Università degli studi di Modena e Reggio Emilia Facoltà di Lettere e Filosofia Largo S. Eufemia n. 19 - 41100 Modena Seminario sulla teoria della traduzione Corso di laurea in “Lingue e culture europee” Facoltà di Lettere e Filosofia Anno accademico 2003-4 Hans Honnacker (cur.) DIECI INCONTRI PER PARLARE DI TRADUZIONE Materiali di discussione Nr. 3 (2005) INDICE Prefazione p. 3 Emilio Mattioli (Università di Trieste), Semiotica e traduzione (U. Eco) – un binomio problematico? p. 5 Hans Honnacker (Università di Modena), ‘Renaissance’ della traduzione nella didattica delle lingue straniere. La traduzione e la sua rivalutazione come processo interculturale di trasformazione p. 9 Demetrio Giordani (Università di Modena), Traduzioni e traduttori del Corano p. 22 Cesare Giacobazzi (Università di Modena), Tradurre è interpretare: il testo letterario come testo ideale nella formazione del traduttore p. 30 Franco Nasi (Università di Modena), Da un italiano ad altri: riscritture e traduzioni endolinguistiche del “Decameron” p. 38 Giovanna Buonanno (Università di Modena), Tradurre Shakespeare oggi p. 59 Adele D’Arcangelo (Università di Milano), L’uso del testo filmico nella didattica della traduzione: un workshop su Raging Bull/Toro Scatenato p. 67 Antonello La Vergata (Università di Modena), Specialismo e divulgazione p. 78 Marco Cipolloni (Università di Modena), Il Secolo d’Oro delle traduzioni o la nascita di un “nación traducida”: il mercato della mediazione linguisticoculturale nella Spagna del secondo Settecento e dello Entresiglos p. 87 AleardoTridimonti (Università di Modena), L’industria delle lingue e i mestieri della traduzione. Il traduttore tecnico, ingegnere della comunicazione multilingue e multimediale p. 100 Nota sugli autori p. 129 PREFAZIONE Il presente lavoro nasce dall’esperienza nuova e stimolante di un seminario organizzato dal sottoscritto presso l’ateneo modenese nell’anno accademico 2003-4: dieci relazioni, tenute da altrettanti docenti, sul tema della traduzione durante l’intero arco del secondo semestre. L’approccio del seminario era volutamente interdisciplinare: il seminario, dedicato sia alla prassi che alla teoria della traduzione, la cosiddetta traduttologia, si rivolgeva agli studenti che seguivano un corso di traduzione del secondo anno, quindi ancora poco esperti delle problematiche traduttologiche. Il seminario verteva su varie questioni che la teoria e la prassi della traduzione oggi pongono in ambito letterario e non, affrontate da docenti di diverse discipline, e non solo di quelle linguistiche. Si trattava quindi di un seminario interdisciplinare che coinvolgeva, fra gli altri, i docenti di inglese, francese, spagnolo, arabo, tedesco e di filosofia. Principale obiettivo del seminario era fornire allo studente strumenti per una corretta riflessione sull’atto di tradurre e sull’interdipendenza tra il tipo di testo, la sua funzione linguistica o comunicativa e la forma di traduzione, ed allo stesso tempo offrirgli strategie traduttive pratiche. Il successo riscosso presso gli studenti (circa 50 studenti hanno partecipato ad ogni incontro) ha premiato la scelta dell’approccio interdisciplinare. Da un questionario distribuito agli studenti nel corso del primo incontro, emergeva il forte interesse ed il desideratum di un seminario che affrontava da vari punti di vista il ‘mare magnum’ che rappresenta oggigiorno la tematica della teoria e della prassi della traduzione. Nell’intervento inaugurale del seminario, 1 Emilio Mattioli parla del binomio “semiotica e traduzione”, con evidente riferimento al recente libro di Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione (Milano, Bompiani, 2003). Sulla scia di Henri Meschonnic, propone una “poetica della traduzione” che si contrappone al concetto di traduzione elaborato sia dalla semiotica che dall’ermeneutica gadameriana che, a suo avviso, risulta troppo rigido. Partendo dal presupposto, condiviso dalla maggior parte degli studiosi di traduttologia, che non si traduce mai da lingua a lingua, ma da testo a testo, Mattioli smaschera il pregiudizio ‘metafisico’ dell’intraducibilità della poesia. Nel suo intervento, il sottoscritto richiama l’attenzione sulla rivalutazione della traduzione nell’ambito della didattica delle lingue straniere che è anche una riflessione sul proprio operato all’interno dell’insegnamento della lingua tedesca. Al centro delle sue riflessioni stanno le osservazioni teoriche di Martin Heidegger (übersetzen als übersetzen) e di Hans-Georg Gadamer riguardo all’atto di tradurre e la loro ‘spendibilità’ didattica in ambito universitario. L’intervento di Demetrio Giordani dal titolo “Traduzioni e traduttori del Corano” mette in luce le difficoltà sia linguistiche che dottrinali e teologiche della traduzione di un testo sacro, quale il Corano. Tali difficoltà sono aggravate dal fatto della presenza di versetti “chiari” e versetti “allegorici” in questo testo inimitabile. Per secoli ogni tipo di traduzione del Corano fu osteggiato dagli esponenti dell’ortodossia religiosa fino a non molto tempo fa. Cesare Giacobazzi, nel suo intervento “Tradurre è interpretare: il testo letterario come testo ideale nella formazione del traduttore”, parla del tema della traduzione letteraria come ‘palestra’ ideale per imparare a tradurre, sfatando in tal modo alcuni luoghi comuni sulla traduzione come quello secondo cui, da un punto di vista didattico, il testo letterario non si presterebbe all’insegnamento della traduzione. Nel suo intervento dal titolo “Da un italiano ad altri: riscritture e traduzioni endolinguistiche del Decameron”, Franco Nasi affronta il tema della traduzione endolinguistica (dall’italiano all’italiano). Con esempi di traduzioni ‘moderne’ del Decameron – fin dall’inizio del Novecento, dalla ‘traduzione’ di Fabietti (1906) alla molto discussa ‘riscrittura’ di Busi (1990) – Nasi mostra la 1 L’ordine dei contributi qui raccolti rispecchia l’ordine cronologico in cui sono state tenute le corrispettive relazioni all’interno del seminario. 3 necessità e, allo stesso tempo, la difficoltà di rendere comprensibile al lettore del Duemila il capolavoro boccacciano. Giovanna Buonanno, presentando una conferenza dal titolo “Tradurre Shakespeare oggi”, parla dei problemi specifici delle traduzioni shakespeariane che derivano soprattutto dal fatto che i testi teatrali di Shakespeare sono da considerare, da una parte, testi letterari e, dall’altra, testi da mettere in scena (Shakespeare for the stage vs. Shakespeare for the page). Ne risultano varie possibilità e forme di traduzione, equivalenti fra di loro. L’intervento di Adele D’Arcangelo, “L’uso del testo filmico nella didattica della traduzione: un workshop su Raging Bull/Toro Scatenato”, mette a fuoco i problemi specifici della traduzione filmica che non riguarda tanto la traduzione intersemiotica (nella terminologia di Roman Jakobson), cioè la trasposizione di un sistema semiotico in un altro, ad esempio di un romanzo in un film, ma quella ‘interlinguistica’, cioè fra due lingue naturali diverse. L’esempio del film americano (p.es. Racing Bull di Martin Scorsese con Robert De Niro, 1980) mostra quanto sia difficile tradurre un prodotto spesso caratterizzato da influenze gergali in una lingua europea, quale ad esempio l’italiano. Antonello La Vergata affronta il tema “Specialismo e divulgazione”, in tutti i campi del sapere, e non solo. Egli critica innanzitutto la mania contemporanea di ‘scimmiottare’ le lingue straniere, in particolare l’inglese. Spesso le cattive traduzioni derivano, a suo parere, dalla competenza deficitaria della propria madrelingua ‘inquinata’ da ‘mostri’ linguistici, presenti non solo nel ‘technichese’ o nel ‘burocratese’. Marco Cipolloni parla del tema “Il Secolo d’Oro delle traduzioni o la nascita di un “nación traducida”: il mercato della mediazione linguistico-culturale nella Spagna del secondo Settecento e dello Entresiglos”. Dalle sue osservazioni emerge come tra Sette- e Ottocento l’identità nazionale iberica si formasse anche per mezzo delle traduzioni: in quell’epoca nei circoli letterari scoppiava la polemica sulla Spagna in quanto “nación traducida” (Ramón de Mesonero Romanos). Emerge un’idea della traduzione legata all’invasione straniera – basti pensare all’invasione francese nel 1808. Last but not least, Aleardo Tridimonti, presentando un intervento dal titolo “L’industria delle lingue e i mestieri della traduzione. Il traduttore tecnico, ingegnere della comunicazione multilingue e multimediale”, sgombra dapprima il campo da numerosi malintesi sul traduttore e/o sulla traduzione. Al centro delle sue esposizioni stanno soprattutto i problemi pratici che futuri traduttori devono affrontare, quando si affacciano sul mercato di lavoro delle traduzioni, problemi che spesso vengono trascurati nella formazione accademica degli studenti. Portando esempi pratici di traduzione, Tridimonti illustra tali difficoltà e le varie possibilità di soluzione. La lunghezza di quest’ultimo contributo si giustifica con il particolare interesse e con l’utilità pratica per gli studenti del corso di laurea “Lingue e culture europee” presso l’ateneo modenese. Pur non trattandosi di un corso di laurea per interpreti e/o traduttori, la traduzione rimane sempre uno sbocco professionali di tali studenti, una volta laureati. Vorrei infine ringraziare tutti i relatori per la loro squisita disponibilità che ha reso possibile lo svolgimento regolare del seminario. Un particolare ringraziamento va al collega ed all’amico Franco Nasi per i suoi preziosi suggerimenti. Dulcis in fundo, vorrei esprimere la mia gratitudine a Giovanna Procacci per il suo prezioso e sempre competente appoggio, senza il quale la pubblicazione del presente volume non sarebbe stata possibile. Modena, 15 febbraio 2005 Hans Honnacker 4 EMILIO MATTIOLI Semiotica e traduzione (Umberto Eco) - un binomio problematico? La pubblicazione del recente volume di Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa Esperienze di traduzione, ripropone con l’autorevolezza dello studioso italiano oggi forse più famoso nel mondo, il problema del rapporto fra semiotica e traduzione, ma non è mia intenzione tanto soffermarmi sul saggio di Eco che peraltro ho già recensito, 1 quanto affrontare questo problema nei suoi termini più generali e considerare le conseguenze che comporta una impostazione semiotica del tradurre. Non ho cose nuove da dire, ma riflessioni già svolte da altri da riproporre: mi riferisco in particolare a quanto ha teorizzato nel corso di tutta la sua carriera di studioso un pensatore del calibro di Henri Meschonnic, filosofo del linguaggio, teorico della traduzione, traduttore in particolare della Bibbia e poeta in proprio. Se vogliamo contrapporre con una formula sintetica semiotica e poetica, possiamo parlare di segno contro ritmo. Ma il discorso è estremamente complesso e perché abbia un qualche senso deve essere articolato e motivato. Partiamo da uno dei tanti libri di Meschonnic, nessuno dei quali è stato tradotto in italiano nella sua totalità, Le signe et le poème, l’autore cita questa affermazione della Kristeva: “Sostituendo la filosofia classica, la semiotica dovrebbe essere la teoria scientifica dell’epoca dominata dalla scienza”, 2 ma, come ha scritto Benveniste, citato da Meschonnic nella stessa opera: “in nessun momento, in semiotica, ci si occupa della relazione del segno con le cose denotate, né dei rapporti fra la lingua e il mondo.”3 Eco ha esposto con molta chiarezza il modello semiotico hjelmselviano: “una lingua (e ogni sistema semiotico) consiste di un piano dell’espressione e di un piano del contenuto, che rappresenta l’universo dei concetti esprimibili in quella lingua. Ciascuno dei due piani consiste di forma e sostanza ed entrambi sono il risultato della segmentazione di un continuum o materia prelinguistica.” 