella era una testata banale, ma era anche già un
progresso rispetto a quella originaria (La Casa Bella); la inventarono
due direttori che prima della guerra tentarono di darle rilevanza
internazionale: e la continuità è con loro.
I tempi erano cambiati, lo stato democratico adesso esisteva, ma non
era ancora esente dalla volgarità, che anzi pareva ricrescere, sia pure
con sembianze diverse: di qui la necessità di continuità, cioè di
riscoprire e riaffermare le radici nobili che condussero la rivista oltre gli
anni oscuri verso la meta (...) delle definizioni, delle scoperte, delle
invenzioni, delle fantasie.
La cosa durò fino al 1964, poco prima del manifestarsi della patologia
che porterà Rogers a prematura scomparsa.
figura 01
Parole chiave dell’opera
figura 02
La prima edizione del libro è del 1958 a Torino.
La lettura di Esperienza dell’Architettura può, tra le altre, suggerire le
seguenti parole chiave:
•
•
•
Etica,
Resistenza,
Boom.
130
Libri: 3.5.Rogers
Etica
Rogers raccontava ai suoi studenti l’assimilazione, se non
l’identificazione essenziale, tra estetica ed etica; non solo pensava
questo, ma soprattutto non perdeva occasione di raccontarlo: di modo
che l’etica tendeva anche a coincidere con la didattica.
Compito del Maestro non è quello di trasmettere la propria poetica,
bensì il proprio rigore culturale e morale: perché agli studenti (poiché
diverranno professionisti) bisogna dire che un professionista considera
ogni poetica un oggetto di interesse al pari di ogni altra (a prescindere
dalle pur ovvie ed umane preferenze personali).
Invece il rigore culturale e morale non è uguale per tutti e quello di
alcuni desta più ammirazione di quello di altri: così si selezionano gli
Autori da studiare (cioè si riconoscono i Maestri) non sulla base delle
loro poetiche (tutte, di principio, interessanti), ma piuttosto sulla base
delle loro più complessive doti culturali ed umane.
Uno storico italiano, anch’egli di quegli anni, sostenne che “...
l’elemento qualificante della personalità di Ernesto Nathan Rogers era
questa fede nella poesia dell’Architettura, proiezione ed insieme
promozione di un riscatto civile ...”.
Proiezione (il riscatto è nell’Architettura) ed insieme promozione (il
riscatto si può conquistare diffondendo l’Architettura): questo dà senso
all’insegnare, riscatta anche la didattica da quel ghetto delle attività
umane minori nel quale spesso (e proverbialmente) è cacciata.
Non è un caso che tanti architetti (ultra)settantenni di oggi, studenti
quando Rogers insegnava, si siano per tutta la vita dichiarati suoi
allievi; e non è neppure un caso che tanti altri architetti che per ragioni
anagrafiche non lo incontrarono, ne riconoscano l’insegnamento, vuoi
attraverso i suoi libri, vuoi attraverso i suoi allievi divenuti loro maestri.
figura 03
Resistenza
Se si crede che il compito del Maestro sia quello di trasmettere il
proprio rigore culturale e morale, allora questo non può essere
semplicemente raccontato, ma va necessariamente testimoniato.
E testimoniare siffatto rigore significa partecipare: essere presenti al
confronto delle idee, prendere posizione, dichiarare i propri
convincimenti, essere per essi disposti a pagare prezzi anche
personali.
131
Libri: 3.5.Rogers
Poco dopo l’apertura dello Studio BBPR la situazione in Italia precipita
velocemente: “... è tempo che gli Italiani si proclamino francamente
razzisti (...); la questione del razzismo in Italia deve essere trattata da
un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o
religiose; la concezione del razzismo in Italia deve essere
essenzialmente italiana e l'indirizzo ariano-nordico ...”.
Dai proclami alle leggi razziali il passo fu breve; e lo scivolamento
verso l’entrata in guerra divenne inarrestabile; e allora che fare?
Resistere (resistere, resistere)!
Lo Studio BBPR diventa un centro della Resistenza milanese, legato
alle formazioni di Giustizia e Libertà: “... provenienti da diverse correnti
politiche, archiviamo per ora le tessere dei partiti e fondiamo un’unità di
azione (...); repubblicani, socialisti e democratici, ci battiamo per la
libertà, per la repubblica, per la giustizia sociale:non siamo più tre
espressioni differenti ma un trinomio inscindibile ...”.
