UN OSTACOLO: IL DISGUSTO PER IL PRESENTE E LA MANCANZA DI PROSPETTIVA PER IL FUTURO: L’ACCIDIA 1. Introduzione “A coloro che vivono nell’hesychia, fa guerra soprat tutto la passione dell’accidia”1. Da questa laconica espressione, siamo indotti a pensare che la vittima privilegiata dell’accidia sia il monaco e, in particolare, colui che conduce una vita solitaria e ritirata, una vita che offre poche possibilità di distrazione. Certamente, stando alla letteratura monastica, dobbiamo riconoscere che l’accidia era uno dei problemi più gravi con cui l’antico monachesimo ( e in particolare l’anacoretismo) doveva confrontarsi attraverso una dura ed estenuante lotta. Diventando un peccato tipicamente monastico, l’accidia facilmente si insinua in uno stile di vita che ha un ritmo regolare, monotono, senza apparenti variazioni,ripetitivo. Crea un sottofondo che si manifesta in una tiepidezza nella ricerca di Dio, in una mancanza di tono,in una perdita di tensione e di zelo nel servizio del Signore. Certamente per chi, come il monaco, ha scelto una separazione radicale dal mondo per incamminarsi, nella conversione quotidiana, alla ricerca di Dio, é terribile essere risucchiati in questo vortice che, attraverso lo scoraggiamento, sconfina nella disperazione: si perde il senso della vita, si perde il mondo, senza trovare Dio. “ La dimenticanza di Dio, il venir meno dell’incessante e gioiosa memoria Dei conduce fatalmente alla dimenticanza della verità delle creature, delle cose, del proprio io, della creazione intera. Chiuso in se stesso, l’accidioso si ripiega in uno sterile narcisismo; incapace di rapporto con gli altri vive in una sorta di sonnambulismo, in una paura metafisica di fronte alla vita che gli impedisce di rendere grazie, di gioire per tutto ciò che Dio gli ha dato. L’accidia offusca lo sguardo del cuore, scalza alla radice ogni certezza, ogni fiducia in se stessi, in Dio, nei fratelli. Preso da vertigine di fronte al proprio vuoto e alla radicale vanità di ogni opera umana, incapace di reagire a questo insidioso sconforto che avvelena ogni istante, l’accidioso non trova consolazione né sollievo in nulla., neppure nella presenza affetuosa di quelli che lo circondano. La vita pare vuota di senso, la vocazione, la chiamata di Dio un sogno ed una illusione della giovinezza. Frastornato dall’incessante discorrere dei fantasmi interiori - è questo ossessionante monologo interiore che faceva gridare ai monaci del deserto: “Abba, io voglio salvarmi, ma i miei pensieri me lo impediscono!” - il monaco vittima dell’accidia diventa incapace di perseverare nella solitudine, cerca in ogni modo di sfuggire a se stesso, di stordirsi cercando altri con cui chiacchierare e su cui sfogare la propria angoscia, diventa insofferente verso tutto quello che sta facendo...”2 Ma a questo punto, dopo questa breve ed iniziale descrizione dell’accidia all’interno dell’esperienza monastica, può sorgere una domanda: realmente l’accidia è una malattia tipica dei monaci? L’uomo ‘normale’, che vive immerso nel mondo, frastornato da una miriade di impegni che lo tengono occupato e lo distraggono, è veramente esente da questa insidiosa e snervante battaglia? P.Gabriel 1 NILO DI ANCIRA,De octo vitiosis cogitationibus: PG 79,col.l460A. Detti inediti dei Padri del deserto, cur. L.Cremaschi, Magnano (Com. di Bose) 1986, pp. 93-94. 2 Bunge, eremita ed autore di uno studio che affronte in modo approfondito, a partire dagli scritti di Evgrio Pontico, questa malattia esistenziale, conclude il primo capitolo del suo libro con questa riflessione personale: “L’autore di queste righe, qualche anno fa, ha letto alcune pagine del manoscritto di questo libretto ad alcuni studenti che gli chiedevano a che cosa stesse lavorando. Beninteso, essi ignoravano completamente che cosa fosse l’accidia. Ma quando, dopo aver letto loro alcuni testi del monaco del Ponto, chiesi loro: “Vi dicono qualcosa queste righe?”, gli studenti risposero stupiti: “Ma certo! Ciò che il suo padre del deserto descrive lì è il male del nostro tempo”3. L’accidia è il male del nostro tempo! Chi non saprebbe riconoscere in molti fenomeni che caratterizzano l’esperienza personale e collettiva dell’uomo d’oggi, sintomi e manifestazioni di quel ‘male oscuro’ che gli antichi monaci chiamavano accidia? Dalle svariate forme di depressione che spesso intaccano la fragile esistenza dell’uomo d’oggi (in particolare dei giovani), alle manifestazioni psicosomatiche come l’anoressia e la bulimia, che rivelano, in una incapacità di accettare la propria realtà corporale, un disagio molto più profondo; dalla paura di affrontare la vita con le sue frustrazioni ed i suoi scarti, alla fuga di fronte a se stessi, alla verità del proprio volto interiore; dalla impossibilità a fare scelte durature, alla ricerca di un cammino spirituale fatto di emozioni e incapace di affrontare ogni deserto interiore: tutto ciò è una manifestazione più o meno palese di quella situazione esistenziale che i monaci antichi chiamavano accidia. “‘È quel senso di noia, quel sentimento di schiacciante frustrazione, di mortale stanchezza di fronte alla vita che ci attanaglia proprio mentre constatiamo la radicale vanità di ogni nostro affanno sotto il sole (Qo 1,3), delle occupazioni frenetiche in cui ci siamo rifugiati quasi ubriacandoci per dimenticare il nostro limite, per sfuggire alla visione angosciosa dei nostri inferi”4. Si deve dunque ammettere che l’accidia è inscindibilmente legata alla nostra condizione umana. Come osserva p.G.Bunge, “l’accidia è per così dire la dimensione metafisico-religiosa di una ‘sofferenza’ che è comune a tutti gli uomini e che nella sua forma profana, secolarizzata, viene esperita come ennui, malinconia, depressione,eccetera. Se qui l’uomo soffre - soggettivamente soprattutto in se stesso e nel suo rapporto con i suoi simili, nel caso dell’accidia è il suo rapporto con Dio ad essere ‘ottenebrato’, come dice Evagrio. Ora questo riferimento a Dio è caratteristico di ogni uomo, lo ammetta o no”5. ‘E necessario inoltre sottolineare come questo fenomeno superi la sfera strettamente personale, esistenziale o spirituale, per assumere forme collettive ed intaccare vari livelli dell’agire dell’uomo (sociale, politico, ecclesiale). In uno dei suoi tradizionali discorsi alla città di Milano per la festa di s.Ambrogio , il card.Martini mette in guardia da un atteggiamento e da un disimpegno nella sfera politica cui da significativamente il nome di “publica accidia”: “Di una di queste cose terribili vorrei parlare in paricolare: Si tratta di un male oscuro, difficile da nominare, forse anche perché è difficile da riconoscere, come un virus latente eppure onnipresente. Potremmo chiamarlo con il nome di ‘pubblica accidia’ o di ‘accidia politica’. ‘E il contrario di quella che la tradzione classica greca, come pure il Nuovo Testamento, chiamano parresia, libertà di chiamare le cose con il proprio nome. Si tratta di una neutralità appiattita, della paura di valutare oggettivamente le proposte secondo criteri etici, che ha come conseguenza un decadimento della sapienzialità politica”6 3 G.BUNGE, Akedia, il male oscuro, Magnano (Com. di Bose) 1999, p:34: Detti inediti, p.93. 5 BUNGE, Akedia, p.48. 6 Discorso del 6 dicembre del 1999. Cfr: testo in C.M.MARTINI, Coraggio sono io, non abbiate paura, in Il RegnoDocumenti 2000/n°1, p.42. 4 Ma anche il mondo ecclesiale non è esente da questa fiacchezza; lo ha notato in un incontro tenuto a Camaldoli per laici cristiani impegnati in politica, il vescovo W.Kasper, rileggendo la situazione attuale della chiesa alla luce della categoria biblica della prova e della tentazione: “La chiesa - dice Kasper - soffre di una stanchezza interna. Essa non viene sfidata. O meglio, sembra non venire sfidata. Non è messa esteriormente in discussione e all’apparenza la situazione non sembra drammatica, ma parallelamente la chiesa è per molti una realtà non interessante, quasi noiosa, che lascia fredde le persone e le rende indifferenti”. Per molti l’essere cristiano è diventato più o meno indifferente. Questa indifferenza è la vera tentazione del cristiano nella nostra situazione. Nessun rifiuto drammatico della fede e della vita cristiana, bensì il suo oblio pratico (...) E questa perdita di memoria rappresenta per Kasper la perdita dell’orizzonte della speranza che ci rende culturalmente e spiritualemente stanchi, pesanti, spenti. I padri della chiesa e i grandi teologi del medioevo hanno definito questa posizione la tentazione originaria dell’accidia”7. Dunque, superata la tentazione ambigua e fuorviante di relegare questa dolorosa esperienza all’interno del mondo monastico, e riconosciuto il suo legame profondo con la natura dell’uomo ( e di conseguenza la sua continua minaccia alla nostra esistenza), si deve tuttavia ammettere che proprio gli antichi autori monastici hanno osservato e riconosciuto con estrema acutezza e lucidità il fenomeno dell’accidia; hanno saputo dar di essa una descrizione precisa e dettagliata nella quale ciascuno, in maniera diversa, può riconoscersi ed avere il coraggio di dare un nome alle molteplici manifestazioni che appesantiscono e soffocano la propria esistenza quotidiana. E se i monaci antichi hanno avuto questo sguardo dioratico sul cuore umano, ciò è avvenuto perché hanno vissuto per esperienza questa terribile lotta, affrontando quel mondo interiore che accompagna ogni uomo, anche nella solitudine del deserto, e sfidando in quella aridità primordiale, soli con l’aiuto di Dio, colui che intacca ed avvelena l’icona spirituale dell’uomo: il tentatore. a. Il combattimento spirituale. “Il monachesimo delle origini aveva chiara coscienza che nel deserto non avrebbe incontrato nient’altro che ‘il primcipe di questo mondo’. Andare con Cristo nel deserto non significa sfuggire a tutte le tentazioni, ma piuttosto, come Cristo e con Cristo, affrontare ‘nudi’ il tentatore. Pensare che oggi le cose siano diverse sarebbe una illusione fatale. L’oppositore del genere umano non è legato a luoghi, tempi o condizioni di vita. Chi entra oggi in monastero o si dà alla vita religiosa o ecclesiastica, in questo nostro mondo demitizzato, spesso non considera questo fatto fondamentale: egli è eo ipso entrato nel ‘deserto’, nel luogo dell’isolamento e della derelizione, di desolati percorsi di sete e di ingannevoli miraggi: Chi volesse ammettere questa realtà e chi immaginasse di essere solo un bravo ‘operaio della vigna del Signore’, correrebbe il rischio di misconoscere la vera natura delle difficoltà che inevitabilmente incontrerà. Sarà sorpreso di trovare nella sua ‘vigna’ tanta ‘zizzania’, ‘spine e cardi’, invece di ‘uva’, e non capirà che è 7 Citaz. tratta da G.BRUNELLI, Ispirazione e scelte del cristiano in Italia, in Europa, in Regno-Attualità 1999/n°14, p.504. In questo articolo viene presentato l’incontro di Camaldoli del 2/3 luglio 1999, dedicato al tema Ispirazione e scelte del cristiano in Italia ed in Europa. stato il ‘nemico’ a seminarli di nascosto. Questa lotta non è un semplice incidente, un imprevisto, ma è parte integrante della vita del deserto”8. Questo testo di p.G.Bunge evidenzia con chiarezza il posto che occupa, nell’esperienza cristiana, la tentazione e la lotta a viso aperto e senza sosta contro il nemico più subdolo e pericoloso di cui si serve il tentatore per minacciare e distruggere l’identità del discepolo di Cristo: il proprio ‘io’. Percepire la vita cristiana come lotta, così come ci suggerisce Paolo in Ef 6,10-20, e rileggerla alla luce della esperienza della tentazione vissuta da Gesù nel deserto, è il cammino seguito dall’antico monachesimo. Ed era così forte la convinzione della necessità di tale esperienza qualificante, che i monaci del deserto non avevano paura di fare affermazioni come queste: “Non è possibile raggiungere la saggezza senza combattimento”9. “Disse il padre Antonio al padre Poemen: ‘Questa è l’opera grande dell’uomo: gettare su di sè il proprio peccato davanti a Dio ed attendersi tentazioni fin all’ultimo respiro”10. “Egli disse ancora: ‘Nessuno, se non tentato, può entrare nel regno dei cieli; di fatto - dice - togli le tentazioni, e nessuno si salva”11. Uno dei termini che la tradizione monastica ha utilizzato per esprimere questa esperienza, è quello di combattimento spirituale. Un testo biblico di riferimento potrebbe essere Ef 6,10-20. Tale espressione sottolinea due aspetti che caratterizzano questa esperienza. Si tratta di un combattimento, di una lotta che si attua con armi, che comporta il pericolo ed il rischio di soccombere, che implica fatica e pazienza, che richiede addestramento, ma soprattutto quella vigilanza che, attraverso il discernimento, distingue e smaschera la reale portata e pericolosità del nemico. Ma è una lotta spirituale, cioè si svolge al livello più profondo della persona; non è immediatamente distinguibile, anche se poi sfocia in un agire ed in un essere che sono conseguenza e risultato di tale lotta. ‘E ,dunque, ‘nello spirito’, cioè nel cuore, che appare come una specie di campo di battaglia dove carne e spirito si danno continuo combattimento: “Chi siede nel deserto per custodire la quiete in Dio è liberato da tre guerre: quella dell’udire, quella del parlare e quella del vedere. Gliene rimane una sola: quella del cuore”12. Nella ‘guerra del cuore’, come Antonio il Grande definisce il combattimento spirituale, è in gioco la verità del cristiano, e del monaco in particolare, proprio perché è in gioco la verità stessa del suo essere di fronte a Dio: “Non è cosa facile acquistare un cuore puro; solo attraverso una dura lotta e una grande fatica l’uomo acquista una coscienza pura ed un cuore puro ed estirpa il male in radice”13. D’altra parte, se questa lotta impegna il cristiano nel centro del suo essere, il cuore, tuttavia essa non è il risultato di un semplice sforzo per cui si acquista una vittoria da sè stessi; l’esperienza dimostra 8 BUNGE, Akedia, p.21: EVAGRIO PONTICO, Praktikos, 73: in EVAGRE LE PONTIQUE, Traité pratique ou le moine, II, cur. A. e C. Guillaumont (= Sources Chrétienne 171) Paris 1971, p:661. 10 ANTONIO 4, : Vita e detti dei padri del deserto, I, cur.L.Mortari, Roma 1975, pp. 83-84. 11 ANTONIO 5: Ibidem, p.84. 12 ANTONIO 11. Ibidem, p. 86: 13 PSEUDO-MACARIO, Omelia 26,24: tr.it. in PSEUDO-MACARIO, Spirito e fuoco, cur. L.Cremaschi, Magnano (Com.di Bose) 1995, p.285. 