4 E’ un modello che sembra viziato dal formalismo che ha posto in crisi lo strutturalismo. Dice Meschonnic: “Hjemselv non può non apparire, mostruosamente, a causa della sua filiazione, e degli stereotipi dominanti, come un anti-Saussure, e anche, dato lo sviluppo della semiotica, la più grande disgrazia postuma di Saussure. Perché, ultimo paradosso, non è il teorico della grammatica, il cui apporto sui problemi del pronome e della reggenza ha la sua pertinenza, ma è, in Hjemselv, il metafisico dello strutturalismo che è stato seguito.”5 La polemica contro il segno è motivata soprattutto dalle coppie binarie che sviluppa a cominciare da quella stessa che definisce il segno, di significante e significato. Sono tante le coppie che è impossibile elencarle tutte, mi limito a ricordare quelle che Meschonnic ha suddiviso in sei paradigmi: linguistico (significante/significato, proprio/figurato, forma/senso, poesia-forma/prosalinguaggio ordinario); antropologico (corpo/anima, vita/linguaggio, natura/cultura); filosofico (parole/cose, origine/convenzione); teologico (cristiano: Antico Testamento/Nuovo Testamento); sociale (individuo/sociale); politico (maggioranza/ minoranza). Il proprio di questi dualismi è d’opporre e separare i due termini in un rapporto non dialettico o ancora secondo una dialettica che si risolve a profitto di un solo termine. Vedere nel linguaggio un “segno” o un “insieme di segni” è in primo luogo pensarlo come un sostituto di un’altra cosa. Il pensiero dualista appartiene secondo Meschonnic a quella che Horkheimer chiama la teoria tradizionale: opponendo un termine ad un altro, oppone un ordine ad 1 Mattioli (2003). Meschonnic (1975), p. 238 3 Ivi, pp. 246-7. Tutte le citazioni sono state tradotte dall’autore del contributo. 4 Eco (2003), p. 39. 5 Meschonnic (1975), p. 231. 2 5 un altro, invece di modificarlo. Per Meschonnic il segno impedisce l’invenzione di nuovi rapporti in ogni ambito. Come sfuggire allora al dualismo del segno? E questo, come vedremo, è fondamentale per la traduzione. Meschonnic propone una semantica del continuo che egli pensa servendosi del concetto di significanza attinto a Benveniste. La significanza è definita come significazione prodotta dal significante, ma il significante è inteso come participio presente del verbo significare e non come portatore materiale del senso. Specificamente la significanza si dà attraverso la prosodia e il ritmo. Attingo dall’opera capitale di Meschonnic Critique du rythme. Anthropologie historique du langage del 1982, la definizione del ritmo:6 Io definisco il ritmo del linguaggio come l’organizzazione delle marche attraverso le quali i significanti, linguistici ed extralinguistici (nel caso della comunicazione orale soprattutto) producono una semantica specifica, distinta dal senso lessicale, e che io chiamo la significanza, cioè i valori propri di un discorso e di uno solo. Queste marche possono collocarsi a tutti i ‘livelli’ del linguaggio: accentuali, prosodici, lessicali, sintattici. Esse costituiscono insieme una paradigmatica e una sintagmatica che neutralizzano precisamente la nozione di livello. Contro la riduzione corrente del ‘senso’ al lessicale, la significanza appartiene a tutto il discorso, essa è in ogni consonante, in ogni vocale, che, in quanto paradigmatica e sintagmatica, produce delle serie. Così i significanti sono tanto sintattici quanto prosodici. Il ‘senso’ non è più nelle parole, lessicalmente. Nella sua accezione ristretta, il ritmo è l’accentuale, distinto dalla prosodia - organizzazione vocale, consonantica. Nella sua accezione larga, quella che io implico più spesso, il ritmo ingloba la prosodia. E, oralmente, l’intonazione. Organizzando insieme la significanza e la significazione del discorso., il ritmo è l’organizzazione stessa del senso del discorso. E il senso essendo l’attività del soggetto dell’enunciazione, il ritmo è l’organizzazione del soggetto come discorso nel e attraverso il suo discorso. Quali sono le conseguenze sul problema del tradurre di queste due diverse impostazioni teoriche che possiamo definire l’una della semiotica, l’altra della poetica? L’impostazione semiotica del problema del tradurre, come risulta, ad esempio, in Eco porta a concepirlo come problema di resa del significato: Dire quasi la stessa cosa è un titolo che indica bene come la traduzione sia concepita come una resa parziale del significato. Se le cose stanno così, la specificità della traduzione letteraria viene cancellata. Non a caso Meschonnic ha parlato di un anello debole della semiotica costituito proprio dai problemi che pone la letteratura. La semiotica rompe l’unità fra il significante e il significato e finisce per privilegiare, traducendo, il significato. Esistono le società bibliche che prima traducono il contenuto, poi provvedono alla forma. Ha scritto Nida, uno degli autori di riferimento di Eco: “Tutto quello che può esser detto in una lingua, può esser detto in un’altra, eccezion fatta se la forma è un elemento essenziale del messaggio.”7 E’ evidente che Nida si riconnette a Jakobson il quale, come noto, ha affermato che la poesia è intraducibile per definizione e che è soltanto possibile la trasposizione creatrice. Siamo al cuore del problema, Siamo di fronte a due diversi modi di intendere la traduzione. Riprendiamo un passo da Poétique du traduire, un testo di Meschonnic: Io non prendo più il ritmo come un’alternanza formale del medesimo e del differente, dei tempi forti e dei tempi deboli. Seguendo Benveniste, che non ha trasformato la nozione, ma che ha mostrato, attraverso la storia della nozione, che il ritmo era in Democrito l’organizzazione di ciò che si muove, io prendo il ritmo come l’organizzazione e lo svolgimento stesso del senso nel discorso, Cioè l’organizzazione (dalla prosodia all’intonazione) della soggettività e della specificità di un discorso: la sua storicità. Non più un opposto del senso, ma la significanza generalizzata di un discorso. Quello che si impone immediatamente come l’obiettivo della traduzione non è più il senso, ma ben più del senso, e che l’include: il modo di significare.8 6 Meschonnic (1982), pp. 216-217. Riprendo la citazione da Meschonnic (1973), p. 331. 8 Meschonnic (1999), pp. 99-100. 7 6 Occorre esemplificare questo diverso modo di tradurre e le conseguenze che comporta. Un esempio che si trova in Iliade, VIII, 64-65, citato da Meschonnic più di una volta, può mostrare che il ritmo costituisce dei paradigmi di significanza che superano il senso lessicale. Qui un’equivalenza morfologica e ritmica installa una equivalenza fra due parole di senso praticamente opposto. Di che cosa si tratta? I due termini greci oimoghé ed eukholé che esprimono rispettivamente il grido di dolore degli uccisi e il grido di gioia degli uccisori, nella loro equivalenza ritmica, sono tre sillabe lunghe (non si tratta di metrica) intercalate nel verso da due brevi e da due brevi precedute e seguite ed hanno un effetto di significanza per il quale uccisori e uccisi vengono uguagliati ai di là della visione immediata del combattimento. E questo coincide con i risultati della ricerca antropologica contemporanea. Il ritmo della poesia omerica lo mostra, non lo dice. Meschonnic al quale abbiamo fatto continuamente riferimento, così traduce i due versi: 9 Ensemble montaient le cri de malheur et la clameur Des tueurs ed des tués et la terre coulait le sang Clameur contiene e rovescia, malheur, foneticamente. Prendiamo adesso da Eco. Secondo lo studioso la metafora del primo verso del Cimitero marino di Valéry, quella del tetto per il mare, è intraducibile. Ricordiamoli quei versi stupendi: Ce toit tranquille, où marchent des colombes, Entre les pins palpite, entre les tombes; Midi le juste y compose les feux La mer, la mer, toujours recommencée! Secondo Eco la metafora risulta comprensibile soltanto ad un lettore francese che abbia presenti i tetti di ardesia di Parigi che “sotto il sole possono dare riflessi metallici”10 e che quindi può pensare ad una superficie azzurra. Ora io non riesco a capire perché si debba disambiguare la metafora nella traduzione. Tradurre toit con tetto vuol dire porre al lettore italiano gli stessi problemi che ha il lettore francese ed evitare di eliminare le possibilità interpretative diverse da quelle suggerite da Eco. Basta leggere il commento della Giaveri nella sua traduzione con testo a fronte del Cimitero marino, ed anche soltanto leggere il testo nella sua totalità, nell’ultimo verso il tetto ricompare ancora come metafora del mare senza ombra di dubbio: Ce toit tranquille où picoraient des focs! Quel tetto calmo al beccheggio dei fiocchi! (trad. Giaveri) 11 Picorer (beccheggiare) e focs (fiocchi) sono termini marinareschi. E’ evidente che i diversi modi di tradurre implicano diverse concezioni della scrittura e che ammettere una specificità della traduzione letteraria comporta una difesa dei valori letterari e artistici. In questo senso una concezione della traduzione che non sia concepita in termini puramente formali e nemmeno puramente contenutistici è, secondo me, uno sforzo necessario in difesa della civiltà delle lettere, per usare un’espressione oggi fuori moda. Io avverto il pericolo di uno scientismo, di un positivismo che si riaffaccia in questo ambito di studi. La via indicata da Meschonnic mi sembra preziosa. Il porre la questione in termini di poetica è un modo di sottrarsi ad ogni forma di dogmatismo e di formalismo. La poetica è stata nell’estetica italiana ricuperata soprattutto come “la riflessione che gli artisti e i poeti esercitano sul loro fare indicandone i sistemi tecnici, le norme operative, le moralità, gli ideali.”, secondo la definizione di Luciano Anceschi, in Meschonnic, come ha scritto Lucie Bourassa, “la poetica /ha di mira/ la descrizione dei modi di significazione dei testi particolari, specialmente attraverso la questione centrale del rimo, piuttosto che una grammatica astratta di forme e di generi, così come la concepiva lo strutturalismo.”12 Le due 9 Ivi, p. 110. Eco (2003), p. 168. 