A dispetto del suo programma unitario, Giustizia e Libertà rimase un
movimento d’élite; questo non evitò ai Nostri persecuzione e
repressione, pesanti per tutti, tragiche per Banfi.
Il raro momento in cui gli ideali sembravano prossimi a realizzarsi, se
mai aveva raggiunto una significativa rilevanza, di certo si esaurì
velocemente, lasciando spazio ad un periodo storico contraddittorio,
nel quale lo sviluppo materiale e l’impoverimento culturale sembrarono
procedere di pari passo ed anzi alimentarsi reciprocamente.
figura 04
Boom
Solo nel 1950 il prodotto interno lordo nazionale superò quello dl 1939,
ma le devastazioni della guerra continuarono ancora per qualche anno
a pesare sulle condizioni di vita degli italiani.
Poi, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta si innescò un processo
di crescita materiale che trasformò la penisola da paese
prevalentemente agricolo e sostanzialmente sottosviluppato in un
moderno paese industrializzato.
Fu in quegli anni che la città di Milano, centro di quei processi, si
guadagnò il titolo di capitale morale; non lo terrà a lungo: fino alla
Milano da bere, che, fuori di metafora, significò fino a quando l’astuzia
della speculazione prevalse sull’etica del lavoro.
Tra il 1959 ed i 1963 il prodotto interno lordo crebbe circa del 28%
(quasi il 7% per anno); quello che fu chiamato miracolo economico (o,
più stringatamente, boom) fu possibile grazie ad un’ampia disponibilità
di manodopera a basso costo formata da immigrati meridionali nelle
regioni in via di industrializzazione del nord-ovest.
132
Libri: 3.5.Rogers
Le culture si mescolarono, ma rimasero per lungo tempo ostili; si
aggravò il divario tra nord e sud d’Italia, il superamento del quale pochi
decenni prima un filosofo aveva sostenuto essere essenziale per lo
sviluppo (vero) del Paese.
Gran parte di quella crescita fu dovuta all’attività edilizia; per le imprese
edili e per i progettisti erano anni floridi; ma ancor più floridi per la
speculazione e le nuove costruzioni entrarono velocemente in
contraddizione con il giacimento di monumenti (ma anche di pregevole
edilizia minore) più ricco al mondo.
Infuriava la polemica tra i demolitori ed i salvaguardanti: insieme con
pochissimi altri, Rogers si inserì nello scontro, tentando con
moderazione la sintesi tra le ragioni dello sviluppo economico e quelle
del rispetto della tradizione: come costruire nelle preesistenze
ambientali? Come superare i pregiudizi formali che fanno ritenere che il
nuovo e il vecchio si oppongano invece di rappresentare la dialettica
continuità del processo storico?
Nel 1958 i BBPR rispondono a queste questioni costruendo il loro
edificio più famoso (la Torre Velasca a Milano); in quegli anni altri
fermenti percorrono le altre Arti, in particolare quelle nazional-popolari:
dalla musica (Modugno: Nel Blu Dipinto di Blu; e gli altri Cantautori) al
cinema (Fellini: La Dolce Vita; Visconti: Rocco e i Suoi Fratelli;
Monicelli: La Grande Guerra).
Occorrerà ancora un decennio perché nuove sensibilità si affermino,
perché il Paese sembri in grado di uscire non solo dal sottosviluppo
economico, ma anche da quello sociale e culturale.
Rogers non farà in tempo a vedere se questo sarebbe effettivamente
accaduto; forse, proprio a causa della sua straordinaria passione civile,
è un bene che non abbia potuto verificare che non è accaduto.
figura 05
133
Libri: 3.5.Rogers
134
Libri: 3.5.Rogers
135
Libri: 3.5.Rogers
136
Libri: 3.6.Rossi
3.6.
L’Architettura della Città - di Aldo Rossi
Autore
figura 00
Solo due architetti italiani hanno (finora) conseguito quella sorta di
Nobel dell’Architettura che è il Premio Pritzker e dei due solo Aldo
Rossi, nato a Milano nel 1931 (il 03 maggio) e morto ivi nel 1997 (il 04
settembre), ha avuto anche una carriera accademica di una qualche
rilevanza.