9 chiaramente il contrario. “Estinguere il male in radice” è frutto della sinergia tra la libera volontà dell’uomo e la grazia di Dio. Come ricorda ancora lo Pseudo-Macario: “Del resto, soltanto la potenza divina è in grado di sradicare il peccato ed il male, suo compagno. All’uomo non è lecito nè possibile sradicare il peccato con le proprie forze. Lottare, combattere, dare e ricevere colpi è compito tuo, ma sradicare il male spetta a Dio. Se tu fossi in grado di fare questo, che bisogno c’era della venuta del Signore? Come non è possibile che l’occhio veda senza la luce, nè si può parlare senza la lingua, ascoltare senza orecchie, camminare senza piedi, lavorare senza mani, così senza Gesù non si può essere salvati”14. In questo campo di lotta che è il cuore dell’uomo, si insinua un nemico subdolo, la cui presenza spesso è difficile da discernere, che sa mascherarsi bene e che penetra con molta cautela per condurci dove vuole lui; per questo si riveste sempre di un aspetto di verità, di bontà, di bellezza, di fascino per nascondere la sua radicale menzogna. In Ef 6,11-12, Paolo usa alcune significative espressioni per descrivere tale nemico: il cristiano di trova “di fronte alle astuzie (pros tas methodeias) del diavolo” e deve combattere “non contro sangue e carne, ma contro i principati e le potenze (pros tous kosmokratoras) di queste tenebre, gli spiriti (pros ta pneumatika) della malvagità nei cieli”. Secondo Paolo, il cristiano si rova faccia a faccia ed attorniato (pros) da nemici; nemici che non sono gli uomini in carne ed ossa, ma nemici che colpiscono la parte spirituale dell’uomo e ne strumentalizzano la sfera fisica; nemici che lo attorniano e tentano di impossessarsi della creazione intera per raggiungere il cuore dell’uomo. L’avversario per eccellenza, ricorda Paolo, è o diabolos che agisce con astuzia, utilizzando metodi subdoli con l’unico scopo di separare, distruggere, ostacolare, creare divisione ed invidia dentro e fuori dell’uomo, per innalzare una barriera tra l’uomo e Dio, capovolgendone il progetto. Ma per Paolo questa lotta investe molte più forze: il diavolo è solo il manovratore di un esercito a lui asservito, un esercito che accerchia l’uomo e la sua storia, la creazione intera, seminando in essa ‘tenebre’ e malvagità. Tali nemici sono invisibili, ma reali, ed eventualemente prendono forma di personaggi, eventi, condizioni storiche, ma non possono essere ridotti a tutto questo. Li trascendono: non si tratta di identificare semplicemente una maschera che essi assumono, ma di combatterli nella loro realta più vera e profonda. La tradizione monastica ha dato un nome a questi ‘nemici’. sono i ‘pensieri’, i logismoi, termine difficilmente traducubile che riassume in se tutto quel modo interiore che abita il cuore umano. “In sè e per sè - scrive p:Bunge - il pensiero è una manifestazione naturale e positiva della nostra vita interiore, della nostra attività emotiva e sensoriale, del nostro modo di comprendere le cose del mondo. In modo sottile, però questi pensieri possono diventare veicoli di finalità che contraddicono il progetto creazionale, e allora assumono la valenza di ‘pensieri cattivi’, nel senso di una seduzione al male. Come tali, essi sono la manifestazione dello stato del nostro ‘cuore’ e rendono visibile la sua malvagità, il suo essere staccato da Dio e l’essere diventato schiavo di se stesso (cfr.Mc 7,21)15. Come impulsi, immagini, suggestioni, ecc., i logismoi muovono dall’esterno dell’uomo o appaiono dal suo stesso interno, dalla sua struttura personale, caratteriale, dalle sue particolari fragilità. In modo subdolo penetrano e4d insinuano le possibilità di una azione malvagia, contraria al progetto di Dio. E così, da una semplice immagine o idea suggerita, attraverso il dialogo ed il consenso, schiavizzano il cuore dell’uomo, rendendolo vittima della passione e del vizio16. Soprattutto a partire da Evagrio, gli autori monastici hanno identificato otto pensieri, come altrettante sfaccettature o modalità con cui il nemico attacca il cuore dell’uomo. “Gli otto pensieri scrive p.Bunge - intesi in senso peggiorativo, compaiono sempre in ordine fisso (con l’unica 14 ID., Omelia 3,4: in Ibid., p.77. BUNGE, Akedia, p.35. Per una definizione e descrizione del logismos secondo Evagrio, cfr: T.SPIDLIK, La spiritualità dell’Oriente Cristiano. Manuale sistematico, Roma 1985, p. 209. 16 Cfr SPIDLIK, Ibidem, pp.211-212. 15 eccezzione dell’inversione fra tristezza ed ira): voracità, fornicazione, avarizia, tristezza, ira, accidia, vanagloria e superbia. Evagrio definisce questi otto pensieri ‘generici’, dal momento che non solo tutti gli altri pensieri derivano da questi otto, ma essi stessi sono variamente intrecciati tra loro: sia perché l’uno trae origine dall’altro, sia perché si oppongono a vicenda in modo evidente. L’accidia vi occupa un posto particolare”17. L’intreccio che caratterizza la dinamica di questi otto pensieri, permette di cogliere il posto singolare dell’accidia. Infatti essa sta più o meno a metà strada tra i pensieri più grezzi e sensuali (a cui seguono i loro effetti immediati) e quelli più immateriali che appaioni solo ai livelli più elevati della vita spirituale. Appare dunque come lo sbocco delle passioni più basse, ma anche la porta aperta verso le più sottili. Inoltre “mentre gli altri pensieri sono sempre componenti di una catena multicolore e variamente composta, l’accidia appare ogni volta come l’ultimo anello di una tale catena, quindi non immediatamente seguita da nessun altro ‘pensiero’”18. b. Il termine “Nel greco classico il termine akedia designa la negligenza (a-kédos), l’ndifferenza, la mancanza di cura e di interesse per una cosa. Nella Bibbia greca dei LXX, specialmente nei Salmi, designa l’abbattimento, lo scoraggiamento la prostrazione, la stanchezza dell’uomo provato dalla malattia o perseguitato dai malvagi (Sal 60[61],3; 1o1[102],1; 118[119],28; 142[143],4). ‘E inevece assente nel Nuovo Testamento, sia come sostantivo, sia come verbo”19. Ma è soprattutto nella letteratura monastica che questo termine ha trovato ampia accoglienza. Si deve però precisare che in questo contesto, il termine akedia assume una ricchezza di sfumature che diventa quasi impossibile renderlo in modo adeguato con un solo vocabolo. Potremmo vedere in questo aspetto quasi un riflesso della complessità di tale situazione esistenziale la quale, di fatto, investe molti stati d’animo, reazioni psicologiche o fisiche, ecc.... Già Cassiano dovette affrontare questo dilemma. “In sesto luogo - scrive - dobbiamo combattere quella che i greci chiamano akedia e che noi possiamo definire noia o ansietà del cuore”20. Dunque il termine akedia ingloba in se molte espressioni, indicative di varie situazioni le quali, più che tradurre la parola greca, rappresentano manifestazioni e sfumature del suo contenuto; come , ad esempio, scoraggiamento, torpore, pigrizia, indolenza, afflizione, negligenza, indifferenza, noia, disgusto, depressione, nausea, ecc... Sottolineiamo tre espressioni che indicano altrettanti stati d’animo che, pur avendo delle peculiarità proprie spesso si confondono con l’accidia: tristezza, nostalgia, malinconia. 1. Tristezza ed accidia. Anche se non sono situazioni identiche, la tristezza e l’accidia sono strettamente imparentate e spesso ciò che Evagrio dice dell’una, vale in larga misura anche per l’altra. Tuttavia, nella lista degli otto pensieri o vizi, rimangono sempre separate. ‘E nell’elenco dei vizi capitali di Gregorio Magno che la tristezza viene a sostituire l’accidia; anche Tommaso d’Aquino identifica tristezza con accidia. In questo Tommaso si discosta sia da Cassiano che da Isidoro di Siviglia, il quale chiaramente distingue i due vizi21. Di fatto, pur avendo manifestazioni abbastanza simili, , si deve ammettere una differenza tra i due ‘pensieri’. Anzitutto la tristezza è legata a situazioni più puntuali, maggiormente circostanziate nel tempo e generate da cause più facilmente identificabili. L’accidia invece acquista una dimensione 17 BUNGE, Akedia, p.39: Ibidem, p.53: 19 P.MIQUEL, Lessico del deserto. Le parole della spiritualità, Magnano (Com. di Bose) 1998, p.13. 20 GIOVANNI CASSIANO, De institutis coenobiorum X,1: in JEAN CASSIEN, Institutions cénobitiques, ed.J.-C.Guy, (=Schr.109) Paris 1965,p.384 (“Sextum nobis certamen est, quod Graeci akedìan vocant, quam nos taedium sive anxietatem cordis possumus nuncupare”). 21 Cfr. THOMAS AQUINAS Summa Theologiae II,II,35,4,3 (tr.it:in: S.TOMMASO D’AQUINO, La Somma Teologica, 16, cur.Domenicani italiani, Bologna 1984, pp.52-53. Cfr. anche G.BARDY, Acedia, in Dict.Spir I, Paris 1937, coll.l68-169). 18 più globale e duratura, avviluppando completamente l’esistenza e creando situazioni difficilmente misurabili e definibili. Cosi scrive A.Louf: riguardo a tale distinzione in Evagrio: “A prima vista, si rischia di confondere l’accidia con la tristezza; e capita che Evagrio li citi insieme. Ma non bisogna ingannarsi perché la sfumatura mantenuta tra i due vizi è importante. La tristezza, secondo Evagrio, può nascere dall’assenza di un piacere al quale l’anima è ancora troppo legata. Essa esprime anche la paura risentita al momento dei primi scontri esterni col diavolo: visioni, rumori, colpi. Questo contatto è ancora epidermico, come insinua l’autore ma può arrivare fino al sentimento di perder la testa, o anche la vita. La tristezza resta tuttavia sempre alla superficie del monaco che essa attacca. L’accidia per essere più sorniona e meno brutale incide profondamente sulla personalità. Essa può invadere tutto fino ad offuscare lo sguardo del cuore e ‘mettere l’anima in trappola come fa un cane ad una cerbiatta’. La tristezza potrebbe ancora essere addolcita da qualche consolazione; l’accidia sembra senza rimedio. Essa è lo smarrimento estremo che arriva a mettere in discussione il progetto monastico in se stesso”22. 2. Nostalgia ed accidia. L’accidia può prendere la forma della nostalgia, come ‘male della propria terra’. Se nella sua propria dinamica, l’accidia di fatto trascina normalmente dietro a se esperienze negative, la nostalgia rimane tuttavia aperta a cammini positivi: da essa può scaturire la tristezza secondo Dio, il penthos (cfr. ad esempio le reazioni del figlio prodigo nella parabola di Lc 15, 1132). Scrive P.Miquel: ”Il dizionario Robert definisce la nostalgia: ‘Stato di deperimento e di languore causato dal rimpianto ossessivo del paese natale, del luogo dove si è a lungo vissuti’. Ma si potrebbe anche definirla: tristenza invincibile dell’uomo che si sente esiliato lontano da un paese che non conosce ma di cui sa essere cittadino (nostalgia del cielo). ‘Tu conosci questa malattia febbrile che si impossessa di noi...questa nostalgia del paese che non si conosce, questa angoscia della curiosità”23. 3. Malinconia ed accidia. Anche la malinconia può essere una manifestazione negativa dell’accidia; ma, come la nostalgia, può assumere aperture positive, diventando una disposizione interiore che segna l’esistenza personale. “Che senso intravedere per questa esistenza segnata, come da una misteriosa vocazione, da una simile malinconia? Forse quello di camminare sul versante notturno di Dio, con il cuore segretamente ferito dall’indubitabile infinito, incapace di disfarsene. Si percepisce la ricchezza possibile di un tale cammino ed anche le sue sofferenze, e i suoi pericoli: fuga dalla vita concreta e dalla società degli uomini, ricerca di false soluzioni, di falsi assoluti, e la perdita della speranza”24. R.Guardini parla di ‘malinconia metafisica’ per caratterizzare l’esperienza di S.Kirkegaard e così distingue: “Esiste una melanconia buona, ne esiste un’altra cattiva. Buona è quella che precede la nascita dell’eterno. ‘E l’oppressione interiore, che deriva dalla prossimità dell’eterno, dal fatto che l’eterno urge per essere realizzato. ‘E l’esigenza sempre efficace, anche quando non sia consapevolmente avvertita, di assumere nella vita propria il contenuto dell’infinito; di esprimerlo nel proprio attegiamento interiore e nell’azione, nei propri sentimenti e nell’azione....Questa malinconia, e cioè la buona, è tollerabile, la si può portare sino in fondo. Ne nascono opere di divenire; tutto allora si tramuta e si trasfigura. Ma quando non sia portata sino in 22 A.LOUF, L’accidia in Evagrio Pontico, in Concilium 9/1974, p.153. MIQUEL, Lessico del deserto, pp.33-34. Il testo citato dall’autore è di Ch.Baudelaire. 24 A.DERVILLE, Mélancolie, in Dict.Spir.X, Paris 1978, col.955. 23 fondo, e l’uomo non trova la forza di riprendersi nel divenire, e non possiede la magnanimità richiesta dal sacrificio, l’audacia di troncare gli indugi, la veemenza di sfondare; quando ciò che voleva uscire, rimane invece impigliato e trattenuto, oppure vien realizzato solo parzialmente e come diminuito, allora si desta la seconda forma di malinconia, quella cattiva. Consiste essa nella consapevolezza che l’eterno non ha preso quella forma che doveva prendere, nella coscienza di aver fallito il colpo, di aver perduto la posta. In questa forma, si avverte il pericolo di essere perduti, di non aver fatto quello che andava fatto: quello cioè che, pur significando salvezza o perdizione eterna, deve tuttavia eseguirsi nel tempo, e il tempo trascorre, e non può essere recuperato. ‘E una malinconia di un carattere diverso. ‘E cattiva. Può giungere sino allo sconforto, e ad una disperazione nella quale l’uomo dà partita vinta, ed è persuaso d’aver definitivamente perduto il gioco”25. 2. L’accidia: alcune descrizioni. Ma che cos’è dunque, l’accidia? Per rispondere a questa domanda, gli antichi autori monastici (Evagrio, Cassiano, Giovanni Climaco, Nilo di Ancira, ecc...) seguivano un metodo molto significativo:evitando ogni sitematizzazione o definizione troppo esaustiva, preferivano descrivere, attraverso gustosi ritratti, non privi di ironia , il comportamento del monaco colpito dall’accidia. Raggruppavano, inoltre, in una sorta di litania, tutte le manifestazioni di questo terribile pensiero. , le sue conseguenze sulla vita spirituale, sull’ascesi, sulla preghiera. Proponiamo dunque alcuni testi che ci offrono un primo abbozzo descrittivo di tale catastrofica situazione esistenziale. a. Il primo testo non è tratto dalla tradizione monastica: è una icona biblica molto espressiva, nella quale ritroviamo già racchiuisi alcuni elementi significativi che ritorneranno poi nei testi monastici. ‘E la narrazione, riportata in 1 Maccabei 6,8-13, deella morte di Antioco Epifane. All’annunciu delle sconfitte militari e della distruzione dell’idolo da lui innalzato in Gerusalemme, Antioco: “all’udire queste notizie, restò spaventato e fortemente agitato; si gettò sul letto e cadde ammalato, per il dispiacere che non si era realizzato ciò che egli desiderava. Rimase così per molti giorni, mentre una profonda tristezza si rinnovava continuamente in lui. Pensò che stava per morire. Perciò chiamò tutti i suoi amici e disse loro. ‘Il sonno s’è ritirato dai miei occhi e il mio cuore è abbattuto per l’inquietudine. Mi sono detto: A quale afflizione sono giunto e in quale grande tempesta io ora mi dibatto! Ero infatti, felice ed amato nella mia potenza. Ora invece, mi assale il ricordo dei mali che ho fatto a Gerusalemme, quando presi tutti i suoi oggetti di argento e d’oro, e quando inviai a sterminare gli abitanti di Giuda senza motivo. Riconosco che è a causa di tali cose che questi mali mi hanno raggiunto; ed ecco con profonda tristezza perisco in terra straniera!”. In questa descrizione sono elencate alcune caratteristiche di quella tristezza mortale che avvolge completamente l’anima di chi vede frantumarsi tutto ciò su cui aveva poggiato la sua vita. Notiamo come lo spavento, l’agitazione e il dispiacere sono causati dalla mancata realizzazione e dalla frustrazione di un progetto di idolatria e di violenza. C’è prostrazione ed afflizione, inquietudine e soprattutto una profonda tristezza che si rinnova continuamente. La vita viene percepita nella sua dimensione negativa: si coglie solo il male che si è fatto e davanti agli occhi non c’è alcun futuro; 25 R.GUARDINI, Ritratto della malionconia, Brescia 1952, pp.55-57. anzi, ci si sente “in terra straniera”. Ciò che di fatto è venuto meno è una immagine di sè costruita sulla falsità e sul vuoto. b. In due testi, Evagrio Pontico traccia con estrema precisione ed in forma esasperata e grottesca, ilritratto del monaco caduto nei lacci dell’accidia. Il primo testo si trova nel Trattato pratico sulla vita monastica 12: “Il demonio dell’accidia, denominato anche ‘demonio del mezzogiorno’, è il più gravoso di tutti i demoni: esso si incolla al monaco verso l’ora quarta e ne assedia l’anima fino all’ora ottava. Dapprima quel demonio gli fa apparire il sole estremamente lento, se non addirittura immobile: gli sembra che il giorno abbia a durare fino a cinquanta ore! In più esso lo induce a volgere continuamente gli occhi verso le sue piccole finestre, lo persuade ad uscire fuori della sua cella, a scrutare attentamente verso il sole per vedere quanto dista dall’ora nona, ma anche a guardare tutt’attorno per osservare se qualcuno dei fratelli si faccia vivo. E in più quel demonio gli ispira dell’odio per qualla sua dimora e per quella stessa sua vita e per il lavoro delle sue mani: ( gli fa pensare) che ormai la carità tra i fratelli è venuta meno e che non c’è più nessuno che possa dargli conforto. Se poi, per di più, è avvenuto che qualcuno in quei giorni abbia contristato quel povero monaco, anche questo contribuisce a far si che il demonio lo spinga ad accrescere la sua avversione. ‘E allora che esso lo induce al desiderio di altri luoghi, nei quali sia possibile trovare facilmente quanto occorre al suo bisogno, e così esercitare un lavoro più sopportabile e più profittevole; esso gli insinua ancora come non sia possibile che in quel luogo egli trovi il modo di piacere al Signore: dovunque, insiste a dire, la divinità può essere adorata. A tutto questo egli aggiunge pure il ricordo dei suoi famigliari e della sua vita passata; gli lascia intravedere una lunga durata della sua vita, ponendogli davanti agli occhi gli aggravi dell’ascesi. E così, come si usa dire, quel demonio mette in moto ogni espediente allo scopo di indurre il monaco ad abbandonare la cella e a lasciare il suo campo di lotta. A un tale demonio non si accompagna subito nessun’altro demonio. Conclusa la lotta, uno stato di grande tranquillità e di gioia indicibile invade l’anima del monaco”26. Nel piccolo trattato Sugli otto spiriti della malvagità 14, Evagrio descrive il monaco accidioso nella sua cella, mentre tenta di leggere: “L’occhio dell’accidioso è continuamente fisso alle finestre, e nella sua mente fantastica su visitatori: la porta cigola, e quello salta fuori; sente una voce, e spia dalla finestra, e non se ne allontana, finchè non è costretto a sedersi tutto intorpidito. Quando legge, l’accidioso sbadiglia spesso, ed è facilmente vinto dal sonno, si stropiccia gli occhi, si sfrega le mani, e, ritirando gli occhi dal libro, fissa il muro; poi di nuovo rivolgendoli al libro, legge ancora un poco, poi, spiegando le pagine, le gira, conta i fogli, calcola i fascicoli, biasima la scrittura e la decorazione; infine, chinata la testa, vi pone sotto il libro, si addormenta di un sonno leggero, finchè la fame non lo risveglia e lo spinge ad occuparsi dei suoi bisogni”27. In queste due descrizioni, ritroviamo alcuni sintomi dell’accidia che riprenderemo in modo più dettagliato in seguito. Ma è già interessante notare fin d’ora il clima pesante, distruttivo che questo pensiero riesce a creare attorno al monaco. Tutto è intaccato da questa malattia radicale e cronica 26 EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, cur. L.Dattrino, Roma 1992, pp.70-7l. Cfr. anche EVAGRE LE PONTIQUE, Traité pratique ou le moine, II ,pp.520-527. 