Anno XX1X, 1/30 aprile 2008, n. 8 13 LA RIVISTA DELLA SCUOLA culturali BENEDETTO CROCE N E L L A C U LT U R A I TA L I A N E e istituzionali FUNDARÒ fu voluto dai plebisciti. Ma poiché questo re, sia pure per debolezza di volontà e per essersi lasciato sopraffare, e condurre ad atti ai quali spontaneamente non sarebbe giunto, ha violato per oltre vent’anni lo Statuto, è evidente che la sovranità sua non è più legittima, e che per avere una sovranità legittima, pur conservando la monarchia costituzionale è necessaria una reggenza, o, come altri pensa, una luogotenenza fino al giorno in cui l’intero popolo italiano liberamente deciderà sulla forma di Stato da adottare o da serbare. Tutto ciò io dico senza ira e senza odio, e anzi col dolore grande di un vecchio e fedele monarchico, che non ha mai messo la monarchia sopra l’Italia, ma certamente aveva nel suo animo congiunto l’una a l’altra”. Ci sembra che senza giustificato motivo nel ’46 alcuni giornali scrivessero che “il senatore Croce è un monarchico truccato da agnostico”. Perciò senza reticenze e con estrema chiarezza Egli ha ribadito questa sua posizione, e a quell’accusa ha appunto risposto dichiarando ancora una volta quell’atteggiamento che sempre uguale possiamo desumere in molte circostanze. “…Nel mio dire e nel mio comportarmi non c’è trucco di alcuna sorta. Tutti sanno che, aprendo fin dall’ottobre 1943 la polemica per l’abdicazione del Re, che poi diede luogo, per l’aiuto apportatoci da Enrico De Nicola, ad un’azione diplomatica per ottenere come si ottiene, che il Re si allontanasse nominando un suo luogotenente, io sempre distinsi la questione della persona da quella dell’Istituto, e sempre affermai il mio convincimento che all’Italia giovasse mantenere la figura del monarca come simbolo di unità nazionale e di stabilità statale. Perfino ciò sostenni pertinacemente, fra le grida ‘Viva la Repubblica’”. La convinzione della giustezza e della bontà dell’atteggiamento favorevole alla monarchia costituzionale è esposta con lucidità e chiarezza in un articolo pubblicato ne “La libertà” di Napoli, il 30 marzo 1944, in polemica con quanti sostenevano la necessità dell’abolizione dell’Istituto monarchico e con riferimento ad un famoso articolo “Le roi costitutionnel” scritto da Delfina Gay sul Courrier de Paris. Il Croce contesta l’autorità del Mazzini, alla quale fanno riferimento i nuovi propugnatori della repubblica e in polemica con la scrittrice francese così afferma: “in verità la monarchia costituzionale fu un’opera d’arte, e non già una contraddizione e neppure un compromesso, ma una sintesi felice tra la libertà e un’autorità che la libertà stessa pone e limita, tra la necessità delle discussioni e dei contrasti sociali e politici e il bisogno di un’istanza superiore ai partiti che serbi e attesti l’unità e la continuità della storia e della vita nazionale e la faccia sentire e valere nelle crisi inevitabili. Un re costituzionale non è l’infelice torturato e avvilito che l’autrice nel suo articolo viene descrivendo, ma colui che mantiene l’equilibrio, il rappresentante della geniale sintesi politica maturatasi nell’Inghilterra del se e settecento e perfezionata nell’Europa della prima metà dell’ottocento”. Egli, che proponeva la reggenza a seguito dell’abdicazione del Re Vittorio, accettò di buon grado la luogotenenza e fu lui a proporre alla Giunta esecutiva del Congresso di Bari, riunita proprio a casa sua il 6 aprile 1944, l’accettazione di essa frutto dell’opera svolta dal De Nicola, come sopra abbiamo detto. La Giunta all’unanimità l’accettò, chiedendo però che essa avesse effetto immediato e non alla liberazione di Roma, come il Re volle, quando il Re il 12 aprile successivo confermò la sua risoluzione “irrevocabile”, i rappresentanti dei sei