5. Ruolo della formazione nel lavoro di cura di Mariagrazia Santagati L’analisi del capitale culturale delle assistenti familiari – ovvero del titolo di studio conseguito in patria – consente di sviluppare molteplici riflessioni relative alla formazione, intesa come vincolo nel caso in cui le immigrate non ottengano in Italia il riconoscimento del proprio percorso formativo svolto all’estero, ma anche come risorsa e strategia per migliorare la propria condizione lavorativa e socioeconomica nel contesto d’immigrazione. Lo studio dei processi migratori evidenzia che gli immigrati presenti in Italia sono, in larga maggioranza, altamente qualificati, ma inseriti in settori lavorativi subalterni: i migranti sono pertanto investiti da processo di mobilità discendente a livello professionale, che si traduce in una perdita di risorse umane importanti per lo sviluppo del nostro paese, in cui si utilizzano e si sfruttano al minimo le competenze degli immigrati 1 . Anche le prospettive per il futuro ap1 Alcuni autori sottolineano l’imperfetta trasferibilità internazionale del capitale umano, aspetto evidenziato da ciò che accade ai migranti le cui competenze acquisite nei percorsi scolasticoformativi o sul lavoro non risultano rilevanti nel mercato del lavoro delle società di accoglienza. Chiswick e Miller (2007) applicano allo studio dei processi migratori le teorie elaborate nell’ambito della letteratura su overeducation/undereducation, in cui si sostiene che ogni occupazione nel mercato del lavoro corrisponde e richiede un certo livello di istruzione, necessaria per un risultato soddisfacente nel lavoro. Nonostante ciò, ci possono essere lavoratori con un livello di istruzione superiore (overeducated) o inferiore (undereducated) a quello richiesto dalla loro professione. L’esistenza di tali discrepanze e del “mismatch” tra formazione e occupazione, per quanto riguarda gli immigrati, possono essere compresi a partire dalle seguenti spiegazioni: una carenza di informazioni sul mercato del lavoro caratterizza i neo arrivati nei primi anni di residenza in un nuovo contesto nazionale; gli immigrati hanno notevoli difficoltà nell’utilizzo sia dell’istruzione ottenuta nel paese d’origine sia dell’esperienza lavorativa pregressa (due aspetti che costituiscono il capitale umano) nella società di accoglienza, anche se nel tempo l’acquisi- 232 paiono vincolate dai processi di integrazione subalterna attuati in Italia, al punto che è improbabile prevedere un aumento di qualificazione per tali soggetti – in quanto donne e immigrate e perciò da inserire in una posizione marcatamente subordinata (Andall, 2000) – e una collocazione in altri contesti di lavoro. I dati del questionario, approfonditi con i dettagli offerti dai testi delle interviste, consentono di articolare l’analisi su due livelli: - a partire dai punti di vista delle donne, che oscillano tra la volontà di far riconoscere il proprio bagaglio di competenze e uno scarso interesse nell’investimento in formazione; - approfondendo la dimensione macro-strutturale, collegata all’organizzazione del lavoro di cura (che spesso non consente la frequenza di corsi di qualifica) e alle pratiche di riconoscimento dei titoli di studio in Italia 2 . Per le donne un grande ostacolo da superare è proprio costituito dalla non equipollenza dei titoli ottenuti in patria che, spesso, non sono riconosciuti nel nostro paese. Pertanto, esse devono decidere se integrarli con ulteriori studi oppure rinunciare a ogni tipo di riconoscimento della qualifica posseduta. 1. Status socioculturale e professionale delle assistenti in patria Le donne del campione, che svolgono il lavoro di cura, possiedono titoli di studio medio alti (Tab. 1) 3 . Elevata è la percentuale delle laureate (il 19% cirzione di nuove competenze (linguistiche, lavorative) permette di colmare la distanza tra livello di istruzione effettivo e reale; l’incidenza dell’overeducation tra gli immigrati è vincolata al livello di sviluppo, soprattutto per quello che concerne le tecnologie, dei paesi di origine e di destinazione; il livello di istruzione è un mezzo attraverso il quale il lavoratore segnala e certifica le sue competenze, tuttavia, tra gli immigrati non è così chiaro stabilire e connettere le competenze con il titolo di studio. 2 Nel disegno di legge delega del 24 aprile 2007 di modifica della disciplina dell’immigrazione si prevede anche la promozione di specifiche azioni formative e di riconoscimento delle professionalità pregresse nel campo del settore domestico e dell’assistenza, nonché l’istituzione di liste nei paesi d’origine per lavoratori stranieri che intendano migrare in Italia, in cui tenere conto del grado di conoscenza della lingua italiana, dei titoli e della qualifica professionale posseduta, dell’eventuale frequenza di corsi di istruzione e di formazione professionale nei paesi d’origine. 3 Alcuni dati relativi al capitale culturale delle donne che hanno risposto al questionario e delle assistenti intervistate sono riportati nel capitolo introduttivo della seconda parte del volume che ricostruisce il percorso metodologico dell’indagine e che ha l’obiettivo di presentare i tratti distintivi del campione. 233 ca): nella specificazione delle facoltà frequentate, emerge un gruppo considerevole di laureate in ingegneria (20), in economia (10), nelle discipline umanistiche (21) – in particolare scienze dell’educazione – e nelle discipline scientifiche come agraria, biologia, medicina (14). Nove sono le donne laureate in medicina, infermeria, farmacia, facoltà che risultano essere attinenti al lavoro di assistenza. Tab. 1 - Titolo di studio e nazionalità delle donne del campione Nessuna scuola 5,1 1,9 Altri paesi europei 5,6 7,1 1,4 5 Fino alla scuola primaria 12,3 16,5 16,7 25 30 18,8 Fino alla scuola superiore 46,4 69,9 56,7 58,9 60 56,2 Fino all’università 35,5 21,1 21,1 8,9 8,6 19,6 Totale 100 100 100 100 100 100 Ucraina Romania Maghreb America Latina Tot N = 484, V di Cramer = 0,192 Le diplomate, inoltre, sono più rappresentate tra le giovani donne (al di sotto dei 30 anni), mentre le laureate sono maggiormente presenti tra le ultracinquantenni: per quanto riguarda le provenienze, tra le latinoamericane e le maghrebine sono presenti donne con titoli di studio più bassi, le rumene sono in larga maggioranza diplomate, mentre rilevante è la componente di ucraine laureate (Tab. 2) 4 . Per quanto riguarda la parte qualitativa dell’indagine, tra le 50 intervistate, circa la metà (26) sono le donne in possesso di qualifiche o di un diploma di scuola superiore, 13 hanno compiuto degli studi di base (corrispondenti alla licenza media in Italia), 11 sono in possesso di una laurea o di una specializzazione post diploma. Tra coloro che hanno bassi titoli di studio, alcune non hanno 4 Sebbene all’estero le ucraine vivano una condizione di evidente declassamento rispetto al proprio livello di istruzione e alle proprie aspettative, in patria raggiungono un notevole innalzamento delle proprie condizioni socioeconomiche, grazie alle elevate possibilità economiche che garantiscono i risparmi accumulati attraverso il lavoro all’estero. Da un’indagine su un campione di 2.060 ucraini presenti in 14 regioni italiane, si conferma un livello di istruzione molto elevato (il 36,5% del campione è laureato), come attestano anche le professioni precedentemente svolte: insegnanti, economisti, ingegneri, medici, infermieri (Shehda, Horodetstsky, 2004). 234 continuato la loro formazione a causa del matrimonio in giovane età e della nascita dei figli, costrette ad entrare precocemente nel mondo del lavoro e ad abbandonare gli studi da problemi di tipo economico, proprio per l’impossibilità di sostenere il costo elevato di scuole private – che appaiono spesso le uniche che garantiscono una formazione di qualità in alcuni paesi in via di sviluppo. Tab. 2 - Numeri indice relativi a titolo di studio e nazionalità Altri paesi europei 112 142 America Latina 28 88 132 159 100 104 106 45 43 Ucraina Romania Nessuna scuola 102 38 Fino alla scuola primaria 65 87 Fino alla scuola superiore 82 124 Fino all’università 181 107 107 Maghreb Ho studiato fino alla seconda media. Volevo prendermi la terza media da privatista, però con i figli come fai? O guardavo i miei figli o andavo a scuola (9). Ho lavorato a casa mia e non ho continuato gli studi perché mancavano i soldi. Sono cari gli studi laggiù. Per esempio gli studi in commercio, in soldi italiani sono 250 euro per sei mesi. Tra pagare l’appartamento, mangiare, roba della scuola, mettiamo ancora 250 euro, insomma 750 euro per sei mesi. Però da noi quei soldi lì sono tanti, nessuno ti arriva con quei soldi lì, solo un ricco, e i genitori che non hanno lavoro non ce la fanno a pagare. Ogni anno paghi di più: se vai in prima paghi meno, se già vai in seconda paghi di più (14). Il livello di istruzione costituisce un elemento di differenza tra le intervistate straniere e italiane intervistate che svolgono il lavoro di assistenza, così come confermato anche da altre ricerche (Miletto, 2004). In genere, anche le italiane hanno vissuto un’esperienza di migrazione interna dal sud al nord Italia, ma la maggior parte di loro è stata costretta dal contesto familiare, caratterizzato da ristrettezze economiche e molte rinunce, a sacrificare anche le cose più essenziali, in primo luogo l’istruzione che è passata forzatamente in secondo piano, rispetto alle esigenze prioritarie della famiglia. La maggior parte delle donne straniere, invece, nonostante le difficoltà economiche in cui si trovavano i loro paesi d’origine, sono riuscite a concludere un percorso di studi, talvolta arrivando alla laurea, sostenute dalle famiglie e favorite, ad esempio nei paesi dell’ex Unione Sovietica, da sistemi scolastici statali efficienti e gratuiti. 