12) Dall’Archivio APIS-Emilia Romagna-FADIS – “Pedagogia o medicalizzazione” in memoria di Mario
Tortello
Prof. Mario Tortello, Pedagogista Università di Torino: “Riprendiamoci la pedagogia” in
l’avventura dell’integrazione”
“ Dedalo
Seminario di aggiornamento organizzato da FADIS – APISMO – CFA
RIPRENDIAMOCI LA PEDAGOGIA di Mario Tortello (11/3/2000)
[Innanzi tutto [ ] per aver scelto questo tema come concetto di riflessione comune e poi per avermi
sollecitato a ragionare e a riflettere su questo tema perché, dal mio punto di vista, (per continuare il
discorso di ieri), dopo la mia riflessione ho portato a casa, nelle ricerche, nei testi che ho cercato di
consultare, più di una idea (come dicevo ieri, quando comprate un libro di questi americani, se trovate
un’idea avete speso bene i vostri soldi). Allora, io ho tre quarti d’ora di tempo per [ ] in maniera più
lineare possibile intorno a due punti. Ho anticipato ieri, proprio per partire dall’esperienza, il caso di
Noemi. Alla illustrazione fatta in precedenza vorrei solo aggiungere due particolari. Il primo: che gli
insegnanti di quel Consiglio di Classe dove Noemi era inserita, dove è successa questa fioritura di Noemi
come persona, i docenti sottolineano come proprio gli allievi della cosiddetta dispersione siano stati quelli
più attivi nell’impegnarsi nell’inserimento, nell’integrazione effettiva di Noemi, e come alcuni tra questi
abbiano ottenuto risultati scolastici significativi a partire da quel momento in avanti. Fra l’altro, vi era
una studentessa con problemi al limite dell’anoressia; parlando con quei docenti con i quali aveva un
rapporto molto più significativo e grazie alla presenza di Noemi, ha superato almeno in parte in
quell’anno i suoi problemi [ ] sia per la persona in situazione di handicap che per i suoi compagni di
classe.]
Vorrei richiamare due altre situazioni molto concrete: la prima è quella di Nicola, la seconda è quella di
Valeria.
Nicola viene da Torino, ha 28 anni in questo momento e lavora, è assunto, come giardiniere per un comune
della provincia di Torino. Questa assunzione è conseguente alla frequenza (non dopo la scuola dell’istruzione
obbligatoria) di alcune annualità di un corso pre-lavorativo per l’appunto finalizzato per questa funzione
specifica. Nicola è stato preso da una famiglia in affidamento familiare, che si è trasformato poi in adozione,
quando aveva quattro anni, quando questi coniugi lo hanno incontrato nella stanzetta bianca dell’ospedale
“Regina Margherita” di Torino e, non avendo lui alternative di tipo familiare, lo hanno accolto nella loro
famiglia. La storia di Nicola è raccontata in un libro bellissimo, “Storia di Nicola”, pubblicato dall’editore
Rosenberg & Sellier; ha la prefazione di Monsignor Giovanni Nervo, che è stato il fondatore della Caritas
italiana, ha una postfazione di Alessandro Galante Garrone. Sia Nervo che Galante Garrone raccolgono i saggi
più significativi della storia che la madre adottiva racconta. Ma quello che vorrei dire è questo: Nicola a quattro
anni era giudicato, era identificato come bambino in situazione di handicap grave o gravissimo e la
neuropsichiatra infantile che… non posso dire “accompagnò” l’inserimento in famiglia, perchè in realtà è stato
proprio un “Lo volete? Non sapete cosa fare? Prendetevelo!”… I coniugi chiedono “Ma la diagnosi, qual è?”.
La neuropsichiatra infantile dice (e la madre adottiva lo riporta nel libro) “Al di là di quello che ho scritto nella
diagnosi, Nicola è un grosso carenziato, un bambino da buttare dalla finestra.”. C’è, scusate, un pessimismo
clinico, c’è un ottimismo pedagogico (in questo caso ancora pedagogia genitoriale). Quando dico “pessimismo
clinico” e “ottimismo pedagogico” non voglio assumere un atteggiamento farisaico; non sto sostenendo che
quello che c’è nell’area sanitaria è il demonio e quello che c’è nell’area educativa, invece, è il paradiso. Sto
sostenendo che possono esistere due approcci che tutti ben conosciamo: l’uno statico, fotografia statica di una
situazione, di non speranza di perfettibilità di una creatura, e l’altro invece che, radicandosi nelle potenzialità di
un intervento educativo, crede nella possibilità di evoluzione del soggetto.
Vorrei dire che se ricordiamo un attimo cosa è successo nel 1800, 1801 abbiamo delle esemplificazioni,
abbiamo una pubblicazione molto significativa. Voi sapete che nel 1788-89 viene catturato nei boschi
dell’Aveyron in Francia un ragazzo ritenuto selvaggio che viene portato all’istituto dei sordi di Parigi, e Pinel,
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che è, diciamo, uno dei padri della psichiatria, Pinel che è uno dei pionieri, Pinel che passa alla storia come
colui che toglie le catene ai pazzi ( quindi fisicamente; dice: “No, le persone malate di mente non debbono
essere incatenate!”). Quindi è, diciamo, il ricercatore illuminato, e come tale passa alla storia; eppure Pinel
firma la diagnosi di irrecuperabilità, di ineducabilità del soggetto che viene chiamato “l’enfant sauvage” (il
ragazzo, il bambino selvaggio). Un allievo di Pinel che si chiama Itard (ma queste sono cose che sapete
benissimo) crede nella perfettibilità di ogni essere umano e dice: “No, datelo a me. Io mi impegno nella sua
educazione.”. Se volete andare a rivedere, oltre che a leggere il testo integrale nell’edizione di Itard c’è un libro
molto bello di Moravia – Moravia non lo scrittore ma il ricercatore [ ]. Potete anche vedere il film “L’enfant
sauvage” di Truffaut. Sotto il profilo educativo ogni persona, anche quella apparentemente nella situazione più
compromessa, ha la possibilità di evolversi, di svilupparsi se adeguatamente sostenuta. Cento anni dopo i fatti
di Pinel, di Itard e del sauvage – tra l’altro, la prima cosa che fa Itard è dare un nome al sauvage chiamandolo
Victor, perché era il vocabolo rispetto al quale il ragazzo era più attento, dargli un’identità - … cento anni
dopo, dicevo, una signorina, che certamente non era la pedagogista che tutti abbiamo in testa ma che era Maria
Montessori ed era la prima donna che in Italia si è laureata in medicina, appena specializzata in psichiatria
viene a Torino al primo congresso di pedagogia dall’unità d’Italia (1898) e, in un intervento [ ] durante la
discussione, dice:”Attenzione! perché l’educazione dei soggetti frenastenici è un problema vostro, di educatori
e di pedagogisti, non nostro, di medici. Certo, noi portiamo il nostro contributo, ma il problema è
eminentemente vostro ed è nella vostra dimensione che va affrontato.”. Tra l’altro, Maria Montessori dice allora
che qualunque riforma e qualunque metodo da introdurre nella scuola, va bene per coloro che già frequentano
positivamente la scuola, ma la vera riforma che si impone è quella della ricerca degli esperimenti e delle
soluzioni che accolgano tutti i soggetti in formazione. Credo che sia un promemoria sintetico anche per [ ] le
riforme attuali.
Dicevo… – andando in maniera un po’ disordinata… – un’altra situazione concreta. Valeria è una giovane
spastica. Frequenta attualmente il corso di Scienze Politiche – indirizzo Relazioni Internazionali – è al secondo
anno e ha già sostenuto tutti gli esami del primo anno. E’ uscita con 60/60 alla maturità classica; è stata
dichiarata idonea per la partecipazione al certamen di latino e poi non vi ha partecipato per sua scelta. Quando,
finita la terza media, la neuropsichiatra di zona, dell’equipe, ha detto ai genitori: “Non fate questa scelta! Non
mandatela al liceo classico, perché le procurate frustrazioni che lei non riuscir a superare. Ve lo chiedo in
ginocchio: non fate questa scelta!”. La madre – molto tosta – e il padre (ma la madre in modo particolare) non
cede [ ]: “ A noi non dispiace. Non si disturbi tanto ad inginocchiarsi. Tutt’al più, che cosa le può capitare?
Che resti bocciata. Ebbene? A quanti altri ragazzi capita! Può capitare anche a lei. Io desidero permetterle di
provare. Lei desidera questo percorso; io desidero consentirle la possibilità di provare.”. Valeria esce, ripeto,
con 60 su 60 dalla maturità ma durante l’ultimo anno di liceo la preside si rifiuta di far partecipare Valeria alla
gita scolastica con la classe a Parigi se non è accompagnata dalla mamma - perché vi era qualche problema di
tipo sanitario. Molte compagne si rendono disponibili per sostenere la presenza di Valeria tra loro; la
circoscrizione del comune mette a disposizione un educatore per accompagnarla nel viaggio a Parigi. La preside
si impunta e il fatto che il provveditore agli studi scriva alla preside ben due lettere invitandola ad attenersi alle
disposizioni della legge-quadro sull’handicap, la preside conclude: “Non mi obbliga, [ ] io non accolgo
l’invito.”. Questo capitava in una scuola che non era ancora una scuola dell’autonomia. Mi chiedo sotto questo
profilo: se non cresce una responsabilizzazione, una sensibilità dei [ ] della scuola nel loro insieme, che cosa
può capitare in una scuola dell’autonomia più piena.
Allora, credo che l’illustrazione di alcune situazioni la dica lunga circa l’esigenza di, come dicevo già ieri,
essere attenti anzitutto alle potenzialità anche minime del soggetto e su queste costruire i percorsi successivi, e
non di mettere in prima battuta il deficit, le conseguenti compromissioni e poi fare semmai anche ricorso al
fondo del barile e, cioè, alle capacità residue.
C’è una pagina di Primo Levi, nel libro “La tregua”, che a mio avviso è molto bella e che ci può aiutare a
riflettere sull’esigenza di osservare, diagnosticare, raccogliere elementi, attraverso una visione dinamica, e non
meramente statica, delle situazioni.
“Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva
niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi,
forse da una delle donne, che aveva interpretato con quelle sillabe, una delle voci inarticolate che il piccolo ogni
tanto emetteva. Era paralizzato dalle reni in giù ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi
occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della
volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di
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insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio
e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di
pena.
Nessuno, salvo Henek: era il mio vicino di letto,un robusto e florido ragazzo ungherese di quindici anni. Henek
passava accanto alla cuccia di Hurbinek metà delle sue giornate. Era materno più che paterno: era assai
probabile che, se quella nostra precaria convivenza si fosse protratta al di là di un mese, da Henek Hurbinek
avrebbe imparato a parlare; certo meglio che dalle ragazze polacche, troppo tenere e troppo vane, che lo
ubriacavano di carezze e di baci, ma fuggivano la sua intimità.
Henek invece, tranquillo e testardo, sedeva accanto alla piccola sfinge, immune alla potenza triste che ne
emanava; gli portava da mangiare, gli rassettava le coperte, lo ripuliva con mani abili, prive di ripugnanza; e gli
parlava, naturalmente in ungherese, con voce lenta e paziente. Dopo una settimana, Henek annunciò con serietà,
ma senza ombra di presunzione, che Hurbinek “diceva una parola”. Quale parola? Non sapeva, una parola
difficile, non ungherese: qualcosa come “mass-klo”, “matisklo”. Nella notte tendemmo l’orecchio: era vero,
dall’angolo di Hurbinek veniva ogni tanto un suono, una parola. Non sempre esattamente la stessa, per verità,
ma era certamente una parola articolata; o meglio, parole articolate ma leggermente diverse, variazioni
sperimentali attorno a un tema, a una radice, forse a un nome.
Hurbinek continuò finchè ebbe vita nei suoi esperimenti ostinati.”
Io credo che trenta righe come queste possano diventare oggetto di un lavoro di gruppo – chiaro, non in questa
sede, ma ciascuno può andarsi a riprendere la pagina 166 del libro di Levi che riporta insieme “Se questo è un
uomo” e “La tregua” e si possa fare di questa pagina una lettura molto attenta, molto proficua proprio per il
nostro impegno specifico quotidiano. Cerco di offrire qualche contributo, qualche traccia, qualche spunto per
l’analisi. Ancora Oliver Sacks: “Si può vedere una stessa persona come irrimediabilmente menomata o così
ricca di promesse e di potenziale.”.
Pensate: siamo in campo di concentramento, i nazisti lo hanno abbandonato e le persone che ancora si trovano
in quel luogo sono doppiamente in situazione di difficoltà e di incertezza rispetto al proprio futuro Guardate
l’umanità che traspare, attraverso le parole di Levi, in quel punto: “Hurbinek era un nulla… nessuno sapeva
niente di lui.”. Quante volte un bambino, e anche un bambino handicappato, arriva nella nostra scuola e
nessuno sa niente di lui o di lei, e noi sappiamo di non poterlo considerare un nulla. Ha un’identità e, come per
Victor, anche “Hurbinek” viene assegnato interpretando alcune sillabe di ciò che il bambino a tre anni emette [
] le ragazze del gruppo ma dandogli un nome gli riconosce un’identità. Guardate la prima parte della
descrizione di Levi: “Era paralizzato dalle reni in giù. Aveva le gambe atrofiche e sottili come stecchi. I suoi
occhi erano persi nel viso triangolare smunto. La parola gli mancava. Nessuno si era curato di insegnargli a
parlare.”.
Quante volte le diagnosi si perdono in questa fotografia statica della situazione e non ci danno elementi anche
minimali su cui appoggiarci per costruire gli interventi educativi! Guardate come Levi non si ferma
sull’immagine statica del bambino di tre anni, ma parla di questi occhi “vivi, pieni di richiesta, di asserzione,
della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava, che nessuno si era
curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo
selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di
forza e di pena.…”, eccetera. Lo sguardo di Hurbinek mi ricorda lo sguardo di Claudio Imprudente bambino, al
quale i genitori guardano e riescono ad offrire attraverso questo movimento – l’unico movimento – una
relazione, uno sviluppo, una crescita delle relazioni di Claudio. In questo contesto non ci sono atti di indirizzo e
di coordinamento alle USL, ma c’è un lavoro di equipe molto prezioso: c’è Henek, il florido e robusto ragazzo
ungherese che svolge un ruolo educativo di primissimo ordine. Ma noi non possiamo dire che ciò che fanno le
ragazze polacche sia inutile completamente per Hurbinek. Va integrato con ciò che fa Henek ed è
fondamentale. Possiamo dire che l’affettività è fuori dal campo dell’educazione? Guardate com’è toccante il
ruolo di Primo Levi che partecipa, osserva e documenta. Quante volte ci dimentichiamo che documentare è
fondamentale per un percorso educativo! Guardate come, per certi versi, in questa pagina di Primo Levi ci
troviamo in un contesto di ricerca-azione in cui chi documenta è al contempo partecipe, osserva ma si lascia
osservare. Guardate gli interventi di Henek nei confronti di una creatura che dovrebbe essere descritta solo in
maniera statica e pessimistica… nella prima parte della descrizione guardate come l’intervento educativo vada
dai bisogni essenziali, vitali per Hurbinek – rassettargli le coperte, pulirlo, dargli da mangiare – ma lo sguardo
educativo sia già oltre e consiste nel parlargli, “nel parlargli – dice – con voce lenta e paziente.”. Guardate
com’è che Henek capisce che un rapporto, in questo caso profondamente educativo, ha bisogno di tempo:
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“passava metà della giornata”. Guardate come avviene che capisce che deve essere lui ad andare nella cuccia;…
dice: “.. alla cuccia di Hurbinek”, e non di portarsi via Hurbinek dalla cuccia in cui stava. Guardate che
elementi grossi per la valutazione dei progressi di Hurbinek. Henek non dice “Hurbinek ha imparato a parlare”;
comunica al gruppo: “Hurbinek dice una parola” e tutto il gruppo gioisce con Hurbinek e con Henek del
successo di quella parola sulla quale si possono costruire gli altri apprendimenti, i successivi apprendimenti.
Cioè, è una valutazione prognostica in positivo, come dice [ ], cioè una valutazione che non ti ripete “sei
handicappato e, quindi, voto negativo; voto sufficiente regalato; voti più alti manco parlarne”. E’ una
valutazione che gli dice “Hai fatto questo progresso e su questo progresso costruiamo gli altri apprendimenti”.
Guardate come il gruppo partecipa alla gioia e al successo con Henek e con Hurbinek, non mettendo Hurbinek
alla prova in un certo momento ma: “…nella notte tendemmo l’orecchio”. Ora, non voglio perdere tempo
ulteriore a questo riguardo però credo che una pagina come questa sia molto utile per riflettere intorno a quel
“riprendiamoci la pedagogia” rispetto ad una mera descrizione statica della situazione di un soggetto, di una
persona, che non ci offre elementi per costruire gli interventi educativi successivi.
Parlavo ieri della differenza fra quell’inciso della legge-quadro sull’handicap e invece l’approccio che propone
l’atto di indirizzo [ ] delle USL dove parla di piano educativo individualizzato. Sotto questo profilo c’è, e voi la
conoscete, una cosa molto attuale. Christopher Brown. Tutti ricorderete “Il mio piede sinistro”, il film che ha
vinto alcuni oscar qualche anno fa - ma se vi andate a prendere anche il libro di Christopher Brown trovate
molto di più di quello che comunque c’è nel film, anzi, è un’operazione molto opportuna che in fase di
formazione si potrebbe fare. Dice Christopher Brown: “La maggior parte dei medici che mi esaminavano
dichiaravano il mio caso uno dei più interessanti ma certamente senza speranza. Per mia fortuna i miei genitori
resistettero. Mia madre fece di più. Non si accontentò di negare che io fossi un idiota; si impegnò a dimostrare
il contrario. Fu questa la ragione del suo successo.”.
Dicevo prima: non possiamo accettare un atteggiamento farisaico: il bene è qui, il male è dall’altra parte. In
campo sanitario, L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha compiuto di recente a Ginevra un passo molto
importante che la pedagogia non ha ancora avuto il coraggio di proporre con questa forza. E’ stato approvato in
via definitiva, ma sperimentale fino alla fine del 2001, un nuovo sistema di classificazione delle disabilità. Voi
sapete che i sistemi sono tanti; tra questi vi è il sistema ICIDH del 1980. Adesso l’OMS ha varato la nuova
classificazione che si chiama ICIDH 2. Guardate che salto sorprendente fanno gli esperti dell’ambito sanitario.
NON SI CERTIFICANO PIU’
SI CERTIFICANO
DIS-ABILITA’
ATTIVITA’ PERSONALI
HANDICAP
PARTECIPAZIONE SOCIALE
Se noi inizialmente, con l’ICIDH, ci aspettavamo che diagnosticassero la disabilità e certificassero l’handicap,
adesso l’OMS invita non più a diagnosticare la disabilità ma il livello delle attività personali. Cioè: non il “non
sa fare”, ma il “sa fare”; anche soltanto il battito delle ciglia di Claudio Imprudente – al quale dovrò passare una
quota dei diritti d’autore, visto che lo cito sempre. Non certificare l’handicap, ma la partecipazione sociale. E’
chiaro che possiamo [ ] tutto e, quindi, chiamare con altro nome le abitudini di sempre – a fare una fotografia
statica. Ma se ne capiamo la portata, che è rivoluzionaria, comprendiamo anche quale sia l’aggancio possibile
col nostro lavoro educativo. Allora, prima proposta: perché non proponiamo, per i vari ambiti territoriali,
iniziative di formazione congiunta per operatori scolastici ed extrascolastici, per dirigenti scolastici, equipe,
famiglie, operatori dell’USL, eccetera, … di formazione congiunta alla pari rispetto alla rivoluzione che l’OMS
ci propone?
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E qui vengo ad una considerazione che ritengo abbastanza centrale per il nostro discorso di oggi. Michele
Pellerey, che conoscete come pedagogista, esperto di didattica che in questo momento è l’editore del [ ]
salesiano di Roma, in un volume recente ha alcune pagine che sono centrali, a mio avviso, non solo per quel
volume, ma centrali per il nostro intervento, per il nostro lavoro. Dice Pellerey: “Il momento educativo più
delicato e impegnativo emerge non quando facciamo lezione. Emerge quando gli educandi resistono all’azione
educativa e si obbligano a ripensarne l’intera impostazione”. La pedagogia muore se non accetta di incontrarsi
con la resistenza dell’educando o degli educandi. Non so se rendo l’idea. Il nostro intervento pedagogicoeducativo muore per eutanasia nel momento in cui non accettiamo di rimetterci in discussione di fronte alla
resistenza che pone l’educando. Anzi, sul piano etico, la pratica educativa si caratterizza di questa prospettiva
particolare che è la responsabilità che investe l’educatore di fronte al volto dell’educando e all’appello che
scaturisce da questo incontro. Se io imposto la mia attività didattica guardando i libri, i testi, e non negli occhi
gli educandi, trasmetto ma non comunico, propongo occasioni – scusate le parole colte – disperanti di morte
perché la trasmissione è dominio, dominio sulle masse, la comunicazione è presentazione della struttura
creativa che aiuta ad interagire e non aiuta a crescere. Allora, nel contesto di un’azione come quella educativa,
che è diretta alla promozione della crescita personale, sociale, culturale e professionale delle nuove generazioni,
il momento educativo vero e proprio emerge quando l’educatore percepisce la resistenza dell’educando di
fronte ai suoi progetti, ai suoi obiettivi e alla sua volontà. L’educando sfugge alle proposte e al potere
dell’educatore perché non capisce, non accetta, oppure perché porta con sé altri progetti, altri obiettivi, altre
volontà.
Ricordate i principi della legge-quadro di ieri?
Allora, “La riflessione pedagogica – insiste il Pellerey – si sviluppa proprio quando si decide di non mettere da
parte tale resistenza negandola o sopraffacendola, ma accettandola e cercando di sviluppare un vero e proprio
lavorio informativo che dirige l’attenzione e l’interesse verso situazioni e soggetti concreti e le loro resistenze.
Dal punto di vista educativo – e questo è un altro passaggio importante, credo – la resistenza dell’altro non può
ricondurmi al potere che potrei esercitare su di lui, ma al potere che devo esercitare su di me. E’un rinvio alla
mia responsabilità educativa, alla ricerca di un modo di offrire la possibilità di un incontro, al desiderio di
comprendere, di aiutare. Al contrario, la manipolazione si colloca nella volontà ostinata di rimandare sempre
all’altro la responsabilità delle difficoltà che si incontrano.”.
E qui, prendendo da Meirieu (1995), abbiamo un altro aspetto che credo ci possa aiutare. Meirieu indica due
prospettive secondo cui noi possiamo considerare l’educando. La prima prospettiva è quella di considerare
l’educando come persona da trattare. La seconda prospettiva è quella di considerare l’educando come persona
da interpellare. Guardate come, nel primo caso, ci troviamo in un quadro di pessimismo statico e come nel
secondo ci poniamo invece nell’ottica di un ottimismo pedagogico ed educativo. E sempre Meirieu dice che ci
sono due concezioni dell’educando stesso: soggetto già costituito, soggetto in formazione. Si richiama quello
che dicevo ieri circa la sentenza della Corte Costituzionale: non possiamo dare per scontato, per assodato,
quello che dobbiamo ancora sperimentare, quello che abbiamo il dovere di offrire come occasione per metterci
alla prova con un problema, con gli stimoli alla crescita. Pensate alla mamma di Valeria.
EDUCANDO
PERSONA DA
“TRATTARE”
(PESSIMISMO STATICO)
PERSONA DA
“INTERPELLARE”
(OTTIMISMO PEDAGOGICO/EDUCATIVO)
EDUCANDO
SOGGETTO GIA’
COSTITUITO
SOGGETTO IN
FORMAZIONE
RISCHIO DA
AFFRONTARE
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Allora, noi possiamo fare (potremmo divertirci a fare ) molti incroci; se l’educando è inteso come una persona
da dover trattare e come soggetto già costituito, in che situazione ci troviamo? Se invece lo riteniamo una
persona da interpellare ma un soggetto in formazione, che tipo di situazione prefiguriamo? E se l’incrocio
avviene tra l’educando da interpellare ma come soggetto già costituito? E se invece, situazione che richiama
quello che dicevo prima, l’incrocio avviene nella situazione migliore e cioè dell’educatore che intende
l’educando come persona da interpellare ma anche come soggetto in formazione, incrociamo il rischio da
affrontare [ ] che è la fonte del nostro progetto educativo, è la fonte del nostro progetto nei suoi confronti,
eccetera, eccetera.
[Ho certamente preparato parecchie cose però il tempo pare si stringa molto. Mi permetto di proporre ancora tre
lucidi molto rapidamente…]
Luca ha 37 anni nel momento in cui l’abbiamo intervistato. Luca è un uomo con handicap intellettivo che ha
vissuto un’esperienza di classe speciale – quando era piccolo non vi era integrazione scolastica. Ha vissuto
l’esperienza di emarginazione casalinga per alcuni anni poi, improvvisamente, dopo i trent’anni, la possibilità
di frequentare un coso pre-lavorativo. Attualmente è assunto in un’azienda tranviaria di una cittadina del nord.
Luca ha 37 anni e dice: “Io mi sentivo trascurato dagli altri. Il fatto di essere lì e non in un posto normale era
davvero una cosa ingiusta. Io questo lo soffrivo. Non ho mai chiesto come mai frequentavo quel posto, ma
questa domanda l’avevo dentro di me. Adesso che lavoro sono più contento; è un altro vivere, mi sento utile. E
quando sto male, il giorno dopo i miei compagni di lavoro mi chiedono come sto, si interessano a me.”.
Daniela, che ha 22 anni al momento dell’intervista, è una giovane con sindrome di Down; è una ragazza che è
assunta al lavoro all’azienda USL dove è presente tuttora e dietro lo sportello aiuta la signora che consegna gli
esiti delle analisi nella ricerca dei referti, almeno in questa fase iniziale del suo lavoro. Vede le persone in coda
e un signore – che si può incontrare non solo nelle code, si affaccia all’uscio e dice: “Che! Adesso all’USL
hanno assunto anche i cinesi?” Imbarazzo generale, e Daniela si affaccia allo sportello e dice: “Guardi che io
non sono cinese Sono Down; ho un cromosoma in più.” Il signore si ritira in coda. Ma quello che mi interessa è
vedere che dice Daniela: “Prima di lavorare avevo un abbigliamento sempre uguale. Ora sono cambiata molto;
ho tante cose nuove, di tanti colori. Prima il vestiario lo sceglieva e lo comprava mia madre. Lei mi avrebbe
vestito di grigio, con le gonne lunghe. Ora sono – lei si riconosce così – indipendente e autonoma; mi sento così
da quando ho iniziato a lavorare.”.
Marcella ha 25 anni – è l’ultimo caso che vi riporto – nel momento in cui viene assunta, dopo un corso prelavorativo, in una cooperativa che effettua lavori di pulizia nelle scuole di un comune della cintura torinese. E’
una cooperativa che opera anche nella scuola materna ed elementare che lei ha frequentato molti anni prima.
Marcella, dopo il percorso pre-lavorativo, arriva a questa realtà come un’eterna bambina, con l’immagine di
un’eterna bambina. Marcella ha una gonna a pieghe piccoline, sotto il ginocchio, ha le calze arrotolate alle
caviglie, ha i capelli con due ciuffi legati, … una bambina. Nel giro di tre mesi avviene un cambiamento
incredibile per tutti perchè al primo stipendio anche Marcella, come Daniela, chiede alla madre di poter usare il
suo stipendio per andarsi a comprare dei vestiti come vuole lei, come ha visto a delle sue colleghe, vestiti che
comportano anche non le calzine arrotolate alle caviglie ma le collant. Al secondo stipendio ha preteso di
cambiarsi i capelli, che nel frattempo ha cominciato a pettinare diversamente ed è diventata, anche
esteticamente, signorina, donna. Marcella ha chiesto di non essere accompagnata dal padre al mattino con l’auto
ma di prendere il bus perché una collega fa la stessa strada; quindi lei sale, la collega è già lì, e via Marcella ha
chiesto di potersi mettere un filo di rossetto e un po’ di trucco. Marcella ha chiesto… eccetera, eccetera.
Marcella improvvisamente è diventata una persona adulta, ha avuto la possibilità di diventare adulta.
Allora, sotto il profilo educativo, - noi diremo altre cose di Marcella - la cosa che credo sia la parola d’ordine
per quel “riprendiamoci la pedagogia” sia rappresentata dal “pensami adulto”. Se è vero che ognuno di noi si
evolve, si sviluppa anche nella misura in cui è pensato come possibile raggiungimento di un bel risultato, il
“pensami adulto” diventa non lo slogan ma l’ obiettivo molto preciso da tenere presente per me che [ ] nella
scuola materna, per me che opero nella scuola elementare, non solo per me che opero nella scuola media [ ].
[ ] è importante nel discorso del “riprendiamoci la pedagogia”.
Allora, lì ho scritto: adolescente senza adolescenza. Potremmo anche dire…ma iniziamo dall’adolescenza, per
capire un po’ il discorso. Quante volte gli adolescenti in situazione di handicap non sono autorizzati a crescere
perché non solo non sono pensati adulti, ma non hanno la [ ] nemmeno a viversi come adolescenti.
L’adolescenza ci fa paura in tutti i nostri figli e, a maggior ragione, ci può far paura nel figlio, nella figlia nel
ragazzo handicappato, nella ragazza handicappata. Ma l’adolescente senza adolescenza è qualcosa di strano (?)
inumano(?).
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E qui ho scritto due concetti: contenimento e la capacità di sognare. Non sto a spiegare che cosa si intende sul
piano psicologico per “contenimento”; andatevi a vedere cosa dicono [ ], la Klein, Winnicot, e capite comunque
che la nostra crescita è possibile – anche oggi, anche alla nostra età – nella misura in cui siamo contenuti da
qualcuno. Tutti attiviamo questo contenimento, anche a scuola, anche oggi nei confronti di questo momento,
anche ieri; ma il concetto di contenimento rischia di deteriorarsi nella misura in cui non trova un’evoluzione,
ovvero: nella misura in cui, contenendo, non si offre la possibilità di sognare, quella che [ ] in francese chiama
“reverie”.
E mi ricollego a Marcella. Marcella, nella misura in cui, dopo la frequenza al corso pre-lavorativo è stata
assunta in quella cooperativa, è stata autorizzata a sognare, a pensarsi diversa da come era prima, a pensarsi
adulta. E quello che è successo in quella zona periferica di Torino, nella seconda cintura torinese, è statolo
scattare della “reverie”, della possibilità di sognare non solo per Marcella. Perché al di là delle ansie, e a volte
delle angosce, i genitori hanno capito gradualmente che anche il loro futuro poteva essere diverso. Anche i
genitori sono stati autorizzati a sognare. E in quella scuola materna ed elementare dove vi erano ancora alcune
delle insegnanti che diciotto anni prima avevano avuto Marcella come allieva, anche in loro è scattata la
capacità di sognare. “Se quello che abbiamo fatto è servito per far sognare Marcella e portarla a questo punto,
quello che facciamo oggi per Giovannino, Marianna, eccetera, allora può aiutarli a crescere, diventare adulti,
eccetera. Ed è scattata la capacità di sognare dei genitori dei bambini che frequentavano in quel momento le
scuole: “Se questo è possibile oggi per Marcella, potrebbe essere possibile domani per noi genitori.”.
Allora, nel “pensami adulto” ho scritto: “bambino inatteso, adulto senza ruoli”. Non sto a dilungarmi, ma vorrei
dire invece questo: ogni sviluppo personale avviene attraverso due codici fondamentali [ ] che sono il codice di
appartenenza e il codice di prescrizione. Il codice di appartenenza, che è un codice molto affettivo, è quello in
cui la creatura la si ritiene parte di quel gruppo, la si accetta così com’è, le si vuole bene – è chiaro che la
famiglia attiva per lo più il codice di appartenenza, ma anche la scuola attiva il codice di appartenenza. Nella
scuola materna la maestra prende in mani il bambino ola bambina piccola e magari si sente chiamare mamma.
E’ difficile che nella scuola superiore l’insegnante prenda per mano o in braccio e coccoli lo studente. Quindi,
come capite, via via il codice di appartenenza e quello prescrittivo hanno variazioni diverse, anche se
dovrebbero essere sempre contestualmente presenti. Uno studente universitario che, in quell’università, in
quella facoltà, in quel corso di laurea, ha soltanto il numero di matricola e i voti sul libretto, è uno studente che
rischia di non concludere; uno studente che ha come codice di appartenenza all’università non solo la matricola,
non solo il libretto, è uno studente che potenzialmente è in grado meglio di poter fare passi in avanti.
Dicevo: il codice di prescrizione. Anche questo, pur in misura diversa, dovrebbe sempre essere presente, a
partire dalla famiglia. Quante volte le famiglie con figli e figlie in situazione di handicap esonerano questi figli
dalle micro responsabilità quotidiane ben al di là delle compromissioni presenti in quelle situazioni. Ma
siccome sarebbe brutto non solo non sostenere le famiglie con figli in situazione di handicap, ma addirittura
colpevolizzarle ulteriormente dicendo “Non li educate a crescere”, allora… prendiamo invece un messaggio
molto importante: che spesso questo fatto, che succede in alcune famiglie con congiunti in situazione di
handicap, in realtà è la spia, è l’allarme di una situazione che, a mio avviso, oggi riguarda tutte le famiglie, con
tutti i figli. Quante volte noi esoneriamo i nostri figli da quelle micro responsabilità familiari che sono
fondamentali per assumere in seguito le micro e le macro responsabilità sociali. Allora, non so se mi sono
spiegato; leggiamola in positivo, come contributo – come diceva ieri il nostro amico Nicolussi – come un
contributo ulteriore che le famiglie con [ ] portatori di handicap danno a tutta la comunità.
Le ultime due cose e concludo. Qui ho scritto – ancora il “pensami adulto” - : qual è allora l’esigenza
fondamentale del giovane in situazione di handicap? E ho scritto: “è un bisogno di normalità”. Non voglio
negare la patologia perché sarebbe un atteggiamento ideologico, sarebbe come dire che l’handicap non esiste e
invece non è così. Ma quando scrivo “bisogno di normalità” intendo: al giovane in situazione di handicap
cominciamo col dare ciò che va dato a tutti i suoi coetanei, e non delle cose alternative. Allora, il giovane ha
bisogno di contenimento, ma anche, e soprattutto, di reverie, cioè della capacità di sognare. [ ]. Dicevo qualche
mese fa ad un gruppo di psicologi e di neuropsichiatri – che sono rimasti un po’ sorpresi [ ] – dicevo: “Non
capisco perché, in università, in qualunque corso di laurea che voi frequentate, vengono sentiti tutti i concetti di
contenimento e di reverie e poi, quando ci troviamo ad operare, riusciamo ad attivare quasi sempre soltanto un
concetto un po’ distorto di contenimento e non riusciamo quasi mai ad attivare invece la reverie, olo facciamo
con molta più fatica perché [ ].
Poi, il giovane ha bisogno di prescrizioni, in famiglia e nelle istituzioni, anche nella scuola. Scusate, quante
volte può esserci capitato, nel momento in cui state sviluppando certe attività in classe o in gruppo, e vi pare
che in quel momento anche l’allievo in situazione di handicap sia perfettamente inserito perché sta svolgendo la
7
sua parte di attività, … si volta e vi dice: “Ma tu, mi vuoi bene?”. E’ un campanello d’allarme. E’ segno che nei
suoi confronti continuiamo ad attivare per lo più il codice di appartenenza e troppo poco il codice di
prescrizione. E’ chiaro che le situazioni vanno rapportate a delle effettive realtà, ma una frase come questa è un
campanello d’allarme di qualcosa che anche nelle nostre istituzioni, nella scuola, stiamo operando in termini
esclusivamente di appartenenza e non di prescrizione.
E poi, terzo e ultimo bisogno, di poter accedere gradualmente e progressivamente a esperienze e ruoli del
mondo degli adulti.
Coordinate per la funzione pedagogica. Io ho scritto tre cose: capire meglio per operare meglio. Quante
volte noi ci lasciamo prendere dal contingente e lavoriamo sempre e solo sull’emergenza. Come se –
chiaro, capite cosa intendo per emergenza, perché l’emergenza-emergenza richiede l’intervento. Ma un
progetto che si costruisce solo e sempre sull’emergenza e sul contingente non è un progetto che ci porta
lontano. Quindi: fermarsi per capire insieme, per definire e operare meglio, mi sembra importante. Altri
due punti: definire gli obiettivi di ogni azione didattica e rileggere gli obiettivi anche in relazione alla
diversità, secondo me si legano a questo. Attenzione: io definisco gli obiettivi dell’azione didattica anche
della giornata, ma devo pormi l’interrogativo: “Dove vado a parare, in termini di attività, con questa
proposta? Lo aiuto ad assumere un ruolo via via crescente, via via superiore, oppure lo mortifico e gli
faccio fare un passo indietro?” Quindi: definire gli obiettivi dell’azione didattica mi pare estremamente
importante.
Legato a questo discorso noi ci poniamo spesso di fronte all’esigenza di far apprendere i compiti. Il nostro
intervento educativo e didattico spesso si pone l’obiettivo di far apprendere un compito, dei compiti. Certo! ci
mancherebbe! … Tanto è vero che sotto ho scritto: sul piano cognitivo ma anche per quanto riguarda le abilità
sociali – il piano cognitivo sono competenze, conoscenze. Ma il nostro obiettivo preliminare deve essere quello
di far apprendere un compito? O i compiti? Oppure il nostro obiettivo preliminare deve essere quello di
permettere la partecipazione alla cultura dei compiti? Non so se rendo l’idea: io non so suonare uno strumento,
non ho appreso questo compito, Da vent’anni sono abbonato alla stagione operistica del Teatro Regio di Torino
e partecipo alla cultura del compito.
Donna M. è una signora, un architetto australiano; è una persona autistica anche con livelli di gravità notevoli.
In un libro, “Il mio e il loro autismo” tradotto da Armando, inserisce due pagine che sono strabilianti. Dice: “Io
ho partecipato alla vita scolastica e della classe e per tutti sembrava che nei miei confronti qualunque proposta
fosse come l’acqua sulla pietra. Non era vero, ma io l’ho scoperto solo dopo. Nel momento in cui io ho avuto
un’occasione straordinaria per fiorire, per sbocciare, per esprimermi, per comunicare, per relazionarmi, io ho
tirato fuori tutto quello che per me stessa sembrava passato come acqua sulla pietra e invece avevo dentro. Se io
non avessi avuto quell’esperienza alle spalle, non potevo crescere come sono cresciuta.”
Io ho fatto fare una tesi di laurea ad una studentessa [ ]: raccogliere esperienze significative in cui la
partecipazione alla cultura del compito, è stata fondamentale, terapeutica. Il caso di Noemi è uno di questi casi.
Il caso di Olmo, che vive nella vostra regione, è quasi analogo. Nel momento in cui lui è inserito in una classe
di una scuola elementare del comune, con insegnanti estremamente disponibili nei suoi confronti, frequenta.
Nel momento in cui, attraverso la scrittura facilitata che gli propone la zia, che è un’ insegnante che ha fatto il
corso, fiorisce, esplode, tira fuori, a casa e in classe, dei testi che sono pieni delle cose che lui ha fatto negli anni
scolastici precedenti. Se lui non avesse partecipato alla cultura di quei compiti, non avrebbe raggiunto, nel
momento in cui è fiorito, i risultati che ha raggiunto. Allora ha imparato anche… - due lucidi veloci che però
richiederebbero molta attenzione nell’analisi, per concretizzare quello che sto per dire. Due fasi
dell’insegnamento in classe: vi è, legato alla partecipazione della cultura dei compiti … vi può essere una prima
fase che si divide a sua volta in due parti; vi è un insegnamento formalizzato rivolto a tutta la classe alla quale è
presente l’allievo handicappato che, in questo modo, partecipa alla cultura del compito. In questa fase
l’attenzione è rivolta a tutti gli altri compagni – certo, anche a lui, ma a tutti gli altri compagni. L’insegnamento
formalizzato ha tutti in sua presenza, gli permette di apprendere la cultura del compito, di capire che in quel
momento facciamo storia e non matematica. Poi, una seconda fase in cui il punto A è focalizzato intorno
all’allievo handicappato, proponendo compiti adeguati alle sue potenzialità, alle sue capacitò, ma in cui i
compagni assistono perchè in questo modo possono, come lui apprende la cultura del compito, possono
imparare modalità di apprendimento alternative.
Concludo prendendo a prestito da un poeta, [ ], una frase che dobbiamo [ ] che dice:
“Dove andrei se potessi andare?
Cosa sarei se potessi essere?
8
Cosa direi se avessi una voce?
Allora, nel “riprendiamoci la pedagogia” io credo che sia importante capire che, senza assistere, senza
imporsi – ricordate cosa dicevo prima [ ] – ma per dare gambe, per poter essere e per dare voce, il nostro
ruolo è fondamentale e la dimensione dell’ottimismo pedagogico è indispensabile per non rendere sterili
gli interventi.
Vi ringrazio
Editoriale (**)
«Scuola bocciata nell'integrazione degli studenti con handìcap.» Così scrive «II Sole 24 Ore», presentando la
Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della legge n. 104 11992.(1) Non siamo d'accordo. Certo:
non si può ignorare il fatto che l'integrazione scolastica di alunne e alunni in situazione di handicap nelle
sezioni e classi comuni di ogni ordine e grado oscilli tra punte di eccellenza ma anche tra grandi sacche di
ínefficienza». Tuttavia, non possiamo condividere l'opinione secondo la quale «l'ultima relazione elaborata
dal ministero della Pubblica Istruzione [ .. ]è un quadro impietoso di problemi, difetti e difficoltà, anche «di
natura didattica». Soprattutto, non riteniamo corretto puntare genericamente il dito contro la sola istituzione
(la scuola) che in questi trent'anni ha profuso con continuità, insieme alla famiglia, l'impegno maggiore a
sostegno dell'integrazione piena di tutte le persone «in formazione». Onestamente dobbiamo riconoscere che
- per quanto riguarda le persone in situazione di handicap - l'istruzione pubblica non «arranca», come scrive
invece il quotidiano della Confindustria, solitamente molto documentato e puntuale. Ciascuno può farsi
un'idea personale rileggendo la Relazione al Parlamento da noi pubblicata integralmente nella Monografia
del numero di febbraio (2) e confrontandola con i contenuti dell'articolo in questione. A chi giova sottolineare
che «vi sono circa 3 mila posti di sostegno che i Provveditori agli Studi utilizzano in deroga» al rapporto
fissato dalla finanziaria per il '97, se poi non si sottolinea che il loro numero complessivo non è sufficiente a
coprire l'intero fabbisogno nazionale di integrazione scolastica? Se - come scrive «II Sole 24 Ore» - «fosse
rispettata la normativa vígente», la coperta del sostegno sarebbe ancora più corta, a scapito dell'esigibilità dei
diritti all'educazione, all'istruzione e all'integrazione sanciti proprio dalla legge n. 104/1992. È troppo
suggerire di chiedere scusa a quanti continuano a lavorare per un'integrazione che sia di Qualità?
(1) - Handicap, scuole disattente, «Il Sole 24 Ore», 25 marzo 2001.
(2) - Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della legge-quadro sui diritti delle persone in situazione
di handicap, «Le leggi dell'integrazione scolastica e sociale», vol. 2, n. 2, pp. 69-92.
Riprendiamoci la pedagogia” (**)
«Ciò che è stato sprezzantemente liquidato dalla maggior parte dei miei colleghi (“Gli ospedali per cronici...
non è certo lì che vedrai qualcosa di interessante”) si dimostrò esattamente il contrario: era una situazione in cui
osservare, assistere, esplorare». (1)
Oliver Sacks, uno dei più celebri neurologi viventi, ricorda in Risvegli che «il Mount Carmel è un ospedale per
cronici, e i medici in genere evitano questo tipo di ospedale, o vi fanno il loro giro in fretta e se ne vanno
appena possono». Ma «non sempre è stato così»: «Nel secolo scorso, Charcot praticamente viveva alla
Salpétrière e Hughlings Jackson al West Riding Asylum: i fondatori della neurologia si rendevano
perfettamente conto che solo in ospedali del genere era possibile esplorare e definire le profondità e i particolari
dei disordini neurologici più gravi»; (2) Ancora. Sacks cita Ivy McKenzie: «I1 medico, a differenza del
naturalista, ha a che fare... con un singolo organismo, il soggetto umano in lotta per conservare la propria
identità in circostanze avverse». E commenta: «Quando colsi questa verità, diventai qualcosa in più di un
naturalista […] Venne a crearsi una nuova preoccupazione e un nuovo vincolo: quello della dedizione ai
pazienti, agli individui affidati alle mie cure. Attraverso di loro io indagavo ciò che significa essere umani e
rimanere umani, di fronte ad avversità e minacce inimmaginabili. Quindi […] l'oggetto e il motivo centrale dei
miei studi divennero la loro identità e la loro lotta per mantenere un'identità: osservare questa lotta, aiutarla e
infine descriverla». (3) Dalla medicina alla pedagogia. Nel 1898 Maria Montessori partecipa al primo congresso
pedagogico italiano, indetto a Torino. Ricorda: «Vi ero allora un'intrusa, perché il felice connubio tra la
9
medicina e la pedagogia rimaneva ancora, nel pensiero dei tempi, insospettato». (4) E aggiunge: «Chiesi la
parola e come medico dissi: “Voi sarete invano riformatori di metodi per l'educazione morale nella scuola, se
non pensate che esistono individui […] i quali passano nella scuola senza essere tocchi dall'educazione”. (5)
1 Sacks 0. (1987), Risvegli, Milano, Adelphi, p. 25.
2 Ibidem, p. 21.
3 Ibidem, p. 24.
4 Montessori M. (1910), Antropologia pedagogica, Milano, Vallardi, p. 13.
5 Ibidem, p. 13.
La responsabilità dell'educatore di fronte al volto dell'educando
C'è una pagina molto bella che Michele Pellerey ha scritto nel suo Manuale di pedagogia come scienza
pratico-progettuale: «La pratica educativa è stata caratterizzata recentemente sul piano etico da una
particolare prospettiva: quella della responsabilità che investe l'educatore di fronte al volto dell'educando e
all'appello che scaturisce da questo incontro[…]. L’intrecciarsi di una visione etica che coniuga responsabilità
di fronte all'altro, e alle sue istanze pedagogiche, e disponibilità a impegnarsi per rispondere a queste
deponendo anche legittime esigenze soggettive, conduce a una rilettura della natura più intima del rapporto
educativo».(6)L’autore cita Meirieu richiamando il concetto di «momento educativo». In sintesi:
- nel contesto di un'azione diretta alla promozione della crescita personale, sociale, culturale e professionale
deì giovani (anche di quelli in situazione di handicap), il momento educativo vero e proprio emerge
quando si percepisce la resistenza del bambino o dell’adolescente di fronte ai progetti, agli obiettivi, alla
volontà dell'educatore;
- l'educando sfugge ai propositi e al potere dell'educatore perché non capisce, non accetta, oppure
porta in sé altri progetti, altri obiettivi, altra volontà;
- la riflessione pedagogica si sviluppa proprio quando si decide di non mettere da parte tale resistenza,
negandola o sopraffacendola, bensì accettandola e cercando di sviluppare un vero e proprio lavorio
formativo che dirige la sua attenzione e il suo interesse verso situazioni e soggetti concreti e le loro
resistenze;
- - dal punto di vista educativo, la resistenza dell'altro non riconduce al potere che sì potrebbe
esercitare su di lui, ma a quello che si deve esercitare su di sé, è un rinvio alla propria responsabilità
educativa, alla ricerca di un modo di offirire la possibilità di un incontro, al desiderio di comprendere
e di aiutare,
- - al contrario, la manipolazione si colloca nella volontà ostinata di rimandare sempre all'altro la
responsabilità delle difficoltà che si incontrano, nel desiderio di «circonvenire per superare l'ostacolo
che si frappone» (7)
Due prospettive educative e due concezioni dell'educando
Pellerey riassume le sue considerazioni intorno alle pratiche educative richiamando ancora il contesto indicato
da Meirieu.
In esso si distinguono due prospettive secondo le quali si può considerare la persona in formazione:
- come individuo da «trattare», nel senso proprio di cura medica o psicologica,
- come soggetto di un incontro.
Queste due prospettive si intersecano con due diverse concezioni dell'educando:
- come soggetto già costituito nella sua identità e libertà;
- come persona che deve ancora essere condotta perle strade della formazione.(8)
Conclude Pellerey:
- il ritorno etico conseguente alla presa di coscienza delle difficoltà o del problema emergente nel contesto di
una situazione che rientri in quello che è stato chiamato da Meirieu «momento educativo» si alimenta in
maniera specifica del grado di sollecitudine nei confronti dei giovani [diciamo noi, anche di quelli in situazione
di handicap];
-l'educatore è impegnato a esplorare il volto dell'altro, la sua domanda di umanità, di infinito; - ma, ancora per
l'educatore, il riscontro di questa esplorazione è la ricerca di una più profonda e solida competenza educativa;
10
- il lavoro pedagogico si caratterizza in primo luogo, sul piano della comprensione più profonda, delle finalità
educative da porre alla sua base, della loro coerenza interna e consistenza esterna, della loro corrispondenza alle
situazioni e condizioni presenti;
- ma lo stesso lavoro pedagogico si sposta poi sulla ricerca dei mezzi per rendere realizzabili tali prospettive
educative.
Il pedagogista sostiene che, a questo punto, per l'educatore si aprono tre prospettive: una lassista (se l'educando
non vuole, non capisce, resiste, «allora vada per la sua strada»); una autoritaria (si obbliga l'educando a fare
quello che «deve» fare, anche se resiste, se non capisce: «Noi sappiamo che questo è per il suo bene»), l'ultima
è più complessa, ma educativamente è quella più significativa (di fronte al volto incerto, distante, vuoto o
ribelle dell'educando, non ci si lascia facilmente trascinare né dall'abbandonarlo a se stesso, né dall'imporre i
propri progetti, bensì si è spinti a ritornare su se stessi, sui propri progetti e a cercare di capire l'origine di tale
resistenza, e quindi a rielaborare i propri schemi d'azione). (9)
No alla delega, no alla medicalizzazione e alla farmacologizzazione
Strettamente connessi alle considerazioni sopraesposte ci paiono i contenuti dei testi che abbiamo raccolto nella
presente monografia. Nelle pagine che seguono riportiamo, a scopo di documentazione e con l'intento di aprire
un ampio dibattito, alcuni materiali di stretta attualità: l'aperta denuncia dello psichiatra Camillo Valgimigli,
relativa al tentativo di una impropria (e infausta) farmacologizzazione dei cosiddetti «disturbi dell'attenzione»
di bambini e adolescenti, e la «lettera aperta» ai rappresentantì delle massime autorità dello Stato italiano,
scritta dall'Associazione provinciale degli insegnanti per il sostegno di Modena. Restiamo a disposizione per
ogni approfondimento in materia.
6 Pellerey M. (1999), Educare. Manuale di pedagogia come scienza Pratico-progettuale, Roma, LAS, pp.
42-43.
7 Ibidem, p. 43.
8 Meirieu P (1995), La Pédagogie entre le faire et le dire, Paris, ESF, p. 133
9 Pellerey M. (1999), op cit., pp. 45-51.
(*)
Mario Tortello, Pedagogista Università di Torino:
(Da “ Le leggi dell’integrazione” 04/ 2001)
(**)
BIMBO DISTRATTO? PARLA TROPPO? PRESTO GLI DARANNO L'ANFETAMINA (10)
Camillo Valgimigli
Viene indicato con una sigla: Adhd. Attention deficit hyperactivity disorder, che potremmo tradurre
"sindrome da disturbi dell'attenzione", ma in realtà è la riproposta della discussa vecchia sindrome "del
bambino iperattivo", conosciuta anche come "danno celebrale minimo", o "minimal brain disorder" (termine
che sembra più credibile perchè in lingua straniera). Si tratta di una malattia letteralmente inventata in America
già 50 anni fa ma che lentamente sta prendendo piede anche in Italia. Se è vero, come è vero, che alcuni giorni
fa le è stato dedicato un simposio diretto da neuropsichiatri infantili delle università di Cagliari, di Pisa, della
Sapienza di Roma al congresso romano della società di psicopatologia al quale ero presente insieme ad altri
duemila psichiatri che non hanno neppure accennato ad una sorta di debole dibattito.
L'aspetto gravissimo è che questa falsa malattia, che colpirebbe in particolare i ragazzini delle scuole
elementari e medie, verrebbe curata con un farmaco: "il metilfenidato" (chiamato in commercio Ritalin) che è
un farmaco psicoattivo. I farmaci psicoattivi hanno purtroppo il potere di modificare chimicamente il
comportamento, e devono quindi essere considerati alla stregua di vere e proprie droghe. Sotto la totale
indifferenza di tutti i ministeri, e di tutti gli assessorati regionali alla sanità e delle varie istituzioni scientifiche e
non deputate ai problemi dell'infanzià e dell'adolescenza, il Ritalin si accinge a sbarcare anche in Italia. Lo
scorso mese di ottobre la Cuf (Commissione unica del farmaco) ha invitato le aziende produttrici ad avviare le
11
procedure per la registrazione del prodotto anche da noi: "visto il ruolo del metilfenidato nel trattamento
dell'Adhd e vista l'elevata incidenza di questa sindrome in età prescolare adolescenziale e l'assenza di farmaci
alternativi. L'azienda farmaceutica da subito naturalmente (esattamente dal 18 ottobre) ha confermato al
Dipartimento per la Valutazione dei medicinali del ministero della sanità di essere pronta a mettere a
disposizione degli italiani il farmaco in tempi brevi. La sindrome Adhd, da disturbi dell'attenzione con o senza
inerattività, di cui parla la Cuf, sarebbe la giustificazione diagnostica per prescrivere il Ritalin.
Per spiegare questa Adhd vengono indicati 99 sintomi prevalenti. I più comuni: difficoltà a mantenere la
concentrazione; sembra non ascoltare, fatica a seguire le istruzioni, si distrae facilmente; si mangia le unghie,
evita o non ama compiti che richiedono un impegno mentale sostenuto, giocherella con mani e piedi, si agita
sulla sedia; corre e salta in maniera eccessiva; ha difficoltà ad aspettare o rispettare i turni; parla troppo; parla
troppo poco, interrompe e s'intromette spesso nel discorso altrui, ha difficoltà a svolgere attività tranquille...
Sulla base di questi sintomi (credo comuni a tutti i bambini normali del mondo) schiere di pediatri, psichiatri
psicologi americani, continuano a dar la caccia al bambino con Adhd al punto che tale sindrome è stata
riscontrata addirittura nel 40% dei casi esaminati. Le case farmaceutiche produttrici di farmaci come il Ritalin
hanno costruito e continuano a fare fortune colossali su questa falsa malattia. In America però i danni procurati
dal farmaco cominciano ad entrare nelle aule di giustizia. Contemporaneamente in Italia il farmaco sta per
avere il diritto di entrare in farmacia.
Prima di costruire un regime di farmacodipendenti in bambini del tutto normali che hanno la sola colpa di
presentare comportamenti troppo o troppo poco "attivi", e sostanzialmente non accettano alcune regole degli
adulti, è necessario che almeno gli addetti ai lavori deputati all'infanzia della nostra regione: i Francesco
Nardocci, i Gianni De Plato, gli Ernesto Caffo (che hanno incarichi nell'organizzazione della salute mentale
infantile italiana) escano dal silenzio e impediscano questo "safari psicopedagogico" in casa nostra.
(10) GAZZETTA DI MODENA, Mercoledì 4 marzo 2001, rubrica Sanità e dintorni
Anfetamina per la cura di una 'finta' malattia
(11)
Camillo Valgimigli
Si arricchisce di prove a dir poco sconcertanti (ma il vero scandalo è che, ancora una volta, tali argomenti non
fanno scandalo) la vicenda dei bambini con la sindrome da "Disturbi dell'attenzione con o senza iperattività"
(indicata con la sigla Adhd), curata (si fa per dire) con un farmaco psicostimolante, il Metilfenidato (nome
commerciale Ritalin), anfetamina che appartiene ai farmaci d'abuso ed è inclusa nella tabella 1 degli
stupefacenti. Un gruppo di psichiatri ha elaborato un documento: «promozione di salute mentale, prevenzione
del disagio psichico e disturbi mentali delle disabilità psicofisiche in età evolutiva» in cui sostiene la validità
del «deficit dell'attenzione e del disturbo ipercinetico (Adhd)» e la necessità di curarla.
Il gruppo di lavoro, nominato dal responsabile del programma di salute mentale della regione Emilia
Romagna composto da dodici rappresentanti della neuropsichiatria infantile delle Ausl di Piacenza, Cesena,
Modena, Reggio Emilia, Ravenna, Parma Rimini, Imola, Bologna città, era presieduto da Giovanni Polletta
(noto per essere negli anni 70-80 uno dei più accesi sostenitori della lotta contro la medicalizzazione dei
bambini, ed oggi folgorato sulla via Damasco-farmaceutica).
IL DOCUMENTO. Per quanto possa apparire incredibile, il documento a pagina 3 recita testualmente:
«Ricerche catamnestiche, recentemente confermate (da chi, dove quando, con quale scientificità: ci viene da
chiedere) indicano determinanti del disturbo di natura genetica ed ambientale, con fattori di rischio e di
comorbidità in un procedere psicopatologico che ha come prima manifestazione il deficit dell'attenzione e il
disturbo ipercinetico (Adhd), che viene accreditato da una prevalenza del 4% nell'età scolare (maschi e
femmine). La maggioranza di questi bambini evolve verso la normalità, ma la presenza di fattori di rischio
(condizioni sociali e culturali emarginanti, condizioni economiche di povertà, famiglia multiproblematica,
insuccesso scolastico) o di comorbidità (disturbo dell'apprendimento, lievi disturbi del linguaggio) possono
deviare l'evoluzione verso un disturbo oppositivo provocatorio e il disturbo della condotta...»
È una vera e propria rivoluzione culturale: il 'mala cosa nascer povero' manzoniano e le condizioni sociali di
un bambino che dalla notte dei tempi abbisognavano soltanto di interventi educativi e sociali, oggi invece
devono essere curati con droghe.
12
Ma non basta: a pagina 4 il documento dei 13 saggi riporta testualmente: «Nella popolazione che affluisce ai
dipartimenti di salute mentale della regione Emilia Romagna ai servizi di neuropsichiatria dell'età evolutiva,
l'Adhd si colloca al di sotto del 5%: ciò rappresenta una sottostima da attribuire probabilmente più che alla
disattenzione dei servizi sanitari, alla cultura italiana tradizionalmente prudente nel riconoscere un disturbo dal
possibile sviluppo psicopatologico». La prudenza della nostra cultura medica attuale di "fare tutto il possibile"
per evitare di diagnosticare come patologico un comportamento probabilmente del tutto normale di un
bambino, nel documento viene rinnegata.
IL DISSENSO. L'altra amara informazione ricevuta è che al prossimo congresso nazionale di
neuropsichiatria infantile che si terrà a giugno saranno soprattutto le nostre scuole di specializzazione di
neuropsichiatria infantile emiliano romagnole a sostenere il diritto del Ritalin a entrare nelle nostre case, nelle
nostre scuole e nelle nostre farmacie, prescritto però dagli specialisti in età evolutiva e non dai pediatri. Ad
eccezione dei modenesi Franco Nardocci ed Ernesto Caffo, che porteranno il loro dissenso sul Ritalin
all'interno del gruppo nazionale della salute mentale e che hanno l'intenzione di promuovere quanto prima a
Modena un dibattito con la presenza degli addetti ai lavori, ma aperto a tutti i cittadini, la maggior parte degli
specialisti, pediatri e psichiatri dell'età evolutiva sono sostanzialmente favorevoli al Metilfenidato e alla sua
introduzione nelle farmacie italiane.
Sembra importante a questo punto fornire alcune informazioni sull'Adhd e sul farmaco Ritalin che dovrebbe
curare questa presunta malattia. La sigla Attention Deficit Hyperactivity Disorder (in italiano "disturbo
dell'attenzione e iperattività"), giustificazione usata dalla Cuf (commissione unica del farmaco) per introdurre
in Italia il Ritalin, è sostanzialmente la riproposta dopo 50 anni di una malattia letteralmente inventata in
America ed indicata anche come "sindrome del bambino iperattivo", o "danno celebrale minimo" o "minimal
brain disorder". Danno celebrale minimo, dove minimo viene usato per indicare l'assenza di un comportamento
grave, e danno per dimostrare che ci troveremmo di fronte ad un serio problema organico.
Per spiegare, questa malattia, si fa per dire, venivano indicati 99 sintomi prevalenti. I più comuni: difficoltà a
mantere la concentrazione; sembra non ascoltare, fatica a seguire le istruzioni; si distrae facilmente, evita o non
ama compiti che richiedano un impegno mentale sostenuto; giocherella con mani e piedi, si agita sulla sedia;
corre e salta in maniera eccessiva, ha difficoltà ad aspettare o rispettare i turni. Parla troppo; parla troppo poco,
interrompe e Si intromette spesso nel discorso altrui, ha difficoltà a svolgere attività tranquille...
LA «SPINTA». In altri termini le caratteristiche tipiche dell'infanzia e della preadolescenza (irrequietezza,
vivacità, emotività, momenti di passaggio da una fase di crescita all'altra, ecc.) di per sè normali e fisiologici,
vengono trasformati in sintomi da curare. Negli Stati Uniti l'Adhd viene curata con un farmaco: il Metilfenidato
(Ritalin in commercio), che è una anfetamina, uno stimolante centrale: come tale appartiene, lo ripetiamo, ai
farmaci d'abuso ed è incluso nella tabella 1 degli stupefacenti.
Il commercio di questo prodotto rappresenta uno dei migliori affari di tutto il mercato farmaceutico: secondo
la Drug Enforcement Agency dal 1990 al 1995 le ricette di Ritalin sono aumentate de 600%, con un giro di
affari valutato sui 2 miliardi di dollari. Spiace doverlo sottolineare, ma crediamo che sia questo volume d'affari
la spinta più importante a decidere di curare con un'anfetamina anche in Italia, i ragazzi distratti, svogliati,
disattenti...
I RISCHI. Negli altri paesi (ed oggi anche in America) esiste un intenso difficile di battito sugli effetti di
terapie con Ritalin in bambini dell'età scolare e della scuola media, dibattito che è ben lontano dal giungere a
risultati chiari. Preoccupa soprattutto il fatto che il Ritalin stia di ventando anche oggetto di commercio illegale.
Tritate e ridotte in polvere, le pillole di Ritalin vengono infatti smi state da molti ragazzi nei campus e nelle
scuole al posto della cocaina. Uno studio dell'università della California di Berkley afferma che i ragazzi trattati
con Ritalin hanno un rischio 3 volte maggiore degli altri di diventare tossicodipendenti. Mentre altrove
infuriano le polemiche, in Italia Adhd e Ritalin entrano dall'ingresso principale in farmacia in nome della
promozione della salute mentale e prevenzione del disagio psichico e dei disturbi mentali in età evolutiva.
Poveri bimbi.
(11) GAZZETTA DI MODENA, Mercoledì 11 marzo 2001, rubrica Sanità e dintorni
SAFARI TRA PSICHE E PEDAGOGIA: ECCO COSA AVVIENE ALL'ESTERO
(12)
13
Camillo Valgimigli
1 Stati Uniti, Gran Bretagna, Italia e la pillola del "fai a modo". Dagli anni '50 la scalata del metilfenidato
(Ritalin) al mercato Americano dei prodotti pediatrici non ha incontrato ostacoli. Tra il 1989 e il 1996 negli Usa
le prescrizioni sono aumentate del 60%. Ancora oggi il 90% della produzione mondiale di questo farmaco
viene assorbita dall'America. In Virginia, nel Nord Carolina e nel Michigan, il 10-15% dei bambini in età
scolare si trova ormai ad assumere quotidianamente questa pillola del "fai a modo". Con qualche grave
conseguenza imprevista.
2 La DEA (Drug Enforcement Agency), l’organismo federale incaricato della lotta contro la droga, ha messo
in guardia le autorità locali, perché prevengano lo spaccio di metilfenidato davanti alle scuole. La sostanza
infatti è diventata anche oggetto di commercio illegale. Tritate e ridotte in polvere, le pillole vengono
sniffate da molti ragazzi nei campus e nelle scuole al posto della cocaina.
3 Uno studio della università della California di Berkeley afferma che i ragazzi trattati con ritalin hanno un
rischio tre volte maggiore degli altri di diventare tossicodipendenti.
4 Anche in Gran Bretagna da poco è stato introdotto il farmaco: una dcisione che ha suscitato e continua a
suscitare molte polemiche, soprattutto perché qualcuno pretenderebbe che fosse totalmente pagato dal
servizio sanitario. In Inghilterra in ogni caso, il metilfenidato (Ritalin) può essere prescritto solo dagli
specialisti di neuropsichiatria infantile e dell’età evolutiva.
5 In Italia invece l’iniziativa della Cuf viene sollecitata da una raccolta di firme che vede in primo piano tra i
firmatari i pediatri di base, molto più numerosi degli specialisti dell’età infantile e dell’età evolutiva. E’ un
fatto ancora più grave che negli altri paesi. Se è vero infatti che i pediatri di base sono in genere coloro ai
quali per primi vengono presentati questi problemi dagli insegnanti e dalle famiglie, è altrettanto vero che i
pediatri non hanno formazione, studi e competenze in questo campo. Per cui ripetiamo: il loro intervento
sarebbe un’autentica caccia al bambino con Adhd o, se si preferisce, un vero e proprio safari
psicopedagogico in cambio di interessi economici.
(12)
GAZZETTA DI MODENA, Mercoledì 7 marzo 2001, rubrica Sanità e dintorni
Chimica o pedagogia? (13)
a cura dell'Apismo
Lettera aperta ai ministri della Pubblica Istruzione e della Sanità, ai genitori, agli studenti, agli insegnanti e a
tutte le persone interessate al destino di migliaia di bambini.
No all’abuso di farmaci per i bimbi «vivaci e disattenti»;
sì alla mobilitazione pedagogica del pensiero
Abbiamo seguito con grande attenzione e preoccupazione la denuncia riguardante i rischi legati
all'introduzione del Ritalin nelle farmacie italiane (e quindi nelle scuole), apparsa in tre articoli della «Gazzetta
di Modena» (in data 4, 7 e Il marzo 2001) a firma di Camillo Valgimigli. Siamo d'accordo con la sua analisi
critica (condivisa in Emilia Romagna, purtroppo, solo da pochi altri suoi colleghi) e, allo scopo di stimolare
l'inizio di un dibattito pedagogico-scientifico sull'argomento, accettiamo l'invito al confronto, poiché riteniamo
importante - in qualità di insegnanti che quotidianamente interagiscono con bambini «estremamente vivaci» e
che hanno difficoltà di attenzione - spiegare le ragioni pedagogiche e scientifiche della nostra ferma
opposizione all'uso di farmaci che alterino pericolosamente la chimica del cervello, quando esiste un'efficace
pratica - la pratica pedagogica della «gestione mentale» elaborata da Antoíne de La Garanderie -, pochissimo
conosciuta in Italia, in grado di contribuire al superamento di tali difficoltà.
La nostra esperienza
14
Siamo insegnanti specializzati per il sostegno agli alunni in difficoltà di apprendimento da parecchi anni e,
nella nostra pratica pedagogico-didattica, abbiamo visto che quando si spiegava al bambino cosa doveva fare
per stare attento e si variavano le strategie di presentazione dei contenuti, in modo da rispettare maggiormente i
tempi e le personali modalità evocative (cioè, le modalità con cui si richiama alla mente ciò che si è percepito),
il bambino agitato si tranquillizzava e stava attento, imparava a prestare attenzìone (cioè, secondo la pratica
pedagogica della gestione mentale, a vedere per ri-vedere mentalmente o ad ascoltare per ri-ascoltare
mentalmente).
Utilizzando, inoltre, metodologie e strumenti più adeguati ai bisogni educativi e cognitivi specifici del
bambino in difficoltà (il piccolo gruppo, l'aiuto reciproco, supportì audiovisivi, l'elaboratore, la lavagna
luminosa, schemi e mappe concettuali, il teatro e altri canali espressivi), si allungavano i tempi e la qualità della
sua attenzione. Il bambino comprendeva di più e questo «com-prendere», cioè prendere con sé, lo gratíficava e
lo valorizzava, perché «muovere il pensiero» secondo un proprio progetto, logico o creativo, lo rendeva più
autonomo e padrone del proprio movimento e delle proprie relazioni spazio-temporali con l'ambiente
circostante.
I risultati di recenti ricerche hanno inoltre evidenziato come la modalità frenetica con cui si abusa dei mezzi
di comunicazione (televisore, elaboratore, telefono cellulare), esasperando il bisogno di variare e incrementare
sempre più gli stimoli percettivi, non lasci il tempo necessario all'evocazione e, di conseguenza, impoverisca e
inaridisca la mente, deprivandola progressivamente, ma inesorabilmente, delle capacità di memorizzazione e
riflessione.
Al contrario, è possibile pensare a un intervento pedagogico e a un utilizzo delle nuove tecnologie mirato
allo sviluppo e al potenziamento delle capacità di memorizzazione (cioè evocare immaginando già la situazione
di riutilizzo futuro dell'informazione evocata) e di riflessione (confrontare fra loro gli evocati attuali e quelli del
passato), per favorire quindi quella mobilità del pensiero che sta alla base di un'attività mentale efficace e
creativa.
Alterazione chimica o interazione pedagogica?
Alterazione chimica dei processi cerebrali o ricerca di un’ínterazione pedagogica efficace con la mente del
bambino «agitato» che, per vari motivi (il bambino non comprende, è demotivato, proviene da un ambiente
svantaggiato, è maltrattato, ecc.), non vuole o non sa ancora come fare per prestare attenzione?
È possibile intervenire pedagogicamente per correggere l'iperattività e la carenza di attenzione, che possono
essere causate sia da difficoltà di apprendimento che da svantaggio socioculturale o maltrattamento, aiutando i
bambini a sviluppare una maggiore consapevolezza e padronanza della propria attività mentale, indispensabili
ai fini del successo scolastico e anche per acquisire una migliore conoscenza dell'ambiente circostante?
Una nuova interazione pedagogica con lo studente, già sperimentata lungamente e con successo in Francia,
così come in molti altri Paesi del mondo, può infatti aiutare gli insegnanti a migliorare l'attenzione dei bambini
«troppo vivaci» e il loro rendimento scolastico, grazie a un diverso ascolto e dialogo pedagogico. Questo
porterà insegnanti e alunni alla scoperta del rispettivo profilo pedagogico, cioè alla descrizione delle abitudini
evocative di ciascuno (quelle abitudini utilizzate per rìchiamare alla mente tramite immagini mentali,
principalmente di tipo visivo o uditivo, ciò che si è osservato, ascoltato o percepito con un altro senso),
abitudini impiegate nel processo dell'attenzione e più in generale in quello dell'apprendimento (anche
extrascolastico).
«Gestione menta1e», diagnosi e terapia pedagogica delle difficoltà di apprendimento
La pratica pedagogica della «gestione mentale», definita anche «pedagogia delle evocazioni», attraverso il
dialogo pedagogico e la stesura del profilo pedagogico del bambino è in grado di diagnosticare e intervenire,
unicamente con strumenti pedagogici, sulla cosiddetta «iperattività» e sulle difficoltà di attenzione e di
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apprendimento dei bambini, rendendoli maggiormente consapevoli della loro attività mentale e di come
gestirla.
Il processo dell'attenzione, secondo Antoine de La Garanderie, scatta se al bambino viene permesso di fare
«avanti e indietro» tra l'oggetto di attenzione (la lavagna, le parole dell'insegnante) e l'oggetto di distrazione (il
volo di una mosca, il passaggio di una macchina fuori dalla finestra della classe, ecc.), e consiste proprio in
questo passaggio. In questo andare avanti e indietro, il bambino si dà la possibilità e il tempo di evocare, cioè di
richiamare alla mente, ciò che ha appena percepito con la vista (le parole scritte o i disegni alla lavagna) o con
l'udito (la spiegazione orale dell'insegnante). Ciò significa, per il bambino, acquisire maggiore consapevolezza
del proprio funzionamento mentale e permettere alla coscienza di autoesplorarsi attraverso l'introspezione
pedagogica. L'attenzione, quindi, scatta innanzitutto se al bambino viene dato il tempo di evocare quanto
percepito, ed è facilitata se la lingua pedagogica dell'insegnante (modalità evocativa predominante, visiva o
uditiva) e la lingua pedagogica del bambino si incontrano, ossia se la modalità di presentazione dei contenuti
dell'insegnante tiene conto della modalità evocativa del bambino, altiimenti sono guai (per il bambino
naturalmente).
Ad esempio: quanti bambini sordi sono stati definiti vivaci o peggio «iperattivi» a causa dell'uso di canali
comunicativi non adeguati da parte dell'insegnante? E quanti sono i casi di «sordità o cecità cognitiva» degli
udenti, causata dalla non corrispondenza fra modalità di presentazione dei contenuti da parte degli insegnanti
(ad esempio, quella verbale) e la modalità evocativa (ad esempio, quella visiva) da parte dello studente (o
viceversa)?
Forse i sostenitori della terapia farmacologica ignorano queste problematiche e non riescono a immaginare le
potenzialità e le risorse pedagogiche che gli insegnanti potrebbero mettere in campo se venissero incoraggiati a
non delegare, ma a valorizzare ed esplorare pedagogicamente le potenzialità cognitive degli studenti, anziché
venire deresponsabilìzzati ed espropriati delle loro capacità di ascolto e delle loro capacità «terapeutiche»
(«terapeutiche» non nel senso medico, bensì nel senso etimologico della parola, cioè «prendersi cura di ... »)
nei confronti delle difficoltà di apprendimento dei bambini, a causa della ricorrente psichiatrizzazione di tali
difficoltà.
Stupefacente immobilizzazione farmacologica o mobilitazione pedagogica del pensiero?
La pratica pedagogica della «gestione mentale» permette al bambino di gestire meglio i suoi evocati
(immagini mentali visive o uditive di ciò che ha percepito e poi richiamato alla mente) per «muovere» il suo
pensiero nella direzione voluta ed essere maggiormente consapevole e padrone della sua attività sia fisica che
mentale, ossia dell’esecuzione di quei gesti mentali responsabili dell’apprendimento (attenzione,
memorizzazione, comprensione, riflessione, immaginazione). Se è vero che «pensare è trattenersi dall'agire,
[...] interiorizzare le azioni, i movimenti e […] prevederne le conseguenze attraverso la memoria», occorrerà
insegnare al bambino a percepire con attenzione, ossia a osservare per rivedere mentalmente e ad ascoltare per
riascoltare mentalmente, immaginando già, durante la percezione dì un oggetto, le azioni implicate nel suo uso:
ascoltare la musica è già cantarla o suonarla, cosi come memorizzare è immaginare già la situazione di
riutilizzo futuro dell'informazione evocata. Si è scoperto, infatti, che molte persone abili nel raccontare
barzellette, quando le ascoltano, si immaginano già la scena in cui le stanno raccontando ad altri.
Dall'esecuzione più o meno corretta di questi gesti mentali dipendono anche ì risultati, più o meno
soddisfacenti, che si ottengono nell’esecuzione dei diversi compiti. Gli studenti con un buon rendimento
scolastico eseguono più o meno efficacemente questi gesti mentali, generalmente in modo ínconsapevole,
mentre uno studente che non li esegue affatto, non ottenendo buoni risultati, potrebbe essere portato a muovere
di più tutto il suo corpo nel vano tentativo di com-prendere (di prendere con sé) un movimento non finalizzato
ad alcun progetto di senso, se non a quello di reagire alla noia e alla demotivazione.
Con il rapido diffondersi delle nuove tecnologie multimediali, il bambino, bombardato da stimoli percettivi e
poco ascoltato dagli adulti, non ha il tempo di evocare né di memorizzare, non impara a riflettere e non ha il
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tempo di immaginare già, durante la percezione di un oggetto, le azioni e le possibili conseguenze implicate nel
suo uso o nelle sue relazioni con il mondo circostante, cioè non ha il tempo di interìorizzare l'azione.
“Iper”attività e “disturbi” dell'attenzíone
Il cosiddetto « Deficit dell'attenzione ed Iperattività » (ADHD) dei bambini dovrebbe essere quindi, in
assenza di lesioni nervose, innanzitutto un problema di pertinenza pedagogica, e di pertinenza pediatriconeurologica in quei casi in cui sia dimostrata una compromissione neurologica o comunque organica.
È urgente una riflessione etico-pedagogica sulle scelte educativo-didattiche effettuate dalla scuola, sulle
capacità dì ascolto e sulle modalità di accesso all’informazìone che vengono imposte ai bambini da parte degli
adulti, per adeguarle alle vere esigenze della formazione della personalità del bambino, anche per favorire
un'inversione di tendenza che, anziché mirare alla mobilitazione farmacologìca, miri soprattutto alla
mobilitazione pedagogica del pensiero.(14)
Riferimenti bibliografici:
De La GaranderieA. (1991), I profili pedagogici, Firenze, La Nuova Italia;
De La Garanderie A. (2001), Les grands projets de nos petits, Paris, Bayard Editions.
De La Garanderie A (1997) “Critique de la raison pédagogique”, Nathan
(13)
Dal sito web della FADIS . Per informazioni: Assunta Barbieri, presidente dell’associazione provinciale
degli insegnanti per il sostegno di Modena (Apismo) e-mail [email protected]
Per saperne di più, in rete:
www.chez.com/iigm;
www.gestíonnientale.com;
www.comune.rnodena.ít/scuole/cavour/gestionmentale.htm;
www.comune.modena.it/scuole/cavour/gmintro.htm.
Prof.ssa Monica Barbolini, insegnante di Lettere specializzata anche per il sostegno . Segretaria dell’APISMO.
Intervista a Radio 24: Perché l’APISMO dice no al Ritalin , cioè alla medicalizzazione dei bisogni specifici
di apprendimento e di integrazione ).
Da “LA COMUNICAZIONE TRA LA SCUOLA E LA FAMIGLIA”
Intervista (di radio 24) a Monica Barbolini segretaria dell’APISMO
Perché l’APISMO è favorevole alla diffusione ed all’utilizzo nelle scuole, della pratica pedagogica della
Gestione Mentale, la “Pedagogia delle evocazioni”, al fine di favorire l’attenzione dei bambini “troppo vivaci
ed irrequieti”
L’allarme è stato lanciato lo scorso anno negli stati uniti nel che metteva sotto accusa il Ritalin un farmaco
usato nelle scuole per mettere in riga bambini troppo vivaci e per stimolare quelli depressi e poco attenti a
scuola, bambini che secondo alcuni esperti erano affetti dalla cosiddetta ADHD ( Attention Deficit
Hiperactivity Desorder ) . Adesso questo farmaco sta arrivando anche nelle farmacie italiane. Ovviamente
dovrà essere prescritto da medici o psicologi, ma sono già molti i genitori e gli insegnanti preoccupati
dell’eventuale dilagare di un sistema di pensiero che tende a risolvere con una pasticca problemi che non sono
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riconducibili ad una vera e propria patologia, ma ad un modo di essere di un ragazzo che è ancora immaturo.
Alcuni professori di una scuola media ed elementare hanno studiato e stanno introducendo un metodo
alternativo di insegnamento chiamato PRATICA PEDAGOGICA DELLA GESTIONE MENTALE.
Per aiutare i bambini a superare le loro difficoltà di concentrazione a scuola quando sono troppo distratti o
troppo vivaci senza l’aiuto di nessuna pasticca.
Parliamo con una di loro, con uno di questi insegnanti, Barbolini Monica, che innanzi tutto ci spiega che cos’ è
questa sindrome ADHD di cui si parla tanto
“Diciamo che sono stati individuati alcuni sintomi di un’ipotetica sindrome dei disturbi dell’ attenzione o
dell’ iperattività. Questi sono chiamati, secondo noi a torto, dei sintomi. Li riteniamo semplicemente
delle manifestazioni del disagio che può essere dovuto a diverse cause”
Come si esplica questo disagio?
“A livello di comportamento possiamo avere una vivacità, un’ iperattività motoria, una mancanza di
concentrazione oppure tempi molto brevi di concentrazione. Possiamo riscontrare l’incapacità di stare
seduti anche solo per 5/10 minuti, la richiesta frequente di uscire dall’ aula, la difficoltà di aspettare il
proprio turno quando si tratta di parlare, di dialogare, l’ impulsività, la disattenzione.
Ecco questi per noi sono soltanto delle manifestazioni di un disagio, non sintomi di una sindrome.
Non ci sono, secondo noi, delle prove scientifiche che permettano ai medici di diagnosticare una sindrome
vera e propria.”
Parlare della vivacità,della scarsa attenzione,… fa parte un po’ dell’ essere bambini…
“Abbiamo esperienza dalle elementari alle superiori, quindi da bambini a ragazzi. Queste manifestazioni
possono essere dovute alla mancanza di motivazioni nei confronti della scuola, a disagi di tipo
familiare,…I motivi possono essere tanti, le manifestazioni possono essere le stesse.”
Prof.ssa Barbolini, sta arrivando nelle farmacie questo farmaco, il Ritalin, che nelle scuole americane viene
prescritto per combattere questa che viene definita una patologia, a torto o a ragione che sia non è questa la sede
per capirlo.quello che vogliamo cercare di capire è cosa possono fare gli insegnanti per stimolare la capacità di
attenzione dei ragazzi e cioè quali strumenti possono essere utilizzati.
“Noi proponiamo innanzitutto come atteggiamento quello di non considerare la carenza di attenzione e
l’iperattività una malattia mentale e ci opponiamo alla somministrazione degli psicofarmaci ai bambini,
ai ragazzi, agli alunni.
Proponiamo di individuare le cause del disagio che porta poi a queste manifestazioni.
Noi sollecitiamo dei percorsi didattici adatti a questi tipi di manifestazioni.
Come gruppo di insegnanti proponiamo la cosiddetta Gestione Mentale, che è un metodo pedagogico. La
G. M. è la pedagogia delle evocazioni”
Che significa?
“Le evocazioni sono le modalità con cui il bambino, il ragazzo richiama alla mente ciò che ha percepito.
Questo vale per tutte le persone. Ognuno di noi ha un modo di evocare”
Possiamo fare subito un esempio per spiegarlo?
“L’evocazione può essere, principalmente, visiva o uditiva (non scendo in particolari). Per esempio,
vedendo una mela, un bambino può, più o meno consapevolmente, avere il progetto di rivederla subito
mentalmente come in una foto mentale, riascoltare sempre mentalmente la descrizione della mela data
dall’insegnante o dal genitore, pronunciare la parola “mela”con la sua voce mentale, ( o, naturalmente,
risentire le sensazioni tattili, gustative, olfattive di quando la palpa o la mangia). Potrà, inoltre,
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richiamarne l’immagine mentale a distanza di tempo sempre sottoforma di evocato visivo, diciamo come
una fotografia, oppure sottoforma di evocato uditivo, cioè ri-sentendo pronunciare mentalmente la
parola “mela” con la propria voce o con la voce di una persona, che può essere quella della maestra, della
mamma…La Gestione Mentale, basandosi su questo fatto insegna a gestire questa facoltà mentale in
modo consapevole allo scopo di compiere consapevolmente quelli che vengono definiti i cinque gesti
fondamentali della mente: l’attenzione, la memorizzazione, la comprensione, la riflessione,
l’immaginazione creativa”
Ecco, ma l’insegnante come fa a provocare tutto questo nel bambino?
“Innanzitutto deve essere consapevole del fatto che di fronte a sé, quando ha una classe, ha bambini che
non evocano tutti allo stesso modo quindi la prima cosa che deve fare è rendersi conto che se le modalità
di presentazione da parte dell’insegnante non corrisponde alla modalità evocativa dell’alunno, il ragazzo
è già in svantaggio perché sarà costretto a tradurre ad esempio le parole dell’insegnante in immagini
visive (se la sua modalità di evocazione è quella visiva) o viceversa.
Il docente dovrebbe quindi utilizzare nel suo lavoro didattico sia l’aspetto uditivo che quello visivo e
presentare queste informazioni in modo intervallato, non sovrapposto per dare tempo all’alunno di
“evocare” secondo le proprie abitudini.
Un esempio di lezione, di come dovrebbe essere impostata…
“E’ utilissimo, nel momento in cui l’insegnante propone le informazioni alla classe, utilizzare non solo la
voce, non solo la spiegazione verbale: Se io uso soltanto questa (lezione frontale tradizionale) favorisco in
partenza gli alunni con un tipo di evocazione uditiva mentre faccio partire con uno svantaggio gli altri.
Allora si dovrebbe alternare la spiegazione verbale con immagini che possono essere, ad esempio,
scenari, cartine, figure, lucidi…facendo leva sulla concretezza delle immagini come sostegno per chi usa
un altro tipo di evocazione, quella visiva”; occorre però, non mostrare quando si parla e non parlare
quando si mostra , in quanto percezione ed evocazione non possono avvenire simultaneamente. Infatti la
percezione visiva disturberebbe il processo evocativo – cioè l’attenzione - di un bambino “uditivo” e,
viceversa, la percezione uditiva ostacolerebbe l’evocazione, cioè l’attenzione, di un bambino “ visivo”).
Una volta che il percepito sia stato trasformato in oggetto mentale grazie all’evocazione (cioè grazie al
gesto mentale dell’attenzione, sia questo di natura uditiva o visiva) si può anche parlare e mostrare
contemporaneamente, in quanto , l’attività mentale dello studente non sarà più impegnata nel processo
evocativo e sarà libera di eseguire un nuovo compito, ad esempio quello di” comprendere”, cioè di
confrontare ( cercando ad esempio somiglianze o differenze) il disegno alla lavagna, o le parole
dell’insegnante, con l’oggetto mentale, visivo o uditivo, che si è appena messo in testa.
Prof. Valeria Bocchini ed Ermanno Tarracchini: Che cosa è la pedagogia della Gestione Mentale
Pedagogia dell'attività mentale
Introduzione alla pedagogia della gestione Mentale.
Lessico e concetti
Bibliografia
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La Gestione Mentale è' una teoria ed una pratica pedagogica, elaborata in Francia da Antoine de La Garanderie
(Ampoigné, 1920).
Questi, - egli stesso allievo con difficoltà di apprendimento-, dopo aver recuperato il suo ritardo scolastico e
acquisito numerosi diplomi, una volta divenuto professore di filosofia in classi di insegnamento superiore, si è
interrogato sulle ragioni della riuscita o dell'insuccesso scolastico.
Ebbe l'idea, dunque, di interrogare gli allievi migliori con i quali lavorava a proposito della loro riuscita e cercò
di comprendere "come" ciascuno di loro operava per prestare attenzione, memorizzare, riflettere, immaginare.
I dati raccolti nel corso delle sue esperienze "in situazione" lo hanno portato ad identificare diversi "profili di
apprendimento" degli allievi, profili organizzati a partire dalle loro "abitudini mentali", le quali non sono altro
che i metodi personali di lavoro di cui gli allievi non sono consapevoli ma che, nella vita scolastica,
determinano dei veri e propri "comportamenti pedagogici" osservabili.
I comportamenti pedagogici individuali sono una diretta conseguenza delle "abitudini evocative" che ciascuno
mette in atto per codificare le informazioni, i messaggi, i contenuti di conoscenza da acquisire. Queste
"abitudini" mentali poggiano, in sintesi, su due tipi fondamentali di "supporto": il primo è uditivo ed è
rappresentato dalle immagini di suoni e parole "udite" con la mente; il secondo è visivo ed è costituito da
immagini "viste" con la mente.
L'evocazione nel modo visivo si appoggia su immagini visive che il soggetto rivede mentalmente; l'evocazione
nel modo uditivo si appoggia su immagini uditive (suoni e parole) risentite mentalmente.
La forma di evocazione dominante favorisce o impedisce l'apprendimento a seconda della sua "somiglianza" o
meno rispetto al supporto percettivo di cui si serve l'insegnante nella presentazione dell'informazione o
nella richiesta di riutilizzo dell'informazione.
Secondo A. de La Garanderie, dunque,
le abitudini evocative sono all'origine delle attitudini scolastiche: la capacità scolastica non è innata ma è il
risultato dell'efficacia evocativa nel riutilizzare un'informazione.
Il compito fondamentale della "pedagogia dell'evocazione" dovrebbe essere, di conseguenza, la
"differenziazione" della presentazione del contenuto, la "differenziazione" delle consegne di evocazione e la
diversificazione dei modi di restituzione e di controllo.
Pedagogia dell'attività mentale:lessico e concetti
Evocazione: è l’interiorizzazione mentale di ciò che è stato percepito con gli organi di senso elaborata dalla
corteccia cerebrale. L'informazione, infatti, compie un determinato percorso: una volta registrata dagli organi di
senso (codificazione percettiva), passa alla corteccia cerebrale (codificazione cerebrale) che la elabora sotto
forma di "immagine mentale evocata". Esistono immagini mentali evocate di natura visiva e altre di natura
uditiva ( non ci occuperemo per il momento di quelle olfattive, tattili, gustative, cinestesiche). Il concetto di
evocazione (processo dinamico e volontario ) è diverso dal concetto di rappresentazione mentale (processo
statico: l’immagine è già lì) ed é più limitato di quello di immagine mentale. L'evocazione é un'attività mentale
che richiede lo stato di veglia per essere eseguita. I sogni sono immagini mentali ma non sono delle evocazioni.
Nel processo di apprendimento, l'evocazione rappresenta una tappa intermedia: viene dopo la presentazione
dell'informazione e prima della sua utilizzazione attraverso la consegna.
Abitudini evocative: E'il "modo di evocare" individuale, cioè il modo di codificare l'informazione percepita ai
fini della sua preservazione, privilegiato spontaneamente fin dall'infanzia (dipenderebbe da automatismi
acquisiti, secondo il modello del riflesso condizionato). E' sempre possibile acquisirne di nuove, a ogni età. Può
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essere di tipo visivo o di tipo uditivo. Sia il "modo di evocare" che il "tempo" di evocazione" personali sono
determinanti per quanto riguarda il "modo di restituire" l'informazione. Infatti, colui che recupera
spontaneamente l'informazione esponendola a sè stesso verbalmente sarà facilitato da una restituzione verbale
mentre colui che codifica in immagini visive riuscirà più agevolmente a restituirla in modo grafico-pittorico o
con schemi e mappe concettuali.
Famiglie evocative: Le principali evocazioni si possono raggruppare in due famiglie: quella delle evocazioni
uditive ed quella delle evocazioni visive. Ognuna di queste due famiglie é divisa in due modi: il modo "diretto"
e il modo "auto"
Uditivo-Diretto= A (l'evocato non contiene l'immagine mentale della propria voce)
Auto-Uditivo= AA (l'evocato contiene l'immagine mentale della propria voce)
Visivo Diretto =V (l'evocato non contiene l'immagine mentale della propria persona)
Auto-Visivo= AV (l'evocato contiene l'immagine mentale della propria persona)
Introspezione pedagogica: é l'atto di ritorno sul proprio modo di apprendere. Gli oggetti mentali sono
invisibili, inudibili, impalpabili. Uno dei modi per raggiungerli per rendersene conto é l'introspezione.
Considerando l'inevitabile interferenza con l'ambito psicologico, le conseguenze che verranno tratte insieme
all'allievo al fine della sua riuscita saranno proposte di natura rigorosamente pedagogica, anche ai fini
dell'autonomia dell'apprendimento.
(Per es. attraverso la ri-costruzione di un comportamento cognitivo: che cosa ho dovuto fare mentalmente per
scrivere questa relazione?....Con quali evocazioni: parole scritte, schemi, discorsi interiori, scene....ecc..? )
Dialogo pedagogico: è il dialogo che l'insegnante porta avanti con gli allievi per aiutarli a "guardarsi dentro".
E', quindi, lo strumento di accompagnamento all'introspezione pedagogica al fine di fare prendere coscienza,
ai discenti, delle loro risorse mentali, delle modalità di esecuzione dei loro gesti mentali per fare dire loro
come sono riusciti a svolgere una consegna scolastica e per condurli a prendere consapevolezza sia delle
strategie mentali attivate sia di quelle necessarie per integrarle o compensarle. Il fine è quello rendere espliciti i
diversi tipi di strategie mentali e di consentire agli allievi di scegliere quale di questi è più produttivo per loro.
Operazioni mentali (gesti mentali)
sono le principali "attività mentali" chiamate in causa nelle attività di apprendimento: attenzione,
memorizzazione, comprensione, riflessione, immaginazione.Un loro utilizzo funzionale può essere
insegnato.
Il gesto mentale é un programma di funzionamento mentale diretto da uno dei seguenti progetti:
1.Trasformare in evocazione ciò che si per percepisce con i 5 sensi = attenzione;
2.Collocare l'evocato nell'immaginario dell'avvenire = memorizzazione;
3.Confrontare (andata e ritorno) il percepito con il suo evocato = comprensione,
4.Confrontare l'evocato del percepito con evocati installati precedentemente = riflessione;
5.Ricercare e provocare l'inedito, l'imprevisto ricercare in ciò che é visto o sentito ciò che può essere visto o
sentito modo diverso = immaginazione.
Percezione: E' il risultato della registrazione, da parte di un soggetto, di una modificazione dell'ambiente basata
sui cinque sensi. per questo sono necessarie buone funzionalità soprattutto uditive e visive
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Se l'alunno non ha una buona vista o ha una cattiva percezione uditiva, la sua capacità di attenzione é
immediatamente diminuita. Per tutte le anomalie della vista la tecnologia, per apportare le correzioni
necessarie, é molto sviluppata. Non molto tempo fa un bambino fu giudicato debole mentale perché non
riusciva ad imparare a leggere. ...aveva semplicemente bisogno di un paio di occhiali!
Le anomalie della vista sono più facilmente individuabili e correggibili rispetto a quelle dell'udito per varie
ragioni. Una prima ragione é dovuta alla differente natura del messaggio scritto rispetto a quello parlato. Una
parola scritta resta e permette all'alunno di accorgersi delle sue eventuali difficoltà di percezione. Una parola
detta non resta e, se non é stata percepita, poteva essere stato a causa di una distrazione dell'alunno? Spesso,
inoltre, in caso di difficoltà di comprensione da parte dello studente l'adulto ripete la frase, rallentandone la
pronuncia ed aumentandone il tono, senza immaginare che questo può servire proprio a compensare e a coprire
un'eventuale difficoltà uditiva.
Inoltre le protesi acustiche sono lontane dalla perfezione di quelle visive
Se l'efficacia correttiva delle protesi acustiche fosse paragonabile a quelle della vista senz'altro ci si
preoccuperebbe di più di analizzare e diagnosticare tutte le possibili difficoltà uditive e si insisterebbe
maggiormente sulla gravità dell'handicap scolastico di cui sarebbero la causa.
Un alunno che non percepisce bene le parole tenta continuamente di ridirsele mentalmente per verificare
l'esattezza della sua percezione ma in questo modo accumula un forte ritardo sul discorso dell'insegnante che,
ignaro delle difficoltà del suo alunno, prosegue la sua spiegazione.
Accertata una buona percezione, o corretta quella alterata, occorre fare in modo che la percezione senza
attenzione (vedere/sentire) diventi percezione con attenzione (guardare/ascoltare)
La percezione senza attenzione serve come trampolino per percepire con attenzione. Se cade questa tensione la
mente non può più essere attenta, sia nel caso che si perda nel labirinto delle cose viste (o sentite) ma delle quali
nessuna é guardata (o ascoltata) sia che venga assorbita nell'identità della cosa guardata (o ascoltata) al punto di
perdersi dentro essa.
Attenzione: Guardare o ascoltare con il progetto di trasformare le percezioni in immagini mentali
(costruzione dell'evocato), cioè di rivedere o riascoltare mentalmente il percepito
Il processo dell'attenzione si attiva fra due oggetti: uno é l'oggetto stesso al quale si deve prestare attenzione
:guardare la frase scritta alla lavagna, e l'altro é l'oggetto di distrazione: vedere il volo di un uccello fuori dalla
finestra, oppure ascoltare la frase pronunciata dall'insegnante e sentire il canto di un uccello (l'attenzione si
attiva e si mantiene nel continuo passaggio dal visto non guardato al visto guardato o dal sentito non ascoltato
al sentito ascoltato) Queste distrazioni sono in realtà al servizio dell'attenzione in quanto, tale periodo di tempo,
serve al soggetto per la costruzione dell'evocato: fare esistere mentalmente, sotto forma di immagine mentale
(visiva od uditiva), l'oggetto percepito costituisce la struttura del gesto mentale dell'attenzione.
Il progetto dell'attenzione é il passaggio all'esistenza mentale del percepito, in presenza dell'oggetto percepito
stesso. (in pratica soccorre effettuare un avanti e indietro fra l'oggetto percepito e la sua immagine mentale)
Memorizzazione: é il passaggio all'esistenza mentale del percepito (evocato) e alla sua permanenza anche in
assenza dell'oggetto stesso percepito, con il progetto di conservare e richiamare l'evocato per una sua
utilizzazione futura. Per fare questo occorre sapere ed immaginare in anticipo la situazione di utilizzazione
dell'informazione (si conserva la memoria solo per, e dentro, un avvenire immaginato)
Comprensione: la comprensione é il gesto mentale che ha il progetto di dare significato alla cosa percepita,
di interrogarsi, di saper spiegare o saper applicare. L'intuizione/costruzione del significato scaturisce dai
confronti e dagli aggiustamenti che il soggetto realizza tra il percepito e l'evocato di questo percepito. (In
pratica si devono praticare delle andate e ritorno tra il percepito e gli evocati di confronto che vengono
installati)
22
Esistono due tipi di progetto di comprensione:
la comprensione spiegazione:
(es. comprendere il funzionamento di un apparecchio fotografico spiegandosi che una pellicola di una data
sensibilità, per essere impressionata ha bisogno di una certa quantità di luce che dipende dalla luminosità
esterna, dal tempo di esposizione, dall'apertura del diaframma..ecc...)
la comprensione applicazione:(es. come posso utilizzare questa formula? Avere capito come si applica una
formula o uno schema operativo)
Riflessione: mobilita delle evocazioni anteriori per confrontarle (fletterle) a dei nuovi evocati che si presentano,
con il progetto di risolvere un problema, giudicare, stimare....
C'é ri-flessione poiché c'é un ritorno, a partire dal problema, alla legge o alla regola che deve essere evocata;
poi occorre applicare ( flettere ) la regola al problema stesso per cercare di dedurne la risoluzione
Riflessione di un visivo: trae maggio beneficio da una modalità induttiva (dall'osservazione del particolare al
generale)
Riflessione di un uditivo: trae maggior beneficio da una modalità deduttiva (dal principio generale, legge o
regola, al particolare, all'esempio)
Immaginazione: E' un gesto mentale. che si distingue dalla fantasticheria per la presenza di un progetto,
quello di provocare e accogliere l'inatteso, ricercando in ciò che si é visto, ciò che può essere visto in altro
modo, in ciò che si é sentito; ciò che può essere inteso in altro modo.
Abbiamo due forme di immaginazione:
scoperta = cercare la presenza di una risposta nascosta nell'ambiente che ci circonda (lo scopritore avverte
“L’assenza di una presenza”)
invenzione = interrogarsi sull'assenza di ciò che si vuole inventare, utilizzando e trasformando ciò che si trova
nel proprio ambiente. (L’inventore avverte la presenza di un’assenza)
Le costanti
Le costanti sono degli indicatori del funzionamento mentale delle abitudini evocative visive o uditive Ogni
abitudine evocativa ha le sue costanti che sono molto vicine alle modalità di trattamento delle informazioni da
parte dei due emisferi cerebrali
Le abitudini evocative uditive si avvalgono delle seguenti costanti:
•
modalità lineari ( sequenziali ), analitiche, temporali
23
•
ragionamenti deduttivi, che vanno dal generale al particolare (dalla legge e dalla regola all'esempio,
all'applicazione, al problema) La coerenza dell'insieme viene creata dal movimento del pensiero che
segue un procedimento che va dall'inizio alla fine.
Le abitudini evocative visive si avvalgono delle seguenti costanti:
•
modalità globali, sintetiche, spaziali (l'immagine visiva contiene al primo impatto un insieme di dati
che appaiono simultaneamente e in modo sintetico come quando si guarda un paesaggio. L'idea di
partenza implica istantaneamente il riferimento finale(il soggetto può fare degli "zoom in avanti" sulla
sua immagine mentale, globalmente inquadrata fin dall'inizio, e in questi zoom può eventualmente
effettuare un'analisi spinta dei dettagli) ha difficoltà a comunicare il suo pensiero in modo lineare (la
foresta rischia di nascondere l'albero)
•
ragionamenti induttivi, che vanno dal particolare al generale (preferisce avere un esempio prima di
arrivare alla regola) e s'appoggia sulle parole di legame che articolano il ragionamento (dunque, ecco,
perché, invece...ecc.) con una immaginazione dominante il soggetto può avere grande facilità di
improvvisazione senza avere bisogno di prevedere il seguito. Un'eccessiva analisi del dettaglio può però
distogliere il soggetto dalla linea direttrice che guida il suo pensiero (l'albero rischia di nascondere la
foresta)
I parametri : il parametro (in ambito pedagogico) é il campo(o livello di apprendimento) in cui avviene
l'evocazione: P1= quello del reale, concreto ; P2=quello degli apprendimenti automatici; P3=quello degli
apprendimenti logici, P4=quello dell'immaginazione creativa. Infatti, oltre alla forma di evocazione, uditiva
o visiva, si distinguono 4 livelli di apprendimento a seconda del tipo di processo, od operazione, che costruisce
l'evocazione. Si può evocare, allora, in una certa famiglia o lingua madre (V, A) e in un certo parametro:
I parametri 1 e 2 (P1 e P2) raggruppano delle operazioni dette "semplici" nelle quali il soggetto riproduce
senza trasformare il contenuto
P1 = evocazione del quotidiano: delle cose, degli esseri, delle scene, delle persone
P2 = evocazione delle parole (ortografia lessicale) delle cifre, di ciò che si sa a memoria: in modo automatico,
meccanico.
I parametri 3 e 4 (P3 e P4) raggruppano delle operazioni dette "complesse" nelle quali il soggetto trasforma un
contenuto,
P3 = evocazione del ragionamento logico, dei principi e delle relazioni: leggi di causa-effetto, principi di
conseguenza , analogie, classificazioni spazio-temporali, seriazioni inclusioni-esclusioni , ....ecc..
P4 = evocazioni di completamento, di prolungamento, di innovazione.
Induzione: E' un'iniziativa mentale complessa che va dal particolare al generale, dall'esempio alla
generalizzazione (Es. in biologia l'osservazione del particolare induce la formulazione della legge generale)
Deduzione: E' un procedimento mentale complesso che va dal generale al particolare, dalla regola alla sua
applicazione (Es. in matematica dalla formula o legge generale deduco la risoluzione del caso particolare, del
problema)
Progetto: Indica una direzione consapevole, data dall'attività mentale, per l'esecuzione dei gesti mentali. (La
realizzazione di un gesto mentale é sempre sottesa ad un progetto)
Pedagogia di sostegno:
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è costituita non dalla ripetizione semplificata delle basi di una determinata disciplina ma da un esame più
approfondito e generale dei metodi personali di lavoro degli alunni.
Osservazione pedagogica: è l'indagine sul modo in cui gli allievi lavorano, cioè sui metodi personali di lavoro,
che possono essere differenti e non efficaci per tutti.
Diagnosi ed addestramento pedagogico: sono i mezzi da mettere in atto per aiutare gli allievi ad adattarsi ai
loro compiti scolastici.
La diagnosi pedagogica non serve a dedurre una inabilità ma mostra quali siano i parametri gestiti e, quindi,
inferisce le capacità e le incapacità scolastiche che ne sono la conseguenza. Il suo ruolo è fondamentalmente
positivo.
L'addestramento pedagogico non è una terapeutica ma l'insieme degli esercizi che sono destinati a sviluppare o
a rendere gestibili i parametri pedagogici "non gestiti" dall'allievo.
Bibliografia sulla Pedagogia della Gestione Mentale
Testi scritti da A. de La Garanderie editi da: Le centurion/Bayard éditions
1) Les profils pedagogiques, 1980
(I profili pedagogici, scoprire le attitudini scolastiche, La nuova Italia, 1991 )
2)Pédagogie de moyens d'apprendre, 1982
3)Le dialogue pédagogique avec l'élève, 1984
4) Comprendre et imaginer, 1987
5)Défense et illustration de l'introspection, 1989
6)Pour une pèdagogie de l'intelligence, 1990
7) La motivation, 1991
8) L'intuition, 1995
9) Les grands projets des nos petits, 2000
Presso altri editori
1) Critique de la raison pédagogique, Nathan 1997
2) Une pedagogie de l'entraide, Editions Ouvrières, 1974
Opere di A. de La Garanderie scritte in collaborazione
1)Tous les enfants peuvent reussir
Antoine de La Garanderie & Genevieve Cattan, La Centurion, 1988
2) On peut tous toujours reussir
A. de La Garanderie & Elisabeth Tingry, Bayard Editionsa, 1991
3) Reussir ça s'apprend
A. de La Garanderie & Daniel Arquie, Bayard Editions, 1994
Di altri autori
1)Jean-Paul Chich, Michelle Jacquet, Nadette Merieué, Michele Verneyre
"La Pratica Pedagogica della gestione Mentale"
Ed. del Cerro (1996 )
(Tit. orig."Pratique Pedagogique de la Gestion Mentale" Ed.Retz ,1991)
AIMC
CIDI FADIS-APISMO MCE PROTEO FARE SAPERE
organizzano il seminario di aggiornamento per docenti e dirigenti scolastici
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Martedi 2 ottobre 2001 dalle ore 8:30 alle ore 13:00
Sede di lavoro : aula magna ITI Corni, via Leonardo da Vinci, MODENA
UNA PILLOLA DI TROPPO PER UNA DIAGNOSI DI TROPPO
Medicalizzazione o pedagogia ?
Presiede Cinzia Principi, Presidente di ProteoFareSapere Emilia Romagna con il contributo di:
Assunta Barbieri per APIS-MO
Contri Cristina per MCE,
Marchi Dimer per CIDI,
Giuseppina Caselli per AIMC,
Relatori
Valeria Bocchini insegnante per il sostegno Scuola Media Statale “Cavour” Modena
Pedagogia della Gestione Mentale: Progetti di senso e atto attentivo
Ermanno Tarracchini insegnante per il sostegno Scuola Media Statale “Cavour” Modena
Valorizzare le scienze pedagogiche: dialettica della “Gestione Mentale” e della “Gestione Sociale” dei problemi
di attenzione e di (iper)attività e…di altri ancora.
Claudio Ajmone , psicoterapeuta, presidente OISM (Osservatorio Italiano Salute Mentale):” ADHD uso
ideologico della diagnosi e dei farmaci”
Raffaele Iosa ispettore, responsabile nazionale dell’osservatorio integrazione alunni disabili
Ritalin: metafora dell’incapacità della società di risolvere il disagio dei ragazzi
Camillo Valgimigli psichiatra, psicoterapeuta
Psicofarmaci e bambini: le scorciatoie in risposta ai disturbi del comportamento infantile.
I Davide della pedagogia contro i Golia della NPI dell’età evolutiva
Dibattito
Conclusioni
Omer Bonezzi, presidente nazionale Proteo Fare sapere.
Modalità di iscrizione
Inviare un fax di conferma allo 059 226418 o una e-mail a [email protected] oppure in presenza.
Il corso essendo organizzato da soggetto qualificato per l’aggiornamento(vedere DM 270/01) è
automaticamente autorizzato ai sensi dell’art.14 CCNI 1998/2001 e dispone dell’autorizzazione alla
partecipazione in orario di servizio.
Appello del convegno
“Si alla mobilitazione pedagogica del pensiero
No all'abuso di farmaci per i bimbi "vivaci e disattenti"
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- Per contribuire al dibattito sui rischi legati all’introduzione del Ritalin nelle farmacie italiane (e quindi nelle
scuole), quale terapia farmacologica della cosiddetta “ Iperattività o sindrome da disturbi dell’attenzione”,
riteniamo importante spiegare le ragioni pedagogiche e scientifiche della nostra ferma opposizione all’uso di
farmaci che alterino pericolosamente la chimica del cervello, quando esistono efficaci teorie e pratiche
pedagogico-didattiche in grado di contribuire al superamento di tali difficoltà (tra cui la "Gestione mentale" di
A. De La Garanderie), onde evitare la psichiatrizzazione permanente dei bambini.
Infatti, non basta dire al bambino irrequieto e distratto, "Stai fermo, stai attento!" Occorre spiegargli cosa deve
fare per prestare attenzione, ( cioè, secondo la teoria e la pratica della gestione mentale, insegnargli ad evocare
con maggiore consapevolezza: osservare per rivedere mentalmente o ascoltare per riascoltare mentalmente).
