FONTI STORICO-SPIRITUALI DEI SERVI DI SANTA MARIA III/2 dal 1496 al 1623 a cura di Pier Giorgio M. Di Domenico 2008 ABBREVIAZIONI Annales OSM Annalium sacri ordinis fratrum Servorum b. Mariae virginis a suae institutionis exordio centuriae quatuor auctore f. Archangelo Giani [...], a cura di A. GIANI e L: GARBI, 3 vol., Lucca 1719, 1721, 1725 (i primi due volumi che riguardano questo periodo sono una revisione, completata, a opera del Garbi, della prima edizione curata dal Giani a Firenze in due volumi nel 1618 e 1622. Arch. Gen. OSM Archivum generale fratrum Servorum sanctae Mariae – viale Trenta Aprile, 6 00153 Roma. Bibliografia Bibliografia dell’Ordine dei Servi, II. P.M. BRANCHESI, Edizioni del secolo XVI (15011600), D.M. MONTAGNA, Studi e scrittori nell’Osservanza dei Servi, Bologna 1972 (Bibliotheca Servorum Romandiolae, 5); III. P.M. BRANCHESI, Edizioni del secolo XVII (1601-1700), D.M. MONTAGNA, Fra Arcangelo Giani annalista dei Servi (1552-1623), Bologna 1973 (Bibliotheca Servorum Romandiolae, 6). Monumenta OSM Monumenta Ordinis Servorum sanctae Mariae a quibusdam eiusdem Ordinis presbyteris edita, 20 vol., Bruxelles-Roma 1897-1930 “Studi Storici OSM” sia “Studi Storici sull’Ordine dei Servi di Maria”, 4 vol., Roma 1933-1942, sia “Studi Storici dell’Ordine dei Servi di Maria”, successivi 52 vol. (5-56/57), Roma 1953-2006/07 PRESENTAZIONE Mentre il primo tomo del terzo volume delle Fonti storico-spirituali dei Servi di santa Maria raccoglie una ricca messe di documenti e di notizie relative alla vita e alle attività di frati, di monache e di laici appartenenti alla famiglia dei Servi, questo secondo tomo è un’antologia di testi di varia natura: legislazione, liturgia e pietà mariana, agiografia, teologia, iconografia, sono le diverse espressioni del clima spirituale in cui è immerso il periodo storico qui considerato. La quasi totalità dei testi presentati si trova già in edizioni separate, non sempre facilmente accessibili anche per l’uso della lingua latina. L’intento, che ha animato anche la selezione operata per i primi due volumi delle Fonti, è stato quello di offrire ai fratelli e alle sorelle dell’Ordine, agli amici e a quanti vengono a contatto con esso, la possibilità di riscoprire l’ acqua nascosta che ha alimentato la vita dei Servi lungo i secoli, e di suscitare l’amore e l’interesse per una storia di famiglia che contiene ricchezze ancora valide per l’impegno di oggi. Le Fonti III/2 si aprono con le edizioni cinquecentesche delle Costituzioni dei Servi: dal 1548 al 1580 si susseguono vari tentativi di adeguare la legislazione alle mutate circostanze storiche, conservandola nello stesso tempo fedele alla Regola di sant’Agostino e agli ideali di vita fraterna in essa contenuti. Il lavoro di revisione inizia con il priore generale Agostino Bonucci che con le “constitutiones” emanate per sua volontà dal capitolo generale di Budrio traccia le linee del rinnovamento, in conformità ai nuovi orientamenti che il concilio di Trento (1545-1563) stava allora indicando. Le costituzioni esprimono l’animo e la passione di uomini sinceramente desiderosi di ritornare alla purezza delle origini: Lorenzo Mazzocchio, Zaccaria Faldossi, Giacomo Tavanti, Paolo Sarpi. La sezione Liturgia e pietà mariana evidenzia l’evolversi della sensibilità dell’Ordine nei riguardi della sua tradizionale devozione alla Vergine gloriosa attraverso testi di vario genere: testi propriamente liturgici, come l’Ufficio de beata o il rito della vestizione di fratelli e sorelle delle fraternità laiche dei Servi, o anche scritti di autori come il diario di viaggio in Terra Santa redatto da fra Noè Bianco da Venezia, di cui si mettono in risalto i luoghi mariani da lui visitati, o il racconto di eventi miracolosi composto da Francesco Nuñes Fenix de Canales, appassionato e convinto sostenitore del dogma dell’Immacolata Concezione, o anche composizioni omiletiche di fra Arcangelo Ballottini. Documento importante della spiritualità mariana dell’Ordine è senza dubbio il capitolo “de reverentiis” con cui si aprono tradizionalmente le Costituzioni dei Servi. L’edizione del 1580 ne spiega il motivo: «Poiché l’Ordine dei Servi è al servizio di Dio sotto la protezione speciale della beata Maria Vergine, è giusto che la onori con speciali atti di ossequio e di riverenza. specialmente durante la celebrazione della divina liturgia» (cap. I, art. 1). L’ansia di rinnovamento, che si riflette nella rapida successione delle edizioni legislative, trova una sua espressione concreta in singole personalità, uomini e donne, che con la loro vita indicano la strada da seguire. Emblematica la figura del beato Giovannangelo Porro (+ 1505), che apre significativamente la sezione agiografica: egli è uno di quei “servi della comunione” che hanno generosamente armonizzato le aspirazioni e le idealità personali con il senso fortissimo del servizio all’Ordine. Questa medesima ansia ha ispirato, già nella prima metà del Quattrocento, la nascita della Congregazione dell’Osservanza italiana (cf. Fonti storico-spirituali II): uomini di Monte Senario (fra Antonio da Bitetto e fra Francesco Landini da Firenze) avvertono il bisogno di trovare spazi dove tradurre la riforma non solo in uno stile di vita essenzialmente contemplativo-eremitico, ma anche con una presenza nuova nella vita della chiesa e della società. La Congregazione dell’Osservanza, la cui presenza, giustamente stimata, veniva richiesta da varie chiese locali, nel corso della sua esistenza, fino al 1570, quando per intervento papale se ne decide la soppressione, non è riuscita a instaurare con l’Ordine un rapporto pacifico di reciproco arricchimento e questo ha costituito indubbiamente il suo limite e la sua debolezza. Non sono mancate tuttavia eccezioni significative, come quella di fra Luca di Sandro da Firenze che si ritira a Monte Senario nel 1433 e vi resta per cinquantaquattro anni, morendo quasi centenario il 6 agosto 1487: il suo fedele attaccamento alla vita eremitica del Monte non gli impedisce di accettare nel 1461 e nel 469 l’ufficio di vicario generale dell’Osservanza (cf. F. Albrizzi, Institutio Congregationis ..., sezione Movimenti di riforma). Quando nel 1470 viene riconfermato dal capitolo della Congregazione, rinuncia solo ob senectutem (Annales OSM, I, p. 533). Un altro momento importante di ripresa degli ideali originari è la rinascita della vita eremitica sul Senario ad opera di Bernardino Ricciolini, sostenuto dal priore generale Lelio Baglioni (1591-1597) che molto ha lavorato per la riforma morale e spirituale dell’Ordine. La sezione Movimenti di riforma contiene brani dal diario degli inizi, «Vera e certa origine ...» e vari capitoli delle Costituzioni stampate nel 1613, nel cui prologo sono dichiarate le due caratteristiche di fondo: ritorno alle origini e stabilità. Il ritorno alle origini si attua attraverso la forma di “eremitismo comunitario” che i Padri condussero sul Monte: gli eremiti si definiscono “uomini apostolici”, chiamati cioè a vivere in modo che «sia in tutti un sol cuore e una sola anima, in santo legame di carità e di pace». L’impegno di stabilità permanente indica una scelta radicale che coinvolge la vita intera. Sono suggestioni per noi attualissime: il capitolo generale 2007 ha richiamato l’impegno prioritario della povertà, come impegno di trasparente condivisione e di personale libertà proprio sull’esempio dei Padri sul Monte, a cui i Servi ancora oggi, come nelle epoche passate, devono tornare a guardare per attingere nuovi motivi di vita e di speranza per il futuro. Sulla via del rinnovamento ha svolto un ruolo significativo la parte femminile dell’Ordine. In questo volume è ricordato un certo numero di sorelle e di alcune di loro (Lucia da Bagolino, Anna Giuliana Gonzaga, Benedetta de Rossi) si offrono testimonianze più particolareggiate. L’età compresa dal terzo volume delle Fonti è contrassegnata anche da personalità eminenti nel campo della cultura storica e teologica. È nel Cinquecento che nasce la storiografia dell’Ordine con Giacomo Filippo Androfilo, Filippo Maria Sgamaita, Cosimo Favilla, Filippo Albrizzi, Raffaello Maffei, Ippolito Massarini, e soprattutto con il Chronicon di Michele Poccianti e gli Annales di Arcangelo Giani: dell’opera di questi due ultimi autori il presente volume offre vari saggi. Dei molti autori di scritti teologici e spirituali la sezione Maestri e Teologi ha dovuto operare una drastica scelta. È sembrato necessario riproporre il commento alla regola agostiniana che Cosimo da Firenze (1521) ha composto in particolare per i fratelli e le sorelle dell’Ordine «che non hanno tanta scientia» e che pure vogliono progredire nel cammino di perfezione. Per essi fra Cosimo non solo traduce la regola, ma anche spiega il significato dei passaggi più importanti, ponendone in luce sia la «discretione», cioè il profondo equilibrio, sia la norma suprema di una radicale condivisione che liberi la persona da ogni egoistico attaccamento alla “proprietà”. Figure di primo piano, tra i teologi dell’Ordine, sono fra Agostino Bonucci e fra Lorenzo Mazzocchio, che hanno partecipato attivamente al concilio di Trento. Del primo sono state tradotte integralmente l’omelia pronunciata l’8 aprile 1546 nella sessione IV del concilio e la Conversio Pauli indirizzata al papa Paolo III – sono stati tralasciati solo alcuni passaggi troppo legati a concezioni del momento -: sono due testimonianze preziose del valore immenso contenuto nella croce di Cristo, intesa come il complesso di lotte e sofferenze per conservare la purezza della fede, e nella carità come servizio d’amore per la salvezza del mondo. Di Lorenzo Mazzocchio sono state riportate pagine tratte dagli Annales del Giani, dove risalta l’ideale di libertà che ci può rendere davvero tutti fratelli, e la parafrasi di alcuni salmi da lui composta mentre si trovava in carcere: un’esperienza di sofferto isolamento in cui però riluce il conforto della parola del Signore, la vera ricchezza che nessuno potrà toglierci. Un posto assolutamente centrale hanno poi l’epistolario e la Lettera universale (o spirituale) di Angelo Maria Montorsoli. Nel 1588, come a indicare con una scelta concreta di vita quale dovesse essere la via del rinnovamento, chiede ai superiori del convento della Ss. Annunziata di Firenze il permesso di vivere da recluso e per sempre in una stanza del convento stesso. «Certo, questo tipo di eremitismo è piuttosto insolito: sa di protesta all’ambiente, ma non di fuga o di distacco; è improntato d’ascesi, ma non rifiuta la cultura; è ricco di vita contemplativa che viene comunicata agli altri con l’attività epistolare, il conforto e il consiglio orale. Infatti il Montorsoli nel periodo di clausura scrive cinque volumi di Elucubrationes [meditazioni] sulla Scrittura, due libri di Esercizi spirituali di taglio ignaziano, e altri opuscoli di carattere ascetico. Ma per noi è importante la Lettera spirituale [...]. In essa è possibile capire il movente della sua vocazione di recluso. Nel prologo fra Angelo ringrazia “Dio e la sua Santissima Madre” perché nella decisione di lasciare tutto per seguire Cristo, lo “hanno conservato nell’abito religioso, fin dai primi anni donatomi – egli scrive -, così mi hanno dato nelle mie orazioni continuo ricordo e desiderio di tutti voi, i quali godete meco la medesima vocazione col nobile titolo di Servi di Maria Vergine”. [...] Il Montorsoli si sente investito dell’impegno di una vita di contemplazione dentro le mura del convento per il bene proprio e dei confratelli. Niente lo separa da loro, né la vocazione di Servo di Maria, né l’ambiente, né la preghiera, né l’attività di studio»1. Chiude la sezione la forte figura di fra Paolo Sarpi: anche a lui il Montorsoli inviò la Lettera spirituale e sappiamo che il Sarpi la conservava nella sua biblioteca personale. Di fra Paolo s’è voluto naturalmente evidenziare la sua fisionomia di religioso che ha servito l’Ordine rivestendo uffici di responsabilità, lavorando per la riforma della vita religiosa nei conventi, facendo parte della commissione preparatoria delle Costituzioni del 1580. La sua Vita, scritta dal Micanzio, e alcuni Pensieri aprono spiragli toccanti sulla sua realtà interiore, come l’amore alla Scrittura e la devozione al Crocifisso. La scelta di alcune sue Lettere e di brani tratti da altri scritti è stata guidata dall’intento di far emergere il suo spirito ecumenico, la sua concezione di chiesa, il suo impegno politico come traduzione concreta della sua vocazione di Servo. La sezione Fraternità laiche accoglie regole e statuti del Terz’Ordine e della Societas habitus. In particolare questi gruppi, che manifestano un’intensa attività religiosa e caritativa, hanno svolto un ruolo significativo nel processo evolutivo della pietà mariana dell’Ordine verso la devozione all’Addolorata, che nel corso del Seicento diventerà sempre più totalizzante. Tale evoluzione è evidenziata anche nell’ultima sezione dedicata all’iconografia e curata da Franco A. Dal Pino. Persiste, certo, una pietà mariana complessiva che abbraccia tutta la vita della santa Vergine intrecciata con quella di Gesù; ma uno sviluppo sempre più forte acquistano le raffigurazioni relative alla “compassione” della santa Vergine presso la croce fino alla figura della Madonna addolorata staccata dalla scena del Calvario e da Cristo. 1 E. M. CASALINI, La componente contemplativa nel corso della storia dei Servi, in La componente contemplativa nella vita dei Servi di Maria (Atti della Settimana di spiritualità - Monte Senario, 28 agosto - settembre 1978), Monte Senario 1978 (Quaderni di Monte Senario – Sussidi di spiritualità, 1), p. 22-23. FONTI LEGISLATIVE a cura di Luigi M. De Candido e Pier Giorgio M. Di Domenico INTRODUZIONE In questa sezione sono raccolti i decreti del capitolo generale di Budrio (1548) e le tre edizioni cinquecentesche delle Costituzioni dei Servi (1556; 1569; 1580). Non si considerano le Costituzioni di Venezia del 1503, non essendo una nuova redazione, ma il testo stampato delle Constitutiones antiquae con l’aggiunta dei decreti dei capitoli generali (1295-1473) che avevano assunto valore legislativo stabile. Dei decreti del capitolo budriense si riporta la traduzione integrale, considerata la loro importanza come espressione della volontà riformatrice del priore generale Agostino Bonucci: vi si riflettono infatti le esigenze che avevano ispirato il suo discorso dell’8 aprile 1546 e in genere tutta la sua attività al concilio di Trento2. Delle tre edizioni costituzionali si riporta sempre il primo capitolo De reverentiis, testimonianza della pietà mariana dell’Ordine nel secolo XVI; è stata fatta poi un’ampia scelta degli articoli che appaiono più caratteristici e innovativi e nei quali si possono intravedere la vita, il modo di pensare, le aspirazioni dei Servi di quell’epoca. Le Costituzioni dell’Osservanza e degli Eremiti di Monte Senario sono state inserite nella sezione Movimenti di riforma; Regole e statuti dei gruppi laici dei Servi nella sezione ad essi dedicata. Le introduzioni alle singole edizioni e parte della traduzione degli articoli costituzionali sono di Luigi M. De Candido. 2 B. ULIANICH, Bonucci, Agostino, “Dizionario Biografico degli Italiani, 12, Roma 1970, p. 449. LE COSTITUZIONI DEI SERVI DI SANTA MARIA NEL CINQUECENTO Nella storia dei Servi di Maria il secolo XVI registra la più vasta fecondità sul terreno della produzione legislativa: sono cinque le edizioni delle costituzioni tra il 1503 e il 1580; ad esse si aggiungono le costituzioni della Congregazione dell’Osservanza. Tanta facondia progettuale e facilità editoriale proviene da molteplici fattori. In primo luogo di certo favorì la rivoluzione tipografica di Johann Gutenberg, la quale sostituiva il manoscritto con la stampa a caratteri mobili, sicché anche i Servi di Maria, Ordine tradizionalmente non facoltoso ma piuttosto modesto finanziariamente e dunque parsimonioso nella produzione di scritti su carta o pergamena materiale costoso, poterono accedere alle più economiche tipografie e stampare dapprima le constitutiones antiquae, i cui manoscritti, maneggiati a partire dal 1280 circa, erano scomparsi o sgualciti e quasi inutilizzabili. Questa impresa editoriale segna appunto il primo tassello del mosaico legislativo cinquecentesco dei Servi che utilizzano tipografie con la scansione seguente, come appare sul rispettivo frontespizio: edizione 1503 Venetiis, Felix de Consortibus; edizione 1548 (capitolo generale di Budrio) Bononiae, Bartholomaeum Bonardum; edizione 1556 (capitolo generale di Verona nel 1554) Romae, Valerium et Aloisium Doricos fratres Brixienses; edizione 1569 (capitolo generale di Bologna nel 1567) edite a Firenze nel 1569 senza indicazione dell’editore; edizione 1580 (capitolo generale di Parma 1579) Venetiis, ex officina Dominici Guerraei et Io. Baptistae fratrum. Di analoga facilitazione usufruisce la Congregazione dell’Osservanza che stampa due edizioni cinquecentesche, l’una nel 1516 Venetiis, per Jacobum Pentium de Leucho, l’altra nel 1570 Ferrariae, excudebat Franciscus Rubeus. A completamento della panoramica sul fervore tipografico dei Servi è d’uopo aggiungere anche, spostando la data di una manciata di anni oltre il Cinquecento, l’edizione delle costituzioni degli Eremiti di Monte Senario nel 1613 -in lingua italiana- a Firenze presso la stamperia di Bartollomeo Sermartelli e fratelli. Siffatta elencazione di date e frontespizi -quasi mai fornita- ha un pregio rilevante: riscontrare che l’edizione a stampa metteva le costituzioni nelle mani della moltitudine dei frati, ovviamente almeno di quanti erano in grado di leggere, a differenza del raro e costoso manoscritto pre-tipografico disponibile a uno solo o a pochi frati. La dimestichezza con il testo integrale diveniva opportunità pedagogica, sprone a farsi amico del libro e discepolo del messaggio costituzionale, fonte di frequente accesso individuale e comunitario. La pluralità delle edizioni a stampa fu anche garanzia di conservazione dei testi. Altra motivazione che induce i Servi di Maria a replicare le edizioni tipografiche fu il concilio ecumenico di Trento, celebrato in varie tappe tra il 1545 e il 1563: esso impegnò anche i religiosi al rinnovamento. Di rinnovamento anche i Servi abbisognavano, in quanto serpeggiavano nei conventi rilassatezze e la vita regolare ristagnava, sebbene aliena da deviazioni clamorose: di quel rinnovamento si occupavano i capitoli generali che emanavano propri decreti, alcuni dei quali divennero libro di costituzioni integrali. bibliografia: F.A. DAL PINO, Edizioni delle Costituzioni dei Servi dal secolo XIII al 1940, “Studi Storici OSM”, 19 (1969), p. 5-48 (ristampato in Spazi e figure lungo la storia dei Servi di santa Maria (secoli XIII-XX), Herder, Roma 1997, p. 200-251); L:M. DE CANDIDO, Il rinnovamento legislativo nell’Ordine tra il 1548 e il 1580, in I Servi di Maria nel clima del Concilio di Trento (Da fra Agostino Bonucci a fra Angelo M. Montorsoli), (5ª Settimana di Monte Senario, 2-7 agosto 1982), Monte Senario 1982 (Quaderni di Monte Senario – Sussidi di storia e spiritualità, 5), p. 4183. I. Budrio 1548 «Il corpus legislativo budriense è redatto in forma di lettera circolare firmata dal priore generale, che introduce le 56 norme capitolari con una esortazione personale. [...] Egli rileva, in base alla propria esperienza e alle altrui informazioni, che nell’Ordine la forma di un pio e retto vivere tramandata dai predecessori viene ignorata e disattesa. Perciò si propone una ridotta selezione di normative precedenti al fine di porre rimedio a quanto impedisce il costante progresso della famiglia dei Servi. [...] Le costituzioni di Budrio [...] appaiono una tempestiva corsa ai ripari, e insieme una preventiva costruzione d’una diga di contenimento della decadenza e della crisi. La novità sta non tanto dentro l’antologia legislativa, quanto nel contesto esistenziale contemporaneo: ed è soprattutto la “novità” protestante. [...] In sostanza, la normativa del capitolo generale di Budrio è un’impresa più che di rinnovamento legislativo, di rinnovamento della vita monastica dell’Ordine tramite la legislazione: la legislazione come pedagogia è la palese idea centrale delle constitutiones del 1548»3 non si configura come testo costituzionale organico, bensì come “un buon servizio ai frati” redatto in forma di lettera circolare e condensato in 56 norme capitolari. Il ‘genere letterario’ è il medesimo dei documenti capitolari degli anni recenti. Il concilio di Trento aveva celebrato la propria prima fase (1545-47). Per il capitolo di Budrio e il priore generale fra Agostino Bonucci cf. in questo volume le sezioni Fonti documentarie e narrative, tomo I, e Maestri e Teologi, tomo II. edizione: P.M. SOULIER, Constitutiones fratrum Beatae Mariae Servorum editae in Comitiis Generalibus Butrii anno Domini MDXLVIII die XXIII Aprilis, in Monumenta OSM, VI, Bruxelles 1903-1904, p. 63- 77. “Costituzioni” emanate nel capitolo generale di Budrio 1548 Fra Agostino Bonucci di Arezzo di sacra teologia umile professore, priore generale (sebbene immeritevole) dei frati Servi di santa Maria dell’Ordine di sant’Agostino, a tutti e a ciascuno dei padri e fratelli del medesimo Ordine presenti e futuri, grazia e pace sempiterna nel Signore Gesù Cristo nostro Salvatore. Poiché nel diritto umano e divino è stabilito che il pastore non solo pascoli il gregge e lo pascoli bene, ma anche renda esattissimo conto di esso, quando Dio lo richieda, noi, da ciò istruiti, per contribuire in qualche modo all’utilità comune dell’Ordine e alla salvezza e al rinnovamento dei nostri conventi, ripetutamente siamo stimolati ad approfondire notte e giorno con la riflessione e l’azione quanto sembri riguardare la gloria di Dio onnipotente e la continuità del nostro Ordine. Infatti noi stessi e da altri abbiamo udito, e siamo stati testimoni oculari, e non certo senza dolore, di quanto ovunque si erri fuori della retta via e nemmeno si conosca quella forma del vivere con pietà e rettitudine che abbiamo ricevuto dagli antichi, tanto è lontana questa forma dall’essere oggi osservata integralmente. Sorretti dal favore del nostro Dio, ci dedichiamo, con quella sollecitudine che si addice a un pastore vigilante, a considerare tutte queste cose e apportarvi un rimedio, perché la nostra famiglia di Servi possa di giorno in giorno progredire verso il meglio. Perciò abbiamo selezionato ed estratto poche norme dalle numerose e sante disposizioni dei nostri predecessori 3 L.M. DE CANDIDO, Il rinnovamento legislativo nell’Ordine tra il 1548 e il 1580, p. 43.48-49 esponendole nel modo più adatto. Prescriviamo e ingiungiamo che tutte, in forza del voto di obbedienza, siano da voi custodite integralmente per poterle imitare. I. In primo luogo si obbedisca con riverenza in ogni cosa al priore come a un padre4: a lui conferiamo tutti quei poteri e autorità che gli sono attribuiti comunemente dalle stesse Costituzioni del nostro Ordine, in modo che tutto quanto deve essere fatto dipenda da lui come da un capo e poi come alle membra passino ai frati dal consiglio dei quali ogni cosa venga organizzata, come sta scritto nelle antiche Costituzioni. II. Dovunque nel nostro Ordine il culto divino nonché l’ufficio diurno e quello notturno con la massima venerazione, rispettando punteggiatura e pause e inchini a tenore delle prescrizioni dell’Ordine, vengano celebrati di modo che sia vivo nel cuore quanto viene pronunziato con la bocca5 e ad essi tutti partecipino secondo il loro grado. Nessuno, a qualsiasi grado appartenga, si esoneri dal culto divino, anzi tutti i maestri in tutti i giorni di festa prendano parte a terza, alla messa conventuale intera, al vespro, e nei giorni più solenni si alzino anche per mattutino; negli altri giorni partecipino alla messa conventuale. Da questa legge non sono esenti i reggenti e coloro che si trovano occupati nella predicazione; costoro o celebrino o ascoltino una messa privata, nel caso che non abbiano potuto partecipare alla messa conventuale, in quanto occupati nell’insegnamento o nella predicazione. Gli altri graduati si levino nei giorni festivi per il mattutino e partecipino a prima, terza, messa principale e al vespro. Nei giorni non festivi nessuno si arroghi dispense che non siano contemplate dalle leggi e dalla retta consuetudine, ma chiunque partecipi al coro. Facciamo eccezione per chi si trova nell’impossibilità e per gli ammalati, non per gli ufficiali se non legittimamente occupati. III. Tutti cercheranno di non tralasciare mai la celebrazione del divino ufficio. Se qualcuno (non sia mai!) sarà notato pubblicamente di ometterlo spesso, e pur ammonito due o tre volte dai suoi superiori trascurerà di correggersi, essendo ritenuto scomunicato secondo le antiche Costituzioni, lo priviamo in perpetuo di voce attiva e passiva e, se ricopre qualche ufficio, lo dichiariamo immediatamente sospeso da esso. Gli affari comuni non scuseranno gli amministratori dei conventi: vogliamo che tutti abbiano il loro breviario secondo l’ordinamento della Curia romana e, quando non potranno partecipare al coro, dicano in privato l’ufficio divino. IV. Ribadiamo la norma costituzionale relativa alla Salve Regina in ossequio alla beata Vergine, ossia che venga cantata ogni sera con molta devozione e senza strascicare le parole: a questo rito tutti i frati presenti in convento, priori provinciali e altri ufficiali, sospesa ogni faccenda, debbono presenziare prima che si inizi; si suoni la campana perché i frati non accampino giustificazione alcuna6. V. I priori conventuali persuadano i propri fratelli a purificare spesso la coscienza mediante il sacramento evangelico della confessione: se ciò tralasciassero di fare almeno ogni settimana e il priore ne fosse informato, vengano sottomessi a penitenza come malintenzionati e sospetti di acquiescenza verso l’eresia luterana; e i priori stessi, che non abbiano provveduto all’osservanza esatta di tale norma, si ritengano sciolti dal loro ufficio. VI. Poiché Dio Padre viene placato soprattutto da quella vittima pacifica che è il Figlio suo e da quell’ostia immacolata che nelle messe viene offerta dai sacerdoti nel corpo mistico della Chiesa, affinché un bene così grande non sia perduto dalla Chiesa, ordiniamo a tutti i sacerdoti che, con il consenso e secondo le disposizioni dei propri priori, provinciali o conventuali, dignitosamente e devotamente celebrino le messe nella forma integrale di santa Romana Chiesa, non con velocità né lentezza eccessive bensì con giusto equilibrio, concludendole con In principio7 e la Salve Regina e benedicano il popolo secondo l’usanza dell’Ordine. VII. Il priore stia attento che la Chiesa non subisca alcuno scandalo, che i frati non abbiano colloqui con donne, soprattutto malfamate e di cattiva vita, che nel tempo delle messe e dei divini 4 Agostino, Regula ad servos Dei VII, 1: «Praeposito tamquam patri oboediatur». Agostino, Regula ad servos Dei II, 3: «hoc versetur in corde quod profertur in voce». 6 cf. Costituzioni antiche, cap. I, in Fonti storico-spirituali, I, p. 110. 7 Cioè la lettura del prologo di Giovanni (Gv 1, 1-14): In principio erat Verbum. 5 uffici non vadano in giro per la chiesa o davanti alle porte della chiesa o del convento, che non stiano alle porte della sagrestia o siedano fuori del coro su uno scanno o sgabello. Provveda pure che siano celebrati gli anniversari dei padri e delle madri e di altri benefattori, e che a sera, detto il De profundis con l’orazione e altro, in mezzo al coro o alla chiesa, a un suo cenno tutti genuflettano e dicano Iube domne benedicere, e allora egli dia la benedizione e i frati rispondano Amen. VIII. Chierici e laici dicano ogni giorno le proprie ore, come è indicato nelle Costituzioni del nostro Ordine, e nei giorni festivi i laici partecipino alla messa e all’ora del vespro. I novizi, poi, dicano quotidianamente con ogni umiltà la corona della Beata Vergine8, dopo il vespro o dopo compieta, come meglio parrà al loro maestro. IX. Approviamo e ribadiamo l’antica consuetudine stabilita nel capitolo generale di Venezia nell’anno del Signore 1377, cioè che gli inservienti dei maestri abbiano l’obbligo di partecipare alla liturgia, e nessuno possa avere un inserviente esente, se non il provinciale e i maestri reggenti, ma non dall’ufficio della messa, del mattutino e del vespro. Comandiamo tuttavia ai priori che abbiano in conto i maestri e non neghino loro inservienti in ciò di cui hanno bisogno. X. E se vogliamo che gli anziani e i malati siano trattati con molta carità, tuttavia eliminiamo del tutto esenzioni e privilegi dei maestri, perché il culto divino non sia trascurato. Si tolgano certo titoli di onore dei lettori, dei baccellieri e dei maestri, ma possono concedersi posti ed esenzioni a uomini autorevoli. XI. Il priore conventuale non faccia che siano promossi agli ordini sacri i suoi frati, a meno che non siano di età legittima e sappiano leggere distintamente e cantare bene il canto che chiamano fermo, e con il permesso del suo provinciale. Se si verifichi il contrario, venga sospeso dall’ordinazione e sia privato di voce e di ufficio per dieci anni, mentre i priori conventuali e provinciali sono dimessi dal loro incarico. Non si promuova alcuno al sacerdozio se non abbia compiuto 25 anni e con il benestare del Reverendo Padre Generale pro tempore, e che non sia degno per cultura e buon comportamento. Vogliamo tuttavia che sia rivolta una particolare attenzione agli studenti: possano essere promossi a 22 anni perché ottengano maggiore vantaggio per i propri studi. Se qualcuno, vagando fuori provincia, abbia ricevuto gli ordini, tornato in provincia, non gli sia permesso in alcun modo di esercitare quegli ordini. XII. I nostri frati, che con l’Apostolo sono stati crocifissi al mondo9, non devono ammettere né secolari né laici nella clausura dei propri conventi perché non venga da costoro impedito il frutto della contemplazione e perché non vengano propalate all’esterno con scandalo eventuali debolezze dei frati. Perciò il priore, che abbia trascurato la clausura, venga rimosso dal suo incarico. XIII. Tutti, a parte i malati e i disabili, vengano alla mensa comune del refettorio. In esso dal priore o da suoi incaricati si distribuisca a ciascuno la propria porzione dal medesimo pane, dal medesimo vino e pietanza. E i maestri o diplomati non si rifocillino in refettorio in nessun altro posto se non nel titolo e nell’ordine proprio. Vi sia la lettura spirituale dalla Sacra Scrittura o dalla Regola di sant’Agostino o dalle Costituzioni. Vogliamo altresì, secondo l’antica consuetudine, che i priori e i maestri si adeguino alla mensa comune: infatti sarebbe sconveniente e troppo indecoroso che nella medesima mensa di fratelli religiosi alcuni mangino a sazietà mentre altri patiscono la fame. Nessuno, tranne i priori provinciali, avrà un inserviente personale a tavola, ma vi saranno solamente gli incaricati del servizio comune, i quali serviranno equamente con carità tutti quelli che sono seduti a mensa. XIV. Il silenzio in chiesa, in coro, in dormitorio e in refettorio sia sempre osservato. Aggiungiamo anche la proibizione che giammai si allestiscano rappresentazioni teatrali, che i frati indossino indumenti presi a prestito da laici, che durante le ricreazioni e i momenti di svago vengano ammessi in convento dei laici. Quando sono cantate solennemente le prime messe, non si 8 La corona della Beata Vergine è la Corona dei 5 Salmi o del nome di Maria. A questa corona fanno riferimento anche le Costituzioni del 1569 (art. 77) e del 1580 (art. 59). Cf. P.M. GRAFFIUS, The “Corona Gloriose Virginis Mariae”. An historical Study with some Doctrinal Conclusions concerning Our Lady’s Crown of Five Psalms, “Studi Storici OSM”, 13 (1961), p. 5-119. 9 cf. Gal 6, 14. permetta assolutamente alle donne di entrare nel chiostro, similmente nella Natività e Annunciazione della Beatissima Vergine. XV. Agli infermi, perché si riprendano quanto prima, e agli ospiti, secondo le possibilità dei conventi, si prestino le dovute attenzioni di carità, e siano deputati ministri a loro servizio. I priori, che non osservano questa norma, siano privati della carica. E perché tutto avvenga sapientemente, vogliamo che il priore tenga presso di sé un libro dove siano registrate le cose che sono ricevute per gli infermi dal dispensiere o erborista, e nessuno possa ricevere qualcosa da lui se non sia davvero infermo, vale a dire così oppresso dalla malattia da rimanere a letto, e presenti il libro. E nessuno si faccia salassi o prenda una medicina speciale senza prescrizione del medico e licenza del priore. XVI. Poiché per ciascuno è necessaria la mortificazione del corpo quale rimedio curativo e preventivo, seguendo la consuetudine della santa Chiesa che, edotta dallo Spirito Santo, ha consacrato le vigilie, il sabato e tempi diversi, prescriviamo che i frati digiunino in tutte le vigilie stabilite dalla Chiesa, in quaresima e il venerdì: in quei giorni, chi vorrà, prenda la sera in refettorio solamente una bevanda. E nessuno ardirà portare via dalla mensa in giro per il convento stoviglie, pane, vino, altre vettovaglie e tanto meno qualcuno ardirà comprare qualcosa da mangiare in piazza o altrove sotto pena di una pubblica penitenza e del carcere [in convento] per un mese. Volendo tuttavia mitigare l’antica consuetudine che prescriveva l’astinenza perpetua dalle carni alla mensa e che soltanto con una salsa si potessero condire i cibi, consentiamo che i frati si cibino di carne la domenica, martedì e giovedì; si cibino di uova e latticini il lunedì, mercoledì e sabato. E presso coloro dai quali sono ospitati per non essere di aggravio mangino -secondo quanto dice il vangelociò che nel nome di Cristo viene loro posto davanti10. XVII. Se uno riceve senza permesso dei superiori chi, di un convento o provincia, ricusa l’obbedienza, sia privato del suo ufficio. Aggiungiamo, per conservare l’ordine e togliere ogni confusione, che non si offra a nessuno l’occasione di vivere licenziosamente e a suo capriccio, senza alcun rispetto dell’autorità dei superiori, che nessuno dall’Osservanza, in cui si trova, sia accolto senza permesso del suo Vicario Generale tra i Conventuali. A nessun frate sia lecito andare da un luogo a un altro, da un convento a un altro, da una provincia a un’altra, senza le lettere testimoniali dei suoi superiori. Nel caso che i priori o i provinciali abbiano infranto questa norma, ipso facto siano considerati decaduti dal loro ufficio senza alcuna possibilità di dispensa. Se poi chi è stato ricevuto dall’Osservanza tra i Conventuali, o di una provincia o di un convento, se ha compiuto il passaggio ad altra provincia o convento senza permesso scritto, sia messo in carcere per il tempo di due mesi. XVIII. Nessun frate del nostro Ordine osi recarsi a Roma senza una lettera del suo provinciale che ne riferisce il motivo, e ciò sotto pena di carcere. Chi poi legittimamente con l’assenso del superiore sia venuto a Roma, subito si presenti al Reverendissimo Padre Generale, o al Procuratore dell’Ordine da cui riceva l’attestato di andare per la Città. I superiori non rinviino la concessione delle lettere testimoniali per chi voglia partire per Roma per giusto e urgente motivo e possa consultare per le sue faccende il Reverendo Padre Generale o il Procuratore dell’Ordine. XIX. Similmente nessuno esca dal convento se non con un compagno e con indosso la cappa e a capo coperto, nonché con il permesso del priore e mai dopo pranzo sino all’ora nona e nemmeno dopo la compieta. Nei giorni di festa invece a nessuno è consentito uscire, a meno che si tratti di necessità comunitaria. Si accontentino i frati di uscire due o al massimo tre volte solamente durante la settimana. Quando vorranno uscire, indossata la cappa e a capo chino chiedano umilmente la benedizione del superiore. Anche il priore sia attento che i frati non vadano girovagando per la città, le piazze, vicoli malfamati, oppure durante il giorno si fermino nelle bettole a chiacchierare con i laici di volgarità, di donne, di fatti di guerra, di faccende riservate dell’Ordine e dei frati. Parimenti il giorno di sabato non escano tutti insieme in una sola volta in piazza, così che le vie rigurgitino di frati Serviti. 10 cf. Lc 10, 8. XX. Prescriviamo e comandiamo, riprendendo un’antica norma con aggiunte, che nessun frate del nostro Ordine, di qualsiasi grado e condizione, anche se si trovi ad essere priore provinciale o conventuale, si rechi per qualsiasi motivo o pretesto a monasteri di monache, sotto pena di lavori forzati su triremi o, come dicono, di galera per tre anni. I confessori o correttori, che non si curano della norma o non l’osservano per malizia, ma permettono l’accesso di frati ai monasteri, sono puniti con la medesima pena con cui vogliamo che siano puniti quelli che vi si recano. Se poi uno avrà osato parlare con monache alla grata, alla ruota, in parlatorio, alla porta o alla finestra, quando sono celebrate le messe nelle loro chiese o gli uffici solenni, sia punito con tre giorni di carcere e venga espulso dal convento con sua grande vergogna XXI. Quanto poi attiene alla riforma degli studi, sanzioniamo che lo studente, il quale non abbia compiuto progressi visibili entro due anni, sia respinto dallo studio; e non siano accolti quelli che siano stati inefficienti e indocili; il priore e il reggente che non si attengono a questa norma, siano privati del loro ufficio. Lo stesso diciamo che deve verificarsi riguardo ai lettori e ai baccellieri. Il reggente faccia lezione e disputi cinque volte la settimana dal quindici di Pasqua fino alla festa di san Giacomo. Dalla Natività di Nostra Signora fino alla festa di sant’Antonio tenga due lezioni, una dalla Sacra Scrittura, sulla base dei suoi commentatori accolti e approvati, l’altra dalla teologia del dottor sottile Scoto o di san Tommaso d’Aquino, e una volta al giorno tenga una disputa dopo il pranzo. Se farà diversamente, sia privato dell’ufficio e dell’abito. Il priore poi, che non abbia dato al reggente l’abito e altre cose necessarie, quando invece avrebbe dovuto dargleli, sia sospeso dall’ufficio. XXII. Interdiciamo in genere l’interpretazione e il commento della Sacra Scrittura a tutti quelli che non abbiano ricevuto prima dal Reverendissimo Padre Generale la facoltà di esercitare tale compito. Perciò il baccelliere del convento e il maestro di studio terranno lezioni solo di arti e di logica, affinché con queste possa essere di maggiore utilità e profitto per i giovani. Sia loro permesso tuttavia di sostenere nella disputa conclusioni della Sacra Scrittura, esaminate e riviste dal loro reggente. XXIII. Per provvedere poi alla povertà degli studenti, vogliamo che per sei anni interi sia loro offerta dai propri conventi la tonaca consueta, o almeno due monete d’oro ogni anno, purché il reggente attesti riguardo allo studio e alla cultura e il priore riguardo al comportamento, nulla invece per il dottorato, a meno che non abbiano preso la laurea di magistero in qualche legittima Università teologica. Per conseguire la laurea a nessuno d’ora in poi sia data facoltà dal Reverendissimo Padre Generale, se non abbia prima tenuto pubblica e onorata disputa dalla cattedra di magistero; in questo caso vogliamo che sia osservato lo statuto di Innocenzo VIII, che cioè la provincia e il convento, da cui il promovendo è originario, siano tenuti a provvedere integralmente alle sue convenienti e sufficienti spese, come sono opportunamente richieste secondo l’ordinamento dell’Università in cui sarà promosso. I priori che non pagheranno la tonaca agli studenti o non si atterranno allo statuto di Innocenzo, siano subito privati tanto dell’ufficio quanto della provvisione annua. XXIV. Sembra a noi essere giusto ed equo che i reggenti, i maestri o baccellieri, che dal Reverendissimo Padre vengono chiamati al capitolo generale e danno lustro all’Ordine disputando e predicando, vengano a spese della provincia in cui si trovano, perché non soffrano disagi nel vitto e nel danaro; se i provinciali si esprimeranno in senso contrario, siano essi stessi tenuti a pagar loro queste spese. XXV. Similmente riguardo al tempo e nei candidati al dottorato e in quelli al baccellierato, vogliamo che sia fedelmente osservato lo statuto di Innocenzo, che nessuno cioè possa essere promosso al grado di baccellierato se non abbia studiato nelle facoltà per cinque anni continui e al grado di magistero in teologia se non per altri tre anni continui dopo il conseguimento del baccellierato, secondo la consuetudine di una Università . Gli studenti, quindi, i lettori e i baccellieri, che si siano assentati dallo studio per oltre due mesi, non saranno più ammessi né potranno essere promossi a questi gradi. XXVI. Se uno, per ottenere tali gradi e incarichi, avrà cercato e ottenuto lettere di raccomandazione e favori fuori dell’Ordine, sia per cinque anni inabile a quegli incarichi e gradi. Chi poi non abbia fatto progressi nello studio, vogliamo che non solo non sia promosso ai gradi, ma sia anche allontanato dalle scuole come pecora pigra. A quelli invece che per particolare ingegno e dottrina non si sono segnalati, ma che tuttavia hanno supplito a questa carenza con modestia e una vita illibata e con altri servigi resi all’Ordine, non vietiamo che siano dotati degli onori dei gradi. XXVII. Del resto nessuno si permetta di esercitare il compito della predicazione senza lettera espressa del Reverendissimo Padre Generale, senza il cui consenso e firma non hanno valore le elezioni dei predicatori. Per eliminare dal nostro Ordine il contagio dell’eresia luterana e, se possibile, per sradicarla, ordiniamo in virtù di salutare obbedienza e sotto sentenza di scomunica, che dopo tre ammonizioni canoniche comminiamo con questi nostri scritti, che nessuno dei nostri frati osi tenere presso di sé un libro di Martin Lutero, di qualsiasi lezione sia, o leggere suoi scritti o difendere e proclamare le sue dottrine, ovvero discutere, parlare o in qualsiasi modo confrontare circa le sue opinioni, conclusioni, sentenze. Della medesima pena vogliamo che siano colpiti chi abbia trattenuto presso di sé libri di Filippo Melantone, Brent, Calvino, Bullinger, Martin Bucer e di altri eretici, li abbia letti o abbia dichiarato e difeso le loro sentenze. XXVIII. Se uno sia stato segnalato, fuori dell’Ordine, per questo motivo così da essere denunziato a Roma presso il Sommo Pontefice o i reverendissimi Deputati come macchiato o sospettato di eresia, o sia stato chiamato davanti al Legato, al Vicario o all’Inquisitore, non sia ricevuto in alcun monastero dell’Ordine. Il provinciale o il priore conventuale non permetta che costui dimori nella sua provincia o in un convento, sotto pena della privazione dell’ufficio. XXIX. Decretiamo e prescriviamo che i predicatori nei loro discorsi parlino al popolo con tale irreprensibilità e correttezza e ponderazione da non avere bisogno per causa loro di nessuna rettifica. Se per fondato o assai probabile sospetto - Dio non voglia- venissero segnalati fino al punto di avere bisogno di una rettifica, sappiano che verranno privati per sempre dell’ufficio della predicazione e assoggettati a carcerazione per tre mesi. Tra le altre cose che agli stessi prescriviamo, abbiamo pensato di sottolineare queste poche cose, ossia: predichino intorno alla confessione che dimostrino, imitando i teologi, essere di diritto divino; anche del purgatorio, delle indulgenze, dell’autorità del sommo pontefice, dei suffragi per i defunti, dell’invocazione dei santi e della venerazione delle immagini facciano palesemente e sobriamente parola; anche intorno al peccato originale, intorno alla giustificazione e alla necessità, al modo e all’efficacia della preparazione alla giustificazione che è il merito delle buone opere, intorno alla perdita della grazia a causa del peccato, intorno alla riparazione dopo la caduta, intorno alla grazia della perseveranza, intorno al libero arbitrio, intorno a osservanza e necessità e possibilità della legge nonché sulla impotenza di questa e della natura riguardo alla salvezza degli uomini, in conformità alla fede cattolica discorrano sulla scorta della dottrina e dei decreti del concilio di Trento, rimarchino l’empietà della tesi sulla giustificazione tramite la fede e gratuitamente e allo stesso tempo contestino secondo la dottrina del menzionato santo ecumenico concilio l’inefficace fiducia degli eretici. Non sparlino contro il nostro Santo Padre, i reverendissimi signori cardinali e gli altri prelati, nemmeno disonorino i religiosi e lo stato religioso né descrivano ai laici gli ordini Medicanti e tutti gli altri come spregevoli e odiosi. XXX. Stabiliamo inoltre che se uno nelle sue predicazioni o nelle sue lezioni abbia insegnato cose contrarie ai concili della chiesa o sia stato di scandalo al popolo, oppure sia stato riconosciuto macchiato di eresia luterana o sospettato di essa e abbia mosso i magistrati contro di lui, se non emendato convenientemente e in maniera chiara, non venga più a Roma per emendarsi, ma sia tenuto in carcere e privato in perpetuo dell’ufficio della predicazione e di tutti i gradi e uffici e, se le circostanze lo richiedono, spogliato dell’abito sia gettato su una trireme. XXXI: Nessuno possa ascoltare le sacre confessioni e impartire una salutare penitenza, se non sappia secondo Agostino almeno i canoni penitenziali [come il XXXVIII Quando ecc, Nulli ecc., Quae ipsis, il XX] e sia stato approvato previo rigoroso esame da parte del suo priore conventuale o provinciale; nessuno possa essere ammesso a questo ufficio che non abbia trent’anni o, se sia stato studente, venticinque. Se poi uno, addirittura nella confessione, abbia insegnato l’eresia luterana o abbia estorto un’offerta, una volta che la colpa sia stata assodata, immediatamente sia cacciato dal convento in cui così vergognosamente si è comportato, spogliato di tutti i suoi beni e di quelli attinenti al pubblico beneficio, e sia rigettato dalla nostra società. XXXII. Ordiniamo che ricevendo nel nostro Ordine ragazzi, che chiamiamo novizi, sia effettuata un’attentissima verifica e secondo le antiche Costituzioni in nessun modo si accettino (figli) nati da unioni illegittime, figli illegittimi, ma quelli che sono nati da legittimi genitori, e sono anche integri di mente e nel fisico e in ogni senso e infine di un carattere tale che si possa sperar bene a riguardo del loro comportamento. Non siano ammessi all’Ordine inoltre senza licenza del provinciale e se non abbiano compiuto quindici anni senza licenza del Reverendissimo Padre Generale e solo nel convento da dove sono originari, con il consenso di tutti i padri di quel convento o almeno con la maggior parte di essi. Sotto il nome di un solo convento o luogo, d’ora innanzi non siano mai ricevuti due fratelli di sangue: così infatti si provvederà meglio alla tranquillità di tutti. XXXIII. Affinché i giovani ammessi all’Ordine vengano santamente e religiosamente formati, stabiliamo che in ogni provincia sia istituito secondo le norme e senza difficoltà almeno un noviziato, nel quale per la loro formazione vengano adibiti preferibilmente due maestri: l’uno, uomo di vita assolutamente irreprensibile, insegni ai novizi i migliori costumi, la regola di Agostino e quanto è contenuto nel capitolo [delle costituzioni] de novitiis; l’altro li impratichisca nella lingua latina e, dove vi sia la possibilità, anche nella lingua greca, in maniera che meglio possano in seguito accostare più impegnative discipline. Non vengano poi congedati dal noviziato per accedere alla professione se non hanno compiuto il diciassettesimo anno di età, che intendiamo sia l’anno della loro prova. XXXIV. Ogni convento della provincia mandi al convento della propria provincia, in cui sarà stato istituito il noviziato, un novizio, di cui si possa bene sperare, stabilite le spese per il vitto e il vestito secondo la possibilità e i beni dei conventi. Questo lo intendiamo per quei conventi che non possono sostentare i propri novizi così che apprendano la grammatica e il canto con le cerimonie dell’Ordine. I provinciali e i priori dei conventi più nobili, dove da tempo si trovava il noviziato, cerchino per iniziativa dei padri che venga nuovamente ristabilito e ottimamente restaurato. Curino anche, sotto pena di privazione dell’ufficio, che in ogni convento ci sia un registro in cui si scriva il nome e l’età di tutti quelli che devono essere accolti, cose diligentemente chieste prima dagli antenati, il sacro atto della professione, quando l’avranno emessa, affinché, con il pretesto di professione omessa non possano ordire qualcosa a disonore dell’Ordine attraverso false suppliche. XXXV. Poiché le nostre case sono state erette con mirabile disposizione sul fondamento della povertà, non v’è da meravigliarsi se esse al mondo intero appaiono pressoché cadute in basso per nostro disonore e sventura dal momento che i frati sono ritornati al possesso di cose materiali e addirittura a disdicevoli guadagni. Pertanto, nel desiderio ardente di risollevare [le nostre comunità], ingiungiamo a tutti i frati dell’Ordine nostro, sotto pena di privazione del diritto di voto attivo e passivo e di sospensione di tutti gli atti giuridici per dieci anni, che entro due mesi a partire dalla notifica delle presenti disposizioni si ritengano obbligati a donare, nella forma ‘tra vivi’, tutti i beni immobili, che possiedono o hanno acquisito da qualsivoglia parte e in qualsivoglia maniera, ai monasteri dai quali sono oriundi, mantenendo per se stessi e dietro nostro consenso solo l’usufrutto di quei beni mediante il quale possano essere in grado di sopperire a se stessi nelle proprie necessità e in contingenze impreviste. Dei beni mobili invece nonché del denaro denuncino l’ammontare al Reverendissimo Padre Generale oppure depositino nel forziere con tre chiavi un inventario in cui venga descritta ogni cosa. XXXVI. Consideriamo tra quelli che commettono turpi guadagni e vanno quindi puniti con pena adeguata, coloro che trattengono o dal convento o da laici possessi in deposito e revochiamo tutti siffatti depositi e li proibiamo da ora in poi. Tra costoro annoveriamo anche quelli che tengono sòccide11 senza licenza del Reverendissimo Padre Generale e quelli che aderiscono ai commissari di 11 Sòccida è un contratto con cui due contraenti si associano per l’allevamento di bestiame e tutte le attività ad esso connesse. indulgenze senza licenza dei superiori e con il patto di avere una ricompensa. I commercianti poi e quelli che si danno ad affari commerciali, sia comprando qualcosa di poco conto per venderlo poi a prezzo più alto, sia usando di appalto di giumenti, come se fossero veterinari, sia facendo indecorosamente qualche altra cosa che riguardi l’avidità di guadagno, oltre questa pena e la perdita dei beni da applicare ai monasteri da cui sono originari, li leghiamo con il vincolo di scomunica latae sententiae, secondo la norma edita a Bologna nel capitolo generale celebrato nel convento di San Giuseppe, l’anno del Signore 1337. XXXVII. Quella norma stabilita nel capitolo celebrato a Firenze nell’anno del Signore 1295 - Se un frate del nostro Ordine, persuaso dal diavolo, sia scivolato nel peccato della carne, anche se di nascosto, non può essere assolto se non dal priore generale o provinciale o conventuale - poiché schiaccia troppo la coscienza, la respingiamo e l’annulliamo, e vogliamo che possa essere assolto da qualsiasi sacerdote del nostro Ordine. Ordiniamo e comandiamo, però, che i fornicatori pubblici, gli adulteri, i sacrileghi, i colpevoli di vizio indicibile, i bestemmiatori, i sediziosi, i violenti, i dispensatori di veleno mortale, i divulgatori dei segreti dell’Ordine o quelli che si sono macchiati di qualsiasi altra colpa vergognosa e infame, o siano puniti con carcere perpetuo o siano cacciati con disonore e vergogna dai conventi e dalle province e infine dalla nostra comunione. XXXVIII. A nessuno sia lecito tenere un servitore che sia secolare, eccetto il Reverendo Padre Procuratore dell’Ordine nella Curia romana, al quale sia fornito il vitto dal nostro convento romano per sé e solo per il servitore. XXXIX. Vogliamo che i nostri frati si astengano da ogni genere di caccia, e ordiniamo loro di non allevare cani o uccelli per la cacciagione, sotto pena di espulsione dal convento e dalla provincia nella quale si trovano. Allo stesso modo nessuno può tenere o allevare un cavallo; chi avrà trasgredito questa norma, perda il cavallo che diventa proprietà del convento da cui egli proviene. XL. Poiché il Cristo Salvatore nostro, quando ha detto «ecco: quelli che vestono abiti lussuosi risiedono nei palazzi dei re»12, ha fatto chiaramente intendere che non si addicono a uomini retti né ai suoi eletti agiatezza e ricercatezza degli abiti, mentre si addice alla perfezione un vestito grezzo, ruvido, umile; disponiamo e ingiungiamo a tutti i nostri frati in qualsivoglia condizione e grado si trovino, sotto pena di perdita delle vesti, che non usino abiti lussuosi e invece la tonaca in ogni parte, lo scapolare e la cappa siano di tela o di rascia cremonese di colore nero. La tonaca non sia aperta ma chiusa dal petto sino ai piedi, la sua lunghezza con la cintura raggiunga il dorso del piede ma non lo sorpassi, le maniche siano interamente cucite. La lunghezza dello scapolare non raggiunga il dorso del piede, la larghezza non sorpassi [la larghezza] delle scapole. La cappa sia almeno quattro dita cucita sul petto e abbia la stessa lunghezza dello scapolare. Le cinture siano di cuoio nero con fibbia di osso o di metallo nero e senza puntale, non cucite e senza ornamento alcuno. Ai sacerdoti sono vietati indumenti di lino a meno che non siano colpiti da qualche malanno e dietro permesso del [priore] generale. Vietiamo tassativamente a tutti indumenti plissettati al collo o alle maniche. Le scarpe siano chiare o scure, gli stivali modesti e neri e così si calzino ciabatte e sandali e per nessuna ragione si portino stivaletti ossia i borzacchini bianchi e neppure mantelle e mantelline nere con baveri neanche viaggiando a cavallo. Soprattutto anche vogliamo che tutti gli abiti e gli indumenti siano uniformi e che non rilassatezza e lusso bensì cristiana umiltà per parte loro palesino. XLI. Nessun ufficiale presuma di offrire o di ricevere doni, a parte cibarie; se uno sia scoperto averne ricevuti, sia privato dello stipendio annuo e subito sospeso dall’ufficio. XLII. E poiché molti, attratti e lusingati da desideri e agi, ricusano di servire l’Ordine e per non sobbarcarsi pesi (pesi certo sono i compiti di governo) non vogliono uscire di convento, stabiliamo che chi abbia rifiutato di andare dove l’abbia mandato il Reverendissimo [Padre Generale] per utilità dell’Ordine e incremento del medesimo, sia privato di voce attiva e passiva fino a che non gli sia stata data dispensa dal capitolo generale. 12 Mt 11,8. XLIII. Poiché non è lecito tra consacrati sentire quanto viola la carità fraterna, decretiamo con legge inalterabile che nessuno osi rifiutare, calunniare o ingiuriare alcuno con accuse e specialmente con il marchio di eresia luterana. Se uno abbia colto qualcuno macchiato di essa, lo dichiari al Reverendissimo Padre Generale sotto pena di carcere di due mesi. Sia tenuto anche ciascuno entro un anno a denunziare al Reverendissimo Generale quanto ha notato bisognoso di correzione o nel suo superiore conventuale o nei sudditi, incominciando da quel giorno in cui tali trasgressori sono da lui riconosciuti aver commesso azioni cattive. Scaduto questo termine, se accusasse per motivo di odio, di raccomandazione o di prezzo, la sua accusa sia ritenuta inutile e senza valore. Aggiungiamo che se uno, richiesto dal suo superiore circa trasgressioni e colpe dei propri fratelli, abbia nascosto la verità, e finito l’anno, mosso da odio, desiderio di far del male o di ricevere ricompensa, li accusi al medesimo, oltre a ritenere l’accusa invalida, stabiliamo che quel tale sia ritenuto non più degno di stima nell’Ordine e di conseguenza inabile a qualsiasi ufficio. XLIIII. Stabiliamo per l’avvenire che i frati, di qualsiasi condizione e grado che con l’intenzione di recare offesa si siano percossi con un bastone, un’arma, un pugno, uno schiaffo o con qualsiasi altro strumento, per cui sia risultato una ferita o sangue, dal provinciale, nel caso che siano stati maestri, o dal priore, nel caso che non lo siano stati, siano puniti con il carcere fino a che non sia stata data loro dispensa dal Reverendissimo Padre Generale; e così la norma stabilita nel capitolo generale di Firenze nell’anno del Signore 1295, in parte la ribadiamo, in parte la revochiamo e la dichiariamo invalida. XLV. Il priore provinciale usi dell’ufficio del Generale nella sua provincia, eccetto in quelle cose che per diritto e consuetudine i Generali abitualmente riservano a sé, come sono le promozioni ai gradi del lettorato, baccellierato, magistero e al sacro ordine del presbiterato e molte altre cose; sia tenuto rigorosamente a visitare tutti i conventi della sua provincia, una volta dopo la Risurrezione e una volta dopo la Natività della Beata Vergine e di più, se sarà opportuno. XLVI. Il priore non osi amministrare i proventi dei conventi dove sono più di quattro frati, ma solo ogni mese controlli i conti del procuratore, del sottopriore e del sacrista. Ma se i beni del convento venissero dissipati, possa prendere un giusto rimedio; non possa tuttavia mettere mano a riceverli o a spenderli, né possa deporre il procuratore eletto dal capitolo o il sottopriore o il sacrista, a meno che non l’abbia sorpreso a rubare, senza il consenso della parte maggiore e più sana dello stesso capitolo o del Reverendissimo Padre Generale. Se farà diversamente, sia privato subito dell’ufficio e della voce attiva e passiva per cinque anni. XLVII. Il priore, sotto pena di privazione dell’ufficio, curi prima di tutto di soddisfare i creditori, poi ponga ogni energia perché ai fratelli siano date le vesti, una parte nel Natale del Signore, l’altra parte a Pasqua, e non siano date a uno senza l’altro, e il priore e il procuratore non possano trattenere per sé, se non sono date agli altri comunitariamente. Infine di ciò che resta o costruisca o compra beni mobili o immobili, come alla parte maggiore e più sana del suo convento o del luogo sembra più opportuno. Aggiungiamo che non si intraprendano costruzioni di grande spesa senza il consiglio di esperti e il consenso del Reverendissimo Padre Generale. XLVIII. Stabiliamo che riguardo a qualsiasi cosa per la quale il priore ha interpellato il capitolo, quanto sarà sembrato bene alla parte maggiore e più sana resti fermo. Se le parti sono uguali e contrarie, sia fermo quello cui aderirà il priore, che in ragione della giurisdizione e del primo posto vogliamo che preceda tutti, anche i maestri. XLIX. Coloro che si ribellano al priore e disobbediscono senza giustificazione vengano espulsi dal convento e in questo adempimento il priore sia coadiuvato dai padri consiglieri e da altri del convento. Abbia cura che i frati con vergognoso vociare non schiamazzino, né che gironzolino scompostamente e senza abito [religioso] per il convento; che non resti aperto agli estranei un passaggio per accedere al dormitorio attraverso la cappella; che nessuno introduca estranei in convento per mangiare o pernottare senza ragionevole e urgente necessità; che nessuno intessa relazioni di familiarità con gente di mala fama e con apostati. Soprattutto ancora [il priore] sia vigilante, sotto pena di privazione dell’ufficio, che nessuno lasci entrare all’interno del convento prostitute o altre donne di malaffare: che se qualcuno nottetempo oppure di giorno verrà sorpreso ad aver accolto prostitute o donne di malaffare venga sottoposto a carcerazione [in convento] per una settimana a pane e acqua e dopo da quel convento venga espulso e se fosse figlio di quel convento dallo stesso venga definitivamente estromesso. L. Possa il priore vendere i beni mobili con il consenso della maggiore e più sana parte del suo capitolo; in nessun modo possa compiere vendite di beni immobili, o alienazioni, transazioni, o locazioni oltre tre anni, o fino alla terza generazione o in perpetuo, senza licenza, data per iscritto, del Reverendissimo Padre Generale. Se per caso senza la sua autorità e consenso succeda che dai conventi sia stato alienato qualcosa o che in seguito sia alienato, cosa che ciascun provinciale nella sua provincia vedrà con attenzione, affermiamo e dichiariamo del tutto invalido e senza effetti un fatto del genere, come avvenuto inopportunamente e vanamente contro i buoni costumi, la lodata consuetudine e l’antico istituto dell’Ordine. LI. Ordiniamo al priore e al procuratore che, non appena siano stati eletti, facciano davanti a due padri discreti un registro, in cui si descriva l’intera suppellettile della sagrestia, del dormitorio, dell’infermeria, della cantina, della cucina, del refettorio. Il procuratore riceva tutti i denari del convento, li spenda lui solo, tuttavia con equilibrio e a vantaggio del convento, ogni mese davanti ai padri della famiglia renda conto della sua amministrazione sotto pena di privazione dell’ufficio; i padri del convento non ricuseranno di prendervi parte sotto pena di privazione delle vesti. Se gli capiti qualcosa di difficile, lo comunichi al priore e il priore ai padri; e se è cosa giusta e onesta, i padri diano il loro consenso; se il priore, per negligenza o malizia, avrà rifiutato di presentarla, egli stesso possa da sé presentarlo ai padri i quali, se sarà cosa utile e giusta, la eseguano. Consegnati i conti dal procuratore e se sia rimasto un creditore, o il priore abbia dato a lui del denaro, in nessun modo possano, per pagare il credito o il danaro prestato, ricevere un fondo, una proprietà o una pensione da tenere per sempre, ma soltanto fino a che sia stato soddisfatto un tale credito. Aggiungiamo anche questo, che in futuro nessun priore o procuratore possa essere eletto a discreto del convento né per il capitolo generale né per il capitolo provinciale; se vanno al capitolo allo scopo di rendere conto della loro amministrazione, vi vanno non come giudici e censori. LII. Per provvedere alla coscienza e alla povertà della religione, preghiamo nel Signore i frati del nostro Ordine non dediti agli studi che, impegnandosi in qualche onesto lavoro con silenzio, mangino il loro pane. Se qualcuno, con il denaro lecitamente acquistato, che gli abbiamo concesso di usare, vorrà comprare un fondo o un campo, faccia questo a nome del proprio convento, non di genitori, parenti o di altri amici, sotto pena di perdita di tutti i suoi beni. Quando poi capiterà che un frate, uscendo da questa vita, abbia lasciato un fondo o una proprietà, da qualsiasi parte ricevuta e acquisita, sia destinato senza controversia al convento di cui è originario. E in questo, i frati non si permetteranno sotto qualsiasi colore, pretesto o titolo di esserne suoi eredi. LIII. Perché i beni di tutti non siano amministrati ad arbitrio di uno solo, stabiliamo che il procuratore non faccia alcuna spesa superiore a due ducati all’insaputa del priore e degli altri padri del convento. Vogliamo che nei conventi più nobili e più ricchi si tenga uno scrigno di tre chiavi, in cui si deponga tutto il denaro riscosso e ricevuto, descritto in un registro da conservarsi lì e quando si depone e quando anche si preleva a secondo delle necessità. Il priore tenga una chiave, l’altra il procuratore e la terza un buon padre del convento, da scegliersi a giudizio degli altri padri. In sagrestia sarà anche approntata una cassetta, in cui si depongano le elemosine delle messe per mano di quelli che le offrono; né il sacrista o un altro oserà toccarle sotto pena di privazione della sua tonaca. Se da quelle elemosine si danno le vesti ai frati, si diano di mese in mese e dallo stesso procuratore siano spese e distribuite secondo l’esigenza e la necessità dei frati. LIV. Se uno, senza consenso dei suoi superiori, è rimasto otto giorni fuori dell’Ordine, sebbene abbia vissuto con l’abito e religiosamente, non può essere ricevuto nell’Ordine senza licenza del Reverendissimo Padre Generale. LV. Designiamo per l’esame di tutte le antiche costituzioni non adatte ai nostri tempi, quattro uomini autorevoli, il reverendo padre maestro Domenico da Padova, il reverendo padre maestro Girolamo da Bologna, il reverendo padre maestro Girolamo da Sommariva, il reverendo padre maestro Zaccaria da Firenze, perché, rivedendole e dopo averle ridotte in compendio, le portino al prossimo capitolo generale, i definitori ne diano un giudizio e insieme al Reverendissimo Padre Generale indichino il da farsi. LVI. Ad ogni sacerdote prescriviamo dodici messe da celebrare entro lo spazio di cinquanta giorni dalla notizia del testo presente, tre per lo stato felice e tranquillo del santissimo nostro signore Paolo III, tre per la pace santissima dei principi cristiani, tre per la prosperità e l’unione di questa insigne città, infine tre per la salute del Reverendissimo Padre Generale e dei suoi collaboratori. I chierici, invece, al posto delle messe dicano una volta il salterio, i laici cinquanta Pater noster e altrettante Ave Maria. E poiché il più delle volte i nostri statuti non sono osservati per negligenza di quelli che sono in autorità, ordiniamo a tutti i provinciali che vigilino a questo proposito con particolare attenzione: altrimenti li deporremo costringendoli a lasciare la carica come indegni di un tale compito. Questo è quanto abbiamo ritenuto di dover scegliere da tante sanzioni dei nostri antenati. Fra Agostino Bonucci da Arezzo Priore Generale che ordina, prescrive e comanda di propria mano. Stampato a Bologna presso Bartolomeo Bonardo di Parma nell’anno del Signore 1548. II. Costituzioni 1556 Il capitolo generale celebrato nel mese di maggio 1554 a Verona elegge priore generale il trevisano di Castelfranco fra Lorenzo Mazzocchio, già quasi sessantacinquenne - il suo stemma fu portato in trionfo: vi campeggiava la scritta libertas - e delibera la revisione delle costituzioni. L’opera viene completata nel giro di due anni: le nuove costituzioni furono edite a Bologna nel 1556. Si tratta di un corpus analogo strutturalmente ai precedenti (edizioni 1280 e 1503), ma contenutisticamente assai innovativo. Le novità più vistose concernono l’inserimento dei capitoli relativi agli ordini sacri, ai confessori, agli studenti, ai gradi accademici, ai libri proibiti, ai processi canonici, all’amministrazione dei beni comunitari, alle visite delle comunità, alla vacanza di uffici, ai beni dei frati defunti, all’appartenenza del frate al convento (affiliazione), ai capitoli provinciali e generale, alla lettura delle costituzioni; significativa risulta la stringatezza sulla casistica e varietà di colpe e pene. Esso era un buon progetto di vita, sobrio, rispettoso della tradizione e attento alle pur contraddittorie istanze dell’attualità, sufficientemente equilibrato tra rigore della norma e riguardo verso le persone, fra individuo e comunità, fra ingiunzione e libertà. Venne abrogato e ridimensionato nel capitolo generale undici anni dopo. Il testo veronese/bolognese fu approvato dal papa Paolo III quale mediazione di pietà e religiosità nonché quale sostegno e garanzia per l’Ordine intero13. Anche il cardinale Girolamo Dandini, appena eletto protettore dell’Ordine, rinnova gli elogi al testo che propone ai frati un sano progetto di vita, onorando così la Trinità e la vergine Maria che presiede la comunità dei Servi14. Nonostante siffatte testimonianze le costituzioni del Mazzocchio restano in vigore pochi anni, fino al 1567 (capitolo di Bologna). Disparità di valutazioni, divergenze e antipatie personali, novità forse troppo brusca ed eccessiva o affrettata, sopravvenute risultanze conclusive del concilio di Trento (finito sette anni dopo) ne determinarono l’accantonamento. Il concilio di Trento aveva celebrato la seconda fase (1551-52). [ edizione: P.M. SOULIER, Constitutiones fratrum Servorum Beatae Mariae Bononiae anno 1556 editae, in Monumenta OSM, VI, Bruxelles 1903-1904, p. 79-107 BOLOGNA 1556 Cap. I. Riverenze alla Beata Maria 1. Ogni sabato si canti la messa conventuale de Domina con il Gloria e il Credo, come in una festa doppia15, all’altare della nostra beatissima Madre, a meno che non ricorra quel giorno una festa solenne. Ugualmente ogni mercoledì si canti la messa votiva de Domina nella quale si facciano preghiere per il Reverendissimo e Illustrissimo Protettore del nostro Ordine, cui non in altro modo possiamo esprimere degni ringraziamenti. 2. Ogni sabato ci sia l’ufficio de Domina, come in una festa semidoppia, a meno che in quel giorno non ricorra una festa solenne. 3. La Vigilia de Domina si dica ogni sera con tre letture e due responsori, e la Salve Regina dopo la terza lettura. Ma di venerdì si canti come in una festa doppia. E si accendano due ceri. 4. L’ebdomadario all’inizio di ogni ora, recitato in segreto il Pater noster, subito dica Ave Maria, etc., con il tono con cui dirà Deus in adiutorium meum etc. [Signore vieni in mio aiuto], e il coro risponda, Benedicta tu etc. fino a Iesus incluso. Anche il sacerdote, che sta per celebrare la messa, la inizi dalla salutazione della Vergine, e il ministro risponda come sopra. Anche il lettore, prima di iniziare la lettura al mattutino, dica Ave Maria fino a Iesus incluso, in ogni tempo, eccetto nel triduo 13 cf. Monumenta OSM, VI, p. 79-80. ibid., p. 80-81. 15 Festa doppia e semidoppia corrisponde a quello che noi oggi intendiamo per solennità e festa. 14 della settimana santa: allora infatti dobbiamo osservare il modo della Chiesa Romana. Nell’inno Memento salutis si inserisca il verso Maria mater gratiae16. 5. Alla fine della messa e di ciascuna ora canonica, si dica la Salve Regina o altra antifona secondo l’uso della Curia Romana, cui, per quanto possiamo, bisogna conformarci nelle preghiere pubbliche della Chiesa. Questa antifona tuttavia sia cantata ogni giorno dopo compieta, ma nei giorni di festa dopo i vespri per devozione del popolo. Vi partecipino tutti i frati. E perché non si accampino scuse, si suoni la campana per il saluto alla Vergine. 6. Si costruisca ogni chiesa e il suo altare maggiore e sia consacrato a onore e titolo della Beata Maria, dove questo può essere fatto facilmente. 7. La memoria della Beata Vergine avvenga nella messa, ai vespri e alle lodi del mattino secondo l’uso della Curia Romana. 8. Le ore de Domina si dicano in coro secondo la rubrica del breviario romano; ma quando vi leggiamo che devono essere omesse, si dicano in privato devotamente da due o più frati secondo la loro possibilità. Cap. II. Le celebrazioni liturgiche 9. La messa e gli altri divini uffici si celebrino secondo il rito della Curia Romana. A loro tempo siano fatte le commemorazioni del beato Agostino, del beato Filippo, nonché dei santi protettori dei luoghi e della patria, e questa nell’orazione A cunctis nella messa; ai vespri invece e al mattutino si concludano con una sola o più orazioni come piace ai padri. 10. L’ufficio doppio avvenga nelle feste dei santi Anna, Agostino, Filippo, Giuseppe e in tutte le feste della beata Maria. Ugualmente nella festa di san Benedetto, Domenico, Francesco e di tutti quelli che sono stati fondatori o riformatori di un Ordine regolare. Per il resto seguiamo l’ordine della Curia Romana e della cattedrale locale. [11-12] 13. Tutti i chierici, non impediti per ragionevole causa da impegni riguardanti la comunità, partecipino alle ore canoniche diurne e notturne [...]. I laici e quelli che non sanno leggere partecipino ogni giorno alla messa e recitino la corona, come è detta volgarmente, al posto di tutte le ore, perché possano più facilmente compiere i loro uffici in casa e fuori. [14-16] 17. La confessione solenne e la comunione per i frati e il nostro personale avvengano nella prima domenica di Avvento, nel giorno della Natività del Signore, nell’Epifania, nella Purificazione, all’inizio del digiuno quaresimale, nella Risurrezione di nostro Signore, nell’Ascensione, nel giorno santo di Pentecoste, nella festa del santissimo Corpo e Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo, nell’Annunciazione, nella Visitazione, nell’Assunzione, nella Natività e Presentazione della Beata Maria, nella festa degli apostoli Pietro e Paolo, nella festa di Tutti i Santi. 18. I sacerdoti, destinati a celebrare con maggiore frequenza, devono ricordare l’avvertimento del beato Paolo: chi mangia e beve indegnamente, mangia e beve la propria condanna17. Perché possano più facilmente purificare il loro animo, ogni sacerdote abbia la facoltà di assolvere chiunque del nostro Ordine da tutti i peccati, eccetto quelli riservati dal diritto, dal priore generale, provinciale o conventuale. Le predette persone badino tuttavia di non turbare le anime dei sudditi con il moltiplicare i casi riservati. 19. Quando i frati convengono in chiesa per celebrare i divini uffici, vi accedano di giorno e di notte con l’abito intero: questo infatti contribuisce moltissimo ad accrescere la devozione. [20-21] Cap. III. Gli inchini [22] 16 È la terza strofa dell’inno proprio della liturgia natalizia che inizia con Memento salutis auctor [Ricordati, autore della salvezza] di cui si aveva una utilizzazione separata nell’Ufficio parvo della Madonna. Prima della strofa conclusiva [Gloria tibi Domine ...] si inserisce la strofa Maria mater gratiae [Maria, madre di grazia /madre di misericordia/, proteggici tu dal nemico/ e nell’ora della morte accoglici]. La prescrizione si trova ancora nell’edizione del 1569. 17 cf. 1Cor 11, 29. 23. Sia fatto un inchino profondo [...] alla messa [...] alla prima colletta del giorno, alla colletta de Domina [...]. Nelle singole ore, alla preghiera del giorno e de Domina. A prima, quando si dice l’orazione Sancta Maria et omnes sancti. Infine quando si nomina il venerabile nome di Gesù e di Maria. [...] Cap. IV. Le genuflessioni18 24. Ci inginocchiamo [...] a tutta la Salve Regina quando viene recitata; quando invece è cantata, fino al secondo Salve. In ginocchio anche per l’inizio dell’inno Ave maris stella. [...] [25] Cap. V. Il modo di stare in piedi e di sedere in coro [26-27] 28. Tutto l’ufficio de Domina sia celebrato stando in piedi [29] Cap. VI. I suffragi per i defunti 30-33] Cap. VII. Il silenzio [34-35] Cap. VIII. I digiuni [36-37] Cap. IX. Il cibo 38. All’ora conveniente si suoni la campana per lavarsi le mani. E radunatisi i frati, dato il segnale dal superiore, si faccia la benedizione secondo l’uso della Curia Romana: al termine, tutti siedano ai propri posti. Tuttavia il superiore potrà, se gli sembrerà opportuno, dispensare in parte o per tutto il pranzo per una giusta ricreazione dei frati. Quando ci si alzerà dalla mensa, si faccia il ringraziamento a Dio secondo l’uso della Curia Romana. Nessun frate rimanga alla seconda mensa, a meno che non abbia servito nella prima, o per altri motivi non abbia potuto partecipare alla prima, così che non ci sia bisogno di una terza mensa. 39. [...] Tutti siano contenti del cibo del convento; e si osservi uguaglianza nel cibo e nella bevanda, per quanto sarà possibile, per eliminare ogni occasione di mormorazione. Si tenga conto degli infermi, degli anziani, delle costituzioni fisiche: di tutti questi non si può dare una legge sicura. Regola certissima sarà la prudenza del superiore, accompagnata dalla carità che non agisce ingiustamente19. Cap. X. La cura degli infermi 40. Riguardo gli infermi il superiore badi di non essere negligente: infatti gli ammalati devono essere trattati in modo che guariscano presto. E fino alla guarigione, siano trattati umanamente e ristorati benevolmente nel cibo, nella bevanda, nelle medicine e nelle altre cose che possono rendere più lieve la malattia o eliminarla del tutto. Tutto questo solo la carità potrà insegnarlo. In ogni monastero, secondo quanto lo permetta le sue possibilità, siano previsti luogo e un solo ministro o più d’uno. Cap. XI. Il modo di dormire [41-43] Cap. XII. L’abito 44. Tonaca, scapolare, pazienza, cappa o mantello siano di colore nero, di lana, in modo che tuttavia sia conservato il decoro dell’Ordine, e si eviti assolutamente ogni vanità nel valore e nell’ornamento. Gli indumenti che vengono portati sotto l’abito siano bianchi o neri o di colore misto, e comunque di minor valore a seconda degli usi locali. Siano fatti più per respingere il freddo che per lusso. Riteniamo che non sia importante l’uso di camicie di lana o di lino, purché si eviti il lusso e una frivola combinazione. 45. La tonaca sia cinta con una cintura di cuoio nero, con fibbia ugualmente nera e senza alcun ornamento. La lunghezza della tonaca, pazienza e cappa o mantello non sia tale da spazzare la 18 Il cap. IV delle Constitutiones antiquae è stato diviso nei capitoli IV e V. Cfr 1Cor 13, 4. Scompare il cap. IX (La “colazione” serale che nelle Constitutiones antiquae seguiva il capitolo sul cibo). 19 polvere, ma conveniente a un uomo religioso. Gli abiti non siano troppo ricchi e abbondanti, ma si adattino al corpo con senso di misura. Sant’Agostino dice nella Regola che professiamo: Il vostro modo di vestire non attiri l’attenzione20. Ci copriamo di quest’abito proprio in segno di innocenza e di umiltà. [Cap. XIII. La tonsura 46 Cap. XIV. Coloro che vengono accolti nell’Ordine 47-49] Cap. XV. I novizi 50. A guida dei novizi sia posto un maestro degno e di vita integra, il quale li istruisca nella Regola, le Costituzioni, le cerimonie e la vita religiosa. I novizi abbiano un luogo a parte dal dormitorio dei frati; non abbiano rapporti con gli altri frati se non in chiesa e in refettorio. Vivano tra di loro e con il loro maestro. 51. Non si pensi soltanto a istruirli nei costumi, ma anche nelle belle lettere e nella musica. Perciò, tenendo conto dei luoghi e dei novizi, si chiamino esperti in quelle arti, o religiosi o secolari, purché di buona reputazione e di vita illibata. 52. E non siano ammessi ovunque in tutti i conventi dell’Ordine novizi che siano anche implicati in affari vilissimi. Perciò in ogni provincia si determini uno o più noviziati ai quali siano inviati tutti i novizi di quella provincia. Ad essi provvedano coloro chi lì li avranno inviati secondo quanto sarà stato stabilito dal Priore generale con i due visitatori. I novizi non siano mandati in parti lontane, se non per un urgente motivo. Non vengano impiegati in qualche lavoro, ma siano totalmente impegnati nello studio della vita dell’Ordine e delle belle lettere. Non siano ordinati, prima della professione, a nessun ordine della Chiesa. 54. Siano sottomessi al proprio maestro, il quale soltanto stabilisca le pene per novizi erranti; nemmeno il priore osi correggere i novizi; ma se vedrà o udrà qualcosa che deve essere corretto nei novizi, avverta il maestro. Se questi, pur avvertito, avrà trascurato di correggere gli erranti, sia corretto egli stesso dal priore. È infatti preoccupazione del superiore indirizzare la vita e riportare gli erranti sulla via della virtù. [Cap. XVI. I professi21 55-56] Cap. XVII. Il rituale della professione. 57. Questo sarà il rituale della professione [dei voti]. Convocati pubblico notaio e testimoni, [il novizio] inginocchiato alla presenza del priore mentre tutti i padri stanno seduti, dica: Io N., figlio di N., nel secolo chiamato N. e nell’Ordine [chiamato ] fra N., avendo portato l’abito dei novizi nell’Ordine dei frati Servi della beata Maria lungo un intero anno, contando N. di età, prometto e faccio voto a Dio onnipotente, alla beata Maria sempre vergine e a te padre priore e ai tuoi successori, castità, obbedienza e di vivere senza proprietà secondo la Regola del beato Agostino e le Costituzioni dell’Ordine dei frati Servi della beata Maria per tutto il tempo della mia vita. 58. E di questa professione si faccia pubblico documento, che si custodirà in uno scrigno e nell’archivio dei manoscritti di quel monastero al quale il professo appartiene. 59. Di seguito si benedicano le vesti in questo modo, ovvero: il priore dica il versetto Mostraci, Signore, [la tua misericordia] al quale i padri rispondono: e [donaci] la tua salvezza; Signore, esaudisci [la mia preghiera], e [giunga a te] la mia voce; il Signore sia con voi, e con il tuo spirito. Preghiamo. Signore Gesù Cristo, che ti sei degnato di rivestire l’abito della nostra mortalità, supplichiamo l’abbondanza della tua immensa generosità, affinché ti degni di benedire questo genere di vesti che i santi padri sancirono di portare quale segno di innocenza e umiltà, di modo che chi di essi verrà rivestito nel corpo, parimenti rivesta nella mente e nell’animo te Signore nostro. Amen. 60. Terminata la benedizione, subito dopo [il professo] venga rivestito con la tonaca mentre il priore dirà: Ricevi la tunica talare quale segno di impegno e modestia. Alla cintura: ricevi questo cingolo 20 21 IV, 1: «Non sit notabilis habitus vester, nec affectetis vestibus placere sed moribus». Il cap. XVI delle Constitutiones antiquae si scinde nei capitoli XVI-XVII. intorno ai fianchi quale segno di perpetua castità. Alla pazienza (scapolare): ricevi [questo] indumento che copre la parte anteriore e posteriore del corpo , aperto in alto e su entrambi i fianchi: con esso viene significato che tu sopporterai con animo paziente le vicende prospere e avverse solamente se ti soccorrerà la divina grazia. Al cappuccio: ricevi questo indumento che copre il capo e la nuca quale segno di umiltà. Al mantello: ricevi il mantello e sii sempre sotto la protezione della beata Vergine e interamente sottomesso al suo patrocinio. Allo stesso modo [il professo] entri con il bacio di pace nell’amicizia profonda e confidenza di ciascuno. 61. Il medesimo rituale della professione si osservi anche nella professione di coloro che chiamiamo ‘conversi’, ai quali sarà dato l’abito completo; solo non si permetta che accedano agli studi e portino la tonsura che distingue i chierici, ma se ne vadano a capo completamente rasato. 62. Se però qualcuno dopo l’anno di noviziato non vorrà fare la professione, o immediatamente se ne torni a casa sua non senza avere deposto l’abito dei novizi, oppure il tempo della professione venga ancora un poco differito ma non oltre sei mesi, trascorsi i quali o fa solenne professione o torna dai suoi familiari. Cap. XVIII. Coloro che sono in viaggio Quando un nostro frate per obbedienza viene mandato in qualche luogo, porti con sé le lettere testimoniali firmate dal suo superiore nonché denaro sufficiente per il viaggio preso dal proprio peculio o dal deposito comune, a seconda della sua condizione personale. Se però egli stesso per motivo di diporto o per qualsivoglia altra ragione si recherà in luogo diverso, ugualmente porti con sé le lettere dimissorie firmate dal suo superiore e in esse sia precisato il tempo del ritorno, ma nessuna somma di denaro comune gli venga messa a disposizione. Prima di uscire dal monastero con umiltà domandi la benedizione al suo superiore. 64. Quando poi durante il viaggio sarà giunto a qualche monastero, immediatamente si presenti al priore di quel luogo e gli mostri il documento di viaggio. Se però si scoprirà che non ha quel documento, non resti accolto nel monastero più di un giorno in quanto sospetto di fuga [dal proprio convento], a meno che la sua situazione sia tale da non far temere in alcuna maniera una sua fuga. 65. Chi avesse osato falsificare documenti o sigillo del responsabile e venisse dimostrata la sua colpevolezza, venga punito per falso. Cap. XIX. Promozione agli ordini sacri. 66. Massima diligenza venga adoperata nel promuovere qualcuno agli ordini sacri, in modo che vengano ammessi solo uomini morigerati e buoni adeguatamente edotti nelle materie letterarie. Almeno debbono saper leggere speditamente e intelligibilmente; siano istruiti nell’arte grammaticale; sappiano cantare il gregoriano (cantus firmus), infine siano riscontrati adeguati ad adempiere i doveri ecclesiastici. Diciotto anni sarà l’età per il suddiaconato, venti per il diaconato, venticinque per il presbiterato: ma per quanti si dedicheranno agli studi superiori vi sarà dispensa a ventitre anni. 67. La verifica della buona condotta e dell’età sarà compiuta approfonditamente da visitatori nel luogo di ciascuno. E nessuno ardisca prendere l’ordine sacro se non ha per iscritto il nulla osta e l’attestato del padre generale firmato da lui e dai padri visitatori. Se tuttavia qualcuno avrà ottenuto quell’ordinazione saltando una tappa o fraudolentemente, oltre le pene canoniche, per tre giorni sarà soggetto a carcerazione [in convento] e digiunerà a pane e acqua in quei tre giorni; dall’esercitare quell’ordine resterà sospeso fintanto che gli verrà accordata sanzione da parte del capitolo generale. 68. Quelli poi che ora esercitano il sacerdozio se non sapranno leggere distintamente né recitare l’ufficio secondo le norme, vengano privati dalla celebrazione e siano impiegati nelle stesse mansioni dei laici. E quanti li avranno spalleggiati e favoriti vengano privati di ogni incarico. Cap. XX. I confessori. 69. La medesima diligenza deve essere impiegata nel designare i confessori dei secolari, di modo che nessuno venga ammesso ad ascoltare le confessioni dei secolari se non abbia trent’anni, sia competente a trattare casi di coscienza e uomo dotato di buona reputazione. Quindi il priore generale durante le sue visite [nei conventi] inserisca quelli che riscontra idonei nell’elenco di tale servizio, sottoscritto e sigillato da entrambi i visitatori. Nessuno al di fuori di quelli inseriti nell’elenco ardisca ascoltare la confessione di qualsiasi secolare uomo o donna che sia: e chi avrà agito contro [questa norma] sarà sottoposto a carcerazione [in convento ] per un mese e lungo tutto quel mese si alimenterà solamente con pane e acqua. Cap. XXI. I confessori delle monache. 70. I confessori o i direttori spirituali delle monache siano maturi per età e buona condotta, morigerati e integerrimi. E non entrino nel monastero se non per ragione di malattia o di visita [canonica] e anche allora solo se accompagnati da due monache tra le anziane. 71. Fatta eccezione per costoro e per i visitatori nel corso della visita [canonica], nessuno ardisca entrare nei monasteri di monache del nostro né di altro Ordine, sotto pena di non uscire dalla clausura del proprio monastero per un anno intero. Regali non vengano dati né ricevuti né si scrivano lettere, sotto la medesima pena. Cap. XXII. Gli studenti. 72. Bisogna aver cura che i giovani fino all’età giusta per il sacerdozio, dopo aver emesso la professione, vengano istruiti nelle discipline umanistiche. Pertanto non devono essere impiegati in lavori servili; ma come persone libere e nobili devono essere incoraggiati in tutti i modi allo studio delle belle lettere e favoriti relativamente al luogo, docenti e facilitazioni: infatti sono destinati a diventare padri e colonne dell’Ordine. E non devono essere lasciati al loro proprio arbitrio, ma sotto la verga del maestro devono essere guidati e tenuti fermi al loro dovere. 73. Una volta individuati i più idonei a materie più elevate, siano promossi. In qualsiasi provincia ci sia almeno un luogo per studenti nelle arti, dove si trovi un lettore con discepoli a lui affidati dal capitolo generale; ad essi tenga ogni giorno due lezioni, facendo seguire materie con esami e dispute secondo il metodo dialettico. 74. Osservato questo ordine, inizi dagli elementi della dialettica e svolga tutta la dialettica di Aristotele, che si chiama anche Organum, leggendo e discorrendo con i suoi studenti, non trattando nel frattempo nulla delle altre discipline. Poi con il medesimo ordine percorra i singoli libri della filosofia naturale. Tutto questo sarà portato a termine molto bene in tre anni, se non vi sono pause eccessivamente prolungate. 75. Ci sia ugualmente un medesimo luogo o un altro dove si leggono i quattro libri delle Sentenze del Maestro22. A questo luogo accedano soltanto quelli che abbiano seguito le lezioni di dialettica e di filosofia naturale, per ascoltare sotto uno o più docenti tutti i libri delle Sentenze con domande e quesiti posti a piacere dal docente. 76. Non siano ammessi alla dialettica se non intendano adeguatamente e non sappiano esprimere correntemente in latino quanto intendono. E non si applichino alla filosofia naturale se non abbiano appreso bene tutto l’Organum di Aristotele. Infine non siano ammessi alle lezioni delle Sentenze, se non abbiano completato lo studio di tutti i libri di filosofia naturale pubblicati da Aristotele. 77. Se è possibile, sotto un solo e medesimo insegnante i medesimi studenti, nelle varie tappe successive, studino la dialettica, la filosofia naturale e le Sentenze teologiche: ciò infatti ha molta importanza per un apprendimento fruttuoso. 78. Fatto questo, quelli che saranno risultati più idonei alla speculazione, la completeranno in sei anni, potranno proporre altri tre anni, ascoltando insegnanti più difficili in qualche Università, e poi a turno leggere e confermare altri insegnando quanto abbiano imparato: questo metodo di studio appare ottimo e assai fruttuoso. Quelli che saranno più adatti a predicare, potranno dedicarsi alla morale e attendere alla predicazione: niente però deve essere tentato se, come si dice, Minerva non vuole23. 22 Il “Libro delle Sentenze” (“Quatuor libri Sententiarum") è l’opera teologica che più di tutte ha reso famoso il nome di Pietro Lombardo (1110 ca.-1160/64) assegnandogli un posto di rilievo nella storia della teologia medievale e il nome di "Magister Sententiarum" o semplicemente "Magister". In una lunga serie di temi, Lombardo affronta l’intero corpo della dottrina teologica organizzandola in un insieme sistematico. 23 La locuzione latina “invita Minerva” - contro la volontà di Minerva (Orazio, Ars poetica, 385) – è venuta a indicare, essendo Minerva la dea della sapienza, quanti pretendono di dedicarsi a studi per i quali non hanno capacità naturali. 79. Gli studenti siano sottomessi all’autorità del priore del convento in ogni cosa, tranne quanto palesemente concerne lo studio, come libri, lezioni e cose di questo genere: spetterà infatti al docente giudicare intorno a queste cose. I priori tuttavia cerchino di sollevare gli studenti dalle incombenze del monastero, di modo che siano più pronti allo studio delle lettere. Cap. XXIII. Gradi accademici 80. Nessuno sia promosso al baccellierato in sacra teologia se non ha seguito i corsi relativi alle arti e ai libri delle Sentenze nell’ordine suddetto. Di questo si richieda al priore generale valida e ferma approvazione. Neanche siano ammessi se non siano stati dichiarati pubblicamente nel capitolo generale e per decreto dei definitori in scrutinio segreto e con il consenso della maggioranza. 81. Nessuno sia promosso al grado di maestro o al medesimo sia concessa la facoltà di promuovere, se non sia già divenuto baccelliere e abbia letto tutti e quattro i libri delle Sentenze in un luogo di studio; e ciò sia comprovato con testimonianza degna di fede e solida. Solo in capitolo generale dai padri definitori siano date tali licenze a quelli che saranno stati ammessi dalla maggioranza dei padri definitori con votazione segreta. 82. Tra quelli che sono stati ammessi il priore generale proclamerà maestri solo due secondo la bolla di Innocenzo VIII. Agli altri ammessi darà facoltà, con lettere patenti, di poter assumere le insegne del magistero solo in una università approvata. 83. Chi dunque per altra via da quella indicata oserà rivendicare per sé tali gradi, sia sospeso in perpetuo dal grado e sia privato per tre anni di voce attiva e passiva. Cap. XXIV. Privilegi dei maestri. 84. I maestri in teologia saranno direttamente sottomessi all’autorità del priore generale nei casi di maggiore importanza, mentre negli altri obbediranno al priore conventuale. Nelle precedenze saranno i primi, tolto il priore nel proprio monastero. Non saranno oberati con il servizio nei turni delle messe, del mattutino, di ebdomadario; ma a loro scelta siano lasciati andare, quando vorranno, a celebrare la messa o partecipare alla liturgia delle ore diurne e notturne. Li esortiamo tuttavia nel Signore che nella celebrazione della messa e nell’eseguire altre azioni cultuali stimolino gli altri frati con il loro esempio. 85. Il priore conventuale provveda ai maestri un inserviente, il quale peraltro sia servizievole anche nelle faccende comunitarie. Coloro che stanno insegnando avranno olio [per le lampade], legna [per la stufa], un inserviente e tutto quanto sarà per loro opportuno secondo consuetudine; così pure [avranno] i predicatori durante quel servizio. 86. Bisogna tuttavia che i reverendi maestri ricordino che sebbene ogni cosa potrebbe esser lecita, non ogni cosa potrebbe essere opportuna. Quelli che sono più grandi, siano come servi. Si prodighino per procurarsi prestigio e autorevolezza con le benemerenze piuttosto che con la sontuosità. Si accontentino della mensa comune e collaborino con gli incaricati [della comunità]. 87. I privilegi e le esenzioni dei maestri non siano più attribuiti ai non maestri. Se sono stati dati siano rimossi e li si intenda revocati dal presente decreto. Si tenga conto tuttavia dell’età, dei meriti, della condizione di salute, secondo il principio del beato padre Agostino: non in modo uguale per tutti avete la medesima salute24. Cap. XXV. I predicatori. 88. Nessuno intraprenda la predicazione se non mandato dal priore generale, del quale deve esibire il rescritto contrassegnato da sua firma e sigillo. Inoltre non venga inviato a predicare la parola di Dio chi non abbia il diploma di baccelliere o non sia dottore in sacra teologia o non possegga una cultura adeguata per coprire siffatto impegno, e colui al quale sia stata inibita la facoltà di predicare dagli inquisitori della eretica perversità. 89. Si guardino bene nel corso della predicazione dal propagandare davanti al popolo le menzogne e le dottrine ereticali. Invece con franchezza predichino la parola di Dio, esaltino la verità cattolica e la santa romana chiesa, seguano i dottori cattolici e i sacri concili. 24 Regula ad servos Dei I, 3: «non aequaliter omnibus, quia non aequaliter valetis omnes». 90. Se poi qualcuno abbia sconfinato a tal punto di demenza da insegnare eresie, oltre le pene da infliggere a tenore dei sacri canoni, sappia che quanto prima si dovrà presentare all’ufficio della sacra inquisizione al fine di affrontare una salutare penitenza non senza pubblica abiura. E chi senza il consenso del priore generale, come detto, avrà presunto di predicare con temeraria audacia, sarà privato del diritto di voto attivo e passivo nonché dell’ufficio di predicare per tre anni. Cap. XXVI. Divieto di tenere libri proibiti. 91. Chi avrà tenuto presso di sé libri elencati nel catalogo di quelli proibiti, sappia che è incorso nella pena della scomunica e che dovrà espiare con l’abiura e una salutare penitenza secondo la deliberazione della sacra inquisizione. Pertanto il priore generale nelle sua visite [canoniche] accuratamente ispezioni le celle dei frati e se troverà testi siffatti stampati o manoscritti infettati di tale veleno, li porti via e li custodisca diligentemente finché il reverendo signor commissario della sacra inquisizione non ne venga informato. [Il priore generale] imponga ai priori e ai docenti locali che con la massima sollecitudine siano vigilanti su questo. Gettino alle fiamme anche tutti i libri che trovano di argomento futile, erotico, alchemico, superstizioso e traviante. Come le conversazioni, così pure gli scritti cattivi corrompono i buoni costumi. Cap. XXVII. Processi canonici 92. Finché viviamo nella carne, bisogna vivere nella carne. Le opere della carne difficilmente si possono frenare senza il ricorso a una pena. Perciò si riconosce la necessità di una giustizia punitiva. Perché dunque nei processi ci si muova secondo le norme, sia stabilito come sotto indicato. 93. Se uno vorrà procedere per vie legali contro un frate del suo o di altro convento, “l’attore segua il forum rei”25. Un giudice ordinario ascolti ambedue. Se la questione può essere risolta sommariamente, non si rimandi la sentenza ad altro momento. Se invece la causa è tale da esigere scritture e testimoni, sia data alle parti la possibilità di completare l’argomentazione circa i propri diritti. Una volta fatto questo, sommariamente, non conservato l’ordine del diritto, metta la sentenza per iscritto. 94. Se qualcuno ritiene di aver subito un’ingiusta sentenza, sia possibile da quella sentenza appellarsi a un giudice superiore, così che dal priore conventuale ci si appelli al provinciale, da questi al generale, dal generale ai definitori del capitolo generale: dopo questi, in quanto suprema magistratura, in alcun modo sia lecito appellarsi ulteriormente. Chi poi vorrà staccarsi dalle sentenze dei definitori del capitolo generale, sia considerato indegno di portare l’abito del nostro Ordine. Se, ammonito, non vorrà accettare, come reo di gravissima colpa sia cacciato dalla nostra società, spogliato dell’abito dell’Ordine. Ma se la causa sarà portata al Reverendissimo e Illustrissimo Protettore dell’Ordine, il priore generale o il procuratore dell’Ordine in Curia romana difenda la causa e risponda al posto dell’assente. 95. Gli impostori e quelli che all’esame sono stati trovati manchevoli, siano puniti gravemente secondo la gravità delle colpe e siano sottoposti alla legge del taglione. Non venga imposta una pena pecuniaria a chi ha sbagliato dei nostri padri, ai quali va concesso null’altro oltre il vitto modesto e il vestito. Ma se nel ministero uno sarà condannato di furto, restituisca il maltolto e sconti nella sua persona ciò che non potrà in danaro, secondo le pene indicate per la colpa più grave. 96. Nessuno sia cacciato dall’Ordine per una colpa sia pure molto disonorevole, se non per ribellione tenace e manifesta, quando rifiuterà cioè ostinatamente di subire la salutare penitenza che gli è stata imposta. I nostri frati, infatti, devono essere corretti nell’Ordine nostro e non respinti vergognosamente verso lo scandalo del mondo e la perdizione delle anime. 97. In alcun modo dai superiori del nostro Ordine sia data licenza a uno dei nostri professi di dimorare a lungo fuori clausura per qualsivoglia pretesto o causa, con o senza l’abito, a meno che non sia per motivo di studio in una università dove non ci fosse un monastero del nostro Ordine, o per affari comuni o per ragione di servizio in qualche oratorio del nostro Ordine o per una giusta causa di servizio a un monastero di altro Ordine. 25 actor sequitur forum rei è una espressione giuridica. Letteralmente: “l’attore – cioè la persona che introduce la causa – segua il foro della cosa”, cioè il foro competente. 98. Tutti i processi e le sentenze, che saranno fatti nel corso delle visite, siano osservati diligentemente fino al capitolo generale; allora infatti dai definitori si dovrà decidere se conservarli in archivio o bruciarli. [Cap. XXVIII. Gli apostati 99-102] Cap. XXIX. L’amministrazione conventuale. 103. Poiché a noi viene concesso di avere in comune beni mobili e immobili, i quali se non fossero fedelmente custoditi da avveduti amministratori facilmente cadrebbero in rovina, al fine di conservarli e aumentarli siano designati uno o più procuratori. Costoro però renderanno conto succintamente della propria gestione ogni mese in capitolo sulle singole voci. Tuttavia prima che i rendiconti vengano nel complesso trascritti nel registro ufficiale del monastero, siano uno ad uno diligentemente esaminati da due padri esperti designati dal capitolo conventuale alla presenza del priore del convento e in base al loro giudizio vengano trascritti nel registro ufficiale. 104. Poiché, ancora, ci venne permesso, al fine di evitare liti, irritazione e grossolana negligenza di certuni, che ognuno custodisca le cose proprie e sia ciascuno amministratore di se stesso, ognuno di noi deve essere consapevole che non esiste presso di noi la piena proprietà ma che noi siamo amministratori e custodi. Pertanto ognuno si studi di apparire amministratore fedele. Scacci ciascuno dall’animo suo la sordida cupidigia della proprietà e di buon cuore sia disponibile a contribuire a beneficio del proprio fratello indigente e dell’interesse comune. 105. Inoltre, affinché i proventi annuali bastino per la famiglia [conventuale], in tutti e singoli monasteri si faccia una realistica e prudente valutazione sui proventi dell’anno; e si indichi quello di cui la famiglia ha bisogno per essere mantenuta e alimentata, dedotti anzitutto gli oneri comuni, le imposte statali, le decime, le collette e altro di simile secondo le procedure dei luoghi e dei tempi. Così infatti risulterà che in futuro i nostri frati non siano costretti a darsi ai traffici o in modo disdicevole girovagare per le città come negozianti; attenderanno invece alla preghiera e alle sacre letture e offriranno sollecito ossequio a Dio nei propri monasteri. 106. Si tenga conto degli obblighi per la celebrazione di messe, per gli anziani, per i giovani in formazione; ed è necessario fare attenzione alle pressoché infinite occasioni affinché non ci si imbarchi in spese maggiori di quanto sarà il reddito. 107. In ogni monastero vi sia un libro di campione o catasto, come dicono, in cui si registrino tutti gli atti pubblici, i diritti e gli strumenti riguardanti quel monastero. Così anche in ogni provincia, cioè nel convento più nobile di essa, ci sia un libro, custodito dal priore provinciale ovvero dal socio visitatore, in cui si annotino tutti gli atti pubblici e i diritti riguardanti quella provincia. A Roma ci sia anche un libro o un luogo dove si conservino tutti i diritti pubblici riguardanti l’intero Ordine, brevi, bolle apostoliche; di questi sia custode il Procuratore dell’Ordine nella Curia romana. Cap. XXX. L’autorità e le condizioni degli ufficiali 108. Il Priore generale sia dottore in teologia, di costumi ottimi, segnalato per sapienza nel condurre le cose e per santità di vita, almeno di 40 anni e che abbia vissuto nell’Ordine almeno per venti anni e non abbia già ricoperto l’incarico nel sessennio precedente. 109. Sia il custode delle leggi. Ogni anno visiti personalmente o tramite un altro tutti e singoli conventi delle sei province principali, i conventi delle altre province invece una volta nel suo triennio. E non tratti da solo, durante la visita, qualcosa di grave, ma faccia tutto con il consiglio e il consenso dei soci. Tutti gli atti della visita restino presso il provinciale o il socio di quella provincia, che a sue spese il generale nelle visite porti per la provincia e riporti al suo convento. 110. Non osi stabilire o abrogare leggi e consuetudini riguardanti l’Ordine intero. Possa tuttavia il priore generale con il consenso di ambedue i soci abrogare per una giusta e ragionevole causa leggi provinciali o conventuali e stabilirne di nuove. La sua elezione è per un solo triennio. [111-113] 114. È parso opportuno rendere diversamente l’antica disposizione riguardo ai due soci da affiancare al priore generale. Cioè che in capitolo provinciale si elegga socio del generale, a suffragio segreto, un padre maturo per anni e saggezza; questi accompagnino il generale con il provinciale di quella provincia e gli stiano vicini e aiutino il suo lavoro nelle visite dei conventi. [115-116] 117. Il Priore provinciale, eletto dalla maggioranza del capitolo provinciale, abbia in assenza del generale l’autorità del generale nei casi in cui non si possa avere comodamente la presenza richiesta del generale [...] 118. Visiti tutti i conventi della sua provincia tutte le volte in cui ce ne sia necessità. Ma, non essendovi urgente necessità, non li visiti se non quando li visiterà con il generale e il socio, perché i conventi non siano gravati da spese superflue. Possa scegliere, come sua abitazione per i tre anni, il convento che vorrà; ma ciò avvenga con buona pace del priore e dei padri di quel convento [...] 119 [...] La sua elezione duri tre anni e non possa essere confermato se non dopo la vacanza di un triennio. 120. Il Priore conventuale sia grave per anni, insigne per equilibrio e saggezza. Non si immischi in alcun particolare ufficio nel suo convento, ma su tutti rivolga sempre la sua attenzione. Regoli la condotta dei frati, aumenti la devozione, sia sollecito nei doversi della chiesa, saggio economo dei beni temporali. Primo, come dicono, nel lavoro, e ultimo nel riposo. [121-127] Cap. XXXI. Le visite 128. Nelle visite si verifichino soprattutto queste cose: la vita e i costumi del priore, l’ufficio della chiesa, l’amministrazione dei beni temporali, la fede dei ministri, i comportamenti di tutti i frati. Si faccia un diligente esame nelle celle, su scritti proibiti e sospetti, sugli abiti e le vesti. Si faccia anche un esame sulla carità vicendevole dei frati, sulla loro obbedienza al priore, sulla loro reputazione presso il secolo, come siano trattati i novizi, i giovani, gli infermi e gli ospiti. Distribuiscano pene e premi. 129. Perché i conventi non siano gravati da spese eccessive, si concluda la visita nel più breve tempo possibile e non la si protragga oltre tre giorni, se questo potrà farsi agevolmente. I visitatori si contentino della frugalità del vitto, perché non diano l’impressione di essere andati a banchettare più che a visitare. Firmino la scheda delle spese sostenute per loro. Chiediamo che nella visita ci sia una diligenza tale per cui il provinciale non ha più necessità di visitare quei conventi. Cap. XXXII. Che cosa bisogna fare in caso di morte dei superiori 130. Se capita durante il triennio che muoia il priore generale, il provinciale e il suo socio della provincia in cui egli è morto, reggano e visitino l’Ordine ed abbiamo ambedue insieme autorità piena come quella del generale fino al prossimo capitolo generale, perché non sia necessario ricorrere alla Sede Apostolica per ottenere il vicario generale apostolico o visitatori apostolici. I due abbiano insieme il sigillo dell’Ordine e il libro delle Costituzioni. Se questi stessi saranno piuttosto negligenti, siano costretti dai padri ad assumere l’impegno. Se qualche ambizioso si rivolgesse alla Sede Apostolica per ottenere una lettera apostolica come vicario generale, sia ritenuto nemico della libertà di tutti e sia ipso facto scomunicato. 131. Se capiterà che il socio o il provinciale muoiono entro il triennio, allora chi resta subentri al posto del defunto, lui solo, se l’intervallo di tempo è breve, fino al capitolo e al termine del triennio; oppure egli stesso, con il priore generale, i priori e i maestri di quella provincia, convocato un sinodo provinciale, elegga una persona idonea al posto del defunto fino al capitolo generale. E quanto è detto della morte, si intenda anche se in altri tempi uno di essi fosse divenuto inabile ad assumere il suo compito. 132. In caso di morte o di inabilità del procuratore dell’ordine, il generale insieme al socio e al provinciale della provincia romana elegge un altro procuratore dell’Ordine fino al capitolo generale. E ciò siano tenuti a fare entro un mese dal giorno della notizia [della morte]. Cap. XXXIII. I beni dei defunti 133. Nessun frate del nostro Ordine osi disporre dei beni in qualsiasi modo acquisiti prima o dopo la professione, la cui proprietà spetta alla comunità, di un testamento o donazione o qualsiasi altro titolo. Ma dopo la sua morte siano e appartengano a quel monastero di cui era figlio, tuttavia in modo che, se sia morto in altro monastero, i vestiti e quanto spettava in uso alla stanza, siano di quel monastero in cui è morto; i denari, invece, i libri e tutte le altre cose siano del monastero di cui era stato professo. Se poi fosse stato adottato in altro monastero, i beni del defunto andranno divisi in parti uguali tra il convento di origine e quello adottivo. Tuttavia, a conforto dell’infermo, il priore può concedergli di lasciare qualcosa, ma solo nell’Ordine e con parsimonia, a chi vorrà, per migrare così più contento verso i padri. 134. Chiunque poi oserà agire contrariamente a questo decreto e avrà l’ardire di redigere un testamento o donazione, sia pure con l’avallo dell’autorità del Romano Pontefice, sia reso invalido e nullo ed egli, scomunicato, sia sepolto in un letamaio. E se dovesse sopravvivere e non volesse annullare quanto ha fatto, sia privato dell’uso di tutti quei beni e sia cacciato dalla nostra società e vada in perdizione con tutto il suo danaro. Da questa sanzione neanche il generale va esentato: dei suoi beni si disponga come di qualsiasi altro defunto. Nessuna tassa o decima parte dei beni dei defunti sia pagata al generale o al provinciale. Cap. XXXIV. L’appartenenza del frate al convento (affiliazione) 135. D’ora in poi nessun professo del nostro Ordine sia adottato come figlio di un altro convento, senza il consenso del capitolo provinciale di quella provincia, se sia stato professo di un’altra provincia. Si richiede inoltre il consenso della maggioranza del capitolo di quel monastero da cui deve essere adottato. Tale adozione sia confermata dal priore generale, e sola allora si intenda entrata in vigore, e non diversamente e in altro modo. XXXV. Gradi di colpe e pene. 136. Colpa grave è: se qualche frate del nostro Ordine in presenza di laici sarà smodatamente venuto a contesa con un altro; se qualcuno dirà menzogne nocive; se qualcuno avrà propalato presso laici azioni sconvenienti dei frati; se qualcuno non avrà osservato i digiuni della chiesa senza motivo e senza autorizzazione; se qualcuno per colpevole negligenza o per imputabile ignoranza o consapevolmente avrà commesso qualcosa contro la Regola di sant’Agostino, contro le Costituzioni dell’Ordine per spregio, contro la legge canonica umana o divina ma ciò raramente e non abitualmente. 137. Chi pecca in tal modo, se il fatto non fu notorio, venga redarguito solamente dal superiore e gli venga imposta una penitenza salutare da scontare riservatamente. Se invece [il fatto] fu risaputo ma non pubblico si ascoltino due o tre testimoni che diano autorevole testimonianza. Se [il fatto] fu pubblico, pubblicamente venga redarguito. Tuttavia in questa correzione si tenga conto della persona. 138. Colpa più grave è: se qualcuno per manifesta ribellione sarà disobbediente al suo superiore oppure con lui avrà con protervia litigato astanti due o più; se qualcuno avrà percosso un altro frate o un laico tanto che appaia una lividura o [scorra] sangue; se qualcuno sarà caduto in peccato carnale e ciò sia stato accertato tramite due testimoni o per l’evidenza [del fatto]; se si dimostrerà che uno ha rubato qualcosa che superi il valore di uno scudo; se qualcuno sarà reo confesso di cattiva amministrazione consapevolmente e maliziosamente; se qualcuno avrà fatto in modo di impedire o revocare una penitenza inflitta a se stesso o ad altri mettendo di mezzo laici; se qualcuno facendo intervenire estranei avrà procurato per se stesso o per altri cariche onorifiche nell’Ordine; se qualcuno sarà caduto in peccato contro la legge divina e quella della chiesa ripetutamente e consapevolmente, contro la Regola di sant’Agostino e le Costituzioni per disprezzo e nonostante la correzione non si sia ravveduto. 139. Questo tale dunque sia mandato nel carcere [del convento] privato dell’abito [religioso] e gli si infligga una penitenza salutare. Restituisca tutto quanto ha rubato. L’amministratore infedele venga privato dell’incarico per sempre o per un tempo determinato a seconda della gravità del reato. Circa i peccati occulti in queste Costituzioni non si interviene per nulla, perché la Chiesa non giudica su cose segrete: la punizione di esse è riservata ad altro tribunale e altro giudice. 140. Colpa gravissima è l’incorreggibilità e la pertinace malizia. Pertanto chi non si vergogna di commettere azioni colpevoli e non v’è alcuna speranza di sua resipiscenza come pure chi ostinatamente non avrà voluto condiscendere alla sentenza da parte dei definitori del capitolo generale e invece avrà interposto appello al di fuori dell’Ordine, è senza dubbio meritevole che venga espulso dall’Ordine e dalla nostra famiglia [religiosa]. 141. Punizione per siffatta gravissima mancanza sia la carcerazione perpetua oppure la perpetua rinuncia all’Ordine fatta solennemente davanti a testimoni e pubblico notaio. Tuttavia sappiano i superiori che la pena della colpa viene inflitta affinché il colpevole, per quanto è possibile, si ravveda, si converta, viva una vita spirituale. Pertanto senza odio verso la persona si agisca con carità verso Dio e il prossimo con il solo odio e la sola avversione dei vizi. Cap. XXXVI. Il capitolo generale 142. Il capitolo generale sia celebrato ogni tre anni, in luogo e tempo stabiliti dal priore generale. Dieci mesi prima con lettere patenti sia annunziato a tutti i conventi del nostro Ordine e almeno sei mesi prima al reverendo padre vicario generale della Congregazione o Commissario in Curia Romana e come nelle convenzioni dell’anno 1553, 20 dicembre. 143. Debbano parteciparvi il priore generale o chi ne fa le veci, tutti i soci visitatori, i provinciali, i priori dei conventi con i loro discreti, tutti i maestri e i baccellieri di teologia, il procuratore dell’Ordine nella Curia Romana, il reverendo vicario della nostra Congregazione con tutti i suoi vocali di persona, o come nei capitoli dell’anno 1553, 20 dicembre. 144. Se uno di quelli che sono tenuti a venire al capitolo trascurerà di venire, non può un altro farne le veci. Nonostante l’assenza di questi, il capitolo sia celebrato da quelli che sono presenti. In nessuna maniera e per nessun qualsivoglia motivo sia ammesso un supplemento di voti degli assenti, anche se ciò sia stato concesso dalla Sede Apostolica a qualche ambizioso, ma il capitolo sia celebrato soltanto dai presenti. E colui che presenti un breve apostolico di tale supplemento, sia ritenuto nemico pubblico della libertà e ipso facto scomunicato e come scomunicato non sia ammesso in capitolo. E se dovesse avvenire una elezione con il voto supplementare degli assenti, sia invalida e di nessun valore. 145. Riunitisi dunque tutti i vocali nel luogo del capitolo, ciascuno sieda secondo il suo grado: il priore generale, il vicario della Congregazione, il procuratore dell’Ordine in Curia romana, i definitori del capitolo generale secondo il grado della provincia, i soci e i provinciali secondo il grado della provincia, il commissario della nostra Congregazione, i maestri dell’Ordine e della Congregazione secondo l’età, i priori conventuali, i baccellieri e discreti secondo le loro condizioni. 146. Dopo essersi così disposti, il priore generale, se c’è, o chi ne fa le veci in sua assenza, senza apparato di parole ordini che si legga la lettera del capitolo a voce alta e intelligibile, perché tutti sappiano che sia giunto il tempo di celebrare il capitolo. Dopo la lettura, tutti, genuflessi davanti all’immagine della Beata Vergine, dicano devotamente la Salve Regina, brevemente e succintamente, senza canto, con il versetto e l’orazione “de Domina Nostra”. Si nominino i frati defunti in quel triennio e si dia l’assoluzione generale con il salmo De profundis, il versetto e l’orazione Absolve. Poi si faccia diligente scrutinio dei vocali. E quelli che non sono vocali di diritto, escano dal luogo del capitolo. 147. Per primo esca dal suo posto il procuratore dell’Ordine e davanti al generale, con le parole che vorrà, rinunzi al suo ufficio. Dopo di lui il priore generale, o chi ne fa le veci in sua assenza, receda dal posto supremo dove si siederà subito il primo definitore, mentre gli altri restano ai loro posti. Il generale, fatto un inchino davanti ai definitori, deponga, genuflesso, il sigillo e il libro delle Costituzioni nelle mani del primo definitore e liberamente rinunci all’ufficio con le parole che vorrà. Se per caso – che non accada! – non vorrà rinunciare, si intende ugualmente decaduto dal suo ufficio e sciolto dall’incarico. E se sfacciatamente persevererà nella sua ostinazione, sia scomunicato ipso facto e come scomunicato cacciato dal capitolo, anche contro la sua volontà. 148. Si proceda all’elezione del nuovo generale in questo modo. Il primo definitore del capitolo generale legga a voce alta e comprensibile i nomi dei padri che gli siano stati proposti dai provinciali o dai definitori delle province, a nome di esse, e dal reverendo vicario della Congregazione, a nome della Congregazione. Poi, distribuiti fagioli o pietruzze, secondo il numero preciso dei vocali, siano proposti per ordine di provincia così che all’ultimo posto si propongano quelli presentati a nome della Congregazione. Ma prima di procedere all’elezione, si ascoltino quelli che vogliono sollevare obiezione contro la persona proposta. E la cosa sia conclusa il più presto possibile dai definitori. I padri del capitolo siano ammoniti a non eleggere qualcuno per simonia, ma di scegliere secondo Dio e retta coscienza come padre generale dell’Ordine colui che potrà essere davvero un padre. Dunque, chi tra le persone proposte avrà ottenuto più voti, oltre la metà di tutto il capitolo e di tutti i voti, sia e venga proclamato generale. A lui subito il primo definitore sia tenuto a consegnare il sigillo e il libro e a insediarlo al primo posto. Egli stesso per primo presti obbedienza con il bacio della mano e dopo di lui ciascuno con il bacio della mano gli professi obbedienza. Il priore generale, così eletto con questa sola elezione canonicamente avvenuta e con l’approvazione del capitolo, si intenda e sia davvero confermato dalla Sede Apostolica. 149. Si canti poi il Te Deum e si vada in processione in chiesa a ringraziare Dio. E il generale prometta a Dio e alla beata Maria fedeltà alla Santa Romana Chiesa e l’osservanza della Regola del beato Agostino e delle Costituzioni dell’Ordine, e di essere un buon padre conformemente alle sue forze. [150-152] [Cap. XXXVII. I discreti da mandare al capitolo generale 153-154] Cap. XXXVIII. Il capitolo provinciale 155-160] Cap. XXXIX. La lettura delle Costituzioni 161. Infine, perché nessuno dei nostri frati possa presumere ignoranza, è stato decretato che, distribuite le letture per ogni venerdì del mese, tutto questo libro delle Costituzioni si legga in refettorio e i padri lo ascoltino. Infatti l’antico costume di leggere ogni sabato la Regola di sant’Agostino non deve essere tralasciato. Sia permesso al superiore, se durante la lettura capiti qualcosa che richieda una spiegazione più ampia, di dire qualche parola, se gli sembrerà opportuno. La faccia però nella maniera più breve possibile. Il priore, che per negligenza avrà omesso tale lettura, sia deposto dall’incarico. 162. In ogni convento del nostro Ordine il libro delle Costituzioni, la Regola del nostro beato padre Agostino e la bolla dei privilegi dell’Ordine, che si chiama MARE MAGNUM, siano conservati in copia autentica, come anche tutte le cose preziose, con somma attenzione. III. Costituzioni 1569 Le costituzioni del 1556 presentavano un testo abbastanza nuovo; anzi, troppo nuovo, sì da venire ritirato nel capitolo generale del 1567 a Bologna. Il concilio di Trento aveva concluso il proprio iter (1562-63). La riforma protestante era diventata realtà irreversibile e ormai stabilizzata nella dottrina e nel distacco da Roma. Presiedeva il capitolo il priore generale del precedente triennio, il fiorentino Zaccaria Faldossi, anticipatamente confermato dal papa stesso Pio V. Il capitolo, dunque, non votò né elesse il priore generale dell’Ordine, che trovò già in carica per superiore decisione. Il Faldossi era sostenuto dai Medici, stimato dal papa (che pare gli avesse proposto varie sedi vescovili da lui declinate e lo avesse creato cardinale in pectore poco prima che il frate morisse nel 1570), in auge nell’Ordine già da anni (almeno dal capitolo generale del 1554). Nell’Ordine non mancarono nemmeno a lui i contrasti, per ragioni non ultime derivanti dalla personalità accentuata, dall’origine toscana, dalle protezioni di troppo alto livello. Per il Faldossi e il capitolo generale di Bologna cf. anche, in questo volume, la sezione Fonti documentarie e narrative. L’edizione delle costituzioni postconciliari viene pubblicata a Firenze due anni dopo (1569). La quantità delle normative risulta maggiorata Alla eliminazione di alcune norme (in particolare, i privilegi individuali) subentra l’inserimento di altre ricalcate sulle constitutiones antiquae (in particolare, la complessa casistica di colpe e pene) o dettate dall’attualità obiettiva e da esigenze indotte (confessione e comunione, partecipazione ai capitoli provinciali e generali). L’adeguamento alle posizioni dottrinali e giuridiche del concilio tridentino sono la ribadita motivazione della edizione fiorentina delle costituzioni. Se le precedenti costituzioni di Budrio (1548) e di Verona /Bologna (1554/56) erano un testo salpato durante il concilio di Trento, e quindi in anticipo per talune soluzioni e incompleto rispetto alle conclusioni conciliari, il corpus legislativo varato nel capitolo generale di Bologna nel 1567 avrà la caratteristica di costituzioni post-conciliari. Ma anch’esso tuttavia, ebbe l’effimera durata di 11 anni. Il priore generale Zaccaria Faldossi presenta il nuovo testo all’Ordine con una lettera dove egli giudica con molta severità -e con giudizio piuttosto di parte- gli anni precedenti, a partire dalla fine del generalato di Agostino Bonucci (1553), ricordato con accorata simpatia: tempi -lamenta- nei quali la dignità dell’Ordine era lacrimevolmente decaduta. Null’altro avvertendo più prezioso per lui che l’Ordine stesso, intese far ritorno alle più sante e antiche leggi. Le precedenti costituzioni del 1554/56 a suo avviso -e a quello, egli vuole assicurare, dei cardinali- risultavano contrastanti (“repugnantes”) con i decreti conciliari. Esse apportarono la funesta prassi -egli asserisce- di consentire l’elezione del priore generale ad una massa impreparata di frati [e nelle sue costituzioni la norma sarà modificata, affidando a un numero ristretto di frati ‘responsabili” l’elezione del priore generale, al quale sarà consentito il prolungamento dell’incarico fino a un sessennio, secondo l’innovazione tridentina: ma anche le constitutiones antiquae richiamavano in capitolo generale un folto numero di frati, non esclusi i priori conventuali e uno o due delegati di comunità a seconda della composizione numerica di 13 frati o 12 e meno]. Dichiara di aver faticato assai per redigere il nuovo testo costituzionale al fine di por rimedio alla decadenza dell’Ordine e tornare alla più vetusta tradizione legislativa. Ritiene di aver raggiunto l’obiettivo guidato da Dio, sostenuto dal sommo pontefice, aiutato dal cardinale protettore Alessandro Farnese, sicuro di aver risposto alle proprie istanze e a quelle dei frati. Il papa stesso appare alleato letteralmente su tali posizioni, tanto da revocare («revocantes, cassantes, irritantes et annullantes, ac nullius momenti et roboris esse volentes») le costituzioni del 1554/56 che pure lui stesso aveva allora approvato. Pio V firma la nuova approvazione il 25 aprile 1569. edizione: P.M. SOULIER, Constitutiones fratrum Servorum Beatae Mariae Florentiiae anno 1569 editae, in Monumenta OSM, VI, Bruxelles 1903-1904, p. 109-158 FIRENZE 1569 Cap. I. Riverenze verso la Beata Maria 1. Ogni sabato ci sia l’ufficio di Nostra Signora, come in una festa semidoppia, in questo modo cioè che il venerdì si cantino i vespri della Beata Maria, a meno che non ricorra una festa solenne che non possa o non convenga tralasciare, e si osservi la costituzione antica nel capitolo generale celebrato a Pistoia il 5 agosto 1300. Allo stesso modo si faccia per il mattutino. E si canti la messa conventuale de Domina all’altare della medesima, con il Gloria e il Credo, come in una festa doppia, a meno che in quel sabato non ricorra una festa solenne. 