235 Per definire lo status socioeconomico delle donne immigrate, è necessario considerare il rapporto tra titolo di studio posseduto e il lavoro svolto nel paese d’origine rilevato dalla domanda “nel suo paese ha svolto il lavoro per cui aveva studiato?” (Tab. 3). Quasi la metà delle donne del campione dichiara di non aver svolto in patria la professione per cui si era formata: i limiti dei mercati del lavoro locali nel garantire l’occupazione a risorse umane di alto livello rappresenta uno dei nodi dello sviluppo. Ciò conferma il fatto che, a partire dal proprio paese sono in genere i soggetti qualificati, poiché mancano per loro adeguate opportunità di lavoro: anche un titolo di studio elevato non costituisce infatti una garanzia di successo professionale, non offre tutele e non protegge dalla “fame”, poiché non riesce a garantire un livello salariale sufficiente per la sussistenza. Nel mio paese non si trova lavoro, anche se studi tanto. Ma posso dire che il mare è bello, anche il sole. Ma se non hai soldi come fai a prendere il sole? Anche se il sole non costa, io ho fame (2). Se ero nel mio paese, potevo fare anche la segretaria. Ho fatto il liceo e mi avevano fatto l’offerta per un asilo. Ma solo che mio marito pensava che qua possiamo prendere di più, ma se io lavoro giù e lui lavora giù siamo “spiritualmente” più tranquilli e più felici che qui. Invece con un solo stipendio qua, riesci solo a sopravvivere, giù anche con due stipendi non hai soldi come qua, ma sei diversa, hai i tuoi è diverso. Lui dice che in Albania con uno stipendio non cambi macchina qui sì… hai altre possibilità: un operaio qui può guadagnare 1200 euro, giù in Albania 300 (16). Tab. 3 - Corrispondenza tra titolo di studio e lavoro svolto nel paese d’origine Si FA 240 % 47,7 No 232 46,1 Non risponde 31 6,2 Totale 503 100 In generale, non esiste una corrispondenza tra titolo di studio e lavoro svolto nel paese d’origine per il 46% del campione e soprattutto per le donne più giovani, meno istruite, provenienti dal Maghreb e dall’America Latina; al contrario, le donne dell’Europa dell’est si collocano maggiormente nel gruppo di coloro che hanno svolto la professione per cui avevano studiato (47,7%): hanno 236 un’età più elevata e un titolo di studio medio alto (diploma o laurea), già svolgevano al paese d’origine un lavoro qualificato e rispondente al proprio percorso formativo. Dalle interviste, emerge l’esperienza di chi ha esercitato per anni il lavoro per cui si era formata, ma anche la situazione di coloro che non hanno cercato o trovato lavoro, per dedicarsi alla famiglia o perché non c’erano opportunità; oppure il percorso di donne che non hanno trovato collocazione adeguata al loro titolo di studio, adattandosi a svolgere lavori meno qualificati. Ho fatto l’istituto per progettare in Romania, una formazione dopo il liceo scientifico di tre anni, nel campo di progettare, di costruzione di macchine pesanti… In Romania è un “sotto ingegnere”. Ho lavorato 25 anni facendo progetti (32). Io lavoravo come infermiera, quasi come dottore per tutto il paese, io ho servito tutto il paese. Solo le malattie più gravi che non potevo fare niente, io chiamavo l’ambulanza. Venticinque anni ho lavorato. Adesso è tardi per riconoscere il titolo, da tanto tempo ho lasciato questo lavoro (37). Ho studiato da fisico-matematico, ma non ho mai potuto esercitare perché ero madre di famiglia (3). I dati specifici sulle professioni svolte al paese d’origine permettono di delineare con più precisione lo status socioculturale e professionale delle donne in patria 5 : operaie (26%), impiegate (22%), disoccupate (13%) e insegnanti (9%) costituiscono le componenti principali di un campione che manifesta solo una minima propensione al lavoro domestico e di assistenza: su livelli percentuali inferiori, si collocano le professioniste altamente qualificate e le dirigenti. Nel complesso, i gruppi più significativi – a livello di numero di casi (Tab. 4) – riguardano operaie e disoccupate con titoli di studi bassi (che si inseriscono in un ceto operaio poco qualificato), operaie, impiegate e disoccupate con un livello medio di istruzione (un ceto medio che si colloca nelle professioni impiegatizie, ma che è anche a rischio di disoccupazione e di inserimento in professioni non corrispondenti al proprio livello di istruzione); laureate che si dividono principalmente tra il ceto impiegatizio e la disoccupazione (ma che 5 Dati dettagliati sulle professioni svolte dalle donne del campione nel paese d’origine sono presentati nel capitolo dedicato alla metodologia d’indagine. 237 difficilmente riescono a entrare in ceto più elevato). Questi gruppi costituiscono circa il 57% del totale del campione. Considerando ancora il titolo di studio e le provenienze, si può notare che impiegate e insegnanti sono le donne più qualificate, in genere laureate e provenienti dall’Ucraina; le operaie e le disoccupate si concentrano di più tra rumene, da un lato, e maghrebine, dall’altro, che hanno frequentato per lo più le scuole primarie. Tab. 4 - Tra lavoro e formazione: i gruppi più rappresentativi a livello numerico Operaie con una scolarizzazione di base FA 32 Operaie diplomate 70 Impiegate diplomate 67 Impiegate laureate 34 Disoccupate con una scolarizzazione di base 32 Disoccupate diplomate 30 Disoccupate laureate 23 È importante sottolineare, al termine di questa analisi sui percorsi formativi e professionali nel paese d’origine, che titolo di studio e professione svolte dalle donne in passato offrivano un’identificazione in un preciso status socioculturale, in genere medio alto. In Italia, invece, il mancato riconoscimento degli studi pregressi e la collocazione lavorativa presso le case degli anziani, con una mobilità discendente notevole e una drastica riduzione di status, provoca il venir meno dell’identificazione socio-lavorativa e culturale. Si verifica così una sorta di “retrocessione”, in cui le migranti possono essere riconosciute solo come donne, con un’occupazione da donne che non è considerata come un vero e proprio lavoro ma quasi una vocazione naturale, un compito che tutte le donne sanno assolvere in modo innato. L’identità di genere diventa l’unico riferimento e appiglio per riconoscersi ed essere riconosciute nel presente dell’esperienza migratoria e lavorativa, identità che si rafforza mediante l’assunzione di una responsabilità familiare a distanza nel ruolo di madre e di nonna. 238 2. Il riconoscimento della formazione pregressa Una domanda chiave del questionario (“in Italia le interessa far riconoscere il suo titolo di studio?”) rileva la propensione delle assistenti familiari al riconoscimento del proprio titolo di studio in Italia 6 . Il 58,4% del campione non ha interesse nel far riconoscere la propria formazione pregressa (Tab. 5), perché ha un progetto temporaneo di migrazione e pensa di tornare in patria: il processo viene percepito come troppo costoso, complesso e lungo – se non impossibile – nonché inutile data l’impossibilità di trovare un lavoro adeguato al proprio titolo di studio. Credono poco al riconoscimento della formazione svolta in patria, coloro che hanno un’età avanzata, non intendono rimettersi in gioco a livello formativo, ma si accontentano di continuare a svolgere il lavoro di assistenti familiari. Tab. 5 - Interesse al riconoscimento del titolo di studio in Italia No FA 294 % 58,4 Si 169 33,6 Non risponde 40 8 Totale 503 100 Al contrario, l’interesse al riconoscimento del titolo di studio – espresso dal 33,6% del campione – cresce all’aumentare degli anni di residenza in Italia, in quanto è frutto di una riflessione che scaturisce dal radicamento sul territorio italiano, dal progetto di restare in Italia e di ricerca di miglioramento professionale. Approfondendo le motivazioni alla base di tali atteggiamenti, si possono prendere in considerazione le proposte di alcune donne del campione in una domanda aperta del questionario che esplorava le motivazioni alla base della scelta di far riconoscere il proprio titolo di studio: la possibilità di lavorare nel 6 A tale proposito, la Provincia di Torino, in collaborazione con l’Università, ha prodotto una guida indirizzata ai cittadini stranieri e finalizzata alla diffusione della conoscenza delle pratiche amministrative necessarie al riconoscimento dei titoli di studio, considerato una premessa per un accesso al mondo del lavoro meno discriminante (Provincia di Torino, Università degli Studi di Torino, 2004). 