27 EVAGRIO PONTICO, Gli otto spiriti della malvagità. Sui diversi pensieri della malvagità, cur. F.Moscatelli. Cinisello Balsamo 1996, pp.52-55. del cuore: la preghiera, la lettura, i rapporti interpersonali, l’ambiente, l’orarioo, ma, soprattutto, la propria esistenza. Si produce uno stato d’animo che intacca e rischia di disorientare tutto ciò che raggiunge. “ Demone del mezzogiorno (Sal.90,6) - scrive A.Louf riprendendo le descrizioni di Evagrio - l’accidia comincia a manifestarsi a quest’ora pesante in cui il digiuno fa il suo primo effetto e in cui il caldo del giorno - siamo in Egitto! - diventa schiacciante. La giornata sembra allungarsi smisuratamente; le visite dei fratelli segretamente scontate - e che permetteranno, oltre alla consolazione più o meno spirituale dell’incontro, di rompere il digiuno in nome dell’ospitalità si fanno attendere. La solitudine pesa con tutta la sua noia; il luogo si rivela inospitale; il lavoro, massacrante; il clima, insalubre a causa di tutti i malanni. Torna alla memoria la cattiveria dei fratelli vicini che non cessano di moltiplicare le mancanze di riguardo. I superiori sono noti per la loro incomprensione e per la durezza verso ogni senso pastorale. La più piccola indisposizione diventa preoccupante: ci si precipita a letto. Anche lo sforzo per la lettura è troppo: dopo tutto, Dio si rifiuta di infondere direttamente il senso della Scritture?”28. ‘E questa, per Evagrio, la sventura del monaco accidioso! c. In altri testi della tradizione monastica, ritroviamo liste descrittive dell’accidia nelle sue più svariate manifestazioni e sfumature. Così ancora Evagrio, nel suo trattato Sui vizi che sono opposti alle virtù 4, elenca vari aspetti dell’accidia, sottolineando in particolare due conseguenze tipiche di questo pensiero: l’instabilità e il disprezzo per gli impegni della propria vita. “L’accidia: sentimento vago che porta a girovagare e a disprezzare l’amore per il lavoro; nemica dell’hesychìa , è bufera per la salmodia, svogliatezza nella preghiera, rilassatezza nell’ascesi. ‘E sonnolenza fuori tempo, sonno che si aggira, pesantezza dell’ipocondria, odio della cella, avversione di ogni sforzo. ‘E contreppeso della costanza, freno della contemplazione, ignoranza delle Scritture, compagna della trsitezza, orologio della fame”29. Giovanni Climaco tratta dell’accidia nella sua Scala del Paradiso XIII. La descrive come fiacchezza generale, abbattimento, stanchezza del cuore e frustrazione. Essa trascina dietro a se vari atteggiamenti di cui il Climaco mette in evidenza soprattutto il carattere dei insensibilità e atonia generale: “L’accidia è la paresi dell’anima, infiacchimento della mente, trascuratezza dell’ascesi, odio della vocazione., invidia dei beni mondani, accusa contro la misericordia e la filantropia di Dio, atonia della salmodia, astenia della preghiera, ferrea energia per il servizio, sollecitudine per i lavori manuali, riprovazione per l’ubbbidienza”30. d. Riportiamo infine un testo di Romano Guardini, tratto dall’opuscolo Ritratto della malinconia. L’autore, pur descrivendo questo particolare stato d’animo, offre diversi elementi che ritroviamo presso gli autori monastici che trattano dell’accidia: “La malinconia consiste in un’oppressione di spirito: un peso grava su di noi, che ci sta sopra fino a schiacciarci; dalla loro naturale tensione le membra e gli organi si rilassano; sensi, impulsi, forze immaginative, pensieri si paralizzano; si spossa la volontà, e lo stimolo e la gioia del lavoro e della lotta languiscono. Un laccio interno, prodottosi dalla parte sensitiva dell’animo, avvolge tutto ciò che altrimenti scatta in libertà, e si muove ed opera senza impacci. La freschezza e la tesa rapidità della determinazione, il vigore di una definizione netta e incisiva, l’ardita presa che da una forma, tutto diviene 28 LOUF, L’accidia, p.154. EVAGRIO PONTICO, De vitiis quae opposita sunt virtutibus 4: PG 79, col. 1144B-C. Cfr. citazione in MIQUEL, Lessico del deserto, p.17. 30 GIOVANNI CLIMACO, Scala Paradisi XIII, 90: PG 88, 860A. 29 stanco, indifferente. L’uomo non padroneggia più la vita, e nella mischia impetuosa non sa più tenersi all’avanguardia. Le vicende lo avviluppano inestricabili, ed egli non sa più vederci chiaro. Non sa più come cavarsela, in detreminate vicende della propria esistenza; il compito a lui affidato, gli si erge dinanzi insuperabile, come la parete di una montagna. Poggiando su di una simile esperienza, Nietzche ha battezzato lo spirito della malinconia come il demonio per eccellenza; e di qui è venuta la nota e nostalgica immagine dell’uomo ‘che sa danzare’. Il sentimento che nella leggerezza, nella forza di aleggiare e di elevarsi, sta il supremo valore”31. 3. I volti dell’accidia. Cercheremo ora di raccogliere, a partire dai testi citati e da altri tratti prevalentemente dalla tradizione monastica, alcuni elementi che caratterizzano l’accidia, mettendo in rilievo le manifestazioni, i sintomi, gli stati d’animo, le conseguenze nell’esistenza di colui che ne è preda. Non è un tentativo di sistematizzazione. Manteniamo piuttosto l’andamento descrittivo proprio dei testi della tradizione monastica, cercando di approfondire alcuni aspetti. a. Un primo elemento che deve essere sottolineato e che di fatto rende impenetrabile la situazione esistenziale provocata dall’accidia, è il carattere complesso e confuso di questo pensiero: esso si presenta come ‘miscuglio’ e ‘intreccio’ di pensieri provenienti dalle due forze irrazionali dell’anima, il desiderio e l’irascibilità. Essendo completamente radicata in un campo che sfugge alla logica, l’accidia è di conseguenza un fenomeno irrazionale. Così Evagrio descrive questo carattere ‘misto’ dell’accidia: “‘Tutto il giorno suscitano guerre’. I demoni ci combattono mediante i pensieri, talora eccitando il desiderio, talaltra l’irascibilità, e poi di nuovo irascibilità e desiderio insieme, da cui nasce il cosidetto pensiero complesso. Tuttavia questo appare soltanto nel tempo dell’accidia, mentre gli altri si presentano ad intervalli, alternandosi a vicenda. Al pensiero dell’accidia però non fa seguito nessun altro pensiero in quel giorno, primo perché esso è persistente e poi perché contiene in sè quasi tutti gli altri pensieri”32. Anche Giovanni Climaco nota questo carattere complesso dell’accidia; “Le altre passioni si reprimono mediante una sola virtù corrispettiva, ma l’accidia è una morte che attacca il monaco per ogni via; solo un anima generosa fa risorgere la sua mente svigorita fino alla morte, ma quella accidiosa e dissipata ha già dissipato tutto il suo tesoro. Essendo tra gli otto principi della malizia il più funesto di tutti, faremo per esso quel che noi facciamo nell’elenco di tutti gli altri, aggiungendo però anche questo: al di là della salmodia l’accidia non si manifesta, e finito il canone gli occhi si aprono; i violenti per il Regno si dimostrano tali nel tempo dell’accidia, e di fatto nessuna cosa procura tante corone al monaco quante l’accidia. Pensaci e troverai che essa ti colpisce ai piedi se stai in piedi, se stai seduto ti fa sdriaiare con le spalle alla parete, ti invita a volgere lo sguardo al muro della cella e a battere i piedi rumoreggiando. Soltanto chi ha raggiunto la compunziome non conosce l’accidia”33. 31 GUARDINI, Ritratto della malinconia, p.27-28. EVAGRIO PONTICO, Scholia in Psalmos 139, 3a. Testo citato in BUNGE, Akedia, p.57. 33 GIOVANNI CLIMACO, Scala Paradisi XIII, 91: PG 88,col.860C-D (cfr.tr.it.: GIOVANNI CLIMACO, La Scala del Paradiso, cur.C.Riggi, (=Coll.Testi Patr. 80) Roma 1989, pp.178-179. 32 Questo carattere complesso e confuso si riflette sia nella percezione della propria situazione, avvertita da colui che è colpito dall’accidia ( una sensazione di disordine, di illogicità, in cui si intrecciano reazioni contrastanti e contradditorie: “si detesta tutto ciò che si ha e si desidera ciò che non si ha”); sia nella difficoltà a smascherare e diagnosticare questo stato. “Il carattere complesso dell’accidia - scrive p.Bunge - infatti, fa si che essa spesso si mascheri dietro un’apparenza ingannevole e che ricorra ad ogni artificio possibile ed immaginabile per non essere riconosciuta. Soprattutto le persone serie fanno una immensa fatica a confessare a se stesse ed agli altri che soffrono semplicemente...di accidia. Devono poter invocare cause più importanti, per spiegare e giustificare il loro stato di desolazione, di preferenza cause del tutto indipendenti tra di loro, esterne, di cui sono, contro la loro volontà, le vittimi innocenti. Le variazioni sul tema delle illusioni, degli inganni e degli autoinganni sono infinite, oggi come allora. Cambiano solo, a seconda dei tempi e delle circostanze, i pretesti che escogitiamo; anzi, in definitiva cambiano solo i nomi che diamo loro”34. Si può individuare un particolare aspetto di tale complessità di sintomi e di reazioni che afferrano tutta l’esistenza, in due caratteristiche dell’accidia: essa conduce a tutti gli estremi ed al vuoto. In un testo di Evagrio è messo bene in evidenza a quali limiti di resistenza è condotta la vita dell’accidioso: “L’anima languisce e soffre, annegata nell’amarezza dell’accidia. In una simile sofferenza le sue forze la tradiscono. La sua perseveranza è sul punto di finire di fronte alla violenza di un demone tanto potente. Essa ha perduto la testa e si comporta come un bambino che piange lacrime appassionate e geme senza speranza di consolazione”35. ‘E significativa in questo testo la menzione di un comportamento puerile: è il sintomo, in chi era convinto di aver raggiunto una maturità spirituale ed umana, di una regressione psicologica. Ed è una prova della tensione a cui la psiche è costretta: colui che è colpito dall’accidia è confinato ai limiti della sua umanità. Si giunge all’estremo di una soglia di resistenza. Ed è drammatico scoprire che oltre quella soglia non vi è altro che il vuoto. La prova dell’accidia è realmente caratterizzata dalla radicalità. Se si vuole definirla con un paragone biblico, la situazione causata dall’accidia è simile a quella percepita dal Qoelet: l’uomo qoeletico constata che tutto è vanità e non pensa che Dio possa dire qualcosa. Ma mentre l’autore del libro sapienziale reagisce gustando le realtà penultime, colui che è nel baratro dell’accidia prova disgusto di tutto e al suo sguardo si profila solo il vuoto. Si trova così a vivere una situazione paradossale:”in questo vuoto desidera Dio, vuole Dio, ma questo suo desiderio disordinato e concitato viene travolto dal demonio a tal punto che diventa paralizzante perché egli vuole Dio ma non la via che conduce a Dio, si ritrae di fronte alla croce quotidiana. E così l’accidia diventa una fuga di fronte alle proprie possibilità spirituali, una situazione di paralisi umana e spirituale che trasforma la vita in un peso insopportabile”36. b. Tenedo presente quersti aspetti più globali che caratterizzano lo stato di accidia, possiamo ora individuare un primo sintono di tale male in quella sensazione complessiva che Evagrio chiama ‘atonia dell’anima’e Giovanni Climaco definisce ‘paresi e rilassatezza dell’anima’. Si percepisce che tutta la propria esistenza, dalle dimensioni più profonde alle manifestazioni più esterne e quotidiane, perde di tensione, è come allentata in un senso di vuoto, nella noia e nella svogliatezza, in una incapacità di concentrarsi su una determinata attività, nella spossatezza e nell’ansietà. Viene a mancare un punto di attrazione, un polo che catalizza tutte le componenti della persona ( mente, volontà, desideri, spirito, anima,...), per cui tutto ciò che si tenta di fare, tutto ciò che si desidera, si pensa, ecc....viene trascinato in una dispersione e frantumazione vorticosa. Questa perdita di scopo sembra trascinare tutto in un vuoto senza fine. L’”atonia dell’anima”, segno rivelatore dell’accidia, “è la conseguenza di una funzione delle due facoltà dell’anima, il desiderio e l’irascibilità, che non 34 BUNGE, Akedia, p.68. EVAGRIO PONTICO, Antirrhetikos,VI, 38 (il testo è citato in LOUF, L’accidia in Evagrio Pontico, p.155). 36 Detti inediti, p.96. 35 corrisponde più all’intento creazionale. ‘E quanto intende dire Evagrio quando parla di ‘una perdita di tensione (atonìa) dell’anima che non possiede ciò che è conforme alla natura e non si oppone con coraggio alle tentazioni’”37. Un segno rivelatore di questa atonia generale, è la sensazione di noia che sembra avvelenare ogni tentativo di reagire a tale situazione. Se si manifesta soprattutto nei momenti di solitudine, come cnseguenza di una impossibilità di azione, di fatto si trasforma in una indolenza generale che trascina con sè un disgusto per tutto e per tutti. Un sintomo concreto che gli antichi monaci sottolineavano, è l’uso disordinato delle parole, una spinta a chiaccherare senza un fine preciso, solo ‘per ammazzare il tempo’. ‘E la manifestazione di una parola che ha perso il suo significato primario: comunicare un contenuto. Una parola vuota comunica solo la noia da cui prende origine38. c. Un’altra facoltà intaccata dall’accidia è l’intelletto. In questo senso l’accidia può essere definita “asfissia dell’intelletto”, cioè incapacità di utilizzare la facoltà razionale, di vedere chiaro, di discernere, di individuare la realtà e la verità delle cose e di sè stessi. Evagrio ci ricorda che l’accidia “è solita avviluppare l’anima tutta intera e soffocare l’intelletto”39. Ecco perché è difficle smascherarla: chi ne soffre, non riesce a riconoscerla, in quanto l’accidia, dice Evagrio, “oscura la luce divina negli occhi”40. “Questa ‘asfissia’ dell’intelletto, che è il luogo in cui l’uomo è a immagine di Dio e capax Dei, dunque persona, richiama in modo molto chiaro anche quelli che sono gli effetti psicologici dell’accidia. Essa grava come una cappa di piombo su tutte le funzioni vitali e toglie all’uomo l’aria di cui ha bisogno per vivere. Significativamente, ancora oggi, in situazioni diu questo genere, diciamo: ‘Soffoco!’”41. Una conseguenza di questo ‘schermo’ che si oppone tra gli occhi interiori e la realtà, è l’esperienza del turbamento interiore: non si vede chiaro dentro sè stessi ed una fitta turba di pensieri crea disordine, confusione, disorientamento, impossibilità di discernimento, contraddizione, ecc... ‘E significativo che questa ‘tenebra interiore’ caratterizzi l’accidia nel primo detto attribuito ad Antonio il Grande: “Un giorno il santo padre Antonio, mentre sedeva nel deserto, fu preso dallo sconforto (akedìa) e da fitta tenebra di pensieri. E diceva a Dio: ‘O Signore! Io voglio salvarmi, ma i pensieri me lo impediscono. Che posso fare nella mia afflizione?....”42. Proprio questo miscuglio di pensieri che si intrecciano, crea un impedimento a cogliere nella verità la propria situazione interiore. Lo descrive molto bene questo apophtegma: “Un fratello disse ad un anziano: ‘Non vedo nessun combattimento nel mio cuore’. Gli dice l’anziano: ‘Tu hai quattro porte, e chi vuole entra ed esce attraverso di te, e tu non te ne accorgi; ma se tu avessi una porta sola e la chiudessi, e non permettessi ai pensieri cattivi di entrarvi, allora li vedresti stare fuori ecombattere’”43. L’incapacità di sapere ciò che accade nel cuore e prendere così coscienza di quello che realmente minaccia, provengono dal fatto che lo spazio del proprio cuore è occupato da un insieme inestricabile di pensieri; avendo lasciato la porta spalancata ed incustodita, si è permesso ad ogni pensiero di trovare posto nel proprio cuore. In questa situazione ci si illude che tutto funzioni bene, senza tentazioni e senza lotte. È la tipica sistazione del cuore in stato di accidia, soffocato ed ormai abituato ad un torpore che non gli da più la possibilità di discernere e giudicare. Si è completamente ripiegato su sè stesso: 37 BUNGE, Akedia, p.59. Cfr. Regula Benedicti 48, 18. Il monaco che, invece di darsi alle letture si da alle chiacchere ed all’ozio, viene definito “frater acediosus”. 