OktoberFest Msac 2012
Presenza & Dialogo on-line
Schede di sussidiazione msacchina a cura dell’Equipe Nazionale MSAC
ANNO ASSOCIATIVO 2012/2013, “FALDONE” PRIMO
Per questo numero del P&D grazie a… Gioele Anni, Luca Cristiani, Pasqualina Cordella, Stefano Veluti
INDICE
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Introduzione: perchè questo oktoberfest!
Il modello “all inclusive”
«Un’immensa e sempre crescente varietà di culture, società, religioni e civiltà»
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Cambiando, l’ordine degli addendi…il risultato cambia!
Culture in dialogo
Modello dell’integrazione
Modello multiculturale
La terza via
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Orientamenti culturali: ius soli e ius sanguinis
La normativa italiana sulla cittadinanza
Ius sanguinis o ius soli?
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Formazione specifica: lo straniero nella scuola italiana
D.P.R. 394/1999: minori stranieri e istruzione
Qualche idea pratica
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Primo annuncio: il dialogo interreligioso
Che cos’è il dialogo interreligioso
Il discorso della montagna del dialogo interreligioso (Raimon Panikkar)
Spunti per attività
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Punti d’incontro e OktoberFest: proposte di attività
1° fase: creiamo Movimento
2° fase: in Movimento!
3° fase: moto perpetuo…
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“È un vero pacifista chi è capace di cambiare opinione, perché solo così si può sperare di
poter riappacificare avversari che sostenevano pareri diversi. È pacifista solo chi è capace
di rimetterci, dando ragione al suo cosiddetto avversario e terminando una discussione
diverso da come è entrato. È pacifista chi riesce a lodare almeno una volta il sostenitore di
opinioni e di decisioni contro le quali egli è convinto in coscienza del proprio dovere di
resistenza e opposizione. È pacifista chi tratta con pazienza e cortesia anche chi gli dà sui
nervi. Siamo pacifisti solo quando non disprezziamo gli atteggiamenti e gli sforzi degli altri
con grossolani e declassanti giudizi facili da evitare; quando abbandoniamo il nostro modo
di pensare fatto di luoghi comuni; quando cerchiamo di scoprire, dietro le parole, il
concetto sul quale siamo forse dello stesso parere. Siamo pacifisti solo se confrontiamo noi
stessi con gli ideali degli altri, secondo le possibilità reali; quando non difendiamo il nostro
prestigio sociale e combattiamo in modo leale e corretto, anche se questa correttezza
dovesse diminuire le possibilità della nostra vittoria”.
(Karl Rahner, La pace come impegno, 1968)
INTRODUZIONE: perchè questo oktoberfest
Il modello “all inclusive”
Il mondo del 2012 sembra fatto di tanti pacchetti preconfezionati, tutti costruiti su misura per il
cittadino-consumatore. Ovunque siamo bombardati di proposte già complete di tutto quello che ci
serve prima ancora che le esaminiamo: vacanze “tutto compreso”, proposte “tutto intorno a te”,
servizi e offerte “all inclusive”. Che messaggio passa dietro queste campagne iper-intensive? Che
ogni persona ha dei bisogni ben determinati, e a questi bisogni il negozio o l’agenzia di turno sa
come rispondere. «Tutto quello di cui hai necessità, noi te lo diamo. A te, cittadino-consumatore,
non serve cercare chissà dove ciò che più veramente ti soddisfa. Noi ti conosciamo. Fidati di noi, e
non rimarrai deluso». La mentalità che regna, dunque, è quella del “tutto incluso”: all’uomo di oggi
non deve mancare niente, e una quantità di organizzazioni diverse sono pronte ad accontentare
questo suo desiderio di pienezza materiale.
Perdonate l’attacco moraleggiante. Per sdrammatizzare un po’, ci affidiamo alle parole che il
vescovo di Como, mons. Diego Coletti, rivolse ai giovani durante una catechesi a Madrid: «Dovete
sapere che “Tutto intorno a te” è lo slogan dell’Inferno; quello del Paradiso, invece, è “Tutti intorno
a Lui!”». E lo slogan della Terra, quale può essere? Alt, non andiamo troppo lontano a colpi di
slogan. Ma è chiaro che oggi una domanda ci interroga: in che mondo viviamo? Viviamo in un
mondo che cambia, viviamo in un mondo senza frontiere, viviamo in un “villaggio globale”, bla bla
bla…ok, tutte queste cose sono vere (o almeno in parte), e le abbiamo già sentite mille volte. Il
punto è: come guardiamo il mondo in cui viviamo?
Per spiegarci meglio: il modello dell’all inclusive ha senso solo per un certo tipo di abitante del
mondo. Un abitante che goda di una certa agiatezza, che abbia determinati standard, che viva con
ritmi prevedibili, che usufruisca di una quantità di bisogni ricorrenti. La mentalità all inclusive è
fatta su misura per il cittadino medio occidentale, l’abitante maggioritario del “nostro” mondo più
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o meno agiato (sussulti economici a parte). Ma è un modello che non funziona. Non solo non
funziona su larga scala, perché basta guardarci dopo le scarpe, a qualche centinaio di chilometri
dalla costa più meridionale della nostra Italia, per capire che l’Africa è un mondo con modelli
comportamentali completamente diversi; e che lo stesso si può dire per l’Asia, l’Oceania, le
Americhe, insomma per ogni zona del globo popolata da nostri simili. È un modello che non
funziona perché ormai anche dentro alle nostre terre ci rendiamo conto che esistono e convivono
tanti modelli di vita differenti. L’all inclusive si adatta a noi, ma esclude qualcun altro: gente che
non condivide la nostra storia, le nostre impostazioni culturali, i nostri stili di vita, ma che ormai ci
abita a fianco e con cui spesso già dividiamo il presente, sicuramente poi dovremo costruire il
futuro.
Facciamo un passo indietro: perché il modello dell’all inclusive ha largo successo? Perché guarda il
mondo con le coordinate di una parte dei suoi abitanti, quella più agiata e storicamente
dominante, e si propone di offrire a quella fetta di persone tutto ciò di cui ha bisogno. Il modello all
inclusive, dunque, in realtà esclude: esclude tutti quelli che non guardano il mondo con le nostre
stesse coordinate, i nostri stessi valori primari di riferimento. È un modello parziale, ed è un
modello che vogliamo rifiutare proprio perché selettivo. Un mondo tutto calibrato sulle nostre
aspettative, ma che non prenda in considerazione chi viene da culture differenti non può piacerci
né come cittadini responsabili e neppure tantomeno come giovani cristiani. Ecco perché il nostro
OktoberFest si chiama “Nessuno escluso”: perché vogliamo imparare a guardare il mondo non
solo con le lenti della nostra cultura, ma confrontandoci con chi proviene da civiltà altre dalla
nostra ed è cresciuto con usanze diverse. Non vogliamo solo parlare di accoglienza: vogliamo
proprio prendere la nostra prospettiva di italiani, europei, occidentali e ribaltarla, provando ad
aprirci a punti di vista nuovi e inattesi. Lo dobbiamo fare per due motivi: per prima cosa, perché
conoscere e confrontarsi porta sempre un arricchimento personale, una capacità in più di aprire i
propri orizzonti; in secondo luogo, perché non possiamo pensare a una vera integrazione con gli
altri popoli pur mantenendo imperterriti il nostro stile di vita. Se vogliamo che nel futuro la
convivenza tra popoli diventi una realtà importante, non ci possiamo limitare ad accettare i
costumi altrui: dobbiamo proprio sforzarci di vedere il mondo da prospettive diverse, cambiare
angolature, arricchire la nostra visuale. Solo così potremo uscire dalla bolla d’oro che include tutto
per noi stessi, ma esclude gli altri; e fare in modo, a partire dal nostro piccolo, che il mondo diventi
un luogo in cui nessuno può dirsi non valorizzato, isolato, insomma escluso.
