Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale - DL 353/2003 (conv. in L 27/02/2004 n. 46) Art. 1 comma 1 - DCB - Perugia
Anno XIX n.4/2013 - €22,00
Anno XI X n. 4/2013
I problemi ecologici ed economici
dell’esplosione demografica del cinghiale: quali
soluzioni per le Aree protette e l’agricoltura
Alessandro Rossetti
Francesca Giannini
Gisella Monterosso
Alessandra Somaschini
Andrea Monaco
Giuseppe Puddu
Valeria Gargini
Strumenti applicativi per la valutazione della
gestione delle Aree protette: la metodologia
MEVAP applicata ai Parchi regionali della
Toscana
Davide Marino
Angelo Marucci
Margherita Palmieri
Pierluca Gaglioppa
Paolo Pigliacelli
Le trasformazioni territoriali tra spazio urbano
e spazio rurale in Colombia: la sfida di un
progetto urbanistico a Medellín
Mario Tancredi
I territori, i paesaggi e la cultura del vino:
Franciacorta, Chianti, Bolgheri
ISSN 1123-5489
Antonella Anselmo
Edizioni Alpes Italia
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e della tutela del territorio e del mare e del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti
Redazione
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Caporedattore
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Hanno scritto sul n 4/2013:
Antonella Anselmo, Pierluca Gaglioppa,
Valeria Gargini, Francesca Giannini,
Davide Marino, Angelo Marucci, Andrea Monaco,
Gisella Monterosso, Margherita Palmieri,
Paolo Pigliacelli, Alessandro Rossetti,
Alessandra Somaschini, Mario Tancredi
Comitato scientifico
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Reg. Trib. N. 286 del 27 giugno 1994
(ai sensi della Decisione della Corte d’Appello di Roma,
I Sez. Civile del 10 febbraio 1999)
G a z z etta A mbiente n 4 / / 2 0 1 3
I problemi ecologici ed economici dell’esplosione demografica del
cinghiale
Intervista multipla agli addetti ai lavori sulla gestione dei cinghiali all’interno
delle Aree protette..............................................................................................7
intervistati: Alessandro Rossetti, Francesca Giannini, Gisella Monterosso, Alessandra Somaschini,
Andrea Monaco
Dall’esperienza di campo all’analisi delle criticità nella valutazione dei danni da fauna
alle colture agricole................................................................................................41
di Giuseppe Puddu
Danni provocati dalla fauna selvatica e interventi di prevenzione nel Parco regionale Valle
del Treja.................................................................................................................55
di Valeria Gargini
Strumenti applicativi per la valutazione della gestione delle Aree
protette
L’approccio MEVAP ai Parchi regionali toscani .......................................................62
di Davide Marino, Angelo Marucci, Margherita Palmieri, Pierluca Gaglioppa, Paolo Pigliacelli
Urbanistica e Territorio
Le trasformazioni territoriali tra spazio urbano e spazio rurale
Colombia: la sfida di un progetto territoriale a Medellín e nella Depresión
Momposina..........................................................................................................83
di Mario Tancredi
Economia e Territorio
L’economia a difesa del territorio e del paesaggio
I territori, i paesaggi e la cultura del vino..........................................................119
di Antonella Anselmo
Sommario
Aree protette
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G a z z e t ta A m b i e n t e n 4 // 2 0 1 3
Ancora una volta un dossier sulla fauna “problematica”, anzi, sul più problematico di tutti gli animali, dentro e fuori le Aree protette: il cinghiale.
Nella fauna italiana ed europea il cinghiale riveste un ruolo del tutto peculiare, sia per alcune intrinseche caratteristiche biologiche (ad esempio la
grande adattabilità e l’elevato potenziale riproduttivo), sia perché è indubbiamente la specie più “manipolata” dall’uomo ed è quella che desta maggiori preoccupazioni per l’impatto negativo esercitato sull’agricoltura e sulla
biodiversità. Come in altri Paesi europei, anche in Italia negli ultimi decenni
il cinghiale ha notevolmente ampliato il proprio areale e incrementato le
popolazioni. La situazione, in molti contesti, è fuori controllo; le densità
sono talmente elevate da rendere impossibile la convivenza tra la specie e
l’agricoltura, tra la specie e la biodiversità. Le cause di questa innaturale
espansione ed aumento delle densità sono da imputare in buona parte all’azione dell’uomo (in particolare, rilasci di soggetti allevati e incremento della
produttività attraverso il foraggiamento) che, a partire dagli anni ’50, ha
mostrato un crescente interesse verso il prelievo venatorio della specie.
I problemi di carattere ecologico ed economico posti dalla presenza del
cinghiale derivano anche dalla rigida suddivisione del territorio in istituti di
gestione faunistica con differenti finalità: da una parte quelli in cui è prevista l’attività venatoria e dall’altra quelli in cui la caccia è del tutto vietata ai
sensi della Legge n. 394/91 (Legge quadro sulle Aree protette), o della Legge
n. 157/92 (Legge quadro sulla caccia). Aree protette e territorio cacciabile
non sono, tuttavia, entità separate da barriere invalicabili, ma un sistema
ecologicamente continuo, spesso occupato dalle stesse popolazioni di cinghiale. È per tale motivo che la cronica assenza di strategie di gestione della
specie, coordinate e condivise tra ambiti di caccia e di protezione ha, fino ad
oggi, impedito un’adeguata pianificazione della presenza del cinghiale ed un
controllo efficace degli impatti che esso esercita sulle attività antropiche.
Come già detto all’inizio, il tema del cinghiale come specie critica è stato
trattato diffusamente anche nel primo dossier sulla fauna problematica
(GAZZETTA ambiente n. 1/2012), dove diversi Autori hanno illustrato una
molteplicità di punti di vista: ecologico, genetico, sociale, gestionale, nor-
Aree protette
I problemi ecologici ed
economici dell'esplosione
demografica del cinghiale
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Aree protette
mativo. Questa volta i curatori Andrea Monaco e Roberto Sinibaldi hanno
scelto un solo punto di vista, quello di chi si occupa quotidianamente della
gestione della specie e dei problemi all’interno della propria Area protetta,
ma reso nella molteplicità delle declinazioni dei diversi contesti (geografici,
dimensionali, socio-culturali). Per provare a rendere efficacemente il senso della pluralità delle voci, la scelta stilistica è stata quella dell’intervista
multipla. Tecnici naturalisti e direttori di Aree protette nazionali e regionali
si sono confrontati sui temi che attualmente dominano il dibattito in campo
nazionale, ovviamente con uno sguardo anche su quello che succede fuori
dalle Aree protette: l’adeguatezza e i limiti dell’attuale quadro normativo, il
rapporto tra danni all’agricoltura e conflitti sociali conseguenti, le difficoltà
del controllo delle densità di popolazione, il destino degli animali abbattuti o catturati, la responsabilizzazione dell’agricoltore di fronte al danno e
la sostenibilità sociale ed economica del sistema indennizzo-prevenzione.
Questi sono solo alcuni dei punti sui quali gli intervistati si sono confrontati,
esprimendo opinioni non sempre allineate e, talvolta, perfino discordanti, ad
ulteriore riprova dell’impossibilità di trovare una ricetta, un’equazione gestionale adatta per tutte le situazioni e della necessità di utilizzare approcci
articolati e sito-specifici per affrontare problemi complessi come quelli posti
dalla compresenza tra cinghiale e uomo.
Altri due articoli completano il dossier. Il primo di valenza più generale, a
partire dall’attuale assenza di modalità omogenee di realizzazione delle perizie del danno causato dalla fauna selvatica, indaga l’elemento critico della
titolarità a richiedere l’indennizzo e propone un approccio metodologico
esplicito al rilevamento e alla stima del danno. Il secondo è un interessante
caso studio, relativo ad una riserva regionale laziale, nella quale l’adozione
di strumenti di prevenzione, commisurata alle necessità e tecnicamente ineccepibile, ha portato, in pochi anni, alla drastica riduzione dei danni causati
dal cinghiale e del conseguente conflitto sociale.
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D. Ritenete che l’attuale quadro normativo nazionale (e le relative norme regionali di
recepimento) sia adeguato per affrontare i conflitti innescati dalla presenza del cinghiale? Sapete che in questo contesto, in cui la convivenza tra cinghiale e attività antropiche è divenuta critica, non esiste una norma che vieti su tutto il territorio nazionale il rilascio di cinghiali in libertà (pratica tuttora in uso, in particolare nelle Province
del sud Italia)?
Alessandro Rossetti
Tecnico naturalista del Parco nazionale dei Monti Sibillini
R. Ritengo che l’attuale quadro normativo nazionale, ivi compresa la Legge quadro
sulle Aree protette (L. 394/1991), fornisca la possibilità di intervenire adeguatamente
sulla gestione del cinghiale e, quindi, sui conflitti innescati da questa specie, anche
attraverso interventi di controllo numerico. Tuttavia se la normativa sul controllo
appare abbastanza adeguata è la Legge sulla caccia (L. 157/1992) ad essere assolutamente insufficiente, e con essa quelle regionali di recepimento. Alcune criticità
permangono sulle norme in materia di trattamento e destinazione dei capi catturati
e abbattuti, norme che non sempre risultano di chiara interpretazione o adeguate
alle strutture effettivamente presenti sul territorio. Siamo al corrente che non esiste
una norma che vieti su tutto il territorio nazionale il rilascio di cinghiali in libertà;
proprio per questo, il regolamento del prelievo selettivo del cinghiale del Parco nazionale dei Monti Sibillini prevede il divieto di utilizzare i capi catturati, per finalità di
introduzione, reintroduzione o ripopolamento.
Francesca Giannini
Tecnico naturalista del Parco nazionale Arcipelago toscano
R. Il cinghiale rappresenta in determinati contesti, in particolare quelli insulari, un
elemento di elevata criticità, a causa sia dell’effettivo impatto negativo su habitat e
altre specie, sia delle problematiche innescate dal coinvolgimento nella sua gestione di diversi portatori di interessi: Province, Enti Parco, Comuni, cacciatori, agricoltori, associazioni ambientaliste, associazioni animaliste, organi tecnici e di sicurezza
pubblica. A questo si associa l’elevato impatto economico che si imputa a questa
specie, con il pagamento di indennizzi che difficilmente potranno essere sostenuti a
lungo termine. A tale complessità non si risponde in modo adeguato a livello normativo nazionale, considerato che le due leggi cardine (L. 394/1991 e L. 157/1992) che
regolano la gestione della fauna nelle Aree protette e nel restante territorio risalgono ai primi anni ’90, quando la tematica non aveva ancora assunto gli attuali livelli di
allarme. Come accennato mancano addirittura norme che ne impediscano l’immissione in territorio libero (con esclusione di alcuni siti tutelati quali Aree protette o siti
della Rete Natura 2000). In alcuni contesti le norme di recepimento regionali hanno
Aree protette
Intervista multipla agli addetti
ai lavori sulla gestione del
cinghiale all'interno delle Aree
protette
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Esemplare di cinghiale adulto.
(Foto di Francesca Giannini).
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Aree protette
Femmina di cinghiale con i
piccoli di poche settimane.
(Foto di Alessandro Calabrese).
cercato di ovviare a queste carenze; ad esempio in Toscana la L. R. 3/1994, modificata dalla L.R. 4/2010 “Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il
prelievo venatorio”, prevede all’art. 32 il divieto di “…immissione di fauna selvatica sul
territorio regionale, salvo autorizzazione della Provincia…”.
Un primo approccio per rendere maggiormente efficace il prelievo di questa specie sarebbe quello di modificare il periodo di caccia che attualmente la L. 157/1992
(art. 18, comma 2) fissa inderogabilmente a 3 mesi: ampliare detto periodo per farlo
coincidere con l’apertura e chiusura generale dell’attività venatoria potrebbe incrementare lo sforzo di prelievo sulla specie.
Ciò dovrebbe essere contestuale ad una differenziazione delle forme di caccia
dell’ungulato; ad esempio in Toscana (art. 98 comma 1 del D.P.G.R. n. 33/R/2011 “Regolamento di attuazione della Legge regionale n. 3/94"), nel territorio libero il cinghiale
può essere cacciato esclusivamente con tecnica della braccata (con l’eccezione delle
aree non vocate di ridottissima estensione, dove la caccia può essere esercitata anche in forma singola). Assicurare la possibilità di abbattimento con più tecniche a
cui partecipino tutti i cacciatori (non solo quelli iscritti alle squadre) costituisce una
diversificazione del sistema con un incremento dello sforzo di prelievo, aumentando
peraltro la “naturale competizione” tra le diverse componenti venatorie.
Altri elementi possono comunque ostacolare il raggiungimento di prelievi adeguati per la specie, ad esempio quelle disposizioni che impediscono la formazione di
nuove squadre di caccia al cinghiale, per il mantenimento di una sorta di status quo
G a z z e t ta A m b i e n t e n 4 // 2 0 1 3
Gisella Monterosso
Tecnico naturalista del Parco regionale di Veio
Alessandra Somaschini
Direttore del Parco regionale di Veio
R. I riferimenti normativi nazionali per la gestione del cinghiale in Italia sono riconducibili alla Legge quadro sulle Aree protette L. 394/1991 ed alla Legge sulla
caccia L. 157/1992 che operano, però, con finalità gestionali differenti. La prima è
finalizzata a mantenere la densità del cinghiale in equilibrio con le altre componenti
delle biocenosi e prevede, pertanto, la possibilità di effettuare interventi di controllo
numerico nella Aree protette, solamente con il fine di ricomporre gli squilibri ecologici. La seconda, invece, nell’ottica di regolamentare la caccia, vede la gestione
del cinghiale finalizzata al mantenimento di una risorsa naturale rinnovabile a fini
ricreativi per l’attività venatoria.
Il quadro normativo che si prospetta non permette, quindi, di estrapolare delle linee
guida di gestione univoche per una specie così problematica che, oltre a causare
ingenti danni economici, è origine di conflitti sociali che coinvolgono diverse categorie di fruitori del territorio (cacciatori, agricoltori, residenti, ambientalisti, ecc.) con
interessi contrastanti tra loro.
La situazione si complica ulteriormente in quanto, spesso, gli enti preposti alla gestione della specie, che ovviamente spazia nei suoi spostamenti in territori di diversa
competenza (Amministrazioni provinciali ed Enti gestori di Aree protette), non operano in maniera coordinata ed unitaria, ma intervengono sulla medesima popolazione con finalità ed obiettivi gestionali differenti.
La mancanza di chiarezza nell’attuale quadro normativo non consente, quindi, di effettuare interventi tempestivi laddove se ne presenta la necessità.
È emblematico, ad esempio, quanto si sta verificando nelle aree residenziali a nord
della capitale, ai margini del Parco regionale di Veio, un parco periurbano che tutela i
lembi residui della campagna romana ed è caratterizzato da aree agricole solcate da
forre (gole scavate dai fiumi) prevalentemente boscate. La conformazione del territorio favorisce gli spostamenti dei cinghiali che utilizzano le forre come siti di rifugio
e corridoi ecologici e che, attraverso queste, raggiungono facilmente le aree agricole
dove si foraggiano e le zone urbanizzate di Roma dove sono stati avvistati, spesso,
Aree protette
difficilmente comprensibile. Oppure sistemi che associano fedelmente ogni squadra
alla propria zona di caccia, bilanciati da meccanismi di rotazione che non vengono
mai applicati. Quest’ultimo punto ritengo sia particolarmente importante: è ormai
consolidato il fatto che i modelli che legano solidamente il cacciatore al proprio territorio siano assolutamente indispensabili per la conservazione di molte specie sottoposte a prelievo venatorio. Con il cinghiale, con tutta probabilità, si ottiene lo stesso effetto, ovvero la mancata riduzione delle popolazioni e la inevitabile successiva
espansione. Può sembrare una provocazione, ma di fatto quello che sta accadendo in
Toscana impone una revisione globale all’approccio della problematica.
Per quanto riguarda le norme che regolano le Aree protette, sicuramente la L.
394/1991 dà ampio margine di intervento sia ai Parchi nazionali che alle Aree protette regionali, ma non mette assolutamente in risalto la possibilità di intervenire
con celerità e decisione su specie alloctone o problematiche che vengono trattate
esattamente come quelle di elevato interesse conservazionistico. Ciò è chiaramente
un limite ed un grave ostacolo alla messa in atto di adeguate forme di controllo della
specie nei territori tutelati.
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I p r o b l e m i e c o lo g i c i e d e c o n o m i c i d e l l ' e s p lo s i o n e d e m o g r a f i ca d e l c i n g h i a l e
Aree protette
Recinzione elettrificata
utilizzata per la prevenzione dei danni da
cinghiale.
