Charlaine Harris
IL CLUB DEI MORTI
traduzione di Annarita Guarnieri
Fazi Editore
Questo libro è dedicato al mio secondo figlio, Timothy Schulz, che mi ha detto senza mezzi termini che voleva un romanzo tutto per sé.
I miei ringraziamenti vanno a Lisa Weissenbuehler, Kerie
L. Nickel, Marie La Salle e l'incomparabile Doris Ann Norris
per le loro dritte sui bagagliai delle auto, grandi e piccoli. Altri grazie sono per Janet Davis, Irene e Sonya Stocklin, anche
loro cibercittadini di DorothyL, per le informazioni fornite
sui bar, sul bourrée (che è un gioco di carte) e sui municipi
della Louisiana. Joan Coffey mi ha dato preziose notizie su
Jackson. La bella e cortese J ane Lee mi ha accompagnato in
macchina per ore intorno a Jackson, con il giusto spirito di
ricerca della perfetta ambientazione per un bar di vampiri.
Capitolo primo
Quando entrai a casa sua, Bill era chino sul computer,
uno scenario che negli ultimi due mesi mi era diventato fin
troppo familiare. Nelle ultime due settimane si costringeva a
staccarsi dal suo lavoro appena arrivavo, ma al momento era
più attratto dalla tastiera che da me.
«Ciao, tesoro», mi salutò distrattamente, lo sguardo inchiodato allo schermo. Una bottiglia vuota di TrueBlood di
tipo 0 era posata sulla scrivania, accanto alla tastiera: se non
altro, si era ricordato di mangiare.
Non essendo il tipo da jeans e maglietta, Bill indossava
pantaloni cachi e una camicia a scacchi in toni smorzati di
azzurro e di verde. La sua pelle scintillava e i folti capelli
scuri emanavano un profumo di Herbal Essence: insomma,
avrebbe provocato una crisi ormonale in qualsiasi donna. Gli
baciai il collo, senza ottenere alcuna reazione, poi gli leccai
un orecchio. Ancora niente.
Al bar Merlotte's ero stata in piedi per sei ore di fila e,
ogni volta che un cliente era stato tirchio con la mancia o
qualche idiota mi aveva assestato una pacca sul sedere, avevo ricordato a me stessa che di lì a poco sarei stata insieme al
mio ragazzo, avrei fatto sesso alla grande e mi sarei crogiolata nelle sue premure.
Invece sembrava che nulla di tutto ciò sarebbe accaduto.
Lentamente inspirai e fissai con occhi roventi la schiena
di Bill. Era una schiena meravigliosa dalle spalle ampie e nei
miei piani avevo previsto di vederla nuda e di affondarci le
unghie, una cosa su cui avevo fatto un notevole affidamento.
Esalai il respiro, sempre in modo lento e controllato.
«Ancora un minuto», disse Bill. Sullo schermo apparve
l'istantanea di un signore dall'aria distinta, con i capelli argentei e la pelle abbronzata, dall'aria sexy alla Anthony
Quinn e che sembrava un uomo di potere. Sotto la fotografia
c'era un nome, seguito da alcune righe di testo che cominciavano con: «Nato in Sicilia nel 1756». Stavo per commentare
che quindi i vampiri potevano apparire in fotografia, nonostante le leggende asserissero il contrario, quando Bill si girò
sulla sedia e si rese conto che stavo leggendo.
Immediatamente premette un tasto e lo schermo si oscurò.
Lo guardai interdetta, non riuscendo del tutto a credere
che una cosa del genere fosse appena successa.
«Sookie», cominciò lui con un sorriso stentato. Aveva i
canini ritratti, il che significava che non era assolutamente
nello stato d'animo in cui avevo sperato di trovarlo, cioè non
stava pensando a me da un punto di vista carnale. Come accadeva a tutti i vampiri, infatti, i suoi canini si estendevano
completamente soltanto quando era in preda al desiderio ses-
suale o cedeva al desiderio di uccidere e/o nutrirsi (a volte
capita che confondano questi due desideri, ed è allora che si
hanno dei vampirofili morti; se volete il mio parere, però,
proprio quel genere di pericolo attrae la maggior parte dei
vampirofili). Anche se sono stata accusata di essere anch'io
una di quelle patetiche creature che si aggirano idolatranti intorno ai vampiri nella speranza di attirare la loro attenzione,
in realtà c'è un unico vampiro da cui sono coinvolta (almeno
volontariamente), e cioè quello che in quel momento mi stava seduto davanti. Ora mi stava nascondendo dei segreti e
non sembrava entusiasta di vedermi.
«Bill», lo apostrofai con freddezza. Stava succedendo
Qualcosa con la Q maiuscola, che però non riguardava la libido di Bill (in quel momento, "libido" riempiva il foglio
quotidiano del mio calendario Una-Parola-Al-Giorno).
«Tu non hai visto ciò che hai appena visto», mi disse con
fermezza, i suoi occhi scuri che fissavano i miei.
«Oh oh», esclamai con tono forse un po' sarcastico. «C'è
qualcosa che...?».
«Ho un incarico segreto».
Non sapendo se prenderla a ridere o andare su tutte le furie, mi limitai a inarcare un sopracciglio e attendere che lui
continuasse. Bill era l'investigatore dell'Area 5, una divisione
dei vampiri della Louisiana, e prima di allora Eric, il suo capoarea, non gli aveva mai affidato un incarico che fosse segreto per me. Anzi, di solito io, sebbene riluttante, ero inclusa nella squadra investigativa.
«Eric non lo deve sapere. Nessun vampiro dell'Area 5
può venirne a conoscenza».
«Allora...», replicai, sgomenta, «se non stai svolgendo un
incarico per conto di Eric, per chi stai lavorando?». Mi accovacciai appoggiandomi alle sue ginocchia, perché avevo i
piedi terribilmente doloranti.
«Per la regina della Louisiana», rispose Bill quasi sussurrando.
Davanti alla sua espressione grave, cercai in tutti i modi
di trattenermi, ma fu più forte di me e cominciai a ridacchiare.
«Dici sul serio?», domandai, ma sapevo che doveva essere cosi, perché Bill era quasi sempre un tipo estremamente
serio. Per impedirgli di vedere la mia ilarità, affondai la faccia nella sua coscia. Poi scoccai una rapida occhiata alla sua
faccia: era decisamente seccato.
«Sono serio quanto una tomba», ribatté, e dato il suo
tono ferreo m'impegnai a cambiare atteggiamento.
«D'accordo, dammi il tempo di capirci qualcosa», dissi
calma e ragionevole, sedendomi per terra a gambe incrociate
e appoggiando le mani sulle ginocchia. «Tu lavori per Eric,
che è il capo dell'Area 5, ma c'è anche una regina... della
Louisiana?».
Bill annuì.
«Dunque, lo Stato è diviso in Aree, giusto? E lei è il diretto superiore di Eric, dato che lui gestisce un'attività a Shreveport, che si trova nell'Area 5...».
Ottenni un secondo cenno di assenso.
A quel punto scossi il capo, coprendomi la faccia con le
mani. «E lei dove vive? A Baton Rouge?». La capitale dello
Stato mi sembrava infatti la residenza più ovvia.
«No, no. A New Orleans, naturalmente».
Naturalmente. La centrale dei vampiri. Secondo i giornali, a New Orleans, la Big Easy, era praticamente impossibile
lanciare un sasso senza colpire un non-morto (anche se solo
un vero idiota avrebbe fatto una cosa del genere). Là il turismo stava avendo un vero boom di nuove presenze: non più i
bontemponi forti bevitori che prima riempivano la città in
cerca di divertimenti, ma gente che voleva trovarsi gomito a
gomito con i non-morti, frequentarne i bar, incontrare prostitute vampire e vedere sex show di vampiri.
Queste erano tutte cose che avevo sentito dire, dato che
ero stata a New Orleans solo da piccola, quando i miei genitori avevano portato me e mio fratello Jason a visitarla. Ma
doveva essere successo prima che compissi i sette anni, perché subito dopo loro erano morti.
A quasi vent'anni dalla loro scomparsa, i vampiri apparirono su tutte le reti televisive per dare l'annuncio della loro
effettiva esistenza in mezzo a noi, un evento che fu conseguenza della riuscita creazione nipponica di sangue sintetico
il cui consumo permetteva ai vampiri di rimanere in vita senza essere costretti a bere sangue umano.
La comunità dei vampiri statunitensi lasciò che il clan
giapponese facesse da battistrada, ma poi l'annuncio fu dato
simultaneamente in quasi tutte le nazioni dotate di reti televisive (e chi non ne ha, di questi tempi?), recitato in centinaia
di lingue diverse da vampiri scelti con cura perché facessero
buona impressione.
Quella notte, distante ormai due anni e mezzo, noi normalissime persone vive scoprimmo di aver sempre vissuto
con dei mostri in mezzo a noi.
«Solo adesso», era stato il punto centrale dell'annuncio,
«è possibile farci avanti per unirci a voi in armonia. Non correte più nessun pericolo da parte nostra, perché non abbiamo
bisogno di nutrirci da voi per vivere».
Come potete immaginare, quella notte l'audience salì alle
stelle e, nel grande clamore che ne seguì, le nazioni reagirono in modi drasticamente diversi fra loro.
La sorte peggiore toccò ai vampiri dei paesi a prevalenza
islamica: vi garantisco che è meglio non sapere cosa sia successo al portavoce non-morto siriano, anche se forse la vampira apparsa sugli schermi in Afghanistan andò incontro a
una morte ancora più orribile e definitiva (cosa gli è passato
per la testa quando hanno scelto una donna per quel particolare incarico? I vampiri possono essere estremamente intelligenti, ma a volte sembrano essere fuori dal mondo reale).
Alcune nazioni, fra cui spiccavano Francia, Italia e Germania, si rifiutarono di accettare i vampiri come cittadini con
pari diritti, e molte altre, come la Bosnia, l'Argentina e la
maggior parte degli Stati africani, addirittura negarono loro
uno status sociale di qualche tipo, dichiarandoli bersagli per
qualsiasi cacciatore di taglie. Ma America, Inghilterra, Messico, Canada, Giappone, Svizzera e i paesi scandinavi adottarono un atteggiamento più tollerante.
Difficile dire se i vampiri si aspettassero queste reazioni.
E poi erano ancora molto impegnati a inserirsi fluidamente
nella società dei vivi, per cui continuavano a essere reticenti
riguardo a come erano organizzati e al loro governo. Dunque
Bill mi stava dicendo ora più di quanto avessi mai appreso
sull'argomento.
«Quindi la regina dei vampiri della Louisiana ti sta facendo lavorare a un progetto segreto», conclusi, cercando di
mantenere un tono neutro, «ed è per questo che hai passato
ogni ora da sveglio incollato al tuo computer nelle ultime
settimane».
«Sì», confermò Bill, prendendo la bottiglia di TrueBlood
e inclinandola. Si alzò e attraverso il corridoio giunse nel cucinino (nel ristrutturare la sua vecchia casa aveva praticamente eliminato la cucina, dal momento che non ne aveva
bisogno); tirò fuori dal frigorifero un'altra bottiglia. In base
ai rumori che produceva, lo sentii aprire la bottiglia e infilarla nel microonde; poi il microonde si spense e lui rientrò in
camera, tenendo tappata la bottiglia con il pollice e agitandola in modo da rendere omogenea la temperatura del liquido.
«Allora, quanto altro tempo devi dedicare a questo progetto?», chiesi. La domanda mi sembrava più che ragionevole.
«Tutto quello che ci vorrà», rispose lui con fare assai
meno ragionevole. A dire il vero, quella sera Bill sembrava
molto irritabile.
Mmmh. Possibile che la nostra luna di miele fosse finita?
Naturalmente parlo per metafore, dato che Bill è un vampiro
e praticamente in nessun paese al mondo potremmo sposarci.
Non che lui me lo avesse chiesto, del resto.
«D'accordo, se sei davvero così immerso nel lavoro, vorrà dire che mi terrò alla larga finché non avrai finito», dissi
lentamente.
«Forse sarà meglio», convenne Bill dopo una pausa e io
mi sentii come se mi avesse appena sferrato un pugno nello
stomaco. In un lampo scattai in piedi, m'infilai il cappotto
sulla divisa che indossavo quando faceva freddo (pantaloni
neri e maglia bianca con scollo a barchetta, con la scritta
«Merlotte's» ricamata sul petto, a sinistra) e voltai le spalle a
Bill perché non mi vedesse in faccia.
Stavo trattenendo le lacrime, per cui evitai di guardarlo
anche quando sentii la sua mano sfiorarmi la spalla.
«C'è una cosa che ti devo dire». Con quella sua voce
fredda e morbida mi bloccò nell'atto di infilarmi i guanti. Ritenni di non avere la forza di girarmi a guardarlo e decisi che
poteva anche rivolgersi al mio posteriore. «Se dovesse succedermi qualcosa», proseguì (e a quel punto io avrei dovuto
cominciare a preoccuparmi), «guarda nel nascondiglio che
ho costruito a casa tua: dentro dovresti trovare il mio computer e alcuni dischetti, di cui non dovrai fare parola con nessu-
no. Se il computer non dovesse essere nel nascondiglio, vieni
a cercarlo qui a casa mia, ma vieni di giorno e ben armata.
Prendi il computer e tutti i dischetti che riuscirai a trovare e
riponili nella mia tana, come la chiami tu».
Non sapevo se sarei riuscita parlare e mi limitai ad annuire, una risposta che lui poteva vedere anche se gli davo le
spalle.
«Se non dovessi tornare o se non dovessi avere mie notizie entro... otto settimane... sì, otto settimane, allora riferisci
a Eric tutto quello che ti ho detto oggi e mettiti sotto la sua
protezione».
Non dissi nulla. Troppo infelice per poter essere infuriata, sapevo che di lì a poco sarei crollata, quindi risposi alle
sue parole con un secco cenno del capo, sentendo la coda di
cavallo che oscillava lungo il mio collo.
«Presto andrò a... a Seattle», aggiunse Bill, e percepii le
sue labbra fredde toccare il punto che la mia coda di cavallo
aveva appena sfiorato.
Stava mentendo.
«Al mio rientro parleremo», concluse.
Chissà come, quella non mi appariva una prospettiva affascinante, anzi, la faccenda aveva un che di minaccioso.
Di nuovo risposi con un gesto di assenso, non arrischiandomi a parlare perché adesso avevo davvero cominciato a
piangere, ma sarei morta prima di permettergli di vedermi in
lacrime.
Fu così che mi congedai da lui, in quella fredda notte di
dicembre.
Il giorno successivo, mentre andavo al lavoro effettuai
una deviazione assai poco saggia, spinta dallo stato d'animo
in cui mi trovavo. Tutto mi pareva orribile, eppure, dopo una
notte quasi insonne, qualcosa dentro di me mi diceva che
avrei avuto buone probabilità di riuscire a peggiorare ulteriormente il mio umore se avessi percorso la Magnolia Creek
Road, e fu esattamente quello che feci.
Nonostante la giornata brutta e fredda, Belle Rive, l'antica dimora dei Bellefleur, era un alveare operoso: parcheggiati davanti all'entrata di servizio di quella costruzione anteguerra c'erano i furgoni di una ditta di disinfestazione, di una
di arredi per cucine e di un'impresa edile. La vita stava semplicemente rifiorendo per Caroline Holliday Bellefleur, l'anziana signora che negli ultimi ottant'anni aveva dettato legge
su Belle Rive e (almeno in parte) a Bon Temps. Mi chiesi
fino a che punto Portia, che era avvocato, e Andy, detective
di polizia, apprezzassero le modifiche apportate a Belle Rive
e decisi che entrambi, avendo vissuto con la nonna (come io
avevo fatto con la mia) negli ultimi anni, dovevano almeno
essere contenti della gioia che le suscitava la ristrutturazione
della dimora.
Quanto a mia nonna, era stata assassinata alcuni mesi prima.
Naturalmente, i Bellefleur non avevano avuto nulla a che
vedere con l'accaduto, e non c'era motivo per cui dovessero
condividere con me il piacere che stavano traendo da quella
nuova abbondanza di mezzi; anzi, Andy e Portia mi evitavano come la peste, perché erano in debito con me e non potevano sopportarlo. In effetti non sapevano davvero quanto mi
dovessero.
I Bellefleur avevano ricevuto una misteriosa eredità da
parte di un parente «morto per cause non accertate da qualche parte, in Europa», o almeno cosi avevo sentito raccontare da Andy a un altro poliziotto mentre stavano bevendo
qualcosa al Merlotte's. Quando era passata da me per lasciarmi qualche biglietto della lotteria di beneficenza delle Dame
della Chiesa Battista del Getsemani, Maxine Fortenberry mi
aveva raccontato che la signora Caroline, ancora sconcertata
per la nuova fortuna, aveva setacciato ogni documento di famiglia che era riuscita a scovare nella speranza di identificare il loro benefattore.
Per quanto sconcertata, però, non pareva avere alcuna remora a spendere quel denaro.
Perfino Terry Bellefleur, il cugino di Portia e di Andy,
aveva un nuovo pick-up parcheggiato nel cortile di terra battuta antistante la sua casa. Avevo simpatia per Terry, un veterano del Vietnam pieno di cicatrici che non aveva molti amici, e non gli portavo rancore per il suo furgoncino nuovo, ma
non potevo fare a meno di pensare al carburatore che ero appena stata costretta a sostituire alla mia vecchia auto. Anche
se avevo pensato di chiedere a Jim Downey se potevo dargli
subito la metà e saldare il resto in un paio di mesi, avevo pagato immediatamente tutto il lavoro perché sapevo che Jim
aveva moglie e tre figli.
Proprio quella mattina, stavo pensando di chiedere al mio
capo, Sam Merlotte, di aumentarmi le ore di lavoro al bar:
ora che Bill era andato a "Seattle", avrei potuto praticamente
trasferirmi al Merlotte's se necessario, e di certo avevo bisogno di quel denaro.
Mentre mi lasciavo alle spalle Belle Rive, mi sforzai di
non sentirmi amareggiata. Guidando verso sud, fuori città,
svoltai a sinistra sulla Hummingbird Road, diretta al Merlotte's. Cercavo di fingere che tutto andasse bene, che al suo
rientro da Seattle, o da dov'era, il mio amato Bill sarebbe tornato appassionato e premuroso, capace di farmi sentire preziosa e di nuovo sua, invece che così sola.
Certo, avevo mio fratello Jason, ma dovevo ammettere
che non lo consideravo un amico intimo.
In realtà, il dolore che avvertivo derivava inconfondibilmente da un rifiuto, una sensazione che conoscevo bene,
quasi una seconda pelle per me.
Detestavo dover strisciare di nuovo al suo interno.
Capitolo secondo
Abbassai la maniglia per accertarmi di aver chiuso a
chiave, mi girai e con la coda dell'occhio intravidi una figura
seduta sul dondolo del mio portico. Soffocai a stento un urlo
quando il mio visitatore si alzò in piedi, poi lo riconobbi, per
cui non mi meravigliai di vedergli indosso una canottiera
mentre io portavo un cappotto pesante.
«El...», esordii, ma subito mi salvai in corner: «Bubba,
come stai?». Cercavo invano di assumere un tono disinvolto
e indifferente, ma Bubba non vi fece caso, perché non era
certo il vampiro più sveglio che ci fosse in giro. I suoi consimili ammettevano che averlo trasformato così vicino alla
morte e saturo di droghe era stato un grosso errore. La notte
in cui lui era stato portato all'obitorio, un inserviente, nonmorto e suo grande fan, elaborato in fretta un complicato imbroglio che aveva comportato un paio di omicidi, lo aveva
"trasformato"... in Bubba il vampiro. Non sempre le ciambelle riescono col buco, però, e da allora era stato passato di
mano come un idiota di sangue reale. Nell'ultimo anno, la
Louisiana si era trovata a dargli asilo.
«Come va, signorina Sookie?», rispose. Il suo accento
del Sud era ancora forte e il volto continuava a essere avve-
nente, sia pure con le mascelle marcate. Le spesse basette apparivano spazzolate di fresco e la folta capigliatura scura che
pendeva sulla fronte aveva un disordine calcolato, tutti segni
che quella sera qualche fan non-morto si era preso cura di
lui.
«Sto bene, grazie», replicai cortesemente, sorridendo da
un orecchio all'altro, come tendo a fare quando sono nervosa.
«Stavo giusto andando al lavoro», aggiunsi, chiedendomi se
avrei potuto montare in macchina e partire senza problemi,
cosa di cui dubitavo.
«Ecco, signorina Sookie, questa notte sono stato mandato
a proteggerla».
«Davvero? E da chi?».
«Da Eric», specificò lui, in tono fiero. «Ero il solo in ufficio quando lui ha ricevuto una telefonata, e subito dopo mi
ha detto di alzare il sedere e di venire qui».
«Di che pericolo si tratta?», domandai, scrutando i boschi
circostanti la radura in cui sorge la mia vecchia casa. Le notizie riferite da Bubba mi stavano rendendo molto nervosa.
«Non lo so, signorina Sookie. Eric mi ha detto di restare
stanotte a proteggerla finché qualcuno del Fangtasia non arriverà qui... Eric, o Chow, o la signorina Pam, o magari Clancy. Quindi, se va al lavoro, verrò con lei e mi occuperò di
chiunque la infastidisca».
Era inutile interrogare ulteriormente Bubba, ponendo
così sotto tensione il suo fragile cervello. Avrei finito per
metterlo in agitazione, ed era una cosa che nessuno voleva
veder succedere, il che spiegava perché bisognava ricordarsi
di non chiamarlo con il suo nome di un tempo... anche se di
tanto in tanto lui si metteva a cantare, e quello era un momento che valeva la pena di ricordare.
«Non puoi entrare nel bar», dissi senza mezzi termini:
sarebbe stato un disastro. Nonostante la clientela del Merlotte's si fosse abituata all'occasionale presenza di un vampiro,
di certo non potevo avvertire tutti di non pronunciare il suo
nome. Eric doveva essere stato disperato per mandare proprio lui. In genere la comunità dei vampiri teneva nascosti
errori come Bubba e le volte in cui si metteva in testa di andarsene in giro per conto proprio si avevano i cosiddetti "avvistamenti" e i tabloid impazzivano. «Che ne dici di rimanere
seduto nella mia macchina mentre lavoro?», suggerii, ben sapendo che non soffriva il freddo.
«Devo essere più vicino di così», dichiarò lui, inamovibile.
«D'accordo, allora che ne dici dell'ufficio del mio capo?
E' proprio accanto al bar, e se dovessi urlare tu mi sentiresti».
Bubba continuava a non apparire soddisfatto, ma alla
fine annuì e io liberai un respiro che non mi ero resa conto di
trattenere. Senza dubbio, sarebbe stato più facile darmi malata e rimanere a casa, ma Sam si aspettava di vedermi arrivare
e inoltre avevo bisogno del mio assegno paga.
La macchina sembrava un po' piccola con Bubba seduto
accanto a me. Mentre percorrevamo sobbalzando il vialetto
fra gli alberi per raggiungere la strada vicinale, presi mental-
mente nota di contattare la ditta che forniva la ghiaia perché
venisse a rimpolpare il mio lungo e tortuoso viale di accesso,
ma subito dopo annullai quell'ordine, sempre a livello mentale, perché avrei potuto affrontare quella spesa solo in primavera, o forse addirittura in estate.
Svoltammo a destra per percorrere i pochi chilometri che
ci separavano dal Merlotte's, il bar dove lavoro come cameriera quando non sono impegnata a fare un Mucchio di Cose
Segrete per i vampiri. Più o meno a metà strada, mi resi conto di non aver visto una qualche macchina con cui Bubba
fosse arrivato da me. Che avesse volato? Alcuni vampiri ne
erano capaci e, anche se Bubba era il vampiro meno dotato
che avessi mai conosciuto, forse aveva una propensione per
il volo.
Un anno prima glielo avrei chiesto, ma adesso non lo feci
perché ormai mi ero abituata a frequentare i non-morti. Non
sono una vampira, ma una telepate e la mia vita era stata un
vero inferno finché non avevo incontrato un uomo a cui non
leggevo nella mente. Infatti era morto, purtroppo, ma ciò nonostante Bill e io stavamo insieme ormai da parecchi mesi e
fino a poco tempo prima il nostro rapporto era stato davvero
buono. Inoltre, gli altri vampiri avevano bisogno di me, quindi fino a un certo punto ero al sicuro... Insomma, per lo più.
O almeno a volte.
Merlotte's non pareva molto affollato, almeno a giudicare
dal parcheggio mezzo vuoto. Cinque anni prima Sam aveva
comprato il locale a prezzo di fallimento, forse perché era
stato costruito in mezzo alla foresta che ne circondava il parcheggio, o forse perché il precedente proprietario non era
riuscito semplicemente a trovare la giusta combinazione di
cibi, bevande e servizio.
Dopo aver cambiato nome al locale e averlo rinnovato,
Sam ne aveva in qualche modo fatto un posto in attivo e
adesso ne ricavava abbondantemente di che vivere. Però era
lunedì, una sera in cui pochi uscivano a bere nella nostra piccola cittadina della Louisiana settentrionale. Aggirato l'edificio, mi fermai al parcheggio del personale, che si trova proprio davanti alla roulotte di Sam Merlotte, a sua volta posizionata dietro l'ingresso del personale e ad angolo retto rispetto a esso. Saltata giù dalla macchina, attraversai di corsa
il magazzino e attraverso il pannello di vetro della porta sbirciai il corridoietto su cui si aprono la porta del bagno e quella
dell'ufficio del capo: via libera. Bene. Quando bussai alla sua
porta, trovai Sam alla scrivania. Ottimo.
Sam non è un uomo massiccio, ma è molto forte. Ha i capelli di un biondo ramato e gli occhi azzurri, e ha forse tre
anni più di me, che ne ho ventisei. Lavoro per lui da circa tre
anni e ne vado pazza, tanto che è stato protagonista di alcune
delle mie fantasticherie preferite, però, da quando è uscito
con una creatura splendida ma omicida, un paio di mesi fa, il
mio entusiasmo nei suoi confronti si è in qualche modo raffreddato, benché lo consideri un grande amico.
«Chiedo scusa, Sam», dissi con un sorriso da idiota.
«Che c'è?», mi domandò chiudendo il catalogo di forniture per bar che stava esaminando.
«Ho bisogno di scaricare qui qualcuno per un po'.
«Chi?», insistette rabbuiandosi. «E' tornato Bill?».
«No, è ancora in viaggio», risposi, mentre il mio sorriso
si faceva più intenso. «Ma, ecco, loro hanno mandato un altro vampiro perché... mi protegga, e ho bisogno di scaricarlo
qui mentre lavoro, se per te va bene».
«Perché hai bisogno di essere protetta? E perché lui non
si può semplicemente sedere nel locale? Siamo pieni di TrueBlood», protestò Sam. Il TrueBlood si stava dimostrando decisamente il prodotto migliore fra i diversi tipi di sangue sintetico lanciati sul mercato. «La cosa migliore, dopo aver bevuto una vita» era stato lo slogan pubblicitario a cui i vampiri avevano reagito in maniera molto positiva.
Udii un quasi impercettibile rumore alle mie spalle. Sospirai: Bubba si era spazientito.
«Senti, ti avevo chiesto...», cominciai accennando a girarmi, ma non riuscii ad aggiungere altro perché una mano
mi afferrò per una spalla e mi costrinse a completare il movimento. Davanti a me c'era un uomo che non avevo mai visto
prima e che stava già tirando indietro il pugno per colpirmi
alla testa.
Anche se l'effetto del sangue di vampiro che avevo ingerito alcuni mesi prima (per salvarmi la vita, ci tengo a sottolinearlo) era scemato al punto che quasi non risplendevo più al
buio, avevo i riflessi ancora più rapidi della media. Gettan-
domi a terra, rotolai contro le gambe dell'uomo, facendolo
barcollare, e per Bubba fu facile afferrarlo e schiacciargli la
gola.
Mi rialzai al volo mentre Sam usciva a precipizio dall'ufficio, e con un'occhiata ci ritrovammo a fissare Bubba e il
morto.
Adesso eravamo davvero nei guai.
«L'ho ucciso», dichiarò fiero Bubba. «L'ho salvata, signorina Sookie».
Veder apparire l'Uomo di Memphis nel bar e rendersi
conto che era diventato un vampiro in grado di uccidere un
aspirante assalitore... Be', perfino Sam, che pure era qualcosa
di più di quello che sembrava, aveva difficoltà ad assimilarlo
in solo due minuti.
«Sì, lo hai ucciso», confermò Sam, rivolgendosi a Bubba
in tono pacato. «Sai chi era?».
A parte qualche veglia presso le pompe funebri, non avevo mai visto un morto finché non avevo cominciato a uscire
con Bill (certo, da un punto di vista tecnico lui era morto, ma
sto parlando di morti umani) e da allora mi ci imbattevo con
notevole frequenza. Meno male che non sono un tipo troppo
schizzinoso.
Quel particolare morto doveva aver vissuto solo anni
duri, occhio e croce una quarantina. Le braccia erano quasi
interamente coperte di quei tatuaggi scadenti da prigione, alcuni denti chiave mancavano all'appello e i suoi indumenti
mi sembravano tipici di un appartenente a qualche banda di
motociclisti: jeans unti e giubbotto di cuoio, sotto cui s'intravedeva un'oscena T-shirt.
«Cosa c'è sul dietro del giubbotto?», chiese Sam, come
se questo avesse per lui un particolare significato.
Servizievole, Bubba si accovacciò e fece rotolare il corpo
su un fianco. Il modo in cui la mano dell'uomo penzolò inerte all'estremità del braccio mi provocò una forte nausea, ma
mi costrinsi a guardare il giubbotto, decorato con l'effigie di
un lupo, disegnato di profilo nell'atto di ululare. La testa si
stagliava sullo sfondo di un cerchio bianco che decisi rappresentasse la luna, e nel vedere quel simbolo Sam assunse un'aria ancora più preoccupata. «Un lupo mannaro», disse secco.
Questo spiegava parecchie cose.
Il clima era decisamente troppo freddo perché bastasse
un giubbotto a chi non fosse un vampiro. I mannari, che avevano una temperatura corporea un po' più elevata di quella
degli umani, in genere badavano a indossare un cappotto
quando faceva freddo, perché la comunità dei licantropi stavano ancora nascondendo la propria esistenza al mondo degli
uomini (naturalmente, la fortunata, fortunatissima sottoscritta faceva eccezione, insieme a forse qualche altro centinaio
di individui). Mi chiesi se il morto avesse lasciato il suo cappotto nel bar, appeso all'attaccapanni dell'ingresso; in quel
caso, si era nascosto nel bagno maschile in attesa del mio arrivo. Altrimenti, poteva essere entrato dalla porta posteriore
subito dopo di me e magari il cappotto era nella sua auto.
«Lo hai visto entrare?», chiesi a Bubba. Mi sentivo leggermente stordita.
«Sì, signorina. La deve aver aspettata nel parcheggio
grande, perché ha girato l'angolo, è sceso dalla macchina ed
è entrato dal retro un minuto dopo di lei: come lei si è infilata nella porta, lui l'è stato dietro. E io l'ho seguito. E' stata
strafortunata ad avermi con lei».
«Grazie, Bubba. Hai ragione, sono fortunata ad averti
qui. Mi chiedo cosa voleva farsene di me», replicai, sentendomi raggelare al solo pensiero. Il mio assalitore si era fermato in attesa di una qualsiasi donna sola su cui mettere le
mani, oppure stava aspettando proprio me? Ma che domanda
stupida: se Eric si era allarmato al punto di mandarmi una
guardia del corpo, doveva essere venuto a conoscenza di una
minaccia, quindi era escluso che fossi un bersaglio casuale.
Senza parlare, Bubba uscì con passo deciso dalla porta sul
retro, tornando dopo appena un minuto.
«Sul sedile anteriore della sua macchina ci sono dei bavagli e del nastro adesivo», riferì. «C'era anche il suo cappotto. L'ho portato per metterglielo sotto la testa», e si chinò per
sistemare una giacca mimetica dalla spessa imbottitura intorno alla faccia e al collo del morto. Avvolgergli la testa in
qualcosa era decisamente una buona idea, dato che l'uomo
stava cominciando a perdere fluidi. Alla fine Bubba si leccò
le dita.
Sam intanto mi circondò con un braccio, perché avevo
iniziato a tremare.
«Però c'è qualcosa di strano...», dissi, ma venni interrotta
dall'apertura della porta di comunicazione fra il corridoio e il
bar, da cui intravidi la faccia di Kevin Prior. Kevin è una persona dolcissima, ma è un poliziotto, l'ultima cosa di cui avevamo bisogno in quel momento.
«Spiacente, la toilette è straripata», dissi mentre richiudevo l'anta sulla sua lunga faccia stupita. «Sentite, ragazzi, che
ne dite se mentre tengo chiusa questa porta voi due prendete
il tizio e lo mettete nella sua macchina? Poi potremo riflettere su cosa fare di lui», aggiunsi, pensando che sarebbe anche
stato necessario lavare il pavimento del corridoio. E finalmente scoprii che era possibile chiudere a chiave la porta di
comunicazione...
«Sookie, non credi che dovremmo chiamare la polizia?»,
obiettò Sam, dubbioso.
Un anno prima, io stessa mi sarei lanciata verso il telefono per chiamare il Pronto Intervento prima ancora che il cadavere toccasse il pavimento, ma quegli ultimi mesi erano
stati una lunga e continua curva di apprendimento. Intercettando lo sguardo di Sam, accennai con la testa in direzione di
Bubba. «Come credi che se la caverebbe lui in prigione?»,
mormorai. Intanto, Bubba stava cominciando a canticchiare
il primo verso di Blue Christmas. «E noi non abbiamo di certo mani abbastanza forti per poter aver fatto questo», sottolineai.
Dopo un momento di indecisione, Sam annuì, rassegnato
all'inevitabile. «D'accordo. Bubba, tu e io trasportiamo questo tizio nella sua macchina».
Io mi precipitai a prendere lo straccio mentre i due uomini... insomma, mentre il vampiro e il mutaforme portavano
via dal retro il corpo del motociclista. Quando rientrarono,
portando con loro una folata di aria fredda, io avevo già pulito corridoio e toilette degli uomini (come avrei fatto se il water avesse traboccato davvero), e avevo spruzzato un po' di
deodorante nel corridoio per rinfrescarne l'aria.
Fu un bene che fossimo stati rapidi, perché con una spinta Kevin aprì la porta nel momento stesso in cui girai la chiave.
«È tutto a posto qui dietro?», chiese. Kevin è un corridore, quindi ha un corpo asciutto e non è di alta statura. A guardarlo ricorda una pecora, e vive ancora con sua madre, ma
questo non significa che sia uno stupido. In passato, tutte le
volte che avevo ascoltato i suoi pensieri, essi avevano riguardato il suo lavoro o quella nera amazzone che era la sua collega, Kenya Jones, ma in quel momento erano permeati più
che altro di sospetto.
«Credo che abbiamo risolto il problema», rispose Sam,
con un sorriso. «Guarda dove metti i piedi, perché abbiamo
appena lavato per terra, e non vorrei che scivolassi e poi mi
facessi causa!».
«Nel tuo ufficio c'è qualcuno?», insistette Kevin, accennando con la testa verso la porta chiusa.
«Un amico di Sookie», spiegò Sam.
«E' meglio che vada di là e mi dia da fare con le ordinazioni», dissi allegra, rivolgendo loro un sorriso smagliante,
poi sollevai le mani per controllare che la mia coda di cavallo fosse in ordine e mi diedi una mossa. Il bar era quasi vuoto e la cameriera che dovevo sostituire (Charlsie Tooten) si
mostrò sollevata nel vedermi. «E' una serata lenta», bofonchiò. «I tizi del tavolo sei stanno centellinando quel boccale
di birra da un'ora e Jane Bodehouse ha cercato di rimorchiare
ogni uomo che è entrato. Kevin, poi, ha passato la serata a
scrivere qualcosa su un blocco per appunti».
Sforzandomi di non far trasparire dal volto il disgusto
che provavo, lanciai un'occhiata alla sola cliente presente nel
locale. Ogni bar ha la sua parte di clienti alcolizzati, persone
che rimangono dall'apertura alla chiusura, e Jane Bodehouse
era uno dei nostri. Di norma, Jane beveva a casa, da sola, ma
circa ogni due settimane si metteva in testa l'idea di venire da
noi per rimorchiare, un'operazione sempre più laboriosa perché Jane era sulla cinquantina e negli ultimi dieci anni era
stata segnata dalla mancanza di un sonno regolare e di una
nutrizione adeguata.
Quella particolare sera vidi che il trucco di Jane non seguiva i contorni degli occhi e della bocca, e l'effetto era decisamente sconcertante. Bastava un'occhiata per capire che non
era in condizione di guidare, quindi avremmo dovuto telefonare al figlio perché la venisse a prendere.
Salutai Charlsie con un cenno del capo e agitai la mano
in direzione di Arlene, l'altra cameriera, seduta a un tavolo
insieme a Buck Foley, la sua ultima fiamma, e lei rispose al
mio gesto facendo sussultare i suoi riccioli rossi. La serata
era davvero morta se Arlene se la prendeva comoda.
«Come stanno i bambini?», domandai, mentre procedevo
a mettere via alcuni dei bicchieri che Charlsie aveva tirato
fuori dalla lavastoviglie. Credevo di muovermi come al solito, normalmente, invece mi accorsi che le mani mi stavano
tremando violentemente.
«Benone. Coby ha chiuso il trimestre con il massimo dei
voti e Lisa ha vinto la gara di ortografia», rispose Arlene con
un ampio sorriso. A chiunque pensasse che una donna sposata quattro volte non potesse essere una buona madre avrei
presentato Arlene. Per farle piacere, rivolsi un sorriso anche
a Buck, che rientrava nella media del genere di uomini con
cui lei era solita uscire, e cioè soggetti che non erano alla sua
altezza.
«Splendido!», esclamai. «Sono ragazzini intelligenti,
come la loro mamma».
«Ehi, quel tizio è riuscito a trovarti?».
«Quale tizio?», domandai con la sensazione di conoscere
già la risposta.
«Quello vestito da motociclista. Mi ha chiesto se ero io la
cameriera che usciva con Bill Compton, perché aveva qualcosa da consegnarle».
«Non conosceva il mio nome?».
«No, strano, vero? Oh, mio Dio, Sookie, se non ti conosceva per nome, come poteva essere stato Bill a mandarlo?».
Magari Coby aveva ereditato l'intelligenza da suo padre,
considerato il tempo che Arlene aveva impiegato per arrivare
a quella conclusione. Del resto, le volevo bene per il suo carattere, non per la sua intelligenza.
«Allora, che cosa gli hai detto?», chiesi ancora, stavolta
con quel sorriso smagliante che mi spunta quando sono nervosa. Non è il mio sorriso naturale e a volte non me ne rendo
neppure conto.
«Gli ho detto che a me gli uomini piacciono caldi e in
grado di respirare», ribatté lei, scoppiando a ridere. Certe
volte Arlene riusciva a essere del tutto priva di tatto, e mi appuntai mentalmente di riesaminare i motivi per cui lei era
una mia cara amica. «No, in realtà non ho risposto così. Ho
detto solo che eri la bionda che sarebbe arrivata alle nove».
Grazie, Arlene, pensai. Quindi il mio assalitore aveva potuto capire chi ero grazie alla mia migliore amica. Se era
ignaro del mio nome e indirizzo, e di me aveva saputo soltanto che lavoravo al Merlotte's e che uscivo con Bill Compton, mi sentivo un po' rassicurata, ma non più di tanto.
Lentamente trascorsero tre ore. Sam venne nel bar, mi
sussurrò che aveva dato a Bubba una rivista da sfogliare e
una bottiglia di Life Support da bere, e cominciò ad armeggiare dietro al bancone. «Come mai quel tizio era alla guida
di una macchina, e non di una motocicletta?», domandò bofonchiando. «E come mai la sua macchina ha una targa del
Mississippi?». Ma Kevin si avvicinò per sincerarsi che chiamassimo Marvin, il figlio di Jane, e attese là che Sam telefonasse, finché non gli venne riferito che Marvin aveva promesso di arrivare al bar entro venti minuti. Solo a quel punto
Kevin si decise ad andarsene, con il suo blocco per appunti
infilato sotto il braccio, e mi chiesi se stava diventando un
poeta o stava scrivendo il suo curriculum.
I quattro uomini che avevano cercato di ignorare Jane
mentre sorseggiavano la loro birra alla velocità di una tartaruga finalmente scolarono i bicchieri e se ne andarono, ciascuno lasciando cadere un dollaro sul tavolo a titolo di mancia... dei veri spendaccioni. Con clienti del genere, non sarei
mai riuscita a far inghiaiare di nuovo il mio vialetto.
Dal momento che mancava solo mezz'ora alla fine del
turno, Arlene svolse i suoi lavori di chiusura, poi chiese se
poteva andarsene insieme a Buck perché, con i bambini ancora da sua madre, lei e Buck avrebbero potuto avere la roulotte tutta per loro, almeno per un po'.
«Bill tornerà presto?», mi chiese nel mettersi il cappotto,
mentre Buck parlava di football con Sam.
Risposi con una scrollata di spalle. Bill mi aveva chiamata tre notti prima, per informarmi che era arrivato a "Seattle"
sano e salvo e stava per incontrare... chi doveva incontrare,
chiunque fosse. Il numero da cui chiamava era risultato "non
disponibile" e questo la diceva lunga sulla situazione, oltre a
sembrarmi un gran brutto segno.
«Senti... la sua mancanza?», insistette Arlene, con voce
maliziosa.
«Tu cosa ne pensi?», ribattei con un sorriso appena accennato. «Va' a casa e divertiti».
«Buck è molto bravo nel farmi divertire», affermò lei in
tono quasi lascivo.
«Buon per te», commentai.
Fu così che all'arrivo di Pam al Merlotte's la sola cliente
presente era Jane Bodehouse, ma era talmente ubriaca che
non valeva neppure la pena di prenderla in considerazione.
Pam è una vampira comproprietaria del Fangtasia, un bar
per turisti di Shreveport, ed è il comandante in seconda di
Eric. Bionda e quanto meno bicentenaria, possiede un certo
senso dell'umorismo... cosa atipica in un vampiro. Se è possibile che un vampiro possa essere amico di un umano, con
lei avevo stabilito un rapporto quasi di amicizia.
Sedutasi su uno sgabello, mi fissò al di sopra del lungo
piano lucido del bancone di legno. La visita era inquietante,
perché prima di allora avevo visto Pam solo al Fangtasia.
«Che succede?», chiesi a titolo di saluto, accompagnando
le parole con un sorriso, anche se mi sentivo tesa da capo a
piedi.
«Dov'è Bubba?», replicò lei con quel suo modo di parlare
scandito. «Eric s'infurierà se Bubba non è venuto qui». Mi
accorsi per la prima volta che aveva un lieve accento, ma
non riuscii a identificarlo: forse si trattava delle inflessioni
dell'inglese antico.
«Bubba è nel retro, nell'ufficio di Sam», spiegai, concentrandomi sul volto di lei e desiderando che la mannaia si decidesse a cadere. Sam mi affiancò e io feci le presentazioni;
dal momento che lui era un mutaforme, Pam gli elargì un saluto più significativo di quello che avrebbe riservato a un
semplice umano (che avrebbe potuto anche ignorare). Mi
aspettavo di cogliere un barlume di interesse reciproco, dal
momento che Pam è onnivora in fatto di sesso e che Sam è
un essere sovrannaturale decisamente attraente, ma, anche se
i vampiri non sono rinomati per la loro espressività facciale,
alla fine dovetti concludere che Pam appariva decisamente
contrariata.
«Cosa bolle in pentola?», domandai dopo un momento di
silenzio.
Pam ricambiò il mio sguardo. Siamo entrambe bionde
con gli occhi azzurri, ma ci somigliamo quanto due animali
della famiglia dei canidi, dato che i capelli di Pam sono lisci
e chiarissimi e che ha occhi molto scuri... in quel momento
significativamente fissati su Sam e decisamente preoccupati.
Senza una parola, lui si allontanò per aiutare il figlio di Jane,
un uomo sulla trentina dall'aria logorata, ad accompagnare la
madre in macchina.
«Bill è scomparso», disse Pam a bruciapelo.
«No, non è scomparso, è a Seattle», ribattei cocciuta. Era
la mia parola del giorno e ora l'avevo usata.
«Ti ha mentito».
Assimilai quell'affermazione e con un gesto la incoraggiai a continuare.
«Ha trascorso tutto questo tempo nel Mississippi. E' andato a Jackson, in macchina».
Fissai il legno del bancone, coperto da uno spesso strato
di poliuretano: avevo già dedotto da sola che Bill mi aveva
mentito, ma sentirlo dire ad alta voce, in modo tanto scarno,
mi faceva un male del diavolo. Mi aveva mentito ed era
scomparso.
«Allora... cosa intendete fare per ritrovarlo?», domandai,
detestando il tono tremulo della mia voce.
«Lo stiamo cercando. Stiamo facendo tutto il possibile»,
rispose. «Chi lo ha preso forse sta dando la caccia anche a te,
per questo Eric ha mandato qui Bubba».
Non riuscii a replicare, troppo impegnata com'ero a controllarmi.
Sam intanto era tornato perché si era accorto di quanto
fossi sconvolta. «Stanotte», disse da un punto immediatamente dietro le mie spalle, «qualcuno ha cercato di rapire
Sookie quando è arrivata al lavoro, ma Bubba l'ha salvata. Il
cadavere è fuori sul retro, avevamo intenzione di spostarlo
altrove dopo la chiusura».
«Così presto», commentò Pam, in tono ancora più contrariato, poi squadrò Sam da capo a piedi e annuì in segno di
approvazione: lui era a sua volta una creatura soprannaturale,
anche se ai suoi occhi di una categoria inferiore alla sua specie. «Sarà meglio che vada alla macchina, per vedere cosa
riesco a trovare», aggiunse, dando per scontato che avremmo
provveduto noi a disfarci del cadavere senza percorrere le
vie ufficiali. I vampiri hanno difficoltà ad accettare l'autorità
delle forze dell'ordine e il fatto che i cittadini siano obbligati
ad avvertire la polizia in caso di problemi; anche se non possono entrare nelle forze armate, possono diventare poliziotti,
un lavoro che li diverte immensamente, nonostante li renda
spesso dei paria agli occhi degli altri non-morti.
Preferivo decisamente pensare ai poliziotti vampiri piuttosto che a quello che Pam mi aveva appena detto.
«Quando è scomparso Bill?», chiese Sam e, anche se riuscì a mantenere piano il tono della voce, si avvertì comunque
l'ira che covava appena sotto la superficie.
«Doveva essere qui la scorsa notte», spiegò Pam, e a
quelle parole sollevai la testa di scatto. Perché Bill non mi
aveva detto che stava tornando a casa? «Doveva rientrare in
macchina a Bon Temps, telefonarci al Fangtasia per avvertire
che era a casa e poi incontrarci stanotte», continuò Pam... per
essere un vampiro, stava praticamente farfugliando.
Compose un numero sul suo cellulare. Dopo i deboli
beep prodotti dai tasti, la ascoltai riferire i fatti a Eric. Infine
concluse: «E' seduta qui, e non parla».
Allora mi mise il telefono in mano e io me lo portai automaticamente all'orecchio.
«Sookie, mi senti?», chiese Eric, ma ero certa che udiva
il fruscio dei miei capelli contro il ricevitore, il sussurro del
mio respiro. «So che ci sei», continuò. «Ascolta e obbedisci.
Per ora, non dire a nessuno quello che è successo e comportati come al solito, vivi la tua vita come fai sempre. Uno di
noi ti terrà sempre d'occhio, che tu te ne accorga o meno.
Troveremo il modo di sorvegliarti anche di giorno. Vendicheremo Bill e proteggeremo te».
Vendicare Bill? Dunque lui era sicuro che Bill fosse morto... cioè, che avesse cessato di esistere.
«Non sapevo che dovesse rientrare la scorsa notte», dissi,
come se quello fosse stato il fatto più importante che avevo
appreso.
«Lui... aveva delle cattive notizie che doveva riferirti»,
s'interpose improvvisamente Pam.
Eric la sentì attraverso il telefono ed emise un verso disgustato. «Di' a Pam di chiudere la bocca», ingiunse, mostrandosi apertamente infuriato per la prima volta da quando
lo conoscevo. Non ritenni necessario riferire il messaggio
perché supposi che anche Pam fosse stata in grado di sentirlo, dato che la maggior parte dei vampiri ha un udito decisamente acuto.
«Quindi voi sapevate di queste cattive notizie e sapevate
che lui stava per rientrare», ricapitolai. Non solo Bill era
scomparso e forse morto... definitivamente, ma mi aveva anche mentito sulla meta e sul motivo, tenendomi nascosto un
importante segreto, qualcosa che mi riguardava. Il dolore era
talmente intenso da non avvertirlo, ma sapevo che quella ferita si sarebbe fatta presto sentire.
Restituii il cellulare a Pam, mi girai e uscii dal bar.
Nell'entrare in macchina, ebbi un momento di esitazione,
pensando che sarei dovuta rimanere per aiutarli a disfarsi del
cadavere; non ero giusta nei confronti di Sam, che non era un
vampiro e si trovava coinvolto in quella faccenda solo per
aiutare me.
Invece me ne andai. Ci avrebbe pensato Bubba ad aiutarlo, insieme a Pam... Pam che sapeva tutto mentre io non sapevo niente.
Vicino a casa, intravidi una faccia bianca fra gli alberi e
per poco non chiamai quella sentinella, per invitare il vampiro a entrare e passare la notte seduto sul divano, però decisi
che avevo bisogno di restare sola. Nulla di quanto stava accadendo era opera mia e non c'era nulla che dovessi fare se
non rimanere passiva, nella più totale ignoranza, sia pure non
per mia volontà.
Mi sentivo ferita e furente al massimo grado possibile... o
almeno così avrei creduto finché successive rivelazioni non
avrebbero dimostrato che mi sbagliavo.
Con passo deciso entrai in casa e mi sprangai la porta
alle spalle. Naturalmente una semplice serratura non fermava
un vampiro, ma non averlo invitato a entrare sì, e il vampiro
avrebbe senza dubbio tenuto alla larga qualsiasi umano, almeno fino all'alba.
M'infilai la mia vecchia vestaglia di nylon blu a maniche
lunghe e sedetti al tavolo di cucina, fissandomi le mani senza
vederle mentre mi chiedevo dove si trovasse Bill in quel momento, se stava ancora camminando sulla terra o se era di-
ventato un mucchietto di cenere in una qualche fossa per il
barbecue. Pensai ai suoi capelli scuri, a quanto risultassero
folti sotto le mie dita, poi riflettei sulla segretezza con cui
aveva pianificato il proprio ritorno. Mi sembrava che fossero
passati appena un paio di minuti ma con un'occhiata all'orologio appeso sopra il piano di cottura scoprii che ero rimasta
seduta al tavolo con lo sguardo fisso nel vuoto per più di
un'ora.
Dovevo andare a letto, perché era tardi, faceva freddo e
dormire era la cosa più normale da fare, ma nel mio futuro
non ci sarebbe stato più niente di normale... no, un momento!
Se Bill era scomparso, il mio futuro sarebbe stato normale.
Niente Bill, quindi niente vampiri: niente Eric, Pam, o
Bubba.
Nessuna creatura soprannaturale, mannara, mutaforme o
menade che fosse, esseri che non avrei mai incontrato se non
fosse stato per la mia storia con Bill. Se lui non fosse mai entrato da Merlotte's, io avrei semplicemente continuato a servire ai tavoli e ad ascoltare gli indesiderati pensieri di quanti
mi circondavano, fatti di meschina avidità, lussuria, disillusione, speranza e fantasie. Sookie la Pazza, la telepate del
paesino di Bon Temps, in Louisiana.
Ero vergine quando avevo conosciuto Bill. Adesso, il
solo sesso che avrei potuto forse concedermi sarebbe stato
con JB du Rone, che era talmente bello che quasi si sorvolava sulla sua totale stupidità. E aveva così pochi pensieri che
la sua compagnia mi era quasi confortevole, e potevo perfino
toccarlo senza ricevere immagini sgradevoli. Ma Bill... Scoprii che avevo la mano destra serrata a pugno e la calai sul
tavolo con tanta violenza da farmi un male del diavolo.
Bill mi aveva detto che se gli fosse successo qualcosa sarei dovuta "andare" da Eric, ma non ero riuscita a capire se
intendeva dire che Eric avrebbe provveduto a trasmettermi
un suo lascito economico, o mi avrebbe protetto da altri
vampiri, oppure che sarei divenuta la sua... ecco, che avrei
dovuto instaurare con lui lo stesso rapporto che avevo con
Bill. Ma gli avevo detto chiaramente che non mi avrebbero
passata di mano in mano come una torta natalizia con l'uvetta.
Eric però era già venuto da me, quindi non avevo neppure la possibilità di decidere se seguire o meno il consiglio di
Bill.
Persi il filo dei miei pensieri, che del resto non era stato
molto chiaro dall'inizio.
Oh, Bill, dove sei?, mi chiesi affondando il volto fra le
mani.
La testa mi pulsava per lo sfinimento e perfino la mia accogliente cucina si rivelava gelida a quell'ora di notte, quindi
mi alzai per andare a letto, consapevole che non avrei dormito. Il mio bisogno di Bill era così intenso e lacerante che mi
chiesi se non fosse in qualche modo anomalo, se non fossi
stata stregata con un qualche incantesimo.
Sebbene il mio potere telepatico mi rendesse immune
alla malia dei vampiri, potevo essere vulnerabile a un altro
tipo di forza? Forse, però, stavo soltanto sentendo la mancanza dell'unico uomo che avessi mai amato. Mi sentivo
svuotata e tradita, una sensazione peggiore di quella provata
alla morte di mia nonna, o quando i miei genitori erano annegati. All'epoca ero molto piccola e magari non avevo compreso immediatamente che erano scomparsi per sempre, ma
adesso mi riusciva difficile ricordare le sensazioni. E quando
mia nonna era morta, appena pochi mesi prima, avevo tratto
conforto dai rituali che nel Sud accompagnano la morte.
E avevo l'intima consapevolezza che nessuno di loro mi
aveva lasciata di sua spontanea volontà.
Mi ritrovai in piedi sulla porta della cucina e spensi la
luce centrale.
Una volta a letto, nel buio, cominciai a piangere e non
smisi per molto, molto tempo. Quella non era una notte in
cui ricordare le cose buone che avevo avuto: ora mi gravava
addosso ogni mia perdita e sentivo di aver avuto più sfortuna
della maggior parte della gente. Feci invano un tentativo
simbolico di arginare quel diluvio di autocompatimento, ma
era avviluppato all'angoscia di non sapere quale fosse stata la
sorte di Bill.
Volevo averlo lì con me, raggomitolato contro la mia
schiena, sentire le sue labbra fredde sul mio collo, le sue
mani bianche che mi scorrevano sul ventre, parlare con lui e
sentirlo dissipare con una risata i miei terribili sospetti. Volevo raccontargli la mia giornata, gli stupidi problemi che stavo avendo con l'azienda del gas, e parlargli dei nuovi canali
aggiunti alla televisione via cavo. Volevo ricordargli che aveva bisogno di una nuova lavatrice e fargli sapere che mio fratello Jason aveva scoperto che dopo tutto non sarebbe diventato padre (il che era un bene, dato che non era neppure un
marito).
La parte più dolce dell'essere una coppia era condividere
la propria vita con qualcun altro.
Ma la mia vita, evidentemente, non era stata abbastanza
interessante da essere condivisa.
Capitolo terzo
Quando sorse il sole, ero riuscita a dormire circa una
mezz'ora. Accennai ad alzarmi per preparare il caffè, ma non
mi parve che ci fosse motivo di farlo e rimasi a letto. Nel
corso della mattina squillò il telefono, ma non andai a rispondere, e neppure aprii la porta quando suonò il campanello.
A un certo punto, verso metà pomeriggio, mi resi conto
che c'era una cosa che dovevo fare, quel compito che Bill
aveva insistito che dovevo assolvere se lui avesse tardato a
rientrare. La situazione corrispondeva a quella che lui mi
aveva descritto.
Ormai dormivo nella camera da letto più grande, un tempo appartenuta a mia nonna. Attraversai traballante il corridoio fino alla mia vecchia stanza, dove un paio di mesi prima
Bill aveva trasformato il fondo del mio vecchio armadio in
una botola, creandosi un nascondiglio a prova di luce diurna
nell'intercapedine praticabile sottostante la casa. Aveva fatto
un lavoro davvero notevole.
Dopo aver accertato che nessuno potesse vedermi dalla
finestra, aprii l'anta dell'armadio: il fondo era del tutto sgombro ma coperto dalla moquette, che si estendeva dal pavi-
mento della stanza. Tirato indietro quel pezzo di moquette di
protezione, passai la lama di un coltello a serramanico lungo
i bordi della botola e dopo un po' riuscii a smuoverla e a sollevarla. Guardai nel buio spazio sottostante e lo trovai pieno:
conteneva il computer di Bill, una scatola di dischetti e perfino il monitor e la stampante.
Dunque Bill, prevedendo questa situazione, prima di partire era riuscito a nascondere il proprio lavoro. Indipendentemente da quanto poteva essere stato falso, aveva avuto una
certa fiducia in me. Annuendo, stesi di nuovo la moquette,
avendo cura che combaciasse negli angoli, poi sistemai sul
fondo dell'armadio alcuni oggetti fuori stagione: una scatola
di scarpe estive, una borsa da spiaggia piena di grandi teli da
mare e con uno dei miei molti tubetti di crema abbronzante,
e la sdraio pieghevole che usavo per prendere il sole. Infine,
piazzai nell'angolo un grosso ombrellone e decisi che in quel
modo l'armadio aveva un aspetto abbastanza realistico, considerato che alla sbarra appendiabiti erano appesi i miei vestiti estivi, insieme ad alcuni accappatoi e camicie da notte
molto leggere. Poi il mio sprazzo di energia si esaurì appena
mi resi conto che, messo in atto l'ultimo favore che Bill mi
aveva richiesto, non avevo modo di fargli sapere che avevo
esaudito i suoi desideri.
Una parte di me (pateticamente) voleva fargli sapere che
non avevo tradito la sua fiducia, ma l'altra metà premeva per
andare nella baracca degli attrezzi e cominciare ad affilare
qualche paletto.
In preda a un conflitto troppo violento per poter determinare una linea di azione di qualsiasi tipo, strisciai nuovamente fino al mio letto: abbandonando la regola di una vita di
prendere le cose dal loro lato migliore, di essere forte, pratica
e allegra, tornai a crogiolarmi nel mio dolore e nella sensazione di tradimento che mi opprimeva.
Quando mi svegliai era di nuovo buio e Bill era a letto
con me. Rendendo grazie a Dio, fui sopraffatta dal sollievo,
certa che adesso tutto sarebbe andato per il meglio. Sentendo
il suo corpo freddo contro la mia schiena, mi rigirai, ancora
sonnacchiosa, per abbracciarlo. Lui sollevò la mia lunga camicia da notte di nylon e mi accarezzò una gamba mentre io
appoggiavo la testa sul suo petto silenzioso. Poi le sue braccia mi strinsero, avvicinandoci; con un sospiro di gioia, insinuai una mano fra noi per slacciargli i pantaloni. Tutto era
tornato alla normalità.
Però lui aveva un odore diverso.
Spalancai gli occhi di colpo e con uno strilletto inorridito
spinsi per allontanarmi da quelle spalle dure come la roccia.
«Sono io», disse una voce familiare.
«Eric, che ci fai qui?».
«Ti sto coccolando».
«Figlio di buona donna! Credevo che fossi Bill! Credevo
che fosse tornato!».
«Sookie, hai bisogno di una doccia».
«Cosa?».
«Hai i capelli sporchi e il tuo alito potrebbe uccidere un
cavallo».
«Non m'importa di quello che pensi», dichiarai secca.
«Va' a ripulirti».
«Perché?».
«Perché dobbiamo parlare e sono certo che non vuoi sostenere una lunga conversazione a letto. Non che io abbia
qualche obiezione a trovarmi a letto con te», continuò, premendosi contro di me per dimostrarmi quanto fossero scarse
le sue obiezioni al riguardo, «ma mi piacerebbe di più se con
me ci fosse la Sookie così attenta all'igiene che ho imparato a
conoscere».
Probabilmente nessun'altro discorso mi avrebbe fatto alzare dal letto più in fretta di come feci. La doccia bollente risultò meravigliosa sul mio corpo freddo e la rabbia che provavo provvide a riscaldarmi interiormente. Non era la prima
volta che Eric mi coglieva di sorpresa a casa mia e avrei dovuto annullare il suo permesso a entrare. Finora mi aveva
trattenuta dal ricorrere a quella drastica misura il pensiero
che, se mai avessi avuto bisogno di aiuto e lui non fosse stato
in grado di entrare, sarei potuta morire prima di avere il tempo di gridare «Entra!».
Mi ero rifugiata in bagno portando con me i jeans, la
biancheria intima e un maglione natalizio rosso e verde decorato con alcune renne, perché erano stati i primi indumenti
che avevo trovato nei cassetti. Abbiamo soltanto un mese per
indossare quei dannati arnesi, quindi cercavo di sfruttarlo al
massimo. Con il phon mi asciugai i capelli, desiderando che
Bill fosse là a spazzolarmeli, una cosa che a lui piaceva molto e che a me piaceva lasciargli fare. Quel ricordo per poco
non mi fece crollare di nuovo, ma rimasi ferma per un lungo
momento con la testa appoggiata alla parete per richiamare
la mia determinazione.
Dopo un lungo respiro, mi girai verso lo specchio per
truccarmi un po'. La mia abbronzatura non era più granché, a
inverno così inoltrato, ma, grazie ai lettini abbronzanti del
Bon Temps Video Rental, la mia pelle aveva ancora un bel
colorito.
Io sono una persona che adora l'estate, il sole, i vestiti
corti e la sensazione di avere a disposizione molte ore di luce
per fare tutto quello che vuole. Perfino Bill amava gli aromi
dell'estate, il profumo della crema abbronzante e (così mi
aveva detto) amava sentire sulla mia pelle l'odore stesso del
sole.
La parte migliore dell'inverno consisteva però nelle notti
molto più lunghe... o almeno così avevo pensato finché Bill
le aveva trascorse con me. Scagliai la spazzola per i capelli
lontano e il suo rumore nel cozzare contro la vasca mi appagò. «Razza di bastardo!», urlai con quanto fiato avevo, e
udire dalla mia voce una cosa del genere riuscì a calmarmi
come niente altro avrebbe potuto fare.
Quando uscii dal bagno, Eric era completamente vestito.
Indossava una T-shirt di una delle ditte di birra che riforniva-
no il Fangtasia (completa della scritta «Questo Sangue E' Per
Te») e dei jeans, ed era stato così premuroso da rifare il letto.
«Pam e Chow possono entrare?», chiese.
Attraverso il salotto giunsi alla porta d'ingresso e l'aprii: i
due vampiri erano seduti in silenzio sul dondolo del portico,
immersi in quello che io definivo come stato di animazione
rallentata. Quando non hanno niente di particolare da fare, i
vampiri si disattivano, si ritirano in se stessi e rimangono del
tutto immobili, seduti o in piedi che siano, con gli occhi
aperti ma vacui, una condizione che pare ristorarli.
«Prego, entrate», dissi.
Pam e Chow avanzarono lentamente, guardandosi intorno con interesse, come se fossero stati in gita scolastica. La
casa era una fattoria della Louisiana e apparteneva alla mia
famiglia fin dalla sua fondazione, centosessan- t'anni prima.
Quando mio fratello Jason era andato a vivere per conto suo,
trasferendosi nel villino che i miei genitori avevano costruito
prima di sposarsi, ci ero rimasta con la nonna, in quel casale
molto modificato e rinnovato, che lei mi aveva poi lasciato
in eredità.
La casa originale occupava l'attuale salotto e altre aggiunte, come la cucina e il bagno, erano relativamente nuove.
Il piano superiore, molto più piccolo del pianterreno, era stato costruito nei primi del Novecento per fare posto a una generazione di bambini che erano sopravvissuti tutti, però di
sopra ci salivo raramente perché d'estate faceva un caldo
spaventoso, nonostante i condizionatori.
