Viaggio di un astronomo – 129
Capitolo 8
D
opo la tormenta. Alla fine della guerra io aveva trentacinque anni e Margherita
ventotto; avevamo ancora tutta la vita dinanzi a noi, ci sentivamo pronti ad affrontarla e
le speranze erano grandi.
Con la pace scomparvero le preoccupazioni più gravi, ma le difficoltà continuarono ancora
per molto tempo. Non c'era più il mercato nero e i generi di prima necessità non mancavano, ma
il costo della vita aumentò di colpo molto considerevolmente, assai più degli stipendi. Questo mi
costrinse a darmi da fare con ripetizioni e in altre maniere. Volta, ritornato a Milano, aveva
ripreso l'insegnamento di Astronomia, che mi era stato assegnato nell'ultimo anno di guerra, ma
il Direttore dell'Istituto di Fisica, Polvani mi aveva procurato l'incarico dell'insegnamento di
Calcolo delle Probabilità, nel quale inserii una parte importante di Statistica con applicazioni
astronomiche; con tutto ciò lo stipendio totale – quello di primo astronomo più quello di
professore incaricato – arrivava a 45.000 Lire mensili, che furono aumentate in seguito, ma
sempre assai meno del costo della vita.
Andavo tre volte la settimana a Milano semidistrutta, dove i bravi milanesi si erano messi
subito all'opera di ricostruzione. Si viaggiava in condizioni molto disagiate, su vetture bestiame –
cavalli 8 uomini 40 – e d'estate al ritorno, per non soffrire troppo il caldo si andava presto alla
Stazione per sedersi sullo sportello con i piedi penzolanti nel vuoto e la gente che arrivava dopo
doveva passare come poteva in mezzo a quelli seduti; d'inverno si soffocava nell'interno o si
gelava vicino allo sportello.
Appena possibile feci un viaggio a Roma, dove ebbi la grande gioia di ritrovare papà
Roberto, le sorelle di Margherita, Italo ed i suoi in buona salute. Avevano superato anche loro
indenni – salvo la disgrazia del caro Checchino, di cui ho parlato – i pericoli e le sofferenze della
guerra. Era nato anche il primogenito di Clara, Antonello.
Fu un viaggio alquanto faticoso; i tedeschi nel ritirarsi avevano distrutto le linee ferroviarie e
da Milano a Roma si impiegavano quaranta ore, perché l'unico ponte sul Po era all'altezza di
Alessandria. Le vetture non avevano vetri, né lampade. Alcuni intraprendenti vendevano candele
alla partenza, ma appena il treno si mosse l'aria che entrava dai finestrini le spegneva
immediatamente.
Al ritorno papà Roberto mi procurò un posto in un camioncino di proprietà di un suo cugino,
che aveva improvvisato un servizio di trasporti; non era molto più comodo di quello su cui con la
mamma avevamo viaggiato per andare da Capodistria a Cittanova dopo la prima guerra mondiale
e le strade erano in pessime condizioni, ma impiegammo “solo” diciotto ore da Roma a Milano.
Passando potei vedere le distruzioni prodotte dapertutto dal passaggio della guerra e una
domanda angosciosa mi ritornava tutto il tempo al pensiero: “perché, mio Dio? perché? perché?”
E ancor oggi, passando davanti ad un Cimitero Militare, continuo a domandarmi con la stessa
angoscia: “Perché, mio Dio? perché? perché?”
Lo scopo del viaggio era anche quello di prendere contatti con l'Istituto di Fisica di Roma e
con il Consiglio Nazionale delle Ricerche per ottenere aiuti per l'Osservatorio di Merate. Trovai
il mio amato maestro Castelnuovo, Amaldi, Wick e gli altri colleghi in buone condizioni ed ebbi
alcune notizie sui grandi progressi della Fisica nucleare, benché in gran parte fossero ancora
coperti dal segreto militare. Tutti erano già al lavoro per riorganizzare le ricerche scientifiche in
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un'atmosfera di grande fervore, come avviene in un organismo che si sta rimettendo da una
gravissima malattia, dove tutte le cellule contribuiscono alla convalescenza.
La visita al Presidente del CNR fu molto utile; ottenni che a Merate venisse creato un Centro
di Ricerche di Astrofisica, con la possibilità di assegnare un paio di Borse di Studio a giovani
laureati o laureandi e un fondo – assai modesto – per l'acquisto di libri ed altro materiale
scientifico.
Per mezzo dei colleghi dell'Osservatorio Vaticano in Castel Gandolfo venni anche a
conoscenza di vari lavori astronomici recenti e al mio ritorno cercammo con Krüger di
riannodare in qualche modo i contatti scientifici con il resto del mondo.
Alcuni mesi prima della fine della guerra avevo fatto conoscenza con due ingegneri di
Milano, astrofili appassionati, Emilio Zacchi, che aveva una piccola industria di materiali
idraulici, e Bartolomeo Orsoni, un alto funzionario della Montecatini, di cui dovrò parlare
ancora. Per mezzo di questi, potemmo avvicinare alcuni ufficiali del Comando militare alleato
addetti alle relazioni culturali, con la speranza di ricevere per loro mezzo almeno le principali
riviste americane e inglesi, ma i risultati furono scarsi.
Ricordo che, per facilitare questi contatti, invitammo i due ingegneri e un colonnello
americano a visitare l'Osservatorio di notte e facemmo loro osservare con il riflettore alcune
nebulose ed alcuni ammassi globulari ed altre curiosità celesti, come l'anello di Saturno.
Margherita e le ragazze Volta avevano preparato un dolce con la farina lattea, che veniva
distribuita con una certa abbondanza ai bambini e verso la metà della notte, come eravamo
d'accordo, vennero a chiedere agli ospiti se desideravano “a cup of tea”. Avvenne però che non
avevano potuto trovare te, e così avevano pensato di sostituirlo con un paio di bottiglie di
spumante. Il colonnello gradì molto la... variante, osservando:
“Oh, this is what you call tea in Italy?” (Oh, questo è ciò che chiamate te in Italia?).
A Milano dopo le lezioni all'Istituto di Fisica mi trovavo spesso con un personaggio molto
interessante, più o meno della mia età, Silvio Ceccato; abitava, non so a quale titolo, in un
appartamentino dell'Istituto di Chimica, dove a mezzogiorno ci cucinavamo alla svelta una
pastasciutta. Suonava molto bene il piano – era, se ricordo bene, diplomato in composizione – e
possedeva un magnifico Bechstein a coda, comprato di
seconda mano a poco prezzo, perché il mobile era stato un
poco danneggiato durante un bombardamento, ma il timbro era
ottimo.
I nostri incontri non avevano però come fine la musica. Me
lo aveva presentato un medico e fisiologo di Milano, Giuseppe
Fachini, il quale sperava di formare un gruppo che facesse
conoscere in Italia le correnti filosofiche neoempiriste, che,
come credo di aver detto, il fascismo aveva bandito
completamente dalle scuole italiane. Oltre a Ceccato, Fachini e
me, faceva parte del gruppo il filosofo Giulio Preti e, di
quando in quando, veniva a trovarci anche Ludovico
Ludovico Geymonat
Geymonat. Antonio Banfi – che però era già anziano e
cagionevole di salute e incontrai solo una o due volte – era il
nostro... padre spirituale. Il mio compito era soprattutto quello di spiegare agli altri le teorie
fisiche moderne con le loro implicazioni epistemologiche, cercando per quanto possibile un
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discorso che potesse essere compreso da persone di ingegno indubbiamente fuori del comune,
ma senza una particolare cultura di Fisica e Matematica – salvo beninteso Geymonat.