Occorre insegnargli , soprattutto, a “ muovere il pensiero “ per incanalare nella direzione giusta le sue energie,
secondo un suo progetto di ricerca di senso, logico o creativo, che lo renda più autonomo e padrone del suo
movimento e delle sue relazioni spazio-temporali con l’ambiente circostante.
Con la diffusione delle tecnologie multimediali, il bambino, bombardato da stimoli percettivi e poco “ascoltato”
dagli adulti, non ha il tempo di evocare e di memorizzare, non impara a riflettere e non ha il tempo di
immaginare già, durante la percezione di un oggetto, le azioni e le possibili conseguenze implicate nel suo uso o
nelle sue relazioni con il mondo circostante, cioè non ha il tempo di interiorizzare l’azione.
La stigmatizzazione psichiatrica messa in atto nei confronti delle difficoltà del bambino con la diagnosi di
“Iperattività e/o sindrome da disturbi dell'attenzione”, in sigla “Adhd”, oltre a sottrarre il bambino alle cure
parentali dirette, maschera, a nostro parere, un disagio che dovrebbe essere innanzi tutto un problema di
pertinenza pedagogica e di pertinenza pediatrico-neurologica solo in quei casi in cui sia scientificamente
provata una compromissione neurologica o, comunque, organica.
Crediamo che, si possa promuovere una riflessione etica e deontologica ed una nuova ricerca , pratica e teorica
che, valorizzando le loro competenze professionali, permetta agli insegnanti, sia di riappropriarsi delle loro
capacità d'ascolto e delle loro capacità "terapeutiche" (terapeutiche nel senso etimologico della parola, cioè
"prendersi cura di..."), sia di attrezzarsi di nuovi e più efficaci strumenti pedagogici atti a ridurre l'automatismo
della delega ed il rischio di psichiatrizzazione delle difficoltà d'apprendimento e d'integrazione.
La ripresa di una rigorosa ricerca e sperimentazione pedagogico-didattica, potrebbe valorizzare la potenziale
capacità della scuola di mettere in atto una prevenzione ed una metodologia didattica delle difficoltà
d'apprendimento che arricchirebbe l'offerta formativa, della scuola stessa, di una nuova lettura pedagogica di
tali difficoltà. Una lettura che offrirebbe al bambino ed ai suoi genitori maggiori garanzie di correttezza sia nel
momento della diagnosi che in quello dell'individuazione degli interventi di recupero e che, anziché mirare alla
"stupefacente" stimolazione/immobilizzazione farmacologica dell'attività mentale, miri soprattutto alla
"mobilitazione" pedagogica del pensiero logico e creativo del bambino Omer Bonezzi, Presidente Proteo Fare Sapere
Luciano Corradini presidente UCIIM
Bruno Forte presidente AIMC
Raffaele Iosa, Resp. Osservatorio Integrazione alunni H. Ministero Pubblica Istruzione
Guido Pesci, Presidente A.N.P.E.C.
Nicola Quirico, Presidente F.A.D.I.S.
Gabriella Romano, Segretaria M.C.E.
Armando Rossini, Presidente A.N.D.I.S.
Alba Sasso, Presidente C.I.D.I.
Mario Tortello pedagogista Università di Torino
Camillo Valgimigli , medico psicoterapeuta Modena…(continua)
Cinzia Principi: Introduzione ai lavori della giornata: Dal TG2 serale del 29/08/2001
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“Talvolta i bambini fanno davvero saltare i nervi ma questa notizia che arriva degli Stati Uniti è proprio
sconcertante: tranquillanti a scuola per tener buoni gli studenti più irrequieti.
Ma come sono buoni questi bambini, buoni, attenti e studiosi, ma più che buoni alcuni di loro sono po’
impasticcati. Le mammine hanno somministrato loro un farmaco che si chiama Ritalin anti ADHD (Attention
Deficit Hyperactivity Disorder) che ha il potere di far stare tranquillo un bambino a scuola. Basta una
pasticchina ogni due ore, ma adesso sta arrivando una pasticcona che farà stare attenti per sei ore. E lo
stereotipo della famiglia americana tutta serenità in compresse viene pubblicizzato sulle riviste mediche.
Contenta la mamma, fiero il papà, studiosi i bambin,i felici anche il cane e il gatto .Tutto merito dunque del
Ritalin un’anfetamina che eccita il sistema nervoso e forse di per sé non è nociva, però lo diventa quando se ne
abusa e molti ragazzini e ragazzine lo fanno, presentando al farmacista la falsa ricetta medica o rivolgendosi
ai coetanei che di fatto diventano spacciatori. si perché queste pastiglie sono droghe anche se in gergo sono
chiamate dai teenagers con un nome innocuo Pineapple, cioè ananas. E non esiste soltanto il Ritalin ci sono
almeno altri cinque preparati che assicurano gli stessi effetti più o meno. Negli ultimi cinque anni le loro
prescrizioni sono aumentati in America del 37%. La polemica infuria sulla stampa dopo le proteste di molti
consumatori che temono effetti collaterali gravi. Si questi bambini diventeranno pure più studiosi ma che cosa
succede in realtà nelle loro testoline?”
Contributo di Maria Assunta Barbieri*: Pedagogia dei genitori e degli insegnanti o medicalizzazione?
Come associazione di insegnanti di sostegno per l’integrazione scolastica degli alunni portatori di handicap,
abbiamo dato la nostra adesione a questo seminario perché ne condividiamo le preoccupazioni di fondo che il
titolo suggerisce. Consideriamo inoltre questo momento come la fase iniziale di un’attività di formazione e
informazione che, sia l’associazione che la federazione cui apparteniamo, intendono portare avanti, come del
resto hanno già fatto riguardo ad altre tematiche del sostegno.
Per sgombrare il campo da facili equivoci, precisiamo che non siamo pregiudizialmente contrari ai farmaci: ci
sono situazioni in cui questi sono la risposta principale ed è solo grazie ad essi che si riesce a migliorare la
qualità di vita tanto di colui che vive il problema quanto di coloro che gli stanno accanto. Tuttavia ci sentiamo
di dover mettere in guardia contro diagnosi controverse e contro un uso, che potrebbe diventare indiscriminato,
di farmaci che, a detta di molti esperti, non sono ancora sufficientemente sicuri e sperimentati, ma anzi
sembrano essere la causa di danni postumi molto seri.
Pensiamo pertanto che, prima di giungere alla soluzione medica, si possano tentare altre strade meno
pericolose. L’attenzione, l’ascolto, la condivisione, il rispetto, l’aiuto sono ciò che a molti nostri ragazzi manca
e che ci viene chiesto anche attraverso atteggiamenti e comportamenti che possono risultare irritanti e
provocatori. Sta a noi educatori, e con questo intendiamo genitori, personale docente e non docente della
scuola, educatori, eccetera, cogliere queste richieste e cercare di dare loro risposte con le competenze proprie
delle nostre professioni, con la nostra esperienza, col nostro senso di responsabilità, con la nostra disponibilità a
coinvolgerci e a lasciarci coinvolgere.
E’ necessario che chiunque si occupa di educazione torni a farsi carico del suo compito: che gli insegnanti
facciano gli insegnanti, che i genitori facciano i genitori, che gli educatori a qualsiasi titolo facciano ciò che è di
loro competenza.
Noi per primi sappiamo che la strada che indichiamo non è affatto facile e neppure sicura – ma a questo
proposito, del resto, non lo è nemmeno quella indicata dalla medicina – tuttavia la riteniamo la più rispettosa
del benessere psico-fisico dei ragazzi, delle loro necessità, della loro dignità.
Maria Assunta Barbieri
(* presidente APISMO, Associazione Provinciale di Modena degli insegnanti per il sostegno)
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Valeria Bocchini
LA PEDAGOGIA DELLA GESTIONE MENTALE: “PROGETTI DI SENSO E ATTO ATTENTIVO”
I) PREMESSA
Noi che siamo qui, oggi, condividiamo il “Riprendiamoci la Pedagogia” di Mario Tortello, pedagogista
dell’Università di Torino scomparso prematuramente nel giugno scorso.
Condividiamo, cioè, la necessità di riappropriarci di un punto di vista pedagogico ed educativo nel prendere in
considerazione e nel ri-mediare il profondo disagio manifestato a scuola da molti alunni il cui potenziale
mentale, spesso, non riesce ad emergere perché non sappiamo comprendere fino in fondo il contenuto dello loro
“intenzioni” per esaminarne il fondamento, perché non sappiamo mettere in opera momenti “pedagogicamente
rilevanti”, a partire, ad esempio, da una “osservazione pedagogica” dei loro comportamenti e dei loro processi
mentali.
Questa osservazione pedagogica diventa una discriminante di eccezionale importanza quando ci vengono
affidati bambini “congelati”, se così si può dire, in diagnosi quale quella di “Iperattività e disturbi
dell’attenzione”, in sigla ADHD, caratterizzata da sintomi quali, tanto per citarne qualcuno: ha difficoltà a
mantenere la concentrazione; sembra non ascoltare; fatica a seguire le istruzioni; si distrae facilmente; si
mangia le unghie; evita o non ama i compiti che richiedono uno sforzo sostenuto; giocherella con mani e piedi;
si agita sulla sedia; ecc.
Ebbene, va detto con molta chiarezza: la nostra esperienza di insegnanti specializzati per il sostegno agli alunni
in difficoltà di apprendimento e di integrazione ci porta quotidianamente ad interagire con alunni che
presentano questi sintomi, elencati come indicatori della ADHD.
Nel corso di tanti anni di insegnamento, però, ci siamo resi conto che tali difficoltà si manifestano con
comportamenti COMUNI alla maggior parte degli alunni che frequentano la scuola dell’obbligo.
Per impedirne la stigmatizzazione, noi insegnanti dovremmo raccogliere la sfida umana e pedagogica messa in
opera da questi alunni che sono, in realtà, per così dire, “portatori sani” di problematiche tipiche di un’età
contrassegnata da rapidi cambiamenti fisici e ormonali, da esuberanza e relazioni conflittuali con coetanei ed
adulti, dall’emergere di deprivazioni affettive e culturali.
Per inciso: tali problematiche sono, oltre tutto, aggravate dalla difficoltà della scuola stessa a motivare l’allievo
con un’adeguata individualizzazione del processo di apprendimento-insegnamento, anche a causa dell’ormai
annosa mancanza di un’adeguata ricerca e sperimentazione pedagogica nella scuola italiana.
Ma tutte queste constatazioni, peraltro necessarie, non sono sufficienti a promuovere la comprensione di come
è organizzato il pensiero di questi alunni per aiutarli ad organizzarsi in un modo più favorevole alla loro
crescita e alla loro riuscita scolastica.
L’insuccesso e l’abbandono scolastico non sono mai stati una semplice umiliazione individuale passeggera ma
hanno sempre rivestito un carattere sociale ed umano che non si può, ora più che mai, ignorare.
Occorre, dunque, cominciare a rilevare PEDAGOGICAMENTE il dato concreto riferito al numero crescente di
bambine e bambini che, a scuola -spesso unico ambiente educativamente significativo da loro frequentatohanno bisogno di venire a sapere non solo “cosa comprendere” ma anche “come fare per comprendere”.
Da questo punto di vista, allora, l’inquietudine, l’impulsività, l’estrema mobilità fisica, le difficoltà di
attenzione e concentrazione, il rifiuto delle regole di convivenza e dell’apprendimento che
caratterizzano la presenza a scuola dei cosiddetti alunni “iperattivi” non sono i “sintomi” osservabili
di una malattia ma, spesso, possono essere l’effetto del loro non sapere “come fare”, del loro ignorare
il metodo da impiegare adatto a comprendersi e comprendere, cioè ad avere l’intuizione del senso di
sé, degli essere e delle cose, vicine e lontane.
Noi riteniamo, tuttavia, che esista una via di soluzione pedagogica all’insuccesso scolastico di questi
bambini.
Di conseguenza, se ci poniamo, come molti di noi hanno scelto di fare, in un’ottica deontologica ed etica di
promozione di una lettura rigorosamente pedagogica delle difficoltà di apprendimento e di integrazione,
dobbiamo domandarci:
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COSA PUO’ PROPORRE LA PEDAGOGIA PER PREVENIRE I RISCHI DI INSUCCESSO, DI
MALESSERE, DI INFELICITÀ A SCUOLA?
II) PEDAGOGIA DEI PROGETTI DI SENSO: INCONTRO CON LA GESTIONE MENTALE DI A. DE LA
GARANDERIE
In realtà, la Pedagogia non sempre ha saputo fornire all’alunno le informazioni e gli strumenti necessari
per la gestione consapevole dei suoi PROGETTI DI SENSO.
Cos’è un “progetto di senso”?
E’ quel progetto che, per chi se lo dà, consapevolmente o inconsapevolmente, ha il significato di raggiungere
uno scopo, vale a dire la soddisfazione di un bisogno o di un’altra intenzionalità.
Per esempio, il bambino molto piccolo che manifesta i suoi bisogni con il pianto e la sua soddisfazione con
gridolini di gioia non è, per così dire, rinchiuso in “quello” specifico momento (ha fame, ha sonno, ha male da
qualche parte, .... oppure è sazio, è riposato, è felice che la mamma gli sia vicino, ...) ma ha un suo “progetto di
senso”: nel primo caso, che lo stato di bisogno finisca; nel secondo, che lo stato di benessere si prolunghi.
Nei primi mesi di vita, altre tappe dello sviluppo del bambino testimoniano la costituzione, di innumerevoli
“progetti di senso” , ad esempio, il movimento della mano per impadronirsi di un oggetto e poi lasciarlo
cadere.
Il lancio è comandato da progetti che gli permettono di viverne il senso: il bambino lancia gli oggetti per sentire
il loro rumore a contatto con il suolo e perché vuole che li si raccolga per continuare il suo gioco. Ne è una
testimonianza la sua gioia quando gli adulti che lo circondano si adattano al senso che egli dà ai suoi atti e
raccolgono ciò che lui lascia cadere e glielo porgono.
Il fatto di essere riconosciuto nel suo progetto o intenzione ha un effetto molto felice.
Anche l’apprendimento della deambulazione rivela scopi specifici riferibili a diversi progetti di senso e di
azione: alcuni bambini girano in tondo, si preoccupano soprattutto di mantenere l’equilibrio e raggiungono
un’enorme soddisfazione quando sanno fare ciò che è necessario per mantenerlo, manifestando un’intelligenza
vivace delle proprie sensazioni fisiche. Trovano il loro equilibrio nel padroneggiare i movimenti del loro corpo.
Sentono il loro corpo quando sono in movimento.
Altri bambini si precipitano in avanti, camminano per raggiungere qualcuno o qualcosa e ignorano lo spazio
che percorrono e il modo in cui lo fanno. Il progetto di raggiungere qualcuno o qualcosa cancella l’esigenza
della conquista dei mezzi per mantenere l’equilibrio.
Ciò che è in causa, in realtà, è il costituirsi, nella coscienza del bambino, di progetti di senso che siano al
servizio dello sviluppo della sua intelligenza -intesa come comprensione di sè e del mondo circostante-.
Attraverso i propri progetti di senso, i bambini accedono al significato delle situazioni che vivono e delle
informazioni che quelle situazioni veicolano.
Ma in che modo i bambini hanno intelligenza delle situazioni? Come arriva loro il senso?
Certi bambini hanno intelligenza delle situazioni attraverso le immagini visive ; altri accedono al senso delle
situazioni della loro vita attraverso i suoni, le voci, le parole che sentono; altri ancora attingono al senso del
mondo che li circonda palpando con le loro dita gli oggetti, testando tattilmente le loro caratteristiche. A questi
ultimi la vista e l’udito servono solamente ad attivare delle occasioni di movimento, il contatto serve solo per il
progetto di movimento che ne consegue.
I progetti di senso dei bambini, cioè, si configurano con una forma specifica: per pensare, per comprendere
utilizzano nella loro testa delle immagini visive oppure fanno ricorso alle parole, ad una “voce interiore” con la
quale ri-sentono le parole, oppure si servono di un ri-vissuto cinestesico (cioè muscolare).
Ma da cosa dipende questa differenza?
Il modo di “evocare” individuale, cioè il modo di elaborare l’informazione percepita ai fini della sua
comprensione, preservazione e restituzione è privilegiato spontaneamente fin dall’infanzia e dipenderebbe da
un’armonia naturale tra mondo esterno dei suoni o tra mondo esterno della luce e delle forme o, ancora, tra
mondo del movimento e la propensione individuale.
Il bambino, cioè, vive armoniosamente l’informazione percettiva o uditiva, o visiva o neuromuscolare in un
clima di accordo o disaccordo (si pensi alla diversa reazione individuale dei bagnanti rispetto alla temperatura
dell’acqua del mare).
30
E’ per questo che, spontaneamente, il bambino la prolunga, ridandosela mentalmente per riviverla il più
esattamente possibile.
Non la interpreta, semplicemente se la mette in testa così come la percepisce, cioè la EVOCA, non nel senso
corrente dell’associare un ricordo ma nel senso, appunto, di “mettersi in testa” ciò che si sta percependo in quel
momento.
Sembra, dunque, che si evochi visivamente, uditivamente o cinestesicamente un pò come si è destri o mancini,
privilegiando determinati circuiti nervosi, mentre altri circuiti, pur esistenti, rimangono disponibili per essere
attivati. Il contesto familiare e la relazione privilegiata con uno dei suoi membri sembra intervenire, inoltre,
attraverso le sollecitazioni a raccontare o a guardare oppure a manipolare.
Scoprire il senso delle cose, attraverso delle immagini o attraverso delle parole o la manipolazione e il
movimento, procura un vivo piacere, quello di una armonia tra sè e ciò che ci circonda.
Queste immagini, queste parole, questi movimenti di tutto il corpo fanno vivere nella coscienza l’intellegibilità
del mondo.
Questo succede perché è fondamentalmente a partire da questa situazione di “evocazione” che si può produrre
l’intuizione del senso.
La modalità evocativa eletta dalla propensione spontanea del bambino darà luogo a delle vere e proprie
“abitudini mentali” che tenderanno ad essere riproposte nel corso dell’esistenza cognitiva e a divenire delle vere
e proprie “madrelingue pedagogiche” (o “prime lingue pedagogiche”): la madrelingua pedagogica visiva, quella
uditiva, quella cinestesica.
In effetti , la vita mentale comincia quando si trasforma il percepito in oggetto mentale: se si resta alla
percezione, la vita mentale rimane ad un punto morto.
La vita mentale si anima a partire dal momento in cui si guarda o si ascolta o si percepisce neuromuscolarmente
per fare esistere mentalmente in immagini o in parole o in “ri-sentito” cinestesico ciò che si percepisce.
Ciò può avvenire, in qualche caso, anche spontaneamente ma ai fini dell’apprendimento efficace dei contenuti
scolastici , è necessario che se ne abbia il PROGETTO, cioè che sia intenzionale.
L’immagine visiva che mi do mentalmente di questo oggetto rende conto bene della sua forma, della sua
dimensione, del suo colore e della sua posizione nello spazio.
Le parole attraverso le quali me lo descrivo mentalmente sono le parole che corrispondono a ciò che esso è: è
un parallelepipedo con spigoli smussati, schiacciato, più largo che alto, di un colore nocciola.
Le impressioni tattili che riprovo mi danno il senso della sua forma, dei suoi rilievi, della sua superficie
granulosa, ecc.
Queste immagini, queste parole, questo ri-sentito cinestesico sono degli EVOCATI: ATTENZIONE!, non un
ricordo evocato -come ho già detto- ma “ciò che mi metto in testa adesso”, il prolungamento mentale di ciò
che ho appena percepito.
Sono questi evocati che costituiscono l’oggetto MENTALE di conoscenza, che lo rendono comprensibile
poiché mi consentono di operare i principali gesti mentali della conoscenza.
Questi gesti sono L’ATTENZIONE, LA MEMORIZZAZIONE, LA COMPRENSIONE, LA RIFLESSIONE,
L’IMMAGINAZIONE.
Gesti mentali: perché questa definizione?
“Gesti” perché, così come si mettono in atto dei gesti fisici, (delle procedure fisiche con le varie parti del
corpo) per eseguire delle attività, la coscienza mette in atto delle procedure che possiamo definire veri e propri
“gesti mentali”.
La suddivisione del processo di apprendimento in fasi ne permette una migliore analisi.
A.de La Garanderie si interessa a questi cinque gesti mentali differenti non perché questi siano i soli
che possiamo identificare ma perché rivestono la maggiore importanza nella attività di
apprendimento, grazie all’evocato.
Attraverso l’evocato, infatti, io posso mentalmente e intenzionalmente o riprodurre tale e quale la cosa
percepita (e allora sarà il gesto di attenzione), o collocarla in una situazione futura di riutilizzo che ho previsto
con l’immaginazione (e allora sarà il gesto di memorizzazione); o cogliere delle somiglianze e delle differenze,
dei rapporti logici tra la cosa percepita e quella evocata (e allora sarà il gesto di comprensione); o confrontarla a
cose evocate precedentemente e già acquisite (e allora sarà il gesto di riflessione), o trasformarla con un
apporto personale ed inedito di immaginazione creativa (e allora sarà il gesto di immaginazione).
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Proprio per questo la distinzione tra percezione ed evocazione -sulla quale torneremo in seguito- è di
importanza fondamentale, pedagogicamente parlando, perché se l’atto della conoscenza non è abitato dal
PROGETTO di mettere in evocazione ciò che è stato visto, oppure udito oppure manipolato o abbracciato, ciò
che è stato percepito non avrà che un’esistenza inconsistente, effimera, poiché non acquisirà lo statuto di
OGGETTO DI CONOSCENZA.
C’è dunque una stretta correlazione tra COMPRENSIONE e APPRENDIMENTO ed è su questa correlazione
che deve intervenire, con un compito ben preciso, la Pedagogia.
Qual è, dunque, questo compito?
Compito della Pedagogia è, prima di tutto, promuovere una PEDAGOGIA DEI PROGETTI DI SENSO, vale a
dire: comprendere quale/quali progetti l’alunno si dà spontaneamente, capire quale significato ha questo
progetto per lui e quali altri progetti potrebbe adottare, una volta guidato, per non rimanerci chiuso dentro;
indagare quali modalità evocative/procedure già utilizza e quali modalità/procedure potrebbe utilizzare per fare
attenzione, memorizzare, comprendere, riflettere, immaginare, cioè per attuare le principali attività mentali
richieste dalla scuola -e non solo!- per apprendere.
Ma come fare per comprendere quali progetti di senso l’alunno si dà e quali modalità e risorse sta mettendo in
campo per attuare il suo scopo?
Come comprendere come esegue le sue attività cognitive, quale struttura utilizza il suo pensiero al lavoro, quali
“gesti mentali” adopera per fare un compito, imparare a memoria o ripetere con parole sue una lezione,
risolvere un problema di geometria, in pratica, per comprendere ed apprendere?
Facendo ricorso al DIALOGO PEDAGOGICO.
Cos’è il DIALOGO PEDAGOGICO?
Il dialogo pedagogico non deve essere confuso con il colloquio confidenziale nel corso del quale l’insegnante,
preso l’allievo in disparte, fa appello alla sua buona volontà e al suo impegno per migliorare la sua situazione
scolastica; nè deve essere confuso con un dialogo psicologico finalizzato ad acquisire informazioni più dirette
circa l’ambito affettivo, emotivo, dei legami familiari, ecc, dell’allievo oppure finalizzato, con supporto o
meno di test di livello mentale, a valutare la qualità e la quantità della sua intelligenza.
E’ un’indagine che ha lo scopo di rendere consapevole della realtà mentale dell’allievo sia l’allievo stesso che
l’insegnante, attraverso un’introspezione pedagogica.
Nel “dialogo pedagogico”, il ruolo dell’insegnante è quello di mettere in evidenza (come il bagno di sviluppo in
fotografia) le abitudini evocative spontanee e le strategie mentali IMPLICITE impiegate dall’alunno in un
campo di successo o di competenza scolastico o extrascolastico per rendere possibile, all’alunno, la loro presa
di coscienza e la loro trasferibilità in ambiti diversi.
Purtroppo, per ragioni di tempo, non è possibile entrare nel dettaglio, posso solo fare un esempio riferito alla
difficoltà nell’apprendimento delle tabelline. (Da Le dialogue pédagogique avec l’élève, A. de La Garanderie)
ESEMPIO DI DIALOGO PEDAGOGICO E RI-MEDIAZIONE PEDAGOGICA CON UN ALLIEVO CHE
NON RIESCE A IMPARARE LE TABELLINE
Insegnante. Come fai quando vuoi imparare le tabelline?
Allievo. Non lo so.
I. Ci sono delle cose che impari bene?
A. Il lessico.
I. Come fai quando impari le parole?
A. Non lo so.
I. Hai capito la mia domanda?
A. No
I. Allora ti spiego. Quando leggi una parola da imparare, te la ripeti nella testa?
A. No.
I. La fotografi?
A. Si.
I. E la rivedi nella tua testa?
A. Si.
I. E puoi richiamarla facilmente
A. Si.
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I. Allora vai bene in ortografia!
A. Si.
I. Bene. Adesso ti propongo una cosa. Tu conosci le cifre 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10?
A. Si.
I. Guarda su questo foglio una parte della moltiplicazione del 2.
Devi fare come quando impari il lessico, cioè devi fotografare questa parte della tabella.
Quando l’avrai in testa, me lo dirai.
(L’insegnante non dice più niente e non guarda più l’allievo).
TEMPO DELLA PERCEZIONE E DELL’EVOCAZIONE
A. ( fa un cenno).
I. Hai fotografato tutto?
A. Si.
I. Puoi riscrivere senza guardare?
A. Si.
I. Bene. Ti faccio delle domande ma devi rispondere solo dopo aver rivisto nella tua testa le cifre che devi
moltiplicare.
2X4?
A.(Silenzio) 8
I. 2X 5 ?
A.(Silenzio) 10
I. Hai rivisto nella testa le cifre e i risultati come sulla carta?
A.. Si.
I. Bene! Puoi imparare tutte le tabelline continuando a fare come hai fatto ora.
Come emerge da quest’esempio, l’abitudine evocativa di tipo visivo di quest’alunno (efficace in un ambito
dell’apprendimento scolastico) è stata messa in evidenza e utilizzata dall’insegnante come una “piattaforma”
per consentire altri apprendimenti.
Venire a conoscenza delle risorse mentali dell’allievo consente all’insegnante di “diagnosticare
pedagogicamente” quali procedure, quali modalità evocative l’alunno non padroneggia e, soprattutto, di
approntare una “ri-mediazione pedagogica” che gli consenta di integrare ed arricchire il suo metodo di lavoro,
dandosi un progetto intenzionale per mobilitare altri progetti di senso.
L’indagine pedagogica serve all’insegnante anche per adattare la propria metodologia di presentazione delle
informazioni, e la relativa richiesta di restituzione dell’acquisito, alle diverse abitudini evocative dei bambini.
Infatti, se io informo ogni alunno secondo la modalità che è quella della sua possibilità evocativa e rispetto i
tempi necessari affinché pratichi l’evocazione, ho maggiori possibilità che egli tenga conto dell’informazione.
E’ evidente, infatti, che i “VISIVI”, i quali per comprendere utilizzano nella mente le immagini visive, hanno
bisogno di ri-vedere nella loro testa, come in un campo visivo immaginario, le immagini delle situazioni, degli
avvenimenti, dei luoghi.
Gli “UDITIVI”, invece, per comprendere le situazioni della loro vita e le informazioni che vengono loro date,
hanno bisogno che queste siano loro presentate in forma di discorso.
I “CINESTESICI”, ancora, hanno bisogno di contatto fisico, di manipolazione, di mobilitare tutto il corpo per
comprendere realmente.
A scuola, dunque, nel presentare i contenuti di apprendimento, è necessario tenere presente che un visivo può
evocare uditivamente solo a partire dalle evocazioni visive presenti nella sua coscienza (imparando, cioè, a
descriversi con parole le immagini che ha evocato) e che un “uditivo” può evocare visivamente solo a partire
dalle evocazioni uditive presenti nella sua coscienza (imparando ad associare immagini visive agli evocati
uditivi).
Il bambino che ha bisogno del movimento per comprendere, invece, dovrà essere aiutato prima di tutto a
diventare consapevole dei propri evocati cinestesici e sostenuto nel suo slancio cinestesico, in quanto, -come
afferma de La Garanderie- se bloccato nel suo movimento o privato del contatto, potrebbe rinchiudersi in un
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sentimento di inferiorità o sfuggire all’immobilità lasciandosi andare a movimenti impetuosi, quando non è più
sorvegliato.
Poi, dovrà essere aiutato a ricorrere alle parole o alle immagini, per sfuggire all’impulsività del suo
comportamento e per tradurre in parole o immagini i suoi evocati cinestesici.
In definitiva: non ha importanza la disciplina che si insegna.
Ciò che è, invece, essenziale, a scuola, è rispettare le abitudini e i tempi evocativi di ciascun bambino;
consentire a ciascun bambino di apprendere a gestire efficacemente le sue immagini mentali visive o uditive o
cinestesiche, cioè le sue evocazioni;
insegnare a ciascuno a compiere le “traduzioni” da una modalità evocativa all’altra e concedere il tempo
necessario a operare queste “traduzioni”.
Soprattutto: rendere i bambini consapevoli della loro possibilità di produrre intenzionalmente dei progetti di
senso che procureranno loro delle intuizioni di senso fondamentali per affrontare un percorso scolastico e di
vita.
Le definizioni fin qui utilizzate -PROGETTO DI SENSO, EVOCAZIONE, ABITUDINI EVOCATIVE,
LINGUA PEDAGOGICA, DIALOGO PEDAGOGICO, GESTI MENTALI, - sono alcuni dei “concettichiave” della GESTIONE MENTALE.
Che cos’è la Gestione Mentale?
In sintesi: con questa definizione viene denominata una teoria e una “pratica pedagogica” -poco conosciuta in
Italia ma ampiamente sperimentata e applicata in ambito internazionale- elaborata in Francia già negli anni
Ottanta da Antoine de La Garanderie (Ampoigné, 1920).
Questo filosofo e pedagogo, - egli stesso allievo con difficoltà di apprendimento dovute ad una otospongiosi
virale non riconosciuta dai medici che gli procurava una sordità monolaterale-, dopo aver recuperato il suo
ritardo scolastico e acquisito numerosi diplomi, una volta divenuto professore di filosofia in classi di scuola
superiore, si è interrogato sulle ragioni della riuscita o dell’insuccesso scolastico.
Ebbe l’idea, dunque, di interrogare gli allievi migliori con i quali lavorava a proposito della loro successo
scolastico e cercò di comprendere “come” ciascuno di loro operava per prestare attenzione, memorizzare,
comprendere, riflettere, immaginare.
I dati raccolti nel corso delle sue esperienze “in situazione” lo hanno portato ad identificare diversi “profili di
apprendimento” degli allievi, profili organizzati a partire dalle loro “abitudini mentali”, abitudini che possono
essere insegnate e, di conseguenza, acquisite.
Secondo A. de La Garanderie, dunque, all’origine delle attitudini scolastiche vi sono le abitudini evocative: la
capacità scolastica, quindi, non è innata ma è il risultato dell’efficacia evocativa nel riutilizzare
un’informazione e questa efficacia può essere appresa.
III) PERCEZIONE, ATTENZIONE, EVOCAZIONE.
Il primo “gesto” mentale di cui rendere i bambini consapevoli e che deve essere insegnato loro perché possano
dare forma di conoscenza ad una cosa è l’atto di attenzione, perché si trova a “monte” di tutti gli altri.
Che cos’è l’atto di attenzione? Cosa significa essere/stare attenti?
Per molti bambini significa “guardare”, “ascoltare”, “non parlare”, “non muoversi”, “stare fermi”,
“concentrarsi”, ...
Sappiamo tutti, però, che non basta invitarli a stare attenti o dare loro consigli difficili da interpretare (che
significa, infatti, concentrarsi?) oppure consigli insufficienti (guardate!, ascoltate!).
Qual è dunque questo atto di attenzione che fa entrare la cosa da conoscere nel campo della mia conoscenza?
Se, quando io porto i miei occhi su un oggetto, ho il progetto di farlo apparire nella mia coscienza così come si
presenta ai miei occhi secondo la mia lingua pedagogica, -visiva, attraverso un’immagine visiva, uditiva,
attraverso delle parole, cinestesica, attraverso il risentito delle sensazioni di movimento-, io posso dire che ho la
corretta struttura del progetto di senso dell’attenzione, quella che procura a colui che l’attua il “frutto”
dell’essere attento, cioè quell’oggetto mentale che definiamo con il termine “evocato”.
La pedagogia è, dunque, in grado di informare tutti su ciò che conviene fare per compiere correttamente un atto
di attenzione la cui procedura, in sintesi, è questa:
1) mettersi in progetto di evocare ciò che si percepisce;
2) evocare ciò che si percepisce grazie a delle immagini visive , oppure a delle parole, oppure a dei
prolungamenti di sensazioni cinestesiche;
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3) costituire così, grazie a questi evocati, l’oggetto mentale che deve essere l’espressione della cosa percepita,
la quale diviene allora cosa CONOSCIUTA.
E’ necessario, tuttavia, insistere su una distinzione fondamentale: L’EVOCAZIONE NON E’ LA
PERCEZIONE MA IL SUO FRUTTO e, quindi, è necessario non confondere percezione e attenzione.
In passato, infatti, si riteneva che l’atto di attenzione non fosse altro che una “buona” percezione.
In realtà, la percezione è l’effetto di un incontro inaspettato, spesso non voluto, tra le “cose” e le terminazioni
periferiche dei nervi sensibili dell’essere umano.
L’attività percettiva, dal punto di vista della Gestione Mentale, invece, è un atto eseguito intenzionalmente, un
atto che cerca il contatto sensoriale con le cose, che mira la percezione di una cosa.
E’ proprio quando l’atto è messo in gioco, o spontaneamente o deliberatamente, cioè quando c’è un “progetto di
attenzione”, che comincia la vera percezione.
Quale differenza c’è tra l’attività percettiva e l’attività attentiva? La forma dell’atto è la stessa, ciò che è diverso
è l’esigenza che lo abita.
La percezione diventa attenzione quando ha lo scopo esplicito di evocare la cosa percepita stessa.
Ma certe coscienze non entreranno in attività d’attenzione che quando la situazione percettiva è della medesima
forma di quella della loro evocazione.
Pensiamo ad ordinarie situazioni di lezione: l’insegnante parla e una parte di allievi manifesta un’attitudine di
attenzione; l’insegnante scrive o disegna alla lavagna e la parte che era attenta cessa di esserlo.
Come è già stato sottolineato, per molti, infatti, l’attitudine attentiva è determinata dalla forma della situazione
percettiva: quegli allievi che osservano ma non ascoltano, quegli altri che ascoltano ma non osservano evocano
la situazione percettiva i primi con delle immagini visive, i secondi con delle immagini uditive (ridandosi le
parole dell’insegnante come le hanno udite) o verbali (ridicendosele).
Ne deduciamo, dunque, che una doppia modalità di presentazione delle informazioni -quella verbale e quella
visiva in sequenza e mai contemporaneamente- (e nell’intervento che seguirà verrà approfondito anche questo
punto) sarebbe già un primo passo verso il riconoscimento ed il rispetto delle personali modalità evocative dei
bambini e , quindi, in direzione della prevenzione di molte difficoltà di apprendimento.
Grazie per l’attenzione.
Ermanno Tarracchini:
Valorizzare le scienze pedagogiche:
Dialettica della “Gestione Mentale” e della “Gestione Sociale”
(iper)attività e… di altri ancora.
dei problemi di attenzione e di
Il disagio che molti bambini esprimono attraverso il loro comportamento potrebbe trovare una risposta in
iniziative di auto-aiuto che genitori, insegnanti e studenti di alcune scuole già attuano, o che potrebbero attuare
se non saranno spinti a delegare la risoluzione di questi problemi di natura educativa, pedagogica e didattica.
Occorre valorizzare le capacità “terapeutiche” di studenti, genitori ed insegnanti, “capacità terapeutiche”
intese non in senso medico bensì nel senso etimologico della parola, quello del “prendersi cura”: nel nostro
caso, prendersi cura del bambino cosiddetto “difficile”. “Prendersi cura” anche nel senso etico del motto che
don Lorenzo Milani aveva esposto all’ingresso della scuola di Barbiana, un motto il cui significato era “mi
importa, mi preme, mi sta a cuore”.
Anche a noi “ importa” e, a questo scopo, abbiamo iniziato, già dall’anno scorso, un gruppo di auto-aiuto
gratuito, di discussione, di scambio di esperienze umane, di studio della pedagogia della gestione mentale e
sociale delle difficoltà di apprendimento e di socializzazione e per il superamento delle paure irragionevoli,
gruppo aperto ai genitori, agli studenti agli insegnanti e a tutti coloro che hanno a cuore il successo formativo,
non solo scolastico, dei giovani. “Ci importa”, soprattutto, un confronto su queste problematiche ai fini della
prevenzione della medicalizzazione di quei problemi di apprendimento e di socializzazione che sono di natura
essenzialmente sociale e/o pedagogica.
Utilizzerò quindi il termine di “iper”attività nei termini strettamente neuro-pedagogici impiegati da A. de La
Garanderie in “Critique de la Raison Pedagogique” – Critica della Ragione Pedagogica - e in “ Les grands
projets des nos petits” – I grandi progetti dei nostri piccoli -.
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Un prefisso “iper” che, impiegato in questi termini, pone l’accento sulle caratteristiche neuro-pedagogiche di
un’attività mentale che, per svariati motivi, molti bambini piccoli utilizzano per esplorare e conoscere il mondo
circostante, cioè per apprendere.
Ultimamente, però, è di moda utilizzare il prefisso “iper” con finalità medicalizzanti ossia per stigmatizzare un
comportamento “disattento, troppo vivace o disobbediente” del bambino, con la diagnosi di “ADHD”
(Attention Deficit Hyperactivity Disorder) o “DDAI” in italiano (Deficit e Disturbo dell’Attenzione ed
Iperattività). Un comportamento che, se da un lato, quello del sociale, potrebbe essere causato da bisogni
umani non soddisfatti , dall’altro lato, quello pedagogico, può essere causato da un’insoddisfacente esecuzione
dei gesti mentali dell’attenzione, della memorizzazione e della comprensione del mondo circostante, per
mancanza di ascolto e di adeguata attenzione da parte degli adulti.
Ma, per capire meglio cosa significhi una “insoddisfacente esecuzione dei gesti mentali”, occorre introdurre un
concetto abbastanza nuovo per la pedagogia italiana, il concetto di “evocazione” e quello di “evocato” che ne è
il suo frutto mentale: un concetto che sta alla base della pedagogia della Gestione Mentale che è, appunto,
definita anche come “pedagogia delle evocazioni”.
E’ opportuno ricordare che il termine di evocazione impiegato nell’ ambito della pedagogia della Gestione
mentale non riveste il significato di un ricordo riportato alla mente, -nel senso, cioè, che può avere la domanda:
“Che cosa ti evoca questa foto?”-, bensì riveste il significato di “mettere in testa” quanto sto osservando,
ascoltando, provando in questo momento.
Infatti, tutto ciò che viene percepito con i 5 sensi - la vista, l’udito, il tatto, l’olfatto, il gusto-, lo possiamo
mettere in testa sotto forma di immagini mentali che, nella pedagogia della gestione mentale, vengono definite
con il termine “evocati”, mentre con il termine “evocazione” viene definito il processo mentale che porta alla
loro costituzione. La nostra vita mentale inizierebbe, dunque, proprio con la traduzione (evocazione) degli
stimoli percettivi in “oggetti mentali” (evocati), cioè in immagini mentali che possono essere visive ( per
esempio ri-vedo mentalmente il buio di una stanza che mi fa paura), uditive (ri-ascolto nella mia mente le
parole pronunciate da mia madre “ il buio di questa stanza mi fa paura”), verbali ( ripeto con la mia voce
mentale le parole “ ho paura del buio di questa stanza”) o con un “ri-sentito” mentale di sensazioni cinestesiche
(ad esempio: riprovo mentalmente la tensione muscolare ed il brivido della paura).
L’evocazione sarebbe, in definitiva, il processo che l’attività mentale del nostro cervello utilizza per comprendere, cioè prendere con sé, gli stimoli e le informazioni che provengono dal mondo esterno.
Secondo A. de La Garanderie : “[…] Attraverso un personale processo evocativo ogni bambino regola il
rapporto tra l’attività mentale e quella motoria […]
ma, in assenza di una vera attenzione e di un sufficiente tempo di ascolto da parte degli adulti, il
bambino non ha il tempo materiale di evocare in modo soddisfacente, non ha, cioè, il tempo di mettersi in
testa, in modo adeguato, quanto sta percependo dal mondo esterno quindi non ha il tempo di
memorizzare, di rielaborare, di riflettere: resta come prigioniero di una effimera, a volte frenetica,
ricerca di stimoli percettivi .
A titolo puramente esemplificativo, diamo un’idea, sempre secondo la pedagogia della Gestione mentale, delle
specifiche modalità impiegate dai bambini molto piccoli per sfogare la loro esigenza di movimento a seconda
delle personali abitudini evocative, cioè della propria “lingua pedagogica materna”: sia questa visiva, uditiva, o
di movimento.
Secondo A. de La Garanderie ( “Les grands projets des nos enfants”)
“[…] il bambino che evoca visivamente, prima di mettere in azione i suoi nervi e i suoi muscoli, sente il
bisogno di allontanarsi da una reazione motoria e la contemplazione di quanto sta percependo, attraverso la
sua evocazione visiva, gli procura quella sicurezza di cui ha bisogno prima di muoversi .
Il bambino che evoca uditivamente ha un’esigenza di movimento che soddisfa nella verbalizzazione, cioè nel
parlare.
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Il bambino che ama il movimento, invece, ha bisogno di scaricare una tensione muscolare molto forte e
spesso l’udito e la vista gli servono solo per fare scattare delle occasioni di movimento.
Questo bambino è tutto preso dalla sua esigenza di movimento, come fosse cieco e sordo al resto del mondo
…prova il bisogno di palpare, di stringere il gatto come per ottenerne una vista tattile d’insieme. Tutte le
situazioni percettive mobilitano i suoi nervi.
Ci sono molti bambini così: non stanno mai fermi, urtano contro tutto e tutti, stringono al petto il gatto in un
modo che sembra soffocarlo, ( ma questo non succede) ci saltano al collo con un impetuosità che ci fa
vacillare…Sono bambini agitati od irrequieti? La risposta è no.
Sono bambini di una sensibilità molto viva così come lo è la loro impetuosa intelligenza, se venissero
classificati come insopportabili, se volessimo calmarli con le maniere forti …” afferma A. de La Garanderie,
( o aggiungo io, con diagnosi precoce di iperattività e stupefacente sedazione chimica) “… si commetterebbe un
grave sbaglio: li avremmo privati di una straordinaria ricchezza, quella di esplorare e com-prendere il mondo
circostante attraverso il movimento […]”
“[…] I genitori si accorgeranno presto che questo bambino arriverà ad esprimersi verbalmente quando
passeggiano con lui. Camminando questo bambino può parlare e articolare le parole con precisione.
Il bambino che predilige il movimento si accorge, infatti, che ha bisogno di essere in cammino, per
padroneggiare l’espressione della parola. Se è fermo, il suo bisogno di esplosione è tale che tutto il suo corpo
lo spinge a saltare. Ma se il ritmo ordinato come quello del camminare assicura una liberazione ordinata di
energia nervosa, questo bambino può dedicarne una parte alla parola. A partire dal movimento generico del
cammino può scaturire il movimento specifico della parola.[…]”
In « Pour une Pédagogie de l’Intelligence » (“Per una pedagogia dell’intelligenza”) A. de La Garanderie
descrive invece, il comportamento di quei bambini che “[…] si oppongono all’influenza degli avvenimenti
sgradevoli e alla frustrazione della loro evocazione, rifugiandosi in un’azione che gli permette di dimenticarla
[...]”.
[…] Ci sono inoltre degli esseri umani, e soprattutto dei bambini, che pur avendo la capacità di evocare non
vogliono farlo. Si tratta di bambini che reagiscono con il movimento del loro corpo, in modo così rapido ed
istintivo che il pensiero non lo regola.
Essi evitano l’evocazione della situazione percettiva con la fuga nell’azione. Una fuga dai ricordi dolorosi
del passato che l’evocazione degli stimoli percettivi del presente potrebbe trascinare alla coscienza[…].
Spesso la consapevolezza che ha il bambino di non essere ascoltato dagli adulti, la violenza fisica o
verbale subita, producono delle tensioni e delle paure che possono ostacolare il processo evocativo
causando difficoltà di com-prensione del mondo circostante e di apprendimento dei contenuti scolastici
capaci di innescare, anche, conflitti con coetanei ed adulti.
Solo se, generosamente, l’adulto gli presterà adeguati tempi di attenzione e di ascolto, il bambino
imparerà a sua volta a prestare attenzione, ad ascoltare, ad aspettare il suo turno e ad alzare la mano
prima di parlare.
Ancora A. de La Garanderie lancia alla scuola messaggi di grande valore etico e demedicalizzante,
esortandola a dare la precedenza all’approccio pedagogico:
“[…] Noi pensiamo che non sia sempre necessario ricorrere agli specialisti della psicologia o della
psichiatria… L’insegnante, il consigliere pedagogico - (e il genitore, aggiungo io ) - potrà stabilire con
l’alunno che vive questa modalità di reazione senso-motoria, un dialogo pedagogico con l’intento di lasciarlo
parlare a lungo…[…]” « Pour une Pédagogie de l’Intelligence » ( p. 88 )
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“[…] Ma Il dialogo pedagogico” , afferma A de La Garanderie, in - Il dialogo pedagogico con l’alunno - “
…Non deve essere confuso con l’aiuto psicologico, tutta una cultura , - del carattere -, una cultura
psicanalitica e psichiatrica impregna le nostre mentalità” …..è bene quindi che ognuno occupi il proprio
terreno[...]”.
“ […]…Pestalozzi, Decroly, Montessori, Freinet, Rogers, hanno cercato di praticare i principi di una
pedagogia che tenesse in considerazioni le condizioni concrete dell’adattamento scolastico attivo, …..siamo
d’accordo, ma deploriamo il fatto che non abbiano spinto più lontano le loro ricerche nello sforzo di chiarire i
significati reali dei concetti fondamentali della pedagogia. Noi crediamo che essi non l’abbiano fatto perché
sono rimasti prigionieri di un certo naturalismo psicologico che ha impedito loro d’intravedere il senso
pedagogico - e non psicologico- di questi concetti [ …]” (A. de La Garanderie “ Une pedagogie de l’entraide”
- Una pedagogia dell’aiuto reciproco - Chronique Sociale, Lyon 1994 )
“Il bambino e, più in generale l’essere umano - afferma A. de La Garanderie - trova nella soddisfazione che
ricava dalla com-prensione di sé stesso, delle sue relazioni con il mondo circostante, e soprattutto nel
riconoscimento del suo diritto alla responsabilità pedagogica, la possibilità di abbandonare l’ “iper” della
sua attivit..”
Ma cosa è la responsabilità pedagogica del bambino ?
E’ la responsabilità che gli deriva dalla capacità e dalla consapevolezza di evocare.
Attraverso l’evocazione l’essere umano arriva ad avere coscienza di sé stesso, con l’evocazione può
immaginarsi, può parlarsi o riprovare una sensazione cinestesica, cioè di movimento”.
In questo modo può anche anticipare mentalmente la sua reazione agli stimoli percettivi, sia che questa sia
costituita da un movimento del suo corpo, cioè da un’azione, sia che sia costituita da una produzione verbale.
Nell’evocazione e, quindi, nell’anticipazione mentale dell’azione si inserisce la sua libertà, la possibilità di
scegliere un tipo di risposta piuttosto che un’altra.
Ciò non significa che il bambino diverrà automaticamente buono ed ubbidiente, così come può
diventarlo con la “stupefacente” stimolazione/sedazione chimica, significa solo che potrà decidere se
ubbidire o no, sarà cioè più responsabile delle sue scelte e delle conseguenze che queste comportano.
Occorre sfatare, dunque, il “mito del bambino iperattivo” in favore di una lettura pedagogica e sociale della
disattenzione e dell’eccessiva irrequietezza, prodotte da un ambiente sociale circostante, a volte poco attento nei
confronti dei bisogni essenziali del bambino.Una mancanza di attenzione dunque, che dal piano della vita
sociale passa, dialetticamente, a quello della vita mentale.
La Gestione mentale in quanto pedagogia delle evocazioni esplora in modo originale e scientifico la vita della
coscienza.
Un’ esplorazione attenta ed appassionata che ci riporta a quella di Maria Montessori quando scrive, a
proposito della forma mentale dell’infanzia, le seguenti parole:
“ […] c’è una forma mentale nell’infanzia che non si è mai riconosciuta, …avveniva che, dettando loro delle
parole molto lunghe e anche in lingue straniere , essi le riproducevano…avendole udite pronunciare una sola
volta.
Che cosa era che fissava nella mente dei bambini quelle parole complicate, in modo che essi sembravano
trattenerle nella mente con sicurezza, come vi fossero state scolpite?…
Evidentemente nella sua mente si scolpiva la parola con tutti i dettagli dei suoni che la componevano e nel loro
ordine. La parola si scolpiva, rimaneva tutta intiera nella mente, niente poteva cancellarla.. Quella memoria
aveva una qualità diversa; essa metteva nella mente una specie di visione, e il bambino copiava con sicurezza
quella visione chiara e fissa.[…]” ( M.Montessori “ La formazione dell’uomo” )
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Questa qualità diversa, che non era sfuggita alla sua sensibilità di medico e di educatrice interessata al bene
dei bambini, non era altro che il processo evocativo e la visione scolpita nella mente, il suo frutto, “l’evocato”,
che costituisce l’oggetto di studio della Gestione mentale.
L’originalità e la scientificità di questo approccio pedagogico alla comprensione dell’attività mentale, che oltre
a rifarsi ai lavori di vari filosofi e a quelli di Maria Montessori, tiene in considerazione anche quelli di Ivan
Pavlov sulla neurofisiologia del riflesso condizionato, consiste nel fatto che i lavori di A. de La Garanderie
sull’attività mentale sono corroborati da una sperimentazione neurofisiologica condotta negli anni 70 in
collaborazione con degli specialisti dello sviluppo del cervello.Questa sperimentazione è stata effettuata su 90
bambini ai quali erano stati applicati degli elettrodi per lo studio delle onde cerebrali durante l’esecuzione di
compiti cognitivi di vario tipo.
Quelli che riuscirono meglio nell’esecuzione dei compiti assegnati erano senza dubbio quelli che avevano
evocato sia la consegna che le modalità di risoluzione di un compito, ( in immagini visive o in parole) ed
erano anche quelli che hanno fatto registrare un encefalogramma più ricco in quanto vi appariva l’onda positiva
300 , un’onda specifica dell’attività della corteccia cerebrale implicata nei processi di apprendimento, che non
appariva nei bambini che non avevano evocato:
“ […] all’elettroencefalogramma …si nota la specificità della forma dell’onda cerebrale dei visivi, degli
uditivi, così come quella di chi evoca in modo misto […]” (“ Pedagogie des moyens d’apprendre” p.124 )
[…] Si può affermare che Changeux (in “l’uomo neuronale”) non ha trovato nella psicologia la prospettiva di
cui avrebbe bisogno per situarvi gli apporti della neurofisiologia cerebrale…egli si interroga per sapere se non
sia venuto il momento di gettare le basi di una moderna biologia della mente […] ( A. de la Garanderie
“Défense et illustration de l’introspection – Difesa ed illustrazione dell’introspezione - ”…)
Valorizziamo dunque le scienze pedagogiche del dialogo, dell’ascolto e dell’aiuto reciproco:
•
una pedagogia dell’attività mentale, in particolare una pedagogia che fa avanti indietro tra filosofia e
neurofisiologia, dalla quale discende una pratica pedagogico-didattica che aiuta il bambino a comprendere, nel senso di prendere con sé, gli esseri e le cose del mondo che lo circonda in modo
consapevole e responsabile, perché questo è quello che chiede il bambino per “calmarsi”, e non di essere
impasticcato.
•
Una pedagogia dell’attenzione, da parte degli adulti nei confronti del bambino, già indicata da Maria
Montessori ed alla quale la pedagogia della gestione mentale si rifà, aggiungendo, allo spessore umano
e pedagogico di questa osservazione, quello neuro-pedagogico di un filosofo dei nostri tempi.
•
Una pedagogia dell’ascolto, dell’aiuto reciproco e della solidarietà, fuori e dentro la scuola, per
valorizzare tutte le iniziative e le forme di collaborazione e dibattito fra studenti, genitori ed
insegnanti che una scuola decide di progettare al fine di prevenire, il ricorso alla delega
deresponsabilizzante.
Persino in presenza di lesioni al sistema nervoso o di altre alterazioni organiche, si potrebbero lasciare liberi
anche un tempo e uno spazio per l’aiuto reciproco fra bambini e quello della via educativa e pedagogica per gli
insegnanti.
Spesso, però, questo non avviene. Ho ancora davanti agli occhi una vicenda di tanti anni fa, quella bambina
che arrivò in classe con lo stigma di una pesante diagnosi che la dichiarava “pericolosa a sé e agli altri”. Questa
diagnosi psichiatrizzava, invisibilmente ma pesantemente, un vero problema medico, una importante patologia
neurologica da un lato, ed un importante problema educativo, dall’altro. Uno stigma che seminando paure e
pregiudizi aveva fatto scattare un meccanismo di delega creando un vuoto di responsabilità tra i compagni, gli
insegnanti ed il personale ausiliario, i quali pensavano di non avere sufficienti competenze per poter aiutare la
bimba e, di conseguenza, si astenevano dal tentare anche un minimo intervento educativo di buon senso,
abbandonando la bimba a sé stessa, in balia delle sue stesse prepotenze e dei suoi capricci. Invece la
discussione nelle assemblee di classe, consentendo il superamento del pregiudizio, ha favorito la depsichiatrizzazione dei rapporti interpersonali della bambina e l’ha restituita alla classe, ai compagni, agli
39
insegnanti. La liberazione e la valorizzazione delle “capacità terapeutiche” potenziali della classe e della scuola,
altrimenti inespresse, cioè delle concrete capacità di aiuto dei compagni, degli insegnanti e del personale
ausiliario, ha permesso loro di “prendersi cura” della bambina in difficoltà. La bambina cosiddetta “pericolosa
a sé e agli altri” ha potuto incontrare, nel giro di pochi mesi, le giuste attenzioni e reazioni al suo
comportamento scorretto, sia da parte dei compagni che degli insegnanti; reazioni di buon senso che,
permettendole finalmente di capire gli effetti delle sue azioni, le hanno permesso anche di cambiare e, “
improvvisamente non più pericolosa”, di migliorare la qualità dei suoi rapporti interpersonali.
“Posso fare quello che voglio, tanto sono malato” è quello che potrebbero temere, pensare e dire i bambini,
spesso anche come alibi per peggiorare ulteriormente il proprio comportamento quando questo viene
stigmatizzato.
Inoltre, come negli Stati Uniti già succede, anche gli psicologi italiani se seguiranno l’esempio dei loro
colleghi americani, potranno presto prescrivere psicofarmaci, al posto di promuovere la solidarietà e la
mobilitazione pedagogica del pensiero logico e creativo dei bambini.
Grazie
Uso ideologico della diagnosi e dei farmaci
Dott. Claudio Ajmone, Psicologo
Presidente “Osservatorio Italiano sulla Salute Mentale”
Il disturbo d’attenzione e iperattività, acronimo ADHD in inglese e DDAI in italiano, colpirebbe non solo i
bambini ma anche gli adulti. Si ritiene che il 70% dei bambini con l’ADHD, in età adulta, continuino a
manifestare il disturbo d’attenzione AD mentre l’iperattività HD scompare. E’ sostenuto che tale disturbo ha
una base genetica ereditaria. La tesi che va per la maggiore afferma che esso è la manifestazione di uno
squilibrio chimico nel livello di dopamina, un neurotrasmettitore implicato nella trasmissione delle
informazioni tra i neuroni. La diagnosi e il trattamento sono fatti a partire dal primo anno di vita. Attualmente
il Ritalin, droga utilizzata nel 90% dei trattamenti, è somministrata a tempo indeterminato alle persone
diagnosticate. E’ “efficace” nell’80% dei casi, per il 20% dei refrattari s’ipotizza che abbiano un’anomalia
genetica che li rende non compatibili. Sono in corso ricerche genetiche per recuperarli. Si tratta di bambini
disattenti, vivaci e impulsivi, sono diagnosticati prevalentemente i maschi. L’American Psychiatric Association
afferma che l’incidenza statistica del disturbo è del 3-6% ma in molti Stati ha ormai superato il 20%, ci sono
classi dove il 50% degli scolari è sotto farmaco. In Italia si stima che l’incidenza sia del 7%. I bambini sono il
futuro dell’umanità, dobbiamo dedicare a loro la massima attenzione e cura, un dovere che va assolto con
amore e rispetto per chi da noi dipende in tutto ed è indifeso. Da sempre i bambini pongono problemi agli
adulti, è un fatto fisiologico alla crescita umana che richiede alla famiglia, alla scuola e alla società la capacità
di comprendere e di aiutare in termini pedagogici e con la massima onestà intellettuale. Tutto questo sembra
oggi messo in discussione osservando l’atteggiamento e i comportamenti delle agenzie sociali che di loro si
occupano a vario titolo. Chi non si conforma alle regole sociali, chi disturba e pone problemi, non è più
tollerato. La repressione trova allineati, per motivi diversi, genitori, insegnanti, psichiatri, psicologi, Ministeri
della Sanità, legislatori, giudici, case farmaceutiche e tante altre agenzie. Negli USA stanno aumentando i casi
di TSO fatti su bambini che si comportano male a scuola, e i cui genitori sono contrari a dar loro gli
psicofarmaci. La situazione in America è molto grave e le famiglie sono esasperate, incominciano a rivolgersi
ai tribunali per difendersi. Ovunque è arrivato il Ritalin si è creato un mercato nero incontrollabile, questa droga
è molto ricercata perché ha effetti simili alla cocaina. Comprata regolarmente il costo a pastiglia è di 25-50
cents, sul mercato nero 3-15 dollari. In America è la droga più usata dai giovani a scopo ricreativo, viene rubata
nelle farmacie e nelle scuole. Ora vi è una pillola il cui effetto dura tutto il giorno, risolve alcuni problemi
pratici e ne incrementerà l’uso. Il Ritalin è ora commercializzato anche nel nostro paese e i timori che anche da
noi accada quanto sta accadendo altrove sono legittimi. E’ una droga più potente della cocaina ed è da noi
classificata nella tabella I degli stupefacenti, con l’LSD, l’eroina, gli oppiacei ecc. Lentamente si sta aprendo un
dibattito, ci si sta interrogando per capire cosa fare. Riporto due autorevoli voci di dissenso:
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(ANSA) - TRIESTE, 11 MAGGIO 2001- "Lo psicofarmaco ai bambini in rapporto a comportamenti, a
difficoltà di socializzazione, allo stare nella realtà, è uno strumento che crea un'aspettativa mal riposta e
sicuramente tragica": lo ha detto Giuseppe dell’Acqua, direttore del Dipartimento di salute mentale di
Trieste e “erede”, con Franco Rotelli, di Franco Basaglia. "Il mio no è assoluto - ha spiegato Dell'Acqua perché si vuole delegare a una pillola quelle che sono in molti casi difficoltà legate a un fallimento
familiare, sociale, di vita insomma. Certo - ha proseguito - non si può fare di ogni erba un fascio. Ci sono
bambini e adolescenti che stanno male davvero, con vere e proprie patologie, ma questo - ha detto ancora è un discorso diverso. Imbrigliare chimicamente sentimenti, affetti, relazioni, curiosità sul mondo, è un fatto
orribile, il fallimento di qualsiasi aspettativa di vita". "Già alcuni anni fa - ha ricordato Dell'Acqua - lo
psichiatra Cassano, colui che ha “traghettò” in Italia il Prozac, aveva proposto di aprire nelle scuole un
servizio psichiatrico a base di psicofarmaci per bambini e ragazzi iperattivi: un controllo chimico di ciò che
“disturba” sotto la denominazione della prevenzione. Prevenzione da che? - ha chiesto Dell'Acqua - dalla
vita? Con una pillola - ha rilevato - si vuole sottrarre qualsiasi valore a tutto ciò che a che fare con la
morale, l'educazione, i sentimenti, i pensieri, le passioni, il vivere insomma. Con una pillola - ha affermato si vuol far diventare un bambino o un ragazzo definiti “difficili” dei bravi figlioli, che non disturbano, che
amano Dio, patria e famiglia. Una vera e propria semplificazione, che porta all'omologazione degli
individui. Si stanno consolidando anche in Italia, purtroppo, e da molti anni, la psicofarmacologia e la
psicobiologia, l'idea che il farmaco sia la panacea di tutti i mali della vita, la qual cosa - ha concluso il
direttore del Dipartimento di salute mentale - mi sembra una grandissima sciocchezza, fatti salvi i casi in cui
ci sia una patologia psichica, un vero bisogno; ma questo non è il caso".
(ANSA) - ROMA, 11 MAGGIO 2001 - L'approvazione dello psicofarmaco per bambini in Italia è una
notizia che suscita "grave preoccupazione". È il parere di Massimo Cozza, coordinatore della consulta
nazionale per la salute mentale. "Si tratta di un farmaco del quale è purtroppo ben conosciuto l'abuso
devastante portato avanti negli ultimi anni negli USA - ricorda Cozza - e sul quale la stessa Hillary
Clinton ha ordinato un'inchiesta del Governo, ancora in corso. Le modalità di azione di questo farmaco,
ricorda Cozza, sono simili ad una droga stimolante e, come recentemente affermato dal Journal of the
American Medical Association, non vi sono evidenze scientifiche sugli effetti prodotti. "Il pericolo
maggiore che l'introduzione del farmaco in Italia potrà comportare - continua lo psichiatra - è
un’utilizzazione impropria, con gravi danni per la salute fisica e psichica di migliaia di bambini". In
pratica, secondo l'esperto, ci si trova di fronte al rischio che milioni di genitori, di fronte alla vivacità o
alla svogliatezza dei propri bambini, chiedano una risposta farmacologica, come sempre più
diffusamente succede negli USA, valutando in modo inappropriato normali comportamenti infantili,
oppure senza affrontare e risolvere le dinamiche relazionali familiari che portano ai comportamenti da
"eliminare". Nelle classi scolastiche del nostro Paese, spiega Cozza, in circa il 10% dei bambini sono
segnalati dalle insegnanti problemi di iperattività, di attenzione o di svogliatezza, ma questi
rappresentano nella stragrande maggioranza dei casi o una normale fase di sviluppo oppure un segnale
di disagio dietro al quale vi sono cause ben identificabili. "Gli stessi comportamenti che dovrebbero
costituire la cosiddetta sindrome da disturbo dell'attenzione e iperattività - aggiunge Cozza - bersaglio
del farmaco, spesso rappresentano una reazione conseguente ad episodi di abuso sessuale, di
maltrattamenti e di separazioni conflittuali da parte dei genitori. Tentare di eliminare un’importante
componente di allarme e di segnale di disagio del bambino attraverso l’induzione biologica di
tranquillità apparente rappresenterebbe nello sviluppo successivo un danno ben maggiore". "Invece di
affidare ad un farmaco “miracoloso” la salute psichica dei nostri figli - conclude lo psichiatra dovremmo portare avanti una maggiore attenzione alle problematiche della salute mentale dell’età
evolutiva utilizzando in primo luogo gli strumenti psicologici e di intervento sociale, e realizzando su
tutto il territorio nazionale i servizi previsti dal Progetto Obbiettivo già varato in materia, ma ancora in
gran parte inattuato.”
LA VERITA’
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“Incontrovertible evidence is still lacking! Twenty years and 6 million patients after it’s “invention”
[ADHD], and incontrovertible evidence is still lacking!”
[Dichiarazione di F.X. Castellanos rilasciata al “Readers Digest”, Making Sense of Ritalin, autore John
Pekkanen, gennaio 2000, pagina 158]
Possiamo credergli ad occhi chiusi, Castellanos non è un contestatore del sistema ma un ricercatore del
National Institute of Mental Health, lui è il suo gruppo (e non solo loro) hanno “scannerizzato” il cervello
dei bambini è individuato l’atrofia cerebrale considerandola un marcatore biologico di questo disturbo. Si
tratta di una delle tante ricerche da mettere nello “stupidario della scienza.” Fu infatti appurato che il
campione utilizzato (e non solo il loro) aveva assunto psicofarmaci a lungo termine prima dell’esperimento
e che l’atrofia cerebrale è, purtroppo, un effetto collaterale dal Ritalin e altri psicostimolanti. La teoria
dopaminica (la dopamina è un neurotrasmettitore) è una specie di formula magica che spiega diversi
disturbi mentali compresa la schizofrenia ma è credibile tanto quanto quella dell’atrofia cerebrale e della
causa genetica. E’ una malattia che non esiste, perché non provata, ma che deve esistere a tutti i costi, il
gota della salute mentale si comporta come se esistesse e non teme le evidenze, è fiducioso che domani si
avrà la prova dell’esistenza di questa malattia, dicono così da mezzo secolo. In verità per nessun disturbo
mentale definito come malattia è mai stata data la prova scientifica della base organica.
In una ricerca “follow-up” del 1971, 83 bambini furono testati dopo un periodo di 2-5 anni dalla
diagnosi di AD o HD, il 92% fu trattato con Ritalin. Questi i risultati:
• Il 60% dei bambini erano ancora iperattivi e studiavano poco (la ragione per la quale veniva loro
somministrato il Ritalin), ma in più erano diventati ribelli;
• Il 59% aveva avuto qualche contatto con la polizia;
• Il 23% erano stati portati ad una stazione di polizia una o più volte;
• Il 58% aveva fallito uno o più gradi [scolastici];
• Il 57% aveva difficoltà di lettura;
• Il 44% aveva difficoltà con l’aritmetica;
• Il 78% trovava difficile restare seduti a studiare;
• Il 59% era considerato dalla scuola come un “problema disciplinare”;
• L’83% aveva guai per le frequenti bugie;
• Il 52% era distruttivo;
• Il 34% aveva minacciato di uccidere i loro genitori;
•
Il 15% aveva parlato di suicidio o l’aveva tentato.
[Mendelson W., Johnson N, Stewart M. A., "Hyperactive children as teenagers: A follow-up study", Journal
of Nervous Mental Disorders, vol. 153, 1971.]
Nel 1993 il Dipartimento dell’Educazione degli USA incarica Swanson (noto sostenitore della tesi
biologica sull’ADHD e del Ritalin) di fare una ricerca sull’efficacia del Ritalin. Furono consultate 300
riviste, 900 articoli, spaziando su 55 anni di letteratura. Queste le conclusioni tenendo conto che egli
intende per trattamento a breve termine un trattamento di 7-18 settimane:
1. I benefici a lungo termine non sono stati verificati sperimentalmente;
2. I benefici sul breve termine non devono essere considerati una soluzione permanente sui sintomi
cronici;
3. Gli stimolanti possono migliorare l’apprendimento in alcuni casi e danneggiarlo in altri
4. In pratica le dosi prescritte possono essere troppo alte per l’effetto ottimale sull’apprendimento, e la
durata dell’effetto troppo breve per agire sul risultato;
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5. Non ci sono grandi effetti sulle abilità e processi superiori, genitori e insegnanti non devono aspettarsi
significativi miglioramenti nella lettura o in abilità atletiche, abilità sociali, apprendimento di nuovi
concetti
6. Nessun miglioramento negli aggiustamenti a lungo termine, insegnanti e genitori non devono aspettarsi
miglioramenti nell’apprendimento scolastico o riduzione di comportamenti sociali.
Come si suole dire “la montagna ha partorito un topolino.” Che il Ritalin fosse inefficace era un dato noto
e assodato già nella letteratura degli anni settanta, non si capisce il perché di questo delicato incarico
conferito al Prof. Swanson.
“….Solanto e Wender (tabella 2 ) scoprirono che una singola dose di psicostimolante causò una
"overfocusing" ossessiva nel 42% dei bambini. I bambini erano talvolta incapaci di interrompere
l'esecuzione di un compito a loro assegnato. L'esibizione di OCD nei bambini che assumono stimolanti
è tipicamente e erroneamente scambiata come "miglioramento". Se il bambino siede stoicamente sulla
sua sedia in classe impegnandosi duramente a copiare ossessivamente con la penna ogni dettaglio del
libro, l'insegnante considera questo un miglioramento. Se un bambini gioca incessantemente allo stesso
gioco con il computer, i suoi genitori possono sentirsi sollevati dall'assenza del bambino. Infatti, come
ha notato Borcherding, i genitori e gli insegnanti in particolare, quasi mai segnalano gli OCD come
effetti avversivi farmacoindotti. Piuttosto, essi pensano che è un miglioramento. Ma l'OCD
farmacoindotto è una forma grave di disfunzione cerebrale. E' una involontaria ossessione che il
bambino sovente non può arrestare. Esso rafforza l'isolamento sociale e non porterà ad un genuino
apprendimento. Il capitolo 4 esamina più dettagliatamente come le reazioni avversive sono confuse con
i miglioramenti nei bambini trattati con psicostimolanti….Anche la produzione di tics può diventare un
problema serio. Questi stimolanti inducono movimenti anomali che generalmente sfigurano la faccia.
Queste anormalità possono causare nel bambino uno sguardo strano e danneggiare la sua autostima e
l'accettazione sociale. Ogni tanto i tics diventano permanenti. Borcherding, nel suo studio su 45
bambini, ha trovato una quota del 58% di tics e movimenti anomali. Come già detto, molti hanno
sintomi compulsivi-ossessivi. Castellanos segnala un peggioramento dei preesistenti tics….” [Breggin,
Talking back to Ritalin, 2001 ]
Effetti nocivi degli stimolanti comunemente considerati terapeutici o benefici (Breggin (1999b&c)
Ossessivi-Compulsivi
Ritiro Sociale
-Compulsiva persistenza in attività -Socialmente appartato
senza scopo (comportamento e isolato.
stereotipato o perseverativo).
-Comportamento sociale
-Incremento di comportamenti generale smorzato.
ossessivi-compulsivi (es., rifare -Ridotta comunicazione
lavori senza fine in modo o socializzazione.
inefficace).
-Ridotta
sensibilità
-Rigidità mentale (perseverazione verso i genitori e altri
cognitiva).
bambini.
-Pensiero inflessibile
-Incremento
giochi
-Eccessiva
meticolosità
concentrazione.
Soppressivi
comportamento
del
-Sottomesso in ambienti
strutturati,socialmente inibito,
passivo e sottomesso.
-Triste, sottomesso, apatico,
letargico, indolente, torpido,
intontito, stanco.
-Mite, emotivamente piatto,
senza umore, senza sorriso,
depresso, triste con frequenti
pianti.
o solitari e diminuzione -Mancanza di iniziative o
spontaneità,
curiosità,
globale del gioco.
sorpresa o gioia.
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Effetti nocivi causati da Ritalin, Dexedrine, Adderall e Stimulanti similari (Breggin (1999b&c)
Cardiovascolar Palpitazioni, tachicardia, ipertensione, aritmia cardiaca, dolore toracico, arresto cardiaco
i
Mania, psicosi, allucinazioni, agitazione, ansia, nervosismo, insonnia, irritabilità, ostilità,
Aggressione, depressione, sensibilità emozionale, pianto facile, ritiro sociale, sonnolenza,
Mentali
“ottusità”, ridotta vigilanza, confusione, deterioramento mentale (cognitivo e apprendimento),
e
zombi simile (comportamento robotico), comportamento con perdita di spontaneità emotiva,
Cerebrali
comportamento ossessivo-compulsivo, convulsioni, discinesie, tics, Tourette, abitudini nervose
(es.: tirare i capelli o tormentare la pelle)
Gastrointestina Anoressia, nausea, vomito, gusto cattivo, mal di stomaco, crampi, bocca secca, stitichezza,
li
Diarrea, anomalie del fegato ai test
Endocrine
Metaboliche
Altre
Funzioni
Interruzione
e Rebound
Disfunzione pituitaria, incluso la distruzione dell’ormone della crescita e prolattina, perdita di
peso, Soppressione della crescita, ritardo della crescita, disfunzioni sessuali
Visone sfocata, mal di testa, capogiro, ipersensibilità all’esantema, congiuntivite, orticaria
Insonnia , crollo serale, depressione, iperattività, irritabilità, rebound con peggioramento dei
sintomi ADHD simili
Ci sono bambini ai quali sono somministrati fino a 4-5 psicofarmaci. Il Ritalin da tra gli effetti collaterali
l’insonnia, per curala si da, ad esempio, la Clonidina, essa può causare depressione e allora si somministra il
Prozac, questi può causare psicosi, allora si somministrano neurolettici antipsicotici. Vi lascio immaginare il
risultato sul bambino dopo un pò: psicosi e neurosi farmacoindotte. Si fa uso anche di destroanfetamina,
pemolina, metanfetamina, Adderall. I farmaci non eccitanti usati per il 20% dei bambini e adolescenti che non
rispondono ai farmaci stimolanti, per la presenza di patologie comorbili o indotte dai farmaci sono:
Aloperidolo, Pimozide, Clonidina, Guanfacina, Nortriptilina, Amitriptilina, Imipramina, Deprenil,
Clomipramina, Desipramina, Bupropione, Fluoxetina, Nicotina, IMAO, Moclobemide, Carbamazepina,
Valproato, Litio, Clorpromazina, Venlafaxina, Buspirone, BDZ (A. Rossi, R. Pollice, Dip. Medicina
Sperimentale, Clinica Psichiatrica, Università dell'Aquila, in "Giornale Italiano di Psicopatologia", volume 5,
Giugno 1999, n° 2). Dopo mezzo secolo di Ritalin è sconcertante costatare che c’è una sola ricerca
longitudinale che superi i 14 mesi (Cherland and Fitzpatrick, 1999) per verificare gli effetti a lungo termine di
questa droga sui bambini. Questa ricerca indica che il 10% dei fanciulli che assumevano Ritalin avevano
episodi psicotici che scomparvero con l’interruzione dell’assunzione di questa droga. Gli autori ritengono che
questa percentuale sia una sottostima del problema.
LA DIAGNOSTICA CAMALEONTICA
Ad ogni nuova edizione del manuale diagnostico dei disturbi mentali DSM cambiano i criteri
diagnostici. Persone precedentemente diagnosticate come portatori di ADHD improvvisamente sono
sane di mente e viceversa. La sperimentazione fatta con gran dispendio di denaro ed energie non è più
confrontabile. La diagnosi differenziale è particolarmente ardua e l’errore diagnostico è del 50%;
questo problema era già stato evidenziato nel 1996 da un rapporto del "U.S. department of justice
Drug Enforcement Administration". In uno studio pilota fatto in Canada alcuni anni fa dal Dott.
Wendy Roberts, direttore del "Child Development Centre at Sick Children's Hospital in Toronto",
solo due bambini su 10 esaminati raggiungevano i criteri per l’ADHD. Sovente la diagnosi è fatta da
pediatri o medici di famiglia che non hanno sufficiente competenza o tempo per fare una diagnosi
differenziale. Personalmente credo che non ci sia modo di sapere chi sbaglia, i criteri diagnostici sono
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veramente aleatori e discrezionali. Potete diagnosticare l’ADHD a chi volete senza timore di essere
smentiti. In America, dopo 40 anni, la disputa verte ancora sull’asserzione che si tratti o no di una
malattia mentale, ascrivibile al modello biopsichiatrico, tesi che ancora oggi non è stata dimostrata. In
Italia si è fatto tesoro di questo insuccesso e si preferisce adottare una linea più morbida ammettendo
che non è una semplice malattia, ci si appella alla triplice causalità bio-psico-sociale, precisando però
che la causa genetica è la più rilevante (questa è ad esempio la tesi dell’AIDAI, Associazione Italiana
Disturbi di Attenzione e Iperattivita’). Questo approccio sposta di poco il problema e la triplice
causalità assomiglia, in questo caso, al gioco delle tre carte; le posizioni psicosociali ne escono perdenti,
relegate nel ruolo di concause minori o semplici cartine di tornasole che fanno emergere quanto già
scritto nei geni. Insomma una furbizia nostrana per aggirare le critiche e non cambiare nulla. Questi
bambini crescono nel segno dell’insicurezza, se si comportano bene attribuiscono il merito al farmaco,
se falliscono pensano sia perché ne hanno preso troppo poco. Non riescono ad attribuire a sé stessi
meriti e demeriti. Pensano di essere diversi dagli altri, che qualcosa di sbagliato o di guasto ci sia nel
loro cervello. Crescono timorosi, sfiduciati sulle proprie capacità, la loro vita è una realtà
farmacomediata, un rapporto con il mondo e con sé stessi innaturale.
QUALI CONCLUSIONI TRARRE
Molti sospettano che gli psicofarmaci siano la nuova forma di punizione, mascherata da cura, in una società
dove sia a scuola che in famiglia sono state vietate le punizioni corporali e psicologiche, senza tuttavia aver
trovato un rimedio ai problemi disciplinari, specialmente nelle scuole. Nei confronti dei genitori si è fatto un
vero “terrorismo psicologico” dicendo loro che se non curati questi bambini sviluppano altri terribili disturbi
mentali comorbili, che avranno un rendimento scolastico scadente, che si drogheranno, che commetteranno atti
criminali, che avranno perversioni sessuali e problemi di coppia. Dei veri mostri potenziali! Il disturbo
d’attenzione e iperattività è la prima di una serie di diagnosi che nulla hanno a che vedere con la scienza ma
molto con il controllo sociale. Non è compito della scienza stabilire ciò che è bene o male, forgiare valori.
Inizialmente questi bambini violano le regole sociali senza malizia. Gli adulti reagiscono con la repressione,
alcuni bambini cedono alle pressioni, altri, più forti, continuano a confliggere. Per loro c’è la diagnosi di
“disturbo oppositorio provocatorio,” la loro posizione è più grave perché sfidano deliberatamente gli adulti.
Continuando il “braccio di ferro” i bambini accumulano dell’aggressività che non possono dirigere sugli adulti
e che viene dirottata sui coetanei o su oggetti. A questo punto li attendono diagnosi quali “disturbo della
condotta” e “comportamento antisociale. Chi fa queste diagnosi si comporta come un giudice di tribunale, al
posto della sentenza c’è la diagnosi e al posto della pena lo psicofarmaco e lo stigma diagnostico di malato
mentale. Di fronte a noi c’è una gran responsabilità nei confronti di questi bambini, quella di trovare delle vere
soluzioni, di interrogarci su quanto sta accadendo non dimenticando che essi sono il futuro dell’umanità. Solo
negli USA sono sette/otto milioni i bambini diagnosticati, circa il 20% della popolazione scolare e il trend è in
rapido aumento ovunque. L’OMS Afferma che nel 2020 la metà dei fanciulli saranno diagnosticati per disturbi
mentali, ed presumibile che saranno sottoposti a trattamento farmacologico. Si prevede che nella prossima
versione del DSM ci saranno 50 nuove patologie in aggiunta alle circa 350 già esistenti. I dati in controtendenza
che si sono accumulati in questi decenni sostengono la tesi che l’ADHD non è una patologia in sé ma piuttosto
un insieme di sintomi aspecifici che sono l’espressione di cause molto diverse. Una sindrome è un insieme di
sintomi che compaiono insieme al verificarsi della causa che la attiva. Maggiore è la sovrapposizione della
sintomatologia con altre sindromi minore è la probabilità che la sindrome esista. Nel caso del DDAI la
sovrapposizione con altre patologie è tanta e tale che si può dubitare della sua esistenza. Un listato attendibile,
anche se non esaustivo, di fattori che possono mimare l’ADHD e portare a pseudodiagnosi è il seguente:
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Accesso subclinico post traumatico
Affaticamento
Alimentazione (malnutrizione o dieta errata)
Allergie
Anemia
Ansia e problemi emozionali
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Apprendimento (disabilità)
Bambini prodigio, viziati o indisciplinati
Candida Albicans
Cardiaci (malattie e disfunzioni)
Chemioterapia per il cancro
Cisti cerebrali
Comprensione problemi e abilità di comunicazione (defict di)
Depressione maggiore
Diabete precoce
Dolore fisico
Fame
Ferite e danni alla testa
Ferro (carenza di)
Genetici ( Klinefelter, XYY)
Inalamento volontario o involontario di sostanze
Infezioni virali o batteriche
Inquinamento ambientale
Integrazione sensoriale (disfunzione)
Iper/ipotiroidismo
Ipoglicemia
Lobo temporale (anomalie del)
Lupus con infiammazione del SNC
Manganese (alto livello di)
Mania
Medicinali e droghe legali o illegali (inclusi i farmaci usati per curare l’ADHD)
Mercurio (alto livello di)
Metabolici (disordini)
Monossido di carbonio (avvelenamento da)
Movimento (mancanza di esercizio)
Neurologici (epilessia, corea, ritardo mentale, akatisia ecc.)
Parassiti intestinali
Parto (complicazioni)
Perinatali (fattori sfavorevoli)
Piombo (moderati o alti livelli di)
Porfiria
Prenatali (scarsa salute e malnutrizione della madre, uso di droghe)
Problemi spinali
Psicosi bipolare precoce
Rene (malattia renale cronica)
Sessualità (abusi)
Sindrome alcolica fetale
Sonno (disturbi del)
Streptococco Beta-Emolitico
Stress post traumatico
Tic (sindrome di Gilles De La Tourette, ecc.)
Tossine (esposizione alle)
Tumori cerebrali incipienti
Udito (disordine dei processi centrali auditivi)
Vascolari cerebrali (danni)
Vista (problemi visivi)
Vitamina B (carenza di)
Vitamine (eccesso di)
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Il minimo che bisogna pretendere prima che si faccia una diagnosi psichiatrica è un serio screening medico,
cosa che attualmente non si fa. La psichiatria sta bussando alla porta delle scuole e la scuola ha un ruolo di
grande responsabilità nel saper dire di no alla medicalizzazione.
Raffaele Iosa.
Io voglio partire da quelli che nella scuola fanno più fatica, in relazione al fatto che l'oggetto di cui mi interessa
ragionare non è solo il Ritalin e neppure un'analisi tecnica degli effetti o dei contro effetti -ci sono altri che
hanno competenze su questo-, ma è il fatto che io individuo in questo elemento, ad esempio in questo convegno
della Scuola di Neuropsichiatria infantile, la metafora di un modo irrazionale, non razionale, di affrontare i
problemi della vita e di come questo rappresenti un grande attacco e un elemento di grande violenza in
relazione all'idea di uomo e di persona. Con questo tema, però, si rischia di rimanere nell'ambito dei
sentimenti. Io, invece, preferisco rimanere nell'ambito della ragione.
Credo che la storia dell’uso del Ritalin, perdonate la civetteria da cui parto, sia molto antica come metafora.
Nasce da Platone.
Ieri sera ho visto un film, “Tre uomini e una gamba”, che mai avrei immaginato mi avrebbe fatto pensare. C'è
una scena strana nella quale una ragazza svampita prende una mela e dice: “Vi ricordate il “Simposio” di
Platone, il mito di un uomo come totalità? Improvvisamente arriva qualcosa che lo taglia...”. Lei prende una
mela e...schaff! la spacca in due “... e l'uomo, disperatamente, da quel momento ha cercato di ritrovare la sua
unità perduta”.
Credo che il grande problema dell'occidente sia quello di aver pensato di poter dividere sapienza da saggezza,
di aver pensato, cioè, che attraverso il sapere, a prescindere dalla saggezza, fosse possibile dominare il mondo e
interpretarlo, cambiarlo e modificarlo. Questa paradossale differenza tra saggezza e sapienza è quello che ha
determinato nella nostra civiltà una grande evoluzione ma anche grandi disastri -pensate ad Hitler-.
Ebbene, questo aspetto dell’ immaginare il fatto che oggi noi siamo nel dominio della sapienza, anzi preferirei
dire meglio, nella “magia della tecnè”, come direbbe Cacciari, è una cosa sulla quale noi dobbiamo fare una
radicale e attenta critica, perché questa “magia della tecnè”, pensando di essere sapiente, crede anche di essere
santa e costruisce una teoria dell'uomo e una teoria della vita che è esattamente una teoria ideologica la quale
contiene dentro inevitabilmente - che si voglia o meno- disastri.
Ebbene, ieri sera mi sono riletto questo "Simposio" di Platone: c’è un mito molto curioso che vi voglio
ricordare. Si tratta del conflitto tra il dio Zeus e il dio Tebud nel corso del quale uno dei due, non mi ricordo
quale, vuole inventare la scrittura da dare agli uomini ma l'altro dio dice: “Non inventare la scrittura perché
quando gli uomini avranno la scrittura perderanno la memoria”. E nel concetto di memoria c'era l'idea di
saggezza. Naturalmente, siccome noi siamo tutti uomini della scrittura - lavorando a scuola ancora di piùquesto mi ha colpito, perché l’elemento della “magia della tecnè” va ben oltre il problema del Ritalin.
Potremmo chiamarlo, nel mondo della vita umana, il problema della medicalizzazione -ma vorrei scavare
ancora di più-, quello della genetizzazione dell'anima.
Voglio ricordarvi che, secondo un'ultima ricerca inglese, forse questa mattina, poiché i miei feromoni stanno
girando in un certo modo, io mi sto innamorando di quella signora lì. E guardi, non c'è niente da fare, siccome è
colpa dei feromoni, io adesso l'aggredirò....
Questa è una teoria raccontata dai giornali circa quindici o venti giorni fa: sosteneva che l'innamoramento è
effetto della chimica, non l'inverso. Questo è ideologico. È necessario cominciare a dirlo. Io dico che la “magia
della tecnè” tocca tutto, non solo il corpo ma anche la tecnologia.
C’è una sorta di nuovo mercato che ha principalmente come elemento strutturale -mi dispiace, ma è così
secondo me- la politica e, naturalmente, l'economia. È forse un caso che questo convegno a Modena avvenga
nella camera di commercio, ma forse no, forse perché hanno trovato quella sala lì. Sì, questo convegno
dell'Università di Modena, quello dove c'è la vignetta " Piccola peste, calmati ".
Allora, quello che voglio dirvi lo voglio dire dal punto di vista della mia esperienza professionale: io sento che
sta riscatenandosi la metafora della mela tagliata di cui vi parlavo a proposito del film di ieri sera, con una
tendenza molto violenta a separare gli uomini da se stessi, dai propri vissuti e dalla propria vita, agonizzando
ciò che si è, arrivando fino al punto estremo di pensare che in un cromosoma c'è scritto perché rischio di
innamorarmi di quella signora lì.
Sono stato questa primavera ad un convegno pazzesco, l'argomento riguardava le malattie rare, e più o meno ho
capito che ormai il mito della genetica è arrivato a questo punto: se io la mattina, come mi sveglio, starnutisco e
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se questo può essere interessante per le case farmaceutiche, in relazione all'invenzione di qualche spray, ci sarà
sicuramente un genetista che, lavorando per pure frequenze statistiche, troverà che c’è una relazione tra il
cromosoma diciotto e il fatto che ho starnutito. Gran parte delle malattie rare vengono accorpate per casualità
genetica e, naturalmente, diventano mercato nella misura in cui esistono poi terapie, ritrovati medici o cose di
questo genere.
Sono molto legato allo straordinario libro di Ivan Illich, "Nemesi medica" , -forse bisognerebbe tirarlo fuori per
gli ultimi stampati delle librerie-, dove dovremmo dire che esiste un problema fondativo sulla scienza, che è la
deontologia, in ordine al fatto che moltissima della esperienza medicale europea è iatarogenetica (iatrogena),
non terapeutica.
Dobbiamo avere la franchezza di cominciare a dirlo, smettendo di pensare che lo scienziato, rinchiuso in un
angolo, scopre delle verità e che dall'altra parte c'è della gente, impaurita dalla morte, che cerca invece di
trovare la nuova bugia.
D'altra parte, io penso che questo approccio alla separazione, questo approccio a trovare l'angolo di me che
interpreta l'anima ma legato ad una combinazione proteica, è una comodissima soluzione ai problemi della
complessità delle vite. Dobbiamo, cioè, ammettere che questa stregoneria della tecnica, questa
medicalizzazione, è la scorciatoia, - la droga vera, se volete-, con la quale si cerca di bypassare quello che,
invece, è un problema vero della nostra società di oggi e, cioè, la sua complessità.
Perché è evidente che, davanti alla complessità dell'esistenza, i modelli culturali, i modelli economici, negano la
sofferenza, ci evitano di morire. C'era un bellissimo pezzo di Beppe Grillo l'altra sera - ahimè, fatto nelle
televisioni in scuro- su questa faccenda che ormai non si può neanche più morire, e magari morire in pace, se
possibile.
Insomma, guardate che il Ritalin non è tanto diverso dalla Lambertucci. Io sono stato il fondatore del
movimento anti lambertucciano, -che, come avete visto, ha vinto perché la Lambertucci è scomparsa-, perché
sono convinto che il "più sani e più belli" è la tragedia della vita. Un po’ grassi ogni tanto e godersi l'esistenza è
un elemento fondamentale. Io non sopporto il mese di maggio, quando l'intero nostro mondo visivo è travolto
dalla pubblicità per i prodotti dietetici. Qualche volta ci casco, naturalmente, perché implicitamente,
implicitamente ma non tanto, esplicitamente propone un modello di salute, propone un modello di esistenza,
che è perfettamente configurato a modelli economici, a modelli di consumo e a modelli di relazioni sociali.
Nella metafora “piccola peste, calmati” di questa vignetta , c'è l' idea di una società che è quella del controllo
sociale, che io connetto a un aspetto di cui nel nostro paese si parla ancora poco ma che negli Stati Uniti sta
arrivando ormai a diventare azione politica, -anche se dopo i fatti di New York anche Bush dovrà ripensarci-, e
cioè a quella teoria politica ormai molto esplicita che si chiama “conservatorismo compassionevole”.
Ne parlano troppo poco. Si parte da un'idea molto semplice: è una rottura di balle andar dietro all'informativa.
Costa troppi soldi. Agli handicappati, agli svantaggiati, agli extracomunitari, o robe di questo tipo qua, che
diritti, bisogni! E la cosa migliore davanti a questo è una società che dia le opportunità a tutti ma a chi non ce la
fa, non vale la pena: la carità, la compassione. La parola "conpassionevole", per la verità, in inglese non
esprime lo stessa concettoche esprime in italiano. Noi spesso la usiamo in un modo dispregiativo dicendo “mi
fai compassione”, che è come dire “mi fai schifo”. Nel modello inglese, invece, è più collegata alla cultura
luterana, che è esattamente quella nella quale ognuno si deve assumere delle responsabilità. Chi non ce la fa,
ciccia. È il mito di una neoesclusione che aderisce al modello americano del controllo, con chiarissime ed
esplicite valenze ideologiche, che non mette in crisi le ragioni profonde e strutturali per cui l'esistenza umana
oggi nega la possibilità di vivere una vita dove anche il dolore faccia parte della salute.
Sto dicendo una cosa paradossale ma è un argomento che mi appassiona molto. Se per caso a casa mangiate
qualcosa di inquinato e vi viene la diarrea, pensate che può capitare. Ma se capita in una mensa scolastica vi
prendete il botolino. Noi abbiamo oggi nella scuola una legge violentissima, la 626, che, partita dal presupposto
della sicurezza, sta determinando più o meno il fatto che l'unico modo di fare scuola sia di incollare con del
Vinavil il culo dei bambini alle sedie e che sta impedendo l'idea di una scuola come torta da mangiare, a favore
di una teoria della scuola come tinello, dove bisogna andare, piano piano, con le pattine. Pensate agli eventi
terroristici che stanno accadendo nelle scuole di oggi in ordine a come organizzare la scuola strutturalmente,
pensate a questi impliciti simbolici: non discutono mai, per esempio, del colore delle pareti, dell'assenza o
meno delle fioriere, della possibilità di godersi la scuola come luogo di pacchia, ma continuano a ragionare in
termini di pericolo. Ecco, questo è un aspetto che voglio sottolineare: dietro alla medicalizzazione, alla
clinicizzazione, alla tecnologia, c'è un'idea dell'eternità, del non morire mai, della salute, che è in realtà un
paradigma strettamente connesso al modello di consumi e al modello di esistenza, dove il problema strutturale
dei nostri paesi occidentali non è l'inclusione ma l'omologazione. L’inclusione, uno dei nostri grandi obiettivi.
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Io preferisco usare la parola “inclusione” e non la parola “integrazione”, per un problema molto banale, perché
è molto bello dire l'incontrario della parola. L'incontrario della parola inclusione è escludere. Ebbene, tutti
coloro che lavorano nell'inclusione sanno bene che il rischio è quello dell'omologazione. Ci vogliono degli
standard per i soldi. La docimologia, questo mito, che è esattamente l'opposto della... ahinoi, della differenza.
Ebbene, questo aspetto che ha il suo massimo dominio appunto, come dicevo, nella genetica, ha degli effetti
molto pratici nel mercato. Molto pratici. Perché determina tutta una serie di fatti concreti, anche fisici, dal modo
di vestirci al modo di organizzare la nostra vita, al fatto evidente che abbiamo perduto alcuni paradigmi
fondamentali dell'esistenza. Uno di questi, che mi tormenta sempre, quello dell'attesa, lo uso come esempio. Se
voi, vent'anni fa, litigavate con vostra moglie, o vostro marito, e volevate prendere in mano un telefono e
dirgliene quattro, dovevate scendere dalla macchina, avere delle monete, trovare una cabina, infilarle dentro e
parlare. Intanto che il tempo passava per fare tutta questa roba, magari vi calmavate, parlavate in modo un po’
più tranquillo. Ma oggi con questo maledetto aggeggio qui, il cellulare, è finito il tempo dell'attesa, è finito il
tempo del “pensarci sopra”.
Ecco perché forse conviene tenerlo spento.
Anche questo è un determinato modello clinico di esistenza. È paradossale che coloro che provano a fare le
analisi sui comportamenti umani siano più portati a vedere il sintomo piuttosto che la causa. Guardate, è molto
interessante questa pagina della "Gazzetta" di oggi, pagina 13, ma non tanto per lo straordinario articolo di
Valgimigli che è formidabile, ma perché c’è un articoletto a parte che forse nessuno di voi ha letto: in Emilia
Romagna c'è una crisi di tette. Sì, praticamente in questa regione i bambini non vengono più allattati. C'è scritto
qui. C'è forse una relazione tra il fatto che noi abbiamo una condizione dell'infanzia, nella quale l'essere
bambini -cioè godersi una bella succhiata di latte e il crescere - non c'è più e l'altra parte esposta da
Valgimigli? Coloro che tirano fuori questi numeri spropositati - chiaramente funzionali al mercato- hanno
anche questi dati qui vicino? Naturalmente non dico che c'è automatica connessione. Non sto dicendo questo.
Sto dicendo che nella stessa pagina, forse per puro caso editoriale, ci sono due oggetti che in realtà sono lo
stesso tema. Qual è la qualità della vita? Quali sono le cose che contano? Cosa serve davvero nell'esistenza? C'è
una relazione tra il fatto che più del 50% dei bambini di questa regione entro i tre mesi non hanno più
l'allattamento al seno? Non sto tirando in ballo che le donne devono tornare fare le balie! Sto dicendo che ci si
deve chiedere se esiste una relazione oppure no! Chi ci studia sopra, chi ci lavora? Nessuno!
Voglio parlare dal punto di vista pedagogico, per chiudere. Io sono dell'idea che questo è un maledetto paese
perché ha avuto Giovanni Gentile come metafora della scuola: il ruolo della scuola non è quello di formare le
persone ma di scegliere i migliori, e tutti gli altri … a lavorare! Questo ha determinato il fatto che la didattica
della relazione educativa è sempre rimasta nell'angolo dei matti, degli appassionati, come l'insegnante che è
intervenuto prima. C'è l'idea che questo, come dire, è lo sfizio di pochi, ma che in realtà nella scuola quello che
conta è spiegare, interrogare, chi sa che va avanti, chi non sa … ciccia! Ebbene, questo elemento, poco a poco,
ha spinto la scuola ad essere l'ancella sciocca di questo nuovo mondo medicale. A considerarsi subordinata. A
legittimare quella tipica, terribile, oscena domanda che molto spesso le maestre fanno al dottore nei confronti di
un bambino: “Dottore, cos'ha?”, piuttosto che chiedersi insieme:” Dottore, chi è? ". E, naturalmente, molti
dottori non vedono l'ora che qualcuno gli chieda: “Dottore, cos'ha?”, perché automaticamente si apre il cassetto
e... tac: il Ritalin, l'elettroencefalogramma, la terapia. Guardate che non è un caso che in questo paese, da alcuni
anni, moltissime cattedre di neuropsichiatria sono vinte dai discepoli del professor Cassan e cioè dal mito
estremo dell'idea che oggi, per ogni problema della vita, c'è la pillola giusta.
Ecco perché mi piace il titolo di questo convegno, “la pillola di troppo”: è quel “troppo” che determina degli
effetti devastanti. Io, però, sono dell'opinione che noi dovremmo avere dentro la scuola una rivolta di dignità in
relazione al fatto che l'azione educativa ha un potente valore trasformativo della persona, agisce sui
comportamenti, perché altrimenti, se corriamo il rischio di pensare ad una sorta, appunto, di “mito genetico”
che predetermina gli esseri umani, tanto vale prendere la linea della signora Thatcher, figlia in questo caso del
professor Eiseg e della sua teoria del quoziente intellettuale, fare l' esame del sangue ai bambini appena nati, e
dopo richiederci dove vanno a scuola. È, per alcuni versi, la teoria della signora Brighitt, ah sì, si chiama anche
Moratti!, che sostiene l'idea che forse conviene scegliere il prima possibile chi mandare ai professionali, perché
tanto non vale la pena investire per loro. Guardate che nel sistema attuale, in cui si sta partendo con la teoria
degli ordini o dei cicli, c'è dentro un ampio pezzo di conservatorismo compassionevole.
C'è l'idea che è inutile gestire i figli dei poveri, o chi fa fatica, basta mandarli nei professionali perché gli diano
qualcosa. Non è così non rintracciabile, questo. E altrettanto, ai figli dei matti o a quelli che sono matti, tanto
vale dare una pillola! Perché preoccuparsi? Chi lavora nell'ambito educativo deve imparare ad avere una rivolta,
avere una rivolta che, però, non può essere più la retorica della buona volontà ma deve diventare azione
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concreta. Nel film su Helen Keller, che abbiamo visto poco fa, c’è una scena commovente ma quel film mi ha
fatto pensare a un altro film, e soprattutto a un altro libro, forse lo ricorderete, "L'enfant sauvage".
È la straordinaria storia di Itard. Itard era un medico che si è trovato a incontrare un bambino abbandonato nella
foresta e che ha avuto una grandissima intuizione clinica, diversa da Binel -Binel è il grande fondatore della
psichiatria, peraltro-.
Nel film di Trouffau "L'enfant sauvage" la scena è molto bella su questo punto.
La domanda è: “Perché questo bambino è selvaggio?”. La risposta di Binel è: “E' stato abbandonato perché era
stupido”. L'ipotesi di Itard, invece, è: “E' diventato stupido perché è stato abbandonato”. Guardate che non è la
stessa cosa e l'effetto che se ne determina è l'opposto! Ma a differenza della ragazzina che abbiamo visto
prima, il nostro povero Victor non riuscirà mai a collegare "acqua" all'oggetto. Anche in quel film c'è la parola "
acqua ". E le ragioni per cui questo non accade, dice Itard, -che non riesce a capirlo fino in fondo, ma ci arriverà
in seguito la ricerca, in particolare Vigotzkji-, è che in un certo particolare momento della sua vita non c'era
qualcuno che glielo insegnava. L’elemento che vi sto indicando è fondamentale, e cioè che vi sono tappe nella
vita della persona che se non si fanno nel modo giusto, creano dei guai irreparabili. Dove allora, poi, tutti i
santoni dei vari Ritalin possono sguazzare quanto vogliono.
Se Victor non è riuscito a connettere pensiero, parole e significato, è perché nel momento strutturale in cui
questo avviene non c’era nessuno che si occupava di lui, non perché era stupido.
Vedete, io trovo nel messaggio di Itard una sorta di negazione della diagnostica, il tentativo invece di
immaginare che abbiano strutturalmente una simpatia verso la persona.
Uso la parola “simpatia” nel senso più banale, che può essere anche quello “fare il tifo”, che è esattamente
l'opposto della parola compassione. Ecco perché sento che nei bambini, invece, ai quali diamo delle soluzioni
tossiche, in realtà costruiamo l'idea che non vale la pena di vivere l'esistenza,che è meglio farsela attraverso
surrogati, che in qualche modo ti impediscono di diventare il cittadino e di diventare persona. Questo secondo
me dovrebbe anche volere dire questo: che dovremmo immaginare una scuola nella quale il diritto al
movimento, il diritto al casino, il diritto a farsi gli affari propri, dovrebbe diventare un po' più solido.
Qua, se mi permettete, inserisco una mia antica polemica verso le donne insegnanti. Non è un caso che qui il
bambino della vignetta sia maschio, non è un caso. Pochi in Italia dicono che chi se la cava con l'infanzia, che
chi fa male sono i maschi ... Io naturalmente non dico che è colpa delle insegnanti donne. Dico, però, che molta
della cultura igenistica all'interno della scuola appartiene a un modello sul quale molto di più le donne che gli
uomini sono condizionate. La mania di lavarsi tutti ogni volta che si finisce di mangiare, guai se no, di pulirsi
le mani prima di mangiare, guai se no…
Non sto inneggiando alla passione dello sporco ma vi invito a scoprire che dentro la scuola, spesso, attraverso il
modello femminile passano modelli igienisti che sono perfettamente connessi a dei determinati modelli di
consumo. Ripeto: non voglio fare una critica al modello femminile ma sostengo un punto: poiché spesso il
problema dei bisogni, della esclusione è anche una questione di genere, forse è meglio che affermiamo un
maggiore coraggio nel parlarne anche in termini di quelli che il vecchio Marx avrebbe chiamato “riproduzione
ideologica di modelli culturali”. Il modello tipico materno è un modello di controllo, non solo di affetto, e
molto spesso nel maternage, nel dire al bambino: “Fallo per me, non per te, ti prego, falla quella divisione,
perché se no mi fai diventare triste!” c'è un ricatto che non è molto diverso da uno psicofarmaco. Non è molto
diverso, perché induce nell'altro dipendenza: “Lo faccio per te. Lo faccio perché, se no, non mi ami…” e, cioè,
instaurando delle relazioni che poi diventano perverse. Io vedo che dentro la scuola , molto spesso, c'è, ad
esempio, un atteggiamento nei confronti delle ecologie, nei confronti della natura, nei confronti del rapporto tra
uomo e tecnologia, che risente di un eccesso di russelialismo.
C'è , insomma, una sorta di rifiuto un po' piccolo borghese. Oggi, invece, nei confronti della scienza e della
tecnica, dobbiamo avere una sorta di sfida, non una condanna a priori. Insomma, in un qualche modo,
dobbiamo saperla utilizzare con “saggezza”, -torno alla parola da cui ho cominciato-, sapendo che forse quello
di cui avremmo bisogno, in questa epoca, è di una parola che ormai non ci appartiene quasi più: la parola
"”sobrietà”.
Siamo tutti eccessivi, siamo tutti eccessivamente ansiosi. Forse l'idea di recuperare una scuola “sobria”
potrebbe significare recuperare un modello essenziale, ma anche in questo caso abbiamo sempre bisogno di
francesi per imparare?
Avete letto due giorni fa questa bella ricerca francese che ci dice che, forse, la cosa di cui hanno bisogno i
bambini europei è di farsi ogni tanto i cazzi loro?. Questo dice. Perché forse anche noi stessi, nella mania del
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tempo, occupiamo i bambini, -le ricerche dicono in tutti Europa attorno alle 48 ore-, a rimanere sempre in moto:
ginnastica, karatè, nuoto, piscina, scuola e compagnia, ma non a farsi gli affaracci loro.
Poiché sono convinto che uno degli elementi fondamentali della vita sia farsi “gli affari propri”, anche dentro la
scuola vorrei che avessimo, come in questo convegno, l'idea che questa società avrebbe bisogno di una grande
disintossicazione complessiva, avendo come mito la “sobrietà” dove ognuno sia libero di fare quello che vuole.
Intervento del Prof. Camillo Valgimigli *
PSICOFARMACI E BAMBINI: LE SCORCIATOIE IN RISPOSTA AI DISTURBI
COMPORTAMENTO INFANTILE
I DAVIDE DELLA PEDAGOGIA CONTRO I GOLIA DELLA NPI DELL’ETA’ EVOLUTIVA.
DEL
E’ la prima volta a livello nazionale - per quanto io sappia - che nel nostro Paese si svolge un controconvegno,
come quello di questa mattina, dal titolo che non lascia spazio a dubbi : “ Una pillola di troppo”; tra l’altro una
sorta di lotta di Davide contro Golia.
Sono infatti i Davide operatori territoriali, i Davide insegnanti, i Davide educatori ed insegnanti di sostegno, i
Davide vari terapisti della riabilitazione i protagonisti di questo “ controconvegno”, così come è stato chiamato
dalla stampa locale.
Il congresso, il seminario, il convegno vero, programmato dall’inizio dell’anno per i prossimi giorni, ha come
protagonisti invece i Golia delle scuole di specializzazione in Neuropsichiatria infantile delle nostre Università.
Il titolo: “ Il bambino disattento e iperattivo: Adhd e dintorni” presenta una serie di interventi diagnostici,
farmacologici, neuropsicologici, finalizzati a preparare l’ingresso in farmacia ad un vecchio farmaco: il
metilfenidato ( Ritalin in commercio) che di fatto ripropone i vecchi temi di 30 anni fa.
Temi in particolar modo quello della “ medicalizzazione e della psicofarmacologizzzazione”, nel campo dei
disturbi del comportamento dell’infanzia e dell’età evolutiva che credevamo ormai far parte della “cultura
dell’infanzia “.
Se si pensa che i Golia psichiatri infantili modenesi, per spiegare meglio il convegno, hanno deciso di illustrarlo
con la figura di “ un piccolo mafiosetto”, con tanto di coppola e con in bocca un non si sa cosa ( un sigaro ?
una matita ? uno scacciapensieri ? ), e sotto - tanto per essere chiari la scritta : “ Piccola peste, calmati ! “, non
vi è dubbio alcuno che l’obiettivo di quelle giornate di studio (si fa per dire ) è zittire, calmare, sedare, rendere
più buoni insomma, questi bambini disattenti, iperattivi.
“Bambini cattivi ? “ “ No: bambini solamente malati e quindi bisognosi , prima di tutto, di pillole e
psicofarmaci contro le varie sintomatologie disturbanti che presentano “.
Noi non crediamo che i bambini, anche se pestiferi , ammesso che esistano le piccole pesti, incutano tanto
timore al punto che le varie alternative pedagogico-ludico-ricreative- educative, passino in secondo piano, con
scarso o nulle possibilità di successo.
E’ questo il motivo per cui oggi i relatori sono per il 90% psicopedagoghi : Raffaele Iosa, Assunta Barbieri ,
Ermanno Tarracchini ,Valeria Bocchini, Claudio Ajmone e Omer Bonezzi.
Ci sembra importante inoltre ricordare i motivi per cui abbiamo voluto questo contro- convegno a Modena.
In fondo Modena è la città dei bambini, il “ paese pedagogico “ per eccellenza, la sede del telefono azzurro,
inserita tra l’altro in un territorio regionale ( Emilia Romagna) un tempo “ il più psicosociale” che si conoscesse
da cui sono praticamente partiti i vari progetti legati alla socializzazione sia degli handicappati che di tutti i
bambini.
Non può non lasciare perciò perplessi che proprio in una situazione psicopedagogica sociale come quella
modenese, gli specialisti universitari e dei servizi pubblici non abbiano alcuna remora a presentarsi in questa
nuova veste “bioneurofarmacologica “.
LA VICENDA DEI BAMBINI INIZIA NEL 1971.
“ Veste “ che tra l’altro questa città aveva indossato esattamente 30 anni fa con la gravissima “vicenda” dei
bambini-cavia di Modena: la neropsicofarmacologia come repressione denunciata dal professor Maccacaro alla
4° riunione della Società Italiana di neuropsicofarmacologia, tenutasi a Bologna il 23 , 24 ottobre 1971..
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Nel 1971 Maccacaro denunciava i risultati di una ricerca secondo la quale 629 bambini delle scuole materne di
Modena erano stati schedati in base al comportamento.
Di questi ben 150 ( uno su quattro) risultavano in qualche modo “disturbati “.
I sintomi ? “ Aggressività, crisi di collera, isolamento, mutacismo, enuresi notturna, vomito, onicofagia ( cioè
mangiarsi le unghie ) , masturbazione, sonnambulismo, balbuzie....”.
A segnalare “ i bambini anormali” erano gli insegnanti ringraziati tra l’altro dagli stessi ricercatori per la
collaborazione.