L'arredamento era vecchio, privo di stile ma comodo...
assolutamente convenzionale. Nel salotto c'erano divani e
poltrone, un televisore e un VCR; da lì si passava nel corridoio, su cui si affacciavano la mia camera matrimoniale con
il suo bagno, su un lato, e un altro bagno e la mia vecchia camera da letto, più alcuni ripostigli per lenzuola e cappotti,
sull'altro. Oltre, si raggiungeva la zona della cucina/sala da
pranzo, che era stata aggiunta in seguito al matrimonio dei
miei nonni. La cucina dava su un grande portico coperto, che
avevo da poco chiuso con le zanzariere e che ospitava un'utile, vecchia panca, la lavatrice-asciugatrice e alcuni scaffali.
In ogni stanza c'erano un ventilatore a soffitto e uno scacciamosche appeso a un chiodino dove non desse nell'occhio,
perché la nonna rifiutava di accendere il condizionatore a
meno di non esserci costretta.
Pam e Chow non si avventurarono al piano di sopra, ma
non si lasciarono sfuggire alcun dettaglio del pianterreno.
Quando infine si sedettero al vecchio tavolo di pino a cui
gli Stackhouse mangiavano da qualche generazione, ebbi
l'impressione di vivere in un museo il cui contenuto fosse appena stato catalogato. Aperto il frigorifero, tirai fuori tre bottiglie di TrueBlood, le riscaldai nel microonde, le agitai per
bene e le piazzai sulla tavola davanti ai miei ospiti.
Chow era per me ancora praticamente uno sconosciuto,
dal momento che lavorava al Fangtasia solo da alcuni mesi, e
supponevo che avesse acquistato una quota del locale, come
il precedente barista. Il suo corpo sfoggiava tatuaggi incredi-
bili, di quel genere asiatico blu cupo estremamente intricato
che li fa apparire come una sorta di bizzarri indumenti. Erano talmente diversi dalle decorazioni da carcerato del mio
assalitore da rendere difficile credere che si trattasse della
stessa forma d'arte. Mi era stato detto che erano quelli della
Yakuza, ma non avevo mai avuto il coraggio di chiedergliene
conferma, soprattutto perché non erano affari miei. Tuttavia,
se fosse stato davvero così, allora Chow non era un vampiro
molto antico, perché da una ricerca sulla Yakuza avevo appreso che i tatuaggi appartenevano a una fase (relativamente)
recente della lunga storia di quell'organizzazione criminale.
Chow aveva lunghi capelli neri (il che non sorprendeva) e
avevo sentito dire da molte fonti che era una grande attrazione del Fangtasia, visto che in genere lavorava a torso nudo.
Quella sera, come concessione al freddo, indossava un giubbotto rosso con la zip.
Mentre lo guardavo non potei fare a meno di domandarmi se, con quel corpo completamente tatuato, si sentisse mai
davvero nudo. Avrei voluto chiederglielo, ma naturalmente
era fuori discussione: lui era la sola persona di origine asiatica che avessi mai incontrato e, pur sapendo che i singoli individui non rappresentano tutta la loro razza, ci si aspetta che
almeno alcune generalizzazioni siano valide. Chow infatti
sembrava avere un forte senso della privacy, anche se era tutt'altro che silenzioso e imperscrutabile a giudicare da come
stava chiacchierando con Pam, peraltro in una lingua che non
ero in grado di capire. E continuava a sorridermi in maniera
davvero sconcertante... D'accordo, forse era tutt'altro che imperscrutabile, forse mi stava insultando a più non posso e io
ero troppo stupida per accorgermene.
Come sempre, l'abbigliamento di Pam rientrava nell'anonimità medioborghese. Quella sera portava un paio di pantaloni invernali di maglina bianca e un pullover azzurro, con i
luminosi capelli che le ricadevano dritti lungo la schiena.
Sembrava Alice nel Paese delle Meraviglie dotata di canini
vampireschi.
«Avete scoperto qualche altra cosa riguardo a Bill?»,
chiesi dopo che ebbero bevuto il loro drink.
«Qualcosa», rispose Eric.
Incrociai le mani in grembo e attesi.
«So che Bill è stato rapito», precisò. Per un secondo, la
stanza prese a vorticare intorno a me e solo un profondo respiro la costrinse a fermarsi.
«Da chi?», domandai.
«Non lo sappiamo con certezza», mi rispose Chow, «perché i testimoni non sono concordi». Parlava con un forte accento, ma in modo molto chiaro.
«Lasciatemi parlare con loro», suggerii. «Se sono umani,
scoprirò chi è stato».
«Sarebbe la cosa più logica se fossero sotto la nostra autorità», convenne Eric, «ma purtroppo non è cosi».
Autorità un accidente, pensai. «Per favore, spiegati», replicai ad alta voce. Considerate le circostanze, stavo di certo
dimostrando una pazienza straordinaria.
«Questi umani devono fedeltà al re del Mississippi».
Ero consapevole che la mia bocca si stava lentamente
spalancando, ma mi sembrava di essere incapace di arrestarne il movimento. «Chiedo scusa», dissi poi, «ma avrei potuto
giurare che tu avessi detto... il re... del Mississippi?».
Eric annuì senza un accenno di sorriso.
Abbassai lo sguardo cercando di rimanere impassibile in
volto, ma avvertivo che la mia bocca si torceva in una risata
perfino in quelle circostanze. «Parli sul serio?», non potei
trattenermi dal chiedere. Non so perché mi sembrasse ancora
più buffo che il Mississippi avesse un re, considerato che in
fondo la Louisiana aveva una regina, ma era così. Ricordai
che non si supponeva che sapessi dell'esistenza della regina e
mi controllai.
I vampiri intanto, dopo essersi scambiati uno sguardo,
annuirono all'unisono.
«E tu sei il re della Louisiana?», domandai a Eric, con la
testa che girava per lo sforzo di riordinare tutte quelle storie
diverse. Stavo sganasciandomi, forse un po' isterica, e a stento riuscivo a rimanere sulla sedia.
«Oh, no», replicò. «Io sono lo sceriffo dell'Area 5».
Colpita e affondata: ormai ridevo fino alle lacrime... e
Chow cominciò a mostrarsi a disagio. Alla fine mi alzai e mi
preparai una cioccolata calda al microonde, rigirandola poi
con un cucchiaino per farla raffreddare. Quella piccola operazione mi diede modo di calmarmi e tornando a sedermi al
tavolo ero di nuovo quasi seria.
«Non me ne avevi mai parlato», affermai, a mo' di spiegazione. «Avete diviso voi l'America in regni, giusto?».
Pam e Chow si girarono a fissare Eric con una certa sorpresa, ma lui non li degnò di uno sguardo. «Sì», confermò
con semplicità. «E' così da quando i vampiri sono arrivati in
America. Naturalmente, nel corso degli anni il sistema è
cambiato con l'aumentare della popolazione. Nel corso dei
primi duecento anni, non c'erano molti vampiri perché il
viaggio era pericoloso: era difficile sopravvivere alla traversata con le scorte di sangue disponibili». Parlava della ciurma, naturalmente. «Inoltre, l'Acquisto della Louisiana ha fatto una grande differenza».
Pensando a quanto fosse ovvio, mi costrinsi a reprimere
un'altra ondata di risate. «E i regni sono divisi in...», incalzai.
«Aree. Una volta venivano chiamate feudi, finché non
abbiamo deciso che quella terminologia era diventata obsoleta. Come sai, noi viviamo nell'Area 5 del regno della Louisiana. E Stan, a cui hai fatto visita a Dallas, è lo sceriffo dell'Area 6, nel regno del... in Texas».
Immaginai Eric nei panni dello Sceriffo di Nottingham;
poi, quando questo smise di divertirmi, lo visualizzai come
Wyatt Earp, segno che ero decisamente sul punto di dare i
numeri, oltre a sentirmi fisicamente male. Alla fine, m'imposi di rimuovere la mia reazione a quelle informazioni e di focalizzarmi sul vero problema. «Quindi Bill è stato rapito in
pieno giorno?», domandai.
Da tutti mi giunsero cenni di assenso.
«Di questo rapimento sono stati testimoni alcuni umani
che vivono nel regno del Mississippi», sintetizzai (ma adoravo il suono di quell'espressione). «E loro sono sotto il governo di un re vampiro, giusto?».
«Russell Edgington. Sì, vivono nel suo regno, ma alcuni
di loro ci forniranno le informazioni. A pagamento».
«E questo re non ti permetterà di interrogarli?».
«Non glielo abbiamo ancora chiesto. E' possibile che Bill
sia stato preso per ordine suo».
Questo dava la stura a tutta una nuova messe di domande, ma mi costrinsi a rimanere concentrata sul problema centrale. «Come posso arrivare fino a loro? Sempre supponendo
che io voglia farlo, naturalmente».
«Abbiamo pensato a un modo tramite cui tu potresti riuscire a raccogliere informazioni dagli umani dell'area in cui
Bill è stato rapito», rispose Eric. «Non mi riferisco soltanto a
quelli che ho corrotto per sapere che sta succedendo laggiù,
ma anche alle persone che hanno a che fare con Russell. E'
un bel rischio ed è perché riesca che ti ho dovuto raccontare
queste cose. Sempre che tu sia disposta a collaborare, visto
che qualcuno ha già cercato di aggredirti. Sembra che chi ha
preso Bill non abbia ancora molte informazioni sul tuo conto, ma presto Bill parlerà e se tu dovessi trovarti a portata di
mano quando alla fine cederà, ti prenderanno».
«Se lui dovesse cedere, non avranno più bisogno di me»,
ribattei.
«Questo non è necessariamente vero», intervenne Pam.
Fra i tre ci fu un altro enigmatico scambio di occhiate.
«Ditemela tutta», dissi mentre mi alzavo a prendere dell'altro sangue perché mi ero accorta che Chow aveva finito il
suo.
«Stando a quanto riferisce la gente di Russell Edgington, pare che Betty Jo Pickard, la comandante in seconda di
Edgington, dovesse recarsi ieri in volo a St. Louis, ma gli
umani incaricati di prelevare la sua bara hanno invece preso
per sbaglio quella di Bill, identica. Quando l'hanno consegnata nell'hangar dell'Anubis Airlines, l'hanno lasciata priva
di sorveglianza per non più di dieci minuti, mentre compilavano i necessari documenti. Secondo loro, in quell'arco di
tempo qualcuno ha portato fuori dal retro dell'hangar la bara,
che era su una sorta di carrello, l'ha caricata su un furgone e
se ne è andato».
«Qualcuno in grado di aggirare le misure di sicurezza
dell'Anubis», osservai, in tono decisamente dubbioso. Le
Anubis Airlines erano state create per trasportare sani e salvi
i vampiri sia di giorno che di notte, e la garanzia di rigide
misure di sicurezza a protezione della bara dei dormienti
aveva costituito il punto forte della loro pubblicità. Naturalmente, non c'era obbligo di usare una bara, anche se di certo
così la spedizione era più facile. Alcuni vampiri che avevano
provato a volare con la compagnia Delta erano andati incontro a sfortunati "incidenti": dei fanatici erano riusciti a insinuarsi nella stiva e ad aprire un paio di bare a colpi di ascia;
anche la Northwest era incorsa nello stesso problema e d'un
tratto per i non-morti risparmiare sul biglietto non era parsa
più una prospettiva tanto attraente, per cui adesso volavano
quasi esclusivamente con la Anubis.
«Sto pensando che qualcuno si sarebbe potuto mescolare
alla gente di Edgington... qualcuno che i dipendenti dell'Anubis credevano essere al suo servizio e che gli uomini di
Edgington ritenevano essere un dipendente della Anubis.
Questa persona avrebbe potuto portare fuori Bill non appena
la gente di Edgington si è allontanata, senza che le guardie ci
trovassero nulla di strano», continuò Eric.
«E i dipendenti dell'Anubis non hanno chiesto di vedere i
documenti di una bara in partenza?».
«Loro sostengono di averli visti e che erano quelli di Betty Jo Pickard, diretta nel Missouri per negoziare le condizioni di un trattato commerciale con i vampiri di St. Louis». Rimasi interdetta, chiedendomi cosa mai i vampiri del Mississippi potessero voler commerciare con i vampiri del Missouri, ma decisi che non ci tenevo a saperlo.
«In quel frangente», continuò Pam, «c'è stata anche
un'ulteriore causa di confusione: un incendio scoppiato sotto
la coda di un altro aereo dell'Anubis ha distratto l'attenzione
delle guardie».
«Oh, un evento volutamente accidentale», commentai
sarcastica.
«E' quello che penso», convenne Chow.
«Ma perché qualcuno può aver voluto rapire Bill?», chiesi, anche se temevo di saperlo. In realtà, stavo sperando che
mi fornissero una motivazione di altro tipo, mentre rendevo
grazie a Dio per il fatto che Bill fosse stato previdente.
«Bill stava lavorando a un piccolo progetto speciale», affermò Eric, fissandomi in volto. «Tu ne sai qualcosa?».
Ne sapevo più di quanto desiderassi e meno di quanto
avrei dovuto, ma dissi: «Quale progetto?». Avevo passato la
vita a nascondere i miei pensieri e adesso feci appello a quel
talento acquisito, perché l'esistenza di qualcuno dipendeva
dalla mia sincerità.
Lo sguardo di Eric volò su Pam e poi su Chow, e dopo
che entrambi ebbero reagito con un segnale appena percettibile lui tornò a fissarmi.
«Questo è un po' difficile da credere, Sookie», disse.
«Come sarebbe?», ribattei, con l'ira che mi affiorava nella voce: se ti mettono in dubbio, è meglio attaccare. «Quando
mai uno qualsiasi di voi si è degnato di confidare le proprie
emozioni a un umano? E Bill è decisamente uno di voi»,
conclusi, infondendo in quelle parole tutta l'acredine di cui
ero capace.
Ci fu un nuovo scambio di occhiate.
«Pensi di poterci far credere che Bill non ti abbia detto a
cosa stava lavorando?».
«Sì, lo penso perché non me l'ha detto», ribadii, omettendo che lo avevo più o meno dedotto da sola.
«Ecco cosa intendo fare», affermò infine Eric, fissandomi dal lato opposto del tavolo con gli occhi azzurri ora duri
come il marmo e altrettanto freddi. Il momento di giocare al
Simpatico Vampiro era finito. «Non sono in grado di determinare se tu stia mentendo o meno, il che è notevole. Nel tuo
interesse, spero che tu stia dicendo la verità. Potrei torturarti
fino a fartela dire o fino ad avere la certezza che tu sia stata
davvero sincera».
Oh, cielo. Dopo un profondo respiro, cercai di pensare a
una preghiera adeguata. Dio, fa' che io non urli troppo forte
mi sembrava una formula debole e negativa, senza contare
che, per quanto avessi urlato forte, intorno non c'era nessuno
che mi potesse sentire, a parte quei vampiri. Se mai fosse venuto il momento, quindi, tanto valeva che mi concedessi di
urlare a più non posso.
«Tuttavia», preseguì Eric in tono pensoso, «una cosa del
genere potrebbe danneggiarti al punto da compromettere l'altra parte del mio piano. D'altronde, in realtà non fa poi molta
differenza che tu sappia o meno quello che Bill stava facendo dietro le nostre spalle».
Dietro le loro spalle? Oh, merda! Adesso sapevo a chi
dare la colpa del pericolo che stavo correndo. Al mio caro
amore, Bill Compton.
«Questo ha provocato una reazione», osservò Pam.
«Ma non quella che mi aspettavo», replicò lentamente
Eric.
«Non mi sorride molto l'opzione tortura», dissi. Ero nei
guai fino al collo e talmente sovraccarica di tensione da avere l'impressione che la mia testa stesse fluttuando da qualche
parte, al di sopra del corpo. «E poi sento la mancanza di
Bill», aggiunsi. Era vero, anche se in quel momento mi sarei
volentieri presa a calci da sola per questo: sentivo la sua
mancanza, e se solo avessi potuto avere a disposizione dieci
minuti per parlare con lui sarei stata molto più preparata a
fronteggiare i giorni che mi aspettavano. Le lacrime presero
a solcarmi il volto, ma sapevo che c'era dell'altro che dovevano dirmi, altro che dovevo ascoltare, che lo volessi o
meno. «Se lo sai, mi aspetto che tu mi dica perché Bill ha
mentito riguardo a questo viaggio», affermai. «Pam ha accennato a delle cattive notizie».
Eric si girò a guardare verso Pam con occhi tutt'altro che
amorevoli.
«Sta gocciolando di nuovo», osservò Pam, che sembrava un po' a disagio. «Credo che debba sapere la verità, prima
di andare nel Mississippi. Inoltre, se sta custodendo dei segreti per conto di Bill, questo la...».
La indurrà a vuotare il sacco? Annullerà la lealtà che prova nei suoi confronti? La costringerà a rendersi conto che ci
deve dire tutto?
Era evidente che Eric e Chow erano stati invece dell'idea
di tenermi all'oscuro. Non poco irritati con lei per avermi lasciato intuire qualcosa che si supponeva io ignorassi, e cioè
che le cose non andavano bene fra Bill e me, la fissarono per
un lungo minuto, poi Eric annuì con un gesto secco.
«Tu e Chow aspettate fuori», disse a Pam. Lei lo trafisse
con lo sguardo, ma uscì insieme a Chow lasciando sul tavolo
le bottiglie vuote senza una parola di ringraziamento e senza
nemmeno sciacquarle. Nel riflettere sulle cattive maniere dei
vampiri, sentii la testa che mi girava sempre di più e le palpebre sfarfallare, e mi sorse il sospetto di essere sul punto di
svenire. Non sono una di quelle ragazze fragili che svengono
per ogni piccola cosa, ma in quel momento mi sentivo più
che giustificata. O forse non avevo mangiato niente da oltre
ventiquattr'ore.
«Non ci provare», ingiunse Eric, deciso. Io lo fissai e
cercai di concentrarmi sul suono della sua voce, poi annuii
per indicare che stavo facendo del mio meglio.
Fece il giro del tavolo, rivolgendo la sedia di Pam verso
di me, molto vicina, poi si sedette e si protese a coprire con
la sua grande mano bianca le mie, ripiegate in grembo: se
avesse accentuato la stretta avrebbe potuto schiacciarmi tutte
le dita, e io non avrei mai più potuto lavorare come cameriera.
«Non mi piace vedere che hai paura di me», affermò, il
suo volto troppo vicino al mio. Potevo avvertire il profumo
della sua acqua di colonia... credo fosse Ulysse. «Mi sei sempre piaciuta molto».
Il che significava che aveva sempre desiderato fare sesso
con me.
«E in più, voglio scoparti», aggiunse con un sorriso che
però, in quel frangente, non ebbe su di me il minimo effetto.
«Quando ci baciamo... è molto eccitante». Ci eravamo baciati nello svolgimento del nostro dovere, per così dire, e non
per divertimento, ma era stato effettivamente eccitante. E
come avrebbe potuto non esserlo? Lui era stupendo e aveva
avuto a disposizione parecchie centinaia di anni per affinare
la sua tecnica di sbaciucchiamento.
Si accostava sempre più. Non avrei saputo dire se intendeva mordermi o baciarmi, ma i suoi canini si erano allungati, segno che era infuriato, eccitato oppure affamato, o tutte e
tre le cose insieme. I neovampiri avevano la tendenza a biascicare nel parlare finché non si abituavano ai canini, ma con
Eric non si notavano: aveva avuto secoli per perfezionare anche quella tecnica.
«Non so perché, ma quel progetto di torturarmi non mi
ha fatta sentire molto sexy», gli dissi.
«Però ha avuto effetto su Chow», mi sussurrò lui.
Avrei dovuto tremare, invece non mi accadde. «Puoi venire al sodo?», domandai. «Hai intenzione di torturarmi oppure no? Sei un mio amico o un mio nemico? Hai intenzione
di ritrovare Bill oppure vuoi lasciarlo marcire dove si
trova?».
Eric scoppiò in una risata breve e priva di divertimento,
ma che momentaneamente interruppe il suo avvicinamento.
«Sookie, sei davvero diretta», commentò, dando però l'impressione di non trovare la cosa particolarmente piacevole.
«Non intendo torturarti. Tanto per cominciare, odio dover rovinare la tua splendida pelle. Un giorno riuscirò a vederla
tutta».
Mi augurai che la vedesse ancora attaccata al mio corpo,
quando questo fosse successo.
«Non avrai sempre così tanta paura di me», continuò,
come se fosse stato assolutamente certo del futuro, «e non
sarai sempre devota a Bill come adesso. C'è qualcosa che ti
devo dire».
Ecco che arrivava la Grossa Brutta Notizia. Le sue dita
fredde s'intrecciarono alle mie e involontariamente strinsi
con forza la sua mano, mentre cercavo invano qualcosa da
dire, o almeno qualcosa che non fosse pericoloso. Il mio
sguardo era fisso sul suo.
«Bill è stato convocato nel Mississippi da un vampiro,
una femmina, che ha conosciuto molti anni fa», proseguì
Eric. «Non so se ti sei resa conto che i vampiri non si accoppiano quasi mai con altri vampiri, salvo qualche rara storia di
una notte. Non lo facciamo perché l'accoppiamento e la condivisione del sangue ci conferiscono potere gli uni sugli altri.
Questa vampira...».
«Voglio il suo nome», dissi.
«Lorena», rispose lui con riluttanza... o forse era stata
sua intenzione dirmelo fin dall'inizio e si fingeva solo riluttante. Come diavolo si fa a saperlo, con un vampiro? Poi attese che replicassi, ma non lo feci.
«Lei si trovava in Mississippi, ma non so con certezza se
vi ci sia stabilita o se ci sia andata per intrappolare Bill. So
che ha abitato per molti anni a Seattle, perché è là che lei e
Bill hanno a lungo convissuto». Mi ero chiesta perché avesse
scelto proprio Seattle come destinazione fittizia e, a quanto
pareva, non era proprio un nome a caso. «Ma quali che siano
state le intenzioni con cui lei gli ha chiesto di raggiungerlo
laggiù... quali che siano state le scuse che ha fornito per non
venire lei qui... forse lui ha solo cercato di proteggere te...».
In quel momento desiderai morire. Abbassai lo sguardo
sulle nostre mani intrecciate, troppo umiliata per affrontare
gli occhi di Eric.
«Lei lo ha immediatamente ammaliato di nuovo e dopo
poche notti lui ha chiamato Pam per dirle che sarebbe tornato
a casa in anticipo senza informarti, in modo da poter provvedere al tuo futuro prima di rivederti».
«Provvedere al mio futuro?», ripetei con voce da cornacchia.
«Bill voleva provvedere a te economicamente».
Sbiancai per lo shock. «Voleva liquidarmi con una pensione», bofonchiai stordita. Nonostante le sue buone intenzioni, Bill non avrebbe potuto offendermi maggiormente.
Quando era stato parte della mia vita, non gli era mai passato
per la mente di chiedermi come me la stessi cavando finanziariamente... anche se era stato addirittura impaziente di aiutare i Bellefleur, dopo aver scoperto che erano suoi discendenti.
Adesso, invece, nell'uscire dalla mia vita si sentiva colpevole all'idea di lasciare la povera, misera sottoscritta... e aveva cominciato a preoccuparsi per me.
«Lui voleva...», cominciò Eric, poi s'interruppe, mi fissò
e riprese: «Bene, per ora lasciamo perdere. Se Pam non avesse interferito, non te ne avrei parlato e ti avrei lasciata partire
del tutto inconspevole. Non sarebbero state parole uscite dalla mia bocca a farti tanto male, e non avrei dovuto supplicarti, come ora invece mi toccherà fare».
Mi costrinsi ad ascoltare, aggrappandomi alla sua mano
come a un'ancora di salvezza.
«E' proprio quello che sto facendo, Sookie... e devi anche
capire che ne va della mia pelle...».
Lo fissai dritta e gli fu chiara la mia sorpresa.
«Sì, ne dipendono il mio lavoro e forse anche la mia vita,
Sookie... non solo la tua e quella di Bill. Domani ti manderò
un contatto, uno che vive a Shreveport ma ha un secondo appartamento a Jackson e degli amici all'interno della locale
comunità di vampiri, mutaforme e mannari. Tramite lui, potrai incontrarne alcuni, e i loro dipendenti umani».
Per quanto fossi fuori di testa, nel ripensarci mi parve di
aver capito tutto, quindi annuii. Le sue dita accarezzarono ripetutamente le mie.
«Quest'uomo è un mannaro, quindi è feccia», aggiunse
con indifferenza, «ma è più affidabile di altri e mi deve un
grosso favore personale».
Assimilai anche quell'informazione e tornai ad annuire.
Le lunghe dita di Eric sembravano quasi calde.
«Lui ti permetterà di frequentare la comunità dei vampiri
di Jackson, mettendoti in condizione di sondare la mente dei
dipendenti umani. So che stiamo sparando alla cieca, ma se
c'è qualcosa da scoprire, se Russell Edgington ha davvero
fatto rapire Bill, tu potresti cogliere qualche accenno. L'uomo che ha cercato di rapirti veniva da Jackson, a giudicare
dagli scontrini che aveva in macchina, e la testa di lupo sul
suo giubbotto indica che era un mannaro. Non so perché ti
stiano dando la caccia, ma ho il sospetto che Bill sia vivo e
che vogliano prenderti e usarti per far leva su di lui».
«Forse avrebbero dovuto rapire Lorena», commentai.
«Magari l'hanno già fatto», ribatté. «E magari Bill si è
reso conto che è stata Lorena a tradirlo: non lo avrebbero
mai rapito, se lei non avesse rivelato il segreto che le aveva
confidato».
Ci riflettei sopra, poi annuii di nuovo.
«Un altro enigma è come mai lei si trovava là», continuò
Eric. «Se fosse diventata un membro del gruppo del Mississippi credo che sarei venuto a saperlo. Comunque, ci rifletterò nel tempo libero». A giudicare dalla sua espressione cupa,
su quell'interrogativo ci aveva già abbondantemente riflettuto. «Se questo piano non dovesse funzionare nell'arco di tre
giorni, Sookie, potremmo dover rapire a nostra volta uno dei
vampiri del Mississippi. .. un'azione costosa in termini di vite
e di denaro, perché corrisponderebbe a una dichiarazione di
guerra. E comunque ucciderebbero Bill».
D'accordo, il peso del mondo si era appena depositato
sulle mie spalle. Grazie, Eric, avevo davvero bisogno di altra
responsabilità e di altra pressione.
«Però sappi questo: se loro hanno Bill, e se è ancora
vivo, lo riporteremo indietro e starete di nuovo insieme, se è
questo che vuoi».
Grandi se.
«Per rispondere alla tua domanda: io ti sono amico e così
sarà finché questo non metterà in pericolo la mia vita, o il futuro della mia area».
Bene, questo era parlare chiaro. Apprezzai la sua onestà.
«Vuoi dire che mi sarai amico finché ti farà comodo», precisai con calma, sapendo che ero ingiusta e imprecisa, ma mi
parve comunque strano che quella mia interpretazione della
sua personalità paresse dargli effettivamente fastidio. «Eric»,
aggiunsi, «permettimi di chiederti una cosa».
Lui inarcò un sopracciglio per indicare che stava aspettando che parlassi e intanto le sue mani presero a scorrere su
e giù per le mie braccia, distrattamente, come se non fosse
concentrato su ciò che faceva... un movimento che mi fece
pensare a quello di un uomo che si scaldasse le mani davanti
a un fuoco.
«Se ho capito bene quello che hai detto, Bill stava lavorando a un progetto...», una risata sfrenata mi sorse dentro,
ma la troncai sul nascere, «per la regina della Louisiana»,
conclusi. «Tu però non ne sapevi nulla. E' esatto?».
Eric mi fissò per un lungo momento, mentre rifletteva su
cosa poteva rivelarmi. «Lei mi ha detto di avere un lavoro
per Bill», spiegò infine, «ma non mi ha spiegato di cosa si
trattasse, né perché dovesse essere proprio lui a svolgerlo o
quando sarebbe stato ultimato».
Vedersi requisire in quel modo un proprio sottoposto
avrebbe seccato qualsiasi capo, soprattutto se veniva tenuto
all'oscuro di tutto. «Allora perché questa regina non sta cercando Bill?», domandai, badando a mantenere un tono di
voce accuratamente neutro.
«Lei non sa che è scomparso».
«E perché mai?».
«Non glielo abbiamo detto».
«Perché?», insistetti, dicendomi che presto o tardi Eric
avrebbe smesso di rispondermi.
«Ci punirebbe».
«Perché?», reiterai. Cominciavo a sembrare una bambina
di due anni.
«Per aver lasciato che succedesse qualcosa a Bill mentre
era impegnato in un progetto speciale per lei».
«E di che natura sarebbe la punizione?».
«Oh, con lei è difficile dirlo», replicò Eric, con una risata
soffocata. «Qualcosa di molto spiacevole».
Ormai mi era tanto vicino che il suo volto quasi mi sfiorava i capelli, inalandone l'aroma con estrema delicatezza.
Pur avendo una vista estremamente acuta, i vampiri fanno
più affidamento su odorato e udito, e, poiché aveva bevuto il
mio sangue, Eric era in grado di decifrare le mie emozioni
meglio di un vampiro che non lo avesse fatto. Tutti i succhiasangue studiano il sistema emotivo umano, perché i migliori
predatori sono quelli che conoscono le abitudini delle loro
prede.
Poi Eric mi accarezzò la guancia con la sua, godendo di
quel contatto come un gatto.
«Eric», dissi, pensando che mi aveva in realtà fornito più
informazioni di quanto supponesse.
«Mmmh?».
«Sul serio, cosa credi che ti farà la regina se non riuscirai
a riavere Bill alla data prevista per la consegna di quel progetto?».
Come speravo, finalmente Eric si scostò per fissarmi e il
suo sguardo, più azzurro del mio, era duro e gelido come la
banchisa artica.
«Sookie, ti garantisco che non vorresti saperlo», ribatté.
«Fornire il risultato del suo lavoro sarebbe sufficiente. La
presenza di Bill sarebbe un bonus aggiuntivo».
«E cosa otterrò in cambio, se farò questo per te?», domandai, sostenendo il suo sguardo con occhi freddi quasi
quanto i suoi.
Eric riuscì ad apparire sorpreso e compiaciuto. «Se Pam
non ti avesse lasciato intuire quelle cose sul conto di Bill, il
suo ritorno sano e salvo sarebbe stato una ricompensa suffi-
ciente e tu ti saresti fiondata ad aiutarci a ritrovarlo», mi
rammentò.
«Adesso però so di Lorena».
«E pur sapendolo, acconsenti a fare questo per noi?».
«Sì, ma a una condizione».
«E quale sarebbe?», chiese Eric, guardingo.
«Se mi dovesse succedere qualcosa, voglio che tu la tolga di mezzo».
Mi fissò a bocca aperta per almeno un intero secondo prima di scoppiare in una fragorosa risata. «Mi costerebbe una
multa salatissima», replicò quando riprese fiato, «e comunque prima ci dovrei riuscire, il che è più facile a dirsi che a
farsi. Lei ha trecent'anni».
«Mi hai detto che quello che ti succederà se questa faccenda non dovesse risolversi al meglio sarà decisamente orribile», gli ricordai a mia volta.
«E' vero».
«E hai affermato di avere un disperato bisogno che faccia
questo per te».
«Verissimo».
«Questo è ciò che io chiedo in cambio».
«Potresti diventare un vampiro di tutto rispetto, Sookie»,
dichiarò infine Eric. «D'accordo, affare fatto. Se dovesse
succederti qualcosa, lei non se la farà mai più con Bill».
«Oh, non si tratta solo di quello».
«No?», commentò Eric, che appariva giustamente molto
scettico.
«E' perché lei lo ha tradito».
I duri occhi azzurri di Eric mi fissarono dritti. «Dimmi
una cosa, Sookie: me lo chiederesti se lei fosse un'umana?»,
domandò.
La sua ampia bocca dalle labbra sottili, che aveva in genere un'espressione divertita, era tesa in una linea seria e severa.
«Se fosse un'umana, me ne occuperei di persona», ribattei, alzandomi per accompagnarlo alla porta.
Dopo che la macchina di Eric si fu allontanata, mi appoggiai al battente, abbandonando la guancia contro il legno
e chiedendomi se pensavo davvero quello che gli avevo detto. Da parecchio mi stavo domandando se fossi proprio la
persona civile che mi sforzavo di essere. Sapevo benissimo
quanto fossi seria mentre dicevo che mi sarei occupata personalmente di Lorena, perché dentro di me c'era qualcosa di
decisamente selvaggio che avevo sempre tenuto sotto controllo. Dopo tutto, mia nonna non mi aveva educato per diventare un'assassina.
Mentre percorrevo a passo stanco il corridoio, diretta
verso la mia camera da letto, mi resi conto che, fin da quando avevo fatto la conoscenza dei vampiri, l'ira stava affiorando sempre più dentro di me, ma non riuscii a capire da cosa
dipendesse. Loro esercitavano un tremendo autocontrollo su
loro stessi, quindi perché il mio invece avrebbe dovuto cominciare a venire meno?
Per quella notte non era il caso di continuare con l'esame
introspettivo. Dovevo pensare all'indomani.
Capitolo quarto
Dal momento che pareva proprio che sarei andata fuori
città, avevo del bucato da fare e delle cose nel frigorifero da
buttare. Nelle precedenti ventiquattr'ore ero stata a letto così
a lungo che non mi sentivo particolarmente assonnata, quindi
tirai fuori la valigia, l'aprii e ficcai alcuni vestiti nella lavatrice sul gelido portico posteriore. Non volevo più soffermarmi
a riflettere sul mio carattere. Avevo una quantità di altre cose
su cui rimuginare.
Eric aveva indubbiamente sferrato un attacco su tutti i
fronti per piegarmi alla sua volontà, bombardandomi con tutti i mezzi perché facessi quello che lui voleva: aveva usato
l'intimidazione, le minacce, la seduzione, una supplica per il
ritorno di Bill, un appello alla tutela della sua vita e/o salute
(come pure di quelle di Pam e di Chow), per non parlare della mia. In sintesi: "Avrei potuto torturarti, ma voglio fare sesso con te; ho bisogno di Bill, ma sono infuriato con lui perché mi ha ingannato; devo mantenere rapporti pacifici con
Russell Edgington, ma gli devo sottrarre Bill; Bill è un mio
sottoposto, ma sta lavorando in segreto per il mio capo".
Dannati vampiri. Adesso capite perché sono contenta che
la loro malia non abbia effetto su di me, uno dei pochi van-
taggi che mi siano derivati dalla mia capacità di leggere nella
mente. Purtroppo, gli umani dotati di talenti psichici esercitano una potente attrattiva sui non-morti.
Di certo, non avrei mai potuto prevedere nulla di tutto
questo quando mi ero innamorata di Bill, che mi era diventato necessario quasi quanto l'acqua, e non solo per la profondità dei sentimenti che provavo per lui o a causa del piacere
fisico che mi dava. Bill costituiva la mia unica garanzia che
un altro vampiro non si appropriasse di me contro la mia volontà.
Dopo aver caricato un paio di lavatrici e aver passato il
tutto nell'asciugatrice, ripiegandolo poi per bene, mi sentii
molto più rilassata. Avevo quasi finito di fare i bagagli e avevo preso con me un paio di romanzi rosa e un mistery, nel
caso mi fossi trovata ad avere un po' di tempo per leggere; in
fondo, sono un'autodidatta che ha ricavato la sua istruzione
dai libri che ha letto.
Sbadigliai, stiracchiandomi. Avere un piano preciso mi
pacificava e il sonno agitato del giorno precedente non mi
aveva poi riposata quanto credevo. Forse sarei riuscita ad addormentarmi con facilità.
Mentre mi lavavo i denti e m'infilavo nel letto, pensai
che forse avrei potuto trovare Bill anche senza l'aiuto dei
vampiri, ma farlo evadere dalla prigione in cui era rinchiuso,
quale potesse essere, e portare a termine la fuga con successo
era tutt'altra cosa. A quel punto, poi, avrei dovuto decidere
cosa fare del nostro rapporto.
Mi svegliai verso le quattro del mattino, con la strana
sensazione che un'idea stesse per affiorare. Si trattava di
qualcosa che dovevo aver pensato in un momento imprecisato della notte, quel genere di idea che ti ribolle nel cervello
finché non si manifesta.
E infatti, dopo un minuto, quel pensiero si palesò: e se
Bill non fosse affatto stato rapito, ma avesse disertato? Se si
fosse talmente innamorato diventando così dipendente da
quella Lorena da decidere di lasciare i vampiri della Louisiana per unirsi al gruppo del Mississippi? Subito dubitai che
potesse essere stato davvero il piano di Bill, perché sarebbe
stato troppo elaborato far arrivare a Eric le informazioni relative al suo rapimento o costringerlo a sincerarsi della presenza di Lorena in Mississippi. Di certo, avrebbe trovato un
modo molto più semplice, e meno teatrale, per organizzare la
propria scomparsa.
Mi chiesi poi se in quel momento Eric, Pam e Chow stessero perquisendo la casa di Bill, che si trovava dall'altra parte
del cimitero rispetto alla mia. Non avrebbero trovato quello
che stavano cercando e forse sarebbero tornati da me. D'altronde, se fossero riusciti a scovare i file che la regina voleva
a tutti i costi, non avrebbero più avuto bisogno di scovare
Bill. Alla fine mi riaddormentai per puro e semplice sfinimento, con la sensazione di aver udito echeggiare all'esterno
la risata di Chow.
Neppure la consapevolezza del tradimento di Bill m'impedì di cercarlo nei miei sogni: per almeno tre volte mi girai
sul fianco per verificare se non fosse scivolato nel letto insieme a me, come era solito fare. Ma ogni volta quel lato era
freddo e vuoto.
Comunque, sempre meglio che trovarlo occupato da
Eric.
All'alba ero già in piedi, sotto la doccia, poi ebbi ancora
il tempo di preparare il caffè prima che qualcuno bussasse all'ingresso.
«Chi è?», domandai da dietro la porta.
«Mi ha mandato Eric», rispose una voce roca.
Aprii la porta e sollevai lo sguardo, poi lo sollevai ancora
un po'.
Era enorme, aveva gli occhi verdi e i capelli arruffati erano ricci e neri come la pece; il suo cervello ronzava e pulsava di un'energia sfumata in un certo modo di rosso. Era un
mannaro.
«Entra. Vuoi un po' di caffè?».
«Ci puoi scommettere, chérie», rispose. Qualsiasi cosa si
fosse aspettato di trovare, non era ciò che aveva davanti.
«Hai anche delle uova? Un po' di salsiccia?».
«Certo», annuii, precedendolo in cucina. «Io sono Sookie
Stackhouse», aggiunsi, girando la testa verso di lui, mentre
mi chinavo per tirare fuori le uova dal frigorifero. «Tu come
ti chiami?».
«Alcide», replicò, pronunciando il nome "Al-si", con la d
che quasi non si sentiva. «Alcide Herveaux».
Mi osservò attentamente mentre tiravo fuori la vecchia
padella di ferro annerito di mia nonna, che l'aveva comprata
appena sposata e l'aveva passata sul fuoco prima dell'uso,
come avrebbe fatto qualsiasi donna che sapesse il fatto suo,
con il risultato che adesso era perfettamente invecchiata. Acceso il fornello, cucinai prima la salsiccia (in modo che tirasse fuori il grasso), la misi in un piatto, su un tovagliolino di
carta, che lasciai nel forno perché rimanesse in caldo. Dopo
aver chiesto ad Alcide come preferiva le uova, le strapazzai
rapidamente, facendole scivolare sul piatto intiepidito. Lui
intanto aprì il cassetto di destra alla ricerca delle posate, trovandole al primo tentativo, e si versò un po' di succo di frutta
e del caffè, dopo che gli ebbi indicato in silenzio l'armadietto
delle tazze. Già che c'era, tornò a riempire anche la mia.
Mangiò con garbo, spazzolando via tutto.
Con le mani nell'acqua calda saponata lavai i pochi piatti
sporchi, lasciando per ultima la padella e dando ogni tanto
un'occhiata al mio ospite. La cucina aveva un familiare e
confortevole odore di colazione e di detersivo. Fu un momento stranamente sereno.
Di sicuro mi ero aspettata tutt'altro quando Eric mi aveva
detto che qualcuno che gli doveva un favore sarebbe stato il
mio biglietto da visita fra i vampiri del Mississippi. Nel
guardare fuori della finestra il freddo paesaggio invernale,
mi resi conto che quella situazione rispecchiava proprio il
modo in cui avevo visualizzato il mio futuro, nelle poche oc-
casioni in cui mi ero permessa di immaginare di condividere
la mia casa con un uomo.
Quello era il modo in cui si supponeva dovesse essere la
vita per la gente normale: era mattino, tempo di alzarsi e di
andare al lavoro, l'ora in cui una donna cucinava la colazione
per un uomo, se lui doveva uscire per andare a guadagnarsi il
pane, e quel grosso uomo rude stava mangiando cibo vero,
così come doveva probabilmente avere un semplice pick-up
parcheggiato davanti alla mia casa.
Certo, lui era un lupo mannaro, ma un mannaro conduceva una vita più simile a quella umana di quanto potesse fare
un vampiro.
D'altro canto, con quello che non sapevo riguardo ai
mannari si sarebbe potuto riempire un intero libro.
Finì di mangiare, infilò il suo piatto nel lavandino e lo
lavò e asciugò personalmente mentre io pulivo il tavolo,
muovendosi in sintonia con me come in una coreografia.
Dopo scomparve in bagno per un minuto, mentre io passavo
mentalmente in rassegna la lista delle cose che dovevo ancora fare prima di partire. La più importante era parlare con
Sam. Avevo già chiamato mio fratello la sera precedente per
informarlo che sarei stata via per alcuni giorni, notizia a cui
lui in realtà non aveva dato peso perché in quel momento Liz
era a casa sua, ma si era detto disposto a ritirare la mia posta
e i giornali.
Alcide venne a sedersi al tavolo, di fronte a me, mentre
stavo cercando di pensare a come affrontare il discorso del
nostro incarico congiunto, nel tentativo di prevedere quante
zampe avrei finito per pestare nel percorso. Forse anche lui
si stava preoccupando delle stesse cose. Non sono in grado
di leggere in modo coerente nella mente dei mutaforme o dei
mannari perché sono creature soprannaturali; al massimo
posso interpretare in modo affidabile il loro stato d'animo e
intercettare di tanto in tanto qualche pensiero particolarmente limpido. In ogni caso, questi umani-con-qualcosa-di-diverso sono per me più trasparenti da decifrare dei vampiri. Anche se c'è un folto gruppo di mutaforme e di mannari che
vorrebbe cambiare l'attuale stato di cose, l'esistenza di queste
creature rimane tuttora segreta: finché non avranno verificato
fino a che punto la notorietà tornerà a vantaggio dei vampiri,
quelle creature dalla natura doppia intendono proteggere con
ferocia la loro privacy.
I lupi mannari sono i veri duri del mondo dei mutaforme,
a cui appartengono per definizione. Sono gli unici ad avere
una propria società distinta e non permettono che nessun altro venga definito "mannaro" in loro presenza. Alcide Herveaux aveva un'aria decisamente dura, era grosso come un
macigno, con bicipiti a cui mi sarei potuta appendere per fare
ginnastica. Avrebbe dovuto radersi nuovamente se quella
sera aveva intenzione di andare da qualche parte. Sarebbe
stato perfetto in un cantiere edile o su un molo.
Insomma, un vero uomo.
«In che modo ti costringono a farlo?», domandai.
«Hanno una cambiale di mio padre», spiegò lui. Puntò le
mani massicce sul tavolo, appoggiandosi su di esse. «Sai che
possiedono un casinò, a Shreveport?».
«Certo», annuii. Nella nostra zona, un modo diffuso di
passare il weekend era andare a Shreveport o a Tunica (nel
Mississippi, appena a sud di Memphis), affittare una stanza
per un paio di notti e giocare alle slot machine, vedere un
paio di spettacoli e mangiare un sacco di cibo ai buffet.
«Mio padre ha perso troppo. Possiede una ditta di rilevamenti topografici... io lavoro per lui... ma gli piace il gioco
d'azzardo», precisò Alcide con gli occhi verdi che ardevano
di rabbia. «Ha perso troppo nel casinò della Louisiana e così
i tuoi vampiri sono in possesso della sua cambiale, e se dovessero mandarla all'incasso, affonderebbero la nostra ditta».
A quanto pareva, i mannari rispettavano i vampiri più o
meno nella stessa misura in cui erano rispettati da loro.
«Quindi, per riavere quella cambiale, devo aiutarti a entrare
nel giro dei vampiri di Jackson», proseguì, appoggiandosi all'indietro sulla sedia e fissandomi negli occhi. «Portare una
donna graziosa in giro per i bar di Jackson non è poi una
cosa troppo faticosa da fare», aggiunse. «Adesso che ti ho
conosciuta, sono lieto di farlo e di liberare mio padre da quel
debito. Ma perché diavolo tu vuoi fare una cosa del genere?
Hai l'aria di una donna vera, non di una di quelle cagne malate che passano il loro tempo gironzolando intorno ai vampiri».
Dopo l'incontro del giorno prima, trovavo quella conversazione piacevolmente diretta. «Io frequento un solo vampiro, per mia scelta», risposi in tono amaro. «Bill, il mio...
ecco, non so se sia ancora il mio ragazzo. Comunque, pare
che i vampiri di Jackson lo abbiano rapito e la scorsa notte
qualcuno ha cercato di fare lo stesso con me», precisai, ritenendo corretto che lo sapesse. «Dal momento che il rapitore
non pareva sapere il mio nome ma solo che lavoravo al Merlotte's, probabilmente a Jackson non correrò rischi se nessuno scoprirà che sono la compagna umana di Bill. Devo però
dirti che l'uomo che ha cercato di rapirmi era un lupo mannaro e che la sua macchina aveva la targa della Contea di
Hinds». Proprio dove si trovava Jackson.
«Indossava il giubbotto di qualche banda?», mi chiese, e
quando annuii si mostrò pensoso, il che era una buona cosa.
Non stavo prendendo alla leggera quella faccenda ed era un
buon segno che anche lui non lo stesse facendo. «A Jackson
c'è una piccola banda composta di mannari, intorno a cui
gravitano alcuni grossi mutaforme, come pantere, orsi. Si
fanno assoldare dai vampiri abbastanza regolarmente».
«Adesso ce n'è uno di meno», commentai.
Il mio compagno si concesse un momento per assimilare
quell'informazione, poi mi fissò a lungo, con aria di sfida.
«Dimmi, che potrà mai fare una minuta ragazza umana contro i vampiri di Jackson? Sei un'esperta di arti marziali?
Un'ottima tiratrice? Sei stata nell'esercito?».
«No», risposi, sorridendo mio malgrado. «Non hai mai
sentito fare il mio nome?».
«Sei famosa?».
«Non credo», replicai, lieta che non avesse preconcetti
sul mio conto, «ma lascerò che tu scopra da solo chi sono».
«A patto che non ti trasformi in un serpente», ribatté alzandosi, poi fu assalito da un'idea repentina e sgranando gli
occhi mi chiese: «Non sei un uomo, vero?».
«No, Alcide, sono una donna», lo rassicurai, cercando di
rispondere decisa, anche se mi riuscì molto difficile.
«Ero disposto a scommetterci», disse sorridendo. «Se
non sei una sorta di superdonna, cosa intendi fare una volta
che avrai scoperto dove si trova il tuo uomo?».
«Intendo chiamare Eric, il...». Mi bloccai, rendendomi
improvvisamente conto che parlare dei segreti dei vampiri
non era una buona idea, e conclusi: «Eric è il capo di Bill. A
quel punto, sarà lui a decidere cosa fare».
«Non mi fido di Eric», obiettò Alcide, scettico. «Non mi
fido di nessuno di loro. Probabilmente farà il doppio gioco
con te».
«Come?».
«Potrebbe usare il tuo uomo per pretendere un risarcimento: in fondo è un suo uomo quello che hanno in ostaggio;
oppure potrebbe usare il suo rapimento come scusa per scatenare una guerra, nel qual caso il tuo uomo verrebbe immediatamente giustiziato».
Non avevo ancora previsto quegli sviluppi. «Bill sa delle
cose, cose importanti», precisai.
«Bene. Questo potrebbe tenerlo in vita», commentò, ma
vedendo la mia espressione il suo volto si fece immediatamente contrito: «Ehi, Sookie, mi dispiace. A volte non penso
prima di parlare. Lo riporteremo indietro, anche se mi viene
la nausea all'idea di una donna come te insieme a uno di quei
succhiasangue».
Erano parole dolorose, ma anche bizzarramente piacevoli.
«Suppongo di doverti ringraziare», risposi, tentando di
sorridere. «Cosa mi dici di te? Hai già qualche piano su
come presentarmi ai vampiri?».
«Sì. A Jackson, nelle vicinanze del Campidoglio, c'è un
nightclub frequentato soltanto da esseri sovrannaturali e dai
loro compagni. Niente turisti. Da soli i vampiri non ce la fanno a mantenerlo in attivo, però è comodo per i loro incontri,
quindi permettono a noi esseri inferiori di condividere il divertimento», spiegò Alcide, sfoggiando in un sorriso i denti
perfetti, bianchi e aguzzi. «Nessuno s'insospettirà se ci andrò, perché passo sempre di lì quando sono a Jackson. Tu
però dovrai passare per la mia ragazza», continuò, con aria
imbarazzata. «Ah... è meglio che ti dica una cosa: mi sembri
un tipo come me, da jeans e maglietta, ma in quel club...
ecco, preferiscono i clienti eleganti». Percepivo chiaramente
il suo timore che non avessi nell'armadio un vestito elegante
e il suo desiderio che non mi sentissi umiliata, presentandomi in quel locale abbigliata nel modo sbagliato. Che uomo!
«Tutto questo non farà molto piacere alla tua ragazza»,
commentai, indotta dalla pura curiosità a un'indiretta caccia
di informazioni.
«In effetti lei vive a Jackson, ma abbiamo rotto un paio
di mesi fa», replicò Alcide. «Lei se la faceva con un altro
mutaforme, un tizio che diventa un dannato gufo».
Questa tizia era pazza? Naturalmente, la storia doveva
essere più complessa e, altrettanto naturalmente, ricadeva
nella categoria del "non sono affari tuoi".
Senza fare commenti, andai in camera mia per riporre in
un appendiabiti da viaggio i miei due vestiti eleganti e i loro
accessori. Li avevo acquistati da Tara's Togs, negozio gestito
(e ora posseduto) dalla mia amica Tara Thornton, che era
tanto gentile da telefonarmi se aveva dei saldi. Bill era l'effettivo proprietario dell'edificio che ospitava Tara's Togs e
aveva detto a tutte le attività commerciali del complesso di
farmi credito, perché avrebbe pagato lui i miei conti, ma avevo resistito a quella tentazione... tranne quando avevo dovuto
sostitire indumenti che Bill stesso mi aveva strappato di dosso nei nostri momenti di maggiore eccitazione.
Ero molto orgogliosa di entrambi quei vestiti, perché prima di allora non avevo mai posseduto niente del genere, e
chiusi la cerniera della borsa con il sorriso sul volto.
Nel fare capolino dalla soglia per vedere se ero pronta,
Alcide notò il letto e le tende color crema e giallo, e annuì
con sincera approvazione. «Devo ancora chiamare il mio
capo», dissi, «poi potremo partire». Mi appollaiai sul bordo
del letto, prendendo il telefono.
Alcide si appoggiò al muro, vicino all'armadio, mentre io
componevo il numero privato di Sam. Alla sua risposta assonnata, mi scusai per averlo chiamato così presto. «Che
succede, Sookie?», domandò con voce impastata.
«Devo andare via per qualche giorno», spiegai. «Mi dispiace di non averti avvertito prima, però ieri sera ho chiamato Sue Jennings per vedere se mi sostituiva e, dato che mi
ha risposto di sì, le ho cedute le mie ore».
«Dove vai?», domandò Sam.
«Devo andare nel Mississippi, a Jackson», risposi.
«Hai qualcuno che venga a prendere la tua posta?».
«Mio fratello, ma grazie per averlo chiesto».
«Ci sono piante da annaffiare?».
«Nessuna che non possa sopravvivere fino al mio ritorno».
«D'accordo. Parti da sola?».
«No», risposi con un'esitazione.
«Vai con Bill?».
«No, lui... non si è ancora fatto vedere».
«Sei nei guai?».
«Va tutto benissimo», mentii.
«Digli che hai un uomo che ti accompagna», interloquì la
voce sonora di Alcide e io gli scoccai un'occhiata esasperata;
era ancora appoggiato al muro e ne occupava una parte notevole.
«C'è qualcuno lì con te?», chiese Sam, che capiva le cose
al volo.
«Sì, Alcide Herveaux», replicai, pensando che fosse bello
informare qualcuno del fatto che stavo lasciando la città con
quel tizio, perché le prime impressioni potevano essere del
tutto sbagliate ed era meglio che Alcide fosse consapevole
che qualcuno lo avrebbe ritenuto responsabile se mi fosse
successo qualcosa.
«Ah-a», commentò Sam, a cui evidentemente quel nome
non era sconosciuto. «Fammi parlare con lui».
«Perché?», ribattei. Riesco a ben tollerare il paternalismo, ma a quel punto ne avevo fin quasi alle orecchie.
«Passagli quel dannato telefono», ingiunse Sam. In genere non imprecava mai, quindi mi limitai a fare una smorfia,
per mostrare cosa ne pensassi della sua richiesta, e passai il
telefono ad Alcide, poi andai in salotto e guardai fuori della
finestra: già, un Dodge Ram con abitacolo maggiorato... ero
pronta a scommettere che era dotato di tutti i possibili accessori.
Avevo già portato la valigia davanti alla porta e sistemato
la borsa su una sedia dell'ingresso, mi rimaneva soltanto da
infilare la giacca pesante. Ero lieta che Alcide mi avesse avvertita di quella regola che imponeva abiti eleganti al bar,
perché a me non sarebbe mai venuto in mente di portarmi
dietro qualcosa di quel genere. Stupidi vampiri. Stupida etichetta.
Ero di Pessimo umore, con la P maiuscola.
Tornai in corridoio, riesaminando mentalmente il contenuto della valigia mentre i due mutaforme portavano avanti
(presumibilmente) un "discorso tra uomini". Gettai un'occhiata nella mia camera da letto e vidi che, per parlare al telefono, Alcide si era seduto sul bordo del letto, dove ero seduta poco prima, e appariva stranamente a suo agio.
Irrequieta, rientrai in salotto e rimasi per qualche tempo a
guardare fuori della finestra. Forse quei due stavano facendo
un discorso tra mutaforme. Sam, che in genere si trasformava in un collie ma non era limitato a quella forma, doveva
apparire un peso piuma agli occhi di Alcide, però entrambi
erano frutti dello stesso ramo. Sam, d'altro canto, doveva diffidare di Alcide, perché i lupi mannari avevano una brutta reputazione.
Alcide mi raggiunse dal corridoio, con le pesanti scarpe
da lavoro che risuonavano sul pavimento di legno. «Ho promesso che mi prenderò cura di te», annunciò, senza sorridere. «Ora speriamo che le cose funzionino come devono».
Mi ero preparata a mostrarmi irritata, ma quell'ultima frase suonò talmente realistica che mi svuotai di colpo di tutta
la rabbia, come se qualcuno mi avesse bucata. Nell'ambito
dei complessi rapporti fra vampiri, mannari e umani, c'era
ampio spazio perché qualcosa potesse andare storto. Dopo
tutto il mio piano era abbastanza inconsistente e la presa che
i vampiri avevano su Alcide piuttosto fragile. E poi era anche
possibile che Bill non fosse stato portato via contro la sua
volontà: magari era contento di essere prigioniero di un re,
almeno finché la vampira Lorena era con lui, e si sarebbe infuriato nel vedere che ero venuta a cercarlo.
Oppure poteva essere morto.
Chiusi a chiave la porta di casa e seguii Alcide, che ripose il mio bagaglio nella grande cabina del Ram.
L'esterno del fuoristrada era pulito e lucido, ma all'interno si trattava del veicolo sporco e disordinato di chi passava
le sue ore di lavoro sempre in giro con la macchina, come rivelavano il casco, le fatture, i preventivi, i biglietti da visita,
gli stivali e un kit di pronto soccorso sparsi qui e là. Per lo
meno non c'erano residui di cibo. Mentre procedevamo sobbalzando sul mio vialetto dissestato, presi in mano un fascio
di opuscoli che reclamizzavano la «Herveaux e Figlio, AAA
Accurati Rilevamenti». Sfilato il primo dall'elastico che li teneva insieme, lo esaminai con attenzione mentre Alcide percorreva la breve distanza che ci separava dall'Interstatale 20
e si dirigeva a est verso Monroe, Vicksburg e infine Jackson.
Scoprii che gli Herveaux, padre e figlio, possedevano
una ditta di rilevamenti in due Stati, con uffici a Jackson,
Monroe, Shreveport e Baton Rouge. Come Alcide mi aveva
detto, la sede centrale era a Shreveport. L'opuscolo presentava una fotografia dei due uomini: Herveaux senior (per la
sua età) era imponente quanto il figlio.
«Anche tuo padre è un lupo mannaro?», domandai, dopo
aver assimilato tutte le informazioni dell'opuscolo ed essermi
resa conto che la famiglia Herveaux doveva essere quanto
meno prospera, se non addirittura ricca. Il benessere se lo
erano guadagnati lavorando sodo, cosa che avrebbero dovuto
continuare a fare se il vecchio signor Herveaux non fosse
riuscito a controllare la sua passione per il gioco d'azzardo.
«Lo sono entrambi i miei genitori», rispose Alcide, dopo
una breve pausa.
«Oh, scusami», replicai. Non sapevo con certezza per
cosa mi stessi scusando, ma non si sa mai.
«Quello è il solo modo perché il figlio sia un mannaro»,
mi spiegò dopo un momento, ma non riuscii a capire se mi
stesse dicendo quelle cose solo per essere cortese, o perché
riteneva che le dovessi sapere.
«Come mai, allora, l'America non è piena di mannari e di
mutaforme?», chiesi ancora, dopo aver riflettuto sulle sue parole.
«I mannari si devono sposare fra loro perché ne nasca un
altro, e non sempre è fattibile. E dall'unione solo un figlio
sarà dotato di quelle caratteristiche: la mortalità infantile è
elevata».
«Quindi, se sposi una mannara, uno dei vostri bambini
sarà un piccolo mannaro?».
«Quella condizione si manifesta soltanto al sopraggiungere della... della pubertà».
«Oh, è terribile. Essere un adolescente è già abbastanza
difficile di per sé».
«Sì, complica le cose», ammise lui sorridendo, ma con il
viso sempre rivolto alla strada e non a me.
«E la tua ex ragazza è... è una mutaforme?».
«Sì. Di norma non frequento i mutaforme, ma immagino
di aver pensato che con lei sarebbe stato diverso. Mannari e
mutaforme provano un'intensa attrazione reciproca, forse per
una sorta di magnetismo animale», replicò Alcide, tentando
di scherzarci sopra.
Il mio capo, che è a sua volta un mutaforme, era stato lieto di fare amicizia con altri mutaforme della zona ed era anche andato in giro ("frequentare" mi sembra un termine troppo gentile per indicare la loro relazione) con una menade.
Adesso però lei se n'era andata e Sam sperava di trovare un
altro mutaforme compatibile, perché si sentiva molto più a
suo agio con un'umana strana, come me, o con una mutaforme, di quanto lo fosse con una donna normale. Quando me
lo aveva detto, forse era per farmi un complimento, ma anche se si fosse trattato di una semplice affermazione, la cosa
mi aveva ferita un poco, anche se la mia anormalità si era
manifestata fin dalla tenera età.
La telepatia non aspettava la pubertà.
«Come mai pensavi che con lei sarebbe stato diverso?»,
domandai senza perifrasi.
«Mi aveva detto di essere sterile, ma poi ho scoperto che
prendeva la pillola, fatto ben diverso su cui non intendo pas-
sare sopra. Anche una mutaforme e un mannaro possono
avere un figlio che deve cambiare forma con la luna piena,
ma solo i figli di una coppia pura di mannari o di mutaforme
possono cambiare aspetto a proprio piacimento».
Anche su questo ci avrei riflettuto. «Quindi di solito frequenti solo ragazze normali», sintetizzai. «Ma uscire con
loro non è facile se devi tenere nascosto un così importante...
fattore della tua vita».
«Già», ammise con una nota di disperazione nella voce
sonora, «uscire con delle ragazze normali può essere penoso,
ma devo pur frequentare qualcuna!».
Mi concessi un lungo momento di riflessione su quelle
parole, poi chiusi gli occhi e contai fino a dieci. Bill mi mancava nel modo più istintivo e inaspettato. L'avevo iniziato a
capire dalle fitte al ventre che avevo sentito la settimana prima mentre, guardando la videocassetta de L'ultimo dei Mohicani, mi beavo di Daniel Day-Lewis che correva agile attraverso la foresta, pensando che se solo fossi riuscita a sbucare
da dietro un albero prima che lui vedesse Madeleine Stowe...
Dovevo proprio tenere gli occhi ben aperti.
«Quindi se mordi qualcuno non lo trasformi in un lupo
mannaro?», domandai, decisa a cambiare la direzione dei
miei pensieri, ma subito dopo mi ricordai l'ultima volta che
Bill mi aveva morsa e sentii un'ondata di calore espandersi
verso... oh, al diavolo!
«Quando succede, si ottiene un uomo-lupo. Del genere
che si vede nei film. Quei poveretti muoiono in breve tempo
e non trasmettono la caratteristica se generano dei figli nella
loro forma umana. Nella loro forma alterata, invece, la gravidanza s'interrompe».
«Interessante», commentai, perché non riuscii a pensare
a niente altro da dire.
«In noi però c'è un elemento sovrannaturale, proprio
come nei vampiri», continuò Alcide, continuando a guardare
la strada. «Esiste un legame fra la genetica e quell'elemento
sovrannaturale, ma nessuno sembra comprenderlo. Non possiamo rivelare al mondo la nostra esistenza, come hanno fatto i vampiri, perché finiremmo per essere rinchiusi negli zoo,
sterilizzati, ghettizzati... solo perché a volte siamo degli animali. Invece i vampiri ne hanno ricavato fama e ricchezza»,
concluse amaro.
«Se si tratta di un segreto così importante, perché me ne
parli di tua iniziativa?», chiesi, considerando che in dieci minuti mi aveva fornito più informazioni di quante ne avessi ricavate da Bill nell'arco di mesi.
«Se lo sai, per me sarà più semplice passare insieme i
prossimi giorni. Immagino che tu abbia i tuoi problemi e
pare che i vampiri abbiano qualche potere anche su di te. Se
poi dovesse verificarsi il peggio, e dovessi scoprire di essermi completamente sbagliato sul tuo conto, potrò sempre
chiedere a Eric di farti una visita per cancellarti la memoria.
Davvero, non so perché te ne ho parlato», commentò, scuotendo la testa con perplessa irritazione. «E' solo che mi sembra di conoscerti».
Non riuscivo a trovare una risposta adeguata, ma qualcosa dovevo dirla comunque, perché rimanere in silenzio
avrebbe appesantito quell'ultima affermazione. «Mi dispiace
che i vampiri ti ricattino per tuo padre, ma devo trovare Bill,
e se questo è il solo modo in cui posso farlo, sono decisa a
utilizzarlo. Gli devo almeno questo, anche se...». Lasciai la
frase in sospeso. Non volevo finirla. Tutte le possibili conclusioni erano troppo tristi, troppo definitive.
Lui scrollò le spalle, un movimento che in Alcide Herveaux non passava inosservato. «Accompagnare in un locale
una ragazza graziosa non è poi un grande sforzo», mi rassicurò, cercando di tirarmi su di morale.
Nella sua posizione, forse non sarei stata altrettanto generosa. «Tuo padre è sempre stato un giocatore?», domandai.
«Solo da quando mia madre è morta», rispose dopo una
lunga pausa.
«Mi dispiace», mormorai evitando di guardarlo in faccia,
per discrezione. «Io ho perso entrambi i genitori».
«Sono morti da molto?».
«Quando avevo sette anni».
«Chi ti ha cresciuta?».
«Mia nonna ha cresciuto me e mio fratello».
«È ancora viva?».
«No, è morta quest'anno, assassinata».
«Brutta faccenda», commentò lui con tono pratico.
«Già». Avevo però ancora una domanda. «Entrambi i
tuoi genitori ti hanno parlato della tua natura?».
«No. Lo ha fatto mio padre, quando avevo all'incirca tredici anni, perché aveva notato i segni del cambiamento. Non
so proprio come facciano i mannari orfani a superare quel
periodo senza una guida».