(Foto di Andrea Monaco).
in prossimità dei cassonetti dei rifiuti. In questi casi i cinghiali, che sconfinano dal
Parco, creano nei cittadini un senso di insicurezza e di minaccia. La gestione della
specie in tali ambiti è, però, preclusa all’Ente Parco che può operare solo all’interno
del perimetro istitutivo e non sembra essere nemmeno di competenza della Provincia che pianifica l’attività venatoria solo in contesti agro-silvo-pastorali. Eventuali
interventi in questo contesto, in mancanza di un riferimento certo, possono essere
effettuati solo ricorrendo all’applicazione dell’art. 54 del Testo Unico degli Enti locali
che attribuisce al Sindaco il potere di adottare provvedimenti contingibili e urgenti,
al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica.
Paradossalmente, quindi, l’unica modalità di intervento riconducibile ad un quadro
normativo riconosciuto, può essere svolta soltanto nella logica dell’emergenza.
Considerato che, ormai, l’esplosione demografica del cinghiale rappresenta un problema di rilevanza nazionale, sia in termini economici che di conflitto sociale, è sicuramente opportuna una revisione della normativa, tesa a favorire la cooperazione dei
diversi enti preposti alla gestione dei capi catturati/abbattuti (Aree protette, Province, ASL) per delineare percorsi certi e coerenti con i principi di gestione faunistica e
con le norme vigenti in materia di Polizia Veterinaria, igiene e di benessere animale.
Per quanto riguarda, infine, la pratica tuttora in uso di introdurre nuovi esemplari per
finalità venatorie, considerato che oggi la crisi economica grava pesantemente sul
buon funzionamento delle Amministrazioni pubbliche quali Aree protette e Province,
e che tali introduzioni non fanno altro che aumentare gli importi degli indennizzi
erogati ogni anno, diventa ovvio che tale pratica dovrebbe essere immediatamente
vietata e i fondi degli indennizzi convertiti per un uso più opportuno. Tutto ciò diventa
ancor più evidente, se si tiene conto della progressiva riduzione in corso negli ultimi
anni del numero di cacciatori registrati sul territorio nazionale.
G a z z e t ta A m b i e n t e n 4 // 2 0 1 3
Tecnico naturalista dell’Agenzia regionale Parchi (ARP)-Regione Lazio
R. La probabilità di trovare soluzioni gestionali per affrontare con successo problemi complessi come quelli posti dalla presenza del cinghiale, dipende anche dalla
possibilità di operare all’interno di un quadro normativo e regolamentare univoco e
coerente. In un contesto sociale quale quello attuale, dove il ricorso alle vie giudiziarie, talvolta pretestuoso, è diventata una prassi ricorrente da parte di associazioni
o privati cittadini, la realizzazione di interventi “critici”, come il controllo numerico,
o il perseguimento di scelte innovative su materie delicate come l’indennizzo dei
danni, sono gli esempi più eclatanti di azioni gestionali che necessitano per la loro
attuazione di percorsi autorizzativi certi e di un portato normativo senza ambiguità
(es. la questione del “risarcimento” o “indennizzo” dei danni all’agricoltura, oppure
l’enigmatica definizione “squilibri ecologici accertati” dell’art. 11 della L. 394/1991).
Ciò premesso, ritengo che il quadro normativo attuale, sia per quanto concerne la
gestione della fauna “problematica” nelle aree protette che al di fuori di esse, pur
risultando fortemente migliorabile e necessitando di uno svecchiamento e l’eliminazione di numerose ambiguità o inesattezze terminologiche, non sia inadeguato al
punto da fungere da “capro espiatorio”. L’attuale inefficacia dell’azione gestionale
non è dovuta all’assenza di strumenti normativi, ma piuttosto alla mancata applicazione di quelli esistenti: basti pensare all’occasione perduta delle aree contigue, mai
istituite nella sostanza, che dovevano e potevano essere un laboratorio in cui sperimentare forme di gestione condivisa tra Aree protette e aree di caccia.
Se fino ad oggi le lacune dell’attuale quadro normativo non sono state “il problema”,
le correzioni e integrazioni che questo necessita sono un passaggio irrinunciabile per la futura risoluzione “del problema”: penso, innanzitutto, alla inaccettabile
mancanza, rammentata nella domanda, di un divieto di immissione di cinghiali al
di fuori di ambiti recintati, all’assenza di un divieto di foraggiamento da parte delle
squadre di caccia, che andrebbe promulgato immediatamente e per tutto il territorio nazionale corredato da appropriate sanzioni, ad una norma organica sul destino
delle spoglie degli animali abbattuti nel corso della caccia e di attività di controllo
numerico, all’assenza di una norma quadro sulla materia delle collisioni stradali
causate da fauna selvatica.
D. La presenza del cinghiale in contesti agricoli, oltre a generare danni di carattere
economico, quasi sempre innesca conflitti di tipo sociale. Se si osserva con attenzione
la natura di tali conflitti e il ruolo giocato dai diversi attori emerge un’incongruenza
evidente: i soggetti portatori di interessi realmente contrapposti, agricoltori (meno
cinghiali=meno danni) e cacciatori (più cinghiali=più divertimento, e non solo…), non
confliggono mai o quasi; piuttosto insieme, anche se con argomenti di tipo diverso,
questi due attori incolpano le istituzioni pubbliche: Province, Aree protette (AAPP) del
problema. Secondo voi Perché accade tutto questo? E perché non si riesce posizionare
correttamente questa dialettica?
Alessandro Rossetti
R. In realtà, non sempre le due categorie (cacciatori e agricoltori) risultano nettamente distinte; non di rado, nelle nostre realtà, i cacciatori sono infatti anche agricoltori
e, quindi, il rapporto tra i diversi interessi, sebbene apparentemente contrapposti, è
spesso più complesso e sfumato. Inoltre, gli attacchi di agricoltori e cacciatori nei
confronti delle AAPP sono favoriti dalla diffusione di false convinzioni e informazioni,
Aree protette
Andrea Monaco
13
Un cacciatore in un momento di contemplazione
del paesaggio, nel suo
ruolo di "altra faccia della
medaglia" del problema.
(Foto di Marco Branchi,
www.marcobranchi.it).
16
I p r o b l e m i e c o lo g i c i e d e c o n o m i c i d e l l ' e s p lo s i o n e d e m o g r a f i ca d e l c i n g h i a l e
Aree protette
a volte di tipo strumentale, come quelle che attribuiscono la presenza del cinghiale
a reintroduzioni o ripopolamenti effettuati dalle stesse AAPP.
Francesca Giannini
R. A tale riguardo bisogna sottolineare due aspetti. Gli agricoltori sono rappresentati
in modo paritario rispetto alle associazioni venatorie negli Ambiti territoriali di caccia e dovrebbero in tal senso partecipare direttamente alla attività organizzate per
il controllo e la caccia del cinghiale. Sembra invece che tale ruolo non trovi effettivo
riconoscimento (e non se ne conoscono le ragioni) all’interno di questi organi, con
una prevalenza delle ragioni addotte dalla componente venatoria rispetto a quelle
sostenute dal mondo agricolo. Ne consegue che gli agricoltori cercano e pretendono
dalle istituzioni una soluzione alle problematiche causate spesso da una non adeguata gestione degli ungulati e messa in atto proprio dagli ATC di cui fanno parte.
Il secondo elemento è che la presenza delle AAPP viene percepita sia dal mondo
agricolo che dalla componente venatoria come causa diretta dell’incremento della
specie, adducendo il fatto che nei territori tutelati l’animale non sia sottoposto ad
adeguato prelievo. Nel caso del Parco nazionale Arcipelago toscano la percezione
non trova fondamento poiché il numero di capi prelevati nell’Area protetta e sul resto
del territorio sottoposto a prelievo venatorio è molto simile (PNAT campagna di controllo 2012: 11 capi/kmq di superficie vocata per la specie).
Sembra inoltre che il mondo agricolo confidi più nell’operato della componente venatoria per la risoluzione del problema poiché probabilmente non è sufficientemente convinto dell’efficacia diretta delle Amministrazioni pubbliche in tali ambiti che, in
effetti, confidano quasi esclusivamente nella manodopera dei cacciatori.
Come risolvere questa situazione? Aumentare la fiducia nelle istituzioni da parte di
coloro che richiedono interventi efficaci e immediati, e quindi dotare le istituzioni
pubbliche responsabili della gestione di questa specie di maggiori capacità di intervento con mezzi diretti e propri (e non solo con personale che opera esclusivamente
a titolo volontario).
Gisella Monterosso–Alessandra Somaschini
R. Sicuramente entrambi i soggetti vedono l’istituzione delle Aree protette come l’origine dei loro problemi. I cacciatori perché è stata loro preclusa una zona dove poter
andare a caccia e gli agricoltori perché attribuiscono al divieto di caccia, l’incremento di densità della popolazione di cinghiale e di conseguenza anche dei danni.
Pur tenendo conto del generale e comune atteggiamento di attribuire la causa di un
qualsiasi evento ad un qualcosa che non permette di definire precise responsabilità,
quale è il caso dell'Amministrazione pubblica, è comunque vero che il conflitto con
le istituzione pubbliche è spesso generato dalla mancanza di una chiara comunicazione finalizzata a mettere gli interessati a conoscenza dei corretti termini del
problema, facendo riferimento a dati concreti su cui confrontarsi.
Per quanto riguarda le Aree protette è importante che gli agricoltori capiscano che
l’incremento della densità dei cinghiali non riguarda solo il territorio protetto, ma è
un fenomeno che interessa quasi tutto il territorio nazionale. Fare l’agricoltore in un
Parco può diventare un vantaggio per accedere con più facilità e rapidità agli indennizzi e alle misure di prevenzione messe in campo dagli Enti Parco.
L’esperienza effettuata in tal senso nel Parco di Veio ha avuto, ad oggi, risvolti sicuramente positivi. Grazie ai finanziamenti regionali, è stato pubblicato e distribuito un
opuscolo che descrive le azioni intraprese dall’Ente per affrontare la problematica
17
G a z z e t ta A m b i e n t e n 4 // 2 0 1 3
Grafico 1.
Nel Parco di Veio il
maggiore uso di reti
elettrificate riduce
gli importi degli
indennizzi.
Aree protette
ed è in corso la cessione in comodato d’uso gratuito di sistemi di prevenzione dei
danni alle colture, che hanno consentito di proteggere con successo terreni coltivati
anche estesi (Monterosso e Somaschini, 2011; Monterosso et al., 2012). Ad un incremento delle spese sostenute per la prevenzione è corrisposto negli ultimi anni una
riduzione degli importi dei danni (Grafico 1). La distribuzione dei kit di prevenzione
da parte dell’Ente Parco, unita all’assistenza tecnica fornita dal personale del Parco
agli agricoltori che si trovano ad affrontare la problematica dei danni, consente di
aprire una dialettica e di creare un rapporto di collaborazione e di fiducia nei confronti dell’Amministrazione.
25
€ 60.000,00
€ 50.000,00
20
€ 40.000,00
15
€ 30.000,00
10
€ 20.000,00
5
€ 10.000,00
0
€ 0,00
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
importo recinzioni
Importo indennizzi liquidati (€)
episodi di danneggiamento alle colture
Andrea Monaco
R. L’attuale situazione del cinghiale, in molti contesti, è fuori controllo; le densità
sono talmente elevate da rendere impossibile la convivenza tra la specie e l’agricoltura, tra la specie e la biodiversità. L’unica componente sociale che trae vantaggio
da questa situazione è quella venatoria, a discapito innanzitutto degli agricoltori e,
poi, anche di tutti gli altri attori (istituzioni, Enti gestori delle AAPP, la collettività).
Tale quadro di rapporti di forza è disarmante nella sua semplicità: gli interessi di uno
contro quelli di tutti gli altri. Peccato però che non emerga mai con chiarezza, offuscato da conflitti aspri e confusionari, fomentati dai media locali, nei quali la colpa
della situazione critica ricade quasi sempre sull’Amministrazione pubblica, e spesso
sugli Enti gestori delle AAPP. Perché succede tutto ciò? Perché in quei Consigli direttivi degli ATC che dall’entrata in vigore della L. 157/1992 hanno deliberato e deliberano tutt’oggi l’acquisto e il rilascio di cinghiali in territorio libero di caccia, la rappresentanza degli agricoltori (paritaria rispetto a quella dei cacciatori) non si oppone
2011
2012
numero episodi di
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Aree protette
con tutte le forze? Perché le associazioni di categoria agricole accusano sempre le
istituzioni e non fanno blocco contro chi antepone gli eccessi di un’attività ludicoricreativa ai bisogni essenziali di un’attività che produce reddito e dà sostentamento
alle famiglie? È vero che molti agricoltori sono anche cacciatori, con il conseguente
corto circuito che si può facilmente immaginare. Credo, tuttavia, che il motivo determinante sia la connotazione di “blocco sociale” (ed elettorale) che, in diverse parti
del Paese, le squadre di cinghiale hanno assunto, arrivando a condizionare le scelte
di gestione faunistica operate dagli amministratori locali secondo criteri che mirano
alla massimizzazione dei carnieri e non certo alla compatibilità con le attività agricole o con la conservazione della biodiversità.
D. È evidente che nel caso del cinghiale lo strumento del controllo faunistico, previsto
dalla legge sia per le Aree protette sia per le aree aperte alla caccia, risulta in molti
casi poco o per nulla utilizzato. Quali credete che siano le cause?
Alessandro Rossetti
R. Penso che il controllo del cinghiale nelle Aree protette sia poco utilizzato innanzitutto in relazione alle finalità di conservazione stabilite dalla L. 394/1991, la quale
stabilisce che il prelievo selettivo può essere effettuato solo al fine di ricostituire
eventuali squilibri ecologici accertati dall’Ente Parco; in questo senso, prima di effettuare tali interventi, devono essere prese in considerazione tutte le misure alternative atte a ridurre i conflitti con le attività umane, con particolare riferimento agli
indennizzi e ai sistemi di prevenzione dei danni. Ci sono poi le problematiche non
solo tecniche, ma anche politiche e sociali, legate all’organizzazione degli interventi
di controllo. Normalmente, infatti, gli agricoltori hanno come obiettivo la riduzione
drastica del cinghiale con richieste, talvolta, anche di soluzioni impraticabili, come
l’”eradicazione” della specie in aree altamente vocate; il mondo venatorio, invece,
non sempre fa distinzione tra il controllo faunistico nelle AAPP e la normale attività
venatoria o, al contrario, tende a considerare le AAPP come “serbatoi” da cui la
fauna, libera di proliferare, fuoriesca nei territori esterni aperti alla caccia; infine,
le associazioni ambientaliste, soprattutto nei primi anni, hanno fatto opposizione a
interventi di controllo numerico nelle AAPP, soprattutto se effettuato con arma da
fuoco. È evidente che tutte queste istanze contrastanti tra loro devono essere attentamente valutate alla luce delle finalità delle AAPP. Oltre a queste problematiche
sociali, un’altra criticità è rappresentata dalle difficoltà che si incontrano nelle fasi
di trattamento, destinazione e immissione nel mercato dei capi catturati o abbattuti.
Francesca Giannini
R. Nel caso del Parco nazionale Arcipelago toscano e di altre aree protette nazionali
e regionali toscane, questo non accade. Il Parco nazionale Arcipelago toscano, istituito nel 1996, ha avviato il programma per il controllo del cinghiale nel 1997 (Grafico
2), con prelievi considerevoli e attuati annualmente su lungo periodo. È comunque
evidente che in Toscana, in molte altre aree protette come: riserve naturali dello
stato, oasi, parchi provinciali, demani regionali, l’ungulato non viene sottoposto ad
alcun tipo di prelievo o perlomeno, quando questo succede, si tratta di interventi
realizzati “una tantum” senza alcuna continuità nel tempo. È vero anche che l’attivazione di piani di controllo prevede la verifica degli effettivi danni al sistema naturale
e antropico, l’adozione di metodi preventivi, il confronto con altri soggetti portatori di
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G a z z e t ta A m b i e n t e n 4 // 2 0 1 3
Abbattimenti selecontrollori
Abbattimenti personale di istituto
Cattura
1400
1200
1000
800
600
Cinghiali prelevati
400
200
0
1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012
Anni
interessi, quali le associazioni ambientaliste, la soluzione di problematiche relative
alla destinazione dei capi prelevati, la definizione dei costi, lo scontro con componenti animaliste spesso responsabili di eclatanti operazioni; tutto ciò rende molto impegnative le operazioni con tempi lunghi per l’attivazione. Una riformulazione dell’art.
11 comma 4 della L. 394/1991 rispetto alle ormai accertate necessità di intervenire
velocemente nei confronti di alcune specie (soprattutto quelle introdotte), renderebbe sicuramente l’operato dei tecnici molto più efficace.