2. Ugualmente ogni mercoledì si canti la messa votiva de Domina, in cui si facciano preghiere per il Reverendissimo e Illustrissimo Protettore del nostro Ordine, al quale solo in tal modo possiamo esprimere un ringraziamento degno. 3. La vigilia della Signora si celebri ogni sera con tre letture e due responsori, e la Salve Regina dopo la terza lettura. Ma il venerdì si canti come in una festa doppia, e si accendano due ceri. 4. L’ebdomadario all’inizio del mattutino e di prima, recitato in segreto il Pater noster e il Credo, subito dica Ave Maria, gratia plena Dominus tecum, con il tono con cui dirà Deus in adiutorium meum intende [Signore vieni in mio aiuto], e il coro risponda, Benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui Iesus. Nelle altre ore osservi il medesimo ordine, omesso tuttavia il Credo. 5. Anche il sacerdote, che sta per celebrare la messa, la inizi dalla salutazione angelica, e il ministro risponda come sopra. 6. Anche il lettore, prima di iniziare la lettura, dica Ave Maria fino a Iesus incluso, eccetto nella lettura di compieta e nel capitolo Pretiosa in conspectu Domini, e nel triduo della settimana santa: allora infatti dobbiamo osservare il modo della Chiesa Romana cui, per quanto è possibile, è necessario conformarci nelle preghiere pubbliche della Chiesa. 7. Nell’inno Memento salutis si inserisca il verso Maria mater gratiae. 8. Alla fine della messa e di ciascuna ora canonica e dopo il pasto, eccetto nei giorni della settimana santa, si dica la Salve Regina con il versetto, il responsorio e l’orazione. Questa antifona tuttavia sia cantata ogni sera dopo compieta con molta devozione e senza tirare in lungo le parole; ma nei giorni di festa si canti dopo i vespri per devozione del popolo. Vi partecipino ogni giorno tutti i frati che si trovano in convento, tanto i provinciali quanto gli altri ufficiali, lasciate tutte le altre incombenze; e perché non si accampino scuse, si suoni la campana per il saluto alla Vergine. 9. Si costruisca una cappella della Beata Vergine [in ogni chiesa del nostro Ordine. La memoria della Beata Vergine] si faccia nella messa, nei vespri e nelle lodi del mattino, secondo l’uso della Curia Romana. 10. Le ore de Domina si dicano in coro secondo la rubrica del breviario Romano. Ma quando vi leggiamo che devono essere omesse, siano dette separatamente con devozione da due o più frati secondo la comodità loro. Nella festa doppia si dicano le ore de Domina in capitolo prima di entrare in coro etc.. [Cap. II. Le celebrazioni liturgiche 11-25] Cap. III. Confessione e comunione 26. La confessione solenne e la comunione sia fatta dai chierici e dai nostri servitori nella prima domenica di Avvento, nel giorno del Natale del Signore, nel giorno dell’Epifania, nel giorno della Purificazione della Beata Maria Vergine, nella prima domenica di Quaresima, nell’Annunciazione della Beata Maria Vergine, nella Cena del Signore, nel giorno della Risurrezione del Signore, nell’Ascensione del Signore, nel giorno santo di Pentecoste, nella festa del santissimo Corpo e Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo, nella festa degli apostoli Pietro e Paolo, nella Visitazione, nell’Assunzione, nella Natività e Presentazione della Beata Maria sempre vergine, nella festa di Tutti i Santi, e ogni mese secondo il concilio26. 26 Nella sessione 25, il concilio di Trento ha emanato un decreto che stabilisce il ricorso alla confessione e all’eucaristia almeno una volta ogni mese, come difesa contro tutti gli attacchi diabolici (capitolo 10). 27. I sacerdoti, destinati a celebrare più frequentemente, devono ricordare l’avviso del beato Paolo: chi mangia e beve indegnamente, mangia e beve la sua condanna27 . Perciò i priori li ammoniscano a purificare frequentemente la coscienza con il sacramento evangelico della confessione e lo facciano almeno ogni settimana, nelle domeniche e giorni festivi; e chi sia stato trovato di non aver confessato i propri peccati almeno nelle solennità durante l’anno, sia ritenuto sospetto di eresia. E perché possano più agevolmente purificare il proprio animo, ogni sacerdote abbia la facoltà di assolvere qualsiasi frate del nostro Ordine da tutti i peccati, eccetto quelli riservati dal diritto o al Sommo Pontefice, o alla Sede Apostolica o all’Ordinario del luogo. Cap. IV. Gli inchini 28-31 Cap. V. Le genuflessioni 32-34 Cap. VI. Il modo di stare in piedi e di sedere in coro 35-37 Cap. VII. I suffragi dei defunti 38-41 Cap. VIII. Il silenzio [42-44] 45. In nessun modo nei conventi si tengano scuole di ragazzi secolari; mai, in nessun momento, si facciano commedie, soprattutto alla presenza di secolari; e in frati non indossino abiti presi dai secolari. Badino di non introdurre secolari nelle ricreazioni, che talora si fanno abitualmente secondo lo stile dei religiosi, e si eviti, dove la cosa può avvenire facilmente, una eccessiva familiarità con i secolari, sopratutto di quelli meno seri, perché da essi non siano impediti i frutti della contemplazione e perché non siano diffuse al di fuori le debolezze che possono esserci tra i frati. [46] Cap. IX . I digiuni 47-49 Cap. X Il cibo [50] 51. Terminata la benedizione, tutti si siedano ai propri posti. E colui che è stato incaricato della lettura, legga o dall’Antico o dal Nuovo Testamento, o dalla Regola del beato Agostino o dalle Costituzioni. Il superiore potrà tuttavia, se gli sembrerà opportuno, dispensare in parte o interamente per una giusta ricreazione dei fratelli. Ma se avrà colto qualcuno che si comporta disordinatamente o con minore dignità, lo ammonisca subito con un segno e lo moderi e, se sarà necessario, lo rimproveri duramente e gli imponga delle pene. [52] 53. [...] Siano tutti contenti dei cibi del convento e si osservi uguaglianza nel cibo e nella bevanda, per quanto sarà possibile, perché sia tolta ogni motivo di mormorazione: è indegno infatti e troppo vergognoso che alla medesima tavola di frati religiosi alcuni siano sazi e altri soffrano la fame [...]. [Cap. XI. La refezione 54] Cap. XII. La cura degli infermi 55. Riguardo agli infermi, il superiore badi di non essere negligente; infatti gli infermi devono essere trattati in modo che si riprendano presto, come dice il nostro padre Agostino28 [...]. [56] 57. [...] Il priore visiti spesso gli infermi, li esorti alla pazienza e li induca a confessarsi e a ricevere il santissimo Corpo di nostro Signore Gesù Cristo. Così i frati vadano a visitarli e li aiutino dolcemente con parole e servigi e li sollevino con il conforto della preghiera quotidiana [...]. Cap. XIII Il modo di dormire [58] 27 28 cf. 1Cor 11, 29. Regula ad servos Dei III, 5: «... aegrotantes ... sic tractandi sunt ut citius recreentur». 59. Perché l’arrivo di ospiti non sia per gli altri frati motivo di inquietudine e confusione, sia fuori del dormitorio la zona per gli ospiti, con due o più letti adeguatamente allestiti e con il posto per il fuoco e tutto quello che la casa avrà la possibilità di offrire; qui il servizio sia fatto con carità e gioia. Cap. XIV L’abito 60. Tonaca, scapolare, pazienza, cappa o mantello siano di colore nero, di lana, così che sia conservato l’onore dell’Ordine e sia evitata ogni vanità nel valore e negli ornamenti. Le vesti tanto più si adattano alla dignità e alla condizione nostra, quanto più saranno umili, poiché dice il Signore: Ecco, coloro che portano morbide vesti stanno nei palazzi dei re29. [Cap. XV. La tonsura 66 Cap. XVI. Coloro che vengono accolti nell’Ordine 67-70] Cap. XVII I novizi 71. Ai novizi sia dato come guida un maestro retto e di vita integra, grande amante dell’Ordine, il quale prima di tutto insegni loro il timore del Signore, la dottrina cristiana e il catechismo, e a confessarsi in modo sincero, frequente e chiaro [...]. 72. [Il maestro dei novizi] insegni loro l’umiltà del cuore e dell’azione, secondo la parola: Imparate da me, che sono mite e umile di cuore30 [...]. [73-76] 77. E perché si abituino sempre più a preghiere e devozioni, ogni giorno dicano con ogni umiltà la corona della Beata Vergine all’altare della medesima, per la conservazione della santa Chiesa Romana, per il Sommo Pontefice e per tutti i superiori e i benefattori dell’Ordine. [Cap. XVIII. I professi 78-80 Cap. XIX. Il rito della professione 81-88 Cap. XX. Coloro che sono in viaggio 89. Quando un nostro frate è mandato altrove per obbedienza o per qualsiasi altro motivo, abbia con sé le lettere testimoniali dal suo superiore, nelle quali sia fissato il termine per il ritorno; scaduto il quale sia punito a discrezione del superiore. Abbia con sé quanto è sufficiente per il viaggio, secondo la sua condizione. Abbia anche il breviario e, se converso, la corona. 90. Prima di uscire dal monastero, chieda umilmente la benedizione al suo superiore e, se non sia di ritorno nello stesso giorno, si rechi davanti all’altare o all’immagine della Beata Maria Vergine per renderle omaggio in ginocchio, e lo stesso faccia al suo ritorno. [91-94] Cap. XXI. La promozione agli ordini sacri 95-97 Cap. XXII. I confessori 98-100] Cap. XXIII Gli studenti [101-105] 106. Poiché dal Signore Dio fluisce e proviene a noi ogni bene, tutti i reggenti e i docenti sono incoraggiati a insegnare prima di tutto ai propri studenti il timore del Signore, che è il principio della sapienza31, li esortino al culto divino, a prestare obbedienza al priore, a conservare la pace; infine li stimolino allo studio perché essi stessi non perdano il lavoro e l’olio e occupino il posto per altri ... [Cap. XXIV. La promozione ai gradi accademici 107-110 Cap. XXV. I predicatori 111-117 29 Mt 11, 8 Mt 11, 29. La citazione è ripresa dalle Constitutiones antiquae e ritorna anche nell’edizione del 1580. 31 Pr 1, 7 30 Cap. XXVI. I giudizi 118-126 XXVII. Gli apostati 127-132] Cap. XXVIII L’amministrazione conventuale 133. Poiché le nostre case sono state costruite sul fondamento della povertà, a nessuno sia lecito tenere e possedere beni immobili ricevuti in qualsiasi modo. per qualsiasi causa, titolo e pretesto. Ma tutto sia unito agli altri beni dei conventi e sia sottoposto al pieno e libero potere dei monasteri. 134. I frutti, percepiti da questi beni, siano conservati per le necessità dei frati sotto la fedele cura di un padre a ciò eletto. Presso di lui siano anche deposte tutte le elemosine ricevute da predicazioni, lezioni, messe e per qualsiasi altro motivo, anche dal lavoro e dall’attività, e siano ugualmente conservate per le necessità dei frati. 135. Tutti i superiori, però, nei singoli conventi abbiano particolare considerazione delle persone e dei predetti beni, come avrà richiesto il maggior grado di alcuni frati, lo studio e la necessità, diano ad essi, per loro sostegno, qualcosa oltre la regola. Questo tuttavia sia fatta con quella misura e prudenza che non sottrae agli altri quanto è necessario. E se concederanno qualcosa a uno più per un sentimento di affetto che per merito o per necessità reale, o qualcosa che violi la condizione di povertà, sappiano di soggiacere al giudizio di Dio onnipotente e che le cose date possono essere riprese secondo i decreti del Concilio di Trento. [136-139] [Cap. XXIX. L’autorità e le condizioni degli ufficiali 140- 170 Cap. XXX. Le visite 171-173 Cap. XXXI. Che cosa bisogna fare in caso di morte dei superiori 174-176 Cap. XXXII. I beni dei defunti 177-178 Cap. XXXIII. Adozione a figli (dei conventi) 179 Cap. XXXIV. La colpa leggera 180-181 Cap. XXXV. La colpa grave 182-183 Cap. XXXVI. La colpa più grave 184-189 Cap. XXXVII. La colpa gravissima 190-192 Cap. XXXVIII. I discreti da inviare al capitolo provinciale 193-194 Cap. XXXIX. Il capitolo provinciale 195-203 Cap. XL. Il capitolo generale 204-212] IV. Costituzioni 1580 L’edizione delle costituzioni che ‘vanta’ il massimo di longevità è opera del capitolo generale celebrato a Parma nel mese di maggio 1579, presieduto dal priore generale Giacomo Tavanti aretino, poliedrico intellettuale. Anche quelle costituzioni miravano a formulare norme che «non repugnino al santo concilio di Trento». La riforma protestante aveva consolidato le proprie posizioni territoriali e ‘culturali’ ma frazionandosi in pluralità di ‘confessioni’; la ‘riforma’ cattolica aveva stabilizzato le proprie posizioni dottrinali e giuridiche e ampliava le zone di propria influenza avviando un imponente sforzo missionario. Di questa situazione il nuovo testo doveva tenere conto, come anche del rientro tra i ‘conventuali’ dei frati dell’Osservanza, soppressa d’imperio da Pio V nel 1570. Il capitolo di Parma sancì l’aggiornamento delle costituzioni; indicò le varianti da portare; incaricò una commissione (i frati Cirillo Franchi, socio della provincia bolognese, Paolo Sarpi, priore provinciale della provincia di Venezia, Alessandro Giani da Scandiano, priore provinciale della provincia lombarda), che insieme al priore generale Tavanti e al ‘procurator’ presso la curia romana Antonio Fucci (tenace avversario del progetto, instancabile nel sollecitare dissensi e obiezioni e rinvii nell’approvazione dalla curia romana, capzioso paladino del previo consenso dei capitoli provinciali verso il nuovo testo che accusava di esser quasi “un nuovo libro”) revisionassero le costituzioni, impegnandoli -con giuramento- a non tradire la mens del capitolo. Il lavoro del gruppo fu celere (tre mesi circa). Ma la nuova stesura fu assai contrastata, oltre che dal Fucci, da altri frati probabilmente per interessi di parte (sembra intorno alle normative concernenti i baccellieri e i maestri in teologia). Da parte loro i vertici curiali e gerarchici, cui spettava l’approvazione, fluttuavano secondo le influenze esercitate alternativamente da vari frati che frequentavano i loro uffici e le loro dimore. Infine, il 21 settembre 1579 Gregorio XIII firma il ‘breve’ di conferma al nuovo testo, vietando tassativamente qualsiasi cambiamento o revoca. L’1 di ottobre 1579 al cardinale Alessandro Farnese tocca approvare anche questa edizione (dopo aver approvato l’edizione precedente ora abrogata). Della stampa fu incaricato il Sarpi. Alla fine di gennaio 1580 il testo era pronto per la diffusione. Venne stampato a Venezia, residenza del Sarpi. La cronaca minuta della difficoltosa gestazione è raccontata in un memoriale dello stesso priore generale Tavanti, sostenitore del rinnovamento costituzionale. L’edizione veneziana è la più ampia delle precedenti. Il confronto segnala le seguenti quantità: 1280, capitoli 25; 1503, capitoli 25, articoli 196; 1548, paragrafi 56; 1556, capitoli 39, articoli 162; 1569, capitoli 40, articoli 212; 1580, capitoli 43, articoli 376 Il testo del 1580 resta anche come documento ‘antropologico’: una visione dell’uomo (dell’uomo/frate, o frate/uomo) peculiare della cultura del tempo. Il frate rimane uomo sentito con la cultura contemporanea. E quindi avvertito con pessimismo e preoccupazione. Perciò è indispensabile difenderlo, collocarlo in luogo più possibile salvaguardato tramite ingiunzioni, circondato dalle mura possibilmente inespugnabili dei divieti, intimorito dalle innumerevoli pene alle sue possibili colpe. Soggiace -in parte inconsapevole, in parte conscio- il postulato del valore pedagogico della legge: l’uomo è un essere non determinato, ma plasmabile, in permanente formazione. La tendenza preponderante lo flette verso la prevaricazione. Il concilio di Trento aveva dibattuto e definito la problematica del peccato originale, della grazia, della redenzione. La posizione conciliare era passata, ovviamente, appieno nella chiesa. Così pure la posizione giuridica di esso. La legislazione chiara, precisa, onnicomprensiva costituisce prevenzione, antidoto, rimedio ottimali. Questa visione decadente, ‘demoniaca’ dell’uomo -appannaggio assai marcato dei secoli XIII-XVI, ancor più nel filone della riforma protestante che nel cattolicesimo- è peraltro bilanciata dalla visione ottimista, ‘angelica’ (almeno come meta) dello stesso uomo, salvato dalla fede e dalle opere, incamminato alla santità tramite ascesi, mistica, regolare osservanza. Entrambe le visioni antropologiche lasciano evidenti tracce anche nella legislazione dei Servi, comprese le costituzioni del 1580. edizione: P.M. SOULIER, Constitutiones Ordinis fratrum Servorum Beatae Mariae Virginis sub Regula S. Augustini Venetiis anno 1580 editae, in Monumenta OSM, VII, Bruxelles 1905, p. 5-69 VENEZIA 1580 Prefazione alla Regola e Costituzioni dei frati Servi del R. P. F. Giacomo Tavanti Fiorentino Generale del medesimo Ordine Ci sono realtà che per nessuna ragione umana possono essere sradicate, come i comandamenti di Dio, e tutto quello che è contenuto in tali radici o da esse germina come da fonte fecondissima e ricchissima, e ce ne sono molte altre che per necessità dei tempi o in considerazione di età bisogna che siano temperate a seconda del luogo, della persona e delle esigenze. Analogamente l’Ordine dei Servi, che milita al servizio di Dio sotto la protezione della Beata Maria Vergine secondo la regola del santo padre Agostino, ha conservato questa stessa regola sempre salda e stabile, giacché è fondata sull’amore di Dio e del prossimo e non si è modificata a causa delle mutevoli vicende dei tempi avvenute lungo ormai trecentoventisette anni, o per l’alternarsi di fatti, luoghi e persone. Invece le Costituzioni del nostro Ordine e gli statuti dei nostri antichi padri, che pure si sforzano di condurci per strade diverse a un solo e medesimo grado di beatitudine, mentre Dio di giorno in giorno insegna più chiaramente i sentieri della salvezza e guida benevolmente i nostri passi sulla via della pace, hanno subito con il trascorrere del tempo e l’invecchiamento della nostra religione (compie già oltre 348 anni) un certo cambiamento. In verità il loro nucleo è rimasto fermo e non si è mai svigorito: saldo e stabile, infatti, è quanto riguarda la vita regolare, quanto si riferisce al dominio della concupiscenza della carne tramite preghiere e veglie, a un comportamento ordinato, alla fuga dal mondo. È cambiato invece ciò che la debolezza umana non riesce a portare, ciò che i tempi calamitosi richiedono con insistenza, ciò che la malvagità degli uomini impone, ciò che lo sconvolgimento dei costumi pretende. Perciò non sono certamente del tutto nuove le Costituzioni che ora abbiamo tra le mani per essere osservate, e possono dirsi nuove in un certo modo. Infatti, poiché in esse vive l’antica pietà dell’Ordine e dei nostri santi padri, e vi rimane la carità e si conserva la meta della vita eterna, in queste Costituzioni si trova ciò che è antichissimo: servire Dio sotto la protezione della Madre di Dio, abbandonare il mondo e tutto ciò che è in esso, accogliersi con scambievole amore, stare davanti all’altare di Cristo tra Dio e gli uomini. Perciò in esse non v’è alcuna novità, ma è in pieno vigore una santissima e inalterata antichità. In esse, però, in forza del cambiamento dei tempi, degli eventi, dei luoghi e delle persone, riconosciamo qualcosa di nuovo. Sì, l’Ordine dei Servi ha ricevuto da quei santissimi primi padri molte costituzioni conformemente alla loro buona volontà che tutto si facesse con ordine; crediamo anche, giustamente, che quanti sono venuti dopo e hanno tentato o di abrogare qualcosa da esse o di stabilire norme nuove, lo abbiano fatto con pari e buona volontà, per servire Dio, per prestare obbedienza alla Chiesa cattolica, per insegnarci la via di Dio, infine per portare aiuto, secondo le esigenze del tempo e del luogo, al gregge loro affidato. Sono ormai dieci anni che i nostri sapientissimi predecessori hanno cercato, certo per giusti motivi, di rinnovare queste nostre leggi ; ma non so per quale accidente (a meno che non dica a causa del demonio, a cui dispiacciono enormemente tutte le cose che sono gradite a Dio), non hanno mai potuto ottenere ciò. Finalmente Dio, Padre di consolazione e di misericordia, e la beata Madre di Dio, la Vergine Maria, hanno concesso che nel capitolo generale celebrato a Parma il 26 maggio dell’anno 1579, da coloro che sostenevano il peso e la dignità dell’Ordine intero, fossero scelti, dal numero dei più saggi allora presenti, tre uomini che per ingegno, sapienza, dottrina e saggezza di governo potessero assumere il compito non solo di rinnovare le leggi, ma anche di stabilirle. Furono scelti quindi il reverendo padre provinciale di Lombardia, maestro Alessandro da Scandiano, il reverendo padre provinciale di Venezia, il maestro Paolo Veneto [Sarpi], e il reverendo padre Socio della Provincia Romagnola, maestro Cirillo da Bologna. Questi, alla fine di giugno, erano venuti a Roma perché insieme al R. P. M. Antonio da Borgo Sansepolcro, Procuratore in Curia Romana, assolvessero l’incarico loro affidato. E furono avvertiti con somma carità dapprima dall’illustrissimo e reverendissimo signore Alessandro vescovo di Porto e di Santa Rufina, vice-cancelliere di Santa Romana Chiesa, cardinale Farnese, Protettore di tutto il nostro Ordine, poi, in seguito alla partenza del medesimo da Roma, dall’illustrissimo e reverendissimo signore Giulio Antonio di Santa Severina, cardinale presbitero del titolo di San Bartolomeo in Isola, vice-protettore, a essere attenti al bene, all’onore e alla dignità del nostro stato e a non permettere alcun mutamento, neanche per lo spazio di un’unghia, di queste nostre istituzioni regolari; poi ricevuta per mezzo nostro la benedizione dal santissimo nostro signore Gregorio papa XIII, incominciarono a dedicarsi con ogni impegno e carità al lavoro utilissimo di rendere le Costituzioni del nostro Ordine conformi alle santissime disposizioni del concilio di Trento, alla riforma e all’unione di tutto il nostro Ordine, prima diviso in due famiglie – unione fatta da papa Pio V di felice memoria – e alla nuova istituzione delle due province di Venezia e di Mantova. Ma non appena si intraprese un’opera graditissima a Dio e a tutti i buoni, violenta oltre ogni dire si scatenò da settentrione una tempesta per cui ai predetti padri venne in animo e di desistere dall’impresa e di partire dalla città. In seguito avvenne che si trattenessero a Roma per un tempo abbastanza lungo con enormi spese e gravissimi disagi fisici e spirituali per l’ardore del sole a metà estate. Per evitare tutto questo e pensare alla propria salute, non produssero il formulario delle lettere patenti, che usano tutti i responsabili della nostra religione, per non essere gravati dalle medesime angustie da cui erano agitati nel correggere le Costituzioni. Non fecero neanche l’ufficio della Beata Vergine Maria, da celebrarsi in giorno di sabato, essendo stato a noi assolutamente comandato di celebrare i divini uffici secondo il rito di santa Romana Chiesa, usando il breviario e il messale riformato32. Non curarono di stampare nuovamente il Mare magnum per non gravare sull’Ordine con ulteriori spese. Stabilirono che la provincia del Regno di Napoli avesse tre voti nel capitolo generale e che in ogni provincia potesse essere socio del Generale anche chi non è maestro, non solo per la comune pace della religione, ma anche per il sapientissimo e prudentissimo consiglio degli illustrissimi e reverendissimi signori il Protettore e Vice-protettore. Con molto impegno, attenzione, laboriosità, giudizio e sudore, correggendo, spiegando, facendo qualche aggiunta per eliminare abusi, disposero tutto il resto così da abbracciare tutto in 43 capitoli. Questi, rivisti con cura e precisione, con un lavoro diligente e penna sapientissima, per comando del Sommo Pontefice, emendati e corretti una volta e una seconda volta dall’illustrissimo e reverendissimo signore Giulio Antonio cardinale presbitero di Santa Severina, Vice-protettore, e dal medesimo cardinale presentati al santissimo signore nostro Gregorio papa XIII, dapprima con sentenza orale, poi con lettera apostolica in forma di breve ricevettero la forza della conferma pontificia. L’illustrissimo e reverendissimo signore cardinale Farnese, Protettore, comprovò benevolmente con un suo decreto quanto era stato fatto in maniera tanto perfetta. Tutti i buoni, dunque, accoglieranno volentieri queste Costituzioni corrette, emendate e riviste dai predetti padri, ai quali era stato affidato questo impegno, e anzi dalla stessa religione, loro madre di cui sono figli per professione e voto, adeguate ai santissimi decreti della Chiesa e dei Santi Padri e non difformi dalle prime istituzioni del nostro Ordine, approvate dall’illustrissimo e reverendissimo Protettore, confermate dal santissimo e sommo Pontefice. In esse infatti (come è proprio di una ottima legge) si prescrive il bene, alla virtù si promette un premio, si proibisce la trasgressione, si punisce il male; contengono in sé (è la qualità di una buona legge) onestà, giustizia, opportunità e convenienza. Se a qualcuno forse queste Costituzioni non riescono gradite, costui, per favore, ascolti quello che dicono Isidoro e Graziano: bisogna sapere che molti capitoli vanno considerati in base alla causa, alla persona, al luogo, al tempo; la loro forma, se non analizzata a fondo, confonde e spinge nel labirinto dell’errore certuni, quando giudicano prima di capire e criticano prima di indagare più volte quanto hanno letto. 32 È una delle imposizioni della riforma di san Pio V. Cap. I. Riverenze alla Beata Maria 1. Poiché l’Ordine dei Servi è al servizio (militat) di Dio sotto la protezione speciale della Beata Maria Vergine, è giusto che la onori con speciali atti di ossequio e di riverenza, specialmente durante la celebrazione della divina liturgia. Perciò in ogni chiesa del nostro Ordine vi sia una cappella o un altare dedicato a onore della medesima Beata Vergine. 2. Ogni mercoledì si canti la messa votiva della Beata Maria Vergine33, a meno che non ci sia stata una festa di nove lezioni, o sia una feria di Avvento, di Quaresima o delle Quattro Tempora, o vigilia. E in essa si dica la colletta Omnipotens sempiterne Deus qui facis mirabilia magna solus, per l’Illustrissimo e Reverendissimo signor Cardinale Protettore del nostro Ordine. 3. Si dica anche ogni sera la vigilia della Beata Maria Vergine con tre letture e due responsori; dopo la terza lettura, infatti, si dice la Salve Regina; ma di venerdì si canti come in una festa doppia. 4. L’antifona Salve Regina, devotamente e senza ripetizione di parole, si canti ogni giorno dopo compieta, eccetto i giorni festivi, quando deve essere cantata dopo il vespro a devozione del popolo. E ad essa convengano tutti i frati del convento, anche gli ufficiali, financo i provinciali, tralasciati tutti gli altri impegni: e perché non si accampino scuse, si suoni a questo scopo la campana. 5. L’ufficio parvo della Beata Maria Vergine si dica in coro, secondo l’ordinario del breviario romano. E nei giorni in cui non si dice in coro, sia eseguito da due o più frati secondo la possibilità dei luoghi. [Cap. II. Le celebrazioni liturgiche 6-20 Cap. III. I suffragi dei defunti 21-25 Cap. IV. Le cerimonie 26-39] Cap. V. La confessione e la comunione 40. Perché il nemico del genere umano non trovi nulla di suo nei fratelli del nostro Ordine, i chierici non ancora promossi al sacerdozio, i conversi e tutto il personale del convento confessino i peccati una volta la settimana, e ricevano l’eucaristia ogni prima domenica del mese e nella prima domenica di Avvento, nel giorno del Natale del Signore e dell’Epifania, in tutte le feste della Beata Vergine, nella prima domenica di Quaresima, nel giorno della Cena, della Resurrezione e dell’Ascensione del Signore, nel giorno di Pentecoste e del sacratissimo Corpo di Cristo, nella festa dei santi apostoli Pietro e Paolo e nel giorno di tutti i Santi. I diaconi e i suddiaconi sappiano che è massimamente conveniente ricevere la sacra comunione almeno nelle domeniche e nelle solennità, quando sono al servizio dell’altare. 41. I sacerdoti, poiché celebrano con maggiore frequenza, devono ricordarsi della minaccia di san Paolo: Chi mangia e beve indegnamente, mangia e beve per sé il giudizio, non distinguendo il Corpo del Signore. Siano avvertiti dal Priore di purificare frequentemente la coscienza con il sacramento della confessione: ogni sacerdote è tenuto a questo almeno nei giorni di festa. E chi sia stato scoperto di aver tralasciato la confessione nei giorni solenni, sia punito severamente come reo di peccato grave. 42. E perché ciascuno possa agevolmente purificare la propria anima, in ogni casa siano stabiliti dal Priore sacerdoti per udire le confessioni dei frati. A questi, e non ad altri, tutti i frati devono confessare i propri peccati: siano segnalati per dottrina e vita, e abbiano la facoltà di assolvere chiunque del nostro Ordine da tutti i peccati, tranne da quelli riservati [...]. [43-46] Cap. VI. I candidati all’Ordine 47-52 Cap. VII. I novizi 53. Poiché l’età degli adolescenti, se non è giustamente guidata, è incline al male e a seguire i piaceri, e se non viene educata fin dalla tenera età alla pietà e alla religione, prima che l’abito dei 33 La messa mariana del sabato è scomparsa, in conformità alle nuove disposizioni liturgiche date da Pio V. vizi possegga l’uomo intero, mai senza l’aiuto grandissimo e speciale di Dio Onnipotente potrà perseverare nella disciplina regolare, sia dato ai novizi come guida un maestro buono, di vita integra, e grande amante dell’Ordine [...]. [54-58] 59. Perché poi si abituino completamente alle orazioni e alle devozioni, ogni giorno dopo compieta, prostrati davanti al Sacratissimo Sacramento del Corpo di Cristo dicano O sacrum convivium, con il versetto e l’orazione. Fatto ciò, si rechino all’altare della Beata Vergine e dicano la corona della medesima per il felice stato della santa Romana Chiesa e per il santissimo nostro signor Papa, e per i benefattori e l’aumento dell’Ordine. Cap. VIII. Il rituale della professione 60. Venuto il tempo della professione, che sarà solo al termine di un anno intero di prova e a sedici anni compiuti, il Priore ordini al novizio di confessare i suoi peccati con il sacramento della confessione e di ricevere il santissimo sacramento dell’Eucaristia. Poi lo convochi in capitolo, gli esponga che il tempo della sua prova è scaduto e gli chieda se vuole professare nell’Ordine o andarsene. Gli indichi tutti i pesi dell’Ordine e del mondo e poi i vantaggi di ambedue; lo affidi per alcuni giorni alle mani del suo consiglio. Gli permetta di tornare dai suoi per vedere in tutti i modi se da Dio sia stato chiamato all’Ordine. 61. Se vorrà tornare nel mondo, dimesso l’abito dei novizi, gli sia concesso liberamente e senza alcuna difficoltà. Se invece ha deciso in tutta libertà di rinunciare al mondo e di dedicarsi all’Ordine nostro, sia proposto a tutto il capitolo, previa relazione del maestro dei novizi riguardo alla sua vita, indole e qualità; e se con votazione segreta viene ammesso dalla maggioranza del capitolo, sia accolto alla professione. 62. Chi invece non è stato ammesso dal capitolo o non ha voluto professare, subito ritorni dai suoi, lasciato l’abito. A chi va via prima della professione sia restituito quanto gli appartiene. Non può più essere ricevuto nel medesimo o in altro convento. 63. Se per negligenza del Priore un novizio rimane nella religione dopo l’anno in cui si deve fare la professione, non per questo sia ritenuto professo fino a che non abbia emessa espressamente la professione; ma il Priore sia punito per la sua negligenza. 64. Per mantenere l’ordine e togliere confusione, i novizi ricevuti in un convento non siano ammessi in alcun modo alla professione in un altro convento, se non con il consenso del capitolo di quei conventi nei quali erano stati ricevuti per il tempo di prova. 65. Nel fare la professione si osservi la seguente procedura: Si chiami il novizio davanti ai padri, a un notaio e ai testimoni, sia svestito dell’abito e dello scapolare dal Priore che gli dice: Figlio carissimo, ora sei stato spogliato dell’abito della santa religione, puoi andar via, scegli ciò che vuoi. Il novizio allora risponda: Ho scelto di essere disprezzato nella casa del mio Dio piuttosto che abitare nelle tende dei peccatori. Il Priore prosegua: Benedetto tu sia dal Signore, perché hai scelto la parte migliore che non ti sarà tolta. 66. Poi si invochi da tutti i frati l’aiuto dello Spirito Santo con l’inno Veni Creator Spiritus. Siano poi benedette le vesti dal prelato che dice: V. Il nostro aiuto è nel nome del Signore. R. Che ha fatto cielo e terra. V. Il Signore sia con voi. R. E con il tuo spirito. Preghiamo Dio onnipotente ed eterno, che con la morte dell’unigenito tuo Figlio, il Signore Nostro Gesù Cristo, ti sei degnato di rinnovare il mondo nella sua caduta, per liberarci dalla morte eterna e portarci alle gioie del regno celeste, guarda, ti preghiamo, questa famiglia radunata nel tuo nome, del cui grembo questo tuo servo desidera essere, perché cresca il numero di coloro che ti servono fedelmente: liberato da ogni turbamento del mondo e della carne e sicuro dai lacci del diavolo, per intercessione della beata Vergine Maria e dei beati Agostino e Filippo, possiede le vere gioie. Per il medesimo Cristo Signore nostro. Preghiamo Signore Gesù Cristo, che ti sei degnato di rivestirti della nostra mortalità, imploriamo l’abbondanza della tua immensa generosità: benedici questo genere di vesti, che i santi padri ci hanno ordinato di portare come segno di innocenza e di umiltà, così che colui che le indossa, si rivesta nel corpo, nella mente e nell’animo di te Salvatore nostro. Tu che vivi e regni. 67. Benedizione dell’abito 68. Professione del novizio, preceduta dalla professione di fede secondo la bolla di Pio IV. Il novizio promette per tutto il tempo della sua vita di «osservare obbedienza e castità e di vivere sine proprio, secondo la Regola del beato Agostino e le Costituzioni dei Servi, e secondo i decreti del sacro generale Concilio Tridentino». 69. Preghiera finale 70. Rinuncia ai propri beni davanti al notaio. 71. Registrazione dell’avvenuta professione nel libro degli atti conventuali. 72. Fatta la professione, non lo si lasci all’arbitrio della sua volontà. Non abbia relazione con alcuno, anche anziano [...]; ma in tutto sia sottoposto alla cura del maestro dei giovani professi. [Cap. IX. L’adozione a figli del convento 73-74] X. I frati conversi. 75. Affinché coloro che si dedicano al culto divino non siano costretti a sobbarcarsi attività servili, l’Ordine ha bisogno di frati che vengano accolti per servire, denominati conversi. Ed essi non devono essere accolti se non saranno di vita buona e comprovata. Non verranno ammessi alla professione se non dopo il compimento di venticinque anni. 76. E affinché non avvenga confusione nella struttura dell’Ordine colui che come laico [o converso] in passato venne accolto o in futuro verrà accolto, non potrà mai venire promosso agli ordini sacri. Ma se in seguito qualcuno si sarà fatto promuovere [agli ordini sacri] sia sospeso [dal ministero] sulla base del diritto stesso. 77. I conversi non potranno votare nella nomina degli incaricati [della comunità] e nemmeno in qualsivoglia altra questione [conventuale]. Sebbene manchi loro il diritto di voto potranno però essere scelti per compiere qualche attività come al capitolo o al priore parrà utile. 78. Nei luoghi e negli atti comuni abbiano posto dopo i professi e precedano i novizi. Non portino la chierica ma abbiano i capelli corti. [Cap. XI. Promozione agli ordini sacri 79-86 Cap. XII. I confessori 87-89] XIII. Gli studenti 90. Si sa di certo, avendo per maestra l’esperienza, che nulla, dopo i buoni costumi, sostiene e aumenta lo stato religioso più che lo studio delle scienze sacre: quando esso si interruppe nell’Ordine, anche i buoni costumi e l’intera situazione della religione ebbero un tracollo. Perciò, perchè non si tralascino gli studi delle lettere, in ogni provincia ci sia almeno un convento in cui sia operante lo studio superiore di teologia e delle arti, e in esso dal priore generale in capitolo generale sia assegnato il reggente, il baccelliere del convento e il maestro dello studio, con gli studenti, i quali almeno per tre anni non siano rimossi da quel convento se non per una urgente ragionevole causa. [91] 92. Il compito del reggente sia di insegnare prima di tutto ai suoi studenti il timore del Signore, che è l’inizio della sapienza, esortarli al culto divino e a prestare obbedienza al priore, di tenere ogni giorno due lezioni, una di filosofia, l’altra teologica speculativa sulla base di dottori approvati, da stabilirsi ad arbitrio del Generale nel capitolo generale medesimo. Compito del baccelliere del convento sarà tenere la lezione teologica pratica, sui sacramenti o sui principi della vita santa e retta, come il reggente avrà disposto. Compito del maestro degli studenti sarà quello di tenere la lezione di dialettica datagli dal reggente e di leggere nei giorni festivi il catechismo romano. Tutte le lezioni si tengano nel capitolo o almeno in un luogo aperto a tutti. [93-97] [Cap. XIV. Promozione ai gradi accademici 98-108 Cap. XV. I predicatori 109-113] XVI. Il silenzio 114. Poiché strepiti e grida smodate devono essere estranei a uomini religiosi, tutti i frati mantengano il silenzio prima nel dormitorio [...] ugualmente in sagrestia e in coro, anche quando non si celebrano i divini uffici: così infatti il nostro padre Agostino ordina nella sua Regola: nell’oratorio nessuno faccia qualcosa, se non ciò per cui è stato fatto e da cui prende anche il nome34. 115. Sappiano che ovunque sono proibiti e condannati schiamazzi smodati. E ciò che si dice del silenzio, si intenda riguardo al dovere di evitare qualunque strepito. 116. A mensa, mentre si fa la lettura, sia assolutamente osservato da tutti il silenzio. In capitolo, mentre il Priore sta correggendo qualcuno, nessuno parli, se non con il suo permesso; avuta licenza, parli a voce bassa e umilmente, senza gridare e offendere, non solo per evitare strepiti, ma anche per schivare mali più gravi. [Cap. XVII. La refezione 117-121 Cap. XVIII. I digiuni 122-124 Cap. XIX. Le vesti 125-131 Cap. XX. La tonsura 132-133] XXI. Clausura e celle. 134. Affinché a nessuno sia data piena libertà di uscire ed entrare dal recinto del monastero, si osservi integralmente debita clausura in modo che a nessuno degli estranei venga introdotto la mattina sino alle ore nove, dal pranzo sino all’ora del vespero, dall’ora di cena in avanti. Per nessuna ragione si tengano nei conventi scuole per fanciulli esterni né loro si ammettano a lezione con i novizi. Si eviti altresì la troppa familiarità degli estranei, segnatamente da parte di gente poco seria. Gli estranei nemmeno alle oneste ricreazioni che si fanno secondo consuetudine dei religiosi vengano ammessi. Non si ricevano nel monastero coloro che sotto qualsiasi motivazione vorrebbero sfuggire alla giustizia civile. 135. [In convento] non si allestiscano azioni teatrali né vane rappresentazioni e i frati per tal motivo non si facciano prestare né indossino abiti dei laici. 136. E poiché per la clausura i secolari devono essere tenuti lontani dal monastero e i religiosi invece vi si devono trattenere, nessuno esca di casa se non con un compagno, la cappa e con il capo coperto con lo scapolare e assolutamente senza berretto, e con il permesso del Priore, e non dopo il pranzo fino a nona né dopo compieta. E nei giorni di festa a nessuno sia permesso di uscire, se non per qualche motivo urgente o per bisogni della comunità. Per tutti sia sufficiente uscire due volte la settimana. 137. Quelli che stanno per uscire con la cappa, umilmente inginocchiati chiedano la benedizione al loro superiore. Il Priore poi sia attento che non tutti escano nel medesimo giorno o vadano in giro per la città, in piazza o strada malfamate, o rimangano nelle botteghe a passare il tempo con i secolari e a parlare di inutilità. 138. All’interno dei monasteri non si tengano armi di alcuna foggia né coltelli oltre la misura di un palmo. 34 Regula ad servos Dei II, 2. 139. Nessuno assolutamente giochi a carte, a scommesse, ai dadi e [nessuno giochi] nemmeno con quelli consentiti nei giorni di festa o di digiuno. 140. Nel dormitorio a ciascuno venga assegnata la propria cella. Né il Priore Generale, né il Priore Provinciale, né il Priore Conventuale abbiano una residenza separata nel territorio conventuale o altrove nemmeno col pretesto di privilegi, permessi, inveterata consuetudine. Ma ognuno si accontenti di un’unica cella contigua alle altre celle di tutti i frati, le pareti del tutto disadorne, modesti il letto e la mobilia secondo lo stile che si addice a religiosi poveri. Pertanto stanze o locali che restano fuori del dormitorio, a parte i laboratori, oppure altri vani vengano ricondotti a uso comune e vantaggio di ciascun convento se possibile, altrimenti vengano demoliti e il materiale e il pietrame vengano impiegati per l’edilizia conventuale se ci sarà bisogno oppure siano messi in vendita e il ricavato sia impiegato per l’uso comune del convento. 141. Nella [propria] cella e anche fuori del monastero sempre ognuno rimanga da solo in modo che possa dedicarsi alla preghiera e alla lettura nei loro tempi. 142. E perché gli altri frati non si sentano disturbati per l’arrivo di ospiti, vi sia al di fuori del dormitorio uno spazio con giacigli opportunamente allestiti e quanto necessario secondo le possibilità delle case. XXII. Gli itineranti. [143] 144. [Il frate che si mette in viaggio] porti con sé il breviario o la corona se è un converso. In viaggio nessuno porti armi con sé, nemmeno con pretesto di difesa. 145. Prima di uscire dal monastero umilmente chieda la benedizione al suo superiore. E se non sarà di ritorno lo stesso giorno si rechi davanti all’altare o all’immagine della beata Vergine per recitare in ginocchio la preghiera dell’itinerante descritta nel breviario romano; quando ritornerà nuovamente si accosti davanti all’immagine della beata Vergine per ringraziare. [146-149] 150. Giunti in un convento, siano accolti benevolmente e si dia loro tutto quello che è necessario agli ospiti, e si lavino anche i loro piedi e si offra loro, in nome della carità, tutto quello che è proprio di un modo gentile. [Cap. XXIII. Gli infermi 151-155] Cap. XXIV. L’amministrazione dei beni 156. Poiché le nostre case sono edificate sopra il fondamento della povertà, a nessuno sia lecito tenere e possedere beni immobili, di qualsiasi valore e in qualsiasi modo acquisiti, come propri o anche a nome del convento, per qualsiasi causa o titolo o pretesto, anche per motivo di vecchiaia, di infermità o con pretesto o l’intenzione di una qualsiasi opera pia; ma tutto sia incorporato con gli altri beni del convento e portato sotto la piena e libera potestà dei monasteri. 157. E non sia lecito ai superiori cedere a qualcuno i beni immobili, anche in usufrutto o in uso, o amministrazione o commenda; ma i frutti, che se ne percepiscono, siano posti sotto la fedele cura degli ufficiali della casa. 158. Tutte le elemosine, ricevute dalle confessioni, predicazioni, lezioni, per qualsiasi altra ragione o lavoro o attività, anche se donate o lasciate alla persona, siano consegnate al superiore il quale ordini che sia amministrato a chi le consegna solo quanto sembrerà richiedere la necessità del momento. 159. Abbia una speciale considerazione delle persone; e come richiederà il maggior grado dei frati, lo studio e la necessità, dia loro qualcosa più degli altri per il sostentamento; tuttavia ciò avvenga con misura e prudenza così da non sottrarre agli altri il necessario. E se concederà a uno qualcosa in base all’affetto piuttosto che al merito e alla necessità di chi riceve, o che violi la condizione di povertà, sappia che incorrerà nell’ira di Dio onnipotente. [160-163] 164. Perché poi la rendita annua sia sufficiente per la famiglia, si faccia un’esatta e sapiente analisi della rendita annua nei singoli conventi; e dapprima detratti gli oneri pubblici, le tasse, le decime, le collette, e altre cose simili, perché nessun convento sia gravato oltre le proprie forze, sia stabilito dal Generale con il Provinciale e il Socio, previa una matura riflessione, quale numero di frati da quelle entrate possa essere mantenuto, considerati gli obblighi per la celebrazione delle messe e tenuto conto dei padri anziani e dei giovani da istruire, perché le uscite non siano maggiori delle entrate. Così i frati si dedicheranno serenamente alle preghiere e alle sacre letture e nei loro monasteri offriranno a Dio un operoso servizio. [165-168] Cap. XXV. Le qualità e l’autorità del Generale 169. Il Priore Generale sia maestro in teologia, di 40 anni almeno, e che sia rimasto in religione almeno venti anni ultimi continui; non sia rimasto fuori convento, sia pure con licenza dei superiori, nell’ultimo sessennio passato; non sia mai caduto in sospetto di eresia; sia di buona reputazione e fama, notevole per costumi illibati, per prudenza di governo e santità di vita; abbia dato prova della sua amministrazione e non sia stato in quella carica nell’ultimo sessennio. [170-176] Cap. XXVI. Le qualità e l’ufficio del Procuratore dell’Ordine [177-178] 179. [Il Procuratore dell’Ordine] sia tenuto a trattare con ogni attenzione e sollecitudine in Curia Romana gli affari dell’Ordine e di ogni provincia o convento. E nel caso di una lite tra un convento e un frate, o tra un superiore e l’inferiore, il Procuratore sia tenuto a difendere le parti del convento e del superiore. Non possa tuttavia a nome dell’Ordine trattare o fare alcunché fuori della Curia Romana, se non dietro mandato del Protettore. [180-182] 183. Il Procuratore rimanga, per sua abitazione, nel convento di S. Marcello di Roma, da cui riceva il medico, le medicine e le altre cose che sono in comune. Ma egli si provveda da sé legna, olio, candele. Sia tuttavia libero da tutti gli incarichi del convento. [184-185] Cap. XXVII. Le qualità e l’autorità del Provinciale [186] 187. Il compito [del Priore provinciale] è di vigilare con sollecitudine per l’aumento della provincia a lui affidata e di indurre tutti, con la parola, l’esempio e le correzioni, all’osservanza delle Costituzioni. [...] 188. Visiti tutti i conventi della sua provincia insieme al Socio ogni anno in cui il Generale non l’abbia visitata. E durante la visita non faccia nulla di importante senza il consiglio del Socio. [189-190] 191. Corregga gli errori della colpa più grave e durante la visita anche quelli di colpa leggera o grave. Abbia voce in ogni capitolo conventuale della sua provincia. Formi anche le famiglie dei conventi, trasferendo i frati, se ve ne sia bisogno, da un convento all’altro. E al Generale, che ordina di rimuovere un frate da un convento e assegnarlo in un altro, obbedisca assolutamente. [192-195 Cap. XXVIII. Le qualità e l’ufficio del Socio 196-198] Cap. XXIX. Le qualità e l’autorità del Priore conventuale. 199. Il Priore conventuale si distingua per equilibrio e prudenza. Abbia esercitato il ministero sacerdotale per un triennio. Non sia stato Priore nel medesimo convento lungo quattro anni. Non ricopra l’ufficio di definitore nel capitolo provinciale l’anno in cui è eletto. Non risulti incriminato o reo confesso di ruberie o frodi. Sia idoneo ad esercitare il ministero pastorale nello stesso convento. 200. Nello stesso [convento] sarà tenuto a mantenere la propria continuativa residenza. Da quel [convento] non potrà assentarsi per un mese se non per una ragione conosciuta, approvata e concessa per iscritto dal [priore] Provinciale. Si ritenga vacante a termini di diritto l’ufficio del Priore che avesse agito diversamente e il [priore] Provinciale immediatamente proceda alla nomina di un altro. 201. Il Priore non avrà alcuna facoltà di scomunicare i suoi frati e nemmeno potrà richiedere la sentenza di scomunica per cose perdute e sottratte oppure per [carpire] qualsiasi informazione. 202. In primo luogo si occupi con zelo della chiesa. Sia cura prioritaria che la chiesa si conservi integra nelle sue strutture e venga riparata, che si mantenga inoltre pulita e spolverata come si conviene, che sia provvista di libri, vasi, ornamenti e quanto altro concerne il servizio dell’altare e il culto divino. 203. Guidi la condotta dei frati e corregga le loro mancanze secondo le norme delle Costituzioni; ma non proferisca ingiurie e contumelie contro di loro per nessuna ragione. Osservi e faccia osservare le Costituzioni. Somministri quanto è necessario ai malati. Eviti le specialità nel cibo e condivida la vita con i frati. Si preoccupi che venga distribuita ai frati la biancheria a tempo debito. Sostenga nel servizio gli incaricati del suo convento esortando, dialogando, spronando e correggendo. Non si intrometta in nessuna faccenda particolare, ma sempre e su tutte sia vigilante. 204. Non contragga debiti né venda beni mobili senza il consenso dei padri. Ma non potrà alienare beni immobili se non con il consenso del Priore Generale ottenuto per iscritto e non senza le procedure richieste dal diritto. 205. Non costruisca edifici che comporterebbero la vendita di beni del monastero o l’accensione di pesanti debiti né motivati da ricercatezza. Affinché questa disposizione sia osservata non potrà costruire edifici che sorpassino il valore di due aurei senza il consenso dei padri; se poi [il progetto] supera il valore di venti aurei, oltre il consenso dei padri, è vincolante anche il permesso scritto da parte del [priore] Provinciale. 206. Nel convento di cui è Priore non abbia alcun potere di sorveglianza delle lettere, eccetto quelle che gli sono state spedite dal Generale, dal procuratore dell’Ordine o dal Provinciale per quelle cose soltanto che riguardano l’Ordine. 207. Ispezioni ogni mese attentamente le celle dei frati. Se scoprirà qualcosa di illecito e di frivolo o altre cose in qualsiasi modo sconvenienti, le sottragga e le distrugga e se fossero vesti immediatamente le laceri e punisca i possessori. 208. Non avrà potere di cacciare un frate dal monastero oppure accoglierne un altro se non con espresso consenso da parte del [priore] Provinciale. Quando sono presenti il [priore] Generale o il [priore] Provinciale non dia la benedizione ai frati. Mandi ad esecuzione le sentenze del [priore] Generale o del [priore] Provinciale concernenti frati colpevoli: sia privato dell’ufficio se ciò non avrà fatto. Sottoponga alla pena egli stesso i frati colpevoli di gravi scorrettezze o colpe lievi e non rimetta casi siffatti al [priore] Generale o al [priore] Provinciale. Infine si adoperi di condurre a termine umilmente ogni cosa che la carità gli avrà insegnato come spettante al padre nei confronti dei figli. [Cap. XXX. Le qualità degli ufficiali conventuali 209- 216 Cap. XXXI. L’ufficio e l’autorità del vicario 217-221 Cap. XXXII. Le visite 222-235 Cap. XXXIII. La colpa leggera 236-238 Cap. XXXIV. La colpa grave 239-243 Cap. XXXV. La colpa più grave 244-260 Cap. XXXVI. La colpa gravissima 261-268 Cap. XXXVII. I giudizi 269-300 Cap. XXXVIII. Gli apostati 301-311 Cap. XXXIX. Le precedenze 312-318] Cap. XL. Il capitolo conventuale. 319. Il capitolo conventuale sia radunato dal [priore] Generale o Provinciale durante la visita [canonica] e ogniqualvolta parrà loro opportuno in vista di emendazione dei comportamenti e di correzione di eccessi. Venga radunato altresì dal Priore conventuale in vista della elezione degli incaricati della casa, di affari comuni del convento, per la correzione di comportamenti ogni volta che a lui parrà opportuno. 320. Tuttavia [il capitolo] ogni venerdì venga radunato, a meno che una giusta causa lo impedisca: in esso i frati dicano le proprie colpe e a quelle vengano imposte salutari penitenze e se vi sarà qualcosa da correggere, venga corretta. Poi il Priore esorti i frati a progredire nella vita, a conservare la pace e la disciplina regolare. Dopo questo raccomandi alle loro preghiere lo stato della santa madre Chiesa, il Sommo Pontefice, l’illustrissimo e reverendissimo [cardinale] nostro Protettore, il Priore Generale e Provinciale, tutti i governanti di tutto il mondo cristiano, nonché le anime dei frati defunti, i benefattori dell’Ordine vivi e defunti. 321. Quando [il capitolo] si raduna per la trattazione di faccende comuni del convento o per l’elezione degli incaricati, non abbiano diritto di voto se non quanti dimorano come membri di quel convento mediante obbedienza del [priore] Provinciale, siano insigniti dagli ordini sacri e non siano altrimenti inabili a esprimere il voto; [saranno] del tutto esclusi quanti sono privati del diritto di voce attiva, quanti dimorano fuori convento anche se con regolare autorizzazione, i professi prima del conferimento dell’ordine del suddiaconato, conversi e novizi. 322. Prima di procedere alla elezione degli incaricati [conventuali], si dica l’inno Veni Creator Spiritus e la preghiera allo Spirito Santo. Poi venga esposta ai presenti elettori l’agenda capitolare, si esortino ad eleggere, tenendo Dio davanti agli occhi, uomini idonei ad assumere gli incarichi della casa. Dopo questo il superiore e in seguito gli altri secondo il proprio grado di precedenza, se volessero proporre qualcuno per l’elezione a un incarico, accostandosi al superiore, ne facciano il nome. Si proceda poi alla elezione tramite votazione segreta: colui che avrà riportato un numero di voti maggiore della metà, quello si ritenga eletto, si notifichi con quanti voti favorevoli sia stato eletto, dal superiore mediante il segno della croce venga confermato. 323. Se poi nessuno sarà stato eletto, in quanto che tutti [i nominativi] hanno riportato meno della metà dei voti, si ripeta il capitolo in altro tempo e sia fatto tutti i giorni finché qualcuno non resti eletto: nel frattempo tuttavia il Priore provveda al resto. 324. Sebbene tutti gli incaricati della casa vengano eletti nel capitolo conventuale, tuttavia quanti amministrano i beni, come il sindaco, il depositario e l’economo, saranno rimovibili a discrezione del [priore] Generale o Provinciale a tenore del decreto del sacro Concilio Tridentino. Cap. XLI. Il capitolo provinciale 325. Il capitolo di ciascuna Provincia sia fatto in essa ogni anno, nel luogo che stabilirà il Provinciale e nel tempo prescritto dal Generale, mentre i capitoli di tutte le province si celebrino nei due mesi dopo Pasqua. E in esso abbiano voce il Generale, il Provinciale, il Socio, i maestri e i Priori dei conventi principali, non dei conventi uniti, con i propri consiglieri, e i baccellieri che tuttavia siano rimasti dentro i conventi dell’Ordine, esclusi assolutamente i maestri e i baccellieri extra claustra, sia pure con il permesso dei superiori. 326. Perché la provincia non sia gravata da spese superflue, non venga al capitolo alcuno che non sia vocale, se non per causa conosciuta ed espressamente approvata per iscritto dal Provinciale. Chi presumerà di agire contro tale disposizione, sia subito respinto dal capitolo e reso inabile a ricevervi incarichi. [327-328] 329 Giunto il giorno del capitolo, all’aurora si dica la Messa dello Spirito Santo con la partecipazione di tutti i vocali. Al termine di essa, si tenga dal Generale un discorso sulla riforma con l’ammonizione, per la correzione dei costumi della provincia e dei conventi, e per l’incremento del culto divino, e per la scelta degli ufficiali adatti all’amministrazione della provincia e dei conventi; si legga le lettera [di indizione] del capitolo. Dopo la lettura tutti, genuflessi dinanzi all’immagine della Beatissima sempre Vergine Maria, dicano devotamente senza canto la Salve Regina, con il versetto e l’orazione della medesima Beata Vergine. 330. Poi si enumerino da parte dei Priori i nomi dei frati defunti in quell’anno, e si dia l’assoluzione generale con il salmo De profundis, il versetto e l’orazione Absolve. Si elenchino anche dai Priori dei singoli conventi i nomi dei benefattori viventi e si faccia per loro una orazione comune con il salmo Deus misereatur nostri, il versetto Salvos fac servos tuos e l’orazione Praetende Domine fidelibus tuis. 331. Poi si faccia diligente esame dei vocali [...] 332. Si scelgano quattro Definitori [...] [333] 334. Il Priore provinciale, deposti nelle mani del Generale il sigillo e il libro delle Costituzioni, chieda umilmente perdono di omissioni e colpe commesse durante il suo ufficio. E poi esca dal luogo del capitolo. Anche i Priori rinuncino liberamente al loro ufficio. 335. Il Priore generale dica quindi che se qualcuno intenda sollevare obiezioni contro il Provinciale, lo faccia, si intende riguardo a colpe manifeste degne di citazione; e se sarà riconosciuto colpevole, sia scelto un altro secondo la proceduta sotto indicata, il cui ufficio duri fino al capitolo provinciale anteriore al prossimo capitolo generale. Se poi nessuno ha da sollevare critiche o le accuse e i rilievi sono di poco conto, sia confermato dal Generale con un segno di croce. 336. Dopo questo il Provinciale, il Socio e i Definitori giurino nelle mani del Generale che agiranno secondo Dio e la coscienza sia nel giudicare le cause, sia nello scegliere gli ufficiali, sia in altre cose che conosceranno utili alla salvezza delle anime e al progresso della provincia, messo da parte ogni sentimento umano. Poi, riuniti in un luogo, presente il Generale, se egli sarà d’accordo, messi da parte sentimenti dell’animo, chiedano ai discreti, per mezzo di giuramento, se i decreti del precedente capitolo e visita siano stati eseguiti riguardo al culto divino, l’osservanza regolare e l’amministrazione dei beni temporali. 337. Frattanto, mentre gli altri frati vanno in chiesa per celebrare le messe, quando anche cantino la messa per i frati e benefattori defunti, il Provinciale, il Socio e i Definitori ricevano dai Priori per iscritto i resoconti, per ogni convento, delle entrate e uscite dell’anno precedente: i Priori che non li abbiano presentati, siano inabili a ricevere cariche in quell’anno. Perché tutto questo possa essere fatto nel modo migliore, in quel giorno nessuno esca di casa per qualsiasi causa o pretesto. Poi ascoltino le vertenze, qualora ci siano tra alcuni. Poi procedano all’esame di quelli che devono essere promossi al grado di baccellierato, secondo la forma sopra indicata al capitolo 14. 338. Infine il Provinciale, il Socio e i Definitori, riuniti essi soltanto insieme, [...} correggano e rinnovino quanto vedranno mancare di riforma nella provincia o in qualche convento. [...] 339. Nessuno potrà prorogare la propria carica nel medesimo monastero oltre un biennio, se non nei conventi non collegiati, dove potrà essere confermato per un altro biennio per incremento del convento [...] 340. Tuttavia resti valido il diritto proprio del Generale di designare i Priori nel convento di S. Marcello a Roma e nel convento della Beata Maria Vergine di Mergellina a Napoli; questi Priori, tuttavia, non possono durare più di due anni, come anche tutti i Priori degli altri conventi dell’Ordine. [...] 341. Si conservi parimenti il diritto proprio dei capitoli dei monasteri di eleggere i Priori nei conventi ad essi uniti; questi Priori tuttavia non abbiano voce nel capitolo provinciale. [342-344] 345. Confermata dal Generale l’elezione degli ufficiali e i decreti, tutto sia letto e pubblicato. Si canti poi l’inno Te Deum laudamus, e si vada in processione in chiesa. Il Priore Provinciale e tutti i Priori conventuali facciano la professione di fede ortodossa. 346. Terminata la professione, ci sia la confessione e l’assoluzione generale e si ordini a ciascuno, non appena sia giunto alla propria di casa, di dire tre messe: una dello Spirito Santo con l’orazione Deus omnium fidelium pastor et rector, per il felice stato e la conservazione del santissimo signore nostro il Papa e della santa Romana Chiesa; un’altra della Beata Vergine per l’aumento dell’Ordine, e una terza per i defunti. Nessuno dei Priori se ne parta senza aver prima per iscritto, con la firma del Provinciale, i nomi dei frati che saranno assegnati nel suo convento per quell’anno. [347-351] Cap. XLII. Il capitolo generale 352. Il Capitolo generale sia celebrato di triennio in triennio, nel luogo e nel tempo stabiliti dal Priore Generale. Sia decretato con lettere patenti dal medesimo Generale a tutti i Provinciali dieci mesi prima. [...] 353 Nel capitolo generale abbiano voce il Generale, il Procuratore dell’Ordine nella Curia romana, i Definitori generali, i Priori Provinciali delle nove province, i maestri che hanno ricoperto l’ufficio di generale e i Soci di ciascuna delle nove province dell’Ordine, cioè di Toscana, Romana, di Romagna, di Lombardia, della Marca Trevisana, Veneta, Mantovana, Genovese e Napoletana. 354. E poiché le due province, la Narbonese e quella della Corsica e Sardegna, troverebbero grandi difficoltà per la scarsità dei monasteri e la lunghezza del viaggio, se dovessero inviare singolarmente tre frati, è sufficiente che ciascuna mandi a suo nome un solo vocale. [355-358] 359. Si proceda poi all’elezione del nuovo Generale, in modo che chi ha rinunciato non possa essere nuovamente rieletto se non dopo una vacanza di sei anni. Nell’elezione si osservi questa modalità: il Primo Definitore ammonisca i padri del capitolo che non eleggano uno per simonia, o per amore o per timore o altro sentimento umano, ma secondo Dio e coscienza scelgano per Generale colui che possa essere davvero il padre di tutti e che sappia governare e giovare a tutti. Legga poi i nomi dei padri che gli saranno stati presentati dai provinciali a nome delle loro province, e siano disposti secondo il loro ordine di precedenza. 360. Prima che si proceda all’elezione, siano ascoltati coloro che vorranno avanzare riserve contro la persona nominata o proposta e la causa sia chiusa quanto prima dai Definitori. I nominati dalle province non possono rifiutare di essere eletti Generali; ma i padri del capitolo siano tenuti a proporre tutti i nominati, contro i quali non ci sia stata alcuna legittima riserva, ad essere eletti per suffragio segreto. 361. Dunque, presentato ciascuno, quello che avrà ottenuto il maggior numero di voti sopra la metà di tutto il capitolo, sia Generale e venga proclamato dal primo Definitore con il favore di quanti voti sia stato eletto. Ed egli chiamato per prima cosa davanti a tutti nel medesimo capitolo generale faccia professione di fede cattolica, secondo la formula data dalla Santa Sede Apostolica, nelle mani del medesimo primo Definitore. 362. Poi in particolare, secondo la disposizione di papa Clemente VI di felice memoria, presti giuramento ponendo la mano sui santi Vangeli di Dio, che sarà fedele alla santa Romana Chiesa, al santissimo signore nostro il Papa e ai suoi legittimi successori, e che si comporterà con equità e sollecitudine nel compiere provvedimenti, promozioni, conferme, rifiuti, destituzioni e correzioni più gravi, senza preferenze di persone, secondo Dio e la sua retta coscienza, la Regola del beato Agostino e le Costituzioni dell’Ordine e le lodevoli consuetudini ad esse non contrarie, e che eserciterà fedelmente il suo ufficio. 363. E con questa sola elezione, canonicamente avvenuta, il Priore Generale sia eletto, sia inteso confermato e come confermato dalla Sede Apostolica sia ritenuto. Il primo Definitore sia tenuto a consegnargli subito il sigillo e il libro delle Costituzioni e metterlo al primo posto e prestargli obbedienza con il bacio della mano. 364. Ciò fatto, ciascuno ugualmente gli presterà obbedienza con il bacio della mano. Si canti poi l’inno Te Deum laudamus e tutti in processione si rechino in chiesa ringraziando Dio. Giunti in chiesa, terminato l’inno Te Deum, i cantori dicano Ora pro nobis Sancta Dei Genitrix, e dal Generale si dicano le orazioni della Beata Vergine, di sant’Agostino e del beato Filippo. E il Generale ordini a tutti i vocali, sotto pena di privazione di voce attiva e passiva per un sessennio, che nessuno si allontani dal capitolo per tre giorni, contando dall’indomani. [365-367: in questi tre giorni il Generale scaduto farà il resoconto della sua amministrazione, saranno discusse le cause tra province, conventi e persone, ci sarà la promozione dei maestri, e verranno emanati decreti] 368. Si proceda infine all’elezione del Procuratore dell’Ordine, proposti quelli che saranno stati presentati dai Provinciali a nome delle proprie province. E nominati tutti secondo l’ordine delle province, si proceda all’elezione per votazione segreta: nessuno di quelli proposti, contro i quali non ci sia stata legittima riserva, possono rifiutare. 369. E colui che avrà ottenuto più voti oltre la metà di tutti i vocali, sia eletto Procuratore dell’Ordine nella Curia Romana. Ed egli per prima cosa giuri nelle mani del Generale di compiere fedelmente tutto quello che le Costituzioni stabiliscono riguardare il suo ufficio. Poi, fatto il segno della croce, sia confermato dal Generale e per mano del pubblico notaio gli sia dato il mandato di procuratore. [370: conclusione del capitolo] Cap. XLIII. Le Costituzioni 371. Non si mutino mai in alcun modo queste Costituzioni; ma, restando esse uguali, se capiterà l’occasione per la quale sia necessario fare nuovi statuti, il capitolo generale possa redigere e promulgare nuove Costituzioni, che tuttavia non siano in contrasto con i sacri canoni e decreti del sacro concilio Tridentino e degli altri concili generali, con altre costituzioni apostoliche e con le presenti Costituzioni. Le nuove Costituzioni, promulgate in capitolo generale, si intendano avere subito forza giuridica e siano aggiunte a queste presenti. 372. Il Generale non può da solo redigere costituzioni riguardanti tutto l’Ordine o la sua condizione. Però con i Provinciale e il Socio può pubblicare o abrogare statuti particolari, riguardanti tutta la provincia o un suo convento. Tali statuti si intendano avere validità fino a che non saranno revocati da loro stessi o dai successori. 373. Nel caso che sorga un dubbio su un‘espressione delle Costituzioni, si faccia riferimento al capitolo generale, la cui dichiarazione sia scritta in margine alle presenti Costituzioni e sia osservata. Nel frattempo tuttavia fino al capitolo generale tutti devono attenersi alla dichiarazione del Priore Generale. 374. Per queste Costituzioni, sia per le dichiarazioni che di esse dovranno essere fatte o per le costituzioni che dovranno essere emanate dai capitoli generali, nulla si intenda mai abrogato dei privilegi e capitoli concessi dal R. P. maestro Giacomo da Firenze, Generale del nostro Ordine, al convento della Beata Maria Annunciata di Firenze, riguardanti il suo governo, e confermati dal santissimo signore nostro il signor Papa Gregorio XIII, per mezzo di lettera in forma di breve, data a Roma presso S. Pietro il 22 novembre 1578, settimo anno del suo pontificato. Né dal documento di concordia e intesa avviata con i frati delle province Veneta e Mantovana, e dalla convenzioni e capitoli in esso contenuti relativi allo stato delle medesime province, e ugualmente confermati dal medesimo santissimo signore nostro, signor Papa Gregorio XIII per mezzo di analoga lettera in forma di breve, dato a Roma il 20 Aprile 1574, anno secondo del suo pontificato; ma tutto questo sia salvo e conservato, permanga integro e intatto. 375. Perché nessuno possa avanzare come scusa l’ignoranza di queste Costituzioni, il Priore Generale e i Provinciali sono obbligati a portare sempre con sé il libro delle Costituzioni e allo stesso modo tutti i Priori conventuali devono averlo nel proprio convento. I superiori, se troveranno nelle visite un convento privo delle Costituzioni, depongano il Priore dal suo ufficio. 376. E ancora nelle visite e quando ce ne sarà bisogno, i Priori dei conventi ammoniscano piuttosto spesso tutti i frati alla osservanza di esse così che possano progredire nella vita regolare; per conseguire anche la perfezione, spessissimo tutti i frati effondano preghiere a Dio, al quale sia l’onore e la gloria nei secoli dei secoli. Amen. LITURGIA E PIETÀ MARIANA a cura di Pier Giorgio M. Di Domenico INTRODUZIONE Tra le varie testimonianze della pietà mariana nell’Ordine del XVI e prima metà del XVII secolo sono da considerarsi le edizioni costituzionali e le regole del Terz’Ordine, alle cui rispettive sezioni di questo volume si rimanda. Come pure si rinvia alla sezione legislativa per quanto riguarda la recita dell’Ave Maria, della Salve Regina, della Corona e dell’Ufficio Parvo della Madonna (le Horae de Domina), la Messa “de Beata” e Santa Maria in Sabato. Per il capitolo generale di Treviso (1561), che stabilisce di aggiungere, nella prima parte dell’Ave Maria, il nome di Jesus dopo benedictus fructus, e il capitolo generale del 1597, che decide la ripresa dell’Ave Maria e della Salve all’inizio e alla fine della liturgia comunitaria, cf. sezione Fonti documentarie e narrative di questo terzo volume.. Qui si riportano, dall’Ufficio della beata Vergine Maria edito dal Massarini, la parafrasi mariana del Te Deum, le litanie, una Oratio devotissima. Dalle divotioni riferite dal Giani, alla fine della sua riedizione della regola di Martino V, sono state scelte la Corona della beatissima Vergine e le litanie recitate dai novizi. È stato anche tradotto il rito di vestizione per frati e monache contenuto nell’Operetta di fra Cosimo, per i riferimenti mariani in esso contenuti. La sezione contiene anche brani tratti dalla Raccolta di miracoli - a sostegno dell’Immacolata Concezione – di Francesco Nuñes Fenix de Canales, dal diario di viaggio di Noè Bianco, che ne1 1527 andò pellegrino in Terra Santa, e dai Dieci discorsi sopra il Ss. Nome di Maria di Arcangelo Ballottini. Nel XVI secolo alcuni indizi preannunciano già il futuro sviluppo della devozione alla Vergine Addolorata, che prenderà un grande impulso nel corso del Seicento. Il 10 luglio 1500, a Erfurt, i Servi di Maria, in segno di gratitudine per il sacerdote Lorenzo di Pietro Brack, che aveva fatto una elargizione al convento, si impegnano a celebrare ogni venerdì una messa de deifica Facie nostri Redemptoris, con l’aggiunta di orazioni sulla Compassione della Beata Maria Vergine35. Ancora nel 1500 Paolo da Faenza, nel De ratione absolutissime confessionis (Bologna), tra le indicazioni offerte per facilitare la confessione, inserisce una serie di preghiere ai sette dolori di Maria. Al simbolismo dell’abito nero fanno riferimento vari storici del Cinquecento: Filippo Albrizzi36, Giacomo Filippo Landrofilo37, Cosimo Favilla da Firenze38, Filippo Maria da Bologna detto Sgamaita39. Sono soprattutto i testi scritti per il Terz’Ordine ad attestare queste nuove accentuazioni nella pietà mariana dei Servi. Luogo di approfondimento e sviluppo della devozione all’Addolorata è anche il caratteristico mondo spirituale creato da Anna Giuliana Gonzaga (cf. sezione Movimenti di riforma) e che sarà proprio dell’Osservanza Germanica. Per la dedicazione delle chiese dei Servi a santa Maria, fra Cosimo nell’Operetta afferma che le chiese dei Servi sono “case” o “camere spirituali” della Vergine e ricorda in particolare la Ss. Annunziata di Firenze e S. Maria della Scala di Verona Altri santuari che nel 500 hanno un grande sviluppo sono Monte Berico e la Ghiara di Reggio Emilia. In una lista dei conventi e chiese dell’Ordine, redatta da Giacomo Tavanti (cf. Monumenta OSM, VII, p. 76-88), non risulta alcuna chiesa collegata ai dolori della Vergine. S. 35 cf. Monumenta OSM, IV, p. 9 Exordium Religionis Fratrum Servorum Beatae Mariae, 8: «Sono venuta, la Madre di Dio, richiesta da tante vostre preghiere: vi ho scelti come miei servi perché coltiviate sotto questo nome la vigna del Figlio mio e portiate molti frutti di meriti. Guardate quale specie di vesti io indosso, mostrando tutta in lutto la mia tristezza: questo abito indica quale dolore io abbia sofferto nella morte del mio Unigenito. Voi dunque, disprezzando le vesti variopinte, indossate un abito non dissimile, perché portiate con voi il ricordo del mio dolore e della passione del Figlio» (Monumenta OSM, III, p. 58). 37 Apparendo ai Sette la Vergine dice: «Servi miei, sarete conosciuti da tutti se porterete, vivi e morti, questo abito di lutto per la tristezza della Passione del mio Figlio». De origine et nobilitate Religionis Servorum, 10 (Monumenta OSM, XIV, p. 86). 38 De origine Ordinis Servorum, 7: «Dopo che Bonfiglio e Amideo, due dei primi iniziatori del nuovo Ordine, avevano chiesto con intense preghiere che la benevola Madre mostrasse loro quali vesti dovessero prendere per esprimere la loro condizione di servi (in habitu servili), dicono che sia apparsa loro durante il sonno ammonendoli a prendere un mantello nero per indicare la tristezza e il dolore che la Madre subì dopo che il dolcissimo Figlio fu condannato a una morte indegna» (Monumenta OSM, XIV, p. 105). 39 Chronica nostrae Religionis, cap. 6, 10: «Fratelli miei carissimi, notate che questa donna vestita di nero significa che voi dovete prendere un abito nero, scapolare, tonaca e cappa, in memoria della sua vedovanza, ovvero di tristezza e di afflizione» (Monumenta OSM, XIV, p. 185). 36 Maria dei Servi a Siena, con un atto del 23.11.1523 viene dedicata all’Immacolata (cf. Monumenta OSM, VI, p. 190-200 I. Ufficio della Beata Vergine Maria edizione: P.M. SOULIER, Officium Beatae Mariae Virginis secundum consuetudinem fratrum Servorum, in Monumenta OSM, IV, Bruxelles 1900-1901. p. 122-150 L’Ufficio, recitato ogni sabato nelle chiese dei Servi, in fedeltà alla disposizione del capitolo generale di Pistoia del 5 agosto 1300, fu stampato a Venezia nel 1566, insieme all’ufficio di san Filippo e altre orazioni, a cura di fra Ippolito Massarini, che lo dedica a fra Dionisio da Lucca, suo antico maestro: « È stata sempre così grande, carissimo padre, la tua pietà e devozione verso la beatissima Vergine che, rifugiandoti in lei in tutte le tue vicende, mai hai implorato vanamente il suo aiuto. Perciò non solo ritengo che nessuno si meraviglierà se ti ho dedicato e offerto questo libretto, ricavato da un antichissimo esemplare, con cui siamo abituati a celebrare la gloria di lei ogni sabato nelle nostre chiese di Servi, stampato più accuratamente con non piccolo lavoro e impegno da parte mia; ma sono anche sicuro che quanti ti conoscono approveranno questa mia iniziativa, ammettendo, sia pure a malincuore, che essa ti è dovuta di diritto». Al lettore Leggi attentamente, non ti dispiaccia, solleverai la mente oltre le stelle e pio diventerai più di quanto lo sia stato finora, lettore. Qui non le acque castalie40, di una fonte falsa, berrai, ma quelle che dà lo Spirito di Cristo. Qui è la fede salda, qui la speranza, qui la forza dell’amore, che ciascuno deve nutrire per il sommo Dio. Ufficio della Beata Maria Vergine nostra Signora che è celebrato in giorno di sabato dai frati dei Servi, a meno che non capiti una festa doppia o semidoppia Dall’ottava di Pentecoste fino all’Avvento del Signore, venerdì Vespri [...] Mattutino [...] Cantico dei santi Ambrogio e Agostino cambiato in lode della gloriosa Vergine Maria Te lodiamo Madre di Dio, te Maria celebriamo Vergine. Te tutta la terra venera come sposa dell’eterno Padre. Te servono fedelmente tutti gli Angeli e Arcangeli, te i Troni e Principati. A te obbediscono tutte le Potestà e tutte le Virtù del cielo dei cieli e tutte le Dominazioni. Vicino a te esultanti stanno tutti i Troni, i Cherubini e i Serafini. Con voce incessabile ogni creatura angelica ti canta: 40 La fonte Castalia, sacra ad Apollo e alle Muse sul Parnaso. Santa, Santa, Santa Maria Madre di Dio, madre e vergine. Della maestà gloriosa del frutto del tuo ventre sono pieni i cieli e la terra. Te il glorioso coro degli Apostoli loda Madre del Creatore. Te il coro candido dei Martiri beati glorifica Madre di Cristo. Te la schiera gloriosa dei Confessori chiama Tempio della Trinità. Te l’amabile stuolo delle sante Vergini proclama esempio di verginità e umiltà. Te tutta la corte celeste onora regina. Te per l’universo intero la Chiesa celebra invocandoti Madre della divina maestà, veneranda e vera madre del Re del cielo, santa, dolce e pia. Tu signora degli Angeli, tu porta del paradiso. Tu scala del regno celeste e della gloria, tu stanza nuziale, tu arca della pietà e della grazia. Tu fonte di misericordia, tu sposa e madre del Re eterno. Tu tempio e santuario dello Spirito Santo, di tutta la beatissima Trinità nobile sala. Tu mediatrice di Dio e degli uomini, amante dei mortali, luce dei celesti. Tu compagna di chi lotta, avvocata dei poveri, rifugio pietoso dei peccatori. Tu che elargisci doni, tu che vinci e sei il terrore dei demoni e dei superbi. Tu signora del mondo, regina del cielo, dopo Dio unica speranza nostra. Tu salvezza di chi ti invoca, porto dei naufraghi, conforto dei miseri, rifugio dei morenti. Tu madre di tutti, gioia perfetta dei beati, dopo Dio consolazione di tutti i cittadini del cielo. Tu che innalzi i giusti, unisci gli erranti, sei la promessa dei patriarchi. Tu la verità dei profeti, tu annuncio e insegnante degli apostoli e maestra degli evangelisti. Tu fortezza dei martiri, modello dei confessori, onore e gioia delle vergini. Tu per liberare l’uomo in terra d’esilio hai accolto nel seno il Figlio di Dio. Per te, vinto l’antico nemico, è aperto ai fedeli il regno dei cieli. Tu con il Figlio tuo siedi alla destra del Padre. Tu per noi, Vergine Maria, prega Colui che crediamo verrà a giudicarci. Ti preghiamo dunque, soccorri noi tuoi servi, redenti dal Sangue prezioso del Figlio tuo. Fa’, o Vergine pietosa, che siamo annoverati nella gloria eterna con i tuoi santi. Salva il tuo popolo, Signora, perché siamo partecipi dell’eredità del Figlio tuo. E guidaci, e custodiscici per sempre. Ogni giorno, o pia, ti salutiamo. E lodarti per l’eternità desideriamo con la mente e con la voce. Degnati, o dolce Maria, di conservarci ora e sempre senza peccato. Abbi pietà di noi, o pietosa, abbi pietà. Sia grande con noi la tua misericordia, perché in te confidiamo, Vergine Maria. In te, dolce Maria, speriamo, difendici per sempre. A te si addice l’impero, a te la virtù e la gloria, nei secoli dei secoli. Amen. [...] Litanie della Beata Maria Vergine Kyrie eleyson Christe eleyson Christe audi nos Christe exaudi nos Pater de caelis Deus, miserere nobis Fili, Redemptor mundi Deus, miserere nobis Spiritus Sancte Deus, miserere nobis Sancta Trinitas unus Deus, miserere nobis Santa, gloria dei santi, abbi pietà di noi Santa Maria, prega per noi Santa Madre di Dio Santa Madre di Cristo Santa Madre castissima Santa Madre piissima Santa Madre inviolata Santa Madre amabile Santa Madre ammirabile Santa Madre intemerata Santa Madre di misericordia Santa Madre della divina grazia Santa Madre del Creatore Santa Madre del Salvatore Santa Maestra di umiltà Santa Maestra di obbedienza Santa Maestra di sapienza Santa Vergine delle vergini Santa Vergine fedele Santa Vergine potente Santa Vergine sapiente Santa Vergine clementissima Santa Vergine bellissima Santa Vergine degna di venerazione Santa Vergine degna di lode Santa Vergine santa Santa Vergine graziosa Santa, specchio di giustizia Santa Sede della Sapienza Santa, causa di grazie e gioia Santa, vaso dello Spirito Santa, vaso di gloria Santa, vaso insigne di devozione Santa, vaso di ogni santità Santa rosa mistica Santa torre d’avorio Santa, casa e arca Santa, arca dell’alleanza Santa porta del cielo Santa stella mattutina Santa luce meridiana Santa più bella della luna Santa, dimora della divinità Santa, stanza della divinità Santuario dello Spirito santo Casa dello Spirito santo Conforto dello Spirito santo Santa calandra41 Santa, trono di Salomone Santa, porta del paradiso Santa, fonte di castità Santa, fonte di verginità Santa, regola di santità Santa, salute degli infermi Santa, rifugio dei peccatori Santa, consolatrice degli afflitti Santa Regina degli angeli Santa Regina dei patriarchi Santa Regina dei profeti Santa Regina degli apostoli Santa Regina dei martiri Santa Regina dei confessori Santa Regina delle vergini Santa Regina di tutti i santi, intercedi per noi Supplica alla Beata Vergine Salve, santa Madre di Cristo, salve, Vergine splendente, speranza unica per i travagliati e salvezza per i rei. Per il sacro frutto dell’utero e la casta dimora e per il seno, da cui Dio stesso beve latte, per i dolci giochi del Figlio e le sue parole di bimbo Ti prego, per il tuo nome, casta fanciulla, da’ la pace, o divina, da’ alla gente stanca il riposo, e strappaci dai turbini crudeli. Rivolgi a noi il tuo sguardo e in fretta vieni, divina, con passo benigno e ascolta i desideri e le preghiere del tuo popolo. Siano lontano la guerra e la peste, la pace pura a noi sia presente, e la terra non neghi, benevola, i frutti. Orazione Dio ricco di clemenza, accogli, per le preghiere e i meriti della beata Vergine Maria e del nostro santo padre Agostino e del beato Filippo e di tutti i tuoi santi, l’omaggio del mio servizio e guarda propizio questa corona della Madre del Figlio tuo, a onore del santissimo Nome di Maria; e perdona pietoso ciò che da me è stato fatto con negligenza e imperfettamente; e custodisci i tuoi servi da ogni avversità. Per Cristo nostro Signore. Amen. 41 Uccello dal canto dolcissimo “Oratio devotissima” edizione: Monumenta OSM, IV, p. 152-153 A Dio Onnipotente e piissimo Dio, che alla nostra anima, con immensa bontà e senza nostro desiderio, hai impresso la tua immagine, ti scongiuro, per tutto ciò che tu sei, di imprimere in me prima di tutto la tua immutabilità, perché io non muti dal bene al male, dalla speranza all’ingiusto timore, o passi dalla gioia al dolore, dal mutismo alla loquacità, dalla maturità alla leggerezza, dalla carità al rancore o all’odio, dal fervore all’ignavia, dall’umiltà alla vanagloria o alla superbia, dalla mitezza all’ira, dalla gioia o dall’amore spirituale all’amore sentimentale. Degnati, invece, di concedermi che, come tu sei immutabile nella tua natura, così io, indegno servo della beata Maria Madre del Figlio tuo, agendo sempre con maturità e benevolenza, non solo mi conservi uguale nel comportamento e nella conversazione, ma persegua anche in tutto l’immutabilità e l’equilibrio dell’animo e dei moti interiori. Inoltre, come a te piace per natura ogni bene, così io allo stesso modo, sempre e ovunque, lo alimenti: anche il male sempre e ovunque detesti cordialmente. Dammi, ti prego, Dio onnipotente, che come tu prevedi con sapienza tutto il bene e il male che può accadere, così io preveda tutte le mie parole e azioni, cioè quanta contentezza ci sia per chi rimane con te, e quanta infelicità per chi si allontana da te. So, o Signore, che tu, per quanto venga offeso e disprezzato dalla creatura, mai tuttavia hai odiato la stessa natura, ma la ami in verità. Dà a me, tuo servo N., la grazia che, per quanto un uomo mi offenda, mai io abbia in odio la sua natura, ma desideri per lui ogni bene. Ispira, infine, nella mia mente giustizia, rettitudine, pazienza – quella con cui aspetti misericordiosamente il peccatore -, generosità, spirito conciliativo, benevolenza e compassione, nonché apertura, equilibrio, giusto giudizio, e da ultimo la tua verità e indulgenza. E come tu fai tutte le tue opere con tale somma perfezione, che nulla di meglio si può pensare, similmente io metta attenzione per compiere tutte le mie opere quanto meglio posso, secondo ogni energia che viene da Gesù Cristo Signore nostro e in conformità al desiderio della Chiesa trionfante e militante. Che io mi conformi infine, con tutto l’impegno possibile, a te e alle tue volontà, affinché, quanto più conforme a te è la mia anima, tanto più beata sia; e come ora ti vedo in uno specchio e in maniera confusa, così io sia simile a te nella vita eterna perché possa vederti come sei. Ti prego, Dio mitissimo, Creatore e mio Redentore, non permettere che tu invano ti sia affaticato per me, perché il mio nemico non dica: ho prevalso su di lui; ma dammi l’aiuto della tua grazia, perché porti il tuo servizio alla fine dovuta, per i meriti di Gesù Cristo Signore nostro e della sua gloriosa Vergine Madre Maria: come segno della sua vedovanza e del dolore della spada, che trapassò la sua anima, quando il tuo unigenito Figlio sostenne il patibolo della croce per noi, hai voluto che noi portassimo questo abito nero. Concedi a me tuo servo N., che come hai voluto che io venissi unito in questa santissima vocazione all’Ordine dei Servi della beata Vergine, così non lasci di lodare degnamente te Padre di immensa maestà con tutte le mie forze, così che la mia anima solo in te trovi gioia, solo te ami, solo te adori, Dio Padre onnipotente, che con il Figlio tuo, nostro Redentore, e lo Spirito Santo vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen II. Preghiere dei Servi Alle Regola di Martino V, riedita da fra Arcangelo Giani, seguono «alcune particulari e brevi divotioni per e giorni della settimana, le quali sono assai familiari à diuoti Serui della Vergine Maria». Così il Giani le presenta: «[...] mi è parso ben fatto il metter qui alcune brevi orationi, diuotioni, e commemorationi per tutti e giorni della settimana, assai diuote e molto familiari e frequentate da tutti coloro che di veri Serui della gran Madre di gratie fanno particolar professione in questo nostro santo Ordine. La maggior parte delle quali quasi ogni giorno si dice in choro da tutti e Padri e da i diuoti Novitii di questo Ordine nelle loro particolari e publiche orationi; e alcune ve n’hanno antichissime, che furono insino al nascere di questa Religione ritrouate da quei Sette nostri Beati Padri e Fondatori dell’Ordine in honore della beatissima Vergine Maria, come è particolarmente il Noturno che si è posto qui per il venerdì, la commemoratione di Santa Anna, la Corona della beatissima Vergine, la Salutatione Angelica tanto frequentata ne diuini ufitii, e simili altre»42. edizione: A.M. MORINI, De Tertio Ordine Servorum Sanctae Mariae, in Monumenta OSM, VIII, Bruxelles 1906, p. 71-77 LUNEDI Corona della Beatissima Vergine Arcangelo Ballottini, nel Discorso quarto sopra il santissimo nome di Maria, dice: «Questa divozione al nome di Maria l’usa di continuo la nostra Religione dei Servi, chiamandola Corona del nome di Maria; ed ogni sera per bocca delli fanciulli novizi, dinanzi alla sua immagine, con divoto affetto sono recitati questi cinque salmi del nome di Maria, con cinque antifone, che formano il nome di Maria, e nel fine una divota orazione a Maria» [p. 245]. Antifona: Maria Virgo – Maria Vergine è assunta nel talamo del cielo, dove il Re dei re siede su un trono di stelle Antifona: Assumpta – Maria è assunta in cielo, godono gli Angeli, con lodi benedicono il Signore Antifona: Rubum – Nel roveto, visto da Mosè incombusto, riconosciamo la tua gloriosa verginità: Madre di Dio, intercedi per noi Antifona: In odorem – Corriamo al profumo dei tuoi unguenti: molto ti hanno amato le vergini Antifona: Ave Maria – Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te, 42 Monumenta OSM, VIII, p. 70 Sal: Magnificat Sal Ad Dominum cum tribularer [119, 1] Sal Retribue servo tuo [118, 17] Sal In convertendo Dominus [125, 1] benedetta tu fra le donne, alleluia Sal Ad te levavi [122, 1] Salutazione Angelica Aue, Vergine gloriosa Maria, Stella più luminosa del sole Gratia plena, Madre bella di Dio Dominus tecum, più dolce di un favo di miele Benedicta tu in mulieribus, vermiglia più di una rosa Et benedictus fructus ventris tui Iesus, più candida di un giglio Sancta Maria, ogni santo ti onora Mater Dei, ogni virtù ti adorna Ora pro nobis peccatoribus nunc, Gesù Cristo ti incorona Et in hora mortis nostrae, nei cieli la più sublime. Amen. V. Prega per noi, santa Madre di Dio R. Perchè siamo resi degni tuoi Servi. Preghiamo Accogli, Dio misericordioso, la supplica dei tuoi Servi: noi riuniti nel ricordo della Vergine Maria, Madre del tuo Figlio, per la sua intercessione siamo liberati dai pericoli che ci incombono. Per il medesimo nostro Signore .... MARTEDI A Santa Anna, madre della beatissima Vergine Ant. Un celeste dono entrò in Anna: da lei ci è nata la Vergine Maria. V. Prega per noi, beata Anna R. Perché siamo resi degni Servi della beata Maria. Preghiamo Dio, che ti sei degnato di donare alla beata Anna la grazia eccelsa di meritare di portare nel suo seno Maria, la madre dell’unigenito Figlio tuo: da’ a noi, per l’intercessione della Madre e della Figlia, di cui facciamo memoria con devoto amore, l’abbondanza della tua benedizione perché per le loro preghiere meritiamo di giungere alla Gerusalemme celeste. Per il nostro Signore ... MERCOLEDI Al Beato nostro Padre san Filippo [...] GIOVEDI Alla nostra beata vergine Giuliana [...] VENERDI Notturno della Beata Maria Vergine [...] PER IL SABATO Letanie della Beatissima Vergine, che si cantano il sabato sera da Nouizi de Serui nella cappella della Madonna Kyrie eleison Christe eleison Christe audi nos Christe exaudi nos Pater de coelis, Deus miserere nobis Fili Redemptor mundi Deus, miserere nobis Spiritus Sancte Deus, miserere nobis Sancta Trinitas unus Deus, miserere nobis Ave Maria, Vergine degli Angeli Ave Maria, Vergine delle vergini Ave Maria, Vergine purissima Ave Maria, Vergine castissima Ave Maria, Vergine inviolata Ave Maria, Vergine amabile Ave Maria, Vergine ammirabile Ave Maria, Vergine degna di lode Ave Maria, Vergine degna di venerazione Ave Maria, Vergine santuario dello Spirito santo Ave Maria, Madre di Dio Ave Maria, Madre di Gesù Cristo Ave Maria, Madre del Creatore Ave Maria, Madre del Redentore, Ave Maria, Madre dell’eterno Vincitore Ave Maria, Madre del sommo Giudice Ave Maria, Madre del nostro Glorificatore Ave Maria, Madre di Dio e dell’uomo Ave Maria, Madre di grazie Ave Maria, Madre di misericordia Ave Maria, Rifugio dei peccatori Ave Maria, Salute degli infermi Ave Maria, Consolatrice degli afflitti Ave Maria, Avvocata degli abbandonati Ave Maria, Speranza dei tuoi Servi Ave Maria, Mediatrice dei cristiani Ave Maria, Regina di tutto il mondo Ave Maria, Regina degli Angeli prega per noi tuoi servi Ave Maria, Regina dei Patriarchi Ave Maria, Regina dei Profeti Ave Maria, Regina degli Apostoli Ave Maria, Regina dei Martiri Ave Maria, Regina dei Confessori Ave Maria, Regina delle Vergini Ave Maria, Regina di tutti gli eletti Ave Maria, Regina di tutti i santi prega per noi tuoi servi III. Rito della vestizione di un novizio o di una sorella Dall’Operetta di Cosimo da Firenze edizione: Cosimo da Firenze, Operetta novamente composta a consolatione delli devoti Religiosi Frati de Servi della Vergine Maria (Verona 1521), nuova edizione a cura di G.M. Besutti, Ed. Ma<rianum, Roma 1993 [...] - Ti spogli Dio, carissimo fratello, o carissima sorella, del vecchio uomo e ti rivesta del nuovo che è stato creato secondo Dio nella giustizia e nella santità della verità. Amen. - Ricevi la tonaca nera, carissimo fratello, in segno di penitenza e di volontaria povertà, perché morto al mondo tu possa meritare di vivere per Dio solo. Amen. - Prendi il cingolo benedetto della sacra Religione e cingiti i fianchi in segno di santa castità e di purissima verginità. Amen. - Se è una sorella: Ricevi sul tuo capo il velo candido, carissima sorella, come segno di pudicizia e onestà, perché tu possa meritare di piacere alla beatissima Vergine tua Madre. - Prendi nelle tue mani il segno della preghiera e della contemplazione, perché tu benedica la corona dell’anno della benevolenza della tua santissima Madre. Amen. - Ricevi il santo abito con lo scapolare, carissimo fratello, in memoria della santa vedovanza e passione della beata Maria, che ebbe a soffrire nella morte del dilettissimo Figlio suo. Amen. - Ricevi la cappa o mantello, nero ma bello, che tutto copre, figura della santissima obbedienza, perché tu possa meritare di obbedire a colui che per te s’è fatto obbediente fino alla morte di croce. Amen. - Prendi, carissimo fratello, nelle tue mani la lampada della luminosissima carità, perché tu possa essere interiormente illuminato da colui che illumina ogni uomo che viene in questo mondo. Amen. - Ricevi, carissimo fratello, il bacio della pace e della concordia, perché tu riconosca quanto sia bello e gioioso che i fratelli abitino insieme. Amen. - Poi viene asperso con acqua benedetta e incenso e si canta Veni Creator Spiritus, il versetto Emitte Spiritum. Preghiamo: - Dio, che hai guidato i cuori dei fedeli con la luce dello Spirito santo, concedi a questo tuo servo di conoscere nel medesimo Spirito ciò che è giusto e di godere sempre del suo conforto. - Dio, tu hai voluto che il tuo Verbo, all’annunzio dell’angelo, assumesse la carne dal seno della beata Vergine Maria: concedi a noi, che ti supplichiamo, di essere aiutati dalle intercessioni presso di te di colei che crediamo vera Madre di Dio. - Sii propizio, Signore, alle nostre suppliche che ti presentiamo nel ricordo del beato nostro Padre Filippo tuo Confessore, perché per le intercessioni e i meriti di colui che ti ha servito degnamente in questo Ordine dei Servi della beata Maria nostra Madre, tu ci assolva da tutti i peccati. Per Cristo nostro Signore. IV. Francesco Nuñes Fenix de Canales Per notizie sull’autore cf. la sezione Fonti documentarie e narrative di questo volume. Fu grande devoto dell’Immacolata Concezione di Maria; compose una Raccolta di miracoli operati da Dio a conferma di questa verità. Per l’Immacolata presso i Servi cf. anche sezione dell’iconografia. edizione: G.M. ROSCHINI, I Servi di Maria e l’Immacolata, “Studi Storici OSM”, 6 (1954) p. 104-107 (per l’originale in spagnolo, cf. p. 178-180) Dopo aver riferito una quarantina di miracoli operati per intercessione di Maria Immacolata e desunti qua e là nei libri a stampa, il Canales esclama: Ma perché mi perdo in isfogliare libri e in riportare esempi alieni, avendone di proprii e potendo parlare delle misericordie che Dio ha operato con me per mezzo della intercessione della sua SS. Madre e della divozione che nutro alla sua Concezione Immacolata – e avendo con me una imagine che ho fatto di questo sovrano mistero e che porto sempre con me? E così lasciando da parte le cose degli altri, voglio parlare delle mie, come ho promesso e devo, per la gloria di Dio. 3 – L’anno 1617, una notte poco prima della Concezione, ebbi un sogno sopra questo sovrano mistero, per il quale, senza vedere altro libro, ne avevo fatti molti, come pure avevo fatto questa santa immagine – e a vedermi scrivere sopra questa materia e a vedere questa immagine venivano uomini dottissimi di tutte le facoltà di Barcellona, dove questo era successo e da tanta altra parte – e vedendomi scrivere tanto senza tener nessun libro, giudicavano essere questa opera di Dio anziché mia, non essendo io sapiente – e in quei libri dicevo molto, come un giorno si vedrà, per un’altra opera, se uscirà alla luce, come spero in Dio, presto. 4 – Andando io l’anno 1618 a mostrare questa santa immagine alla Contessa di Monte Agudo in Barcellona, la quale l’aveva chiesta al p. maestro, fra Teodozio Cardoso, mio provinciale, e portandola io sotto il mantello, in compagnia del padre provinciale, mi vennero incontro tanti fanciulli che stavano giocando in una via che conduce alla argenteria, per cui andavamo noi e dissero: «Padre Canales, padre Canales, che cosa ha qui sotto che tanto risplende» – io loro risposi: «Fanciulli, vedete qui quello che porto» – e mostrai loro il tubo di latta in cui era racchiusa la santa Immagine, senza però mostrare loro la Immagine. Ma essi: «No, padre, non è questo che risplende come il sole e come l’oro». Da cui si deduce che come io non portavo altra cosa che la santa Immagine, dovesse questa tramandare qualche splendore che i fanciulli vedevano ed io no, quantunque la portassi con me. – Mi pare dunque che possiamo dire qui a gloria della Vergine quello che disse il profeta a gloria di suo Figlio e Signore Nostro Gesù: ex ore infantium perfecisti laudem43 – e quello pure che disse il medesimo Cristo, dando grazie al suo Eterno Padre dei suoi occulti giudizi: abscondisti haec a sapientibus et prudentibus et revelasti ea parvulis44 – poiché essi videro quello che io non meritavo vedere per i miei peccati o per altri segreti giudizi di Dio – il quale manifesta le sue cose, quando, come e a chi vuole. – Naturalmente che d’innanzi a questo fatto volevo fermarmi a mostrar ai fanciulli la immagine che portavo, sennonché il padre Provinciale che era passato più innanzi mi aspettava e così per non farlo aspettare per la strada non potei farlo e quando raggiunsi gli manifestai ciò che mi aveva trattenuto con quei fanciulli e ciò che mi era passato con essi – e credo che anche oggi si ricorderà bene del fatto se alcuno glielo domanda. 5 - Un altro miracolo raro è stato che venendo io una notte per mare da Barcellona a Cadaques, porto di Catalogna, verso gl ultimi di giugno dell’anno 1619 a bordo di una nave di Franco Antiq., insieme con altri compagni e dipendenti suoi, abitanti di Cadaques, dormendo sognavo che ci inseguivano dei Mori e che stando già per farci schiavi, io dissi: Madre di Dio, concepita senza peccato, aiutami – e mi pareva che irradiassero tali splendori da questa santa immagine che portavamo con noi che non poterono arrivarci – e dallo spavento avendo gridato fortemente, mi chiesero la cagione: io raccontai loro quello che succedeva – ed essi mi risposero: non tema, padre che tutto è sicuro e può riposare come se stesse nella sua cella. Ciononostante, avevo sempre una grande paura nel cuore che mi dava il presentimento che dovevamo correre qualche pericolo di cadere nei Mori in questo viaggio. E fu proprio così. Venendo infatti da Marsiglia a Genova con altra imbarcazione, ci corsero dietro i Mori quasi tutta una notte, e sebbene ci fossero sempre a tiro di fucile, non poterono mai arrivarci – ne sapremmo qual fosse la cagione. – Ma io l’attribuisco a miracolo di Nostra Signora, e più quando nel ricordo del sogno – e così per conto mio tengo che la Vergine SS. fu in questa occasione, per la devozione alla sua Immacolata Concezione, redentrice anticipata dei nostri corpi, come lo fu Cristo Signore Nostro e suo Figlio, dell’anima di Lei, affinché non avesse a cadere giammai la sua preziosa margarita nel fango, né venisse in potere di Satana. […] Un altro miracolo fu che ai 25 del mese di settembre 1619, mentre stavo io cenando una sera nel refettorio del nostro santo convento servita di Genova, presente il padre fra Angelo Costa priore di detto convento, il P. Gregorio da Milano e tutti gli altri religiosi di quella comunità, i quali furono testimoni oculari, successe che in un bicchiere di vetro, nel quale io bevevo, vi fosse dentro un altro bicchiere e questo si ruppe restandovi dentro nel mio alcuni pezzi di vetro e non sapendo io questo, come nemmeno lo sapeva chi me lo porse, io bevetti in quello due volte e alla terza mi sentii attraversare per la gola un pezzo di bicchiere più acuto di un ago: che se mi fosse entrato nello stomaco mi avrebbe lacerato le interiora, perché oltre di essere acuto, aveva la forma di un triangolo e piacque a Dio che lo rigettassi dalla bocca senza farmi male alcuno. Se poi erano entrati altri pezzi, poiché non è da credere che ci fosse dentro quel solo, nemmeno essi mi hanno fatto male alcuno. E tutto questo io lo attribuisco alla mia devozione verso la purissima Concezione di Nostra Signora e a questa santa Immagine che porto sempre con me, per la quale io penso che Dio mi ha liberato da tanti mali per terra e per mare – e che in questa occasione si è compiuto in me quello che disse Cristo nella persona dei suoi santi Apostoli e fedeli servi: e se berranno qualche veleno, non farà loro male45. E così con ragione canterebbe la mia penna e la mia lingua le lodi dell’Immacolata Concezione della Vergine Santissima e pubblicherebbe a gloria e lode di Lei tutta la mia vita che è tutta merito suo, dopo Dio, e che ella è colei che sana tutte le mie infermità e mi ha liberato dalla cattività e dalle mani di coloro che mi aborrivano e restituitomi, come si dice, da morte a vita. E così dirò con David: Non morirò ma resterò in vita e narrerò le opere del Signore46. E poiché sono 43 Sal 8, 3, citato in Mt 21, 16: «dalla bocca dei bambini ti sei procurato la lode». Mt 11, 25: «Hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piuccoli». 45 Mc 16, 18. 46 Sal 118, 17 44 vivo, per tutta la mia vita canterò e pubblicherò i miracoli e le meraviglie che con me ha operato Dio, per la intercessione e per i meriti della sua SS. Madre e per la devozione che io, indegno servo e schiavo suo, ho per la sua Concezione Immacolatissima. V. Noè Bianco Visse nel convento di S. Maria dei Servi a Venezia, di cui fu priore dal 1544 al 1546. Di ritorno da Roma, morì a Perugia nel convento di S. Fiorenzo, il 5 aprile 1568. Nel 1527 intraprese un lungo pellegrinaggio in Terra Santa, del quale stese un resoconto a vantaggio dei pellegrini, pubblicato nel 1566 con questo titolo: Viaggio del reuer. p. f. Noe Bianco vinitiano della congregation de' serui, fatto in Terra Santa, & descritto per beneficio de' pellegrini, & di chi desidera hauere intera cognition di quei santi luoghi - In Vinetia : presso Giorgio de' Caualli, a instantia di Francesco Portinari da Trino, 1566. Il 18 luglio 1527 fra Noè partì da Malamocco sulla nave veneziana Morosini. La nave richiedeva una spesa di 50 ducati d’oro con cui si ottenevano il trasporto, il vitto, il pagamento delle tasse e dei salvacondotti durante il viaggio. Poco dopo la partenza una tempesta mise in grave pericolo la navigazione, ma al canto delle litanie dei santi il pericolo fu scongiurato. Il 27 luglio la nave approdava all’isola di Zante e il 3 agosto a Rodi. Il 14 agosto fra Noè giungeva a Giaffa. edizione: P.M. BRANCHESI, Fra Noè Bianco da Venezia dei Servi di Maria, pellegrino in Terra Santa, “Il Servo di Maria”, n. 2, marzo-aprile 1991, p. 4-7; n. 3, maggio-giugno 1991, p. 2-6. Il testo qui riportato è quello trascritto, in versione aggiornata, dal Branchesi stesso. Motivi del viaggio e disposizioni spirituali Parte mosso da certa mia curiosità e natural vaghezza d’aver cognition delle cose notabili e parte indotto dal desiderio di poter giovare a quei pellegrini che, spinti da zelo cristiano, vanno a visitar quei benedetti luoghi. Il che, quantunque da altri fin qui sia stato fatto, nondimeno perché alcuni in alcune cose son restati ingannati ed altri dottamente scrivendo hanno tenuto cammin diverso dal comune, se bene invero quel modo loro è degno d’essere commendato, io con quella mia schietta semplicità m’ho proposto solo di voler dire il vero e a tutti i pellegrini di qual si voglia intelletto e qualità dare un’istruzione di quanto abbiano a osservare e vedere. [...] Quando cercassero di visitar la Terra Santa per curiosità, si partirebbero senza alcun frutto e s’accorgerebbero al fine d’aver vanamente tentato questa impresa con grave danno del corpo, affaticato e stanco, e con poco o niun util dell’anima loro (f. 1v-2). Prima di partire,ogni pellegrino deve confessarsi e comunicarsi «acciò che in virtù di questo santo sacramento cammini fino al monte di Dio Oreb e possa pervenire alla celeste Gierusalem, alla quale tutti dovremmo star sempre apparecchiati per camminare» (f. 2v). È bene anche far testamento, portare con sé almeno cento ducati per le necessità materiali e, giunti alla meta, evitare ogni discussione sulla fede con i musulmani. Arrivo in Terra Santa Questa è quella terra che dai primi nostri padri fu abitata, che da Gesù, dalla Madre sua santissima, dai santi apostoli e da settantadue discepoli fu calpestata e d’onde trasse principio la nostra fede. Questa è quella dove, sgombrate le tenebre del primo secolo caliginoso, risplende il primo lume della fede cattolica. Questa è quella dove, riconciliata la lunga e diuturna ira di Dio Padre con l’uomo, furono fatti i cieli e discese l’eterna pace. Questa è quella dove con tanta copia e clemenza apparve il Verbo incarnato. Questa è quella dove il Figliuol di Dio, per salvarci e giustificarci, si fece uomo acciò che noi diventassimo figliuoli di Dio. Questa è quella dove, umiliandosi, entrò nel ventre della beata Vergine per trarci dalle tenebre e dall’ombra della morte dove eravamo. Questa è quella nella quale volle pellegrinar trentatre anni acciò che richiamasse a vita eterna noi che eravamo banditi e cacciati dalla patria. Questa è quella nella quale volle patir fame e sete per saziarci delle vivande sempiterne. Questa è quella nella quale sopportò d’essere flagellato per liberarci dai perpetui flagelli. Questa è quella nella quale, portando i nostri peccati sopra il suo corpo nel legno della santa croce, volle che noi morti ai peccati vivessimo alla giustizia. Questa è quella nella quale volle esser levato in alto per tirar tutte le nazioni del mondo ad amarlo e adorarlo. Questa è quella nella quale allargò al tempo della sua passione le braccia e abbracciò tutto il mondo per dimostrar che sotto quelle a rifuggire in gran numero le genti di tutti i linguaggi, di tutte le tribù e d’ogni nazione dal Levante al Ponente. Questa è quella dove, stillando il sangue suo prezioso, c’insegnò tutti i sacramenti acciò che fossimo lavati e mondati dagli inquinamenti di questo misero mondo. Finalmente questa è quella nella quale volle morire per donar l’immortalità a noi mortali (f. 8-9). [...] A Gerusalemme Giunti il diciannove di agosto presso la sacratissima città di Gierusalem tutti noi pellegrini dismontammo da cavallo e inginocchiati a terra facemmo divotamente le nostre orazioni baciandola e chiedendo a Dio perdono dei nostri peccati, acciò che si facesse degni d’acquistare il paradiso per merito della santissima passione di Gesù Cristo Signore nostro (f. 13). O santissima città di Dio tanto amata, santa delle sante, madre delle genti, principessa e regina di tutte le altre del mondo, ricetto dei patriarchi, dei profeti, degli apostoli, casa del Salvatore, patria della nostra salute, madre della fede cattolica, qual lingua a pieno potrà commendarti, preeletta e santificata da Dio, riverita da tutte le nazioni e onorata fino dagli angeli (f. 14v). Al Cenacolo In questo luogo il nostro benigno Signore Gesù Cristo volle celebrare l’ultima cena con i suoi discepoli e istituì il sacramento dell’Eucaristia. Qui apparve lo Spirito Santo in lingue di fuoco sopra gli apostoli. Qui fu sepolto Stefano con Gamaliele e con altri insieme. Qui abitò la gloriosa Vergine Maria dopo che Gesù Cristo fu salito al cielo (f. 21). A Betlem, chiesa della Natività A questo presepio santissimo e glorioso vidi io venire, mentre che ero in Betlem, il Nader di Gierusalem, che è il papasso dei macomettani, col signor di Gazara e col Cadì, che è il signor di Gierusalem, per adorare e far loro orazioni. [...] Avviene un’altra cosa ancora sopra quella mezza luna dove la gloriosa Vergine partorì, che le macomettane al tempo del parto loro v’impastano sopra una schiacciata e cottala sotto la cenere la mangiano e testificano di partorir poi con pochissimo dolore (f. 27v-28) . Altri luoghi pii di Gerusalemme Santa Maria dello Spasimo è così detta perciò che, andando Gesù Cristo al monte Calvario in mezzo ai giudei tutto trasformato per gli strazi fattigli, come fu in questo luogo incontrò la Madre con molte donne che piangevano, alle quali dando egli conforto con dir che piangessero sopra loro e i loro figliuoli, l’addolorata Madre riconosciutolo alla voce l’abbracciò ed ambedue caddero quivi tramortiti per lo grande spasimo sopra una gran pietra, la quale si risentì e ancor oggi vi sono l’orme dei ginocchi e dei gomiti con alcune gocciole del suo preziosissimo sangue, le quali ho vedute, toccate e baciate. Qui fu fatta una bellissima chiesa sotto il titolo di santa Maria dello Spasimo, che ora è ruinata (f.49-49v). Chiesa di S. Anna, che è dove nacque la Vergine gloriosa, madre di grazia. Nel mezzo della chiesa è una grotta sotterranea [...] e in questa nacque la gloriosa Vergine Maria: la quale chiesa è tutta dipinta e istoriata. La chiesa è ufficiata dai macomettani, i quali la tengono con grandissimo onore per la devozione che portano alla Madre del Salvatore (f. 49v-50). Chiesa del sepolcro della Vergine. Mentre ch’io ero in questa santa chiesa, poco dopo ch’ebbi fornito di celebrar messa, vennero alcune donne macomettane, scalze e tutte scarmigliate, piangendo e gridando e struccolandosi le mani. Di poi baciavano quel santissimo sepolcro e vi gettavano erbe e fiori molto odoriferi. Avevano elle gran dispetto che noi cristiani fossimo dentro della cappelletta dov’è il sepolcro, e si sdegnano sentendoci aver la benedetta Vergine per Madonna e Regina nostra, dicendo che noi ce l’usurpiamo, atteso ch’ella è della stirpe e terra loro (f. 53). Nazaret La santa città di Nazaret, nella quale si degnò il Figliuol di Dio prender carne umana dalla sua purissima Madre vergine Maria, fu anticamente grande, ma ora è quasi destrutta e ruinata ed è ridotta ad una villa di forse cento fuochi (f. 69) [...] tutti i macomettani hanno grande riverenza ai luoghi di Gesù Cristo, dove egli sia stato o abbia fatto alcun miracolo, ma non nei luoghi e misteri della sua passione. Molto più riveriscono anco i luoghi e misteri della beata vergine Maria, acciò che sia verificato quanto ella di se stessa disse nel suo cantico: che beata la diranno tutte le generazioni. Per questo hanno in gran venerazione la chiesa ove ella nacque, né vi lasciano entrare alcuno di vil condizione e per maggior onore la tengono serrata sempre, fuor che il sabbato, perché quel giorno vengono tutti i principali di Gierusalem la mattina all’orazione e tutti entrano in chiesa scalzi e chi vi sputasse sarebbe crudelmente battuto. Fanno oltra di ciò grande onore alle chiese ove ella fu offerta e dedicata al servizio di Dio, nelle quali tengono centinaia di lampade. Non è punto minor quello che fanno in valle di Giosafat alla chiesa dove fu sepolta; ma maggiore a quella di Betlem, dov’ella partorì Giesù Cristo. Hanno per costume i turchi e i pagani di non fare alcun danno alle chiese che a lei sien dedicate, dove essi la veggono dipinta col figliuolo in braccio (f. 72-72v). O Maria gloriosa, o sposa del Signore, eletta e piena di grazia, tu sei amata, onorata e riverita da tutte le creature; tu da ogni nazione sei celebrata; a te ogni barbaro ed efferato cuor s’umilia. Concedi a noi grazia che con tutti gli altri insieme ti possiamo lodare e riverire col cuore, con la mente e con tutte le nostre opere ed orazioni (f. 72v) VI. Arcangelo Ballottini Per le notizie relative alla vita e alle opere cf. sezione Fonti documentarie e narrative, III/1. Di questo autore sono stati inseriti alcuni brani dai suoi “Dieci discorsi” sul nome di Maria. Per quanto riguarda la Societas habitus, da lui riformata, e la devozione all’Addolorata, cf. sezione Fraternità laiche. Dieci Discorsi sopra il santissimo Nome di Maria L’opera, conosciuta in un unico esemplare conservato nella Biblioteca Governativa di Lucca, fu stampata a Bologna da Bartolomeo Cochi nel 1614. Ha due dediche: la prima «Alla miracolosa Madonna di Reggio», la cui immagine è stata incisa sul frontespizio in alto; la seconda dell’editore Simone Perlasca al conte Giovanni Taddeo Bianchi, il cui stemma è nel frontespizio in basso. Dedica “Alla miracolosa Madonna di Reggio” edizione: P.M. BRANCHESI, Fra Arcangelo Ballottini da Bologna (1622). Dieci discorsi sopra il santissimo nome di Maria, “Il Servo di Maria”, n. 3 luglio-settembre 1994, p. 4-6 Se bene è vero che, come imperatrice del cielo e della terra e di tutto il mondo padrona, a tutti i popoli tenete aperto il seno della pietà e misericordia vostra, che così una volta al discepolo amato di Giesù, Giovanni evangelista, e di voi adottivo figliuolo, foste mostrata in quella gloriosa visione da lui descritta nel suo Apocalisse al cap. 12, quando vide miracolosa donna vestita di sole, calcante coi piedi la luna e di dodici stelle coronata; visione tale che vi fa conoscere Regina e Signora di tutte le genti, perché se di sole siete vestita, dunque a tutti diffondete splendore e calore delle vostre divine grazie; e se calcate la luna, madre di tutte le genti, dunque siete la seconda Eva, madre di tutti i viventi; e se di dodici stelle siete coronata, dunque delle dodici province del mondo, che dalle dodici prime stelle del cielo hanno li suoi influssi, siete l’Unica Signora e Padrona. È però vero anco che in questa nostra Italia, parte principalissima del mondo, voi siete sempre scoperta Signora e Regina nostra singolarissima, poiché non vi è luogo in essa, anco piccolissimo, dove non sia immagine vostra miracolosa. E perché di tutti non mi è concesso dire, che sono quasi senza numero, dirò solo con umile riverenza e riverente umiltà, per lodare Dio e ringraziare voi sua Madre, che in tre luoghi di questa Italia, più segnatamente che in altri, vi mostrate Regina di sole vestita, di luna adornata e di stelle coronata. Nella santa casa di Loreto, dove il Figliuol di Dio divenne Figliuol vostro e voi vera Madre di Dio incarnato. Non è egli vero che foste vestita di sole, se voi della carne vostra vestiste Dio e Dio vestì voi della gloria sua, facendovi Madre di Dio, che è sole divino, che abita luce inacessibile e che è splendore dei splendori? Nella città di Fiorenza, dove si vede quella santa faccia vostra, fatta miracolosamente per altra mano che umana, in quell’atto che dell’angelo foste nonciata, e dove con gloria di tutta Toscana e onore della vostra Religione dei Servi da principi, signori ed altre genti da ogni parte siete visitata e Madre delle grazie addimandata, non siete voi conosciuta Regina calcante la luna se con mille voti e doni infiniti offerti, per grazie ricevute, siete visitata e col corpo e con l’anima adorata? Nella città di Reggio, dove sotto unica e singolare immagine al mondo di vedervi con le mani giunte e con faccia pietosa adorare il bambino Figlio; e dall’altra parte il Figlio bambino, con le mani aperte e faccia verso voi Madre ridente, fate di voi pomposa mostra per gloria di tutta la Lombardia, per grandezza perpetua di città cristianissima e per decoro della Religione dei Servi vostri, ai quali è commessa la cura di servirvi in quel santo tempio: chi può negare che non siate Regina coronata di stelle, se a voi, pietosa Madre, che al Figlio chiedete le grazie per salute di quelli che a voi, sotto questa miracolosissima immagine, fanno ricorso, tutte caramente ve le concede il Figlio con sembiante allegro, con faccia gioconda, con ciglio sereno e bocca ridente, quasi vi dica il Figlio: “Madre, addimandate pure e quanto volete, che sempre da me in cielo esaudita e dagli uomini in terra, come Regina delle grazie, che sono tante stelle splendenti, onorata e adorata”. Entri pure chiunque nel santo tempio vostro, dove sotto immagine così miracolosa siete ammirata, vegga li voti offerti (dirò senza numero, perché tanti sono in testimonianza delle grazie fatte e che di continuo fate), non potrà fare che non esclami e dica: “Ecco la Regina di tutto il mondo, poiché da tutte le parti del mondo vengono popoli a rendervi le debite grazie per li favori miracolosi che ricevono” [...] E se, o Madre Maria, mi fosse lecito addimandarvi per qual causa sotto immagine così unica al mondo illustrate tanto questa città e popolo di Reggio, che dal Figliuolo impetrate tante grazie singolari non mai più udite onde per tutto l’universo è sparsa la fama sempiterna della miracolosissima immagine della Madonna di Reggio? per dolce risposta potrei riportarne le seguenti promesse, che fate al Figliuolo bambino: Qui darò a te il mio seno, poiché in quell’atto pare che il Figliuolino vi chiegga il latte e che voi, Madre delle mammelle, li faciate offerta. Ma dove sono questi segni d’affettuoso amore a Figlio e Madre, che grazia si può negare? Questo so ben io, o graziosa Madre di misericordia, che dinnanzi a questa vostra serenissima immagine ho preso animo di comparire io ancora per rendervi il debito onore di quella grazia che mi avete fatta, simile al principal miracolo che faceste, poiché se allora a un muto nato e sordo voi concedeste e lingua e parole e udito, onde subito distintamente parlando pronunziò “Giesù, Maria”, nomi dolcissimi del Figlio vostro e di voi sua Madre, ma di poterne anco scrivere e pubblicare a tutti la contentezza ch’io sento al cuore nominando “Giesù, Maria”. Con quella umiltà, dunque, che si conviene a tanta imperatrice, le presento queste povere mie fatiche: saranno offerte picciole per le tante grazie singolari ricevute dalla vostra maestà nel governare due volte questo vostro santo luogo e li vostri Servi divoti: saranno preghiere affettuose di raccomandarvi questa vostra amata città di Reggio con tutto il popolo, che la difendiate sempre da tutti i mali; saranno segni amorosi di gratitudine, pregandovi per la salute di questi Deputati Signori, che nel servirvi godono e nelle continue fatiche si rallegrano; saranno ricordi della particolar protezione che avete di questa vostra Religione dei Servi, da voi piantata, accresciuta ed esaltata all’altezza delle maggiori grandezze di santa Chiesa; saranno finalmente una protesta che io, umil servo vostro, di tanti anni, giunto ormai al termine di mia vita, adesso per allora pentito dei miei errori, intendo morire nelle mani e nella braccia del vostro dolcissimo Figliuolo e addimandando in quell’estremo mio punto il vostro potente e singolar aiuto con queste benedette parole: Maria, Madre di grazia, Madre di misericordia, proteggimi dal nemico, accoglimi nell’ora della morte. «Intenzione dell’autore» Alle pagine 15-24, intitolate «Intenzione dell’autore» il Ballottini spiega lo scopo della sua opera. e prima di tutto la fonte principale a cui si è ispirato, san Bernardo di Chiaravalle. edizione: P.M. BRANCHESI, Fra Arcangelo Ballottini da Bologna (1622). Dieci discorsi sopra il santissimo nome di Maria, “Il Servo di Maria”, n. 4, ottobre-dicembre 1994, p. 4-5 Fra tutti li santi divotissimi della beata vergine Maria io credo che San Bernardo tenga in primo luogo, sì perché nei suoi scritti sempre parla della grandezza di Lei e non vi è sermone di lui dove non si vegga nominata Maria, sì anco perché io non trovo santo che sia stato più favorito da Maria del padre San Bernardo. [...] Confesso che io sempre fui divoto di questa santissima Vergine e per questo dai miei primi anni pigliai l’abito dei Servi suoi in questa mia Religione Servitana, nella quale fin qui l’ho servita debolmente quarantacinque anni. Ma confesso anco che, leggendo le gloriose vite dei beati di questa mia Religione dei Servi di Maria, cominciando dal primo beato, che fu Buonfigliuolo, il quale ordinò che la Messa e il divino Ufficio si cominciasse con questa divozione d’invocar il santissimo nome di Maria, dicendo: Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te; e seguitando l’ordine di tutti gli altri beati nostri, di ciascuno di essi si legge che invocavano di continuo il nome di Maria. Ed era così dilettevole a loro questa voce “Ave Maria”, che alcuni di quei primi Padri si chiamavano “Frate Ave Maria”. [...] Più che mai abbruggio di fuoco ardente di servire questa mia Signora [...] per manifestare a tutto il mondo questo ardente fuoco della mia divozione a Maria [...] desidero con questi Discorsi miei, che pure saranno parole di fuoco, accendere nei cuori vostri il fuoco della divozione a Maria. [...] Se bene io sono gravissimo peccatore, posso e devo sperare di avere parole di fuoco in questi Discorsi che farò di Maria e credere che per intercessione di Lei avrò grazia di farvi innamorare delle grandezze di Lei, che andrò scoprendo nel suo santissimo nome, Maria, chiuse, serrate e nascoste. Aggiungo di più che, se la Beata Vergine Maria si è mostrata tanto amorevole a quelli che l’hanno in vita nominata e addimandata “Maria”, ben potrò avere io speranza di essere da Lei favorito nel punto della mia morte, quando non solo avrò, come predicatore, pubblicato il suo santissimo nome “Maria”, ma l’avrò lasciato scritto in questi pochi Discorsi miei, ben poveri sì di pensieri e di concetti, ma ricchi di affetto di servire a Maria, la quale prego impetrarmi memoria feconda da Padre Dio, acciò che io possa manifestare quei concetti e pensieri dei padri di santa Chiesa lasciati negli scritti loro; e dal Figliuolo di Dio impetrarmi intelletto, acciò che io sappi intendere le Scritture sante dell’uno e dell’altro Testamento, nelle quali si nasconde, come in due preziosissimi vasi, uno d’oro e l’altro di pietre preziosissime, l’altezza e grandezza del suo serenissimo nome “Maria”; e anco dallo Spirito Santo Dio impetrarmi volontà schietta, sincera, salda e ferma, acciò che io in questa vita mortale serva con spirito buono questa santissima Madre del Figliuolo di Dio, Maria; e poi nella sempiterna vita fruisca con sommo diletto la presenza di Dio Padre, Figliuolo e Spirito Santo e di lei Figliuola, Madre e Sposa Maria. dal Discorso primo edizione: P.M. BRANCHESI, Fra Arcangelo Ballottini da Bologna (1622). Dieci discorsi sopra il santissimo nome di Maria, “Il Servo di Maria”, n. 4, ottobre-dicembre 1994, p. 5-6 Si mostra che il santissimo nome di Maria, dopo il nome di Cristo, è il primo scritto nel libro dei predestinati. [...] A Cristo si devono conformare tutti li predestinati; dunque, quanto più alcuno sarà conforme a Cristo, tanto più li sarà vicino. Ora se Maria, Madre sua, è più uniforme e conforme a lui, suo Figliuolo, d’ogni altra creatura, dunque anco le sarà più vicina e per conseguenza nel libro delli predestinati sarà scritta dopo Cristo, suo Figliuolo, capo delli predestinati. O Maria, o Maria, poiché voi siete quella felice pecorella, Madre dell’innocente agnello, e però state alla destra di Lui in cielo, dove nel giorno del giudizio staranno tutti li predestinati, quando pose le pecore a destra e i capri a sinistra, non permettete mai, o Madre di misericordia, che in altro libro siano scritti i nomi di questi divoti servi vostri, che in memoria della vostra viduità, quando restasti come vedova tutta addolorata nella morte del vostro unico figliuolo Giesù, portano l’abito negro di mestizia e sono descritti nella felice Compagnia delli vostri Servi e Serve. O Maria, o Maria, poiché siete quella felice pecorella, Madre dell’innocente agnello Cristo, abbiate pietà e misericordia di questi divoti servi e serve. Adesso qua giù in terra questi e queste sono vostri figliuoli e figliuole; non permettete che in cielo siano dipartiti dalla vostra Compagnia, ché gli siete Madre. Adesso qua giù in terra sono vostri Servi e Serve; non vogliate permettere che in cielo siano sciolti dall’ombra di Voi, gloriosa Regina e Padrona loro. Adesso qua giù in terra sono vostri schiavi e schiave, con catena d’amore legati; non permettete che in cielo siano sciolti dalla spada del peccato, ma come Madre impetrategli dal Figliuolo l’eredità del cielo; come Regina ricevetegli a quella servitù il cui servire è regnare; come Padrona che siano ricevuti fra quelli “ i nomi dei quali sono scritti nel cielo”, acciò che in compagnia dell’Agnello e di Voi sua Madre, siano felici figliuoli, più felici servi e felicissimi amatori, onde vivino felicemente beati in eterno. Amen. dal Discorso terzo edizione: P.M. BRANCHESI, Fra Arcangelo Ballottini da Bologna (1622). Dieci discorsi sopra il santissimo nome di Maria, “Il Servo di Maria”, n. 2, aprile-giugno 1995, p. 4-6 Considera le molteplici prefigurazioni di Maria nell’Antico Testamento Per l’Arca di Noè nella Genesi al capitol 6, perché Maria apportò la salute al genere umano nel diluvio di tanti peccati. Per l’altare di Giacobbe, nella Genesi al capitolo 35, perché Dio in Maria fece pace con il peccatore. Per l’arca dell’Alleanza nell’Esodo al capitolo 25, perché in Maria si conservò la manna divina del figliuolo di Dio; fiore che, da lei verga, uscì per opera dello Spirito Santo; e vero legislatore e maestro, dato dal suo Padre Dio agli uomini in terra. Per il Propiziatorio, nell’Esodo all’istesso capitolo, perché Maria colle sue lagrime e preghiere mosse Dio a pietà degli uomini e venne ad incarnarsi. Per la mensa, dove si poneva il pane della Proposizione, nell’istesso luogo, perché Maria conservò il pane della vita. Per il Candeliero d’oro di sette lucerne, nello istesso luogo dell’Esodo, perché Maria fu esempio a tutti di ogni virtù. Per il Santuario e tabernacolo di Dio, nell’Esodo al capitolo 26, perché Dio si riposò in Maria nove mesi e per trentatre anni ne fu diligente conservatrice. Per la veste di Aaron, nell’Esodo al capitolo 38, perché Maria della sua carne vestì il sommo sacerdote Giesù. Per le due tavole della Legge scritta da Dio, Esodo capitolo 32, sì perché Maria fu osservatrice delli divini precetti, amando intensamente Dio e carissimamente il prossimo; sì perché Dio scrisse in lei colla mano della sua potenza divina, col dito dello Spirito Santo e con la penna del suo Verbo eterno, quella legge d’amore, della quale disse San Paolo ai Galati, al [capitolo] 4: Dio mandò suo figlio, fatto da una donna e nato sotto la legge, affinché riscattasse quelli che erano soggetti alla legge, ecc.; ed essa restò pietra dura, secca ed arida due volte, perché restò vergine e nella incarnazione del Verbo e nella natività di lui. Per le Trombe, che si adoperarono quando entrarono i figliuoli d’Israele in terra di promissione, nelli Numeri al capitolo 10, perché Maria fu maestra delli Apostoli e della santa Chiesa. Perché l’angelo non chiamò Maria per nome? La prima risposta è questa. È vero che l’angelo nel principio non nominò il nome di Maria, ma lo disse poi poco dopo. Non temere, Maria; hai trovato grazia presso Dio e lo fece perché, parlando con Maria, se bene stava in terra col corpo, era però colla mente tutta elevata a Dio e si poteva dire fosse cittadina del cielo. E perché nel cielo, dove ogni cosa si vede splendidissimamente, non vi era bisogno di nome alcuno, come fa di bisogno in questa presente vita, per vivere e conoscere distintamente l’una cosa dall’altra. [...]