“Un’immensa e sempre crescente varietà di culture, società, religioni e civiltà”
Un’introduzione, si sa, è fatta per natura di tante parole. In questo faldone, poi, vorremmo provare
a concretizzare le nostre belle e virtuose ambizioni in attività concrete, in spunti per le nostre
scuole e i nostri circoli. Per farci aiutare in questo nostro obiettivo, ci affidiamo a un personaggio
che ha vissuto l’intercultura nel modo più pragmatico possibile, facendone la bandiera della sua
vita: Ryszard Kapuscinski. Se il nome, oltre a suonarvi complesso, magari vi è sconosciuto, nessun
problema. Kapuscinski è uno dei più grandi giornalisti e reporter del ventesimo secolo, ma non ha
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mai cercato né desiderato la grande fama internazionale. Nato nel 1932 nell’allora Polonia
Orientale (oggi sarebbe stato bielorusso), morto nel 2007 a Varsavia, Kapuscinski è stato reporter
per tutta la vita. Da sempre però ha praticato un giornalismo puro, fatto di incontri da pari a pari
con le popolazioni che incontrava. Non il giornalista europeo che gira il mondo da paladino di una
cultura, ma l’uomo di mondo che ovunque si reca cerca di entrare in sintonia con la gente che
incontra, prima ancora che di raccogliere informazioni per i suoi servizi.
Vi invitiamo magari ad approfondire nei circoli la figura di questo giornalista: dal libro “Autoritratto
di un reporter”, insieme di interviste rilasciate da Kapuscinski nel corso della sua vita, ci sono
spunti per parlare di intercultura, ma anche di comunicazione, di fede, di politica… Comunque,
torniamo al nostro OktoberFest. Di Kapuscinski è un pensiero che potrebbe riassumere la tesi di
fondo di “Nessuno escluso!”:
«Più si conosce il mondo, più ci rendiamo conto della sua inconoscibilità e sconfinatezza: non tanto in senso
spaziale, ma nel senso di una ricchezza culturale troppo vasta per poter essere conosciuta. (…) Oggi sappiamo
che l'immensità e la ricchezza culturale del mondo sono infinite. Dopo oltre quarantacinque anni di continui
viaggi, e pur conoscendo questa terra meglio di chi non ha viaggiato, sono convinto di non sapere ancora niente.
La mia principale ambizione è di dimostrare agli europei che la nostra mentalità è quanto mai eurocentrica e
che l'Europa, o meglio una sua parte, non è il mondo intero. Che l'Europa è circondata da un'immensa e
sempre crescente varietà di culture, società, religioni e civiltà. La vita su un pianeta coperto da un crescente
numero di interconnessioni deve possedere tale consapevolezza e adattarsi a una situazione globale
radicalmente nuova».
Insomma, in questo faldone proveremo a riconoscere la nostra cultura eurocentrica, a capirne le
basi, a cercare qualche via concreta per superarla o, per lo meno, non considerarla l’unica
esistente. L’idea è quella di poter fare degli OktoberFest, in tutte le diocesi d’Italia, una vera
festa interculturale. A tutti noi, cari msacchini, il compito di portare le belle parole di Kapuscinski
nelle nostre scuole e nelle nostre vite. E, naturalmente, che nessuno resti escluso!
BIBLIOGRAFIA
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R. Kapuscinski, Autoritratto di un reporter, a cura di Krystyna Straczek, Feltrinelli
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CAMBIANDO L'ORDINE DEGLI ADDENDI... IL RISULTATO CAMBIA!
Culture in dialogo
Parlare di dialogo tra le culture, di rapporti interculturali, di relazioni tra persone di origine
differente è qualcosa di più complesso di quello che ci si può aspettare. Implica, oltre alla curiosità,
alla buona volontà di incontrarsi e di accogliere, anche un certo atteggiamento personale, che non
è indifferente alla qualità della relazione che istituiamo con l'altro. Si tratta di un atteggiamento di
“non ingenuità” e di consapevolezza di ciò che entra in gioco nella relazione tra persone di culture
differenti. Non basta essere “buoni e caritatevoli”, spesso non è nemmeno richiesto, ma è
necessario essere consapevoli e con una chiara idea del significato dei nostri comportamenti.
Innanzitutto due premesse, per così dire, “filosofiche”: come abbiamo cercato di fare già finora in
questa scheda, quando si parla di dialogo tra le culture, bisogna sempre tenere l'attenzione
centrata sulla “persona”. Le culture che entrano in contatto non sono entità astratte, fatte di
“valori” che hanno una formalizzazione precisa, e che si confrontano come se fossero due
espressioni matematiche: 4+7 = 6+5. Il confronto e il dialogo avvengono sempre tra PERSONE che
hanno culture differenti, che incarnano le loro culture. Si tratta di un dialogo tra le culture
“incarnate”. La differenza fondamentale tra queste due concezioni del rapporto è che, mentre
confrontando due culture partendo dai presupposti teorici, valoriali, dogmatici che ognuna porta
con sé, è molto facile trovare incompatibilità assolute, nel dialogo concreto tra due persone che
hanno un background culturale diverso, i contrasti sono meno insanabili e insuperabili.
La seconda premessa “filosofica” riguarda il “concetto di uomo”. Quando si fanno ragionamenti ad
ampio raggio, che riguardano “gli uomini”, cioè potenzialmente tutti gli uomini, si rischia di cadere
in due “eccessi”: l'eccesso “universalista” e l'eccesso “particolarista”. Il primo pensa l'umanità sotto
un concetto omogeneo, gli uomini come tutti uguali e aventi tutti gli stessi bisogni fondamentali. Il
secondo pensa gli uomini come, appunto, particolari, dotati ognuno di caratteristiche sue proprie
che li contraddistinguono dall'altro uomo. Come si può facilmente vedere, nessuna delle due
posizioni è falsa, ma nemmeno nessuna delle due è più vera dell'altra, esclude l'altra. La posizione
dell'uomo è “tra universale e particolare”, gli uomini hanno caratteristiche comuni, ma non
possono essere omogeneizzati sotto lo stesso concetto regolatore, così come hanno particolarità,
che però non li rende “isole tra altre isole”.
Per dirla con una citazione di un filosofo italiano, Carmelo Vigna:
“Il multiculturalismo è sempre esistito. Oggi è un problema solo perché le culture rivendicano parità. Cosa che
una volta (fino ai tempi del colonialismo), specialmente a noi europei, sembrava una pretesa assurda. Ma la
parità culturale è una rivendicazione sempre sensata? Ad es.: si può dire che la cultura di una sperduta tribù
dell’Amazzonia è pari alla sofisticata cultura newyorkese? Certo, si può dire, da alcuni viene detto e da tutti in
qualche modo si deve dire; ma con una precisazione che spesso viene tralasciata e che rende incomprensibile
difendere una vera parità. La precisazione a me par questa: la parità si può e si deve dire dell’umano che ci
accomuna; si deve dire, in particolare, del buono o cattivo uso della nostra libertà. Nell’uso dell’umana libertà,
infatti, non esiste progresso (morale) ‘continuo’, perché ogni essere umano ricomincia da capo una storia tutta
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sua. Insomma, quanto alla scelta del bene e del male nella vita, quanto alla dignità personale messa in gioco
nelle relazioni tra noi, siamo tutti e sempre uguali. Ma lo stesso non si può dire dello sviluppo ‘civile’, senza
negare l’evidenza”.
Il compito che ci diamo è dunque quello di comprendere l'altro, l'altra persona che incontriamo
quotidianamente nella nostra città, nella nostra scuola, nella squadra di calcio, a scuola di danza,
con la sua cultura differente dalla nostra.
Ma chiediamoci ora: cosa significa “comprendere l'altro”?
Sostanzialmente vuol dire avere con l'altra persona di cultura differente un rapporto secondo
giustizia, che dunque rispetti la libertà e la dignità di chi abbiamo di fronte. Nella storia sono stati
date tre risposte alla domanda che ci siamo fatti, associate a TRE MODELLI di rapporto tra culture:
1) il modello dell'INTEGRAZIONE
2) il modello MULTICULTURALE
3) il modello del DIALOGO INTERCULTURALE.
Modello dell'integrazione
Il primo modello risponde ad una concezione dello Stato e della persona umana di matrice
illuminista, in cui dominano le regole pubbliche, che devono essere il criterio assoluto di giudizio
per tutti i comportamenti dei cittadini. Le differenze culturali rimangono un fatto relegato alla vita
privata degli individui, che sono liberi di esprimersi secondo le proprie usanze, solo “nelle loro
case”. Il Consiglio d'Europa, che ha redatto un documento in occasione dell'anno europeo (2008)
dedicato proprio all’intercultura (vedi la bibliografia in fondo alla pagina), descrive coì questo
modello:
“All’apogeo dello “Stato-nazione”, all’incirca fra il 1870 e il 1945, in Europa l’idea predominante era che tutti
quelli che vivevano all’interno delle frontiere di uno Stato dovevano assimilarsi al modello di vita dominante , che
serviva come base per la socializzazione delle generazioni future, in particolare tramite rituali nazionali, se non
nazionalisti”.