39 EVAGRIO PONTICO, Praktikos 36: in ‘EVAGRE LE PONTIQUE, Traitè pratique ou le moine, II, pp.582-583. 40 EVAGRIO PONTICO, Antirrhetikos VI, 16 ( cit. in LOUF, L’accidia in Evagrio Pontico, p:154). 41 BUNGE, Akedia, p.62. 42 ANTONIO 1: Vita e detti dei padri del deserto, I, p. 83. 43 Serie sistematica XI, 43: I PADRI DEL DESERTO, Detti, cur. L.Mortari, Roma 1980, pp. 232-233. 38 “L’accidia è la tristezza nata dalla confusione della mente, ossia il tedio e l’eccessiva amarezza dell’animo, per cui la gioia spirituale è spenta e, come in un inizio di disperazione, l’anima è abbattuta e ripiegata su sè stessa”44. d. Da queste due situazioni che investono il centro della persona (la psiche, il cuore, l’anima) e la sua capacità di discernere, di vedere con chiarezza dentro di sè, di conoscere la verità delle cose (l’intelletto), deriva tutta una serie di reazioni, sintomi atteggiamenti che spesso rendono palpabile lo stato di estremo disagio e di vuoto che investe colui che è preda dell’accidia. Elenchiamo i principali elementi che caratterizzano tale situazione. d.1. Cassiano traduce il termine greco akedìa con l’espressione latina anxietas cordis. E certamente una delle manifestazioni più caratteristiche di questo stato esistenziale è l’angoscia, l’ansietà, la quale, partendo dal cuore (intrappolato in quello stato di confusione e di turbamento che abbiamo descritto), investe tutta la vita. E così la vita apparee senza più punti sicuri, senza certezze, come appoggiata su di una superficie fluttuante; ogni appiglio che ci si illude di afferrare, crolla rovinosamente. E più la costruzione della propria vita appariva solida e certa, più evidente è il disastro finale e maggiore l’angoscia. È un po’ simile allasituazione cosmica descritta tra i segni degli ultimi tempi in Lc 21, 25-27. “angoscia di popoli in ansia, senza scampo”. È l’impressione di essere di fronte ad un mondo che sta rovinosamente crollando, tipico di chi ha perso lo scopo della propria vita e affannosamente cerca di recuperarlo. Ritroviamo questa situazione descritta anche in un altro testo biblico, Deut 28, 64-67. Presentando l’esperienza di Israele in mezzo ai popoli pagani, senza più quei punti di riferimento che strutturano la sua identità nazionale e religiosa, il testo biblico dice: “Il Signore ti disperderà tra tutti i popoli, da una estremità fino all’altra; là servirai altri dei, che nè tu, nè i tuoi padri avete conosciuti, dei di legno e di pietra. Fra quelle nazioni non troverai sollievo e non vi sarà luogo di riposo per la pianta dei tuoi piedi; là il Signore ti darà un cuore trepidante, languore di occhi ed angoscia di anima. La tua vita ti sarà dinnanzi come sospesa ad un filo; temerai notte e giorno e non sarai sicuro della tua vita. Alla mattina dirai: Se fosse sera; e alla sera dirai; Se fosse mattina!, a causa del timore che ti agiterà il cuore e delle cose che i tuoi occhi vedranno”. Un fenomeno caratteristico che accompagna questo stato di ansietà è la preoccupazione eccesiva per il proprio corpo. Si potrebbe dire che ad una ‘anxietas cordis’ segue una ‘anxietas corporis’. .Si ha l’impressione che il proprio corpo sfugga al controllo: non si riesce ad abitare il proprio corpo e ci si lascia trascinare in una illusoria e quanto mai esagerata preoccupazione per la salute fisica. Penso che si possano accomunare a questo aspetto, che già Evagrio aveva messo in rilievo, alcuni fenomeni che oggi giorno caratterizzano lo stato depressivo soprattutto nelle fasce giovanili: una idolatria del proprio corpo (anoressia) oppure una volontà distruttiva di esso (bulimia). Due sintomi di una incapacità di accettare i limiti insiti nella sfera corporea. A riguardo di queste paure sul proprio stato fisico, p.Bunge fa notare come “Evagrio conosceva bene, del resto, anche il legame segreto che esiste fra malattia pischica e malattia fisica, tema che tanto occupa la medicina moderna. Nel capitolo dell’Antirrhetikos sulla tristezza, che è, come sappiamo, strettamente legata all’accidia, egli descrive fenomeni spicosomatici sorprendenti, visti come conseguenza di stati ansiosi eccessivi, che affascinerebbero uno psichiatra moderno”45. d.2. Un evidente sintomo spirituale dello stato di accidia è quello che potrebbe essere definito con il termine evangelico di “cuore appesantito”: “state bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze ed affanni della vita”(Lc 21, 34). L’idea richiamata da questa immagine (che potrebbe essere completata con quella della parabola del seminatore, cfr. Lc 44 45 UGO DI SAN VITTORE, De sacramentis II, 13, 1: PL 176, col.526. BUNGE, Akedia, p.73. 8,14) è quella di un cuore in cui si concentrano situazioni, realtà, pensieri, che rendono ‘pesante’ la vita. Tale pesantezza interiore evoca altre immagini, come quella del cuore indurito, insensibile ed impenetrabile (il contrario è il cuore compunto, il penthos) e quella del cuore piombato in un sonno profondo, in un torpore. In ogni caso, la situazione che ne deriva è tipica di chi ha perso una agilità interiore, di chi non è più attento agli stimoli che rendono dinamica ed in tensione la esistenza; di chi non sa discernere occasioni o pericoli e di conseguenza si lascia trascinare, soccombere. Questa pesantezza, che investe tutta la vita, crea una struttura di uomo “addormentato”: “Chi è l’homo dormiens? - si domanda E.Bianchi - È colui che vive al di quà delle sue possibilità, vive nella paura, banalmente, superficialmente, orizzontalmente più che in profondità; è pigro, negligente, si lascia vivere; è colui che vive come se avesse a disposizione un interminabile lasso di tempo; è colui che si sottrae alla fatica di pensare e di interrogarsi; che non ha passione, non è toccato da nulla: per lui tutto è scontato; è colui che non aderisce alla realtà e agli altri, ma resta nella sonnolenza, anzi ha fatto del non vedere, del non sentire, del non lasciarsi toccare ed interpellare la condizione del suo vivere”46. Ma è utile ricordare ancora che tale pesantezza si nasconde in profondità, nel cuore. Citando il Sal 118(117), 28, Cassiano nota come il testo scritturistico si esprima così. “Dormitavit anima mea prae taedio, id est prae acedia”. E commenta: “non il corpo, ma l’anima si assopisce. Perché veramente dorme di fronte alla contemplazione di tutta la vita e ad ogni visione dei sensi spirituali, l’anima che è ferita da questo turbamento”47. d.3. Una conseguenza grave di questo stato di torpore e altro sintomo radicale del potere dell’accidia è l’insensibilità, l’indifferenza (anaisthesìa), una sorta di morte spirituale che ‘anestetizza’ ogni senso interiore attaverso cui si prende contatto con le realtà più profonde del proprio io e soprattutto con Dio. Così lo descrive Evagrio: “Che dire poi del demone che rende l’anima insensibile? Temo infatti anche a scrivere di lui, come l’anima, nel tempo della sua visita, esca da proprio stato. Essa si spoglia del timore di Dio e della devozione, non considera più il peccato come peccato, nè la trasgressione come trasgressione, pensa al castigo ed al giudizio eterno come se si trattasse di semplici parole, e perfino ‘sela ride del terremoto di fuoco’. Confessa Dio, certo, ma ignora ciò che egli ha comandato. Tu ti batti il petto, quando (quest’anima) si volge al peccato, ma essa è insensibile ( ouk aisthànetai). Tu citi dalle Scritture, ma essa è totalmente indurita e non ode. Le prospetti il biasimo da parte degli uomini, ma essa non si cura della vergogna presso gli uomini: Non comprende affatto, come un maiale che chiude gli occhi e sfonda lo steccato. Sono i pensieri persistenti di vanagloria che conducono questo demone, e ‘se quei giorni non fossero abbreviati, nessuna carne sarebbe salvata’(Mt 24, 22)”.48 È ,dunque, una situazione veramente drammatica: è come essere caduti in balia di quegli idoli “ che hanno occhi e non vedono, orecchie e non ascoltano, narici e non odorano...”, cioè incapaci di comunicare e lasciarsi penetrare dalla parola. Tutto ciò rende la vita passiva, trascinata, spenta: nulla suscita interesse, crea tensione o gusto. Sottolineiamo due tipiche reazioni che scaturiscono da tale stato di indifferenza. 46 E.BIANCHI, È necessaria l’ascesi cristiana?, (=Testi di meditazione 77), Magnano (com.di Bose) 1997, p.25. GIOVANNI CASSIANO, De institutis coenobiorum, X,4: in JEAN CASSIEN, Institutions cénobitiques, pp.390-391. 48 EVAGRIO, De diversis malignis cogitationibus 11:PG 79, coll.1211D-1214B (cit: in BUNGE, Akedia, p.97). Cfr: anche GIOVANNI CLIMACO, Scala Paradisii XVIII: PG 88, col.932B-933D (tr:it::GIOVANNI CLIMACO,La scala del Paradiso, pp:214-217). 47 La prima reazione consiste in una amara mormorazione contro Dio, tanto da generare un disgusto per la sua Parola: si passa dalla eucharistia alla acharistia: “l’accidia accusa Dio di essere senza cuore ( lett.:”senza viscere”, àsplachnos) e di non essere amico degli uomini (aphilànthropos)”49;”nella solitudine priva di consolazione (aparàkletos), l’anima è tentata dal demonio dell’accidia e dell’acharistìa”50. Questa mormorazione che intacca tutte le sfere della vita, soprattutto quella spirituale, è veramente distruttiva; si comprende come la Regula Benedicti la condanna senza scampo come deleteria sia per la vita del singolo monaco che per quella di tutta la comunità, in quanto segno di una accidia latente e subdola. Una seconda reazione che caratterizza questo stato di insensibilità, è la tendenza a banalizzare la realtà. Mascherata da una falsa parresia, si ride di tutto: tutto viene trascurato, tutto perde valore, non si prendono sul serio le cose che compongono la vita. Con l’illusione che sono cose piccole ed insignificanti, ammoniscono i Padri, si giunge a disprezzare e banalizzare ciò che è importante: Mette in guardia da questo ‘cancro’ un padre spirituale come Doroteo di Gaza, il quale, in una sua catechesi, ammonisce: “Fratelli, sforziamoci dunque di custodire la nostra coscienza ( phylàttein ten syneìdesin ) finchè siamo in questo mondo, non lasciamo che ci sia qualcosa per cui ci debba rimproverare, non calpestiamola neanche per cose da nulla. Sapete infatti che da queste piccole cose , che diciamo di poco conto, si finisce per arrivare a disprezzare anche le grandi. Perché quando si comincia a dire: “Che importa se dico questa parola? Che importa se mangio questo boccone? Che importa se mi interesso di questa faccenda?”, a furia di dire ‘che iporta qui, che importa là’, si finisce per rimanere colpiti da un cancro malvagio e amaro e si comincia a disprezzare anche le cos e importanti e più gravi e a calpestare la coscienza stessa; e così infine, un po’ alla volta, si corre il rischio di cadere nella insensibilità totale ( eìs teleìan anaisthesìan). Per questo fratelli, badate di non trascurare le piccole cose, badate di non disprezzarle come cose da nulla; non sono piccole, è un cancro, una pesima abitudine. Siamo vigilanti, stiamo attenti alle piccole cose finchè son piccole perché non diventino più gravi. Sia il bene che il male cominciano dalle piccole cose e poi portano alle grandi, buone o cattive”51. d.4. Una caratteristica, messa grottescamente in rilievo dalle descrizioni degli autori monastici, colpisce l’accidioso: è l’instabilità, l’incapacità di ‘stare in cella’. Certamente tale incapacità è il sintomo esteriore di una instabilità più profonda: “un cuore girovago”, trascinato a destra ed a sinistra da turbe di pensieri, un cuore che poggia sulla melma della propria confusione. “Considera una giara di vino - scrive Evagrio - che per lungo tempo è rimasta a riposare, allo stesso posto, senza essere rimossa; che vino chiaro, decantato, profumato, essa prepara! Ma se è trasportata qua e là, prepara un vino torbido, denso, che ha il sapore di feccia. Paragona te stesso a quella giara, e fa una esperienza utile!”52. Certamente questa instabilità si manifesta in diversi modi: dal cambiare luogo o impegno, al fuggire verso situazioni ritenute ideali; dall’instabilità di umore alla instabilità di giudizio; dall’instabilità nei rapporti interpersonali alla sfiducia verso se stessi. Così p:Bunge descrive q uesta irrequietezza interiore che si manifesta in mille modi: 49 GIOVANNI CLIMACO, Scala Paradisi, XIII, 90: PG 88, col.860A. Ibid., XXVI, l50: PG 88, col:1017D. 51 DOROTHÉE DE GAZA, Instructions III, 42: in Oeuvrs spiirtuelles, cur.L:Regnault-J.dePrèville (=Sources Chrètienne 92) Paris 1963, pp.212-213 ( cfr. anche DOROTEO DI GAZA, Scritti ed insegnamenti spirituali, tr.L:Cremaschi, Roma l980). Una ammonizione molto simile a quella di Doroteo si trova in un apophtegma della serie Nau 437: cfr. Detti inediti, p. 175. 52 EVAGRIO PONTICO, Rerum monachorum rationes, VIII: PG 40, col. 1260C. 50 “Bisogni di cambiar casa, lavoro, amicizie, compagnie...Impssibilità di portare a termine un lavoro iniziato, di finire la lettura di un libro...Tutto quello che si inizia viene abbandonato. Il più delle volte non ci si rende nemmeno conto di quel che ci sta accadendo. Abbiamo un sacco di ragioni plausibili che ci spingono a ‘cambiare aria’... ‘A chi ama il piacere una donna non basta e al monaco accidioso non basta una cella... Un monaco girovago è sterpaglia nel deserto. Un poco ha quiete, poi di nuovo, suo malgrado, è portato qua e là.53 Evagrio menziona più volte questa tentazione di cambiare, visto che, per ovvi motivi, essa è tipica degli anacoreti. Sì, perché l’eremita, vivendo anno dopo anno nella solitudine delle quattro mura che si è scelto, è privato di tutte quelle piccole distrazioni quotidiane che catturano lo sguardo di coloro che vivono nel ‘mondo’, impedendo loro di vedere quanto siano vittime di questo vizio dell’irrequietezza: I pretesti per abbandonare il luogo di residenza possono variare da persona a persona: l’anacoreta se ne fabbricherà altri ripsetto al cristiano che vive nel mondo. Da un punto di vista oggettivo, essi possono sembrare più che giustificati, ma per una perfida coincidenza ci appaiono inderogabili solo quando soffriamo di accidia... Naturalmente questa irrequietezza può servirsi di argomenti anche più sottili che non l’umidità della cella; per esempio, può suggerire con astuzia che l’essere graditi a Dio non è legato ad un luogo. È detto infatti: la Divinità si può adorare ovunque54! E chi potrebbe negarlo? Ma il nostro anacoreta non si era forse ritirato nel deserto proprio per ptervi adorare Dio senza distrazione, lontano dai traffici del mondo?”55. Se per il monaco del deserto questa irrequietezza ed instabilità interiore si concentrava nel simbolo di una cella che gli stava troppo stretta, per l’uomo d’oggi assume altri volti: una scalata affannosa alla carriera, la ricerca di sempre nuove emozioni, un’angosciante forma di divertimento, la paura di lasciare spazi vuoti da impegni, l’nstabilità nei rapportri, ecc... sono tutti paliativi di fronte ad una situazione esistenziale che si minaccia vuota, priva di senso. Ma in fondo si presentano sempre, sia per il monaco del deserto, che per l’uomo d’oggi, come una fuga dal vuoto che si nasconde dentro di noi, e di cui l’accidia è il segno: stare da soli diventa terribile e crea paura, la paura di scoprire quale è lo stato del nostro volto interiore. B.Pascal aveva annotato nei suoi Pensieri: “Niente è insopportabile all’uomo quanto di essere in un completo riposo, senza passioni, senza faccende, senza divertimento, senza un’occupazione. Avverte allora il proprio nulla, il proprio abbandono, la propria insufficienza, la propria indipendenza, il proprio vuoto. Subito saliranno dal 53 EVAGRIO PONTICO, Tractatus de octo spiritibus malitiae VI, 13.10 (cit. in BUNGE, Akedia, p:69. Cfr. anche EVAGRIO PONTICO, Gli otto spiriti della malvagità, pp.53). 