. La seconda risposta è questa: non la chiamò Maria, ma disse Piena di grazia, per maggior dignità di Maria, chiamandola donna piena di grazia e singolare, in quel modo che sogliamo dire noi per grandezza d’alcuni uomini, quali chiamiamo con nomi della loro dignità e non con propri loro nomi. E poiché, o Maria, voi siete vaso di grazia, che trabocca e si diffonde copiosamente, fateci grazia a noi vostri Servi d’invocare il vostro dolcissimo nome, Maria. È vero, non siamo angeli, siamo peccatori. Ma, con quella fiducia che date ai peccatori, vi chiamiamo caramente Ave Maria, Ave Maria, Ave Maria: sia benedetto questo vostro santissimo nome Maria per tutti i secoli. Amen. dal Discorso quinto edizione: P.M. BRANCHESI, Fra Arcangelo Ballottini da Bologna (1622). Dieci discorsi sopra il santissimo nome di Maria, “Il Servo di Maria”, n. 2, aprile-giugno 1995, p. 7 Preghiera finale Santissima e gloriosissima vergine Maria, io vi prego per il vostro dolcissimo nome Maria, nel quale siete figurata a cinque donne illustrissime dell’antico popolo ebreo, cioè Michol, Abigail, Rachele, Iudita ed Abisach – e per il quale vi mostrate essere madre delli viventi, Albero della vita, Riso del mondo, Inventrice della grazia ed Amorosa Madre dell’Amore; anzi siete conosciuta Madre delle grazie, Avvocata dei tribolati, Rifugio delli peccatori, Intercessora delle genti ed Amabilissima alli vostri Servi – vi prego, dico, che per questo dolcissimo nome Maria vogliate di noi, vostri Servi, aver protezione in questa presente vita, e nell’altra poi presentarci al vostro dilettissimo Figliuolo, che ci conceda con voi la gloria beata. E dopo questo esilio mostrarci Giesù, frutto benedetto del tuo ventre, o clemente, o pia, o dolce vergine Maria. Amen. dal Discorso sesto edizione: P.M. BRANCHESI, Fra Arcangelo Ballottini da Bologna (1622). Dieci discorsi sopra il santissimo nome di Maria, “Il Servo di Maria”, n. 3, luglio-settembre 1995, p. 4-6 Si mostra che il nome di Maria è interpretato “mare”, perché il mare è la congregazione di tutte l’acque e Maria delle grazie nostre; il mare è amaro e Maria è mare di affanni e di dolori . Niuno può, se non Dio solo, numerare i dolori eccessivi che patì Maria nella morte di Giesù. E se alcuno mi addimandasse perché volesse Dio che la beata Vergine Maria nella morte del suo figliuolo sentisse tante amarezze e dolori, rispondono li Dottori che Maria ebbe due maniere di parto: il primo fu parto naturale, nel quale partorì Cristo, e questo fu senza dolore, anzi con grandissima allegrezza; il secondo fu parto spirituale, quando alla santa croce partorì noi altri suoi figliuoli spirituali e diventò madre nostra nella persona di san Giovanni, allora che Cristo le disse: Donna, ecco il tuo figlio; e in questo parto sentì dolori eccessivi, onde ben poteva dire Maria le parole che disse la madre di Iabes: Nel dolore l’ho concepito47. [...] Chiunque vuol grazie da Maria, mare d’ogni bene, la chiami, l’addimandi ed invochi il suo nome santissimo, Maria. Chi vuole la vera sapienza cristiana, significata per il sale che si fa dell’acqua del mare, chiami Maria, madre della divina sapienza, di cui è scritto nei Proverbi: La sapienza edificò una casa. Chi brama accrescere nelle virtù cristiane vada a bere l’acque di questo mare, Maria, che accresceranno la sete del bene operare, come dice ella nell’Ecclesiastico al capitolo 24: Chi beve di me ha ancora sete. Chi desidera essere consolato nei suoi affanni getti in questo mare, Maria, le acque amare delle sue tribolazioni ed essa le accoglierà graziosamente e colla sua intercessione le presenterà al Sole divino, il quale le risolverà in acque dolcissime, che cascando dal cielo feconderanno e rallegreranno gli afflitti cuori. 47 1Cr 4, 9. FONTI AGIOGRAFICHE a cura di Pier Giorgio M. Di Domenico INTRODUZIONE La sezione comprende alcune figure di fratelli e sorelle vissuti nel periodo considerato da questo volume delle Fonti, i cui nomi ricorrono nei cataloghi di santi e beati dell’Ordine: il beato Giovannangelo Porro, già presente nel secondo volume delle Fonti ma qui ripreso (muore nel 1505) secondo le testimonianze degli storici Poccianti e Giani, e poi Pietro della Croce, Lucia da Bagolino, Cedonio da Monza (o da Bologna), Lucia de Zatrillas, Angela da Verona. Per la beata Francesca da Como (+ 1498), il beato Michele Bonardi da Pinerolo (vissuto nella metà del Cinquecento), le beate Artemisia di Todi, Margherita da Spoleto, Eufemia Palettoni di Spoleto (tutte della seconda metà del Cinquecento), la beata o venerabile Bartolomea Bertini-Cardarelli (+ 1619), cfr Fonti III/1, sezione Fonti documentarie e narrative. I. Giovannangelo Porro Per la documentazione a lui relativa cf. Fonti II, p. 227, 230, 231, 256, 265, 271, 299, 305, 309, 310, 328, 455, 480, 487, e sezione Fonti documentarie e narrative del volume III/1. 1. Dal Chronicon di Michele Poccianti Il primo testo qui riportato è il resoconto della morte del beato e del significato che Michele Poccianti (Chronicon rerum totius sacri Ordinis Servorum Beatae Mariae Virginis, Florentiae 1567) attribuisce all’evento. edizione: P.M. SOULIER, De beato Ioanne Angelo Porro Mediolanensi Ordinis Servorum beatae Mariae virginis , in Monumenta OSM, VIII, Bruxelles 1906, p. 123-125 1496. Mentre la povera navicella dei Servi, privata di una guida così grande48, era in balia di varie tempeste, perché non si inabissasse nelle profondità del mare, un ottimo padre e fedele Servo della Vergine, Giovannangelo da Milano, lasciando le cose umane, il 24 ottobre di quest’anno sale al cielo e prega supplichevolmente Dio Padre di misericordia e di ogni consolazione, perché la consoli in ogni tribolazione. Quando la felice morte di questo amico di Cristo si diffonde per la città di Milano, subito tutti accorrono alla chiesa dei Servi, nessuno, uomo o donna, rimane a casa; anzi, infermi, tenuti anche da malattie gravissime, cercano di esservi portati da amici e desiderano toccare almeno l’orlo del vestito, pensando che questo contatto possa portare grande giovamento. Ciascuno infatti conosce abbastanza chi sia e quale sia stata la vita di questa persona, che ha placato gli assalti terribili dei peccati, ha vinto le tentazioni dei demoni, ha sconfitto i desideri della carne e degli occhi. Per poter attuare più agevolmente tutto questo, con l’aiuto della grazia di Dio, visse quasi vent’anni sul sacro monte Senario e, seguendo le orme dei santi Padri e imitandone gli esempi, si dedicò incessantemente alla preghiera unita a penitenze e digiuni, stimando vanità e follie senza senso tutte le ricchezze del mondo, come il bravo mercante del vangelo che, trovata la perla preziosa in un campo vergine, vendette tutto quel che aveva e la comprò. Per questo divenne l’amato di Dio, e così amato che – come affermano i più vecchi degli abitanti del sacro monte ed è testimoniato da familiari guariti da mali di questo tipo - con il solo segno della croce curava i malati e liberava quelli che erano posseduti dal demonio. Lo comprovano anche gli annali di quel venerabile monastero, dove si vedono questi fatti dipinti su tavolette di legno. Ma perché non si creda che queste siano vuote affermazioni, si ascolti quanto hanno i documenti del convento milanese. Riferiscono infatti che, avvicinandosi l’ora della sua morte, egli, scendendo dal sacro monte, l’abbia preannunciata dicendo: «Mi avvicino a render conto della mia amministrazione e tengo dietro a mia sorella». Si seppe che, come egli aveva preconizzato, l’abbia trovata morta. Infatti, arrivando a Milano, trovò che lo spirito della sorella era già tornato a Dio. Le cronache del medesimo convento asseriscono che al suo felice transito siano stati presenti giovani sconosciuti dall’aspetto bellissimo, per somministrargli l’aiuto necessario. Aggiungono inoltre che la fede degli infermi, i quali si sforzarono di portarsi lì e cercarono di toccare il sacro corpo, non li deluse, essendo moltissimi liberati dalla possessione diabolica e da malattie di vario genere. Di questo fatto sono ancora testimoni quadri sospesi a perpetua memoria intorno al suo sepolcro, dai quali appare chiaro quanto questo uomo ineffabile sia piaciuto a Dio. Volendo i frati porre le sue spoglie accanto ai corpi degli altri padri, il Giudice giustissimo non lo permise. Infatti il corpo e la grande pietra non poterono assolutamente essere mossi. Perciò i padri, elevando devotamente preghiere insieme a tutto il popolo e comprendendo il segno che il fatto conteneva, provvidero a costruire una tomba in una cappella che appartiene alla nobile 48 Il priore generale Antonio Alabanti, morto l’8 dicembre 1495 (cf. Fonti storico-spirituali, II, p. 342) famiglia dei Porro, dalla quale questo uomo santo aveva tratto origine e lì lo collocarono con una solenne cerimonia. Qui ancora rifulge per i miracoli e ogni giorno da infermi, liberati dalle loro disgrazie, sono lasciate presso la sacra tomba le testimonianze del beneficio ricevuto. Questo santo padre ha lasciato alcune ammonizioni salutari. Tra queste c’è una preghiera che ogni giorno era solito pronunciare davanti all’immagine della Vergine, [...] intercedendo per noi peccatori perché giungiamo al regno celeste. 2. Arcangelo Giani, Annales OSM, II, p. 27-28, sotto l’anno 1506. […] Udita la fama di coloro che conducevano una vita austera su Monte Senario, al servizio della beata Vergine, lasciata la patria milanese e recatosi in Toscana, fece vita eremitica per venti anni in assidue veglie, pie meditazioni e altre penitenze corporali, finché il padre Antonio Alabanti, priore del convento dell’Annunziata, restaurato con nuovi edifici il noviziato per l’educazione dei giovani, ordinò che Giovannangelo si trasferisse dal Senario all’ufficio di maestro dei novizi. Quanto in quel compito sia stato di giovamento a quei giovani agli inizi del loro cammino nel santo abito della Vergine, lo indicarono non molto dopo coloro che abbracciarono la sua disciplina e il suo modo di vivere. E quando Alabanti fu assunto, nel capitolo di Vetralla alla suprema autorità dell’Ordine, desiderando riformare in maniera più radicale il cenobio dell’Annunziata, richiamò nuovamente Giovannangelo, che era già partito per fondare l’eremo del Chianti, a dirigere il medesimo noviziato con questo accordo: se gravato da continue infermità non fosse in grado di dedicarsi totalmente a questo compito, almeno una volta al giorno però ad un’ora stabilita andrebbe dai giovani per istruirli sulla perfezione della vita regolare e rafforzarli nello stile della vita religiosa. Accadde poi che nell’anno 1487 sorgesse una non piccola discussione tra i frati del Senario sull’elezione del nuovo priore del convento, al punto che il generale Alabanti, che si trovava a Firenze, si portò in fretta al Senario per comporre quelle divergenze, come altrove è stato detto49. Radunato quindi il capitolo, i frati, che erano stati tra loro in grande disaccordo, improvvisamente ritrovata l’unità con il consenso unanime di tutti elessero come loro priore Giovannangelo che a lungo tentò di rifiutare. In questo ufficio si sa con sufficiente certezza che quel religioso diede segni luminosi della sua santità presso i contadini del luogo: egli liberò, con il solo segno della croce accompagnato da una preghiera, molti che erano afflitti da malattie di diverso genere e tenuti da spiriti immondi. Mentre la fama di tali miracoli andava diffondendosi poco a poco da quel luogo fino alla città di Firenze, a lui ancora in vita per la devozione degli abitanti venivano dedicate tavolette di grazie e miracoli, che anche abbiamo visto. Giovannangelo, per sfuggire alla gloria vana del mondo, appena finito il primo anno di priorato al Senario, di nuovo se ne andò all’eremo del Chianti. Ma neanche qui la luce della sua santità poté restare nascosta, poiché ancora la fama della sua santità propagava per quelle regioni la voce che c’era un santo eremita dell’Ordine dei Servi il quale guariva tutti i malati e indemoniati con il solo segno della croce accompagnato da una preghiera, sebbene egli stesso fosse sempre debole per una continua penitenza. Perciò l’uomo di Dio, fuggendo dalla medesima fama, si ritirò anche da lì e partì in direzione di Milano. Durante questo viaggio, si comportò con tale e tanta umiltà che rivestito di una tunica di tela nera, cucita con le proprie mani, con un piccolo bagaglio sulle spalle, appariva un converso che chiede l’elemosina più che un uomo dotto e un sacerdote. Testimoni di questo fatto sono ancora le stesse bisacce che abbiamo visto conservate con somma venerazione presso le nostre sorelle e abbiamo venerato nel paese di Pizzighettone presso il fiume Adda. 49 Annales OSM, I, f. 58. Ma che cosa di più? È meglio, riguardo agli eventi posteriori della sua vita, ricorrere alle parole di altri che alle nostre, e specialmente a quelle di Filippo d’ Alessandria dell’Ordine dei Servi50, che nel suo Catalogo dei Santi d’Italia aggiunge anche queste notizie su Giovannangelo: “Tornato a Milano e conservando la medesima austerità di vita, …a venerare il suo corpo in questo giorno quasi tutta la città di Milano è solita affluire e pronunziare voti”. La sua immagine, che abbiamo vista dipinta a Pavia e altrove, potrà essere rappresentata come quella di un uomo religioso, che appare consunto dalla magrezza ridotto a pelle e ossa, in ginocchio mentre prega davanti al Crocifisso, circonfusa la testa di raggi. La sua festa dovrebbe essere celebrata il 24 ottobre, giorno della sua morte, ma dai padri è celebrata con rito solenne la quarta domenica del medesimo mese a maggior gloria del Beato e a devozione dei buoni. In suo onore si canta questa elegante strofa di sei versi: Angelus est nomen: mirari desine, si re Ipsa actus fuerint angelicique modi, Si botrum viti copulat, si cernitur orans Elatus terra, unde parabat iter, Si adsunt coelicolae aegroto, et mirabile dictu! Tympana sponte sonant, ipso obeunte, sua. Angelo è il nome: di stupirti lascia, se già in vita di angeli siano stati azioni e modi, se attacca un grappolo alla vite, se è visto mentre prega sollevato da terra, da dove preparava il cammino, se presso di lui ammalato ci sono gli abitanti del cielo - mirabile a dirsi! suonano spontaneamente i loro cembali, mentre egli muore. II. Pietro della Croce Appare presto nei cataloghi antichi dei santi e beati dell’Ordine51. Cf. anche Fonti documentarie e narrative. III/1. 1. Dal Chronicon di Michele Poccianti edizione: P.M. SOULIER, Chronicon rerum Ordinis Servorum B.M.V. Excerpta, in Monumenta OSM, XII, BruxellesRoulers 1911, p. 81 Il pio uomo Pietro della Croce, nobilissimo tedesco, fece voto di andare a Roma e durante il viaggio viene colpito da una grave malattia nel convento dei Servi a Viterbo. Consapevole di essere vicino all’ultimo dei suoi giorni, implora i padri che lo rivestano dell’abito della Vergine. Dopo 50 51 Filippo Ferrari, priore generale (1604-1609). cf. Monumenta OSM, XII, 1911, p. 119, 137, 141, 144, 145, 172. averlo ricevuto, famoso per miracoli, emigra a Cristo; sul suo sepolcro fino ad oggi si leggono queste parole: DEDICATO PER I MIRACOLI AL DEVOTO PIETRO DELLA CROCE EREMITA DELL’ORDINE DEI SERVI. VISSE ANNI 36. MORI’ NEL 1522, 6 LUGLIO Per le preghiere di questo uomo devoto le suore [del monastero] della Pace furono liberate dalla peste e da un’epidemia, e moltissimi infermi sono stati restituiti alla salute, come attestano gli Annali del convento dei Servi di Viterbo52.. Da essi si desume che il suo arrivo e la sua gloriosa morte li predisse la beata Francesca Cirabetta53, vergine purissima, sorella del Terz’Ordine, aggiungendo che non molti giorni dopo l’avrebbe seguito. E così accadde. Anch’ella è divenuta famosa per i miracoli 2. Arcangelo Giani, Annales OSM, II, 77-79 Mentre infieriva la peste che invadeva quasi tutta la Campania, avvenne che un uomo devoto, eremita tedesco, chiamato Pietro della Croce, di nobile famiglia , si recasse per un voto che aveva fatto a Roma. Giunto nel suo pellegrinaggio a Viterbo, nell’impossibilità di procedere oltre, fu accolto con benevola ospitalità dai nostri Padri. L’epidemia fu l’occasione perché la sua santità venisse ampiamente riconosciuta nella Città. Infatti, dopo che una monaca del nostro Ordine aveva predetto l’arrivo di questo santo uomo a Roma, Pietro con il solo segno della croce risanò nostre sorelle del monastero della Pace gravemente ammalate. Poiché con il medesimo segno della croce furono guariti molti altri infermi, venne chiamato dal popolo viterbese Pietro della Croce. Frattanto questo uomo, attaccatissimo alla gloriosa Madre di Dio, chiese con insistenti preghiere ai Padri di essere ammesso a indossare l’abito della Vergine. Dopo averlo ricevuto, conobbe che era vicino il suo ultimo giorno. Illustre per miracoli, migrò al cielo il giorno 6 luglio. Sul suo monumento marmoreo, nella chiesa del nostro convento, furono scolpite queste parole: D(io)O(ttimo)M(assimo) Al devoto Pietro della Croce Eremita dell’Ordine dei Servi, dedicato per i miracoli Visse anni XXXVI Morì nel 1522 Volendo rappresentare l’immagine di questo beato uomo, lo si potrà raffigurarlo con l’abito eremitico e il bastone dei pellegrini, con la croce e la corona (corona calculorum), con l’aggiunta dell’abito dei Servi il cappello sul capo. Nel nostro convento di Viterbo è conservata con estrema cura una lettera che, a detta dei Padri, fu mandata dal re di Spagna54 al padre Pietro qui menzionato, nel tempo in cui questi viveva su Mons Coeli, come è indicato dalla medesima lettera che, tradotta dalla lingua spagnola, piace qui 52 Queste notizie sono riprese da Tommaso da Verona, Flos Florum. Vite de’ Santi, tradotte di latino in volgare [scritto dopo il 1592], in Monumenta OSM, XII, p. 26 53 Cfr anche Tommaso da Verona, Flos Florum,, in Monumenta OSM, XII, p. 39: «Di Viterbo, città nobile della Toscana, fu questa santissima uergine, della casa Cirabetta. Uolendo seruire al’Signor’ Dio, pigliò il uelo d’il terzo ordine di Serui; onde fu sempre molto più che casta. Hebbe gratia di profetare et di fare molti miracoli; degiunaua ogni giorno, leuata la dominica; diede il lume a’ ciechi. Morì a dì 15 Decembrio, l’anno di Nostro Signore 1522. Il cui glorioso corpo fu sepulto in Viterbo nella giesa di Serui; doue si uedono molti miracoli ogni giorno». È inserita molto presto nei cataloghi dei Santi e Beati dell’Ordine: cf. Monumenta OSM, XII, p. 130, 132, 137, 141, 142, 145, 146. 54 Carlo I di Spagna , poi imperatore Carlo V. La lettera del 1519 è conservata nell’Archivio generale dell’Ordine (Roma). inserire come attestato onorifico, in quanto mostra quale fosse presso il re il concetto della santità di Pietro: IL RE Devoto P. fra Pietro della Croce Eremita dell’Eremitorio di nostra Signora la Madre d’Iddio della Misericordia della Montagna del Monteceli. Viddi la lettera, che mi avete scritto, e gli consigli, che mi date, e con quanto mi dite, tutto diretto al servizio di nostro Signore, come si opera da V.P. in ragione di buona vita, ed io l’ho gradito molto, e siate certo che di voi e della vostra persona, e di tutto quello tengo e terrò memoria intiera. Di Barcellona etc. IO, il Re Per il devoto Padre F. Pietro della Croce Eremita dell’Eremitorio di N. Signora la Madre d’Iddio della Misericordia della Montagna del Monteceli. III. Lucia da Bagolino. Oltre alle notizie trasmesse dagli Annales, si riporta una delle rare testimonianze del monachesimo femminile dei Servi di epoca pretridentina, che costituisce «il più prezioso ricordo» di suor Lucia da Bagolino, essendo andato disperso l’antico archivio del monastero di S. Maria delle Grazie da lei fondato. L’Informatione fu tradotta e divulgata in latino da Arcangelo Giani negli Annales OSM55. Lucia si trova già nominata in un catalogo di Santi e Beati dell’Ordine del 1530 circa56. Cf. anche Fonti documentarie e narrative. 1. Arcangelo Giani, Annales OSM, II, p. 69 20 settembre 1520. Nel giorno 20 di settembre è avvenuto un fatto degno di essere ricordato: la beata Lucia di Bagolino, lasciato il carcere della carne, volò al cielo. Bagolino è un paese della diocesi di Trento, tra i monti che separano l’Italia dalla Germania. Nata in questo paese da onesti genitori, ed educata con santissimi costumi, devotissima alla Beata Vergine, Lucia all’età di sedici anni fece voto di perpetua verginità. Sempre immersa in digiuni, discipline e preghiere, all’età di ventisei anni, come attestano pii religiosi, ebbe più volte nella sua stanza la visione della Beatissima Vergine che la esortava a separarsi dal mondo per poter dedicarsi con maggiore facilità alla contemplazione, alla preghiera e alla vita spirituale; sarebbe avvenuto presto che ella entrasse a far parte del numero delle sue Serve. La vergine Lucia, perciò, si appartò in un luogo solitario non lontano, sopra il territorio di Bagolino, sebbene fosse spesso dai suoi ripresa per voler, lei così sola, giovane e di bell’aspetto, vivere in un luogo tanto solitario; anzi i suoi genitori la minacciavano e non permettevano che ella uscisse di casa. Avvenne allora che Lucia, raccomandandosi alla b. Vergine, si incontrasse per un caso fortunato con una fanciulla vergine del medesimo luogo, che si chiamava Maffea Macinati e che pure nutriva la medesima devozione verso la Vergine beata e la medesima volontà di servirla. Convennero dunque tra di loro di porre la loro dimora in quel luogo solitario. Dal 1515 cominciarono ad abitare quel luogo denominato Contrada del Ronco, sotto una 55 Il Giani raccolse il documento dell’Informatione in occasione di una visita di studio fatta a Brescia. A lui era già stato inviato un catalogo con il nome di Lucia da fra Giampaolo Villa. Cf. D.M. MONTAGNA, “Studi Storici OSM”, 10 (1960), p. 100-105. 56 cf. Monumenta OSM, XII, 1911, p. 119. Vedi anche p. 132, 134, 137, 141, 142, 145, 146, 147. grande rupe: chiusero la grotta con alcune tavole, vi avevano l’immagine del Salvatore e della B. Vergine e vivevano in asprissima penitenza, nutrendosi per quasi tutto il tempo di castagne e di erbe e di donativi loro offerti da persone pie. Poi a poco a poco con le elemosine cominciarono a costruire una cappella come una piccola chiesa, dove è ora il coro. Qui cominciarono ad affluire gradualmente altre giovani vergini. Frattanto la vergine Lucia ricevette una visione in cui la B. Vergine la chiamava a prendere l’abito dell’Ordine dei Servi. Per questo motivo nell’anno 1516 si recò a Brescia dal priore di S. Alessandro, e il 2 maggio 1517 ottenne la grazia e ricevette l’abito per mano di fra Deodato di Capirola, bresciano, vicario generale dei Servi, come risulta dalle lettere patenti. Ricevuto l’abito e tornata a Bagolino, nell’anno 1518 si diede inizio al monastero delle sorelle. I Padri infatti mandarono a piantarvi la croce uno che si chiamava, come dicono, fra Benedetto, mentre Giovanni de Fojs da Bagolino concedeva un terreno per la costruzione. Durante quel viaggio la beata Lucia patì gravi disagi, soffrì molti inganni da parte del demonio che voleva dissuaderla e cercava di indurla allo scoraggiamento, mettendole dinanzi la povertà, la scarsità di mezzi, le difficoltà inerenti alla costruzione del monastero, l’enorme disonore che sarebbe derivato se non avesse portato a compimento l’opera: meglio sarebbe stato tornare dai suoi genitori e nella propria casa. Accadde anche che, stanca del viaggio e montata su un asinello, si sentì violentemente sbalzata di sella; caduta a terra, soffrì contusioni gravissime e tuttavia, pur con le gambe rotte non si perse d’animo e anzi, per vincere la tentazione, non potendo proseguire dritta sull’asinello, vi si fece legare come un sacco. Giunta alla chiesa di Brescia, si addormentò davanti all’altare dell’Annunziata e poco dopo svegliatasi cominciò a star meglio. Nel monastero ebbe con sé dodici vergini. Avvicinandosi alla morte, nell’anno 1520, ricevuto il sacramento dell’eucaristia, all’aurora del 20 settembre spirò, e le suore testimoniarono di aver visto insieme ad altre donne presenti molte luci , come stelle luminose che attraversavano di continuo la cella. Dei suoi miracoli dopo la morte si raccontano in quel luogo molte cose, di cui presso di me non si trova speciale memoria. Potrà essere ritratta vestita dell’abito del Terzo Ordine mentre contempla, a somiglianza di santa Maria Maddalena, sotto una rupe e prega la B.V. Maria che l’accarezza insieme al Figlio. 2. «Informatione» sulla fondazione del monastero di Bagolino edizione :D.M. MONTAGNA, Memoria per Suor Lucia da Bagolino (+ 1524 circa), “Moniales Ordinis Servorum”, 1 (1963) p. 33-35; testo dell’«Informatione», p. 36-39. Laus Deo Informatione della fondatione del reverendo monasterio della Madona di pietà e gracie de Bagolino fatta per la reverenda madre suor Lucia figliola de ser Zoan del Versa et de d.a Maria sua consorte de Bagolino, cavata parte dalle scritture del detto monasterio et parte da persone et vecchij de detta terra come ut infra. Essendo detta madre suor Lucia di età de sedici anni de bona vita dedicada a servar verginità, era devotissima de Idio et della gloriosa vergine Maria et tutta spirituale atendeva ali digiuni et continue orationi et disipline; et andò cresendo in questa sua bona dispositione et sante devotioni fin ali anni vintisei, sempre più frequentando le orationi et devotioni sue. Gionta alla età de detti anni vintisei, si lasciò intendere haver lei visto visibilmente più fiate alcune sante visioni nella camera sua della gloriosa vergine Maria, che pareva la exortasse a continuar le orationi sue et retirarsi dal comercio del seculo per poter più frequentare le orationi et contemplationi delle cose spirituali, che seria fatta una delle sue elette serve. Et così incaminando, si risolse finalmente essa madre de ritirarsi sopra la terra de Bagolino in un locho pocho discosto da quella. Et lasciatasi intendere di questa sua risolutione da suoi di chasa et da parenti, gli fu da luoro fatto molto contrasto oponendoli con le ragion che dicevano, con dir che lei non lo doveva né poteva fare perché in quel luocho non li era abitaculo alcuno da poter stare et essendo anco sola non conveneva per conservar l’onore apresso a Idio et al mondo. Vedendo questa madre suor Lucia che l’era trattenuta et con parole et minacie ancora da suoi, fece lei pregij alla gloriosa Vergine che li desse aiuto. Fu poi inspirada che una matina si ritrovò insieme a caso con una altra giovine, che aveva nome al seculo Maffia di Masinate de detta terra et nella religione fu chiamata suor Maria, che ancora lei si conservava vergine et devota della Madona della medema volontà et desiderio spirituale della detta madre suor Lucia et fu da essa exortada de ritirarsi insieme dal comercio de questo mondo et atendere a servire nelle orationi et penitencie a nostro Signore et alla beata Vergine. De l’anno 1515 essa madre suor Lucia co’ la detta compagna andete suso nel sudetto luocho sopra la detta terra dove si dice contrata del roncho, nel qual luocho vi era un sasso grosso, et quivi si fece un pocho de copertume de asse overo tavole de legname, apogiandole al detto sasso dove avevano una immagine del Signore et della Madonna (Nel qual luocho vi è ancora di presente essa immagine). Et quivi dimoravano exercitandosi nelle continue orationi digiuni et penitencie, vivendo la magior parte del tempo de alcune erbe, castagne et cose simile et delle pie elemosine che li venivano esser datte, perché non avevano cosa alcuna del suo et il luocho de Bagolino è sterile, posto tra montagne et di pochissimo racolto. Fu co’ le elemosine, che li venivano fatte, fabricata una capeleta o gisiola (che adesso è il coro della sua giesia) alquanto sopra il luocho dove avevano apogiate le asse o tole sopra il sasso: nel qual luocho lì concoreva delle altre giovine vergine, che desiderava retirarsi medemamente co’ luoro, portando grandissima devotione al luocho. Fu poi per una visione della beata Vergine detta suor Lucia inspirada et exortada a pigliar l’abito negro della religione della Madona di Servi, in memoria della Vergine Maria quando andete con tal abito a compagnar il figliol suo signor nostro Jesu Cristo alla morte della croce, confortandola che l’aiutarebbe. Et così lei fece risoluzione de farlo. Detta madre suor Lucia andete dali reverendi padri de s.to Alexandro di Brescia del anno 1516, ricercando haver la gracia de pigliar detto abito, et del 1517 adì 2 magio ebbe da essi la gracia del abito luoro, et di costruer un monasterio (come nel suo breve apare, datto per il reverendo padre frate Deodato Capirola vicario generale de detta religione di Servi). 1518. Essendo nel detto luocho da cerca cinque vergine co’ lo abito ut supra et avendo datto principio a un pocho de abitaculo overo caseta sopra detto sasso per luoro abitazione, essi reverendi padri di Servi mandorno un frate (si crede, per quanto si è inteso dale madre, che avesse nome frate Benedeto, ma non vi è il nome), qual vene a piantar la croce in detto luocho. Et fu il detto anno tolto per il comune del terreno da un Zoan di Foi de Bagolino in quel luocho et datto a dette madre per poter ampliar il luocho dove era dato principio con le asse et dove era fabricata quella gisiola (et di detto terreno ne apar ordine di vicinia nel comune di detta terra del detto anno). Vien afirmato per cosa vera da molte persone che essa madre suor Lucia nel andar a Brescia per impetrar la gracia del abito fu molto travaliata et maxime che le apareva in insonio molte tentationi, che li diceva che non averiano potuto sustentarsi né vivere cresendo il numero di luoro ma che averia convenesto abandonar il luocho et che li sarebbe poi stato magior vergogna, che meglio era a non effetuar il suo pensiero et ritornar a casa sua. Ma lei constante exequiva quanto gli era dimostrato per visione della gloriosa Vergine Maria. In detto viazo una seconda volta quando vi ritornete che ebbe la gracia del detto abito, essendo detta madre suor Lucia stanca nel caminar, si fece acomodar de uno animale per slegerire alquanto la fatica del viagio. Et così andando lei disse che realmente gli parse che sentesse la fusse tirata da cavallo et così cascando in terra con gran percossa della vita sua, talmente che restete tutta stropiata delle gambe et si senteva la vita sua scavezza57. Et al’hora considerando che fusse qualche cativa et mala tentatione per impedirli questa santa oppera fece magior animo et si fece riponer a cavalo et ligarsi suso, perché non poteva star dritta, et se ne andete al suo viagio al meglio che poteva. Et gionta che fu in Brescia, si fece menar et portar in giesia, dove che stando per buono spacio così mal acontia et travaliata facendo oratione in quel meglio che poteva, andò a far i suoi negotij: dove ebbe poi l’abito suddetto. Essendo esse madre cresciute cerca il numero di dodese, li fu concesso licentia de fabricar la giesia, campanile, una umil campana, sagrestia, cimiterio et elegersi un confessore da celebrare et administrare i santissimi sacramenti (come nel suo breve apare). Et così sono andade continuando et ampliando, facendo tutto et sustentandosi cole pie elemosine di fideli (come ancora di presente fanno) per non haver intrate da sustentarsi. Nel qual luocho vi è fabricato un convento, giesia et campana: et erano cresciute fino al numero de trentasei monache. Le quale madre di presente officiano conforme ala religion sudeta di padri di Servi, dicendo l’officio grande et quello della Madona. Del 1520 adì 20 settembre detta madre suor Lucia manchete da questa a miglior vita, nell’alba del detto giorno. Et per le informationi aute, quella notte nella sua camera fu da quelle madre et altre done che vi erano presente viste delle luce che assimiliavano a stelle, che andavano per la stancia o camera sudeta, et vi stete fin alla mattina et poi si levete via. È da creder veramente che questo monasterio sia miraculosamente fondato et fabricato, essendo così come è su detto da una dona datto principio, non essendo usitata nelle religioni ma alevata in questo luocho de Bagolino posto tra alpestre montagne lontano dale cità et da monasterij, tal che lei senza cognitione di ciò et senza aiuto di suoi beni temporali ma solo con la povertà per inspiratione de Idio et della gloriosa Vergine fece questa santa fondatione. Si potria dir molte altre cose intorno a questo che si sente a dir da molte persone, che per brevità si tralasia per non esser stade scritte a’ suoi tempi. Le madre dice ch’el doveria esser qualche memorie in scrittura in s.to Alexandro di Brescia di questo. Alberto Bucio nodaro in Bagolino et uno di procuratori del detto monasterio ho scritto come di sopra 57 Rotta, spezzata. IV. Cedonio da Monza (o da Bologna) Nato verso il 1420 da Giacomo de Bosis di Monza, prese l’abito dei Servi alla Ss. Annunziata di Firenze. Dal 1460 appare di famiglia nel convento bolognese di S. Maria dei Servi; è per questa prolungata permanenza che il suo nome è accompagnato dal toponomastico de Bononia. Il generale fra Antonio Alabanti (1485-1495), con lettera del 12 febbraio 1495, lo delegò suo procuratore, insieme a fra Ippolito da Venezia, per l’acquisto di un nuovo convento a Ravenna. Morì ultracentenario l’11 luglio 1526. Fu venerato immediatamente come beato: il suo nome infatti appare subito nei cataloghi dei beati58. Il 20 marzo 1702, dovendosi demolire le pareti della cappella, ormai distrutta, della Vergine delle Grazie nella chiesa dei Servi a Montefiascone, su cui si trovavano alcuni affreschi, fu stesa una relazione che attesta: «[...] vi si vedono atorno atorno l’immagini d’alcuni Santi e Beati del [...] Ordine, dipinti a fresco in alcuni ovati di diametro circa tre palmi Romani per ciascuno, e si vede che formavano come un cornicione intorno la detta cappella, frammezzato di pietre miste, parimenti dipinte con maniera assai rozza. I detti ovati o immagini di Beati, si vede che in tutto erano nummero quattordici, cioè sette per parte, restando in mezzo una nicchia. Il fondo di detti ovati è verde o per lo più rosso, l’habbito de’ Beati nero, e tutti hanno intorno la testa la diadema gialla da Santi, e sotto d’essi v’è il loro nome; alcuni però, come pure l’immagini de’ Beati, sono in parte o del tutto corrosi, né si conosce quello che vi sii stato. Cominciando dunque dal primo a latere Evangelij, si vede in campo verde un religioso con l’habbito de’ Servi e diadema da Santo in testa, d’aspetto più tosto giovine che vecchio, di capellatura rossa con del pane dentro l’habito, e dietro a esso è un povero ignudo; e sotto vi sono le sequenti parole: B. CEDONIUS DE BONONIA»59. Si riportano alcune testimonianze di storici Servi di Maria del Cinque-Seicento: Filippo Sgamaita60 che fu confratello del beato nel convento di S. Maria dei Servi a Bologna, Michele Poccianti61, Gregorio Alasia, e Arcangelo Giani62. 1. da Cronica nostrae religionis (1521) di Filippo Sgamaita, edizione: P.M. SOULIER, Isti sunt Beati nostre Religionis, in Monumenta OSM, XII, Bruxelles-Roulers, 1911, p. 127 Il Beato Cedonio da Monza o da Bologna, il cui corpo è a Bologna; fu sepolto nella cappella di san Celidonio che ora è detta cappella del Crocifisso63: se depinge in genochioni, che dice l’offitio aut sue oratione. Mortuus est in cella nostra 1526 il giorno 2 luglio; e io ho detto l’ufficio con lui parecchie volte. Memoria come il padre frate Cedonio nel giorno della Visitazione è nato, e in tale giorno fu batezato, in tale giorno si fece frate alla Anuntiata di Fiorenza; lo vestite il vescovo Mathia et il vescovo Mariano64; in tale giorno cantò la sua prima messa, et così morite del 152665. 58 cf. Monumenta OSM, XII, p. 119, 122, 127, 131, 134, 137, 141, 145, 148, 172. cf. Monumenta OSM, XII, p. 122-123. Gli altri beati raffigurati nei tondi erano: Amadio da Firenze, Alessio da Firenze, Antonio da Viterbo, Girolamo da S. Angelo in Vado, Giovannangelo da Milano, Pellegrino da Forlì, Giacomo Filippo da Faenza, Giovanni di Sassonia, Francesco da Siena, Bonaventura da Forlì, Andrea da Borgo. La descrizione degli affreschi termina così: «Le suddette immagini non sono di figura intiera, ma con puro busto. La maniera, per quanto si po’l vedere, è antica; il che si conosce secondo la foggia dell’habito che hanno detti Beati, singolarmente dal cappuccio piccolo e stretto, come portavano i religiosi del detto Ordine anticamente; onde si stima che sieno pitture di circa duecento anni indietro». 60 F.A. DAL PINO, I Frati Servi di S. Maria dalle origini all’approvazione (1233 ca.-1304), I. Storiografia-FontiStoria, Louvain 1972, p. 78-86. 61 ibid., p. 95-109 62 ibid., p. 111-139. 63 Dai primi del Settecento non si ha più notizia della tomba del beato. 64 Fra Matteo Ughi e fra Mariano di Giovanni Salvini da Firenze furono ambedue vescovi di Cortona. Vedi Fonti storico-spirituali, II, p. 54, 120, 494.494. 65 Un po’ difficile questa coincidenza di data. Il beato deve essere morto l’11 luglio, come dicono altre testimonianze. 59 2. dal Chronicon di Michele Poccianti edizione: P.M. SOULIER, Chronicon rerum totius sancti Ordinis Servorum beatae Mariae virginis (1567), in Monumenta OSM, XII, p. 81 1524. Nel capitolo generale, in cui fu eletto questo Generale66, fu presente l’ottimo padre Cedonio: per le sue numerosissime preghiere Dio benedetto si degnò di restituire la libertà a moltissimi ammalati e oppressi dai demoni, come fino ad oggi a una sola voce tutta la città di Faenza attesta e i frati più anziani dell’Ordine che ancora sono in vita. 1526. In questi ultimi giorni, nel cielo puro appare un astro luminoso: infatti il religiosissimo e ottimo padre Cedonio, fiorentino per patria, ma bolognese per educazione, colmo di giorni e di opere buone, migrando il 2 luglio a Cristo, brilla per i miracoli. Quando gli vengono stabiliti, secondo le norme, i riti funebri, a gara uomini e donne, dalla città e dalla campagna, accorrono alla celebrazione delle sue esequie e non solo venerano le sue ossa con doni votivi, ma anche strappano devotamente brandelli delle vesti, perché ognuno pensa che portando gloriosamente un frammento della veste e sante reliquie del padre, sarà al sicuro da ogni pena. Perciò con pubblico decreto viene deciso che sia posto sul suo sepolcro, che si trova nella chiesa dei Servi a Bologna, questo epigramma, da cui si ricava la sua ottima vita, la gloriosa morte e l’eterna felicità: Di Gesù, Dio vero, cantore strenuo e infaticabile, Cedonio qui giace. Più a lungo visse nella religione dei Servi che nel mondo. Insubria gli diede la nascita, Firenze il disprezzo del mondo, ma la vita Bologna. Testimoni sono i moltissimi ammalati e afflitti, restituiti alla salute. Visse oltre i cento anni67, previde la morte e vive per sempre, anno 1526, 11 luglio. 3. Gregorio Alasia edizione: A.F.M. PIERMEI, Memorabilium sacri Ordinis Servorum Beatae Mariae Virginis Breviarium, III, p. 72. [...] Alle volte faceva l’officio di portinaio, nel quale però mai stava con la sua mente otioso, anzi sempre o meditava, o diceva la sua corona, e di più sempre havea qualche cosa in seno, come ... da dare a filiolini semplici. 66 Capitolo di Faenza (1 maggio 1524), che elesse priore generale fra Girolamo da Lucca. Tommaso da Verona, Flos Florum. afferma: «Essendo d’anni 109, morì a dì 22 Luglio l’anno di quella santa religione 294, et di nostra salute 1526. Il suo corpo fecce molti miracoli, come si può uedere nella sua sepoltura posta nella giesa de Serui in Bologna; et continuamente si uedono infiniti miraculi» (Monumenta OSM, XII, p. 27). 67 4. Arcangelo Giani, Annales OSM, II, p. 88-89 Nato da onesti genitori a Monza, un centro degli Insubri non lontano da Milano, fin dall’infanzia si diede alla pietà, a uno stile religioso di vita, a studi umanistici. Nell’adolescenza lasciò il suo luogo d’origine, recandosi a Firenze per devozione alla santissima Vergine Annunziata e da lei sedotto rivestì l’abito religioso il 2 luglio per mano dei padri Matteo e Mariano dell’Ordine nostro, che furono uno dopo l’altro vescovi di Cortona, e fu accolto in noviziato. Mandato a studiare a Bologna, si legò lì al voto di professione e per decisione unanime fu aggregato ai membri dello stesso convento di Bologna (a tal punto era grande l’opinione che si aveva di lui). Quanto egli fosse gradito e accetto alla gloriosa Madre di Dio, il convento lo dedusse, come si dice, quasi miracolosamente, poiché il B. Cedonio, nato e battezzato nel giorno della Visitazione della B.V. Maria, in quel medesimo giorno rivestì l’abito, fece la professione, celebrò la prima messa e infine, visitato dalla Vergine nel medesimo giorno, rese quest’anno [1526] l’anima a Dio. Poiché la fama della sua santità andava crescendo ogni giorno di più per tutta l’Emilia e la Flaminia, Girolamo [da Lucca, priore generale], affinché il capitolo generale celebrato a Faenza fosse più importante, volle che vi partecipasse anche il padre Cedonio, uomo santo per le cui preghiere e intercessioni Dio benedetto restituì salute e liberazione a moltissimi ammalati e oppressi dal demonio. L’uomo di Dio, Cedonio, aggravandosi per l’avanzare dell’età oltre i cento anni, e tuttavia nel pieno possesso delle sue facoltà, non era più in grado di frequentare la chiesa; i padri perciò gli assegnarono una cella vicino alla chiesa, sotto la torre campanaria, con una piccola finestrella attraverso cui potesse vedere la chiesa, sopra l’antica sagrestia. Questa cella noi giovani nello studio di Bologna, abbiamo talora visto e venerato. Lì visse parecchi anni in contemplazione solitaria, a parte quelle ore stabilite in cui fra Filippo Maria, suo compagno, recitava con lui l’ufficio divino. Si racconta anche questo fatto mirabile che abbiamo appreso dai più anziani, in particolare da fra Pietro da Bologna: crollato il pavimento della cella, o perché consunto per vecchiezza o per qualche altro accidente, restò indenne solo lo spazio dove Cedonio era coricato. [...] Molti [...] in suo onore composero poesie, tra questi Cassio Felsineo, cavaliere decorato, nel libro stampato a Bologna nel 1526 con il titolo Cronica di Pitafi d’Armi e di Amori. Compose in vernacolo un’ode in onore del B. Cedonio. È raffigurato inginocchiato davanti al Crocifisso, con un libro aperto in mano, in atto di recitare o leggere l’ufficio e le preghiere. V. Lucia de Zatrillas di Culleri Appartenente alla nobiltà sarda, la beata Lucia di Culleri è un’interessante figura di terziaria dei Servi, pellegrina a Roma in umiltà e penitenza. Appare presto negli antichi cataloghi dei santi e beati dell’Ordine68 Arcangelo Giani, Annales OSM, II, p. 143 Antichi cataloghi di nostri beati riferiscono che nel 1545 sia morta la beata Lucia de Zatrillas di Sardegna. Tuttavia non manca tra gli autori moderni chi afferma che sia morta prima di questa data; di questa opinione è, come sembra, Gerolamo Caio, canonico della chiesa cagliaritana, personalità insigne per dottrina e per saggezza. Questi, infatti, nella sua storia della Sardegna M.S. che sta finalmente per essere pubblicata, riferisce che la beata Lucia di Sardegna fu nobile contessa di Culleri – la famiglia illustrissima Zatrillas fu strettamente imparentata con i marchesi di 68 cf. Monumenta OSM, XII, p. 137, 141, 143, 145. Villaforis e con le famiglie più nobili della città di Cagliari - , donna illustre, consacrata a Dio e soprattutto devotissima della gloriosa Madre di Dio. Perciò fu sommamente felice quando seppe che era arrivato nella sua patria un nostro padre – di nome Alessandro, nell’anno 1540 – che aveva portato con sé una devotissima immagine della Vergine Madre di Dio e l’aveva posta in un oratorio, dove, con l’elemosine di devoti, aveva incominciato ad erigere una chiesa e un convento. A lui la pia signora non negò l’aiuto, che anzi per quanto poté gli portò soccorso e infine, appresa dallo stesso Padre l’origine dell’Ordine dei Servi della B.M.V., accesa di amore per tale Ordine, volle aggregarsi prendendo l’abito tra le nostre sorelle. Avvicinandosi l’anno del giubileo, per visitare i sacri luoghi dell’Urbe, partì con somma devozione verso Roma. C’era a Roma una abitazione (contubernium) fatta costruire nella regione di Trastevere dal generale Alabanti per le nostre sorelle terziarie che fossero venute a Roma da altre città e da località lontane, soprattutto per quelle che fossero venute dalla Sardegna e dalla Corsica. La nobile signora Lucia, che era a conoscenza di questo luogo, preferì soggiornare tra le povere serve della Madre di Dio, piuttosto che frequentare ed essere ospitata nelle case di nobildonne e specialmente delle matrone dei Colonna, dalle quali più di una volta era stata invitata. Qui dunque Lucia alloggiò e, informatasi più accuratamente della regola delle nostre sorelle, cominciò a stimare con maggiore letizia e devozione il santo abito della B.M.V. Durante il suo soggiorno a Roma diede alle altre nobildonne grandissime prove della sua santità e umiltà, finché non fece ritorno in Sardegna, dove frequentò la nostra chiesa di Culleri nella sua contea. Alla fine, colma di giorni e di buone opere, rese l’anima a Dio. Se qualcuno vorrà tramandarne ai posteri l’immagine, potrà raffigurarla rivestita dell’abito del pellegrino con la corona (corona calculorum), di aspetto aggraziato ed elegante e con il cappello in capo. VI. Angela da Verona La beata Angela da Verona, morta il 27 settembre 1594, è un esempio interessante di vita consacrata aperta a forme di servizio attivo. Le notizie su Angela furono fornite dalle sue consorelle ad Arcangelo Giani, mentre stava predicando a Verona. Arcangelo Giani, Annales OSM, II, p. 304-305. Mentre ci trovavamo a Verona, abbiamo appreso dalle sue consorelle queste notizie sulla beata Angela, nostra suora terziaria, notizie che in alcun modo devono restare avvolte nel silenzio. In questo medesimo anno [1594] si è congiunta allo Sposo celeste dopo aver praticato nella vita una perpetua verginità, attuati frequenti digiuni, passate le notti in preghiera. Amava l’umiltà e la volontaria povertà: quanto le veniva offerto da altri, lo distribuiva ai poveri. Nel tempo in cui i veronesi soffrivano penuria di grano e i rettori avevano cacciato dalla città tutti gli stranieri poveri, la vergine Angela andava continuamente alla cerca di pane e di elemosine e ogni giorno, di nascosto, dall’alto delle mura della città dava per quanto poteva cibo ai poveri, gettando loro fuori delle mura i sacchetti di elemosine che aveva raccolto. Ogni giorno, all’ospedale della Misericordia, dove si trovava una moltitudine di poveri e di ammalati, cercava di portare sollievo con il suo aiuto e con elemosine e confortava con parole gli infermi, così da poter essere chiamata, per l’amore che la riempiva, madre dei poveri e consolatrice degli afflitti Sopportava nella solitudine grandissime tentazioni ed era tormentata da vari e grossolani insulti dei demoni, così che era sentita lamentarsi e chiedere aiuto, sembrandole che il suo corpo fosse trafitto da spade di armati; invocato però il nome della Beata Vergine Maria, la folla dei demoni si allontanava da lei. Il diavolo infatti temeva i costumi angelici di questa vergine, il digiuno pressoché continuo – passava molti giorni senza prendere cibo e bevanda – il duro cilicio che portava continuamente, nel freddo invernale e nel calore estivo, e le varie austerità del corpo. Consunta, dunque, da tante sofferenze e penitenze corporali, la beata vergine, prima di migrare da questa vita, ricevette da Dio grandi consolazioni: in parte esse furono comunicate da lei in segreto a suor Maddalena e suor Aquilina, che l’assistevano nella sua infermità, in parte furono udite con le proprie orecchie dalle sorelle, come esse stesse hanno attestato. Il 14 settembre, infatti, festa dell’Esaltazione della santa Croce, Angela, elevatasi all’altissima contemplazione della passione di Cristo, meritò che le venisse incontro come consolatore il Signore Gesù, che le mostrò le piaghe incoraggiandola a sostenere la gravità della malattia con animo sereno, poiché dopo otto giorni sarebbe entrata nella gloria celeste. Angela, confortata da questa visione, rapita in estasi, era udita dalle consorelle presenti parlare sempre più spesso con Gesù Cristo dell’eterna gloria del paradiso, del godimento dei beati e di tali altissime contemplazioni, fino al cospetto di Dio. In questi stessi giorni, mentre il male si aggravava, accadde una notte che il palazzo del Prefetto bruciasse e che si sentisse, fuori dell’orario consueto, suonare la campana. Angela, destata da questo rumore, non sapendo che cosa fosse accaduto, chiamate le compagne, disse con spirito profetico: «Sorelle, pregate per l’incendio, perché il palazzo del Prefetto sta bruciando». Giunto ormai l’ottavo giorno dell’Esaltazione della Croce, la beata Angela, non immemore delle promesse di Cristo, munita dei sacramenti, nell’anno trentottesimo della sua vita, 27 settembre, volò al cielo. L’iconografia di questa beata dovrebbe raffigurarla con la bisaccia sulle spalle alla maniera dei mendicanti, con pezzi di pane nelle mani, davanti a Gesù Cristo che le mostra le ferite. Movimenti di riforma a cura di Pier Giorgio M. Di Domenico INTRODUZIONE Esigenze riformatrici, sia sul piano comunitario che personale, hanno dato origine, all’interno dell’Ordine dei Servi, ai movimenti della Congregazione dell’Osservanza italiana, della congregazione eremitica, dell’Osservanza germanica. Un forte impulso al rinnovamento è venuto anche dalle monache e suore dell’Ordine. Il riferimento ideale di questi movimenti è sempre Monte Senario che, dopo la primitiva permanenza dei santi padri, conosce alterne vicende di decadenza e di rinascita. Perciò, in apertura di questa sezione delle Fonti, è collocato il discorso del priore generale Girolamo da Lucca al capitolo del 1533. Si riportano inoltre: per la Congregazione dell’Osservanza, l’Insitutio dell’Albrizzi e le Costituzioni; per gli Eremiti di Monte Senario, brani dal diario degli inizi scritto dal Ricciolini, dalle Costituzioni e da una lettera di Antonio M. Medici a Gabriele Boni. Nell’ambito del movimento femminile Anna Giuliana Gonzaga riveste certamente un ruolo di primo piano. Con lei sono ricordate suor Umiltà e Benedetta De Rossi, di cui si dirà più ampiamente nel quarto volume delle Fonti. I. Rinascita di Monte Senario Il discorso che il priore generale Girolamo da Lucca rivolge ai frati capitolari riuniti a Siena nel 1533, sull’urgenza di un restauro della vita religiosa a Monte Senario, resta un programma sempre valido di riscoperta delle radici originarie per un rinnovato impegno nella storia di oggi. da Annales OSM, II, 107-108 Il pio e saggio Generale [Girolamo da Lucca], vista la rovina che aveva travolto il sacro Monte Senario in seguito a un terremoto di insolita gravità, se ne lamentò con lacrime e parole davanti ai Padri del Capitolo [generale, Siena maggio 1533]: Voi sapete, stimatissimi padri, che il sacro Monte Senario è la santissima origine di questa nostra comunità. Da quando sette illustri uomini della nobiltà fiorentina, mossi dal divino volere, hanno dato inizio al nostro Ordine della Beata Vergine, Monte Senario è stato sempre rifugio e asilo di coloro che hanno abbracciato con grande amore la disciplina regolare. E a voi certamente non sfugge che quel monte sia stato santificato dai sacrifici dei nostri Beati, i cui corpi ivi riposano, e nobilitato dalla lunga penitenza del beato padre nostro Filippo insieme alla testimonianza di una fonte miracolosa. Con le sante leggi del p. Antonio da Siena69 e con molti edifici ad opera della famiglia della Stufa è stato restaurato una seconda volta. Ora poi, forse per colpa nostra, lo vedete crollato e distrutto fin dalle fondamenta, così che giustamente possiamo lamentare e piangere che la corona del nostro capo sia caduta, che sia venuto meno l’asilo di chiunque cerchi la perfezione religiosa, che a nulla sia stata ridotta la speciale dimora della vera e serena osservanza di tutto il nostro Ordine. Perciò non sembra opportuno che davanti a tutto l’Ordine debba passare sotto silenzio il compito per noi più grave e urgente, quello cioè di restaurare il Senario, né che io debba annoiarvi esortandovi con molte parole, dal momento che già la cosa in sé si raccomanda a buon diritto a tutti voi. A questo restauro, però, sembrano elevarsi due formidabili ostacoli: la povertà dell’Ordine e i vari contrasti di tutto l’Ordine e le membra ormai divise di moltissime Congregazioni. Ciascuno, pensando a sé e volendo cercare soltanto le proprie cose, poco o niente si preoccupa delle cose degli altri. Ma, o Dio immortale!, chi di voi potrebbe ritenere il sacro Monte Senario una realtà estranea e non una realtà che gli appartenga? Se infatti consideriamo una qualsiasi riforma del nostro Ordine, chi di voi non riconoscerà che da Monte Senario è iniziata? Chi non ammetterà che il Senario è la casa comune di coloro che desiderano piamente e santamente una vita religiosa e solitaria? La causa è dunque comune e la rovina è comune; c’è bisogno di una riparazione comune per la salvezza comune di tutti. Credo che se qualcuno contesta questa mia esortazione, debba ritenersi come nemico dell’intera famiglia del nostro Ordine. A voi dunque, Vicario e Commissario e altri Ufficiali, a voi, Definitori di questo Capitolo generale, rivolgo la mia preghiera perché con la vostra saggezza affrontiate così grave disastro e con il vostro consiglio questa nostra tanto grande rovina. Non vi spaventi e non vi distolga dall’opera di restauro la generale povertà di tutti noi; sosterrà infatti l’impresa il generoso Iddio, la sosterranno i benefattori e i nostri amici, la sosterrà la nostra patrona, la Vergine gloriosa, che mai è venuta meno. Pongo infine davanti agli occhi questa sola cosa: abbiamo ricevuto sul Monte Senario, per elargizione della gloriosa Madre di Dio, il santo abito che portiamo; la memoria di così grande beneficio ci spinga ad affrettarci a restaurare questo santo luogo, altrimenti non potremmo evitare il disonore di essere stati enormemente ingrati. 69 Per fra Antonio Salvani da Siena, primo priore di Monte Senario restaurato (1404) e morto nel 1421, cf. Fonti storico-spirituali, II, p. 55, 62, 89,90, 99, 113, 123, 124, 125. II. Congregazione dell’Osservanza Per la documentazione relativa alle origini e allo sviluppo della Congregazione, si veda il secondo volume delle Fonti storico-spirituali OSM e la sezione Fonti documentarie e narrative di questo terzo volume. 1. Filippo Albrizzi Per la documentazione a lui relativa cf. Fonti documentarie e narrative in questo volume III/1. Inizio della Congregazione dei Servi della Beata Vergine Osservanti edizione: P.M. SOULIER, Institutio Congregationis Fratrum Servorum Beatae Mariae Observantium, in Monumenta OSM, III, Bruxelles 1899, p. 81-96 Fra Filippo Albrizzi da Mantova, vicario generale della Congregazione dei Servi della Vergine dell’Osservanza, saluta i suoi confratelli. È vergognoso, carissimi fratelli, che un ricco ignori le sue ricchezze e possieda una gemma di cui non conosce il valore prezioso. Noi, come del resto tutti i religiosi, siamo in questo mondo più ricchi degli altri e possediamo una gemma per acquistare la quale ognuno dovrebbe vendere tutto ciò che ha e fare ogni sforzo per procurarsela. Questa è la professione dello stato della nostra vita e del chiostro, della quale nulla può essere ritenuto giustamente più ricco, nulla più desiderabile. A ragione sono da chiamarsi ricchezze quelle con le quali possiamo raggiungere nell’eterna beatitudine l’atrio del paradiso; più preziosa di ogni altra deve essere ritenuta quella gemma il cui splendore e luce rifulge davanti all’eterno Re. Noi ci troviamo in quella condizione degli esseri viventi che non soltanto ci porta alla beatitudine celeste, ma fa sì che già in questa vita siamo beati. Che cosa infatti è più beato, che cosa più conforme alla natura razionale del fatto che lo spirito, nel tempo in cui è celato dalla carne, viva per suo proprio potere e reprima le passioni sfrenate del corpo? La nostra dignità, cioè di noi uomini, risulta solo dal fatto che si conserva integro l’ordine del bene e della giustizia con cui freniamo i piaceri corporali con le briglie e il potere della ragione; e, sotto la guida della virtù, in questo cammino della nostra vita mortale progrediamo in modo da essere certi di giungere alla fine, dove si apre il passaggio alla vita di gran lunga più felice. Certo è difficile che rimangano al sicuro coloro che dalle tempeste del mondo sono sbattuti giorno e notte contro gli scogli molteplici dei peccati e che mille occasioni stimolano continuamente alla colpa. Noi abbiamo sottratto la nostra vita a tutto quello che impedisce la libertà dello spirito; e perché nessuno possa mai deviare dal retto sentiero, abbiamo lasciato che il nostro volere sia diretto dall’autorità di un altro e i nostri padri hanno stabilito leggi e norme del vivere nel chiostro, redatte in una mirabile disposizione e senza alcun difetto, così che ciascuno, con la loro guida, è in grado di ottenere, nel cammino di questa vita mortale, la sicurezza di giungere facilmente al porto della beatitudine. Cerchiamo, dunque, fratelli carissimi, nell’osservanza delle nostre leggi, di non condannarci come servi inutili; e tutti i nostri pensieri siano impegnati in modo che il giusto Giudice non ci rimproveri di aver mancato in qualche cosa; per poter far questo, aiutiamoci gli uni gli altri con preghiere vicendevoli. State bene nel Signore. Mi è anche gradito raccontare gli inizi della nostra Congregazione, dal momento che prima si è parlato, il più brevemente possibile, del fondamento di tutto l’Ordine. E ciò opportunamente per il fatto che dobbiamo preoccuparci delle cose nostre, per quanto piccole possano essere, come i singoli si preoccupano delle proprie cose. Penso che sarà graditissimo ai nostri fratelli, quando saranno giunti a tal punto di conoscenza che potranno conoscere a perfezione l’origine e il motivo della loro istituzione e rispondere a quanti faranno domande su di essa, poiché, lo sapete, non c’è nulla che tolleriamo con animo meno sereno che ignorare l’inizio della propria famiglia. Ci chiediamo per qual ragione sia successo che nella maggior parte degli ordini dei frati sia stata attuata una separazione, e quelli che si sono separati dagli altri vivano tuttavia con maggiore profondità e osservanza alla stessa maniera e sotto la protezione di un medesimo patrono. Il motivo è questo: noi sappiamo che qualsiasi istituzione religiosa ha posto il suo fondamento nella mirabile carità dei fratelli e nell’osservanza somma delle leggi; solo dall’amore verso Dio e dal disprezzo dei beni mondani erano animati quegli ottimi padri che fin dall’inizio formarono nella religione cristiana comunità di fratelli che chiamiamo ordini. Lasciati i genitori, tenute in nessun conto le ricchezze, disprezzata la libertà, certuni si costrinsero nella strettezza di un chiostro non per altro motivo, se non perché, vivendo con un solo spirito nell’osservanza dei precetti, trionfassero sulla carne. È successo poi che, con il passare del tempo, - infatti siamo sempre inclinati al male e procediamo su un terreno viscido – quell’amore fervente dei padri e l’ardore della religione si facesse più tiepido negli animi dei nipoti e poco a poco perdesse il suo primitivo calore e quelli venuti dopo non stessero più in quella semplicità di vita e di costumi e nell’osservanza delle leggi, in cui una volta si viveva. E quanto più si andava avanti, tanto peggiore diventava la gioventù, tralignando dalla perfezione dei padri, e divenendo di giorno in giorno licenziosa, dalla dignità religiosa cadeva nel modo di vivere dei profani. Per questa ragione i luoghi dei monaci di san Benedetto, dal momento che i sacerdoti venivano meno per corruzione di vita e di dignità, si allontanarono dalla purezza delle origini; e infine, cacciati via i monaci, vescovi, cardinali e altri, non insigniti dell’abito di Benedetto, succedendo al loro posto, appoggiandosi sull’autorità apostolica, rivendicarono a sé i beni dei conventi. Questo non sarebbe mai accaduto, se fossero rimasti integri la vita e i costumi dei monaci. È facile osservare il fenomeno anche nelle regioni oltralpe. Poiché in Francia, in Germania, e nella Britannia minore e maggiore, gli abati e i monaci di san Benedetto si comportano non con minore licenza dei profani, come se non fossero insigniti da nessun grado di religione. Nella sola Italia, però, come credo, le abbazie dei monaci sono state ricondotte a un’ottima condizione e ordinamento di vita; qui, conservate santamente e secondo le norme le leggi del chiostro, i monaci vivono con grandissima soddisfazione degli uomini; avverrà forse che per riformare i conventi all’estero siano inviati dall’imperatore e dai re. Non c’è nessuno infatti che pur vivendo male non desideri che i religiosi con una vita più dignitosa e uno stato più osservante superino i profani. Non diversamente penso sia avvenuto negli altri Ordini di sacerdoti: mentre essi si andavano allontanando poco a poco da una vita integra e giusta, c’erano in mezzo a loro padri più santi, i quali mal tollerando la decadenza della religione, erano grandemente rattristati dalla perdita della primitiva perfezione. Non riuscendo a sollevare l’Ordine decaduto dall’antica santità, o perché forse erano in minoranza o perchè superiori erano le forze della maggior parte di quelli che avevano deviato, stabilirono di provvedere almeno a se stessi e di sottrarsi al modo di vivere degli altri per vivere con i padri più onesti nell’osservanza delle leggi. Vagliato questo pensiero, moltissimi, avendo un altissimo concetto dell’integrità dell’Ordine, fatto un patto, si separarono dal gruppo degli altri e, pur conservando la professione e l’abito del medesimo Ordine e la protezione del santo, si trovarono da soli un chiostro in cui, come pecore separate dai capri, potessero vivere con animo più incontaminato e puro. Così in questa nostra epoca, dall’Ordine di san Benedetto, Domenico, Francesco, Agostino e del monte Carmelo ci sono quelli che, separatisi dagli altri che vivono licenziosamente, hanno creato una congregazione di moltissimi frati, che chiamano Osservanza, e che con una più rigorosa osservanza delle leggi, senza proprietà privata, coltivano lodevolmente la vigna del Signore. La nostra età, poi, è giunta ad attuare una ulteriore selezione da quelli che antecedentemente per una maggiore osservanza si erano separati dagli altri frati del proprio Ordine, per il desiderio di un’osservanza ancora più stretta. Ma la natura dell’uomo è sempre incline al male e non riesce a rimanere sempre in piedi in questo correre rischioso che è la vita; avverrà con lo scorrere del tempo – Dio non voglia! – che gli Ordini abbiano bisogno di una nuova riforma: un’eventualità che prevedo per il fatto che qualsiasi Ordine ha avuto i suoi inizi sotto il segno di una felice speranza e il desiderio grandissimo di osservare leggi e norme; ma la fragilità umana non è stata capace di perseverare a lungo in questa integrità di vita. Ma basta parlare di ciò. Nostro compito è quello di adoperarci per dare incremento, con una vita regolare, alle virtù e ai costumi, e cercare di sostenere gli altri che o per ignoranza o per condizioni di maggiore debolezza deviano dal retto sentiero, perché quelli che verranno in seguito non si dolgano di noi come se da noi stessi abbia avuto origine la rovina, causa negli altri di caduta dall’integrità della vita e scandaloso disonore che macchia la purezza della religione. Anche per questa ragione furono gettate le fondamenta della nostra Congregazione. Infatti con felice auspicio, sotto la protezione della beatissima Madre, i sette padri fondarono il nostro Ordine, come è stato detto; ma presto, dopo un certo tempo, poiché a poco a poco ci si era allontanati dalle antiche istituzioni e dalla ferma osservanza delle leggi, nell’anno 1411 dall’incarnazione del Signore, il padre fra Antonio da Siena, primo fra tutti, cominciò a considerare nel suo animo che non sarebbe stato estraneo alla ragione e al retto modo di vivere se, fatta la scelta di buoni padri, si separassero dalla comunanza degli altri, e abitando insieme il chiostro, cercassero di perseverare con tutte le loro forze nel vigore dell’osservanza. Era allora priore generale - così tra di noi chiamano la carica più alta - di tutto l’Ordine Stefano da Borgo, teologo e personaggio insigne; ottenuto da lui il permesso, Antonio da Siena, dopo aver aggregato altri compagni al progetto, partì per dimorare su Monte Senario, dove furono gettate le fondamenta della nostra religione. Qui sotto il titolo della vera osservanza, in un culto fervoroso, con norme severe, coltivavano la vigna del Signore. Si trovavano in quel luogo Antonio da Siena, Pietro da Firenze, già sessantenne, Francesco da Forlì, Alessio da Borgo, Antonio da Perugia, Gaspare da Firenze, personalità notevoli per l’età matura e varietà di cultura; ma soprattutto portavano in cuore Dio e la dolcissima Madre; nulla di impuro, nulla che offuscasse la dignità religiosa, appariva nelle loro parole o azioni. Dedicavano ogni sforzo a digiuni, astinenze e veglie e progredivano velocemente nell’osservanza delle leggi. Con questo modo di vivere si giunse all’anno 1441, sotto il governo di un priore generale, cui obbedivano in tutto. Ma in questo tempo per intervento e indulto di papa Eugenio IV i frati dell’Osservanza furono sottratti dal potere e dall’autorità del priore generale; in quell’anno anche il convento dell’Annunziata in Firenze fu dato agli Osservanti: qui fu celebrato il primo maggio il primo incontro di frati, che chiamiamo capitolo. In esso, con il consenso comune di tutti, Francesco da Siena, uomo di grande cultura letteraria e notevole per la profondità della vita e la saggezza nell’operare, fu eletto vicario generale. In quel convento moltissimo fu fatto tra i padri riguardo al modo di vivere e all’onestà della vita. Nell’anno 1442, ancora il primo maggio, si radunò il capitolo a Firenze e in esso i padri elessero vicario generale Antonio da Bitetto. Egli era vescovo della città di Bitetto, assai erudito nelle scienze sacre e dottore di diritto, il quale però tenne in poco conto la carica di così grande dignità e visse povero e umile tra gli Osservanti. Questo padre era il migliore di tutti, uomo di grande santità e devozione, e si rese assai benemerito della nostra Congregazione. Procurò alla Congregazione il convento di Brescia nell’anno 1427 e il convento di Vicenza nel 1435. 1443. Per la terza volta riunirono a Firenze il capitolo, e i padri confermarono come vicario generale il medesimo Antonio da Bitetto. 1444. A Brescia nel nostro convento di S. Alessandro celebrarono il capitolo, nel quale fu eletto vicario generale Alessandro da Val Camonica. Era uomo avanzato in età e predicatore illustre; incrementò moltissimo il lodevole stato della nostra vita. Ottenne per la Congregazione quest’anno il convento di S. Maria Novella, che ora, cambiato nome, chiamano S. Giacomo, dalla compagnia di san Giacomo istituita in quella chiesa, a Venezia nella regione che chiamano Giudecca. Il luogo è gradevole per la solitudine e l’abbondanza di giardini, molto adatto alla contemplazione. 1445. Celebrarono a Vicenza il capitolo nel nostro convento di S. Maria di Monte Berico, che dista mille passi dalla città, costruito sul monte, ridente per la mirabile dolcezza. In questo capitolo era presente il priore generale, Nicolò da Perugia; elessero come vicario Francesco da Firenze, uomo di estrema integrità. Egli acquistò il convento di Cremona nell’anno del Signore 1437. 1446. A Venezia nel convento della Giudecca celebrarono il capitolo, nel quale, per decisione di tutti, fu eletto vicario generale Cipriano da Firenze, uomo insigne per costumi e virtù. In quell’anno ricevette il convento di san Fiorenzo nella città di Perugia, insieme a un luogo del Bosco di Bacco, distante tre mila passi da Perugia sulla riva del Tevere. 1447. A Firenze, sul Monte Senario, fu eletto vicario generale Bartolomeo Bovici da Faenza. In quell’anno il convento di san Barnaba in Mantova fu aggregato alla Congregazione; e nel medesimo anno i nostri padri lasciarono il convento dell’Annunziata in Firenze sotto la cura del priore generale. 1448. A Vicenza confermarono il medesimo. Quanto è stato sopra scritto, è stato ricavato da un’antica scrittura, in cui riguardo all’epoca posteriore nulla assolutamente ho trovato scritto. Né dai nostri più anziani ho potuto sapere circa le cose fatte in questa età. Mancano dunque ventuno anni dei quali nulla di autentico ho da addurre. Se qualcuno potrà giungere alla conoscenza di questi fatti, li aggiunga tutti a queste nostre notizie, e se troverà errori o omissioni, corregga pure e integri. 1469. Luca da Firenze nel convento di Cremona è eletto vicario generale. In quell’anno i nostri frati hanno acquisito il convento di santa Maria in Piacenza presso il Foro. 1470. Il medesimo Luca da Firenze viene confermato per una seconda volta vicario generale nel capitolo riunito nel convento della Giudecca. 1471. Battista da Cremona nel capitolo celebrato a Vicenza viene eletto vicario generale; era persona di ottimo giudizio, di buoni costumi e sapiente nell’agire. Quest’anno accettarono il convento di san Paolo in Padova presso il ponte dei mulini. 1472. Il medesimo fra Battista da Cremona è confermato. Quest’anno fu di nuovo riunito il capitolo dei frati nel nostro convento di Santa Maria dei Servi a Forlì; vi partecipò il priore generale Cristoforo da Giustinopoli, nel mese di dicembre; vi fu eletto vicario generale Cristoforo di Gambara, bresciano, uomo lodatissimo da tutti, di grande equilibrio e di non mediocre cultura. Egli svolse l’ufficio per 18 mesi. 1473. Senza convocazione di capitolo rimase vicario generale il medesimo Cristoforo Gambara, che tra le altre doti del suo nobile animo si segnalava nella predicazione ed era ritenuto un eloquente oratore sacro. 1474. A Rovato nel convento dell’Annunziata sopra Monte si fa capitolo: vi viene eletto all’unanimità vicario generale Onorio da Bergamo, portato più all’azione che alla dottrina. 1475. Giacomo Porziano di Brescia, teologo e canonista, di cultura non inferiore alla santità, nel capitolo radunato a Vicenza fu eletto vicario generale. Ebbe, tra le altre doti di eccelsa virtù, quella di disputatore acutissimo. Quest’anno i nostri frati, che dimoravano nel nostro convento di Giustinopoli, morirono sotto l’infierire della peste e il convento fu lasciato ai conventuali. 1476. Paolo da Chiari, dottore parigino, predicatore esimio e uomo di somma santità, nel capitolo celebrato a Bergamo viene eletto vicario generale. Egli costruì i conventi di Pesaro, cioè Santa Maria delle Grazie in città presso la rocca, e il convento di Santa Maria di Monte Granato vicino alla città due mila passi. Fu eletto con il favore dei cittadini vescovo di Pesaro; ma rinunciò alla dignità, per vivere povero nella religione. Visse oltre i cento anni in una tale onestà di vita da essere giustamente ritenuto da tutti un santo. Tra le altre cose che non senza meraviglia di tutti mostrò ancora vivo come segni della sua santità, quando cominciò a star male predisse il giorno, l’ora e il modo della sua morte; al suo sopraggiungere, offrì ai viventi la prova massima di santità. In questo anno la Religione acquistò il convento di Santa Maria dei Servi a Venezia, che prima era tenuto dai conventuali, e il convento di Santa Maria di Fontana di Casalmaggiore, il convento di San Rocco in Castro di S. Giovanni, il convento di Pandino, il convento di Montecchio in territorio bergamasco, e il convento della città di Belluno. 1477. Nel capitolo celebrato a Venezia, Giovannello da Brescia fu eletto vicario generale. Fu uomo di santissima semplicità e di massima osservanza; osservò con tale precisione ogni comandamento di Dio e della religione da ritenere colpa gravissima l’essersi concesso senza permesso anche poco. Tra le altre iniziative della sua mirabile osservanza, ovunque si trovasse di notte, sia nei nostri conventi che fuori, negli ospizi o in case di nobili, si alzava sempre al canto del gallo a lodare Dio. Fu innalzato a forza alla carica; avendola a lungo respinta, finalmente, dietro le pressanti preghiere dei padri, si sottopose a questo carico, che assolse con saggezza. Visse oltre i cento anni; alla fine a Brescia si addormentò nel Signore. 1478. Si radunò a Mantova il capitolo dei frati dove fu eletto vicario generale Pietro da Cremona. Fu uomo di grande bontà e osservanza e visse a lungo fino all’estrema vecchiaia nel convento di Casalmaggiore. Quest’anno fu preso sotto la giurisdizione della Congregazione il convento di Senigallia e di Ancona; allo stesso tempo, per il clima insalubre, i nostri frati lasciarono il convento di San Nicola di Roma: infatti quasi tutti che dimoravano lì erano presi da malattia incurabile o morivano. 1479. A Rovato fu celebrato il capitolo in cui fu eletto per la seconda volta vicario generale Onorio da Bergamo, di cui sopra è detto. 1480. Nel capitolo convocato a Brescia Girolamo Loda, bresciano, uomo di grande dottrina e predicatore illustre, fu eletto vicario generale. In quest’anno la Congregazione ricevette il convento di Santa Maria del Paradiso fuori le mura di Verona. 1481. A Padova si riunì il capitolo in cui fu eletto vicario generale per la seconda volta Giacomo Porciano, di cui s’è detto sopra. 1482. Nel capitolo celebrato a Brescia, fu eletto vicario generale per la terza volta Onorio da Bergamo. 1483. In Giudecca è celebrato il capitolo, in cui fu eletto vicario generale Battista da Cremona, predicatore erudito. 1484. Si celebra il capitolo a Vicenza. Qui è scelto vicario generale Gaudioso da Bergamo, teologo, notevole per ogni genere di virtù e predicatore illustre. 1485. Girolamo Franceschi da Venezia, teologo, fu eletto vicario generale nel capitolo fatto a Forlì. Fu uomo di grande ingegno e di bell’aspetto, oltremodo versato in quel tempo nel compito della predicazione e capace di instaurare legami di amicizia con nobili. Ma si adoperò più a conservare l’autorità e la dignità che a dirigere la vita della religione. Infatti allora la Congregazione cominciò a deviare un poco dall’antica integrità. Ottenne per la Congregazione il convento di Santa Maria delle Grazie di Udine, mentre si trovava come sacro oratore nella chiesa cattedrale. 1486. A Brescia avviene il capitolo dei frati dove fu eletto vicario generale il baccelliere Lorenzo da Piacenza. Era uomo di buona cultura e predicatore egregio. Qui i padri avrebbero desiderato dare l’incarico a Onorio di Bergamo; ma giunto egli ormai alla fine dei suoi giorni, al posto suo fu eletto Lorenzo. Anch’egli morì molto giovane; da lui, se la vita non fosse venuta meno, ci si aspettava dai padri della Congregazione moltissimo onore, considerato il felice auspicio della sua vita. 1487. Si fa capitolo a Venezia nel convento dei Servi. Fu eletto vicario generale Grazioso da Bergamo, uomo di estrema esemplarità e di somma eloquenza. In quel tempo veniva al capitolo Gaudioso da Bergamo, favorito dalle voci che lo davano eletto; ma sorpreso dalla febbre a Treviso, dopo alcuni giorni migrò a Dio. 1488. Il raduno dei frati è celebrato a Cremona: qui viene fatto vicario generale Bonaventura da Forlì. Egli era di statura molto bassa e di esile corporatura, ma di media cultura. Nel suo tempo fu ritenuto nella predicazione un altro Paolo e ovunque era sempre tenuto in grande stima. Era un padre di grandissima santità, portava la barba incolta; a piedi nudi sopportava il caldo dell’estate e il gelo dell’inverno e il freddo estremo del ghiaccio; mai, in alcuna stagione, portò calzature al punto che si potevano vedere spesso nei piedi ferite che mandavano fuori sangue. Nel vestito fu assai dimesso, in nessun momento mangiava carne, mai bevve vino, dormiva sulla nuda terra o talora sopra tavole: faceva insomma tutto quello che vedeva utile per domare il corpo. Ancora vivente ottenne da Dio che avvenissero moltissimi miracoli per le sue preghiere. Si dedicava sempre alla predicazione e alla contemplazione più che adoperarsi nell’amministrazione delle cose pratiche, a meno che non fosse stato costretto dai padri ad assumere il peso di una carica. Essendo venuto a sapere di essere stato eletto a una dignità, subito, udita la cosa, meditò la fuga; ma trattenuto dai frati non poté non adeguarsi al loro desiderio. Morì a Udine e lì nella chiesa di Santa Maria delle Grazie per un certo tempo divenne noto per miracoli. Andrea Loredan, essendo governatore di quella città a nome di Venezia ed essendo agli estremi per una grave malattia che l’aveva colpito, ebbe la grazia di guarire per l’intercessione del beato Bonaventura; per la grazia ricevuta trasportò a Venezia il suo corpo integro, che con sommo onore collocò, splendido per miracoli, nella chiesa dei Servi. 1489. Si fece capitolo a Mantova; vi fu eletto vicario generale Girolamo Franceschi da Venezia. Intervenne a questo capitolo Antonio Alabanti di Bologna, priore generale di tutto l’Ordine. In questo capitolo si adoperò per riportare la Congregazione sotto la sua giurisdizione e fare un solo ovile cui fosse a capo un solo pastore e non ci fosse alcuna differenza tra i nostri e i frati dell’Ordine. Questo scopo, per il fatto stesso che sia lontano dal giusto e che in nessun modo possa essere approvato che quanti si trovano nell’Osservanza vengano sottoposti all’autorità dei conventuali, egli non poté assolutamente ottenerlo. Deluso nella sua speranza, pur avendo tentato tutto, se ne andò senza aver realizzato il suo desiderio, mentre la nostra Congregazione rimaneva nella sua libertà sana e salva. 1490. Si fa il capitolo a Cremona dove viene eletto vicario generale Lorenzo da Piacenza. 1491. Nel capitolo celebrato a Brescia viene eletto vicario generale Battista da Cremona. Questi, arrivato da Roma a Perugia in quest’anno nel mese di settembre, colpito qui da grave malattia, migrò dal carcere di questa vita al Signore. 1492. La riunione dei frati ebbe luogo a Vicenza e da essa fu eletto vicario generale Girolamo Loda di Brescia il quale nel medesimo anno, nel mese di luglio, chiuse i suoi giorni. Al suo posto fu sostituito da Girolamo Franceschi. 1493. Grazioso da Bergamo fu eletto per la seconda volta vicario generale nel capitolo celebrato a Bergamo. 1494. Nel capitolo celebrato a Vicenza fu eletto vicario generale per la terza volta Girolamo Franceschi da Venezia. Questo capitolo fu terminato in una notte soltanto e tutti di prima mattina partirono. Girolamo si recò a Roma, dove, morto il priore generale di tutto l’Ordine, cercava con l’aiuto del cardinale di San Marco di essere eletto priore dell’Ordine. Non essendogli riuscito di ottenere tale carica, fu fatto vescovo di Coronea. Morì nell’anno del Signore 1513 e fu sepolto a Venezia nella nostra chiesa. Compose sermoni al popolo per tutta la quaresima, il cui originale, scritto di sua mano, è a Udine nel nostro convento, e io l’ho visto. 1495. Nel capitolo radunato nel convento della Giudecca fu fatto vicario generale Filippo Cavazza veneto. Svolse la somma autorità nella Congregazione per alcuni anni, mettendo a completa disposizione i suoi buoni costumi e le sue virtù. Era persona illetterata, ma assai capace nell’attirare gli animi dei frati. 1496 A Padova ha luogo il capitolo in cui è eletto come vicario generale Pietro da Treviso, teologo, predicatore assai valido, portava la barba. 1497. Avviene a Piacenza il capitolo e qui è eletto vicario generale Stefano da Piacenza, teologo e egregio oratore sacro. 1498. Fu fatto capitolo a Brescia e in esso fu eletto vicario generale per la seconda volta Filippo Cavazza Veneto. In quest’anno, lamentandosi moltissimi del suo governo, tentarono di deporlo dall’ufficio, ottenuta una lettera dalla Sede Apostolica con cui furono eletti tre visitatori, alla cui decisione veniva rimesso tutto. Poi però, pacificatasi la situazione, rimase in carica e in autorità. Autore dell’agitazione fu Antonio da Piacenza che, ricevuta la promessa di una carica futura, non eseguì la lettera apostolica. 1499. Antonio della Porta piacentino, nel capitolo celebrato a Rovato, fu eletto vicario generale. Fu uomo di mediocre cultura, ma oltremodo eloquente e saggio nell’agire. Partecipò a questo capitolo Taddeo Tancredi da Bologna, priore generale di tutto l’Ordine, il quale fu accolto da tutti con somma carità e così anche si mostrò verso tutti di grande umanità e benevolenza; se ne partì con grandissima soddisfazione dei nostri frati. 1500. Si fa capitolo a Vicenza, dove è eletto vicario generale Benedetto Mariano veneto, teologo, personalità assai valida per la vita osservante e per la profonda dottrina, ottimo predicatore ma soprattutto attaccatissimo all’Ordine. In quest’anno il convento di Mantova fu colpito da un incendio, ma presto fu riportato a una forma migliore con una copertura in mattoni. 1501. Fu celebrato il capitolo a Brescia. Filippo Cavazza veneto è fatto per la terza volta vicario generale. Non potendo i padri sopportare oltre la sua slealtà e la cattiva amministrazione della Congregazione, insorsero tutti insieme contro di lui per ottenere la libertà; con il loro consenso, il priore generale Taddeo Tancredi, invitato, si recò a Venezia per liberare la Congregazione dalla tirannide. Filippo, avendo saputo il suo arrivo e il motivo di esso, rifiutò di attenersi al diritto; si ritirò dunque dal convento, sperando con l’aiuto anche di esterni ossia di secolari, di rimanere nella dignità della carica con l’autorità della Curia romana. Frattanto il priore generale, esercitando il suo ufficio, depose in perpetuo esilio dalla Congregazione Filippo Cavazza e i suoi seguaci , come apostati e inosservanti del diritto e stabilì, tra i maggiorenti, quattro visitatori che, con la piena autorità ricevuta, andassero per tutta la Congregazione e riportassero sulla retta via tutti quelli che fossero caduti dalla buona condotta; la loro autorità sarebbe durata fino al tempo della riunione capitolare. In questo tempo Filippo Cavazza trafficò moltissimo per essere riaccolto nella Congregazione, ma i suoi tentativi furono tutti frustrati. Infine morì assai miserevolmente a Padova, tra i conventuali. 1502. Nel capitolo tenuto a Venezia fu eletto vicario generale Clemente da Mantova, teologo. Fu persona di buona cultura, famosissimo come predicatore e valente disputatore. Dopo l’espulsione di Cavazza, il regime di vita cominciò a ritornare nella sua integrità e tutta la Congregazione sembrò ravvedersi per un certo improvviso mutamento. A questo punto molti giovani, cui era stata tolta la facoltà di studiare, cominciarono a dedicarsi alle belle lettere così che in breve tempo la maggior parte raggiunse la più alta perfezione; con questi auspici si cominciò a nutrire buone speranze circa il buon esito della Congregazione e i padri non si sentirono più frustrati nella speranza. 1503. A Mantova si celebra il capitolo, in cui disputarono Clemente da Mantova e Luigi Serafino veneto, con sommo onore della Congregazione. Fu eletto vicario generale Marino Baldo veneto, teologo dottissimo e in questi tempi il più degno predicatore di tutti. Costruì dalle fondamenta il convento di Ferrara con grandi e felici auspici. 1504. Nel capitolo radunato a Padova fu fatto vicario generale Benedetto Mariano Veneto, teologo. In questo anno ottenne dal pontefice massimo Giulio II una bolla sul modo di eleggere tra di noi i magistrati per votazione segreta; tale modo fu subito inserito nelle Costituzioni della nostra Congregazione, dove si tratta della celebrazione del capitolo e della elezione degli ufficiali. 1505. La riunione dei frati avviene a Verona; qui viene eletto vicario generale per la seconda volta Pietro Novello di Treviso. Scaduto il tempo della sua carica, disprezzò l’Ordine e ottenuta dal Pontefice una abbazia, nel giorno in cui stava per uscire, morì nel nostro convento di Padova. Egli stesso, morendo, disse che la cosa si era manifestata in modo miracoloso perché ciascuno fosse avvertito di restare nella propria vocazione, come ha insegnato l’Apostolo70. 1506. Luigi Scaramella veneto, teologo, è scelto come vicario generale nel capitolo celebrato a Bergamo, uomo esperto nelle lettere e nell’attività di predicatore. In questo anno tra i conventuali insorsero quelli che, ottenuta una lettera dal Pontefice, si davano da fare per rivendicare il convento 70 cf. 1Cor 7, 20. di Forlì, una volta sotto la giurisdizione dei conventuali, e ora sotto la nostra. Ma con l’aiuto del diritto e con la sollecitudine e l’intelligenza del vicario Luigi, la nostra Congregazione non solo rimase in possesso, ma fummo confermati dal senato forlivense e dalla Sede Apostolica possessori legittimi e a buon diritto del convento. 1507. Celebrarono il capitolo a Udine, dove fu eletto vicario per la seconda volta Stefano da Piacenza, teologo. 1508. A Piacenza ha luogo la riunione dei frati con così grande plauso dei cittadini e abbondanza di doni, che a tutti appariva cosa mirabile. Tennero dispute Angelo da Arezzo, teologo insigne, che dall’Ordine era passato alla Congregazione, e Filippo Albrizzi da Mantova, teologo. Risposero Deodato da Brescia e Giacomo di Calvisano, baccellieri. Fu eletto vicario generale Giovanni Pietro Leono veneto, teologo e predicatore piacevolissimo. 1509. Clemente Bonardo mantovano, teologo, fu eletto per la seconda volta vicario generale nel capitolo fatto a Mantova. In questo anno era venuto dalla Francia, dove per quattro anni a Parigi s’era dedicato allo studio delle scienze sacre, e nella quaresima seguente tenne a Roma la predicazione nella chiesa di S. Lorenzo in Damaso. 1510. Clemente Bonardo mantovano fu di nuovo confermato vicario generale nel capitolo riunito a Casalmaggiore. Egli nel mese di novembre, mentre il pontefice Giulio II si trovava a Bologna per l’assedio di Mirandola, morto Ciriaco [Borsani] priore generale di tutto l’Ordine, confidando nell’aiuto di Francesco IV Gonzaga marchese di Mantova, allora dimorante a Bologna con il Pontefice, fu fatto vicario apostolico sopra tutto l’Ordine. Nessuno della nostra Congregazione prima di lui rivestì questa carica. 1511. Ha luogo a Forlì il capitolo nella casa della Congregazione; e fu concesso che anche il capitolo generale di tutto l’Ordine fosse celebrato insieme in quel luogo. Fu dunque questo il più celebre raduno di frati, nel quale era convenuto tutto l’Ordine, conventuali e osservanti. Da una parte e dall’altra si disputò; tra i conventuali disputarono Nicolò da Perugia, teologo, procuratore curiale, Girolamo da Lucca, teologo, Agostino da Salerno, teologo, Agostino da Firenze, teologo; della Congregazione disputarono Girolamo Castro da Piacenza, teologo, Girolamo da Mendrisio, teologo, Filippo Albrizzi da Mantova, teologo, Deodato da Brescia. In questo raduno Gerolamo Castro da Piacenza, teologo, fu fatto vicario generale, uomo secondo a nessuno per vastità di cultura e profondità di vita. Però Clemente da Mantova, della nostra Congregazione, fu fatto priore generale di tutto l’Ordine; cosa che i padri dell’Ordine, che aspiravano alla suprema carica, tollerarono assai a malincuore. Morì 19 giorni dopo aver assunto l’incarico; la sua morte improvvisa produsse stupore negli animi di tutti. Aveva allora 38 anni; la sua anima riposi felicemente nel Signore. Certamente sarebbe stato di grande vantaggio all’intero Ordine se, accompagnandolo la vita, avesse potuto realizzare quanto aveva stabilito nell’animo. Sentita la notizia della sua morte, tutta la città di Mantova fu colpita da grandissimo dolore e primo fra tutti il marchese che da lui si aspettava moltissimo riguardo alla riforma dell’Ordine. Con versi celebrarono il suo funerale moltissimi che erano stimati esperti per ingegno e arte del dire. Ma di lui basta; scorrono infatti le lacrime mentre scrivo. 1512. Nel capitolo radunato a Montecchio fu confermato nuovamente Girolamo Castro da Piacenza. In questo anno, nel mese di settembre, fu fatto a Roma il capitolo generale, in cui fu dato alla congregazione spazio per disputare: disputò tra i nostri, sotto Martino Ispano, teologo osservante, Deodato da Brescia e qui fu insignito meritamente della laurea di dottore dal priore generale Angelo da Arezzo. In questo anno per l’azione di Girolamo vicario generale la Congregazione ottenne in Roma il convento di S. Maria in Via; prima avevano infatti il convento di S. Nicola che fu lasciato per l’aria insalubre: lì i frati si ammalavano e morivano. 1513. A Cremona è celebrato il capitolo e viene eletto vicario generale Benedetto Mariano veneto, teologo. Partecipò a questo raduno il priore generale Angelo d’Arezzo che, conosciuta la brama di potere di certi frati, entrò in alleanza con loro per turbare la pace della Congregazione. Partito dunque per Roma, con il reverendissimo Antonio dal Monte, cardinale Papiense, protettore dell’Ordine, fece in modo che egli stesso, vista la lettera firmata da alcuni frati veneti, ottenesse due lettere dal sommo pontefice Leone X, di cui una concedeva al priore generale la libertà e la facoltà di visitare la Congregazione, l’altra riguardava la riduzione del convento di Venezia sotto la giurisdizione e l’autorità dei conventuali. Ottenute le lettere dalla Sede Apostolica, Angelo d’Arezzo venne a Venezia nel mese di luglio dove, spedite le lettere, convocò il vicario generale Benedetto, i visitatori Marino veneto e Girolamo da Piacenza, e il commissario dell’Urbe Filippo da Mantova. Si recarono da lui il vicario e i visitatori; egli, deponendoli dall’ufficio, li trattò scortesemente con un fare insolente e con il falso pretesto di riformare la Congregazione stabilì nuovi visitatori che invece avrebbero avuto bisogno di riforma. Tutta la Congregazione, all’udire quanto stava avvenendo a Venezia, insorse contro il priore generale, non volendo in alcun modo accettare il suo operato come un fatto deciso e compiuto ragionevolmente. Lasciarono Perugia Clemente Lazarono di Brescia, che lì era priore, il reggente Martino ispano di Aragona, ambedue teologi; questi, partiti per Roma, confidando nell’aiuto di moltissimi cardinali e di Alberto principe di Carpegna, ebbero per due volte un colloquio con il Sommo Pontefice per implorare aiuto in favore della libertà della Congregazione. Alla giusta richiesta diede il suo assenso il Pontefice Massimo, il quale subito parlò della cosa con Antonio dal Monte cardinale Papiense, reverendo protettore del nostro Ordine. Spedita una lettera dall’ottimo e giustissimo Protettore, furono fatti chiamare a Roma il priore generale e il vicario generale insieme ai visitatori. Qui l’affare fu trattato dal Protettore sotto ogni aspetto così che, per la benevolenza di un così valido responsabile e con il favore della giustizia, la Congregazione riportò vittoria e la calunnia dei malvagi fu sconfitta. Quelli che avevano tentato di turbare la libertà del nostro stato (nostrae reipublicae libertas), dimostrata la loro malignità, furono condannati a essere privati per un tempo definito di voce attiva e passiva. La Congregazione, invece, che poteva essere sconvolta da visite frequenti dei conventuali, con l’aiuto di sì grande Protettore fu portata a tale grado di sicurezza da non temere più da allora in poi sconvolgimenti del genere. Dal Pontefice Massimo e dal Protettore fu redatta a questo proposito una lettera che denunziava tutta la questione; il risultato fu che da questo sconvolgimento la nostra Congregazione ottenne il massimo vantaggio. 1514. Il teologo Clemente Lazarono di Brescia nel capitolo celebrato a Rovato fu eletto vicario generale. Come sopra abbiamo detto, egli lavorò moltissimo a Roma per difendere la libertà della Congregazione. Una personalità senza dubbio rara in ogni genere di virtù; tra le altre doti di natura e di animo fu oratore assai valido; per questa sua eloquenza nella chiesa di San Lorenzo in Damaso a Roma, che è luogo principale per la predicazione, e nella chiesa cattedrale di Genova riscosse grandissimo successo. In questo anno acquistò le bolle del convento di Santa Maria in Via, in Roma, che si conservano a Brescia nello scrigno delle tre chiavi. 1515. Si celebra il capitolo a Mantova con mirabile affluenza di popolo e abbondanza di mezzi. Tennero dispute il teologo Girolamo Castro da Piacenza, al quale rispose Fortunato da Brescia, il teologo Martino ispano da Aragona, al quale rispose il baccelliere Agapito da Bergamo, il teologo Girolamo di Mendrisio, il teologo Deodato da Brescia e a lui rispose Leonardo di Brescia. Vicario generale fui eletto io, Filippo Albrizzi da Mantova teologo, animato da grande affetto verso la Congregazione, ma di poca importanza quanto ad autorità; ho lavorato tuttavia secondo le mie forze per non perdere quanto sembrava conferire alla Congregazione onore e vantaggio. Con il consenso dei padri e di tutto il capitolo generale della Congregazione, abbiamo adattato le antiche costituzioni dell’Ordine alla nostra utilità di Osservanti, mutato quanto doveva essere mutato. Le abbiamo fatte ratificare e approvare con il favore e la benevolenza del nostro reverendissimo Protettore, ottenuta l’autorità dalla Sede Apostolica. Abbiamo ottenuto di celebrare quest’anno il giubileo in tutta la Congregazione e le case dei conventuali. Abbiamo anche supplichevolmente pregato il reverendissimo nostro Protettore perché provvedesse alla canonizzazione da parte del Santissimo Padre del beato Filippo da Firenze, cosa che egli fece. Ho composto in quest’anno l’inizio del nostro Ordine, l’istituzione della Congregazione e la vita del beato Filippo. Tutto questo è stato fatto con il voto e la collaborazione dei nostri padri, infatti senza di loro la mia meschina autorità avrebbe potuto fare ben poco. 2. Le Costituzioni dell’Osservanza Le Costituzioni della Congregazione dell’Osservanza sono in linea con le Constitutiones antiquae, con l’aggiunta di alcune constitutiones novae promulgate nel corso del Trecento o dai capitoli generali annuali della Congregazione stessa. Nell’edizione a stampa del 1516 si dichiara: «Se dovesse sembrare opportuno redigere costituzioni nuove, deve essere l’intero capitolo, a suffragio segreto, valutare se ammetterle o no. Non siano scritte insieme alle costituzioni antiche, ma si pongano separatamente in un volume, fino a che non siano state confermate ogni anno da tre capitoli» (cap. 21). L’edizione del 1516 si colloca nella fase di ripresa morale della Congregazione agli inizi del Cinquecento ed è l’espressione di quella “libertas” che l’Osservanza è riuscita a ribadire dopo le tensione del 151371. Con forte anticipo sull’Ordine, l’Osservanza stabiliva un testo legislativo la cui struttura seguiva l’edizione veneziana del 1503: sono gli stessi capitoli sulle riverenze alla Vergine (n. 1), sulla liturgia (n. 15), sulle usanze monastiche (n. 6-13), sull’ingresso nell’Ordine (n. 14-16), sull’itineranza dei frati (n. 17), sull’autorità e il governo (n. 18-30), sulle colpe (n. 31-36). Una nuova sistemazione ricevono i capitoli relativi all’autorità e al governo (XVIII-XXX). Alla vigilia del suo riassorbimento giuridico nell’Ordine, durante il governo del vicario generale fra Giuseppe Ferredi da Mantova (1567-1570), si realizzò una revisione del testo del 1516 per adeguarlo ai decreti del concilio di Trento. Nella lettera di promulgazione del 15 dicembre 1569, il cardinale protettore Alessandro Farnese riferisce il desiderio del papa Pio V che auspica una uniformità tra Congregazione e Ordine: un chiaro preannuncio della unificazione che il papa imporrà pochi mesi dopo, nel maggio del 1570. Il testo, stampato a Ferrara nel 1570, recepisce i documenti conciliari tramite soprattutto l’edizione analoga dell’Ordine del 1569. L’edizione del 1570 fu usata solo per convocare e condurre l’ultimo capitolo generale dell’Osservanza, a Mantova, il primo o tre maggio. Qui venne eletto l’ultimo vicario generale, il maestro fra Giovanni Maria Capella da Cremona. Pochi giorni dopo, a Cesena, a conclusione del capitolo generale dell’Ordine, fu letta la bolla di Pio V che sopprimeva la Congregazione. [Luigi M. De Candido] Cf. anche sezione Fonti documentarie e narrative in questo volume III/1. edizione: P.M. SOULIER, Constitutiones Congregationis Servorum Beatae Mariae Observantium, in Monumenta OSM, III, Bruxelles 1899, p. 10-50 I. Riverenze alla beata Maria. Ogni sabato e ogni mercoledì si celebri in convento la messa della beata Maria. Però il sabato la messa si canti con il Gloria e il Credo. E tutto il resto che deve essere fatto, si faccia in festa semidoppia, a meno che in quei giorni non ricorrano feste solenni o altre feste che non possono o non debbono essere tralasciate. E allora, se nel medesiomo giorno non possono essere cantate due messe, si celebrino in altri giorni della settimana, in modo che tuttavia la messa del giorno non venga esclusa, ma dal medesimo sacerdote che ha celebrato la messa del giorno, si dica la messa della beata Maria, e sia ascoltata da tutti i frati. La Vigilia de Domina nostra si dica ogni sera con le tre letture e i due responsori e dopo la terza lettura [si dica] la Salve Regina. Il venerdì però la si dica secondo il rituale festivo e si accendano due candele. L’ebdomadario prima dell’inizio di ciascuna ora, recitato segretamente il Pater noster, dica subito il versetto Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum, nel tono con cui dirà Deus, in adiutorium meum intende. E i frati rispondano Benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui Iesus. Anche il lettore, prima di iniziare la lettura, dica il saluto suddetto, cioè Ave Maria 71 cf. in questo volume p. 221-223 fino a fructus ventris tui Iesus incluso, eccetto nella lettura di compieta, nel capitolo di Preciosa e nel triduo pasquale. Ogni [frate] sacerdote quando non celebra la messa della beata Maria, ne legga [il formulario] dopo la celebrazione della messa del giorno. E se questa è la messa della comunità, i frati non se ne vadano ma da tutti sia ascoltata. Sia fatta sempre la commemorazione della beata Maria Vergine, con l’antifona, il versetto e l’orazione, nell’ora di vespro e di mattutino, eccetto le feste doppie. Del beato Agostino si faccia ugualmente la commemorazione con l’antifona, il versetto e l’orazione, nell’ora di vespro e di mattutino, eccetto le feste doppie e quando non vi sono messe per i defunti; ma nella messa, quando viene detta, si faccia commemorazione di lui con l’orazione A cunctis. L’antifona Salve Regina a conclusione di ogni parte del breviario e dopo la mensa in nessun tempo si ometta fuorché nel triduo pasquale. Questa antifona si canti anche ogni sera con grande devozione dopo la terza lettura della Vigilia se questa viene cantata, ma se essa non viene cantata, [l’antifona] si canti immediatamente dopo la compieta: a questo rito si ritengano in dovere di intervenire, sospesa ogni attività e prima che abbia inizio, tutti i frati che dimorano nel luogo, siano i priori o siano gli altri incaricati. E perché i frati non accampino scuse, venga suonata la campana. Ogni chiesa del nostro Ordine nonché l’altare principale siano fondati e consacrati in onore della Madonna, quando ciò si può fare agevolmente. L’ufficio della Madonna ogni volta che si omette in ragione di grandi solennità prescritte nel rito romano, da parte dei frati con devozione venga detto due a due oppure tre a tre come a loro pare meglio. Ogni sabato si celebri l’ufficiatura della beata Maria in forma festosa. L’ufficio di Nostra Signora sia recitato in coro dai frati con l’ufficio doppio minore, detto prima l’ufficio doppio. Delle feste, che ricorrono nell’ottava della Natività della beata Maria Vergine, non si fa niente, ma siano celebrate dopo l’ottava, eccetto la festa della Santa Croce. Si celebri sempre e ovunque l’ufficio doppio nella festa di sant’Anna, madre della beata Vergine Maria; ugualmente per sant’Agostino e, se ricorre una festa nell’ottava di sant’Agostino, si faccia la festa con la commemorazione dell’ottava; ma nel giorno dell’ottava si celebri l’ufficio doppio minore. Inoltre di san Giuseppe, sposo della gloriosa Vergine Maria, la cui festa si celebra il 19 marzo, si faccia similmente ufficio doppio. Nessuno ardisca modificare alcunché nell’ufficio divino rispetto a quanto sopra è stato detto aggiungendo o sottraendo qualcosa senza licenza del priore generale. II. Le celebrazioni liturgiche La messa e gli altri divini uffici siano celebrati secondo la tradizione della curia romana, aggiunti sempre gli ossequi alla beata Maria vergine descritti sopra. Avvicinandosi l’ora delle varie parti del divino ufficio si suoni per due volte la campana, per tre volte invece solo prima di mattutino e di vespero nei giorni di festa. Tutti i frati speditamente al primo tocco della campana, sospesa ogni occupazione, si preparino di modo che al secondo tocco della campana con consapevole premura, ordinatamente e compostamente entrino in chiesa. E insieme e ininterrottamente tutti rimangano alla messa e ai divini uffici che si celebrano secondo l’uso finché essi non siano terminati. I [frati] laici poi saranno tenuti a venire in chiesa per mattutino, la messa e i vesperi e ivi restare finché non abbiano terminato le proprie pratiche. Debbono dire in luogo del mattutino sessanta volte il Padre nostro e altrettante l’Ave Maria, quattordici volte in luogo di prima e terza e sesta e nona, venticinque volte in luogo dei vesperi, sette volte in luogo della Vigilia della Madonna, quattordici volte in luogo di compieta. I novizi poi che non sanno dire le ore canoniche dicano il Padre nostro secondo quanto sopra viene prescritto per i [frati] laici. Tutte le parti dell’ufficio e gli altri riti [celebrati] in chiesa si dicano in forma breve e succinta in modo che quanti ascoltano non vengano distratti. Diciamo che ciò venga fatto in modo che siano osservate la punteggiatura e le pause e che la voce non sia stiracchiata, ma si faccia terminare -come detto sopra- in forma breve e succinta. Questo tuttavia si osservi più o meno a seconda del tempo. Si scambi il bacio di pace solamente in feste specifiche, nella messa della beata Maria che si celebra il sabato e ogni domenica. I frati debbono confessarsi non meno di due volte la settimana. I [frati] chierici e laici debbono comunicarsi la prima domenica di avvento, nel natale e nella epifania del Signore, il giorno delle ceneri, [giovedì] della cena del Signore, a pasqua, ascensione, pentecoste, nella festa del Corpo di Cristo, nella purificazione della beata Maria, nella annunciazione della Vergine, nella assunzione della beata Maria e nella sua natività, nella festa degli apostoli Pietro e Paolo e in quella di tutti i santi. Nei giorni di feste doppie e semidoppie e la domenica nessun frate venga di giorno all’ufficio con il mantello. [III. Gli inchini IV. Le genuflessioni V. I suffragi dei defunt]i VI. Il silenzio I nostri frati mantengano il silenzio nel dormitorio e nelle stanze e in coro, da compieta fino a prima, e in refettorio durante la refezione tanto alla prima mensa quanto nelle altre. E dentro e fuori, a mensa i frati, sia il priore che gli altri, conservino il silenzio, a meno che non si trovi tra di loro uno di maggiore importanza o uno a cui il priore avrà dato il permesso di parlare. Nessuno parli in quel luogo, se non per chiedere quanto è necessario alla mensa, e questo con brevi parole e a voce sommessa e soltanto a chi sta servendo, così che dagli altri sia a stento sentito. Chi vi sarà di maggiore autorità, possa dispensare tanto nei luoghi dei frati quanto fuori, se gli sembrerà opportuno. In capitolo nessuno parli, se non interrogato dal priore; e allora risponda brevemente e umilmente soltanto a ciò che crede che egli intenda sapere. Se uno poi avrà agito contro le cose suddette o contro qualcuna di esse, sia punito ad arbitrio del superiore. VII. Il digiuno. Digiuniamo ininterrottamente dalla festa di tutti i santi al natale del Signore, dall’ [inizio] di quaresima alla [pasqua] di resurrezione; dalla pasqua sino a [domenica] di quinquagesima, digiuniamo solo il venerdì. In questi tempi all’ora di mezzogiorno, dato un breve tocco [di campana], si dica l’ora nona, terminata la quale e suonata la campana per [avvisare di ]lavarsi le mani, i frati entrino nel refettorio per la mensa. Digiuniamo altresì la vigilia di pentecoste, durante le ‘quattro tempora’, le vigilie dei santi Giovanni Battista, Pietro e Paolo, Giacomo, Lorenzo, Bartolomeo, Matteo, Simone e Giuda e in quella di Ognissanti nonché nella vigilia della assunzione, della natività, purificazione e annunciazione della beata Maria. Mai né i priori né i loro vicari abbiano l’autorità o la presunzione di dispensare dal digiuno il venerdì, a meno che in quel venerdì cada la festa del natale del Signore, della circoncisione e dell’epifania, oppure una festa della Madonna. Coloro che sono in viaggio non sono tenuti a digiunare dalla festa della resurrezione sino alla festa di Ognissanti; anche se non digiuneranno, si serviranno di cibi quaresimali durante l’intero periodi di avvento. Gli itineranti dalla festa di Ognissanti sino all’avvento fuori del convento potranno assumere i cibi che verranno loro presentati, tranne le carni. Ma durante gli altri tempi, per non arrecare difficoltà a coloro presso i quali ci fermiamo, ci sarà lecito consumare tutti quei cibi che secondo l’evangelo ci vengono presentati nel nome di Cristo. Dovunque digiuniamo anche tutto giorno di venerdì santo a pane e acqua. Nessuno oltre i predetti digiuni ardisca digiunare senza il consenso del proprio priore. VIII. Il cibo All’ora opportuna prima di pranzo o di cena si suoni la campana per lavarsi le mani e lavate le mani [i frati] insieme e in silenzio riuniti seggano nel luogo opportuno fuori del refettorio. In seguito si suoni la campana finché tutti i frati siano entrati nel refettorio. Entrati tutti, il cantore dica benedicite e i frati ripetano benedicite; poi il cantore incominci la preghiera [della benedizione] e i frati la proseguano e questa conclusa si accomodino a tavola. Quando si alzeranno da tavola nel modo solito, recitando il salmo Miserere mei Deus oppure un altro consono al tempo [liturgico], processionalmente entreranno in chiesa, concludendo colà le preghiere. […] In convento non si consumeranno carni in nessun tempo, tuttavia le vivande si potranno condire con intingolo. Solamente i priori potranno dispensare da questa norma i propri frati, di rado però e garantita sempre la buona reputazione dell’Ordine. I nostri frati, tanto i priori quanto i sudditi, nelle località in cui abbiamo una nostra sede non dovranno mangiare fuori del convento, se non con il vescovo oppure nelle case dei religiosi e gente onesta di chiesa o laici devoti: anche questo di rado e con il consenso del priore. Se qualcuno [a tavola] si accorgerà che [al fratello] che siede accanto a sé manca qualcosa della mensa comune, ne faccia richiesta all’inserviente. Se qualcuno degli inservienti o dei commensali mentre servono o mentre mangiano avesse recato fastidio a taluno, quando i frati si alzano da tavola chieda perdono [davanti a tutti] e dopo il segno di croce del prelato torni al proprio posto. Nulla di quanto concerne la mensa si tenga nella propria cella, ma ogni cosa resterà sotto la responsabilità di qualche incaricato; né il priore potrà dare licenza a qualche frate di tenere qualcosa con sé, tranne delle spezie e frutta ma in modesta quantità. Nessun pasto si dovrà fare fuori del refettorio, se non a vantaggio di qualche frate molto malato, e con licenza del priore. Se qualche vivanda speciale venisse inviata a qualcuno, sia presentata al sottopriore: se colui al quale viene inviata [quella vivanda] è malato, essa si distribuisca tra i malati, se sano tra i sani, se ospite tra gli ospiti e ciò sino al terzo giorno del suo arrivo. Agli ospiti si provveda con carità secondo quanto risulterà in relazione alla stanchezza fisica e alla lunghezza del viaggio. Nessuno inviti qualche estraneo come ospite né a mangiare né a bere senza licenza del proprio prelato, tranne religiosi per offrire qualche bevanda. Vogliamo inoltre che i frati itineranti in nessuna maniera durante il viaggio mangino carni se non avendo ottenuto il permesso del priore e se non di fronte a palese necessità o preoccupante malessere: nel qual caso sarà consentito al compagno di viaggio accompagnare il fratello malato nel refettorio. E se [carni] vengono loro offerte per amore di Dio, liberamente essi potranno consumarle. Ma chiunque si sarà procurato questo con raggiri venga punito a discrezione del superiore. Vogliamo inoltre e ordiniamo che non si trascuri in nessun tempo l’elemosina alla porta secondo le possibilità dei conventi. [IX. Refezione serale (in tempo di digiuno) X. Gli infermi XI. I letti e il modo di dormire] I nostri frati non dormano su letti, ma su sacconi e paglia. Concediamo loro di avere cuscini di piume sotto il capo e lenzuola di lana e di canapa. Agli ammalati e agli ospiti sarà possibile dormire su materassi e lenzuola di lino. Fuori convento i frati potranno dormire come sarà stato loro preparato, per non arrecare fastidio a chi li ospita. E dormano con il tonachino e lo scapolare piccolo, a meno che non siano stretti da grave infermità. Tutte le volte che uno abbia dormito senza tonachino o scapolare, mangi altrettante volte in terra pane e acqua. Nessuno che possa stare in comune con gli altri abbia un posto speciale per dormire, se non perché abbia il compito di custodire oggetti. In ogni dormitorio arda di notte una sola lampada. [XII. L’abito XIII. La tonsura] XIV. L’accoglienza nella Congregazione. Nessuno si accolga nella Congregazione al di sotto dei 15 anni di età né al di sopra dei sessanta se non con licenza del vicario generale. Né transfughi di altro Ordine o del nostro stesso, né professi di qualsivoglia istituto religioso, o fuggiti o usciti o conventuali non si accolgano nella Congregazione senza il consenso del capitolo generale: in esso potranno venire ammessi dopo votazione segreta. Quanti di costoro vengono accolti resteranno privi di voto attivo e passivo per un decennio, a meno che tramite uno speciale indulto a motivo di loro dottrina o virtù o benemerenza da parte del capitolo generale sarà loro con senso di misericordia concessa la dispensa. Nessuno nato fuori dal matrimonio venga accolto nella Congregazione se non con licenza del vicario generale E ancora non si accolga nella nostra Congregazione nessuno se non nel convento del territorio di cui è originario, fatta eccezione per i luoghi in cui si trova lo studio generale per allievi stranieri, se non con il consenso e la votazione del convento della sua terra natale se i frati posseggono una casa in essa, oppure con speciale licenza del vicario generale. Quanti intendono rivestire l’abito nostro, prima di indossarlo, dal priore insieme ad almeno un consigliere vengano accuratamente esaminati intorno alle cose che potrebbero impedire il loro ingresso, ossia se qualcuno di loro sia sposato o sia servo o sia vincolato da oneri oppure dalla professione altrove, oppure abbia una malattia occulta, o sia scomunicato, o bigamo, o irretito in irregolarità [giuridiche]. E il novizio che è stato accolto tramite siffatto esame se venisse scoperto che sia stato menzognero relativamente a qualche argomento di quell’esame, da parte del priore che lo ha accolto potrà venire espulso. Qualora qualche novizio intendesse distribuire ai frati qualcosa che superi il valore di quaranta soldi o di più secondo la moneta corrente, offra questo [dono] sopra l’altare o davanti all’altare e di tale donazione faccia redigere un pubblico attestato. Quanto poi il novizio avrà assegnato per le sue vesti, quanto prima venga speso per tale scopo. Nessuno venga accolto come chierico che non sia capace di cantare o non conosca la lingua latina. Questa [accoglienza] potrà fare il priore del convento dopo consultazione e deliberazione dei frati del suo convento, convocati in tre capitoli e con votazione segreta, consapevole e consenziente il vicario generale o suo inviato. Tuttavia il vicario generale potrà accogliere chiunque previa consultazione dei consiglieri del convento o del luogo dove fosse convocati in tre capitoli. Nessuno venga accolto come aggregato (commesso) e per qualche commissione in un convento senza licenza del vicario generale o del suo inviato. E nessuno in nessun modo sia accolto esule da qualche borgo o città o luogo dal quale debba esulare per avere commesso qualche personale malefatta. XV. I novizi. Il priore ponga alla guida dei novizi un [frate] zelante che li ammaestri e istruisca. Egli insegni loro un comportamento ordinato; s’impegni a emendare, per quanto gli sarà possibile, con parole e con cenni negligenze che avessero mostrato in chiesa o dovunque; provveda loro, per quanto può, le cose necessarie. Quando davanti a lui [i novizi] che avranno errato chiederanno perdono di negligenze palesi, potrà dare una penitenza oppure richiamare a viva voce nel suo capitolo. Li alleni a mantenere umiltà di cuore e di corpo secondo la parola [evangelica] “imparate da me che sono mite e umile di cuore”72. Li educhi a confessarsi con frequenza, rettitudine e consapevolezza; a vivere senza cose proprie; a rinunciare alla propria volontà affidandosi alla volontà del proprio superiore e ad osservare obbedienza in ogni cosa; a imparare in quale maniera comportarsi in ogni luogo e in ogni circostanza. Deve insegnare loro a mantenere dovunque il posto assegnato a ciascuno; la dovuta maniera di chinare il capo davanti a uno che dà o toglie loro qualcosa, oppure davanti a chi dice bene o male; il modo di trattenersi nella camerata; l’inopportunità di tenere alzati gli occhi; la maniera di pregare, il contenuto della preghiera, i momenti del silenzio perché non rechino disturbo ad altri; la maniera di chiedere perdono al proprio responsabile in sede di capitolo o dovunque venissero redarguiti. Se poi qualcuno avesse scandalizzato in qualche modo un suo fratello resti prono ai suoi piedi fintanto che egli rasserenato lo rialzi. [I novizi] debbono altresì venire istruiti a non presumere di rivaleggiare con altri. In ogni cosa obbediscano al loro maestro [di formazione]. Nel camminare in fila procedano affiancati al proprio compagno. Non parlino nei luoghi e nei tempi vietati. 