Il problema di questo modello è che spesso le popolazioni in minoranza, si trovano schiacciati dalla
cultura dominante, e spesso mostrano segni di insofferenza verso la cultura imposta.
Un esempio di questa insofferenza sono sicuramente le rivolte del novembre 2005 nelle banlieue
parigine. La Francia infatti è lo stato che più di tutti ha intrapreso politiche integrazioniste, e non è
un caso se queste rivolte, provocate da un mix di insofferenza alla imposizione culturale e di
esasperazione per la situazione di povertà delle periferie della città, sono avvenute proprio nella
capitale francese.
Modello multiculturale
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Un modello alternativo a quello integrazionista “francese”, è quello multiculturalista “britannico”.
Diffuso soprattutto in Gran Bretagna e negli USA, per motivazioni storiche, implica l'accettazione e
la ratifica del fatto che su uno stesso territorio convivano più culture. È una co-presenza passiva di
comunità diversamente connotate culturalmente. Il Consiglio d'Europa dice:
“In quella che è diventata la parte occidentale dell’Europa divisa del dopoguerra, l’esperienza dell’immigrazione è
stata associata a un nuovo concetto di ordine sociale conosciuto col nome di comunitarismo. Questo modello
prevedeva il riconoscimento politico di ciò che era percepito come un sistema di valori diverso (quello delle
comunità minoritarie), allo stesso titolo di quello della maggioranza di “accoglienza”. Sebbene si allontanasse dal
modello dell’assimilazione, il comunitarismo ne condivideva spesso la stessa concezione schematica di una
società ferma in una opposizione fra maggioranza e minoranza, distinguendosene unicamente in quanto
prevedeva la separazione della minoranza piuttosto che la sua assimilazione alla maggioranza”.
Il problema fondamentale di questo modello è che la coabitazione di più culture non è sinonimo di
interazione tra le culture. Per capirci, il rischio è che la società multiculturale sia sì composta da
culture differenti sullo stesso territorio, ma organizzate a mo' di “ghetto”. Non c'è cooperazione, né
dialogo, né addirittura contatto spesso, tra le persone. Questo tipo di società è quella della New
York di inizio '900: Chinatown, Little Italy, Harlem: piccole cittadine all'interno di una stessa città,
ognuna omogenea al suo interno, abitata da una comunità fortemente compatta e coesa, ma
impermeabile a qualsiasi contatto con le altre componenti della città.
Come riassunto della problematica, citiamo il Consiglio d'Europa che scrive:
“L’assimilazione, cioè l’unità senza diversità, comporterebbe una omogeneizzazione forzata e, dunque, una
perdita di vitalità, mentre la diversità, se non è sottoposta ai principi di umanità comune e di solidarietà, rende
impossibile il riconoscimento reciproco e l’inclusione sociale.
Se dobbiamo costruire una identità comune, è necessario che essa si fondi sui valori di ospitalità verso gli altri e
di rispetto della pari dignità di ogni persona, valori che hanno il dialogo e la comunicazione con gli altri come
elementi a loro intrinseci”.
La terza via
Le esperienze precedenti sono segnate da una caratteristica che le accomuna: la mancanza di
dialogo. Infatti nel modello integrazionista non c'è dialogo reale tra le culture, ma la sottomissione
delle culture minoritarie a quella dominante; mentre nel modello multiculturale c'è coabitazione
senza dialogo.
Citiamo ancora l'UE, che dice:
I rischi dell’assenza di dialogo devono essere pienamente valutati nel loro complesso. L’assenza di dialogo
contribuisce a sviluppare in larga misura un’immagine stereotipata dell’altro, instaura un clima di sfiducia
reciproca, di tensione e di ansia, tratta le minoranze come capri espiatori e, più in generale, favorisce
l’intolleranza e la discriminazione. La scomparsa del dialogo nelle società e fra una società e l’altra può, in alcuni
casi, offrire un terreno favorevole alla nascita e allo sfruttamento dell’estremismo, se non addirittura del
terrorismo. Il dialogo interculturale, anche a livello internazionale, è dunque indispensabile fra vicini.
Chiudere la porta a un ambiente che presenta grandi diversità genera una sicurezza illusoria. Rinchiudersi nella
tranquillità apparentemente rassicurante di una comunità esclusiva può condurre ad un conformismo soffocante.
L’assenza di dialogo priva noi tutti di godere degli aspetti positivi delle nuove aperture culturali, necessarie per lo
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sviluppo personale e sociale in un contesto di globalizzazione. Comunità isolate e ripiegate su loro stesse creano
un clima spesso ostile all’autonomia individuale e al libero esercizio dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali.
La mancanza di dialogo non tiene conto di ciò che l’eredità culturale e politica dell’Europa ci ha insegnato. I
periodi pacifici e produttivi della storia europea sono sempre stati caratterizzati da una forte volontà di
comunicare con i nostri vicini e di cooperare al di là delle frontiere. La mancanza di apertura verso gli altri troppo
spesso ha generato catastrofi umane. Solo il dialogo ci permette di vivere nell’unità e nella diversità.
Esiste anche un altro modo di convivere tra persone di culture differenti. È dunque la via del
dialogo tra le culture, un modo di convivere che non guarda soltanto all'esserci della relazione, ma
anche alla sua qualità. Questa via non è una ricetta già pronta, ma è un compito che si rinnova ogni
volta che si presenta la possibilità di un nuovo contatto tra culture.
Questo approccio a persone di cultura differente, non richiede né di rinunciare alla propria cultura
né alle proprie convinzioni. Come scrive Raimon Panikkar, teologo indiano e spagnolo, il dialogo
interculturale richiede “fiducia, e non certezza”. Le culture non si escludono a vicenda (e gli uomini
che le incarnano, quindi, non sono incompatibili tra loro).
Perché vi sia dialogo interculturale, sono necessarie delle condizioni, in mancanza delle quali
mancano le basi perché le persone di culture differenti possano interagire in modo sereno.
Innanzitutto è necessario che venga rispettata la pari dignità di tutte le persone, i diritti umani, il
primato del diritto ed i principi democratici. Questi valori, in particolare il rispetto della libertà di
espressione e delle altre libertà fondamentali, mettono il dialogo al riparo da qualsiasi forza
prevaricatrice e basato più sulla forza delle argomentazioni piuttosto che sull’argomentazione della
forza .
Inoltre l’uguaglianza e il rispetto reciproco sono elementi costitutivi importanti del dialogo
interculturale, indispensabili per superare gli ostacoli alla sua attuazione. Numerosi ostacoli
impediscono il dialogo interculturale, alcuni dovuti alla difficoltà di comunicare in più lingue, altri
legati al potere e alla politica: la discriminazione, la povertà e lo sfruttamento – che toccano in
modo particolarmente duro i membri di gruppi svantaggiati e marginalizzati – sono barriere
strutturali che impediscono il dialogo. Esistono inoltre gruppi e organizzazioni politiche che
predicano l’“odio” dell’altro, dello “straniero” o di alcune identità religiose. Il razzismo, la
xenofobia, l’intolleranza e tutte le altre forme di discriminazione rifiutano l’idea stessa del dialogo
e rappresentano una costante sfida per esso.
Per rendere effettive queste condizioni, e quindi il dialogo interculturale, il Consiglio d'Europa
suggerisce alcune piste di lavoro per i governi e tutti gli organismi sociali (quindi anche al MSAC!):
- garantire, oltre alla parità delle opportunità, la parità effettiva del godimento dei diritti, cioè
aiuti di diverso tipo a persone e gruppi sociali, che pur avendo un diritto garantito, non possono
goderne per limiti di vario genere (“Non c'è nulla che sia più ingiusto quanto far parti eguali tra
diseguali”, dicevano i ragazzi di Barbiana in Lettera ad una Professoressa);
- promuovere la partecipazione di tutti alla vita sociale e politica, che grazie all'impegno condiviso
per il bene comune, crea occasioni di confronto e di dialogo;
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- promuovere una scuola e un sistema educativo che, attraverso un insegnamento delle lingue
che mantenga l'equilibrio tra lingue della maggioranza e lingue della minoranza, un insegnamento
della storia che evidenzi le vicende di dialogo caratteristiche in tutte le epoche storiche, e un
invito alla cittadinanza consapevole, insegni l'apertura all'altro.