L’esperimento di Modena continuava col “ trattamento “ dei bambini mediante uno psicofarmaco ( Neuleptil),
col risultato che i piccoli “ criminali” di 3, 4, o 5 anni diventavano “ adattati, socievoli, tranquilli...”
Il commento di Maccacaro di tanti anni fa può essere riferito senza variazioni alla nostra vicenda e può anzi
diventarne la chiosa : “così ogni comportamento che contraddice il modello della conformità riceve un nome; e
per ciò stesso diventa malattia perché la malattia esiste soltanto nel suo nome. Tanto è vero che a rendere
credibile un’epidemia può sembrare sufficiente la ricchezza del dizionario, in questo caso del dizionario
psichiatrico. Ma il gioco è fatto : anche la madre che non si fiderebbe di un pedagogo, si arrende alla
suggestione del medico al quale è grata per averle restituito un figlio normale”
Ecco io credo che l’ADHD ( a distanza di 30 anni ), faccia parte di quel vecchio dizionario psichiatrico con
patologie non meglio conosciute, per non dire letteralmente inventate.
ADHD E DINTORNI : SE QUESTA E’ “ MALATTIA”
Viene indicato con una sigla: ADHD; Attention Deficit Hyperactivity Disorder, che potremmo tradurre “
sindrome da disturbi dell’attenzione “, ma in realtà è la riproposta della discussa vecchia “ sindrome del
bambino iperattivo” , conosciuta anche come “ danno cerebrale minimo” , o “ minimal brain disorder” ( termine
che sembra più credibile perché in lingua straniera).
Si tratta di una malattia letteralmente inventata in America già cinquant’anni fa , ma che lentamente sta
prendendo piede anche in Italia.
Se è vero, come è vero , che recentemente le è stato dedicato un simposio diretto da neuropsichiatri infantili
delle università di Cagliari, di Pisa, della Sapienza di Roma al congresso romano della società di
psicopatologia, al quale ero presente insieme ad altri duemila psichiatri che non hanno neppure accennato a una
sorta di debole dibattito.
L’aspetto gravissimo è che questa falsa malattia, che colpirebbe in particolare i ragazzini delle scuole
elementari e medie, verrebbe curata con un farmaco : il metilfenidato ( chiamato in commercio Ritalin ) , che è
un farmaco psicoattivo.
I farmaci psicoattivi hanno purtroppo il potere di modificare chimicamente il comportamento , e devono quindi
essere considerati alla stregua di vere e proprie droghe.
Sotto la totale indifferenza di tutti i ministeri, di tutti gli assessorati regionali alla sanità e delle varie istituzioni
scientifiche e non deputate ai problemi dell’infanzia e dell’adolescenza, il Ritalin si accinge a sbarcare anche in
Italia.
Lo scorso mese di ottobre la CUF ( Commissione unica del farmaco) ha invitato le aziende produttrici ad
avviare le procedure per la registrazione del prodotto anche da noi, “ visto il ruolo del metifenidato nel
trattamento dell’ADHD e vista l’elevata incidenza di questa sindrome in età prescolare adolescenziale e
l’assenza di farmaci alternativi “.
L’azienda farmaceutica, da subito, ha confermato al dipartimento per la Valutazione dei medicinali del
ministero della Sanità di essere pronta a mettere a disposizione degli italiani il farmaco in tempi brevi.
La sindrome ADHD, da disturbi dell’attenzione con o senza iperattività, di cui parla la CUF, sarebbe la
giustificazione diagnostica per prescrivere il Ritalin.
Per spiegare questa ADHD vengono indicati 99 sintomi prevalenti:
(...) difficoltà a mantenere la concentrazione; sembra non ascoltare, fatica a seguire le istruzioni , si distrae
facilmente; si mangia le unghie, evita o non ama compiti che richiedono un impegno mentale sostenuto;
giocherella con mani e piedi; si agita sulla sedia; corre e salta in maniera eccessiva; ha difficoltà ad aspettare
o rispettare i turni ; parla troppo; parla troppo poco, interrompe e s’ intromette spesso nel discorso altrui, ha
difficoltà a svolgere attività tranquille (....).
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Sulla base di questi sintomi ( credo comuni a tutti i bambini normali del mondo), schiere di pediatri, di
psichiatri e psicologi americani continuano a dare la caccia al bambino con ADHD al punto che tale sindrome è
stata riscontrata addirittura nel 40% dei casi esaminati.
Le case farmaceutiche produttrici di farmaci come il Ritalin hanno costruito e continuano a fare fortune
colossali su questa falsa malattia.
In America, però, i danni procurati dal farmaco cominciano a entrare nelle aule di giustizia.
Contemporaneamente in Italia il farmaco sta per avere il diritto di entrare in farmacia.
Non ci saremmo però mai immaginati che la regione Emilia Romagna fosse la Regione da cui praticamente
parte il riconoscimento scientifico ufficiale dell’ADHD, con dati epidemiologici sia pur discutibilissimi che di
fatto legittimano la malattia ADHD e la necessità di cure psicofarmacologiche.
IL DOCUMENTO
Un gruppo di psichiatri ha elaborato un documento: Promozione di salute mentale, prevenzione del disagio
psichico e disturbi mentali delle disabilità psicofisiche in età evolutiva, in cui sostiene la validità del “ deficit
dell’attenzione e del disturbo ipercinetico” (ADHD) e la necessità di curarla.
Il gruppo di lavoro, nominato dal responsabile del Programma di salute mentale della regione Emilia Romagna,
Dott. De Plato, composto da dodici rappresentanti della neuropsichiatria infantile delle Asl di Piacenza, Cesena,
Modena, Reggio Emilia, Ravenna, Parma, Rimini, Imola, Bologna, presieduto da Giovanni Polletta, ha
elaborato un documento che per quanto possa apparire incredibile, a pagina 3, recita testualmente:
“ Ricerche catamnestiche, recentemente confermate ( da chi, dove, quando, con quale scientificità, ci viene da
chiedere ) indicano determinanti del disturbo di natura genetica e ambientale, con fattori di rischio e di
comorbidità in un procedere psicopatologico che ha come prima manifestazione il deficit dell’attenzione e il
disturbo ipercinetico (ADHD) che viene accreditato da una prevalenza del4% nell’età scolare ( maschi e
femmine). La maggioranza di questi bambini evolve verso la normalità, ma la presenza di fattori di rischi (
condizioni social e culturali emarginanti, condizioni economiche di povertà, famiglia multiproblematica,
insuccesso scolastico ) o di comorbidità ( disturbo dell’apprendimento, lievi disturbi del linguaggio ) può
deviare l’evoluzione verso un disturbo oppositivo provocatorio e verso il disturbo della condotta “.
E’ una vera e propria rivoluzione culturale : il “mala cosa nascer povero” manzoniano e le condizioni sociali di
un bambino, che dalla notte dei tempi abbisognavano soltanto di interventi educativi e sociali, oggi invece
devono essere curati con droghe.
Ma non basta : a pagina 4, il documento dei tredici “ saggi “ riporta testualmente:
“Nella popolazione che affluisce ai dipartimenti di salute mentale della Regione Emilia Romagna e ai servizi di
neuropsichiatria dell’età evolutiva, l’ADHD si colloca al di sotto del 5% : ciò rappresenta una sottostima da
attribuire probabilmente, più che alla disattenzione dei servizi sanitari, alla cultura italiana tradizionalmente
prudente nel riconoscere un disturbo dal possibile sviluppo psicopatologico”.
La prudenza della nostra cultura medica attuale di fare il possibile per evitare di diagnosticare come patologico
un comportamento probabilmente del tutto normale di un bambino, nel documento viene rinnegata.
Dall’ADHD passiamo al farmaco, il Ritalin che viene proposto come cura elettiva.
IL RITALIN
Il Ritalin è una anfetamina, uno stimolante centrale: come tale appartiene, lo ripetiamo, ai farmaci d’abuso ed è
incluso fra gli stupefacenti.
Il commercio di questo prodotto rappresenta uno dei migliori affari di tutto il mercato farmaceutico: secondo la
Drug Enforcement Agency, dal 1990 al 1995 le ricette di Ritalin sono aumentate del 600% , con un giro d’affari
valutato sui due miliardi di dollari.
Spiace doverlo sottolineare, ma crediamo che sia questo volume d’affari la spinta più importante a decidere di
curare con un’anfetamina , anche in Italia, i ragazzi distratti, svogliati, disattenti....
I rischi Negli altri Paesi ( e oggi anche in America) esiste un intenso difficile dibattito sugli effetti di terapie
con Ritalin in bambini in età scolare, dibattito che è ben lontano dal giungere a risultati chiari.
Preoccupa soprattutto il fatto che il Ritalin stia diventando anche oggetto di commercio illegale.
Tritate e ridotte in polvere, le pillole di Ritalin vengono infatti smistate da molti ragazzi nei campus e nelle
scuole al posto della cocaina.
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Uno studio dell’università di Berkley della California afferma che i ragazzi trattati con Ritalin hanno un rischio
tre volte maggiore degli altri di diventare tossicodipendenti.
Mentre altrove infuriano le polemiche, in Italia ADHD e Ritalin entrano dall’ingresso principale in farmacia, in
nome della promozione della salute mentale, della prevenzione del disagio psichico e dei disturbi mentali in età
evolutiva.
I DANNI DELLA MEDICALIZZAZIONE DEI DISTURBI DEL COMPORTAMENTO INFANTILE E
DELL’ETA’ EVOLUTIVA
Alla luce di quanto siamo venuti a descrivere sull’ADHD e dintorni psicofarmacologici, dovrebbero emergere
con chiarezza i motivi di questo controconvegno,basati fondamentalmente su un unico termine :la
demedicalizzazione.
Demedicalizzare il problema, spostare cioè l’intervento dal singolo bambino in difficoltà al contesto
socioculturale al cui interno si possono individuare e neutralizzare i disturbi che sono alla radice delle sue
difficoltà significa però capovolgere diametralmente l’ottica con la quale i Golia della NPI attuali si rivolgono
ai cosiddetti disturbi del comportamento .
Medicalizzare queste difficoltà relazionali, affidarle agli specialisti di neuropsichiatria infantile o di certe
psicoterapie comportamentali, per non parlare delle pedagogie cliniche ( che non possono avere diritto d’asilo
per la contraddizione della stessa definizione che ne mette in crisi l’identità), significa creare ancora una volta
una scienza divisa e separante, legittimare sostanzialmente un tipo di esperto cui affidarsi per
deresponsabilizzare la famiglia, la scuola o il contesto allargato.
Significa soprattutto frantumare la persona attraverso la separazione dei processi di apprendimento e
socializzazione, discriminare le persone attraverso formule escludenti di scolarizzazione con il risultato di
allontanare non solo gli uni dagli altri, ma anche ciascuno dalla propria storia.
Crediamo sia importante sottolineare che già ben ventidue anni fa , per la prima volta in Italia, a dimostrazione
di quanto sostenevamo, sosteniamo e continueremo a sostenere sui danni della medicalizzazione dei bambini
con disturbi, descrivemmo l’allora nuova malattia letteralmente inventata in America: il “ danno cerebrale
minimo”, detto anche “ disfunzione cerebrale minima” o “ sindrome del bambino iperattivo”, che cominciava
già allora a prendere piede anche da noi.
Facemmo conoscere per primi o comunque tra i primi nel nostro paese Il Mito del bambino iperattivo e altri
strumenti di controllo del bambino descritto da P.Schrag e D. Divoky, tradotto nel 1978 nella collana “
Medicina e Potere “ della Feltrinelli.
Fra i 38 termini che Clemens e il suo gruppo di lavoro identificarono fra quelli in uso per descrivere disturbi
del comportamento in effetti normali scelsero il “danno cerebrale minimo” come nuovo disturbo ufficialmente
riconosciuto nei manuali psichiatrici americani.
Il minimo indicava l’assenza di un comportamento grave e il danno (dysfunction) era usato per aggirare la
necessità di trovare un problema organico.
Per l’avvenire DCM ( danno cerebrale minimo ) e MBD (Minimal Brain Dysfunction ) avrebbero dovuto
semplicemente significare qualsiasi forma di comportamento che gli adulti avessero trovato importuno.
Puntuale arriva l’ADHd che ne è termini sostitutivo a livello semantico, ma identico nei contenuti.Oggi come
allora di fronte ai contorni dell’ADHD continuiamo a chiederci se in effetti non esiste un bambino normale che
non presenti almeno uno o due di questi sintomi.
Schrag e Divoky pubblicarono il Mito del bambino iperattivo e altri strumenti di controllo per denunciare infatti
che questi bambini riconosciuti affetti da queste nuove malattie venivano curati con anfetamine e farmaci
psicoattivi, vere e proprie droghe tipo Ritalin e Cylert.
A distanza di più di 20 anni è addirittura la CUF a chiedere provvedimenti psicofarmacologici di fronte a questa
nuova malattia ( ADHD ) dei bambini :
1)Vista l’elevata incidenza ( non esistono ricerche scientifiche in merito) ;
2)vista l’efficacia terapeutica già dimostrata ( ? quando, attraverso quali ricerche !) del metilfenidato ( Ritalin ),
che come abbiamo sottolineato ha invece effetti analoghi alla cocaina;
3)vista la mancanza di interventi alternativi in merito.
Io credo che saranno gli psicopedagoghi che oggi interverranno a presentare le alternative agli psicofarmaci.
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Per quanto mi riguarda, concludo citando un mio articolo pubblicato più di 23 anni fa nella pagina di Medicina
e Società del Corriere della Sera (29 giugno 1978 ), dal titolo : “Tre bambini su dieci curati con psicofarmaci
“.
Senza mezzi termini veniva denunciata l’altissima percentuale di bambini ( 30% ) che “ oggi in Italia subisce
gli psicofarmaci a causa di diagnosi troppo spesso sbagliate “.
E l’articolo continuava testualmente:
“Bambini agitati sin dalla nascita, lattanti che non dormono, non mangiano, vomitano, bambini dispettosi,
discoli, aggressivi e ansiosi, pieni di paure, depressi, inibiti, che balbettano, che si mangiano le unghie, che
fanno ancora la pipì a letto, pieni di tic; bambini con il vomito dello scolaro, con iperfagia ( che mangiano
troppo ) o con comportamento alimentare opposto (che mangiano troppo poco ) vengono etichettati sotto il
termine volutamente ambiguo di “ disturbi del comportamento “ e conseguentemente curati con un massiccio
impiego di psicofarmaci.
Ma in realtà – mi chiedevo – sono disturbati i bambini o lo siamo noi adulti ( in quanto essi sono i disturbatori )
?
Spesso infatti vengono etichettati con diagnosi psichiatriche e quindi bisognosi di psicofarmaci tanti, troppi
bambini perché deviano da certi comportamenti considerati comuni o, ancor peggio, anormali, o “perché non si
adeguano “ nella scuola, in famiglia, nei rapporti con gli altri”.
Veniva anche sottolineato come sia istintivo aggrapparsi al tranquillante o al sedativo o all’ipnotico per il
bambino che non dorme e tiene svegli i genitori, e poi passare da uno psicofarmaco all’altro perché il bambino
ci si abitua.
E’ altrettanto facile provare una serie di psicofarmaci nei disturbi comportamentali sopra riferiti, ma quali sono
davvero i risultati ?
Prima di tutto occorre cercare di capire se il comportamento è espressione di una crisi evolutiva o la reazione a
una situazione ambientale ( famiglia, scuola, compagni )che il bambino non tollera.
A distanza di 23 anni, l’articolo è più che mai attuale.
*Psichiatra, psicoterapeuta, Psichiatra dirigente del Centro Diurno e Residenziale del Centro Salute Mentale
dell’AUSL di Modena.
Professore a contratto presso la Scuola di specializzazione in Geriatria e Gerontologia dell’Università di
Modena e Reggio Emilia: insegna Psicofarmacologia e psicoterapia geriatrica.
Autore di numerosi volumi su handicap psichico, malattia mentale e psicogeriatria.
Collaboratore del Corriere della Sera ha vinto il Premio Giornalistico Nazionale : “ Parole e immagini contro
l’handicap”.
Intervento conclusivo di Omer Bonezzi.
Le conclusioni relative a questo convegno sono state già tirate dagli altri. Non vi voglio tediare più di tanto,
però è bene che alcuni messaggi arrivino alla città, agli insegnanti e un po' a tutti.
Primo: questo convegno fa parte di un progetto che prevede analoghi convegni in giro per l'Italia. E’ supportato
da un appello che è stato firmato dai principali responsabili dell' associazionismo professionale italiano, -oltre
che dal sottoscritto, dal CIDI, dall'APIS, dall' MCE, dall'UIMC- e parla espressamente di abuso delle sostanze.
Non c'è, e deve essere chiaro, una guerra al farmaco.
Però, dobbiamo anche dire con chiarezza che il Ritalin, le modalità con cui viene introdotto in Italia, il
momento ed il contesto, non possono che allarmarci in quanto ci rendiamo perfettamente conto che, se le
condizioni di lavoro nella scuola pubblica sono queste –prospettate anche nella prossima finanziaria-, la via
chimica alla soluzione di problemi relazionali diventa di fatto obbligatoria.
Da questo punto di vista, allora, non solo questo non è un “contro convegno”, come è stato detto in qualche
contesto, -anche se anch'io mi sento di dire che la vignetta dell'altro convegno non è propriamente felice, per
come è stata fatta, scritta, eccetera.
Però, sono incidenti di percorso che accadono nelle migliori famiglie-.
Dunque, non è un contro convegno, fa parte di un progetto.
Badate, oggi sta accadendo in questa sala qualcosa di assolutamente straordinario.
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Le scienze che noi conosciamo hanno alcune caratteristiche: sono in realtà giovani, hanno impianti epistemici
che sono stati fondati nell'800, sono fortemente autosufficienti.
Le scienze moderne -Edgard Morin,, teorico della complessità, ce lo ha dimostrato- hanno un’altra
caratteristica: sono umili. Il modello di scienza moderna è l'ecologia.
Sono umili, sanno dialogare con le altre scienze, ricorrono volentieri a prestiti e perseguono un obiettivo che
non è quello delle scienze dell'800, vale a dire il dominio del mondo oppure uno sconvolgimento di equilibrio,
ma perseguono un concetto che è quello dell'equilibrio, della armonia -consentitemi questo termine un può New
Age, che non mi appartiene, perché anch'io mi sento figlio di Galilei e di Cartesio-.
Quindi, noi siamo di fronte a una situazione in cui le scienze che vengono sono scienze in grado di
autogenerarsi, di autocostruirsi.
Se il Ritalin diventa lo strumento, l'arma chimica in mano agli insegnanti americani e 7 milioni di studenti, di
ragazzi lo prendano, questo deriva anche dal fatto che la pedagogia non riesce in qualche modo a fondarsi
scientificamente. Perché questo è il punto!
Ed in Italia abbiamo una maledizione eccessiva rispetto questa cosa.
Essendo la pedagogia figlia, in Italia, una sotto branca della filosofia, -siamo tutti figli di Gentile, anch'io, e un
giorno o l'altro questo nostro padre dobbiamo decidere di sotterrarlo!- bene, da questo punto di vista, non si è
mai fondata scientificamente, ha ragionato sempre di scenari e mai di tecniche, mai di ricerca scientifica e
allora, da questo punto di vista, gli interventi del professore Tarracchini e della professoressa Bocchini non
sono da prendere sotto gamba, perché per la prima volta si cominciano a costruire, a fondare scientificamente
dei protocolli di intervento rispetto a questioni che sono assolutamente aperte.
Sono aperte, da questo punto di vista. E vorrei tornare nel merito.
Importate dall'America, arrivano delle -dis. Ricordo che il primo strano sintomo, o malattia, che ho incontrato,
a Modena nel 1994 quando, dal passaggio dalle scuole elementari alle medie, aumentavano le segnalazioni
degli alunni portatori di handicap, era " handicap a-specifico d'apprendimento ", cioè gli alunni non
imparavano. Io non entro nel merito. Questo è un problema. Bisogna solo capire chi è in grado di trovare la
soluzione a questo problema.
Poi sono uscite le "disprassie", cioè gli “imbranati”, per dirla con un linguaggio brutale. Anche qui, questo è
diventato uno stigma, una cosa che in qualche modo ti impediva di andare oltre.
Poi è comparsa la “dislessia”. Ora, io sulla dislessia apro una piccola parentesi. Qualcuno mi deve spiegare
perché la dislessia è fortissima in quelle lingue in cui non c'è corrispondenza tra suono e scrittura e non da noi.
Ora, se così è, vuole dire che non siamo di fronte a una malattia ma siamo di fronte a un fatto diverso, al fatto,
cioè, che le tecniche d'insegnamento in atto all'interno di quel paese non sono sufficientemente adatte o
adeguate per produrre un insegnamento positivo e che, di conseguenza, questa cosa provoca certamente dei
disorientamenti, certamente un senso di disequilibrio, certamente richiede degli interventi di natura diversa.
In queste -dis (abbiamo pure la disgrafia, la discalculia, la disortografia: tutte le -dis che volete), abbiamo
anche l'ipercinesi. Sulle altre, molto viene demandato alla pedagogia o alla psicologia, anche perché gli alunni
stanno fermi e poi non è facile risolvere il problema.
Siccome la soluzione dell'ipercinesi è tenerli tranquilli, il Ritalin, se non ci fosse, bisognerebbe persino
inventarlo, a questo punto!
Perché faccio tutto questo ragionamento? Perché so bene che questi sono problemi, sono i nostri problemi, sono
i problemi della pedagogia fondata scientificamente. Ma so bene anche che se questi problemi vengono
medicalizzati, vengono sottratti alla responsabilità, all'impegno degli insegnanti, viene in qualche modo, come
dire: " Salvate anche la famiglia, è malato! " e in questa situazione, però, bisogna avere il coraggio di dirlo, che
delle soluzioni non ce ne sono.
Sospendo un attimo la questione della ADHD e del fatto che sia proprio una malattia o non sia una malattia. Io
credo che anche qui, prima di formulare diagnosi di questo genere, occorre dimostrarlo scientificamente.
Ancora questo non è accaduto!
Ma preferisco le altre, voglio ragionare ancora un attimo delle altre. Della disprassia, ad esempio. Sapete qual è
il paradosso? Che gli unici protocolli oggi in grado di superare il cosiddetto “imbranatismo” dei ragazzi sono
tecniche teatrali. Un signore che si chiamava Alessandro Matteus, un attore, è riuscito in qualche modo a
intervenire.
Sulla dislessia, i protocolli di intervento sperimentati in altri paesi sono lontani anni luce sia dalla psicologia
che dalla psichiatria o da strumenti di questo genere.
C'è speranza, là dove l'approccio e l'intervento e le tecniche sono andate ben oltre la dimensione medica. Ma
questo non è un problema della medicina, guardiamoci bene in faccia, è un nostro problema. C'è il fatto che noi,
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da una parte, dobbiamo liberarci in qualche modo della tradizione gentiliana, -che ci impedisce di avere un
atteggiamento severo nei confronti della scienza-, ma dall'altra dobbiamo avere il coraggio di affermare una
nostra autonomia professionale come insegnanti, autonomia che stiamo in qualche modo perdendo.
Concludo: la vicenda del Ritalin.
Noi chiederemo che questo farmaco venga ritirato, anche se sappiamo che ce ne sono di peggiori in giro sul
mercato ma il Ritalin -è dimostrato scientificamente- presenta duemila e passa effetti collaterali. È inserito negli
psicofarmaci dell'Organizzazione Mondiale della Sanità e non dovrebbero più essere in commercio. Quindi, alla
fine della nostra campagna, chiederemo il ritiro del Ritalin.
Badate, è una metafora, è un modo di dire, è un'affermazione, e l'affermazione è che dal punto di vista
deontologico la soluzione che per noi può apparire più semplice, cioè "è malato, diamogli la pillola", non è la
più dignitosa per la professionalità dei docenti, non è quella che in qualche modo è compatibile con la sapienza
di questo mestiere.
Ed è questo il nodo, ed è il nodo che oggi si trovano ad affrontare, per altri versanti, tutti coloro che hanno
professioni di relazioni nei confronti delle persone.
Certo, è molto scomodo avere un bambino iperattivo in classe, oppure disattento, ma si può essere disattenti per
tanti motivi. Ne cito solo uno, che mi ha colpito (l'ho già detto in un altro convegno, mi scuso): c'è questo
Tomatisse, che è un otorinolaringoiatra, che si è messo a controllare le capacità uditive dei …..
Gli italiani parlano mediamente da 3 a 4 mila Mhz, gli inglesi da 8 mila a 12 mila Mhz.
I ragazzi italiani, per effetto del rock, parlano da 9-10 mila Mhz a 14 mila MHz.
Quando qualcuno di noi è in una classe, soprattutto noi docenti, e usa la parola “orefice”, è molto probabile che
l'ascoltatore, se è un ragazzo, senta la parola “pontefice”, o viceversa, oppure “efice”.
Ora, di fronte a queste difficoltà di comunicazione, fondate scientificamente, si può arrivare a formulare
qualsiasi cosa, non ultimo che la persona ha un disturbo dell'attenzione.
Se il disturbo dell'attenzione viene fondato come una malattia, si danno dei destini , si incatenano a delle
situazioni dalle quali nessun ragazzo potrà più liberarsi.
Conclusione: chi crede che la via della medicalizzazione dei problemi pedagogici in questo paese sia una via
semplice ha sbagliato.
Ha sbagliato perché c'è la determinazione della parte migliore della categoria, quella rappresentata
dall'associazionismo professionale, come dire, di vendere in qualche modo cara la pelle. Il che non vuol dire
che faremo delle contrapposizioni ideologiche, non vuol dire che vogliamo andare allo scontro con altri: noi
vogliamo collaborare, vogliamo rivendicare il nostro spazio, vogliamo cercare delle strade originali che ci
consentano di recuperare un intervento di neuro-pedagogia, -usiamo questo termine bellissimo del professore
Tarracchini che in qualche modo dà il segno di una fondazione scientifica del nostro lavoro-. Noi questo
vogliamo fare. E su questo ci sentiremo ancora. Grazie per essere venuti.
Chimica, psicoterapia o attenzione e responsabilità antropo-pedagogica,
nei confronti dei cuccioli della specie umana? (*)
(A cura dell’APISMO (Associazione Provinciale degli Insegnanti Specializzati di Modena: Gazzetta di Modena
1 Aprile 2001)
Mentre i grandi “esperti” litigano sulle percentuali di una finta malattia (“adhd”, deficit dell’attenzione ed
iperattività) ma vero affare (Ritalin) , nessuno interpella quelli che, se non scattasse troppo spesso il
meccanismo della deresponsabilizzazione umana e pedagogica, causata dalla medicalizzazione , dovrebbero
essere i veri artefici ed esperti del processo educativo, i genitori e gli insegnanti; quelli, dunque, che decidono
di non accettare una tale delega deresponsabilizzante. Una lettura ed una proposta di ri-mediazione antropopedagogica, da parte di chi, con questi bambini “agitati” ci passa dalle 5 alle 8 ore al giorno.
Tra finta malattia (“adhd”) e vero affare (ritalin) …riprendiamoci la pedagogia.
Grazie a Stefania Rossini ( “Non drogate quei bambini “ in l’Espresso n° 5 del 31/01/02 ) e al Prof. Camillo
Valgimigli di Modena ( in l’Espresso n°7 14 /02/02 “ adhd chi era costei? E in “ La Gazzetta di Modena” del
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17 /02/02 ( e, a questo proposito, vorremmo segnalare anche Giuseppe Bascietto “State bravi, o vi do il Ritalin
in Diario n°1 del 10 Gennaio 2002 ) si delineano ormai sempre più chiaramente i termini del conflitto di
interessi in corso. Infatti, come denuncia lo stesso Valgimigli, (“Un tapiro agli “spacciatori di Ritalin”
Gazzetta di Modena del 17 /02/02) diventa ogni giorno più mistificante e fuorviante il gioco delle percentuali
(da punte del 18%, con 4.000.000 di bambini drogati quotidianamente, raggiunte negli Stati Uniti, e tra questi,
bambini di 2 o 3 anni), a “minimi” del 4 % che “programmano” di raggiungere in Italia, (300.000 solo
nell‘Emilia Romagna) sulla presunta “Vera Iperattività”( data, infine, all’1% da coloro che vorrebbero
sostituire l’obsoleto e troppo chiacchierato “ Ritalin “con una pillola più moderna e meno “nociva”)
Ebbene , noi insegnanti specializzati per il sostegno agli alunni in difficoltà di apprendimento e d’integrazione
pensiamo che non si tratti di dare la caccia ai bambini veramente “iperattivi” o di sperimentare molecole “più
moderne” e con meno effetti collaterali. Nessun bambino è da curare con psico-farmaci per una malattia
letteralmente inventata: “Disordine Cerebrale Minimo” prima, ( talmente minimo che naturalmente, non poteva
essere evidenziato nemmeno con gli esami elettroencefalografici), “Deficit dell’attenzione e con disturbo
dell’attività” ora, ma altrettanto indimostrabile. La frenesia esasperante o meglio l’esasperazione frenetica di
questi bambini che per vari motivi non riescono a gestire in modo adeguato la propria attività fisica e mentale
reagendo in questo modo ad un forte disagio sociale e cognitivo “ può essere prevenuta e ri-mediata
umanamente e pedagogicamente, grazie ad un nuovo ascolto e dialogo pedagogico. Riprendiamoci dunque la
pedagogia. Una “nuova” attenzione umana, pedagogica e scientifica. Un’attenzione umana e sociale ai loro
specifici bisogni relazionali, un’attenzione veramente scientifica alla loro attività mentale e un’attenzione
pedagogica ai loro profili pedagogici e alle loro specifiche modalità di apprendimento avvalendosi soprattutto
di una lettura e di una rimediazione pedagogica basata sulle recenti acquisizioni della pedagogia metacognitiva
in generale – e della pedagogia della Gestione Mentale in particolare - dell’antropologia e della
neurofisiologia.
Il nocciolo della questione non sta , come vorrebbero farci apparire, nei termini di una “lite di famiglia” fra chi
è contrario alla farmacologizzazione ma è favorevolo alla psicologizzazione o viceversa, dei bambini
disattenti ed irrequieti. Il problema vero, secondo l’analisi critica del prof. Valgimigli che noi condividiamo, è
la stigmatizzazione o meno di un comportamento attraverso una diagnosi letteralmente inventata, l’ “A.D.H.D
” ( Attention Deficit Hyperactivity Desorder) in inglese “ D.D.A.I ” (“Deficit e Disturbo dell’Attenzione ed
Iperattività” ) in italiano
Ma, una società, che non si interroga e non riflette a livello etico, deontologico ed epistemologico su scelte che
riguardano i propri cuccioli, cioè sul proprio futuro, una società , una famiglia, una scuola, che non si danno
più né il tempo né lo spazio per ascoltare e dialogare con i propri figli, i propri studenti, preferendo rispondere
con la chimica alle loro irrequietezze, alle loro paure, (le nostre) alla loro alienazione, alla loro confusione, alle
loro difficoltà interpersonali e droga milioni di suoi cuccioli, che futuro potrà avere?
Dobbiamo conoscerci meglio, confrontarci maggiormente, scambiare esperienze, stringere alleanze fra di noi,
insegnanti e genitori per riprenderci e rivalorizzare le capacità di aiuto ed ascolto delle quali siamo stati
espropriati ed aiutare quei genitori e quegli insegnanti che, trovandosi soli ed impotenti ad affrontare tali
problematiche, potrebbero facilmente essere tentati di prendere una facile ma pericolosa scorciatoia. Ma
questo avvicinamento è sempre più difficile in una società che mira a mercificare anche l’aiuto umano e dove il
profitto è fonte di un cinismo etico e morale che rende l’uomo capace di drogare i cuccioli della propria
specie.
Eppure in molte scuole, con grande senso di responsabilità umana e pedagogica, molti insegnanti tentano di
farsi carico dei problemi educativi di ogni singolo bambino, “difficile” o non difficile che sia. E’ il nostro
lavoro e nessun altro può farlo al posto nostro. Nella scuola è urgente analizzare e discutere, per i suoi risvolti
etici, deontologici ed epistemologici, il fenomeno sempre più ricorrente della medicalizzazione di difficoltà di
apprendimento e di integrazione che potrebbero essere prevenuti e affrontati con strumenti di carattere
pedagogico e sociale se gli insegnanti fossero formati con una buona pedagogia scientifica.
Da un vuoto di responsabilità umana, sociale e pedagogica, può derivare per molti bambini l’incapacità
di parlarsi, di acquisire maggior consapevolezza e responsabilità pedagogica di sé ( ri-vedere, ri-sentire o
ri-parlarsi nella mente) e di maggiore consapevolezza, quindi, delle conseguenze delle proprie azioni.
Evocare, per alcuni bambini, potrebbe anche voler dire, riprovare emozioni troppo dolorose legate a
ricordi spiacevoli, e, questo, al di la di qualsiasi velleità psicologica interpretativa, sarebbe comunque
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oggettivamente troppo doloroso. Se la paura ed il dolore occupano la mente è molto più difficile gestire
pedagogicamente la propria attività mentale, cioè pensare, riflettere, progettare, vale a dire mobilitare il
proprio pensiero. Così é preferibile, per questi bambini, mobilitare i muscoli., rifugiarsi nell’azione
sperando di trovare la risposta alla propria irrequietezza: qui, là , poi ancora più in là, precipitarsi da
quella persona, poi da un’altra, da quell’altra ancora, urtando contro tutto e tutti quelli che si
frappongono alla loro corsa: l’importante è trasformare l’eccessivo tono muscolare che non riescono a
tradurre in evocato , in movimento frenetico nel tempo e nello spazio. Una mancanza di tempi e spazi di
ascolto reale, da parte del mondo dei grandi, può procurare al cucciolo della specie umana una
mancanza di spazi e tempi mentali per “ri-ascoltarsi” o per “ri-vedersi”. Una mancanza, dunque, di
quella capacità, frutto dell’ evoluzione antropo-pedagogica della mente che , per la prima volta nel suo
sviluppo filogenetico, ha consentito, e lo consente tuttora nello sviluppo ontogenetico di ciascun
individuo, di evocare, di effettuare il gesto mentale dell’attenzione ( osservare e/o ascoltare per rivedere
e/o ri-ascoltare nella mente) , di effettuare il gesto mentale della comprensione e della riflessione ( fare
confronti, fare analisi, fare sintesi, valutare rapporti di prima-dopo, di causa effetto, ecc..) : di
sviluppare, in definitiva, una capacità evocativa inedita che ha consentito quella progettualità, logica e
creativa, caratteristica della specie umana. Sta a noi, insegnanti e genitori, raccogliere la sfida umana e
pedagogica che questi cuccioli della specie umana ci lanciano, ed aiutarli a trasformare la loro corsa, il
loro esasperato ed esasperante movimento, nel tempo e nello spazio fisico, in movimento nel tempo e nello
spazio mentali, nel movimento del loro pensiero, logico e creativo.
(*)
Dal sito web della FADIS . Per informazioni: Assunta Barbieri, presidente dell’associazione provinciale degli
insegnanti per il sostegno di Modena (Apismo) e-mail [email protected]
Intervista ad Antoine de La Garanderie (dal sito della FADIS)
D. Che cosa studia la Gestione Mentale?
R. I gesti mentali.
D. Quali gesti mentali?
R. Quelli che assicurano l’attività cognitiva dell’essere umano.
D. Quali sono?
R. I gesti dell’attenzione, della memorizzazione, della comprensione, della riflessione, dell’immaginazione
creativa.
D. Che cosa offre lo studio di questi gesti mentali?
R. Delle descrizioni precise del modo di effettuare questi gesti mentali affinché raggiungano un buon fine; ciò
significa che ogni essere umano che deciderà di seguire tali descrizioni per eseguire i propri atti legati
all’attività cognitiva non potrà che portarli a buon fine.
D. Come vengono ottenute queste descrizioni precise dell’attività cognitiva?
R. Con uno sforzo diretto di delucidazione, ponendosi le seguenti domande: - Cosa rende un atto di attenzione,
attento? - Cosa rende un atto di memorizzazione, memorizzante? Etc…
D. Che cosa permette di affermare che queste siano proprio "descrizioni", se non partono da osservazioni dirette
dei soggetti in situazione di attività cognitiva?
R.
1.
L’intelligibilità
che
le
caratterizza.
.
2. L’efficacia certa di chi le attua.
D. Si può parlare di "descrizione" se non si opera nel campo dell’osservazione?
R. Si opera nel campo della descrizione quando si mira a descrivere un atto di attenzione che ha in sé la
struttura propria dell’atto di attenzione ecc…Si descrive ciò che fa sì che tale atto raggiunga il suo fine.
D. Che cosa fa la Gestione Mentale una volta che queste descrizioni sono state elaborate e comunicate?
R. Interroga i soggetti per sapere come procedono per eseguire gli atti dell’attività cognitiva.
D. Che bisogno c’è di preoccuparsi del modo in cui i soggetti procedono per eseguire i loro atti di conoscenza
tenuto conto che ci sono comunque dei modi migliori da proporre loro?
R. Semplicemente perché i soggetti sono schiavi dei loro modi abituali di eseguire i loro atti di attività
cognitive. Quindi, se tali atti non sono efficaci, i soggetti in questione, per potersene liberare, devono analizzarli
prima di adottare quelli che proponiamo loro.
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D. Come si procederà per liberare i soggetti e metterli in situazione di adottare validi gesti mentali di
conoscenza?
R. Facendoli lavorare su questi atti nei gesti fondamentali dell’attività cognitiva per poi interrogarli sul modo in
cui mentalmente hanno proceduto per eseguirli. Quindi si richiederanno a questi soggetti degli atti cosiddetti di
introspezione, poiché dovranno fare riferimento a ciò che è successo nella loro coscienza nel corso del lavoro
che hanno eseguito.
D. L’introspezione è stata rifiutata negli ambienti scientifici perché considerata non valida. Che cosa ha da
ribattere in merito?
R. Se l’introspezione è stata rifiutata dagli ambienti scientifici (non da tutti, del resto) significa che questi si
limitavano a dei criteri di puramente formali o che ignoravano l’uso che ne facevamo.
D. Potrebbe essere più preciso?
R. Tralascio le critiche puramente formali perché presentano un carattere "a priori" e l’uso che ne facciamo
basta a mostrarne l’infondatezza. Pratichiamo l’introspezione come segue: un certo numero di soggetti vengono
invitatati ad eseguire un compito mettendo in atto un gesto mentale qualsiasi dell’attività cognitiva. Li si
interroga, subito dopo, con delle domande molto precise sul modo in cui si sono applicati mentalmente per
eseguirlo. Si pone a tutti la stessa domanda, si annotano le risposte di ognuno, si paragonano i risultati del
compito assegnato in partenza rispetto al modo di procedere mentale che hanno messo in atto. Si confrontano le
loro testimonianze. Tale modo di fare introspezione è stato riconosciuto dagli epistemologi come sperimentale,
cioè come scientifico.
D. Quindi, esiste soltanto un unico modo corretto di eseguire i gesti mentali della conoscenza?
R. Esatto, ma questo unico modo corretto non porta ad uniformarsi ad un unico principio. E’ a partire dal giusto
gesto mentale di conoscenza che le persone compongono oggetti di conoscenza differenti. Alcune persone,
infatti, compongono questi oggetti con delle immagini mentali visive, concrete o astratte; altri con immagini
mentali sonore, di parole concrete o astratte. A partire da questo momento si avranno delle strutture di
operazioni cognitive "sfumate", cioè non immediatamente evidenti, di cui bisogna che la persona acquisisca
consapevolezza.
D.
Come
si
procede?
R. Sempre partendo dai compiti assegnati, si interrogano le persone per mettere in evidenza i procedimenti che
attuano o che potrebbero o dovrebbero attuare. Questa indagine, il cui scopo è la presa di coscienza dei mezzi
impiegati per rispondere ai compiti, anche quelli più complessi, rientra nel campo di ciò che chiamiamo i
"Profili pedagogici".
D.
Che
cosa
apporta
il
profilo
pedagogico
del
soggetto?
R. La presa di coscienza delle procedure che egli utilizza, a sua insaputa, in tutte quelle situazioni della sua vita
in cui è portato ad eseguire dei compiti e, in seguito, la presa di coscienza delle procedure che egli potrebbe o
dovrebbe utilizzare per condurre l'esecuzione dei compiti a buon fine.
Seminario di Antoine de La Garanderie, 11 maggio 2002, ITIS " Belluzzi " Bologna.
(Relazione tenuta A. de La Garanderie l’11 maggio 2002,
a conclusione del Corso di Alta
qualificazione per insegnanti specializzati per il sostegno c/o l’ Ist. Belluzzi di Bologna sui problemi
dell’attenzione e dell’iperattività )
“L’approccio pedagogico della Gestione Mentale alle difficoltà di attenzione e di attuazione del progetto del
comprendere nel tempo e nello spazio. Il gesto mentale dell’attenzione ed il ruolo del movimento nell’atto della
comprensione. “Iper-attività ed iper-passività” nel tempo e nello spazio.”
Presentazione di Susi Bagni.
Buona sera a tutti. Il corso di Alta Qualificazione per insegnanti di sostegno di ruolo in servizio nella scuola,
dalla materna alle medie superiori, aveva quest'anno come tema portante i disturbi dell'attenzione e dell'
iperattività e uno degli incontri era previsto con Monsieur de La Garanderie e Madame Giroul, qui presenti
al tavolo. Abbiamo ritenuto opportuno, con il dirigente scolastico dell'ITIS " Belluzzi ", aprire questa
opportunità ad altri, e non solo ai docenti del corso, trattandosi di una opportunità abbastanza rara in Italia,
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anche perché, appunto, Madame Giroul è la presidente dell'Istituto Internazionale di Gestione Mentale di
Parigi mentre Monsieur de La Garanderie è docente universitario, filosofo e teorico della pedagogia della
gestione mentale. Credo che quello che ho detto sia più che sufficiente per presentare i nostri relatori.
Ovviamente Monsieur de La Garanderie parlerà in francese e ci sarà la traduzione simultanea da parte
dell'interprete. Ci sarà la possibilità di fare delle domande però per iscritto e per questo là sul tavolo ci sono
dei fogli bianchi. Se qualcuno ne vuole, può farmi qualche cenno così io posso portarli, in modo che sia
possibile averli al tavolo qualche minuto prima della risposta.
Lascio la parola a Monsieur de La Garanderie.
Signori e signore, cari genitori e cari colleghi, ci auguriamo vivamente che quello che stiamo per avere sia un
reale scambio di esperienze. Noi siamo veramente interessati a conoscere le vostre considerazioni, in merito
alle proposte che stiamo per farvi, per quanto riguarda lo sviluppo in generale dell'essere umano e, più in
particolare, degli alunni in situazione di apprendimento.
Pensiamo che vi sia stata una carenza nella pedagogia. Ve la caratterizzerò rapidamente e, in seguito, vi darò
un piccolo piano dell’esposizione che voglio fare.
Vorrei innanzitutto precisare meglio l’insieme delle proposte che sto per farvi: non so se conoscete questa
espressione francese “mettere il carro davanti ai buoi”. Forse non è solo francese!
Io penso che la pedagogia metta infatti, e continui a mettere, il carro davanti ai buoi. Anch'io devo imparare da
questo perché anch'io sono un vecchio insegnante. Guardate la mia faccia!
Allora, cosa significa “aver messo il carro davanti ai buoi” in pedagogia?
Molto semplicemente questo: si impara dappertutto, nelle scuole o in altre situazione di apprendimento - sia che
si tratti di apprendimento pratico, tecnico, artistico, sportivo o intellettuale in senso stretto - e dappertutto si
pratica una pedagogia del sapere, del sapere scientifico, letterario, pratico. Diremo: sa giocare bene a calcio, sa
suonare il violino, sa la matematica, ecc.
Però c'è qualcosa prima del sapere. È la conoscenza. Per sapere bisogna essere nelle condizioni di conoscere.
Dunque, anche se questo sembra un po' paradossale, prima di imparare "il sapere", dovremmo imparare "il
conoscere". Per permettervi di capire meglio quello che ho appena detto, vi darò un esempio, come è mia
abitudine.
Immaginate che qui arrivi un alunno, proprio in questa sala, e immaginate che proprio qui ci siano tutti gli
insegnanti della Terra. Tutti gli insegnanti del mondo intero: l'insegnante di calcio, l'insegnante di tennis,
l'insegnante di violino del conservatorio, l'insegnante di matematica dell'università, ecc, proprio tutti gli
insegnanti della Terra, qualunque sia la loro disciplina. Questo alunno dovrebbe essere eletto da tutti gli alunni
della Terra come loro rappresentante, per rivolgersi a tutti gli insegnanti della Terra.
Io rappresento questo alunno e riferirò quello che potrebbe dire a voi che siete tutti gli insegnanti della Terra :
“Signore e signori, professori del mondo intero, sono l'umile rappresentante di tutti gli alunni della Terra, dei
miei cari compagni. Mi pregano di supplicarvi in questo modo: da secoli, in tutti i punti della terra, vi sentiamo
dire a tutti noi alunni: -Fate attenzione!-, - Fate uno sforzo! -, - Imparate le vostre lezioni! -, - Provate a capire
quello che sto per spiegarvi! -, - Non potreste riflettere un po’?! - , "Non avete neanche un po’
d’immaginazione?! -. Io penso che siate d'accordo, anche voi che mi ascoltate , siete stati degli alunni, o, forse,
lo siete ancora, siete comunque tutti degli alunni per un motivo o per l’altro, e per sempre. Io penso che questo
genere di imperativi abbia colpito anche le vostre orecchie. ...È a nome di tutti i miei compagni che vi parlo per
chiedervi di smetterla con tutti questi imperativi oppure di spiegarci cosa significano.
Non c'è mai stato detto con precisione quello che bisognava fare per stare attenti, non c'è mai stato detto quello
che dovevamo fare per imparare una lezione né quello che dovevamo fare per capire o per riflettere, per fare
uno sforzo o per avere un po’ di immaginazione.
Occorre d’altra parte dire che, molto spesso, invece di dirci quello che conviene fare per riuscire in questi atti,
veniamo rimproverati di non essere capaci di compierli. Si dirà di un bambino, ad esempio: - E’ molto instabile,
non può prestare attenzione! - o ancora - Non ha il senso dello sforzo, non ha un briciolo di memoria -. - Cosa
ci volete fare, è un' oca, non posso farla diventare una aquila! -, - E’ un alunno che non ha alcun spirito di
riflessione, non chiedetegli di fare un compito di francese, è sprovvisto di qualsiasi immaginazione! - ".
Ecco, adesso questo alunno ha concluso il suo discorso ed io riprendo il mio.
Io do assolutamente ragione a questo allievo. C'è una carenza nella pedagogia: non ha mai definito con
precisione gli atti fondamentali della conoscenza. Le definizioni date di questi concetti di attenzione, di
memorizzazione, sono molto vaghe. Non voglio insistere su queste definizioni perché ci porterebbero troppo
lontano. Voglio definire, piuttosto, il termine di attenzione.
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Il mio piano sarà il seguente: in primo luogo parlerò dell'atto di attenzione in generale; in seguito, vi parlerò
della comprensione, di quello che conviene fare per capire, e, a questo proposito, vi mostrerò il ruolo dello
spazio e del tempo nell'atto di comprensione e questo ci porterà a parlare degli alunni che possono passare per
iperattivi o per iperpassivi a causa del rapporto che stabiliscono con lo spazio e con il tempo.
Dunque, in primo luogo, l'attenzione.
L'atto di attenzione è fondamentale, la pedagogia esige che l’alunno faccia dei "buoni" atti di attenzione.
L'attenzione non è, come è stata definita, la concentrazione. Non ha senso dire a un ragazzo “Concentrati!”.
Immagino che il ragazzo vi dirà: “Ma io mi concentro, signore, signora, signorina, ... io mi concentro, faccio
di tutto per concentrarmi!”. La concentrazione, in se stessa, non è un atto di attenzione. Quando ci parlano di un
concentrato di pomodoro, in questo caso so cosa significa “concentrato”.
Il problema è definire quello che succede nella mente di un bambino. Io parlo di un alunno che è pieno di buona
volontà ma che non sa quello che deve fare. Ci sono dei ragazzi che fanno dei buoni atti di attenzione ma in
modo spontaneo perché nessuno ha detto loro come dovevano fare. Sanno quello che devono fare ma lo sanno
farne senza esserne consapevoli.
Si chiede a volte a un ragazzo di concentrarsi ma, in questo modo, farà un "cattivo" atto di attenzione. Infatti,
alcuni ragazzi, ai quali è stato detto di concentrarsi, passeranno il loro tempo a ripetersi mentalmente che si
devono concentrare (" mi devo concentrare!…mi devo concentrare!… ".) e, dunque, si sono concentrati sulla
parola concentrazione e non hanno assolutamente potuto essere attenti a quello che si chiedeva loro di fare, a
ciò che l'insegnante ha detto, ha scritto alla lavagna.
Ci sono altri ragazzi che si sentiranno concentrati fisicamente: i muscoli sono tesi, le sopracciglia sono
aggrottate. Terzo caso: c'è il ragazzo che si vede nella propria testa attento, con i muscoli tesi, con le
sopracciglia aggrottate, si vede mentalmente mentre guarda alla lavagna in modo concentrato. Allora
supponete che noi, che ci interessiamo a quello che succede nella testa dell’ alunno, invece di interrogare il
ragazzo su quello che è stato appena mostrato o detto, gli chiedessimo: “Cosa è successo nella tua testa mentre
prestavi attenzione?”.
Il primo, quello che si è parlato nella sua testa e si diceva “bisogna che stia attento, bisogna che stia attento” ci
dirà: “ mi sono detto quattro volte che dovevo stare attento”.
Il secondo ci dirà: “Ho cominciato a sentire le trasformazioni fisiche: le sopracciglia che si aggrottavano, la
bocca che si chiudeva, i muscoli del collo che si tendevano…”.
Il terzo ci dirà: “Io mi vedevo nella testa, mi vedevo guardare la lavagna, mi vedevo concentrato e attento”.
Allora, ascoltatemi bene: noi che interroghiamo il bambino, dobbiamo dire così: “In effetti, tu sei stato attento
alle parole che hai pronunciato, sei stato attento alle tue sensazioni muscolari e sei stato attento alle immagini
che ti sei dato. Invece di essere attento alle parole, alle immagini di te stesso, alle sensazioni muscolari, non
avresti potuto tentare di far vivere nella tua testa quello che ha detto, quello che ha mostrato l'insegnante?”.
L'insegnante ha scritto alla lavagna: “Il prodotto degli estremi è uguale al prodotto dei medi”. L'alunno
avrebbe potuto mettere la formula in immagini nella sua testa, avrebbe potuto ridirsi la stessa formula, avrebbe
potuto immaginarsi mentre scriveva la frase alla lavagna e, in questo modo, sarebbe stato attento.
Cosa significa questo? Che avrebbe fatto esistere nella sua testa quello che stava trasmettendo l'insegnante.
L'atto di attenzione non è altro che fare esistere nella propria testa attraverso delle immagini, attraverso dei
movimenti, attraverso delle parole che ci ripetiamo, il messaggio esterno. Essere attento è esprimere nella
propria testa il messaggio esterno con delle immagini, con delle parole, con dei movimenti e questo non viene
mai detto all'alunno.
Quando all'inizio abbiamo parlato di allievi che sono in situazione di "difficoltà di attenzione" , non abbiamo
inventato niente. Quanti alunni ci hanno detto che era proprio così che succedeva per loro e, per questo, non
erano coinvolti nella lezione.
E tutto questo nonostante la loro buona volontà! L'insegnante si preoccupa di insegnare il sapere, per esempio
la formula matematica "il prodotto degli estremi è uguale al prodotto dei medi ", ma, visto che non ha
insegnato come fare per stare attenti, ecco che il carro è messo davanti ai buoi. Potrei fare lo stesso discorso
per la memorizzazione, la comprensione, la riflessione e l' immaginazione creativa. Ritroveremmo esattamente
le stesse situazioni. L'alunno tenta così di trovare da solo ciò che deve fare per riuscire in questi atti di
conoscenza. Invece, sarebbe molto semplice insegnarlo ai ragazzi, così come è stato detto per l'attenzione.
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Pensate che sia difficile dire agli allievi: “Prima di osservare, di ascoltare quello che sto per mostrarvi o per
dirvi, mettetevi in progetto di fare esistere nella vostra mente quello che sto per dirvi o per mostrarvi?”. Se
l'alunno è in questa situazione di progetto, potrà riuscire ad eseguire un corretto atto di attenzione.
Vado oltre. Sono in classe, ho appena fatto un disegno alla lavagna, un triangolo rettangolo, e ho appena detto
agli alunni: “Questa è una figura geometrica, è un triangolo rettangolo”. Suppongo di aver chiesto prima ai
ragazzi di fare esistere nella loro mente quello che ho appena detto o mostrato. Mi fermo e chiedo loro: “Cosa
avete nella testa?”. Copro la lavagna e faccio a ciascuno questa domanda "Cosa hai nella testa?". Io mi
assicuro che l'alunno abbia messo in testa quanto percepito, che abbia cioè nella sua testa un oggetto di
conoscenza. Potrà anche non essere perfetto, però esisterà e gli permetterà di lavorare e di progredire. L'avrà
messo nella sua testa in parole, in immagini, in movimento, come vuole, però qualcosa nella sua testa esisterà.
Durante tutta la lezione, starò poi molto attento ad assicurarmi che tutti gli allievi stiano mettendo qualcosa
nella loro testa per continuare a progredire. Se anche riempissi tutta la lavagna ma l'allievo non ha messo
qualcosa nella sua testa, sarebbe completamente inutile continuare. L'alunno non sarebbe più in situazione di
conoscenza. E, dunque, non ci sarebbe alcun acquisito di sapere. Il bue non è più davanti al carro, il bue si è
sdraiato e addormentato. Il carro non può più trascinare il sapere. Adesso riprenderò il mio discorso
sull'attenzione per introdurre in seguito il problema della comprensione e poi quello dello spazio e del tempo.
Non dobbiamo chiedere all'attenzione più di quello che può dare. L'attenzione non è la comprensione! Molti
allievi falliscono nella comprensione perché non hanno cercato inizialmente di costituire l'oggetto di
attenzione. Non bisogna confondere l'attenzione, la memorizzazione e la comprensione. Essere attento non è né
memorizzare né comprendere. È’ essere attento. Cosa vuol dire? Vuol dire avere presente la cosa alla quale
dobbiamo dare attenzione. Se ho disegnato una triangolo rettangolo alla lavagna, l'alunno che lo fa esistere in
immagine nella sua testa, - può anche non sapere che si tratta di un triangolo rettangolo, potrebbe anche
ignorare che sono tre rette che si tagliano due a due, potrebbe ignorare che c'è un angolo retto -, cosa ha fatto?
Si è dato la presenza, in immagine, di ciò che ha visto. Ha acquisito qualcosa : il senso della presenza di una
cosa. Questo è l'attenzione: avere il senso della presenza di una cosa.
Lo stesso succede se il ragazzo non ha messo in immagine questa figura ma l'ha messa sotto forma di parole,
anche utilizzando parole sue: sono delle righe, sono delle righe appuntite, sono delle righe che si tagliano l'un
l'altra. Oppure, si è ripetuto nella testa le parole dette dall'insegnante “un triangolo rettangolo” anche sempre
senza sapere cosa sia. Oppure, se ha fatto dei movimenti, li riproduce mentalmente. In tutti i modi ha il senso
della presenza. L'atto di attenzione è questo e, a questo punto, qualunque attività è possibile perché l'allievo ha
questa presenza. Per l'esecuzione di qualsiasi compito occorre un atto di memorizzazione che mantenga questa
presenza nella sua testa e, in seguito, si può passare all'atto della comprensione.
Immagino un dialogo con un allievo: “Tu hai voluto memorizzare ma non hai fatto esistere la cosa nella tua
testa. Hai voluto capire ma non hai questa presenza nella testa. Non hai memorizzato: come vuoi capire?”.
Questo è fondamentale.
Non c'è il tempo per parlare dell'atto della memorizzazione per cui passo subito all'atto di comprensione.
Supponiamo che sia l'atto di attenzione che quello di memorizzazione siano stati ben eseguiti. Per assicurare
l'atto di memorizzazione, occorre mettere la "presenza", ottenuta con l'atto di attenzione, nel proprio avvenire.
Io immagino: ho guardato il triangolo rettangolo alla lavagna, l'ho messo in immagine o in parola o in
movimento nella testa. Ma lo immagino esistente nel mio avvenire. Ecco, è là.
Il professore continua a spiegare e io confronto la sua spiegazione o alle immagini o alle parole o ai movimenti
che mi hanno dato questa specie di cosa “triangolo rettangolo”.
Questo è, in un certo senso, insegnare la memorizzazione.
Cosa permette, invece, all'allievo di fare un atto di comprensione? Etimologicamente, nella parola
“comprensione” c'è il senso di “prendere insieme”.
Di solito quando si parla di comprensione si intende l'intuizione del senso della cosa. Ad esempio, io ho
l'intuizione del senso di un problema, cioè, so risolverlo. Per fare questo ho dovuto "mettere insieme", in un
modo che abbia senso, lo svolgimento del problema . Voi potreste dirmi che siamo molto lontani da quello che
è stato appena detto a proposito dell'atto di attenzione. Che rapporto c'è fra questa presenza e la comprensione
di un problema?
L'atto di attenzione permetteva di avere la presenza di una cosa ma non per questo veniva capita.
Allora, che cosa permette la comprensione? È la costituzione di un atto di attenzione, di un atto di
memorizzazione e del loro confronto.
Immaginiamo che alla lavagna io abbia disegnato una caraffa e un bicchiere e che io dica: che senso ha
confrontare queste due cose? Per confrontare queste due cose, cosa dovrà fare l'allievo ?
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Se non si è data la presenza della caraffa e del bicchiere, attraverso l'atto di attenzione, non potrà
confrontarli, non potrà metterli insieme, non potrà comprenderli e non avrà l'intuizione del senso. Cosa
dovrà fare per metterli in situazione di confronto? Attraverso l'atto di attenzione, potrà far emergere nella
mente, o la caraffa o il bicchiere, in presenza l'uno dopo l'altro o contemporaneamente.
Lasciamo da parte il fatto che l'allievo abbia potuto rendere presenti nella mente la caraffa e il bicchiere
contemporaneamente.
Se vuole confrontare tra di loro i due oggetti, sarà necessario che, quando guarda il bicchiere, non guardi più la
caraffa. Però, se non ha la caraffa memorizzata nella mente, non potrà stabilire un rapporto col bicchiere che sta
guardando.
Dovrà prima aver memorizzato la caraffa e "portare" questa caraffa alla "presenza" mentale del bicchiere.
Dunque è necessario che esegua un atto mentale per mettere a confronto un oggetto memorizzato, o
meglio, una "presenza" di un oggetto memorizzato con una "presenza" di un oggetto di attenzione.
Supponiamo che diciate a questo allievo: “Per capire, devi fare questo confronto, cioè cercare quello che c'è di
somigliante e quello che c'è di differente tra i due oggetti”.
Se l'allievo fa questo lavoro, c'è una enorme possibilità che, grazie al confronto, possa individuare somiglianze
e differenze: differenza di forma, di colori;…; somiglianza in quanto contenitori di liquidi, eccetera.
In questo modo, indico all'alunno quello che deve fare per eseguire un atto di comprensione, gli indico quali
sono gli atti e come li può eseguire. Ma questo non lo diciamo mai agli allievi. Mai.
Diciamo solo: “Fa' uno sforzo per capire!”. Facciamo un altro esempio: diamo all'allievo un testo da leggere e
diciamo all’allievo: “Fa' uno sforzo per capirlo!”, ma non gli diciamo quello che deve fare per capire questo
testo.
Al massimo diciamo delle cose in generale che non hanno per lui alcun senso, del tipo: “Cerca l'idea
principale; cerca il tuo metodo, induttivo o deduttivo che sia; il testo contiene una successione di argomenti,
presenta degli esempi, …." e l'allievo è in difficoltà.
Invece, possiamo dire all'allievo: “Leggi questo testo per metterlo in immagini o per dirtelo con parole tue o
per riprodurre la situazione del testo. In seguito, tu confronterai quello che hai memorizzato , cioè quello che ti
sei detto, le immagini che ti sei dato, i movimenti che hai eseguito, col testo stesso, per vedere se la tua
traduzione ti porta a delle similitudini o a delle differenze oppure se quello che ti sei detto o visto in immagini o
i movimenti che hai fatto è senza rapporto col testo, che è comunque un modo per capire che …è senza
rapporto”.
A questo punto, siamo nella pedagogia della comprensione. Sono queste le basi elementari di questi atti di
conoscenza che non vengono mai insegnate ma che sono indispensabili e senza le quali l'allievo non potrà mai
dire se pratica un metodo induttivo o deduttivo. Grazie a questo lavoro di base, che ho appena indicato, sarà
possibile all'alunno cercare l'idea generale o gli argomenti della lettura, perché la situazione di comprensione
orale si sarà costituita nella sua testa. È perché c'è una lacuna in queste basi che l'alunno viene valutato
“incapace”, mentre in realtà si trova ad un “altro livello”. Non è incapace ma non sa quello che deve fare per
conoscere.
Adesso possiamo introdurre il terzo punto, vale a dire il ruolo dello spazio e del tempo nella comprensione.
L'alunno che pensa con delle immagini tradurrà il testo con immagini concrete se il testo è concreto o, se ha
delle abitudini in tal senso, con immagini astratte se il testo è astratto, e così pure l'alunno che si parla
mentalmente tradurrà il testo con parole sue e, allo stesso modo, l'alunno che ama il movimento tradurrà le cose
concrete o simboliche del testo con dei movimenti. Questo implica, però, che questi allievi, per compiere questi
atti, siano in rapporto con lo spazio e con il tempo.
L'alunno che si dà delle immagini ha per luogo di comprensione lo spazio; l'alunno che capisce con le parole si
trova meglio nella temporalità - le parole, infatti, si susseguono nella temporalità- dunque avrà come luogo di
comprensione il tempo e l'allievo in movimento può situarsi o nello spazio o nel tempo, - al limite potrebbe
essere anche in tutti e due -.
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Ora, ci sono delle lezioni in cui l'insegnante parla e non mostra niente e ci sono altre lezioni durante le quali
l'insegnante mostra e parla pochissimo.
Mi ricordo di un mio insegnante di Fisica che aveva qualche difficoltà con il lessico e che diceva: “C'è quella
cosetta lì che fa pum” e allora, per gli alunni, le conoscenze di fisica erano solo “quella cosetta là che fa pum”,
quindi avevano sempre informazioni verbali confuse e incomplete.
Altri insegnanti hanno un linguaggio accademico perfetto ma non illustrano con immagini. Il risultato di questi
comportamenti è che ci saranno degli allievi completamente bloccati, perché avrebbero avuto bisogno di una
"struttura" di riferimento, di una “cornice” per poter capire. Per alcuni questa “cornice” è lo spazio, per altri la
“cornice” è il tempo.
La materia di senso per l'essere umano è lo spazio e il tempo.
Quando un alunno non riesce più a capire, significa che non ha più la possibilità di servirsi, per comprendere, o
dello spazio o del tempo.
Prendiamo l'esempio del problema di matematica: il ragionamento di un alunno può funzionare molto bene
finché tale ragionamento può avvenire in una logica spaziale, ma fallire nel momento in cui ci sarà la
necessità di temporalizzare le operazioni e viceversa ( funzionare bene nella successione temporale delle
operazioni ma fallire nel momento in cui si dovesse rendere necessario un ragionamento di tipo spaziale) .
È spesso molto interessante osservare dove si ferma la comprensione per l'allievo. Si potrebbe dire questo:
“Non sai più come tradurre lo spazio in tempo o non sai più come tradurre il tempo in spazio”. La bravura
consiste, per l'allievo che pensa "nello spazio", nel trovare i mezzi per esprimere la temporalità e viceversa.
Ho avuto due studenti che facevano la tesi di dottorato insieme. Erano due studenti della Scuola Superiore di
Telecomunicazioni. Utilizzavano due metodologie mentali completamente diverse. Uno si chiamava John
Smith e diceva: “Il mio compagno pensa tutto "nel tempo" ed io sono costretto, per capirlo, a mettere tutto in
schema”.
C’erano due premi Nobel in Francia che lavoravano in un laboratorio. Uno di loro metteva tutto in parole e
l'altro tutto in immagini. Quest'ultimo dunque si metteva alla lavagna e traduceva in immagini tutto quello che
diceva il suo collega François Jacob. Era in questo modo che pensavano.
Per un alunno che non trova il modo di esprimere il tempo o lo spazio, può succedere come ha detto uno
studente del Politecnico: “Per me è il buio più totale”. Per lui, non riuscire a tradurre le parole in immagini e a
costruire uno spazio, significava “il buio totale”.
Comprendete, ora, ciò che volevo dire all'inizio di questo intervento a proposito del “mettere il carro davanti ai
buoi”? Ebbene, all'allievo che ha bisogno dello spazio, devo dire che è necessario che traduca ciò che
percepisce in spazio ( o in tempo per un allievo che ha bisogno del tempo). Se non glielo dico, penserà di non
essere dotato, di non essere capace, di avere dei limiti. E' un problema di “buoi della conoscenza” , non un
problema di “carro del sapere”. Si valuta in termini di "inattitudine" ciò che, invece, è un problema che
riguarda unicamente la pedagogia della conoscenza. E allora ci saranno degli alunni che, per questo motivo,
avranno delle difficoltà di comprensione, perché " il mezzo" attraverso il quale per loro si dovrebbe effettuare
la comprensione, cioè o lo spazio o il tempo, sarà di ostacolo alla comprensione, all'acquisizione dell'oggetto
di senso.
A volte, questo, gli procura molta tensione.
Osservate l'alunno che si trova a suo agio nello spazio e che non riesce più a procedere con il suo problema
perché avrebbe bisogno di una temporalità che invece non ha: “subisce” una forma di “tetania mentale”. È
prigioniero del movimento, privato della potenzialità di senso. Ci sono diverse possibilità di reazione in queste
situazioni di difficoltà.
Ci sono degli allievi che avendo come riferimento lo spazio (o il tempo) manifesteranno una “iperattività”
nello spazio ( o nel tempo). L'iperattività è dovuta, pedagogicamente, all’impossibilità di introdurre dello
spazio (o rispettivamente del tempo) nella loro intuizione del significato che vogliono afferrare. E allora
corrono, corrono dietro all'intuizione in modo disperato.
Ve ne sono altri, invece, che vorrebbero restare in una " iperpassività " nello spazio (o nel tempo) perché non
riescono a tradurre lo spazio nel tempo ( o il tempo nello spazio) e, per questo, non riescono ad aprirsi al tempo
o allo spazio, oppure non cercano qualcosa né al di fuori né all’interno della loro situazione, oppure lottano
disperatamente per trovarla al di là.
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Io penso che questa iperattività o questa iperpassività sia collegata ad una scarsa padronanza della intuizione di
senso complementare, quella spaziale per chi comprende nel tempo o quella temporale per chi comprende nello
spazio. E’ evidente che la pedagogia deve prendere in considerazione il mondo mentale e che il lavoro da fare
per conoscere il mondo mentale è fondamentale per la pedagogia. È un'esigenza ineliminabile se vogliamo che
la pedagogia esca da questa situazione stagnante.
Ci sono molti più allievi in situazione di fallimento che in situazione di successo e sappiamo che, in generale, i
ragazzi che riescono sono sempre “motivati”.
Tuttavia, ci sono allievi che riescono a superare anche esami difficili ma abbandonano gli studi: si può
dire, allora, che hanno problemi di motivazione.
Diciamo però che, in pratica, sono sempre gli allievi in situazione di fallimento a non essere motivati mentre
quelli che non sono interessati alla cultura sono allievi che non si sognano neanche lontanamente di pensarsi
capaci di acquisire questa cultura e di godere di questa cultura.
Il possesso della conoscenza è una felicità per l'uomo perché grazie alla cultura ha maggiore coscienza di sé e
del proprio potere creativo.
Dunque, gli sforzi intrapresi al servizio di questi atti di conoscenza potranno andare incontro all' alunno, al
giovane, all'uomo in situazione di fallimento. Dobbiamo fargli capire, fargli conoscere le sue capacità naturali.
Questo è il nostro dovere, il dovere di tutti i genitori e di tutti gli insegnanti: non mettere l'allievo, il bambino in
situazione di inferiorità, in situazione di incapacità. Dobbiamo permettergli di mettersi in " allerta " riguardo
alle sue capacità naturali. Questo è fondamentale.
Da tanto tempo io studio l'origine della formidabile motivazione degli allievi per lo sviluppo culturale. Ho
constatato che questi allievi avevano avuto molto spesso, quando erano molto giovani, condizioni di vita che
avevano loro permesso di fare correttamente questi atti di conoscenza.
Vi do un esempio: nel 1946, dovevo tenere una lezione di filosofia. In quel momento ero un giovane
insegnante.
In prima fila, di fronte a me, in una classe dell'ultimo anno delle superiori, c'era un ragazzo che aveva allora 14
anni e che avrebbe sostenuto l’esame di maturità a quattordici anni e mezzo. Adesso è in pensione. Ha fatto
una grande carriera di statista. A vent'anni aveva già diverse lauree ed entrava alla Ecole National de
Administration, classificandosi al terzo posto del concorso di ammissione. Nel frattempo aveva finito un'altra
famosissima scuola. Tre anni dopo usciva, sempre dalla Ecole National de Administration, come primo
classificato. Era un tipo geniale, superiore. Quando aveva 3 anni e passeggiava con sua madre per le strade di
Versailles, guardava le insegne, guardava i nomi e sua madre gli diceva: “Farmacia” , “Monsieur …, è la
farmacia di Monsieur …”. Gli faceva osservare le cose: “Questo è un armadio, questa è un'automobile, ...”. Lui
mi diceva: “Le parole che sentivo dire a mia madre e che vedevo, le mettevo in immagini nella mia testa e
quando mia madre e mio padre mi parlavano, io mi ridavo le immagini di quello che dicevano e vedevo le
parole nella mia testa. In seguito, mi sono dato anche le figure geometriche e me le spiegavo parlando con me
stesso”.
Un venerdì sera, alle 17 e 30, stavo facendo lezione sulla logica della Storia. Il mio allievo di quattordici anni e
mezzo guardava sempre in giro. Finisce la lezione. Il martedì successivo, alle 8 e 30: “Mi può ripetere la
lezione di venerdì sera, per piacere?”. “Lei ha detto..., poi lei ha detto...” : la mia lezione ripetuta
integralmente!
“ Come ha fatto?”.
“Quando l'ascoltavo, l'altro giorno, componevo in un "libro mentale” il testo di quello che diceva. L' ho
scritto integralmente sul mio “libro mentale” e oggi lo posso ripetere”.
Questo succede quando si prende l'abitudine, già da molto piccoli, di far rivivere tutto ciò che si percepisce
nella propria mente.
Questo non è un modello, è solo un esempio, è solo indicativo di quello che si dovrebbe fare: fare rivivere le
cose nella mente. Io ho dato questo esempio, ma tutti i ragazzi in situazione di successo lavorano in questo
modo, evocano le cose in immagini o in parole e poi le fanno vivere nella propria testa.
Adesso io mi fermo. Vi ho fatto alcune proposte, proposte oneste, diremmo nel mio paese. Se avete
interventi da fare in merito a queste proposte, ne sarei molto felice. Potete scambiare opinioni fra di voi,
se volete, e mettere insieme delle domande.
Dibattito
1^ DOMANDA (riguardante la dislessia ma non registrata)
A. de la Garanderie:
66
… le ho fatto guardare la parola che lei aveva scritto chiedendole di “vederla” nella sua testa. Poi
abbiamo preso il libro di lettura. Le parole concrete le vedeva nella sua testa e quindi poteva leggerle; le
parole astratte gliele ho fatte scrivere, dunque gliele ho fatte mettere nella testa in immagine, con la sua
calligrafia, e quando le ha avute nella testa le poteva dire.
- Vedi bene la parola nella testa? La vedi ancora? Me lo dici “parce-que”? Ecco, adesso l’hai scritta.
Guardala. Dilla di nuovo. – ed era in grado di dirla di nuovo e di leggerla. Si trattava, dunque, di tenere
conto del suo modo di operare mentalmente.
Cercherò ora di spiegare la “tecnica della vita mentale” sottostante a questo modo di operare. La
definizione sarà tecnica: un po’ più difficile. Un soggetto che evoca delle immagini potrà parlarsi soltanto
se ha già un evocato di immagini nella testa. Concretamente: supponiamo che questa signora [si rivolge
all’interprete]] evochi visivamente; supponiamo che io voglia farle dire la parola “bicchiere”; che cosa
faccio? Le dico:
- Ecco, guarda il bicchiere e vedilo nella tua testa. Lo vedi nella tua testa?- e mentre dico questo,
nascondo il bicchiere. Lei dice di sì e io aggiungo – Ripeti la parola “bicchiere”. Ascoltati mentre
la dici quando lo vedi nella tua mente. –
Se evocasse verbalmente e volessi farle riconoscere il bicchiere, cosa dovrei fare? Non farei subito vedere
il bicchiere ma direi: - Ricordi la parola bicchiere? Ripetila nella tua testa. A questo punto direi
“bicchiere” e lo farei vedere. Questo è fondamentale. E’ importantissimo. E questo risolve un problema
pedagogico fondamentale. E dunque questa domanda fatta a proposito della dislessia è una domanda che
riguarda un ambito puramente pedagogico. E’ ovvio che i bambini che si mettono delle parole nella
mente, parlandosi, saranno più a loro agio col metodo sillabico di lettura che col metodo globale;
viceversa, i bambini che evocano visivamente saranno più a loro agio col metodo globale. Ma sarà molto,
molto importante abituare questi bambini ad evocare sia visivamente che uditivamente e viceversa.
Evocare significa “vivere, nella mente, visivamente o uditivamente l’oggetto” . Percepisco, vedo, evoco;
per riprendere l’esempio: ri-vedo il bicchiere , o mi ri-dico la parola “ bicchiere”.
Non vorrei parlare di quella dislessia che rimanda ad un problema medico in quanto non è più un
problema pedagogico. E’ un problema di terapia e dunque non riguarda questa sede.
2a domanda:
Può fare un esempio di applicazione del suo metodo con bambini molto piccoli, non ancora in grado di
leggere e di scrivere?
Bambini iperattivi che fuggono la lezione: come attirare la loro attenzione? E’ giusto integrarli il più
possibile con la classe oppure farli uscire perché in un certo senso disturbano l’andamento globale delle
lezioni?
A. de la Garanderie:
In primo luogo bisogna rendersi conto del metodo del ragazzo. Bisogna capire quale metodo utilizzano i
bambini di questo tipo, per esempio, come si comportano già nella loro vita personale. Il bambino che si
presenta con queste caratteristiche come pensa? Con immagini? Col movimento? Pensa in modo tattile? Solo
allora potremo fare a quel bambino delle proposte in relazione a quanto gli viene chiesto di imparare. Se, ad
esempio, è in classe e si tratta di un bambino che manifesta già un’attività evocativa particolarmente ricca, può
essere in una situazione di opposizione quando gli si chiede di acquisire meccanicamente come nel caso della
ripetizione a memoria. Bisogna prima capire il bambino; non è detto che si rifiuti. Questo significa che
basterebbe forse fargli scoprire l’utilità di ciò che gli si propone ai fini della comprensione. – Vedi che se
memorizzi capisci meglio? Allora a scuola potresti anche memorizzare! –
Spero di avere capito la domanda.
3a domanda:
In una scuola elementare come intervenire per il recupero di una mancata gestione mentale autonoma? Come
fare concretamente?
A. de la Garanderie:
Vorrei prima capire cosa significhi “mancata gestione mentale autonoma”. Cerco di immaginare cosa abbia
inteso la persona che ha posto la domanda. Voleva forse dire che la gestione mentale messa in atto dal bambino
non corrisponde a quello che ci si aspetta da lui a scuola? Non capisco molto bene la domanda. E gestione
mentale “autonoma”; è ancora più difficile per me da capire.
67
Comunque, ci sono in realtà pochissimi bambini che sono abituati a gestire mentalmente le loro immagini, le
loro parole, eccetera. E poi non è indispensabile. Posso anche dirvi che se vi parlassi del profilo pedagogico del
ragazzo così brillante di cui vi ho parlato prima vi direi che la sua capacità creativa è stata spenta, non le è stato
consentito di esprimersi. Avevo anche detto di questo ragazzo: -Sicuramente sarà un grande statista ma non
creerà opere d’arte. –
E’ diventato anche reazionario. Eppure aveva una cultura immensa, era consigliere di stato. Incontro un suo
collega e mi dice: - Ma si ricorda del suo alunno? E’ una peste, un veleno. Quando abbiamo un problema in
consiglio di stato, per qualsiasi domanda ci fa l’elenco dal 13° secolo! – Dico questo perché tutto è relativo. E’
vero che molti bambini non sono sufficientemente preparati ad essere in una situazione di evocazione.
L’esperienza che ho delle scuole materne e della scuola elementare mi ha permesso di constatare che in classi di
21 ragazzi ce n’erano almeno due o tre incapaci di far vivere nella loro testa quello che veniva presentato loro.
E dunque la pedagogia con loro non poteva cominciare. … E poi lavoravamo in collaborazione con degli
psicologi perché i bambini acquisissero abbastanza equilibrio da essere messi in situazione di successo
evocativo, che permettesse loro di parlarsi, di darsi delle immagini e di riuscire nell’apprendimento di una
lezione molto semplice, cioè di “dare una spinta alla macchina”.
4a domanda:
Come e attraverso quali strategie, posso aiutare un ragazzo che utilizza il canale visivo-spaziale a integrare la
temporalità?
A. de la Garanderie:
Quando ho risposto alla prima domanda ho fatto vedere quello che bisogna fare a partire dal momento in cui la
persona vive il “bicchiere”, cioè quando l’ha in evocazione nella sua testa. Gli chiediamo di dire la parola nella
temporalità. A questo punto potremmo proseguire così: - Mi vedi riempire il bicchiere? Adesso devi evocare
ciò che hai visto e dirti mentalmente che io riempio il bicchiere. Occorre sempre, però, per prima cosa, fare
vedere ed evocare. Oppure si fa un disegno: si disegnano due palline e una freccia che mette in relazione la
pallina A e la pallina B. Si dice al bambino di ri-vedere nella sua testa le palline e si fa descrivere la loro
relazione: “la pallina A va verso la pallina B”. Questa è la base, la partenza.
5a domanda:
E’ possibile recuperare almeno in parte la capacità di memorizzazione che un alunno di nove anni manifesta
quotidianamente?
A. de la Garanderie:
Vi dico quello che io ho capito di questa domanda. Significa per caso che il bambino ha una memoria normale
ma non la utilizza nella scuola quando deve apprendere? Se questo è il senso della domanda, ovviamente
bisogna informarsi sul metodo del bambino, quello che utilizza, come fa nella sua testa; e poi bisogna sapere
quello che sceglie di mettere nella sua testa . Ad esempio, memorizza benissimo quando osserva un animaletto
che sta giocando o una partita di calcio o dei disegni, e solo dopo avere capito cosa memorizza e in quale modo,
potremo avere delle indicazioni per la scuola. Perché c’è un problema piuttosto importante: Il bambino può
memorizzare spontaneamente e in modo corretto quelle cose che lo interessano, ma, visto che non sa come ha
fatto a memorizzare, cioè “fare vivere nella propria testa” immagini, movimenti, parole e metterli
nell’immaginario del futuro, non pensa a farlo per le materie scolastiche. In più, gli insegnanti spesso gli
chiederanno di rileggere, di ricopiare, di ripetere, ma comunque in modo meccanico; pedagogicamente questi
sono consigli stupidi. E il bambino, a questo punto, anche se ha molta volontà e buona volontà, fallirà. Ci
metterà della “buona” volontà quando in realtà si tratterà di un problema pedagogico. Un professore mi ha detto
un giorno: - Non capisco questo ragazzo! Quando scrive la sua lezione è come se l’avesse imparata a memoria.
Non fa nessun errore di ortografia. Invece i suoi dettati sono pieni di errori. – Faccio una domanda all’
insegnante e chiedo: - Ma i dettati sono preparati? cioè letti prima della prova? Perché se il dettato non è
preparato, la spiegazione sta qui.
- No, no – dice – anche per quanto riguarda i dettati preparati, sono pieni di errori. –
Allora ho interrogato l’alunno e gli ho chiesto: - Come fai nella tua testa quando devi imparare qualcosa
a memoria? – Mi ha risposto: - Faccio una fotografia. Rivedo tutte le parole nella mia testa. E’ come se
ricopiassi. –
- E perché non fai la stessa cosa quando state lavorando su un dettato preparato? Vedi il dettato prima di
farlo? –
- Oh, no, io non lo vedo.
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- Come mai?
- Perché sarebbe barare. Sarebbe troppo facile!
Se fosse stato il caso di un solo ragazzo, avrei potuto dire: - E’ un ragazzo originale. – Invece è successo
diverse volte. Vedete fino a che punto arriva il formalismo pedagogico. Essere bravo nella prova del dettato è
solo scrivere delle parole che normalmente non avremmo visto prima e che richiede delle abilità in grammatica,
eccetera.
Ci sono ragazzi che non hanno tutti questi scrupoli e che sono bravi in ortografia perché hanno una memoria
fotografica; fanno una fotografia e, se il dettato è preparato, lo fotografano, e tutto va bene.
Ci sono due modi per essere bravi in ortografia:
• o mettere le parole nell’immaginario del futuro, visivamente, pensando “io le ritroverò un giorno in un
dettato”,
• oppure posso metterle nell’immaginario del futuro facendone la compitazione e quando le sento
pronunciare nel dettato, me le ri-dico attraverso una compitazione mentale.
Al di fuori di questi due modi non ci sono altre possibilità per essere bravi nel dettato. Non pensate che
questo lo potremmo dire agli alunni? Non pensate che potremmo allenarli in questo modo per il dettato,
per non fare più errori, invece di fare dettati su dettati finchè non diventano bravi?
Penso di avere così risposto alla domanda che è stata fatta.
6a domanda:
E’ importante apprendere ad utilizzare anche stili di apprendimento diversi dal proprio?
A. de la Garanderie:
Questa è una libertà che ciascuno ha. In una classe di alunni di 11 anni la maestra si rende conto che una parte
dei suoi alunni cambiava modo evocativo. Alcuni che pensavano con immagini si erano messi a pensare con
parole e viceversa. La maestra decise di lasciar fare; c’è stato un momento in cui il rendimento degli alunni è
calato poi ha trovato un certo equilibrio. Questo non significa che avessero abbandonato il loro primo metodo;
diciamo che si era integrato all’altro. Questo dobbiamo farlo solo se sentiamo di doverlo fare. Quello che però è
importante per la comprensione, in riferimento a quanto è stato detto in precedenza sul tempo e sullo spazio, è
che l’alunno possa mettere del tempo nello spazio e dello spazio nel tempo. Invece, per ciò che riguarda il
passaggio da una strategia visiva ad una uditiva e viceversa bisogna basarsi di più su quello che facciamo
spontaneamente.
7a domanda: E’ necessario che tutti imparino nello stesso momento? Non è utile anche incentivare un
apprendimento per intuizione dopo aver lasciato decantare le informazioni?
A. de la Garanderie:
Cosa intendiamo quando diciamo “imparare nello stesso momento”? Si chiede agli alunni di evocare tutti nello
stesso momento, dunque di mettere in immagini, in parole, in movimento nello stesso momento? Se è così, è
ovvio che nell’organizzazione di una classe è difficile per un insegnante mettere i ragazzi nella condizione di
evocare nello stesso momento. Ma visto che i tempi di lavoro hanno la loro importanza e… ovviamente
l’insegnante non dice “Allora, si evoca! Mettiamo nella testa e poi passiamo a qualcosa d’altro!”. Ovviamente
dobbiamo lasciare del tempo ai ragazzi. Ovviamente ci sono dei bambini che avranno l’evocato
immediatamente, ed altri un po’ più tardi. Alcuni avranno immagini e dovranno maturare prima queste
immagini e poi delle parole, mentre altri alunni dovranno maturare prima certe parole per evocare certe
immagini. La prima parte della domanda ci permette di affrontare la seconda. Se il tempo dell’evocazione può
essere considerato come il movimento dell’intuizione, è possibile che per certi ragazzi ci sia questo tempo di
maturazione prima e poi dopo l’evocazione (per altri sarà il contrario). Però in quella che è la vita della
coscienza dell’individuo alcuni hanno bisogno, per assorbire l’informazione, di avere prima l’evocazione della
parola/immagine, mentre altri hanno bisogno di assorbire prima l’informazione per avere l’evocazione. Alcuni
hanno bisogno di crearsi un vuoto per evocare e alcuni hanno bisogno di riempire il vuoto per evocare. Spero
che questa sia la risposta alle due domande.
8a domanda:
Esistono tecniche di memoria che la scuola può insegnare?…
A. de la Garanderie:
… Se parliamo di Leibniz il filosofo, era un uomo che pensava nella temporalità. Su questo non si può
discutere. Quando si parla di tecniche di memorizzazione è essenziale dire che l’atto di memorizzazione
69
costituisce un evocato di attenzione visivo, uditivo, verbale, motorio, che è situato nell’immaginario del futuro.
Per esempio, se voglio memorizzare un testo, me lo dico immaginandomi mentre lo dico. Mi immagino mentre
utilizzo questo testo in situazioni diverse. E’ adesso che io me lo preparo per il futuro, che lo metto in una
situazione di memorizzazione. Il fatto di riscrivere o di ripetere, ve lo posso assicurare, non aiuta la
memorizzazione. La persona che dice “Io riesco a memorizzare solo se scrivo”, lo fa perché quando scrive è
nell’immaginario del futuro e perché è l’atto pedagogico che diventa intelligente.
Ovviamente noi potremmo parlare sull’assetto della sua temporalità, ma non finiremmo più. Lui era molto
sensibile sulle piccole percezioni implicite. Diceva questo:
“Il mugnaio si sveglia quando il suo mulino smette di funzionare. Questo faceva parte del suo progetto. Si
ricordava che doveva far ripartire il mulino e questo faceva sì che lui si svegliasse.” Io metto questo nel
progetto di senso del mugnaio. Parlava alla sua coscienza e diceva: “Noi adesso andiamo a dormire però ti
incarico di svegliarmi se si dovesse fermare il mulino.” E allora è la coscienza che lo scuote e che dice: “Vedi
che ti sveglio perché me l’hai detto?”
9a domanda:
Premesso che la domanda è attinente alla pedagogia speciale, può dare qualche indicazione su come stimolare
in un ragazzo sordo o cieco dalla nascita il processo di acquisizione del tempo, di traduzione delle specifiche di
temporalità? Più in generale, come stimolare queste traduzioni in un ragazzo adolescente che da piccolo non è
stato allenato a fare questo?
A. de la Garanderie:
Quando il bambino, la persona, ha un handicap sensoriale molto pesante, effettivamente ci riguarda molto. Noi
abbiamo avuto, e abbiamo tuttora, specialisti per le persone sorde, cieche o che hanno altri handicap, che
lavorano con noi e che ci prestano le loro competenze. Anche se la persona è sorda o cieca dalla nascita, avrà
comunque delle propensioni a darsi delle evocazioni, all’immagine o al movimento, e tenterà sempre di
prenderne coscienza. Ho letto con grande passione l’opera di Helen Keller. Fino a due anni riusciva a vedere
qualcosa poi perse completamente la vista ed era anche sorda. La persona che se ne occupava Ann Sullivan
utilizzò il movimento per farle stabilire un rapporto di senso. Utilizzò l’acqua, e direi che è stato veramente
geniale usare l’acqua che è un liquido e si presta particolarmente al movimento. Le faceva scorrere dell’acqua
su una mano e sull’altra scriveva la parola “acqua”, utilizzando l’alfabeto dei sordi, e lo faceva sempre più
velocemente. E’ così che Helen Keller ha avuto quella formidabile, fantastica intuizione del rapporto che c’era
tra l’acqua e la parola scritta (dunque, il movimento sull’altra mano). Ricercare quello che ci permette di
stabilire un rapporto di senso, che fa collegare il percepito e la parola scritta; questo ha costituito un evocato di
movimento e quando Helen Keller ha avuto questa rivelazione straordinaria (lo racconta proprio lei) si è
precipitata su tutte le cose per toccarle poi tendeva la mano per avere la parola scritta. Lo do da meditare a tutte
le persone che pensano che non siamo interessati al conoscere.
Madame Giroul
“ Io ho due esempi con un bambino cieco e sordo. Ho potuto osservare come la sua nozione di tempo si poteva
iscrivere in un qualcosa di continuativo. La prima esperienza che ho avuto è stata all’esterno di un istituto. Il
bambino ha percepito sul viso un raggio di sole. Ha voltato la testa per non sentire più il calore, poi è tornato
alla prima impressione e ha passato almeno un’ora a lasciarsi guidare dal suo viso, seguendo il movimento del
sole. E’ tornato in istituto, è andato vicino a un lavandino, ha aperto il rubinetto e ha lasciato scorrere l’acqua
sulla sua mano e veramente, a partire da quel momento, sono sicura che abbia fatto questo collegamento di
senso. Il primo è stato un senso del tempo confrontato col senso tattile; stessa cosa per l’acqua e dunque ci
servivamo della sua mano per tradurre le situazioni che viveva. Dobbiamo proprio passare del tempo
nell’osservazione per vedere quello che l’individuo ci può dire.”
A. de la Garanderie
Potremmo sviluppare ancora questo aspetto ma non si finirebbe più.
10a domanda:
Il processo dell’atto di conoscenza è naturale e automatico? E’ sufficiente lasciarlo esistere e incentivarlo
creando un’abitudine fin da piccoli? Qualora ci fossero delle difficoltà, cosa può fare un insegnante di scuola
70
elementare per recuperare questa abitudine? Anche perché i nostri allievi non sono in grado di operare da soli
questo atto.
A. de la Garanderie:
“Questa domanda è molto pertinente. Io direi che l’abitudine è naturale ma non è automatica. E’ una
propensione del bambino che lo porta a darsi delle immagini, o dei suoni, o dei movimenti, a partire dai quali
potrà produrre del senso. Per prima cosa, dovrà essere prima capito nel suo modo di fare e aiutato per
permettergli di sviluppare e di acquisire delle capacità che altrimenti non sarebbe capace di mettere nella sua
testa, di passare dall’immagine al movimento, dal movimento alle immagini, alle parole, eccetera, dallo spazio
al tempo e viceversa.
Ogni volta che un bambino si trova in una situazione di difficoltà, bisognerebbe essere molto attenti alle sue
abitudini mentali, prima di fare una diagnosi e, a partire da quel momento, fargli delle proposte in modo che
possa svolgere un compito che presenti per lui delle difficoltà. Direi che bisogna che ci limitiamo a questo.”
71
Elisa Frauenfelder
"Pedagogia e biologia. Una possibile «alleanza». Liguori Editore, Napoli, 2001
Introduzione
* Il presente volume riprende molti dei temi già affrontati in scritti precedentemente pubblicati. Essi sono stati
comunque rivisti ed aggiornati sia nella parte contenutistica che in quella organizzativa.
L'attuale quadro interpretativo del rapporto uomo-ambiente, alla luce delle più recenti ricerche psicologiche e
neurobiologiche, ha prodotto nuove e stimolanti riflessioni nel campo pedagogico; di qui il nascere di inediti
alfabeti di ricerca e di originali ipotesi relative alle modalità adattive createsi, sia a livello filogenetico che
ontogenetico, nel rapporto interattivo tra la spinta evolutiva culturale e la codificazione genetica; di qui, ancora,
il superamento dell'equivoco scientifico stabilitosi negli anni passati alla base del rapporto pedagogia-biologia a
partire dall'annosa questione di volere indicare una prevalenza tra l'«innato» e l'«acquisito» nelle espressioni del
rapporto organismo-ambiente. Molto a lungo l'interrelazione tra queste due discipline è stata sottovalutata o
addirittura negata nell'ipotesi che eredità culturale ed eredità biologica riflettessero aspetti diversi di diverse
evoluzioni e, molto spesso, l'elemento ideologico, strumentalizzando l'una o l'atra posizione, ha contribuito a
rafforzare l'equivoco di una scelta inesorabilmente alternativa. Negli ultimi anni, invece, la maggiore
consistenza della ricerca pedagogica in direzione autonoma e le recenti scoperte biologiche relative al codice
genetico e al ruolo che la struttura del DNA svolge nell'evoluzione, hanno consentito un raccordo che, pur nel
rispetto e nel riconoscimento della diversità dei campi disciplinari e delle procedure metodologiche, tende
all'individuazione di un rapporto fondamentalmente unitario anche se estremamente articolato e complesso.
Ha legittimato e rafforzato tale ipotesi il fatto che la proverbiale «inadeguatezza» delle scienze umane a
liberarsi di una sostanziale complessità fenomenica, in contrapposizione alle scienze naturali che sembravano
caratterizzate da leggi semplici ed ordinate, è stata modificata dalla constatazione che le scienze biologiche e
fisiche sono state investite dalla cosiddetta crisi della spiegazione semplice; cosicché proprio quelle che
sembravano le caratteristiche non scientifiche delle scienze umane, l'incertezza, il disordine, la contraddizione,
sono divenute parti integranti delle conoscenze scientifiche e chiavi interpretative dell'intero sistema. Vi è stato
dunque un radicale mutamento delle relative aree epistemologiche che ha autorizzato nuove riflessioni e
consentito di abbordare domini finora totalmente estranei all'indagine. Le attuali condizioni della ricerca hanno
consentito dunque, sia alla pedagogia che alla biologia, di superare un sapere estremamente descrittivo che
studiava i fenomeni dall'esterno, per un sapere in grado di analizzare i fenomeni nella loro intima strutturazione
passando ad un modello più specificamente interpretativo. Tale modello interpretativo è particolarmente
adattabile all'analisi di un rapporto che ha come oggetto lato i processi e le condizioni della formazione e della
trasformazione del sistema uomo e dei suoi aspetti individuali e sociali, un sistema quindi con una struttura
complessa per eccellenza.
In questo sistema emerge costantemente che «la forma biologica», che pure è strettamente legata a leggi
genetiche, si definisce in rapporto ad una interazione di carattere ambientale e fisico; paradossalmente, infatti, è
la stessa chiave biologica che garantisce l'elemento culturale come elemento costitutivo della forma e, quindi,
del soggetto che si forma ed è proprio attraverso l'analisi del «meccanismo» biologico che è possibile tutelare e
implementare l'incidenza dell'elemento culturale nello sviluppo e nella crescita della specie e dell'uomo.
L'importanza di tale fenomeno è spiegabile quando si pensi che l'evoluzione dell'uomo si è verificata
soprattutto a livello del progressivo sviluppo del cervello e che a questo progressivo sviluppo è stata necessaria
una pressione selettiva specifica, assente in tutte le altre linee evolutive 1. Negli esseri viventi, afferma infatti
Monod, tutto deriva dalla esperienza, ma si tratta di quell'esperienza accumulata dall'intera ascendenza della
specie nel corso della sua evoluzione. Solo l'esperienza, in tal modo intesa, poté far sì che il sistema nervoso
centrale, come qualsiasi altro organo, si adattasse alla sua funzione particolare, di dare, cioè, una
rappresentazione del mondo sensibile in grado di adeguarsi alle prestazioni della specie, di fornire uno schema
che consentisse di classificare in maniera efficace i dati dell'esperienza oggettiva e, soprattutto nell'uomo, di
simulare soggettivamente l'esperienza per poterne anticipare i risultati e preparare l'azione adeguata. In tal
modo la funzione di simulazione, divenendo funzione creatrice, superiore per eccellenza, riflessa e, in parte,
anche determinata dal simbolismo del linguaggio, rappresenta per Monod l'uso più caratterizzante delle
particolarissime proprietà del cervello umano 2.
72
1. «Si può ora affermare che l'evoluzione dell'uomo, a partire dai più lontani antenati che noi oggi conosciamo,
si è verificata soprattutto a livello del progressivo sviluppo della scatola cranica, quindi del cervello. Per questo
è stata necessaria una pressione selettiva orientata e continua della durata di due milioni di anni. Pressione
selettiva notevole, data la relativa brevità di questo periodo di tempo, e specifica in quanto non si osserva nulla
di simile in nessuna altra linea evolutiva: oggi la capacità cranica delle scimmie antropomorfe non è
praticamente superiore a quella dei loro antenati di qualche milione di anni fa. E’ impossibile non supporre che
tra l'evoluzione privilegiata del sistema nervoso centrale dell'uomo e quella della prestazione davvero unica che
lo caratterizza, non sia esistito un rapporto strettissimo per cui il linguaggio non sarebbe stato solo il prodotto
ma una delle condizioni iniziali di tale evoluzione» (ivi).
2. «Le proprietà davvero uniche del cervello umano mi sembrano caratterizzate proprio dal possente sviluppo e
dall'impiego intensivo della funzione di simulazione. E ciò al livello più profondo delle funzioni conoscitive,
quello su cui si basa il linguaggio e che questo, senza dubbio, esprime solo in parte. Tuttavia tale funzione non
è esclusivamente umana. Il cagnolino che manifesta la sua gioia quando vede il padrone che si prepara ad
uscire, evidentemente immagina, cioè simula in anticipo, le scoperte che farà tra poco, le avventure che lo
aspettano, quei deliziosi brividi di paura che proverà, senza correre alcun pericolo grazie alla rassicurante
presenza del suo protettore. Più tardi in sogno egli simulerà di nuovo tutto ciò confusamente. Nell'animale
come nel bambino la simulazione soggettiva sembra solo parzialmente dissociata dall'attività neuromotrice e il
gioco ne è la manifestazione. Ma nell'uomo essa diventa la funzione superiore per eccellenza, la funzione
creatrice, e viene riflessa dal simbolismo dei linguaggio il quale la esprime trasponendo e riassumendo le sue
operazioni. Da ciò il fatto, sottolineato da Chomsky, secondo cui il linguaggio è quasi sempre innovatore, anche
nelle sue applicazioni più semplici, perché traduce un'esperienza soggettiva, una simulazione particolare
sempre nuova. Anche per questo il linguaggio umano è cosi diverso dai sistemi di comunicazione degli animali,
che si riducono ai richiami o avvertimenti corrispondenti a un certo numero di situazioni stereotipate. Neppure
l'animale più intelligente, indubbiamente capace di simulazioni soggettive abbastanza precise, dispone di un
mezzo 'per liberare la propria coscienza' se non indicando in modo molto approssimativo in quale direzione sia
rivolta la sua immaginazione. L'uomo, invece, fa parlare le sue esperienze soggettive: una esperienza nuova,
l'occasione creatrice, non muore più con colui che, per la prima volta, l'avrà simulata» (ivi, p. 125).
Se, dunque, il pensiero si basa su un processo di simulazione soggettiva, ne consegue che nell'uomo l'elevato
sviluppo di tale facoltà può essere considerato come il risultato di una evoluzione che ha consentito - attraverso
un'azione selettiva «concreta» anticipata dalla «esperienza immaginaria» - il costante collaudo di tale processo.
Proprio per queste sue capacità di rappresentazione e di previsione, confermate dall'esperienza concreta, il
potere di simulazione del sistema nervoso centrale ha raggiunto il livello dell'homo sapìens.
Il simulatore soggettivo, afferma Monod, non aveva il diritto di sbagliare quando organizzava una caccia alla
pantera con le armi di cui potevano disporre l'Austrolantropo o il Pitecantropo. Per questo lo strumento
logico-genetico ereditato dai nostri avi ci consente di capire quanto avviene nell'universo e di descrivere e
prevedere gli avvenimenti (purché naturalmente si abbia il possesso degli elementi di informazione necessari).
Strumento di anticipazione che viene costantemente arricchito dalle esperienze soggettive, il simulatore è,
dunque, strumento di scoperta e di crescita. Quindi, da un lato, l'ambiente come produttore d'informazione ma,
dall'altro, le abilità, caratteristiche potenziali genetiche proprie della specie umana, sono gli elementi
sinteticamente costitutivi dei processi conoscitivi propri dell'uomo e tali da consentirgli il controllo
dell'ambiente 3. D'altronde una posizione di autentica centralità anche in opposizione al pessimismo di fondo
monodiano è riproposta nella teoria del neurofisiologo John Eccles che rimette l'uomo al centro dell'universo
ridandogli quella prerogativa di soggetto assoluto che sembra essere negata ne «Il caso e la necessità».
3. In tal senso mi sembra illuminante l'affermazione di Dobzhansky: «II patrimonio genetico conferisce
all'umanità una capacità di importanza fondamentale, cioè quella di acquisire e trasmettere da generazione a
generazione le nozioni e le abilità necessarie per controllare l'ambiente» (Th. Dobzhansky, L'uomo prodotto
singolare dell'evoluzione biologica, in AA.VV., Evoluzione e genetica, Roma, Accademia Nazionale dei
Lincei, 1960).
Il processo esperenziale ha, nella sua interpretazione, sede nel cervello associativo, punto d'incontro e
d'interazione fra il mondo a cui appartiene la Mente e il mondo a cui appartengono le cose fisiche; Mente e
cervello sono dunque in relazione reciproca ma solo la Mente conscia di sé può controllare, organizzare,
selezionare e integrare in una operazione unitaria le informazioni che dalla realtà sensoriale filtrano in essa. La
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mente autocosciente agisce in modo selettivo ed unificante su tutto il cervello associativo operando
un'esplorazione delle attività modulari che hanno luogo nelle aree associative della corteccia cerebrale,
selezionando in base al proprio interesse i moduli ed integrando tutta questa varietà di materiali in una
esperienza unificata e consapevole. La funzione selettiva e integrativa viene dunque ipotizzata come attributo
della mente autocosciente che assume perciò ruolo attivo-organizzativo 4. Anche in questa interpretazione i
processi esperenziali intesi come attività razionale e immaginativa rappresentano l'elemento primo dello
sviluppo e della crescita dell'uomo; l'educazione gioca dunque un ruolo chiave: ogni essere umano che ne
possiede, ovviamente, le capacità potenziali, deve essere educato sin dall'infanzia per poter partecipare della
cultura entro cui è stato generato.
4. «Noi cerchiamo continuamente di recuperare ricordi, di sviluppare idee, di giocare, per così dire, con i nostri
concetti e con le nostre teorie e di esercitare l'immaginazione in modo attivo. Così andiamo molto al di là dei
fatti offerti dalle nostre esperienze sensoriali mettendo in funzione l'interpretazione, il giudizio e la capacità
critica. Tutto ciò fa sì che i processi mentali e la mente autocosciente presentino un lato attivo ed è del tutto
chiaro che dobbiamo pensare a questa attività come se fosse esercitata sugli eventi desiderati. Per esempio, per
riportare alla mente ciò che ci interessa in quel dato momento, dobbiamo esplorare e cercare tutti i tipi di
strategie. Penso che si tratti di un processo attivo estremamente complesso mediante il quale la mente
autocosciente agisce sulla enorme quantità di azioni neurali che avvengono nella corteccia cerebrale e seleziona
tra di esse in modo molto specifico un modo che certamente non è automatico. Noi abbiamo sviluppato
meravigliose capacità di elaborare mediante i nostri processi mentali eventi cerebrali ad essi collegati, cosicché
essi possono conseguire le letture selettive desiderate dagli eventi cerebrali, modificarli e così via» (J. C. Eccles
in Karl R. Popper, John C. Eccles, L'io e il suo cervello, Roma, Armando, 1981, p. 621).
Lo sviluppo culturale dell'uomo, sia che sia figlio dell'Età della Pietra, sia che appartenga alle culture
tecnologiche più avanzate, dipende dalle occasioni che ha di imparare. «Un fanciullo molto giovane che
provenga da una cultura a livello dell'Età della Pietra può essere rapidamente assorbito nella nostra cultura, un
simile risultato essendo naturalmente dipendente da quella che noi chiamiamo 'potenzialità cerebrale'; e, per
contro, un fanciullo molto giovane proveniente dalla nostra cultura, se immerso in una cultura dell'Età della
Pietra, non porterebbe alcun ricordo genetico, qual che sia, della nostra cultura e accetterebbe solamente la
cultura primitiva di quella società, con il suo pauroso impoverimento senza la più vaga idea dei propri diritti di
nascita» 5. Ognuno nel corso della propria vita, afferma Eccles, come del resto Dewey, ripercorre l'intera
sequenza dello sviluppo culturale dell'umanità, non nel senso di una pedissequa ricostruzione delle più
significative esperienze della specie, ma nel senso molto più pregnante di una loro graduale e partecipata presa
di possesso 6. Il cervello, infatti, è pienamente sviluppato secondo le istruzioni genetiche, ma tutto ciò che
appartiene alla cultura deve essere appreso e ciò avviene nell'ipotesi di Eccles - tramite uno straordinario
sviluppo di microstrutture 7.
5. J. C. Eccles, La conoscenza del cervello, Padova, Piccini, 1976, p. 254.
6. In Dewey il concetto di esperienza costituisce un'idea-base, la cui crescita sempre disarmonica e
problematica si pone come idea regolativa del principio di attivismo pur non costituendone mai il fine
immediato.
7. «Dobbiamo pensare che tutto il nostro sviluppo verso la civiltà e la cultura consiste non nel possesso di un
cervello dotato di tale complessivo deposito di memoria, ma nell'avere una mente autocosciente che è in grado
di recuperare da questo deposito e sa come farlo in modo fine ed efficace. Essa ha un certo modo di operare in
questo immenso deposito di memoria, ossia negli schemi spazio temporali di collegamenti che agiscono nel
corso della codificazione neurale, nonché un modo di ricevere indietro risposte da quello .- benché forse non al
primo tentativo ma ricorrendo a strategie e trucchi - ... Penso che ognuno di noi abbia questo genere di
esperienza, cioè di dover usare trucchi e strategie per il recupero mnemonico e ciò fa assolutamente parte del
mondo in cui riusciamo a supervisionare e a leggere selettivamente a volontà dall'enorme deposito di
informazione che è codificato nel nostro cervello» (J. C. Eccles, L'io e il suo cervello, cit., vol. III, p. 595).
Tutto, dunque, nella vita è apprendimento: «Questa è l'eccitante alea dell'esistenza umana che noi veniamo
generati con delle immense capacità potenziali»8 ma impariamo a dare le più sottili interpretazioni di ciò che ci
viene fornito attraverso i sensi; il cervello umano, quindi, si sviluppa in un meraviglioso processo di catalisi
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crociata con l'attività culturale 9. In tal senso Eccles, pur riconoscendo un ruolo fondamentale all'ambiente per
la messa in luce e l'utilizzazione del patrimonio genetico, rifiuta, tuttavia, la tesi di una sua prevalenza nella
costruzione della conoscenza.
8. Ivi, p. 235.
9. «Si crede generalmente - da Dobzhansky a Popper, per esempio - che il linguaggio abbia giocato un ruolo
chiave. L'uomo aveva senza dubbio sviluppato dei notevoli mezzi verbali di comunicazione più di 100.000 anni
fa, e ciò significa che da allora egli è divenuto un membro attivo della comunità, in grado di comunicare delle
esperienze : Alla fine egli ha raggiunto questa autocoscienza tramite questa sua comunicazione con i compagni.
lo metterei gli alberi dell'autocoscienza, sicura conoscenza del mondo 2, ad almeno 100.000 anni fa perché le
più antiche tombe rituali Neanderthaliane note erano di quel tempo» (Eccles divide i tempi dell'evoluzione in
Mondo 1, Mondo 2 e Mondo 3: il Mondo 1 è il mondo degli oggetti e stati fisici e comprende l'intero cosmo di
materia ed energia e tutto ciò che appartiene alla biologia, compresi i cervelli umani. li Mondo 2 è il mondo
degli stati di coscienza e delle conoscenze soggettive di ogni tipo. La totalità delle nostre percezioni perviene in
questo mondo. Il Mondo 3 è l'intero mondo della cultura). «Gli uomini di Neanderthal seppellivano i morti con
delle corna attorno e con cibo, armi e così via. Possiamo supporre che a quel tempo un uomo primitivo
osservasse altri che morivano e pensasse: 'quello è simile a me, ciò può capitare a me. lo pure posso cessare di
vivere'. E allora cominciò quella trasformazione da creature che appena sapevano a creature che sapevano di
sapere, il che è l'essenza dell'autocoscienza. Possiamo supporre che ciò sia accaduto soltanto quando lo
sviluppo del linguaggio era già molto avanzato ... Seguendo Popper possiamo pensare che l'uomo si sia formato
tramite il Mondo 3 che egli stesso andava formando, e che negli stadi più precoci dev'essere consistito in gran
parte nello sviluppo del suo linguaggio. Noi dobbiamo spiegare il cambiamento evolutivo, di rapidità fantastica,
per cui il cervello crebbe dai 600 cm3 dell'Australopithecus di circa 1,7 milioni di anni fa alla completa
dimensione umana di 1500 cm3 qualcosa come 100.000 anni fa. Un linguaggio in via di sviluppo con le sue
funzioni descrittive e dialettiche (Popper) deve aver dati degli immensi vantaggi selettivi agli uomini primitivi
anzitutto unendoli in tribù e quindi raggruppandoli in comunità ai fini della caccia e della lotta. Per il
progressivo sviluppo del linguaggio dovette essere necessario un progressivo sviluppo cerebrale. Senza dubbio
anche la cultura basata sulla creazione e sull'uso degli attrezzi fu di aiuto poiché il preciso controllo dei
movimenti dipendeva dallo sviluppo dei cervello. Così noi arriviamo al concetto che l'uomo sviluppava se
stesso tramite la cultura, con una sorta di catalisi crociata» (J. C. Eccles, La conoscenza del cervello, cit., p.