239 proprio campo e l’aspirazione ad un miglioramento complessivo della propria condizione di vita rappresentano le spiegazioni più plausibili. Inoltre, si percepisce tra le intervistate con un elevato capitale culturale, un disinteresse al riconoscimento del titolo di studio, che si spiega attraverso differenti motivazioni, le quali subordinano la realizzazione della donna ad un progetto di benessere familiare: - il tempo di vita della donna in Italia è riempito totalmente dal lavoro, l’unico vero motivo che giustifica e spiega la migrazione e la permanenza nel contesto d’immigrazione; - il progetto migratorio femminile è finalizzato al miglioramento della qualità della vita della famiglia rimasta in patria, cui sono sacrificate e subordinate le esigenze personali e la qualità del lavoro e di vita della donna in Italia; - l’obiettivo della migrazione consiste nel guadagnare molto nel più breve tempo possibile e la propensione all’auto-sfruttamento della donna è favorita, talvolta, dall’atteggiamento di datori di lavoro senza scrupoli; - scarsa è l’importanza attribuita alla realizzazione e alla gratificazione delle donne sul lavoro, nell’ambito di un progetto migratorio temporaneo in cui si è disposte ad accettare qualsiasi condizione; - l’età avanzata e la scarsa volontà di informarsi sull’equipollenza dei titoli di studio sono alcune delle resistenze personali, che impediscono un processo di miglioramento, per lo meno a livello formativo; - anche le caratteristiche dell’offerta di lavoro per le immigrate (ad esempio, la facilità di collocarsi nell’ambito del lavoro di assistenza agli anziani) e una domanda che risente delle difficoltà di trovare altri tipi di lavoro, più rispondenti al proprio titolo di studio, limitano i percorsi di riconoscimento formativo e di riqualifica. Non ho il tempo per il riconoscimento della laurea, dovrei fare due anni per far valere il mio titolo di studio. Per due anni chi fa mangiare i miei figli? Chi mantiene mia madre? Cerco di far studiare loro che un domani possano far valere lo studio, io già adesso sono vecchia (50). Sarebbe bello poter frequentare corsi di preparazione, ma finché i miei figli studieranno e finché la nonna vivrà io non potrò. Per me non c’è più futuro (3). Altro lavoro non si trova, è il più facile che ho trovato questo lavoro, lo so fare da quando sono piccola. Un altro lavoro, non me lo permette la legge. Io che sono laureata in economia e commercio, devo fare dall’inizio, dalle medie, poi le superiori. 240 Però per fare questo, qualcuno deve mantenermi, con i bambini che ho, è impossibile fare un’altra vita (43). Vorrei riconoscere il mio titolo, ma mi dicono che devo iniziare da zero (4). Ho la laurea in ingegneria industriale conseguita in Perù. Bisogna essere realisti: se lo faccio riconoscere, è difficile trovare lavoro, mi conviene rimanere solo OSS (8). Voglio tornare in patria il più presto possibile, far valere la laurea qua è difficile, ci vuole molto tempo e soldi e non vale la pena fare tanti sacrifici per poi lavorare un anno o due e già dover tornare laggiù (19). In alcuni casi, la dura realtà della migrazione trasforma i progetti iniziali delle donne: arrivate per motivi di studio in Italia, ben presto abbandonano il percorso universitario per lavorare nell’assistenza agli anziani. Si assiste così alla rinuncia della ricerca di un lavoro che offra soddisfazioni e faccia sentire realizzate come persone. Il guadagno e i soldi creano, talvolta, una sorta di dipendenza e diventano “una droga” per le donne, ma anche per i figli e la famiglia rimasti in patria, per cui si continuano ad accumulare risparmi dimenticando gli obiettivi iniziali della migrazione, un atteggiamento che può condurre a situazioni paradossali. Infatti, quando si parte, il progetto è quello di tornare a casa con i soldi necessari a raggiungere gli obiettivi che ci si è preposte; quando si hanno i soldi per tornare, sono passati lunghi anni e, talvolta, non si ha più una famiglia che aspetta il proprio rientro. La migrazione intesa come progetto strumentale e temporaneo di lavoro e di guadagno crea, così, abitudini negative, cui difficilmente si riesce a rinunciare: i mezzi, in un meccanismo di rovesciamento, diventano il fine ultimo del progetto migratorio – ovvero i soldi come valore in sé – giustificando la permanenza lunga in Italia ed elevando la capacità di sopportazione di un “cattivo lavoro”, sfruttato, pesante e con pochi diritti. Non sono venuta in Italia per fare questo lavoro. In Costa d’Avorio ho fatto il liceo scientifico, la mia strada era quella di studiare per fare il medico o il farmacista. Purtroppo si sa dove si nasce, ma non dove si finisce e mi sono trovata qua. Ero venuta in Italia per continuare gli studi. In Costa d’Avorio avevo dato gli esami per poter andare all’università, ma non ho neanche aspettato i risultati. Poi ci sono stati problemi burocratici, perché non avevo il visto e dovevo tornare in Costa d’Avorio, ma non c’era la sicurezza che riuscissi a tornare qua per continuare a studiare. Purtroppo è andata così (24). 241 Ho un sentimento ambiguo, soddisfazione e frustrazione allo stesso tempo. Da una parte sono soddisfatta che sono riuscita ad aiutare questa povera donna che stava molto male, era molto grave e adesso si trova in condizione stabile. Credo che è anche merito mio. Sono contenta quando mi sorride, mi fa capire che sta bene, quando mi sta aspettando guardando dalla finestra. Però da un’altra parte come posso essere soddisfatta, quando so benissimo delle mie possibilità di svolgere un lavoro più intellettuale, più complicato, che ti da più soddisfazione e chi ti rende più utile. Io sono laureata in lingue, in passato insegnavo lingua e letteratura russa. Ma la più grande soddisfazione del lavoro che svolgo adesso è la possibilità di aiutare la mia famiglia con i soldi che guadagno (19). Ho lavorato 25 anni come infermiera. Non mi interessa il riconoscimento del titolo, io ho già 50 anni, parlo male la lingua italiana. Ciascuna viene qua con un obiettivo, il mio è di lavorare e di tornare. Ma sai come dicono i nostri: prima vieni qua e non hai con cosa tornare, poi hai i soldi quando guadagni, ma non hai più da chi tornare. I figli si abituano che i genitori mandano i soldi, comprano un appartamento, una macchina, si abituano con “mamma mandami dei soldi”. Poi i genitori tornano in vacanza laggiù, ma già sono abituati con questa vita, con questo modo di avere e dare i soldi e tornano in Italia comunque, diventa come una droga. Quello che ti voglio dire è che sono lavori con cui puoi vivere ma lavori insopportabili (12). 3. Competenze, capacità e bisogni formativi Le riflessioni diventano proposte concrete, quando si analizzano le variabili del questionario relative al ruolo della formazione nel lavoro di cura, alle competenze e alle capacità necessarie per svolgere l’assistenza agli anziani, ai bisogni formativi che esprimono le assistenti, aspetti da porre alla base della progettazione di un qualsiasi percorso formativo e di qualificazione. Una quota considerevole del campione – il 43% – riconosce la necessità di una formazione per svolgere tale lavoro (Tab. 6): si tratta di soggetti a cui possono essere rivolte specifiche politiche di formazione e di riqualificazione e, per tale motivo, è importante individuare le donne che sarebbero disponibili a formarsi e comprendere i fattori da cui dipende questa disponibilità. Le donne che riconoscono la necessità di una formazione sono anche quelle più disponibili a frequentare percorsi di formazione sull’assistenza, mentre se si considera il proprio lavoro temporaneo tale esigenza non è riconosciuta, anche se si è consapevoli che attraverso la formazione si potrebbero comunque mi242 gliorare le condizioni del proprio attuale lavoro. Per quanto riguarda il titolo di studio (Tab. 6), si tratta di donne che non hanno studiato in patria – hanno i titoli di studio più bassi – e che manifestano l’intenzione di ricongiungere i propri figli in Italia (38,8%). Il lavoro di cura nel nostro paese viene considerato come una prospettiva professionale stabile dalle donne con uno status socioeconomico basso, le uniche ad essere interessate ad un percorso di riqualifica e formazione in tale campo. Tab. 6 - Propensione a riconoscere la necessità di una formazione, in base a progetto di lavoro e titolo di studio Cambiare lavoro Formarsi sull’assistenza Si 48,3 62,1 Fare lo stesso lavoro 27,3 No, basta l’esperienza Bisogna lavorare e non c’è tempo per formarsi Altro 29,7 16,6 48,7 34,7 17,9 17,9 22,5 19,7 1,4 0,7 1,6 1,2 Non risponde 2,8 2,8 0 1,4 100 Scuola primaria di base 31,9 100 100 100 Scuola superiore Università Tot 47,3 37,1 43 41,5 31,6 40,2 34,7 22,3 19,6 20,6 19,7 2,1 1,1 0 1,2 Totale (V di Cramer = 0,284) Si No, basta l’esperienza Bisogna lavorare e non c’è tempo per formarsi Altro Non risponde Totale (V di Cramer = 0,128) Tot 43 2,1 0,4 2,1 1,4 100 100 100 100 N casi = 503 Mi interessa far riconoscere il titolo di studio per conoscere. Mi piace sapere più di tutto, anche in Italia, perché nessuno dice “io so tutto” e basta, nessuno lo può dire questo, cercare qualcosa di imparare, dico, tutto cambia e non mi basta quello che so (49). 