Infine, l'Europa chiede anche l'apporto delle associazioni giovanili, come il MSAC, per le loro
specificità, che sono importanti strumenti di educazione al dialogo interculturale:
Le organizzazioni giovanili, le associazioni sportive e le comunità religiose sono in una posizione
particolarmente favorevole per promuovere il dialogo interculturale in un contesto di educazione non formale.
Oltre alla famiglia, la scuola e il posto di lavoro, i gruppi giovanili e i centri comunitari contribuiscono a costruire
la coesione sociale. Grazie alla grande varietà di programmi, alla natura aperta e libera delle loro attività e
all’impegno dei loro membri, queste organizzazioni riescono spesso con maggiore successo a creare una
partecipazione attiva da parte di persone provenienti da minoranze e ad offrire reali possibilità di dialogo.
Organizzazioni della società civile e non governative attive sono una componente indispensabile delle
democrazie pluraliste, favoriscono una partecipazione viva alle cose pubbliche e una cittadinanza democratica
responsabile, nel rispetto dei diritti umani e della parità fra donne e uomini.
BIBLIOGRAFIA
- AA. VV., Multiculturalismo e interculturalità. L'etica in questione. (a cura di C. Vigna e E. Bonan),
Vita e Pensiero.
- Raimon Panikkar, Pace e interculturalità, Jaka Book.
- Consiglio d'Europa, Libro bianco sul dialogo interculturale. “Vivere insieme in pari dignità”,
(opuscolo
programmatico
reperibile
dall'indirizzo:
www.coe.int/t/dg4/intercultural/Source/Pub_White_Paper/WhitePaper_ID_ItalianVersion.pdf)
- AA.VV., L'immigrazione e la sfida dell'interculturalià – Tamtam Democratico, n° 3. (rivista di
formazione politica del Partito Democratico reperibile dal sito www.tamtamdemocratico.it)
- G. Sartori, Multiculturalismo e cattivo vicinato, editoriale Corriere della Sera del 21 febbraio 2010
(reperibile su www.corriere.it)
- G. Sartori, Il Melting Pot non è la fine del mondo, articolo Corriere della Sera dell'8 gennaio 2002
(reperibile su archiviostorico.corriere.it)
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ORIENTAMENTI CULTURALI: IUS SOLI E IUS SANGUINIS
Come abbiamo rapidamente visto, insomma, l’accoglienza nei singoli Stati è regolata anche da
differenti linee di pensiero, che possono tradursi in modelli legislativi alternativi. Allo straniero che
prende residenza in una nuova nazione viene offerta dopo un dato periodo la cittadinanza, ovvero
per dirla molto alla buona la possibilità di diventare membro attivo della vita lavorativa, politica e
sociale del nuovo Paese. In questa scheda andremo a porre lo sguardo sull’Italia: dapprima
prenderemo atto dei meccanismi che consentono a uno straniero di diventare cittadino italiano;
poi ci addentreremo nel dibattito su ius sanguinis e ius soli, che spesso trova spazio sui giornali e
nelle trasmissioni televisive e che riguarda da vicino noi giovani e soprattutto i giovani delle
prossime generazioni, l’asse portante dell’Italia che verrà.
La normativa italiana sulla cittadinanza
Innanzitutto, le norme di cittadinanza italiane. Premettiamo che il testo di riferimento è la legge 5
febbraio 1992, n.91, cui rimandiamo (magari con l’aiuto di un esperto) per eventuali
approfondimenti sul tema della cittadinanza. Qui ci limiteremo a segnalarne le linee guida
fondamentali, che ci saranno utili per introdurre il tema della cittadinanza iure sanguinis o iure soli
per i nuovi nati. Intanto, l’art.1 è già molto chiaro: è cittadino italiano per diritto di nascita
a) il figlio di padre o di madre cittadini;
b) chi è nato nel territorio della Repubblica se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non
segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale questi appartengono.
Insomma, si è italiani alla nascita se figli di almeno un genitore con cittadinanza italiana (non
importa se il luogo di nascita sia l’Italia o qualsiasi altro Stato), o se nati sul suolo italiano da
genitori ignoti o privi per qualche ragione della cittadinanza di alcuno Stato (può accadere per
ragioni politiche, ad esempio). La cittadinanza italiana si trasmette di padre in figlio senza limiti di
generazione, a patto che nessuno degli avi abbia mai rinunciato alla cittadinanza. Inoltre, sono
cittadini italiani il minore straniero adottato da cittadino italiano (art. 3) e, secondo l’art. 4
lo straniero o l'apolide, del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono
stati cittadini per nascita, se:
a) presta effettivo servizio militare per lo Stato italiano e dichiara preventivamente di voler acquistare la
cittadinanza italiana;
b) assume pubblico impiego alle dipendenze dello Stato, anche all'estero, e dichiara di voler acquistare la
cittadinanza italiana;
c) al raggiungimento della maggiore età, risiede legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica e
dichiara, entro un anno dal raggiungimento, di voler acquistare la cittadinanza italiana.
Per quanto riguarda invece il figlio di stranieri nato sul suolo italiano, il comma 2 dell’art. 4 precisa
che
lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della
maggiore età, diviene cittadino se dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dalla
suddetta data.
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Questi i casi relativi ai nuovi nati o comunque ai minorenni, dunque alla fascia d’età che occupa od
occuperà nei prossimi anni le nostre scuole. Per completezza, ricaviamo dalla legge 91/92 anche
qualche direttiva sugli stranieri giunti in Italia già maggiorenni.
Secondo l’art. 5, comma 1, « Il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano può acquistare la
cittadinanza italiana quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente da almeno due anni
nel territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio se residente
all'estero» e, comma 2, « I termini di cui al comma 1 sono ridotti della metà in presenza di figli nati
o adottati dai coniugi ». Dunque il matrimonio con cittadino italiano garantisce al coniuge la
cittadinanza, dopo due o tre anni a seconda che la residenza sia in Italia o all’estero; l’eventuale
nascita di figli dimezza i tempi del procedimento.
Secondo l’art.9, comma 1, la cittadinanza italiana viene concessa:
d) al cittadino di uno Stato membro delle Comunità europee se risiede legalmente da almeno quattro anni
nel territorio della Repubblica;
e) all'apolide che risiede legalmente da almeno cinque anni nel territorio della Repubblica;
f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.
Insomma, uno straniero che giunga in Italia riceverà la cittadinanza dopo quattro anni di residenza
se è cittadino UE, dopo cinque se apolide, dopo ben dieci se extracomunitario.
Ius sanguinis o ius soli?
Esplicitata la necessaria premessa legislativa – per quanto sottolineando solo i punti principali della
legge 91/92 – proviamo a capire meglio il discorso su ius sanguinis e ius soli. Chi non mastica pane e
diritto però vorrà probabilmente capire che cosa significhino le definizioni latine. Magari chi sta
frequentando un liceo ha qualche possibilità in più: ius significa “diritto”, mentre sanguinis e soli
significano letteralmente “del sangue” e “della terra”. La diatriba riguarda i nuovi nati: in alcuni
Stati essi hanno la cittadinanza “per diritto di sangue”, ovvero perché i genitori, i nonni o persino gli
avi sono o erano cittadini di quel determinato Stato; dunque possono essere cittadini dello Stato
dei loro genitori o avi, pur essendo nati fisicamente in altra nazione. In altri Stati si è invece
cittadini già alla nascita “per diritto della terra”: se sono nato in uno Stato, magari anche se da
genitori di altra nazionalità, acquisisco direttamente la cittadinanza dello Stato di nascita.
Ecco come il sito del Ministero dell’Interno definisce la differenza tra ius sanguinis e ius soli:
Lo "ius soli" fa riferimento alla nascita sul "suolo", sul territorio dello Stato e si contrappone, nel novero dei
mezzi di acquisto del diritto di cittadinanza, allo "ius sanguinis", imperniato invece sull'elemento della
discendenza o della filiazione. Per i paesi che applicano lo ius soli è cittadino originario chi nasce sul territorio
dello Stato, indipendentemente dalla cittadinanza posseduta dai genitori.