Fachini trovò anche un editore che pubblicò per noi una rivista, “Analisi (rassegna di critica
della scienza)”; questa però non andò più in là del terzo numero, perché dal punto di vista
economico fu, come era da aspettarselo, un fiasco e l'editore non aveva una base finanziaria che
gli permettesse di pubblicare una rivista in perdita. Tuttavia il nostro tentativo è ricordato da
Geymonat nella sua monumentale “Storia del pensiero filosofico e scientifico”, penso, come un
segno del cambiamento nel clima intellettuale dopo la caduta del fascismo, più che per i risultati
che furono assai modesti.
Benché cattolico, non trovavo difficoltà nel discutere di argomenti filosofici con altre
persone non solo estranee ad ogni credo religioso, ma qualcuno dichiaratamente ateo. Da allora
mi interessò sempre la ricerca di un dialogo tra credenti e non–credenti; pur senza partecipare a
gruppi o iniziative, scrissi vari articoli e pronunciai conferenze in cui ho espresso il mio punto di
vista personale, per quel che può valere. Devo anche aggiungere che ho trovato in tutti molto
rispetto per le mie idee, come io ne avevo per quelle degli altri. Preti, per cui ho sempre nutrito
una grande ammirazione, è morto molto prematuramente; ho perduto di vista Fachini, ma con
Ceccato ci siamo incontrati qualche volta dopo il ritorno dall'Argentina e con Geymonat siamo
tuttora in rapporti di grande stima reciproca.
Come si vede, il mio tempo era molto occupato. Tuttavia, dai primi giorni dopo la fine della
guerra e fino al 1948, trovai anche il modo di svolgere a Merate una certa attività molto lontana
da quella mia consueta: la politica. Già negli ultimi mesi di guerra avevo partecipato a riunioni
clandestine, che si svolgevano in una villa di Osnago ad un paio di chilometri dall'Osservatorio
ed erano organizzate da Giovanni Spagnoli – divenuto poi ministro e Presidente del Senato.
L'idea era di prepararci come possibili membri della classe che sarebbe stata chiamata a dare
un'organizzazione democratica alla società italiana, dopo il fascismo. Partecipava a queste
riunioni un giovane studente, Mauro Lengg, che è oggi un distinto studioso di problemi
pedagogici ed un carissimo amico. Devo dire che non ero del tutto d'accordo con Spagnoli, le cui
idee mi sembravano troppo teoriche e lontane dalla realtà della natura umana – come del resto
quelle di molti ideologi – ma non è il caso di divagare troppo dal tema principale del mio
viaggio.
Queste riunioni furono interrotte, perché qualcuno ci avvertì che la polizia fascista ci teneva
d'occhio; ma dopo il 25 aprile, mi trovai coinvolto nell'attività politica, perché a Merate, come in
tutta Italia, gli uomini di buona volontà dovettero rimboccarsi le maniche per fare risorgere la
vita democratica di un paese che aveva sofferto più di vent'anni di regime totalitario e cinque di
guerra. Quasi senza volerlo, fui eletto Consigliere del Comune di Merate con una maggioranza di
voti schiacciante. Sindaco fu nominato un maestro, di nome Tettamante, molto benvoluto dalla
gente ed io accettai la carica di Assessore alla Pubblica Istruzione; poco dopo Tettamante morì –
era già alquanto anziano – ed io ebbi un bel da fare per evitare di essere nominato suo
successore.
Accettai invece di divenire membro del Consiglio Provinciale della Democrazia Cristiana e
mi recavo abbastanza spesso a Como per partecipare alle sedute, in cui si discuteva
l'atteggiamento da prendere nel prossimo Referendum – Repubblica o Monarchia – e nelle
elezioni dell'Assemblea Costituente. Il Consiglio era diviso tra i “sindacalisti” (repubblicani), che
formavano la grande maggioranza, e gli “agrari”, cioé i conservatori (monarchici). Date le mie
opinioni ero naturalmente con i primi, fra i quali c'erano i futuri ministri Martinelli e Spallino ed
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il Sindaco di Como, Terragni. Durante il periodo precedente il referendum tenni vari comizi a
Merate ed in altri paesi della Brianza e credo di aver portato alla Repubblica varie migliaia di
voti.
Dopo il referendum dovetti tenere un discorso sulla piazza di Merate; ma fui fischiato
sonoramente da un gruppo di comunisti venuti da Imbersago, perché il mio discorso era
improntato alla moderazione e voleva essere un richiamo alla concordia tra tutte le tendenze
politiche per la ricostruzione della nazione prostrata dalla guerra. Era un invito prematuro a
porgere la mano anche ai nemici politici, a dimenticare gli odii ed a rinunciare alle vendette.
Chiaro segno che non ero nato per la politica!
Comunque i contatti con personaggi della politica furono utili non a me personalmente, ma ai
miei propositi di cooperare ad una ricostruzione più limitata: quella dell'ambiente scientifico. E
già nel 1946 potei trovare gli aiuti necessari per organizzare due Congressi scientifici, quello
della Società italiana di Fisica a Como e quello della Società Astronomica italiana a Merate,
nonché l'approvazione di un progetto di un nuovo edificio per l'Osservatorio di Merate, che fu
iniziato immediatamente.
Ancora prima, nell'estate 1946, in occasione del centenario della scoperta di Nettuno, si era
svolto a Parigi il primo Congresso astronomico del dopoguerra. Io vi andai con Krüger a
rappresentare l'Italia e devo confessare che mi sentivo alquanto preoccupato: come mi avrebbero
accolto i colleghi francesi dopo la vile aggressione mussoliniana?
Questi timori furono subito dissipati; mi trovai immediatamente in un'atmosfera di grande
cordialità ed amicizia, come se nulla fosse accaduto. Ebbi allora la prima chiara sensazione che
dai disastri della guerra più orribile della storia avrebbe potuto uscire un'Europa nuova, maturata
nel dolore. Manca ancora molto, ma oggi un grande cammino è stato già percorso. Allora la cosa
più importante era che non si rinnovavano gli errori commessi dopo la prima guerra mondiale e
gli uomini di scienza stavano dando il primo esempio di un'unione che supera i confini delle
nazioni. Forse l'errore più grave fu la divisione della Germania in due stati diversi, che ancora
perdura. Mentre scrivo queste pagine (fine del 1989) la divisione dell'Europa in blocchi
contrapposti sta crollando, come un castello di carte. E forse il sogno di una fratellanza tra i
popoli sta compiendo un passo che fino a qualche mese fa nessuno osava sperare.
In quella circostanza strinsi con i colleghi francesi, Chalonge, Fehrenbach, Pecker,
Schatzman ed altri ancora, un'amicizia anche più cordiale che con quelli italiani; con essi mi
ritrovai con grande piacere in molte occasioni anche negli anni successivi.
Avevo anche preparato due brevi communicazioni su alcuni risultati di osservazioni
spettroscopiche effettuate negli ultimi mesi di guerra. Tranne che per le difficoltà generali, la
guerra sembrava ormai un incubo lontano.
Tra i convenuti incontrai anche il mio grande maestro Oort e l'Astronomo reale d'Inghilterra
Spencer Jones, che mi accolsero anch'essi con la simpatia e la cordialità di un tempo. Nella serata
solenne di chiusura mi fu assegnato un posto accanto all'ambasciatore inglese e a quello
americano. Era un onore fatto alla nostra povera Italia, che non veniva considerata colpevole del
male compiuto da un regime odioso ed infame e fin da allora si voleva compagna delle altre
nazioni europee nell'opera di ricostruzione del mondo.
Quando si tenne il Congresso di Fisica era ancora recente la grande commozione suscitata nel
mondo dall'esplosione delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, ma le notizie
corrispondenti alla parte scientifica di qualla sciagurata impresa erano molto scarse e coperte dal
segreto militare. Amaldi, però, aveva avuto notizie sulla prima “pila atomica” costruita sotto la
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direzione di Fermi e l'autorizzazione a parlarne. Dopo aver ascoltato il suo discorso scrissi
qualche articolo per i quotidiani milanesi ed anche un libro; di questo, buttato giù affrettatamente
in collaborazione con un collega fisico.... tacere è bello e di esso non possiedo nemmeno una
copia (e spero che nessuno che ha stima di me ne possieda); queste furono le prime informazioni
di carattere scientifico che il pubblico italiano ebbe su quell'argomento. Scrissi anche più o meno
in quei mesi un libro di astronomia per ragazzi, di cui sono invece abbastanza soddisfatto per la
sua originalità.