11 Valery (1984) 12 Bourassa (1977), p. 24. 10 7 posizioni, intendo quella di Anceschi e quella di Meschonnic, non sono poi così lontane, perché la poetica, secondo il filosofo francese del linguaggio, si propone di individuare la specificità dei testi, di ogni singolo testo e va alla ricerca di questa specificità nel ritmo; questa ricerca vale tanto per la poesia che per la prosa, la distinzione delle quali è stata superata da Meschonnic, proprio partendo dalle sue traduzioni bibliche, perché nella Bibbia questa distinzione non c’è, mentre la cosa letteraria nel suo complesso è invece qualificata dalla presenza del ritmo. Le conseguenze di questa impostazione sono molteplici e, per più di un aspetto, rivoluzionarie. Prima di tutto battono in breccia ogni concezione formalistica: il rifiuto della semiologia e in particolare della riducibilità dell’opera letteraria a segno, come già si accennava, nasce di qui. Fin dal 1970 Meschonnic scriveva di “una poetica che tende a mostrare come, a tutti i livelli e in tutti i sensi, non è né scienza dello stile né soggettivismo.” Per Meschonnic dunque il percorso principale per legare l’opera letteraria alla vita è la ricerca del ritmo, del ritmo specifico di ogni opera ed in questa ricerca lo studioso ha speso larga parte del suo impegno. Ma al di là del discorso sul ritmo rimane fondamentale il tentativo di legare l’opera letteraria alla vita non, ovviamente, nel senso banale del rapporto fra la biografia dell’autore e l’opera. Nel tradurre un’opera letteraria non si potrà prescindere dalla sua specificità, dalla sua storicità, dalla sua soggettività intesa in senso transnarcisistico. Di qui la necessità di un’etica della traduzione, della assunzione di una responsabilità da parte del traduttore che non può configurarsi come un negoziatore. Se l’opera è un sistema, andrà tradotta nella sua totalità in un’altra opera sistema. E non si tratterà di un trasporto, ma di un rapporto. L’idea del traghettatore Caronte che trasporta cadaveri rappresenta efficacemente la traduzione concepita come traduzione del solo significato. Il traduttore come autore è la prospettiva nuova, un autore che agisce in un rapporto con l’opera originaria leggendone la poetica e non soggiacendo all’imperativo banale e insensato della copia. Un imperativo che ha molte volte intimidito e bloccato l’attività traduttiva. BIBLIOGRAFIA Bourassa (1977) Bourassa, L., Henri Meschonnic Pour une poétique du rythme, Paris, Bertrand-Lacoste, 1977 Eco (2003) Eco, U., Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione , Milano, Bompiani, 2003 Mattioli (2003) Mattioli, E., Recensione a Eco, U., Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani, 2003, in “Testo a fronte”, n. 29, dicembre 2003, pp. 247-255 Meschonnic (1973) Meschonnic, H., Pour la poétique II, Paris, Gallimard, 1973 Meschonnic (1975) Meschonnic, H., Le signe et le poème, Paris, Gallimard, 1975 Meschonnic (1982) Meschonnic, H., Critique du rythme. Anthropologie historique du langage, Paris, Verdier, 1982 Meschonnic (1999) Meschonnic, H., Poétique du traduire, Paris, Verdier, 1999 Valery (1984) Valery, P., Il cimitero marino, a cura di M.T. Giaveri, Milano, il Saggiatore, 1984 8 HANS HONNACKER ‘Renaissance’ della traduzione nella didattica delle lingue straniere. La traduzione e la sua rivalutazione come processo interculturale di trasformazione 1 Il titolo provocatorio 2 non significa un semplice ritorno o addirittura una ricaduta nel cosiddetto ‘metodo grammatica-traduzione’ 3 dopo una lunga predominanza del metodo comunicativo nella didattica delle lingue straniere, in particolare del tedesco come lingua straniera. 4 Intendo invece dimostrare in che modo la traduzione nell’accezione dell’odierna traduttologia non contraddica, ma anzi completi, il cosiddetto metodo ‘immersivo’, proposto da Antonie Hornung e da lei illustrato al convegno di linguistica tedesca recentemente tenutosi a Roma. 5 1. Status della critica riguardante la traduttologia Alcune brevi considerazioni riguardo allo status della critica concernente la traduttologia: negli ultimi venti anni la critica riguardo alla traduttologia è addirittura ‘esplosa’ – nella stessa misura sono aumentati in modo esponenziale i corsi universitari, i seminari, i convegni 6 e, conseguentemente, la critica sul tema della traduzione. 7 In questa sede non posso dare una panoramica sugli svariati e spesso contradditori approcci, 8 e rimando perciò al lavoro di Snell-Hornby/Hönig/Kußmaul/Schmitt (cur.) (19992 ), che tratta anche la storia della traduttologia, al saggio di Rega (2001) che si occupa dettagliatamente della questione della definizione della traduzione e della traduttologia nonché a Kautz (20022 ), ed infine al libro recente di Eco (2003) 9 che, nonostante le critiche mossegli da Mattioli, offre spunti interessanti. 10 Mi vorrei invece soffermare su alcune questioni poste dalla traduttologia che, a mio parere, sono rilevanti per la didattica delle lingue straniere. 1 Il seguente contributo è la versione italiana modificata dell’intervento tenuto al primo convegno della Linguistica tedesca a Roma nel febbraio del 2004. 2 In seguito uso il termine traduzione come termine collettivo che comprende anche l’interpretariato (cfr. a tale riguardo C. Nord, Textanalyse und Übersetzungsauftrag, in Königs (cur.) (1989), pp. 95-119 [p. 96], al contrario di M. Snell-Hornby, Eine integrierte Übersetzungstheorie für die Praxis des Übersetzens, in Königs (cur.) (1989), pp. 15-51 [p. 18]). Per quanto riguardo i concetti di testo e cultura, usati in seguito, seguo M. Snell-Hornby, Eine integrierte Übersetzungstheorie für die Praxis des Übersetzens, in Königs (cur.) (1989), pp. 15-51, in particolare pp. 20-21. 3 Borello (2001), pp. 42 sgg. 4 Per una breve storia dell’insegnamento europeo delle lingue straniere si veda S. Ettinger, Soll man im Fremdsprachenunterricht übersetzen?, in Königs (cur.) (1989), pp. 199-221 [pp. 200-202]. 5 Cfr. ad esempio il contributo di Antonie Hornung durante un convegno tenutosi a Monaco di Baviera nel 2002 sulla didattica del tedesco come lingua straniera: Die Tesina – unterwegs zum wissenschaftlichen Schreiben mit italienischen Deutschstudierenden, pubblicato in Ehlich/Steets (cur.) (2003), pp. 347-368. 6 Si veda ad esempio il convegno sulla traduzione a Milano dal 30 gennaio al 1° febbraio 2004: Traduzione e riforma universitaria. Esperienze e didattica nei corsi triennali e biennali, organizzato, fra gli altri, dal DAAD e dal Goethe-Institut Mailand, Mailand, 30 Gennaio – 1° Febbraio 2004. 7 Cfr. per esempio Eco (2003), p. 17. Tra parentesi, la problematica traduttiva e comunicativa è perfino entrata nel mondo del cinema; mi riferisco al film di Sofia Coppola, figlia di Francis Ford Coppola, “Lost in Translation”, uscito nelle sale italiane prima di Natale del 2003, il cui titolo è stato erroneamente tradotto in italiano con “L’amore tradotto” e che rappresenta, in chiave ironica, problemi traduttivi ed i disturbi comunicativi che ne nascono. Il film ha vinto, a mio avviso meritatamente, tre Golden Globe, ed un Oscar per la miglior sceneggiatura. 8 Per la complessità dei sistemi teorici della traduttologia si veda Kautz (20022 ), p. 42. 9 Cfr. Snell-Hornby/Hönig/Kußmaul/Schmitt (Hg.) (19992 ), pp. 39 sgg., Rega (2001), in particolare pp. 7-38, Kautz (20022 ), pp. 29 sgg. e l’ampia critica citata da Eco (Eco (2003), pp. 365-379). Si veda anche M. Snell-Hornby, Eine integrierte Übersetzungstheorie für die Praxis des Übersetzens, in Königs (cur.) (1989), pp. 15-51, in particolare pp. 16-19. 10 A tale proposito si veda il contributo di Emilio Mattioli nel presente volume. 9 2. Riflessioni teoriche preliminari Prima di affrontare il tema propostomi, vorrei fare alcune premesse teoriche fondamentali. Primo, se parlo di traduzione, mi riferisco a quella interlinguistica, cioè la traduzione da una lingua naturale ad un’altra, la traduzione propriamente detta, come scrive Roman Jakobson. 11 Secondo, la premessa delle mie seguenti riflessioni è il fatto che una tale traduzione è possibile in linea teorica. In effetti, come scrive Eco (2003), i sistemi linguistici sono, in ultima analisi, sì incommensurabili, ma pur sempre comparabili. 12 A favore di questa ipotesi depone, sostiene Eco, il fatto apparentemente paradossale che, sebbene nella critica venga ripetutamente affermata l’impossibilità di traduzione (per citare solo due nomi, ad esempio Jacques Derrida, Willard van Orman Quine), 13 nella prassi si continui a tradurre e non senza successo. 14 Il dibattito sulla possibilità o impossibilità della traduzione si svolge, nella critica di impronta decostruttivista, in modo assai simile alla discussione sulla possibilità o meno di interpretare testi. Sul legame tra interpretazione e traduzione tornerò più nel dettaglio in seguito. In linea generale, vorrei chiarire che parto dalla premessa della traducibilità, benchè mai completa, e della interpretabilità di testi, nonché della comunicabilità, in linea teorica, nonostante tutti i limiti evidenti. Ciò non significa però che una traduzione sia possibile sempre e comunque. Un caso-limite è sicuramente rappresentato dalla poesia, e non solo dai versi ermetici di un Nostradamus. 15 Già Dante Alighieri aveva messo in evidenza nel Convivio la difficoltà o anche, in casi estremi, l’impossibilità della traduzione della poesia, 16 e Roman Jakobson ha riconfermato tale tesi ancora nel Novecento. A mio avviso Umberto Eco dimostra tale difficoltà (non impossibilità) in maniera convincente, adducendo esempi di poesia medievale (Dante) e moderna (Baudelaire). 