243 Oltre la metà del campione, invece, risponde negativamente e non riconosce la necessità di una formazione, adducendo motivazioni differenti: l’esperienza femminile nella cura e la possibilità di sperimentarsi direttamente nel lavoro senza formazione (34,7%), ma anche la mancanza di tempo – completamente impegnato dal lavoro – e il bisogno di lavorare (19,7%) che costituisce il motivo primario della migrazione, sono le giustificazioni dell’assenza di esigenze formative. Le donne non costituiscono l’unico soggetto che possa avere un interesse alla formazione, ma il possesso di competenze certificate per lavorare nella cura può essere richiesto dagli anziani stessi e dalle loro famiglie. Tuttavia, parlare di formazione come referenza richiesta all’assunzione dalla famiglia significa ragionare in termini ideali piuttosto che di pratiche concrete: in realtà, le famiglie generalmente non considerano la formazione un elemento discriminante al momento dell’assunzione o un aspetto da privilegiare nel valutare la propria collaboratrice. Infatti, i 3/4 delle donne del campione sono state assunte dalla famiglia, senza che venisse richiesta una formazione specifica, a testimonianza che gli elementi considerati riguardano aspetti della personalità e fisici (dolcezza, pazienza, robustezza) e aspetti economici (costo contenuto del lavoro). Solo il 21,1% ha riscontrato nei fatti l’interesse dei datori di lavoro verso una valutazione positiva di specifiche competenze acquisite attraverso un percorso certificato (Tab. 7). Tab. 7 - Richiesta della famiglia di formazione, al momento dell’assunzione No FA 375 % 74,6 Si 106 21,1 Non risponde 22 4,4 Totale 503 100 Altre ricerche confermano che le famiglie non cercano una lavoratrice con un alto profilo professionale, ma una persona dotata di qualità umane ritenute fondamentali, quali pazienza, onestà, gentilezza, calma (Ambrosini, 2005a): si tratta di personale possibilmente poco radicato, senza figli, senza coniuge, socialmente isolato e senza troppe pretese. È evidente che, il fatto che si tratti di un lavoro “invisibile e sommerso ha come diretta conseguenza la sottovalutazione dei requisiti di qualità delle prestazioni erogate, ridotti alla disponibilità a 244 un impegno continuo, intenso e flessibile, in quanto “è difficile pensare che un lavoratore sfruttato e asservito riesca a svolgere bene il suo lavoro” (Zanfrini, 2005, p. 273). L’inserimento nel settore lavorativo dell’assistenza agli anziani risulta così “facile, veloce, immediato”, proprio perché non sono necessari titoli di studio o competenze – neppure linguistiche – ma solo buona volontà e pazienza: per le famiglie quello che conta è trovare una persona brava ed educata, anche se non formata. Questo atteggiamento evidenzia che, nell’ambito delle politiche formative per le assistenti, è necessario agire su livelli diversi: sensibilizzare le donne alla necessità di formarsi – presentando i vantaggi della formazione e i rischi di una certa superficialità nell’affrontare le conseguenze fisiche e psicologiche di tale lavoro – può non bastare se non si promuove tra le famiglie e gli anziani una ricerca di cura di qualità, anche se la formazione spesso ha un costo economico da sostenere. Per questo lavoro non c’è bisogno di età o altro, la cosa importante è avere pazienza (1). Al momento del mio arrivo in Italia mi trovavo in una grande difficoltà economica, quindi avevo bisogno subito di un lavoro, e questo era un lavoro che si poteva trovare più facilmente, non occorreva far valere qualche titolo di studio e neanche parlare molto bene l’italiano (19). Ad esempio se io devo prendere una badante per qualche mio parente, posso trovare una persona brava, educata, che fa tutto, però… anche la badante è un lavoro, perciò per farlo secondo me si deve studiare qualcosa per forza (45). Occorrerebbe fare corsi brevissimi, su vari argomenti che siano utili per affrontare le situazioni reali che ci si ritroverà ad affrontare, che non riguardino unicamente le badanti, ma anche le famiglie. Fare informazione e formazione (Focus group, Asti). La prevalenza dell’esperienza pratica su un percorso certificato di formazione è confermato dal fatto che il 48% delle donne afferma di aver imparato il proprio mestiere da sola (Tab. 8), affrontando l’assenza di una preparazione professionale specifica grazie al possesso di un sapere pregresso, tipicamente “femminile”. Circa il 20% delle donne, inoltre, ha appreso il mestiere da amiche connazionali o altre assistenti. 245 Ho imparato da sola guardando le altre, me la sono sempre cavata con le persone anziane, bisogna sapere come girarle come prenderle. Comunque uno guardando impara. Studiare? Ma… io ho imparato dagli altri. Sarebbe utile una qualificazione. Se io sapessi come medicare una persona lo farei anche, non mi fa senso, questo mi piacerebbe saper fare (9). Tab. 8 - Attori e agenzie di socializzazione professionale delle assistenti Ho imparato da sola FA 245 % 48,7 La famiglia 63 12,5 Le amiche connazionali 61 12,1 L’assistente precedente 54 10,7 L’anziano 39 7,8 Un corso 6 1,2 Altro 17 3,4 Non risponde 18 3,6 Totale 503 100 Un ulteriore 20% ha imparato dalla famiglia o direttamente dall’anziano, ovvero dai datori di lavoro: il loro ruolo è stato fondamentale per le donne nell’apprendimento della lingua italiana e per le istruzioni concrete offerte rispetto al lavoro da svolgere (pulizia, cucina, igiene personale, ecc.). Anche in questo caso la socializzazione lavorativa è avvenuta in maniera informale e non intenzionale, mentre i percorsi formalizzati e riconosciuti di formazione non hanno rappresentato una via d’ingresso privilegiata in questa nicchia del mercato del lavoro, considerata come risposta ad un bisogno urgente di lavorare e non certo una responsabilità lavorativa per la quale è necessario essere formate. Ho sentito che adesso fanno dei corsi in comune per fare la badante e mi pare che è molto buono perché tante volte uno senza esperienza lo fa per bisogno, ma non se ne rende conto che è una responsabilità molto grossa. È buono avere qualche conoscenza, qualche studio per svolgere meglio il lavoro (50). Riconoscere un bisogno di formazione per il lavoro di assistenza agli anziani può talvolta tradursi nella disponibilità a frequentare concretamente un corso, come emerge nella tabella 9. La misura di tale propensione, attraverso una 246 domanda specifica del questionario, aiuta a circoscrivere ancor meglio il gruppo di donne interessate alla formazione (circa il 40% del campione). Tab. 9 - Disponibilità a frequentare un corso di formazione per assistente No FA 281 % 55,9 Si 202 40,1 Non risponde 20 4 Totale 503 100 È evidente che la volontà di formarsi è legata ai progetti di vita e di lavoro dei soggetti, che assumono un significato specifico all’interno del percorso migratorio e dell’elaborazione del proprio vissuto di migrazione: il 56% circa delle donne, che ha in prevalenza un progetto temporaneo di migrazione, non manifesta un’intenzione e una disponibilità alla formazione e le conseguenze problematiche di questo atteggiamento negativo sono molteplici per tutti i soggetti coinvolti – lavoratrici, anziani e famiglie. Le donne disponibili a frequentare un corso riconoscono la necessità di una formazione sul proprio lavoro e sono interessate al riconoscimento dei titoli di studio: considerano il lavoro di assistente agli anziani un lavoro definitivo e per questo intendono migliorare la propria professionalità attraverso una specifica formazione. Tra di esse sono maggiormente rappresentate le più giovani – provenienti dall’Africa, dall’America Latina e dall’Europa dell’Est (anche se non ucraine) – che intendono riunire la propria famiglia in Italia. Le donne che non intendono frequentare un corso di formazione, invece, non pensano di far riconoscere in Italia il percorso formativo svolto in patria e considerano l’esperienza come l’unica vera modalità formativa: sono rassegnate a svolgere il lavoro di assistente agli anziani, senza riuscire a migliorare la propria condizione di lavoro. Sono donne non più giovanissime, intenzionate a tornare in patria e scarsamente interessate alla cittadinanza italiana. Tra di esse, il gruppo prevalente è costituito dalle donne ucraine. Alcune intervistate, descrivendo il processo di integrazione nel nostro paese, narrano di aver frequentato in Italia corsi di formazione relativi all’assistenza: esse credono nella formazione continua e permanente per aumentare le proprie competenze sul versante sociosanitario. Alcune lavoratrici hanno avuto modo di frequentare corsi di formazione per operatrici socio-sanitarie (OSS) o simili, 247 ma tale opportunità è stata vincolata da numerosi fattori (tempo libero, opportunità lavorative redditizie e parallele, buona conoscenza della lingua) e non risulta alla portata della maggior parte delle donne impiegate in questo settore, anche perché il modo in cui è organizzato e percepito questo tipo di lavoro, non promuove un investimento in ambito formativo (Ambrosini, 2005a). Inizialmente ho fatto un po’ di pulizie in questa cooperativa, mi hanno fatto la proposta di fare lavanderia, stiratura, cucina. Poi mi hanno chiesto di fare assistenza, visto che ero già nell’ambiente e così ho fatto un po’ di tempo questa assistenza che adesso viene richiesto questo patentino OSS. Tra poco inizio il corso, ci saranno cose nuove sulla teoria, sulla pratica so già come fare (22). Il nostro corso OSS è diverso da quello fatto in ospedale in cui la parte medica è più accentuata, noi l’abbiamo fatta in maniera leggera e va perfezionata. Quando sono arrivata, c’era mio fratello che già studiava qui. Prima ho fatto il corso di lingua per poter comunicare e poi dopo, non avendo documenti era difficile lavorare in fabbrica o in un altro posto, quindi ho iniziato a lavorare in una famiglia. Nel frattempo ho scoperto che mi piaceva fare questo lavoro e mi sono iscritta al corso Adest (24). Ho imparato da sola, ma poi ho fatto un corso di Adest che mi ha dato una preparazione. Sarebbe necessario che le persone che svolgono questo tipo di lavoro abbiano una preparazione, perché il rischio è che si ammalino. Tutti possono fare questo lavoro, solo che devono essere consapevoli di quello che stanno per fare, ma le persone che cercano lavoro non guardano certe cose (5). Le donne sottolineano l’importanza di una campagna di educazione, di sensibilizzazione e di informazione che coinvolga la società civile nel suo complesso, proprio per creare consenso e accordo nei confronti della formazione, evitando ricatti e pressioni da parte delle famiglie che avrebbero un interesse nel mantenere le donne nell’ignoranza. Sarebbe utile fare formazione, perché tutti quelli che fanno questo lavoro hanno alcune lacune. Bisogna coinvolgere l’autorità del luogo per fare una campagna d’informazione, per dare formazione. Bisogna anche vedere se i datori di lavoro sono d’accordo perché avrei paura che inizino dei ricatti, perché a loro basta che noi sappiamo solo il necessario (6). 