«Quella sì che dev'essere una situazione veramente difficile».
«Cerchiamo di tenerci informati di tutte le nascite fra i
mannari della zona, in modo che nessuno arrivi al cambiamento senza esserne consapevole».
Anche le informazioni di seconda mano erano sempre
meglio di niente, ma rimaneva il fatto che una situazione di
quel genere doveva costituire un grosso trauma per chiunque.
Ci fermammo a Vicksburg per fare benzina. Io mi offrii
di pagare il pieno, ma Alcide ribatté con fermezza che per lui
era una trasferta di lavoro, perché doveva effettivamente vedere alcuni clienti, e respinse pure la mia offerta di pompare
la benzina. Accettò che gli pagassi un caffè, ringraziandomi
profusamente, come se gli avessi comprato un vestito nuovo.
Era una giornata fredda e luminosa, e ne approfittai per
sgranchirmi le gambe nell'area di servizio prima di risalire
nel furgone.
Vedere i cartelli che segnalavano il campo di battaglia mi
ricordò poi una delle giornate più faticose della mia vita da
maggiorenne e mi ritrovai a raccontare ad Alcide del club
preferito di mia nonna, i Discendenti dei Morti Gloriosi, e
della loro gita di due anni prima. Io avevo guidato una mac-
china, Maxine Fortenberry (nonna di un grande amico di mio
fratello Jason) ne aveva guidata un'altra e avevamo girovagato a lungo per la zona. Ciascuno dei Discendenti si era portato il testo preferito relativo all'assedio e fermandoci subito al
centro per i visitatori ci eravamo muniti di cartine e cimeli.
Era stata una giornata splendida, in cui avevamo letto le descrizioni di tutti i monumenti, avevamo pranzato facendo un
picnic vicino alla restaurata USS Cairo ed eravamo infine
tornati a casa esausti e carichi di souvenir. Ci eravamo perfino avventurati per un'ora nel Casinò Isola di Capri dove, con
aria strabiliata, avevamo tentato con esitazione la sorte alle
slot machine. Per mia nonna era stata una giornata molto felice, quasi quanto quella sera in cui era riuscita a convincere
Bill a parlare a una riunione dei Discendenti.
«Perché ha voluto che lo facesse?», domandò Alcide, che
stava ancora sorridendo della mia descrizione della nostra
sosta per la cena in un Cracker Barrel.
«Bill è un veterano dell'esercito», spiegai.
«E allora?», ma dopo un secondo aggiunse: «Vuoi dire
che il tuo ragazzo è un veterano della guerra civile?».
«Sì. A quel tempo era umano, dato che è stato trasformato soltanto dopo la guerra. Aveva moglie e figli», risposi,
pensando intanto che non potevo certo continuare a definirlo
il mio ragazzo, visto che era stato sul punto di lasciarmi per
un'altra.
«Chi lo ha trasformato in vampiro?», domandò. Ormai
eravamo arrivati a Jackson e si stava dirigendo verso il centro dov'era l'appartamento della sua ditta.
«Non lo so», ammisi. «Lui non ne parla mai».
«Questo mi sembra un po' strano».
In effetti, era sembrato strano anche a me, ma avevo pensato che fosse qualcosa di veramente personale e che, quando avesse voluto, Bill me ne avrebbe parlato. Sapevo che il
rapporto fra il vampiro più antico e quello che aveva "trasformato" era molto forte.
«Mi sa che in realtà non è più il mio ragazzo», ammisi,
anche se "ragazzo" sembrava un termine del tutto inadatto a
definire quello che Bill era stato davvero per me.
«Sul serio?».
«Ma devo comunque trovarlo», ribattei, arrossendo. Non
avrei dovuto parlarne.
Dopo, rimanemmo in silenzio per un po'. L'ultima città
che avevo visitato era stata Dallas ed era facile vedere che
Jackson non si avvicinava neppure lontanamente alle sue dimensioni (il che costituiva un grosso punto a suo favore, almeno per quanto mi riguardava). Alcide mi indicò la figura
dorata sulla cupola del nuovo campidoglio e io l'ammirai doverosamente; mi pareva che si trattasse di un'aquila, ma non
ne ero sicura, e domandarlo mi imbarazzava un poco. Possibile che avessi bisogno degli occhiali? L'edificio verso cui
eravamo diretti era vicino all'incrocio fra High e State Street
e non era una costruzione recente: i suoi mattoni, in origine
di un marrone chiaro dorato, erano adesso di un colore bruno
e sporco.
«Qui gli appartamenti sono più grandi che nei palazzi più
nuovi», mi spiegò. «C'è una piccola stanza per gli ospiti e
dovrebbe essere tutto pronto a riceverci. Ci serviamo di una
ditta per le pulizie».
Annuii in silenzio. Non riuscivo a ricordare se prima di
allora fossi mai stata in un appartamento di un condominio,
ma poi mi resi conto che naturalmente dovevo averlo fatto. A
Bon Temps c'era un condominio a forma di U, e di certo dovevo esserci andata a trovare qualcuno perché nell'arco degli
ultimi sette anni quasi ogni single di Bon Temps aveva preso
in affitto uno dei Kingfisher Apartments a un certo punto
della sua carriera sentimentale.
Alcide mi disse che il suo appartamento era all'ultimo
piano, il quinto. Dalla strada s'imboccava una rampa che portava al parcheggio interno e all'ingresso del garage, in un
piccolo casotto, c'era una guardia a cui Alcide mostrò una
tesserina. La guardia, un uomo massiccio con una sigaretta
che gli pendeva dall'angolo della bocca, quasi non la guardò
neppure prima di premere il pulsante che sollevava la barriera. Quelle misure di sicurezza non mi colpirono molto favorevolmente: avevo l'impressione che avrei potuto mettere da
sola al tappeto quel tizio e che mio fratello Jason avrebbe potuto ridurlo in poltiglia.
Scendemmo dal furgone e recuperammo i bagagli dal rudimentale sedile posteriore. La borsa da viaggio non aveva
subito troppi strapazzi e, senza chiedermi nulla, Alcide me la
tolse di mano, poi mi precedette verso l'area centrale del parcheggio, dove vidi la porta lucida di un ascensore, che si aprì
immediatamente appena lui premette un pulsante. Dopo che
ebbe premuto il tasto contrassegnato con il 5, cominciammo
a salire scricchiolando. Se non altro l'ascensore era molto pulito, come lo erano la moquette e il corridoio, una volta che
le porte si aprirono al piano.
«Abbiamo comprato l'appartamento quando hanno trasformato l'edificio in un condominio», mi spiegò come se si
fosse trattato di una cosa da nulla. Sì, era evidente che lui e
suo padre avevano accumulato non pochi soldi.
«Chi sono i tuoi vicini?», domandai quando lui mi spiegò
che c'erano quattro appartamenti per piano.
«Il 501 appartiene a due senatori dello Stato, ma sono
certo che sono tornati a casa per le feste natalizie», rispose.
«La moglie di Charles Osburgh Terzo abita al 502, insieme
alla sua infermiera. Fino allo scorso anno si portava benissimo gli anni, ma adesso credo non sia più in grado di camminare. Attualmente il cinque-zero-tre è vuoto, a meno che l'agente immobiliare non lo abbia venduto nelle ultime due settimane». Mentre parlava aprì la porta del 504 e con un gesto
m'invitò a entrare per prima. Avanzai nel calore silenzioso
dell'ingresso, che si apriva alla mia sinistra su una cucina a
vista, delimitata da piani di lavoro invece che da pareti, in
modo che lo sguardo non incontrasse ostacoli fino all'area
salotto/sala da pranzo. Alla mia destra c'era una porta, forse
di un ripostiglio, e più oltre ce n'era un'altra che dava accesso
a una piccola camera da letto con un letto matrimoniale ordinatamente rifatto. Una terza porta rivelava un bagno piastrellato in bianco e azzurro, con alcuni asciugamani puliti appesi.
Alla mia sinistra, dalla parte opposta del salotto, c'era la
porta di una camera da letto più grande, che esaminai solo
fugacemente per non mostrarmi eccessivamente interessata
allo spazio personale di Alcide. Il letto era enorme e mi chiesi se lui e suo padre si divertissero parecchio quando si trovavano a Jackson.
«La camera da letto padronale ha un suo bagno», mi disse Alcide. «Sarei lieto di cederti la stanza più grande, ma è
quella in cui c'è il telefono e sto aspettando alcune chiamate
di lavoro».
«La più piccola andrà benissimo», garantii, riprendendo
a guardarmi intorno dopo aver lasciato i miei bagagli nella
camera in questione.
L'appartamento era una sinfonia di toni del beige, che caratterizzavano la moquette e il mobilio, come pure lo sfondo
della carta da parati, decorata con un motivo orientaleggiante
con figure di bambù. Era molto pulito e tranquillo.
Mentre appendevo i miei vestiti nell'armadio, mi chiesi
per quante notti di fila sarei stata costretta ad andare in quel
locale: nel caso fossero state più di due, sarei dovuta andare
a fare acquisti, cosa impossibile, o quanto meno imprudente,
con i fondi di cui disponevo. Conoscevo bene la preoccupazione che mi stava gravando sulle spalle.
Mia nonna, che sia benedetta, non aveva avuto molto da
lasciarmi, soprattutto dopo che avevamo pagato le spese del
funerale, ma la casa era stata un dono meraviglioso quanto
inatteso.
I fondi che aveva usato per crescerci, ricavati da un pozzo petrolifero che si era poi esaurito, erano finiti da molto e
la ricompensa ricevuta per il lavoro svolto per conto dei
vampiri di Dallas era stata spesa quasi tutta nell'acquisto dei
due vestiti, nel pagamento delle tasse relative alla mia proprietà e per far tagliare un albero le cui radici erano emerse
in seguito alla grandinata dell'inverno precedente, col rischio
che si schiantasse sulla casa: infatti era caduto un grosso
ramo che aveva fatto qualche danno al tetto metallico, ma
per fortuna Jason e Hoyt Fortenberry ne sapevano abbastanza in fatto di tetti da poterlo riparare.
Rividi mentalmente il camion della ditta di ristrutturazione fermo davanti a Belle Rive e mi sedetti bruscamente sul
letto.
Da dove era venuta quell'immagine? Ero davvero tanto
meschina da essere infuriata perché il mio ragazzo aveva
pensato a una dozzina di modi diversi per accertarsi che i
suoi discendenti (gli ostili e a volte snob Bellefleur) prosperassero, mentre io, l'amore della sua vita dopo la morte, mi
ritrovavo a piangere per la mia situazione finanziaria?
Potete scommetterci: lo ero.
Avrei dovuto vergognarmi di me stessa, ma lo avrei fatto
più tardi, perché la mia mente non aveva ancora finito di fare
la somma dei miei motivi di risentimento.
Dal momento che pensavo al denaro (cioè alla sua mancanza), mi chiesi se a Eric fosse mai passato per la mente,
nello spedirmi in missione, che avrei perso delle ore di lavoro e il conseguente guadagno. Dal momento che non sarei
stata pagata, non avrei potuto a mia volta pagare la bolletta
della luce, o della televisione via cavo, o del telefono, o l'assicurazione della macchina... ma ciò nonostante avevo l'obbligo morale di trovare Bill, indipendentemente da quanto
accaduto al nostro rapporto, giusto?
Mi lasciai cadere all'indietro sul letto e mi dissi che si sarebbe risolto tutto. In un angolo della mente, sapevo che tutto
quello che dovevo fare era sedermi con Bill, sempre che fossi riuscita a riportarlo indietro, e spiegargli la mia situazione,
e lui... be', lui avrebbe fatto qualcosa.
Invece non potevo proprio accettare del denaro da Bill.
Ovviamente, se fossimo stati sposati non ci sarebbero stati
problemi, perché marito e moglie mettono tutto in comune,
ma noi non ci potevamo sposare, era una cosa illegale.
E comunque lui non me lo aveva chiesto.
«Sookie?», chiamò una voce, dalla soglia.
Battendo le palpebre, mi sollevai a sedere e vidi Alcide
appoggiato allo stipite, a braccia conserte.
«Tutto a posto?», domandò.
Annuii, incerta.
«Senti la sua mancanza?».
Mi vergognavo troppo a parlare dei miei problemi economici, che comunque non erano più importanti di Bill, quindi
assentii per semplificare le cose.
Si sedette accanto a me per cingermi con un braccio. Era
così caldo e odorava di detergente Tide, di sapone Irish
Spring e di maschio. Chiusi gli occhi e contai di nuovo fino a
dieci.
«Senti la sua mancanza», dichiarò lui in tono di conferma, poi mi prese la mano sinistra accentuando la stretta del
suo braccio destro intorno a me.
Tu non hai idea di quanto mi manchi, pensai.
A quanto pareva, una volta che ci si abituava a fare sesso
regolarmente e in modo spettacolare, il corpo sviluppava una
propria volontà (per così dire) quando veniva improvvisamente privato di quella forma di ricreazione, per non parlare
dell'astinenza da abbracci e coccole. Adesso il mio corpo mi
stava implorando di sbattere Alcide Herveaux disteso sul letto in modo da potersela spassare con lui. Subito.
«Sento la sua mancanza, indipendentemente dai problemi
che abbiamo», affermai con voce fievole e tremante. Mi rifiutai di aprire gli occhi, perché se lo avessi fatto avrei potuto
scorgere sul volto di lui un minimo impulso, una minuscola
inclinazione, e sarebbe bastato a farmi perdere il controllo.
«A che ora pensi che dovremmo andare in quel locale?», domandai, con la ferma intenzione di pilotare il discorso in
un'altra direzione.
Lui era così caldo.
Altro cambio di direzione! «Vuoi che cucini la cena, prima di uscire?», proposi pensando che era il minimo che potevo fare. Saltai su dal letto come un razzo, girandomi verso
di lui con il sorriso più naturale che riuscii a impormi. Dovevo allontanarmi da un contatto così ravvicinato, altrimenti gli
sarei saltata addosso.
«Oh, andiamo invece al Mayflower Cafe. Ha l'aspetto di
una vecchia trattoria... è una vecchia trattoria, ma ti piacerà.
Ci vanno tutti, dai senatori agli operai, persone di ogni genere. Da bere però servono solo birra. Ti va bene?».
Scrollai le spalle e annuii: per me andava benissimo.
«Non bevo tanto», replicai.
«Neppure io, forse perché mio padre tende spesso ad alzare il gomito, e poi prende decisioni sbagliate», mi disse,
ma parve subito rimpiangere la confidenza. «Dopo il Mayflower andremo al club», proseguì, più sbrigativo. «In questa
stagione fa buio molto presto, ma i vampiri non si fanno vedere prima di aver bevuto un po' di sangue, aver prelevato i
loro accompagnatori e aver curato per un po' i loro affari,
quindi saremo là per le dieci. Quanto alla cena, direi di andare a mangiare alle otto, se per te va bene».
«Certo, è perfetto», dissi mentendo. Erano solo le due del
pomeriggio, l'appartamento non aveva bisogno di essere pulito e non c'era motivo di cucinare. Se volevo, potevo leggere
i romanzi rosa che avevo in valigia, ma, considerata la mia
situazione attuale, era improbabile che migliorassero il mio
stato... mentale.
«Senti, hai qualche problema se faccio un rapido giro per
vedere alcuni clienti?», domandò Alcide.
«Oh, mi va benissimo», risposi, pensando che sarebbe
stato meglio se lui non fosse rimasto nelle mie immediate vicinanze. «Tu va' pure a fare quello che devi. Io ho dei libri da
leggere, e qui c'è la televisione», aggiunsi. Magari avrei potuto cominciare dal romanzo giallo.
«Se vuoi... non so... mia sorella Janice ha un salone di
bellezza a quattro isolati da qui, in uno dei vecchi quartieri.
Ha sposato uno di qui. Se vuoi, puoi andarci a piedi e farti
fare un trattamento completo».
«Oh, io... ecco, è che...», balbettai: non ero abbastanza
smaliziata da riuscire a elaborare un rifiuto insieme plausibile e disinvolto, quando ero impedita semplicemente dalla
mancanza di denaro.
Un'improvvisa comprensione affiorò intanto sul volto di
Alcide.
«Se passassi a trovarla, daresti a Janice l'opportunità di
darti un'occhiata. Dopo tutto, si suppone che tu sia la mia ragazza, e lei detestava Debbie. Una tua visita le farebbe davvero piacere».
«Sei gentilissimo», dissi, cercando di non far vedere
quanto mi sentivo confusa e commossa. «Non è quello che
mi aspettavo».
«Neppure tu sei quello che io mi aspettavo», ribatté lui e
prima di uscire lasciò vicino al telefono un biglietto con il
numero del salone di sua sorella.
Capitolo quinto
Janice Herveaux Phillips (sposata da due anni e madre di
un bambino, come appresi rapidamente) era esattamente la
sorella di Alcide che mi sarei potuta aspettare: alta, attraente,
diretta nel parlare e sicura di sé, una donna che gestiva la sua
attività con efficienza.
Non ero una frequentatrice dei saloni di bellezza: mia
nonna si era sempre fatta la permanente in casa e io non mi
ero mai tinta i capelli né li avevo modificati in qualsiasi
modo, a parte una spuntatina di tanto in tanto. Quando lo
confessai a Janice, che si era accorta di come mi stessi guardando intorno con la curiosità tipica di chi è nuovo a qualcosa, il suo ampio volto si allargò in un sorriso. «Allora avrai
bisogno del trattamento completo», dichiarò con soddisfazione.
«No, no, no», protestai. «Alcide...».
«Mi ha chiamata dal cellulare e ha messo bene in chiaro
che ti dovevo riservare il trattamento completo», m'interruppe Janice. «E, in tutta franchezza, tesoro, chiunque l'aiuti a
riprendersi dalla sua esperienza con quella Deb- bie è la mia
migliore amica».
«Però voglio pagare», insistetti sorridendo mio malgrado.
«No, cara, il tuo denaro non ha valore qui dentro», ribatté
lei. «Anche se dovessi rompere con Alcide domani stesso, ne
sarà comunque valsa la pena, per il solo fatto che lo aiuterai
a superare questa serata».
«Questa serata?», ripetei sgomenta, con la sensazione
che, ancora una volta, non sapevo tutto quello che c'era da
sapere.
«Il caso vuole che io sappia che stasera quella cagna ha
intenzione di annunciare il proprio fidanzamento, in quel
club che tutti loro frequentano», mi spiegò.
D'accordo, stavolta non sapevo una cosa decisamente importante. «Intende sposare il... l'uomo con cui si è messa
dopo aver scaricato Alcide?», domandai, trattenendomi a
stento dal dire "il mutaforme".
«Ha fatto in fretta, vero? Cosa può avere lui che mio fratello non ha?».
«Non riesco a immaginarlo», ribattei con assoluta sincerità, guadagnandomi un rapido sorriso da parte di Janice. Di
certo, in suo fratello si doveva annidare da qualche parte una
pecca nascosta... forse Alcide si presentava a cena in mutande, o si ficcava le dita nel naso in pubblico.
«Be', se dovessi scoprirlo, fammelo sapere. E ora diamoci da fare», tagliò corto Janice, guardandosi intorno con aria
manageriale. «Corinne ti farà la pedicure e la manicure, e
Jarvis si occuperà dei tuoi capelli. Di certo ne hai una gran
bella massa», aggiunse in tono più personale.
«Tutti miei, e sono naturali», ammisi.
«Niente tinta?».
«No».
«Sei davvero fortunata», commentò scuotendo il capo.
Era l'opinione di una minoranza.
In quel momento Janice era impegnata con una cliente
che, a giudicare dai capelli argentei e dai gioielli d'oro, doveva essere di classe agiata. Mentre quella dama dal volto freddo mi esaminava con indifferenza, Janice impartì alcune rapide istruzioni ai suoi dipendenti e tornò a occuparsi della
sua Signora Dollaroni.
Non ero mai stata tanto viziata in tutta la mia vita. Ogni
cosa era per me una novità. Corinne (manicure e pedicure),
una donna grassoccia e succulenta come le salsicce che avevo cucinato per colazione, mi dipinse le unghie delle mani e
dei piedi di un rosso acceso, perché s'intonassero al vestito
che avrei indossato. Il solo uomo presente nel negozio, Jarvis, aveva dita rapide e leggere quanto le ali di una farfalla,
era esile come una canna e aveva i capelli tinti di un biondo
platino artificiale. Intrattenendomi con un chiacchiericcio incessante, mi lavò i capelli, preparò la messa in piega e mi sistemò sotto un casco. Ero seduta ad appena una sedia di distanza dalla ricca signora, ma ricevetti la stessa dose di attenzioni riservata a lei... Jarvis mi diede un numero di «People»
da leggere e Corinne mi portò una Coca-Cola. Era piacevole
che quelle persone m'incitassero a rilassarmi.
Stavo cominciando a sentirmi alquanto arrostita sotto il
casco quando finalmente suonò il timer e Jarvis venne a ti-
rarmi fuori di lì sotto, facendomi accomodare di nuovo sulla
sedia. Dopo essersi consultato con Janice, prelevò il ferro arricciacapelli, già riscaldato, dal suo supporto alla parete e
con la massima cura mi modellò i capelli in una massa di
morbidi riccioli che ricadevano lungo la schiena con un effetto davvero spettacolare. Apparire spettacolare rende felici
e mi regalò il momento migliore da quando Bill se ne era andato.
Janice si avvicinò per chiacchierare ogni volta che aveva
un istante libero e io mi sorpresi a dimenticare che non ero
davvero la ragazza di Alcide e che non esisteva un'effettiva
probabilità di diventare sua cognata. Non mi capitava molto
spesso di essere accettata in modo così totale.
Mentre desideravo di poter in qualche modo ripagare la
sua gentilezza, se ne presentò l'occasione. La postazione di
Jarvis era di fronte a quella di Janice, per cui davo la schiena
alla cliente di cui lei si stava occupando; a un certo punto
Jarvis mi lasciò sola per un momento, per andare a prendere
un particolare balsamo per capelli che riteneva dovessi provare, e (nello specchio) vidi Janice togliersi gli orecchini e
metterli in un piattino di porcellana. Forse non avrei notato
quello che successe dopo se non avessi intercettato un nitido
pensiero di avidità proveniente dalla mente della ricca cliente, una sorta di semplice «Ah-a!». Janice si allontanò per
prendere un asciugamano pulito e nello specchio vidi la
cliente dai capelli argentei che afferrava rapidamente gli
orecchini e se li infilava nella tasca della giacca mentre Janice le dava le spalle.
Quando Jarvis finì di acconciarmi i capelli, avevo ormai
deciso cosa fare. In attesa di salutarlo, perché era andato al
telefono e stava parlando con sua madre, cosa evidente dalle
immagini che mi giungevano dalla sua mente, lasciai la sedia
e mi avvicinai alla signora, che era intenta a scrivere un assegno per Janice.
«Chiedo scusa», dissi con uno smagliante sorriso. Janice
rimase interdetta e la ricca cliente assunse un'espressione
seccata. Se quella donna spendeva nel salone grosse quantità
di denaro, di certo Janice non la voleva perdere come cliente.
«Ha una macchia di gel per capelli sulla giacca. Se non le dispiace togliersela per un secondo, gliela pulisco».
Non poteva certo rifiutarsi. Afferrata la giacca all'altezza
delle spalle, tirai con gentilezza e lei mi aiutò automaticamente a sfilarle dalle braccia l'indumento a scacchi rossi e
verdi. Con la giacca in mano, mi ritirai quindi dietro il paravento che nascondeva i lavandini e inumidii un'area del tutto
pulita, solo per verosimiglianza (una parolona proveniente
dal mio calendario Una-Parola-Al-Giorno). Naturalmente,
sfilai anche gli orecchini dalla tasca, riponendoli nella mia.
«Ecco fatto, adesso è come nuova!», annunciai con un altro sorriso, aiutando la donna a infilarsi la giacca.
«Grazie, Sookie», replicò Janice in tono troppo vivace,
segno che sospettava qualcosa.
«Non c'è di che», ribattei, continuando a sorridere.
«Sì, certo», commentò l'elegante signora in tono un po'
confuso. «Bene, Janice, ci vediamo la prossima settimana»,
aggiunse e uscì dalla porta accompagnata dal ticchettio dei
suoi tacchi alti, senza guardarsi indietro. Soltanto allora tirai
fuori dalla tasca gli orecchini e li lasciai cadere nel palmo
della mano di Janice.
«Buon Dio Onnipotente», esclamò lei, apparendo d'un
tratto più vecchia di cinque anni. «Mi sono distratta e ho lasciato qualcosa dove lei poteva raggiungerlo».
«Lo fa spesso?».
«Sì. È per questo che il nostro è all'incirca il quinto salone di bellezza di cui è stata cliente nell'arco degli ultimi dieci
anni. Gli altri hanno sopportato la cosa per un po', ma lei ha
sempre finito per commettere un furto di troppo. E' così ricca
e colta, ed è stata educata nel migliore dei modi. Non so perché fa cose del genere».
Entrambe scrollammo le spalle, incapaci di comprendere
le stranezze dei cittadini benestanti. Fu un momento di perfetta comprensione reciproca. «Spero che tu non la perda
come cliente. Ho cercato di agire con tatto», dissi poi.
«E lo apprezzo moltissimo. Però sarei rimasta meno male
a perdere lei come cliente che gli orecchini, perché sono un
regalo di mio marito. Dopo un po', tendono a pizzicare e me
li sono tolti soprappensiero».
Ero stata ringraziata più che a sufficienza. «Ora è meglio
che vada», dissi infilandomi il cappotto. «Sono felice del vostro meraviglioso trattamento».
«Ringrazia mio fratello», ribatté Janice, ritrovando il suo
ampio sorriso. «E, in fondo, te lo sei appena ripagato», aggiunse mostrando gli orecchini.
Sorridevo anch'io nel lasciare il calore e la complicità
che regnavano in quel salone di bellezza, ma presto cambiai
espressione. La temperatura era calata drasticamente e il cielo imbruniva in fretta, così percorsi la distanza che mi separava dall'appartamento a un passo molto spedito. Dopo un
gelido tragitto nell'ascensore scricchiolante, con vero piacere
usai la chiave che Alcide mi aveva dato e mi addentrai nel tepore dell'appartamento. Accesa una lampada e anche la televisione, per avere un po' di compagnia, mi raggomitolai sul
divano ripensando ai piaceri di quel pomeriggio. Una volta
scongelata, giunsi alla conclusione che Alcide doveva aver
abbassato il termostato perché la temperatura, per quanto
piacevole rispetto a quella esterna, era decisamente bassa.
Il rumore di una chiave che girava nella serratura mi riscosse dalle riflessioni e Alcide entrò reggendo un portablocco a molla pieno di documenti. Sembrava stanco e pensoso, ma si rinfrancò quando mi vide lì ad aspettarlo.
«Janice mi ha chiamato per informarmi che eri passata da
lei», disse con la voce che si animava via via. «Mi ha chiesto
di ringraziarti ancora».
«Ho apprezzato la messa in piega e le unghie nuove», replicai scrollando le spalle. «Non mi era mai capitato prima
d'ora».
«Non eri mai stata in un salone di bellezza?».
«Mia nonna ci andava di tanto in tanto, io ci sono stata
una volta per farmi spuntare i capelli».
Alcide si mostrò stupefatto, come se gli avessi detto di
non aver mai visto un gabinetto con lo sciacquone.
Per nascondere l'imbarazzo, gli mostrai le dita perché
ammirasse le unghie; non le avevo volute molto lunghe e
quelle erano le più corte che Corinne mi aveva detto di poter
realizzare senza crisi di coscienza. «E le unghie dei piedi
sono uguali», riferii al mio ospite.
«Vediamole», propose.
Slacciate le scarpe da ginnastica, mi tolsi i calzini e misi
in mostra i piedi. «Non sono belle?», domandai.
«Magnifiche», convenne lui in tono calmo, fissandomi in
modo un po' strano.
«Credo sia meglio che mi prepari», dissi lanciando un'occhiata all'orologio posato sul televisore, mentre cercavo di
escogitare il modo di fare un bagno senza danni ai capelli o
alle unghie, ma mi venne in mente la notizia che Janice mi
aveva fornito sul conto di Debbie e domandai: «Sei pronto a
metterti davvero in tiro per stasera, vero?».
«Certo», confermò lui, coraggiosamente.
«Perché io intendo fare del mio meglio».
«Il che vorrebbe dire...?», cominciò Alcide, manifestamente interessato.
«Aspetta e vedrai», risposi soltanto. Quello era un uomo
simpatico, con una famiglia simpatica, e mi stava facendo un
grosso favore. D'accordo, vi era stato costretto, ma si stava
comportando in modo estremamente gentile nei miei confronti, considerate le circostanze.
Emersi dalla mia stanza circa un'ora più tardi. Alcide era
in piedi in cucina, intento a versarsi una Coca, che traboccò
oltre il bordo del bicchiere mentre lui mi fissava. E lo considerai un complimento notevole.
Mentre ripuliva il piano di cucina con un po' di carta
asciugatutto, Alcide continuò a scoccare occhiate e io ruotai
lentamente su me stessa per farmi ammirare.
Il vestito che indossavo era di un rosso acceso, rosso fuoco, e mi avrebbe probabilmente fatta congelare per la maggior parte della serata perché era privo di spalline, anche se
aveva lunghe maniche che s'infilavano separatamente. Chiuso sul dietro da una zip, era aderente fino ai fianchi, poi si allargava, almeno per quel poco di stoffa che c'era dai fianchi
in giù. Mia nonna si sarebbe piazzata sulla soglia per impedirmi di uscire, ma io adoravo quell'abito ed ero riuscita ad
acquistarlo in saldo a un prezzo stracciato da Tara's Togs, anche se avevo il sospetto che Tara fosse stata tanto gentile da
metterlo da parte apposta per me. Agendo sulla spinta di un
impulso incontenibile quanto poco saggio, avevo acquistato
scarpe e rossetto intonati al vestito e adesso anche le unghie
erano in tinta, grazie a Janice! Il tutto era completato da uno
scialle frangiato di seta grigia e nera, e da una borsettina dello stesso colore delle scarpe e ricoperta di perline.
«Girati di nuovo», suggerì Alcide, con voce un po' rauca.
Aveva optato per un completo nero, una camicia bianca e
una cravatta a disegni verdi che s'intonava ai suoi occhi. Invece, sembrava che nulla potesse domare la sua chioma. ..
forse avrebbe dovuto andare lui al mio posto al salone di bellezza. Comunque, appariva avvenente e rude, anche se "attraente" sarebbe forse stato un termine più adatto per definirlo.
Eseguii un altro lento giro su me stessa e, nel completarlo, l'insicurezza mi indusse a inarcare le sopracciglia in una
tacita domanda.
«Fai venire l'acquolina in bocca», dichiarò lui in tutta
sincerità, e io rilasciai un respiro che non mi ero accorta di
trattenere.
«Grazie», risposi, cercando di non sorridere come una
scema.
Riuscire a salire sul furgone di Alcide non fu facile, con
il vestito così corto e i tacchi tanto alti, ma grazie a una spinta tattica da parte sua alla fine ce la feci.
La destinazione era un piccolo locale all'angolo fra Capitol e Roach. Dall'esterno, il Mayflower Cafe non colpiva in
modo particolare, però risultò interessante come Alcide mi
aveva detto. Sedute ai tavoli sparsi qua e là sul pavimento di
piastrelle bianche e nere, alcune persone erano vestite come
noi con la massima eleganza, altre indossavano flanella e fustagno, e qualcuna si era perfino portata il vino o il liquore
da casa. Per fortuna, Alcide e io non eravamo grandi bevito-
ri: lui ordinò soltanto una birra, io presi del tè freddo. Le pietanze erano buone ma non elaborate e la cena fu lenta, prolungata e interessante. Parecchi conoscevano Alcide e passarono dal nostro tavolo per salutarlo e scoprire chi fossi; tra
loro c'era personale governativo, altri che lavoravano nell'edilizia, come Alcide, e forse qualche amico di suo padre.
Non tutti erano rispettosi della legge. Anche se ho vissuto
tutta la mia vita a Bon Temps, riconosco i farabutti quando
vedo il prodotto del loro cervello. Non sto dicendo che quegli uomini stessero pensando di far fuori qualcuno o di corrompere dei senatori o a qualche altra cosa specifica del genere. I loro pensieri erano semplicemente avidi... avidi di denaro, di me e, in un caso, di Alcide (però lui non se ne accorse).
Soprattutto, però, tutti quegli uomini erano avidi di potere. Del resto, suppongo che nella capitale di uno Stato, per
quanto povero come il Mississippi, la fame di potere sia quasi inevitabile.
Le donne che accompagnavano gli uomini più avidi erano quasi tutte estremamente curate e vestite in modo molto
costoso, ma almeno per quella sera potevo reggere il confronto e le affrontai a testa alta. Una pensò che fossi una prostituta di lusso, ma lo presi come un complimento, almeno
per quella notte, visto che quanto meno mi aveva giudicata
un intrattenimento costoso. Un'altra donna, una banchiera,
conosceva Debbie, l'ex ragazza di Alcide, e mi esaminò da
capo a piedi, pensando che l'amica avrebbe gradito una descrizione dettagliata.
Naturalmente, nessuno sapeva qualcosa su di me. Era
meraviglioso trovarmi in mezzo a gente che non aveva idea
delle mie origini e della mia educazione, di quale fosse la
mia occupazione o quali talenti possedessi. Decisa a godere a
fondo di quella sensazione, mi concentrai perché non volevo
parlare a meno che mi si rivolgesse la parola, né macchiare il
mio splendido vestito mangiando, mentre controllavo le mie
maniere, sia a tavola che socialmente. Infatti, pur godendomela, ritenevo che sarebbe stato un peccato mettere in imbarazzo Alcide per quei pochi giorni che ci saremmo frequentati.
Alcide afferrò il conto prima che potessi allungare la
mano e mi fissò accigliato quando aprii bocca per protestare,
per cui alla fine mi arresi con un piccolo cenno del capo.
Dopo quella lotta silenziosa, notai con piacere che aveva lasciato una mancia generosa, alimentando la mia stima per
lui. A dire il vero, lo stavo già stimando anche troppo: meglio alzare le antenne per cogliere in lui qualche tratto negativo. Quando risalimmo sul furgone, e questa volta lui mi
aiutò di più, dandomi la certezza di aver apprezzato a fondo
la manovra, eravamo entrambi silenziosi e meditabondi.
«Non hai parlato molto durante la cena», osservò. «Non
ti sei divertita?».
«Oh, certo che mi sono divertita. Solo che là non mi pareva opportuno esprimere opinioni».
«Che impressione ti ha fatto Jake O'Malley?», mi chiese.
O'Malley, un uomo sulla sessantina con spesse sopracciglia
grigio acciaio, si era fermato a parlare con Alcide per almeno
cinque minuti, continuando a occhieggiare nella mia scollatura.
«Credo che intenda fregarti alla grande», dichiarai.
Fu un bene che lui non avesse ancora messo in moto. Accesa la luce interna della cabina, si girò a guardarmi con
espressione d'un tratto cupa. «Di che stai parlando?».
«Ha intenzione di fare un'offerta più bassa della tua alla
prossima asta d'appalto, perché ha corrotto una del tuo ufficio... una certa Thomasina qualcosa... perché gli faccia sapere la tua offerta massima. E poi...».
«Ma cosa...?».
Ero davvero felice che il riscaldamento fosse acceso al
massimo, perché quando i lupi mannari sinfuriano è possibile avvertirne il riflesso nell'aria circostante. Avevo davvero
sperato di non essere costretta a spiegare ciò che ero. Non essere riconosciuta era stato così piacevole...
«Che cosa sei?», precisò intanto Alcide, per essere certo
che avessi capito.
«Una telepate», borbottai in modo quasi indistinto.
Seguì una lunga pausa di silenzio, mentre lui assimilava
l'informazione.
«Senti mai niente di buono?», domandò alla fine.
«Certo. La signora O'Malley vorrebbe saltarti addosso»,
risposi con uno smagliante sorriso, ricordando a me stessa
che non dovevo tirarmi i capelli.
«E questa è una cosa buona?».
«Be'», ribattei, «meglio essere fottuto fisicamente che finanziariamente». La signora O'Malley, certo di vent'anni più
giovane del marito, era la persona più curata che avessi mai
visto: ero pronta a scommettere che ogni sera si spazzolava
cento volte le sopracciglia.
Alcide scosse il capo. I suoi pensieri non mi stavano offrendo nessuna immagine nitida. «E cosa dici di me? Riesci
a leggermi nella mente?».
Ci siamo, pensai. «I mutaforme non sono così facili da
decifrare», spiegai. «Non sono in grado di intercettare una
nitida linea di pensiero, recepisco piuttosto degli stati d'animo, delle intenzioni, cose del genere, anche se credo che riuscirei a cogliere un pensiero indirizzato direttamente a me.
Vuoi provarci? Pensa qualcosa rivolto a me».
I piatti che uso nell'appartamento hanno un bordo di
rose gialle.
«Non le definirei delle rose», obiettai in tono dubbioso.
«A mio parere sembrano piuttosto delle zinnie».
Potei avvertire il suo ritrarsi in se stesso, il suo farsi guardingo, e sospirai. Sempre la solita vecchia storia, dolorosa
perché lui mi piaceva.
«Pescare direttamente i pensieri dalla tua testa è però una
cosa nebulosa», dissi. «Non sono in grado di farlo in modo
coerente se si tratta di mannari e mutaforme». In realtà, alcuni esseri sovrannaturali erano decisamente facili da leggere,
ma non mi parve il momento adatto per precisarlo.
«Grazie a Dio», commentò.
«Davvero?», lo punzecchiai maliziosa, per alleggerire
l'atmosfera. «Cosa hai paura che possa leggere?».
Alcide addirittura sorrise prima di spegnere la lucetta e
uscire dal parcheggio. «Non importa», replicò in tono quasi
distratto. «Non importa. Quindi quello che farai stanotte sarà
leggere nelle menti in cerca di qualche indizio sul luogo
dove si trova il tuo vampiro?».
«Esatto. Non posso leggere nella mente dei vampiri perché pare non emettano nessuna onda cerebrale, o almeno è in
questi termini che interpreto la cosa. Non so come mi sia
possibile, né se esista una terminologia scientifica per la faccenda», dissi. Non stavo proprio mentendo: il pensiero dei
non-morti mi appariva davvero indecifrabile. .. salvo qualche
fugace occhiata che mi riusciva di tanto in tanto (cose di nessunissima importanza e da non far conoscere perché, se i
vampiri avessero pensato che fossi in grado di leggere loro
nella mente, neppure Bill sarebbe riuscito a salvarmi, sempre
che avesse voluto farlo).
Ogni volta che mi capitava di dimenticare per un secondo che il nostro rapporto era radicalmente cambiato, dovermene poi ricordare causava un dolore terribile.
«Allora qual è il tuo piano?».
«Il mio bersaglio sono gli umani che frequentano o servono i vampiri locali. Sono stati degli umani ad agire, dato
che è stato rapito in pieno giorno... almeno secondo quanto è
stato riferito a Eric».
«Queste cose avrei dovuto chiedertele prima», rifletté Alcide, parlando tra sé, poi disse: «Forse è meglio che racconti
i dettagli, nel caso mi capiti di sentire qualcosa in modo normale, con le orecchie».
Mentre passavamo accanto alla vecchia stazione ferroviaria, come mi spiegò Alcide, gli fornii un rapido resoconto.
Dopo un po' scorsi un cartello stradale che recava la scritta
«Amite», proprio mentre ci fermavamo davanti a una tettoia
di tela che si stendeva sopra un tratto di marciapiede deserto,
al confine della zona centrale di Jackson. L'area sotto alla
tettoia era rischiarata da una luce fredda e intensa, eppure
quel tratto appariva sinistro, magari perché il resto della strada era al buio. Un senso di disagio mi percorse la schiena e
provai una profonda riluttanza a fermarmi in quel punto.
Mi dissi che era una sensazione stupida, che si trattava
soltanto di una striscia di cemento e non c'erano bestie pericolose in vista. Dopo la chiusura degli uffici alle cinque, il
centro di Jackson non era esattamente un posto affollato,
neppure in circostanze normali, ed ero pronta a scommettere
che in quella fredda notte di dicembre la maggior parte dei
marciapiedi dell'intero Stato del Mississippi fosse altrettanto
deserta.
Nell'aria c'era però qualcosa di sinistro, un'attenzione
pervasa di malizia, e degli occhi ci stavano osservando, invisibili. Quando Alcide, uscito dal furgone, passò dal mio lato
per aiutarmi a scendere, notai che aveva lasciato le chiavi nel
cruscotto. Girate le gambe verso l'esterno, posai le mani sulle
sue spalle, con la lunga stola di seta avvolta saldamente intorno alle mie e agitata da un'improvvisa folata di vento gelido, poi spinsi mentre lui mi sollevava e mi ritrovai sul marciapiede.
Il furgone se ne andò da solo.
Lanciai un'occhiata in tralice ad Alcide, per vedere se ne
fosse sorpreso, ma dava decisamente l'impressione di considerarlo normale. «I veicoli parcheggiati davanti al locale attirerebbero l'attenzione», spiegò sottovoce in quel tratto di
marciapiede inondato di luce fredda.
«Ma la gente normale ci può entrare?», domandai accennando al battente metallico della porta, che aveva l'aspetto
meno invitante che una porta potesse avere. Nessun nome
era affisso né lì né sull'edificio, e non c'era neppure traccia di
decorazioni natalizie (naturalmente, i vampiri non osservano
le festività, a parte Halloween, che è l'antica festa di Samhain
rivestita ora di orpelli che loro trovano deliziosi. Per questo
motivo Halloween è prediletta e celebrata in tutto il mondo
dalla comunità dei vampiri).
«Certo, se vuole pagare venti dollari di coperto e bere i
drink peggiori che si possano trovare nell'arco di cinque Sta-
ti, serviti dai camerieri più lenti e maleducati che si possa
immaginare».
Cercai di reprimere il sorriso che mi era affiorato alle
labbra, perché quello non era un posto che invitasse a sorridere. «E se riescono a resistere?».
«Non ci sono spettacoli e nessuno rivolge loro la parola;
se persistono, finiscono per ritrovarsi sul marciapiede, diretti
alla loro macchina, senza ricordare come siano finiti lì»,
spiegò Alcide afferrando la maniglia e aprendo la porta.
L'aura di minaccia che permeava l'aria non pareva avere alcun effetto su di lui.
Ci ritrovammo in un angusto atrio, bloccato da una seconda porta che distava poco più di un metro dalla prima.
Avvertii di nuovo la sensazione di essere osservata, anche se
non riuscii a scorgere telecamere o spioncini da nessuna parte.
«Questo posto ha un nome?», sussurrai.
«Il vampiro che lo possiede lo chiama Josephine's», rispose Alcide, in tono altrettanto sommesso, «ma i mannari lo
chiamano il Club dei Morti».
Stavo per ridere, ma la porta interna si aprì proprio in
quel momento.
Il portiere era un goblin.
Non ne avevo mai visto uno prima, ma la parola "goblin"
mi affiorò nella mente come se avessi avuto un dizionario
del sovrannaturale stampato all'interno delle palpebre. Di
bassa statura e dall'aspetto malaticcio, aveva una faccia bi-
torzoluta e grandi mani, e i suoi occhi erano pieni di fuoco e
malvagità mentre ci fissava come se dei clienti fossero stati
l'ultima cosa di cui aveva bisogno.
Perché mai un tizio normale dovrebbe desiderare di entrare da Josephine's dopo l'effetto cumulativo del marciapiede stregato, del veicolo che svaniva e del portiere goblin?...
Be', suppongo che alcune persone nascano con il desiderio di
farsi ammazzare.
«Signor Herveaux», disse lentamente il goblin, con voce
profonda e ringhiante. «E' un piacere riaverla qui. E la sua
compagna è...».
«La signorina Stackhouse», rispose Alcide. «Sookie,
questo è il signor Hob». Il goblin mi esaminò con quei suoi
occhi roventi e si mostrò leggermente turbato, come se non
riuscisse a inserirmi in una precisa categoria, ma dopo un secondo si trasse da parte per farci passare.
Il Josephine's non era molto affollato, ma naturalmente
era ancora piuttosto presto per i suoi clienti. Dopo la tensione spettrale che caratterizzava l'esterno, la grande stanza risultò quasi deludente, un qualsiasi altro bar. Il grande bancone quadrato, situato al centro, aveva una sezione sollevabile
che permetteva al personale di andare e venire, e mi chiesi se
il proprietario avesse visto le repliche di Cin cin. I bicchieri
erano appesi capovolti nelle rastrelliere e c'erano piante artificiali, musica di sottofondo e luci soffuse. Tutt'intorno al
bancone lucidi sgabelli erano disposti a intervalli regolari;
alla sinistra, oltre una piccola pista da ballo, era posizionato
un minuscolo palco per una band o un DJ. Agli altri tre lati si
trovavano i consueti tavolini, occupati più o meno per metà.
Poi il mio sguardo si posò su un ambiguo regolamento
affisso alla parete, composto da regole comprensibili per i
clienti abituali ma non per un turista occasionale. «Non sono
ammessi mutamenti nel locale», asseriva severamente una di
esse (intendendo che mannari e mutaforme non potevano
passare dalla forma umana a quella animale mentre si trovavano là, cosa che potevo capire). Un'altra ingiungeva «Non
sono ammessi morsi di nessun tipo» e una terza specificava
«Vietati gli spuntini vivi». Bleah.
I vampiri erano sparsi in tutto il locale, alcuni in compagnia di loro simili, altri insieme a degli umani. C'era un rumoroso gruppo di mutaforme in un angolo, dove parecchi tavoli erano stati uniti per accogliere la numerosa comitiva, il
cui centro pareva essere una giovane donna di alta statura,
con capelli neri lucidi e corti, una corporatura atletica e un
volto lungo e sottile. Era praticamente spalmata addosso a un
uomo massiccio più o meno della sua età, di circa ventott'anni. L'uomo aveva gli occhi rotondi, il naso piatto e i capelli
più soffici che avessi mai visto, fini quasi quanto quelli di un
neonato e di un biondo talmente chiaro da apparire quasi
bianco. Mi chiesi se si trattasse della famosa festa di fidanzamento e se Alcide ne fosse stato informato. Comunque la sua
attenzione si era concentrata su quel gruppo.
Naturalmente, per prima cosa verificai come fossero vestite le altre donne presenti nel locale. Le vampire e quelle
che accompagnavano i vampiri erano più o meno al mio stesso livello, mentre le femmine mutaforme avevano la tendenza a curare un po' meno il vestiario. La donna con i capelli
neri che supponevo essere Debbie portava una camicetta di
seta dorata, aderentissimi pantaloni di pelle marrone e stivali.
Mentre la osservavo, lei scoppiò a ridere per un commento
dell'uomo biondo e io sentii il braccio di Alcide irrigidirsi
sotto le mie dita: sì, doveva proprio essere la sua ex fidanzata, e pareva che se la stesse godendo ancor di più da quando
aveva visto entrare Alcide.
Bastò il tempo di uno schiocco di dita per concludere che
quella Debbie era una stronza ipocrita, e decidere di comportarmi di conseguenza. Il goblin Hob ci fece strada fino a un
tavolo vuoto in piena vista dell'allegra comitiva e tirò indietro una sedia per farmi sedere. Rivolgendogli un cortese cenno di ringraziamento, mi tolsi la stola, la ripiegai e la lasciai
cadere su una sedia vuota mentre Alcide prendeva posto alla
mia destra, la schiena rivolta al gruppo di mutaforme che stava festeggiando così rumorosamente.
Un vampiro tutt'ossa venne a prendere le nostre ordinazioni e Alcide mi invitò con un gesto della testa a dire cosa
desiderassi. «Un cocktail allo champagne», chiesi, senza
avere idea di che sapore avesse. Al Merlotte's non mi ero mai
presa la briga di prepararmene uno, ma adesso che mi trovavo nel locale di qualcun altro pensavo che valesse la pena di
assaggiarlo. Alcide ordinò una Heineken. Notando che Debbie stava scoccando numerose occhiate nella nostra direzio-
ne, mi inclinai verso Alcide e gli allontanai dalla fronte una
ciocca di ricciuti capelli neri, un gesto a cui lui reagì con
un'espressione sorpresa che, naturalmente, Debbie non fu in
grado di vedere.
«Sookie?», mi chiese, in tono piuttosto dubbioso.
Risposi con un sorriso... naturale, non quello di quando
sono nervosa, perché per una volta non lo ero. Grazie a Bill,
avevo acquisito un minimo di fiducia nelle mie qualità fisiche. «Ehi, sono la tua ragazza, ricordi? E mi sto comportando come tale», replicai.
In quel momento, il vampiro magro tornò con le nostre
ordinazioni e io brindai toccando con il mio bicchiere la sua
bottiglia di birra. «Alla nostra joint venture», dissi, e il suo
sguardo s'illuminò.
Bevemmo e io capii che adoravo i cocktail allo champagne. «Parlami della tua famiglia», chiesi poi. Mi piaceva
ascoltare la sua voce sonora e, in ogni caso, dovevo aspettare
che nel bar arrivassero più umani, prima di poter iniziare a
sondare i pensieri altrui.
Obbediente, Alcide cominciò a raccontarmi di quanto suo
padre fosse stato povero quando aveva avviato la sua ditta di
rilevamenti topografici e del tempo impiegato a farla diventare prospera. Aveva appena iniziato a parlarmi di sua madre,
quando Debbie si avvicinò con andatura disinvolta e provocante.
Prima o poi doveva succedere.
«Ciao, Alcide», esordì in tono mielato. Un tremito percorse il volto di lui, che non aveva potuto vederla arrivare.
«Chi è la tua nuova amica? L'hai presa a prestito per la serata?».
«Oh, per un tempo molto più lungo», ribattei con chiarezza, rivolgendole un sorriso che gareggiava con il suo
quanto a sincerità.
«Davvero?», commentò lei. Se le sue sopracciglia si fossero sollevate ulteriormente, sarebbero arrivate in cielo.
«Sookie è una buona amica», dichiarò Alcide, impassibile.
«Ah, sì?», disse dubitando delle sue parole. «Non è passato poi molto da quando mi hai detto che non avresti mai
avuto un'altra "amica" se non potevi avere... be'...», e concluse la frase con un sorrisetto affettato.
Coprii l'enorme mano di Alcide con la mia e rifilai a
Debbie un'occhiata carica di sottintesi.
«Dimmi», mi chiese Debbie, incurvando le labbra in
un'espressione scettica, «ti piace quella voglia che ha
Alcide?».
Chi avrebbe potuto prevedere che si sarebbe dimostrata
tanto stronza in pubblico? La maggior parte di questo genere
di donne cerca di camuffarsi, almeno davanti agli estranei.
E' sul mio gluteo destro, a forma di coniglio. Questa sì
che era una fortuna: Alcide si era ricordato quello che gli
avevo detto e mi aveva indirizzato direttamente quel pensiero.
«Adoro i coniglietti», dichiarai, continuando a sorridere,
e feci scorrere la mano lungo la schiena di Alcide fino a sfiorargli con estrema leggerezza l'inizio del gluteo destro.
Per un secondo, sul volto di Debbie lessi un'ira funesta.
Era così concentrata, così controllata che la sua mente mi appariva molto meno opaca di quella della maggior parte dei
mutaforme. Stava pensando al suo fidanzato gufo, che a letto
non valeva quanto Alcide, ma che d'altronde aveva un mucchio di soldoni ed era disposto ad avere dei figli, al contrario
di Alcide. E lei era più forte del gufo, era in grado di dominarlo.
Non era demoniaca (il suo fidanzato avrebbe avuto una
vita davvero breve, se lo fosse stata), ma neppure uno zuccherino.
Debbie avrebbe ancora potuto salvare la situazione, ma
la scoperta che io conoscevo il piccolo segreto di Alcide la
fece infuriare per cui commise un grosso errore.
Mi trapassò con un'occhiata che avrebbe paralizzato un
leone, notando i riccioli accuratamente disordinati e la manicure. Quanto a lei, i suoi dritti capelli neri erano stati tagliati
in ciocche asimmetriche di lunghezze differenti e questo la
faceva somigliare in modo vago a un cane da mostra, forse a
un afghano, somiglianza accentuata dal suo volto sottile. «A
quanto pare, oggi sei stata al salone di Janice. Chi esce di lì
sembra sempre provenire da un altro secolo».
Alcide aprì la bocca e s'irrigidì per l'ira, ma io gli posai
una mano sul braccio.
«Tu cosa ne pensi dei miei capelli?», gli chiesi dolcemente, muovendo appena la testa in modo da far scivolare la
massa ricciuta sulle mie spalle nude, poi gli presi la mano e
la premetti con delicatezza sui ricci che mi ricadevano sul
seno. Ehi, stavo scoprendo in me doti inaspettate: Sookie, la
gattina sensuale.
Alcide trattenne il fiato e fece scorrere le dita tra i miei
capelli, sfiorando la clavicola con le nocche. «Penso che siano splendidi», rispose, con voce insieme rauca e sincera.
Gli sorrisi.
«Non credo che ti abbia presa a prestito, ti deve aver affittata», dichiarò Debbie, pungolata dall'ira a commettere un
errore irreparabile.
Si trattava di un insulto terribile, per entrambi, e io dovetti fare appello a ogni briciola di determinazione per mantenere un signorile controllo, perché potevo sentir affiorare
dentro di me il mio io più primitivo e autentico. Di fronte al
nostro silenzio e al modo in cui la stavamo fissando, la mutaforme impallidì. «D'accordo, non avrei dovuto dirlo», ammise in tono nervoso. «Fate conto che non abbia parlato».
Una mutaforme avrebbe avuto di certo la meglio su di
me in uno scontro leale, ma, se si fosse giunte a questo, io
non avevo nessuna intenzione di combattere lealmente.
Protendendomi in avanti, sfiorai i suoi pantaloni di pelle
con la punta di un'unghia. «Indossi tua cugina Elsie?», domandai.
Inaspettatamente, Alcide scoppiò a ridere al punto di piegarsi su se stesso; gli sorrisi e, quando sollevai nuovamente
lo sguardo, vidi che Debbie stava tornando a grandi passi
verso il suo gruppo, su cui era calato il silenzio durante le
nostre ultime battute.
Mentalmente, presi nota di non andare da sola nella toilette delle signore per il resto della serata.
Quando Alcide e io ordinammo un secondo giro, il locale
era ormai pieno. Alcuni amici mannari di Alcide arrivarono
in un gruppo nutrito... Se ho ben capito, ai mannari piace circolare in branco, mentre per i mutaforme dipende dal genere
di animale in cui hanno la tendenza a trasformarsi. Sam mi
aveva detto che, nonostante la loro teorica versatilità, i mutaforme si trasformavano per lo più sempre nello stesso animale, una creatura con cui avevano una particolare affinità, e
potevano decidere di definirsi in base al tipo di animale in
questione: cane mannaro, pipistrello mannaro, o tigre mannara. Però mai solo "mannari", perché il termine era riservato
esclusivamente ai lupi. I veri lupi mannari disprezzavano tutta quella varietà di forme, considerandosi la crema del mondo mutaforme.
I mutaforme generici, dal canto loro, così mi spiegò Alcide, vedevano nei lupi mannari i criminali dell'universo soprannaturale. «In effetti, trovi molti di noi che svolgono mestieri connessi all'edilizia», aggiunse, mettendocela tutta a
essere sincero. «Un sacco di mannari sono meccanici, muratori, idraulici o cuochi».
«Mestieri utili», osservai.
«Sì», convenne lui, «ma non sono precisamente lavori da
manager. Quindi, per quanto tutti collaboriamo gli uni con
gli altri, in certa misura, esiste comunque una notevole discriminazione classista».
In quel momento entrò nel locale un piccolo gruppo di
mannari in tenuta da motociclisti. Indossavano lo stesso
giubbotto con la testa di lupo dell'uomo che mi aveva aggredita al Merlotte's. Mi chiesi se avessero già cominciato a cercare il loro compagno, se avessero ora un'idea più precisa
della persona che stavano cercando e cosa avrebbero fatto se
avessero capito chi ero. I quattro ordinarono parecchi boccali
di birra e cominciarono a parlare fra loro a bassa voce, le teste ravvicinate e le sedie a ridosso del tavolo.
Intanto un DJ, che sembrava essere un vampiro, iniziò a
suonare dei dischi a un volume perfetto, che ti permetteva di
godere della canzone senza che però disturbasse la conversazione.
«Balliamo», propose Alcide.
Non me l'aspettavo, ma accettai perché mi avrebbe permesso di avvicinarmi ai vampiri e ai loro accompagnatori
umani. Alcide scostò la sedia mentre mi alzavo, poi mi prese
per mano per guidarmi verso la minuscola pista da ballo. Opportunamente, il DJ sostituì il brano heavy metal che stava
suonando con Good Enough di Sarah McLachlan, che è lento
ma ha un buon ritmo.
Non so cantare, però sono brava a ballare, e scoprii che
lo era anche Alcide.
L'aspetto positivo del ballo è che ti libera per un po' dalla
necessità di parlare, se senti di aver esaurito gli argomenti;
l'aspetto negativo è che ti rende anche troppo consapevole
del corpo del tuo partner. Già in precedenza avevo percepito
fin troppo intensamente il... ecco, il magnetismo animale di
Alcide, e adesso nel trovarmi così vicina a lui, intenta a seguire ogni sua mossa e a oscillare con lui al ritmo della musica, scivolai in una sorta di trance. Quando la musica finì, rimanemmo sulla pista e tenni lo sguardo fisso sul pavimento
finché non ebbe inizio un altro brano, più svelto... Non avrei
potuto dire di che canzone si trattasse neppure se ne fosse
andato della mia vita, ma mi ritrovai di nuovo a ballare, ruotando e muovendomi come in estasi con Alcide.
Poi il tozzo uomo muscoloso che sedeva su uno sgabello
del bar, alle nostre spalle, disse al vampiro che gli sedeva accanto: «Non ha ancora parlato. Oggi Harvey ha chiamato e
ha detto che hanno perquisito la casa senza trovare niente».
«Siamo in pubblico», lo redarguì il suo compagno, in
tono tagliente. Quel vampiro era di statura molto bassa... forse perché era stato trasformato quando la razza umana era
meno alta.
Sapevo che stavano parlando di Bill: il suo nome era affiorato nella mente dell'umano mentre diceva «Non ha anco-
ra parlato». Fra l'altro, quell'uomo trasmetteva con eccezionale chiarezza, inviando in modo nitido suoni e immagini.
Quando Alcide cercò di pilotarmi lontano, opposi resistenza e risposi alla sua espressione sorpresa con un'occhiata
ai due. Lui comprese al volo, ma non ne parve molto contento.
Non consiglierei a nessuno di ballare mentre si cerca di
leggere nella mente di un'altra persona. Avevo la testa sotto
sforzo, con il cuore che mi martellava per lo shock di intravedere sporadiche immagini di Bill, ma per fortuna Alcide
mi chiese di scusarlo per un momento e andò alla toilette degli uomini, parcheggiandomi temporaneamente su uno sgabello del bar, proprio accanto al vampiro, dove lo attesi guardando le altre coppie che ballavano, il DJ e qualsiasi cosa
che non fosse l'uomo di cui stavo cercando di sondare la
mente, quello seduto alla sinistra del vampiro.
Lui stava pensando a quello che aveva fatto durante la
giornata, trascorsa cercando di tenere sveglio qualcuno che
aveva un disperato bisogno di dormire... un vampiro. Bill.
Tenere sveglio un vampiro durante le ore diurne, cioè il
peggior tipo di tortura immaginabile, era difficile in quanto
la compulsione a dormire con il sorgere del sole era un imperativo e quel sonno assomigliava alla morte.
In qualche modo, forse perché sono americana, non mi
era mai passato per la mente che i vampiri che avevano rapito Bill potessero aver fatto ricorso a mezzi violenti per indurlo a parlare, ma, se davvero volevano quelle informazioni,
era ovvio che non avrebbero aspettato con le mani in mano
che Bill si decidesse a fornirgliele. Ero stata davvero stupida... ottusa, ottusa, ottusa! Pur sapendo che mi aveva tradita,
che mi aveva lasciata per la sua amante vampira, non potevo
non sentirmi profondamente colpita.
Ero così immersa nelle mie tristi riflessioni che non vidi
il guaio finché non mi afferrò per un braccio.
Un membro della banda di mannari, un tipo grosso dai
capelli neri, davvero massiccio e puzzolente, mi aveva afferrata per il braccio e stava disseminando di impronte unte le
mie splendide maniche rosse. Cercai di liberarmi dalla sua
stretta.
«Vieni al nostro tavolo e fatti conoscere meglio, dolcezza», disse sorridendomi. Da un lato aveva un paio di orecchini e mi chiesi che fine facessero con la luna piena. Subito
però mi resi conto che avevo problemi più gravi da risolvere,
perché l'espressione di quell'uomo era troppo franca, del tipo
con cui gli uomini contemplavano soltanto quelle donne che
se ne stavano ferme a un angolo di strada in calzoncini aderenti e reggiseno. In altre parole, la dava già per fatta.
«No, grazie», rifiutai cortesemente. Avevo la fastidiosa,
sgradevole sensazione che la cosa non sarebbe finita lì, ma
tentar non nuoce. Al Merlotte's avevo fatto molta esperienza
nel liberarmi di soggetti invadenti, ma là ero sempre spalleggiata, perché Sam non tollerava che le sue cameriere venissero palpeggiate o insultate.
«Avanti, tesoro, sono certo che vuoi venire a
conoscerci», insistette lui e, per la prima volta nella mia vita,
desiderai che Bubba fosse lì.
Decisamente, mi stavo abituando troppo a vedere le persone che m'infastidivano andare incontro a una brutta fine, e
forse mi stavo abituando troppo anche a vedere parte dei
miei problemi risolta da altri.
Pensai di spaventare il mannaro leggendogli nella mente:
non doveva essere difficile perché aveva una mente molto
aperta per un mannaro. Però, oltre al fatto che i suoi pensieri
erano noiosi e scontati (desiderio sessuale e aggressività),
magari lui e la sua banda erano stati incaricati di trovare la
ragazza del vampiro Bill, e se sapevano che si trattava di una
cameriera e di una telepate, scoprire che io ero una telepate
avrebbe...
«No, non voglio venire a sedermi con voi», dissi secca.
«Lasciami in pace». E scesi dallo sgabello per non rimanere
intrappolata in quella posizione.
«Non hai un uomo, dolcezza, e noi siamo veri uomini»,
dichiarò, chiudendo la mano libera a coppa intorno ai propri
attributi. Davvero affascinante... questo sì che mi eccitava.
«Ti terremo allegra».
«Non potresti tenermi allegra neppure se fossi Babbo Natale», ribattei, calando con tutte le mie forze un tacco sul collo del suo piede, una mossa efficace se lui non avesse avuto
indosso stivali da motociclista, mentre così rischiai il mio
tacco. Imprecavo mentalmente contro le unghie finte che
m'impedivano di serrare a pugno la mano libera: un pugno al
naso fa un male notevole e lo avrebbe costretto ad abbandonare la presa.
Al mio colpo sul piede il mannaro ringhiò, e ringhiò davvero, poi con l'altra mano mi afferrò la spalla nuda, affondandovi le unghie.
Se fino a quel momento avevo cercato di non fare chiasso e di risolvere il problema senza creare scompiglio, ora
smisi di preoccuparmene. «Lasciami andare!», urlai e feci
un eroico tentativo di assestargli una ginocchiata all'inguine.
Un po' per le cosce massicce, un po' per il poco spazio, non
riuscii a centrare bene il bersaglio, ma comunque sobbalzò e
abbandonò la presa sulla spalla, non senza graffiarmi la pelle.
Forse, però, era anche dovuto al ritorno di Alcide, che lo
aveva afferrato per la collottola. Pure il signor Hub intervenne, proprio mentre il resto della banda aggirava a precipizio
il bancone per correre in aiuto del compagno in difficoltà. A
quanto pareva, il goblin portiere fungeva anche da buttafuori: nonostante la sua statura estremamente bassa, circondò
con le braccia la vita del motociclista e lo sollevò senza difficoltà, mentre lui iniziava a urlare e un odore di carne bruciata si diffondeva nel locale. L'esile barista attivò la ventola,
che contribuì notevolmente a migliorare l'atmosfera, ma le
urla del motociclista echeggiarono mentre percorrevano uno
stretto corridoio buio che non avevo notato in precedenza e
che doveva condurre all'uscita posteriore. Si sentirono poi un
forte clangore metallico, un grido e lo stesso clangore che si
ripeteva, segno evidente che la porta posteriore del bar era
stata aperta e richiusa dopo aver scaraventato fuori il disturbatore.