17 Ciò non 11 Per la distinzione tra traduzione interlinguistica (tra due lingue naturali), endolinguistica (all’interno della stessa lingua) ed intersemiotica (tra due sistemi semiotici diversi, ad esempio tra letteratura e film) si veda Eco (2003), pp. 225 sgg., che riprende qui la differenziazione di Roman Jakobson. Per la traduzione endolinguistica si veda il contributo di Franco Nasi in questo volume. 12 Eco (2003), pp. 350 sg. Per il pregiudizio metafisico dell’intraducibilità si confrontino Mattioli (2003a), p. 173 e Mattioli (2003b), p. 35. 13 Cfr. a tale proposito Nergaard (cur.) (1995), pp. 301 sgg. e 367 sgg. Per evitare fraintendimenti, non intrendo affatto giudicare negativamente – a priori ed in generale – gli studi traduttologici di impronta decostruttivista – anzi condivido la posizione, sostenuta da Derrida, della possibilità di più varianti di una traduzione –, vorrei però richiamare l’attenzione sul pericolo, implicito nel decostruttivismo, dell’arbitrarietà di traduzioni ed interpretazioni. 14 Eco (2003), p. 18. Si veda a tale riguardo anche Kautz (20022 ), p. 32. Quanto sia importante una traduzione affidabile, lo si può evincere da un clamoroso ‘errore’ traduttivo nella pagina culturale de “La Repubblica” del 30 novembre 2003: in un articolo di George Steiner su Theodor Wiesengrund-Adorno, la sua opera famosa Dialektik der Aufklärung viene tradotta dalla traduttrice con Dialettica dell’illuminazione e non, come era da aspettarsi, con Dialettica dell’illuminismo: “Ma ciò che questa sequela di testi postumi va decretare [sic] è il valore di Adorno come filosofo, come illustre voce in campo ontologico, epistemologico, nell’esplorazione della metafisica. I Minima moralia, la Dialettica dell’illuminazione [sic], e l’attacco ad Heidegger in Jargon der Eigentlichkeit sono stati esempio del ruolo eminente di “critico culturale” che Adorno ha rivestito.” (George Steiner, Adorno. La sua fama di intellettuale oscurata da una certa doppiezza, (traduzione di Emilia Benghi) in “La Repubblica”, 30 novembre 2003, pp. 34-35 [p. 34]). Devo lasciare aperta la questione se, in questo caso, si tratti di un semplice refuso o di un errore di interpretazione; credo però che l’errore nasca dalla ri-traduzione dall’inglese: il titolo inglese dell’opera di Adorno è Dialectic of Enlightenment, ed ‘enlightenment’ può anche significare, per quanto io sappia, illuminazione). 15 Emanuel Eckardt ha riportato, in un articolo della “Zeit”, le traduzioni totalmente differenti dei primi due versi della nona centuria che sono riconducibili non soltanto alle profezie difficilmente decifrabili, ma anche alla lingua complessa di Michel de Notredame che è ricca di allusioni: “Dans la maison du Traducteur de Bourc / Seront les lettres trouvée sur table […]” (IX, 1-2) viene tradotto da Eduard Rösch nel 1849 con “Im Haus des Austrägers von Tour / Man die Briefe findet auf der Tafel […]”, nel 1994 da Manfred Dimde, un ‘nostradamico’, con “In dem Haus wird abgestützt werden der Führer des Geldbeutels. Man wird haben die Bildung entdeckt – fünf ist unter dem Tisch” (E. Eckhardt, Sterne lügen nicht. Der große Nostradamus konnte sie verstehen – doch leider sprach er in Rätseln, in “Die Zeit” del 22 dicembre 2003, p. 76). 16 D. Alighieri, Convivio, I, vii, 14. A tale riguardo si confrontino anche Nasi (2004), p. 11 ed Eco (2003), pp. 186 e 296 (il Convivio è stato probabilmente composto negli anni 1303-1309). 17 Eco (2003), pp. 276 sgg. Viceversa, questo non vuol dire che, in via di principio, la poesia è intraducibile. Emilio Mattioli dimostra in maniera plausibile come, nel senso della ‘poetica’ elaborata da Henri Meschonnic, possa 10 vale tuttavia solo per testi poetici, come può confermare chiunque si sia cimentato in un lavoro di traduzione, ma quasi per tutti i tipi di testo in quanto, traducendoli, rimane un cosiddetto “resto intraducibile”. 18 Come ultima ratio il traduttore ha a disposizione soltanto il ricorso ad annotazioni esplicative nel testo (ad esempio note a piè di pagina o l’apparato paratestuale in generale). Per Eco questo equivale ad una ‘sconfitta’ della traduzione, e quindi del traduttore. 19 A mio avviso però, tale fatto è una conseguenza ineluttabile dell’incommensurabilità di due sistemi linguistici, e quindi inevitabile. Difatti, se si presuppone come Eco (2003) il fatto che le lingue naturali adoperino segmentazioni differenti, descrivendo la ‘realtà’ o mondi possibili, ad esempio descrivendo dei colori, 20 una traduzione uno ad uno spesso non è possibile, una traduzione esplicativa invece sì. 3. Rilevanza di alcune riflessioni teoriche per la prassi e didattica traduttiva Partendo dalla premessa di una traducibilità di testi, in via di principio ed entro certi limiti, è ora importante capire che cosa accade durante il processo di traduzione, e come questo possa essere messo a frutto dalla didattica. La traduttologia degli ultimi venti anni ha contribuito a definire in modo nuovo l’atto del tradurre. 21 Al centro di tale ricerca non sta più la questione su come si debba tradurre, ma piuttosto la riflessione su ciò che accade quando si traduce. La traduzione non viene più intesa come la riproduzione di singole unità di parole o frasi, ma come processo interculturale di trasformazione durante il quale una lingua (o meglio testo) viene tradotta in un’altra, ossia un sistema culturale in un altro. 22 In seguito mi soffermerò su tre aspetti diversi che, provenienti dall’ambito delle riflessioni della filosofia e della linguistica testuale, risultano utili per la prassi e la didattica della traduzione: primo, la giustapposizione tra traduzione (Übersetzung) e traduzione (Übersetzung), adoperata da Martin Heidegger, secondo, la correlazione tra traduzione ed interpretazione, sostenuta dall’ermeneutica di Friedrich Schleiermacher e Hans-Georg Gadamer, ed infine terzo, il modello di comunicazione, elaborato dalla linguistica testuale per il processo di traduzione. 23 3.1 Tradurre (Übersetzen) come tradurre (Übersetzen) Dapprima mi vorrei soffermare sulle riflessioni di Martin Heidegger riguardo a tradurre (übersetzen) come tradurre (übersetzen) nell’introduzione al suo corso universitario su Parmenide:24 Man meint, das «Übersetzen» sei die Übertragung einer Sprache in eine andere, der Fremdsprache in die Muttersprache oder auch umgekehrt. Wir verkennen jedoch, daß wir ständig auch schon unsere eigene Sprache, die Muttersprache, in ihr eigenes Wort übersetzen. Sprechen und Sagen ist in sich ein Übersetzen, dessen Wesen keineswegs darin aufgehen kann, daß das übersetzende und das übersetzte Wort verschiedenen Sprachen angehören. In jedem Gespräch und Selbstgespräch waltet ein ursprüngliches Übersetzen. Wir meinen dabei nicht erst den Vorgang, daß wir eine Redewendung durch eine andere derselben Sprache ersetzen und uns der «Umschreibung» bedienen. Der Wechsel in der Wortwahl ist bereits die Folge davon, daß sich uns das, was zu sagen ist, übergesetzt hat in eine andere Wahrheit und Klarheit oder auch Fragwürdigkeit. Dieses Übersetzen kann sich ereignen, ohne daß sich der sprachliche Ausdruck ändert. Die Dichtung eines Dichters, die Abhandlung eines Denkers essere tradotta anche poesia (per Henri Meschonnic, Poétique du traduire si vedano Mattioli (2003b), pp. 30 sgg., Mattioli (2003a), pp. 173 sgg. e Mattioli (2003c), p. 251). 18 Per il ‘resto intraducibile’, cfr. ad esempio Osimo (1998), passim. 19 Eco (2003), p. 95 (contro la tesi di Eco cfr. Mattioli (2003c), p. 254). 20 Cfr. Eco (2003), pp. 345 sgg. 21 A tale riguardo si vedano M. Snell-Hornby, Eine integrierte Übersetzungstheorie für die Praxis des Übersetzens, in Königs (cur.) (1989), pp. 15-51 (in particolare pp. 16 sgg.) e Snell-Hornby/Hönig/Kußmaul/ Schmitt (cur.) (2 1999), pp. 37 sgg. 22 Cfr. a tale riguardo S. Nergaard, Un approccio semiotico alla traduzione multimediale, in Bollettieri Bosinelli/Heiss/Soffritti/Bernardini (cur.) (2000), pp. 431-449, qui p. 431. 23 Cfr. a tale proposito M. Snell-Hornby, Eine integrierte Übersetzungstheorie für die Praxis des Übersetzens, in Königs (cur.) (1989), pp. 15-51, in particolare pp. 20 sgg. e K. Reiß, Übersetzungstheorie und Praxis der Übersetzungskritik , in Königs (cur.) (1989), pp. 71-93 (in particolare pp. 80 sgg.). 24 Heidegger (19922 ), pp. 17-18, §1 b. 11 steht in ihrem eigenen, einmaligen einzigen Wort. Sie zwingt uns, dieses Wort immer wieder so zu vernehmen, als hörten wir es zum ersten Mal. Diese Erstlinge des Wortes setzen uns jedesmal über zu einem neuen Ufer. Das sogenannte Übersetzen und Umschreiben folgt immer nur dem Übersetzen unseres ganzen Wesens in den Bereich einer gewandelten Wahrheit. Si ritiene che il «tradurre» sia la trasposizione di una lingua in un’altra, della lingua straniera nella lingua madre o viceversa. Non ci accorgiamo tuttavia che, costantemente, noi traduciamo già anche la nostra stessa lingua, la lingua madre, nella parola che le è propria. Parlare e dire sono in sé un tradurre, la cui essenza non può esaurirsi nel fatto che la parola da tradurre e la parola tradotta appartengono a lingue diverse. In ogni colloquio e soliloquio domina un tradurre originario. Con ciò non intendiamo il procedimento con il quale sostituiamo una locuzione con un’altra della medesima lingua, servendoci di «perifrasi». Il cambiamento nella scelta delle parole è già la conseguenza del fatto che per noi ciò che c’è da dire si è tradotto in una verità e in una chiarezza diverse o anche in una diversa problematicità. Questo tradurre può avvenire senza che l’espressione linguistica muti. La poesia di un poeta, la trattazione di un pensatore stanno nella loro parola propria, che è unica e singolare. Esse ci costringono a percepire sempre tale parola come se la udissimo per la prima volta. Queste primizie della parola ci «tra-ducono» ogni volta su una nuova sponda. Il cosiddetto tradurre (übersetzen [sic]) e perifrasare è sempre solo successivo al tradurre (übersetzen [sic]) la nostra intera essenza nell’ambito di una verità mutata.25 Quello che Heidegger, in un senso più ampio e più profondo, espone con l’esempio del termine greco per verità (alétheia) e del suo significato di ‘dis-velatezza’ (Unverborgenheit), legato alla cultura greca antica, vale a mio avviso anche per il tradurre in un senso più stretto, come lo uso qui, cioè nel senso di un processo interlinguistico: tradurre (übersetzen) significa collocarsi su un’altra sponda culturale, in un altro spazio culturale, cioè tradurre (übersetzen). Tradurre (übersetzen) presuppone, secondo Heidegger, sempre un tale tradurre (übersetzen). 