252).
In prima istanza è a me che giunge ogni cosa - afferma Eccles - poi, a partire da ciò che è innato nel mio
cervello e da tutto ciò che vi si costituisce mediante l'esperienza, si procede nell'interpreta zione sì da poter
agire nelle varie situazioni nel modo più appropriato possibile.
Questa interpretazione non trova il consenso di Karl Popper, che, pur concordando sull'affermazione che tutto
nella vita è apprendimento, rifiuta il ruolo prioritario dei sensi. Elemento prioritario è piuttosto - egli afferma la costituzione innata ad avere delle sensazioni e la disposizione innata ad interpretare ciò che arriva attraverso
i sensi. Che l'io divenga il centro della propria esperienza è per Popper anche possibile ma solo dopo che si sia
costituito come persona e come io, il che è già di per sé il risultato di un processo apprenditivo. Apprendimento
risulterebbe, dunque, soprattutto un processo interpretativo e costitutivo di nuove ipotesi, nuove aspettative,
nuove abilità 10. Egli è convinto che nei processi apprenditivi siano le ipotesi a giocare ruolo primario e che la
costruzione venga prima del confronto. I sensi tuttavia hanno duplice e significativo ruolo: stimolano la
costruzione delle ipotesi, ci aiutano a confrontarle.
10. «L'io cambia. Cominciamo come bambini, cresciamo e diventiamo vecchi. Eppure la continuità dell'io
garantisce, in un certo senso, il permanere della sua identità ... Ed è pur vero che rimanga identico l'io di quanto
non lo sia per il corpo in costante cambiamento ... L'io cambia lentamente a causa dell'invecchiamento e
dell'oblio e cambia molto più in fretta grazie all'apprendimento dell'esperienza. Secondo la teoria qui difesa, noi
impariamo dall'esperienza mediante l'azione e la selezione. Noi agiamo avendo certe mete o preferenze e con
certe aspettative e teorie, che sono soprattutto aspettative di realizzazione o di avvicinamento a queste mete:
agiamo sulla base di programmi di azione. E' un processo di modificazione e di selezione che scaturisce
soprattutto dalla confutazione delle nostre aspettative. Da questo punto di vista gli organismi possono
apprendere dall'esperienza soltanto se sono attivi, se hanno finalità o preferenze e se producono aspettative. Dal
momento che possiamo parlare piuttosto che di conservazione di aspettative, di conservazione di teorie o
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programmi di azione, tutto ciò può anche essere enunciato dicendo che noi impariamo modificando le nostre
teorie o i nostri programmi di azione per selezionare, vale a dire con il metodo per tentativi ed eliminazione
degli errori» (K. C. Popper, L'io e il suo cervello, cit., vol. 1, p. 164).
L'organismo e il funzionamento della mente vanno considerati come implicanti entrambi una gerarchia di
livelli in cui hanno luogo queste operazioni; in tal senso viene posto in gran rilievo il ruolo giocato dall'attività
nel processo interpretativo. Ed Eccles, pur restando fermo nella sua convinzione di una priorità degli organi di
senso nel processo conoscitivo, concorda pienamente con Popper nella esaltazione dell'attività organizzativa del
soggetto: «Credo fermamente - egli afferma - che per tutta la durata della nostra vita noi dovremmo svolgere un
ruolo attivo nell'esplorazione, nella percezione e nella sperimentazione» 11. In ambedue, dunque, nonostante le
divergenze sull'interpretazione della dinamica dei processi apprenditivi, viene messa a fuoco ed esaltata una
straordinaria duttilità dell'uomo, una meravigliosa capacità di invenzione che lo rendono idoneo a trar profitto
dalle risorse esistenti e che gli consentono, con l'accumulo e la trasmissione delle conoscenze, una costante
acutizzazione del ruolo dei processi apprenditivi.
In ambedue si delinea un perfetto sistema di informazione che costituisce il rapporto uomo-ambiente; sistema
che consente la sperimentazione, la selezione e l'organizzazione della realtà fenomenica, ma che si presenta
soprattutto con la caratteristica di esperire e perfezionare se stesso.
11. J. C. Eccles, L'io e il suo cervello, cit., vol. III, p. 535.
In tale sistema la cultura con le sue tecniche di trasmissione diviene strumento principale per garantire la
sopravvivenza, mentre i processi apprenditivi si delineano nella loro generalità come i legami fondamentali fra
la generazione giovane e la generazione adulta. Ambedue dunque riconoscono nel binomio apprendimentoinformazione la causa fondamentale della crescita della specie e in ambedue si nota la preoccupazione di
individuare nell'attività una precisa finalizzazione educativa. In tale luce mi sembra, ad esempio, chiaramente
decodificabile anche l'analisi di Popper sulla «percezione globale» che assume, nella sua ipotesi, valore nella
misura in cui l'integrazione dei diversi sensi e la loro cooperazione sia soprattutto «una questione di controllo
reciproco e di critica reciproca», cioè un costante, scambievole processo interpretativo. Processo attivo, dunque,
attivissimo e mai solo sensoriale. Rischio gravissimo è quindi per Popper una passiva recettività
dell'informazione; e tanto più grave è il rischio della passività nei processi apprenditivi infantili. La
mortificazione dell'attività del pensiero - caratteristica peculiare dell'infanzia - è per Popper un grande errore
educativo; in questa età la stimolazione a risolvere sempre nuovi problemi, la sollecitazione a processi
organizzativi autonomi risultano fondamentali e decisivi 12.
Un senso pedagogico altrettanto incisivo esprime la posizione di Eccles che individua nell'«input percettivo
globale» un preciso richiamo all'azione volta soprattutto all'esplorazione e al conseguimento di una conoscenza
migliore. «Possiamo pensare al bambino piccolo le cui esperienze più stupefacenti si realizzano nei movimenti
con capriole, dondolii ed altro esaminando e sperimentando ogni cosa» 13. Da un lato dunque, il motivo di una
naturale ed istintiva caratteristica attiva, dall'altro, un potenziale genetico di duttilità e di controllo garantiscono
lo sviluppo e la crescita sia a livello filogenetico sia a livello ontogenetico.
12. «Penso che sia terribilmente importante per noi evitare di essere per tutto l'arco della nostra vita dei meri
recettori passivi di informazione. Si corre un pericolo particolare durante l'infanzia: ed è che le nostre scuole
possano trattare i bambini come il gattino della gondola. Questo era particolarmente vero quando i bambini
dovevano stare seduti in uno spazio limitato, in un banco che era stato creato apposta per ridurre la loro
possibilità di movimento, cosicché non dovessero disturbare gli altri bambini e, soprattutto, il maestro. In altre
parole i nostri bambini una volta erano i gattini della gondola. Mentre non è gran problema se le persone della
nostra età passano il tempo immobili davanti allo schermo televisivo, ritengo che non sia davvero auspicabile
l'uso della televisione o di macchine per insegnare come mezzi di istruzione, costringendo i bambini ad avere
un ruolo passivo, che consiste esclusivamente nello stare seduti ad imparare. Non nego che la televisione abbia
i suoi lati positivi, se l'uso che se ne fa è molto moderato; ma un giovane durante la crescita dovrebbe essere
stimolato ad avere problemi e a cercare di risolverli, e dovrebbe essere aiutato nella soluzione di questi
problemi solo nel caso in cui un aiuto sia necessario. Egli non dovrebbe essere indottrinato e non dovrebbe
essere imbottito di risposte laddove non venissero avanzate richieste, nel caso in cui i problemi nascessero
dall'interno» (K. C. Popper, L'io e il suo cervello, cit., voi. III, p. 532).
13. J. C. Eccles, L'io e il suo cervello, cit., vol. III, p. 534.
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Né è da credersi che questa posizione sia esplicita e sostenuta solo da autori il cui interesse principale è di
carattere biologico o neurofisiologico; in tal senso, infatti, ancora più incisivo ci è parso il pensiero di Edgar
Morin, sociologo e pensatore acuto: tra il cervello umano e il suo ambiente - egli sostiene - si costituirebbe un
«information gap» che farebbe dell'uomo l'animale più indifeso se egli non fosse in grado di colmarlo attraverso
l'accumulo e la trasmissione dell'esperienza della specie e della sua personale. D'altra parte, poiché tra il
cervello e l'ambiente non esiste né integrazione, né adeguamento immediato, la comunicazione tra essi è
casuale, disturbata e soggetta ad errore 14; di qui la costituzione delle «competenze» che vengono considerate
proprietà generali emergenti dalla riorganizzazione e dall'aumento di complessità del cervello; esse sembrano,
infatti, risultare dalla messa in contatto di centri fino ad allora non collegati, dalla costruzione di nuovi centri
cerebrali e dallo sviluppo di nuovi territori culturali. Sono dunque da considerarsi innate in quanto fondate su di
una organizzazione cerebrale geneticamente determinata, ma bisognose dell'esperienza sensibile per realizzarsi.
Alla loro concretizzazione necessita, infatti, il ruolo coorganizzatore dell'ambiente e della cultura.
1.
14. «Infatti non si ha integrazione né adeguamento immediato tra il cervello e l'ambiente, e la comunicazione tra l'uno e l'altro è
casuale, disturbata, sempre esposta alla possibilità di errore. Nel cervello non esiste nessun dispositivo che permetta di
distinguere gli '"stimuli'" esterni dagli "stimuli" interni, cioè il sogno dalla veglia, l'allucinazione dalla percezione,
l'immaginario dal reale, il soggettivo dall'oggettivo. Nessuno dei messaggi che raggiungono l'intelletto contiene in se stesso gli
elementi che permetterebbero di sciogliere la sua ambiguità. La sola risoluzione possibile di quest'ultima passa per un appello
congiunto dell'intelletto al controllo ambientale (la resistenza fisica dell'ambiente, l'attività motoria nell'ambiente) e al controllo
corticale (la mernoria e la logica) ... In ogni caso resta un'ampia fascia di ambiguità, una spaccatura indeterminata tra il cervello
e il mondo fenomenico che viene riempita dalle credenze, dai doppi, dagli spiriti, dagli dei, dalle rnagie e dai loro eredi, le
teorie razionalizzatrici. Ma la caratteristica di "sapiens" è anche la possibilità di dubitare dell'esistenza degli spiriti e degli dei,
di separare le parole dalle cose, di contestare le teorie che si richiudono sul mondo come se esso si presentasse trasparente
all'intelletto» (E. Morin, Il paradigma perduto, Milano, Bompiani, 1974, p. 125).
In ultima analisi, ci sembra che esse debbano essere intese come abilità del pensiero che con il regresso dei
programmi genetici (istinti) acquista possibilità euristiche (programmano e trovano soluzioni a situazioni
problematiche), strategiche (coordinano, decidono e scelgono in vista di un fine), creative (inventano, cioè
effettuano combinazioni nuove).
Le competenze sarebbero dunque identificabili con le abilità del simulatore soggettivo di Monod da cui però
si differenziano per l'accentuazione che in esse viene data al ruolo e al senso della complessità. Più infatti il
cervello è complesso, più costituisce un centro di competenze strategico-euristiche sul comportamento e
sull'azione, meno subisce la rigida imposizione di un programma genetico di comportamento meno reagisce
univocamente agli stimoli dell'ambiente, più le sue reazioni con il sistema genetico e l'ecosistema sono
complesse e aleatorie più esso diviene capace di utilizzare gli avvenimenti casuali. Dunque, quanto più è
semplice il sistema nervoso dell'essere animale, tanto più programmato geneticamente risulterà il suo
comportamento; organi di senso poco sviluppati o un sistema nervoso semplice comporteranno una recezione di
informazioni provenienti dall'ambiente estremamente limitate. Né tale fenomeno è privo di conseguenze
comportamentali: informazioni limitate producono limitate possibilità di adattamento alle circostanze e quindi
azioni di risposta strettamente legate all'interno, fisse e stereotipate. E’ dunque necessario puntualizzare che non
dalla complessità degli organi di senso nasce la variabilità di apprendimento e di comportamento, ma piuttosto
dalla struttura del sistema nervoso periferico che deve essere sufficientemente sviluppata affinché le
informazioni possano passare al sistema nervoso centrale ed al cervello, in particolare per essere integrate e
preparare l'azione. Dunque, il fattore maggiormente determinante l'entità dell'apprendimento è il grado di
complessità del cervello e per Morin la complessità del cervello è determinata dall'interazione fra il biologico e
il culturale 15.
15. Ci sovviene a questo proposito la tesi di Washburn ed Howell che già nel 1960 in occasione del centesimo
anniversario della pubblicazione dell'Origine della specie scrivevano: «L'uso degli arnesi, la vita sul suolo, la
vita di caccia crearono il grande cervello umano e non fu l'uomo dal grande cervello a scoprire certi nuovi modi
di vita». L'uomo cioè si sarebbe trasformato vincolandosi a sempre nuovi sistemi di attrezzature (amplificatori
delle capacità motorie umane, amplificatori delle capacità sensoriali, amplificatori delle capacità raziocinative),
tutte queste forme di amplificazione sono convenzionalizzate e trasmesse mediante la cultura, ma la più
notevole di esse - afferma Bruner - è l'ultima, dal momento che gli amplificatori raziocinativi implicano sistemi
di simboli governati da regole che bisogna condividere per poter usare (A. e J. Bruner, Lo sviluppo cognitivo,
77
Roma, Armando, 1978, p. 73). L'uomo dunque appartiene a una specie che acquista specializzazione attraverso
l'uso di strumenti tecnologici, elaborati però dalla sua attività di simulatore soggettivo. Per la sua
sopravvivenza, dunque, dipende sia da caratteristiche del patrimonio cromosomico che da caratteristiche
acquisite dal patrimonio culturale.
L'evoluzione biologica e l'evoluzione culturale rappresentano due aspetti, due poli di sviluppo che hanno
rapporto di interscambio e di interferenza con il fenomeno dell'ominidizzazione nel suo complesso; l'evoluzione
biologica, iniziata da un primate intelligente e dalla sua società ormai complessa, prosegue in una morfogenesi
tecnico-socio-culturale la quale rilancia e stimola un'evoluzione biologica giovanilizzante e cerebralizzante. Per
Morin, infatti, risulta più che evidente che il grosso cervello di «sapiens» ha potuto affermarsi e trionfare solo
dopo la formazione di una cultura complessa; non solo gli inizi della ominidizzazione, dunque, ma anche il
comportamento di «sapiens» risulterebbero incomprensibili se si dissociassero in due settori distinti il biologico
e il culturale. L'ipotesi chiave di Morin è che l'enorme accrescimento di complessità che si opera nel cervello di
«sapiens» (cioè il passaggio dell'ominidizzazione all'umanità) corrisponde al salto qualitativo
dell'ipercomplessità; il filo rosso della ominidizzazione aumenta le sue capacità organizzative e in modo
particolare la sua attitudine al cambiamento 16.
16. «Il processo della culturazione corrisponde alla moltiplicazione delle informazioni, delle conoscenze, dei
sapere sociale ed anche alla moltiplicazione delle regole organizzative e dei modelli di condotta, dunque altresì
ad una programmazione propriamente socio-culturale. In altre parole, la cultura si inserisce in modo
completamentare nel regresso degli istinti (programmi genetici) e nel progresso delle competenze
organizzazionali, rafforzata simultaneamente da questo regresso (giovanilizzante) e da questo progresso
(cerebralizzante), necessaria all'uno e all'altro. Essa costituisce un 'tape-record', un capitale organizzazionale,
una matrice informazionale, atta a nutrire le competenze cerebrali, a orientare le strategie euristiche, a
programmare i comportamenti sociali. E così appare il volto bio-socio-culturale dell'ominidizzazione: le
strutture cognitive, linguistiche e pratiche di organizzazione che emergono con i nuovi sviluppi del cervello
sono delle strutture innate che rimpiazzano i programmi stereotipati o istinti, esse sono ormai impresse
nell'eredità genetica mentre ne vengono sottratti o respinti un gran numero di comportamenti stereotipati. Ma
esse non possono affacciarsi sul piano operativo che muovendo dall'educazione socio-culturale e da un
ambiente sociale reso complesso dalla cultura. Qui si risolve uno dei paradossi che opponeva in modo sterile il
ruolo dell'innato e dell'acquisito nell'uomo. Ciò che si elabora nel corso del periodo dell'ominidizzazione è
l'attitudine innata ad acquisire e il dispositivo culturale di integrazione dell'acquisito. Più ancora è l'attitudine
naturale alla cultura e l'attitudine culturale a sviluppare la natura umana» (E. Morin, Il paradigma perduto, cit.,
p. 89).
La programmazione genetica è necessariamente influenzata dal fenomeno apprendimento senza perdere per
ciò la sua importanza. E’ da essa infatti che nascono i riflessi fondamentali e che si determina lo sviluppo di
tutto il corpo, sistema nervoso compreso; in ultima analisi è proprio dalla programmazione genetica che con un
processo di maturazione si determina la capacità apprenditiva. Vi sono attitudini determinate geneticamente e
capacità derivanti dalla esperienza. Il sistema ipercomplesso di Morin, infatti, prodotto di processi esperenziali
sofisticati, risulta debolmente gerarchizzato e specializzato ma più fortemente dominato dalle competenze e,
quindi, in un processo di mutuazione strettamente legato a processi esperenziali sempre più allargati.
La conoscenza è infatti, per Morin, non insulare ma peninsulare, il che significa che per «conoscerla» è
necessario collegarla al continente di cui fa parte. Essa è quindi ad un tempo un atto biologico, cerebrale,
spirituale, sociale, storico e, di conseguenza, non può non essere collegata alla vita umana nel suo complesso.
Tutta la relazione fra l'uomo, il mondo, la società viene ad essere coinvolta nell'approccio conoscitivo alla
conoscenza stessa. Per questa enorme ampiezza di apertura la conoscenza della conoscenza è costretta a
soggiacere ad un doppio imperativo: da una parte è costretta a dilatarsi e, a volte, a disperdersi o a correre il
rischio della dispersione nelle innumerevoli relazioni antropo-biocosmologiche; dall'altra è necessitata a
chiudersi per definirsi, delimitarsi e non annullarsi in un indistinto confuso.
Così, afferma Morin, essa «deve divenire scientifica al 100 per cento, ma anche deve restare filosofica al 100
per cento» 17. In definitiva, dunque, assistiamo ancora una volta alla puntualizzazione di un concetto di
esperienza imprescindibilmente collegato all'attività propria del pensiero umano e che proprio in quanto tale va
intesa come momento di incontro del binomio fondamentale per la crescita della specie:
apprendirnento-informazione 18.
78
17. Cfr. E. Morin, La conoscenza della conoscenza, Milano, Feltrinelli, 1989, p. 24.
18. In realtà il problema della conoscenza è tanto complesso in quanto si identifica con il problema della vita.
Tale visione non corrisponde ad una interpretazione biologistica della conoscenza; infatti il problema del
«radicamento vitale» della conoscenza è posto nel cuore stesso della filosofia. D'altronde anche per Husserl
«una genesi metodica e positiva della coscienza parte dalla vita» (cfr. Tran Duc Thao, Fenomenologia e
materialismo dialettico, Milano, Lampugnani e Nigri, 1972) e Dilthey afferma che i processi fondamentali della
conoscenza sono nella vita. Per Piaget, infine, le condizioni della conoscenza - anche l'a priori e le categorie affondano le loro radici nell'organizzazione vivente: Piaget cercava l'origine dei processi cognitivi nel sistema
di assimilazione e di accomodamento e a lui sfuggiva - la sua riflessione, sia pure in anticipo sui tempi, si
cristallizzava tuttavia troppo presto - la dimensione cognitiva inerente all'organizzazione cellulare. Tale
dimensione è invece intravedibile oggi in quanto la biologia contemporanea ha individuato nell'organizzazione
cellulare l'idea di programma e di informazione; esiste cioè un programma informazionale inserito nella
struttura molecolare del DNA, il programma genetico appunto.
E' attraverso questa dinamica che la conoscenza umana sviluppa in modo inaudito la curiosità investigatrice
dei mammiferi e la curiosità manipolatrice delle scimmie; la «pulsione cognitiva» umana si slancia al di là degli
orizzonti della conoscenza animale; nell'uomo il motorium e il sensorium si connettono, lungamente e
profondamente; ma tuttavia la mente può poi perdere contatto con l'uno e con l'altro, e lanciarsi, così, da una
parte, nel sogno e nella fantasia, dall'altra, attraverso il linguaggio, verso le idee e le speculazioni. Crea in tal
modo nuovi universi, uniti con un cordone ombelicale all'universo della vita pratica, dell'immaginario e delle
idee. Sorge allora una conoscenza che può non soltanto affrancarsi dall'azione ma anche mettere l'azione a
servizio del suo sogno, del suo mito e della sua idea. Inevitabilmente, dunque, il pensiero umano ha bisogno per
strutturarsi della conoscenza del dato, e, quindi, della massima informazione, ma il valore della conoscenza
nasce, a sua volta, dal suo uso nel pensare.
«L'ominizzazione della conoscenza fa emergere l'umanità della conoscenza stessa. Il pensiero umano passa
per l'Umwelt-Il mondo. Il movimento che crea il mondo del pensiero è quello stesso che apre il pensiero sul
mondo» 19.
Anche Moscovici è a tal proposito convincente: pensare significa soprattutto istituire in modo accurato nessi
fra quel che si fa e quel che ne consegue ed include in tal senso una serie di passaggi (senso di un problema,
osservazione delle condizioni, formazione ed elaborazione razionale di un'ipotesi, prova sperimentale attiva).
Sono queste le caratteristiche del pensiero che nel corso del tempo hanno soppiantato i determinismi biologici
strutturando quelli peculiari dell'uomo 20. Moscovici non condivide la tesi di carattere generale secondo cui,
superato lo stadio dell'animalità, l'uomo ha instaurato attraverso l'artificio e l'intelligenza una relazione con la
natura che nessuna altra specie ha conosciuto. Si tratta di uno schema generale di riferimento - egli afferma che resta valido solo fintanto che si concepisce l'organizzazione biologica dell'uomo come un dato invariabile, e
ciò non è possibile; la forma del corpo, del cranio e delle membra, le qualità proprie dell'uomo come la
posizione eretta, il volume del cervello e il linguaggio possono considerarsi conseguenze delle potenzialità
proprie alla specie di usare utensili e stratagemmi a scopo di sopravvivenza; dunque le modificazioni genetiche
e sociali sono l'effetto non la causa dì quelle capacità.
19. Cfr. E. Morin, La conoscenza, cit., p. 24.
20. «Controllo e duttilità sono caratteristiche peculiari delle capacità umane che, in quanto tali, si distinguono
dalla dispersione e dalla rigidità caratteristiche delle capacità degli animali. Il loro sviluppo sotto l'egida della
cultura è, come è stato dimostrato, più rapido ed inoltre più efficace dello sviluppo naturale. Si comprende
perciò come mai l'uomo, disponendo di questa risorsa, abbia rinunciato all'adattamento eminentemente sociale.
Questo ci permette di cogliere immediatamente le ragioni per le quali le società hanno assunto forme così
diverse l'una dall'altra' Nel caso dell'uomo è risaputo che le trasformazioni organiche sono fuori gioco o hanno
un'importanza secondaria per cui sono le istituzioni e gli strumenti tecnici che vengono riadattati e rimodellati
ogni qualvolta sia necessario adattarsi a condizioni nuove e ad ambienti diversi. Questa spiegazione che, fino a
quando non si disporrà di ulteriori informazioni rimane empiricamente fondata, è stata elevata dagli scienziati al
rango di canone metodologico. Quando essi isolano nel quadro delle loro ricerche psicologiche ed
antropologiche un tratto od una regolarità presenti in tutte le collettività umane, li dichiarano naturali, congeniti
e li riconducono a cause innate. Per contro, i tratti o le regolarità che non possiedono la medesima costanza
vengono dichiarati sociali e ricondotti esclusivamente a cause secondarie o a fattori acquisiti. In questa
79
equazione l'umanità pone, dal lato biologico, la somiglianza e l'universale e, da quello sociale, la varietà e la
particolarità all'interno dell'ambiente esterno e nei confronti del medesimo» (S. Moscovici, La società contro
natura, Pisa, Ubaldini, 1973, p. 19).
Nelle grandi come nelle piccole cose, sostiene Moscovici, l'uomo ha creato se stesso; dopo le sue prime
attività, in quanto entità autonoma, la sua realtà naturale ha sempre presupposto una conoscenza, una destrezza
nell'agire associata ad una concatenazione finalizzata di gesti e strumenti adatti. Mai, in nessuna fase della sua
evoluzione, questa realtà si è limitata ad un equipaggiamento puramente organico ed istintuale; non esiste
rapporto fra l'uomo e il suo ambiente che non sia derivato dall'iniziativa umana, non nel senso che sia stato da
lui generato «bensì grazie al fatto che l'uomo è diventato ciò che è a livello fisiologico, psichico e sociale
generandolo» 21.
21. Ivi, p. 12.
La stessa dinamica può rilevarsi per quanto riguarda l'ambiente naturale. Si tendeva a rapportarlo all'individuo
- afferma Moscovici - e a definirlo uniforme e costante a prescindere dalle influenze esercitate dalle creature
che vi abitano e ne sfruttano le risorse. In tal modo l'ambiente naturale si confonde con una sua dimensione
puramente geografica e geologica, mentre al contrario è stato ampiamente dimostrato che l'ecologia di una
specie è ad essa peculiare. t dunque parimenti necessario rifiutare l'ipotesi di un equilibrio spontaneo della
natura instauratosi in qualche epoca senza l'intervento della specie umana. Moscovici si fa perciò sostenitore di
un rapporto di simbiosi costante, un rapporto «... che si instaura all'interno del sistema con una delle sue parti»
22; il legame uomo-natura è dunque anche un legame natura-natura, «l'umanità con le sue braccia, i suoi nervi e
i suoi cervelli si amalgama così alle potenze con cui entra in contatto» 23. L'uomo è congiunto alla materia e
questa è per Moscovici la definizione concreta e l'autentico contenuto della nostra condizione naturale 24.
22. Ivi, p. 13.
23. Ivi, p. 23.
24. «L'intervento dell'uomo assume il significato di un rapporto che si instaura all'interno del sistema con una
delle sue parti o, per meglio esprimersi, i principi che lo congiungono ai suoi 'alleati' e lo oppongono ai suoi
'nemici' sono gli stessi che presiedono alle unioni degli esseri fisici, biologici e chimici. Tutto concorre a
dimostrare che il legame uomo-natura è anche un legame della natura con la natura: l'umanità con le sue
braccia, i suoi nervi, i suoi cervelli si amalgama così alle potenze con cui entra in contatto. L'uomo è dunque
cavallo, gravità, elettricità e viceversa; sono passati molti secoli da quando Antifonte ha enunciato questa
verità: 'Grazie alle nostre abilità conquistiamo il possesso di quelle cose dalle quali siamo conquistati dalla
natura'. Questi non sono cioè termini tra cui sussiste una netta separazione» (S. Moscovici, ivi, p. 13).
Il processo esperenziale è dunque soprattutto individuabile nelle relazioni attive che sussistono fra un essere
umano e il suo ambiente naturale e in tal senso le dinamiche apprenditive, ricondotte ad una formula composita
di potenzialità genetiche e di stimolazioni ambientali, ci riportano alla emergenza di una dimensione attiva del
soggetto pur limitato in precise situazioni spazio-tempo.
D'altronde su questa linea si era già mosso John Dewey che in armonia con un interesse preminentemente
pedagogico, pur insistendo sulla componente naturale di quel processo costruito che è l'esperienza, negava che
il costrutto empirico nella sua organica complessità potesse essere spiegato nei soli limiti di una condizione
necessaria; l'esperienza viene delineata con un carattere specificamente problematico nel cui ambito si definisce
la funzione euristica del pensiero (ad un tempo attività e funzione) che non si sviluppa in isolamento o in
situazioni fisse ma in situazioni variabili, problematiche, incerte. L'esperienza, dunque, denota per Dewey tutto
ciò che è sperimentato ma anche i processi dello sperimentare; in tal senso il processo esperenziale include oltre
all'elemento attivo anche un elemento passivo; in senso attivo è un «tentare», in senso passivo un «sottostare».
La sola attività non potrebbe costituire esperienza: risulterebbe dispersiva, centrifuga, dissipante. La
combinazione concreta sta invece nella fusione dei due elementi: l'esperienza come tentativo implica un
cambiamento ma il cambiamento costituirebbe una transizione senza significato se non venisse coscientemente
connesso con le conseguenze che ne scaturiscono 25.
25. «La natura dell'esperienza si intende soltanto se si osserva che essa include un elemento attivo e uno passivo
particolarmente combinati. In senso attivo l'esperienza è un tentare, significato espresso dal termine connesso
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'esperimento'. In senso passivo essa è un sottostare. Quando sperimentiamo qualcosa noi agiamo su di esso,
facciamo qualcosa con esso, poi ne soffriamo le conseguenze o sottostiamo ad esse. Facciamo qualcosa
all'oggetto e in compenso esso fa qualcosa a noi; questa è la combinazione particolare. Il nesso di queste due
fasi dell'esperienza misura la fertilità o il valore dell'esperienza. La sola attività non costituisce esperienza. E
dispersiva, centrifuga, dissipante. L'esperienza come tentativo implica un cambiamento, ma il cambiamento non
è che una transizione senza significato a meno che non sia coscientemente connesso con l'ondata di ritorno delle
conseguenze che ne defluiscono. Quando proseguiamo l'attività nel senso di sottoporci alle conseguenze di
essa, quando il mutamento determinato dall'azione si riflette in un mutamento apportato in noi, non si può più
parlare di puro flusso, poiché esso si carica di significato e noi impariamo qualcosa» (J. Dewey, Democrazia e
educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1916, p. 179).
Un'esperienza è dunque valida quando provoca la percezione delle connessioni e delle successioni ed ha
valore nella misura in cui ha significato; è tentativo-sforzo di cambiare il dato, si caratterizza per la proiezione
verso il futuro e nella misura in cui «sottostà ad un ambiente sforzandosi di dominarlo in nuove direzioni è
realmente pregnante di nessi» 26. Vi è dunque l'accettazione del pensiero come «invasione» del futuro, la
necessità dei rischio, la presenza nell'esperienza di fattori sia soggettivi che oggettivi; la storia viene riferita alla
natura organica evolutiva e l'esperienza definita come un processo che non può aver luogo nel vuoto visto che
non è possibile prevedere qualsiasi attività avulsa da determinate situazioni spaziotempo: «Intendiamo per
esperienza qualcosa che sia vasta profonda e piena almeno quanto tutta la storia su questa terra; una storia la
quale (poiché la storia non accade nel vuoto) include la terra e i correlati fisici dell'uomo» 27 . Dewey distingue
in tal modo una conoscenza che si riferisce al passato ed il pensiero prospettico che anticipa il futuro. Vi è in lui
come in Monod esaltata l'idea dell'autoprogettazione, della funzione creativa del soggetto. L'intelligenza
«come» intelligenza è intrinsecamente volta in avanti, una intelligenza pragmatica è una intelligenza creativa
non una «routine meccanica». L'intelligenza creativa è dunque l'organo che trasforma il passato nel futuro e il
pensiero è valido se riesce a promuovere pensiero in funzione di un'azione più ampia e più vasta.
L'immaginazione appare qui come la matrice naturale del pensiero e la creatività riferita all'uomo globale
collega di conseguenza motivazioni e caratteri del processo creativo alla sfera sensibile-appetitiva. Il soggetto
non è dunque una entità preesistente ma si forma come tale nell'attività di dominio dell'ambiente. Il confronto
con Popper resiste bene. L'io può divenire centro della propria esperienza solo dopo essersi costituito come
persona e come io, il che rappresenta di per sé il risultato di un processo apprenditivo. Come Popper ed Eccles
anche Dewey ritiene i processi apprenditivi, e di conseguenza la ricerca di una comunicazione sempre più
ampia ed intensa fra gli uomini, condizione imprescindibile di autentica e vitale crescita, ma nel pensatore
americano l'interesse pedagogico predominante spinge verso una soluzione educativa del problema che si
imposta sin dall'inizio sul duplice binario del sociale e dell'idividuale 28.
26.J. Dewey, Intelligenza creativa, Firenze, La Nuova Italia, 1946, pp. 35-36.
27. J. Dewey, Esperienza e natura, Torino, Paravia, 1957, p. 4.
28. Il processo educativo si configura in Dewey con un duplice compito: la trasmissione dei contenuti e lo
sviluppo della personalità per abituare il soggetto all'indipendenza dell'azione e del pensiero. L'inscindibilità
dell'aspetto assimilativo da quello creativo è attribuibile alla sua concezione di fondo in virtù della quale «una
personalità integrata» è quella che ha incluso in sé in maniera autonoma e creativa «la realtà delle situazioni
vitali in cui si viene a trovare». Ma se la società è il fine dell'individuo, questi deve essere il fine della società
che dovrà assicurare, a sua volta, lo sviluppo di personalità libere ed autonome.
Quando infatti nel suo Credo pedagogico puntualizza l'educazione come «partecipazione dell'individuo alla
coscienza della specie» 29, egli intende tale partecipazione come un processo che inizia in modo quasi
inconsapevole ma la cui azione rende gradualmente l'uomo erede consapevole del patrimonio consolidato della
civiltà. L'io è per Dewey un prodotto e una conseguenza di azioni e reazioni che hanno luogo in un ambiente
sociale; un'esperienza è sempre quel che è in virtù di una transazione che si sviluppa fra l'uomo e il suo
ambiente; l'ambiente è dunque costituito dalle condizioni, quali che esse siano, che interagiscono con i bisogni,
i desideri e le capacità personali in gioco per costruire l'esperienza in atto; situazione e interazione sono dunque
imprescindibili. Via via che un individuo passa da una situazione ad un'altra il suo ambiente si espande: le
conoscenze e le abilità acquistate in una situazione esperenziale diventano strumento di comprensione e di
azione nella situazione seguente. Il processo è continuo; i due principi della continuità e della interazione non
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sono separabili e dalla loro attiva azione reciproca nasce la misura del significato e del valore educativo di
un'esperienza 30.
29. J. Dewey, L'educazione oggi, Firenze, La Nuova Italia, 1959, p. 3.
30. J. Dewey, Esperienza ed educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1965, p. 29.
Anche in questo caso, dunque, è sui processi apprenditivi - potenzialità genetica e plasticità biologica proprie
della specie umana su cui agiscono modificando e stimolando le situazioni ambientali - che gioca le sue carte
migliori - l'educazione. Sia dunque i processi di affrancamento dalla natura, sia i processi che fanno assurgere il
sociale a unità di riferimento e a paradigma del reale sono, in definitiva, nella loro caratteristica più autentica,
processi educativi.
Ma se in Dewey la dimensione del sociale, assurgendo a parametro di riferimento e a finalità educativa,
delimita, in certo senso, l'ambito del discorso e convoglia l'interesse preminentemente in tale direzione, non per
questo deve essere trascurata la messa a fuoco delle più significative suggestioni pedagogiche che in maniera
esplicita o implicita ci vengono offerte dagli autori citati.
L'uomo di Monod, ad esempio, uscendo dal caso attraverso il ruolo dominante assunto dalla funzione di
simulazione soggettiva e dalla costruzione del linguaggio simbolico, esprime in queste due caratteristiche le
colonne portanti del problema educativo.
La funzione di simulazione soggettiva, identificabile con la caratteristica propria della specie umana di
comprendere, prevedere e provvedere, costituisce la potenzialità genetica su cui fa leva l'azione educativa che la
generazione adulta dedica al cucciolo uomo trasmettendogli i parametri referenziali già sperimentati e
collaudati; l'ontogenesi e la filogenesi si affiancano e si intrecciano, le potenzialità apprenditive e le abilità di
trasmissione che hanno consentito lo sviluppo della specie garantiscono allo stesso modo lo sviluppo dell'uomo.
Come l'Austrolantropo o il Pitecantropo non potevano correre il rischio di sbagliare quando affrontavano la
pantera nella foresta e dovevano affinare al massimo le loro potenzialità di simulazione per prevedere e
provvedere, così non diversamente il bambino che nasce in società a tecnologie avanzatissime -prodotte
dall'evoluzione della specie ma che a lui si presentano definite ed estranee a guisa di foreste vergini - corre il
rischio di soccombere a sempre nuovi e diversi pericoli se non perfeziona al sommo le sue capacità di
simulatore soggettivo, mentre di converso i problemi della trasmissione delle esperienze e della comunicazione
con gli adulti divengono i punti fondamentali della organizzazione educativa. Il problema di una comunicazione
corretta e di una trasmissione efficace diventano così problemi fondamentali che inevitabilmente si
riconnettono alla finalizzazione del processo apprenditivo.
E parimenti fascinosa è la suggestione pedagogica che ci viene da Eccles: se tutta l'attività conoscitiva è
svolta a livello dei passaggio dal cervello associativo alla Mente, risulta evidente che il ruolo di organizzazione
attiva e di selezione consapevole che gioca quest'ultima rappresenta il binario di scorrimento per un discorso
educativo efficace. Se l'uomo deve partecipare sin dall'infanzia al patrimonio culturale della specie e del
gruppo, il processo di apprendimento e la sua finalizzazione divengono punti obbligati di riflessione. Si fa leva
sulla potenzialità genetica di organizzazione attiva che ha consentito a «sapiens» un ruolo di soggetto e di
dominatore e parimenti può consentire al bambino una crescita autonoma e idonea a controllare e dominare
l'ambiente in cui nasce e si sviluppa. Tutto nella vita è apprendimento e poiché noi impariamo a dare le più
sottili interpretazioni di ciò che ci viene fornito attraverso i sensi in un meraviglioso processo di catalisi
crociata, tutto parimenti è educazione. La presa di possesso graduale e partecipata delle più significative
esperienze della specie, ottenuta attraverso lo straordinario sviluppo di microstrutture, è processo che si svolge
allo stesso modo nello sviluppo della specie e nello sviluppo dell'individuo.
E ancor più pregnante ci è parsa a tale proposito la posizione di Popper, che, negando il momento sensoriale
come prioritario, affida in maniera ancor più netta ai processi apprenditivi - intesi come momenti fondamentali
della vita nella loro caratteristica di costruttori di ipotesi e di attivissimi processi interpretativi - ruolo di
elementare e insostituibile importanza per la crescita della specie e del singolo. D'altronde, anche se
diversamente da Eccles che coglie nell'«input percettivo globale» un preciso richiamo all'azione, la percezione
globale di Popper, la cui validità è imprescindibilmente legata al ruolo di controllo e di interpretazione dei vari
sensi fra di loro, è anch'essa una-proposta educativa che gioca sulla libera attività del soggetto il suo momento
d'oro.
Se a livello biologico e neurofisiologico l'interpretazione di alcune teorie ci ha portato a tali linee di
riferimento, altrettanto densa di significato e di interesse ci è parsa la posizione del sociologo Edgar Morin; il
superamento del «gap informazionale» attraverso la costituzione delle «competenze», abilità sviluppantesi sulla
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base di potenzialità genetiche con il ruolo coorganizzatore dell'ambiente e della cultura, focalizza in modo
ancor più preciso la funzione dei processi apprenditivi che fanno delle competenze abilità euristiche, strategiche
e creative. D'altronde la complessificazione del cervello - filo rosso del processo di umanizzazione prodotto del
biologico e del culturale è esso stesso espressione di un processo educativo mutato e mutante in cui lo sviluppo
delle competenze - ad un tempo causa ed effetto dei processi esperenziali quanto più diviene sofisticato tanto
più si lega all'esperienza e dunque tanto più risulta legato ai processi apprenditivi. Parimenti l'affermazione di
Moscovici che nega un qualsiasi rapporto fra l'uomo e l'ambiente che non sia derivato dall'uomo - la cui
evoluzione d'altronde non è mai stata in nessun tempo limitata ad un equipaggiamento puramente organico ed
istintuale - puntualizza il processo di evoluzione della specie come un processo in cui lo scambio costante fra
l'uomo e la natura (cioè la potenzialità apprenditiva propria della specie e la stimolazione esterna come
induzione alla modificazione) non può non intendersi che come la messa a fuoco di un processo educativo della
specie e dell'uomo in particolare.
Lo strumento essenziale alla crescita e allo sviluppo della specie e dell'uomo viene riconosciuto nella
«potenzialità cerebrale», nella plasticità apprenditiva; per cui, sia che essa venga interpretata come «soggetto
simulatore» con Monod, o come «intelligenza creativa» con Dewey, o come sviluppo di «competenze» in un
processo di catalisi crociata con Morin, o come peculiare e favolosa abilità organizzativa ed interpretatíva con
Eccles e Popper, resta sempre fondamentale l'assunto che tali potenzialità sono impensabili al di fuori della
natura e della storia e quindi sempre strettamente legate alla trasmissione e alla comunicazione, in ultima
analisi, ai processi educativi. Che questi, poi, possano essere considerati come «tutto ciò che in qualunque
modo e qualunque maniera contribuisca alla formazione dell'uomo» o piuttosto come un «processo organizzato
mirante ad un preciso risultato» è problema enorme che rispecchia in sé conflitti gravi e forse insolubili, ma che
nulla toglie alla certezza del fatto che un processo educativo è tale solo se rispecchia alcuni parametri
fondamentali allo sviluppo della specie quali, ad esempio, il rispetto di una autonoma capacità organizzativa, di
una libera abilità di interpretazione e di una potenzialità creativa originaria e propria della specie.
In definitiva, dunque, intendendo l'apprendimento come attitudine originaria con caratteristiche istintuali di
tipo bio-psichico e configurandoci l'educazione come un processo di trasmissione intenzionale (e dunque
complicata da una serie di problemi di carattere etico-filosofico) o non intenzionale (e dunque complicata da
una serie di valenze socio-politiche), resta sempre evidente che i due fenomeni sono molto spesso momenti
diversi di un unico processo. L'apprendimento risulta infatti il momento fondamentale del processo educativo
così come il processo educativo si configura come l'ambito in cui il processo apprenditivo si arricchisce di
caratteristiche specificamente umane.
Questa è l'eccitante alea dell'esistenza umana, ripetiamo con Eccles: che noi veniamo generati con delle
meravigliose capacità potenziali di crescita e di sviluppo; e che, aggiungiamo noi, solo il mezzo ambientale da
noi «generato», nel rispetto della natura e della specie che di essa è parte, può indurre ad una crescita autenticamente umana.
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14) "Le scienze bioeducative. Prospettive di ricerca" a cura di Elisa Frauenfelder e Flavia Santoianni.
Studi sull'educazione.
Liguori Editore
Introduzione 1
Il cervello e l'attenzione nel contesto scolastico
di Michael I. Posner, Mary K. Rothbart
1. La traduzione dei capitolo è a cura di Flavia Santoianni. Il lavoro di ricerca che ha consentito l'elaborazione
di questo capitolo è stato finanziato dalla Jarnes S. McDonnell Foundation in occasione dei 21st Century
Research Award.
L'attuale interesse nella ricerca sul cervello per aggiornare a questo riguardo la progettazione formativa deve
molto a due fattori di sviluppo dell'ultima decade che, insieme, hanno trasformato l'idea iniziale secondo la
quale è possibile collegare le conoscenze sul cervello con gli sforzi di formatori e genitori per l'integrazione
sociale dei giovani. Il primo di questi eventi è che, per la prima volta, è stato possibile intravedere, nel cervello,
il funzionamento del pensiero (Posner & Raichle, 1994). In combinazione con le registrazioni elettriche o
magnetiche che avvengono all'esterno dell'individuo, si può persino vedere, in tempo reale, i circuiti neurali che
elaborano gli aspetti di una attività come leggere parole o agire in una data situazione (Dale ed altri, 2000).
Sebbene per lungo tempo ci si sia avvicinati, sotto alcuni aspetti, a queste metodiche, solo nell'ultima decade è
apparso evidente che si è giunti a una nuova era nella capacità di creare immagini locali dell'attività del cervello
attraverso l'analisi dei cambiamenti nel flusso sanguigno cerebrale.
Essere capaci di vedere le cose ha sempre avuto un effetto notevole nella scienza. Il microscopio ha permesso
all'umanità di vedere cose troppo piccole per essere osservate dai nostri sensi. All'inizio del ventesimo secolo
Santiago Ramon y CajaI (1937) fu in grado, per la prima volta, di osservare le singole cellule nervose. La nostra
attuale capacità di vedere i processi del pensiero è resa possibile proprio dall'osservazione dell'operare di queste
cellule nervose. Quando i neuroni sono attivi, variano il loro flusso locale ematico. Ciò rende possibile
ricostruire quali aree del cervello sono attive durante i processi cognitivi misurando le variazioni locali degli
aspetti del flusso ematico cerebrale.
Il secondo evento è stato la mappatura dei genoma umano (Ventner ed altri, 2000). Ora è possibile non
soltanto studiare l'anatomia funzionale delle reti neurali cerebrali, ma anche analizzare come le differenze
genetiche possono dar luogo alla variabilità individuale che si esprime nella possibilità di usare le reti neurali
cerebrali per acquisire abilità e per metterle in pratica. La via che parte dalla dotazione genetica e conduce alle
prestazioni scolastiche non è né semplice né separabile dalla comprensione del funzionamento delle reti neurali
cerebrali. Le differenze primarie nella reattívità infantile al proprio ambiente, infatti, studiate come
temperamento infantile (Rothbart & Bates, 1998), si modificano nel tempo sia attraverso la maturazione e il
successivo sviluppo del sistema, sia attraverso le esperienze individuali, esperienze che concorrono a formare la
personalità dei soggetti in crescita e degli adulti.
In questo breve capitolo, si adopera il sistema attentivo in sviluppo come modello per analizzare i modi in cui
le reti neurali cerebrali, la variabilità genetica e l'esperienza modellano, insieme, la capacità dei soggetti in
crescita di prestare attenzione alle informazioni che il contesto scolastico fornisce (Ruff & Rothbart, 1996).
L'attenzione è un attraente sistema modello per collegare gli studi sul cervello alla formazione, poiché
l'attenzione è importante per mantenere la vigilanza, per regolare le emozioni e per selezionare in modo
appropriato le informazioni nel contesto scolastico.
Le funzioni dell'attenzione possono essere misurate anche nei neonati. Si può osservare come lo sviluppo
dell'attenzione sia modellato da fattori genetici e ambientali. La nostra ipotesi guida è che l'interpretazione della
attenzione come uno specifico sistema cerebrale, con la propria identità anatomica e circuitale, che comprende
la gamma della variabilità individuale, può generare intuizioni di notevole rilevanza ai fini della complessa
costruzione degli ambienti di formazione. Questa idea è simile, anche se in scala ridotta, al tema generale di
questo volume.
84
L'attenzione come Sistema-Organo
Le neuroimmagini funzionali hanno permesso di analizzare molti compiti cognitivi facendo riferimento alle
aree cerebrali che attivano (Posner & Raichle, 1998). L'attenzione è stata uno tra gli argomenti più studiati da
questo punto di vista. 1 dati delle neuroimmagini hanno avallato la presenza di tre reti neurali cerebrali correlate
a differenti aspetti dell'attenzione. Queste reti neurali cerebrali effettuano funzioni di vigilanza, di orientamento
e di controllo esecutivo (Posner & Raichle, 1994; Posner & Fari, in stampa).
La vigilanza è definibile come il raggiungimento e il mantenimento di uno stato di alta sensibilità agli stimoli
in entrata; l'orientamento è la selezione delle informazioni che provengono dagli input sensoriali; il controllo
esecutivo gestisce i meccanismi che servono ad analizzare e a risolvere le situazioni di conflitto tra più risposte
possibili. Il sistema di vigilanza è stato associato alle regioni frontali e parietali dell'emisfero destro. Si è visto
che un modo particolarmente efficace per modificare gli stati di vigilanza può consistere nell'usare alcuni
segnali di avvertimento prima di mostrare gli obiettivi sperimentali. Si pensa che l'influenza dei segnali di
avvertimento sui livelli della vigilanza sia dovuta alla modulazione dell'attività neurale da parte del sistema
della norepinefrina.
La rete neurale cerebrale la cui funzione è l'orientamento selettivo degli input sensoriali è stata associata alle
aree dei lobi parietali e dei campi frontali dell'occhio così come alle aree subcorticali connesse ai movimenti
oculari. Si può vedere come l'orientamento possa essere modificato attraverso esperimenti in cui si presenta,
come suggerimento, una data indicazione circa il luogo dove dovrebbe trovarsi una data persona nello spazio; si
forniscono, successivamente, alcuni indizi basilari per convogliare l'attenzione verso la posizione indicata, in
due modi: muovendo gli occhi manifestamente o senza alcun movimento dell'occhio, celatamente. Alcuni
risultati che sono correlati a studi condotti attraverso le immagini della risonanza magnetica funzionale (fMR1)
hanno suggerito che il lobo parietale superiore è associato con l'orientamento che segue la presentazione di una
indicazione. Il lobo parietale superiore degli esseri umani si può porre in stretto rapporto con l'arca laterale
intra-parietale (LIP) di alcuni tipi di scimmie, di cui si conosce la capacità di produrre movimenti dell'occhio.
Quando un obiettivo sperimentale viene presentato in una posizione non precedentemente indicata, l'attenzione
deve essere "disimpegnata" e convogliata verso una nuova posizione; si rileva, in questo caso, presenza di
attività nella giunzione temporale parietale (Corbetta ed altri, 2000). Le lesioni del lobo parietale sono state,
dunque, messe in evidente relazione con le difficoltà nei compiti di orientamento.
Il controllo esecutivo dell'attenzione è stato spesso studiato attraverso compiti sperimentali che implicano
conflitti tra più possibili risposte, come le varie versioni della prova di Stroop. Nella prova di Stroop i soggetti
devono rispondere circa un colore di inchiostro (per esempio, colore rosso) che gli viene presentato mentre
devono ignorare una parola con un nome di colore (per esempio, colore azzurro) che gli viene presentata al
tempo stesso. Questa prova attiva le aree frontali mediane (cingolato anteriore) e la corteccia laterale
prefrontale (Bush, Luu & Posner, 2000). Vi sono ora considerevoli prove che evidenziano la comune
attivazione di queste reti neurali cerebrali in compiti che implicano conflitti tra più risposte e, forse, in altre
forme di attività mentale. Questi compiti sperimentali possono, dunque, fornire strumenti per separare i
contributi funzionali di aree che si trovano all'interno della rete neurale cerebrale dell'esecuzione attentiva. Il
nostro lavoro, svolto con soggetti in sviluppo, suggerisce che questa rete neurale cerebrale giochi un ruolo
autoregolativo sia in termini di attività emozionale sia in termini di attività cognitiva (Posner & Rothbart,
2000).
L'individualità
Per studiare le differenze individuali in queste reti neurali, abbiamo sviluppato un test per le reti neurali della
attenzione (ANT Attention Network Test) che valuta l'efficienza delle tre reti neurali cerebrali sopra discusse
(Fan ed altri, in stampa). Abbiamo usato i tempi di reazione ottenuti da una prova sperimentale in cui il compito
che è stato chiesto di svolgere a ogni soggetto della sperimentazione consisteva nel premere un tasto - che si
trovava alla destra di una freccia posta al centro e intesa come obiettivo della sperimentazione - se la freccia
indicava la destra, e nel premere un tasto che si trovava alla sinistra della freccia posta al centro se l'obiettivo
indicava la sinistra. Intorno all'obiettivo centrale, costituito dalla freccia, ve ne erano altre che la
fiancheggiavano, di cui alcune puntavano nella stessa direzione (congruenti) e altre puntavano nella direzione
opposta (incongruenti). Prima di muovere l'obiettivo in una direzione o nell'altra, ai soggetti della
sperimentazione veniva presentato uno dei quattro possibili indicatori di direzione, il cui compito è appunto
indicare l'inizio di un insieme di tentativi (segnale di avvertimento) e se la freccia che costituisce l'obiettivo si
85
troverà al di sopra o al di sotto di un punto prefissato. Se si sottraggono i tempi di reazione (RTs) che i soggetti
manifestano, nella sperimentazione, in ambedue i casi - quando, cioè, vengono fornite indicazioni per entrambe
le possibili posizioni dell'obiettivo - dal tempo di reazione (RT) che i soggetti della sperimentazione
manifestano in assenza di indicazioni, si ottiene la misura della efficacia di un segnale di avvertimento durante
la vigilanza. Se si sottraggono i tempi di reazione (RTs) che i soggetti manifestano, nella sperimentazione,
quando l'indicazione che viene fornita coincide con la posizione dell'obiettivo dai risultati dei tentativi che sono
stati effettuati fornendo come indicazione la posizione centrale si ottiene la misura del miglioramento del tempo
di reazione (RT) dovuto all'orientamento fornito per trovare la posizione dell'obiettivo. Se si sottrae il tempo di
reazione (RT) ottenuto nei tentativi congruenti dai tempi di reazione (RTs) ottenuti in condizioni incongruenti,
il risultato fornisce la misura del grado di attenzione esecutiva implicato nella risoluzione di situazioni in cui si
rileva un conflitto tra più possibili risposte. I dati forniscono, dunque, tre risultati che rappresentano le
prestazioni che ogni soggetto può dare per quanto riguarda la vigilanza, l'orientamento e le reti neurali cerebrali
del controllo esecutivo. In un campione di quaranta persone nella norma abbiamo trovato che questi risultati
erano affida bili in più di due sperimentazioni condotte con successo. Un altro dato è che non si è trovata
correlazione tra le tre reti neurali cerebrali. L'analisi dei tempi di reazione condotta in questa prova sperimentale
ha mostrato, quindi, in modo evidente, i principali effetti che riguardano l'uso dei segnali di avvertimento come
indicazione e l'uso di questo tipo di obiettivo ma ha mostrato, d'altra parte, soltanto interazioni poco rilevanti tra
le tre reti neurali cerebrali (Fan ed altri, in stampa).
La possibilità di misurare le differenze nella attenzione tra gli individui adulti pone la questione del grado di
ereditabilità dell'attenzione. Per rispondere a questa domanda abbiamo usato il test ANT per studiare 26 gemelli
monozigoti e 26 gemelli dizigoti dello stesso sesso (Fari ed altri, 2001). Nei gemelli monozigoti, abbiamo
trovato forti correlazioni per quanto riguarda i risultati concernenti entrambe le reti neurali cerebrali del
controllo esecutivo e della vigilanza. Per la rete neurale cerebrale della vigilanza abbiamo trovato una simile,
anche se in qualche modo ridotta, correlazione tra i gemelli dizigoti, ma per la rete neurale cerebrale del
controllo esecutivo abbiamo trovato una correlazione molto maggiore tra i gemelli monozigoti che tra i gemelli
dizigoti. A causa della ridotta dimensione del campione, le stime della ereditabilità non possono essere molto
precise. Ciononostante, questi dati supportano l'ipotesi che i geni abbiano un ruolo nel regolare l'efficienza del
controllo esecutivo e, forse, della rete neurale cerebrale della vigilanza. I nostri attuali studi, condotti su soggetti
in crescita e nella norma, suggeriscono che la rete neurale cerebrale per la gestione delle situazioni di conflitto
tra più possibili risposte continua a svilupparsi sino alla tarda infanzia o all'adolescenza, considerando che i
bambini di dieci anni possono avere qualche difficoltà in più nella risoluzione di conflitti rispetto a ciò che gli
adulti riescono a fare con la stessa versione del test ANT (Fan ed altri, studio in corso).
Le relazioni che possono sussistere tra le reti neurali cerebrali della vigilanza e del controllo esecutivo e i
neuromodulatori NE e DA sono state usate, da noi, come un modo per scegliere quali geni possono considerarsi
candidati a essere correlati all'efficienza di queste reti neurali cerebrali (Fossella ed altri, in stampa). Per
esaminare queste relazioni abbiamo condotto sperimentazioni con oltre 200 persone usando il test ANT e ne
abbiamo ottenuto il DNA con tamponi orali che sono serviti ad analizzare i frequenti polimorfismi nei geni
correlati ai rispettivi neuromodulatori. Abbiamo ottenuto così prove preliminari circa l'associazione nella
maggior parte dei geni correlati ai neuromodulatori DA e NE più frequentemente studiati (Fosella ed altri, in
stampa; Fossella ed altri, studio in corso). Questi geni sembrano essere associati con i risultati delle reti neurali
cerebrali individuali più che, complessivamente, con i tempi di reazione o con la precisione nello svolgimento
di un compito. Questo risultato fornisce un certo sostegno all'ipotesi della utilità dei fenotipi dell'attenzione che
abbiamo definito e suggerisce che questo potrebbe essere il livello più appropriato di analisi nello studio della
genetica molecolare.
I contesti prescolastici
Come la genetica e l'esperienza possono modellare l'attenzione negli anni prescolastici? La rete neurale
cerebrale dell'orientamento può essere progressivamente studiata a partire dalla nascita, osservando i
meccanismi che controllano i movimenti dell'occhio nel neonato (Ruff & Rothbart, 1996). Fin da quando hanno
tre o quattro mesi i neonati, nella media, possono imparare a prevedere la posizione degli eventi visivi che
avvengono in luoghi prevedibili nel loro campo visivo (Haith, Hazan & Goodman, 1988). I nostri studi
indicano che i neonati, a quattro mesi, possono imparare sequenze di eventi visivi semplici e inequivocabili
(Clohessy, Posner & Rothbart, 2001). Queste capacità sembrano essere dovute alla maturazione di una rete di
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aree cerebrali che includono sia i gangli basali che le aree posteriori corticali del lobo parietale. Questo
processo di maturazione è comune a tutti i neonati nella norma, sebbene può subire un ritardo nei neonati che
presentano disabilità nello sviluppo. Anche tra i bambini nella norma alleli specifici di geni critici possono
ritardare o potenziare i processi di maturazione. Inoltre, il modo in cui queste capacità sono usate può
dipendere da specifici apprendimenti che possono differire tra le culture.
Negli Stati Uniti, i genitori affermano di variare i modi in cui usano rasserenare i figli intorno ai tre o quattro
mesi, passando dal tenerli in braccio e cullarli all'uso di attrazioni visive che agiscono come fattori esterni di
distrazione e possono calmarli. Abbiamo mostrato sperimentalmente che la capacità di orientamento, propria
dell'attenzione, può interrompere una condizione di stress; infatti, durante l'orientamento, i livelli di stress
sembrano diminuire, ma tendono a ripristinarsi nella misura in cui si riduce la capacità di orientamento
(Harman, Rothbart & Posner, 1997). In Giappone, i genitori sono propensi a usare questa capacità in sviluppo,
l'orientamento, in funzione della condivisione delle emozioni che i genitori instaurano con i figli (Bornstein ed
altri, 1992). Queste differenze interculturali mostrano come le capacità in sviluppo, nell'infanzia, possono
essere modulate in specifiche traiettorie di apprendimento che si rivelano essere in linea con l'intenzionalità
formativa di chi si prende cura dei bambini e con la loro cultura. Ciò mette in luce, inoltre, quanto sia potente il
potenziale di apprendimento anche nella primissima infanzia.
Verso i due anni, la rete neurale cerebrale dell'orientamento si integra, in modo sempre più chiaro, con la rete
neurale cerebrale del controllo esecutivo, che inizia a regolare i movimenti volontari nel bambino. Questo
cambiamento può essere osservato nella accresciuta capacità del bambino di scegliere tra più orientamenti in
conflitto tra loro. Mentre i neonati di quattro mesi si destreggiano bene in sequenze del tipo 1-2-3-4, In cui
ciascuna posizione è pienamente prevedibile sino alla fine, sembrano, viceversa, trovarsi in grandi difficoltà
nell'imparare la sequenza 1-2-1-3, in cui sia il 2, sia il 3, possono seguire N. Solo quando raggiungono circa i
due anni di età, i bambini mostrano di essere capaci di scegliere correttamente il 2 o il 3, in questo tipo di
associazione ambigua, a un livello più complesso della semplice scelta casuale (Clohessy ed altri, 2000;
Rothbart, Ellis & Posner, in stampa).
Abbiamo monitorato, inoltre, la crescente capacità dei bambini dell'età di due anni di risolvere situazioni
conflittuali in ambito spaziale in una prova sperimentale in cui veniva chiesto loro di premere alcuni tasti in
abbinamento a un oggetto visivo (Gerardi-Caulton, 2000). In questo compito sperimentale la posizione
dell'oggetto può trovarsi sia dalla stessa parte dello schermo in cui si trova il tasto corretto da premere, sia sul
lato opposto. 1 bambini imparano a risolvere questo conflitto arbitrario tra i due e i tre anni di età e studi
effettuati con le neuroimmagini negli adulti indicano che questo compito attiva la rete neurale cerebrale del
controllo esecutivo dell'attenzione.
I bambini a trenta mesi sono, per la prima volta, in grado di fronteggiare con successo compiti che implicano
situazioni di conflitto in ambito spaziale; le prestazioni in questo tipo di compito possono essere
significativamente correlate con la stessa capacità, sviluppata dai bambini di circa due anni, di gestire
associazioni ambigue come quelle della sequenza 1-2-1-3 precedentemente descritta (Rothbart, Ellis & Posner,
studio in corso). Questa riflessione, unita al fatto che un bambino dell'età di quattro mesi può imparare
sequenze prevedibili ma non ambigue, attesta la possibilità di seguire il tracciato dell'emergere del controllo
esecutivo dell'attenzione in età molto precoci.
L'importanza di poter studiare l'emergere del controllo esecutivo dell'attenzione è stata accresciuta dal fatto
che le misurazioni cognitive delle abilità di risoluzione di situazioni di conflitto in questi compiti di laboratorio
sono state collegate ad alcuni aspetti delle funzioni di autocontrollo nei bambini in condizioni non create
artificialmente. I bambini relativamente meno influenzati da situazioni conflittuali in ambito spaziale hanno
anche ricevuto, dai genitori, valutazioni più alte per quanto riguarda il controllo temperamentale che implica
sforzo e punteggi più alti nelle misurazioni di laboratorio del controllo inibitorio (Gerardi-Caulton, 2000). I
questionari inerenti ai test hanno mostrato la presenza di un fattore di controllo che implica sforzo, definito
attraverso scale di misurazione della concentrazione attentiva, del controllo inibitorio, del piacere di bassa
intensità e della sensibilità percettiva che possono essere inversamente correlate con percezioni negative
(Rothbart, Ahadi & Evans, 2000). Questa correlazione può essere mantenuta nel senso che la nozione di abilità
attentiva può contribuire ad attenuare le percezioni negative mentre, d'altra parte, può essere utile per vincolare
le tendenze ad approcci impulsivi.
I bambini che mostrano un elevato controllo che implica sforzo mostrano anche una più grande empatia verso
gli altri (Rothart, Ahadi & Evans, 2000). Comprendere come questi bambini possono mostrare empatia verso
gli altri richiede una interpretazione dei segnali di stress o di piacere che essi manifestano. Lavori effettuati con
le neuroimmagini in individui nella norma mostrano che le espressioni tristi del volto attivano l'amigdala. Man
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mano che la tristezza aumenta, questa attivazione è accompagnata da attività nel cingolato anteriore in quanto
fa parte della rete neurale cerebrale dell'attenzione (Blair, Morris, Frith, Perrett & Dolan, 1999). Sembra,
probabilmente, che l'attività del cingolato rappresenti la base neurale della attenzione individuale verso gli stati
di stress vissuti da altri.
Studi sullo sviluppo hanno trovato due vie per un buon esito dei processi di socializzazione. Una amigdala
fortemente reattiva fornirebbe i segnali di stress che permetterebbero di facilitare l'espressione di sensazioni di
empatia verso gli altri. In questo caso i bambini socializzano in modo relativamente facile. In assenza di questa
forma di controllo, sarebbe lo sviluppo del cingolato a permettere una appropriata attenzione ai segnali forniti
dalla attività dell'amigdala. Coerentemente con l'influenza che esercita sull'empatia, il controllo che implica
sforzo sembra anche avere un proprio ruolo nello sviluppo della coscienza. L'interiorizzazione dei principi
morali sembra essere facilitata nei bambini in età prescolare che si spaventano facilmente, in particolare modo
nei casi in cui hanno madri non severe (Kochanska, 1995). Inoltre, l'interiorizzazione del controllo è facilitata in
quei bambini che presentano un elevato controllo che implica sforzo (Kochanska, ed altri, 1996). Lo sviluppo
della coscienza sembra, dunque, essere regolato da due distinti sistemi di controllo, di natura reattiva (il timore)
e di natura attenzionale (il controllo che implica sforzo).
L'addestramento
Abbiamo usato la nostra prova sperimentale ANT per tracciare lo sviluppo della rete neurale cerebrale del
controllo esecutivo fino ai dieci anni di età. Anche all'età di dieci anni, tuttavia, i possibili paragoni con gli
individui adulti suggeriscono che tale rete neurale cerebrale non è ancora completamente matura. Il poter
delineare differenze tra gli individui nel funzionamento di questa rete di alto livello durante gli anni prescolari
solleva la questione riguardante la possibilità che le esperienze prescolari siano utilizzate per formare la rete
neurale cerebrale in sviluppo in modo che possa favorire la successiva scolarizzazione.
In effetti, questa possibilità ha avuto maggiore credibilità in seguito ai risultati di studi condotti su animali,
nei quali alcune scimmie sono state addestrate a svolgere compiti complessi che negli esseri umani attivano la
rete neurale cerebrale del controllo esecutivo (Rumbaugh & Washburn, 1995). Sembra che gli animali abbiano
gradito l'addestramento ed è sembrato agli sperimentatori che questo abbia anche comportato un miglioramento
nei loro comportamenti sociali e aggressivi. Attualmente stiamo sperimentando questa forma di esercitazione
nei bambini di circa due anni per vedere se è possibile riscontrare miglioramenti di carattere generale nelle
prestazioni che svolgono.
L'addestramento dell'attenzione ha costituito un aspetto importante dei programmi prescolari di studio nei
paesi dell'Europa centrale e orientale. In questi paesi l'addestramento dell'attenzione è considerato parte
integrante dell'intenzione di sviluppare abilità a carattere generale che potrebbero introdurre i bambini nel
contesto scolastico con maggiore facilità. Un aspetto importante da valutare è se tale tipo di addestramento
comporta effettivamente un miglioramento nello sviluppo dell'attenzione nei primi anni di vita e, anche, se può
avere conseguenze favorevoli per le prestazioni in ambito scolastico.
L'insegnamento
Uno dei campi in cui la ricerca sulle neuroimmagini e la ricerca genetica si sono rivelate essere più attive è stato
lo studio delle possibilità di accrescimento delle potenzialità cognitive in ambito linguistico. Negli adulti,
l'abilità della lettura scorrevole sembra dipendere da due aree della corteccia posteriore che, nei lettori esperti,
organizzano in modo automatico le parole visivamente percepite. L'area in cui si organizzano le parole
visivamente percepite si trova, all'interno del sistema visivo, al confine tra i lobi occipitali e temporali. Nei
lettori adulti esperti questa area sembra assemblare le lettere che compongono le parole in unità visive. Questo
sistema permette al lettore di evitare la scansione di ogni singola lettera. Una seconda arca che si trova vicino
alla corteccia uditiva permette al lettore esperto di richiamare l'unità fonologica che si collega a una parola
costituitasi come input visivo. I bambini che hanno difficoltà con l'aspetto delle parole sono capaci di leggere
lentamente ma la loro lettura manca di scorrevolezza, mentre i bambini che hanno difficoltà fonologiche non
sono capaci di vagliare le parole nuove e si limitano a leggere le parole che gli sono familiari cercando di
indovinare quelle che non conoscono. Sebbene possa apparire logico che l'aspetto visivo delle parole preceda il
88
sistema fonologico, vi sono prove del fatto che la formazione visiva di una parola può svilupparsi in un secondo
momento e che le funzioni del sistema visivo e del sistema fonologico sono in stretta interazione tra loro
(Posner & McCandliss, 1999; Harm & Seidenberg, 1999).
In base alla nostra prova sperimentale, è necessaria poca o nessuna attenzione per il funzionamento del
sistema di un lettore esperto, mentre l'attenzione è necessaria affinché questo sistema si sviluppi
appropriatamente. I bambini che hanno difficoltà nell'imparare a leggere impiegano la rete neurale cerebrale del
controllo esecutivo dell'attenzione per compensare le insufficienze nello sviluppo della formazione visiva
posteriore automatizzata delle parole e dei sistemi fonologici (Shaywitz ed altri, 1999). Sembra che il sistema
che presiede alla formazione delle parole si sviluppi relativamente tardi. Anche se è possibile essere capaci di
leggere pur essendo privi di un efficiente sistema che presiede alla formazione delle parole sembra, almeno
apparentemente, che questo sistema migliori la velocità e la scorrevolezza nella lettura. Alcuni studi indicano
che all'età di dieci anni l'attivazione del funzionamento del sistema visivo che presiede alla formazione delle
parole richiede la presenza di un vocabolario di parole familiari che i bambini hanno già imparato. Negli adulti
esperti, invece, la formazione visiva delle parole si può organizzare anche in relazione a sequenze di lettere mai
viste prima, a condizione che tali sequenze obbediscano alle regole della lingua scritta e siano, cioè, regolari da
un punto di vista ortografico (Posner & McCandliss, 1999).
Si riscontra, nei lettori meno abili, una rilevante disorganizzazione della materia bianca che collega le aree
posteriori, necessarie alla lettura, con altri sistemi cognitivi di portata più generale (Kinberg, Hedehus, Temple,
Salz, Gabrieli, Moseley & Poldrack, 2000). Inoltre si sta iniziando a comprendere quali aree del genoma
potrebbero essere significative nel determinare le differenze che i bambini presentano nella capacità di
sviluppare aree del cervello correlate con la formazione delle parole e la fonologia (Olson, Gayan, & DeFries,
1999). Sebbene ancora molto deve essere imparato circa i cambiamenti che avvengono durante gli interventi di
recupero per le difficoltà di lettura, ciò che già si conosce in merito alle reti neurali cerebrali che sottendono la
lettura esperta suggerisce metodi di recupero che sono riusciti a migliorare alcune prestazioni nei bambini
(McCandliss, Sandak, Beck & Perfetti, in stampa). Gli studi futuri possono essere orientati dalla accresciuta
funzionalità delle reti neurali cerebrali che si accompagnano a questo tipo di interventi (McCandliss Maritnez,
Sandak, Beck, Perfetti & Schnieder. 2001).
E' importante che coloro che fanno ricerca sul cervello e coloro che lavorano nel campo della formazione
collaborino insieme per capire come si sviluppano questi sistemi automatici e quali cambiamenti curricolari
possono contribuire meglio di altri a promuoverne lo sviluppo.
Sebbene la lettura sia una delle materie d'insegnamento più studiate in relazione alle reti neurali cerebrali
anche altri argomenti, come l'aritmetica (Deheaene, 1997), la musica e la seconda lingua sono stati analizzati da
questo punto di vista (Kim ed altri, 1997).
Linee riassuntive
In questo breve capitolo abbiamo esaminato lo sviluppo dell'attenzione nei primi anni di vita. La nostra
opinione è a favore del riconoscimento dell'importanza di una comprensione dell'attenzione sia per quanto
riguarda le specifiche reti neurali cerebrali che la sottendono sia per quanto riguarda le differenze individuali
nel funzionamento di queste reti. Una tale comprensione potrebbe concorrere a guidare i formatori nel delineare
appropriati curriculum prescolastici e nel migliorare le modalità di insegnamento della lettura. Ci auguriamo
che in futuro i ricercatori che studiano la plasticità del cervello e quelli che lavorano nella progettazione
formativa collaborino per lo sviluppo di ambienti di apprendimento sempre migliori.
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Cognizione, neuroscienze e formazione: prospettive di ricerca nelle scienze bioeducative
di Elisa Frauenfelder, Flavia Santoianni
La conoscenza è quel che accettiamo senz'altro... Il pensiero al contrario denota un atteggiamento di indagine,
di ricerca
John Dewey
La complessità epistemologica e il ruolo regolativo e radicale di meta livello (Cambi, 1999) della pedagogia tra
i diversi saperi delle scienze dell'educazione ha significato, nel corso della seconda metà del novecento 1, una
graduale tensione interattiva pluridisciplinare 2 (Visalberghi, 1990) e una costante dimensione ricostruttiva di
modelli interpretativi ermeneutico-critici.
1. La pedagogia è stata recentemente definita da Cambi (1999) "sapere dismorfico e ipercomplesso" segnato dal
graduale passaggio da un sapere univoco e "chiuso" a un sapere aperto e pluralistico. Tale passaggio - iniziato
idealmente con la pubblicazione de La pedagogia come scienza di De Bartolomeis nel 1953 - ha continuato a
subire modificazioni che hanno visto le scienze dell'educazione divenire sempre più costitutive, e sempre meno
ausiliarie, del sapere pedagogico.
2. Nel senso di condividere finalità di ricerca senza necessariamente accettare metodologie comuni.
Ciò ha permesso - in particolar modo negli ultimi venti anni - una ulteriore apertura del sapere pedagogico
verso ambiti di ricerca che sono andati via via connotandosi come zone di frontiera, avamposti e limiti estremi
di una sinergia di interessi di indagine che deve molto al progressi nel campo delle neuroscienze e della scienza
cognitiva.
Attualmente possibili linee interpretative mettono in evidenza l'apertura di prospettive di ricerca in tali ambiti
e rilevano l'esigenza di costruire un terreno di incontro tra la pedagogia, le neuroscienze e il post-cognitivismo.
Al crescente interesse verso la definizione delle scienze bioeducative come possibile ambito di studi che
ricomprenda in sé la pedagogia, le neuroscienze e il post-cognitivismo fa oggi riscontro, specularmente, una
risposta più attenta del mondo scientifico verso le problematiche della formazione.
La triplice considerazione della formazione (Cambi, Frauenfelder, 1994) come processo bio-antropologico,
come fattore di socializzazione e di condivisione simbolica e culturale, come congerie di elementi che
contribuiscono alla crescita individuale, apre prospettive di ricerca tagliate trasversalmente in modo continuo da
una serie di nuclei tematici ricorrenti all'interno di più ampie relazioni problematiche, come quelle natura cultura - educazione o mente cervello - apprendimento.
Queste prospettive possono definirsi bioeducative nella misura in cui contribuiscono alla messa a fuoco di una
dimensione formativa orientata in senso neuroscientifico e post-cognitivista e di un significato pedagogico che
vede nel progetto della formazione un passaggio parzialmente autoregolato e autoctono di forme individuali, un
91
processo trasformativo e adattivo (Laporta, 1996) che si interroghi costantemente su quali significati educativi
siano oggi ancora presenti al suo interno e in quali direzioni (individuali, sociali, contestuali, culturali ... ) si
esplichino 3.
3. Negli ultimi dieci anni, la tradizione degli studi sull'educazione - che, come scrive Orefice (1996), si è
interessata soprattutto alla definizione delle finalità dell'educazione, piuttosto che allo svolgersi processuale
degli eventi formativi ha messo in atto un ripensamento della formazione (e della relazione formazione educazione) come la categoria più alta, più ricca e più complessa della pedagogia; categoria chiave alla luce
della quale sono state riviste e reimpostate le dinamiche relazionali tra i diversi saperi. La formazione si
esprime attraverso una pluralità di significati e una compresenza di livelli interpretativi; i molteplici livelli di
analisi della categoria formazione ne investono la dimensione diacronica (nel passaggio dalla paideia, libera
formazione umana attraverso la cultura, con tensioni di validità universale, alla bildung, formazione unitaria, e
non parcellizzata, legata alla composizione di più saperi, dalla scienza all'arte, attraverso i quali il soggetto
forma la propria immagine, bild) e ne investono la dimensione pluralistico - dialettica (come pluralismo di
interpretazioni, emergenze e scienze, secondo Frabboni (1994), come dialetticità intrinseca alle tensioni
antinomiche della complessità pedagogica, secondo Cambi (1999), dove il dinamismo espressivo è dato proprio
dalla natura multicomponenziale di questo sapere).
Il progressivo avvicinamento della pedagogia alle neuroscienze, espresso in tali mutamenti di prospettiva, è
stato reso possibile dal progredire e dall'intensificarsi della ricerca sperimentale neuroscientifica, effettuata con
l'ausilio di tecnologie di analisi non invasive (Maffei, 1998), che hanno contribuito a dare maggiori possibilità
di espressione ai dati sperimentali.
D'altra parte, le accresciute possibilità di indagine hanno contribuito a intensificare la disposizione
interpretativa manifestata dalle neuroscienze verso un ambito di ricerca sfuggente e non definito come il
mentale, avanzando possibili interpretazioni anche in campi, come, ad esempio, la coscienza (Changeux, 1983,
1989; Rose, 1973, 1994; Crick, Koch, 1990, 1992, 1995, 1998, 1999; Koch, 1996; Greenfield, 1995; Le Doux,
1998; Boncinelli, 1999; Montalcini, 1999), tradizionalmente loro preclusi.
Attualmente la maggiore diffidenza nell'accettazione della considerazione di una possibile interazione
pedagogia - neuroscienze viene proprio da quei contesti di studio e ricerca che hanno impostato l'analisi del
mentale secondo binari diversi e deraglianti rispetto al substrato biologico della mente, quali il
computazionalismo, all'interno dei cognitivismo, e - in fondo, parzialmente - lo stesso connessionismo (Rose,
1994) che, pur considerando il cervello modello della mente (Frauenfelder, Santoianni, 1997), pur avendo
portato avanti negli ultimi vent'anni una severa critica al computazionalismo dell'Intelligenza Artificiale e della
Computer Science (Parisi, 1989, 1990, 1991, 1997; Rumelhart, McClelland, 1991), può essere anch'esso
incluso nella scienza cognitiva, intesa in senso lato o "debole".
La ricerca all'interno della scienza cognitiva, intesa come lo studio del modo in cui un qualsivoglia mezzo
(device) - sia esso una mente, un cervello o un computer - elabora informazioni (Sperber, Hirschfeld, 1999), ha
influenzato e indirizzato la ricerca pedagogica per quasi cinquant'anni nello studio del funzionamento dei
processi apprenditivi e delle architetture dei sistemi cognitivi.
Nel ripercorrere le linee interpretative tracciate da quello che oggi sembra essere il primo grande tentativo di
raccogliere in un insieme unitario le coordinate di studio che hanno contribuito alla costituzione della scienza
cognitiva e alla sua definizione nel corso della seconda metà del novecento (The Massachussets Institute of
Technology Encyclopedia of the Cognitive Sciences, Wilson, Keil, 1999) si può seguire lo svolgersi di sei filoni
di studi, compresenti, distinti e interrelati, le cui matrici sono state identificate nel pen
siero filosofico (Wilson, 1999), nell'indagine psicologica (Holyoak, 1999), nelle sperimentazioni
neuroscientifiche (Albright, Neville, 1999), negli studi sull'intelligenza computazionale (Jordan, Russell, 1999)
e sul linguaggio (Chierchia, 1999) e, infine, nelle relazioni sinergiche tra cultura, cognizione, evoluzione
(Sperber, Hirschfeld, 1999).
Pur volendo avvicinarsi alle ultime tendenze della ricerca post-cognitivista come il contestualismo, il
culturalismo e il costruttivismo - che nel criticare alcuni aspetti del cognitivismo (ad esempio, la tendenza
soggettocentrica e acontestuale) hanno finito col determinare il superamento della stessa scienza cognitiva
(Olson, Torrance, 1996) - una possibile cornice interpretativa bioeducativa potrebbe, tuttavia, anche
ricomprendere in sé alcuni aspetti concettuali e metodologici della matrice cognitivista, ma non potrebbe più
implicare oggi un "passaggio obbligato" attraverso i paradigmi funzionalista e computazionale che la hanno
caratterizzata.
92
Il funzionalismo, teoria per la quale «ciò che fa di qualcosa una mente non è tanto ciò di cui essa è fatta, ma
ciò che essa può fare» (Dennett, 1997), è stato deputato dalla scienza cognitiva alla soluzione dell'impasse
relazionale circa i nessi tra il fisico e il mentale e ha risolto tale impasse affermando che gli stati mentali sono
stati funzionali, o, meglio, che ciò che rende tale uno stato mentale è il suo ruolo causale, il suo significato
all'interno della funzionalità di un sistema operativo. Questa corrente di pensiero ha supportato una
considerazione non riduttiva della psicologia, secondo la quale l'organizzazione funzionale degli stati
psicologici prescinde dalla consistenza materiale del supporto di base sul quale si innestano; è pertanto
possibile raffrontare e comparare stati mentali simili presenti in creature appartenenti a specie diverse
gradualmente dislocate lungo la scala filogenetica. Nello stesso tempo il funzionalismo ha giustificato e
avallato l'esistenza di forme non biologiche di intelligenza, creature artificiali in grado di pensare come i
computer o i robot. Il funzionalismo è stato oggetto di critica già all'interno della scienza cognitiva
(Churchland, 1995), in quanto non in grado di riconoscere le differenze emozionali presenti a livello cosciente
nel caratterizzare e diversificare gli stati mentali soggettivi.
Nel proporre la mente individuale come dotata di una "struttura fisica" a sé stante, e nel prescindere dalle
modalità con le quali si concretizza, il funzionalismo non sembra essere un paradigma adottabile nell'ambito di
una prospettiva bioeducativa 4.
4. Per il funzionalismo (Santoianni,, Striano, 2000), le funzioni intelligenti svolte da macchine diverse riflettono
uno stesso processo sottostante, e ciò non può essere spiegato con l'ipotesi di un hardware simile, che nel
cervello è fatto di "materia biologica" e nel calcolatore di "pezzi elettronici": è il software, il programma
eseguito a livello funzionale, che può accomunare la mente e il computer (Le Doux, 1998). Proprio il paragone
tra la mente e il computer, insieme al disinteresse della scienza cognitiva per la matrice biologica del pensiero
(Parisi, 1989, 19901 1991, 1997), sono gli aspetti funzionalisti meno condivisibili dalla ricerca pedagogica
(Frauenfelder, Santoianni, 1997).
Se, tuttavia, del funzionalismo si mette in luce la considerazione della mente come sistema fisico (un insieme di
possibili stati interni) situato in un ambiente consistente in una serie di possibili stati esterni, che possono
indurre cambiamenti, determinare fluttuazioni, manipolare il "modo" in cui gli stati mentali interni si esprimono
in termini di segni, simboli, rappresentazioni; se, insomma, si evidenziano le relazioni funzionali tra l'ambiente
e l'individuo, nella gestione elaborativa delle informazioni, il paradigma funzionalista pone le premesse per una
visione post-cognitivista della distribuzione della conoscenza (Jonassen, Land, 2000) e, in tal senso, può avere
una sua specifica valenza nelle scienze bioeducative.
Nel funzionalismo di Dennett (1997), ad esempio, non si prendono in esame soltanto i vincoli dati dal
coefficiente di interazione con l'elemento biologico: per comprendere appieno le relazioni tra l'attività cerebrale
e l'espressione mentale di essa occorre considerare che una caratteristica distintiva nell'uomo è la capacità di
"scaricare" la mente nell'ambiente con una pluralità di artefatti e congegni periferici, strumenti di pensiero,
supporti informazionali, forme di comunicazione simbolica e subsimbolica, estensioni della mente, ambiti
esperienziali:
«perfezioniamo le nostre risorse mediante un'incessante processo di ripetizione e adeguamento, trasformando
il nostro cervello (e tutti i congegni periferici che andiamo acquisendo) in un immensa rete strutturata di
competenze distribuite» (Dennett, 1997).
Nella visione post-cognitivista la mente può essere considerata funzionalmente distribuita (Santoianni,
Striano, 2000) in un tessuto di relazioni operative e strumentali che concorrono a definirla; questo taglio
prospettico, che caratterizza alcuni aspetti degli studi in merito alla "cognizione situata" (situated cognition), va
di pari passo con la linea di pensiero che Resnick (1994) definisce "razionalismo concettuale" (conceptual
rationalism) - cioè l'ipotesi che un insieme di vincoli (constraints) biologici moduli lo sviluppo cognitivo
(Carey, Gelman, 1991) - ed è integrabile con essa in una prospettiva di "razionalismo situato" (situated
rationalism), dove la mente è considerata anche oltre - ma mai prescindendo da - il supporto neurofisiologico
che le è proprio e dove le elaborazioni culturali dei concetti sono contraddistinte da relazioni significative con
strutture di conoscenza biologicamente definibili (biologically prepared).
Contemporanea alle possibili rivisitazioni del paradigma funzionalista in senso bioeducativo è oggi la
significativa apertura della ricerca verso ipotesi che studiano il funzionamento mentale al di là del
computazionalismo, punto di vista nel quale si mette a fuoco la relazione di analogia tra il funzionamento della
93
mente individuale e quello di un elaboratore elettronico, considerando gli stati mentali caratterizzati da relazioni
causali e funzionali di natura computazionale tra le rappresentazioni elaborate: la mente stessa è uno strumento
computazionale che immagazzina rappresentazioni simboliche e compie operazioni su di esse secondo regole
sintattiche che riguardano solo l'aspetto formale di tali simboli.
La graduale perdita di credibilità del paradigma computazionale 5, del quale sono stati identificati molti punti
deboli, dal problema del collo di bottiglia di von Neumann 6 alla nozione di well-formedness 7, ha significato
lo sviluppo di modelli dell'apprendimento culturalisti e contestualisti nei quali il focus attentivo si è spostato dai
codici interni all'organismo alle dinamiche interattive organismo ambiente.
5. A metà degli anni sessanta «quello che prese il nome di intelligenza artificiale era basato sull'idea che si
potesse meccanizzare la mente ignorando il cervello e che il calcolatore programmabile e sequenziale di von
Neumann dovesse costituire il modello della mente» (Parisi, 1991). L'approccio informatico prese il via ad
opera di studiosi come Minsky, Simon, Newell e McCarthy, sulla spinta delle forti possibilità teoriche e delle
applicazioni pratiche che promettevano le ricerche sui calcolatori elettronici con architettura alla von Neumann
(«bisogna aspettarsi che l'impostazione logica e la struttura di una macchina naturale siano molto diverse da
quelle di una macchina artificiale... un grosso automa artificiale efficientemente organizzato ... tenderà a fare le
cose una alla volta», von Neumann, 1986) lasciandosi alle spalle l'interesse per la matrice biofisica dei processi
cognitivi e stabilizzando la concezione logico-linguistica e raziomorfa dell'intelligenza che avrebbe sorretto
negli anni seguenti la scienza cognitiva.
Nei vent'anni successivi, con i continui progressi teorici delle neuroscienze e la mutuazione, operata da
diverse discipline, di modelli in analogia con i fenomeni fisici e biologici, gradualmente scemava l'entusiasmo
per l'intelligenza artificiale, che non aveva mantenuto tutte le sue promesse e si trovava di fronte ai limiti della
programmazione sequenziale - lineare (Frauenfelder, Santoianni, 1997).
6. Nella programmazione sequenziale il collo di bottiglia è rappresentato dalla linearità dei canale di
comunicazione tra unità di elaborazione e memoria passiva di dati: eseguendo un'operazione per volta, il
calcolatore utilizza sempre una percentuale molto bassa di dati disponibili (quella direttamente coinvolta nelle
operazioni in atto) e può subire soltanto un'accelerazione relativa nel suo funzionamento, perché, pur
velocizzando le operazioni elementari, queste sottostanno comunque a una logica procedurale che non consente
mutamenti nell'ordine prestabilito delle operazioni (Parisi, 1989). Il superamento di questa «strozzatura»
dell'euristica del ragionamento logico, che non consente facili progressi, è nello svolgimento parallelo delle
operazioni di elaborazione dati, proprio dei sistemi intelligenti connessionisti (Rumelhart, McClelland, 1991).
7. La nozione di well-formedness allude alla rigida determinazione computazionale delle regole e dei significati
che non lascia spazio agli elementi di variabilità spazio-temporale e di indeterminazione necessariamente
presenti nel funzionamento di ogni sistema cognitivo (Bruner, 1996).
Questa diversa dimensione orientativa non entra in contraddizione con la marcata attenzione della prospettiva
neuroscientifica alla peculiarità individuale (idiosincracy) di ogni soggetto.
L'individuo, nella prospettiva neuroscientifica, è valorizzato come realtà biologica unica e irripetibile, eppure
interrelata e interrelabile con altre realtà biologiche, allo stesso modo, direzioni di ricerca come il culturalismo
(Rorty, 1982, 1989; Bruner, 1996; Gardner, 1999), la cognizione distribuita e situata (Jonassen, Land, 2000) o
la specificità di dominio (Hirschfeld, Gelman, 1994) non negano la significatività individuale anche se
considerano la dimensione soggettiva modulata dalla sinergia di più dinamiche interagenti, siano esse di
matrice sociale, culturale e/o relazionale, legate da un ineludibile intreccio alla realtà genetica ed epigenetica.
Nell'avvicinarsi ad aree diverse di ricerca la pedagogia non può rinunciare alla considerazione del soggetto sia
come individuo biologico (membro di una specie), sia come individuo sociale (membro di un gruppo che
condivide una cultura), sia come individuo specifico (in considerazione della peculiarità soggettiva) rispettando,
in tal modo, la triplice significatività della formazione.
Pertanto, all'interno della cornice teorica che racchiude la relazione complessa pedagogia - educazione formazione, le coordinate bioeducative del discorso pedagogico possono essere ravvisate in tre grandi linee
prospettiche di ricerca:
• prospettive epigenetiche: analizzano sia l'evoluzione filogenetica (evolutionary perspectives)
(Cosmides, Tooby, 1994) che le modificazioni ontogenetiche in relazione all'adattamento ambientale
nelle fasi dello sviluppo individuale, dalla infanzia alla maturità (ontogenetic perspectives) (Magnusson,
1996; Knowles, 1997);
94
•
•
prospettive biodinamiche: analisi delle basi biologiche strutturali dell'apprendimento e del pensiero
(biological perspectives) (Carey, Gelman, 1991) e considerazione dell'individuo come unità di mente,
corpo, organismo, sistema complesso biodinamico suscettibile di variare nell'interazione con i diversi
ambienti (whole organismic perspectives) (Damasio, Damasio, 1996);
prospettive sinergiche: la formazione di strutture di conoscenza viene considerata nella doppia valenza
di inculturazione (cultural perspectives) (Bruner, 1996) e distribuzione (situated cognition) (Jonassen,
Land, 2000) contestuale e di modulazione dominio-specifica delle potenzialità di conoscenza (domain
specificity perspectives) (Hirschfeld, Gelman, 1994).
Nelle scienze bioeducative le linee prospettiche delineate (epigenetiche, biodinamiche, sinergiche) possono
essere tagliate trasversalmente da nuclei tematici ricorrenti che ineriscono le relazioni natura - cultura educazione 8 e mente - cervello - apprendimento.
8. Nature and nurture, dove nurture è l'ambiente che forma (cura, alleva, educa).
Ciascuna di tali relazioni è oggi affrontata attraverso una visione complessa e interattiva che comporta
l'integrazione di diverse prospettive; in ognuna i nuclei tematici più significativi sono correlati alle
problematiche che riguardano l'apprendimento, lo sviluppo, la modificabilità epigenetica, la strutturazione delle
conoscenze, le funzioni cognitive, le teorie della mente, la specificità di dominio, l'innatismo, la relatività
culturale, la formazione permanente; sono correlati ai termini soggettività, intelligenza, modularità, cognizione,
metacognizione; alle dinamiche interattive tra emotivo e cognitivo, tra sistema endocrino, nervoso e
immunitario, tra sistema simbolico e sistema biologico, ecc.
Nel profilare le coordinate di studio delle scienze bioeducative occorre considerare l'interattività e la
complessità crescente che le ricerche neuroscientifiche, pedagogiche, psicologiche e filosofiche interpretate
come forze vettoriali attivano, in modo continuo e in diversa misura, intorno ai nuclei tematici condivisi dalle
tre prospettive epigenetiche, biodinamiche e sinergiche.
La sinergia tra queste prospettive garantisce approcci pedagogici non riduttivi, poiché le chiavi interpretative
delle relazioni mente - cervello - apprendimento e natura - cultura - educazione vengono riviste alla luce di
recenti considerazioni (Santoianni, Striano, 2000), come la messa in discussione della convinzione tradizionale
secondo la quale mente e cervello sono due entità il cui funzionamento va distinto e studiato separatamente, da
ambiti disciplinari diversi 9, o la considerazione della mente corne correlata al cervello, senza che vi sia
coincidenza con esso 10.
9. «Fino a quando il corpo è stato considerato la "sede naturale dell'anima" (Rose, 1973) e si è ritenuto che la
mente avesse una forma bicamerale - parzialmente occupata dall'uomo, parzialmente occupata da Dio (o da più
dei), ma senza la riflessione del pensiero su se stesso - la relazione tra la mente e il corpo non è stata intesa
come incompatibile.
Quando, a partire dal XVII secolo, Cartesio descrisse il corpo umano paragonandolo a una macchina guidata da
un sistema idraulico di liquidi vitali - e, successivamente, il cervello fu paragonato a modelli di congegni
meccanici (XVIII secolo), congegni elettrici (XIX secolo), a sistemi di trasformazione simbolica e
codificazione, come il telefono (XX secolo) e, più tardi, all'elaboratore elettronico, il computer - il corpo non
fu più la sede naturale dell'anima, e nel cervello non ci fu più posto per la mente. O meglio, si conservò l'idea
che la mente - e con essa gli stati di coscienza - si trovassero in un punto specifico
del cervello, a partire dalla ghiandola pineale cartesiana: esisterebbe, dunque, un centro - funzionale del
cervello, ed è quest'ipotesi, che Dennett (1991) chiama materialismo cartesiano, che supera il dualismo
cartesiano senza sopprimere l'idea di un "teatro centrale", materiale, dove tutto confluisca. Tuttavia, oggi si sa
che non esiste un "centro biologico del corpo" (Boncinelli, 1999), un Io del cervello, e che la mente può anche
essere definita come "1a somma totale dell'attività cerebrale a un livello gerarchico superiore a quello della
descrizione fisiologica dell'interazione fra cellule e al di sotto di quello dell'analisi seriale" (Rose, 1973)». Cfr.
Santoianni, Striano, 2000.
10. «In antitesi con la teoria dell'identità fra mente e cervello, le loro differenze vengono accolte e sottolineate
.... il processo cerebrale e le proprietà coscienti a esso collegate sono inscindibili eppure diversi, giacché la
mente sta al cervello come una proprietà emergente alla sua infrastruttura». Cfr. Sperry, 1991.
95
In conclusione, le scienze bioeducative propongono di guardare al cervello per scoprirvi la mente, piuttosto
che ridimensionare la mente equiparandola al cervello. Le prospettive esplicative che legano i macro-livelli (le
proprietà psicologiche) ai micro-livelli (le proprietà delle reti neurali), connettendo i macroeffetti con le
microdinamiche, non dovrebbero adottare soltanto strategie conoscitive del tipo bottom-up, in cui il
funzionamento cerebrale costituisce l'unica spiegazione dei processi mentali, cercando relazioni uno a uno tra la
mente e il cervello (Churchland, 1995), ma «ricostruire ciascuna funzione partendo dalle sue componenti
neuronali, piuttosto che ridurla a esse» (Changeux, Dehaene, 1991), poiché il funzionamento mentale ha la sua
giustificazione neurofisiologica nelle basi neurali, ma non si "esaurisce" in esse: la riconoscibilità della mente è
anche al di fuori dei cervello, sinergicamente distribuita tra l'individuo e le interazioni contestuali che, di volta
in volta, concorrono a determinarla.
Nello snodo delle prospettive bioeducative si colloca, dunque ' il ruolo proponente ed esplicativo della
pedagogia, mediatrice tra le neuroscienze, il post-cognitivismo e le scienze dell'educazione e propagatrice di un
portato culturale di grande interesse nel ripensamento in atto dei processi formativi: la pedagogia, pertanto, si
assume il compito di focalizzare i punti problematici che potrebbero concorrere a definire la struttura dinamica,
sinergica e multidisciplinare delle prospettive bioeducative, strumento interpretativo delle dinamiche attive
nella relazione di interscambio formativo e chiave interpretativa delle complesse relazioni mente - cervello apprendimento e natura - cultura - educazione.
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PARTE PRIMA
EPIGENESI, SVILUPPO E FORMAZIONE
I cardini bioeducativi della formazione: sviluppo selettivo e processi apprenditivi
di Elisa Frauenfielder
Nelle scienze bioeducative un discorso sulla formazione considera l'apprendimento come centro di convergenza
moltiplicativa a cui possono essere ricondotti gli apporti di tutte quelle discipline la cui competenza
perennemente si intreccia con quella più specificamente pedagogica; in esse le potenziali prospettive di studio
si avvalgono in modo rilevante dei contributi della ricerca neuroscientifica, contributi rielaborati nel rispetto
dell'identità pedagogica ma, nello stesso tempo, nella consapevolezza della necessità di correlare all'analisi
pedagogica - seppur, naturalmente, attraverso percorsi differenti - discorsi volti alla interpretazione e alla
comprensione dell'individuo nella sua interezza, fenomeno complesso sinergico, dinamico e multidimensionale.
Questa prospettiva, orientata verso un asse pedagogico reale e concreto, ancorata a precise situazioni spaziali
e temporali, ai processi culturali e alle realtà sociali, passa attraverso l'esigenza di una visione filosofica
dell'educazione e si sostanzia nel riconoscimento dell'unicità della relazione apprendimento - formazione; tale
relazione non può essere compresa se non attraverso dimensioni pluridisciplinari che facciano delle recenti
acquisizioni neuroscientifiche una fondamentale chiave interpretativa e le includano, attraverso le scienze
bioeducative, nel più ampio discorso delle scienze dell'educazione.
Sottolineare il ruolo del senso attribuibile alla ricerca neuroscientifica nella considerazione e nella gestione
delle relazioni formative esprime, dunque, una marcata attenzione alla unitarietà sinergica delle dinamiche che
regolano le esperienze soggettive nella dimensione epigenetica, alla singolarità individuale come elemento
interpretativo nella dimensione ontogenetica, allo svolgersi processuale degli eventi formativi, che le coinvolge
entrambe investendo anche la dimensione filogenetica.
I. Evoluzione filogenetica e apprendimento adattivo
A livello filogenetico sono evidenziabili indicazioni formative che si evincono dalle relazioni sinergiche tra
individui e ambienti specifici che, nello sviluppo delle funzioni cognitive, orientano le scelte adattive
individuali (Siegler, Adolph, Lemaire, 1996) e hanno luogo lungo tutto il corso della filogenesi umana 1.
1. Durante lo sviluppo la modificabilità nell'uso delle strategie individuali regolata, in senso diacronico, in
funzione dell'età e dell'esperienza - può seguire quattro direzioni principali:
1. l'acquisizione di nuove strategie;
2. la frequenza con cui si utilizzano strategie preesistenti;
98
3. il miglioramento nell'efficienza e nel grado di esecuzione di alcune strategie;
4. l'affinamento della capacità di scegliere le più adattive tra le strategie a disposizione.
(Lemaire, Siegler, 1995).
Le funzioni cognitive che hanno contribuito a costituire l'architettura della mente modellatasi. a livello
filogenetico hanno, infatti, acquisito la loro peculiare organizzazione attraverso processi di evoluzione
governati dalla interazione di due forze, il caso e la selezione naturale, forze mediate dal valore della
significatività culturale: il codice culturale, cioè, che risponde a forze selettive e si innesta su un sistema di
trasmissione genetica costituendo un peculiare sistema di codifica che si modifica continuamente attraverso
l'apprendimento.
Le sinergie di accrescimento, riorganizzazione e complessificazione del funzionamento cerebrale che si
verificano nel corso della filogenesi fanno, dunque, parte di un sistema di feedback correlato con l'emergere
della cultura; di conseguenza l'ambiente e le potenzialità genetiche proprie della specie umana sono gli elementi
costitutivi dei processi conoscitivi dell'uomo e tali da consentirgli la gestione dell'ambiente (Frauenfelder,
2001).
In questo sistema di feedback emerge costantemente che la forma biologica, pur correlata al programma
genetico, si definisce in rapporto a interazioni di carattere ambientale e fisico; paradossalmente, infatti, è la
stessa chiave biologica che garantisce l'elemento culturale come costitutivo della forma e, quindi, del soggetto
che si forma: proprio attraverso l'analisi dei meccanismo biologico è possibile riconoscere e, in un certo senso,
"difendere" l'incidenza dell'elemento culturale nello sviluppo della specie umana.
La cultura, infatti, fa parte della storia evolutiva della materia che "si fa" pensiero e il pensiero, se è
potenzialità genetica, è anche puntuale stimolazione ambientale che condiziona e concretizza in particolari e
specifiche direzioni tali potenzialità: è proprio in specifici ambienti che la dinamica della selezione naturale
genera i complessi disegni funzionali che, nei sistemi organici, regolano lo sviluppo di strategie adattive, la cui
operatività si attiva in relazione a meccanismi funzionali quali la percezione visiva, le facoltà linguistiche e il
controllo motorio (Cosmides, Tooby, 1994).
La peculiarità di ogni sistema vivente è quella di effettuare sintesi specifiche da cui derivano le possibilità di
variazione nell'ambito delle modificazioni fenotipiche: nel corso dell'evoluzione, ogni sistema vivente ha
acquisito la capacità di elaborare informazioni immagazzinando i dati necessari alla propria accurata e costante
produzione adattiva relativamente a un determinato ambiente; alcune proprietà degli esseri viventi, la stabilità e
la variabilità, si basano proprio sulle interazioni tra il testo genetico e i processi selettivi che, dando luogo a
diverse espressioni fenotipiche, nel corso delle generazioni portano alla modulazione dei caratteri originari.
Nella risoluzione di problemi adattivi 2 di lunga durata, ad esempio, il criterio determinante sembra essere
rappresentato dal significato che ogni specifico insieme di soluzioni selettive, contestualmente orientate,
assume nello sviluppo delle funzioni cognitive superiori 3; il ripetersi di problemi adattivi ha selezionato
insiemi di meccanismi cognitivi in grado di risolverli e la costituzione di tali meccanismi sembra essere regolata
da alcuni presupposti:
se problemi adattivi diversi richiedono soluzioni diverse, queste possono essere implementate soltanto
da meccanismi cognitivi diversi, funzionalmente distinti;
le possibili ipotesi sul funzionamento dei processi mentali sono da mettere in relazione con il grado di
funzionalità ottenuto dal prototipo di quei processi di funzionamento che, in condizioni ancestrali, hanno
assunto particolari significati nell'incrementare specifici comportamenti adattivi;
i comportamenti adattivi sono specifici e differiscono nei diversi ambiti; non vi sono criteri generali
che determinano il successo o il fallimento dei comportamenti adattivi. Questi dipendono, infatti, dalla
complessità di combinazioni e relazioni tra le caratteristiche ambientali, il comportamento e l'adattamento,
combinazioni e relazioni che prendono forma nei passaggi generazionali e non sono facilmente rilevabili a
livello ontogenetico;
poiché i problemi adattivi sono strettamente legati alle soluzioni cognitive appropriate, il
comprenderne tutti gli aspetti può servire a comprendere quali siano i meccanismi cognitivi associati
nell'evoluzione;
se la selezione naturale modella i meccanismi dominio-specifici che vanno ad innestarsi in particolari
settori problematici evolutivamente stabili, comprendere le caratteristiche invarianti di tali settori favorisce la
comprensione delle direzioni intraprese a livello filogenetico dalle specializzazioni cognitive evolutivamente
dinamiche;
99
la selezione naturale opera attraverso la sperimentazione di disegni funzionali alternativi ed emergenti
dal ripetersi di situazioni evolutive ricorrenti; tuttavia, mentre le modificazioni genetiche, che attivano processi
di ritrascrizione attraverso mutazioni, sono per definizione lente, il trasferimento per apprendimento, cioè le
modificazioni encefaliche nell'epigenesi, può avvenire con grande rapidità.
2. Un problema adattivo è definito tale se è un problema ricorrente a livello evolutivo, la cui soluzione
promuove la riproduzione e lo sviluppo umano, a prescindere dalle catene di causazione che lo hanno generato.
3. I processi cognitivi che oggi concorrono alla risoluzione dei problemi attuali seppure non spiegano, di per sé,
la genesi del funzionamento dei meccanismi evolutivi - sembrano condividere con essi alcune caratteristiche.
I contesti di apprendimento richiedono, oggi, che ogni soggetto attivi strategie adattive sempre più articolate,
inserendo le informazioni che lo raggiungono in circuiti sempre più intricati e utilizzando trasferimenti di
abilità sviluppatisi in esperienze precedenti; trasferimenti che danno modo al soggetto di esprimere la propria
linea interpretativa e dovrebbero essere contraddistinti da funzioni di consapevolezza metacognitiva del
soggetto (Ashman, Conway, 1991; Albanese, Doudin, Martin, 1995; Santoianni, Striano, 2000).
Vi è, dunque, uno stretto rapporto fra processi apprenditivi e processi di sviluppo: se specifiche stimolazioni
possono indurre procedure di formazione intenzionalmente determinate allo stesso modo un ambiente formativo
instabile e dinamico può generare insicurezze e senso di inadeguatezza.
2. Sviluppo epigenetico e selezione neurale
La relazione apprendimento-sviluppo diviene più chiara se si analizza il ruolo che in esso assume la plasticità;
cioè il modo quantitativo e qualitativo con cui il cervello risponde alle sollecitazioni ambientali.
L'apprendimento può essere considerato un processo interattivo che si esprime e si realizza in un interscambio
dell'individuo con l'ambiente attraverso l'esperienza; ogni individuo risponde alle sollecitazioni ambientali
modificando il proprio comportamento in modo plastico.
La plasticità a livello molecolare è caratterizzata da una incrementata utilizzazione di quei costituenti
biochimici che assicurano la trasmissione degli impulsi nervosi dovuta all'instaurarsi di nuovi e più articolati
collegamenti interneuronici; in termini funzionali, è la qualità della neocorteccia cerebrale che permette a ogni
individuo di rispondere all'ambiente in modo non stereotipato o specie-specifico. La plasticità cerebrale
(Gilbert, 1999), evidente nella continua disponibilità ad apprendere propria dell'individuo, è un processo
regolato da meccanismi di connessione e disconnessione che hanno inizio con la sovrapproduzione sinaptica (o
sprouting) che il cervello presenta alla nascita.
Il fenomeno dello sprouting 4 è una "esuberanza" nella connettività neurale che comporta conseguenti
processi di "sfrondamento" che si attuano in relazione alla modulazione ambientale (Huttenlocher, Dabholkar,
1997; Kuan, Elliot, Flavell, Rakic, 1997; Rakic, Komuro, 1995) e che sembrano essere particolarmente
significativi nei primi anni di vita (Breuer, 1999), sebbene i loro effetti concorrano anche alla configurazione
della niente adulta (Knowles, 1997; Demetrio, 1997): la possibilità di incrementare il numero delle sinapsi
passando da un ambiente di base a un ambiente arricchito è una costante dell'ontogenesi (Calvin, Ojemann,
1994).
4. Letteralmente, significa "germogliamento".
Al fenomeno della sovrapproduzione sinaptica seguono processi innestati da una costante tensione riduttiva
che si serve di connessioni e disconnessioni, durante i quali sono identificabili periodi critici, cioè periodi di
maggiore sensibilità alle stimolazioni esterne (Shatz, 1998; Calvin, Ojemann, 1994) in cui le possibilità di
connessione delle cellule neurali aumentano (Hubel, Wiesel, 1979) registrando una rilevante apertura
all'ambiente e lasciando maggiore spazio all'educabilità.
Durante i periodi critici il cervello necessita di stimolazioni adeguate; per questa ragione la formazione non
può trascurare la costruzione di ambienti in cui siano presenti articolate azioni di stimolo direzionate e
continuative: l'ambiente è, infatti, percepito da strutture soggettive altamente specializzate per selezionare e
immagazzinare informazioni e, qualunque sia il modo in cui un organismo esplora l'ambiente, le informazioni
che ne ricava gli sono necessarie, una volta codificate e cablate 5, per lo sviluppo di funzioni elementari e
complesse.
100
5. Il cervello umano adulto comprende più di cento miliardi di neuroni, connessi tra loro in modo specifico
attraverso precisi cablaggi (Schatz, 1998), elementi della struttura connettiva la cui specificità biologica risulta
strettamente correlabile alla dimensione formativa (Frauenfelder, 1994). L'analisi di questo fenomeno è di
importanza fondamentale per l'approccio pedagogico:
- non è possibile ipotizzare che nel cervello tutto comunichi con tutto (ciò comporterebbe un paradossale
innesto di metodologie formative stocastiche e dispersive);
- il cablaggio di precisione implica, al contrario, l'esistenza di connessioni ordinate ben definite (alcune cellule
sono collegate solamente a certe altre) e non è incompatibile con l'apprendimento (l'intensità della connessione
è ampiamente modificabile dall'apprendi mento stesso).