Alcide si era girato a sfidare gli amici del motociclista,
mentre io, ferma alle sue spalle, tremavo per lo spavento e
sanguinavo dai graffi che le unghie del motociclista mi avevano lasciato sulla spalla. Avevo bisogno di un po' di Neosporin, il disinfettante che mia nonna mi aveva applicato sulle ferite da quando mi ero ribellata alla tintura di iodio, ma il
pronto soccorso avrebbe dovuto aspettare perché pareva che
avremmo dovuto affrontare un altro scontro. Nel guardarmi
intorno alla ricerca di un'arma, vidi che la barista aveva tirato
fuori una mazza da baseball, posandola sul bancone, e con
aria guardinga teneva d'occhio la situazione. Afferrata la
mazza, presi posizione accanto ad Alcide e attesi la mossa
successiva. Come mio fratello Jason mi aveva insegnato
(temo sulla base dell'esperienza fatta in numerose risse da
bar), scelsi un uomo in particolare e mi visualizzai nell'atto
di calargli la mazza sul ginocchio, bersaglio per me molto
più accessibile della sua testa, certa che un colpo del genere
lo avrebbe comunque neutralizzato.
Poi qualcuno avanzò nella terra di nessuno che separava
me e Alcide dai mannari: si trattava del vampiro di bassa statura che aveva parlato con l'umano la cui mente era stata per
me fonte di sgradevoli informazioni.
Alto meno di un metro e settanta, scarpe comprese, quel
vampiro era anche di costituzione esile e doveva essere morto appena ventenne. Rasato e pallidissimo in volto, aveva occhi del colore del cioccolato fondente, che creavano uno stridente contrasto con i suoi capelli rossi.
«Signorina, chiedo scusa per questa sgradevole situazione», disse con voce sommessa, dal pesante accento del Sud,
il più marcato che avessi sentito da quando la mia ava era
morta, oltre vent'anni prima.
«Mi dispiace che la pace del locale sia stata turbata», replicai, facendo appello a tutta la dignità che mi era possibile
raggranellare nel brandire una mazza da baseball a piedi
nudi, perché mi ero istintivamente liberata delle scarpe a tacco alto per combattere meglio. Abbandonando la posizione
di difesa, chinai il capo in direzione del vampiro, mostrando
di riconoscere la sua autorità.
«Adesso voialtri ve ne dovreste andare, dopo esservi scusati con la signora e con il suo accompagnatore», aggiunse il
vampiro minuto, girandosi verso i mannari.
Ma questi esitarono, a disagio, perché nessuno di loro
voleva essere il primo a cedere. Uno dei tre, che era apparentemente più giovane e ottuso degli altri, un mannaro biondo
dalla folta barba e con una bandana legata intorno alla testa
in uno stile particolarmente stupido, aveva gli occhi accesi
dalla voglia di combattere ed era troppo orgoglioso per gestire quella situazione. L'atteggiamento rivelò la sua mossa prima ancora di agire, così con rapidità fulminea porsi la mazza
al vampiro, che l'afferrò in modo tanto repentino da fendermi
impossibile anche solo intravedere il suo movimento, usandola per spezzare una gamba al mannaro.
Sul locale scese il più assoluto silenzio mentre il biondo
motociclista urlante veniva trasportato fuori dai suoi amici,
che continuarono a ripetere parole di scusa finché non furono
fuori dal bar.
Poi tornò la musica e il vampiro minuto restituì la mazza
alla barista, mentre Alcide mi esaminava per verificare se
avessi riportato danni e io riprendevo a tremare.
«Sto bene», dissi, desiderando soltanto che tutti si decidessero a pensare agli affari propri.
«Ma lei sta sanguinando, mia cara», osservò il vampiro.
Era vero: dai graffi colava sangue. Conoscendo l'etichetta, sporsi la spalla verso il vampiro, offrendogliela.
«Grazie», rispose all'istante e la sua lingua saettò fuori.
Sapevo che la sua saliva mi avrebbe permesso di guarire meglio e più rapidamente, quindi rimasi immobile, anche se a
dire la verità mi sentivo come se qualcuno mi stesse palpeggiando in pubblico. Nonostante il disagio, mi sforzai di sorridere, ma si vedeva che non ero molto rilassata. Però Alcide
mi stava tenendo la mano, rassicurandomi.
«Mi dispiace di non essere arrivato prima», si scusò.
«Non lo potevi prevedere», replicai, mentre il vampiro
continuava a leccare anche se ormai dovevo aver smesso di
sanguinare.
Finalmente lui si raddrizzò, si passò la lingua sulle labbra
e mi sorrise: «E' stata un'esperienza davvero notevole. Posso
presentarmi? Sono Russell Edgington».
Russell Edgington, il re del Mississippi... dalla reazione
dei motociclisti avevo sospettato che si trattasse di lui. «Piacere di conoscerla», risposi cortesemente, chiedendomi se
avrei dovuto fare una riverenza; lui però non si era presentato fornendo il suo titolo. «Io sono Sookie Stackhouse e questo è il mio amico Alcide Herveaux».
«Conosco la famiglia Herveaux da anni», replicò il re
del Mississippi. «Piacere di vederti, Alcide. Come sta tuo padre?». Sembrava quasi che ci trovassimo fuori dalla Prima
Chiesa Presbiteriana, sotto il sole di una mattina domenicale,
e non in un bar di vampiri, a mezzanotte.
«Sta bene, grazie», rispose Alcide, che appariva un po' rigido. «Ci dispiace che ci siano stati problemi».
«Non per colpa vostra», concesse benignamente il vampiro. «A volte, un uomo può essere costretto a lasciare sola la
sua dama, e una dama non è responsabile per le cattive maniere degli idioti». Nel dirlo, Edgington mi rivolse addirittura
un inchino. Non sapevo come reagire, ma mi parve che un
cenno ancora più marcato del capo fosse la risposta migliore.
«Mia cara, lei è come una rosa sbocciata in un giardino incolto», aggiunse lui.
E tu racconti un sacco di balle, pensai. «Grazie, signor
Edgington», risposi, abbassando lo sguardo perché non mi
leggesse negli occhi lo scetticismo e domandandomi se non
avrei dovuto chiamarlo "Altezza". «Alcide, temo di aver bisogno di andare a casa», aggiunsi, cercando di calibrare la
voce perché suonasse sommessa, gentile e scossa, cosa che
mi riuscì fin troppo facilmente.
«Ma certo, cara», assentì lui all'istante. «Aspetta solo che
vada a prendere il tuo scialle e la tua borsa». E si avviò subito verso il nostro tavolo. Che uomo meraviglioso.
«Signorina Stackhouse, voglio che lei torni a trovarci domani sera», affermò Russell Edgington, mentre il suo amico
umano si fermava dietro di lui, posandogli le mani sulle spalle. «Non vogliamo che si lasci spaventare dalle cattive maniere di un singolo individuo», aggiunse, accarezzando le
mani dell'umano.
«Grazie, ne parlerò con Alcide», risposi attenta a non lasciar trasparire dalla mia voce il minimo entusiasmo; speravo
di riuscire ad apparire sottomessa ad Alcide senza sembrare
però del tutto priva di spina dorsale, perché le persone senza
spina dorsale non sopravvivevano a lungo in compagnia dei
vampiri. Russell Edgington era convinto di apparire come un
gentiluomo del Sud di vecchio stampo e, se quella era la sua
aspirazione, tanto valeva assecondarlo.
Alcide tornò indietro incupito. «Temo che il tuo scialle
abbia avuto un incidente», disse, e dal suo tono mi resi conto
che era infuriato. «Immagino sia opera di Debbie».
Nel mio splendido scialle di seta spiccava un grosso buco
bruciacchiato. Cercai invano di mantenere un'espresione im-
passibile, ma gli occhi divennero lucidi, forse anche perché
l'incidente con il motociclista mi aveva già scossa.
Edgington, naturalmente, non si perdeva un fiato.
«Meglio allo scialle che a me», e mi costrinsi a sorridere.
Se non altro, la borsetta sembrava intatta, anche se dentro
avevo soltanto una cipria compatta, un rossetto e contante
sufficiente a pagare la cena. Con mio estremo imbarazzo, Alcide si tolse la giacca e la tenne sollevata perché la infilassi.
Accennai una protesta, ma la sua espressione mi disse chiaramente che non intendeva accettare un no come risposta.
«Buonanotte, signorina Stackhouse», salutò il vampiro.
«Herveaux, ci vediamo domani sera? I tuoi impegni ti trattengono qui a Jackson?».
«Sì», confermò cordialmente Alcide. «Mi ha fatto piacere parlarti, Russell».
All'uscita dal club, trovammo il furgone parcheggiato di
fronte alla porta. Il marciapiede era minaccioso come al nostro arrivo; mi chiesi in che modo venisse ottenuto quell'effetto, ma ero troppo depressa per parlarne con il mio accompagnatore.
«Non avresti dovuto darmi la giacca», insorsi, dopo che
ci fummo allontanati di un paio di isolati. «Starai congelando».
«Sono più vestito di te», rispose Alcide, che in effetti, al
contrario di me, non stava tremando.
Mi raggomitolai nella giacca, assaporando la fodera in
seta, il calore e l'odore di lui.
«Non avrei mai dovuto lasciarti sola, con quegli sballati
presenti nel club».
«Tutti devono andare in bagno, è normale», obiettai pacatamente.
«Avrei dovuto chiedere a qualcuno di tenerti
compagnia».
«Sono abbastanza cresciuta e non ho bisogno di guardiani. Al bar gestisco di continuo piccoli incidenti del genere»,
dichiarai, e se diedi l'impressione di essere stanca dell'argomento, fu perché lo ero. Quando si fa la cameriera, non si
vede mai la parte migliore della natura maschile, neppure in
un locale come il Merlotte's, dove il proprietario protegge le
cameriere e la maggior parte della clientela è del luogo.
«In tal caso non dovresti lavorare là», dichiarò Alcide,
molto deciso.
«D'accordo, allora sposami e portami via da questa vita»,
ribattei a bruciapelo, ottenendo in cambio un'occhiata spaventata a cui risposi con un sorriso, continuando: «Devo guadagnarmi da vivere, Alcide. E in genere il mio lavoro mi piace».
Lui si mostrò pensoso e tutt'altro che convinto. Era il momento di parlare d'altro.
«Hanno preso Bill», dissi.
«Lo sai per certo».
«Sì».
«Perché? Cosa sa lui che Edgington possa desiderare al
punto da essere disposto a rischiare una guerra?».
«Non te lo posso dire».
«Ma tu lo sai?».
Rispondere alla domanda avrebbe significato dire che mi
fidavo di lui. Se si fosse risaputo che ero a conoscenza delle
cose che Bill sapeva, avrei corso il suo stesso pericolo. Ma
avrei ceduto molto più in fretta.
«Sì, lo so», risposi.
Capitolo sesto
Nell'ascensore restammo in silenzio. Mentre Alcide apriva la porta dell'appartamento, mi appoggiai al muro: mi sentivo un disastro... stanca, piena di conflitti interiori e agitata
per lo scontro con il motociclista e l'atto vandalico di Debbie.
Sentivo anche l'impulso di scusarmi, ma non sapevo per
che cosa.
«Buonanotte», dissi, sulla porta della mia stanza. «Ah,
già, grazie», aggiunsi, sfilandomi e restituendo la giacca, che
Alcide appese allo schienale di una delle sedie di cucina.
«Hai bisogno di aiuto con la zip?», chiese poi.
«Ti sarei grata se potessi cominciare ad abbassarla», e gli
volsi le spalle; aveva tirato su l'ultimo paio di centimetri della cerniera, quando mi ero vestita, e apprezzavo davvero che
se ne fosse ricordato prima di scomparire nella sua stanza.
Sentii le sue grosse dita sulla schiena e il lieve sibilo della zip che si abbassava, poi accadde qualcosa di inatteso: lo
sentii toccarmi di nuovo.
Un brivido mi percorse da capo a piedi mentre le sue dita
mi scorrevano sulla pelle.
Non sapevo cosa fare.
Non sapevo neppure cosa volevo fare.
Mi costrinsi a girarmi e lo vidi incerto quanto me.
«E' il momento peggiore che si possa immaginare», dissi.
«Tu stai reagendo a un abbandono e io sto cercando il mio
ragazzo. So che mi è stato infedele, però...».
«Tempismo sbagliato», convenne arrestando le mani sulle mie spalle, poi si chinò a baciarmi e ci volle forse mezzo
secondo perché le mie braccia gli circondassero la vita e la
sua lingua mi scivolasse fra le labbra... aveva un modo dolce
di baciare. Desideravo passargli le dita fra i capelli, scoprire
l'ampiezza del suo petto e se il suo posteriore era davvero
alto e rotondo come appariva dai pantaloni... oh, dannazione.
Con gentilezza, lo respinsi.
«Tempismo sbagliato», ribadii, ma arrossii nel rendermi
conto che avevo il vestito per metà slacciato e che Alcide vedeva il mio reggiseno e l'attaccatura del petto. Be', se non altro avevo indosso un bel reggiseno.
«Oh, Dio», sussurrò lui, dopo una lunga occhiata. Con
uno sforzo immenso chiuse quei suoi grandi occhi verdi.
«Tempismo sbagliato», ripetè, «ma spero che molto presto si
possa presentare un momento più adatto».
«Chi lo sa?», sorrisi, indietreggiando dentro la mia stanza
finché ero ancora in grado di farlo. Dopo aver chiuso piano
la porta, appesi il vestito rosso, che per fortuna appariva in
buono stato e privo di macchie. Le maniche invece erano un
disastro, piene di ditate unte e macchioline di sangue. Mi
sfuggì un sospiro di rammarico.
Per andare in bagno avrei dovuto correre di soppiatto da
una porta all'altra, perché non volevo provocarlo con la mia
vestaglia decisamente corta, rosa e di nylon. Volai per il corridoio, mentre sentivo Alcide armeggiare in cucina, e fra una
cosa e l'altra rimasi chiusa in quel piccolo bagno per un po'.
Quando ne uscii, tutte le luci dell'appartamento erano spente,
con la sola eccezione di quella della mia stanza. Rientrata in
camera, abbassai le tapparelle pur sentendomi un po' sciocca
dato che nessun altro edificio dell'isolato era alto cinque piani, poi m'infilai la camicia da notte rosa e sgusciai nel letto a
leggere un capitolo del mio romanzo d'amore per rilassarmi
un poco. Si trattava del capitolo in cui l'eroina riusciva infine
a portarsi a letto l'eroe, quindi non mi rilassò molto, ma almeno smisi di pensare alla pelle del motociclista che bruciava per il contatto con il goblin e alla faccia sottile e perfida
di Debbie. E alle torture che Bill stava subendo.
Anzi, quella scena d'amore (in realtà una scena di sesso)
servì a concentrare i miei pensieri più che altro sul calore
della bocca di Alcide.
Infilato un segnalibro nel volume, spensi la lampada, mi
distesi, mi seppellii sotto le coperte e finalmente mi sentii al
caldo e al sicuro.
Qualcuno bussò alla finestra.
Mi lasciai sfuggire un piccolo strillo, poi mi resi conto di
chi probabilmente si trattava e indossai la vestaglia, legai la
cintura e tirai su la tapparella.
Come immaginavo, Eric stava fluttuando dall'altro lato
dei vetri. Riaccesa la lampada, armeggiando con la poco familiare maniglia, aprii la finestra.
«Che diavolo vuoi?», stavo chiedendo quando Alcide
fece irruzione nella stanza, come vidi dando un'occhiata alle
mie spalle. «E' meglio che mi lasci in pace, voglio tornare a
dormire», continuai rivolta a Eric, senza curarmi se sembravo una vecchia bisbetica, «ed è anche meglio che tu la smetta
di bussare nelle case nel bel mezzo della notte, aspettandoti
che ti faccia entrare!».
«Sookie, lasciami entrare», ribatté Eric.
«No! Cioè, in realtà questa casa appartiene ad Alcide. Alcide, che vuoi fare?», domandai, girandomi infine verso di
lui, e subito mi sforzai di non rimanere a bocca aperta... Alcide dormiva indossando soltanto un paio di pantaloni da tuta e
niente altro. Accidenti! Se fosse stato a torso nudo anche
mezz'ora prima, il tempismo mi sarebbe parso perfetto.
«Cosa vuoi, Eric?», chiese Alcide, con molta più calma
di quanta ne avessi dimostrata io.
«Dobbiamo parlare», disse in tono impaziente.
«Se adesso lo lascio entrare, posso poi annullare
l'invito?», mi domandò Alcide.
«Certo, in qualsiasi momento», confermai, sorridendo a
Eric.
«D'accordo, Eric, allora puoi entrare», decise Alcide, rimuovendo la zanzariera dalla finestra in modo che Eric sgusciasse dentro a piedi in avanti. Subito mi affrettai a richiu-
dere la finestra alle sue spalle, perché avevo di nuovo freddo,
e perfino Alcide aveva la pelle d'oca, al punto che i suoi capezzoli... mi costrinsi a fissare Eric.
Lui ci trapassò con uno sguardo penetrante, gli occhi che
scintillavano come zaffiri alla luce della lampada. «Che cosa
hai scoperto, Sookie?».
«E' prigioniero dei vampiri di qui».
Eric forse sgranò un poco gli occhi e parve riflettere intensamente, ma furono le sue uniche reazioni.
«Per te non è un po' pericoloso presentarti nel territorio
di Edgington senza segnalare il tuo arrivo?», osservò Alcide
che, come al solito, si era appoggiato al muro; tra lui ed Eric,
entrambi massicci, la stanza sembrava d'un tratto molto affollata, forse perché il loro ego stava consumando tutto l'ossigeno disponibile.
«Oh, sì, è molto pericoloso», convenne Eric, con uno
smagliante sorriso.
Chiedendomi se quei due si sarebbero accorti di qualcosa
se io fossi tornata a letto, sbadigliai. Immediatamente, due
paia di occhi mi fissarono. «Hai bisogno di altro, Eric?»,
chiesi.
«Hai altro da riferire?».
«Sì. Lo hanno torturato».
«Allora non lo lasceranno mai andare».
Questo era ovvio: non si lasciava libero un vampiro che
era stato torturato, a meno di voler passare il resto della vita
a guardarsi le spalle. Non ci avevo pensato, ma mi sembrava
logico. «Pensi di passare all'attacco?», domandai, perché
avevo intenzione di essere lontanissima da Jackson quando
questo fosse accaduto.
«Dammi il tempo di rifletterci sopra», rispose Eric. «Domani sera tornerai in quel bar?».
«Sì, Russell ci ha invitati personalmente».
«Stanotte, Sookie ha attirato la sua attenzione», spiegò
Alcide.
«Davvero perfetto!», esclamò Eric. «Domani sera siedi al
tavolo di Edgington, Sookie, e passa al vaglio i loro
cervelli».
«Certo, Eric, devo ammettere che non mi sarebbe mai
venuto in mente di farlo», commentai in tono di finta meraviglia. «Accidenti, sono proprio contenta che stanotte tu mi
abbia svegliata per spiegarmelo».
«Non c'è di che. In qualsiasi momento tu voglia che io ti
svegli, Sookie, hai solo da dirlo».
«Vattene, Eric», sospirai. «Ancora buonanotte, Alcide».
Lui si allontanò dal muro e attese che Eric uscisse dalla
finestra; dal canto suo, il vampiro pensò di aspettare che il
mannaro fosse il primo ad andarsene.
«Annullo l'invito a entrare nel mio appartamento», disse
allora Alcide e di scatto Eric si diresse alla finestra, la riaprì
e si lanciò all'esterno, con aria molto accigliata. Una volta
fuori, ritrovò il controllo e ci sorrise, salutandoci con la
mano mentre scompariva verso terra.
Alcide richiuse con violenza la finestra e riabbassò la
tapparella.
«No, ci sono un sacco di uomini a cui non piaccio affatto», dichiarai, perché questa volta la sua mente era stata fin
troppo facile da leggere.
«Davvero?», ribatté lui, fissandomi in modo strano.
«Sì, davvero».
«Se lo dici tu...».
«Ecco, la maggior parte delle persone, quelle normali,
pensa che io sia... pazza».
«Davvero?», ripetè.
«Sì, davvero, e che sia io a servirle al tavolo le rende
molto nervose».
Alcide cominciò a ridere, una reazione talmente diversa
da quella che avevo inteso provocare da lasciarmi senza la
minima idea su che altro dire, poi lasciò la stanza continuando a ridacchiare fra sé.
Be', bizzarra faccenda, no? Comunque, spenta la luce, mi
tolsi la vestaglia, gettandola ai piedi del letto, e scivolai di
nuovo sotto le lenzuola, tirandomi fin sotto il mento la coperta e il copriletto. Fuori faceva freddo, ma adesso ero finalmente al caldo, al sicuro e sola.
Veramente, completamente sola.
Quando mi alzai, il mattino successivo, Alcide era già
uscito. Del resto nell'edilizia e per i rilevamenti topografici ci
si alzava di buon'ora, mentre io ero abituata a dormire fino a
tardi sia per il mio lavoro al bar sia per la mia relazione con
un vampiro: se volevo passare del tempo con Bill, doveva
essere di notte.
Trovai un biglietto appoggiato alla caffettiera e socchiusi
gli occhi per metterne a fuoco i minuti caratteri. Avevo un
leggero mal di testa, perché non sono abituata all'alcol e la
sera avevo bevuto due cocktail. Non erano proprio postumi
da sbornia, ma non avevo la solita allegria.
«Commissioni da fare», diceva il messaggio. «Fa' come
se fossi a casa tua. Tornerò nel pomeriggio».
Per un minuto mi sentii delusa e avvilita, poi mi ripresi
dato che non era un romantico weekend che lui mi aveva organizzato o come se fra noi ci fosse davvero stato qualcosa.
La mia compagnia, anzi, gli era stata imposta. Insomma,
scrollai le spalle e mi versai una tazza di caffè, poi mi preparai un toast e accesi la tele per guardare il notiziario. Dopo
aver visto tutte le principali notizie della CNN, decisi che era
il caso di fare una doccia e me la presi con calma... dopo tutto, che altro avevo da fare?
Stavo correndo il pericolo di sperimentare una condizione esistenziale che mi era quasi sconosciuta: la noia.
A casa mia avevo sempre qualcosa da fare, a volte magari non piacevolissimo, perché una casa ha sempre qualche lavoretto che aspetta paziente la tua attenzione. E a Bon Temps
potevo andare in biblioteca, o al negozio da tutto-a-un-dollaro, oppure a fare la spesa. Da quando mi ero messa con Bill,
inoltre, avevo anche preso l'abitudine di svolgere per suo
conto commissioni che potevano essere fatte solo di giorno,
negli orari in cui gli uffici erano aperti.
Il pensiero di Bill mi tornò alla mente in un momento in
cui ero chinata sopra il lavandino del bagno e mi stavo guardando nello specchio per eliminare un pelo che alterava la linea delle mie sopracciglia. Posai le pinzette e sedetti sul bordo della vasca. I sentimenti che provavo nei suoi confronti
erano confusi e conflittuali, e non ne sarei uscita tanto presto,
ma sapere che stava soffrendo, che era in difficoltà, e non
avere idea di come fare a trovarlo... questo era davvero difficile da sopportare. Non ero mai partita dal presupposto che
la nostra storia potesse scorrere senza intoppi, perché in fondo si trattava di una relazione fra due specie diverse e Bill
era molto più vecchio di me... ma l'abisso di dolore che si era
aperto dentro di me adesso che lui era scomparso era qualcosa che non avevo mai neppure immaginato.
M'infilai i jeans e un maglione, rifeci il letto, poi allineai
tutti i miei accessori per il trucco nel bagno e appesi ordinatamente gli asciugamani; avrei anche riordinato la stanza di
Alcide, ma mi sembrava sfacciato mettere le mani fra le sue
cose, perciò mi misi a leggere invece qualche capitolo del
mio libro. Alla fine, però, non sopportai di restare oltre lì seduta a non fare niente.
Lasciato un messaggio per Alcide, in cui lo avvertivo che
ero uscita a fare una passeggiata, scesi in ascensore insieme
a un tizio in abiti sportivi e munito di una sacca da golf. Trattenendomi dal chiedergli se stava appunto andando a giocare
a golf, mi limitai a osservare che era una bella giornata per
uscire un poco, dato che il cielo era limpido e soleggiato, e
che la temperatura si aggirava probabilmente sui dieci gradi.
Era davvero una bella giornata allegra, con le decorazioni
natalizie che spiccavano vivaci sotto il sole e un sacco di
gente in giro a fare acquisti.
Mi chiesi se Bill sarebbe tornato a casa per Natale, e se
sarebbe potuto venire in chiesa con me la sera della Vigilia, o
se avrebbe voluto farlo, e subito dopo pensai alla nuova sega
Skil che avevo comprato per Jason e che avevo lasciato in
deposito per mesi presso Sears, a Monroe, ritirandola solo la
settimana prima. Avevo comprato anche un giocattolo a ciascuno dei figli di Arlene, e per lei avevo preso un maglione.
In realtà, non avevo nessun altro a cui fare regali, il che era
davvero patetico. Alla fine, decisi che quest'anno avrei preso
un CD per Sam, e questo mi tirò su di morale, perché adoro
fare regali. Quello sarebbe stato il primo Natale che avrei
passato con il mio ragazzo...
Oh, al diavolo, ero tornata daccapo, esattamente come le
notizie al televideo.
«Sookie!», chiamò una voce, riscuotendomi dal tetro girotondo dei miei pensieri.
Guardandomi intorno, vidi Janice che stava agitando la
mano dalla soglia del suo negozio, dall'altro lato della strada,
e mi resi conto di essermi avviata inconsciamente nella direzione che già conoscevo.
«Vieni dentro!», mi gridò lei.
Proseguii fino all'incrocio e attraversai al verde. Il salone
era pieno, e Jarvis e Corinne erano impegnati con un gran
numero di clienti.
«Di solito al sabato siamo aperti solo fino a mezzogiorno, ma è la serata dei party natalizi», spiegò Janice mentre
metteva i bigodini a una giovane matrona dai capelli neri
lunghi fino alle spalle e le dita cariche di una serie impressionante di anelli con diamanti, che sfogliava distrattamente
una copia di «Southern Living».
«Che te ne pare di questo?», domandò a Janice. «Polpettine allo zenzero», aggiunse, indicando la ricetta in questione
con un'unghia perfetta.
«Un piatto orientale?», domandò Janice.
«Ecco, una specie», rispose la cliente, leggendo con attenzione la ricetta. «Non le preparerà nessun altro e si possono infilzare con gli stuzzicadenti».
«Sookie, cosa farai oggi?», volle sapere Janice, una volta
che si fu accertata che la cliente fosse concentrata sui suoi
dilemmi culinari.
«Sono a spasso», spiegai, scrollando le spalle. «Il messaggio di tuo fratello diceva che è in giro per delle commissioni».
«Ti ha lasciato un messaggio per informarti di quello che
avrebbe fatto? Ragazza mia, dovresti esserne orgogliosa, perché quell'uomo non ha più scritto una riga da quando ha finito le scuole superiori», dichiarò Janice, sorridendo e guar-
dandomi con la coda dell'occhio. «Vi siete divertiti ieri
sera?».
«Ah, è stata una bella serata», risposi con esitazione,
dopo aver riflettuto. In fondo ballare era stato divertente.
«Se devi pensarci tanto, non può essere stata una serata
perfetta», commentò Janice ridendo.
«Ecco, no», ammisi. «Nel bar c'è stata una piccola rissa e
hanno dovuto buttare fuori un uomo. E poi, Debbie era là».
«Com'è andata la sua festa di fidanzamento?».
«Al suo tavolo c'era molta gente», risposi, «ma dopo un
po' lei è venuta da noi e ha fatto un sacco di domande. Sono
certa che non le sia piaciuto vedere Alcide con un'altra!», aggiunsi con un sorriso ammiccante.
Janice rise di nuovo.
«Chi si è fidanzata?», domandò la cliente, che aveva infine deciso di non usare la ricetta.
«Oh, hai presente Debbie Pelt? Quella che usciva con
mio fratello?», replicò Janice.
«La conosco», affermò soddisfatta la bruna. «Usciva con
tuo fratello Alcide, giusto? E adesso sta per sposare un
altro?».
«Sposerà Charles Clausen», annuì Janice, con aria grave.
«Lo conosci?».
«Certamente! Siamo andati alle superiori insieme. Sta
per sposare Debbie Pelt? Meglio per tuo fratello», dichiarò
Capelli Neri, in tono confidenziale.
«Lo avevo già immaginato», convenne Janice. «Tu però
sai qualcosa che io non so, giusto?».
«Ecco, quella Debbie è coinvolta in cose strane», spiegò
Capelli Neri, inarcando le sopracciglia per sottolineare il
profondo significato di quell'affermazione.
«Che genere di cose?», domandai, osando a stento respirare in attesa di udire cosa sarebbe saltato fuori. Possibile
che sapesse dei mutaforme e dei lupi mannari? Nell'incontrare lo sguardo di Janice, lessi in esso la mia stessa apprensione: lei sapeva di suo fratello, conosceva il suo mondo e aveva capito che anch'io ne ero informata.
«Dicono si tratti di adorazione del Maligno», spiegò Capelli Neri. «Di stregoneria». Entrambe fissammo a bocca
aperta la sua immagine riflessa nello specchio e lei fece un
cenno appagato del capo, perché aveva ottenuto la reazione
sperata. Naturalmente, l'adorazione del Maligno e la stregoneria non erano la stessa cosa, ma non avevo intenzione di
avviare una discussione al riguardo perché si trattava del momento e del posto sbagliato.
«Sissignora, è proprio quello che ho sentito dire. Pare
che con la luna piena, lei e i suoi amici vadano nei boschi a
fare cose strane... anche se nessuno sembra sapere esattamente cosa facciano», ammise.
Janice e io riprendemmo fiato contemporaneamente.
«Oh, mio Dio», commentai con voce fievole.
«Allora per mio fratello è un bene aver troncato la relazione con lei», affermò Janice con fare virtuoso. «Non ci piace questo genere di cose».
«Certo che no», convenni.
Ma evitammo con cura di guardarci.
Chiusa la faccenda, accennai ad andarmene, ma Janice
mi chiese cosa avrei indossato quella sera. «Oh, è un vestito
color champagne, una sorta di beige lucido», spiegai.
«Allora quelle unghie rosse non andranno bene», dichiarò Janice. «Corinne!».
Nonostante tutte le mie proteste, lasciai il negozio con le
unghie color bronzo e i capelli rimessi in piega da Jarvis;
cercai di pagare, ma Janice mi permise soltanto di lasciare
una mancia ai suoi dipendenti.
«Non sono mai stata viziata così tanto in tutta la mia
vita», le confidai.
«Che lavoro fai, Sookie?», mi chiese, dato che non ne
avevamo parlato il giorno precedente.
«Faccio la cameriera», risposi.
«Questo sì che è un cambiamento, rispetto a Debbie»,
commentò con aria pensosa.
«Davvero? Lei che lavoro fa?».
«E' una consulente legale».
Decisamente, Debbie era in vantaggio dal punto di vista
dell'istruzione, dato che io non ero mai riuscita ad andare al
college. Se economicamente sarebbe già stato molto difficile,
per quanto avrei potuto trovare una soluzione, il mio handi-
cap mi aveva reso arduo perfino concludere le superiori. Vi
garantisco che, per una telepate, l'adolescenza è un periodo
estremamente difficile. Non avevo nessun controllo e ogni
giorno mi trovavo sommersa dai drammi. .. degli altri ragazzi. A lezione e nei temi la concentrazione era impedita da
quel ronzio di cervelli. Me l'ero cavata solo grazie ai compiti
a casa.
Janice non pareva preoccupata del fatto che fossi una cameriera, lavoro che di solito non garantiva una buona impressione sulla famiglia della persona con cui si usciva.
Volli di nuovo rammentarmi che tutta quella messa in
scena con Alcide era soltanto una faccenda temporanea non
voluta da lui e che dopo aver scoperto dove si trovasse Bill esatto, Sookie, ti ricordi di Bill, il tuo ragazzo? - non avrei
mai più rivisto Alcide. Oh, certo, magari sarebbe passato
qualche volta al Merlotte's, se avesse avuto voglia di uscire
dall'interstatale, fra Shreveport e Jackson, ma sarebbe finita
lì.
Janice invece sperava sinceramente che entrassi a far parte della sua famiglia, il che era gentile da parte sua. Lei mi
piaceva e quasi desiderai che fosse tutto vero e che Janice
avesse qualche possibilità che io diventassi sua cognata.
Dicono che non ci sia niente di male a sognare a occhi
aperti, ma non è così.
Capitolo settimo
Al mio ritorno, trovai Alcide che mi stava aspettando, e
un mucchio di bei pacchetti disposti sul piano di cucina mi
rivelò come avesse trascorso almeno una parte della sua mattinata, e cioè ultimando i regali natalizi.
A giudicare dal suo aspetto imbarazzato (non era certo
Mister Dissimulazione), doveva aver fatto qualcosa che forse
non mi sarebbe piaciuto. Di qualsiasi cosa si trattasse, non
era ancora pronto a parlarmene, quindi cercai di essere cortese e di non sbirciare nella sua mente. Nel passaggio formato
dal muro della camera da letto e dal bancone di cucina, avvertii un odore tutt'altro che gradevole. Magari c'era del pattume da buttare, ma che sorta di pattume potevamo aver accumulato in poche ore che producesse quell'odore lieve ma
così fastidioso? Lo stato di serenità generato in me dalla gradevole chiacchierata con Janice, e ora rafforzato dal piacere
di vedere Alcide, mi rese però facile ignorare la cosa.
«Hai un bell'aspetto», osservò lui.
«Sono passata a trovare Janice», ammisi, preoccupata
che lui pensasse che stavo approfittando della generosità di
sua sorella. «Riesce a costringerti ad accettare cose che non
avresti nessuna intenzione di accettare».
«E' buona», affermò Alcide, con semplicità. «Sa di me
fin da quando andavamo alle superiori e non lo ha mai detto
ad anima viva».
«L'avevo capito».
«Come... ? Ah, già», e scosse il capo. «Sembri la persona
più normale che abbia mai incontrato, e questo rende difficile ricordare che hai tutti quei talenti extra».
Nessuno aveva mai espresso la cosa esattamente in quei
termini.
«Quando sei entrata, non hai sentito uno strano odore vicino a...», aggiunse, ma in quel momento suonò il campanello e andò ad aprire mentre io mi toglievo il cappotto.
Usò un tono contento, così mi girai verso la porta con un
sorriso e il giovane uomo che stava entrando non parve sorpreso di vedermi. Alcide me lo presentò come Dell Phillips,
il marito di Janice, e nel porgergli la mano mi aspettai di trovarlo simpatico quanto la moglie. Invece la sua stretta fu brevissima e dopo mi ignorò del tutto.
«Mi chiedevo se potessi passare nel pomeriggio per aiutarmi a montare all'esterno le decorazioni natalizie
luminose», disse rivolgendosi esclusivamente al cognato.
«Dov'è Tommy?», ribatté Alcide, che pareva deluso.
«Non lo hai portato a trovarmi?». Tommy era il figlio di Janice.
«Non mi è parso corretto, visto che hai qui una donna»,
disse Dell, guardando verso di me e scuotendo il capo. «E'
con mia madre».
A quel commento inatteso riuscii a rispondere solo rimanendo in silenzio a fissarlo, ma quell'atteggiamento aveva
colto in contropiede anche Alcide. «Dell, non essere scortese
con la mia amica», disse.
«Alloggia nel tuo appartamento, il che indica che è più di
un'amica», replicò Dell, senza mezzi termini. «Mi dispiace,
signorina, ma questo semplicemente non è corretto».
«Non giudicare se non vuoi essere giudicato», ribattei,
sperando che dalla voce non trapelasse la mia ira, dimostrata
da come mi si era contratto lo stomaco, perché mi sembrava
sbagliato citare la Bibbia in preda a una simile rabbia. Mi ritirai nella camera degli ospiti e mi chiusi la porta alle spalle.
Dopo un po' sentii Dell Phillips che se ne andava e Alcide venne a bussare alla porta.
«Ti va di giocare a Scarabeo?», domandò.
«Certo», assentii sconcertata.
«L'ho comprato mentre stavo acquistando i regali per
Tommy».
Alcide ne aveva già sistemato la scatola sul tavolino antistante il divano ma, incerto sulla mia disponibilità, non aveva ancora tolto la carta e disposto per la partita.
«Verso una Coca per entrambi», proposi. Di nuovo notai
che la temperatura dell'appartamento era piuttosto fresca, anche se era naturalmente molto più elevata di quella esterna.
Desiderai di aver portato con me un maglione leggero da infilarmi, e mi chiesi se Alcide si sarebbe offeso se lo avessi
pregato di alzare il termostato. Ma ricordai quanto la sua pel-
le fosse calda e supposi che dovesse essere una di quelle persone che avvertono poco il freddo... o forse tutti i mannari
erano così? Alla fine, mi misi la stessa felpa del giorno precedente, badando a infilarla senza rovinare la messa in piega.
Alcide si era accoccolato per terra da un lato del tavolino
e io mi sistemai dall'altro. Nessuno dei due aveva giocato a
Scarabeo ultimamente, quindi ripassammo per bene le regole
prima di iniziare la partita.
Lui aveva studiato presso il Louisiana Tech ma io, pur
non essendo mai stata al college, avevo letto molto, quindi
eravamo più o meno alla pari per quanto concerneva l'estensione del nostro vocabolario. Alcide era un po' più abile
come stratega, io sembravo ragionare più rapidamente.
Realizzai un punteggio elevato con "soqquadro" e lui mi
fece una linguaccia. Scoppiai a ridere e mi disse: «Non mi
leggere nella mente: equivarrebbe a barare».
«E' ovvio che non farei mai una cosa del genere», dichiarai in tono contegnoso e lui rispose con uno sguardo accigliato.
Persi... ma di soli dodici punti. Dopo che avemmo riesaminato la partita in toni piacevolmente polemici, Alcide si
alzò e portò in cucina i bicchieri vuoti, cominciando poi a
frugare negli armadietti mentre io provvedevo a riporre i
pezzi del gioco e a chiudere la scatola.
«Dove vuoi che lo metta?», domandai.
«Oh, nel ripostiglio vicino alla porta. Dentro ci sono un
paio di scaffali».
Con la scatola sotto il braccio, mi diressi verso il ripostiglio, notando che in quel punto il fetore era più intenso.
«Sai, Alcide», osservai, sperando di non risultare scortese, «in questo punto c'è qualcosa che emette odore di
marcio».
«Me ne ero accorto anch'io. E' per questo che sto guardando in tutti gli armadietti. Possibile che si tratti di un topo
morto?».
Intanto avevo abbassato la maniglia del ripostiglio e in
un attimo scoprii la fonte dell'odore.
«Oh, no», gemetti. «Oh, nononono».
«Non mi dire che un ratto è finito lì dentro ed è morto»,
commentò Alcide.
«Non è un ratto», risposi. «E' un lupo mannaro».
In alto, il ripostiglio era dotato di uno scaffale sovrastante una sbarra appendiabiti. Le sue piccole dimensioni, destinate soltanto ai cappotti degli ospiti, adesso erano interamente occupate dall'uomo bruno incontrato al Club dei Morti,
quello che mi aveva afferrata per la spalla e che era decisamente morto, e da parecchie ore.
Mi pareva di non riuscire a distogliere lo sguardo.
La presenza di Alcide dietro di me, che fissava da sopra
la mia testa con le mani strette intorno alle mie braccia, mi fu
di inatteso conforto.
«Niente sangue», notai tesa.
«Guardagli il collo», replicò Alcide, scosso quanto me.
La testa dell'uomo era praticamente appoggiata alla spalla, ma ancora attaccata al corpo. Deglutii a fatica per ricacciare indietro la nausea. «Dovremmo chiamare la polizia»,
osservai, poco convinta. Osservai come il corpo fosse stato
infilato nell'angusto vano, in posizione quasi eretta; dunque
il responsabile, chiunque fosse, aveva poi richiuso a forza la
porta e il cadavere si era irrigidito in quella posizione.
«Se però chiamiamo la polizia...». S'interruppe e dopo un
profondo respiro continuò: «Non crederanno mai che non
siamo stati noi ad ammazzarlo. Interrogheranno i suoi amici
e loro riferiranno che lui era al Club dei Morti ieri notte, e
quando controlleranno scopriranno che si era messo nei guai
infastidendoti. Nessuno crederà mai che non abbiamo niente
a che fare con il suo assassinio».
«D'altro canto», obiettai, riflettendo ad alta voce, «credi
che faranno davvero parola del Club dei Morti?».
Alcide ci pensò sopra, passandosi il pollice sulle labbra
mentre rifletteva. «Forse hai ragione. E non potendo parlare
del Club dei Morti, come farebbero a descrivere il... insomma, lo scontro? Sai cosa farebbero? Deciderebbero di risolvere il problema da soli».
Quella era un'osservazione validissima. Ero convinta:
niente polizia. «Allora dobbiamo liberarci di lui», affermai,
passando al lato concreto della situazione. «Come
facciamo?».
Alcide era un uomo pratico, abituato a risolvere i problemi partendo dal più grosso.
«Dobbiamo trasportarlo in campagna, da qualche parte, e
per farlo dobbiamo portarlo giù nel garage», disse dopo un
momento di riflessione. «E per far questo, ci serve qualcosa
in cui avvolgerlo».
«La tenda della doccia», suggerii, accennando con la testa in direzione del bagno da me utilizzato. «Senti, non potremmo... ecco... non potremmo chiudere il ripostiglio mentre elaboriamo un piano?».
«Certo», approvò Alcide, improvvisamente ansioso
quanto me di finirla di contemplare il macabro spettacolo
che avevamo davanti agli occhi.
Ci trasferimmo nel centro del salotto per pianificare. La
prima cosa che feci fu spegnere il riscaldamento e spalancare
tutte le finestre. Il cadavere non aveva segnalato prima la sua
presenza soltanto perché Alcide amava tenere una temperatura fresca e perché la porta del ripostiglio chiudeva alla perfezione, ma adesso era necessario disperdere quell'odore lieve
ma penetrante.
«Ci sono cinque rampe di scale da scendere e non credo
di farcela a sopportarne il peso per tutto il tragitto», affermò
Alcide, «quindi per una parte dovremmo usare l'ascensore, e
sarà la fase più pericolosa».
Continuammo a discutere e a perfezionare il nostro piano
fino a renderlo attuabile. Per due volte Alcide mi chiese se
stavo bene, ma lo rassicurai sempre. Compresi che temeva
una mia crisi isterica o che potessi svenire.
«Non ho mai potuto permettermi di essere troppo schizzinosa, e comunque non è nella mia natura», chiarii. Se si era
aspettato o aveva desiderato che gli chiedessi i sali o lo implorassi di salvarmi dal grosso lupo cattivo, Alcide si era imbattuto nella donna sbagliata.
Potevo anche essere decisa a mantenere il controllo, ma
questo non significava che mi sentissi calma. Quando andai a
prendere la tenda della doccia ero così nervosa che dovetti
trattenermi dallo strapparla di netto dai suoi anelli di plastica.
Calma e sangue freddo, ingiunsi a me stessa. Inspira, espira,
stacca la tenda, stendila sul pavimento del corridoio.
La tenda era blu e verde, con piccoli pesci gialli che nuotavano sereni in file ordinate.
Nel frattempo Alcide era sceso nel garage per spostare il
furgone il più vicino possibile alla porta delle scale e aveva
avuto l'accortezza di portare di sopra un paio di guanti da lavoro. Mentre se li infilava respirò a fondo (forse un errore,
considerata la prossimità del cadavere), poi assunse un'espressione di ferrea determinazione e afferrò il corpo per le
spalle, assestando uno strattone.
Il risultato fu più drammatico di quanto avremmo mai
potuto immaginare: il motociclista si riversò fuori del ripostiglio in un blocco compatto e Alcide fu costretto a balzare
sulla destra per non essere investito dal suo corpo, che andò
a sbattere contro il bancone e si rovesciò da un lato, sulla
tenda da doccia.
«Accidenti», commentai con voce tremante, verificando
l'esito, «ci è andata bene».
Il cadavere era disteso quasi esattamente nel punto da noi
desiderato. Scambiandoci un secco cenno, ci disponemmo in
ginocchio ciascuno a un'estremità e, agendo di comune accordo, afferrammo un lato della tenda di plastica, stendendolo sul corpo, e ripetemmo l'operazione con l'altro lato. Una
volta coperta la faccia dell'uomo, ci sentimmo più rilassati.
Alcide aveva portato di sopra anche un rotolo di nastro adesivo... i veri uomini hanno sempre del nastro adesivo sul loro
furgone... lo usammo per sigillare la tenda. Per fortuna, pur
avendo un fisico massiccio, il mannaro in questione non era
molto alto.
Alla fine ci rialzammo e ci concedemmo un momento
per riprenderci. Alcide fu il primo a parlare. «Sembra un
grosso burrito verde», commentò.
Io portai di scatto una mano alla bocca per reprimere una
risatina isterica. Per un momento, Alcide mi fissò sorpreso,
poi scoppiò a sua volta a ridere.
«Pronto per la fase due?», chiesi, dopo che ci fummo calmati.
Quando lui annuì, presi il cappotto, aggirai il cadavere e,
richiudendo subito la porta dell'appartamento, nel caso che
sul pianerottolo passasse qualcuno, mi diressi all'ascensore.
Nell'istante stesso in cui premetti il pulsante di chiamata,
un uomo apparve da dietro l'angolo e si fermò vicino alla
porta dell'ascensore. Forse era un parente della vecchia si-
gnora Osburgh, o magari era uno dei senatori, rientrato momentaneamente a Jackson... chiunque fosse, era ben vestito,
sulla sessantina e abbastanza cortese da sentirsi in obbligo di
fare un po' di conversazione.
«Oggi fa davvero freddo, non trova?».
«Sì, ma meno di ieri», replicai, fissando la porta chiusa
dell'ascensore e desiderando che si aprisse, in modo che
quell'uomo potesse andarsene per i fatti suoi.
«Si è appena trasferita qui?».
Prima di allora non mi era mai successo che una persona
cortese riuscisse a irritarmi. «Sono qui in visita», ribattei,
con il tono secco che dovrebbe segnalare la fine di una conversazione.
«Oh, e da chi?», chiese lui, allegramente.
Per fortuna, l'ascensore scelse proprio quel momento per
arrivare e le sue porte si aprirono appena in tempo per evitare che staccassi di netto la testa a quell'uomo troppo socievole. Lui mi rivolse un ampio gesto di invito con la mano, perché lo precedessi, ma io indietreggiai di un passo. «Oh, accidenti, ho dimenticato le chiavi!», esclamai, allontanandomi a
passo spedito, e senza guardare indietro, verso l'appartamento adiacente a quello di Alcide, secondo lui vuoto, per bussare alla porta. Sentii l'ascensore che si richiudeva alle mie
spalle e sospirai sollievata.
Quando calcolai che Mister Chiacchierone avesse avuto
tutto il tempo per prendere la sua auto e lasciare il garage (a
meno che non fosse stato ancora intento a rintronare le orec-
chie della guardia di sicurezza) chiamai di nuovo l'ascensore.
Era sabato: impossibile prevedere i movimenti degli inquilini. Secondo Alcide, la maggior parte degli appartamenti era
stata acquistata come investimento e affittata a funzionari
governativi che dovevano per lo più essere partiti per le ferie, ma l'andirivieni dei residenti sarebbe stato diverso dal solito perché in più mancavano soltanto due settimane a Natale. Quando finalmente arrivò al quinto piano, lo scricchiolante arnese risultò vuoto.
Saettai fino alla porta del 504, bussai due volte e tornai a
precipizio all'ascensore per tenere aperta la porta. Preceduto
dalle gambe del morto, Alcide uscì dall'appartamento con la
massima rapidità possibile per un uomo che stesse portando
in spalla un cadavere irrigidito.
Era il momento in cui eravamo più vulnerabili. Il fagotto
trasportato da Alcide era indiscutibilmente un cadavere avvolto in una tenda da doccia e, pur trattenuto dalla plastica,
l'odore era percepibile in quel piccolo spazio. Oltrepassammo un piano senza problemi, poi un altro. Arrivati al terzo, ci
scoraggiammo e fermammo l'ascensore che si aprì, con nostro estremo sollievo, su un corridoio vuoto. Saettai fuori,
raggiungendo la porta delle scale che tenni aperta per far
passare Alcide, poi lo precedetti giù per i gradini e scrutai il
garage attraverso il pannello di vetro della porta di accesso.
«Fermo», avvertii, sollevando la mano: una donna di
mezza età e un'adolescente stavano scaricando dei pacchi dal
bagagliaio della loro Toyota. Discutevano vivacemente, per-
ché la ragazza era stata invitata a una festa di mezzanotte e
sua madre non le permetteva di andarci.
La figlia doveva andarci, ci sarebbero state tutte le sue
amiche, ma la madre ribadì il suo no anche di fronte al fatto
che tutte le altre madri avevano dato il loro permesso.
«Per favore», sussurrai, «non decidete di salire per le
scale».
La discussione proseguì mentre entravano nell'ascensore
e sentii con chiarezza la ragazza interrompere la sua sfilza di
lamentele per esclamare «Ehi, qui dentro c'è qualcosa che
puzza!» prima che le porte si chiudessero.
«Che succede?», sussurrò Alcide.
«Niente. Vediamo se le cose continuano così per qualche
altro minuto».
La quiete si protrasse e mi decisi ad aprire la porta e a
raggiungere il furgone di Alcide, guardandomi intorno per
avere la certezza di essere veramente sola, conscia che la
guardia non poteva vederci dal suo casotto di vetro, in cima
alla rampa.
Raggiunta la vettura, che per fortuna aveva il piano di carico coperto, l'aprii dal retro, poi mi guardai intorno ancora
una volta e tornai in fretta alla porta delle scale, bussando sul
battente e aprendolo il momento dopo.
Alcide saettò fuori e raggiunse il furgone muovendosi
più in fretta di quanto avrei creduto possibile, appesantito
com'era dal cadavere. Spingemmo con tutte le nostre forze e
il corpo scivolò lentamente all'indietro sul pianale, permet-
tendoci di chiudere la sponda con un tremendo senso di sollievo.
«Fase due ultimata», dichiarò Alcide con un'aria che
avrei definito un po' stordita in uno meno massiccio di lui.
Guidare per le strade di una città con un cadavere a bordo è uno spaventoso esercizio di paranoia.
«Osserva ogni singola norma del codice stradale», gli ricordai, notando con irritazione quanto la mia voce suonasse
tesa.
«D'accordo, d'accordo», ringhiò lui, altrettanto teso.
«Ti sembra che le persone in quel locale ci stiano guardando?».
«No».
Era evidente che starmene zitta sarebbe stata la cosa migliore da fare, quindi tacqui. Raggiungemmo la I-20, da cui
eravamo arrivati a Jackson, e continuammo a procedere lasciandoci alle spalle la città fino a trovarci in campagna.
«Questo sembra il posto adatto», disse Alcide, una volta
giunti all'uscita di Bolton.
«Sicuro». Non potevo reggere ancora per molto la tensione. Il territorio che si estende fra Jackson e Vicksburg è
decisamente pianeggiante, costituito per lo più da campi interrotti da qualche bayous, e l'area in cui ci trovavamo ne era
il tipico esempio. Usciti dall'interstatale, ci dirigemmo a
nord, verso i boschi, e dopo qualche chilometro Alcide imboccò una strada che da anni aveva bisogno di riparazioni,
una striscia di asfalto abbondantemente rappezzato tra la fitta
vegetazione dove il cupo cielo invernale non aveva la minima possibilità di elargire un po' di luce. Ormai gelavo nella
cabina del furgone.
«Non manca più molto», disse Alcide e io annuii nervosa.
Una stradina poco visibile si diramava alla nostra sinistra. Quando gliela indicai, Alcide fermò il veicolo e rapidamente la valutammo. Con un secco cenno d'intesa, Alcide la
imboccò in retromarcia. La cosa mi sorprese, ma capii che
era una buona idea e, quanto più ci saremmo addentrati fra
gli alberi, tanto più avrei trovato soddisfacente la scelta. Tanto per cominciare, il fondo di ghiaia era stato rinnovato da
poco, quindi non lasciavamo tracce di pneumatici; inoltre,
era molto probabile che quella pista rudimentale portasse a
un luogo di campeggio per cacciatori, non utilizzato adesso
che era finita la stagione della caccia al daino.
In effetti, dopo alcuni metri, avvistai un cartello inchiodato a un albero e recante la scritta: «Proprietà Privata del
Kiley-Odum Hunt Club. VIETATO L'INGRESSO».
Noi proseguimmo comunque, con Alcide che eseguiva
una lenta e attenta manovra.
«Qui», disse dopo che ci fummo abbastanza addentrati
nei boschi da esser quasi certi che non potessero vederci dalla strada. Mise in folle il furgone, aggiungendo: «Senti, Sookie, non sei obbligata a scendere anche tu».
«In due faremo prima», ribattei.
Lui cercò di intimidirmi con lo sguardo, ma io reagii rimanendo impassibile, e alla fine Alcide si arrese con un sospiro: «D'accordo. Vediamo di farla finita con questa faccenda».
L'aria era ancora più fredda e umida, tanto che se si rimaneva immobili per un momento si sentiva il gelo che cominciava a penetrare nelle ossa. Era evidente che la temperatura stava calando precipitosamente e il cielo limpido di
quella mattina era adesso soltanto un bel ricordo; tutto sommato, era proprio il giorno adatto per liberarsi di un cadavere
nei boschi. Alcide aprì il pianale, ci infilammo i guanti e afferrammo il fagotto verde e azzurro. Gli allegri pesciolini
gialli apparivano quasi osceni, là in mezzo a quel bosco gelido.
«Dacci dentro», consigliò Alcide, poi contammo fino a
tre e tirammo con quanta forza avevamo. Il fagotto scivolò
fuori per metà, con la parte inferiore che pendeva dal veicolo
in modo sgradevole. «Pronta? Di nuovo. Uno, due, tre!». Tirai ancora e la forza di gravità fece sì che il cadavere saettasse fuori del furgone, finendo sulla strada.
Sarei stata molto più felice se a quel punto ce ne fossimo
semplicemente andati, ma avevamo deciso di portare via la
plastica, perché chi poteva sapere quali e quante impronte digitali potevano esserci sopra, anche sul nastro adesivo? Senza contare altre prove microscopiche che non ero neppure in
grado di immaginare.
Non per nulla guardo sempre Discovery Channel.
Dal momento che Alcide aveva con sé un coltello multiuso, lasciai che toccasse a lui l'onore di assolvere a quel particolare compito, ma tenni aperto un sacco per i rifiuti perché
v'infilasse la plastica tagliata via. Cercai di non guardare il
cadavere. L'aspetto non era certo migliorato.
Anche quell'operazione venne conclusa più in fretta di
quanto avessi immaginato. Mentre mi giravo per risalire sul
furgone, Alcide rimase fermo con il volto verso il cielo, dando l'impressione di annusare la foresta.
«Stanotte ci sarà la luna piena», disse, e tutto il suo corpo
parve essere percorso da un brivido. Quando mi fissò, i suoi
occhi mi apparirono alieni: non potevo affermare che avessero cambiato colore o forma, ma era come se una persona diversa mi stesse guardando attraverso essi.
Ero sola nei boschi con un compagno che aveva assunto
di colpo una dimensione del tutto nuova. Lottando contro
impulsi contrastanti che mi spingevano a urlare, a scoppiare
in pianto o a fuggire, sfoggiai uno smagliante sorriso e attesi.
«Risaliamo sul furgone», mi disse dopo una lunga pausa carica di tensione.
Fui felicissima di arrampicarmi sul sedile.
«Cosa credi che lo abbia ucciso?», domandai quando mi
parve che Alcide avesse avuto il tempo di tornare alla normalità.
«Credo che qualcuno gli abbia violentemente torto il collo. Ma non riesco a immaginare come sia finito a casa mia.
So di aver chiuso la porta a chiave stanotte, ne sono certo, e
questa mattina era ancora chiusa».
Per un po' cercai invano di riflettere su come potevano
aver fatto e alla fine mi scoprii a chiedermi invece quale fosse l'effettiva causa della morte quando ci si spezzava il collo,
ma era meglio pensare ad altro.
Lungo il tragitto del rientro, ci fermammo a un Wal-Mart
che, con il Natale così vicino, era intasato di clienti, e ancora
una volta mi sorpresi a pensare: Non ho comprato niente per
Bill, Avvertii una dolorosa fitta al cuore nel rendermi conto
che non avrei potuto comprare un regalo di Natale per Bill,
né adesso né mai.
Avevamo bisogno di deodoranti per ambiente, di un prodotto per pulire la moquette e di una nuova tenda per la doccia, quindi mi costrinsi ad accantonare la mia infelicità e a
camminare con passo più deciso. Alcide mi lasciò, con mio
grande piacere, a scegliere la tenda nuova e pagò in contanti
in modo che non rimanessero tracce documentabili dei nostri
acquisti.
Una volta nel furgone mi controllai le unghie, constatando che erano in ordine, poi pensai a quanto dovevo essere insensibile per preoccuparmi delle mie unghie quando avevo
appena finito di liberarmi di un cadavere. Per parecchi minuti mi sentii molto contrariata con me stessa, poi provai a parlarne ad Alcide. Sembrava molto più avvicinabile adesso che
eravamo tornati in mezzo alla civiltà e ci eravamo liberati del
nostro silenzioso passeggero.
«Be', non lo hai ucciso tu», mi fece notare. «Oppure sì?».
«No, certo che no», dichiarai, incontrando con una certa
sorpresa lo sguardo dei suoi occhi verdi. «Sei stato tu?».
«No». Dalla sua espressione mi accorsi che era stato in
attesa di quella domanda da parte mia... solo che a me non
era neppure passato per la mente di formularla.
Se da un lato non avrei mai sospettato di Alcide, rimaneva tuttavia il fatto che qualcuno aveva trasformato il mannaro in un cadavere. Fino a quel momento ero stata troppo impegnata a cercare di sbarazzarmi del corpo, ma adesso, per la
prima volta, cercai davvero di capire chi poteva averlo ficcato nel ripostiglio. «Chi ha le chiavi dell'appartamento?».
«Solo io, mio padre e la donna delle pulizie che si occupa
di tutti gli appartamenti dell'edificio. Lei però non custodisce
personalmente la chiave, è l'amministratore a dargliela», rispose Alcide, aggirando con il furgone la fila di negozi in
modo da poter gettare nel bidone dei rifiuti il sacchetto contenente la tenda.
«E' un elenco decisamente breve», osservai.
«Sì, lo è», convenne lentamente Alcide. «So però che
mio padre è a Jackson, perché gli ho parlato al telefono stamattina, subito dopo essermi alzato. La donna delle pulizie
viene soltanto quando lasciamo la richiesta all'amministratore. Lui ha una copia delle nostre chiavi, gliela consegna all'arrivo e la ritira quando lei se ne va».
«Cosa mi dici della guardia di sicurezza, nel garage? E'
in servizio per tutta la notte?».
«Sì, perché è l'unica linea di difesa che impedisca agli
estranei di sgusciare nel garage e prendere l'ascensore. Tu sei
sempre entrata da quella parte, ma l'edificio ha anche un portone che si affaccia sulla strada principale e che è sempre
chiuso. Là non ci sono guardie perché occorre la chiave».
«Quindi, se qualcuno fosse riuscito ad aggirare la guardia, sarebbe potuto salire in ascensore fino al tuo piano senza
essere fermato».
«Oh, certamente».
«E avrebbe poi dovuto forzare la serratura».
«Già, e portare dentro il cadavere e ficcarlo nel ripostiglio. Sembra tutto molto improbabile», affermò Alcide.
«Però sembra essere esattamente quello che è successo.
Però... hai mai dato una chiave a Debbie? Magari qualcuno
l'ha presa a prestito», insinuai, cercando di usare il tono più
neutro possibile, anche se probabilmente la cosa non funzionò troppo bene.
Seguì una lunga pausa.
«Sì, lei aveva una chiave», ammise, rigido.
Mi morsi le labbra per trattenermi dal porre la domanda
successiva.
«No, non me l'ha restituita».
Non avevo neppure avuto bisogno di chiederlo.
Infrangendo un silenzio alquanto carico di tensione, Alcide suggerì di pranzare, anche se era un po' tardi. E scoprii di
essere affamata.
Mangiammo all'Hal and Mal's, un ristorante vicino al
centro, situato in un vecchio magazzino e con i tavoli abbastanza distanti fra loro da renderci possibile continuare a parlare senza che qualcuno si affrettasse a chiamare la polizia.
«Non credo che qualcuno possa essersi aggirato per il palazzo con un cadavere in spalla, a qualsiasi ora», mormorai.
«Noi lo abbiamo appena fatto», osservò lui, cogliendomi
di sorpresa. «Suppongo che sia successo più o meno fra le
due e le sette del mattino. Alle due noi stavamo già dormendo, vero?».
«Più probabile che fossero le tre, considerata la visiti- na
di Eric».
I nostri sguardi s'incontrarono. Eric. Eureka!
«Ma perché dovrebbe aver fatto una cosa del genere? Ha
perso la testa per te?», domandò diretto.
«Non così tanto», borbottai, imbarazzata.
«Però si vuole infilare nel tuo letto».
Annuii, evitando di ricambiare il suo sguardo.
«Pare che ci sia una lunga fila di attesa», borbottò fra sé.
«Oh», commentai, accantonando la cosa, «tu sei ancora
perso dietro a quella Debbie, e lo sai benissimo».
Ci guardammo: meglio mettere subito in chiaro la cosa e
lasciarcela alle spalle.
«Riesci a leggermi nella mente meglio di quanto pensassi», osservò Alcide, con un'espressione contrariata. «Lei però
non è... perché diavolo m'importa di lei? Non sono neppure
sicuro che mi piaccia, mentre tu mi piaci un sacco».
«Grazie», risposi, sorridendo dal profondo del mio cuore.
«Anche tu mi piaci un sacco».
«E' evidente che siamo più adatti l'uno per l'altra di quanto lo siano per noi le persone che stiamo frequentando», aggiunse lui.
Come dargli torto? «Già, e con te sarei felice».
«E a me piacerebbe dividere con te la mia giornata».
«Ma pare che non ci sia dato...».
«No, immagino di no», convenne lui, con un profondo
sospiro.
Quando ce ne andammo, la giovane cameriera scoccò ad
Alcide uno sorriso radioso, accertandosi che lui notasse
come i jeans le sembrassero dipinti addosso.
«Credo proprio», dichiarò Alcide, «che sradicherò completamente Debbie dalla mia testa, poi mi presenterò alla tua
porta quando meno te lo aspetti e magari per quel giorno
avrai lasciato perdere il tuo vampiro».
«E poi vivremo felici e contenti?», chiesi con un sorriso.
Lui annuì.
«Ecco una cosa da attendere davvero con impazienza»,
replicai.
Capitolo ottavo
Quando rientrammo, mi sentivo talmente stanca da essere certa che l'unica cosa che ero in grado di fare fosse schiacciare un pisolino. Quella giornata sembrava non finire mai,
ed era ancora soltanto metà pomeriggio.
Prima però avevamo alcuni lavoretti da svolgere in casa.
Mentre Alcide appendeva la nuova tenda per la doccia, io
pulii la moquette del ripostiglio e aprii uno dei deodoranti
per ambienti, sistemandolo sullo scaffale. Alla fine chiudemmo tutte le finestre, accendemmo il riscaldamento e provammo a trarre un profondo respiro a titolo di esperimento, fissandoci negli occhi. Constatare che l'appartamento aveva di
nuovo un odore normale strappò a entrambi un sospiro di
sollievo.
«Abbiamo appena fatto qualcosa di estremamente illegale», commentai, ancora a disagio per la mia mancanza di
senso morale, «ma la sola cosa che provo davvero è un senso
di liberazione perché ce la siamo cavata».
«Non ti preoccupare per il fatto di non sentirti in colpa»,
mi disse Alcide. «Conserva questi sentimenti per quando
succederà qualcosa che ti farà sentire veramente colpevole».
Era un consiglio così sensato che decisi di seguirlo. «Ho
intenzione di fare un sonnellino», annunciai, «per essere almeno un po' lucida stanotte». Non era bene essere lenti di riflessi, quando si aveva a che fare con dei vampiri.