Come abbiamo visto, la legge italiana predilige lo ius sanguinis: i bambini che nascono fuori dal
suolo italiano ma da almeno un genitore italiano, sono a loro volta cittadini italiani; i bambini nati
invece da genitori stranieri ma su suolo italiano mantengono la cittadinanza originaria, e non
possono acquisire quella italiana almeno fino al compimento della maggiore età.
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Spesso si sente dibattere della legittimità dello ius sanguinis al giorno d’oggi, quando l’Italia è
Paese di fortissima immigrazione. I sostenitori dello ius soli infatti sostengono che i bambini nati in
Italia da genitori stranieri, ormai, sono già dai primi anni di vita italiani a tutti gli effetti:
frequentano le scuole italiane, parlano la nostra lingua (e spesso anche con le accentazioni tipiche
delle varie regioni d’Italia), trascorrono il tempo libero giocando a pallone o con le bambole
insieme ai nostri fratelli più piccoli. Che senso ha dunque non riconoscerli come cittadini fino alla
maggiore età, obbligandoli a fastidiose pratiche burocratiche, alla continua richiesta di permessi di
soggiorno, come se fossero bambini e ragazzi “in prestito” sul nostro suolo? Anche il Presidente
della Repubblica Giorgio Napolitano ha posto ripetutamente il tema dello ius soli all’attenzione
pubblica. Soprattutto, fece scalpore una sua uscita nel novembre 2011, quando a pochi giorni dalla
costituzione del governo Monti affermò con coraggio: «Mi auguro che in Parlamento si possa
affrontare anche la questione della cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati stranieri.
Negarla è un'autentica follia, un'assurdità. I bambini hanno questa aspirazione». Proviamo ora a
indicare tre motivi per cui la presente situazione legislativa ci sembra attualmente poco consona:
1) È illogico che un ragazzo nato e cresciuto in Italia non possa avere la cittadinanza italiana,
mentre un ragazzo nato e cresciuto in un altro Stato, ma che riceve dalle generazioni
precedenti la cittadinanza italiana, sia invece cittadino pur magari non conoscendo la nostra
lingua, la nostra storia, la nostra cultura.
2) La grandissima parte degli stranieri che emigrano in Italia con la famiglia, lo fa per motivi di
lavoro. Dunque essi producono per il nostro Paese e ne pagano i contributi regolarmente.
Ormai nella maggioranza dei casi le migrazioni sono, se non assolutamente definitive,
comunque di lungo o lunghissimo periodo. Abbiamo già detto di come i figli di immigrati
assimilino fin da piccoli usi e costumi della nostra cultura (per chi volesse un’ulteriore
prova, si consiglia il trailer del documentario 18 IUS SOLI, che abbiamo condiviso anche al
campo durante il pomeriggio dedicato all’intercultura; disponibile al sito www.18-iussoli.com). Perché un padre e una madre che lavorano alle stesse condizioni dei cittadini
italiani e con la prospettiva di acquisire loro stessi la cittadinanza, non dovrebbero vedere
riconosciuto come italiano almeno il loro figlio nato in Italia, che studia e vive come un
qualsiasi coetaneo italiano?
3) Nella formula che riguarda la cittadinanza a 18 anni per i nati in Italia da genitori stranieri, si
dice che il minore deve risiedere nel nostro Paese «legalmente senza interruzioni fino al
raggiungimento della maggiore età». Il D.P.R. 572 del 12 ottobre 1993, che mette in atto la
legge 91/92, specifica al comma 3 dell’art. 3 questo «senza interruzione»: «l'interessato
deve aver risieduto legalmente in Italia senza interruzioni nell'ultimo biennio antecedente il
conseguimento della maggiore età e sino alla data della dichiarazione di volontà» (ovvero il
momento in cui il ragazzo ora maggiorenne annuncia di voler acquisire la cittadinanza
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italiana). In sostanza, un nostro amico nordafricano che a 18 anni voglia diventare cittadino
italiano non può uscire dall’Italia per due anni prima del diciottesimo compleanno, e per il
tempo successivo fino all’espletamento di tutte le formalità burocratiche. Un’ulteriore
misura restrittiva dal sapore decisamente antico.
In realtà allo studio del nostro Parlamento ci sono già delle proposte di legge per modificare la
legge sulla cittadinanza. La più condivisa, in particolare è la proposta a firma Sarubbi – Granata, del
30 luglio 2009. Tuttavia, al momento non si sono verificate le condizioni perché la proposta
potesse essere discussa in Parlamento. Nel futuro, speriamo che ci sia spazio e tempo per una
seria riflessione sull’argomento; nel frattempo, da studenti e da msacchini, non possiamo che
tenerci aggiornati sulla condizione legale dei nostri coetanei stranieri.
SITOGRAFIA:
http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1992-02-05;91
http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legge:1993-10-12;572!vig
http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/temi/cittadinanza/Ius_soli.html
PROPOSTE DI LETTURA:
Nel mare ci sono i coccodrilli – Fabio Geda
La città dei ragazzi – Eraldo Affinati
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FORMAZIONE SPECIFICA: L’ALUNNO STRANIERO NELLA SCUOLA
ITALIANA
Anche questa è una scheda di carattere soprattutto legislativo. Ci può servire anche per prendere
familiarità con codici e decreti: se anche l’approccio può non essere facile, comunque il linguaggio
delle leggi è più chiaro di quello che sembra; e soprattutto, è affascinante provare a cogliere dietro
ogni disegno di legge – quando studiato con buon senso, ben inteso – il tentativo di armonizzare
situazioni che si sviluppano man mano che la vita dello Stato si evolve insieme con i principi ancora
ben saldi su cui la nostra Costituzione poggia da quel lontano 1 gennaio 1948.
D.P.R. 394/1999: minori stranieri e istruzione
Questo Decreto del Presidente della Repubblica contiene le norme di attuazione del decreto
legislativo 286/1998, che riguarda «disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero». In particolare, gli articoli dal 45 al 48 contengono le «Disposizioni in materia di
istruzione». Quello che ci tocca più da vicino è il 45, che parla di diritto allo studio per gli alunni
stranieri.
L’articolo 45 specifica subito che il minore straniero ha il diritto e il dovere di andare a scuola:
indipendentemente dalla regolarità o meno della sua posizione, può iscriversi a scuola in qualsiasi
momento dell’anno e deve ottemperare all’obbligo scolastico proprio come i ragazzi italiani. Di
norma un alunno straniero viene iscritto alla classe corrispondente alla sua età, ma il collegio dei
docenti può optare per una classe inferiore o superiore in base al livello d’istruzione ottenuto
dall’alunno nel Paese di provenienza. Importante la specifica del comma 4: «Il collegio dei docenti
definisce, in relazione al livello di competenza dei singoli alunni stranieri il necessario adattamento
dei programmi di insegnamento; allo scopo possono essere adottati specifici interventi
individualizzati o per gruppi di alunni per facilitare l'apprendimento della lingua italiana».
Chiaramente non è possibile studiare in una scuola statale italiana senza conoscere la nostra
lingua, ed è per questo che lo studente straniero ha diritto a un insegnamento personalizzato per
apprendere quanto prima la lingua e rimanere al passo con i programmi.
Vediamo rapidamente gli altri tre articoli, dedicati soprattutto alle università: l’articolo 46 è
dedicato all’accesso degli stranieri: ogni anno gli atenei italiani sono tenuti a riservare un numero
di posti prestabilito a studenti stranieri, che potranno mantenere il permesso di soggiorno per
motivi di studio superando di anno in anno gli esami del proprio corso. L’articolo 47 riguarda
l’abilitazione all’esercizio della professione: un visto speciale può essere rilasciato agli studenti
stranieri che si siano laureati in un corso, e debbano successivamente svolgere l’esame di Stato per
poter praticare la professione corrispondente. L’articolo 48, infine, si occupa del riconoscimento
dei titoli di studio conseguiti all’estero, la cui competenza è attribuita direttamente alle università
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stesse.