Poco dopo, attraverso gli amici Zacchi ed Orsoni fui chiamato per un abboccamento con i
dirigenti della Montecatini, dai quali mi fu chiesto se credevo di potermi assumere l'incarico di
dirigere un Laboratorio di Fisica Nucleare alle dipendenze di un Consorzio tra la Montecatini ed
altre Società. La proposta era molto allettante, perché ovviamente questo mi avrebbe messo al
sicuro dalle pesanti difficoltà economiche in cui ci stavamo dibattendo – e in cui con alti e bassi
Margherita ed io ci siamo dibattuti tutta la vita – ma era altrettanto ovvio che l'onestà scientifica
non mi consentiva di improvvisarmi quello che non ero: cioé un fisico nucleare. E poi
l'Astrofisica era troppo interessante! Risposi, perciò, che non mi sentivo in grado di assumermi
una simile responsabilità; secondo me la persona più indicata per quel compito era il collega ed
amico Amaldi e, seduta stante, gli telefonai a Roma spiegandogli di cosa si trattava. Amaldi
venne a Milano dopo qualche giorno e così nacque il CISE, ma io ne restai fuori e continuai a
fare l'astronomo... squattrinato, ma, tutto sommato, contento della mia decisione.
Il Congresso della Società Astronomica italiana si tenne a Merate; era il primo dopo non so
quanti anni e vennero numerosi colleghi. In quella occasione incontrai per la prima volta Leonida
Rosino e la sua graziosa signora, con i quali mantengo ancora una calda amicizia.
Lo scopo non era tanto quello di presentare relazioni scientifiche, quanto quello di studiare
cosa si doveva fare per cambiare completamente il vecchio sistema e far uscire l'Astronomia
italiana dall'isolamento e dal provincialismo in cui era rimasta dai tempi della prima guerra
mondiale, incominciando con avere tra noi e con i colleghi fisici rapporti più continui e fattivi.
Ritengo che quella riunione soprattutto di giovani fu la prima spinta verso quella rinascita
dell'Astronomia italiana, che condusse poi il nostro paese ad un livello di prestigio
internazionale, quale allora non si poteva neppure sognare. Le cose andarono in un modo che
non immaginavo, ma il fine che ci eravamo proposti credo sia stato raggiunto.
B
attaglie e delusioni. Intanto il paese si andava lentamente normalizzando. I danni della
guerra venivano riparati, più rapidamente nel Nord, più lentamente nel Sud; ma i disagi
della popolazione continuavano. C'era molto malcontento, specialmente tra gli operai e
gli impiegati, a causa del basso livello delle retribuzioni e ci furono anche disordini a Roma,
Milano ed altre grandi città.
In famiglia continuavamo a soffrire alquanto di queste condizioni e in me si andava
formando l'idea di lasciare l'Italia, ma non ne facevo parola neppure con Margherita, che
affrontava senza lagnarsi ogni difficoltà.
Ricordo una sera dell'inverno 1947–48, che fu particolarmente freddo. In quel tempo venivo
chiamato in vari luoghi della Lombardia a tenervi conferenze divulgative di Astronomia; cosa
che facevo volentieri, perché quel migliaio di lirette che mettevo insieme ci aiutava a tirare
avanti. Quella sera mi trovavo a Busto Arsizio, dove ero stato accolto con generosa ospitalità e
dopo la conferenza ero stato alloggiato in un ottimo albergo: ma nel trovarmi in una stanza
comoda e ben riscaldata, dopo una cena abbondante, pensando che nello stesso momento
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Margherita e i bambini soffrivano dopo un pasto frugale il freddo di Merate – il riscaldamento
era rimasto come nel tempo della guerra – mi venne da piangere e giurai a me stesso che avrei
fatto tutto il possibile perché i miei cari non avessero a soffrire più a lungo simili disagi.
Per quanto riguarda il lavoro, a Merate io e Krüger facevamo del nostro meglio; al Centro di
Astrofisica erano affluiti alcuni giovani di grandi possibilità, come lo dimostrarono, quando il
gruppo, come dirò, dovette sciogliersi, guadagnandosi cattedre universitarie o posti elevati nelle
industrie elettroniche.
Il pensiero di lasciare l'Italia fu rafforzato in quei mesi dalle disgraziate vicende del concorso
al posto di Direttore per l'Osservatorio di Teramo, da cui speravo anche un miglioramento
sensibile alle nostre condizioni economiche. Oltre a quello di Teramo erano vacanti anche altri
posti direttivi; tra l'altro lo stesso Volta stava per andare in pensione e, come si faceva allora, la
commissione del concorso avrebbe dovuto nominare una terna di vincitori, i cui componenti
potevano essere chiamati, in ordine di graduatoria, da qualsiasi Facoltà che volesse così ricoprire
una eventuale cattedra vacante di Astronomia.
Io pensavo che con i lavori pubblicati, che già si avvicinavano al centinaio, e la mia attività
docente e organizzativa – in cui, modestia a parte, avevo ormai in Italia una posizione di leader –
potevo a buon diritto aspettarmi di far parte della terna. Naturalmente c'erano altri validi
concorrenti, come gli amici Colacevich e Righini, con i quali ero stato sempre classificato
almeno alla pari nei vari concorsi di promozione nella carriera degli Osservatori. Questa era
anche l'opinione di Volta – credo che egli desiderasse che fossi io a succedergli – e lo stesso
pensavano i colleghi Fisici di Milano e di Roma. Quando ci eravamo incontrati a Parigi, Oort mi
aveva manifestato la sua meraviglia per il fatto che io non fossi ancora stato nominato professore
ordinario in qualche Università italiana.
Tutto ciò giustificava le mie speranze, ma l'esito del concorso fu definito scandaloso e fece
ritardare di più di dieci anni la rinascita dell'Astronomia in Italia. Qualcuno riuscì a manipolare
presso il ministero la nomina della commissione, la quale risultò composta solo da professori di
Geodesia, con l'eccezione di Guido Horn d'Arturo; si trattava di persone degnissime e valide nel
loro campo, ma totalmente incompetenti per quanto riguardava l'Astronomia moderna. Come era
logico – e come si aspettava chi aveva brigato presso il ministero – nel valutare i titoli diedero
peso soprattutto al tempo passato nella Stazione di Carloforte, dove io e Colacevich non eravamo
mai stati e Righini aveva perso due anni inutilmente. Il buon Horn non poté far nulla; Righini ed
io fummo esclusi dalla terna e dei veri astronomi vi entrò a far parte solo Colacevich, che era il
più anziano di noi tre.
Mi fu riferito che la commissione – formata da persone di cui forse nessuno aveva mai messo
piede in un “vero” Osservatorio Astronomico – aveva dichiarato nei miei riguardi che se il
concorso fosse stato per una cattedra universitaria di Astronomia, quasi certamente sarei entrato
nella terna, ma come Direttore di un Osservatorio... non andavo bene. Il bello fu che nessuno dei
componenti la terna occupò il posto di Teramo, per cui era stato bandito il concorso, ma tutti
riuscirono a farsi chiamare da varie Facoltà!. Volta era più indignato di me e voleva che facessi
ricorso presso il ministero, ma io gli feci osservare che non potevo pensare ad animosità
personali da parte dei commissari; c'era stata solamente da parte loto una valutazione inesatta
della situazione scientifica e su questo il loro parere, anche se sbagliato, era inappellabile.