«Buona idea», approvò Alcide, inarcando le sopracciglia.
Risi e scossi il capo. Entrata nella cameretta, socchiusi la
porta, tolsi le scarpe e mi lasciai cadere sul letto con un senso di appagamento. Dopo un momento, allungai la mano verso il lato opposto del letto, afferrai per la frangia il copriletto
di ciniglia e me lo avvolsi intorno. Nell'appartamento silenzioso, con il sistema di riscaldamento che soffiava un flusso
costante di aria calda, in pochi minuti mi addormentai.
Mi svegliai di soprassalto, completamente lucida e con la
consapevolezza che nell'appartamento c'era qualcun altro.
Forse a un livello subliminale avevo sentito bussare alla porta d'ingresso, o forse avevo percepito il suono di voci profonde che proveniva dal salotto. Lasciai in silenzio il letto per
raggiungere la porta con passo felpato, i piedi scalzi non producevano il minimo rumore sulla moquette beige. Entrando
avevo solo accostato il battente e adesso misi la testa in
modo da addossare l'orecchio alla fessura.
«Ieri notte Jerry Falcon è venuto nel mio appartamento»,
stava dicendo una voce roca e profonda.
«Non lo conosco», replicò Alcide, in tono calmo ma
guardingo.
«Sostiene che ieri sera lo hai messo nei guai al Josephine's».
«Io l'avrei messo nei guai? Se è il tizio che ha messo le
mani addosso alla ragazza con cui ero uscito, si è messo nei
guai da solo!».
«Raccontami cosa è successo».
«Ha tentato di abbordare la mia ragazza mentre ero in bagno. Quando lei ha protestato, ha cominciato a maltrattarla, e
lei ha attirato l'attenzione generale su quello che stava succedendo».
«Le ha fatto male?».
«L'ha sconvolta, e le ha graffiato a sangue una spalla».
«Un'offesa di sangue». La voce si era fatta di una serietà
mortale. «Sì».
Quindi le ferite inflitte dalle unghie sulla mia spalla costituivano un'"offesa di sangue", qualsiasi cosa fosse.
«E dopo?».
«Sono uscito dal bagno e l'ho staccato a forza da lei. Allora è intervenuto il signor Hob».
«Questo spiega le ustioni».
«Sì. Hob lo ha scaraventato fuori dalla porta posteriore e
quella è stata l'ultima volta che l'ho visto. Dici che si chiama
Jerry Falcon?».
«Sì. E' venuto dritto a casa mia, dopo che il resto dei ragazzi ha lasciato il locale».
«E' intervenuto Edgington, perché gli altri stavano per
saltarci addosso».
«Edgington era là?». La voce profonda pareva molto
contrariata.
«Oh, insieme al suo ragazzo».
«In che modo Edgington è coinvolto?».
«Ha detto loro di andarsene. Dato che è il re, e che loro
di tanto in tanto lavorano per lui, si aspettava che obbedissero, ma un cucciolo gli ha creato qualche problema, per cui
Edgington gli ha rotto un ginocchio e ha ordinato agli altri di
portarlo fuori. Mi dispiace che ci siano stati problemi nella
tua città, Terence, ma non è stato per colpa nostra».
«Tu godi i privilegi di un ospite presso il nostro branco,
Alcide, e noi ti rispettiamo. Quanto a quelli di noi che lavorano per i vampiri... ecco, che posso dire? Non sono certo gli
elementi migliori, ma Jerry è il loro capo e ieri notte è stato
umiliato davanti ai suoi uomini. Per quanto ancora intendi
fermarti nella nostra città?».
«Solo un'altra notte».
«E c'è la luna piena».
«Sì, lo so. Cercherò di non dare nell'occhio».
«Che intenzioni hai per stanotte? Vuoi tentare di evitare
il mutamento oppure vieni con me sul mio terreno di
caccia?».
«Cercherò di non espormi alla luna e di evitare tensioni».
«Allora resta alla larga dal Josephine's».
«Purtroppo, Russell ci ha praticamente ordinato di tornare là stasera. Era deciso a scusarsi per come è stata maltrattata la mia ragazza e ha insistito perché lei tornasse anche stasera».
«Andare al Club dei Morti in una notte di luna piena non
è una cosa saggia, Alcide».
«Cosa posso fare? E' Russell che comanda qui in Mississippi».
«Lo capisco, ma tieni gli occhi aperti, e se dovessi vedere
Jerry Falcon, cambia strada. Questa è la mia città», ordinò la
voce profonda, che grondava autorità.
«Lo capisco, Capobranco».
«Bene. Adesso che tu e Debbie Pelt avete rotto, spero che
passerà un po' di tempo prima che ti rivediamo da queste
parti, Alcide. Da' modo alle acque di calmarsi. Jerry Falcon è
un figlio di puttana vendicativo e cercherà di farti del male,
se solo potesse riuscirci senza scatenare una faida».
«È stato lui a recare un'offesa di sangue».
«Lo so, ma per il suo lungo legame con i vampiri, Jerry
si è montato la testa e non segue sempre le tradizioni del
branco. E' venuto da me, come era giusto che facesse, soltanto perché Edgington si è schierato dalla tua parte».
Ma Jerry non avrebbe più seguito nessuna tradizione.
Adesso giaceva morto nei boschi occidentali.
Durante la mia pennichella, fuori si era fatto buio. Un
colpetto alla finestra mi fece sobbalzare e mi avvicinai ai vetri il più silenziosamente possibile, aprii le tende e mi accostai un dito alle labbra. Naturalmente si trattava di Eric, e potevo solo augurarmi che giù in strada nessuno decidesse di
guardare verso l'alto. Sorridendo, mi chiese a gesti di aprire
la finestra, ma scossi il capo decisa e mi portai di nuovo un
dito alle labbra: se lo avessi lasciato entrare Terence lo
avrebbe udito, scoprendo così la mia presenza, e sapevo
istintivamente che non gli avrebbe fatto piacere apprendere
di essere stato sentito. In punta di piedi tornai alla porta e mi
rimisi in ascolto: in salotto si stavano scambiando i saluti.
Con un'occhiata vidi che Eric mi stava osservando attento e
sollevai un dito per segnalargli che entro un minuto sarebbe
potuto entrare.
Udii la porta dell'appartamento che si chiudeva e, qualche istante più tardi, Alcide venne a bussare alla mia camera.
Lo lasciai entrare, augurandomi che il cuscino non mi avesse
lasciato qualche buffo segno sulla guancia.
«Alcide, ho sentito la maggior parte della
conversazione», dissi subito. «Mi dispiace di aver origliato,
ma la cosa mi riguardava. Ah, Eric è qui».
«Lo vedo», commentò Alcide con poco entusiasmo. «Immagino non sia il caso di lasciarlo fuori. Entra, Eric», lo invitò aprendo la finestra.
Lui scivolò dentro con la massima agilità possibile per
un uomo alto costretto a passare attraverso una piccola finestra. Quella sera indossava un completo con gilet e cravatta,
aveva raccolto i capelli in una coda e si era messo un paio di
occhiali.
«Ti sei travestito?», domandai, stentando a credere ai
miei occhi.
«Infatti», confermò lui, abbassando con orgoglio lo
sguardo sulla propria persona. «Non ti sembro diverso?».
«Sì», ammisi. «Sembri Eric, per una volta vestito in
modo elegante».
«Ti piace il mio abito?».
«Certo». Ho limitate conoscenze in fatto di abbigliamento maschile, ma ero pronta a scommettere che quel completo in tre pezzi verde oliva doveva essere costato più di
quanto guadagnavo nell'arco di due settimane, o anche di
quattro. Forse non avrei scelto quel colore per un uomo con
gli occhi azzurri, ma dovevo ammettere che il risultato era
spettacolare. Se mai fosse uscita una versione per vampiri di
«GQ», si sarebbe certamente aggiudicato un servizio fotografico. «Chi ti ha pettinato?», aggiunsi, notando che non si
trattava di una vera coda ma di una treccia molto complicata.
«Oooh, sei gelosa?».
«No, ma pensavo che chi lo ha fatto potrebbe insegnarmi
a pettinarmi nello stesso modo».
«Si può sapere per quale motivo hai lasciato un morto nel
mio ripostiglio?», intervenne in tono bellicoso Alcide, che ne
aveva avuto abbastanza di quelle chiacchiere sulla moda.
Mi è successo di rado di vedere Eric rimanere senza parole, ma questa volta ammutolì completamente... per interi
trenta secondi.
«Non c'era mica Bubba in quel ripostiglio, vero?», domandò.
Questa volta fummo noi a rimanere a bocca aperta, Alcide perché non sapeva chi diavolo fosse Bubba e io perché
non riuscivo a immaginare cosa potesse essere successo a
quel vampiro un po' tonto.
Succintamente, spiegai ad Alcide chi fosse Bubba.
«Questo spiega tutti gli avvistamenti», commentò lui.
«Accidenti... erano tutti veri!».
«Il gruppo di Memphis voleva tenerlo presso di sé, ma è
stato proprio impossibile», spiegò Eric, «perché lui continuava a voler tornare a casa e allora si verificavano gli incidenti.
Così abbiamo cominciato a passarcelo da un gruppo
all'altro».
«E adesso lo hai perso», sintetizzò Alcide, che non appariva molto dispiaciuto per il problema di Eric.
«E' possibile che le persone che stavano cercando di rapire Sookie, a Bon Temps, abbiano invece preso Bubba»,
disse Eric, poi si assestò il gilet e tornò a contemplare la propria figura con una certa soddisfazione. «Allora, chi c'era nel
ripostiglio?».
«Il motociclista che ha graffiato Sookie ieri notte», rispose Alcide. «Ha tentato di rimorchiarla in modo molto rude
mentre io ero in bagno».
«L'ha graffiata?».
«Sì, un'offesa di sangue», confermò il mannaro in tono
significativo.
«Ma ieri notte non mi avete detto niente di tutto questo»,
fu l'accusa di Eric, inarcando un sopracciglio nella mia direzione con fare significativo.
«Non ne volevo parlare», spiegai. Il tono sconfortato con
cui quelle parole mi uscirono di bocca non mi piacque affatto, per cui aggiunsi: «E poi, non mi è uscito molto sangue».
«Fammi vedere».
Levai gli occhi al cielo, ma sapevo dannatamente bene
che Eric non avrebbe mollato, quindi feci scivolare la felpa e
la spallina del reggiseno in modo da mettere a nudo la spalla.
Per fortuna la felpa era vecchia e il colletto aveva perso elasticità, cosa che mi facilitò la manovra. I segni delle unghie
sulla mia spalla erano una serie di mezzelune coperte da una
crosta, rosse e gonfie nonostante li avessi accuratamente lavati e disinfettati al mio rientro, perché sapevo bene quanti
germi si annidassero sotto le unghie. «Come vedi, non è
niente di serio», commentai. «E' stato più lo spavento che la
ferita in se stessa».
Eric continuò a tenere gli occhi fissi su quelle piccole,
brutte lacerazioni finché non mi risistemai la felpa. Poi spostò lo sguardo su Alcide. «E lo avete trovato morto nel ripostiglio».
«Sì», confermò Alcide. «Era morto da ore».
«Cosa lo ha ucciso?».
«Non è stato morso», dissi. «Sembrava che gli avessero
spezzato il collo, ma non ce la siamo sentiti di esaminarlo
con troppa attenzione. Intendi dire che non sei tu il responsabile?».
«No, anche se sarei stato lieto di averlo fatto».
Scrollai le spalle, rifiutandomi di sondare quell'oscuro
pensiero. «Allora chi è stato a metterlo lì?», domandai per riportare la discussione in carreggiata.
«E perché?», aggiunse Alcide.
«Sarebbe troppo chiedere dove si trova adesso il cadavere?», ribatté Eric, riuscendo a dare l'impressione di assecondare due bambini ribelli.
Alcide e io ci scambiammo un'occhiata. «Lui... ecco... lui
è...». Lasciai a mezzo la frase.
«Il corpo non è qui», dichiarò Eric, dopo aver assaggiato
l'aria dell'appartamento. «Avete chiamato la polizia?».
«Ecco, no», borbottai. «In realtà noi...».
«Lo abbiamo scaricato in campagna», tagliò corto Alcide, perché non c'era un modo più delicato per dirlo.
A quanto pareva, avevamo colto di sorpresa Eric per la
seconda volta. «Ma guarda», affermò sconcertato. «Siete
davvero intraprendenti».
«Abbiamo pensato a tutto», dichiarai, forse un po' troppo
sulla difensiva.
«Sì, scommetto che lo avete fatto», sorrise Eric... un sorriso tutt'altro che piacevole a vedersi.
«Oggi il Capobranco è venuto a trovarmi», intervenne
Alcide. «In effetti, è appena andato via. Lui non sapeva che
Jerry era scomparso. Anzi, dopo aver lasciato il bar, ieri notte, Jerry è andato da Terence per lamentarsi, sostenendo di
aver subito un torto da parte mia. Questo significa che è stato
visto in giro vivo dopo l'incidente al Josephine's».
«Quindi ritenete di esservela cavata».
«Pensiamo di sì».
«Avreste dovuto bruciare il corpo», affermò Eric, «in
modo da cancellare qualsiasi traccia del vostro odore».
«Non ritengo che qualcuno possa individuare il nostro
odore su di lui», ribattei. «Sul serio, non credo che lo abbiamo mai toccato a mani nude».
Eric guardò verso Alcide, che annuì.
«Sono d'accordo con lei», disse. «Ricorda che appartengo a quelli che hanno una natura duplice».
«Non ho idea di chi possa averlo ucciso e poi messo nell'appartamento», commentò Eric, scrollando le spalle. «Evidentemente, si è trattato di qualcuno che voleva far ricadere
su di voi la colpa della sua morte».
«Ma allora perché non chiamare la polizia da un telefono
pubblico per avvertirla della presenza di un cadavere all'interno 504?».
«Una valida domanda, Sookie, a cui per ora non posso rispondere», tagliò corto Eric, dando l'impressione di perdere
improvvisamente interesse alla cosa. «Stanotte sarò anch'io
presente al club. Se avessi bisogno di parlarti, Alcide, dirai a
Russell che sono un tuo amico di un'altra città e che mi hai
invitato qui per conoscere Sookie, la tua nuova ragazza».
«D'accordo», rispose Alcide. «Non capisco però perché
tu voglia essere presente. Significa andare in cerca di guai. E
se un vampiro ti riconoscesse?».
«Non conosco nessuno di loro».
«Perché vuoi correre questo rischio?», domandai. «Perché venirci di persona?».
«Potrei riuscire a cogliere qualcosa che tu non sei in grado di sentire, o che Alcide non può sapere perché non è un
vampiro», spiegò Eric ragionevolmente. «Scusaci un momento, Alcide. Sookie e io abbiamo alcune cose di cui discutere».
Alcide guardò verso di me per accertarsi che fossi d'accordo, poi annuì con riluttanza e andò in salotto.
«Vuoi che ti guarisca quei segni sulla spalla?», mi chiese
Eric, senza preamboli.
Pensai a quegli orribili segni a mezzaluna e alle spalline
sottili del vestito che avrei indossato. Stavo già per assentire
quando ebbi un ripensamento: «Come potrei spiegarlo, Eric?
Al bar, tutti lo hanno visto aggredirmi».
«Hai ragione», convenne, chiudendo gli occhi e scuotendo il capo come se fosse stato irritato con se stesso. «Certo, è
ovvio. Non essendo una mannara o una nonmorta, non potresti guarire così rapidamente».
Poi fece un'altra cosa inattesa. Mi prese la mano destra
fra le sue e la strinse con forza, guardandomi negli occhi.
«Ho setacciato Jackson, ho perquisito magazzini, cimiteri,
fattorie e qualsiasi altro posto in cui ci fosse anche un vago
sentore di vampiro, comprese tutte le proprietà di Edgington
e quelle di alcuni suoi seguaci, ma non ho trovato traccia di
Bill. Sookie, ho davvero molta paura che possa essere morto,
definitivamente morto».
Mi sentii come se mi avesse appena colpito nel centro
della fronte con un martello. Le ginocchia mi cedettero e se
lui non si fosse mosso con la rapidità del lampo sarei crollata
sul pavimento. Sedutosi su una sedia posta in un angolo della
stanza, Eric mi prese fra le braccia, tenendomi in grembo.
«Ti ho sconvolta troppo», disse. «Ho cercato di essere pratico e invece sono stato...».
«Brutale», dichiarai, mentre una lacrima mi sgorgava dagli occhi.
La sua lingua saettò fuori e avvertii una vaga sensazione
di umidità quando mi leccò le lacrime: i vampiri paiono apprezzare qualsiasi tipo di fluido corporeo, quando non possono avere il sangue, e comunque in quel momento la cosa non
mi diede particolarmente fastidio, perché ero contenta che
qualcuno mi offrisse conforto, anche se si trattava di Eric. Mi
lasciai sprofondare nella mia infelicità mentre lui rifletteva.
«Il solo posto che non ho controllato è il complesso residenziale di Russell Edgington... la sua villa e gli edifici annessi. Mi stupirebbe scoprire che sia stato tanto imprudente
da tenere un altro vampiro prigioniero a casa sua, ma è re da
un secolo e può darsi che si senta così sicuro di sé da arrivare
a farlo. Forse riuscirei a oltrepassare il muro di cinta senza
essere notato, però non ce la farei mai a uscire, e i giardini
sono sorvegliati da mannari. E' improbabile riuscire ad accedere a un posto così ben difeso e lui non ci inviterebbe a casa
sua se non in circostanze estremamente insolite». Fece una
pausa per darmi il tempo di assimilare le sue parole, poi ag-
giunse: «Credo che tu debba dirmi quello che sai riguardo al
progetto portato avanti da Bill».
«E' per questo che mi stai confortando e che ti stai mostrando gentile!», esclamai infuriata. «Perché vuoi ottenere
da me delle informazioni!». Scattai in piedi, rinvigorita dall'ira.
Anche Eric si alzò di botto, e fece del suo meglio per incombere su di me. «Io credo che Bill sia morto», ribadì. «Sto
cercando di salvare la mia vita e la tua, razza di stupida donna», ribatté, mostrandosi altrettanto furente.
«Troverò Bill», scandii con precisione. Non sapevo bene
come avrei fatto, ma quella sera avrei svolto un'attenta operazione di spionaggio e qualcosa sarebbe saltato fuori. Non
sono Pollyanna, ma sono sempre stata ottimista.
«Non puoi tentare di affascinare Edgington, Sookie, perché le donne non gli interessano. Se lo facessi io si insospettirebbe: un vampiro che ci prova con un altro è una cosa
troppo insolita, ed Edgington non è arrivato dove si trova
perché è un ingenuo. Forse la sua comandante in seconda,
Betty Jo, potrebbe essere interessata a me, ma pure lei è una
vampira e quindi anche per lei vale la stessa regola. Non hai
idea di quanto sia insolita l'infatuazione di Bill nei confronti
di Lorena; in effetti, noi disapproviamo che i vampiri s'innamorino di loro simili».
«Come hai fatto a scoprire tutte queste cose?», chiesi,
ignorando le sue ultime due frasi.
«Ieri notte ho incontrato una giovane vampira, il cui ragazzo frequenta le feste che si tengono a casa di Edgington».
«Oh, lui è bisex?».
«E' un lupo mannaro», replicò Eric, scrollando le spalle,
«quindi immagino che la sua natura sia duplice sotto più di
un aspetto».
«Credevo che i vampiri non avessero relazioni neppure
con i lupi mannari», osservai.
«Quella vampira è capricciosetta. Ai giovani piace sperimentare».
«Quindi stai dicendo che dovrei concentrare i miei sforzi
sul tentativo di ottenere un invito a casa di Edgington, dato
che non esiste nessun altro posto a Jackson in cui Bill possa
essere nascosto?», sintetizzai, levando gli occhi al cielo.
«Potrebbe anche essere in qualche altro angolo della città», precisò cautamente Eric. «Ma io non lo credo. E' una
possibilità troppo remota. Sookie, ricorda che ormai lo hanno
in mano loro da molti giorni», aggiunse, abbassando lo
sguardo su di me. Aveva un'espressione compassionevole
che mi spaventò più di qualsiasi altra cosa.
Capitolo nono
Provavo la febbrile, angosciosa sensazione che si ha
quando si sta per andare incontro al pericolo. Quella era l'ultima sera in cui Alcide poteva recarsi al Club dei Morti, perché Terence lo aveva diffidato senza possibilità di replica.
Dopo di che, sarei stata abbandonata a me stessa, sempre che
mi fosse stato permesso entrare nel locale senza essere scortata da Alcide.
Mentre mi vestivo, mi sorpresi a desiderare di andare a
un normale bar di vampiri, di quelli frequentati dagli umani
per ammirare i non-morti. Fangtasia, il locale di Eric a Shreveport, era un posto del genere, dove i turisti si recavano, addirittura in gite organizzate, per trascorrere una serata diversa
vestendosi di nero e magari versandosi addosso del sangue
finto o applicandosi canini fasulli. Ammiravano i vampiri
disseminati strategicamente nel locale e si entusiasmavano
per la propria audacia. Di tanto in tanto, qualcuno finiva per
varcare la linea che lo teneva al sicuro, magari per un'avance
a un vampiro o perché mancava di rispetto a Chow, il barista,
e allora scopriva forse con cosa aveva effettivamente a che
fare.
In un bar come il Club dei Morti, invece, si giocava a
carte scoperte: là gli umani erano un ornamento superfluo e
gli esseri sovrannaturali la materia.
Solo ventiquattr'ore prima mi ero sentita piena di eccitazione, mentre adesso avvertivo una distaccata determinazione, come se una potente droga avesse smorzato le mie emozioni normali. M'infilai le calze, fermandole con un grazioso
reggicalze nero che Arlene mi aveva regalato per il compleanno, e sorrisi nel pensare alla mia amica dai capelli rossi
e al suo incredibile ottimismo nei confronti degli uomini, anche dopo quattro matrimoni. Arlene mi avrebbe detto di assaporare ogni minuto, ogni secondo, con tutto l'entusiasmo che
riuscivo a raggranellare; avrebbe detto che non potevo sapere
quale uomo avrei incontrato, che magari quella sarebbe stata
la mia notte magica. Che forse indossare quel reggicalze
avrebbe cambiato il corso della mia vita.
Probabilmente non sorrisi, ma mi sentii un po' meno depressa mentre mi infilavo il vestito dalla testa. Di color
champagne, quell'abito era decisamente succinto. Vi abbinai
un paio di scarpe a tacco alto nere e orecchini di giaietto, poi
cercai di decidere se il mio vecchio cappotto avrebbe davvero fatto una figura troppo orribile o se dovevo congelare per
amore della vanità. Sospirando, contemplai il logoro cappotto blu, poi me lo gettai sul braccio e passai in salotto; già
pronto, Alcide mi stava aspettando in piedi in mezzo alla
stanza. Nel tempo che impiegai a registrare quanto apparisse
nervoso, Alcide prelevò un pacco dal mucchio accumulato
nel giro di acquisti della mattina e tornò ad assumere l'espressione imbarazzata che aveva avuto al mio rientro nell'appartamento.
«Questa è una cosa che credo di doverti», disse, porgendomi il grosso pacchetto.
«Oh, Alcide... mi hai comprato un regalo?», esclamai. Lo
so, lo so, era stupido rimanere lì ferma con la scatola in
mano, ma dovete capire che quella non era una cosa che mi
succedeva molto spesso.
«Aprilo», m'incitò lui in tono burbero.
Gettato il cappotto sulla sedia più vicina, aprii il pacco,
goffamente perché non ero abituata alle unghie finte. Dopo
qualche manovra, scoperchiai la scatola di cartone bianco e
scoprii che Alcide aveva rimpiazzato la mia stola da sera.
Lentamente, tirai fuori il lungo rettangolo, assaporando ogni
singolo movimento. Era davvero splendida, una stola di velluto nero con frange di perline alle estremità, e mi venne da
pensare che doveva essere costata cinque volte di più di
quella rovinata.
Ero senza parole, e mi accade di rado. Del resto, non mi
capita di ricevere molti regali, per cui non li prendo mai alla
leggera. Mi avvolsi nel velluto, crogiolandomi nel suo contatto, e lo accarezzai con la guancia.
«Grazie», dissi infine, la voce incrinata.
«Non c'è di che», rispose lui a disagio. «Dio, ora non
piangere, Sookie. Volevo farti felice».
«Sono davvero felice e non sto piangendo», garantii, ricacciando indietro le lacrime, poi andai a rimirarmi nello
specchio del bagno. «Oh, è stupenda», mi uscì dal profondo
del cuore.
«Bene, sono lieto che ti piaccia», affermò lui, brusco.
«Ho pensato che era il minimo che potessi fare». Sistemò la
stola per coprire i segni rossi sulla mia spalla sinistra.
«Non mi devi proprio niente», ribattei. «Sono io a essere
in debito con te». Mi accorsi che la mia serietà gli creava di
nuovo del disagio e conclusi: «Avanti, andiamo al Club dei
Morti. Stanotte scopriremo tutto quello che ci serve sapere e
nessuno si farà male».
Il che dimostra che non possiedo la preveggenza.
Sia Alcide che io eravamo vestiti in maniera diversa, ma
il Josephine's sembrava esattamente lo stesso, con il marciapiede deserto e la sua atmosfera sinistra. Quella sera faceva
ancora più freddo, abbastanza da vedere la nuvoletta bianca
del mio respiro e per essere pateticamente grata del calore
offerto dalla stola di velluto. Fermato il furgone, in un balzo
Alcide atterrò sotto la tettoia e rimase là ad aspettarmi senza
aiutarmi a scendere.
«Luna piena», spiegò in tono asciutto. «Sarà una notte
parecchio tesa».
«Mi dispiace», replicai impotente. «Tutto questo deve essere terribilmente difficile per te», aggiunsi pensando che, se
non fosse stato costretto ad accompagnarmi, sarebbe corso
nei boschi, per cacciare daini e conigli.
«Ci sarà sempre domani notte», rispose, accantonando le
mie scuse con una scrollata di spalle, «con la luna quasi altrettanto piena». Però stava vibrando per la tensione.
Stavolta mi spaventai di meno quando il furgone se ne
andò, in apparenza per moto proprio, e non ebbi neppure un
tremito appena il signor Hob aprì la porta. Non saprei dire se
il goblin apparisse contento di vederci perché non ero in grado di decifrare le sue espressioni facciali e lui avrebbe potuto
fare addirittura le capriole per la gioia senza che io lo capissi.
In qualche modo dubitavo che fosse entusiasta della mia
seconda apparizione nel club... di cui magari era il proprietario. Mi riusciva difficile immaginare il signor Hob battezzare
un locale con il nome "Josephine's". Forse lo avrebbe chiamato Cane Putrescente o Larve Fiammeggianti, ma certo non
Josephine's.
«Non vogliamo problemi stasera», ci apostrofò il goblin,
in tono cupo. La sua voce suonava rauca e arrugginita, come
se non parlasse molto e in ogni caso non gli piacesse farlo.
«Non è stata colpa sua», obiettò Alcide.
«Comunque sia», tagliò corto Hob, e non aggiunse altro,
probabilmente perché riteneva, giustamente, che non fosse
necessario. Accennando con la testa a un gruppo di tavolini
riuniti, disse: «Il re vi sta aspettando».
Appena mi avvicinai, gli uomini si alzarono in piedi.
Rusell Edgington e il suo amico particolare, Talbot, erano
posizionati in modo da guardare verso la pista da ballo e avevano di fronte un vampiro più grande (ecco, diventato un non-morto a un'età più avanzata) e una donna che, naturalmente, rimase seduta. Il mio sguardo la sfiorò, poi tornò su di lei
e uno strillo di gioia mi sfuggì dalle labbra.
«Tara!».
La mia amica delle superiori strillò a sua volta e balzò in
piedi. Ci abbracciammo con impeto, invece del nostro solito
cenno di abbraccio poco entusiasta, poiché là al Club dei
Morti eravamo entrambe straniere in terra straniera.
Tara, che è di parecchi centimetri più alta di me, ha occhi
e capelli scuri e la carnagione olivastra; quella sera indossava un vestito oro e bronzo a maniche lunghe, che scintillava
a ogni suo movimento, e con le scarpe a tacco alto eguagliava la statura del suo compagno.
Mentre mi districavo dall'abbraccio assestando a Tara
un'allegra pacca sulla schiena, mi resi conto che averla incontrata lì era la cosa peggiore che mi sarebbe potuta capitare. Subito m'insinuai nella sua mente e in effetti lei stava per
chiedermi come mai fossi in compagnia di qualcuno che non
era Bill.
«Ragazza mia, seguimi un momento nel bagno delle signore!», esclamai allegramente e lei afferrò la borsetta, rivolgendo al suo accompagnatore un sorriso insieme contrito e
pieno di promesse mentre io accennavo un saluto verso Alcide, chiedevo agli altri di scusarci e la pilotavo a passo deciso
verso le toilette, adiacenti al passaggio che conduceva alla
porta posteriore. Il bagno delle donne era vuoto e io appoggiai la schiena al battente per evitare che qualcuno entrasse.
Tara mi fissò con occhi pieni di interrogativi.
«Tara, per favore, non dire niente riguardo a Bill o a Bon
Temps».
«Vuoi spiegarmi il perché?».
«Ecco...», tergiversai, cercando invano di trovare una
spiegazione plausibile. «Tara, se lo farai ne andrà della mia
vita».
Lei trasalì e mi piantò gli occhi addosso: chi non lo
avrebbe fatto? Ma Tara ne aveva passate tante ed era una
donna forte, anche se ferita. «Sono così contenta di vederti
qui», affermò. «Mi sentivo sola, in mezzo a questa gente.
Chi è il tuo amico? Che cosa è?».
Dimenticavo sempre che le altre persone non erano in
grado di capirlo da sole e a volte quasi dimenticavo che non
sapessero dell'esistenza dei mannari e dei mutaforme. «E un
topografo», risposi. «Vieni, te lo presento».
Tornate al tavolo, indirizzai uno smagliante sorriso a tutti
gli uomini presenti.
«Chiedo scusa se siamo sparite così... ho proprio dimenticato le buone maniere», dissi, poi presentai Tara ad Alcide,
che sembrò ben lieto di conoscerla. A quel punto fu la volta
di Tara: «Sook, questo è Franklin Mott».
«Piacere di conoscerla», dissi e gli offrii la mano prima
di rendermi conto della gaffe che stavo facendo, dato che i
vampiri non usano stringere la mano. «Chiedo scusa», mi af-
frettai a correggermi, optando per un lieve cenno del capo.
«Lei vive qui a Jackson, signor Mott?», continuai, decisa a
non mettere in imbarazzo Tara.
«Per favore, mi chiami Franklin», rispose lui, con una
voce meravigliosamente calda e caratterizzata da un lieve accento italiano. Doveva essere stato trasformato più o meno a
sessant'anni: aveva capelli e baffi grigio ferro e il volto segnato, ma appariva vigoroso e decisamente virile. «Sì, vivo a
Jackson, ma dirigo un'attività che ha filiali in franchising a
Jackson, a Ruston e a Vicksburg. Ho conosciuto Tara a un
convegno, a Ruston».
Attraversammo passo passo le fasi dei convenevoli: ci
accomodammo, ordinammo da bere e spiegammo che eravamo state compagne alle superiori. Naturalmente i vampiri ordinarono del sangue sintetico, mentre Talbot, Tara, Alcide e
io preferimmo i cocktail; personalmente, decisi che valeva la
pena di riprendere quello allo champagne. La cameriera, una
mutaforme, si muoveva in una strana maniera, quasi furtiva,
e non pareva incline a chiacchierare: evidentemente la presenza della luna piena si stava facendo avvertire in tutti i
modi possibili.
E, proprio per questo, c'erano poche creature dalla doppia
natura nel locale. Constatai con piacere l'assenza di Debbie e
del suo fidanzato. C'era soltanto un paio di mannari motociclisti, mentre il numero dei vampiri e degli umani pareva
cresciuto. Mi chiesi come facessero i vampiri di Jackson a
tenere nascosta l'esistenza del loro bar privato. Possibile che
fra tutti gli umani che lo frequentavano con i loro accompagnatori sovrannaturali non ce ne fossero almeno uno o due
pronti a parlarne con un giornalista, o anche solo con gli
amici?
«Il bar è protetto da un incantesimo», spiegò a bassa
voce Alcide, quando glielo domandai. «Anche a provarci,
non saresti in grado di spiegare come arrivare qui».
Decisi che più tardi avrei verificato da me e intanto mi
chiesi a chi fosse dovuta la magia, l'incantesimo, o quello
che era. Se potevo credere all'esistenza di vampiri, lupi mannari e mutaforme, non era poi così difficile credere anche all'esistenza delle streghe.
Poiché ero seduta fra Alcide e Talbot, per fare un po' di
conversazione provai a chiedere a quest'ultimo qualche informazione sulle misure di sicurezza del locale e lui parve
disposto a chiacchierare con me. Alcide avviò una conversazione con Mott, con cui aveva scoperto di avere delle conoscenze in comune. Talbot aveva addosso un po' troppa acqua
di colonia, ma non gliene volli: era un uomo innamorato e
per di più aveva sviluppato una dipendenza dal sesso con i
vampiri... due condizioni che non vanno sempre insieme.
Spietato e intelligente, non riusciva ancora a capire come
avesse fatto la sua vita a prendere una piega tanto esotica
(aveva una mente che trasmetteva con estrema chiarezza,
così raccoglievo molti dettagli su di lui).
Mi ripetè la storia dell'incantesimo. «Ma il modo in cui
resta segreto quello che accade dentro il locale è del tutto di-
verso», aggiunse apparentemente incerto fra una risposta
lunga e una corta. Nel guardare quel volto avvenente e simpatico, mi dissi che quell'uomo sapeva delle torture su Bill e
che non gliene importava, desiderai quindi che pensasse ancora a Bill in modo da fornirmi qualche altra informazione,
da farmi almeno sapere se era vivo o morto. «Ecco, signorina
Sookie», concluse intanto, «quello che accade qui viene tenuto segreto con il terrore e le punizioni».
E pronunciò quelle parole di gusto. Quello stato di cose
gli piaceva, come gli piaceva aver conquistato il cuore di
Russell Edgington, un essere che poteva uccidere con facilità, degno di essere temuto. «Qualsiasi vampiro o mannaro...
in effetti, qualsiasi tipo di essere soprannaturale, e può credermi se le dico che ne conosce assai pochi... che porti qui
un umano, è responsabile del suo comportamento», proseguì.
«Per esempio, se stanotte uscendo da qui lei decidesse di
contattare un tabloid, dovrebbe essere Alcide a darle la caccia e ucciderla».
«Capisco», annuii, in tutta sincerità. «E se Alcide non lo
facesse?».
«Allora ci rimetterebbe la vita e il lavoro verrebbe affidato a un cacciatore di taglie».
Cristo santo! «Esistono dei cacciatori di taglie?», domandai con voce lievemente arrochita. Non mi piaceva scoprire
che Alcide avrebbe potuto dirmi molto più.
«Certo. In quest'area, si tratta dei mannari che indossano
la tenuta da motociclisti. Questa sera sono qui a fare doman-
de perché...». Talbot fece una pausa e la sua espressione si
fece più attenta e sospettosa mentre domandava: «Quell'uomo che l'ha infastidita... l'ha più visto ieri notte? Dopo aver
lasciato il bar, intendo».
«No», risposi e da un punto di vista strettamente tecnico
era la verità, perché in effetti la notte precedente non lo avevo più rivisto. Sapevo cosa ne pensava Dio delle verità di
quel genere, ma Lui probabilmente in quel momento si
aspettava che mi salvassi la vita. «Alcide e io siamo tornati
subito al nostro appartamento, perché io ero sconvolta», aggiunsi, chinando lo sguardo come se fossi stata una ragazza
non abituata a essere abbordata in un bar, altra cosa non esattamente vera. (Sam è attento a che simili incidenti non si verifichino di frequente eppure, nonostante la mia fama di pazza e quindi di indesiderabile, mi è capitato di dover far fronte
a qualche aggressiva avance, oltre alle proposte incerte dei
clienti troppo ubriachi per preoccuparsi della mia pazzia).
«Eppure sembravi così risoluta quando è parso che stesse
per scatenarsi una rissa», obiettò Talbot. Stava pensando che
il mio coraggio della sera precedente non armonizzava con il
mio attuale comportamento pudico. Dannazione, avevo esagerato.
«Risoluta è la giusta parola per Sookie», s'intromise per
mia fortuna Tara. «Quando abbiamo ballato insieme sul palcoscenico, circa un milione di anni fa, era lei quella coraggiosa, non io, che ero tutta un tremito!».
Grazie, Tara, pensai.
«Ballavate?», intervenne Franklin Mott, interessato dall'argomento.
«Oh, sì, e abbiamo vinto la gara per dilettanti», gli rispose Tara. «Quello di cui non ci siamo rese conto, finché non ci
siamo diplomate e non abbiamo acquisito un po' di esperienza del mondo, è stato che la nostra esecuzione era... ecco...».
«Allusiva», conclusi, per dirla pane al pane. «Eravamo le
ragazze più ingenue della nostra scuola ed ecco che ci siamo
presentate con un numero preso direttamente da mtv».
«Ci abbiamo messo anni a capire perché il preside stava
sudando tanto», aggiunse la mia amica, con un sorriso abbastanza da monella da riuscire affascinante. «Già che ci siamo, lasciami andare a parlare un momento con il DJ». Balzò
in piedi e si face largo fino al vampiro che aveva predisposto
il suo equipaggiamento sul piccolo palco; lui si protese in
avanti, ascoltò attentamente e infine annuì.
«Oh, no», gemetti, consapevole che stavo per essere
messa in un orribile imbarazzo.
«Cosa c'è?», domandò divertito Alcide.
«Vuole che lo rifacciamo».
Infatti, Tara zigzagò fra la folla per venire a prendermi,
raggiante in volto. Pensai ad almeno venticinque buone ragioni per non fare quello che lei voleva facessi ma, quando
mi prese le mani e mi issò in piedi, risultò evidente che l'unico modo per uscire da quella situazione era assecondarla:
Tara era decisa a esibirsi ed era mia amica. La folla ci fece
spazio mentre cominciavano a risuonare le prime note di
Love Is a Battlefield, di Pat Benatar.
Purtroppo, ricordavo fin troppo bene ogni scuotimento e
passo, ogni mossa dei fianchi.
Nella nostra innocenza, Tara e io avevamo elaborato le
figure quasi come se fossimo state delle pattinatrici, per cui
continuammo a toccarci (o quasi) per tutto il tempo. Forse
assomigliavamo a una coppia lesbica di uno streaptease?
Certo, non sono mai stata in un locale del genere o in un cinema porno, ma suppongo che vi si trovasse l'ondata comune
di desiderio che sentii formarsi quella notte al Josephine's.
Esserne l'oggetto non mi piaceva... ma scoprii che provocava
una sensazione di potere.
Bill aveva insegnato al mio corpo cosa fosse il sesso ben
fatto ed ero certa che la lezione trasparisse dal mio modo di
ballare, e lo stesso valeva per Tara. Capricciosamente, stavamo vivendo un momento etichettabile come "sono donna,
ascoltate il mio ruggito", e non avevamo più dubbi sul fatto
che l'amore era un campo di battaglia. Benatar aveva ragione.
Eravamo di profilo rispetto al pubblico, con Tara che mi
cingeva la vita, e sulle ultime note inarcammo i fianchi all'unisono per poi abbassare le mani fino a terra in un ampio gesto. La musica cessò e dopo un istante di silenzio scoppiarono applausi e fischi d'apprezzamento. A giudicare dalla loro
espressione famelica, i vampiri stavano pensando al sangue
che ci scorreva nelle vene, soprattutto in quelle dell'interno
coscia, e percepivo che i lupi mannari immaginassero quanto
dovevamo essere buone da assaggiare. Nel tornare al nostro
tavolo mi sentivo decisamente commestibile. In quei pochi
passi, Tara e io raccogliemmo pacche di approvazione, complimenti e molte offerte. Fui quasi tentata di accettare l'invito
a ballare da parte di un vampiro bruno e ricciuto, di corporatura simile alla mia e grazioso come un coniglietto, ma mi limitai a sorridere e a tirar dritto.
«Oh, avevi proprio ragione», commentò Franklin Mott,
deliziato, porgendo la sedia a Tara. Alcide invece rimase seduto a fissarmi con occhi ardenti, costringendo Talbot a allungarsi per aiutarmi a sedere, un atto di cortesia improvvisato e goffo che però gli valse una carezza di approvazione sulla spalla da parte di Russell Edgington. «Non riesco a credere che non vi abbiano espulse», commentò poi Talbot, per
coprire quel momento di imbarazzo. Non avrei mai pensato
che Alcide si dimostrasse uno stupido possessivo.
«Non avevamo idea di cosa stavamo facendo», protestò
Tara, ridendo. «Proprio nessuna. E non riuscivamo a capire il
perché di tanto chiasso».
«Che ti prende?», chiesi sottovoce ad Alcide. Ascoltai
con grande concentrazione e riuscii a individuare la fonte
della sua irritazione. Era risentito con se stesso per avermi
confessato di avere ancora Debbie nel cuore, perché altrimenti quella notte si sarebbe impegnato a infilarsi nel mio
letto. Era un misto di colpa e rabbia... a pensarci bene, per lui
era un po' come avere il ciclo mensile.
«Non dovresti concentrarti di più a cercare il tuo ragazzo?», ribatté con tono freddo e cattivo.
Fu come se mi avesse gettato in faccia un secchio di acqua fredda, uno shock che mi fece un male terribile, tanto
che gli occhi mi si velarono di lacrime. Inoltre, risultò evidente per tutti i presenti al tavolo che aveva detto qualcosa
che mi aveva sconvolta.
Talbot, Russell e Franklin fissarono Alcide con occhi carichi di minaccia. Lo sguardo di Talbot era soltanto una debole eco di quello del suo amante, e poteva quindi essere
ignorato, ma Russell era il re e Franklin doveva avere una
certa influenza, perché Alcide ebbe di nuovo coscienza di
dove si trovava e con chi.
«Scusami, Sookie, ero solo geloso», si scusò a voce abbastanza alta perché tutti lo udissero. «Un'esibizione davvero
interessante».
«Interessante?», ripetei più disinvolta che potei, dato che
ero decisamente infuriata; poi mi chinai verso di lui passandogli le dita fra i capelli: «Solo interessante?». Ci scambiammo un sorriso falsissimo, ma gli altri se la bevvero. Intanto
provavo un'intenso desiderio di afferrare quei capelli neri e
di assestare un deciso strattone, e, sebbene non fosse telepate, Alcide lesse chiaramente il mio volto e si sforzò di non
indietreggiare.
Poi Tara intervenne di nuovo... che fosse benedetta... e
gli chiese che lavoro facesse, permettendomi di superare incolume un altro momento imbarazzante. Mi allontanai un po'
con la sedia dal cerchio raccolto intorno al tavolo e lasciai
vagare la mente. Alcide aveva ragione: avrei dovuto concentrarmi sul lavoro invece di pensare a divertirmi, ma non vedevo come avrei potuto negare a Tara una cosa che le aveva
fatto tanto piacere.
Tra i corpi che affollavano la piccola pista da ballo intravidi Eric appoggiato al muro dietro il palco. Mi fissava con
occhi roventi, segno che almeno lui non era infuriato con me
e aveva accolto la nostra piccola esibizione nello spirito con
cui era stata offerta.
Eric aveva decisamente un bell'aspetto in quel completo
e gli occhiali lo facevano apparire meno minaccioso. Dopo
questa riflessione tornai a concentrarmi sul lavoro. Con così
pochi mannari e umani presenti mi era più facile ascoltarli
singolarmente e seguire un filo di pensiero fino al suo possessore. Chiusi gli occhi per concentrarmi meglio e quasi subito colsi un brano di un monologo interiore che mi sconvolse.
Martirio era ciò che quell'uomo stava pensando. Sapevo
che si trattava di un uomo e che i suoi pensieri provenivano
dalla zona alle mie spalle, quella circostante il bancone del
bar. Iniziai a girarmi ma mi bloccai perché voltarmi a guardare non sarebbe servito a niente, anche se era un impulso
quasi irresistibile; invece abbassai lo sguardo per evitare di
essere distratta dai movimenti degli altri clienti.
Naturalmente, le persone non formulano le loro riflessioni in frasi complete e coerenti, e nel recepirne i pensieri faccio una sorta di traduzione.
Quando morirò, il mio nome sarà famoso, stava pensando quel tizio. Ci sono quasi. Dio, ti prego, fa' che io non soffra. Se non altro lui sarà con me... spero che il paletto sia
abbastanza appuntito.
Oh, dannazione! L'istante successivo ero già in piedi e
mi stavo allontanando dal tavolo.
Stavo avanzando lentamente, concentrata a escludere il
rumore della musica e delle voci per poter ascoltare con
maggior chiarezza ciò che veniva detto silenziosamente... era
un po' come camminare sott'acqua. Al bancone, intenta a
trangugiare un bicchiere di sangue sintetico, c'era una donna
con la chioma cotonata e un vestito dal corpetto aderente e
dalla gonna lunga e vaporosa che si allargava tutt'intorno,
formando uno strano contrasto con le braccia e le spalle muscolose. Né io né chiunque altro sano di mente avrebbe però
mai osato fare un commento, perché quella donna doveva essere Betty Jo Pickard, la comandante in seconda di Russell
Edgington. La sua mise era completata da guanti bianchi e
scarpette di vernice, e l'unica cosa che le mancava, a mio avviso, era un cappelli no con la veletta. Ero pronta a scommettere che Betty Jo doveva essere stata una grande fan di Mamie Eisenhower.
Dietro quella formidabile vampira, anch'essi rivolti verso
il banco, c'erano due umani in piedi. Uno alto e dall'aria stranamente familiare, aveva lunghi capelli castani, brizzolati e
ben pettinati, il cui taglio curato che sembrava essere stato
lasciato crescere indisturbato contrastava con il suo completo
serio. L'altro, più basso, aveva capelli neri spruzzati di grigio
e indossava una giacca sportiva forse acquistata nei saldi in
un JC Penney.
Dentro quella giacca da poco prezzo, in una tasca cucita
appositamente, nascondeva un paletto.
Per quanto possa apparire orribile, esitai. Se lo avessi fermato avrei rivelato il mio dono, svelando la mia identità. E le
conseguenze sarebbero dipese da quello che Edgington sapeva sul mio conto. A quanto pareva, gli era noto che la ragazza di Bill lavorava come cameriera al Merlotte's, a Bon
Temps, ma non conosceva il suo nome, e ciò aveva permesso
di presentarmi tranquillamente come Sookie Stackhouse. Se
però Russell sapeva che la ragazza di Bill era una telepate e
avesse ora scoperto che anch'io lo ero, chi poteva immaginare cosa sarebbe successo?
Ecco, a dire il vero, mi era facile ipotizzarlo.
Mentre esitavo, piena di vergogna e spaventata, la responsabilità di decidere mi venne tolta. L'uomo dai capelli
neri infilò la mano nella giacca mentre il fanatismo gli traboccava dalla mente. Tirò fuori il pezzo di legno acuminato
e, a quel punto, successero un sacco di cose.
«PALETTO!», urlai, lanciandomi verso il braccio del fanatico e afferrandolo alla disperata con le mani. Vampiri e
umani si girarono di scatto alla ricerca della fonte della minaccia, mentre i mutaforme e i mannari si ritiravano saggiamente a ridosso delle pareti per lasciare campo libero ai
vampiri. L'uomo alto aveva iniziato a percuotermi sulle spalle e sulla testa con le sue grosse mani mentre il suo compagno dai capelli neri torceva il braccio nel tentativo di liberarlo dalla mia stretta, agitandolo di qua e di là per farmi perdere la presa.
In mezzo a quella mischia, il mio sguardo incontrò quello
dell'uomo più alto e ci riconoscemmo: era G. Steve Newlin,
l'ex capo della Confraternita del Sole, un'organizzazione militante antivampiri la cui sezione di Dallas era stata più o
meno disintegrata dopo che vi avevo fatto visita. Sapevo che
stava per dire a tutti chi ero, lo sapevo, ma dovevo concentrarmi sulle mosse dell'uomo con il paletto. Per via dei tacchi
alti stavo barcollando per rimanere in piedi, quando l'assassino ebbe finalmente un colpo di genio e trasferì il paletto dalla mano destra bloccata alla sinistra, che era libera.
Assestandomi un ultimo pugno alla schiena, Steve Newlin saettò verso l'uscita e in un lampo alcune creature si lanciarono al suo inseguimento. Mentre mi giungevano ululati e
cinguetii, l'uomo bruno tirò indietro il braccio e mi conficcò
il paletto nel fianco destro, all'altezza della vita.
Abbandonai la presa e abbassai lo sguardo su quello che
mi aveva fatto, poi tornai a sollevarlo su di lui e lo fissai ne-
gli occhi per un lungo istante, leggendo in essi un orrore pari
al mio. A quel punto, Betty Jo Pickard caricò il pugno guantato e colpì l'uomo in due velocissime riprese. Il primo impatto gli spezzò il collo, il secondo gli frantumò il cranio. ..
si udirono distintamente le ossa che si spezzavano.
Lui crollò al suolo e, dal momento che le mie gambe erano intrecciate alle sue, caddi a mia volta, atterrando supina.
Rimasi distesa a guardare il soffitto, con il ventilatore
che ruotava solenne sopra la mia testa, e mi chiesi perché
mai fosse acceso nel cuore dell'inverno. Poi vidi un falco attraversare il locale in volo, evitando di stretta misura le pale;
un lupo mi si avvicinò, mi leccò la faccia e uggiolò, ma poi
si girò di scatto e saettò via. Tara stava urlando, mentre io
giacevo in silenzio, preda del gelo.
Con la mano destra coprii il punto in cui il paletto mi
aveva trafitto perché non volevo vederlo, avevo anzi paura di
guardare. Sentivo che la parte si bagnava sempre più.
«Chiamate il Pronto Intervento!», gridò Tara, gettandosi
in ginocchio accanto a me. Sopra di lei, il barista e Betty Jo
si scambiarono un'occhiata dal senso inequivocabile.
«Tara», dissi con voce gracchiante, «tesoro, tutti i mutaforme stanno cambiando aspetto perché c'è la luna piena. La
polizia non può entrare qui dentro, ma arriverà di certo se
qualcuno la chiama».
Non sapendo che creature del genere potessero esistere,
Tara parve non registrare neppure la parte relativa ai muta-
forme. «I vampiri non ti lasceranno morire», dichiarò con sicurezza. «Ne hai appena salvato uno».
Non ne ero altrettanto certa. Scorgevo il volto di Franklin
Mott alle sue spalle: mi stava fissando e la sua espressione
non poteva essere fraintesa.
«Tara, devi andartene da qui», sussurrai. «La situazione
sta sfuggendo al controllo, e se c'è davvero un'eventualità
che la polizia stia arrivando, non puoi farti trovare qui».
Franklin Mott annuì, ma Tara ribadì decisa: «Non intendo lasciarti finché non avrai ricevuto soccorsi». Che fosse
benedetto il suo cuore.
Mi circondava una folla di vampiri, fra cui Eric con la
sua espressione indecifrabile.
«Quel biondo alto mi aiuterà», dissi a Tara con un filo di
voce e indicai Eric, senza però guardarlo perché temevo di
leggere un rifiuto nei suoi occhi. Avevo il sospetto che, se lui
non mi avesse aiutata, sarei rimasta stesa lì a morire sul lucido pavimento di legno in un bar di vampiri di Jackson, in
Mississippi.
Mio fratello Jason si sarebbe incazzato.
Tara aveva già conosciuto Eric a Bon Temps, ma questo
era successo in una notte piena di eventi tempestosi, e lei non
parve identificare il biondo alto che aveva incontrato quella
notte come il biondo alto che stava vedendo adesso, in completo, occhiali e con i capelli raccolti in una treccia.
«Per favore, aiuti Sookie», disse rivolgendosi direttamente a lui, mentre Franklin Mott la issava in piedi quasi di peso.
«Questo giovane sarà lieto di aiutare la tua amica», dichiarò Mott, scoccando a Eric un'occhiata per fargli capire
che avrebbe fatto meglio ad acconsentire.
«Ma certo. Sono un buon amico di Alcide», dichiarò
Eric, mentendo senza la minima esitazione.
Prese quindi il posto di Tara al mio fianco e una volta in
ginocchio dovette avvertire l'odore del mio sangue, perché
sbiancò e i suoi occhi divamparono.
«Non sai quanto sia difficile non chinarmi a leccarlo», mi
sussurrò.
«Se lo farai, lo faranno anche tutti gli altri», risposi, «e
non si limiteranno a leccare. Morderanno». Appena discosto,
un pastore tedesco mi stava fissando con intensi e luminosi
occhi gialli.
«E la sola cosa che mi sta trattenendo».
«Tu chi sei?», domandò Edgington, esaminando attentamente Eric. Russell era in piedi accanto a me, dall'altro lato,
e si stava chinando su di noi. Vi garantisco che ero stufa di
avere la gente che m'incombeva addosso in quel modo, ma
non ero nella posizione di poter fare un dannato accidente di
niente al riguardo.
«Un amico di Alcide», ripetè Eric. «Mi aveva invitato
qui per presentarmi la sua nuova ragazza. Sono Leif».
«Alcide non frequenta molti vampiri», osservò Russell,
approfittando del fatto che Eric era in ginocchio per scrutarlo
dall'alto in basso, i suoi occhi castano dorato che sondavano
quelli azzurri di lui.
«Io sono uno dei pochi».
«Dobbiamo portare via di qui questa signorina», dichiarò
Russell.
A un metro di distanza si sentì ringhiare sempre più: a
quanto pareva, un capannello di animali era raccolto intorno
a qualcosa che giaceva al suolo.
«Portate quella carcassa lontano da qui!», ruggì il signor
Hob. «Uscite dal retro! Conoscete le regole!».
Due vampiri sollevarono il cadavere, motivo di litigio
per mannari e mutaforme, e lo trasportarono fuori dalla porta
posteriore, seguiti da tutti gli animali. E questa fu la fine del
fanatico dai capelli neri.
Proprio quel pomeriggio, Alcide e io ci eravamo liberati
di una salma, ma non ci era neppure passato per la mente che
avremmo potuto portarla al club e abbandonarla nel vicolo.
Naturalmente, questo era un cadavere fresco fresco.
«...forse ha scalfito un rene», stava dicendo Eric. Per
qualche istante ero svenuta, o per lo meno distratta.
Il dolore era lancinante e stavo sudando molto. Ebbi un
lampo di rammarico per il mio vestito rovinato dal sudore...
ma, del resto, un grosso buco insanguinato lo aveva già distrutto, no?
«La porteremo a casa mia», decise Russell e, se non fossi
stata così sicura della gravità della ferita, sarei forse scoppiata a ridere. «La limousine sta arrivando. Sono certo che avere
accanto un volto famililare la farebbe sentire più a suo agio,
non credi?».
Quello che io credevo era che Russell non voleva sporcarsi il vestito trasportandomi e probabilmente Talbot non
era abbastanza forte da sostenere il mio peso. Peraltro, quel
vampiro minuto dai capelli neri e ricciuti era ancora presente
e continuava a sorridere, ma sarei stata molto ingombrante
per lui...
Di nuovo, mi persi per qualche tempo.
«Alcide si è trasformato in lupo e si è lanciato all'inseguimento del compagno del sicario», mi stava dicendo Eric.
Stavo per dirgli chi fosse quel compagno, ma pensai che
era meglio non farlo. «Leif», borbottai, cercando di memorizzare il nome. «Leif, credo che mi si veda il reggicalze.
Questo significa...?».
«Sì... Sookie?».
Persi di nuovo i sensi. Dopo un po' mi resi conto che ci
stavamo muovendo e che Eric mi stava portando in braccio.
Non ero mai stata così male in vita mia e mi trovai a riflettere di nuovo sul fatto che, prima di conoscere Bill, non ero
mai stata in un ospedale, mentre adesso sembrava che passassi metà del tempo pesta o impegnata a riprendermi dai pestaggi. Meglio tenerlo bene a mente.
Una lince uscì dal bar insieme a noi, con passo felpato, e
nel guardare i suoi occhi dorati pensai che era una notte memorabile per Jackson. Potevo solo augurarmi che tutte le persone perbene quella sera avessero deciso di rimanere in casa.
Poi ci ritrovammo sulla limousine. Io ero sdraiata con la
testa appoggiata alla coscia di Eric, mentre l'altro sedile era
occupato da Talbot, da Russell e dal vampiro ricciuto. Fermi
a un semaforo, vedemmo passare davanti a noi un bisonte.
«Per fortuna, in un sabato notte di dicembre, nel centro di
Jackson non c'è in giro nessuno», commentò Talbot ed Eric
scoppiò a ridere.
Il tragitto mi parve piuttosto lungo. Eric mi assestò la
gonna sulle gambe e mi scostò i capelli dal volto. Sollevai lo
sguardo su di lui.
«...lei sapeva quello che l'uomo stava per fare?», stava
chiedendo Talbot.
«Mi ha detto di averlo visto tirar fuori il paletto», spiegò
Eric, mentendo. «Era andata al bancone per chiedere un altro
cocktail».
«Una vera fortuna per Betty Jo», commentò Russell con
il suo fluido e strascicato accento del Sud. «Credo che stia
ancora dando la caccia a quello che è scappato».
Poi percorremmo un vialetto d'accesso e ci fermammo
davanti a un cancello. Un vampiro barbuto si avvicinò e ci
scrutò dal finestrino, esaminando tutti con attenzione, ben
più vigile dell'indifferente guardia di sicurezza del palazzo di
Alcide. Udii il ronzio elettronico del cancello che si apriva e
proseguimmo sul vialetto (sentivo la ghiaia sotto le ruote),
curvando fino a fermarci davanti a una villa. L'edificio era illuminato come una torta di compleanno e, mentre Eric mi tirava fuori con cautela dalla macchina, vidi che ci trovavamo
sotto la tettoia per auto più elaborata che avessi mai visto,
dotata perfino di colonne di sostegno. Quasi mi aspettavo di
vedere Vivien Leigh scendere dallo scalone.
Persi di nuovo i sensi e rinvenni nell'atrio. Il dolore pareva essersi attenuato un poco e questo mi stava dando un senso di stordimento.
In quanto padrone di casa, il ritorno di Russell costituiva
un momento importante e, appena avvertirono l'odore del
sangue, tutti si affollarono rapidamente intorno a noi. Mi parve di essere finita nel bel mezzo di un concorso di bellezza
maschile per la copertina di un romanzo rosa, perché non
avevo mai visto così tanti uomini avvenenti nello stesso posto in tutta la mia vita. Era però chiaro che io non li interessavo: Russell era come il vampiro gay Hugh Hefner e quella
era la sua Villa Playboy, con una particolare enfasi sul "boy".
«"Acqua, acqua, dappertutto, neanche una goccia da
bere"», recitai ed Eric scoppiò a ridere. Era per questo che
mi piaceva, pensai confusamente: m'intendeva al volo.
«Bene, la puntura sta facendo effetto», affermò un uomo
dai capelli bianchi, in maglietta sportiva e calzoni con la piega; era un umano, ed era così evidentemente un medico che
pareva avesse uno stetoscopio tatuato intorno al collo. «Hai
ancora bisogno di me?».
«Perché non ti fermi ancora un po'?», suggerì Russell.
«Sono certo che a Josh farà piacere tenerti compagnia».
Non riuscii a vedere che aspetto avesse Josh perché Eric
mi stava già trasportando su per le scale.
«Rhett e Rossella», dissi.
«Non capisco», ribatté lui.
«Non hai mai visto Via col Vento?», protestai inorridita.
Ma, del resto, perché mai un vampiro vichingo avrebbe dovuto vedere quel cardine della mistica del Sud? Ma aveva
letto La ballata del vecchio marinaio, che avevo affrontato al
liceo. «Devi assolutamente vederlo in videocassetta. Perché
mi sto comportando in modo così stupido? Perché non ho
paura?».
«Quel dottore ti ha somministrato una grossa dose di medicinali», mi spiegò con un sorriso. «Adesso ti sto portando
in una camera da letto, in modo che ti possano far guarire».
«Lui è qui», gli dissi.
«Russell, sì», replicò ammonendomi con lo sguardo.
«Temo però che Alcide abbia fatto una scelta poco indovinata, scomparendo nella notte all'inseguimento dell'altro assalitore. Doveva rimanere con te».
«Si fotta», dichiarai di getto.
«E' lui che vorrebbe fottere te, soprattutto dopo averti vista ballare».
Non mi sentivo abbastanza bene da riuscire a ridere, ma
ne avrei avuto voglia. «Somministrarmi quei medicinali non
è stata forse una buona idea», confessai a Eric. Avevo troppi
segreti da custodire.
«Sono d'accordo, ma mi fa piacere che non senti più dolore».
Intanto eravamo arrivati nella camera ed Eric mi stava
adagiando su un grande letto con un baldacchino da favola.
«Sta' attenta», mi sussurrò approfittando di quella manovra, e
io cercai di scolpire quel pensiero nel mio cervello offuscato
dai medicinali, perché avrei potuto lasciarmi sfuggire il fatto
che sapevo, al di là di ogni dubbio, che Bill era da qualche
parte vicino a me.
Capitolo decimo
La mia camera era decisamente affollata. Eric mi aveva
adagiata su un letto tanto alto che forse avrei avuto bisogno
di una scaletta per scendere, ma avevo sentito Russell commentare che sarebbe tornato utile per la guarigione. In realtà
stavo cominciando a chiedermi preoccupata cosa intendesse
con questo termine: l'ultima volta che ero stata coinvolta in
una "guarigione" grazie ai vampiri, si era rivelata una cura
decisamente non tradizionale.
«Cosa succederà?», domandai a Eric, che era in piedi accanto al letto alla mia sinistra, il lato dove non ero ferita.
A rispondere fu invece il vampiro alla mia destra, un individuo dal lungo volto cavallino, con ciglia e sopracciglia
tanto bionde da confondersi quasi col pallore della sua pelle;
aveva il petto nudo del tutto glabro e indossava solo un paio
di pantaloni che sospettavo fossero di vinilpelle. Anche in inverno, quei calzoni dovevano essere decisamente poco...
ecco, poco traspiranti, e non mi sarebbe piaciuto sfilarglieli.
L'unico aspetto gradevole di quel vampiro erano gli splendidi
capelli dritti e chiari, del colore del grano novello.
«Signorina Stackhouse, questo è Ray Don», lo presentò
Russell.
«Piacere», sussurrai. Mia nonna aveva sempre sostenuto
che le buone maniere rendevano benaccetti dovunque.
«Piacere di conoscerla», rispose lui con cortesia. Era stato educato nel modo giusto, ma chissà in quale epoca. «Non
le chiederò come sta, perché vedo che ha un grosso buco nel
fianco».
«E' piuttosto ironico, non trova?, che sia stata un'umana a
finire trafitta da un paletto», dissi per fare conversazione,
mentre dentro di me mi auguravo di rivedere quel dottore,
perché volevo chiedergli cosa mi aveva somministrato. Qualsiasi cosa fosse, valeva tant'oro quanto pesava.
Ray Don mi guardò perplesso e compresi che avevo
sconfinato oltre i limiti consentiti. Forse avrei potuto regalargli un calendario Una-Parola-Al-Giorno, come Arlene faceva con me, ogni Natale.
«Ora ti dirò cosa sta per succedere, Sookie», intervenne
Eric. «Sai che quando cominciamo a nutrirci, i nostri canini,
nell'estendersi, secernono un po' di anticoagulante, vero?».
«M-mh».
«E che quando stiamo per finire di nutrirci, i nostri canini
rilasciano un po' di coagulante e di... della...».
«E' qualcosa che accelera la guarigione?».
«Sì, esattamente».
«Quindi è questo che Ray Don sta per fare?».
«Secondo quanto affermano i suoi compagni di nido, Ray
Don ha nel corpo una dose superiore di queste sostanze chimiche. E' il suo talento personale».
Ray Don mi rivolse un sorriso raggiante: non c'era dubbio, era orgoglioso del suo dono.
«Quindi lui inizierà la terapia su un volontario e, dopo
essersi nutrito, procederà a pulire e a risanare la tua ferita».