Anzi, per Rossi l’insegnamento universitario viene prima (1963) sia del
primo progetto realizzato di una qualche rilevanza (1967), reso
possibile dalla generosità e dalla lungimiranza di Carlo Aymonino, che
di quello della consacrazione (cimitero a Modena, 1971).
E proprio nel 1971 il suo insegnamento al Politecnico di Milano si
interrompe a causa di un forse affrettato provvedimento dell’allora
ministro dell’Istruzione (peraltro all’epoca ancora Pubblica) che
sospese l’intero consiglio della facoltà di Architettura, i cui docenti
avevano a suo dire regalato promozioni.
L’insegnante Rossi allora emigrò in Svizzera, fino alla positiva
soluzione della vicenda, qualche anno dopo, alla quale non furono
estranei alcuni concomitanti successi della sinistra politica e che
consentì il suo rientro in una università italiana, questa volta a Venezia.
La vicenda del consiglio di facoltà del Politecnico Architettura milanese
non dovrebbe essere dimenticata: eppure è già difficile trovarne
documentazione.
Essa si collocò tra il manifestarsi della vasta domanda di
emancipazione che alla fine degli anni Sessanta interessò, sull’onda di
più globali processi, anche i giovani e le donne italiani, e la diffusione
della violenza terrorista nella seconda metà degli anni Settanta.
La scelta di repressione del ministro (e del governo) di allora, come
altri atti dello stesso segno, ottennero il solo risultato di radicalizzare lo
scontro, allontanando ed in parte impedendo per sempre la soluzione
politica delle (piuttosto fondate) istanze che le masse giovanili e
femminili avevano manifestato.
Fu un’occasione perduta di modernizzazione del Paese e, qualcuno
ritiene, una premessa per successivi processi involutivi.
figura 01
Parole chiave dell’opera
figura 02
La prima edizione del libro è del 1966 a Padova.
137
Libri: 3.6.Rossi
La lettura di L’Architettura della città può, tra le altre, suggerire le
seguenti parole chiave:
•
•
•
Libro Definitivo,
Città,
Architettura.
Libro Definitivo
“... Nel 1960 circa avevo scritto L’Architettura della Città, un libro
fortunato. Allora non avevo ancora trent’anni e volevo scrivere un libro
definitivo: mi sembrava che tutto, una volta chiarito, fosse definito ...”.
L’aspirazione al libro definitivo è comprensibile in un trentenne (che,
per di più, della Russia amava tutto ...) ed è coerente a quel momento
storico, quando la razionalità astratta godeva ancora di un grande
prestigio, che sarebbe peraltro andata perdendo negli anni successivi.
Anticamente il libro definitivo aveva la forma del trattato, che deve
essere documentato ed esauriente.
A cavallo tra l’Otto ed il Novecento al trattato subentra il manifesto, che
deve essere breve ed apodittico.
Più o meno consapevolmente Rossi propone una terza forma di libro
definitivo: L’Architettura della Città non è né un trattato né un
manifesto, ma un diario intimista travestito da saggio scientifico.
Rossi applica la maschera dell’oggettività al suo individualismo
sentimentale; e con un simile gesto rende palese una crisi del pensiero
che, come ogni persona dotata, riesce a vedere un poco prima che
essa si manifesti compiutamente.
Comincia a cadere in quegli anni la fiducia positivista nella ragione e
riappaiono forme di soggettivismo che per decenni erano state
compresse.
Ma l’alternativa ad una razionalità insufficiente non può essere
l’assenza di razionalità, ma semmai una razionalità riformata: o come
la si vorrà chiamare, ma in ogni caso qualcosa che dovrà essere
definito in positivo, per ciò che è e non per ciò che non è.
L’affermazione e la negazione non sono (quasi) mai simmetriche:
potranno anche essere alternative, ma non saranno (quasi) mai
intercambiabili.
L’individualismo sentimentale non può accontentarsi di sé, deve
assumere la maschera dell’oggettività per poter dimostrare non tanto
che l’oggettività è possibile, ma che essa è necessaria.
138
Libri: 3.6.Rossi
In questo modo però l’oggettività perde i caratteri dell’unicità e
dell’universalità: non si applica più al mondo, ma a segmenti di esso; è
il prezzo che deve pagare per poter continuare ad esistere, e davvero
non è caro.