Se da un lato è quindi auspicabile che le istituzioni di competenza possano confidare
in una maggior capacità di intervento ed autonomia, dall’altro è comunque importante non utilizzare il generico concetto di controllo per assecondare pressioni di
qualsiasi provenienza volte a sporadiche azioni, senza continuità e senza obiettivi
specifici, che hanno semplicemente una funzione simbolica e che non garantiscono
assolutamente l’effettiva risoluzione di certe problematiche. Ad esempio programmi
di catture (metodo assolutamente efficace e selettivo, ma costoso) dovrebbero essere eseguiti con continuità in territori protetti con vegetazione di tipo mediterraneo,
dove sia evidente ed accertata la necessità di controlli numerici dell’ungulato. Nel
Parco nazionale Arcipelago toscano è infatti dimostrato che il trappolamento rappresenta una metodologia molto efficace (Grafico 3), soprattutto se attuato in periodi
nei quali gli animali hanno scarsa disponibilità di risorse alimentari. Ciò non esclude
che in macchie mediterranee la braccata garantisca un prelievo della specie altrettanto consistente, ma la notevole invasività di questa tecnica non la rende adatta per
territori tutelati.
Gisella Monterosso–Alessandra Somaschini
R. Gli interventi di controllo numerico comportano per gli enti di gestione un significativo impegno organizzativo e di programmazione e sono onerosi in termini di im-
Grafico 2.
Negli ultimi anni si sono
moltiplicati gli interventi di
cattura al Parco nazionale
Arcipelago toscano.
Aree protette
Braccate
20
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Aree protette
350
300
250
200
150
Cinghiali catturati
100
50
0
Aprile
Maggio
Giugno
Luglio
Agosto
Settembre
Ottobre
Novembre
Anno 2012
Grafico 3
L'andamento stagionale del trappolamento
dei cinghiali nel Parco
nazionale Arcipelago
toscano.
piego di mezzi e personale. Nella gestione di un piano di controllo si deve curare una
serie di aspetti che vanno dalla individuazione, quantificazione e monitoraggio degli
impatti, che si intendono mitigare con il piano, alla definizione di specifici obiettivi
da adeguare nel tempo nell’ottica di una gestione adattativa della specie, alla acquisizione di tutte le autorizzazioni necessarie da parte degli enti competenti (Regione,
Province, ISPRA, ASL, ecc.) con i quali va concordato l’iter procedurale. La fase più
prettamente operativa (montaggio delle strutture per le catture/abbattimenti, attività di pasturazione, sessioni di cattura/abbattimenti) richiede, inoltre, uno sforzo
costante e l’impegno di diverse unità di personale che, anche se esterno all’Ente
(personale coadiuvante), deve essere comunque formato, gestito e coordinato.
Tutto ciò comporta la necessità di far diventare il Piano di controllo un esplicito
obiettivo politico e amministrativo di gestione, soprattutto quando i danni da fauna
arrivano ad erodere una parte consistente del bilancio dell’Ente. Solo con questo
approccio diventa possibile, una volta garantita la disponibilità di mezzi e l’adeguata
formazione del personale, riuscire a misurare l’efficacia e l’efficienza dell’operato
della pubblica Amministrazione, valutazione di cui tanto si parla, ma che in pochi
mettono in pratica.
Nel caso dei Parchi regionali del Lazio, una Deliberazione di Giunta regionale (D.G.R.
320/2006) detta le linee guida per i piani di controllo. Poiché come unica alternativa
alla soppressione dei capi (presso il sito di cattura o al mattatoio) viene autorizzato
il solo il trasferimento presso allevamenti a scopo esclusivamente alimentare, un
problema che è emerso, consiste nella difficoltà di individuare una struttura idonea
a cui conferire i capi catturati/abbattuti.
Nella Direttiva infatti viene esplicitato che “la traslocazione e il rilascio degli animali
catturati in aree esterne all’area protetta è da considerarsi una scelta non praticabile in
quanto del tutto incongruente con una strategia di gestione volta alla riduzione del conflitto con le attività agricole e non semplicemente alla traslazione spaziale del problema. Analogamente, anche la possibile soluzione alternativa, spesso praticata, di un’immissione all’interno di aree recintate destinate al prelievo venatorio, appare fortemente
criticabile poiché favorisce una gestione artificiale della specie, che presenta notevoli
aspetti negativi di carattere biologico, sanitario e culturale.”
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G a z z e t ta A m b i e n t e n 4 // 2 0 1 3
Parco nazionale delle
Cinque Terre: cancello
che permette il passaggio degli escursionisti posto lungo una
recinzione elettrificata
"anti-cinghiale".
(Foto di Andrea Monaco).
Aree protette
Il conferimento dei cinghiali ad allevamenti a scopo alimentare è, nei fatti, risultato
impossibile. Infatti, dagli elenchi provinciali degli allevamenti è emersa la presenza
di strutture di piccole dimensioni, ad uso familiare o per agriturismo, totalmente
disinteressate a prelevare i capi provenienti dai piani di controllo, in quanto in possesso dei riproduttori in azienda.
In alternativa, la possibilità di trasferire i capi ai centri di lavorazione della selvaggina è risultata difficile in quanto pochissime sono le strutture presenti nel Lazio, fatto
questo che può comportare un aggravio nei costi di trasferimento dei capi dovuti alla
distanza.
Riguardo alla possibilità di effettuare l’abbattimento in loco dei cinghiali catturati, si
deve tenere presente che nel Lazio, a differenza di quanto accade in Toscana, non
esistono sul territorio strutture adibite a svolgere subito dopo l’abbattimento l’eviscerazione e il dissanguamento delle carcasse, per rendere le carni idonee al consumo. Tali attività, che possono essere anche svolte direttamente in campo, oltre a
comportare le evidenti difficoltà pratiche di operare all’aperto, risultano di
difficile applicabilità, specie nel contesto antropizzato del Parco di Veio,
anche per motivazioni legate all’immagine dell’Ente stesso.
Inoltre, in base al Reg. (CE) 853/2004,
i capi abbattuti nell’ambito dei piani
selettivi di diradamento della fauna
selvatica o comunque nel corso di
programmi di abbattimento preventivamente autorizzati, possono essere immessi sul mercato solo dopo
aver inviato la carcassa ad un centro
di lavorazione della selvaggina, per
sottoporla ad ispezione da parte della
competente Autorità e, mediante bollatura sanitaria, esitarla al consumo.
Tutto ciò comporta un problema anche nel caso dei prelievi effettuati dai
selecontrollori. Infatti, la sola esclusione dal campo di applicazione del
citato Regolamento CEE riguarda la
fornitura di piccoli quantitativi di selvaggina di grossa taglia che i cacciatori sono autorizzati a cedere al consumatore finale nel limite stabilito
sul territorio nazionale di un capo/
cacciatore/anno (Accordo tra il Governo, le Regione e le Province autonome
del 17 dicembre 2009 relativo a “Linee guida applicative del Regolamento
853/2004/CE”).
Inoltre i cinghiali, se catturati nei piani di controllo e destinati al mattatoio,
Un piccolo cinghiale in
un paesaggio nevoso.
(Foto di Marco Branchi,
www.marcobranchi.it).
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Aree protette
si ritrovano in un limbo normativo in quanto non vengono riconosciuti né come capi
cacciati, né possono essere certificati come provenienti da un allevamento domestico o di selvaggina e quindi non è possibile garantire la tracciabilità delle carni che
risulta obbligatoria per legge.
Questo è quanto è successo nell’esperienza maturata al Parco di Veio nel corso della quale i capi catturati sono stati trasferiti vivi ad un mattatoio, dopo aver stilato
un protocollo d’intesa con le ASL competenti per territorio che erano arrivate alla
conclusione che non era necessario marcare i capi in quanto non provenivano da un
allevamento. Quando, però, gli stessi capi hanno raggiunto il mattatoio di competenza di un’altra ASL, è risultato impossibile macellarli in quanto privi del codice di
identificazione aziendale. Per ottenere tale codice è stato necessario che il Direttore
dell’Ente si registrasse presso la ASL di provenienza quale detentore di un allevamento di cinghiali con precise (e fantomatiche!) coordinate geografiche, per poter
adempiere a quanto previsto dalla legge (registro di carico e scarico dei capi , estremi del veterinario aziendale ecc.). Poiché il piano delle catture prevede di agire in
zone del territorio del Parco (che si estende per 15.000 ettari) afferenti a diverse ASL,
ne consegue che si dovranno aprire tanti allevamenti quanti sono le ASL competenti.
Inoltre, ai fini del trasporto, il Direttore dell’Ente in qualità di detentore dell’allevamento, è tenuto a compilare un apposito modulo (modello IV) nel quale si dichiara
che gli animali destinati alla macellazione “non sono stati trattati o alimentati con
sostanze di cui è vietato l’impiego nei 90 giorni precedenti”. Ovviamente, trattandosi
di animali selvatici, dei quali l’Ente Parco viene a disporre solo dopo la cattura e per il
solo tempo necessario al loro trasferimento dalle trappole al mezzo per il trasporto
alla destinazione finale, il firmatario non può avere la certezza che gli animali catturati non abbiano ingerito sostanze di cui è vietato l’impiego.
È evidente quindi che, mentre per i capi abbattuti nella attività venatoria e per i selvatici allevati esiste una procedura codificata ai fini della commercializzazione delle
carni, per quanto riguarda, invece, i capi selvatici catturati vivi dalle aree protette
nell’ambito di piani di controllo autorizzati si è in presenza di una lacuna normativa
che necessita di una risoluzione se si vuole rendere possibile un utilizzo più diffuso
della pratica del controllo numerico.
Andrea Monaco
R. Le motivazioni che stanno alla base di un utilizzo del controllo numerico molto inferiore alle necessità sono profondamente diverse nei due casi. Per le Aree protette,
istituite per conservare valori di tipo naturalistico, la scelta di perseguire l’abbattimento di una specie selvatica, in particolare se realizzato con arma da fuoco, è una
scelta difficile e innaturale, che può essere giustificata solo con il pragmatismo che
l’entità dei problemi richiede. Non tutto il variegato mondo che ruota attorno alle
aree protette e alla conservazione della natura è disposto ad adottare un atteggiamento pragmatico e, pertanto, finisce per mostrare un’avversione di principio a tale
pratica. A ciò si aggiunge, l’effetto deterrente dato dal notevole sforzo organizzativo
e la complessità delle questioni che devono essere affrontati dalle aree protette che
scelgono di utilizzare tale strumento di gestione. Infine vi è la dimensione sociale dell’utilizzo del controllo numerico: l’area protetta che imbocca tale strada deve
essere pronta a “parare i colpi” che, con metodi non sempre leciti, arriveranno da
una parte (il mondo venatorio) e dall’altra (il mondo protezionista e animalista). Il
mondo venatorio che caccia attorno all’area protetta proverà, in tutti modi, a manifestare il proprio disappunto nei confronti di chi, catturando o abbattendo cinghiali
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D. Un tema spesso foriero di polemiche è quello relativa alla destinazione dei cinghiali abbattuti o catturati in attività di controllo faunistico. Le soluzioni praticate dalle AAPP sono
molte, dalla cessione in beneficienza delle spoglie, all’attivazione di una filiera dei prodotti
derivati con relativo marchio del Parco. Gli elementi in gioco sono la fattibilità pratica, la
sostenibilità economica, ma anche l’accettabilità dal punto di vista etico delle possibili
soluzioni. Quale credete sia la strada più corretta da seguire per un’Area protetta?
Alessandro Rossetti
R. Credo che la strada più corretta per un’Area protetta sia la gestione diretta dei
capi da parte dell’Ente Parco, attraverso uno o più soggetti interessati all’acquisto
e alla commercializzazione di questi capi e l’attivazione di una filiera dei prodotti
derivati con relativo marchio del Parco. Tale soluzione, tuttavia, non è sempre possibile, specialmente nelle Aree protette di grandi dimensioni, dove maggiori sono
le problematiche di carattere organizzativo e amministrativo (per la presenza di più
enti competenti) legate alla raccolta e al trattamento dei capi catturati o abbattuti. In
questi casi credo che sia accettabile assegnare i capi direttamente ai soggetti che li
hanno abbattuti o catturati.
Francesca Giannini
R. La pianificazione di un programma di intervento per la riduzione numerica di ungulati in un’Area protetta deve necessariamente prevedere la definizione della destinazione dei capi abbattuti o catturati. Nel caso in cui si lavori in contesti molto
isolati o insulari dette condizioni divengono quasi limitanti alle effettive possibilità di
Aree protette
nell’area protetta, intacca il “proprio capitale”. Il mondo protezionista e animalista,
intrinsecamente non incline ad abbandonare le proprie posizioni di natura etica per
scendere nel campo dei problemi reali e della loro risoluzione, utilizzerà leve come
il maltrattamento degli animali per manifestare la propria inderogabile opposizione
all’uccisione di un animale.
Fuori dalle aree protette la motivazione dello sporadico utilizzo del controllo numerico è una sola: l’avversione dei cacciatori per qualsiasi abbattimento che possa
essere compiuto da altri soggetti, con tecniche diverse dalla braccata (tiro da appostamento, girata, catture, ecc.) e al di fuori della stagione di caccia; tutte opzioni
previste dalla L. 157/1992. E se le squadre di caccia al cinghiale mostrano avversione
al controllo numerico, ci sono forti probabilità che anche chi decide in seno alle amministrazioni provinciali non ritenga necessario attivare questo strumento.
Un’ultima cosa che riguarda il controllo nelle Aree protette va però ricordata. La
ridotta dimensione che caratterizza molte Aree protette regionali o provinciali costituisce un elemento decisivo ai fini della valutazione dell’opportunità di attivare
gli interventi di controllo. All’interno di aree di piccole dimensioni, in particolare se
ricadenti all’interno di territorio vocato alla presenza del cinghiale, la consistenza
della specie è influenzata in modo determinante dalla gestione venatoria che viene
attuata nelle aree limitrofe e gli eventuali interventi di contenimento, non agendo
sulla popolazione-sorgente, non potranno che avere un effetto trascurabile o comunque estremamente limitato nel tempo e nello spazio. Questo è il motivo per
il quale, in tali contesti, è indispensabile avviare le attività di controllo numerico in
modo coordinato con gli ATC confinanti, pur nel rispetto delle diverse finalità istitutive e modalità operative.
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Aree protette
prelievo. Anche in questa occasione occorrerebbe agire con maggior pragmatismo
e con una ampia visione degli obiettivi da conseguire, sia da parte dell’Amministrazione responsabile degli interventi sia da parte delle altre che intervengono necessariamente nella definizione dei provvedimenti. Se esiste infatti una stretta correlazione tra le norme che regolano il prelievo della fauna selvatica e quelle sanitarie di
polizia veterinaria, di igiene pubblica o sul maltrattamento degli animali, a questa
non corrisponde spesso un adeguato raccordo tra le istituzioni delegate all’applicazione delle regolamentazioni. È veramente difficile in determinati contesti trovare
soluzioni percorribili per lo smaltimento, il trasferimento, la cessione (donazioni o
vendita) di capi che abbiano costi gestionali sostenibili anche a lungo termine e che
non vengano percepite, a giusta ragione dall’opinione pubblica, quali spreco di risorse finanziarie. Da questo punto di vista parlare di etica diventa veramente difficile.
L’unico aspetto etico che vorrei sottolineare è nel fatto che l’area protetta o qualsiasi
altro istituto che disponga di capi vivi non dovrebbe procedere assolutamente alla
loro cessione con finalità di ripopolamento, introduzione o reintroduzione.
Un cinghiale nella
gabbia di cattura.
(Foto di Andrea Monaco).
Gisella Monterosso–Alessandra Somaschini
R. Per quanto l’attivazione di una filiera alimentare sui capi catturati sia stata oggetto, talvolta, di campagne di contrasto per problemi etici, si deve comunque tenere
G a z z e t ta A m b i e n t e n 4 // 2 0 1 3
Aree protette
in considerazione che l’avvio di un piano di controllo scaturisce dalla necessità di
riequilibrare uno scompenso dovuto all’aumento non controllato di una specie. L’intervento previsto è pertanto a tutela di tutte le altre componenti della biodiversità
minacciate dalla stessa specie su cui si decide di intervenire e che non possono
essere considerate non meritevoli della medesima attenzione. Nel caso specifico
del cinghiale, il fatto che la specie sia anche commestibile e sia oggetto di attività venatoria, può rappresentare un vantaggio in quanto permette di evitare di impegnare
fondi pubblici per lo smaltimento delle carcasse.