54 EVAGRIO PONTICO, Praktikos 12: EVAGRE LE PONTIQUE, Traitè pratique ou le moine, II, p.525 (cit. in BUNGE, Akedia, p.71). 55 BUNGE, Akedia, pp.69-71: profondo dell’animo suo la noia, l’umor nero, la tristezza, il cruccio, il dispetto, la disperazione. ...Ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa, dal non saper starsene in pace, in una camera”56. Dunque, si può comprendere l’importanza dell’invito degli antichi monaci di ‘rimanere fermi’, stabili: cioè aver il coraggio di affrontare la battaglia nella verità di sè stessi. d.5. Proprio l’instabilità denota una particolare modalità con cui l’accidia pone, chi ne è colpito, in rapporto con il tempo e lo spazio. Le descrizioni del monnaco accidioso fatte da Evagrio ruotano, in parte, su questa incapacità a vivere nella verità il tempo e lo spazio che sono donati. Sia il tempo che lo spazio sono percepiti in una dimensione falsa, minacciosa: non corrispondono alla situazione ideale che si va cercando e quindi diventano soffocanti. O sono troppo diluiti o sono troppo stretti! Così il tempo diventa senza fine, e ogni minuto che si aggiunge crea angoscia, evidenzia la mancanza di porspettiva, di scopo. È la situazione descritta in Dt 28, 64-67. “...La tua vita ti sarà dinanzi come sospesa ad un filo; temerai notte e giorno e non sarai sicuro della tua vita. Alla mattina dirai: Se fosse sera; e alla sera dirai: Se fosse mattina!, a causa del timore che ti agiterà il cuore e delle cose che i tuoi occhi vedranno”. Gli autori monastici sottolineano una particolare modalità con cui il pensiero dell’accidia fa vivere il rapporto conil tempo: la paura della vecchiaia, una vecchiaia lunga, interminabile, come espressione logorante di questa oppressione. A questo, poi, si aggiunge un visione negativa del tempo che sta davanti: preoccupazioni, imprevisti e angoscia non hanno più fine. Come lo testimonia questo gustoso apophtegma: “Nella Tebaide vi era un anziano di nome Ierace che era giunto all’età di circa novant’anni. I demoni volevano farlo cadere nell’accidia prospettandogli il pensiero che avrebbe potuto vivere ancora a lungo e così un giorno si presentarono a lui egli disero: “Anziano, che farai? Ti tocca vivere ancora cinquant’anni!”. Ma quello rispose: “Mi avete proprio rattristato. Mi ero preparato a vivere ancora duecent’anni”. Ed essi partirono da lui ululando”57. Inoltre il tempo diventa opprimente, come una cappa che racchiude e soffoca tutta la vita. Anche il passato ne viene intaccato: non si vede nulla di buono e si ha disgusto di tutto ciò che si ha fatto. Ed è significativo che la tadizione monastica ha chiamato questo pensiero il ‘demone del mezzogiorno’: espressione che acquista tutto il suo peso se si pensa al clima dei paesi medioorientali. Così lo descrive Evagrio: “Il demone dell’accidia, che è chiamato anche ‘demone del mezzogriorno’, è il più pesante di tutti; attacca il monaco verso l’ora quarta ed assedia la sua anima fino all’ora ottava”58. Commenta p.Bunge: “Chi è stato in Oriente avrà ben presente lo sfondo reale di questo quadro. Il tempo che va dall’ora quarta ( le 10.00) all’ora ottava ( le 14.00) è per così dire il ‘punto morto’ della giornata: il sole è alto nel cielo, la calura insopportabile, tutte le energie del corpo e dell’anima sono fiaccate e l’uomo perde ogni voglia di fare qualcosa. Di solito, oggi, in queste ore del giorno tutti i negozi sono chiusi e la vita si ferma. Sono le ore in cui il ‘demone di mezzogiorno’ si aggira più volentieri, tanto più che i monaci, a 56 BLAISE PASCAL, Pensieri, tr.A.Bausola (=Testi a fronte 5) Milano (Rusconi) 1993, p.l21 (Pensieri 201. 205). Serie Nau 33: in Detti inediti, p.123. 58 EVAGRIO PONTICO, Praktikos 12: in EVAGRE LE PONTIQUE, Traitè pratique ou le moine, II, p:521. 57 differenza delle altre persone, non avevano l’abitudine di fare la siesta. Il sollievo giunge solo con la sera, tenuto conto che i monaci consumavano tradizionalmente il loro primo ed unico pasto quotidiano dopo l’ora nona ( le 15.00)”59. Tuttavia in questo tempo opprimente, in questo ‘demone del mezzogiorno’, si può anche intrevvedere la metafora di una particolare tappa della vita dell’uomo: la situazione esistenziale che viene a crearsi a metà della vita di un uomo o di una donna, caratterizzata da un momento di crisi e di ripensamento, come occasione di un salto di qualità o di regressione. E in questa tappa trova facilmente spazio l’accidia. “È interessante notare - scrive E.Bianchi a proposito dell’accidia - che si è vista una analogia fra questo male che di preferenza colpisce l’uomo nel mezzo del giorno, con la crisi del superamento della metà della vita, che si abbatte sull’uomo appunto fra i trentacinque e i quaranta anni. ‘Sembra che vi sia una causa bilogica alla base di quel senso di apprensione, di quei tormentati interrogativi, della mancanza di entusiasmo in uomini e donne poco dopo la trentina. È forse questo lo stato d’animo che i dotti medievali chiamavano accidia, il peccato capitale di pigrizia dello spirito? Io credo di sì?” (Richard Church). Le svariate forme di reazione di fronte a questa crisi sono del resto molto simili a quelle di chi è preda dell’accidia: diniego, rimozione, svalutazione di sè, arroccamento al potere, rigidismo legalista, depressione, eccessi nel bere e nel mangiare, intontimento...”60. d.6. Un ultimo sintomo di questa grave situazione è un radicale scoraggiamento, una progressiva visione di sè stessi, degli altri, della vita attraverso lo schermo del pessimismo e del dubbio. L’accidia, in questo senso, è l’impossibilità per l’uomo di vedere qualscosa di buono e di positivo: tutto viene oscurato e ridotto al negativismo ed al pessimismo. Così Guardini descrive la situazione di scoraggiamento provocata dall’accidia: “Una persona fatta a questo modo non si riconoisce nessuna qualità o capacità. È persuasa di essere da meno degli altri, di non essere nulla, di non sapere nulla. Non già perché sia dotata insufficientemente, e neppure abbia subito degli insuccessi. È piuttosto una comvinzione a priori, che non si riesce mai a togliere di mezzo definitivamente, neppure con la buona riuscita ed il successo; in ogni sconfitta, poi, si legge confermata la disistima di sè, al di là della portata reale della sconfitta stessa. Peggio ancora. Simile mancanza di confidenza nelle proprie forze finisce per provocare addirittura gli insuccessi: rende interiormente malagevoli, impaccia e trattiene la volontà e l’ azione, ci rende proni agli ostacoli esteriori”61. È veramente un potere demoniaco in noi, perché il diavolo è essenzialmente un bugiardo. Egli mente all’uomo sia su Dio che sul mondo, riempiendo la vita di oscurità e di falsità. L’accidia è il suicidio dell’anima perché, quando l’uomo ne è posseduto, è assolutamente incapace di vedere la luce e di desiderarla. Questa visione negativa su tutto e su tutti fa percepire la propria vita come giunta ad un vicolo cieco. L’avversione ed il disgusto nei confronti di tutto ciò che si è, si ha e si fa, legata ad una bramosia diffusa per ciò che non è a portata di mano, paralizza a tal punto la vita da non lasciar spazio a nulla. Essere continuamente scoraggiati ed insoddisfatti, dunque, diventa la modalità normale di affrontare l’esistenza. “È una sorta di asfissia - scrive ancora E:Bianchi - o soffocamento dell’anima che condanna l’uomo all’infelicità portandolo a disdegnare ciò che ha, la situazione (di lavoro, affettiva, sociale) in cui vive e a sognarne una irraggiungibile, lo rende preda di paure svariate (per esempio, di malattie più immaginarie che reali) , inefficiente sul lavoro, intollerante ed incapace di sopportazione verso ‘gli altri’ ( che diventano speso il bersaglio su cui scaricare frustrazioni ed aggressività), impotente a governare i pensieri che si affollano nella propria 59 BUNGE, Akedia, p.46: E.BIANCHI, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano (Rizzoli) l999, p.45. 61 GUARDINI, Ritratto della malinconia, p.31. 60 anima e che lo gettano nello scoramento, in una tale insoddisfazione di sè che egli si interroga se non abbia sbagliato tutto nella propria vita”62. Di conseguenza, anche ogni possibilità di futuro diventa inimmaginabile: chi si sente ad un vicolo cieco, non ha più progetti, non ha più mete da raggiungere. E se anche si intravede una via di uscita, questa diventa troppo lontana, irragiungibile. E lo scoraggiamento aumenta, come sottolinea questo apophtegma: “Domandarono ad un anziano:”Perchè sono sempre scoraggiato?”. Rispose:”Perchè non hai ancora visto la meta”63. Se tale situazione si trasforma in uno stato continuo e duraturo in cui chi è colpito dall’accidia non trova vie di uscita, allora si soccombe in una profonda depressione, in cui si è tentati di annullare sia la propria vita passata (rottura di vincoli o distruzione di una vita sociale) sia, addirittura, di azzerare ogni possibile futuro (sucidio). Un testo di Evagrio, con chiarezza inquietante, analizza i sintomi patologici di tale stato depressivo: “(Di’) all’anima che, a causa dei pensieri di indolenza e di accidia che hanno perdurato in essa, è diventata debole e spossata, ed è venuta meno nella sua amarezza, e la cui forza si è consumata a causa del suo grande abbattimento, e che è prossima alla disperazione per la violenza di questo demone, smaniando e comportandosi come un bambino con lacrime appassionate e con gemiti, e per la qale non c’è refrigerio in nessun luogo...”64. “Tutto questo - commenta p.Bunge - non è che la espressione disperata della presa di coscienza ultima: il fallimento di tutti i tentativi per trovare una via di uscita. Abyssus abyssum invocat (Sal 41,7): l’abisso, il proprio nulla, chiama l’abisso, grido vuoto nel vuoto. Se questo stato di desolazione si prolunga troppo e ‘soffoca l’intelletto’, come dice Evagrio, soffoca cioè la personalità dell’uomo, allora all’accidioso può accadere quel che Evagrio dice ad un certo punto delle conseguenze della tristezza, causa immediata dell’accidia: ‘Tutti i demoni insegnano all’anima ad amare il piacere. Solo il demone della tristezza non consente di fare ciò, ma corrompe i pensieri di coloro in cui si insinua, recidendo e inaridendo ogni piacere attraverso la tristezza. Infatti “le ossa di un uomo rattristato si disseccano”(Pr 17,27). Se (questo demone) attacca l’anacoreta con moderazione, lo rende provato, poiché lo determina a non accettare nulla delle cose di questo mondo e a evitare ogni piacere. Se invece perdura ( e tale è appunto la caratteristica dell’accidia!), genera pensieri che gli suggeriscono di far uscire lui stesso di nascosto la sua anima (dal corpo), o che lo costringono a fuggire lontano dal suo luogo di dimora. È ciò che meditò e sopportò un tempo anche il santo Giobbe, quando fu tormentato da questo demone: “Oh, se potessi alzare la mia mano contro me stesso - disse - o almeno pregare qualcun’altro di farlo per me!”(Gb30,24)’ Chi avrebbe immaginato - continua p.Bunge - che ciò che era iniziato come una sorta di malumore capriccioso, potesse finire così? Eppure Evagrio ha visto giusto. Il suicidio, in molti casi, non è altro che l’ultimo, disperato tentativo di fuggire dal proprio vuoto interiore, di dissolversi nel nulla: una ‘soluzione’ del conflitto che Evagrio, peraltro, rigetta esplicitamente”65. 62 BIANCHI, Le parole della spiritualità, p. 44. Serie Nau 92: in Detti inediti, p.148. 64 EVAGRIO PONTICO, Antirrethikos VI, 38 (cit: in BUNGE, Akedia, p.89).. 65 BUNGE, Akedia, pp.89-90. Il testo di Evagrio citato è tratto dal De diversis malignis cogitationibus 13 ( cfr:EVAGRIO PONTICO, Gli otto spiriti della malvagità, pp.87-89. 63 4. Le cause dell’accidia. A questo punto possiamo domandarci: è possibile individuare le cause dei tale drammatico stato esistenziale? È possibile cogliere la radice da cui prende forma quella varietà di sintomi che abbiamo elencato e che costituiscvono lo spazio vitale dell’accidia? Giovanni Climaco, personificando l’accidia, le fa indicare la propria parentela: “Moltissime sono (le cause) che mi invitano: l’insensibilità del cuore, altre volte la dimenticanza delle cose di lassù, talaltra l’eccessiva stanchezza; discendono da me il mutar luogo a me congeniale, il. disubbidire al padre spirituale, il ,dimenticarsi del giudizio, talora il venir meno alla chiamata”66. Certamente, una realtà così complessa come l’accidia, trae origine da numerosi fattori, individuabili nella misura in cui si analizzano i sintomi che li manifestano. Ma la tradizione monastica ha messo in luce una causa che, alla radice, genera tutti i pensieri malvagi, comprese, dunque, quello dell’accidia. Questo terreno fertile per ogni passione è la philautìa, l’amore smoderaro per sè stessi, quella ‘passione’ e ‘tenerezza sragionevole verso sè stessi’ che rende ‘amici di sè contro sè stessi’67. “La passione - scrive p.Bunge riferendosi ad Evagrio - è nella sua essenza una alienazione egoistica, è l’essere prigionieri del proprio io. In ogni cosa essa cerca solo sè stessa. E poiché non riesce a raggiungere se stessa in nulla, ecco che questo amore di sè si trasforma in odio cieco per ogni cosa. Perché è inevitabile che sia così? Perché c’è un unico desiderio (pòthos) buono ed eterno, legato per natura all’intelletto: il desiderio della vera conoscenza, che tende unicamente a Dio e che colma l’intelletto di beatitudine. Se questo desiderio buono ed eterno non raggiunge il suo scopo, restano solo tristezza ed odio. L’accidia, in quanto quintessenza di tutte le altre passioni, è forse l’espressione più pura e ‘più spirituale’ della philautìa di Adamo, il quale si distolse la Dio e si volse a sè stesso, finendo così per perdersi”68. Questo amore di sè è in fondo il vero idolo che minaccia la nostra vita: è il più sottile e seducente, attraverso il quale sè stessi, il proprio progetto, il proprio cammino di perfezione, tutto, viene intaccato dalla idolatria. Se Dio non è il Signore dela nostra vita, l’io diventa il nostro signore, il centro assoluto del nostro mondo; e si comincia a valutare ogni cosa in funzione dei propri bisogni, della propria idea, dei propri desideri e giudizi. In questo modo la brama di potere vizia alla base le relazione con gli altri: si cerca di sottometterli a sè stessi, perché si vive nel ‘regime della preda’ e non del dono di sè. E tutto questo non si esprime necessariamente nel bisogno effettivo di comandare o di dominare sugli altri; questo ripiegamento su di sè può trasformarsi benissimo in una smodata preoccupazione di sè, in indifferenza, disprezzo, mancanza di interesse, cinismo. Tutte porte aperte per l’accidia! Tuttavia, chiarita la radice ultima dell’accidia, dobbiamo pur riconoscere due cause immediate che la favoriscono, due spazi o terreni che permettono all’accidia di attecchire e prolificare. A prima vista queste due cause sono agli antipodi e di per sè si contraddicono: l’ozio e il sovraffaticamento ( o attivismo). Ma, di fatto, ambedue sono strettamente legati alla dinamica dell’accidia, la quale, in fondo, oscilla sempre tra un tiepido minimalismo e un distruttivo massimalismo. Fin d’ora, dunque, si può comprendere l’insistenza che i monaci antichi ponevano sulla ‘misura’ come rimedio all’accidia. 66 GIOVANNI CLIMACO, Scala Paradisi, XIII, 92: PG 88, coll.860D-861B (cfr.GIOVANNI CLIMACO,La Scala del Paradiso, p.179). 67 Le due espressioni citate sono di Massimo il Confessore ( cfr.Centuria II,8 e Ad Thalassium, Praef.: SPIDLIK, La spiritualità dell’Oriente Cristiano, p.228). Il tema della philautìa in Massimo il Confessore è stato studiato da I.HAUSSHER, Philautie. De la tendresse pour soi à la charitè selon saint Maxime le Confesseur, (=OCA 137) Roma l952 (tr.it.: I.HAUSSHER, Philautia. Dall’amore di sè alla carità, Magnano/Bose 1999 ). 