72 Mt 11, 29. Su nessuno diano giudizi: pur vedendo compiere da qualcuno qualcosa che loro stimano negativa, ne diano benevola interpretazione o la ritengano fatto in buona fede, perché spesso l’umana natura fallisce nel giudicare. Non parlino di uno assente, nemmeno se si tratta di cose buone. Con frequenza si sottopongano alla disciplina. Bevano tenendo il recipiente con due mani e stando seduti. Custodiscano con diligenza libri, vesti e tutte le cose che appartengono al convento. Se qualcosa viene domandata al solo priore non venga domandata a un altro, a meno che non venga motivata la ragione; ma se chiederanno a un frate di grado maggiore non si rivolgano a uno di grado minore. Così pure si ricevano le confessioni dei novizi prima della professione e siano ragguagliati con esattezza intorno alla maniera di confessarsi e nelle altre cose. Così pure i novizi avanti la professione disbrighino i [loro] doveri e ogni altra cosa depongano ai piedi del priore di modo che siano completamente da ogni cosa svincolati.. Così pure i novizi durante il tempo della loro prova si esercitino accuratamente nel salmeggiare e nel celebrare il divino ufficio. Così pure i novizi nel corso dell’anno [di noviziato] non vengano inviati in luoghi lontani se non per ragioni di necessità e nemmeno vengano impegnati in alcun ufficio. E nemmeno siano vendute le loro vesti prima della professione senza che loro lo vogliano. E nemmeno siano ordinati [chierici] prima della professione. Se qualcuno non intendesse accedere alla professione a tempo debito, venga escluso dalla comunanza della Congregazione. Parimenti vogliamo che i novizi mantengano il silenzio tra loro e con persone estranee, tuttavia con il consenso del priore o del maestro [di formazione] potranno parlare con le persone con le quali sarebbe vietato [parlare]. Parimenti vogliamo e ordiniamo in forza della santa obbedienza e dello Spirito santo che in ogni convento si individui quale unico maestro dei novizi un frate che abbia timore di Dio; se in qualche convento non si individua quello adeguato, venga assunto da altro convento. Egli ammaestri i giovani in accoglienza nel timore di Dio e nell’osservanza degli ordini. I novizi si rapporteranno solamente con il maestro oppure con colui che in al suo posto egli avrà messo loro a capo. Se tuttavia saranno sorpresi a avere dimestichezza con un altro, si i novizi che i professi siano puniti con rigore. [XVI. La professione XVII. Gli itineranti XVIII. La celebrazione del capitolo generale, la procedura che devono seguire i visitatori e quelli che devono andare al capitolo XIX. Il modo di eleggere i definitori XX. Le rinunce] XXI. L’elezione del vicario generale. Durante la celebrazione di ogni capitolo [generale] si elegga come vicario generale uno dei frati presenti in quella assise, il quale sia rimasto continuativamente nella nostra Congregazione non meno di 15 anni. […]. Il vicario generale eserciterà l’ufficio per un anno. Tuttavia potrà venire confermato da parte del medesimo capitolo per un anno ancora e non oltre se avrà governato bene. [XXII. L’elezione dei regolatori XXIII. Il tempo della vacanza dopo la scadenza del mandato degli ufficiali XXIV. Nessuno può essere eletto priore , discreto o confessore, se non sia stato prima per sette anni nell’ordine sacerdotale in detta Congregazione XXV. Il modo di elezione dei discreti, dei procuratori e dei sottopriori XXVI. In quali conventi debbano essere eletti due discreti, in quali uno, e in quali nessuno XXVII. Tutte le soprascritte elezioni debbono concludersi con la maggioranza di due parti su tre XXVIII. I laici o conversi XXIX. Il conseguimento dei gradi di magistero, baccellierato o lettorato] XXX. L’autorità degli ufficiali Il capitolo generale abbia piena potestà di dispensare da ogni articolo delle costituzioni. Ma fuori del capitolo il vicario generale abbia potestà tanto in campo temporale quanto in quello spirituale, eccetto quelle norme che dalle costituzioni sono riservate alla dispensa del capitolo. Sia tenuto a visitare ogni anno, con due visitatori, tutti i nostri conventi e a correggere quanto vedrà bisognoso di emendazione [...] [...] il Vicario generale deve nel capitolo generale stabilire un procuratore o commissario in Curia Romana, che sia anche priore del convento dell’Urbe, con l’autorità di risolvere le cause pubbliche e private che saranno trattate in curia, con il consenso tuttavia di quelli cui le cause riguardano, se saranno di un convento particolare [...] I definitori possono scegliere liberamente il convento dove abitare; qui occupino il posto immediatamente dopo il priore e precedano anche i priori che vengono da fuori. Sia dato loro il necessario per il viaggio al capitolo dal convento dove hanno fissato la loro dimora. Comandiamo anche che i priori, i quali non avranno obbligato i propri sudditi a compiere la penitenza loro imposta dai superiori maggiori, ma li avranno lasciati andare impuniti per propria incuria, vengano essi stessi sottoposti alla medesima pena e siano costretti a starvi soggetti dal vicario generale o dai definitori; e questo è fatto per misericordia, perché per un’eccessiva misericordia non venga spezzato il rigore della giustizia. [...] il priore [...] abbia piena potestà di correggere i frati nel suo convento, secondo le nostre costituzioni, ricorrendo al consiglio dei discreti in caso di gravi trasgressioni. E tenga il capitolo almeno ogni venerdì, immediatamente dopo il mattutino o la compieta, e in esso ascolti le colpe dei frati. [...] Ugualmente comandiamo che i priori siano tenuti a esaminare ogni mese le celle dei propri frati e prescrivere che abbiano lo scapolare notturno e dormano con esso. Quelli che non l’hanno mangino pane e acqua ogni venerdì, finché non lo abbiano avuto. [...] Vogliamo inoltre e comandiamo che gli studenti di grammatica, logica o filosofia, restino impegnati in questi studi solo per tre anni. E chi alla fine del tempo fissato non sia stato idoneo al corso superiore, sia privato del corso inferiore e superiore e d’ora in poi non sia ammesso a studiare da nessun superiore, eccetto il vicario generale. Ma perché abbiano maggiore comodità per dedicarsi allo studio, vogliamo che i priori cerchino di sollevare gli studenti dagli oneri conventuali, per quanto è possibile. Ordiniamo anche che nessuno sia ammesso a lezioni di logica, se non abbia insegnato prima, almeno per un anno, in qualche convento grammatica ai meno istruiti. [...] Stabiliamo che nessun frate osi tenere cavalli; chi avrà agito diversamente, perda il cavallo e questo sia dato a quel convento di cui il frate è originario. Vogliamo inoltre e comandiamo che l’elemosina alla porta, secondo la possibilità dei conventi, non sia dai frati mai tralasciata. In ogni convento ci sia un procuratore, eletto dalla maggioranza del convento con votazione segreta, [...] nelle cui mani pervengano tutti i denari o dati e offerti in elemosina al convento, o giunti in qualsiasi modo in mano ai frati; li deve spendere e distribuire con il permesso del suo superiore [...]. Inoltre in ogni convento ci sia un sottopriore, che sia ugualmente eletto dalla maggiore e più sana parte del capitolo del proprio convento con votazione segreta. Egli, con il consenso del priore, dispensi ai frati, sani, malati o anche forestieri, il necessario per il vitto e il vestito. Si elegga un sacrista previdente, equilibrato e sollecito, che abbia una giusta e attenta cura del suo lavoro, che non scambi e dia qualcosa del suo ufficio a un frate o a un estraneo, senza licenza del suo priore. Il refettoriere sia prudente e sobrio, tenga e conservi sotto diligente custodia il pane e il vino e tutte le altre cose riguardanti la mensa; ogni giorno dia agli inservienti il pane e il vino e quanto è necessario. Dopo che i frati della seconda mensa abbiano mangiato, tutto venga a lui restituito dagli inservienti della stessa mensa. Il portinaio sia prudente e affidabile; esegua diligentemente tutto quello che riguarda tale ufficio e a chi chiede risponda con mitezza. Se un secolare vorrà parlare con un frate avanti prima o tra il pranzo e nona, non vogliamo che ciò avvenga senza permesso del priore. XXXI. Le proibizioni. Nessuno trattenga con sé denari concessigli per suo uso e nemmeno denari altrui, neppure si dia licenza a qualcuno di tenerli presso di sé, ma debbono venire depositati nello scrigno di tre chiavi. Tuttavia un frate, con il permesso del priore, potrà depositare presso il priore o l’economo o il sacrista denaro per un ammontare non superiore ai 10 soldi secondo il valore corrente. Anche a ciascuno di costoro menzionati sarà lecito trattenere presso di sé denaro proprio sino all’ammontare suddetto. A chi avrà agito diversamente verrà sottratto quel denaro. Economo e sacrista non dovranno restituire tale deposito senza licenza del priore; la licenza del priore è necessaria anche per spenderlo. Colui che tiene in deposito [denaro altrui] non lo spenda senza consenso di colui che ne è proprietario sotto pena di privazione del diritto di voto per un biennio. Nessuno inoltre riceva in deposito qualcosa oppure lo passi ad un altro senza licenza del proprio priore. Nessuno nella Congregazione venda qualche libro o qualche altra cosa senza licenza del superiore. Nemmeno venda un libro di qualunque convento se non con licenza del vicario generale: l’intero ricavato della vendita sia utilizzato per acquisto di un libro o di altri libri secondo il parere maggioritario del capitolo. Nessun presbitero del nostro Ordine prima che siano scaduti otto anni dall’ordinazione sacerdotale ardisca ascoltare le confessioni dei laici o delle donne senza licenza del capitolo generale o del proprio [priore] provinciale. Concediamo tuttavia che i sacerdoti possano assolversi reciprocamente, salvo i casi riservati al priore. E ancora vogliamo che nessun frate laico o converso porti la tonsura clericale. Vogliamo anche che i priori conventuali sia tenuti a ispezionare i bauli, gli scrigni e le borse dei frati durante loro assenze una volta al mese. Analogamente il vicario generale e i visitatori durante le loro visite [alle comunità] si ritengano obbligati a controllare tutta la suppellettile dei priori e dei sudditi. E se rinvenissero colà qualcosa di non consentito la rimandino alla comunità di quel convento nel quale viene fatta l’ispezione. Nessuno parli con una donna al di fuori della confessione e nemmeno la ascolti sola se non in confessione, ma un frate o qualche altra virtuosa persona sia presente oppure sia in grado di vedere. In ogni convento, dove convenientemente si possa fare, si dovrà allestire un carcere e si acquistino ceppi di ferro. Nessuno indirizzi lettere a qualche frate o estraneo se prima non siano state mostrate al priore. Se lettere venissero indirizzate da estranei a qualche nostro frate, prima [di consegnarle] siano presentate al suo priore, sotto pena di carcerazione [in convento] per tre giorni. Se poi qualcuno dei nostri frati avesse portato lettere a qualche frate e non le avesse prima [di consegnarle] presentate al priore, resti in carcere per cinque giorni. Nessuno senza licenza del proprio priore venda o comperi o dia o riceva occultamente qualcosa: chi avrà agito al contrario perderà quella cosa e venga punito secondo il giudizio del priore. Nessuno si faccia coinvolgere in liti o contese. Nessuno si metta a spartire o amministrare qualche bene mobile di estranei o dei novizi senza licenza del suo responsabile e se costui è il priore senza il consenso dei consiglieri del proprio convento. Né priori né sudditi ardiscano avanzare una contestazione o una lagnanza verso la Curia Romana e nemmeno far sì di ottenere lettere qualsiasi senza licenza speciale del capitolo generale, la quale risulti manoscritta da un notaio: quanti agissero al contrario vengano scomunicati, per un quinquennio restino privi di entrambi i diritti di voto, per un mese stiano in carcere. Nessun priore potrà alienare beni mobili del convento senza licenza della parte maggioritaria e più avveduta dei frati del proprio convento; gli immobili [non potrà alienare] senza licenza del capitolo generale. Nessun frate acceda o mandi presso qualche persona fuori della Congregazione per [ottenere] l’assoluzione di un caso che non si possa assolvere dentro la Congregazione. Se però vuole accedere o mandare, acceda e mandi previa licenza del proprio superiore, sempre salvaguardata tuttavia la buona reputazione della Congregazione. Ma chi avrà agito al contrario venga immediatamente privato del proprio ufficio; e se costui non ha alcun ufficio, venga punito secondo la discrezione del superiore. Nessun frati si procuri da se stesso o tramite un altro qualche beneficio all’esterno della Congregazione. Se venisse eletto a qualche incarico superiore in alcuna maniera presuma di accettarlo senza licenza del capitolo generale, ma se lo avrà accettato senza la menzionata licenza immediatamente incorra nella sentenza di scomunica. [XXXII. La colpa lieve XXXIII. La colpa grave XXXIV. La colpa più grave XXXV. La colpa gravissima XXXVI. Gli apostati] III. La vita eremitica a Monte Senario Alla fine del Cinquecento la rinascita della vita eremitica su Monte Senario fu decisa dal priore generale Lelio Baglioni (1591-1597), attuata concretamente da Bernardino Ricciolini73, sostenuta da Ferdinando I granduca di Toscana (1587-1609), e formalmente approvata, con il breve Decet romanum Pontificem (22 ottobre 1593), da papa Clemente VIII (Aldobrandini, fiorentino). L’inaugurazione ufficiale ebbe luogo però più tardi, essendosi resi necessari lavori di restauro, e precisamente il 14 agosto 1595. Dal 1593 al 1612 si susseguirono undici documenti pontifici: segno del favore con cui la santa Sede seguiva l’iniziativa. Il 22 febbraio 1601 si riuniva il primo capitolo dell’eremo e il 25 dello stesso mese la comunità fece la professione di vita eremitica. Nel /1603 fu data anche la facoltà di fare vita di reclusione. Le Costituzioni, scritte a Roma nel 1609, furono stampate a Firenze nel 1613. bibliografia: P.M. BRANCHESI, La Congregazione degli Eremiti di Monte Senario (1593-1778). Raccolta di saggi e testi, Bologna, Centro di studi O.S.M., 1997. 1. Bernardino Ricciolini e la restaurazione della vita eremitica Nato a Firenze intorno al 1560, prese l’abito dei Servi all’Annunziata nel 1581. Sentendosi chiamato alla vita solitaria, nel 1590 si ritirò a Camaldoli, da cui usciva però nel 1592 per motivi di salute. In Vera e certa origine dell’Eremo di Monte Senario, una cronaca da lui iniziata nel 1593 - copiata da fra Angelo eremita nel 1682 e completata da fra Buonfigliolo dopo il 1718 - il Ricciolini giudicava provvidenziale questo suo soggiorno camaldolese. Primo rettore dell’eremo nel 1597, fu costretto dal priore generale Montorsoli ad accettare la nomina di priore della Ss. Annunziata di Firenze. Nel 1599 era di nuovo a Monte Senario, di cui fu rettore in altre due occasioni. Compì vari viaggi a Roma per il lavoro di redazione delle Costituzioni e anche nel tentativo di appianare certe difficoltà sorte tra l’eremo e il convento della Ss. Annunziata di Firenze. Negli ultimi anni si impegnò nella nuova fondazione di Montevirginio, senza riuscire però a darvi stabilità. Qui morì il 21 marzo 1623. da «Vera e certa origine» edizione: Vera e certa origine del principio dell’eremo di Monte Senario (1593-1604), a cura di A.M. DAL PINO e O.J. DIAS, Roma 1967 Il 24 agosto 1593 il priore generale Lelio Baglioni si incontrava a Pratolino con il Granduca di Toscana, Ferdinando I Medici, che era intenzionato a restaurare su Monte Senario l’antica osservanza religiosa. L’istessa mattina, avendo tolta licentia da Sua Altezza Serenissima, il detto padre Reverendissimo Generale venne a desinare alla Madonna del Sasso, e visitando quel santo luogo per sua divozione, et avendo parlato assai di questo suo santo pensiero, e della buona mente di Sua Altezza Serenissima et avendo con me scrittore, che allora stavo di stanza a quel devoto luogo, parlato molto e trattato di quello che voleva fare, conferendo insieme di digiuni e di altre institutioni 73 F.A. Dal Pino, Fra Bernardino Ricciolini iniziatore della vita eremitica a Monte Senario nel 1593, in Spazi e figure lungo la storia dei Servi di Santa Maria (secoli XIII-XX), Herder, Roma 1997, p. 573-577. della vita eremitica […]. Onde havendo io inteso tutto quello che doveva farsi in detto negotio, spirato così fortificato dal divino aiuto, domandai di essere uno del numero di quelli i quali dovevano menare tal vita, avendo di ciò avuto il desiderio ardente di ritornare a ripigliare la vita che già havevo per indispositione e malattia lasciata nel ritorno che havevo fatto nel sacro Eremo di Camaldoli, ove ero stato in abito noviziale per 20 mesi […]. E perché in detto Eremo non potevo tornare senza il nuovo capitolo di volontà di quei Padri, il Signore e la Beatissima Vergine, avendo visto il mio buon desiderio, mi prepararono per tal mezzo nella mia Religione quello che in altra mi dovevo cercare. E non fu forsi senza providenza e dispositione divina, che io fussi stato in quel tempo in quel sacro e santo luogo, acciò che instrutto in parte di quel vivere et in quell’osservanza, potessi poi a gloria di Dio mostrare qualche santa instituzione in questo nostro nuovo Eremo: si come si è fatto, e si fa tuttavia con l’aiuto di Dio. Il che tornato al padre Reverendissimo Generale partissi per Firenze, et aute in mano le lettere di raccomandatione, se n’andò speditamente a Roma, et arrivato, e presentate le lettere et conferito il negotio, fu caramente da tutti accolto e ben visto, ma in particolare dall’Illustrissimo Cardinale Alessandro Medici arcivescovo di Firenze; il quale molto si affaticò in così grande negotio […]. Fra tanto, aspettando il futuro capitolo che si doveva fare fra la santa Pasqua di Resurretione e la santissima Ascensione per dover pigliare il possesso del luogo e far la tramuta de Padri che lo abitavano, si cominciò a sparger le voci et andar la fama attorno, a tal che concorreva di quando in quando qualcuno a vedere il luogo, se bene non era ancora risarcito. A tal che venne in pensiero agl’huomini della Compagnia della Madonna del Sasso, dove io scrittore stavo, di venire a visitare detto luogo. E stabilito il giorno che fu la seconda festa di Pasqua di Resurretione, et havendo pensato fra di loro quello dovessino portare per offerire in detto luogo e lasciare una memoria, mi venne in mente (così piacente Giesù) di dir loro che facessino fare un Crocifisso et che quello portassino, et datane la cura a me feci fare un crocifisso di pittura come si vede che è quello che è sopra la porta che entra nel coro. E ciò non fu senza dispositione e beneplacito di Dio, che dovendo per la prima cosa piantarci, fussi Giesù Christo crocifisso, acciocché con tal prodigio, insegna e vessillo fussi fondata cosi ottima e sublime fabbrica, cioè nella croce e nella meditazione della sua santissima Passione, acciò che per mezzo di quella, questa santa opera e i suoi coltivatori ascendessino a gran conoscimento di Dio e si esponessino a asprissimi patimenti, havendo per capo e guida il Capo spinoso dove non è dovere che stiano membra delicate. Il che avendo assettato cosi divota immagine sopra ad una barella con quattro manichi portatile et ornato di drappi e fiori, fu fatta una solenne processione, che partitasi dalla Madonna santissima del Sasso, con gran numero di donne e di huomini e molto popolo con grande devozione, si piantò così trionfante e glorioso stendardo. Grande veramente fu la mia consolatione in questa santa azzione parendomi che questo fussi un gran prodigio e questa santa opera havessi di havere un buon successo poiché avanti a ogni cosa fu preso il luogo dal dolce et immacolato agnello Christo Giesù Amore; e questa fu la prima pietra di questo fondamento, pietra angolare e fortissima ove si sostenta tutto questo nostro santo edifitio. Il Breve di Clemente VIII (1593) e l’inizio di una nuova presenza e dei lavori di restauro. Fu fatto un memoriale di tutto il contenuto e di ogni domanda del padre Reverendissimo Generale, e presentato alla santità di Nostro Signore papa Clemente Ottavo, il quale, havendo bene considerato quanto esso padre Generale domandava, si mostrò alquanto difficile a dare il primo placet, (e ciò adduceva) essendoli cascato in animo e venendoli alla mente che un Reverendissimo padre Generale dell’Ordine di Vall’Ombrosa ne haveva chiesto un altro alquanto tempo innanzi a un altro Sommo Pontefice, il cui nome non mi è noto, il che, nel trattare detto negotio il Padre Generale, si scoperse che voleva per tal mezzo impetrare una badia del suo ordine, et con alquanti compagni amici suoi voleva quivi ritirarsi per fuggire l’obbedienza del suo successore, e sotto specie di romitorio godersi l’entrate di quella abbazia; che havendo papa Clemente questa cosa ancor fresca nella memoria recusava di concedere l’assenso, il che havendo il padre Reverendissimo Generale inteso, ricorse al patrocinio dell’Illustrissimo Cardinale di Firenze, e fattoli sapere che era differente, e diversa la sua intentione, e che era santa, e buona. Il detto Cardinale testificò al papa e mostrò il buon animo del padre Reverendissimo Generale, e promesse che il negozio avrebbe buonissima e santa riuscita; et havendo ciò inteso il Papa concesse l’assenso, e fu’ formato un breve, e passato ebbe il suo fine intorno alla fine di Ottobre 1593 che così è la data di detto breve, e fu’ l’anno secondo del pontificato di questo santo Pontefice. Il Reverendissimo padre Generale non pubblicò detto breve fino al mese di gennaio dell’istesso anno circa all’ultimo; perché, non avendo io di ciò alcuno avviso ne sapendo il successo, facevo fare sopra ciò molte orazioni e molti servi e serve di Dio, i quali, come giusti e pii, furono esauditi, del che ne sia laudato e benedetto sempre il magno e grande Dio, il quale a quelli che lo vogliono servire apre le strade e li porge il suo aiuto e favore. Essendo adunque venuto il tempo che si doveva venire a pigliare il possesso personalmente per abitare, piacque al già detto padre Reverendissimo Generale et alli Reverendi Padri della santissima Nunziata, che venissimo il dì 22 di maggio l’anno 1594 in giorno di domenica, che fu infra ottava della santissima Ascensione. Onde partiti dalla Madonna Santissima del Sasso intorno alle 20 ore et arrivati alle 22, fummo ricevuti dalli Padri che ci stavano, che erono il Reverendo padre fra Alesso fiorentino e professo del convento della Nunziata, il quale era Priore, il padre fra Basilio, professo e frate di questo luogo, et un laico che si domandava fra Buono aiuto, già professo di questo luogo, che erono tre in tutto quelli che vi abitavano, i quali al nostro arrivo ci dettono luogo e si ritirarono in altri conventi conforme all’obbedienza de loro superiori. Questa grazia così particolare fu’ concessa a me indegnissimo Servo di Maria Vergine di pigliare detto possesso, a me dico fra Bernardino professo e frate del convento della Santissima Nunziata di Firenze, insieme con il padre fra Stefano sacerdote e professo del detto Convento, e Piero da Quinto commesso, e ciò non fu’ per cominciare l’osservanza della vita Eremitica ma solo per abitarlo semplicemente, e star presenti mentre si restaurava detto luogo, et haver cura delle fabbriche; e partecipare di queste fatiche et incomodi che a cosifatti resarcimenti si ricerca, et ancora perché cominciassino a provare e gustare di questa solitudine. Et è da notare che l’aver preso il possesso di questo santo luogo non fu’ senza una particolar grazia di Dio che fussi in giorno di domenica per essere questo il sacratissimo giorno che il nostro dolce Giesù risuscitò da morte glorioso, per significarci che, con il suo aiuto e favore e di quello ancora della gloriosissima, e santissima Vergine Maria avvocata e protettrice nostra, che abbia a resurgere et a rinnovellarsi in questo santo e sacrato Monte le orme e le vestigie di quei sette risplendenti lumi de nostri sette fondatori, accio’ si abbia sempre a vivere in questo santo Luogo una vita perfetta religiosa e santa, che così piaccia a Dio in eterno a suo maggior honore e gloria e salute dell’anime, et ad esempio et edificazione de prossimi, e cosi sia. Essendosi cominciato ad abitare il luogo, comincia a venir voglia a qualcheduno di venire ad abitare in nostra compagnia. Il che venuto questo pensiero ad un fra Buon’aiuto converso, già professo di questo luogo, del quale ò fatto di sopra menzione, et havendo domandato licenza al padre Reverendissimo Generale, il quale gliene concesse benignamente, et venuto et provato il viver nostro non ci stette piu’ che tre giorni, parendoli questa vita alquanto severa se ne andò e ritorno alla religione che il Signore li doni il Paradiso. Del mese di giugno arrivò a questo luogo Guasparri da Barberino di Mugello, mandato a vedere il luogo e ad intendere se la nostra vita li piaceva, dal padre Atanasio Puccini, frate professo della Nunziata di Firenze, il qual Gasparri avendo veduto il tutto e stato due giorni da noi e provato il nostro vivere, et infiammato di questo santo luogo, si accese tanto che domando l’abito, il quale essendo messo a partito da Reverendi Padri della Nunziata, che a loro si aspetta tali accettatione, fu’ vinto per commesso, e cosi le fu’ data la tonaca, e restò in nostra compagnia: che Dio li doni perseveranza nel bene, e nella santa religione. Dovendosi dar principio a restaurar questo santo luogo si compro’ due somari grossi per condurre tutte le vettovaglie che bisognavono per le muraglie et per il resarcimento, i quali conducono rena, calcina, tufo et altre vettovaglie. Appresso a questo si è tolto alle spese et a salario Andrea di Matteo Vanguoli di eta’ di 22 anni, il quale come vetturale possa condurre e detti somari; si come fa tutta via, che Dio lo defenda e guardi dal male e lo conduca sempre salvo nell’anima e nel corpo. Il prodigio delle api. Alli 22 di giugno 1594, standoci un giorno nel nostro orto tutti insieme alquanto a ragionare di cose spirituali, sentiamo una voce chiamarci verso quella parte che volta verso mezzo giorno, che riguarda verso Firenze, e, guardato dove era, vedemmo da lungi, circa un trar di balestra, Andrea nostro garzone che gridava in quel modo che si fa a trattenere uno schiame di pecchie, e domandando noi che cosa era, ei disse che sopra una frasca di emere era uno sciamo di pecchie, grande e giovane più dell’ordinario, et andati in quel luogo quanti eravamo in casa, et avendo fatto provvisione di una cassetta di legname con vino per mettervele dentro, e non vi essendo che si arrischiassi a toccarle, io indegnissimo scrittore vi messi le mani, e con l’aiuto di Dio le messi tutte in quella cassetta che non credo ne andassi male una, né tampoco fui morso e punto da veruna, parendo che avessino caro di venire ad abitare in questo santo luogo, per il che sono state portate da noi nell’orto sotto una loggietta che ci è vicino alla porta che entra in detto orto. Da questo cosi evidente e manifesto segno molto mi rallegrai e tutti quanti eramo ne pigliammo grandissima consolazione, e ne ringraziammo Iddio, parendoci che il Signore ci volessi favorire di accrescere in questo santo luogo un gran sciamo di suoi servi e buoni coltivatori, e solleciti procacciatori della propria salute, il che piaccia a Dio benedetto che sia a sua maggior honore et gloria. I lavori di restauro della chiesa e del convento continuano per tutto l’anno 1594 e poi nel 1595. Durante i lavori il priore generale chiede all’Ordine se vi siano frati disposti a ritirarsi a vita eremitica. Rispondono in molti, ma si scelgono tre padri e quattro laici. Il di 10 del detto mese [agosto 1595], che fu il giorno di s. Lorenzo, parve a tutti e fratelli sacerdoti, che erono venuti per essere eremiti, di cominciare a ufitiare il coro e la chiesa, e così fù a laude e gloria di Dio, e della B. Vergine, e parve di dire conforme costumano gl’altri eremiti, senza canto, adagio e devotamente, “cum puntis et pausis”, in modo che renda gravità si come sempre si è usato et usa in questo santo luogo. Essendo già finito d’accomodare in tal modo l’Eremo quanto alla fabbrica et altri acconcimi, e, fornito di tutte quelle masseritie et arnesi che a tal opera bisognavano, et avendo già la famiglia in ordine, e principiato l’ossequio del coro, et ogni cosa in punto; parve al Reverendissimo padre Lelio Baglioni, Generale di tutto l’ordine de Servi, di dar principio alla santa osservanza e vita eremitica; e per ciò fare in giorno ricordevole e di santa memoria, elesse il solennissimo giorno dell’Assunzione della Madonna, e volse che in questo giorno, a comun benefitio di tutti, ci fossi indulgentia plenaria havendola prima cavata di Roma, qual cominciò a vespro della vigilia durando tutto il giorno, venendoci gran concorso di popolo della città di Fiorenza e de vicini villaggi. Il giorno della vigilia il padre Reverendissimo Generale distribuì i panni a tutti con la forma e modo che li portano gl’eremiti, come tonaca di panno grosso, cappuccio e abito del medesimo panno, et il mantello eremitico, dichiarando come si dovessi portare in coro a tutte l’hore, alle processioni e al refettorio, e quando si va attorno, come abito da Romiti, e di questo tutti Padri Romiti si contentarono e si contentano di usarli, si come si è fatto sino a questo giorno e si farà per l’avvenire con l’aiuto di Dio. In quel giorno ci fu presente detto padre Reverendissimo Generale, il Molto Reverendo padre M. Basilio Olivi Provintiale di Toscana, il Molto Reverendo padre M. Arcangelo Giani Priore del convento di Fiorenza et altri Padri; ove alle 22 hore si fece una solenne processione con la croce nostra che usiamo, di legno, con tutti i misteri della Passione, e prima andavano a coppia e Padri Eremiti con il loro mantello, e poi i Padri della Religione, et in ultimo il padre Reverendissimo Generale, il quale, havendo un breve di scomunicatione in mano del autorità del Sommo Pontefice, andava dichiarando la clausura del convento et i termini dove non possono passar le donne, le quali non ci vengono se non in sei solennità del anno che sono: l’Assunta, la Natività e l’Annuntiatione della Madonna, le altre sono: il Natale, la Resurrezione e l’Ascensione del Signore. In quella sera che si fece la professione e si dette principio, il padre Reverendissimo Generale con tutti gl’altri volsero in refettorio far carità con li Padri eremiti, i nomi dei quali sono i seguenti: fra Bernardino, frate e professo fiorentino et indignissimo Vicario il padre Gabbriello, professo del convento di Cortona il padre fra Aurelio, Padovano e professo del convento di Ferrara il padre Filippo, professo del convento di Lucignano nella Val di Chiana; I Conversi Fra Ubaldo fiorentino Fra Migliore da Barberino di Mugello Fra Buonfigliolo da Fiesole Piero commesso da Quinto La libreria dell’Eremo. A di 8 settembre [1595] havendo inteso il Serenissimo Granduca che si era principiata l’osservanza è venuto all’Eremo, et ha volsuto parlare con gl’Eremiti et vederli tutti, et ha detto molte cose e mostrato buon animo, et ha promesso mandare buona quantità di libri per la nostra libreria havendoli dato nota di quelli che haviamo, et essendoci i cavoli belli ne volse portare a Pratolino e per devotione mangiarne […] A di 23 [novembre 1595] il Serenissimo Gran Duca ha mandato per lettera del signore Biagio n°. 50 pezzi di libri, e sono gl’appie notati. Prediche del Lantana in 3 tomi Il Crispoldo in 3 tomi I misteri della Passione del Bruno in 4 tomi Pratica dell’oratione mentale Stato religioso in due tomi Homilie di san Gregorio Monarchia della Madonna Evangelistario di Maestro Marcelo} Dell’institutione del benvivere } del medesimo Dell’umiltà e gloria di Cristo } Refugio de peccatori Arte di servire a Dio Miracoli di Maria Vergine Specchio de fedeli Trattato della tribulazione Trattato della devotione Lume e specchio de penitenti Esercitio della vita spirituale Annali Ecclesiastici del Baronio Sermoni del Razzi Monte Calvario del Guerra Lettere spirituali e Dialogo del Caccialven[to] Vite di 12 Gloriosi Santi Concetti scritturali Specchio di vera penitenza Specchio di oratione Il Gioiello de christiani Dialoghi di san Gregorio Confessioni di santo Agostino Vite de Santi toscani Abeccedari opera della Croce Le Vergini prudenti Decamerone spirituale Sermoni di santo Agostino et altri Santi Vita di santa Maria Maddalena Istoria generale di San Domenico Dispregio della vanità del mondo Dichiaratione delle letioni di tutto l’anno L’Eremo di Monte Senario e i suoi rapporti con Angelo Maria Montorsoli, priore generale. A di [15 maggio 1597] si è fatto capitolo provinziale nel convento di Fiorenza, et è stato presidente del capitolo il Reverendo Padre Maestro Angiolo Montorsi da Firenze il quale è stato rinchiuso per 9 anni in una cella, et havendo innarcimito (?) all’osservanza, e fatto molti buoni ordini, et le quaranthore, à creato priore di quel convento fra Bernardino nostro Eremita, et vicario ma ne lui ne frati ne vogliono. A di 20 [maggio 1597] detto è venuto il sopradetto Padre M. Angiolo Maria all’Eremo, et è la prima volta che è escito di Firenze poiché egl’è rinchiuso, et avendo visto il convento et l’osservanza dell’Eremo molto si è edificato. A di 23 [maggio 1597] fra Bernardino à la conferma di esser vicario per un altr’anno. A di ultimo di maggio [1597] il sopra detto Padre è stato fatto Generale di tutto l’ordine (cioè il Padre Angiol Maria Montorsoli) de Servi et stando fermo nella sua opinione à ottenuto che fra Bernardino e fra Gabbriello eremiti uno vadia priore a Roma et l’altro a Fiorenza, e perciò ne à scritto una lettera per ordine di Sua Santità e del Protettore sotto comandamento di obbedienza, ma perché è sopravvenuto male al Padre Gabbriello si recusa. A di 15 [luglio 1597] il padre Reverendissimo Generale M. Angiolo Maria Montorsoli è venuto questa prima volta all’Eremo da Generale in compagnia del Reverendo padre Provinziale M. Agostino da Arezzo et il Reverendo Padre M. Alessio da Firenze sotio, et noi li siamo andati in contro con la croce pricissionalmente dicendo secondo il nostro solito il Te Deum Laudamus, et à fatto la visita et non avendo trovata cosa alcuna che li possa dare scandalo si è partito tutto edificato A di 19 [settembre 1599] venne all’Eremo il Serenissimo Gran Duca alla Messa, […]e mentre se ne ritornava a Pratolino rincontrò il padre Reverendissimo, che era il padre Angiol Maria, il quale veniva all’Eremo per andare in Romagna alla visita, et facendo il padre Reverendissimo reverenza al gran Duca li disse: “Padre generale, laudato Dio avete da rallegrarvi, poiché all’Eremo le cose caminano così bene et è un grande onore alla Religione, però non ne levate per mandare in governo perché non è bene”, avendo detto questo ancora altre volte; […] Il primo capitolo dell’Eremo. A di 12 [gennaio 1601] avendo per gratia speciale di Sua Divina Maestà auto questo nostro sacro Eremo un breve della Santità di Nostro Signore papa Clemente ottavo, nello anno ottavo del suo Pontificato, et essendo stato procurato dagl’Eremiti per maggiore stabilimento di questo nostro sacro Eremo e della santa Osservanza, et sollecitato dal reverendissimo padre fra Angiol Maria fiorentino Generale della Sacra Religione de Servi di Maria, et con il favore del Serenissimo Gran Duca di Toscana Don Ferdinando Medici, affetionato e fautore di questa nostra nuova riforma di Eremiti, et essendo in questo giorno con allegrezza di tutti arrivato a questo santo luogo il Reverendo padre fra Aurelio eremita, ragunata tutta la famiglia nel capitolo ove si rendono le colpe, à fatto leggere detto breve74, et inteso da tutti i favori e le grazie che ci à concesso Nostro Signore per nostro fondamento, essendo andati tutti in chiesa et avendo accese buon numero di lumi all’altar maggiore, si è detto solennemente il Te Deum laudamus con la orazione pro gratiarum actione, e si è ringratiato Dio di tanto benefitio. A di 22 [gennaio 1601]: questa è la prima volta che i Padri Eremiti di questo nostro sacro Eremo ànno ragunato il capitolo, et in esso ànno capitolarmente messo a partito et allo scrutinio tutti quelli che sono di famiglia per fare di nuovo solenne professione di vita eremitica per il rigore del breve concesso dalla Santià di Nostro Signore papa Clemente VIII come sopra, et i vocali di questo primo atto capitolare sono stati sette di numero, permettondolo così il Signore alla sembianza de nostri primi sette fondatori La notizia della morte del Montorsoli giunge all’Eremo. A di 5 [marzo 1600] è arrivato nuova a questo nostro sacro Eremo come a di 24 di febbraro a ore due è passato a miglior vita il Reverendissimo padre Angiolo Maria Montorsoli da Fiorenza nostro Generale, il quale, ritrovandosi in Roma, quivi con molto spirito e fervore à cambiato questa vita mortale e piena di miserie a quella felice et eterna del Paradiso. Et perché era nostro molto amorevole et affetionato, avendo durato per noi molte fatiche in cavarci il sopra detto breve, avendoci alcuni mesi innanzi concesso la metà delle sue stanze – della camera che aveva dalli Reverendi Padri della Nunziata di Firenze ove stava rinchiuso – per nostro ospitio avendovi fatto fare un epitaffio sopra la porta che dice Hospitium Heremitarum, et ancora avendo auta licenza dalla Santità di Nostro Signore papa Clemente VIII di fabbricare una cella solitaria con alcuni avanzi del suo offizio per doversi poi dopo la fine di quello ritirarvisi come pensava di fare se la morte non lo sopraggiungeva, che è dolsuto a tutti grandemente, e per memoria sua ci è venuto nelle mani un mattone intiero che lui stesso aveva tolto quando si aperse la Porta santa per il santo Giubileo et il mattone della Porta di san Pietro in Vaticano, e vi è scritto il giorno che fu, con di più: iusti intrabunt in ea. Aviamo ancora il suo messale che tenne sempre nella sua cappellina quando stette rinchiuso, quale è stampato in Parigi, et il ritratto a olio della Madonna di Bolognia che dipinse San Luca, corniciato di pero. Vita di reclusione all’Eremo febbraro 1602 Essendo fornita la nuova cella de massi del Beato Alessio, et avendo fra Angiol Maria eremita, chierico con gl’ordini minori, di età di 32 anno in circa, avendo auti più tempo fa desiderio di ritirarsi e di applicarsi alla rinchiusione con licenza e beneditione del padre fra Aurelio eremita e 74 cf. Fonti documentarie e narrative, in questo volume III/1. superiore, la mattina della Purificazione prese la rinchiusione a tempo in detta cella. Iddio li doni perseveranza perche è stato il primo che abbia presa la perfetta institutione della rinchiusione con quegl’ordini et instituti che per li rinchiusi constumansi, si nel silenzio come nell’andare scalzo del tutto, con li zoccolini aperti in punta […] Il Reverendo padre fra Evangelista Cantini, che fu sempre del Convento della santissima Nunziata Maestro de Novizi con molto loro profitto e bene della Religione: questo era come madre o balia di qualsivoglia delli eremiti che andavano al Convento, e perché bene spesso quivi si arrivava molli, sudati o fuor di modo stracchi, elli con le proprie mani faceva loro ogni possibil carità di fuoco, di panni e di qualche ristoro, li asciugava, rifaceva il letto, e con dolcissime parole li confortava e consolava, e per conto loro poco conto teneva di patire qualsisia mortificazione; poi nella sagrestia li rispettava, li spediva a dir le messe. 2. Le Costituzioni dell’Eremo Le Constituzioni de’ Romiti del Sacro Eremo di Santa Maria de’ Servi di Monte Senario rappresentano un unicum nella storia dell’Ordine. Il volume stampato a Firenze nel 1613 si apre con la regola di Sant’Agostino; riporta le bolle (brevi) di Clemente VIII Decet Romanum Pontificem (22 ottobre 1593), Sacrorum locorum veneratio (3 luglio 1595), In his rebus authoritatis (29 dicembre 1600), Ordinis vestri conservationi (20 febbraio 1601); sosta nel denso prologo in cui riassume le vicende connesse con la “nuova fondazione del Sacro Istituto, e congregazione, de’ Padri Romiti di Monte Senario”; si chiude esibendo approvazioni cardinalizie e le bolle (brevi) di Paolo V Pastoralis officii cura (12 ottobre 1609), Alias per nos accepto (4 agosto 1611), Sedis Apostolicae circumspecta benignitas (2 ottobre 1612), Nomine dilectorum in Christo (1 ottobre 1612), Alias felici recordationi (13 ottobre 1612), Cum ex relatione (22 ottobre 1612) nonché la Tavola delle penitenze tassate nelle costituzioni e un Sommario delle indulgenze accordate dal medesimo papa (Spirituali consolationi: 21 novembre 1612). Le costituzioni ricevono approvazione nel capitolo generale dei Servi l’anno 1609, conferma dal papa Paolo V il 12 ottobre 1609. Le costituzioni degli Eremiti apportano la novità della lingua: scritte nell’italiano corrente, usano un forbito vocabolario cinque/seicentesco che aiuta a interpretare alcune formule del lessico latino ecclesiastico e del quale qualche frammento resta tuttora in espressioni gergali. Punteggiatura e maiuscole paiono dislocate più come decorativo che come segno diacritico significativo. Il testo originale veniva custodito quasi gelosamente, tanto che a nessun estraneo doveva venire mostrato, tranne a chi fosse intenzionato ad entrare nell’eremo. La normativa occupa tutta l’attenzione del testo costituzionale. L’osservanza garantisce la regolarità della vita e forgia l’eremita che da essa si lascia guidare. Non manca l’intuizione che anche le costituzioni sono ‘mediazione all’evangelo’: gli eremiti infatti sono esortati a che «con ogni loro studio habbino sempre avanti agl’occhi il Sacro Evangelio». Poiché la vita eremitica è assai dura, le costituzioni servono a regolamentarla, sostenendo la umana fragilità con numerose prescrizioni normative e penitenziali. All’eremo sono basilari la preghiera assidua e austera, nonché la molteplice austerità individuale; sono determinanti il capitolo e la figura del rettore e in parte altri uffici; è sintomatica e parrebbe agognata l’anacoresi, ossia la “rinchiusione” ovvero la solitudine nelle celle isolate; sono singolarità la riluttanza all’accoglienza di ospiti e forestieri e la riluttanza per gli studi. Il testo informa sulla situazione strutturale e logistica del convento di Monte Senario e di luoghi della sua periferia sul Monte nel Cinque/Seicento [Luigi M. De Candido]. Da Regola del Padre Sant’Agostino e Constituzioni de’ Romiti del Sacro Eremo di Santa Maria de’ Servi di Monte Senario. Confermate dalla Santità di N.S. Papa Paolo Quinto, in Firenze, nella stamperia di Bartolomeo Sermantelli e fratelli, 1613 Prologo alle Constituzioni della vita eremitica Dopo aver narrato sinteticamente le origini dell’Ordine e le alterne vicende di decadenza e rinascita che hanno caratterizzato la vita di Monte Senario, il prologo descrive la ripresa della vita eremitica sul Monte, a cominciare dall’anno 1594, riferendo notizie che troviamo in Vera e certa origine75. Per i primi anni i romiti si ressero osservando la Regola, parte delle Costituzioni dell’Ordine, e le indicazioni contenute nelle lettera apostoliche. Poi nel timore che la vita eremitica perdesse di forza, gli eremiti del Monte avvertirono la necessità di avere Costituzioni proprie. Pertanto: Risolvettero di fare una ristretta de i Capi principali et altri cavati da più Statuti d’altri Ordini, i quali havendogli prima approvati e passati per voti segreti e raccolto ogni cosa in un volume, si presero per Constituzioni. L’anno 1609, celebrandosi il Capitolo Generale dell’ordine a Roma, ve le mandarono per duoi Padri, con ordine di presentarle prima (come fecero) all’Illustrissimo et Reverendissimo Padre Fra Girolamo Bernerio, dell’Ordine de’ Predicatori, Cardinal d’Ascoli loro Protettore, il quale havendole vedute e ben considerate, e fatte vedere e considerare da più Padri, fatto accomodare molte cose e datone più volte relazione alla Santità di Nostro Signore Papa Paolo Quinto, a’ 13 d’ottobre del medesimo Anno, con un Breve, esso Pontefice le confermò. E per tor via alcune difficultà, quali potessero nascere, intorno ad alcune cose non così ben chiare in dette Constituzioni; e per levare ogni altro dubbio; l’Anno 1611, a i 4 d’Agosto, lo stesso Papa con un secondo suo Breve, più ampiamente dette Constituzioni riconfermò. Ultimamente per il molto sapere e prudenza dell’Illustrissimo et Reverendissimo Signor Fabrizio Verallo Romano Cardinale e Protettore (succeduto al Cardinale d’Ascoli morto) havendo di nuovo rivistele e ventilate, diede occasione a Sua Signoria Illustrissima d’ottenere dal Papa d’accomodarle in meglio, facendole ridurre secondo la buona lingua, levarle cose più volte replicate, quelle che si contradicevano difficili ad intendersi, moderate l’ardue da osservarsi, et altre inseritovi di sua volontà, e beneplacito ancora de’ detti Padri, Sua Santità, e per più quiete e soddisfazione di detta Religione, si compiacque di confermarle la terza volta con un Motu proprio. Dove essendo le Constituzioni già accomodate, il sopraddetto Motu proprio fu spedito a i 22 d’Ottobre 1612. Per la qual cosa, molto bene si può comprendere quanto quel Santissimo Pontefice habbia amato quel luogo e Padri, poi che non solo per tre Brevi spediti in diversi tempi, ha confermato le Constituzioni; ma ancora ha arricchito di grazie particolari quel Sacro Eremo, come si vede notato nel fine del libro. Da quali segnalati favori fattigli, non solo da lui, ma ancora dagl’Illustrissimi Protettori suoi et altri Cardinali e Prelati, si può giudicare quanto la gran Madre di Dio ne tenga particulare cura. Vero è che in esse Constituzioni non è tutta la perfezzione dell’Opera, havendo in esse solamente raccolto i Capi principali. Il rimanente che serve per mantenere et ornare l’osservanza Eremitica, è posto nel Libro di osservanza Regolare, tante fiate in esse citato. Tutta volta nelle Constituzioni sono ancora cose minime che si haveriano havute a porre in detto Libro, le quali non sono da disprezzarsi e massime da quegli che son zelanti dell’osservanza, come devono essere i detti Padri. All’incontro i delitti gravi e la correzzione delle colpe in più luoghi di esse nominati, non doverrà rendere ammirazione a quegli che nel leggere troveranno notato colpe così gravi. Dubitando che fra’ Romiti tali cose sieno occorse, onde sia stato necessario rimediarvi, col porle nelle Constituzioni, le quali leggi, per esser quasi comuni a buona parte de’ Religiosi, e notate ne’ loro Istituti, si sono poste ancora in questi. Oltre a ciò, pare ad alcuni che non devino tener nome di romiti, né quel luogo abbia a nominarsi romitorio, per abitare la maggior parte de’ Padri nel Munisterio e non nelle Celle separate, come è l’uso de’ Romiti. Tuttavolta, perché i primi Padri 75 cf. p. 247-260 messero in pratica l’instituto della vita Eremitica così, però, non avendo trovato le Celle separate, si seguita in modo loro. Ma poi che da qualche tempo in qua se ne son fatte per il Monte alcune, e tuttavia se ne faranno dell’altre, si verrà adempire tutto quello che conviene al nome di Romito. Anzi quegli che considereranno attentamente la disposizione delle presenti Constituzioni e quanto è disposto nel Libro d’osservanza Regolare, troveranno che questo modo di viver’Eremitico ha in sé della vita mista, dove si racchiudono tre gradi per arrivare alla vera perfezione Religiosa. I quali sono la vita Cenobitica, l’Eremitica e l’Anacoritica. La Cenobitica, per osservarsi quasi del tutto gl’instituti della vita Monastica, e per esser lontana dalle Città in alpestri e solitarij luoghi, è più sicura di quella che è posta fra varie occupazioni, quali distraggono l’animo dall’interna divozione. In oltre per quegli che nuovamente vengono all’Eremo, acciò non sieno nella prima lor’entrata spaventati dalla rigidezza della solitudine, hanno necessità d’imparare a salire il primo grado. Il quale è di quegli che per lunga prova fatta nel Munistero hanno imparato gli instituti della vita Monastica: ammaestrati dall’aiuto di molti et a combattere contro al Demonio, e come già bene instrutti con l’aiuto di Dio sufficienti alla singolare battaglia dell’Eremo, accesi di desiderio di solitudine, volendo salire il secondo grado, se ne vanno, con la Benedizione del loro Prelato ad habitare ciascuno nella sua Cella separatamente per poter più liberamente infiammarsi dell’amor di Dio; contentandosi di convenire con gl’altri notte e giorno a lodare il Signore nell’Oratorio: e nel resto, se la necessità non gli astringe, si godino la quiete dell’Eremo. Il terzo grado è de gl’Anacoriti, che appresso di noi son dimandati i Rinchiusi. Questi poi che son passati per i sopraddetti gradi, se alcuno ve ne è che sia studioso et vago di più libera Contemplazione e di maggior solitudine, per menar vita Angelica con l’aiuto Divino, possono ritirarsi in tutto da ogni pratica humana, eziandio dal consorzio de’ loro fratelli Romiti, non havendo libertà d’andar vagando come hebbero gl’Anacoriti antichi; ma stando riserrati nello spazio d’una piccola Cella e d’un Orticello, per istarvi o infino ad un certo determinato tempo, o veramente, se così piacesse loro, per non uscirne mai. Hor questo modo di vivere Eremitico è più sicuro e profittevole del Cenobitico, posto nella frequenza delle genti, e di quella antica Anacoritica e solitaria vita, la quale era posta in mezzo a molte necessità e pericoli per rispetto dell’humana fragilità. Là dove quegli che faranno all’Eremitica passaggio, standosene lontani dalle Cittadi, e remoti dalla frequenza e consorzio de’ secolari, ritirati nelle solitarie habitazioni, facendo solennemente voto di Povertà, Castità et Ubbideinza, sotto la Regola del Padre Sant’Agostino, sotto la disciplina del suo Prelato e finalmente sotto le Constituzioni del proprio suo ordine, son tenuti a vivere in continova regolare osservanza. Altro dunque non resta se non che si sforzino i Romiti, con sommo studio, di servirsi dell’ordine, delle loro Constituzioni, con la piena osservanza di esse, le quali gli insegnano una molto più rimota fuga dal secolo e gli propongono una assai più austera norma di vivere, quale da loro scaccia ogni occasione di scostarsi dal bene. Et oltre a questo dimostrano la dritta strada della corporal mortificazione, le continove vigilie e le lunghe fatiche per la parsimonia del nutrimento. E parimente insegnano, quasi col dito, il dritto sentiero della perfetta elevazione di mente a Dio, per mezzo del Silenzio e frequenti Orazioni. Resta finalmente che i Romiti, i quali hanno spontaneamente eletto l’Eremo per loro Munistero, attendino con ogni studio a vivere secondo le dette loro Constituzioni. E come huomini Apostolici si sforzino unitamente adoperarsi nel puro servizio di Sua Divina Maestà, in maniera tale che sia in tutti un sol cuore et una sola Anima, in santo legame di carità e pace. Acciò che così perseverando infino alla fine nella Regolare et Eremitica strettezza, possino essere in terra compagni di Giesù Christo nelle sue passioni, per dovere essere fatti coheredi seco nel Regno de Cieli. Del Divino Uffizio. Cap. 2 [...] Nel recitar’i divini Uffizij mai si dica alcuna cosa cantando, ma si salmeggi con la dovuta attenzione, divozione e maturità, con proporzionata distinzione di parole, con voce allegra, chiara e sonora, adagio con le dovute pause, e buon punto in mezzo di ciascun verso, cominciando e terminando tutti insieme, secondo il costume de’ Romiti. Delle Orazioni e Preci. Cap. 3 Inviolabilmente s’osservi che dopo Mattutino e dopo Compieta si faccia unitamente in Coro mez’hora d’Orazione mentale, misurata con l’Horiuolo a polvere, e vi convenghino tutti, eccetto gli Infermi. Delle Processioni. Cap. 4 Alle Processioni, che faranno i Romiti, si porti la pura Croce di legno, intorno alla quale siano i sacri misterij della Passione, né si usi mai Croce d’oro, d’Argento, né d’altro Metallo, né meno di legno dorato o intagliato [...]. Né vadino mai i Romiti fuor dell’Eremo [...] se non fino a San Martino a pigliar i cadaveri di quelli Religiosi o secolari c’havessero lasciato d’esser sepolti nell’Eremo, né a funerali, né a feste o adunanze di Curati o d’altri, né a Nozze, battesimi, Messe novelle, né a Sacra o vestimenti di Monache, né a Uffizij di morti, anco parenti de’ Romiti, né a qualsivoglia sorte di feste o d’adunanze. Non si vieta però che non possino i Romiti ricercati da’ Curati vicini, ottenuta la debita licenza, andar a dir messa ancora dove si facesse la festa, pur che non vi si fermino, né a pigliar cibo, né ad altro effetto, ma subito detta la Messa se ne partino [...]. Della Povertà. Cap. 12 [...] non dichino mai il mio mantello o la mia tonaca, ma il nostro mantello e la nostra tonaca [...] Non si metta né toppa né chiave alle celle de’ nostri dormentori, né a casse, armari o sgabelli o a qualsivoglia altra cosa Dello studio delle lettere. Cap. 17 Perché la vita eremitica non ha bisogno di molta scienza, ma di molta divozione e fervor di spirito, però si vieta l’instituir nell’Eremo Studio di qualsivoglia scienza; si come si proibisce ancora il condurre con salario, o senza, secolare o Religioso di qualsivoglia Ordine, per legger Lezzioni o vero insegnare ad alcuno di nostra famiglia [...]. Nondimeno se alcuno de’ nostri sentendosi capace, vorrà acquistar’un poco di scienza, acciò sia suffiziente Sacerdote, o per se stesso o con l’aiuto d’altri e de’ Libri, i Padri approvino questa volontà et esortino chi si sentirà atto a pigliar tal impresa; Avvertendo il Superiore che non solo non impedisca questi tali, ma per quanto potrà faccia loro animo, e gli dia ogni comodità, eccetto che il dispensargli dal Coro, e che nei giorni festivi possino attendere allo Studio sudetto. E se sarà nell’Eremo alcun intendente delle sacre lettere, debba insegnar’a gli altri, i quali convenghino in luogo atto, da assegnarseli dal Superiore e Maestro de’ Novizij, ad hore e tempi congrui. E mentre saranno occupati in imparare, osservino modestia, e non entrino in ragionamenti che possino deviargli da quell’opera. I Novizij non siano ammessi ad imparare scienza alcuna, né possino intervenire a tali Lezzioni, se non dopo la professione. Non si possino legger Libri o Lezzioni d’autori Gentili, superstiziosi, favolosi e sensuali, in prosa o in rima. I Laici, che devono attendere a gli esercizij manuali, acciò non cerchino di schifar le loro ubbidienze, non debbino intervenire a queste lezzioni e non possino tenere più di tre libri e l’uffizio della Beata Vergine [...]. E chi volesse dare alla stampa alcune opere sue o d’altri, oltre all’altre licenze, non possa farlo senza quella del Capitolo. E se sarà nell’Eremo alcuno dotato di tanta scienza che possa predicare o sermoneggiare, sia esortato tal’hora dal Prelato a farlo, ma non in altro luogo che in Capitolo, né coll’intervento d’altri che non sia di nostra famiglia, senza licenza del Prelato. Si proibisce il Predicare, Sermoneggiare, ricordar feste e far la Confessione all’Altare al modo de Curati, tanto nell’Eremo, quanto in qualsivoglia altra Chiesa. Similmente se verrà all’Eremo qualche Religioso di qualsivoglia Ordine, che sia solito predicare, il Prelato li faccia una cortese forza, che voglia fare qualche divota esortazione, per consolazione de’ fratelli. Non possa alcuno de’ nostri Romiti predicare o sermoneggiare fuor dell’Eremo, senza licenza del Capitolo. Della qualità e quantità di cibi. Cap. 20 Perché, secondo che si mutano le stagioni dell’anno, si mutano parimente le qualità e quantità de’ cibi [...], acciò che ciascuno e massimamente chi ha da ministrare queste cose sappia quali siano le vivande che alla giornata dovranno prepararsi, sotto nome di grasso e di magro, si dichiara che magro si dice quello che si dà condito senza huova, latte o formaggio, e grasso quello che è mescolato con huova, formaggio o latte. Il magro si potrà ben dar per il grasso, come quando mancano l’huova, che bene spesso avviene, ma il grasso per il magro non mai. Nella Quaresima maggiore e nell’Avvento ne’ giorni che si digiuna in pane et acqua, eccetto il Venerdì Santo, si concedono frutti d’ogni sorte ancora cotti, pur che senza condimento, e questa dichiarazione fu fatta a’ 9 di Luglio 1609 dalla Santità di Nostro Signore Papa Paolo Quinto, ad istanza dell’Illustrissimo e Reverendissimo Signor Cardinal d’Ascoli, nostro Protettore, non ostante che il Breve della felice memoria di Papa Clemente Ottavo dica che si debba digiunare in pane et acqua solamente [...]. E la state, nel tempo che sarà tagliato il fieno, per due giorni non però di quegli che sono dedicati all’astinenza e al digiuno, vadia la maggior parte de’ Romiti a raccorlo, dopo le messe, e avanti partino si recreino insieme nel luogo della recreazione, e la sera cenino insieme con quegli che saranno restati a casa, o dove si sarà lavorato o nell’Eremo, secondo parrà al p. Rettore, e non in refettorio ma nel luogo detto di sopra. Possa bene il P. Rettore ad ogni suo piacimento ne’ giorni e tempi leciti tra l’anno mandar’una parte, anco fino alla metà, de’ fratelli, fuori a qualche luogo dell’Eremo, ma non tutti, acciò ne resti parte per uffiziar il Coro, avvertendo che non vadino in case de’ secolari o anco di Religiosi, massimamente per far recreazione [...] e pur che ritornino all’Eremo l’istesso giorno [...]. Nella Quaresima e nell’Avvento non si tolleri in modo alcuno che si faccino recreazioni, ne’ quai tempi non vi si deve né anco pensare. E se alcuno ( permettendolo il P. Rettore) non si volesse ritrovare alle ricreazioni, non sia notata di singolarità, ma più tosto commendato d’osservanza [...]. Del modo di pigliare la Refezzione. Cap. 21 E per imitare in tutte le cose gli antichi e moderni romiti, quando si farà il digiuno di pane e acqua, i fratelli non entrino a tavola, ma sedendo a terra con le stuoie sotto, con i piedi mezzi nudi, e senza apparecchio mangino il pane quasi di cenere con pianto d’umiltà, e con vera contrizione bevino l’acqua quasi bevanda di lagrime [...]. Le tazze siano di terra, né si possino mai usar di vetro o d’altra qualsivoglia materia; di terra siano parimenti i vasi che servono alla mensa [...] e siano tutti segnati con il segno dell’Eremo. Con che ordine e modo si debbino scaldare i Romiti. Cap. 22 In tempo conveniente e quando la stagione lo ricerca per quegli c’habitano il Munistero si tenga il fuoco nella sua stanza e però il Custode di esso faccia che non si patisca et a richiesta di qualsivoglia faccia con carità che ve ne sia e chi ne volesse per le Celle, ne pigli a sua elezzione. Quando i fratelli si scaldano s’osservi silenzio: e per non istar oziosi recitino Salmi, Hinni o Preci ad elezzione del maggiore che fra essi sarà a scaldarsi, arrivati al numero di quattro, et i Laici ad arbitrio del Superiore o Maggiore; e quando si scaldassero da loro senza che vi siano Sacerdoti o Cherici, siano tenuti dire Pater noster et Ave Maria, et avanti la refezzione del desinare, che si scaldino tutti insieme, si legga una lezzione volgare, di Libro divoto sino che farà cenno il Superiore, avvertendo di stare al fuoco con ogni composizione. Dal mese di Agosto fino a tutto Settembre, sia cura del Camarlingo provvedere che alla stanza del fuoco et alle Celle separate sia provvisto di quella quantità di legne grosse, minute, brace e carboni, che possa bastar per tutto l’Inverno; ma avvertischino i Romiti di non l’abbruciare incautamente e senza bisogno, acciò essi ancora per questo non provino più lungo tempo il fuoco del Purgatorio. In Sagrestia si tenga il fuoco quando sarà bisogno, per causa dell’humidità, e per comodo di chi celebra per iscaldarsi un poco le mani, ma finito di dir le messe non è lecito scaldarvisi, per tor via ogni rompimento di silenzio. Del silenzio. Cap. 23 Il silenzio deve osservarsi a suo luogo e tempo; potrà però il Superiore alle volte dispensarlo et alle volte no. I giorni onnimamente indispensabili si dichiarano essere gli infrascritti: tutte le Domeniche dell’Anno, tutte le feste de’ Santi comandate dalla Chiesa e dalla Constituzioni, i Venerdì di tutte le Settimane dell’Anno e tutti gli altri giorni nei quali per qualche causa si trasferisce l’astinenza di pane et acqua, et dalle ventiquattro hore di ciaschedun giorno fino a Prima del giorno seguente, e similmente l’hore diputate la State alla dormizione del giorno, s’osservi il Silenzio da quegli che sono nel Munistero. Così ancora sono alcuni luoghi che non ammettono dispensazione di Silenzio, come la Chiesa, la Sagrestia, il Capitolo, il Refettorio et il Dormentorio, e le strade che camminano lungo le Celle sequestrate, ne quali giorni e luoghi potrà il Superiore conceder dispensa a qualch’uno, che n’havesse bisogno, ma non mai a tutta la Comunità. I giorni e tempi ne’ quali è dispensato il Silenzio si dichiarano esser gli infrascritti: Tre giorni della Settimana in tutto ‘l corso dell’Anno, sia dispensato il Silenzio da dopo l’hora di Prima fino alle ventiquattr’hore, cioè la terza e quinta feria et il Sabato. E se in alcuni di detti giorni occorrerà festa di precetto, si trasferisca la dispensa in un’altro giorno libero e non impedito, e se fussi festa ogni giorno della settimana habbia onnimamente tre giorni di dispensa [...]. Se alcuno sarà sì zelante e studioso del silenzio che non si voglia servire della licenzia dopo che sarà dispensato, ponga alla porta della sua cella una tavoletta nella quale sia scritto a lettere maiuscole: Silenzio. E chi la vedrà, non ardisca chiamarlo senza licenza del Prelato. E se ancor fuori vorrà servar l’istesso, subito che alcuno gli vorrà parlare, si ponga il dito alla bocca, acciò per tal segno gli altri intendino che, per osservar silenzio, non vuole che se gli parli. Ciascuno di nostra famiglia si assuefaccia a parlare con la voce sommessa et a non far mai alcun tumulto, gridi o voce alta che si possa sentir per l’Eremo. E se due o più saranno a ragionar’insieme, faccinlo tanto sommessamente che quegli, che se gli avvicinano, non possino sentire, perché questa è la forma del parlare Eremitico. E perché il silenzio si rompe non solo con le parole, ma ancora con lo strepito, però è necessario d’astenersi da ogni romore e manuale essercizio tanto vicino alla Chiesa, mentre si celebrano le Messe e i divini Uffizi, quanto per i Dormentori, Celle, vie e luoghi pubblici, mentre si fa l’orazione e si dorme, e massimamente di notte. [...] Si proibisce in tutto e per tutto il poter tenere nel nostro Eremo uccelli di qualsivoglia sorte e qualsivoglia altro animale latrabile, attegiatore o inquieto. E perché la carità fraterna ricerca che alle volte si conceda qualche straodinaria, se bene honesta, licenza di parlare, però otto giorni avanti alle due Quaresime si dispensa il silenzio ogni giorno, all’hore, luoghi e tempi soliti [...]. Degli esercizij manuali e comuni. Cap. 25 [...] Non possino i Romiti far’esercizij manuali di sorte alcuna, senza licenza del P. Rettore: senza licenza del quale et anco del Capitolo non si possono donare, vendere o in altro modo alienare qualsivoglia cosa fatta da loro, ancor che di divozione. Si proibisce a tutti i nostri Artefici andar’a posta ad esercitar l’arte loro fuori dell’Eremo [...]. In che modo possino i Romiti uscir fuori dell’Eremo. Cap. 31 [...] somma ricreazione l’andar solitari sopra i monti e i prati e nelle solitudini de’ boschi. Del modo di ricevere i forestieri. Cap. 32 Il desiderio che tengono i Romiti, che l’hospitalità sia nell’Eremo con ogni carità e diligenza esercitata, è tra gli altri grandissimo: provedasi per tanto di stanze separate dalle Celle et altre Officine dell’Eremo, bene accomodate, acciò si possa comodamente adempire questo santo uffizio di carità. E quando il Munistero di S. Martino sarà edificato, in esso si ricevino i forestieri et hospiti, et allhora quei pochi letti, che resteranno nell’Eremo, s’usino senza lenzuoli e materassi e siano simili a quegli de’ Romiti, con un semplice pagliericcio, lenzuoli di lana e con la schiavina, se già non occorresse far’altrimenti, con occasione d’alloggiar qualche Prelato o altro personaggio. Il che si rimette alla prudenza del Prelato: si come se occorresse caso, nel quale paresse necessario ricevere persone di qualità, anco nell’Eremo, vi si possa ricevere, se così parrà all’istesso P. Rettore et a’ Conservadori. Et all’arrivo degli Hospiti, il P. Rettore (che dovrà esser’il primo avvisato) ordini ad uno de’ Foresterai che gli riceva, o vero gli riceva lui, secondo la qualità delle persone, e sia ciascuno ricevuto con somma letizia, e tanto a loro quanto a’ Compagni e cavalcature si preparino le cose necessarie, secondo la possibilità del luogo, siano con tutto ciò i Poveri et i Pellegrini ricevuti con maggiore carità, perché in loro più si riceve Cristo, et il rispetto de’ ricchi per sé stesso si fa honorare. Gli Hospiti subito giunti siano prima condotti all’Oratorio per farvi un poco d’orazione, se non fussero però di tal condizione che non convenisse dir loro tal cosa; facciasi dunque intorno a ciò quello che meglio giudicherà il Foresterario deputato alla lor cura. A tutti quegli che di paesi lontani verranno peregrinando a piedi et a tutti i Religiosi che verranno scalzi, i Foresterai lavino i piedi per usar quest’atto d’humiltà e carità e d’edificazione: faccino parimente i Foresterai la benedizione della Mensa, avanti che gli Hospiti entrino a tavola, e nel fine rendino le grazie, avvertendo di non fare curiosi apparecchi, a modo de’ secolari, né adornino le Mense di fiori o verdure [...] Non si permetta a qualsivoglia persona Secolare o Religiosa, che verrà all’Eremo (benché fusse superiore della Religione e venisse per visitare o per altro) il mangiar carne: non solo nell’Eremo, ma né anco in San Martino: possa bene il Capitolo permettere che in San Martino si mangi carne, se v’alloggierà qualche personaggio Illustrissimo, il che non si faccia se non quando non si potrà far di meno. Avvertasi di non ricevere all’Hospizio Religioso alcuno di qualsivoglia Ordine che non sia conosciuto almeno da due o tre de’ nostri o che non habbia le dovute licenze e patenti del Superiore o dell’Ordinario del luogo d’onde sarà partito, acciò non s’incorra nella pena della Bolla della felice memoria di Papa Sisto Quinto, e l’istesso s’osservi con i Romiti vagabondi o girovaghi. Et i Sacerdoti non conosciuti, che volessero celebrare, sia cura del Sagrestano fargli produrre la loro dimissoria. E siano cauti il P. Rettore e il Foresterario di non accettar Banditi, debitori o contumaci della Corte secolare, se però non fossero da essi forzati con violenza. E non sopportino che i forestieri usino parole di bestemmie, o di mormorazioni verso il prossimo. Nè lascino introdurre nell’Eremo, né anco nella foresteria di S. Martino, qualsivoglia sorte d’instrumenti da sonare, né Musica o altri canti, né qualsivoglia sorte di giuochi o instrumenti da giuocare. Non si permetta in verun modo sotto qualsivoglia titolo, o colore, ad alcun secolare lo stanziar lungo tempo nell’Eremo, ancorche facesse donazione, testamento o legato o altro comodo temporale: non s’intendendo però de’ fattori e famigli, i quali né anco devono ammettersi senza la licenza del Capitolo. Avvertasi di non dar mai causa a persona alcuna di venir’all’Eremo, e però le limosine, che necessariamente si fanno, quando il Munistero di San Martino sarà habitabile, si diano in quel luogo, acciò la nostra solitudine sia vera e senza occasione di corrompersi. Né meno sia lecito a’ Romiti il frequentar le Chiese de’ Secolari, sia similmente lor proibito à fatto l’esercitar la cura dell’anime, eccetto in caso di grandissima necessità. A’ forestieri che non sapessero la strada nel partirsi, non si nieghi la guida. Siano molto cauti i Foresterai nel ministrare alle Donne ne’ giorni ch’è permesso loro il venir’all’Eremo. Si habbia cura che almeno una volta l’Anno i Rettori delle Chiese vicine all’Eremo a dieci miglia, ricordino a’ loro popoli che venendo Donne all’Eremo, fuor de’ giorni statuiti, cascano in scomunica. Del modo di mantener l’osservanza e dell’autorità del Capitolo. Cap. 37 Acciò che l’osservanza dell’Eremo si mantenga, il Capitolo legittimamente ragunato, oltre all’autorità c’ha di poter determinare tutte le cose spirituali e temporali appartenenti all’Eremo e sua famiglia, tenga particular cura della disciplina et osservanza regolare, e però habbia autorità e facultà di far Decreti, Ordini e Constituzioni in quello che riguarda l’osservanza della vita Eremitica [...] . Perché questo luogo di Santa Maria de’ Servi di Monte Senario è nominato Romitorio e quei che vi abitano sono astretti a far vita eremitica e contemplativa, però non possino i nostri Romiti da veruno inferiore al papa esser tirati o mandati ad altra vita [...] e questo luogo non dovrà mai servir ad altro che per farvisi vita eremitica conforme al suo principio. [...] Fu proccurato e ottenuto dalla felice memoria di Clemente ottavo che veruno della famiglia de’ Romiti possa da qualsivoglia superiore, eziandio cardinale, esser cavato dall’Eremo o rimosso da questo nostro instituto o trasferito ad altro luogo ancorché del medesimo Ordine, etiam per breve tempo allontanato dalla vita eremitica; e però non possa il p. Rettore o Capitolo dell’Eremo o altro superiore rimuovere o astringere alcuni de’ nostri ad uscir fuori dell’Eremo, per qualsivoglia causa, ancorché pia. Quando i superiori della Religione verranno a visitar l’Eremo, debbino principiar la visita un giorno dopo l’arrivo loro, e seguitarla continuamente, senza interporvi giorni in mezo fino a che l’avranno finita, acciò quanto prima la spedischino [...] E dopo che saranno stati visitati tutti i fratelli, avanti che si venga a publicar cosa alcuna, dovranno detti superiori chiamar i due Conservadori dell’osservanza eremitica e conferir loro tutto quello c’hanno in animo di risolvere, a fin che se vi fusse cosa che tendesse a relassazione o vero fussi contraria alle nostre Costituzioni e alla vita eremitica, possiamo insieme con il Capitolo mostrargli che tali ordini non si adattano al nostro instituto, e perciò non possiamo esser astretti ad accettargli e mettergli in esecuzione. Delle cose da proporsi in Capitolo. Cap. 40 Non si possino tagliar abeti né altro legname grosso dentro al circuito e muro dell’Eremo senza [...] licenza (del Capitolo). Quando sarà necessario far legne grosse e minute, brace, carboni o tagliar boschi per l’Eremo dentro e fuori del muro [...] s’elegghino in Capitolo duoi vocali i quali insieme al Camarlingo vadino a vedere gli alberi o boschi e referischino poi all’istesso Capitolo il parer loro. Il p. Rettore e Camarlingo proccurino di mantener le selve e boschi dell’Eremo con far piantar ogn’anno buona quantità di abeti, inserir piante e far altre diligenze per ciò necessarie. E perché non è lecito senza licenza del Capitolo tagliar legne dentro al circuito dell’Eremo per non guastar la vaghezza del luogo, chi taglierà alberi verdi senza licenza del p. Rettore o del Capitolo digiuni per ciascun albero una volta in pane e acqua. Dell’autorità del Padre Rettore. Cap. 43 Il Padre Rettore deve sapere che non è stato eletto a quell’ufizio per honore, ma per fatica, e però sia lui il primo a far tutte quelle cose, alle quali esorterà gli altri et usi verso i fratelli discrezione et in se stesso severità et vigili più alla cura dell’anime che alla disposizione delle cose temporali; e non si astenga dalla correzzione de’ delitti per humiltà indiscreta o per falsa benignità, non dissimuli i peccati de’ delinquenti, ma quanto prima può gli tagli dalle radici e guardisi di non esser egli riprensibile in quella sorte di difetto che vuol riprendere e correggere in altri. Sia intelligente della Scrittura Divina e se non potrà per assiduità di studio, ne sia almeno imitatore per bontà di costumi, essendo debito del Prelato ornare il nome della sua degnità con gli esempi di santità, modestia, prudenza e mansuetudine, e sia talmente ornato di carità che nel correggere sia vero operatore di Santa Pietà. Impari per tanto di cercare l’errante pecorella e ritrovata metterla su le proprie spalle e ridurla al gregge. E si guardi di fare come quei perversi Pastori che con piacevolezza accarezzano le pecore contagiose et irritano e percuotono le mansuete, acciò l’anima sua non n’habbia da render stretto conto al supremo Signore. Si sforzi il Padre Rettore d’haver particular cura dell’anime de’ fratelli Infermi, acciò che per mancamento di medicina spirituale non perischino malamemte nell’afflizzioni, benche giuste, e ricordisi che gli infermi fratelli devono esser’aiutati, perché i sani non hanno bisogno d’aiuto, e c’ha da rendere rigoroso conto di quegli che perissero per colpa e negligenza sua. Studisi ancora esser zelante del culto divino, e sia il primo alle fetiche e l’ultimo al riposo [...]. Della qualità de’vestimenti et Habiti de’ Romiti. Cap. 46 Avanti alla festa d’ogni Santi, o al più lungo a S. Martino, ogni Romito habbia le vesti che gli bisognano. E però nel Mese di Agosto si faccia una ricerca tra’ fratelli delle cose che mancano a ciascuno e se ne faccia memoria. I Romiti nostri sono tutti obligati a portar l’habito nero sopra, e sotto bianco, senza mistura d’altro colore: la materia poi de’ vestimenti dovrà sempre esser vile, grossa e di poco prezzo. E però la tonaca, il mantello, l’habito, cappuccio, capperuccia e berrettino saranno del medesimo panno fatto di lane grosse del nostro o di altro paese [...]. I Guardacuori, Camiciuole, calze, cosciali, calzette e punte devono essere di panno bianco se si può, di lane del paese, e non si potendo si tolghino dal casentino [...]: gli tonacelli, che si portano sopra le carni, siano lunghi braccia due [...]di saia schiavona della più grossa [...]. Non si possino mai usar panni di lino se non per far mutande, benducci e cosciali [...]. Le pianelle d’ogni tempo s’usino col sughero [...]. I cappucci siano di forma piccola, povera et humile, tutti uguali, e non passino in modo alcuno la spalla [...]. I Mantelli per i Romiti habbino avanti al petto le mandorle d’ottavo giusto e siano più corti della tonaca tre quarti di braccio [...]. Chi havrà l’ubbidienza di tagliar’i vestimenti, dovrà intendersi dell’arte del Sarto, nel mestiero del quale nessuno s’intrometta. Della qualità e misura delle Celle, tanto de’ Dormitorij quanto delle separate. Cap. 54 Le Celle de’ nostri Dormitorij siano tutte ad un modo semplici e pure, e d’una stessa bianchezza e pulitezza; le muraglie siano spogliate e sia una stanza sola di lunghezza di braccia sette e di larghezza di braccia sei; e volendo i Padri farne delle minori per maggior povertà e maggior numero le possino fare, ma delle maggiori non sia lecito farne senza licenza del Capitolo. Si proibisce far nelle Celle acquai, armarij cavati nella grossezza de’ muri, e tenervi casse, sgabelli, panche, predelle o scannelli, dove si possa riporre cosa alcuna, e le porte delle Celle si faccino da capo tutte uniformi, cioè o tonde o quadre; deve ben sapersi che le tonde sono più secondo l’osservanza Regolare, e le porte di tavole siano tutte lavorate ad una medesima maniera, e non si faccino d’altro legno che d’albero o d’abeto, del proprio colore e non d’altro finto; si vietano le stuoie o portiere et arme impresse o attaccate, ma in quel cambio si ponga nelle porte di legno una Croce pur di legno o di carta, tutte ad un modo. I Saliscendi siano di legno o di ferro et i Monachetti siano fasciati di panno o d’altra cosa simile. Per tor via ogni strepito, per tirar la porta in cambio di Campanella, vi sia una nottola di legno e per aprirla una cordella di forte spago legato al saliscendo. Gli Antichi Padri Institutori della vita Eremitica per comodità di chi doveva habitar le Celle solitarie e sequestrate da Ministri, ordinarono che fussero simili a casette con una sola stanza di sopra, sotto la quale fussero più spartimenti, di piccole officine, e così ordinano i Padri nostri, che quelle che si faranno nell’Eremo siano simili et habbino nell’entrare il portico, sotto il quale s’entri nella Cella, dove sia l’andito, la Saletta, il Camino, l’Armadio, lo Studio, la Ruota da porre le cose necessarie, il Legnaio, l’Acquaio, la Cappella per celebrar la Messa e dire notte e giorno i divini ufizi [...]. Siano gli Horti loro serrati intorno da siepi, steccati, o mura tanto alte verso le strade Maestre, che chi è dentro non possa esser veduto da chi passa, e non si permetta che siano habitate se prima non saranno così serrate [...]. Del perfetto stato della rinchiusione a tempo e perpetua. Cap. 56 [...] S’ordina [...] che a’ Romiti i quali desiderano et affettuosamente dimandano la rinchiusione dopo ch’havranno tre anni di professione e saranno d’età d’anni trenta, il Padre Rettore la possa lor concedere, ma per breve spazio di tre mesi o al più di sei, né possa in modo alcuno passar questo termine, et a quegli che la vorranno per più lungo tempo o perpetua, non la possa conceder’altri ch’il Capitolo dell’Eremo, né si dee conceder questa rinchiusione per lungo tempo, se non a quegli che più volte o almeno per detti sei messi l’havranno provata, e portatisi in essa lodevolmente, cioè con osservanza, con silenzio, con esser ferventi all’Orazione et a tutte l’altre opere virtuose [...]. Quello che devono osservare i Romiti rinchiusi, oltre alle comune Instituzioni. Cap. 57 I Romiti rinchiusi tanto per breve o lungo tempo, quanto in perpetuo, devono inviolabilmente osservar le cose infrascritte. Nell’Oratorio portino sempre il Mantello e nell’entrarvi s’asperghino con l’acqua benedetta, la quale dovranno farse ogni Domenica o si dovrà portar loro di Chiesa. L’hore Canoniche tanto diurne quanto notturne, non passeggiando o vagando, ma attentamente e divotamente le recitino nell’Oratorio e non quando essi vogliono, ma mentre si diranno in Coro, e però dovranno osservare il cenno della Campana, e tutte quelle cirimonie et osservazioni che circa il recitar dell’hore canoniche, nel Libro dell’Osservanza Regolare sarà notato, e nel recitarle dovranno talmente temperare il tempo che l’uffizio loro duri quanto quello del Coro, e se pure finissero un poco più presto quel tempo, che gl’avanzerà, per fino che sarà finito l’uffizio del Coro, lo spendino in altre orazioni vocali o mentali o leggendo libri spirituali a lo’elezzione [...]. I reclusi il giovedì santo (e poi anche il venerdi e il sabato santi) devono uscire dalla loro reclusione per «venire nella chiesa comune e intervenir con gl’altri alla comunione, alla refezzione e al mandato». Delle Constituzioni e loro osservanza. Cap. 58 [...] Esortiamo [...] nella carità di GIESU’ Christo Nostro Signore tutti i nostri Padri e fratelli Romiti che con ogni loro studio habbino sempre avanti a gl’occhi il Sacro Evangelio, la dottrina e gl’esempi de’ Santi Padri e le lodevoli consuetudini della Vita Eremitica, e che faccino ogni cosa con retta e santa intenzione, et indrizzino tutti i loro pensieri parole et operazioni ad honore e gloria di Dio et a salute de’ prossimi; perché facendo questo, saranno illuminati dallo Spirito Divino, il quale in ogni occorrenza somministrerà loro tutto quello c’havranno a fare, et osservare di più che non si contiene nelle presenti Constituzioni, per salute propria et augmento della santa osservanza, e per il buon progresso di questa Santa Eremitica compagnia, il che ci conceda Iddio, a maggior suo honore e gloria et ad utilità delle nostre anime. 3. Lettera di Antonio M. Medici a Gabriele Boni La lettera che fra Antonio M. Medici indirizza a Gabriele Boni, è un resoconto particolareggiato del viaggio che egli fece con altri due eremiti - Joseffemaria [Giuseppe Suarez]76 e fra Giovacchino - da Monte Senario a Innsbruck, dove erano stati chiamati dall’arciduchessa Anna Giuliana Gonzaga, desiderosa di avviare una comunità di Servi secondo lo spirito dell’eremo di Monte Senario. Essi passano per Bologna, Modena, Reggio Emilia, Guastalla, Mantova - dove incontrano il duca Francesco II Gonzaga, nipote di Anna Giuliana -, Verona, Trento. In questa lettera molto si parla di Anna Giuliana, chiamata sempre “madama” o “sua Altezza”, di cui si mette in rilievo la vita penitente, e il grande desiderio di avere un numero maggiore di eremiti. Fra Antonio chiede a nome di lei almeno altri due eremiti, un padre e un fratello. Della lettera sono riportati brani che raccontano l’accoglienza degli eremiti da parte dei conventi che incontrano durante il loro viaggio, accoglienza fatta sempre con molta cordialità e amore, a parte un’eccezione: una bella testimonianza della vita fraterna di allora. Gli eremiti arrivano il 5 giugno 1615 a Innsbruck; verso la fine del 1616 fra Antonio viene mandato da Anna Giuliana a Roma per ottenere la dispensa dagli usi eremitici e non torna più in Austria; nel 1617 è a Montevirginio 76 Eremita a Monte Senario dal 1609. Muore a Innsbruck nel 1637. Dopo quattro giorni dal suo arrivo a Innsbruck accompagna Anna Giuliana Gonzaga a Praga, dove sua figlia è vicina al parto. Di qui egli invia una lettera a Gabriele M. Boni, in cui lo ragguaglia del suo incontro con la figlia dell’arciduchessa e suo marito l’imperatore Mattia. Conclude con le speranze di un buon successo della fondazione in Innsbruck: «[…] Delle speranze del nostro progresso il padre fra Antonio Maria supplirà […], ma bisogna prima cominciare, e però del buon desiderio che hanno delli padri della Religione ce ne rallegriamo, ma per ancora non se lo può dare resoluzzione, massime che mi può credere che l’impresa è più difficile di quello che altri credessino. Adhora abbiamo patito e patiamo la nostra parte, ancorché molto volentieri, prima del viaggio, poi dell’austerità del paese, dove non è né vino, né olio, né pane, né frutte, né anco pesce, né ovi se non in molta scarsità, e mantenendo la nostra solita vita dell’eremo come per grazzia del Signore in sin qui habbiamo fatto con altra e tanta edificazzione del prossimo, con quanta nostra fatica e travaglio, può considerare se sguazziamo o no. […] Di Praga, alli 27 giugno 1615». edizione: Ch. A.M. MOONEY, Identity, Community and a Paradigm for Baroque Spirituality in the Correspondence of the Early Servite Germanic Observance (1611- 1625), “Studi Storici OSM”, 32 (1982), p. 96-99. - Antonio M. Medici, eremita di Monte Senario, a Gabriele M. Boni. Innsbruck, 16 giugno 1615 Jesus Maria Reverendo Padre in Cristo osservantissimo Per gratia di Dio benedetto siamo arrivati qua in Spruch il dì 5 di questo con prospero e felicissimo viaggio, e per il viaggio per tutto dove siamo stati ci è stato fatto grandissime carezze; e principalmente a Bologna il padre reverendissimo ci ricevé con molta carità dandoci tutte quelle satisfatione che desideravamo, et al convento di san Giorgio dove noi allogiamo ci furno fatte grandissime carezze dal padre maestro Livio, che è la gentilezza stessa; e dal signor cardinale Capponi legato, il quale visitammo, fummo visti tanto volentieri, che non ve lo potrei mai dire; e particolarmente fra Joseffemaria, che era stato suo amico al secolo, e stemmo da lui da un hora in circa e senza li domandassimo niente volse a tutti i modi che accettassimo una buona carità che ci volse fare. Feci le vostre raccomandatione a fra Giovanni Batista e li dissi quanto mi pareva necessario per suo bene, così quello mi haveva detto vostra Paternità; sta a lui adesso il farne capitale. A Reggio poi fummo riceuti da quel padre priore, che è un certo maestro Lorenzo da Scandiano, con tanta carità et affetto che restammo tutti e tre confusi, perché oltre alle molte carità che ci usò quel benedetto padre, ci volse lavare i piedi, subito che arrivammo, di sua propria mano, con tutto che gli facessimo ogni resistenza possibile. È buon per la Religione se havessi parecchi padri di questa sorte, che in vero fa vergogna a noi altri eremiti, che se si usassi la carità che usa questo padre verso gli hospiti, costì al eremo, buon per noi. A Modena trovammo quel padre che portava il vostro quadretto del san Lorenzo, et andammo di compagnia fino a Reggio. Vorrei dirvi molte altre cortesie che ci usò quel benedetto priore di Reggio, ma non finirei mai, solo questa vi basti per ultimo, che volse a tutti e modi darci uno de sua conversi che ci aiutassi portare le nostre fasche fino a Guastalla, con tutto che li facessimo ogni resistenza possibile. A Guastalla quei padri sono molto amorevoli e ci ricevenno con molta carità; e vi è il padre parrochiano che è molto amico di vostra Paternità e ci fece molte carezze e ci domandò molte volte di lei, et haveria pur caro che vostra Paternità una volta vedessi quella loro chiesina tanto devota e ben accomodata e così ben tenuta, con tanta pulitia che io restai stupito. […] A Verona ricevemmo carezze grande dal fratello di fra Giovanni Batista, che subito seppe eramo arrivati al monastero, ci venne a levare e volse andassimo a casa sua, il che noi non recusammo, perché quei padri di Verona non ci ricevettono con molta buona cera, poiché arrivammo quivi sul’hora di vespro e molto stracchi, e non ci fu pur offerto un bichiere di vino, né meno ci fu dato un poco di stanza da mutarci. Passato Verona avanti che arrivassimo a Trento, trovammo chi haveva ordine di qua da Madama di riceverci e ci furno fatte molte carezze, così in dua altri luoghi avanti arrivassimo a Spruch fummo riceuti con molta cortesia, e vicino a dua giornate a qui ci venne incontro un padre fra Lelio da Milano, che sta qui per stanza mandato dal confessoro di Madama, e vicino a Spruch dieci miglia ci venne incontro l’istesso padre confessoro, e con quanta carità et affetto ci ricevessi saria cosa lunga il raccontarlo. Solo li dirò che lui stesso con le sue proprie mani ci volse lavare i piedi a tutt’a tre. E se bene io ho fatto molta instanza, che fussi dato il carico di priore al padre fra Joseffemaria, non ho potuto sfuggire questo peso e mi è convenuto chinare le spalle. Perciò, con quel maggiore affetto che io so e posso, prego vostra Paternità mi voglia aiutare con le sue orazioni acciò che io eserciti questa carica con quel frutto che si conviene, sì mio come d’altri. Il padre fra Joseffemaria è stato fatto maestro de novitij, ufitio che non sarà men grave che il mio, et ancor lui si raccomanda molto a vostra Paternità et alle sue orationi. Il giorno di poi il nostro arrivo andammo a presentarci davanti a Madama serenissima, la quale con quanta allegrezza et affetto materno ci habbia riceuto, saria impossibile il narrarlo. Basterà solo dirli che si è satisfatto al desiderio che ha auto tre anni continuvi questa principessa di havere dua padri eremiti, il quale è stato tanto grande, che questa signora ci ha detto più volte che non li pareva poter trovar quiete fino a che non otteneva questa gratia, da lei tanto desiderata. Resta hora che noi ci portiamo di maniera che essa non resti punto ingannata del’alto concetto di bontà di vita che ha di noi, che questo con l’aiuto di sua divina Maestà spero, se non al meno in tutto, in buona parte sia per restare satisfatta. E gli dico certo, padre mio, che questa signora tiene una vita tale che ci fa gran vergogna, sendo la principessa che è molto corpulenta e tuttavia si sta in un letticciuolo, conforme a nostri senza lenzuoli, con una sola materassa e coperta di lana. Ha eretto dua monasterii di monache: uno di terzaruole dove lei habita, l’altro di claustrali, con una bellissima chiesa in mezzo che serve a tutti a due e monasteri, e l’ha arricchita di sì bei paramenti, argenterie e reliquiarij per la valuta di fiorini 300.000 fino adesso, e tutta via vi fa qualche cosa di nuovo. Vi è un calice d’oro massiccio con tante pietre preziose sopra il piede, che costa fino a 4 mila fiorini, et una vesta della Madonna che è di rilievo, che sta sopra l’altare maggiore e serve in cambio del ciborio, perché nel quore di essa si tiene il santissimo Sacramento, la quale per le molte perle et altre gioie con le quali è ricamata vale fino a trentamila fiorini. Ha poi fatto fabbricare un altro monastero per li padri, che fino adesso li costa più di sedici mila fiorini e non è ancora finito del tutto, ma presto sarà condotto a perfetione. Questo è fuori della città e lontano dal monastero delle monache più di mezzo miglio, e li padri non sono obbligati ad altro che a mandare due messe il giorno alla chiesa delle monache, sendo poi nel resto governato da preti. Qua al nostro arrivo non ci haviamo trovato altro che dua padri soli della Religione, sendosi gl’altri partiti avanti. De quali uno solo, che ha buon animo di riformarsi, ci è restato et il confessoro di Madama. È piaciuto tanto l’abito nostro a sua Altezza che vuole che li padri che vogliono star qua si vestino di questo abito, perché dice che questo li pare un’abito da santi.E subito ha fatto rivestire il suo confessoro e quel padre che è restato qua di abito simile al nostro e si è trovato un panno che non poteva essere più conforme al nostro. Circa il resto della vita si vedrà di accomodarla di maniera che ognuno possa durarla havendo riguardo al paese, che così è la mente di Madama serenissima, la quale al nostro arrivo stava in punto di partire per Praga, non aspettando altro che la nostra venuta. E dovendo andare un di noi in compagnia del suo confessoro per accompagniarla in questo tempo che starà là, che saranno da tre mesi in circa, ho giudicato bene che vadia il padre fra Joseffemaria, che così si è contentata Madama. E partirno di qua il dì 14 del presente. E dovendo restare qui solo et havendo sentito Madama serenissima che l’altro padre che haveva mandato a chiedere non veniva altrimenti, ha volsuto di nuovo fare istanza a superiori li sia mandato in compagnia di un laico che sappia fare la cucina. Che sopra ciò ne scrive anco al padre rettore del’eremo e non si può far di meno di non dare satisfatione a questa signora, sì come io a lungo ne scrivo al padre rettore con nomirarli fino a tre padri che mi parriano approposito per qua, perché non tutti sono il caso; perciò prego anco vostra Paternità che faccia ufitio col padre rettore che delli nominati, sì di quei del coro come de laici, ce ne mandi dua a sua eletione. E questo deve premere a loro come a noi, perché se ci mandino qualcuno che non fussi approposito, saria vergogna e biasimo di tutti. Madama voleva mandare per quattro, ma noi l’haviamo fatta capace che non si può levare tanti padri dal eremo, perché il luogo ne patiria e così si è contentata di questi due. Non ci mancono poi l’occasione di vestire, perché di già haviamo dato l’habito ad un giovane molto suffitiente, che è stato qui un mese a prova, e tre altri sono in pronto per vestirsi, che seguirà subito che Madama torni. E tutti sono bonissimi suggetti et hanno buone lettere et spero in breve si habbia da fare buon progresso con l’aiuto di Sua Divina Maestà. In tanto vostra Paternità ci aiuti con l’orationi e ci raccomandi a tutti codesti altri padri nominatamente. Fra Joseffemaria avanti partissi mi disse che scrivendo a vostra Paternità li facessi sue raccomandazioni, sì come fa anco fra Giovacchino, il quale per gratia di Dio si porta bene et ha fatto miracoli, poiché in otto giorni ha auto a fare la cucina, il pane et ha tagliato e cucito tra habiti intieri di tutto punto, che mi ha fatto stupire. Il Signore lo mantenga in questa buona dispositione. Molte altre cose haverei da dirli ma ho pieno il foglio, però farò fine, con raccomandarli di quore e pregharli dal Signore il colmo d’ogni perfetione. Di Spruch, il dì 16 giugno 1615 Di vostra Paternità reverenda Affetionatissimo fratello nel Signore fra Antonmaria eremita, padre [?] IV. Monachesimo femminile Nel Cinquecento, e poi con maggiore intensità nel corso del Seicento, il movimento femminile, che già nel Quattrocento aveva dato vita a comunità di terziarie77, apporta con il suo impegno di vita un contributo non marginale al processo di riforma dell’Ordine. Oltre ai monasteri di claustrali, esistono comunità di donne consacrate che svolgono alcuni compiti nell’ambito della chiesa e della società: è un’esigenza di servizio fuori dall’istituzione monastico-claustrale, avvertita con forza sempre maggiore negli ambienti della Riforma cattolica, come testimoniano, ad esempio, le suore Orsoline di sant’Angela Merici (1470-1540) o le suore Angeliche della contessa Ludovica Torelli di Guastalla (1550-1569). Per la documentazione relativa a monasteri e comunità di suore di questo periodo cf. la sezione Fonti documentarie e narrative. Nella presente sezione si trovano testi riguardanti Anna Giuliana Gonzaga e suor Umiltà, del monastero di Innsbruck . Riguardo a Maria Benedetta de Rossi, fondatrice del monastero di S. Maria delle Grazie a Burano, si riportano due testimonianze, di Gregorio Alasia e Giovannangelo Schiavetti, rispettivamente del 1618 e del 1619; la sua figura, comunque, come già detto, sarà più ampiamente trattata nel quarto volume delle Fonti. Altre figure femminili sono nella sezione agiografica di questo volume. 1. Anna Giuliana Gonzaga Anna Caterina Gonzaga, che cambierà il suo nome in Anna Giuliana quando prenderà l’abito del Terz’Ordine dei Servi, nasce a Mantova nel 1567; muore il 3 agosto 1621. A 15 anni, per motivi politici, viene data in sposa a Ferdinando, arciduca d’Austria. Rimane vedova a 29 anni e si prepara alla vita monastica, a cui fin dall’infanzia aveva aspirato. Fonda un monastero claustrale, la cui costruzione inizia nel 1607, e le cui monache prendono il nome di “Serve della Vergine”. L’anno dopo ne scrive le Costituzioni che Paolo V approva nel 1610. Intraprende anche la costruzione di un secondo convento, dove le religiose non erano tenute a una stretta clausura e non erano legate dal voto di povertà, dovendo questo convento pensare alle necessità del monastero. I due conventi non facevano ancora parte di alcun Ordine specifico. Nel maggio 1611 il Servo di Maria Pietro Felini passa per Innsbruck nel suo viaggio dalla corte dell’Elettore di Baviera a Roma78, e incontrandosi con l’Arciduchessa e il suo confessore, il cappuccino fra Nicolò Barchi da Mantova, spiega la spiritualità dell’Ordine dei Servi, di cui Anna Caterina già certamente doveva essere a conoscenza quando si trovava a Mantova, e che la riforma protestante aveva spazzato via dalle terre tedesche. Anna Caterina accetta con entusiasmo di restaurare l’Ordine incominciando dai conventi da lei costruiti. Si decide di chiedere al papa che il Barchi passi all’Ordine dei Servi e che sia il primo cappellano Servo di Maria della nuova fondazione. Il priore generale, Antonio da Corneto, concesse al Barchi la facoltà di vestire l’abito dei Servi; la cerimonia, il 25 ottobre 1611, fu presieduta da fra Emilio Contini, vicario generale della Provincia di Mantova. Barchi andò a Mantova per compiervi l’anno di noviziato. Nel novembre 1611 Anna Caterina accompagnò sua figlia a Vienna per le nozze con il futuro Imperatore Mattia. Il 24 dicembre ricevette, insieme a sua figlia Maria, la concessione di partecipare ai benefici dell’Ordine. Nel luglio 1612, ancora insieme a sua figlia, entra con una cerimonia privata nel convento delle suore terziarie da lei fondato, assumendo il nome di suor Anna Giuliana. Tutte le suore ricevevano il nome di Anna, la madre della Vergine, a ricordo dell’impegno specifico che si assumevano di assistenza e aiuto al monastero claustrale. Con l’elezione di Mattia a imperatore, crebbe non solo il prestigio di Anna Giuliana, ma anche l’aspettativa della Santa Sede. In una lettera a lei indirizzata Paolo V le chiedeva di continuare ogni sforzo per favorire la riforma cattolica79 , in particolare alla luce della devozione alla Vergine addolorata: «come 77 cf. Fonti storico-spirituali, II, p. 386-401. Per gli scritti di Pietro Martire Felini da Cremona (+1613) cf. BRANCHESI, Bibliografia, III, p. 84-87. 79 “Studi Storici OSM”, 16 (1966), p. 14. 78 essa (Anna Giuliana) poi molte volte affermava le parve al punto di veder in quel Santo Habito la stessa Madre di Dio lacrimosa al piè della Croce»80. Accentua la devozione all’Addolorata. La sua spiritualità si ispira alla vita comunitaria, alla preghiera, all’umiltà, all’austerità. Nel 1615 fa costruire a Innsbruck un convento per i Servi e qui chiama gli eremiti di Monte Senario, ponendo in questo modo la prima pietra di quella che sarà l’Osservanza Germanica. Vestizione Lettera di fra Emilio Contini, vicario generale in Germania81, a Lelio Baglioni (Innsbruck, 7 luglio 1612) edizione: Ch. A.M. MOONEY, Identity, Community and a Paradigm for Baroque Spirituality in the Correspondence of the Early Servite Germanic Observance (1611- 1625), “Studi Storici OSM”, 32 (1982), p. 71-74. Reverendissimo padre maestro signor mio e padrone osservantissimo Essendosi fatta qui in Ispruch il dì primo e 2° del corrente un’attione la più bella e honorata, anzi la più pia e santa che mai sia stata udita nella nostra Religione a grandezza sua e gloria di Dio, meriterei biasmo e castigo se non ne desse parte a vostra Paternità reverendissima per l’osservanza e riverenza che li porto, persuadendomi di certo che come padre principalissimo della Religione la sentirà con gusto et allegrezza infinita. Domenica, donque, questa serenissima arciduchessa diede segno della gran devotione che ha alla beata Vergine et alla Religione de’ Servi, poiché lei, insieme con la serenissima principessa Maria sua figlia, con esse tre gentildonne sue serve et una donna di servitù, prese l’habito del 3° Ordine di nostra Religione con devotione incredibile e stupore di tutta la città, havendosi sino tagliati i capelli, mutato il nome e lasciata affatto ogni grandezza di principessa, volendo vivere per sempre ritirata in una casa che ha fabricato a modo di convento vicina al convento delle suori che lei ha edificato insieme con dodici e più sorelle, se bene al presente non se ne sono vestite se non quattro. E questa attione fu fatta con sollenità grande per mano del reverendissimo suffraganeo dell’illustrissimo vescovo di Bressanone fatto venire a questo effetto. Il quale quella mattina cantò la messa solenne et a mezo la messa, havendo benedette le vesti, diede l’habito, havendogli io concessa l’authorità, alle sudette serenissime Altezze e donne. E fu tanto il contento e l’allegrezza che mostrò sua Altezza, che havendo l’istessa mattina ricevuta la nuova dell’incoronazione della felicissima imperatrice sua figlia, la quale fu sentita con quell’allegrezza che ognuno si può imaginare, nondimeno sua Altezza preso l’habito e li veli, che dal capo li pendevano alle spalle, in mano baciandogli e ribaciandogli, disse, essendo presente il padre Gioseffe confessore et io: “Godasi la figlia in santa pace la sua imperial corona, che a me è mille volte più cara la corona di questo santo habito, del quale mi ha gratiata la mia dolcissima Signora imperatrice del cielo”. Et si è data ad humiltà tanto bassa che sprezza ogni grandezza, cede il primo luogo e la destra mano alla priora, non usa argento né a mensa, né in altro luogo; un cuchiaro di legno e l’istessa piatanza, né niente di più, con le altre monache. Si ha mutato il nome e chiamasi suor Anna Giuliana. Et la sottoscritione delle sue lettere è questa: “Suor Anna Giuliana d’Austria indegnissima serva delle Serve della Madona santissima”, lasciando il titolo d’arciduchessa, et havendo mutato il sigillo il quale è l’imagine della beata Vergine appogiata alla croce con il coltello nel petto, con il moto Maria fletus e sotto un picciolo scudetto dell’arma d’Austria. Anzi che brama sua Altezza haver la vita e miracoli, se ve ne sono d’autentichi, della nostra beata Giuliana, di cui per honore e riverenza ha preso il nome, con pensiero d’impetrare dalla Santità di nostro signore facoltà e gratia di poterne 80 Giuseppe M. Barchi, Vita et Morte della Reverendissima et Serenissima Madama Suor Anna Giuliana Gonzaga Arciduchessa d’Austria … Mantua 1623. 81 Emilio Contini da Mantova fu il primo vicario generale OSM in Germania negli anni 1611-1612. fare l’officio dopio; onde suplico vostra Paternità reverendissima voglia dare in ciò quel maggior aiuto che sia possibile con l’opera del padre maestro Arcangelo Bruscoli, al quale mi farà gratia fare che quella mia le sia comune per non havere io tempo di scrivere separatamente. Il nome delle altre suori terzarole è questo: la serenissima principessa Maria, suor Anna Caterina; suor Anna Francescha, suor Anna Barbara, suor Anna Monica, le 3 gentildonne di camera; suor Anna Felicita, una serva. L’istesso giorno furono vestite ancora tre suori professe di Sboz, le quali sua Altezza ha ottenuto da nostro signore per maestre delle novizze del monasterio novo. Il giorno poi della Visitazione della beata Vergine furno vestite sollenissimamente le suori del monasterio con questo bel ordine. La mattina a hora conveniente si radunorno esse nella chiesa principale della città e si cominciò la processione. Prima precedevano 6 trombete; 2°, dui chori di cantori, i quali cantavano alternatim le lettanie della Madona santissima; 3°, seguiva una belissima imagine di rilievo della beata Vergine richissimamente adorna portata da 4 angeli vestiti ricamente con collane d’oro al collo e corone similmente intessute di gioie in capo, sotto un baldachino portato da principali gentilhomini della città; 4°, seguirono le vergini tutte vestite di raso bianco con corone di molto prezzo in mano et in capo; andavano a una a una ciascheduna nel mezo a 2 angeli, uno alla destra con un belissimo crocifisso in mano, l’altro alla sinistra con una falcola grossa di cera bianca accesa; 5°, le quattro suori terzarole; 6°, noi con il clero di preti; ultimo monsignor reverendissimo con il concorso di tutta la nobiltà e plebe dello Stato. 3 volte furno scaricate tutte l’altegliaria con strepito tale che pareva volesse cadere a terra la città: una nel entrare in chiesa, la 2ª nel uscire e entrare vestite nel monasterio, la 3ª nel andare a tavola. Gionti in chiesa si cantò prima il Veni Creator, poi la messa, dopo il Credo monsignor benedì le vestimenta, poi si vestirno in secreto, rese [?] sino al ressiduo della messa vestite, e si comunicorno in fine, e si cantò il Te Deum. Sua Altezza scese in chiesa a suono di trombe e monsignor reverendissimo le accompagnò tutte nel monastero, constituì la priora e si finì la festa in grandezza della nostra Religione, la quale spero debba da sì alto principio conseguire augmento maraviglioso col favore di questa Altezza serenissima. Il nome delle suori è questo: suor Maria Anna priora, suor Maria Cleofa, suor Maria Marta (queste 3 di Sboz), suor Maria Salome, suor Maria Jacobi, suor Maria Giovanna, suor Maria Maddalena, suor Maria Geltruda, suor Maria Angela, suor Maria Chiara, suor Maria Agnes, suor Maria Mattilda. Supplico vostra Paternità reverendissima ad accettare questo in segno della riverenza e memoria che tengo di lei e delli oblighi infiniti che le porto, quali mi scordarò mai, che sono pure creatura sua per sua gratia. Con che fo fine, le bacio riverente le mani. Saluto il padre maestro Arcangiolo et amici. Mi rallegro del padre maestro Azi al quale ho scritto 2 volte, et a vostra Paternità reverendissima desidero ogni acrescimento di felicità. D’Ispruch, il dì 7 luglio 1612 Di vostra Paternità reverendissima Devotissimo et obligatissimo servitore fra Emilio Contini Professione Da una lettera di Giuseppe M. Barchi82 a Margherita, duchessa di Ferrara, vedova di Alfonso II d’Este e sorella di Anna Giuliana (12 dicembre 1613) edizione: Ch. A.M. MOONEY, Identity, Community and a Paradigm for Baroque Spirituality in the Correspondence of the Early Servite Germanic Observance (1611- 1625), “Studi Storici OSM”, 32 (1982), p. 85-89. […] Havendo Madama serenissima [Anna Giuliana], la serenissima principessa sua figlia e le altre sorelle nostre fatto per un’anno et più la dovuta et necessaria probatione dell’habito che presero, si risolsero il giorno passato della Presentazione di Maria vergine [21 novembre] di sposarsi a Giesù Christo con voto solenne, sotto la Regola del terzo Ordine delle terziarie nostre. Al qual effetto havendo prima Madama predetta dato fine alla sua casa regolare, fatto il testamento, et ciascuna d’esse accomodate le cose loro, si preparorno per sette giorni continui con tutte quelle astinenze, discipline, humiliationi et altri esercitij spirituali, che giudicorno poter loro acquistar maggior premio di merito santissimo della professione. Nel primo giorno dunque fecero la confessione generale di tutta la vita loro passata nel secolo; nel secondo digiunorono secondo il commune uso, ma presero il cibo prostrate in terra; nel terzo si diedero una disciplina estraordinaria; nel quarto si communicorono et presero le stationi a i sett’altari del monastero, c’hanno l’indulgenze secondo le sette chiese di Roma; nel quinto digiunorono parimente, ma il digiuno fu in pane et acqua; nel sesto poi andorono tutt’il giorno con la tonica sola senza l’habito et il velo, et in esso sette volte ingenocchiate chiesero per l’amor di Dio, per li dolori di Maria vergine, l’habito santissimo accusandosi indegne; et nel settimo finalmente continuorono il digiuno in pane et acqua et adimandarono perdono l’una all’altra delle negligenze usate nel divino servigio, con promessa d’emendatione et d’esser più serventi et infocate nell’avenire. In questo medesimo giorno, che fu quello che precesse alla festa della Presentatione sudetta, si cantò vespro solennissimo con varii instrumenti et con concorso di popolo quasi innumerabile. La mattina poi seguente per tempo le serenissime Madama et figlia con le altre sorelle passarono dalla casa secolare nel choro del monastero delle claustrali nostre et seco condussero le due serenissime d’Ala, con molte gentildonne et altre persone religiose, et con l’assistenza del serenissimo arciduca Massimiliano nostro prencipe, et quivi si diede principio alla processione […]. In chiesa in tanto si cantavano da’ cantori alcuni motetti della Madonna, ch’era una dolce melodia a sentire. Arrivata la processione nella cappella di Madama sudetta, si posero le loro Altezze, le madri claustrali, le sorelle, le religiose et le gentildonne tutte nei proprij luoghi della medesima cappella, con l’intervento del serenissimo Massimiliano sudetto et noi altri religiosi, che a niun’houmo né donna secolare fu permesso l’entrarvi, così commandando detta Serenissima. In questo diede fine la musica et io incominciai privatamente la messa, all’offertorio della quale Madama sudetta et la serenissima figlia con le altre sorelle tertiarie si mossero dei loro luoghi et vicine all’altare, si prostrorno distese con la faccia in terra, et quivi stettero tanto che da’ religiosi miei si cantò l’hinno Veni Creator Spiritus etc.; si levorno poi et inginocchiate con abbondante lacrime che gli piovevano dagli occhi chiesero, per l’amor di Dio et per gli dolori et meriti di Maria vergine, che fosse loro concessa gratia d’ammetterle alla santa professione. Questa domanda fu fatta da Madama serenissima in nome proprio, della serenissima figlia et delle altre, con parole et affetto tale, che mossero e compunsero i cuori di tutti i circonstanti a particolare divotione et pianto. Conseguito quanto intensamente desideravano, fecero ad una per una la bramata professione in mano mia, nella quale promisero, oltre l’ubbidienza et castità, d’osservare la loro Regola, d’essere sempre proveditrici, difenditrici et serve perpetue di queste suore claustrali del monastero, et fideli dispensatrici delle entrate che Madama sudetta gli ha lassato. Questo voto particolare ha 82 Giuseppe Barchi da Mantova, confessore di Anna Caterina Gonzaga, passa dall’Ordine dei Cappuccini a quello dei Servi nel 1611. voluto e vuole detta Serenissima che facciano le sorelle tertiarie, acciò le suore claustrali siano sicure d’esser proviste in ogni loro necessità et bisogno, et d’havere a suo tempo le entrate de’ beni sudetti, affinché con maggior quiete d’animo possino servire a Iddio et a Maria vergine, conforme all’obligo loro.Fu fatto quest’atto della professione da dette serenissime e sorelle, con una croce nelle mani, et io gli posi il velo in capo ad una per una, con una stella in fronte turchina, in segno della loro professione, et che perciò devono aspirare alle cose del cielo sole et non più inchinarsi a quelle della terra, et spogliarsi dell’affetto mondano. Diedi loro il manto nero, come testimonio evidente che già sono morte al secolo et vivono solo a Giesù Christo et a Maria vergine, per contemplare i suoi dolori et quelli portare interiormente et esteriormente. Coronai il loro capo con una corona di spine in segno di penitenza et di dispregio delle cose mondane. Et finalmente gli posi una fiaccola accesa in mano, come scopo del buon’esempio che con le opere loro devono dare ad ogn’uno di se stesse. Oltre la croce, che ciascuna di esse teneva in mano, ne havevano un’altra di panno rosso cucita sopra la tonica alla parte del cuore, quale portavano sempre in segno della Passione di Giesù Christo e per la memoria d’essa devono continuamente havere. Et in questa maniera se ne stettero le novelle spose sino all’ultimo della messa, nel fine della quale presero tutte insieme, con le madri claustrali, la santissima communione. Doppo si prostrorono di nuovo con la faccia in terra, fin che da’ cantori fu cantato interamente il responsorio: Regnum mundi et omnem ornatum saeculi contempti etc. Levatesi poi in [piedi] di nuovo s’abbacciorno et strinsero l’una et l’altra con tal’effetto d’amore, di devotione et di carità, che resero non solo ammirati tutti noi altri, ma inteneriti di modo che ci piovevano da gli occhi gran copia di lacrime, considerando vedere alla nostra presenza principesse così grandi, madre et sorella d’imperatrice, con atti di così profonda humiltà farsi eguali alle sue serve nel vitto et vestito, et chiamarsi loro sorelle, anzi divenite di loro serve. […] retiratesi ciascuna nei loro luoghi, ecco comparire all’improvviso un giovinetto in habito angelico, che fatta prima riverenza al sacro altare, alle loro Altezze serenissime et a’ circonstanti, recitò alcuni dottissimi versi. Si cantò poi il Te Deum laudamus, et subsequentemente si diede principio alla messa grande, che fu solennissima, sì di musica, come d’apparati nobilissimi; onde la chiesa et capella parevano un paradiso. Terminata la messa le loro Altezze, con il serenissimo arciduca, con le altre principali entrorono a pranzo con le madri, et ciò per privilegio particolare di sua Altezza serenissima, che l’istesso giorno fece in segno d’allegrezza cibare tutti i religiosi della città et dispensò buona somma di denari a’ poveri, acciò anch’essi godissero di queste spirituali consolationi et rendessero gratie al Signore et alla santissima Madre sua di questa celeste vocatione. Doppo pranzo si predicò, et finita la predica Madama serenissima vestì due giovane dell’habito suo delle tertiarie, presente il serenissimo arciduca, la serenissima figlia et tutti gli altri che furono a pranso nel monastero. Queste sono state le prime, alle quali Madama sudetta habbi dato l’habito di sua propria mano. Si cantò poi il vespro et la compieta, non dai musici, ma dalle suore, così ordinando l’Altezza di Madama predetta, il che fu con stupore grande del popolo et di tutti gli intervenienti che in così breve tempo nel monastero siano riuscite monache tanto virtuose et habili al divino servigio; le quali cantano parimenti alcuni motetti proportionati alle feste della Presentatione et della professione, compositione delle medesime suore, che si udirono con molta consolatione di tutti et furono commendati per molto belli, di che se ne deve la gloria et l’honore a Giesù Christo et a Maria vergine, principali oggetti de parti tanto nobili. Il giorno poi che seguì a questa solennità, Madama sudetta lo spese tutto in servigio di Dio benedetto, della beata Vergine et di tutta la celestiale corte, et nelli sette subsequenti si essercitò con la serenissima figlia et le altre sorelle in una particolare divotione verso la Vergine santissima, prostrandosi quotidianamente in terra per buon spatio di tempo avanti l’imagine sua, salutandola et coronandola con dodeci Ave Marie, per le dodeci stelle con le quali si trova coronata in cielo. Particolarmente spesero il primo per memoria della santissima Concettione sua senza peccato; il secondo per l’allegrezza che con la Natività sua ha apportato al mondo; il terzo per la sua Presentatione nel tempio; il quarto per l’Annonciatione; il quinto per la Visitatione; il sesto per la Presentatione che fece di Giesù Christo suo figlio; il settimo et ultimo per la gloriosa Ascensione in cielo, chiedendoli particolarmente per cadaun giorno particolari gratie corrispondenti alle meditationi che in ciaschedun d’essi havevano havuto. Et spetialmente chiesero monditia di cuore, gusto nel ben’operare, perfettione nel secolo, vera humiltà, sincera divotione, fortezza spirituale et finalmente perseveranza nel divino servigio, con l’acquisto dei beni di vita eterna. […] Due conventi femminili Lettera di Lelio da Milano83 a Feliciano Penna, procuratore generale OSM (Innsbruck 11 marzo 1623) edizione: Ch. A.M. MOONEY, Identity, Community and a Paradigm for Baroque Spirituality in the Correspondence of the Early Servite Germanic Observance (1611- 1625), “Studi Storici OSM”, 32 (1982), p. 137-138. Molt’illustre et molto reverendo signor mio osservantissimo Mi spiace per l’ordinario passato haver fastidito con miei travagli Paternità molto reverenda, perché s’io havessi havuto patienza havrei con una sola lettera sodisfatto et alle sue dimande et espostoli le mie miserie; hora sendo fatto, non posso altro che chiederli perdono. Per bene dunque informarla, deve sapere come Madama nostra nel principio haveva intentione solo di fabricare il monastero delle claustrali, né mai haverebbe imaginato d’introdurre anco li frati; et però lasciò sottoporre esse claustrali all’ordinario, come in effetto sono. È ben vero che qui nella Germania non sono così tenaci li preti di governar monache, anzi pregano et lasciano la cura loro alli religiosi, come con queste nostre si fa. Poiché d’alcuna volta in poi che nel principio comparve monsignor vicario di Bressanone al vestir et alla professione d’alcune, da indi in poi sempre han lasciata la cura del tutto al nostro padre vicario. Ma non resta per questo che il ius non sia loro et che ad ogni lor piacere non possino constituire un prete. Crescendo poi l’animo a Madama, fabricò il monastero delle tertiare, tra quali si vestì anch’essa con la figliuola, ch’anc’hoggidì vive. Hor queste sono del tutto sottoposte al nostro superiore, nelle mani del quale fanno professione di castità et obedienza, ma non di povertà, perché quelle sono restate heredi di essa Madama et ad esse tocca dar li suoi bisogni et entrata alle claustrali et a noi, et nelle loro mani sono restate tutte le cose preciose della chiesa, che passano il valore di mezo millione. È ben anco vero che l’uno e l’altro monastero hanno per confessore et predicatore un Zoccolante, il quale al mio giudicio non si lascierà levar di possesso forsi mai, et piaccia a Dio non ci toglino il tutto il governo di esse monache. L’Italiano è troppo malvisto da’ Tedeschi, et questi nostri giovani non hanno anco auttorità. Se Madama campava, voleva ben lei unire questi monasterii con la Religione, perché sendo italiana l’amava, ma morta lei a me pare sia morta ogni speranza nostra. Del resto di novo la supplico per le viscere di Giesù Christo per la gratia che li chiedevo l’ordinario passato, tanto più che la carestia va ogni giorno più crescendo, onde molti moiono di fame, s’aggiugne il sospetto di peste; anzi il nostro padre vicario ha scritto all’illustrissimo padre generale per essere sgravato almeno di 12 bocche, che in vero non si può più. Aspetto consolatione et li baccio humilmente le vesti. Inspruch, li 11 marzo 1623. 83 Un Servo di Maria conventuale, giunto la prima volta a Innsbruck nel 1613 e poi ritornatovi nel 1618 per diventare membro della nascente Osservanza. 2. Suor Maria Umiltà Monaca del monastero claustrale fondato da Anna Giuliana Gonzaga, morta a 24 anni in concetto di santità (1620). Si riportano due testimonianze rese a Gregorio Alasia da fra Joachim M. Auer, il primo Servo di Maria austriaco ad essere ordinato sacerdote nell’Osservanza germanica. Le due lettere sono scritte in latino. Lettera di Joachim M. Auer a Gregorio Alasia a Firenze. Innsbruck, 11 giugno 1622 edizione Ch. A.M. MOONEY, Identity, Community and a Paradigm for Baroque Spiritualità in the Correspondence of the Early Servite Germanic Observance (1611- 1625), “Studi Storici OSM”, 32 (1982) p. 134-135. Poiché nella vita di Anna Giuliana Gonzaga, scritta dal Barchi, manca il ricordo di suor Maria Umiltà, Auer vuole colmare la lacuna fornendo queste notizie: A riguardo di suor Maria Umiltà (non essendo su di lei alcuna parola nella vita della Serenissima) ho pensato di aggiungere solo questo: secondo la testimonianza del suo confessore, fin da bambina non ha mai commesso un peccato mortale; ha sempre mostrato un’incredibile pazienza nelle sue continue infermità; ha sopportato ogni avversità con spirito sereno e lieto; contro l’obbedienza, come attesta la priora, mai è apparsa mormorare o commettere un’infrazione con una sola parola o con un gesto. Si è affaticata con premura nel lavoro, sebbene fosse sempre afflitta da una salute cagionevole; con rara maestria e perizia dispose fiori variopinti, decorati e scintillanti di oro e pietre preziose, che nelle feste più solenni sono esposti in chiesa alla vista di tutti. Nel momento supremo della sua vita, quando già l’anima sembrava partire, mentre le due Serenissime e le altre suore erano intorno al suo letto e pregavano l’inno che si chiama Planctus beatae Virginis, quando si giunse alle parole Quando corpus morietur fac ut animae donetur paradisi gloria. Amen84, consegnò a Dio tre volte buono e grande l’anima che da Lui aveva ricevuto. Lettera del 16 luglio 1622 edizione: Ch. A.M. MOONEY, Identità, Community and a Paradigm for Baroque Spirituality in the Correspondence of the Early Servite Germanic Observance (1611- 1625), “Studi Storici OSM”, 32 (1982) p. 135-136. Alla lettera speditami dalla Paternità vostra reverenda rispondo umilmente che la nostra sorella Maria Umiltà, il 17 dicembre, circa all’ora nona di notte, nell’anno del Signore 1620, all’età di 24 anni, è partita da questo baratro di miserie alla vita beata; quello che ho scritto alla Paternità vostra reverenda sulla bontà della sua vita, lo ha attestato il molto reverendo padre Enrico Seyfrid suo confessore e provinciale riformato pro tempore dell’Ordine dei Francescani nel Tirolo. Ha vissuto in religione 6 anni. […] P.S. […] Molto reverendo padre, mentre scrivo la presente lettera, la priora della suddetta sorella mi ha mandato questo compendio della sua vita, scritto con queste testuali parole: “La nostra sorella Anna [Maria] Umiltà, ha abbracciato la vita monastica il 21 maggio 1614. È morta il 17 dicembre 1620, a 24 anni di età, ma è da dirsi sessagenaria per perfezione di costumi e di vita. Ha conformato ottimamente il suo nome al comportamento. Dall’ingresso in religione fino all’estremo respiro di vita mi ha dato un’obbedienza perfetta, senza alcun segno di contraddizione”. 84 Si tratta dunque dello Stabat Mater 3. Maria Benedetta de Rossi Suor Adriana de Rossi, terziaria dei Servi, già appartenente al convento delle Agostiniane di S. Girolamo di Venezia, fondava a Burano nel 1619 il monastero di S. Maria delle Grazie e prendeva il nome di Maria Benedetta a) Lettera di Gregorio Alasia al Giani, 7 aprile 161885 edizione: D.M. MONTAGNA, Adriana de Rossi a Burano in una relazione del 1619, “Moniales Ordinis Servorum”, 2 (1964), p. 98 […] Non so se v.p. habbia cognitione d’una nostra tertiaria, detta suor Adriana da Venezia, di pari santità e virtù come questa qui di Roma. E però per assicurarmene le scrivo le stesse parole, che mi sono state scritte questa settimana da un nostro padre di colà86, il quale gli ha dato una delle nostre carte. Dice dunque ch’ella sta come in deposito nel monasterio di s. Geronimo, sino che a sua instanza sua fabbricato un monasterio; e già sono preparati li denari e luoco e si procura da Roma la licenza, e si vestiranno la prima volta tredici verginelle, che già sono disposte ad imitazione del collegio apostolico et anderanno scalze con il nostro abito. Dice poi che fa una vita angelica: scalza, dorme sopra le tavole, sta in continua meditazione, mortificata, obbediente a tutti et in tanto infervorata nell’amor di Dio, che quando se ne tratta con lei s’infiamma tutta e resta assorta in Dio; delle cose di Dio ragiona con grandissima pena, passione et è insomma cosa mirabile. Queste sono le proprie parole, che mi scrive questo mio amico87. b) Relazione di Giovannangelo Schiavetti, scritta nel luglio del 1619 all’Alasia88. Il perugino Giovannangelo Schiavetti (+1650) era stato a Venezia ed era entrato in amicizia con suor Maria Benedetta. L’interesse della lettera sta soprattutto nell’accenno, fatto in via del tutto confidenziale, a una riforma dell’Ordine sul modello dei Cappuccini, per la cui realizzazione si fa affidamento sulla de Rossi. edizione: D.M. MONTAGNA, Adriana de Rossi a Burano in una relazione del 1619, “Moniales Ordinis Servorum”, 2 (1964), p. 101-103. Pax Jesu Christi crucifixi «Congratulamini omnes qui diligitis Dominum». Sono stato, piacendo al Signore, a Venetia, dove mi son fermato quindeci giorni. Et quasi subbito andai a trovare quella nostra monacha, quale sta in Burano lontano da Venetia cinque miglia, dove si fabbrica il convento tuttavia, se bene di già le moniche habitano il convento. Quali sono tre vestite professe che erano pinzochere et diece sono oblate solamente con la tonica, il capo de’ quali è quella suora Adreana da Venetia, della quale tante volte habbiamo discorso insieme. Et sappi, vostra paternità, che quello si dice di lei è poco [rispetto] a quello che io ho visto cogl’occhi proprij; et acciò meglio lo possi intendere si metta a sedere et legghi, chè comincio. Doppo che arrivai a Burano insieme con il p. Gio. Geronimo Falgherij e da cinque gentildonne, di subbito entrassimo in convento, poiché non è ancor clausura per rispetto della fabrica. Subbito fece una genuflettione sino in terra et mi baciò la tonica et mi dimandò la beneditione. Et quasi subbito io dimandai commodità di poter discorrere con lei, poiché di già il barcarolo aspettava et anco le gentildonne. Basta: doppo haver discorso con lei due hore continue, ci separassimo per la volta di Venetia; però con gran fatiga, perché né io né lei trovavamo la strada 85 Originale in Archivio Generale OSM, Annalistica, miscellanea.B. Filza 2. Beati, inserto 71. Fra Gian Girolamo Falgher, che scrive all’Alasia con notizie sulla de Rossi «da Venezia, 31 marzo 1618». 87 Archivio generale OSM, Annalistica, miscellanea B. Filza 2. Beati, inserto 71. L’amico è fra Gian Girolamo Falgher. 