Quello che Eric aveva omesso di dire, nel suo resoconto,
era che a un certo punto di quella procedura sarebbe stato necessario estrarre il paletto, e nessun anestetico al mondo
avrebbe potuto impedire che questo mi facesse un male infernale, cosa di cui mi resi conto in uno dei miei pochi momenti di lucidità mentale.
«D'accordo», annuii. «Diamo il via allo spettacolo».
Il volontario risultò essere un esile e biondo adolescente
umano, non più alto di me e probabilmente di corporatura simile. Il ragazzo sembrava più che disponibile e prima di
morderlo Ray Don gli elargì un grosso bacio, cosa di cui
avrei fatto volentieri a meno perché non mi piacciono le esibizioni pubbliche di natura carnale (quando dico "grosso",
non parlo di un sonoro schiocco, ma intendo un bacio intenso e sospiroso in cui hai l'impressione che si stiano risucchiando le tonsille). Alla fine, ben appagati, il biondino inclinò la testa da un lato e Ray Don, più alto di lui, gli affondò i
canini nel collo. Per un po' si strusciarono l'uno contro l'altro,
ansimando, e i pantaloni aderenti di Ray Don non lasciarono
molto all'immaginazione, nemmeno alla mia, che pure ero
intontita dai medicinali.
Eric dal canto suo osservò la scena senza reazioni evidenti. Nel complesso, i vampiri sembravano essere estrema-
mente tolleranti in merito alle preferenze sessuali, ma del resto immagino che, dopo secoli, rimangano molti pochi tabù.
Infine Ray Don si ritrasse dal collo del biondino e si girò
verso di me con la bocca sporca di sangue. Il mio stato di euforia si dissolse un attimo dopo, quando Eric sedette prontamente sul letto e mi bloccò le spalle. La Grossa Cosa Brutta
era in arrivo.
«Guardami», ingiunse. «Guarda verso di me, Sookie».
Sentii il letto inclinarsi un poco e supposi che Ray Don
doveva essersi inginocchiato sul lato, sporgendosi verso la
mia ferita, poi la carne lacerata del mio fianco subì uno strattone che mi scosse fin nel midollo. Sentii il sangue abbandonare il volto e l'isterismo che mi gorgogliava in gola, come
se il sangue mi stesse defluendo dalla ferita.
«No, Sookie! Guarda verso di me!», m'incitò Eric, pressante.
Invece abbassai lo sguardo e vidi che Ray Don aveva afferrato il paletto.
Fra un momento lo avrebbe...
Presi a urlare a squarciagola finché ne ebbi la forza. Poi,
avvertendo la bocca di Ray Don che succhiava la ferita, sollevai lo sguardo ricambiando quello di Eric, che mi stava tenendo le mani mentre io gli affondavo le unghie nella carne,
come se fossimo stati impegnati a fare qualche cos'altro. Non
gli importerà, pensai, nel rendermi conto di averlo graffiato a
sangue.
Ed era proprio così: «Lascia andare», mi consigliò, e
dato che subito allentai la stretta, aggiunse sorridendo: «No,
non parlavo di me. Puoi aggrapparti a me per tutto il tempo
che vuoi. Lascia andare il dolore, Sookie, lasciati andare. Hai
bisogno di staccare la spina».
Per la prima volta abbandonai la mia volontà alla mercé
di qualcun altro: mi bastò fissarlo e facilmente mi ritrassi
dalla sofferenza e dalle incertezze di quello strano posto.
La cosa successiva di cui ebbi consapevolezza fu che ero
sveglia, a letto e distesa sulla schiena; il mio bel vestito rovinato mi era stato tolto, ma avevo ancora indosso la biancheria di pizzo beige, il che era un bene; non lo era invece che
Eric fosse a letto con me... Stava decisamente diventando
un'abitudine! Era disteso su un fianco, con un braccio abbandonato su di me e una gamba appoggiata sulle mie; i nostri
capelli si erano mescolati ed erano così simili per colore da
formare una massa quasi indistinguibile, cosa su cui indugiai
a riflettere per un po', in una sorta di nebuloso dormiveglia.
Eric era in stato di inattività, quello stato di assoluta immobilità in cui i vampiri si ritirano se non hanno nient'altro
da fare e che credo serva a ristorarli, a ridurre il logoramento
causato da un mondo che scorre incessantemente intorno a
loro, un anno dopo l'altro, pieno di guerre e carestie, di invenzioni che devono imparare a padroneggiare, di costumi,
convenzioni e stili che cambiano e a cui si devono adattare
per inserirsi nel contesto sociale. Abbassai le coperte per esaminare il fianco: mi faceva ancora male, ma non tanto, e nel-
l'area della ferita c'era adesso un ampio cerchio di tessuto cicatriziale, un'area di pelle calda, rossa e traslucida.
«Va molto meglio», commentò Eric e io sussultai, perché
non l'avevo sentito riscuotersi dal suo stato di animazione sospesa.
Con mia sorpresa, aveva indosso un paio di boxer di seta.
Lo credevo un tipo da slip.
«Grazie, Eric», dissi. Non m'importava quanto la mia
voce suonasse tremula: un debito è un debito.
«Per cosa?», domandò accarezzandomi piano la pancia.
«Per essere rimasto al mio fianco, al club. Per essere venuto qui con me. Per non avermi lasciata sola con tutta questa gente».
«Fino a che punto mi sei grata?», sussurrò, la sua bocca
che si librava sulla mia. Adesso il suo sguardo era decisamente lucido ed era fisso nel mio.
«Ecco, quando dici una cosa del genere rovini tutto», ribattei, cercando di mantenere un tono gentile. «Non dovresti
volere che io faccia sesso con te solo perché ti sono debitrice».
«In realtà non m'importa per quale motivo fai sesso con
me, purché tu lo faccia», chiarì con pari gentilezza. Poi la
sua bocca fu sulla mia e, per quanto tentassi, non riuscii a rimanere distaccata. D'altronde, Eric aveva avuto a disposizione centinaia di anni per sviluppare la sua tecnica nel baciare,
e li sfruttò tutti a proprio vantaggio. Le mie mani scivolarono
lungo le sue spalle e, mi vergogno ad ammetterlo, contrac-
cambiai il suo bacio. Per quanto stanco e dolorante, il mio
corpo sapeva quello che voleva, e stava mettendo decisamente in secondo piano la mia mente e la mia volontà. Eric
pareva avere sei mani, ed erano dappertutto, incoraggiando il
mio corpo a fare a modo suo. Un dito scivolò sotto l'elastico
delle mie mutandine e dentro di me.
Mi sfuggì un suono che non era certo di rifiuto, mentre
quel dito cominciava a muoversi con un ritmo meraviglioso
e la bocca di Eric pareva decisa a risucchiarmi la lingua giù
per la sua gola; le mie mani stavano assaporando quanto la
sua pelle fosse liscia e fluida la sua muscolatura.
Proprio allora la finestra si spalancò e Bubba entrò nella
stanza. «Signorina Sookie! Signor Eric! Vi ho ritrovati!»,
esclamò in tono decisamente fiero.
«Oh, buon per te, Bubba», replicò Eric, ponendo fine al
bacio, mentre serravo le dita intorno al suo polso e gli allontanavo la mano... Fu lui a permettermelo, dato che di certo
non sono forte neppure come il vampiro più debole.
«Bubba, sei stato qui per tutto il tempo? Qui a Jackson,
intendo?», chiesi, una volta che mi fui schiarita la mente.
Meno male che Bubba ci aveva interrotti... anche se Eric non
la pensava così.
«Il signor Eric mi ha detto di rimanere con lei», dichiarò
semplicemente Bubba, sistemandosi su una bassa poltrona
dall'elegante fodera a motivi floreali. Aveva un ricciolo di capelli neri che gli ricadeva sulla fronte e un anello d'oro su
ogni dito. «E' rimasta ferita gravemente in quel club, signorina Sookie?».
«Adesso sto molto meglio», lo rassicurai.
«Mi dispiace di non aver fatto il mio lavoro, ma quella
piccola bestia che sorvegliava la porta non mi ha lasciato entrare. Non ci crederete, ma pareva non sapere chi fossi». Dal
momento che lo stesso Bubba quasi non ricordava chi era, e
aveva delle vere e proprie crisi quando lo rammentava, forse
non era troppo sorprendente che un goblin non fosse aggiornato in fatto di musica pop americana. «Però ho visto il signor Eric che la portava fuori e così vi ho seguiti».
«Grazie, Bubba. Sei stato davvero in gamba».
Lui rispose con un sorriso, anche se un po' vacuo e inespressivo. «Signorina Sookie, cosa ci fa a letto con il signor
Eric, dato che è Bill il suo ragazzo?», chiese poi.
«Questa sì che è una buona domanda, Bubba», replicai,
cercando di sedermi. Il dolore me lo impedì e, quando mi lasciai sfuggire un piccolo gemito, Eric imprecò in un'altra lingua.
«Ho intenzione di darle del sangue, Bubba», disse poi.
«Ora ti spiegherò cosa devi fare».
«Certo», acconsentì di buon grado Bubba.
«Dal momento che hai valicato il muro e sei entrato senza essere scoperto, devi perlustrare questa tenuta, perché
pensiamo che Bill sia tenuto prigioniero qui da qualche parte. Non cercare di liberarlo, ed è un ordine, ma appena l'hai
trovato torna qui a informarci. Se dovessero vederti, non fug-
gire e non dire nulla. Non una parola su di me, su Sookie o
su Bill. Non una parola più di "Salve, mi chiamo Bubba"».
«Salve, mi chiamo Bubba».
«Esatto».
«Salve, mi chiamo Bubba».
«Sì, così va benissimo. Ora sguscia via, e bada a essere
silenzioso e invisibile».
«Sì, signor Eric», sorrise Bubba, «ma dopo devo procurarmi un po' di cibo, perché sono affamato».
«D'accordo, Bubba, ma ora inizia le ricerche».
Bubba uscì di nuovo dalla finestra, che era al terzo piano,
e mi chiesi come avrebbe fatto ad arrivare a terra. Ma del resto, se era riuscito a raggiungere la finestra, di certo poteva
anche tornare giù.
«Sookie», mi sussurrò Eric all'orecchio, «potremmo avviare una lunga discussione sul fatto di accettare o meno il
mio sangue, e so tutto quello che diresti, ma la realtà è che
sta per arrivare l'alba, e non so se ti sarà permesso di rimanere qui durante il giorno. Io dovrò trovare un rifugio, qui o altrove, e voglio che tu sia in forze e in grado di difenderti, o
almeno di muoverti in fretta».
«So che Bill è qui», affermai, dopo aver riflettuto per un
momento sulle sue parole, «e indipendentemente da quello
che per poco non abbiamo fatto... sia ringraziato Dio per l'arrivo di Bubba... io ho bisogno di trovarlo. Il momento migliore per portarlo fuori di qui sarà mentre tutti i vampiri
stanno dormendo. Lui sarà in grado di muoversi, quel tanto
che basta, di giorno?».
«Se sa di essere in grave pericolo, potrebbe riuscirci barcollando», rispose Eric, in tono lento e pensoso. «Ora sono
più che mai certo che hai bisogno del mio sangue, perché
devi essere in forze. Sarà necessario coprirlo completamente:
usa la coperta di questo letto, che è abbastanza spessa. Ma
come farai a portarlo fuori di qui?».
«E' qui che entri in gioco tu», risposi. «Dopo che avremo
fatto lo scambio di sangue, dovrai procurarmi una macchina,
una con un grosso bagagliaio, come una Lincoln o una Cadillac, e dovrai farmi avere le chiavi. Poi va' a dormire da
un'altra parte, perché sarà meglio per te essere fuori di qui
quando gli altri si sveglieranno e scopriranno che il loro prigioniero è scomparso». La mano di Eric era ancora sulla mia
pancia e noi eravamo sempre a letto insieme, ma la situazione era del tutto diversa.
«Sookie, dove intendi portarlo?».
«In un posto sotterraneo», risposi senza esitazioni. «Ehi,
magari potrei andare nel garage di Alcide! Sempre meglio
che all'aperto».
Eric si sollevò a sedere, appoggiandosi alla testata del
letto a gambe allargate, cosa che mi permise di vedere attraverso l'apertura di una gamba dei suoi boxer di seta blu. Oh,
Signore. Fui costretta a chiudere gli occhi e lui scoppiò a ridere.
«Mettiti a sedere con la schiena addossata al mio petto,
Sookie, così starai più comoda», consigliò, poi mi sollevò
con cautela e mi circondò con le braccia: era come essere appoggiati a un cuscino solido e fresco. Poi il suo braccio destro svanì, sentii un lieve rumore di morso e quando mi riapparve davanti alla faccia il suo polso sanguinava da due piccole ferite.
«Questo ti guarirà da tutto», disse.
Esitai, poi risi di me stessa per quel mio stupido tergiversare. Sapevo che quanto più sangue di Eric avessi avuto, tanto meglio lui mi avrebbe conosciuta. Certo, gli avrebbe dato
un qualche potere su di me, ma per parecchio tempo sarei
stata molto più forte e, considerato che Eric era molto antico,
sarei stata davvero molto forte. Sarei guarita, mi sarei sentita
splendidamente e sarei stata più attraente. Per questo motivo
i vampiri erano prede di dissanguatori, gli umani che operavano in squadra per catturarli, incatenarli con l'argento e dissanguarli, racchiudendo il loro sangue in fiale che venivano
poi vendute al mercato nero per somme variabili. L'anno precedente il prezzo corrente di una fiala era stato di duecento
dollari, e Dio solo sapeva quanto sarebbe potuto fruttare il
sangue di Eric, considerata la sua età, anche se dimostrarne
la provenienza sarebbe stato decisamente un problema: quella del dissanguatore era una professione molto pericolosa, oltre che del tutto illegale.
Eric mi stava elargendo un grande dono.
Grazie a Dio non sono mai stata schizzinosa, quindi chiusi la bocca intorno alle piccole ferite e succhiai.
Eric gemette e ben presto mi accorsi che era di nuovo
molto contento di essere a così stretto contatto con me: cominciò a muoversi un poco senza che io potessi fare molto al
riguardo, dato che il suo braccio sinistro mi teneva saldamente bloccata su di lui e il suo braccio destro mi stava alimentando. Nonostante tutto, era difficile non rimanere disgustata da quella procedura, ma Eric si stava indubbiamente divertendo e, dal momento che a ogni sorso mi sentivo sempre
meglio, era anche difficile convincermi che non stavo facendo una cosa buona. Cercai di non pensare e di non reagire ai
movimenti di Eric: mi ricordavo della volta in cui avevo assunto il sangue di Bill perché avevo bisogno di essere più
forte e la sua reazione.
Eric si strinse ancor più contro di me, poi emise un gemito prolungato e si rilassò. Nel bere un ultimo, lungo sorso,
avvertii un senso di umidità sulla schiena, mentre Eric emetteva un altro profondo gemito gutturale e la sua bocca mi
sfiorava il collo di lato.
«Non mi mordere», avvertii, aggrappandomi agli ultimi
brandelli di lucidità mentale e spiegando a me stessa che ero
stata stimolata dal ricordo di Bill e della sua reazione quando
lo avevo morso, della sua intensa eccitazione e solo per caso
Eric si trovava lì con me. Non potevo fare del sesso con un
vampiro, specialmente con Eric, solo perché lo trovavo attraente, non se ci sarebbero state tante nefaste conseguenze...
anche se ero troppo tesa per elencarmele tutte. Invece, mi ripetei severamente che ero un'adulta e che gli adulti non facevano sesso con qualcuno solo perché quel qualcuno era avvenente e dotato.
I canini di Eric mi sfiorarono la spalla e io mi catapultai
giù dal letto come un razzo. Intenzionata a cercare un bagno,
spalancai la porta e mi trovai davanti il basso vampiro bruno,
quello ricciuto, fermo dinanzi alla soglia con degli indumenti
drappeggiati sul braccio sinistro e la mano sollevata per bussare.
«Bene, bene. Ma guarda un po'», commentò sorridendo,
e di certo stava guardando tutto quello che c'era da vedere,
segno che il suo interesse si estendeva a entrambi i sessi.
«Mi volevi parlare?», chiesi appoggiandomi allo stipite,
facendo del mio meglio per apparire pallida e fragile.
«Sì. Dopo che abbiamo tagliato il tuo bel vestito per togliertelo, Russell ha pensato che ti sarebbe servito qualcosa
da indossare. Io avevo questa roba nel mio armadio e dato
che abbiamo la stessa statura...».
«Oh», mormorai: non avevo mai diviso gli abiti con un
uomo. «Be', grazie tante, è molto gentile da parte tua». E lo
era davvero. Mi aveva portato una tuta (azzurro polvere),
calzini, un accappatoio di seta e perfino delle mutandine pulite, su cui preferii non soffermarmi.
«Sembri stare meglio», osservò lui con un'espressione
ammirata, ma non in modo molto personale... forse avevo
sopravvalutato il mio fascino.
«Mi sento molto debole», replicai in tono sommesso.
«Mi sono alzata solo perché ho bisogno di andare in bagno».
Al vampiro ricciuto brillarono gli occhi scuri e seppi che
stava guardando Eric dietro di me: ciò che stava vedendo era
senza dubbio più di suo gusto e il suo sorriso si fece apertamente invitante. «Leif, oggi ti andrebbe di condividere la
mia bara?», domandò, arrivando quasi a battere le ciglia.
Non osai girarmi a guardare Eric, dato il senso di bagnato sulla mia schiena. Avevo avuto delle fantasie su Alcide e
con Eric c'erano state più che semplici fantasie... insomma
non ero affatto contenta della mia tempra morale. La consapevolezza dell'infedeltà di Bill non mi giustificava, come
probabilmente neppure l'abitudine acquisita con lui di fare
sesso alla grande. O almeno, come scusa non era granché.
Era tempo di rimettere in carreggiata la mia morale e di comportarmi bene. E quella decisione mi fece sentire meglio.
«Devo fare una commissione per Sookie», fu la risposta
di Eric, «e non sono sicuro di tornare prima di giorno. Se ci
riuscissi, però, puoi essere certo che ti verrò a cercare», aggiunse, flirtando a sua volta. Durante quel botta e risposta,
mi infilai l'accappatoio di seta, che era nero, bianco e rosa, a
motivi floreali. Un capo davvero notevole. Il vampiro ricciuto mi lanciò un'occhiata e parve d'un tratto più interessato a
me di quando indossavo solo la biancheria intima.
«Appetitosa», disse semplicemente.
«Grazie di nuovo», replicai. «Mi potresti indicare dov'è il
bagno più vicino?».
M'indirizzò a una porta socchiusa, in fondo al corridoio.
«Chiedo scusa», dissi a entrambi e m'inoltrai nel corridoio, ricordando di camminare lentamente e con cautela, come
se fossi stata ancora sofferente. Oltre il bagno, a forse due
porte di distanza, intravedevo un pianerottolo e sapere da che
parte poter uscire di lì mi fu di notevole conforto.
Il bagno era semplicemente vecchio e normalissimo, pieno di tutti gli oggetti che avrebbero dovuto esserci: phon e
ferri per arricciare i capelli, deodoranti, shampoo, gel modellante e perfino qualche trucco, oltre a spazzole, pettini e rasoi.
Sebbene il ripiano fosse pulito e in ordine, era evidente
che era condiviso da più persone. Pensai al bagno personale
di Russell Edgington, che di certo aveva un aspetto molto diverso. Trovati alcuni fermagli, mi fissai i capelli sopra la testa e feci la doccia più rapida che si sia mai vista; fui lieta
che i miei capelli fossero stati lavati appena il giorno prima,
che adesso mi sembrava lontano secoli, perché impiegavano
un'eternità ad asciugarsi. Mi dedicai a sfregare vigorosamente la pelle con la saponetta profumata trovata sul portaoggetti
della doccia. Nell'armadietto c'erano degli asciugamani puliti, con mio vero sollievo.
In meno di un quarto d'ora ero rientrata in camera e lì
vidi che il vampiro ricciuto se n'era andato, Eric si era vestito
e Bubba era tornato.
Eric non fece parola dell'imbarazzante incidente che si
era verificato fra noi e si limitò a una silenziosa occhiata d'elogio all'accappatoio.
«Bubba ha esplorato il territorio, Sookie», riferì Eric, citando palesemente Bubba, che stava sfoggiando il suo sorriso leggermente sghembo con aria compiaciuta.
«Ho trovato Bill, signorina Sookie», annunciò trionfante.
«Non è in ottime condizioni, ma è vivo».
Cascai di colpo su una sedia... Fu una fortuna che dietro
di me ce ne fosse una perché, senza curvare la schiena, all'improvviso mi ritrovai seduta invece che in piedi... un'altra
strana sensazione in una notte che ne era stata piena.
Quando fui di nuovo in grado di connettere, notai vagamente che l'espressione di Eric era una sconcertante mescolanza di molte cose: piacere, rimpianto, ira e soddisfazione.
Bubba appariva solo soddisfatto.
«Dov'è?», domandai, con una voce che non sembrava
neppure la mia.
«Sul retro c'è un grosso edificio, una sorta di garage a
quattro posti che però ha degli appartamenti al piano superiore e una stanza su un lato».
Be', a Russell piaceva avere i suoi aiutanti a portata di
mano.
«Ci sono altri edifici? Mi potrei confondere?».
«C'è una piscina, signorina Sookie, con accanto una piccola costruzione dove la gente può cambiarsi il costume, e
c'è anche una grossa baracca per gli attrezzi, almeno credo,
che però è separata dal garage».
«In che parte del garage lo stanno tenendo prigioniero?»,
domandò Eric.
«E' nella stanza sul lato destro», rispose Bubba. «Credo
che il garage fosse un tempo una stalla, e che in quella stanza
tenevano le selle e altre cose, perché non è molto grossa».
«In quanti sono là dentro con lui?». Eric stava facendo le
domande giuste. Quanto a me, non riuscivo a spingere la
mente al di là della rassicurazione fornita da Bubba: Bill era
vivo e molto vicino.
«Adesso lì dentro sono in tre, signor Eric, due uomini e
una donna, tutti vampiri. Lei è quella con il coltello».
«Il coltello», ripetei con una fitta.
«Sissignora. Lo ha tagliato davvero parecchio».
Non era il momento di avere dei cedimenti. Poco prima
mi ero vantata di non essere schizzinosa e ora dovevo dimostrare a me stessa che mi ero detta il vero.
«Ha resistito finora», fu il mio unico commento.
«Lo ha fatto», convenne Eric. «Sookie, andrò a procurarti quella macchina e cercherò di parcheggiarla là dietro, vicino alle stalle».
«Credi che ti lasceranno rientrare?».
«Sì, se porterò Bernard con me».
«Bernard?».
«Quel piccoletto», precisò Eric con un sorriso leggermente sghembo.
«Vuoi dire... oh, se porterai con te Ricciolino ti lasceranno rientrare perché lui vive qui?».
«Sì, ma dopo potrei essere costretto a restare qui, con
lui».
«Non potresti... be', tirartene fuori?».
«Forse, o forse no. Non voglio ritrovarmi intrappolato
qui, al risveglio, quando scopriranno che Bill è scomparso e
tu con lui».
«Signorina Sookie, di giorno lo fanno sorvegliare da lupi
mannari», intervenne Bubba.
Eric e io ci girammo insieme a guardarlo.
«Ha presente quei lupi mannari che le stavano dando la
caccia?», precisò. «Saranno loro a sorvegliare Bill, mentre i
vampiri dormono».
«Stanotte però c'è luna piena», obiettai, «e saranno sfiniti
quando cominceranno il loro turno, sempre che si facciano
vedere».
«Hai ragione, Sookie», esclamò Eric, fissandomi con una
certa sorpresa. «Questa è la migliore occasione che ci si possa presentare».
Discutemmo della cosa ancora per un po'. Magari avrei
potuto fingermi molto debole e rimanere rintanata nella villa
finché da Shreveport non fosse giunto un alleato umano di
Eric, che lui promise di chiamare con il cellulare non appena
si fosse allontanato dalle immediate vicinanze.
«Forse Alcide potrebbe darti una mano domani mattina»,
fu il consiglio di Eric.
Devo ammettere che mi sentii tentata dall'idea di appoggiarmi nuovamente a lui, perché Alcide era grosso, tosto e
competente, e una parte di me, debole e nascosta, mi suggeriva che di certo sarebbe riuscito a gestire le cose meglio di
me. La mia coscienza mi assestò però un enorme scrollone,
obiettando che Alcide non poteva essere ulteriormente coinvolto: il suo lavoro l'aveva svolto. Inoltre aveva rapporti di
affari con quelle persone e per lui sarebbe stata la rovina se
Russell avesse intuito il suo ruolo nella fuga di Bill Compton.
Non potevamo perdere altro tempo a discutere perché
mancavano solo un paio di ore all'alba. Nonostante i tanti
dettagli ancora da definire, Eric trovò Ricciolino (Bernard) e
con fare civettuolo gli chiese di accompagnarlo a procurarsi
una macchina (da affittare, supposi chiedendomi quale noleggiatore tenesse aperto a quell'ora, ma Eric non parve prevedere difficoltà di sorta, quindi allontanai quei dubbi dalla
mente). Bubba acconsentì a riscavalcare il muro della tenuta
di Russell da cui era entrato per cercarsi un posto sicuro
dove trascorrere il giorno. Secondo Eric, proprio la luna piena gli aveva salvato la vita e io ero perfettamente d'accordo:
il vampiro di guardia ai cancelli poteva anche essere in gamba, ma non era dotato di ubiquità.
Il mio compito era fingermi debole fino all'alba, quando i
vampiri si sarebbero ritirati, per poi trovare il modo di tirare
fuori Bill dalla stalla e di caricarlo nel bagagliaio della mac-
china che Eric mi avrebbe procurato. Le guardie non avrebbero avuto motivo di impedirmi di uscire.
«E' forse il piano peggiore che abbia mai sentito», commentò Eric.
«Hai ragione, ma non ne abbiamo un altro».
«Se la caverà alla grande, signorina Sookie», dichiarò
Bubba, a titolo di incoraggiamento.
Questo era ciò di cui avevo bisogno, un atteggiamento
positivo. «Grazie, Bubba», dissi, cercando di esprimere tutta
la gratitudine che provavo. Sentivo l'energia che nasceva dal
sangue di Eric, mi pareva che i miei occhi emanassero scintille e che i capelli mi fluttuassero intorno alla testa in un alone carico di elettricità.
«Non lasciarti prendere la mano», mi redarguì Eric, ricordandomi il tipico problema degli umani che ingerivano
sangue di vampiro acquistato al mercato nero: tentavano imprese folli perché si sentivano estremamente forti, anzi invincibili, ma non sempre ne erano all'altezza, come quel tizio
che aveva affrontato da solo un'intera banda di strada o la
donna che aveva tentato di fermare un treno. Con un profondo respiro cercai di scolpirmi nella mente quell'avvertimento.
In realtà, volevo proprio sporgermi dalla finestra e vedere se
sarei riuscita a strisciare lungo il muro, fino al tetto. Accidenti, il sangue di Eric era davvero mitico... una parola che non
avevo mai usato, ma che calzava a pennello. Non mi ero resa
conto di quanto sarebbe stata grande la differenza fra il sangue di Bill e quello di Eric.
Bussarono alla porta e tutti e tre fissammo il battente
come se fosse trasparente.
In un tempo incredibilmente breve, Bubba sparì dalla finestra, Eric si sedette accanto al letto e io mi distesi sotto le
coperte, cercando di apparire debole e scossa.
«Avanti», invitò Eric a bassa voce, come si conveniva a
chi stesse tenendo compagnia a qualcuno che si stava riprendendo da una spaventosa ferita.
A bussare era stato Ricciolino, cioè Bernard; adesso indossava dei jeans e un maglione rosso, un vero bocconcino.
Chiudendo gli occhi, impartii a me stessa una severa reprimenda: l'infusione di sangue da parte di Eric mi aveva ravvivata fin troppo.
«Come sta?», domandò Bernard, quasi sussurrando. «Il
suo colorito mi pare migliorato».
«Soffre ancora ma sta guarendo, grazie alla generosità
del tuo re».
«E' stato lieto di farlo», replicò Bernard da cortigiano
qual era, «ma sarà più... be', più soddisfatto se domattina lei
se ne potrà andare sulle sue gambe. Di certo per allora il suo
ragazzo sarà rientrato al suo appartamento, dopo essersi goduto la luna stanotte. Spero che la richiesta non vi sembri
troppo rude».
«No, posso capire la sua preoccupazione», garantì Eric,
con pari cortesia.
A quanto pareva, Russell temeva che intendessi protrarre
la mia permanenza per parecchi giorni, sfruttando fino all'os-
so il mio atto di eroismo. Non essendo abituato ad avere
ospiti di sesso femminile, voleva che tornassi da Alcide, in
un orario in cui era certo che lui sarebbe stato in grado di occuparsi di me. Russell non doveva sentirsi a proprio agio all'idea che una sconosciuta si aggirasse nella sua tenuta durante il giorno, quando lui e tutto il suo seguito sarebbero
stati profondamente immersi nel sonno.
E non potevo dargli torto.
«Allora andrò a procurarle una macchina e gliela lascerò
parcheggiata sul retro, in modo che domani se ne possa andare. Se potrai fare in modo che la lascino passare dal cancello principale - immagino sia sorvegliato di giorno - avrò
adempiuto a tutti i miei obblighi nei confronti del mio amico
Alcide».
«Mi sembra molto ragionevole», approvò Bernard, indirizzandomi una frazione del sorriso che stava rivolgendo a
Eric. Non ricambiai e chiusi stancamente gli occhi. «Avvertirò le guardie mentre usciamo. Ti va bene se prendiamo la
mia macchina? E' soltanto un vecchio catorcio, ma ci porterà
fino a... dov'è che vuoi andare?».
«Te lo dirò per strada. E' vicino a casa di un mio amico
che conosce un uomo che può prestarmi una macchina per
un paio di giorni».
Bene, Eric aveva trovato il modo di procurarsi un'auto
senza lasciarsi dietro nessuna documentazione.
Avvertii un movimento alla mia destra e seppi che Eric
si stava chinando su di me... perché me lo stava comunican-
do il suo sangue che avevo dentro di me. Mi spaventai e
compresi perché Bill mi avesse messa in guardia dal l'accettare il sangue di un altro vampiro. Troppo tardi. Ero fra l'incudine e il martello.
«Sookie», mormorò Eric sottovoce, mentre mi deponeva
un casto bacio su una guancia, come si conveniva a un amico
del mio ragazzo, «puoi sentirmi?».
Annuii in maniera infinitesimale.
«Bene, allora ascoltami. Ti procurerò una macchina e appena torno lascerò le chiavi qui vicino al letto. Domani mattina dovrai usare l'auto per andartene da qui e raggiungere
Alcide. Hai capito?».
«Ciao», risposi, cercando di assumere un tono assonnato,
mentre annuivo di nuovo. «E grazie».
«E' stato un piacere», mi rispose con una significativa
sfumatura della sua voce. Riuscii a stento a controllare la
mia espressione.
So che sembra difficile a credersi, ma dopo che se ne furono andati mi addormentai sul serio. Evidentemente, Bubba
aveva obbedito e aveva scavalcato il muro per cercare un riparo per il giorno. La villa diventava sempre più silenziosa
man mano che le attività notturne volgevano al termine.
Quanto ai lupi mannari, supposi che fossero in giro da qualche parte a concedersi un ultimo ululato. Mentre scivolavo
nel sonno, mi chiesi come se la fossero cavata gli altri mutaforme. Cosa ne avevano fatto dei loro vestiti? Il dramma che
si era scatenato quella notte al Club dei Morti era dovuto pu-
ramente a un caso fortuito, perché ero certa che dovevano
avere una procedura normale per casi del genere. Mi chiesi
anche dove fosse Alcide... forse era riuscito a prendere quel
figlio di puttana di Newlin.
Mi svegliò un tintinnio di chiavi.
«Sono tornato», sussurrò Eric quasi impercettibilmente,
tanto che dovetti socchiudere gli occhi per accertarmi che
fosse davvero nella stanza. «La macchina è una Lincoln
bianca ed è parcheggiata fuori, vicino al garage. Dentro non
c'era più posto, purtroppo. Non mi hanno permesso di avvicinarmi maggiormente, in modo da avere conferma di quello
che ci ha riferito Bubba. Mi stai sentendo?».
Annuii.
«Buona fortuna», mi augurò poi aggiunse esitante: «Se
riuscirò a districarmi da qui, non appena farà notte ti raggiungerò al garage del palazzo di Alcide. Se non ti troverò là,
tornerò a Shreveport».
Aprii gli occhi. La stanza era ancora buia e vidi risplendere la pelle di Eric... e la mia. Ne fui terrorizzata: avevo appena smesso di luccicare per aver assunto il sangue di Bill
(in una situazione di emergenza) ed ecco che mi trovavo di
fronte a un'altra crisi e sembravo uno strobo da discoteca.
Decisamente, per chi frequentava i vampiri, la vita era una
continua emergenza.
«Più tardi dovremo parlare», concluse Eric in modo inquietante.
«Grazie per la macchina», dissi.
Eric mi guardò e gli notai sul collo il segno di un succhiotto. Aprii la bocca per dire qualcosa, ma la richiusi senza
proferire parola. Meglio non fare commenti.
«Non mi piace provare dei sentimenti», dichiarò Eric, in
tono freddo.
E con quell'ultima battuta così ardua da decifrare, se ne
andò dalla stanza.
Capitolo undicesimo
In cielo si scorgeva una striscia di luce quando sgusciai
fuori dalla villa del re del Mississippi. Quella mattina la temperatura era un po' più elevata e il cielo era oscurato non soltanto dalla notte che svaniva ma anche dalla pioggia. Sotto
un braccio tenevo le mie cose arrotolate: in qualche modo, la
mia borsetta e il mio scialle di velluto nero erano arrivati dal
club alla villa, e io avevo infilato nello scialle anche le scarpe col tacco alto. In borsetta avevo la chiave dell'appartamento di Alcide, quella che lui mi aveva prestato, quindi mi
sentivo sicura che in caso di bisogno mi sarei potuta rifugiare
là. Sotto l'altro braccio stringevo la coperta ben ripiegata e
prima di lasciare la stanza avevo rifatto il letto, in modo che
quella mancanza non venisse notata immediatamente.
L'unica cosa che Bernard non mi aveva prestato era una
giacca blu imbottita, di cui mi ero impossessata mentre uscivo, prendendola dalla ringhiera della scala, dove era appesa.
Mi sentivo in colpa perché non avevo mai rubato nulla prima
di sgraffignare coperta e giacca. Anzi, la mia coscienza stava
sollevando vigorose proteste.
Esaminando ciò che avrei dovuto fare per uscire dalla tenuta, l'aver preso una giacca e una coperta mi parve una cosa
da nulla e intimai alla mia coscienza di tacere.
Mentre attraversavo di soppiatto la cavernosa cucina e
aprivo la porta posteriore, i miei piedi scivolavano silenziosamente grazie alle ballerine elasticizzate incluse da Bernard
nel fascio di vestiti che aveva portato nella mia stanza. Gironzolare in calzini e ballerine era di gran lunga molto meglio che barcollare su un paio di tacchi alti.
Non avevo incontrato nessuno, come se il momento scelto per agire avesse qualcosa di magico: quasi tutti i vampiri
erano al sicuro nella loro bara, a letto o dove diavolo si rifugiavano di giorno, e quasi tutte le creature mutaforme, mannari o altro, non erano ancora rientrate dalla scorribanda notturna o erano già crollate nel sonno per la stanchezza. Io però
stavo vibrando dalla tensione, perché sapevo che da un momento all'altro la fortuna mi avrebbe potuto abbandonare.
Alle spalle della villa c'era in effetti una piccola piscina,
coperta per l'inverno con un enorme telone nero i cui bordi,
bloccati da pesi, si estendevano molto al di là del perimetro
effettivo della vasca. Accanto, sorgeva un ca- sottino, del tutto buio. Percorsi in silenzio un tracciato di lastre sbozzate
d'arenaria e oltrepassando un varco in una fitta siepe mi ritrovai in una zona pavimentata. Grazie alla mia vista potenziata, mi resi immediatamente conto di aver trovato il cortile
antistante le stalle convertite in garage, un grosso edificio rivestito di legno bianco il cui terzo piano (dove Bubba aveva
individuato degli appartamenti) aveva delle finestre ad abbaino. Si trattava del garage più originale che avessi mai visto, ai posti macchina si accedeva tramite arcate aperte, prive
di saracinesca. Contai quattro veicoli parcheggiati, che andavano da una jeep a una limousine; in fondo sulla destra, al
posto di una quinta arcata, c'era un muro pieno, con una porta.
Bill, pensai. Bill. Adesso il cuore mi stava martellando
nel petto ma fui inondata dal sollievo appena avvistai la Lincoln parcheggiata vicino alla porta. Infilata la chiave, la portiera del guidatore si aprì e la luce dell'abitacolo si accese,
inutilmente perché non c'era in giro nessuno che potesse vederla. Deposto il rotolo con le mie cose sul sedile del passeggero, mi sedetti e socchiusi la portiera. Scovai il pulsante
della luce per spegnerla, poi dedicai un minuto all'esame del
cruscotto, ma ero talmente eccitata e terrorizzata che quasi
non riuscivo a concentrarmi. Poi uscii e aprii il bagagliaio
posteriore, che era enorme ma non pulito quanto l'interno
dell'auto: avevo l'impressione che Eric avesse scaricato tutte
le cose ingombranti nel bidone dei rifiuti, lasciando però il
fondo cosparso di cartine per le sigarette, sacchetti di plastica
e chiazze di una polvere bianca... mmmh. Non importava.
Aveva sistemato due bottiglie di sangue sintetico, che misi a
lato. Quel bagagliaio era sporco, certo, ma non conteneva
nulla di scomodo per Bill.
Respirando profondamente, strinsi al petto la coperta, fra
le cui pieghe nascondevo il paletto che mi aveva gravemente
ferita: era la mia unica arma e, nonostante il suo aspetto macabro (così sporco di sangue, con frammenti di tessuto), lo
avevo recuperato dal cestino dei rifiuti per portarlo con me.
Dopo tutto, avevo un'esperienza diretta delle sue potenzialità.
Il cielo si schiariva, ma qualche goccia di pioggia sul
viso mi confortò, perché l'oscurità si sarebbe protratta ancora
per un po'. Mi avvicinai furtiva al garage: senza dubbio muoversi di soppiatto destava sospetti, ma non ce la facevo a dirigermi con determinazione, apertamente, verso quella porta.
Camminai leggera perché la ghiaia rendeva quasi impossibile procedere in silenzio.
Accostato l'orecchio alla porta, ascoltai con il mio udito
potenziato, ma dall'interno non un fiato: se non altro, sapevo
che nella stanza non c'erano umani. Lentamente, ruotai la
maniglia e spinsi il battente prima di riportarla nella posizione originale, poi m'insinuai nella stanza.
Il pavimento di legno era coperto di macchie e l'odore era
orribile. Compresi all'istante che Russell usava quel luogo
come stanza delle torture. Bill era nel centro della camera,
legato con catene d'argento su una sedia a schienale rigido.
Dopo le emozioni confuse e gli ambienti poco familiari
degli ultimi giorni, mi parve che il mondo tornasse di colpo a
mettersi a fuoco.
Tutto era chiaro. Bill era là e io lo avrei salvato.
Dopo avergli dato un'attenta occhiata, alla luce della spoglia lampadina che pendeva dal soffitto, compresi che avrei
fatto qualsiasi cosa per salvarlo.
Non avrei mai immaginato di trovarlo in quello stato.
Aveva il corpo segnato dalle ustioni delle catene d'argento che lo avvolgevano; sapevo che l'argento causava a un
vampiro un dolore micidiale, quello che il mio Bill stava soffrendo adesso. Ma era stato ustionato anche da altro e ferito
più di quanto potesse risanare. Gli avevano fatto patire la
fame e negato il sonno. Adesso era accasciato in avanti, cercava di sfruttare al massimo quel momento di tregua dovuto
all'assenza dei suoi aguzzini. I capelli scuri erano impastati
di sangue.
C'erano altre due porte in quella stanza priva di finestre.
La prima, alla mia destra, era aperta e dava su una sorta di
dormitorio. Attraverso la soglia intravedevo alcune brande,
su una delle quali giaceva disteso un uomo che si era addormentato vestito... senza dubbio un lupo mannaro di ritorno
dalla sua notte brava mensile. Russava e presentava intorno
alla bocca delle chiazze scure sulla cui natura era meglio non
indagare troppo da vicino. Non potevo vedere il resto della
stanza ed eventuali altri occupanti, quindi decisi che era più
intelligente supporre che ce ne fossero.
La porta sul fondo era collegata con la zona posteriore
del garage, forse alla scala che conduceva agli appartamenti,
ma non avevo tempo d'indagare. L'urgenza mi spronava a
portare Bill fuori di lì il più in fretta possibile. Il bisogno di
agire rapidamente mi faceva addirittura tremare. Finora avevo avuto una fortuna incredibile, ma poteva non durare.
Feci due passi verso Bill.
Aveva avvertito il mio odore, mi aveva riconosciuto.
Sollevò la testa di scatto e mi fissò con occhi fiammeggianti, il volto sporco illuminato da una speranza terribile a
vedersi. Sollevando un dito per segnalargli di tacere, mi avvicinai silenziosa alla porta del dormitorio e con estrema delicatezza socchiusi il battente. Poi sgusciai alle spalle di Bill
ed esaminai le catene, chiuse da due piccoli lucchetti, del
tipo da armadietto scolastico. «La chiave?», gli sussurrai all'orecchio. Con un dito non fratturato m'indicò la porta d'ingresso. Lì accanto due chiavi erano appese a un chiodo piantato molto in alto, volutamente in un punto che Bill fosse costretto a guardare. Posai paletto e coperta sul pavimento accanto a lui, attraversai la stanza e mi allungai quanto più possibile, invano: solo un vampiro in grado di fluttuare avrebbe
potuto prenderle facilmente. Poi mi rammentai di quanto ero
forte, molto forte, grazie al sangue di Eric.
Su uno scaffale attaccato al muro erano disposti parecchi
oggetti interessanti, come attizzatoi e pinze. Pinze! Sollevandomi in punta di piedi, le presi e mi sforzai di non vomitare
appena vidi che erano incrostate di... oh, di roba orribile.
Erano molto pesanti, ma riuscii a tenerle sollevate e a chiuderle intorno alle chiavi, in modo da sfilarle dal chiodo, poi
le abbassai fino ad agguantare le chiavi dalla loro estremità
appuntita. Alla fine mi scappò un gigantesco sospiro di sollievo, silenziosissimo: dopo tutto, non era stato così difficile.
In realtà, fu l'ultima cosa facile che dovetti affrontare.
Subito dopo, intrapresi l'orribile compito di liberare Bill dalle catene con il minor rumore possibile. Ma districare quelle
spire scintillanti presentava una singolare difficoltà perché le
catene parevano incollate al corpo di Bill, rigido per la tensione.
Allora capii. Lui si stava sforzando di non urlare man
mano che staccavo a forza gli anelli dalla sua carne bruciata.
Lo stomaco mi si contrasse violentemente e fui costretta a
sospendere il mio lavoro per pochi, preziosi secondi per inspirare con estrema cautela: se per me era così difficile assistere alla sua agonia, quanto più terrificante doveva essere
per lui sopportarla?
Feci appello alla mia forza d'animo e ripresi l'opera. Mia
nonna mi aveva sempre detto che le donne potevano fare tutto quello che era necessario, e ancora una volta risultò che
aveva avuto ragione.
C'erano letteralmente metri di catena d'argento e districarli con cura richiese più tempo di quanto mi andasse a genio, perché anche ogni istante era più di quanto mi andasse a
genio. Il pericolo incombeva alle mie spalle e mi pareva di
respirare un'aria di disastro. Bill, molto debole, lottava per rimanere sveglio adesso che era sorto il sole. La persistente
oscurità gli era d'aiuto, ma una volta che il sole fosse stato
alto non si sarebbe più potuto muovere, per quanto la giornata fosse plumbea e piovosa.
L'ultimo tratto di catena scivolò al suolo.
«Devi alzarti», gli sussurrai all'orecchio. «Devi farlo. So
che fa male, ma non ce la faccio a trasportarti». Almeno, non
pensavo di riuscirci. «Qui fuori c'è una grossa Lincoln, con il
bagagliaio aperto. Ti metterò nel bagagliaio e ti avvolgerò in
questa coperta, poi ti porterò fuori di qui. Hai capito?».
La sua testa bruna ebbe un movimento millimetrico.
E proprio in quel momento la nostra fortuna ci abbandonò.
«Tu chi diavolo sei?», chiese una voce dall'accento molto
marcato. Alle mie spalle, qualcuno era appena entrato dalla
porta.
Bill sobbalzò sotto le mie mani e io mi girai di scatto ad
affrontare la nuova venuta. Mi abbassai ad afferrare il paletto, mentre lei si avventava contro di me.
Avevo voluto convincermi che di giorno tutti i vampiri si
fossero ritirati nella loro bara, ma quella in particolare avrebbe fatto del suo meglio per uccidermi.
Sarei morta in un minuto se lei non fosse rimasta sconvolta dalla mia presenza quanto io lo ero dalla sua. Con una
torsione, liberai il braccio dalla sua stretta e ruotai intorno a
Bill, ancora seduto. La vampira aveva i canini estesi e stava
ringhiando sporgendosi sopra la testa di Bill. Era bionda,
come me, ma i suoi occhi erano castani e la sua corporatura
più esile, minuta. Alla vista del sangue secco che le macchia-
va le mani, che capivo appartenere a Bill, divampò dentro di
me qualcosa che sentii scintillare nel mio sguardo.
«Tu devi essere la sua puttanella umana», disse la vampira. «Per tutto questo tempo ha scopato con me, ti è chiaro?
Appena mi ha vista si è dimenticato di te, se non per compatirti». Di certo Lorena mancava di eleganza, ma sapeva come
colpire con la lingua.
Accantonando quelle parole, con cui voleva distrarmi,
modificai la presa sul paletto per essere pronta, proprio mentre lei superava Bill con un balzo e mi atterrava addosso.
In quell'istante, con un gesto automatico, sollevai il paletto, inclinato verso l'alto, e appena lei mi rovinò addosso la
punta acuminata le attraversò il petto, trapassandola. Adesso
eravamo entrambe al suolo, io con le mani ancora serrate
nella presa e lei con le braccia tese per allontanarsi da me. Il
suo sguardo attonito si abbassò sul paletto che le sporgeva
dal petto, poi mi fissò, la bocca aperta con i canini che si ritraevano. «No», sussurrò, e l'istante successivo i suoi occhi si
fecero opachi.
Mi servii del paletto per scrollarmela di dosso verso sinistra. A stento mi rialzai, con il respiro affannoso e le mani
che tremavano violentemente. Lorena non si muoveva più.
L'accaduto si era svolto cosi in fretta, e così silenziosamente,
da non sembrare reale.
Imperscrutabile in volto, Bill distolse lo sguardo da quella cosa sul pavimento e lo spostò su di me.
«Ebbene», gli dissi, «sono stata io a fare secca lei».
Poi mi ritrovai in ginocchio accanto al cadavere, concentrata per non vomitare.
Impiegai alcuni preziosi secondi per ritrovare il controllo. Avevo una meta da raggiungere. Quella morte non mi sarebbe servita assolutamente a niente se non fossi riuscita a
portare Bill fuori di là prima che arrivasse qualcun altro. Dal
momento che avevo fatto una cosa tanto orribile, dovevo almeno ricavarne qualche vantaggio.
Nascondere il corpo, che stava già cominciando ad avvizzire, sarebbe stata una mossa intelligente, ma portare via
il mio ragazzo aveva la priorità su tutto. Presa la coperta,
l'avvolsi intorno alle spalle di Bill, che sedeva accasciato sulla sedia sporca di sangue. Da quando avevo fatto quella cosa
terribile non avevo più il coraggio di guardarlo.
«Quella era Lorena?», gli sussurrai all'orecchio, assalita
da un dubbio improvviso. «E' stata lei a farti questo?».
Di nuovo, annuì appena.
Din don: la strega era morta.
Dopo un momento, durante il quale attesi invano di provare qualcosa, l'unica domanda che mi venne in mente di
porgli fu come potesse qualcuno che si chiamava Lorena
avere un accento straniero, ma lasciai perdere, perché era
una domanda da idioti.
«Bill, svegliati. Devi rimanere sveglio finché non ti avrò
caricato in macchina», dissi, mentre cercavo di sondare mentalmente i mannari nella stanza accanto. Uno cominciò a russare dietro la porta chiusa, mentre la mente di un altro, che
non ero riuscita a individuare, accennò a destarsi. M'immobilizzai e dopo parecchi secondi sentii quella mente scivolare
di nuovo nei ritmi del sonno. Con un profondo respiro tirai
un lembo della coperta sulla testa di Bill, mi passai il suo
braccio sinistro intorno al collo e lo issai. Si sollevò dalla sedia e con un rauco sibilo di dolore barcollò fino alla porta. Si
appoggiava pesantemente a me, quindi rifiatai mentre afferravo la maniglia per ruotarla. Ma, in quel lungo istante, per
poco non persi la presa su di lui, che si era praticamente addormentato in piedi.
Soltanto il pericolo di essere sorpresi riusciva a indurlo a
muoversi.
Una volta aperta la porta, verificai che la coperta, gialla e
lanuginosa, gli nascondesse completamente la testa. Lui gemette e gli mancarono le gambe quando avvertì la luce del
sole, nonostante fosse fioca e filtrata dalle nuvole. Cominciai
a bisbigliare ingiuriandolo e incitandolo a muoversi, dicendogli che se quella stronza di Lorena era riuscita a tenerlo
sveglio allora ce l'avrei fatta anch'io, e che lo avrei pestato
per bene se non fosse riuscito ad arrivare alla macchina.
Finalmente, con uno sforzo terribile che mi lasciò tremante, riuscii a farlo arrivare al bagagliaio della macchina e
lo aprii. «Bill, ora basta che ti sieda qui sul bordo», gli dissi,
tirandolo fino a farlo ruotare in modo che si sedesse di fronte
a me. A quel punto, la vita lo abbandonò completamente e lui
crollò all'indietro, raggomitolandosi in quello spazio ristretto
con un profondo gemito di dolore che mi lacerò il cuore, per
poi farsi del tutto inerte e silenzioso. Era sempre terrificante
vederlo morire in quel modo: avrei voluto scuoterlo, urlargli
contro, percuoterlo sul petto, ma sarebbe stato tutto inutile.
Costrinsi nel bagagliaio le parti del suo corpo che sporgevano... una gamba, un braccio. Abbassai il cofano e mi concessi il piacere di un momento di intenso sollievo.
Ferma nella luce fioca del cortile deserto, affrontai un
breve dibattito interiore, chiedendomi se dovessi nascondere
il corpo di Lorena, se valesse la pena perderci tempo ed energie.
Nell'arco di trenta secondi cambiai idea almeno sei volte, ma alla fine decisi che forse ne valeva la pena. Senza quel
cadavere in bella vista, i mannari avrebbero magari pensato
che Lorena avesse portato Bill da qualche altra parte per una
piccola sessione aggiuntiva di torture. Russell e Betty Jo sarebbero stati morti al mondo fino a sera, dunque incapaci di
impartire istruzioni. Non m'illudevo che Betty Jo mi risparmiasse per gratitudine, se fossi stata catturata in quel momento. Una morte rapida sarebbe stato il massimo in cui
avrei potuto sperare.
Presa la decisione, rientrai in quell'orribile stanza insanguinata, tra quelle pareti intrise di angoscia e sofferenza, oltre che di sangue. Mi chiesi quanti umani, mannari e vampiri
vi fossero stati tenuti prigionieri. Raccolte le catene il più silenziosamente possibile, le infilai nella camicetta di Lorena,
in modo che chiunque fosse venuto a controllare la stanza le
avrebbe credute ancora intorno a Bill. Diedi un'occhiata in
giro in cerca di tracce da cancellare, ma nella stanza c'era già
così tanto sangue che quello di Lorena non comportava nessuna differenza.
Era ora di andare via di lì.
Per evitare che i talloni di Lorena strisciassero rumorosamente sul terreno, dovetti issarmela in spalla. Non avendo
mai fatto una cosa del genere, eseguii la manovra con una
certa goffaggine. Per mia fortuna, lei era molto minuta, e io
mi ero esercitata per anni a escludere il mondo esterno dalla
mia mente, altrimenti, il modo in cui penzolava inerte, cominciando già a disintegrarsi, mi avrebbe sconvolta. Invece
mi limitai a serrare i denti, per ricacciare indietro l'ondata di
isterismo che sentivo ribollirmi in gola.
Mentre portavo il corpo fino alla piscina prese a piovere
a dirotto. Senza il sangue di Eric non sarei mai riuscita a sollevare il bordo appesantito del telo che copriva la piscina, invece lo alzai con una mano sola e mi servii di un piede per
spingere nella vasca quello che restava di Lorena. Ero consapevole che in qualsiasi momento qualcuno si sarebbe potuto
affacciare a una delle finestre posteriori della villa e vedermi,
capire quello che stavo facendo, ma, se pure qualcuno degli
umani residenti mi notò, decise di tenerlo per sé.
Stavo cominciando a sentirmi spaventosamente stanca.
Con passo pesante, ripercorsi il sentiero lastricato, attraversai
il varco nella siepe e tornai alla macchina. Mi appoggiai per
un minuto alla fiancata, riprendendo fiato e forze, poi scivolai sul sedile di guida e girai la chiave d'accensione. La Lin-
coln era l'auto più grande che avessi mai guidato e una delle
più lussuose su cui fossi mai stata, ma in quel momento non
ne vedevo l'interesse o il piacere. Allacciata la cintura, regolai lo specchietto retrovisore e il sedile. Scrutai il cruscotto
cercando il comando dei tergicristalli, di cui avevo indubbiamente bisogno. L'auto era un modello nuovo e le luci si accesero automaticamente: una cosa in meno di cui preoccuparsi.
Respirai profondamente: era iniziata la fase tre del salvataggio di Bill. Mi faceva un po' paura pensare quanta parte
avesse avuto il caso in quell'operazione, ma del resto perfino
nei piani dettagliati era impossibile calcolare tutti gli imprevisti. In genere, i miei piani tendevano a lasciare abbondante
"spazio di manovra" (così lo chiamavo).
Feci inversione, uscii dal cortile e seguii la curva aggraziata del viale di accesso fino all'entrata dell'edificio principale. Vidi finalmente la facciata della villa, che, come avevo
immaginato, era splendida, con enormi colonne e il rivestimento in legno dipinto di bianco. Russell doveva aver speso
parecchio per restaurare l'edificio.
Il viale di accesso attraversava con dolci curve un giardino dall'aria ben curata nonostante il suo stato di torpore invernale. Per quanto lungo, il tragitto risultò decisamente
troppo breve per i miei gusti: davanti a me vedevo già il
muro di cinta e il gabbiotto. Alla vista delle guardie cominciai a sudare, nonostante il freddo.
Al cancello mi fermai. Su un lato, un piccolo cubicolo
bianco a vetro dall'altezza della vita in su si estendeva all'in-
terno e all'esterno del muro, in modo da permettere alle guardie di controllare sia chi entrava, sia chi usciva. Nell'interesse dei due mannari in servizio, vestiti di cuoio e dall'aria irritabile, segno che dovevano aver avuto una notte movimentata, mi augurai che quel gabbiotto fosse anche riscaldato. Mi
fermai al cancello, imponendomi di resistere all'enorme impulso di accelerare e di sfondarlo. Mentre uno dei due mannari veniva fuori armato di fucile, pensai che era stato un
bene che non avessi ceduto all'istinto.
«Immagino che Bernard vi abbia avvertiti che sarei andata via questa mattina», dissi, dopo aver abbassato il finestrino e accennando un sorriso.
«Sei quella che è stata infilzata da un paletto la scorsa
notte?». La guardia aveva l'aria cupa, la barba lunga e puzzava di cane bagnato.
«Già».
«Come ti senti?».
«Meglio, grazie».
«Tornerai per la crocifissione?».
«Prego?», chiesi con un filo di voce, certa di non aver
sentito bene.
«Doug, sta' zitto», ingiunse l'altra guardia, che era venuta
a fermarsi sulla porta del gabbiotto.
Doug scoccò un'occhiataccia all'altro mannaro, ma si limitò a scrollare le spalle. «D'accordo, puoi andare», mi disse.
Il cancello si aprì con una lentezza esasperante. Una volta spalancato, i mannari indietreggiarono e io oltrepassai con
calma l'uscita. In quel mentre, mi resi conto di non avere
idea della direzione da prendere. Per tornare a Jackson, ritenni giusto svoltare a sinistra, perché il mio subconscio mi stava dicendo che la notte precedente avevamo svoltato a destra
per imboccare il vialetto.
Ma il mio subconscio mentiva spudoratamente.
Cinque minuti dopo, avevo l'assoluta certezza di essermi
persa. Il sole continuava a salire in cielo, oltre la massa delle
nuvole. Non riuscivo a ricordare se la coperta fosse ben avvolta intorno a Bill, né sapevo se davvero il bagagliaio non
lasciava filtrare la luce. In fondo, la sicurezza nel trasporto di
vampiri non era fra le voci obbligatorie delle specifiche di
un'auto.
D'altro canto, riflettei, il bagagliaio doveva essere impermeabile all'acqua, una specifica imprescindibile, quindi forse
anche alla luce. Ciò nonostante, continuò a sembrarmi di vitale importanza trovare un posto buio in cui parcheggiare la
Lincoln durante le rimanenti ore diurne. Sebbene l'istinto mi
dicesse di tenere il pedale a tavoletta per allontanarmi il più
possibile dalla villa prima che qualcuno andasse a controllare
Bill e facesse due più due, mi accostai al ciglio della strada e
aprii il cassetto del cruscotto. Che Dio benedica l'America!
Come mi aspettavo, trovai una cartina del Mississippi, con
annessa una piantina di Jackson, che mi sarebbe stata utile se
avessi avuto una minima idea di dove mi trovavo in quel momento.
Non è previsto che nelle fughe disperate ci si perda.
Dopo alcuni profondi respiri, mi rimisi in carreggiata e
proseguii fino ad avvistare un distributore molto affollato.
Anche se la Lincoln aveva il serbatoio pieno (grazie, Eric),
accostai a una delle pompe e mi fermai. La macchina dall'altro lato era una Mercedes nera e la persona impegnata a rifornirla era una donna di mezz'età dall'aria intelligente, vestita con abiti sportivi e comodi. «Sa per caso come posso fare
a tornare sulla I-20 da qui?», domandai, fermando il tergicristallo.
«Oh, certo», e mi sorrise. Era il genere di persona che
adora aiutare gli altri e non potei che ringraziare la mia buona stella per averla incontrata. «Qui siamo a Madison, e
Jackson è a sud. La I-55 è a circa un chilometro e mezzo di
distanza, da quella parte», spiegò indicando verso ovest. «La
imbocchi verso sud e incrocerà la I-20. Oppure, potrebbe
prendere...».
«Oh, mi sembra la soluzione perfetta», la interruppi, prima di andare in tilt per troppe informazioni. «E' meglio che
faccia così, altrimenti finirò per confondermi».
«Certo. Lieta di esserle stata di aiuto».
«Lo è stata di certo».
Ci scambiammo un sorriso radioso, da brave donne gentili, e con uno sforzo non cedetti all'impulso, dettato dal puro
e semplice sollievo, di raccontarle: «Ho nel bagagliaio un
vampiro che è stato torturato». Avevo salvato Bill, ero viva e
quella notte ci saremmo messi in viaggio per tornare a Bon
Temps. A quel punto la vita sarebbe stata meravigliosamente
libera da problemi, a parte, naturalmente, quello di vedermela con l'infedeltà del mio ragazzo, di scoprire se il corpo del
lupo mannaro di cui ci eravamo liberati a Bon Temps fosse
stato trovato, di apprendere se lo stesso fosse successo al cadavere rinvenuto nel ripostiglio di Alcide e di vedere la reazione della regina della Louisiana al comportamento sconsiderato di Bill con Lorena. Mi riferisco naturalmente alle sue
indiscrezioni verbali, perché non credo s'interessasse alle sue
attività sessuali.
A parte questo, per tutto il resto eravamo a cavallo.
«"Basta a ciascun giorno il suo affanno"», mi ripetei una
delle citazioni bibliche preferite da mia nonna. Quando avevo circa nove anni le avevo chiesto di spiegarmi cosa volesse
significare. «Non andare in cerca di guai», mi aveva risposto,
«perché i guai stanno già cercando te».
Tenendo a mente quell'ammonizione, feci piazza pulita
nel mio cervello: la mia prossima meta sarebbe stata semplicemente quella di arrivare a Jackson e di trovare rifugio nel
garage. Seguii le istruzioni fornitemi da quella donna gentile
e arrivai a Jackson in mezz'ora.
Sapevo che se fossi riuscita a trovare la sede del Parlamento dello Stato avrei anche trovato il palazzo in cui aveva
l'appartamento Alcide, ma non avevo calcolato i sensi unici
né avevo prestato attenzione alle indicazioni che Alcide mi
aveva fornito durante il nostro piccolo giro per il centro di
Jackson. Lo Stato del Mississippi non era però ricco di edifici di cinque piani, neppure nella capitale, e dopo una tesa ricerca lo avvistai.
Adesso tutti i miei guai saranno finiti, mi dissi. Non è
stupido pensare una cosa del genere? In qualsiasi frangente?
Mi fermai davanti al gabbiotto, dove si doveva aspettare
di essere riconosciuti e che la guardia in servizio premesse il
pulsante o azionasse l'interruttore o quel che diamine faceva
sollevare la barriera. Fui assalita dal terrore che non mi lasciasse entrare perché non avevo l'adesivo giusto, come quello sul furgone di Alcide.
L'uomo però non c'era, il gabbiotto vuoto. Di certo era
strano. M'incupii non sapendo cosa fare. Invece ecco la guardia risalire faticosamente la rampa, nella sua pesante uniforme marrone. Appena si accorse che lo stavo aspettando, ebbe
un'espressione sgomenta, affrettandosi a raggiungere la macchina. Sospirai nel rendermi conto che avrei proprio dovuto
parlargli. Premetti il pulsante che faceva abbassare il finestrino.
«Mi dispiace di essermi allontanato dal mio posto», si
scusò immediatamente. «Dovevo... ecco, avevo delle esigenze personali».
Per me era un appiglio per fargli un po' di pressione.
«Ho dovuto prendere a prestito una macchina», spiegai.
«Potrei avere un pass temporaneo?». E lo guardai in modo
da fargli intendere che, se non mi avesse fatto problemi per il
pass, io non avrei detto una parola sul fatto che aveva abbandonato il suo posto.
«Certo, signora. E' l'appartamento 504, vero?».
«Ha una memoria eccellente», commentai, e il suo volto
segnato si tinse di rossore.
«Fa parte del lavoro», replicò con noncuranza, porgendomi un tesserino laminato con un numero che posai in vista
sul cruscotto, poi aggiunse: «Sarebbe così cortese da restituirlo quando partirà? Se invece ha intenzione di fermarsi,
dovrà compilare un modulo e le daremo un pass definitivo.
In effetti», precisò un po' imbarazzato, «dovrà essere il signor Herveaux a compilarlo, in quanto proprietario dell'appartamento».
«Certo, nessun problema», garantii, poi lo salutai con un
allegro gesto della mano e lui rientrò nel gabbiotto per sollevare la barriera.
Immergendomi nel garage buio, avvertii la tipica ondata
di sollievo che segue il superamento di un grosso ostacolo,
poi sopraggiunse il contraccolpo, e quando infine sfilai la
chiave dall'accensione stavo tremando da capo a piedi.
Mi parve di vedere il furgone di Alcide, un paio di posti
più in là, ma avevo parcheggiato nell'angolo più interno possibile del garage, il più buio, per puro caso lontano da tutte le
altre macchine. Fino a quel momento, era andato tutto secondo i piani, ma non avevo idea di cosa fare adesso, perché non
avevo creduto veramente di riuscire ad arrivare fino a quel
punto. Mi volli rilassare sul comodo sedile perché il tremito
si fermasse prima che scendessi dalla macchina. Avevo sempre tenuto il riscaldamento al massimo e nell'auto regnava un
piacevole tepore.
Quando mi svegliai, mi resi conto di aver dormito ore.
La macchina era fredda, e io ancor di più nonostante la
giacca imbottita che avevo rubato. Un po' rigida lasciai il sedile di guida, mi stiracchiai e mi piegai per dare sollievo alle
articolazioni intorpidite.