Comunque fu un grave colpo per me, al quale si aggiungeva una poco lieta previsione per il
prossimo futuro. Come ho detto, Volta doveva andare in pensione ed era ormai certo che il suo
successore sarebbe stato Francesco Zagar, di cui avevo pochissima stima sul piano scientifico –
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avevo pubblicato una recensione alquanto severa di un suo libro di Astronomia sferica – e poca
anche dal lato umano. Non aveva alcuna competenza in Astrofisica e, quel che è peggio, non se
ne rendeva conto. Grazie ad alcuni lavori di Astronomia classica aveva vinto un concorso poco
prima della guerra ed aveva occupato per qualche tempo la cattedra di Palermo; dopo le leggi
razziali si era trasferito a Bologna, da cui era stato escluso Horn, perché ebreo. A questi non
aveva giovato l'essere stato volontario della prima guerra mondiale, benché fosse di Gorizia e
quindi con la certezza di essere impiccato, se fosse caduto in mano degli austriaci, ma questa era
la ricompensa che Mussolini riservava ai veri patriotti!
Finita la seconda guerra mondiale, Horn era stato reintegrato alla Cattedra di Bologna e
Zagar, rimasto in sospeso, aspirava a venire a Brera. Io e Krüger eravamo certi che avrebbe
distrutto il lavoro che avevamo iniziato a Merate con la creazione del Centro di Astrofisica, come
infatti accadde alcuni anni dopo, quando Krüger rinunciò definitivamente all'attività astronomica,
per cui aveva fatto tanti sacrifici, ed i giovani che avevano lavorato con noi furono costretti a
lasciare l'Osservatorio.
L'unico compenso per il momento era che io e Krüger avevamo vinto una borsa del CNR per
recarci all'estero; io avevo scelto di passare qualche tempo all'Osservatorio Yerkes nel
Wisconsin; al mio ritorno Krüger sarebbe andato al Monte Wilson.
Ma oramai avevo preso la mia decisione: avrei tentato in tutti i modi di andarmene dall'Italia,
come stavano facendo già molti altri miei coetanei. Carlo Riparbelli era a Princeton a
perfezionarsi in Aerodinamica; passò più tardi a Itaca e poi, presa la cittadinanza americana, a
San Diego presso la “General Aerodynamics”. Anche Wick, Cocconi ed altri avevano cercato in
America un luogo più adatto per le loro ricerche. Della grande scuola formata da Fermi, solo
Amaldi continuava tenacemente la lotta per la ricostruzione e la Fisica italiana deve a lui la
straordinaria ripresa degli anni successivi.
Malgrado i disagi e le gravidanze, Margherita si era fatta sempre più bella; era una giovane
donna in pieno fiore, serena e piena di una inesauribile vitalità. Con la sua bellissima figura, e
nonostante le difficoltà riusciva sempre a vestirsi con grande eleganza, cucendosi da sola i propri
abiti con un gusto raffinato ed una abilità straordinaria. Era tutta dedita ai lavori domestici e
all'educazione dei bambini, ma trovavamo anche il tempo di stare insieme, benché non tanto
quanto avremmo voluto.
Giampaolo, Roberto, Piero e Giulio, ca. 1947
Livio Gratton – 136
Con questo non voglio dire che la nostra fosse una continua luna di miele; avevamo anche
noi qualche piccolo scontro – sempre su questioni di scarsa importanza – che svaniva
rapidamente e ci faceva ancora più felici nella immancabile riconciliazione. Il fatto è che
eravamo tutti e due un poco gelosi: Margherita del mio lavoro, io... dei miei figli. Margherita si
interessava assai più dei problemi dell'educazione, di questioni di Psicologia – specialmente
infantile – e di Medicina, che non di Astronomia. Senza dubbio, se avesse avuto il tempo
necessario per questi studi avrebbe potuto raggiungere risultati molto brillanti con la sua bella
intelligenza ed il suo grande cuore; la sua vita fu invece tutta dedicata a rendere felici quelli che
le stavano intorno, me stesso più di ogni altro.
Si era molto affezionata alla moglie di Gustavo Federici, Fernanda; essi erano venuti a
stabilirsi a Milano, avevano una graziosa bambina della stessa età del nostro Giampaolo e
venivano spesso a trovarci. Anche con gli zii Giuditta e Ottorino ci vedevamo spesso sempre con
grande affetto; il loro unico figlio, Ottorino jr, che era fuggito in Svizzera durante il periodo
repubblichino, studiava Medicina e divenne poi
un medico molto noto e stimato di Milano.
Giulio e Roberto sapevano già leggere e
scrivere e frequentavano le scuole elementari di
Merate, facendosi compagnia sulla strada che
dovevano percorrere a piedi dall'Osservatorio al
paese. Quando erano liberi dallo studio davano la
caccia agli insetti e ad altri animaletti, ghiri,
pipistrelli ed altri. Ricordo che un giorno avevano
catturato un piccolo ghiro, il quale per liberarsi
mordeva un ditino di Giulio che lo teneva stretto;
ma il bambino non lasciò la presa, perché voleva
farlo vedere alla mamma e alla nonna; poi la
bestiola fu messa in libertà, perché insegnavamo
ai bambini che non si deve far soffrire gli animali.
Anche Giampaolo ed Enrico venivano su bene
godendo dell'aria salubre e della libertà che
lasciava loro la vita nel parco dell'Osservatorio.
Un momento brutto fu una seria infezione
intestinale di Roberto, ma passò anche questo.
L'estate venivano a passare qualche tempo con
noi Italo e anche Giulio con i loro cari. Mirella
suonava molto bene il pianoforte; ottenne in
seguito il diploma di concertista, ma non esercitò
mai la professione. Giulio fu molto preso dalla
politica; aveva avuto una posizione importante nel
Comitato di Liberazione triestino e pubblicò vari
opuscoli in difesa dell'italianità della regione
istriana. Accompagnò anche De Gasperi alla
Conferenza di Parigi, come esperto sulla
questione giuliana; le cose poi finirono come tutti
Ida ca. 1949
Viaggio di un astronomo – 137
sanno e dovemmo rassegnarci alla perdita definitiva dell'Istria, uno dei risultati della assurda
politica imperialista del fascismo.
Un mattino di febbraio del 1948 nacque la nostra prima bambina, Ida; la mamma aspettava
ansiosamente in cucina, facendo bollire grandi pentole d'acqua, come è necessario in queste
circostanze, e quando entrai canticchiando: “E' nata una bambina con una rosa in mano”, mi fece
eco con un “nooo” di meraviglia, perché per qualche suo motivo era persuasa che sarebbe stata
un altro maschietto, ma ne rimase felice quanto noi.
V
iaggio negli Stati Uniti. Nel marzo 1948 partii, come era stato stabilito, per gli Stati
Uniti. Non fu un lieve sacrificio separarsi da Margherita, dalla mamma e dai bambini;
ma io speravo che non solo questo viaggio sarebbe stato molto utile per la mia attività
scientifica, ma ne sarebbe venuto anche un miglioramento alla situazione famigliare, sempre
grave dal punto di vista economico. Mi era stato consentito di mantenere intero lo stipendio, che
fu riscosso dallo stesso Volta e consegnato a mia moglie.
Margherita accettò con coraggio questa separazione, che riteneva necessaria per il mio
avvenire scientifico. Era ben diverso da quanto ci era toccato durante la guerra, quando
lasciandoci non sapevamo cosa sarebbe avvenuto di noi nei prossimi mesi. La separazione
sarebbe durata meno di un anno; durò in effetti circa sei mesi.
Prima di partire avevo avuto una corrispondenza con il Direttore degli Osservatori Yerkes e
McDonald, Otto Struve, discendente da una famiglia di famosi astronomi russi, il quale era
fuggito in America durante la rivoluzione. Aveva approvato il mio piano di lavoro e mi
attendeva, scrisse, con piacere; mi scrisse anche che il lavoro sulle Novae era arrivato a Yerkes
poco prima dello scoppio della guerra ed era conosciuto favorevolmente, al pari di altri miei
lavori scientifici.