88 Originale in Archivio Generale OSM, sezione Annalistica, codice Collectanea Alasia, f. 94-95v. 86 di finire. Et il discorso fu quasi tutto di quello negotio nostro, circa la riforma ad immitatione de’ Capuccini. Partissimo per Venetia et di lì a dui giorni io tornai; et lei operò anco che io tornassi; dove stetti da lei per tre giorni continui senza partire. Et in quei tre giorni, fra la mattina e il giorno, discorressimo insieme almeno venticinque hore, con molta mia sadisfattione, circa quel negotio. Lei lo vuole conforme a’ Capuccini, perché così vanno lei et le sue moniche. Hor sentite meraviglia. Doppo la comunione infallibilmente ha l’estasi, oltre che tra il giorno ancora ha tre o quattro tempo d’estasi. Et io “oculis proprijs” fra gl’ordinari estasi et i straordinarij, l’ho vista quattro volte in estasi. Et per il nostro negotio ha hauto un estasi: quello poi gli sij passato non me l’ha conferito alla scoperta; ma però i segni manifestav(an)o qualche cosa, poiché con grandissima diligentia ha operato che io tornassi a parlargli et quasi non mi voleva lassar partire. Con grand’istanza m’ha pregato che gli scrivi. Ancora m’ha dato in nota dove devo scrivere, acciò le lettere vadino secure et perché dubitava che il p. Gio. Geronimo Falgherij non gl’apprisse le mie lettere. Vuole che scriva ad un secolare suo benefattore, che si chiama il signor Gasparo Buselli, in Calle de’ Stagnarij alla Madonna de’ Colori. Sì che queste conditioni fanno manifesto che nell’estasi del nostro negotio ci sij la volontà del Signore. Hora staremo aspettando che lei trovi un luogo lì in Burano, dove possiamo dar principio. Conferitelo in segreto con fra Gaspare et invitatelo, se però riescierà il negotio. Hora voglio raccontarvi le meravigliose sue virtù, oltre l’estasi. Non si destarebbe mai dall’estasi, se bene si gettasse nel fuoco, né se ne fosse tagliata a pezzi; ma, quando quella madre che n’ha cura la [vuol] far tornare, pian piano nell’orecchia gli comanda che torni per obedientia et subbito torna, se bene tutta sbattuta et con sommo sudore. Adesso non si vedono stimmate, ma consta in scrittura col testimonio del patriarca di Venezia et quarantamila altre persone, che l’hanno vedute. Così di sudore del sangue. Et io ho parlato con persone degnissime di fede, che hanno visto il sangue, con le punture della testa. Et io ho visto il sangue sopra un velo che fu serbato. Un crocifisso, havendola ella abbracciato, scaturì sangue dal costato. Et questo occorse in proprie mani del patriarca, con saputa del papa, quale fece serrare quel crocifisso in una cassa per doppo morte. Lei parla latino benissimo. Et tutta la Scrittura dice secondo che gli viene in proposito. Bellissima come un sole. Di anni 32. L’habito avanti si vestisse lo trovò in casa, né si sa da chi fosse portato. Oltre che, ha lo spirito di profezia, dice le cose lontane; languisce d’amore et parla con tanto affetto che dire non si può. Fece grandissima instanza che io facessi un sermone. Doppo molti contrasti lo feci e nel bel principio che io parlai d’amore, subbito andò in estasi: né tornò sin tanto che non hebbi finito, però intese il tutto. Et altre cose, che troppo longo sarei in raccontarle. Hora lei et io desidereressimo un favore: che per la Natività della Madonna, che è a’ 8 di settembre, cavasse un’indulgentia plenaria per la lor chiesa, che si chiama la Madonna delle Gratie di Burano, quale è città et sotto il vescovo di Torcello. Vostra paternità potrà fare il memoriale adesso, acciò lo possino havere in tempo, et inviarlo a quel signor Gasparo di sopra nominato. Et di gratia lo mi facci tanto favore di cavar quanto prima il breve: fra il tempo che va nel cavarlo e fra il mandarlo, poco tempo avanzeria. Vorrebbe anco un altare privilegiato, nominato s. Joseffe, pure nella chiesia di quelle moniche; ma dell’altare ne scriverò al p. procurator generale et prego vostra paternità che gli lo raccordi: et se non fosse possibile haver per tutta la settimana, almeno per il lunedì e venerdì. Et [se] bisogna denari, vostra paternità mi farà gratia dargli al p. procurator generale, che io subbito che arrivo a Perugia gli rimettarò in Roma. Lo prego «in visceribus Jesu Christi» vogli solicitare et favorirmi in questi dui negotij (dell’indulgentia per settembre e di questo altare privilegiato), ché fra gli altri beneficij da vostra paternità riceuti questo stimo il maggiore. Saluti suor Maria et gli dij aviso di suora Adreana da Venetia et la saluti anco da parte sua. Saluti tutti cotesti padri. Et «secretum nostrum nobis». Et con tal fine, senza fine l’abbraccio con l’osculo della pace e lo stringo da caro et amato figliolo. Di Reggio, dì 2 di luglio 1619 Di vostra paternità molto reverenda obedientissimo et caro nel Signore figliolo fra Gio. Angelo da Perugia MAESTRI E TEOLOGI a cura di Pier Giorgio M. Di Domenico INTRODUZIONE Il secolo XVI si caratterizza per la presenza nell’Ordine dei Servi di figure eminenti di teologi e di maestri di vita spirituale. In questa sezione sono stati inseriti i seguenti autori: Cosimo da Firenze, Agostino Bonucci, Lorenzo Mazzocchio, Angelo Maria Montorsoli, Paolo Sarpi. Per altre importanti personalità Baglioni (1550-1620)89, Bolognetti (+1629)90, Capella (+1582 o 85)91, Capitone (1515ca.-1576)92, Tavanti (1527-1607) – cf. la sezione Fonti documentarie e narrative, in questo volume III/1. 89 B. ULIANICH, Baglioni, Lelio, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, 5, Roma 1963, p. 225-228. B. ULIANICH, Bolognetti, Baldassare, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, 11, Roma 1969, p. 317-320. 91 B. ULIANICH, Capella, Giovanni Maria, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, 18, Roma 1975, p. 474-476. 92 B. ULIANICH, Capitone, Feliciano, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, 18, Roma 1975, p. 556-560. 90 I. Cosimo da Firenze Nel 1521, in occasione del capitolo generale di Verona, viene stampata un’Operetta nuovamente composta a consolazione delli devoti religiosi frati de Servi della Vergine Maria, il cui autore, Cosimo dei Servi fiorentino, non ha ricevuto ancora una chiara identificazione: Cosimo Favilla? Cosimo Rucellai? O l’autore sotto il cui nome va uno scritto pubblicato nel 1527, Vita et miraculi del glorioso sancto Philippo Fiorentino? Dell’Operetta esistono solo tre esemplari, appartenenti alla Biblioteca Nazionale di Parigi, alla Biblioteca Marucelliana di Firenze e alla biblioteca della Facoltà teologica “Marianum”, quest’ultimo proveniente dal convento di Todi93. Vedere anche la sezione Fonti documentarie e narrative. «Operetta ... a consolazione delli devoti religiosi frati de Servi» edizione: Operetta nuovamente composta a consolazione delli devoti Religiosi frati de Servi della Vergine Maria, a cura di G.M. BESUTTI, ed. Marianum, Roma 1993 Nell’introduzione l’autore si presenta come religioso della Ss. Annunziata di Firenze: «Lo inutile Religioso frate Cosmo de Servi della Nuntiata di Fiorenza alli suoi chari fratelli della medesima Religione: Salute» (1v). Si rivolge ai confratelli che intendono progredire nel cammino di perfezione. Obbedendo al comandamento dell’amore e avuto il permesso dal priore generale Angelo d’Arezzo, fra Cosimo, mosso a compassione per quei «poveri religiosi et monache claustrale che non hanno tanta scientia», ha tradotto in lingua toscana la Regola di sant’Agostino94. Alla traduzione è premessa una considerazione su quattro tipi di religiosi: i cenobiti, gli anacoreti, i sarabaiti, i girovaghi. I primi e i secondi conducono vita santa, obbediente e dedita alla preghiera. Tra i vari santi, è ricordato san Filippo Benizi, «fiorentino dell’Ordine nostro con ventiquattro beati et octo suore beate in diversi tempi». I sarabaiti, il cui nome secondo l’autore deriverebbe dall’ambiente moresco e vorrebbe dire “figli di carboni spenti”, sono falsi religiosi, che hanno abbracciato la vita religiosa solo per interesse. I girovaghi vanno continuamente in giro, vestiti con abito monastico. Commento alla Regola È poi offerta una versione della Regola agostiniana. Fra Cosimo non si accontenta di tradurre, ma anche cerca di far capire con piccole aggiunte e annotazioni il senso di alcuni passaggi. Fra Cosimo pone subito in evidenza la carità e la discrezione con cui Agostino, chiamato «padre della discretione», cioè dell’equilibrio, ha redatto la sua regola approvata poi dalla santa Chiesa. La prima questione riguarda l’obbligatorietà dei precetti della regola. Non tutti certamente obbligano sotto pena di peccato mortale, a meno che non si tratti di comandamenti divini che vincolano ogni fedele o degli obblighi derivanti dai tre voti di povertà, castità e obbedienza. Se tutte le norme della regola obbligassero sotto pena di peccato mortale, lo stato religioso verrebbe ad essere estremamente rischioso e più pesante della normale vita cristiana, e questo contraddice quanto dichiara san Gregorio che «nel primo libro delle Morali […] dice la vita delli religiosi esser simile al porto sereno et tranquillo, et la vita del seculo esser simile al mare tempestuoso». Naturalmente la trasgressione anche delle norme minori risulterà grave se compiuta «per dispregio» da chi non si cura di progredire sulla via della perfezione. La vita religiosa è essenzialmente, per fra Cosimo, vita di obbedienza: «tolta via la obedientia, le religione si destruggerebbono et per questa causa el voto della sancta obedientia si dice esser altissimo sopra tutti e voti, perche obliga la volunta che e creatura spirituale, a sottomettersi volentieri a tutti gli comandamenti et alle prohibitione delli superiori». 93 cf. BRANCHESI, Bibliografia, II, p. 41-43. Nel corso del Cinquecento, tra i Servi, scrivono commenti alla Regola Girolamo Castro da Piacenza (cf. BRANCHESI, Bibliografia, II, p. 39-40) e Michele Poccianti (cf. ibid., p. 174). 94 Fra Cosimo enumera dodici ragioni che richiedono l’osservanza integrale della Regola, che si riassume nella condivisione radicale di tutti i beni: tre riguardano Dio (la sua bontà, il suo comandamento, la punizione divina), tre la Vergine, tre la coscienza e le ultime tre il mondo. Dio è l’amico fedelissimo, pieno di infinita bontà e di amore: la nostra risposta a lui deve essere quindi piena e totale e la vita che gli abbiamo donato in voto non può essere ripresa se non con grave nostro danno spirituale. Veniamo alle ragione che riguardano la nostra sancta Madre Maria Vergine, obiecto principale della nostra sacra Religione de Servi. Ogni figlolo naturale et legitimo debbe essere più zelante e più obediente observatore delli amorosi comandamenti della madre che gl altri figloli non tanto intrinseci et familiari; sed sic est che voi frati e monache dell Ordine de Servi della Vergine Maria, siete e suoi figloli quasi naturali et legitimi, perche avete el titulo et lo stendardo suo et portate l habito della sua viduita et passione. Dunque a voi s appartiene ad esser zelanti et obedienti observatori delli precepti regulari piu che tutti li altri et dovete tutti, almanco per respecto del Capo nostro et per devotione di tanta Madre observare quanto nella sua Religione avete promesso, giurato et rectificato. La seconda ragione e fondata sopra una regula de philosophi: si de quominus videtur inesse et inest, ergo et de quo magis; se una casa di uno servo seculare merita d essere habitata da persone honeste et bone, molto magiormente la casa d uno signore maxime quando e prelato ecclesiastico merita d esser habitata da persone honeste et devote, accioche la casa sua sia una secrestia di pudicitia et sanctita. Sed sic est che la Religione de frati de servi (e quali portano le insegne e l titulo della viduita della Vergine, come testificano molti Pontefici nel nostre Mare Magno, approvato dalla sancta Madre Chiesia Romana) impetrato dalla felice memoria di maestro Antonio Alabanto da Bologna magnifico generale di essa Religione. E la casa spirituale dove essa ha posto et electo el suo habitaculo, et le Chiesie nostre sono le sue camere spirituale consecrate a suo honore. Dunque merita che da noi Religiosi debono essere habitate con somma honesta et vera observantia di vita regulare, ita che li religiosi di decta Religione sieno simili agl angeli. Ma che le chiesie nostre sieno le sue camere a llei consecrate, si monstra per la moltitudine delle gratie et miraculi quasi infiniti che per e meriti della Vergine, e populi della Christianita impetrano in esse Chiesie. Et la prima si vede esser la Chiesia della Nuntiata della citta di Fiorenza dove con presenti et doni Pontefici, Imperadori, Re di corona, Cardinali et altri grandi homini del mondo concorrono ad honorare la sua sancta imagine per gratie ricevute e in tutta l’Italia et maxime nella propria patria di Fiorenza e in grandissima veneratione et devotione. La seconda camera della sua Religione e la chiesia di sancta Maria della Scala della citta di Verona, dove tutta la Lombardia concorre per ricever gratie, come e cosa publica per tutto. Le altre Camere particulare sono tutte le chiesie della nostra Religione, dove la Vergine piove gratie innumerabile et quasi tutte le Chiesie della nostra Religione sono intitulate alla Vergine e fioriscano di gratie et miraculi in grandissima copia et numero, come sanno tutte le charita vostre che son pratiche per la Religione in Italia et fuora della Italia. Si che habitando noi la casa spirituale et le delicate camere ecclesiastice di questa gloriosa Regina Madre di Dio, piu bella ch el sole et stelle et concepta senza peccato originale, ci dovemo sforzare servire et ministrare a llei con quanta reverentia et religiositade et con quanto spirito a noi e possibile. Ma eccho la terza ragione. Quanto una creatura e piu degna et in piu nobile stato et in maggior credito appresso e populi, tanto piu a llei s appartiene fare acti et opere piu laudabile, piu degne et piu virtuose, perche Virtus est que habentem perficit et opus eius bonum reddit, la virtu fa perfecto chi l ha et l opera sua la fa esser bona et laudabile, onde noi veggiamo se uno contadino ignorante o un altro di vile conditione non fa acti virtuosi o degni di memoria, niuno mai se ne maraviglia. Ma se uno secretario o barone d una regina operassi acti ignobili o vituperosi meriterebbe esser comfuso et scacciato dalla serena faccia della regina. Ma voi, sacri religiosi claustrali, et voi sanctimoniale monache siete creature degne et siete nello stato nobilissimo della sancta Religione; pero s appartiene a tutti voi, come a spirituali baroni et secretari della Vergine Regina nostra, a operare acti virtuosi et perfecti et heroici, pieni di suavissimo odore di divinita, maxime spectanti alla fidele promissione delli vostri sacri voti principali. […] L’osservanza della Regola è richiesta inoltre da tre ragionii riguardanti la coscienza (cioè: gli obblighi assunti con la professione, obblighi da cui nessuno può dispensare, anzi «ogni tale Religioso è tenuto prima eleggere la morte che rompere o violare alcuni di questi tre voti predominati o per malitia o per fragilità o per ignorantia»; l’esigenza della perfezione che spinge sempre più in alto per essere sempre più degni di Gesù Cristo; la gioia di una vita dedita solo alla lode di Dio, «vita pacifica piena di riposo e di felicita», perché «il mio giogo, dice Yesu Cristo, e suave el mio peso e leggieri95») e tre riguardanti il mondo. Di queste la prima riguarda la buona fama di sé: ogni religioso è tenuto a non scandalizzare la gente con una vita difforme dalla Regola che professa. La seconda riguarda l’impegno di guadagnare le anime del prossimo «piu facilmente col bono exemplo della vita regulare et religiosa che con le parole». L’ultima ragione è nei vantaggi che derivano da una vita di condivisione totale dei beni: L’ultima ragione. Ogni bono et obediente figlolo di famigla, havendo bon padre et bona madre, si conserva meglo et vive piu delicatamente et con manco pensieri et disagi et con miglor nome della vicinanza, lassandosi governar dal padre et dalla madre, che non fa quell altro che si vol provedere da per se di mangiare et bere et vestire. Questo si vede esser vero in ogni famigla honorata et civile, et etiam e cosa naturale uno effecto conservarsi meglo delle cause sue che quando e diviso et separato, perche ogni effecto e piu nobile nelle sue cause che in se. Ma voi, sacri religiosi, siate li figloli di Dio et della Religione, et a lloro s appartiene provedervi circa el victo et vestito et d ogni cosa necessaria. Dunque vi conserveresti meglo et viveresti piu quieti et piu iocondi al lassarvi governare da Dio et dalla Religione nella vita commune che esser divisi da lloro; onde dice lo Evangelio: Nolite solliciti esse anime vestre quid manducetis et corpori vestro quid induamini96; non siate curiosi ne solleciti nell animo vestro di quello che havete a mangiare o vestire, ma lassatevi governar da Dio, rimettetevi in lui et cercate el regno et l honor suo et lui (che sa di quello che havete bisogno) vi provedera. Et se voi dicessi la Religione non ci provede nelle nostre necessita quottidinae, ne ancora quando siamo infermi, perche la Religione e povera et non ha el modo abundantemente come bisognerebbe, responde la buona madre Religione et dice che quando questo figlolo vorra esser vero obediente et vero religioso in verso el padre et la madre, et cio che temporalmente guadagnera volentier mettera in casa alla vita comune et quando tutti li altri suoi fratelli fedelmente faranno el medesimo, allora el padre et la madre faranno un capitale. E un corpo di tanta roba e di tanto substantie che provederanno a ttuti li figloli abundantissimamente et avanzeranne per dare alli poveri. Vedesi la experientia di molti monasterii di religiosi observanti cenobiti, che non hanno proprio ne denari ne possessione, ne in particulare ne in communi et tamen quanto al victo et vestito, libri, paramenti, calici, fabriche et simil cose stanno bene, immo stanno meglio assai, che quelli che voglono governarsi da llor posta. E quali stanno sempre con questo continuo pensiero in sul cuore da cumular danari, pensando et dicendo chome paghero io li miei debiti? Di che mi ho io a vestire? Di che ho io a vivere? Et questi tali timidi et avari iudicano et fanno Idio ignorante, povero et bugiardo. Primo lo fanno ignorante, perche lui dice nel sacro Evangelio: Scit Pater vester celestis quia his omnibus indigetis97; sa Idio di quello che havete bisogno. Lo fanno povero perche lui dice: inquirentes Dominum non deficient omni bono98; a chi serve a Dio non manca bene alcuno. 95 Mt 11, 30 cf. Mt 6, 25 97 Mt 6, 32 96 Lo fanno bugiardo perche lui dice: primum querite regnum Dei et hec omnia adiicientur vobis99; cercate prima l honor di Dio et lui vi provedera d ogni cosa. Ma piu presto questi tali fanno se medesimi infedeli et pagani, come dice l’Evangelio: hec omnia gentes inquirunt100. Ma facciamo a parlare in verita: se Idio e padre vero universale di tutti et se e pasce gl uccelli del cielo e pesci del mare, se e veste e gigli del campo di così belli colori e suavissimi odori, provede con tanta charita alli Giudei, alli Turchi et alli altri infideli, non crediamo noi che provedera ancora alli suoi servitori et figloli religiosi? si che senza comparatione stanno meglo quelli che si contentano della vita comune et che si lassano governare dalla Religione et li populi piu volentieri fanno elemosine a questi che alli altri perche hanno maggior devotione in loro. E se tu dicessi io mi lassero governare dalla Religione quanto alla obedientia et quanto alla castita, ma quanto alla poverta no, per che io mi sono allevato in questa vita larga et non pensavo che bisognassi viver da cosi stretti religiosi: Fratel mio charissimo, respondono tutti e sacri Doctori che, si come a far un huomo bisogna tre cose, cioe: anima, ossa et carne, così a fare uno religioso bisogna observare obedientia, castita et poverta; et si come uno homo non e uno vero homo solum coll anima e con le ossa, cosi non e uno vero religioso solum con la obedientia e la castita. Et se tu dicessi: el superiore mi puo dispensare che senza peccato io tengha tutte le cose a mio uso, respondono e sacri Theologi discretissamente. Et maxime Scoto nella quintadecima distinctione del Quarto, che da proprio et uso e diferentia grande; perche tenere una cosa propria e tenerla come vero patrone e signore et poterla vendere o donarla o contractarla a suo modo, ma tenerla ad uso e solo poterla usare per suo bisogno o necessita et non si puo contractarla senza expressa licentia di colui da chi depende et dice che gli religiosi hanno facto voto di non voler esser signori o patroni proprietarii, pero non possono dare alcuna cosa senza expressa licentia del suo prelato superiore. Sono possibili casi di dispensa dall’uso dei beni; non è possibile dispensare dalla proprietà di essi: […] non puo dispensare ne dare licentia a un frate professo che tengha vestimenti, libri, lecti o denari, o possessioni, o entrate come cose sue proprie; ne che le spenda o contracti a suo modo, perche in questo caso non terrebe dette cose ad suo uso, ma a ssuo dominio, possendole contractare a suo modo come fanno e seculari. Et cosi saria vero proprietario et romperebbe el voto solenne della vita comune […]. Et pero aprino gli ochi della mente tutti e religiosi di qualunche Religione, e quali quando tengono la roba o denari contro la volonta del superiore et contro el suo precepto; stando com fermo proposito di non voler consegnar al suo superiore tutto quello che hanno fino ad un minimo quattrino. Dicono tutti e sancti doctori, tutti li sacri teologi, tutti e signori canonisti (che sono stati mai al mondo) che questi tali religiosi vivono in peccato mortale, et morendo senza una grande contrizione et vero dolore d esser stati proprietarii, morono veramente proprietarii, contumaci, damnati et excommunicati, irregulari et maledecti, chome scrive sancto Augustino et sancto Gregorio di quello religioso che mori et gli fu trovato tre ducati et fu cavato dalla sepoltura et per comandamento di sancto Gregorio, fu sepolto alle carogne, come etiam comanda la Chiesia delli concubinarii et usurarii publici. Et benche la sancta Chiesia toleri simili errori, lo fa sapientemente accio tuti li trasgressori habbino spatio di tornare a penitentia. Havete adunque charissimi fratres mei, udito et inteso quanto pericolo et quanta iactura et infamia e nella infelice et misera proprietà et di quanto obbrobrio et vituperio e apresso a Dio e l mondo l esser proprietario et avete veduto per dodici ragione che uno religioso proprietario (di qualunque Religione sia) e uno spaventoso mostro et una fiera pestifera che con la esecrabile rabia della avarizia sua ammorba et avvelena tutto l mondo. 98 Sal 33 , 11 cf. Mt 6, 33 100 Mt 6, 32 99 Sforziamoci dunque, con ogni nostra virtu, di purificare l anime nostre da ogni sorte di macula, quantunque minima, et vestiamoci di splendore, di luce e di clarita, accioche quando sara venuta l ultima hora della nostra preziosa morte ci troviamo lieti et iocondi et securi, con le conscientie candide quanto la neve; et cosi possiamo esser intromessi alle felicissime nozze del sancto Paradiso in vita eterna, dove regna el nostro Redentore Giesu con la sua sancta Madre Maria Vergine, Regina nostra, in secula seculorum. Amen. L’alfabeto dei religiosi Dopo il commento alla Regola l’opera di fra Cosimo presenta una serie di elenchi riguardanti i fondatori, i beati e le beate – da notare che nell’elenco dei beati san Filippo è citato prima di san Bonfiglio -, i priori generali, con una premessa sull’origine dell’Ordine, la cui data di fondazione, il 1213, sarebbe confermata, secondo lui, da diverse fonti storiche101. Comprende inoltre due composizioni latine in onore di san Filippo Benizi e della beata Giuliana, un Alphabetum Religiosorum (in latino), un genere letterario diffuso nell’età medievale102, e il rituale di vestizione per un novizio e una suora. Si presenta qui la traduzione dell’ Alphabetum Religiosorum, che può essere considerato la versione stringata di una composizione di Tommaso da Kempis. Scrivi questo alfabeto, o Religioso, nel tuo cuore come su un libro di vita e ogni giorno guarda il tuo foglio, abituati ai buoni costumi, poche sono le parole ma molti i misteri. La vita del buon religioso inizia dal disprezzo di sé e giunge fino al godimento e alla contemplazione di Dio. Ascolta dunque, uomo di Dio A. Ama Ama di non essere conosciuto e di essere considerato un nulla: questo ti sarà più utile e salutare che essere lodato ed esaltato dagli uomini. B. Benivolus Benevolo sii con i buoni e i cattivi e pieno di carità verso il prossimo, e non essere di peso ad alcuno. C. Custodi Custodisci il tuo cuore dalla distrazione e abbraccia volentieri la croce di Cristo che devi portare con gioia per tutto il tempo della tua vita. D. Dilige Prediligi il silenzio e la solitudine, perché della preghiera il silenzio è padre, la solitudine è madre. E. Elige Scegli la povertà e la semplicità cristiana, e sarai contento di poche e piccolissime cose. F. Fuge Fuggi gli uomini e il chiasso del mondo, perché non puoi piacere a Dio e agli uomini. G. Gratias Ringrazia sempre Dio e la beatissima Vergine con il cuore e la bocca, comunque ti vadano le cose, nella buona come nella cattiva sorte. H. Humilia Umiliati in tutte le cose, nella verità, e il diavolo fuggirà da te per la virtù dell’umiltà che è a lui contrarissima. I. In omnibus In tutte le tue opere ricordati della tua inevitabile morte, perché eterna sarà la tua dimora nel paradiso o nell’inferno. K. Karissimos Reputa carissimi amici quelli che ti perseguitano in parole e azioni, se vuoi essere simile al tuo maestro, Gesù Cristo. 101 Queste fonti sono la Cronica martiniana del domenicano Martino Oppaviense (1208-1278); le Chronicae di sant’Antonino arcivescovo di Firenze (1389-1459); il Supplementum Chronicarum dell’agostiniano Giacomo Filippo Foresti da Bergamo (1434-ca. 1520), e le Vitae Pontificum di Bartolomeo Sacchi detto il Platina (1421-1481). Nessuna di queste opere parla in realtà delle origini dei Servi, a parte il Foresti che le attribuisce a san Filippo. P.M. SOULIER, Monumenta OSM, XII, p. 113, nota 2. 102 M. VILLET, Alphabets, in Dictionnaire de Spiritualité, I, Paris 1936, p. 338-339 L: Labore Con il lavoro, la nudità e l’osservanza dei voti si acquista il regno di Dio; con le ricchezze e i piaceri della carne si perde il paradiso. M. Magnum Grande dono di Dio è la castità del corpo e della mente; se la possiedi, tienila; se no, chiedila a Dio con lacrime e l’otterrai. N. Neminem Non disprezzare nessuno, non danneggiare nessuno, non dire mai volontariamente una bugia, per quanto piccola. O. Obedientiam Compi prontamente fino alla morte l’obbedienza del superiore nei comandamenti gravi, sull’esempio di colui che per te è stato crocifisso. P. Primo Non agire immediatamente contro il rimprovero della tua coscienza; e nel dubbio ricorri alla Sacra Scrittura e al consiglio del tuo superiore. Q. Que Non giudicare e non intrometterti nelle cose che non ti riguardano e sarai in pace con tutti. R. Revertere Ritorna spesso nell’intimo del tuo cuore e ogni giorno ricordati di rendere all’Altissimo i tuoi voti. S: Sobrius Sii sempre sobrio nel mangiare e nel bere, nel vestire e nel dormire, e costante nelle avversità. T. Time Temi di offendere Dio nelle tue minime negligenze, perché, mentre trascuriamo di correggere le mancanze più piccole, scivoliamo in quelle più grandi. V. Vende Vendi a Dio tutti i tuoi agi e ti darà conforti maggiori di quelli che dà il mondo: conforti che nessuno conosce se non colui che li ha sperimentati. X: Xhristus Cristo sia la tua vita, la tua morte; la tua risurrezione, la tua meditazione; se cerchi altro, la tua fatica è vana. Y. Ymnos Cantare sapientemente inni e salmi è proprio dei religiosi; servire la carne è la morte eterna dei pessimi. Z. Zachee Zaccheo, fratello mio, scendi in fretta dall’altezza della mondana sapienza; e vieni, ti prego, e impara alla scuola di Dio e della beata Vergine la via dell’umiltà e dell’ardente carità per la quale tu possa arrivare felicissimamente alla gloria dell’eterna beatitudine. Amen. II. Agostino Bonucci Agostino Bonucci103, nato probabilmente a Monte San Savino (Arezzo) nel 1506, fu accettato nel convento aretino dei Servi nel 1514. Tra il 1521 e il 1528 è nel convento della Ss. Annunziata di Firenze per il noviziato e la formazione filosofica e teologica. In questi anni lo Studio dell’Ordine di Firenze era sotto l’influsso di Girolamo Amadei che prese parte con i suoi scritti alle controversie con i protestanti. Tra il 1524 e il 1526 fu reggente dello Studio fiorentino fra Lorenzo Mazzocchio, dottore in teologia della Sorbona, anch’egli impegnato, fin dal 1520, nella confutazione delle dottrine luterane; il Bonucci, che lo volle con sé al concilio di Trento, conservò con lui una salda amicizia. Dal 1533 al 1536 il Bonucci ricoprì la carica di priore provinciale di Toscana, insegnando contemporaneamente filosofia a Siena. Nel 1536 è reggente dello Studio dell’Ordine in Bologna e svolge anche il ministero della predicazione: nella quaresima 1537 predica in S. Maria dei Servi a Venezia e il giorno di pasqua in S. Marco; nell’avvento 1538 la predicazione che tiene nel duomo di Firenze suscita l’ammirazione di Pietro Aretino. Nel 1538 è nominato vicario generale – il priore generale Dionisio Laurerio, anche se nominato cardinale, continuava a reggere l’Ordine per altri tre anni – e come tale presiede il capitolo generale di Firenze, nel maggio 1542: capitolo di forti tensioni tra osservanti e conventuali, in cui comunque l’elezione del Bonucci a priore generale venne alla fine riconosciuta anche dagli osservanti. In tre anni di impegno a favore dell’unità, il Bonucci raccolse buoni risultati «per via di charità et amore» e riuscì a ottenere «quello che per via di liti a Roma non si è potuto in diciassette anni conseguire» (Regesto). Si dedicò a visitare conventi e province dell’Ordine, in Emilia, Veneto, Lombardia, Toscana, Umbria con l’intenzione di conoscere la situazione e avviare quindi un programma di riforme. L’11 maggio 1545 il Bonucci era già a Trento per ordine di Paolo III che l’aveva riconfermato generale senza che si facesse capitolo. Portava con sé un piccolo manipoli di teologi, tra cui il Mazzocchio e Stefano Bonucci. Approfittando del continuo rinvio della data di apertura del concilio, si recò a Milano e Padova soprattutto per tentare di dare una soluzione al problema dell’autonomia richiesta dalla provincia narbonense e alla riconciliazione con l’Osservanza. A Trento torna il 19 novembre; il 13 dicembre 1545 è presente all’apertura del concilio insieme ad altri quattro Servi di Maria. Rimane ininterrottamente a Trento, pur continuando a mantenere frequenti contatti con l’Ordine, fino al marzo 1547, quando il concilio viene trasferito a Bologna. Il Bonucci era imparentato con il primo presidente del concilio, il cardinale Giovanni Maria Del Monte e assai stimato dagli altri due legati, Cervini e Pole. Ma al concilio ebbe anche nemici. Nel 1547 partecipa al capitolo della provincia di Genova e poi passa a visitare i conventi di Lombardia. Nel capitolo generale di Budrio (23 aprile 1548) è confermato generale e promulga le Costituzioni. Il 15 agosto 1550 è incaricato da Giulio III (cardinal Del Monte) di presiedere alla riforma del convento di S. Maria dei Servi di Bologna. Rieletto generale il 1° maggio 1551 nel capitolo generale di Rimini, concorda con il vicario generale dell’Osservanza una comune attività di riforma dell’Ordine. La sua salute intanto andava declinando. Nel 1552 passò dai Bagni di San Casciano alle Acque di San Filippo vicino al Monte Amiata. Tornato a Roma, il 4 giugno 1553 moriva nel convento di S. Marcello. Stefano Bonucci, allora procuratore generale, ne trasportò il corpo nella chiesa dei Servi di Arezzo, dove gli fece erigere un monumento funebre dal Montorsoli. Si veda anche la sezione Fonti documentarie e narrative. Del Bonucci non esistono lavori destinati alla stampa, a parte le Costituzioni; i trattati filosofici104 sono appunti delle lezioni da lui tenute a Siena, nel convento dei Servi, negli anni 1533-1534 e costituiscono una testimonianza interessante del programma dei primi corsi di filosofia negli Studi dell’Ordine. La sua partecipazione al concilio fu particolarmente attiva. Due, secondo lui, sono le questioni che il concilio deve affrontare: definizione dell’autentica dottrina cattolica e riforma della Chiesa in capite et in membris. È sua convinzione profonda che i cattivi costumi derivano dalla cattiva dottrina, sono originati dall’ignoranza. Uno dei suoi interventi più significativi riguarda il rapporto tra Scrittura e tradizione, da lui intesa essenzialmente come interpretazione autoritativa della Scrittura e non come suo completamento. 103 B. ULIANICH, Bonucci, Agostino, in Dizionario Biografico degli Italiani, 12, Roma 1970, p. 438-450 Restano nella trascrizione fatta da Michelangelo Naldini negli Augustini et Angeli de Aretio opera speculativa (Biblioteca Nazionale di Firenze, Conventi Soppressi G5, n. 1289). 104 Nell’intervento del 15 aprile 1546 sul decreto “de lectoribus et praedicatoribus” propone che i vescovi siano scelti tra i doctores, cioè coloro la cui dottrina è fondata sulla Scrittura. Di notevole interesse anche la posizione assunta nella discussione sul peccato originale, il cui rimedio è dato dalla morte e dal sangue di Cristo, e sulla giustificazione, ottenuta dalla fede animata dalla carità: le opere non sono da considerarsi “morte”, giustificano nel senso che accrescono la grazia per i meriti di Cristo. Va ricordato infine il voto pronunciato dal Bonucci il 16 maggio 1547 circa i canoni relativi all’eucaristia, dove emerge la diretta conoscenza che egli aveva degli scritti dei riformatori. « Il Bonucci non fu né un protestante né un criptoprotestante. Così poterono considerarlo teologi troppo chiusi nei loro sistemi scolastici o padri che non avevano conoscenza delle dottrine riformate e per i quali il protestantesimo era divenuto la parola d’ordine con cui esorcizzare ogni spinta di rinnovamento profondo nella Chiesa. Combatté le dottrine della Riforma, ma ne seppe cogliere, dal di dentro di un approfondimento biblico, anche le istanze positive. Non si può dubitare della ortodossia del Bonucci, sia per quanto concerne la sua ecclesiologia sia per quanto riguarda la tradizione, che il Bonucci costantemente valorizzò nella concretezza del suo pensare e delle sue argomentazioni»105. 1. Omelia dell’8 aprile 1546 «L’intervento più completo del Bonucci al concilio di Trento è senza dubbio costituito dall’omelia tenuta l’8 aprile 1546 nella sessione IV. Essa può essere considerata l’espressione più pregnante delle sue posizioni di fondo, che si presentano qui in concatenazione organica, e racchiude in nuce un sostanzioso e ricco abbozzo di ecclesiologia. Il fatto che l’omelia fosse tenuto il giovedì precedente la domenica di passione potrebbe a prima vista spiegare perché il Bonucci riservi uno spazio tanto ampio alla croce. Ma la domenica di passione è per il Bonucci soltanto l’occasione immediata a cui attingere per esporre una teologia che nella croce trova la sua struttura portante»106. Il discorso provocò reazioni da varie parti. Il vescovo di Castellammare di Stabia definì il Bonucci un «ussita». L’oratore cesareo Francisco de Toledo si dichiarò fortemente scandalizzato. Domingo de Soto, teologo imperiale e procuratore del generale dei Predicatori, definì l’omelia un semenzaio di errori. «Sembra quasi che il Bonucci prevedesse simili reazioni. In un punto della sua omelia – e questo tratto getta maggior luce sulla sua personalità – aveva ribadito la necessità di salvaguardare le antiche tradizioni, ma aveva anche attaccato coloro (e in ciò il Soto aveva ravvisato un attacco a se stesso) che identificavano la fede con delle formule di scuola e gridavano all’eretico non appena avessero sentito qualche affermazione non in linea con la loro dottrina. L’unico libro al quale il Bonucci voleva attenersi, al di là e al di sopra delle dottrine delle scuole, era il vangelo. Questo atteggiamento lo poneva in una posizione di maggiore disponibilità e gli impediva di riconoscersi compiutamente in uno schema chiuso, scolastico, pur mantenendo il Bonucci talune posizioni di ispirazione scotistica. L’incidente con il Soto fu composto, non senza strascichi [...]. Il Bonucci ne uscì a testa alta. Il 12 aprile egli aveva affermato – cosa che può scoprire un aspetto del suo carattere – che, se in qualche punto la sua orazione avesse potuto essere provata come eretica, volentieri si sarebbe sottoposto “mortis supplicio”. In caso contrario il suo accusatore venisse fustigato “in platea”»107 . edizione: Concilii Tridentini actorum pars altera, V, Friburgi Brisgoviae, 1911, p. 95-101. Molti, il più delle volte ingannati dall’illusoria sapienza della carne che tutto interpreta in maniera contraria e falsa, non solo considerano con stupita meraviglia la situazione stravolta e deformata della chiesa di Cristo, ma si allontanano addirittura dalla fede, ritenendo Cristo nostro salvatore meno benevolo, potente e sapiente o anche meno fedele, dal momento che permette ingiustamente che la sua chiesa - che pure ha promesso di conservare invincibile e ferma contro tutti gli attacchi e le astuzie del demonio e obbediente senza macchia e ruga in devoto abbandono al Padre celeste - sia contaminata, vinta e quasi del tutto travolta dai turbini di tanti errori, dalle 105 B. ULIANICH, Bonucci, Agostino, p. 448. ibid., p. 444 107 ibid., p. 445-446 106 tempeste degli scismi, dagli attacchi delle eresie, da una gravissima corruzione dei costumi. Ma coloro che, disprezzata la sapienza della carne, si lasciano guidare dal sicuro criterio dello Spirito di Dio, questi come in tutte le opere così specialmente in questi sconvolgimenti e disgrazie della Chiesa ravvisano, annunciano e venerano la potenza, la sapienza, la benevolenza e la fedeltà di Dio, poiché riconoscono che la chiesa è generata ed è guidata dalla fede, la fede dal vangelo, il vangelo dalla croce: essa gode nella consapevolezza che in tanto si fonda su Cristo in questo mondo in quanto, perseguitata come è da questi mali, sostiene la croce. Io, che mi accingo oggi a parlare proprio di questo, supplico e chiamo a testimone Gesù Ottimo Massimo per il trionfo della croce, per lo splendore del vangelo, per la salvezza della sua chiesa: quello che per sua bontà sono riuscito a formulare relativamente a tale argomento, possa io nell’assemblea di tanti dottissimi padri trattarlo con l’attenzione, l’utilità e la preghiera di tutti. Tutti quelli che trattano della natura della chiesa, affermano che tramite la fede gli uomini formano insieme, con un vincolo sacrosanto, un solo popolo, una sola società o meglio la sola famiglia del Padre celeste, ovvero il solo corpo di Cristo; essi sono d’accordo nel definire la chiesa l’unione di tutti i fedeli. Ma sbagliano completamente quelli che con il nome di fede non intendono nient’altro che la conoscenza e l’adesione ai misteri celesti della nostra salvezza, che superano la forza e la capacità dell’umana intelligenza e che sono stati ordinati e tramandati nel limpido simbolo degli apostoli. Infatti, poiché in questa concezione della fede i demoni fanno senza dubbio da protagonisti, conoscendo in maniera certo molto più chiara di noi i misteri e dandovi il loro assenso, necessariamente devono ammettere che tra la fede dei demoni e la fede cristiana non v’è alcuna differenza o vi è una differenza piccola, cosa che tutte le pie orecchie aborriscono di ascoltare non appena se ne inizi a parlare. Perciò la fede cristiana e perfetta, a giudizio dei più dotti, oltre l’adesione alla sapienza evangelica, comprende una sicura speranza e la fiducia circa la bontà e la clemenza di Dio che ci condona i peccati per mezzo di Cristo: in questa fiducia, che Cristo ha chiesto in genere a tutti coloro che ha salvato, appare che si trovino e siano poste la vera e perfetta natura e caratteristica della fede cristiana. Perciò la Cananea, la Maddalena, il centurione, il ladrone e tanti santi uomini, noti nelle sacre scritture per l’eccellenza e la grandezza della fede, si raccomandano in quanto si distinguono più per la fiducia in Dio che per il consenso che nasce dalla conoscenza, e coloro che vogliono essere giusti giudici ritengono ormai che un ignorante, confortato da una grande fiducia in Dio, anche se del tutto sprovvisto del significato storico del vangelo, supera di gran lunga per la fede gli esimi dottori che, poco fidandosi di Dio, discutono con grandissima erudizione ed eloquenza sui misteri del vangelo. Di qui avviene che i demoni, non potendo nutrire questa speranza o fiducia, quanto più chiaramente credono i misteri della salvezza data per mezzo di Cristo, tanto più tremano. Dunque questa vera, perfetta, viva e cristiana fede è un abito infuso nell’animo da Dio Ottimo Massimo, mai ozioso, ma orientato verso tutte le realtà rivelate, sempre risplendente per opere di pietà, compagna permanente della carità e della speranza, radice profonda di santa vita: non imputa i peccati ma infonde la giustizia, dona pace alle coscienze, rende graditi a Dio, offre un’eredità così che sia ferma la promessa, purifica i cuori, conserva i credenti perché non marciscano, genera la supplica con la fiducia di ricevere le cose richieste, rende tutte le cose possibili, suscita nei pii la confessione della giustizia, rende autentiche le azioni di grazie, possiede le promesse, dispone i mortali a essere figli adottivi di Dio e li congiunge a Cristo e a sua volta congiunge Cristo a loro e li edifica in un solo corpo. La fede inoltre non nasce dalla dottrina e dall’insegnamento della legge, bensì dalla parola salutare del vangelo. Certo, riguardo alla misericordia, alla bontà e alla clemenza di Dio, che dona largamente a tutti i mortali i beni sia terreni che celesti, la parola della legge è in accordo con il vangelo; ma la legge quanto più accuratamente ricerca giusti e maestri e professori dei suoi decreti, ai quali siano comunicati i doni della divina bontà, tanto meno li ottiene. Per cui accade che l’animo, ingannato dalla nequizia della farisaica convinzione, dimentico della propria ingiustizia, o ammira in sé con superbia e arroganza una falsa giustizia e perciò si appoggia invano sulla bontà di Dio, o, nella cattiva coscienza di sé, vacilla, ondeggia, si porta su e giù, è agitato da molti terrori e follie, e infine cade nella disperazione e nell’odio verso Dio. Perciò i perversi Giudei, quanto più occasioni incontravano di amare e accogliere Cristo, tanto più lontani e nemici di lui si rendevano. Essi infatti, essendosi sempre applicati e per così dire educati nello studio dei libri dei profeti, ed essendo stati uditori frequenti di tanti altri vati e prima di tutto dello stesso Mosè, pur avendo davanti agli occhi innumerevoli miracoli compiuti da Cristo, che predicava di essere venuto per richiamare e salvare le pecore di Israele erranti lontano dal proprio ovile, immemori della loro salvezza, confidando nell’osservanza della legge, lo rifiutavano e lo disprezzavano enormemente, e così Israele, che pure seguiva la legge della giustizia (per usare le parole di Paolo), non è giunto alla legge della giustizia, perché non secondo la fede ma secondo le opere della fede, sono andati a sbattere proprio contro la pietra di inciampo (che fu Cristo per loro), sono stati abbattuti e distrutti. Perciò non a torto Paolo, sebbene non abbia avuto paura di attribuire alla legge il titolo di serva dell’ira e della morte, tuttavia in nessun modo osò darle l’insigne elogio di essere ministra di salvezza, poiché essa, pur riconoscendo che gli ingiusti sono degni del divino furore, non sa che i giusti sono adatti alla clemenza. Ma il vangelo, lieto annunzio, strumento di vera e piena gioia, voce della santa consolazione, strumento dell’amata pace, organo della sperata salvezza, non cerca coloro che non può trovare giusti e fiduciosi nell’osservanza dei comandamenti, o che abbiano compiuto la soddisfazione degli errori compiuti, ma i disgraziati, gli empi, i sacrileghi, quanti insomma si siano resi colpevoli di ogni genere di misfatto e a questi gratuitamente (se tuttavia si saranno pentiti della malvagia vita passata) – ha infatti l’immenso tesoro della morte di Cristo per cui paga alla divina giustizia i debiti insolvibili di tutti gli uomini – a questi dico offre gratuitamente il favore della divina clemenza, la remissione dei peccati, la giustizia, il rinnovamento della volontà (parlo, Padri, della prima giustizia), la santità e la gloria dei figli. Credi, dice, confida, ti sono rimessi i tuoi peccati108, sarai santo e offrirai a Dio opere sante che finora non sei riuscito a offrire. Con questa parola del vangelo l’animo, che prima giaceva atterrito, oppresso e quasi annientato, si innalza verso Dio e non facendo più conto davanti a se stesso da quale enorme mole di debiti sia oppresso o quanto sia lontano dalla giustizia richiesta dalla legge, appoggiato alla misericordia di Dio, per mezzo dello Spirito del suo Figlio grida: Abba, Padre109. Ugualmente: Se figli, anche eredi, eredi di Dio e coeredi di Cristo110. Perciò i gentili, che non avevano udito e ignoravano completamente tutte le azioni gloriose di Cristo, che conducevano una vita del tutto indegna e peccaminosa, eccoli chiamati improvvisamente dalle tenebre alla luce, dalla disperazione alla speranza, dalla morte alla vita, e anzi, spinti alle realtà superiori come da una macchina venuta dallo stesso cielo, apparvero luminosissimi al mondo intero, accolsero Cristo come loro liberatore e si unirono saldamente a Lui; e così le genti, che non seguivano la giustizia, acquisirono la giustizia, la giustizia cioè che viene dalla fede111. Del resto, poiché le promesse evangeliche si appoggiano sul trionfo della croce, avviene che come non possa in alcun modo generarsi la fede se il vangelo è stato eliminato, così pure è inevitabile che, respinta la croce, sia respinto anche il vangelo. Dunque resta indissolubile il legame di vangelo, croce e fede. Infatti guardando alla croce crediamo per mezzo del vangelo. Cristo, vinto il mondo, sconfitta la morte, distrutti i peccati, ha suggellato e confermato tutte le promesse. E perciò quanti, ascoltate le promesse del vangelo, vi credono e vi aderiscono, questi subito sono uniti a Cristo crocifisso e vanno incontro al trionfo della croce, cioè sono morti al mondo, alla carne, ai peccati, a satana, e a loro volta queste cose sono per loro crocifisse. Questa è infatti la vera ragione della sottomissione alla croce: che essi siano uniti con una singolare partecipazione a Cristo in un solo corpo e nel medesimo spirito, e condividano con Cristo tutte le cose che sono di Cristo: giustizia, salvezza, vita, merito, soddisfazione, regno, e infine da lui, come dal sole stesso, si diffondano sull’universo delle anime credenti i raggi del merito e della soddisfazione, così che acquistino meriti portando la croce e non tanto siano loro ad acquistare meriti, quanto Cristo in 108 Mt 9, 2; Lc 7, 48. Gal 4, 6; Rm 8, 15. 110 Rm 8, 17. 111 Rm 9, 30. 109 loro. Perciò chiunque di loro potrebbe dire giustamente: Vivo io, non più io, vive in me Cristo112; io prego e mi astengo dai cibi, non più io, ma prega e si astiene dai cibi in me Cristo. Non c’è più alcun diritto di vendetta della giustizia divina contro di loro, per stabilire a loro riguardo i castighi dell’eterno supplizio. O nuovo genere di gloria, o via della croce inaudita per il mondo, o felice condizione del genere umano che con il solo sguardo alla croce è stata portata a così alto grado di dignità da essere chiamata divina ed esserlo realmente. Davvero, dunque, ottimi Padri, per i fedeli nulla è più familiare della croce, nulla più desiderabile per chi vuole vivere piamente che la croce sia fissata sulle porte, nulla più dolce per chi segue Cristo che portare la croce nell’intimo del proprio cuore. In verità per croce non intendo soltanto quelle afflizioni e mortificazioni che i devoti fedeli si procurano spontaneamente con digiuni, pellegrinaggi, discipline, disprezzo del mondo, solitudine, voto o altro santo consiglio, tutte cose, è vero, che fanno riferimento alla croce; ma ritengo che la natura più vera della croce consista nelle afflizioni, nelle persecuzioni e nei mali che – Dio permettendo per arcani motivi - satana, il mondo, i nemici di Cristo escogitano per schiacciare la verità, la giustizia, la pietà e anche il culto del vero Dio e gettano e sferrano contro la chiesa cristiana attacchi, sconvolgimenti e tumulti che la chiesa di Cristo, munita di difese, sostiene e vince, dolendosi anche di cuore della rovina di molti. Senza dubbio tutti ammettono questo, che la prima promessa riguardo a Cristo salvatore sia stata fatta fin dall’inizio ai progenitori, quando il Signore disse al serpente: Porrò inimicizia tra te e la donna, tra il tuo seme e il seme della donna, ed essa ti schiaccerà il capo e tu la insidierai al calcagno113. Confidando in questa promessa, Adamo stesso chiamò sua moglie con il nome di Eva, cioè madre dei viventi, mostrando apertamente di credere che doveva essere cancellata la maledizione della legge, che aveva ascoltato quando gli fu detto: Polvere sei e in polvere ritornerai114. Perciò alla parola della promessa subito si è sollevato l’animo che giaceva dapprima senza vita per la dottrina minacciosa della legge. Ormai voi udite, o Padri, che alle prime parole dell’evangelo sono state unite le parole della croce, quale sia la vera causa della croce, cioè le insidie, le persecuzioni, le macchinazioni di satana e del suo seme, vale a dire tutti i tentativi degli empi e dei malvagi. E che cosa sono stati, di grazia, gli errori, le frodi, le congiure, le offese, l’odio dei sacerdoti, degli scribi, dei farisei e tutto l’apparato della croce contro Cristo se non l’ostilità e i tranelli di satana? Non è entrato lui nel cuore di Giuda per vendere e tradire il maestro? Tanti attacchi, furori, tormenti, tante uccisioni a danno degli apostoli non sono stati tentativi di satana, mentre essi divulgavano il vangelo per il mondo? Forse perché procurati da satana non riguardavano la croce? Cristo ha sofferto una volta per sempre nella sua stessa persona e in essa ha ripreso vita per non mai più soffrire; ma tutte le volte che la dottrina evangelica e la pietà sono condannate, abbattute, coperti di sputi, crocifisse, sepolte, è come se [Cristo] patisse una seconda volta e ogni giorno è tormentato nelle sue membra, poiché è giusto che quanti desiderano regnare con Cristo in cielo, qui lo riproducano e lo seguano attraverso l’ignominia della croce. Dunque gli errori, gli scismi, le eresie, la malvagità dei costumi di questa nostra epoca, sono i segni e le stigmate della stessa croce, architettate dalla mente di satana e permesse dalla sapienza di Dio, sebbene di ambedue non sia identica la natura del consiglio. Quello, con tanti mali, vuole portare la chiesa alla bestemmia e all’empietà, Dio con quegli stimoli la chiama all’assidua invocazione di sé. Quello cerca di spingere i giusti alla disperazione, Dio li innalza a una più ferma speranza nel conseguimento della salvezza. Quello cerca di ostacolare il cammino degli eletti verso la gloria celeste, Dio li rende più pronti al cammino con il disprezzo di questa vita. Quello spinge all’odio e all’impazienza, Dio sollecita alla pazienza e alla carità. Quello infine tenta di schiacciare e di annientare del tutto ogni culto di Dio, ogni gloria di Cristo, Dio invece opera e fa sì che il culto sia più luminoso e la gloria di Cristo più alta. E quantunque la chiesa, costituita in milizia, sia santa, tuttavia ogni giorno progredisce non essendo ancora arrivata alla santità perfetta che essa attende nel mondo futuro; ogni giorno è afflitta 112 Gal 2, 20. Gen 3, 15. 114 Gen 3, 20. 113 dalla croce, perché la sua unione rinnovata con Cristo diventi ogni giorno sempre più intima. La chiesa resta sempre vittoriosa in queste lotte e allora diventa più luminosa e gloriosa, quando più è oppressa e afflitta. Questa chiesa visibile, che a noi preme conoscere, osservare e coltivarne la comunione, e nella quale Dio Ottimo Massimo ha disposto che ci fossero distribuiti tutti i tesori celesti, abbraccia buoni e cattivi, come Giuda che all’inizio aveva ricevuto l’incarico di apostolo. Ora invero comprende e nutre molti ipocriti, come l’aia la paglia, molti ambiziosi, come la rete i pesci cattivi, molti rapaci, come il campo la zizzania, molti avidi, come l’uomo delle nozze senza l’abito nuziale, molti nemici di Dio come il gruppo delle cinque vergini stolte. Ma la chiesa, quella che è davanti a Dio, nota a lui solo che l’ha formata, e che serve di cuore a colui che l’ha santificata, questa chiesa, che non possiamo distinguere con l’occhio di adesso, abbraccia coloro che per la viva fede in Cristo sono stati adottati alla gloria e all’onore di figli di Dio, predestinati prima dei secoli, chiamati un determinato tempo, giustificati, innalzati; questi esclamano: Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Colui che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci dona con lui anche tutte le cose?115. Sebbene contro di essi satana infuri e in tutti i modi, attraverso le delizie del mondo e tanti attacchi e violenze di ogni specie, infierisca in luoghi e tempi a suo giudizio adatti per provocare la caduta, alla fine si allontana senza aver raggiunto lo scopo e sconfitto. Quelli che invece trascina alla condanna, questi non appartengono a questa chiesa edificata dallo stesso Cristo sopra la salda roccia, cioè Cristo; egli alla fine prevale contro i suoi che con simulata apparenza di religione sembrano essere sulla salda pietra, ma in realtà sono stati innalzati sulla sabbia, perché, venerando Gesù solo con la bocca e con riti, lo rinnegano empiamente con il cuore e con le opere e sembrano membra di Cristo ma sono invece membra dello stesso satana. Orsù, dunque, satana, fremi pure secondo la tua natura e il tuo costume, accanisciti, raccogli le tue forze, ordisci nuovi tranelli e stratagemmi, fa’ i preparativi della croce; ormai infatti hai trovato un nuovo Giuda, ormai sei entrato in un nuovo apostata che, simulato un bacio e un finto saluto, non teme di tradire Cristo, quel falso discepolo che in questi nostri tempi mette avanti la parola di Dio, di cui è invece scellerato corruttore, sotto il nome del vangelo insegna cose che si oppongono diametralmente (come si dice) al vangelo. Hanno una coorte numerosa, fornita di bastoni e di armi, gli iniziatori di sette che insegnano con le loro follie ciò che appartiene alla carne. Incita, dico, spingi, confondi, sconvolgi tutti gli incarichi profani e sacri di ogni grado; a te è permesso in ogni momento apparire come se avessi il potere di distruggere Cristo e ogni suo culto: il mio Cristo ha paura nella sua chiesa, è contristato, suda sangue, prova orrore per il calice già pronto; ma confortato dall’aiuto celeste del Padre trionferà gloriosamente, e quando tu crederai di essere vincitore, cacciato via dal regno, perderai l’agognato potere sui malvagi. Ecco, nobilissimi Padri, la croce preparata che dovete spontaneamente accogliere se siete i chiamati; se la carne è debole (infatti siete uomini), sia pronto lo spirito, poiché regna in cielo Cristo, del cui aiuto, forza e spirito siete stati dotati; la chiesa, la cui cura è stata a voi affidata, è sottoposta, come a una croce, a queste eresie correnti e ricorrenti con alterne vicende; e sebbene (lo confesso candidamente) mai in alcun tempo sono mancati né i corruttori del vangelo né i cattivi costumi, per cui sono state convocate riunioni di padri e spesso, dopo le definizioni di concili, aggravatosi il male, è capitato che la chiesa fosse oppressa da più gravi disgrazie, tuttavia da trent’anni a questa parte ha riportate perdite maggiori come non mai prima, con scarsi progressi nonostante tutti i rimedi intrapresi, così che, se non fosse stata salvata dall’aiuto divino, sarebbe giunta a tal punto di miseria e di rovina da rendere inutile questa vostra assemblea con cui dovrebbe essere riportata a una condizione migliore. Infatti tutto quello che riguarda la religione è insegnato in modo confuso, incerto, sofistico, ingannevole e corrotto; quanto è stato confermato per lunga tradizione dall’autorità di concili e di padri, è sottoposto ad apertissime critiche e, come sempre è stata la tendenza degli eretici, mostrare cioè Cristo negli angoli stessi e nelle stanze segrete, pretendono che da loro sia lo spirito di Dio e l’autorità della chiesa, e allo scopo di scavare una perenne fonte di errori e non dare mai fine alle discordie, vogliono stabilire tutto dalle scritture, 115 Rm 8, 31.32. violentemente stravolte secondo la loro follia, e si arrogano la comprensione delle scritture nelle quali, a cominciare dagli ispirati apostoli, quanti fino a questi tempi sono stati padri assai stimati per santità, erudizione, pietà e autorità, essi dichiarano che abbiano vaneggiato. Un vaneggiamento la singolare loro sapienza, di fronte alla quale sono insensati tanti uomini santi, la meravigliosa dottrina, in confronto alla quale gli stessi principi delle lettere sono illetterati, l’insigne pietà, davanti alla quale sono empi quelli che custodiscono gli ordinamenti della chiesa! E per di più, con quell’insania e malvagità loro abituale, stanno precipitando per un muro inclinato verso la rovina che essi hanno provocato. Direte addirittura che sia stato uno scherzo il diluvio sotto Noè, se guardate queste cateratte, nubi e tempeste di errori; e, cosa su cui bisogna volgere subito l’attenzione, a tal punto gli errori che ne sono originati e scaturiti colpiscono e feriscono la natura della vita cristiana e il cuore dei santi costumi, che potete considerare del tutto inutile l’intenzione di riformare e rinnovare la chiesa, se prima non siano tagliate ed estirpate tutte le radici degli errori. E certo una grande speranza si è ora accesa per tutti i buoni: essi credono che da questa vostra assemblea finalmente venga confermata la verità della religione e portati alla luce tutti gli inganni degli avversari. Il diritto, l’equità, le stesse scritture e le tradizioni apostoliche sono a vostro favore. Se vale moltissimo il consenso dei buoni, con voi sono i dottori della chiesa; se (vale) la forza della consuetudine, è stato praticato da molte, anzi da tutte le epoche a cominciare da Cristo ciò che voi difendete; se valgono i giudizi degli antenati in queste cose già una volta dibattute, sempre a voi questo è stato concordemente riconosciuto; se vale l’insegnamento dei vescovi, mai la chiesa ha avuto in questo angolo dell’occidente tanti vescovi dotti e accorti. Vi esorto soprattutto a badare e a fare attenzione a questo: che chi dichiara di prestare rimedi a queste malattie, a questi rimedi, non lo faccia con le unghie116. È comprovato dalla stessa realtà che è vero ciò che dicono: Che non ci sia alcunché di troppo. Non è in alcun modo tollerabile che sia abolito e cancellato quanto è stato tramandato dall’autorità dei padri e dal lungo consenso dei secoli. Non sono però ammissibili quelli che si servono a tal punto delle forme tradizionali di insegnamento di certuni, ai quali si sono attaccati come a un altro Paolo, per non dire come a Cristo, e vi aderiscono con tale saldezza che se ascoltano qualcosa di diverso da quella dottrina che una volta hanno succhiato, anche se non è assolutamente contrario alla fede e ai santi costumi, non so per quale follia o furore subito gridano: eresia , dottrina luterana o zwingliana, alla forca, al fuoco, come se essi soltanto fossero i maestri di scuola e tutto dovesse essere sottoposto alla loro censura. Dovete conservare la maestà dei concili e procedere alla definizione di quanto tocca la nervatura e (come di dice) l’anima della religione, della fede e dei costumi; ma le altre cose in cui, senza offesa alla gloria di Dio, senza danno delle anime, gli ingegni potranno (come sogliono) espandersi e largheggiare secondo il proprio sentire, lasciatele alla loro iniziativa per non esporre tutto, volendo tutto costringere, al rischio di una continua controversia, eliminando quanto impedisca il conforto, le gioie e la libertà degli ingegni. Dunque perché il mio discorso abbia un fine, riguardo alla decadenza dei costumi non v’è nulla da dire; consideriamo infatti le classi dei vescovi, o dei principi, o dei sacerdoti, o dei magistrati o dello stesso popolo, e veniamo a sapere, più di quello che vogliamo, quanto siano lontane dal loro compito. Ma certo a mio parere pessimo è quel veleno di una riforma desiderata: chiedere la riforma negli altri ma non volerla per sé; vescovi e sacerdoti non cessano di dire che in molte maniere vengono loro impediti e tolti l’onore e il potere della loro funzione, con offesa di Cristo e danno delle anime; tuttavia dimenticano il dovere di mostrarla, bastando rispondere a tutte le lagnanze per mezzo delle parole di Cristo: Quanto vi dicono, osservatelo e fatelo; non fate però secondo le loro opere117. I principi non permettono che sia loro prescritta una regola del loro governo, ma pretendono che tutto, sia le cose profane che sacre, dipendano dalla loro arbitraria volontà, spogliando, opprimendo, tutto sconvolgendo con guerre crudeli, pervertendo l’intero diritto in odio o in favore; a questo genere di vita spesso li eccitano e li animano vescovi e dottori 116 Ne ... ungues sint: non siano unghie. Probabilmente si vuole intendere che i vescovi non restino attaccati con le unghie a forme antiche, così da considerare eretica qualsiasi novità. 117 Mt 23, 3. adulatori e spioni, non senza danno certo della dignità e della libertà della chiesa. E non minore è la pervicacia del popolo: vogliono prendere in odio e smaniare contro gli errori dei maggiori, in nessun modo essere indulgenti con loro, così da non pensare assolutamente che essi nel loro grado sono peggiori; tutti con occhi di lince nei riguardi dei vizi degli altri, ma più ciechi delle talpe riguardo ai propri, chiedono, in un atteggiamento falso di pietà, che la legge di Cristo sia sostenuta dalle spalle dagli altri, ma essi non la vogliono toccare neanche con la punta del dito, e tenendo in se stessi Cristo estinto, lo vogliono vedere negli altri vivo e raffigurato. Perciò, nobilissimi Padri e pastori vigilantissimi, che tenete un comando così alto e esercitate il governo di tutta la società cristiana, se il sommo pastore, di cui portate a buon diritto le veci nella chiesa, deve essere da voi annunziato, se da voi, che siete i successori al posto degli apostoli, deve essere dato l’esempio del pastore apostolico: il vostro ufficio va compiuto in questo tempo soprattutto in cui sulla terra si è riversato un così grande mare di errori e di delitti, che la diletta sposa di Cristo, la chiesa madre nostra e di tutti, sfigurata nel volto, violata nel corpo, colpita da minacce e terrori, oppressa dai suoi più cari, non sa più quale sia il nemico da respingere o da cui difendersi. Poiché vede tutti appartenenti alla sua casa, nessuno che operi la pace, tutti amici, nessuno che sia suo difensore: si mostra bisognosa di essere protetta da voi che per la dignità e autorità del vostro ufficio chiede, prega, scongiura, invoca perché a lei che si trova circondata da tanti sciagurati inganni, irretita da tanti lacci malvagi, sconvolta da tanti furori di empi nemici, posta in pericolo da tante minacciose rovine, voi restituiate libertà, ordine, salvezza, protezione. Sappiamo che Cristo salva la sua chiesa e non permetterà che la sua situazione arrivi a un punto tale da dover perdere ogni speranza; ma noi dobbiamo tendere ora una mano, oppure dobbiamo aspettare un altro Nabuchodonosor che ci insegni con metodi più forti ad avere migliore giudizio. Vi muova, perciò, Padri, la considerazione del compito assunto, vi muova la sacralità della vostra professione, vi muovano, dico, l’onore e la gloria di Cristo, vi muovano le preghiere, i desideri, le grida, le lacrime dei pii che ogni giorno vengono sparse, affinché risplenda la verità, sia posta fine ai dissidi, siano restaurati i costumi decaduti; i principi, rafforzate le leggi di pace, depongano le lotte continue e svolgano il loro compito a beneficio di tutta la terra. E scendete in voi stessi e riconoscendo che le cause della decadenza dei costumi sono in gran parte a voi dovute, dopo che il mondo lo va dicendo a ragione o a torto, fissate in voi l’inizio della riforma. È necessario che chi ha stabilito di condurre gli altri alla regola di un ben vivere, prima egli stesso con l’esempio di una santa vita, come legge vivente, realizzi ciò che insegna e ordina, affinché non si dica giustamente di lui: Medico cura te stesso118 e Togli la trave dal tuo occhio119. Se avrete cura di fare questo, il popolo, osservando gli stessi vescovi come leggi viventi e vivi decreti, sarà richiamato facilmente alla norma della cristiana pietà, e gli stessi principi del mondo, che peccano con così grande danno per la terra e per la cui ambizione tanto sangue umano viene abitualmente sparso, si mostreranno quello che devono essere, pastori del popolo, e conosceranno che ormai si è folleggiato abbastanza per rovinarsi a vicenda, che ormai si è realizzata la tragedia che nutre le mire dei Turchi. Perciò con il vostro aiuto il mondo sperimenterà a suo vantaggio la pace e la concordia dei re; infatti quella che si vede ora tra di loro, a fatica sussiste e rimane così incerta che non sappiamo se sia vera pace o piuttosto un piano per cui, ricuperate le forze, possano, con maggior furore e slancio, sguainare la spada contro le viscere. Redentore del mondo, Cristo Gesù, cui è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra, elargisci il tuo spirito oggi a tutti quelli che ti proclamano, vescovi e principi, perché usino felicemente il diritto della loro spada a onore e gloria del solo tuo nome, e la pietà evangelica, bene stabilita tra di noi, si propaghi in lungo e in largo, attirando con il suo profumo moltissimi, anche i nemici del tuo nome, a professare il suo insegnamento. Così la chiesa decaduta sia riformata, ridotta si dilati, vacillante sia confermata. Se ci abbandoni, da chi troveremo rifugio? se non ci ascolti, chi altro invocheremo? Per noi ecco tu hai provato la fame, la sete, hai sopportato insulti, flagelli, spine, aceto, fiele, croce e infine l’estremo genere di una morte ignominiosa. Abbiamo peccato; ma per 118 119 Lc 4, 23. Mt 7, 5; Lc 6, 42. questo tu stai alla destra della potenza di Dio, per difendere presso di lui la causa di coloro che hanno peccato. Se fossimo giusti, non avremmo bisogno di invocarti. Forse c’è un altro che presso il Padre possa contro di noi più di quanto tu possa per noi? Il Padre, che per riconciliarci con sé ha consegnato alla croce l’unico e unigenito Figlio, mentre noi lo trattavamo come nemico, afflitto da tante ferite, non ti ascolterà a favore di quelli che sono stati riconciliati? Pietà, Signore, pietà, perché se non ci fossero i nostri peccati, non ci sarebbe alcun posto per la tua misericordia. Ho detto. 2. «Conversione di Paolo» Conservata nel codice ms. Vat. lat. 3638 della Biblioteca Apostolica Vaticana, l’opera Conversio Pauli fu dedicata dal Bonucci a Paolo III con l’intento di esortare il papa a iniziare e condurre in porto il concilio. L’argomentazione si basa fondamentalmente sulla Scrittura, ma si avvale anche dei contributi provenienti dalla letteratura patristica – l’autore più citato è sant’Agostino – , filosofica e scientifica. «La Conversio Pauli riveste notevole valore per cogliere alcune delle posizioni di fondo che si esplicheranno negli interventi del Bonucci al concilio di Trento: e questi a loro volta vanno valutati nel contesto dei lavori conciliari che hanno certamente agito da stimolo su di lui»120. edizione: M.M. ALDROVANDI, Fra Agostino Bonucci Priore generale O.S.M. e la sua partecipazione al Concilio di Trento, “Studi Storici OSM”, 13 (1963), p. 69-117; testo della Conversio Pauli, 118-154 A PAOLO III PONTEFICE OTTIMO MASSIMO dopo il bacio dei beati piedi, fra Agostino da Arezzo Priore Generale dell’Ordine dei Servi grazia di Dio, virtù e felicità augura Se la provvidenza di Dio verso tutte le cose, e gli uomini prima di tutto, è riconosciuta non solo da quelli che sono stati ammaestrati dalla fede, ma anche da chi un po’ più attentamente contempli questo perpetuo e mirabile ordine dell’universo, ancora più evidente risulta la particolare cura che Egli ha verso i principi, soprattutto verso quelli cui ha affidato il governo della sua navicella. Per questo motivo, con il consenso di Dio, ti è stato dato il nome di Paolo quando, per intervento provvidenziale del medesimo Dio, sei stato eletto Pontefice massimo; e certamente non invano tu celebri la conversione di Paolo, poiché, in questi tempi tanto decisivi e inquieti della società cristiana, ti sei presentato tale e nello svolgimento di tutte le cose e nell’indire il Concilio, non solo per richiamare gli eretici alla fede ortodossa, ma anche per convertire tutti gli infedeli, a imitazione di Paolo, che ha convertito genti numerose a Cristo, dal quale prima egli stesso era stato convertito. Perciò, dopo aver meditato alcune cose sulla conversione di Paolo, mi è parso opportuno – essendo io stato da te colmato di tanti imperituri benefici - dedicarle a te quali che siano; se ti saranno gradite, sarà per un gesto della tua clemenza e renderai il mio spirito più pronto a salire verso mete più alte. Ti saluto, beatissimo padre, non dimenticarti del tuo servo. Roma, nell’anno 1545 dalla nascita di Cristo. 10 febbraio. Sappiamo che in tutte le cose create, che sono da Dio, è stata posta la tensione naturale verso quel fine che la Sua volontà ha fissato. I fiumi infatti anelano a entrare nel mare dopo aver prima bagnato la terra con il loro ampio e impetuoso scorrere. Le pietre e tutto ciò che è pesante aderisce al centro. Il fuoco con mirabile leggerezza tende alla suprema regione dell’aria. I cieli si volgono 120 B. ULIANICH, Bonucci, Agostino, p. 442 perpetuamente in giro e gli angeli non possono, neanche per un minimo intervallo di tempo, allontanarsi dal godimento eterno della visione di Dio. Così allo stesso modo il peccatore, pur completamente avviluppato dai lacci di gravissime colpe, conserva le possibilità del suo dominio e della sua volontà in ogni luogo e tempo così alte che, sebbene attratto dai piaceri sensuali e tenuto dalla cattiva abitudine dei suoi vizi, con la grazia preveniente di Dio può ed è in grado di convertisi a Dio come suo fine. Anzi quanto più è immerso nel profondo dei peccati, tanto più gli viene dato capacità di agire, affinché, riconoscendosi estremamente misero, non solo si liberi e faccia poco conto di sé, ma anche cerchi intensamente di distaccarsi da sé aderendo a Dio come al fine più eccelso. Questo lo si vede chiaramente nella sacra scrittura. Infatti gli arroganti Farisei, pur essendo chiamati più e più volte ad ascoltare la sua voce, non sono divenuti migliori, ma di giorno in giorno si sono presentati sempre più iniqui e colpevoli. Ma il figlio prodigo, la donna samaritana, la Maddalena, il pubblicano, anzi lo stesso ladrone, tutti quelli che prima erano prigionieri di tanti delitti, e oggi Saulo, si sottoposero docilmente solo alla voce di Cristo e alla divina ispirazione del cuore. Quanto sia stata grande e mirabile la conversione di Paolo, sarà dimostrato da quanto è contenuto in Atti 9 e da quello che noi diremo diffusamente a questo proposito. Mentre le cose create tendono naturalmente, per una loro interiore necessità, al fine per cui sono state fatte, l’uomo, per la libertà che ha ricevuto, resiste alle mozioni e alle ispirazioni divine. Nella vicenda di Paolo, dapprima terribile avversario della fede cristiana, si è manifestata la potente forza con cui Dio piega la resistenza del peccatore. Bisogna prima di tutto precisare questo: Saulo non è nato da una umile famiglia, da oscurissimi genitori, ma ha tratto le sue origini dal seme di Abramo e dalla tribù di Beniamino. Lo attesta lui stesso in Rm 11, 1: «Io sono israelita, del seme di Abramo, della tribù di Beniamino», superiore alle altre tribù per splendore e gloria, o perché aveva acquisito della terra promessa una parte migliore della stessa Gerusalemme, o per ingegno di uomini illustri e ricchezza di armi, che formava allora la sua massima forza. Che facesse anche parte del partito dei farisei, è detto negli At 23, 6: «Fariseo – dice – sono io e figlio di farisei». A quei tempi ciò lo rese così famoso da ottenere senza opposizione i primi posti per valore di santità e dignità e essere ritenuto il più importante di tutti. Anche qui si comportò così saggiamente da non poter in alcun modo essere uguagliato o confrontato con qualcuno e neanche essere ripreso. Perciò dice: «Ebreo da ebrei, secondo la legge, fariseo irreprensibile secondo la giustizia che è nella legge»121. Ardente di eccessivo amore per essa, perseguitava fino alla morte i seguaci di Cristo. Non ebbe affatto timore di confessare in Atti 22, 27 di essere cittadino romano, quando rispose al centurione e al tribuno. Suo padre infatti, registrato nel numero dei cittadini romani, fu insignito anche della toga consolare. Perciò, quando era trattenuto in carcere da Nerone, dice nella sua lettera a Timoteo: «Venendo porta con te il mantello che ho lasciato a Troade in casa di Carpo, e i libri»122. Questa veste paterna gli stava molto a cuore perché la dignità, che il padre aveva raggiunto non fosse oscurata ora dall’ignoranza del figlio. Risulta anche chiaramente in Atti 22, 3, che egli abbia appreso molto bene e con diligenza la scienza della legge sotto Gamaliele. Ed egli compiva l’anno della sua vita in cui, giovane, superava chiunque per capacità di animo e di ingegno. Perciò in Atti 7, 57 Luca dice: «I testimoni deposero le loro vesti ai piedi di un giovane che si chiamava Saulo». A lui deve essere anche riconosciuta grande costanza d’animo e fermezza per il fatto che custodì sempre, per quanto poté, la legge e i costumi dei farisei. Anzi ebbe una tale grandezza d’animo e forza fisica da decidere di cambiare opinione per il comando e la violenza di nessuno, l’ordine e le armi di nessuno. Desiderava soprattutto con tutto il sentimento del cuore ringraziare degnamente e debitamente Dio ottimo massimo secondo i precetti e i comandi di Mosè. Perciò riteneva con estrema sicurezza che il genere di tormenti cui faceva ricorso con tanto rigore 121 122 Fil 3, 5-6. 2Tm 4, 13. contro gli eletti di Cristo, sarebbe stato graditissimo a Dio e che egli avrebbe compiuto un’opera degna di Lui. Non poteva infatti essere indotto a credere che Cristo fosse il messia promesso nella legge. Anzi lo perseguitava come uomo pieno di impurità e di arroganza, distruttore della legge e dei riti, e perseguitava i suoi seguaci che impedivano e distruggevano in modo oltremodo empio il vero culto di Dio, e li perseguitava con tale forza che, se non fosse stata difesa dall’aiuto divino, la chiesa di Cristo sarebbe stata ridotta a nulla e il suo celeberrimo nome non sarebbe ora pronunciato da nessuna bocca umana. Questo lo veniamo a sapere con sufficiente chiarezza in Gal 1, 13-14: «Avete udito il mio comportamento nel giudaismo, perché io perseguitavo fieramente la chiesa di Dio e la vincevo e superavo nel giudaismo molti miei coetanei, difensore accanito come ero delle tradizioni dei padri», e tuttavia scrive in 1Tm 1, 13 di aver agito male: «Ho ottenuto la misericordia , poiché ho agito non sapendo, nella mia incredulità». Il grande nome di Saulo si era impresso negli animi dei cristiani con tanto timore e spavento che anche quelli che, ricevuta la luce dello Spirito Santo, camminavano senza paura davanti agli ebrei, erano talmente atterriti che anche dopo la sua conversione non potevano udire l’accaduto senza grande timore. Chi infatti non sa che Barnaba, dopo averlo condotto dagli apostoli, dovette prima rassicurarli con la sua parola che non avrebbero ricevuto alcun danno? Chi ignora che Anania, inviato da Cristo a restituirgli la vista, non abbia molto temuto? Così egli parlò a Cristo: «Ho sentito di quest’uomo da parte di molti quanti mali abbia fatto ai tuoi fedeli in Gerusalemme»123. E questo lo si mostra più limpidamente della luce con le parole: «Paolo sempre fremente minacce e strage»124. Come se avesse detto: Saulo, fuori di sé per l’eccesso di crudeltà, pieno di furore, emettendo dalla bocca bava con fremito di denti, si sforzava di fare soltanto quello che riteneva tra sé di fare allo scopo di minacciare, uccidere, distruggere e annientare i cristiani. Tutto questo era da lui compiuto per mostrare che egli voleva compiacere e obbedire a Dio e alla legge. E a mio parere Mosè stesso non ha avuto nessuno amante e difensore appassionato e diligente delle sue cose più di Paolo, mentre si trovava sotto il regime della legge. Non è forse degno di ogni ammirazione, dei immortali, che un uomo, nobile per sangue, famoso per religione, illustre per genitori, per niente inesperto e ignorante di tutte le cose, difensore accesissimo della legge e di Mosè e delle cerimonie, solo alla voce di Cristo disprezza la legge, segue il vangelo, respinge Mosè, abbraccia Cristo, abbandona la sinagoga e viene iscritto nella schiera dei santi, contesta le cerimonie, raggiunge la fede, sostiene e protegge i santi, mostra l’autore della salvezza e porta fino alle stelle con la tromba della sua voce le lodi, l’apologia e le gesta della fede cristiana? Questo è quanto ho voluto spiegarti con la forza di un solo argomento per quanto riguarda il primo punto. Ora, perché comprendiamo più facilmente quanto è contenuto nel testo e più agevolmente possiamo passare al secondo punto, affrontiamo la questione dei nomi di Paolo. Si deve osservare che Paolo nelle Scritture è stato indicato con più nomi, ma in particolare con due. È chiamato infatti Saulo e Paolo, sebbene su questo ci sia stato tra i dottori un certo disaccordo. Di Origene è l’opinione che da principio ci siano stati due nomi, poiché molti anticamente erano chiamati in questo modo, come Numa Pompilio, Tullio Ostilio, Ascanio Giulio. L’Iro è detto anche Arneo, l’Ister anche Danubio. Non diversamente dunque Saulo Paolo, specialmente perché è caratteristico degli ebrei assumere i nomi delle genti a cui erano sottoposti. Poiché il nome di Paolo era corrente presso i romani, fu chiamato Paolo, e questo può essere comprovato dal fatto che in At 22, 27-28 ha detto di essere nato come cittadino romano. Che c’è dunque di strano se gli fu imposto un nome romano? Inoltre, dichiarandosi Paolo dottore delle genti, rivendicò per sé un nome familiare a romani e greci, con cui potesse esserer più facilmente riconosciuto e di cui si servì sempre nei suoi scritti. Al contrario, poiché i genitori erano ebrei, i quali stimavano di più il fatto che egli fosse una pecora del popolo di Dio piuttosto che cittadino di una città romana, sembra del tutto conveniente che abbia preso e ritenuto un nome ebraico. Vi sono inoltre quelli che sostengono che il suo primo nome 123 124 At 9, 13. At 9, 1. fosse stato Saulo, perché Cristo con questo nome lo ha chiamato per la via: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?»125. Poi, poiché l’Egitto, la Cilicia e la parte della Siria ad essa confinante, a causa della dominazione di Alessandro Magno e poi dell’amministrazione romana, usavano la lingua greca, il termine ebraico fu tradotto in greco, e da Saul divenne Saulo, come avviene anche alla nostra epoca. Da Adam infatti i latini formano Adamus, da Abraham Abramus, da Joseph Josefhus. Ed essi vogliono essere chiamati con nome doppio, con il nome ebraico noto agli ebrei e con il nome pagano noto alle genti. Si sa che moltissimi altri nelle Scritture abbiano avuto due nomi. Infatti troviamo Iedidà che è un’altra versione di Salomone, Ozia che altrove è detto Azaria. Persino nel vangelo di Luca è chiamato Levi quello che è chiamato Matteo nel vangelo che va sotto questo nome. Altri però dicono che da principio si chiamava Saulo, poi per l’insigne conversione che egli operò nel proconsole Sergio Paolo, il primo che guadagnò a Cristo, prese il nome di Paolo. Non diversamente infatti Scipione è chiamato l’Africano perché ha sottomesso l’Africa, e Giacobbe è chiamato Israele perché ha visto Dio, Gen 32, 28. Costoro hanno un’ottima argomentazione poiché Luca lo chiama sempre Saulo fino al tredicesimo capitolo degli Atti, poi Paolo. Ma con buona pace di questi, le parole del testo del tredicesimo capitolo sembrano manifestamente contraddirli. Infatti prima che Sergio Paolo fosse convertito da lui, Luca dice: «Saulo, detto anche Paolo, pieno di Spirito Santo»126 ecc. Sembra indicare che egli già prima si chiamava con un duplice nome. Perciò penso che non ci sia nessuno che ignori che sia detto Paolo non per questa ragione. Ci sono certuni che dicono che fu chiamato prima Saulo, ma che il nome gli sia stato mutato da Dio come è avvenuto per Pietro: dapprima Simone, poi dalle parole di Cristo è stato chiamato Cefa. Così anche i figli di Zebedeo sono stato chiamati Boanerges, cioè figli del tuono. Perché dunque non si può dire la stessa cosa per Paolo? Agostino afferma che Paolo stesso si sia cambiato nome non per superbia ma per umiltà. Perciò in De Spiritu et littera dice: «L’apostolo Paolo, che prima si chiamava Saulo, non per altro motivo (per quanto sembra a me) scelse questo nome, se non per mostrarsi piccolo, come il minimo degli apostoli, contro i superbi e gli arroganti che presumono delle loro opere» (7, 12). La stessa cosa dice nel Commento al salmo 72, 4, sulle parole «Offrite al Signore i figli degli arieti»: «Chi sono tali arieti? Pietro, Giovanni, Giacomo, Andrea, Bartolomeo e tutti quelli che erano stati legati alla religione di Cristo. Di qui veniva anche colui che dapprima fu Saulo e poi Paolo: che, cioè, dapprima era stato superbo e poi divenne umile. Saul, donde deriva il nome di Saulo, fu un re superbo e tracotante. Non per questo l’apostolo cambiò nome, cioè per darsi maggiore importanza, ma da Saulo divenne Paolo, cioè da superbo piccolo. Paolo, infatti, significa piccolo. Vuoi sapere che cosa era Paolo? Ascolta Paolo stesso là dove ricorda che cosa fosse un tempo per la sua malizia e che cosa sia diventato in seguito per grazia di Dio. Ascolta come un tempo era Saulo e come poi sia divenuto Paolo. Dice: «Dapprima io fui bestemmiatore e persecutore e violento». Questo è Saulo. Ascolta ora Paolo: «Io sono il più piccolo degli Apostoli». Che vuol dire “il più piccolo”, se non : Io sono veramente Paolo? E continua: “Io non sono degno di essere chiamato Apostolo”. Perché? Perché un tempo sono stato Saulo. Che significa: sono stato Saulo? Dice: “Ho perseguitato la Chiesa di Dio. Ma per grazia di Dio sono quello che sono”. Ecco ha gettato via da sé ogni grandezza e la falsa dignità di un nome e colui che si fa minimo è divenuto grande in Cristo». E nel Discorso sull’apostolo Paolo: «Saulo, [il cui nome deriva] da un re superbo e malvagio, dopo che fu portato da quel dottore che ha detto: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore”, fu chiamato Paolo, da Lui infatti ha appreso i precetti dell’umiltà»127. Ci sono molte altre cose che egli tratta santamente ma che io tralascerò per non sembrare di perdere tempo. Infatti da queste si può dedurre facilmente quanto ho detto sopra. Dopo aver ricevuto il battesimo e conosciuto Cristo, per mostrare l’umiltà del suo cuore si scelse questo nome di Paolo. Tuttavia è vero che nel libro ottavo delle Confessioni, capitolo terzo128, sembra aver comprovato 125 At 9, 4. At 13, 9. 127 Discorso 279, 5. 128 È il capitolo IV delle Confessioni. 126 l’opinione di Girolamo, poiché dice: «Quando con la sua lotta vinse la superbia del proconsole Paolo e lo sottomise al giogo leggero di Cristo e lo fece diventare suddito del gran Re, anch’egli da Saulo, suo primitivo nome, amò chiamarsi Paolo, a ricordo di una così grande vittoria». Dunque possiamo riconoscere che per un duplice motivo egli volle essere chiamato con questo nome, per introdurre la virtù dell’umiltà e per far conoscere la gloria della vittoria. A quanti obiettano, sulla base del testo, che prima della conversione Luca lo chiama Paolo, quando dice “Saulo detto anche Paolo”, si può rispondere che ciò è stato detto per anticipazione, non perché fin dal principio sia stato chiamato con questi due nomi. Il senso dell’espressione sarebbe questo: Saulo, quello che in seguito fu detto anche Paolo, una volta vinto lo stesso proconsole Paolo. Questa è la posizione di Girolamo, con cui è d’accordo anche Valla nelle sue annotazioni129: senza scostarmi minimamente da lui non solo non ho osato avere un’opinione diversa, ma ho anche deciso di collegare le due ragioni alla sua forza e alla sua conferma. Poiché i giudei dovevano essere respinti e invece le genti, delle quali lo stesso apostolo sarebbe stato il dottore, essere accolte nel popolo eletto, non sarebbe stato contrario alla ragione che, abbandonando il nome ebraico, assumesse il nome romano. Dio stesso inoltre ha scelto ciò che è debole nel mondo per confondere i forti, ciò che è stolto per vincere i sapienti. Volendo che tutto il mondo si convertisse a lui per mezzo del più piccolo degli apostoli come per mezzo di un debole e di uno stolto, volle fregiarlo di questo nome. Il terzo punto che ho pensato di dover esaminare è che di vario genere sono stati i comportamenti dei giudei. Alcuni, infatti, gettandosi dietro le spalle la loro religione, immersi nei piaceri sensuali ed esperti solo di quello che noi riteniamo vergognoso per il corpo, imitando lo stesso Sardanapalo, vivevano in maniera da considerare giusto e vero tutto quello che fosse loro piaciuto fare. Alcuni, condotti a un pensiero empio, ammettevano di venerare gli idoli delle genti. Altri invece seguivano la fede e la religione di Cristo ma con l’intenzione di essere ovunque esaltati e acquisire la gloria di una lode. Altri facevano la stessa cosa non a motivo della religione ma per avarizia e ambizione, pensando di ottenere il necessario per vivere, dal momento che la religione cristiana promuoveva persone povere e di nessun conto. Paolo, però, era preoccupato e ansioso delle cose della sua religione tanto che non per desiderio di gloria, non per desiderio di guadagno, ma solo per amore di Dio e del fariseismo cercava di sconvolgere dalle fondamenta la chiesa di Cristo. Perciò intende la persecuzione come una delle opere di giustizia richieste dalla legge, quando dice: «Io sono stato formato nella legge paterna, come siete anche tutti voi, ho perseguitato questa via fino alla morte, di nuovo perseguitando la chiesa con zelo»130, e non gli bastò che nelle carceri, nelle tenebre, nell’abbandono, nel sudiciume morissero i santi di Gerusalemme, ma prese a perseguirli fino nelle nazioni estere. Ricevute dal capo dei sacerdoti lettere per le sinagoghe, partiva per Damasco provvisto di un manipolo di soldati, per distruggere la chiesa di lì e condurre a Gerusalemme, legati in strettissime catene, quanti trovasse che professavano il nome di Cristo. Pensava dentro di sé che nel sangue dei cristiani avrebbe santificato le sue mani non meno dei leviti che si santificarono trucidando gli adoratori del vitello d’oro, o che avrebbe placato l’ira di Dio, come Pincas quando uccise con la lancia quell’infame israelita insieme alla donna madianita, o come Elia che decise di uccidere tutti i sacerdoti di Baal. E certo si scagliava contro i cristiani con una audacia tale che né gli apostoli né gli angeli avrebbero potuto resistere e contrastare la forza e l’impeto di un condottiero del genere. Perciò la spiegazione della frase «Saulo sempre fremente»131 è questa: non contento della devastazione della chiesa di Cristo in Gerusalemme, andava minacciando l’annientamento dei discepoli del Signore. Come discepoli non si intendono solo i dodici scelti o i settanta, ma tutti i credenti che professavano la fede di Cristo. 129 Lorenzo Valla, Annotationes in Acta Apostolorum, cap. IX e cap. XV. cf. At 22, 3-5. 131 At 9, 1. 130 «Si presentò al sommo sacerdote e gli chiese lettere da portare a Damasco»132. Sebbene fosse stato tolto agli ebrei il potere di emettere condanne, tuttavia avevano ottenuto dai romani di punire secondo il costume e le norme della legge chi fosse stato trovato in errore rispetto ai comandi della legge. Condannarono alla lapidazione anche Stefano così che i testimoni gettarono contro di lui le prime pietre. «Al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne seguaci di questa via»133. Per “questa via” si intende la religione cristiana. Cristo infatti è la via retta per la quale siamo giunti al Padre: «Nessuno- dice – viene al Padre se non per mezzo di me»134. Così quelli che lo lasciano e seguono vie tortuose, non può essere mai che giungano al cielo. A questo uomo, fornito di tante eccellenti doti di corpo e di anima, ma ripieno per lo zelo farisaico di tanta efferatezza, ecco che, mentre camminava per le tenebre della caligine e dell’ignoranza, Cristo si oppose e volendo renderlo, da persecutore, giusto e cristiano, scese dal cielo e con la sua mano potente lo prostrò a terra, e anzi lo assalì in maniera più violenta di quanto faccia una schiera di predoni e di uomini malvagi contro stranieri e pellegrini. Questi infatti li assalgono con parole ingiuriose e con spade sguainate, minacciano morte se non consegnano tutto l’oro e l’argento che hanno. Cristo invece non minacciò Paolo con le sue parole, non represse la insolenza e l’audacia di lui, ma lo colpì, lo gettò a terra e lo accecò con uno straordinario e improvviso splendore di luce fino a rigenerarlo all’obbedienza e portarlo alla fede in Lui: «E mentre era in viaggio e si avvicinava a Damasco (Damasco è la città capitale della Siria), improvvisamente una luce dal cielo lo avvolse»135. Questa luce non fu quella dell’aurora quando avanza o del sole nel suo sorgere. Infatti in At 26, 13, parlando ad Agrippa della sua vocazione, disse: «A mezzogiorno sulla via vidi che il Re dal cielo mi aveva circonfuso di una luce superiore allo splendore del sole, e quelli che erano con me». Non fu una semplice emissione di luce, ma come una folgorazione improvvisa e subitanea, non solo da una parte, ma tutt’intorno, così che Luca qui descrive l’azione non della luce, ma di quella vivificante del corpo glorioso di Cristo, più luminosa del sole. Come una folgore terribile rifulse intorno a Paolo e i compagni, sconvolti dalla paura, ed egli stesso caddero a terra. Ma questi, dopo un breve intervallo di tempo si alzarono e guardavano sommamente stupiti Paolo prostrato, poiché giaceva a terra. Allora ecco che risuonò una voce dal cielo. Pieno di timore e spavento sente Dio che lo rimprovera e gli dice: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?»136. Non chiede perché perseguiti nel tuo furore gli uomini miei eletti, ma perché perseguiti me? Mostra che egli è unito alla sua Chiesa in modo da essere un solo corpo con essa e, se uno arreca un danno anche minimo ai suoi membri, lo arreca a lui stesso. E a lui, deposta ogni durezza dell’animo, Paolo risponde: «Chi sei, Signore?» E Cristo: «Sono Gesù Nazareno che tu perseguiti»137. Ora non più nudo e a piedi nudi cammino, non esposto alla passione, non debole e infermo, ma immortale, privo di sofferenza, glorioso nel corpo, ma sono vero Figlio di Dio, colui al quale i cieli, gli angeli e tutte le cose contenute nel mondo sono sottomessi. «È duro per te recalcitrare contro il pungolo». Questa è una metafora presa dall’agricoltore e dai buoi che quando recalcitrano contro il pungolo non solo non fanno del male ad esso, ma si feriscono piuttosto gravemente alle zampe; con questa metafora Cristo ha voluto indicare che, se uno perseguita gli eletti che credono in lui, ferisce piuttosto se stesso e procura a sé un danno maggiore che ad essi, come se dicesse: Non vedi, Paolo, che con questa persecuzione, che susciti contro di me e i miei consacrati, finirai tu ad essere perseguitato non loro? Faraone, quando si lanciò all’inseguimento degli Israeliti, non procurò a sé la rovina piuttosto che a loro il danno? Sennacherib, che assediava Gerusalemme, non condusse alla rovina se stesso e l’esercito? Anche gli ebrei, quando mi uccisero, non si sterminarono con la loro spada e non si appesero per sempre alla croce? Perciò David, parlando del suo empio persecutore, ha detto: «Ecco ha prodotto ingiustizia, ha concepito dolore e 132 At 9, 1-2. At 9, 2. 134 Gv 14, 6. 135 At 9, 3. 136 At 9, 4. 137 At 9, 5. 133 ha partorito iniquità; ha scavato un pozzo profondo ed è caduto nella fossa che ha fatto. La sua malizia ricade sul suo capo, la sua violenza gli piomba sulla testa»138. Zaccaria anche dice: «Chi tocca voi tocca la pupilla del suo occhio»139. Mentre Paolo percepiva tutto benissimo, come ha mostrato Beda140, i compagni udirono soltanto il suono della voce, non l’espressione distinta delle parole, come anche poterono vedere e accertarsi dello splendore della luce, ma non del viso e della forma di Cristo, come Paolo che vide e udì. Quasi fuori di senno disse: «Signore, che vuoi che io faccia?»141. Dì, ti prego, che cosa vuoi che io faccia per amore tuo, come se dicesse: quello che prima facevo per l’osservanza e la gloria della mia legge, sono intenzionato a farlo ora molto di più per te. Ma , o Saulo, che parole vai ora dicendo? Sono di un uomo davvero sapiente? Proclamavi di voler distruggere e sconvolgere la chiesa di Cristo e di voler condurre prigionieri a Gerusalemme i suoi seguaci, e ora sei diventato di essa capo e soldato e le prometti di farle da scudo con i tuoi fianchi e il corpo? Ma adesso ti scongiuro: le tue orecchie non vadano lontano ma restino unite alla forza della ragione, perché tu sappia da ciò quanto grande e gloriosa sia stata questa conversione di Paolo. Dio ottimo massimo per portare Sodoma e Gomorra al suo culto, mandò degli angeli; per condurre Israele fuori dall’Egitto, Mosè; per passare il fiume Giordano ed entrare nella terra promessa, Giosuè; per convertire Gerusalemme, molti profeti; per sommergere Ninive, Giona; per salvare il mondo ha consegnato suo Figlio, e perché si aderisse a lui con la fede e la religione, diede ordini agli Apostoli. Per la conversione di Paolo, invece, non inviò angeli, non Mosè, non Giosuè, non gli apostoli, non altri se pure ci siano stati. Ma Cristo stesso glorioso, scendendo dal trono della sua maestà, venne sulla terra per essere egli stesso di questa insigne vittoria capo e compagno, come per volergli mostrare che egli –Paolo –valeva per lui più del mondo intero. Per la salvezza del mondo, infatti, si è mostrato uomo mortale; ma per ottenere la vittoria sul solo Paolo si è offerto al suo sguardo nella maestà con cui regna in cielo. Se ci è permesso di allontanarci dal senso letterale e accostarci a quello mistico e morale (come si dice), dovremo riconoscere che si è adempiuta la parabola del pastore del vangelo, che per ricuperare la pecora smarrita lascia le altre novantanove. Dal cielo il Pastore stesso scese sulla terra, e circondò di fulgore Saulo, sua pecora dall’eternità, penetrò con la sua celeste luce nell’intimo del suo cuore e mostrandogli insieme come, senza Cristo, tutto il contenuto delle creature e delle figure dell’antica economia possa considerarsi vanità, lui solo rimase davanti ai suoi occhi, come colonna salda e base di verità, anzi come luce. Mentre egli aveva posto prima la speranza nella sua propria scienza, nella sua stolta sapienza aveva dato credito alle proprie forze, ai riti di Mosè, ai sacrifici, alla giustizia della legge, vedendo che tutte queste cose erano da stimarsi un nulla, vinto cadde a terra. E udì allora Cristo che lo rimproverava, ma considera con quale dolcezza celeste e delicatezza di parole dice: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». È certamente dolce per un uomo scellerato oltre ogni misura se viene chiamato col suo nome da un personaggio di altissima autorità; ma Paolo riconosce di essere chiamato due volte per nome non da un personaggio siffatto, non da un principe di questo mondo, non dalla voce di un angelo, ma da quella di Cristo figlio di Dio immortale e glorioso. E ritengo che abbia fatto così perché in questo modo riconoscesse facilmente la grandezza del suo amore verso di lui e si infiammasse del desiderio della sua salvezza. Paolo lo sentì come se avesse voluto dire: Due volte, o Paolo, credo di averti legato a me; infatti, per il grandissimo amore con cui ti inseguo, sono venuto due volte nelle angustie di questo mondo, prima rivestito la carne dell’uomo, facendo esperienza di sofferenza mortale, mai immortale, e poi pieno di gloria, ti ho chiamato con duplice nome. O piuttosto poiché Paolo, avvolto in errori sconfinati, era trattenuto, come da un sonno pesante, dalle tenebre della legge di Mosè, e se ne stava così sicuro, ci fu bisogno, per risvegliarsi, della voce di Cristo che lo chiamava, e per due volte: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Perseguiti proprio me, a cui sei stato tanto caro, al punto che di null’altro mi preoccupo se non che 138 Sal 7, 15-17. Zc 2, 8. 140 cf. Cinque questioni sugli Atti degli Apostoli, Questione III. 141 At 9, 6. 139 tu ottenga da me la salvezza della tua anima e diventi il capo dei santi soldati per mostrare davanti alle genti, andando per il mondo, le insegne del mio regno e la dignità del mio nome. Perseguiti me che per te ho versato lacrime e sudore di sangue, non ho ricusato di soffrire tante torture e pene e la morte, appeso alla croce, per causa tua, e non la rifiuterei se fosse necessario patire una seconda volta; perseguiti me, dico, che ti ho scelto come fortissimo guerriero del vangelo. Sappi, Paolo, quale sia stata la santità della mia vita passata, quali i costumi, quale il modo di vivere e riconoscimi non come colui che corrompe e distrugge la legge, ma come il Messia in persona. Considera quanto io abbia sofferto, quanti oltraggi, quante offese, e saprai che sempre sono stato colpito e tenuto in odio. Anche la vergine Madre, sebbene per troppa umiltà, ha fatto resistenza a me, il Salvatore. Infatti, come racconta Luca nel Vangelo all’angelo Gabriele che le annunciava la mia incarnazione, rispose: «Come è possibile? Non conosco uomo»142. Appena poi concepito nel seno materno, Giuseppe non si vergognò di pensare di abbandonare me e mia Madre143. Una volta nato e ancora infante, Erode mi perseguitò per eliminarmi del tutto, e mi rifugiai perciò in Egitto. Quando poi feci ritorno di lì e venni a sapere che Archelao regnava al posto di Erode, rimasi a Nazareth e dopo un lungo intervallo di tempo, a 12 anni di età, spiegando nel tempio i misteri celesti e divini, i giudei si accesero contro di me di così grande superbia e odio che per 18 anni non mi vide più nessuno. Infine, quando esortavo a considerare e imitare le orme della mia vita, quali calunnie, insidie, persecuzioni, travagli, minacce, calunnie e tormenti ho dovuto subire? Di morte di croce dichiarano che io debba morire, perché questa morte disonorasse tutta la mia vita. Pur patendo tutto questo, mai troverai che mi sia lagnato di qualcuno, se non di questo: sapevo, trovandomi colpito sulla croce, che il popolo ebraico e molti altri non avrebbero ricevuto il frutto del mio sangue. E con te oggi mi è rimasto il giorno dell’ardente preghiera: infatti, vivendo nella mia Chiesa la cui vita stimo più preziosa della mia, non posso essere indotto a tollerare che tu la perseguiti con tanta viscerale passione. «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Spinto da quale spirito? Da quale capo sei costretto a perdermi nei miei santi? Non ti sembra abbastanza che io abbia sofferto per trent’anni? Se ti sembra poco, perché non sfoghi contro di me tutta la tua passione? Perché la tua insaziabile sete non si estingue con il mio sangue piuttosto che con il loro? Ecco la prontezza dell’animo, ecco l’offerta del corpo: contro di me si scagli se c’è qualche pena di colpe da scontare. Infatti più tollerabile mi sembra questo accanimento crudele se sento che sono io ad essere perseguitato nella mia Chiesa. Guarda, Paolo, e poniti davanti agli occhi l’importanza delle mie opere, l’innocenza e l’integrità della vita, la pienezza della grazia, il compimento delle Scritture. Tutto questo dimosterà chiaramente che sono il vero Figlio di Dio. Divenuto più che mai attento a queste parole, considerandole a lungo nella mente e nell’animo, diceva tra sé. So che Dio ha parlato ai padri: Adamo, Noè, Abramo, Giacobbe, Mosè, Samuele, David e molti altri: non sarebbe lui che dice a me queste cose? Terribile e potente è la sua voce, luminosissimo il fulgore di questa straodinaria luce che, togliendomi la vista e le forze, mi ha gettato a terra. Se è lui quello per il quale io faccio tutte queste cose, sospinto dall’onore che debbo alla sua legge e dalla sua benevolenza, perché dice che mi perseguita? Ma anche se non ignoro che i giudizi di Dio sono grandi, non lascerò di chiedere chi egli sia. «Chi sei, Signore?» E Cristo a lui: «Sono Gesù Nazareno che tu perseguiti», colui che tutti gli antichi padri che sono stati prima di te hanno ardentemente desiderato di vedere. Quando io ero nel tempio, venivo cercato ovunque da Giuseppe e da mia Madre, e tu non ti vergogni di volgere le spalle a me che ti cerco. Io sono colui che portato dal desiderio di te ha assunto la carne umana, ha lavato l’enormità dei tuoi peccati e per la tua salvezza ha pregato insistentemente. Io sono colui che nell’ultima cena ha offerto il suo corpo per te ai suoi discepoli in dolce cibo, e il suo sangue da bere in dolcissima bevanda. Io sono colui che per te ha voluto morire sull’altare della croce. Per suo amore il sole, non sopportando l’estrema gravità delle sofferenze, ritirò i raggi della sua luce, il velo del tempio si lacerò, ma le tenebre della tua mente non furono per niente dissolte; le pietre si spezzarono, ma non v’è, o Saulo, chi ammorbidisca la durezza del tuo cuore. La terra fu scossa, ma tu non sembri esserne colpito, i 142 143 Lc 1, 34. cf. Mt 1, 19. sepolcri si aprirono lasciando uscire il loro fetore, ma tu non hai lasciato uscire dal cuore il fetore della tua coscienza. Moltissimi morti ripresero vita, ma tu sei rimasto morto nel tuo spirito. Io sono colui che ha dato a Stefano in contemplazione di vedermi nei cieli, mentre era colpito dalle pietre, e mi raccomandò intensamente nelle preghiere te che custodivi le vesti di quelli che lo lapidavano. Io sono Gesù, ricchissimo di ogni pietà e dolcezza, cui tu ti opponi con tutte le tue forze. Ecco perché sono disceso qui, per portarti un beneficio più grande di quello che mai finora ho recato a un peccatore. Se ti ho colpito, l’ho fatto perché tu desista dalle tue imprese, riceva la luce e possa conoscermi. Povero te, ti è duro recalcitrare contro il pungolo. Quando non avevi ancora conoscenza di me, avresti potuto resistere facilmente allo stimolo della coscienza, ma dopo che mi hai conosciuto non potrai, se non difficilmente, combattere contro la coscienza e gli stimoli del peccato, della morte, dell’inferno, del paradiso, dell’amore. Udito questo, Paolo divenne consapevole delle tenebre della sua sapienza e intravide le giustizie della legge come forze deboli e malate, opere abbattute e insozzate, come panni immondi. Conobbe che bontà, virtù, sapienza, giustizia, carità, dolcezza, bellezza e misericordia si trovano soltanto nel Cristo e così, svestitosi di tutto quello che prima aveva conosciuto e aveva potuto, rivestito di Cristo, gli offrì la propria volontà e, rinnegando se stesso, volle essere ricco solo di lui: egli che voleva prendere i cristiani, fu preso da Cristo; egli che voleva incatenarli, fu stretto e avvinto dal laccio indissolubile della carità; egli che voleva ucciderli, da Cristo ebbe in dono la vita; egli che voleva condurli a Gerusalemme, da Cristo fu rapito fino al terzo cielo. O metamorfosi più splendida di tutte! Mirabile conversione!Il nemico irriducibile di Cristo, portato al cielo, ha penetrato tutte le realtà divine, ha ascoltato parole arcane che a nessun uomo è lecito dire. Chi non ne rimane stupito? Spieghiamo in quale modo questo sia accaduto. Prima di affrontare la terza ragione, che mostra la singolarità della conversione di Paolo, abbiamo pensato di dover risolvere alcuni dubbi e prima di tutto perché Dio, per convertire a sé Paolo, lo abbia vinto con la forza e il comando, a differenza degli altri pur grandissimi peccatori, come la Maddalena, la Samaritana, la donna adultera, Pietro, Zaccheo, con i quali ha sempre usato parole amabilissime. Zaccheo era un peccatore e defraudava la gente, tuttavia per convertirlo si serve della voce benevola dicendo: «Zaccheo, scendi presto, perché oggi devo fermarmi a casa tua»144. Maddalena era una grande peccatrice nella sua città e addolcita dall’ammonizione di sua sorella Marta, corre spontaneamente da lui, gli si sottomette e sente: «Ti sono stati rimessi i peccati, la tua fede ti ha salvato»145. Pietro rinnegò Cristo, tuttavia fu convertito solo dalla sua apparizione. Il ladrone, sollevato sulla croce, che gli chiedeva amabilmente di ricordarsi di lui nel suo regno, ascoltò la dolce parola: «Oggi sarai con me in paradiso»146. E per prendere un esempio anche dall’Antico Testamento, David, dopo l’adulterio e l’omicidio, fu condotto a penitenza solo dalla predicazione di Natan e senza alcuna violenza. Se convertì a sé con un solo cenno questi peccatori più impuri di tutti, perché per ottenere la conquista e la vittoria su Paolo ricorre a così grande violenza? E d’altra parte il libero potere e arbitrio di Paolo sono stati a tal punto vincolati da chiedersi: poteva o no resistere alla divina chiamata? Inoltre, raggiungendo Paolo, pur nella enorme ferocia del cuore, Cristo, perché in questa persecuzione ha ottenuto misericordia? E infine, quando disse: Signore, che vuoi che io faccia?, aveva ottenuto il dono della giustificazione o no? Rispondendo al primo dubbio diciamo: è opinione di quasi tutti i teologi che è di gran lunga più difficile convertirsi a Cristo per un uomo tiepido che ottenere la salvezza per uno più empio di tutti. E la ragione è questa: quando un peccatore impenitente pensa alle colpe commesse e intorno a sé vede nient’altro che perdizione, peccati e considera la morte dell’anima e del corpo, proprio da qui Dio tocca l’intimo del suo cuore e vi immette una scintilla della sua grazia: il peccatore ritrae subito il piede dalle azioni intraprese e colui che poco prima non lasciava neanche un’ora senza un 144 Lc 19, 5. Lc 7, 48.50. 146 Lc 23, 43. 145 furto, azioni infamanti e crudeli, ogni specie di delitto, fa ogni tentativo pur di raggiungere la propria salvezza. Ma quello che si chiama tiepido, quando commette una colpa, la mitiga con un’opera buona, dicendo: se ho compiuto il male, lo cancelli un bene maggiore che farò, e così non si converte mai. Per questo riteniamo vera quella massima che dice: meglio un peccatore e un pubblicano, che un santo ipocrita. Anche Giovanni nella sua Apocalisse dice : «Magari fossi caldo o freddo»147. Ma torniamo al punto da cui è iniziato il nostro discorso, e diciamo: se è più difficile che si salvi un peccatore tiepido piuttosto che uno empio, poiché quello sembra contemperare i suoi peccati ed errori con un certo bene, a fortiori riteniamo di gran lunga difficilissimo che si converta un uomo che è fornito al massimo di ogni genere di buone opere della legge, nelle quali ha posto tutta la speranza della sua salvezza, e per il quale Cristo è un qualcosa di superfluo più che di utile. Saulo era uno di questa specie, e nessuno vede un ebreo più santo di lui. Infatti osservava a tal punto le norme della legge da non lasciar cadere di esse neppure uno iota. In queste norme restava fermo e costante e vi aveva posto così grande fiducia che né il mondo intero né gli angeli avrebbero potuto distoglierlo dalla sua idea. Per questo fu necessario che Cristo gli facesse violenza, dico violenza esterna, altrimenti non lo avrebbe vinto. Agostino nel Trattato sulla correzione dei donatisti, 50 : «Come va dunque che costoro hanno incominciato a strombazzare: “Ognuno è libero di credere o di non credere. Chi mai fu da Cristo forzato o costretto a credere?”». Ai donatisti Agostino così risponde: «Ecco, hanno l’esempio di Paolo; riconoscano che Cristo prima lo costrinse e poi lo ammaestrò, prima lo colpì e poi lo consolò. È pure davvero mirabile come egli, che fu costretto da un castigo corporale a seguire il Vangelo, si adoperò per la propagazione del Vangelo più di tutti gli altri Apostoli, chiamati con un semplice invito; egli arrivò all’amore sotto la spinta del timore e poi la sua perfetta carità scacciò via il timore. Per quale ragione dunque la chiesa non dovrebbe usar la forza per ricondurre al proprio seno i figli che essa ha perduti, dal momento che questi figli perduti usarono essi stessi la forza per mandarne altri in pedizione? Anche se alcuni non furono condotti all’eresia con la forza, ma furono traviati con la seduzione, qualora venissero ricondotti in seno alla Chiesa mediante leggi severissime ma salutari, con quanto maggior affetto la madre affettuosa non li accoglierebbe di nuovo nel proprio seno e con quanta più viva gioia si rallegrerebbe del loro ritorno che non per quei figli, i quali non si allontanarono mai da essa! Non devono forse i pastori di anime usare ogni diligenza per le pecorelle che, pur senza essere state strappate a forza, bensì fuorviate con suadenti bladizie, si sono sbandate dal gregge ed hanno incominciato ad appartenere a un nuovo padrone? Non devono forse, una volta trovatele, ricondurle all’ovile del Signore non solo col terrore, ma pure col dolore dei castighi, qualora volessero resistere?»148. La stessa opinione è sostenuta da teologi autorevoli riguardo ai bambini giudei, che con il battesimo devono essere lavati dai peccati, anche se i genitori non vogliono; io stesso non temo di aggiungere alle loro parole che anche gli adulti e gli eretici del nostro tempo devono essere costretti a tornare nella chiesa; nella loro ostinazione, infatti, non ritorneranno mai se non costretti. La medesima cosa Agostino l’afferma nella Lettera a Vincenzo149 dove, come ciascuno può facilmente vedere, si chiedeva nuovamente se sia stata fatta violenza alla volontà di Paolo. Paolo certamente fu costretto esternamente, con una pena corporale, a venire alla fede in Cristo; ma che interiormente la volontà sia stata costretta, non possiamo ammetterlo: il libero arbitrio infatti può essere senz’altro cambiato da Dio, ma non costretto. Di qui appare chiaro l’errore di chi si contrappone a quelli che dicono che il libero arbitrio non può resistere a una chiamata interiore di Dio. Non v’è nessuno di mente sana, tuttavia, che dubiti di confutare una tal cosa. Come può infatti una volontà costretta voler qualcosa, se è costretta? Dunque non vuole; se vuole, non può mai essere costretta. Come poi possa essere modificata da Dio, per nessuno teologo è oscuro. Affermano però che questo può avvenire in due maniere: o perché Dio toglie una inclinazione e ne infonde un’altra, come se togliesse quella cattiva e donasse quella buona. Nel De veritate [q. 22, a. 6] 147 Ap 3, 29. Lettera 185, 6.22-23 (cf. Opere di sant’Agostino, XXII, Città Nuova, Roma 1974, p. 41-43). Il numero 50 corrisponde all’ordine antico dei discorsi. 149 Lettera 93, (Opere di sant’Agostino, XXI, Città Nuova, Roma 1969, p. 807-877). 148 Tommaso porta un esempio: se si toglie da una pietra la pesantezza e vi si immette leggerezza, quella pietra tenderebbe non in basso, bensì in alto. E questo lo si deve dire di Dio. Se infatti la volontà può cambiare un suo atto, perché non lo potrà Dio? «Toglierò da voi - dice il profeta – il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne»150. Dunque, o con l’imprimere una forma, come è stato in Paolo, la Maddalena e il ladrone che non sono stati mossi da Dio prima di aver ricevuto la grazia, e non usa questo genere di cambiamento se non eccezionalmente con gli eletti, oppure con il non imprimere una forma, come nei capi degli infedeli che Dio, spesso senza dar loro la grazia, muove e invita al bene. In questo modo addolcì anche il cuore e l’animo di Esaù, che desiderava la morte del fratello, non gli dette tuttavia la grazia. La stessa cosa va detta dei fratelli di Giuseppe. Sappiamo che di giorno in giorno diventavano uomini più malvagi: vediamo che senza la comunicazione della grazia vengono esortati e ammoniti a fare buone azioni. Perciò, per tornare alla questione, affermiamo che Paolo non fu costretto, ma cambiato. Perché poi con lui abbia agito così, sembra che Agostino dia una spiegazione, quando dice: perché attiri uno e un altro no, non cercare di capirlo se non vuoi sbagliare151. Non cercare neanche perché uno viene persuaso e l’altro no, perché i giudizi di Dio sono un abisso profondo. Chi conosce la sua intenzione? Perciò a priori non può essere data alcuna ragione perché Paolo, chiamato da Dio proprio mentre stava attuando la persecuzione, abbia detto il suo sì e abbia seguito colui che lo chiamava. Molti altri non lo seguono quando li chiama. Tuttavia in base all’effetto e a posteriori possiamo dire che lo ha fatto prima di tutto per amore. Cristo infatti, in base a quanto Paolo faceva per la setta farisaica, lo riteneva uomo di grande autorità e immaginiamo che dicesse così: se quest’uomo Saulo opera tante e così grandi imprese per amore del fariseismo, quante ne farà se illuminato e cambiato da me? Di qui il noto adagio: un cattivo giudeo non potrà mai essere un buon cristiano. Ma poiché Paolo era un perfetto fariseo, una volta convertito e illuminato, divenne un seguace perfettissimo della fede di Cristo. In secondo luogo Agostino dice in un discorso che [Dio] ha agito così in considerazione di un merito acquisito, poiché mentre Paolo custodiva le vesti dei lapidatori [Stefano] pregò con una speciale preghiera per Saulo: si era reso ben conto della terribile rabbia che Paolo covava nell’animo e nel cuore contro di lui fino ad arrivare a condannarlo. Se fosse stato possibile gettare pietre contro di lui, non si sarebbe rifiutato, ma gli era bastato custodire le vesti e sforzarsi di incoraggiare con parole e minacce i lapidatori perché lo finissero quanto prima. Perciò abbiamo anche questo adagio: Se Stefano non avesse pregato, la chiesa di Cristo non avrebbe Paolo. Diciamo infine che Dio ha agito così per dare un esempio: Dio ottimo massimo ha voluto che Paolo, da tutti quelli che avrebbero creduto in lui, fosse tenuto come esempio limpidissimo della sua clemenza e misericordia. Se presso gli uomini Paolo si segnalava per santità di vita, presso Dio tuttavia egli era il peccatore più grande di tutti. Lui stesso nella lettera a Timoteo scrive: «Prima ero bestemmiatore, persecutore e violento»152, e poco dopo: «venne Gesù in questo mondo per salvare i peccatori, dei quali il primo sono io» e aggiunge «ma ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me per primo tutta la sua magnanimità, a esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna»153. Paolo così è stato specchio ed esempio della divina clemenza: in lui riluce la misericordia di Dio che abbraccia tutti i peccatori che credono in Gesù Cristo. Ora per quanto riguarda la questione [se Paolo abbia ottenuto o no il dono della giustificazione] risponderemo che quando Paolo pronunciò queste parole: Signore, che vuoi che io faccia?, aveva ottenuto la grazia giustificante e il dono della giustificazione, tuttavia in modo miracoloso, come ritiene la chiesa. Bisogna sapere che è duplice la disposizione alla grazia: una, imperfetta, con la quale Dio poco a poco eccita al bene gli animi dei malvagi, prima di elargire loro la grazia giustificante, muove l’anima interiormente perché, acquisita questa imperfetta 150 151 152 153 Ez 11, 19; 36, 26. Commento al vangelo di Giovanni 26, 2 (Opere di sant’Agostino, XXIV/1, 1968, p. 597). 1Tm 1, 13. 1Tm 1, 16. conversione, possa giungere alla perfezione; l’altra è detta disposizione perfetta ed è quando Dio nel medesimo istante in cui muove l’anima interiormente, infonde anche la grazia giustificante. Allora infatti l’uomo è subito compunto, è colpito da un improvviso terrore e insieme viene portato a odiare il peccato e ad amare la giustizia, così che nello stesso istante in cui si dà a lui, segue anche l’atto buono della volontà verso Dio e verso il peccato, e questa disposizione è meritoria non della grazia, che già c’è, ma della gloria, che ancora non c’è. In questo modo Paolo ha ottenuto la giustificazione. Infatti, circonfuso di luce improvvisa, inondato dalla grazia e dall’amore, disse: Signore, che vuoi che io faccia, parole queste non di timore e paura, ma di predilezione e di amore. E questo evento lo si chiama miracoloso o prodigioso, perché supera il comune modo di giustificare, come se uno, colpito da un male gravissimo, recuperasse immediatamente la salute; e questo è chiamato certo un fatto portentoso, perché è oltre quanto la natura e l’opera umana possono compiere. Ma torniamo al testo: «E il Signore a lui: alzati ed entra in città e ti sarà detto ciò che devi 154 fare» . Da Anania, uomo pio e religioso, testimone di provatissima bontà fra tutti i giudei che abitavano lì, volle sentire l’annuncio del vangelo, essere battezzato e ricuperare la vista, come diremo in modo più chiaro. «Gli uomini, che erano compagni di viaggio, stavano attoniti, sentendo la voce ma non vedendo nessuno»155. Più avanti Paolo, parlando della sua conversione, dice: «E quelli che erano con me, videro la luce e ne rimasero atterriti, ma non udirono la voce»156. Come dunque hanno potuto nello stesso tempo udire e non udire? Risponderemo che questa dissonanza di termini è facile da spiegare. Bisogna intendere che i compagni hanno udito il suono ma non la pronuncia distinta delle parole; come hanno visto la luce ma non la figura di Cristo, così hanno percepito la voce di Paolo che rispondeva a Cristo, non di Cristo che parlava a Paolo. Ciò si ricava dal testo stesso. Infatti dice: non udirono la voce di colui che parlava con me. Cristo, come non fu visto, così nemmeno fu udito dai compagni di Paolo. Se ora chiedi se anche i compagni in questa conversione di Paolo abbiano sofferto qualcosa, diciamo di sì. È Paolo stesso infatti che ammette davanti ad Agrippa: essendo tutti caduti a terra, udii la voce di colui che parlava. Dunque anche costoro furono gettati a terra. Ma di nuovo obietterai: se questi uomini erano tenuti a servire per il vantaggio e l’utilità di Saulo, poiché in tutto i servi devono obbedire ai padroni, per quale motivo subirono le stesse sofferenze di lui? Diciamo che i servi sono tenuti a obbedire ai padroni secondo la carne, ma non certo in ciò che diminuisce la maestà e la dignità di Dio. Potresti ancora avere questo dubbio: sono un servo, mangio il pane del mio padrone, bisogna dunque che io faccia quello che mi comanderà secondo la carne. Risponderemo che tu non sei servo soltanto del tuo padrone carnale, ma anche di Dio Padre celeste, e non puoi essere costretto da nessun vincolo o parola di obbligo, da nessun giuramento che diminuisca la dignità del Superiore. E quando dici: mangio il suo pane, rispondimi: non dici ogni giorno la preghiera del Signore, il Padre nostro? Non chiedi il pane quotidiano? Tu certo lo ammetti. A chi dunque rivolgi queste parole? Chi riguarda questa preghiera? Non implori la volontà di Dio ottimo massimo? Dunque il pane che mangi è di Dio, non dell’uomo. Sei dunque più legato a Dio che ai padroni di questo mondo. Infatti se in ossequio al Signore farai qualche cosa che diminuisca la dignità della religione di Dio, per questa cosa fatta male soffrirete ambedue – tu e la religione - i suoi castighi. Considera i soldati di Faraone: poiché, inseguendo gli israeliti, andarono dietro le orme della sua empietà, furono sommersi dalle acque del mare. Così questi compagni di Saulo, poiché andavano con lui a effettuare una terribile strage e rovina di cristiani, furono gettati a terra accomunati da uno stesso giudizio di Dio: è giusto che quanti hanno peccato insieme, insieme subiscano anche i castighi dei loro delitti. «Si alzò Paolo da terra e, aperti gli occhi, non vedeva nessuno, ma portandolo per mano lo fecero entrare in Damasco»157. Forse qualcuno si chiederà in che modo si sia alzato Saulo che, 154 At 9, 5-6. At 9, 7. 156 At 22, 9. 157 At 9, 8. 