partiti, compreso Togliatti per i comunisti, accettarono di collaborare in un nuovo ministero politico presieduto da Badoglio. Fu proprio il Croce a sottoscrivere il programma del Governo, sebbene fosse opera collettiva. Quando a distanza di pochi giorni il Principe di Piemonte, già designato luogotenente generale del regno, concesse un’intervista al corrispondente del Times, giudicata molto inopportuna, perché nell’insieme addossava la responsabilità della guerra al popolo italiano, fu Croce a rispondere a giudicarla “molto severamente, perché ha mosso (in me) indignazione per l’offesa verità”. E con parole ancor più crude aggiunge: “Il vero è che la responsabilità di quella guerra ricade tutta sul signor Mussolini e per esso sul Re. Il quale non da ora, violando o lasciando violare la costituzione, ha preso l’aria del re costituzionale che obbediva alla volontà del popolo, e ha giocato sulla nominale esistenza di una Camera e di un Senato e sulla costituzionalità della milizia di partito o del Gran Consiglio Fascista, tenendo un contegno che io, che pur certo di risparmiare anche questa volta parole troppo forti che mi salgono alle labbra, debbo definire ipocrita. Il principe che purtroppo non ha dato mai segno, in 22 anni, di scostarsi dal fare paterno, ripete ora questi detti del Re, e li ripete in un momento in cui, allontanato il re e designato lui luogotenente dovrebbe provvedere a vincere la sfiducia e la diffidenza che si ha verso di lui dai partiti democratici come da mia parte speravo e auguravo. Riversare sul proprio popolo e le proprie colpe e i propri errori non mi par degno.Vecchio monarchico come sono sento ciò con dolore, vedendo come i monarchi stessi lavorino a distruggere l’idea monarchica”. Appare in queste ultime parole la sincerità con cui il Croce sente la monarchia costituzionale e come egli cerchi sempre di scindere l’istituto della persona del monarca, che può, come in effetti a lui appariva in quegli anni (e non a lui solo ma alla maggioranza del popolo italiano!), essere indegno del suo altissimo ufficio di moderatore della vita pubblica nel rispetto della libertà e della costituzione. Ma nell’atteggiamento di Croce verso la monarchia non c’è l’incaponimento di chi ad ogni costo brama il trionfo di una sua idea contro il sentire le posizioni della maggioranza, che in un regime di libertà democratica deve avere il sopravvento. Egli, monarchico fervente e convinto, vuole che ci si rimetta alla volontà della maggioranza, disposto ad accettare il responso popolare e nella qualità di presidente del partito liberale, propose che il partito non prendesse una posizione ufficiale attraverso una dichiarazione di fede monarchica da parte di tutti gli iscritti, in quanto “Il partito liberale ha la sua idea direttiva unicamente nella libertà, la quale è superiore alla forma della repubblica come alla forma della monarchia, e, secondo le condizioni storiche, si è servita ora dell’una ora dell’altra”. Sappiamo come fu accusato di gnosticismo e come il partito volle votare intorno a ciò e nella sua maggioranza si dichiarò monarchico. Egli riteneva sterile di effetti politici un deciso orientamento su quella questione ed una votazione: “Odo parlare di non so quale agnosticismo… con l’accusa che ci viene mossa per la determinazione da noi adottata circa il problema che si chiama istituzionale, il dilemma che dappertutto risuona di monarchia o repubblica... La libertà può essere rispettata e protetta alla pari da una repubblica o da una monarchia, e può essere insidiata e sopraffatta alla pari dall’una o dall’altra.” La sua posizione di monarchico, sostenitore della Casa di Savoia, lo portò alla polemica e non gli risparmiò colpi: nell’articolo “Richiamo al buon metodo della storia. La storia della Casa di