26 Nel caso di una traduzione, sono in gioco non solo due lingue, ma due culture o meglio, come dice Eco (2003), 27 due ‘enciclopedie’ che vengono comparate tra di loro e tradotte l’una nell’altra. 28 Ciò ha come conseguenza una concezione del tutto nuova di traduzione (Übersetzung) come traduzione (Übersetzung) che rende di nuovo interessante la trasposizione di testi per la didattica delle lingue straniere: non più come esercizio stilistico, per appurare le competenze grammaticali e lessicografiche dei discenti, 29 ma come riflessione su lingua, cultura e tipi di testo. La traduzione può essere intesa come processo interculturale di trasformazione durante il quale un sistema culturale viene trasposto, cioè tradotto, in un altro. 3.2 Correlazione tra traduzione ed interpretazione Un altro aspetto decisivo su cui si trovano d’accordo la filosofia heideggeriana, l’ermeneutica romantica di Schleiermacher, l’ermeneutica filosofica di Hans-Georg Gadamer30 e la semiotica di Eco, consiste nell’affinità tra interpretazione e traduzione: a loro avviso, tradurre 25 Heidegger (1999), pp. 47-48. Übersetzen non significa naturalmente il ‘traghettare di cadaveri’ (cioè parole), come, nella sua polemica contro la semiotica, scrive Henri Meschonnic (si veda a tale proposito Mattioli (2003b), p. 33), ma il ‘dialogo’, cioè lo scambio tra due lingue, o meglio culture. 27 Eco (2003), p. 162. 28 Tale cultural turn nella traduttologia è gia presente in nuce nelle considerazioni di Friedrich Schleiermacher e di Wilhelm von Humboldt (Schleiermacher (1813) e Von Humboldt (1816)), quando parlano del fatto che la traduzione è un incontro tra lingue e culture – anche Johann Wolfgang von Goethe si esprime nelle Noten und Abhandlungen zu besserem Verständnis des Westöstlichen Divans (1819) in questo senso (cfr. a tale riguardo Nergaard (1993), pp. 121-124). Per il cultural turn nella traduttologia si veda Eco (2003), p. 162 e la bibliografia ivi riportata. 29 Tuttavia, come tale controllo delle competenze linguistiche e grammaticali, la traduzione viene ancora oggi impiegata sia nelle scuole che alle università (si veda a tale proposito Kautz (20022 ), pp. 449 sgg.). 30 Cfr. a tale riguardo Eco (2003), pp. 225 sgg. e Gadamer (19906 ), pp. 387 sgg. 26 12 significa sempre anche interpretare. 31 Benché non sia vero il contrario (cioè che interpretare voglia dire anche tradurre), come dimostra Eco in modo plausibile, 32 la traduzione è solo possibile, allorché il traduttore abbia interpretato il testo da tradurre; questo avviene passo per passo. Fin dal principio, il traduttore elabora ipotesi interpretative che, nel decorso del processo traduttivo, verifica. 33 Analogamente all’interpretazione, non esiste la traduzione, esiste soltanto una gamma di traduzioni possibili che sono da distinguere da quelle impossibili. 34 Nella prassi, ciò non è sempre facile, e la traduttologia non fornisce a tale proposito regole generalmente valide. Fra l’altro, Eco (2003) ricorre qui – a mio parere giustamente – anche al cosiddetto ‘senso comune’: come criterio adduce ad esempio la lunghezza di una traduzione rispetto al testo originale. 35 Un ruolo centrale nelle riflessioni di Eco, è rivestito inoltre dalla reversibilità di una traduzione che, naturalmente, può essere soltanto approssimativa – non a caso il titolo del suo ultimo lavoro sulla traduzione recita Dire quasi la stessa cosa – e la problematica, come è facilmente immaginabile, sta tutta in questo ‘quasi’. 36 3.3 Aspetti e pragmatico-linguistici della traduzione La linguistica testuale parte, a ragione, dal presupposto che la traduzione è sempre una trasposizione di testi, e non di singole parole o frasi, come invece viene ancora sostenuto da alcuni studi della traduttologia. 37 Molti problemi di traduzione possono essere risolti se non si cerca la traduzione adeguata di una parola, ma dell’intero testo, come obietta Mattioli (2003c) ad Eco (2003), quando questi tenta di trovare una soluzione traduttiva di singoli lessemi o di espressioni idiomatiche. 38 La “svolta pragmatica” nella linguistica testuale della traduttologia ha richiamato l’attenzione sugli aspetti pragmatico-linguistici39 che devono essere presi in considerazione durante l’atto della traduzione, come per esempio il genere, tipo e sorta di testo che il traduttore si trova ad affrontare, 40 e la loro funzione dominante, al fine di poterli tradurre adeguatamente. Mi riferisco ai modelli comunicativi, oramai classici, di Roman Jakobson e Karl Bühler con cui può essere 31 Si vedano a tale proposito Heidegger (1984), pp. 74-76 e J. Drumbl, Un verso di Mörike, in Drumbl (2003), pp. 83-99, qui 97-99. Contro tale tesi si esprimono Mattioli (2003b), p. 33 e F. Nasi, Note per una teoria della traduzione letteraria, in Nasi (cur.) (2001), pp. 135-150, qui 142 sg. 32 A tale riguardo Heidegger (1984), pp. 74-76, sostiene la posizione opposta. 33 Cfr. Nasi (2004), pp. 20 sg. 34 Si vedano a tale proposito anche Mattioli (2003a), p. 176 e F. Nasi, Note per una teoria della traduzione letteraria, in Nasi (cur.) (2001), pp. 147 sg. Come esempio di una traduzione impossibile, Nasi cita il film di Roberto Benigni La vita è bella, dove Guido (interpretato dallo stesso Benigni) si offre come traduttore, benché non sappia alcuna parola di tedesco, al fine di salvare il proprio figlio dall’orrore del campo di concentramento (ivi, p. 147). A mio avviso, si tratta qui sicuramente di un caso limite in cui la traduzione del padre, in condizioni normali, non sarebbe ammissibile, avendo tuttavia, almeno da un punto funzionale, la sua ‘legittimità’ funzionale, dal momento che salva la vita al bambino. Da segnalare in questa scena è anche il fatto che, sebbene non esprima il contenuto del discorso del ufficiale tedesco, la traduzione di Guido, riproduce fedelmente la sua mimica ed i suoi gesti. Si potrebbe quindi parlare di una traduzione adeguata da un punto di vista mimico. 35 Eco (2003), p. 19 e passim. 36 Ivi, pp. 57 sgg. Kautz parte dal presupposto dell’irreversibilità, in via di principio, di traduzioni (Kautz (20022 ), p. 73). Esperimenti interessanti, in parte anche riusciti, si riscontrano in Wunderli (cur.) (2002), pp. 226 sg. e F. Nasi, Prefazione, in Nasi (cur.) (2001), pp. 7-9, qui pp. 8 sg. In questo contesto vorrei anche rimandare all’esperimento della ‘staffetta’ traduttiva della poesia montaliana Nuove stanze della raccolta Le occasioni, voluta dallo stesso Montale A differenza dell’esperimento di Wunderli, quello montaliano giunge a risultati ben diversi, forse anche perché si tratta di un testo di poesia e non di prosa (cfr. anche M. A. Terzoli, Le insidie della fedeltà, in Montale (1999), pp. 17-32). 37 Cfr. a tale proposito L. Rega, Textlinguistische Schwerpunkte in der Übersetzungsdidaktik DeutschItalienisch-Deutsch, Akten der Tagung “Texte in Sprachforschung und Sprachunterricht. Neue Wege der italienischdeutschen Kooperation” (Pisa, 21-24 ottobre 2004) (in corso di stampa). 38 Mattioli (2003c), pp. 247 sg. 39 Vgl. hierzu Kautz (20022 ), pp. 37 sgg. 40 Ivi, pp. 75 sgg. Per la differenziazione tra generi e tipi di testo si veda in particolare le pagine 76-77. 13 descritta adeguatamente la pragmatica di un testo. 41 Traducendo, si deve sempre tener conto della funzione linguistica di un testo sia nella lingua di partenza che nella lingua di arrivo. Tale funzione non deve essere necessariamente identica nella lingua di partenza ed in quella di arrivo, come Hönig/Kußmaul (19995 ) e Kautz (20022 ) dimostrano in modo convincente. 42 La critica pragmatico-linguistica degli anni Ottanta e Novanta ha elaborato modelli comunicativi per l’atto traduttivo in cui viene attribuito al traduttore un ruolo centrale, anzi quasi uno status da autore. Nella più recente critica linguistica poststrutturalista, tali modelli vengono considerati superati, 43 innanzitutto perché, nel settore della traduzione di testi multimediale, vengono messe in dubbio, se non addirittura dichiarate obsolete, l’esistenza e l’autorità della figura e del ruolo dell’autore e quindi, in ultima analsi, nella lingua di arrivo anche quella del traduttore. Lo stesso vale per il termine del ‘testo’ stesso, e quindi naturalmente anche per i termini ‘testo di partenza e di arrivo’ se, nel caso di test multi- ed ipermediali in internet, i limiti di un testo non sono più nettamente definibili, e quindi la linguistica del testo rischia di perdere l’oggetto della sua ricerca. Ciò porta naturalmente a conseguenze incalcolabili per la traduzione di tali nuovi tipi di testo che oggi si possono solo immaginare. Siccome non posso entrare più nel dettaglio di questa problematica, rimando alle puntuali esposizioni di Marcello Soffritti riguardo a tale tema. 44 Nondimeno anche in questi studi, la partecipazione creativa del lettore e quindi anche del traduttore alla costruzione testuale non viene messa in dubbio, anzi viene particolarmente evidenziata:45 nella lingua d’arrivo, il traduttore, in quanto lettore/ascoltatore/spettatore di un testo multimediale diviene lui stesso un secondo autore, o meglio un co-autore. 46 Nella lingua di partenza, il traduttore è, da un lato, ricevente in quanto lettore, dall’altro, nella lingua di arrivo, autore in quanto traduttore. La traduzione non è quindi mai una semplice trasposizione, ma un atto ‘creativo’ 47 che presuppone sempre un’interpretazione. In questo punto centrale convergono gli approcci dell’ermeneutica e della linguistica testuale anche di impronta poststrutturalista. 41 Secondo Roman Jakobson si possono distinguere una funzione referenziale, emotiva, conativa, fàtica, poetica, e metalinguistica della lingua. La funzione referenziale si riferisce, come è ben noto, al contesto (cioè al “contenuto” o alla “realtà”), quella emotiva all’emittente, quella conativa al destinatario, quella fàtica al canale, quella poetica alla forma del testo (il messaggio stesso) e quella metalinguistica al codice della comunicazione. Cfr. a tale proposito Osimo (1998) pp. 8-12. 42 Hönig/Kußmaul (19995 ), pp. 39 sg. e Kautz (20022 ), pp. 55 e 61. Cfr. anche L. Rega, Textlinguistische Schwerpunkte in der Übersetzungsdidaktik Deutsch-Italienisch-Deutsch, Akten der Tagung “Texte in Sprachforschung und Sprachunterricht. Neue Wege der italienisch-deutschen Kooperation” (Pisa, 21-24 ottobre 2004) (in corso di stampa). 