Al lettore resta il compito di capire di quali segmenti di mondo ci si sta
di volta in volta occupando: e non è cosa facile; per questo, perché
continua a proporre sfide ed offrire materiale al pensiero, il libro è per
davvero definitivo.
figura 03
Città
Se si considera l’Architettura non come un insieme di esiti statici, ma
come un processo dinamico (quello del costruire) allora non esiste
differenza tra Città ed Architettura.
Progettare l’Architettura significa portare a coerenza le spinte della
contemporaneità e quelle della memoria: e la città è il deposito della
memoria.
Lo aveva ben compreso un politico ottocentesco (milanese come
Rossi) quando giunse al punto di dire che “... la città sia l’unico
principio per cui possano i trenta secoli delle istorie italiane ridursi a
esposizione evidente e continua ...”.
La città è il prodotto di un lavoro incessante, è anche un immenso
deposito di fatica umana: quindi in essa memoria e fatica tendono a
coincidere; la memoria non è un repertorio statico di oggetti passati; è
invece la consapevolezza di un processo che è stato, ma che si
allunga nel presente e nel futuro.
La città si forma per accumulo, quindi è conoscibile solo per accumulo:
e le parti più interessanti di essa sono proprio quelle più singolari,
anomale, imprevedibili; quelle refrattarie a qualunque classificazione e
che perciò rendono qualunque tentativo di classificazione fallito in
partenza.
C’è in questo una rivalutazione della erudizione anche nella sua
versione (ritenuta) deteriore e chiamata nozionismo.
Può essere che in alcuni campi la semplice memorizzazione di nozioni
che non le inquadri in costrutti logici sistematizzati produca un sapere
inadeguato ed incompiuto.
Ma non esistono costrutti logici sistematizzati per organizzare
compiutamente la conoscenza dei fenomeni urbani, solo un numero
esiguo dei quali riesce a collocarsi in quelli fin qui proposti.
Per il resto non resta che memorizzare nozioni: l’architetto non è solo
un intellettuale, ma anche un erudito.
139
Libri: 3.6.Rossi
Come si vede, torna la questione che pervade l’intero libro: è vana la
ricerca delle leggi immobili di una tipologia senza tempo, ma la
conseguenza non può essere la rinuncia alle leggi.
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Architettura
“... Alla soddisfazione di un bisogno va sempre unito un piacere ...”
scriveva centoventi anni fa un letterato dai molti soprannomi ad un
amico che aveva pubblicato un libro di cucina.
“... Condizione di un ambiente più propizio alla vita e intenzionalità
estetica sono i caratteri stabili dell’architettura ...” scrive Rossi
settant’anni dopo, mosso da considerazioni analoghe.
Pare quasi che in questo consista la vera differenza tra gli esseri umani
e le altre bestie: che i primi (almeno i migliori di essi) non si appagano
della pura soddisfazione di un bisogno, ma cercano ... il piacere,
l’intenzionalità estetica, l’eleganza formale, l’armonia dei modi ... e
quant’altro del genere
Si potrebbe dire, riassumendo la cosa in un’unica formula, che gli
esseri umani sono tali perché dànno ai loro atti non solo una funzione
utilitaristica, ma anche un significato culturale.
E poiché la cultura è per definizione il prodotto di un lavoro collettivo,
ecco che l’Architettura è una creazione che non può essere separata
dalla vita civile e dalla società in cui si manifesta.
La città, che si è formata per accumulo, e che è conoscibile solo per
accumulo, testimonia le vite civili e le società che l’hanno prodotta; e
quindi fornisce consapevolezza sulla vita civile e sulla società del
presente, con le quali l’Architettura dovrà unirsi.
L’Architettura di Rossi si affermò con fatica: una certa critica snob non
comprese all’inizio la malinconica poesia delle sue semplificazioni
formali, bollandole come infantili.
Poi, dopo il successo arrivato oltre i suoi quarant’anni, alcune sue
invenzioni figurative diventarono i luoghi comuni di imitatori superficialii:
si pensi, ad esempio, alle falde a 45° o ai parapetti ad elementi
quadrati con le diagonali in evidenza (ancora 45° ...).