248 Bisognerebbe trovare una quadra perché è difficile che chi è qui lasci il lavoro per andare studiare, bisognerebbe riconoscere che alla persona che sta lavorando ore di formazione per potersi preparare, ma il datore dovrebbe essere consapevole (5). Sarei disposta a fare un corso di formazione, soprattutto quello di OSS, perché mi piacerebbe lavorare in ospedale e cambiare la mia vita (1). Ho fatto la scuola per operatrice tecnico-assistenziale. Penso che una continua formazione sia necessaria per svolgere il lavoro. È però difficile conciliare il lavoro con le ore di lezione. A me personalmente potrebbe essere utile un’ulteriore formazione sul versante sanitario e sociale, anche in vista di poter operare con utenti con handicap o malati psichiatrici o minori (7). La predisposizione a frequentare un corso di formazione è spiegata da differenti motivazioni. Tale disponibilità nasce con l’obiettivo principale di migliorare la qualità del lavoro di cura, ma di certo un corso di formazione può costituire un’opportunità per accrescere il proprio capitale culturale – per donne con un basso livello di istruzione – e sociale – per soggetti che sono particolarmente isolati nel contesto italiano. Bisogna chiedersi allora: in che cosa consiste tale miglioramento offerto dalla formazione? Ed inoltre si può migliorare la qualità del lavoro di assistenza agli anziani con corsi ad hoc senza trasformare la natura di questo lavoro? Ci troviamo di fronte a un discorso di stabilità del lavoro, di una professione, tra virgolette. Se questa situazione delle badanti deve perdurare, bisogna superare la precarietà e bisogna andare incontro a qualcosa che stabilizza la situazione, che lo fa diventare un lavoro stabile (Focus group, Novara). La questione è: che formazione diamo? Hanno provato con qualcuno a fare il primo modulo OSS. Conseguenza: hanno mollato tutti di fare la badanza, sono andate a fare il secondo modulo e il terzo modulo e sono andate a lavorare in una struttura. Presso le famiglie le badanti hanno funzionato finché non è stato riconosciuto il permesso di soggiorno, in quel momento lì hanno mollato la famiglia e questi hanno ripreso un’altra badante irregolare (Focus group, Cuneo). La declinazione concreta dei corsi di qualifica per assistenti familiari deve fare i conti con i problemi di conciliazione tra orari di lavoro e tempo per la formazione: bisogna tenere presente che nel nuovo contratto per assistenti familiari sono previste 40 ore annue di permessi retribuiti per la frequenza di cor249 si di formazione, mentre i corsi attuali che vengono realizzati in Piemonte sono di circa 200 ore. Nel complesso, le preferenze delle donne, a livello di orario (Tab. 10), oscillano tra il pomeriggio (per quelle che hanno ore libere in questa fascia oraria) e nel dopo cena: tuttavia, alcuni studi sottolineano che la domanda di formazione non si esprime, se non viene richiesta direttamente dai datori di lavoro prima dell’assunzione. Per tale motivo viene suggerito di svolgere una formazione precedente all’inserimento lavorativo e non in corso (Mesini, Pasquinelli, Rusmini, 2006). Tab. 10 - Orari preferibili per il corso di formazione Dopo cena FA 72 % 36,2 Pausa cena 14 7 Pomeriggio 84 42,2 Pausa pranzo 12 6 Mattina 17 8,6 Totale 199 100 La formazione potrebbe essere utile, inoltre, se svolta già nel paese d’origine, al fine di favorire un’immigrazione selezionata, qualificata e regolare, garantita da un processo di informazione e formazione trasparente, orientato ad un preciso inserimento lavorativo nell’ambito del lavoro di cura. Ma se questo è un progetto Equal, mi sto chiedendo perché non si passa a fare un collegamento con altre nazioni per la formazione nel paese d’origine? Per cui fanno formazione là, acquisiscono l’attestazione là, con i nostri insegnanti, con modelli che ci sono qui e quindi quando fanno domanda arrivano regolari perché hanno acquisito là un titolo spendibile qui. In termini di integrazione europea e in termini filosofici del progetto Equal, questo potrebbe essere un indirizzo interessante. Io so che parecchie scuole di formazione stanno prendendo contatti a livello europeo con vari enti per poter impiegare la formazione sui vari campi. Ma perché si pensa sempre debbano venire a fare i muratori, gli idraulici, gli elettricisti? Potrebbe essere interessante attivare, nei centri di formazione professionale e nel mondo della formazione, anche alle scuole. Ma perché non troviamo dei meccanismi con cui facciamo formazione là? In maniera tale per cui quando vengono, arrivano su richiesta precisa con un titolo spendibile. È così che fai integrazione e il progetto è davvero un 250 progetto di carattere europeo, se no ragioniamo sempre esclusivamente a livello umano (Focus group, Alessandria). Molte intervistate ribadiscono la necessità di non intaccare, con i corsi, il tempo per il riposo, proprio per evitare l’eccessivo stress, il sovraccarico fisico e psicologico, tenendo piuttosto in considerazione l’esperienza maturata sul campo, le competenze legate ai propri titoli di studio, mediante modalità di formazione a distanza, proprio per ridurre la durata dei percorsi formativi. Bisogna che il comune, lo stato diano dei contributi per questa formazione che può essere anche di domenica. Ma sarebbe importante non toccare il giorno di riposo di queste ragazze altrimenti non ce la farebbero ad andare avanti. Bisogna farlo nelle ore di lavoro e così non fanno il bum! (5). È stato un anno un po’ duro, pesante, perché andavo da lunedì fino a giovedì al corso (41). Mi piacerebbe fare come ha fatto la mia collega delle 360 ore: lei andava a scuola due pomeriggi a settimana e ha potuto continuare a lavorare, però so che la regione non vuole più farli questi corsi di riqualifica, che tengono conto dell’esperienza maturata. Io non so, certo che se sarò costretta farò le 1000 ore, vuol dire perdere un anno di lavoro. Mi ero informata, ma mi vedevo costretta a licenziarmi, ho detto se poi non posso più lavorare allora sarò obbligata. Se uscisse una riqualifica la farei al volo (18). La difficoltà è che per far venire queste persone a questo percorso si lasciavano scoperti gli anziani, onde per cui nell’esperienza che stiamo facendo chiediamo alla cooperativa di fornirci le sostituzioni e poi cerchiamo di creare un gruppo di lavoro che interagisca, in modo tale da dare anche una dignità a questo lavoro perché chi fa questo lavoro qui non debba smettere dopo domani (Focus group, Cuneo). Quando una persona si inserisce in una prospettiva di formazione nutre aspirazioni di miglioramento del proprio lavoro: considerato di scarso valore in quanto poco qualificato, attraverso la formazione il lavoro di cura può essere riconosciuto professionalmente e rispettato socialmente. Alcune indicazioni in proposito emergono dagli aspetti che dovrebbero essere privilegiati, secondo le donne, in un corso di formazione, proprio perché individuati come carenti nella propria esperienza lavorativa (Tab. 11). Nell’ambito di una progettazione formativa, sarebbe possibile ipotizzare un unico percorso di lunga durata che ap251 profondisca alcuni aspetti più significativi e rilevanti, ma anche brevi corsi ad hoc che rispondano ad uno specifico bisogno di formazione. Tab. 11 - Aspetti da privilegiare in un corso di formazione 56,9 Non risponde 13,5 100 60,4 13,5 100 24,7 61,6 13,7 100 Insegnamento dell’italiano 23,1 63,4 13,5 100 Tecniche di mobilizzazione 16,7 69,8 13,5 100 Igiene della persona 10,5 75,9 13,5 100 Conoscenza cultura italiana 9,3 77,1 13,5 100 Alimentazione 2,8 83,7 13,5 100 Cura della casa 2,6 83,9 13,5 100 Si No 29,6 26 Conoscenza del contratto Ambito infermieristico Conoscenza servizi sociali e sanitari Tot N = 503 Le persone vanno formate. Io devo insegnare a questa badante cosa vuol dire dar da bere, come si fa ad alzare una persona ammalata, senza far fatica né io che mi rompo la schiena, né far male a questa benedetta persona. Cosa vuol dire uscire con lei, perché li vedi a tutte le ore del giorno e della notte, sotto il sole cocente… vedi questi anziani che fanno una fatica terribile. Capire che cosa vuol dire dar da mangiare ad un anziano, se non può masticare, perché quando vai a fare la spesa… l’altro giorno un anziano diceva alla badante “basta cavoli basta cavoli”. Cosa mangia un anziano, come si fa la minestrina, qual è l’ufficio in cui bisogna andare per portare una pratica (Focus group, Cuneo). In primo luogo sarebbe necessario (Tab. 11), secondo le donne del campione, apprendere competenze nell’ambito infermieristico: il programma dei corsi della Regione Piemonte, tuttavia, non prevede tali aspetti, poiché il corso integra alcuni saperi propri degli operatori sociali e certifica competenze di aiuto domestico, supporto ed accompagnamento della famiglia e della persona 7 . Nel 7 I corsi per assistenti familiari, finanziati dalle province, attraverso fondi messi a disposizione dalla Regione