155 gettato a terra, aveva perso tutte le forze. Vogliamo rispondere a costui brevemente: da colui che gli aveva tolto le forze, queste gli furono restituite, quando disse: Alzati ed entra in città. Dunque Saulo si alzò e, aprendo gli occhi, non vedeva nessuno, perché era divenuto cieco, ed ebbe bisogno di essere condotto per mano fino a Damasco dai soldati che erano con lui. Comprendi, per favore, Padre Paolo, i giudizi di Dio. Saulo s’era procurato dei soldati per portare in catene a Gerusalemme i cristiani che avesse trovato, e dagli stessi soldati egli, privo della luce, viene introdotto a Damasco. Avviene frequentemente che chi ha scavato una fossa vi cada per primo, e chi nasconde un laccio, per primo ne sia legato, come Aman il siro che innalzò per Mardocheo una croce cui egli stesso fu appeso. Condotto poi a Damasco, rimase per tre giorni senza vedere, senza mangiare e bere. Non si sa bene che cosa abbia fatto, che cosa gli sia successo, perché non abbia preso alcun cibo. È tuttavia comune opinione dei teologi che in quello spazio di giorni sia stato rapito e portato fino al terzo cielo e che lì abbia udito parole arcane che non è lecito a uomo pronunciare158. A tale opinione aderisco anche io e aggiungo inoltre che Paolo ha imparato il vangelo dalla bocca di Cristo. Mi sembra che se ne possa dare una motivazione abbastanza efficace. Infatti se Cristo si è guadagnato Paolo come guida formidabile e illustre messaggero del Vangelo, dobbiamo ammettere senz’altro che Paolo non ha voluto essere istruito da alcun uomo e non ha voluto imparare qualcosa con cui ripetutamente fosse confermata l’autorità del Vangelo: Dio stesso è stato a mostrargli la conoscenza di sé. Quindi, dopo che fu colpito e rapito, fu portato fino al terzo cielo, dove conobbe non solo le cose che all’uomo non è assolutamente possibile pronunciare, ma anche acquisì tutta la scienza del Vangelo. Per essere più facilmente certi di questo fatto, cito a testimone lo stesso Paolo che, scrivendo ai Galati dice: «Paolo apostolo non dagli uomini né per mezzo di un uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre» e aggiunge «vi rendo noto, padri, che il Vangelo che io predico non è secondo uomo e non l’ho ricevuto e appreso da un uomo, ma per rivelazione di Gesù Cristo»159. La stessa cosa afferma Luca in Atti 9, 20-22: dice infatti che non appena fu lavato con l’acqua del battesimo quasi nel medesimo tempo annunciò il Vangelo e proclamò che Cristo è vero Figlio di Dio. Gli ebrei ne erano talmente meravigliati che dicevano: non è costui quello che perseguitava fieramente i cristiani? Non era venuto qui per portarli prigionieri a Gerusalemme? Ma egli sempre di più proclamava che Cristo è il vero Messia ed è il vero Figlio di Dio. Se non fosse stato pienamente istruito dal Figlio di Dio, queste cose da lui non avrebbero potuto essere fatte. E, per di più, quando dopo quattordici anni a Gerusalemme confrontò il suo vangelo con gli apostoli, con i quali prima nulla aveva discusso certamente sulla dottrina del vangelo, venne riconosciuta tuttavia una somma concordia e uguaglianza. Perciò ha potuto esclamare: «Anche se noi o un angelo dal cielo vi predicherà un altro vangelo, diverso da quello che vi abbiamo annunciato, sia anatema». Poiché dalla bocca di Cristo l’aveva appreso in Paradiso. Perciò dobbiamo ammettere che in quei tre giorni, quando rimase cieco a Damasco, sia stato rapito al terzo cielo e che lì abbia appreso tutto ciò che doveva annunciare. Ma che cosa è questo rapimento? Che cosa si deve intendere per terzo cielo? Che cosa abbia udito e visto, ci siamo proposti di discuterlo più sotto. Il Bonucci si dilunga quindi a spiegare i diversi significati connessi al verbo “essere rapito” (il rapimento fatto con violenza, il rapimento dalla convivenza con gli uomini [Enoc], il rapimento/distacco dell’anima dal corpo, il raptus della follia, il rapimento dell’estasi, il rapimento dell’amore160). Conclude dicendo che il rapimento di Paolo è stato un movimento di elevazione oltre la natura. Affronta la questione se Paolo sia stato rapito con il corpo o senza il corpo,e ne discute sulla base del pensiero di sant’Agostino che alla questione dedica il libro 12 dell’opera Genesi alla lettera. Impegna a lungo il Bonucci anche il problema della natura del terzo cielo e la distinzione tra fede e chiara visione di Dio. Resta per lui assodato 158 cf. 2Cor 12, 2-4. Gal 1, 11-12. 160 «L’estasi che l’amore divino produce, come dice Dionigi [Pseudo Areopagita, V secolo] nel quarto capitolo de I Nomi divini, cioè la carità che ordina all’uomo di uscire fuori di sé. A tal punto le cose del prossimo le stanno a cuore, che non cura affatto le sue. “La carità infatti non cerca le cose che sono sue” (1Cor 13, 5). Come infatti uno che ama una donna la cerca con un amore maggiore di se stesso, così anche chi sperimenta la gioia dell’amore divino, fa più conto delle cose altrui che delle proprie. Anzi, ha dimenticato ogni preoccupazione per le sue cose». 159 che Paolo, come Mosè che parlava bocca a bocca con Dio, ha meritato di vedere l’essenza divina: una visione temporanea e tuttavia fonte di beatitudine, come sostiene Agostino nel libro XIII del De Trinitate. Paolo ha udito parole ineffabili che non possono essere spiegate agli uomini e tuttavia ha predicato. Il Bonucci cerca di risolvere l’apparente contraddizione spiegando che Paolo ha udito in cielo non solo cose arcane, ma anche verità che riguardano la salvezza dell’uomo. Mentre ha taciuto le prime, ha manifestato e predicato le seconde. Del resto, come poteva tener nascosto il vangelo di Cristo che aveva appreso in questo suo rapimento, egli che addirittura «desiderava essere anatema per Cristo pur di ottenere la salvezza ai suoi fratelli secondo la carne161?». Dopo aver detto tutto questo, oramai ciascuno può comprendere la grandezza e l’eminenza della conversione di Paolo: un uomo nemico irriducibile di Cristo nel piccolo spazio di tre giorni ha appreso dalla bocca di Cristo il vangelo e tutte le verità necessarie alla salvezza. Quando fu lavato dal battesimo, non ebbe timore di annunciare apertamente e di predicare tutte queste cose, senza essere istruito da alcuna persona, e dopo 14 anni avendo confrontato il suo vangelo con gli apostoli a Gerusalemme, non risultò nessuna differenza tra di loro. Ha poi avuto la visione che gli presenta distintissimamente l’essenza di Dio e che anche gli angeli e Adamo nello stato di innocenza hanno avuto. Infine vide senza veli l’essenza divina, le produzioni interne divine e gustò tutte le perfezioni e perfettamente beato e reso tutto divino mi sembra degno di ogni ammirazione. Ma ora torniamo al testo. Segue: «C’era poi a Damasco un discepolo di nome Anania»162. Questo discepolo è chiamato Anania e viene mandato da Saulo. Chi sia stato, Paolo stesso lo spiega chiaramente, sotto, al cap. XXII, 12, dicendo: «Anania un uomo pio secondo la legge, stimato secondo la testimonianza di tutti i giudei che ivi dimorano». A costui dunque apparve il Signore e lo mandò da Paolo che era in preghiera per ridargli la vista e per lavare i suoi peccati con l’acqua del battesimo. Saulo vide, non con gli occhi del corpo ma per una interna visione, che «un uomo di nome Anania entrava, gli imponeva la mano per ricuperare la vista»163. Dunque nel rapimento gli erano state rivelate parole ineffabili e anche colui che doveva restituire la vista, da cui doveva essere guarito e battezzato. Anania volle resistere non so in che modo alla chiamata divina e in lui si vede il timore e la debolezza della natura umana nel prestare obbedienza a Dio. Dice infatti: «Signore, ho udito da parte di molti riguardo a quest’uomo quanto male ha fatto ai tuoi santi a Gerusalemme»164, come se dicesse: Da chi mi mandi, Signore? Vuoi gettare una pecora tra i denti del lupo perché la sbrani e la divori? Questo Saulo, non diversamente da un lupo rapace contro un gregge di pecore, ha infierito contro i tuoi santi. E qui, cioè anche in questo luogo, ha potere da parte di capi dei sacerdoti di incatenare tutti quelli che invocano il tuo nome, cioè che credono in te. Se ora, recandomi da lui, dirò qualcosa di te, subito mi getterà in carcere e in catene e mi trascinerà a Gerusalemme a morire con i tuoi santi. La stessa cosa accadde a Mosè che dovendo recarsi in Egitto per tuo comando per la salvezza e la liberazione del popolo, a lungo tentò di evitare, a causa dei moltissimi pericoli di vita, il grave peso che gli era stato imposto. Perciò mise avanti ora la sua debolezza, ora la sua incapacità e la difficoltà di parola, l’incredulità del popolo, e presentò la diligenza e l’impegno di altri molto più pronti all’impresa. Così anche Geremia, chiamato al compito di profeta, per annunciare la devastazione e la rovina dei giudei e delle genti, ebbe moltissima paura, dicendo: Ahimé, Signore, non so parlare165. Giona ugualmente, mandato da Dio a Ninive, si sottrasse al terrore delle disgrazie166. Ma il Signore, che viene in aiuto ai suoi, offrì ad Anania che temeva di incontrarsi con Saulo sicurezza di vita, dicendo: «Va’ perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio 161 cf. Rm 9, 3. At 9, 10. 163 At 9, 12. 164 At 9, 13. 165 Ger 1, 4 ss. 166 Gn 1, 3 ss. 162 nome davanti alle genti e ai re e ai figli di Israele»167, come se volesse dire: Perché questa paura, Anania? Credi forse che io ti mandi da un lupo? Credi di essere portato a morte? Non sai che dodici sono le ore del giorno? Nei giorni passati hai sentito parlare della prepotenza di quest’uomo e della persecuzione contro i miei santi; ma non hai sentito che io l’ho chiamato per nome lungo la via? non lo hai visto gettato a terra e privato della luce degli occhi? il suo improvviso cambiamento e il suo rapimento fino al terzo cielo? Va’ dunque con spirito pronto da lui, perché non è più un lupo, ma un agnello, non è più chiamato carnefice, ma artefice di salvezza tramite il vangelo che è destinato ad eseguire. L’ho scelto infatti per me come vaso o strumento perché sia presso tutti servo del mio vangelo e per portare il mio nome non solo davanti ai popoli ma anche davanti ai re, non solo presso le nazioni, ma anche presso i giudei. E poiché il servizio del vangelo ha unita a sé la croce, secondo la parola di Cristo: «Ecco vi mando come pecore in mezzo ai lupi»168, ha aggiunto: «Io infatti gli mostrerò quanto debba soffrire per il mio nome»169. Saulo arrecò molti mali a quelli che invocano il mio nome. Ma ora a causa del mio nome subirà sofferenze molto più numerose di quelle che ha provocato. Prima ha perseguitato la mia chiesa per amore della sua religione; ma ora, preso dall’amore per la vera fede, combatterà con tanta foga del cuore quella che difendeva, da annientare con la parola della sua predicazione tutte le falsi religioni e i loro fautori. Quindi è chiaro che Cristo portò al timore di Anania una medicina per due ragioni: perché Saulo non è più persecutore, ma vaso e strumento eletto e stabilito per predicare il vangelo, e perché ai santi che invocano il nome di Cristo non reca alcun male, anzi per il bene loro e per il nome di Cristo soffrirà egli stesso mali infiniti. Forse chiederai: perché Paolo è chiamato vaso di elezione? Rispondiamo: prima di tutto per costituzione. Come il vaso nel momento della sua creazione soggiace all’artigiano, Geremia XVIII, 4: «Fece un altro vaso come gli era piaciuto», così anche la costituzione degli uomini è sottoposto all’arbitrio di Dio. Nel Salmo 99, 3: «Egli ci ha fatto e non noi da noi stessi». Perciò anche se Paolo prima di convertirsi non sottostava alla volontà del suo creatore, anzi gli resisteva e lo combatteva, tuttavia, una volta conosciuta la verità, si affidò totalmente alla volontà di Cristo, e da lui fu reso un altro vaso, cioè di elezione e di grazia come era stato stabilito dall’eternità, ed essendo vaso di ignominia fu fatto d’oro, solido e ornato di ogni pietra preziosa. D’oro, certo, per la somma sapienza. Chi infatti è stato più sapiente di lui che, rapito fino al terzo cielo, apprese l’evangelo dalla bocca di Cristo e udì parole che non è lecito all’uomo pronunziare? È chiamato anche solido per la carità, per cui Romani cap. VIII, 38: «Sono certo che né morte né vita potranno separarci dalla carità di Dio». Infine ornato di ogni pietra preziosa, perché fu dotato di tutte le virtù. Perciò 2 Corinti I, 12: «Questa è la nostra gloria, la testimonianza della nostra coscienza poiché ci siamo comportati in questo mondo nella semplicità del cuore e nella sincerità di Dio, non in sapienza carnale ma nella grazia di Dio». Ugualmente è stato detto vaso per la pienezza, come infatti un vaso deve essere riempito da un liquido, così anche Saulo fu sempre pieno del nome di Cristo, ossia del Vangelo, anzi di Cristo stesso. Perciò in Apocalisse III, 12: «Scriverò sopra di lui il mio nome», poiché prima lo ebbe scritto nell’intelletto; 1 Corinti II, 2: «Non ho ritenuto di sapere nulla in mezzo a voi, se non Cristo». L’ebbe anche nella volontà: «Se uno infatti – dice nell’ultimo capitolo [XVI, 22] – non ama Cristo, sia anatema». Lo ebbe anche nell’anima e in tutta la sua vita, perciò Galati II, 20: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me ». La bocca e la sua lingua nessun suono emettevano se non Cristo. Poi è stato chiamato vaso per l’uso dignitoso. Tutti i vasi infatti sono destinati a qualche uso. Ma Paolo fu designato a portare il nome di Cristo tra le genti, in Israele e davanti ai re. Portò poi il nome di Cristo nel suo corpo, quando imitò il suo comportamento. Io, dice in Galati alla fine, «porto le stigmate del mio Signore Gesù Cristo nel mio corpo» [VI, 17]. Lo portò anche sulla bocca come si vede chiaramente nelle lettere; lo nomina infatti frequentissimamente; pensate per favore a quante volte lo avrà pronunciato nella predicazione. Lo portò per iscritto a vantaggio di assenti e dei posteri; infatti nelle sue lettere ha 167 At 9, 15. Mt 10, 16. 169 At 9, 16. 168 predicato Cristo per mille e cinquecento anni e fino al giorno del futuro giudizio non cessarà di predicare. Per l’utilità certo fu chiamato vaso. È stato infatti un vaso oltremodo utile per la Chiesa, santificato e mondato da tutti i peccati. Da tutto questo dunque riteniamo che risulti con sufficiente evidenza perché sia stato chiamato vaso di elezione. E partì Anania ed entrò in casa e imponendogli la mano disse: «Saulo fratello, il Signore, che ti è apparso sulla via per la quale andavi, mi ha mandato perché tu recuperi la vista e sia riempito di Spirito Santo»170. Questa imposizione delle mani non trasmise a Paolo lo Spirito Santo, come l’imposizione di Pietro e Giovanni ai samaritani. Procurò invece la guarigione fisica, egli cioè ricuperò la vista. Si potrebbe dire che tale imposizione diede lo Spirito Santo, perché si dice subito dopo: «E sarai riempito di Spirito Santo». A questa obiezione risponderemo: «E sarai riempito di Spirito Santo», cioè nel battesimo, come più chiaramente Paolo stesso dice sotto, al capitolo 22, 12 ss.: «Venuto da me e stando in piedi disse: Saulo fratello, ricupera la vista, ed io nel medesimo momento recuperai la vista e lo vidi». E poco dopo nel medesimo passo dice: «E ora perché indugi? Alzati e ricevi il battesimo e lava i tuoi peccati dopo aver invocato il nome del Signore». Ecco che l’imposizione delle mani trasmette il ricupero della vista e il dono pieno del battesimo. Segue: «E subito caddero dai suoi occhi come delle squame e ricuperò la vista». Sono chiamate squame quelle che coprono il corpo del pesce o del serpente. Secondo Plinio, diversi sono i rivestimenti degli animali acquatici, alcuni sono coperti di pelle, altri di peli, come i vitelli, altri di squame come i pesci e i serpenti. Perciò Virgilio, nell’Eneide XI, v. 750-754, parla di Tarconte dicendo: «da la forza quanto può con la forza si districa/. Come ne l’aria insieme avviticchiati/si sono visti talor l’aquila e ‘l serpe pugnar volando,/e l’una aver con l’ugne e col becco ghermito e morso l’altro:/e l’altro co’ suoi giri e co’ suoi nodi/farle vincigli ai piè, volumi a l’ali;/e questo con la testa alto fischiando,/e quella schiamazzando e dibattendo,/ambedue voltolarsi, ambedue stretti/ far di squame e di piume un sol viluppo». Ma le squame che caddero dagli occhi di Paolo non sono state di tale natura: le escrescenze che coprivano i suoi occhi sono definite simili a squame per indicare, io credo, che davvero egli fosse cieco. Ritengo che tali escrescenze siano state causate dall’intensissima luce che lo folgorò lungo la via: essi si asciugarono portando fuori l’umore freddo per la straordinaria forza della luce. A questo punto Bonucci inserisce una digressione scientifica sulla struttura dell’occhio. Allora le escrescenze sugli occhi di Paolo si formarono a somiglianza di squame, che all’imposizione delle mani di Anania caddero miracolosamente, e per virtù divina gli furono restituiti gli umori, per cui ricuperò la vista e fu battezzato. Infatti Anania (come si dirà sotto al cap. 22, 16) gli disse: «Perché ora indugi? Alzati e ricevi il battesimo, dopo aver invocato il nome del Signore. Egli, alzatosi, fu battezzato». Ma a questo punto si potrà per prima cosa obiettare: se Paolo è stato rapito fino al terzo cielo e ha visto chiaramente l’essenza divina, e fu perfettamente beato ed ebbe di conseguenza grazia e carità perfetta, come viene riempito di Spirito Santo con la ricezione del battesimo? Inoltre, Paolo ha detto: Chi sei, Signore? Ha promesso a Cristo una pronta obbedienza dell’animo. E quando poi ha detto: Signore, che vuoi che io faccia?, dobbiamo ammettere che egli avesse la grazia gratificante e che avesse conseguito il dono della giustificazione. Allora perché Anania gli ha detto: «Alzati e riceve il battesimo e lava i tuoi peccati, dopo aver invocato il nome del Signore»? Infine: se nel rapimento ha ottenuto grazia e beatitudine e Cristo gli ha insegnato l’evangelo, che necessità v’era di essere istruito e battezzato da Anania? In che modo si potranno combinare queste due affermazioni: da nessuno ha appreso il vangelo, come egli stesso attesta in Gal [1, 12] e, secondo quello che sembrano dire le parole del testo, quando Gesù gli ha detto: «Alzati ed entra in città e ti sarà detto che cosa tu debba fare»171, è stato istruito da Anania? A queste obiezioni tenterò di rispondere brevemente, come potrò. 170 171 At 9, 17. At 9, 6. Alla prima e alla seconda obiezione rispondo: Paolo, quando ha detto «Signore, che vuoi che io faccia», aveva ottenuto già la grazia gratificante e la giustificazione, e fu veramente beato quando rapito in estasi vide l’essenza divina. Ma per ottenere una grazia maggiore ed essere riempito di Spirito Santo e ricevere una remissione più ampia dei peccati, fu lavato con l’acqua del battesimo. Se ricevette infatti un aumento di grazia, dovette ricevere anche una più ampia purificazione dei peccati, e che l’abbia ricevuta lo si deduce facilmente da questo: quando un giusto accede al battesimo (come riferisce il Maestro nel libro 4 delle Sentenze), sempre riceve una grazia più abbondante, poiché in forza del sacramento il battesimo o dà la grazia, nel caso che non la trovi, o, se già c’è, la intensifica e l’aumenta. [...] Alla terza obiezione rispondiamo che era necessario per moltissime ragioni che Paolo fosse battezzato. Primo, perché Cristo aveva detto: «predicate il vangelo ad ogni creatura; chi crederà e sarà battezzato sarà salvo»172. Dunque, sia a tutti ben chiaro, che queste due cose riguardano la salvezza e sono necessarie: ascoltare il vangelo, ricevere il battesimo. Saulo, dopo la preziosa rivelazione viene istruito e battezzato. Se proprio lui, tornando dal terzo cielo, già edotto in tutto da Cristo, ebbe la necessità di essere istruito e inondato dall’acqua del battesimo, perché dubiti di ammettere che queste cose sono necessarie a noi che non siamo stati illuminati da alcuna rivelazione? La seconda è una ragione di necessità: come ebbe Cristo per testimone della sua rivelazione, illuminazione e risurrezione, così ebbe i suoi compagni per testimoni della folgorazione, della caduta e della cecità. C’è bisogno infatti che sia conosciuto un testimone di vita integra, perché si possa dare credito alle sue parole. Che Anania lo sia stato lo afferma Paolo nel cap. 22, 12, come sopra abbiamo detto: egli fu uomo pio e onesto secondo la testimonianza di tutti i giudei che abitavano lì. Potrebbero essere portate qui moltissime argomentazioni che ho ritenuto di dover tralasciare per porre fine a questo trattato. Porterò l’ultima ragione per la quale la conversione di quest’uomo straordinario è manifestamente miracolosa e come tale è celebrata dalla chiesa. Infatti non solo fu convertito da Cristo, così che improvvisamente smise rabbia e violenza e abbracciò il Vangelo, non solo, dico, fu illuminato dal Cristo glorioso e immortale e rapito al terzo cielo, ma anche fu trasportato dall’abisso profondo dei delitti all’apice e alla dignità di tutte le virtù. Perciò, se vogliamo presentare qualcosa dalla moltitudine delle sue virtù e l’eccellenza dei beni, egli subito rifulse, per prima cosa, di sublime carità, che giustamente è chiamata base e fondamento di tutte le virtù, in 1Cor 13, 1ss.: «Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli» ecc.; con essa vive la fede, senza di essa la fede è morta in se stessa. Perciò nel medesimo passo «e se avrò una fede capace di spostare le montagne», ecc. Ma essendo duplice la carità, una verso Dio, Es 20: «Amerai il Signore Dio tuo»173 ecc., l’altra verso il prossimo, Lc 22: «E il prossimo tuo come te stesso»174, Paolo le ebbe ambedue. La prima, poiché dice in Rm 8, 35 ss.: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? forse la spada? la fame?» ecc., e in At 21, 10 ss.: «Avendo Agabo un profeta della Giudea preso la cintura di Paolo, legatisi mani e piedi, disse: “Questo dice lo Spirito santo: l’uomo a cui appartiene questa cintura sarà legato così dai Giudei a Gerusalemme e verrà quindi consegnato nelle mani dei pagani”». Perciò Paolo, pregato dai fratelli di non recarsi a Gerusalemme, rispose: «Sono pronto non solo a essere legato, ma a morire per il nome del Signore Gesù». Ebbe anche la seconda forma di carità: desiderava infatti essere lui stesso anatema per amore dei suoi fratelli, Rom 9, 3. A questo proposito Agostino dice che Paolo non fu inferiore a Mosè, il quale in Es 32, 32 disse: «Signore, cancellami dal libro della vita» o perdona loro questo peccato. In secondo luogo Paolo rifulse per l’intimità con Cristo. Nessuno infatti ha avuto Cristo più intimo a sé come lo ebbe Paolo. Perciò in Gal 2, 20: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me». E ai Corinti: «chiedete una prova che Cristo parla in me?». Gli era infatti talmente intimo, che non era Paolo a parlare, ma Cristo parlava in lui. Così nulla diceva di sé, ma solo di quello che Cristo gli offriva. E in Gal [1, 8]: «E se noi o un angelo dal cielo predicasse un vangelo diverso, sia anatema», come se dicesse, noi e gli angeli siamo inferiori a Cristo; servendolo, non potremo 172 Mc 16, 15 Dt 6, 5. 174 Lc 10, 27. 173 insegnare qualcosa di contrario al suo vangelo. Ciò che dunque predichiamo, è di Cristo, poiché abbiamo avuto questo compito non da un uomo o per mezzo di un uomo, ma da Lui. Paolo inoltre brillò per la cura e la sollecitudine del gregge a lui affidato: magari ci fossero vescovi siffatti in questi tempi! Fu infatti avversario irriducibile degli eretici. Avendo previsto che anche dopo la sua morte ne sarebbero sorti in gran numero, ci avvertì più di una volta a loro riguardo, specialmente in At 20, 17 ss. Trovandosi a Mileto, mandò a chiamare a Efeso gli anziani, vescovi della chiesa, e disse loro: «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posto come vescovi a reggere la chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue. Io so infatti che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non rispermieranno il gregge. Perfino in mezzo a voi sorgeranno alcuni a insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé. Per questo vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi». E in Tt [3, 10-11]: «Dopo una o due ammonizioni sta’ lontano da chi è fazioso, ben sapendo che è gente ormai fuori strada e che continua a peccare condannandosi da se stessa». Dice molto bene che dopo una o due ammonizioni dobbiamo evitare l’eretico. Infatti prima dobbiamo parlare con lui per ammonirlo a lasciare l’eresia e a portarlo alla nostra convinzione. In un secondo momento dobbiamo rimproverarlo davanti ai vicini e agli amici. Se dopo la correzione non rinuncia, dobbiamo respingere e rigettare i suoi errori, riferendoli alla chiesa come peste e rovina mortale per la società di Dio. La parola dell’eretico infatti serpeggia come cancro. Ecco, da qui si vede quanto sbaglino alcuni in questa nostra epoca, dicendo che è più facile che siano gli imitatori di Paolo e di Agostino a cadere nell’eresia; ma non è assurdo pensare che i seguaci di chi ha sradicato eresie ed errori, si espongano a un luogo scosceso? Se anche avranno estrapolato dai loro scritti qualche eresia, questa deve essere attribuito alla loro ignoranza, malizia, infedeltà, confusione interiore, e non a uomini santissimi. A nessuno fu secondo per generosità: senza chiedere assolutamente nulla, predicò ovunque il vangelo. In Atti 20, 33-34 diceva: «Non ho desiderato né argento né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani», vale a dire: in questi tre anni che ho passato presso di voi piangendo notte e giorno, non ho vissuto con elemosine o predicazioni, ma con il lavoro delle mie mani. In questo modo ha mostrato la sua altissima perfezione, secondo la parola di Cristo in Lc 11: «C’è più gioia nel dare che nel ricevere»175, imitando così il suo maestro Cristo, che in Mt 4, 19 ha detto: «Seguitemi e vi farò diventare pescatori di uomini»; non ha detto pescatori di oro, di argento e di altre cose del genere, ma vi farò gettare la rete in mare, cioè predicherete il mio Vangelo in questo mondo e pescherete le anime degli uomini che stanno male. Perciò dice ancora in 1Ts 2, 5-9: «Non siamo stati in mezzo a voi una volta con parole di adulazione», cioè non vi abbiamo predicato il vangelo per procurarci amicizie di uomini o di magistrati. Come voi sapete: «né con pensieri di avarizia, Dio ne è testimone», né con desiderio di guadagno, come i falsi Apostoli, «né chiedendo favori agli uomini o a voi»; e rendendo conto della vita sua e degli altri, se mai egli stesso e gli altri predicatori chiedessero o meno per sé qualcosa al loro uditorio, dice: «Vi ricordate, fratelli, del lavoro e della fatica nostra. Lavorando notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno». E in 2Ts 3, 7-8: «Sapete in che modo dovete imitarci: poiché noi non abbiamo vissuto oziosamente in mezzo a voi né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi». Penso che nessuno, imitando Paolo, possa uguagliarsi a lui che pure esortava mirabilmente tutti gli altri a seguire le sue tracce. In 1Cor 11, 1: «Siate miei imitatori come io lo sono di Cristo». Si segnalò anche per quella clemenza per la quale quando l’usiamo nei rapporti con gli uomini, ci chiamano umani: non ci fu mai nessuno che lo abbia visto in atteggiamento di disprezzo verso una qualche persona. Predicò il vangelo ai Giudei e alle genti e a quasi tutte le nazioni, per arricchire tutti costoro di Colui per amore del quale operava così. Perciò diceva ai Corinti: «Non cerco le cose 175 At 20, 35. vostre, ma voi»176. Io spenderò bene volentieri e sarò sovrapagato per voi , per le anime vostre. Non devono i figli tesorizzare per i genitori, ma i genitori per i figli. Grandissimo fu anche nel disprezzo del mondo; nessuno infatti disprezzò per Cristo così tanto il mondo come Paolo. Perciò in Fil 3, 8: «Tutto io ho ritenuto come sterco, per guadagnare Cristo». Anzi per Cristo aspirava a incontrare la morte, per questo diceva ancora in Fil 1, 23: «Desidero dissolvermi ed essere con Cristo». Scacciò da sé i desideri di tutti i vizi e della carne, crocifiggendoli come mai nessuno ha fatto, e perciò ha detto: «Castigo il mio corpo e lo riduco in schiavitù»177. In Gal 5, 24: «Quelli che sono di Cristo, hanno crocifisso la loro carne con i suoi vizi e i suoi desideri». Egli deve essere raccomandato, a mio parere soprattutto per averci indicato la croce; infatti ritengo che nessuno abbia portato la croce di Cristo più volentieri di lui, poiché ha anche detto: «Di null’altro mi glorierò se non della croce del Signore nostro Gesù Cristo»178. Anzi di nessun santo si legge nelle divine scritture che abbia portato le stigmate di Cristo, come si legge di Paolo che in Gal 6, 17 dice: «Io porto le stigmate del Signore mio Gesù Cristo nel mio corpo». Fu notevole anche per la perseveranza, che è una virtù nobilissima. Come attesta Agostino, dei cristiani non si chiede conto degli inizi, ma della fine. Cristo ha detto: «Chi persevererà fino alla fine, sarà salvo»179. Della vita di Paolo l’inizio fu santo, la metà più felice, e felicissima la fine; per quanti pericoli di vita, infatti, per quante sofferenze leggiamo che egli sia passato, e non è venuto meno? 2Cor 11, 23-24 lo dimostra chiaramente: «in moltissimi travagli, nelle prigionie, nelle percosse, spesso in pericolo di morte, cinque volte dai giudei ho ricevuto quaranta colpi meno uno»; infatti in Dt 25, 2 per le colpe più leggere quelli che cadevano in errore ricevevano quaranta colpi. Gli anziani, per mostrarsi buoni, ne davano di meno, e la loro severità fu abbastanza contenuta verso Paolo, essendo stato bastonato cinque volte da loro, fu tolta una sola fustigazione. Segue: «Sono stato battuto tre volte con le verghe», una volta sono stato lapidato ecc. e in Rm 8 dice: «Sono certo che né morte né vita, né angeli, né principati né potenze, né il presente né il futuro, né fortezza né altezza né profondità mi potranno separare dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, Signore nostro»180. La carità che ha avuto fin dal principio l’ha conservata fino alla fine. Vedi 2Tm 4, 7 ss.: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede; non mi resta che la corona di giustizia» ecc. Non si è trovato nessuno (faccio eccezione sempre e distinguo la beata Vergine) che abbia avuto una fede più sicura, una speranza più salda, una grazia maggiore di lui. Sulla fede 2Cor 1 è chiaro: «So a chi ho creduto e sono certo»; sulla speranza Rm 8, 24: «Nella speranza siamo stati salvati»; sulla grazia, 1Cor 15, 10: «Per grazia di Dio sono quello che sono, e la grazia in me non è stata vana». Al primo posto tenne sempre l’umiltà, lui che si definisce « un aborto, l’ultimo degli apostoli», «non sono –dice – degno di essere chiamato apostolo, poiché ho perseguitato la chiesa di Dio» e in 1Tm 1, 13 si chiama il primo di tutti i peccatori. Ma per una comprensione più lucida dell’umiltà bisogna avvertire che la sacra Scrittura differisce dalle scienze in questo, che le scienze gonfiano ed essa invece rende umili. E di questo la ragione è che le scienze si acquistano con il lume naturale dell’intelletto agente, dei sensi, della memoria, con l’appoggio dell’esperienza, dei principi, con la conoscenza delle conclusioni, con grandissime fatiche e veglie; la Scrittura invece si ha con la fede, lo spirito di Cristo che rivela interiormente, se non crederete, non capirete, dice Isaia181. Quando dunque Paolo ebbe questa dottrina e scienza di Cristo prima mediante rivelazione, poi per visione, e infine per limpida intuizione rapito dallo stesso Cristo al terzo cielo, non è strano se ha legato il suo intelletto al servizio del solo Cristo e ci ha insegnato quelle cose che possono essere pronunciate, riservando in patria quello che per noi resta ineffabile. Confessa con somma umiltà di possedere questa scienza, in 1Cor 2, 1-2: «Quando sono venuto da voi sono venuto non 176 1Cor 9, 27. 1Cor 9, 27. 178 Gal 6, 14. 179 Mt 10, 22; 24, 13. 180 Rm 8, 38-39. 181 Is 7, 9. 177 con sublimità di linguaggio o di sapienza, annunciandovi la testimonianza di Cristo, nulla infatti ho giudicato di sapere in mezzo a voi, se non Cristo, e questi crocifisso». Ma tenterei di dire qualcosa di più riguardo a Paolo. Ecco il santo padre Agostino che su di lui ci ha insegnato molte cose non solo grandi ma anche eccellenti. Prima di tutto la lettera 19 a Girolamo riferisce che la sua autorità deve essere anteposta a tutti gli altri dottori; e il libro III a Bonifacio, cap. III, dice che egli è detto apostolo per antonomasia: «sia perché è più noto per parecchie lettere, sia perché ha faticato più di tutti per il Vangelo»; e nel Discorso sulle parole dell’apostolo dice che è la nube di Dio e le sue parole sono tuoni; anche nel discorso XV dice che «ha scritto le sue lettere non con l’inchiostro, ma con lo spirito del Dio vivo»; nel libro IX delle Confessioni, 12 capitolo, afferma che egli (Agostino) si è convertito alla lettura di lui. Avendo udito la voce: Tolle, lege, tolle, lege [prendi e leggi, prendi e leggi], preso il libro e apertolo, gli si presentarono da leggere queste parole: «Non in gozzoviglie e ubriachezze, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo. Lo diede poi ad Alipio che legge ciò che seguiva, cioè «fatevi carico di chi è infermo nella fede», e così fu convertito. E nel commento al salmo 147 afferma che nulla gli è più noto di Paolo, nulla più dolce, nulla che gli sia più familiare nelle Scritture. Anche nel discorso XXVI sui santi dice: Non è strano se quando il persecutore colpì il capo di Paolo con la spada, uscì un fiotto di latte più che di sangue e la grazia del battesimo lo rese splendido e non cruento nella stessa morte. Infatti perché stupirsi se il nutritore della chiesa abbonda di latte? come egli stesso afferma nella lettera ai Corinzi: «vi ho dato da bere latte non cibo solido»; dice anche: quale lettera di Paolo non è più dolce del miele? non più candida del latte? Le lettere come mammelle delle chiese nutrono i popoli per la salvezza. Per porre fine a questa conversione, crediamo che sia chiaro a tutti quanto questa sia stata prodigiosa, non solo perché avvenne improvvisamente ed egli è stato illuminato dal Cristo glorioso, non solo perché rapito vide chiaramente la divina essenza, ma anche perché venne trasportato alla più alta sommità di tutte le virtù. Non c’è da meravigliarsi dunque se, convertitosi a Cristo, in trentasette anni portò quasi il mondo intero a convertirsi alla fede in lui. Ma tu forse riterrai mirabile ciò che non voglio in alcun modo tralasciare: Cristo non sarebbe stato conosciuto nel mondo se non fosse stato mostrato dalle predicazioni santissime di Paolo, in cui più che negli altri santi riluce la divinità. La sua voce, soave e chiara, fu una ispirazione di Cristo, per così dire, che dalla città della santa Gerusalemme all’Illirico fino al mare riempì tutto del suo vangelo. E per non andare più lontano, osserva solo questo, o Massimo dei Pontefici. Se Paolo, mentre era Saulo sfrenato e superbo e persecutore di Cristo, ha potuto portare lui glorioso dal cielo alla terra per la sua conversione, non potrà, chiedo, ora che regna con Cristo, portare dalla terra al cielo? E se in terra fu desideroso di anime e le amò con tale ardore di carità da ritenere di non dover risparmiare alcuna veglia, alcun lavoro per sottoporre il mondo al giogo della fede in Cristo, ora che la carità è perfetta e totale in cielo, potremmo temere o smettere di credere che egli con tutte le sue forze prega incessantemente Cristo per noi? Egli sa benissimo di quali cose abbiamo bisogno, quanto grandi siano le nostre miserie; se specialmente in questo giorno della conversione, in cui ha ottenuto da Dio il grandissimo e mirabile dono della giustificazione, ci raccomanderemo a lui caldamente, confido che egli pregherà perché, come siamo stati peccatori con lui, godiamo anche con lui la beatitudine celeste. E tu, Paolo, che secondo il volere divino sempre e cordialmente lo veneri e lo contempli, seguilo e va’ avanti con la virtù. Ti assicuro infatti che, se porterai a compimento il concilio già indetto, e non verrai meno in alcun modo a quanto è stato intrapreso, insieme a Paolo ordinerai tutte le cose della società cristiana e ad essa convertirai il mondo intero, e non senza un miracolo tu, pur già fiaccato dalla vecchiaia, mostrerai che Dio ti ha conservato fino a questo giorno. FINE III. Lorenzo Mazzocchio Sono state qui tradotte le pagine che gli Annales dedicano alla vita e alla figura di fra Lorenzo Mazzocchio (1490 ca.-1560), in particolare il clima in cui si svolse il capitolo generale di Verona (1554) e l’ideale di libertà proclamato dal Mazzocchio: libertà da ogni privilegio che può offuscare l’ideale di fraternità e uguaglianza proprio dell’Ordine. Sono riportate anche alcune parafrasi di salmi da lui composte durante la prigionia. Partecipa al concilio di Trento, insieme al priore generale Agostino Bonucci, in qualità di «teologo minore». Il 6 gennaio 1546 tiene nel duomo della città l’omelia182. Nella riunione dei teologi minori – domenica 27 giugno 1546 – riguardo al problema della giustificazione, il Mazzocchio sostenne che la «la grazia è l’assistenza dello Spirito Santo»183. Secondo lui, inoltre, «il libero arbitrio sta in rapporto alla giustificazione in uno stato meramente passivo e in alcun modo attivo»184. Il 21 ottobre 1546 i teologi minori si riuniscono per dibattere la questione sulla «giustizia imputativa e la certezza della grazia». Il Mazzocchio difende la sua tesi – avversata dagli altri teologi - circa la certezza morale della grazia in una lettera al cardinale Cervini, presidente del concilio, dove afferma tra l’altro: «Io ho detto che si dice certezza di fede quella che basta alla fede; si dice probabile e morale, quella che insieme al pio sentimento si afferma con probabile ragione»185. Altri interventi del Mazzocchio sono registrati il 28 gennaio e il 10 febbraio 1547 relativamente ad alcuni emendamenti su questioni canoniche e sacramentali. In particolare, nella seduta del 28 gennaio, disapprova fortemente il comportamento dei padrini di battesimo e dei genitori che tralasciano di istruire i loro bambini nelle verità della fede186. Per altre notizie e indicazioni bibliografiche cf. sezione Fonti documentarie e narrative, tomo I. 1. Il capitolo generale di Verona (1554) da Annales OSM, II, p. 169 Era vicino il Capitolo generale che doveva tenersi nel mese di maggio [1554] a Verona, dove già si affrettavano i Visitatori187 dei quali due, essendo di giurisdizione fiorentina, trattarono con il duca Cosimo I delle cose da farsi per il cenobio dell’Annunziata. Cosimo, infatti, richiamato dall’antica devozione dei suoi antenati per l’Ordine, amava moltissimo quel cenobio e provvedeva assiduamente, per quanto possibile, al suo generale benessere e decoro, poiché fin da fanciullo aveva goduto della familiarità e dell’amicizia dei Padri. Tra questi, però, Cosimo prediligeva il maestro Zaccaria Faldossi, dal momento che superava gli altri per dottrina, rettitudine morale, finezza di tratto, soave affabilità, e aveva cercato di procurargli, con la sua autorità, la suprema carica dell’Ordine. Morto dunque Agostino [Bonucci] l’illustre duca non mancò di indirizzare molte lettere di raccomandazione in favore di Zaccaria al suo Predicatore, che era Bernardo dei Giusti, al cardinale Pisano, Marcello Cervino188, Protettore, perfino al Sommo Pontefice, e di rimuovere ogni 182 Da Innocenzo VIII l’Ordine dei Servi aveva ricevuto il privilegio, nel 1487, di predicare nel giorno dell’Epifania e nella quinta domenica di quaresima, durante la cappella papale, «coram sanctissimo» (cf. Annales, I, p. 608). 183 Concilii tridentini pars altera, V, Friburgi Brisgoviae, 1911, p. 280. Cf. H. Jedin, Storia del Concilio di Trento, II, , Brescia 1962, p. 293-294. 184 Conc. trid., V, p. 280. 185 Concilii tridentini tractatuum pars altera, XIII, Friburgi Brisgoviae, p. 691. 186 Conc. trid., I, p. 460; V, p. 860. 187 Nel 1553 , morto il priore generale Agostino Bonucci e in attesa della celebrazione del successivo capitolo generale, il papa Giulio III elesse tre frati al governo interinale dell’Ordine: Zaccaria Faldossi di Firenze, Stefano Bonucci di Arezzo, Feliciano Capitoni di Narni. 188 Poi papa Marcello II. ostacolo perché fosse fatto Priore generale dell’Ordine dei Servi. La mente del duca era mossa anche da questa ragione: erano già passati duecento anni senza che nessun padre fiorentino fosse stato insediato in tale carica ed egli riteneva indecoroso che il capo più importante e la gloria di tutto l’Ordine fosse stato privato così a lungo di tale dignità. Si adoperò anche perché la questione fossa caldamente raccomandata a Luigi Lippomano, vescovo di Verona, che il cardinale protettore Marcello aveva stabilito come presidente del Capitolo generale. Che questo fosse anche il grandissimo desiderio dei Padri fiorentini fu dimostrato dal fatto che essi per decisione comune scrissero una lettera al protettore Marcello, a nome di tutti; a questo, per l’onore del cenobio e della patria, li aveva esortati il maestro Michelangelo Naldino Priore il 22 giugno, come risulta dal libro della cronaca del medesimo convento. Perciò, sostenuto da queste attenzioni gentili, con il consenso, per di più, e l’appoggio dei Soci [il Faldossi], già come Priore generale designato, partiva tutto contento per il capitolo di Verona, dove però, sparsasi la notizia tra i capitolari, la conclusione non corrispose agli auspici iniziali. La ragione principale fu che Angelo [da Arezzo], Girolamo da Lucca, Dionisio Laurerio, che moltissimi consideravano aretino, e infine Agostino [Bonucci] ugualmente da Arezzo189, della provincia di Toscana, uno dopo l’altro avevano esercitato il generalato nel corso di 40 anni. Si aggiungevano inoltre a questo la rivalità di altri pretendenti e l’eterno scontento di molti che invidiavano la gloria agli stessi Fiorentini. Infine venne fuori decisa la denuncia: i signori d’Italia volevano disporre a proprio arbitrio quello che apparteneva ai religiosi; indecoroso e indegno della disciplina ecclesiastica appariva che le questioni religiose fossero trattate da principi esterni per fini politici e non secondo le norme della Regola. Proprio per questo il Capitolo si teneva in luogo libero sotto la Repubblica veneta e non secondo l’arbitrio di qualcuno. Inoltre i padri della Congregazione [dell’Osservanza], che in quel capitolo avevano una parte non insignificante, con spirito non sereno per un antico motivo di rifiuto nei riguardi dei fiorentini o per amarezza di animo, erano poco propensi ad accettare un’elezione di Zaccaria, perché ne temevano moltissimo l’autorità, non so per quale fatale presentimento. Il vescovo Lippomano, come gli era stato raccomandato, cercò con estrema abilità di controbattere a tali obiezioni dei frati. Si avvicinavano i giorni stabiliti per il capitolo, quando certuni amanti della libertà di tutti e sostenitori per la Marca Trevisana di una limitazione dell’autorità del futuro generale e di una riduzione della durata della carica suprema, cominciarono a sconvolgere le speranze di Zaccaria. Infatti alcuni condannavano nei generali passati l’autorità indebita di creare segretari che nemmeno conoscevano le tre cose di Stesicoro190, e maestri inesperti con i quali uomini dottissimi non potrebbero tollerare di essere posti a confronto, e mormoravano che essi dovevano essere assolutamente privati di questo privilegio, perché sarebbe cosa vergognosissima che gli stessi privilegi fossero comuni alla stessa maniera agli ignoranti e ai dotti. Altri biasimavano nei generali passati la libertà di appropriarsi di beni dei defunti, come se di diritto, con il contrassegno della detestabile proprietà, fossero stati ad essi lasciati. Né mancava chi contestasse la loro eccessiva facilità nel concedere cariche e permessi di restare fuori clausura, di possedere e amministrare beni secolari, non senza grave danno e disonore di tutto l’Ordine. Eruppe infine una sola voce di tutti , che per la libertà dell’Ordine il priore generale, passato il triennio del suo governo, volente o nolente, decadesse dall’ufficio191. Mentre queste cose si dibattevano tra i frati, solo Lorenzo Mazzocchio di Castelfranco, uomo di ingegno vivace, che poco prima aveva dato prova illustre di sé a Parigi in pubbliche dispute, e che tornato in Italia, distintosi nel Concilio di Trento come persona eruditissima che aveva attaccato in vari discorsi e dispute gli errori di Lutero, si oppone a Zaccaria ponendo questa condizione: che, una volta ricevuto l’ufficio di generalato, dopo il triennio si obbligava a rinunciare, e si impegnava, insieme al protettore, di porre rimedio con nuove 189 Per tutti questi priori generali cf. sezione Fonti documentarie e narrative di questo volume. Stesicoro di Imera (638 ca.-555 ca. a.C.) introdusse nella poesia lirica la triplice divisione in strofe, antistrofe ed epodo. La non conoscenza di queste “tre cose” è passata in proverbio per indicare una persona ignorantissima. 191 In realtà già la bolla di Clemente VI del 24 marzo 1346 aveva disposto la scadenza dal generalato ogni tre anni, pur permettendo una rielezione. Cf. Fonti storico-spirituali, I, p. 90-91. 190 Costituzioni ai passati abusi e danni subiti dall’Ordine. Questa voce, erompendo improvvisamente in mezzo ai frati, fu accolta dal consenso entusiastico di tutti e gradita ai capi veneti, così che tutti, lasciato Zaccaria, si trovarono d’accordo sul solo Lorenzo come generale. Che la soluzione sia stata buona o nociva all’Ordine, di un altro sia il giudizio. Gli eventi, infatti, il mutamento delle circostanze e lo scompiglio della Famiglia servitana lo hanno indicato molto tempo dopo e la storia stessa lo dimostrerà. Acclamazioni di libertà con pubblici elogi non mancarono in questo capitolo. Infatti era stato appena eletto Lorenzo, quando per la chiesa e il convento apparvero appesi stemmi con la scritta Libertas. Il maestro Giovanni Vitriano da Reggio viene stabilito procuratore in Curia e furono fatti molti decreti per rafforzare e realizzare la libertà dell’Ordine al di sopra dell’ufficio del generale. Potendosi tutte queste cose vedere nelle Costituzioni del generale Lorenzo Mazzocchio, stampate a Roma, è superfluo considerarle qui. Solo questo non è da passare sotto silenzio, che cioè tutti i frati, che erano in possesso dei privilegi propri dei maestri in base alla sola autorità dei passati generali, ne furono privati e in nessun modo potevano più goderne. Perciò Sebastiano da Alessandria, Bartolomeo da Prato, Andrea da Firenze, Raffaele da Cortona e molti altri furono privati dal Capitolo generale della carica che avevano raggiunto attraverso finestre compiacenti più che attraverso la porta della virtù, e furono riportati al primitivo grado della loro professione. 2. Mazzocchio, priore generale. da Annales OSM, II, p. 175-176 Lorenzo generale, mentre riteneva di aver rimediato con nuove leggi al disordine dei predecessori e, quale assertore di una nuova libertà, di essersi acquisito gloria e benevolenza, a giudizio di molti era considerato responsabile di aver scosso la dignità del generalato e di aver recato enorme pregiudizio al nostro Ordine. Dicevano infatti che Mazzocchio non avesse interpellato i padri più saggi riguardo alla riduzione della durata dell’ufficio di generale. Il detto omerico, ripreso dai peripatetici, sostiene che «le cose non sopportano di essere disposte male; [ora la pluralità dei principati è un male]; quindi il principe deve essere uno solo». Similmente uno solo per la lunga durata del governo e per l’unità della medesima persona. Infatti [Mazzocchio] aveva cominciato a sperimentare in se stesso quanto si fosse indebolita in molti la pronta e reverenziale obbedienza verso quel superiore che fosse durato solo un triennio, che doveva lasciare il governo dopo aver appena contato e conosciuto i sudditi e percorso in gran fretta i conventi delle Province, che non poteva emanare le leggi stabilite, nè imporle né mandarle a esecuzione. Quell’amministrazione triennale era dai più riprovata come esiziale e dannosa per l’Ordine servitano non meno di quanto potrebbe provocare il ricorso, per curare il corpo, a farmaci diversi e tra di essi contrastanti e a vari medici, non sempre d’accordo fra di loro, i cui diversi rimedi finiscono per portare il fisico malato non alla guarigione ma alla morte. A questo si aggiunse che per tutto il triennio soffrirono l’intimo morbo dell’ambizione quelli che avevano concepito in sé una grande speranza non di obbedire ma di comandare; di qui dissidi, litigi, lotte, rivalità tra quelli che cercavano di impadronirsi di tale carica. Di qui si aprì per gli indisciplinati la libertà di fare quello che volevano, appoggiati unicamente alla speranza che, finito il triennio, sarebbe cambiato il correttore delle loro malefatte. Di qui infine per alcuni, insieme ad Assalonne e ad Adonia, si profilò la possibilità di sperare e di dire: Io sarò il re. Riguardo a Lorenzo, perciò, uomo d’altro canto dottissimo, di acutissima intelligenza e di equilibrata natura, si venne a verificare quello che in decisioni del genere un uomo onesto, desiderando evitare Cariddi, va a finire nella Scilla di quella eterna difficoltà non ancora pienamente chiarita, se cioè giovi di più allo stato l’amministrazione temporanea di molti o quella perpetua di uno solo. Se Mazzocchio infatti avesse unito più strettamente la sua ottima mente alle malizie astute degli altri, non avrebbe ridotto con precipitosa decisione il governo generalizio in quel breve spazio. Con costanza e fermezza d’animo aveva assunto in quei termini il governo dell’Ordine a Verona, confidando nel Signore, lui che usava come motto Auxilium meum a Domino; con la medesima fermezza e moderazione d’animo nel capitolo celebrato a Bologna il 18 maggio [1557] vi rinunciò, imitando Cincinnato, che se ne era ritornato con estrema prontezza dalla dittatura a coltivare i propri campi. Mazzocchio, infatti, era dotato di così grande disponibilità interiore da non tener in alcun conto il fatto di scendere dal grado più alto di governo a funzioni bassissime. Il vescovo di Bologna, Campegio192, che il Signor Protettore193 aveva costituito presidente del medesimo capitolo generale, non tollerando che l’onestà e l’eccellenza di tale persona venissero poco stimate, si adoperò perché fosse fatto priore di S. Marcello in Roma, pensando di provvedere in qualche modo alla dignità del Mazzocchio. 3. Opere da Annales OSM , II, 196-197 Anno 1560 Nel convento di S. Giacomo di Castelfranco Veneto rese l’anima a Dio il M. Lorenzo Mazzocchio, nel giorno della natività della B. M. Vergine: in lui, dotato di ingegno acutissimo, era più forte la virtù che l’ambizione. Il Sommo Pontefice Paolo III, quando era ancora cardinale, conobbe di persona le sue grandi capacità di controbattere e demolire gli errori dei Luterani, in particolare il 28 ottobre 1520 a Ferrara, quando, avendo sostenuto i teoremi apologetici contro i seguaci di Martino, confutò a tal punto un predicatore eretico da costringerlo a ritrattare e a ravvedersi. Proprio per aver conosciuto questo, dico, il Sommo Pontefice lo volle ovunque Predicatore e Penitenziere Apostolico con grandissime facoltà, concedendogli di assolvere da qualsiasi caso riservato alla Sede Apostolica, di commutare qualsiasi voto (eccetti i consueti) e di dispensare oltre il quarto grado di matrimonio. Munito di questi poteri speciali, Lorenzo, con infaticabile attività, era partito per la Francia per svolgere il suo ufficio e a Parigi, in modo speciale, dove all’Università della Sorbona, aveva ricevuto il grado di maestro, aveva dato grande prova della sua dottrina e pietà cattolica e aveva spiegato più volte i sacri misteri di Dio, ricondusse a migliore risultato molti eretici che si erano sviati dalla vera legge di Dio, come anche portò moltissimi peccatori al pentimento attraverso una indefessa e attenta attività nell’amministrazione dei sacramenti e nella spiegazione della parola evengelica. Resse anche molti studi interni del nostro Ordine, svolse saggiamente vari uffici fino al generalato; dopo aver portato a termine l’amministrazione di S. Marcello de Urbe, nel capitolo generale di Ferrara [20 maggio 1560]194 fu eletto priore di Treviso. Ne aveva appena assunto il governo, quando il 16 agosto cadde ammalato. Aggravandosi sensibilmente, volle essere portato dai corrieri in patria, e a Castelfranco, dove era nato, morì e fu sepolto in questo monumento funebre: A LORENZO MAZZOCCHIO, IL PIÚ DOTTO TEOLOGO DI TUTTI I FRATI DELL’ORDINE DEI SERVI E GENERALE, I FRATI DI S. GIACOMO CON PROFONDA DEVOZIONE POSERO. MORÍ NEL SIGNORE, NELL’ANNO DEL SIGNORE 1560, 8 SETTEMBRE E DI ETÁ 70. P. Lorenzo lavorò instancabilmente intorno a molte cose che porterebbero validamente a spiegare difficoltà in campo fisico, teologico e scritturistico e stimolerebbero la contemplazione, se fossero state stampate e non fossero rimaste inutilmente nascoste presso i suoi, come abbiamo visto. Non 192 Giovanni Campegio fu vescovo a Bologna dal 1553 al 1563. Il cardinale protettore era Girolamo Dandini (1555-1559). È sepolto nella chiesa di S. Marcello a Roma. 194 Il Mazzocchio vi partecipò come definitore per la Provincia della Marca Trevisana (cfr Annales OSM, II, p. 195) 193 sembra inoltre di dover omettere a suo riguardo che, appunto perché era servo di Dio e della Beata Vergine, venne inevitabilmente provato dalla tentazione, come il fuoco prova l’oro. Per la malvagità di alcuni invidiosi, infatti, mentre a Roma reggeva il convento di S. Marcello, falsamente accusato presso la S. Inquisizione, impiegò lodevolmente l’inattività del carcere. Qui infatti cantò in verso eroico tutto il salterio con i cantici del Magnificat e del Benedictus, e il Simbolo di Atanasio. Compose un Dialogo tra la carne e lo spirito, un carme consolatorio sull’ingrata inattività del carcere. Cantò devotamente odi in lingua italiana sopra l’Ave Maria, Regina coeli e la Salve Regina. Poiché la sua liberazione veniva rimandata, sebbene più di una volta avesse indirizzato al Commissario del S, Uffizio, al signor Protettore [dell’Ordine] e al Sommo Pontefice libelli di supplica composti in versi (infatti, oltre ad altre qualità, conosceva bene la poesia, da cui nelle avversità traeva grande conforto) raccomandava con maggior forza la sua causa a Dio e alla B. Maria Vergine. Quando in visione gli apparve un vecchio venerando, che lo confortava con affettuose parole e lo esortava a star di buon animo e a ringraziare Dio perché quanto prima sarebbe stato assolto da ogni calunnia e restituito all’antica libertà, come poi l’avverarsi del fatto comprovò, a testimonianza di questa verità e in segno di ringraziamento cantò devotamente un innno in strofa saffica. Tutte queste opere, ancora conservate nella nostra biblioteca di Pisa, indicano chiaramente che il Mazzocchio sia stato non solo personalità di facile eloquio, ma anche esperto di versi. 4. Salmi edizione: L. M. DE CANDIDO, Rime latine e volgari di fra Lorenzo Mazzocchio da Castelfranco (+ 1560), “Studi Storici OSM”, 12 (1962), p. 108-126. Salmo 11 «Salvum me fac Domine» Tendi la tua mano al povero, Dio ricco di bontà. Nel mondo non c’è più un uomo fedele, non c’è chi dica il vero: ciascuno al suo fratello rivolge parole di inganno, pronuncia con la bocca menzogne, dice con le labbra parole diverse da quello che porta nel cuore. Perisca, ti prego, la bocca che vanta cose grandiose, ogni bocca ingannatrice. Si disperdano quanti non riconoscono che tu sei il Signore, e credono di essere padroni di sé, cui tutto è possibile. Tu, Dio, dici: «Per il gemito e il dolore dei miseri scenderò subito da voi e vi porterò salvezza. Vostra salvezza è Cristo, a Cristo affidatevi: sulla terra per questo è stato inviato, perché per mezzo suo la terra sia salva». Perché dubiti? Le parole del Signore sono vere e sicure, come argento puro, sette volte raffinato nel fuoco. Non dubito che tu ci salverai per sempre; si disperda la moltitudine di quelli che ci combattono; ma la tua sapienza è così grande che accresce il numero dei figli e li conserva per il premio del cielo. Amen. Salmo 12 «Usquequo Domine oblivisceris me?» Fino a quando, o Dio, continuerai a dimenticarci? Sempre, o mitissimo, lontano volgerai il tuo volto? Pensieri graveranno l’animo, affanni e dolori il cuore? Contro di me il nemico insorgerà ancora? Mostrati amico, guardami e ascoltami con favore, con la tua luce illumina gli occhi della mente mia, sempre siano desti, alla morte del peccato mai soccombano, e l’avversario non esulti su di me: davvero folle se m’allontano dalla retta via, rideranno senza ritegno quelli che mi odiano. Da te la mia speranza e la mia salvezza; ancora gioia spero mi darai: allora, grato, ti canterò nuovi canti di lode, sempre, contento, inneggerò al tuo nome e alla tua gloria. Amen. Salmo 16 «Exaudi Domine iustitiam meam» «La scelta di questo salmo ci fa sospettare che l’A. descriva la situazione nella quale realmente si trovò, avendo molti nemici tra le persone a lui vicine: infatti la descrizione è veristica e lo sfogo è molto umano e non sa di puro esercizio letterario»195. Guarda, Dio, alla nostra giustizia, tuo dono: susciti il tuo ricordo la mia supplica implorante e le tue orecchie si pieghino alle mie preghiere che a te si levano dal profondo del cuore. I tuoi occhi vedano la giustizia, quali processi hanno ordito contro di me i capi della terra. Mi hanno provato le tenebre della notte e i fuochi del giorno: e tu nelle mie sventure hai conosciuto che non ho detto parole secondo l’agire degli uomini. Vie difficili e scabrose fin qui ho percorso obbedendo ai tuoi comandi, o Dio. Tu conduci a buon fine i miei passi, perché qui sta tutta l’opera tua. Tranquillo ai tuoi altari ecco io vengo: tu non mi respingi. Orsù, adesso tendi il tuo orecchio, accogli le mie parole. Gli iniqui, che si oppongono alla tua destra, non mi facciano alcun male: come le ciglia cingono gli occhi e le ali i pulcini, così la tua grazia mi salvi dalle mani di coloro che mi affliggono. I nemici hanno spento ogni pietà, con fraudolenti insidie accerchiano l’animo mio e dicono parole arroganti. Per respingermi hanno costruito una trincea, e hanno spiato i miei passi per tendermi un laccio e stendermi a terra. Vegliano come leonessa affamata o cucciolo di leone che si apposta alle tane nel bosco. 195 L.M. De Candido, Rime latine e volgari di fra Lorenzo Mazzocchio da Castelfranco, p. 113. Sorgi e sconvolgi le loro vie e respingi la loro tracotanza; mettili sotto i tuoi piedi e liberami, ti prego, dalle loro mani. Ma io, che ho desiderato la giustizia, a te mi dono e giusto mi presento sperando che la tua gloria celeste mi renda felice. Amen. Salmo 87. «Domine Deus salutis meae» Il copista , all’inizio della trascrizione del salmo, ha annotato: I versi scritti qui sotto furono composti dal Reverendo Padre Maestro Lorenzo Mazzocchio mentre era in carcere a Roma nel convento di S. Marcello. «La circostanza che l’abbia commentato in carcere [...] è assai verosimile e molti elementi interni portano a crederlo: l’uso del distico elegiaco, l’immedesimazione dello stato d’animo triste del salmista, la descrizione troppo veristica di un luogo di reclusione, i 6 versetti aggiunti, nei quali l’A. dice di accettare la sua croce e che non trovano riscontro nel testo davidico»196. O tu che dai la pace vera e la vera salvezza! Davanti a te, Dio, grido notte e giorno: Penetri i tuoi atri il mio grido, tendi l’orecchio, Onnipotente, alle mie preghiere. Perché la mia anima è colma di sventure e la mia vita vicina all’inferno. Nella fossa, esangue, sono sceso, come un disperato e privo di ogni aiuto. Di me nessun ricordo si conserva: trafitto di spada, sono ormai chiuso nel sepolcro. Me misero stringono gli abissi oscuri della terra, la dimora di Dite e della morte e dei malvagi; con crudeltà ingiusta l’ira tua e il tuo furore mi incalzano, e dai tuoi flutti io sono sommerso. Hai allontanato e nascosto da me i miei compagni, hai reso per loro un orrore il mio nome e la mia persona. Da dove mi hanno gettato i potenti io non esco. Me infelice! si consumano i miei occhi e più non vedo. Tutto il giorno a te grido, stendo le mani questo solo è la mia occupazione e il mio affanno. Compi forse prodigi per i morti? O con l’arte dei medici 196 ibid. tornati vivi canteranno liete canzoni? Quanto tu sia buono e fedele potrà cantare chi è prigioniero del sepolcro, perduto e dannato? Nelle tenebre credi che si conoscano le tue azioni? Lì nessuno c’è che si ricordi dei tuoi benefici. Ma io supplice verso di te grido e fin dal mattino sciolgo a te i miei voti e preghiere effondo. Perché, Signore, sei sordo alle mie suppliche e preghiere, e via da me volgi il tuo viso? Povero sono fin da fanciullo e a un duro lavoro avvezzo; per poco sono stato innalzato e subito sono caduto a terra. Sopra di me è passata tutta la tua ira, i tuoi spaventi hanno annientato il mio animo. Mi hanno circondato, si sono riversati e a lungo come acque profonde di un vortice eterno. Questa è l’origine di tutta la mia sorte iniqua ogni amico e compagno si allontana da me. Aggiunta Ma tu hai detto che verrai in soccorso agli afflitti ti chiederanno dunque se io abbia timore di te? Continuerò a gridare e a sperare, anche se solo e disperato: tu dovrai alla fine accogliere le suppliche. Se tuttavia questa mia croce amara tanto ti diletta, sia pure così: dolce per amore mi sarà la croce. IV. Angelo Maria Montorsoli La formazione e la maturazione di fra Angelo Maria, come religioso e come uomo di cultura, sono avvenute in un clima spirituale caratterizzato: - dal ricupero della genuina tradizione servitana, con l’apporto della nuova storiografia (soprattutto Poccianti e Giani) e l’azione di uomini sensibili alla riforma dell’Ordine, come il priore generale Zaccaria Faldossi; - dall’ideale della povertà intesa come radicale comunione di beni; - dall’interesse e dall’amore per lo studio, condizione indispensabile per la ripresa della vita religiosa. Fra Angelo Maria nacque a Firenze il 4 novembre 1547, dalla famiglia Montorsoli, originaria del paese omonimo a circa nove chilometri da Firenze. A sei anni fu affidato ai Servi della Ss. Annunziata; il 23 dicembre 1558 iniziò il noviziato. A Bologna, dove era stato mandato per studiarvi grammatica e retorica, emise i voti solenni il 12 settembre 1563. Il 4 dicembre di quest’anno si chiudeva il concilio di Trento: la terza e ultima sessione conciliare emanò importanti decreti di riforma della vita ecclesiale; in particolare per la vita religiosa è interdetta la proprietà privata. Ordinato sacerdote il 12 giugno 1568, fece ritorno l’anno dopo a Firenze. Reggente dello Studio fiorentino era Giacomo Tavanti che l’anno dopo (1570) ottenne la cattedra di teologia all’università di Pisa, conservandola fino alla morte (1607). Il Montorsoli lo seguì a Pisa e fu suo discepolo dal 1570 al 1573: il legame con il maestro sarebbe restato vivo e profondo per tutta la vita, soprattutto nel tempo della solitudine. Il 4 novembre 1576 ricevette la laurea nell’università di Firenze dalle mani del Tavanti, che nel giugno di quell’anno era stato eletto generale. Creato maestro e incorporato nell’università di Firenze, il Montorsoli fu nominato reggente dello Studio della Ss. Annunziata, restando in quest’ufficio fino al ritiro a vita solitaria. Nel 1579, con il patrocinio di Francesco I de’ Medici, diede alle stampe i Commentarii in librum I Sententiarum di Pier Lombardo, in centodieci lezioni. In quello stesso anno partecipò al capitolo generale di Parma, dove tenne una disputa pubblica sul primo libro delle Sentenze. Gli anni seguenti furono dedicati allo studio, all’insegnamento, alla stesura di varie opere, alla predicazione (a Firenze, Parma, Piacenza, Venezia, Verona), nonché a una intensa attività come confessore e consigliere. Come dice egli stesso, dopo quarant’anni di deserto, nel «tempo della mutazione di mia vita», approda alla terra luminosa e pacificata della contemplazione: «terra di promissione, fluente latte e mele, per abondanza d’ogni bene, secondo quella vera intelligenza che insegna esser ricco non chi ha molto, ma chi nulla desidera»197. Il 1° novembre del 1588, con una lettera indirizzata al priore della Ss. Annunziata e ai discreti198, chiedeva di ritirarsi in solitudine, separato dai fratelli e pur ad essi vicinissimo199, per raggiungere la perfezione religiosa e offrire la sua vita per la salvezza dei confratelli, dei benefattori, dell’Ordine. Perché la solitudine non si trasformasse in una condizione di privilegio, precisava che il vitto dovesse essere modesto, come si conviene a un solitario che non può lavorare per la comunità, e uguale a quello che hanno tutti i frati; per i piccoli servizi e la comunicazione con l’esterno avrebbe avuto bisogno di un fratello laico, il quale, dopo aver provveduto alle necessità del recluso, poteva essere adibito ad altri lavori nel convento. Questo compagno fu fra Deodato Mando, attaccatissimo al Montorsoli per tutta la vita200. 197 Lettera del 23.12.1593 (DOMINELLI, p. 89) Le Costituzioni rinnovate del 1580 stabilivano che i discreti della comunità fossero tutti i maestri, il procuratore conventuale e i padri al di sopra dei 40 anni. 199 DOMINELLI, p. 85. 200 A lui si deve una tavola (perduta), riproducente le fattezze del Montorsoli, che sarà scelta dal capitolo generale del 1625 per il ritratto ufficiale di fra Angelo. Cf. E.M. CASALINI, Note iconografiche sul P. Angelo Maria Montorsoli, “Studi Storici OSM”, 8 (1957-58), p. 174-177. 198 Tre giorni dopo la presentazione della lettera, il 4 novembre, il Montorsoli si trovava già rinchiuso in alcune stanze del convento, che sarebbero state per nove anni il suo romitorio. Qui la sua giornata – come risulta dal suo epistolario - era divisa tra la preghiera – prima di tutto l’eucaristia, legame con i fratelli della comunità, e la liturgia delle ore, compresa quella notturna -, la lectio divina, lo studio, la corrispondenza, le visite di confratelli. Dalla sua reclusione, dietro consiglio del Tavanti, egli preparò nel corso del 1596 la “Lettera universale” ai fratelli dell’Ordine, dove esponeva in maniera sistematica le sue idee sulla povertà e la vita religiosa in genere. Nella convinzione che fosse arrivato il tempo «d’haver a vivere in commune e senza proprio, o per forza o per amore»201, egli pensava di dare in questo modo un contributo alla preparazione del capitolo generale del 1597, dal quale si attendeva un priore generale che fosse «buon Pastore e non mercenario»202 e aiutasse tutti a vivere « da veri religiosi e massime in santa povertà»203. La invia prima di tutto al suo maestro, p. Giacomo Tavanti, il 28 dicembre 1596, pregandolo di due cose: « la prima è di far legger la mia pubblicamente a’ tutti di cotesto Convento fin’ al minimo: la seconda sia che per se, e per i suoi distintamente si consideri, e spesso se ne parli, a fine che si dichiari e si persuada fino a’ Conversi»204. Lo scritto, tuttavia, deve essere mantenuto segreto fino alla Settuagesima o alla festa della Purificazione, perché ci sia la possibilità di trascriverne varie copie da inviare ai Reggenti « Paulo da Venetia205; Giovanbattista da Milano, Alessandro da Scandiano206, Deodato Procuratore dell’Ordine207, Giovanbattista Mirto in Napoli, Giovanbattista da Pisa in Genova , F. Pietro da Bologna, Cornelio da Pistoia, Aurelio da Montepulciano». Questi maestri, sia con la loro autorevolezza teologica, sia soprattutto per il contatto con i giovani, potevano costituire un tramite efficace di divulgazione della lettera. A questo suo scritto il Montorsoli annetteva un altissimo valore, come espressione della volontà di Dio e strumento per la realizzazione di quella riforma che era stata, secondo lui, semplicemente stampata208. Scrivendo al padre Alessandro da Scandiano, che il Montorsoli ebbe modo di conoscere e di apprezzare al capitolo generale di Parma del 1579, la valuta così: «Si come Iddio soccorse à tutto il mondo, quasi con una lettera, quando Verbum caro factum est, mentre più che mai regnavano gl’ignoranza e i peccati; così adesso provede (per bontà sua) à nostri maggiori bisogni con una lettera: con la quale quasi come i Magi col segno della stella per condurne a sé medesimo ci richiama; e insegna il modo di uscir di pericolo, nel fare della valle di vitij, piano d’innocenza, e monte di sante virtù»209. Anche nella lettera al priore provinciale di Bologna, di cui Montorsoli si professa amico di lunga data, si ripetono le immagini bibliche che sottolineano il valore della lettera universale. Montorsoli era consapevole che la lettera «è alquanto mordace», anche se «non è contro à particular alcuno»210. Prevedibili, quindi, erano le reazioni negative, in considerazione delle quali anche il suo fedele compagno, fra Deodato, e il suo confessore erano contrari alla pubblicazione della lettera211. Questa, comunque, era già nota nella prima quindicina di gennaio: il priore provinciale toscano, p. Basilio Olivi, minacciò di scomunica i frati che l’avessero letta. Il Montorsoli gli rispose il 17 gennaio protestando per l’ingiustizia subita e manifestando l’intenzione di appellarsi al cardinale Protettore212 e al Papa. «Le fò sapere – dice - come la mia lettera a tutti i mia fratelli del medesimo habito, è opera di Dio; concessa per intercessione e meriti della sua S.ma Madre, alle preghiere di molti suoi devoti, insino di Monasteri interi di Monache; e scritta da me con molti sospiri e lachrime, e in digiuno d’una quaresima intera, in acqua e poco altro che pane; però da parte di Dio, qui est omnipotens et metuendus nimis, in cuius manus incidere 201 Lettera al Tavanti, 28.12.1596 (DOMINELLI, p. 99). Lettera a p. Alessandro da Scandiano, inizio del 1597 (DOMINELLI, p.102.). 203 Lettera al priore provinciale di Bologna, 17 gennaio 1597 (DOMINELLI, p.106). 204 DOMINELLI, p. 98. 205 Paolo Sarpi. 206 Alessandro Giani da Scandiano, teologo per vari anni nella cattedrale di Todi, partecipò al concilio di Trento. Nel capitolo del 1582 lo si voleva eleggere generale, ma egli non accettò. Morì ottantenne l’11 novembre 1609 (Annales OSM., II, p. 374, 1 E). 207 Deodato Ducci 208 cf. lettera ad Alessandro di Scandiano, in DOMINELLI, p. 102, e al provinciale di Bologna, in DOMINELLI, p. 105. L’allusione è al priore generale Lelio Baglioni «questo moderno Beatissimo … venuto al convento nostro di S. Marcello». 209 DOMINELLI, p. 102. 210 Lettera del 28 dicembre 1596, in DOMINELLI, p. 98. 211 Lettera dell’8 febbraio 1597 in DOMINELLI, p. 113. 212 Giulio Antonio Santorio. 202 horrendum est213, protesto sopra la persona sua, tutto il danno che dà a tutta la Religione, nell’impedire il frutto della parola del medesimo Dio, per seminarsi con quelle lettere. E gli protesto l’ingiuria fatta alla gloria di Dio per il fregio che fa ad un suo manifesto servo. Guardisi dall’ira sua e della sua S.ma Madre, che molto più importa del rispetto che lei ha vanamente de gli huomini»214. Il giorno della conversione di san Paolo (25 gennaio) scrive al Tavanti che gli aveva consigliato di mantenere un atteggiamento umile e serenamente fiducioso: «Pertanto volentieri mi rimetto nel Signore, ma duolmi grandissimamente d’havere scoperto quello ch’io non cercavo, né pensavo, ne havrei mai creduto a’ chi me l’havessi detto, cioè che i mia Fratelli qui di convento non pensano se non al ben presente, e non temono Dio. Conoscono il peccato nel qual sono della proprietà, poi che han paura di Roma; ma non conoscono la grandezza del peccato, poi che non s’humiliano a’ Dio, e quell’che è peggio non vogliono udire chi ne parli. Materia d’infinito pianto ad ogni vero servo del Signore ond’io son portato a’ pregare il Signore che almeno In chamo et freno illorum maxillas constringat qui ad illum non approximant, ut saltem spiritus salvus fiat215»216. Il 29 gennaio, però, indirizza, in latino, una lettera di fuoco ai padri maestri e baccellieri del convento della Ss. Annunziata, aprendola con questo scongiuro: «Per signum crucis, de inimicis nostris, libera nos Deus noster». E continua: «O insensati frati (con queste parole di san Paolo conviene infatti che noi parliamo), chi vi ha ammaliati per non obbedire alla verità! Siete così stolti che, avendo iniziato con lo spirito, volete ora finire nella carne! Avete sofferto dunque fino ad ora tante cose senza motivo! Se almeno fosse senza motivo; perché invece del premio incombe su di noi la dannazione eterna. […] Se voi Dottori, che conoscete alla perfezione la legge di Dio, vi convertirete a Dio (come è giusto), anche gli altri senza dubbio si convertiranno. Richiamate alla vostra memoria che Dio ci ha chiamati all’ammirabile sua luce perché siate luce del mondo e sale della terra; e perciò dovete illuminare gli altri con la parola e formarli con l’esempio […]. Ed ecco già la scure è posta alla radice dell’albero, Colui che ha mandato come precursore san Giovanni Battista a battezzare e a dire in faccia ad Erode ‘Non ti è lecito avere la moglie di tuo fratello’, Egli medesimo mi manda a voi come messaggero. Perciò dopo la lettera a voi scritta in suo nome, che voi avete osato abbattere con sentenza di scomunica, ora di nuovo con questa lettera più breve, per comando dello stesso Dio e Signore nostro Gesù Cristo, proclamo più apertamente che non vi è lecito avere le mogli dei vostri fratelli, cioè non vi è lecito avere qualcosa di proprio, perché ciò conviene ai fratelli secolari». E termina con un altro scongiuro, preso dal Salmo 67, 2: «Exsurgat Deus et dissipentur inimici eius, et fugiant qui oderunt eum a facie eius»217. Il 14 maggio 1597, per ordine del papa Clemente VIII, è nominato vicario generale apostolico e presidente del capitolo provinciale, in cui «fece le 40 ore pro bona superiorum electione e fece digiunare in pane ed acqua»218. Il capitolo elesse priore provinciale Agostino Gorrucci di Arezzo. Il 1 giugno 1597 si apre il capitolo generale; il giorno prima (30 maggio) Clemente VIII aveva nominato priore generale il Montorsoli, che dovette accettare sotto minaccia di scomunica. Durante il suo generalato, il Montorsoli non fece più alcun accenno alla lettera, ma si appoggiò su alcuni uomini validi, sensibili al problema del rinnovamento. Bernardino Ricciolini, l’iniziatore della vita eremitica su Monte Senario, è nominato priore della Ss. Annunziata; Gabriele Boni, eremita, è nominato priore a S. Marcello. Serafino Lupi è fatto maestro dei novizi. Una cura particolare è rivolta ai giovani. Si adoperò molto per la diffusione della devozione a san Filippo, dando al Giani il compito di scriverne una biografia e attuando la terza e ultima traslazione del corpo del santo, il 21 settembre 1599, dall’antico convento di S. Marco alla nuova chiesa dei Servi presso Porta Romana, a Todi. Incrementò anche la “Compagnia dell’abito” dei Servi. Alla fine del 1599, già in condizioni precarie di salute, si recò a Roma per assistere alla solenne apertura della porta santa per il giubileo del 1600. La morte lo colse il 24 febbraio 1600. bibliografia: A.M. DAL PINO, La “lectio divina” del recluso in una lettera del ven. Angelo Maria Montorsoli, ”Studi Storici OSM”, 7 (1955-56), p. 65-71; B.M. DOMINELLI, Epistolario del Venerabile P. Angelo M. Montorsoli (15471600), “Studi Storici OSM”, 8 (1957-58), p. 73-84 (introduzione); 85-133 (lettere); L. KINSPERGHER, La «Lettera 213 cf. Eb 10, 31 Lettera del 17 gennaio 1597 in DOMINELLI, p. 108. 215 cf. salmo 31, 9 e 1 Cor 5, 5. 216 DOMINELLI, p. 100. 217 Lettera di mercoledì 29 gennaio 1597 in DOMINELLI, p. 109-110. 218 G. ALASIA, Collectanea Ordinis Servorum B.M. Virginis, Roma, Arch. Gen. O.S.M., p. 106. 214 spirituale» di fra Angelo Maria Montorsoli, “Studi Storici OSM”, 20 (1970) p. 110-171; P.G.M. DI DOMENICO, Solitudine e comunione nell’esperienza di Angelo M. Montorsoli, in I Servi di Maria nel clima del Concilio di Trento (da fra Agostino Bonucci a fra Angelo M. Montorsoli) (Atti della 5ª Settimana di Monte Senario, 2-7 agosto 1982), Monte Senario 1982 (Quaderni di Monte Senario – Sussidi di storia e spiritualità, 5), p. 85-106; M.C. FABBRI, Cella e cappella del “recluso” servita Angelo Maria Montorsoli e gli affreschi inediti di Andrea Boscoli, in AA.VV. Da una “casupola” nella Firenze del sec. XIII. Celebrazioni giubilari dell’Ordine dei Servi di Maria. Cronaca, Liturgia, Arte, Convento della SS. Annunziata, Firenze 1990, p.269-330 Dall’Epistolario Delle 38 lettere che ci restano sono state scelte la lettera (in latino) al priore e ai discreti della Ss. Annunziata, quattro lettere al Tavanti, una al provinciale di Bologna (stralci), diciotto delle 21 lettere (di alcune solo qualche brano) a fra Serafino Lupi, la lettera al Boni e la lettera al Giani. . 1. La domanda di reclusione È scritta in latino e porta la data del 1 novembre 1588. Il Montorsoli chiede, insieme al permesso di vivere come recluso in alcune stanze del convento della Ss. Annunziata, la facoltà di celebrare nell’oratorio la messa quotidiana e di ricevere lo stesso vitto dei frati del convento. edizione: B.M. DOMINELLI, Epistolario del Venerabile P. Angelo M. Montorsoli (1547-1600), “Studi Storici OSM”, 8 (1957-58), p. 85 Molto reverendi Padri Priore e gli altri Anziani Discreti Essendomi profondamente convinto, per l’esperienza acquisita nel corso di molti anni, di condurre un genere di vita solitaria e lontana dal comune consorzio degli altri, per la perfezione religiosa e il servizio di Dio benedetto; desiderando raggiungere lo stato abbracciato della chiamata del Signore (tuttavia senza nessun cambiamento dell’abito del nostro Istituto, per il quale ho dato il nome 30 anni fa); mi rivolgo supplice a Voi, pregando, con questa umile richiesta, di poter vivere recluso fino all’ingresso della via di ogni mortale, coperto delle medesime vesti, e nel medesimo convento separato da Voi e insieme senza distinzioni tra le pareti della nostra cella come recinto di un eremo domestico e dolce. Perché questo si realizzi convenientemente, ne conseguono due cose da ottenere. Una riguarda il servizio della vita spirituale; e perciò chiedo con tanta insistenza che mi sia permesso di offrire a Dio Onnipotente privatamente, nell’oratorio che si trova nei limiti della nostra cella, il sacrificio dell’Ostia salutare. L’altra, che non mi neghiate gli alimenti consueti concessi agli altri. Nessuna delle due, infatti, può provocare (a mio parere) difficoltà. Non la prima, perché tutti i sacrifici saranno per la salvezza delle Paternità Vostre, dei Benefattori, dell’Ordine e di me stesso. Non la seconda, perché, sebbene sembri non poco peso sostentare un frate che non serve la chiesa o la casa, tuttavia ricevuta quella pochezza di vitto proporzionato a un uomo religioso che vive in solitudine, e tenuto conto dei proventi di mio padre, con i quali, se rendono buon frutto, facilmente si possa sovvenire alle necessità di un solo frate, viene tolta l’apparenza dell’intero gravame. Non aspettatevi inoltre alcuna noia o spesa per l’arrivo dei miei parenti. Il compagno che mi è stato assegnato, una volta che avrà speso un po’ di tempo per svolgere le mie incombenze, potrà dare benissimo ogni giorno la sua collaborazione ai servizi comunitari del convento, in modo che per il futuro le Paternità Vostre si curino di me come di un uomo che è detenuto in carcere per colpe commesse. Presento dunque alle Paternità Vostre, con umilissima supplica, questa inclinazione della mia volontà tesa alla salvezza dell’anima, certo di accettare soltanto quella decisione che da voi sarà deliberata e sancita. Memore infine di così grande favore, effonderò per l’incremento di questo Monastero orazioni e preghiere assidue, colme, per quanto potrò, dello spirito di fervore, al cospetto di Dio e della santissima Vergine nostra protettrice. Dalla nostra cella. 1 novembre 1588 Delle Paternità Vostre Figlio devotissimo f. Angelomaria 2. La “riforma” della camera Nel romitorio del Montorsoli sono state apportate alcune modifiche che hanno reso l’ambiente più semplice e austero. Il recluso esprime la gioia di poter vivere così una maggiore povertà e solitudine. edizione: B.M. DOMINELLI, Epistolario del Venerabile P. Angelo M. Montorsoli (1547-1600), “Studi Storici OSM”, 8 (1957-58), p. 86-87 AL P. GIACOMO TAVANTI Di Fiorenza à 27 di febbraio 1593 Reverendissimo Padre Theologo pace, allegrezza e salute. Congratulamini mihi, quia inveni drachmam quam perdideram219. Qual più bella dramma della propria libertà, della purità e simplicità della vita? Questa Padre Reverendissimo non men’avedendo, havevo quasi persa, mentre che ne gli ornamenti di Camera, e del Terrazzo, tenevo insieme unite le cose terrene, e le celesti: perciò che, sebene sono subordinate, e congiunte si comportono nel principio della fidel servitù à Dio, come scala al Fattore, à chi ben le stima; nondimeno in stato di perfettione, al quale son tenuti tutti i Religiosi, repugnano, e sono d’impedimento senza dubbio; essendo verissimo quel detto Tanto quisque à superno disiungitur amore, quanto inferius delectatur: hora è venuta la Riforma la quale levandomi le spugne e nicchi, le pitture e imprese, che le congiugnevono, mi ha sciolto in un certo modo da tanti lacci, e fatto libero, però Congratulare mihi. Egli è vero ch’io non ci avevo più animo, né pensiero, pur talvolta mi trattenevo qualche poco, col fermarvi gli occhi, onde ritardavano l’immediato corso o volo che si deve in Dio: e in oltre era di servitù non poca, l’haverle spesso a mostrare ad altri, privandomi del commodo del luogo. Sia benedetta la riforma, che levatemi i sassi di camera, mi ha levato gl’intoppi, si che senza inciampare, vo’ per tutto agiatamente. Rallegratevi dunque meco Caro Maestro e Padre mio; lodate il Signore e ringratiatelo, prego, da parte mia, perché Factus est adiutor meus, refugium meum, et protector meus220. E mi fa ogni dì nuovi segnalati benefitij.com’è questo in particolare della Riforma della Canera; Facendomi conoscere che non per altri, ma a benefitio mio, si compiacque ch’io la facessi, poi che da me fatta, me vivente, si è guasta, senza servire ad altri. O come è dolce e benigno il Signore veramente, omnia suaviter disponit. Con questo mezzo mi ritirerò dalla conversation’ comune, facendomi trattenere con diletto d’ornare la Camera, e scriver per le mura quello che dovevo haver nel quore; poi, presone debito frutto, mi haveva fatto conoscere che eron’ superflue; e finalmente, donatomi desiderio d’esserne senza, mi ha consolato. Benedictus Deus.221 L’ago che s’adopra a’ cucire, introdotto il filo, si cava; così è stato conveniente levarmi le fonti di camera, quando di già vi sono fermo, e confirmato. Dominus noster a’ dextris est mihi ne commovear222. Ma quello che non meno importa, anzi più giova, è che la Riforma non solo 219 Lc 15, 9. cf. Sal 17, 19 ; 27, 7. 221 Sal 65, 20. 222 Sal 15, 8. 220 mi ha tolto gli scommodi, ma di più mi ha dato tutti i commodi che desideravo, e di vantaggio. Né creda Vostra Paternità Reverendissima che questo sia avenuto per mia petitione, perché il Signore, accio che da lui immediatamente conosca ogni bene, ha voluto che tutto sia levato e posto, senza ch’io ne sappia cosa alcuna: onde non ne ho havuto molestia, ne briga, ne pensiero: e di tutto mi ha datto allegrezza si che l’istessa Camera mi paia più bella che mai, più lieta, più luminosa, più conveniente, e più grata. Gratulare igitur mihi. Vedete se ho cagione di far festa, quando che avertit Dominus oculos meos, ne videant vanitatem223; e havendomi alzate le mura dell’uno e dell’altro terrazzo, mi fa intendere il Signore che così mi ha chiuso tutte l’altre vie, acciò che à lui direttamente ascenda. Funes ergo ceciderunt mihi in praeclaris, et haec haereditas praeclara est mihi224, alle bestie, come al Toro, quando si vuol’introdurre in piazza si lascia aperta una sol via; così à me è solo aperta la veduta del Cielo, acciò altrove non aspiri, e così sia. Portio mea et pars mea Dominus225. Così sia. Al Cielo dunque Padre Theologo, Voi seguito Maestro mio: à tutti lo desidero, per tutti vi è luogo capacissimo; nondimeno d’esser con Voi e presso a Voi instantemente prego, però, non si debbon saper grave le maggior penitenze. Perché quod in praesenti est momentaneum et leve tribulationis nostrae, supra modum in sublimitatem aeternam, gloriae pondus operabitur in nobis226, purché Dum is qui foris est noster homo corrumpitur, is qui intus est renovetur de die in diem227. Ne siamo in questo mondo per altro che per guadagnarci il Cielo. Io per me grandissimo conosco l’obligo mio verso il Signore poi che Domini augentur dona, rationes et crescunt donorum. Cumque esse humilior, atque ad serviendum Deo promtior quisque debeat esse ex munere, quanto se obligatiorem esse conspicit in reddenda ratione, Aiutimi Vostra Paternità Reverendissima, oratione, doctrina, consilio e in ogni altro modo che vegga potermi giovare che per questo mi son lasciato vincere a comunicarli le mie allegrezze, acciò comunichi lei a me l’aiuto suo à debito rendimento di gratie omnibus diebus vitae meae228. Così à lei sia propitio Iddio in questo fine del Carnovale, in tutta la Quaresima e à perpetua Pasqua. Di Fiorenza à 27 di febbraio 1593. Di Vostra Paternità Reverendissima Obbligatissimo scolare e Figlio F. Angel M.ª 3. La lectio divina del recluso Al suo maestro il recluso chiede alcuni suggerimenti per organizzare un programma di lettura e meditazione della Bibbia. edizione: B.M. DOMINELLI, Epistolario del Venerabile P. Angelo M. Montorsoli (1547-1600), “Studi Storici OSM”, 8 (1957-58), p. 87-90 AL P. GIACOMO TAVANTI Di Fiorenza a’ 23 di Decembre del 1593 Reverendissimo Padre Theologo salute. Se quelli che debbon far lungo viaggio, con diligenza s’informano da chi ne sia pratico; essendo ragionevole, nelle cose più importanti, essere più diligente, e della cura del corpo, imparare 223 Sal 118, 37. Sal 15, 6. 225 Sal 118, 57 ; Lam 3, 24. 226 2Cor 4, 17. 227 2Cor 4, 16. 228 Sal 26, 4. 224 a curar l’anima, per che non dovrò io di spiritual viaggio propostomi consigliarmi; e massime con chi non solo è pratico, ma son certo che mi ama, e insegnerà volentieri! Nell’andare per questo mondo, anco à un medesimo luogo e termine, bene spesso è si gran differenza da una strada all’altra, e per lunghezza, e per difficultà, e sicurezza ancora, che chi una volta a suo costo l’ha provato, non ardisce poi esser senza guida: però, non meno occorrendo nelle vie dell’anima all’acquisto delle virtù e delle scienze, anzi con tanto maggior pericolo, quanto più nobili e più importanti sono l’attioni spirituali che quelle del corpo; io, che per esser solo, nelle maggior difficoltà spesso mi trovo, conoscendo e confessando che Homo sum infirmus, exigui temporis, et minor ad intellectum iudicii et legum229; ricorro a Vostra Paternità Reverendissima acciò che, sicome già m’insegnò cominciare all’intelligenza delle Sante Scritture, così adesso per arrivare alla vera Sapienza, della qual si legge che Invenitur ab his qui non tentant Deum230, facendo, credo io, Totum quod in se est; mi mostri e insegni la retta via che debbo tenere. Fin’à hora ho caminato in un certo modo, come già il Populo d’Israel, per lo deserto: si per debolezza mia, e poco ordine osservato; si anco per esser stato il mio studio intorn’à cose lontane dal proprio fine, come la Filosofia, e il Testamento Vecchio, al quale ultimamente ho atteso per due anni: adesso dovendo, e volendo, per gratia del Signore, entrare nella terra di Promissione del Testamento nuovo, conosco non dover farlo senz’il buon duce Giosuè, il quale dividendo mi faccia la parte. Vorrei in legger tutti, che da tutti imparo, ma corre il tempo e vola. Ne provo maggior affanno che in ristringermi e contenermi da varie lettioni; e massime quando non so qual tenere e qual lasciare più convenga: onde spesso mi riprendo del tempo perso, ne mi vale a rihaverlo; se bene in tal pensiero, godo vedere che in tanta mia libertà mi manchi quel che prima tra mille occupationi, mi avanzava. Pertanto prego Vostra Paternità Reverendissima che mi sia Giosuè; e non potendo io esser con lei, m’avisi chi più facilmente e più utilmente nel proposto viaggio sia per guidarmi: ricordandosi ch’io camino à piedi, cioè non studio a pompa, o per comparir ad altri, ne anco per semplice diletto; ma solo per conoscere, e conoscendo amare, e amando servire Dio tota anima et toto corpore, come son tenuto. Onde debbo godere de’ vantaggi di chi và à piedi, quando per mezzo di piacevoli viottoli scorta le strade, si rinfresca a piccolo fonticelle, ne si mette ne’ gran’ fanghi del mezzo delle strade: perciò che tralasciate le lunghe digressioni, le diverse opinioni, e le questioni scolastiche, à me basta la chiara intelligenza della pura verità, con la dolcezza del senso spirituale. Lei donque propter nomen eius qui dat omnibus affluenter, et non improperat231, Deducat me super semitas iustitiae232, dandomi in ciò tutto quel consilio e aiuto che sa, e puole: e particularmente intorno all’apparenti contraditioni e difficultà de’ quattro Vangelisti, e delle Pistole Canoniche, massime di S. Paulo; e anco per cognitione della corrispondenza del Vangelo e testamento Vecchio. Gran’ piacere e frutto preso nello studio de’ dua anni passati, servenomi principalmente di Dionisio Carthusiano, e ultimamente sopra i quattro Profeti maggiori, di S. Girolamo, ed mio molto gusto: e poi che factum est cor ardens, in via huiuscemodi lectionis, dum apertae sunt nobis scripturae, parmi potere, e dovere farne tal testimonianza, che vere desiderabilia sunt super aurum, et lapidem preciosum multum, ac dulciora super omnem dulcedinem mundi: Ben dice S. Girolamo che omnes in se habent delitias, a guisa della Manna, quod secundum uniuscuiusque sapuit voluntatem; poi che ancor io tra mille consolationi ch’io n’ho prese, ritengo questa segnalata ch’è persuadermi d’esser in terra di Promissione, fluente latte e mele, per abondanza d’ogni bene; secondo quella vera intelligenza che insegna esser ricco, non chi ha molto, ma chi nulla desidera. E parmi ch’el Signore habbi voluto così confortarmi, acciò con piena confidenza speri sempr’ in lui, disponendo il tempo della mutatione di mia vita talmente che per l’apunto finito il corso mio di quarant’anni, mi sia da gli altri separato; quasi avisandomi che riputassi fin’ al’hora con gli altri conversando, haver 229 Sap 9, 5. Sap 1, 2. 231 Gc 1, 5. 232 cf. Sal 5, 9; 118, 35. 230 caminato come gli Hebrei 40. anni per il deserto: e poi ch’io son così ritirato, ho patito assai travaglio e inquietudine; è stato per ricordarmi che in nessuna terra di questo mondo è l’ultima Beatitudine. Sicome non meno i medesimi Hebrei mentre erono nella lor promessa e desiderata terra hebbero da esercitarsi contro molte genti. Ma la conclusione è che della mia solitudine, mi trovo ogni dì più lieto, e più contento; si che iam vicit expectationem meam. Di quello cioè ch’io pensai, e mi promessi quando a quella mi risolsi. Onde più facile tengo il poterla persuadere à tutti gli altri, che mai tutti gli altri bastino à rimmoverne me: parendomi toccar con mano che l’huomo in questa vita tanto sia beato, e tanto partecipi della felicità futura, quanto di vita solitaria si gode: perché in effetto non si può esser con Dio, e col mondo. Però diceva il Signore Veni separare hominem adversus patrem suum233. e per questo medesimo sono gli Ordini delle Religioni. Hor basti fin qui ob gratiam tui in me amoris, per esser partecipe delle mie allegrezze. Ma se così piacevole e fruttuoso m’è stato il deserto della Vecchia Scrittura, che dovrò aspettare dal Vangelo vero latte e mele, cum verba habeat aeternae Vitae!234 Spero certo ch’el Signor me lo faccia caro super aurum et topation235, e dolce super mel ori meo236. Però già in eius desiderio est anima mea, e prego ut det mihi hanc aquam237, et faciat me inebriare; et mittat illam de Coelis sanctis suis; quae mecum sit et mecum laboret, et sic illuminando faciem suam super servum suum238, dirigat gressus meos239, acceptaque ei semper sint omnia opera mea240. Aiutimi dunque Vostra Paternità Reverendissima col suo studio, quoniam introduxit me Dominus in terram fluentem lac et mel241 ut laus eius semper sit in ore meo242: aiutimi col’oratione. Ut perfectam consequar libertatem, et ad vitam proficiam sempiternam. Non però si pigli in fretta questa gratia perché mi resta da fare almeno fino à Quaresima, a legger i minori Profeti, e i Maccabei. quando havrà finito di leggere in Sapienza, per le Vacanze del Carnovale, con suo comodo potrà consolarmi. Ma io gli ho voluto scrivere adesso, per haver occasione di salutarla, come faccio, in queste feste del Natale di Nostro Signore, e mio natale alla Religione, acciò che habbia maggior materia d’Allegrezza, sapendo che m’ama. Così prego e pregherò fin ch’io viva giorno e notte. Ut ipse Dominus noster qui hisce diebus exultavit ut Giga ad currendam viam243. pro me retribuendo, repleat te omni gaudio; faciatque me tecum viam mandatorum suorum atque consiliorum fortissime ac velocissime currere. E sia con noi felicemente il Padre metafisico M° Prospero e tutti quelli che l’amano e la servono. Di Fiorenza à 23 di Decembre del 1593 Di V. P. Rma discepolo e Figlio F. AngelM.a de Servi Sul retro del secondo foglio a sinistra: Al Reverendissimo e suo sempre osservatissimo Il Padre Theologo dello Studio di Pisa, A Santo Antonio 233 Mt 10, 35. cf. Gv 6, 69. 235 Sal 118, 127. 236 Sal 118, 103. 237 cf. Gv 4, 15. 238 cf. Sal 118, 135. 239 cf. Sal 39, 3. 240 cf. Sap 9, 12. 241 cf. Ger 32, 22. 242 Sal 33, 2. 243 Sal 18, 6. 234 4. Consigli a un teologo Agostino Gorucci di Arezzo, maestro di teologia, aggregato nel 1573 all’università di Firenze e nel 1590 a quella di Siena, fu a lungo reggente a Firenze e a Bologna; provinciale di Toscana dal 1597 al 1600. Morì a Bologna nel 1602, a 60 anni244. Aveva chiesto al Montorsoli alcune indicazioni circa la lettura e l’orazione, e il recluso risponde che, per uno studio efficace della teologia, l’intelletto deve purificarsi da tutto quello che lo allontana da Dio, esercitandosi nella preghiera e nella lettura della Bibbia. Più avanti, però, i rapporti tra i due si deteriorarono. Si conserva una lettera dell’11 agosto 1595, in latino, in cui il Montorsoli consiglia così il Gorucci: «Ora il tuo cenobio sia per te un eremo, il tuo studio delle scienze a questo sia indirizzato: capire e fare la volontà del Signore»245 edizione: B.M. DOMINELLI, Epistolario del Venerabile P. Angelo M. Montorsoli (1547-1600), “Studi Storici OSM”, 8 (1957-58), p. 93-97 AL P. AGOSTINO GORUCCI Di Firenze à 5 di Settembre 1595 Molto Reverendo e mio nel Signore Fratell’maggiore salute A dì passati risposi à una vostra, per lodare la Charità usata da voi verso quell’Padre che m’inviavi: Hora voi replicate che desiderate un’altra mia di simil tenore. Per che! forse per particolar affettion vostra verso me, del resto io son sicuro che ne’ libri à stampa potet’haver più, e meglio di quello ch’io sappia dirvi. Per tanto conoscendo non poter sodisfare à quanto bisognerebbe Vengo adesso a consigliarvi, che senz’aspettare altre mie, deposto ogni vostro singolare affetto, Tale sia vostro quotidiano esercitio, che satisfatto all’occorrenti necessità corporali, sempre con ogni maggiore sparmio di tempo, tutto interamente vi doniate all’oratione, e alla lettione de’ libri spirituali e santi. In questo vi assicuro io, che, facendo buona compositione, con stimar servitù e penitenza tutto quello che vi bisogni fare à mantenimento della vita corporale; e con intermettere à ogni hora dello studio l’oratione com’è l’offitio del Signore o quello della B. Vergine o altra divotione, non solo non vi rincrescerà né vi stancherete, ma rifiuterete anco ogn’altro trattenimento e diletto, e vi troverete sempre più pronto si à leggere com’ad orare. Vedete, noi siam’ fatti dalla Bomtà di Dio solo a questo fine che è di lodarlo; e per questo sopra tutte l’altre creature terrene, egli ci ha dato l’intelletto; avertendoci a dover sempre adoprarlo a gloria sua, con dirci Nolite fieri sicut equus et mulus quibus [non est intellectus]246, ma semper orate247. Però nell’uso dell’intelletto, che risguarda quelle cose che eccedono il viver temporale, in quanto, cioè, ne portano nella cognitione, e quindi nell’amore di Dio, consiste il fondamento della nostra beatitudine. Però nell’uso di quello si trova contento e pace; fuor di quello si vive conforme alle bestie, e senza guadagno del Paradiso. Leggete i Santi Padri e troverete che Anima nostra media inter Deum et creaturas, Conversione ad Deum illuminatur, melioratur, perficitur; Conversione vero ad creaturas obtenebratur, deterioratur, corrumpitur, sive damnatur. Ergo bisogna fuggir il mondo con tutte le sue cose, e donarsi tutto à Dio. Ergo è necessario adoprar l’intelletto, e leggere i libri Santi per intendere in ogni cosa il divin’ volere, e senza dilatione eseguirlo. Questo è certo, che quanto più l’huomo si occupa ne i negotij, o ragionamenti, o pensieri mondani, tanto meno pensa al Signore. Tanto quisque a superno disiungitur amore quanto inferius delectatur, sicome Quanto quisque plenior est bono creato, tanto minus exurit increatum. E così tanto meno serve à Dio, e tanto più toglie del tempo e di sé stesso, dovuti à lui. Il quale comanda d’essere amato da noi toto corde, tota anima, tota mente, tota virtute, tota fortitudine, totis viribus. Per questo nella vecchia legge ordinò che animali mondi fussin quelli che hanno queste due conditioni, che ruminant et habent ungulam 244 Annales OSM, II, p. 340. DOMINELLI, p. 92. 246 Sal 31, 9. 247 cf. 1Ts 5, 17. 245 divisam248, significandoci, dico, l’huomo purificarsi e piacere a Dio, ogni volta che esercita l’intelletto, e con l’affetto elegge il meglio. così dichiarò il Profeta Geremia si separaveris praetiosum a vili, quasi os meum eris249. A tre punti par’à me si riduca tutto l’esercitio dell’Intelletto, e tutto quello che si deve cavare dalla lettione de’ libri. Il primo è purificarsi d’ogni macchia e bruttezza di peccato; il 2° è ornarsi di tutte le virtù e d’ogni bellezza, che si conosca piacere al Signore; il 3° è vacare a Dio in attuale esercitio di lodarlo, benedirlo, contemplarlo, sempre quanto meglio si può. E perché innumerabili sono i nostri difetti e imperfettioni, che par surghino in ogni nostra attione, come stumia da quello che si cuoce; e le Virtù ricevono augumento interminabile in questa vita; e di lodare Dio e servirlo non si deve mai far fine; ne seguita , che se ben vivessimo più tempo di quello ch’egli sia per durare, habbiamo sempre in che esercitarci con nostro gran frutto, e vantaggio. E se è fatica, che è veramente maggior d’ogn’altra, il tener la mente rassegnata in particolar soggetto, massime essendo solita vagare licenziosamente in molti, Bisogna ricordarsi che mette conto , et è dovere affaticarsi per premio infinito; quando che fin nell’acquisto di cose transitorie è necessaria la fatica. Et il Signore ce lo disse In sudore vultus tui vesceris250, né alcuno è fatto esente da questa fatica di custodire à Dio come giardino il proprio corpo e l’anima, posuit enim Deus in Paradisum ut operaretur et custodiret illum251. E questo predicò lui stesso dicendo Regnum coelorum vim patitur e violenti rapiunt illud252. Che più! Homo nascit ad laborem. Adonque s’ingannano quelli che lo pigliono per piacere. Leggete la Somma di S. Antonino nella 3. p. e troverete che i Religiosi per valore del Voto e professione che fanno, sono perpetuamente obligati alla perfettione Christiana, la quale ne unisce a Dio in perfetta Charità; e che però debbon sempre affaticarsi come i fanciulli a scuola, per imparare sempre più, a fine di sempre più amare, frustra enim in nobis divinae cognitionis abundantia crescit, nisi in nobis divinae dilectionis flamma augescat. Onde non basta amare Dio vehementer, ma bisogna ascendere in amarlo vehementius et vehementissime. Dunque è necessario l’uso non solo frequente ma frequentissimo anzi continuo dell’oratione e della lettione. E qui parmi doversi avertir due cose. Una, che l’Oratione è principale tra tutti gli esercitij spirituali, poiché tutti sono ordinati a’ quella, come le discipline, i digiuni, le mortificazioni e penitenze che si fanno per esser disposti e pronti all’Oratione. Però bisogna farne gran capitale, per farla con ogni attentione e diligenza. Cum enim Deus spiritus sit et in spiritu et veritate debet adorari253. E questo , primo per dare a Dio, debito honore e gloria ; e poi, per impetrarne tutti i nostri bisogni che son grandissimi e senza numero; poi che da per noi non possiamo nulla, Sine me nihil potestis facere254. Et omne datum optimum desursum est255. onde è necessario in lui, debitamente orando confidare. L’altra cosa d’avertire è intorno alla lettione de libri et è che sia ordinata, non a voluntà, né per semplice diletto, ma per arricchirsene e abbellirne tutta l’anima, si che restando nella memoria quello che s’è letto si possa dire come quel filosofo: Omnia mea mecum porto. Et essendo inferma e debole la memoria, bisogna aiutarla in due modi: Uno è, con notare in particolare libro la somma di quello che si giudichi bene a’ conservarsi; che se si scrivono le lettioni d’Aristotele, molto più conviene di quelle de Santi: l’altro modo è, con ispesso, anzi saepius et saepissime esercitarla nelle medesime cose che questo, è il ruminare degli animali mondi: e ne nasce frutto grandissimo perché prima si toglie il tempo e ‘l luogo a’ pensier vani; dipoi, non solo si conservano con diletto le ricchezze dell’anima, ma di più sempre si accrescono, con meglio intenderle e conoscer le cause, e le connessioni con l’altre già lette, sicome quando più si guarda qualche bella pitura, tanto più si scuopre l’artifitio del maestro. 248 Lv 11, 3. Ger 15, 19. 250 Gen 3, 19. 251 Gen 2, 15. 252 Mt 11, 12. 253 cf. Gv 4, 24. 254 Gv 15, 5. 255 cf. Gc 1, 17. 249 Per tanto torno à dire che senza mie lettere, ne’ libri troverete più che non desiderate, pur che s’adopri per mezzo l’Oratione; perché quelli che fanno altrimenti; oculos habent et non vident; legunt et non intelligunt256, non gustono, non aboniscono; com’i Scribi e Farisei i quali vedevano l’opere stupende di Cristo quae testimonium perhibebant de ipso257, e nondimeno non conoscevano la verità del Messia. Da’ libri premessa l’oratione s’impara l’oratione, il modo di farle, e di occuparsi con diletto in continuo esercizio spirituale. In particulare gli opuscoli di S. Thomaso, di S. Buonaventura, di Dionisio Cartusiano e di S. Efrem, sono come mazzi di diversi fiori gratiosissimi. Ma sopra ogni dolcezza che si poss’havere in questo mondo è quella che ne dà il fonte di tutti i libri che è l’istessa S. Scrittura. Pinguissimus sermo la chiama il mio S. Girolamo, omnes in se habens delitias, veluti hebraeorum manna, quae secundum uniuscuiusque sapuit voluntatem. Ond’io la dico spetieria e segreteria celeste; spetieria, perché ne dà ricette e curatione e preservatione, per l’anima e per il corpo: segreteria, perché con quella come con particolari lettere fa intendere il Signore la sua volontà in ogni bisogno e desiderio di chi a lui ricorre. Ma non si può godere tanto bene da chi non ha il gusto sano, perciò che In malivolam animam non introibit sapientia nec in corpore subdito peccatis258: Anzi dicendo i Santi che Ad intellectum scripturarum magis opus est lachrimis quam commentis, et magis oratione quam lectione; non credo io che per capire gli alti e profondi misteri dei dua Testamenti, basti mancar di peccato; ma che sia necessario esser libero d’ogni affetto terreno, in perfetta annegatione di sé stesso, e d’ogn’altra cosa, che è esser morto a’ se, e solo a’ Dio vivere, come diceva San Paulo: Vivo ego iam non ego, vivit vero in me Christus259, e la ragione è in pronto per esempio d’un vaso pieno d’acqua, che no si può empier di vino, se non sia voto dell’acqua. Ne però questo è difficile a’ farsi o volersi, se si discorre bene, Prima, perché è dono del Signore e a’ lui si deve domandare per piena osservanza del primo precetto: poi, perché in tali resolutioni non bisogna pensare a’ quello che si lascia, ma a’ quello che si piglia, e s’aquista. Che questo è dove, per poco discorso, s’ingannano i mondani; perché solo risguardano a dover privarsi de’ loro commodi, con lasciar le ricchezze, gli honori e i piaceri del mondo; e però non vi si possono arrecare; ma i veri servi del Signore conoscono che questo lasciare non è gettar via, ne assolutamente donare; ma è cambiare la mala moneta in buona e in oro, il poco e breve nell’infinito e eterno; però lo fanno volentieri. E tanto più in considerando che lascion quello che non posson tenere, perché nella morte ogni altra cosa manca. Onde ben fortunato si può dire chi dona, con tanto suo guadagno, quello che non puo vendere; che non è suo poiché di suo essere svanisce come nebbia al vento. Non è questa gran ragione appresso intelletto ben disposto, da far sopportare volentieri per Amor di Dio e le tribulazioni e la morte! Certo che gran ventura e felicità sarebbe la mia, se il talento della mia Vita, che per ogni modo sono forzato a pagarlo con la morte, io lo potessi spendere, com’han fatto i Santi Martiri a’ gloria del Signore, perché all’hora non sarebbe morire il mio, ma cambiare questa vita mortale in Vita eterna e gloriosa. Vedete quell’ che fa l’uso dell’intelletto, che rende facile e desiderabile quello che la natura aborrisce: la dove chi non l’adopra come che habbia poca logica, resta vinto dalla fallacia dell’argomento che si fa compositis ad divisa, perché pensa solo al dover lasciare, quando insieme deve attendere che molto più piglia e guadagna. Orsu, per finire, stretto dal tempo che irrevocabil fugge, Concludo. Nella scuola di Christo Signor nostro, doversi essere Innocentissimo e però svegliatissimo di mente, a’ guisa di quelli che servono i grandi Principi: però dove il Christiano, e molto più il Religioso caminare e correre nell’osservanza de Santi precetti, sempre con tal resolutione, spesso nella memoria rinovata, di voler più tosto con ogni stratio e pena morire che mai peccare, o dispiacere a’ Dio in cos’alcuna benché minima. Ut sit quilibet perfectus absque omni macula in conspectu suo. Ut quasi modo genitus et infans, rationabilis sine dolo, lac sapientiae suae concupiscat. A questo gioverà grandemente il meditare ogni giorno due punti: Uno intorno alla cognitione di Dio, l’altro intorno 256 cf. Mt 13, 13. cf. Gv 5, 36. 258 Sap 1, 4. 259 Gal 2, 20. 257 alla conoscenza di sé medesimo: De Dio, tre cose è ben pensare, Prima l’immensa Maestà sua, in comparatione della quale: Totus mundus est tamquam gutta roris antilucani.260 Inferendo che senz’altro rispetto debb’esser servito, e adorato da tutti. 2°. Considerare l’eterna bontà sua, la quale ante mundi constitutionem elegit nos deducendo261 che havendoci dato quanto habbiamo, e fattoci quello che siamo in bene, non è dovere essergli ingrati. 3° L’infinite ricchezze sue, concludendo che havend’egli promesso di donarci sopra ogni nostro desiderio Quae oculus non vidit nec in cor hominis ascendit. Né potendo noi altrove provederci per il tempo avenire. Non enim est aliud nomen sub coelo in quo etc. è dovere osservarlo, e obbedirlo in ogni cosa. Di se medesimo finalmente consideri ciascuno tre altre cose, avertite dal devoto Bernardo, cioè Unde venit, per i peccati già comessi, ut erubescat: Ubi sit, per le presenti infirmità e miserie, ut ingemiscat. Et quo vadat, per i pericoli dell’eterno danno, ut contremiscat. Piacci al Signore di farci non meno osservatori, che conoscitori della sua parola. Voi così degnatevi pregarlo, per me ancora; e da lui proprio ricevete questa mia scritta di suo ordine, da me, tanquam calamus scribae, però ringratiatelo, fatene capitale, levate l’animo totalmente da gli honori e dignità di questa vita, dite un gran Vale ad Aristotele262, Eccitatevi all’alta impresa, alzate la mira, confidate in Dio, e ricominciate da capo come si fussi al principio in viaggio importante, com’è il nostro al Cielo, al cavallo che corre, Prudenza è aggiungere i sproni. Ea quae retro sunt obliviscens, ad ea quae sunt priora extendens te ipsum, ad destinatum persequere bravium, Phili. 3. Tali desidero per charità tutti i mia Fratelli, e in particolare il molto Reverendo Priore di Montepulciano, Maestro Aurelio, perché tengo nel quore le sue lachrime più volte viste, però harò caro che di questa mia gli facciate parte. Et faciat vobis Deus sicut Ephraim et sicut Manasse, cioè dia all’uno e l’altro di voi Copiam agendi et gratiam contemplandi. Di Firenze à 5 di Settembre 1595 Vostro nel Signore minor Fratello Frat’AngeloM.a dei Servi 5. Direzione spirituale La lettera (in latino) che qui si riporta, è l’unica testimonianza rimasta della corrispondenza intercorsa tra il Montorsoli e Gabriele Boni da Cortona, eremita a Monte Senario263. 260 Sap 11, 23. Ef 1, 4. 262 Il Gorucci era un esperto della filosofia aristotelica. 261 263 Gabriele M. Boni si fece eremita a 50 anni, nel 1595, e rimase a Monte Senario tutto il resto della sua vita263. Nacque nel 1545; fece la professione religiosa nel 1561. Fu più volte priore nel convento di Cortona. L’8 agosto 1595, all’età di 50 anni, abbracciò la vita eremitica a Monte Senario. Emise la professione come eremita il 13 novembre 1596. Il Montorsoli, appena fatto generale, lo chiamò a S. Marcello in Roma, ma questi non poté andarvi essendo in cattive condizioni di salute. Il 15 maggio 1600 fu nominato rettore dell’eremo. Il 13 settembre dello stesso anni iniziò il viaggio verso Roma per il giubileo. Durante il viaggio passò per Cortona, Todi e Loreto. Cessato il biennio di rettorato, il 2 luglio 1602 si ritirò a mezza reclusione (usciva cioè dalla cella solo per partecipare al coro). Il 1 marzo 1603 ottenne la reclusione totale. Ammalatosi nel 1622, fu trasportato nell’infermeria del convento dell’Annunziata di Firenze, dove morì il 17 giugno di quell’anno. Interessante la sua testimonianza al processo canonico per il beato Filippo, il 3 luglio 1620: «Io posso dire che le reliquie del beato Filippo, non solo in Todi dove sono stato, ma ancora in Firenze, Lucca et qui nella nostra chiesa di Monte Senario, dove vi sono dell’habito del detto beato, il suo breviario donatoli, come si tiene per fama, da santo Pietro martire263, delle sue pianelle; et queste sono havute in gran venerazione, non solo da’ padri romiti, ma da forastieri ancora che ci vengono giornalmente. Et di queste reliquie ne mandammo in Spruch alla edizione: B.M. DOMINELLI, Epistolario del Venerabile P. Angelo M. Montorsoli (1547-1600), “Studi Storici OSM”, 8 (1957-58), p. 97-98 Al molto reverendo e mio osservantissimo nel Signore P. Gabriele da Cortona S(alute). Devi fermamente credere che, quando non senti Dio, cioè quando risponde meno ai tuoi desideri, Egli con la sua presenza e l’amore non è meno vicino a te né meno favorevolmente disposto verso di te e ti aiuta, di quando ti vengono elargiti da lui manifesti benefici. Egli è infatti sempre buono e ti ama dall’eternità e, molto più di quanto tu faccia, conosce di che cosa tu abbia bisogno. Perciò se lo ringrazi per il fatto che ha voluto che io ti scrivessi, devi non di meno ringraziarlo del mio silenzio. La nostra umanità è così impastata di terra, così pesante che, anche nel momento in cui si sforza di innalzarsi, viene meno, ripiegandosi su stessa, proprio in quelle cose che avrebbe dovuto considerare come scala. Perciò il Signore, procurando un ottimo rimedio, affinché i suoi doni siano accresciuti, e più strettamente il nostro cuore si unisca a lui, talora interrompe il flusso dei suoi benefici, non ritirandosi tuttavia dalla sua provvidenza. Per esempio: Cristo Signore dopo la sua risurrezione lasciò di conversare familiarmente con i suoi discepoli perché, mentre ai loro occhi non sempre appariva manifesto, come aquila che vola sopra i suoi nati264, fossero eccitati alle cose celesti. Solo noi Dio ama almeno quanto all’effetto e per questo motivo vuole possedere tutto il nostro cuore; perciò diceva: Sono venuto a portare il fuoco e la spada e a separare tra di loro anche i parenti; infatti i nemici dell’uomo sono quelli della sua casa265. Ma noi, come quelli che sono immersi in mezzo alle acque, ci afferriamo a qualsiasi cosa che ci venga a portata di mano, senza aver fatto alcuna considerazione, poiché anche il miele, se mangiato in quantità eccessiva, reca danno266. Confida dunque nel Signore e certamente credi che egli fornirà al momento opportuno quello che conviene alla sua gloria e alla tua salvezza, purché tu resti sempre a lui unito. Tirando dunque fuori le forze per non separarsi da lui, traffica diligentemente con il talento che ti è stato dato267, offrendoti a lui come un servo tale che possa insegnare anche agli altri, e solo questo a lui chiedi soprattutto che nei nostri giorni si faccia un solo ovile e un solo pastore268 e il nostro Ordine a singolare onore della sacratissima Madre di Dio aumenti davanti agli altri per merito e per numero. La stessa cosa chiedo al Reverendo P. Vicario e a tutti i tuoi confratelli, ai quali invio molti saluti e tenterò di compensare qualsiasi aiuto mi daranno con le loro preghiere. Ora questi grani, che erano rimasti, li mando a te che mi hai regalato un’immagine della Beata Maria, ringraziandoti e affidandomi. Firenze, 5 aprile 1596 6. Lettere di accompagnamento della “lettera universale” a) A Giacomo Tavanti edizione: B.M. DOMINELLI, Epistolario del Venerabile P. Angelo M. Montorsoli (1547-1600), “Studi Storici OSM”, 8 (1957-58), p. 98-100 serenissima arciduchessa d’Austria, suocera della gloriosa memoria dell’imperatore Mattias, che ce la chiese con grandissima istanza». Cf. “Studi Storici OSM”, 36 (1986), p. 311-312. 264 cf. Dt 32, 11. 265 Mt 10, 34-36. 266 cf. Pr 25, 27. 267 cf. Mt 25, 15. 268 cf. Gv 10, 16. P. GIACOMO TAVANTI [Firenze, 28 dicembre 1596] Reverendissimo e mio nel Signore Padre e Maestro mio osservantissimo, salute. Ecco con questa, la lettera universale per tutti i miei Fratelli; promessa a Vostra Paternità Reverendissima la state passata, secondo il suo consiglio; quale non dubito esser stato buono poi che in eseguirlo, ho provato grande il Divin aiuto: onde a lei adesso ritorno per riceverne il complimento. La lettera è lunga, ma il negotio è importante: e l’è alquanto mordace, ma non è contro à particular alcuno; è con riserbo de’ buoni; et è di colpe communi e manifeste. Dispiacerà facilmente a chi posti ha nel fango i suoi pensieri; ma io a Dio, e a chi è con lui, devo piacere269: da lui, e per lui tengo tutto quello che ho scritto; ma perché mi potrei esser ingannato in più modi, e qua non ho con chi conferire; Il primo aiuto, ch’io desidero da Vostra Paternità Reverendissima, di che anco strettamente la prego, è in leggerla tutta, come diligente Inquisitore; e avisarmi in quello ch’io debba corregger l’altre copie, avertendo però che scusi gli errori della penna perch’io non l’ho a pena vista, non che letta; anzi mi veggo forzato per carestia di tempo, anco nell’altre copie, a fidarmi dell’altrui diligenza parendomi poter essere senza sospetto d’errori di malitia; e assicurandomen’in parte con farvi metter nel fine il nome di chi scrive; e farle anco rivedere da qualcun altro: Così sarà il suo primo aiuto verso me in ogni altro conto che gli paia farmi avertito, per maggior sicurezza di conseguirne desiderato effetto e felice Fine. Per il quale dovrà essere il suo secondo aiuto, verso tutto il resto della Religione, come tutti suoi Figli; in adoprar tutto il suo ingegno, e tutte le sue forze, in tutto quello ch’el Signore gli facci conoscere convenirsi acciò che l’Universale della nostra Religione, e ciascuno de’ particulari, ritornino nella buona strada, et faciant fructus dignos poenitentiae270. Persuadendosi lei in questo, non di favorir me, ma di spender debitamente il buon talento che ha da Dio, per gloria sua; la quale debb’essere sufficientissima causa in ciascheduno, di posporre ogni timor mondano, e ogni proprio commodo, e di spendersi tutto senza sparmio nessuno. Ond’io non mancherò seguir l’impresa con altre mie al Capitol Generale, e dove bisognerà, contro ch’io conosco singularmente riprensibile, come lupo sotto la pelle di pecora e nimico di Dio. Fra tanto desideroso di tutta l’opera di Vostra Paternità Reverendissima a’ benefitio suo principalmente in particulare la prego di dua cose, la prima è di far legger la mia publicamente a’ tutti di cotesto Convento fin’al minimo: la seconda sia che per se, e per i suoi distintitamente si consideri, e spesso se ne parli, a fine che si dichiari e si persuada fino a’ Conversi; perché nessuno si deve disprezzare , dicendo il Signore Omnes animae meae sunt. E in questo parmi bene avertir tutti che tenghin’ per certo che è venuta l’hora d’haver a vivere in commune, e senza proprio; o per forza o per Amore: perché già per molte vie si manifesta esser tale la Volontà del Signore, cui nullus resistere potest271. E di più per via naturale si può conoscere; quando che non pochi de’ nostri Frati questo desiderono, e son pronti a’ procurarlo; avenga che nessuna Città pur grande e forte che sia, può difendersi, havendo nimici e fuori, e drento. Però la via diritta e buona è far della necessità Virtù; perché altrimenti permetterà il Signore che quelli che per forza venghin’ privi delle proprie facultà, restino in ostinato desiderio d’haver, onde di qua vivino tribulati, e di là per sempre disperati. L’importanza e ancora che tra i Poveri voluntarij, non vi sieno di quelli che si pensino haver fatto assai con rinuntiare realmente tutto quello che havevano; perché quello che vuole Iddio da noi è il quore, e non la roba; la roba più tosto in renunziarla, e com’un gettar via quello che n’impedisce all’esser seco, e donarcegli totalmente. Onde convien persuadere che ciascun faccia il debito suo interamente, perché Dio non comanda l’impossibile; ne serve dire io fo’ bene, quando non sia tanto che basti; siccome non basta correr al 269 cf. 1Ts 2, 4. cf. Mt 3, 8. 271 cf. 2Cr 20, 6. 270 palio, ma bisogna correr’ in modo che si sia il primo, sic currite ut comprendatis272. Così, nel fare tal resolutione, dev’esser avvertito ciascuno, di non star’ aspettare quello che facciano gli altri; ma conosciuta, per gli avisi della lettera commune, la necessità di dover servire e piacere a Dio; risolva assolutamente di viver per l’avenir sempre da buon Religioso, quando bene tutti gli altri facessino il contrario. Quello che ancora mi pare doversi avertire a’ Giovani, che non è il peccato leggieri come molti stimano, pensandosi esser interamente guariti quando sono confessati, rispetto alle reliquie, che lasciono sempre di maggiore indispositione al far bene etc. ne sanno molti che meglio sarebbe morire, e meglio o manco male esser tagliato a pezzi e con ogni stratio; che mai far peccato, quantunque minimo, però queste e simil cose gli facci spesso ricordare. E mi perdoni se io ancora aggiungo alla lunghezza della lettera commune, e facci conto che di quella, questa sia l’argomento. Ho stimato bene lo scriver chiaro e copiosamente in materia importantissima, ma conosco e provo tuttavia, che la lunghezza mi fa guerra; in me, per carestia di chi scrive; e negli altri per rincrescimento nel leggere e massime cose spirituali.però non potendo qui publicarla fino alla Settuagesima o alla festa della Purificazione, harò caro che lei ancora fin a’ quel tempo la tenga segreta, si che di costà non ne venga nuove; e se in questo mentre ne potessi far scrivere due copie a quei duoi professi che mi vien detto haver buona mano, di così se ne manderebbe una copia a’ Genova al Padre Maestro Giovanbattista da Pisa, accompagnata con una mia. Io n’ho aggiunto certi segni in margine perché facendo vaghezza e curiosità, facilitano ancor la lunghezza, e forse l’intelligenza, col farne più avertiti dove più bisogna. Parendomi dover raccomandarle a persone di conto, e nelle quali io possa sperare più del fedel servitio, ne manderò copia a’ Molti Regenti M° Paulo da Venetia273 M° Giovanbattista da Milano M° Alessandro da Scandiano M° Deodato Procuratore dell’Ordine M° Giovanbattista Mirto in Napoli M° Giovanbattista da Pisa in Genova F. Pietro da Bologna E qui per la nostra Provintia M° Cornelio da Pistoia M° Aurelio da Montepulciano Da questi si dovrà comunicare ne gli altri. Deo optimo maximo semper cooperante. Con questo gli desidero e prego da Nostro Signore salutare e lieto il nuovo anno, con quanti appresso gli bastino a’ farla ricchissima de’ celesti tesori, acciò di qua partendo sia inalzata alle più alte sedie del Paradiso. Amen, fiat, fiat. Di Camera, il giorno de’ Santi Innocenti 1596 Di Vostra Paternità Reverendissima scolare e Figlio nel Signore F. AngelM.a dei Servi Al Reverendissimo e mio sempre nel Signore osservantissimo Il Padre Theologo dello Studio di Pisa A santo Antonio b) Al Priore provinciale di Bologna 272 1Cor 9, 24. Si tratta del Sarpi, che conservava nella biblioteca personale la Lettera spirituale, come documenta il catalogo dei Libri del p.m° Paolo di Vinetia (fine 1599 o inizio 1600), rinvenuto e valorizzato da G.L. MASETTI ZANNINI, Libri di fra Paolo Sarpi e notizie di altre biblioteche dei Servi (1599-1600), “Studi Storici OSM”, 20 (1970), p. 200. 273 edizione: B.M. DOMINELLI, Epistolario del Venerabile P. Angelo M. Montorsoli (1547-1600), “Studi Storici OSM”, 8 (1957-58), p. 104-108 Molto Rev.do P. M°. e mio sempre più che fratello osservantissimo, Salute. Nel servire à Dio dovendo noi impiegare ogni nostro havere e sapere, tutte le nostre forze, e virtù, ben conviene valersi ancora degl’amici: e tanto più, che seguendone di tal servitù immenso guadagno; giustamente gl’amici, Quibus debent esse omnia communia274, tra i primi debbon esser chiamati: però ricordevol’io dell’amicitia nostra fino a teneris annis, e seguitata poi senza impedimento alcuno, sebbene anco senza degno frutto di desiderata conversazione; hora affettuosamente v’invito ad alta impresa, qual è liberare da crudelissimi tiranni i nostri fratelli conservi nel medesimo habito; i quali soprafatti da delitioso sonno, inavedutamente dormono in estremo pericolo. […] Voi vi pensate forse esser a caso costì? Non già. Perché niente è a caso rispetto a Dio il quale ha immediata Providenza d’ogni cosa; sebene l’esecutione, detta governo, si fa per mezzo delle seconde cause et di chi piace a lui. Non sapete che la medesima Santa Scrittura la quale rappresenta il passato, è anco figura del futuro; e che se ben è verificata nel senso principale, in altri secondarij resta per adempirsi? Però si come Ester hebrea non a caso fu fatta Regina ma per liberarne da morte il popul suo (figurando in ciò la salute di tutto il genere humano portataci dalla sempre Vergine Madre di Dio). Così siete voi costì, ut sis pater et salus illius Patriae; e però con talento (senza dubbio) sufficiente ad eseguire la divina volontà. Dividit enim singulis pro ut vult, et dat quod iubet. Dhe dunque con quell’authorità che dona il Zelo e lo Spirito di Dio, si non tamquam Iudex, saltem ut Episcopus, consideri Vostra Paternità Reverendissima le necessità e miserie comuni […] singularmente per l’inosservanza del Voto della Povertà […]. Orsù Vostra Paternità Reverenda ben intende che importantissima è questa impresa nella quale deve affaticarsi omnibus diebus vitae suae275. Non per mia sodisfattione o mio alcun rispetto, non conservus enim tuus sum ego: ma solo per piacere a Dio e giovare al fratello in estrema necessità; con infinito e però incredibile guadagno di Vostra Paternità Molto Reverenda. Onde gli debb’esser a cuore talmente, che non habbi mai più pure altre pensiero, non chè desiderio di questo che sia gloria al Signore et salute all’anime, et questo sempre con tal’affetto, come se non avesse fatto nulla insino ad hora con ogni suo studio. È piccola la nostra Religione rispetto all’altre de’ Mendicanti, e per diligente custodia d’alcuni pochi bene uniti a Dio facilmente si ridurrebbe a fortezza inespugnabile. Ma hoggi che l’è quasi Desolata Civitas276, molto studio richiede ut aedificentur muri Jerusalem277. Né è dovere lasciarla rovinar a fatto; anzi com’opra della S.ma Madre di Dio deve esser singolarmente restaurata e ampliata. L’altre Religioni hanno per capo uno de Santi li quali quantunque singularissimi sieno maggior nondimeno infinitamente o smisuratamente è la gloriosissima Vergine nostra Padrona; e della quale favoritamente siamo chiamati Servi; Però vorrebbe il dovere, che la nostra similmente di divotione ed’ogni santità avanzassi tutte l’altre, si che fusse com’una gioia tra le più belle delle Pietre comuni. Quando si restaurano le mura d’un Convento o d’una Chiesa par che si sia fatto qualche gran cosa; non dimeno quella è nulla senza la restauratione dell’anima; che consiste nella novità della vita, e di costumi per nov’acquisto o maggior aumento di bellezza, o perfettione spirituale delle sante virtù, e nella divina gratia. Dhe dunque insieme con gl’altri a questo e per questo chiamati dal Signore (in numero ottenario per segno di portarne a tutti noi l’otto beatitudini del Signore, si come con tal numero è significata la beatitudine, finiti i sette giorni delle nostre settimane). Mettesi 274 cf. At 4, 32. cf. Sal 26, 4. 