La permanenza negli Stati Uniti fu complicata da uno sciopero del personale amministrativo
del CNR, che era in corso al momento fissato per la mia partenza, e quindi non poté essermi
pagata subito la somma che mi era dovuta, ma il Segretario Generale mi aveva detto di partire lo
stesso; mi avrebbe fatto pervenire il denaro presso il Consolato d'Italia a Chicago. Volta mi
anticipò sui fondi dell'Osservatorio quello che mi occorreva per il biglietto e un centinaio di
dollari per i primi giorni e partii verso la fine di febbraio.
Era il mio primo viaggio in aeroplano, che durava allora una ventina di ore, con molti scali
intermedi; arrivai quindi alquanto stanco a New York e mi recai come prima cosa a Princeton per
trovare l'amico Carlo, che mi accolse con grande gioia. Passammo con lui un paio di giorni,
rievocando i tempi passati insieme a scuola e quando lui lavorava a Milano. Feci anche una
breve visita a Henry Norris Russell e a Martin Schwarzschild, che si interessarono molto del mio
lavoro sui modelli stellari, ancora non pubblicato. Russell era molto anziano e per camminare
dovevano sorreggerlo, ma era sempre vivace e pieno di interesse per la scienza; Martin aveva la
mia età ed era già uno degli astrofisici più noti in tutto il mondo.
A Chicago mi recai subito al Consolato per avere notizie della mia borsa e con non poca
preoccupazione trovai che non era arrivato nulla. Fortunatamente il Console era una persona
gentilissima e mi disse di non preoccuparmi; nel frattempo avrebbe provveduto lui a fornirmi
quello che mi occorreva. In effetti le cose andarono avanti così per tutto il tempo che rimasi negli
Stati Uniti; i denari arrivarono poco prima del mio ritorno in Italia e dovetti fare assegnamento
Livio Gratton – 138
sulla generosità del Console e limitare le spese al minimo indispensabile,... realizzando così una
forzata quanto utile economia!
Feci anche una breve visita a Enrico Fermi e parlammo a lungo dei miei progetti di lavoro,
che lo interessarono molto. Fu l'ultima volta che incontrai il mio illustre maestro e lo trovai
invecchiato e sofferente; forse soffriva già del male che pochi anni dopo lo condusse alla tomba,
quando era ancora in piena attività. Alla fine del colloquio, il grande scienziato mi disse:
“Caro Gratton, se dovessi ricominciare, forse sceglierei di fare come lei l'astrofisico.”
Non avevo mai avuto con Fermi rapporti che mi autorizzassero a chiedergli se in queste
parole ci fosse qualcos'altro oltre all'interesse per i grandi progressi che stava facendo allora
l'Astrofisica, e poco dopo mi congedai.
L'Osservatorio Yerkes a Williams Bay sul Lake Geneva – uno dei tanti laghetti del
Wisconsin – era in quei tempi uno dei centri astronomici più attivi in tutto il mondo; vi
lavoravano, oltre a Struve, alcuni dei maggiori astrofisici del tempo, Chandrasekhar, Greenstein,
Morgan ed altri, tra cui Anna Underhill e Nancy Roman, ancora studentesse; vi ritrovai anche un
mio vecchio amico dei tempi di Leida, Gerard Kuiper, che, nell'assenza di Struve, mi sistemò in
una pensione per i membri dell'Osservatorio che non vivevano in famiglia. Era diretta da
un'anziana signora dal fare materno, moglie dell'astronomo van Biesbroek, uno degli ultimi
grandi osservatori visuali di stelle binarie; sua sorella era l'efficentissima bibliotecaria
dell'Osservatorio.
Yerkes Observatory on Lake Geneva in Wisconsin
Viaggio di un astronomo – 139
Alla pensione si trovavano molti giovani assistenti e studenti, alcuni dei quali divennero in
seguito famosi; mi trovai molto a mio agio e feci immediatamente amicizia con tutti. Si
prendevano i pasti in comune, presieduti dalla signora Van Biesbroek, e la
conversazione a tavola era spesso più interessante di una riunione di
scienziati già illustri.
Si trovava allora all'Osservatorio anche un fisico, Gerard Herzberg,
molto noto per i suoi lavori di Spettroscopia molecolare, con il quale ebbi
molti ed utili contatti, perché la mia permanenza a Williams Bay aveva
come scopo quello di preparare il lavoro principale che intendevo
svolgere all'Osservatorio Mc Donald nel Texas. Si trattava di una ricerca a
cui avevo cominciato a pensare fino dal tempo passato a Stoccolma; lo
scopo si era modificato col tempo, ma la sostanza era rimasta: volevo
S. Chandrasekar
osservare spettroscopicamente alcune stelle brillanti del tipo K, con la
massima dispersione allora disponibile, per vedere se esistevano
differenze di composizione chimica tra stelle di diversa popolazione stellare, utilizzando a tal
fine gli spettri delle molecole.
Questo era un lavoro, come si dice, da pioniere per quei tempi ed i risultati furono modesti.
Lo ripresi molti anni dopo in un'altra opportunità e con esito molto superiore, ma oggi i risultati
migliori sono quelli ottenuti in questi ultimi anni da mio figlio Raffaele – il più giovane della
nostra nidiata; da alcuni anni sono divenuti disponibili strumenti molto più efficenti e grandi
dispositivi di calcolo e l'effetto da me cercato viene ora rivelato con molta sicurezza.
Io conoscevo gli strumenti dell'Osservatorio del Texas per avere studiato accuratamente gli
importanti lavori che vi avevano svolto Albrecht Unsöld e Jesse Greenstein e speravo che fossero
sufficenti per lo scopo che mi ero proposto. Pensavo di terminare il lavoro a Merate sul materiale
fotografico raccolto, dato che il tempo non sarebbe bastato per farlo a Williams Bay.
Il luogo dove sorgeva l'Osservatorio Yerkes era molto bello. Tutta la zona era coperta di
boschi e piena di laghetti quanto mai pittoreschi; la cittadina era poco più di un villaggio di
piccole casette sparpagliate in mezzo al verde. Solo il clima, umido e freddo, benché fossimo in
primavera, era sgradevole, con un cielo sempre grigio e rare giornate di sole, ben diverso dalla
nostra Italia. Quando vi ritornai, un paio di mesi dopo, poco prima di rientrare in Italia, il caldo
afoso era insopportabile.
Qualche giorno dopo il mio arrivo rientrò Struve, con cui mi trovai molto bene; benché fosse
più anziano di me ed uno dei più autorevoli astronomi viventi, mi trattò con grande familiarità e
mi propose, in aggiunta al mio programma di lavoro, di collaborare con lui in uno studio
spettroscopico di alcune variabili a eclisse; cosa che accettai ben volentieri. Questo lavoro fu
ultimato prima del mio ritorno in Italia, come pure riuscii a terminare uno studio di due stelle
binarie, e Andromedae, nei cui spettri avevo trovato a Merate righe di emissione del calcio
ionizzato.
Mi concentravo molto nel mio lavoro, anche perché, malgrado mi trovassi molto bene nel
nuovo ambiente e con le nuove conoscenze, sentivo molto la mancanza di Margherita e degli
altri cari e il lavoro mi faceva sentir meno la nostalgia. A Margherita scrivevo spesso e da lei
ricevevo continuamente notizie tranquillizzanti. Anche la piccola Ida veniva su bene, come i
fratellini e nel complesso a Merate le cose sembravano andare abbastanza bene.