In virtù di queste considerazioni, l’inserimento dei cinghiali catturati/abbattuti nella filiera alimentare appare la strada più coerente con i principi di gestione di un’area protetta, la cui finalità è anche la promozione delle tradizioni e dei prodotti del territorio.
Come presupposto, però, è necessario ed urgente delineare a livello normativo le
procedure corrette per il conferimento dei capi catturati vivi ai mattatoi, individuando strade realisticamente percorribili dalle Aree protette, che non possono essere
assimilate ad allevamenti.
Poiché per attivare una filiera è necessario garantire una regolarità delle forniture,
si deve tener conto che, per questioni legate alla biologia della specie e alle tecniche
di cattura, la commercializzazione delle carni presenta un andamento del mercato
non costante nel corso dell’anno, con un forte declino durante le stagioni calde.
Un problema ulteriore è legato alle dimensioni dei capi catturati, per lo più rappresentati da esemplari di peso inferiore ai 20 kg (50-80% dei catturati), poco interessanti a fini commerciali, a causa della scarsa resa delle carni.
Per abbattere i costi di gestione del piano, potrebbe essere utile stoccare temporaneamente i giovani catturati in stalle di sosta o in piccoli allevamenti, fino a che
questi non raggiungano il peso idoneo per la commercializzazione. Il Parco di Veio,
come tante altre Aree protette regionali, non dispone, però, di terreni di proprietà o
in gestione e ha avuto difficoltà ad individuare proprietari disposti ad accogliere tali
strutture che, peraltro, in altre Aree protette, sono state spesso soggette ad atti di
sabotaggio e danneggiamento da parte di soggetti contrari all’attuazione dei piani di
controllo.
Sarebbe pertanto opportuno affrontare il problema a scala regionale, incentivando,
mediante finanziamenti specifici, la realizzazione di allevamenti in grado di accogliere temporaneamente i capi catturati, in attesa che questi diventino idonei alla
commercializzazione.
Infine, va tenuto conto che il mercato delle carni di cinghiale subisce fortemente la
concorrenza con il mercato nero. L’individuazione di una procedura chiara in ambito
nazionale, relativa alle modalità di trattamento dei capi selvatici catturati ed abbattuti, potrebbe facilitare l’instaurarsi di un mercato regolare delle carni, contrastando
l’attuale diffusione del mercato nero.
In relazione a tutte le problematiche connesse al mercato alimentare dei cinghiali
è sconsigliabile vincolare i Parchi del Lazio, così come è attualmente previsto nella
normativa di riferimento per le Aree protette della Regione Lazio (D.G.R. 320/2006),
all’inserimento dei capi catturati/abbattuti esclusivamente in questo tipo di filiera.
La scarsità di strutture idonee sul territorio (allevamenti, centri di lavorazione della
selvaggina) e l’andamento del mercato delle carni, che è limitato per lo più al periodo
autunno-invernale, hanno determinato una situazione di stallo dovuta alla difficoltà
di reperire strutture adatte a cui conferire i capi.
Qualora venisse constata l’impossibilità di perseguire la strada della filiera alimentare diventerebbe opportuno prevedere, al di là delle problematiche etiche che ne
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Aree protette
conseguono, la possibilità di traslocare i capi catturati all’interno di aree recintate
destinate al prelievo venatorio, quali ad esempio Aziende Agrituristico Venatorie, oppure Zone Addestramento Cani, come previsto in altre Regioni.
Andrea Monaco
R. Il quadro delle opzioni possibili è quello delineato dalla norma. Purtroppo la norma vigente è del tutto inadeguata per regolamentare in modo realistico il destino
dei cinghiali prelevati nell’ambito di azioni di controllo numerico, in particolare nelle
AAPP. All’Ente gestore dell’area protetta tocca solo la scelta di quale opzione, tra
quelle permesse dalla legge, perseguire. Restando in un ambito di pragmatismo,
credo che gli elementi da considerare siano la sostenibilità economica dell’opzione
scelta e la sua praticabilità sociale. Nel primo caso la valutazione deve partire dalla
quantificazione dei possibili ricavi che possono provenire dalla vendita delle spoglie e, soprattutto, dei costi dell’attività di controllo (automezzi, strutture di cattura,
personale, manutenzione, ecc.) e del loro peso percentuale sul bilancio dell’area
protetta. Questo approccio mi pare molto corretto anche sotto il profilo logico-etico:
l’animale appartiene alla collettività (allo stato) e l’eventuale ricavo che si ottiene
dalla sua vendita ritornerebbe alla collettività in termini di risorse disponibili per
il bilancio dell’Area protetta. Se il guadagno per la collettività aumenta utilizzando
soluzioni come il marchio del Parco e la filiera locale, ben vengano queste iniziative.
Personalmente mi sembrano irrealistiche le argomentazioni di chi trova eticamente
inaccettabile che un’area protetta possa “ammazzare degli animali e pure guadagnare da tale attività”. Non ci dimentichiamo che nel nostro Paese le AAPP non sono
santuari di wilderness ma sono pezzi di contesto naturale spesso profondamente
modificati dall’uomo e compenetrati con la sua storia.
Alla valutazione di carattere meramente economico, va affiancata anche quella di
opportunità dal punto di vista sociale. In questo caso, sempre restando nell’alveo di
quanto la legge permette, trovo che sia una soluzione intelligente la cessione delle
spoglie, a titolo gratuito o a prezzo molto vantaggioso, agli agricoltori che operano
nell’area protetta, come ulteriore parziale ristoro dei danni subiti. Un’altra soluzione
possibile è la cessione a prezzo vantaggioso delle spoglie ai coadiutori ai piani di
controllo, che volontariamente aiutano l’area protetta nella realizzazione del piano.
In tutti questi casi, comunque, metterei un limite stretto alla cessione delle spoglie
(es. non più di un animali adulto o due piccoli a testa l’anno).
La cessione in beneficenza, per quanto di alto valore etico, può riguardare solo numeri ridotti di capi e quindi non è una scelta rilevante ai fini del completamento del
piano. In questo caso, come negli altri, è comunque indispensabile che venga accertata la salubrità delle carni prima della cessione.
D. Cosa ne pensate della tendenza, in progressiva via di affermazione a livello nazionale (es. Piano regionale agricolo forestale della Toscana, 2012-2015), ad una maggiore responsabilizzazione dell’agricoltore nei confronti dei danni da fauna selvatica, al
quale verrebbe negato o decurtato l’indennizzo in assenza dell’adozione di sistemi di
prevenzione del danno?
Alessandro Rossetti
R. Come principio generale giudico favorevolmente tale tendenza; devo però riconoscere che in alcuni casi, soprattutto nei territori in cui le coltivazioni risultano molte
G a z z e t ta A m b i e n t e n 4 // 2 0 1 3
Francesca Giannini
R. La tematica dell’indennizzo corrisposto agli agricoltori per danni causati dai cinghiali ha assunto in questi ultimi anni un ruolo essenziale per la gestione della specie,
visto che questi rappresentano in effetti gran parte dei danni complessivi liquidati (67
% degli indennizzi erogati in Toscana nel periodo 2005/2010-P.R.A.F 2012-2015). È
quindi ragionevole che in fase di pianificazione a livello regionale si miri al controllo
dell’erogazione di tali risorse. In questo caso è condivisibile il principio generale per
cui colui che rifiuti di mettere in atto determinati strumenti di prevenzione ritenuti
efficaci e indispensabili per una corretta coltivazione di certi prodotti, possa essere escluso dalla liquidazione di eventuale indennizzo. Meno condivisibili potrebbero
essere interpretazioni estensive della norma che vedrebbero sempre e comunque
l’agricoltore obbligato nel predisporre sistemi di prevenzione molto costosi (recinzioni), magari anche su culture non di nuovo impianto e che si trovano molto distanti
da aree vocate per la specie. Detto principio è stato fatto proprio anche nelle norme
regolamentari predisposte dal Parco nazionale Arcipelago toscano. Infatti l’art. 7 del
Regolamento per il risarcimento dei danni provocati dalla fauna selvatica recita “…
Non sono comunque ammessi a risarcimento i danni a colture, opere, patrimonio zootecnico per i quali non siano state adottate le protezioni preventive concordate e/o cofinanziate dall’Ente Parco…”. Lo spirito è quello di incoraggiare un leale rapporto tra
Ente delegato alla gestione della fauna selvatica ed agricoltore, con il primo che si
impegna a cofinanziare e svolgere adeguata consulenza per la realizzazione di opere
di prevenzione ed il secondo che si preoccupa di fornire una adeguata manutenzione
o collabori nella posa in opera degli impianti.
Gisella Monterosso–Alessandra Somaschini
R. Gli agricoltori sono oggi a conoscenza del rischio dei danni provocati dalla specie
alle colture e delle tecniche da adottare per prevenirli.
Il Parco di Veio, già dal 2005, con il fine di ridurre progressivamente l’importo degli
indennizzi da liquidare, si è dotato di un regolamento per l’indennizzo dei danni da
fauna selvatica (www.parcodiveio.it) in cui, a seguito del primo evento di danneggiamento, diventava obbligatorio proteggere l’appezzamento con le recinzioni elettrificate. Le recinzioni vengono concesse in comodato d’uso gratuito dall’Ente Parco a
coloro che ne facciano richiesta, oppure vengono formalmente prescritte dall’Ente
Parco, all’atto della stima del primo danno indennizzato, laddove si verifichi la fattibilità tecnica. Le recinzioni sono cedute agli aventi diritto attraverso la stipula di un
contratto scritto. Come specificato nel regolamento, nei casi di ritardo o di mancata
messa in opera della recinzione, oppure nei casi in cui la recinzione non sia stata
realizzata a regola d’arte (in riferimento alle indicazioni fornite dall’Ente), vengono
applicate le decurtazioni dell’indennizzo fino ad un massimo del 70 %.
Tale indirizzo ha responsabilizzato gli agricoltori che, utilizzando l’attrezzatura fornita, hanno potuto superare l’iniziale diffidenza e constarne l’efficacia. Negli anni
si è determinata quindi una significativa riduzione degli importi e del numero degli
episodi di danno.
Aree protette
frammentate e frammiste ad aree boscate, non è facile individuare efficaci sistemi
di prevenzione, se non a fronte di costi non sostenibili economicamente da piccoli e
medi imprenditori agricoli. In questi casi, un equo indennizzo pagato in tempi rapidi
rappresenta il metodo migliore per ridurre i conflitti, mantenendo però la necessaria
attenzione per riconoscere i possibili casi di frode o speculazione.
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Un esemplare adulto di
cinghiale ripreso in un
suggestivo "controluce".
(Foto di Marco Branchi,
www.marcobranchi.it).
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Aree protette
Operazioni di pesatura
dei cinghiali catturati nel
Parco di Veio (Roma).
(Foto di Roberto Sinibaldi).
Recentemente, a seguito dell’avvio del piano di controllo, è stata prevista nel Regolamento la decurtazione dell’indennizzo fino ad un massimo del 70 % anche in
quei fondi danneggiati dove non venga autorizzata, da parte dei legittimi detentori, la
realizzazione degli interventi che l’Ente Parco deve effettuare, per dare attuazione al
piano di controllo (es. posizionamento di gabbie trappola, chiusini, altane, esecuzione di abbattimenti selettivi, ecc.).
Sicuramente il processo di responsabilizzazione degli agricoltori, che devono divenire parte attiva nelle azioni di prevenzione dei danni, potrà determinare nel tempo
una riduzione degli importi degli indennizzi annualmente erogati dagli enti preposti.
Andrea Monaco
R. L’impostazione di una strategia per affrontare il tema dei danni da cinghiale alle
colture e il conseguente conflitto sociale deve necessariamente affrontare una seria
riflessione sulla sostenibilità sociale ed economica del sistema “indennizzo-prevenzione” sul lungo periodo, soprattutto in una prospettiva di contrazione delle risorse
disponibili per la gestione delle Aree protette. È indispensabile ripensare il rapporto
istituzione-agricoltore, sollecitando l’adozione da parte di quest’ultimo di comportamenti responsabili e l’affermazione di una volontà di autodifesa che sostituisca
la “naturale” tendenza all’assistenzialismo passivo che così frequentemente caratterizza il rapporto dei cittadini con le istituzioni nel nostro Paese. Il principio di un
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D. Si parla sempre di danni all’agricoltura da parte del cinghiale mentre raramente
vengono citati i danni che questa specie è in grado di arrecare alle diverse componenti
della biodiversità. Se è vero che la raccolta di evidenze di impatto sugli ecosistemi necessita di studi specifici, spesso di durata pluriennale, è anche vero che la letteratura
scientifica mondiale è piena di esempi che dimostrano questo impatto nei più svariati contesti ecologici. Che ne pensate dell’ipotesi di effettuare interventi di controllo
numerico del cinghiale, in particolare nelle AAPP, sulla base dei rischi potenziali di
impatto e non necessariamente su evidenze accertate?
Alessandro Rossetti
R. Sono favorevole nel considerare eventuali interventi di controllo in AAPP sulla
base dei rischi potenziali di impatto sulla biodiversità, purché tali rischi siano valutati sulla base di studi seri e approfonditi. D’altra parte, considerato che negli ambienti
appenninici il cinghiale si era estinto in tempi storici recenti e che, di conseguenza,
gli ecosistemi naturali si sono evoluti contestualmente a tale presenza faunistica,
l’impatto riguarda principalmente la biodiversità legata agli ecosistemi antropici o
seminaturali, come gli ambienti rurali e le praterie secondarie e, quindi, è in qualche
modo “misurabile” con l’entità di indennizzi pagati. In conclusione, bisognerebbe
sempre precisare di quale tipo di biodiversità si parla. Se è quella primaria credo che
l’incidenza del cinghiale debba essere considerata minima e comunque da valutare
caso per caso e mediante studi approfonditi. Se si tratta invece di quella secondaria
(per esempio sui pascoli, appunto, secondari) si tratta di un problema che ha profonde connessioni anche con una valutazione socio culturale dei sistemi predetti.
Francesca Giannini
R. Tutto nasce, almeno per i Parchi nazionali, dall’infelice frase presente all’art. 11
comma 4 della L. 394/1991 dove si legge che il Regolamento “... prevede eventuali
Aree protette
legame stretto tra attuazione della prevenzione e concessione degli indennizzi è in
corso di progressiva affermazione in tutto il contesto nazionale. L’idea è quella di
introdurre l’esonero dall’obbligo di indennizzo, o comunque la possibilità di una sua
forte decurtazione, in caso di diniego dell’agricoltore ad adottare i mezzi di prevenzione eventualmente suggeriti, o nel caso in cui l’efficienza dell’impianto non venga
garantita per una messa in opera non corretta e/o una insufficiente manutenzione
degli impianti di prevenzione realizzati.
Non va tuttavia dimenticato che la disponibilità all’accettazione della presa in carico
di recinzioni elettrificate e, soprattutto, al loro mantenimento in buono stato di funzionamento da parte degli agricoltori, viene spesso ostacolata dalla ridotta fiducia
nell’efficacia di tali strumenti. Per tale motivo è indispensabile costruire, o rafforzare, un portato esperienziale e di conoscenza tecnica negli agricoltori che permetta
loro di valutare in base ad elementi concreti e non a informazioni aneddotiche la
reale efficacia degli strumenti di prevenzione. In tal senso appare cruciale la figura
del tecnico agronomo delle AAPP, per il ruolo di interfaccia che riveste tra istituzione e agricoltore. L’esperienza ha mostrato che l’innesco di poche situazioni virtuose
spesso è in grado attivare un volano che permette la progressiva diffusione della disponibilità ad attuare la prevenzione. Ovviamente l’affermazione di un principio così
dirompente va facilitata e sostenuta anche con adeguate risorse, in grado di fornire,
almeno in una prima fase, gli strumenti di prevenzione a titolo gratuito.
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Aree protette
Esempi di danni provocati
dal cinghiale:
nella foto sopra, scavi di
cinghiali su praterie di alta
montagna;
in basso, danni su una
coltivazione di sorgo.