276 cf. Is 64, 10. 277 cf. Ne 2, 17. 275 Vostra Paternità a tal’impresa per davero si che dica risolutamente Muoia Sansone e tutti i Filistei; acciò si levi da tutti totalmente ogni Proprietà e ogni bruttezza, e gustiamo una volta per sempre Quam bonum et quam iucundum sit habitare fratres in unum278. Però con vigilanza, sollecitudine e prudenza, che s’usa al mondo in fortificar le città, e diffendere gli stati, lei virilmente s’adopri; formando prima in bene i migliori, e poi di quelli come di Sergenti, Alfieri, Capitani e simili servendosi a convertir e ridur’a buon esser tutti gl’altri, Ut tandem offeramus super Altare Dei Vitulos279 facendo di noi medesimi magnifici, e perfetti Sacrificij In odorem suavitatis nell’intera e total’annegatione, Ut societatem habeamus ad invicem, et Societas nostra sit cum Patre, et cum Filio eius Jesu Christo280. Amen. Di Firenze, il giorno di S. Antonio 1596 [st. fior.] Di V.P. Molto Rev. Minor Fratell’affezionatissimo Frat’Angel’Maria de Servi 7. La censura della lettera universale Al p. Giacomo Tavanti (8 febbraio 1597) edizione: B.M. DOMINELLI, Epistolario del Venerabile P. Angelo M. Montorsoli (1547-1600), “Studi Storici OSM”, 8 (1957-58), p. 110-113 Reverendissimo e mio sempre da Padre osservantissimo salute. Scrissi à Vostra Paternità Reverendissima lo spaccio passato, ben che breve, per carestia di tempo, giudicando non dover essere senza quell’altra rispondenza, il molt’Amore, che con la sua mi dimostrava. Hora aggiungo com’io già fermo nel Signore per gratia sua; ho procurato ancora di stabilire e fermare quell’opere che l’istesso Signore Dio e la sua Santissima Madre si son degnati fare in me e per me. E particolarmente con riparare a’ cavilli e mali sentimenti quali, secondo gli avisi di Vostra Paternità Reverendissima, potevano farsi inton’alla mia lettera universale, quantunque fuor di tal considerazione par ché fin’hora sia stata petra scandali, quella che più tosto, a guisa della pietra angulare Evangelica, doveva insieme tutti charitativamente unirci. Onde fino il P. Generale, conform’à quelli che han detto, esser un delirio il mio, e una pazzia; dice che gli humor malinconici mi fan’ parlare: e sebene mi concede ch’io possa mandare la lettera dove voglio, prohibisce nondimeno alcune parole di quella, e di du’ altre mia a’ Frati particulari. E prima non vuol ch’io dica, la mia lettera universale esser com’un’ dono speciale dato da Dio per interessamento della B. Vergine. E pur’ è vero che ogni bene è da Dio, e tal lettera essendo bene speciale perché Deus tempora nostra … despiciens, vocat nos ad poenitentiam et observantiam promissae paupertatis281; non si può negare che sia special dono di Dio. E se la sua santissima Madre è particular avocata e Padrona nostra, et io di ciò gli ho fatto quella maggior istanza che potevo con orationi e digiuni, adoperando anco il mezzo, fino d’interi Monasteri di Monache, quanto di mie orazioni per loro, più volte m’hanno scritto; perché si deve tor questo honore alla B. Vergine! Non è egli precetto Christiano che ogni bene s’accetti da Dio e a lui s’attribuisca, havendo egli detto apertamente: sine me nihil potestis facere282! Non è egli vero quel detto di San Bernardo che Deus nihil nos habere voluit quod non transierit per manus Mariae! Deh consideri Vostra Paternità Reverendissima quanto à torto il Padre Generale biasima che, prohibita la mia lettera con scomunica, io nell’appellatione, dissi d’esser servo di Dio manifesto, inferendo che l’ingiuria era fatta al Signore, perché, dice, questo esser un promettermi troppo della divina gratia, quando nullus est certus An odio vel amore dignus sit. Ben di questo si vede esser 278 Sal 132, 1. cf. Sal 50, 21. 280 1Gv 1, 3. 281 cf. At 17, 30. 282 Gv 15, 5. 279 impotente riparare a tutti i cavilli di chi vuol malignare, onde fin’ l’Evangelo santo dettato dallo Spirito Santo da molti è stato mal’ interpretato. Però parmi a tal istanza poter dire come già Nostro Signore quando, ripreso che si diceva Figlio di Dio, rispose Nonne scriptum est in lege vestra: Ego dixi Dii estis! Et si illos dixit Deos ad quos sermo Dei factus est, quem pater sanctificavit et vos dicitis quia blasphemas283. Tutti i Christiani sono servi del Signore e servi manifesti per il segno della Croce; ma molto più manifesti servi sono i Religiosi per la professione che fanno e per l’habito che portano come paggi del Principe; perché donque non dovrà dirsi servo manifesto di Dio chi per servir lui solo ha dato bando ad ogn’altra cosa! Fin’ il secolo è testimonio di questa verità, quando nascosto com’io sono, scrive che a Dio interceda per i suoi bisogni. Non vuol’anco ch’io dica che questo modo di chiamar la nostra Religione a penitentia col mezzo d’una lettera sia conforme alle divine ordinationi, quando già al tempo del Re Assuero, la Regina Ester, impetrata gratia, con una lettera del Re rivocò la sententia data contr’al populo Ebreo, che in determinato giorno per tutto il suo Regno dovev’esser ucciso; e che similmente Iddio con un’imbasciata fatta per l’Archangelo Gabriele alla Beata Vergine, e quindi con’una lettera del Verbo eterno ha salvato il mondo, non vuole, dico, questa comparatione e similitudine. Lasciamo stare ch’io debbo ubbidire a che sono prontissimo, che scandolo o che male ne seguita per tal modo di Dire! Nonne omnia quae scripta sunt, ad nostram doctrinam scripta sunt ut per patientiam et consolationem Scripturarum spem habeamus! Hor questa è nostra consolatione, a fine di buona speranza, e senza biasimo alla Verità: perché non repugna dire che il Verbo divino mandato a noi dal Padre Eterno ci sia mandato come lettera di riconciliatione e di pace. Gli Ambasciatori sono viva lettera di quelli da chi son mandati, e Christo Signor Nostro dicebat se missum et datum nobis. Di gratia dicamene il parer suo Vostra Paternità Reverendissima. Appresso, mi proibisce il dire che ci sia bastato lo stampar la riforma, e pur è vero che non s’osserva poi che ogn’un gode il suo, come prima; ma Veritas odium parit. Dice che per testimonio di s. Thomaso il Religioso non è proprietario s’è egli non tien cos’alcuna clam, ma per vim sui superioris; e non vede che tal argumento è una fallacia ab insufficienti enumeratione partium, perché principalmente al vivere in comune, come gli Apostoli, e come siam tenuti noi, è necessario: la reale incorporatione delle facultà di tutti, e poi intorn’a quello che può concedere il Superiore, s’intendono le due dette condittioni. Dice che ha fatto molte cose in riformando, ch’io non so per star rinchiuso; e nondimeno ragionando qui col Padre Maestro Domenico e poi con il Padre Reggente e venuti alle strette, non mi han saputo dire in che sia di meglio la nostra Religione dal tempo passato, se non che il nostro Convento sta meglio, che mai, di sostanze e di buon nome. Lo che non dev’esser d’allegrezza a’ buoni, anzi di molto timore, vedendo che per l’universale si vive più licentiosamente che mai. Dice che il mio scrivere che al Capitolo si faccia un Generale Pastore e non mercenario, tassa tutti gli altri Generali. Ma questa non è mia intentione, anzi scuso, com’è dovere, quelli che non hanno havuto occasione di mutare il modo di vivere che teneva la Religione, quando furono fatti Generali e tanto più che non credendo loro poter migliorarlo quanto al Voto della Povertà, si scusorno con i Sommi Pontefici. La dove egli havend’havuto impositione di nuova Riforma, era obbligato all’osservanza più degli altri; e con lo stamparla, senz’essergli imposto, dichiarando al mondo che noi prima non l’osservavamo, e insieme mostrando voler’egli osservare; insiem’ ancora ha uccellato il Papa e fatto i suoi sudditi, per i nuovi precetti, più che mai trasgressori. Aggiugne che per me si spende l’anno 70 o 80 scudi e che però dovrei contentarmi. Ma in tanta diligenza de’ mia fatti, perché non ha visto che in tal numero vi sono intorn’ à 200 scudi di debiti per conto del lascito della mia Matrigna, e vi sono posti a mia uscita più di 30 scudi spesi dal convento nella somma dei 500, che di mio erano in deposito, vi è la spesa de’ paramenti ch’io adopro all’Altare, degli Ornamenti fatti in Capella, e di libri, e in somma harebbe veduto, volendo, che quanto alla persona mia, si nel vitto come nel vestito, poco manco si potrebbe spendere poi che non mangiando io di quello che altri (?), mai s’è compro punto di pesce; di panno sol una tonaca, e un paio di 283 Gv 10, 34-36. pianelle in 9 anni; e in legno pochissimo, che per questo anno, non ho ancor finito di consumare una fascina; ma l’olio e candele per l’Altare costono assai. Finalmente d’un ragionamento havuto in privato nel mio studio con il Padre Provinciale, perché dice io rispondessi troppo ardito o con poca modestia, in che non me difesi, ma l’honor di Dio, vedendo impedir le buon’opere, e dicendo San Giovanni Chrisostomo che Iniurias Dei usque ad auditum perferre, nimis est in più, men’impone penitenza salutare, sebene a mia elettione. Così a me è imputato tutt’il male. Benedictus Deus qui consolatur nos in omni tribulatione nostra284, e mi tien sempre provisto della dolcissima manna della Sacra Scrittura, omnem habens saporem285, perché la provo ottima medicina in tutti i mia bisogni, ne prima ho finito di leggerla che m’ha insegnato cavarn’ il frutto della lettera universale: e perché Charitas incipit a se ipso, ha voluto il Signore che prima in me stesso esperimenti la Virtù di quella, che è patir volentieri per Amor suo, facendomi riconoscere e gustare alquanto dell’amaritudini e angustie del quor suo, quando era abandonato da’ suoi, calunniato e perseguitato e tenuto per furioso e pazzo da gli altri, onde diceva: Si mundus vos odit, scitote etc.286 Però mi dà ancora un quore invitto Ut prospera mundi despiciam et nulla eius adversa formidem, e mi fa conoscere che dalle cose mondane e corporee, dovend’io ascendere alle spirituali e celesti, non meno devo esser diligente e sollecito in procurar l’honor suo e la salute dell’anime; di quello che altri sieno per la vita presente, e commodi corporali. Però, sebene fino il mio Compagno, nonché il Confessore, in questa impresa, mi sono stati contrarij, nondimeno il Signore m’ha aperto la strada per giovare al mio Fratello, con farmi ricorrere per aiuto all’Illustrissimo Protettore. Dicendomi al quore che essendo più importanti e a Dio più grate l’opere di misericordie spirituali, che le corporali, molto più devo aiutar il mio Fratello nel pericolo della dannatione dell’anima, che se fussi in pericolo della Vita corporea: e che se fino gli animali irragionevoli difendono i lor parti usque ad mortem, ancor io non devo abbandonare le buone imprese, ma perseverare, senza voltarmi à dietro; et ponere animam meam pro Fratribus meis, et che in questo oportet magis obedire Deo quam hominibus287. Donque Vostra Paternità Reverendissima non si pigli molestia di me, ma consoli se medesimo nel Signore, e che gli altri esorti al vero timor di Dio; a mantenergli le promesse; e accettar da lui ogni cosa; che questo apunto è il mal comune, nelle resolutioni da farsi haver risguardo solo agli huomini, e far conto che Dio dorma; quando egli tutto dispone e governa; né s’asconde, ma sa dire, A me factum est verbum hoc quando odia i peccatori che retinent propositum peccandi; e ama quelli che di peccare fan fine e si pentono. Mando a Vostra Paternità Reverendissima le mie due lettere, per ingratitudine del nostro Priore, censurate a Roma; si perché sapia ch’iuo voglio obedire di non mandarle; si perché meglio riconosca il modo facile che ne dava il Signore di ritornare a lui, quando han fatto qui i Superiori, come Herode nel nascimento di Christo, occidendo gli Innocenti, perché nel prohibire con scomunica i santi avisi, per quanto si sia dal canto loro, han tolto la vita a’ quei semplici, che credendo harebbon obedito. La dov’adesso seben il Generale Ordina che la lettera si legga in refettorio, dice il Signore che Non sunt proijciendae margheritae ante porcos288. E perché ipse dat pacem habentibus bonam voluntatem; ipsemet obsecro omnibus det bonam Voluntatem, ut omnibus etiam det veram pacem. Di Firenze a gli 8 di Febbraio 1597. Di Vostra Paternità Reverendissima Scolare e Figlio nel Signore F. Angel M.a 284 2Cor 1, 3.4. Sap 16, 20. 286 Gv 15, 18. 287 At 5, 29. 288 Mt 7, 6. 285 8. Dalle lettere di Montorsoli, priore generale, a Serafino Lupi da Firenze Serafino Lupi (morto nel 1641) è uno degli uomini, sensibili al rinnovamento, cui il Montorsoli affida il compito di maestro dei novizi alla Ss. Annunziata di Firenze. Secondo il Ceracchini, fu incorporato nel collegio teologico il 17 maggio 1598, e «insegnò continuamente e con la voce e con la penna teologia speculativa e mistica» (Fasti teologali …, Firenze 1738, p. 342-343). Nel 1612 e 1613 fu priore alla Ss. Annunziata. Nel 1632 pubblicò la traduzione italiana della biografia del Montorsoli, scritta in latino da Pandolfo Ricasoli Baroni (1623). Al Lupi sono indirizzate 21 delle 38 lettere rimasteci dell’epistolario del Montorsoli. Da esse emerge la sollecitudine pastorale del Montorsoli che si interessa dei problemi e del progresso religioso di ogni frate: una sollecitudine permeata di bontà, ma anche di fermezza e severità. edizione: B.M. DOMINELLI, Epistolario del Venerabile P. Angelo M. Montorsoli (1547-1600), “Studi Storici OSM”, 8 (1957-58), p. 114-128; 131-133 a) Firenze, 28 aprile 1597 Reverendo Padre Baccelliere e Fratello nel Signore. Salute. Il pensier mio di ritirarmi più di 15. anni sono, fu per meglio servire Dio con fuggir l’occasioni d’offenderlo: e provato ch’egli era bene risolvei a ristrignermi più ch’io potevo, per poter dire con il Profeta: Da ogni via cattiva ho tenuto lontano i miei piedi per custodire i tuoi comandamenti289. Però havend’io saputo assai prima che il principal precetto del mio Signore è l’Amore sempre poi ho tenuto chiuso il quor mio all’odio; sì che anco ragionando, fin con Voi, sempre ho consigliato e dimostrato ogni christiano doversi scordare dell’ingiurie. Come adunque adesso dite Voi di me ch’io abbi detto voler vendicarmi del Padre Generale! che adesso sia il tempo, e ch’io l’ho per inspiratione! Questa è tutta bugia, in detestazione della quale, alla presenza del Padre fra Gabriele eremita, relatore di tal aviso, non havend’io altro modo da giustificarmi ho chiamato Dio in testimonio, con imprecare non a Voi, ma à me stesso, l’ira sua, se in me sia stato mai tal pensiero non che parole, e così confermo. Se ho ripagato coloro che mi fanno del male, e massime da poi in qua ch’io mi ritirai, sarò annientato giustamente dai miei nemici esanime290. Voi havete sognato queste parole di me, o almeno havete fatto com’aviene in sogno, quando delle parti di diversi animali veduti, si compone un monstro, perché mi ricordo io haver detto che il Signore m’Ispirava a scriver adesso quella benedetta lettera, accio che al Capitolo Generale si facessi qualche buona resolutione: e mi ricordo haver detto ch’io ch’el Padre Generale ne potessi patire, e che alcuni harebbono potuto giudicare ch’io havessi inteso di vendicarmi. Ma mi ricordo ancora haver sempre soggiunto, che questa non era mia intentione, anzi ch’io non harei voluto che il Padre Generale n’havessi pur sentito minimo dispiacere. Ma che però non dovevo io ritenermi, per esser maggior il beneficio ch’io ne speravo per l’ordine che il danno suo particolare. Stupisco adesso che Voi, che fate l’Amico, affermiate di me parole in tutto contrarie. Se mi avesse oltraggiato il mio nemico l’avrei sopportato291. Non però sono adirato né vogl’essere, perché il Signore non vuole, né S. Girolamo né la charità vostra , in altro modo usatami, ma vi avertisco per emendatione e corretione fraternamente. Piacci al Signore di convertire in bene questo dispiacere, perché così n’è promesso. Per coloro che amano Dio tutto concorre al bene292, e riusciranno sempre tutte le cose che 293 farà . Vale. à 28 d’Aprile 289 Sal 118, 101. Sal 7, 5 Vg 291 Sal 54, 13. 292 Rm 8, 28. 293 Sal 1, 3. 290 Vostro buon Fratello nel Signore F. Angel M.a b) Roma, à 10 di giugno 1597 Reverendo Padre Baccelliere Salute. Ecco esaudite l’orazioni e desiderio de’ buoni con esser aperto al bene tal via che nessuno di non potere possa scusarsi, intorn’à che affaticandom’io continuamente, dall’Illustrissimo e Reverendissimo Protettore, quale in questo tempo del nostro Capitolo havea sopra di noi l’autorità del Papa, ho impetrato che Voi siate nel Convento nostro di Firenze Maestro de’ Novizij e di grammatica non ostante l’esser Voi giovane e studente. Di che dovrete voi ancora esser contento poi che questo sarà un farvi Dottore e Reggente dovendo leggere a tutti cotesti giovani la Santa Scrittura, principalmente potendo intermettere qualche lettione ex operibus Marci Tulli, vel ex Caesaris commentarijs294 et ex chatechismo Romano, ma non mai di Terentio o d’altre commedie, ex quibus mali mores hauriuntur295. Il Molto Reverendo Padre Provinciale vi costituirà nell’officio nel quale Voi con ogni vigilanza e diligenza continuamente vi affaticherete, si che ne anco pur sospetto di scandalo ne nasca mai, però non vi fidate mai di voi medesimo, ma state sempre nel timor di Dio e io pregherò per te perché la tua fede non venga meno296. Sarete con il Padre Priore, avisandolo dove bisogni, in charita e facendogli animo; ricorderete di far 4. comessi, quando sia commodo, acciò servino le messe, e ad altri bisogni del Convento, avertendo che si osservi la clausura, si che nessun barone n’abbi mai ingresso. Salutate il mio compagno F. Deodato e siavi di lui qualche pensiero, nelle sue occorrenze. E di me nelle vostre orazioni non vi scordate mai. Di Roma à X di Giugno 1597. Vostro buon Fratello Frat’Angelo M.a Generale de’ Servi c) Bologna, 10 settembre 1597 Molto Reverendo Padre Baccelliere. Salute. Dopo la recreazione presa co’ vostri Novizij al sasso297, con molto più sollecitudine dovrete attendere all’educazione di quelli de’ quali mi contento sia confessore il Padre Fra Stefano da Bologna, al quale dò anco facultà di ascoltare tutti gli altri costì di convento. Vi dico di Maestro Ottaviano legnaiuolo che da’ Padri stessi doverà esser richiamato a servire, e non da me; quale però non solo mi contento, ma desidero ancora (essendo a giovamento) che ritorni a servire. Vi ringrazio de gli altri buoni avvisi datimi; e pregovi a seguitare nelle vostre fatiche, con far tuttavia migliori quelli che vi son dati in cura: a’ quali spesso ricorderete il pregar per me Dio e la S.ma sua Madre: non restando anco voi stesso di ciò fare, sicome io fò per voi. Di Bologna il 10, di settembre. 1597 294 Dalle opere di M.T. Cicerone e dai Commentari di Cesare. Dalle quali scaturiscono cattivi comportamenti. 296 Lc 22, 32. 297 Santuario Madonna del Sasso. 295 Di Vostra Paternità Molto Reverenda Affezionatissimo Da Fratello Fra Angelmaria Generale de’ Servi d) Sabbioneta, 1 ottobre 1597 Molto Reverendo Padre Maestro. Salute. Piacemi che ne’ vostri molti travagli conosciate et abbracciate il rimedio della pazienza: alla quale di nuovo, per vostro maggior merito, vi consiglio. Non guardate a quello che si dica da altri, ma procurate solo che l’opere vostre sian buone, e col Profeta dite al Signore: Dio la mia lode non tacere, poiché la bocca del fraudolento si è aperta contro di me298. Egli provederà quando meno l’aspetterete; et io, che grandemente stimo la bontà vostra, e le vostre fatiche, non mancherò d’aiutarvi in ogni occasione. Salutate il mio Compagno con dirli che tenga cura di camera e delle cose che vi sono; e si ricordi me mentre serve al santo altare: così faccino ancora i vostri Discepoli e figliuoli pregando per me, e per tutta la Religione, quando ogni dì cresce la speranza di ridur le cose a bene. Il Signore vi presti fortezza, e grazia. Di Sabbioneta il primo d’ottobre 1597 [...] e) Como, 3 novembre 1597 Reverendo e mio sempre Carissimo. Salute. Alla vostra de’ 26 di settembre, quale non m’è stata resa prima che l’altre dua de i 18 e 20 d’ottobre non potei rispondere in Milano; parvemi certo per essere impedito da molt’altre lettere importanti ch’io vi trovai, e per molto da fare che vi è stato per otto giorni interi; ma hora arrivato in Como, dove il nostro Convento e Chiesa ha il nome di S. Girolamo, credo la tardanza esser nata à fine, che in nome di S. Girolamo e per amor suo vi saluti, e vi scriva come realmente faccio, ringratiandovi del ricordo che di me dinanzi a lui tenete, per l’ordine che di visitarlo a Fiesole per amor mio, scrivete, e per tal rispetto mi v’offero a provedervi di Niccolò de’ lira, se la nuova stampa che dite, è fatta in Venetia: tanto più che non vi è lecito farvi debitore ad alcuno, non potendo ne anco da Voi spendere. Con che lodo il vostro pensiero, di darvi in tutto allo studio della Sacra Scrittura. Così facessimo, almeno tutti i Sacerdoti; perché mi rendo conto, e per testimonianza del nostro comun Protettore S. Girolamo, e per propria esperienza, che nessun’altro piacere terreno vorrebbono, sicome già Voi per questo vi fate forte e pronto nelle Tribulationi. Onde il buon testimonio che mi rendete del Padre Gio[vanni] Girolamo, oltre al nome gratissimo, ha potuto assai nella causa che mi raccomandate, e potrà ancora in altri conti. Così gioverà per altri fin ch’io non vi trovi in bugia, e che perseveriate, come spero e prego, per la buona via del timor di Dio che vi dovrà far libero d’ogn’altro timore. Per tanto, ripigliando speranza del vostro Fra Michele del quale, già per altri avisi ho dubitato molto, gli direte da parte mia, ch’io gli sarò sempre in aiuto quando 298 Sal 108 (109) 1-2. cominci hormai à servire Dio da vero. Altrimenti creda che il Signore Dio mi farà conoscere le fintioni, e m’insegnerà di punirle. Lodo similmente che vi confessiate obligato al Padre Fra Venanzio, e che con la vostra pazienza gli diate occasione di tacere, acciò si viva in pace, e io non habbia occasione di dolermi. I Novitij che hann’il tempo della Professione, si possono e devon cavarsi di Novitiato, e massime essendovi luogo in Professato, quantunque per l’ordine costì dato, e per molta confidenza che ho nel Padre Maestro de’ Professi, spero che tutti i Professi vivino con non minor osservanza che Novitij. Così si provede tuttavia per tutta la Religione, che i Professi non stieno in alcun luogo senza particolar Maestro e di lettere e di costumi; e non meno de’ Novitij vivino distinti e separati da tutti gli altri frati, in continuo esercitio di studio e di buoni costumi. Tanto direte al Padre Priore al quale di Milano per più capi importanti ho scritto tre lettere in un medesimo piego dove in particolare dicevo Fra Cirillo in nessun modo dover esser tenuto in Firenze. Del resto attendete a far frutto come singolarmente desidero, e spero, in tutti i vostri discepoli, e di voi istesso lasciate il pensier a me, che quando sarà tempo conoscerete che di Voi tengo memoria, come fin’hora ne può esser buon testimonio il Padre Sotio di Mantova Maestro Giulio Antonio. Saluto tutti i buoni e mi raccomando alle orationi.[…] Di Como il 3 di novembre 1597 Vostro buon Fratello F. Angelm.a Generale de’ Servi f) Venezia, 17 dicembre 1597 Molto Reverendo Padre Maestro de’ Novizij. Salute. Ecco per il natale che vi mando la vostra mancia nella patente del pulpito di chiesa nostra: nella quale vi affaticherete per farvi onore: ricordandovi di S. Filippo: e lascerete l’altre occupazioni come di far processi per conto del Baccelliere Filippo da Cortona: perché tale è perdimento di tempo, et è cosa odiosa. Qui in Venezia non si trovano i Solilogi Latini che domandate: ma credo vi manderò Niccolò da Lira, et insieme il Tostato, de quali libri vi potrete servire a vostro commodo. Manderò anco qualch’altro libro, et alcune stampe, e farò che tutto sia consegnato a voi. Attendete dunque a studiare, e far bene anco per me: tenendomi ricordato a’ vostri scolari, che è fine. Di Venezia il. 17. di Dicembre. 1597. Di Vostra Paternità Molto Reverenda Affezionatissimo Da Fratello F. Angelm.a Generale de’ servi g) Roma 3 aprile 1598 Molto Reverendo Padre Maestro. Salute. Non accade raccomandarm’i padri dell’eremo, perché senz’esser pregato, tengo per favore poter far cosa grata a quelli, che davvero servono Dio. Ma il Prior costì vostro non merita ch’adesso gli risponda; poiché egli, alle mie lettere, quali adesso confessa haver ricevuto il Mercore Santo non degnò pur d’accusarle, quantunque scrivessi: onde moltiplicò in me fatica et dispiacere. Ho parlato per conto di far fratini, et per la professione di quelli, ch’anno il tempo; aspetto tutta via d’haverne qualche gratia ma però non è da correre a furia a moltiplicare. M’è stata grata la vostra raccomandazione per il padre fra Venanzio, si come e la lettera ch’egli mi scrive, alla quale per carestia di tempo voi farete risposta, con dirli, che non tanto le fatiche fatte mi son grate, quanto che le promesse passate, et presenti di servire à Dio realmente, et di darne ad altri occasione simile con fatti, et con parole. Harò caro facciate ancor buon’offitio con fra Urbano, esortandolo prima alla patientia con andare dove gli sarà imposto dal P. Provinciale, et poi avertendolo che attenda alla mortificazione, et voglia essere nell’avvenire più humile, più ritirato, e solitario, et più fervente nel servigio del Signore, così farete con altri, dove conosciate il bisogno, come con fra Innocentio, et fra Cherubino. Fate carezze al nostro Padre Vicario Soragna con dirli che l’aspetto quanto prima, né vi scordate di noi nelle orationi vostre, et de vostri Novitij.[…] Di Roma 3 d’Aprile 98 Di vostra Paternità Molto [P.S.] Direte ancora al p. Vicario Reverenda fra Ottaviano che gratissima m’è Come Fratello stata la sua, et farò capitale di quanto m’avvisa. Frat’Angelm.a Generale de’ Servi h) Viterbo, 11 aprile 1598 Molto Reverendo P. Maestro sempre osservantissimo. Salute. Mi rallegro e congratulo delle vostre allegrezze e prego sieno tutte nel Signore dal quale accetterete sempre ogni cosa, sopra tutto mantenendovi humile, à che forse gioverebbe l’accettar d’esser costì Vicario del Convento, e per esser lettore della Sacra Scrittura, come Maestro di Grammatica potresti essere esente dal mattutino e dal choro, quando vi potess’esser il Priore. E Voi procureresti di guadagnare con le buone, sempre qualcun’à Dio. Che è quello che da Voi desidero per contracambio d’Amore. Ne crediate ch’io confidi in Fra Alessandro Maria? Ma cerco di farlo ritornare a Dio per mezzo de’ Giesuiti. Però a Voi do questo assunto, che esortiate il detto Fra Alessandro Maria da mia parte, che accetti questo dono ch’io gli fò d’andar’insieme con il Padre fra Ottaviano e fra Christoforo da Lucca, a scuola del p. Rettore de Giesuiti, con starsene là per 25 . giorni incirca, all’obedienza sua, Esortandogli tutti tre a voler adottorarsi nella scuola del Signore talmente che possino poi adottorare gli altri. Basteranno questi 3 quali saranno spesati là, e se pur fra Cristoforo o fra Alessandro Maria non acconsentissero, trovare uno scambio come Fra Rodolfo o più tosto Maestro Eliseo, e rimasto d’accordo, andrete subito dal P. Rettore de’ Giesuiti, e direte esser mandato da me per ordine del lor Reverendissimo Generale acciò voglia fa charità d’incaminar tre de nostri Padri ne santi esercitij dell’oratione, e rimasto d’accordo del giorno; (che vedrete sia quanto prima) subito manderete i detti padri. Tornato il padre Fra Ottaviano potrà esser buon Maestro dei Novitij, propagando la dottrina apparata, così faccino Maestro Eliseo e Fra Christoforo da Lucca, concedendo il P. Priore a dua o 4 per volta, che possino star ritirati, come se fossino in Villa. Potrà anco bastare che vadano a’ Giesuiti dua soli, e siano fra Ottaviano e Maestro Eliseo [in margine: «forse 3 il p. Fra …»]. Salutate prima dolcemente il padre Fra Ottaviano con dirli ch’io approvo il suo parere, com’intenderà. Ma per carestia di tempo e di scrittore, non gli do per hora altra risposta. E per la medesima ragione non scrivo al mio caro scrittore, quale aspetto come cara sposa. Però gli direte che a’ 14. del presente sarò a Montefiascone, a’ 15. in Acquapendente, a’ 16. a Castel della pieve, a’ 18. a Orvieto, a’ 20. a Todi, a’ 25. a Loreto, a’ 28. Ancona, a’ 2 di Maggio a Urbino, a’ gli 8. a Cesena, a’ 13. a Faenza, a’ 16. a Bologna. Così direte al p. Priore e a chi voglia scrivere. Per conto degli offitiali costì del Convento scrivo al p. Priore il mio parere, sia severo, adomesticatevi ancora con il p. Reggente si forte lucrifaceres ipsum, potens est Deus quod rogo semper vobiscum. Salutate il mio compagno Fra Deodato e aiutatelo dove bisogni. Di Viterbo. A gli XI. D’Aprile 1598 di Vostra Paternità Molto Reverenda buon fratello F. Angelm.a Generale de’ Servi i) Urbino, 3 maggio 1598 Molto Reverendo Padre Maestro Havete havuto occasione, quanto sono state maggiori le difficoltà, di mostrare anche maggiormente la prudenza vostra, così procurate di fare sempre , et a tutte vostre forze giovare a cottesto Convento che non si mancarà dal canto nostro di fare le provisioni che Voi accennate, et in particolare di mandare frati più presto che si pottrà, et in ordinare al Padre Maestro Giulio che se ne stia al suo Priorato. Di Maestro Zaccaria ho sentito consolatione che si riduca al bene, ma la prova si è giudicato sia bene farla altrove, come a lui si scrive. Saluterete quella devota Capuccina, pregandola a scusarmi, se non si rimanda a Fiorenza così presto il Padre Baccalauro Pietro, perché per hora non si giudica bene, e preghi lei di gratia il Signore, e per lo stato nostro, perché amandoci lei e governandosi con charità ha da procurare il nostro bene. Mi rallegro della buona compagnia che vi fanno quei Padri, e perseverando havranno da noi ogni debita sodisfattione ma bene havrei caro che duo dei nominati andassero, come sapete, ai Gesuiti, et fra loro havevo eletto il Padre Fra Alessandro Maria parendomi ch’egli di più di molti altri n’havesse bisogno, et è da me molto amato. Al bisogno de Romiti e forza per hora provedere, e per lo avvenire si darà qualche ordine; Vi si rimanderà il Breve in buona forma; e fratanto ci raccomandiamo assai alle vostre orationi. E lo scrittore vi saluta tanto tanto. D’Urbino il dì 3° di Maggio 1598 Di Vostra Paternità Molto Reverenda buon Fratello F. Angelm.a Generale de’ Servi l) Cesena 8 maggio 1598 Molto Reverendo Padre Maestro. Rallegromi d’intendere, che fatichiate volentieri, e che speriate molto frutto per buona dispositione, e rispondenza di cottesti Padri, ond’io anche prometto di darne ogni aiuto, e conforme al desiderio vostro, si come già di molto particolari aviso il P.Priore, ma perché desidero che la vostra fatica sia con perseveramza, parmi di moderarla in contenervi massime di legger logica, perché pur troppo havrete che fare intorno alla Sacra Scrittura e nello insegnare a cottesti Giovani, e Voi ben sapete che pluribus intentus. Del Padre Fra Francesco da Lucca lodo per più rispetti, che sia posto alla Madonna di Cascina e già l’ho fatto raccomandare al Priore, et Reggente. Di Fra Zaccaria da Genova ho tanto caro che resti costì, e seguiti nell’offitio, che fuor di modo dolerei, se altrove o in altro fosse occupato tenendolo io come uno de’ capi principali di cottesto Convento nella vera osservanza, al qual fine mi contento che venga a Fiorenza quel giovane da Racconisio, che stantia in Pistoia, però direte al P. Priore costì, che lo chiami in nome nostro, se però egli è disposto a ben fare, come dite Voi, ma venendo lui a Fiorenza facciate avisato il P. Provinciale di nostro ordine. Così direte al P. Priore, che da nostra parte licentij quelli che sono stantiati altrove, e in particolare dica al P. Maestro Giulio che vadda al suo Priorato; e per le parole male usate al P. Priore di Cortona Maestro Arcangelo299 non ritorni a Fiorenza senza nostra particolare licenza, sotto pena maggiore allo arbitrio nostro. Direte al Padre Maestro Eliseo, che non ho tempo di rispondere alla sua, ne m’occorre dirgli altro, che essortarlo come faccio all’andare a starsi parecchi giorni con quei Padri Gesuiti insieme con il Padre Baccalauro da Cortona, a’ quali per al presente non conosco potter fare maggior beneficio, ma quando non potessino così hora, che pur credo meglio quanto prima pottete Voi in nome loro avvisare il Rettore di detti Gesuiti del tempo, quando andaranno et io poi tornato a Fiorenza in questa state dei detti due nostri Padri mi offerisco scolare; fra tanto ho diffeso il Padre Baccalauro da Cortona appresso il Provinciale però posi l’animo dal querelare altrui, et in santa pace procuri unirsi a Dio; così farete voi ogni dì con maggiore studio facendomi partecipe delle vostre fatiche, e mi vi raccomando. Di Cesena il dì 8 di Maggio 1598 Di Vostra Paternità Molto Reverenda buon Fratello F. Angelm.a Generale de’ Servi m) Genova, 23 giugno 1598 Molto Reverendo Padre Maestro mio. Salute Non dubitate, né diffidate nell’osservanza della riforma, perché, chi dette forza al giovanetto David contro al bravo gigante Golia, la darà anco a noi. Fate pur quore a’ chiamati da Dio, e massime a quelli, che da Capitolo [o “Capodanno”?] in quà sono costì venuti; con dire che: Verrà il Desiderato300 e non passerà troppo che senza timore dei nemici serviranno il Signore. Rallegromi de i due nostri Padri, che sono stati all’esercitio de’ Padri Giesuiti, et aspettone frutto ne gli altri; che pure desidero conversione, e salute in tutti . Habbiamo ordinato al P. Provinciale che faccia sapere a tutti, come le cose appartenenti a’ Padri Priori, e Provinciale prima siano trattate da loro, et a noi non vengano se non per modo di appello, come quando manchino nell’Offitio loro. Riceverò nondimeno volentieri ogni vostro aviso, sperando, che solo da buon zelo siate mosso. Attendete alla cura de’ vostri Giovani con le lettioni delle sacre scritture, e sante virtù, e per far questo procurate la sanità e raccomandatemi per mille volte a quella divota Cappuccina con dirli, che gratissimi mi sono stati i suoi saluti, e che di me si ricordi nelle sue orationi; tanto vi prego a far ancor voi. Con che da Nostro Signore Iddio vi supplico vera allegrezza. Di Genova a dì 23. Giugno 1598. Di Vostra Paternità Molto Reverenda Come Fratello F. Angelm.a Generale de’ Servi n) Ferrara, 3 agosto 1598 Molto Reverendo Padre Maestro Grandi sono i rumori ch’escono di cotesto Convento per tutta la Città, e fino a Roma, ma maggiori assai erano i pericoli e travagli e persecutioni della Chiesa del Signore figurata però in una piccola barchetta in mare combattuta da contrarij venti, e voi nondimeno temete, vi avilite e diffidate, e non vi ricordate delle promesse del Signore quando diceva che le porte dell’inferno non prevarranno301. Si dice che voi co’l Priore e F. Cosmo, e pochi altri volete farvi padroni di cotesto 299 Arcangelo Giani. Ag 2, 7. 301 Mt 16, 18. 300 Convento, et iscludere tutti i Fiorentini e che quelli che fanno i Riformatori, hoggi, hieri, e maggiormente prima sono stati i più infami, e che io gli favorisco, e credo troppo senza far prova, concedendo che si faccia di voi come da Frati de’ Tovoli. Ho risposto all’illustrissimo Protettore dò ordine che sia fatto capace della nostra intentione il Gran Duca, e quà darò conto delle mie attioni, e mi rendo sicuro, che tanto migliore e maggiore effetto haranno le sante ordinazioni quanto con maggior contraditione saranno differite. Fra tanto state forte voi, e unito nel Signore, eshortate il P. Priore alla patientia, all’humiltà, e penitenza: così Fr. Cosimo da Siena non bravi, ne contenda, ma con humiltà perseveri in ben fare. I PP. Maestri de Novitij, et Professi gli mantenghino soprattutto nella mortificazione, e divotione, ma sopra tutto vedete di fare buona esshortatione a Fra Paolo Organista nella vita religiosa, se credete giovare, perché con mio molto dispiacere da più d’uno intendo, ch’egli molto licenziosamente vive. Il P. Sotio di Mantova è rimasto nella sua provincia per bisogno di quella. Harei caro haver quella [?] lettera che avisa Fra Giuliano di Maestro Basilio, e Maestro Romulo, e questo è quanto m’occorre in risposta di molte vostre ricevute quì in Ferrara, dove credo stare fino fatta la festa della B. Vergine a mezzo lo state per esser da Voi almeno al principio di settembre, quando dovrà esservi il P. Predicatore Maestro Angelo dal Borgo. Attendete alla cura di cotesto Convento e della pace più che potete. Salutate tutti i buoni in particolare il mio compagno Fra Deodato. Siate co’l P. Priore , e il Signore con voi. Sopra tutto raccomandatemi alla devota vostra Suor Angela Capuccina, avisandola, che sarà presto costì Suor Monica nel tornar d’Ascisi e vorrà veder l’Annunziata. Di Ferrara a’ 3 Agosto 1598 Di Vostra Paternità Molto Reverenda come Fratello Fra Angelm.a Generale de’ Servi o) Ferrara 26 agosto 1598 Molto Reverendo Padre Maestro. Grandemente mi è piaciuta la vostra, nell’intendere il vostro buon desiderio anzi il risoluto animo vostro di voler servire a Dio: Dio che ha dato il volere darà anche l’operare302. Dirò bene, che altro Maestro che me, dovete imitare. O come havete la mira bassa, nel guardare a me: mille e mille volte più di me alto vi desidero, ma vorrei ben’anch’io, almeno poi, di debita servitù a Nostro Signore non esser dietro a voi. Onde vedendomi dal gran carico, che indegnamente tengo, molto impedito, vi dico come in segreto, che già parecchi giorni stò in gran pensiero di rinunciare a Sua Santità il sigillo. Domani, o doman l’altro anderà Sua Santità a Bel Riguardo lontano da Ferrara dieci miglia, anderò poi là ancor’io per abboccarmi seco, e concludere più cose. Fratanto il Procuratore dell’Ordine ha avuto il torto di quanto pretendeva contro di me, e ne vedrete presto scrittura per mano de’ Reverendissimi Riformatori, e confirmata dall’Illustrissimo Viceprotettore, il Cardinale Camerario. Voi nel digiuno del Mercoledì, e altre nuove penitenze misurate le vostre forze, che sicome non dovete spender manco del talento datovi, a honor del Signore, così ne senza quello dovete arrogarvi. Se Fra Cosimo da Siena fa davero, come dite, in servir Idio, sarà anco da Dio, e da me favorito davero. Di Fra Michele non credo così facilmente, si perché n’ho grandi instanze del tempo passato, e del presente, per molti debiti, che si trova, che bisognerà m’adiri seco del non sodisfare. Perseverate voi, e in pregar Idio per noi. Di Ferrara, alli 26 Agosto 1598 [...] 302 cf. Fil 2, 13. p) Bologna, 6 ottobre 1598 Molto Reverendo Padre Maestro Poi che il vostro Priore fuggendo la scola se ne sta al monte, dico a voi, che ci rincresce non esser venuto costì il Predicatore mandato da noi: ma se non sarà venuto all’arrivo nostro, con noi sarà che faccia il debito; e dovendo la nostra venuta esser fra pochi giorni non occorrerà di questo né d’altro più scriverci. Ma fratanto, se passi di costì il Baccelliere Aurelio da Perugia gli direte, che resti, e ‘l Padre Reggente lo tenga in numero de’ suoi scolari. A bocca poi sodisfaremo a quello, che più si desideri. Pregate intanto per noi, che ci conduca a salvamento. Di Bologna a’ 6 Ottobre 1598 Di Vostra Paternità Molto Reverenda Come Fratello F. AngelM.a Generale de’ Servi q) Bologna, 15 novembre 1599 Molto Rev. Padre Maestro Ci ricordiamo che essendo voi Maestro de’ Novizi in Firenze foste inventore d’una compagnia intitolata dell’humiltà, dove ciascuno a gara del compagno s’affaticava d’essere più humile; vediamo tale compagnia, o Accademia esser molto necessaria costì, però haremo caro la proponessi al Padre Priore, e mandasti in esegutione; e tanto più che siate de Primi, e de’ scielti fra l’altri che habbino accettato la Riforma, però è anco dovere che siate de migliori. Habbiamo fatti 4. altri Conventi osservanti, e speriamo bene di qualch’un’altro, prima che arriviamo a Firenze, dove saremo in breve, e nel distribuire le Prediche haremo caro accomodarvi, che è quanto ci occorre. Non vi scordate di noi nelle vostre orationi.[…] Di Bologna li 15 Novembre 1599 Di Vostra Paternità Molto Reverenda Come fratello F. AngelMaria Generale de’ Servi r) Firenze 10 dicembre 1599 Molto Reverendo Padre Maestro: Salute Io mi rallegro sommamente che insieme con cotesti altri Compagni facciate profitto nella santa humiltà, et acciò chè haviate occasioni di far acquisto in una Virtù tanto grata a Dio, vi mando la Patente d’una Predica humile, qual’è quella di S. Godenzo. Affaticatevi, e infervoratevi più che mai nel servitio del Signore, qual un’altra volta, vi provederà di meglio. Salutate cotesti Padri e pregate Iddio per me. Di Firenze alli 10 di Dicembre 1599 Di Vostra Paternità Molto Reverenda come fratello F. AngelMaria Generale de’ Servi Dite al p. Fra Arcangelo che il Priore di Bergamo Risponde che manda i duoi scudi, ma si duole di lui, che con molta negligentia curassi la Chiesa, e che sia stato dua o 3 giorni in Bergamo senza tornare al Convento però si humilij. s) Roma, 12 gennaio 1600 Molto Reverendo Padre Maestro, Scrissi non esser bene vender’ o barattare i libri, finché non venga evidente necessità. Mi contento pigliate i libri di costì con licenza in scritto del Priore. Mi contento concedervi i miei casi, e in convento dovriano esser duoi de’ migliori che gli avessino. Fra Archangelo da Udine non deve venir quà, che non solo il Provinciale di Venetia se ne duole, ma l’Accarisio ancora dell’altra volta che fu quà sagrestano se ne ricorda. Con che ci raccomandiamo alle vostre orationi. Di Roma li 12 Gennaio 1600 Di Vostra Paternità Molto Reverenda come fratello F. AngelMaria Generale de’ Servi havevo pensato mandarvi predicatore a Ferrara, ma per buon rispetti mi ritengo, per questa volta giudico meglio a Voi la Badia. andate dunque e giunto in Firenze contentatevi che i vostri libri che havete in Firenze si mettino nella libreria del dormitorio, che potrete poi ripigiargli ogni volta. In alto, a sinistra, sul retro del secondo foglio: Al Molto Reverendo nostro come Fratello Il Padre Maestro Serafino da Firenze. Arezzo S. Pietro t) Roma 18 gennaio 1600 Il mio scrittore303 si è rissoluto sì per servirmi, come anco per qualc’altro suo interesse, non volere andare a Predicare; Però la sua Predica che è Soragna la diamo a’ voi; è luogo honorato, dove habbiamo buon convento, e siamo amati da quell’Illustrissimo Marchese, quale visiterete in nome nostro, e da lui harete buonissime spese tutta la Quaresima e se si potrà, daremo ordine a quel Priore che vi mandi la cavalcatura fin’à Bologna, andate volentieri poiché così vi chiama il Signore, e pregate per noi. Di Roma, lì 18 Gennaio 1600304 Di Vostra Paternità Molto Reverenda Come fratello F. Angelaria Generale de’ Servi P.S. dell’amanuense Vostra Paternità vadia, e mi creda che è buonissima Predica. Il P. Provinciale di Romagna l’ha cerca con grandissima istanza, e voleva più presto questa [?] che Ferrara. Scrivo [?] di cuore. La raccomanderò io a’ quel Priore che è l’anima mia. Fra Paol’Emilio Scrittore Sul retro, nel centro di traverso Al Molto Reverendo Padre come Fratello Arezzo S. Pietro piccolo 303 304 Il segretario è fra Paolo Emilio Panvini da Cremona, baccelliere nel 1600 e maestro nel 1603. Muore nel 1635. È l’ultima lettera che ci resta del Montorsoli, scritta un mese prima della sua morte. 9. Lettera a fra Arcangelo Giani, priore di Cortona edizione: B.M. DOMINELLI, Epistolario del Venerabile P. Angelo M. Montorsoli (1547-1600), “Studi Storici OSM”, 8 (1957-58), p. 130 Molto Reverendo Padre Priore, Volentieri ho letto, che la vostra Vicarìa nella Provincia di Romagna sia stata di sodisfatione agli huomini, sperando che non meno sia piaciuta a Dio, ond’ancor io ne resto appagato, e con buon desiderio di rendervi abondante contracambio di tutta l’opera vostra. Della morte del Padre Procuratore del’Ordine, qual harete inteso, non mi son rallegrato, ma bene ho ringratiato il Signore, quasi d’havermi levato ostacolo nell’osservanza della Riforma, pensandomi anco che tal santissima dispositione sia stata per il suo meglio. Duolmi che siate così legato voi costì col Reverendissimo Monsignore, che volentieri mi sarei servito di voi in scambio suo, la dove vo’ dissegnando del Padre Maestro Giovan Battista da Pisa. Sarà ben avisare quelli del Cavallo, del Procuratore dell’Ordine che mandino le sue ragioni al Priore di Perugia, overo al Provinciale di Roma, facendo a noi instanza per lettera, acciò non ci molestino poi, quando meno fussi il commodo di sodisfargli. E voi siate più diligente del passato, costì nel vostro Convento in fare osservare il deposito e gl’inventarij, particolarmente intorno al vostro Vicario, informatevi del P. Procuratore di certo grano venduto, e dell’haver ritenuto i danari. Se non mostra d’essere stato necessitato di vendere, in assenza del P. Procuratore, e massimamente ritenendosi i danari, lo punirete come Proprietario. Che è quanto per hora ci occorre, governatevi, e pregate il Signore per noi. Di Capua li 21 Maggio 1599 Di Vostra Paternità Molto Reverenda Come fratello F. AngelMaria Generale de’ Servi Dalla Lettera spirituale edizione: R.M. TAUCCI, La Lettera Spirituale del Ven. Angelo M. Montorsoli (1596), Roma 1935 Conviene dilatare e allargare il cuore con risolversi non solo di seguitare, ma di voler condurre a fine e intera perfezione la fabbrica della torre evangelica e di voler non solo combattere, ma avere onore e vittoria dalla guerra di questa nostra vita. Resistendo fortemente al demonio, combattendo la buona battaglia e terminando la corsa305. E però risolversi a voler essere del Signore totalmente e fare la volontà sua interamente, per quanto valgano le nostre forze. Ma pertanto, levar la mente al cielo e supplichevolmente dimandare il divino aiuto per essere capaci della verità e renderne al Signore gratissimo odore di debita servitù: a guisa di quella conchiglia marina, che per generare le perle, innalzata sopra le acque, si apre e dilata a ricever la rugiada e l’influsso celeste. Lettera spirituale, p. 58. 305 cf. 1Pt 5,8; 1Tm 6,12; 2Tm 4,7 Gesù Signor Nostro deve essere ferma regola di ogni nostra riforma, e ordine invariabile di tutta la nostra vita […]. Nell’esser con lui consiste la nostra perfezione e beatitudine, sicché chi più gli si accosta e più s’unisce, più è perfetto e beato. In questa vita si fa l’unione principalmente col pensare a lui, col desiderarlo e amarlo […]; ma nell’altra vita si farà per chiara visione e perfetta fruizione […]. E tale beatitudine del cielo si acquista per mezzo di quella di questo mondo, che è la via dell’amore; onde beato si dice chi in questa vita in altro non studia che di sempre meglio servirlo. […] I claustrali per rispetto al voto di religione sono più degli altri obbligati di anelare alla perfezione […]. Né qui può mai appagarsi alcuno, in presumersi d’essere arrivato al termine della perfezione, che però non gli occorra più affaticarsi in maggiore acquisto; perciocché è infinito il tesoro delle virtù e delle ricchezze spirituali; onde deve rallegrarsi grandemente ogni devoto, di potere ogni dì più che vive, farsi sempre più ricco. Lettera spirituale, p. 61-65. I Santi vivevano in grandissima parcità, mortificando la carne continuamente con digiuni, vigilie e discipline e in particolare S. Paolo diceva: Castigo il mio corpo e lo riduco in schiavitù306 […]. Per più piacere a sua divina Maestà prima purificavano e mondavano la mente e il cuore in loro stessi, perché: È un abominio al Signore il cuore perverso307; poi verso il prossimo, perché: È in abominazione dinanzi al Signore la stadera falsa308, quando cioè si giudica sinistramente. Nelle parole non solo fuggivano ogni sorta di bugia […]; ma le favole, le burle, i motti da ridere e ogni parola oziosa totalmente detestavano, per troppa dannosa perdita del tempo, e perché di tutto se ne ha da rendere a Dio minutissimo conto. Anzi perché nessun’altra cosa tanto dissipa il cuore, lo spirito e la devozione quanto il superfluo parlare, e perché in nessuna altra cosa sì gravemente e irreparabilmente si offende, quanto con la lingua […], tutti concordemente osservavano inviolabile silenzio, avendone ordinate più gravi penitenze a chi l’avesse interrotto, che per ogni altro dei comuni errori. […] Ma soprattutto studiavano i Santi nell’astinenza e parcità del vitto, sapendo che un nostro gran nemico è il proprio corpo, il quale tuttavia più ci offende e più ci nuoce, quanto più si accarezza. Lettera spirituale, p. 89-95. Poiché non ci è rimasto signoria o padronanza di cosa alcuna, essendoci spodestati sin della nostra volontà, ne seguita che a noi religiosi non è lecito cercare o procurare onori o dignità, né offici […] nonostante che, per la stessa causa dell’obbedienza, sia cosa santa l’accettare gli offici da parte di chi si conosca esserne abile, quando ne venga comandato. […]. Ma principalmente non ci è lecito, perché dobbiamo conformarci come membri al nostro vero capo Cristo il quale non venne per essere servito, ma per servire309. […] Anzi apertamente diceva, che chi avesse cercato d’essere il primo tra gli altri, sarebbe stato l’ultimo. Lettera spirituale, p. 107-109. Coll’esempio del Santo dei Santi Cristo Signor Nostro, il quale dopo il miracolo della moltiplicazione dei cinque pani fuggì al deserto per non essere fatto re, s’intende manifestamente da’ veri e buoni religiosi doversi fuggire tutti gli onori di questa mortale vita. Chi dice di stare in Cristo, deve esso pure camminare come egli camminò310. 306 1 Cor 9, 27. Pr 11, 20. 308 Pr 11, 1. 309 Mt 20, 28. 310 1Gv 2, 6. 307 E questo si persuade facilmente a chi considera il carico e l’obbligo grande dei superiori e il grandissimo pericolo nel quale si trovano […]. E chi può dubitare di questo, considerando essergli commessa la cura di quelle anime che costano sì care al Signore, che tanto l’ha stimate, che l’ha preferite al suo preziosissimo sangue? […] Le fatiche fatte dall’istesso Nostro Signore nella cura degli Apostoli e Discepoli suoi, le vigilie delle notti intere spese in orazione insegnano ai superiori non dover dormire tutti i loro sonni, non dover perdonare a fatica, ma con le ginocchia principalmente dover governare, perché se la casa non l’edifica il Signore, faticano invano coloro che l’edificano311; e finalmente avendo il Signore stesso data l’anima sua per le sue pecorelle, chi è quello che ardisca mettervi le mani a pigliare tanta impresa, se non chiamato come Aronne? Lettera spirituale, p. 111-114. Considerate bene questo errore di aver altro fine che Dio nel fare i superiori, perché non par nulla a chi non avvertisce, nondimeno è di Dio grandissima offesa. Ricordatevi quando i principali del popolo d’Israele convennero a chiedere un re che li governasse come avevano gli altri popoli, quanto a Dio, che li governava dispiacque, dicendo al suo profeta Samuele: hanno rigettato non te ma me, perché io non regni sopra di loro312. Il convenire dei vocali fra loro a fare il superiore per rispetto umano, è maggiore peccato di quello; perché loro solamente chiesero il re e accettarono quello che gli fu dato, ma costoro convengono ancora a farlo. E che altro è questo se non il peccato dei medesimi Ebrei, quando mentre camminavano alla terra promessa, vollero farsi un capo per ritornare in Egitto313? Così fanno quelli che per lor comodo temporale nelle elezioni favoriscono più uno che un altro; e insieme si scoprono infedelissimi servi di Dio, perché avendo promesso molto prima a lui, e a lui essendo obbligati di operare solo per amor suo e non voler altro premio di quello che gli darà lui, voltano l’animo a dove sperano debolissimi favori e soddisfazioni: agli e cipolle d’Egitto314. Lettera spirituale, p. 116-117. Tutti fratelli, ma tutti Re: voi siete stirpe eletta, sacerdozio regale, gente santa315. Sotto questo nome di Re, nella S. Scrittura molte volte parla il Signore a tutti, […] per avvisarci che siamo tutti come re nel governo di noi medesimi e ciascuno di se libero. La sola relazione di Dio, vero padre nostro, facendoci tutti fratelli è bastante a contenerci insieme in ogni sorte di caritativo servizio. Però ogni altro rispetto tra noi non solo è superfluo, ma anche dannoso; onde lo stesso Nostro Signore distintamente ci avvertiva a lasciare le conversazioni del mondo, le amicizie e perfino i parenti […], perché in tal modo si fa libero e re il cristiano. Lettera spirituale, p. 122-123.. Sia la nostra prima impresa intorno alla santa umiltà, sì perché è fondamento delle altre virtù, senza il quale tutte sono come polvere al vento e come alberi senza barbe che presto secchi cadono; sì anche perché a noi Servi della Beata Vergine singolarmente si conviene. Prima, come Servi nei quali è debita, non essendo cosa più mostruosa quanto un servo e un povero esser superbo; dipoi e molto più, come Servi di Maria Vergine, non tanto perché tal servitù importa nobiltà, con la quale è lodatissima l’umiltà, quanto che per debita sequela e imitazione; che se Lei ha trovato grazia 311 Sal 126, 1. 1 Sam 8, 7. 313 cf. Nm 14, 42. 314 cf. Nm 11, 5. 315 1Pt 2, 9. 312 dinanzi a Dio316, per l’umiltà sua, avendo ella detto: ha rivolto lo sguardo alla bassezza della sua serva317, di questo mezzo prima che d’ogni altro dobbiamo noi valerci. Lettera spirituale, p. 159-160. Cristo ha posto la sua vita per noi, e anche noi dobbiamo porla per i fratelli318. Precetto comune a tutti, sebbene di maggior obbligo pei Superiori, onde S. Paolo, nostro particolare dottore, in negozio così importante ne dà mille bei documenti, come in particolare avvertendoci, che tutti noi cristiani siamo come un sol corpo, di cui Cristo è capo e noi membra, e che però dobbiamo essere in aiuto l’uno dell’altro, come fanno le membra del corpo, quando una mano lava l’altra e tutte due insieme lavano il viso […]. L’istruire e l’ammaestrare altri nella via del Signore è maggiore opera che illuminare i ciechi e dar vita ai morti […]. Nondimeno da noi, fra noi, quanto all’emendazione della vita, non si fa efficacemente questa carità. Lettera spirituale, p.199-200. Il vivere in comune come facevano gli Apostoli per noi è essenziale non meno che all’uomo l’esser razionale, onde siccome tolta all’uomo la forma sua essenziale, che è l’anima ragionevole, egli non è più uomo, così tolta a noi la povertà che è vivere in comune, non siamo più noi, siamo un’altra cosa, non siamo frati, non siamo Servi di Maria, del cui ci gloriamo, né siamo di Dio, quanto alla porzione del Paradiso, finché manchiamo a lui della nostra promessa; sebben siamo di Dio nel numero dei nemici e ribelli suoi. Lettera spirituale, p. 211. Tra tutte le ragioni che ci muovono ad amarci insieme, quella deve essere principale, che il Signore ce lo comanda […]: Questo è il mio comandamento, che vi amiate gli uni gli altri319; perché sappiamo ci dà l’esempio: Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate a vicenda come io vi ho amati320; acciò possiamo farlo, ci dona lo Spirito Santo e l’abito della carità: «Sulla terra è dato lo Spirito Santo perché il prossimo sia amato», dice sant’Agostino; acciò vogliamo, ne promette premio: Noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli321; acciò non manchiamo, ne minaccia supplizio: chi infatti non ama rimane nella morte322. E per più sollecitarci stabilisce l’amor del prossimo per proprio segno, di farne conoscere per suoi buoni discepoli: In questo tutti conosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni verso gli altri323. Lettera spirituale, p. 232-234. Come figli di una famiglia il cui padre ha bisogno della cooperazione di tutti per provvedere ai bisogni di ciascuno, anche noi dobbiamo lavorare e non starcene oziosi, ma sempre affaticati nella vigna del Signore fino all’ultima ora. […] Onde chi adesso è sollecito in provvedere ai suoi piccoli comodi, molto più dovrà sollecitarsi in beneficio comune, per più giovare, conoscendo che in tal 316 cf. Lc 1, 30. Lc 1, 48. 318 1Gv 3, 16. 319 Gv 15, 12. 320 Gv 13, 34. 321 1Gv 3, 14. 322 1Gv 3,14. 323 Gv 13, 35. 317 modo avanza per se l’infinito premio del Paradiso. Altrimenti cadrebbe in maggior errore, perché mancherebbe di carità, non volendo affaticarsi per il prossimo, stimando il premio eterno meno del corporale. Anzi sarebbe similmente come proprietario, trattenendosi dal comunicare le sue virtù e il suo sapere, i quali, essendo posti da Dio nell’anima sua non punto meno che la bellezza e grazia nei fiori, deve anche, non con minore liberalità degli aperti fiori, manifestarle […]. Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio degli altri, come buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio324. Lettera spirituale, p. 272-274. Quello che ci aiuta grandemente è la continua meditazione e la frequente lezione della S. Scrittura e dei libri spirituali, perché ci toglie dal mondo, ci unisce a Dio; avvengaché quando non si gode della conversazione comune, tanto più si partecipa del divino aiuto […]. Così vivendo solitario e facendo vita ritirata, nel picciol momento che in questo mondo per far penitenza si concede a noi, l’uomo fatto libero di se stesso, solo Dio conosca per suo Padrone e Signore. Lettera spirituale, p. 323-324. 324 1Pt 4, 11. V. Paolo Sarpi Accolto nella comunità di S, Maria dei Servi in Venezia – convento appartenente alla Congregazione dell’Osservanza dei Servi - il 24 novembre del 1565 –a meno di tredici anni e mezzo - vi rimane per quasi tutta la vita e qui muore agli inizi del 1623. Tra i compagni del Sarpi la Vita del Micanzio menziona il m° fra Benedetto Ferro, che lo ricorda così: «tutti noialtri a bagatellare e fra Paolo a’ libri»325. Ebbe come insegnante fra Gianmaria Capella da Cremona326, che lo iniziò agli studi di filosofia e di teologia e lo seguì durante il noviziato. Per le notizie relative alla vita e alle opere del Sarpi cf. sezione Fonti documentarie e narrative di questo volume. Qui si ricorda soltanto che dal 1579 al 1588 fu al servizio dell’Ordine, come priore provinciale della provincia di Venezia, estesa allora dalla Lombardia al Friuli - in tale veste partecipò al capitolo generale di Parma, (1579) dove venne inserito in una ristretta commissione di frati incaricata della revisione delle costituzioni – e poi come procuratore generale (1585-1588)327. Dall’estate del 1588 il Sarpi trascorse il resto della sua vita nel convento veneziano. Nel 1602 iniziano relazioni epistolari con Galileo. Il 28 gennaio 1606 viene nominato teologo canonista della Repubblica. La risposta del priore generale Ferrari alla richiesta di “licenza” per assumere un tale compito apre un interessante spiraglio sulla vita del Sarpi come frate: «Ci hai comunicato per lettera di essere stato eletto di recente teologo della Serenissima Repubblica veneta e di non volere, tuttavia, porre in atto quest’incarico così importante senza il nostro assenso e la nostra benedizione. Noi dunque, cui è stato graditissimo che a te e al nostro Ordine sia conferito il massimo grado di dignità e di vantaggio, con la presente lettera ti concediamo il permesso di accettare il compito che ti è stato affidato e di esercitarlo liberamente, senza alcun fastidio da parte di qualsiasi nostro inferiore, di modo che, tuttavia, tu rimanga soggetto, per tutto il resto, come uno della famiglia, al superiore locale. Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo: amen. A garanzia di quanto è stato detto abbiamo fatto redigere quest’atto e ordinato di segnarlo con il sigillo del nostro ufficio, con l’approvazione di nostra mano»328. In occasione dell’interdetto (17 aprile 1606) il Sarpi è citato a comparire a Roma; il 25 novembre risponde di essere pronto al giudizio ma in luogo sicuro. Il 5 gennaio 1607 il Sant’Uffizio emette contro il Sarpi la scomunica “latae sententiae”. Il 5 ottobre cinque sicari tentano di ucciderlo presso il ponte di Santa Fosca; viene colpito da tre pugnalate, due al collo e uno alla tempia destra329. Il 27 ottobre il Senato promulga una legge in protezione della vita del Sarpi. Dopo l’attentato del 1607, declinò – secondo la Vita – l’offerta di «una casa a San Marco, ove potesse habitar sicuramente»: «il padre fu risoluto di non mutar il suo instituto di vita e supplicò di poter vivere in monasterio tra’ suoi frati, co’ quali haveva sin a quella età vivuto, asserendo ch’egli mai non havrebbe saputo vivere altrimenti, essendo quella la sua vocazione»330. In questo periodo entra in corrispondenza con personalità della cultura europea. Nel 1608 stringe amicizia con il riformato William Bedell, cappellano dell’ambasciata inglese. Nel settembre dello stesso 325 Vita del Padre Paolo, nuova edizione a cura di D.M. Montagna, Milano 1997, p. 42 B. ULIANICH, Capella, Giovanni Maria, in Dizionario biografico degli italiani, 18, Roma 1976, p. 474-476. Il Capella entra ancora adolescente nella Congregazione dell’Osservanza, di cui è eletto vicario generale nel 1547, nel 1550 e infine nel 1570, nell’ultimo anno di vita della Congregazione. Muore nel 1585 o 1582 . Autore dello Scriptum luculentissimum de satisfactione Iesu Christi et satisfactione nostra (1551), e di un Opusculum de concordia nostrae verae libertatis ... (1557). 327 P.M. BRANCHESI, Fra Paolo Sarpi prima della vita pubblica (1552-1605). Appunti di ricerca, in Ripensando Paolo Sarpi, Atti del Convegno Internazionale di Studi nel 450° anniversario della nascita di Paolo Sarpi (2002), a cura di Corrado Pin, Ateneo Veneto, Venezia 2006, p. 45-72 328 “Licenza del generale de’ Servi [fra Filippo Ferrari] al padre maestro Paolo [Sarpi] di poter servire per theologo alla Serenissima Repubblica”, Venezia, Archivio di Stato, Consultori in iure, filza 454, codice sarpiano f. 81: “Studi Storici OSM”, 35 (1985), p. 172-173 329 Il pugnale, con cui il Sarpi fu ferito, venne poi posto «a’ piedi d’un crocifisso nella chiesa de’ servi, ove ancora si trova con l’inscrizione: “Dei filio liberatori”» (F. Mincanzio, Vita del Padre Paolo ..., ed. a cura di D.M. Montagna, p. 112) . 330 Vita del padre Paolo ..., ed. 1659, p. 114-115. 326 anno il calvinista ginevrino Giovanni Diodati giunge a Venezia attratto dall’eventualità di introdurvi la Riforma. Nel 1610 inizia la stesura della Istoria del concilio tridentino. Muore il 15 gennaio 1623. I brani qui riportati – tratti dalla Vita del Micanzio, da lettere e altri scritti - vogliono porre in luce la personalità del Sarpi come frate, teologo e politico. La licenza succitata, chiesta al priore generale prima di accettare l’incarico di “teologo della Serenissima Repubblica veneta”, la povertà, l’amore per la Parola di Dio, la sua morte totalmente abbandonata alla fede nel Crocifisso331, attestano la sua convinta adesione agli impegni religiosi assunti. La corrispondenza con personalità del suo tempo e i suoi scritti rilevano la visione che egli ebbe della chiesa e del mondo e lo stretto legame che egli concepì tra politica e teologia. Scrive a questo proposito Boris Ulianich: «L’interesse politico da parte del Sarpi è innegabile. Ma esso è [...] corollario incisivo, si potrebbe aggiungere, riprova nodale, della sua visione teologica. Quando l’umano, il politico, penetrano, nel corso della storia, nella Chiesa, opera e strumento della grazia, istituzione spirituale fondata per mediare la fede attraverso l’annuncio del vangelo e quindi la salvezza, si ha corruzione. Che è possibile riformare unicamente con il ritorno al vangelo, con il riprendere coscienza della propria missione originaria, assolutamente spirituale. Se si analizza senza pregiudizi l’orizzonte sarpiano, si potrà cogliere con estrema limpidità come la radice di ogni male nella Chiesa sia derivata da un graduale trapasso dallo spirituale al politico, che si è tradotto nella imitazione del regno mondano e nella volontà di avocare progressivamente a sé zone sempre più ampie di diritti, spettanti de iure divino – capitolo 13 della Lettera ai Romani – al Principe, allo Stato. [...] Ciò non significa in alcun caso che il Sarpi vagheggiasse un ritorno puro e semplice alla Chiesa primitiva. Egli sa bene che sulla terra, nella storia, non ci sarà mai una Chiesa perfetta». Ne è testimone la Chiesa di Corinto con i difetti e i limiti denunciati da Paolo; ma ciò che conta è il fondamento della fede, cioè la dottrina, come afferma 1Cor 3, 11: nessuno può mettere un fondamento diverso da quello che esiste, cioè Gesù Cristo. Perciò «la “doctrina fidei”, incentrata sul Cristo e la sua grazia, deve restare integra nella Chiesa. Questa è la prospettiva nella quale ci si deve collocare per cogliere in radice il giudizio di Paolo Sarpi sulla storia della Chiesa e sullo stesso concilio di Trento. Articoli di fede, o come tali imposti, che si trovino in contraddizione con quel fondamento e con la parola di Dio non sono vincolanti per il cristiano. E in questa ottica è considerata anche l’autonomia dello Stato. Con il principe che, riacquisendo ciò che è suo proprio per diritto divino, deve ridurre la Chiesa nel suo ordine»332. 1. «Vita del Padre Paolo ... » da Fulgenzio Micanzio, Vita del Padre Paolo (Sarpi) dell’Ordine de’ Servi e Theologo della Serenissima Repubblica di Venezia, Venezia 1658 edizione: Fra Fulgenzio Micanzio, O.S.M., Vita del Padre Paolo, prima biografia sarpiana, nuova edizione a cura di Davide M. Montagna, Convento dei Servi in San Carlo, Milano 1997. Dopo aver narrato i primi anni del Sarpi (1552-1570), l’ingresso nell’Ordine e i suoi primi impegni ecclesiali, il Micanzio ne pone in rilievo virtù e dottrina. I numeri tra parentesi quadre corrispondono ai paragrafi come sono indicati nell’edizione del Montagna. [15] Aveva fra Paolo a quella erudizione congiunta una integrità di costumi religiosi che, benché giovanetto, veniva onorato da tutti come un’idea di modestia, di pietà e di tutte le virtù cristiane e morali. Alcune cose pareranno paradossi, ma sono così notorie et hanno ancora tanti testimonii vivi 331 «Senza croce nessuno segue Cristo, per mezzo della croce ha inizio il regno dei cieli, per essa si accresce e giunge a perfezione» (lettera a Jacques Gillot, 2 marzo 1610) 332 Teologia paolina in Sarpi?, in Ripensando Paolo Sarpi, p. 90-92. che chi vorrà metterle in difficoltà, converrà aver posta in faccia la maschera dell’imprudenza, avvelenata la lingua dalla bugia e corrotto il cuore da maligna passione. Dicanlo i frati, dicanlo tanti senatori: mai fra Paolo è stato sentito giurare la fe’, mai una parola disdicevole, mai veduto in col(l)era. Non sono queste singolarità di questi ultimi tempi ch’è stato servitore della serenissima Republica di Venezia, ma queste et altre sono state seco dalla sua gioventù in tal perfezzione, che mai ebbe una correzzione publica, come è solito de’ religiosi, mai fu ripreso d’aver detto una parola indecente, né fatto un atto disdicevole. Rendeva gran maraviglia come in un giovinetto non eccedente ancora l’età di 22 anni fossero unite, et in grado così profondo, tante scienze, oltre le ordinarie de’ religiosi claustrali, che sono, dopo le lettere d’umanità, la logica, la filosofia, e teologia. Ma egli v’avea aggiunte la cognizione delle leggi, perfettamente delle canoniche e non mediocremente delle civili, le matematiche tutte, la medicina, la cognizione de’ semplici, dell’erbe o piante, de’ minerali e trasmutazioni loro, mediocre intelligenza di varie lingue, oltre la latina, la greca, l’ebrea e la caldea. La quale erudizione, ch’avrebbe avuto del mostruoso anco in una età provetta, dalla santità de’ costumi riceveva un tal splendore, ch’in quella quasi primavera faceva pronosticare qual copia e perfezzione di frutti si dovesse aspettare, s’avesse piaciuto a Dio conservarlo alle più mature stagioni. È vero che la sola cognizione anco di tutto quello a che l’intelletto umano può sollevarsi non fa l’uomo perfetto, benché lo randa ammirabile. Anco i demoni sono saputi et hanno del gran sapere il nome. Ma la bontà è quella che le dà forma; la pietà, la religione e le virtù dell’animo sono l’anima di questo corpo. [...] [35] Vi era un fra Giulio da Codogno, vecchio confessore, il quale per esser d’una bontà irreprensibile e con una semplicità nota a tutti, aveva molto concorso alle confessioni, con notabile emolumento d’elemosine. Questo, dall’istesso principio che fra Paolo entrò nella religione, sendo ancora confessore della madre, prese a custodirlo in quello ch’aspetta al vestire e spese de’ viaggi e de’ libri. Perché il padre, sin all’ultima età, mai ha voluto ch’un semplicissimo vestimento, si che, se fosse caduto in acqua, li conveniva star in letto tanto che quello si rasgiugasse. Mai ebbe alcun ornamento di camera, e così ha continuato sin allo spirare dell’anima, che con un mobile quadro d’un Cristo in orto, un Crocifisso con un teschio naturale umano al piede, come suo peculiare specchio, e tre orologi di polvere per misurare il tempo. Mai aveva danaro, se non quello ch’a la giornata gl’era necessario. E fra Giulio, sino che per estrema vecchiezza perché poi il vigore della mente, vestiva il padre poveramente secondo il bisogno. Egli riceveva dal monasterio quello che in luogo di vestimento gli toccava, e spendeva nelle sue necessità. Et in somma il padre non aveva avuto alcun pensiero sotto la cura del suo buon vecchio. Seguono gli anni in cui il Sarpi è priore provinciale e procuratore generale (1579-1588). [42] [...[ ritornato da Roma [1585] alla sua quiete et a’ suoi studii, tornò anco alle sue conversazioni virtuose e tutto il tempo che gl’avanzava da’ divini offizii (ne’ quali tutto ‘l tempo di sua vita fu sempre assiduo, quando da’ publici negozii non era impedito, non tralasciando però le sue divozioni private) lo spendeva ne’ libri. Scrisse in quel tempo alcuni suoi Pensieri naturali, metafisici e matematici, i quali dopo rivedendo, non ne faceva stima, e soleva dire: «Oh! che puerizie mi passavano per la mente». Et io son ben sicuro che vedendogli gl’uomini dotti, non le stimaranno puerizie. Il convento dei Servi diventa luogo di incontri e conversazioni di grande impegno. A tutti è riconosciuta libertà di parola e di espressione. [47] Fu il padre in tutta la sua vita di poco parlare, ma succoso e sentenzioso; arguto, ma senza pontura. Aveva però gusto grandissimo di far parlare altri, e con una desterità maravigliosa, alla socratica, si dilettava di far scoprir la gravidanza delle menti altrui. Et egli lo chiamava far partorire od aiutar a partorire. E nasceva questa desterità dall’esser non solo versato, ma consumato in tutte le dottrine; perch’egli poteva seguire ciascuno in quello ove più valeva: i medici nella medicina, i matematici nelle matematiche, e così nel rimanente. Et in qualunque il caso portasse il discorso, chi non lo conosceva, si partiva ciascuno persuaso che quella fosse la sua principal professione. E come s’abbatteva in persona eminente in qualche scienza et arte, con soavità inesplicabile l’interrogava del tutto, e cavava quanto fosse possibile , senza ch’egli mostrasse non pur importunità, ma n’anco curiosità molesta. Ma riceveva in particolare gran gusto in sentire quelli ch’erano stati per i luoghi, et oculatamente sapevano dare certa relazione de’ siti, de’ popoli, de’ costumi e delle religioni, avendo conceputo un desiderio inestinguibile di peregrinare. [49] [...] quanto a’ bisogni nessuno n’aveva, perché nulla desiderava, ricchissimo nella sua povertà, senza entrate, senza alcuna industria, ove avanzasse un sol danaro, senza alcun pensiero, lasciata ogni cura al padre Giulio, senza libri, se non accomodatigli giornalmente da amici grandi, che tutto leggeva e ne faceva nel suo intelletto la più gran libraria che havesse mai principe al mondo colla sua nudità della cella, col solo vitto tenuissimo che le somministrava il monasterio, ch’era per lui abondantissimo, astratto da tutte le cure de’ governi. Tutta la sua vita era in tre cose occupata: il servizio di Dio, i studii e le conversazioni. A quello era assiduo, non pretermettendo mai di trovarsi a’ divini offizii. A’ studii dopo l’orazioni private, dava tutta la mattina, che cominciava sempre avanti il levare del sole; ma il tempo pomeridiano era diviso ora in operazioni di sua mano, nelle trasmutazioni, sublimazioni e cose simili, o nelle conversazioni degl’amici, ch’erano i letterati et insigni personaggi di Venezia, e forestieri che vi capitassero. [72] [...] negl’anni seguenti, de’ quali parliamo, si vede che tutto s’immerse in quella sorte di studio che tutto versa in svellere i vizii dell’animo, a piantarvi o coltivarvi le virtù. Et in questo ha scritto tanti librizzoli che si portava addosso, con sentenze e documenti, così de’ più celebri antichi, come anco suoi proprii; che se mai verranno ordinati in luce si vedrà una raccolta di preziose gemme d’inestimabile valuta. Tre sole cose ho vedute elaborate alla maniera de’ piccioli opuscoli di Plutarco; una medicina dell’animo, in quale applicando gl’aforismi scritti per la sanità e cura del corpo alla cura e sanità dell’animo, ch’egli costituisce, per quanto pare, in stato, non in moto, e nell’indoglienza, a quale però mai l’uomo arriva in questa vita, ordina molti singolari mezzi per conseguire la tranquillità; un altro opuscolo, del nascere dell’opinioni e del cessare che fanno in noi; et uno che l’ateismo ripugni alla natura umana e non si truovi, ma che quelli che non conoscono la deità vera, necessariamente se ne fingono delle false. Vi sono anche due libretti continuati, come una metafisica, ma però imperfetti e pieni di sensi nuovi, e però astrusi. Vi è parimente un breve essame de’ suoi proprii difetti, de’ quali s’aveva proposta la cura. Questo meritava cader nelle mani di quelli che, dopo morte, come cani seguggi, non hanno lasciato viotolo, ove non siano andati traciando, per investigare qualche odore d’imperfezzione, ch’avrebbero ben veduto un uomo che non adulava sé medesimo, ma si scrutiniava da dovero ne’ più rinchiusi recessi del cuore istesso, e vedeva e censurava in sé medesimo quello ch’ad ogni’altro occhio sarebbe stato invisibile. E quelli che per il rimanente della sua vita più di vent’anni intrinsecamente hanno vissuto seco, santamente ancora attestano non aver punto osservato alcun tal difetto; perché forse in quei sei anni di studio nella morale si fosse veramente medicato, come fanno i veri possessori della sapienza, che studiano non per parer dotti, ma per esser veramente buoni. [73] Ma tutto era niente rispetto all’affissione alle divine Scritture particolarmente del Testamento Nuovo, senza alcun espositore, ma co’ soli testi greco e latino, che leggeva sempre da capo a fine, e lo ripetiva tante volte, che l’aveva tutto in memoria, et all’occasioni lo recitava in quel modo stesso, che per la cotidiana frequenza i religiosi sogliono recitare i salmi ordinarii. E l’attenzione era così profonda, che, secondo che nel leggere osservava di meditare qualche ponto, faceva nel suo Testamento greco, alla parola o verso, una lineetta di questa sorte –, e col leggerlo e rileggerlo, non v’era più riga o quasi parola che non fosse segnata. Il che, avendo risaputo dopo morte un prencipe grande, per curiosità fece ricercar quel libretto. Si vede però che l’istesso studio per inanzi avesse fatto del Testamento Vecchio; et ho veduto il suo breviario, in che recitava l’offizio, segnato tutto al sudetto modo, ne’ salmi specialmente, quali tutti sapeva a mente; e certo è ch’anco tutto quello che si dice nel celebrar la messa. Di che è conveniente dimostrazione l’osservato che negl’ultimi anni non si vedeva senza occhiali sì che potesse legger una sola parola, o di scritto o di stampa, senza essi, e pure sempre senz’occhiali celebrò la messa. La parte centrale della Vita si diffonde nel racconto dell’interdetto di Paolo V contro Venezia e l’elezione del Sarpi a consultore della Repubblica [nn. 77-139]. La sua persona è fatta oggetto di attacchi, calunnie e sospetti. [76] [...] morto il [priore] generale, ch’era maestro Gabriele, creato [nel] 1603, [...] restò in governo con titolo di diffinitore un suo nipote, maestro Santo, il quale avendo le speranze del zio, ma non le forze, e massime mancando d’attitudine a servir la corte negl’interessi, il che faceva il [priore] generale (al quale dopo la morte furono trovate lettere di pugno del cardinale Aldobrandino333 e di Borghese334, nipoti de’ pontefici nelle quali si vidde che serviva in Venezia la Corte in quelle cose che potevano o costargli la vita, o portarlo a maggior prelatura) maestro Santo l’imitò nell’opinione che, volendo dominare la provincia, conveniva a qualche modo levarsi lo stecco degl’occhi, ch’era la venerazione in che il padre si ritrovava. E perciò fece molti essorbitanti tentativi, tra’ quali era uno molto ridicoloso. È solito ne’ capitoli, congregati quei ch’hanno voto, farsi uno scrutinio di loro per legitimare l’azzioni capitolari. E questo si fa col poner in arbitrio di ciascuno d’opponer a qualunque vuole. Si levò maestro Santo e maestro Arcangelo, e per far un niente in diligenza, e con sforzo una buffoneria conspicua, opposero tre capi di querele al padre Paolo, con una indignazione et irrisione di tutto il capitolo; e furono che portasse una barretta in capo contra una forma che sino sotto Gregorio XIV disse esser proscritta; che portasse le pianelle incavate alla francese, allegando falsamente esserci decreto contrario, con privazioni divote; che nel fine della messa non recitasse la Salve Regina. Cose che furono risolute dal vicario generale presidente e provinciale in niente et esplose da tutta questa radunanza con un fischio e calpestio. E perché le pianelle d’ordine del giudice gli fuorno levate da’ piedi e portate al tribunale, uscì come in proverbio che dura ancora: «esser il padre Paolo così incolpabile et integro, che sino le sue pianelle erano state canonizate». Che il non recitare la Salve Regina non paia indevozione, longo sarebbe il portar il suo fondamento, perché non s’indusse a farlo; certo è che n’aveva ragione così fondata, che più legittimamente egli lo tralasciava, che gl’altri in quel tempo l’aggiongessero contro i riti alla messa, derogando con decreto capitolare d’un capitolo di trenta frati agl’ordini universali della Chiesa335. Fu osservato ch’in tutta questa azzione del proponere le querele, essaminarle et issibilarle, egli mai disse parola, né diede indizio alcuno d’affetto; né dopo restò di ragionare e trattare al solito co’ sudetti, inspecie com maestro Santo [...]. [140] Ma perché il segno ove ferivano e feriscono ancora tali avvelenate saette, non poteva esser guadagnato, essendo noto il dispreggio di tutta la sua vita del danaro e l’avere le sue pure necessità, o più tosto mancare di quelle ancora ch’abondare di soverchio; non delizie d’ogni sorte , delli quali in tutti i tempi era stato così aborrente, che sin all’ultimo spirito della vita ha constantemente servato di non aver, né voler altro gusto che quello che da’ studii o dalle virtù avesse l’origine et in quelle terminasse; et era la sua vita la più affaticata e stentata che religioso potesse fare, essendo questi ultimi 17 anni stato come rinchiuso sempre nelle sue stanze, fuor che quanto il publico servizio e la sua professione religiosa lo necessitasse, et il vivere così parco et astinente e secondo la pura necessità, che la maggior parte del tempo se la passava con un poco di pane brustolato su le bragie et una sola sorte, e vilissima in qualità e quantità, di companatico; non i parenti, che non 333 futuro Clemente VII. futuro Paolo V. 335 Il capitolo generale di Treviso del 1461 (cf. Fonti storico-spirituali, II, p. 237) aveva decretato la recita della Salve Regina alla fine della celebrazione eucaristica: disposizione abrogata dalla bolla Quod a nobis di Pio V. Il Sarpi si attiene alle norme liturgiche stabilite dal papa. 334 gliene restava alcuno, ma l’ambizione e l’appetito di gloria , che tra gl’affetti umani pare l’ultimo domabile, et il savio lo chiamò tra le vesti la camiscia, che ultima da’ più sapienti si depone, è il putrido, dove tutti questi vesponi qua e là svolazzando finalmente si fermavano. Ma si può opponer a questi colpi un impenetrabile scudo, che se fu uomo mai che totalmente avesse domato quest’affetto dell’appetito di gloria, fu questo di chi parliamo. [141] Primieramente la prova certa che nissun avanzamento di fortuna o credito appresso gl’uomini gl’aveva fatta fare alcuna mutazione nell’animo, per quanto dagl’affetti esterni si può argomentare, stando egli nel suo tenor di vita, ch’a ponto soleva sempre aver in bocca: «Si spiritus dominantis super te ascenderit, locum tuum ne deseras», e burlando diceva che chi camina su le zanche o sede in alto, non minuisce fatica, ma sta più in pericolo. [...] [146] Nel publico servizio, in progresso di tempo, fu trovato così assiduo, così fedele, così al ben del suo prencipe infervorato, che la serenissima Republica l’onorò di cosa mai concessa ad alcuno de’ consultori suoi, di poter entrare in tutti gl’archivii, in tutte due le secrete, vedere e maneggiare tutte le scritture del Stato e governo. Al qual onore con che fede abbia corrisposto, lo sanno quei del governo; et in poco tempo era fatto così versato, che aveva veduto tutto quello che si poteva desiderare, e con felicità di memoria incomparabile immediatamente poneva la mano sopra qualunque memoriale, libro, scrittura, relazione o qualunque altra cosa che fosse ricercata. Chi sa ciò che siano le due secrete di Venezia, facilmente da questo solo può argomentare un ingegno divino et una memoria mostruosa. Imperoché in queste, oltre le publiche ragioni di tutto lo Stato, le leggi fondamentali, le trattazioni di guerre, di pace, di tregue, di confederazioni, e tutto quello che ad un gran Stato può appartenersi, vi sono anco tutti i gran negozii di tutta Europa, di qualche centenara d’anni, le mutazioni, alterazioni, le relazioni di tutto il cristianesimo, e sono in libri antichi, in lettere de’ secoli passati difficilissime a leggere. E se due grand’incendii non avessero rubbato parte di questo tesoro, ardisco dire che quel saria una delle più stimabili cose del mondo. [147] Ora quest’ingegno incomparabile n’era fatto così padrone, che sprovistamente sapeva i luoghi ove ritrovare qualunque particolarità; di maniera che la sua mente pareva la stessa secreta, ove prontamente senza fatica ciascuno nella sua viva voce potesse leggere tutto quello ch’avesse o necessità o curiosità di sapere. Et a fine che questo importante uso non perisse con la sua vita, ha anco fatte tante chiarezze, note, registri, ch’ha molto facilitato l’uso per tutti i tempi. E s’è veduto l’importanza di questa fatica, che l’eccellentissimo Senato ha salariato con onorato stipendio lo scrittore medesimo del padre per registrarla insieme con le sue consultazioni, che debbono essere poco di sotto di mille consegli e trattati, in volumi di cartapecora. [...] [180] [...] entrò nell’anno 69 della sua età, e nel fine della quadragesima, il sabbato santo, trovandosi nel suo luogo solito della secreta dell’eccellentissimo senato, venuta una subita mutazione di caldo in freddo e venuto agghiacciato, si trovò in un punto con la voce arrochita e con un raffreddamento così terribile, che per esser quella la prima volta ch’in vita sua avesse provato ciò che fosse catarro, come diceva, lo travagliò più di tre mesi, con manifesta febre, senza però che mai mutasse o il vivere o rallentasse le sue solite fatiche. Si vidde manifesta declinazione delle forze et egli sempre disse non esser mai guarito di quel male. E come questa continua indisposizione interpretasse una divina ammonizione, fu osservato da’ suoi familiari che nelle cose dello spirito si fece molto più del solito devoto et attento, et in particolare nella meditazione incomparabilmente più assiduo. Sì che, ove prima, oltre l’ordinarie sue preci e spirituali essercizii, tutto consumava parte in farsi leggere dal suo scrittore, o far scrivere, o scrivere di sua mano, dopo questo tempo non si faceva più leggere o scrivere, se non precisamente quanto la necessità del suo carico e publico servizio lo costringeva. [181] Tutto il rimanente lo spendeva nella meditazione dell’altra vita, et immediate dispacciava fra Marco, il quale con gl’altri familiari lo ritrovavano nel suo luogo, ch’era avanti il suo Crocifisso, a piedi del quale aveva, come s’è detto, un cranio naturale d’un morto; et alle volte così attento, che da fra Marco veniva sorpreso senza che se n’accorgesse. E con tutto ciò egli occultava questa sua divozione con tutti i modi possibili, perché nel licenziar il sudetto, sempre usava dirgli che se n’andasse, ch’egli voleva prender un poco di passatempo in far castelli in aria di cose matematiche et in dar licenza al suo cervello d’andarsi dove gli piacesse. E quando veniva sorpreso, sempre aveva pronta qualche scusa, o d’aver fabricati istromenti, o figure, o simili. Ma avanti un Crocifisso et un teschio naturale si può ben congietturare che fossero altre contemplazioni e più degne di quell’età e mal affetto corpo. 2. Lettere a) A François Hotman336. 22 luglio 1608 La lettera «è interessante perché unisce a giudizi, tipici delle concezioni filosofiche [del Sarpi], su Occam e san Tommaso, opinioni di metodologia storica molto utili per introdursi alla lettura delle sue opere e per capirne il segreto e le contraddizioni»337. edizione: Paolo Sarpi, Opere, a cura di Gaetano e Luisa Cozzi, Ricciardi editore, Milano-Napoli 1969, p. 272-275 [...] Mi pare opera degna di lei implicare l’ozio suo nello studio della teologia e dell’istoria ecclesiastica, al quale tengo che sii così ben instrutta, che non abbia bisogno d’esser indrizzata da qual si voglia, non che da me. Non resterò perciò di ubidirla, scrivendoli al parer mio qual sii il modo che una persona sincera debbia tenere. E per incominciar da scolastici, de’ quali m’adimanda in particolare, le dirò che bisogna assai guardarsi da quelli che risolvono le cose troppo magistralmente, con un respondeo dicendum, come se fossero arbitri, e più tosto leggere quelli che dicono il suo parere con riserva, e nelle cose non decise non pedantizano gl’altri. La università di Parigi costumò già di andarsi applicando alli megliori che nascevano, et ultimamente si diede a Gulielmo Occamo, del quale chi levasse la barbarie, averebbe un scrittore molto giudizioso. Io l’ho stimato sopra tutti li scolastici. L’opra sua sopra le sentenze fa l’ingegno molto vivace e atto a giudicare. Li suoi dialoghi, che passano dalle cose speculative alle più prattiche, sono stimati molto, dove possono esser letti338. Gerson tratta bene quello che tocca, ma non ha avuto fine di trattar tutto339. S. Tomaso corre appresso li giesuiti e li prelati, come scrittore molto facile, e che non implica la mente in dubitazione, ma resolve il lettore pur troppo. Se vostra Signoria resolverà di leggerlo, sarà ben a punto per punto essaminare li suoi soriti340, che tali sono quasi tutte le sue prove, et è nel numero di quelli che prima ho nominato. Se legerà le controversie che passano al presente, sarà ben raccordarsi che tutti, per l’affetto al proprio partito, trapassano, e che accomodano le cose al gusto loro, e vedono nelli antichi non quello che ci è, ma quello che vorrebbono. Laonde fa bisogno con questi usar la cauzione di buon giudice, non prononziando se non udite ambo le parti. Ma per acquistar cognizione dell’istoria ecclesiastica, è necessario mettersi 336 François Hotman (1576-1636), signore di Morfontaine, abate di san Medardo di Soissons, canonico della basilica di Nôtre Dame e consigliere ecclesiastico al parlamento di Parigi. 337 Paolo Sarpi, Opere, p. 246. 338 Alla conoscenza di Occam e della sua filosofia il Sarpi fu iniziato dal Capella, convinto cultore di Duns Scoto. 339 Jean Le Charlier, detto Gerson dal villaggio nativo (1363-1429), teologo, sostenitore delle teorie conciliari, filosoficamente vicino a Occam. In occasione dell’interdetto, nel maggio 1606, il Sarpi pubblicava due scritti di Gerson unendoli sotto un unico titolo: Trattato e resoluzione sopra la validità della scomunica. 340 Il sorite è una serie di sillogismi dove il predicato della prima proposizione è il soggetto della seconda e così via, fino a che il soggetto della prima proposizione è concordato con il predicato dell’ultima. prima in capo una cronologia di tutti li principi et uomini celebri che il mundo ha avuto, distinti tutti per li suoi tempi e regioni.Nella lettura delli istorici bisogna esser molto cauto, perché per il più sono interessati in uno delli partiti. Quando si parla di controversi, li più sinceri sono li anglesi, Paris, Hoveden, Valsingam. La più sincera e fedel istoria si cava dalle epistole delle parti et altri scrittori di ciascun tempo. Sopra tutto nel leggere conviene portar affetto neutro, e non lasciar prender così alta radice a quello che in un autore si truova, che non possi dar luoco alla verità, o maggior probabilità che si trovasse doppo. [...] b) Dalla lettera a Isaac Casaubon341. 22 giugno 1610 edizione: Paolo Sarpi, Opere, a cura di Gaetano e Luisa Cozzi, Ricciardi editore, Milano-Napoli 1969, p. 287 [...] Mi sembra che tu desideri una Chiesa senza macchia; ma tale, se non alzi lo sguardo al Cielo, non potrò mostrartela. Qui è ottima quella che è meno contaminata da corruzione. Gettato il fondamento della fede, san Paolo ammonì che sorgono delle strutture che si devono provare col fuoco e per lo più bruciare342. Mentirei se dicessi che quella di Corinto, che Paolo pur fondò, accrebbe e chiamò santa, fu più incorrotta delle Chiese di questo tempo. Dove vivono uomini, più facilmente troverai motivi di biasimo che di lode: dovunque la perfezione è l’idea, alla quale dobbiamo tendere. [...] Perché ci preoccupiamo degli ornamenti della casa, perché delle altre cose soggette al fuoco? Bisogna saggiare il fondamento: purché esso sia saldo, tutto il resto vada come vuole, deve essere provato dal fuoco. [...] c) A Isaac Casaubon. 17 agosto 1610 edizione: Paolo Sarpi, Opere, a cura di Gaetano e Luisa Cozzi, Ricciardi editore, Milano-Napoli 1969, p. 289-290 Vi sono alcune malattie, dicono i medici, che non si possono curare, se non si eliminano tutti gli umori del corpo e se ne sostituiscono degli altri, mentre restano inalterate le parti solide; io non discuto se sia il caso di questa regola in questa medicina, ma affermerei volentieri questo, che l’intero essere vivente rimane inalterato, se restano tali tutte le altre parti solide di esso. E rimase, rimane e rimarrà ciò che è stato stabilito da Dio, se anche l’aspetto esterno muterà, tuttavia resta immutato (dice l’Apostolo) il fondamento di Dio, che ha questo segno: «il Signore conosce i suoi»343. [...]Vi sarannno follie, finché vi saranno uomini. E un uomo saggio ammonì che con le cose umane non si va così bene che la parte maggiore sia anche la migliore. Nessun sapiente si cura di correggere i mali pubblici. Ti sia sufficiente se riuscirai a emendare me. Chi è più saggio osserva che non è immune da malattia chi non sa sopportare la generale follia, ma si sdegna e crede che possa essere corretta. Quando Dio ti avrà concesso di vedere la verità, imita Timoteo, provvedi a te e alle muse, il giusto vivrà della sua fede344. Lascia perdere gli altri, tu avrai in te stesso un teatro abbastanza grande. Magari fossi tale da poterti aiutare con il mio consiglio, mi dedicherei tutto a questo compito, ma colui che tu credi star bene, forse è più pericolosamente malato. Prego Dio, affinché ciò che mediti per rivendicarti a libertà, la cosa che deve essere più cara all’uomo, volga a sua gloria e ti colmi di tutti i beni della vita presente e futura 341 Isaac Casaubon (1559-1614), filologo ginevrino calvinista, insegnò greco a Ginevra fino al 1596; si trasferì in Francia e a Parigi diresse la libreria del re. Dopo la morte di Enrico IV, trasferitosi in Inghilterra, aderì all’anglicanesimo. 342 cf. 1Cor 2, 10-17. 343 cf. 2Tm 2, 19. 344 cf. 1Tm 4, 16; Rm 1, 17; Gal 3, 11. d) A Jacques Leschassier345. 14 settembre 1610 edizione: Paolo Sarpi, Opere, a cura di Gaetano e Luisa Cozzi, Ricciardi editore, Milano-Napoli 1969, p. 270-271 Ho letto con sommo piacere la tua lettera del 24 agosto [...]. Quanto a quello che dici, che non risulta l’impurità della Chiesa di Corinto, non mi meraviglio: siamo, e giustamente, tali da riferirci all’antichità ed è umano che tutti facciano così: infatti dobbiamo essere stimolati con esempi. Ma io la dissi impura considerando i rimproveri che san Paolo muove ai Corinzi. Infatti se si tratta di carità, vi erano fra loro scismi e contese, come al I e II capitolo, e non lievi, ma tali da dividere il Cristo. Se dei costumi, al capitolo V: «si parla di fornicazione tra di voi, quale neppure tra i gentili». Se dei riti, al capitolo XI: «non è già un mangiare la cena del Signore»; se poi della dottrina, cosa che, credo, richiedevi, al capitolo XV: «poiché alcuni tra voi dicono che non vi è risurrezione dei morti». Ricorderai che tra tutti gli scrittori nessuno fu più moderato di san Paolo nel rimproverare, e considerando gli altri suoi rimproveri, senza dubbio riterrai che questi furono il più possibile attenuati. Ma riguardo al passo di san Paolo, dove si tratta dell’edificio costruito sul fondamento della fede, non mi sfugge a qual fine sia travisato dai più, alcuni dei quali vogliono siano edificate le opere, non la dottrina, altri bensì la dottrina, ma cavillosa. Ma quelli che considereranno che fondamento della fede è la dottrina, non avranno dubbi sull’edificio, e mentre paragonano alle sottigliezze le pietre preziose e l’oro sovrapposti, mi dovranno dire a quale cosa paragoneranno le cose serie quelli per i quali gemme e oro equivalgono a sottigliezze. [...] e) A Dudley Carleton346. 14 agosto 1612 edizione: Paolo Sarpi, Opere, a cura di Gaetano e Luisa Cozzi, Ricciardi editore, Milano-Napoli 1969, p. 645-647 Illustrissimo et eccellentissimo signor colendissimo Non basterebbe questo giorno per esprimere il desiderio mio di poter far personal riverenza e servire vostra Eccellenza così per il luoco che tiene, il quale ho in somma venerazione, come per le rare qualità sue predicatemi da molti, e conosciute da tutta questa Republica: e massime se a questo avessi d’aggiongere intiera espressione del dispiacer sentito specialmente in questi giorni, per non essermi permesso dalla condizione dello stato mio di poter ricevere con queste orecchie li favori che la Maestà sua si è degnata fare ad un umilissimo et indegno suo servo, e la grazia offertami da vostra Eccellenza di accomodarsi ad ogni privato modo, acciò io potessi ricevere personalmente questo onore347. Sono ben sicuro che dalla sua molta prudenza e bontà sarà stata ricevuta la mia iscusazione fatta dal signor Daniele348, non tanto per il pericolo al quale mi sarrei esposto (de’ quali vostra Eccellenza ne può aver udito qualche simile alli giorni passati), che quando non vi fosse stato altro rispetto, averrei elletto di espormici, quanto principalmente per ubidir alle legi, le quali, quantonque per buon fine, nissuno può transgredire senza colpa, né farsi giudice del caso, dove possi aver luoco la dispensazione349. Non passarò a più longhe parole sopra questi particolari, poiché confido nella finezza del suo giudicio et integrità della sua mente, che meglio penetrerà e riceverà per buone le cause della mia iscusazione di quanto io saprei con ogni studio rappresentare. E sì come m’ha fatto grazia di significarmi con la sua delli 12 quel che era per dirmi a bocca, così 345 Jacques Leschassier (1550-1625), giureconsulto francese. La Repubblica di Venezia lo consulta nella controversia con Roma. 346 Ambasciatore inglese a Venezia dal 1610 al 1615. 347 Il re Giacomo I d’Inghilterra aveva offerto al Sarpi ospitalità nel suo paese. 348 Daniele Nis, mercante olandese calvinista residente a Venezia. 349 Una legge della Repubblica veneziana proibiva ai nobili e ai politici di avere incontri con diplomatici esteri accreditati presso di essa. riceverà gratamente questa per risposta. Il signor Casabon già molti giorni in una sua lettera mi diede parte delli suoi studi, e tra le altre cose mi narrò li favori che riceve da sua Maestà, a che risposi rallegrandomi con esso lui e confortandolo a servirla di core e con sincerità, poiché le qualità d’un tanto principe, colmo delle virtù di re e di privato, lo costringevano a così fare; aggionsi per maggior persuasione l’esempio di me, dicendo che se mi truovassi degno della protezzione di così gran re, non crederrei che mi mancasse cosa alcuna. Certamente io ho sempre desiderato che la devozione, qual porto al nome di sua Maestà, le fosse nota, nondimeno conscio della mia bassezza non averrei preso ardire d’inalzarmi tanto, per il che questo non fu scritto da me al signor Casabon, acciò fosse riferrito alla Maestà sua. Nondimeno resto con molto obligo all’amico, che abbia ardito per me quello che desiderava e non ossava. Ma chi può restar d’ammirare e venerare la benignità di tanto re, che non solo condescende alle supplicazioni portegli, ma previene anco le preghiere? Udite da sua Maestà queste parole, li è piaciuto offerrirmi quello che se avessi spesso tutta la mia vita in suo servizio, non averrei potuto meritare. Se io volessi trattar di usar parole condecenti a render grazie di ciò alla Maestà sua, tenterrei quel che non è fattibile. Alli mediocri beneficii si può trovar rendimento di grazie corrispondente, alli supremi meglio si corrisponde con semplicità di parole. Il che prego vostra Eccellenza fare con la Maestà sua per nome mio, con dirli che rendendoli umilissime e reverentissime grazie, ricevo il suo favore e la protezzione offertami. Io sono qui (secondo che credo) per volontà divina, dalla quale son stato adoperato per debole istrumento di far qualche cosa a gloria sua, e cotidianamente sono adoperato nell’istesso servizio, con riuscita di qualche buon effetto, onde mi persuado parimente esser il suo divin piacere che continui. Oltre che reputo esser in obligo per debito civile di perseverar servendo il mio patrone, sin che la mia servitù li è accetta, e se occorresse morir per quella (come son stato in pericolo che m’avvenisse), non mi contristarrei. Ma quando per le mutazioni, a quali il mondo è soggietto, e che son da alcuni minacciate, avvenisse ch’io non fossi più utile per questo servizio de Dio e publico, sarrebbe l’occasione ch’io mi valessi della grazia e protezzione della Maestà sua, la quale ella così benignamente m’ha offerto, et io riverentemente ho accettato, in quei modi che le occasioni d’allora consigliassero. Ringraziando la Maestà Divina d’esser fatto partecipe di quell’unico reffugio che ha preparato alli buoni in questi tempi, e restando umillissimo servo della Maestà regia, et oratore per quella appresso la divina. [...] 14 agosto 1612 f) A Jan Van Meurs350. 15 luglio 1622 edizione: Paolo Sarpi, Opere, a cura di Gaetano e Luisa Cozzi, Ricciardi editore, Milano-Napoli 1969, p.293-294 Non ho voluto rispondere alla tua graditissima lettera del 12 giugno prima di aver gustato le tue erudite e pie Meditationes351. Le ho scorse, avuto un po’ di tempo libero, ma non sono pago di tale assaggio. Quando avrò più tempo, le leggerò a fondo, coll’intenzione di impiegare in tale lettura, come norma e livella, la attestazione di nostro Signore, il quale presso Giovanni testimoniò che la vita eterna è la conoscenza del vero Dio e di Cristo352, secondo il pensiero di Paolo che dice: «colui che giustifica l’empio tiene in conto di giustizia, secondo il beneplacito della grazia di Dio, la fede di colui che non opera, ma crede in lui»353, per non allontanarmi neppure di un’unghia dai precetti e 350 Jan Van Meurs (1579-1639), filologo olandese, protestante, professore di greco e storia all’università di Leida e poi, dal 1625, docente di storia e politica a Soroë in Danimarca. 351 Il nucleo centrale della lettera di Van Meurs era: «Questa è altissima teologia, fare non sapere: per conseguire la salvezza eterna, poche cose sono necessarie da sapersi, molte da farsi». 352 Gv 17, 3 353 Rm 4, 5 dall’esempio di colui che stimò ogni cosa danno, tranne l’eccellente scienza di Cristo, per conoscere Lui e la virtù della sua risurrezione. Frattanto ti sono sommamente grato per avermi stimato degno dell’onore di un tale dono. Come sono indegno di tale beneficio, io che dallo sterile suolo del mio ingegno non seppi mai produrre nulla che potessi ritenere degno di coltivazione, così vivissimamente desidero che si presenti l’occasione in cui possa provare quanto ti devo per questa tua benevolenza. Prego Dio, o eccellentissimo signore, che ti conservi a lungo incolume e mi conceda di non riuscire tuo inutile servitore. 3. Dal «Trattato delle materie beneficiarie» edizione: Paolo Sarpi, Opere, a cura di Gaetano e Luisa Cozzi, Ricciardi editore, Milano-Napoli 1969, p. 332-333 Fu il principio delli beni ecclesiastici mentre ancora conversava in questo mondo Nostro Signore Giesù Cristo; et il fondo loro non era altro che le oblazioni delle persone pie e devote, le quali erano conservate da un ministro e distribuite in due opere solamente: una per le necessità di Nostro Signore e delli apostoli predicatori dell’Evangelio, e l’altra per far limosina a’ poveri. Tutto questo si vede chiaro in S. Giovanni354, dove dice l’evangelista che Giuda era quello che portava la tasca o borsa dove erano reposti li danari presentati al Signore; e che il medesimo andava spendendo, comprando le cose necessarie a loro overo distribuendo alli poveri, conforme a quanto il Signore alla giornata commandava. Considera S. Agostino355 che avendo Cristo il ministerio degl’angeli che lo servivano, non era in necessità di conservar danari; con tutto ciò volse aver borsa per dar essempio alla Chiesa di quello che ella doveva fare; e per tanto sempre intese la Chiesa che dalla Maestà sua Divina col suo proprio essempio fosse instituita la forma del danaro ecclesiastico, instruendo e di dove si dovesse cavare, et in che cosa si dovesse spendere. [...] Doppo che Cristo Nostro Signore montò al cielo, li santi apostoli seguirono nella Chiesa di Gierusalemme l’istesso instituto d’aver il danaro ecclesiastico per li dui effetti sopradetti, cioè per bisogno delli ministri dell’Evangelio e per limosine de’ poveri: et il fondo di questo danaro era similmente le oblazioni delli fedeli, quali anco, mettendo ogni loro avere in commune, vendevano le loro possessioni per far danari a quest’effetto; sì che non era distinto il commune della Chiesa dal particolare di ciascun fedele, come si usa ancora in alcune religioni che servano li primi instituti. 4. Da «Considerazioni sopra le censure della santità di Papa Paulo V contro la serenissima Republica di Venezia» edizione: Paolo Sarpi, Opere, p. 181-182; p. 215-217 [...] certa cosa è la somma delo carico pastorale essere la predicazione dell’Evangelio, le sante ammonizioni e le instruzzioni delli costumi cristiani, il ministerio delli santissimi sacramenti, la cura delli poveri, la correzzione delli delitti che escludono dal regno di Dio: cose che Cristo Nostro Signore ha raccomandate a S. Pietro, e datele per carico; le quali solo sono state essercitate tanto da lui, quanto dalli santi martiri suoi successori e dalli santi confessori ancora, che sono succeduti di tempo in tempo, non in quel modo che le tenebre succedono alla luce. 354 355 Gv 12, 6 In Jo. Ev. Tract. 50 e 53 La gloria di Dio nelle Scritture Divine vediamo essere nella propagazione dell’Evangelio e nella buona vita delli cristiani; et in somma, come S. Paolo dice, nella mortificazione dell’uomo esteriore e vita dell’interiore, e nell’essercizio dell’opere di carità356. Ma se la gloria di Dio stasse nell’abondanza delli beni temporali, averessimo molto da temere di noi medesimi, poiché agli suoi Cristo ha promesso se non povertà, persecuzioni, incommodi357, e finalmente, come l’istesso vulgo conosce, li travagli e patimenti sono le visite e le prove degli amici di Dio, e niuno, dice l’Evangelio, segue Cristo, se non doppo aver presa sopra le spalle la propria croce358. [...] i sudditi fedeli della Republica , e più di ogni altro gli ecclesiastici, doveranno quietare l’animo e le conscienze loro, attendendo al servizio divino, sotto la protezzione del prencipe, e creder fermamente che lo Spirito Santo è stato promesso e dato a tutti li fedeli, tra’ quali lo stesso Cristo è presente, quando sono congregati in nome suo; e che niuno può essere escluso dalla santa Chiesa catolica se prima non sarà escluso per suoi demeriti dalla grazia divina; e che l’obedienza, la qual Dio commanda che si presti alli superiori ecclesiastici, non è una suggezzione stolida o insensata, né la potestà de’ prelati è un arbitrario giudicio, ma l’una e l’altra sono regolate dalla legge di Dio, il quale nel Deuteronomio ordinò l’obbedienza al sacerdote, non assoluta, ma prescritta secondo la legge divina: «Farai quello che diranno coloro che presiedono il luogo scelto dal Signore, e ti insegneranno secondo la legge di Lui»359. Solo Dio è regola infallibile, a lui solo è lecito professar obedienza senza eccezzione; chi la professa totale verso altri, non eccettuati li commandamenti di Dio, pecca: e chi si propone una volontà umana per infallibile, commette gran bestemmia, dando a creatura le proprietà divine. A Dio si rende assoluta obedienza; alli prelati una limitata tra li termini della legge divina: e così usavano nella Chiesa antica. Abbiamo esempi negli Atti apostolici scritto da S. Luca, che li fedeli sentivano il contrario di S. Pietro, e contrastavano con lui intorno alla vocazione delle genti; né furono però con fulmini di scommuniche atterriti e minacciati da lui e fatti tacere, ma sì bene con ragione et auttorità delle revelazioni divine e delle parole del Salvatore insegnati e persuasi360. La carità cristiana, dice S. Paolo, «è paziente, è benigna, non si gonfia, non è ambiziosa»361, non minaccia, non ruina, tratta tutti come fratelli. Non hanno da dominare li prelati, né da commandare con imperio, ma con essempi e correzzioni di pietà e di carità. Udiamo S. Pietro: «Pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri secondo Dio, non per vile interesse ma di buon animo, non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge»362. E S. Paulo: «Non perché siamo padroni della vostra fede, ma siamo i collaboratori della vostra gioia» (2Cor 1, 24). E debbe la carità del prelato esser così pronta all’insegnare, come all’imparar da altri. Imperò che quando S. Pietro fallò in Antiochia, non ebbe rispetto S. Paulo di riprenderlo gravemente in presenza di tutti363. Nè sia alcuno qui che dica: chi è come S. Paulo che possa prender tanto ardire? Quasi che Paulo per la eccellenza sua avesse ardire di opporsi a chi non fosse lecito resistere: anzi bisogna al contrario dire, e fermamente: chi è come Paulo, che se gli possi comparare in umiltà e cognizione di se stesso, e della riverenza debita al sommo pontefice? Dobbiamo ben credere certamente che S. Paulo, sì come in tutte le virtù ha ecceduto quanto sapessimo far noi, così nella riverenza debita al capo della Chiesa abbia servato quello che ogni minimo di noi è obligato servare. La Scrittura Divina dice: «Tutto quello che è stato scritto, è stato scritto a nostra istruzione»364. Non averebbe lo Spirito Santo scritta questa istoria, se non fosse a nostro essempio, acciò fosse imitato da noi; e si vede che tutti li dottori, 356 2Cor 4, 7 ss. Gv 16, 1-4. 358 Mt 10, 38. 359 Dt 17, 10. 360 At 11, 3. 361 1Cor 13, 4. 362 1Pt 5, 2-3. 363 Gal 2. 364 Rm 15, 4. 357 trattando come ciascuno debba opporsi al papa quando fa errore et indebitamente governa, ricorrono a questo essempio, e ci insegnano di fare come fece san Paolo verso san Pietro. 5. Dai «Pensieri» Redatti intorno al 1616. La raccolta «svela più da vicino la “religione” del Sarpi»365. edizione: Paolo Sarpi, Pensieri naturali, metafisici e matematici, edizione critica integrale a cura di L. Cozzi e L. Sosio, Ricciardi, Milano-Napoli 1996 All’ipocrito: Abia Dio e la religione meno in bocca e più in cuore. L’albero si conosce dal frutto e la religione dalle opere Spesso nell’abbassarsi vi è presonzione. L’aver fine d’avanzar gl’altri nelle divine grazie è una presonzione e superbia. Quelli ch’hanno spirito solo con se stessi sono severi e rigidi, cogl’altri affabili e piacevoli. Butar in Dio Dio comanda che ogn’uno si contenti del grado dove egli l’ha posto. Non sono chiamato da Dio per salir tant’alto, non m’ha dato per ciò né forze né spirito. Chi ha il testimonio della propria conscienza approvato da Dio è assai sicuro. Non tocca a noi di ellegere la croce di Dio, ci vien posta sopra le spalle. In Dio è il refugio la protezzione il compìto rimedio d’ogni male. Regole spirituali Chi vuol edificar fabrica di perfezzione facia fondamento prima d’umiltà. La santità sta nella ressignazione di sé stesso e portar la propria croce anechou kai apéchou [sopporta e astieniti]. Conviene attender prima a far la volontà de Dio poi le nostre particolar devozioni. La orazione non artificiosa non affettata non imparata a mente ma come de marinari nella fortuna Sarpi, Pensieri naturali, p. 703-704 6. «Ragionamento col Principe di Condé» (26 novembre 1622) Enrico II di Borbone, principe di Condé, si era opposto alla reggenza di Maria de’ Medici, vedova di Enrico IV. Rinchiuso per tre anni alla Bastiglia (1616-1619), riabilitato dal nuovo re Luigi XIII, iniziò al suo seguito una lotta 365 B. Ulianich, Teologia paolina di Sarpi?, p. 96 intransigente contro gli ugonotti. Dopo la pace di Montpellier, intraprese un viaggio in Italia. La ragione ufficiale era un pellegrinaggio a Loreto, per ringraziare la Vergine dell’avvenuta liberazione; in realtà il principe si proponeva di recuperare un prestigio politico. «I risultati più sensazionali si riprometteva di conseguirli a Venezia, col pretendere dalla Repubblica, anzitutto, di essere trattato col titolo di altezza, col convincerla a riaccogliere i gesuiti e a fare una politica d’intesa con la Sede Apostolica e con la Francia, ispirata alla difesa del cattolicesimo, e con l’indurre, infine, fra Paolo Sarpi ad appoggiarlo in questi negozi e a mutare il suo atteggiamento verso la Sede Apostolica» 366. La Signoria aveva concesso il permesso di un colloquio con il Sarpi nella speranza, da parte di alcuni membri del suo governo, che il Sarpi ne uscisse indebolito e sconfitto. La relazione dell’incontro, che il Sarpi presenta alla Repubblica, intende spiegare come siano andate effettivamente le cose e soprattutto come i diritti dello Stato veneziano siano stati difesi. La relazione diventa così «uno dei documenti autobiografici più belli di fra Paolo Sarpi. È da chiedersi se in altri momenti avrebbe potuto fare altrettanto: se cioè non fosse per l’autorità di cui godeva e, ancor di più, per il sentire ormai vicina la morte, che il Sarpi poteva scrivere cose le quali, più che ad illustrare il colloquio, valevano quale monito per la Repubblica». Serenissimo Prencipe, In essecuzione del commandamento di vostra Serenità estenderò in questo foglio il ragionamento che io ho avuto con l’Altezza del signor prencipe di Condé mercoredì prossimo passato in casa et in presenza dell’illustrissimo signor Contarini savio di terraferma secondo l’ordine che nell’eccellentissimo collegio mi fu imposto. In quel giorno mi ritruovai nella suddetta casa inanzi che vi giongesse il signor principe, dove venuto, nell’incontrarlo stimai che convenisse che io fossi il primo a parlare: usai quelle parole di reverenzia e di complemento che stimai convenire, e da lui fu corrisposto con molta umanità. E postisi a sedere colla presenza dell’illustrissimo signor Contarini disse il signor prencipe che aveva avuto curiosità di vedermi e parlarmi, e che si maravegliava della difficoltà che aveva incontrato, perché molti prencipi hanno religiosi al suo servizio, e nessuno li tiene legati che non possino trattare, che non voleva dir altro quanto alla legge della Repubblica, che i suoi ministri non trattino, ma che li pareva doversi far anco qualche eccezzione. Io li risposi che nessuna cosa più manteneva la legge in vigore quanto l’osservanza generale senza essentar alcuno, perché una eccezzione chiama l’altra, e finalemente si risolvono in total abrogazione della legge: che io non mi stimava legato perciò, anzi che reputava che mi fosse di utilità e beneficio e quando non vi fosse legge che mi ubligasse, vorrei io ubligar me stesso. Disse il signor prencipe qualche parola in comprobazione, e poi passò a dimandarmi se era lecito ad un prencipe introdur l’eresia nel suo stato. Risposi che una interrogazione così generale ricercava una presta e risoluta risposta, che ciò non era lecito, ma che il ponto stava in dechiarare che cosa s’intendeva per eresia, perché la medesma cosa sarà stimata eresia da persone cattive che vogliono opprimer altri sotto pretesto di religione e da buoni cristiani vien tenuta per sana dottrina. Soggionse il signor prencipe: «Parliamo adonque di quelle che sono eresie già condannate da tutti, dimando se è lecito ad un prencipe condur tali eretici nello stato suo». Risposi che questo in alcuni casi potrebbe esser male, et in altri bene, perché se un prencipe admettesse eretici nello stato suo a fine che i propri sudditi fossero contaminati, sarebbe un gran male, ma se lo facesse a fine che quei eretici fossero instrutti e deventassero catolici sarebbe un gran bene, e che innumerabili possono esser le cause cattive et innumerabili le buone: ma che un prencipe, il qual non riconosca superiore se non Dio, non è tenuto a dar conto delle cause che lo muovono, et ogn’uno debbe stimare che siano giuste e ragionevoli, perché gl’altri, che vogliono condannarlo e farsi giudici, offendono Dio, usurpandosi quello che sua Divina Maestà s’ha riservato, che è l’esser solo giudice de prencipi soprani. Interrogò il signor prencipe se era lecito aver eretici nelle sue milizie. Risposi che papa Giulio II aveva squadre de Turchi nell’essercito suo in Romagna, che papa Paulo IV condusse a sua deffesa in Roma alquante compagnie de Grisoni eretici, e diceva che erano tanti angeli mandati da Dio alla sua deffesa: che abbiamo nella Divina Scrittura essempi de molti santi prencipi, i quali si 366 Paolo Sarpi, Opere, p. 1277 sono valuti delle arme delli infedeli, et esser notabile l’essempio che David con la sua gente andò in campo degl’infedeli contro li medesmi Israeliti. Disse il signor prencipe che quello era il tempo d’i profeti, et io li replicai esser dottrina di S. Paulo che tutto quello che è nella Scrittura Divina è ordinato dallo Spirito Santo per nostra instruzzione acciò immitando quelle azzioni siamo certi di non fallare367. Passò il signor prencipe a ragionamenti dello stato delle cose presenti, alli quali io non diedi risposta alcuna, ma l’illustrissimo Contarini rispose ben quanto conveniva. Concluse il signor prencipe che era bene a deffendere la propria libertà, ma però conveniva tenir maggior conto della religione, e non far cosa minima contra la religione per mantener la libertà. A questo io li risposi che non si possono incontrare et urtarsi se non quei che caminano per la medesma via, ma quei che vanno per diverse strade non possono né urtarsi né incommodarsi; che il regno di Cristo non è di questo mondo, ma in Cielo, e che però la religione camina per via celeste, et il governo di stato per via mondana, e però uno non può mai incommodar l’altro; ma ben vi è un certo appetito di dominare mascherato di religione, che camina per vie mondane, et a quello non convien aver alcun riguardo, come a cosa non divina, ma fraudolente: et esser gran cosa che tutta la predicazione di Cristo Nostro Signore e d’i santi apostoli non è versata in altro se non a dechiarare che le promesse del Testamento Vecchio temporali si debbono intender spiritualmente, e non di cose mondane, et adesso tutto il contrario, non si ha altra mira se non di tirar al temporale le cose spirituali da Cristo promesse alla Chiesa. Il signor prencipe mi parve fermato assai a questo, e passò a dire diverse cose delle correnti nel mondo, et io sempre mi valsi di questa risposta, che delle cose politiche io non intendevo, e che supravano la mia portata. Volse sua Altezza introdur ragionamento delle differenzie passate nell’occasione dell’Interdetto. Io risposi che erano sopite e scordate; et egli replicò che il tentativo d’amazzarmi mostrava che non erano scordate, et io soggionsi che quell’era scordato più di tutto. Et egli mi interpellò se io amava quei da Roma, e se credeva esser amato da loro. Risposi che dal canto mio non cadeva relazione d’amore, ma che io li osservavo e riverivo come conviene alla loro grandezza. Qual pensiero essi avessero verso di me io non l’aveva mai ricercato, bastandomi assai attender al servizio del mio prencipe. Disse il signor prencipe che avrebbe caro che io li dicessi come intendevo che un prencipe non può esser scommunicato, e come si possa deffendere che se il prencipe fosse indegno non dovesse esser proibito dai sacramenti. Risposi che scommunicar vuol dir separar dal consorzio e commercio d’i fedeli, e che non si possono separar quelli che Dio ha congionto, e però la scommunica non può separar la moglie dal marito, perché Dio li ha congionti, né il figlio dal padre, perché Dio ha commandato che il padre sia ubidito, né meno il servo dal suo signore né il suddito dal prencipe, perché l’obedienzia di questi è da Dio commandata; che il ponto sta qua, che con le scommuniche si tratta espressamente di assolver li sudditi dal debito della fedeltà, e che dei sacramenti non si ha pensier alcuno, e che nessun prencipe quando fosse avvertito d’esser indegno s’arrogherebbe di voler i sacramenti, purché non si trattasse di sovertirli lo stato, e levarli quell’obedienza, che essendo commandata da Dio, nessun uomo con qual si voglia auttorità può levare. Disse il signor prencipe che così l’intendevano in Francia, e che però le mie scritture erano state lodate. Li risposi che la laude non viene a me, ma alla verità, che è chiara, e quanto a quelle scritture, che io le stimo deboli, e non vorrei manco esser giudicato da quelle. Mi soggionse che era un’altra opera intitolata l’Istoria del concilio di Trento, che si diceva esser mia. Risposi che a Roma sapevano molto bene chi era l’auttore, né volsi uscire di questa risposta. Mi dimandò se io avevo scritto altro, risposi non aver scritto né esser mai per scrivere cosa alcuna, essendo certo che mai quel che è scritto è inteso dal lettore nel senso dell’auttore. 367 cfr Rm 15, 4; 1Cor 10, 11; 2Tm 3, 16. Passò poi a dirmi che io ero religioso, e toccava a me consigliare vostre Eccellenze illustrissime di quello che era bene. Io dissi che vostra Serenità non si serviva di me per consegliare nelli affari del governo perché non aveva bisogno di conseglio, ma solo in qualche causa di giustizia tra il Prencipe e li sudditi, overo tra li sudditi medesimi: e perché egli si rendeva difficile ad assentir a questo io lo supplicai più volte di crederlo. Passarono diverse parole di complemento, et essendo il ragionamento durato circa un’ora il signor prencipe si partì. Questa è la sostanza delli discorsi, che durarono circa un’ora, e passarono dal canto mio con tutti li termini di riverenza e dal canto del principe con ogni dimostrazione di abondante umanità; essendomi però restato concetto nell’animo, attese le cose precedenti e gionti qualche altri indicii, che quel signore non mi abbia detto tutto quello che aveva dissegnato dirmi. Ma piacendo a vostra Serenità intender anco le cose che passarono precedentemente, aggiongerò che essendo arrivato il signor prencipe in questa città la domenica 13 del mese corrente, il lunedì seguente venne al monasterio accompagnato solamente da 2 d’i suoi, et addimandò di parlarmi. Il frate che attende alla porta, avendo così commissione da me sempre che son ricercato da persone non conosciute, rispose che io non ero in casa. Il giorno seguente tornò il signor prencipe accompagnato con alquanti, e con 2 nobili di questa città, ricercò di parlarmi, e disse di esser il prencipe di Condé; li fu risposto parimente che io non ero in casa, et uno di quei gentiluomini disse saper molto bene che io vi era, e faceva dir di non esserli, ma che il giorno seguente dovessi ritrovarmi, perché il signor prencipe era per parlarmi. Quel giorno seguente, che fu il mercoledì d’i 16 venne il signor prencipe alle 19 ore in tempo che io ero ancora in palazzo, e si trattenne aspettandomi fino alle 22368, ma io risaputolo mi trattenni fuora. In quelle 3 ore che il signor prencipe restò in monasterio ragionò con diversi frati, e prima andò in chiesa a vedere la sepoltura di Rinaldo Brederod, che morì in Friuli al tempo della guerra, e disse maravegliarsi che in quella chiesa si sepelisse eretici, e che quello era eretico; li rispose il frate esser costume dei monasterii di Venezia di sepelir li morti condotti alle chiese dai preti senza ricercar chi siano, e che non poteva credere che dai preti fosse stato accompagnato alla sepoltura un morto, se non fosse vissuto catolico. Introdusse ancora il signor prencipe col padre prior del monasterio ragionamento della persona mia. Li dimandò se io diceva messa, se la dicevo ogni giorno et a che ora, e se il popolo sta presente alla mia messa. Li rispose il priore che io dicevo messa la festa, e spesse altre volte, che la mia messa era l’ultima, alla quale stava presente il concorso del popolo ordinario esser nella chiesa. Li dimandò poi se io ero accommodato con Roma, a che il prior rispose di non saper che io avessi avuto altra differenzia, se non quella per le scritture occorse nell’occasione dell’Interdetto. Soggionse il signor prencipe che quelle scritture le aveva vedute, e che in Franza erano della medesma opinione, e che la Sorbona di Parigi le approvava. Li dimandò appresso se in monasterio io ero mal voluto, se avevo alcun inimico over emulo, al che essendo risposto di no, dimandò se io era nemico de giesuiti. A questo il priore passò con termini generali, e per divertirlo da tal ragionamenti entrò in la pace di Francia. In questo proposito disse il prencipe che gl’Ugonoti erano persone inquiete che non si contentavano di viver a loro modo, ma che volevano anco dominare, e se si contentassero solo di viver a modo loro sarebbono tolerati, sì come anco in Venezia vi sono molti che vivono a modo loro. Al tempo delle 22 ore vennero alquanti gentiluomini a levarlo, e si partì. Io ho schivato nelli sudetti tre giorni l’occasione di parlare con sua Altezza, per non essermi lecito di farlo senza la publica licenza, et insieme ero di opinione che da questo non potesse succederne alcun buon effetto. Ma avendomi commandato vostra Serenità che io dovessi fargli riverenza, e ricever i suoi commandamenti, in essecuzione di questo è successo il ragionamento di che ho fatto di sopra menzione. 