Rossi fu sempre capace di restare un passo avanti i suoi epigoni pigri,
in questo modo continuamente spiazzandoli, finché i postumi di un
incidente stradale misero fine in modo inaspettato e prematuro alla sua
vicenda artistica ed umana.
figura 05
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Libri: 3.6.Rossi
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Libri: 3.6.Rossi
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Libri: 3.6.Rossi
143
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Leggi dopo
L’universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone
d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie
esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo,
bordati di basse ringhiere.
Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e
inferiori, interminabilmente.
La distribuzione degli oggetti nelle gallerie è invariabile.
Venticinque vasti scaffali, in ragione di cinque per lato,
coprono tutti i lati meno uno; la loro altezza, che è quella
stessa di ciascun piano, non supera di molto quella d’una
biblioteca normale.
Il lato libero dà su un angusto corridoio che porta a
un’altra galleria, identica alla prima e a tutte.
A destra e a sinistra del corridoio vi sono due gabinetti
minuscoli.
Uno permette di dormire in piedi; l’altro di soddisfare le
necessità fecali.
Di qui passa la scala spirale, che s’inabissa e s’innalza
nel remoto.
Nel corridoio è uno specchio, che fedelmente duplica le
apparenze.
Gli uomini sogliono inferire da questo specchio che la
Biblioteca non è infinita (se realmente fosse tale, perché
questa duplicazione illusoria?); io preferisco sognare che
queste superfici argentate figurino e promettano
l’infinito...
La luce procede da frutti sferici che hanno il nome di
lampade.
Ve ne sono due per esagono, su una trasversale.
La luce che emettono è insufficiente, incessante.
Spero che molti abbiano riconosciuto l’incipit de La Biblioteca di
Babele, racconto della raccolta Finzioni di Jorge Luis Borges: ho
pensato di farne il tema di questa postfazione per tre ragioni.
La prima ragione (di tre) è il realizzarsi di un sogno.
Non esiste domanda la cui risposta non sia già scritta da qualche
parte: il problema è scoprire dove.
A questo atto di fede in una religione umana, razionale e laica (che non
mi dispiace) è collegato il sogno di una biblioteca totale: Borges tratta
con una maestria inarrivabile un tema che non è originale, come egli
stesso precisa elencando un gruppo eterogeneo (e forse improbabile)
di Autori precedenti.
145
leggi_dopo
“... la Biblioteca è totale ed i suoi scaffali registrano tutte le possibili
combinazioni dei venticinque simboli ortografici (numero, anche se
vastissimo, non infinito) cioè tutto ciò ch’è dato esprimere, in tutte le
lingue ...”.
Ma la Biblioteca è anche disordinata: non ne esiste una mappa e non
si sa se da qualche parte ci sia il catalogo; e, a sentire autorevoli
matematici, la sua ricerca sarebbe comunque disperata, perché il
catalogo di una simile biblioteca non può esistere.
Eppure da qualche tempo il quadro appare meno disperato e comincia
ad esistere qualcosa che assomiglia ad una Biblioteca Totale: si
chiama Internet.
Non è costruita con la forza bruta delle permutazioni con ripetizione ed
è ancora lontana dall’essere totale, ma è già un deposito mai
immaginato di informazioni e di idiozie, che chiede di sapersi muovere
nelle sue metaforiche gallerie (esagonali?).
Manca il catalogo, forse neppure in questo caso può esistere, ma
esiste Google, che una certa mano la dà.
Una simile fonte di informazioni tanto facilmente accessibili modifica
nel profondo gli atteggiamenti di studio e di ricerca.
L’informazione raccolta non è sempre affidabile: il tempo risparmiato
nel raccoglierla va usato per esercitare la critica; ma per fare questo
occorre preparazione ed attitudine che l’informazione in sé non è in
grado di dare.
Internet libera tempo al pensiero, ma è essa stessa in grado di
sostenere il pensiero? Se sì, come? Se no, allora che cosa d’altro lo
sostiene?
La seconda ragione (di tre) è l’inquietante fascino dell’analisi
combinatoria.
All’inizio degli anni Sessanta un francese pubblicò 142 pagine non
rilegate, suggerendo al lettore di mescolarle come un mazzo di carte (e
tagliarle se voleva, magari con la mano sinistra), per costruirsi il suo
proprio racconto.