Piemonte, si collocano nell’ambito del primo modulo del corso per OSS (in cui si inserisce il corso “elementi di assistenza familiare”). Per quanto riguarda il profilo professionale, l’operatore svolge in famiglia attività indirizzate a fornire aiuto ed assistenza all’assistito, capaci- 252 profilo dell’assistente, è prevista, ad esempio, la gestione di situazioni di emergenza sanitaria, la somministrazione di farmaci o interventi di primo soccorso nei confronti dell’anziano, ma sempre in una stretta collaborazione con le altre figure professionali che si occupano della salute dell’anziano. L’importanza attribuita agli aspetti infermieristici potrebbe alludere al fatto che queste donne desiderano, in realtà, cambiare lavoro, qualificando e professionalizzando il loro ruolo nella cura agli anziani. Tra di esse, sono soprattutto le più giovani (2030 anni) ad esprimere un bisogno formativo, che si traduce nella professionalizzazione come assistenti familiari o in altri ruoli lavorativi. A volte mi dico se studio italiano, forse faccio l’infermiera o qualcosa. Ormai adesso ho esperienza a fare queste cose, sono capace anche a mettere la flebo, perché ho lavorato tanto con gli anziani. Viene il dottore che mette per me la flebo, ma mi dice “guarda quando finisce questa, metti l’altra”. Ho imparato ma bisogna studiare per forza (36). Io lavorando come assistenza avrei bisogno di corso come infermiere OSS (15). tà che apprende in un corso di 200 ore, di cui 64 in stage, organizzate in 20 ore settimanali di frequenza. L’assistente si occupa di persone con ridotta autonomia in grado di indirizzare, in modo consapevole ed appropriato, l’intervento dell’operatore, ma soprattutto di persone non autosufficienti, in collaborazione con altri operatori o familiari. Svolge attività di: aiuto per attività di carattere domestico e di assistenza alla persona; accompagnamento per l’accesso ai servizi sanitari e sociali; supporto alla vita di relazione; lavora in collaborazione con altri operatori e familiari coinvolti. Il corso si prefigge di sviluppare nell’assistente alcune capacità principali, tra cui le seguenti: collaborare con altre figure professionali in équipe; individuare i bisogni non soddisfatti dell’utente; gestire strategie di relazione d’aiuto; rispettare l’autodeterminazione della persona; individuare le norme igienico-alimentari e igienico-ambientali di sicurezza; gestire situazioni di emergenza sanitaria e sociale; orientarsi nel contesto organizzativo, istituzionale e informale di rete sociale e sanitaria (rispetto alla formazione proposta dalla Regione Piemonte, si veda www.collegamenti.org/LearningPlayers/Profili/ProfSch.asp). Si ricorda, inoltre, che nel 2006 in Piemonte sono partiti i primi progetti per la sperimentazione di servizi integrati per il rafforzamento delle competenze delle assistenti familiari. Nell’ambito delle politiche attive per il lavoro, allo scopo di supportare l’inserimento lavorativo di donne che si trovano nella necessità di sostenere spese per l’accesso ai servizi di cura dei familiari e che si rivolgono ai Centri per l’Impiego, tramite le Province sono stati assegnati in tre anni oltre 3000 voucher per l’accesso ai servizi di conciliazione. Le linee d’intervento relative alla formazione professionale sono state espressamente finalizzate a sostenere una maggiore e più qualificata partecipazione femminile al mercato del lavoro. 253 Diciamo che se avessi il corso sarei in regola, anche se vedo che le cose che faccio io sono quelle che fanno quelle dell’ente, che fanno le persone qualificate e quindi non ne sento l’esigenza per poter lavorare. Ne sento l’esigenza per una sicurezza, diciamo, perché così almeno posso farlo questo lavoro, sono tranquilla. Invece non essendo qualificata, non posso dare la terapia, non posso somministrare le medicine perché sono i medici che prescrivono le medicine e la terapia viene seguita dagli infermieri o dalle OSS (18). Moltissima gente viene in Italia a fare la badante perché è sicura di trovare lavoro, ma appena riesce ad uscire da questo meccanismo cerca qualcosa di molto più serio. Non è che abbiamo gente che ha intenzione di professionalizzarsi in quel lavoro lì, quindi vuole andare avanti. Abbiamo di fronte gente che chiaramente per necessità viene a fare quel lavoro lì perché sa di trovarlo, ma appena può cerca di uscire e quindi in quest’ottica è difficile professionalizzare la gente (Focus group, Cuneo). La conoscenza dei servizi del territorio è un altro aspetto considerato essenziale in un corso di formazione per assistenti familiari, in quanto la necessità di conoscere il territorio in cui si risiede è centrale per donne scarsamente integrate nel contesto italiano, poco informate su servizi sociali e sanitari presenti nel contesto in cui vivono, utilizzabili dagli anziani ma anche dalle stesse lavoratrici immigrate. Fondamentale è inoltre la conoscenza del contratto di lavoro, che deriva dalla necessità di comprendere diritti e doveri previsti e regolati dalla legge rispetto al proprio lavoro, il che mette in evidenza il ruolo significativo che il sindacato potrebbe svolgere nel promuovere tali approfondimenti sul nuovo contratto di lavoro delle assistenti familiari. Le donne che manifestano maggiormente questa esigenza di tutela dallo sfruttamento sono soggetti con oltre 50 8 anni e provenienti dall’Europa dell’est . 8 La Regione Piemonte ha realizzato nel 2005 un opuscolo dal titolo L’assistenza in famiglia. Informazioni sul lavoro di cura e sostegno alla persona, che ha l’obiettivo di fornire un primo livello di conoscenza e informazione sul ruolo professionale e sulle mansioni che questa attività richiede, che si rivolge alle assistenti familiari e alle famiglie italiane ed è disponibile in varie lingue. Gli argomenti trattati riguardano: il ruolo dell’assistente familiare, che aiuta e assiste anziani, adulti, minori e disabili, svolge un lavoro di cura alla persona e di sostegno alle attività della vita quotidiana, costruendo una relazione tra chi assiste, la persona in difficoltà e la famiglia, che può migliorare la qualità della vita dell’assistito; informazioni sul corso di formazione che consente di ottenere un attestato di frequenza e offre un credito formativo a chi voglia continuare la formazione come operatore socio-sanitario; comunicazione e relazione interpersonale; igie- 254 Si ha che fare con un essere umano e noi dovremmo avere una preparazione psicologica perché è un lavoro pesante per noi, non solo psicologico, ma anche sapere la lingua, avere informazioni suoi nostri diritti e doveri (6). Un ulteriore punto critico individuato come una carenza formativa è costituito dalle competenze linguistiche: la scarsa conoscenza dell’italiano e le molteplici lacune mettono in luce la debolezza delle politiche linguistiche nel nostro paese (anche se l’entrata irregolare della maggior parte delle donne rende difficile intervenire su tali aspetti). Tale esigenza formativa è centrale poiché, non solo è connessa con il tipo di lavoro che si svolge, ma risulta essere un aspetto discriminante nell’agevolare o ostacolare un più ampio e pieno inserimento in Italia. Si tratta di costruire delle collaborazioni e delle sinergie significative tra i soggetti del pubblico (Centri Territoriali Permanenti per l’istruzione e la formazione in età adulta che si occupano dell’alfabetizzazione degli stranieri e promuovono corsi per il conseguimento della licenza media) e del privato sociale (associazionismo cattolico e terzo settore in generale) che possono occuparsi di potenziare tale formazione, funzionale all’integrazione sociale, culturale e relazionale delle donne, in un contesto d’immigrazione. I soggetti più interessati all’apprendimento della lingua italiana sono le donne del campione – in genere autodidatte nell’apprendimento dell’italiano – che hanno la prospettiva di rimanere in Italia e quindi debbono “cavarsela” da sole, relazionandosi con gli italiani: in genere, si tratta di ucraine con oltre 50 anni, con un’idea pragmatica e strumentale del lavoro di assistenti, poco disponibili a manifestare altre necessità formative. Dal momento che si tratta di un lavoro ad alto contenuto relazionale, inoltre, la conoscenza della lingua diventa elemento imprescindibile per la costruzione di un rapporto basato su scambio, comprensione, fiducia, superamento di estraneità e diffidenza, oltre che per la gestione della quotidianità (ad esempio, lettura delle indicazioni rispetto alla somministrazione delle medicine). Prima di tutto avrei bisogno di un corso di lingua italiana, senza dubbi. Perché se conosci la lingua, le persone hanno più fiducia in te, puoi esprimerti e loro sanno cosa ci sta nella tua testa. Se non dici niente la diffidenza dura di più (12). ne della persona; cura dell’ambiente; alimentazione; elementi e tecniche di mobilizzazione; i servizi sociali e sanitari; il contratto di lavoro. 