La specializzazione della percezione ambientale e gli ambienti stimolanti incidono in modo determinante
sulla formazione sinaptica 6. L'attività nervosa è definita, temporalmente e spazialmente, attraverso i processi di
selezione degli stimoli ambientali e la sollecitazione specifica di particolari regioni senso-motorie 7: l'esercizio
8 della funzione nervosa è indispensabile perché si raggiunga la precisione circuitale dei cervello adulto.
6. Dagli studi effettuati, ad esempio, negli anni settanta da D.H. Hubel e T.N. Wiesel ad Harvard, è emerso che
la produzione di potenziali di azione - che si attiva nel sistema visivo ogniqualvolta uno stimolo viene
trasformato in segnale nervoso - è incrementata di volta in volta in limitati periodi temporalmente definiti,
ognuno dei quali, una volta terminato, determina, rispetto alle fasi di apertura del sistema, una sostanziale
diminuzione delle possibilità di connessione delle cellule neurali (Hubel, Wiesel, 1979).
7. Nel sistema somato-sensibile le connessioni corticali sono costantemente modificate e aggiornate in ragione
dell'uso (use-dependent changes) e dell'attività correlata e le mappe corticali vanno incontro a modifiche
proprio in rapporto all'attivazione delle vie sensoriali (Dellantonio, 1991).
8. L'uso simultaneo di molteplici differenti insiemi di sinapsi può potenziare la forza delle connessioni
preesistenti (Calvin, Ojemann, 1994).
Nella specializzazione della neocorteccia cerebrale propria dello sviluppo epigenetico si può creare, tra i
diversi pattern di organizzazione neurale, una sorta di "competizione" evolutiva (Dennett, 1997) che porterebbe
alla formazione delle aree funzionali specifiche.
La maggior parte dei sistemi fisici tende ad auto-organizzarsi in pattern; allo stesso modo, l'attività elettrica
del cervello potrebbe non fare eccezione e organizzare il territorio cerebrale in pattern spazio-temporali di
attività neuronale, in un processo denominato darwinismo neurale (Edelman, Tononi, 1996). Il darwinismo
neurale è, infatti, un processo in cui l'attività elettrica dei cervello organizza la neocorteccia in pattern
spazio-temporali di attività; le cellule neurali (secondo il modello classico della cellula di Hebb 9) si
assemblano, costituendo insiemi, gruppi di cellule, che si ripetono migliaia di volte e tendono a competere per
acquisire la possibilità di trasmettere il maggior numero di riproduzioni 10 di se stessi, inserendosi in tal modo
nella legge dell'evoluzione 11.
In tale scenario è importante considerare le condizioni che regolano i processi di trasmissione e di ripetizione
dei pattern che costituiscono l'andamento delle variazioni selettive 12 e quali possono essere gli elementi in
grado di avere una funzione catalizzante e costitutiva di una "spinta evolutiva" che agevola l'attivazione e la
riproduzione dei migliori pattern.
9. La cellula di Hebb è il meccanismo sinaptico che rafforza o indebolisce le connessioni. Nel 1949 D.O. Hebb
della McGill University ipotizzò l'esistenza di speciali sinapsi in cui la forza del segnale aumenterebbe
ogniqualvolta coincidano le attività in una cellula presinaptica (cioè la cellula che fornisce il segnale sinaptico)
e in una cellula postsinaptica (che riceve il segnale) (Schatz, 1998).
10. L'aspetto fondamentale di un pattern di cellule neurali è che esso può creare copie di se stesso e può
riprodursi anche in modo da coprire - attraverso il corpo calloso - lunghe distanze all'interno del cervello.
Nell'ambito di questa attività di "copiatura" avvengono variazioni nei pattern: tali variazioni sono necessarie in
quanto costituiscono le mutazioni che contribuiscono all'evoluzione dell'intero sistema.
11. L'aspetto fondamentale di un pattern di cellule neurali è che esso può creare copie di se stesso e può
riprodursi anche in modo da coprire - attraverso il corpo calloso - lunghe distanze all'interno del cervello.
Nell'ambito di questa attività di "copiatura" avvengono le variazioni necessarie a costituire le mutazioni che
contribuiscono all'evoluzione dell'intero sistema.
101
12. In analogia alla risposta immunitaria, si possono ipotizzare "nuove generazioni", più evolute, dove le
variazioni apportate sono considerate garantite proprio dalla "buona riuscita" del comportamento della
generazione precedente.
Il disegno di ambienti specifici, complessi e multicomposti, che garantiscano la conservazione del sistema e
contemporaneamente ne predispongano le possibilità di trasformazione (Calvin, Ojemann, 1994), sembra essere
uno strumento metodologico utilizzabile per la costituzione di supporti 13 con i quali indirizzare l'azione
selettiva individuale delle strategie di adattamento.
13. Nel modellarsi della plasticità cerebrale il criterio regolativo sembra essere la presenza di azioni di stimolo
continuative, ma anche discontinue, nel senso che possono essere di intensità variabile (Rakic, Komuro, 1995;
Kuan, Elliot, Flavell, Rakic, l997; Huttenlocher, Dabholkar, 1997).
La sollecitazione differenziata e, viceversa, l'adattamento differenziato alle sollecitazioni di uno stesso
soggetto comporta il variare delle forme di apprendimento ed è, presumibilmente, regolato dalla capacità
plastica del cervello di integrare costantemente nuove informazioni nel sistema già costituito; in tal modo la
plasticità costituisce il tramite necessario fra possibilità di sviluppo e capacità apprenditiva e, viceversa, fra
possibilità apprenditiva e potenzialità di sviluppo, ponendosi così come disponibilità a concretizzazioni
formative.
Durante lo sviluppo epigenetico, il rigore dell'eredità si stempera; da un lato, il programma genetico prescrive
rigidamente strutture, funzioni, attributi, dall'altro determina potenzialità, regole, quadri generali. Analogo è il
discorso pedagogico; a mano a mano che le esperienze aumentano di numero e di qualità, il comportamento di
un individuo si modifica. La componente "aperta" del programma genetico, quindi, imprime con la sua
crescente importanza una direzione all'evoluzione così come le stimolazioni provenienti dall'ambiente
imprimono una direzione allo sviluppo del soggetto: con l'aumento delle capacità di risposta agli stimoli
aumenta il grado di apertura lasciato all'individuo nella scelta delle risposte.
3. Formazione ontogenetica e strategie cognitive
La scelta delle risposte avviene, dunque., attraverso processi di selezione competitiva di pattern di cellule
neurali evidenti nell'epigenesi cerebrale (Calvin, Ojemann, 1994; Calvin, 1996; Dennett, 1997; Edelman,
Tononi, 1996), processi che concorrono alla formazione ontogenetica delle strategie cognitive individuali.
L'apprendimento è uno dei dispositivi di cui dispone l'organismo umano per la sopravvivenza; tutti i processi
dell'attività umana, da quelli più elementari a quelli più complessi, sono il risultato di dinamiche apprenditive
che caratterizzano l'uomo in quanto tale e che consentono e hanno consentito la costruzione delle diverse
culture.
Da un punto di vista pedagogico, l'apprendimento può essere inteso come attitudine originaria propria della
specie, con caratteristiche istintuali e processuali, momento fondamentale del processo educativo così come il
processo educativo stesso - processo di trasmissione intenzionale legato a problemi etici, filosofici e valoriali si configura come l'ambito in cui il processo apprenditivo si arricchisce e si forma.
Se il processo educativo e la trasmissione culturale esplicita possono essere identificati e condividere
numerose convergenze, ne consegue che, pur riconoscendo al processo apprenditivo una carica istintuale e
naturale di particolare ampiezza, questa stessa viene ad essere canalizzata in specifici contesti culturali e in
diverse situazioni apprenditive.
Proprio le strategie cognitive adottabili dal soggetto in specifici contesti culturali e in diverse situazioni
apprenditive (Edelman, Tononi, 1996) - strategie che lo rendono capace di contribuire alla "produzione" e
all'arricchimento della cultura che lo ha formato possono strutturarsi in differenti modalità di relazione (Flavell,
1972): additive, quando il nuovo elemento aggiunge qualcosa al precedente senza sostituirlo; sostitutive, se il
nuovo elemento prende il posto del precedente; modificative, quando il nuovo elemento rappresenta una
differenziazione, una generalizzazione o una più stabile versione del precedente; inclusive, nel caso in cui
l'elemento originario viene incorporato nel successivo come sua parte integrante; mediative, se l'elemento
precedente rappresenta una specie di ponte o mediatore verso il successivo.
Proprio la mediazione rappresenta una esigenza formativa irrinunciabile per le società contemporanee e gioca
un ruolo fondamentale sia nella evoluzione filogenetica sia negli importanti cambiamenti ontogenetici del
102
funzionamento mentale; colui che forma le nuove generazioni rappresenta un elemento "ponte", un elemento
che può esercitare una costante attività di mediazione e di accompagnamento fondamentale ai fini formativi.
Le esperienze mediate, infatti, forniscono chiavi interpretative della conoscenza e criteri orientativi di
osservazione, di codifica e di decodifica per organizzare e connettere i dati informazionali in modo
significativo; costituiscono modelli e schemi organizzativi dell'esperienza attraverso i quali l'individuo, se
apprende in un ambiente in grado di fornire possibili percorsi interpretativi e strategie di decodifica della realtà,
acquista capacità critiche di comprensione e orientamento attraverso stimolazioni coerentemente direzionate e
costituite da reti di relazioni finalizzate.
Quali che siano le strategie adattive selettive e i percorsi interpretativi soggettivamente utilizzati, le azioni
formative dovrebbero, in primo luogo, interrogarsi circa le sequenze dello sviluppo cognitivo in un soggetto,
verificando in che misura esse possono dipendere dalla struttura dell'ambiente, cioè dai contatti con determinati
tipi di influenze, in che misura possono dipendere da specifici fattori biologico-maturativi e in che misura
possono dipendere dalle costanti interazioni sinergiche tra questi elementi.
La funzione formativa si può esprimere, dunque, nella complessificazione degli ambienti di apprendimento,
sia attraverso processi multipli di selezione, sia attraverso il riconoscimento delle possibili relazioni tra gli
elementi dello sviluppo coginitivo individuale.
Ogni soggetto, nella sua evoluzione cognitiva, dovrebbe essere inscritto quanto prima possibile in un sistema
di strutture a rete che aiuti l'individuo a orientarsi attraverso il riferimento a specifici criteri: quando un soggetto
si impegna in compiti o apprendimenti complessi, quando esercita abilità o competenze a livelli ottimali, si
dovrebbe sempre servire di un forte supporto contestuale, sia esso un insegnante, una figura di mediatore o un
testo; la formazione dell'individuo, pur nel rispetto di una libera autoformazione, dovrebbe avvalersi delle
possibilità di fare riferimento a differenti strutture e funzioni mediative lungo l'intero percorso formativo.
La formazione, dunque, è significativa sia come autoformazione del soggetto che riconosce e usa strategie
adattive, sia come formazione mediata in un ambiente che si connota sempre più come formatore.
I concetti di apprendimento, sviluppo selettivo e adattamento permeano, dunque, il discorso bioeducativo
sulla formazione e contraddistinguono gli orientamenti processuali che la compongono. Il nucleo di una
formazione in senso bioeducativo sta, infatti, nella considerazione del soggetto nella sua globalità e nel suo
sviluppo, come individuo attivo nel fare esperienza della realtà circostante, selezionandola, codificandola e
interpretandola.
Un discorso pedagogico bioeducativo non può che ricomporre in un momento unico le dimensioni
dell'apprendimento e della formazione, delineando un apprendimento critico e costruttivo che coinvolge la
globalità dell'individuo, connesso alla propria specificità ma anche alle stimolazioni ambientali e al momento di
mediazione che li rapporta e attento a una attiva ricezione dei modelli e dei comportamenti in quanto
protagonista del proprio processo di crescita e del proprio inserimento nei diversi contesti.
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La formazione biodinamica dei sistemi cognitivi:
epigenesi e criteri di educabilità
di Flavia Santoianni
Pedagogy is never innocent
David R. Olson, Jerome S. Bruner
Il concetto di formazione nelle scienze bioeducative può assumere una valenza dinamica che si esprime
nell'analisi dei possibili vincoli e criteri di educabilità che regolano la multifattorialità del sistema cognitivo in
funzione delle differenze individuali nello sviluppo epigenetico.
Nell'individuare i vincoli e i criteri biodinamici regolativi della modificabilità epigenetica, la ricerca
bioeducativa. segue la direzione del riconoscimento della specificità dei domini e dei contesti culturali, delle
differenze individuali nelle processualità elaborative e delle specializzazioni funzionali delle proprietà
cognitive.
Il sistema cognitivo è un sistema elaborativo a funzionalità interrelata la cui complessità è evidente nella
struttura multicomponenziale delle unità sinergiche che lo compongono e nella pluralità dei piani differenziati e
interdipendenti con cui interagisce e da cui prendono forma i possibili modelli funzionali dell'elaborazione
cognitiva.
Il sistema cognitivo individuale è inserito in un processo ontogenetico di graduale modellizzazione delle
connessioni neurali che concorrono alla organizzazione (e alla continua riorganizzazione) delle reti sinaptiche
cerebrali: la costituzione genetica e i cambia menti microstrutturali epigenetici costituiscono le basi biologiche
sulle quali si innesta, modulandone l'espressione, la peculiare esperienza di ogni individuo. Gli orientamenti
processuali di un sistema cognitivo tendono infatti alla differenziazione e alla specializzazione proprio in
relazione all'attività esperienziale 1.
1. Le connessioni corticali sono costantemente aggiornate (Kandel, Hawkins, 1992) in funzione
dell'esperienza e tendono al cambiamento specifico (Denes, Umiltà, 1978).
L'approccio biodinamico alla formazione considera basilare la tendenza alla specializzazione differenziata del
sistema cognitivo individuale; questa è una categoria interpretativa applicabile anche alla analisi della
complessità che ogni ambiente assume e tende ad assumere. Le attuali direzioni di ricerca il cui comune
denominatore è l'interesse per la specificità di dominio (domain specificity, Hirschfeld, Gelman, 1994), infatti,
condividono una visione altamente specializzata e composita dell'ambiente, frazionato e distinto in unità
(domini) sinergicamente interrelate, e condividono la convinzione secondo la quale non esiste un insieme
generale di abilità mentali applicabile a qualunque compito cognitivo, al di là del suo specifico contenuto; la
cognizione è dominio-specifica nella misura in cui i processi elaborativi percettivi, inferenziali, di codifica e
richiamo differiscono a seconda delle situazioni con cui interagiscono.
Nelle teorie dominio-specifiche ambedue i termini della relazione natura-cultura, cioè soggetto e ambiente, si
complessificano in una pluralità di significati. Le relazioni che intercorrono tra il soggetto e l'ambiente
assumono posizioni relativizzate: le potenzialità apprenditive appaiono strettamente legate alle possibilità
offerte dai diversi ambienti di apprendimento anche se il loro accrescimento e sviluppo può non dipendere
esclusivamente dalle condizioni ambientali. Il grado in cui, in queste teorie, un dominio 2 dipende dall'ambiente
e si modifica in funzione di esso è una misura variabile; i pattern di conoscenza individuali possono essere più
o meno connessi e dipendere in modo più o meno significativo dal grado di comprensione e risoluzione delle
problematiche evolutive raggiunto da una data cultura.
2. Un dominio può essere definito un insieme di conoscenze atte a identificare e interpretare una distinta classe
di fenomeni - entità e processi fisici, artefatti, stati mentali, tipologie sociali, ecc. - che si postula condivida
alcune determinate proprietà.
L'esistenza di meccanismi dominio-specifici, all'interno di queste teorie, sta anche a significare la presenza di
livelli in cui teorie e contenuti mentali rappresentano le caratteristiche della architettura cognitiva umana in via
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di sviluppo e sono, pertanto, condivisibili in quanto frutto di processi della selezione naturale. E ciò non può
avvenire se non attraverso una cultura che sia considerata 3 espressione della mente umana in quanto prodotta
da una condivisa capacità di adattamento altamente specificabile nell'interazione con particolari contesti.
Nella relazione individuo-cultura il ruolo centrale della formazione può assumere valenze differenti a seconda
del peso che viene attribuito all'uno (individuo) o all'altro (cultura) dei termini. Se la rielaborazione cognitiva
individuale può essere intesa, in prospettiva evolutiva, come una forma di adattamento in grado di attivare e
modellare nuove e preesistenti produzioni culturali, ciò può avvenire in modi diversi.
L' individuo "plasma" la cultura 4 passando attraverso processi di interiorizzazione delle conoscenze che lo
possono vedere più o meno partecipe in maniera diretta.
3. La cultura può essere considerata (Hirschfeld, Gelman, 1994) la risultante di ciò che emerge dalle relazioni
presenti all'interno di gruppi umani (le cui somiglianze e diversità, nei comportamenti e nel pensiero, sono
definibili culturali); ciò che è rappresentato dai contenuti della mente adulta (considerata "culturale" in se
stessa, secondo i punti di vista che, ab origine, la ritengono content-free, libera da contenuti specifici, e general
purpose, programmata per assolvere compiti generali); ciò che è socialmente appreso nelle relazioni educative
che avvengono per trasmissione generazionale (ci sono costanti informazionali, seppur variabili nella
contingenza, che si trasmettono da una generazione all'altra ).
4. La ricerca più recente (Olson, Torrance, 1996) intende la rielaborazione cognitiva individuale una forma di
adattamento evolutivo promotore di contenuti adottabili dal mondo sociale e non, viceversa, il suo prodotto.
Essa può considerarsi "fondativa" (Cosmides, Tooby, 1994) in specifiche teorie della cultura, perché ogni
individuo può proporre la propria peculiare sistematizzazione mentale come modello interpretativo di
particolari aree della conoscenza.
Nell'apprendimento culturale (Kruger, Tomasello, 1996), ferma restando l'influenza che il preesistente assetto
delle conoscenze può avere sulle dinamiche dello sviluppo cognitivo, l'individuo si forma nell'interiofizzazione
del senso degli atti formativi emergente non soltanto dall'esplicitazione di trasmissione intenzionale
(apprendimento diretto), ma anche dal passaggio del soggetto "attraverso" la prospettiva adulta di condivisione
intersoggettiva dei contenuti della conoscenza. L'interazione intersoggettiva e la condivisione sociale della
dimensione cognitiva, distribuita e situata, esprimono l'assorbimento di informazioni (apprendimento indiretto)
dal contesto di appartenenza, dalle istituzioni culturali, dalle attività sociali, dall'ambiente fisico; le esperienze
di apprendimento culturale, sia dirette che informali, implicite e indirette (Knowles, 1997; Stadler, Frensch,
1998; Santoianni, Striano, 2000), hanno il valore inferenziale di introdurre il soggetto che apprende nel sistema
attitudinale e valoriale del gruppo sociale cui appartiene.
Il concetto di apprendimento collaborativo, così come quello di apprendimento culturale (diretto e indiretto),
entra in sinergia, e non in contrapposizione, con il concetto di individuo come elaboratore di pattern culturali ed
entrambi contribuiscono, in un gioco di continui rimandi, alla differenziazione di specifici individui in
specifiche culture e alla creazione e al rinnovamento di contenuti di conoscenza peculiarmente delineati e
individualmente progettati.
Gli ambienti di apprendimento, infatti, sia che siano "costruiti" per la produzione delle conoscenze
(student-centered learning environments), sia che implichino una relazione formativa intenzionale diretta, si
basano su fondamenti psicologici, tecnologici, culturali e pragmatici (Land, Hannafin, 2000) e sono correlati
alle modalità di apprendimento individuali; sono "disegnati" - quando vi è questo intento - sempre in funzione
del soggetto e delle sue processualità elaborative.
In tal modo, la fondazione culturale delle comunità di apprendimento non comporta, di per sé, una
"riduzione" del singolo, ma una sua valorizzazione proprio in quanto fulcro di tali comunità (Bruner, 1996) e,
se è vero che l'apprendimento è frutto di una continua costruzione di conoscenze, condivisa, contestualizzata e
situata, è anche vero che il disegno costruttivista attesta la centralità del soggetto che apprende nella definizione
dei significati (Land, Hannafin, 2000) e l'importanza delle conoscenze pregresse nella strutturazione di essi.
La centralità del soggetto che apprende e il suo ruolo nel decodificare, interpretare e gestire le conoscenze
risulta anche dalla natura composita del sistema cognitivo, nel quale l'attività elaborativa delle informazioni è
generalmente considerata la risultante di una sinergia di elementi, tra cui l'architettura 5 dei sistema, i processi
di controllo e la pluralità dei piani funzionali di esso.
5. Le teorie dell'architettura cognitiva fanno riferimento a insiemi di modelli che studiano i principi operativi e
regolativi dei funzionamento del sistema cognitivo descrivendone l'organizzazione. Queste teorie si dividono in
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due filoni: le teorie con architettura associativa (Frauenfelder, Santoianni, 1997), secondo le quali il sistema è
attivo attraverso un network di link associativi (Rumelhart, Mc Clelland 1991, Parisi 1989a, 1989b, 1991, 1997)
e le teorie con architettura alla Von Neumann, secondo le quali il sistema veicola computazionalmente le
informazioni in forma di simboli. Queste ultime (le teorie computazionali) sono, a loro volta, distinguibili in tre
settori di ricerca (Sloman, 1999): i modelli rappresentazionali, l'Human Information Processing e i sistemi di
produzione. Cfr. Santoianni, Striano, 2000.
Il livello elaborativo del sistema cognitivo ha una struttura multifunzionale e una pluralità di livelli operativi
con specifiche modalità organizzative, in cui singole unità elaborative (Fodor, 1988; Moscovitch,, Umiltà,
1990; Calvin , 1994, 1996b) dell'informazione cooperano nello svolgere compiti distinti all'interno del sistema.
Il sistema cognitivo è, infatti, modulare e parallelo al tempo stesso (Santoianni, 1998), in grado di attivare
simultaneamente una molteplicità di elementi, flessibile e aperto, in parte indeterminato, eppure non per questo
uniforme e a-specifico, anzi corredato di sofisticati sistemi di codifica e decodifica (Calvin, 1994, 1996),
simbolici e non.
Il sistema cognitivo ha, dunque, una organizzazione elaborativa multiforme, integrata e complessa, di cui una
parte gestibile dall'ambiente e un'altra modificabile in relazione all'ambiente secondo diversi gradienti.
Le unità elaborative dell'informazione che regolano l'espressione del potenziale intellettivo nella sua
differenziazione quantitativa/qualitativa e nella sua complessità funzionale hanno, probabilmente, sia
significatività genetica che modificabilità epigenetica.
L'individuo infatti manifesta specializzazioni funzionali sia come aspetti della propria realtà biologica sia come
acquisizioni dovute in particolar modo alla stimolazione ambientale.
Questa dipendenza caratterizza il sistema cognitivo e coesiste parallelamente all'interno di esso. I criteri di
educabilità e rieducabilità nell'epigenesi non possono, infatti, essere delineati se non in relazione alla
considerazione della modularità individuale, definibile come un "orientamento funzionale dinamico"
sviluppantesi in base al programma genetico generativo interrelato con la variabile esperienziale secondo livelli
di complessità crescente (Santoianni, 1998).
La modularità come orientamento funzionale di base ha significatività genetica (modularità centrale) e
parzialmente predefinisce le direzioni dello sviluppo individuale (Dellantonio, 1991); la significatività genetica
può essere espressa da pattern di modalità elaborative fiunzionali di trasduzione dominio-specfiche 6, operanti
in relazione alle distinzioni qualitative del potenziale intellettivo (Gardner, 1987 1993, 1999; Sternberg, 1997,
1998), la cui definizione si perfeziona nell'epigenesi secondo orientamenti di sviluppo in parte già tracciati.
6. E' probabile che il potenziale intellettivo si esprima in modalità funzionati di trasduzione, definibili
dominio-specifìche nella misura in cui la struttura emergente e i meccanismi di acquisizione delle conoscenze
possono differire anche in modo evidente a
seconda del coinvolgimento di distinte aree contenutistiche.
Inoltre, un trasduttore è "un qualunque congegno che prelevi informazioni da un mezzo (una variazione della
concentrazione di ossigeno nel sangue ... ) e lo trasduca in un altro mezzo ... I coni e i bastoncelli della retina
trasducono la luce nel mezzo utilizzato dal segnale nervoso ... Distribuiti in tutto il corpo esistono trasduttori di
temperatura, trasduttori di movimento ... e una schiera di altri trasduttori di altre informazioni" (Dennett, 1997:
81-82 ' ). Non è escluso che proprio lo sviluppo dinamico della differenziazione qualitativa dei potenziale
intellettivo individuale giochi un ruolo orientativo e modulatorio nel definire la
specificità delle modalità funzionali elaborative di trasduzione attive nei processi cognitivi.
Cfr. Santoianni, Striano, 2000.
La modularità come sviluppo ontogenetico di funzioni adattive (modularità periferica) regola i processi
individuali di adeguamento all'ambiente (Siegler, Adolph, Lemaire, 1996) e può essere rappresentata da
strategie cognitive organizzate in relazione all'offerta di specifici contesti, influenzabili, incentivabili e
modificabili dall'azione formativa (De La Garanderie, 1991, Mazzoni 1995, Ashman, Conway, 1991).
La modularità centrale può rappresentare un orientamento funzionale parzialmente prevedibile e comune, ma
non uguale, a più individui; la modularità periferica, che si struttura nell'interazione con l'ambiente, sancisce la
singolarità spazio-temporale della risposta individuale agli input formativi.
108
In base a queste considerazioni, in particolare sul carattere processuale e diversificato della modularità, il
focus della ricerca pedagogica sulla modificabilità epigenetica si può spostare, nell'analisi dei criteri di
educabilità, dalla definizione dei processi al loro svolgersi.
Nelle problematiche pedagogiche quello che oggi è in primo piano non è, dunque, l'educazione, ma
l'educabilità, il "processo" della formazione nell'epigenesi.
Ciò che è cambiato, nelle attuali pedagogie centrate sull'apprendimento del soggetto, rispetto a quelle
precedenti, centrate sul bambino (child-centered pedagogy) 7 è il punto di osservazione prospettica, soggettivo
sull'apprendimento e sociale sulla formazione delle teorie e del pensiero.
7. Queste erano, forse, tese più a giustificare che a incentivare e promuovere le debolezze delle perfbrmance
individuali (Olson, Torrance, 1996).
Il nodo del discorso non è più ciò che un adulto può fare per promuovere l'apprendimento, ma cosa un
individuo in crescita percepisce come il proprio "imparare" e quali possono essere i possibili approcci formativi
in grado di interagire con queste metariflessioni soggettive.
A questo si aggiunge una considerazione del processo formativo come condivisibile da comunità di individui
(communities of learning) attraverso discorsi collaborativi, processo dal quale emerge una interpretazione della
conoscenza come prodotto " artificiale" e "costruito", prodotto dell'elaborazione di conoscenze condivise e di
modelli intersoggettivi della comprensione.
Ai fini dell'educabilità non è tanto importante se l'apprendimento sia collaborativo o individuale (tali fattori
possono coesistere); se la fruizione della conoscenza sia implicita/automatica o inten zionale/diretta (anche tali
fattori possono coesistere); ciò che è cambiato è il modo di intendere la relazione formativa, non più centrata
sul bambino come fulcro del firmamento educativo (Gardner, Torff, Hatch, 1996), non più univoca, nella
trasmissione e nella gestione delle conoscenze, come nella esplorazione esperienziale di esse (Dewey, 1916,
1957), ma, ancora una volta, specializzata e differenziata, nelle categorie della molteplicità (funzionale,
prospettica, interpretativa), della reciprocità (la formazione è bidirezionale, interrelata, interdipendente) e della
modificabilità (la costruzione della conoscenza avviene attraverso processi, di negoziazione, di ridefinizione, di
trasformazione).
Le pratiche educative, inoltre, sono generalmente sorrette da insiemi di "credenze" (beliefs, in senso
pragmatista 8) e di "folk teorie" circa il funzionamento della mente del soggetto che apprende.
Per "credenze" e "fo1k teorie" si intendono usualmente i saperi ingenui e del senso comune (è questo il puro
significato folk 9 del termine). Possono intendersi anche, però, conoscenze sorrette da presupposti teorici
scientifici e sperimentali, storicamente e culturalmente determinati e contingenti. In quest'ultimo senso, in
particolar modo, il termine folk viene usato da Olson e Bruner (1996) per indicare ciò che caratterizza la
capacità di evoluzione dell'uomo e manca, invece, ai primati di ogni specie, cioè un insieme di interpretazioni
della mente che rappresenti e faciliti il necessario passaggio, in ogni forma di educazione, da una base
interpretativa di riferimento (folk psicologia) alle sue implicazioni formative (folk pedagogia).
8. La nozione pragmatista di "credenza" assegna al termine una valenza relativizzata. La verità (con la
minuscola), infatti, è un concetto che può essere spiegato solo in relazione a processi di formazione di credenze
che la comunità umana ha e continua a mantenere, nella misura in cui tali credenze restano condivisibili e si
rivelano utili ai fini adattivi. il pragmatismo non crede in una verità superiore a cui ci si deve conformare,
preposta a giustificare le credenze collettive garantendole con un criterio universale di validità; né, d'altra parte,
una conoscenza esaustiva della verità, se fosse possibile, apporterebbe necessariamente conseguenze pratiche al
comportamento umano (Rorty, 1986). Il vero-è, dunque, solo quello definito da William Jarnes «qualunque
cosa si dimostri buona nel senso della credenza e buona per ragioni definite ed affidabili» (James, 1975).
9. Il termine "folk" attribuito alla psicologia ha assunto, negli ultimi anni, una doppia significazione, non
sempre distinta: 1) una psicologia dei senso comune, del buon senso, che tende a spiegare il comportamento
umano in termini di credenze, desideri, intenzioni, aspettative, preferenze, speranze, paure, eccetera; 2)
l'interpretazione di tali elementi attraverso una folk teoria che ricomprenda in sé una serie di generalizzazioni
circa i concetti sopra elencati. Parlare di una folk psicologia significa alludere alla cornice concettuale di
spiegazioni che ruota intorno al comportamento umano e riguarda anche i modi in cui tali spiegazioni folk
psicologiche possono essere interpretate. Il termine oggi è spesso usato, in senso generale, per fare riferimento
a una psicologia del senso comune (Wilson, Keil, 1999).
109
Ogni forma di pedagogia sottende una diversa interpretazione del soggetto che apprende, sia essa frutto di un
sapere ingenuo, sia essa frutto di un paradigma (Khun, 1969) interpretativo, scientifico quanto storicamente
fondato: la pedagogia non è mai "innocente", e la scelta di una modalità formativa piuttosto che un'altra
comporta ed esprime, inevitabilmente, una peculiare e contingente concezione dell'individuo.
Le differenti modalità e le diverse forme di apprendimento e insegnamento -dall'imitazione, all'istruzione, alla
collaborazione - hanno rappresentato, nel tempo, distinte interpretazioni dell'individuo - imitatore e produttore
di esperienze (doer), conoscitore e intenditore (knower), pensatore collaborativo (thinker). Il soggetto che
apprende è stato di volta in volta considerato sia un imitatore, cui era necessario mostrare le sequenze operative
da svolgere, sia un conoscitore da istruire, in cerca di sempre nuove informazioni, mente vergine che scopre in
sé l'abilità di imparare e vuole esercitarla.
Il soggetto che apprende, nelle pedagogie attuali, è considerato un pensatore, un individuo che esercita la
propria abilità nel pensare e che va reso esperto in questa attività attraverso l'esercizio metacognitivo e
metaemotivo della riflessione autonoma e consapevole. Si tratta, però, di un pensatore collaborativo, che vede
nella dimenstorie dell'intersoggettività l'ambito primario per la costruzione della conoscenza.
La linea di ricerca culturalista, inoltre, attribuisce oggi al soggetto che apprende come pensatore collaborativo
una qualità in più, e cioè l'aver compreso che ogni conoscenza ha la sua storia e questa non è sempre una storia
personale, ma è anche una storia collettiva, la storia della propria comunità culturale, che va condivisa per la
costruzione di nuove conoscenze.
Se creare un rapporto tra folk psicologia e folk pedagogia (e, comunque, tra psicologia e pedagogia) può
essere utile per organizzare e riorganizzare le modalità di apprendimento e la relazione formativa, indagare i
possibili significati neuroscientifici all'interno delle scienze bioeducative può servire per costruire ambienti di
formazione in cui tali conoscenze siano di stimolo per la maggiore comprensione dei meccanismi
dell'apprendimento sia per chi insegna che per chi apprende.
Se si prendono in considerazione le conoscenze neuroscientifiche come insieme di conoscenze condivise,
scientificamente provate da una comunità di ricercatori, e non come folk biologia (folk biology), cioè come
sapere di senso comune sull'organizzazione dei mondo organico (Wilson, Keil, 1999) - quali possono essere,
dunque, gli effetti che tali conoscenze possono avere sulle pratiche formative attuabili da una pedagogia
bioeducativa?
Si è detto che il sistema cognitivo è un sistema elaborativo a funzionalità interrelata che, nell'ontogenesi,
tende a complessificarsi nella specificìtà e nella differenziazione. Il sistema cognitivo è, inoltre, un sistema
complesso, dinamico, in continuo sviluppo e in interazione con l'ambiente. In base a queste riflessioni, il
sistema cognitivo può essere considerato:
- eterogeneo, a matrice genetica ed epigenetica;
- eterocronico, in sviluppo continuo e discontinuo;
- adattivo, a funzionalità esplicita e implicita;
- interattivo, in senso singolare e plurale;
- evolutivo, a livello filogenetico e ontogenetico.
Nell'interazione esperienziale, i processi apprenditivi si attivano in virtù della plasticità neurale, che regola la
modificabilità individuale in relazione alle stimolazioni formative. Il sistema cognitivo, soggettivamente
distinto e specifico, è, però, solo parzialmente modificabile e nell'organizzazione dei pro cessi formativi va
considerata l'ipotesi che il soggetto che apprende non sia mai completamente "educabile".
Concorre a relativizzare la modificabilità individuale il bagaglio di apprendimenti già acquisiti strutturatosi
nelle interazioni esperienziali durante l'epigenesi; esso viene a costituire, col tempo, una matrice indissolubile
che non può non essere rilevata e analizzata in ogni contesto in cui si attui la relazione
apprendimento-insegnamento: la relazione formativa non può, infatti, prescindere da misure di regolazione e
aggiustamento che dipendono dal feedback di risposta che ogni sistema cognitivo dà nelle fasi di
ristrutturazione e riorganizzazione delle conoscenze.
La formazione epigenetica è un processo che si attua sia in relazione alla modulazione ambientale, sia in
relazione alla "disponibilità" individuale: in tale processo il senso dell'educabilità dovrebbe consistere
nell'arricchire le possibilità di espressione soggettive senza modificare la specificità di dominio delle
potenzialità e delle disposizioni di base e la natura qualitativamente orientata del sistema cognitivo.
Fattore di modificabilità è, anche, il lento ridursi della plasticità neurale, strutturale e funzionale, fattore per il
quale le chance dell'ambiente di influire sul sistema cognitivo individuale corrono in modo inversamente
proporzionale allo sviluppo (Bloom, Lazerson, 1985; Toates, 1986; Boncinelli, 1999). Il decrescere della
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plasticìtà cerebrale è, però, strettamente connesso a una profondità interpretativa che garantisce acquisizioni di
significati sempre maggiori in relazione all'età, capacità generata dall'innesto delle nuove informazioni su
circuiti neuronali già delineati (Rose, 1994).
Sembra essere di particolare significatività la figura di un mediatore (Frauenfelder, 1999) adulto che
accompagni i processi acquisitivi dei soggetti in formazione, proprio perché il complessificarsi della rete
neurale consente interpretazioni sempre più prismatiche e sfaccettate e un approccio sofisticato e flessibile
anche di fronte a problematiche inesplorate.
Educabilità significa, dunque, disponibilità alla mediazione, ma anche rispetto dei tempi, perché i tempi di
sviluppo del potenziale intellettivo possono essere qualitativamente e quantitativamente distinti e discontinui.
Ogni fase di acquisizione, così come di calibrazione delle informazioni, che il sistema cognitivo opera per
assolvere compiti richiesti dall'ambiente - sia esso ambiente interno, endogeno, organismico, oppure esterno,
intersoggettivo, strumentale, tecnologico - comporta tempi lunghi, variabili da soggetto a soggetto e, nello
stesso soggetto, variabili nelle diverse fasi dello sviluppo ontogenetico; tempi dipendenti dalla complessità
multifattoriale del sistema cognitivo individuale.
L'educabilità, il processo della formazione nell'epigenesi, è dunque anch'essa un processo eterogeneo,
eterocronico, adattivo, interattivo ed evolutivo; processo nel quale ogni protocollo formativo dovrebbe essere
individualizzato, specifico e differenziato e considerare il passato di ognuno nella consapevolezza che ogni
individuo non è mai né all'imzio né alla fine di un processo formativo, ma è sempre, ai fini dell'educabilità, in
corso di formazione.
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Mente e cervello alla luce del processo evolutivo ed educativo
di Alberto Zani
Negli ultimi venti anni le scienze dell'educazione si sono avvicinate alle direzioni di studio tracciate dalle
bioneuroscienze e dalla scienza cognitiva. Ritiene possibile la definizione di un terreno di ricerca confinante?
Indiscutibilmente, in diversi testi di scienze dell'educazione e di psicologia dello sviluppo emergono posizioni
concettuali relative a strategie da adottare nella pratica educativa quotidiana che sono prese a prestito dalle
neuroscienze, e dalle scienze cognitive in genere. Ritengo che, in senso lato, ciò possa essere considerato un
lodevole segno di interdisciplinarietà con le altre scienze dell'uomo ed un tentativo positivo di confrontare in
modo oggettivo il processo educativo con le strutture e le potenzialità biologiche delle entità oggetto di questo
processo, cioè i discenti. Purtroppo però ciò ha significato anche l'adozione acritica e l'applicazione affrettata di
concetti, da un lato, non oggettivi, e, dall'altro, deleteri per il processo educativo stesso rispetto alle illimitate
potenzialità cognitive del cervello, che solo ora gli avanzamenti della ricerca neuroscientifica hanno cominciato
a svelare più pienamente. Ciò non certamente per responsabilità dei soli educatori, ma in parte anche dei
ricercatori del cervello.
Tra questi concetti, indubbiamente, il più diffuso rimane quello per cui sia necessario fornire tipi di
informazione diversificati, utilizzando strategie diverse, ai due emisferi cerebrali, cosiddetti destro e sinistro, in
cui è diviso il nostro cervello; ciò per poter massimizzare l'efficacia dell'apprendimento. Concezione che ha
fatto nascere il "mito" dell'esistenza di individui le cui attività mentali fanno prevalentemente perno
sull'emisfero destro o su quello sinistro. Tale concezione si è sviluppata in seguito all'affermarsi della teoria
delle differenze emisferiche derivata dagli studi iniziati dal premio Nobel Roger Sperry (1982) e poi continuati
da Michael Gazzaniga (Gazzaniga, 1985), su individui che a causa di una grave epilessia venivano sottoposti
alla resezione del corpo calloso (il grosso fascio di fibre nervose che mette in comunicazione i due emisferi).
Essendo questo il sistema più importante di trasmissione trans-emisferica dell'informazione, dopo questa
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resezione gli emisferi divisi non possono comunicare se non, forse, in modi più grossolani. In questi individui,
cosiddetti callosotomizzati o con cervello diviso ("split-brain", in lingua anglo-americana), i due emisferi
mostrano capacità di elaborazione dell'informazione e di controllo dello spazio peripersonale circostante
diverse (Gazzaniga, 1985; Proverbio et al., 1994; Berlucchi et al., 1997): superficialmente parlando, l'emisfero
sinistro si mostra più analitico e più specializzato per il linguaggio oltreché per il controllo dello spazio
controlaterale, mentre quello destro mostra maggior capacità di analisi olistica e di elaborazione
dell'informazione spaziale, nonché un controllo bilaterale dello spazio. La popolare interpretazione applicata a
livello educativo dimentica totalmente che nei discenti i due emisferi comunicano efficientemente, equilibrando
così le loro potenzialità, e che, anche se la teoria delle differenze emisferiche è fondata, è poco sensato
categorizzare i discenti in individui le cui attività mentali fanno perno sull'emisfero destro o sinistro. Per altro,
mi chiedo a quale categoria certi epigoni di tale pratica attribuirebbero il genio di Albert Einstein, la cui "teoria
della relatività", pur costituendo un eccelso traguardo di pensiero scientifico-analitico, sarebbe, se fedeli
risultano i resoconti delle interviste ad Einstein in merito alla sua nascita da parte dello studioso gestaltista
Wertheimer (1945, 1965), il prodotto di processi di "pensiero visivo" solo in seguito espresso a parole.
Un altro dei concetti presi a prestito dalle neuroscienze che ha dimostrato di essere di dubbio valore nella
pratica educativa quotidiana in classe è quello legato all'idea che il cervello presenta scatti di crescita diffusi in
modo simile a tutti i suoi distretti, in relazione ai quali debbono essere organizzati degli specifici obiettivi
educativi. Il superamento di una certa "età critica", in assenza di una appropriata stimolazione, comporterebbe
notevoli difficoltà di apprendimento (ad es., del linguaggio). In realtà, è sempre più chiaro oggi che vi sono
scatti di crescita che possono interessare alcuni distretti e non altri, e che lo stesso tipo di stimolazione ha effetti
selettivi su alcuni distretti specifici del cervello solo in periodi critici, mentre può potenzialmente incidere più a
lungo su molti altri distretti di esso.
L'altro grande mito è che verrebbe utilizzato solo il 20% circa del nostro cervello, e che bisognerebbe
imparare ad utilizzarne una maggiore percentuale. Questa convinzione deriva dalle prime osservazioni dei
neuroscienziati che suggerivano che molta parte della corteccia cerebrale consisteva di cosiddette
"areesilenziose". In realtà, è oramai diffuso il riconoscimento che queste aree cosiddette silenti mediano
funzioni cognitive complesse e non semplicemente attività sensoriali e motorie di base. Ciò è stato reso
possibile dagli attuali sviluppi delle neuroscienze e dal diffondersi di tecnologie non invasive di visualizzazione
dell'attività del cervello "in diretta" durante compiti mentali complessi, quali la PET (o Tomografia ad
Emissione di Positroni) e la fMRI (o Visualizzazione funzionale per Immagini mediante Risonanza Magnetica).
Ritengo che i più recenti avanzamenti della ricerca neuroscientifica sul meccanismi dell'apprendimento
possano favorire un terreno di ricerca confinante più fruttuoso tra neuroscienze e scienze dell'educazione. Per
esempio, la scoperta che l'apprendimento modifica la struttura fisica del cervello rendendolo così un'entità
unica, non uguale ad un'altra; o quello secondo cui tali modificazioni strutturali si tramutino in modificazioni
della funzionalità del cervello stesso, con la conseguenza che ogni apprendimento ha il potere di riorganizzare
in modo diverso la funzionalità di quest'ultimo; o, infine, la più eccitante delle scoperte attuali, e cioè che
porzioni diverse del cervello possono svilupparsi in tempi diversi, mostrandosi così diversamente pronte ad
apprendere in momenti diversi. Ci si renderà conto, a questo punto, quanto sia poco sensato far dipendere le
differenze nella capacità di apprendimento di un prepubere rispetto ad un adolescente puramente dalla globale
immaturità del cervello del primo, in senso lato, rispetto a quello del secondo. In realtà alcune funzioni
indispensabili all'apprendimento, quali quelle sensoriali e percettive, espresse dalla maturità delle aree corticali
primarie, secondarie, e terziarie di alcune zone del cervello, in special modo posteriori, non differiscono affatto
tra i due livelli di età in termini di sviluppo ontogenetico.
Ancor più eccitanti sono forse i più recenti risultati della ricerca sulla neuroplasticità cerebrale ottenute con
tecniche sia elettrofisiologiche che di neuroimmagine, che dimostrano come le zone del cervello, preposte negli
individui neurologicamente integri, all'analisi sensoriale dell'informazione uditiva e visiva, rispondano
maggiormente, in individui adulti non-udenti o non-vedenti dalla nascita, a stimoli di diversa modalità
sensoriale. Questo suggerisce un reclutamento di queste aree cerebrali per l'analisi di tipi di informazione
sensoriale diversi da quelli precipui noti, come pure una riorganizzazione adattativa funzionale del cervello di
questi individui (Kujala et al., 1995; Neville et al., 1997; Róder et al., 1999). Tali risultati riconfermano come
l'organizzazione funzionale dei cervello sia determinata sì da vincoli biologici, ma che questa organizzazione
risenta fondamentalmente degli effetti dell'esperienza. E' essenziale, quindi, ripensare le strategie educative e
ri-educative indirizzate a questi particolari discenti tenendo bene a mente che specifiche aree del loro cervello,
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rispondono efficacemente (in modo non diverso da quanto avviene negli individui senza alterazioni dal punto di
vista neuro-sensoriale), a tipi di informazione totalmente diversi da quelli utilizzati tradizionalmente.
Questo risulterà tanto più evidente quando si mediti su altri interessantissimi risultati della ricerca sul cervello
di non-udenti dalla nascita che hanno appreso precocemente la cosiddetta lingua dei segni, una modalità di
comunicazione linguistica a tutti gli effetti contraddistinta da regole lessicali e grammaticali al pari del
linguaggio verbale, ma fondata sulla necessità di discriminazione di pattern spaziali legati all'uso delle mani
(Poizner, Klima & Bellugi, 1987). A conferma di una serie di studi precedenti condotti mediante la
registrazione dei potenziali elettrici relati ad eventi del cervello (dall'anglo-americano: Event-related Potentials
of the Brain, o ERPs) a cavallo tra gli ultimi anni '70 e '90 (per una rassegna di questi studi si veda, Bavelier,
Corina & Neville, 1998; Zani, 1988), Neville e colleghi (1998) hanno recentemente posto a confronto in uno
studio fMRI, (I) individui udenti madrelingui inglesi, (II) individui non-udenti dalla nascita che utilizzavano la
lingua dei segni americana (o ASL da American Sign Language) sin dall'infanzia e che avevano appreso
l'inglese tardivamente attraverso la modalità visiva, e, (III) individui udenti parlanti inglese che utilizzavano
fluentemente sia l'ASL che l'inglese sin dall'infanzia. Indipendentemente dal tipo di linguaggio, tutti i gruppi
mostravano una forte attivazione delle aree cerebrali del linguaggio classiche dell'emisfero sinistro del cervello
durante l'elaborazione della loro specifica lingua (inglese o ASL) appresa precocemente. Comunque, il gruppo
di non-udenti non mostrava l'attivazione di queste regioni durante la lettura dell'inglese. In aggiunta, i gruppi di
"segnanti", sia udenti che non-udenti, mostravano anche una notevole attivazione di aree omologhe
dell'emisfero destro durante l'elaborazione dell'ASL, che non si osservava nel gruppo di udenti che non
conoscevano l'ASL.
Complessivamente, questi risultati indicano che, da un lato, è essenziale l'acquisizione precoce di un
linguaggio perché le aree del cervello potenzialmente deputate alla sua mediazione sviluppino una funzionalità
attiva, e che, dall'altro, le precise richieste del particolare linguaggio determinano in parte la specifica
organizzazione funzionale del sistema linguistico del cervello.
Lei crede che il mondo delle bioneuroscienze possa interessarsi oggi, in linea generale, alle problematiche
inerenti la formazione umana?
Ritengo particolarmente importante integrare la ricerca sul cervello con la conoscenza derivante da altri
campi di ricerca, perché è solo in questo modo che è possibile verificare le teorie ed i fatti di tale ricerca alla
luce della ricchezza dell'esperienza umana. Ciò consentirebbe di ottenere un quadro più chiaro delle potenzialità
del cervello umano. Da tempo, infatti, i neuroscienziati cognitivi sapevano che il cervello può immagazzinare
notevoli quantità di informazioni, che vengono trasmesse da una complessa rete di neuroni, cioè le cellule
nervose, attraverso i contatti sinaptici esercitati dai loro prolungamenti dendritici ed assonici. Sapevano anche
che vi è un numero virtualmente illimitato di potenziali connessioni tra i dendriti e gli assoni di diversi neuroni.
Una delle più recenti ed eccitanti conclusioni della ricerca attuale è, però, che il numero e la forza di queste
connessioni sono influenzate dall'esperienza (ad es., Black et al., 1990), un fenomeno oramai noto con il nome
di "plasticità" (Kolb, 1995). Un processo che implica come la struttura fisica del cervello non cresca
semplicemente perché viene nutrita e custodita. Sono invero le esperienze della vita di un individuo che
conducono a nuove connessioni tra i neuroni e alla secrezione di neurotrasmettitori chimici che facilitano la
trasmissione dell'informazione. Il cervello, quindi, con la sua complessa architettura ed infinite potenzialità, è
un'entità altamente plastica ed in continua variazione, plasmata com'è dalle nostre esperienze, soprattutto
nell'infanzia, ma in certa misura, durante tutta la vita. In quest'ottica, quindi, sviluppo cerebrale e
apprendimento possono essere considerate due facce della stessa medaglia. Comunque, rispetto all'arco di vita
totale, durante i primi tre anni, il tasso di crescita è a dir poco prodigioso per ciò che concerne il numero di
connessioni create. Ciò dimostra che vi sono periodi sensibili specifici in cui l'esperienza ha effetti maggiori, e,
soprattutto, che parti diverse del cervello reagiscono in modo differenziato, più o meno pronto, all'esperienza
stessa (Diamond & Hopson, 1998).
Chiaramente da questi avanzamenti della ricerca sul cervello derivano chiare indicazioni sul fatto che
quest'ultimo può immagazzinare informazione ed è plastico, e che una ricca esperienza è importante per creare
maggiori connessioni neurali. In ogni caso, questo non indica ai neuroscienziati quali tipi d'informazione siano
necessari perché di questo essi non si occupano e non si sono mai occupati. Interrogativo questo che è stato di
pertinenza di studiosi dell'educazione e della cognizione, di educatori e di altre figure che si occupano delle
conseguenze dell'esperienza sul comportamento e sulle potenzialità dell'uomo. Ma è giunto forse il momento
che i neuroscienziati si occupino di più di tematiche inerenti alla formazione umana, e derivanti dalle
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esperienze degli educatori, per giungere a comprendere più pienamente non solo il cervello, di cui sappiamo in
senso lato molto, ma anche la mente, cioè il suo prodotto più alto e complesso, di cui ignoriamo invece
parecchio.
Quest'interessamento potrà risultare essenziale quando si pensi che nel corso del suo sviluppo ontogenetico
(vale a dire lo sviluppo maturazionale nell'arco di vita) il cervello, che è dapprima alle prese con il gioco e
l'immaginazione, viene poi a confrontarsi, in un massiccio programma educativo pluridecennale, con l'asilo e la
scuola, dove viene plasmato attraverso l'apprendimento del calcolo, della scrittura, della lettura e delle norme
sociali, ed infine con il mondo dei lavoro e delle relazioni sociali.
In quest'ottica il cervello, e la mente che esso esprime, debbono essere considerate entità in continuo
confronto con la storia e la cultura con cui quotidianamente interagiscono, senza mai astrarsene, invece che
entità essenzialmente uguali in tutti gli individui, con proprietà che si sviluppano automaticamente grazie
all'espressione del patrimonio genetico. In un'ottica molare, questo dovrebbe comportare l'apertura di un nuovo
e più stretto ed integrato dialogo tra esperti delle diverse discipline incentrate sull'uomo e sul suo
comportamento, quali la biologia, la psicologia, la psichiatria, la sociologia, solo per citarne, a titolo di
esempio, alcune, tralasciandone ingiustamente molte altre non meno importanti.
Questo avrebbe diverse significative conseguenze per la conoscenza del cervello e della mente, sia per i
neuroscienziati sia per le altre figure di studiosi interessati all'uomo ed alla sua formazione. Tra queste, più
rilevanti, riterrei il fatto, da un lato, di riaggangiare le scienze umane al loro "humus biologico", così da tentare
di dare spiegazioni neurofisiologiche a fenomeni che in precedenza hanno ricevuto solo spiegazioni
fenomeniche e psicologiche; e, dall'altro, di indicare le modalità con cui la storia individuale e sociale, e
l'esperienza, quest'ultima indubbiamente rappresentata in larga misura dall'esperienza educativa nella vita di
tutti noi, divengano esse stesse una realtà biologica che plasma la funzionalità del cervello in modo da farlo
divenire un'entità unica, diversa dalle altre.
Cosa pensa dell'affermazione di Sperry: «il processo cerebrale e le proprietà coscienti sono inscindibili eppure
diversi, giacché la mente sta al cervello come una proprietà emergente alla sua infrastruttura»?
E' oramai sempre più chiaro che la maggior parte dei processi cerebrali e mentali avvengono al di fuori della
nostra portata cosciente. Un dato di fatto che fa suggerire a studiosi al pari di LeDoux (1996) che l'inconscio è
reale, o, al pari di Gazzaniga (1999), che: "Molti esperimenti sottolineano come il cervello agisca prima che noi
lo sappiamo (pag. 88)". Ciò avviene a diversi livelli gerarchici della complessa entità mente/cervello, entità
unitaria se si considera che la mente è ciò che il cervello fa, così come suggerito da Marvin Minsky. Più
esplicitamente, i vari livelli gerarchici dei processi neurali di cui non potremmo mai essere coscienti, seppure
essenziali alla comprensione della mente che da essi deriva, spaziano dagli scambi ionici intra- ed inter-cellulari
a livello microcellulare, sino ad arrivare, a livello macrosistemico, al fluire dell'informazione lungo i diversi
circuiti funzionali alla base della funzionalità del cervello e della mente stessi. Perdipiù, a livello
macrosistemico, questo non afferire alla coscienza del processo neurale e/o mentale si manifesta in modo
pervasivo in quasi tutti gli ambiti della mente, a partire dalle operazioni di base di analisi degli attributi fisici
degli stimoli da parte dei nostri sistemi sensoriali, sino a giungere al ricordo di eventi passati o alla presa di
decisioni.
Valutata in funzione di queste odierne concezioni neurocognitive della mente, l'assunzione di Sperry si
mostra quasi automaticamente in linea con queste ultime. Infatti, è innegabile che essendo i contenuti coscienti
della mente il frutto dei processi cerebrali perlopiù inconsci, questi contenuti vanno considerati inscindibili da
codesti processi, anche se quest'ultimi, per seguire il pensiero di Sperry, vanno considerati totalmente diversi
dai primi. Risulterà più chiaro forse ciò che si intenda se si considera questo concetto in chiave di metafora.
Potremmo, cioè, paragonare i processi cerebrali all'insieme delle operazioni o procedure generali che portano ad
un determinato risultato, e le proprietà coscienti ai prodotti di questo insieme di operazioni. In quest'ottica,
risulterà chiaro che conoscere il prodotto di queste operazioni, ad esempio, il consuntivo illustrato in un
rapporto sull'attività annuale di una determinata multinazionale, non significherà affatto conoscere le molteplici
serie di passi operativi, gli innumerevoli processi, gli scambi reciproci di informazione tra le diverse branche
amministrative di quella multinazionale. Sarà chiaro però che quel consuntivo, frutto di quest'insieme di
processi, è inscindibile, anche se diverso, da essi.
Comprendere come questi processi non coscienti si traducano in prodotti coscienti è senza dubbio tra ì più
eccitanti traguardi della ricerca neurocognitiva attuale e futura.
116
Come definirebbe la mente?
Ritengo che non sia impresa facile dare una definizione esaustiva e breve, oltreché universalmente
condivisibile, della mente. Tuttavia si può dire che i neuroscienziati cognitivi hanno raggiunto oggi risultati tali
da poter essere in grado di darne una definizione operativa avanzata in termini neurofunzionali, incentrata su un
concetto fondamentale: "La mente è ciò che il cervello fa". Va detto, però, che in virtù dello scollamento spesso
esistente tra sapere neuroscientifico e cultura media della popolazione questo concetto è lungi dall'essere
accettato dagli studiosi della mente, inclusi molti psicologi. Storicamente, la mente è stata oggetto di riflessione
da parte di studiosi di diverso orientamento culturale, quali filosofi, letterati, ecclesiasti, psicologi, psichiatri,
neuroscienziati, ecc., che si sono occupati di essa, spesso contrapponendosi gli uni con gli altri, in un'accesa e
secolare controversia incentrata sulla sua sede ed essenza. Questa controversia, che è venuta ad essere
universalmente nota come il problema del dualismo mente-corpo, originariamente introdotto da Aristotele, e
codificato in seguito formalmente da Descartes, postulava, da un lato, che l'anima o la psiche esistessero
indipendentemente dal corpo. Più recentemente, in conseguenza degli sviluppi della conoscenza
neurocognitiva, la controversia si è spostata sul problema di mente e cervello: ossia, il problema se tra queste
due entità esista un'identità, o una netta separazione. Tradizionalmente, questo quesito si è spesso risolto con un
pervasivo dualismo tra le entità in discussione (Mecacci & Zani, 1982; Finger, 1994).
La cosiddetta rivoluzione cognitiva (Baars, 1986) che ha permeato lo studio della mente in psicologia e nelle
neuroscienze negli anni '80, ha condotto non solo al riconoscimento che la cognizione, e la conoscenza che ne
deriva, piuttosto che un accumulo di esperienze sensoriali, è un processo costruttivo che richiede la verifica di
ipotesi influenzate dalla precedente conoscenza, dalla passata esperienza, dagli scopi correnti, nonché dagli stati
emozionali e motivazionali. Ciò ha significato non solo il rifiuto del dualismo mentecervello da parte degli
scienziati cognitivi più aperti, ma anche l'affermarsì della nozione che la natura della mente è determinata in
larga misura dalla struttura e dalle funzioni del cervello (Gazzaniga, 1995; Proverbio & Zani, 2000). Questo è
importante, perché signi fica che per conoscere la mente è imperativo studiare e conoscere il cervello stesso. Un
principio riassunto eccellentemente ed originalmente, credo, nelle parole di Candace Pert (1997):
"Mi piace speculare che ciò che la mente è, è il flusso dell'informazione nel corso del suo movimento lungo le
cellule, gli organi ed i sistemi del corpo....la mente, quindi, è ciò che mantiene unita la rete, spesso agendo al di
sotto della nostra coscienza, collegando e coordinando i maggiori sistemi ed i loro organi in una sinfonia della
vita intelligentemente orchestrata".
Reputo estremamente rilevante il concetto implicito in questa definizione della mente: in pratica, che
conoscere la mente non significa affatto conoscerne i processi coscienti, ma, al contrario, equivale in gran parte
a indagarne i processi neurali non coscienti. Questo, penso, non dovrebbe costituire una sorpresa se ci si
confronta con i risultati della moderna ricerca sul cervello che dimostrano l'esistenza di processi di percezione e
conoscenza subliminali o inconsci che influenzano il comportamento manifesto, o la capacità dei cervello di
"filtrare", o sopprimere l'elaborazione, degli stimoli. Tale capacità, già oggetto dì studio da parte di Freud che la
indicava con il termine di repressione, ci permette di portare alla coscienza alcuni percetti e pensieri specifici
ma non altri, con un apparente potere di scelta e libero arbitrio.
Quando si consideri la rilevanza di questa consistente componente inconscia della mente alla luce della stretta
relazione esistente tra processi di pensiero ed emozioni indicata da diversi studiosi del cervello (si vedano le
posizioni citate in altra sede di Le Doux, 1996, e Damasio, 1997), e della forte componente inconscia delle
emozioni stesse legate alla funzionalità dell'amigdala e del cosiddetto sistema limbico, diverrà chiaro che una
teoria cognitiva della mente più appropriata sia quella che consideri l'inscindibilità tra gli aspetti razionali e
cognitivi di essa, mantenuti dall'attività della neocorteccia, e quelli emotivi ed irrazionali, espressi dall'amigdala
stessa e dalle summenzionate zone della paleocorteccia limbica. Ciò in una logica teorica che vede il cervello
come un cosiddetto "sistema vivente". Un sistema, cioè, che pur essendo la somma di parti diverse, ciascuna
con la sua funzionalità specifica, agisce come un insieme, in cui ciascuna funzione si influenza inscindibilmente
l'una con l'altra.
In questo senso va anche considerato che, nel corso della vita, la mente ed il cervello da cui essa scaturisce
sono continuamente in interazione con altri individui, in modo tale che essi vanno considerati parti integranti di
un insieme gerarchico di sistemi più grandi, sino a giungere a quello sociale. Euristicamente parlando, la mente,
insomma, andrebbe considerata, oltreché alla luce di una dimensione individuale, anche alla luce di una sua
dimensione sociale, perché il cervello, immensamente ricettivo e plastico, viene ad essere plasmato dalle
reiterate e continue relazioni individuali con l'ambiente esterno ed interpersonali. I sorrisi della mamma, la sua
voce, o i versi forse un poco ebeti della zia Cecilia determinano reiterate modificazioni del modo in cui i
117
neuroni comunicano tra di loro (Diamond & Hopson, 1998). Alla luce della teoria dello "stimolo mezzo" di
Vygotsky e Lurija, si potrebbe dire che durante lo sviluppo le aree altamente specializzate del nostro cervello
instaurano rapporti funzionali sempre più complessi ed articolati tra di loro per l'influenza della stimolazione
ambientale, oltre che della maturazione biologica. Il linguaggio, esempio per eccellenza di stimolomezzo,
profondamente influenzato dall'interazione sociale, ricopre un ruolo di fondamentale importanza in questa
crescita di complessità funzionale. Per Vygotskij (1978), ad esempio, anche la capacità di attività linguistica
interna, cioè il pensiero linguistico, è appresa dopo aver sperimentato il dialogo con l'esterno.
E' importante considerare, inoltre, che, qualunque sia la concezione della niente considerata, non è
euristicamente corretto considerare quest'ultima un'entità data immutabile. La mente va inquadrata, infatti, in
termini dinamici, in continua variazione in base ai processi evolutivi ed esperienziali. In base a ciò, deve essere
tenuto bene a mente che i processi funzionali che ad essa fanno capo variano in funzione dello sviluppo
ontogenetico dell'individuo -e, di conseguenza, della maturazione diversificata delle strutture cerebrali di esso nonché dei processi di apprendimento e delle esperienze specifiche dell'individuo in funzione della fase di
sviluppo raggiunto. A cervelli parzialmente immaturi, ed in via di evoluzione, corrispondono strategie cognitive
del cervello diverse da quelle di individui più maturi.
Chiarificatori per questa concezione, possono qui risultare ì dati di uno studio condotto nel nostro laboratorio
(si osservino i dati in Figura 1), fondato sulla registrazione delle risposte elettriche cerebrali da diverse zone del
cuoio capelluto corrispondenti alle zone della corteccia parietale, centrale e frontale di un gruppo di prepuberi
ed uno di adolescenti. In questo studio, a questi giovani venivano presentati in sequenza ed in diverso numero
(1000 Hz = 80%, 2000 Hz = 20%) stimoli uditivi di diversa altezza tonale. Essendo lo studio incentrato su un
compito di natura attentiva, i ragazzi venivano invitati ad ignorare gli stimoli frequenti ed a rispondere
premendo un pulsante il più velocemente possibile in risposta agli stimoli rari (2000 Hz). Per cercare di
"sondare" la strategia mentale con cui questi giovani volontari affrontavano il compito, registravamo la risposta
elettrica cerebrale allo stimolo RARO, ma anche allo stimolo frequente che precedeva (PRE) e seguiva (POST)
quest'ultimo. Come si può facilmente evincere concentrandosi sulle risposte elettriche registrate allo stimolo
RARO, mentre a livello parietale (Pz) la risposta del cervello dei due gruppi era pressoché simile, le differenze
maggiori nel cervello dei due gruppi emergevano a livello centrale (Cz) e, soprattutto, frontale (Fz). Un dato
questo che conferma i concetti, da noi sviluppati precedentemente in altra sede, che il cervello stesso si sviluppa
in modo differenziato nei suoi diversi distretti, e, che individui biologici di diversa età non necessariamente
sono caratterizzati da cervelli con grado di maturità dissimili in tutti i loro distretti considerati. Ma ciò che mi
preme indicare è che il confronto della risposta elettrica agli stimoli PRE e POST, identici da un punto di vista
fisico, ma cognitivamente diversi in relazione al compito, indica un dato forse ancora più importante ai nostri
fini. Infatti, le differenze che si osservano in termini temporali, a livello sia precoce (entro i 200 msec
post-stimolo: N1) che più tardivo (tra i 250 ed i 500 ms. post-stimolo: P300) tra la risposta dei due gruppi di
ragazzi agli stimoli PRE e POST suggeriscono che, con forte probabilità, i più piccoli utilizzassero una strategia
finalizzata di elaborazione dell'informazione del tipo dal "basso verso l'alto" o "guidata dai dati" ("bottom-up" o
"data-driven" rispettivamente, in angloamericano). In pratica, lo stimolo raro determinava un'attivazione di
natura negativa dei loro lobi frontali (per questo definita Selection Negativity, SN), o una risposta di
orientamento attentivo, che perdurando nel tempo, finiva per influenzare la risposta allo stimolo irrilevante
POST, che, invece di essere ignorato, veniva così rielaborato dal loro cervello in modo più fine e discriminato
nei suoi distretti sia centrali che frontali. Al contrario, il gruppo di adolescenti, che mostrava una certa forma di
risposta allo stimolo PRE, influenzata dalle loro aspettative sequenziali, o dai loro calcoli probabilistici di
comparsa dello stimolo RARO, dopo l'arrivo di quest'ultimo, sembravano essere capaci di sopprimere come
richiesto l'elaborazione degli stimoli irrilevanti POST. Una modalità di elaborazione che suggerirebbe da parte
di questi soggetti una strategia di elaborazione cosiddetta dall'alto verso il basso" o "guidata dai concetti" ("top
down" o “conceptually driven", rispettivamente, in angloamericano). Una strategia, cioè, fondata su previsioni
attive sulla comparsa degli stimoli rari rilevanti, e aggiornamenti di quest'ultime.
118
Figura 1 - Sopra: Potenziali elettrici cerebrali (ERPs) registrati dalle zone parietali (Pz), centrali (Cz) e frontali
(Fz) mediante della superficie del cuoio capelluto in ragazzi di diversa età durante un compito attivo di
discriminazione di stimoli uditivi. Le tre colonne rappresentano i potenziali elicitati dagli stimoli rari, a cui
rispondere motoriamente (target = T. RARO), e dagli stimoli frequenti, da ignorare, immediatamente precedenti
(Frequente = F. PRE) e seguenti (Frequente = F. POST) gli stimoli rari durante il compito. Sotto: Descrizione
schematica degli stimoli, del compito e delle modalità di registrazione.
Ritengo che questi risultati forniscano la base neurobiologica di fenomeni in parte noti ad educatori e
conoscitori delle modalità di apprendimento dei fanciulli. Il fatto, cioè, che i prepuberi siano incapaci di seguire
attentivamente programmi educativi fondati sull'utilizzo di modalità di informazione omogenee, e che essi
rispondano efficacemente, invece, a forme di informazione ricche e fortemente variegate, in grado di catturare i
loro processi di attenzione. Il raggiungimento di un maggiore livello organizzativo delle zone frontali del
cervello, e di più efficienti funzioni di controllo regolate da queste zone, permettono invece agli adolescenti
l'utilizzo efficace ed efficiente di aspettative internamente generate e confrontate con l'input reale. Questa
capacità di proiettarsi nel futuro, analizzare il presente, e confrontarlo con il passato, che è fondata su una
funzionalità matura dei lobi frontali (Knight & Grabowecky, 1995; Shimamura, 1995), permette a questi
ragazzi maggiori capacità di apprendimento efficiente quando si forniscano ambienti che possano essere da loro
efficacemente esplorati.
Cosa un ricercatore nelle scienze dell'educazione chiederebbe alle bioneuroscienze di spiegare? Dal suo punto
di vista scientifico, come vede l'educazione?
Molti dei risultati della ricerca sul cervello sono stati utilizzati dagli educatori e dagli psicologi cognitivi nel
formalizzare ciò che si sarebbe dovuto fare, o che veniva già fatto, nell'ambito delle dinamiche del processo
educativo. Tradizionalmente, infatti, molti sono stati i bravi educatori che, avvicinatisi agli sviluppi della
ricerca sui processi cerebrali legati all'apprendimento e sulle differenze individuali, hanno sentito che questi
risultati confermavano quello che intuitivamente essi avevano percepito essere la strategia più corretta nella
119
loro pratica quotidiana in classe, cioè l'utilizzo di diversi tipi di insegnamento e di strategie di apprendimento a
seconda delle caratteristiche del discente.
Alla luce dei notevoli sviluppi della ricerca cognitiva stilla mente e sul cervello di cui quest'ultima è funzione,
è forse giunto il tempo perché gli educatori possano e debbano porre ai neuroscienziati quesiti specifici che
possano aiutarli a meglio comprendere i loro studenti ed i processi di apprendimento. Un approccio cognitivo
all'educazione, infatti, richiede che si conosca più approfonditamente la natura della mente. Invero, se
insegnare, e d'altro canto apprendere, determina veramente la facilitazione dell'apprendimento, dello sviluppo
emozionale e cognitivo, dell'intelligenza, della cognizione in genere e della motivazione, allora dobbiamo
assolutamente saperne di più riguardo questi processi, che indubbiamente sono processi della mente, e del
cervello di cui essa è funzione. Questo nell'accezione più ampia e generale, visto che la mente ed il cervello
cambiano in funzione delle loro interazioni con gli altri, a partire, in modo gerarchico, dai microcosmi familiari
sino a considerare i grossi sistemi sociali.
E' necessario però assicurarsi che gli sviluppi attuali delle scoperte delle neuroscienze cognitive non vengano
interpretatati affrettatamente ed erroneamente ed applicati inappropriatamente. Senza dubbio sarebbe opportuno
che neuroscienziati cognitivi possano interagire con gli insegnanti per valutare direttamente in che modo i
risultati dei loro studi influenzino la pratica e la pianificazione educativa. Per di più sarebbe opportuno che
questo terreno di ricerca comune affronti aspetti estremamente influenti sui fenomeni dello sviluppo educativo e
dell'apprendi mento inscindibilmente legati, in senso lato, al grandi temi sociali.
Alla luce di quanto detto sinora, molti sono gli interrogativi, ritengo, che dovrebbero essere posti e i fenomeni
da spiegare. Ma per motivi di spazio, non possono essere qui tutti trattati. Rilevanti riterrei i seguenti
interrogativi:
(A) Dominante è ora nelle neuroscienze il tema della "neuroplasticità" che si riferisce espressamente a
modificazioni del sistema nervoso in funzione dell'età e/o dell'esperienza, oltreché alla variabilità nonché
modificabilità dell'intelligenza stessa. Ciò nonostante in ambito scolastico il metodo tradizionale della
valutazione del quoziente di intelligenza (QI) medio è ancora elettivo e pervasivo. E di ciò sono anche
responsabili psicologi e neuroscienziati che, per la maggior parte, sino ad oggi hanno fornito una
rappresentazione del cervello media con una struttura e funzioni comuni a tutti gli individui. Anche se ancora
con fatica sta ora prendendo crescentemente piede tra gli studiosi la teoria che ogni cervello è diverso dall'altro
e che cervelli appartenenti a culture diverse sono diversi. Per comprendere veramente il cervello quindi vanno
considerate le differenze che lo contraddistinguono da individuo ad individuo tenendo bene a mente che, da un
lato, queste differenze non devono essere interpretate esclusivamente come il risultato di proprietà innate di un
individuo o di una popolazione, e, dall'altro, che la storia assume una sua dimensione biologica reale
influenzando la formazione dell'organizzazione del cervello. Esplicite e più estese esemplificazioni di queste
posizioni teoriche ed una rassegna di dati a loro sostegno possono essere trovate nei saggi divulgativi, ma non
meno pregevoli di lavori scientifici "seriosi", di Luciano Mecacci (1984) e di Lamberto Maffei (1998). Ritengo
queste posizioni importanti perché implicano che "ogni cervello può a suo modo apprendere" e che esistono
diverse forme di intelligenza, che vanno, ad esempio, da quella logico-matematica, analitica, dello scienziato, a
quella, in genere, forse più olistica, ma non meno creativa, dell'artista. Implicazioni da cui deriva supporto
neuroscientifico oggettivo alla teoria dell'esistenza di molteplici tipi di intelligenza avanzata dallo psicologo
Howard Gardner a partire dal 1983, e successivamente articolata (Gardner, 1987). Secondo questa teoria, oltre
all'intelligenza logico-matematica e quella spaziale e linguistica, esisterebbe l'intelligenza corporeo-cenestesica,
il talento musicale e le capacità intrapersonale (cioè l'abilità di conoscere se stessi) e interpersonale (cioè
l'abilità di conoscere gli altri). Ciascuna di esse avrebbe la sua sfera di influenza, la sua rappresentazione
neurologica ed il suo modello specifico di danno della sua funzione. E' interessante che questa teoria implichi
che compiti diversi richiedono "intelligenze" diverse, ma anche che individui con prevalenza di una di queste
intelligenze possano eccellere in alcuni compiti e non in altri.
E' senza dubbio diffusa tra i bravi insegnanti l'istintiva tendenza a rispondere in modi diversi a studenti che
mostrano potenzialità diverse, e la convinzione che una classe che offre una vasta serie di opportunità di
apprendimento aumenta la probabilità di successo della maggior parte degli studenti. Alla luce di quanto
sviluppato sopra, gli insegnanti potrebbero aspettarsi indicazioni oggettive su quali siano i fattori più importanti
da considerare e utilizzare per favorire efficacemente le potenzialità di tutti i discenti. Se, come riportato, la
ricerca ritiene che ogni cervello possiede delle specifiche potenzialità di apprendimento, allora debbono essere
date indicazioni agli insegnanti su come creare ambienti ed utilizzare strategie e strumenti che rendano questo
apprendimento differenziato possibile. Il neuroscienziato, considerata la varietà degli allievi, la loro età e la
disponibilità dimostrata, può suggerire una serie di esercizi che aiutino a mantenere il cervello attivo ed
120
efficiente, oltre che in efficace interazione adattiva con l'ambiente. Esercizi che non siano i classici esercizi
logico-matematici, ma, posto nei termini espressi da un'autorevole neuroscienziato come Maffei (1998; p. 77),
"... esercizi mentali di tipo ludico, in cui la spinta dell'utile si sposi in qualche misura con la motivazione del
dilettevole, alla quale il cervello è sempre sensibile".
(B) Un interrogativo importante è, a mio avviso, anche in che modo l'uso intensivo delle nuove tecnologie
dell'informazione, come l'uso del computer e, più specificamente, di Internet (o la WWW: World Wide Web,
comunemente definita "Rete") possa contribuire, o possa aver già contribuito, a migliorare la funzionalità del
cervello ed, in particolare, i processi di pensiero di ordine superiore. Indubbiamente, infatti, recenti studi di
autorevoli scienziati cognitivi (ad es., Sternberg, 2000; 2001) hanno riscontrato che l'intelligenza media a
partire da alcune generazioni, misurata non solo attraverso la valutazione del QI, ma anche del comportamento,
è in crescita. Riscontro che ha fatto concludere che il fenomeno possa essere legato all'utilizzo delle nuove
tecnologie dell'informazione. Dal punto di vista neuroscientifico, questo ha delle forti implicazioni dal punto di
vista della differenziazione organizzativa modulare del cervello in funzione dell'esperienza. Questo potrà
apparire più chiaro quando si pensi che la maggior parte delle competenze ed abilità motorie complesse
specifiche sono gestite dai centri motori del cervello come il tronco ed il cervelletto, in collegamento con i
nuclei della base. Queste sono aree sottocorticali profondamente coinvolte con la ripetizione, la pratica ed il
ripasso, per cui, con la reiterazione, una stessa abilità, o una simile, vengono padroneggiate senza sforzo alcuno,
ovverosia, in modo automatico. In altri termini, in modo veloce, efficiente, e senza dispendio di energie
mentali. Al contrario, la comprensione, l'utilizzo cioè dei ragionamento, del pensiero astratto. della
pianificazione e della metacognizione (in pratica, la capacità di riconoscere e porre in collegamento
l'informazione in entrata con le proprie convinzioni ed azioni) mobilita l'attivazione dei lobi frontali, cioè delle
porzioni anteriori della neocorteccia cerebrale. La comprensione, in altri termini, è legata all'esercizio di ciò che
viene definita una "funzione di controllo", e riflette, quindi, un'insieme di processi controllati: processi, cioè,
più lenti e che richiedono un dispendio di energie, perché indubbiamente legati all'attivazione di una rete
neurale più estesa all'interno del cervello. In relazione a quanto detto, indicativamente, quindi, i risultati di
Sternberg e colleghi implicano che l'utilizzo delle nuove tecnologie può aver privilegiato l'utilizzo del pensiero
astratto, e quindi, delle porzioni più anteriori della neocorteccia, a detrimento delle attività motorie, più legate
alle zone corticali centrali e sottocorticali. Una supposizione supportata, ad esempio, da uno studio di altro
segno di tipo statistico-psicologico e psico-antropologìeo condotto su un campione di 1.000 bambini (ad es.,
Cicogna, 2001) che lamenta come negli ultimi 5 anni vi sia stato un calo verticale della p ratica dei giochi
motori (ad es., la vecchia e divertente pallaprigioniera, o il rubabandiera, cari a innumerevoli generazioni del
vecchio millennio) o di società fra i bambini italiani tra 6 e 12 anni, a favore di TV e videogiochi. Se si pensa
che delle funzioni di controllo efficaci ed efficienti richiedono che i lobi frontali raggiungano la piena maturità,
cosa che indicativamente avviene ben oltre i 12-13 anni di età, si aprono molti altri interrogativi da porre ai
neuroscienziati per ciò che concerne l'interazione con queste nuove tecnologie nel contesto educativo ed
evolutivo. Ad esempio, a quale età e per quale durata è appropriato l'utilizzo di queste tecnologi e nel contesto
scolastico-educativo ed extrascolastico, considerando la fase di sviluppo cerebrale degli utenti? Qual è poi un
corretto utilizzo di queste tecnologie nell'ambito del processo educativo e quali conseguenze sullo sviluppo
della personalità e del comportamento individuale possono avere? Infatti, l'uso di queste tecnologie prevede
processi interattivi che richiedono all aagente di produrre azioni e di ricevere retroazioni che permettono
continuamente di affinare la sua comprensione e di costruire nuove conoscenze. Oppure, questo utilizzo aiuta a
visualizzare concetti difficili da c mprendere e concede l'accesso a vaste quantità di informazioni, che possono
si aumentare l'apprendimento, ma che possono anche "corto-circuitare" le capacità di gestione dell'informazione
e di interazione con le gerarchie di ambienti da parte del nostro cervello. Anche se i più moderni sviluppi della
ricerca neuroscientifica indicano che il cervello è un sistema immensamente l'elastico" che può assorbire
quantità relativamente grandi di infor~ mazioni elaborate in parallelo dai suoi diversi sistemi funzionali, non vi
sono ancora dati che comprovino l'innocuità di un utilizzo di eccessive quantità di informazioni per periodi
prolungati. Un problema altrettanto importante è che tutte queste azioni avvengono in un contesto di interazione
uomo-macchina, in un contesto cioè ,.solitario", al di fuori dell'interazione sociale con altri consimili; quali
conseguenze possa questo avere sullo sviluppo emozionale dell'individuo, e soprattutto di individui in via di
sviluppo emotivo ed intellettivo, è ancora fuori della nostra osservazione diretta di neuroscienziati. E'
interessante, comunque, a riguardo, che attualmente le concezioni neuroscientifiche tradizionali sull'ininfluenza
delle emozioni sull'apprendimento sono state totalmente sovvertite. A livello odierno sempre più autorevoli
neuroscienziati considerano le emozioni importanti per i processi di pensiero di ordine superiore e, quindi, per i
121
processi di apprendimento ad essi sottesi. Le Doux (1996), ad esempio, ritiene che vi siano diversi circuiti
funzionali per le emozioni, e che l'ansia e la paura abbiano un forte impatto negativo sui nostri processi di
pensiero. Ciò perché l'informazione invece di seguire la cosiddetta "via alta" (uno specifico circuito neuronale),
di natura più lenta, diretta alla corteccia sensoriale per la sua chiarificazione ed analisi, sarebbe condotta
attraverso una "via bassa" veloce verso l'amigdala, un grosso nucleo del sistema limbico deputato alla
regolazione delle emozioni, innescando una reazione d'allarme e/o di paura con conseguenze perniciose sul
ragionamento e sull'apprendi mento. D'altro canto, Damasio (1994) è giunto al suggerimento che pensiero ed
emozione non possono essere separati, e che, corpo e cervello, incluse le emozioni, rappresentino un'unità
indissolubile. Insomma, al di la delle differenze teoriche, la linea comune è che emozione e cognizione
interagiscano, si alimentino e si plasmino l'una con l'altra in modo ricorsivo. Per utilità di trattazione, esse
talvolta possono essere considerate separatamente, ma andrebbe sempre ricordato ad insegnanti e psicologi che
esse sono inseparabili nel cervello e nelle esperienze di ciascun discente.
In questo contesto, menzione a parte merita la Realtà Virtuale (RV) che sta acquisendo sempre più spazio
nelle nuove tecnologie, anche se scarsa è l'informazione su quale sia la risposta del cervello alla RV rispetto alle
esperienze reali, o, ancora, quale possa essere il ruolo della RV nell'educazione. A riguardo, un recente studio
(Perani et al., 2001) ha dimostrato che durante l'osservazione di movimenti reali della mano si ha l'attivazione
delle zone frontali e parietali della neocorteccia (zone deputate al controllo senso-motorio), mentre durante
l'osservazione in RV veniva riscontrata l'attivazione delle zone occipitali di quest'ultima, cioè delle zone
deputate alle funzioni visuo-percettive. Durante la presentazione in RV della mano reale si osservava anche
un'attivazione bilaterale della corteccia parietale posteriore. Nel loro complesso, questi risultati suggeriscono
che l'osservazione di azioni motorie eseguite da altri condividono meccanismi neurali comuni con la
prestazione motoria manifesta. Al contrario, la RV comporterebbe l'attivazione dei soli processi
visuo-percettivi. Quali conseguenze a lungo termine sulla funzionalità del cervello queste attivazioni selettive
indotte dalla RV abbiano restano ancora da esplorare sistematicamente. Sarebbe quindi importante richiedere
delle linee guida prima dell'adozione di queste tecnologie nel contesto educativo o rieducativo, come è stato
fatto nel caso di individui evolutivamente ritardati o menomati.
(C) Un altro aspetto importante, affatto disgiunto dal precedente ma qui trattato separatamente per sviscerarne
aspetti collaterali, è il fatto che attualmente molti bambini trascorrono quotidianamente lunghi periodi davanti
ai palinsesti televisivi o ai videogiochi: periodi che non di rado si estendono anche per parecchie ore. Sovente
da parte degli insegnanti si sono levate voci allarmate sugli effetti negativi di questa pratica sullo sviluppo
cognitivo, fisico ed emotivo dei discenti, nonché sulle loro abilità di relazionarsi interpersonalmente. A queste
si aggiungono, altrettanto spesso, le loro lamentele sull'incapacità dei discentì di mantenere l'attenzione per non
più di un breve periodo o di focalizzare la loro attenzione. E' interessante a riguardo che, a livello di opinione,
scienziati illustri quali Torsten Wiesel e Lamberto Maffei condividano queste rimostranze, come si evince da un
loro scambio di idee nell'amena cornice delle colline senesi:
"Fu comunque .... convenuto che la cosa più deleteria era la stimolazione passiva del cervello: quelle situazioni
cioè in cui, pur sottoponendo il cervello ad un bombardamento di stimoli (ad esempio visivi), non lo si stimola
né all'azione consapevole, né al pensiero critico.
La comunicazione visiva, come quella televisiva, domina nel mondo moderno attraverso la televisione, il
cinema, gli annunci pubblicitari. Vi sono seri dubbi che questa possa essere in tutti i casi un buon esercizio per
il cervello, inteso nella sua globalità" (Maffei, 1998, p. 78).
Nonostante queste autorevoli pareri, purtroppo, non esistono però studi documentali sistematici che possano
sostenere senza tema di contraddizione gli effetti di questa pratica sul cervello e sulla sua capacità di
apprendimento. Richieste di spiegazioni pertinenti degli insegnanti ai ricercatori del cervello potrebbero essere,
ad esempio, se gli studi sul cervello stesso possano attendibilmente sostenere una diretta relazione tra l'utilizzo
massiccio dei multimedia e l'incapacità di mantenere o di focalizzare l'attenzione. Oppure, che cosa accada al
cervello quando la conversazione, quindi l'uso del linguaggio, sia limitata e quando venga speso molto tempo in
situazioni di visione silenziosa, passiva. In aggiunta, potrebbero rivelarsi indubbiamente utili spiegazioni su
quali effetti possano avere i nuovi programmi televisivi per bambini sullo sviluppo globale di quest'ultimi. Da
ultimo, potrebbero rivelarsi preziose spiegazioni sulle implicazioni di un uso appropriato dei media in funzione
dell'età degli utenti.
Un capitolo a se stante, indubbiamente, dovrebbe concernere eventuali richieste su quali siano le conseguenze
della visione di programmi televisivi violenti. E’ lecito pensare che la visione dì programmi violenti può
indurre un comportamento violento in studenti instabili o inclini alla violenza? Cosa accade chimicamente e
funzionalmente in varie aree del cervello durante la visione di programmi violenti, o il confronto con
122
videogiochi violenti, o siti a contenuto violento all'interno della rete? Quali possono essere le ragioni per cui il
cervello di alcuni individui diviene fisicamente dipendente da queste specifiche tecnologie? E' vero che, forse,
gli educatori possono pensare più utile per loro una ricerca che si localizzi sugli aspetti fenomenici dei processi
di pensiero, sulle percezioni, sulle sensazioni e sul ragionamento, ma dovrebbe essere illustrato loro come la
recente ricerca sugli effetti degli atteggiamenti e delle emozioni sulle capacità di apprendimento del cervello
indichi che situazioni di tensione e rabbia possono impedire il normale funzionamento dei circuiti cerebrali.
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MA COSA HA IN MENTE LA SCUOLA?
Intervista alle prof.sse Flavia Santoianni e Maura Striano
a cura di Alberto Cataneo
Le recenti scoperte sul funzionamento del cervello stanno rinnovando radicalmente pedagogia e didattica,
aprendo l’era delle ìscienze bioeducative” .
A spiegare di cosa si tratta sono le autrici di Immagini e teorie della mente (2002), un testo-chiave per
comprendere la rivoluzione in corso.
Occuparsi oggi di formazione obbliga a confrontarsi con il problema di cosa sia, di come funzioni , e di come
venga pensata la mente: E’ questa, in linea generale, la tesi di fondo del vostro libro Immagini e teorie della
mente?
Si, e questa. In particolare, nel volume Immagini e teorie della mente ci siamo proposte di studiare tre recenti
matrici interpretative che hanno dato luogo a una pluralità di trend di ricerca che oggi regolano la
considerazione della mente nella letteratura scientifica nazionale e internazionale sull'argomento e che hanno
interessanti risvolti nella gestione delle problematiche formative. In particolare, la mente è stata studiata come:
intersoggettiva,
distribuita e situata,
correlata al cervello.
Il presupposto da cui partiamo è che le immagini, le teorie “ingenue” e di senso comune, le rappresentazioni
che i diversi soggetti (insegnanti, alunni, formatori, formandi) implicati nei contesti e nei processi di
formazione hanno della mente siano determinanti nell’orientare, piùo meno consapevolmente, le modalità di
gestione dei processi di apprendimento e di costruzione della conoscenza. Rendere esplicite a diversi livelli
queste immagini, teorie, rappresentazioni ci consente di comprendere meglio, ed eventualmente modificare, le
scelte operative dei docenti e dei formatori e conferisce agli stessi strumenti per intervenire su di esse in modo
consapevole e mirato. Consente inoltre ai ricercatori, ai formatori, ai formandi di individuare e riconoscere i
condizionamenti, le difficoltà, i vincoli che determinano significative impasse nei processi apprenditivi e che
possono essere risolte attraverso l’attivazione di procedure metacognitive e metaconoscitive.
I recenti sviluppi delle neuroscienze indirizzano la ricerca sui processi apprenditivi verso una considerazione
del sistema cognitivo come sistema complesso, dinamico, in continuo sviluppo e in interazione con l'ambiente;
sistema elaborativo a funzionalità interrelata che, nell'ontogenesi, tende a complessificarsi nella specificità e
nella differenziazione. Il sistema cognitivo e, inoltre, un sistema eterogeneo, a matrice genetica ed epigenetica;
eterocronico, in sviluppo continuo e discontinuo; adattivo, a funzionalità esplicita e implicita; interattivo, in
senso singolare e plurale; evolutivo, a livello filogenetico e ontogenetico; un sistema che va studiato nel suo
complesso e nel suo svolgersi, individuandone le prospettive di educabilità, il “processo” della formazione
nell’epigenesi. E’ proprio la sinergia tra le neuroscienze e le scienze dell’educazione, l’interazione reciproca e
dinamica, la condivisione delle conoscenze e la mutua collaborazione nello studio di problematiche comuni, nel
rispetto delle specifiche identità, che puÚ attivare disposizioni interpretative potenzialmente euristiche per una
comprensione piùprofonda del funzionamento della mente. D’altra parte, sono sempre di piùi neuroscienziati
“umanisti” - si pensi a Boncinelli, ad esempio - che coniugano le conoscenze bioneuroscientifiche e l’attività di
sperimentazione con un bagaglio culturale letterario, storico, filosofico, psicologico, pedagogico
L’interpretazione delle problematiche formative alla luce delle conoscenze bioneuroscientifiche più, dunque,
avere una rilevante significatività adattiva per lo sviluppo di conoscenze e competenze per la comprensione del
sistema uomo. Studiare il cervello per “scoprirvi” la mente E’, infatti, in se stessa, una delle più affascinanti
ricerche nella avventura del pensiero.
Il libro si inserisce nel nuovo approccio pedagogico delle scienze bioeducative, al quale è stato dedicato
nellíottobre scorso un convegno presso líUniversità Federico II di Napoli. Potreste chiarire in cosa consiste la
novità di tale impostazione?
125
Le scienze bioeducative sono un campo di ricerca interdisciplinare tra pedagogia, neuroscienze e psicologia, la
cui recente costituzione Ë stata definita dal B.E.S. (cfr. E. Frauenfelder, F.Santoianni, a cura di, Le scienze
bioeducative. Prospettive di ricerca, Liguori, Napoli, 2002; trad. inglese Mind, Learning and Knowledge in
Educational Contexts, Cambridge Scholars Press, Cambridge, 2003). Il B.E.S. Ë un gruppo di ricerca che si
propone di analizzare le relazioni mente-cervello-apprendimento e natura-cultura-educazione attraverso lo
studio dei processi che regolano líeducabilità nellíontogenesi lungo prospettive di ricerca epigenetiche,
biodinamiche e sinergiche. Temi attuali nelle scienze bioeducative, temi di interesse nelle scienze
dellíeducazione, possono essere considerati la inscindibile presenza del sistema cognitivo ed emozionale
nellíapprendimento, la natura delle qualità di specializzazione e differenziazione del sistema cognitivo,
líinfluenza della dimensione organismica nella relazione mente-cervello-apprendimento, le relazioni sinergiche
natura-cultura nella formazione individuale, i determinanti strutturali nella costruzione della conoscenza, la
formazione epigenetica della mente. Alla base di questo discorso, tuttavia, c’è un possibile fraintendimento che
occorre chiarire inizialmente. L’interazione con il mondo bioneuroscientifico non è, solo, una esigenza
pedagogica; l’interesse verso la comprensione globale del sistema-uomo e verso le problematiche formative che
ne regolano le dinamiche ha comportato, di fatto, un avvicinamento delle due aree di ricerca che, molto
probabilmente, ha un innesco irreversibile. Se questo è un punto di non ritorno, chiedersi come sarà possibile
mediare questa interazione è un problema ineludibile e il fraintendimento più consistere nel non vedere che il
mondo della formazione e quello delle bioneuroscienze hanno, oggi, e avranno, domani, diversi punti in cui la
ricerca si fa reciprocamente tangente; nel considerare, dunque, questa interazione “una creazione pedagogica”.
Qual’è, allora, il senso pedagogico di tale avvicinamento alle neuroscienze? Vi sono, attualmente, nella ricerca,
tematiche composite, proprio come la relazione adattiva mente-cervello-apprendimento o la relazione
complessa natura-cultura-educazione, tematiche che concorrono alla piùgenerale spiegazione del sistema uomo.
Non è possibile affrontare tali tematiche senza una pluralità di interventi disciplinari, ma il senso pedagogico
che li accomuna tutti deve essere rinvenuto nella centralità del problema formativo presente, al loro interno,
spesso in forma implicita. Come renderlo esplicito? Come cogliere il profilo formativo presente in altri ambiti
di ricerca? Come mediare tra le diverse istanze, umanistiche e scientifiche, senza che si perda la matrice di
ricerca che caratterizza ognuna di queste aree? La riflessione pedagogica sulle scienze dell’educazione è, essa
stessa, un modello esemplare di regolatività; di gestione critica, radicale e razionale di una pluralità di saperi
attraverso prospettive ermeneutiche e disposizioni interpretative aperte e flessibili. Affidare alla pedagogia un
compito di mediatrice tra mondo scientifico e mondo umanistico è un modo per riconoscerne proprio la
specificità ermeneutica, regolativa e fondativa al tempo stesso. Il valore epistemologico di questa posizione
teorica risiede, infatti, nelle potenzialità pedagogiche dell’esercizio di una funzione ìtrasversale” che nulla cede
al riduzionismo e nulla toglie alla vocazione radicale, alla tensione trascendentale e alla natura riflessiva e
metateorica della pedagogia. La pedagogia corre dei rischi, nell’esercizio delle sue funzioni? Forse, ma Ë
protetta, dalla sua propria natura dismorfica e ipercomplessa. E da un punto di vista metodologico? Non si
dimentichi, qui, la lezione di Visalberghi, che insegna come la pedagogia possa fare propria la nozione di
pluridisciplinarietà; nozione che le consente di ìcondividere” con altre aree di indagine obiettivi e finalità di
ricerca (che, nel caso del mondo scientifico e umanistico possono essere comuni, un esempio su tutti
l’interpretazione dell’individuo come fenomeno complesso) ma, non necessariamente, metodi di indagine
(spesso, in questi campi, diversissimi) o, ancor meno, basi di partenza teorica (nel senso dello specifico punto di
vista disciplinare da cui muove ogni sapere nel delineare ipotesi di ricerca). La costruzione della conoscenza Ë
un processo complesso, eterogeneo, ma non per questo disorganico, se guidato da funzioni regolative; Ë un
processo che può nutrirsi di più apporti disciplinari, ma non per questo viene meno alla sistematicità e alla
fondatività di ogni sapere - o insieme di saperi - che voglia definirsi scientifico: il concetto di interazione non
implica, necessariamente, una condivisione di identità ma, piuttosto, un potenziamento sinergico di specificità
individuali per il raggiungimento di un fine comune.
126
Nel testo si fa riferimento alla cosiddetta “psicologia ingenua”. Di cosa si tratta? In che modo il lavoro
dell’insegnante ne risulta condizionato?
Per “psicologia ingenua” o “folk psychology” nella letteratura di settore si indica la visione del mondo psichico
e degli stati mentali che orienta (in termini di costrutto teorico o di funzione esplicativa ed interpretativa)
líuomo “della strada” nella gestione dei propri comportamenti cognitivi, affettivi, relazionali e nell’
interpretazione e/o previsione dei comportamenti mentali degli altri soggetti. Si tratta di una visione
storicamente e culturalmente mediata che ha una importante funzione nel situare il soggetto che apprende e
costruisce conoscenza nell’ambito di uno specifico contesto. Esistono, dunque, stati mentali che si configurano
come credenze, intenzioni, desideri che orientano comportamenti ed azioni cognitive a livello individuale e
sociale; la “psicologia ingenua” si traduce sempre in pratiche utili alla descrizione di stati mentali ed alla
spiegazione e predizione di comportamenti mentali (Davies, Stone, 1999) e per questo motivo ha una funzione
di orientamento nell’ambito dei contesti formativi. Il lavoro dell’insegnante e del formatore è sempre
condizionato dalla visione del mondo psichico e degli stati mentali cui essi fanno riferimento: le pratiche
didattiche si configurano in modo molto diverso sulla base delle diverse credenze, intenzioni, desideri dei
soggetti che vi sono implicati. Su queste basi, líincontro con la mente degli studenti e dei soggetti in formazione
è sempre mediato dalla “psicologia ingenua” di cui tutti, in diverse forme, sono portatori e di cui bisogna
pertanto necessariamente tener conto. Per fare un esempio, un insegnante che sottoscrive una credenza a
proposito dellíintelligenza come realtà statica, immodificabile, misurabile in modo efficace con test che
identificano il Q.I. dei soggetti in formazione, sarà condizionato da queste credenze nella sua valutazione delle
performance dei diversi alunni ed orienterà in modo differenziato la gestione dei processi di
apprendimento/insegnamento.
Nella prima parte del libro si parla di ìmetacognizione e processi di controllo”. In quest’ ambito, si può fare
riferimento (nel testo se ne fa cenno a p. 29) al problema del metodo di studio? Spesso infatti gli insegnanti si
lamentano del fatto che i loro alunni ìnon posseggono un metodo di studio”. In realtà, a mio avviso, non sempre
è presente a livello scolastico un’ approfondita riflessione su cosa debba intendersi per “metodo di studio”; la
tendenza prevalente è di immaginarlo come qualcosa di universalmente valido, laddove al contrario “non è
possibile” ipotizzare un modo ideale in cui ogni soggetto controlli la propria “attività cognitiva” (p. 31). In
altri termini, è corretto affermare che, nell’impostazione da voi sostenuta, il principale obiettivo dell’azione
formativa dovrebbe essere quello di sviluppare nel soggetto un “controllo delle risorse intellettive” che
implichi la consapevolezza della specificità del proprio potenziale intellettivo ?
Nelle scienze bioeducative, si afferma l'esigenza di mediare tra la singolarità dell'individuo, la specificità
dell'elaborazione cognitiva e affettivo-emozionale di ogni soggetto, e la socializzazione della conoscenza, la sua
negoziazione e co-costruzione. Ne vengono fuori modelli interattivi, nei quali la condivisione della conoscenza
passa sempre attraverso il riconoscimento della singola espressione individuale come fulcro della relazione
formativa. Il discorso bioeducativo è centrato sulla nozione di educabilità: l’educabilità non è definita una volta
per tutte, ma è il processo della formazione nella epigenesi, un processo lungo e frastagliato, diverso da
soggetto a soggetto e mai omologabile. I passi da riconoscere, quindi, sono due: da un lato è necessario rilevare
l'impossibilità di definire un metodo di studio valido per ogni soggetto, cosÏ come non ha senso cercare una
qualunque modalità di insegnamento che sia, per principio, valida per tutti. I diversi soggetti hanno sempre
diverse reazioni alla stessa stimolazione, e l’insegnante, se usa una modalità trasmissiva uniforme (sia essa
percettiva, sia essa elaborativa) dovrebbe essere sempre consapevole del fatto che sta effettuando una cernita
delle possibilità di apprendimento a monte, e non a valle, precludendo ad alcuni la piena espressione delle
proprie potenzialità. A maggior ragione, ed è questo il secondo passo, se partiamo dal presupposto che ogni
soggetto è diverso dagli altri, che non Ë realizzabile proporre un metodo di studio utile per ogni soggetto, che
non Ë possibile definire una modalità di insegnamento come valida in senso assoluto, allo stesso modo
dobbiamo considerare un ineludibile presupposto alle pratiche formative che ogni soggetto divenga
consapevole della qualità del proprio potenziale intellettivo lungo il corso dello sviluppo. Questo significa che
líeducabilità Ë un processo: Ë un processo attraverso il quale ogni soggetto acquisisce il progressivo
riconoscimento delle proprie potenzialità di apprendimento, di ciò che È innato e di ciò che È acquisito e, nel
migliore dei casi, impara a riconoscere questa doppia valenza, facendo, di conseguenza, passi avanti nel
padroneggiare il proprio sistema di gestione del cognitivo. Questo È il senso del CRI, il controllo funzionale e
127
biodinamico delle risorse intellettive, un processo che va sempre messo in relazione con l'interattività della
relazione formativa, nella quale la calibratura dell'offerta dovrebbe essere continuamente regolata dal feedback
di risposta individuale.
Si può apprendere e si può insegnare nella misura in cui chi apprende e chi insegna è in grado di interpretare,
ipotizzare, prevedere, spiegare gli stati mentali propri e altrui e di formulare giudizi su di essi, sulla base di
costrutti teorici o di capacità di simulazione” (p. 59). D’altra parte, esplicitare le strutture di conoscenza e di
metaconoscenza rende necessaria “l’attivazione, a diversi livelli nell’ambito dei contesti formativi, di percorsi
di metaconoscenza” onde favorire “l’acquisizione, lo sviluppo e l’uso di un linguaggio sul pensare” (p. 59). E’
possibile fare qualche esempio di tali percorsi, per quanto riguarda i docenti delle scuole superiori?
I percorsi di metaconoscenza promuovono una significativa consapevolezza della parte che le personali
funzioni cognitive (nella complessa interazione con quelle degli altri soggetti e con le configurazioni contestuali
in cui si determinano) giocano nella “costruzione” della realtà, della conoscenza e del sapere e del ruolo
costitutivo ed essenziale svolto dal contesto in tale costruzione.
Si tratta di una modalità di lavoro che, nell’ambito dei contesti di formazione si articola, su diversi piani ed a
diversi livelli. Esso permette, infatti:
la ricostruzione delle "storie cognitive" dei soggetti, la ricognizione dei loro diversi “stili di pensiero”, e delle
loro configurazioni cognitive (riconoscendone la peculiarità ed individuando eventuali impasse, chiusure e
rigidità);
l’analisi dei diversi codici linguistico/espressivi di cui i soggetti fanno uso (anche in rapporto ai personali codici
di riferimento ed a quelli dei contesti socioculturali di appartenenza) e l’ndividuazione di possibilità di
confronto, intersezione, dialogo tra i codici d’uso con la messa in atto di un progressivo allargamento dei campi
semantici e dei piani di discorso;
la ricognizione dei repertori di conoscenza, delle teorie e dei saperi di riferimento (piùo meno espliciti e piùo
meno formalizzati) di cui i soggetti dispongono e fanno uso nei processi apprenditivi in cui sono implicati;
il confronto con i diversi "significati" che i soggetti attribuiscono alle esperienze di apprendimento e di
formazione e con le diverse modalità di esplorazione, interpretazione e gestione di tali esperienze;
l’organizzazione di esperienze di “mediazione” cognitiva funzionale alla costruzione di “strutture di
significato” adeguate a supportare e a modulare gli apprendimenti inscrivendoli all’interno di strutture cognitive
efficienti e ben organizzate;
la promozione e la sollecitazione di nuove modalità di esplorazione, interpretazione, significazione,
organizzazione cognitiva, conoscenza delle esperienze umane allo scopo di dare vita a e sempre piùefficaci e
significativi modi di apprendere e conoscere;
il riconoscimento delle “caratteristiche di accesso” sulla base delle quali, nell’ambito di specifici contesti, si
costruiscono apprendimenti e conoscenze.
Scuola ed extrascuola vanno a proporsi non piùcome ambiti di istruzione formalizzata e di trasmissione di
saperi organizzati, ma come ambiti in cui È necessario imparare soprattutto a gestire e a costruire processi di
conoscenza”, in quanto la professionalità degli operatori della formazione “va sempre piùa connotarsi come
professionalità di knowledge management”(p. 61). D’altra parte È pur vero che ogni docente È fortemente
legato alla propria disciplina, ai suoi contenuti specifici, e nella pratica dell’insegnamento spesso la
“trasmissione di saperi organizzati” tende a prevalere sullo sviluppo di competenze e capacità. In che modo la
vostra impostazione puÒ conciliare le due cose?
I percorsi di metaconoscenza consentono ai docenti e ai formatori di confrontarsi in quanto soggetti epistemici
con le caratteristiche di accesso, che connotano ogni “campo esecutivo” come peculiare sistema cognitivo nel
quadro di uno specifico contesto di formazione. Tali caratteristiche sono: a) la conoscenza (i tipi e le forme di
conoscenza disponibile nell’ambito di uno specifico campo esecutivo); b) la rappresentazione (il modo in cui la
conoscenza È espressa, proposta, raccolta, elaborata, formalizzata nel campo in questione); c) il recupero (il
modo in cui È possibile recuperare efficacemente specifiche rappresentazioni di conoscenza); d) la costruzione
(il modo in cui nel campo in oggetto È possibile realizzare l’integrazione di vecchie e nuove strutture di
128
conoscenza e la ridefinizione di nuove strutture) (Perkins, 1993). L’analisi della caratteristiche di accesso
rappresenta, perciò, un passaggio obbligato per una possibile formalizzazione di ipotesi di lavoro formativo
nell’ambito dei diversi “campi esecutivi” implicati nei curricoli di studio ed È, pertanto, da questa che bisogna
partire per poter individuare “percorsi preferenziali” e “vie secondarie” su cui si gioca la possibilità di attivare
apprendimenti significativi ed efficaci, che producano un’autentica “comprensione” del sapere disciplinare con
cui si entra in contatto (Gardner, 1999). Ogni campo esecutivo, È inoltre caratterizzato da una specifica
struttura epistemica, ovvero quella configurazione procedurale e metodologica attraverso cui, individuando
specifiche posizioni e modalità di rapporto tra soggetto e oggetto della conoscenza e facendo uso di una varietà
di strumenti e di artefatti, in tale campo si realizza e formalizza il conoscere. Attivando processi di
metaconoscenza diventa, pertanto, possibile accedere alla struttura epistemica dei saperi disciplinari che
compongono il curricolo ed “entrare” in questi saperi non tanto e non solo attraverso prodotti conoscitivi finiti,
ma attraverso un contatto diretto e consapevole con le forme ed i modi che caratterizzano i processi di
costruzione di tali prodotti
E’ molto interessante, nel testo, la distinzione tra formazione diretta e indiretta. Rispetto ad un “ambiente
formatore” che rischia di risultare acritico e omologante (p. 121), il ruolo della scuola sembra essere
soprattutto quello di sviluppare nei ragazzi la comprensione del senso della propria cultura, e insieme la sua
relativizzazione (p. 124). Tuttavia oggi la scuola È combattuta tra l’esigenza di confrontarsi con l’esterno (i
media, il linguaggio e gli interessi dei giovani, il mondo del lavoro, ecc.) e la tentazione dell’autoreferenzialità
(la Cultura, la centralità del testo scritto, i Grandi libri). Qual è la vostra opinione in proposito?
Se il ruolo della scuola debba essere quello di farsi portatrice e di conservare un patrimonio di informazioni e di
repertori comportamentali dei quali è deputata ad essere la custode ovvero se la scuola possa costituire un punto
di incontro, un anello di congiunzione tra i modi di pensare e di essere delle nuove generazioni e il corpus
tradizionale della conoscenza È un'antica querelle la cui soluzione È ancora lontana. Tuttavia, le tendenze
piùattuali della ricerca vanno nella direzione del riconoscimento di una interazione sinergica tra "l'esterno", in
quanto luogo della formazione informale/non formale e la scuola, in quanto tempio dell'educazione
formalizzata. Cosa significa interazione sinergica? Ambedue i poli di questa relazione sembrano essere
fondativi l'uno dell'altro. La Cultura, la centralità del testo scritto, i Grandi libri, cui Lei fa riferimento, sono
l'espressione di un portato culturale che i giovani devono poter conoscere prima di, eventualmente, rifiutarlo.