In tempi recenti, il nostro Ministero dell’Istruzione ha dovuto esprimersi su una questione legata al
riconoscimento del titolo di studio degli alunni stranieri. Molti ragazzi in età di scuola superiore,
infatti, arrivano in Italia senza possedere un titolo di studio equivalente alla nostra licenza media.
Tuttavia, sarebbe assurdo inserire un ragazzo straniero di 14, 15 o 16 anni in una prima media. Su
questo tema quindi il M.I.U.R. ha voluto pronunciarsi con una circolare datata 27 gennaio 2012,
che aveva il seguente oggetto: studenti con cittadinanza non italiana iscritti a classi di istituti di
istruzione secondaria di secondo grado. Esami di Stato.
La circolare riprende il comma 2 dell’articolo 45 appena visto, secondo cui i ragazzi stranieri ancora
in età dell’obbligo devono essere inseriti nella classe anagraficamente corrispondente, salvo
diverse disposizioni del collegio docenti. Quando invece a fare domanda sono studenti almeno
sedicenni, la circolare decreta che «il consiglio di classe può consentire l’iscrizione di giovani
provenienti dall’estero, i quali provino, anche mediante l’eventuale esperimento nelle materie e
prove indicate dallo stesso consiglio di classe, sulla base dei titoli di studio conseguiti in scuole
estere aventi riconoscimento legale, di possedere adeguata preparazione sull’intero programma
prescritto per l’idoneità alla classe cui aspirano». In sostanza, l’alunno straniero può essere
ammesso alla classe selezionata dal collegio dei docenti superando un test ad hoc; l’importante è
che dimostri di avere le competenze necessarie per frequentare quella classe, anche se non
possiede la licenza media italiana o comunque un titolo di studio ad essa direttamente
equiparabile. Spesso invece si verificavano casi di confusione, in cui i dirigenti scolastici, non
sapendo bene come comportarsi nei confronti degli alunni stranieri, pretendevano da parte loro lo
svolgimento, presso i Centri territoriali permanenti o presso i Centri provinciali per gli adulti, degli
esami di Stato conclusivi del primo ciclo d’istruzione. Una prassi comune che il ministro Profumo
ha voluto abolire, equiparando così lo studente straniero che entri nel sistema di istruzione
secondaria a uno studente cittadino italiano, fermo restando il superamento del test proposto dal
collegio dei docenti.
SITOGRAFIA:
http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legislativo:1999-08-31;394
http://www.istruzione.it/web/istruzione/prot330_12
QUALCHE IDEA PRATICA
Avete mai sentito parlare di “sussidiarietà interna”? Il sito atuttascuola.it la definisce così: «La
sussidiarietà è un principio in base al quale vale la pena di valorizzare i soggetti che operano nella
società, piuttosto che demandare la gestione di tutto alle istituzioni statali. In questo modo i
soggetti che operano, aiutano lo Stato (da qui il termine sussidiarietà), a realizzare il bene comune.
Essi cioè lavorano non solo nel proprio interesse, ma anche nell'interesse comune, nel momento in
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cui costruiscono realtà sociali utili a tutti». Quando la sussidiarietà diventa qualcosa di grande, che
muove risorse ingenti, lo Stato si fa da parte e affida a terzi lo svolgimento di determinati compiti:
«Lo Stato riconosce che non può intervenire direttamente in tutte le situazioni, e sovvenziona e
incentiva l'intervento di vari enti ed associazioni non statali».
Dove vogliamo arrivare? Semplicemente, anche noi, nel nostro piccolo di msacchini, possiamo fare
qualcosa di “sussidiarietà interna”. Creare dei cineforum in cui si vedono film storici della nostra
cultura; mettere a disposizione un pomeriggio alla settimana per aiutare i ragazzi stranieri nei
compiti; pensare dei mini-corsi di italiano... Dove c’è necessità, il MSAC può intervenire anche per
dare una mano alle istituzioni e ai professori, che non sempre riescono a tenere il passo con il
numero sempre crescente di ragazzi stranieri che abitano le nostre scuole. Il tutto sempre
mantenendo lo spirito non di chi insegna qualcosa a qualcun’altro, ma di chi si mette a fianco per
percorrere un pezzo di strada insieme. Che dite, si può fare?
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PRIMO ANNUNCIO: IL DIALOGO INTERRELIGIOSO
Che cos’è il dialogo interreligioso
La religione non è una componente secondaria della cultura dei popoli. Facendo esempi un po’
banali, ma che rendono l’idea, come è possibile pensare la cultura dei popoli americani, i
cosiddetti “indiani”, senza tener conto di tutta la ritualità ad essi associata, dei culti totemici e della
loro religione animista? Oppure, ancora, come non pensare immediatamente alla miriade di
divinità “indù”, mentre si guardano immagini, foto o video provenienti dall’India? Parlando di
dialogo interculturale, non si può prescindere dal parlare di “dialogo interreligioso”. Anche solo
pensando alla situazione nostra attuale, come è possibile pensare al confronto tra la nostra cultura
occidentale, e quella detta, appunto, “islamica”, proveniente dal nord-Africa, senza considerare il
confronto tra le religioni? Certo, spesso il confronto religioso, o meglio, lo “scontro” religioso, viene
sfruttato in modo meschino per attizzare gli odi tra le popolazioni e le etnie; tuttavia è sbagliato
ridurre il confronto tra le religioni, ad una guerra tra fazioni rivali.
Ma cosa significa “dialogo interreligioso”? Rispondere non è facile, perché questa questione, come
tutte le questioni “umane”, non hanno mai risposte certe e definizioni esatte. Per avere un
orientamento generale, guardiamo cosa dicono i documenti ufficiali della Chiesa. Nella
dichiarazione del Concilio Vaticano II “Nostra Aetate”, che riguarda appunto il rapporto tra la
religione cattolica e le altre religioni, viene affermato:
“La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero
rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti
differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella
verità che illumina tutti gli uomini.
Tuttavia essa annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è « via, verità e vita » (Gv 14,6), in cui gli
uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose.
Essa perciò esorta i suoi figli affinché, con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione
con i seguaci delle altre religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana,
riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socioculturali che si trovano in
essi”.
La Chiesa invita dunque ad un interesse che sa comprendere le ragioni dell’altro, ma che nemmeno
dimentichi le proprie origini e la propria verità, e valorizza al massimo tutti i possibili punti di
contatto tra le religioni, affermando che sono “raggi di verità”.
Questa posizione di apertura e dialogo è spesso molto problematica. A volte le differenze e le
divisioni religiose vengono utilizzate da gruppi che assoggettano le parole della religione ai propri
interessi (un esempio: da una parte in Africa del nord, gruppi fondamentalisti tentano di prendere
il potere, mentre in Europa, soprattutto al nord, si creano movimenti xenofobi che riferendosi a
questi gruppi integralisti promuovono campagne anti islamiche).
Uno dei “traguardi” più importanti del dialogo interreligioso sono stati gli incontri internazionali di
preghiera per la pace (il primo incontro storico fu il 27 ottobre 1986 ad Assisi), al quale
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parteciparono rappresentanti di tutte le più importanti religioni del mondo. La pace viene infatti
riconosciuta da tutte le religioni come un dono prezioso, e per questo ogni rappresentante in
quella occasione si prende l’impegno di promuoverla e di pregare per essa. Questo può essere un
bell’esempio di dialogo, che ruota attorno all’individuazione di un “valore” condiviso tra tutte le
differenti professioni di fede.
Grazie al suggerimento virtuale di un prete cattolico con una storia personale molto particolare,
Raimon Panikkar, vogliamo addentrarci ancora di più nella realtà del “dialogo”. Il nostro
personaggio infatti nacque nel 1918 da madre spagnola cattolica e padre indiano di religione indù.
Crebbe in Spagna, si formò attraverso la cultura europea, si laureò in filosofia, teologia e chimica, e
venne ordinato sacerdote cattolico. Verso i 35 anni fece un viaggio in India, durante il quale riscoprì
le sue origini indù. Da questo viaggio cominciò un percorso di vita e spirituale teso a trovare il
Cristo nelle religioni che la storia gli aveva fatto incontrare. Dirà: “Sono partito cristiano, mi sono
scoperto hindú e ritorno buddhista, senza cessare per questo di essere cristiano”. Un personaggio
da approfondire, insomma, l’incarnazione vivente del dialogo interreligioso!