(Foto di Andrea Monaco).
prelievi faunistici ed eventuali abbattimenti selettivi, necessari per
ricomporre squilibri ecologici accertati dall’Ente Parco…”. Se non è
chiaro da un punto di vista scientifico che cosa voglia significare il
termine “squilibri ecologici” è invece chiaro che qualsiasi Ente che
desideri effettivamente dare seguito a quanto prescritto dovrebbe
disporre di una mole di dati sulle diverse componenti e processi
ecosistemici tali da giustificare anni di studi. Nella prassi l’Ente di
gestione focalizza l’attenzione solo su alcuni aspetti dell’ecosistema, ad esempio l’impatto dell’ungulato su una determinata specie o habitat, o su elementi di natura antropica (danni, incolumità
pubblica); già ottenere dati su tali componenti necessita l’attuazione di monitoraggi a lungo termine. Concordo sul fatto che qualora in letteratura esistano informazioni consistenti sull’impatto
di una certa specie è abbastanza inutile insistere con ulteriori indagini a livello locale, con spreco di risorse che invece potrebbero
essere utilizzate per attuare gli interventi di controllo. Questo vale
in particolar modo nel caso in cui l’ungulato sia alloctono, come
accade in Italia in vari contesti insulari (Isola d’Elba-Toscana, La
Maddalena, Asinara, Caprera-Sardegna). Ciò non significa escludere il monitoraggio durante lo svolgimento dei prelievi, essenziale per una corretta gestione, ma semplicemente diminuire i tempi di reazione per
l’attivazione di una risposta da parte degli Enti parco, tempi considerati già troppo
lunghi secondo l’attuale strategia di “early warning” che in ambito internazionale va
consolidandosi per la gestione di specie alloctone e problematiche.
Gisella Monterosso–Alessandra Somaschini
R. Il cinghiale è una specie che a pieno titolo fa parte dei nostri ecosistemi ed è diventata problematica a seguito delle introduzioni effettuate a fini venatori, ma anche
a causa delle alterazioni degli habitat che provocano cambiamenti della disponibilità
trofica e modificano gli equilibri naturali.
Le Aree protette si trovano ad
operare in contesti nei quali
gli equilibri possono essere già
stati alterati. In tali situazioni,
in cui i processi non seguono
completamente dinamiche naturali, può essere necessario
l’intervento dell’uomo, al fine di
evitare una semplificazione delle biocenosi e delle reti trofiche.
Nel momento in cui si interviene è importante, però, avere
chiari gli obiettivi di gestione
che si intende perseguire.
La D.G.R. 320/2006 di riferimento
per i piani di controllo nelle aree
protette del Lazio, in attuazione
della L. 394/1991, subordina l’intervento di controllo alla presen-
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G a z z e t ta A m b i e n t e n 4 // 2 0 1 3
Aree protette
za di impatti quantificati, tenendo conto della necessità di monitorare i risultati nel
tempo, in un ottica di gestione adattativa.
Purtroppo gli impatti sulle biocenosi sono accertabili solo a seguito di studi pluriennali che permettono di monitorare nel tempo l’andamento di popolazioni e comunità,
anche in relazione alle specifiche azioni intraprese nella gestione della specie, come
l’attuazione di piani di controllo o la costruzione di recinti di esclusione.
Nel Parco di Veio, prima ancora di avviare il piano di controllo del cinghiale, nel corso di ricerche erpetologiche è
stata rilevata una alterazione nella struttura di popolazione della
testuggine (Testudo hermanni),
caratterizzata dalla dominanza di
individui con più di 16 anni di età
(Filippi & Luiselli, 2008). È emerso immediatamente il dubbio che
tale alterazione fosse legata alla
predazione dei giovani da parte
del cinghiale. Sarebbe, quindi,
importante comprendere, quanto l’impatto del cinghiale incida
sulla mortalità di questa specie di
interesse comunitario che in passato era molto diffusa nel territorio del Parco.
Questo è uno di quei casi in cui,
pur non essendoci evidenze ac-
Danni dovuti all'attività di
scavo del cinghiale: sopra,
muretti a secco, in basso,
prato di un giardino privato.
(Foto di Francesca Giannini).
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Aree protette
Cinghiale in allerta mentre
attraversa un prato.
(Foto di Stefano Rosini).
certate, il ragionevole dubbio rende opportuno, in via precauzionale, intervenire, laddove si riscontrino densità di popolazione di cinghiali molto elevate, che paradossalmente si registrano proprio nelle Aree protette, dove la biodiversità dovrebbe essere
più tutelata (Toso & Pedrotti 2001).
Andrea Monaco
R. La prospettiva è interessante e, tra l’altro, la possibilità di contemplare un intervento di controllo numerico in presenza unicamente di un impatto potenziale sull’ecosistema (ovviamente supportato da solidi indizi e circostanziate motivazioni da
parte di esperti in materia) risponderebbe appieno alla necessità di un approccio di
tipo precauzionale, in particolare per le aree tutelate anche ai sensi della Direttiva
Habitat. Peccato però che per il dettato normativo nazionale gli interventi di controllo
nelle aree protette possano essere attuati solo in presenza di “squilibri ecologici accertati”. Tralasciando la vaghezza e l’oscurità della definizione “squilibri ecologici”,
il vincolo dell’accertamento posto dalla norma è disastroso ai fini della conservazione della biodiversità e andrebbe tolto in un’eventuale revisione della L. 394/1991. Si
tratta di fenomeni il cui accertamento è spesso assai complesso e frutto di indagini a
lungo termine. E normalmente l’area protetta non dispone né di risorse per realizzare gli studi né dei tempi lunghi necessari per il loro completamento. Nel frattempo,
in silenzio, è probabile che qualche pianta bulbosa protetta o endemica diventi sempre più rara, o che qualche specie di uccello nidificante a terra, spesso di interesse
comunitario, per l’ennesimo anno, non riesca a portare a termine la covata.
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R. Il numero di cacciatori in Italia è in progressivo e inarrestabile declino. L’età media
dei componenti delle squadre di caccia al cinghiale è molto elevata. Questi segnali delineano uno scenario futuro in cui il numero complessivo di cinghiali prelevati durante
la stagione venatoria diminuirà sensibilmente, con la conseguenza di un aumento delle densità di animali e dei danni da essi provocati. Come credete che andrà affrontato
questo scenario tutt’altro che rassicurante?
Alessandro Rossetti
R. Credo che la densità del cinghiale e, più in generale, della grande fauna, sia destinata ad aumentare nei prossimi anni soprattutto in conseguenza dell’incremento
delle aree in fase di rinaturalizzazione nei territori montani e, in misura minore, in
relazione alla riduzione del numero di cacciatori; in proposito, alcune esperienze
dimostrano che è possibile effettuare efficaci interventi di controllo anche con un
limitato numero di operatori. Che il declino sia inarrestabile è un’ipotesi poco fondata. In situazioni complessivamente abbastanza buone dal punto di vista gestionale
(es. Province autonome di Trento e Bolzano) la riduzione si è da tempo arrestata. Ciò
significa che in altre situazioni il decremento si arresterà fatalmente ad un determinato livello soglia, anche se non verranno toccate le norme venatorie vigenti, ampiamente inadeguate dal punto di vista tecnico, scientifico, etico e culturale. Come
da esperienze europee un numero di cacciatori elevato non garantisce affatto buoni
risultati (elevati carnieri), ma al contrario è spesso di forte ostacolo ad una gestione
efficace. Saranno pertanto necessarie profonde modifiche di legge ma anche delle
prassi venatorie fermo restando che la caccia in braccata si sta rivelando come un
sistema altamente inefficiente. Non dimenticato che la caccia al cinghiale è spesso
sostenuta anche da massicci foraggiamenti e che anche queste situazioni abnormi e disdicevoli debbano essere considerate nel contesto generale. Ribadisco che,
come dall’esperimento “delle finestre rotte” (cfr. Zimbardo, L’effetto Lucifero. Cattivi
si diventa? Cortina Raffaello) il problema della “dannosità” del cinghiale dipende dal
contesto legislativo in primis e secondariamente da quello culturale derivato dal primo e non dal numero e/o dalla capacità di operare dei cacciatori o selecontrollori.
Aree protette
Vorrei ricordare che quando si giustifica l’attivazione di un piano di controllo numerico in un’Area protetta con i danni all’agricoltura, si “forza” la norma nazionale
poiché tale possibilità non è prevista né dall’art. 11 (controllo nei Parchi nazionali) né
dall’art. 22 (controllo nei Parchi naturali regionali) della L. 394/1991. Tale forzatura
trova giustificazione nel dettato dell’art. 1, che prevede l’integrazione tra uomo e
ambiente naturale e la salvaguardia delle attività agro-silvo-pastorali tra le finalità
istitutive più significative di un’Area protetta. Allora la mia domanda è: perché non
si fa una “forzatura” analoga per quanto riguarda l’impatto sulla biodiversità e si fa
leva sempre sull’art. 1 quando individua come prima finalità istitutiva “la conservazione di specie animali o vegetali, di associazioni vegetali o forestali, […] di comunità biologiche, di biotopi, […] di processi naturali, […] di equilibri ecologici”? L’Area
protetta che abbia la determinazione per praticare tale strada, per me meritoria, sia
ben conscia però che con l’attuale assetto normativo nazionale e in presenza di un
contesto sociale e culturale né favorevole agli interventi di controllo numerico, né
sensibile al tema dell’impatto sulla biodiversità, il rischio di ingenerare situazioni di
criticità è molto alto.
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Aree protette
Francesca Giannini
R. È certamente vero che esiste una contrazione progressiva e costante del numero
dei cacciatori, ma questa realtà innegabile, per la caccia al cinghiale, deve tener
conto di altri fenomeni che esulano dalle statistiche ufficiali. È ormai evidente che
molti cacciatori che praticavano altri tipi di attività venatoria negli ultimi anni hanno
iniziano a praticare la caccia al cinghiale, stante l’abbondanza del selvatico, contrariamente alle altre specie. Ciò ammortizza l’effetto della diminuzione complessiva
della componente venatoria sul contingente che si dedica alla caccia dell’ungulato.
È comunque vero che in Italia il sistema di prelievo si basa quasi esclusivamente
sulla forza lavoro dei cacciatori ed è difficile immaginare come, in assenza di questi,
si possa comunque garantire prelievi almeno comparabili o maggiori, se non con
l’utilizzo di notevoli risorse economiche o di tecniche attualmente non consentite
per legge. È relativamente facile infatti costruire sistemi basati sul volontariato per
la tutela della fauna ma non lo è trovare manodopera gratuita per assicurare l’effetto
contrario (la riduzione di specie problematiche). È pertanto auspicabile che si inizi a
lavorare su sistemi alternativi da affiancare ai tradizionali abbattimenti con la consapevolezza che occorreranno comunque risorse economiche per attuarli. Sarebbe
necessaria anche una maggiore responsabilizzazione delle associazioni ambientaliste poco inclini a considerare alcune specie una grave minaccia per la biodiversità e
mai impegnate a prestare manodopera per la loro cattura.
Così come si dovrebbe facilitare e sostenere, con appropriate modifiche legislative e
regolamentari delle norme sanitarie e di polizia veterinaria, il sistema del trappolamento ad opera degli agricoltori, attualmente poco utilizzato sia in aree protette che
nei territori gestiti dagli ATC.
E in ultima analisi, come già anticipato, fare in modo che tutte le aree protette abbiano in organico personale che possa direttamente effettuare abbattimenti di animali
o realizzare catture.
Gisella Monterosso–Alessandra Somaschini
R. La diffusione del cinghiale in Italia ed in Europa è un fenomeno concomitante alla
generale trasformazione del territorio in cui si assiste ad un incremento delle zone
boschive, all’abbandono dell’agricoltura tradizionale e allo spopolamento delle zone
a maggior connotazione naturale.
Tali dinamiche portano ad un cambiamento dei rapporti tra le varie componenti degli
ecosistemi che potrebbe condurre a nuovi equilibri. Emblematico è ad esempio l’incremento demografico del lupo, che ha seguito la diffusione del cinghiale e che può
agire come fattore di contenimento delle popolazioni di ungulati.
Le tecniche e gli indirizzi opportuni da adottare, per tenere sotto controllo i danni prodotti dal cinghiale, vanno individuati tenendo presente il contesto e le vocazioni del territorio in cui si interviene e le relative trasformazioni ambientali, sociali e culturali in atto.
Considerato il peso che assumono gli indennizzi dei danni da cinghiale sul bilancio
pubblico (circa 9 milioni di euro di danni all’agricoltura nel 2004 – dati ISPRA, Carnevali et al. 2009) e le molteplici interazioni che la specie ha con le varie componenti sia
economiche (danni all’agricoltura, alle persone e alle cose), che sociali (presenza del
cinghiale in aree urbanizzate, sinistri stradali, attività venatoria), sanitarie (rischio di
trasmissioni di zoonosi) ed ambientali (interazioni con le altre specie animali e vegetali), è giunto il momento di studiare un adeguamento e una revisione della normativa
che non indirizzi la gestione del cinghiale soltanto in un’ottica venatoria, ma che preveda una pianificazione tesa ad affrontare le varie problematiche ad ampio spettro.
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G a z z e t ta A m b i e n t e n 4 // 2 0 1 3
Aree protette
Nei diversi contesti in cui si è inserita la specie vanno, pertanto, delineate le opportune modalità di intervento, individuando gli enti e gli organismi preposti alla gestione
che dovranno agire in modo coordinato, individuando le modalità e le tecniche più
idonee per intervenire, in base ad obiettivi prefissati. Sarà necessario in particolare
colmare le lacune normative relative alla gestione dei capi catturati ed abbattuti ai
fini della loro introduzione nella filiera alimentare, individuando un percorso operativo coerente con la normativa sanitaria e di igiene degli alimenti, ma che sia sostenibile anche dal punto di vista economico e gestionale.
Una volta chiariti gli aspetti prettamente normativi, sarà opportuno incentivare, anche mediante specifici finanziamenti, la realizzazione sul territorio delle strutture
necessarie per attivare la filiera alimentare, in modo da ricostruire la tracciabilità
degli alimenti, garantire una maggiore salubrità dei prodotti e scoraggiare il mercato nero.
In ogni caso, oltre a acquisire maggiori conoscenze su distribuzione, consistenza e
tendenze evolutive della specie, e approfondire le conoscenze degli impatti prodotti
sul contesto naturale, sarà fondamentale curare la comunicazione, al fine di rendere
noto ai vari soggetti interessati, le tecniche disponibili per prevenire e gestire i danni
e i termini economici e numerici del problema. In particolare, oltre a vietare le immissioni venatorie, tenere sotto controllo la densità di popolazione e gli allevamenti, sarà necessario responsabilizzare gli agricoltori, che dovranno necessariamente
adottare le misure opportune per prevenire i danni. Si potranno, inoltre, finanziare
e realizzare interventi di adeguamento della viabilità per ridurre i sinistri, ed eventualmente valutare l’opportunità di estendere l’obbligo per i proprietari di autoveicoli
a stipulare polizze assicurative che coprano i sinistri provocati dalla fauna selvatica.
Un piccolo cinghiale.
(Foto di Marco Branchi,
www.marcobranchi.it).
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Aree protette
Andrea Monaco
R. Il tema posto dalla domanda non riguarda solo il cinghiale in Italia. Per esempio
negli Stati Uniti, dove i problemi maggiori di sovrabbondanza riguardano i cervidi,
sono anni che si dibatte su come affrontare il dilemma “deer poulations up, hunter populations down”. Nel loro caso un ruolo determinante nel contenimento delle popolazioni è giocato da chi svolge tale attività per professione. Una figura sostanzialmente
assente nel nostro contesto.
Ritornando al nostro paese, prima ancora di guardare ai numeri di cacciatori e al
significato che in prospettiva assume il loro decremento, è prioritario che cambi
radicalmente l’atteggiamento delle squadre di caccia al cinghiale. Devono passare
dall’essere essi stessi “il problema”, con la loro corsa sfrenata ad incrementare i
carnieri, fatta con mezzi leciti e illeciti, ad essere attori determinanti nella risoluzione del problema e nel superamento della situazione critica attuale che sta contribuendo all’affossamento del settore agricolo e dei bilanci degli enti pubblici.
Ma l’adozione di comportamenti responsabili non deve riguardare solo il mondo venatorio. Per uscire da questa situazione fuori controllo, e potenzialmente sempre
meno governabile nel tempo, è indispensabile che tutte le componenti sociali adottino un’azione stringente in termini pragmatici e aderiscano, da subito, ad una sorta
di patto sociale mirato ad aumentare la convivenza tra uomo e fauna. Le province
manifestando concretamente la volontà di gestire il problema secondo modalità tecnicamente coerenti e non dettate da pressioni sociali e politiche; le AAPP attivando,
ove necessario in modo coordinato con ATC e province confinanti, piani di controllo
numerico quantitativamente importanti e impegnando risorse adeguate a diffondere
l’uso della prevenzione del danno; gli agricoltori assumendo un atteggiamento meno
passivo e assistenzialista e affermando una volontà di autodifesa e prevenzione del
danno; i cacciatori di cinghiale contribuendo alla generalizzata riduzione drastica
delle densità e adoprandosi per mantenerla tale.
G a z z e t ta A m b i e n t e n 4 // 2 0 1 3
di Giuseppe Puddu
Tecnico forestale del Sistema delle Aree naturali protette e dell’Assessorato Ambiente della Regione Lazio
Premessa
I danni da fauna alle colture agricole sono un piccolo argomento dell’ampio capitolo della
gestione faunistica, intesa come complesso di materie che vanno dalla biologia ed ecologia della specie che compie il danno, alle misure gestionali adottabili per prevenirlo.