68 BUNGE, Akedia, pp.63-64. 4.a: L’ozio. In Regula Benedicti 48,1, strutturando la giornata del monaco, viene posto un principio di carattere sapienziale: “otiositas inimica est animae”. L’ozio, in questo senso, è mancanza di occupazioni, di interessi, ma soprattutto è una realtà che rende la vita quotidiana amorfa e trascinata; diventa una malattia di fondo e una modalità di accostare e affrontare la vita di ogni giorno. L’ozio crea attorno a sè il vuoto, e tutto ciò che si fa, si riempie, paradossalmente, di questo vuoto: giorni vuoti, parole vuote, rapporti vuoti, tempi vuoti. Nella preghiera attribuita a Efrem il Siro e recitata nella liturgia bizantina durante il periodo quaresimale, si dice: “O Signore, a cui appartiene la mia vita liberami dallo spirito dell’ozio (argìas), dello scoraggiamento (periergìas), della volontà propria (philarchìas), e dalle parole inutili (argologìas)” Come origine dello scoraggiamento, del ripiegamento su di sè e del vuoto, l’ozio è nient’altro che “questa strana indolenza, questa passività di tutto il nostro essere, che sempre ci abbatte piuttosto che sollevarci, e che costantemente ci persuade che nessun cambiamento è possibile e quindi desiderabile. È in realtà,un cinismo profondamente radicato, che ad ogni sfida spirituale risponde: “A che pro?”, e trasforma la nostra vita in un tremendo deserto spirituale. È la radice di ogni peccato, perché avvelena l’energia spirituale direttamente alla sorgente”69. 4.b: Il sovraffaticamento e l’attivismo. È interessante che nella descrizione sull’accidia, spesso ritorna la tentazione di assumere impegni, soprattuto in favore degli altri. “L’irrequietezza - scrive p.Bunge - si trasforma così in un instancabile attivismo, oltretutto con la pretesa di essere la virtù cristiana dell’amore del prossimo! Ma questo non è nient’altro che una illusione, un pericoloso autoinganno. È l’illusione dell’agenda piena, che deve mascherare il nostro vuoto interiore. È tanto più pericolosa in quanto pretende di servire scopi elevati, ed è perciò quasi inattaccabile.Quanto più a lungo dura, tanto più ha conseguenze catastrofiche. Presto o tardi, ecco che inevitabilmente ci si ferma, ecco il terribile risveglio. Allora, o si abbandona, scoraggiati, e si lascia perdere tutto ciò che finora ha dato senso alla vita, o si ricorre a nuove e più forti dosi di distrazione”70. Se questo attivismo manifesta lo stato di accidia latente, può esserne, d’altra parte, anche causa. Lavoro ed impegni eccessivi che disperdono e creano molti punti di riferimento non collegati tra di loro, possono provocare uno stato di accidia: ci si èdati ad un lavoro al di là delle proprie forze e si crolla. E di conseguenza, si cominciano molte cose e non se ne conclude alcuna. Nell’Epistolario di Barsanufio e Giovanni di Gaza ritroviamo questo testo: “Domanda. Donde viene l’accidia? e cosa bisogna fare quando essa aggredisce? Risposta. C’è un’accidia per impotenza e c’è un’accidia da parte del demonio. Se vuoi discernerle, discernile così: l’accidia del demomio assale qualcuno prima del tempo in cui avrrebe bisogno di riposo: quando uno infatti comincia un lavoro, prima che egli ne abbia fatto una terza o quarta parte, perseguita l’uomo a lasciare il lavoro e ad alzarsi. Non deve dunque accoglierla, ma pregare e sedere al suo lavoro e resistere, poiché il nemico, vedendo che per questo si mette a pregare, desiste; infatti non vuole fornire occasioni di preghiera. L’accidia fisica invece è quando l’uomo si affatica al di sopra delle sue forze ed è costretto ad aggiungere altro lavoro. E da questo consegue l’accidia fisica, dall’impotenza del corpo. Bisogna dunque in questo caso soppesare le forze e dar riposo al corpo nel timor di Dio”71. 69 A.SCHMEMANN, La Grande Quaresima, Casale 1986, p.34. BUNGE, Akedia, p.78.. 71 BARSANUFIO E GIOVANNI DI GAZA, Epist.562: in BARSANUFIO E GIOVANNI DI GAZA, Epistolario, cur. M.Lovato-L.Mortari, (=Coll.Testi Ptr:93) Roma 1991, p,456. 70 A questo si può aggiungere anche un eccessivo sovraffaticamento spirituale ed ascetico, soprattutto se c’è un atteggiamento di scrupolo che porta a moltiplicare gesti, sforzi, osservanze per essere maggiormente sicuri di una solida vita spirituale. Ecco perché i monaci antichi invitavano ad una preghiera semplice, monologica, una preghiera che evita le molte parole perché esse possono trascinare una perdita di attenzione, una distrazione, una abitudine. Anche una ascesi e una disciplina che non sono equilibrate e soprattutto liberanti, rischiano di creare una situazione così opprimente che diventa facile preda dell’accidia. Come nota A.Cencini: “Quando la disciplina non sa unire questi due aspetti, quello mortificante e quello vivificante, destrutturante e ristrutturante, non è psicologicamente sana nè spiritualmente salutare. Diversamente detto, se la prassi asceticodisciplinare si riduce a sola rinuncia e autonegazione senza generare nuove libertà beatitudine, nuovi gusti e desideri, essa produce quasi inevitabilmente quella inappetenza generale che Tommaso chiamava acedia, ovvero ‘una tristezza opprimente la quale produce nello spirito dell’uomo una depressione tale che egli non ha più voglia di fare alcunchè’. Tale ‘male oscuro’ dell’anima sembra esser male molto antico, se già Evagrio Pontico (IV sec.) ne parla, come una atonia o perdita di tensione dell’anima... Questa sorta di insensibilità del cuore è il risvolto sul piano spirituale, di quanto Freud afferma sul piano piscologico: come il principio del piacere divenuto stile abituale di azione genera, a lungo andare, la morte psichica, così la repressione totale e fine a sè stessa (cioè senza relazione con i sentimenti di Cristo), potrebbe generare la morte dello spirito, o quella morte affettiva che è la noia e l’indifferenza. Questo è molto interessante, ma raramente preso in seria considerazione, eppure spiega la strana evoluzione di molti volontarismi messi in atto da giovani supervolenterosi ( e provocati in tal senso da poco accorti formatori ) all’nizio del loro cammino di perfezione, e poi abbandonati e ripudiati, o trasformati in attegiamenti esattamente contrari, di inerzia edi mediocrità. Quane volte precoci ( o presunti ) ‘eroismi dello spirito’ non hanno più retto alla prova del tempo e sono stati prima o poi smentiti o rinnegati da stili di vita diametralmente opposti, magari anche con un po’ di risentimento o triste irrisione. Al di là della buona fede, chi faceva così dimostrava con chiarezza una cosa: che la sua rinuncia era soprattutto un ‘no’ a qualcosa che andava rifiutato, non era un ‘sì’ ad un valore scoperto o intravisto e che il soggetto iniziava a gustare; dimostrava che aveva imparato ( o gli era stato insegnato ) più a reprimere i desideri della carne, che non a desiderare i desideri dello Spirito; era una persona volenterosa, senz’alcun dubbio, ma non ancora persona libera nè indirizzata verso un cammino di liberazione; soprattutto era un attegiamento a-relazionale, non finalizzato alla relazione con Cristo e i suoi sentimenti. Di conseguenza, ecco un principio prezioso: nessuno può imporsi una rinuncia se non per conseguire una maggiore libertà interiore, e nessun formatore ha il diritto di chieder una rinuncia senza lasciar intravedere, al tempo stesso, quello spazio di libertà che essa apre o potrebbe aprire alla persona! Non ogni disciplina è formativa e liberante”72. 72 A.CENCINI, È ancora tempo di ascesi e disciplina?, in Testimoni 1999 n° l8, pp.28-29. 5.Una ‘terapia’ per l’accidia. E veniamo all’ultima domanda: quali sono i rimedi, i mezzi per combattere l’accidia? Certamente questa patologia spietata dell’accidia può spaventare e far sorgerev il dubbio di una impossibilità a liberarsi da tale tirannia. Ma, paradossalmente, questo dubbio non sarebbe altro che una illusione e un’arma vincente della stessa accidia. Il monachesimo antico, pur consapevole della serietà del combattimento spirituale, aveva uno sguardo positivo sull’uomo, alla luce della vittoria di Cristo sul peccato: il tentatore non ha più alcun potere sull’uomo, a meno che non sia l’uomo stesso, nella sua follia, a restituirglirlo. Dunque, anche dall’accidia si può guarire. E i rimedi proposti dagli autori monastici sono di una sorprendente semplicità. 5.a. Anzitutto c’è un rimedio radicale e drastico: eliminare il male alla radice. E, come abbiamo visto, la radice dell’accidia, e di ogni altro pensiero malvagio, è quella bramosia irrazionale che ha provocato la caduta del primo uomo, la philautìa. Così dice Massimo il Confessore: “Chi respinge la madre delle passioni, che è l’amor proprio (philautìa), con l’aiuto di Dio allontana facilmente anche le altre, come l’ira, la tristezza, il rancore ed il resto: Chi invece è dominato dalla prima passione, è ferito dalle altre, anche senza volerlo. E l’amor proprio è la passione per il corpo. Principio di tutte le passioni è l’amor proprio (philautìa); termine, la superbia. E l’amor proprio è l’affetto irrazionale per il corpo; chi lo ha reciso, ha reciso con esso tutte le passioni che ne derivano”73. Poiché dunque una vera guarigione è posibile solo se si elimina il male alla radice, solo se si sa smascherarlo e combatterlo là dove si annida, nella vita quotidiana sarà indispensabile ricorrere a rimedi specifici ed applicarli là dove appaiono i sintomi del male. Nel caso dell’accidia è necessario far subito ricorso a terapie energiche che garantiscano un effetto immediato. E i rimedi suggeriti dagli antichi monaci sono diversi. Ma prima di presentarne alcuni, vorremmo elencare alcuni consigli che spesso ritornano negli antichi testi monastici e che danno efficacia ad una terapia contro l’accidia. 5.a.1. “Tutto deve essere compiuto -ammonisce Evagrio - al tempo opportuno e nella misura conveniente; poiché ciò che è senza moderazione e fuori tempo, dura poco, e ciò che ha breve durata è più nocivo che utile”74. Dunque un primo consiglio suggerito dagli antichi monaci è l’equilibrio, la discrezione, la moderazione che permettono di dare alla propria vita, a ciò che si fa, alle proprie possibilità, una misura, ed essere fedeli ad essa. La discretio è quella saggezza che nasce dalla consapevolezza dei proprii limiti e dalle possibilità che sono in noi e permette un raele dominio di sè. 5.a.2. Se uno dei sintomi più evidenti dell’accidia è la totale mancanza di senso nella propria vita, un disgusto per ciò che si fa o una illusoria ricerca di ideali irragiungibili, un antidoto è proprio il ritrovare uno scopo, riprendere gusto per una vita vera, riscoprire i valori della interiorità. Diadoco di Fotica utilizza una immagine molto significativa: “imporre al nostro pensiero dei limiti ben stretti sì che esso possa guardare a Dio”. Infatti scrive: “Quando l’anima nostra si sente libera dal fascino dell cose terrene, è invasa allora da uno spirito di accidia che si insinua, da una parte, non consentendole di dedicarsi con piacere al ministero della parola e non lasciandole l’acuto desiderio dei beni futuri; dall’altra, facendole svalutare 73 MASSIMO IL CONFESSORE, Sulla carità. Cent.II, 8; Cent.III,57: cit. in La Filocalia, II, tr.B.Artioli-F.Lovato, Torino 1983, pp.64.90. 74 EVAGRIO PONTICO, Praktikos 15: in EVAGRE, Traitè pratique, II, pp. 537-538. eccessivamente questa vita fugace come se essa non comportasse degne opere di virtù e facendole spregiare la scienza stessa o perché già concessa a molti altri o perché non promette di insegnarci ciò che è perfetto. A tale passione fonte di tiepidezza e di torpore sfuggiremo, se imporremo al nostro pensiero dei limiti ben stretti sì che esso possa guardare a Dio, di lui soltanto coltivando il ricordo. Solo così lo spirto ritornerà al suo antico fervore, recedendo dall’imbarazzo irrazionale”75. 5.a.3. Gli autori monastici insistono, inoltre, sulla necessità di non fuggire di fronte a questa terribile situazione esistenziale. La fuga, nelle sue svariate forme, è infatti l’illusione, ingenerata dall’accidia, di trovare altrove o diversamente una liberazione da questo pensiero. Ma, in fondo, tale illusione impedisce di affrontare realmente la lotta, impedisce di guardare con verità ciò che si ha dentro. Dunque, rimanere dove ci si trova e combattere: questo significa, di fatto, neutralizzare tale illusione. Raccontando la sua esperienza, Cassiano scrive: “Nei primi tempi del mio soggiorno nel deserto, dissi ad abba Mosè, il più grande dei santi, che il giorno precedente avevo molto sofferto di questa malattia dell’accidia, e che non ero potuto liberarmene se non recandomi il più in fretta possibile dall’abba Paolo. “Tu non te ne sei liberato - mi rispose - anzi, ne sei diventato ancora più schiavo. Poiché avendo visto che eri un disertore e un fuggitivo che, così vinto, se ne scappa, essa ti attaccherà con maggior forza in seguito, a meno che tu non voglia schivare provvisoriamente i suoi attacchi appena arrivano fuggendo dalla tua cella o dormendo, ma imparando a trionfare su di essa resistendo e combattendo”. L’esperienza prova dunque che non si scappa alla tentazione dell’accidia fuggendo, ma si può aver su di essa la meglio resistendo”76. Solo se si ha il coraggio di rimanere stabili nella lotta, si gusterà la gioia e lo stupore di non esser rimasti soli in questo combattimento. “Estirpare il male alla radice”,. come abbiamo detto all’inizio, è frutto della sinergia tra la libera volontà dell’uomo e la grazia di Dio. Ma l’uomo deve scegliere di rimanere; Dio porterà a termine il combattimento. È significativo, a questo riguardo, un episodio della Vita di Antonio il Grande, scritta da Atanasio di Alessandria. Dopo una lunga ed estenuante lotta contro il tentatore, tutto malconcio, Antonio si rivlge al Signore e gli domanda: “Dove eri? Perché non sei apparsoo sin dall’inizio per porre fine alle mie sofferenze” E la voce gli rispose: “Antonio, ero là, ma aspettavo per vederti combattere: Poiché hai resistito e non ti sei lasciato vincere, sarò sempre il tuo aiuto”77. Dio vuol veder lottare l’uomo, cioè lasciargli libertà e spazio perché deve, liberamente, andare verso di Lui. 5.b. I rimedi dell’accidia. “Bisogna rimettere in cammino questo spirito con la preghiera, la lettura, la pazienza (ypomonè), la forza d’animo,l’astinenza dalle parole vane e il lavoro”78. 75 DIADOCO DI FOTICA, Cento capitoli gnostici, 58: tr: it: in DIADOCO, Cento considerazioni sulla fede, tr. V.Messana (=Coll.Testi Patr. 13), Roma 1978, pp. 63-64. Un invito a difendere la propria vita dagli attacchi dell’accidia, riempiendo la propria esistenza di senso, si trova anche in una testo dell’autore medievale cistercense Gilberto di Hoyland: GILBERT DE HOYLAND, Sermons sur le Cantique des Cantiques, II, cur. P.-Y.Emery (=Pain de Citeaux III/7) Oka 1995, pp. 72-73. 76 GIOVANNI CASSIANO, De institutis coenobiorum, X,25: JEAN CASSIEN, Institutions cènobitiques, pp.424-425. 77 ATANASIO DI ALESSANDRIA Vita di Antonio, 10: tr. it. in S:ATANASIO, Vita di Antonio. Apoftegmi.Lettere, tr. L.Cremaschi, (=Lett.Crist. delle Origini/Testi 19), Roma 1984, p.112. 78 NILO DI ANCIRA, De octo vitiosis cogitationibus : PG 79. coll. 1457-1458B. “L’accidia è curata dalla perseveranza, e dal compiere ogni cosa con attenzione e timor di Dio. In ogni lavoro, fissati una misura, e non abbandonarlo, prima di averlo portato a termine; prega con intelligenza e con vigore, e lo spirito dell’accidia fuggirà da te”79. In questi due testi abbiamo elencati i principali rimedi per combattere l’accidia. Li vediamo ora in dettaglio. 