Savoia”, pubblicato nel “Risorgimento liberale” di Roma del 4 ottobre 1944, egli volle respingere la estraneità della Casa di Savoia nella storia d’Italia, affermata da Luigi Salvatorelli in un opuscolo, pubblicato a cura del Partito d’Azione, e già prima sostenuta in un altro opuscolo dal Borgese. Dall’America rispose Borgese su “L’Italia libera” di New York del 16 dicembre del ‘44 , con un articolo abbastanza pesante non solo contro il Croce, ma contro tutta la politica di destra sostenitrice della permanenza della monarchia in Italia. Già il Salvatorelli aveva scritto su “Italia libera” di Roma che “il lungo articolo di Benedetto Croce è, non nella lettera, ma nello spirito, polemica ispirata dal desiderio di troncare, nelle presenti circostanze, una discussione sul “mito sabaudo”; ma il Borgese passa in rassegna l’attività di Croce di tutto quel periodo, al governo Badoglio, a quello di Bonomi, alle dimissioni da questo, ricercando le ragioni di tali dimissioni, che ritiene siano dovute al duro trattato di pace; a questo proposito anzi scrive: “Se questo è vero (cioè rifiutarsi di avallare la propria firma già data piegandosi agli ordini di Churchill quando faceva parte del Governo Badoglio), quelle dimissioni, - e comunque le cose che ripetutamente e pubblicamente disse in seguito all’armistizio – lo alzano ad eminenze men grigie; lo distinguono con onore dagli altri, e specialmente da Sforza”. Ma aggiunge a proposito della posizione verso la monarchia: “Invece, dalla tesi monarchica nulla e nessuno è valso a muoverlo. Anzi, fallita la Fronda, o reggenza oligarchica, ci si è abbrancato sempre più pugnace”, se irriducibile è la sua avversione a Re Vittorio altrettanto tenace è il suo attaccamento alla Monarchia. Egli non risparmia colpi a Vittorio Emanuele III ma ribadisce più tenacemente l’attaccamento all’istituto monarchico. Aveva scritto che “I monarchici italiani, e il popolo italiano nella grande maggioranza, restarono meravigliati quando il Re aprì il varco all’insediamento del fascismo; ma tanta era la fiducia in lui, nella fede da lui sempre professata nella libertà, che pensarono che egli fosse ricorso a un espediente straordinario e transitorio, ma che dominasse la situazione”. E. Tagliacozzo scrive: “L’attaccamento di Croce all’istituto Il cannone di Isabella la cattolica al giardino degli Invalidi a Parigi, 1972, Foto di Robert Doisneau monarchico lo ha portato fino al punto di non esprimere una sola critica… contro l’atteggiamento del fedele servitore del Re, Badoglio… si astiene dal criticare Badoglio anche a disastro avvenuto, dopo che Badoglio era fuggito insieme coi suoi generali e col suo Re, aveva tradito le popolazioni e le truppe e le aveva lasciato in balia dei tedeschi, e non aveva saputo organizzare la resistenza ai tedeschi”. Fermo e convinto monarchico come del resto gli imponeva la sua tradizione di conservatore borghese e liberale, accettò democraticamente il responso del Referendum e dopo la proclamazione della Repubblica non riprenderà più l’argomento oramai chiuso e, diremmo estraneo, alla sua attività di studioso, allontanatosi già dalla politica attiva, anche da quella di presidente del Partito Liberale, dalla quale si dimise con il discorso del 30 novembre 1947. Croce e il Liberalismo n un famoso saggio il Croce affermava che “la concezione liberale, propriamente detta, (…) in verità è metapolitica, supera la teoria formale dell’etica, e coincide con una concezione totale del mondo e della realtà”. Nel saggio “Contro la troppa filosofia politica” egli scriveva che “la teoria idealistica della realtà e della storia, poiché più dialettica, è liberale; e riconosce, con la necessità della lotta, l’ufficio e la necessità di tutti i più diversi partiti e degli uomini più diversi”. Mentre