Il tema è stato trattato nel dettaglio da poche pubblicazioni, quasi sempre prive del
necessario approccio olistico in grado di spaziare dal contesto socio-economico in
cui il danno si inserisce, agli aspetti bio-ecologici della specie agraria danneggiata e
della specie faunistica danneggiante.
Il più delle volte la trattazione dei danni da fauna selvatica nasce da spinte legate alla
necessità di porne in evidenza la presenza o proporli all’attenzione di un più ampio
pubblico e di quantificarlo al fine di sollecitare interventi finanziari.
Ricondurre l’argomento su canali scientifici non è facile, sia per la mancanza di approcci condivisi tra i tecnici, sia perché l’adozione di criteri metodologici rigorosi
finisce spesso con lo scontentare chi lamenta i danni o essere sottovalutata da chi
propone soluzioni “muscolari” e populiste per la loro eliminazione.
Chi propone soluzioni drastiche legate al prelievo venatorio (meglio se fuori stagione
o in Aree protette) parte o si focalizza sulla specie considerata danneggiatrice per eccellenza: il cinghiale. Ciò è dovuto sia all’assenza di dati attendibili derivanti da procedure di raccolta standardizzate a livello nazionale sulle specie che producono danno,
sia perché la spinta “al cinghiale”, disconoscendo tutte le altre specie portatici di danno, viene da due mondi, quello agricolo e quello venatorio, spesso connessi tra loro.
Va ricordato che i dati raccolti dalle diverse Banche Dati Ungulati prodotte da INFSISPRA espongono dati forniti dalle amministrazioni, che a monte non utilizzano alcun
protocollo di rilevamento che presenti aspetti di standardizzazione o condivisione
con altre realtà simili. Ogni provincia o regione, basandosi su propri approcci e metodi che derivano dalle più svariate fonti (deliberazioni, determinazioni, regolamenti,
protocolli o semplice esperienza del rilevatore) produce un dato diverso.
Eppure, in questo campo così disarticolato nei suoi approcci, vengono quantificati ed
erogati milioni di euro in danni.
Il primo, trascurato, aspetto dei danni da fauna selvatica è chi possa avere diritto al
ristoro, rimborso, risarcimento o indennizzo del danno1. Fatto che si porta appresso
un secondo aspetto cruciale: come definire l’agricoltore ai sensi del danno.
1Va ricordato che sui termini danno e rimborso, ristoro, indennizzo o risarcimento esistono una serie di sentenze delle diverse corti (Cassazione, Cassazione Sezioni unite, Corte costituzionale) oltre una certa quantità
di dottrina che ha cercato di ricondurre il danno da fauna selvatica a tre fattispecie distinte del Codice Civile:
art. 2043, 2051 e 2052.
Aree protette
Dall’esperienza di campo
all’analisi delle criticità nella
valutazione dei danni da fauna
alle colture agricole
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Aree protette
Recinzione elettrificata a
protezione di una coltivazione
di cocomeri.
(Foto di Andrea Monaco).
Già queste due sole sfaccettature dei danni da fauna selvatica aprono un mondo infinito di aspetti legali, legislativi, di consuetudini, di aspetti sociali ed antropologici. E
di leggende. La più diffusa è quella del “buon agricoltore”2 che, con la sua paziente
opera, difende il territorio dai disastri idrogeologici (che invece cinghiale o nutria,
giusto per citare due specie “dannose”, provocherebbero), che genera agrobiodiversità che poi difende con pratiche colturali altamente sostenibili, che è in rapporto
ecologico, quasi francescano, con il resto del creato, che è vessato da Enti Parco,
Comuni, Province o Regioni, che gli negano i dovuti nullaosta, gli impongono vincoli
quali SIC o ZPS, o gli impediscono l’accesso ai giusti fondi per allargare la sua attività
e renderla più proficua, attraverso lungaggini legate a vari PSR).
Poiché è noto che ogni leggenda abbia “sempre” un fondo di verità, gli aspetti appena citati generano indecisione o indifferenza nel decisore politico che deve affrontare
una questione articolata come i danni da fauna selvatica.
Un ulteriore tema importante è come rilevare i danni da fauna selvatica e quali metodi di stima utilizzare per il loro calcolo, inclusi quali prezzi e quantità utilizzare come
produzioni di confronto.
Sulla base di un’esperienza decennale in varie realtà territoriali, su molteplici tipologie di produzioni agricole e nell’ambito di diversi contesti di studio, ricerca e
gestione, si prova di seguito ad affrontare in modo critico i temi enunciati delineando
un ragionamento esplicito. Infine, si propone un approccio metodologico originale al
rilevamento e alla stima del danno.
2 Si veda il recente scritto di Francesco Petretti su Oasis n. 204: “Braccia rubate all’agricoltura!”.
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Stabilire quale sia la figura di riferimento a cui concedere l’eventuale ristoro del
danno3 attraverso una valutazione da parte dell’ente o del perito, non è facile, a causa dell’articolata definizione di agricoltore, di agricoltura e del dettato legislativo
inerente la rifusione dei danni sia che si parli di legge sulla fauna (e caccia), sia che
si parli di Aree protette.
Una definizione di agricoltore quanto mai larga, si trova nell’art. 1 del D.Lgs. n. 228
del 2001 (“È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione
del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse”).
L’attività agricola viene perciò definita solo in maniera indiretta, ai sensi di tale articolo; ne segue, quindi, che quasi tutto quello che avviene nelle campagne può essere
definito attività agricola o assimilato ad essa (per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo
sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere
vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque
dolci, salmastre o marine)4.
Le leggi nazionali sulla fauna e sulle Aree protette rimangono vaghe su cosa sia il
danno e cosa vada indennizzato. Questo, potenzialmente, comporta che, per gli articoli 15 della L. 394/1991 e 26 della L. 157/1992, quasi tutto sia indennizzabile. Molte
leggi regionali ampliano questo dettato includendo o specificando altre fattispecie
indennizzabili in maniera maggiormente inclusiva.
Le cose si complicano ulteriormente quando viene introdotta nel sistema la variabile agricoltura biologica. Infatti, parte di questo approccio colturale è organizzato in
campi piccoli e/o semi-marginali (sia come ubicazione, sia come attitudine produttiva). L’estensione ridotta del campo agricolo si porta inevitabilmente appresso un
maggiore peso del danno, per questioni geometriche legate all’incidenza della lunghezza del margine sulla superficie complessiva dell’appezzamento. Inoltre, buona
parte dell’agricoltura biologica gode di misure di incentivazione, per il motivo principale che l’agricoltore biologico sopporta un maggior danno alla produzione non ricorrendo a difese provenienti dalla sintesi chimica. Sembrerebbe, quindi, che nell’incentivo sia già inserita una aliquota che ripagherebbe il danneggiato che conduce i
terreni in biologico, dalla maggior presenza di fauna, più frequente perché meno
avvelenata, effetto che si vuole, appunto accentuare, con il sostegno alla produzione.
Quale danno
Il rilievo del danno, ai fini della sua quantificazione, è il primo momento di una serie di azioni che porteranno l’amministrazione a formulare una proposta di ristoro
economico.
Come nelle indagini criminologiche, il rilievo del danno è un fatto “irripetibile”. Spesso l’accertamento del danno avviene appena prima della raccolta (per motivi diffe3 Che l’ente deputato possa riparare al danno nella sua interezza o in una determinata percentuale è fatto
anch’esso sancito da una serie di sentenze.
4 Per lo stesso articolo di legge si considerano attività connesse: le attività, svolte dallo stesso imprenditore
agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione
che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali; vi rientrano, inoltre, le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata,
comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale nonché le attività di
agriturismo.
Aree protette
Quale agricoltore, quale agricoltura
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renti dovuti all’organizzazione dell’ufficio oppure per una scoperta all’ultimo istante da parte dell’agricoltore) e pertanto diventa “momento unico”. In altri casi può
essere ripetuto, ma poiché le condizioni di campo possono cambiare rapidamente,
quanto costatato in precedenza resta solo come base conoscitiva generale, influendo
generalmente poco sulla nuova perizia.
Vedere un campo in piena coltivazione, danneggiato anche sino alla distruzione totale del prodotto, fa nascere nel conduttore del campo rabbia e rassegnazione, ma non
lascia indifferente nemmeno il tecnico incaricato della valutazione, poiché ognuna
delle due parti (danneggiato e valutatore), entrambi provenienti o legati alla cultura
agricola, “avvertono” interiormente una “aggressione” a qualcosa che è percepita
anzitutto come fonte di cibo e di sostentamento piuttosto che di introito monetario.
Per questo il rilievo del danno in campo è un momento che vede una elevata concentrazione di istanze contrapposte in pochi istanti: il coltivatore che vorrebbe il massimo possibile di denaro come indennizzo, ritenendo le proprie coltivazioni come
uniche ed irripetibili (esattamente il contrario del famoso motto “l’erba del vicino
è sempre la migliore”), l’amministrazione che ha l’aspirazione a spendere il meno
possibile ed il soggetto valutatore, che personalmente vorrebbe pure essere partecipe, che si trova a dover assumere tutti gli elementi utili alla stima in un tempo
ragionevolmente breve (sugli elementi della stima si veda Puddu, 20105.
Questo porta alla necessità di avere se non schemi predefiniti, almeno similarità di
approcci per tentare una certa equiparazione del risultato finale su larga scala.
Se per il rilievo non esistono schemi predefiniti, resta comunque fondamentale capire e/o conoscere quale sia l’unità di rilievo (metri quadri danneggiati, peso del prodotto danneggiata, n. di ceppi o piante). Data l’unicità del momento, al sopralluogo
dovrebbe sempre partecipare il danneggiato (cosa non sempre scontata) e magari
un tecnico di parte con il quale convenire almeno l’unità di rilievo (anche questo, fatto
non scontato).
A tal riguardo, sarebbe di stringente necessità la predisposizione, su scala nazionale, di schede di rilievo divise per coltura o colture analoghe con le quali rilevare e descrivere il danno. Ad esempio, il rilievo puntuale di ogni metro quadrato danneggiato
in colture come i cereali autunno-vernini, gli erbai, i prati da sfalcio comporta un
dispendio di tempo, che il rilevatore non può permettersi a fronte di una stima visiva
per classi che altera certamente il valore finale dell’indennizzo, ma meno del costo
orario impiegato per la stima, specie se in un giorno si compiono più sopralluoghi.
Quale indennizzo
In mancanza di una modalità universalmente accettata, i metodi di calcolo e valutazione dell’ammontare dell’indennizzo finale adottati dalle diverse amministrazioni preposte all’erogazione delle somme sono molteplici e riassumibili in tre grandi
categorie, ognuna con difetti e pregi: l’approccio “caso per caso”, l’approccio “con
prezzario standard” e l’approccio “semi-estimativo”.
L’approccio “caso per caso” è tutto basato sull’esperienza di campo del rilevatore
che deve conoscere l’agricoltore, la coltura, le condizioni agronomiche della zona e
deve saper valutare in un tempo congruo tutti i fattori utili alla perizia. In questo caso
spesso si ricorre a prezzi quasi “fai da te” con la formula “alle condizioni di mercato
5 Puddu G., L’approccio alla perizia per la valutazione del danno alle colture agricole. In: Monaco A., Carnevali L.,
Toso S., 2010, Linee guida per la gestione del Cinghiale nelle Aree protette, 2° edizione. Quaderni Conservazione
Natura, 34, Ministero dell'ambiente-ISPRA.
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Aree protette
locale” per stabilire il prezzo, oppure a giornali e testate di settore o a rilevazioni generiche su mercati nazionali, non opportunamente contestualizzate. È evidente che
questo è l’approccio migliore per stabilire l’indennizzo nei casi in cui il valutatore si
specializza su una o poche colture (caso frequente per i comprensori specializzati),
ed è anche il migliore se si riesce a stabilire un contatto perito-agricoltore che aiuta
a sensibilizzare verso i problemi gestionali dell’ente (Provincia, ATC o Area protetta
che sia). È altrettanto evidente, tuttavia, che questo approccio, che prescinde dalle condizioni di mercato per scendere nello specifico caso, si presta alla “casistica
personalizzata” e finisce nell’ingenerare disparità tra perizie con favoritismi e valutazioni personalistiche che possono fuorviare l’ente nelle scelte gestionali e nell’erogazione degli indennizzi.
Di segno assolutamente opposto è l’approccio “con prezzario standard” redatto
dall’ente pagatore che facilità il rilevatore che deve solo valutare in linea generale
l’estensione dell’appezzamento e del danno, per poi fare unicamente delle moltiplicazioni. In questo caso, si evita certamente l’approccio personalistico e tutte le
eventuali deviazioni da esso derivanti, ma si spersonalizza tutto il complesso “danno-perizia-stima” che conta sulla professionalità del rilevatore, sulla conoscenza
del contesto sociale in cui opera, della biologia delle specie danneggiate e che provocano il danno. La “contrattazione” del valore delle colture viene poi stabilita con
concertazioni di alto livello (politici e dirigenti sia degli enti che delle associazioni di
categoria) che finisce per tagliare fuori la realtà operativa che viene dal campo. Il
risvolto positivo è che le valutazioni rimangono confrontabili di anno in anno perché
quasi tutti i fattori che condizionano l’indennizzo rimangono costanti come “condizioni al contorno”; le variazioni annuali degli importi, pertanto, sono strettamente
correlate con le variazione dell’entità del danneggiamento.
Frutto di elaborazione personale, maturata dopo decine di valutazioni e perizie nel
Sistema delle Aree protette della Regione Lazio, è il terzo approccio, denominato
“semi-estimativo”, che si sperimenta da tempo in particolare nella sua forma più
lineare sui cereali autunno-vernini, erbai e prati, quale ragionevole compromesso
tra l’approccio “caso per caso” e quello “con prezzario standard”, con l’uso dei mercuriali delle Camere di Commercio Industria Artigianato ed Agricoltura. In campo, il
tecnico rileva tutte le condizioni per inquadrare l’azienda nell’ordinarietà (o fuori da
essa). Poi rileva il danno per classi di danneggiamento, adottando ove possibile la
conosciuta scala di Braun-Blanquet che prevede 5 classi che raddoppiano di superficie (la prima classe può essere modificata considerando il danno fino al 10% della
superficie).
Si ottiene che per grandi appezzamenti si ha un veloce rilievo anche se si possono
commettere delle sottostime del danno, mentre sui piccoli appezzamenti si hanno
modeste sovrastime del danno con un aumento dell’indennizzo a vantaggio del piccolo agricoltore, spesso extramarginale, che di frequente non ha capacità di organizzare prevenzione e difesa.
In ufficio, alla superficie danneggiata viene applicata la produttività media provinciale come rilevata dall’ISTAT e quindi moltiplicata per il prezzo medio rilevato dai
mercuriali su base provinciale.
Nel contesto dell’accertamento dei danni da fauna selvatica alle colture agricole,
occorre valutare attentamente anche un particolare “fattore umano”: il contatto tra
la figura che perizia e chi ha subito il danno. In questo breve momento dall’alto “valore aggiunto”, si sostanzia un contatto efficace tra utente ed amministrazione. Nella
persona dell’accertatore e nelle sue competenze tecniche complessive si concretiz-
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Scheda
Aree protette
Accertamento e stima in campo dei danni da fauna selvatica
La valutazione del danno nel suo complesso passa per fasi successive, da svolgersi sempre, per arrivare ad una definizione critica della somma da rifondere al danneggiato. Ognuna delle fasi può essere scomposta in momenti, ciascuno dei quali è dedicato alla valutazione di un parametro particolare
che influisce, nel complesso, sulla redazione della perizia tecnica di accertamento finale del danno.
L’iter procedurale può essere didatticamente scomposto in tre fasi principali:
1) L’accertamento, o constatazione “dei fatti”. In questa fase si trovano gli elementi importanti e necessari all’inquadramento generale del danno come l’assunzione dei dati generali
aziendali (es.: ubicazione dentro/fuori del confine d’interesse o la presenza di vincolistica particolare limitante le produzioni), l’identificazione degli elementi che conducono al riconoscimento di una determinata specie (tracce/fatte) e l’identificazione di problematiche differenti
(ad es. fitopatologie), unitamente alla valutazione generale della misurabilità del danno (danno presente e misurabile, danno ipotizzato e/o difficilmente misurabile).