La costruzione della conoscenza passa, necessariamente, attraverso processi non soltanto di riflessione, ma
anche di condivisione e di negoziazione delle conoscenze che rappresentano sempre, in ogni caso, le "credenze"
di una data comunità di apprendimento, in un dato momento storico, in un dato luogo. Fare riferimento a questi
aspetti non È un processo auto-referenziale, ma un processo di continua trascrizione dei significati culturali che
si vengono di volta in volta aggiornando, modificando, affinando. La scuola secolarmente traduce e trascrive i
significati culturali delle comunità alle quali appartiene e questi, di volta in volta, vengono costituire un
ineludibile corpus di conoscenze. Questo corpus dottrinale necessariamente si aggiorna e non È possibile
immaginare che ciò che Lei definisce giustamente "l'esterno" non costituisca la fonte primaria del rinnovamento
del sapere. Sta di fatto, perÒ, che non È possibile divergere da ciò verso il quale non si È fatto,
precedentemente, un processo di conversione; l'istruzione, nel suo senso piùclassico, È un ineludibile passo
preliminare verso la libera e singolare espressione del pensiero, anche se oggi l’istruzione tradizionale È
comunque rivisitata alla luce di processi di socializzazione, di collaborazione, di cooperazione, di costruzione
della conoscenza. Se è vero che "l'esterno" influenza la scuola e non è possibile immaginare che ciò non
avvenga, bisogna incominciare a delineare le strategie attraverso le quali possa accadere anche il contrario, e
cioÈ che la scuola sia resa in grado di influenzare "l'esterno". Questo processo bidirezionale È in parte
ricostruito in Immagini e teorie della mente, poichè nel lavoro formativo della relativizzazione dei contesti e dei
significati che nascono al loro interno si mira, in effetti, a insegnare ai soggetti in formazione la gestione della
realtà ipercomplessa nella quale viviamo, dando loro strumenti di decodifica e traduzione prima che di
produzione. In una successiva ricerca, tuttavia, attualmente in corso di stampa, abbiamo lavorato
all'individuazione di possibili strategie formative che la scuola - in questo caso la scuola primaria - potrebbe
portare avanti se decidesse di venire incontro ai nuovi linguaggi, ai nuovi media, alle nuove espressioni della
conoscenza, dall'interno, e non dall'esterno; entrando, cioÈ, in un mondo nuovo di significati e, da dentro,
provando a interpretarli. La ricerca - azione - formazione, dal titolo Modelli di aggiornamento delle strutture
della conoscenza. Studi sull'evoluzione delle funzioni cognitive, sui linguaggi elaborativi del pensiero e i
sistemi individuali di selezione e codifica, per lo sviluppo di protocolli formativi e la gestione di ambienti di
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apprendimento distribuiti e multifattoriali, È nata proprio dall’intento di provare a rispondere al ricorrente
quesito formativo se sia la scuola a doversi avvicinare, attraverso obiettivi, programmi e strategie di
insegnamento, alle sempre nuove modalità di apprendimento che i bambini sviluppano nell’adattamento ai
sempre nuovi contesti della realtà - riconoscendo, quindi, in qualche modo, l’ineludibilità di un ripensamento
della didattica in funzione del continuo mutare dei contesti di apprendimento extrascolastici e, ancora prima,
riconoscendo l’idea che le strutture della conoscenza di chi apprende stiano effettivamente cambiando - oppure
se, viceversa, i soggetti in formazione siano, in fondo, sempre gli stessi, e le loro potenzialità di apprendimento
vadano stimolate, recuperate, rinforzate attraverso un lavoro scolastico che, in un certo senso, funga da
contraltare al dilagare pervasivo e massivo delle informazioni, spesso caotico e disordinato, offerto dall’odierno
proliferare dei piùsvariati contesti della conoscenza. E’ possibile conciliare questa duplice tendenza della
formazione? Che influenza ha l’uso dei media, dei giochi elettronici, della realtà virtuale, del computer, della
rete internet, Ö sul rendimento e sulla realtà scolastica dei bambini? Cosa succederebbe se la scuola e la realtà
“parallela” e iper-stimolante extrascolastica parlassero una lingua simile o, meglio, se la scuola imparasse a
tradurre una parte dei propri contenuti di insegnamento in una forma che risultasse ai bambini piùfamiliare, in
quanto sperimentata in altri ambiti della conoscenza (spesso molto accattivanti) invece di tentare sempre di fare
il contrario? E tutto questo avrebbe ricadute negative? Ovvero entrare nell’odierno linguaggio dei bambini puÒ
servire a spiegare loro anche come saperne uscire? Infine, le strutture della conoscenza nei bambini si stanno
realmente “aggiornando”? Le risposte questi quesiti sono state oggetto di riflessione e hanno portato
all'individuazione di un protocollo formativo, corredato di relative unità didattiche, per la gestione dei modelli
di aggiornamento delle strutture della conoscenza, di prossima uscita.
Nel capitolo 6 (Mente e menti ) viene sviluppato il concetto di mente “come realtà distribuita e situata”; gli
stessi ambienti di apprendimento possono essere letti “come peculiari dimensioni della mente frutto di un
continuo processo di relazioni”. Che tipo di conseguenze implicherebbe l’applicazione di tale prospettiva al
contesto scolastico? In particolare,come inciderebbe sul modo di concepire l’insegnamento/apprendimento
da parte dei soggetti coinvolti (docenti, studenti, famiglie)?
In quanto processo situato e distribuito l’apprendimento si realizza attraverso quella che È possibile definire
una progressiva "partecipazione legittima periferica" a specifici contesti socio - apprenditivi (Lave, Wenger,
1991, cit.) attraverso l’ascolto, l’osservazione, l’acquisizione tacita di processi cognitivi e di sistemi simbolici
intesi come importanti dispositivi attraverso cui il soggetto fa il suo ingresso in una specifica dimensione
culturale. Ttale partecipazione ha una indubbia valenza formativa (non necessariamente intenzionale) anche
tenendo conto del ruolo che elementi apprenditivi “taciti” ed “impliciti” possono assumere nella costruzione
delle strutture di conoscenza.
In quanto socioculturamente situato e costruito in riferimento ad artefatti e strumenti culturalmente codificati il
processo di apprendimento si configura inoltre come una realtà “distribuita” tra il soggetto e le risorse di cui fa
uso, giacchè l’ambiente fisico e sociale partecipa a tale processo non solo come fonte di stimoli o ricettacolo di
possibili risposte, ma come vero e proprio veicolo cognitivo. Per tale motivo bisogna considerare il soggetto
insieme a quanto lo circonda (ambiente fisico, artefatti, strumenti, relazioni sociali) come una unica unità di
apprendimento nell’ambito della quale viene a distribuirsi il processo apprenditivo (Perkins, 1993). Ciò
permette di focalizzare l’attenzione non tanto e non solo sul soggetto che apprende, e sulle sue performance,
ma anche, contestualmente, sull’ambiente fisico e sociale inteso come parte integrante e costitutiva dei processi
apprenditivi.
La distribuzione attraverso relazioni sociali, si costruisce sulla possibilità di una condivisione del “lavoro
cognitivo” e della responsabilità apprenditiva tra più soggetti, riconoscibili in uguale misura come artefici dei
prodotti di conoscenza realizzati, che vengono “messi in comune” ed acquisiti come un bagaglio di
apprendimenti condiviso e condivisibile (Cole, 1991). Nei diversi contesti di formazione i processi di
apprendimento si localizzano quindi non soltanto su una piano intraindividuale ma, piuttosto, su un piano
interindividuale ed interattivo, determinandosi come prodotto e responsabilità comune e condivisa tra
piùsoggetti. E’ importante pertanto orientarsi verso la costruzione di ipotesi formative che giocano sulla
complessa articolazione dei processi di apprendimento e sui diversi ruoli assunti in essi dagli agenti cognitivi
che vi sono implicati. Bisogna quindi da un lato mettere a fuoco le caratteristiche strutturali degli ambienti di
apprendimento - intesi come contesti di costruzione ed emergenza di funzioni mentali a carattere adattivodall’altro analizzare la natura delle relazioni cognitive stabilite con il mondo fisico e sociale, in quanto esse
possono facilitare e/o inibire l’articolazione e lo sviluppo del processi in questione.
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La relazione insegnamento-apprendimento si è tradizionalmente espressa sia nei modelli adult-run, nei quali la
formazione del soggetto È formalmente seguita da individui adulti, sia nei modelli children-run, dove contesti
informali di apprendimento fanno da sfondo alla libera attività esperienziale, esplorativa e adattiva, del soggetto
che apprende. Ambedue questi modelli sottendono una propria peculiare concezione del processo di
apprendimento - inteso, in un caso, come un processo che, per realizzarsi, necessita una continua azione
intenzionale diretta, attraverso la spiegazione istruttiva e la ripetizione costante e, nell’altro caso, come un
processo di maturazione spontanea, osservabile ma non canalizzabile dal soggetto adulto. Negli ultimi quindici
anni, trend di ricerca internazionale costruttivisti, socio-culturalisti, della conoscenza distribuita e situata, etc.,
hanno messo in luce modelli di formazione semiformali, basati su tipi di apprendimento assistito in cui il
formatore adulto compone, insieme ad altri adulti e ai soggetti in sviluppo, una comunità di apprendimento
all’interno della quale svolge ruoli non direttivi ma mediativi e facilitativi di forme di apprendimento
collaborativo. La costruzione cognitiva, in questi modelli sinergici, implica percorsi di produzione del pensiero
che non si attivano per via trasmissiva ma attraverso reti di apprendimenti condivisi e co-costruiti; ciò non
preclude, tuttavia, ed è questa una delle caratteristiche piùpeculiari di tali modelli, che il soggetto che apprende
sia investito dalla responsabilità cognitiva che concerne il proprio ruolo di attivo - e, per certi versi, unico ideatore di originali percorsi del pensiero. Tali modelli sinergici sono in grado, da un punto di vista
metodologico-didattico, di rivoluzionare i cardini della tradizionale didattica one-sided, cioè unilaterale (che sia
dal punto di vista del formatore adulto, o del soggetto in formazione), sia a livello dei processi di
apprendimento, sia a livello dei processi che regolano la produzione della conoscenza. La formazione, a livello
dei processi di apprendimento, implica, infatti, se attuata per via trasmissiva (unilaterale), che i soggetti
apprendano come gestire le proprie performances cognitive, in rapporto ad altri soggetti; che apprendano, in via
generale, ad acquisire e gestire informazioni (non necessariamente di loro interesse), a strutturare strategie di
risposta all’ambiente (e ai diversi compiti cognitivi) la cui validità è soggetta ad essere valutata sia in rapporto
all’effettivo rendimento, sia in relazione alle aspettative e ai criteri di giudizio della comunità di appartenenza.
Se intesa per via collaborativa (sinergica) la formazione, a livello dei processi di apprendimento, implica che i
soggetti apprendano a gestire l’attività cognitiva, propria e degli altri, organizzandola in diverse forme e
acquisendo capacità manageriali sia nei confronti del proprio personale patrimonio di informazioni - si pensi
alla metacognizione - sia verso una piùgenerale costruzione e produzione di processi del pensiero. Tuttavia, i
modelli piùrecenti della relazione insegnamento-apprendimento colgono l’obiettivo della costruzione della
conoscenza nella misura in cui non investono soltanto il mondo delle possibilità di formazione racchiuso nella
soggettività individuale e nelle sue reazioni con il mondo esterno (il livello dei processi di apprendimento) e
non si configurano soltanto come dispositivi in grado di supportare l’individuo nella propria attività esplorativoadattiva della realtà, nel proprio rapportarsi all’ambiente attraverso l’esperienza, nel proprio percorso
introspettivo di analisi delle personali caratteristiche e qualità potenziali che si attivano nell’apprendere. I
modelli piùrecenti della relazione insegnamento-apprendimento colgono l’obiettivo della costruzione della
conoscenza (il livello della produzione del pensiero critico) nella misura in cui pongono la necessità di
progettare e strutturare itinerari di formazione che non siano in alcun modo riduttivi ma esprimano la
complessità della relazione formativa inglobando i soggetti in sviluppo in reti di progetti che regolino la
trascrizione culturale dei significati nella propria comunità di appartenenza, sia essa espressa dal contesto
scolastico, sia essa espressa dal contesto familiare.
La cognizione distribuita e situata incide sul modo di concepire la relazione insegnamento-apprendimento e,
soprattutto, incide sul ruolo dei soggetti coinvolti in tale relazione attraverso la messa a fuoco del significato
della famiglia non solo come contesto di apprendimento ma anche come unità funzionale di mediazione
competente nella tradizionale relazione sistemica famiglia-scuola-società. A questo scopo, un obiettivo
specifico È individuare la figura del “genitore competente” come figura di mediazione garante della qualità
dell’attenzione formativa dedicata a ogni singolo individuo nel proprio contesto di apprendimento, e attivare
percorsi di formazione congiunta famiglia-scuola, per rendere il genitore in grado di collaborare attivamente
con i docenti, nell’istituzione scolastica e al di fuori di essa. Occorre, inoltre, rendere il docente in grado di
esercitare la propria funzione di “mediatore collaborativo”, capace di gestire e potenziare lo sviluppo di
comunità di apprendimento nella società della conoscenza. Occorre progettare comunità di apprendimento
critico, nelle quali i soggetti in formazione siano preparati ad affrontare il continuo moltiplicarsi dei contesti e
dei percorsi di acquisizione delle informazioni, l’attuale disorientamento dei singoli nella collettività e nella
situatività e distribuzione multimediale degli artefatti cognitivi, il continuo proliferare di sottoculture e di
processi di omologazione del pensiero attraverso l’azione congiunta di genitori competenti e di mediatori
collaborativi nelle pratiche formative.
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15) IL MITO DEL BAMBINO IPERATTIVO e altri strumenti di controllo del bambino / P. Schrag, D.
Divoky ; prefazione di Giorgio Bert. – Milano, Feltrinelli, 1978. - 275 p. ; 21 cm. Trad. di Andreina Lo Bue
Bert (fuori commercio)
PREFAZIONE
La società in cui viviamo coltiva un mito: l'ordine.
C'è chi vede negli scioperi, nelle manifestazioni e nei cortei una minaccia, per la società e chi vive nel timore
delle aggressioni, dei furti, delle rapine. Ci indigniamo attendendo il tram che non arriva e temiamo la
mancanza dell'energia elettrica, del gas o della benzina. L’inefficienza crescente dei servizi postali e telefonici
e quella dei sistemi di trasporto suscitano allarme crescente: la nostra possibilità di nutrirci, di comunicare, di
ricevere notizie, di spostarci è strettamente legata al perfetto funzionamento di quei sistemi. Sappiamo bene
che tanto maggiori e complesse diventano le comunità urbane, tanto più stretti e necessari i collegamenti tra
stato e stato, tanto più diventiamo tutti vulnerabili, dipendenti, sprovvisti di reale autonomia. Lo sciopero di
pochi tecnici può paralizzare il traffico aereo in tutta l'Europa. Un calcolatore si blocca e migliaia di
lavoratori restano senza stipendio. Conosciamo gli effetti di improvvisi black-out nelle moderne megalopoli.
Un'ampia letteratura impregnata di catastrofismo ci ricorda che i disservizi, le inefficienze più o meno
localizzate e circoscritte, sono solo i sintomi iniziali di un più grande disordine generalizzato, che minaccia di
distruggere la nostra civiltà, più rapidamente e con efficacia maggiore della temuta guerra atomica. Questa
appare oggi perfino fuori moda di fronte a pericoli più sofisticati come la degradazione dei sistemi o la
catastrofe ecologica.
Il sistema ha bisogno di ordine per funzionare: in qualche modo ne siamo convinti tutti. Il disordine è il male.
Il Kaos contrapposto al Kosmos, l'irrazionale di fronte alla ragione, l'inconscio davanti all'Io. In una società
ideale non può esserci posto per l'imprevisto, il casuale, l'eccentrico: l'ordine va mantenuto ad ogni costo, e al
suo mantenimento e dedicata una gran parte dei bilanci nazionali, oltre all'impiego di organizzazioni private e
anche di volontari.
Chiunque detenga il potere ha dunque necessità di mantenere l'ordine ad ogni costo e con qualsiasi mezzo.
Ora avviene che, per quanto tutti noi invochiamo legge ed ordine ogni qualvolta dobbiamo aspettare per ore
alla stazione o all'aeroporto, le modalità tecniche di mantenimento dell'ordine restino tuttavia estremamente
impopolari. Regolamenti e divieti sono percepiti come vessatorii, e del resto le forze dell'ordine non
riscuotono, come si sa, affetto e ammirazione universali.
Per rendere accettabile un tale apparato repressivo è quindi necessario dimostrare che il disordine non è
intrinseco al sistema ma al contrario estraneo ad esso, e può quindi venire eliminato senza cambiare il sistema
stesso. Se infatti risultasse chiaro che proprio le nostre scelte culturali e sociali sono la causa di quei momenti
di disordine che finiranno per distruggerle, il desiderio di un cambiamento radicale non sarebbe più solo
l'utopia di pochi ma un genuino movimento di massa. Se il disordine non può essere celato esso va quindi
attribuito a cause estranee all'organizzazione sociale. Tali cause vengono come è ovvio identificate nei
dissidenti, in coloro che non seguono le regole, negli oppositori non autorizzati.
In tal modo è possibile additare alla gente dei colpevoli ben definiti e far credere di conseguenza che
l'ordine verrà ripristinato con l'eliminazione (o con il "recupero") dei dissidenti. Anzi, la stessa repressione del
dissenso è ordine in atto, cui seguirà necessariamente una maggiore efficienza ed un incremento della
ricchezza e del benessere sociale.
Ovviamente, allo scopo di permettere il ripristino dell'ordine, occorre rinunciare momentaneamente ad
alcuni diritti e a certe garanzie che tuttavia, a pulizia avvenuta, verranno restituiti più completi e più ampi di
prima. E poi, si sa, solo i disonesti hanno da temere da una giustizia più severa...
In generale la repressione del dissenso avviene secondo due principali modalità: la prima, più rozza, può
venire usata più facilmente là dove diritti civili e garanzie sono già stati ridotti o aboliti, e lo stato è forte e
controlla l'informazione vietando le opposizioni di tipo tradizionale. Essa consiste nell'attribuzione ai
dissidenti dello status di criminali e nella conseguente applicazione delle leggi vigenti contro i delitti previsti
dal codice penale. I dissidenti vengono definiti, a seconda delle occasioni, nemici del popolo, agenti al soldo
dell'imperialismo o del comunismo o del sionismo internazionale, rinnegati, traditori, sabotatori, ecc. I reati
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vengono quindi puniti con la reclusione, con il lavoro forzato in campi di concentramento o con la morte. Agli
imputati è negata ovviamente la qualifica di prigionieri politici. In altre parole, il dissidente è un malato
sociale.
L'altro sistema di controllo del dissenso è più sofisticato e viene generalmente usato di preferenza là dove il
sistema politico non sia abbastanza forte e debba tenere conto dell'opposizione autorizzata (cioè prevista dalla
legge) e garantire quindi alcune libertà e diritti formali; oppure, negli stati totalitari, quando non si ritenga
opportuno scatenare campagne di stampa e reazioni vivaci all'estero. Esso consiste nell'attribuire al dissidente
lo status di malato mentale. Anche in questo caso, ovviamente, egli non può essere considerato un perseguitato
politico in quanto le sue critiche e le sue denunce costituiscono appunto i "sintomi" della malattia.
Mi pare inutile fare esempi in merito: ognuno di noi è in grado di citarne a decine. È ovvio che tutti i
sistemi di potere usano l'uno e l'altro dei metodi descritti, secondo le situazioni e le opportunità.
Anche la medicalizzazione del dissenso presenta due aspetti: uno più rozzo e primitivo, l'altro più elegante
e, direi, progressista: se infatti il dissenso è malattia, esso può essere trattato mediante tecniche terapeutiche
o, meglio, con tecniche di medicina preventiva.
La medicina curativa come è noto viene applicata ai malati allorché la sintomatologia è chiara ed evidente;
nel caso specifico si schiaffano in manicomio i dissidenti quando già dissentono. È ovvio che tale tecnica
presenta lo svantaggio di arrivare tardi, in quanto permette al malato di sviluppare in maniera evidente e
talora plateale i propri "disturbi", spesso in scritti e interviste cui viene data una deplorevole e
controproducente pubblicità all'estero o, peggio, all'interno.
Qualora invece si riesca, applicando i metodi di prevenzione più moderni, ad intervenire sugli individui o
sui gruppi a rischio prima che si manifestino i sintomi del male, sarà possibile ottenere la guarigione o, nei
casi più gravi, l'isolamento o l'eliminazione di tali soggetti, prima che diffondano il morbo in forma epidemica.
Il dissenso è infatti una malattia mentale che, cosa inusuale, tende a diffondersi per contagio.
Naturalmente il problema consiste appunto nell'identificare i soggetti e i gruppi a rischio, per lo meno a
livello di diagnosi precoce. In questa fase non si può ancora parlare di dissenso in atto, poiché la malattia non
è ancora esplosa ed i futuri pazienti non contestano né dissentono in modo palese. Tuttavia, in qualche modo e
senza volerlo, essi presentano alcune caratteristiche peculiari, che possono essere messe in evidenza con
tecniche opportune e si identificano di fatto con determinate anomalie del carattere e del comportamento,
talora ben individuabili (i soggetti "disturbano"), talora meno chiare ma comunque identificabili da parte di
tecnici esperti. In altri casi, infine, il rischio è puramente socioambientale (figli di militanti politici, di
immigrati, di emarginati, illegittimi, ecc.), e in tal caso può venire applicata una vera prevenzione primaria.
Per i motivi che abbiamo detto, è chiaro che il trattamento preventivo del dissenso sarà utilizzato
maggiormente da quei regimi che devono rendere conto alle opposizioni e agli elettori del proprio operato, e
comunque dove esistano strumenti di informazione non completamente controllati dal potere e strutture di
controllo non sistematicamente corruttibili.
Quando conviene intervenire? Secondo i canoni più corretti della prevenzione od più presto possibile, cioè
sui bambini. L'intervento sui bambini presenta parecchi vantaggi pratici. Innanzi tutto lo stato li tiene in
ostaggio nelle scuole per gran parte dell'anno, e può quindi disporne con relativa facilità. Inoltre, con lo
stesso mezzo (scuola dell'obbligo), è possibile controllare, volendo, tutti i soggetti. In terzo luogo lo stato
dispone d” una fitta rete di agenti regolarmente stipendiati (insegnanti, équipes ps”comedico-pedagogiche,
operatori sociali ecc.) in grado di segnalare le anomalie di comportamento che si è scelto di mettere in
evidenza. In quarto luogo i bambini ignorano i loro diritti e non sono in condizioni di difendersi. Infine i
genitori, tranne rare eccezioni, aderiscono con entusiasmo ad ogni tipo di indagine "scientifica" volta a
difendere la "salute" dei figli. E quanti sono i padri e le madri preoccupati per i comportamenti "strani" dei
figli? I bambini, si sa, spesso "disturbano", si agitano, gridano, rompono oggetti, fanno "stranezze" di vario
genere. Ed ecco dei medici, degli scienziati che confermano che queste "stranezze" possono essere i primi
sintomi di una grave malattia il cui sviluppo ulteriore può venire bloccato dalla scienza. Come non approvare,
anzi come non richiedere l'intervento? Per di più esiste un altro motivo per cui la collaborazione dei genitori è
praticamente sempre assicurata. Negli ultimi decenni c'è stata una rapida evoluzione nelle teorie pedagogiche:
dalla repressione pura e semplice si è passati, sotto l'influenza della psicoanalisi, a ricercare nella famiglia e
nei genitori l'origine delle turbe del comportamento dei bambini. Questo ha creato in qualche generazione di
genitori un senso di colpa che invano si è tentato di esorcizzare con varie forme di permissivismo. In un
secondo tempo sono state identificate, più in generale, le colpe dell'ambiente, in particolare della scuola, e il
senso di colpa e di frustrazione si è esteso agli insegnanti. Ed ecco che nell'ultimo decennio la Scienza è stata
in grado di spazzare via colpe e frustrazioni: i bambini non "disturbano" a causa dell'incompetenza e
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dell'incapacità di genitori e insegnanti a ricoprire il proprio ruolo ma, più semplicemente, perché sono
"malati". E questa malattia, qualora non venga prontamente curata, costituisce un fattore di rischio grave per
quell'altra malattia del giovane e dell'adulto chiamata "dissenso", che è la fonte del disordine che minaccia di
distruggere la società. Il bambino che disturba è lo scioperante, il contestatore, autonomo e non, di domani,
portatore dei germi del Caos. E, ciò che più conta, nessuno ha colpa di questo: le malattie, si sa, fanno parte
della condizione biologica dell'uomo, che è dominio di esperti, scienziati e medici, non di genitori o
insegnanti.Con questa dichiarazione di non colpevolezza dell'ambiente familiare e sociale la scienza, cioè di fatto il
potere che la controlla, si è assicurata senza problemi il più ampio consenso ed ha ricevuto licenza di
intervenire sui bambini, trasformati in cavie senza difesa alcuna per un grandioso esperimento di
normalizzazione su scala mondiale.
In tal modo il sogno di tutte le strutture autoritarie e di tutti i sistemi organizzati — l'eliminazione del
disordine — sta per diventare realtà: le nuove tecniche psicodiagnostiche permettono di identificare i sintomi
latenti o iniziali del dissenso, o addirittura l'ambiente sociale in cui è oggi in grado di produrre i farmaci che
impediranno ai soggetti "a rischio" di diventare dei nemici (coscienti o meno) delle strutture di potere. Una
tale metodologia, applicata a scala di una o più generazioni, può rivelarsi uno dei cambiamenti più radicali
della storia umana.
Questo tipo di intervento di massa, generalizzato a tutti i bambini, presenta per chi lo utilizza parecchi
vantaggi accessori: innanzi tutto costruisce, come si è detto, l'approvazione e il consenso di coloro (genitori,
insegnanti), che dovrebbero parlare in favore delle vittime; contemporaneamente contribuisce a rafforzare il
mito medico, più volte denunciato, secondo il quale ogni difficoltà rappresenta un problema singolo,
individuale, che può essere risolto a livello personale mediante farmaci, psicoterapia o altri interventi tecnici;
infine, con la scusa della necessità (a protezione dei soggetti!) di un corretto follow-up scientifico, permette
l'istituzione (in nome della prevenzione!) di una schedatura individuale dei bambini e dei giovani definiti "a
rischio", cioè in pratica dei futuri disturbatori e dissidenti. Naturalmente non esiste alcuna prova scientifica
che questi soggetti diventeranno realmente "nemici della società", tuttavia la scheda sarà di per sé sufficiente a
marchiarli per il futuro. E poiché il loro comportamento costituisce il sintomo della malattia, tutte le loro
azioni verranno catalogate in termini di anormalità, dalla "iperattività" alla partecipazione,a manifestazioni,
dal portare i capelli troppo lunghi all'uso di cannabis, dal rifiuto della logica della produzione al piccolo furto.
Una tale schedatura, spacciata per "anagrafe sanitaria" e agevolmente consultabile grazie all'impiego del
calcolatore, sarà ovviamente di grande aiuto alla polizia e anche ai datori di lavoro, che ne terranno conto per
le assunzioni. Un. uso siffatto di queste "cartelle cliniche" è già ampiamente documentato e costituisce il
principale, se non l'unico, risultato del diligente lavoro degli operatori sociosanitari.
Mediante la traduzione della terminologia sociale o politica in quella psicologica e medica, nessun diritto
viene violato: non si tratta di una raccolta di informazioni personali ma di una "anamnesi" in funzione della
scelta di una "terapia". Il gioco è fatto: la medicina preventiva, che le autorità sono cosi restie ad applicare
alla protezione della salute dei lavoratori e che è ancora ignota alla maggior parte dei medici, è già stata
sottratta al controllo del cittadino per diventare, a suo danno, un potente strumento di controllo sociale,
interamente gestito dai tecnici.
Questo sforzo di razionalizzazione si incontra d'altra parte con un sentimento che va diffondendosi in
maniera più o meno subdola nella nostra cultura: la paura dei bambini. In una recente corrispondenza dagli
USA, Furio Colombo ha segnalato la grande incidenza di questo fenomeno in quella nazione. Con una
frequenza sempre maggiore i bambini vengono presentati attraverso il cinema e la letteratura come creature
atipiche o addirittura malvage e diaboliche (si pensi alla serie di film nati sulla scia dell'Esorcista, oppure
come pervertiti viziosi e amorali in pellicole e disegni pornografici di larga diffusione. Intanto numerosi
cittadini vengono invitati a lasciare i sobborghi residenziali dove vivono, perché hanno avuto figli violando
cosi le clausole contrattuali: cartelli del tipo "niente cani e bambini" sono tutt'altro che rari. Nello stesso
tempo il problema dei bambini maltrattati e seviziati da genitori e parenti fino a provocarne la morte sta
assumendo proporzioni di tale entità in tutti i paesi "avanzati", che sull'argomento sono usciti in pochi anni
parecchi trattati e manuali oltre ad un periodico trimestrale pubblicato da un importante editore scientifico.
Forse a causa dell'assillante propaganda "siamo in troppi", correlata alla temuta riduzione delle fonti
energetiche e alimentari, o per il fatto che i bambini persistono a non adattarsi agevolmente al modello di vita
e al tipo di società bene ordinata che tentiamo di proporre, la paura nei loro confronti diventa un sentimento
sempre più esplicito e confessato, cosi che basta veramente poco perché un bambino venga definito come
"strano" o "diverso".
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Mentre la documentazione sulla criminalizzazione del dissenso comincia a diventare ampia e largamente
nota, quella sulla medicalizzazione è ancora scarsa e praticamente ignorata o sottovalutata dal pubblico. La
scienza, si sa, viene mantenuta fuori del controllo della gente, e i dibattiti avvengono tra esperti su riviste
specializzate o nel corso di congressi altamente tecnici. Un dissidente incarcerato (specie se in una nazione
politicamente non affine) può trovare chi lo difenda; un paziente "curato" ha invece più difficoltà a trovare
sostenitori: e se fosse davvero matto o pericoloso?
Questo libro costituisce una delle rare divulgazioni documentate di quanto abbiamo detto. Attraverso le sue
pagine assistiamo alla fabbricazione di una "malattia" (il "danno cerebrale minimo" o MBD) nella quale viene
ipotizzata una lesione organica del cervello (mai dimostrata) a spiegazione di ogni tipo di comportamento
deviante. Il bambino "malato" è generalmente "iperattivo" (cioè non sta fermo, si agita) e presenta "difficoltà
di apprendimento"; egli può tuttavia essere anche "ipocinetico", cioè muoversi troppo poco. Tra gli altri
"sintomi" troviamo la tendenza al mancinismo, la goffaggine, le difficoltà in aritmetica, la mediocre abilità nel
disegnare, il facile affaticamento, un cattivo rapporto coi compagni, succhiarsi il pollice, mangiarsi le unghie,
il sonno leggero o profondo in modo anormale, la sfacciataggine, lo sviluppo fisico precoce (o ritardato),
l'eccessiva sensibilità, una tendenza all'aggressività nei confronti delle autorità o, viceversa, un carattere
troppo dolce e remissivo... A seconda dei vari schemi proposti dagli esperti i sintomi variano di numero e di
qualità: in alcune scuole "efficienti" è stato possibile riscontrare qualche "sintomo" in tutti i bambini
esaminati.
La divulgazione di questa "malattia" attraverso le riviste, i giornali e la televisione ne ha reso noti i
caratteri alla maggior parte della gente, che ha cominciato a preoccuparsi: quanti bambini sono infatti esenti
dai disturbi elencati? Sono sorte cosi numerose associazioni di genitori che chiedevano che i tecnici e le
autorità facessero qualcosa per "curare" i loro figli. E la risposta della scienza e del potere è stata pronta e
immediata: da una parte l'industria farmaceutica (in testa la CIBA e la Abbott) ha buttato sul mercato
psicofarmaci miracolosi; dall'altra medici e psicologi si sono mobilitati, attratti dalla malattia alla moda e
dalla opportunità di ottenere sovvenzioni e possibilità di carriera. In tal modo case farmaceutiche e scienziati
hanno contribuito a sistematizzare e a definire i limiti della "malattia" ed a suggerire il trattamento, da quello
farmacologico col Ritalin-CIBA a quello drasticamente "preventivo", proposto dalla psichiatra Camilla
Anderson in una serie di conferenze di successo: la sterilizzazione dei bambini MBD...
Generalmente i genitori sono ben lieti di vedere dispiegato un simile impegno per la salute dei loro
bambini, tanto più che sotto l'azione degli psicofarmaci questi smettono effettivamente di "disturbare". Se
d'altra parte padri e madri sono in qualche caso perplessi, e la stessa scuola, a costringerli, segnalando che,
ove non vi sia consenso al "trattamento", i bambini non verranno accettati alle lezioni. Risultato: circa un
milione di bambini forzatamente "drogati" con psicofarmaci, che ne modificano radicalmente e forse
definitivamente il carattere, rendendoli docili, conformisti, socialmente accettabili. In altre parole, come dice
uno psicologo, il bambino trattato "funziona meglio come bambino".
E puntualmente dietro al medico compare l'ombra del poliziotto, cioè l'altra faccia del potere. I bambini
"iperattivi", secondo gli esperti, possono essere, e spesso sono, anche "predelinquenti", specie se appartengono
alle classi sociali subalterne. Di qui l'importanza di una accurata schedatura dei soggetti e l'impiego di
poliziotti nelle scuole in qualità di "consulenti". Le schede personali, vietate ai genitori nonostante le numerose
sentenze contrarie a questa, prassi, vengono consultate dalla polizia, dalle agenzie federali e dai datori di
lavoro senza difficoltà.
La possibilità di venire schedato come "predelinquente" è piuttosto ampia. Si giunge talvolta all'assurdo,
come nel caso della proposta di due psichiatri secondo i quali sarebbe possibile individuare i bambini inclini
alla violenza dal modo di pronunciare la lettera "r"... In tal modo un individuo può risultare "predelinquente"
ed essere come tale sorvegliato più o meno discretamente dalla polizia e discriminato sul posto di lavoro, senza
saperlo mai. L'uso della scienza e della medicina permette infatti di passare sopra ai diritti civili dell'individuo
in nome della protezione della società. Questo pericolo è stato del resto segnalato anche in Italia, nel corso
della recente polemica sul ricovero coatto da parte del medico di soggetti "pericolosi", il cosiddetto "fermo di
medicina".
Il libro si avvale di una documentazione ricchissima e di una casistica sconvolgente, a dimostrazione che
quanto abbiamo detto all'inizio non è timore fantascientifico ma realtà in atto. Come dicono gli autori "oggi
centinaia di migliaia di bambini sono assegnati a classi o programmi speciali sulla base di queste
classificazioni o etichette, malgrado la loro imprecisione e la assoluta mancanza di validità. Altri sono curati
con farmaci e altri ancora sono sorvegliati come 'predelinquenti'. In alcune comunità bambini di cinque anni
sono stati inseriti in programmi predelinquenziali patrocinati dal governo federale".
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E in Italia? E il caso di ricordare che nel 1971 Giulio Maccacaro denunciava i risultati di una ricerca,
pubblicata nel 1969 (cronologicamente siamo all'avanguardia), secondo la quale 629 bambini delle scuole
materne di Modena erano stati schedati in base al comportamento. Di questi ben 150 (1 su 41) risultavano in
qualche modo "disturbati". I sintomi? "Aggressività, crisi di collera, isolamento, mutacismo, anoressia
nervosa, vomito, enuresi notturna, encopressià, onicofagia, masturbazione, fobie, sonnambulismo, balbuzie..."
Quanto all'invenzione di "sintomi" non siamo certo indietro rispetto agli USA. E, come in quella nazione, erano
anche qui gli insegnanti (di fatto ringraziati per la "collaborazione") a segnalare gli "anormali". L'esperimento
di Modena continuava col "trattamento" dei bambini mediante uno psicofarmaco (il Neuleptil), col risultato
che i piccoli criminali di 3, 4 o 5 anni diventavano "adattati, socievoli, tranquilli"...
Il commento di Maccacaro potrebbe essere riferito senza variazioni al libro che presentiamo: "Cosi ogni
comportamento che contraddice il modello della conformità riceve un nome; e per ciò stesso diventa malattia
perché la malattia esiste soltanto nel suo nome. Tanto è vero che a rendere credibile un'epidemia di psicosi
infantili può sembrare sufficiente la ricchezza del dizionario psichiatrico. Ma il gioco è fatto: anche la madre
che non si fiderebbe di un pedagogo, si arrende alla suggestione del medico. Al quale e grata per averle
restituito un figlio 'normale': semplicemente amputato di ogni vocazione ad essere 'diverso', cioè se stesso."
Quando Maccacaro denunciò il caso dei bambini cavia di Modena ad un congresso nazionale di
neuropsicofarmacologia, le reazioni degli scienziati presenti rasentarono l'isterismo. E d'altra parte è
probabile che quella denuncia (ed altre analoghe che seguirono) abbia avuto effetto nel ridurre il numero di
"esperimenti scientifici" del genere.
E tuttavia occorre stare in guardia: è difficile che il potere rinunci all'uso repressivo della medicina, e i
bambini continuano ad essere le vittime preferite. I medici e gli psicologi asserviti al potere per desiderio di
carriera, per conformismo, per ignoranza, per convinzioni e pregiudizi personali, sono i peggiori nemici di
quella salute che sostengono di difendere, magari usando il linguaggio "progressista" della prevenzione. Come
osserva Giovanni Berlinguer: "la maggiore distorsione, più lenta e più difficile perciò da correggere, sta
proprio nel fatto che la medicina si è collocata, negli ultimi decenni, più fra le scienze del controllo che fra
quelle del benessere; da questo deriva essenzialmente il suo arretramento fra le scienze e il suo affievolimento
nell'efficacia pratica".
Questo libro costituisce un ulteriore invito alla sorveglianza ed al controllo nei confronti dei tecnici e degli
esperti. Diffidiamo di chiunque pretenda di considerare aspetti del carattere o del comportamento come
"devianze" o "malattia"; degli screenings e degli psicofarmaci di massa; delle schedature individuali o di
gruppo, quale che ne sia la motivazione ufficiale (e in questo senso le schede scolastiche in uso finora, 19111%, sono più che sospette). E riflettiamo ad un altro fatto, che dalla lettura emerge con chiarezza:
"partecipazione" (come "prevenzione") è un termine ambiguo, che sembra ma non è necessariamente
progressivo. Se c'è una cosa che notiamo ad ogni pagina del libro è che negli USA la partecipazione degli
utenti è massiccia: esistono, nel caso specifico, associazioni di genitori e di insegnanti che sovvenzionano
conferenze, stampano riviste e intervengono collettivamente nella gestione della cosa pubblica in modo per noi
tuttora impensabile. E tuttavia non solo la partecipazione non garantisce la protezione dei bambini nei
confronti della normalizzazione obbligatoria, ma, al contrario, essa viene addirittura incoraggiata e indotta
dalle case farmaceutiche e da molti scienziati, o presunti tali, attraverso una campagna di informazioni
parziali, false o scorrette. Sono cosi gli stessi genitori a richiedere che i loro figli vengano drogati perché
diventino "normali". La partecipazione non crea di per sé modelli di comportamento o di vita alternativi a
quelli socialmente accettati, e in questo senso essa è cosa diversa dalla democrazia di base e non appare
sufficiente a garantire un uso della scienza non asservito al potere.
Il nostro dovere è quello di difendere fino in fondo il diritto dei nostri figli a dissentire (anche e soprattutto
da noi) e ad essere diversi (anche da noi). Contro una struttura sociale che tende ad irrigidirsi nel mito
dell'ordine, dell'efficientismo, della tecnologia, della delega agli esperti, il disordine, organizzato o no, può
costituire la sola difesa possibile per le classi subalterne e per le categorie più deboli e sfruttate (bambini,
donne, anziani) dalla logica del capitale.
Giorgio Bert
agosto 1978
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L'INVENZIONE DI UNA MALATTIA
In meno di un decennio, il disturbo si è propagato partendo da una condizione di virtuale oscurità ed è andato
ben oltre le dimensioni di un'epidemia. Non ha un unico nome, non ha sintomi universalmente accettati, nè
caratteristiche anatomiche o biochimiche riconoscibili che possano essere diagnosticate in una clinica o in un
laboratorio, tuttavia si dice che tale disturbo colpisca circa il 40 per cento di tutti i bambini americani, rifletta
un danno organico o chimico del cervello o del sistema nervoso e sia la causa di quasi tutti, se non di tutti, i
problemi pediatrici sia dell'apprendimento sia del comportamento. Il suo nome più comune è "difficoltà di
apprendimento" ("learning disability": LD) ma si trova anche associato, talvolta come un sintomo, al "danno
cerebrale minimo" ("minimal brain dysfunction": MBD) all'"ipercinesi" alle "turbe degli impulsi" ed a un
notevole numero di altre condizioni e "sindromi". Prima del 1965 quasi nessuno ne aveva sentito parlare, ma
all'inizio degli anni Settanta esso dominava l'attenzione di un esercito di pediatri, neurologi e psicologi
dell'educazione, e circa a metà del decennio la teoria pedagogica, le ipotesi mediche, le esigenze psicologiche,
la ricerca farmaceutica e l'opportunità politica si erano fuse con un fervore evangelico, per produrre quello
che è senza dubbio il movimento più potente all'interno — e al di là —dell'educazione contemporanea. Le
incapacità di apprendimento, secondo alcune "autorità" nel campo, sono responsabili di quasi tutti i fallimenti
scolastici, della maggior parte della delinquenza giovanile, di una larga, parte di matrimoni falliti e,
praticamente, di una buona parte di tutte le altre calamità sociali della vita moderna.
Negli annali dei disturbi socialmente alla moda — la depressione psichica, la gotta, la tubercolosi, la
poliomielite — pochi sono stati cosi dilaganti e nessuno più significativo dal punto di vista politico. Nel 1974,
un numero sempre maggiore di stati programmarono uno screening dell'intera popolazione scolastica nel
campo della difficoltà di apprendimento, richiesero a tutti gli insegnanti di seguire corsi di qualificazione in
tecniche di riabilitazione, e incoraggiarono la richiesta di un certificato professionale per gli specialisti in LD;
l'Ufficio per l'educazione degli Stati Uniti promosse quindici programmi per le difficoltà di apprendimento,
fra i 107 modelli di progetti educativi selezionati per incrementare l'emulazione nazionale; l'ACLD
(Association for children with Learning Disabilities: Associazione per bambini con difficoltà di
apprendimento) che venne fondata solo nel 1964, raccolse 5.500 partecipanti alla sua assemblea annuale per
ascoltare 480 oratori; la Fondazione americana per la difficoltà di apprendimento, di nuova formazione,
sostenuta con i fondi raccolti ad un campionato nazionale di tennis, lanciò una campagna di informazione
pubblica e istitu” un sistema di recupero dei dati basato sul calcolatore, presso l'Istituto di tecnologia del
Massachusetts, presso cui i genitori potevano richiedere rapide informazioni sui centri di valutazione dell'LD
e sui relativi programmi ed operatori delle loro comunità locali; i membri dell'Associazione nazionale dei
responsabili della scuola elementare si scambiarono ansiosamente opinioni alla loro assemblea annuale su
come preparare alla svelta dei programmi sulla difficoltà di apprendimento; il "Journal of Learning
Disabilities", fondato nel 1967, sali da una tiratura di 7.500 copie nel 1970 ad un elenco di sottoscrizioni che
superava i 15.000 abbonati. In una sola settimana, nel 1974, l'iperattività, il più discusso di quei disturbi
parzialmente sinonimi, fu l'argomento di un'intervista nel programma dell'NBC "Lo spettacolo di oggi", di
una serie di 5 puntate della rete radiofonica del CBS, di udienze presso il Corpo legislativo californiano e di
infiniti incontri e seminari, patrocinati dai sistemi scolastici locali e dai gruppi per la difficoltà di
apprendimento. Nel corso dei programmi radiofonici giornalieri dedicati alla discussione, le madri si
scambiano informazioni sulle diagnosi dei loro figli e confrontano i loro punti di vista su neurologi e
medicine; una di loro telefona alla trasmissione per chiedere all'allergologo se nutrendo il suo neonato con
prodotti Jello lo renderà un iperattivo; un'altra confessa che il suo bambino disadatto all'apprendimento sta
distruggendo il suo matrimonio; una terza si informa se sia proprio necessario dare due pillole di Ritalin al
giorno a suo figlio perché stia seduto tranquillo a scuola. Ci sono poche cifre attendibili relative alla quantità
di danaro, al numero di insegnanti, alle classi e programmi speciali o alla percentuale di bambini che sono
stati effettivamente catalogati come disadatti all'apprendimento. Fra il 1966 e il 1972 i fondi spesi nei
programmi per gli "handicappati" delle scuole governative vennero triplicati, raggiungendo circa i 2 miliardi
di dollari e la somma è stata probabilmente raddoppiata da allora; la maggioranza degli stati fornisce ora una
solida assistenza ai distretti locali per le classi speciali, incluse le classi per i disadatti all'apprendimento.
Tuttavia nessuno sa quanto danaro va specifica mente ai programmi degli LD. L'indeterminatezza dello stesso
disturbo impedisce una classificazione specifica: i fondi provengono da varie fonti-bilanci già esistenti per gli
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"handicappati", bilanci speciali per l'educazione, programmi federali per i ritardati o i soggetti affetti da
disturbi emozionali, finanziamenti statali o locali per i "bambini eccezionali", ed un numero sempre maggiore
di sovvenzioni federali per programmi specifici sulla difficoltà di apprendimento, considerati dall'Ufficio per
l'educazione degli Stati Uniti come modelli per tutti i sistemi. In termini pratici, d'altronde, l'ammontare della
somma non fa una gran differenza; in molti stati il problema dell' "incapacità di apprendimento" è stato
semplicemente incluso nell'inesauribile fondo dedicato agli "handicaps". I bambini sono etichettati, contati, e
spesso segregati, ma non necessariamente "trattati". L'etichettamento è sovente sufficiente per ottenere il
danaro, per marchiare il bambino e per liberare l'insegnante da una persona che considera fastidiosa. (In certi
posti il "disadatto all'apprendimento". L'handicappato emozionale" e 1'"handicappato recuperabile" sono
scartati indiscriminatamente: il problema sta nel metterli fuori della classe e ottenere il danaro.) Vi sono
tuttavia indicazioni ricavate da calcoli basati sulla quantità di adesioni a circa ottocento organizzazioni locali
e di stato per l'incapacità di apprendimento, sull'impressionante aumento dei programmi di addestramento di
insegnanti all'LD, sulle valanghe di libri divulgativi, pubblicati da editori a scopo commerciale, e di articoli di
giornali apparsi su periodici medici ed educativi. A metà degli anni Sessanta, ben pochi bambini prendevano
farmaci psicoattivi per l'LD o l'ipercinesi; da allora in poi, secondo valutazioni attendibili, il numero è
raddoppiato ogni due o tre anni. A metà degli anni Sessanta non esistevano nelle scuole per educatori
programmi di qualificazione per LD, non c'era nessun corso preparatorio durante l'anno scolastico e nessun
centro di lavoro estivo; nel 1974, essi erano centinaia. A metà degli anni Sessanta, gli articoli su riviste a
proposito della difficoltà di apprendimento e sui disturbi collegati apparivano alla media di forse tre o quattro
per anno; nel 1973 e nel 1974, essi apparivano alla media di tre o quattro per settimana, come risultato di
indagini sui programmi di ricerca condotte presso quasi tutte le maggiori università americane e sostenute da
circa 10 milioni di dollari l'anno tramite sovvenzioni federali e private.1 In una "Previsione per il 1970"
pubblicata nel 1969, la rivista ufficiale dell'Associazione nazionale per l'educazione prevedeva che alla fine
del decennio "gli educatori assumeranno una responsabilità formale per i bambini al momento stesso in cui
raggiungeranno i due anni di età.
Lavoreremo con i genitori dei bambini ed offriremo ogni sorta di servizi, come esami medico-dentari ed altri
con simili, l'identificazione precoce degli handicappati e degli svantaggiati, interventi sulle carenze della
nutrizione, e — ciò che più importa — un avvio precoce agli enti sociali consorziati per il trattamento dei
problemi psicocomportamentali".2 Negli ultimi due anni, diceva Jean Peterson all'Ufficio nazionale
dell'ACDL di Pittsburgh, il piano "è veramente decollato".
Ufficialmente, secondo un rapporto dell'Istituto nazionale per gli attacchi apoplettici e le malattie
neurologiche, i bambini disadatti all'apprendimento sono quelli che "mostrano un disordine in uno o più
processi psicologici basilari che includono la comprensione o l'uso del linguaggio scritto o parlato. Questi
disturbi possono manifestarsi con disordini dell'udito, del pensiero, della parola, della lettura, della scrittura,
della pronuncia o del calcolo. Essi includono qualsiasi condizione che sia stata attribuita ad un handicap della
percezione, a lesione cerebrale, a danno cerebrale minimo, a dislessia, ad afasia evolutiva, ecc.
Essi non includono problemi dell'apprendimento dovuti essenzialmente a difetti visivi, auditivi o motori, a
ritardo mentale, a disturbi emozionali od a svantaggi ambientali."3
L'incapacità di apprendimento, in altre parole, è una malattia per difetto, è quel disturbo medico che può essere
attribuito a quei bambini che non hanno particolari problemi, ma che non imparano a parlare o a leggere come
gli adulti pensano che dovrebbero. Quei bambini che non sono ritardati mentali, non hanno anomalie fisiche e
non sono sufficientemente "disturbati" dal punto di vista emozionale per essere assegnati alle solite classi per
una educazione speciale, ma che sono abbastanza difficili, malgrado tutto, da ostacolare la routine del normale
programma scolastico. Siccome in quel programma sono richiesti due requisiti fondamentali, una riuscita
scolastica accettabile ed un comportamento acquiescente, ci sono anche due categorie basilari di bambini
disadatti all'apprendimento.
1
1 La stima è basata sulle fotocopie dei sommarie dei finanziamenti del progetto di ricerca compilati dal Smithsonian Science
Information Exchange- la maggior parte di questi sommari include i finanziamenti, anche se alcuni non li includono. I dati sul numero
dei bambini in trattamento con psicofarmaci sono basati su quelli discussi nel capitolo terzo, nota 2.
2
H. e J. SHANE, Forecast for the 1970s, in "Today's Education", gennaio 1969. Le idee vennero in seguito incorporate nella proposta
fatta da James E Allen Jr., commissario per l'Istruzione negli Stati Uniti, alla National School Boards Association, discussa nel
capitolo primo.
3
National Institute ot Neurological Diseases and Stroke, Central Processing Dysfuncrion in Children: A Review of Research,
Monograph n. 9, USGPO, 1970. Questa definizione fu formulata sul primo rapporto annuale del National Advisory Committee on.
Handicapped Children nel 1968.
138
Quelli che, malgrado un ambiente sociale esemplare, una famiglia della media borghesia e malgrado un
quoziente di intelligenza adeguato, deludono le aspettative pedagogiche, comportandosi in modo mediocre, in
uno o più campi dell'insegnamento, ottengono etichette LD di tipo "puro" — dislessia, disgrafia, afasia, agnosia
— a seconda di quello che il sistema considera come area specifica del problema.
Quelli che disturbano gli insegnanti con un comportamento generalmente inaccettabile in classe, sono etichettati
come "iperattivi" o "ipercinetici". Se sono bambini che persistono semplicemente a comportarsi in modo
molesto — dimenarsi sulle loro sedie, fare la stessa domanda ripetutamente, battere un piede — la descrizione
potrà essere più astratta: "attenzione limitata ad un breve spazio di tempo", "impulsività", "facilità alla
distrazione", "ripetitività". Quelli che mostrano un certo numero di questi sintomi otterranno normalmente le
etichette più ampie, le classi speciali, o il suggerimento da parte di un insegnante o di uno psicologo scolastico
di farsi portare da un dottore per avere delle cure. Talvolta le due categorie si sovrappongono, sebbene almeno
uno studio, condotto dall'Università californiana di Berkeley, indichi che i bambini "iperattivi" rientrano nella
categoria di normale punteggio, nella lettura e nella matematica, con almeno un terzo classificato al livello
superiore per la lettura.4 Malgrado tali osservazioni, i bambini "iperattivi" ottengono spesso voti bassi in
conseguenza del loro comportamento.. Anch'essi sono etichettati: ogni abitudine fastidiosa è stata oramai
onorata di una definizione pseudo-scientifica. Nella maggior parte dei casi, l'etichetta entra a far parte della
scheda permanente.
Data la profusione di etichette, diagnosi e disturbi, e l'evanescenza dei termini, non è certo sorprendente il fatto
che non ci sia nessun accordo sul numero di bambini definiti sofferenti di difficoltà di apprendimento. Le
valutazioni si estendono da un trascurabile tre per cento a pili del 40 per cento — qualcosa come oltre 15
milioni di individui — e le cifre sono in aumento. Uno studio approfondito del 1909, patrocinato dal governo
federale e spesso citato dalle autorità del campo, fa ammontare la percentuale al 15 per cento.5 Nel 1972, Eric
Denhoff, un pediatra neurologo e portavoce sull'argomento della difficoltà di apprendimento, rifer” che "almeno
il 10 per cento" dei bambini di provenienza medio-borghese sono disadatti all'apprendimento e "per quel che
riguarda i bambini provenienti da famiglie a livello socio-economico più basso, la percentuale è molto più alta".
Denhoff fece notare che ci seno "segni evidenti che il numero dei bambini con problemi dell'apprendimento è in
aumento", 6 e, nel 1974, gruppi locali dell'Associazione per bambini disadatti all'apprendimento e cliniche per
LD, come il Centro per le facilitazioni educative di Chicago, dichiararono che ogni cinque bambini uno è
disadatto all'apprendimento. Nel contempo, l'incidenza dell'ipercinesi, che sta emergendo come la più comune
delle "difficoltà di apprendimento", ha fruito di un "boom" altrettanto notevole. Nel 1971, una relazione del
dipartimento dell'HEW degli Stati Uniti, a proposito dei farmaci stimolanti, valutò che il 3 per cento della
popolazione in età scolastica soffriva di moderata o grave ipercinesi. Nel 1974, altre valutazioni pressoché
ufficiali portavano la cifra a un 15 per cento.7 Qualunque sia la cifra usata, e molte sono assai superiori al 15 per
cento, c'è un generale punto d'accordo sul fatto che i maschi superano le femmine di circa quattro a uno. Le
spiegazioni di una simile proporzione sono incerte quanto la definizione del disturbo stesso: i maschi sono
neurologicamente più immaturi, sono geneticamente differenti; sono più attivi. La probabilità che tutto ciò
possa essere determinato dalla cultura non sembra abbastanza seria per condurre gli esperti a rivedere i loro
punti di vista.
Non c'è nulla di nuovo nel fatto che insegnanti o genitori si lamentino delle difficoltà sia
nell'insegnamento, sia nel controllo dei bambini. Gli insegnanti sono tradizionalmente dell'idea che circa un
quarto od un terzo dei loro studenti saranno degli sconfitti nel campo scolastico, e le mamme si sono da sempre
lamentate che i loro bambini non sanno stare seduti tranquilli. Nel 1958 per esempio, uno studio, condotto su un
gruppo rappresentativo di madri, dimostrò che metà di loro consideravano i loro bambini come troppo attivi e
dieci anni dopo un'indagine dell'intero sistema scolastico di Des Moines, Iowa, mostrò che gli insegnanti
4
N. M. LAMBERT, 3. H. SANDOVAL., W. YANDEM. e M. WINDMIIXER, Factors Associated wilh the Identification and Treatment of Children wilh
Hyperactiva-Learning Behavior Disorders: Report of the Pilot Investigation, 1 novembre 1973. Ricerca condotta nell'Università di California,
Berkeley, School of Educationcon un grani del NIMH. Nel 1965 uno studio trovò che i punteggi dei testsd'intelligenza non erano correlati cor. il
livello di attività dei bambini in etàprescolare in un ambiente scolastica: E, E. MACCOBY, E. M. DOWLBY, J. W. HAGNE e R. BEGERMAN, Activity
Level and Functioning in Normal Preschool Children, in "Child Development", vol, 36, 1965, pp. 761-770.
5
. H. MEIEK, Prevalente- and Characteristics of Leaming Disabuities Found in Second Grade Children, in "Journal of Learning Disabilities", vol. 4,
1 gennaio 1971.
6
E. DENHOFF, P, K. HAINSWORTH e M. L. HAINSÌVORTK. The Child at Risk for Learning Disorder: Can He Be Identifìed During the First Year of
Life, in "Clinical Pediatrics'', vol. II, 3, marzo 1972.
7
I dati dell'HEW sono tratti dal Report on the Conference on the Use of Stimulant Drugs in the Treatment of Behaviorally Disturbed
Young Children, Office of Child Development & Office of the Assistane Secretary for Health and Scientific Affairs, HEW, gennaio
1971. La percentuale più elevata è stata usata in molti luoghi, tra cui il rapporto del direttivo al senatore Albert S. Rodda, presidente
dell'Education Committee dello stato della California su Hyperkinesis Control in State Elementary Schools, luglio 1974.
139
ritenevano che il 53 per cento dei ragazzi e il 30 per cento delle ragazze avessero problemi collegati ad un
eccesso di attività.8 Ciò che è nuovo tuttavia, è questa moda dilagante di attribuire problemi comuni ad
anomalie neurologiche e la sempre più frequente descrizione di questi "bambini disturbati" come vittime di una
sindrome medica chiaramente definita. A Cranston, Rhode Island, gli Harrington ricevono una nota
dall'insegnante della scuola elementare del figlio che avverte che se Danny non riceverà cure mediche per la sua
iperattività, il ragazzo sarà espulso dalla scuola. Su consiglio del pediatra di famiglia, che pensa che i farmaci
non siano necessari, gli Harrington rispondono che Danny è in cura — anche se in effetti non lo è. Una
settimana dopo, l'insegnante invia un'altra nota ringraziando la famiglia per la cooperazione e spiegando che il
comportamento di Danny è molto migliorato. In un'altra comunità, i genitori ricevono una nota dall'infermiera
della scuola: "Vostro figlio è iperattivo. Non sa star seduto tranquillo a scuola. Per favore fatelo visitare da un
medico." I genitori mandano il bambino in un'altra scuola, con un altro insegnante e il "problema" non sarà mai
più menzionato. Ad Oakland, in California, una madre spiega che suo figlio è stato in cura per tutto l'intero
ciclo elementare, salvo che nella quarta classe dove, essa dice, "aveva un buon insegnante". A Baltimora, un
gruppo di bambini viene inviato in una clinica per il trattamento di uno stato ipercinetico; l'equipe di dottori e
psicologi che visita i bambini non si sente, tuttavia, di confermare che 1'87 per cento di bambini, cosi definiti
dalle loro scuole, siano in realtà ipercinetici. E infine, in un sobborgo di Cleveland, un ragazzo trasferito in una
classe per disadatti all'apprendimento si comporta perfino peggio, secondo il giudizio degli insegnanti, di
quanto non facesse nella classe regolare; per disperazione, il ragazzo viene mandato in un'altra classe regolare e
comincia a leggere. Dal momento che non esistono definizioni precise, ne sintomi generalizzabili, ne linee
direttive per la diagnosi, non c'è modo di controllare la frequenza di tale infermità. Qualsiasi valutazione è
buona, come qualsiasi altra. Geraid D. La Veck, direttore dell'Istituto nazionale per lo sviluppo e la salute del
bambino, osservò, ad una conferenza medica nazionale sui disordini dell'apprendimento, che metà della
popolazione scolastica di Newark, New Jersey, soffriva di qualche forma di difficoltà di apprendimento. Fra gli
ispano-americani e gli ospiti delle prigioni federali, egli riferiva, le cifre sono anche più alte.9
2
Il movimento che si occupa delle difficoltà di apprendimento trae la sua dottrina da un nucleo primitivo
di teorie medico-educative, rivedute ed ampliate, per venire incontro alle necessità politiche e sociali di
un'epoca disperatamente alla ricerca della spiegazione di un problema classico e di un surrogato scientifico
all'etica superiore ed alla bacchetta del maestro. Fino alla seconda guerra mondiale i bambini che non si
comportavano bene a se erano quasi universalmente considerati anormali sia la volontà sia nel carattere:
erano cattivi, pigri o capaci o, se lavoravano sodo e ancora fallivano, venivano eufemisticamente descritti
come lenti. Negli anni Cinquanta le scuole scoprirono la psicologia e la psicanalisi freudiana, finanziarono dei
gruppi di psicologi e cominciarono ad attribuire ogni fallimento ad "handicaps emozionali" ad "ostacoli della
lettura" od ai padri autoritari. Negli anni Sessanta, dopo la scoperta dei poveri e dei negri, i motivi di
fallimento furono attribuiti agli effetti della discriminazione e dello "svantaggio culturale", e si decise di
prescrivere come rimedio un'educazione compensativa.
A metà degli anni Sessanta, tuttavia, i problemi del fallimento, in particolari gruppi di bambini, erano stati
assorbiti in quello che divenne — più nella retorica che nei fatti — un movimento di riforma quasi
universale. Spinto dalla pressione di gruppi minoritari, di critici radicali, di insurrezioni dei genitori e di
rivolte degli studenti, e stimolato da un improvviso afflusso di fondi federali provenienti dalla "Legge
sull'istruzione elementare e secondaria" (ESEA) e dall'Ufficio delle Opportunità economiche,
l’establishment" educativo cominciò a discutere 1° sperimentazione e la riforma pianificata — riforma per gli
intelligenti, per i lenti, per i medio-borghesi, per i poveri, per gli handicappati: scuole aperte, scuole inserite
nei grandi magazzini, scuole senza pareti, apprendimento in collaborazione, insegnamento in gruppi paritari,
progetti multidisciplinari, didattica di gruppo, insegnamento non autoritario programmi con mezzi di
comunicazione multipli, istruzione individualizzata. Ci sarebbe stato un programma in grado di occuparsi di
qualsiasi minoranza ed un sistema di educazione abbastanza flessibile da adattarsi ad ogni tipo, attitudine ed
interesse. Il fatto rimarchevole era che il sistema, non l'individuo, rappresentava il bersaglio delle riforme.
8
R. LAPOUSE e M. A. MONK, An Epidemiologie Study of Behavior Characteristics in Children, in "American Journal for Public
Health", vol. 48, 1958; e F. B. STONE, M. A. WILSON, M. E. SPENTE e R. C GIBSON, A Survey of Elementary School Children's
Behavior Problems, saggio presentato all'incontro annuale dell'American Orthopsychiatric Association, New York 1969.
9
Learning Disorders in Children: Report of the Sixtv-First Ross Conference un Pediatrie Research, Ross Laboratories. Columbus
(Ohio) 1971, pp. 24-25,
140
Con la fine del decennio, tutto era finito, l'umore nazionale era cambiato, i finanziamenti scolastici e
l'aumento delle tasse non furono votati, ed il danaro federale cominciò ad esaurirsi. Gli stessi genitori, che una
volta avevano richiesto corsi di studio impegnativi ed insegnanti migliori, si lamentavano ora del disordine e
della violenza; gli amministratori che avevano parlato coraggiosamente — anche se con qualche riluttanza —
di riforma, tendevano ora a far quadrare i bilanci, a incoraggiare nuove richieste di ordine e disciplina, a
rispondere ad una nuova serie di attacchi da parte dei genitori, che domandavano perché, dopo tutte quelle
promesse e tutti quei soldi, i loro bambini non sapevano ancora leggere. La pressione, da parte delle varie
comunità, era come sempre basata su considerazioni economiche: tenete basso il bilancio, fate rigar dritto i
bambini ed insegnate le cose fondamentali. Ciò risultò, tuttavia, abbastanza difficile. Benché i programmi
degli anni Sessanta fossero stati modificati o completamente trasformati, lo spirito critico del decennio
precedente aveva definitivamente screditato la retorica e l'ideologia della scuola tradizionale: nella maggior
parte dei sistemi la punizione corporale, benché spesso permessa, era considerata con sospetto,
l'apprendimento mnemonico restava inefficace per molti bambini, i tribunali avevano cominciato ad imporre
dei rudimentali modelli di procedimenti legali per i trasferimenti e le sospensioni scolastiche, e lo spirito
conservatore del diciannovesimo secolo, benché ancora applicato alla lettera in un buon numero di scuole,
appariva sgradevole alla maggior parte dei genitori. Si cercava qualcosa di più moderno, di più scientifico,
qualcosa che potesse sostituire i giudizi sul carattere (che si riflettevano sui genitori e sulla razza) con
qualcosa di più clinico e di meno personale. La soluzione si evolveva quasi organicamente partendo dalle
esperienze degli anni Sessanta. Gli argomenti a favore di una "partenza avvantaggiata" e dei programmi per la
prima infanzia erano stati basati anch'essi sulla supposizione che l'intervento fosse particolarmente efficace
nei primi anni di vita del bambino. I vari studi condotti nel contesto di quei programmi parevano dimostrare
che una gran parte di bambini, appartenenti a gruppi di minoranza, soffrivano di disturbi di vario tipo, mai
diagnosticati prima e che, in certi casi almeno, condizionavano il andamento scolastico. Prima della fine del
decenni erano sviluppati dei progetti di screening su vasti strati della popolazione, non solo per la tubercolosi,
la denutrizione e la carie dentaria, ma anche per una varietà di difetti neurologici che avrebbero potuto essere
causa un'inadeguata assistenza perinatale o da un insufficiente interessamento medico durante i primi anni di
vita. Nel medesimo tempo, i genitori della media borghesia, che non gradivano il fatto che le difficoltà
scolastiche dei loro bambini fossero attribuite a problemi emozionali, cominciarono a premere per ottenere
una diagnosi più soddisfacente e (si sperava) più utile. La definizione di disadatti all'apprendimento apparve
come una soluzione ideale; implicava che il bimbo o i genitori fossero marchiati, manifestava implicazioni
razziali e suggeriva un disturbo che era il corollario metaforico di una imperfezione elettronica — un
impianto difettoso nella corteccia o nel sistema nervoso centrale — e perciò moderno, come i Laboratori Bell.
Il bambino non era malato; era semplicemente disadattato, fisicamente e psicologicamente, e perciò incapace
di soddisfare le richieste di quelli che erano considerati di nuovo, sin dall'inizio degli anni Settanta, una classe
ed un programma di studi perfettamente accettabili. Ora sarebbe stato il bambino il bersaglio della riforma.
La ricerca era stata portata avanti fin dall'inizio del secolo, e pur essendo stata spasmodica nei primi anni, e
benché si fosse talvolta trovata al confine con la semplice frenologia, essa aveva, negli anni Sessanta,
cominciato a produrre una considerevole mole di letteratura. Già 1902, un medico di nome George F. Still
individuò un nesso fra un "difetto morboso di controllo morale nei bambini" ed alcune malattie come
l'epilessia, il tumore cerebrale e la meningite,10 e nel 1937, in un libro intitolato. Reading, Writing and Special
Problems in Children, un neurologo di nome Samuel Torrey Orton collegò vari problemi del linguaggio
(afasia) in individui affetti da lesione cerebrale, con particolari settori del cervello.11 La cecità verbale
(alessia) era provocata da una lesione al lobo parietale nella regione posteriore del cranio; la sordità verbale
(afasia auditiva) da una lesione nel lobo temporale inferiore, e cosi via. Orton ipotizzò che le stesse
"sindromi" in bambini peraltro intelligenti indicassero un danno cerebrale consimile. I ritardi e i difetti nello
sviluppo di linguaggio sarebbero derivati, secondo lui, dall'impossibilità dei bambini di stabilire una
"superiorità cerebrale unilaterale", cioè la predominanza totale di una parte del cervello, e di una "mano
dominante". Egli preferiva i destri , mancini, ma diceva che il totale controllo di entrambe le.mani avrebbe
curato problemi come la balbuzie, la goffagine ed una scrittura mediocre. Orton era un pioniere — il pioniere
— ed il suo lavoro contiene in forma embrionale tutti i presupposti sui quali si basa la teoria attuale dell'LD:
la diagnosi medica basata totalmente sul comportamento scolastico e sul rendimento nello studio, la
convinzione che un ragazzo della nona classe, con un quoziente d'intelligenza superiore alla media ed un
10
11
G.F. STILL …
S.TORREY ORTON
141
risultato nella lettura superiore alla media, ma con un punteggio pari soltanto a quello della quinta classe
nell'ortografia, soffra di una sindrome patologica; l'idea che il risultato scolastico nel leggere, nello scrivere,
nel compitare e nell'aritmetica debba essere parallelo e che non possa esservi rendimento in una singola
materia inferiore a quello delle altre; ed una fiducia illimitata nel potere del test per il quoziente d'intelligenza
per valutare l'innata capacità intellettuale. Orton ricordava ai suoi lettori che i suoi soggetti disadatti
all'apprendimento non avevano alcun'altra ragione per giustificare il loro fallimento scolastico, se non un
danno cerebrale, perché essi erano "bambini di intelligenza superiore [...] provenienti da famiglie educate e da
buone scuole."12 Molto opportunamente, Orton è venerato nel movimento come il padre fondatore. Tre anni
prima che apparisse il libro di Orton, un gruppo di ricercatori che scrivevano sul "New England Journ of
Medicine" cominciarono a stabilire un rapporto fra i problemi di comportamento in classe e le difficoltà
neurologiche. In un articolo intitolato: "L'impulso organico una sindrome ed un'esperienza di origine
cerebrale", essi fecero notare che una sindrome comportamentale deviante, .che includesse l'ipercinesi, la
tendenza alla distrazione l'attenzione di breve durata, l'impulsività ed una mediocre coordinazione, sintomi
che sovente apparivano come conseguenza dell'encefalite, poteva anche essere osservata in persone di cui non
fosse notata alcuna lesione o malattia cerebrale. Essi chiamarono la sindrome "impulso organico" ("organic
driveness") — il primo dei quaranta nomi strani che furono attribuiti a tale comportamento – e conclusero che
essa era determinata, dal punto di vista medico, da una disfunzione del sistema nervoso centrale.13
Gran parte delle prime ricerche sull'argomento furono condotte su individui con danni organici, o su
altri pazienti istituzionalizzati che soffrivano di anomalie dimostrabili clinicamente; dal momento che forme
simili di comportamento potevano essere talvolta osservate in altri individui (che non mostravano alcun
segno di lesione organica), le sindromi di questo tipo furono incluse per analogia. Nel 1947, Alfred A.
Strauss, direttore di una scuola per bambini affetti da lesioni cerebrali, rifer” che tali bambini (la maggior
parte dei quali "anomali mentali" con gravi segni di patologia) rivelavano un comportamento tipico —
imperniato sull'iperattività — che poteva essere fatto risalire a lesioni o malattie subite durante il periodo
perinatale, cioè nei mesi che avevano preceduto o immediatamente seguito la nascita.14 Nel 1955, Strauss, in
collaborazione con Newell C. Kephart, allargò il concetto includendo: "cosiddetti bimbi 'normali' con lesione
cerebrale” il cui comportamento ed i cui problemi di apprendimento suggerivano l'idea di una lesione
cerebrale che non poteva essere definita: non c'era alcuna storia di malattia perinatale, e nessun segno di
danno organico. La diagnosi era interamente basata su deduzioni tratte dal comportamento.15
Se Strauss e Kephart facevano un balzo, altri tentavano di costruire dei ponti. Nel 1957, Maurice W.
Laufer, uno psichiatra di Providence, annunciò la scoperta di una nuova sindrome: il disordine da impulso
ipercinetico. È ormai da tempo ammesso ed accettato [egli scriveva] che un disturbo persistente del
comportamento di tipo caratteristico, può essere notato dopo una grave lesione cerebrale, come un'encefalite
epidemica o encefalopatie da malattie contagiose, quale il morbillo nei bambini. È spesso staio osservato che
un modello di comportamento di natura consimile può essere riscontrato in bambini che non presentano
alcuna storia tipica di nessuna delle classiche cause fin qui menzionate.
Ci riferiremo dunque, d'ora innanzi, a questo modello, definendolo disordine da impulso ipercinetico.
Riassumendo brevemente, potremo dire che l'iperattività è l'aspetto di maggior rilievo [...] Vi sono anche la
scarsa capacità d'attenzione e le mediocri possibilità di concentrazione, che si possono notare particolarmente
nell'ambiente scolastico [...] Il bambino è impulsivo [...] irritabile ed esplosivo [...] [e manifesta] una bassa
soglia di tolleranza alla frustrazione. Un mediocre rendimento scolastico è al più delle volte l'elemento più
vistoso. I dettagli comportamentali sopra descritti creano di per sé un quadro che rende molto difficile al
bambino la partecipazione al lavoro che si svolge nella classe. In più, si nota spesso una difficoltà visivomotoria che, unita alle altre difficoltà già descritte, determina uno scarso rendimento in aritmetica e nella
lettura. Nello scrivere e nel leggere è frequente la ".inversione" e la calligrafia è spesso contorta ed
irregolare.16
12
Ibid., p 74.
E. KAHN e L. COHEN, Organic Drivenness: A Brain-stern Syndrom Experience, in "New England Journal of Medicine", vol. 210,
aprile 1937 pp. 748-756.
14
M A. A. STRAUSS e L. E. LEHTINE, Psychopathology and Education of the Brain-Injured Child. Grune & Strarton. New York
1947.
15
A. A. STRAUSS e N. C. KEPHART. Psychopathology and Education of the Brain- Injured Child, vol. II, Progress in Theory and
Clinic, Grune & Stratton New York 1955, p. IX.
16
M. W. LAUFER, E. DENHOFF e G. SOLOMONE, Hyperkinctic Impulse Disorder in Children's Bekavior
Problems, in "Psychosomatic Medicine", vol. 19, febbraio 1957, pp. 38-49. Anche LAUFER e DENHOFF,
13
142
La malattia, in breve, era costituita dall'incapacità ad ottenere un buon risultato scolastico.
La descrizione di Laufer del "disordine da impulso iper-cinetico" rappresentava il punto di maggior frattura,
fra la tipica descrizione medica dell'ipercinesi ed il vago insieme di disturbi, ora attribuito a milioni di bambini.
Essa faceva posto ad un'intera serie di sintomi relativi alla scuola, che non erano inclusi nella letteratura
medica, la quale descrive il vero ipercinetico come un individuo molto raro, forse uno su 2.000, che sembra
essere trascinato da un turbine interno, non solo a scuola, ma in ogni occasione.17 A differenza di quei bambini
che ora sembrano essere "ipercinetici" soltanto in classe (ma non, per esempio, di fronte alla televisione), il
vero ipercinetico non faceva altro che muoversi, arrampicarsi, dar calci ai mobili, ed era in perenne pericolo di
ferire se stesso e gli altri. Tuttavia anche l'elasticità della definizione di Laufer non permetteva di includere tutti
i sintomi dell'infanzia che infastidivano insegnanti e genitori: la goffaggine, l'irrequietezza, la mancanza di
tatto, l'eloquio limitato, l'irragionevolezza, o alcune inesplicabili difficoltà nella lettura, nella compitazione, o
nell'aritmetica. Come risultato, Sa definizione venne ulteriormente estesa, vennero creati nuovi termini da
adattare ad ogni forma di non conformismo sociale e scolastico. Nel corso di tale processo, i termini divennero
più vaghi e la possibilità di trovare una reale connessione con una lesione cerebrale organica diventò sempre
più debole.
In quello che sarebbe diventato un documento chiave per definire la nuova malattia e per trasformare il
comportamento non accettato in un disturbo clinico, un gruppo di autorità a livello nazionale, guidato da Sani
D. Clements del Centro medico dell'Università dell'Arkansas, pubblicò una monografia nel 1966, che tendeva a
eliminare ''ogni divisione e discordia professionale". Il problema, essi dicevano, era dato dalla "generale
Hyperkinctic Behavior Syndrome in Children, in. "Journal ol Pediatrics", vol. 50, aprile 1957, pp. 463-474.
I.GRINSPOON e S. B. SINGER, in Amphetamines in the Treatment of Hyperkinetic Children, in "Harvard
Educational Review", vol. 43, n. 4, novembre 1973, pp. 555-549, descrivono l'esperimento di Laufer: ".Nel suo
esperimento formò due gruppi di soggetti scegliendoli tra i pazienti ricoverati in una casa di cura per bambini
con disturbi della sfera affettiva [...]. I due gruppi furono selezionati esclusivamente sulla base della presenza o
assenza del disturbo dell'impulso ipercinetico clinicamente definito. La presenza nella storia di fattori
considerati capaci di produrre un danno cerebrale non era inclusa tra i criteri di selezione. Infatti, di questi
soggetti identificati come- ipercinetici, solo il 34% aveva una storia di questo tipo. Venne somministrato a
ciascun soggetto il metrazolo, un farmaco usato per dimostrare la presenza di una disfunzione celebrale. Per
ciascun bambino fu determinata la dose necessaria per indurre sull'EEG una scarica di onde rapide e una
contrazione mioclonica degli avambracci indotta da uno stroboscopio. L'analisi della soglia media al fotometrazolo nei due gruppi di bambini rivelò che la soglia nei bambini ipercinetici era significativamente
inferiore rispetto ai bambini non ipercinetici. Questo era vero indipendentemente dal fatto che le storie dei
bambini ipercinetici dimostrassero o no una chiara evidenza di danno Cerebrale. Precedentemente, H. Gastaut
(1950), che sviluppò il test al foto -metrazolo per gli adulti, aveva confermato in modo evidente la teoria che
una soglia al fotometrazolo sotto un certo valore normale indicasse la presenza di un danno o di una disfunzione
del diencefalo. Pertanto Laufer concluse che il disturbo dell'impulso ipercinetico aveva una determinante
organica, specificamente una disfunzione del diencefalo. Ulteriori conferme alia supposizione che questa
sindrome clinica avesse una base organica vennero dedotte dalla somministrazione di anfetamine a bambini
ipercinetici e dalla rideterminazione delle soglie al foto-metrazolo. L'analisi dimostrò che Se anfetamine
aumentavano la soglia di questi bambini lino ai livelli caratteristici del gruppo dei bambini non ipercinetici.
Sfortunatamente, nell'esperimento di Laufer non fu determinato l'effetto delle anfetamine sulla soglia al fotometrazolo in bambini non ipercinetici. E nemmeno venne fatto alcun tentativo di correlare i cambiamenti nella
soglia al foto-metrazolo con i cambiamenti nei comportamento nei bambini ipercinetici. Quindi i risultati
devono rimanere non conclusivi..."
17
La sindrome ipercinetica era, e in alcuni ambienti ancora lo è, considerata una sindrome estremamente
rara. In uno studio inglese condotto su 2.000 bambini, pubblicato nel 1970, furono identificati nove bambini
affetti da disturbi neuroepilettici, ma ne fu identificato solo uno affetto da sindrome ipercinetica. e i ricercatori
conclusero che la sindrome ipercinetica è un disturbo decisamente raro". In un altro che comprendeva tutti i
bambini di 5 anni dell'isola di Wight — circa 1.200 — non fu trovato un solo caso di ipercinesia. M. RUTTEK,
P. GRAHAM e W. YULB, A Neuropsychiatric Study in Chttdhood, SIMP-Heinemann Medical, London 1970; M.
BAX, The Active and the Over-Active Schoal Child, in " Developmental Medicine and Child Neurology", vol.
14, 1972, pp, 83-86.
143
mancanza di conoscenza, comprensione ed accordo nell'esteso campo del danno cerebrale minimo, fra i clinici
che sono responsabili della diagnosi e del trattamento dei bambini devianti".18
Il gruppo, sostenuto dall'Istituto Nazionale per le malattie neurologiche e per la cecità, del Servizio di sanità
pubblica, e dalla Fondazione di ricerca Easter Seal, ammise, dopo due anni di lavoro, che "da un punto di vista
purista" il danno cerebrale minimo era "in molti casi una diagnosi infondata e presuntiva". Avendo fatto una
tale concessione, tuttavia, gli esperti riconobbero che bisognava essere "pragmatici" facendo notare che
"dobbiamo accettare certe categorie di comportamento deviante, di discrasie dello sviluppo, di difficoltà di
apprendimento e di disturbi della percezione visivo-motoria, come indici validi di danno cerebrale".
Non possiamo permetterci il lusso di aspettare finché le cause saranno stabilite irrevocabilmente da
tecniche che sono ancora da scoprire. Non possiamo rimandare di occuparci nei modo più efficace ed onesto
di tutti quei bambini che presentano diversità croniche che ci sembrano più di altre collegate a variabili
organiche.
Dei 38 termini che Clements ed il suo gruppo di lavoro identifica fra quelli attualmente in uso per descrivere
questa condizione — "lesione cerebrale organica", "sindrome cerebrale dissincronizzata", "dislessia",
"incapacità percettiva", "difficoltà di apprendimento" — essi scelsero il "danno cerebrale minimo" come nuova
etichetta ufficiale. Il "minimo" indicava l'assenza di un comportamento grave e il "danno" ("dysfunction") era
usato per raggirare Sa necessità di trovare un problema organico. Per l'avvenire, MBD avrebbe dovuto
semplicemente significare qualsiasi forma di comportamento che gli adulti avessero trovato importuna.
I bambini con un "danno cerebrale minimo" scriveva Clements, sono quelli con
un'intelligenza generale vicina alla media, o nella media, o sopra la media, con certe difficoltà di apprendimento
o di comportamento, varianti dalle più lievi alle più gravi, che sono collegate a deviazioni della funzione del
sistema nervoso centrale. Queste deviazioni possono manifestarsi con difetti variamente combinati della
percezione, della concettualizzazione, del linguaggio, della memoria, del controllo dell'attenzione, dell'impulso
o della funzione motoria [...] Tali aberrazioni possono nascere da mutazioni genetiche, da irregolarità
biochimiche, da lesioni cerebrali perinatali, o da altre malattie, o da danni subiti durante gli anni critici per lo
sviluppo e la maturazione dei sistema nervoso centrale, o da altre cause ignote [...] Nel periodo dell'istruzione
scolastica, l'aspetto più vistoso della condizione che può essere indicata da questo termine è un'incredibile
varietà di difficoltà di apprendimento.19
Per accrescere la confusione in questa "chiarificazione" dei problema, la monograf”a prosegue elencando 99
"sintomi" prevalenti dell'MBD. Essi includono "deficit, intellettuali irregolari o poco uniformi", "basso
rendimento in taluni campi, alto in altri", "scarso orientamento nello spazio", "ipercinesi", o il. suo opposto
"ipocinesi", "alta percentuale di tendenza laterale sinistra o mista ed una confusa percezione della lateralità",
"generale goffaggine", "lentezza nel finire un lavoro", "difficoltà nella lettura", "difficoltà nell'aritmetica",
"difficoltà nella compitazione", "mediocre abilità nello stampare, nello scrivere o nel disegnare", "facilità di
affaticamento", "rapporti col gruppo dei compagni generalmente scarsi", "succhiare il pollice, mangiarsi le
unghie, battere la testa e digrignare i denti nei bimbi piccoli", "lentezza nella pulizia personale", "esplosività",
"bassa tolleranza di fronte a motivi di frustrazione", "sonno abnormemente leggero o profondo",
"sfacciataggine e aggressività sociale", "immaturità f”sica, o sviluppo fisico anormale o precoce per l'età",
"possibilità di comportamento anti-sociale", "notevole ipersensibilità nei confronti degli altri", "miglior
adattamento quando i compagni di giochi sono limitata ad uno o due", "possibile negativismo o aggressività
verso l'autorità", "temperamento dolce ed uniforme, pronto alla collaborazione ed amichevole", "capacità
inadeguate a prendere decisioni, particolarmente di fronte a molte scelte".20
Il gruppo di lavoro concesse che "la più grave omissione in tutta la letteratura era il non aver tentato di dare
una definizione dei termini usati o della condizione in esame", che malgrado tutti i termini ed i sintomi c'era
18
S. D. CLEMENTS, Task Farce I: Minimal Brain Dvsfunction in Children-Terminology and Identification. National Institute of'
Neurological Diseases and Blindness. Monograph n.3, US, HEW. I966.
19
Ibid., pp. 6-7
20
Ibid.. pp, 9-10
144
"una carenza di delucidazioni interpretative". La definizione di Clements, fu suggerito in seguito, era
"semplicemente una sofisticata dichiarazione di ignoranza". Ciò nonostante essa divenne non soltanto un punto
di riferimento nella teoria educativa, ma, cosa più importante, il documento che legittimava la diagnosi di MBD
e che sembrava dare ad insegnanti e medici l'autorità scientifica per marchiare qualsiasi bambino difficile o
turbolento con una nuova malattia, per prescrivere tarmaci, o per raccomandare altri mezzi di trattamento di tale
"sindrome". Clements ed i suoi colleghi dell'Università dell'Arkansas sarebbero diventati i prediletti
dell'industria farmaceutica e dei gruppi editoriali legati alle più importanti industrie farmaceutiche.
Quelli che credevano a tutto questo — e fra essi erano inclusi molti insegnanti, genitori e medici — ignoravano
completamente i problemi scientifici o le definizioni.21
Era stato creato un termine di copertura, e questo si adattava alle necessità di un'epoca che cercava nuove forme
"umane" di intervento e di controllo. Il fatto era non soltanto che gli schemi di Clements erano carenti di
validità scientifica (o anche linguistica), ma anche che si stavano positivamente accumulando prove che ne i
sintomi, ne la malattia avevano alcun fondamento scientifico. C'erano studi che indicavano che l'iperattività è
una variante normale del temperamento e non un disordine neurologico; che c'erano molti bambini che
leggevano meglio di quanto non indicasse il loro quoziente d'intelligenza — ed erano di conseguenza
"iperlessici" — come ce n'erano altri che nella lettura erano al di sotto delle aspettative del loro quoziente
d'intelligenza; che le deviazioni comportamentali elencate da Clements come sintomi di MBD non potevano
essere collegate ad alcuna sindrome specifica; che la convinzione tradizionale della dominanza unilaterale
(l'essere cioè destro o mancino) come base necessaria dell'integrità neurologica non poteva essere verificata e
che "la netta prevalenza laterale ha un'influenza minima sull'adattabilità"; e che l'abilità nella lettura, come il
talento musicale o la capacità atletica, sono delle "normali varianti fisiologiche" relativamente indipendenti
dalle generali funzioni intellettive.22 Intorno all'inizio degli anni Settanta, una quantità di studiosi erano pronti
ad associarsi a Francio M. Crinella, uno psicologo sperimentale dell'Ospedale di stato di Sonoma in California,
a proposito del fatto che "noi non conosciamo assolutamente abbastanza i vari tipi di bambini, che sono
classificati in questo 'calderone' diagnostico, tranne che essi sono molto dissimili l'uno dall'altro".23 Quella che
era comunemente descritta come ipercinesi, disse uno psicologo clinico in una relazione agli incontri del 1974
dell'Associazione Ortopsichiatrica americana, "è spesso un termine sociale che si richiama ad una definizione
basata sull'accettabilità di un certo comportamento in una situazione specifica".24 Sarebbe stato meglio,
suggeriva un altro ricercatore, chiamare il disturbo "disattività" piuttosto che "iperattività", per indicare che il
problema non è tanto l'eccesso di attività quanto, secondo genitori e insegnanti, il modo sbagliato di essere
attivi.25
La crescente confusione nell'ambito della comunità medica fu sottolineata da una rassegna della letteratura
sull'argomento pubblicata nel 1973 da L. Alan Stroufe e Mark A. Stewart sul "New England Journal of
Medicine." Gli autori fanno notare che anche se "il concetto di 'danno cerebrale minimo è stato ormai
21
Nel 1963 un followup condotto su tutti i 750 bambini nati in un anno nell isola di Kauai, Hawaii. trovò che i bambini che avevano
una storia di problemi perinatali non avevano più difficoltà nell'apprendimento e problemi di comportamento rispetto ai bambini con
una storia negativa, e che all'età di 10 anni la maggior parte di quelli che avevano sofferto di gravi problemi durante l'infanzia
andavano bene a scuola; una conclusione questa che mise in dubbio il presupposto che un "insulto" perinatale sia un fattore eziologico
del MBD. E. WERNER, ed al., Reproductive and Environmental Casualties- A Report of the 10-Year Follow-Up of the Children of the
Kauai Pregnancy Study, in "Pediatrics", vol. 42, 1968, pp. 112-127.
22
A. THUMAS, S. CHES.S e H. G. BIRCH, Temperament and Behavior Disorders in Children, New York University Press, New York
1968; N. E. SILBERBERG e M. C. SILBERBERG, Hyperlexia: The Other End of the Continuum, in "The Journal of Special
Education", vol. 5, autunno 1971, pp. 233-242- N E SILBERBERG e M. C. SILBERBERG, Case Studies in Hvperlexia in "Journal of
School Psychology", vol. 7, 1. 1968-1969, pp. 3-7; N. SILBERBERG e M. SILBERBERG Hymrlexia-Specific Word Recognition Skills
in Young Children. in "Exceptional Children", vol. 34, 1967, pp. 41-42; D. K. ROUTH e R. D. ROBEKT, Minimal Brain Dysfunction
ira Children: Fatture to Find Evidence /or a Behavioral Syndrome in "Psychological Reports", vol. 31, 1972, pp. 307-314.
23
F.M. CRINELLA, F.W. BECK e J.W. ROBINSON, Unilateral Dominance is Not Related to Neuropsychological Integrity, in "Child
Development", vol. 42, 1971, pp. 2033-2054; F. M. CRINELLA, Identification of Brain Dysfunction Syndromes in Children Through
Profile Analysis: Patterns Associatrd With SoCalied 'Minimal Brain Dysfunction', sottoposto al "Journal of Abnormal Psvchology",
nel 1972.
24
F. BETH STONE, Assessment of Children's Activity Level, una comunicazione presentata alla 51' riunione annuale
dell'Associazione Ortopsichiatrica americana, San Francisco (California) aprile 1974. La citazione di Stone è tratta da T.
MCCONNELL, R. CROMWELL, I. BAILER e C. D. SON, Studies in Activity Level: VII. Effects of Amphetamine Drug
Administration on the Activitv Leve; of Retarded. Children, in "American Journal of Mental Deficiency", vol 68 1964 pp. 647-651.
25
H. H. COMLY, Cerebral Stimulants for Children with Learning Disorders in "Journal of Learning Disabilities", vol. 4, 1971, pp. 2026.
145
largamente accettato," il ragionamento su cui esso si basava era "circolare, il che significa che molti autori
avevano dedotto che comportamenti come l'iperattività erano segni di una lesione cerebrale indipendente dai
parametri neurologici, e che perciò molti bambini con problemi comportamentali avevano lesioni cerebrali".26
Essi osservano che una risposta positiva a tarmaci stimolanti è stata usata come conferma di una lesione
cerebrale, anche se bambini del tutto normali hanno dato la stessa risposta; che solo una piccola minoranza di
bambini che hanno la serie di comportamenti che vengono diagnosticati come MBD sembrano avere una
lesione cerebrale; che "tenui segni" neurologici o risultati elettroencefalografici irregolari (2 dei metodi più
rispettabili per diagnosticare l'MBD) non hanno dato prova di essere dei buoni indicatori; che nessun test
neurologico singolo e nessuna combinazione di tests attualmente in uso può differenziare i bambini affetti da
MBD o iperattivi dai soggetti di controllo; e che nessuna sindrome unitaria di MBD, ne tanto meno alcun
gruppo di sottosindromi, è stata stabilita. Semplicemente non esiste qualcosa che si possa chiamare MBD,
diceva Roger D. Freeman, uno psichiatra infantile (attualmente all'Università della Columbia britannica). Ogni
volta che tale definizione viene usata c'è la possibilità che essa serva unicamente a mascherare un altro
disturbo.27 Malgrado tali dubbi, tuttavia, la carriera dell'MBD, dell'iperattività e delle difficoltà di
apprendimento era ormai saldamente affermata, non solo sulle riviste, ma in migliaia di programmi educativi e
nella mente del pubblico. Ancora nel 1971, William M. Cruickshank dell'Università del Michigan, un'autorità
nazionale nel campo dell'insegnamento differenziale, si era lamentato che l'etichetta di LD fosse applicata
indistintamente a bimbi che balbettavano, che molestavano il gatto di casa, che avevano incubi notturni, che
non sapevano nuotare, che si masturbavano, cui non piaceva andare con le bambine, che si mangiavano le
unghie, che avevano l'abitudine di mangiar poco, che non tenevano pulita la loro stanza, che non volevano fare
il bagno o non si pulivano i denti:
Degli insegnanti mi hanno interrogato a proposito d” bambini rispettosi, di bambini che non vogliono ascoltare gli
adulti, di bambini che piangono, di bambini che odiano, di bambini sessualmente precoci, di bimbi aggressivi tutti con l'idea che siano bambini con difficoltà di apprendimento. Un genitore mi domandò se il fatto che il figlio
studente portasse capelli lunghi e, come egli ‘sospettava', vivesse con una ragazza fuori del dormitorio, fosse il
risultato di una difficoltà di apprendimento.28
Benché Cruickshank richiedesse ‘termini meno estesi e concetti piò precisi’ i termini sono diventati se mai
sempre piò ampi, i concetti piò vaghi e le congetture piò sfrenate. L'MBD era dovuto ad uno sviluppo ritardato,
ad uno squilibrio chimico nel sistema nervoso centrale, a deficienze nella nutrizione, a carenze vitaminiche, ad
anomalie genetiche, a reazioni allergiche, alla televisione, al Lysol ed altri spray per la manutenzione della casa,
al fumo delle sigarette, all'illuminazione fluorescente, o agli additivi alimentari; esso era associato a certe
anomalie fisiche e poteva perciò essere identificato dalla forma della testa o dal tipo di capelli, ed avrebbe potuto
essere curato con diete speciali, megavitamine o altri espedienti della nutrizione. Nel 1973, l'associazione
nazionale per l'educazione, la piò vasta organizzazione per insegnanti del paese, attraverso pubblicazioni di vasta
diffusione, mise in guardia contro un'esplosione nazionale di "fobia scolastica" e nel 1974 qualcuno sugger’, in
un articolo di rivista, che la svogliatezza potesse essere un'allergia.29 Qualsiasi problema - a casa, a scuola, nella
26
L. A. SROUFE e M. A. STEWART, Treating Problem Children with Stimulant Drugs, in "New England Journal of
Medicine", vol. 289, 8, pp. 407-414.
27
Vedi anche N. HOBBS, ed al.. The Futures of Children: Categories, Labels and Their Consequences,
rapporto del Progetto per una classificazione dei bambini eccezionali, 15 dicembre 1973. Il rapporto fu
commissionato nel 1972 da Elliot Richardson, che era allora ministro dell'HEW, e fu il risultato del lavoro
assegnato ad un grosso gruppo di medici, psicologi, educatori, avvocati e di molti appartenenti alle maggiori
autorità nel campo della educazione speciale. La bozza del rapporto, da cui noi abbiamo ricavato le citazioni,
generò una grande quantità di controversie tra i membri del gruppo; verso la fine del 1974 non era ancora stato
emesso dall'HEW, ma era prevista una pubblicazione commerciale presso la Jossey-Bass, una casa editrice di
San Francisco, per l'inizio del 1975. Deve uscire sotto forma di due titoli: N. HOBBS, The Futures of Children,
e HOBBS (a cura di), Issues in the Classification of Children, una raccolta in due volumi degli articoli che
erano alla base del rapporto originale. L'insieme dei tre volumi costituisce il più vasto e significativo stuolo
sulla classificazione dei bambini.
28
W. M. CRUICKSHANK, Field of Learning Disability, in "Journal of Learning Disabilities", vol. 5, 7, agosto-settembre 1972, pp.
6-7. L'articolo era originariamente un intervento fatto al simposio del National Rchabuitatìon Training Institute a Miami Beach
(Florida), 26 ottobre 1971.
29
Il Sullo squilibrio chimico, vedi P. H. WENDER, Minimal Brain Dystunction in Children John Wiley e Sons, New York 1971; J.
146
comunità - era collegato l'MBD o l'LD.
3
Appartengono quasi tutti alla media borghesia dell'a suburbana, sono stati educati nei collegi, sono buoni
genitori, buoni cittadini, veterane della Lega delle donne elettrici o della PTA (Parent Teacher Association:
Associazione genitori ed insegnanti) o dell'AAUW (Associazione americana donne universitarie), e raccontano
storie orribili molto simili fra loro, storie dei loro bimbi incompresi, insegnanti che alzavano le mani al cielo
disperati, di pediatri che non sapevano cosa indicare o consigliare, e dottori e psicologi che sbagliavano
interpretazioni e diagnosi, e che tendevano a trattare la maggior parte delle "diff”coltà di apprendimento" come
problemi emozionali. "Ci si sentiva completamente soli" diceva una di loro "e nessuno poteva essere d'aiuto.
Gli educatori ci davano l'impressione che nostro figlio fosse un fenomeno, e la maggior parte dei medici non
ne capiva assolutamente nulla." Alla fine degli anni Sessanta, i genitori cominciarono ad incontrarsi e ad
organizzarsi, e intorno alla metà degli anni Settanta avevano formato centinaia di organizzazioni locali e di
stato, che comprendevano piò di 45.000 membri, la maggior parte dei quali sono ora iscritti al- l'ACLD e che
riuscivano a raccogliere ogni anno 5.000 nuovi membri.
Il CANHC (California Association for Neurologically Handicapped Children: Associazione californiana
per bambini neurologicamente handicappati) è un'organizzazione fra le piò vecchie e le piò attive, raccoglie
un gruppo di circa 4.000 genitori, soprattutto madri, che dedicano ore interminabili a diffondere il Verbo.parlano alle comunità mediche ed educative sulle difficoltà di apprendimento, regalano libri alle biblioteche (e
fanno funzionare la loro biblioteca circolante), organizzano proiezioni di films, corsi di qualificazione e
conferenze nell'orario di lavoro, controllano e sostengono le leggi concernenti i programmi e i fondi per i
bambini LD. Lo scopo di quegli interessi traspare dal "CANHC-GRAM", un bollettino mensile con utili
consigli sulla educazione e sul modo di allevare i bambini, commenti sui progetti di legge, sull'educazione e
sui casi discussi in tribunale, elenchi di libri ed articoli da leggere, trattati, dischi e films da comprare o
prendere a prestito, descrizioni di nuovi tests diagnostico, giochi da tavolo per bimbi LD, scuole per terapie
quotidiane, centri di valutazione e cura e riunioni cui partecipare: un tipico numero del bollettino elencava per
quel mese undici riunioni per LD, fra cui un "Simposio sulla delinquenza" ed un seminario sui "Difetti
sensoriali e percettivi dei neonati". Il messaggio è positivo, in quanto afferma "tu puoi farlo” - suona un poco
L. RAPOPORT, I. T.LOTT. Im e D. F. ALEXANDER, ed al., Urinary Neradrenaline and Playroom Behavior in Hyperactive Boys,
in "The Lancet", vol. 2, 1970, p. 1141; C. KORNETSKY, PSychoactive Drugs in the Immature Organism, in
"Psychopbarmacologia", vol. 17, aprile 1970, pp. 105-136.
Sulle terapie megavitaminiche vedi A. HOFFER, Megavitamin Therapy, Aurora Book Companions, Denver; H. W. S. PowERs, JR.,
Dietary Measures to Improve Behavior and Achievement, in "Academic Therapy", inverno 1973-1974; W. H. PHiLPOTT,
Biobehavioral Psychiatry and Learning Disabilities, una conferenza fatta al congresso internazionale dell'ACLD nel marzo 1971; e
A. COTT, Megavitamins: The Orthomolecular Apprh to Behavioral Disorders and Learning Disabilitics. Un ambulatorio
ortornotecolare a San Bernardino ( lifrrnìa) nel CcuDIY C-enerai Mospital sta sperimentando la terapia megavitaminica in bambini
con difficoltà d'apprendimento, e analogamente sta C rando il dottor Bemard Rimiaixd di San Diego (California).
Sulle origini genetiche della Disfunzione Cerebrale Minima, vedi D.J.SAFFR, A Familial Factor in Minimal Brain Dysfunction,
in "Behavioral Genetics", vol. 3, 2, 1973; J. MORISON e M. STEWART, A Family Study al the Hyperactive Child Syndrome, in
"Biological Psychiatry", vol. 3, 1971, pp. 189-195 D. P. CANTWELL, Psychiatry Illness in the Families al Hyperactive Children in
"Archives of General Psychiatry", vol. 27, 1972, pp. 414-417. Dei ricercatori che sperano di isolare il gene che causa l'incapacità
alla lettura stanno conducendo uno studio per scoprire i modelli genetici in questa area nell'Institute for Behavioral Genetics,
Università del Colorado,, Boulder.
Sulle teorie allergiche, vedi S. D. KLOTZ, Making the Child Accessibie Teaching-Learning.- The Rolo al the Intornist and
Allergist in Learning Disabilities; R. C. WUNDERLICH, AlLergy, Brains and Children Coping, Johnny Reads St. Petersburg
(Florida), 1973; R. D. CARPenter, Why Can't I Learn?, Regal Books, Glendale (California). 1973; M. MANDELL, Cerebral Allergy
as a Major Cause of Learning Disabilities, una relazione fatta al congresso internazionale dell'ACLD nel marzo 1914 a Houston.
Ben F. Feingold, direttore emerito degli armbulatoti dell'alliergia della Keiser Foudation, ha proposto - basandosi su un piccolo
campione da lui studiato – che l'iperattività sia una risposta allergica agli additivi alimentari. Questa teoria sarà studiata da C. Ke
Conners, uno psicofarmacologo ora all'Università di Pittsburg, con un fondo di 59.896 dollari assegnati dall'Istituto Nazionale
Educazione della HEW.
Sulle anomalie fisiche, vedi M.F. WALDROP e J.D. GOERING. Hyperaetivity and Minor Phsical Anonmalies in Elementary
Schol Children, in "Amerìc Journal of Orthopsychiatry", vol. 41, 1971, pp. 602-607; M. Anomalies and Hyperactive Behavior in You
Children, in J. HELLMUTH (a cura di), The Exceptional Infant, vol. 2, Buner Mazel, 1971. J.L. RAPORT, P.O. QUIN, vol. 121, 4,
aprile 1974, pp. 386-390.
Sull'illuminazione fluorescente-corme causa di iperattività, vedi J. AREHART TREICHEL, School Lights and Problem Pupils, in
"Science News", vol. 105 20 aprile 1974.
Sull'ipotesi dell'assenteismo come allergia, vedi Truancy May Be Allergyi in "Academic Therapy", vol. 9, 4, p. 3.
147
da 'boy-scout" ed un poco da Billy Sunday.
Nove genitori su dieci del CANFIC ricevettero diagnosi sbagliate (disse un dizionario dell'organizzazione).
Le cose vanno meglio ora. Possiamo dire alle persone dove andare e provo quasi invidia per coloro che si
sottopongono alla diagnosi in questo momento. Ma prima d'ora i medici non avevano sentito parlare di questo
argomento, non glielo avevano insegnato alla facoltà di medicina.
Non è facile fare una diagnosi. I segni non sono vistosi e ci sono piò di 300 sintomi. Dieci anni fa veniva
ripetuto a tutti che i problemi con i loro bambini erano di tipo emozionale e che erano causati dalla madre.
Essendo convinta di fare un buon lavoro come madre e di essere stata una buona maestra elementare, ebbi un
vero trauma nel sentirmi dire che avevo causato a mio figlio un blocco emozionale di apprendimento.
All'inizio, le storie sono molto patetiche. la madre preoccupata che difende suo figlio contro l'intolleranza
burocratica del sistema scolastico; l'insensibilità o l'ignoranza dei diagnosti, la sensazione di essere indifeso di
fronte alle autorità. La svolta decisiva in quelle storie giunge quando i genitori scoprono il CANHC o un
medico che conosco l'LD o l'MBD" e viene quindi rivelata la ragione nascosta del fallimento scolastico o delle
eccentricità del comportamento - un misterioso handicap neurologico, uno squilibrio chimico, una sindrome
complessa. Ciò non toglie che procedere all'interno del collegio sarà un'impresa dura - e il bambino non potrà
fare a meno di passare dal collegio - ma ora c'è una ragione e la comprensione dei professionisti per aiutare a
prendere decisioni e mostrare la strada da percorrere- cure mediche, terapia, corsi speciali o scuole
differenziali, un insegnante specializzato in LD e tutti quegli utili consigli che si trovano nei libri e negli
opuscoli. Ma c'è anche qualcos'altro, un sospiro di sollievo, che mitiga il senso di colpa, un'etichetta per
spiegare l'ansietà: "Anche se non era vero", ci spiegò una madre, "il fatto che fossi ritenuta responsabile dei
problemi di mio figlio mi fece provare un terribile senso di colpa. Questo fu il periodo peggiore. Quando
seppimo che si trattava di un problema particolare, tutto il senso di colpa se ne andò."
Essi parlano come dei convertiti, ma nel testimoniare la loro nuova fede le loro voci tradiscono un'ansietà
tale che dimostra che qualsiasi anormalità è troppo dura da sopportare. C'è una madre, della periferia di San
Francisco, funzionario dei CANHC, che spiega che ciascuno dei suoi tre ragazzi è disadatto
all'apprendimento, ed ognuno in un modo diverso. Col primo, essa disse, la sua preparazione come insegnante
le permise di notare "dei chiari segni premonitori". "Guizzava di qua e di là, ma non si muoveva mai nel modo
giusto. Aveva cominciato tardi a camminare e parlare e, all'asilo, non riusciva ad imparare a riconoscere
lettere e numeri. Sapevo che non faceva progressi. Dopo l'asilo ebbi la fortuna di poterlo inserire in una classe
speciale. Non avevo alcun aiuto a quei tempi, dovevo fare tutto da sola. Ora, al secondo anno di collegio il
ragazzo riesce bene, però ha un'ulcera. Vedete, questi ragazzi sono molto sensibili allo stress". Due dei suoi
tre ragazzi, essa disse, hanno un elevato quoziente di intelligenza "del genere che a scuola ottiene il livello A,
ma che finirà al B se i loro problemi non saranno diagnosticati". Con i ragazzi piò giovani la vita è stata piò
facile perché sono stati in cura da un pediatra della California meridionale, Leon Oettinger junior, che è
specializzato in problemi di MBD, è consigliere medico nel consiglio direttivo dei CANHC e crede
nell'impiego diffuso dei farmaci psicoattivi per modificare il comportamento. Con le amfetamine, dice
Oettinger, un bimbo LD "funziona meglio come bambino".-30
Per sei anni i due ragazzi p’ò giovani sono stati sottoposti a terapia - recentemente con un'associazione di
Ritalin, uno stimolante del tipo delle amfetamine e Melleril, un tranquillante. Secondo il giudizio della madre,
"c'è stata una bella differenza. Se uno dimentica la sua pillola per un giorno. Io capisco al momento stesso in
cui torna a casa, e quando abbiamo cambiato cure e dosaggio, gli insegnanti riferirono che il rendimento
scolastico era salito [ ... ] C'è stato detto che il ragazzo, che ha ora quindici anni, dovrà rimanere in cura per il
resto della sua vita; ne avrà sempre bisogno". Ha mai considerato, questa madre, l'eventualità di provare a
lasciare per una settimana o un mese il ragazzo senza farmaci o con un placebo? "No", essa risponde, "io
faccio ciò che il dottore mi dice di fare e non mi ha mai suggerito niente del genere. " La chiave dei problemi
dei suoi ragazzi, essa suggerisce, può essere l'ereditarietà. "Non ho ancora trovato un tranquillante che non mi
dia una forte eccitazione, e che non abbia su di me l'effetto opposto a quello previsto. C'è qualcosa di
singolare nella mia costruzione."
Nelle mani di organizzazioni come il CANHC, le teorie degli specialisti dell'LD, non importa quanto vaghe
ed imprecise, si irrigidiscono nei dogmi dell'ortodossia. "Non ho problemi di etichette", diceva Nancy
30
L. OETTINGER Jr. Learning Disorders, Hyperkinesis, and the Use of Drugs in Children, in “Rehabilitation Literature” vol.32, 6
giugno 1971, pag 165.
148
Ramos, la madre di Palo Alto che presta servizio come presidente del CANUC. "Quando ne ottenemmo una,
fui molto contenta di avere almeno qualcosa che ci dicesse a che punto eravamo. Quando non si ha una
ragione, ci si sente molto frustrati." Lei stessa ha avuto un figlio curato con farmaci per otto anni e non ha
assolutamente rimorsi a questo proposito. "Non si possono paragonare gli effetti delle cure su questi bambini
con gli effetti su altri bambini. Questi bambini hanno una composizione chimica costituzionale
completamente differente. " Persone come la signora Ramos si sono date da fare nelle scuole e nelle
organizzazioni delle comunità per la maggior parte della loro vita, e dimostrano un sano scetticismo sui
metodi delle scuole e dei medici che non sono stati iniziati ai misteri dell'LD, ma appaiono completamente
fiduciose nei tecnici e nei metodi all'interno del gruppo degli iniziati, pronte ad abbandonare qualsiasi dubbio,
e disposte ad allearsi, se necessario, con le case farmaceutiche. Esse parlano con ammirazione sconfinata dei
medici che comprendono l'LD e che hanno fatto tanto per i loro bambini. Ascoltano con soddisfazione
allorché la psichiatra Camilla Anderson, impostando l'argomento ad un simposio sulle difficoltà di
apprendimento, spiega a 1.500 madri ed insegnanti dei centri residenziali suburbani che l'MBD è causa di
tutto, dalla cattiva pianificazione f”nanziaria, alla violenza criminale, ai bassifondi, fino alle prestazioni
sessuali contro natura. Queste persone sono compiaciute quando la Anderson sollecita la sterilizzazione per
tutte le vittime dell'MBD, e stampano riconoscenti l'elenco da lei compilato delle 164 abitudini piò comuni ed
irritanti (o preoccupanti) dei bambini - tutte quante identificate come manifestazioni di MBD: 'la
masturbazione abituale", "la credulità", "la psicologia della nuova generazione", 'il bisogno di strutture", "la
prepotenza", "l'esigenza", 'il bagnare il letto', 'Io scappar da casa."31 La stessa Ramos fa eco al messaggio:
molti bambini LD vivono con uno solo dei genitori, essa dice, "ma non è il fallimento del matrimonio che
provoca l'LD, è semmai il bimbo disadatto all'apprendimento, la causa prima del fallimento del matrimonio".