5.b.1. L’ypomoné è la virtù maggiomente sottolineata come antidoto all’accidia:”Pazienza: frantumazione dell’accidia”80, dice Evagrio. Si potrebbero citare molti testi a questo riguardo. Ne riportiamo due di Evagrio ed un apophtegma: “Perché la tua ricompensa grazie alla pazienza piova su di te ancora più abbondante, la tua pazienza deve condurre la guerra per mezzo di tutte le virtù virili, perché attraverso ogni male è l’accedia che ti fa guerra e ti tenta passando in rassegna tutte le tue fatiche. E colui che essa non trova inchiodato alla pazienza, lo opprime con il proprio peso e lo piega”81. “Il vento di Borea nutre i germogli, e così le tentazioni rendono salda la forza dell’anima. Una nube senz’acqua è cacciata via dal vento, e l’anima che non ha resitenza (ypomoné), dal vento dell’accidia. La rugiada primaverile aumenta il frutto del campo, e la parola spirituale innalza la condizione dell’anima. L’ondata dell’accidia scaccia il monaco dalla sua dimora, ma chi pratica la perseveranza (ypomoné) è sempre nella quiete”82. “Un fratello interrogò un anziano: “Padre, l’accidia mi tiene in suo possesso”. E quello gli rispose:”Figlio, non conosci ancora nè la ricompernsa che attende i diligenti, nè il supplizio che attende i negligenti. Infatti, se la tua cella brulicasse di vermi, sopporteresti tutto questo e non ti lasceresti prendere dall’accidia. L’accidia, inluenzando tutte le facoltà dell’anima, spesso muove tutte insieme le passioni. Conoscendo questo, il Signore ha detto: “Nella vostra ypomoné possederete le vostre anime”(Lc 21,19)”83. Proprio quest’ultimo testo, con la citazione di Lc 21,19, ci fa comprendere il senso di questa insistenza sulla ypomoné. È di fatto la condizione del cristiano nella storia. Essa deve essre accolta come via normale di salvezza e maturazione, in attesa dell’ncontro con il Veniente: “Alzatevi e levate il capo, la vostra liberazione è vicina” (Lc21,28). Il cristiano deve vivere en te ypomoné, cioè ‘rimanere sotto’, restare saldo sotto i colpi che si ricevono e che vogliono far cambiar luogo, sballottarlo a destra e a sinistra, disorientandolo. Come scrive B.Maggioni, “l’ypomonè è la virtù della pietra: se anche la calpesti,non si lascia modificare, a differenza delal cera molle, che, invece, appena la tocchi si modifica. La ypomoné è la durezza che fa restare quello che si è, qualsiasi cosa succeda”. Ma è anche “la pazienza di attendere, non importa se a lungo. La pazienza è essenziale per l’attesa cristiana”84. 79 EVAGRIO PONTICO, Tractatus de octo spiritibus malitiae 14: in EVAGRIO, Gli otto spiriti della malvagità, p.55. EVAGRIO PONTICO, De vitiis quae opposita sunt virtutibus 4: PG 79, coll.1143-1144C. 81 ID., Tractatus ad Eulogium monachum 8: PG 79, coll.1103-1104C ( cit. BUNGE, Akedia, pp.96-97). 82 ID., De octo spiritibus malitiae 13: in EVAGRIO, Gli otto spiriti della malvagità, p.53. 83 NILO DI ANCIRA, De octo vitiosis cogitationibus: PG 79, coll:l457D-1460A. 84 B.MAGGIONI, La pazienza del contadino. Note di cristianesimo per questo tempo, Milano 1996, p.110. 80 5.b.2. La pazienza assume la sua forma concreta nella stabilità, il classico antidoto alla irrequietezza e all’nstabilità che generano l’accidia:. kathèsthai kai ypomenein, rimani fermo e pazienta: è una delle raccomandazioni più ripetute dagli antichi autori monastici. Mentre l’accidia impedisce di avere un rapporto sereno con il tempo e con lo spazio, la stabilità e la pazienza permettono una durata di cammino nel tempo e nello spazio. La stabilità nel tempo è la capacità di perseverare,di continuare un cammino anche se si è tentati di scoraggiamento o di interrompere la via che si è intrapresa. E “in questo perseverare si opera anche la guarigione della radice malata, la philautia. Sì, perché perseverare significa anche opporsi allo spirito delle bramosie irrazionali”85. E un tempo in cui ci è data la possibilità di perseverrae è il quotidiano: rimanere nel quotidiano, senza “sognare la vita”, fuggendo, in qualche modo, dalla sua precarietà e fragilità, è una reale ascesi che tempera e disciplina nella lotta contro l’accidia. Questa ascesi comporta una rinuncia a tutte quelle ilusioni che ci appaiono come alternative al presente; comporta accettare se stessi e l’altro; comportra accogliere le fatiche dei propri impegni e lavori o il peso della comunità in cui siamo inseriti. Questa ascesi abitua e permette di accettare le tappe della propria vita con i loro limiti costitutivi e le loro ricchezze, di assaporarle senza fughe nel passato o nel futuro, senza angoscia o paura. L’ascesi del quotidiano è sapienza ( e questo, contro ogni mancanza di ‘sapore’, cioè contro l’accidia). La stabilità nello spazio significa rimanere nel luogo in cui si è scelto di vivere. Ecco un altra raccomandazione dei padri monastici: non fuggire lo spazio che ci circonda, sarebbe solo una fuga da sè stessi: “Va’ - dice un apophtegma - rimani nella tua cella,e la tua cella ti insegnerà ogni cosa”86.La cella diventa simbolo dello spazio vitale in cui uno matura, mette radici, trova una sua identità. Con l’accidia la cella può diventare troppo stretta, insopportabile. Ecco allora la tentazione di fuggire, cioè di abbandonare se stessi e la lotta. Riportiamo tre testi in cui si raccomanda al monaco di non fuggire dal luogo in cui è chiamato a vivere: “Non si deve abbandonare la cella nel momento delle tentazioni, per quanto siano motivati i pretesti che ci si costruisce,; ma bisogna rimanere dentro ed essere perseveranti (kathèsthai kaì ypomènein) ed accogliere coraggiosamente tutti gli assalitori, ma soprattutto il demone dell’accidia il quale, dato che è il più pesante, rende l’anima provata al massimo. Poiché fuggire da tali lotte ed evitarle insegna all’intelletto ad essere senza abilità, rilassato e disertore”87. “Un giorno - narra Palladio nella sua Storia Lausiaca - preso da avvilimento (akediàsas) mi recai da lui (Macario di Alessandria) e gli dissi: “Padre, cosa devo fare? Mi opprimono i pensieri, che mi ripetono: ‘Tu non fai nulla, vattene via di qui’”. Mi rispose: “Di’ loro: ‘Io guardo i muri per Cristo’”88. “Nel tempo delle tentazioni, non abbandonare il tuo monastero, ma sopporta valorosamente le ondate dei pensieri, soprattutto quelle dei pensieri di tristezza e di accidia. Così, provato per divina dispensazione mediante le tribolazioni, avrai salda la speranza in Dio. Se invece lo abbandoni, sarai trovato reprobo, molle ed instabile”89. 85 BUNGE, Akedia, p.146. MOSÉ 6: in Vita e detti dei padri del deserto, II, cur. L.Mortari, Roma 1975, p.33. 87 EVAGRIO PONTICO, Praktikos 28: in EVAGRE LE PONTIQUR, Traitè pratique ou le moine, II, p.565. 88 PALLADIO, Historia Lausiaca, XVIII, 29: in PALLADIO, La Storia Lausiaca, cur.C.Mohrmann-G.J.M.Bartelink, (=Vite dei Santi 2), Milano (Fond.L.Valla) l974, pp.95-97. 89 MASSIMO IL CONFESSORE, Sulla carità. Centuria I, 52. in La Filocalia, II, p.55. 86 Questa stabilità è il migliore antidoto che conduce ad una stabilitas cordis, alla saldezza interiore per non essere sballottati e cadere come foglie spazzate via dal vento. E inoltre, per chi vive in comunità, questo cammino verso una stabilitas cordis ha un luogo preciso: la comunione dei fratelli, i quali, con la loro perseverante testimonianza, diventano un richiamo costante alla fedeltà nel cammino di sequela. Si potrebbe avere l’impressione che questo rimanere come inchiodati nel luogo ove si sperimenta questa oppressione sia l’esatto contrario di ciò che una persona ragionevole farebbe. Ma per capire questa insistenza sulla stabilità, bisogna proprio partire dai risultati a cui mira l’accidia: l’irrequietezza, l’instabilità, la fuga da sè. Certamente questo ‘rimanere senza fuggire’ non è una semplice prova di forza, un presuntuoso sforzo ascetico. È piuttosto l’umiltà di accettarsi senza fughe e saper ‘attendere in silensìzio la salvezza’. D’altra parte, non sono esclusi momenti di distensione salutari.: in questi casi un incontro, una passeggiata, uno svago possono aiutare a sopportare con più pazienza la lotta. Ma è importante che riportino al luogo dove uno ritrova sè stesso e non aprano strade alla fuga. 5.b.3. La pazienza assume uno spazio concreto nella preghiera, unita soprattutto al timore del Signore, alla coscienza del suo giudizio e alla fiducia nella sua misericordia; una preghiera che potrebbe essere caratterizzata dalla famosa espressione di Silvano del Monte Athos: ” Tieni il tuo spirito agli inferi e non disperare”; una preghiera paziente e perseverante, che non si allontana quando non sperimenta consolazioni o gratificazioni spirituali. È la preghiera incessante, nell’attesa di una salvezza che Dio solo può donare. Questa preghiera nella pazienza e nell’attesa ci strappa a noi stessi, ai nostri pensieri tortuosi e ripiegati e ci lascia nelle mani di Dio, dal quale dipende ogni compimento e salvezza (cfr. Lc 18, 1-8). Secondo gli autori monastici, questa preghiera insistente deve avere due caratteristiche. Anzitutto deve essere fatta “con le lacrime”. “Invoca il Signore nella notte - scrive Evagrio - con lacrime, e nessuno si accorga che tu stai pregando, e troverai grazia”90. Questo richiamo alle lacrime è proprio l’espressione di un passaggio da una tristezza mortale e negativa ad una tristezza secondo Dio, il penthos (compunctio): dobbiamo essere condotti, nello spazio nella preghiera, al riconoscimento del nostro stato di peccatori e del nostro bisogno di salvezza. E con le lacrime, misteriosamente, si addolciscono anche le nostre durezze interiori, quella insensibilità prodotta dall’accidia: le lacrime fanno riprendere coscienza delle nostre ferite più intime, ancora sanguinanti, le quali possono diventare una porta aperta alla misericordia ed al perdono di Dio. In secondo luogo, questa preghiera deve essere “breve”. Una preghiera breve, monològhistos, è capace di contraddire la complessità vuota del pensiero dell’accidia. Ed Evagrio, nel suo Anthirretikos, vero e proprio ‘prontuario’ contro i pensieri malvagi, ha radunato molti passi scritturistici come brevi giaculatorie contro il logismos dell accidia. 5.b.4. Nell’evangelo la preghiera è sempre unita alla vigilanza. Pregare e vigilare sono un unico atteggiamento: solo così non si soccombe alle tentazioni; non ci si fa ingannare da promesse illusorie e false che rendono instabile la vita; non ci si lascia distrarre dalle preoccupazioni che appesantiscono il nostro cuore.”Custodire il cuore”, “porre una custodia al proprio cuore” è la terapia preventiva che permette di smascherare i primi attacchi del demone dell’accidia; lo sguardo interiore vigilante permette di riconoscere questa passione che spesso si maschera di ragionevolezza e bontà. Per esercitare il proprio cuore alla vigilanza, per strutturare un uomo vigilante, pronto e combattivo, ben disciplinato, gli antichi monaci proponevano la palestra della ascesi, quell’esercizio disciplinato che permette un reale dominio di sè. Un esercizio “disciplinato” e non senza limiti: queto sarebbe 90 EVAGRIO PONTICO, Sententiae ad virginem, 25: cit: in BUNGE, Akedia, p.113. In GIOVANNI CLIMACO, Scala Paradisi VII vi è un vero e proprio trattato sulle “lacrime che generarno gioia”: cfr:GIOVANNI CLIMACO, La Scala del Paradiso, tr. C.Riggi, (=Coll.Testi Patr:80), Roma 1989, pp.140-154. una porta aperta all’accidia. I padri del deserto puntavano su una ascesi misurata, proporzionata alle forze del singolo, ai tempi ed ai luoghi in cui vive, liberante ed aperta allo Spirito. E una particolare forma ascetica sottolineata, è il digiuno come limitazione dei propri bisogni. Nota p.Bunge: “Il problema della bulimia, delle compensazioni attraverso le gioie del palato, la patologia dell’over-eating - oggi così diffusa, ma ancora poco conosciuta nella sua natura -, così come molte altre manifestazioni di questo tipo, non erano affatto sconosciuti agli antichi. In questi casi essi ricorrevano, per motivi etici, ad un rimedio che oggi viene praticato quasi solo per motivi estetici o medici. il digiuno. Con la sua abituale laconicità Evagrio dice: Chi domina lo stomaco diminuisce le passioni, chi invece è vinto dai cibi accresce le voglie”91. La vigilanza, per gli antichi monaci, era nutrita, in particolare, dalla memoria mortis, dalla consapevolezza del momento dell’incontro con il Signore. Aver chiara coscienza del passar del tempo, della propria fragilità e mortalità, è un arma contro quella tiepidezza che tutto banalizza e fa perder la serietà della vita dell’uomo. Il pensiero della morte, a cui Benedetto nella sua Regula monasteriorum dedica il primo gradino della scala dell’umiltà92, non ha nulla di cadaverico o tenebroso: si tratta semplicemente di rendersi conto che la propria vita è entrata nella logica pasquale e che si è chiamati a morire quotidianamente all’uomo vecchio e ai suoi desideri egoistici per vivere dell’uomo nuovo in Cristo. Come ardente desiderio dell’incontro con il Signore, “questo esercizio della morte è una autentica relativizzazione della vita terrena, poiché mette tutto in relazione a Dio e dunque preserva dal rinchiudersi egoisticamente in sè stessi”93. Da ultimo, ricordiamo come i padri monastici, per mantenere viva la vigilanza e non soccombere nella lotta, raccomandavano l’apertura del cuore, l’exagoreusis, al padre spirituale. Una lotta come l’accidia non può essere combattuta da soli; poiché genera illusioni, contraddizioni, ambiguità, il suo discernimento non è sempre facile. Ecco la necessità di esporre al padre nello Spirito, senza reticenze e senza falsi pudori, le proprie lotte segrete e le proprie sconfitte, ma anche le vittorie e le esperienze spirituali, per avere il suo discernimento. Riguardo all’accidia, un padre spiritruale russo del secXV-XVI, Nil Sorskij, raccomandava di non tenere mai dentro di sè un tale stato negativo, ma di parlare con un “uomo provato”: “A dire il vero, qualche volta, come dice san Basilio il Grande, si sente il bisogno di incontrare un uomo provato che ci sia di edificazione e di conversare con lui, poiché una visita al momento opportuno e con buona intenzione, un colloquio in giusta misura con un tal uomo, senza futilità nè chiacchiere, possono non solo scacciare dall’anima l’accidia nascosta in essa, ma anche procurarle un po’ di requie e ridarle forza e zelo peril prosimo combattimento sulla via della pietà”94. 5.b.5.Un ultimo mezzo raccomandato per prevenire l’irrequietezza dell’accidia o per padroneggiarla, è il lavoro, un impegno commisurato alle proprie forze e vissuto con discernimento. Ed è anche l’obbiettivo che motiva la strutturazione della gironata monastica in RB 48: proprio perché l’”otiositas est inimica animae”, si devono stabilire tempi per il lavoro, per la lectio e per l’opus dei. “Fissati una misura in ogni lavoro e non abbandonarlo prima di averlo portato a termine”, ricorda Evagrio95. Ed è emblematico il primo detto che la raccolta alfabetica attribuisce ad Antonio il Grande. 91 BUNGE, Akedia, p.107. Il testo citato è di EVAGRIO PONTICO, Tractatus de octo spiritibus malitiae, 1,2. Cfr. RB 7,10-30. 93 BUNGE, Akedia, 147. 94 NIL SORSKIJ, La vita e gli scritti, cur. E:Bianchi, Torino 1988, pp. 83-84. 95 EVAGRIO PONTICO, Tractatus de octo spiritibus malitiae, 14. in EVAGRIO PONTICO, Gli otto spiriti della malvagità, p.55. 92 “Un giorno, il santo padre Antonio, mentre sedeva nel deserto, fu preso da sconforto (akedìa) e da fitta tenebra di pensieri. E diceva a Dio: “O Signore! Io voglio salvarmi, ma i pensieri me lo impediscono. Che posso fare nella mia afflizione?” Ora, sporgendosi un poco, Antonio vede un altro come lui, che sta seduto e lavora, poi interrompe il lavoro, si alza in piedi e prega, poi di nuovo si mette seduto a intrecciare le corde, e poi ancora si alza e prega. Era un angelo del Signore, mandato per correggere Antonio e dargli forza. E udì l’angelo che diceva: “Fa’ così e sarai salvo”. All’udire quelle parole, fu preso da grande gioia e coraggio: così fece e si salvò”96. In questo detto viene dunque indicato un grande mezzo per vincere l’accidia: è la necessità di una regola e di una disciplina nella vita, a cui rimanere fedeli nella discrezione e nella ‘misura’. “Questa ‘regola abituale’ - scrive p.Bunge - non è la regola scritta di un ordine: il monachesimo di Scete non conosceva una regola del genere. Si intende invece quella misura (kanòn) che ognuno - con il consiglio di uno più esperto e in base all’esperienza delle proprie possibilità e dei propri limiti deve fissarsi da sè. In condizioni normali, a questa regola personale si deve una fedeltà incondizionata; in casi eccezionali, invece, prevarrà la libertà evangelica. Questo gioco sottile di obbedienza e libertà è un dato caratteristico della spiritualità degli antichi padri”97. 6. Conclusione. Vorremmo concludere richiamando alcuni aspetti, già accennati, che mettono chiaramente in relazione il pensiero malvagio dell’accidia con la vita spirituale. Più volte abbiamo sottolineato come l’accidia è l’asfissia, la morte di ogni autentica vita spirituale. Si tratta ora di evidenziare alcune caratteristiche di questo legame. 