2) La stima, momento della raccolta degli elementi in un quadro logico, da cui trarre le
debite conseguenze. Qui entra in gioco la valutazione della qualità e quantità del prodotto
perso o danneggiato, la valutazione delle produttività medie ed il confronto con la situazione
di riferimento, data dal contesto produttivo locale, la formulazione di una prima valutazione
(anche se generica) e la sua illustrazione al “portatore di interessi”. In questa fase si concentrano diverse criticità, e per evidenti ragioni, è qui che occorre raccogliere, per la valutazione,
elementi tanto più oggettivi e misurabili.
3) La perizia, quale momento della formalizzazione dell’attribuzione di valore al bene stimato. I dati quali-quantitativi prima assunti generano una scala delle produttività a cui rapportare i prezzi di mercato, desunti da mercuriali o prezziari regionali. Resta il problema del
reperimento dei prezzi di mercato per quelle produzioni di nicchia o poco commercializzate, o
ancora fuori dal grande mercato per le loro particolarità. Anche il momento finale della redazione della perizia propone delle difficoltà operative, che nascono sia dalla lentezza generale,
tipica del mercato agricolo, nel formare il prezzo di riferimento, che dalla necessità di redigere
una perizia tecnicamente corretta, ma pienamente comprensibile al “portatore di interessi”
che effettua l’accesso ai dati.
L’applicazione di un tale protocollo pone il problema di quale la figura possa o debba seguire le
fasi del protocollo, dal primo accertamento alla redazione finale della perizia, quale atto a carattere
tecnico-economico.
Dichiarata la “stima del danno” un problema tecnico-economico, la cui risoluzione necessita di informazioni e competenze, cultura e metodi/tecniche, la risposta alla domanda precedente non può
che portare verso quella figura tecnica agronomica, che dalle evidenze di campo può trarre quegli
elementi “necessari e sufficienti” alla formulazione di una stima corretta, poiché assomma nel proprio bagaglio culturale tutti gli strumenti utili, sia all’approccio di campo, che alla redazione della
perizia finale tenendo conto delle difficoltà e criticità del percorso di accertamento/valutazione, anche al fine della redazione dell’atto dell’amministrazione competente a pagare.
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Scheda
1) Il danno alle colture cerealicole autunno-vernine
Un caso comune sono i danni alla semina sulle colture cerealicole autunno-vernine con asportazione del seme da parte della fauna selvatica. In questo caso si ritiene opportuno e corretto verificare, con un primo sopralluogo, che abbia avuto luogo la semina e quale sia la prima estensione del
danno che poi sarà quantificato definitivamente prima della raccolta.
Anche questo caso si presta a diverse considerazioni: si constata se dopo il danneggiamento sia
possibile proporre una ri-semina, qualora la ridotta estensione del danno e l’accessibilità generale
dell’appezzamento lo permettano; si constata quali parametri siano più utili per il calcolo del rimborso; si constata quali spese maggiori o minori eventualmente aggiungere o detrarre.
A parte i casi di mancata o semina rada per ottenere comunque un’integrazione economica, la
seconda verifica in pre-raccolta, dopo il primo accertamento, permette anche di assumere ulteriori
dati sull’incidenza del danno e sui possibili fattori condizionanti (vicinanza a fossi, siepi o boschi)
per eventuali future misure di prevenzione o mitigazione del danno.
Nel caso di una integrazione della semina, quando fatta in un tempo agronomicamente utile, il
rimborso può essere fatto sul solo prezzo di mercato delle sementi, mentre le spese di semina, articolandosi su superfici ridotte non sarebbero da valutare, a fronte di un ottenimento di produzione
alla raccolta.
La valutazione della mancata produzione piuttosto che su prezzari stabiliti a priori dall’ente erogante, andrebbe fatta sui prezzi medi realizzati sul mercato a fine raccolto (anche in questo caso
tramite Camera di Commercio) data la forte alternanza del valore dei cereali stagione per stagione;
un prezzo stabilito a priori potrebbe causare forti sperequazioni per l’agricoltore anche se in un
contesto di indennizzo.
Dato il contesto di indennizzo, spese accessorie in aumento o diminuzione come le concimazioni,
il diserbo o le irrigazioni che andrebbero inserite in un corretto quadro di anticipazioni colturali o
frutti pendenti, sono da escludersi poiché esulano dagli aspetti generali che il rimborso del danno
può assumere.
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Casi esplicativi
Danno da fauna selvatica ad
un campo di mais prossimo
alla maturazione.
Si evidenzia l'atterramento completo di parte della
produzione.
(Foto di Stefano Sarrocco).
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Scheda
Aree protette
2) I danni da cinghiale sul noccioleto
Il noccioleto è coltivato con sistemi di allevamento a cespuglio che accentuano la presenza di rami giovani
(polloni) su cui si articola la produzione. Il frutto si sviluppa in estate, momento in cui si può verificare
una scarsità di piogge e una carenza alimentare (ghiande) nei sistemi forestali. Questo può spingere il
cinghiale (ma anche altra fauna) verso i noccioleti. Tipico comportamento del cinghiale è la ricerca di
nocciole fresche sui rami produttivi (Figg. 1 e 2), che possono essere spezzati dall’animale che si impenna
nel tentativo di raggiungere le parti più distali del pollone su cui cresce il frutto. Questa azione di ricerca
ed alimentazione può rompere il ramo produttivo con una perdita produttiva netta nell’anno e nell’ambito di un orizzonte temporale futuro che va stabilito secondo le osservazioni di campo.
Nell’idea del “giusto indennizzo” si presenta, quindi, al perito la necessità di valutare, oltre la produzione
persa per l’annata in corso, anche quale sia la produzione media per ramo per l’anno, e più in generale
come inserire questa in un quadro produttivo medio con cui stimare la perdita per il futuro. Da ciò discende la necessità di valutare, localmente, quanto sia la durata media produttiva di un pollone.
Valutata la produzione media dell’anno per branca produttiva, contando il numero di rami rotti sull’appezzamento si risale ad una produzione potenzialmente persa per l’annata produttiva in corso; valutato
l’orizzonte produttivo medio di una branca e la produzione media per anno (da dati storici o misurati) si
può estendere la produzione persa e quindi esplicitare un rimborso che supera l’indennizzo (che come
Figg. 1 e 2.
Cinghiale adulto che piega un
pollone di nocciolo.
(Disegni di Paola Marunizzi).
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Scheda
Aree protette
idea non prevede il lucro cessante o futuro mancato guadagno), per definire meglio un “giusto indennizzo”.
Su questa base logica di procedimento si possono inserire alcune valutazioni a contorno, per chiarire
la differenza tecnica tra un indennizzo ed un risarcimento. Dal punto di vista economico-estimativo
e del risarcimento occorrerebbe ancora prendere in considerazione la spese in sovrappiù sostenute
per la produzione e le mancate spese dovute alla riduzione dell’apparato produttivo che si realizza
dopo il danno ed inserirli in un contesto di valutazione dei frutti pendenti (ovvero di ricerca del
tasso di interesse con cui portare al momento della perizia le mancate produzioni).
Considerando però che ci si trova in un contesto di rimborso e non di risarcimento è possibile
valutare come congruo il valore prima calcolato (danno al prodotto più quantità della produzione
persa per le branche spezzate) che copre comunque solo una parte delle perdite subite. Nell’ambito
del processo logico di valutazione occorre comunque verificare se ci siano ulteriori costi macroscopici generati dal danno e che possono essere inseriti a pieno titolo nella valutazione. Nel caso del
nocciolo, la presenza di rami rotti sulla pianta e sul terreno crea un discreto impedimento all’approntamento del letto di raccolta per la meccanizzazione del raccolto, per cui essi vanno eliminati
prima di questa operazione. Questo comporta un extra-costo macroscopico di cui tenere anche un
indennizzo deve tenere conto. Analizzando i diversi prezziari regionali è possibile desumere una
voce generale di potatura/rimonda di cespugli con cui calcolare un addendum al rimborso.
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Aree protette
Campi di lenticchie al Parco
nazionale dei Monti Sibillini:
un contesto potenzialmente
molto critico per i danni da
fauna selvatica.
(Foto di Alessandro Rossetti).
za, nei fatti, l’Ente gestore (e pagatore!). Le differenti politiche gestionali passano, e
possono prendere corpo, con diverso grado di efficacia e risultati, anche attraverso
questo contatto. Ridurre l’accertamento del danno ad un momento di sola “misura”
affidato a terzi esecutori, magari un perito estimatore di una compagnia di assicurazioni a cui un Ente ha affidato la valutazione e liquidazione del danno, del tutto
estranei alla gestione complessiva, svilisce completamento questa possibilità che
può anche essere produttiva di contatti positivi e non solo di contrapposizioni tra
agricoltura e fauna.
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Aree protette
Il “giusto indennizzo”
Con formule più o meno esplicite giurisprudenza e dottrina hanno delimitato il
campo dei rimborsi monetari al danneggiato, definendo in maniera maggioritaria
il ristoro economico quale “indennizzo”, ovvero come parte del tutto rispetto al più
universale ed omnicomprensivo “risarcimento”. Il corpus interpretativo delle norme
è stato poi definitivamente inquadrato dalla sentenza della Corte costituzionale n.
4 del 2001, che ha sancito due principi cardine di tutto il discorso danni da fauna
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selvatica. Il primo punto del ragionamento è che la fauna selvatica soddisfa, con la
sua presenza del tutto naturale ed indipendente dall’uomo, l’intera collettività (ad
es. cacciatori o watchers, ma anche l’omeostasi ecosistemica). Il secondo punto è
che il legislatore, nel contemplare il ristoro del danno, ha previsto una somma che
copra l’incomodo del danno stesso, ma detta cifra, l’indennizzo, è moderata dal fatto
che tutta la società ritiene meritevole di tutela la fauna nell’ambito di un equilibrio
naturale. Della società civile fa parte anche il danneggiato ed anche egli gode dei benefici dell’interazione della fauna con gli altri componenti ecosistemici che assieme
strutturano un insieme armonico.
Al freddo ragionamento appena esposto occorre affiancare l’idea dell’esistenza di un “giusto indennizzo”, che spetta all’Amministrazione proporre. Serve un approccio che porti oltre la somma derivante da una mera moltiplicazione di cifre da prezzario senza per questo arrivare alle somme derivanti da un approccio “ad personam”. In sintesi è opportuno
mirare, in alcuni casi, ad una cifra che vada oltre la sola rifusione della produzione persa,
ma che dimostri al coltivatore che è inserito in un contesto che dà valore alla sua attività.
Volendo concretizzare l’idea di un giusto indennizzo la stima “caso per caso” e quella
“con prezzario standard” creano due estremi, mentre al centro si posiziona la valutazione “semi-estimativa” poiché abbastanza flessibile da essere adattata in campo ed
in ufficio alle situazioni di intramarginalità o extramarginalità aziendale, pur rimanendo inserita entro binari delimitati di prezzo e produttività media, soprattutto per
la “collaudata” capacità di “autocorrezione”. Dal punto di vista psicologico la produttività media soddisfa il grosso produttore o il produttore intramarginale che vede
nell’indennizzo cosi calcolato, comunque un ristoro non lontano dalla sua capacità
di produrre, mentre il piccolo produttore vede nella produttività media un’alta soglia
remunerativa soprattutto degli sforzi profusi nella produzione.
Per esplicare meglio questa parte si offrono alcuni spunti derivati dalla valutazione
pratica attuata in campo, senza avere la pretesa di fornire una completa risoluzione,
ma solo un approccio su cui discutere.
La perizia estimativa e l’approccio “semi-estimativo”
Un corretto approccio estimativo al danno, nell’ambito dell’“estimo formale”, dovrebbe prendere in considerazione una serie di fattori produttivi al fine di istituire il
bilancio “ordinario” della coltura per poi verificare lo stato “attuale” e portarlo a sottrazione al fine di definire il danno. Inoltre, a seconda del periodo del danno andrebbero portate in aggiunta le anticipazioni colturali o i frutti pendenti. Nel complesso, il
metodo, estremamente corretto, si scontra con una serie di fattori di diversa natura
che lo rendono troppo rigido rispetto alla realtà dei danni in campo, come ad esempio lo stillicidio di chiamate del danneggiato che lamenta continui aumenti del danno
tra un sopralluogo ed un altro, oppure la mancanza di una reale confrontabilità tra
un tasso di fruttuosità interno difficilmente calcolabile e quello, estremamente aleatorio, che l’imprenditore otterrebbe da investimenti alternativi.
Inoltre, tutto il procedimento proveniente dall’”estimo formale” si scontra con il concetto di indennizzo che giurisprudenza e dottrina hanno sancito per il caso “danni da
fauna selvatica”.
È questo l’errore principale che si riscontra nella letteratura in materia. La definizione “conforme alla legge” di indennizzo porta la valutazione verso un “estimo legale”,
cioè verso una valutazione fortemente condizionata dal dettato legislativo e dalle sue
interpretazioni, piuttosto che verso l’applicazione delle formule estimative classiche
dell’”estimo formale”.
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Conclusioni
La mancanza di una concreta definizione di agricoltura non aiuta chi deve approcciarsi alla valutazione dei danni da fauna alle colture agricole. Infatti, la definizione
di cosa possa essere agricoltura si ricava solo indirettamente, a partire dalla definizione di agricoltore: tutto ciò che fa l’agricoltore sarà, nella pratica, agricoltura.
Occorre sottolineare che, in differenti ma frequenti casi, la valutazione del danno
è orientata verso produzioni di nicchia, o casalinghe, o comunque fuori dal grosso
mercato per cui è difficile verificare standard produttivi, produzioni medie locali o
comprensoriali.
In questa carenza di definizione sembra utile proporre una sorta di declaratoria (elaborata nell’ambito di un lavoro di approfondimento sul tema svolto con altri tecnici
delle Aree protette laziali) su cosa come possa essere l’agricoltura: “è una attività
produttiva in cui ogni imprenditore ripone la sua esperienza nella combinazione che
ritiene ‘ottimale’ dei fattori produttivi. Cionondimeno, in quanto attività produttiva
essa deve rispondere a criteri di razionalità da cui non si può prescindere per ottenere una produzione ‘potenzialmente economica’, intesa come ritraibile secondo gli
scopi del produttore, e non piuttosto come puro piacere ludico. Detta attività non può
che basarsi su criteri validi, che includono un paradigma scientifico riconosciuto,
o comunque delle ‘buone pratiche agricole formalizzate’ o almeno il ‘criterio della
parsimonia e del buon padre di famiglia”.
Una tale definizione permetterebbe di distinguere una agricoltura “professionale”,
anche se di piccola taglia, dall’“hobbismo domenicale” (caso assolutamente frequente nell’approccio di campo). La divisione non porta a scartare il secondo a solo
vantaggio della prima, ma serve a distinguere due casistiche gestionali completamente diverse, che si portano appresso due approcci differenti.
Per i due casi occorre mettere in campo idee e forze differenti sia come portata finanziaria, sia come strategie di prevenzione. Nel primo caso basandosi soprattutto
sulla gestione “scientifica” delle specie che portano danno attraverso piani impostati
su scala comprensoriale, e su sistemi di calcolo del danno e dell’indennizzo, mentre
per il secondo possono valere approcci che eliminino “alla radice” il problema, ad
esempio con apposite recinzioni o con cattura e traslocazione del singolo individuo,
così da ridurre e ricondurre la pressione sociale alla vera entità del danno.
Nella esperienza di campo si apprezza meglio il perché l’agricoltore (e molto meno
l’hobbista) accetta l’indennizzo (meglio se “giusto indennizzo”), anche quando gli si
spiega la reale differenza giuridica e monetaria rispetto al risarcimento. L’attitudine
a combinare i fattori produttivi contro l’inclemenza ambientale (solo per citazione,
Aree protette
L’approccio “semi-estimativo”, per contro non tende ad esaminare il caso specifico,
se non per l’estensione percentuale del danno, valutata per classi visive, e per tipicizzare eventuali fatti macroscopici tipici della coltura a cui poi assegnare un sovracosto (ad esempio rami rotti di nocciolo che intralciano la raccolta meccanizzata).
Il metodo rimane rigoroso, ma non rigido, conferisce speditezza di campo e presenta
una certa ripetibilità anche per diversi osservatori. Inoltre, lavorando per classi, permette di ammortizzare quei piccoli aumenti del danno che si possono verificare tra il
sopralluogo e la raccolta o la formulazione della perizia e del quantum del rimborso,
senza dover per forza tornare per una nuova valutazione di campo.
Poiché produttività media provinciale e prezzi medi provinciali, ad ogni modo, risentono del mercato, la stima non è prefissata, potendo variare di anno in anno anche di
molto, rispetto agli andamenti dei mercati globali.
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Aree protette
terreni poveri o impoveriti o poco adatti, piogge e temperature non prevedibili) predispongono il vero agricoltore ad un alto rischio imprenditoriale, molto maggiore
rispetto ad altre attività produttive (ed è qui la differenza reale con l’hobbista).