I vari iscritti all'ACLD hanno sviluppato una specie di simbiosi con alcuni medici e scienziati. La letteratura
rassicurante viene diffusa alle riunioni, quella critica no. I sostenitori dei farmaci come Oettinger - che
compaiono anche alle udienze legislative come esperti delle case farmaceutiche - i convegni di "autorità
riconosciute" e le case farmaceutiche come la CIBA-Geigy e i Laboratori Abbott, contribuiscono ad
appoggiare questo atteggiamento, ventre i medici che mettono in guardia contro i pericoli elle anfetamine - le
quali possono (fra l'altro) provocare danni epatici o arresto della crescita - sono raramente rappresentati. I
membri vogliono sentirsi dire, come ha detto Oettinger, che le riserve sugli effetti a distanza dei armaci sono
state sollevate, evidentemente in ambienti on scientifici, dalla-"stampa profana" e dai "commenti irresponsabili
-e disinformati di parlamentari, giornalisti e altra gente incapace di comprendere la loro importanza".32 Il
CANHC, malgrado il suo attivo e crescente numero di perenti, non incarica nessuno di controllare la letteratura
sulla ricerca a proposito delle difficoltà di apprendimento della psicofarmacologia pediatrica. "Lasciamo
questa arte ai medici", dice la Ramos "loro sanno quello che fanno."
Ci sono delle eccezioni, anche all'‘nterno del movimento, persone i cui figli o figli di amici sono stati
danneggiati dall'eccesso di medicine o che, per altre ragioni, rimangono sospettose nei confronti degli esorcisti
medici della loro semplice demonologia. Nel 1973-1974, il CANHC fu sul punto di incriminare Caroline
Rodriguez, a quel tempo presidente dell'organizzazione, che aveva manifestato seri dubbi sull'abitudine di
prescrivere farmaci; essa era irritata per la ristrettezza di vedute dell'organizzazione, voleva riformare l'intera
struttura scolastica per trattare casi di autentica diversità. Suo figlio, dichiarò, era stato tal punto istupidito dal
Dilantin, un farmaco anticonvulsivo, che era caduto e si era rotto una gamba (egli soffriva inoltre di una
lesione al fegato, evidentemente causata da un altro farmaco), e il figlio della sua vicina di casa cominciò ad
avere crisi di pianto in seguito a somministrazioni di Ritalin, il farmaco piò frequentemente prescritto ai
bambini iperattivi. Quando la vicina rifer” l'effetto al suo pediatra, questi, constatato lo stato emotivo del
ragazzo, lo inviò a uno psichiatra. "Egli si rifiutò semplicemente di leggere L'informazione riservata al
medico" che lo avrebbe avvertito che le crisi di pianto non sono un effetto insolito del farmaco. "I medici
convincono le madri che le pillole faranno effetto e produrranno un cambiamento", diceva la Rodriguez. "Ma
le pillole ed i programmi speciali mascherano soltanto le reali differenze di questi bambini, qualcosa che le
scuole non vogliono affrontare. Vedo una quantità di bambini che usano il Ritalin, e troverei odioso definirlo
un progresso. Il ragazzino magari è un sacco di ossa, ma f”ntantoché egli si comporta bene e tace, nall'altro
31
C. M ANDERSON, Manifestations of MBD, ripreso da “Society Pays” col permesso dell’editore, Walzer & Co., New York, pp.
61-62, 68-70 Distribuito da CANHC, Mid-Peninsula Chapter.
32
L. OETTINGER JR., Amphetamines, H.Yperkinesis and Learning, distribuito alla CANHC Literature Distribution, PO Box 790,
LOmita, California 90717. programmi delle conferenze spesso accettano il sostegno economico delle itte produttrici della droga.
149
importa. Una quantità di persone appartenenti al CANHC sono genitori iperattivi, la cui logica è sbagliata. "
Il movimento per le difficoltà di apprendimento è cos’ strettamente collegato a certi medici, professionisti
scolastici e gruppi di ricerca, che è talvolta difficile decidere chi è venuto prima: il cliente oppure il dottore?
Nell'Arkansas, dove Clements e i suoi collaboratori dell'università dell'Arkansas sono fra i maggiori promotori
dell'ideologia dell'LD, ci sono un numero infinito di sezioni dell'ACLD e migliaia di bimbi in trattamento con
farmaci, mentre, nel confinante Missouri, il movimento organizzato si sta appena avviando; ci sono piò di 40
sezioni CANHC in California (dove l'organizza ione è rappresentata nella legislatura da un intrigante
volontario), e dozzine di sezioni ACLD nel Texas, nell'Oklahoma e nell'Illinois, ma sola- mente un gruppetto
nel New England settentrionale. Come succede sovente in simili organizzazioni, ci sono segni che, a mano a
mano che l'organizzazione acquista una certa maturità, i tecnici cominciano ad assumerne la supremazia. Alla
Conferenza internazionale dell'ACLD svoltasi ad Houston nel 1974, per esempio, solo il 2 per cento dei 5.500
partecipanti erano genitori profani; la maggioranza era composta dai membri del personale scolastico o dei
servizi assistenziali, che presentavano i loro programmi o ne cercavano di nuovi da portare a casa. C'erano
dimostrazioni di metodi di screening in via di perfezionamento, seminari sulla dislessia e sulla discalculia,
relazioni sui progetti portati avanti, in Ochlochnee, Georgia, e Rapid City, South Dakota; riunioni sulle
tecniche Gattegno; discussioni sull'insegnamento scrupoloso, sulle modifiche nell'organizzazione delle classi, e
sulla prevenzione della delinquenza minorile fra i bambini LD; e relazioni sull'allergia cerebrale come causa
dominante dell'LD, sull'uso delle tecniche di biofeedback per controllare l'iperattività e - per gli amatori
dell'esoterico - sull'uso del Ritalin per controllare i cani iperattivi.
L'ACLD ha avuto uno sviluppo notevole nei quartieri residenziali suburbani, ma, e ciò non sorprende, un
successo irrilevante nell'attrarre genitori poveri o appartenenti a gruppi di minoranza i cui bambini hanno
comunque, chi piò chi meno, delle difficoltà nel rendimento e nel comportamento scolastico. La stessa
etichetta di LD sembra funzionare come un meccanismo tendente all'esclusione: essa presuppone per lo meno
un quoziente di intelligenza medio e perciò esclude molti bimbi poveri che non hanno buoni risultati con i tests
di intelligenza standardizzati. P- già stato notato che il bambino appartenente ad una minoranza, assegnato ad
una classe per ritardati mentali rieducabili, mostra analogie sorprendenti col bimbo ricco di una classe LD. La
classificazione "mentalmente ritardato", tuttavia, è segnata da un marchio che non ha niente a che fare con
l'LD, una etichetta che sembra avere la funzione di dissociare i bambini della media borghesia dai negri e dalle
altre minoranze. I genitori che non possono tollerare un certo tipo di etichette parlano liberamente delle
disfunzioni neurologiche e delle difficoltà di apprendimento dei loro figli, e gli insegnanti, un gruppo
ugualmente appartenente alla media borghesia e con attitudini medio-borghesi, hanno segnalato che
preferiscono il termine "disadatto all'apprendimento" ad altri cinque con lo stesso significato. Una relazione di
uno studio federale sul sistema di etichettare i bambini concludeva:
Il termine difficoltà di apprendimento esercita una sua attrattiva, perché sottintende una condizione
neurologica specifica per la quale nessuno può essere ritenuto particolarmente responsabile, e tuttavia evita il
marchio del ritardo mentale. Non implica negligenza, disturbi emotivi, o una educazione o un sistema di
addestramento scorretto, né d'altronde sottintende una mancanza di motivazioni da parte del bambino. Per
questi motivi apparenti, è veramente un termine simpatico da usare [... ] Molti critici del termine [lo]
considerano una finezza da media borghesia. I bambini ad un livello socio-economico piò basso che
manifestano lo stesso comportamento hanno piò probabilità di essere etichettati come ritardati mentali.
Inoltre, i critici affermano che le difficoltà di apprendimento sorgono dalla discrepanza fra le aspettative dei
genitori, che sono talvolta inverosimilmente alte, e il rendimento bambino, che può essere al suo giusto livello
di capacità.''33
Nella simbiosi fra genitori e tecnici, ognuno ha qualcosa da guadagnare: per il genitore la ricompensa sta
nell'essere alleviato da un senso di colpa e nella protezione della sua condizione sociale e del suo amor proprio;
per tecnico essa consiste nella creazione di nuovi impieghi specializzazioni e finanziamenti, e nella formazione
di una nuova mistica che accresce il suo prestigio professione Per entrambi, è un modo di conservare la fiducia
nella dinamica del successo di classe, la fiducia che il bianco, ricco, i genitori ben educati, non possono
assolutamente produrre una progenie che abbia problemi di comportamento o che non possa imparare e che
33
HOBBS, Future of Children, pag. 125 Le preferenze degli insegnanti nelle classificazioni sono discusse nell’articolo di
STANLAY L.HUGHES, What Do Labels Really Mean to Classroom Teachers, in “Academic Therapy", primavera 1973, pp 285289.
150
perciò non sia migliore dei negri del ghetto.
4.
Se i ricercatori talvolta ammettono che vi è confusione ed i clinici più sofisticati sollecitano una certa
cautela, .le loro voci sono raramente ascoltate nei luoghi dove si prendono le decisioni riguardanti i bambini. La
pressione stata semplicemente troppo forte: "Prima che gli scienziati abbiano avuto la possibilità di studiare
sistematico mente e perfezionare i risultati", dichiarò un’equipe di ricercatori medici di Harvard, "questo campo
è diventato il dominio- degli educatori e dell'industria farmaceutica."34
E’ praticamente impossibile sopravvalutare il ruolo del case farmaceutiche nella formazione dell'opinione.
medie e profana sui bambini disadatti all'apprendimento. No: stiamo parlando qui delle campagne condotte per
convincere i professionisti ed i genitori che le cure mediche - generalmente farmaci stimolanti - sono la risposta
ai problemi di apprendimento e di comportamento (cosa che sarà discussa più avanti), ma soprattutto del ruolo
che essi esercitano nel creare l'idea che qualunque tipo di variazione nel comportamento comune dell'infanzia
rappresenti in primo luogo un problema medico. L'incoraggiamento ad usare i farmaci per curare le difficoltà di
apprendimento e le sindromi ad esse associate - specialmente l'MBD e l'ipercinesi - è logicamente collegato alla
diffusione data ai disturbi stessi; meno ovvio è il fatto che la maggior parte della ricerca svolta sui bambini con
"disordini dell'apprendimento" o "problemi comportamentali" è stata una ricerca farmaceutica - di fatto
esperimenti il cui primo scopo era di scoprire qualcosa di p’ò sugli effetti dei farmaci e non sui bambini
istituzionalizzati, che erano diventati i soggetti degli esperimenti. Il concetto stesso di "disordine degli impulsi
ipercinetici" era collegato ai farmaci; si trattava di un test per stabilire se un medicamento, che serviva a
controllare il comportamento bizzarro in adulti con lesioni cerebrali organiche, avrebbe prodotto effetti
consimili su pazienti pediatrici, molti dei quali senza alcuna storia di malattia organica. Da allora, ,dozzine di
altri esperimenti sono stati fondati sulla stessa ambigua premessa.- cioè che quando il farmaco si dimostrava
efficace, o sembrava efficace, il soggetto doveva soffrire dei disturbo per cui il farmaco era stato somministrato.
Sotto molti aspetti, la cura precedeva il disturbo. Fino a che, nel 1970, i regolamenti federali non subirono delle
restrizioni (peraltro modeste), la CIBA-Geigy propagandò il Ritalin - il suo principale farmaco per il
trattamento dei bambini iperattivi - come cura dei bambini che mostravano problemi funzionari del
comportamento", una categoiia cos” vaga, che nessun bambino poteva esserne escluso. Ogni sera della
settimana e per tutto l'anno, la casa farmaceutica aveva un rappresentante ed un medico compiacente in qualche
riunione di genitori per parlare del disturbo e dei suoi rimedi.
A partire dal 1972, le case farmaceutiche sono state diffidate attraverso i regolamenti federali dal
propagandare prodotti come il Ritalin direttamente da genitori ed insegnanti. il Ritalin è considerato un
"farmaco pericoloso" dall'FDA (Food and Drug Administration: Ente cibo e farmaci) e dall'Ufficio narcotici e
farmaci pericolosi. Questi regolamenti, tuttavia, non impediscono alle ditte di propagandare la malattia, o di
definirla con i termini più vaghi possibili, processo questo che è rafforzato dall'estesa rete di relazioni fra case
farmaceutiche, alcuni medici e gruppi di ricerca, ed il movimento dei profani. Molte "autorità" del campo - fra
gli altri Oettinger a Los Angeles, C. Keith Conners a Pittsburgh, John E. Peters all'Università dell'Arkansas conducono delle ricerche finanziate, in tutto o in parte, con i fondi della CIBA, della Abbott o di altri
laboratori farmaceutici. Sono anche persone come Oettinger, Conners e Peters che si presentano alle riunioni
ed ai seminari dell'ACDL ed i cui viaggi per quegli incontri sono pagati attraverso sovvenzioni delle case
farmaceutiche all'organizzazione che li promuove. "Ogni volta che abbiamo bisogno di danaro" diceva
Oettinger, "me ne danno un pò"." Non c'è modo di sapere quanto vaste siano quelle relazioni, o quanto danaro
vi sia investito. Quando gli parlammo, Oettinger ammise di aver ricevuto parecchie sovvenzioni dalla CIBA
per studi sul Ritalin, e stava per ottenerne un'altra; contemporaneamente, la CIBA finanziava lavori dei
gruppo dell'Arkansas, di Conners e di un'altra équipe della Johns Hopkins, e la Abbott creava borse di studio
consim’li per delle ricerche con il Cyiert, un altro prodotto farmaceutico stimolante per bimbi iperattivi, che
era appena stato autorizzato dall'FDA.
Il messaggio è semplice.- praticamente qualsiasi comportamento fastidioso può essere un segno di MBD. In
una circolare intitolata "Il bambino con MBD.- Guida per i genitori", per esempio, la CIBA pone la domanda'Che cosa è l'MBD?' e risponde come segue:
Il danno cerebrale minimo (MBD) è il più comune termine medico per indicare un gruppo di disordini
34
GRINSPOON E SINGER, Amphetamines.., cit., p. 539
151
d'apprendimento e dei comportamento che si manifestano in alcuni bambini. L'MBD non è mai esattamente lo
stesso in due bambini, e la causa precisa non è nota - cos”- è difficile ridurre l'MBD ad una semplice
definizione
[ ... ] Una teoria corrente è che i bambini affetti da MBD soffrono di un ritardo di maturazione cerebrale.
Ciò significa che il cervello, benché completamente formato e per altri versi normale, non è ancora pronto ad
assumere il controllo di alcuni fra i suoi compiti più importanti. Uno di tali compiti è l'organizzazione del
pensiero che permette al bambino di concentrarsi, di mantenere l’interesse, di comportarsi in modo normale,
di essere paziente, ed imparare a leggere, a scrivere, a capire l'aritmetica. Può anche essere interessata la
coordinazione muscolare. Tuttavia, non tutte queste funzioni sono carenti in ogni bimbo affetto da MBD."35
Il materiale distribuito ai medici, benché molto piò vasto, non è più specifico. La CIBA pubblica un
"Manuale del medico. screening per l'MBD", di 96 pagine, completo di illustrazioni e schede adatte allo
screening dei pazienti, Che è a disposizione di ogni medico.36 Scritto dai colleghi di San Clements
all'Università dell'Arkansas e pubblicato nel settembre del 1973, il "Manuale" comincia con una descrizione
lunga un'intera pagina dell'MBD come è stato definito da Clements nel 1966; in nessuna parte del testo esiste il
suggerimento di qualche altra interpretazione o la citazione di qualsiasi ulteriore ricerca che metta in dubbio o
invalidi quella definizione. La pubblicazione fa notare che le autorità in questo campo avevano dichiarato che
una "équipe di specialisti dei bambini" - un neurologo pediatra, uno psichiatra infantile, uno psicologo clinico,
un diagnosta nel campo educativo, uno specialista del linguaggio ed un operatore sociale - era necessaria per la
valutazione accurata di un bambino ritenuto affetto da MBD, ma prosegue dicendo che una ."tale équipe
raramente era reperibile al di fuori di un grosso complesso medico e, anche quando fosse stata disponibile, non
avrebbe certo potuto giudicare la grande quantità di bambini assegnati". Ora, assicura il dottore, con i
procedimenti diagnostici semplificati, servizi e trattamenti concentrati, "medici di famiglia, pediatri, psichiatri
[ ... ] sono in posizione strategica per identificare i bambini alletti da MBD in un'età precoce.37
La chiave per una diagnosi semplificata è un diagramma composto da circoli sovrapposti, un cerchio per, il
"tipo ipercinetico puro", un cerchio per il "tipo disadatto all'apprendimento puro" e, al punto della
sovrapposizione, una zona sfumata per i "tipi misti". La vasta zona di sovrapposizione dimostra che la maggior
parte dei bambini appartiene al " tipo misto [...] il settore più vasto di MBD". Ad accompagnare i cerchi, i1
"Manuale" mette a disposizione tre elenchi di sintomi, inclusi quelli ben noti (attenzione d” breve durata,
facilità alla distrazione, impulsività, dislessia, difficoltà al calcolo e tutto il resto) di un insieme di tests per le
capacità di lettura. di linguaggio e di calcolo, uno "screening neurologico" e dei tests psicologici. La
pubblicazione, tuttavia, non segnala mai il fatto che le sue definizioni e deduzioni costituiscono qualcosa di
meno di un dogma stabilito sull'argomento, ne cita un solo brano della letteratura spec’fica che metta in dubbio
quelle deduzioni. (Tutte le citazioni sono di articoli dei sostenitori, la maggior parte di essi sono di Clements e
dei suoi colleghi) "La relazione fra i termini MBD, SLD ('Specif”c Learning Disability": difficoltà specifica di
apprendimento), iperattività e dislessia, ha bisogno di una chiarif”cazione," spiega il "Manuale." "Il danno
cerebrale minimo è il termine medico per questi bambini. Difficoltà specifica di apprendimento (SLD) o
semplicemente difficoltà di apprendimento è il termine nel campo educativo." L'obiettivo intrinseco è quello di
semplificare una zona complessa e confusa, fino a raggiungere la possibilità che ciascuno possa fare una
diagnosi a chiunque altro, che praticamente chiunque possa abilitarsi al trattamento, e che qualsiasi medico si
persuada che esiste veramente un disturbo dilagante chiamato MBD, di cui egli deve sentirsi responsabile.
La maggior parte degli educatori non ha più bisogno di essere persuasa. Sin dalla fine della "Grande
società" nel 1968, le "difficoltà di apprendimento" sono diventate un filone d'oro in un campo altrimenti
depresso e sterile, una fonte di finanziamento da parte dello stato e degli enti federali che hanno tagliato i
sussidi in altri campi di sostegno educativo, un terreno fertile per insegnanti in cerca di lavoro o disoccupati ed
un mezzo per attrarre studenti alle scuole educative in crisi per la diminuzione delle iscrizioni. In questo
processo si è creata una nuova e fiorente industria di scuote private, di centri diagnostici,, di cliniche, di
fattorie, di campi estivi e di programmi di recupero, oltre che dei materiali e della letteratura che questi enti
impiegano per realizzare i loro metodi terapeutici. Paragonata al campo dell'educazione, l'industria
35
The MBD Child.- A Guide for Parnts, CIBA Pharmaceutical Company, Summit, New Jersey 1972.
J. E. PETERS, J. S. Davis, C. M. GOOLSBY, S. D. CLEMENTS, e T. J. Hicks, Physician's Handbook: Screenig for MBD, CIBA
Medical Horizons, Linden Medical Book Company, Newark (New Jersey) 3973.
37
Ibid., pp. I. 5.
36
152
farmaceutica è un modello di austerità
Il nuovo territorio, smisurato e largamente indefinito, offre qualcosa per ognuno, e vi lavora ogni sorta di
persone: difensori dell'educazione di base o di riforme scolastiche moderate, cultori del corpo e dello spirito,
operatori di miracoli e, negli spazi fra educazione e medicina, un piccolo ma crescente numero di operatori
che creano modelli di malattie sempre più nuovi e fantasiosi. E’un ampio spettro, che racchiude tutto.
In un sobborgo di San Francisco, il dottor James Benvenuti, un consulente pediatrico del Dipartimento
dell'educazione della contea di Contra Costa, propone un programma prescolare di screcning per i1
"temperamento" e le caratteristiche neurologiche, in modo da poter identificare i bimbi iperattivi, "difficili da
allevare" e "t’midi". E’ necessario offrire una terapia di gruppo ai genitori dei bambini cos’ identificati, e
spedire lettere ai "medici privati, indicando gli iperattiv’ e le altre scoperte effettuate a scuola". Sarà suggerito
che siano prescritte adeguate cure per aiutare questi studenti ad ottenere un buon risultato scolastico. L'accesso
alle cliniche ed ai servizi ausiliari della provincia con un followup medico sarà concesso alle famiglie che si
scrivono a questi servizi provinciali. 'Si presume", dice la proposta, che "15-30 studenti saranno identificati
come studenti deficitari f”n dall'asilo (14-28 per cento) e saranno il bersaglio di questo [...] programma in fase
I." Il programma è stato annullato, in parte grazie alle obiezioni adamant’ne di un sospettoso insegnante della
prima classe. Pur tuttavia, Benvenuti prende regolarmente i bambini identificati dalle scuole per il loro
"comportamento fuori del normale o per problemi di apprendimento in classe" e li sottopone ad uno
"screening per la predelinquenza" che, secondo lui, è sinonimo di ipercinesi. La base di questo screcning è la
"scala Benvenuti di valutazione del comportamento ed un grafico con nove "sindromi ipercinetiche" fra cui
"l'iperc’nesi progress”va", "il disordine cromosomico XYY", "L'ipercinesi maligna" e la pseudo-’percinesi
(simulata)", un disturbo che si manifesta dopo che "un paziente osserva che un amico, od un parente
iperc’netico ottiene l'attenzione che il paziente vorrebbe per sé". I bambini diagnosticati come ipercinetici
(predelinquenti) sono affidati a cliniche o a medici privati, le loro diagnosi sono consegnate agli insegnanti o
ad altri membri del personale scolastico, e, tanto ai bambini che ai genitori, vengono offerti consigli e terapia.
Nel modello ideale di Benvenuti, chiunque è un paziente, compresi gli insegnanti e chiunque parteciperà al
trattamento. Per il momento, tuttavia, sono i bambini a subire il trattamento - nella sua valutazione, il 20 o il
35 per cento di essi è iperattivo - mentre agli insegnanti viene insegnato il modo di metterlo in praticare.38
A Denver, il Centro di cura diurna patrocinato dal Dipartimento di psichiatria del Centro medico
dell'Università del Colorado offre una "educazione psicologica" a circa 25 bambini delle classi intermedie, che
sono stati inviati dalle loro scuole come "funzionanti ai limiti del rendimento scolastico e sociale" e "solo
marginalmente adattabili". La scuola rappresenta un'occasione di tirocinio per il dipartimento psichiatrico, gli
allievi ricevono una psicoterapia intensiva, e molte delle tecniche adoperate fanno pensare che i piò giovani
siano affetti da disturbi emotivi. Tuttavia, secondo Gasion Blum, il direttore del centro, quasi tutti gli studenti
"rientrano in un gruppo di danno cerebrale minimo, con una discreta percentuale di iperattivi, di disorgan’zzati
e disorientati, e con differenti tipi di problemi di linguaggio", e l'istituzione perciò riceve fondi federali e di
fondazioni benefiche per studiare le difficoltà di apprendimento. L'ambiente è molto ben strutturato: una équipe
psicomedica è sempre a disposizione, e il suo programma scolastico include uno schema per la modificazione
del comportamento in cui viene assegnato un compenso in danaro per ogni lavoro compiuto con successo. In un
"periodo di sostegno", gli studenti usano manuali di esercizi, cartelloni dimostrativi e giochi aritmetici per
sviluppare le loro capacità; nella stanza da pranzo vengono fatti sedere a tavolini rotondi controllati dagli
insegnanti, che incoraggiano le buone maniere e correggono quelli che usano cattive parole; e in palestra, dove
passano una gran quantità di tempo (per lo "sviluppo delle capacità psicomotorie"), si richiede loro di muoversi
da un posto all'altro, correggendo le posizioni del corpo con l'aiuto di specchi tridimensionali, ripetendo vari
movimenti e praticando la coordinazione. 'Senza queste capacità', spiegava un membro del personale con aria
saputa "un bambino non può socializzare. Quando un bambino sviluppa le sue capacità motorie, migliora
l'immagine che egli ha di sé." Benché gli studenti vengano descritti dal personale come giovani estremamente
diffic’li, il loro comportamento, almeno all'interno della scuola, è molto piò docile di quello della maggior parte
dei preadolescenti in altre scuole; i due terzi di essi non sono in cura ed è perciò difficile attribuire
l'arrendevolezza generale agli effetti dei farmaci. Non si fa nessuno dei soliti giochi scatenati delle scuole
convenzionali - non è permesso - e le affermazioni di dubbio gusto di un ragazzo di tredici anni durante il
38
Il riassunto delle attività del dottor Benvenuti si basa sulle interviste, sul memorandurm che egli preparò per i funzionari scolastici,
Propos& for Program Design at Hilleresi Flemeniar,. 1973-1974, sul materiale impiegato nell'addestramento dei personale
scolastico, che include la sua "Hyperkinetie syndrorne chart", e una descrizione di tre pagine dei suo lavoro Pre-delinquency
Screeinig-The Beginnirig of Systems Therapy che ha preparato per noi. L'articolo da cui la scala di Benvenuti è ricavata è di M. A.
STEWART, Hyperactive Children, in "Scientific American", pp. 99-103.
153
pranzo possono provocare una generale costernazione fra il personale. In un incidente di cui fummo testimoni,
una sorvegliante era visibilmente sconvolta dal "cattivo linguaggio [...] parole a proposito di rapporti sessuali"
usate da uno dei ragazzi. Essa aveva difficoltà a ripetere le parole, ma finalmente, dopo insistenza, essa riusc” a
pronunciarle: "tirarsi una sega". Un'altra insegnante rifer” un caso di comportamento che essa riteneva un'
"esibizione" ed una "regressione" in una "ragazza ai limiti della norma". La studentessa aveva messo un seme di
girasole nel bicchiere di aranciata di un insegnante. "E’ una vera intrigante", disse l'insegnante, e il personale fu
d'accordo. Per tale accurato controllo del comportamento dei loro figli, i genitori pagano 39,50 dollari al giorno.
Ci sono altri punti nel quadro generale. Per gli insegnanti di Essexville, Michigan, Lincoln, Illinois, Carrol
County, Maryland e Wayne, Nebraska, i programmi per le difficoltà di apprendimento sovvenzionati dal
governo federale hanno fornito l'opportunità di manipolare il curriculum scolastico, di ottenere altro personale
per lavorare sui "problemi" dei bambini e, sotto l'egida della nuova terminologia dell'LD, fare tentativi del tipo
piò tradizionale. A Wayne, per esempio, gli insegnanti decisero che almeno il 43 per cento dei loro allievi
soffrivano di "difficoltà specifiche di linguaggio", organizzarono qualcosa chiamato "Progetto successo" ed
istituirono un programma strutturato che enfatizzava la fonetica (i suoni delle lettere), esercitazioni scolastiche,
"un approccio multi-sensoriale" all'insegnamento del linguaggio, con reminiscenze dei metodi sviluppati da
Maria Montessori almeno cento anni prima (il bimbo dovrebbe "udire, dire, e toccare le lettere, oltre a
vederle") ed un programma di educazione fisica, nel quale un allenatore di lotta libera delle scuole superiori
veniva trasformato in un "insegnante della percezione motoria" a mezzo impiego.
Per i bambini ricchi, la preoccupazione dei genitori per “ problemi della scuola o del comportamento può
portare ad uno dei sempre più numerosi centri diagnostici pubblici o privati, ad accademie per lo sviluppo
neurologico, a scuole di rieducazione nel campo percettivo e motorio, a centri di terapia per l'educazione, a
centri psico-educativi per lo sviluppo umano, a campeggi estivi per dislessici, a fattorie per sottosviluppati, o a
scuole o collegi per i ragazzi "intelligenti ma con problemi di difficoltà di apprendimento". (Quanti di questi
posti servono realmente ai ragazzi handicappati e quanti si riducono ad essere solo scuole private fallimentari o
iniziative di gente sfasata in cerca di un nuovo mercato di genitori disperati, è difficile dire; il mercato, in ogni
caso, è in espansione.) Per altri bambini a cui è stata attribuita l'etichetta di LD, ciò sign’fica la sistemazione in
un asilo specializzato in difficoltà di apprendimento, come primo passo nella scuola dell'obbligo, con la
speranza di reinserirsi nella scuola regolare dipendente dal distretto. In un programma sostenuto dal governo
federale, portato avanti da dodici sistemi scolastici rurali dell'Illinois, meno di metà dei bambini sistemati negli
asili per LD si inserirono in una prima classe regolare l'anno seguente. In altri sistemi, i bambini identificati
come disadatti all'apprendimento in programmi di screening prescolastico sono mantenuti nelle classi regolari
ma inviati individualmente per corsi di insegnamento in centri specializzati in LD.
Nella maggior parte dei sistemi scolastici, le selezioni, le etichette e la retorica oltrepassano di gran lunga il
processo curat’vo. Malgrado il linguaggio esotico a proposito dell'MBD e della dislessia, l'ingranaggio
dell'organizzazione, gli scherni pseudo-scientifici per lo screening, e malgrado tutti i consulenti, i referti
d’agnostici e le soluzioni educative, le "cure" sono l'asse d'equilibrio oltre alle lettere di carta vetrata, i
cartelloni per le esercitazioni e i giochi con le lettere, i giochi di pazienza a incastro e i salti mortali. (E,
naturalmente, i farmaci, di cui si parlerà p’ò a lungo nel capitolo III.) Un programma tipico: "La cura delle
difficoltà di apprendimento: manuale per i programmi di passatempi psicoeducativi"39 di Robert A. Valett,
professore di pedagogia e direttore di un centro di LD a fresno, in California, promette agli insegnanti di
educazione qualif”cata o agli specialisti nel trattamento un programma per affrontare 53 differenti disturbi con
12 dollari.
Il "Programma numero 4 per un passatempo psicoeducativo per lo sviluppo motorio di base", per esempio,
che tratta del "modo di camminare", offre una "definizione" ("la capacità di camminare eretti in modo
coordinato senza sostegno"), un "sistema educativo razionale" ("camminare è un'azione neuromuscolare che
richiede equilibrio e coordinazione. Ai bambini dovrebbero essere offerte delle opportunità per sviluppare una
capacità crescente nei compiti piò difficili"), e due pagine intere di semplici disegni di un bambino che
percorre "un sentiero segnato", che porta un'asta di bambò lungo una stretta asse di equilibrio, che fa una
"passeggiata su delle travi o su una scala a piol’" e che cammina con gli occhi bendati, con i piedi ai due lati di
un'asse di equilibrio.
Nelle varie scuole, le tecniche presentano diverse combinazioni dei metodi proposti nel programma Valett:
assi di equilibrio, esercizi di marcia, lettere di feltro, giochi e incastri. La persona più influente nel proporre
39
R. E. VALLETThe Remediation of Learning Disabilities: A Handbook of Psychoeducational Resource Programs. Fearon
Publishers Lear Siegel, Belmont (California) 1967.
154
questi metodi, Marianne Frostig, ora una "grande dame" nel campo, ha suggerito l'idea che la capacità
percettiva-motoria (per esempio la coordinazione mano-occhio) e l'abilità nella lettura sono collegate, e che il
modo di porre rimedio ai problemi della seconda è di migliorare l'abilità nella prima: le tecniche curative usate
piò comunemente sono quelle che si servono dei materiali e dei "principi" della Frostig. La ricerca su quei
metodi indica, tuttavia, che non c'è nessuna dimostrazione per le conclusioni della Frostig. "Piò di una dozzina
di studi di ricerca sono stati fatti per provare il grado di miglioramento delle capacità percettive con i materiali
della Frostig, per imparare a leggere", disse uno psicologo di Columbia, che aveva controllato i risultati .e la
gran maggioranza E...] ha dimostrato che non c'è stato miglioramento".40
Alcuni dei metodi usati dagli specialisti dell'LD, egli ha detto, erano basati su dati puramente fantastici;
nessuna aveva alcuna validità dimostrata. I ragazzini possono imparare a saltellare, a balzare ed a saltar la
corda e la loro coordinazione può migliorare; la loro capacità di leggere, no.
5
E’ impossibile valutare tutto l'impatto. In un certo senso, gli scienziati avevano semplicemente dato alle
scuole una nuova giustificazione per fare le cose che avrebbero fatto comunque; in altro modo essi avevano
aiutato a creare un nuovo apparato, apparentemente stabile, di etichette spiacevoli per i bambini comuni, e in
altro modo ancora, essi avevano fornito una spiegazione razionale per l'emarginazione dei bambini, che
insegnanti ed amministratori scolastici volevano spostare dalle classi regolari, permettendo loro in tal modo di
raggirare il numero sempre crescente di decisioni legali, atte a limitare il potere della scuola nell'indirizzare
arbitrariamente o comunque segregare i bambini. Nessuno può calcolare fino in fondo l'effetto di tali metodi,
per esempio, su un bambino etichettato come disadatto all'apprendimento e sistemato in 'una classe
differenziale, che comincia a credere nella sua designazione, o l'effetto che deriverà dal modo in cui gli altri
insegnanti e i bambini lo tratteranno. Tuttavia, la mancanza di rimedi validi e l'ambiguità dei termini - quando
hanno qualche significato - suggerisce che l'ideologia dell'LD può produrre effetti molto più importanti delle
pratiche specifiche adoperate nel suo nome, per quanto stupide o pericolose alcune di esse possano essere.
Sembra che noi abbiamo bisogno di LD ed MBD, che li richiediamo non solo come spiegazioni di un
fallimento e come caratteristiche della condizione medio-borghese - solo i bambini dei neri si suppone debbano
fallire, perché sono stupidi o perché i loro genitori sono incapaci - ma anche come mezzo di controllo: mettere
fuori della classe i bambini difficili, dare tranquillanti agli irrequieti, sottoporre a trattamento i devianti. Su
questa argomento parleremo più diffusamente in seguito: ciò che qui vogliamo sottolineare è l'uso
dell'ideologia in se stessa. Se qualcuno volesse inventare un sistema per mezzo dei quale i bambini difficili, di
persone socialmente rispettabili - bambini che infrangono le regole delle istituzioni e delle comunità dovessero essere controllati senza causare scandali o create opposizione politica, uno non potrebbe far niente
di meglio che attribuire loro una malattia cos” nuova e cos” particolare per una certa classe dell'attuale società,
che non comporti nessun marchio, nessuna insinuazione sul carattere e nessuna denigrazione delle capacità, ma
che, nella stesso terno, renda possibili - anzi necessari - i controlli ed il "trattamento" che il sistema ritiene
indispensabile. Un tale disturbo offrirebbe la possibilità di mantenere la legittimità del sistema, senza
provocare sospetti o resistenza, fra coloro che sembrano rappresentare il suo più evidente fallimento. Più il
sistema educativo diventa meritocratico, più diventano rigorose le richieste di rendimento e comportamento,
più facilmente i bambini ricchi saranno inclusi fra i devianti. Più ristretti saranno i criteri per valutare il
successo, maggiore sarà la pressione per creare delle scappatoie, delle giustificazioni logiche, dei rimedi per i
privilegiati. Se la ricchezza e l'influenza possono essere trasmesse solo attraverso il meccanismo delle scuole
"bene", dei collegi "bene", allora i bambini debbono essi stessi essere "trattati" per diventare dei candidati
accettabili ed il prezzo dei trattamento - finanziario e psicologico - diventa uno dei mezzi per il mantenimento
dello status.
Una caratteristica particolarmente impressionante dei genitori che frequentano le conferenze per l'LD e s”
iscrivono alle organizzazioni come il CANHC o l'ACDL, è la tristezza, confutante con la disperazione, del
tono di voce con cui discutono dei loro figli e delle loro vite. "Potreste osservare meravigliati", diceva una
donna di Gross Point, Michigan, "il buffone e discolo della classe che mette la testa a partito (grazie alle cure)
e dirige i suoi sforzi e la sua buona volontà verso l'apprendimento. Perfino i suoi genitori lo apprezzano e lo
tollerano abbastanza a lungo da mettersi a fare cose con lui. Può essere difficile dare dei giudizi sulla vita e le
40
N. DALE BRYANT. Learning Disabilities. A Report on the State of the Art, in "Teachers College Record", vol. 75, 3, febbraio
1974. pp. 401-402.
155
attitudini di persone, peraltro razionali, che credono che i matrimoni siano rovinati da bambini disadatti
all'apprendimento, ma sembra chiaro che quei bambini sono valutati per il loro successo, anche dai loro stessi
genitori, e tollerati per il loro conformismo alle istituzioni, e non è perciò sorprendente che i loro genitori si
aggrappino all'idea dei demoni e cerchino gli esorcisti che li sappiano scacciare.
Quello che tutto ciò comporta è una sinistra tendenza - forse perfino un desiderio - a cedere quei bambini
alle istituzioni ed ai terapisti, che insegneranno loro a credere che il conformismo è salute e la devianza è
malattia, che li abitueranno ad accettare il concetto che il successo scolastico è una questione di amor proprio,
e che li condizioneranno all'idea che il buon comportamento dipenda dalla terapia e dalle cure. 1 genitori dei
quartieri residenziali suburbani degli anni Cinquanta dicevano a W’lliam H. Whyte jr, nel 1956, che "essi
avevano imparato ad arrangiarsi nel modo più duro, senza avere il beneficio di una educazione cos”
accomodante come quella attuale o consapevole dei problemi. sociali come quella che le scuole offrono ora. Se
essi hanno saputo integrarsi fino al punto da e riuscire, come sono riusciti, si domandano, non sapranno farlo
con maggior successo i loro figli, quando saranno maggiorenni?"41 I genitori dei bambini disadatti
all'apprendimento degli anni Settanta, sono quei bambini degli anni Cinquanta e l'LD sembra essere una delle
indicazioni di quanto importante sia diventato tale inserimento. E’ il sistema sociale, naturalmente, che
stabilisce le definizioni e le condizioni di adattamento, assieme agli agenti del sistema - funzionari scolastici,
poliziotti, giudici e sorveglianti dei condannati in libertà vigilata - che cominciano a trovare l'ideologia cosi
utile.
41
W. H. WYTE JR., The Organization Man. Anchor Books, Garden City New York 1957, p. 436.
156
III
LA PILLOLA ALLA MODA
Frank, un ragazzo della sesta classe, di bell'aspetto ma molto magro, sta seduto tranquillo in uno
studio medico della Clinica per le difficoltà di apprendimento al Centro medico permanente Kaiser ad
Oakland, in California. Un medico della clinica controlla lo schedario completo di Frank, inviatogli
dalla scuola cittadina che egli frequenta. Quindi controlla i movimenti degli occhi del ragazzo - Frank
ha qualche problema di lettura, è un poco al di sotto del livello della classe. Ma il guaio maggiore,
secondo sua madre ed i suoi insegnanti, è che egli ha un "disturbo di concentrazione". Non è capace di
star seduto tranquillo, dice sua madre.
Tuttavia, quest'anno è migliorato a scuola. E’ nel servizio per il traffico, il che è un onore, ed è
perfino riuscito a realizzare qualche progetto da solo. A casa, dice sua madre, è "piuttosto pigro" e può
star seduto a guardare la TV senza interruzione. Frank spiega che a lui la scuola non piace ed è per
questo che non vuole star seduto tranquillo.
Il medico dice a Frank-. "Non è che tu non voglia stare seduto tranquillo. E’ che tu non puoi star
seduto tranquillo." "No", insiste Frank, "non voglio. " "Non ti credo", dice il dottore e continua ad
interrogare Frank, ma il ragazzo cocciutamente non si muove dalle sue posizioni. "Io non sto
tranquillo perché non voglio. "
Frank è stato curato col Ritalin durante tutte le classi, eccetto la quarta, allorché l'insegnante
dichiarò che poteva benissimo farne a meno. Egli non lo prende durante l'estate perché, quando non è a
scuola, non ne ha bisogno. "Sa che effetto ha su di lui il Ritalin?" domanda il dottore. La madre dice di
no, essa sa soltanto che il ragazzo non mangia molto quando è in cura, perciò è cos’ magro. Ma la
scuola afferma che lui si comporta un po' meglio con quel farmaco. Il dottore parla rapidamente con la
madre dei bambini iperattivi ed ipoattivi, del risveglio lento, e dei bambini che non possono dormire e
sono apparentemente letargici. La madre di Frank annuisce, mentre le parole fluiscono: 'Continui a
curarlo col Ritalin, conclude il dottore, "sembra che ne abbia bisogno".
E’ la prima volta che vede il ragazzo e la visita è durata 15 minuti.
John venne affidato dal suo insegnante allo psicologo scolastico "perché ha difficoltà ad adeguarsi
alla intera routine del programma d'asilo". Lo psicologo rifer’ che egli dimostrava un"attenzione di
breve durata e segni di un conflitto emozionale. John non distingueva la differenza fra realtà e
fantasia".
La madre di John è giapponese e suo padre era un militare negro. Si erano sposati in Giappone e si
erano trasferiti negli Stati Uniti poco tempo dopo. Il padre era stato quasi immediatamente spedito in
Vietnam, e la madre di John non sapeva nulla, né della lingua inglese, né della cultura americana;
aveva paura dell'America, e usciva di casa solo per andare a comprare il cibo. Lo stesso John
dimostrava una buona dose di paura del suo nuovo ambiente, parlava pochissimo inglese, e appariva
confuso e terrorizzato quando si presentò il primo giorno all'asilo. La relazione dello psicologo
scolastico, scritta quattro mesi dopo l'inizio della scuola di John, non faceva menzione di "iperattività".
Parecchi mesi dopo, una relazione di una infermiera scolastica stabiliva che John "tende ad essere
iperattivo - cioè non riesce a stare seduto tranquillo neppure per un istante". L'infermiera riferiva anche
che i genitori erano stati avvertiti ed avevano rifiutato di partecipare alla terapia di John. John
continuava a disturbare i suoi insegnanti facendo domande "bizzarre", molte delle quali a proposito
della morte. Egli sentiva e diceva che "nessuno mi vuole bene”. L'infermiera inviò il bambino al
medico della scuola, che raccomandò una valutazione psicometrica. La relazione del dottore diceva:
"Non sono in grado di decidere, attraverso i brevi studi f”sici fin qui condotti, se il ragazzo sia un
ritardato, se abbia scarsi incentivi, o se sia 'iperattivo'. Non sono sicuro che egli risponda a molti dei
requisiti della sindrome iperattiva. "
157
Un mese dopo, lo psicologo scolastico, l'insegnante, il direttore, l'infermiera ed il dottore ebbero un
consulto e decisero di prescrivere a John 20 milligrammi di Ritalin al giorno. Il suo comportamento
cambiò ben presto, secondo l'insegnante, smise di balzellare qua e là senza sosta e cominciò a star
seduto tranquillo per periodi di tempo piò lunghi. Solo i suoi pensieri "bizzarri" continuavano a
disturbare l'insegnante. Essa tuttavia constatò che John non richiedeva piò la sua attenzione costante e
fu sollevata nel saperlo in cura con i farmaci.
Shawn, un bimbo di 4 anni, è condotto da un medico generico dei sobborghi da sua madre, che ha
sentito da molte sue amiche che il dottore è un forte sostenitore del Ritalin. Essa si lamenta che Shawn
è troppo attivo e sgarbato e non riesce ad andare d'accordo con i suoi compagni di gioco. Anche il
fratello e la sorella di Shawn lo trovano sgarbato, essa spiega piangendo. Oltre a tutto, il bambino
pretende tutto subito e non sembra aspettare ricompense. Le sembrava praticamente impossibile, disse,
amare un simile bambino.
Le schede mediche presentavano una storia di parto normale e l'esame fisico del bambino non
rivelava nessuna anomalia dal punto di vista neurologico ed organico. Il dottore prescrisse, a questo
punto, 10 milligrammi di Ritalin, 2 volte al giorno. La madre rifer’ poi che il bambino era piò facile da
trattare, ma ora voleva "parlare, parlare, parlare". Il dottore allora diminu’ la dose a 5 milligrammi 3
volte al giorno e questo "diminu’ un poco la sua loquacità". La madre disse al dottore che era
"felicissima ora posso di nuovo amare questo bambino".'42
I Frank, i John e gli Shawn fanno parte di un gran numero di bambini calcolato fra il mezzo milione
e il milione, prevalentemente maschi, che vivono in un regime di farmaci psico-attivi: il Ritalin
(metilfenidato), la Dexedrina (dextroamfetamina), il Cylert (magnesio pemolina) e parecchi altri.43 La
42
La storia di Frank è basata sulla nostra ricerca personale condotta nelle cliniche e negli studi medici. La storia di
John è tratta da F. BERLIN, Drugs and Hyperactive Children, non pubblicato, pp. 2-4, e la storia di Shawn è tratta da D.
M. MARTIN, Hyperkinetic Behavior Disorders in Children. Clinical Results With Methylphenidate Hydrochloride
(Ritalin), non pubblicato, p. 13.
43
I dati esatti sono difficili da stabilire. Alla fine del settembre 1973, secondo il National Disease and Therapeutic
Index, erano state eseguite 623.000 prescrizioni di Ritalin per la cura dell'MBD e dell'ipercinesi dei bambino. Il dato non
comprende le prescrizioni effettuate in clinica, dove molti scolari vengono inviati. Anche il dosaggio è difficile da
accertare. Secondo un inventario, la prescrizione tipo di Ritalin, da 20 mg è di 78 compresse. Poiché la posologia media per
un bambino è di 2 compresse al giorno (solo nei giorni di scuola), una prescrizione siffatta dovrebbe bastare per due mesi.
Se il bambino prende la compressa solo al mattino (come fa un terzo dei soggetti), le 78 compresse durano quasi 4 mesi.
Tuttavia, da quando il Ritalin è stato posto sotto restrizione dal Bureau of Narcolics and Dangerous Drugs, nel 1971,
tramite il divieto della ripetibilità della ricetta, molti medici sono assai piú larghi nelle prescrizioni (fino a 1000
compresse). Thomas O. Boucher, presidente della CIBA-Geigy, testimoniò davanti a un Sottocomitato del Senato sulla
Delinquenza Giovanile, che due milioni di visite di pazienti all'anno hanno a che fare coi Ritalin e che il suo uso per
l'ipercinesi si avvicina al 60%.della produzione". In seguito la CIBA ha modificato questa stima, senza però fornire
informazioni piú chiare. Donald K. Fietcher, portavoce della Smith Kline & French Laboratorics (che produce la
Dexedrine) testimoniò nel luglio 1974 davanti a un Comitato dei Senato della California sul controllo della ipercinesi nella
scuola elementare, che in base ai suoi dati le visite annuali di pazienti a medici privati per ottenere prescrizioni di farmaci
per il comportarnento iperattivo erano tra 850.000 e 875.000. In base ad una nostra stima, derivante da uno studio in una
clinica dell'Iowa, il rapporto tra numero di visite e numero di pazienti trattati è di 1:1, cioè una visita l'anno per ogni
bambina trattato. Lo studio dello Iowa (G. SOLOMONS, Drug Therapy: Initiation and Followup. in Annals of The New
York Acad. of Sciences, voi. 205. pp. 335-344) mise in evidenza che circa la metà dei casi osservati erano seguiti attraverso
meno di due visite (o semplici controlli per telefono) ogni sei mesi, e che il periodo medio di trattamento era di circa tre
anni. Poiché lo studiò era basato su pazienti inviati a medici privati dalla piú importante clinica dello stato ed era stato
condotto nel 1971, quando l'esperienza dei trattamento farmacologico dell'MBD era relativamente limitata, è difficile che
nella pratica corrente i pazienti con problemi di MBD vengano visitati piú di una volta all'anno in media.
Nell'unico tentativo recente di stabilire la prevalenza dell'uso di farmaci stimolanti negli scolari, Daniel Safer dei Johns
Hopkins calcolò che, nel 1973, da 300.000 a 600.000 bambini assumevano farmaci. Lo studio, basato sulla proiezione di un
campione della contea di Baltimora, indicava un aumento dei 55% negli ultimi due anni. Con un ritmo del genere, la stima
per il 1975 dovrebbe essere tra 465.000 e 930.000. (Uno studio analogo nell'arca di Chicago calcolò per il 1971 una
prevalenza variabile tra 500.000 e 1.000.000.) Safer segnalò anche che il Ritalin, che nel 1971 copriva solo il 53% del
158
maggior parte sono ragazzi fra i 6 ed i 13 anni, benché alcuni ne abbiano appena 2, e benché un
numero sempre maggiore continui ad usare i farmaci durante e dopo l'adolescenza. Qualunque sia la
loro età, essi sono tutti il bersaglio di un fenomeno, relativamente nuovo, che considera l'intervento
chimico una soluzione legittima al classico problema di come controllare e rendere accettabile il
comportamento dei bambini che disturbano gli insegnanti, sconvolgono le regole della classe, o in
ogni caso non riescono ad uniformarsi alle aspettative degli adulti. Le persone che deplorano i vecchi
metodi di controllo - punizione corporale, castighi, sospensione ed espulsione dalla scuola - ed hanno
perso ogni fiducia nelle soluzioni meno punitive - classi speciali, insegnamento particolare, consulenza
scolastica - non ci pensano due volte ad accettare la terapia farmacologica. Malgrado il fatto che gli
stimolanti - e particolarmente quelli del tipo delle amfetamine - siano stati riconosciuti come i prodotti
farmaceutici piò pericolosi ed abusati sul mercato e in circolazione, la chemioterapia è diventata la
risposta "illuminata" alla sculacciata.44
In teoria si tratta di un rimedio temporaneo, di qualcosa che aiuti a "dirigere" il ragazzo e gli
permetta di sedere tranquillo e concentrarsi, finché i normali processi di maturazione o le ovvie
gratificazioni di un buon comportamento gli permetteranno di sviluppare altre forme di controllo; un
tale sistema di controllo, secondo una spiegazione logica, previene e mitiga i fallimenti scolastici,
l'ostracismo sociale ed il ciclo di problemi emotivi che ne deriva.
Appare tuttavia, sempre piò evidente, che la chemioterapia può diventare imprecisa, che essa
maschera i problemi e che rinvia semplicemente, forse per sempre, i sistemi di cura piò duraturi.45 Ciò
che è certo è che approssimativamente, per un bambino su dieci etichettati "iperattivi" o "disadatti
all'apprendimento, la chemioterapia è il 'trattamento' principale, che le file di questi bambini sono
cresciute ad un ritmo fenomenale, e che per un numero sempre maggiore la tentazione di prolungare
le cure indefinitamente può portare a un nuovo modo di vivere. C'è la storia di Paul, riferita come
positiva ad un congresso psichiatrico, che faccia progressi a scuola mediante un massiccio trattamento
con Ritalin. Quando la somministrazione fu interrotta, Paul incominciò ad avere delle noie con la sua
squadra di hockey, fortemente competitiva. "Egli non riusciva a lasciarsi andare e 'a darci dentro,
proprio come papà e l'istruttore mi dicono di fare'. Si decise di fargli riprendere il Ritalin come terapia
di appoggio, cos’ Paul non si sarebbe preoccupato di perdere il controllo e danneggiare qualcuno. Gli
vennero somministrati 10 milligrammi, una mezz'ora prima dei restanti allenamenti, al mattino e a
mezzogiorno durante l'incontro di fine settimana [...] I suoi genitori telefonarono orgogliosi il luned’
seguente per dire che egli aveva segnato due goal.46
mercato, ne occupava tra l'80 e l'88% nel 1973. Non disponiamo, ovviamente, di una mappa perfetta dei bambini che
assumono farmaci per l'intera nazione. Nelle aree in cui cliniche e medici favorevoli ai farmaci si cumulano, la percentuale
di questi bambini aumenta bruscamente. Il dr. Eric Denhoff, neuropediatra a Rhode Island, entusiasta distributore di
farmaci da anni e molto influente nel farli adottare su scala nazionale, sostiene che nel Rhode Island 6.000 bambini
assumono farmaci, e ritiene che solo la metà ne avrebbe bisogno. Se i dati dei Rhode Island fossero tipici, 2.225.000
bambini prenderebbero farmaci negli USA; in base a stime personali, tuttavia, il dr. Denhoff ritiene che i bambini trattati
non superino 1.100.000.
44
Vedi L. GRINSPOON e P. HEDBLOM, The Speed Culture: Ampheramine Use and Abuse in America, Harvard
University Press, Cambridge 1975; GRINSPOON e HEDBLOM, Amphetamities Reconsidered, in "Saturday Review", 8
luglio 1972, pp. 33-46; e G. SREEHY. The Amphetamine Explosion in "New York", 21 luglio 1969. Secondo fonti federali,
il Dipartimento di Giustizia non era stato in grado di rendere conto dei 38 per cento dei piú di 3 bilioni di unità di dosaggio
di amfetamine prodotte in questo stato nel 1968 per uso domestico. Sebbene la somma ufficiale fosse qualcosa in piú di 3
bilioni, un rapporto dei Congresso diede il dato di produzione di 8-10 bilioni. Vedi J. PEKKANEN, The American
Conneetion, Profiteering and Politicking in the "Ethical" Drug Industry, Follett Publishing Company, Chicago 1973.
45
Per un maggiore approfondimento, vedi pp. 121-123.
46
C. W. KEHNE, Social Control of the Hyperactive Child Via Medication: At What Cost to Personalitv Development;
Some Psicogological Implications and Clinical Interventions, documento consegnato all'incontro annuale dell'Associazione
Ortopsichiatrica americana nel 1974, p. 9.
159
C'è la testimonianza del capo divisione della Scuola per infermiere dell'Associazione per
l'educazione nazionale, il quale disse, ad una commissione dei Congresso, che cinque studenti nella
loro scuola superiore usavano il Ritalin come meglio credevano. 'La cura era stata interrotta ed essi
avvertivano ancora degli 'sbalzi interni', Incapacità di controllare il loro comportamento. Cos’ il
dottore permise un trattamento PRN, che significa 'quando necessario', e siccome si tratta di studenti
anziani delle scuole superiori, essi vanno spontaneamente all'ufficio sanitario e vengono da me, e
dicono 'credo di aver bisogno dei mio Ritalin ora'."47 Ci sono dozzine di storie consimili, storie di
bambini e di adolescenti che hanno imparato che la pillola è la cosa che permette loro di andare avanti,
di piacere, di funzionare. All'inizio degli anni Settanta, i bambini cominciarono ad imparare nuove
parole per i vecchi motivi canterellati nei cortili di scuola: "lo ho il mio Rit-lin, tu hai il tua Dex.
Dateci una pillola. Non saremo birichin. "
Per la maggior parte dei bambini, la strada della cura inizia a casa o in classe. Alcuni dottori
parlano di una madre che "irrompe nello studio tenendo con una mano il ragazzino e con l'altra
sventolando l'articolo di una rivista femminile a proposito di questi farmaci, dicendo: 'Voglio che lei
calmi mio figlio prima che io diventi pazza'. " In altri casi, è il pediatra o il dottore della clinica che,
forse in risposta all'insistente pubblicità dei prodotti farmaceutici, suggerisce per primo una prova con
i farmaci. Ma nella maggior parte dei casi, l'iniziativa viene dalla scuola. 1'insegnante manda a casa
una nota (o richiede un incontro con i genitori, o invia il bambino allo psicologo od al consulente
scolastico), per esprimere la propria preoccupazione a proposito del comportamento o del rendimento
di uno studente, in cui si suggerisce l'ipotesi che egli sia un iperattivo o un disadatto all'apprendimento
e si raccomanda una visita da un neurologo o da un pediatra, che sia specialista in quei disturbi. Forse,
viene riferito ai genitori, uno studio diagnostico intensivo sarebbe utile. Alcuni genitori resistono, fino
al punto di cambiare scuola o di trasferirsi in un'altra comunità, ma la maggior parte accondiscende; il
bambino, dopo tutto, è come un ostaggio nella scuola. Ciò che generalmente non viene loro detto è che
in molti distretti i medici prescelti, quelli raccomandati piò frequentemente, sono medici facilmente
portati, piò che alla prudenza, a scrivere ricette, e che sono tutt'altro che precisi nell'annotare gli effetti
dei farmaci sui pazienti. In un sobborgo di San Francisco, per esempio, lo psicologo scolastico
raccomanda invariabilmente un pediatra che ha già prescritto a 2.000 pazienti il Ritalin, la Dexedrina e
simili farmaci o combinazioni di farmaci (talvolta uno stimolante con un tranquillante), e che
considera la sua funzione quella di "formare lo stile di vita di questi bambini e delle loro famiglie". Un
pediatra della medesima zona, che è scettico sull'uso dei farmaci, non usa compilare simili referti. La
sua relazione alla scuola, in cui egli sosteneva che "il bambino è chiaramente entro i normali limiti di
maturazione neurologica, e non ha problemi che non possano essere trattati all'interno della sfera
scolastica", venne considerata inattendibile.
Il processo è accentuato dalle industrie farmaceutiche. In un opuscolo illustrato, distribuito ai
medici, la casa farmaceutica CIBA, che produce il Ritalin, avverte il dottore di aspettarsi due ondate
di bimbi affetti da MBD- "Un'ondata in autunno", perché sarà solo questione di giorni o settimane
prima che la scuola renda noto ai genitori che il bambino ha un comportamento agitato", ed .
"un'ondata in inverno" quando il bimbo affetto da MBD, con particolari problemi di apprendimento
"desta l'attenzione della scuola, delle autorità, dei genitori - e perciò del medico - perché il suo
rendimento è scesa al di sotto dei livelli medi della classe".48 Il messaggio è raccolto dalle scuole, da
singoli insegnanti e perfino dalle farmacie-drogherie "drug-store". I1 vostro bambino è super-attivo?"
47
Federal Involvement in the Use of Behavior Modification Drugs on Grammar School Children. Testimonianza rilasciata
in presenza del Subcommittee on Government Operations, alla House of Represetitatives, al 95° Congresso avvenuto il 29
settembre 1970. LIS Printing Office, Washington 1470. p. 97 (Di qui in avanti si rimanda al Subcomittec an Government
Operations.)
48
When the MBD Child Goes to School, CIBA Pharmaceutical Company, Summit (NJ), maggio 1974.
160
domanda l'inserzione sul giornale messa dalla farmacia Thompson di Liberty, a New York.
Spesso un bambino ancor piccolo con un'apparente sovrabbondanza di energia in eccesso, che è
molto irrequieto, aggressivo ed impulsivo è descritto semplicemente dai genitori che lo amano come
un 'autentico maschietto" o 'questa bimba è un vero diavoletto'. Comunque, è possibile che ci sia una
causa alla base di questo comportamento, che potrebbe avere effetti nocivi sullo sviluppo sociale,
quando lui o lei comincia a crescere. Chiedete consiglio al vostro dottore, se pensate che il vostro
bambino sia iperattivo. Prima si identifica il problema, se c'è un problema, e prima sicura, migliore
sarà il recupero sociale ottenuto. Ci sono certi farmaci disponibili per la terapia, che possono essere di
grande aiuto. Voi o il vostro dottore potete telefonarci
In teoria è un procedimento irreprensibile - un suggerimento utile, un consiglio da scuola a genitore
- ma è, stato sempre piò rafforzato e sostituito dall'intimidazione diretta, da insegnanti o consulenti che
informano i genitori che il bambino è iperattivo e che, se non viene curato, la scuola lo farà retrocedere
di una classe, lo sospenderà o lo trasferirà in una classe differenziale per "handicappati emozionali",
per. "disadatti all'apprendimento" o per qualche altra categoria di soggetti mentalmente ottenebrati.
A Little Rock, nell'Arkansas, la famiglia di Daniel Young venne talmente bersagliata dalle scuole
pubbliche, che si trasfer’ nell'Indiana, dove i bambini non ebbero ulteriori problemi. "Ricevevamo note
quasi ogni giorno dagli insegnanti dei bambini e chiamate dalla scuola. Ci dicevano che i nostri
bambini avevano completamente smesso di impegnarsi ed erano fallimentari in tutti i campi.
Sapevamo cosa tentavano di ottenere con ciò, perché sapevamo che i genitori del vicinato si
sottomettevano [...] in quanto non ce la facevano a sopportare le pressioni. Credete a me, non era uno
spettacolo piacevole vedere cambiare con l'uso dei farmaci la personalità dei bimbi piccoli. La
pressione continuava a crescere. Mio figlio (che aveva allora otto anni) non aveva il permesso di fare
l'intervallo con gli altri bambini perché li eccitava troppo. Il colpo finale venne quando mio figlio
arrivò a casa piangendo istericamente. Dopo che lo ebbi calmato, scoprii qual era il problema. Era
stato messo in una scatola di cartone per due settimane. Andai a scuola fuori d” me dalla rabbia. La
scatola era sparita [...] Non negarono che la scatola di cartone era stata usata per lui. Si distraeva
troppo facilmente. Mi dissero che in questo modo poteva imparare senza distrarsi [...] Verso la fine
dell'anno scolastico ricevetti la chiamata finale e decisiva del direttore della scuola [che diceva] che i
funzionari scolastici stavano prendendo seriamente in considerazione l'idea di toglierei ogni possibilità
di controllo. Quando scoprii come speravano di ottenere ciò, fui assalita dal panico [...] I funzionari
scolastici consideravano la possibilità di servirsi dei nostri bambini per creare, con un processo, un
caso giuridico per accertare se i bambini potevano essere messi [in cura] senza il consenso dei
genitori.'
A Providence, la madre di David Watson ebbe un'esperienza analoga. Da un resoconto del
"Providence Journal":
La madre di David, la signora Verne Watson, disse che era stata costretta dai funzionari scolastici a
sottoporre suo figlio a cure farmacologiche e ciò era diventato per lei "un grande incubo. "
Disse che era stata continuamente bersagliata dalla scuola a causa del comportamento di suo figlio
ed aveva ricevuto una nota, da una infermiera scolastica, che dichiarava semplicemente: 'Il suo
bambino è iperattivo. Non sa star seduto tranquillo a scuola. Per favore consulti un medico."
La signora Watson disse che aveva tentato di lottare per non sottoporre suo figlio all'uso dei farmaci
dopo che aveva notato gli "effetti collaterali" che le pillole esercitavano su David, ma quando
comunicò ai funzionari scolastici che non avrebbe piò continuato la terapia, essi le dissero che, in
questo caso, David avrebbe dovuto essere espulso.
Essa aggiunse: "David si lamentava che non gli piaceva la sensazione che aveva del suo corpo
161
quando prendeva le pillole. Gli toglievano l'appetito e lo facevano piangere molto. I suoi sogni erano
diventati cos’ brutti, che non poteva neanche parlarne. Si alzava di notte e passeggiava per ore nella
stanza. Il suo corpo si scuoteva e tremava: una cosa terribile."
La signora Watson disse che i medici continuarono ad aumentare le dosi di Dexedrina, finché
raggiunsero i 40 milligrammi al giorno. '11 suo corpo cominciò a tremare a tal punto che egli non
poteva tenere certe note durante -le lezioni di tromba e si -lamentava: 'Potrei non prendere le pillole,
almeno il giorno delle mie lezioni?"
Finalmente David svenne davanti alla scuola. [...].e disse alla madre: "Non posso assolutamente
prenderle piò. Per me sono una tortura." La signora Watson telefonò alla scuola il giorno stesso e disse
ai funzionari: "David non verrà. " E’stata iniziata un'azione legale contro la famiglia, essa ci ha
comunicato, per l'assenza ingiustificata di David.49
Malgrado tali storie - e ce ne sono molte altre - molti genitori e la grande maggioranza degli
insegnanti sono diventati dei veri credenti: una percentuale di insegnanti che va dall'88 al 96 per cento
crede di poter diagnosticare un bambino ipercinetico ed i tre quarti di essi si sentono obbligati a
raccomandare che un medico sia informato del problema. Un gruppo di ricercatori scopri anche che
"un apprezzabile numero di insegnanti raccomandane di tenere contatti con un medico, e alludono alla
possibilità di usare il Ritalin". Malgrado tale parvenza di sicurezza tuttavia - e malgrado il fatto che la
stragrande maggioranza di insegnanti pretendesse di sapere per che cosa è usato il Ritalin -, la loro
ignoranza sui suoi effetti e le sue proprietà era incolmabile. Essi "avevano ben poche informazioni
precise ed esatte" sul farmaco; anche colore che avevano la maggior esperienza di bambini in cura col,
Ritalin ed erano piò entusiasti sul suo impiego erano altrettanto ignoranti sui suoi effetti quanto lo
sono gli insegnanti senza un'esperienza personale in proposito.50 In tal modo le note continuano a
giungere, e la fiducia nei farmaci seguita a crescere. Il loro uso, dichiarava un sovrintendente scola.
stico "è praticamente una necessità con certi tipi di bambini. Senza di essi, nessun processo educativo
potrebbe avere luogo". Nel futuro, si auspicava, gli insegnanti avrebbero ricevuto una preparazione in
medicina e farmacia, cos’ da poter somministrare essi stessi i farmaci che influenzane il
comportamento della classe. "Gli stimolanti ed altri farmaci sono ora un fatto scontato."51
2.
Non c'è nulla di nuovo nell'asserzione che gli american: credono ciecamente nell'idea che i farmaci
possano guarire tutte le malattie e risolvere la maggior parte dei problemi.52 Il credo nazionale si è
sempre basato sulla creazione di un 'uomo nuovo', una creatura libera dalle tragedie e dalle debolezze
che affliggevano il Vecchio Mondo; questo preconcetto creò la convinzione inevitabile che ogni
malattia o disfunzione possa e debba essere curata, e che qualsiasi cosa fisicamente (o socialmente)
49
R. RICHARD, Drugs for Children-Miracle or Nightmare?, in "The Providence Journal", 8 febbraio 1972, p.1
S. S. ROBIN e J. J. BOSCO, Three Perspectives on the Use of Ritalin: Teachers, Prospective Teachers and Professors:
I. Description of Attitude, Knowledge and Role. L'articolo faceva parte del simposio sui farmaci stimolanti e le scuole
dell'Arnerican Educational Research Association svoltosi nel 1974. Parte di questa ricerca fu pubblicata in Ritalin for
School Children: The Teacher's. Perspective, nel "The Journal of School Health", vol. 43, 10, 1973, pp. 624-628 e J.
Bosco, Implication of the Use of Stimulant Drugs for Educational Practices and Policies, relazione presentata al congresso
annuale della National School Boards Association, Houston (Texas) 7 Aprile 1974.
51
Ibid., p. 7. Vedi anche E. L. BIRCH, Development of a School District Policy on the Use of Stimulant Drugs for School
Children, relazione presentati all'American Educational Research Association, il 19 aprile 1974, come parte del simposio
su "Stimulant Drugs and the Schools: Dimensions in Remediation of Social Toxicity".
52
Sull'argomento vi è una sofisticata discussione . in H. L. LENNARD ed al., Mystiflcation and Drug Misuse: Hazards in
Using Psychcactive Drugs, Harper & Roiv, New York 1972. Vedi anche, Hazards Implicit in Prescribing psychoactive
Drugs, dello stesso autore, in "Science", vol. 169, 31 luglio 1970, pp. 438-441.
50
162
imperfetta non possa essere americana. Lo sviluppo di una tecnologia medica relativamente sofisticata
e la crescita di una gigantesca industria di cosmetici, trasformò la fiducia in costrizione: l'alito cattivo e
l'ipercinesi sono entrambi manifestazioni di tendenze anti-sociali. La costrizione, a sua volta, creò
l'immagine di un uomo quasi disumano, un organismo meccanico, soggetto ad una costante
manipolazione tecnologica, qualcosa che poteva quasi sempre essere riparata, riassestata e migliorata.
Gli adulti potevano anche avere superato ogni possibilità di aiuto, ma i giovani - le nuove leve potevano essere sintonizzati e modificati indefinitamente. I farmaci divennero, e non c'è da stupirsene,
un elemento significativo di queste processo.
La costrizione è certo molto importante per spiegare l'indiscriminata prescrizione di farmaci.
Tuttavia è pressoché impossibile capire il significato delle cure psico- attive per bambini "iperattivi" o
'disadatti all'apprendimento' senza tentare di comprendere la particolare ricerca - talvolta disordinata,
talvolta distorta, e quasi sempre mal interpretata - a cui ci si appella per convalidarne l'uso. Per piò di
un decennio, studi sempre piò numerosi sono stati citati dalle case farmaceutiche, dai medici, dagli
enti governativi e da altri per provare ciò che in realtà non provano, per rassicurare i dubbiosi e per
rinforzare il mito crescente della pillola, dei bambini felici e delle classi produttive. In molti casi è
difficile sapere dove finisce la scienza e dove comincia l'incoraggiamento a fare uso dei farmaci
raccomandati. Il credo nazionale nella perfezione, e il conseguente obbligo di conseguirla,
sottovalutano le carenze della ricerca e della medicina, e adombrano quel potere politico sempre piò
smisurato che questa ricerca della perfezione minaccia di produrre. Il pioniere era stato un medico di
Providence, in Rhode Island, di nome Charles Bradley. Egli, nel 1937, rifer’ che delle dosi giornaliere
di Benzedrina, un tipe di amfetamina, avevano provocato "un cambiamento spettacolare nel
comportamento' di trenta pazienti, in un istituto per bambini con disordini neurologici e
comportamentali.53 Tra i ragazzi, di età variante fra i cinque ed i quattordici anni e con un'intelligenza
normale, era compreso sia chi presentava "difficoltà specifiche dell'educazione o con un
comportamento scolastico agitato, sia il bambino schizoide introverso, o quello aggressivo,
egocentrico, epilettico". Nel corso di una settimana di terapia sperimentale con Benzedrina, quattordici
dei bambini dimostrarono 'un grande miglioramento nell'efficienza scolastica ed un preciso 'incentivo'
a rendere al massimo durante l'orario scolastico e spesso dedicare del tempo supplementare
all'esecuzione di altri lavori. La prontezza di comprensione e la qualità del rendimento in molti casi
migliorarono". Oltre a ciò, un buon numero di bambini divenne 'chiaramente piò sottomesso", "piò
tranquillo e malleabile'.
Lo 'studio' di Bradley non era propriamente sistematico. Egli non impiegava gruppi di controllo,
non aveva parametri obiettivi con cui misurare i cambiamenti comportamentali, ed i suoi soggetti
costituivano un gruppo misto di giovani gravemente disturbati i cui problemi potevano dipendere da
svariate cause. Ma le sue scoperte iniziali - la combinazione di un rendimento scolastico migliorato e
di un comportamento sottomesso - lo convinsero che stava per raggiungere qualcosa. Queste scoperte
diedero inizio anche alla teoria dell'"effetto paradosso" - cioè che i farmaci del tipo delle amfetamine,
che stimolavano gli adulti, tendevano a rendere sottomesso il comportamento di certi bambini. Bradley
scopr’ successivamente che gli effetti dei farmaci potevano non essere cos’ paradossali come egli
aveva supposto un tempo; in uno studio risultò che un quinto dei bambini curati divenne non piò
sottomesso, bens’ piò stimolato nel comportamento - piò svelto, energico, interessato ed aggressivo.54
Malgrado quelle osservazioni, tuttavia, una ricerca successiva (secondo quanto riferisce una
53
C. BRADLEY, Tke Behavior of Children Receiving Benzedrine. in "American Journal of Psychiatrv", vol. 94. novembre
1937, pp. 577-585.
54
C. BRADUY e M. BOWEI,, Amphetamine (Betazedrine); Therapy of Children's Behavior Disorders, in "American
Journal of Orthopsychiatry, vol. 11, gennaio 1941, pp. 92-103; e C. BRADLEY, Benzedrine ard Dexedrine in the
Treatment of Children's Behavior Disorders, in "Pediatrics", vol. 5, gennaio 1950, pp. 24-36.
163
recente rassegna della letteratura) precedette soprattutto in base all'assunto che le amfetamine
producevano realmente un effetto paradossalmente calmante sui bambini. Lo sviluppo successivo
dell'uso delle amfetamine nei bambini è stato molto influenzate da questa teoria".55
Per piò di un decennio, il lavoro di Bradley venne quasi dimenticato; durante gli anni Cinquanta ed
all'inizio degli anni Sessanta gli sforzi per curare bambini istituzional”zzat” affetti da disturbi mentali
erano all'ultimo posto nella lista delle priorità sociali, e nessuno aveva mai sentito parlare di difficoltà
dell'apprendimento o di ipercinesi" in una normale istituzione scolastica. I farmaci psicoattivi piò
promettenti, in ogni caso, sembravano essere i tranquillanti ed il loro uso era giustificato dal desiderio
istituzionale di ordine e di mantenere i bambini tranquilli senza sottoporli a costrizioni fisiche. Nel
1963, tuttavia, un gruppo di ricercatori della Johns Hopkins University, avendo rilevato che i
tranquillanti erano poco piò che dei placebo nel trattamento dei bambini disturbati - generalmente
appartenenti a gruppi misti descritti come "nevrotici", "ipercinetici", "anormali" ed "antisociali" -- si
rivolsero agli stimolanti e cominciarono a riferire quelli che essi consideravano risultati positivi.56
soggetti erano bambini istituzionalizzati, disturbati e delinquenti, l'obiettivo era di renderli calmi e
cooperanti, ed i farmaci descritti erano destroamfetamine (Dexedrina) e Ritalin. un prodotto del tipo
delle amfetamine che era stato usato negli adulti per controllare depressioni di tipo lieve e
comportamento "senile".
Era l'inizio di un'era. Lo studio della Hopkins, non solo acu’ l'interesse per l'uso pediatrico degli
stimolanti, ma creò pure il gruppo di ricerca che ha, per piò di un decennio, presentato i suoi risultati
piò pubblicizzati ed autorevoli. Gli altri membri dei gruppo erano Leon Eisenberg, uno psichiatra che
era fra gli autori della relazione del 1963, e C. Keith Conners, uno psicologo clinico. Lavorando con il
sostegno finanziario di una serie di generose sovvenzioni dei NIMM - che ora s'aggirano intorno al
milione di dollari - prima alla Hopkins e poi a Harvard ed al Massachusetts General Hospital di
Boston, Conners ed Eisenberg divennero non solo i principali fautori della ricerca psicofarmacologica
pediatrica, ma anche i piò influenti sostenitori nel paese dell'uso degli stimolanti per i bimbi iperattivi.
Ogni stadio di quel lavoro fu finanziato dal NIMH (e talvolta dalle case farmaceutiche) e l'entusiasmo
dell'ente, confinante con l'estasi, divenne cos’ grande che lo stesso NIMH piò volte si associò a loro
nell'attività promozionale. Nel 1973, per esempio, Ronald S. Lipman, capo della Sezione degli studi
clinici, scrisse un articolo nel bollettino farmacologico dell'ente, in cui dichiarava che l'uso dei
farmaci stimolanti nei bambini stava guadagnando sempre maggior credito scientifico (attraverso)la
sofisicata metodologia adottata dai ricercatori della Hopkins. Le pubblicazioni esaurienti di questo
gruppo, che coprono p”ò di un decennio di esperienze nel campo della ricerca, hanno decisamente
stabilito l'efficacia a breve termine delle cure stimolanti per ridurre l'iperattività, la tendenza a"
distrazione e all'impulsività. Gli stimolanti risultano efficaci anche nell'accerescere il rendimento in
una quantità di funzioni cognitivo-motorie, incluso il labirinto di Portcus. nell'apprendimento
accoppiato-associato, e in vari sottotests della granduatoria d'intelligenza Wechslcr per bambini
55
L.GRINSPOON e S. B. SINGER Amphetamine in The Treatment of Hyperkinetic Children, in “Harvard Educatinal
Rewiew”, vol. 43 n.4 novembre 1973, pag. 520 L. EISENBERG, A. GILBERT, LCYTRYN e P.A. MOLLING, The
effettive
56
L. CYTRYN, A. GILBERT e L. EISENBERG, The Effectiveness of Tranqulizing Drug Plus Supportive Psychotherepy
in Treatig Behavior Disorder of Children. A Double-Blind Study of Eighty Outpatient, in "American Journal of
Ortopsychiatry" vol. 30, 1960, pp. 113-129 L. EISENBERG, A. GILBERT, LCYTRYN e P.A. MOLLING, The effettive
Psycoterapy Alone and in Conjunction with Perphenazine o Placebo in the Theatment of Neurotic an Hyperkinetic Children,
in “American Journal of Psychiatry", vol. 117, 1961, pp. 1088- 1093. P.A. MOLLING, A. W. LOCKNER, R. J. SAULS e
L. EISENBERG, Committed Delinqunt Boys, The Impact of Perphenazine and of Placebo, in “Archives of General
Psychiatry”, vol. 7, 1962, pp.70-76. L. EISENBERG, R. LACKMAN, P.A. MOLI.ING, A. LOCKNER, J.D. MIZELLE e
C. K. CONNERS, A Psvchopharmacologie Experiment in a Training School for Delinquet Boy, in “American Journal of
Ortopsychiatry", vol. 33, 3, 1963, pp. 431-446.
164
(WISC) e nel test di conseguimento su vasta scala [Wide Range Achievement test].57
L'entusiasmo di Lipman faceva eco alle parole di un altro funzionario dell'HEW, Thomas C. Points,
segretario aggiunto del deputato per i problemi della salute e della scienza, che aveva detto ad un
comitato del Congresso nel 1970 che esisteva una sindrome ipercinetica abbastanza comune che "si
presta ad un trattamento farmacologico sicuro ed efficace"; che le "relazioni cliniche e la vasta
letteratura di studi controllati mostrano una risposta clinica altamente favorevole"; che il Ritalin e
particolarmente la Dexedrina sono "sicuri e clinicamente efficaci in un'altissima percentuale di
bambini ipercinetici; e che non c'è nessuna prova che dimostri il verificarsi di sensazioni di euforia e
nessuna prova che compaia assuefazione a tali farmaci nei bambini". I farmaci, egli diceva, migliorano
il comportamento e l'apprendimento, senza intorpidire il bambino o senza diminuire "il suo livello di
attività nelle situazioni adatte [...] Questi farmaci, se mai, permettono al bambino di stare seduto
tranquillo ed essere partecipe, laddove, come nella classe, questo comportamento sia richiesto e
soprattutto necessario, e affinché il bambino approf”tti della esperienza educativa, senza diventare un
emarginato scolastico. Points valutava gli effetti negativi collaterali ad una rassicurante bassa
percentuale, che va- riava fra il 12 e il 14 per cento, ed “nsisteva - interrogato - che i farmaci, non solo
modificano il comportamento. ma "accrescevano [...] le capacità d” apprendimento i progressi in
aritmetica e cos’ via".58
Alla base di quell'entusiasmo c'era un cumulo di studi che tendevano a dimostrare scientificamente
che i farmaci stimolanti sono sicuri ed efficaci per il "trattamento" e la "gestione" dei bambini disadatti
all'apprendimento. Gli studi, tuttavia, erano considerevolmente invalidati da fattori estranei, da
problemi di definizioni, dal cosiddetto effetto placebo (per cui i bambini "trattati" con pillole
farmacologicamente inerti sembrano migliorare), dalla mancanza di followups a lungo termine, e da
un miglioramento scarsamente dimostrabile nel rendimento scolastico.59 Gli studi dimostravano che i
farmaci rendevano i sorveglianti e gli insegnanti felici; ma erano incapaci di definire una sindrome o
valutarne la cura. Nel 1967 Conners ed Eisenberg cominciarono ad usare gli scolari, anziché i pazienti
istituzionalizzati, per i loro esperimenti, ed in una relazione sull'uso della Dexedrina nei bambini
"disadatti all'apprendimento" conclusero che, benché il farmaco non avesse alcun effetto sulla
"capacità intellettiva" esso aveva prodotto "un miglioramento significativo nella valutazione del
comportamento da parte degli insegnanti". La difficoltà era che non c'era nessuna definizione precisa
dei "problemi dell'apprendimento" e nessun criterio, al di fuori delle lamentele dell'insegnante qualsiasi tipo di lamentela - per chi dovesse essere ammesso allo studio. Le lamentele potevano essere
di questo tipo:
Molto chiacchierone, parla agli altri studenti ad alta voce durante la lezione [...] La sua attenzione è
di breve durata. E’ al di sotto della media in tutte le materie scolastiche. Nessun problema di
comportamento, benché [...] E’scolasticamente ritardato. Dimostra un buon potenziale artistico e vuole
trasformare la maggio parte degli argomenti trattati in arte. Durante una lezione di aritmetica è capace
57
R.S. LIPMAN, NIMH-PRB Support of Reserch in Minimal Brain Dysfunction and Other Disorders of Childhood, in
“Psychopharmacology Bulletin” numero speciale sulla farmacoterapia dei bambini, 1973, p.1.
58
Deposizione di Thomas C. Points al Subcommittee on Government Operations, pp. 6-9..
59
CONNERS e EISENBERG, The Effects of Methylphenidate on Symptomatology and Learing in Disturbed Chldren, in
"American Journal of Psychiatry", vol. 120, n. 5, 1963, pp. 458-464. CONNERS, EISENBERG e L. SHARPE, Effects of
Methylphenidale (Ritalin) on Paired-Associate Learning and Porteus Maze Performance in Emotionally Disturbed
Children, in "Journal of Consulting Psychology", vol. 28, I. 1964, pp. 14-22.
165
di prendere la carta e disegnare [...] Attribuisce troppa importanza al vestito. E’ un estremista, manca
di interesse nella scuola. Esibisce un comportamento spregiudicato, quando gli chiede di lavorare a
scuola [...] Molto giocherellone, un pagliaccio mormora e canta [...] Ridacchia senza alcuna ragione
Del tutto disinteressato alla promozione o alla bocciatura [...]Rumoroso [...] Eccitabile [...]
Chiacchierone, ma timido [...] Irrequieto [... ] Ha mediocri attitudini al lavoro [...]] Spesso sogna ad
occhi aperti [... ] Ansiosa [... ] Succhia le dita e va spesso in bagno Non risponde prontamente ai
suggerimenti costruttivi.60
Ciò che i bambini avevano realmente in comune erano la razza e la classe sociale: essi erano tutti
neri poveri che frequentavano la quinta o la sesta classe in due scuole-ghetto di Baltimora. Gli
insegnanti riferivano che gli studenti che prendevano la Dexedrina miglioravano il loro
"comportamento scolastico, il loro atteggiamento verso l'autorità,, la partecipazione di gruppo".
C'erano meno movimenti sfrenati, meno andirivieni. I ricercatori notarono "una certa euforia
combinata con riflessi piò pronti, sopportazione e tolleranza alla fatica", che tuttavia nei piò emarginati
acutizzava il malumore, la cocciutaggine, l'ipersensibilità e l'ostilità. Non vennero sollevate obiezioni
sul fatti che tale comportamento fosse auspicabile, sul fatto chi la docilità fosse realmente piò
produttiva ai fini dell'apprendimento, sull'eventuale relazione fra l'ambiente sociali ed il
comportamento scolastico, o a proposito dell'atteggiamento degli stessi insegnanti. Pur tuttavia, lo
studio d Baltimora è diventato un modello per la ricerca successiva ed una delle maggiori
dimostrazioni per convalidare l'uso degli stimolanti. Conners ed Eisenberg avevano trovato un modo
di rendere la vita, in una classe del centro della città, piò sopportabile.
L'accumularsi di relazioni positive da parte di Conners ed Eisenberg incitò il NIMH e le case
farmaceutiche a finanziare piò ricerche nel campo e scatenò un diluvio di relazioni scientifiche ed
articoli sulle riviste piò diffuse, un'orgia di conferenze, molte delle quali sovvenzionate dalle case
farmaceutiche ed un rapido aumento dell'uso dei farmaci. In campo farmacologico, aveva detto una
volta Eisenberg, 'la certezza con cui si sostengono tali teorie tende a variare in maniera inversamente
proporzionale al- l'approfondimento della conoscenza su cui sono basate". E tuttavia se gli studi della
fine degli anni Sessanta e dell'inizio degli anni Settanta dimostravano qualcosa, era per l'appunto
questo miscuglio di certezze e di ignoranza. La maggior parte di essi, diceva Roger D. Freeman, uno
psichiatra che recensiva le pubblicazioni, "risentono di molte cause di inattendibilità. Dal punto di
vista strettamente scientifico, ci sono pochissime prove che qualsiasi farmaco sia efficace
nell'accrescere l'apprendimento [...] Molti farmaci indeboliscono l'apprendimento".61
L'opinione comune, malgrado le recenti scoperte di Bradley, e malgrado osservazioni analoghe
della pratica clinica ed in corso di esperimenti, era che i farmaci avessero un "effetto paradosso" nei
bambini ipercinetici.6221 A causa di particolari caratteristiche organiche e chimiche nella neurologia
dei bambini ipercinetici (che nessuno capiva), i farmaci non producevano gli effetti euforici e stii
molanti che essi ottenevano sugli adulti, e non c'era perciò alcun rischio di creare una dipendenza dai
60
CONNERs, EISENBERG e A. BARCAT, Effect of Dextroamphetamine of Children: Studies on Subjects With
Learning Disabilities and School Behavior Problems, in 'Archives of General Psychiatry', vol. 17, ottobre 1967, pp. 478485
61
R. D. FREEMAN, Review Of Drug Effects on Learning in Children, in Successful Programming: Many Points of
View, Academic Therapy, San Rafael (California) 1969, pp. .505-507. R. D. FREEMAN, Drug Effects on Learning in
Children: A Selettive Review of the Past Thirty Years, in 'Journal of Special Education', vol. 1, 1, autunno 1966, pp. 17-44.
R. D. FREEMAN, Review of Medicine in Special Education: Another Look at Drugs and Behavior, in 'Journal of Special
Education, vol. 4, 1, autunno 1970, pp. 377-384. R. D. FREEMAN, Review of Medicine in Special Education: MedicalBehavioral Pseudorelationships, in 'Journal of Special Education', vol. 5, inverno-primavera 1971, pp. 93-99.
62
Vedi P. H. WENDER, Some Speculaftions Concerning a Possible Biochemical Basis in Minimal Brain function, in
Annals of the New York Academy of Sciences, pp. 18-28.
166
farmaci, o degli episodi psicotici o delle allucinaz’oni.63 Questa tesi condusse ad un ulteriore risultato,
portò cioè alcuni ricercatori, e la maggior parte dei medic”, alla conclusione tautologica, e
politicamente soddisfacente, che i farmaci stessi potevano essere usati per diagnosticare l'ipercinesi o
l'MBD: se un bambino rispondeva adeguatamente al farmaco, egli doveva avere tale disturbo; se ne,
voleva dire che non ne era afflitto. Il farmaco, diceva un pediatra, .normalizza questi bambini", come
conseguenza "il bambino funziona meglio come bambino".64 Tale ragionamento tendeva ad evitare
una notevole quantità di difficoltà politiche e sociali, che avrebbero potuto altrimenti ostacolare il
processo dell'uso farmacologico. Sarebbe stato impensabile somministrare delle anfetamine o
comunque farmaci di tipo anfetaminico a dei bambini che facevano troppe scenate a scuola o a casa drogarli per tenerli docili - ma era una cosa ben differente trattare una sindrome medica, una anomalia
speci-fica, ed usare farmaci dal cui effetto pernicioso si riteneva che il paziente fosse immune. La
malattia, l’"entità" medica chiamata MBD era, il piò delle volte, una creatura del farmaco, una
diagnosi determinata dal trattamento. Nel 1970, circa 200.000 o 300.000 bambini americani erano in
cura con farmaci psicoattivi, e man mano che il loro numero cresceva, cresceva la consapevolezza del
pubblico a proposito del nuovo disturbo.
Ciò che nessuno faceva notare era che la ricerca, su cui erano basate quelle prescrizioni, non era
mai stata limitata ai bambini diagnosticati come ipercinetici (o con qualsiasi altra diagnosi medica),
ma aveva quasi invariabilmente incluso una vasta categoria d” soggetti che creavano problemi agli
adulti; sin dall'inizio inoltre, l'obiettivo principale era stato non di curare, ma di controllare. All'inizio
degli anni Settanta, tuttavia, molti di quei soggetti erano stati retroattivamente rietichettati per venire
in- contro alle necessità politiche e sociali del tempo; ex post facto il miscuglio di problemi
comportamentali divenne uniformemente ipercinetico. Nel 1973, per esempio, Eisenberg pubblicò un
articolo in 'Hospital Praetice" sull'importanza degli stimolanti per i bambini ipercinetici. L'articolo,
ampiamente diffuso fra i medici ed i gruppi specializzati in "difficoltà di apprendimento ", assicura al
lettore che i farmaci sono efficaci nei bambini diagnosticati con certezza come iperattivi, ma non 'nei
bambini con disordini diversi dall'iperattività". Gli effetti su di loro, egli ammoni, sono sconosciuti.
Per esporre il suo caso, egli descrisse il suo studio del 1967 con quei bambini che canticchiavano e si
succhiavano le dita a Baltimora. In 6 anni, perfino quelli che avevano avuto semplicemente " dei
problemi di comportamento scolastico" - inclusi alcuni de- scritti come 'timidi', "apportati", e "molto
tranquilli" - divennero iperattivi.65
I problemi sono ulteriormente ingarbugliati dalla confusione sul modo in cui i farmaci operano sui
bambini e dall'incertezza sui loro effetti.66 Malgrado l'opinione che i bambini ipercinetici o affetti da
MBD rispondano in un modo speciale, l'unico studio che ha incluso dei bambini "normali" ha
63
Vedi L. OETTINGER JR., Learning Disorders, Hyperkinesis, and the Use of Drugs in Children, in 'Rehabilitation
Literature', vol. 32, 6, giugno 1971, pp. 162-167; L. TARNAPOL (a cura di), Learning Disorders in Children: Diagnosis,
Medication, Education, Little Brown & Co., Boston 1971, e WENDER, Some Speculations .... cit., p. 22.
64
OETTINGER, Learning Disorders..., cit., p. 165.
65
EISENBERG, The Overactive Child, Hospital Practice, settembre 1970. L'articolo venne ristampato e diffuso nei
simposi sulle difficoltà d'apprendimento da gruppi di non medici come la ANHC californiana. Vedi anche EISENBERG,
The Clinical Use of Stimulant Drugs in Children, in "Pediatrics', vol. 49, 5, maggio 1972, pp. 709-715.
66
Vedi GRINSPOON e SINGER, Amphefamines.... cit.; C. J. WEITHORN, Hyperactivity and the CNS: An Etiological
and Diagnostie Dilemma, in 'Journal ot Learning Disabilities', vol. 6, gennaio 1973, pp. 41-45; B. FISH, The 'One Child,
One Drug' Myth of Stimulants in Hyperkinesis, in 'Archives of General Psychiatry', vol. 25, settembre 1971, pp. 212-227; J.
S. WERRY e R. L. SPAGUE, Hyperactivity, in C. G. COSTELLO (a cura di), Symptoms of Psychopathology, Wiley, New
York 1970; G. WEISS ed al., Comparison of the Effects of Chlorpromazine, Dextroamphetamine and Methylphenidale on
the Behavior and Intellectual Functioning of Hyperactive Children, in 'Canadian Medical Association Journal', vol. 194, 9
gennaio 1971, pp. 20-21.
167
dimostrato che essi rispondevano esattamente nello stesso modo di quelli definiti iperattivi.6716 (Nel
suo articolo del 1973, Eisenberg parlava ancora dell'effetto paradosso, benché già nel 1966 il suo
collega Conners lo avesse denunciato come un "artificio dell'osservazione".) 68Alcuni ricercatori
pensano che i bambini iperattivi siano sovreccitati e che le amfetamine riducano l'eccitazione, altri
credono nel contrario.69 Uno studio scopr’ che il Ritalin riduceva in maniera indicativa il livello di
attività misurato nei ragazzi anti-sociali ed iperattivi, mentre il placebo non otteneva alcun effetto70;
secondo un altro studio sia il Ritalin sia il placebo riducevano l'attività motoria71 ed in un terzo studio
l'attività motoria era effettivamente migliorata dal Ritalin.72
Nessuna di queste scoperte può significare molto. Delle 756 relazioni sulla terapia psicotropica dei
bambini pubblicate fra il 1937 ed il marzo dei 1971, soltanto un piccolo numero si riferiva a studi
controllati che usavano la valutazione diretta del comportamento per indicare gli effetti dei farmaci; in
piò di metà di quegli studi, nessuna differenza significativa venne riscontrata fra gli effetti dei farmaci
e quelli del placebo. Quando i tests psicologici costituivano il criterio base, la percentuale di studi che
non davano risultati era anche piò alta. Soltanto negli studi in cui le "impressioni cliniche" soggettive
erano usate come criterio di valutazione venivano riferiti risultati significativi.73 La "letteratura"
secondo una rassegna molto approfondita apparsa sul "New England Journal of Medicine", .mette in
evidenza un notevole parallelismo fra gli effetti dei farmaci stimolanti sugli adulti normali e sui
bambini problematici". I tempi di reazione sono diminuiti e il rendimento "nello svolgere semplici
problemi di aritmetica ed altri compiti che richiedano attenzione (per esempio, battere a macchina) è
accresciuto". Quello che ciò sta a sIgnificare è che i farmaci migliorano il rendimento in caso di
"compiti ripetitivi e meccanici, che richiedono un'attenzione prolungata. Il ragionamento, la capacità
di risolvere problemi e l'apprendimento non sembrano essere intaccati né negli adulti, né nei
bambini".74
Se è già difficile valutare l'efficacia dei farmaci è anche piò difficile ottenere un quadro ben definito
dei loro effetti collaterali. Quelli piò comunemente segnalati includono mancanza di appetito, grave
perdita di peso, insonnia, depressione, mal di testa, mal di stomaco, tendenza all'enuresi, irritabilità e
stordimento (e molti di questi affliggono una considerevole percentuale di coloro che prendono tali
farmaci), ma un numero sempre maggiore di relazioni denuncia anche gravi disturbi psicologici.75 E’
67
T. SHETTY, Photic Responses in Hyperkinesis of Childhood, in 'Science", vol. 174, 1971, pp. 1356 - 1357.
CONNERS, The Effect of Dexedrine on Rapid Discrimination and Molor Control of Hyperkinetic Children Under Mild
Stress, in 'Journal of Nervous and Mental Disease', vol. 142, maggio 1966, pp. 429-433.
69
L. A. SROUFE e M. A. STEWART, Treating Problem Children with Stimulant Drugs, in 'The New Engiand Journal of
Medicine", vol. 289, 8, 23 agosto 19173, pp. 407-412.
70
R. L. SPRACLE, ed. al., Methylphenidate and Thioridazine: Learning Reaction Time, Activity, and Classroom Behavior
in Disturbed Children, in "American Journal of Orthopsychiatry" , vol. 40, luglio 1970, pp. 615-623.
71
J. G. MILLICHAP ed al., Hyperkinetic Behavior and Learning Disorders- III, Battery of Neuropsychological Tests in
Controlled Trial al Methyphenidate. in "American Journal of Disseases of Children",vol. 116, settembre 1968, pp. 235-244.
72
J. G. MILLiCHAP e E. E. BOLDREY Studies in Hyperkinetic Behavior: 11, Laboratory and Clinical Evaluations of
Druigs Treatments, in 'Neurology', vol. 17, maggio 1967, pp. 467-471.
73
S. I. SULZBAHER, Psychotropic Medication with Children: An Evaluation of Proccdural Biases in Results of
Reported Studics, in "Pediatrics", vol. 51, 3, marzo 1973, pp. 513-517. Inoltre. SULZBACHER, Behaviaral
Analysis of Drug Efficets in the Classroom, in SEMB ed al. (a cura di), Behavioral Analysis and Education-1972,
University of Kansas, Lawrence 1973.
74
SROUFE E STEWART Treating Problem Children..., cit., p. 410.
75
In un tipico studio. finanziato dal NIMH e la una industria farmaceutica e riportato alla fine dei 1972, i ricercatori
trovarono che entro un gruppo di bambini tra i sei e gli undici anni, il 78% in trattamento con destroamfetamina perse
l'appetito; il 73% perse peso - una media di 3,2 libbre in 8 settimane, il 53% soffri di insomma: il 49% andò incontro ad un
aumento della depressione; il 41% soffrì di cefalea; un altro 41% ebbe dolori allo stomaco; il 29% diventò irritabile e il
23% lamentò vertigini. Inoltre uno dei bambini diventò 'apertamente psicotico' inducendo gli autori a suggerire che
68
168
un fatto ben noto che, negli adulti. perfino piccole dosi di anfetamine possono produrre una "psicosi
modello", difficile da distinguere dalla schizofrenia. A causa dell’"effetto paradosso" si supponeva che
i bambini fossero immuni da tale reazione. Non lo erano76 In un caso, un bambino di 8 anni che
prendeva 5 milligrammi di destroamfetamina, due volte al giorno, per un "comportamento scolastico
irruente" e che inizialmente mostrò "un miglioramento immediato", nel corso della cura diventò
paranoide: si lamentava che persone che egli non poteva vedere gli tiravano palle di neve alle spalle, o
gli toccavano le cosce o i genitali durante la notte e lo spiavano. Egli udiva anche delle voci che
poteva imitare. Per un breve periodo, gli sospesero i farmaci e le allucinazioni cessarono, ma dopo che
la scuola lo risped’ a casa per la sua iperattività, la cura venne ripresa, il dosaggio aumentato e le
allucinazioni ricominciarono. Finalmente sembrò che egli le avesse superate e "si comportò bene
durante gli ultimi quattro mesi di scuola e fu promosso".77 In altri casi, dei bambini che prendevano le
amfetamine furono descritti come "chiaramente psicotici".
Ci sono state relazioni consimili a proposito del Ritalin, che è normalmente descritto come piò
blando e p’ò sicuro della Dexedrina e che è, perciò, diventato il preferito fra gli psicostimolanti
pediatrici. In un caso, una bambina di 6 anni che usava il Ritalin divenne irritabile e piagnucolosa, poi
vogliosa di collaborare e rilassata, ma dopo una settimana essa cominciò ad esibire un comportamento
"estremamente bizzarro", nascondendosi in un armadio a muro ed acquattandosi in un angolo,
diventando apatica e muta, "quasi come un vegetale", quindi partottando in modo incoerente, fissando
lo sguardo nello spazio e contorcendo il corpo. In un altro caso, un ragazzo di dieci anni cominciò ad
urlare nel sonno al secondo giorno della cura con Ritalin, quindi divenne piò Irritabile, piò iperattivo, e
cominciò a picchiare i bimbi piò piccoli, dicendo che "si sentiva come se avesse voluto fare tutto a
pezzi". Vedeva animali che camminavano intorno ad un vortice; il cibo assunse uno strano gusto e la
sua bocca divenne asciutta. In seguito egli divenne debole e depresso. In un terzo caso, una ragazza di
quindici anni che aveva preso il Ritalin per 6 anni, triplicò la sua dose usuale durante un campeggio di
f”ne-settimana per essere "rilassata". Per due giorni essa ebbe allucinazioni visive, in cui i tronchi o le
ombre diventavano orsi o persone. Era sicura che alcuni ragazzi le avessero messo una sostanza
puzzolente sul collo.78 Fra altre notizie "sugli effetti collaterali inconsueti" c'era il caso di un bimbo di
due anni che urlò per molte ore dopo aver preso 10 milligrammi di Ritalin, e l'attacco di psicosi in un
bambino di 6 anni che era stato "ben adattato, a parte l'iperattività", e che cominciò a tenere un
comportamento bizzarro, con allucinazioni visive e tattili, che includevano la vista e la sensazione di
vermi che lo percorrevano tutto".79
Sempre piò numerosi indizi dimostrano che i farmaci possono avere effetti a lunga scadenza, anche
piò radicali, particolarmente sulla crescita e nel creare una dipendenza psicologica dal farmaco. Nel
1972, Daniel Safer, della Scuola medica della Johns Hopkins University, rifer” che dosi relativamente
alte di Dexedrina o di Ritalin, prese per un periodo di molti mesi, possono compromettere
irrimediabilmente l'aumento di peso e di statura, e che anche quando un bambino avesse abbandonato
la cura, egli non avrebbe potuto recuperare la perdita di peso e di statura subita durante il
'l’incidenza di questa complicazione possa non essere cosi bassa come si pensava una volta. " L.M. CREENBURG ed al.,
Effects of Dextroamphetamine, Chlorpromazine. and Hydroyzine on Bchavior and Performance in Hyperactive Children,
in "American Journal of Psychiatry", vol. 129, 5, novembre 1972, pp. 44.51.
76
D. S. BELI. Comparison of Amphetamine Psychisis, and Schizophremia, in "British Journal uf Psychiatry", vol. 3, agosto
1965, pp. 701-707. Bell segnala che "l’anfetamina produce una 'psicosi modello' che ha una somiglianza piú stretta con la
schizofrenia di quella indotta da ogni altro farmaco allucinogeno conoscete.'
77
P. G. NEY, Psychosis in a Child, Associated With Amphetamine Administration, in "Canadan Medical Association
Journal", vol, 97, 21 ottobre 1967, pp. 1026-1029.
78
A. R. LUCAS e M. WEISS, Metilphenidate Hallucinosis, in "Journal of tbc Ameriun Medical Asseciation", vol. 217, 8,
23 agosto 1971, pp. 1079-082.
79
WEISS, ed al., Comparison of Effects. cit., p. 24.
169
"trattamento".80 Non meno importanti furono le segnalazioni secondo cui per la maggior parte dei
bambini i farmaci forniscono solo un sostegno momentaneo e non "un trattamento", e che quindi essi
creano una dipendenza di lunga durata. Gli unici studi a disposizione, nei quali i bimbi trattati con i
farmaci risultano seguiti fino all'adolescenza, "fanno pensare che le prospettive per i bambini trattati
precocemente con i farmaci siano relativamente scadenti. Nell'adolescenza questi bambini avevano
ancora noie con le loro famiglie, si comportavano spesso in modo anti-sociale e presentavano problemi
di carattere scolastico e comportamentale. Quest'ultimo risultato è particolarmente deludente, in
quanto il trattamento farmacologico in generale tendeva per l'appunto ad aiutare i bimbi problematico
ad ottenere un miglior rendimento scolastico".81 Per Mark Stewart, uno psichiatra infantile
dell'Università dell'Iowa, quelle osservazioni erano state rafforzate da una vasta esperienza personale
nello studio e nel trattamento dei bambini iperattivi, quando si avvicinavano all'adolescenza.
Essi abbandonano i farmaci intorno ai quattordici anni [egli dichiarò durante un'intervista] e di
colpo sono persone grandi e forti, che non hanno mai dedicato del tempo a costruirsi i mezzi di
controllo per imparare a cavarsela con la loro fatica quotidiana. Allora i genitori, che hanno
dimenticato quale fosse la vera personalità -del -bambino senza la maschera dei farmaco, si
spaventano e dicono: "Mi aiuti, non so come cavarmela con lui. E’ piò alto di me ed ha l'autocontrollo di un bambino di sei anni. " A questo punto il genitore non trova altra soluzione che
ritornare all'uso dei farmaci. Essi sanno solo occuparsi di un bambino sotto l'effetto dei farmaci,
questa è l'attrattiva di un trattamento farmacologico riuscito - che risolve temporaneamente il
problema, senza chiedere alle persone coinvolte di fare nulla.82
L'alternativa di Stewart ai farmaci è di preparare e guidare i genitori, individualmente e in gruppo,
nel compito di cavarsela con un bimbo difficile, di fare "la parte dei genitori" in modo da permettere al
bambino di comportarsi in un modo che la condurrà alla fiducia in se stesso ed alla accettazione di sé.
"Per allevare i bambini iperattivi, si hanno gli stessi problemi che con gli altri', egli diceva, "solo piò
accentuali. Allevare un bambino è un lavoro difficile. Non c'è nessuna soluzione magica, ma ci sono
pratici sistemi di approccio ed aiuti possibili a disposizione".83
I medici ed i genitori presumono generalmente [dicono Stroufe e Stewaril che un bambino
iperattivo, che è trattato "con successo" mediante farmaci stimolante per un periodo di mesi o anni,
acquisirà delle buone abitudini proprio grazie alle gratif”cazioni che egli riceve in cambio di un buon
comportamento nel corso della cura. Gli studi di follow-up [...] non sembrano avvalorare questa idea
[...] Un'altra supposizione generalizzata sull'uso dei farmaci è che essi "aiuteranno il bambino ad
andare meglio a scuola". I bambini trattati con successo eseguono piò del compito loro assegnato in
classe, ma uno si può domandare se questo è un traguardo veramente importante; eseguire un lavoro
assegnato non significa imparare [...] Si discute spesso sul fatto che i farmaci possano rompere un
circolo vizioso di infelicità, ma le conseguenze negative per il concetto di sé che può avere il bambino
possono essere non meno importanti. Il bambino può concludere che non è responsabile dei suo
comportamento: "Non posso evitare di essere cattivo oggi. Non ho ricevuto la mia pillola. " Il bimbo
80
D. SAFER ed al., Depression of Growth in Hyperactive Children on Stimulant Drugs, in "New Fngland Journal of
Medicine", vol. 287, agosto 1972. pp. 217-220.
81
Il SROUFE e STEWART, Treating Problem Children .... cit., p. 409
82
Il Mark Stewart, in un’intervista telefonica con gli autori.
83
Il M. A. STEWART C S. WENDKOS OLDS, Raising a Hyperaetive Child, Harper & Row, New York 1973, p. 135. Il
libro contiene un capitolo persuasivo. Drugs and the Hyperaetive Child, che avverte i genitori di evitare l'uso di farmaci
tranne che nei casi piú disperati.
170
comincia a non avere fiducia nelle buone condizioni di salute del suo cervello e del suo corpo, né nel
miglioramento della sua capacità di imparare e di controllare il suo comportamento, ma "con le mie
pillole magiche, io divento un buon bambino e faccio in modo che tutti mi vogliano bene'.84
I dubbi di Stroufe e Stewart sull'efficacia nel tempo dei farmaci vennero confermati dal primo
studio a lungo termine sugli effetti del Ritalin nei bambini iperattivi, pubblicato il 25 gennaio 1975,
dal "Canadian Medical Association Journal". Lo studio, eseguito da un gruppo di ricerca guidato dalla
dottoressa Gabrielle Weiss dell'Ospedale infantile di Montreal e sovvenzionato dalla CIBA, non rilevò
alcun miglioramento fra i giovani che usavano i farmaci, raffrontati a quelli che non ne usavano
affatto. I bambini che erano stati trattati col Ritalin per un periodo da 3 a 5 anni (una media di 51
mesi), non raggiungevano migliori risultati di un gruppo accuratamente composto, non sottoposto a
cure farmacologiche, se si utilizzava una scala di valori riferita al rendimento scolastico, allo sviluppo
emozionale, o alla delinquenza. La Weiss ed i suoi colleghi confermarono pure le osservazioni di
Safer, secondo cui i bambini che avevano preso il Ritalin, anche in dosi moderate e con periodi di
sospensione ("vacanza farmacologica"), non riuscivano a crescere secondo le proporzioni prestabilire.
Analogamente, il dottor Herbert E. Rie, un professore specializzato in pediatria e psicologia
all'Università statale dell'Ohio, aveva scoperto, nei primi due anni del suo studio a lungo termine, che
il Ritalin non aveva effetti positivi sul rendimento scolastico :dei bambini diagnosticati come
iperattivi. Dapprima le valutazioni degli insegnanti segnalano un miglioramento, ci disse Rie, perché "i
ragazzini si calmano in modo impressionante e non disturbano piò il prossimo, ma quando vengono
eseguiti dei tests obiettivi, questi dimostrano che non è stato raggiunto alcun miglioramento. Di fatto
ciò che abbiamo notato in questa serie di valutazioni è che i giovani che assumono farmaci sono assai
meno sensibili ed entusiasti e molto piò apatici, senza allegria e vagamente sciocchi. A inspiegabile
come questa realtà, evidente e verificabile, non sia stata rilevata prima'.
3.
Intorno al 1974, il Ritalin della CIBA era diventato praticamente sinonimo di stimolante pediatrico.
Nei sei anni precedenti, quando la prescrizione di tali farmaci era aumentata ad un ritmo che
raggiungeva il 50 per cento per anno, triplicandosi fra il 1970 e il 1974, la quotazione del Ritalin sul
mercato, correntemente valutata intorno ai 30 milioni di dollari annui, crebbe da circa il 50 per cento
fin oltre l'80 per cento. Questo successo è tanto piò impressionante se si tiene conto del fatto che 100
pastiglie (di 20 milligrammi ciascuna) costano ovunque fra i nove dollari e novanta ed i sedici dollari
in farmacia, dodici dollari e cinquanta è un prezzo tipico) e che una dose consimile di Dexedrina, la
cui azione è analoga, costa cinque dollari.