Qualche settimana prima della mia partenza per il Texas mi giunsero quasi
contemporaneamente una lettera di Margherita ed un telegramma del Direttore dell'Osservatorio
Livio Gratton – 140
di La Plata in Argentina, che segnarono una svolta nei nostri piani per il futuro. Margherita mi
diceva in tono semiserio di aver ricevuto una telefonata da un astronomo italiano, Pasquale
Sconzo, mio coetaneo, che subito dopo la guerra si era trasferito in Argentina; parlando a nome
del Direttore dell'Osservatorio di La Plata, mi sollecitava ad accettare il posto di Professore di
Astrofisica e di capo del Dipartimento della stessa materia presso l'Istituto di Astronomia e
Geofisica in quella città. Il telegramma da me ricevuto era dello stesso tenore. Margherita non
dava molto peso alla faccenda, sembrandole che la cosa non andava trattata con telefonate, ma
richiedeva trattative serie ed offerte precise; ciononostante presi l'offerta argentina molto sul
serio e scrissi immediatamente a La Plata, per avere maggiori informazioni.
La risposta che mi giunse era molto allettante; mi offrivano un posto molto ben rimunerato
con alloggio nell'Osservatorio di La Plata e soprattutto si parlava di un progetto scientifico
grandioso: quello di dotare l'Osservatorio di un telescopio di due metri di diametro e di altri
minori, con numerosi strumenti accessori, da collocare in un sito nelle montagne preandine e per
questo avevano bisogno di un astrofisico esperto; nel frattempo avrei avuto la possibilità di
compiere osservazioni con il telescopio di un metro e mezzo dell'Osservatorio di Córdoba, il
secondo nell'emisfero australe.
Io non conoscevo la situazione argentina, dove da poco Perón era salito al potere, instaurando
una dittatura di tipo fascistoide. Perciò chiesi consiglio ad alcuni colleghi dell'Osservatorio
Yerkes. Struve e Kuiper furono molto favorevoli; essi ritenevano molto importante dare impulso
alle ricerche astronomiche nell'emisfero australe, dove solo l'Osservatorio di Pretoria possedeva
allora un grande riflettore – grande naturalmente per quei tempi. Poco prima di me erano stati per
qualche tempo a Yerkes due giovani astronomi argentini, Carlos Ulrico Cesco e Jorge Sahade,
che avevano lasciato una buona impressione; insieme con loro avrei potuto svolgere un buon
lavoro. Siccome avevo anche accennato alla difficile situazione
italiana, aggiunsero che se mi fossi trovato male in Argentina,
non avrebbero avuto difficoltà a sistemarmi negli Stati Uniti.
Comunque presi tempo a decidere, e risposi al Direttore di
La Plata che volevo consultarmi con Margherita ed anche con il
Consiglio Nazionale delle Ricerche, che aveva finanziato la mia
permanenza negli Stati Uniti.
Margherita era naturalmente disposta a seguirmi dapertutto,
benché non fosse molto favorevole all'Argentina – e in seguito,
come in tante altre circostanze, dovetti riconoscere che aveva
ragione. Al Presidente del CNR scrissi, mettendolo al corrente
dell'offerta ricevuta e aggiungendo che prima di decidermi
volevo sapere come si stava evolvendo la situazione in Italia;
per quanto mi riguarda, scrivevo, chiedevo solo i mezzi per
continuare al mio ritorno gli studi iniziati negli Stati Uniti. Ma
non ricevetti nessuna risposta.
Otto Struve
Nel frattempo era venuto il tempo di lasciare l'Osservatorio
Yerkes e trasferirmi al Mc Donald nel Texas e mi separai, non
senza un certo rimpianto, dal simpatico ambiente della pensione Van Biesbroek e dagli altri
colleghi di Williams Bay.
Allora non ero molto pratico del modo di viaggiare negli Stati Uniti e scelsi come mezzo di
trasporto il treno, che già cominciava ad essere antiquato. Fu un viaggio lungo e faticoso. Non
Viaggio di un astronomo – 141
ricordo in quale stazione di uno stato del Sud dovetti anche cambiare treno e fui molto contento
nel trovare una vettura completamente vuota, che mi avrebbe consentito di distendermi e
riposare. Ma dopo qualche minuto venne un controllore a dirmi che non potevo restare in quella
vettura; rimasi molto sorpreso, quando appresi che si trattava di una vettura per negri e che i
bianchi dovevano viaggiare nelle vetture a loro riservate. Era la prima volta che mi trovavo
davanti ad una, per me incomprensibile, discriminazione razziale. La commentai in seguito con
Struve, che mi disse che perfino un illustre scienziato, come Chandrasekhar – benché indiano e
non negro – aveva difficoltà in molte città a trovare alloggio in un albergo, a causa del colore
della pelle.
Fortunatamente oggi le cose sono cambiate considerevolmente. Allora la discriminazione era
molto severa e non riguardava solo la razza; al mio ingresso negli Stati Uniti avevo dovuto
dichiarare che ero di razza bianca e italiano del nord (non del sud)!
Discesi dal treno a Pecos, dove dovetti telefonare a Struve, che era già al McDonald, perché
non c'erano mezzi per arrivare a Fort Davis; venne a prendermi in automobile lui stesso e mi
portò all'Osservatorio, percorrendo alcune centinaia di chilometri attraverso sterminate praterie
alquanto riarse, senza case in vista e quasi senza alberi. La strada saliva lentamente fino a monti
alti un migliaio di metri, attraversando a guado alcuni torrentelli quasi asciutti; un mese dopo un
violento uragano li trasformò in torrenti impetuosi e rimanemmo isolati sul monte per circa una
settimana.
Oggi i film “western” hanno reso familiari a tutti questi panorami, ma allora erano nuovi per
me e mi ricordavano i romanzi di avventure nel far west. Appresi che anche il villaggio dove ero
sceso, Pecos, doveva il suo nome ad un famoso giudice della fine del secolo scorso, il quale per
far valere la propria autorità durante i processi teneva sul tavolo una Colt invece del martello di
legno, e qualche volta la usava!
L'Osservatorio disponeva di un telescopio di due metri, oltre a qualche strumento minore;
c'erano alcune casette per le abitazioni del personale stabile, che comprendeva alcuni tecnici ed
una segretaria. Gli astronomi vi venivano solo per le osservazioni. In una di queste casette mi fu
assegnata una stanza molto comoda con annessa una cucinetta; verso le 6 del pomeriggio si
prendeva un pasto in comune, preparato dalla moglie di uno dei tecnici; durante la notte ognuno
degli ospiti si preparava qualcosa, secondo i suoi gusti, nell'ora in cui non era di turno per le
osservazioni.
Una o due volte alla settimana uno dei tecnici oppure la segretaria ci conduceva in uno dei
villaggi vicini, Alpine o Marfa, raramente a Fort Davis, che era abitato quasi esclusivamente da
messicani, i quali parlavano solo spagnolo – l'Osservatorio era molto vicino al confine con il
Messico – ognuno faceva le proprie provviste e poteva acquistare qualche oggetto necessario.
Erano una trentina di chilometri di una strada ripida e tutta curve, ma ben tenuta.
In una di queste occasioni feci il contrabbandiere senza saperlo. Nella spesa fatta a Marfa,
che si trovava in una contea diversa da Fort Davis, avevo comprato una cassetta di bottiglie di
birra, che caricai sull'auto della segretaria. Non avevo il minimo sospetto che la contea di Fort
Davis fosse dry, cioé che vi fosse rigorosamente vietata la vendita e l'importazione di alcoolici
sia pure per uso personale. Così, quando scaricai la mia cassetta, la segretaria si mise le mani nei
capelli, dicendo che se ci avessero scoperti avremmo passato un guaio serio.
Anche questa era per me una cosa incomprensibile; ma mi spiegarono che negli Stati Uniti
ogni contea ha le sue proprie leggi e i suoi divieti e che perfino negli aerei, quando si sorvola una
Livio Gratton – 142
contea in cui è vietato fumare, la hostess invita i viaggiatori a spegnere le sigarette. Non so se
queste abitudini, per noi alquanto strane, continuano ancora oggi.