In un suo libro, propone un “Discorso della montagna del dialogo interreligioso”, una sorta di
decalogo dedicato al dialogo tra le religioni, che possiamo leggere come indicazione per affrontare
il confronto con altre religioni:
Il discorso della montagna del dialogo interreligioso
(Raimon Panikkar)
Quando entri in un dialogo intrareligioso, non pensare prima ciò che tu devi credere.
Quando tu dai testimonianza della tua fede non difendere te stesso o i tuoi interessi costituiti, per quanto ti
possano apparire sacri. Fa come gli uccelli del cielo che cantano e volano e non difendono la loro musica e la
loro bellezza.
Quando dialoghi con qualcuno, guarda il tuo interlocutore come una esperienza rivelativa, come tu
guarderesti – o ti piacerebbe guardare – i gigli dei campi.
Quando intraprendi un dialogo intrareligioso cerca di rimuovere la trave dal tuo occhio, prima di rimuovere
la pagliuzza dall’occhio del tuo vicino.
Beato te quando non ti senti autosufficiente mentre sei in dialogo.
Beato te quando credi all’altro perché tu credi in Me.
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Beato te quando affronti incomprensioni da parte della tua comunità o di altri a causa della tua fedeltà alla
verità.
Beato te quando non attenui le tue convinzioni e tuttavia non le presenti come assolute.
Guai a voi, teologi ed accademici, quando trascurate ciò che gli altri dicono perché lo considerate
imbarazzante o non sufficientemente "scientifico".
Guai a voi, praticanti delle religioni, quando non ascoltate il grido dei piccoli.
Guai a voi autorità religiose, perché impedite il cambiamento e la (ri)conversione.
Guai a voi, gente religiosa, perché monopolizzate la religione e soffocate lo Spirito che soffia dove vuole e
come vuole.
(da Il dialogo intrareligioso, Cittadella Editrice)
Un concetto interessante di questo “discorso” è l’aggettivo “INTRARELIGIOSO”, usato anche per il
titolo dell’opera. Con questo, Panikkar afferma che perché ci sia dialogo “tra” (inter-) le religioni, è
necessario un dialogo “dentro” (intra-) la religione stessa. Significa che prima di intraprendere un
dialogo, è necessario preparare il proprio animo al dialogo. L’autore stesso, in una intervista,
spiega:
"Dialogo intrareligioso vuol dire che bisogna scoprire in se stessi il terreno in cui l'induista, il
musulmano, l'ebreo e l'ateo possono trovare un posto. Se non apro il mio cuore, se non vedo che
l'altro non è altro ma parte di me, non potrò mai dialogare con lui".
Questa affermazione, segnata sicuramente dalla esperienza di vita di chi l’ha scritta, ci indica però
un passo necessario per un autentico dialogo.
Attraverso i nostri gruppi diocesani MSAC non intendiamo sicuramente intavolare grandi
discussioni dottrinali intorno ai rapporti tra le religioni, e nemmeno riappacificare il Papa con il
capo della Chiesa ortodossa, ma semplicemente riflettere, a partire dalle nostre realtà scolastiche
e di classe, sul significato di trovarsi a contatto con persone che non sono indifferenti alla
religione, ma che professano una fede diversa dalla nostra.
QUALCHE IDEA PRATICA
1) Si potrebbe approfondire il tema in un incontro con il responsabile diocesano per il dialogo
interreligioso, presente in ogni diocesi, che, oltre a un approfondimento o una riflessione
spirituale, potrebbe offrire una presentazione delle caratteristiche specifiche della
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presenza di altre religioni rispetta a quella cattolica territorio.
2) Una idea potrebbe essere quella di un incontro tra ragazzi studenti appartenenti a religioni
differenti, destinato a scoprire e a discutere uno o più valori che accomunano tutte le
religioni (ad esempio, “la pace”, “il culto tradizionale”, “l’amore”…).
BIBLIOGRAFIA
- Dichiarazione conciliare sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane “Nostra aetate”
(presente online su www.vatican.va)
- Raimon Panikkar, Il dialogo intrareligioso, 1988.
- Raimon Panikkar, La torre di Babele. Pace e pluralismo, (in Culture e religioni in dialogo, 2009)
- sito della Comunità di Sant’Egidio (www.santegidio.org)
- sito http://www.gianfrancobertagni.it/autori/raimonpanikkar.htm (numerosi articoli di Raimon
Panikkar).
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PUNTI D’INCONTRO E OKTOBERFEST:
PROPOSTE DI ATTIVITÀ
Preparare una attività “interculturale” non sarà un’impresa facile, ma ne varrà sicuramente la
pena! L’idea che abbiamo in mente per questo Oktoberfest MSAC è quella di “INCONTRO”. Una
festa, un momento di riflessione, un pomeriggio, in cui si incontrano persone con storie differenti,
con idee religiose diverse, con tradizioni e culture diverse. Questo può prendere diverse forme, a
seconda dei desideri e delle necessità dei partecipanti.
Perché questo incontro “esca col buco” (come non sempre succede con le ciambelle), è
assolutamente importante una fase: la preparazione! Innanzitutto bisogna attivarsi per tempo: già
al campo nazionale di Nardò abbiamo dedicato un pomeriggio ai temi dell’OFM, per iniziare a
entrare nell’ottica dell’intercultura e per cominciare a pensare alle modalità migliori per trattare
questi temi. Tornati ora a casa, è importante mettersi il prima possibile all’opera!
L’idea centrale dell’incontro è che esso non deve essere basato su una differenza di “livelli”, di
“gradi di sviluppo”. Non ci sono gruppi di persone che possono solo ricevere, e altri che hanno il
compito di dare. Ogni gruppo etnico-culturale porta con sé la ricchezza della propria tradizione,
delle proprie abilità, dei propri suoni e delle proprie immagini. Quello che vogliamo succeda
nell’incontro è uno “scambio”, un donarsi vicendevolmente la propria ricchezza, le proprie
bellezze, per inaugurare un tempo di convivenza e reciproca ospitalità.
La scuola può essere uno straordinario luogo dove sperimentare e dove creare questo incontro.
Nella scuola ci si confronta, ma soprattutto si è in uno stato di “disposizione all’apprendimento”,
di “apertura”. Questo luogo è probabilmente il migliore nel quale costruire una società fondata sul
dialogo tra le persone e le culture. Da qui vogliamo partire per questo percorso, proponendo
all’interno delle scuole il nostro incontro interculturale.
Ogni scuola ha delle particolarità, così come ogni territorio ha una realtà sociale differente. È
importante considerare queste particolarità nella preparazione della festa, per non proporre un
evento che resti insignificante, o che venga interpretato malamente dalla città e dalle persone.
FASI
L’OFM non dovrebbe essere un incontro che resta isolato, ma qualcosa che si sviluppa nel tempo,
che porta frutti. Proponiamo quindi tre fasi per l’OFM 2012: la prima sarà di “preparazione” e di
“sensibilizzazione” all’evento e soprattutto alla tematica; la seconda sarà l’incontro vero e proprio;
la terza fase saranno i “risultati” dell’incontro, cioè tutte le iniziative o esperienze che
continueranno nel tempo.
1° FASE: CREIAMO MOVIMENTO
contattare associazioni e
movimenti che si occupano dei temi dell’intercultura, dell’integrazione e dell’accoglienza, e le
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istituzioni cittadine o provinciali dedite a queste tematiche. Di associazioni di questo genere ce ne
sono a bizzeffe, per lo più locali. Basta cercare nei luoghi giusti per trovare!
Innanzitutto si potrebbero contattare le istituzioni cittadine o provinciali. Dalle pagine web della
città o della provincia, dovrebbe essere facile trovare i contatti degli assessori alle Politiche Sociali
(così chiamati, o con nomi simili), che si occupano della tematica multiculturale. Oltre a suggerirvi
persone che possono intervenire nel vostro incontro, pubblicizzare e anche addirittura patrocinare
il vostro OFM, possono anche darvi i nomi delle associazioni più significative del territorio che si
occupano di intercultura.