Alla base di questo successo si trova un'imponente campagna per l'incremento delle vendite, che dà
spicco non solo al farmaco, ma anche al disturbo che esso dovrebbe attutire, se non curare, una
miscela brillante di mitologia sociale a proposito di classi brillanti e felici con bimbi intelligenti e
felici, e citazioni accuratamente scelte dalle pubblicazioni mediche che, ad un'osservazione piò attenta,
non sono assolutamente in grado di avallare le conclusioni che la pubblicità suggerisce. Un avviso
pubblicitario per esempio - che si può trovare sulle piò diffuse riviste mediche - mostra la classe di una
84
SRUFE e STEWART. Treating Problem Children, p. 410. Maurice Laufer, un pioniere nel campo dell'uso di stimolanti
nei bambini, riferi (nel "Journal of Learning Disabilities", vol. 4, 1971, pp. 55-58). che un controllo a distanza condotto su
100 pazienti da lui trattati in precedenza con farmaci non mise in evidenza alcun caso di assuefaziore. Tuttavia, solo 57
tra i 100 genitori contattati risposero alla domanda sul successivo uso di farmaci. Di questi, 52 affermarono che
i loro figli non prendevano farmaci, e Laufer ammise: "Chi sa come quelli che non hanno risposto avrebbero
alterato i risultati! " STEWART e OLDS, Raising a Hvperactive Child, cit., p. 240.
171
scuola elementare in cui tutti i banchi sono allineati ordinatamente e tutti gli studenti sono attenti
eccetto un bimbo sporco, vicino al quale si trova l'insegnante. "Aiutate il bimbo affetto da MBD a
raggiungere il suo massimo potenziale", dice il testo. "Qui c'è un bambino che sembra ottenere ben
poco dalla scuola. Non sa stare seduto tranquillo. Non sa obbedire agli ordini. Si eccita facilmente e
spesso diventa aggressivo. E la sua attenzione è di breve durata [...] una vittima dei Danno Cerebrale
Minimo, un'entità diagnosticabile che generalmente risponde bene ai programmi di trattamento. E il
Ritalin può avere un'importante funzione..." La piccola pubblicazione fa notare, fra altre precisazioni,
che il Ritalin è solo un tipo di cura che si aggiunge ad altri provvedimenti terapeutici, ma il punto
essenziale dell'inserzione pubblicitaria è chiaro e persuasivo: il ragazzino che ha dei problemi con la
scuola può avere dei benefici dal Ritalin. Gli avvisi pubblicitari sono rafforzati da monografia e da
opuscoli indirizzati ai medici, fra di essi il manuale di 95 pagine sullo screening, discusso nel capitolo
secondo, ed un libretto intitolato "Danno Cerebrale Minimo: Guida alla diagnosi / Guida al
trattamento" (con la foto di un ragazzo biondo che uno non potrebbe fare a meno di aiutare) dove si
raccomanda che "il bimbo affetto da MBD sia aiutato ora" ed avverte che "la terapia farmacologica
può significare la differenza fra tenere il bimbo MBD nella sua classe normale e sistemarlo da qualche
altra parte. " Il libretto indica "i risultati clinici ottenuti col Ritalin, in un decennio di esperienza, come
presidio del trattamento del Danno Cerebrale M”nimo".85 Per sostenere le sue brillanti promesse
sull'efficacia dei farmaci, l'opuscolo medico cita tre esempi di ricerca che confermano le sue tesi. Il
primo è uno studio non controllato di un medico argentino che rifer’ di "un notevole miglioramento"
nel 40 per cento dei suoi soggetti (basato sulle relazioni degli insegnanti e dei genitori e
sull'osservazione clinica diretta).86
La relazione originale, pubblicata nel 1962, mette in guardia da possibili effetti collaterali del
farmaco - "alcuni dei genitori", disse il medico "non ci fornirono un'opinione obiettiva su ciò che stava
accadendo al loro bambino' - e questo a sua volta "avrebbe potuto modificare i risultati f”nali dello
studio". (Queste riserve, naturalmente, non sono menzionate nel libretto della CIBA.) Il secondo è un
foglio inedito che paragona gli effetti del Ritalin, del fenobarbital e di un placebo, su dieci bambini. (Il
Ritalin ebbe la meglio, ma la ricerca ha dimostrato in modo attendibile che il fenobarbital rende i
bambini piò nervosi.)"87 Il terzo è un lavoro del 1969 sugli effetti del Ritalin in uno studio a doppio
cieco finanziato dalla CIBA relativo a quaranta bambini seguiti per "circa 6 settimane". 88 Lo studio
della CIBA stabili che il Ritalin era piò efficace del placebo nel migliorare la durata dell'attenzione,
anche se non migliorava le capacità verbali. L'opuscolo menziona l'un marcato effetto placebo", senza
aggiungere che, secondo le diverse valutazioni, un numero variante dal 37 al 67 per cento dei bambini
trattati con placebo mostrava anche un miglioramento significativo il che, come gli stessi autori
facevano notare, "rende piò difficile stabilire se il comportamento migliorato sia dovuto al trattamento
farmacologico".
Fra la fine degli anni Sessanta e il principio degli anni Settanta, la propaganda della CIBA fu basata
su di una campagna di vendite dirette, in cui i rappresentanti dell'industria erano sollecitati, secondo le
parole di un impiegato della CIBA, a diventare "degli agenti promotori piò efficienti". L'obiettivo
erano gli istituti di qualificazione per insegnanti, i sorveglianti dei giovani condannati in libertà
provvisoria, l'assemblea della PTA e qualsiasi altro gruppo o comunità fosse disposta a partecipare. 'La
85
Minimal Brain Dysfunctior (MBD): Guidelines to Diagniosis/Guidelines to Treatment. CIBA Pharmaceutical Company,
Summit (New Jersey) 1973.
86
M. KNOEBEL, Psychopharmacology for the Hyperkinetic Child, in "Archives of General Psychiatry", vol. 6, pp. 198202.
87
J. S. WERRY, documento presentato al convegno dell'American Psychiatric Association, avvenuto a Boston, dal 13 al 17
maggio 1968.
88
R. M. KNIGTHS e G. G. HINTON, The Effects of Methylphenidate (Ritalin) on the Motor Skills and Bchavior of'
Children With Learning Problems, in "The Journal of Nervous and Mental Discase", vol. 148, 6, 1969, pp. 643-653.
172
vostra abilità inventiva nel lancio del Ritalin", disse un dirigente nella relazione sulle vendite del suo
territorio nel 1971, "diventa sempre piò evidente"89
Il rappresentante della CIBA a Paducah, nel Kentucky, riferisce di avere una comunità di circa
10.000 elementi che ha istituito un programma di screening per i bambini in età prescolare, per
identificare il piò presto possibile i bambini che hanno difficoltà di apprendimento [...] [Il
propagandista di Kansas City ricorda ai suoi collaboratori che ci sono) alcune persone che noi
trascuriamo di frequente quando ci presentiamo o prendiamo contatti inerenti i problemi funzionari del
comportamento nei bambini. In particolare bisogna ricordare i funzionari del tribunale minorile e i
sorveglianti dei giovani delinquenti in libertà vigilata. Il sistema del tribunale minorile viene in
contatto con bambini di tutte le età, ma la sua principale utilità [...] sarebbe di discutere i Problemi
funzionale del comportamento con gli insegnanti ed i funzionari scolastici [...] Gli uffici statali per i
giovani collegati con la polizia sono certamente gli obiettivi principali; anche se essi sono in con- tatto
con i ragazzi piò grandi, possono spargere la voce [...] [Il propagandista di South Bend, Indiana]
riferisce che ad una riunione interna del personale addetto all'educazione medica [...] un medico portò
due bambini iperattivi come dimostrazione dei sintomi basilari dei Problemi funzionari del
comportamento. Questo si chiama impegnarsi, cari miei.
L'approccio piò comune era quello di mandare un propagandista, spesso accompagnato dai medici,
alle riunioni di comunità; alcuni, forniti di un film, si presentavano a diverse assemblee ogni sera,
cinque sere alla settimana. Un articolo pubblicato nel 1971 descrive una serata dei genere:90
Qui a Dublino, un oscuro sobborgo di San Francisco, le baby- sitters hanno molto da fare. Mamme
in bigodini e padri in scarpe da ginnastica si sono recati in macchina alla scuola elementare
Fredrickson per un'assemblea della PTA, nella grande aula delle riunioni. Proprio quando questo
andirivieni di pubblico finisce, una Continental bianca entra nel viale della scuola e supera
velocemente le macchine posteggiate. L'auto si arresta presso una porta laterale e ne schizza fuori il
distinto oratore. Un custode premuroso si affretta sotto la pioggia ed aiuta il dottor Daniel Martin,
medico, ad estrarre una videocassetta dal baule della macchina ed a trasciarla all'interno.
Una volta sul palcoscenico, il dottor Martin si scatena nel suo argomento controverso. Madri e
padri, egli domanda, è i1 vostro bambino superattivo? Ha delle difficoltà a star seduto tranquillo? E’
aggressivo, avido, impaziente e crudele con gli animali? Rende poco a scuola ed esplode in frequenti
accessi di collera? Fate sovente fatica a reprimere in voi stessi l'impulso di uccidere il piccolo mostro?
Se è cos’, non disperatevi. C'è un aiuto a vostra disposizione, e si chiama Ritalin. "R-I-T-A-L-I-N. "
Volete una prova? Benone. Spegnete le luci, e osserviamo tramite questa videocassetta la scena che
ci offrono Kevin e sua madre. Mentre la mamma ci dice che Kevin è un cretino, suo figlio improvvisa
un'esibizione di anormalità, ad uso della macchina da presa. Egli salta su e giò, gioca con dei
palloncini, fa il verso alla mamma, urla con voce stridula e tenta di accendere dei fiammiferi Fuori
scena, il dottor Martin domanda se Kevin ha avuto il suo Ritalin oggi. La mamma dice di no, cosi il
dottore gliene dà 20 milligrammi. Pochi minuti dopo il ragazzo riappare in scena, trasformato in tutto e
per tutto in un bambina modello. "Come ti senti Kevin? " domanda il dottor Martin. Kevin dice che
tutto è meraviglioso.
I genitori di Dublino ne rimangono opportunamente impressionati, cos’ come altr” genitori lo sono
stati a San Francisco, Los Angeles. Oakland, Fremont, Castro Valley e in dozzine di altre comunità
dove il dottor Martin ha mostrato il suo film [... ] [Il dottor Martin afferma [che il Ritalin] può fare
89
90
N. HENTOFF, Drug-pushing in the Schools; fhe Poifessionals (1), in "The Village Voice", 25 maggio 1972, pp. 20-22.
R. RAPORT, To, Keep The Kid Quiet?, in "Los Angeles Times WP ST Magazine". 25 aprile 1971, pp. 38-42.
173
tutto, dall'impedire di far pip’ a letto, fino ad evitare la bocciatura a studenti di primordine. "Noi lo
abbiamo dato ad un terribile ragazzino", egli dice 'e pochi minuti dopo il bambino raccoglieva la
spazzatura al posto di sua madre. Essa per poco non svenne". [...] "La diagnosi può essere fatta assai
meglio dal genitore o dall'insegnante", dice il dottor Martin. "Pensate, mia moglie fu in grado di fare la
diagnosi ad uno di questi ragazzini, semplicemente sulla base di ciò che sua madre raccontava sul
campo di golf. Nel mio studio, è facile identificare questi ragazzi non appena entrano e tentano di
accendere un falò. "
Rivolgendosi alla PTA il dottor Martin sollecitò i genitori ad osservare i nove segnali di pericolo
che potrebbero indicare la necessità di cure per i loro bambini, Questi sarebbero l'iperattività.
l'incapacità di sopportare le frustrazioni, l’aggressività, l'impulsività. la tendenza a fare assegnamento
sulle amicizie, l’impossibilità di procrastinare una ricompensa, un mediocre rendimento scolastico,
scadenti rapporti coi coetanei e aperta ostilità.
[... ] "Ora io voglio che voi capiate che noi non curiamo questi ragazzini, li teniamo solo sotto
controllo. E’ come se curassimo diabetici senza insulina. Normalmente noi cominciamo a
somministrare al vostro bambino di 3 o 4 anni 5 milligrammi 3 volte al giorno, poi saliamo fino a 15
milligrammi tre volte al giorno, quando arriva agli 8 o 9 anni. Il farmaco toglie un poco l'appetito e
provoca una lieve insonnia, questa è la ragione per cui preferiamo non darlo dopo le 4 pomeridiane.
L'effetto di ogni pillola dovrebbe durare per quattro ore; se non dura cos’ a lungo. allora alziamo la
dose.
"Una cosa buffa di questo farmaco è che, quando ne svanisce l'effetto, è come tuffarsi giò da una
scogliera. Mi ricordo una ragazzina che prendeva la sua pillola alle 7,30 del mattino, ma l'effetto
svaniva nel bel mezzo della lezione di inglese. Essa veniva espulsa dalla classe e cos’ aumentammo la
dose ed essa fu promossa con facilità. Possiamo anche raggiungere i 100, 140 milligrammi al giorno
se è necessario, e questa è una carica piuttosto forte per un bimbo piccolo. Naturalmente dobbiamo
evitare di dare una dose eccessiva - troppo medicinale li rende simili a vegetali.'
Le attività pubblicitarie piò vistose della CIBA e la contemporanea diffusione dell'uso di farmaci
stimolanti nei bambini hanno prodotto una serie di reazioni da parte degli enti governarvi. Nel 1970, la
Food and Drug Administration (FDA) ordinò alle case farmaceutiche di smetterla di usare "il disordine
funzionale del comportamento" come una sindrome con indicazione ai farmaci - il termine so- stitutivo
fu "Danno Cerebrale Minimo", che piò tardi avrebbe dovuto anch'esso essere abbandonato; nel 1971 la
CIBA fu avvertita che avrebbe dovuto cessare di fare propaganda direttamente presso il pubblico (non
ci sarebbero piò stati dei propagandisti alla PTA); e nel 1972 il Ritalin fu inserito negli elenchi
governativi dei "narcotici forti", che impone maggiori restrizioni dell'etichettamento e nella vendita.
(L'FDA aveva scoperto, fra le altre cose, che il Ritalin veniva disciolto e iniettato dai drogati per
rinforzare l'effetto dell'eroina o per aggiungere un effetto stimolante al Metadone.) Nel frattempo, un
comitato del Congresso guidato dal rappresentante del New Jersey, Cornelius Gallagher, tenne
conferenze sull'uso degli stimolanti pediatrici, nel corso delle quali i funzionari dell'HFW difendevano strenuamente l'efficacia dei farmaci e citavano Conners come uno scienziato modello, che si
guardava dai pregiudizi e portava avanti degli studi "obiettivi".91 Le udienze tuttavia suggerirono
91
Sottocomitato sulle attività del governo (p. 18). Ronald Lipman dichiarò che c'era soltanto uno studio di controllo a
lungo terrnine di bambini in trattamento con farmaci, e questo era uno studio condotto da Conners su 67 bambini. Il
rappresentante Cornelius Gallagher volle sapere se esistesse "'qualche studio alternativo in corso fnanziato con il denaro
federale. "
Lipman: "Che cosa? "
Gallagher: ". "
Lipman: "Alternativo? "
Gallagher: "Alternativo."
174
all'Ufficio per lo sviluppo del bambino dell'HEW di costituire un "comitato d'onore" per prendere in
considerazione l'argomento ed "informare gli educatori che forse si tratta di uno di quei problemi ai
quali gli scolari devono cercare di adattarsi" trattandosi di un problema neurologico non ben definito.
Cinque mesi dopo, il comitato di 15 membri, diretto da Daniel X. Freedman, psicofarmacologo e
direttore del Dipartimento di psichiatria dell'Università di Chicago, pubblicò un rapporto cos’ neutrale
nelle sue generalizzazioni, che era possibile citarlo a sostegno di qualsiasi posizione. Il comitato non
aveva fatto nessuna indagine autonoma sulla clientela degli studi dei dottori e nelle scuole dello stato,
basandosi esclusivamente sugli studi e le informazioni già esistenti. La sua dichiarazione piò incisiva
era una raccomandazione alle case farmaceutiche di promuovere gli stimolanti, nei limiti dell'etica, e
solo attraverso canali medici.92 La relazione, dicevano due ricercatori che l'avevano recensita, "tentava
di arrivare a due ordini di scoperte fondamentalmente opposti, nessuno dei quali conteneva qualcosa
che non fosse già noto". In una successiva intervista Freedman disse che era preoccupato per "tutti i
propagandisti di pillole nella giungla americana", ma ciò di cui c'era realmente bisogno era
un'informazione piò completa sulla "gestione dei pazienti'. I medici dovevano ottenere fiducia, egli
diceva, per prendere le loro decisioni.
Si faceva troppo poco e troppo tardi. Malgrado l'obbligo delle restrizioni volute dall'FDA, la
vendita del Ritalin continuò a salire. Mettere il farmaco nella lista dei narcotici forti significava, fra
l'altro, che le prescrizioni non potevano essere ripetute; ogni nuovo acquisto richiedeva una nuova
prescrizione. Di conseguenza, molti medici cominciarono a fare prescrizioni piò abbondanti e la casa
farmaceutica si mise a vendere le pillole non solo in dosi da cento, ma anche in flaconi da 500 o 1.000
(p’ò di una scorta per due anni, per la maggior parte dei bambini). Né le restrizioni fecero cessare le
pubblicazioni fatte circolare fra i medici, gli opuscoli sull'MBD distribuiti ai genitori, o la serie infinita
di riunioni e conferenze patrocinate dalle case farmaceutiche. In Svezia, le autorità addette alla salute
pubblica avevano vietato del tutto l'uso del Ritalin; era considerato troppo pericoloso e troppo
facilmente oggetto di abusi. Ma nel 1974, Ritalin era diventata una parola familiare in America.
4.
Verso la fine del 1974, un farmaco di nome Cylert divenne l'ultima, e potenzialmente, la piò importante
novità nell'arsenale degli psico stimolanti del sistema nervoso centrale [...] dissimile nella struttura dalle
arnfetamine, ma [con] talune proprietà farmacologiche consimili". Nel 1968 l'industria tentò di ottenere
l'approvazione dell'FDA per mettere in vendita il Cylert come antidepressivo, ma non riusc’. Nel 1969,
la Abbott provò di nuovo, questa volta etichettandolo come cura per l'MBD, e verso la fine del 1971
sottopose i risultati di due studi che miravano a dimostrare la sua sicurezza e la sua efficacia. Ciò che
segui ci offre qualche indicazione su come il piccolo mondo dei medici, degli scienziati universitari, dei
dirigenti delle case farmaceutiche e dei funzionari dell'FDA agisca per ratificare i farmaci usati dai
bambini.93
I due studi erano consimili. Entrambi erano stati ideati da Keith Conners, ed entrambi erano
parzialmente finanziati dalla Abbott. Uno venne condotto in 21 cliniche in diverse parti del paese,
"Conners", egli spiegò, "è ovviamente uno scienziato molto dedito al suo lavoro. Abbiamo un altro scienziato capace di
porlo in discussione? " Lipman continuò allora a difendere Conners in quanto conduceva ricerche che avrebbero "garantito
contro i pregiudizi che avrebbero potuto insinuarsi. "
92
D. X. FREEDMAN, ed al., Report of the Conference on the Use of Stimulant Drugs in the Treatment of Behaviarally
Disturbed Young School Children, patrocinato dall'Office of Child Development e dall'Office of the Assistant Secretary for
Health and Scientifle Affairs dell'HEW, l'll-12 gennaio 1971 a Washington (DC).
93
Molte delle informazioni che seguono provengono da memorandum, lettere e altri documenti degli archivi della FDA e
ci vennero dati a condizione che la fonte rimanesse segreta. Citeremo i documenti dove sarà possibile e identificheremo
quelli ottenuti in questo modo come "Documenti FDA."
175
l'altro venne eseguito da Conners e dai suoi colleghi al Massachusetts General Hospital. (Eisenberg fu
indicato come "ricercatore principale" nello studio sul Cylert, ma non ne fu mai partecipe in maniera
determinante.) Entrambi gli studi concludevano che il Cylert produceva un "miglioramento" che
confinava col miracoloso. Gli insegnanti, i genitori e gli psicologi, che classificarono i bambini trattati
col Cylert prima e dopo la cura, riferirono che il comportamento era migliore, la capacità di attenzione
maggiore, e i punteggi dei tests piò elevati. I bambini "trattati" con placebo "migliorarono" anch'essi
(come succede praticamente sempre in tali tests) ma non tanto quanto quelli trattati col Cylert. Gli
studi concludevano anche dicendo che il farmaco produceva pochi effetti collaterali negativi
significativi - "nessun effetto ematologico, epatico, renale o cardiovascolare di rilievo", scrisse
Conners. Siccome il farmaco era scarsamente solubile, oltre a tutto sarebbe stato difficile iniettarlo. Il
Cylert, a quanto sembrava, si stava facendo strada.94
A questo punto, si presentò un ostacolo inatteso. Un cavilloso funzionario medico dell'FDA, di
nome Carol S. Kennedy, cominciò a scoprire delle contraddizioni negli studi. Fra i documenti che la
Abbott aveva esibito c'erano alcuni articoli di Conners - uno appena pubblicato su "Pediatrics", l'altro
sul punto di uscire su "Psychopharmacologia" - in cui affermava, fra le altre cose, che i bambini
esaminati non avevano "sintomi nevrotici, psicotici o neurologici gravi, o una storia di psicopatologia
familiare sufficiente a spiegare i sintomi comportamentali in atto", che essi erano fra i sei ed i dodici
anni, e che lo studio, della durata di otto settimane (con un follow up alla dodicesima settimana, cioè
quattro settimane dopo l'interruzione della cura), includeva "un controllo medico nei giorni 14, 28, 42
e 56, con misurazioni del peso, del polso, e della pressione del sangue". Addentrandosi nei dati grezzi
su cui si basa- vano le relazioni, la Kennedy scoperse che nessun esame medico era stato effettuato nei
giorni 14 e 42; che 21 degli 84 bambini esaminati si trovavano in "condizioni cliniche non
adeguatamente approfondite o che li rendevano inadatti ad essere inclusi nello studio"; che le schede
relative all'esame fisico per 4 pazienti erano state firmate in data anteriore a quella dell'esame; che in
un buon numero di casi il dosaggio sembrava essere stato cambiato da qualcuno che non era il medico;
che sei dei bambini esaminati erano sotto i 6 anni di età; che molte schede col referto psicologico non
avevano data; che in numerosi casi la relazione scolastica degli insegnanti non era stata ottenuta se non
parecchie settimane dopo la conclusione dello studio, o addirittura non era mai arrivata; che
nonostante il progetto per lo studio di Conners prevedesse che tutti i soggetti avessero un punteggio di
quoziente di intelligenza superiore ad 80, molti erano al di sotto di almeno due punti, ed uno perfino di
tre; e che per 31 su 84 bambini studiati c'erano indicazioni di."psicopatologia del bambino per fattori
familiari o ambientali" abbastanza rilevanti da richiedere l'esclusione dall'indagine.95
Lo studio che ci è stato sottoposto [riferiva la Kennedy] va considerato inaccettabile in base agli
standard scientifici validi nell'ultimo decennio. Lo studio di cui sopra è di qualità estremamente
scadente, e il materiale pubblicato contiene delle distorsioni ovvie e grossolane dei dati reali.
Ciononostante, questo materiale pubblicato sarà senza dubbio usato in futuro come punto di
riferimento dalla comunità scientifica [...] Questo recensore è obbligato a considerare tutto il
precedente materiale di riferimento come inaccettabile non essendo accompagnato dai dati grezzi per
una verifica ed una valutazione da parte del personale professionale dell'FDA [...] Lo studio contiene
deficienze madornali, sia per quanto attiene alla sicurezza sia all'efficacia.
94
Sono stati pubblicati tre rappgrti connessi con gli studi sul Cylert: C. KFITH CONNERS, Psychological Effects of
Stimulant Drugs in Children With Minimai Brain Dvsfiinctiopi, in "Pediatrics", vol. 49, 1972, pp. 702-708: CONNERS, ed.
al., Magnesium Pemoline and Dextrophetamine: A Controlled Stuy), in Children With Minimal Brain Dvsfunction, in
"Psychopharmacologia", vol. 26,
95
Clinical Comparison of Dextroamphetamines and Cylert in Childhood Hyperkinesis: Eisenberg-Conners Study-Medical
Officer Comments, Documenti FDA, 1972. Simili conclusioni, scritte nella primavera, estate e autunno del 1972, furono
sostenute e riaffermate in seguito da Carol Kennedy presso vari funzionari dell'FDA.
176
Paragonato al lavoro svolto nelle 21 cliniche, tuttavia, lo studio di Conners sembrava un modello di
precisione scientifica. Ancor prima che la Abbott avesse sottoposto i risultati multiclinici all'FDA, i
consiglieri medici dell'industria avevano scartato il 40 per cento dei casi, come inaccettabili per ragioni
di metodo; dopo la revisione dell'FDA, Carol Kennedy attaccò il materiale rimanente perché risentiva
di "grossolane deviazioni dal protocollo", fra di esse l'inclusione di bambini con segni di "evidente
psicopatologia, di palesi fattori ambientali ' di cardiopatie congenite [...] di importante indebolimento
dell'udito o della vista" ed altre deviazioni dall'originale schema di studio, che richiedeva l'esclusione
di soggetti il cui comportamento o i cui problemi di apprendimento potessero venire attribuiti a fattori
fisici, emozionali o sociali. (Fra di essi c'erano bambini con padri alcolizzati, in prigione e madri
appena abbandonate; bambini che avevano cambiato numerose famiglie adottive; e bambini che erano
regolarmente picchiati dai genitori.)96 La Kennedy trovò anche dei casi, in cui la persona che doveva
registrare gli effetti clinici collaterali - che avrebbe dovuto essere un professionista con una
"qualificazione" medica, in grado di occuparsi della perdita del peso, dell'eventuale insufficienza
epatica o di altri disturbi - era ridicolmente poco familiare con la pratica corrente: gli effetti collaterali
registrati includevano "inizia di apprendimento", "incuria", "collaborazione", "pulizia della stanza per
la prima volta", Il cose simpatiche" ed "eccezionalità". Oltre a ciò, essa trovò un gran numero di casi
per i quali le schede con la storia clinica mancavano o non erano datate. C'era almeno un caso in cui
gli esami clinici segnalavano il bimbo come un epilettico la cui salute, secondo la Kennedy, avrebbe
potuto essere messa a repentaglio dal farmaco, ed almeno un altro in cui il ricercatore aveva scoperto
che il bambino aveva buttato le pillole nel gabinetto. (Non c'era alcun modo di sapere quanti altri non
fossero stati scoperti, di alcuni si supponeva che prendessero nove pillole al giorno.) Essa informò
anche i suoi superiori dell'FDA che l"'indice ipercinetico" con cui venivano classificati i bambini
consiste in tre elementi che sono totalmente imprecisi e che potrebbero includere quasi ogni tipo di
bambino" ("eccitabile, impulsivo", "non impara", "irrequieto, nel senso che si 'contorce' ". "infantile ed
immaturo").
Altrettanto importante è il fatto che essa sollevò dei seri interrogativi sul modo in cui la sicurezza
del farmaco era stata dimostrata - particolarmente per quanto riguardava i danni al sangue ed al fegato
- e citò diverse relazioni di un farmacologo dell'FDA e di due clinici dello staff, che sollevavano
ulteriori interrogativi sulla possibilità di una farmaco-dipendenza. L'uso del Cylert, essa concludeva,
era 'inaccettabile" e il 6 giugno 1972, essa abbozzò una lettera per notificarlo all'industria. "Questo
funzionario medico', essa avrebbe detto in seguito "non può passar sopra simili metodi [di ricerca], ed
è dovere del- l'FDA di assicurare che gli studi futuri, con farmaci sperimentali usati nei bambini, si
uniformino agli standard scientifici ed evitino inutili rischi alla massa dei pazienti. "97
Due settimane dopo la stesura di questo rapporto - la lettera non era stata ancora trasmessa
ufficialmente alla casa farmaceutica - la Abbott preparò una risposta. Nel 1970, diceva la ditta, la
Abbott era stata informata che il suo piano di studio era 'eccellente'. 'Vista la nostra tradizionale stretta
collaborazione [...] siamo stati presi completamente alla sprovvista dal rovesciamento di posizioni da
parte dell'FDA.' La casa farmaceutica dichiarò di essere disposta ad inviare "ulteriori studi sulla
dipendenza dal farmaco e conferme sui reperti relativi agli enzimi epatici [e] dati sull'altezza e sugli
esami oftalmologici eseguiti sui pazienti che avevano ricevuto il [Cylert] per prolungati periodi di
tempo". La risposta era appoggiata dalle lettere di otto autorità, fra cui Conners, Eisenberg e parecchi
consulenti della Abbott, che avevano approvato il progetto di uno o di entrambi gli studi. "Non ci
possono essere procedimenti piò obiettivi", scrisse Donald F. Klein, membro del Dipartimento
psichiatrico presso il Long Island Jewish Hiilside Medical Center di Glen Oaks, New York, un altro
prolifico sperimentatore nel campo della psicofarrnacologia infantile. Si dava il caso che Klein fosse
96
97
"Medical Officer Review", 11 ottobre 1972: "Medical Officer Review", 15 maggio 1972, Documenti FDA.
"Medical Officer Review", 11 ottobre 1972. p. 2.
177
contemporaneamente consulente in neurofarmacologia della FDA, membro del Clinical
Psychopbarmacology Rescarch Review Comittee al NIMH, e consulente retribuito della Abbott.
L'adesione piò interessante, tuttavia, venne da parte del consulente della Abbott, Harry C. Sbirkey,
direttore del Dipartimento pediatrico della Scuola medica all'Università di Tulane. "La miglior cosa da
fare dopo l'autorizzazione ad usare di nuovo il [Cylert], sarà di continuare delle valutazioni a lungo
termine", egli disse "poiché nel frattempo non è permesso di usare il farmaco. I suoi effetti sulla
crescita e lo sviluppo, i suoi effetti sulla pubertà e sulla maturazione sessuale [...] saranno compresi
meglio, permettendone un maggior uso".98
Nel mese di luglio le pressioni raggiungevano il loro apice. L'industria, secondo una voce raccolta
dall'FDA, aveva investito qualcosa come 4 milioni di dollari nel progetto Cylert, e non intendeva
perderli. "Nessuno mi ha mai detto di cambiare le mie conclusioni", disse in seguito la Kennedy. "Si
trattava solo di dimostrarle mediante prove su prove. Continuavano a dire: 'Speriamo che lei sappia
stare correttamente al gioco'." Di fronte alle insistenza - e anche in risposta ai suggerimenti della
Kennedy - l'FDA nominò una commissione esterna per riverificare i dati del Cylert e per tracciare
delle linee di condotta da seguire nei futuri studi d” psicofarmacologia pediatrica. I componenti erano:
Gerald Solomons, professore di pediatria all'Università di Iowa e direttore della Clinica universitaria
per lo sviluppo del bambino; Erie Denhoff, neurologo pediatra di Providence che era stato un collega
d” ricerca di Solomons; e Roger D. Freemar., psichiatra infantile all'Università della Columbia
britannica. Tutti e tre avevano una vasta esperienza sull'uso dei farmaci stimolanti nei bambini almeno uno, Denhoff, era conosciuto a livello nazionale come sostenitore di -tale tipo di cura e tutti
conoscevano Conners e rispettavano il suo lavoro. Nel riesaminare i dati all'origine, tuttavia, essi si
trovarono d'accordo con le conclusione della Kennedy, e giunsero a Washington con delle diapositive
che dovevano riassumere quelle che essi ritenevano le deficienze nei singoli casi. Avevano anche
preparato un rapporto che concludeva dicendo.- "il farmaco manca di una prova sostanziale della
propria sicurezza ed efficacia e non può essere approvato a causa delle evidentissime lacune nelle
ricerche [...] Particolarmente si raccomanda che i dati di questi studi relativi alla sicurezza siano
consideratI non accettabili se sottoposti ancora in futuro -ad approvazione".99 In sostanza essi dicevano
all'FDA di raccomandare alla Abbott di ricominciare da capo.
Nel settembre del 1972 la commissione si incontrò con i funzionari dell'FDA e con i rappresentanti
dell'industria. La delegazione della Abbott includeva Klein, Conners e Paul Wender, che era allora un
dipendente part-time del NIMH, tre ricercatori che avevano partecipato allo studio multiclinico e 3
funzionari anziani dell'industria. Conners riconobbe alcune incongruenze; esse si trovavano, egli disse
in un 'rapporto preliminare' e sarebbero state corrette in successive documentazioni. "All'inizio di una
ricerca si può essere bloccati da un metodo d'indagine errato [...] ma è nel corso dello studio che si può
stabilire che alcuni aspetti di esso sono del tutto irrealizzabili." Ciò che egli aveva riferito a proposito
degli esami clinici era quello che aveva inteso fare inizialmente, non quello che aveva fatto. Conners
affermò pure che alcune delle relazioni cliniche mancanti erano state trasmesse alla Abbott che,
secondo lui, aveva trascurato di inviare all'FDA, Tali trascuratezze tuttavia, non modificarono i
risultati finali; essi "sotto ogni punto di vista sono ben chiari."100
Conners e la Abbott presentarono successivamente dettagliate confutazioni alla revisione della
commissione Solomons. Entrambi riconobbero certi errori ed omissioni - "errori di trascrizione del
medico [... ] errori amministrativi [...] errori di data [ ... ] omissione di materiale di tests psicometrici
98
La lettera di replica, di Richard W. Kasperson vicepresidente dell’Ufficio controlli della Abott alla FDA, era datata 21
giugno 1972. Le lettere di appoggio vennero scritte tra il 13 e ìi 18 giugno e furono tutte indirizzate a john G. Page, direttore
medico della Abbott.
99
Task Force Evaluation of the NDA for Cylert, Documenti FDA., p. 6.
100
Dalla trascrizione dell'incontro, avvenuto il 29 settembre 1972.
178
[...] modificazioni improprie [...]rapporto preliminare" - ma entrambi difesero fermamente i risultati.
Nel caso dei progetto multiclinico, diceva la Abbott, "il protocollo richiedeva che il ricercatore
g”udicasse se il grado di psicopatologia familiare fosse sufficiente per giustificare il problema
comportamentale del bambino". Per quanto riguardava il suo progetto, disse Conners, lo schema dello
studio era stato rielaborato per eliminare esami clinici nel quattordicesimo e nel quarantaduesimo
giorno - "la pubblicazione era in errore"; gli esami fisici di controllo erano stati eseguiti, benché "non
fossero stati registrati finché i moduli per la registrazione non vennero inviati dall'industria
farmaceutica", un medico decideva tutti i cambiamenti di cura; e i bambini di 5 anni esaminati nel
corso dello studio non sarebbero stati inclusi nell'analisi finale.101
Il 21 novembre, malgrado le contestazioni, l'impiego del Cylert fu formalmente respinto, ma agli
inizi di febbraio l'FDA cominciò a ricredersi. "Siamo notevolmente in dubbio", disse Elmer Gardner,
allora capo della Divisione neurofarmacologica dell'FDA "circa la possibilità di sostenere le
conclusioni degli studi clinici riportate nella nostra lettera di disapprovazione, nel caso fossimo citati
in tribunale". Il rapporto del gruppo Solomons era stato scritto "con un tono apertamente ostile" e
Gardner voleva che "questo rapporto fosse riesaminato senza alcuna prevenzione".102 Non c'era "in
atto nessuna sfida a duello", disse in seguito un funzionario dell'FDA "ma ci rendevamo conto che la
Abbott non accantonava l'idea di qualche ricorso legale". In marzo, fatto senza precedenti, era stato
nominato un nuovo comitato di revisione esterna, e nell'estate Carol Kennedy, che aveva lavorato sul
Cylert per piò di un anno, si trovò a dover fare degli studi sulle lenti a contatto. "Quella pazza", disse
un membro del gruppo di Conners. "Finalmente si sono liberati di lei. "
Lo studio "senza prevenzione", che doveva durare diciotto mesi, è ancora avvolto nel mistero. Il
nuovo comitato, guidato da Daniel X. Freedman, lo psichiatra dell'Università di Chicago che era stato
a capo del Comitato d'onore dell'HEW nel 1971, rifer’ che 'esiste qualche prova, se pure non
conclusiva, che il Cylert è efficace per un periodo di otto settimane". Il comitato difendeva lo studio
di Conners ("non c'è nessuna prova [...] di negligenza"), stigmatizzava "il tono fortemente polemico"
del rapporto Solomons, e accantonava lo studio multiclinico: la sua esecuzione, diceva il comitato, "lo
rende inattendibile come studio controllato".103 (Un anno dopo, 5 singoli funzionari della Abbott
avrebbero pubblicato questi risultati come lavoro scientifico nel "Journal of Learning Disabilities".)104
Malgrado questa autorevole benedizione, tuttavia, il comitato Freedman raccomandò "studi controllati
a piò lungo termine [...] prima di dare l'approvazione per la vendita del farmaco". Un membro del
comitato disse, in seguito, che essi consideravano lo studio di Conners come "superiore alla media" in
questa materia; lo studio medio risultava in fatti "di bassissimo livello".
Con l'esposizione della relazione Freedman nel marzo 1973, la nebbia si infitt”. Il comitato non si
incontrò piò.- Freedman ne aveva abbastanza di tutta la routine dell'FDA - ma tre dei suoi membri
continuarono a formare un .gruppo di studio ad hoc" per il Comitato consultivo neurofarmacologico
della FDA. Essi furono delegati a fare una "visita sul posto" allo stabilimento di Conners ed a
verificare "gli studi controllati a lungo termine" ed altri dati supplementari, sottoposti dalla Abbott.
Secondo la documentazione dell'FDA, quei dati includevano informazioni su di "un totale di 511
pazienti [che] avevano preso il Cylert, compresi 314 che erano stati sottoposti ad un trattamento a
101
Da una lettera di C. Keith Conners a Elmer Gardner dell'FDA, del 9 novembre 1972; la lettera conteneva 36 pagine di
dettagliate repliche. Documenti FDA.
102
Da una lettera di Elmer Gardner dell'FDA a Gerald Klerman, presidente del FDA Neuropbarmacology Advisory
Cominittee del febbraio 1973. Documenti FDA.
103
Report of the Ad Hoc Panel for Evaluation of NDA 16-832 Cylert, 29 marzo 1973. Documenti FDA.
104
PAGE ed al., Pemltine..., cit. L'articolo ovviamente non fornisce indicazione sul fatto che tutti i redattori della FDA e il
comitato di redazione avevano considerato lo studio inadeguato dopo aver esanainato i dati non ancora elaborati.
179
lungo termine per un periodo medio di circa un anno".105 Conners diceva di avere dato alla Abbott
indicazioni su sedici o diciotto soggetti controllati nel tempo, ed un medico-revisore (impegnato come
tutti alla riservatezza dall'FDA) diceva che la Abbott aveva sottoposto dei dati estratti da studi diversi
da quelli esaminati dalla Kennedy. Ma la maggior parte dei casi, forse 200 su 314, provenivano dallo
studio multiclinico unanimemente rifiutato. Il suo rifiuto, spiegava il medico-revisore, era dovuto in
primo luogo alla questione dell'efficacia. Ai fini della sicurezza, quel personale medico, che non
sapeva distinguere un effetto collaterale di un farmaco da un bambino che "puliva la sua stanza per la
prima volta", era evidentemente considerato attendibile.
Nella primavera del 1974, l'FDA tenne una serie di riunioni col suo Comitato consultivo
neurofarmacologico, il "comitato ad hoc" ed altri consulenti per riesaminare il caso Cylert. Il presidente
del comitato era Gerald Klerman del Dipartimento di psichiatria presso il Massachusetts General
Hospital, dove lo studio di Conners era stato eseguito e dove Eisenberg era psichiatra capo; i suoi
membri includevano Jerome Levine, capo del Settore psico- farmacologico presso il NIMH che (con la
Abbott) finanziava Io studio; e tra i consulenti era incluso quello della Abbott, Donald Klein (che
affermava di lasciare la stanza ogni volta che si discuteva del Cylert, anche se i verbali della riunione
non lo dimostrano). Sia Klein sia Robert L. Sprague, uno dei tre membri del comitato ad hoc per il
Cylert, avevano partecipato ad una conferenza della Abbott a Key Biscayne, in Florida, nel marzo 1972
sull'uso in generale dei farmaci per trattare l'MBD e sul Cylert in particolare. Alla conferenza
parteciparono la maggior parte dei 2l ricercatori dello studio multiclinico sul Cylert, una quantità di
altri ricercatori nel campo farmaceutico e due funzionari governativi (le cui spese erano pagate dal
governo). Sprague, che è a capo del Centro d” ricerca sui bambini presso l'università dell'Illinois,
diceva che tali convegni sono una "cosa assai comune [...]Certi settori sono cos’ specializzati che ci
sono nel paese solo poche persone esperte e tutte si conoscono fra di loro". In questo caso particolare,
egli disse "la Abbott non mi ha neanche pagato tutto ciò che mi doveva". Nessuna pressione, egli disse,
era mai stata fatta. Ciò che le industrie come la -Abbott e la CIBA ottenevano da tali convegni era solo
la conoscenza del parere di alcuni esperti e, in certi casi, una serie di lavori che potevano pubblicare
sotto la loro egida. Molte persone, Inoltre, facevano consulenze per piò di una ditta; sarebbe stato
dannoso per le case farmaceutiche fare delle obiezioni, dal momento che c'erano cos’ poche persone
esperte a disposizione.106
Non è chiaro quello che fu riferito da Sprague e dai suoi colleghi, che cosa discusse il Comitato
consultivo o che cosa i dati dimostrarono. Un revisore disse che la Abbott aveva esibito dati sufficienti
a dimostrare una "sicurezza ragionevole", specialmente sulla questione degli effetti che non possono
apparire fino alla pubertà e Conners disse che i suoi controlli nel tempo non presentarono nessun
elemento che modificasse la sua conclusione originale, e cioè che il Cylert non produceva "alcun
effetto ematologico, epatico, renale o cardiovascolare di rilievo". Un certo numero di bambini, egli
diceva, mostrarono una temporanea perdita di peso o soffrirono di insonnia per molte notti, ma quasi
tutti superarono questi inconvenienti. Tuttavia, almeno una delle dottoresse consulenti che assistevano
alle discussioni del Comitato consultivo non era persuasa. La relazione di Conners, essa disse in
seguito, "è semplicemente inadeguata. Un caso è sufficiente per destare preoccupazione, e gli studi
erano concepiti in modo troppo scadente per dissipare tali preoccupazioni". Essa aveva l'impressione
che "tutte queste persone fossero dei consulenti retribuiti dalla casa farmaceutica in accordo con
l'atteggiamento generale dell'FDA. Essi hanno la pretesa di ritenere che tutti coloro che fanno ricerche
siano persone rispettabili". Non era compito dell'FDA di mostrare un pericolo potenziale, ma spettava
all'industria di provare la sicurezza del prodotto. Ciò, secondo lei, non era stato fatto.
Alla fine, essi evitarono di compromettersi, rinviando nuovamente la questione al personale
105
106
FDA: verbali del N'europhamacologv Advisory Committ, 7-8 febbraio 1974, p. 3
Questa affermazione e quelle che seguono vennero fatte nel corso di colloqui telefonici
180
dell'FDA, che avrebbe preso la decisione f”nale comunque. Il comitato ad hoc si raccomandò
caldamente che l'approvazione definitiva dipendesse da una sistematica serie di controlli della Abbott
sull'efficacia e la sicurezza, dopo che il Cylert fosse messo in vendita, una specie di licenza
provvisoria sog- getta ad un'ulteriore revisione. Pochi di loro erano entu- siasti di quegli studi ma,
come disse uno di loro, "si è verif”cato un rapido cambiamento in ciò che è accettabile" e non c'era
ragione di penalizzare i ricercatori o l'industria per avere operato secondo i modelli vigenti nel
momento in cui gli studi erano stati eseguiti. Diagnosticare e trattare dei bambini affetti da difficoltà di
apprendimento o sofferenti di ipercinesi, essi ammettevano, era un affare complicato, e progettare
degli studi adeguati era ancora piò complicato. Tuttavia nessuno di loro sugger’ che forse l'intero
lavoro non era necessario, che nella maggior parte dei casi tutti i "disturbi" che essi tentavano di
trattare, non erano altro che un comportamento che alcuni adulti non sopportavano. 'Le persone
esperte" in quel campo non erano necessariamente sposate alla Abbott, ma il loro campo era il campo
della Abbott e il racket della Abbott era il loro racket.
Verso la fine di agosto del 1974, l'FDA rese noto alla Abbott che, seguendo le solite formalità della
classificazione e dell'etichettamento dei farmaci, la richiesta era "approvabile". A quel tempo Carol
Kennedy aveva lasciato l'FDA e Keith Conners si trasferiva dal Massachusetts General Hospital
all'Università di Pittsburgh dove, egli diceva, c'era un lavoro migliore. Era una buona cosa, egli
spiegava, perché il Massachusetts aveva varato una legge che regolamentava gli esperimenti
farmaceutici sui bambini in maniera tale da rendere la sua ricerca "impossibile". C'erano "ogni sorta di
pazzi in circolazione", che diventavano paranoidi quando si trattava del lavoro che egli intendeva fare.
5
In ultima analisi, tutte le controversie sull'efficacia, sulla sicurezza e sugli effetti collaterali, anche
se notevolmente significative, tendono ad essere ingannevoli. Esse spostano l'attenzione dalle
considerazioni di tipo sociale e politico ai problemi di tipo individuale e medico, e perciò nascondono
il punto fondamentale. Dal punto di vista politico e sociale, il farmaco psicoattivo piò pericoloso è per
l'appunto quello CHe dal punto di vista medico è il piò sicuro e psicologicamente piò efficace; quei
preparati che provocano allucinazioni di tipo psicotico in certi pazienti o che rallentano la crescita del
peso e della statura pongono di per sé dei limiti al loro impiego. La piò comune obiezione alla
prescrizione dei farmac” amfetamino-simili è che tali sostanze siano tra le piò abusate in America, e
che mentre il governo butta in prigione chi fa uso della droga, altre istituzioni governative la
impongono agli scolari. Ma che cosa dire di quel farmaco che in realtà, o per ciò che si crede, ha
poche conseguenze collaterali negative dal punto di vista medico, ma che tuttavia rende il pazientestudente-prigioniero-cittadino piò docile e malleabile? La questione della dipendenza da tale farmaco
si trasforma rapidamente da problema medico, a problema politico, la cui definizione autentica
coinvolge non solo lo stato psicologico del paziente, ma anche le imposizioni politiche e sociali della
società e delle sue istituzioni. La fiducia nella "mia pillola magica che mi trasforma in un buon
ragazzo" è, dopo tutto, un'affermazione sia politica sia personale, in cui la benevolenza istituzionale e
le necessità di una sistemazione individuale sono date per scontate. In tale situazione la ricerca di una
dimostrazione medica della dipendenza dal farmaco può essere completamente inutile; in un certo
senso infatti, "la dipendenza" può affliggere anche quelli che non hanno mai preso un farmaco, ma
che sono tuttavia obbligati ad adattarsi a delle regole che vengono legittimate e rese normative
mediante il trattamento farmacologico di coloro che le sfidano o le minacciano.
Alcuni anni fa, uno scrittore di nome Charles Witter domandò retoricamente: "Stiamo mettendo
Dachau dentro la pillola. e la pillola nel bambino?' Ma come tutti i problemi concernenti la libertà,
questo riguarda ogni membro della popolazione, non solo coloro che sono incarcerati chimicamente.
La sottigliezza del processo in se stesso concorre a creare l'effetto necessario: per esempio, "Non ho
bisogno di pillole magiche per diventare un buon ragazzo." E’ l'ideologia del farmaco, l'idea che la
181
gente possa e debba essere trattata chimicamente, che rappresenta l'imposizioni piò dilagante sulla
libertà personale e la piò pericolosa estensione dell'autorità. L'argomento opposto assai convincente
secondo cui un certo farmaco non danneggia un certo bambino - lo ha reso "piò felice" e gli ha
procurato piò successo - e secondo cui non si deve sacrificare il benessere del bambino a qualche
astrazione politica, è esso stesso un argomento politico dissimulato in difesa di quegli standars che
determinano "felicità" e successo. L'argomento sembra provare che, mentre il bambino può non
diventare dipendente dal farmaco, coloro che lo raccomandano e lo difendono lo sono già.
Al principio del 1975, l'FDA decise che l'MBD mancava di un sufficiente fondamento medico per
essere associato con la prescrizione dei farmaci. Per l'avvenire, il "danno cerebrale minimo" sarebbe
stato troppo vago per essere usato come "malattia" per cui un farmaco potesse essere indicato. " I
sintomi descritti sulle istruzioni dei flaconi per la Dexedrina, il Ritalin e il Cylert sarebbero stati i vari
tipi di comportamento che una volta costituivano gli elementi separati della definizione di MBD:
attenzione di breve durata, iperattività, impulsività. Sembrava che fosse un'ammissione che il
comportamento inaccettabile di per sé fosse una ragione sufficiente per rimpinzare un bambino di
farmaci psicoattivi, che nessuna malattia organica suggeriva. La decisione favoriva particolarmente la
legittimazione di tutti quegli studi, che non erano mai riusciti a definire o diagnosticare l'ipercinesi o
l'MBD con precisione (dal momento che essi erano indefinibili), ma che erano tuttavia "convalidati"
dai rapporti dell'insegnante o del genitore sul miglioramento del comportamento. In base a questi
criteri, i farmaci agivano chiaramente su di una certa percentuale di bambini: non mancavano i risultati
positivi e non sarebbero mancate persone pronte a suggerire o a richiedere la cura, né sarebbero
mancati medici o cliniche pronte a prescrivere. Le obiezioni sulla mancanza di una sindrome definibile
erano state rimosse e, nell'evolversi della situazione era stata eliminata anche l'ultima parvenza di
"trattamento" medico. I farmaci erano introdotti apertamente, ufficialmente e legalmente nel regno dei
controllo comportamentale.
182
“NEUROPEDAGOGIA DELLE LINGUE”, Astrolabio, Roma, 2004
Franco Fabbro:
[…]
Memoria e linguaggio
3.1 La memoria umana: un mosaico di unità indipendenti
La memoria è una funzione fondamentale del cervello. Senza la memoria il mondo sarebbe più
imprevedibile di quanto non lo sia già. Mediante la memoria, infatti, gli esseri viventi cercano di
evitare le situazioni pericolose e di ripetere quelle piacevoli. La memoria aiuta quindi gli individui a
indirizzare la loro vita verso ciò che è utile ed è fonte di una ricompensa interiore o esteriore.
Numerosi studi sono stati realizzati nel passato per comprendere le basi biologiche e l'architettura
generale della memoria, tuttavia solo negli ultimi quindici anni ne sono stati chiariti la struttura e i
rapporti con il linguaggio.1) La più importante scoperta al riguardo è stata la constatazione che la
memoria non è una funzione unitaria ma è formata da un'insieme di moduli ‘nd’pendenti.2) La
memoria umana è quindi come un mosaico, ogni tassello di questo mosaico costituisce un'unità
funzionale indipendente. In seguito a malattie o a lesioni focalizzate del cervello alcuni moduli
funzionali possono essere perduti, mentre altri continuano a lavorare in maniera efficace.
1 "Come la memoria interviene nell'acquisizione delle lingue", in Fabbro 1996a, pp. 100- 114.
2 Luria, 1991; Baddeley, 1992; Squire, 1987; Squire e Kandel, 2000.
3.2 Esplorare il mosaico della memoria
Uno dei metodi più efficaci per decifrare l'architettura della memoria umana consiste nello studio di
persone che in seguito a una lesione del cervello hanno presentato disturbi settoriali della memoria. Il
caso più famoso, studiato da numerosi neuropsicologi per più di 40 anni, è quello di Henry M., un
paziente canadese conosciuto nella letteratura neuropsicologica come “paziente H.M.” 3)
3 Scoville e Milner, 1957; Milner et al., 1968; Cohen e Eichenbaum, 1994.
3.2.1 La storia di Henry
Nel 1953 Henry era un giovane di 27 anni, affetto da una grave forma di epilessia. La malattia era
iniziata quando aveva 16 anni e si era progressivamente aggravata. Poiché i farmaci non riuscivano più
a controllare le crisi convulsive, venne deciso di asportare chirurgicamente il tessuto nervoso che le
causava. I neurochirurghi individuarono nell'ippocampo di destra, una struttura del lobo temporale
(figura 3.1), l'origine delle sua malattia. L'intervento neurochirurgico di asportazione dell'ippocampo
destro venne eseguito senza problemi. Dopo qualche giorno i medici si accorsero che Henry continuava
ad avere ancora numerose crisi convulsive, perché l'altro ippocampo, quello di sinistra, era diventato il
nuovo focolaio da cui originava l'epilessia. Decisero quindi di asportare chirurgicamente anche
l'ippocampo di sinistra.
183
Figura 3.1 Nella figura sono rappresentate quattro sezioni del cervello di H. M. cbe mostrano
l'estensione della rimozione cbirurgica nel sistema ippocampale. Nelle sezioni viene presentata l'entità
della rimozione del tessuto cerebrale da un lato soltanto, mentre invece H. M. fu sottoposto a una
rimozione cbirurgica in entrambi gli emisferi cerebrali (lobectomia temporale parziale bilaterale).
3.2.2 L'amnesia anterograda.: una modalità di perdita della memoria
Dopo il secondo intervento neurochirurgico le crisi di epilessia si ridussero notevolmente, ma Henry
ora presentava gravi problemi di memoria. Non era più in grado di ricordare nuove informazioni e fatti
accaduti dopo la seconda operazione; conservava invece una buona memoria degli episodi e delle
conoscenze che aveva appreso durante l'infanzia e l'adolescenza. L'incapacità di memorizzare nuove
informazioni viene definita dai neurologi amnesia anterograda.
Dopo i due interventi neurochirurgici Henry non presentava né problemi motori, né problemi percettivi,
né deficit intellettivi; l'unico grave deficit riguardava l'incapacità di apprendere nuove informazioni. I
ricordi della sua storia personale si erano dunque fermati a poco prima delle operazioni
neurochirurgiche. Ancora oggi H. M. non sa dove abita, non sa in che anno vive, non sa che i suoi
genitori sono morti. Non è in grado di apprendere nuove informazioni; ad esempio gli capita di leggere
più volte la stessa rivista senza rendersi conto di averla già letta. Dopo più di 40 anni dall'operazione,
talvolta si chiede: "Che cosa è accaduto poco fa?", e preoccupato risponde: "E’ come svegliarsi da un
sogno. Non ricordo proprio niente".
3.2.3 Memoria a breve e a lungo termine
La memoria a breve termine di H. M. era invece normale. Se gli veniva chiesto di ripetere alcune
parole immediatamente dopo averle ascoltate, le sue prestazioni erano simili a quelle di una persona
normale. La possibilità di perdere la capacità di memorizzare informazioni a lungo termine con la
contemporanea conservazione della memoria a breve termine ha permesso di concludere che la
184
memoria umana è composta da almeno due unità funzionalmente indipendenti: I) un sistema della
memoria a breve termine e II) un secondo sistema della memoria a lungo termine.
3.2.4 La memoria di procedure
L'analisi accurata dei deficit neurospicologici che H. M. presentava ha permesso ai ricercatori di capire
che non tutte le componenti della sua memoria a lungo termine erano deficitarie. Se ad esempio gli si
chiedeva di apprendere una procedura complessa, come disegnare il contorno di una stella controllando
i movimenti della propria mano allo specchio, H. M. presentava lo stesso numero di errori dei soggetti
normali. Le sue prestazioni miglioravano ogni giorno, diminuendo progressivamente il numero di errori
dopo ogni esercizio, come accade nei soggetti normali (figura 3.2). A differenza dei soggetti di
controllo, H. M. aveva b’sogno ogni giorno che gli si spiegassero le consegne (cioè disegnare il
contorno di una stella il più velocemente possibile senza uscire dai margini, controllando la traiettoria
della mano allo specchio), perché non ricordava nulla dell'esperimento eseguito la giornata precedente.
I soggetti di controllo invece sapevano benissimo che cosa dovevano fare e dopo il primo giorno non
era più necessario fornire loro alcuna spiegazione. Henry era quindi in grado di apprendere nuove
procedure p ercettivo -moto rie senza esserne consapevole. La capacità di disegnare controllando la
propria mano allo specchio è un tipo di procedura complessa simile alla capacità di andare in bicicletta,
di giocare a tennis, di guidare l'automobile o di suonare uno strumento musicale. Anche le conoscenze
che sottendono la comprensione e l'espressione in una lingua sono in larga parte di tipo procedurale.
Figura 3.2. Il paziente H. M. fu sottoposto a un compito di memoria procedurale cke consisteva
nell'apprendere a disegnare rapidamente e senza commettere errori il contorno di una stella
controllando la posizione della propria mano allo speccbio. Nei grafici sotto le figure viene riportato il
numero di errori commesso da H. M. in tre giorni consecutivi di prove. La riduzione progressiva del
numero degli errori dalla prima alla terza giornata indica cbe questo paziente aveva conservato la
capacità di apprendere nuovi compiti procedurali.
Dopo la rimozione neurochirurgica dei due ‘ppocampi, Henry era ancora in grado di parlare
perfettamente; non aveva perduto le conoscenze procedurali acquisite prima degli interventi chirurgici,
era inoltre in grado di apprendere nuovi compiti procedurali senza tuttavia esserne consapevole. La
descrizione di questo nuovo tipo di dissociazione della memoria ha permesso di riconoscere e
differenziare due importanti sistemi della memoria a lungo termine: I) il sistema della memoria
esplicita, che riguarda tutte le informazioni e le conoscenze di cui si è consapevoli; e II) il sistema della
185
memoria implicita, che riguarda tutte le conoscenze motorie e cognitive che non sono accessibili alla
consapevolezza.
3.3 La memor’a implicita
Questo importante sistema della memoria era sconosciuto fino a pochi anni fa. Molto probabilmente,
invece, questa è la più importante forma di memoria degli esseri viventi. Si tratta di un tipo di memoria
molto antica, che è presente in numerose specie: nei pesci, negli anfibi, nei rettili, negli uccelli e nei
mammiferi; negli esseri umani è già attiva nel feto e nel neonato.4) Una serie di studi sperimentali ha
ev’denz’ato che i bambini fino a 8-10 mesi possiedono solo questo tipo di memoria; all'età di 3 anni
essi presentano una memoria implicita molto simile a quella dei bambini più grandi (6 anni), mentre la
memoria esplicita è ancora poco sviluppata. Sembra inoltre che la memoria implicita sia la prima a
comparire nel bambino e l'ultima a scomparire nell'anziano.5)
4 Cleeremans et al., 1998.
5 Schacter e Moscovith, 1984; Parkin, 1993; Jusczyk e Hohne, 1997; Rovee-Collier et al., 2000.
3.3.1 Componenti della memoria implicita
Il sistema della memoria implicita è formato a sua volta da un mosaico di sottocomponenti molto
diverse. Finora sono stati distinti: I) i sistemi per l'acquisizione di procedure cognitivo-motorie, come
la capacità di camminare, di articolare suoni, di guidare un'automobile, eccetera; II) i sistemi per
l'acquis’zione di riflessi condizionati, ovvero l'associazione fra stimoli sensoriali e complesse risposte
fisiologiche (ad esempio, se un neonato è affamato basta l'odore della madre perché si attivi in via
riflessa la liberazione di succhi gastrici); III) i sistemi che sottendono il priming, un importante
fenomeno che riguarda la percezione visiva e quella uditiva.
3.3.2 Caratteristiche della memoria implicita
La memoria implicita, detta anche memoria non-dichiarativa, presenta alcune caratteristiche distintive:
a) L’acquisizione di conoscenze implicite avviene casualmente (senza necessità di fare attenzione o di
concentrarsi). Ad esempio, non si impara ad andare in bicicletta aumentando la concentrazione e
l'attenzione sul compito, ma "lasciandosi andare".
b) Le conoscenze memorizzate non sono accessibili all'introspezione verbale, cioè non possono essere
descritte consapevolmente. Nessuno è infatti capace di andare in bicicletta dopo aver seguito soltanto
delle lezioni teoriche. Ciò significa che non è possibile acquisire le conoscenze procedurali necessarie
per guidare una bicicletta attraverso delle istruzioni verbali ma bisogna farne esperienza; questo vale
anche per imparare a parlare fluentemente una lingua.
c) Le conoscenze memorizzate nella memoria implicita vengono utilizzate in forma automatica. Un
individuo, mentre sta guidando l'automobile, non pensa alle procedure che deve eseguire per condurre
il veicolo; guarda invece la strada, eventualmente parla con il compagno di viaggio e fa attenzione a
non causare incidenti e a raggiungere la sua destinazione.
d) Le conoscenze implicite migliorano con la pratica. Più si usa la bicicletta e più si va spediti, e col
tempo si possono fare anche delle acrobazie.
3.3.3 Memoria implicita della prima lingua
Un dato di importanza fondamentale che caratterizza la memoria implicita è che essa si sviluppa
indipendentemente dalla consapevolezza. I bambini quindi possono acquisire una vasta quantità di
186
conoscenze implicite prima di sviluppare la coscienza. Numerosi studi sembrano indicare che la
consapevolezza inizia a svilupparsi molto lentamente dopo i 10 mesi. Tuttavia, almeno fino a 3 anni di
età nel bambino prevale l'acquisizione di conoscenze implicite rispetto a quelle esplicite. E stato cos”
evidenziato che vasti settori della prima lingua (L1) vengono memorizzati nei sistemi della memoria
implicita; in particolare qui si memorizzano gli aspetti che riguardano il riconoscimento e
l'articolazione dei suoni (aspetti fonologici) e le regole di flessione e combinaz’one delle parole (aspetti
morfosintattici). Un bambino all'età di tre anni possiede buone capacità espressive verbali e limitate
capacità di mernoria esplicita.6) Per questo motivo un bambino di tre anni non è in grado di riferire alla
madre cosa ha fatto all'asilo, pur avendo tutte le capacità linguistiche per farlo.
6 Durkin, 1992; Paradis, 1994; Ullman et al., 1997; Ullman, 200la.
3.3.4 Neuroanatomia della memoria implic’ta
Numerosi studi di neuropsicologia clinica e di neuroanatomia sperimentale, condotti con le tecniche
della fMRi e della PET (cfr. 1.9), hanno mostrato che la memoria implicita e la memoria esplicita sono
rappresentate in strutture nervose differenti. Le basi neuroanatom’che della memoria procedurale, un
tipo di memoria implicita che è responsabile dell'acquisizione della fonologia e della sintassi, sono
rappresentate in alcune strutture sottocorticali (gangli della base dell'em’sfero sinistro, nuclei dentati
del cervelletto) e in alcune aree spec’fiche della corteccia cerebrale coinvolte nella percezione
(somatica e udit’va) e nel movimento (area di Broca, area motoria supplementare)7) (figura 3.3). Come
è già stato detto (cfr. 1.8), queste strutture maturano prima delle aree corticali associative coinvolte
nell'‘mmagazzinamento delle informazioni esplicite. Per tale ragione i bambini acquisiscono prima le
strutture fondamentali della prima lingua, e soltanto in seguito diventano capaci di ricordare alcuni
episodi della loro vita e di espandere le loro conoscenze del mondo.
187
Figura 3.3. Basi neuroanatomicbe della memoria procedurale che riguardano gli aspetti fonologici e
morfosintattici della lingua materna. Le strutture cerebrali coinvolte nella memoria procedurale del
linguaggio sono: l'area di Broca (B), l'area motoria supplementare (S), l'area di Wernicke (W), i
gangli della base (GB), il cervelletto (CB) e il ponte (P). Tutte queste strutture sono collegate fra di
loro mediante una complessa rete di circuiti cerebrali.
7 Crosson, 1992; Salmon e Butters, 1995; Fabbro, 2000b; Ullman, 2001b.
3.3.5 Memoria implicita, sonno e sogni
Mediante una serie di studi psicofisiologici (meglio: neurofisiologici) è stato documentato che
l'acquisizione di conoscenze implicite viene rafforzata dal “sonno paradosso”, chiamato anche sonno
REM 8) (Rapid Eye Movements). Questo è un particolare tipo di sonno caratterizzato da un'intensa
attività cerebrale (simile alla veglia, per cui viene definito sonno paradosso), da una paralisi completa
della muscolatura del corpo e da movimenti oculari rapidi. E' durante il sonno REM che gli individui
sognano. Un dato molto interessante riguarda il sonno dei neonati e dei bambini piccoli: essi presentano
un periodo di sonno REM molto più lungo degli adulti. I bambini piccoli sognano infatti 4-5 ore per
notte, cioè dal 60 al 40% dell'intera durata del sonno. Probabilmente ciò corrisponde alla necessità del
bambino piccolo di acquisire numerose conoscenze implicite che gli servono per diventare autonomo e
che gli permettono di imparare a camminare, a manipolare gli oggetti, a comprendere il linguaggio e a
esprimersi verbalmente. A due anni il tempo dedicato al sonno REM costituisce circa il 30-35%
dell'intera durata del sonno, dopo i 2 anni questo tipo di sonno diminuisce progressivamente. I bambini
di 10 anni, come i giovani adulti, passano soltanto 2 ore per notte in sonno REM, vale a dire il 25 %
dell'intera durata del sonno notturno.
8 Bar’naga, 1994; Karni et al., 1994.
3.4 La memoria esplicita
La memoria esplicita, chiamata anche memoria dichiarativa, è un sistema funzionale autonomo della
memoria a lungo termine. Fino a pochi anni fa - prima della scoperta dei sistemi della memoria
implicita - si pensava che questo tipo di memoria fosse l'unica forma di memoria a lungo termine.
188
Figura 3.4. Nello schema vengono descritti i diversi tipi di memoria a lungo termine. Ogni tipo di
memoria è rappresentato in specificbe strutture cerebrali.
3.4.1 Componenti della memoria esplic’ta
Anche la memoria esplicita presenta un insieme di sottocomponenti neurofunz’onali indipendenti. Sono
state infatti descritte: 1) la memoria episodica,9) che riguarda le esperienze del passato che siamo in
grado di recuperare volontariamente e di raccontare. Grazie a questa forma di memoria siamo in grado
di sviluppare una storia personale che possiamo esporre agli altri o a noi stessi; 2) la memoria
semantica, che riguarda le nostre conoscenze enciclopediche sul mondo. L'insieme delle conoscenze
memorizzate nella memoria semantica ci permette di sapere che Parigi è la capitale della Francia,
mentre Londra è la capitale del Regno Unito, eccetera. La maggior parte delle informazioni apprese a
scuola è dunque memorizzata nei sistemi della memoria semantica.
Studi di neuropsicologia clinica hanno permesso di descrivere alcuni pazienti che, in seguito a lesioni
precoci dell'ippocampo, presentavano una dissociazione fra la memoria episodica (perduta) e quella
semantica (conservata). Questi individui non erano più in grado di memorizzare episodi della loro vita
(amnesia anterograda per la memoria episodica), mentre non avevano difficoltà negli apprendimenti
scolastici (memoria semant’ca conservata).10
9 Conway e Rubin, 1993; Johnson e Raye, 1998.
10 Vargha-Khadem et al., 1997.
3.4.2 Caratteristiche della memoria esplicita
Anche la memoria esplicita presenta alcune caratteristiche essenziali; esse sono diametralmente
opposte a quelle della memoria implicita già descritte (cfr. 3.3.2).
a) L'apprendimento di informazioni esplicite viene facilitato dalla volontà e dalla focalizzazione
dell'attenzione. L'attenzione migliora la capacità e la precisione nel ricordo di informazioni semantiche
e di episodi della vita.
189
b) Le conoscenze memorizzate nei sistemi della memoria esplicita possono essere recuperate
consapevolmente e descritte verbalmente; per tale ragione si parla di memoria dichiarativa. Grazie a
essa gli individui con più di 3 anni sono in grado, se lo desiderano, di descrivere verbalmente un
episodio del passato. D'altro canto, per gli adulti è molto difficile ricordarsi di episodi della vita
accaduti prima dei 3 anni; sembra che ciò sia dovuto al fatto che prima di tale età la coscienza non è
ancora sufficientemente sviluppata. Cos”, se si chiede a un bimbo di due anni e mezzo di raccontare
cosa ha fatto durante la giornata, spesso si assiste a un racconto zeppo di confabulazioni. Ciò è dovuto
al fatto che i bambini con età inferiore al tre anni non sono in grado di ricordare quello che gli è
accaduto e tendono a riempire i “vuoti” della memoria con quello che passa loro per la mente, spesso
frammenti di fiabe ascoltate dagli adulti.
c) Le conoscenze esplicite possono essere memorizzate anche dopo una sola esposizione. Basta, ad
esempio, vedere con attenzione una sola volta un volto per riconoscerlo tra migliaia di altri. Inoltre gli
episodi più importanti della vita capitano soltanto una volta ma vengono spesso ricordati in maniera
indelebile.
3.4.3 Neuroanatomia della memoria esplicita
Numerosi studi di neuropsicologia hanno permesso di chiarire le basi nervose della memoria esplicita.
A tale proposito sono state distinte tre fasi: la fissazione, l'immagazzinamento e il recupero delle
informazioni.11) Per ognuna di esse entrano in gioco differenti strutture del cervello.
1) I processi di fissazione delle informazioni esplicite sono sostenuti da una serie di strutture nervose, la
più importante delle quali è l'ippocampo, una porzione del lobo temporale (figure 3.1 e 3.4). Una
lesione b’laterale all'ippocampo impedisce la fissazione di nuove informazioni esplicite (amnes’a
anterograda), mentre permane ancora la capacità di r’cordare informazioni apprese precedentemente
alla lesione (si veda la storia di H. M., cfr. 3. 1). Studi di neuroanatomia hanno mostrato che
l'ippocampo inizia a maturare dopo gli 8-10 mesi. Solo dopo il primo anno di vita è quindi
teoricamente possibile incominciare a fissare informazioni esplicite nella memoria a lungo termine.
2) L'imagazzinamento delle informazioni esplicite avviene invece in tutte le aree associative della
corteccia cerebrale, nei lobi temporale, parietale, occipitale e frontale (cfr. figura 1.5). Queste strutture
della corteccia iniziano la loro maturaz’one dopo 12 anni e alla pubertà non l'hanno ancora completata.
Ciò significa che prima dei 6 anni è più difficile immagazzinare in maniera efficace informazioni
esplicite. Questo dato neuropsicologico concorda con la consuetudine di iniziare la scuola elementare
dopo i sei anni. Ciò permette ai bambini di poter contare su una sufficiente matura-: zione delle
strutture cort’cali coinvolte nella mernorizzazione di informazioni che possono essere rievocate e
utilizzate, in maniera consapevole.
3) Il recupero delle informazioni esplicite e il loro collegamento secondo reti associative è sostenuto
prevalentemente da strutture del lobo frontale, soprattutto quello di destra, e da strutture del cervello
coinvolte nell'organizzazione dei comportamenti emozionali e attentiv’ quali la corteccia anteriore del
cingolo e i nuclei anteriori del talamo (figura 3.5). Studi recenti suggeriscono che anche strutture
dell'emisfero cerebellare destro sono coinvolte nel recupero consapevole di parole. L'insieme di queste
strutture cerebrali viene denominato “sistema frontale”. Senza un buon funzionamento del “sistema
frontale” non è quindi possibile recuperare in maniera efficace e affidabile le informazioni
memorizzate nei sistemi della memoria esplicita. Per questa ragione i pazienti con lesioni al “sistema
frontale” non sono capaci di ricordare correttamente gli episodi della loro vita e tendono a sostituire le
lacune nella memoria episodica con confabulaz’oni.
190
11 Luria, 198 1; Squire e Zola-Morgan, 1991; Tulvig e Markowitsch, 1997; cfr. "La Mémoire et
l'oubli", La Recherche, 344 (numéro spéc’al), 2001; "La Mémoire. Le jard’n de la pensée", Pour la
Science, dossier N° 31, 2001.
Figura 3.5. Durante il recupero delle informazioni immagazzinate nei sistemi della memoria
dichiarativa (episodica e semantica) si attivano alcune specificbe strutture del lobo frontale destro (F),
della corteccia anteriore del cingolo (C) e del talamo anteriore (T),
3.4.4. Memoria esplicita ed emozioni
La memor’zzazione di informazioni esplicite aumenta se il soggetto viene emotivamente coinvolto. Le
esperienze emotivamente neutre vengono invece dimenticate con più facilità. Cos” una storia
contenente numerosi stimoli emotivi positivi o negativi tende a essere ricordata meglio rispetto a una
storia con stimoli emotivi neutri.12) Il sistema affettivo gioca dunque un ruolo essenziale nella scelta di
ciò che vale la pena di essere memorizzato. Tuttavia le esperienze emotive estreme, come ad esempio
gli shock emotivi dovuti a episodi di violenza o a traumi, provocano un completo collasso dei sistemi
della memoria esplicita. La liberazione di alti livelli di ormoni dello stress (ormoni corticosteroidei)
determina infatti un blocco funzionale dell'ippocampo, che, a sua volta, provoca un'inibizione dei
processi di fissazione delle informazioni esplicite nella memoria a lungo termine (amnesia da stress).
Un grave evento traumatico può quindi causare una completa amnesia dell'episodio stesso, mentre
permangono le memorie implicite (inconsapevoli) dell'evento stesso. Successivamente uno stimolo
sensoriale legato all'evento traumatico, per esempio il rumore di una frenata, può scatenare un attacco
di paura senza che l'individuo sia consapevole della catena di associazion’ che lo ha generato.
Se un individuo viene sottoposto a ripetuti episodi di stress emotivo (ad esempio episodi di violenza
ripetuti, traumi legati a guerre, eccetera) può incorrere, dopo un certo periodo di tempo, nella
distruzione bilaterale dell'ippocampo, che dipende dai fenomeni di microatrofia causati dagli ormoni
dello stress. Il soggetto comincia a manifestare un'amnesia traumatica più o meno grave, che dipende
da cause esclusivamente psicologiche (emotive), le quali però determinano un vero e proprio danno
neurologico (atrofia bilaterale dell'ippocampo). Le violenze fisiche e psicologiche (emotive)
191
impediscono quindi la memorizzaz’one di informazioni episodiche e semant’che, impoverendo il
ricordo della propria storia personale e riducendo le capacità di apprendimento.
12 Cahi11 et al., 1994; Schacter, 1996; McEwen e Sapolsky, 1995.
3.4.5 Memoria esplicita e linguaggio
Mentre alcune componenti della prima lingua sono memorizzate nei sistemi della memoria implicita
(aspetti fonologici e morfosintattici), le parole e i loro significati vengono memorizzati
prevalentemente nei sistemi della memoria esplicita. Un individuo con un'amnes’a anterograda è
ancora in grado di apprendere implicitamente una lingua, mentre ha molta difficoltà ad apprendere il
significato di nuove parole.13) Una lingua può quindi essere appresa e utilizzata in forma automatica,
mentre per apprendere in maniera consapevole il significato di nuove parole è necessario che siano
integre le basi nervose che sostengono la memoria semantica, una componente della memoria esplicita.
Per questa ragione H. M. (cfr. 3.2), dopo l'asportazione bilaterale dell'ippocampo, non è stato più in
grado di apprendere il significato di nuove parole.14)
13 Hirst et al., 1988.
14 Gabrieli et al., 1988.
3.4.6 Apprendere le lingue usando diversi sistemi della memoria
Esistono quindi diverse strategie per imparare le lingue straniere. La più diffusa e naturale è
l'acquisizione automatica (implicita) di una lingua; questa modalità permette di comprendere e di
parlare una lingua in maniera automatica e fluente. Tutti gli esseri umani acquisiscono la prima lingua
con modalità implicite. Un altro modo per imparare le lingue consiste nell'apprendimento consapevole
di regole grammaticali; questa seconda forma di apprendimento delle lingue si basa sulla memoria
esplicita.
Per una serie di ragioni storico-culturali, in passato, chi studiava aveva la necessità di conoscere alcune
lingue classiche, come il latino e il greco. Per apprendere tali lingue era necessario porre in atto un
apprendimento basato sulla conoscenza e sull'applicazione consapevole di regole grammaticali. Questi
metodi hanno influenzato a lungo la pedagogia delle lingue straniere. Per molti decenni sono stati
applicati, e purtroppo ancora lo sono, i metodi di insegnamento delle lingue 'morte' anche alle lingue
moderne. Da tali metodologie didattiche errate si è ricavata molta confusione e una grande antipatia
verso le lingue straniere.
3.4.7 Georges Dumézil e Cristopher: due esempi di apprendimento esplicito delle lingue
Una persona con una straordinaria conoscenza esplicita delle lingue è stato il grande antropologo
francese Georges Duméz’l, scomparso nel 1990, soprannominato il “cacciatore di l’ngue”.15) Nella
sua vita Dumézil ha descritto la grammatica di numerose lingue che stavano per scomparire. Ad
esempio ha pubblicato una grammatica della lingua ubych, che in Turch’a nel 1954 era parlata oramai
soltanto da una persona. Ma la sua conoscenza delle lingue si limitava solo alla capacità di trascrivere i
loro suoni e di leggerle, mentre non era in grado di parlarle. Durante un'intervista, poco prima di
morire, gli fu chiesto quante lingue avesse imparato nella sua vita. Dumézil (D) rispose: "Non so con
precisione, una trentina credo". L'intervistatore (I) quindi gli chiese: "Ne parla qualcuna
perfettamente?". Dumézil rispose: "Nessuna. Non sono mai riuscito a parlare correttamente una lingua
straniera". M: "Neppure l'inglese?". (D): "No. In inglese devo prima scrivere una conferenza e poi
leggerla". (I): In ogni caso parla il turco? ". (D): "In effetti il turco è la lingua che parlo meno male.
Anzi che parlavo, perché l'altro giorno cercavo una parola semplice e non mi è venuta in mente. Lei sa
192
che le lingue si imparano, ma anche si dimenticano. Qualche decennio fa ho imparato l'ungherese da
alcuni libri e in sei mesi ne sapevo abbastanza per leggere romanzi e Sandor Petofi, il grande poeta
nazionale. Non mi è rimasto più nulla".
Un secondo esempio altrettanto eccezionale di apprendimento esplicito delle lingue riguarda il caso del
giovane ritardato mentale inglese di nome Christopher.16) Nonostante il basso livello intellettivo
questo giovane possedeva una straordinaria passione e talento nell'apprendere il contenuto dei
vocabolari e delle grammatiche di numerose lingue straniere. All'età di trent'anni era in grado di
leggere, scrivere e comunicare in una quindicina di lingue, molte delle quali non erano lingue
indoeuropee, come ad esempio l'arabo e il berbero. Delle lingue che aveva imparato possedeva un
ampio patrimonio lessicale, mentre aveva notevoli problemi per quanto riguardava i loro aspetti
fonologici e morfosintattici. Nonostante conoscesse numerose lingue, spesso non riusciva a farsi capire
dagli interlocutori per la sua cattiva pronuncia, se invece si esprimeva per iscritto veniva facilmente
compreso.
15 Eribon, 1992.
16 Smith e Tsimpli, 1995; Fabbro, 1996b.
3.5 La memoria a breve termine
La memoria a breve termine è un sistema che mantiene disponibili le informazioni da alcuni secondi a
qualche minuto ed è coinvolto in numerosi compiti cognitivi come il ragionamento, l'apprendimento, la
comprensione verbale e la coscienza.
3.5.1 Componenti della memoria a breve termine
Numerosi studi suggeriscono che la memoria a breve termine sia formata da diverse
sottocomponenti.17 Uno dei modelli più interessanti della memoria a breve termine è il modello della
memoria di lavoro che comprende le seguenti sottocomponenti: l'esecutore centrale, il circuito
fonologico e il magazzino episodico temporaneo.
I) L'esecutore centrale è un sistema che integra e controlla le informazioni contenute nella memoria a
breve termine; esso è inoltre coinvolto nelle fasi di recupero e di riorganizzazione delle informazioni
della memoria esplicita. Le strutture neuroanatomiche che sostengono l'esecutore centrale sono
localizzate nei lobi frontali. Per tale ragione questo sistema comincia a svilupparsi solo dopo l'anno di
età e presenta una crescita progressiva fino alla tarda adolescenza, in stretta relazione con la
maturaz’one dei lobi frontali.
II) Una seconda sottocomponente è il circuito fonologico. Esso è formato da due sottosistemi: il
magazzino fonologico e il sistema di ripasso articolator’o. Una parola, per essere memorizzata nel
sistema della memoria a breve termine, deve essere prima depositata nel “magazzino fonologico” (dove
permane per 1-2 secondi); in seguito, per essere mantenuta nella memoria a breve termine, deve essere
ripetuta interiormente mediante il “sistema di ripasso articolatorio”. Il circuito fonologico è
rappresentato dalle aree uditive (magazzino fonologico), dalle aree motorie e premotorie, dal gangli
della base e dal talamo dell'emisfero sinistro e infine da alcune strutture del cervelletto destro (sistema
di ripasso articolatorio) (figura 3.6).
III) La terza sottocomponente, chiamata magazzino episodico temporaneo, è un sistema in grado di
memorizzare per qualche minuto le informazioni episodiche multimodali (visive, uditive, tattili,
eccetera), integrandole successivamente nei sistemi della memoria a lungo termine dichiarativa.
17 Baddeley et al., 1988; Baddeley e Logie, 1992; Golman-Rakic, 1992; Gathercole e Baddeley, 1993;
Baddeley, 2000; Papagno, 2003.
193
Figura 3.6. Rappresentazione schematica dei sottosistemi che compongono la memoria a breve termine
verbale. L'esecutore centrale è rappresentato nel lobo frontale, mentre il magazzino fonologico e il
sistema di ripasso articolatorio sono rappresentati nelle aree sensori-motorie dell'emisfero cerebrale
sinistro.
3.5.2 Sviluppo della memoria a breve termine nel bambino
Uno dei metodi più semplici per valutare l'ampiezza della memoria verbale a breve termine in un
bambino consiste nel misurare quante parole o numeri è in grado di ripetere immediatamente dopo
averli ascoltati. Un soggetto adulto è in grado di ricordare numeri di 7 cifre (digit span). E’stato notato
che il dig’t span è più basso nei bambini rispetto agli adulti e che aumenta in funzione dell'età. Si
ritiene che questo potenziamento delle capacità della memoria a breve termine corrisponda alla
progressiva maturazione delle strutture nervose del lobo frontale.
3.5.3 Memoria a breve termine e apprendimento delle lingue
Una serie di studi sperimentali ha mostrato che gli individui che conoscono molte lingue possiedono
una memoria a breve termine verbale maggiore rispetto ai soggetti monolingui con lo stesso livello di
scolarità.18) Altri studi condotti nei bambini hanno evidenziato che la memoria a breve termine è
coinvolta nell'apprendimento delle lingue straniere. Al contrario, i bambini con difficoltà
nell'acquisizione del linguaggio (disfasie evolutive) e nell'apprendimento della lettura (dislessie
evolutive) presentano una memoria a breve termine significativamente più bassa rispetto a bambini
normali, definiti in ambito sperimentale “bambini di controllo”. 19)
Non è ancora chiaro se la memoria a breve termine più ampia riscontrata in alcuni studenti universitari
poliglotti sia una caratteristica neurobiologica che predispone all'apprendimento delle lingue straniere
oppure sia un effetto secondario della conoscenza di numerose lingue. E' probabile che gli studenti
universitari che hanno più facilità nell'apprendimento delle lingue tendano a diventare poliglotti, e che
tale risultato sia dovuto a una maggiore efficienza di alcune strutture nervose coinvolte nella
memorizzazione del linguaggio.
194
18 Service, 1992; Darò e Fabbro, 1994; Papagno e Vallar, 1995.
19 Masutto et al., 1994.
3.6 Memoria delle emozioni e lingue
Negli ultimi anni sono stati compiuti numerosi studi sui sistemi coinvolti nella memoria delle
emozioni. Si è riscontrato che nel cervello non esiste un sistema unitario di memorizzazione delle
emozioni, ma diversi sistemi neurofunzionali specifici per ogni tipo di emozione (paura, felicità,
dolore, eccetera). Attualmente l'emozione più studiata è la paura. Si è riscontrato che per ogni
emozione esistono due distinte forme di memoria: I) la memoria emozionale, che è una forma di
memoria implicita, e II) la memoria dell'emozione, che è un tipo di memoria episodica (memoria
esplicita).20)
20 LeDoux, 1994; LeDoux, 1996; LeDoux, 2001; Ohman, 2001; Dolan, 2002.
3.6.1 Memoria implicita ed esplicita delle emozioni
Se in un bosco ci capita di ascoltare un rumore e subito dopo vediamo un serpente che si sta
avvicinando, il nostro cervello registra contemporaneamente due tracce dell'evento, una a livello della
memoria implicita e l'altra a livello della memoria esplicita. La memoria emozionale (implicita)
registra e associa gli stimoli sensoriali, le risposte vegetative (aumento del battito cardiaco e della
frequenza respiratoria) e quelle motorie (attacco o fuga) scatenate dall'incontro con il serpente. La
memoria dell'emozione (esplicita) permette invece di ricordare e di descrivere l'episodio dell'incontro
con il serpente. La memoria emozionale implicita è dunque una forma di memoria inconscia (meglio:
inconsapevole) che presenta tutte le caratteristiche generali della memoria implicita con una sostanziale
differenza: per registrare una traccia nella memoria emozionale non sono necessarie numerose
ripetizioni, ma è sufficiente una sola esposizione allo stimolo pericoloso. Nella vita, infatti, basta aver
incontrato un solo serpente perché sia stata attivata tutta una serie di risposte emozionali tipiche, che
ricorrono ogniqualvolta, passeggiando in un bosco, percepiamo un rumore sospetto che potrebbe essere
provocato da un altro serpente.
3.6.2 Memoria emozionale implicita e acquisizione delle lingue
Durante l'acquisizione di una lingua un bambino piccolo "associa" le memorie procedurali coinvolte
nell'acquisizione del linguaggio all'insieme delle memorie emozionali inconsce (meglio:
inconsapevoli)che vanno a formare il bagaglio emozionale e la sua struttura di personalità. In
particolare, l'acquisizione della prima lingua viene in genere influenzata in maniera determinante dai
rapporti fra madre e figlio, per tale ragione si utilizza ancora il termine di "lingua materna". L'esistenza
di particolari relazioni fra la lingua materna e i sistemi affettivi chiarisce come numerosi pazienti
poliglotti con gravi malattie psichiatriche riferiscano un aumento della sofferenza psichica quando
esprimono i loro problemi affettivi nella lingua materna.21)
L'insieme delle memorie emozionali che si legano agli automatismi di una lingua è quindi molto
diverso se la lingua è stata acquisita da piccoli e con modalità naturali piuttosto che appresa a scuola
per regole.22) Si immagini ad esempio un ragazzo che abbia appreso il francese durante l'interazione
con la sua fidanzata a Parigi, rispetto a un seminarista della stessa età che sta imparando il latino
attraverso la memorizzazione di regole grammaticali. L'impatto emozionale delle due lingue sui due
cervell’, a parità di altre condizioni, è sicuramente molto diverso.
21 Amati Mehler et al., 2003.
22 Lamendella, 1977a, 1977b; Schumann, 1998.
195
Scienza ed Etica
La definizione ed il corretto inquadramento dell'entità denominata ADHD (Sindrome da Deficit di
Attenzione e da Iperattività), non può prescindere dal richiamare nozioni fondamentali che riguardano
la scienza, la medicina e la psichiatria, nonché da un'analisi scientifica, storica e sociologica del
fenomeno, oltre all'analisi di alcuni aspetti etici che ci auguriamo possano risultare utili per
comprendere appieno lo spirito che anima la nostra campagna di informazione.
Aspetti scientifici
Alcune note sulla scienza e sulla sua condizione nella società contemporanea. · Richiami di medicina e
semeiotica medica, da applicarsi al nostro caso. · La diagnosi dell'ADHD (Sindrome da Deficit di
Attenzione e Iperattività) · Alcune controindicazioni della terapia farmacologica
Alcune note sulla scienza e sulla sua condizione nella società contemporanea.
La scienza è la codificazione sul piano teorico delle scoperte ottenute tramite l'utilizzo del metodo
scientifico; tale metodo prevede i seguenti passaggi: osservazione, ipotesi, predizione, sperimentazione,
validazione o invalidazione dell'ipotesi, tesi. Propri della metodologia scientifica sono inoltre la
prudenza, il dubbio e la considerazione che ogni scoperta è comunque relativa e sarà presto o tardi
superata da nuove conoscenze: da ciò deriva un atteggiamento di modestia e di relatività nel rapportarsi
alla conoscenza acquisita. Dall'approccio scientifico sono quindi sempre, esclusi la soggettività, il
giudizio o l'opinione personale.
Vi sono invece, indubbiamente, verità che ogni individuo ha assunto come proprie e nelle quali crede,
per propria scelta o fede: tali orientamenti ricadono nell'ambito politico, filosofico, religioso o
quant'altro e nulla hanno a che vedere con la scienza.
Il percorso e la metodologia scientifica ci hanno permesso di acquisire conoscenze e di derivarne
applicazioni di cui ognuno di noi beneficia. Tali conoscenze scientifiche si sono spinte in un numero
cos” vasto di direzioni che nessuno può permettersi di averne in toto una dettagliata cognizione
generale: il grado di conoscenza di ogni singola materia è arrivato a limiti ove la specializzazione è
assolutamente necessaria al fine di approfondire lo studio e la ricerca. Ciò ha di fatto mantenuto il
divario di conoscenza tra scienziato e cittadino comune, non solo: ha in molti casi condotto ad un
parziale isolamento degli scienziati all'interno dei loro rispettivi campi di applicazione e studio.
Troppo frequentemente abbiamo assistito ad annunci entusiastici, fatti anche da autorevoli scienziati, in
relazione a scoperte scientifiche, affermate come tali e che erano in realtà semplici ipotesi, per nulla
comprovate dalla sperimentazione. Gli enormi interessi economici, oltre alla fama di celebrità e ad
eventuali interessi personali, che spesso ruotano attorno al campo scientifico, hanno certamente
contribuito,
in
quei
casi,
alla
distorsione
della
verità
e
delle
prove.
Siamo giunti al punto in cui, nel corso del 2000, tre delle più autorevoli riviste scientifiche
internazionali, "Science", "Lancet" e "Nature", hanno pubblicato un fondo di redazione, nei quali
informavano che apporranno una nota, laddove necessita, e specialmente nel caso articoli che di fatto
esaltano l'efficacia di prodotti farmaceutici in commercio, precisando che in relazione al tale articolo la
rivista "non è in grado di assumersi la piena responsabilità della veridicità
dei
dati
contenuti
e
che
questa
è
a
carico
degli
autori"
(1)
In questa situazione alcuni ricercatori possono trovarsi nella condizione di fornire risposte o di fare
affermazioni che gli interlocutori non sono in grado di contestare e che spesso vengono accettate come
verità assolute. I meccanismi di controllo e il dibattito scientifico restano poi frequentemente confinati
all'interno dello stesso mondo accademico dello specifico settore: in pratica un gruppo giudica se stesso
ed i propri membri.
196
Richiami di medicina e semeiotica medica, da applicarsi al nostro caso.
La medicina si prefigge di curare - e se possibile guarire - le malattie, nonché di alleviare le sofferenze
di chi ne è colpito.
Il vocabolario della lingua italiana, De Voto Oli, definisce la parola "malattia" come "un'anormale
condizione dell'organismo causata da alterazioni organiche o funzionali ad andamento evolutivo verso
la morte, la guarigione o una nuova, diversa condizione di vita".
Ogni e qualunque malattia è chiaramente identificabile attraverso esami specifici in grado di
individuare le anomalie nel corpo, organo, tessuto o cellula: non sulla base del parere soggettivo, né di
test che debbano essere "interpretati".
Una branca fondamentale della medicina è la patologia medica. I patologi si occupano di identificare e
catalogare tutte le possibili anomalie, ed anche le cause di morte nel settore più specifico della
patologia legale. Nei più affermati testi di patologia, la parola "malattia" viene definita come
"anormalità della struttura o della funzione di cellule, tessuti, organi o organismi".
Tutte la malattie possibili, dalle più gravi alle più innocue, sono visibili e misurabili tramite le
alterazioni che provocano all'interno delle cellule, dei tessuti, degli organi o del loro metabolismo. A
queste si aggiungono eventuali eventuali anomalie a livello molecolare che possono causare
alterazioni al corretto funzionamento dell'organismo, come definite dalla biologia appunto
"molecolare".
Per ogni malattia, dal cancro al raffreddore, la medicina possiede test oggettivi (macchinari, esami
di laboratorio, radiografie ed altri mezzi di verifica) che ne provano o meno la presenza, al di là del
parere soggettivo di qualunque addetto ai lavori. Le opinioni dei singoli, i pareri personali non
contano nulla in medicina: questo è ciò che rende la medicina una scienza.
Possiamo andare oltre in questa illustrazione della metodologia scientifica nella medicina.
La semeiotica medica insegna a distinguere tra sintomi e segni (2).
Il sintomo è ciò che il paziente dice, afferma o fa di sua volontà. Sono sensazioni soggettive, quali
lamentarsi di un dolore o riferire di una sensazione di bruciore allo stomaco. I sintomi sono
importanti: servono a indirizzare l'indagine clinica, ma come ben sappiamo i sintomi non sono
assolutamente mai ritenuti sufficienti per fare diagnosi: possono ingannare. Un individuo può
arrivare in pronto soccorso lamentando un fortissimo dolore allo stomaco, ma potrebbe venir
riscontrata da un esame una pancreatite acuta, che nulla ha a che vedere con lo stomaco. Come in
una indagine di polizia, i sintomi sono quindi semplici indizi, non sono prove che ci permettono di
individuare il colpevole.
Ci sono poi i segni. Questi non appartengono alle affermazioni o lamenti del paziente: sono riscontri
oggettivi che il medico constata, quali un fegato che è ingrossato, un rumore cardiaco anomalo, una
paralisi facciale o un escreato sanguinolento. I segni, sempre tornando al nostro paragone con
l'indagine poliziesca, sono prove.
Ulteriori prove possono venire infine dagli esami di laboratorio (esami del sangue, delle urine, ecc.)
e dalla diagnostica strumentale (accertamenti radiologici, ecografie, doppler, miografie, risonanza
magnetica, ecc.). Quando le prove sono sufficienti e convergono in modo inequivocabile, e solo
allora, viene perfezionata la diagnosi.
Possiamo quindi ben vedere, ancora una volta, come ci si affidi, in medicina a valutazioni oggettive
(od obbiettive come preferisce definirle il prof. Dioguardi), a prove tangibili: siamo nel campo della
scienza.
197
La diagnosi dell'ADHD (Sindrome da Deficit di Attenzione e Iperattività)
Di questa presunta patologia non vi è traccia nella storia (a meno che non si vogliano riesumare i lavori
di Rudin e della Erlenmeyer-Kimling sulla "minima disfunzione cerebrale", vedi aspetti etici). Non vi
sono cioè persone che ne lamentavano la sintomatologia, interpretandola come "patologica", cos” come
possiamo invece affermare nel caso di tubercolosi, peste, ulcera gastrica o qualsiasi altra patologia di
natura organica.
Alcuni studiosi hanno osservato, studiando le biografie di noti ed eccelsi personaggi, che molti di
questi sarebbero stati etichettati come affetti da ADHD, se fossero vissuti ai nostri tempi negli USA e
sottoposti a test quali quelli attualmente utilizzati per la diagnosi dell'ADHD (da Andersen a
Bheetowen, da Hemingway a Dal”, da Eisenower allo scienziato Steven Hawkins). Stalin, Mengele ed
altri uomini tristemente noti, erano invece bambini assolutamente normali, sempre adottando i criteri
attualmente seguiti per la diagnosi dell'ADHD. Per una patologia che secondo i suoi sostenitori
colpirebbe una percentuale di popolazione infantile ricompresa tra il 3% ed il 20% (!) ciò appare
perlomeno curioso.
Gli antropologi ricordano che una qualunque alterazione genetica negativa che si manifesti, in qualsiasi
specie, in una percentuale superiore al 3%, porta inevitabilmente all'estinzione della specie stessa.
Perché non ci siamo estinti è quindi un mistero. Si tratterebbe allora di una alterazione positiva?
L'ADHD è una nuova entità patologica? La campagna per diffonderne il verbo sarebbe dunque una
crociata per la salvezza dell'umanità?
L'ADHD è di fatto una diagnosi fondata unicamente sul riscontro di sintomi. Se in medicina si
procedesse seguendo il medesimo criterio diagnostico, giungeremmo per assurdo ad una catalogazione
delle malattie simile a quella seguente (diagnostica medica basata sui SINTOMI):
Entità sintomatologica
vera entità
DOLORANTI
fratture, lussazioni, traumi
gravi infezioni acute
nevralgie
cancro in alcune fasi
infarto acuto
alcuni avvelenamenti
soggetti affetti da emorroidi
simulatori
PROSTRATI
anemici
malati terminali senza dolore
AIDS
epatopatici
cardiopatici (alcune forme)
disidratati, denutriti
pigri
AGITATI
ipertiroidei
epilettici
morbo di parkinson
corea di H. e altre simili
intossicazioni da alcuni farmaci
alcuni avvelenamenti
irritazione ed altri sbalzi umorali
NON PARLANTI
collassati / svenuti
coma (di vario grado)
ictus
muti
laringectomizzati
oppositori politici, muti per
protesta
religiosi con voto del silenzio
198
I test utilizzati oggigiorno per la diagnosi di ADHD rientrano appieno in questo inconsistente
"standard" qualitativo (ecco alcune domande, riferite a bambini di due -otto anni):
Disattenzione
• spesso non riesce a prestare attenzione ai particolari o commette errori di distrazione nei
compiti scolastici, sul lavoro, o in altre attività;
• spesso ha difficoltà a mantenere l'attenzione sui compiti e sulle attività di gioco;
• spesso non sembra ascoltare quando gli si parla direttamente;
• spesso perde gli oggetti necessari per i compiti scolastici o per le attività (per esempio i
giochi, compiti di scuola, matite, libri e strumenti);
• spesso è distratto da stimoli esterni;
• spesso è sbadato nelle attività quotidiane
Iperattività
• spesso muove con irrequietezza mani o piedi o di dimena sulla sedia;
• spesso lascia il proprio posto a sedere in classe o in altre situazioni in cui ci si aspetta che
resti seduto;
• spesso corre e salta dovunque in modo eccessivo in situazioni in cui ciò è fuori luogo;
• spesso "parla troppo"
Impulsività
• spesso "spara" le risposte prima che le domande siano state completate;
• spesso ha difficoltà ad attendere il proprio turno;
• speso interrompe gli altri od é invadente nei loro confronti (per esempio si intromette nelle
conversazioni o nei giochi)
(la pretesa scientificità di criteri come "spesso" e "frequentemente" è una novità assoluta in medicina)
Questi test paiono identici e - a detta dei medici più critici sul fenomeno ADHD - hanno lo stesso
valore di quelli che saltuariamente appaiono, specie in alcune riviste femminili ma anche maschili,
dove il lettore si diverte ad esprimere il proprio parere su di una serie di domande a risposte chiuse
(si/no), per sapere, ad esempio, se è gelosi, timido o "sfortunato". Tali "strumenti" trovano una loro
giusta collocazione nella comunicazione mediatica a fine ludico e di intrattenimento: assurgerli a
mezzo di diagnosi clinica rischia di apparire quanto meno ridicolo. Ulteriore nota di preoccupazione è
data dalla circostanza che sono gli insegnanti - spesso non adeguatamente formati - a somministrare
questi test.
Nessuno vuole negare che esistano bambini con problemi di varia natura e genere; che vi siano anche
bambini che manifestano un'esasperata iperattività, disattenzione e difficoltà di apprendimento è certo,
ma racchiuderli solo ed in un'unica categoria nosologica ed affermare che questi siano un numero cos”
enorme, rischia di apparire come un'operazione di marketing, in quanto le cause di questo fenomeno
potrebbero essere molte e diverse.
Quanto poi al numero enorme che viene propagandato (non meno del 3% o il 12% o il 15% o il 20%
dei bambini, a seconda della fonte!), qualunque medico o pediatra che abbia avuto una carriera anche
solo di pochi anni può chiedere a se stesso e rispondere onestamente alla seguente domanda: quanti casi
di questo genere mi sono veramente capitati, quanti ne ho visitati e curati? Per chiunque nutrisse
ulteriori dubbi, riteniamo opportuno promuovere le seguenti riflessioni.
Se l'ADHD è una vera malattia biologica, l'onere della prova è carico di chi lo sostiene.
La prova deve consistere di:
• alterazioni anatomo patologiche (o biologico - molecolari) rilevanti per sensibilità e
specificità, nel rapporto tra la popolazione sana e quella malata;
199
• esami clinico strumentali che rilevino alterazioni con sufficiente sensibilità e specificità,
nel rapporto tra la popolazione sana e quella malata;
Se ciò esistesse, l'ADHD diverrebbe una malattia neurologica, vi sarebbero test specifici biologici per
confermare la diagnosi e nessuno ricorrerebbe più, se non eventualmente in fase anamnestica,
all'utilizzo dei test attuali ai fini diagnostici. Ciò permetterebbe persino di evidenziare i malati
asintomatici.
Sino a che queste prove non esistono, circa l'organicità di questo fenomeno siamo nel campo delle
opinioni.
Affermazioni come quelle udite sinora, quali: "l'ADHD "è un disturbo eterogeneo e complesso,
multifattoriale - nell'80% dei casi di natura genetica - associato ad una comorbilità con altri disturbi nel
70% dei casi", non aggiungono né modificano nulla a quanto descritto. Servono forse, utilizzando
termini sconosciuti ai profani, ad impressionare il pubblico con piglio sacerdotale.
Si è anche cercato di avvalorare la scientificità dell'ADHD tramite affermazioni relative al consenso di
molti autorevoli psichiatri e di alcuni pediatri, ma non è dall'elenco dei sapienti che si trae la verità,
tantomeno quella scientifica, bens” dalle prove scientifiche in quanto tali.
Alcune controindicazioni della terapia farmacologica
Di certo ci sono invece gli effetti collaterali di questo tipo di soluzione farmacologia, nella maggior
parte dei casi clamorosamente trascurati:
• problemi cardiaci (palpitazioni, tachicardia, aritmia cardiaca, dolori al torace, arresti
cardiaci);
• manie, psicosi e allucinazioni, agitazione e ansietà, irritabilità e aggressività, depressione
emotiva e crisi di pianto, riduzione dei tempi di reazione, stati confusionali, allentamenti
di attenzione e apprendimento, perdita di spontaneità, comportamenti robotici, ossessioni
tic e convulsioni, disfunzioni nervose varie;
• problemi gastrointestinali (anoressia, nausea e vomito, secchezza di fauci, costipazione e
diarrea, dolori a stomaco e tubo digerente);
• effetti sul sistema endocrino (disfunzioni della ghiandola pituitaria, dell'ormone della
crescita, ritardi e disfunzioni nella crescita e nello sviluppo e funzionamento sessuale);
• congiuntiviti, ipersensibilità degli organi sensoriali, allucinazioni, mal di testa;
• disturbi al comportamento (insonnia, crolli e colassi, per attività e irritabilità, in certi casi
accentuazione dei sintomi stessi dell'ADHD) Inoltre si sono osservate in misura
statisticamente non trascurabile le seguenti variazioni nel comportamento dei bambini
sottoposti a terapia con questi psicofarmaci:
• persistenza compulsiva, ossessiva e ripetitiva spesso in azioni senza senso, rigidità mentale
perdita di elasticità nei ragionamenti, fissità nelle idee, incapacità a focalizzare
correttamente;
• tendenza a comportamenti solitari e isolati socialmente, riduzione della capacità di
comunicare e socializzare, tendenza a deresponsabilizzarsi in favore di altri soggetti (è
sempre "colpa altrui"), incapacità a giocare in gruppo;
• comportamenti socialmente inibiti, passivi e sottomessi, atteggiamenti letargici, apatici,
stanchezza e pigrezza; incapacità a dimostrare ed esprimere emozioni, inclusi sorrisi o
dimostrazioni di depressione, aspetto triste, frequenti crisi di pianto;
• perdita d'iniziativa nelle azioni e relazioni, perdita di spontaneità, perdita di curiosità e di
capacità di stupirsi e provare piacere.
Per
informazioni
più
approfondite
rivolgersi
al
nostro
Comitato
Scientifico
[email protected]
200
Medicina e pratiche psichiatriche a confronto.
I principi esposti nella sezione "aspetti scientifici" rtelativamente alla definizione delle malattie e
alla loro catalogazione non possono essre completamente applicati in ambito psichiatrico: vari
autori hanno infatti contestato ampiamente la validità del termine "malattia mentale" (3).
E' bene ricordare che la psichiatria è tuttavia divisa al suo stesso interno in varie correnti di pensiero
(biologica, psicologica, sociale, bio-psico-sociale o eclettica, etc.) e che la corrente biologica,
affermatasi ad esempio negli USA, è solo una tra le molte (4).
I sostenitori della psichiatria biologica tendono quindi a dimostrare che le malattie mentali sono
"malattie organiche", esattamente come tutte le altre.
A tal fine occorrerebbero tuttavia almeno alcune prove scientifiche inequivocabili, che però non
sono disponibili normalmente in psichiatria, per nessuna malattia mentale, anche perché se prove
biologiche venissero evidenziate l'eventuale entità nosologica in questione ricadrebbe nell'ambito
della neurologia, in quanto alterazione organica del sistema nervoso centrale. Di qui le frequenti
polemiche in letteratura tra neurologi ed una certa psichiatria.
Al fine di semplificare l'esposizione, utilizzeremo come esempio una classica entità
nosologica
psichiatrica:
la
schizofrenia.
1. nonostante le decine di migliaia di autopsie effettuate su soggetti che soffrivano di
schizofrenia, mai è stata evidenziata alcuna specifica alterazione patologica.
2. la diagnosi di schizofrenia si basa unicamente sui sintomi, su ciò che il paziente fa o dice.
Non esistono segni che siano indipendenti dalla soggettività. Per confermare ciò (qualora
ve ne fosse bisogno ed al di là dell'evidenza), in passato sono stati condotti vari
esperimenti su larga scala (vedi ad es. l'esperimento di Rosenham - 5).
3. gli esami strumentali utilizzati sino ad oggi, compresi quelli più sofisticati a nostra
disposizione (RMN, Spect, Pet, etc.), non hanno dimostrato alcuna variazione, né
anatomica, né funzionale, tra il sistema nervoso centrale di un soggetto definito
schizofrenico e di uno definito normale o sano.
Questo non significa ovviamente che la schizofrenia non esista come disturbo, ma semplicemente
ci invita a riflettere circa l'origine organica del disturbo stesso. Nel suo libro "Insanity", lo
psichiatra professor Thomas Szasz (6), ci fornisce un ulteriore stimolo a riflettere. In medicina
possiamo rilevare le seguenti situazioni: Segni
Questa chiara esemplificazione, trasportata in ambito psichiatrico non può funzionare, venendosi a
creare ad esempio nella terza categoria, il caso del malato asintomatico, cioè dello schizofrenico
asintomatico, che di fatto è un ossimoro.
E' ovvio che a fronte di tale situazione ricca di evidenti contraddizioni, alcune correnti psichiatriche da
secoli abbiano tentato di superare l'ostacolo, cercando di accreditare la psichiatria come scienza
biologica. Da questi tentativi nacquero, sempre in relazione al contesto storico del momento, l'ipotesi
dello schizococco, del virus, dell'alterazione genetica e più recentemente quella dello squilibrio
201
biochimico dei neurotrasmettitori, anch'esso in discussione all'interno della comunità medica; ipotesi
dimostratesi poi false o che rimangono, appunto, semplici ipotesi, ma strenuamente difese da alcuni
addetti ai lavori, psichiatri e non, secondo lo stesso identico approccio adottato ai nostri giorni con il
fenomeno ADHD. Questo ancora non significa che l'ADHD non esista, ma certamente ci invita ad una
grandissima prudenza.
Sempre in questa direzione viaggiano molti attuali presupposti di rilevanza clinica, fondati unicamente
su fattori di correlazione. Questo è un tentativo ancor più ambizioso, cioè quello di individuare la causa
o meglio l'eziologia. Sebbene tale percorso non sia di fatto necessario all'accreditamento di una teoria
biologica per una patologia (non conosciamo le cause del cancro, cos” come quelle di molte altre
malattie organiche, ma nessuno può negare che queste siano organiche, data l'evidenza dei segni e dei
riscontri anatomo-patologici e clinico-strumentali), vale la pena di esaminare alcuni fattori di
correlazione utilizzati su questo tema in psichiatria.
202
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Dispensa Sostegno 2 - Università di Modena e Reggio Emilia