L’IPOTESI DI UNA VITA “Insegnaci, buon Signore, a servirti come meriti: a dare senza calcolare il costo, a combattere senza badare alle ferite, a faticare senza cercare riposo, a lavorare senza richiedere altro compenso che la consapevolezza di fare la Tua volontà”. Questa breve preghiera di sant’Ignazio rende molto bene lo spirito in cui nacque la Compagnia di Gesù, in quel crogiolo di eroismo e violenza che fu la cosiddetta Controriforma. Ai tre voti monastici il fondatore ne volle aggiungere un quarto, quello della fedeltà al Papa, in un momento in cui parve ad occhi umani che l’antica Cristianità si stesse disgregando senza rimedio. I padri gesuiti partirono per rievangelizzare l’Europa e il mondo intero. Molti morirono martiri, in terre più o meno lontane. In Occidente, gli episodi più atroci si verificarono in quel paradiso di moderazione e buon senso che ancor oggi si ritiene sia stata l’Inghilterra elisabettiana. Già il semplice “papista” era un traditore dello Stato e della regina e meritava il patibolo; figuriamoci cosa meritava un ordine fondato da uno spagnolo, specialmente fedele a quello che, per gli inglesi politicamente corretti, era l’anticristo. Da allora, e ancor più dopo la famigerata congiura delle polveri (1605), il fango gettato sulla Compagnia servì mirabilmente al governo per screditare l’intera causa cattolica; al punto che, ancora a inizio Ottocento, i papisti erano cittadini di serie B. La discriminazione giuridica lasciò il posto a quella sociale, al punto che un protestante che si convertiva era spesso rinnegato da amici e parenti. Come accadde alla madre di Tolkien, nonostante fosse povera, vedova e malata. Quanto alla parola “gesuita”, è ormai una specie di parolaccia e, nel mondo anglosassone, indica un famigerato, inesistente braccio politico armato della Chiesa formato da quegli agenti segreti spietati che compaiono solo nei film. Ancora nel primo Novecento, dunque, ci voleva del coraggio ad essere cattolico e ancora di più ad essere gesuita. Le famiglie “papiste” vivevano una specie di apartheid: quartieri diversi, scuole diverse, stile di vita diverso. In un ambiente simile crebbe padre Peter Milward, gesuita, classe 1925, pietra miliare della critica letteraria a livello mondiale: è soprattutto grazie a lui se il vero volto del poeta e drammaturgo più famoso del mondo sta finalmente uscendo allo scoperto. Udite udite, tra un po’ lo urleranno anche i sassi: William Shakespeare era cattolico. Cioè anticonformista, dissidente, universale. Come ogni buon classico che si rispetti. Padre Milward non cessa di scrivere, parlare, partecipare a convegni. Una vita dedicata allo studio e alla ricerca della verità. L’ho incontrato a Leeds, l’anno scorso, al convegno annuale della Catholic Record Society. Fisico asciutto, da asceta, sguardo buono, è permeato della semplicità dei saggi. Le duecentocinquanta pubblicazioni che ha alle spalle non lo hanno trasformato, come 1 talvolta capita, in un accademico polveroso e distaccato che parla un linguaggio comprensibile solo a pochi. Al contrario, è rimasto innamorato della vita e del creato. Colpisce il suo humour inglese, che mezzo secolo di vita spesa in Giappone non è riuscito ad annacquare. Perché padre Milward ha scelto di seguire le orme del suo grande confratello, san Francesco Saverio, ed è partito nei primi anni Cinquanta, ancor prima dell’ordinazione sacerdotale. Molto interessante la sua autobiografia online (http://brittonia.blogspot.com/). Racconta, tra l’altro, di come suo padre avesse abbracciato il cattolicesimo per amore della fidanzata irlandese e di come, per logica conseguenza, i parenti ruppero i rapporti. All’infanzia serena trascorsa a Wimbledon seguì un’adolescenza turbata dalla guerra e dai raid aerei. In un mondo tanto incerto, la decisione fondamentale della sua vita era già presa e fin dall’infanzia: quella di farsi sacerdote e di entrare, come i suoi maestri di scuola, nella compagnia di Gesù. Passando da un noviziato all’altro fino all’università di Oxford, acquisì in tanti anni di studi e di fatiche una rara competenza teologica, filosofica, letteraria, che si rivelò poi impareggiabile per accostarsi agli studi shakespeariani. Cominciando, da buon gesuita, dagli Esercizi di sant’Ignazio, passò alla filosofia medievale, specialmente tomistica e scolastica, per poi specializzarsi in patristica e in letteratura e filosofia greca e latina. Coronò gli studi con una specialità in letteratura inglese; tra i suoi docenti