43 Ad esempio il modello comunicativo assai idealizzato di Bassnett-McGuire (1993), p. 58: (LP) autore 1 – testo – ricevente/lettore = (LA) traduttore/autore 2 – testo – ricevente/lettore, che dovrebbe essere completato da numerosi fattori dell’industriua culturale, quali l’incarico ed il committente della traduzione etc. (v. al proposito Kautz (2 2002), pp. 49 sgg.). Questo vale a maggior ragione per i testi multimediali che non vanno solo letti, ma recepiti anche audiovisualmente (per la messa in dubbio di concezioni tradizionali, quali per esempio il testo di arrivo nel contesto di testi multimediali cfr. R. M. Bollettieri Bosinelli, Quale traduzione per quale testo?, in Bollettieri Bosinelli/Heiss/Soffritti/Bernardini (cur.) (2000), pp. 13-23, in particolare pp. 15 e 21, M. Soffritti, Una finestra sulla traduzione, ivi, pp. 293-299, soprattutto pp. 296-297 e G. Nadiani, Dal testo “d’arrivo” al testo di “scalo”. Le nuove tecnologie imporranno una nuova terminologia?, pp. 323-334, in particolare pp. 328 sgg.). Per altri modelli linguisticotestuali di comunicazione si veda anche A. Schwarz, Verstehen als Übersetzen, in Schwarz/Linke/Michel/Scholz Williams (1988), pp. 13-54, qui 14-16. 44 M. Soffritti, Textlinguistik und Texte: Was bestimmt das Tempo der Entwicklung?, in Akten der Tagung “Texte in Sprachforschung und Sprachunterricht. Neue Wege der italienisch-deutschen Kooperation” (Pisa, 21-24 ottobre 2004) (in corso di stampa). 45 G. Nadiani, Dal testo “d’arrivo” al testo di “scalo”. Le nuove tecnologie imporranno una nuova terminologia?, in Bollettieri Bosinelli/Heiss/Soffritti/Bernardini (cur.) (2000), pp. 325 sg. e 330 sg. 46 Cfr. a tale riguardo anche M. Soffritti, Una finestra sulla traduzione, ivi, p. 297 e G. Nadiani, Dal testo “d’arrivo” al testo di “scalo”. Le nuove tecnologie imporranno una nuova terminologia?, ivi, pp. 330 sg. 47 Per l’importanza della creatività durante il processo traduttivo si vedano ad esempio Rega (2001), p. 180 e Kautz (20022 ), p. 57. Questo però non significa che il traduttore possa produrre un testo completamente nuovo e autonomo, dal momento che rimane sempre legato al testo di partenza (v. L. Rega, Textlinguistische Schwerpunkte in der Übersetzungsdidaktik Deutsch-Italienisch-Deutsch, Akten der Tagung “Texte in Sprachforschung und 14 4. Traduzione e “metodo dell’immersione” In che modo però può diventare la traduzione, intesa come processo interculturale di trasformazione, un elemento integrativo di un corso di laurea di tipo ‘immersivo’? L’immersione in una lingua straniera non esclude una riflessione sulla lingua da acquisire? Non sarebbe l’‘emersione’ dall’‘immersione’ il presupposto per rendere possibile la riflessione sulla lingua, e quindi anche la traduzione? Per rispondere a questi quesiti, è utile tenere presente che cosa si intende esattamente con metodo ‘immersivo’: Antonie Hornung elabora il seguente concetto sull’apprendimento delle lingue in maniera ?immersiva’:48 Das Konzept hat vier tragende Säulen: die methodische Orientierung an der Immersion [...], den Einbezug der realen Mehrsprachigkeit der Studierenden in das didaktische Handeln [...], die Integration des europäischen Sprachenportfolios [...] und die aktive Förderung von Sprachbewusstheit durch Reflexion über rezipierte und selbst produzierte Sprache [...]. Senza poter discutere più nel dettaglio la complessità e la validità di questo modello, si può almeno affermare quanto segue: il concetto didattico qui sviluppato non si esaurisce affatto nell’apprendimento ‘immersivo’ della lingua, ma include allo stesso tempo le competenze, previste dal portfolio europeo delle lingue, quali la coscienza linguistica, la conoscenza di più lingue, la competenza interculturale, etc. Innanzitutto nel settore “Sprachbewusstsein” potrebbe essere inserita la traduzione in quanto riflessione sulla lingua, visto che la finalità dichiarata di quest’ultima è “Sprache selbständig [zu] gebrauchen und über ihren Gebrauch nach[zu]denken”, come dimostra lo schema elaborato da Hornung. 49 La traduzione di un testo, come ad esempio la Geschichte eines Deutschen. Die Erinnerungen 1914-1933 di Sebastian Haffner, pubblicato postumo, porta necessariamente ad una tale riflessione sulla lingua, dal momento che si tratta di un testo che, da un lato, ha le caratteristiche di un’autobiografia, dall’altro quelle di un saggio storico, e quindi differenti funzioni comunicative dominanti di cui si deve tener conto in una traduzione. Tali differenti funzioni sono evidenti già nel capitolo introduttivo del racconto di Haffner: Der Staat ist das Deutsche Reich, der Privatmann bin ich. Das Kampfspiel zwischen uns mag interessant zu betrachten sein, wie jedes Kampfspiel [...]. Aber ich erzähle es nicht allein um der Unterhaltung willen [..]. Mein privates Duell mit dem Dritten Reich ist kein vereinzelter Vorgang. Solche Duelle, in denen ein Privatmann sein privates Ich und seine private Ehre gegen einen übermächtigen feindlichen Staat zu verteidigen sucht, werden seit sechs Jahren in Deutschland zu Tausenden und Hunderttausenden ausgefochten [...].50 Da una parte, Haffner riproduce le sue personali impressioni dell’epoca (nella categorizzazione di Roman Jakobson, la funzione espressiva ed emotiva), dall’altra crede di poterle generalizzare, disegnando un quadro generale della situazione storica intorno al 1933 in Germania (funzione referenziale), al fine di convincere i lettori della pericolosità del regime nazista (funzione conativa) – almeno nell’intenzione originaria del testo, quando Haffner lavorava a questo manoscritto (intorno al 1939) che sarebbe poi stato pubblicato dopo la sua morte. Pertanto, una traduzione non solo deve riflettere queste diverse funzioni linguistiche, ma deve anche tener conto della distanza temporale tra il tempo della composizione dell’opera (fine anni Trenta) e la data della sua pubblicazione (ben sessant’anni dopo). 51 Sprachunterricht. Neue Wege der italienisch-deutschen Kooperation” (Pisa, 21-24 ottobre 2004)). Tuttavia il traduttore guadagna uno spazio interpretativo non irrilevante. 48 Ehlich/Steets (cur.) (2003), p. 351. 49 Ivi, p. 352. 50 Haffner (2002a), p. 10. 51 Cfr. a tale proposito il mio contributo al venticinquesimo seminario “Italienisch-Deutsche Wissenschaftliche Übersetzung” a Bolzano, 11-13 novembre 2004: Die italienische Übersetzung von Sebastian Haffner, “Geschichte eines Deutschen”: Probleme und Kuriositäten. 15 Il Portfolio europeo delle lingue, un ulteriore elemento importante del modello, elaborato da Hornung, dell’apprendimento ‘immersivo’ della lingua straniera prevede, oltre alle cinque competenze tradizionali (parlare, ascoltare, scrivere, leggere e comunicare), esperienze culturali di cui fa parte anche la traduzione. 52 In effetti, ‘Übersetzen’ in quanto ‘Übersetzen’ significa, come esposto sopra, incontro con un’altra cultura (la cultura della lingua di partenza e/o di arrivo), anzi ‘immersione’ in questa. Se quindi viene, tradotto in classe un testo, tratto da un giornale e/o rivista tedesco/a, è necessario trasmettere ai discenti anche delle conoscenze sulla cultura di partenza. Un testo come ad esempio l’articolo dello “Spiegel” sull’attuale crisi scolastica in Germania 53 trasmette anche conoscenze sul sistema scolastico tedesco, che si differenzia a seconda delle regioni, con i relativi termini tecnici (Grund-, Haupt-, Gesamt-, Real- e Fachoberschule, Gymnasium etc.), la cui conoscenza approfondita viene agevolata dalla traduzione. 54 L’‘immersione’ nell’altra cultura procede di pari passo con il processo traduttivo. Infine la traduzione può essere impiegata ai fini dell’apprendimento di un plurilinguismo – la terza colonna portante del ‘modello di immersione’ –, presentando la pluricentralità del tedesco per mezzo di testi tedeschi, austriaci e svizzero-tedeschi e stimolando la riflessione su questi attraverso la traduzione. Per esempio traducendo brani presi dai romanzi di Wolf Haas, scritti nel linguaggio parlato austriaco, possono essere evidenziate varianti del tedesco standard, descrivendone le peculiarità. In tal modo gli studenti possono “die verschiedenen Standards des Deutschen kennen und erkennen [lernen]”. 55 Per addurre solo un esempio, cito dal primo giallo di Haas Auferstehung der Toten una scena chiave, in cui l’associativo lavoro di detective del protagonista del romanzo, l’ex-commissario Simon Brenner, diventa evidente, rispecchiandosi anche nella sintassi: Und ausgerechnet da hat ihn die Äußerung über den Vergolder aus dem Konzept gebracht. Hat er an den Vergolder denken müssen statt an die Engljähringer. Der hat ja überall seine Finger im Spiel, hat er denken müssen. Aber die Engljähringer muß es bemerkt haben, daß der Brenner ein Problem hat, weil sie hat ihn jetzt so nett angelächelt. 56 In un raffronto contrastivo, può essere qui messa in luce la diversa sintassi rispetto al tedesco standard: ‘Hat er an den Vergolder denken müssen statt an die Engljähringer’ invece ‘Er hat an den Vergolder denken müssen statt an die Engljähringer’; sintassi in cui colpisce inoltre l’uso di congiunzioni coordinate (copulative e coordinate, quali und, aber) all’inizio della frase, tipico del linguaggio colloquiale. Traducendo brani simili, si possono sottolineare tali differenze e restituirli, ad esempio in italiano, in modo analogamente colloquiale. Se l’“immersione” in una lingua – l’elemento centrale del modello di Hornung – include da sempre anche l’immersione nella cultura della lingua da apprendere, si possono trovare anche qui punti di collegamento con la traduzione, se questa viene concepita, come sopra esposto, quale riflessione sulla lingua e transfert culturale. La traduzione è pertanto non solo conciliabile con il metodo “immersivo” di Hornung, ma può divenirne anche un elemento integrante. 52 Cfr. il Portfolio europeo delle lingue, Bern, Berner Lehr- und Medienverlag, 2001. Si veda Horrortrip Schule, in “Der Spiegel”, 46 (10.11.2003), pp. 46 sgg. 54 Che durante questo trasferimento di sapere nella traduzione (soprattutto per quanto riguarda la terminologia specialistica), si possano verificare anche delle difficoltà a causa dei sistemi scolastici ben differenti, lo dimostra la traduzione di Sebastian Haffner Anmerkungen zu Hitler dove, nella descrizione della carriera scolastica di Hitler, il traduttore si trova davanti al compito di trovare un termine equivalente per ‘Realschule’: egli traduce con ‘scuola media’ (v. Haffner (2002b), p. 27), seguendo per esempio le indicazioni di Rentrop/Schmitz (2001) riguardo al sistema scolastico tedesco (Rentrop/Schmitz (2001), p. 215). Tuttavia Hitler andava a scuola fino al 1905 a Steyr (Austria), prima di interrompere, sedicenne, la sua formazione scolastica. Ci si potrebbe quindi chiedere, se non si trattasse in questo caso di una scuola superiore, come esiste ancora oggi ad esempio in Baviera, e quindi dovrebbe essere tradotta con ‘scuola tecnica’, come propone Soppera (Soppera (2000), p. 58). 