La fascetta pubblicitaria diceva: per ogni lettore un libro diverso; ed in
questo sbagliava clamorosamente, perché i lettori al mondo potranno
nella più rosea ipotesi essere qualche miliardo (un numero di dieci
cifre), mentre per contare tutti i possibili racconti diversi di cifre ne
occorrono oltre duecentoquaranta.
Autore e libro sono ormai poco ricordati: quell’esperimento fu forse un
caso estremo, ma non fu un caso isolato: molti altri Autori, tra i quali
qualcuno che ha trovato un posto stabile nella Storia, si sono dedicati a
quella che si usa chiamare letteratura combinatoria.
146
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Combinazioni, disposizioni, permutazioni con o senza ripetizioni sono
per alcune mentalità (tra le quali la mia) una fonte di continua stupita
curiosità, per la grande quantità di casi che con pochi elementi iniziali
si possono produrre.
C’è in questo, credo, un certo convincimento scientista: alla base delle
numerosissime apparenze del mondo possono essere trovati pochi e
semplici elementi costitutivi; ed è nella conoscenza di questi che
risiede la sapienza.
E se la Ragione si occupa di confutare quel convincimento, con le
combinazioni (disposizioni, permutazioni, eccetera) resta sempre la
possibilità di giocare.
Ciascuno dei quattordici capitoli di questo lavoro è compiuto in sé (da
cui qualche ripetizione tra un capitolo e l’altro): essi possono quindi
essere letti in qualunque ordine.
Per ogni studente una formazione di base diversa: ed anche qui si
perdono di vista gli ordini di grandezza, perché il numero delle possibili
formazioni diverse supera gli ottanta miliardi.
Per avere tanti studenti, l’Università IUAV di Venezia, alla quale pure
auguro lunga vita, dovrà durare per oltre quindici milioni di anni ancora.
La terza ragione (di tre) è il ricordo di un episodio della mia attività
didattica.
Qualche anno fa proposi ai miei studenti esordienti di disegnare la
biblioteca di Babele, che Borges solo descrive.
Si trattava di un esercizio estemporaneo di inizio d’anno, utile a me per
capire le condizioni di partenza degli studenti quanto a padronanza
grafica e percezione spaziale, notoriamente diversissime da persona a
persona, anche per la loro eterogenea provenienza.
Ma accanto a quello scopo, piuttosto grossolano, ve n’erano altri due
meno scontati (e che non resi espliciti): il primo era quello di provocare
l’incontro con un Autore letterario di prima grandezza e (constatai) non
troppo popolare tra i giovani.
Il secondo scopo era ancora più sottile, e non privo di una lieve
perfidia: derivava dal fatto che la descrizione di Borges appare
spazialmente incoerente.
Solo un certo tempo dopo scoprii che l’incoerenza era (banalmente)
dovuta ad un errore nella traduzione italiana; allora credevo che
dipendesse dalla proverbiale mancanza di senso dello spazio dei
letterati, che colpiva anche un grandissimo come Borges (e invece
colpiva solo il suo traduttore ...).
147
leggi_dopo
Quindi allora pensavo che l’unico modo per disegnare quanto (la
traduzione italiana) descriveva comportasse necessariamente il
rifugiarsi nel simbolico: l’idea era bella, e non sono poche le belle idee
che nascono da errori.
Pochissimi ragazzi lo capirono ed agirono di conseguenza; pochissimi,
ma qualcuno ci fu; ogni anno c’è qualcuno o qualcuna e questa è la
vera ragione per la quale si continua ad aspettare con curiosità l’anno
successivo.
148
Indice
0.
Leggi prima
ABC
1
3
1.0.
1.1.
1.2.
1.3.
1.4.
1.5.
Premessa alle dispense
Composizione
Costruzione
Misura
Geometria
Disegno
7
11
21
35
43
53
2.0.
2.1.
2.2.
2.3.
Premessa alle architetture
Villa Savoye
Casa Esherick
Casa Smith
63
67
75
83
3.0.
3.1.
3.2.
3.3.
3.4.
3.5.
3.6.
Premessa ai libri
Jean Nicolas Louis Durand
Le Corbusier
Ernst Neufert
Alexander Klein
Ernesto Nathan Rogers
Aldo Rossi
93
97
105
113
121
129
137
Leggi dopo
Indice
145
149
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