Poi pensai che era il caso di dare un'occhiata a Bill. Senza dubbio doveva essere stato sballottato per il bagagliaio e
volevo accertarmi che fosse ben coperto.
In effetti, desideravo soltanto rivederlo e al solo pensiero
il cuore prese a battermi più in fretta. Ero proprio un'idiota.
Controllai a quanta distanza mi trovavo dalla debole luce
solare che filtrava dall'ingresso. Ne ero ben lontana. E comunque il bagagliaio era rivolto nella direzione opposta.
Cedendo alla tentazione, raggiunsi il retro della macchina, girai la chiave nella serratura, la tirai fuori e me la infilai
nella tasca della giacca mentre guardavo il cofano posteriore
che si sollevava. La penombra che regnava nel garage m'impediva di vedere bene, tanto che era difficile perfino intravedere la coperta gialla. Bill sembrava fosse ben coperto, ma
mi chinai lo stesso per sistemargli meglio la coperta intorno
alla testa. Ebbi un preavviso di appena un secondo, lo strisciare di una scarpa sul cemento, poi mi sentii spingere violentemente da dietro.
E caddi nel bagagliaio, addosso a Bill.
L'istante successivo, una seconda spinta infilò dentro anche le mie gambe. Il cofano si richiuse.
Adesso Bill e io eravamo rinchiusi insieme nel bagagliaio della Lincoln.
Capitolo dodicesimo
Debbie. Doveva essere stata Debbie. Una volta superata
l'iniziale ondata di panico, che durò più di quanto mi vada di
ammettere, cercai di riesaminare con cura quegli ultimi secondi. Avevo colto una traccia di schema mentale, sufficiente
a informarmi che il mio assalitore era un mutaforme. Ne dedussi che forse si trattava dell'ex ragazza di Alcide... che a
quanto pareva non era poi così tanto ex, visto che circolava
ancora per il suo garage.
Aveva atteso il mio ritorno da Alcide fin dalla notte precedente, oppure si era incontrata con lui in un momento imprecisato della follia indotta dalla luna piena? Che mi fossi
mostrata in pubblico con lui l'aveva fatta infuriare enormemente, ma era innamorata o solo possessiva?
Non che adesso le sue motivazioni fossero di qualche
fondamentale importanza. Al momento mi preoccupavo dell'aria. Magari era una fortuna che Bill non respirasse.
M'imposi di respirare in modo lento e regolare, senza
profondi ansiti dettati dal panico e senza dibattermi, e decisi
di valutare la situazione. Dunque, probabilmente ero finita in
quel bagagliaio verso... diciamo l'una del pomeriggio. Bill si
sarebbe svegliato intorno alle cinque, quando avesse comin-
ciato a fare buio. Forse avrebbe dormito un po' di più, considerato quanto era esausto... ma di certo non oltre le sei e
mezza. Comunque, al suo risveglio ci avrebbe tirati fuori di
lì. Oppure no? Era molto debole e aveva riportato terribili ferite. Una lenta guarigione perfino per un vampiro: avrebbe
avuto bisogno di sonno e di riposo per tornare in forma. Almeno da una settimana non aveva ricevuto neppure una goccia di sangue. A questo pensiero mi sentii raggelare.
Da capo a piedi.
Bill sarebbe stato affamato, davvero affamato. Follemente affamato.
E io ero là a sua disposizione... una cena pronta.
Avrebbe capito chi ero? Mi avrebbe riconosciuto in tempo per fermarsi?
Mi fece ancora più male pensare che forse non gli sarebbe più importato di me... che non avrebbe tenuto a me abbastanza da fermarsi, succhiando il mio sangue fino a prosciugarmi. In fondo, aveva avuto una storia con Lorena e mi aveva visto ucciderla proprio sotto i suoi occhi. Certo, lei lo aveva tradito e torturato, e questo avrebbe dovuto spegnere il
suo ardore in maniera definitiva, ma le relazioni sentimentali
non sono forse tutte un po' folli?
In quella situazione, perfino mia nonna avrebbe detto
«Oh, merda!».
D'accordo, dovevo rimanere calma, respirare piano per
risparmiare aria e sistemare i nostri corpi per stare un po' più
comoda. Meno male che era il bagagliaio più grande che
avessi mai visto, perché questo rese possibile la mia manovra. Bill era completamente inerte... insomma, era morto, ovvio, quindi potevo spingerlo senza preoccuparmi troppo delle
conseguenze. Inoltre, faceva freddo e cercai di sottrargli una
parte di coperta per me.
Lì dentro regnava anche un buio assoluto. Avrei scritto al
progettatore di quel veicolo che ero pronta a garantire che
quel bagagliaio era "a tenuta di luce", se così si poteva dire.
Naturalmente, se fossi uscita viva di lì. Avvertii al tatto la
forma delle due bottiglie di sangue e mi chiesi se Bill si sarebbe accontentato del loro contenuto.
Di colpo ricordai un articolo che avevo letto su una rivista nella sala d'attesa dal dentista. Parlava di una donna che
era stata presa in ostaggio e rinchiusa nel bagagliaio della
sua stessa macchina, e che da allora aveva avviato una campagna per far installare una maniglia a scatto all'interno dei
bagagliai, così che chiunque vi si trovasse prigioniero potesse liberarsi. Chiedendomi se quella donna fosse riuscita a influenzare i fabbricanti delle Lincoln, provai a tastare i contorni del bagagliaio, almeno fin dove potevo arrivare. Individuai quello che sembrava un meccanismo di sbloccaggio:
quanto meno, in quel punto c'erano dei fili metallici che
sporgevano. Ma la probabile maniglia a cui dovevano essere
stati collegati era stata rimossa.
Provai a tirare, a strattonare a sinistra e a destra. Maledizione, non era giusto! Per poco non impazzii, chiusa là dentro: avevo a portata di mano il mezzo per liberarmi, e non
riuscivo a farlo funzionare! Le mie dita continuarono a seguire la sagoma dei cavi, ma inutilmente.
Il meccanismo era stato disattivato.
Ce la misi tutta per capire come potesse essere successo,
e mi vergogno di confessare di essermi perfino chiesta se
Eric non avesse previsto che sarei finita chiusa nel bagagliaio e se quello non fosse il suo modo per dirmi: «Ecco cosa ti
succede a preferire Bill». Ma non riuscii a crederci davvero.
Certo, la morale di Eric aveva grosse lacune, ma non mi
avrebbe mai fatto una cosa del genere. Dopo tutto non aveva
ancora raggiunto la meta che affermava di essersi prefisso,
quella di conquistarmi. Ed era la maniera più carina di dirlo.
Dal momento che non avevo nient'altro da fare, continuai a pensare, azione che, da quanto ne sapevo, non consumava ossigeno aggiuntivo. Presi in considerazione il precedente proprietario e mi venne in mente che l'amico di Eric
doveva avergli indicato un'auto facile da rubare, magari perché apparteneva a un nottambulo che poteva permettersi una
bella macchina e il cui bagagliaio era cosparso di sacchettini
di plastica.
Avrei scommesso che Eric aveva sottratto la Lincoln a
uno spacciatore il quale, per motivi che non mi andava di
esaminare troppo, aveva disattivato la leva interna.
Avanti, datemi un colpo di fortuna, pensai sdegnata, dimentica degli altri colpi di fortuna già avuti in quella giornata. D'altronde, se non mi fosse stato dato, e non fossi riuscita
a uscire da quel bagagliaio prima del risveglio di Bill, a che
sarebbero serviti tutti gli altri?
Era domenica, Natale era prossimo, e quindi il garage
molto silenzioso. Forse alcune persone erano tornate a casa
per le feste, di certo lo avevano fatto i legislatori della circoscrizione elettorale, mentre gli altri erano impegnati a fare...
le cose che si fanno in una domenica natalizia. Mentre me ne
stavo stesa lì, udii una macchina allontanarsi e dopo un po' le
voci di due persone che stavano uscendo dall'ascensore. Iniziai a urlare e a picchiare contro il cofano, ma il mio rumore
venne soffocato dall'avviarsi di un motore potente. Smisi di
colpo di agitarmi, timorosa di consumare tutta l'aria.
Vi garantisco che il tempo trascorso in un'oscurità quasi
assoluta e in uno spazio ristretto, in attesa che succeda qualcosa, è un tempo decisamente orribile. Non portavo orologio,
e comunque per poterlo leggere avrebbe dovuto avere le lancette luminose. Non m'addormentai mai, ma scivolai in uno
strano stato come di animazione sospesa. Forse dipese soprattutto dal freddo, molto intenso nonostante la giacca imbottita e la coperta. Immobilità, freddo, oscurità, silenzio. La
mia mente andò alla deriva.
Poi il terrore mi riportò alla lucidità.
Bill si stava muovendo. Si agitò appena, emise un gemito di sofferenza e subito dopo il suo corpo si tese: aveva avvertito il mio odore.
«Bill», dissi rauca, con le labbra rese rigide dal freddo.
«Bill, sono io, Sookie. Bill, stai bene? Qui ci sono delle bottiglie di sangue. Bevilo subito».
Lui mi morse.
Sotto l'impeto della fame, non cercò di risparmiarmi nulla e mi causò un dolore lancinante.
«Bill, sono io», ripetei, cominciando a piangere. «Sono
io. Non farlo, tesoro. Bill, sono Sookie. Qui ci sono delle
bottiglie di TrueBlood».
Invece non si fermò. Mentre continuavo a parlare, lui
continuava a succhiare, e intanto mi sentivo sempre più fredda e debole. Le sue braccia mi stringevano, la sua gamba
bloccava le mie. Cercare di lottare era inutile, perché sarebbe
servito solo a eccitarlo maggiormente.
«Bill», sussurrai, anche se forse era già troppo tardi, e
con la poca forza che mi rimaneva gli pizzicai un orecchio
con le dita della mano destra. «Per favore, Bill, ascoltami».
«Ahi», si lamentò lui, con voce roca come se avesse la
gola dolorante. Aveva smesso di bere sangue e adesso era
stato assalito da un altro bisogno, di un genere strettamente
correlato all'atto di nutrirsi. Con le mani tirò giù i pantaloni
della mia tuta e dopo una quantità di contorsioni e di assestamenti mi penetrò senza il minimo preliminare. Urlai e lui mi
premette una mano sulla bocca. Piangevo, singhiozzavo, con
il naso intasato avevo bisogno della bocca per respirare: perdendo ogni controllo, cominciai a lottare come un gatto selvatico, mordendo, graffiando e scalciando, senza curarmi
della provvista d'aria, senza preoccuparmi che lui potesse infuriarsi. Semplicemente, dovevo respirare.
Dopo qualche secondo, la sua mano si ritrasse e lui smise
di muoversi, mentre io esalavo profondi, ansimanti respiri.
Adesso piangevo a dirotto, un singhiozzo dopo l'altro.
«Sookie?», chiese Bill incerto. «Sookie?».
Non riuscii a rispondere.
«Sei tu», affermò Bill, la voce roca meravigliata. «Sei
proprio tu. Eri davvero tu in quella stanza».
Cercai di ricompormi, ma mi sentivo stordita, sul punto
di svenire. Alla fine, a stento sussurrai il suo nome.
«Sei tu. Stai bene?».
«No», ammisi, quasi in tono di scusa. In fondo, era stato
Bill a essere imprigionato e torturato.
«Ho...», cominciò, ma s'interruppe finché non si fece forza: «Ho preso più sangue di quanto avrei dovuto?».
Non riuscii a rispondere, parlare mi sembrava troppo faticoso, e mi limitai ad appoggiare la testa sul suo braccio.
«Mi sembra di aver fatto sesso con te in un ripostiglio»,
aggiunse piano. «Eri... eri consenziente?».
Scossi la testa e la lasciai ricadere sul suo braccio.
«Oh, no», sussurrò lui. Si scostò e per la seconda volta
prese ad armeggiare: mi stava rimettendo in ordine e credo
che poi fece lo stesso con i suoi abiti. Dopo, esplorò tastoni
l'ambiente in cui si trovava. «E' un bagagliaio», borbottò.
«Ho bisogno d'aria», mormorai, con voce ormai quasi
impercettibile.
«Perché non lo hai detto prima?». Con un pugno aprì un
buco nel cofano. Dunque era in forze. Buon per lui.
L'aria fredda entrò a fiotti e io respirai profondamente:
splendido, splendido ossigeno.
«Dove siamo?», domandò Bill, dopo un momento.
«Garage condominiale», annaspai. «A Jackson». Mi sentivo così debole che volevo soltanto lasciarmi andare e fluttuare via.
«Perché?».
Cercai di chiamare a raccolta le energie necessarie per rispondergli. «Alcide vive qui», riuscii infine a borbottare.
«Chi è Alcide? Cosa dobbiamo fare adesso?».
«Eric... sta arrivando. Bevi il sangue nelle bottiglie».
«Sookie? Stai bene?».
Non riuscii a rispondere. Se ne fossi stata in grado, forse
gli avrei detto qualcosa come «Che t'importa? Tanto volevi
lasciarmi», o forse che lo perdonavo, anche se questo non mi
sembra molto probabile. Magari gli avrei semplicemente detto che avevo sentito la sua mancanza e che il suo segreto era
ancora al sicuro: fedele fino alla morte, questa era Sookie
Stackhouse.
Lo sentii aprire una bottiglia.
Mentre cominciavo ad andare alla deriva come una barca
trascinata da una corrente sempre più veloce, mi resi conto
che Bill non aveva mai rivelato il mio nome. Sapevo che
avevano cercato di scoprirlo, per rapirmi e torturarmi sotto i
suoi occhi come forma di pressione, ma lui non aveva parlato.
Con un rumore di metallo che si lacerava, il bagagliaio si
aprì.
Eric si stagliò sullo sfondo delle luci fluorescenti del garage, che si erano accese quando fuori si era fatto buio.
«Cosa ci fate voi due, qui dentro?», domandò.
La corrente mi portò via prima che potessi pensare una
risposta.
«Si sta riprendendo», osservò Eric. «Forse il sangue era
sufficiente». La testa mi ronzò per un minuto, poi tornò il silenzio.
«Sì, si sta riprendendo», stava ribadendo Eric e nell'aprire gli occhi trovai tre ansiosi volti maschili chini su di me,
quelli di Eric, di Alcide e di Bill. Chissà come, al vederli mi
venne da ridere. A casa c'erano così tanti uomini che avevano
paura di me, o che non volevano pensare a me, e qui invece
ecco gli unici tre uomini al mondo che volevano fare sesso
con me, o che almeno ci avevano seriamente pensato, tutti e
tre accalcati intorno al letto. Ridacchiai, ridacchiai davvero,
forse per la prima volta da una decina di anni.
«I tre moschettieri», dissi.
«Ha le allucinazioni?», domandò Eric.
«Credo che stia ridendo di noi», replicò Alcide, che non
pareva molto contento della cosa. Posò una bottiglia di True-
Blood sul tavolino che aveva vicino, accanto a una grossa
caraffa e a un bicchiere.
«Sookie», disse Bill con quella voce sommessa che mi
scatenava sempre dei brividi lungo la schiena. Intrecciò le
sue dita fredde alle mie. Era seduto sul letto, alla mia destra,
e cercai di mettere a fuoco il suo volto.
L'aspetto era migliorato, con i tagli più profondi ridotti a
cicatrici e i lividi che già cominciavano a svanire.
«Mi hanno chiesto se sarei tornata per la crocifissione»,
gli dissi.
«Chi te lo ha chiesto?», domandò lui, chinandosi su di
me con un'espressione intensa nello sguardo.
«Le guardie al cancello».
«Le guardie al cancello della villa ti hanno chiesto se saresti tornata stanotte per la crocifissione? Questa notte?».
«Sì».
«La crocifissione di chi?».
«Non lo so».
«Mi sarei aspettato di sentirti fare domande del tipo
"Dove sono? Cosa mi è successo?"», commentò Eric. «Non
che chiedessi chi sarebbe stato crocifisso... o forse sta venendo crocifisso», si corresse, lanciando un'occhiata all'orologio
vicino al letto.
«Probabilmente si riferivano alla mia», osservò Bill, un
po' sconcertato. «Possibile che avessero deciso di uccidermi
stanotte?».
«O forse hanno catturato il fanatico che ha cercato di impalare Betty Jo», suggerì Eric. «Lui sarebbe un candidato
perfetto per la crocifissione».
Ci pensai sopra, nella misura in cui ero in grado di ragionare attraverso i veli della stanchezza che minacciava di sopraffarmi. «Non è l'immagine che ho colto io», sussurrai. Il
collo mi faceva male, molto male.
«Sei riuscita a leggere qualcosa nella mente dei
mannari?», domandò Eric.
«Penso si riferissero a Bubba», sussurrai. Annuì e nella
stanza tutti s'immobilizzarono.
«Quel cretino», si lasciò sfuggire Eric spazientito, dopo
aver bene assimilato la notizia. «Lo hanno preso?».
«Credo di sì». O almeno, era stata l'impressione che avevo riportato.
«Dovremo recuperarlo, se è ancora vivo», dichiarò Bill.
Era molto coraggioso da parte sua dire una cosa del genere. Al suo posto, io non lo avrei mai fatto.
Nella stanza scese un silenzio carico di disagio.
«Eric?», incalzò Bill, inarcando le sopracciglia scure in
attesa di una risposta.
«Suppongo che tu abbia ragione». Eric era su tutte le furie. «Ne siamo responsabili. Non riesco a credere che il suo
Stato natale sia disposto a giustiziarlo! Dove diavolo è finita
la loro lealtà?».
«E tu?», chiese Bill ad Alcide con voce decisamente più
fredda.
Il calore del mannaro pervadeva la stanza quanto il confuso groviglio dei suoi pensieri. Aveva davvero trascorso con
Debbie parte della notte precedente.
«Non vedo come», rispose in tono disperato. «I miei affari, quelli di mio padre, dipendono dal fatto che io sia in
grado di venire qui spesso, e se dovessi arrivare ai ferri corti
con Russell e il suo gruppo, diventerebbe impossibile. Le
cose si faranno già abbastanza difficili quando lui si renderà
conto che è stata Sookie a sottrargli il prigioniero!».
«E a uccidere Lorena», aggiunsi.
Seguì un'altra significativa pausa di silenzio.
Eric fece un sorrisetto. «Hai fatto fuori Lorena?». Per essere un vampiro tanto antico, aveva una buona conoscenza
dello slang.
«Sookie l'ha trafitta con un paletto», spiegò Bill,con
un'espressione difficile da interpretare. «È stato uno scontro
leale».
«Ha ucciso Lorena in combattimento?», domandò Eric,
sorridendo apertamente. Ne sembrava orgoglioso come se
avesse sentito il suo primogenito recitare Shakespeare.
«Un combattimento molto breve», precisai, non volendomi prendere nessun merito che non mi fosse dovuto. Sempre
che si potesse parlare di meriti.
«Sookie ha ucciso un vampiro», mormorò Alcide, come
se questo mi facesse salire anche nella sua stima. I due vampiri presenti nella stanza si accigliarono.
Intanto Alcide mi versò un bicchiere d'acqua, che bevvi a
sorsi lenti e dolorosi. Dopo un paio di minuti mi sentii decisamente meglio.
«Torniamo all'argomento principale», disse Eric, pur
scoccandomi un'occhiata da cui si capiva che aveva altro da
dirmi sull'uccisione di Lorena. «Se non si sono resi conto che
è stata lei a far scappare Bill, Sookie costituisce la nostra carta migliore per rientrare nella villa senza scatenare allarmi.
Può darsi che non si aspettino di vederla, ma sono certo che
non la manderanno via, soprattutto se dirà di portare a Russell un messaggio da parte della regina della Louisiana, o se
affermerà di avere qualcosa che gli vuole restituire...». Scrollò le spalle, certo che saremmo riusciti a mettere insieme una
storia credibile.
Non volevo tornare là. Pensai al povero Bubba e cercai
di preoccuparmi per la sua sorte... che poteva già essersi
compiuta. Ma ero semplicemente troppo debole per farcela.
«I vampiri hanno qualcosa come una bandiera bianca per
parlamentare?», suggerii, schiarendomi la voce.
«Certo che sì, ma dovrei spiegare chi sono», obiettò Eric,
pensoso.
La felicità aveva reso Alcide molto più facile da leggere
mentalmente: stava pensando a quando avrebbe potuto chiamare Debbie.
Aprii la bocca, ci ripensai e la richiusi, e tornai ad aprirla.
Al diavolo. «Sai chi mi ha spinta in quel bagagliaio e poi lo
ha chiuso?», gli domandai. I suoi occhi verdi mi fissarono e
il suo volto si fece immoto, controllato, come se temesse che
le emozioni potessero trapelare. Si girò e lasciò la stanza,
chiudendosi la porta alle spalle. E finalmente mi resi conto
che ero di nuovo nella stanza degli ospiti del suo appartamento.
«Allora, Sookie, chi è stato?», domandò Eric.
«La sua ex ragazza. Non più tanto ex, dopo ieri notte».
«Perché l'avrebbe fatto?», volle sapere Bill.
Ci fu l'ennesimo momento di significativo silenzio. «Per
aver accesso al club, Sookie è stata presentata come la nuova
ragazza di Alcide», spiegò con delicatezza Eric.
«Oh», commentò Bill. «E perché avevi bisogno di andare
al club?».
«Devi aver ricevuto parecchi colpi in testa, Bill», dichiarò Eric, gelido. «Era là per cercare di "sentire" dove ti avevano portato».
La conversazione si stava avvicinando eccessivamente ad
argomenti che Bill e io dovevamo affrontare in privato.
«E' stupido tornare là», dissi. «Che ne dite di
telefonare?». Mi fissarono come se mi stessi trasformando in
un rospo.
«Ehi, questa sì che è una buona idea», dichiarò Eric.
Risultò che il numero di telefono figurava sull'elenco sotto il nome di Russell Edgington, non sotto diciture come Dimora di Morte o Vampiri Riuniti. Cercai di mettere insieme
la mia storia in modo convincente mentre bevevo da un gros-
so boccale di plastica opaca del sangue sintetico, per l'insistenza di Bill. Ne detestavo il sapore, ma lo aveva mescolato
con del succo di mela, e cercavo di non guardare nella tazza.
Quando mi avevano riportata nell'appartamento di Alcide, me lo avevano dato non diluito, e non chiesi come avessero fatto. Se non altro adesso sapevo perché i vestiti di Bernard avevano un aspetto tanto orribile. Mi sembrava che la
mia gola fosse stata tagliata e non solo perforata dal doloroso
morso di Bill. Mi faceva ancora male, anche se stavo migliorando.
Naturalmente il compito di fare quella telefonata era ricaduto su di me, ma del resto non ho ancora incontrato un maschio di età superiore ai sedici anni che ami parlare al telefono.
«Betty Jo Pickard, per favore», dissi alla voce maschile
che rispose.
«Ha da fare», fu la pronta risposta.
«Ho bisogno di parlarle subito».
«E' impegnata. Vuole lasciarmi il suo numero?».
«Sono la donna che le ha salvato la vita ieri notte», tagliai corto, perché era inutile tergiversare. «Ho bisogno di
parlarle immediatamente. Adesso».
«Vedo cosa posso fare».
Seguì una lunga pausa, durante la quale sentii delle persone passare nelle vicinanze dell'apparecchio e un rumore di
applausi che pareva giungere da una certa distanza e su cui
preferii non soffermarmi troppo. Eric, Bill e Alcide, che era
infine rientrato con fare iroso nella stanza quando Bill gli
aveva chiesto se potevamo usare il suo telefono, erano raccolti intorno a me con un assortimento di espressioni interrogative a cui rispondevo soltanto con una scrollata di spalle.
Finalmente, udii un ticchettare di tacchi a spillo sulle piastrelle.
«Ti sono grata, ma non puoi sfruttare la cosa in eterno»,
dichiarò in tono deciso Betty Jo Pickard. «Abbiamo provveduto a guarirti e ti abbiamo dato un posto dove stare finché
non ti fossi ripresa. E non abbiamo cancellato la tua memoria», come se quello fosse stato un piccolo dettaglio che le
era sfuggito fino a quel momento. «Cosa vuoi chiedermi con
questa telefonata?».
«Avete lì un vampiro che impersona Elvis?».
«E allora?», ribatté lei, d'un tratto molto, molto guardinga. «Sì, ieri notte abbiamo sorpreso un intruso».
«Questa mattina, dopo aver lasciato la vostra villa, sono
stata fermata di nuovo», spiegai. Avevamo pensato che la
cosa sarebbe parsa convincente perché la mia voce era molto
rauca e debole.
Seguì una lunga pausa di silenzio, mentre Betty Jo rifletteva sui sottintesi della mia affermazione. «Hai l'abitudine di
trovarti nel posto sbagliato», commentò infine, come se fosse
stata solo remotamente dispiaciuta per me.
«Mi hanno costretta a chiamarti», proseguii, soppesando
con cura le parole, «perché ti dicessi che il vampiro che avete lì non è una copia, è l'originale».
«Oh, ma...», esordì con una risatina, poi tacque per un
momento e infine sbottò: «Mi stai prendendo per il culo,
vero?». Mi sentivo pronta a giurare che Mamie Eisenhower
non avrebbe mai detto una cosa del genere.
«Assolutamente no. Quella notte, all'obitorio, era di turno
un vampiro», gracchiai, e mentre Betty Jo emetteva un suono
che era una via di mezzo fra un rantolo e un sussulto, proseguii: «Non lo chiamate con il suo vero nome, chiamatelo
"Bubba"... e non fategli del male, per l'amor del cielo».
«Ma abbiamo già... aspetta in linea!».
Si allontanò di corsa. Udii il suono pressante dei suoi
passi che si spegneva in lontananza, e mi disposi ad attendere con un sospiro.
Dopo qualche secondo, cominciai a non poterne davvero
più di quei due che se ne stavano lì a guardarmi dall'alto, e
decisi che dovevo essere ormai abbastanza in forze da mettermi seduta.
Bill mi sorresse con gentilezza mentre Eric mi ammucchiava dei cuscini dietro la schiena. Nel frattempo, notai con
piacere che uno di loro aveva avuto l'accortezza di stendere
la coperta gialla sul letto, per evitare che sporcassi di sangue
il copriletto. Continuavo a tenere la cornetta accostata all'orecchio e quando gracchiò sussultai.
«Lo abbiamo tirato giù appena in tempo», mi comunicò
Betty Jo, entusiasta.
«La telefonata è arrivata appena in tempo», annunciai a
Eric, che chiuse gli occhi e parve innalzare una preghiera.
Domandandomi a chi la indirizzasse, rimasi in attesa di ulteriori istruzioni.
«Di' loro che basta che lo lascino andare e lui saprà tornare a casa», mi disse Eric. «Porgi loro le nostre scuse per
essercelo lasciato sfuggire».
Riferii il messaggio dei miei "rapitori", ma Betty Jo respinse prontamente quelle istruzioni.
«Ti dispiacerebbe chiedere se possiamo trattenerlo per un
po' perché canti per noi? E' in condizioni decisamente
buone».
Quando gli trasmisi la richiesta, Eric levò gli occhi al
cielo. «Lo domandi a lui, ma se dovesse dire di no, dovrà
rassegnarsi ed evitare di insistere», replicò, «perché cantare
lo agita, se non è dell'umore giusto. Inoltre, a volte cantare
gli fa riaffiorare dei ricordi, e allora diventa... diventa assordante».
«D'accordo», assentì Betty Jo dopo che le ebbi spiegato
tutto. «Faremo del nostro meglio, e se non vorrà cantare, lo
lasceremo andare subito». Poi dovette girarsi verso qualcuno
che aveva accanto, perché la sua voce si fece più lontana
mentre aggiungeva: «Può cantare, se ha voglia di farlo».
«Evviva!», gridò qualcuno. Immaginai che per i residenti
della villa del re del Mississippi si stesse profilando una seconda notte brava.
«Spero che tu riesca a uscire dalle difficoltà in cui ti trovi», riprese a dirmi Betty Jo. «Non so in che modo chi ti ha
presa abbia avuto la fortuna di prendere in custodia la più
grande star del mondo. Sarebbe disposto a trattare la cosa?».
Betty Jo non aveva idea dei fastidi che questo comportava. Bubba aveva la disgraziata predilezione per il sangue di
gatto, e una mente così confusa da riuscire a eseguire soltanto gli ordini più semplici, anche se di tanto in tanto dava prova di una certa astuzia. Inoltre, eseguiva alla lettera le direttive ricevute.
«Vuole sapere se possono tenerlo con loro», riferii. Ero
stanca di fare da intermediaria, ma Betty Jo non poteva incontrarsi con Eric, altrimenti avrebbe riconosciuto in lui il
supposto amico di Alcide, lo stesso che la notte precedente
mi aveva aiutata a entrare nella villa.
Era tutto troppo complicato per me.
«Sì?», disse Eric, prendendo il telefono e sfoggiando d'un
tratto un accento inglese: Mister Travestimento. Ben presto,
cominciò a dire cose come «Lui costituisce una sacra responsabilità» e «Non hai idea su cosa hai messo i denti» (se avessi avuto un minimo senso dell'umorismo, quella notte, avrei
trovato quell'ultima osservazione decisamente divertente), e
dopo un po' riattaccò con aria soddisfatta.
Intanto avevo riflettuto su quanto fosse strano che Betty
Jo non avesse lasciato trapelare che alla villa c'era qualche
altra cosa che non andava: non aveva accusato Bubba di aver
sottratto il prigioniero né fatto commenti sul ritrovamento
del corpo di Lorena. Ovvio, non erano cose di cui avrebbe
parlato al telefono con una sconosciuta umana, senza contare
che non poteva essere rimasto poi molto da trovare, perché i
vampiri si disintegrano piuttosto in fretta. Ma le catene d'argento dovevano essere ancora nella vasca, magari insieme a
un po' di fanghiglia identificabile come il cadavere di un
vampiro... D'altronde, perché mai qualcuno avrebbe dovuto
guardare sotto il telo di copertura della piscina? Però di certo
qualcuno doveva essersi accorto che il prigioniero era scomparso...
Forse avevano supposto che Bubba avesse liberato Bill
mentre si aggirava per la tenuta. Noi gli avevamo ordinato di
non dire niente e senza dubbio lui aveva seguito la direttiva
alla lettera.
Forse me l'ero cavata. Forse il corpo di Lorena sarebbe
stato completamente dissolto a primavera, quando avrebbero
pulito la piscina.
Quelle riflessioni sui cadaveri mi rammentarono il corpo
che avevamo trovato nel ripostiglio di quell'appartamento,
segno evidente che qualcuno sapeva dove eravamo e che non
ci aveva in simpatia: aveva tentato di farci incriminare per
omicidio, lasciando qui il cadavere di Jerry Falcon. Mi chiesi
se fosse già stato scoperto, un'eventualità che mi sembrava
alquanto remota. Aprii la bocca per chiedere ad Alcide se c'erano state novità, ma la richiusi senza emettere suono perché
non avevo energie sufficienti a formulare una frase compiuta.
La mia vita stava sfuggendo a ogni controllo. Nell'arco di
due giorni avevo nascosto un cadavere e ne avevo prodotto
un altro, e tutto perché mi ero innamorata di un vampiro.
Guardai truce Bill.
Assorta nei miei pensieri, quasi non udii il telefono, anche perché Alcide, che era andato in cucina, rispose probabilmente al primo squillo.
E un attimo dopo si presentò sulla porta della camera da
letto. «Muovetevi», disse. «Dovete passare tutti nell'appartamento accanto, che è vuoto. Presto, presto!».
Bill mi prese in braccio con tutta la coperta e in un istante ci ritrovammo fuori dalla porta, mentre Eric forzava la serratura dell'appartamento adiacente. Sentii il rumore sordo
che annunciava l'arrivo dell'ascensore nel momento stesso in
cui Bill richiudeva la porta alle nostre spalle.
Ci immobilizzammo come stoccafissi nel salotto freddo e
spoglio dell'appartamento vuoto, con i vampiri impegnati ad
ascoltare attentamente quello che stava succedendo dall'altra
parte del muro, mentre io cominciavo a tremare.
A dire la verità, era stupendo essere fra le braccia di Bill,
e non importava che ero stata infuriata con lui e quanti conti
avessimo da regolare. In realtà, stavo provando sgomenta la
meravigliosa sensazione di essere tornata a casa. E per quanto malconcio proprio a causa sua, o meglio dei suoi canini, il
mio corpo pareva non vedere l'ora di incontrare di nuovo il
suo, completamente nudo, nonostante lo spaventoso incidente nel bagagliaio. Sospirai, profondamente delusa da me stessa. Avrei dovuto fare affidamento sulla mia psiche, dato che
il mio corpo era pronto a tradirmi alla grande, deciso a eliminare il ricordo del suo irrazionale assalto.
Bill mi adagiò sul pavimento della piccola stanza per gli
ospiti di quell'appartamento con la stessa cautela che avrebbe
usato se fossi costata un milione di dollari, e mi avvolse per
bene nella coperta. Poi lui ed Eric si appoggiarono al muro,
che era in comune con la camera da letto di Alcide, in ascolto.
«Che razza di puttana», mormorò Eric. Oh, Debbie era
tornata.
Chiusi gli occhi, ma li riaprii quando Eric si lasciò sfuggire un verso di sorpresa. Mi stava fissando sconcertato con
aria divertita.
«Ieri sera Debbie è passata da casa della sorella di Alcide
per farle il terzo grado sul tuo conto. La sorella ti ha proprio
in simpatia», mi spiegò Eric sussurrando. «Questo irrita la
mutaforme Debbie, tanto che la sta insultando apertamente
di fronte ad Alcide».
L'espressione di Bill indicava che lui non era altrettanto
entusiasta della cosa.
All'improvviso, Bill s'irrigidì come se qualcuno gli avesse ficcato un dito in una presa della corrente ed Eric rimase a
bocca aperta, guardandomi con espressione indecifrabile.
Dalla stanza accanto giunse il suono inconfondibile di
uno schiaffo sonoro.
«Lasciaci soli per un momento», disse Bill a Eric, con un
tono di voce che non mi piacque affatto.
Chiusi gli occhi. Non pensavo di farcela ad affrontare
quello che stava per succedere: non volevo discutere con
Bill, o rimproverarlo per la sua infedeltà. Non avevo voglia
di ascoltare scuse e spiegazioni.
Sentii il fruscio del movimento di Bill mentre s'inginocchiava accanto a me sulla moquette. Poi si stese girandosi su
un fianco e mi appoggiò addosso un braccio.
«Alcide le ha appena detto che sei davvero brava a
letto», mormorò dolcemente.
Mi sollevai dalla mia posizione supina talmente in fretta
da causarmi uno strattone al collo convalescente e una fitta al
fianco ancora non del tutto guarito. Mi portai le mani al collo
e strinsi i denti per non gemere.
Quando fui in grado di parlare, articolai solo «Cosa? Che
cosa ha detto?», tale era l'ira. Bill mi squadrò e si portò un
dito alle labbra per ricordarmi di non fare rumore.
«Non l'ho fatto», sussurrai in tono furente, «ma sai una
cosa? Se pure lo avessi fatto davvero, te lo meriteresti, figlio
di puttana traditore». I nostri sguardi s'incatenarono: va bene,
avremmo subito affrontato l'argomento.
«Hai ragione», mormorò Bill. «Sdraiati, Sookie. Stai soffrendo».
«Certo che sto soffrendo», ribattei, scoppiando in lacrime. «Hanno dovuto essere gli altri a dirmelo, a informarmi
che pensavi di assegnarmi una pensione e di andartene a vivere con lei, senza avere neppure il coraggio di venire tu
stesso a dirmelo! Bill, come hai potuto esserne capace? E io
che sono stata tanto idiota da credere che mi amavi
davvero!». E con una furia che stentavo a riconoscere come
mia, scagliai via la coperta e mi lanciai contro di lui, artigliandogli la gola con le dita.
E al diavolo il dolore.
Le mie mani non erano abbastanza grandi da circondargli
il collo, ma affondai le unghie con quanta più forza potevo.
La rabbia mi accecava. Volevo ucciderlo.
Se Bill avesse reagito forse non avrei smesso ma, quanto
più stringevo, tanto più la mia rabbia si dissolveva, lasciandomi fredda e vuota. Ero a cavalcioni sopra di lui, passivamente steso con le mani abbandonate lungo i fianchi. Staccai
le dita dal suo collo per nascondermi il volto.
«Spero che ti abbia fatto un male del diavolo», scandii
con voce soffocata.
«Sì», confermò. «Mi ha fatto un male del diavolo».
Poi mi attirò accanto a sé, stese la coperta su di noi e mi
spinse dolcemente la testa nell'incavo fra il suo collo e la
spalla.
Rimanemmo là per quello che parve un tempo molto lungo, anche se furono solo alcuni minuti. Per abitudine, e per
un profondo bisogno, il mio corpo si annidò contro il suo,
ma non sapevo se in realtà cercassi Bill, oppure quell'intimità
che avevo condiviso soltanto con lui. Lo odiavo, e tuttavia lo
amavo.
«Sookie», disse, con la bocca sui miei capelli, «io...».
«Zitto», lo interruppi. «Sta' zitto». Poi mi strinsi a lui e
mi rilassai: era come togliersi un cerotto troppo stretto.
«Hai indosso i vestiti di qualcun altro», osservò dopo un
paio di minuti.
«Sì, quelli di un vampiro di nome Bernard. Me li ha dati
perché il mio si è rovinato al bar».
«Al Josephine's?».
«Sì».
«Come si è rovinato?».
«Sono stata colpita con un paletto».
«Dove? Ti ha fatto molto male?», chiese Bill, irrigidito,
poi tolse la coperta: «Fammi vedere».
«Certo che sì», replicai per sottolinearlo. «Ho sofferto in
modo terribile». E sollevai con cautela il bordo della casacca
della tuta.
Le sue dita accarezzarono la cicatrice lucida. Non sarei
guarita presto quanto lui: forse in una notte o due la sua pelle
sarebbe tornata liscia e perfetta come prima e lui avrebbe
avuto esattamente lo stesso aspetto di sempre, nonostante la
settimana di torture. Invece io, anche con l'ausilio del sangue
di vampiro, avrei portato una cicatrice per il resto della mia
vita. Magari non sarebbe stata molto vistosa, e di certo si stava formando con una rapidità fenomenale, ma era innegabilmente rossa e brutta, con la carne sottostante ancora sensibile
e dolorante.
«Chi te l'ha fatto?».
«Un uomo. Un fanatico. E' una lunga storia».
«E' morto?».
«Sì. Betty Jo Pickard lo ha ucciso con due pugni. Mi ha
ricordato una storia su Paul Bunyan che avevo letto alle elementari».
«Non la conosco», disse Bill, mentre i suoi occhi scuri
fissavano i miei.
Mi limitai a scrollare le spalle.
«Purché sia morto», ribadì Bill, che pareva avere le idee
molto chiare al riguardo.
«Molte persone sono morte, e tutto a causa del tuo programma».
Seguì un lungo momento di silenzio, durante il quale Bill
lanciò un'occhiata alla porta che Eric, con tatto, si era richiuso alle spalle. Con ogni probabilità stava in ascolto dall'altra
parte e come tutti i vampiri aveva un udito eccellente.
«E' al sicuro?», domandò infine Bill.
«Sì».
«Hanno perquisito la mia casa?», chiese ancora, la bocca
tanto vicina al mio orecchio che nel sussurrare mi fece il solletico.
«Non lo so. Forse lo hanno fatto i vampiri del Mississippi, ma non ho avuto occasione di andarci dopo la visita di
Eric, Pam e Chow, che erano venuti ad avvertirmi del tuo rapimento».
«E ti hanno detto...».
«Che avevi intenzione di lasciarmi. Sì, me l'hanno
detto».
«Sono già stato ripagato per quella follia», dichiarò Bill.
«Può darsi che tu lo sia stato a sufficienza secondo il tuo
modo di vedere, ma non so se sei stato ripagato abbastanza
secondo il mio», ribattei.
Di nuovo il silenzio riempì la stanza vuota e fredda. Dal
salotto non giungevano rumori. Mi augurai che Eric avesse
deciso il da farsi, e che si trattasse di tornare a casa. Indipendentemente da quanto accaduto fra Bill e me, avevo bisogno
di rientrare a Bon Temps. Di riprendere il lavoro e rivedere i
miei amici e mio fratello. Forse come fratello non era granché, ma era tutto quello che avevo.
Poi mi chiesi cosa stesse succedendo nell'appartamento
accanto.
«Quando la regina mi ha contattato perché aveva sentito
dire che stavo lavorando a un programma che nessuno aveva
mai tentato di realizzare prima, mi sono sentito adulato», mi
confidò Bill. «Mi ha offerto una cifra notevole, mentre
avrebbe avuto il pieno diritto di non offrirmi nulla, dal momento che sono un suo suddito».
Sentii la bocca contrarsi in una smorfia di fronte a quel
particolare che mi stava rivelando ancora una volta quanto il
mondo di Bill fosse diverso dal mio.
«Chi credi che l'abbia informata?», domandai.
«Non lo so, e in realtà non lo voglio neppure sapere», mi
rispose. Anche se sembrava indifferente, quasi gentile, a me
non la faceva. «Sai che è una cosa a cui stavo lavorando da
tempo», continuò, quando si rese conto che non intendevo
aggiungere commenti.
«Perché?».
«Perché?», ripetè lui, stranamente sconcertato. «Ecco,
perché mi è sembrata una buona idea avere un elenco di tutti
i vampiri presenti in America e di almeno alcuni di quelli del
resto del mondo. Era un progetto importante, e a dire il vero
compilare l'elenco è stato divertente. Quando ho cominciato
le ricerche, ho pensato di includere delle fotografie, i diversi
pseudonimi e la storia personale. La cosa è cresciuta da sé».
«Quindi stavi compilando una sorta di... di annuario dei
vampiri?».
«Esattamente», confermò lui, illuminandosi ancor più in
volto. «Ho iniziato una notte, pensando a tutti i vampiri in
cui mi ero imbattuto nel corso dei miei viaggi, nell'arco dell'ultimo secolo, e stilandone l'elenco, a cui poi ho aggiunto
un disegno che avevo fatto o una fotografia che avevo scattato».
«Quindi i vampiri possono essere fotografati? Voglio
dire, la loro immagine rimane impressa sulla pellicola?».
«Certo. Non ci è mai piaciuto che si avessero nostre immagini, quando la fotografia è diventata una cosa diffusa in
America, perché costituivano una prova che eravamo stati in
un determinato posto in un particolare momento, e se poi ci
fossimo fatti rivedere, esattamente identici, vent'anni dopo,
tutti avrebbero capito cos'eravamo. Ma da quando abbiamo
ammesso di esistere, attenersi alle vecchie usanze è inutile».
«Scommetto che alcuni vampiri lo fanno ancora».
«Ovvio. Ce ne sono alcuni che si nascondono ancora nell'ombra e dormono nelle cripte». (E parlava uno che a volte
dormiva in un cimitero).
«Qualcun altro vampiro ti ha aiutato?».
«Sì», mi confermò, sorpreso. «Alcuni perché si divertivano a mettere alla prova la propria memoria, altri per rintracciare vecchie conoscenze o rivisitare luoghi del passato.
Sono certo che non ci siano tutti i vampiri americani, soprattutto quelli immigrati di recente, ma credo che nell'elenco ne
sia presente quasi l'ottanta per cento».
«D'accordo, ma perché la regina è tanto ansiosa di avere
l'elenco? E perché altri vampiri, una volta appresa la sua esistenza, dovrebbero volerne entrare in possesso? Anche loro
potrebbero mettere insieme le stesse informazioni, no?».
«Già, ma è molto più facile sottrarle a me», rispose Bill.
«Quanto al perché sia tanto desiderabile averlo... a te non
piacerebbe avere un libretto in cui fossero elencati tutti i telepati degli Stati Uniti?».
«Oh, certo», ammisi. «Potrei farmi dare un sacco di suggerimenti su come gestire il mio handicap, o magari su come
usarlo meglio».
«E allora, non sarebbe utile un annuario contenente tutti i
vampiri degli Stati Uniti, in cui si specifichi cosa sanno fare
e i loro talenti?».
«Be', non tutti vorrebbero davvero che venisse creato un
libretto del genere», osservai. «Hai appena detto che c'è chi
non vuole venire allo scoperto, ma rimanere nell'oscurità e
cacciare di nascosto».
«Proprio così».
«Ma anche quei vampiri li si trova nel programma?».
Bill annuì.
«Vuoi finire infilzato da un paletto?».
«Non mi sono reso conto di quanto il mio progetto potesse interessare... non ho mai pensato a quanto potere avrebbe
dato a chi ne fosse entrato in possesso, finché altri non hanno
cominciato a cercare di rubarmelo», confessò con aria incupita.
Un rumore di grida dall'appartamento accanto ci distrasse.
Alcide e Debbie avevano ricominciato a litigare. Davvero, insieme si facevano solo del male. Eppure, un'attrazione
reciproca continuava a riavvicinarli. Chissà, lontana da Alcide, Debbie era pure una ragazza piacevole.
No, non ci avrei mai creduto! Però, forse era almeno tollerabile quando non erano in gioco i suoi sentimenti per Alcide.
Avrebbero dovuto separarsi e non ritrovarsi mai più da
soli in una stanza.
Per me era una bella lezione.
Guardatemi: morsa, dissanguata, trafitta da un paletto,
percossa, stesa per terra in un freddo appartamento di una
città sconosciuta, insieme a un vampiro che mi aveva tradita.
Una grande decisione si parava dritta di fronte a me, in
attesa che la vedessi e la mettessi in atto.
Spinsi Bill lontano da me e mi alzai in piedi barcollando,
infilandomi la giacca rubata. Con il silenzio di Bill che gravava pesante alle mie spalle, aprii la porta che dava sul salotto, dove Eric era intento ad ascoltare con un certo divertimento la lite in corso nell'appartamento accanto.
«Portami a casa», dissi.
«Certamente. Adesso?».
«Sì. Alcide potrà restituirmi la mia roba quando tornerà a
Baton Rouge».
«La Lincoln funziona ancora?».
«Oh, sì», e tirai fuori di tasca le chiavi. «Tieni».
Uscimmo dall'appartamento vuoto e prendemmo l'ascensore per scendere in garage.
Bill non ci seguì.
Capitolo tredicesimo
Eric mi raggiunse mentre entravo nella Lincoln.
«Ho dovuto dare a Bill alcune istruzioni su come ripulire
il pasticcio che ha provocato», spiegò, anche se non glielo
avevo chiesto.
Abituato a guidare macchine sportive, trovò non poco da
ridire sulla Lincoln.
«Ti sei resa conto che hai la tendenza ad andartene quando le cose fra te e Bill si fanno difficili?», domandò quando
ci fummo lasciati alle spalle il centro cittadino. «Non che la
cosa mi dispiaccia, considerato che sarei lieto di vedervi
troncare il rapporto, ma se questo è il tuo comportamento
nelle relazioni sentimentali, preferisco saperlo adesso».
Mi vennero in mente parecchie risposte, ma con un profondo respiro scartai le prime, che avrebbero arroventato le
orecchie a mia nonna.
«Innanzitutto, Eric, quello che succede fra me e Bill non
sono dannati affari tuoi», esordii, e gli lasciai alcuni secondi
di tempo per assimilare quel concetto. «In secondo luogo, la
mia relazione con Bill è l'unica che abbia mai avuto, quindi
non ho la minima idea di quello che farò da un giorno all'altro, e tanto meno ho pensato a elaborare una strategia». M'in-
terruppi di nuovo, cercando le parole adatte per esprimere il
pensiero successivo. «Terzo, ho chiuso con tutti voi. Sono
stanca di vedere questa roba nauseante, stanca di dover essere coraggiosa, di dover fare cose che mi terrorizzano e di essere circondata da creature bizzarre e sovrannaturali. Io sono
soltanto una persona normale e voglio solo frequentare persone normali... o almeno, persone che respirano».
Eric attese di vedere se avevo finito e ne approfittai per
dargli un'occhiatina: l'illuminazione stradale metteva in evidenza il suo forte profilo dal naso affilato... se non altro, non
stava ridendo di me. Non stava neppure sorridendo.
«Ti ho ascoltato», replicò, distogliendo per un istante il
suo sguardo dalla strada, «e so che parli sul serio. Ho ricevuto il tuo sangue, quindi conosco i tuoi sentimenti».
Le ruote divorarono un altro chilometro di oscurità. Ero
lieta che mi stesse prendendo sul serio, perché a volte non lo
faceva, mentre altre non pareva curarsi di quello che mi diceva.
«Sei sprecata con gli umani», affermò infine, il suo lieve
accento straniero più marcato del solito.
«Forse sì, anche se non la considero una grande perdita,
dato che finora non ho avuto molta fortuna con gli uomini».
Era difficile uscire con una persona quando si sapeva esattamente cosa stava pensando. Molto spesso conoscere precisamente i pensieri di un uomo può annientare il desiderio, e
perfino la simpatia. «Però da sola sarò più felice di come
sono adesso».
Avevo riflettuto sulla regola pratica della vecchia Ann
Landers: starei meglio con lui o senza di lui? Durante l'adolescenza, leggevo la rubrica di posta di Ann Landers ogni
giorno insieme alla nonna e a Jason e ne discutevamo le risposte. Poiché molti consigli erano indirizzati alle donne per
far fronte agli uomini del tipo di Jason, mio fratello esponeva
sempre il suo punto vista.
Ora come ora, ero maledettamente certa che sarei stata
meglio senza Bill. Lui mi aveva usata e abusata, tradita e dissanguata.
Però mi aveva anche difesa, vendicata, adorata con il suo
corpo, e aveva trascorso con me ore in cui mi ero sentita accolta, il che costituiva un dono immenso.
Comunque fosse, in quel momento non avevo una bilancia a portata di mano, solo un cuore addolorato e parecchia
strada da fare per arrivare a casa. Volammo attraverso la notte buia, ciascuno chiuso nei propri pensieri. Il traffico era
scarso, ma su un'interstatale era normale di tanto in tanto incontrare altre macchine.
Non avere idea di cosa Eric stesse pensando era una sensazione meravigliosa. Forse si stava chiedendo se era il caso
di accostare al lato della strada e rompermi il collo, o magari
stava riflettendo sul possibile incasso del Fangtasia in questa
serata. Avrei voluto che mi parlasse, che mi raccontasse della
sua vita prima della trasformazione, ma per molti vampiri si
trattava di un argomento scottante e non avevo certo intenzione di sollevarlo proprio quella notte.
A circa un'ora di viaggio da Bon Temps, imboccammo
una rampa di uscita perché eravamo un po' a corto di carburante e io avevo bisogno di andare alla toilette. Eric aveva
già cominciato a fare il pieno quando districai con cautela il
mio corpo dolorante dal sedile della macchina, dopo che lui
aveva respinto con un cortese «No, grazie» la mia offerta di
fare benzina al suo posto. Anche un'altra macchina stava facendo rifornimento. La proprietaria, una bionda ossigenata
più o meno mia coetanea, riappese l'erogatore mentre scendevo dalla Lincoln.
All'una del mattino, l'area di servizio e il suo negozio di
alimentari erano piuttosto deserti, a parte quella giovane
donna dal trucco pesante avvolta in un cappotto imbottito.
Notai comunque un malconcio pick-up della Toyota parcheggiato nell'unica zona non illuminata; al suo interno due
uomini parevano impegnati in un'accalorata conversazione.
«Fa troppo freddo per starsene seduti fuori in un pickup», osservò la bionda ossigenata rabbrividendo, mentre oltrepassavamo la porta a vetri del negozio.
«Parrebbe proprio di si», convenni. Ero già a metà della
corsia in fondo al locale quando il commesso, che si trovava
su una pedana, dietro un alto bancone, distolse lo sguardo dal
suo televisorino per incassare il denaro della bionda.
Con difficoltà mi chiusi alle spalle la porta del bagno
perché lo stipite di legno si era gonfiato per l'umidità; o forse, per la mia fretta, si socchiuse appena. Se non altro il battente della toilette funzionava e l'ambiente era abbastanza
pulito. Non avevo premura di tornare in macchina con il silenzioso Eric, quindi me la presi comoda e, dopo aver fatto
quello che dovevo, mi osservai con calma nello specchio appeso sopra il lavandino. Prevedevo il peggio e il mio riflesso
non mi contraddisse.
Il segno del morso sul collo era nauseante, come se un
cane mi avesse azzannata. Mentre pulivo la ferita con un po'
di sapone e delle salviettine inumidite, mi domandavo se il
sangue ingurgitato elargiva solo una specifica quantità d'energia e di potere guaritore che si sarebbe presto esaurita, oppure se durava nel tempo, come nel caso dei medicinali a rilascio graduale, o che altro. Dopo aver ricevuto il sangue di
Bill, mi ero sentita splendidamente per un paio di mesi.
Con me non avevo pettine, spazzola o altro, e cercai di
ravviarmi i capelli spaventosamente arruffati con le dita,
peggiorando le cose. Mi lavai faccia e collo, e infine mi
reimmersi nella luce del negozio, notando solo in modo vago
il fatto che anche questa volta la chiusura non era scattata
dietro di me e che l'anta si era appoggiata silenziosamente
allo stipite gonfio. Sbucai dietro l'ultima, lunga corsia, affollata di confezioni di CornNuts e Lays Chips, Moon Pies e
Scotch Snuf, e di Prince Albert in lattina...
Solo allora vidi i due rapinatori armati, fermi vicino alla
pedana del commesso, accanto all'entrata.
Dio Santo, tanto vale dare a questi poveri commessi una
camicia con stampato sopra un grosso bersaglio, fu il mio
primo, distaccato pensiero, quasi guardassi un film sulla ra-
pina in un negozio. Tornai bruscamente al presente e alla
drammaticamente reale tensione che traspariva dal volto del
giovanissimo commesso, un esile e foruncoloso adolescente,
messo di fronte a due tizi grandi e grossi muniti di pistola. Il
ragazzo teneva le mani alzate ed era fuori di sé per la rabbia.
Mi sarei aspettata di trovare nella sua mente paura per la propria vita, o confusione, invece quel ragazzo era semplicemente furibondo.
Lessi in lui che veniva derubato per la quarta volta, la
terza a mano armata. Desiderava la doppietta che teneva sotto il sedile del suo furgone, dietro il negozio, per poter spedire all'inferno quei figli di puttana.
Nessuno si era reso conto della mia presenza. Parevano
ignorare tutti che io mi trovassi lì.
Non che me ne lamentassi, sia ben chiaro.
Con la coda dell'occhio verificai che la porta del bagno
fosse rimasta di nuovo socchiusa, in modo che non mi tradisse facendo rumore nell'aprirsi. La cosa migliore sarebbe stata
sgusciare fuori dalla porta posteriore, se fossi riuscita a trovarla, e aggirare di corsa l'edificio per avvertire Eric di chiamare la polizia.
Un momento... ma dov'era Eric? Perché non era entrato a
pagare la benzina?
Se già non avevo rosee previsioni sul futuro, in quel momento vidi solo il nero più pesto: se Eric non era ancora entrato, voleva dire che non lo avrebbe fatto. Forse perché aveva deciso di andarsene, di abbandonarmi. Là.
Da sola.
Proprio come Bill, fu il pronto suggerimento interiore.
Okay, Mente, grazie per lo squisito pensiero.
Ma forse gli avevano sparato ferendolo al capo... O magari al cuore, e nessuna cura lo avrebbe guarito da una pallottola di grosso calibro.
Stare ferma lì a preoccuparmi non serviva proprio a niente.
Ero nel tipico negozio di un'area di servizio: si entrava
dalla porta principale alla cui destra c'era il commesso, su
una pedana dietro un lungo banco. Le bevande fredde erano
nel banco frigo che occupava la parete di sinistra. Tre lunghe
corsie si stendevano per tutta l'ampiezza del locale, disseminato di espositori, pile di tazze sigillate, sacchi di carbonella
e di mangime per uccelli. Da dove mi trovavo, oltre le merci
potevo vedere il commesso (bene) e i rapinatori (a stento).
Dovevo uscire di lì, preferibilmente senza farmi vedere.
Scorsi una porta scheggiata con la scritta «Riservato al Personale» in fondo alla parete di destra, ma non protetta dal
bancone. Uno spazio vuoto si apriva alla fine della mia corsia e l'avrei dovuto attraversare allo scoperto.
Aspettare non sarebbe servito a nulla.
Mi misi carponi e cominciai a muovermi, lentamente,
sempre tenendo le orecchie ben aperte.
«Hai visto entrare una tipa bionda, una alta più o meno
così?», stava domandando il rapinatore più massiccio. Mi
sentii venire meno.
A quale tipa bionda si riferiva? A me, a Eric o a quella
ossigenata? Non potevo vedere quale statura l'uomo stava indicando. Stavano cercando un vampiro di sesso maschile o
una telepate di sesso femminile? Oppure... be', ricordai a me
stessa, non ero l'unica donna al mondo che si mettesse nei
guai.
«Una donna bionda è entrata qui cinque minuti fa e ha
comprato delle sigarette», rispose il ragazzo, con aria cupa.
«No, quella se ne è andata. Vogliamo l'altra che era con il
vampiro».
Già, si trattava proprio di me.
«Non ho visto nessun'altra donna», ribatté il ragazzo. In
quel momento sollevai lo sguardo e lo scorsi in uno specchio
montato in un angolo del negozio, una misura di sicurezza
antitaccheggio. Allora può vedermi accoccolata qui, pensai.
Sa che ci sono.
Quel ragazzo, che fosse benedetto, stava facendo del suo
meglio per aiutarmi; io dovevo fare del mio meglio per lui.
Se fossimo anche riusciti a evitare che ci sparassero, sarebbe
stato perfetto. Ma dove diavolo era finito Eric?
Benedicendo la tuta e le ballerine prese a prestito perché
attutivano i passi, strisciai con determinazione verso la porta
con la scritta «Riservato al Personale». Avrebbe scricchiolato? I rapinatori stavano ancora parlando con il commesso,
ma esclusi le loro voci dalla mia attenzione per potermi concentrare a raggiungere la porta.
Avevo già avuto paura in passato, molte volte, ma quello
era senza dubbio uno degli eventi più terrorizzanti della mia
vita. Mio padre era stato un cacciatore, come Jason e i suoi
amici, e a Dallas ero stata testimone di un massacro. Sapevo
cosa facessero le pallottole. Intanto, ero arrivata in fondo alla
corsia. Oltre, sarei stata allo scoperto.
Sbirciai dietro l'angolo dell'espositore: dovevo attraversare poco più di un metro di spazio aperto per raggiungere la
parziale protezione offerta dal lungo bancone. Una volta superato quel tratto, mi sarei trovata più in basso e ben nascosta alla vista dei rapinatori.
«Sta arrivando una macchina», avvertì il commesso, e i
due rapinatori si girarono automaticamente a guardare fuori
dalla porta a vetri. Se non avessi saputo a livello telepatico
cosa lui stesse facendo, forse avrei esitato troppo, mentre
così attraversai il tratto di pavimento esposto con una rapidità di cui non mi credevo in grado.
«Non vedo nessuna macchina», osservò quello meno
massiccio.
«Mi era parso di sentir suonare il campanello che si attiva al passaggio delle macchine», spiegò il commesso, mentre
mi allungavo per abbassare la maniglia della porta, che si
aprì senza fare rumore. «A volte suona anche se là fuori non
c'è nessuno», proseguì il ragazzo. Capii che stava cercando
di coprirmi, tenendo concentrata su di sé l'attenzione dei due,
in modo da permettermi di uscire. Di nuovo, invocai su di lui
la benedizione divina.
Spinto un po' di più il battente, sempre acquattata oltrepassai la soglia, approdando in un disimpegno in fondo al
quale c'era un'altra porta, che conduceva presumibilmente al
retro del negozio. La chiave era nella serratura: saggiamente,
tenevano la porta posteriore ben chiusa. Accanto, a una fila
di chiodi piantati nel muro, era appesa una pesante giacca
mimetica: infilata la mano nella tasca destra, tirai fuori le
chiavi del ragazzo... avevo fatto centro al primo tentativo per
pura fortuna, una cosa che a volte capita. Tenendole ben
strette per evitare che tintinnassero, aprii la porta posteriore e
sgusciai fuori.
Là dietro c'erano soltanto un malconcio pick-up e un maleodorante cassonetto dei rifiuti. L'illuminazione era scarsa,
ma almeno presente, e permetteva di vedere che nell'asfalto
crepato crescevano delle erbacce ora secche e scure a causa
dell'inverno. Un piccolo rumore alla mia sinistra mi fece fare
un salto di trenta centimetri... Fu un sollievo capire che si
trattava di un vecchio, grosso procione che si stava allontanando verso il piccolo tratto di boscaglia alle spalle del negozio.
Tremavo fin nel respiro e mi costrinsi a esaminare il
mazzo di chiavi che, purtroppo, erano all'incirca una ventina:
aveva più chiavi quel ragazzo che ghiande uno scoiattolo;
era impossibile che sulla verde terra del Signore qualcuno ne
usasse così tante! Disperata, le passai al vaglio e alla fine ne
scelsi una la cui testa era coperta di gomma nera con impressa la scritta «gm». Con quella aprii la portiera. Allungai la
mano nell'ammuffita cabina di guida, che puzzava di sigaretta e di cani: sì, la doppietta era sotto il sedile. Verificai che
fosse carica. Per mia fortuna Jason era un convinto sostenitore dell'autodifesa e mi aveva mostrato come caricare e usare
il suo nuovo Benelli.
Sebbene adesso fossi armata, il terrrore m'impediva di
aggirare l'edificio per tornare sul davanti. Però dovevo appurare come stessero le cose e che fine avesse fatto Eric. Cauta,
rasentai il muro di fronte a cui era parcheggiato il vecchio
Toyota. Sul suo pianale non c'era niente, a parte una piccola
macchia che rifletteva la scarsa luce presente. Tenendo la
doppietta nel cavo del braccio, sporsi la mano e vi passai sopra un dito: sangue fresco.
Sentendomi improvvisamente vecchia e infreddolita,
m'immobilizzai per un lungo momento, a testa china.
Poi mi feci coraggio e scrutai il finestrino del guidatore:
il furgone non era chiuso a chiave. Ottimo. Senza far rumore,
aprii la portiera ed esaminai l'abitacolo: sul sedile anteriore
era posata una scatola piuttosto grande, scoperchiata. Ne
scrutai l'interno e il mio morale sprofondò sottoterra. Sul lato
esterno c'era scritto «Contenuto: due pezzi», ma adesso restava soltanto una rete di maglia d'argento, del genere venduto sulle riviste "per mercenari" e sempre garantito come "a
prova di vampiro".
Era come definire una gabbia per squali un sicuro deterrente dai morsi di squalo.
Dov'era Eric? Scrutai nelle vicinanze senza trovare tracce
della sua presenza. Si sentivano le macchine in corsa sull'interstatale, ma quel tetro parcheggio era del tutto silenzioso.
Intravidi un coltello tascabile posato sul cruscotto. Evviva! Appoggiata con cautela la doppietta sul sedile anteriore,
raccolsi il coltello, lo aprii e lo impugnai per affondarlo in
uno pneumatico. Ci ripensai: una ruota squarciata avrebbe
provato che qualcuno era passato dal veicolo mentre loro
erano nel negozio, e poteva essere controproducente. Allora
mi accontentai di fare un singolo, insignificante buchino, che
avrebbe potuto essere stato causato da qualsiasi cosa, però li
avrebbe comunque costretti a fermarsi prima o poi. Mi misi
in tasca il coltello (ultimamente stavo sviluppando una certa
tendenza al furto...) e tornai a nascondermi nell'oscurità che
circondava l'edificio. Sebbene non ci avessi messo molto,
erano passati parecchi minuti dall'ultima volta che avevo verificato la situazione nel negozio.
La Lincoln era ancora parcheggiata accanto al distributore, con lo sportellino della benzina chiuso: Eric aveva finito
il rifornimento prima che gli succedesse qualcosa. Tenendomi rasente all'edificio, oltrepassai l'angolo e trovai una buona
copertura sul davanti, nella nicchia formata tra la macchina
del ghiaccio e la facciata. A quel punto, mi arrischiai ad alzarmi per il tempo sufficiente a sbirciare da sopra la macchina del ghiaccio.
I rapinatori erano saliti sulla pedana su cui si trovava il
commesso per picchiarlo.
Ehi, dovevano essere fermati! Immaginavo che lo stessero pestando perché dicesse dov'ero nascosta, ma non potevo
permettere che qualcun altro venisse percosso a causa mia.
«Sookie», disse una voce, proprio dietro di me.