6.a. Anzitutto l’accidia ha conseguenze catastrofiche per la vita di preghiera; produce disgusto e svogliatezza, incapacità a mantenere un ritmo ed uno stile, tendenza ad abbreviare i tempi, ecc... Tra i testi che si possono citare a conferma di tale influsso negativo sulla preghiera, riportiamo due testi di Evagrio ed uno di Giovanni Climaco: “Il monaco accidioso è pigro nella preghiera e non pronuncia le parole dell’orazione; come un malato non può portare un fardello pesante, così l’accidioso non compie con sollecitudine l’opera di Dio; infatti il primo ha perso la forza del corpo, il secondo è illanguidito, privo del vigore dell’anima”98. “L’accidia: sentimento vago che porta a girovagare e a disprezzare l’amore per il lavoro; nemica dell’hesychìa, è bufera per la salmodia, svogliatezza nella preghiera, rilassatezza dell’ascesi. È sonnolenza fuori del tempo, sonno che si aggira, pesantezza dell’ipocondria, odio della cella, avversione di ogni sforzo. È contrappeso della costanza, freno della contemplazione, ignoranza delle Scritture, compagna della tristezza, orologio della fame”99. 96 ANTONIO 1: in Vita e detti dei padri del deserto, 1, pp.83-84. BUNGE, Akedia, p.105. 98 EVAGRIO PONTICO, Tractatus de octo spiritibus malitiae 14: tr:it. EVAGRIO, Gli otto spiriti della malvagità, p.55. 99 EVAGRIO PONTICO, De vitiis quae opposita sunt virtutibus, 4: PG 79, col.1143-1144BC. 97 “L’accidia richiama alla mente di chi sta in orazione le urgenze necessarie, stolta qual’è, ponendo in atto ogni espediente per trascinarci via dalla preghiera con verosimili ragionamenti che sono dei capestri. Tre ore prima del pasto questo demonio dell’accidia provoca brividi e mal di testa e prima ancora persino delle vertigini: all’ora del pasto da un po’ di tregua, quindi quando la tavola è preparata balza dal letto, ma al riprendere dell’adorazione di nuovo il corpo si appesantisce. L’accidia immerge nel sonno chi sta in preghiera, e gli fa con inopportuni sbadigli morire in bocca il versetto del salmo”100. Questa insistenza sulle conseguenze deleterie dell’accidia nei confronti della preghiera, non deve apparire strana o esagerata: se l’accidia distrugge la vita spirituale, tutto questo disastro si riflette anzitutto su ciò che gli antichi monaci consideravano come specchio della vita spiirtuale, la preghiera. Ma d’altra parte, come già abbiamo notato, proprio la preghiera diventa lo spazio di combattimento in cui, attraverso la “spada dello Spirito”, si lotta e si vince l’accidia. “la preghiera dice Evagrio - dispone l’intelletto ad esercitare la sua propria attività”101, cioè la conoscenza di Dio, l’incontro con il suo volto. E di conseguenza, la preghiera è anche il mezzo migliore per conoscere “ il proprio stato interiore, poiché nella preghiera ci viene presentato il conto della nostra esistenza vissuta finora”102. Allora si comprende perché solo nella preghiera perseverante e paziente, nella preghiera di attesa, è possibile scacciare l’accidia. Se quest’ultima tenta di distruggere la preghiera, solo colui che resiste nella preghiera può annientare l’accidia ed i suoi complici. “La preghiera dice Evagrio - è difesa contro la tristezza e lo scoraggiamento”103; “è un frutto della gioia edell’azione di grazie”104. “Ma - commenta p.Bunge - questa perseveranza non è cieca sopportazione, è cosciente attesa di Dio. Una via di uscita dal circolo infernale dell’accidia, infatti, è possibile solo se l’uomo apre un varco nelle mura carcerarie del proprio io, del proprio disperato isolamento, e perviene all’autentica esistenza personale, trasparenza per l’altro, e dunque anche all’autentico amore, che è un troovare se stesso nel darsi al tu dell’altro. L’uomo però può trovare la propria identità personale solo nell’incontro con la persona di Dio, nella quale egli, come ogni essere, è racchiuso e nascosto. E poiché Dio è amore, solo l’incontro con lui, in definitiva, guarisce dal male radicale dell’amore di sè, quella meschina espressione della paura di perdersi nel donarsi”105. 6.b. L’accidia, come situazione terribile ed opprimente, appare, per lo più, nella sua dimensione totalmente negativa, come una sorta di punto morto nella vita spiirtuale, un abisso dal quale sembra quasi impossibile riemergere. Ma gli antichi autori monastici ci lasciano intravedere in essa qualcosa di molto più profondo e qualificante per la vita secondo lo Spirito. La sua durezza non è l’ultima parola che schiaccia colui che ne è colpito: dopo questa stasi apparente, a volte lunga e dolorosa, tenebrosa ed umiliante, chi resiste e combatte, all’improvviso vede dilatarsi ed aprirsi l’orizzonte, Sopportata con pazienza, l’accidia mette alla prova l’anima, la saggia e la purifica, per renderla luogo “ di uno stato di pace e di una gioia indicibile”106, cioè rende il cuore capace di incontro con Dio. “Pace e gioia - osserva p.Bunge - non come pretende di darle il mondo, ma come può darle solo colui che è ‘la nostra pace’(Ef 2,14), sono in certo qual modo l’ultimo passo che porta l’uomo, l’infinitamente piccolo, a incontrare Dio, l’infinitamente grande. Attraverso di esse la 100 GIOVANNI CLIMACO, Scala Paradisi XIII, 90: PG 88, col.860C (cfr. tr. it.: GIOVANNI CLIMACO, La Scala del Paradiso, p.178). 101 EVAGRIO PONTICO, De oratione 83: in EVAGRIO PONTICO, La preghiera, cur. V:Messana (=Coll.Testi Patr:117), Roma 1994, p.114. 102 BUNGE, Akedia, p.129. 103 EVAGRIO PONTICO, De oratione 16. in EVAGRIO PONTICO, La preghiera, p.79. 104 Ibid., 15: in Ibid., p.78. 105 BUNGE, Akedia, p.146. 106 EVAGRIO PONTICO, Praktikos, 12: in ÈVAGRE LE PONTIQUE, Traitè pratique ou le moine, II, p527. creatura mortale mette piede, già su questa terra, in quel ‘luogo’ misterioso che Evagrio chiama preghiera, contemplazione, conoscenza di Dio o teologia, e che qui si fondono in uno. Poiché preghiera, per Evagrio, è nel senso più profondo un colloquio infinitamente intimo fra la persona dell’uomo e la persona di Dio, espressione di un amore senza limiti per Dio quale nostro Padre, di un amore che non smetterà mai di crescere, e di una conoscenza che, di fronte all’infinità del Conosciuto, diventa una beata non- conoscenza”107. L’accidia è una prova che ci può portare ai limiti della sopportazione e di ogni resistenza; è una prova pericolosa che ci può annientare completamente. Ma solo se la si accetta nella pazienza e nell’umiltà, nella ruminazione incessante della Parola e nella preghiera, si trova la guarigione. “A forza di piangere e gridare - dice il credente del Salmo 101, la preghiera del povero che nell’accidia effuse davanti a Dio la sua supplica - somiglio al pellicano del deserto, sono come un gufo tra le rovine (Sal 101, 7), ma poi il Signore invia il suo Spirito a portare canto di lode invece dell’accidia (Is 61,3 LXX). Se l’accidia si tramuta in trsitezza secondo Dio porta alla compunzione, al pianto sul proprio peccato. Venite e piangete davanti al Signore invita il Salmo 94. Quando si accende un fuoco con la legna, diceva amma Sincletica, dapprima il fumo punge gli occhi e li fa lacrimare, ma poi la fiamma illumina, riscalda di gioia108.La tristezza secondo Dio è così sempre ‘radiosa tristezza’, tristezza per aver molto peccato, gioia e stupore di fronte alla infinita misericordia del Signore. Il cuore di pietra percosso dalla Parola di Dio (cfr.Nm 20,11) prova dolore per i propri peccati, ma è un pianto salutare che irriga e lava il cuore, lo apre all’ascolto di Dio e dei fratelli e infonde pace. ‘Le lacrime sono simili alla pioggia: l’uomo è l’agricoltore. Quando esse vengono bisogna lottare perché nulla della pioggia vada perduto, ma entri tutta nel giardino e lo irrighi. Vi dico fratelli, che sovente un giorno di pioggia all’inizio dell’anno salva tutti i frutti’109. Il vero peccato, il più grande peccato per i padri del deserto è cedere alla disperazione, non credere alla misericordia di Dio; è il peccato di Giuda che si dà la morte perché non sa credere al perdono di Colui che anche nell’ora del tradimento lo chiama amico (Mt 26, 30). Ad un abba del deserto che piangeva disperatamente a causa dei suoi peccati apparve in visione il Signore e gli chiese: ‘Uomo perché piangi? Perché sei triste?’ Il fratello rispose: ‘Signore, non vuoi che io pianga e sia nel dolore perché ho molto rattristato te da cui ho ricevuto tanti beni?’ Il Signore allora tese la mano, la posò sul capo del fratello e gli disse: ‘D’ora inpoi non esser più triste. Dal momento che ti sei rattristato per me, io non mi rattristerò mai più contro di te. Se ho dato il moi sangue per te, quanto più darò il mio perdono a te e a chiunque si pentirà sinceramente!’110”111. Silvano dell’Athos aveva sintetizzato questa liberante esperienza di purificazione nella paradossale espressione. “Tieni il tuo spirito agli inferi, e non disperare!”. Per uscire dagli inferi dell’accidia, c’è una sola via. non disperare della misericordia di Dio112. Come scrive p.Bunge, “ in questa prospettiva, accidia e vita spirituale sono inseparabili. Nell’accidia va in frantumi l’”uomo vecchio che si corrompe dietro le passioni ingannatrici” (Ef 4,22). “Ma una volta annientato, esso diventa un olocausto per Dio”. Solo allora “l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità”(Ef 4,24), in quella “prima” o “piccola risurrezione” può risorgere alla “vita spirituale”, cioè a una vita totalmente sotto l’azione dello Spirito del Dio trinitario”113. 107 BUNGE, Akedia, p.148. SINCLETICA 1. in Vita e detti dei padri del deserto, II, p.193: “ La madre Sincletica disse:” Per coloro che si avvicinano a Dio, all’inizio vi è lotta e grande fatica, ma poi gioia indicibile. Come quelli che vogliono accendere il fuoco: prima son disturbati dal fumo e lacrimano e poi raggiungono ciò che cercano. Perché, dice, il nostro Dio è fuoco che consuma. Così anche noi dobbiamo accendere il fuoco divino con lacrime e con stenti”. 109 Series Nau 537. in Detti inediti dei pari del deserto, p.213. 110 Series Nau 583. in Detti inediti dei padri del deserto, pp.228-229. 111 Detti inediti, pp.97-98. 112 Cfr. RB 4,74. Benedetto termina la lunga lista delle ‘buone opere’ proprio con questa espressione. “Et de Dei misericordia numquam desperare”. 113 BUNGE, Akedia, p.141. 108 Concludiamo con due testi di autori contemporanei, R.Guardini ed A.Louf. Ambedue ci lasciano intravedere come il cammino dalla accidia alla gioia ed alla pace, non solo è possibile, ma è stato percorso da Cristo stesso. Anche se questa affermazione può sembrare paradossale, Cristo ha affrontato questa prova: nel Getsemani ha sofferto angoscia, irrequietezza, ‘tristezza fino alla morte’, e nelle tentazioni è stato attaccato dallo spirito di malvagità proprio nel momento in cui era prostato per la fame. Ma “ proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo dalla morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono”(Eb 5,7-9). “La via dell’uomo verso Dio è interrotta dal fatto di essere non altro che una creatura, costretta per essenza a raggiungere Dio in quell’atto che è insieme divisione e collegamento: nell’adorazione e nell’obbedienza. Qualunque asserzione sul conto di Dio, la quale non possa rientrare nell’atto dell’adorazione, è falsa; e falso d’altro canto ogni atteggiamento verso Dio, che non possa rientrare nella forma dell’obbedienza. Qui, in questo modo di sentire, si delinea il vero attegiamento umano: atteggiamento condizionato dal confine, atteggiamento che nello steso tempo è l’unico adeguato alla realtà. Ed è fatto di veridicità, di coraggio e di pazienza. Pazienza, soprattutto. La soluzione vera e propria, si sa, non viene che dalla fede; dall’amore di Dio. Soltanto il mistero del Getsemani - e, dietro ad esso, l’oscuro mistero del peccato, con tutto quanto il peccato trascina con sè - soltanto il mistero del Getsemani dà la vera risposta: il fatto che il Signore fu ‘triste sino a morire’; e che Egli ha portato tutto il peso dell’essere, aggravato sino in fondo, secondo la volontà del Padre. Soltanto nella Croce di Cristo ha una soluzione la pena della malinconia”114. “Per chi persevera nella solitudine per amor di Gesù, al demone dell’accidia “seguono uno stato di tranquillità ed una gioia ineffabile dlel’anima”. Che si voglia solamente ‘credere in Dio’, ‘fidarsi di lui’, ‘contare su di lui’, ‘perseverare nella confidenza in Dio’, ‘restare tranquillo, solitario e silenzioso’, non lasciare Dio, come Giobbe la cui figura paziente si profila dietro molti pareri: “è Dio che ferisce, lui anche che guarisce”. Dietro la figura di Giobbe, si indovina anche quella di Gesù. Origene, in cui Evagrio ha letto i suoi vizi in maniera sparsa, attribuisce curiosamente la tentazione di accidia a Gesù durante la sua permanenza nel deserto. Ma più che a seguir l’esempio di Cristo è ad amarlo che Evagrio invita il solitario spossato da questa prova. Se egli deve perseverare, è a causa del suo Nome, per seguirlo veramente ed essere suo discepolo. La tentazione è presagio di salvezza; Dio la permette per grazia, perché, “è per suo favore che vi è stato dato non solo di credere in Cristo, ma anche di soffrire per lui”. Già Macario aveva risposto a Palladio quando aveva preso in disgusto la cella: “dì a te stesso: è a causa di Cristo che io resto in queste mura”115. 114 115 GUARDINI, Ritratto della malinconia, p.62. LOUF, L’accidia in Evagrio Pontico, pp.156-157. NOTA BIBLIOGRAFICA 1. Riportiamo alcuni testi della tradizione monastica in cui si tratta esplicitamente dell’accidia: EVAGRIO PONTICO, Gli otto spiriti della malvagità. Sui diversi pensieri della malvagità, cur.F:Moscatelli, Cinisello B. (Ed. S.Paolo) 1996, pp.52-55. 86-89. EVAGRE LE PONTIQUE, Traitè pratique ou le moine, I-II, cur. A. e C:Guillaumont, (= Sources Chrét.170.171), Paris 1971 (soprattutto :II, pp.520-527). Cfr. tr. it.: EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, cur. L:Dattrino, (=Coll.Testi Patr. 100), Roma (Città Nuova) 1992, pp. 70-71. JEAN CASSIEN, Institutions cénobitiques, cur. J.-C.Guy (=Sources Chrét.109), Paris 1965, pp.381-425. JEAN CASSIEN, Conférences,I, cur. E.Pichery, (=Sources Chrét. 42), Paris 1955, pp. 197-199. Cfr. tr. it.:GIOVANNI CASSIANO, Conferenze ai monaci, I, cur. L.Dattrino, (=Coll.Testi Patr. 155), Roma (Città Nuova) 2000, pp.213-219. GIOVANNI CASSIANO, Al vescovo Castore. Gli otto pensieri viziosi, in La Filocalia, I, tr. M.B.Artioli-M.F.Lovato, Torino (Gribaudi) 1982, pp. 147-150. NILO DI ANCIRA, De octo vitiosis cogitationibus: PG 79, coll. 1455D-1460B. DIADOCO, Cento considerazioni sulla fede, cur. V.Messana, (=Coll. Testi Patr. 13), Roma (Città Nuova) 1978, pp. 63-64. ISAIA DI GAZA, Ascetikòn, Napoli (ed.Grafite), 1998, pp. 87-93 (cfr. soprattutto: logos 17). GIOVANNI CLIMACO, La Scala del Paradiso, cur.C.Riggi (=Coll.Testi Patr. 80), Roma (Città Nuova) 1989, pp. 176-179. NIL SORSKIJ, La vita e gli scritti, cur. E:Bianchi, Torino (Gribaudi) 1988, pp.81-84 ( si tratta del capitolo V della Regola). Aggiungiamo due testi della tradizione occidentale: TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol. II,II,q.35: in TOMMASO D’AQUINO, La Somma Teologica, XVI, Bologna (ed.Studio Domenicano) 1984, pp. 42-55. R.GUARDINI, Ritratto della malinconia, Brescia (Morcelliana) 1952. 2. Proponiamo alcuni studi che trattano specificamente dell’accidia o la analizzano all’interno del cammino spirituale. Ad essi rimandiamo anche per una più ampia bibliografia: ANGELINI G., Le virtù e la fede, (=Contemplatio 11), Milano (Glossa) 1994, pp. 43-64 ( si tratta del capitolo: “l’accidia e le virtù”). BIANCHI E., Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano (Rizzoli) 1999, pp.35-45. BUNGE G., Akedia. Il male oscuro, Bose/Magnano (Qiqajon) 1999 (sec.ed.). LOUF A., L’accidia in Evagrio Pontico, in Concilium 9/1974, pp.152-158. MIQUEL P., Lessico del deserto. Le parole della spiritualità, Bose/Magnano (Qiqajon) 1998, pp.13-36 (bibl.: p. 364). NATOLI S., Dizionario dei vizi e delle virtù, Milano (Feltrinelli) 1997 , pp. 11-13. SPIDLIK T., La spiritualià dell’Oriente Cristiano. Manuale sistematico, Roma (Pont.Ist.Or.) 1985, pp.225-226. 344. 372. Inoltre segnaliamo le seguenti voci del Dictionnaire de Spiritualité (=Dsp): BARDY G., Acedia, in DSp I, Paris 1937, coll.166-169. DERVILLE A., Mélancolie, in DSp X, Paris 1978, coll. 950-955. MAC AVOY J., Endurcissement, in DSp IV/1, Paris 1960, coll. 642-652. MARTIN H., Dégoût spirituel, in DSp III, Paris 1957, coll.99-104.