preferiti, C.S. Lewis. Poi, nel 1952, partì volontario per Tokyo, dove ancora risiede. Docente di letteratura inglese all’università cattolica di Sophia, padre Milward si ritrovò spesso a dover scrivere da sé i propri libri di testo. Poi, un giorno, incappò in uno strano volume appena uscito, opera di due autori tedeschi, Mutschmann e Wentersdorf, intitolato Shakespeare and Catholicism. Curioso e affascinante. Fu quel libro a segnare in modo decisivo la sua carriera di studioso. Già allora l’ipotesi che chiameremo “cattolicista” era corroborata da indizi interessanti, individuati fin dal periodo vittoriano da personalità di spicco come il critico Richard Simpson, il beato cardinal Newman e Gilbert K. Chesterton. Ciò che mancava era uno studio sistematico di tutte le opere, l’intero canone shakespeariano, alla luce del contesto storico e culturale dell’Inghilterra elisabettiana e giacobita. È quanto padre Milward intraprese, con infinita pazienza e scrupolo. Fu dopo quasi vent’anni che uscì con Shakespeare’s Religious Background (1973). Con quell’opera fondante la cosiddetta “ipotesi” cattolica acquisì una base scientifica. Ma padre Milward non si mise a sventolare la sua tesi in modo trionfalistico: c’era ancora bisogno di molta cautela e di numerosi studi ulteriori. La via, però, era segnata. Il libro analizza diversi influssi sull’opera shakespeariana, dalla Bibbia protestante alle controversie tra anglicani e puritani ai trattati di devozione cattolici. L’ipotesi cattolica è affermata in modo delicato ma fermo, tenendo 2 conto anche di tutte le possibili altre influenze religiose, comprese le ufficiali Omelie anglicane che tutti erano costretti ad ascoltare più volte l’anno. La conclusione giunge da sé: rileggendo tutto il canone con attenzione, e tenendo conto del contesto storico, “emerge una prospettiva caratteristica, morale e teologica, che si può considerare come tipica di Shakespeare. Sembra persino che, lungi dall’ignorare le questioni religiose del suo tempo, fosse proprio questo che stava a cuore a Shakespeare: tanto a cuore, forse, da rendergli impossibile esprimersi in quelle che non fossero modalità assolutamente enigmatiche” (dalla seconda di copertina). Certamente il grande drammaturgo non era un agnostico, come molti critici (agnostici) moderni avevano cercato di farci credere; tra le varie fedi, il cattolicesimo emergeva come la più probabile. Che accadde nel mondo accademico? Quello che accade spesso alle opere autorevoli ma scomode e sgradite: attorno al libro si formò una specie di congiura del silenzio. Il grande Shakespeare non poteva non essere quello che ci si voleva far credere da duecento anni, un paladino del sistema. Significativo ed emblematico, però, il fatto che, ad oggi, nessuno sia ancora uscito con un libro che sostenga coerentemente l’ipotesi “protestantista”, “ateista” o altro. La pista, ora che era aperta, andava battuta più a fondo. E per il professor Milward fu un tornare ad approfondire gli studi e a pubblicare, libri, libelli, articoli. Fino a che, sempre più convinto, dopo più di trent’anni ha recentemente pubblicato un saggio dal titolo assolutamente provocatorio, Shakespeare the Papist (2005). Intanto diversi altri studiosi, entusiasmati dall’importanza e dalla fondatezza della questione, avevano aderito all’ “ipotesi”. Fu un continuo gioco di rimando: dalle opere alla vita di nuovo alle opere. Così padre Milward è diventato un caposcuola: a mio avviso, il più grande studioso shakespeariano vivente. E i convinti “cattolicisti” (me compresa) invitano qualsiasi lettore ad accostarsi a biografia e canone e a trarne le logiche conclusioni. Come affermò il beato cardinal Newman, una convergenza di probabilità indipendenti porta a certezza. È lo stesso padre Milward, in un opuscolo del 2009, a concludere così: “L’unico restante problema è ora se, tutto considerato, […], [le ipotesi ‘cattoliciste’] si possano ancora definire ‘ipotesi’ e non piuttosto una conclusione certa”. Padre Peter Milward, S.J., è ora professore emerito. Continua a studiare, scrivere, tenere conferenze in tutto il mondo. Lo ringraziamo per la pista fondamentale che ci ha aperto, nella ricerca appassionata del vero, in una questione tanto importante come la filiazione politica e religiosa del Bardo dell’Avon, notoriamente definito come “anima della sua epoca”. Ci auguriamo di averlo presto in Italia e di poter udire dalla sua bocca, con il suo tono bonario e pacato, a tratti scherzoso, che Shakespeare era “uno di noi”. 3