255 Ho imparato l’italiano in casa. Se lei [l’anziana] non capiva qualcosa, io chiedevo “cosa vuole signora?” e lei mi spiegava. Mi sono scritta su un biglietto come si dicono tutte le cose della cucina nella nostra lingua e in italiano. Tanto imparo dalla televisione la sera. Per tutta la settimana sento solo italiano e mai la mia lingua e pian piano imparo (37). Quando sono arrivata qua, avevo già il dizionario comprato dalle Filippine, dall’inglese all’italiano, però qui c’è la mia amica, un’italiana, che mi ha regalato un dizionario italiano-inglese e con due dizionari capivo già un pochino, e quando non capisco lo scrivo, per capire dopo (14). Anche l’apprendimento di specifiche tecniche di mobilizzazione offre la possibilità di avere competenze che evitano problemi di salute, evitando danni irreparabili all’anziano e alla donna. Infine, sono ritenuti meno necessari aspetti quali igiene, cura della casa, alimentazione, conoscenza della cultura italiana, su cui non è ritenuto opportuno frequentare un corso specifico, forse perché queste non sono reputate competenze da apprendere, ma capacità innate nelle donne. All’inizio avrei avuto bisogno di un corso di lingua italiana, poi… tante cose: come mettere un pannolone, come curare, come alzare un anziano per non farsi male alla schiena, perché nel mio paese non ti confronti con cose del genere (13). E di cucina non ho bisogno di un corso, perché ho letto tutte ricette italiane (14). 4. Significati della formazione tra tutela e promozione I vantaggi di un corso di formazione vengono ribaditi e appaiono connessi, in particolar modo, con l’esperienza lavorativa: migliorare la qualità del proprio lavoro formandosi – modalità di risposta scelta dal 38% circa del campione (Tab. 12) – significa anche avere maggiori garanzie contro lo sfruttamento da parte dei datori di lavoro, tutelandosi attraverso una coscientizzazione sui propri diritti, e richiedendo il rispetto del contratto (21,5%). Se si è a conoscenza del proprio contratto di lavoro, si conoscono anche i propri diritti e doveri, di conseguenza ci si può difendere poiché si hanno a disposizione strumenti culturali che fanno avere voce e danno la possibilità di esprimersi con cogni- 256 zione di causa, anche se questo può non essere conveniente per il datore di lavoro. C’è bisogno di formazione perché così non hai problemi e non ti insultano… per poterti così far rispettare di più e per avere maggiore esperienza (31). Il vantaggio è la conoscenza che tu hai acquisito per poi chiedere più diritti. Gli svantaggi sono che al datore di lavoro non conviene che tu sappia molto, perché potresti pretendere i tuoi diritti (6). Una conseguenza ulteriore della formazione consiste nel miglioramento del proprio stipendio (11%), poiché la professionalità merita un preciso riconoscimento economico, dal momento che si offre un servizio di maggiore qualità e sicurezza. In quest’ottica il costo economico si traduce in un vantaggio, non solo per la lavoratrice, ma anche per il benessere dell’anziano di cui ci si cura. Offri un servizio di maggiore qualità e anche tu ti senti più sicura (7). Su livelli simili, a livello di percentuale, si colloca la questione dei rischi di salute per la lavoratrice e per il destinatario dell’assistenza (per un totale di 12,4%), che diminuiscono all’aumentare della formazione. Tab. 12 - Vantaggio principale derivante da un corso di formazione Miglioramento qualità del lavoro FA 193 % 38,4 Garanzia contro sfruttamento e rispetto contratto 108 21,5 Miglioramento stipendio 57 11,3 Minori rischi per salute anziano 35 7 Minori rischi per salute 27 5,4 Altro 17 3,3 Non risponde 33 13,1 Totale 503 100 Alcune donne, poi, presentano qualche difficoltà nell’attribuire specifici vantaggi ad una formazione da frequentare in Italia, dal momento che, pur essendo impiegate in patria professioni attinenti all’assistenza (ad esempio come infermiere), difficilmente riescono a svolgere in Italia lo stesso lavoro. 257 Non penso ci possano essere dei vantaggi, perché mia figlia che ha studiato infermeria al mio paese, ma non svolge il lavoro per cui ha studiato (3). Da un’analisi più approfondita delle principali modalità di risposta, sembrano emergere due profili e orientamenti principali nei confronti della formazione. Da un lato, la formazione è intesa come strumento di rivendicazione. È, in particolare, l’atteggiamento di donne che percepiscono la formazione come un mezzo per la difesa e la tutela dei propri diritti, per garantirsi contro lo sfruttamento dei datori di lavoro. Questa visione si inserisce pienamente in una logica di ricerca del minor danno possibile, in un progetto di migrazione temporanea e di lavoro di cura come professione a tempo determinato, perseguito dalle donne dell’Europa dell’est e da soggetti con alto capitale culturale. Dall’altro lato, la formazione è intesa come mezzo di promozione sociale, un orientamento manifestato dalle donne che cercano un miglioramento della qualità del loro lavoro, in un progetto di migrazione definitivo che considera la formazione un bisogno e un impegno concreto da assumersi. Solo se si crede e ci si radica nel proprio lavoro, ci si impegna nel migliorarsi e nel migliorarne le condizioni: questa è la visione che accomuna, in particolar modo, donne giovani, rumene e latinoamericane, in cerca di una stabilità professionale e sociale. 5. Le aspettative verso il futuro È vero che per molte donne immigrate quello di badante è il primo impiego. Ma si ritrovano così a lavorare in case private, dove sono socialmente isolate, con poche opportunità di far sentire la propria voce come gruppo ed esigue prospettive di mobilità professionale. Non c’è formazione, né carriera, né speranza, né avanzamento… Data la totale mancanza di prospettiva di questo tipo di lavoro, non sorprende che la richiesta di servizi di assistenza personale venga soddisfatta prevalentemente da una delle categorie più vulnerabili: quella delle donne immigrate. La bassa condizione e la scarsa importanza sociale delle immigrate permette loro di raggiungere più facilmente l’invisibilità richiesta per questa professione (Rivas, 2004, p. 76). Nonostante, nel quadro delineato da Rivas, il lavoro di cura sia rappresentato come una strada senza via d’uscita per le donne immigrate, l’assistenza agli anziani potrebbe costituire comunque un primo passo e un’opportunità concreta di lavoro. Le ulteriori alternative che si potrebbero aprire successivamente – 258 anche se non così chiare – dipendono, in larga parte, dall’investimento in formazione. La progettualità rispetto alla formazione costituisce una specificazione del progetto migratorio, indagato attraverso il questionario, e si traduce in tre opzioni differenti per le assistenti: - non investire in formazione, dal momento che si intende continuare a svolgere lo stesso lavoro per un periodo di tempo determinato; - effettuare un corso di formazione per qualificarsi come assistenti familiari; - impegnarsi in un percorso formativo nuovo e/o nel riconoscimento del proprio titolo di studio, al fine di cambiare professione 9 . Tab. 13 - Progetti per il futuro, a livello di formazione e lavoro Cambiare lavoro e fare altro Intraprendere percorso di formazione per migliorare le condizioni di lavoro Continuare l’attuale lavoro alle stesse condizioni FA 145 % 28,8 145 28,8 187 37,2 Non risponde 26 5,2 Totale 503 100 Dall’analisi dei dati della tabella precedente, l’orientamento principale del campione coincide con un atteggiamento di negazione di un processo di miglioramento professionale e sociale, ovvero di scarso interesse nei confronti della formazione, che caratterizza il 37% del campione, che indica di voler continuare l’attuale lavoro alle stesse condizioni e per un periodo di vita tem9 La progettualità delle donne del campione si collega anche alla questione della definizione di sé. Può essere utile analizzare il rapporto tra identità e progetto, riferendosi al binomio concettuale identità/identificazione, introdotto da Berzano e Zoccatelli (2005). Per il soggetto, identità significa capacità di stabilire una differenza tra sé e gli altri, mantenendo tale differenziazione nel tempo, rilevabile unicamente in riferimento ad un insieme di individui simili con i quali è possibile riconoscersi: in tal senso, l’identità delle assistenti familiari si radica in attributi di genere, familiari ed etnici che mostrano una loro stabilità nel tempo. L’identificazione rappresenta invece, secondo Berzano, l’influenza che il riconoscersi dell’individuo nell’entità collettiva sviluppa sulle sue scelte e sui suoi comportamenti e implica partecipazione e coinvolgimento: il lavoro, per la maggior parte delle donne, non costituisce un concreto elemento identificatorio, dal momento che si tratta per molte di un progetto a tempo determinato in cui non è necessario investire molte risorse personali. 