La motivazione che spinge all’“accettazione dell’indennizzo” si inquadra nella tipica
conduzione aziendale per cash-flow sulla quale l’agricoltore, marginale o extramarginale, incentra la sua attività, tralasciando ogni conto, pur corretto estimativamente, di fruttuosità del capitale investito. Il ristoro finanziario, anche se sotto forma di
indennizzo, si inserisce in questo filone ad una sola condizione: che sia il più rapido
possibile nell’erogazione.
La rapidità di erogazione compensa i danni da cinghiale più di ogni altro aspetto.
Spesso gli altri danni, provocati da specie più carismatiche o belle o considerate
rare, vengono compresi molto più facilmente (“… anche loro devono mangiare…”)
fino al punto di non richiedere danni o indennizzi.
Un approccio condiviso e standardizzato permetterebbe anche di dare il giusto peso
al danno da cinghiale, certamente prevalente in linea generale, ma che localmente
può essere minoritario rispetto ad altre specie (Puddu et al., 2008a e 2008b6), permettendo di quantificare e qualificare il danno diviso per specie “danneggianti” a
prescindere dalla loro carismaticità.
Va aggiunta, infine, una sottolineatura su un aspetto che le trattazioni accademiche
sul tema trascurano: l’agricoltore spesso ignora quanto produce. Se il peso di una
nocciola è conosciuto, si ignora quante ce ne siano in un ramo rotto e quindi si ignora il reale valore della perdita; se le autunno-vernine, gli erbai, i prati, le orticole
crescono su terreni a giacitura complessa (fatto comune tranne che per le poche
pianure italiane), l’agricoltore sa quanto falcia, affiena o raccoglie, ma scambia le
ore-lavoro del trattore realmente impiegate per percorrere le articolate morfologie
del suo terreno, con la reale superficie cartografico-catastale, quindi non riesce a
fornire dati di produttività riportata all’ettaro, ma a dare solo dati di produzione.
In diverse occasioni, occorre purtroppo sfatare il mito del buon agricoltore, per riportarlo a quello di un produttore non sempre capace di combinare quei fattori che può
gestire (semine, concimazioni, lavorazioni). Questo tipo di agricoltori spesso interpreta l’indennizzo come un’ennesima prebenda elargita sullo stile dei vari fondi regionali o dai PSR, che lo hanno abituato ad erogazioni monetarie per delle operazioni
gestionali. In una realtà “non drogata” forse potrebbe percepire meglio l’indennizzo
come un riconoscimento dei suoi sforzi ed una spinta a prevenire il danno stesso
6 Puddu G. & Scarfò F. (2008a) Wild boar damage’s on hazelnuts: an approach for economic evaluation; Puddu G.,
Pierucci P., Scarfò F. (2008b) Wild boar vs other fauna: damages in natural protect areas. In: 7th International
Symposium on Wild boar and on Sub-order – Sopron 2008.
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G a z z e t ta A m b i e n t e n 4 // 2 0 1 3
Aree protette
Danni provocati dalla fauna
selvatica e interventi di
prevenzione nel Parco regionale
Valle del Treja
di Valeria Gargini
Tecnico naturalista del Parco regionale Valle del Treja
Il monitoraggio costante della distribuzione geografica e dell’entità dei danni provocati alle colture agricole dalla fauna selvatica è uno strumento fondamentale
per conoscere e comprendere il fenomeno “danno” e per verificare l’efficacia degli
interventi gestionali intrapresi. Per questo motivo, ormai da diversi anni, il Parco
regionale Valle del Treja ha messo a punto un sistema informativo territoriale che
raccoglie tutte le informazioni relative agli indennizzi erogati per compensare i danni
arrecati dalla fauna selvatica alle coltivazioni nel territorio di sua competenza. Oltre
alle caratteristiche quantitative e qualitative del dato, il database ne contiene anche
le informazioni spaziali, la georeferenziazione, consentendo elaborazioni temporali
e geografiche essenziali per monitorare il fenomeno. Il database è costantemente
aggiornato e i dati periodicamente elaborati, al fine di avere un quadro della situazione sempre molto preciso.
Tra il 1994, primo anno in cui sono stati concessi, e il 2012, il Parco ha erogato complessivamente 154 indennizzi per una spesa complessiva di 50.174 euro (le somme
di denaro sono state rivalutate anno per anno per essere confrontabili). In questi 19
anni si è avuta quindi una media di 8,1 richieste indennizzate l’anno, corrispondenti a
un costo medio annuo di 2.640 euro. I dati, nel loro insieme, ci mostrano che la gran
parte degli eventi è stata causata da cinghiali, mentre i danni causati da altre specie
sono molto contenuti e riguardano principalmente istrici, che vanno a mangiare verdure e ortaggi negli orti, e, molto limitatamente, volpi, che condividono con i cinghiali
i danni prodotti nei vigneti. Le colture maggiormente interessate sono senza dubbio
Figura 1.
Uso del suolo dell’area
di competenza del P.R.
Valle del Treja per il
risarcimento dei danni
causati dalla fauna
selvatica alle colture
(superficie totale 926
ettari).
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Aree protette
i noccioleti: più del 70% delle pratiche si riferisce a indennizzi per danni arrecati
a questa coltura. Ciò è spiegabile, in primo luogo, con la rilevante estensione nel
territorio dei noccioleti rispetto alle altre coltivazioni (Fig.1), ma anche per l’appetibilità del prodotto, che i cinghiali trovano maturo proprio nel periodo estivo, quando
è minore la disponibilità alimentare nel bosco. Questa preferenza si riflette nella
distribuzione dei danni nel corso dell’anno, con gli eventi concentrati nel periodo
compreso tra agosto e settembre, in cui sono avvenuti rispettivamente il 20% e il
60% dei casi denunciati.
Questi pochi dati sono utili per delineare il fenomeno nel complesso, ma il dato medio, così descritto, nasconde nella realtà un’ampia variabilità. Se specie e coltivazioni
interessate rimangono pressoché costanti nella serie storica, numero ed entità degli
indennizzi varia considerevolmente, passando da un valore minimo di 0 indennizzi
nel 1997, a un valore massimo di 26 nel 2005, cui è corrisposto un costo per l’Ente di
quasi 9.000 euro. Per questo motivo, molto più interessanti ai fini del monitoraggio
sono le informazioni che si possono ricavare dal grafico dell’andamento degli indennizzi nella serie storica (Fig. 2).
Nel primo decennio il fenomeno si è mantenuto grosso modo costante, ma tra il 2004
e il 2005 si è registrato un sensibile incremento nel numero delle domande, numero
che si è mantenuto, anche se con valori altalenanti, piuttosto elevato sino al 2008,
per poi subire una netta diminuzione dal 2009. Ma cosa c’è dietro questi numeri?
Come abbiamo visto nel 2005 si è verificato un forte incremento nel numero di domande, si tratta di cifre che, se confrontate con altre realtà, possono apparire poco
importanti, ma, in un contesto piccolo come quello della Valle del Treja, erano tali
da destare l’attenzione e segnalare che si stava creando un problema. Nello stesso
periodo sono infatti giunte all’Ente numerose proteste da parte degli abitanti dei due
Comuni del Parco (Mazzano Romano e Calcata), che lamentavano un’eccessiva presenza di cinghiali, responsabili di vasti danni alle coltivazioni. L’oggettivo incremento dei danni causati da questi animali, accompagnato dall’aumentata insofferenza
della popolazione, ha reso evidente la necessità di un cambiamento, da parte del
Parco, nella gestione del problema dei danni da fauna selvatica attuata fino a quel
momento. Se i costi per gli indennizzi erano ancora sostenibili economicamente per
l’Ente, non appariva però corretto ignorare le esigenze dei coltivatori. Quasi nessuno
era agricoltore di professione, ma comunque dedicavano ai propri terreni tempo e
30
€ 10.000
8.854
€ 9.000
25
€ 8.000
€ 7.000
6.650
20
5.517
15
€ 6.000
5.619
5.341
4.432
€ 5.000
4.104
€ 4.000
10
€ 3.000
Figura 2.
Andamento degli
indennizzi per danni da
fauna selvatica, periodo
1994-2012.
5
1.462
1.425
1.580
1.208
677
€ 2.000
847
1.061
691
€ 1.000
322
184
200
0
0
€0
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
N. richieste
2005
2006
Indennizzi
2007
2008
2009
2010
2011
2012
57
G a z z e t ta A m b i e n t e n 4 // 2 0 1 3
16
9
14
8
12
7
10
6
5
8
4
6
3
4
2
2
1
0
Aree protette
10
2005
2006
2007
2008
nuove richieste recinzioni
2009
2010
2011
2012
0
km recinzioni installate
passione non trascurabili. Si è deciso così, per contenere il fenomeno, di affiancare
al semplice indennizzo del danno, degli interventi che potessero prevenirlo. In considerazione della specie coinvolta e delle colture interessate, l’Ente ha puntato sulle
recinzioni, indicate in letteratura come gli strumenti più adatti. A partire dal 2006 è
stato fornito agli agricoltori, in comodato d’uso gratuito, tutto il materiale necessario
a realizzare recinzioni finalizzate a impedire l’accesso dei cinghiali ai terreni coltivati. La fornitura comprende elettrificatore, filo conduttore, paletti e batteria, per le
recinzioni elettrificate, rete elettrosaldata e paletti per le recinzioni fisse. Inizialmente sono stati coinvolti alcuni coltivatori selezionati, in seguito, valutati positivamente
i risultati, l’attività si è andata consolidando negli anni con il coinvolgimento di un
numero crescente di conduttori. Nei primi anni, un limite alla distribuzione è stato
la scarsità di risorse finanziarie: dovendo usare gli stessi fondi per pagare anche gli
indennizzi era necessario calibrare le spese per non trovarsi nell’impossibilità in autunno di liquidare gli indennizzi. Dal 2009 la Regione Lazio ha concesso dei contributi
finalizzati proprio alla prevenzione dei danni da fauna selvatica, consentendo così al
Parco di ampliare l’intervento e rispondere positivamente a tutti gli interessati. In
quell’anno sono state affisse e distribuite locandine per informare il maggior numero di persone della possibilità offerta, questo, unito al passaparola, ha consentito di
rendere ben noto l’intervento.
Complessivamente sono stati coinvolti 41 coltivatori che hanno recintato 49 diversi appezzamenti, cinque dei quali con rete elettrosaldata, per impedire l’accesso in
piccoli orti agli istrici, oltre ai cinghiali, e i restanti, per lo più noccioleti e qualche
vigneto, protetti con recinzioni elettrificate. In totale, in questi sette anni, sono stati
distribuiti sedici chilometri di recinzioni. Gran parte di esse sono mantenute attive
solo nel periodo estivo, coincidente con il periodo più critico per la coltivazione del
nocciolo, a raccolto avvenuto vengono smontate e immagazzinate. In questo modo
risultano contenuti gli impatti paesaggistico ed ecologico; infatti un numero elevato
di recinzioni, in un territorio, costituiscono un importante ostacolo per gli spostamenti della fauna selvatica. L’estensione delle recinzioni installate ogni anno è in costante crescita, annualmente si richiede agli assegnatari di confermare il comodato
per mantenere sotto controllo la situazione, ma il numero di nuove richieste negli
ultimi due anni si è fermato a quattro (Fig. 3), e nel primo semestre del 2013 a uno, si
può supporre quindi che la maggioranza degli interessati abbia aderito all’iniziativa.
A questo punto, è possibile fare una valutazione delle scelte intraprese dall’Ente per
rispondere al problema dei danni arrecati alle colture dalla fauna selvatica, dal cin-
Figura 3.
Interventi di prevenzione,
periodo 2005-2012.
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15
€ 9.000
Aree protette
14
€ 8.000
13
12
€ 7.000
11
10
€ 6.000
9
€ 5.000
8
7
€ 4.000
6
5
€ 3.000
4
€ 2.000
3
Figura 4.
Indennizzi e interventi di prevenzione,
periodo 2005-2012.
2
€ 1.000
1
0
€0
2005
2006
2007
2008
2009
km recinzioni installate
2010
2011
2012
indennizzi
ghiale in particolare. Il confronto tra l’andamento del numero di indennizzi corrisposti e l’estensione delle recinzioni distribuite (Fig. 4) mostra chiaramente come alla
crescita lineare di attrezzature distribuite abbia fatto seguito il consistente calo degli
indennizzi osservato nel 2009, riduzione che può quindi essere messa direttamente
in relazione con il forte impegno del Parco a favore degli interventi di prevenzione.
Ridurre i danni era l’obiettivo principale, volendo prima di tutto tutelare il lavoro e la
passione di chi ancora si dedica all’agricoltura, ma un risultato sperato era anche il
contenimento dei costi sostenuti dall’Ente per contrastare i danni prodotti alle colture dalla fauna selvatica. L’analisi dell’andamento della spesa sostenuta annualmente (Fig. 5) indica che anche questo obiettivo è stato raggiunto. Sino al 2010 i costi, tra
indennizzi e acquisto di materiali per le recinzioni, si sono mantenuti relativamente
elevati, ma negli ultimi due anni le cifre si sono aggirate intorno ai 2.000 euro l’anno.
Si tratta di valori molto inferiori rispetto alla spesa media calcolata nell’ultimo decennio (6.100 euro/anno). È stata infatti superata la fase di avvio dell’attività, che ha
richiesta un discreto investimento per acquistare l’attrezzatura necessaria, e i dati
mostrano come sia iniziata una fase di “mantenimento”, in cui la spesa è limitata
alla sostituzioni di elementi usurati o alla fornitura del materiale completo ai pochi
nuovi “utenti”. È ipotizzabile che nei prossimi anni, in assenza di significative variazioni dei fattori coinvolti, la spesa si mantenga intorno a questa cifra, che potremmo
definire fisiologica per la nostra realtà.
10000
9000
8000
7000
6000
5000
4000
3000
Figura 5.
Andamento della
spesa per indennizzi e interventi di
prevenzione, periodo
2001-2012.
2000
1000
0
2001
2002
2003
2004
2005
indennizzi
2006
2007
2008
interventi prevenzione
2009
2010
2011
2012
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Aree protette
È da sottolineare come i risultati raggiunti siano stati riconosciuti dalla popolazione.
Come abbiamo visto, tra le principali cause che hanno portato al cambiamento nelle
gestione del problema dei danni da fauna selvatica da parte del Parco, era proprio
il conflitto che si era creato con gli agricoltori e, più in generale, con gli abitanti del
territorio. In questi venti anni la popolazione di cinghiali è verosimilmente aumentata e, con essa, sono aumentati i danni provocati e l’insofferenza dei danneggiati.
La richiesta che giungeva al Parco all’inizio del progetto era di effettuare interventi
di riduzione degli animali, tramite catture o abbattimenti. Tale scelta non era però
tecnicamente percorribile, essendo il territorio piccolo e in continuità, da un punto di
vista ecologico, con un’area molto più vasta da cui i cinghiali avrebbero continuato ad
arrivare: attuare un intervento di quel tipo avrebbe comportato probabilmente solo
uno spreco di risorse. La scelta di investire sulle recinzioni è stata accolta inizialmente con un certo scetticismo da parte dei conduttori dei terreni, in un primo momento piuttosto diffidenti nei confronti di questi sistemi di prevenzione dei danni, ma
davanti ai risultati loro stessi sono diventati i primi promotori dell’iniziativa. Nel settembre 2011, il Parco ha organizzato un incontro pubblico di confronto e divulgazione
dei risultati dei progetti attuati per il contenimento dei danni provocati dalla fauna
selvatica, e in quella occasione è apparso chiaro che la scelta fatta era stata capita e
condivisa dalla maggior parte degli abitanti direttamente interessati dal problema.
Nel corso dell’incontro è stato presentato un opuscolo, realizzato e distribuito dagli
uffici del Parco, sul funzionamento e l’installazione delle recinzioni elettrificate.
Il libretto è destinato principalmente a quanti fanno richiesta delle recinzioni, ma
trovandosi al di fuori dell’area di competenza del Parco, non possono riceverle
dall’Ente; seguendo le indicazioni dell’opuscolo possono comunque proteggere i
propri terreni, con una spesa piuttosto contenuta.
A sette anni dalla prima concessione, non possiamo che guardare con soddisfazione
alle scelte fatte, che hanno condotto a una gestione del problema dei danni provocati
dai cinghiali nel Parco indubbiamente adeguata per il nostro territorio. Il monitoraggio del fenomeno comunque prosegue e siamo pronti a individuare eventuali cambiamenti che segnalino la necessità di modificare la politica di gestione.
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I problemi ecologici ed economici dell`esplosione demografica del