55 Ehlich/Steets (cur.) (2003), p. 352. 56 Haas (20039 ), p. 80. 53 16 5. Il modello modenese: didattica della traduzione presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia La novità, inizialmente postulata, del connubio tra traduzione e metodo ‘immersivo’ dell’insegnamento delle lingue consiste, nel caso dell’università di Modena, nel fatto che la traduzione non fu inserita fin dall’inizio nell’offerta formativa e quindi nel curriculo degli studenti, ma che venne proposta solo a cominciare dall’anno accademico 2000/2001 per l’insegnamento del tedesco come completamento e elemento integrante del ‘modello di immersione’. In un corso di lingua di tipo ‘immersivo’ (almeno per l’insegnamento del tedesco), quale Lingue e Culture Europee presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, in cui viene proposta la traduzione nel secondo anno come materia facoltativa, 57 questa può rappresentare non solo un’offerta didattica supplementare interessante, ma divenire una parte integrante della didattica delle lingue straniere, al fine di rendere possibile un apprendimento adeguato della lingua e/o cultura straniera per mezzo del continuo confronto interculturale. Infine un corso di traduzione, inteso in questo modo, ha senso all’interno di un corso di laurea in Lingue e Culture Europee, come viene offerto dall’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia, se esso trasmette al discente il concetto di traduzione come processo interculturale di trasformazione, sensibilizzandolo per generi testuali, non solo letterari. Non è quindi tanto importante insegnare ai discenti tecniche di traduzione (naturalmente anche questo), quanto guidarli nel loro atto di tradurre e stimolare la loro riflessione su quest’ultimo: decisiva è quindi la coscientizzazione di tali processi (traduttivi) durante la traduzione di testi. Tutto questo può essere offerto da un corso di traduzione all’interno del quale vengono discussi diversi approcci teorici alla comunicazione testuale, vengono applicati modelli comunicativi alla traduzione di vari tipi di testo e vengono appurate le funzioni linguistiche di questi ultimi; questo vale a maggior ragione, se si cerca di mediare tra la teoria e la prassi della traduzione, in particolare nell’ambito universitario, cosa che normalmente nella ricerca non viene recepita o viene recepita solo in parte, anche se, da anni o meglio decenni, costituisce un desideratum.58 In tal modo, la traduzione può diventare un elemento integrativo di una moderna didattica comunicativa delle lingue straniere, completando in modo sensato le cinque tradizionali competenze linguistiche (parlare, ascoltare, scrivere, leggere, comunicare) – in uno stadio già avanzato dell’apprendimento linguistico – con una sesta, cioè con la competenza traduttiva, ora anche prevista dalle disposizioni del Consiglio d’Europa in materia di insegnamento linguistico. Così la traduzione non contraddice il cosiddetto ‘metodo immersivo’, ma lo completa, stimolando la riflessione sulla lingua in quanto sistema culturale e trasmettendo agli studenti un maggior grado di coscienza nell’apprendimento linguistico. Difatti, come Gadamer afferma, a mio avviso, giustamente: Eine Sprache verstehen ist selbst noch gar kein wirkliches Verstehen und schließt keinen Interpretationsvorgang ein, sondern einen Lebensvollzug. Eine Sprache versteht man, indem 57 Per non essere frainteso, vorrei ribadire che qui non si tratta di un corso di laurea per traduttori e/o interpreti e che quindi la competenza traduttiva non è una finalità primaria della formazione linguistica. Tuttavia in questo saggio si voleva dimostrare che la traduzione ha senso anche in un corso di laurea di tipo ‘immersivo’. Che ancora oggi la traduzione sia nel settore scolastico che in quello universitario sia molto discussa, e che quindi non sia scontata in un tale corso di laurea, lo dimostra Kautz (20022 ), p. 439: “Die Stellung des Übersetzens im FSU [Fremdsprachenunterricht] an Schulen und Hochschulen ist bis heute Gegenstand heftigen Meinungsstreits [...].” Kautz stesso si esprime positivamente riguardo ad una competenza traduttiva, almeno parziale, come fine didattico all’interno dell’apprendimento delle lingue straniere (ivi, pp. 444 e 453 sgg.). 58 Si vedano per esempio Hönig/Kußmaul (5 1999), pp. 9-15 e M. Snell-Hornby, Eine integrierte Übersetzungstheorie für die Praxis des Übersetzens, in Königs (cur.) (1989), pp. 15-51, in particolare pp. 30 sgg. Un tentativo in questo senso è certamente il libro di Sylvia Handschuhmacher Aspetti didattici della traduzione in tedesco dall’italiano uscito recentemente, nel 2003 (Handschuhmacher (2003)). Prendendo le mosse da riflessioni teoriche della linguistica contrastiva, Handschuhmacher cerca di individuare e risolvere concretamente costanti di difficoltà traduttive, quali ad esempio (dall’italiano in tedesco) la traduzione del gerundio italiano, o (dal tedesco in italiano) la traduzione delle particelle modali tedesche, quali ‘mal’, ‘halt’ ed altri (ivi, pp. 10 sgg. e 58 sg.). 17 man in ihr lebt – ein Satz, der bekanntlich nicht nur für lebende, sondern sogar für tote Sprachen gilt. 59 Capire una lingua non è ancora di per sé un vero comprendere, e non implica un processo di interpretazione, ma è un atto vitale immediato. Si capisce infatti una lingua nella misura in cui si vive in essa: questo principio non vale solo, come si sa, per le lingue viventi, ma anche per le lingue morte.60 La vera comprensione della lingua di cui parla Gadamer, presuppone tuttavia, come possiamo dedurre, la riflessione sulla lingua ed interpretazione da parte dell’ascoltatore e/o lettore. Non è tanto la comprensione di una lingua, ma attraverso una lingua che è in gioco quando traduciamo. 61 59 Gadamer (19906 ), p. 388. Nergaard (1995), p. 343. 61 Cfr. a tale riguardo Kautz (20022 ), p. 67. 60 18 BIBLIOGRAFIA Bassnett-McGuire (1993) Bassnett-McGuire, S., La traduzione. Teorie e pratica, a c. di D. Portolano, trad. di G. Bandini, Milano, Bompiani, 1993 Bollettieri Bosinelli/Heiss/Soffritti/Bernardini (Hgg.) (2000) Bollettieri Bosinelli, R.M./Heiss, Ch./Soffritti, M./Bernardini, S. (cur.), La traduzione multimediale. Quale traduzione per quale testo?, Bologna, CLUEB, 2000 Borello (2001) Borello, E., Teorie della traduzione, Urbino, Quattro Venti, 2001 Drumbl (2003) Drumbl, J., Traduzione e scrittura, Milano, LED, 2003 Eco (2003) Eco, U., Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani, 2003 Ehlich/Steets (cur.) (2003) Ehlich, K./Steets, A. (cur.), Wissenschaftlich schreiben – lehren und lernen, Berlin/New York, Walter de Gruyter, 2003 Gadamer (19906 ) Gadamer, H.-G., Wahrheit und Methode. Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik , Tübingen, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), 19906 (19601 ). Haas (20039 ) Haas, W. Auferstehung der Toten, Hamburg, Rowohlt, 20039 . Haffner (2002a) Haffner, S., Geschichte eines Deutschen. Die Erinnerungen 1914-1933, München, Dtv, 2002 Haffner (2002b) Haffner, S., Hitler. Appunti per una spiegazione, tradotto da E. Zelioli ed introdotto da Gian Enrico Rusconi, Milano, Garzanti, 2002 Handschuhmacher (2003) Handschuhmacher, S., Aspetti didattici della traduzione in tedesco dall’italiano, Pescara, Edizioni Campus, 2003 Heidegger (1984) Heidegger, M., Hölderlins Hymne «Der Iser», Frankfurt a.M., V. Klostermann, 1984 Heidegger (19922 ) Heidegger, M., Parmenides, in Gesamtausgabe, II. Abteilung: Vorlesungen 1923-1944, vol. 54, Frankfurt a.M., V. Klostermann, 19922 Heidegger (1999) Heidegger, M., Parmenide, a cura di F. Volpi, trad. di G. Gurisatti, Milano, Adelphi, 1999 Hönig/Kußmaul (19995 ) Hönig, H.G./Kußmaul, P., Strategie der Übersetzung. Ein Lehr- und Arbeitsbuch, Tübingen, Gunter Narr Verlag, 19995 19 Kautz (20022 ) Kautz, U., Handbuch Didaktik des Übersetzens und Dolmetschens, a cura del Goethe-Institut, München, Iudicium Verlag GmbH, 20022 Königs (cur.) (1989) Königs, F. G. (cur.),Übersetzungswissenschaft und Fremdsprachenunterricht. Neue Beiträge zu einem alten Thema, München, J. Gotteswinter GmbH (Goethe-Institut München), 1989 Mattioli (2003a) Mattioli, E., La traduzione letteraria, in “Il confronto letterario” 39 (2003), pp. 171-179 Mattioli (2003b) Mattioli, E., La poetica del tradurre di Henri Meschonnic , in “Rivista internazionale di tecnica della traduzione. International Journal of Translation” 7 (2003), pp. 29-36 Mattioli (2003c) Mattioli, E., Recensione a Eco, U., Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani, 2003, in “Testo a fronte” 29 (2003), pp. 247-254 Montale (1999) Montale, E., Poesia travestita , a cura di M. Corti e M.A. Terzoli, Novara, Interlinea, 1999 Motta/Dal Piaz (1995) Motta, G./Dal Piaz, E., Lesen, Vergleichen, Übersetzen. Eine Einführung in die Technik der Übersetzung, Torino, Loescher Editore, 1995 Nasi (cur.) (2001) Nasi, F. (cur.), Sulla traduzione letteraria. Figure del traduttore – Studi sulla traduzione. Modi del tradurre, Ravenna, Longo, 2001 Nasi (2004) Nasi, F., Poetiche in transito. Sisifo e le fatiche del tradurre, Milano, Medusa, 2004 Nergaard (cur.) (1993) Nergaard, S., (cur.) La teoria della traduzione nella storia. Testi di Cicerone, San Gerolamo, Bruni, Lutero, Goethe, von Humboldt, Schleiermacher, Ortega y Gasset, Croce, Benjamin, Milano, Bompiani, 1993 Nergaard (cur.) (1995) Nergaard, S. (cur.) Teorie contemporanee della traduzione. Testi di Jakobsón, Levý, Lotman, Toury, Eco, Nida, Zohar, Holmes, Meschonnic, Paz, Quine, Gadamer, Derrida, Milano, Bompiani, 1995 Osimo (1998) Osimo, B., Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario , Milano, Hoepli, 1998 Rega (2001) Rega, L., La traduzione letteraria. Aspetti e problemi, Torino, UTET, 2001 Rentrop/Schmitz (2001) Rentrop, P./Schmitz, P.M., Formazione e ricerca scientifica. La Germania , in Destro, A. (cur.), I paesi di lingua tedesca. Storia, cultura, società , Bologna, il Mulino, 2001, pp. 211-230 Schleiermacher (1813) Schleiermacher, F., Über