Subito una mano mi chiuse la bocca impedendomi di urlare.
«Scusami», sussurrò Eric. «Avrei dovuto escogitare un
modo migliore per avvertirti che ero qui».
Ripresa dallo spavento, mi liberò. «Eric», dissi, «dobbiamo salvarlo».
«Perché?».
A volte, i vampiri riescono a sconcertarmi. Di solito capitava con le persone, ma quella notte avvenne per un vampiro.
«Perché lo stanno picchiando a causa nostra e probabilmente lo uccideranno, e sarà colpa nostra!».
«Stanno rapinando il negozio», mi fece notare Eric, come
parlasse a un'ottusa. «Avevano una rete per vampiri nuova di
zecca e hanno pensato di usarla su di me, ma ancora non sanno che non ha funzionato. Sono soltanto degli sporchi opportunisti».
«Stanno cercando noi», ribattei furente.
«Dimmi tutto», sussurrò lui e, quando lo ebbi fatto, ordinò: «Dammi la doppietta».
«Sai come usare uno di questi arnesi?», replicai, mantenendo saldamente la presa sull'arma.
«Probabilmente, lo so usare bene quanto te», dichiarò lui,
ma la guardò con aria dubbiosa.
«Ed è qui che ti sbagli», affermai. Mentre il mio nuovo
eroe se la vedeva con questa nuova ferita interiore, invece di
prolungare la discussione corsi acquattata aggirando la macchina del ghiaccio e il distributore di gas propano, fino a varcare l'ingresso del negozio. Il campanellino collegato trillò
all'impazzata, però i due uomini stavano gridando tanto che
mi prestarono attenzione solo quando sparai un colpo verso
il soffitto, sopra le loro teste, facendo rovinare giù una pioggia di piastrelle, polvere e materiale isolante.
Il rinculo per poco non mi gettò a terra, ma rimasi in
equilibrio e puntai la doppietta contro di loro. Ora i due erano immobili e per un momento mi parve di giocare ancora
alle Belle Statuine, come quando ero piccola. Purtroppo il
povero commesso foruncoloso aveva la faccia sporca di sangue. Ero certa che avesse il naso fratturato e qualche dente
allentato.
Un'ira rovente divampò nei miei occhi. «Lasciate andare
quel ragazzo», scandii.
«Altrimenti ci sparerai, signorinella?».
«Ci puoi scommettere», ribattei.
«E se dovesse mancare il bersaglio, ci penserò io», tuonò
Eric, alle mie spalle. Un grosso vampiro costituisce sempre
un eccellente supporto.
«Il vampiro si è liberato, Sonny», osservò quello piuttosto smilzo, che aveva le mani sporche e gli stivali unti.
«Lo vedo», ribatté il massiccio Sonny, dai capelli più
scuri. La testa dell'altro era coperta da quel genere di capelli
di colore imprecisato che la gente chiama "castani" per mancanza di un'altra definizione.
Riscuotendosi dal suo stato di sofferenza e di paura, il
giovane commesso aggirò il bancone muovendosi più in fretta che poteva. Sul suo volto, la fine polvere bianca causata
dal mio sparo contro il soffitto si era impastata con il sangue,
conferendogli un aspetto assurdo.
«Vedo che hai trovato la mia doppietta», commentò nel
passarmi vicino, attento a non interporsi fra me e i cattivi.
Tirò fuori di tasca un cellulare e udii una serie di fievoli segnali acustici mentre componeva un numero. Poi la sua voce
rabbiosa riferì l'accaduto alla polizia.
«Sookie, prima che arrivino i poliziotti, dobbiamo scoprire chi ha mandato qui questi due imbecilli», disse Eric. Se
fossi stata al posto loro, sarei stata terrorizzata dal suo tono.
A giudicare dalle facce, parevano però consapevoli di quello
che poteva fare un vampiro infuriato.
Eric mi aveva affiancato e finalmente potei vederlo bene:
il suo volto era coperto da un intreccio di ustioni simili alle
piaghe gonfie e rosse prodotte dal contatto con l'edera velenosa. Era stata una fortuna per lui che solo il viso fosse esposto, ma dubitavo che si sentisse fortunato.
«Vieni qui», ordinò, catturando con lo sguardo quello di
Sonny, che subito scese dalla piattaforma e aggirò il bancone.
«Fermo dove sei», gli ingiunse Eric. Il suo compagno castano serrò gli occhi per non guardarlo, ma poi dischiuse le
palpebre quando sentì Eric avvicinarsi di un passo. Fu sufficiente: se non si possiedono talenti particolari, non si deve
fissare un vampiro negli occhi, perché se lo decide lui può
ammaliarti.
«Chi vi ha mandati qui?», chiese Eric, in tono pacato.
«Uno dei Mastini Infernali», rispose Sonny, con voce priva di inflessioni.
Eric parve perplesso. «Un membro della banda di motociclisti», spiegai, soppesando le parole perché ero consapevole della presenza di uno spettatore umano che ci stava
ascoltando con estrema curiosità. Attraverso il cervello dei
due, ricevevo intanto una versione molto più estesa delle loro
risposte.
«Che cosa vi ha detto di fare?».
«Dovevamo aspettare lungo l'interstatale. Ci sono altri in
attesa in ogni area di servizio».
Avevano messo insieme una quarantina di bravacci, anticipando una somma elevata.
«Cosa dovevate cercare?».
«Un tizio grosso e bruno e uno alto e biondo, insieme a
una donna bionda, molto giovane e con delle belle tette».
Eric mosse la mano troppo velocemente perché potessi
seguire il gesto, ma poi il sangue colò sulla faccia di Sonny.
«Mostra più rispetto quando parli della mia futura amante», ingiunse Eric. «Perché ci stavate cercando?».
«Dovevamo catturarvi e riportarvi a Jackson».
«Perché?».
«La banda sospetta che avete avuto qualcosa a che fare
con la scomparsa di Jerry Falcon, e vuole farvi delle domande. Hanno incaricato qualcuno di sorvegliare un certo appartamento e vi hanno visti andare via con la Lincoln e poi seguito per parte della strada. Il tizio bruno non era con voi, ma
la donna era quella giusta, quindi abbiamo cominciato a seguirvi».
«I vampiri di Jackson sono a conoscenza del piano?».
«No, la banda ha ritenuto che fosse un suo problema interno, e poi i vampiri hanno un mucchio di altri problemi,
come la fuga di un prigioniero e così via, e hanno un sacco di
gente che sta dando i numeri. Quindi, fra una cosa e l'altra,
hanno reclutato alcuni di noi per dare una mano».
«Cosa sono questi uomini?», domandò Eric, rivolto ora a
me.
Chiusi gli occhi e riflettei attentamente. «Niente, non
sono niente», risposi infine. Non erano mutaforme, mannari
o altro. Secondo il mio modo di vedere, erano a stento classificabili perfino come esseri umani, ma non ero certo diventata Dio per dare giudizi del genere.
«Dobbiamo andar via di qui», disse Eric con mia grande
gioia. L'ultima cosa che volevo era trascorrere la notte alla
stazione di polizia, e comunque per Eric sarebbe stato impossibile, perché il posto più vicino in cui ci fosse una cella per
vampiri a norma di legge era Shreveport. Che diamine, il
commissariato di Bon Temps aveva a stento, e da poco, inserito una rampa di accesso per i disabili.
«Noi non siamo mai stati qui, questa signora e io», ordinò Eric fissando Sonny negli occhi.
«C'era soltanto il ragazzo», assentì lui.
Di nuovo, l'altro rapinatore cercò di tenere gli occhi serrati, ma Eric gli soffiò sulla faccia e lui socchiuse istintivamente le palpebre, come avrebbe fatto un cane. Per un istante
oppose resistenza, ma Eric riuscì a dominarlo e ripetè la procedura.
Alla fine si girò verso il ragazzo e gli consegnò la doppietta. «Credo che questa sia tua», gli disse.
«Grazie», rispose il commesso, tenendo lo sguardo fisso
sulla canna dell'arma, che puntò in direzione dei rapinatori
mentre aggiungeva in tono rabbioso, lo sguardo sempre fisso
davanti a sé: «Voi non siete mai stati qui e io non dirò niente
alla polizia».
Eric mise quaranta dollari sul bancone. «Per la benzina»,
spiegò. «Sookie, diamoci una mossa».
«Una Lincoln con un grosso buco nel bagagliaio dà alquanto nell'occhio», ci gridò dietro il ragazzo.
«Ha ragione», commentai, mentre mi allacciavo la cintura. Eric stava accelerando perché le sirene della polizia erano
sempre più vicine.
«Avrei dovuto prendere il furgone», disse Eric, che pareva alquanto soddisfatto della nostra avventura, adesso che si
era conclusa.
«Come va la tua faccia?», domandai.
«Meglio».
In effetti, le ustioni non erano più così evidenti.
«Che è successo?», chiesi, sperando che per lui non fosse
un argomento scottante.
Mi guardò con la coda dell'occhio. Avendo imboccato
l'interstatale, rallentò per rientrare nei limiti di velocità, per
non dare ai numerosi poliziotti che stavano convergendo sull'area di servizio l'impressione che fossimo in fuga.
«Mentre ti dedicavi alle tue necessità umane nella toilette», rispose, «io ho finito di fare il pieno. Avevo riappeso l'erogatore ed ero quasi alla porta del negozio quando quei due
sono usciti dal furgone e mi hanno buttato addosso una rete.
Il fatto che due idioti con una rete d'argento siano riusciti a
sorprendermi è stato molto umiliante».
«Dovevi avere la testa altrove».
«Sì, era così», annuì secco.
«Poi cos'è successo?», insistetti, quando parve che non
intendesse aggiungere altro.
«Quello più massiccio mi ha colpito con il calcio della
pistola e mi ci è voluto un po' di tempo per riprendermi».
«Ho visto il sangue».
«Sì, ho sanguinato», confermò lui, tastandosi un punto
della nuca. «Dopo essermi ripreso, ho incastrato un bordo
della rete intorno a un paraurti del loro furgone e sono riuscito a districarmi rotolandone fuori. Se avessero chiuso il fondo della rete con catene d'argento, le cose sarebbero potute
andare diversamente».
«Quindi ti sei liberato?».
«Il colpo alla testa si rivelato più forte di quanto avessi
pensato inizialmente», confessò, rigido. «Sono corso sul retro del negozio, al rubinetto dell'acqua che è lì in fondo, poi
ho sentito qualcuno uscire dal retro. Non appena ho ritrovato
la lucidità, ho seguito i rumori e ti ho trovata». Seguì una
pausa di silenzio, prima che mi chiedesse cos'era successo
nel negozio.
«Mi avevano confusa con quell'altra donna che è entrata
nel negozio mentre io stavo andando in bagno», spiegai.
«Non sembravano sicuri di trovarmi e il commesso gli ha
raccontato che c'era stata soltanto una donna, e che se n'era
andata. Ho scoperto che il ragazzo aveva una doppietta nel
suo furgone - lo sai, l'ho sentito nella sua testa - perciò sono
andata a prenderla e ho messo fuori uso il furgone dei due.
Intanto ti cercavo perché avevo immaginato che ti fosse successo qualcosa».
«Quindi avevi intenzione di salvare sia me che il commesso?».
«Ecco... sì», confermai. «Non mi pareva di avere molte
alternative».
Ormai le ustioni erano ridotte a tenui linee rosa.
Scese un silenzio ancora teso. Mancavano ancora quaranta minuti per arrivare a casa. Cercai di lasciar cadere l'argomento, ma non ci riuscii.
«Sembri contrariato per qualcosa», osservai, con una certa durezza nella voce perché stavano cominciando a saltarmi
i nervi. Sapevo che stavo portando la conversazione nella di-
rezione sbagliata e che avrei dovuto semplicemente accontentarmi di quel silenzio, per quanto teso e cupo.
Eric imboccò l'uscita di Bon Temps e svoltò verso sud.
A volte, invece di imboccare una strada meno usata, si
tende a lanciarsi alla carica lungo quella più battuta.
«Ci sarebbe stato qualcosa di sbagliato nel fatto che io vi
avessi salvati?», persistetti. Adesso stavamo attraversando
Bon Temps ed Eric svoltò a sinistra dopo che gli edifici lungo la Main Street si furono diradati fino a sparire del tutto.
Oltrepassammo Merlotte's, che era ancora aperto, poi svoltammo di nuovo a sud, sulla stradina vicinale, e di lì a poco
ci trovammo a sobbalzare lungo il mio vialetto di accesso.
Eric parcheggiò e spense il motore. «Sì, in questo c'è
qualcosa di sbagliato», dichiarò. «E perché diavolo non fai
sistemare quel vialetto?».
La tensione, che era andata crescendo fra noi due come
un filo troppo teso, scoppiò. Scesi dalla macchina in un
istante e lui fece altrettanto. Ci sporgemmo sopra il tettuccio
della Lincoln, ma non ero abbastanza visibile. Aggirai l'auto
a passo di carica e mi parai davanti a lui.
«Perché non me lo posso permettere, ecco perché! Non
ho abbastanza denaro! E tu continui a chiedermi di sottrarre
del tempo al mio lavoro per fare delle cose per te! Non posso
più farlo, lo capisci?», urlai. «Per me la faccenda è chiusa!».
Seguì un lungo momento di silenzio, durante il quale
Eric si limitò a fissarmi. Avevo il respiro affannoso, il petto
ansimava sotto la giacca rubata e qualcosa non mi tornava
nell'aspetto della mia casa, ma ero troppo su di giri per soffermarmi a esaminare i miei turbamenti.
«Bill...», cominciò Eric, con fare cauto, e fu come se
avesse dato fuoco alle mie polveri.
«Sta spendendo tutto il suo denaro per quegli sballati
Bellefleur», ribattei ora con voce sottile e velenosa, ma non
per questo insincera. «Non pensa mai a dare a me del denaro,
e comunque, come potrei accettarlo? Mi trasformerebbe in
una mantenuta e io non sono la sua concubina, sono... ero la
sua ragazza».
Respirai a fondo, controllando un singhiozzo, oppressa
dalla consapevolezza che ero lì lì per piangere. Meglio infuriarmi di nuovo. Mi ci misi d'impegno: «E poi, da dove ti è
venuta fuori l'idea di dire a quei due che sono la tua... la tua
amante? Da dove è saltata fuori questa novità?».
«Che ne è stato del denaro che hai guadagnato a
Dallas?», domandò Eric, cogliendomi alla sprovvista.
«L'ho usato per pagare le tasse sulla mia proprietà».
«Non ti è mai venuto in mente che se mi avessi detto
dove Bill sta nascondendo il suo database, io ti avrei dato
qualsiasi cosa mi avessi chiesto? Non ti sei resa conto che
Russell ti avrebbe strapagato?».
Trattenni il respiro, talmente offesa da non sapere neppure da dove cominciare a ribattere.
«Vedo che non ci hai proprio pensato».
«Oh, certo, sono un vero angelo», commentai sarcastica.
Però era vero che ci non avevo pensato e questo mi stava
mettendo quasi sulla difensiva. Adesso stavo tremando per
l'ira e buttai alle ortiche tutto il mio buon senso. Avvertivo la
presenza di altre menti nelle vicinanze, e che dentro casa mia
ci fosse qualcuno servì solo a farmi imbufalire, mentre la
mia parte razionale avvizziva soffocata dalla collera.
«Dentro casa mia c'è qualcuno in attesa, Eric». Girai i
tacchi e salii sul portico. Trovai le chiavi che avevo nascosto
sotto la sedia a dondolo preferita da mia nonna. Ignorando
tutto quello che il mio cervello stava cercando di dirmi, ignorando l'urlo belluino di Eric, aprii la porta principale e fui investita da una tonnellata di mattoni.
Capitolo quattordicesimo
«L'abbiamo presa», disse una voce che non riconobbi.
Ero stata issata in piedi e barcollavo fra i due uomini che mi
sorreggevano.
«Che ne è stato del vampiro?».
«Gli ho sparato due volte, ma è scappato. E' nel bosco».
«Non ci voleva... Facciamo in fretta».
Percepivo la presenza di altri uomini nella stanza. Alla
fine aprii gli occhi: avevano acceso le luci ed era casa mia...
La nausea riaffiorò come se fossi stata colpita da un nuovo
pugno alla mascella. Non so perché, ma avevo supposto che i
miei visitatori fossero degli amici, come Sam, Arlene o Jason.
Invece c'erano cinque sconosciuti nel mio salotto, sempre
che avessi la mente abbastanza lucida da contare in modo
esatto. Prima però che potessi formulare qualsiasi altro pensiero, uno di loro, e mi resi conto solo in quel momento che
indossava una giacca familiare, mi sferrò un pugno nello stomaco.
Non mi rimase abbastanza fiato per urlare.
I due che mi sorreggevano ai lati mi costrinsero a raddrizzarmi.
«Lui dov'è?».
«Chi?», chiesi confusa: a quel punto non ero più in grado
di ricordare quale particolare persona scomparsa volevano
che li aiutassi a rintracciare. Naturalmente, il risultato fu che
lui mi colpì ancora e seguì uno spaventoso minuto in cui mi
venne da vomitare e si bloccò il respiro. Mi sentivo strozzare
e soffocare insieme.
Alla fine feci un lungo respiro... doloroso, rumoroso, ma
celestiale.
Chi mi stava interrogando, un mannaro dai capelli chiari
tagliati cortissimi e un brutto pizzetto, mi schiaffeggiò a
mano aperta e la testa oscillò sul collo come una macchina
con gli ammortizzatori difettosi. «Dov'è il vampiro, troia?»,
domandò e trasse indietro il pugno per colpirmi ancora.
Non avrei retto ancora per molto, quindi tanto valeva accelerare le cose. Sollevai di scatto le gambe e, mentre i due
mi serravano disperatamente le braccia, sferrai al mannaro
che avevo davanti un calcio a piedi uniti. Il colpo sarebbe
stato probabilmente più efficace se non avessi avuto indosso
le ballerine; chissà perché, non indosso mai degli stivali pesanti quando mi servono. Pizzetto Brutto barcollò comunque
all'indietro, poi tornò verso di me con una luce omicida negli
occhi.
Nel frattempo, lasciai che le mie gambe, nel loro movimento, proseguissero all'indietro, sbilanciando i due che mi
trattenevano. Barcollarono, cercarono di raddrizzarsi, ma i
loro frenetici sforzi risultarono vani e crollammo al suolo
tutti quanti, compreso Mister Pizzetto.
Forse non era il massimo, ma sempre meglio di stare ad
aspettare le botte.
Ero atterrata prona, sbattendo la faccia perché non potevo usare le braccia e le mani, però uno dei due aveva perso la
presa. Mi puntellai sulla mano libera, strattonando fino a liberarmi anche dall'altro.
Ero quasi di nuovo in piedi quando il mannaro, che aveva riflessi più rapidi degli umani, riuscì ad afferrarmi per i
capelli. Se li avvolse intorno alla mano per avere una presa
più salda, mentre mi assestava uno schiaffo. Gli altri bravacci avanzarono, non so se per aiutare i compagni a rialzarsi o
solo per assistere al mio pestaggio.
Una vera lotta finisce in pochi minuti, perché le persone
coinvolte si stancano in fretta. Era stata una giornata molto
lunga e in realtà ero pronta a cedere di fronte a forze tanto
prevaricanti, ma per quel po' di orgoglio che avevo mi scagliai contro l'avversario più vicino, un umano scuro dai capelli sporchi e unti, grasso come un maiale. Cercando di fargli più male possibile, finché ne ero in grado, affondai le unghie nella sua faccia.
Il mannaro mi assestò una ginocchiata allo stomaco,
strappandomi un urlo, e il Maialone prese a strillare agli altri
di staccarmi da lui. In quel momento la porta si aprì con uno
schianto ed entrò Eric, che aveva il petto e una gamba insanguinati, seguito a ruota da Bill.
I due vampiri persero ogni controllo e io vidi con i miei
occhi cosa fossero effettivamente in grado di fare.
Dopo un momento, mi resi conto che il mio aiuto non sarebbe stato necessario e decisi che la Divinità delle Ragazze
Veramente Toste mi avrebbe giustificato se avessi chiuso gli
occhi.
Bastarono due minuti perché tutti gli uomini presenti nel
mio salotto fossero morti.
«Sookie? Sookie?», mi chiamava Eric con voce rauca.
«Dobbiamo portarla all'ospedale?», chiese rivolto a Bill.
Sentii delle dita fredde che mi controllavano le pulsazioni sul collo e fui quasi sul punto di spiegare che, per una volta, non ero svenuta, ma parlare era troppo faticoso e trovavo
il pavimento tanto accogliente...
«Il suo battito è forte», riferì Bill. «Adesso la giro».
«E' viva?».
«Sì».
«Quel sangue è suo?», chiese ancora la voce di Eric, d'un
tratto più vicina.
«Sì, in parte»,
«Il suo è diverso», dichiarò Eric, con un profondo, tremante respiro.
«Sì», convenne freddamente Bill, «ma a questo punto dovresti essere sazio».
«Era da tanto che non bevevo sangue vero così in abbondanza», replicò Eric, proprio nello stesso modo in cui mio
fratello Jason avrebbe detto che era da tanto che non mangiava una torta.
«Anch'io», rispose Bill, insinuando le mani sotto di me.
«Adesso dovremo portarli tutti fuori nel prato e ripulire la
casa di Sookie», aggiunse in tono distratto.
«Naturalmente».
Bill mi rivoltò supina e io non potei non piangere. Per
quanto volessi essere forte, ero preda del mio corpo e, se mai
siete stati pestati, sapete cosa intendo. Quando si viene percossi sul serio, ci si rende conto di essere soltanto un involucro di pelle, facilmente penetrabile, che tiene insieme moltissimi fluidi e alcune strutture rigide, a loro volta facili da
frantumare e invadere. Avevo creduto di essere stata conciata
veramente male a Dallas, alcune settimane prima, ma adesso
stavo molto peggio. Sapevo che questo non voleva dire che
le mie condizioni fossero peggiori, dato che avevo riportato
soprattutto danni ai tessuti molli, mentre a Dallas mi ero fratturata lo zigomo e slogata un ginocchio. Forse però il ginocchio era stato compromesso e magari uno schiaffo mi aveva
rotto di nuovo lo zigomo. Aprii gli occhi, battei le palpebre e
tornai a sollevarle. Dopo alcuni secondi, la vista mi si schiarì.
«Sei in grado di parlare?», domandò Eric, dopo un lunghissimo momento. Ci provai, ma avevo la bocca talmente
secca che non ci riuscii.
«Ha bisogno di bere», disse Bill e andò in cucina, zigzagando fra gli sbarramenti sparsi lungo il tragitto.
Eric mi accarezzò i capelli, spingendoli all'indietro. Ricordai che gli avevano sparato e avrei voluto chiedergli come
stava, ma non ce la facevo. Era seduto per terra accanto a
me, con la faccia sporca di sangue e più rosea di come l'avessi mai vista, il ritratto della salute. Quando Bill tornò con il
bicchier d'acqua, provvisto perfino di cannuccia, lo guardai
in volto: sembrava addirittura abbronzato.
Sollevandomi con cautela, Bill mi insinuò la cannuccia
fra le labbra e, mentre la risucchiavo, decisi che quell'acqua
era la cosa migliore che avessi mai assaggiato.
«Li avete uccisi tutti», dissi infine, con voce incrinata.
Eric annuì.
Ripensai al cerchio di facce brutali che mi aveva circondata, al mannaro mentre mi schiaffeggiava.
«Bene», commentai. Per un istante, Eric parve leggermente divertito. Bill fu impenetrabile.
«Quanti erano?», chiesi.
Eric si guardò intorno in modo vago e Bill effettuò un rapido calcolo a mente.
«Sette?», ipotizzò infine, dubbioso. «Due in cortile e cinque in casa?».
«Mi pareva che fossero otto», mormorò Eric.
«Perché ti hanno attaccata così?».
«Jerry Falcon».
«Oh», commentò Bill, con una nota diversa nella voce.
«Sì, l'ho incontrato nella stanza delle torture. E' in cima alla
mia lista».
«Bene, allora lo puoi cancellare», replicò Eric. «Alcide e
Sookie si sono liberati del suo cadavere ieri, nei boschi».
«E' stato questo Alcide a ucciderlo?», domandò Bill; poi,
ripensandoci, mi guardò e aggiunse: «Oppure Sookie?».
«Lui dice che non sono stati loro. Hanno trovato il cadavere nel ripostiglio dell'appartamento di Alcide e hanno elaborato un piano per liberarsene», spiegò Eric, dando l'impressione di pensare che avevamo agito astutamente.
«La mia Sookie ha nascosto un cadavere?».
«Non credo che tu possa essere tanto sicuro di quel pronome possessivo», osservò Eric.
«Dove hai imparato quel termine, Northman?».
«Negli anni Settanta ho seguito un corso universitario serale di Inglese Come Seconda Lingua».
«Lei è mia», dichiarò Bill.
Mi chiesi se le mie mani fossero in grado di muoversi e,
poiché la risposta era sì, le sollevai entrambe in un gesto inconfondibile che prevedeva l'uso di un singolo dito.
«Sookie!», esclamò Bill, in tono di sconvolto rimprovero, mentre Eric scoppiava a ridere.
«Credo che Sookie ci stia dicendo che appartiene soltanto a se stessa», spiegò Eric piano. «Nel frattempo, per chiudere il discorso, chi ha ficcato quel cadavere nel ripostiglio
voleva far ricadere la colpa dell'omicidio su Alcide, dato che
Jerry Falcon ci aveva brutalmente provato con Sookie al bar,
la sera precedente, e Alcide se ne era risentito».
«Quindi tutta questa macchinazione potrebbe essere diretta contro Alcide, e non contro di noi?».
«Difficile a dirsi. Evidentemente, stando a quanto ci hanno detto quei banditi armati, all'area di servizio, il rimanente
della banda ha chiamato in rinforzo dei delinquenti che conosceva e li ha piazzati lungo l'interstatale per intercettarci
sulla via del ritorno. Se si fossero limitati ad aspettarci qui,
adesso non sarebbero in galera per rapina a mano armata,
dove sono certo che siano finiti».
«Ma come hanno fatto ad arrivare qui? Come facevano a
sapere chi fosse Sookie, dove vivesse?».
«Al Club dei Morti ha usato il suo vero nome. Non conoscevano il nome della tua ragazza umana, Bill. Le sei stato
fedele».
«Non lo ero stato in altri modi», ammise Bill cupamente.
«Ho pensato che era il minimo che potevo fare per lei».
Questo era l'uomo di cui mi ero innamorata, ma anche
quello che stava parlando come se io non fossi stata presente.
Soprattutto, era l'uomo che aveva avuto un'altra
"innamorata", per la quale era stato pronto a piantarmi in
asso.
«Quindi i mannari potevano non sapere che era la tua ragazza. Però sapevano che era ospite di Alcide quando Jerry è
scomparso. E che Jerry poteva avergli fatto una visitina. Alcide afferma che il capobranco di Jackson gli aveva detto di
tenersi lontano per un po', ma che era convinto della sua innocenza».
«Questo Alcide... pareva avere una relazione piuttosto
burrascosa con la sua ragazza».
«Lei è fidanzata con un altro, ma crede che lui si sia messo con Sookie».
«E lo ha fatto? Ha avuto il fegato di dire a quella virago
di nome Debbie che Sookie è brava a letto».
«Voleva solo farla ingelosire. Non ha dormito con Sookie».
«Ma lei gli piace». Detto da Bill, sembrava un delitto da
pena capitale.
«Non piace a tutti?».
Sforzandomi, intervenni: «Avete appena ucciso un gruppo di tizi a cui non parevo piacere affatto». Ero stufa di sentirli parlare come se non fossi stata lì, per quanto la conversazione potesse essere illuminante. Mi sentivo veramente
male e il mio salotto era pieno di cadaveri. Volevo solo che si
ponesse rimedio a entrambe queste situazioni.
«Bill, come sei arrivato qui?», mormorai con voce rauca.
«Con la mia macchina. Ho stretto un accordo con Russell, perché non volevo passare il resto della mia esistenza a
guardarmi le spalle. Russell era furibondo quando gli ho telefonato, perché non solo io ero scappato e Lorena svanita, ma
in più i suoi mannari gli avevano disobbedito, mettendo così
a rischio i rapporti di affari che ha con Alcide e suo padre».
«Con chi ce l'aveva maggiormente Russell?», domandò
Eric.
«Con Lorena, per avermi lasciato scappare».
Risero di gusto prima che Bill proseguisse la sua storia.
Quei vampiri... una risata al minuto.
«Russell ha acconsentito a restituirmi la macchina e a lasciarmi in pace se gli avessi detto come avevo fatto a fuggire: doveva conoscere il buco da cui ero sgusciato via, per
tapparlo. Infine mi ha chiesto di presentare da parte sua una
richiesta di poter condividere l'elenco dei vampiri».
Se Russell l'avesse fatto subito, ci saremmo risparmiati
tutti un sacco di sofferenze. D'altro canto, Lorena sarebbe
stata ancora viva, e così pure i farabutti che mi avevano picchiata. Forse perfino Jerry Falcon, la cui morte continuava a
essere un mistero.
«Poi vi sono corso dietro a tavoletta sull'autostrada, per
avvertirvi che i mannari e i loro sicari vi stavano inseguendo
e che vi avevano preceduti per aspettarvi. Usando il computer, avevano scoperto che la ragazza di Alcide, Sookie Stackhouse, abitava a Bon Temps».
«Questi computer sono cose pericolose», commentò Eric.
Aveva la voce stanca e mi fece ricordare il sangue che avevo
visto sui suoi vestiti. Gli avevano sparato due volte, solo perché si era trovato con me.
«La faccia le si sta gonfiando», osservò Bill, in tono insieme dolce e infuriato.
«Eric... okay?», chiesi stancamente, pensando che potevo
saltare qualche parola, se riuscivo lo stesso a farmi capire.
«Guarirò», mi rispose come da una grande distanza, «soprattutto dopo tutto quel buon...».
Ma mi addormentai, o svenni, o forse fu un insieme delle
due cose.
C'era il sole. Era passato così tanto tempo dall'ultima volta che avevo visto il sole che avevo quasi dimenticato quanto
fosse bello.
Ero nel mio letto, indossavo la mia morbida camicia da
notte di nylon blu ed ero avvolta nelle coperte come una
mummia. E avevo un bisogno davvero molto urgente di alzarmi per andare in bagno. Nonostante capissi quanto fosse
effettivamente doloroso camminare, dovetti per forza lasciare il letto.
A passi minuscoli affrontai il pavimento, che mi appariva
d'un tratto vasto e vuoto come un deserto, conquistando un
doloroso centimetro per volta. Le unghie dei piedi avevano
ancora lo smalto color bronzo, come quelle delle mani, e nel
mio viaggio ebbi tempo in abbondanza per contemplarle.
Grazie a Dio, avevo il bagno in casa. Se fosse stato all'esterno nel cortile, come quando mia nonna era bambina, credo che mi sarei arresa.
Una volta liberatami e dopo aver indossato una morbida
vestaglia azzurra, mi trascinai per il corridoio un centimetro
dopo l'altro, fino ad arrivare in salotto, dove esaminai il pavimento. Nel tragitto, avevo notato che fuori splendeva un sole
intenso e che il cielo era di un azzurro profondo. Secondo il
termometro che Jason mi aveva regalato per il compleanno, e
che aveva montato sullo stipite della finestra, in modo che
potessi leggerlo dall'interno, c'erano cinque gradi e mezzo.
Il salotto aveva un bell'aspetto. Non sapevo per quanto
tempo la mia squadra delle pulizie composta da vampiri ci
avesse lavorato la notte precedente, ma in giro non c'erano
pezzi di corpi, il legno del pavimento brillava e il mobilio
appariva perfettamente pulito. Il vecchio tappeto era sparito,
ma la cosa non mi importava, perché non si trattava di un
meraviglioso cimelio di famiglia, soltanto di un grazioso tappetino che la nonna aveva comprato per trentacinque dollari
a un mercatino delle pulci. Perché ricordavo quel
particolare? Non aveva importanza, mia nonna era morta.
Avvertii avvicinarsi il rischio di scoppiare in pianto e mi
costrinsi a cacciare indietro le lacrime, perché non intendevo
ricadere nell'autocompatimento. Adesso la mia reazione all'infedeltà di Bill mi sembrava affievolita e remota. Ero diventata più fredda, o forse la mia scorza protettiva si era inspessita. In ogni caso, con mia sorpresa, non mi sentivo più
infuriata con lui. Era stato torturato dalla donna... insomma,
dalla vampira da cui aveva creduto essere amato. E la cosa
peggiore era che lei lo aveva torturato per ottenere un vantaggio economico.
Con mio inorridito stupore, mi trovai a rivivere il momento in cui il paletto si era conficcato tra le sue costole, avvertendo il movimento che il legno aveva fatto nell'attraversare il suo corpo.
Riuscii a raggiungere di nuovo il bagno del corridoio appena in tempo.
D'accordo, avevo ucciso qualcuno.
Una volta avevo ferito qualcuno che stava cercando di
uccidermi, ma la cosa non mi aveva mai turbata più di tanto,
a parte qualche raro sogno. Invece l'orrore di aver trafitto con
quel paletto la vampira Lorena mi faceva star male. D'altronde, lei mi avrebbe ucciso in un batter d'occhio, senza farsene
un problema morale. Anzi, probabilmente ci avrebbe riso sopra.
Forse, era proprio questo che mi aveva sconvolta così
tanto: ero certa che dopo aver conficcato il paletto avevo
avuto un momento, un secondo, un istante, in cui avevo pensato: Eccoti servita, troia, e ne avevo provato puro piacere.
Un paio d'ore più tardi, avevo appurato che era primo pomeriggio e che era lunedì. Chiamai Jason sul cellulare e lui
passò per consegnarmi la posta. Quando aprii la porta, restò
a fissarmi un lungo minuto squadrandomi da capo a piedi.
«Se è stato lui a farti questo, vado subito a casa sua con
una torcia e un manico di scopa appuntito».
«No, non è stato lui».
«Cosa è successo ai responsabili?».
«Meglio che tu non lo sappia».
«Almeno qualcosa di giusto lo fa».
«Non intendo più vederlo».
«Oh-oh. Questo l'ho già sentito».
«Almeno per un po'», ribadii fermamente, pur non potendo dargli torto.
«Sam ha detto che eri partita con Alcide Herveaux».
«Sam non avrebbe dovuto dirtelo».
«Maledizione, devo sapere con chi vai in giro».
«Era un viaggio di affari», spiegai, cercando di aggiungere un piccolo sorriso.
«Ti sei data ai rilevamenti?».
«Conosci Alcide?».
«Chi non lo conosce, almeno di nome? Gli Hervaux sono
noti. Gente tosta, una buona impresa. E ricchi».
«Lui è carino».
«Lo rivedrai, per caso? Mi piacerebbe incontrarlo. Non
voglio passare tutta la vita a fare l'addetto ai lavori stradali
per il comune».
Ecco una novità.
«La prossima volta che lo vedo, ti chiamerò. Non so se e
quando passerà di qui, ma se capitasse, ti avvertirò».
«Bene», annuì Jason, poi si guardò intorno e chiese:
«Cosa è successo al tappeto?».
Solo allora notai una macchia di sangue sul divano, più o
meno nel punto in cui Eric si era appoggiato, e mi misi a sedere in modo da nasconderla con le gambe. «Il tappeto?», risposi. «Ci ho versato sopra della salsa di pomodoro, mangiando spaghetti mentre guardavo la tele».
«Quindi lo hai portato a far pulire?».
Non sapevo cosa rispondere, perché non sapevo che fine
gli avessero fatto fare i vampiri. Magari lo avevano bruciato.
«Sì», dissi esitando, «ma hanno detto che potrebbero non
riuscire a togliere la macchia».
«Bella, la nuova ghiaia sul vialetto».
«Cosa?», esclamai, fissandolo a bocca aperta per la sorpresa.
«La ghiaia nuova», ribadì Jason, guardandomi come se
fossi stata scema. «Sul vialetto. Hanno fatto davvero un buon
lavoro nel livellare il fondo stradale. Non c'è più neppure una
buca».
Completamente dimentica della macchia di sangue, arrancai dal divano alla finestra anteriore per sbirciare fuori,
questa volta ben intenta a guardare.
Non solo il vialetto era stato coperto di ghiaia, ma adesso, davanti alla casa, c'era anche una nuova area di parcheggio delimitata con una elegante recinzione di legno. La ghiaia era del tipo molto costoso, quella studiata in modo da incastrarsi e non spargersi oltre il suo perimetro. Mi portai una
mano alla bocca nel calcolare quanto doveva essere costata.
«E' così fino alla strada comunale?», bofonchiai.
«Sì. Prima, nel passare di qui, ho visto al lavoro gli operai della Burgess e Figli», rispose lentamente. «Non sei stata
tu a commissionare il lavoro?».
Scossi il capo.
«Maledizione, allora lo hanno fatto per errore?». Essendo
un iracondo, Jason si stava già arrossando in volto. «Chiame-
rò quel Randy Burgess e gliene dirò quattro. Tu non pagare il
conto! Ecco il biglietto che era attaccato alla porta», e dal taschino anteriore tirò fuori una ricevuta arrotolata. «Mi dispiace, stavo per dartela prima, ma poi ho visto la tua
faccia...».
Srotolai il foglio di carta gialla e ne lessi il messaggio:
«Sookie, il signor Northman ha detto di non disturbarti bussando, quindi ti lascio questa ricevuta attaccata al battente,
perché potrebbe servirti se dovesse esserci qualcosa che non
va. In caso di bisogno, telefona. Randy».
«Il lavoro è pagato», dissi e questo calmò Jason.
«Il tuo ragazzo? Anzi, il tuo ex?».
«No», replicai, ricordando che nell'inveire contro Eric mi
ero lamentata del vialetto, «qualcun altro». E mi sorpresi a
desiderare che l'uomo che aveva avuto quella premura fosse
Bill.
«Ti stai dando da fare ultimamente, eh?», commentò in
tono meno censorio di quanto mi sarei aspettata. Del resto
era abbastanza intelligente da sapere che non poteva permettersi di scagliare la prima pietra.
«No, non lo sto facendo», replicai secca.
Mi fissò per un lungo momento e io sostenni il suo
sguardo. «D'accordo», concesse infine. «Allora qualcuno ti
deve un favore davvero grosso».
«Questo si avvicina di più alla verità», confermai, chiedendomi peraltro se io stessa fossi veritiera. «Grazie per ave-
re ritirato la posta, fratellone, ma adesso ho bisogno di tornare a letto».
«Nessun problema. Vuoi andare dal dottore?».
Scossi il capo, non me la sentivo di affrontare una sala
d'attesa.
«Allora fammi sapere se ti serve che vada a farti un po' di
spesa».
«Grazie», ripetei con affetto, «sei un bravo fratello». Con
nostra reciproca sorpresa mi sollevai in punta di piedi per baciarlo su una guancia. Mi abbracciò goffamente e, invece di
sussultare per il dolore, mi costrinsi a mantenere il sorriso.
«Torna a letto, sorellina», disse, richiudendosi piano la
porta l'ingresso. Lo vidi soffermarsi sul portico per un intero
minuto, intento a esaminare tutta quella ghiaia di ottima qualità, poi scosse il capo e tornò al suo pick-up sempre lucido e
pulito, con le lingue di fiamma rosa e acquamarina che spiccavano sullo sfondo della vernice nera del resto della carrozzeria.
Guardai un po' di televisione e cercai di mangiare qualcosa, ma la faccia mi faceva troppo male. Per fortuna scoprii
di avere un po' di yogurt nel frigorifero.
Verso le tre del pomeriggio, un grosso pick-up si fermò
davanti alla casa e ne scese Alcide, che aveva con sé la mia
valigia. Bussò piano alla porta.
Magari sarebbe stato più contento se non avessi aperto,
ma non ero nello stato d'animo di far contento Alcide Herveaux, quindi gli aprii la porta.
«Oh, Gesù Cristo», mormorò, senza traccia di irriverenza
nella voce, quando ebbe assimilato la mia visione.
«Entra», dissi con le mascelle che cominciavano a farmi
troppo male. Sapevo di aver promesso a Jason che lo avrei
chiamato se fosse passato da me, ma Alcide e io dovevamo
parlare.
Lui entrò e rimase fermo a fissarmi. Alla fine, portò la
valigia nella mia stanza, mi preparò un grosso bicchiere di tè
ghiacciato in cui infilò una cannuccia, e lo posò sul tavolino
del divano. Mi vennero le lacrime agli occhi perché non tutti
si sarebbero resi conto che le bevande calde aumentavano il
dolore della mia faccia gonfia.
«Dimmi cosa è successo, chérie», chiese, sedendo sul divano accanto a me. «Avanti, stendi le gambe mentre racconti», aggiunse, aiutandomi a girare per adagiare le gambe sul
suo grembo. Con i cuscini accumulati dietro la schiena stavo
comoda, almeno nella misura in cui mi sarebbe stato possibile esserlo per i due giorni successivi.
E gli dissi tutto.
«Quindi pensi che verranno a cercarmi a Shreveport?»,
domandò. Non pareva biasimarmi per avergli attirato sulla
testa tutti quei guai, al contrario di quanto, francamente, mi
ero quasi aspettata.
«Non lo so», confessai, scuotendo il capo con aria impotente. «Vorrei che sapessimo cosa è effettivamente successo,
perché questo potrebbe toglierceli dai piedi».
«I mannari sono sempre e soltanto leali», dichiarò Alcide.
«Questo lo so», replicai, prendendogli la mano.
Lui mi fissò intensamente con quei suoi occhi verdi.
«Debbie mi ha chiesto di ucciderti», affermò.
Per un istante, mi sentii raggelare fino al midollo. «Cosa
le hai risposto?», articolai con le labbra rigide.
«Le ho detto di andare a farsi fottere... scusa l'espressione».
«E adesso come ti senti?».
«Intontito. Non è stupido? La sto sradicando da dentro di
me, come ti ho detto che avrei fatto. Devo farlo, perché è
come essere dipendenti dal crack. Lei è terribile».
Ripensando a Lorena, dissi con voce che suonò triste perfino alle mie stesse orecchie: «A volte vince la stronza». Era
tutt'altro che morta fra Bill e me. Parlare di Debbie fece riaffiorare un altro sgradevole ricordo. «Ehi, quando stavate litigando, le hai detto che siamo stati a letto insieme!».
Arrossendo imbarazzato, confessò: «Me ne vergogno.
Sapevo che se la stava spassando con il suo fidanzato, perché
se ne era vantata, e ti ho inutilmente nominata in un momento in cui ero veramente fuori di me. Ti chiedo scusa».
Lo potevo capire, però non mi piaceva e inarcai comunque le sopracciglia per segnalare che le scuse non erano sufficienti.
«D'accordo, è stata una cosa davvero ignobile. Doppie
scuse e la promessa di non rifarlo mai più».
Annuii. Adesso ero soddisfatta.
«Non mi è piaciuto affatto buttarvi tutti fuori dall'appartamento in quel modo, ma non volevo che vi vedesse per via
delle conclusioni che ne avrebbe potuto trarre. Debbie diventa una furia facilmente e ho pensato che se ti avesse vista con
dei vampiri, e poi le fosse giunta voce che a Russell era sfuggito un prigioniero, avrebbe fatto due più due e per la rabbia
avrebbe potuto telefonare a Russell».
«Meno male che i mannari sono leali...», commentai.
«Lei è una mutaforme, non una mannara», precisò immediatamente Alcide, confermando così un mio sospetto. Stavo
cominciando a pensare che, pur affermando di essere deciso
a tenere per sé il suo patrimonio genetico di mannaro, lui sarebbe stato felice solo con una mannara. Sospirai tra me. Ma
forse dopo tutto mi stavo sbagliando.
«Lasciando perdere Debbie», dissi muovendo una mano,
come escludendola completamente dalla conversazione,
«qualcuno ha ucciso Jerry Falcon e lo ha messo nel tuo ripostiglio, cosa che ha causato a me, e a te, più problemi di
quanti ne abbia provocati la nostra missione originale, che
era quella di rintracciare Bill. Chi può aver fatto una cosa del
genere? Deve essersi trattato di qualcuno veramente
perfido».
«O veramente stupido», aggiunse lui, per equanimità.
«So che non è stato Bill, perché era prigioniero, e sarei
pronta a giurare che Eric ha detto la verità quando ha affermato di non essere stato lui...». Esitai, detestando far riaffio-
rare quel nome: «Cosa mi dici di Debbie? Lei è...». Non dissi
"una vera stronza", perché solo Alcide aveva il diritto di definirla in quel modo. «Lei era infuriata con te perché eri uscito
con un'altra. Non potrebbe aver messo Jerry Falcon nel tuo
ripostiglio per causarti problemi?».
«Debbie è perfida e può causare problemi, ma non ha
mai ucciso nessuno», mi rispose. «Non ha il... il fegato per
farlo. Non ha la volontà di uccidere».
Certo, invece con me l'aveva avuta.
Alcide dovette leggere la mia perplessità. «Ehi, io sono
un mannaro», continuò, scrollando le spalle, «e lo farei, se
dovessi, soprattutto in una notte di luna piena».
«Quindi è possibile che un altro membro del suo branco
lo abbia fatto fuori per motivi che ignoriamo e abbia deciso
di scaricare la colpa su di te?», domandai. Quello era un altro
possibile scenario.
«La cosa non quadra. Un altro mannaro avrebbe... ecco,
il corpo avrebbe avuto un aspetto diverso». Ebbe riguardo
per la mia sensibilità, ma quello che intendeva dire era che il
cadavere sarebbe stato ridotto a brandelli. «Inoltre, credo che
avrei avvertito su di lui l'odore di un altro mannaro, anche se
non mi sono avvicinato abbastanza».
A quel punto avevamo finito le idee; se però avessi registrato quella conversazione, nel riascoltarla, mi sarebbe venuto in mente con facilità un altro possibile colpevole.
Alcide disse quindi che doveva tornare a Shreveport e io
spostai le gambe. Si alzò e s'inginocchiò accanto al divano
per salutarmi. Io fui molto cortese, dicendogli quanto fosse
stato gentile ad ospitarmi, quanto mi avesse fatto piacere conoscere sua sorella e quanto fosse stato divertente nascondere un cadavere insieme a lui... no, in realtà questo non lo dissi, benché il pensiero mi attraversasse, perché, in fondo, ero
il prodotto dell'educazione inculcata da mia nonna.
«Sono contento di averti conosciuta», mi rispose. Era più
vicino a me di quanto avessi pensato e si chinò a depormi un
rapido bacio di commiato sulle labbra. Dopo quel bacio, che
era stato perfetto, volle però accomiatarsi in modo più prolungato: le sue labbra erano così calde, e dopo un attimo la
sua lingua fu ancora più calda. Girò leggermente la testa per
trovare una migliore angolazione e riprese con ardore. La sua
mano destra si stava librando sopra di me, alla ricerca di un
punto su cui posarsi che non mi causasse dolore, e alla fine si
adagiò sulla mia mano sinistra. Ragazzi, se era bello... ma
soltanto la mia bocca e il mio ventre stavano godendo, il resto del mio corpo era sempre dolorante. Quando la sua mano
scivolò in esplorazione verso il mio seno, sussultai.
«Oh, Dio, ti ho fatto male!», esclamò. Le sue labbra apparivano meravigliosamente rosse e piene dopo quel lungo
bacio e gli occhi scintillavano.
«Sono solo dolorante», spiegai, sentendomi obbligata a
scusarmi.
«Che cosa ti hanno fatto?», domandò. «Non si è trattato
solo di qualche schiaffo?». Aveva supposto che la faccia gonfia fosse il problema principale.
«Vorrei che fosse stato così», e accennai un sorriso.
«E io che sono qui a provarci», si rimproverò, sgomento.
«Be', non ti ho respinto», commentai in tono mite, senza
precisare che non ne avrei avuto le forze, «e non ho detto:
"No, signore, come osa impormi le sue attenzioni?"».
Alcide parve alquanto sconcertato. «Tornerò presto»,
promise. «Se dovessi aver bisogno di qualcosa, chiamami»,
aggiunse, tirando fuori di tasca un biglietto da visita e posandolo sul tavolino. «Qui c'è il mio numero d'ufficio, e dietro ti
scriverò il mio numero di cellulare e quello di casa. Dammi
il tuo».
Obbediente, gli fornii il numero che lui scrisse, e non sto
scherzando, su un taccuino nero. Mi mancarono però le energie per fare una battuta al riguardo.
Dopo che se ne fu andato, la casa mi parve particolarmente vuota. Alcide era così grosso e pieno di energia... così
vivo da riempire ampi spazi con la sua personalità e la sua
presenza.
Sembrava che quel giorno fossi condannata a sospirare.
Avendo parlato con Jason, al Merlotte's, Arlene venne a
trovarmi verso le cinque e mezza. Mi esaminò, diede l'impressione di reprimere una quantità di commenti che aveva
sulla punta della lingua e mi scaldò un po' di zuppa. La lasciai intiepidire prima di mangiarla molto lentamente. L'effetto fu corroborante. Dopo aver messo i piatti nella lavastoviglie, Arlene mi chiese se avevo bisogno di altro aiuto ma,
pensando ai figli che l'aspettavano a casa, le risposi che non
mi serviva nulla. Mi aveva fatto bene vederla e sapere che lei
si sforzava per non parlare a sproposito mi faceva sentire ancora meglio.
Il corpo era sempre più rigido, quindi mi costrinsi a camminare un poco (più che altro arrancavo), però man mano
che i lividi affioravano e che la casa si faceva più fredda, mi
sentii sempre peggio. Quelli erano i momenti peggiori del vivere da soli, quando si stava male e non si aveva nessuno accanto.
Con mia sorpresa, il primo vampiro ad arrivare una volta
che scese il buio fu Pam. Indossava un abito nero a strascico,
segno che era di turno al Fangtasia, perché in condizioni normali Pam evitava il nero per i colori pastello.
«Eric dice che potresti aver bisogno di una femmina che
ti aiuti», annunciò, assestandosi con impazienza le maniche
di chiffon, «anche se non so perché ci si aspetta che io ti faccia da cameriera. Hai davvero bisogno di aiuto, o lui sta solo
cercando di entrare nelle tue grazie? Mi sei abbastanza simpatica, ma dopo tutto io sono una vampira e tu un'umana».
Quella Pam... che zuccherino.
«Potresti sederti a farmi compagnia per un po'», suggerii,
non sapendo come regolarmi. In realtà, sarebbe stato piacevole avere un po' di aiuto a entrare e a uscire dalla vasca da
bagno, ma sapevo che Pam si sarebbe offesa se le avessi
chiesto di svolgere una mansione tanto intima. Dopo tutto,
lei era una vampira e io un'umana...
«Eric sostiene che sai sparare con una doppietta», esordì
in tono più colloquiale, prendendo posto sulla poltrona di
fronte al divano. «Me lo insegneresti?».
«Ne sarei molto felice, appena starò meglio».
«Hai davvero ucciso Lorena con un paletto?».
A quanto pareva, le lezioni di doppietta erano più importanti della morte di Lorena.
«Sì. Mi avrebbe uccisa».
«Come hai fatto?».
«Avevo il paletto che era stato usato contro di me».
A quel punto volle sapere tutto e mi chiese che sensazione si provasse, dato che ero l'unica persona a lei nota che
fosse sopravvissuta dopo essere stata trafitta con un paletto.
Poi volle sapere con esattezza come avessi ucciso Lorena, riprendendo l'argomento che meno amavo.
«Non ne voglio parlare», ammisi.
«Perché no?», ribatté incuriosita. «Dici che stava cercando di ucciderti».
«Infatti».
«E dopo averlo fatto, avrebbe torturato ancora Bill, fino a
piegarlo, quindi la tua morte non sarebbe servita a niente».
Aveva senza dubbio ragione e io cercai di rivisitare la
mia azione come ispirata dalla praticità, e non frutto di un riflesso disperato.
«Bill ed Eric saranno qui presto», osservò Pam, consultando l'orologio.
«Vorrei che me lo avessi detto prima», replicai, issandomi faticosamente in piedi.
«Devi lavarti i denti e spazzolarti i capelli?», mi prese in
giro. «Ecco perché Eric ha pensato che ti potesse servire il
mio aiuto».
«Credo di potermela cavare da sola, se non ti secca scaldare un po' di sangue nel microonde... anche per te, naturalmente. Mi dispiace, non sono stata una buona ospite».
Pam mi scoccò un'occhiata scettica, ma si diresse in cucina senza ulteriori commenti. Rimasi in ascolto per accertarmi che sapesse come far funzionare il microonde e udii una
serie di rassicuranti segnali sonori quando lei impostò il tempo e premette il pulsante di avvio.
Con mosse lente e doloranti, mi diedi una ripulita al lavandino, lavai i denti, spazzolai i capelli e indossai un pigiama di seta rosa con vestaglia e pantofole coordinate. Avrei
voluto trovare la forza di vestirmi, ma non ce la facevo ad affrontare biancheria, calzini e scarpe.
E nessun trucco avrebbe potuto coprire tutti quei lividi.
Mi chiesi perché avessi lasciato il divano per sottopormi a
quella tortura. Guardai il mio riflesso dandomi dell'idiota a
prepararmi per il loro arrivo. Mi stavo tirando a lucido, un
comportamento ridicolo alla luce della mia generale sofferenza, fisica e mentale. Adesso mi dispiaceva di aver ceduto
a quell'impulso, e ancor più che Pam ne fosse stata testimone.
Il primo visitatore di sesso maschile fu però Bubba.
A giudicare da come era agghindato, era evidente che i
vampiri di Jackson avevano gradito la sua compagnia: indossava una tuta rossa tempestata di strass (non ero particolarmente sorpresa che uno dei ragazzi-oggetto della villa ne
avesse posseduta una), completata da un'ampia cintura e stivali al polpaccio. Aveva davvero un bell'aspetto.
Lui però non sembrava soddisfatto e aveva anzi un'aria
contrita. «Signorina Sookie, mi dispiace averla persa di vista,
la scorsa notte», disse subito, oltrepassando Pam con sua sorpresa. «Vedo che le è successo qualcosa di terribile e io non
ero qui a impedirlo, come Eric mi aveva detto di fare. Invece, mi stavo divertendo a Jackson... quei tizi sanno davvero
come organizzare una festa».
Mi venne un'idea, di una semplicità talmente incredibile
che se fossi stata il personaggio di un fumetto avrei avuto
una lampadina sopra la testa. «Mi hai tenuta d'occhio ogni
notte, giusto?», domandai con la massima gentilezza possibile, sforzandomi di non far trapelare dalla voce la mia eccitazione.
«Sì, da quando il signor Eric mi ha detto di farlo». Bubba
aveva una postura più eretta, i suoi folti capelli erano stati
scolpiti con cura nel suo stile familiare. Senza dubbio, i ragazzi della villa di Russell avevano lavorato parecchio su di
lui.
«Quindi eri là fuori, la notte in cui siamo tornati dal
club? La prima notte?».
«Ci può scommettere, signorina Sookie».
«Hai visto qualcun altro, fuori dell'appartamento?».
«Certamente», confermò fiero.
Ragazzi, ci siamo, pensai. «Quel tizio era vestito di cuoio?».
«Sissignora», confermò un po' sorpreso. «Era quel tizio
che le ha fatto male al bar. L'ho visto quando l'hanno sbattuto
fuori. Alcuni suoi amici erano usciti sul retro a parlare di
quello che era successo, quindi sapevo che l'aveva offesa. Il
signor Eric aveva detto di non avvicinarmi a nessuno di voi
due in pubblico, quindi non l'ho fatto, ma vi ho seguiti all'appartamento, in quel furgone. Scommetto che non vi siete
neppure accorti che ero dietro».
«No, infatti. Sei stato davvero abile. Ora dimmi, quando
lo hai rivisto più tardi, cosa stava facendo quel mannaro?».
«Quando gli sono arrivato alle spalle aveva appena forzato la porta dell'appartamento. Ho preso quel furfante appena
in tempo».
«Cosa ne hai fatto di lui?», chiesi, sorridendo.
«Gli ho rotto il collo e l'ho ficcato nel ripostiglio», spiegò
Bubba bello fiero. «Non avevo il tempo di portarlo da nessuna parte e ho pensato che lei e il signor Eric avreste saputo
cosa farne».
Dovetti distogliere lo sguardo. Era stato tutto così semplice, così diretto, bastava fare le domande giuste alla persona giusta.
Perché non ci avevamo pensato? Non si poteva impartire
degli ordini a Bubba e aspettarsi che lui li adattasse alle cir-
costanze. E con ogni probabilità mi aveva salvato la vita uccidendo Jerry Falcon, perché era diretto alla mia camera e,
stanca com'ero quando finalmente avevo guadagnato il letto,
forse mi sarei svegliata solo troppo tardi.
Pam non aveva smesso per un attimo di osservarci con
espressione interrogativa. Sollevai una mano per segnalarle
che le avrei spiegato tutto in seguito e mi costrinsi a sorridere a Bubba e a dirgli che aveva fatto la cosa più giusta. «Eric
ne sarà molto soddisfatto», aggiunsi, pensando che raccontarlo ad Alcide sarebbe stata un'esperienza interessante.
Bubba si rilassò in volto e sorrise, arricciando appena il
labbro superiore. «Mi fa piacere sentirlo», affermò. «C'è del
sangue? Ho molta sete».
«Certo», dissi. Pam fu tanto gentile da andarlo a prendere
e Bubba bevve un lungo sorso.
«Non è buono come quello di gatto», osservò, «ma va
benissimo lo stesso. Grazie, grazie molte».
Capitolo quindicesimo
Che serata intima si stava profilando: la sottoscritta e ben
quattro vampiri, appena Bill ed Eric furono arrivati, separatamente ma quasi nello stesso momento. Solo io e i miei amici,
a bighellonare per casa.
Bill insistette per intrecciarmi i capelli, al solo scopo di
dimostrare la propria familiarità con la casa e i suoi usi, andando nel bagno a prendere la scatola con il necessario. Mi
fece accomodare davanti a sé sull'ottomana e sedette alle mie
spalle per spazzolarmi e sistemarmi la chioma. L'avevo sempre trovato molto rilassante e destò in me il ricordo di un'altra sera iniziata nello stesso modo, con un finale da favola.
Naturalmente, Bill ne era perfettamente consapevole e lo stava facendo apposta.
Eric ci osservava con l'aria di chi prende appunti, mentre
Pam sogghignava apertamente. Per quanto mi scervellassi,
non riuscivo proprio a capire perché dovessero trovarsi tutti
lì contemporaneamente e come mai non si stessero stancando
della reciproca compagnia, e della mia, e non se ne andassero. Dopo aver avuto quel relativo allontanamento nella mia
casa per alcuni minuti, stavo già desiderando di essere di
nuovo sola. Perché mai mi ero lamentata della solitudine?
Bubba se ne andò abbastanza presto, ansioso di cacciare
un poco, cosa a cui preferivo non pensare troppo nei dettagli.
Solo allora potei finalmente spiegare agli altri vampiri cosa
fosse effettivamente successo a Jerry Falcon.
Eric non parve troppo seccato che le direttive da lui impartite a Bubba avessero causato la morte del mannaro e io
avevo già ammesso a me stessa che non ne ero particolarmente sconvolta. Se si trattava di scegliere fra lui e me...
ecco, tenevo di più a me stessa. Bill si mostrò indifferente
alla sorte di Falcon e Pam trovò la cosa divertente. «Il fatto
che ti abbia seguita a Jackson, quando le sue istruzioni erano
limitate a Bon Temps e a una sola notte, e che abbia continuato ad attenersi a quelle istruzioni nonostante tutto, non è
molto vampiresco, ma certo fa di lui un buon soldato», fu la
sua riflessione.
«Sarebbe stato meglio se avesse detto a Sookie quello
che aveva fatto, e perché lo aveva fatto», osservò Eric.
«Già, un biglietto sarebbe stato gradito», commentai sarcastica. «Qualsiasi cosa sarebbe stata meglio dell'aprire quel
ripostiglio e trovarci dentro un cadavere».
Pam scoppiò a ridere. A quanto pareva, riuscivo davvero
a colpire il suo lato umoristico. Splendido. «Mi pare di vederti», disse. «E poi tu e il mannaro avete dovuto nascondere
il cadavere? Impagabile!».
«Vorrei averlo saputo quando Alcide è stato qui, oggi»,
osservai. Avevo chiuso gli occhi per abbandonarmi all'effetto
rilassante dalla spazzola, ma il repentino silenzio provocato
dalle mie parole fu puro godimento. Finalmente anch'io cominciavo a divertirmi un poco.
«Alcide Herveaux è venuto qui?», domandò Eric.
«Sì, mi ha riportato la valigia e si è fermato per aiutarmi,
vedendo com'ero conciata».
Aprii gli occhi, perché Bill aveva smesso di spazzolarmi,
e intercettai lo sguardo di Pam. Lei mi strizzò l'occhio e io risposi con un accenno di sorriso. «Ti ho disfatto io la valigia,
Sookie», disse lei con disinvoltura. «Dove hai preso quello
splendido scialle di velluto?».
«Ecco», spiegai, a labbra strette, «il mio scialle da sera si
era rovinato al Club... voglio dire, al Josephine's, e Alcide è
stato tanto gentile da comprarlo, mentre sceglieva i regali,
per farmi una sorpresa... ha detto che si sentiva responsabile
per la bruciatura che aveva rovinato l'altro». Ero felice di
averlo raccolto dal sedile della Lincoln e portato nell'appartamento, anche se non ricordavo di averlo fatto.
«Ha un gusto eccellente, per un mannaro», ammise Pam.
«Se dovessi prendere a prestito il tuo vestito rosso, potrei
avere anche lo scialle?».
Non sapevo che Pam e io fossimo tanto amiche da scambiarci i vestiti. Senza dubbio stava cercando di seminare zizzania. «Certo», risposi.
Poco dopo si alzò e annunciò che per lei era ora di andare. «Credo che mi farò una corsa attraverso i boschi», spiegò.
«Ho voglia di assaporare la notte».
«Vuoi fare di corsa tutta la strada fino a Shreveport?»,
domandai, stupefatta.
«Non sarebbe la prima volta», ribatté. «Oh, a proposito,
Bill, la regina ha telefonato questa sera al Fangtasia per scoprire perché sei in ritardo con il lavoretto che ti ha affidato.
Pare che da parecchie notti non riesca a contattarti a casa
tua».
«La richiamerò più tardi», replicò Bill, che aveva ripreso
a spazzolarmi i capelli. «Sarà lieta di sapere che il lavoro è
finito».
«Per poco non hai perso tutto», s'intromise Eric, uno sfogo improvviso che colse di sorpresa tutti quanti.
Pam diede un'occhiata a Bill e a Eric e sgusciò fuori casa.
Mi spaventai.
«Sì, e ne sono perfettamente consapevole», ammise Bill.
La sua voce, che era sempre pacata e dolce, si era fatta gelida; quella di Eric, per contro, tendeva verso toni roventi.
«Sei stato un idiota a riallacciare il rapporto con quella
femmina demoniaca», dichiarò.
«Ehi, ragazzi, io sono seduta proprio qui», li avvisai.
Mi diedero un'occhiataccia. Parevano decisi a portare
avanti la loro lite, quindi pensai che era meglio lasciarli
fare... una volta che fossero stati fuori da casa mia. Non avevo ancora ringraziato Eric per la ghiaia, cosa che intendevo
fare, ma forse quella notte non era il momento più adatto.
«D'accordo», dissi. «Avevo sperato di evitarlo, ma... Bill,
annullo l'invito a entrare nella mia casa». Bill cominciò a
camminare all'indietro verso la porta con un'espressione impotente sul volto e la mia spazzola ancora in mano, mentre
Eric lo fissava con un sorriso di trionfo. «Eric», continuai,
vedendo svanire il suo sorriso, «annullo l'invito a entrare nella mia casa». E anche lui prese a indietreggiare, oltrepassando la porta e scendendo dal portico, poi il battente si richiuse
con forza dietro (o forse davanti?) a loro.
Rimasi seduta sul divano, assaporando l'improvviso silenzio con un senso inesprimibile di sollievo. Di colpo, mi
resi conto che quel programma che la regina della Louisiana
desiderava tanto, il programma che era costato delle vite e la
distruzione del mio rapporto con Bill, si trovava a casa mia...
dove né Eric, né Bill e neppure la regina stessa potevano entrare senza il mio permesso.
Risi come non mi succedeva da settimane.
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Charlaine Harris IL CLUB DEI MORTI