259 poraneo. Queste donne costituiscono il gruppo più a rischio di sfruttamento, in una dinamica che si sviluppa maggiormente nell’irregolarità del soggiorno e del contratto e in un’esperienza di lavoro, che non è poi così breve come viene rappresentata nell’immaginario delle lavoratrici. Infatti, si tratta di donne che lavorano presso anziani da un periodo di tempo che supera i tre anni, che hanno un’età elevata e provengono soprattutto dall’Ucraina: la difficoltà di trovare altre opportunità di lavoro e l’età impediscono di intravedere prospettive di miglioramento. Sono abituata così ed ho anche bisogno di lavorare, non sono fatta per fare un altro lavoro, non penso che mi piaccia fare altro (1). Quale altro lavoro potrei fare qua? Un altro lavoro non si trova senza documenti, senza sapere la lingua. E nessun altro farà questo lavoro: stare così giorno e notte con delle persone anziane, solo noi stranieri lo facciamo. Poi per un altro lavoro ti devi trovare un alloggio, pagare per l’alloggio, e poi ciascuna di noi è arrivata qua con un piano in testa: una viene per sposarsi, un’altra per… io non giudico nessuno, io per esempio sono venuta qua per i miei figli (12). Non è la cosa migliore che può capitare, perché non è la mia qualificazione, non è la mia “vocazione”, insomma, perché ci vuole un impegno totale del tuo tempo, della tua salute, del tuo tutto. Tu non ce l’hai la tua vita, vivi la vita della famiglia dove lavori, dove abiti. I nostri studi non sono riconosciuti qui (20). Al contrario, il 28% del campione (Tab. 13) è disponibile ad iniziare un percorso di formazione per qualificare il proprio lavoro di assistenza agli anziani, proprio perché non si tratta di una vocazione naturale delle donne né di un lavoro che è contiguo alla propria esperienza professionale e al percorso formativo pregresso. Queste donne si sono trovate nella condizione di non poter scegliere, ma di fronte alle opportunità offerte dal nuovo contesto sarebbero disponibili al miglioramento, soprattutto quando manifestano l’idea di restare in Italia. È necessario sottolineare che questo gruppo manifesta le seguenti caratteristiche in modo più pronunciato: si tratta di donne che lavorano da meno di tre anni nel lavoro di cura, hanno meno di 30 anni, possiedono una formazione media e superiore e provengono soprattutto dall’America Latina. Altre ricerche sottolineano che le più giovani sono le più favorite in processi di mobilità socio-professionale, anche perché hanno costruito o ricostruito reti affettive nel nostro paese, mentre una condizione sfavorevole è quella vissuta 260 dalle donne più mature che hanno riferimenti affettivi lontani e vivono, in maniera più lacerante, la transnazionalità. Tuttavia, “emigrare è per ogni donna un’occasione per sperimentare traiettorie di mobilità sociale, anche quando all’ideale non fa seguito una pratica di cambiamento, anche se gli sforzi e i sacrifici non portano a un effettivo miglioramento delle condizioni di vita per sé e per la propria famiglia, l’agency delle donne che esprimono tale volontà non può essere ignorata” (Baldisseri, 2005, p. 114). Davvero io non ho pensato mai di fare questo lavoro prima, perché al mio paese sono laureata in economia e commercio. Ho finito l’università, però il primo lavoro che ho trovato qua è questo. Non che mi piace, però neanche mi dà fastidio, perché queste persone sono proprio brave, non mi fanno sentire mai che io vengo per pulire casa o fare badante. Certo che è meglio fare un altro lavoro, guadagnare di più (45). Ognuno ha la sua scelta di lavoro, alcuni hanno la fortuna di avere un lavoro in fabbrica, di non fare questa esperienza, alcuni fanno questa esperienza prima di trovare la fabbrica, la vita è così comunque, quello che si trova si fa. Non si sceglie, non abbiamo tanta scelta (27). Il 28% del campione dichiara, infine, la propria volontà di cambiare lavoro e ciò indica un desiderio di mobilità sociale e di miglioramento professionale, magari attraverso il riconoscimento del proprio titolo di studio. Si tratta di donne con una recente – e spesso traumatica – esperienza di lavoro con gli anziani, con un’età che va dai 20 ai 40 anni, soprattutto rumene e laureate. In conclusione, è possibile affermare che la formazione assume un significato di risorsa strategica, da considerare in relazione all’atteggiamento nei confronti del futuro lavorativo e della scelta del luogo di residenza (il Piemonte o il paese d’origine). In effetti, il progetto lavorativo, migratorio e formativo sono strettamente intrecciati: dall’incrocio di tali dimensioni è possibile individuare tre principali percorsi (Tab. 14). Nel primo caso, le donne – che possiamo definire “le stagionali della cura” – pensano di continuare a svolgere il lavoro di assistenza, in condizioni irregolari e disagiate, rifiutano l’idea della formazione e del riconoscimento dei pro- 261 pri titoli perché proiettate al rientro in patria, dove hanno lasciato la famiglia, e concepiscono il lavoro di cura come un vero e proprio lavoro stagionale 10 . Nel secondo caso, alcune donne di status medio basso – le “assistenti per scelta o per obbligo” – riconoscono che è possibile migliorare e qualificare il proprio lavoro attraverso la frequenza di un corso che risponda ai propri bisogni formativi, nel contesto di un progetto temporaneo ma anche di radicamento e di integrazione nel contesto italiano, che prevede il ricongiungimento dei familiari 11 . Infine, il desiderio prevalente di donne altamente qualificate è quello di cambiare lavoro, non certo investendo in una formazione nel campo dell’assistenza. L’obiettivo è piuttosto di far riconoscere il percorso formativo effettuato in patria, ma il futuro per queste donne risulta oscuro. Il gruppo comprende alcune “professioniste incerte” rispetto alle prospettive di lavoro e di migrazione (divise tra il restare da sole in Italia o ricongiungere i familiari). Tra le donne che specificano quale professione vorrebbero svolgere in Italia, se riuscissero a cambiare lavoro, non compaiono grandi aspettative e aspirazioni, ma un atteggiamento piuttosto realistico e pragmatico che nasce da una conoscenza concreta del mercato del lavoro italiano 12 . L’esperienza migratoria, con un significato strumentale di miglioramento economico, sembra spegnere i sogni e le aspirazioni più alte di un riconoscimento e miglioramento lavorativo, 10 “L’appiattimento sul presente e l’incapacità di vedere che il presente tende irrimediabilmente a prolungarsi nel futuro rende le immigrate poco sensibili al tema della regolarizzazione lavorativa e del soggiorno, impedendo l’attivazione di efficaci strategie di mobilità dal momento che è diffuso il timore che un investimento, ad esempio in formazione, per un inserimento lavorativo migliore, possa significare un allungamento dei tempi di permanenza e quindi uno slittamento del progetto migratorio o una sua modificazione” (Spanò, Zaccaria, 2003, p. 210). 11 Si propone, in questo contesto, il problema della sostenibilità del modello di cura basato sulle assistenti familiari, affrontato dagli economisti Bettio e Solinas (2006): da un lato, il numero di anziani che potranno contare su un familiare che organizzi e supervisioni il lavoro dell’assistente è destinato a crescere per l’assottigliarsi delle dimensioni familiari e l’inevitabile incremento della mobilità geografica; dall’altro i flussi di immigrate temporanee o a breve termine dall’Est Europa è destinato a diminuire non appena la crescita economica di questi paesi riprenderà. Per far fronte alla sostenibilità ed equità del modello, alcuni economisti suggeriscono la necessità di costruire percorsi di reclutamento, inserimento logistico e carriera mirati ad incrementare l’immigrazione a lungo termine nel settore e destinati a quei segmenti che sono più sensibili a prospettive di stabilizzazione. L’esperienza di cura maturata presso le famiglie potrebbe essere fatta valere, inoltre, come prima tappa di un percorso di lavoro nel settore socio-sanitario. 12 Vengono indicate prevalentemente professioni operaie e del basso terziario. 262 sminuendo la rilevanza di formazione e istruzione. La migrazione appare smentire l’idea che la qualificazione e la formazione sono elementi che migliorano la qualità del lavoro e della propria vita e non sembrano essere considerate carte vincenti per un’affermazione nel mondo del lavoro. Tab. 14 - Progetti migratori, lavorativi e formativi delle donne Ricongiungere i Tornare familiari in patria in Italia Rifiuto della formazione e intenzione di continuare a svolgere lo stesso lavoro Lavoro 76 66,7 82,3 temporaneo Lavoro 20 33,3 14,2 definitivo Non risponde 4 0 3,5 Totale (N = 187) 100 100 100 Restare da sola in Italia V di Cramer = 0,190 Propensione a qualificarsi come assistenti familiari Lavoro 75 81,4 temporaneo Lavoro 25 18,6 Definitivo Non risponde 0 0 Totale (N = 145) 100 100 V di Cramer = 0,354 Tot 76,5 20,3 3,2 100 94 84,1 6 15,2 0 0,7 100 100 Intenzione di riconoscere il proprio titolo di studio per migliorare il livello professionale Lavoro 95 94,3 86,2 89,7 Temporaneo Lavoro 5 3,8 12,1 7,6 Definitivo Non risponde 0 1,9 1,7 2,8 Totale (N = 145) 100 100 100 100 V di Cramer = 0,194 N casi = 477 Le aspirazioni più diffuse riguardano professioni legate anche all’assistenza, alla cura, ai servizi, ma maggiormente qualificate e garantite (operatrice sociosanitaria, baby-sitter, mediatrice culturale). I sogni espressi sono, invece, legati al futuro dei figli: il sogno vero è il ricongiungimento dei figli, affinché possano studiare e formarsi in Italia, conoscere l’Europa e avere un futuro migliore del presente delle loro madri. 263 La necessità mi ha spinto a partire, poi ho iniziato a lavorare. Ho fatto la babysitter, assistenza, ho lavorato come Adest. Adesso sono imprenditrice femminile. Io che ho percorso quasi tutti lavori in Italia, considero il lavoro di assistenza un lavoro molto umano il tuo ruolo è molto importante (5). Vorrei fare la scuola di cucina, perché a me piace tanto cucinare, la cucina è la mia vita, io ho imparato dal mio papà e sto tutto il giorno in cucina, tu mi dai tre cose e io ti faccio dieci cose da mangiare. Quindi se avessi la possibilità di fare il corso, poi ottenuto il diploma mi cercherei un lavoro, farei il cuoco. È una cosa che mi piace da quando sono piccola (11). In teoria mi piacerebbe un lavoro intellettuale che sia un lavoro di relazioni pubbliche. Un’impiegata, purtroppo non lo potrei fare perché non sono aggiornata, ma mi piacerebbe fare il mio lavoro di ragioniera (20). Io voglio far venire i miei figli, farli studiare e conoscere l’Europa, un altro mondo. Sempre rispettando la nostra cultura (2). 264