Oltre a me e Struve, c'erano nell'Osservatorio due astronomi europei, un danese, di nome
Rudkjöping, ed un belga, Van Hoof, con i quali mi trovai molto bene. A me era stato assegnato
come tempo per le osservazioni un paio d'ore subito dopo il tramonto e un altro paio d'ore prima
dell'alba. Inoltre, durante la settimana di luna piena avrei avuto tutte le notti intere per quello che
consideravo il mio lavoro più importante, per il quale avrei impiegato il grande spettrografo
coudé.
Struve mi consigliò di verificare lo stato dello spettrografo durante le giornate che
mancavano alla luna piena, perché lo strumento era stato smontato recentemente per ricoprire
tutte le superfici delle lenti e dei prismi con uno strato antiriflettente allo scopo di migliorarne il
rendimento e dopo di allora non era stato più impiegato. Questo mi diede molto da fare e mi
ridusse quasi alla disperazione, quando scoprii che gli spettri erano fortemente astigmatici e per
quanto facessi non riuscivo ad ottenerne di buoni come volevo.
Ricordo che Struve, quando vide gli spettri meno difettosi che avevo potuto ottenere, mi
disse che gli sembravano perfetti e cosa volevo di meglio? “Voi, europei, siete incontentabili!”
aggiunse. Ma io non ero soddisfatto e intanto i giorni passavano, finché si giunse ad un sabato ed
il giorno dopo, domenica, dovevo incominciare le mie osservazioni.
Nel pomeriggio ero rimasto solo nell'Osservatorio, perché tutti si erano presi una vacanza per
il week–end, e ne approfittai per mettere in atto un tentativo, che avevo immaginato avendo
scovato in un ripostiglio un cannocchialetto, come quello di un piccolo teodolite, ed un prisma a
riflessione totale. Mettendo in pratica gli insegnamenti che mi erano stati dati a Roma dal buon
Rasetti, che voleva che i suoi studenti sapessero utilizzare anche mezzi di fortuna, riuscii a
costruire nell'officina un aggeggio che, infilato attraverso uno sportello nel fianco dello
spettrografo e fissato con un morsetto alla sua parete, mi permise di vedere come erano disposte
la lente ed i prismi. Trovai immediatamente quale era il guaio: la lente era stata montata male,
forse da un tecnico che non conosceva bene lo spettrografo – che era del tipo Littrow in
autocollimazione, un dispositivo un poco inconsueto – ed era un poco obliqua rispetto all'asse.
Con il mio aggeggio improvvisato non mi fu difficile riportare la lente nella posizione
corretta; gli spettri divennero immediatamente perfetti e il giorno dopo Struve dovette
riconoscere che la mia testardaggine nel cercare un risultato veramente soddisfacente era
giustificata. Le osservazioni riuscirono molto bene, favorite anche da un tempo splendido.
Durante gli ultimi giorni della mia permanenza al McDonald, avendo atteso invano una
risposta dal Presidente del CNR, scrissi a La Plata, accettando il posto che mi era stato offerto.
Mi giunse anche una buona notizia dal Console di Chicago: finalmente la mia borsa di studio era
arrivata; mi inviava intanto una piccola somma sufficente alle mie necessità fino al ritorno a
Williams Bay. Nel ringraziarlo gli scrissi pregandolo di prenotarmi un passaggio su qualche nave
per l'Europa, perché intendevo anticipare il mio ritorno. Il lavoro che mi ero proposto di fare
negli Stati Uniti era ormai ultimato e non vedevo l'ora di riabbracciare i miei cari. Inoltre volevo
partecipare al Congresso dell'Unione Astronomica Internazionale, che si sarebbe tenuto a Zurigo.
L'amico Kuiper mi aveva frattanto scritto invitandomi a partecipare al Congresso annuale
della Società Astronomica del Pacifico, che si doveva tenere a Pasadena e offrendomi di fare il
viaggio in automobile con lui e sua moglie; nell'occasione del Congresso si doveva anche
inaugurare il grande telescopio di 5 metri del M. Palomar. Accettai di buon grado e per il viaggio
si aggiunse a noi anche Van Hoof.
Viaggio di un astronomo – 143
Incontrammo i Kuiper ad Albuquerque nel New Mexico ed insieme proseguimmo per
Pasadena attraversando l'Arizona ed il Colorado. Fu un viaggio indimenticabile in mezzo a
panorami stupendi, con soste a Flagstaff e al famoso Meteor Crater. Io ero molto allegro
pensando al prossimo ritorno in Italia e la compagnia era quanto mai piacevole.
A Pasadena conobbi molti astronomi che conoscevo per fama e
presentai anche il lavoro su e Andromedae, che ero riuscito ad
ultimare al Mc Donald. Al Monte Palomar incontrai tra gli altri
Walter Baade, con cui però era difficile comunicare, perché il suo
inglese era quasi incomprensibile.
Durante il viaggio di ritorno feci una breve sosta a Williams Bay,
dove terminai il lavoro iniziato con Struve, e poi a Boston. Qui
ritrovai un amico italiano, l'astronomo Luigi Jacchia, e conobbi il
fisico Bruno Rossi, che lavorava al Massachussetts Institute of
Technology e con il quale ebbi molti rapporti vari anni dopo.
Entrambi avevano dovuto lasciare l'Italia per le leggi razziali e si
erano stabiliti definitivamente negli Stati Uniti.
La traversata sopra un piroscafo francese fu tranquilla e
piacevole in compagnia con alcuni colleghi, i quali viaggiavano sulla
stessa nave per partecipare al congresso dell'Unione Astronomica
Internazionale. Appena sbarcato a Le Havre presi immediatamente il
Bruno Rossi
treno per Milano e il giorno dopo riabbracciai a Merate Margherita,
la mamma ed i bambini, ciò che di più caro avevo al mondo.
migranti. Ci furono da varie parti tentativi per trattenerci in Italia. Il “Corriere della
Sera” inviò Cesco Tomaselli ad intervistarmi e pubblicò un articolo sul mio caso a
proposito della “fuga dei cervelli” dall'Italia. Il Presidente del CNR mi invitò nella sua
villa di Biella, per discutere con lui la possibilità di rimanere, ma io non potei far altro che dirgli
che ora era troppo tardi; perché non aveva risposto alla mia lettera dagli Stati Uniti?
Gli amici Orsoni e Zacchi mi offrirono una consulenza ben remunerata presso una industria
milanese, che mi avrebbe lasciato libero di continuare il mio lavoro scientifico, pur risolvendo i
nostri problemi economici. Sono loro assai riconoscente per questo, ma dovetti pregarli di far
avere l'incarico all'amico Krüger dopo il suo ritorno dal Monte Wilson. Krüger lo ottenne
effettivamente e divenne un esperto dell'industria cartaria; qualche anno dopo lasciò
l'Astronomia per occuparsi unicamente della sua attività industriale. La convivenza con il nuovo
Direttore di Brera gli era risultata impossibile.
Quando ancora mi trovavo negli Stati Uniti, gli amici della Democrazia Cristiana mi avevano
sollecitato perché accettassi la candidatura alla Camera dei Deputati e l'on. Mario Martinelli, che
era il segretario provinciale, era venuto a pregare Margherita di convincermi ad accettare, con la
quasi certezza di essere eletto; nella provincia di Como e specialmente in Brianza allora la DC
aveva la maggioranza assoluta. Margherita aveva risposto ringraziando, ma che se anche avessi
avuto ambizioni politiche, essa avrebbe fatto di tutto per dissuadermi dal seguirle! E
naturalmente aveva ragione.
La partenza per l'Argentina fu fissata per la seconda metà di dicembre. Nel frattempo
avevamo molte cose da decidere; la più importante era quella di cosa avrebbe fatto la mamma; io
E
Livio Gratton – 144
temevo che forse in un paese così lontano non si sarebbe trovata bene, non foss'altro che per la
diversità della lingua.