368 Il principe arrivò al convento del Sarpi verso mezzogiorno e si trattenne fino alle 15. 7. Morte di fra Paolo dalla lettera di Fulgenzio Micanzio al Doge (15 gennaio 1623) edizione: Fra Fulgenzio Micanzio, O.S.M., Vita del Padre Paolo, prima biografia sarpiana, nuova edizione a cura di Davide M. Montagna, Milano, convento dei Servi in San Carlo, 1997, p. 20-21. Iddio ha chiamato dalle fatiche di questo mondo al riposo del Paradiso il suo fedel servo, e mio dilettissimo monsignor Paolo. Ed a me che, col prezzo della mia vita, avrei voluto essere a vostra Serenità nuncio del suo miglioramento e sanità, conviene esserlo della sua morte: morte per me luttuosissima e colpo il più fiero e grave, che in vita ebbi ancora provato; ma per lui felicissima, perché è stata la corona delle azioni della sua vita. Vivendo, fu sempre a tutti noi ed a tutta la Religione de’ Servi un’idea di quelle eccellenti virtù, che possono adornar un’anima cristiana e renderla grata a Dio; ed in morte, c’è ammaestramento di costanza e di quel perfetto rassegnamento in Dio, che debba avere un vero servo di sua divina Maestà. Le sue ultime azioni in numero di molte, ed in vera pietà ammirabili, non si ponno esprimere dalla mia lingua, interprete d’un animo confuso dal travaglio e oppresso dal dolore. Dirò questo: ch’è morto felicissimo, perché ha ottenuto quello in che erano uniti i suoi desiderii, studi, fatiche e pensieri; cioè morire nel servizio e per il servizio di sua Serenità. E, se è vero quello che comunemente si suol dire che la morte smaschera la vita, perché in tutte le azioni umane, o per arte o per interesse, vi possa cadere qualche simulazione o finzione, ma la morte levi tutte le finzioni e mostri nudamente quale fosse cadauno, felicissimo il mio caro maestro, che con due tratti soli nella sua morte ha rappresentata l’immagine della sua vita ed un perfettissimo ritratto di quella soda pietà, che dallo Spirito Santo viene commendata: Honora Deum et Principem. Perciocché, quanto fermamente fosse colla sua mente riposta in Dio, oltre l’aver egli consegnato in mano del padre priore [fra Amante Bonvicini da Brescia] tutto ciò che egli era ad uso concesso, e con grande devozione ricercati li santi Sacramenti – la confessione dal suo ordinario padre spirituale, e con somma umiltà ricevuta la santissima Eucaristia per mano del suo priore, con l’intervento di tutto il capitolo, e l’estrema unzione per mano del suo scrittore padre fra Marco - le sue ultime parole dette a me, dopo aver, con sommessa voce e altissima devozione, recitate sue brevi ed usitate preci ed avermi baciato ed esortato ad andare a riposare, furono queste: “Andate a riposare; ed io ritornerò a Dio, onde sono venuto”; e con questo sigillò la sua bocca nel silenzio eterno. E qual fosse il suo fervore nel servizio di vostra Serenità, da questo lo comprenda che in tutta la infermità una sola parola gli è uscita di bocca non coerente alle altre, e questa è stata: “Andiamo a San Marco, ch’ho un gran negozio da fare”. Così ora intento al servizio di vostra Serenità che anco quando il discorso non reggieva più la lingua, ella per abito contratto trascorreva in quello. Non debbo tacere anco l’ultima delle sue azioni, fatta con l’assistenza di tutti li padri, che, con affettuose orazioni e copiosissime lacrime e non finte, gli assistevano, che, dopo esser stato gran pezzo colle mani immobili, fatto uno sforzo, se le incrociò al petto e, fissando gli occhi in un Crocifisso che gli stava dirimpetto, fermò la bocca in atto ridente e, ribassati gli occhi, rese lo spirito a Dio. Ho voluto dare questo breve e confuso conto a vostra Serenità del fine del suo fedele e leale servo, con questi pochi particolari, successi in presenza di tanti padri, stimando mio debito il farlo; acciò, se le piacesse ordinare alcuna cosa intorno al suo funerale, prima che farne alcun principio sappiamo la sua mente, la quale prontamente eseguiremo. Grazie. FRATERNITÁ LAICHE a cura di Pier Giorgio M. Di Domenico INTRODUZIONE Nel Cinquecento, mentre il Terz’Ordine dei Servi si evolve sempre più verso forme istituzionalizzate di vita religiosa, altri tipi di aggregazioni più vicine alle confraternite accolgono quanti non sono in grado di assumere obblighi di vita associativa troppo impegnativi. Questa sezione presenta la Regola della Fraternità di Lucca, la Regola martiniana aggiornata dal Giani, gli statuti della Societas habitus e la lettera di partecipazione ai beni spirituali dell’Ordine inviata dal Montorsoli ai membri della Compagnia. Nella sezione agiografica si trovano le figure di Lucia di Culleri e Angela da Verona. Non va dimenticata la figura di un fratello che, nella sua dedizione agli ammalati, è un rappresentante significativo della originaria tradizione dei Servi, Lazzaro di Pistoia, di cui gli Annales danno questa essenziale notizia: «[Nel 1533] a Pistoia muore il signor Lazzaro, prefetto dell’ospedale di S. Desiderio, terziario del nostro Ordine, uomo notevole per pietà e fede, ed è sepolto nella nostra chiesa»369. Per altre notizie si rimanda alla sezione Fonti documentarie e narrative di questo volume III/1. bibliografia: P.M. BRANCHESI, Terziari e Gruppi laici dei Servi dalla fine del secolo XVI al 1645, “Studi Storici OSM”, 28 (1978), p. 304-343; E.M. BEDONT, I Laici dei Servi nel Cinquecento: Terz’Ordine e Gruppi Laici, in I Servi di Maria nel clima del Concilio di Trento (da fra Agostino Bonucci a fra Angelo M. Montorsoli) (5ª Settimana di Monte Senario, 2-7 agosto 1982), Monte Senario 1982 (Quaderni di Monte Senario – Sussidi di storia e spiritualità, 5), p. 145-178. 369 Annales OSM, II, p. 110. I. Regola della fraternità di Lucca (1516) La Regola della fraternità di Lucca è conservata in un codice della biblioteca Estense di Modena, contenente anche la Legenda beati Philippi e la regola di Martino V tradotta dal Giani. Si caratterizza per un intenso afflato spirituale. Insiste sul significato dell’abito nero (memoria della passione di Gesù) e sul ruolo di santa Maria come guida dei suoi devoti sulla via della preghiera fino all’incontro finale con Cristo. edizione: P.M. SUAREZ – D.M. MONTAGNA, Una «divota fraternità» dei Servi a Lucca (documentazione del secolo XVI), “Moniales Ordinis Servorum”, 3 (1965), p. 37-48 Principio della regola E del modo di vivere delle sorelle in Cristo Jesu del habito de’ frati de’ Servi della vergine Maria facta et compilata o composta nel m°cccccxvi I Capitulo del modo del procedere Perché ogni costitutione o lege quanto più è chiara e distinta tanto meglio e più facilmente se intende e più rectamente se observa, per tanto in tre parte principale sarà distinta questa Regola, a ciò le vere serve e figliole della vergine gloriosa Maria possino felicemente caminare al porto di salute. Nella prima parte si parlerà del principio dell’habito de’ frati e sorelle chiamati de’ Servi di Maria vergine. Nella seconda parte si dichiarerà del modo del vivere e dell’obbligo che hanno le preditte sorelle. Nel terzo luogo si concluderà el fructo e vero merito che aquista chi persevererà nel predetto habito della vergine Maria II Capitulo Come, quando hebe origine l’habito della vergine Maria Si contiene nel sacro evangelio di sancto Giovanni al decimonono capitulo, come nella passione e morte del Redemptore nostro Jesu Cristo si trovò presentialmente la sanctissima vergine Maria apresso alla croce dolendosi della morte del suo dulcissimo figliolo e così si crede che la dulcissima madre in segno di mestitia si vestisse di negro insieme con molti altri devoti. Per la quale memoria questo tale habito è rimasto nella Religione chiamata frati de’ Servi della vergine Maria. E a ciò che questo non si possa negare né in alcun modo altramente intendere o interpretare poneremo qui le parole di papa Innocentio octavo, le quale sono quasi nel principio della bolla chiamata Mare Magnum, le quali volgarmente così dicano: «Per la memoria della passione della benedecta Vergine che sostenne nella morte del suo sanctissimo figliolo Jesu Cristo si elleze l’habito negro pieno di mestitia …». I capitoli terzo e quarto tracciano la storia delle origini dell’Ordine e del suo sviluppo. V Capitulo Come da molti pontifici è stata aprobata la Religione de’ Servi di Maria sì delli homini, come delle donne Perché egli è scripto che: «colui non è degno di laude el quale se medesimo commenda ma colui è probato el quale è commendato et aprobato da Dio»370 e perché tutta l’auctorità che Jesu Cristo ha voluto lassare in terra è principalmente nel petto del pontifice (el quale per tale auctorità del 370 2Cor 10, 18. Redentore: «chi sarà aprobato in terra Idio etiam in celo lo confirmerà»371), per tanto questa sancta Religione di Maria vergine da tutti questi pontifici è stata aprobata e confirmata […]. Per li quali non solum questa Religione è stabilissimamente roborata, ma in tal modo distinta che ogni persona può participare d’essa, imperoché in tre gradi o vero Ordini si distingue: nel primo Ordine non si riceve se non homini e questi sono frati che sono sacerdoti et consecrati nel nome della vergine Maria; nel secundo Ordine solamente si ricevano donne, le qualle sono monache claustrale cioè reserrate nelli monasterij e sono velate, come in molte cità de l’Italia ne sono; nel tertio Ordine si ricevano così homini come donne, e per questo si domandano del tertio Ordine e possono essere vergine, maritate et vedue: questi tali vogliano i summi pontifici che tanto participino delle benedictione di Maria, quanto si facino quelli del primo e secondo Ordine. II Finita la prima principal parte, nella quale si contiene l’origine della Religione, in questa seconda è conveniente che si pertracti dell’obligo che hanno le sorelle che vogliano acrescere in perfectione in questa sancta Religione: così circa del vestire, come dell’orare e del cibo e di tutte le altre cose, come per capitoli sarano digesti. VI Capitulo Circa l’habito debono portare le sorelle Habiamo visto di sopra in che modo la sanctissima Vergine fu la prima a vestirse di panni negri el giorno della passione del suo unigenito figliolo Redemptore nostro Jesu Christo. Così bisogna che le nostre sorelle si conformino per partecipare della gratie di Maria vergine. L’habito bisogna sia in questo modo: in prima, una tonica di panno non molto fino colle maniche strette con una cintola di cuoio negro; in testa, con veli di panno lino o vero canapino; e di sopra un mantello pure di panno o vero roba negra non di molta finezza, che copra el capo e tutto el resto della persona, in segno di mestitia di tanta passione et vera humiltà: conformando però a tale habito la pura e sancta intentione, perché l’habito non fa perfecto nessuno senza la buona mente, ma l’uno con l’altro fa essere vere figliole e gratissime serve della gloriosa Madre. E suolessi qualche volta concedere alle maritate che non portino el predetto mantello in testa per qualche discreto rispetto; così alle altre. VII Capitulo Della oratione et sette hore canonice. Fra tutte l’opere del vero e perfetto cristiano non ci è uno acto di più gratitudine e di magiore perfectione quanto è l’orare, dove che l’anima nostra si coniunge col suo Creatore in vera humilità. E di quanta necessità sia el salvatore nostro Jesu Cristo lo dichiarò dicendo: «oportet semper orare et nunquam deficere»372. Pertanto se ordina che le nostre devote sorelle si ellegino per loro compagnia e guida l’oratione e, acioché Idio più facilmente si degni di exaudire, sempre habiano la mente alla dulcissima madre vergine Maria, pregandola che si degni presentare quelle tale prece al suo sanctissimo figliolo Cristo Jesu, el quale è el vero e vivente Idio creatore del mondo: e per questo mezo sono exaudite le depreccatione in salute dell’anima e del corpo. 371 372 cf. Mt 16, 19. Lc 18,1. VIII Capitulo Dell’ordine de orare Aciochè ordinatamente si proceda in nella oratione, per conformarsi con la chiesia Romana, per tanto sono obligate le nostre sorelle: a chi sa legere, dire l’ufitio della Madonna: e chi non sa legere, tanti paternostri e tante avemarie. In questo modo, cioè: all’ora del matutino, inanti giorno una hora in circa, chi è sana di corpo si debe levare i giorni festivi e dire matutino, vinti octo paternostri e vinti octo avemarie; e chi non potesse a tale hora, le dica immediate levata che gli è; e così inanti desinare, dica prima, tertia et sexta: sette paternostri e sette avemarie per ogni di queste hore; e dopo desinare, in fine al’hora di vespro, dichino nona e vespro, sette paternostri e sette avemarie per nona e quatordici per vespro; e la sera inanti che si vada a dormire, si dica compieta sette paternostri e sette avemarie. E queste tale oratione si dichino devotamente che quanto più sarà la devotione tanto più crescerà il merito. IX Capitulo Della sacramentale confessione et fructuosa comunione Così come nella infermità del corpo ogni homo debe essere solicito per recuperare la sanità, mediante le abstinentie et medicine, così e con più promptitudine dobiamo essere prompti per salute dello spirito, mediante el confessarsi et comunicarsi. Per tanto si ordina che le nostre sorelle tre volte l’anno, oltra l’obligo della sancta madre chiesia, si confessino e comunichino, cioè: per la Natività del Signore et redemptore Jesu Cristo e per la Pentecoste e per la Asumptione della sanctissima madre nostra, vergine Maria; se legittimo impedimento non intravenisse, facta la excusatione però al padre correptore o alla madre priora. E inanti che se apresenti per comunicarsi, doppo che saranno confessate, ciascuna si sforzi diligentissimamente prepararsi per ricevere tanto inexplicabile sacramento. E questa preparatione si faci o per oratione o contemplatione mentale, sperando el paradiso e con timore delle pene dello inferno, o qualche altro castissimo pensieri o per via di disciplina, pure che lo spirito sia infervorato. X Capitulo Del digiuno, silentio et conversatione Non è dubio che molti mali nascono per el superfluo mangiare e facilmente per la intemperantia si casca nel peccato della gola e di libidine, el remedio del qual vitio è per temperamento di cibi. Pertanto se ordina che le nostre sorelle non mangino carne el mercoledì in tempo di sanità, così si debi alquanto rafrenare el corpo per li digiuna, i quali sono comandati dalla sancta chiesia. E oltra a quelle siano obligate digiunare ogni venerdì e fare l’avento e digiunarlo, el quale incomincia la più prossima dominica alla festa di sancto Andrea e dura infine alla Natività del nostro Signore Jesu Cristo. E perché l’ornamento di queste bone opere è el discreto parlare, per tanto siano avertite le nostre sorelle quando sono al divino uffitio servare silentio, si già qualche oportunità non intravenisse e allora parli quanto la necessità soporta. E non vadino le sorelle nostre a noze, né a balli, se non fusseno noze di figliolo o figliole. E conversino con persone di buona fama, se non fosse per amunire qualcuno, a chi fusse du bisogno la fraterna correptione, come comanda el salvatore nostro Jesu Cristo. XI Capitulo Della carità che si debe usare alle infirme che sono dell’habito di Servi della vergine Maria Ogni Religione e sancto vivere bisogna sia fundato sopra allo stabile et inconcusso fundamento della pietosa carità, non solamente in verso Idio ma anchora inverso el prossimo, come per suo particulare precepto ci comanda el Redemptore nostro dicendo: «hoc est preceptum meum ut diligatis invicem sicut dilexi vos»373. Bisogna amare aduncha el proximo nostro e questo amore precipuamente si congnosce nel tempo delle infermità; così del corpo come dell’anima. L’enfirmità dell’anima se intende quando ch’el proximo ci offende: che siamo prompti al perdonarli e così si sochorre spiritualmente. E se el proximo è infermo, che per carità sollicitamente siamo ai suo’ bisogni. E questo sarebe difficile cercare tutti l’infermi; al mancho, si dichiara che le nostre sorelle siano vigilantissime, una verso l’altra, quando se infermano e caritativamente visitarsi aricordando a quella che è inferma la devotione e sacramenti della chiesia, come confessione e comunione. E se la inferma fusse in bisogno, sia aiutata dalle altre quanto si può. E aciochè questa visitatione non manchasse, la priora sia tenuta a ordinare secondo el tempo due, che ponghino in effecto questo precepto. XII Capitulo della correctione delle nostre in Cristo divote sorelle […] XIII Capitulo Della congregatione delle nostre divote sorelle In memoria e vera salute dell’anime delle nostre sorelle in Cristo Jesu vogliamo e ordiniamo che ogni primo venerdì del mese tutte vengino a visitar la nostra sancta chiesia e insieme con vera pace e concordia odino una messa e poi el sancto verbo di Dio e poi stieno a udire devotamente legere la sancta Regola […] XIV Capitulo Della obligatione che hanno le nostre divote sorelle […] XV Capitulo Dello osequio che far si debbe per ciascuna sorella morta della nostra sancta religione […] XVI Capitulo Della electione della priora delle nostre sorelle […] XVII Capitulo Dell’uficio della priora delle nostre humile sorelle […] 373 Gv 15, 2. III Primo Capitulo della terza parte Cioè de’ premij loro Poiché, per benignità di Jesu Cristo finita la prima et seconda parte siamo pervenuti alla terza, dove brevemente come fu promisso manifesteremo el merito ch’el pientissimo Idio reserva finalmente ai Servi e Serve di Maria vergine che continuerano infine alla morte in questa sanctissima Religione, e ritrovo essere el premio distincto in tre parte: el primo è temporale; el secondo è spirituale in questo mondo; el terzo sarà per benignità di Dio nel paradiso. El primo premio si è che ogni persona, così de homini come di donne, sono libere e exente da ogni judice temporale, né sono obligate a loro lege, né datij e imediate siamo sottoposte alla Sedia apostolica come vole Bonifacio [Innocenzo] papa octavo nel Mare Magno benchè per questi tali privilegij temporali nessuna persona si debe disponere a ricevere questo sancto habito perché sarebe pensieri vilissimo. XIX Capitulo De privilegij spirituali delle nostre sorelle in Cristo Perché ogni nostra operatione debe esser afine della salute dello spirito, per tanto vogliano i pontifici come si contiene nelli nostri privilegi che tutte le indulgentie plenarie e quelle che non sono plenarie per tutte le chiesie di Roma, incominciando a sancta Maria del populo dove più volte vi sono plenarie indulgentie e a tutte le altre chiesie, tutte sono quelle medesime senza differentia in tutte le chiesie della vergine Maria de’ frati de’ Servi dispensate solamente per li frati e sorelle dell’habito, visitando devotamente la chiesia come si conviene. […] XX Capitulo De privilegij più in particulare delle nostre sorelle Vogliano i pontifici maximi che la Religione della vergine Maria, chiamata de’ frati de’ Servi, godino e possedino questi privilegi. In prima, che si possi administrare la communione e l’olio sancto a tutti quelli che hanno tale habito, senza impedimento del parrochiano. Item, che nel tempo dello interditto potiamo celebrare colle porte serrate e amittere tutti quelli dell’habito nostro come aparisse nel Mare Magno; e a tutte le sorelle e fratelli del terzo Ordine potiamo celebrare in casa quante volte sarà di bisogno. Item, che ogni frate e sorella sia esente dallo inquisitore. Item, ogni persona o frate o sorella si possi elegere un confessore una volta in vita e l’altra in morte, el quale possi absolvere d’ogni caso e peccato, e poi ogni altra volta po’ essere absoluta nella Religione d’ogni caso dalli riservati in fuora. XXI Capitulo Dell’ultimo premio delle nostre devote sorelle Benché ogni buono e fidele cristiano che viverà secondo el sacrosancto evangelio si possi finalmente salvare perché il Salvatore dice: «qui crediderit et baptizatus fuerit salvus erit»374, pure tanti sono i periculi che, se l’homo non piglia qualche speciale adiuto per devotione, facilmente potrebe remaner excluso di vita eterna. Pertanto beati a quelli che sapranno aceptare l’invito delle felicissime noze dell’agnello immaculato, come testifica sancto Johanni nello Apochalipse: «beatus 374 Mc 16,16. qui fuerit invitatus ad cenam agni»375. Ma quall’è più certo invito che quello che è facto dalla vergine Madre di Jesu benedecto per la sua santa Religione? A questi tali finalmente serà ditto: «qui perseveraverit usque in finem hic salvus erit»376. Che Dio cie ne dia la sua sancta gratia, a ciò senza fine con maxima letitia potiamo laudare la sua infinita bontà, insieme colla sua dulcissima madre vergine Maria. II. La regola di Martino V aggiornata da Arcangelo Giani Il vicario generale dei Servi, fra Lelio Baglioni, con lettera del 17 settembre 1590377, affida a fra Arcangelo Giani il compito di tradurre fedelmente la regola che Martino V aveva dato alle fraternità laiche dei Servi di Maria378, e di integrarla con un commento che servisse, tenuto conto del mutamento dei tempi, a «dichiarare, ageuolare, e tor via molte difficoltà e molti scrupoli, per i quali pareua che assai diuote persone si ritirassero dal seguir volentieri questa Regola»379. Alcune di queste fraternità, quasi esclusivamente femminili, si erano evolute fino a diventare vere e proprie comunità religiose, anche se non inserite nelle rigide strutture di un monastero; per esse la regola di Martino V era divenuta troppo generica. Per altri, uomini e donne, che continuavano a vivere nelle proprie case, la regola imponeva obblighi eccessivamente gravosi. Premettendo un Discorso intorno all’origine e progresso delle Monache velate e sagrate del Secondo Ordine e de’ Fratelli e Sorelle del Terzo Ordine de’ Serui di Santa Maria380, il Giani ricorda anche che il papa ha espressamente dichiarato che la regola non obbliga sotto pena di peccato, ma che concede a tutti quelli che la osservano di partecipare a «tutti e priuilegi, fauori, gratie, e di tutte le indulgenze e altri spirituali tesori che di tempo in tempo da diuersi sommi Pontefici sono stati immediatamente conceduti a questo Ordine». Di fatto il lavoro del Giani si rivolge esclusivamente a donne. Il Giani dedica il suo lavoro a Lisabetta Zata degli Antinori, da molti anni priora della «Compagnia delle diuote Sorelle dell’Ordine de’ Serui della Nuntiata di Firenze», che aveva insistito presso il padre correttore Donato e il vicario generale Lelio Baglioni sulla necessità di rivedere la regola di Martino V381. Il Giani premette alla regola un «Discorso intorno all’origine e progresso delle Monache velate e sagrate del Secondo Ordine e de’ Fratelli e Sorelle del Terzo Ordine de’ Serui di Santa Maria», in cui collega le origini del Terz’Ordine a santa Giuliana Falconieri e alla beata Giovanna da Firenze. Obbedendo alla richiesta del vicario generale, il Giani dichiara di aver compiuto due cose: la traduzione fedelissima dal latino in volgare dei ventidue capitoli della regola di Martino V, così che il suo lavoro non appaia una personale invenzione ma testimoni l’autorevolezza di una regola antica più di duecento anni - «percioche noi consideriamo che questa Regola fusse fatta molto inanzi al predetto Papa Martino»382, e poi un commento spirituale che stimoli quanti leggono o ascoltano la regola e soprattutto che liberi dalla preoccupazione di commettere peccato in caso di infrazione, come già Martino V aveva precisato nell’ultimo capitolo della Regola. Si riporta qui solo una scelta delle «dichiarationi», cioè la spiegazione e il commento spirituale dei singoli capitoli della regola. edizione: A. MORINI-P. SOULIER, Regola che diede papa Martino V e confirmo Innocentio VIII a Fratelli e le Sorelle della Compagnia de’ Servi di Santa Maria. Ridotta d’ordine del P. Reverendissimo Maestro Lelio Baglioni Fiorentino, vicario generale apostolico di questo Ordine, alla sua prima e antica forma, per opera e diligentia del R.P. Maestro Archangelo Giani de’ Serui Fiorentino ...in Monumenta OSM, VIII, p. 21-70. 375 Ap 19,9. Mt 10,22; 24,13. 377 cf. Monumenta OSM, VIII, p. 23-24 378 cf. Fonti storico-spirituali, II, p. 373-385 379 cf. Monumenta OSM, VIII, p. 24, p. 35 380 ibid., p. 25-37 381 ibid., p. 21-22 382 ibid., p. 35 376 Dichiaratione del primo capitolo Del modo del risceuer i Fratelli e le Sorelle nella Compagnia «Non portare in casa qualsiasi persona, perché sono molte le insidie del fraudolento» (Sir 11, 31) Perche e non basta solamente, dilettissime Sorelle, usar molta diligenza in fabricarsi qualche comoda e agiata habitatione, se poi non si ha gran cura di conseruarla dalle rouine e intrometterui dentro persone che sieno atte piu presto a mantenerla che a distruggerla, di qui è che il Sauio, come hauete udito, ci esorta a considerar molto bene di non introdur nella casa nostra chiunche ci voglia entrar, imperò che molti sono gli inganni e i frodi delle male persone. La doue, se questo consiglio del Sauio à luogo nella casa materiale, che si dourà egli poi dire della casa spirituale di questa nostra santa Compagnia, doue assai maggior vigilanza si richiede per la sua conseruatione, di considerar molto bene che sorte di persone vi s’hanno da risceuere e introdurre, acciòche poi non ci si hauesse a dire da quel Profeta: Sovversori sono con te e tu abiti con scorpioni383, che noi hauessimo risceuuto in casa nostra chi macchinasse la nostra rouina e che in vece di persone pacifiche nella nostra casa noi hauessimo tanti velenosi scorpioni. Per tanto la nostra Regola, dilette Sorelle, ci comanda e ci ordina in questo primo capitolo il buon modo che si dee tenere a risceuer de Fratelli e delle Sorelle in questa nostra Compagnia; il che benissimo verrà da noi adempito ogni volta che e s’harà l’occhio che chi brama d’entrare nel nostro Consortio, come se proprio e douesse trionfar sopra d’un bel carro d’oro di quattro ruote, e verrà tra noi ornato di queste quattro principalissime virtù: Modestia, Honestà, Fede e Charità […]. La Modestia, con cercar humilmente licenza del padrone d’esser introdotto in questa casa spirituale; e’l vero e principalissimo padrone, dopo la Sedia Apostolica, s’intende el Padre Reurendissimo Generale de Serui […] o chi sia per lui, come il P.R. Priore e’l P. Correttore, senza de quali non varrebbe nulla ciò che per noi si deliberasse in questo ed’in ogn’altro affare. Ricercasi anchora l’Honestà, così esteriore quanto alla buona fama, come interiore quanto alla buona intentione; e massimo dalla parte delle donne, dou’ella devve essere senza pari, acciò che ogni minimo sospettuzzo ed’ogni scrupolo di dishonestà non potesse mai contaminar in parte veruna l’honor dell’altre honestissime Sorelle di questa Compagnia. […]. Ma di non minor consideratione dell’altre è la terza virtù che in simil persona si richiede, e questa è la virtù eccellentissima della Fede, la quale dourà esser in questa tal persona di due maniere, cioè fede teologica e fede morale. Con la prima si crede sinceramente a Dio, alla santa Chiesa, e alle sacre Scritture […]. L’altra Fede, che noi diciamo morale, dourà essere intorno alla lealtà che deue particolarmente alla roba del prossimo; e però si aggiugne in questo capitolo che chi desidererà entrar fra di noi, debba prima hauer soddisfatto interamente alla roba d’altri; il che si dee intendere della roba furtiuamente e ingiustamente tolta, e non di quei debiti i quali secondo le necessità ciuilmente e d’accordo si fanno alla giornata, i quali s’intendono douersi pagare, secondo le couentioni fatte tra chi presta e chi risceue, a tempi debiti e conforme alle necessità soprastanti. E questo era uno di quegli scrupoli che s’haueuano per i tempi passati, che chi voleua entrar qua douesse prima pagar tutti i suoi debiti, preso per la mala intelligenza di quelle parole del breve di Martino V, De alienis, si qua habuerit, satisfaciat ad plenum; il che non de debiti ciuilmente fatti, ma si bene della roba ingiustamente posseduta s’hà da intendere. E perche finalmente tutte le virtù nella Charità si fanno perfette e senza di lei nulla o poco rilieuano a un perfetto Christiano, di qui è che a chi dee entrar fra noi, dopo il portar seco le tre virtù predette, Modestia, Honestà e Fede, fa etiandio di mestieri la Charità: la quale allhora di perfetto grado si stima, quand’ella fino a nostri maleuoli e auersarij si distende; e però s’ordina in questo capitolo, che chi tenesse odio col prossimo si deua prima riconciliar seco, e poi offerisca il sacrifitio di se stesso in questa santa Compagnia al Signore Dio e alla sua gloriosissima Madre sopra del bel carro di queste quattro ruote di si rare ed eccellenti virtù. […] 383 Ez 2, 6. Dichiaratione del secondo capitolo (sull’abito) «Il profumo delle tue vesti è come il profumo dell’incenso » (Ct 4, 11) Sogliono bene spesso i segni esteriori del corpo per manifeste cognietture scuoprir’ altrui gl’occulti concetti dell’animo, e rappresentarsi come in viue pitture per i gesti del corpo i racchiusi pensieri del quore, in guisa tale che molto sia stimato difficile appresso di molti l’ascondere in faccia ciò che nella mente si cela; e di qui auiene, come ben diceua Salomone, che dal riso tal hora, e gl’andamenti, e’l modo del vestir d’vna persona facilmente si comprenda quant’ella vaglia e doue con i suoi pensieri ella cammini384. E per ciò lodeuole vsanza si stima in tutte le parti del mondo variare i vestimenti conforme a i vari accidenti e le diuerse passioni, hor d’allegrezza, hor di mestitia, che suol agl’animi nostri arrecare il tempo e le diuerse occasioni. Onde, se ben della Beatissima Vergine si può dire che ella in diuersi luoghi della Sacra Scrittura ci venga rappresentata, hora collocata alla destra del suo Signore con vestimenti d’oro guarniti di vari ornamenti, come la dipinge Daniel Profeta: Astitit regina a destris tuis385, hora circondata di sole e coronata di stelle, come la vedde il vangelista S. Giouanni sopra’ l globo della luna386; nondimeno, dopo che furono in quel mestissimo giorno della Passion di Giesù Christo smarriti i maggior lumi del cielo e le minori stelle del tutto rimasero spente, rimase questa sconsolata Madre da si eccessiuo dolore oppressa per la morte del suo innocentissimo Figliuolo, che non ce lo potendo con tutti gl’atti dolenti del suo misero corpo esprimere, ci aggiunse per maggior segno la forma lugubre di quest’habiti neri, che poi la portò sempre nella sua viduità, fin tanto che le fu concesso potergli cambiare col celeste manto della sua eterna gloria. […] Dalla qual cosa, diuotissime Sorelle, duoi grandi auertimenti in questo secondo capitolo ci rimangono da considerare: il primo è l’obligo grande che noi tenghiamo a questa nostra Celeste Signora, che de suoi medesimi panni con tanto nostro acquisto e tanti meriti si degna di riuestirne; il secondo è intorno alla consideratione del fine per lo quale noi douiamo di tal habito vestire, che non è per altro se non per dimostrare come ne nostri medesimi habiti si scorge un estrema humiltà e una grandissima diuotione, che si dee rinchiudere dentro alle nostre menti. […] E tutto ciò che dice questo capitolo, s’intende a confusione di chi sia o negligente a portar quest’habito, o ritrosa a lasciarselo veder publicamente indosso [...] Guardiamoci [...] che occultando l’habito santo della nostra celeste Reina e non lo portando publicamente nel conspetto del mondo a gloria sua, noi non ci dimostriamo verso di lei ingrate e indegne di cotanto bene. Ma poi che tant’oltre hà proceduto questa nostra trascuraggine in tale abuso, che pochissime vestino palesemente quest’habito, non si manchi almeno con grandissima diuotione portarlo sotto i panni, si come vsauano le nostre antiche di portarlo la notte e’ l giorno sopra le nude carni insieme con la cintura di quoio; e la mala vsanza di non lo portare esteriormente come si deue, sia ricompensata almeno da qualche altra opera pia. Dichiaratione del terzo capitolo (del modo di vestire i Fratelli e le Sorelle dopo che saranno state accettate) «Rinnovatevi nello spirito della vostra mente e rivestitevi dell’uomo nuovo, che è stato creato secondo Dio» (Ef 4, 23.24) […] chi va spesse fiate migliorando ed’acquistando ne gl’habiti della perfettion christiana […] adempisce interamente il bel consiglio di Paolo Apostolo di rinouar lo spirito della mente sua, con 384 Sir 19, 26.27. Sal 44, 10. 386 Ap 12, 1. 385 vestirsi del nuouo huomo, cioè tutto ornarsi delle belle virtù di Giesù Cristo Redentor nostro. Tra le quali gli abiti lugubri, che rappresentano l’Humiltà, la Mansuetudine, la Patienza, i Tormenti, la Croce, la Passione e Morte che per nostra salute sofferse il Figliuolo di Maria, ci si propongano in questo presente capitolo da vestircene non solo esteriormente, ma anchora spiritualmente nell’interiore, considerando insiememente, e ad vno per vno annouerando in loro i gran dolori che soffersero scambieuolmente la Madre e’ l Figlio. [...] Dichiaratione del sesto capitolo (Del modo di dire le sette hore canoniche o altre orationi) «Sette volte al giorno ti ho lodato sui giudizi della tua giustizia» (Sal 118, 164) […] due cagioni similmente douranno muouerci a lodare e ringratiare il N.S. Dio, ciò è l’esser della nostra primiera origine da lui in questo mondo prodotti, e il douere nella nostra ultima fine a lui ritornare. Donde ne nasce quel settenario tanto misterioso nelle Scritture Sacre, che rinchiudendo in se stesso el gran circolo di tutte le creature prodotte da Dio, e in se stesso rigirando dalla prima origine di tutte le cose della creatione, come da punto a punto nell’ultima fine, come sua perfetta quiete, s’unisce perpetuamente al settimo giorno dell’opere merauigliose d’Iddio: nel corso del qual circolo, essendo non solamente dall’infinita prouidenza e carità d’Iddio gouernato questo nostro corpo, ma l’anima etiandio per gratia e special fauore di giorno in giorno preseruata e difesa dall’abomineuole mostro de sette capi mortali del peccato; ragioneuol cosa sarà ancora che sette volte per ciascun giorno, ruminando noi con il pensiero leuato a Dio questi segnalati benefitij, con questa nostra lingua lo ringratiamo e lo lodiamo del passato bene, con pregarlo e disporlo anchora per l’auenire a voler tenere particular cura di noi. E questa è quella lode alla qual si disponeua el Profeta, ogni giorno considerando e meditando el giuditio della diuina giustitia e immensa carità d’Iddio. Di qui è che la Chiesa santa con misteri indicibili ha ordinato le sacre hore canoniche, non solo per meditarui dentro l’opere stupende d’Iddio nella creatione, ma anchora i compassionevoli e lagrimosi misteri della nostra redentione per Giesù Christo Saluator nostro sopra il duro legno della Croce. Onde questa nostra Regola, attendendo alla perfettion nostra, ci ordina, carissime Sorelle, che noi douiamo dire il diuino ufitio e le sette hore canoniche. Ma perche per lo più auiene, che noi o siamo impedite da infirmità o da altre miserie di questa vita, però assai discretamente da tal obligo vien esentato chi necessariamente rimanga occupato in altro. Dichiaratione del ottauo capitolo (Della sacramental Confessione e sacrosanta Comunione) [...] Questa nostra santa Regola ci ordina che almeno quattro volte l’anno ci douiamo tutte insieme comunicare in quattro principalissime solennità della Santa Chiesa (Natale, Pasqua, Pentecoste, Assunzione o Natività della B.Vergine) [...] il frequentar la santa comunione sarà sempre profitteuole all’anima nostra, purche l’vsiamo come si conuiene, imperoche il farlo per vsanza più che per duotione saria poco gioueuole, anzi molto danneuole. [...] Questa nostra Regola [...] ci amonisce a consigliarci in queste sante opere spirituali con quelli che possano e sanno gouernar l’anime nostre, non già che la ci diuieti vna tanta diuotione di frequentare più spesso i santissimi sacramenti, sempre per se stessi gioueuoli. Dichiaratione del decimoquarto capitolo (dello sfuggire i litigii e le questioni, e non portar seco i Fratelli armi di sorte alcuna) «Mia è la vendetta, e io darò il castigo» (Dt 32, 35) Se bene a noi, mansuete donne, non accade trattar altro di questo capitolo, il quale tutto per rispetto degli huomini di questa Compagnia fu riposto tra gli altri in questa Regola, tutta volta il ricordarsi a questa occasione, che lo sfuggire i litigii, le gare, gli odii, el sapere sopportarsi l’una con l’altra con patienza e humiltà, e sofferir ogni sorte d’ingiuria ed’offesa senza desiderarne ò procurarne vendetta, questa è una di quelle virtù che nostro Signore Giesù Christo fornì di consumare nel più eccellente tempo della sua santissima Passione, quando oppresso de tanti tormenti e con la morte alla bocca, in quelle acerbissime pene della Croce, scambio di chieder vendetta, domandaua perdono per i suoi crucifissori, si come tutte noi imitando sempre questo santissimo esempio adoperato dal nostro Giesù Christo, rimetteremo ogni grande offesa e torto che ci venisse fatto. Dichiaratione del decimoquinto capitolo (Della cura che s’ha da hauere intorno a gli infermi e inferme) «Non ti pesi visitare un infermo: per questo infatti sarai rafforzato nell’amore» (Sir 7, 39) Si come la carità è il perno di tutte l’altre virtù christiane, di tal maniera che senza di lei nulla di buono si possa sa noi esseguire, come benissimo argomentava l’Apostolo387, così è la sola carità quella che tra tutte l’altre buone opere nostre sommamente si dee bramare e chiedere da quello che ce la può dare, che è N.S. Dio. Ed accioche noi, dilettissime Sorelle, la possiamo maggiormente impetrare per noi medesime, ci conuien molto bene esercitarla prima col prossimo nostro, procurandogli con ogni nostro potere la salute del corpo e dell’anima: imperò che, se egli è vero, come è verissimo, che a noi sarà donata da Dio la carità e la gratia con quella stessa misura che noi l’haremo usata verso de poueri bisognosi, non è dubbio alcuno che noi possiamo aspettare di douer essere pagate di quella stessa moneta che per noi medesime haremo pagato altrui. Alla qual cosa hauendo hauuto molto ben l’occhio, chi ci diede questa santa Regola, ordinò in questo capitolo il modo d’acquistar per noi medesime, usandola in altri, la carità. La quale tanto più volentieri douiamo esercitare, quanto ella non solo da Dio ci sia per douer essere rimeritata in cielo, ma anchora in terra da nostri medesimi (quando il bisogno lo ricerchi) largamente ricompensata. Per tanto l’ordine di questo capitolo è che si debba hauer diligente cura delle nostre pouere inferme della Compagnia, e non permettere in modo veruno che alcuna di noi rimanga nelle sue auersità abbandonata dalle Sorelle, massimo nelle infermità, si dell’anima come del corpo. Ed’in questo, Sorelle carissime, si conoscerà se noi siamo vere Serue della Beatissima Vergine, se noi haremo tra di noi quella carità scambieuole, che predicaua il nostro Saluatore a suoi discepoli388, e che ne insegna Salomone, da confirmarci per questa via di consolare ed’aiutare con le nostre visite gli infermi nella vera e perfetta diletione. […] 387 388 cf. 1Cor 13, 1-3 cf. Gv 13, 34-35. Dichiaratione del decimonono capitolo (Della correttione da farsi a Fratelli e Sorelle, quando errassino) «Il bastone della correzione allontanerà la stoltezza» (Pr 22, 15) [...] Piaccia a N.S. Dio e alla nostra gloriosa Vergine Maria, che i nostri portamenti sieno tali nel conspetto d’Iddio e de prossimi nostri, che nulla tra noi auenga, per il che s’habbia da vsare la seuerità del gastigo. Ma quando pur ci sia tra noi bisogno d’emenda, faccisi con quella charità che ricerca il commercio di sante religiose e d’amiche Sorelle, con quel miglior consiglio e discritione che assai apertamente accenna e comanda a nostri superiori questa santa Regola. Dichiaratione del vigesimoprimo capitolo (Della autorità de nostri Superiori in poter dispensare sopra questa Regola) «Questo poi lo dico per concessione, non per comando» (1Cor 7, 6) Non volendo el nostro Signore Dio da noi se non quanto si può, et hauendo sempre grandissima compassione alla fragilità nostra, non permette che il giogo della sua santa legge talmente ci aualli, che noi non possiamo resistere à portarlo suauemente. Alla qual diuina misericordia conformandosi in tutte le sue ordinationi molto auedutamente questa nostra santa Regola, (come che ella non sia tanto rigida e tanto dura da osseruarsi, che molto le faccia di bisogno d’alleggiamento alcuno) in questo presente capitolo ell’ordina espressamente e concede che secondo la conueneuole discretione possa il Padre Correttore e la Madre Priora, ò chi sia per loro, assoluere e condonare tutte le negligenze e le transgresssioni commesse in questa Regola, e concedere e dispensare secondo la necessità e la qualità delle persone, che non sieno tenute à tutte o parte di quelle cose che comanda questa Regola da obseruarsi dalle Sorelle. […] Conclusione di tutta la Regola «Saranno condotte al re le vergini dopo di lei, le sue compagne ti saranno condotte in gioia» (Sal 44, 15-16) Ecco, finalmente, pietosissime donne, compito e perfetto il mistico tabernacolo della nostra Compagnia spirituale. Doue in somma si vede quanto ageuolmente il lauoro di quest’opera tenda tutto alla salute nostra, con ridurci à quell’ultima perfetione che humanamente da spirito buono e bramoso di christiano profitto sperar’si puote. E pare à punto questa santa Regola nostra per illustrarci la mente nel seruitio d’Idio in questo pietosissimo nostro Collegio, a sembianza di quel mistico candellier d’oro, con tanta eccellenza e magistero fabricato da quel rarissimo architetto Beseleel, che nel Testamento Antico risplendeua dinanzi al santuario d’Idio389. Imperò che, si come là di giorno e di notte sfauillauano in quel candelliero, a guisa delle mattutine stelle, sette lucerne ardenti per illustrar’ i sacerdoti e i ministri d’Idio, così qua in questa santa Regola sette cose degne di principal consideratione douranno ne gl’occhi della mente nostra, come tante sacerdotesse a far’degno sacrifitio di noi medesime alla gloriosa Vergine, risplendere e nella mano delle nostre operationi prontamente conseruarsi, in quella guisa che ci auuisaua il nostro Redentor Giesù Christo, quando ci diceua nel santo Vangelio: Sint lucernae ardentes in manibus vestris390. Le tre prime lucerne dalla destra, che douranno sempre esser’osseruate da gl’occhi nostri riguardanti in questa Regola, saranno i nostri tre principalissimi Superiori, à quali con debita osseruanza ed’obedienza ci sottomette questa regola: e questi sono il Sommo Pontefice […] il P.R. 389 390 cf. Es 37, 17-24 Lc 12, 35 Generale di questo Ordine nostro […] ed’il superiore ordinario […]. L’altre tre lucerne dalla sinistra doueranno sempre esser’ tre chiarissime considerationi principali: la prima, come noi siamo state tanto benignamente inuitate, allettate, e risceuute nel grembo pietosissimo di questo diuoto Collegio; la seconda, con quanta gran carità siamo ricouerate sotto il manto e riuestite dell’habito santissimo di quella gran Donna che fu degnata per Madre d’Idio, e che con quei lugubri panni ne diede sempre materia di quello amarissimo tormento che lei sofferse nell’ingiusta e rea morte del suo amabilissimo Giesù Christo; la terza, con quanta fermezza di promessioni e dolci legami spirituali, per non ci douer’ disobligar’ mai più da si degna e si illustre seruitù di colei che sopra i troni del Cielo empireo comanda a gl’Angeli ed è Regina di tutto l’uniuerso, noi ci ritrouiamo confermate e stabilite nella professione nostra, à seruire come tante honestissime damigelle in questa real Corte di Maria Vergine, di tal maniera che à punto si possa dir’ di noi quel’ che già disse quel buono e santo Re: Adducentur Regi Virgines post eam, proximae eius adducentur tibi in laetitia et exultatione. Ma sì come nel candellier’ d’oro la più rileuata ed’ eminente lucerna più di tutte l’altre à quei dorati tetti dell’antico santuario risplendeua, così deue il nostro settimo lume esser di quella maniera che disse nostro Signore Giesù Christo à gl’Apostoli Santi: Sic luceat lux vestra coram hominibus, ut videant opera vestra bona, et glorificent Patrem vestrum qui in coelis est391; come se questa luce altro apunto non sia se non la nostra mente prontissima ad’ esseguir’ la somma di tutte quelle virtù che in questa nostra Regola ci sono comandate, e faccia si che insieme risplendendo di dentro con la diuotione interna alla maggior’altezza del cielo, scintilli anchora di fuori con l’esempio del prossimo nostro all’edificatione altrui, nell’esseguir la somma di quelle eccellenti virtù che come tanti ornamenti d’oro nell’antico candelliero si scorgano à marauiglia in tutta questa santa Regola. Sono queste dodici virtù illustrissime, le quali, si come à guisa di 12 stelle circondano e fanno real corona à quella fronte serenissima della nostra gran’ Signora Maria Vergine392, cosi anchora possono ornare e circondare la più alta e nobil parte di noi medesime, che è la mente e l’anima nostra: oratione à Dio, vigilanza spirituale, penitenza de peccati, amor diuino nella santa comunione, profitteuole silentio, pronta obedienza, astinenza salutifera, perpetua continenza, humiltà perfetta, patienza nelle tribulationi, pietà verso de bisognosi, charità in Dio, in noi, e verso i prossimi nostri. Che tante virtù, se non più, son quelle che da noi richiede questa santa Regola tra tutti questi 22 capitoli, si come habbiamo compreso di sopra con tanta ageuolezza, quanta noi habbiamo, diuotissime Sorelle, udito e letto fino à questa ultima conclusione. La quale quanto più ci fà libere, tanto maggiormente ci douria dolcemente tirare ed’ allettare à seguirla sempre, e farne quel capitale medesimo che noi faremmo d’una pretiosissima gioia, con la quale ci potessimo adornare per apparire tutte gratiose e belle alla presenza del nostro dilettissimo Sposo, per esser apunto, com’egli ci diceua, Similes hominibus expectantibus dominum suum, quando reuertatur a nuptiis393. Questo apunto sarà, care Sorelle, il cellario del nostro diletto Sposo, doue noi potremo ageuolmente riporre il vino pretioso da inebriar’ gl’animi nostri, el balsamo della diuina gratia da riempiere e adornare à tempo le cinque lampadi de nostri corporei sensi, acciò non ci venga poi diuietato l’entrare a quelle celesti nozze della gloria, e non ci sia detto, come à quelle cinque vergini stolte: Nescio vos, Nescio vos394. Siamo dunque tutte suegliate, e usiamo diligenza mentre ci si concede il tempo, e non ce l’impedisce l’improuisa morte al santo seruitio di questa gloriosissima Imperatrice nostra, à i piedi della quale humilmente inginocchiate preghiamo: Maria Mater gratiae, Mater misericordiae, Tu nos ab hoste protege, Et hora mortis suscipe. Amen. 391 Mt 5, 16: Così brilli la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli. 392 cf. Ap 12, 1. 393 Lc 12, 36: Simili a coloro che aspettano il loro padrone al ritorno dalle nozze. 394 Mt 25, 12: Non vi conosco. III. La Societas habitus Gli Annales del Giani dicono che la Societas habitus sarebbe stata istituita presso il nostro convento di Castel San Giovanni (Piacenza) il 12 dicembre 1479 da fra Vittore da Cremona395. Essa fu riformata da fra Arcangelo Ballottini da Bologna dopo la predicazione della quaresima del 1598. Il Montorsoli gli mandò una lettera di approvazione (24 maggio 1598) e il 9 febbraio offrì la partecipazione dei beni spirituali dell’Ordine a tutti coloro, uomini e donne, che si sarebbero iscritti “nella compagnia dell’habito nostro”. Gli statuti della compagnia, pubblicati dal Ballottini, fanno ancora riferimento alla bolla di Martino V (1424), ma in realtà ne ripetono soltanto gli aspetti più devozionali. Mentre la regola del Terz’Ordine prescrive obblighi impegnativi di vita comune e di preghiera – tanto da favorire, come è stato già notato, il passaggio naturale a forme di vita propriamente religiosa -, gli statuti della Societas habitus ne sono un adattamento alle reali possibilità di persone che vivono nel mondo. 1. Statuti Da Arcangelo Ballottini, Vera origine et progresso del sacro ordine de’ Servi di Santa Maria, con il Sommario delle indulgenze, stationi e celesti thesori concessi da molti Sommi Pontefici e communicati alli divoti e divote che portano l’habito di esso ordine in memoria delli Dolori che sostenne la Madonna nella morte e Passione del Figliuol suo Salvator nostro Giesù Christo, di nuovo raccolto e ristampato per ordine del P. Reverendiss. Generale Angiolo Maria Montorsoli Fiorentino, dal R.P.M. Arcangiolo Ballottini da Bologna, Servo divoto di Maria. In Modona, per Francesco Gadaldino, stamp. duc. 1599 edizione: P.M. SOULIER, Vera origine et progresso del sacro ordine de’ Servi di Santa Maria, in Monumenta OSM, XVI, Montmorency/Wtteren 1916, p. 5-38 Oblighi della Compagnia [dell’habito de’ Servi della Beata Vergine] Papa Martino quinto di felice memoria, nella sua bolla dove conferma la Regola e le Constitutioni delli fratelli e sorelle della compagnia, dichiara nel fine che niuna constitutione oblighi a peccato mortale, e però le infrascritte ordinationi non saranno obligatorie, ma essortatorie, per guadagnare le sante indulgenze e mostrarsi divotissimi della Beata Vergine Maria. Prima, nel giorno che pigliano l’habito et entrano nella compagnia, sarà bene siano confessati e communicati, ramentandosi che in quell’hora benedetta diventano compagni e compagne della Beata Vergine, vestendosi delli estremi dolori che sentì morendo il Figliuol suo. E questo habito, che sempre devono portare, basta che la prima volta sia benedetto e gli sia dato dal prelato o da altro che habbi l’autorità, perché l’altre volte se lo potranno fare e mutare a sua posta. Secondo, perché questa compagnia è radunata nel nome della gloriosa Vergine Maria, si essortano tutti li fratelli e sorelle volersi confessare e communicare tutte le feste principali di Lei, che sono sette: Concettione, Natività, Presentatione, Nonciatione, Visitatione, Purificatione et Assontione, digiunando anco le sue vigilie, per meglio disporsi alle festività sue. Terzo, conviene visitare spessissime volte e più che si può, l’altare della B. V. posto nella capella dedicata alla compagnia; e quivi con divotissime orationi pigliare le sante indulgenze, e pregarla che interceda per li bisogni della Santa Chiesa di Christo e per la conversione de’ peccatori, essendo Madre di gratia e di misericordia. Quarto, nel giorno e nella domenica che si farà la processione, devono lasciare ogn’altra cosa e trovarsi presente, accompagnando le sante reliquie divotamente, rendendo obedienza alli signori et alle signore ufficiali et ad altre persone deputate a questo effetto dalla compagnia. 395 Annales OSM, I, p. 554. Quinto, per la morte de’ fratelli e sorelle della compagnia, si devono dire sette pater nostri e sette ave Marie, pregando la Beata Vergine che, per li meriti delli sette suoi dolori, habbi per raccomandata quell’anima. Et a questo effetto, in tutte le chiese dove sarà erretta questa compagnia, gli ufficiali faranno fare quattro anniversarij solenni ogn’anno per tutti li morti della compagnia; a quali devono intravenire tutti, et huomini e donne. Il primo si farà il giorno dopo la Nonciatione della Beata Vergine; il secondo, il giorno dopo la sua Assontione; il terzo, il giorno dopo la sua Natività; et il quarto, il giorno dopo la sua Concettione. Sesto, tutti della compagnia si devono essercitare nelle opere della misericordia, agiutando i poveri della compagnia, visitando gl’infermi e provedendo alli honorati bisogni della compagnia in honore della B. V. e salute delle anime loro. Settimo, è anco dovere, che, sì come questa religione de’ Servi della Madonna benignamente raccoglie alla participatione de’ suoi beni tutti li fratelli e sorelle della compagnia, che in ricompensa di tanto amore, tutti quelli della compagnia nelle loro orationi raccomandino a Dio et alla Beata Vergine Maria questa religione de’ suoi Servi, raccordandosi che spetialmente sono tenuti pregare Nostro Signore Dio che illumini tutti li Reverendissimi Generali che saranno, al ben reggere e governare la religione, e con preghiere efficaci haver eterna memoria del presente Reverendiss. P. Generale Angiolo Maria, per havere in molti luoghi ordinata questa compagnia, e dove era prima, haverla accresciuta in grandezza et honore, communicandogli tutti li beni e opere pie della religione, come ne appare chiaro e perpetuo testimonio nella seguente sua lettera paterna. [Il Ballottini inserisce a questo punto la traduzione della lettera con cui il Montorsoli concede ai membri della compagnia la partecipazione ai beni spirituali dell’Ordine: vedi par. 2 seguente] 2. Lettera di Angelo Maria Montorsoli alla Compagnia dell’abito. da Annales OSM, II, p. 319 Frattanto nell’anno seguente 1598, con non minore ardore Angelo Maria [Montorsoli] prese a vigilare ovunque per indurre i laici alla compagnia del nostro santo abito [...], così pubblicò una lettera, secondo il costume degli antichi, per i singoli gruppi, comunicando a ciascuno che portava l’abito la partecipazione ai beni spirituali. Fra Angelo M. Montorsoli Fiorentino, umile professore di Sacra Teologia e Priore generale dell’Ordine dei Servi della B.M.V. sotto la Regola di S. Agostino, a tutti i dilettissimi fedeli di ambo i sessi, in ogni luogo stabiliti, presenti e futuri, iscritti e da iscriversi in futuro alla Società del nostro abito, con il cuore e con l’anima congregata a onore della gloriosissima Vergine Maria e in memoria dei dolori che sostenne alla morte del Figlio suo unigenito il S.N. Gesù Cristo, salute e pace nel Signore sempre. Non v’è nessuno che dubiti che noi possiamo ottenere l’aiuto celeste da tutti gli abitanti del Cielo, come a Dio graditissimi, ma possiamo ottenerlo in misura più abbondante dalla beatissima Regina del Cielo Maria vergine, madre di grazie e di misericordie. Perciò provo una grandissima gioia e mi rallegro intensamente con voi, Fratelli e Sorelle del nostro abito, poiché con ottima e sapientissima decisione avete scelto la Vergine Madre Dio come vostra particolare Signora e Patrona e avete desiderato di essere annoverati e ammessi tra coloro che in memoria dei dolori sofferti nella morte e passione dell’unigenito suo Figlio, portano con reverenza questo abito nero della nostra Religione, che il giorno 25 marzo 1239, il venerdì santo, nel sacro eremo di Monte Senario, ella mostrò dal cielo ai nostri Padri e ordinò loro di rivestirsene. Perciò, affinché possiate più facilmente e copiosamente ottenere grazie e tesori celesti, confidando nella misericordia di Dio e per la pia intercessione della beatissima Vergine e dei nostri protettori Agostino e Filippo e di tutti i santi, per l’autorità apostolica da noi esercitata, tutti voi, presenti e futuri, della Società dell’abito nostro per tutto l’Ordine costituiti, in vita o in morte e dopo la vostra morte, facciamo partecipi e compagni delle messe, sacrifici, preghiere, uffici, predicazioni, digiuni, vigilie, studi, astinenze, pellegrinaggi, fatiche e di tutti i beni che ovunque in tutto il nostro Ordine Dio, con il suo aiuto e per sua misericordia, avrà permesso a fratelli e sorelle nostri di operare. Volendo inoltre che ciascuno di voi, presente o futuro, morto o vivo, sia ammesso alla partecipazione di tutti i suffragi e benefici del nostro Ordine, affinché corroborato e confortato da questi aiuti della nostra Religione possa ottenere e raggiungere un aumento della grazia di Dio in questo mondo e nell’altro il premio della vita eterna. In fede di tutto questo confermiamo la lettera apponendovi il nostro sigillo e la firma di nostra mano. Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen. Dato a Firenze nel nostro convento dell’Annunziata. 9 febbraio 1599 Così è. Io fra Angelo Maria, Generale dei Servi. Grazie a questa lettera molte Società, interrottesi per l’incuria dei tempi, si rinnovano. Una di esse non deve, sembra, passarsi sotto silenzio potendo costituire un esempio per i posteri. Il maestro Arcangelo Ballottini aveva tenuto una predicazione quaresimale nella chiesa dei Servi a Bologna e in particolare la sera di ogni sabato aveva pronunciato sermoni sulla Beatissima Vergine – della quale si mostra servo sempre fedele con la parola e con l’esempio – e aveva incitato il popolo alla devozione dell’abito. Giunto il giorno di Parasceve, quando nelle prediche si venerano con maggiore intensità i tormenti della croce di Cristo, applica ogni genere dei patimenti del figlio Gesù alla Madre Maria e spiega le sofferenze dell’animo che in quel giorno ella ebbe a patire con accenti devotissimi e con grandissima commozione degli animi e lacrime, e alla fine narrò fin dall’inizio a proposito del lugubre vestito quali vesti nere ella portasse per la morte del figlio, e sul Monte Senario in questo stesso giorno quale ricordo del modello del suo abito aveva lasciato ai suoi servi come perenne memoriale dei suoi patimenti. Finita la predica, il popolo con i notabili della città prese subito il santo abito, compreso lo stesso arcivescovo della città, Alfonso Paleotti396 , che si mostrò costante protettore della medesima società. 396 Alfonso Paleotti (1531 – 1610), è il successore sulla cattedra episcopale bolognese del cardinale Gabriele Paleotti, suo cugino. ICONOGRAFIA a cura di Franco A. Dal Pino Introduzione Particolarmente ricca e complessa sia nelle nuove espressioni a stampa che in opere pittoriche e scultoree, l’iconografia dei Servi del periodo è stata assai di recente notevolmente riprodotta e studiata. Per le stampe, importante lo studio di L. Magi riguardante Stampe mariane nei volumi di «Annalistica» dell’Archivio Generale O.S.M., comparso in “Studi Storici OSM” del 1966 (p. 263-284), e i numerosi “specimina” offerti da P.M. Branchesi in particolare nei suoi tre volumi di Bibliografia curati tra il 1971 e il 1973 che vanno dal Quattrocento a tutto il Seicento, e nel suo contributo sui Terziari e gruppi laici pubblicato nella suddetta rivista nel 1978 (p. 304-343). Per dipinti e sculture, essenziale la raccolta di riproduzioni a colori curata da F. M. Gobbo attraverso i Calendari iniziati come Via pulchritudinis nel 1984 e portati avanti egregiamente fino al presente anno, e parzialmente il catalogo illustrato Splendore di bellezza riguardante Le più antiche immagini di santa Maria dei Servi, curato nel 2007 da M.C. Visentin, che va dal Duecento ai primi decenni del Cinquecento, partendo, per gli anni qui in esame, dalle immagini di Pietà o Vesperbild che chiudono il Quattrocento e terminando con la Madonna dal collo lungo con Bambino e angeli del Parmigianino del 1534 ca. Punti di riferimento sono quelli già offerti da A.M. Rossi nel suo volumetto su L’ideale mariano per i Servi di Maria del 1954 e da E.M. Casalini nei numerosi e preziosi studi relativi in particolare alla Santissima Annunziata di Firenze. Non essendo qui possibile dilungarsi in una dettagliata presentazione delle tematiche presenti e successivamente privilegiate, si è pensato di fissare alcuni punti orientativi emersi dalla raccolta di documentazione contenuta nella prima parte di questo volume di Fonti e dalle stesse opere artistiche catalogate. Premettiamo che le linee di sviluppo, che è stato possibile derivarne, sembrano confermare quanto rilevato finora: il persistere, cioè, di una pietà mariana complessiva che, come notato da E. M. Ronchi nel precedente volume delle Fonti (p. 596), abbraccia tutta la “vicenda della santa Vergine intrecciata con la vita di Gesù” (come mirabilmente nei riquadri dello “Armadio degli argenti” realizzato nel 1450-1452 dal beato Angelico per la Santissima Annunziata di Firenze, bellamente ripresentati di recente da E. Casalini nel volumetto Il beato Angelico e l’Armadio degli argenti della Santissima Annunziata di Firenze). Risultano di fatto ancora presenti nel Cinquecento (percorrendo il Calendario sopra citato), accanto agli episodi legati a feste importanti: Natività di Maria, Visitazione e Assunzione che appaiono inizio secolo, affrescati da grandi pittori, insieme alle Storie del beato Filippo, nel Chiostrino dei voti della Santissima Annunziata di Firenze, quasi sintesi della spiritualità dell’Ordine in quel momento, temi precedentemente affermati (illustrati in parte da E. Ronchi alle p. 591-607 del citato secondo volume di Fonti, con otto tavole). Si tratta sommariamente inoltre di quello ancora prevalente della Madonna con Bambino, di maestà o di tenerezza e di altri ad esso connessi: sant’Anna con Maria e il Bambino, Presentazione di Maria al tempio, Natività di Gesù e adorazione dei magi, Madonna dell’umiltà, della misericordia o del manto, con Bambino, santi e talvolta personaggi (“Sacra conversazione”), di pietà o Vesperbild. Di queste tematiche restano ora dominanti e segnano intenti di devozione dei frati e dei fedeli (che commissionano spesso le opere), la Madonna con Bambino (pensare alla particolare versione di Reggio Emilia della Madonna della Ghiara che adora e prega il Bambino: Quem genuit adoravit, per la quale vedere bella stampa in BRANCHESI, Bibliografia, III, p. 318), da cui prendono ora spesso il titolo di Madonna delle Grazie le chiese fondate o donate; l’Annunciazione, che continua a offrire il titolo a diversi conventi e tende, a partire da Firenze, al primato; la Madonna del manto, cui nei primi decenni del Seicento si aggiungono, sia presso l’Ordine che presso l’Osservanza germanica, le spade di dolore. Tendono a scomparire, in clima di Controriforma, la Madonna gravida e quella che allatta. Sono destinate a sviluppo, a partire da un intensificarsi a cavallo del Cinquecento, in varie chiese dell’Ordine (vedere quanto detto in N. MOLETTA, La confraternita del Crocifisso a Vicenza con una panoramica sulla pietà locale [...] nei secoli XIV-XVI, “Studi Storici OSM”, 24 [1974], p. 20-68, e quanto detto per il Crocifisso di Padova del 1516 in DAL PINO-MULATO, Santa Maria dei Servi di Padova, p. 25) del culto al Crocifisso e alla festa della santa Croce, le raffigurazioni relative alla “compassione” della santa Vergine: la Madonna “iuxta Crucem”, di Deposizione, di Compianto di Cristo e di Pietà e infine, come appunto è accaduto per il Crocifisso, la Madonna, staccata dalla scena complessiva del Calvario, divenuta desolata e poi, a tutto campo, addolorata, sia nelle stampe che in statue isolate, trafitta inizialmente da una spada (quella predetta da Simeone) poi dalle sette che ne faranno la Madonna dei sette dolori, la cui devozione non oscurerà del tutto quelle dei santuari mariani precedenti, incentrate sull’Annunciazione, la Madonna delle grazie e del manto. Ne saranno promotori, dal primo decennio del Seicento, fra Arcangelo Ballottini e il convento maggiore di Bologna (quasi a contrastare il predominio precedente del culto all’Annunciazione legato al santuario fiorentino), poi accettata e promossa da tutto l’Ordine dal quale verso la metà del secolo, divenuta “totalizzante”, come apparirà dal successivo volume di Fonti, dopo incertezze in proposito di inizio secolo, otterrà prima il riconoscimento come Patrona principale e poi l’apposita festa liturgica di settembre. Non mancheranno nuove tematiche, anche se talvolta a carattere più locale e in connessione con “nuove” festività (vedere in D.M. MONTAGNA, Feste liturgiche [...] all’Annunziata di Pistoia, “Studi Storici OSM”, 46 [1996], p. 138-142): quella della Concezione di Maria che diviene Immacolata Concezione (dipinto del Panciatichi, Pistoia 1522, e soprattutto Siena 1532, con dedicazione della chiesa), l’altra della sua Incoronazione da parte del Figlio o di tutta la Trinità santa (Incoronazione del Fungai a Siena del 1500-1501, con i due beati dei Servi senesi, per il primo caso, Tesori spirituali del 1598, in MAGI, Stampe mariane, tra p. 264 e 265, per il secondo), legata anche alla tradizione paraliturgica mariana del sabato santo – messa serale – poi soppressa e divenuta rito dell’Incoronazione della Vergine. Di evoluzione di tematiche, specialmente mariane, che sottintendono un mutamento, anche se parziale, di prospettiva e di riferimento spirituale, appaiono testimonianza particolarmente valida le stampe che vengono a decorare le pubblicazioni ufficiali o semiufficiali dell’Ordine. Anche se già ricordate a loro luogo nella prima parte di questo volume, meritano ora una particolare considerazione offrendone alcuni punti di riferimento essenziali. Agli inizi del Cinquecento sono editi due libretti di presentazione dell’Ordine: la Operetta nuovamente composta di fra Cosimo da Firenze (stampata a Verona nel 1521 e riedita nel 1993 da G.M. Besutti) che porta nell’incisione iniziale l’Annunciazione a Maria, di riferimento certo anche fiorentino, e in quella finale, inaspettatamente sant’Agostino affiancato da due angeli e con sotto il manto frati, monache e più in basso fedeli (di provenienza agostiniana) con la dicitura: “Ora pro nobis beate pater Augustine”, a sottolineare il ruolo ricoperto dal legislatore anche presso i Servi (BRANCHESI, Bibliografia, II, p. 41-43), e gli Incunabula Ordinis Servorum Deiparae Virginis vexillo militantium del 1532 che al f. 1 offrono lo stemma già sopra indicato con la scritta: Montes in circuitu eius (Monte Senario, di cui il generale Girolamo da Lucca aveva tenuto una perorazione nel capitolo generale del 1532) e al f. 16v la Vergine del manto che dal cielo protegge la città di Siena: Sena vetus, e porta nelle parole sottostanti: “In servis suis consolabitur Deus”, senza inflessione mariana (ibid., p. 236-237). Seguono le Constitutiones del capitolo generale di Budrio del 1548, edite sotto il generale Agostino Bonucci, il primo testo del genere, che al f. 1 raffigurano in una struttura rinascimentale Maria in trono che stringe amorevolmente a sé il Figlio (ibid., p. 315), e quelle successive e integrali del 1556 con Madonna, Bambino e santi (ibid., p. 222-223). Poco dopo l’anno stesso della sua reintegrazione nell’Ordine, anche la Congregazione dell’Osservanza pubblicherà nel 1570 delle proprie Constitutiones ponendo al f. 1 una Madonna con Bambino tra due angeli con fedeli imploranti (ibid., p. 123 e 249). Il tutto, muovendosi dentro uno schema iconografico mariano in fondo consueto. Passando alle edizioni di indulgenze e di Uffici propri dell’Ordine, si incontra quella detta dei Tesori spirituali dell’indulgenze concesse [...] alla mendicante Religione de’ reverendi padri de’ Servi di Maria vergine e a tutti i fedeli [...] che portano l’habito dei Servi, stampato a Piacenza nel 1598, che porta incisa una bella Vergine innalzata in cielo, incoronata dal Padre e dal Figlio e sovrastata dallo Spirito con la dicitura: “Ora pro Servis tuis” (MAGI, Stampe mariane, tra p. 264 e p. 265), che riprende uno dei temi ripetuti in quegli anni. E si rimane ancora in un altro dei temi consueti, quello della Madonna del manto, con la incisione delle Indulgenze concesse [...] del 1611 in cui Maria sembra offrire l’abito al beato Filippo e alla beata Iuliana da Firenze, con la sovrascritta: “Et hieme vernans”, un piccolo stemma dell’Ordine al centro e ai piedi: “In servitute nostra ne derelinquas Virgo Maria” (BRANCHESI, ibid., III, p. 405). Per trovare i primi segni di riferimento alla Vergine dei dolori bisogna giungere alle varie edizioni della Vera origine e progresso o L’origine et il progresso del sacro Ordine de’ Servi di MAria, che vanno dal 1599 al 1628, per trovarci dinanzi a varie stampe tra cui la prima, del 1599, con riferimento alla Società dell’abito, la Pietà con Maria trafitta da una spada e l’abitino nella sinistra in un fondo di spine e la scritta da Lc 2, 35: “Et tuam ipsius animam pertransibit gladius” (BRANCHESI, Terziari e gruppi laici, p. 314), mentre nelle altre edizioni si alternano temi consueti (Madonna e Bambino o che dona l’abito, Visitazione, Annunciazione) a quelli di Passione (BRANCHESI, Bibliografia, III, p. 36-37). E proprio nell’anno successivo all’ultima di dette edizioni, nel 1629, mentre le Constitutiones del 1615 porteranno ancora la Madonna e Bambino con il beato Filippo e gli Officia propria del 1623 pure la Madonna con Bambino, gli Officia propria editi a Roma nel 1629 presenteranno una Vergine desolata con infisse nel cuore sette grandi spade o i sette dolori dalla Presentazione di Gesù al tempio alla Deposizione nel sepolcro, in tre riquadri sopra l’immagine centrale e quattro sotto, la scritta: “Et tuam ipsius animam ...” e un piccolo stemma dell’Ordine (BRANCHESI, Terziari e gruppi laici, p. 319 e 341, e Bibliografia, III, p. 259). Il tema, radicato dagli inizi nel nero abito dei Servi e così ora ufficializzato, sarà destinato a essere ormai ripetuto regolarmente quale costante della spiritualità dell’Ordine. Volendo passare al campo più vastamente agiografico, si dovrebbe parlare della presenza, nelle stampe, del beato Filippo Benizi già preponderante nel periodo precedente e ora rafforzata con la conferma del culto e la concessione di uffici liturgici da parte di Leone X del 1516. Accenniamo al punto di partenza: la figura del beato in un riquadro rettangolare con libro nella sinistra e un ramoscello fiorito nella destra, riprodotta nella circolare del 1516 con cui il generale Angelo d’Arezzo comunicava ai frati il testo del breve di beatificazione di Leone X del 24 gennaio 1516 (BRANCHESI, Bibliografia, II, p. 213-214); e al punto di arrivo, per il momento: l’ovale riprodotto da fra Carlo Casini da Firenze nel suo Panegirico sopra il b. Filippo [...] del 1626, con Madonna incoronata e Bambino che porta nella destra il giglio intrecciato alla S, seduti e volti al beato Filippo inginocchiato con tre-quattro frati di cui due almeno con raggiera, forse i beati Gioacchino da Siena e Pellegrino da Forlì dei quali Paolo V aveva riconosciuto il culto nel 1609, e sotto la scritta teocentrica: “Servite Domino in timore” (ibid., III, p. 17 e 67-68). Presentazione retrospettiva anche questa a suo modo dei punti personificati di riferimento spirituale dell’Ordine al momento di un parziale cambiamento di indirizzo: Madonna regale con Bambino con il beato Filippo e gli altri due beati dei secoli XIII-XIV ritenuti suoi discepoli e riconosciuti dalla Chiesa. Gli stessi beati, Filippo Benizi, Gioacchino detto Pellacani e Pellegrino Laziosi godranno di una bella stampa loro propria con riquadri riassuntivi della vita nei detti Officia propria del 1629, tutti e tre volti verso l’immagine della Madonna che li sovrasta dai cieli stringendo tra le braccia il Bambino Gesù (ibid., III, p. 258, 384, 389). TAVOLE [p. 579] [Tavola: p. 580] I Giuliano di Jacopo di Bandino Panciatichi (Pistoia 1487-1555 ca.) Immacolata Concezione, 1523 Opera su tavola 153 x 132 cm Pistoia, chiesa della Santissima Annunziata Nel libro delle Ricordanze di fra Sebastiano Vongeschi, del convento della SS. Annunziata di Pistoia, si legge: «Memoria dell’anno 1523: Si cominciò la Compagnia della Conceptione nella chiesa, di molte venerande donne et homini et monasterii [...]. Et hanno facto quella tavola quale gosta ducati 16, ogni cosa: la dipinse Giuliano di M° Jacopo di Bandino Panciatichi». La tavola, inizialmente collocata nella cappella della famiglia Bracali, in seguito alla ristrutturazione della chiesa, nel 1592 viene sistemata in una nuova cappella e, dopo ulteriori rifacimenti avvenuti nel 1716, è trasferita in sacrestia, dove è tuttora conservata. La serie dei simboli – il sole, la luna, lo specchio, il giardino, la fontana, l’arca di Noè, il tempio – indica il tema dell’immacolato concepimento. Nella zona superiore Dio Padre, attorniato da angeli, indica con l’indice della destra il sole raggiante e con la sinistra regge un libro su cui risaltano le lettere alfa e omega. Una tabella, retta da un angelo, alla destra di Maria, spiega il gesto del Padre: «Sole splendidior virgo»; un’altra tabella si riferisce al capo della Vergine coronato da dodici stelle: «rutilantior astris». Il simbolo astrale è ripreso da una stella a dodici punte sul manto della Vergine, ai cui piedi è il drago. Il pittore, attraverso tutti questi particolari iconografici, vuole esprimere una delle sue fonti di ispirazione, che è il capitolo 12 dell’Apocalisse. Cf. Splendore di Bellezza Le più antiche immagini di santa Maria dei Servi, a cura di M.C. Visentin, ed. Messaggero, Padova 2007, p. 171, con rinvio a G. MORELLO – V. FRANCIA – R. FUSCO (a cura), Una Donna vestita di sole: l’Immacolata Concezione nelle opere dei grandi maestri, Federico Motta Editore, Milano 2005, p. 178. [p. 581] [p. 582: tavola] II Marco Palmezzano (1460 ca.-1539) Annunciazione Opera su tavola, 315 x 215 cm Forlì, Pinacoteca «L’Annunciazione soprannominata grande, per distinguerla da un’altra sempre del Palmezzano di dimensioni più piccole conservata nella Pinacoteca di Forlì, costituisce il capolavoro del pittore forlivese. Commissionata per l’altare maggiore della chiesa dell’Annunziata dei Servi di Maria di Forlì, è opera che risente particolarmente dell’influsso melozzesco, sia nella rigorosa costruzione architettonica che nella robusta volumetria delle forme». «Oltre agli elementi iconografici convenzionali – lo Spirito in forma di colomba, l’angelo annunziante, l’atrio luminoso in cui Maria prega, vera finestra sul cosmo – il pittore include il libro delle Scritture aperto sulle ginocchia di Maria, a significare che, con il suo sì, il “Verbo si fa carne”. Il modo in cui le pagine si agitano sotto la mano aperta di Maria, come mosse dal fremito di una brezza leggera, è estremamente suggestivo: ci sembra di vedere lo Spirito Santo, assiso al centro del cielo su una nuvola bianca, soffiare sulle pagine del libro “animando” le parole scritte perché diventino carne nel grembo della giovane donna. Lontani alberelli scarni sulla roccia ricordano la figura messianica del virgultus usata da Geremia e Zaccaria: il “germoglio di Davide” e “servo” fedele di Dio sarà Gesù Cristo, concepito in quest’istante». Splendore di Bellezza. Le più antiche immagini di santa Maria dei Servi, a cura di M.C. Visentin, ed. Messaggero, Padova 2007, p. 225 [p. 583] [p. 584: tavola] III Pietro di Cristoforo Vannucci detto il Perugino (1448-1523) Filippino Lippi (1457 ca.-1504) Deposizione dalla croce, 1504 Opera su tavola, 334 x 225 cm Firenze, Galleria dell’Accademia Si tratta probabilmente dell’ultima opera di Filippino Lippi, dipinta per l’altare maggiore della Santissima Annunziata di Firenze e terminata da Pietro Perugino dopo la morte dell’artista (1504). Fu commissionata da fra Zaccaria, priore dei Servi, per 200 scudi d’oro, nel 1503, con l’impegno che fosse consegnata per la Pentecoste del 1504. «Le figure della metà superiore della composizione, quelle in cima alla croce, Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo abbracciato al Cristo, con i volti espressivi e le vesti raffinate e mosse dal vento, si distinguono subito dalle quattro Marie, Maddalena e Giovanni, pervasi dall’immobile compostezza tipicamente peruginesca. [...] La Madre straziata da un dolore atroce ora che il Figlio è spirato sembra non farcela più. Il sentimento che la logora, evidente nella posizione china del viso e del corpo non più in grado di sorreggersi, i panneggi della veste (simbolicamente scura) esprimono un fisico tormentato, un cuore dilaniato dallo strazio. La mano destra è già pronta a riparare l’eventuale caduta: il dipinto, infatti, riprende l’istante precedente lo svenimento. L’episodio dello svenimento di Maria indica [...] come il Perugino continui a farsi interprete di quel mondo tipicamente umbro delle Laudi che affondava le sue radici nel Medioevo». Lo scompiglio creato dal vento esprime «l’agitazione della natura che partecipa al dolore. Lo sfondo è miracolosamente illuminato dalla luce dell’aurora. La morte di Cristo è stata avvolta dalle tenebre dell’eclissi di sole, ma non tutto è finito per sempre perché Cristo risorge e presto sfolgorerà il sole pasquale» . Splendore di Bellezza. Le più antiche immagini di santa Maria dei Servi, a cura di M.C. Visentin, ed. Messaggero, Padova 2007, p. 205, dove si parla erroneamente di Filippo Lippi (1406-1469), invece che del figlio Filippino (1457-1504); in proposito cf. E. M. CASALINI, La “tavola” dell’altare maggiore dell’Annunziata di Firenze, “Studi Storici OSM”, 51 (2001), p. 7-10, 16, 21, 22, 26, 29, 31. [p. 585] [p. 586: tavola] IV Lukas Cranach il Vecchio (1472-1553) Madonna con Bambino, le sante Caterina e Dorotea, 1518 Innsbruck, Servitenkonvent Cranach il Vecchio «da giovane vive e lavora a Vienna dal 1500 al 1503, dove viene a contatto con la scuola del Danubio [...]. Dopo il 1505 lavora come pittore di corte di Federico il Saggio elettore di Wittemberg e nella cittadella della riforma tedesca avvia e dirige una bottega d’artisti molto impegnata. Un’eco dell’arte italiana lo raggiunge attraverso i lavori del pittore altoatesino Michael Pacher (1435-98) che aveva studiato a Padova sui capolavori di Donatello e Mantegna [...]. Il quadro, siglato coll’usuale serpentello da Cranach, è datato 1518; e dunque cade in una stagione in cui – a detta del Vasari (ben informato su queste vicende) – gli artisti fiorentini, in particolare Andrea del Sarto, principiavano a sentire forte il fascino delle stampe tedesche. E non è così arduo scorgere nella nostra tavola i segni di relazioni con l’arte fiorentina grazie ai frati itineranti che passano per la Ss. Annunziata, in quegli anni fucina d’arte e spiritualità. Di suggestione nordica il Bambino paffuto, la Madre pensosa e sorridente dai lunghissimi capelli rossi sciolti sulle spalle e liberi da veli, le due sante Caterina e Dorotea in abiti sontuosi e acconciature sfarzose. [...] Il drappo nero dello sfondo richiama la tenda del tempio in cui dimora la presenza di Dio». Lukas Cranach, «sommo maestro del rinascimento tedesco, giunge ad una felice fusione tra l’elemento nordico fatto di pensosa serietà, sensibilità finissima, trasognata fantasia e meticolosa accuratezza, con il grandioso mondo formale, la magnificenza cromatica e il pathos dei suoi modelli italiani, che a Firenze ebbero – segnatamente Piero di Cosimo – riverbero d’alta poesia». Splendore di Bellezza. Le più antiche immagini di santa Maria dei Servi, a cura di M.C. Visentin, ed. Messaggero, Padova 2007, p. 217 [p. 587] [p. 588: tavola] V Girolamo dai Libri (1474 ca.-1555) Madonna col Bambino e sant’Anna Opera su tela Londra, National Gallery L’opera, firmata “Hieronimus a Libris p.” costituiva la parte centrale di un trittico della chiesa dei Servi, Santa Maria della Scala a Verona. Le parti laterali hanno un San Sebastiano di Francesco Torbido, la cui attuale ubicazione è ignota, e un San Rocco di Paolo Morando, ora anch’esso alla National Gallery di Londra. «Girolamo, pittore maturo dei seguaci di Mantegna, dà una prova elevata con Sant’Anna. La dolcezza di modi [...] sorprende come la fresca sontuosità del colore, che risplende in particolare nelle vesti di Maria e di Anna, costruite con preziosi accostamenti di porpora con giallo oro, di blu cupo con rosso profondo e regale. Appartengono invece al repertorio di bottega le citazioni da Mantegna nelle soluzioni compositive: ancora dalla Pala di San Zeno deriva il modo con cui la mano di Maria sostiene il piccolo piede di Gesù. Tuttavia la spalliera di rose, metafora dell’hortus conclusus, da sempre emblema mariano, è troppo diffusamente collegata a Maria per vedervi una citazione del roseto alle spalle della Vergine in San Zeno. Gli angeli musicanti, invece, sono ispirati al concerto che Mantegna pone ai piedi di Maria nella pala per Santa Maria in Organo; anche l’alberello di agrumi, altro simbolo mariano divenuto col tempo quasi una firma di Girolamo, si staglia più e più volte davanti ai cieli di Mantegna. L’attenzione allo spiegarsi del paesaggio è invece opera di Girolamo». Cf. Splendore di Bellezza. Le più antiche immagini di santa Maria dei Servi, a cura di M.C. Visentin, ed. Messaggero, Padova 2007, p. 219, con rinvio a S. MARINELLI-P. MARINI (a cura), Mantegna e le arti a Verona 1450-1500, Marsilio Editore, Milano 2006, p. 374-375. [p. 589] [p. 590: tavola] VI Giovannangelo Montorsoli (1507-1563) Crocifissione bassorilievo in marmo, 60 x 78 cm Convento Ss. Annunziata, Firenze In seguito ai lavori di restauro iniziati nel 1570, il bassorilievo fu portato dal convento della Ss. Annunziata nella “cappella di sagrestia”, come attesta fra Michele Poccianti (ASF, n 119, vol. 45, f. 47v). Di qui fu nuovamente collocata in convento, dove lo si ritrova nel 1706: «Uscendo dalla loggia s’entra in un atrio scoperto in faccia al quale v’è collocato un’immagine di Giesù crocifisso colla Vergine e S. Giovanni Evangelista a’ fianchi, tutti scolpiti in marmo, opera del nostro P. G. Angelo Montorsi, scultore celebre e Fondatore dell’Accademia del Disegno in Firenze, condotta si bene e con tenerezza si grande che con tutto ciò che essa sia di sasso, muove a divozione» (ASF, n. 119, vol. 56, f. 440). Gesù è rivolto verso la Madre in pianto e con il capo chino, mentre Giovanni appare come proteso verso il Maestro in croce in atteggiamento di amorosa contemplazione e intenso ascolto. Pur nelle sue piccole proporzioni, questa Crocifissione è molto vicina a quella scolpita da fra Giovannangelo, negli ultimi anni della sua vita, sul retro dell’altare maggiore della chiesa dei Servi a Bologna. Tecnica e forma ricordano Michelangelo, di cui il Montorsoli fu il discepolo più amato. E. M. CASALINI, Note d’arte e storia alla SS. Annunziata di Firenze, II. Giovannangelo M. Montorsoli O.S.M. (1507-1563), Studi Storici OSM”, 11 (1961), p. 194-196 (riprod. tav. XXIV). [p. 591] [p.592: tavola] VII Giambologna (Jean de Boulogne, 1529-1608) Crocifisso “vivo”, 1578 scultura in bronzo Convento della Ss. Annunziata, Firenze L’opera, rimasta sull’altare maggiore della chiesa della Ss. Annunziata fino al 1820, venne collocata nel refettorio del convento. La croce è di ferro e misura cm 94/33; il Cristo, in bronzo, misura cm 30/27. «Il bellissimo corpo giovanile non ha segni di sofferenza, ma è teso in uno slancio verticale, in un arco scattante dai piedi inchiodati al soppedaneo e terminante nel capo dolcemente rovesciato all’indietro per seguire lo sguardo in alto a destra. Il piede destro sopra il sinistro porta la gamba in avanti imprimendole una leggera rotazione che bilancia la lieve torsione del tronco nella direzione del volto. Un altro elemento singolare è l’aureola ben conservata e direi nuova nella forma e nella accurata lavorazione. Né sembra probabile che in origine, sotto l’aureola, esistesse la corona di spine. [...] Il dolce arco delle braccia, lo stesso aprirsi delle mani con le dita che non sentono la presenza dei chiodi, il torso forte ma non atletico, allungato e arrotondito in forma cilindrica, la precisa ma quasi insensibile descrizione anatomica di tutto il corpo [...], la bellezza delle gambe [...]» sono caratteristiche proprie di altri Crocifissi del Giambologna. Eliminando ogni traccia di dolore nel volto e nel corpo, l’artista ha inteso affermare il paradosso della fede cristiana: morendo Cristo ha vinto la morte e ha dato a noi la vita. E.M. Casalini, Due opere del Giambologna all’Annunziata di Firenze, “Studi Storici OSM”, 14 (1964), p. 266-276 (riprod. tav. 12). [p. 593] [Stampe] Beato Filippo da Firenze Circolare del priore generale dell’Ordine dei Servi, fra Angelo d’Arezzo, relativa alla conferma del culto del beato Filippo Benizi ad opera di Leone X, 24 gennaio 1516. (BRANCHESI, Bibliografia, II, p. 213-214; Fonti, III/1, n. 287 e 293) [p. 594] Frate allo scrittoio Girolamo da Mendrisio (+ 1533 ca.), Expositio psalmi LXXXX «Qui habitat», Milano, Gottardo da Ponte, luglio 1530, f. 1 (BRANCHESI, Bibliografia, II, p. 19; Fonti, III/1, n. 519 ) [p. 595] Segni dello zodiaco Mauro da Firenze senior (+ 27 settembre 1556), Sphera volgare. Venezia, Bartolomeo Zanetti, ottobre 1537, f. 2v. (BRANCHESI, Bibliografia, II, p. 96; Fonti, III/1, n. 787) [p. 596] Madonna in trono con Bambino Constitutiones 1548 (BRANCHESI, Bibliografia, II, p.315; Fonti, III/1, n. 514)) [p. 597] Giovannangelo Montorsoli dalla Vita di fra Giovann’Agnolo Montorsoli scultore, in G. Vasari, Delle vite de’ più eccellenti pittori, scultori et architettori, Secondo et ultimo volume della terza parte. In Fiorenza, appresso i Giunti, 1568, p. 609. (BRANCHESI, Bibliografia, II, p. 281; Fonti, III/1, n. 848) [p. 598] Madonna della Ghiara già in venerazione prima del 1575. Incisione in Veridico racconto dell’origine, progressi et miracoli della Madonna di Reggio [...]. In Modona, Bartolomeo Soliani, 1666, p. 8 (BRANCHESI, Bibliografia,III, p. 318; Fonti, III/1, n. 1233) [599] Crocifissione Officum beatae Mariae virginis de pede crucis ... [ad uso delle monache del monastero di Santa Maria de pede crucis di Valencia], Barcelona, Juan Amello, 1600. (BRANCHESI, Bibliografia, II, p. 286; Fonti, III/1, n. 1345) [600] Madonna del manto con i Sette Fondatori Regola ... Constituzioni de’ Romiti del sacro Eremo di santa Maria de’ Servi di Monte Senario. In Firenze, Bartolomeo Sermartelli, 1613, p. 23 (BRANCHESI, Bibliografia, III, p. 247; TANGANELLI, Il culto della Vergine nelle Costituzioni dei Romiti di Monte Senario, tav. 20) [601] Madonna incoronata e Bambino con il beato Filippo Benizi e altri beati dei Servi Carlo Casini da Firenze (+ 1649), Panegirico sopra il b. Filippo [...], Firenze, Pietro Cecconcelli, 1626, p. [1]. (BRANCHESI, Bibliografia, III, p. 17) [p. 602] INDICI INDICE DELLE CITAZIONI BIBLICHE Genesi 2, 15 3, 15 3, 19 3, 20 6 32, 28 35 437 338 437 338 160 356 160 Esodo 25 26 32 32, 32 37, 17-24 38 160, 161 161 161 390 557 161 Levitico 11, 3 Numeri 10 436 161 11, 5 14, 42 486 486 Deuteronomio 6, 5 17, 10 25, 2 32, 11 32, 35 390 517 394 444 554 1 Samuele 8, 7 486 1 Cronache 4, 9 164 2 Cronache 20, 6 447 Neemia Salmi397 397 2, 17 451 1, 3 5, 9 7, 5 7, 15-17 8, 3 15, 6 15, 8 17, 19 18, 6 26, 4 27, 7 31, 9 33, 2 33 [34] , 11 39, 3 44, 10 44, 15-16 50, 21 54, 13 462 430 461 363 La numerazione dei Salmi segue quella della Volgata. 142 427 427 426 433 428, 451 426 421, 435 432 321 432 550 557 452 461 65, 20 67, 2 99, 3 108, 1-2 118, 17 118, 35 118, 37 118, 57 118, 101 118, 103 118, 127 118, 135 118, 164 119, 1 122, 1 125, 1 126, 1 132, 1 426 421 384 464 133, 145 430 427 427 460 432 432 432 552 133 134 133 485 452 Proverbi 1, 7 11, 1 11, 10 22, 15 25, 27 81 484 484 556 444 Cantico dei cantici 4, 11 549 Sapienza 1, 2 1, 4 9, 5 9, 12 11, 23 16, 20 429 439 429 432 441 457 Siracide 7, 39 Isaia Geremia 554 11, 31 19, 26-27 24 546 549 164 7, 9 64, 10 395 451 1, 4 ss. 383 15, 19 18, 4 32, 22 436 384 432 Lamentazioni 3, 24 427 Ezechiele 2, 6 11, 19 36, 26 547 373 373 Giona 1, 3 ss. 383 Zaccaria 2, 8 363 Aggeo 2, 7 473 Matteo 1, 19 3, 8 366 446 4, 19 5, 16 6, 25 6, 32 6, 33 7, 5 7, 6 9, 2 10, 16 10, 22 10, 34-36 10, 35 10, 38 11, 8 11, 12 11, 25 11, 29 11, 30 13, 13 16, 18 16, 19 20, 28 21, 16 23, 3 24, 13 25, 12 25, 15 392 559 320 321 321 347 459 336 383 394, 544 444 432 517 34, 80 437 142 80, 236 319 438 474 536 485 142 (42) 345 394, 544 560 444 Marco 16, 15 16, 16 16, 18 388 544 144 Luca 1, 30 1, 34 1, 48 4, 23 6, 42 7, 48 7, 50 10, 27 12, 35 12, 36 15, 9 18, 1 19, 5 22, 32 23, 43 487 366 487 347 347 (118) 336 (107), 369 369 390 558 560 425 537 369 463 369 Giovanni 1, 1-14 4, 15 4. 24 5, 36 6, 69 10, 16 10, 34-36 12, 6 13, 34 13, 35 14, 6 15, 2 15, 5 15, 12 20 432 437 438 432 444 454 515 489, 555 489, 555 360 540 438, 454 489 Atti degli Apostoli Romani 15, 18 16, 1-4 17, 3 19, 25 458 517 512 535 4, 32 5, 29 7, 57 9 9, 1 9, 1-2 9, 3 9, 4 9, 5 9, 5-6 9, 6 9, 7 9, 8 9, 10 9, 12 9, 13 9, 15 9, 16 9, 17 9, 20-22 11, 3 13 13, 9 17, 30 20, 17 ss. 20, 33-34 20, 35 22, 3 22, 3-5 22, 9 22, 12 22, 27 22, 27-28 23, 6 26, 13 450 458 352 351 353, 360 360 361 355, 362 362 376 363, 388 376 378 381 382 353, 382 383 383 386 1, 17 518 356 356 454 391 392 392 352 359 376 381, 386, 389 352 355 351 361 507 4, 5 8, 15 8,17 8, 24 8, 28 8, 31 8, 32 8, 38 8, 38-39 9, 3 9, 30 11, 1 13 15, 4 1 Corinzi 379 1-2 1, 3 1, 4 2, 1-2 512 336 336 395 461 340 340 384 394 381, 390 336 351 494 519, 523 508 457 457 395 2, 2 2, 10-17 3, 11 5 5, 5 7, 6 7, 20 9, 24 9, 27 10, 11 11 11, 1 11, 29 13, 1 ss. 13, 1-3 13, 4 15 15, 10 16, 22 2 Corinzi 1 1, 12 4, 7 ss. 4,16 4, 17 10, 18 11, 23-24 12, 2-4 Galati 1, 8 1, 11-12 1, 13-14 2 2, 20 3, 11 4, 4 4, 6 5, 24 6, 14 6, 17 Efesini Filippesi 1, 4 4, 23-24 385 506 494 508 421 556 219 447 393, 484 523 508 393 46, 77 389 555 47, 518 508 395 385 395 384, 388 517 428 428 535 394 378 (157) 390 379 353 518 337, 385, 390, 439 507 161 336 393 22, 394 385, 394 441 551 1, 23 2, 13 3,5-6 3, 8 1 Tessalonicesi 2, 4 393 476 351 393 445 2, 5-9 5, 17 2 Tessalonicesi 3, 7-8 1 Timoteo 392 435 392-393 1, 13 1, 16 4, 16 6, 12 353, 375, 395 375 507 482 2 Timoteo 2, 19 3, 16 4, 7 ss. 4, 13 Tito 3, 10-11 Ebrei 10, 31 420 (212) Giacomo 1, 5 1, 17 430 438 1 Pietro 2, 9 507 523 394, 482 352 391 487 4, 11 5, 2-3 5, 8 490 518 482 1 Giovanni 1, 3 2, 6 3, 14 3, 16 452 485 489 488 Apocalisse 3, 12 3, 29 12, 1 19, 9 385 370 153, 550, 559, 579, 581 INDICE ANALITICO abito OSM:51, 182, 534, 535, 537, 550-551, 562 Acquapendente, convento OSM: 470 Acque di San Filippo: 329 Agapito da Bargamo, OSM: 223 Agostino da Firenze, OSM: 220 Agostino da Salerno, OSM: 220 Agostino d’Ippona, s.: 95, 114, 123, 206, 226, 257, 323, 348, 356-358, 371, 372, 373, 374, 380, 390, 394, 396, 489, 515, 565, 575; Regola: 18, 22, 31, 48, 58, 72, 78, 79, 86, 96, 98, 112, 262, 267, 315, 316; canoni penitenziali: 30; festa: 45, 227 Alabanti, Antonio, priore generale OSM: 167 (47), 170, 186, 193, 215, 317 Alasia, Gregorio, OSM: 292, 305, 307, 308 (85), 422 (217) Alberto, principe di Carpegna: 222 Alberto Bucio, notaio: 185 Albrizzi, Filippo, OSM: 120, 198, 202-224 Aldrovandi, Marco, OSM: 348 Alessandro, frate OSM: 192 Alessandro da Val Camonica, OSM: 209 Alessandro Magno: 355 Alessandro Maria, frate OSM: 469, 471 Alessio, frate OSM: 251 Alessio da Borgo, OSM: 208 Alessio da Firenze, OSM: 258 Alessio Falconieri da Firenze, uno dei Sette Santi Fondatori OSM: 187 (58) Alfonso II d’Este, duca di Ferrara: 298 Amadio da Firenze, uno dei Sette Santi Fondatori OSM: 187 (58) Ambrogio di Milano, s.: 123 Amiata, monte: 329 Ancona, convento OSM: 212, 470 Andrea, apostolo, s.: 356; festa: 539 Andrea da Borgo, OSM, b.: 187 (58) Andrea da Firenze, OSM: 404 Andrea di Matteo Vanguoli: 253 Angela, monaca cappuccina di Firenze: 475 Angela da Verona, OSM, b.: 194-196 Angela Merici, s.: 292 Angelo, eremita OSM: 247 Angelo da Borgo, OSM: 475 Angelo d’Arezzo, priore generale OSM: 219, 221, 315, 401, 577, 594 Anna, s.: 132, 135, 293; festa: 45, 227 Anna Barbara, suora OSM: 296 Anna Felicita, suora OSM: 296 Anna Francesca, suora OSM: 296 Anna Monica, suora OSM: 296 Antonino da Firenze, s.: 437 Antonio da Bitetto, OSM: 208-209 Antonio da Corneto, priore generale OSM: 293 Antonio da Perugia, OSM: 208 Antonio da Piacenza, OSM: 216 Antonio da Siena, v. Salvani Antonio da Viterbo, OSM, b.: 187 (58) Antonio della Porta, OSM: 216 Apostolice Sedis intuitus (o Mare magnum), bolla di Innocenzo VIII (27.5.1487): 72, 89, 317, 535, 542, 543 Aquilina, suore OSM di Verona: 195 Arcangelo, maestro OSM: 501 Arcangelo da Udine, OSM: 478, 479 Arezzo, chiesa OSM: 329; convento OSM: 328 Aristotele: 54, 55, 438, 442 Artemisia di Todi, OSM, b.: 166 Assisi: 475 Auer, Joachim, OSM: 305 Aurelio, eremita OSM: 259, 261 Aurelio da Ferrara, OSM: 255 Aurelio da Montepulciano, OSM: 419, 442, 449 Aurelio da Perugia, OSM: 477 Ave Maria, invocazione mariana presso OSM: 44, 75, 119, 157, 226, 228, 273, 409 Ave maris stella, inno mariano: 46 Baglioni, Lelio, priore generale OSM: 246, 247, 248, 250, 251, 252, 254, 255, 294, 314, 419 (207), 545 Bagni di San Casciano: 329 Bagolino, monastero OSM: 178, 179, 180-185 Ballottini, Arcangelo, OSM: 119, 133, 153-164, 561, 566, 574 Barcellona: 141, 142, 143 Barchi, Giuseppe (Nicolò) da Mantova, OSM (già cappuccino): 293, 294 (79), 295, 298, 306 Baronio, Cesare: 257 Bartolomea Bertini-Cardarelli, OSM, b. (o ven.): 166 Bartolomeo, apostolo, s.: 230, 356 Bartolomeo da Prato, OSM: 404 Basilio, frate OSM: 251 Basilio, maestro OSM: 475 Battista da Cremona, OSM: 210, 213, 215 Baviera: 293 Beato Angelico (Giovanni da Fiesole), OP: 572 Bedell, William: 493 Bedont, Emilio, OSM: 533 Belluno, convento OSM: 212 Belriguardo (Ferrara): 476 Benedetto, frate OSM di S. Alessandro di Brescia: 179, 182 Benedetto da Norcia, s.: 205, 206; festa: 45 Benedetto Mariano, OSM: 217, 218, 221, 222 Bergamo: 211, 215, 219; convento OSM: 478, 479 Bernardo dei Giusti: 401 Bernardo di Chiaravalle, s.: 157, 441, 454 Bernerio, Girolamo, card. d’Ascoli: 264, 271 Besutti, Giuseppe, OSM: 138, 315, 575 Betlemme: 149, 151 Bianchi, Giovanni Taddeo, conte: 153 Bitetto: 208 Bologna: 153, 189, 191, 220, 286, 329, 433, 434, 470, 480; immagine Madonna di San Luca: 261 Bologna, chiesa OSM: 189, 566, 591; cappella del Crocifisso (già di S. Celidonio): 187; convento di S. Maria dei Servi: 186, 328, 329, 416, 574; convento OSM di S. Giorgio: 287 Bolognetti, Baldassare, OSM: 314 Bonardo, Bartolomeo: 14, 41 Bonaventura da Bagnoregio, OFM, s.: 439 Bonaventura da Forlì, OSM, b.: 187 (58), 214-215 Bonfiglio, uno dei Sette Fondatori OSM, s.: 157 Boni, Gabriele, OSM: 198, 285, 286, 422, 442, 443-445, 460 Bonucci, Agostino, priore generale OSM: 13, 16, 17, 41, 74, 314, 328-398, 399, 400 (186), 401, 575 Bonucci, Stefano, priore generale OSM, cardinale: 329, 400 (186) Bonvicini, Amante da Brescia, OSM: 529 Bovici, Bartolomeo da Faenza, OSM: 210 Bracali, famiglia di Pistoia: 581 Brack, Lorenzo di Pietro, sacerdote di Erfurt: 119-120 Branchesi, Pacifico, OSM: 146, 153, 157, 159, 160, 162, 163, 246, 293 (77), 315 (92), 491 (326), 533, 571, 573, 575, 576, 577, 594, 595, 596, 597, 598, 599, 600 Brederode, Rinaldo: 527 Brent: 29 Brescia: 177 (54), 183, 212, 213, 217; convento OSM di S. Alessandro: 178, 182, 185, 209, 223 Bressanone, vescovo: 295 Britannia: 205 Bruscoli, Arcangelo, OSM: 296 Bucer, Martin: 29 Bullinger, Heinrich: 29 Buonaiuto, frate OSM: 251, 252 Buonfigliolo, eremita OSM: 247 Buonfigliolo da Fiesole, OSM: 256 Burano, monastero OSM: 292, 309; chiesa Madonna delle Grazie: 311 Buselli, Gaspare: 310 Cadaques: 143 Cagliari: 192 Caio; Gerolamo, canonico di Cagliari: 192 Calvino: 29 Camaldoli, eremo: 246, 248 Campegio, Giovanni, vescovo di Bologna: 406 Canales, Nuñes Fenix Francesco de, OSM: 119, 141-145 Cantini, Evangelista, OSM: 261-262 Capella. Giovanni Maria da Cremona, OSM: 225, 314, 491, 514 (350) Capitoli generali OSM serie: Firenze (1295): 33 Pistoia (1300): 122 Venezia (1377): 21 Treviso (1461): 502 (334) Vetralla (1485): 170 Forlì (1511): 220 Roma (1512): 221 Verona (1521): 314 Faenza (1524): 188 Siena (1533): 199 Firenze (1542): 328 Budrio (1548): 13, 14, 16, 329, 575 Rimini (1551): 329 Verona (1554): 14, 42, 73, 399, 400-404 Bologna (1557): 406 Ferrara (1560): 408 Bologna (1567): 14, 42, 73 Parma (1579): 14, 84, 88, 417, 419, 491 Roma (1609): 262, 264 Roma (1625): 418 (199) Capitoni, Feliciano, OSM: 314, 400 (186) Capponi, card. legato: 287 Cappuccini, Ordine religioso: 308, 309, 310 Cardoso, Teodozio, OSM: 142 Carleton, Dudley: 509 Carlo I, re di Spagna (poi imperatore Carlo V): 175 Carmelo, Ordine religioso: 206 Casalini, Eugenio, OSM: 418 (199), 571, 572, 591, 593 Casalmaggiore, convento OSM: 212, 220 Casaubon, Isaac: 506. 507, 510 Casini, Carlo, OSM: 577, 600 Cassio Felsineo: 191 Castalia, fonte sacra ad Apollo e alle Muse: 122 (39) Castel della Pieve, convento OSM: 470 Castelfranco Veneto, convento OSM: 407, 408 Castellammare di Stabia, vescovo di: 331 Castel San Giovanni, convento OSM: 561 Castro di S. Giovanni, convento OSM: 212 Catalogna: 143 Cavalli, Giorgio: 146 Cavazza, Fillipo, OSM: 216, 217, 218 Cedonio da Monza (o da Bologna), OSM, b.: 166, 186-191 Ceracchini, Luca Giuseppe: 459 Cervini, Marcello, cardinale (poi Marcello II): 329 Cesare, Giulio: 462 Cesena: 225; convento OSM: 470 Cherubino, frate OSM: 468 Chianti, eremo del: 170, 171 Cicerone, Marco Tullio: 462 Cipriano da Firenze, OSM: 209 Cincinnato, dittatore romano: 406 Ciriaco Borsani da Foligno, priore generale OSM: 220 Cirillo, frate OSM: 466 Clemente VI, papa: 113, 403 (190) Clemente VII, papa: 501 (332) Clemente VIII, papa: 246, 249, 250, 259, 260, 262, 271, 421, 422 Clemente Bonardo da Mantova, OSM: 218, 219, 220 Clemente Lazarono, OSM: 222, 223 Cochi, Bartolomeo: 153 Colonna, famiglia romana: 193 Como, chiesa e convento OSM: 465 Compagnia dell’abito: 422, 561-567, 576 concilio di Trento: 13, 16, 30, 43, 73, 82, 84, 85, 89, 96, 225, 328, 329, 330, 331, 348, 399, 403, (205), 494, 525 Condé, principe di, v. Enrico II di Borbone Congregazione dell’Osservanza: 84, 198, 202-245, 329, 402, 575 costituzioni (1516): 13, 14, 218, 223-224, 224-245 costituzioni (1570) 14, 225, 575 Institutio Congregationis ...: 202-224 Constitutiones antiquae: 13, 14, 50 (20), 73, 74, 80 (29), 224 Contarini: 522, 524 Contini, Emilio, OSM: 293, 294 Corinto, chiesa di: 506, 508 Cornelio da Pistoia, OSM: 419, 449 corona calculorum: 175, 193 Corona dei cinque salmi (o del nome di Maria): 21, 119, 132-135 Corsica: 193 Corsica e Sardegna, provincia OSM: 112 Cortona, convento OSM: 442 (262), 472, 473 Cosimo I, duca di Firenze: 400 Cosimo da Firenze, OSM: 119, 121, 138, 314-327, 575 Cosimo da Siena, OSM: 474, 476 Costa, Angelo, OSM: 144 Costituzioni OSM edizioni: 1503: 13, 14 1548: 16-41, 73, 329, 597 1556: 13, 14, 42-72, 73, 74 1569: 13, 14, 73-83 1580: 13, 14, 84-116, 417 (197) Cozzi, Gaetano: 506 Cozzi, Luisa: 506, 519 Cranach, Lukas il Vecchio: 587 Cremona, convento OSM: 209, 210, 214, 215, 221 Crispoldo, Tullio: 256 Cristoforo da Giustinopoli, priore generale OSM: 210 Cristoforo da Lucca, OSM: 469 Cristoforo Gambara da Brescia, OSM: 210, 211 croce e Crocifisso: 191, 195, 227, 249, 255, 269, 301, 311, 337-342, 493, 496, 505, 517, 530, 553, 585, 591, 593, 598 Culleri: 192; chiesa OSM: 193 Dal Pino, Franco A.: 15, 187 (59), 247, 422, 573 416, 419 554, 573, Dandini, Girolamo, cardinale: 42, 406 (192) Dardano, Gabriele, priore generale OSM: 500 De Candido, Luigi, OSM: 15, 16 (2), 43, 85, 225, 263, 409, 411 (194) Del Monte Giovanni Maria, cardinale (futuro Giulio III): 329 Deodato da Brescia, OSM: 219, 220, 221, 223 Deodato di Capirola, OSM: 178, 182 Dias, O.J.: 247 Di Domenico, Pier Giorgio, OSM: 422 Diodati, Giovanni: 493 Dionigi Certosino: 431, 439 Dionigi Pseudo Areopagita: 380 (159) Dionisio da Lucca, OSM: 122 Domenico, maestro OSM: 456 Domenico di Guzman, s.: 206, 257; festa: 45 Dominelli, Bruno, OSM: 417 (196) (198), 418 (200) (203), 419 (207) (208) (209), 420 (210) (213), (216), 422, 423, 425, 428, 434, 445, 450, 453, 460 Donatello: 587 Donato, frate OSM, correttore del Terz’Ordine: 545 Ducci, Deodato, OSM: 419, 449 Duns Scoto: 26, 322, 514 (350) 421 (215) Efrem, s.: 439 Eliseo, maestro OSM: 469, 472 Emilia: 328 Enrico II di Borbone, principe di Condé: 521-528 Enrico IV, re di Francia: 506 (335), 521 Eremiti di Monte Senario, 198, 471 costituzioni: 13, 14, 198, 246, 262-285, 599 Libro di osservanza regolare: 265, 266, 284 Erfurt, convento OSM: 119 Eufemia Palettoni di Spoleto, OSM, b.: 166 Eugenio IV, papa: 208 Fabbri, Maria Cecilia: 422 Faenza, convento OSM: 470 Faldossi, Zaccaria, priore generale OSM: 73, 74, 400, 401, 402, 403, 416 Falgher, Gian Girolamo, OSM: 308 (85) (86), 309, 310 Farnese, Alessandro, cardinale: 74, 85, 88, 90, 225 Favilla, Cosimo da Firenze, OSM: 120, 314 Federico il Saggio, principe elettore di Wittemberg: 587 Felini, Pietro Martire da Cremona, OSM: 293 Ferdinando, arciduca d’Austria: 292 Ferdinando I, granduca di Toscana: 246, 247, 256, 259 Ferrara: 225, 407, 475, 479, 481; convento OSM: 218 Ferrari, Filippo d’Alessandria, priore generale OSM: 171, 492 Ferredi, Giuseppe da Mantova, OSM: 225 Ferro, Benedetto, OSM: 491 Fiesole: 465 Filippo Benizi, priore generale OSM, s.: 95, 114, 139, 199, 224, 315, 422, 467, 565, 576; canonizzazione: 224, 442 (262), 577; festa: 45; iconografia: 577, 578, 594, 600; traslazione: 422; ufficio: 122 Filippo da Cortona, OSM: 467 Filippo da Lucignano, OSM: 255 Firenze: 73, 189, 208, 246, 248, 253, 262, 263, 416, 417, 471. 472, 479, 574, 587; Accademia del Disegno: 591; biblioteca Marucelliana: 315; duomo: 328; università: 416, 433 Firenze, chiesa della Ss. Annunziata: 121, 318, 475, 572, 585, 593; Chiostrino dei voti: 572; convento OSM della Ss. Annunziata: 115, 170, 186, 188, 204, 210, 246, 247, 251, 252, 257, 260, 315, 328, 416, 417, 423, 442 (262), 459, 462, 474, 591, 593; «Compagnia delle divote Sorelle ...»: 545; compagnia (o Accademia) dell’Umiltà: 477-478; immagine della Ss. Annunziata: 154 Fojs (de), Giovanni: 179, 183 Foresti, Giacomo Filippo da bergamo, OSA: 324 (100) Forlì, Pinacoteca: 583 Forlì, chiesa OSM: 583; convento OSM: 210, 213, 219, 220 Fortunato da Brescia, OSM: 223 Francesca Cirabetta, OSM, b.: 174 Francesca da Como, OS;, b.: 166 Francesco da Firenze, OSM:209 Francesco da Forlì, OSM: 208 Francesco da Lucca, OSM: 472 Francesco da Siena, OSM, b.: 187 (58) Francesco da Siena, OSM: 208 Francesco d’Assisi, s.: 206; festa: 45 Francesco I de’ Medici: 417 Francesco II Gonzaga, duca di Mantova: 286 Francesco IV Gonzaga, marchese di Mantova: 220 Franchi, Cirillo da Bologna, OSM: 84, 88 Francia: 205, 219, 407, 506 (335), 521, 527 Francisco de Toledo: 331 Friuli: 491 Fucci, Antonio da Borgo Sansepolcro, OSM: 84, 88 Fungai: 574 Gabriele da Cortona, OSM: 255, 258 Gadaldino, Francesco: 562 Galilei, Galileo: 491 Gamaliele: 149, 352 Gaspare da Firenze, OSM: 208 Gaudioso da Bergamo, OSM: 213, 214 Genova: 143; cattedrale: 223 Genova, convento OSM: 144; provincia OSM: 112, 329 Germania: 177, 205, 304 Gerson, Jean Le Charlier: 514 (351) Gerusalemme: 149; chiesa di S. Maria dello Spasimo: 150; chiesa di S. Anna: 150; chiesa del sepolcro della Vergine: 150-151 Gesù Cristo: 34, 119, 143, 147, 149, 159, 161, 195, 249, 251, 284, 319, 324, 332, 333, 334, 335, 336, 337, 347, 485, 488, 516, 517, 524, 534, 535, 538, 551, 554 Gesuiti: 469, 471, 472, 473 Giacomo, apostolo, festa: 230, 356 Giacomo I, re d’Inghilterra: 509-511 Giacomo de Bosis: 186 Giacomo di Calvisano, OSM: 219 Giacomo Filippo Bertoni da Faenza, OSM, b.: 187 (58) Giacomo Porziano di Brescia, OSM: 211, 213 Giaffa: 146 Giambologna (Jean de Boulogne): 593 Giani, Alessandro da Scandiano, OSM. 84, 88, 418 (201), 419, 449 Giani, Arcangelo, OSM: 119, 132, 166, 177, 194, 255, 298, 307, 416, 422, 472, 533, 534, 545, 546, 561 Gillot, Jacques: 493 (330) Ginevra: 506 (335) Gioacchino da Siena, OSM, b., iconografia: 577, 578 Giovacchino, eremita OSM: 285, 291 Giovanbattista da Milano, OSM: 419, 449 Giovanbattista da Pisa, OSM: 419, 448, 449, 482 Giovanna da Firenze, OSM, b.: 546 Giovannangelo Porro, OSM, b.: 166, 167-172, 187 (58) Giovannello da Brescia, OSM: 212 Giovanni, apostolo, s.: 153, 356 Giovanni Battista, s., festa: 230 Giovanni Battista, frate OSM: 287, 288 Giovanni Crisostomo, s.: 457 Giovanni di Sassonia, OSM, b.: 187 (58) Giovanni Girolamo, OSM: 465 Giovanni Pietro Leono, OSM: 219 Girolamo, s.: 357, 431, 439, 461, 465 Girolamo Castro da Piacenza, OSM: 220, 221, 222, 223, 315 (93) Girolamo dai Libri: 589 Girolamo da Lucca, priore generale OSM: 188, 198, 199-201, 220, 328, 401, 575 Girolamo da Mendrisio, OSM: 220, 223, 595 Girolamo da Sant’Angelo in Vado, OSM, b.: 187 (58) Girolamo Franceschi da Venezia, OSM, vescovo di Coronea: 213, 215, 216 Girolamo Loda, OSM: 212, 215 Giuda Taddeo, apostolo, s., festa: 230 giubileo 1600: 261 Giuliana Falconieri, OSM, s.: 546, 576 Giuliano, frate OSM: 475 Giulio, frate OSM: 470, 472 Giulio II, papa: 218, 220, 523 Giulio III, papa: 329, 400 (186) Giulio Antonio, maestro OSM: 466 Giulio da Codogno, OSM: 496, 498 Giuseppe, sposo della Vergine Maria: 311; s., festa: 45, 227 Gobbo, Fiorenzo, OSM: 571 Gonzaga, Anna Giuliana, OSM: 121, 198, 285 (75), 286, 288, 289, 290, 291, 292-305, 306, 442 (262) Gonzaga, Margherita, duchessa di Ferrara: 298 Gorucci, Agostino da Arezzo, OSM: 258, 422, 433-442 Graffius, Peregrine, priore generale OSM: 21 (7) Graziano: 90 Grazioso da Bergamo, OSM: 214, 215 Gregorio I Magno, papa, s.: 256, 257, 316, 323 Gregorio XIII, papa: 84, 88, 90, 115, 116 Gregorio XIV, papa: 501 Gregorio da Milano, OSM: 144 Guasparri da Barberino di Mugello: 252 Guastalla: 286; convento OSM: 287 Gutenberg, Johann: 14 Hotman, François: 513 Kinspergher, Lorenza: 422 Innocenzo, frate OSM: 468 Innocenzo VIII, papa: 399 (181), 535, 542 Innsbruck: 285 (75), 286, 288, 442 (262); convento OSM: 289, 294, 587; convento suore OSM: 289, 293; monastero OSM: 289, 293 Institutio Congregationis ... Observantium, v. Congregazione dell’Osservanza Ippolito da Venezia, OSM: 186 Isidoro: 90 Italia: 154, 177, 318 Jedin, Hubert, SJ: 399 (182) Landrofilo, Giacomo Filippo, OSM: 120 Lantana, Bartolomeo, O.Carm.: 256 Laurerio, Dionisio, priore generale OSM, cardinale: 328, 401 Lazzaro di Pistoia, terziario OSM: 533 Leida, università: 512 (344) Lelio da Milano, OSM: 288, 303 Leonardo di Brescia, OSM: 223 Leone X, papa: 221, 577 Leschassier, Jacques: 508 Lippi, Filippo: 585 Lippomano, Luigi, vescovo di Verona: 401 Livio, frate del convento OSM di S. Giorgio (Bologna): 287 Lombardia: 328, 491; provincia OSM: 112, 329 Londra, National Gallery: 589 Loredan, Lorenzo: 214 Lorenzo, martire, s.: 230, 287 Lorenzo da Piacenza, OSM: 213, 215 Lorenzo da Scandiano, OSM: 287 Loreto, santa casa: 154, 442 (262), 470, 521 Luca da Firenze, OSM: 210 Lucca, Biblioteca Governativa: 153 Lucca. convento OSM: 442 (262); fraternità laica OSM: 533, 534-544 Lucia da Bagolino, OSM, b.: 166, 177-185 Lucia de Zatrillas, OSM, b.: 166, 192-193 Luigi XIII, re di Francia: 521 Luigi Serafino, OSM: 218 Lupi, Serafino, OSM: 422, 459-481 Lutero, Martin: 28, 403, 407 Macinati, Maffea (suor Maria), monaca OSM: 178, 181 Maddalena, suora OSM di Verona: 195 Madonna del Sasso, santuario: 247, 249, 251, 463; Compagnia: 248 Madonna di Cascina: 472 Magi, Luigi: 571, 574, 576 Malamocco: 146 Mando, Deodato, OSM: 418, 420, 463, 470 Mantegna, Andrea: 587, 589 Mantova: 212, 215, 221, 223, 225, 286, 292, 293 Mantova, convento OSM di S. Barnaba: 210, 217, 218; provincia OSM: 89, 112, 115, 293 Marca Trevisana, provincia OSM: 112, 402 Marco, frate OSM di S. Maria dei Servi a Venezia: 505, 529 Mare Magnum: v. Apostolice Sedis intuitus Margherita di Spoleto, OSM, b.: 166 Maria ss.: 70, 71, 86, 88, 91, 95, 112, 122, 132; 138, 139, 147, 149, 151, 153-164, 177, 178, 179, 180, 181, 183, 195, 201, 225-228, 248, 252, 254, 265, 295, 317, 318, 324, 326, 327, 365, 395, 425, 444, 451, 454, 487; 544 feste: Annunciazione, 23, 45, 229, 255, 303, 563; Assunzione, 46, 77, 229, 254, 255, 539, 553, 563, 572; Natività, 23, 37, 45, 77, 227, 229, 255, 303, 407, 553, 563, 572; Presentazione, 46, 77, 298, 299, 302, 303, 563; Purificazione, 77, 229, 261, 418, 448, 563; Visitazione, 46, 77, 296, 303, 563, 572 iconografia: 297, 445, 572-578 litanie: 126-128, 136-137, 297 messa «de Beata»: 73, 91, 119, 225 titoli: Addolorata, 119, 120, 150, 294, 296, 299, 550, 561, 566, 573; Immacolata Concezione, 119, 121, 141-145, 303, 563, 574; Imperatrice: 560; Madre: 154, 159, 163, 318, 558, 560, 565; Regina: 153, 154, 160, 318, 319, 551, 558, 565; Signora: 153, 154, 550, 558, 565; Sposa: 159 ufficio del sabato: 89, 122-131, 227; ; ufficio parvo: 92, 119, 184, 435, 538 v. Ave Maria, Salve Regina, Vigilia de Domina Maria, monaca OSM: 312 Maria principessa d’Asburgo (suor Anna Caterina), figlia di Anna Giuliana Gonzaga: 293, 295 Maria Agnes, monaca OSM: 297 Maria Angela, monaca OSM: 297 Maria Anna, priora del monastero OSM di Innsbruck: 297 Maria Chiara, monaca OSM: 297 Maria Cleofa, monaca OSM: 297 Maria de’ Medici, regina di Francia: 521 Maria Geltrude, monaca OSM: 297 Maria Giovanna, monaca OSM: 297 Maria Jacobi, monaca OSM: 297 Maria Maddalena, s.: 179, 257, 333, 350, 373, 585 Maria Maddalena, monaca OSM: 297 Maria Marta, monaca OSM: 297 Maria Matilde, monaca OSM: 297 Maria Salome, monaca OSM: 297 Maria Umiltà, monaca OSM: 198, 305-307 Marinelli, S.: 589 Marini, P.: 589 Marino Baldo, OSM: 218, 222 Marsiglia: 143 Martino V, papa: 119; 132, 534, 545, 546, 548, 562 Martino Ispano di Aragona, OSM: 221, 222, 223 Martino Oppavienze, OP: 324 (100) Masetti Zannini, G.L.: 449 (272) Massarini, Ippolito, OSM: 119, 122 Massimiliano, arciduca d’Austria: 299 Matteo, apostolo, s., festa: 230 Mattia II, re di Boemia e Ungheria, poi imperatore: 285 (75), 293, 294, 442 (262) Mauro da Firenze senior, OSM: 596 Mazzocchio, Lorenzo, priore generale OSM: 42, 314, 328, 329, 399-415 Medici, signori di Firenze: 73 Medici, Alessandro, cardinale arcivescovo di Firenze: 248, 250 Medici, Antonio Maria, OSM: 198, 285-291 Melantone, Filippo: 29 Micanzio, Fulgenzio, OSM: 491, 492 (328), 493, 494-505, 528 Michelangelo Buonarroti: 591 Michele, frate OSM: 466, 476 Michele Bonardi da Pinerolo, OSM, b.: 166 Migliore da Barberino di Mugello, OSM: 256 Milano: 171, 329, 465, 466 Mirandola: 220 Mirto, Giovanbattista, OSM: 419, 449 Modena: 286, 287; Biblioteca Estense: 534 Moletta, Natale: 573 Monica, monaca cappuccina: 475 Montagna, Davide, OSM: 307, 309, 491 (324), 494, 574. Monte, Antonio dal (Ciocchi), cardinale: 221, 222 Monte Agudo, contessa di: 142 Monte Berico, v. Vicenza Montecchio di Bergamo, convento OSM: 212, 221 Montefiascone, chiesa e convento OSM: 186, 470 Monte Granato, convento OSM: 211 Monte San Savino: 328 Monte Senario, convento OSM: 168, 169, 199-201, 208, 210, 247, 263, 278, 286, 422, 442, 565, 566, 575; cella di S. Alessio: 261 Montevirginio, eremo OSM: 247, 286 Montorsoli: 416 Montorsoli, Angelo Maria, priore generale OSM: 247, 258, 259, 260, 314, 416-490, 562, 564, 566 Montorsoli, Giovannangelo, OSM: 329, 591 Montpellier, pace di: 521 Mooney, Christopher A., OSM: 286, 294, 298, 304, 305, 306 Morando, Paolo: 589 Morini, Agostino, OSM: 132, 546 Morosini, nave veneziana: 146 Mosè: 335, 352, 354 Naldini, Michelangelo, OSM: 329 (103), 401 Napoli, convento OSM della Beata Maria Vergine di Mergellina: 111; provincia OSM: 89, 112 Narbonense, provincia OSM: 112, 329 Nazaret: 151 Nerone, imperatore romano: 352 Nicolò da Lira: 465, 467 Nicolò da Perugia, priore generale OSM: 209 Nicolò da Perugia, OSM: 220 Nis, Daniele: 509 Noè Bianco da Venezia, OSM: 119, 146-152 Ockham, Guglielmo di: 513 Olivi, Basilio, OSM: 255, 420 Onorio da Bergamo, OSM: 211, 212, 213 Orazio, poeta latino: 56 (22) Origene: 354 Orvieto, convento OSM: 470 Osservanza Germanica: 121, 294, 305 Ottaviano, frate OSM: 468, 469 Ottaviano, mastro “legnaiuolo”: 463 Pacher, Michael: 587 Padova: 329, 587; convento OSM: 210, 216, 218 Paleotti, Alfonso, arcivescovo di Bologna: 567 Paleotti, Gabriele, cardinale arcivescovo di Bologna: 567 (395) Palmezzano, Marco: 583 Panciatichi, Giuliano di Jacopo di Bandino: 574, 581 Pandino, convento OSM: 212 Panvini, Paolo Emilio, OSM: 480, 481 Paolo, apostolo, s.: 335, 348-398, 431, 516; festa: 46, 77, 92, 229, 230, 420 Paolo, organista OSM: 475 Paolo da Chiari, OSM, b.: 211 Paolo III, papa: 42, 329, 348, 349, 407 Paolo IV, papa: 523 Paolo V, papa: 262, 263, 264, 265, 271, 293, 294, 500, 501 (333), 516, 577 Paolo da Faenza, OSM: 120 Parigi: 219, 261, 403, 506 (335); Biblioteca Nazionale: 315; parlamento: 513 (348); università della 513, 527 Parma: 417 Parmigianino, Girolamo Francesco Maria Mazzola, detto il: 571 Pavia: 172 Pellegrino Laziosi da Forlì, OSM, s.: 187 (58); iconografia: 577, 578 Penna, Feliciano, OSM: 303 Perlasca, Simone: 153 Perugia: 215, 222, 312; Bosco di Bacco: 209 Perugia, convento OSM di S. Fiorenzo: 146, 209, 482 Perugino, Pietro di Cristoforo Vannucci, detto il: 585 Pesaro, convento OSM: 211 Piacenza: 417; convento OSM: 210, 216, 219 Pier Lombardo: 417 Piermei, Alessandro Filippo, OSM: 189 Piero di Cosimo: 587 Pietro, apostolo, s.: 356, 516; festa: 46, 77, 92, 229, 230 Pietro, baccelliere OSM: 471 Pietro Aretino: 328 Pietro da Bologna, OSM: 191, 419, 449 Pietro da Cremona, OSM: 212 Pietro da Firenze, OSM: 208 Pietro da Quinto, commesso OSM: 251, 256 Pietro della Croce, OSM, b.: 166, 173-176 Pietro Lombardo: 55 Pietro Novello di Treviso, OSM: 216, 218 Pio V, papa: 73, 74, 84, 89, 91 (32), 225, 502 (334) Pisa, università: 416 Pisa, convento OSM, biblioteca: 409 Pistoia, ospedale di S. Desiderio: 533 Pistoia, chiesa OSM della Ss.ma Annunziata: 574, 581; Compagnia della Concezione: 581 Sorbona: 407, Pizzighettone, monastero OSM: 171 Platina, Bartolomeo Sacchi detto il: 324 (100) Plutarco: 499 Poccianti, Michele, OSM: 166, 167, 173, 188, 315 (93), 416, 591 Pole, Reginald, cardinale: 329 Portinari, Francesco: 146 Praga: 285 (75), 290 Pratolino: 247 Puccini, Atanasio, OSM: 252 Racconigi: 472 Raffaele da Cortona, OSM: 404 Ravenna, convento OSM: 186 Razzi, Serafino, OP: 257 Reggio Emilia: 286; chiesa OSM della Ghiara: 121; convento OSM: 287; immagine della Madonna della Ghiara: 153, 155, 573 Regina coeli, antifona mariana: 409 Regola del Terz’Ordine: 132; 534, 545-560 Ricasoli Baroni, Pandolfo: 460 Ricciolini, Bernardino, OSM: 198, 246-262, 422 Rodi, isola: 146 Rodolfo, frate OSM: 469 Roma: 73, 89, 146, 174, 193, 215, 221, 222, 223, 247, 254, 286, 293, 299, 308, 328, 404, 420, 422, 442 (262), 474, 492, 497, 523, 525, 527; chiesa di S. Lorenzo in Damaso: 219, 223; chiesa di S. Maria del Popolo: 543 Sant’Uffizio: 492 Roma, convento OSM di S. Marcello: 103, 111, 329, 406, 408, 422, 442 (262); convento OSM di S. Maria in Via: 221, 223; convento OSM di S. Nicola: 212, 221; Facoltà teologica “Marianum”, biblioteca: 315 Romagna: 523; provincia OSM:112, 259, 481 Romana, provincia OSM: 112, 482 Romolo, frate OSM: 475 Ronchi, Ermes, OSM: 572 Roschini, Gabriele, OSM: 141 Rossetti, Prospero, OSM: 433 Rossi, Alessio, OSM: 571 Rossi (de), Benedetta, OSM: 198, 292, 307-312 Rovato, convento OSM: 211, 212, 223 Rucellai, Cosimo, OSM: 314 Salvani, Antonio da Siena, OSM: 199, 207, 208 Salve Regina, antifona mariana presso OSM: 20, 43, 46, 70, 75, 76, 91, 109, 119, 226, 227, 409, 501, 502 Salvini, Mariano di Giovanni, OSM, vescovo di Cortona: 188 San Godenzo: 478 Santo, frate OSM: 501 Santorio, Giulio Antonio, cardinale: 88, 90, 420 Sardegna: 193 Sarpi, Paolo, OSM: 84, 85, 88, 314, 419, 449, 491-530 Sboz: 296 Scaramella, Luigi, OSM: 219 Schiavetti, Giovannangelo, OSM: 292, 308 Sebastiano da Alessandria, OSM: 404 Senigallia, convento OSM: 212 Sermantelli, Bartolomeo: 263 Sette Fondatori OSM, s.: 132, 199; iconografia: 599 Seyfrid, Enrico OFM: 307 Sgamaita, Filippo Maria da Bologna, OSM, detto: 120, 187, 191 Siena: 575; università: 433 Siena, chiesa OSM: 121, 574; convento OSM: 328, 329 Simone, apostolo, s., festa: 230 Sisto V, papa: 277 Societas habitus, v. Compagnia Soissons, abbazia di S. Medardo: 513 (348) Soragna, convento OSM: 468, 480 Soroë (Danimarca): 512 (344) Sosio, Libero: 519 Soto, Domingo, de, OP: 331 Soulier, Pérégrine, OSM: 17, 43, 74, 86, 122, 173, 187, 202, 225, 324 (100), 546, 562 Stabat Mater: 306 Stefano, primo martire, s.: 149 Stefano, frate OSM: 251 Stefano da Bologna, OSM: 463 Stefano da Borgo Sansepolcro, priore generale OSM: 207 Stefano da Piacenza, OSM: 216, 219 Stesicoro di Imera: 402 Stufa (della), famiglia fiorentina: 199 Suarez, Giuseppe, OSM: 285, 287, 288 Tancredi, Taddeo, priore generale OSM: 217 Taucci, Raffaello, OSM: 482 Tavanti, Giacomo, priore generale OSM: 84, 85, 86, 115, 121, 314, 416, 418, 420, 425, 429, 445, Terenzio, autore latino: 462 Terra Santa: 146-152 Tevere, fiume: 209 Todi, convento OSM: 315; 422, 442 (262), 470 Tommaso d’Aquino, OP, s.: 26, 373, 439, 455, 513 Tommaso da Verona, OSM: 174 (51) (52), 189 (66) Torbido, Francesco: 589 Torcello, vescovo di: 311 Torelli, Ludovica, contessa di Guastalla: 292 Toscana: 328; provincia OSM: 112, 328, 401, 433 Trento: 286, 288, 329; diocesi: 177 Treviso: 214; convento OSM: 408 Troade: 352 453 Ubaldo, frate OSM: 256 Udine, cattedrale: 213 Udine, chiesa OSM S. Maria delle Grazie: 214; convento OSM: 213, 216, 219 Ughi, Matteo, OSM, vescovo di Cortona: 188 Ugonotti: 521, 528 Ulianich, Boris: 13 (1), 314 (88)-(91), 328 (102), 330 (104), 348 (119), 491 (325), 493-494, 519 (364) Umbria: 328 Urbano, frate OSM: 468 Urbino: 470 Valencia, monastero OSM di S. Maria de pede crucis: 598 Valla, Lorenzo: 358 (128) Vallombrosa, abbazia: 250 Van Meurs, Jan: 512 Vaticano, basilica di S. Pietro: 261; Biblioteca Apostolica: 348 Vasari, Giorgio: 587 Venanzio, frate OSM: 466, 468 Veneta, convento OSM: 146; provincia OSM: 89, 112, 115, 479, 491 Veneto: 328 Venezia: 85; 122, 214, 217, 218, 221, 222, 309, 417, 467, 491, 493, 508, 509, 521; calle de’ Stagnari: 310; chiesa di S. Marco: 328; monastero agostiniano di S. Girolamo: 307, 308; patriarca: 310; ponte di Santa Fosca: 492 Venezia, convento OSM della Giudecca: 209, 210, 213; chiesa dei Servi: 215, 216, 328; convento di S. Maria dei Servi: 211, 214, 221, 491 Verallo, Fabrizio, cardinale: 264 Verona: 194, 286, 417, 575; ospedale della Misericordia: 194; palazzo del Prefetto: 195 Verona, chiesa OSM S. Maria del Paradiso: 213; chiesa OSM di S. Maria della Scala: 121, 318, 589; convento OSM: 288 Vicenza: 210, 211, 213, 215, 217 Vicenza, chiesa di S. Maria di Monte Berico: 121; convento OSM: 209 Vienna: 293 Vigilia de Domina: 43, 75, 91, 226, 227, 228 Villa, Giampaolo, OSM: 177 (54) Villaforis, famiglia nobile di Cagliari: 192 Villet, M.: 325 (101) Virgilio, poeta latino: 386 Visentin, Maria Cecilia, OSM: 571, 581, 583, 585, 587, 589 Viterbo, chiesa dei Servi: 174 (52), 175; convento OSM: 173, 174, 175; monastero OSM della Pace: 173, 175 Vitriano, Giovanni da Reggio, OSM: 404 Vittore da Cremona, OSM: 561 Vongeschi, Sebastiano, OSM: 581 Zaccaria, priore OSM della Ss.ma Annunziara di Firenze: 585 Zaccaria da Genova, OSM: 470, 472 Zante, isola: 146 Zata degli Antinori, Lisabetta, terziaria OSM: 545 INDICE GENERALE pagina Presentazione Abbreviazioni FONTI LEGISLATIVE 11 Introduzione 13 LE COSTITUZIONI DEI SERVI DI SANTA MARIA NEL CINQUECENTO 14 I. Budrio 1548 II. Costituzioni 1556 III. Costituzioni 1569 IV. Costituzioni 1580 16 42 73 84 LITURGIA E PIETÀ MARIANA 117 Introduzione I. Ufficio della Beata Vergine Maria II. Preghiere dei Servi III. Rito della vestizione di un novizio o di una sorella IV. Francesco Nuñes Fenix de Canales V. Noè Bianco VI. Arcangelo Ballottini 119 122 132 138 141 146 153 FONTI AGIOGRAFICHE 165 Introduzione 166 I. Giovannangelo Porro II. Pietro della Croce III. Lucia da Bagolino IV. Cedonio da Monza (o da Bologna) V. Lucia de Zatrillas di Culleri VI. Angela da Verona 167 173 177 186 192 194 MOVIMENTI DI RIFORMA 197 Introduzione 198 I. Rinascita di Monte Senario 199 II. Congregazione dell’Osservanza 1. Filippo Albrizzi: Institutio Congregationis ... 2. Le Costituzioni dell’Osservanza 202 202 234 III. La vita eremitica a Monte Senario 1. Bernardino Ricciolini e la restaurazione della vita eremitica 2. Le Costituzioni dell’Eremo 3. Lettera di Antonio M. Medici a Gabriele Boni IV. Monachesimo femminile 1. Anna Giuliana Gonzaga 2. Suor Maria Umiltà 3. Maria Benedetta de Rossi MAESTRI E TEOLOGI Introduzione 246 246 262 285 292 292 305 307 313 314 I. Cosimo da Firenze e l’Operetta nuovamente composta ... 314 II. Agostino Bonucci 1. Omelia dell’8 aprile 1546 2. La conversione di Paolo 328 331 348 III. Lorenzo Mazzocchio 1. Il capitolo generale di Verona (1554) 2. Mazzocchio, priore generale 3. Opere 4. Salmi 399 400 404 406 409 IV. Angelo Maria Montorsoli 1. La domanda di reclusione 2. La “riforma” della camera 3. La lectio divina del recluso 4. Consigli a un teologo 5. Direzione spirituale 6. Lettere di accompagnamento della “lettera universale” 7. La censura della lettera universale 8. Lettere a Serafino Lupi da Firenze 9. Lettera a fra Arcangelo Giani 10. Dalla “Lettera spirituale” 416 423 425 428 433 442 445 453 459 481 482 V. Paolo Sarpi 1. Vita del Padre Paolo ... 2. Lettere 3. Dal «Trattato delle materie beneficiarie» 4. Da «Considerazioni sopra le censure ...» 5. Dai «Pensieri» 491 494 506 515 516 519 6. «Ragionamento col Principe di Condé» 7. Morte di fra Paolo 521 528 FRATERNITÁ LAICHE 531 Introduzione 533 I. Regola della fraternità di Lucca 534 II. La regola di Martino V aggiornata da Arcangelo Giani 545 III. La Societas habitus 1. Statuti 2. Lettera di Angelo Maria Montorsoli alla Compagnia dell’abito 561 561 564 ICONOGRAFIA 569 Introduzione 571 Tavole 579 INDICE DELLE CITAZIONI BIBLICHE INDICE ANALITICO