da una parte il fascismo conculcava i più sacri diritti della libertà, distruggendo ogni forma di libertà, il filosofo approfondiva sempre più i concetti della concezione della libertà come fondamento di vita e di attività politica.Abbiamo già citato il discorso che egli fece come presidente del partito liberale, e abbiamo fatto cenno ai continui rapporti che egli manteneva con gli esiliati politici, particolarmente con Sforza e Nitti a Parigi, con quegli uomini coraggiosi cioè che si erano opposti al regime dittatoriale in nome di un diritto inalienabile che è la libertà; ora osserviamo come man mano che continuava il regime fascista, egli, chiuso nelle sue meditazioni, passava da un liberalismo che potremmo dire sentimentale ad una concezione più meditata, chiarendo a se stesso le ragioni del suo liberalismo “mostrando le patenti di nobiltà della dottrina liberale e fondandola storicamente”: nella Storia d’Italia veniva ribadito il tratto fondamentale della concezione liberale, per cui la libertà non è “un concetto borghese o di classe” ma “il campo con grandi e secolari fatiche spianato e assicurato dai maggiori spiriti dell’età moderna per lo svolgimento civile e l’incessante umanamente dell’uomo”. “Questo concetto - aggiunge il De Caprariis – che sottraeva l’ideale liberale alle mutevoli sorti della vita politica per porlo come la molla stessa della vita dell’uomo, era nella storia italiana post-risorgimentale mostrato in “re ipsa” profondo e fecondo poiché in quella storia l’ideale riusciva ricostruito nelle sue vicende ed illuminato”. Perché egli aveva concepito e scritto quella sua storia – la storia d’Italia – come un libro di battaglia contro il potere dittatoriale; di rivendicazione del pensiero e dell’azione liberale, nella cui sfera si era fatta la terza Italia e si era sviluppata fino all’aprirsi del primo grande conflitto mondiale”. Non appena la scomparsa del dittatore permette la riorganizzazione dei partiti e la possibilità di esprimere liberamente ogni personale atteggiamento, senza il timore di essere perseguitati per questo, nella villa di Sorrento il detto antifascista, capo morale dell’opposizione al regime in nome della libertà, viene raggiunto dalle “premurose sollecitazioni degli amici politici napoletani, i quali lo riconoscono e riveriscono capo del rinnovato partito liberale e corrono da lui ogni volta che c’è da prendere una importante decisione”. Non è compito di questa indagine dai limiti ben precisi, addentrarsi sul concetto filosofico di libertà e sulla evoluzione di esso nelle varie fasi del pensiero crociano attraverso vari decenni, lavoro questo del resto compiuto con approfondimenti dall’Onufrio nei tre capitoli “Verso la nuova teoria della libertà” – “Liberalismo e liberismo” – “Essenza etica del liberismo” della sua “La politica del pensiero” di B. Croce, già citata. È interessante osservare, tuttavia, come l’attività politica del Croce nell’ultimo decennio della sua vita altro non è che l’attuazione, o per meglio dire il tentativo di applicazione pratica di quei concetti filosofici della libertà che egli andava maturando attraverso i numerosi saggi di quegli anni. Anche la polemica Croce Einaudi muoveva da un’esigenza teoretica che si rifletteva nella pratica, nella definitiva distinzione tra liberalismo e liberismo, essendo questo una teoria economica e quello una teoria eticopolitica, il primo non legato ad istituzioni o a sistemi economici particolari, il secondo invece legato ad una situazione storica contingente. La nuova teoria liberale poggia tutta sulla identificazione della libertà con la stessa coscienza morale e, logicamente, giunge ad una netta distinzione tra liberalismo e liberismo, che è una pura concezione economica, anche se tra le due concezioni non I