Naturalmente ognuno di noi fratelli sarebbe stato felice di averla con sé; perciò di comune
accordo decidemmo di lasciarla libera di scegliere se seguirci in Argentina oppure rimanere con
Italo o con Giulio. La mamma scelse l'Argentina quasi come fosse per lei la cosa più naturale.
Era stata sempre con me e, tra le nuore, Margherita era la più vicina a lei nel modo di sentire e
concepire la vita.
Poco dopo inaspettatamente a Giulio fu offerta l'opportunità di trasferirsi anche lui in
Argentina come Direttore generale di una Compagnia di Assicurazioni associata alle Generali,
raggiungendo così l'apice della sua carriera. Di fatto arrivò a Buenos Aires qualche settimana
prima di noi. Il pensiero che avremmo avuto lui ed i suoi abbastanza vicini – da Buenos Aires a
La Plata c'è solo un'ora di treno – ci confortò un poco del dolore di doverci allontanare da tante
persone care.
Lasciavamo a Roma papà Roberto e le sorelle di Margherita, Italo con i suoi e, a Milano, gli
zii Ottorino e Giuditta con Ottorino jr – già laureato in medicina ed in via di diventare un molto
apprezzato specialista in ortopedia – e Gustavo con la sua famigliola, oltre a vari amici e
colleghi: separazioni dolorose, ma la guerra ci aveva abituati a ben altro. Inoltre eravamo ancora
abbastanza giovani da considerare con ottimismo questi eventi e forse – io per lo meno – non ne
soffrimmo tanto quanto i nostri cari e come noi stessi soffriamo attualmente per la separazione di
quelli fra i nostri figli e nipotini, che vivono lontano in vari luoghi d'Italia, in Argentina e negli
Stati Uniti e rivediamo solo nelle Feste natalizie o per le vacanze estive.
Facemmo una breve visita ai nostri cari di Roma e Italo venne poi a Merate per abbracciare
la mamma, che non avrebbe più riveduta; mi sembra ancora di vederlo ripartire triste e silenzioso
in una grigia giornata autunnale e anch'io mi domandavo se quella fosse l'ultima volta che
salutavo il mio amato fratello.
Naturalmente i bambini erano eccitatissimi all'idea del grande viaggio di mare e di andare in
un paese nuovo. Insieme con Giulietto e Robertino ci mettemmo a studiare lo spagnolo in
un'ottima grammatica che avevo comperato a Pasadena; in effetti al nostro arrivo a Buenos Aires
noi tre ed anche Margherita parlavamo già abbastanza correntemente questa lingua, che per gli
italiani è molto facile da apprendere. La mamma non l'apprese mai; diceva che se parlava in
dialetto triestino tutti la capivano!
Portavamo con noi solo la camera da letto e alcuni oggetti che avevamo ricevuto in dono
all'atto del matrimonio e si erano salvati dal naufragio causato dalla guerra. Ma con i denari
forzatamente risparmiati dalla mia borsa negli Stati Uniti e con l'anticipo inviatomi da La Plata
comprammo vari capi di vestiario, ed anche qualche oggetto domestico, che mi avevano detto
erano in Italia di qualità molto superiore e a minor prezzo di quelli che si potevano trovare in
Argentina.
Fu per me un gran divertimento accompagnare Margherita nei negozi di Milano, insieme con
la zia Giuditta, ed assistere con non poco compiacimento alle prove; anche le commesse dei
negozi ammiravano la figura elegante di Margherita e non volevano credere che fosse madre di
cinque bambini. La zia insistette perché Margherita comprasse un costume da bagno “due pezzi”
– un Bikini, si diceva allora – che acquistammo effettivamente, ma Margherita non indossò mai.
C'erano poi varie faccende burocratiche da sbrigare: passaporti, visti e perfino un permesso
del Provveditorato alle Belle Arti, perché portavamo con noi vari quadri di mio fratello Italo.
Durante una gita a Como per queste pratiche ci fermammo a salutare alcuni amici del partito ed
Viaggio di un astronomo – 145
il Sindaco Terragni volle assolutamente averci a colazione con lui; la Signora fu di una
gentilezza squisita e volle che Margherita accettasse come ricordo il dono di un taglio di seta di
un gusto raffinatissimo per un abito da sera. Ricordo queste persone con grande simpatia e molti
anni dopo fui lieto di incontrare uno dei figli di Terragni durante una conferenza tenuta a Como.
Il taglio di seta, trasformato in abito da un'abile sarta di Milano, fu per molti anni l'unico capo di
lusso del guardaroba di Margherita.
Io avevo chiesto al Ministero un permesso di due anni per motivi di studio per assicurarmi un
eventuale ritorno nel caso che la permanenza in Argentina non corrispondesse alle speranze. Per
i primi di dicembre tutto era pronto e la partenza fu fissata intorno alla metà del mese.
Dovevamo imbarcarci a Genova sull'Andrea C, un piroscafo di 20.000 tonnellate – se ricordo
bene – il quale era una delle navi “Liberty”, costruite in serie durante la guerra per il trasporto di
truppe dagli Stati Uniti all'Europa e trasformato in seguito in piroscafo per passeggeri.
Il giorno prima della partenza ci fu un incidente, che ci diede qualche preoccupazione. I
bambini, che come ho detto erano eccitatissimi per la prospettiva del viaggio, sfogavano la loro
esuberanza rincorrendosi per le stanze ormai vuote e, come accade quando i bambini si sfrenano,
Roberto cadde e si fratturò un braccio. Dovemmo portarlo subito all'ospedale di Merate dove gli
ingessarono il braccino, ma l'ingessatura era troppo stretta e la notte il bambino non poté dormire
per il dolore. Il giorno dopo, approfittammo della sosta a Milano per fargli rifare l'ingessatura da
Ottorino jr, che era ormai un esperto ortopedico, e tutto ritornò nella normalità di questi casi;
Roberto dovette viaggiare con il braccio ingessato, ma ciò non gli impedì di giocare sul ponte
con i fratellini, tanto che il gesso divenne così lurido che nel tratto tra Rio de Janeiro e
Montevideo dovetti toglierglielo.
Il viaggio di una ventina di giorni fu ottimo, ma i bambini e soprattutto Margherita soffrirono
molto per il mal di mare; gli unici a cavarcela un pò meglio fummo io, la mamma e Roberto.
Quando arrivammo a Rio, Margherita era divenuta irriconoscibile, tanto era sciupata; non aveva
quasi toccato cibo e aveva sempre avuto un gran da fare con i bambini più piccoli, mentre io
tenevo a bada i più grandi. E anche dopo, la traversata del golfo di Santa Catalina fu alquanto
penosa.
Nel piroscafo si festeggiò il Natale ed anche il Capodanno del 1949 e cercammo di fare un pò
d'allegria ai bambini; in verità erano loro a ridarci serenità con la loro esuberanza infantile, come
fu in seguito, quando nelle circostanze in cui le famiglie sogliono riunirsi, la nostalgia per la
nostra Italia e la mancanza dei nostri cari si facevano sentire più acutamente.
Erano trascorsi poco più di dieci anni dal nostro matrimanio, ma sembrava fosse trascorsa
tutta una vita. Avevamo attraversato uno dei periodi più travagliati della storia. Avevamo avuto
anche noi le nostre traversie, ma ne uscivamo arricchiti di esperienza e soprattutto il nostro
amore era divenuto più forte e maturo. Malgrado l'incertezza che ci presentava la vita in un paese
nuovo e diverso eravamo fiduciosi di saper affrontare il futuro e confidenti nella Provvidenza,
che non ci aveva mai abbandonato.
A Buenos Aires trovammo ad attenderci Giulio ed i suoi cari ed anche un funzionario
dell'Osservatorio, che ci facilitò molte operazioni e ci portò anche il primo stipendio argentino.
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Livio Gratton