Questo passaggio preliminare è fondamentale, perché permette di stabilire contatti con persone
che si occupano in modo serio dell’argomento, o che sono parte in causa. Questa accortezza può
rendere l’OFM 2012 qualcosa di molto bello nella storia del gruppo MSAC, della scuola e della
città!
riguardo al tema, può essere il classico volantinaggio. Può essere utile, nel caso si organizzi una
festa con altre culture, fare volantinaggio anche nelle zone dove le persone di determinate culture
sono maggiormente presenti!
Invece che il classico volantino, nel caso si voglia fare una azione in stile “guerrilla marketing” (vedi
Wikipedia e Youtube, e materiale sul sito del Msac riguardante la “promozione” per spiegazioni), si
possono distribuire per la città fogliettini e piccoli depliant con spunti letterari o visivi relativi al
tema. Questo è solo un esempio, ma le idee per la “guerrilla msacching” possono essere infinite…
Spazio alla fantasia!
essere interessante fare un sondaggio tra le varie classi, sul “livello di interculturalità” tra gli
studenti. Come viene concepito il rapporto tra culture? Cosa significa “intercultura”, per gli
studenti? Quali esperienze di questo tipo vengono vissute dagli studenti? Quanto incidono le
differenze culturali nei rapporti tra le persone? Questi e altri possono essere gli argomenti di una
piccola indagine tra gli studenti, che poi potrà venir presentata durante l’OFM.
2° FASE: IN MOVIMENTO!
Di seguito ci sono varie opzioni che, come in un piano telefonico, possono essere attivate a proprio
piacimento e secondo le proprie necessità durante l’incontro.
opzione “cinema” Cineforum: visione di film, preceduta da una piccola introduzione
all’argomento, e seguita da gruppi di discussione. Sono molti i film che parlano di rapporto tra
culture. Alcuni titoli interessanti potrebbero essere questi:
-
COSA PIOVE DAL CIELO? (2012), un film di Sebastian Borenstzein.
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Trama: Profondamente segnato dall'esperienza militare nella guerra delle Falkland,
Roberto è oggi un uomo dal carattere schivo e introverso, che a fatica manda avanti a
Buenos Aires il proprio negozio di ferramenta. L'unico svago è quello di collezionare la sera
a casa ritagli di giornale che raccontano storie strane. Del tutto casualmente un giorno
incontra per strada un giovane cinese, Jun, arrivato in Argentina per incontrare uno zio,
unico parente ancora vivo. Roberto lo porta nella sua casa. Il percorso per superare la
naturale chiusura mentale di Roberto non sarà facile, e ricco di momenti soprprendenti.
-
ALMANYA - LA MIA FAMIGLIA VA IN GERMANIA (2011), un film di Yasemin Sanderell.
Trama: Ormai nonno, Huseyin una sera comunica alla famiglia riunita comunica di aver
acquistato una casa in Turchia. A proprie spose, invita tutti a compiere il viaggio a ritroso
dalla Germania, cove vivono, al Paese delle origini. All'arrivo, mentre su un pullman si
dirigono verso il luogo stabilito, Gabi, la nipote adolescente, racconta a quello più piccolo,
le vicende di Huseyin da quando giovane turco decise di trasferirsi in Germania in cerca di
lavoro. Scorrono trenta anni di storia, la moglie, i figli, la prima casa, le difficoltà, il
raggiungimento di una certa tranquillità. Finale con colpo di scena!
-
SOGNANDO BECKHAM (2002), un film di Gurinder Chadha.
Trama: A Londra la diciottenne Jess ha in camera da letto i manifesti del calciatore
Beckham. Il calcio è la sua grande passione, e quando, notata al parco dalla coetanea Jules
(una giovanissima Keira Knightley), viene invitata ad aggregarsi ad una squadra femminile,
lei accetta subito. Da quel momento però comincia un periodo difficile fatto di fughe, scuse,
sotterfugi. Jess é figlia di indiani trapiantati a Londra i quali non vogliono saperne di pallone
e la esortano a pensare all'università e a qualche fidanzato da scegliere tra i ragazzi indiani
locali. Per la ragazza inizierà una storia complessa ma profonda e avvincente.
opzione “mercato”: Un luogo e tanti stand, tante bancarelle in stile “mercato del giovedì”, in cui
ai partecipanti all’incontro vengono offerti i “frutti” delle varie culture. Qualche idea? Stand di
cucina tradizionale locale, africana, rumena, indiana; oppure di musica di vario genere; di scrittura,
cinese, giapponese, araba; stand artistici o di letteratura straniera, di poesia; uno stand del the
giapponese, e chi più ne ha più ne metta! La regola fondamentale di questo mercato è che ogni
bancarella deve portare qualcosa in dono agli altri, che ogni cultura, in quanto è ricca di frutti da
poter condividere, deve diffondere tra tutti i presenti le proprie particolarità.
opzione “cultura”: Si può organizzare una mostra, che in modo didascalico mostri i tratti
essenziali e qualche particolarità delle differenti culture a cui appartengono i ragazzi di una
determinata scuola, città o provincia. Ovviamente, perché questa mostra abbia valore, è
necessario che venga fatta proprio in collaborazione con gli studenti che appartengono a queste
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differenti culture. La mostra può includere informazioni sulla cucina, sull’arte, sulla letterature,
sulla musica, sulla lingua, sugli usi e i costumi, sui proverbi (ecc. ecc.) di una cultura.
opzione “festa”: L’opzione più “esuberante”. Una festa multietnica con musica, balli, cibo
proveniente da tutto il mondo! L’incontro può essere organizzato all’aperto, e oltre ad uno stand
con cibo etnico, possono essere proposte musiche tradizionali straniere, possono essere creati
“angoli letterari” in cui esporre opere d’arte o oggetti d’artigianato estero, o addirittura si
potrebbe proporre una piccola pièce teatrale tradizionale. La festa può essere anche una bella
occasione per eventuali associazioni di migranti, di farsi conoscere, e di far conoscere la propria
cultura.
opzione “sport”: Lo sport, si sa, unisce. Come contorno dell’incontro, potrebbe essere
organizzato un momento “sportivo”, anche prendendo spunto dalle tradizioni sportive dei
differenti paesi presenti. Non dappertutto lo sport più praticato è il calcio! Ci sono poi miriadi di
giochi “non agonistici” che possono essere imparati da altri paesi.
opzione “musica”: I più portati nel canto o nella pratica di uno strumento musicale possono
affiancare i propri strumenti e la propria voce a quella di altri strumenti e voci più “esotiche”,
oppure cimentarsi nel suonare musiche provenienti da altre tradizioni.
3° FASE: MOTO PERPETUO…
Come si diceva poco fa, l’incontro non deve essere soltanto un evento sporadico, isolato, senza
alcun seguito. Questo tema in particolare va vissuto il più possibile nella quotidianità, affinché
abbia un ritorno nella vita di ognuno. Il dialogo e il confronto con altre culture deve diventare
prassi quotidiana, non questione di eventi particolari. Qui di seguito sono elencate alcune idee…
inserire una rubrica fissa, che ogni volta presenti le caratteristiche delle differenti culture. Una
rubrica interculturale in cui inserire storie, leggende, abitudini, interviste, racconti, ricette, canzoni
e poesie da tutto il mondo.
ciclo di incontri (magari cercando anche di inserirlo nel POF della scuola)
durante tutto l’anno, in cui, attraverso laboratori, film, testimonianze e dialoghi con esperti,
approfondire l’argomento “intercultura e società multietnica”. Il coinvolgimento di altre
associazioni (sia studentesche, sia relative alla tematiche interculturale) può essere un importante
valore aggiunto al ciclo di incontri.
Laboratori di lingua base”, al pomeriggio nei locali scolastici, in cui
studenti insegnano ad altri coetanei le nozioni base di una lingua. Questa iniziativa può avere un
taglio più “sociale” – cioè può venir organizzata da studenti italiani che organizzano, per altri
ragazzi della stessa età o per adulti appena arrivati in Italia, dei “corsi” o delle “ripetizioni” di
italiano; oppure è possibile anche ribaltare i ruoli, e organizzare laboratori in cui studenti di altre
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nazionalità insegnano ai presenti le nozioni base della loro lingua (es. laboratorio di lingua cinese,
o di scrittura araba…).
di musica “interetnica”, con un repertorio musicale preso dalle varie tradizioni
del mondo, con componenti, se possibile, che suonano strumenti tipici e popolari. Una specie di
“School of Ethno”, per capirci!
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OktoberFest Msac 2012