die verschiedenen Methoden des Übersetzens, in Zur Philosophie 2, Berlin, Reimer, 1835-1846 Schwarz/Linke/Michel/Scholz Williams (1988) 20 Schwarz, A./Linke, A./Michel, P./Scholz Williams, G., Alte Texte lesen, Bern/Stuttgart, P. Haupt, UTB, 1988 Snell-Hornby/Hönig/Kußmaul/Schmitt (cur.) (19992 ) Snell-Hornby, M./Hönig, H.G./Kußmaul, P./Schmitt, P.A. (cur.), Handbuch Translation, Stauffenburg Verlag, 19992 Tübingen, Soppera (2000) Soppera, C., Federalismo e centralismo. Sistemi scolastici tedesco ed italiano a confronto, “Educazione comparata” 40 (2000), pp. 25-93 Von Humboldt (1816) Von Humboldt, W., Einleitung, in Aeschylos: Agamemnon. Metrisch übersetzt von Wilhelm von Humboldt. Leipzig, Fleischer, 1816 Wunderli (cur.) (2002) Wunderli, R. (cur.), Die Windrose. Eine literarische Übersetzungs-Stafette durch die viersprachige Schweiz, Zürich, Wolfbach Verlag, 2002 21 DEMETRIO GIORDANI Traduzioni e traduttori del Corano Traduzioni occidentali e traduzioni orientali Nel mondo islamico la questione della traduzione del Corano emerse tardivamente, fu uno di quei problemi che i musulmani dovettero affrontare nel momento in cui la modernità europea irruppe nel loro sistema sociale durante l’epoca coloniale. La questione maturò e crebbe d’importanza soprattutto con l’introduzione delle tecniche di stampa e la diffusione dei mezzi di comunicazione. Il mondo islamico si dotò degli strumenti per la stampa non prima della fine del XVIII secolo, con quattro secoli di ritardo sull’Europa, e i primi esemplari di libri a stampa che circolarono nell’Impero Ottomano, provocarono la reazione ostile delle autorità religiose: la nuova tecnica di riproduzione andava infatti a toccare direttamente le modalità tradizionali della scrittura del Corano; fino ad allora i musulmani avevano affidato la riproduzione dei libri all’opera meticolosa di schiere di scrivani, che esercitavano l’arte della calligrafia con lo strumento del calamo, così come il Corano stesso poneva a modello: Leggi! Ché il tuo Signore, è Generosissimo, – Colui che ha insegnato l’uso del Calamo, – ha insegnato all’uomo ciò che non sapeva. (Corano 96:3-5) Da qui la diffidenza e la ripugnanza ad abbandonare quel che appariva il modo più naturale, e forse l’unico modo canonico di diffusione del libro sacro. Dopo un mezzo secolo di incertezza, il mondo arabo si impegnò infine ad adottare la tecnologia tipografica. È nell’Egitto di Muhammad Alî (1769 – 1849), che fu aperta, nel 1821, nel quartiere cairino di Bulak, la prima stamperia moderna con caratteri arabi. Non poche difficoltà infine si dovettero superare in Egitto per stampare quella che è giudicata la più perfetta edizione del Corano, uscita per iniziativa di re Fu’âd I nel 1923. In Europa invece le prime edizioni del Corano furono stampate a Venezia nel 1530 e ad Amburgo del 1694. Nel 1698 fu stampata a Padova l’edizione a cura di padre Ludovico Marracci (1612-1700); ma l’edizione più utilizzata dalla prima generazione di orientalisti è stata quella curata da Gustav Flügel edita a Lipsia nel 1834. Le prime traduzioni europee del Corano furono ovviamente in latino; prima fra tutte quella commissionata da Pietro il Venerabile, abate di Cluny, eseguita dall’inglese Roberto di Kenneth (o di Chester) a Toledo, tra il 1141e il 1143, e che fu poi stampata quattro secoli più tardi a Basilea. Padre Ludovico Marracci fu l’autore di una memorabile traduzione del Corano dal titolo: Alcorani textus universus ex correctionibus Arabum exemplaribus summa fide, atque pulcherrimis characteribus descriptus, stampata a Padova nel 1698, assieme al testo originale e a una lunga e circostanziata confutazione. Si tratta di un lavoro rigoroso, frutto di quaranta anni di studio dei principali commentari arabi, (tra cui quelli di Al-Baydâwî, Al-Zamakhsharî e Al-Suyûtî) che egli fece con il preciso intento di dimostrare l’inconsistenza teologica del testo sacro dei musulmani. Il risultato finale fu però d’una esattezza filologica prodigiosa, riconosciuta unanimemente anche dai principali arabisti del secolo scorso. La traduzione di Ludovico Marracci fornì la base per le successive e più agevoli traduzioni in francese di Nicolas Savary del 1751, e in inglese di George Sale del 1734. 1 Negli ultimi due secoli il Corano è stato tradotto in tutte le lingue europee, fra tutte vale la pena di menzionare le versioni francesi di R. Blachère (Parigi 1947-51), in più volumi, e quella di Jacques Berque, più recente (Parigi 1990); quelle inglesi di Yusuf Ali (Lahore 1934), in due volumi con il testo originale a fronte, che è forse la più conosciuta tra quelle ad opera di autori musulmani del ‘900; di Bell (Edinburgo 1937-39) e Arberry (Londra 1953). C’è poi da segnalare che in Arabia 1 Pedani Fabris in Zatti (cur.) (2000), pp. 9-29. 22 Saudita, a Medina, sono state recentemente realizzate, con il patrocinio di Re Fahd, traduzioni del Corano in tutte le lingue del mondo islamico. Tra le traduzioni italiane del secolo scorso c’è da segnalare il volenteroso tentativo del prof. Aquilio Fracassi; ma la sua traduzione, edita a Milano nel 1914 con testo arabo a fronte, è da molti giudicata inefficace sia dal punto di vista della fedeltà all’originale, sia a causa del linguaggio a dir poco desueto. La traduzione di Luigi Bonelli, edita a Milano nel 1929, è secondo molti talmente fedele al testo originale da risultare forse un po’ troppo letterale, al punto tale da essere, secondo Francesco Gabrieli: “Priva di ogni simpatia con il testo tradotto, e di ogni letterario pregio”. 2 Il lavoro di Alessandro Bausani 3 è universalmente riconosciuto come il migliore dal punto di vista filologico; giunta ormai alla dodicesima ristampa la sua traduzione è considerata di riferimento per tutti gli orientalisti; essa è inoltre dotata di una ricca sezione di note e di una lunga introduzione. Infine Roberto “Hamza” Piccardo 4 è l’autore della prima traduzione realizzata da un italiano convertito all’Islâm; la sua non pretende di essere una traduzione vera e propria, bensì una “traduzione interpretativa” come lui stesso la definisce, in conformità con l’atteggiamento generale dei musulmani nei confronti delle traduzioni del Libro sacro. Se nell’Occidente cristiano c’è stato, e continua ad esserci, un interesse crescente verso lo studio e alla traduzione del Corano, sul versante islamico però, accanto alle ostilità che hanno accompagnato la produzione di libri stampati, vi è stata sempre una persistente avversione verso ogni tentativo di traduzione del Libro. La prima traduzione di cui si ha notizia certa è quella del teologo, riformatore e sufi Shâh Walî Allâh Dihlawî (m. 1762), il quale produsse una versione persiana del Corano, a Delhi nel 1738, intitolata Fath al-Rahmân. Questa traduzione fu eseguita con il preciso intento di rendere accessibile il contenuto del Libro a tutti quei musulmani indiani, di un certo livello culturale, che prevalentemente leggevano il persiano ma non l’arabo, che era invece la lingua padroneggiata da cerchie ristrette di dotti religiosi. Quando nel 1743 l’opera fu divulgata, gli ‘ulamâ’ tradizionalisti reagirono violentemente e accusarono Shâh Walî Allâh di essere un innovatore e un rivoluzionario; si dice che fu persino minacciato da una banda di teppisti armati che circondarono la sua casa. Come complemento alla traduzione del Corano Shâh Walî Allâh scrisse in seguito anche un breve trattato in persiano sulle regole guida da adottare nella traduzione del testo sacro, dal titolo Muqaddima dar fann-i tarjama-yi Qur’ân. 5 L’inimitabilità del Libro L’atteggiamento di opposizione radicale verso ogni tipo di traduzione restò diffuso tra gli esponenti dell’ortodossia religiosa fino a non molto tempo fa. Nel 1925, al Cairo, l’annuncio della pubblicazione della prima traduzione turca del libro sacro dell’Islâm, diede vita ad un animato dibattito sulle più importanti riviste a carattere religioso dell’epoca. 6 Coloro che opponevano un rifiuto incondizionato erano spinti dal timore che il testo originale potesse venire frainteso e denigrato; costoro erano fermamente convinti che ogni tentativo di traduzione equivalesse al tradimento del senso originale. Per molti degli ulamâ’ tradurre letteralmente poteva condurre alla sostituzione dei termini, se non addirittura alla perdita del vero significato del testo, che invece restava chiaro e inequivocabile solo nel contesto linguistico originale. Inoltre, uno dei maggiori avversatori della traduzione letterale, in un parere giuridico (fatwâ) emesso in tale occasione, spiegava: L’ordine e lo stile coranici producono un effetto particolare nell’animo dell’ascoltatore che non può essere trasferito nella traduzione; se va perduto, con esso va perduto un grande beneficio. 7 2 Gabrieli (1960), pp. 39-40. Bausani (cur.) (2001). Le citazioni coraniche di questo articolo sono tratte in massima parte dalla sua traduzione. 4 Piccardo (cur.) (2003). 5 Rizvi (1980), pp. 230-232. 6 Moreno (1925), pp. 532-543. 7 Ridâ (1983), p. 87. 3 23 In conclusione, le massime autorità religiose egiziane dell’epoca preferirono autorizzare invece della traduzione letterale (tarjama), un commento (tafsîr) che desse una spiegazione del senso dei versetti in una lingua qualunque, purché fosse affiancata dal testo originale e non fosse chiamata “Corano”, in maniera analoga a come si presentava originariamente la prima traduzione persiana di Shâh Walî Allâh Dihlawî. Nella visione tradizionale islamica nulla può sostituire il valore dell’autentica e inimitabile Parola di Allâh. In altre parole l’uomo non può modificare o alterare il messaggio divino, esso deve essere trasmesso e riprodotto nella sua scrupolosa esattezza. Quindi non solo la lingua, persino gli stessi caratteri in cui il Libro è espresso devono essere considerati una fedele trascrizione umana dell’Archetipo celeste in cui è iscritta dall’eternità la Parola divina. È per questo motivo che tutti i musulmani del mondo si debbono sforzare di apprendere per lo meno quel tanto di arabo che serve loro a recitare le sure più brevi a memoria. Se il Corano venisse infatti recitato in una lingua diversa dall’arabo, o semplicemente letto in traslitterazione con caratteri diversi, cesserebbe immediatamente di essere Corano. L’identità araba del Corano è stabilita chiaramente dai versetti che presentano il Libro come: Un Libro che gli altri (Libri) conferma, in lingua araba, ad ammonire coloro che iniquamente agiscono. (Corano 46:12). Ecco i segni del Libro Chiarissimo: ecco, l’abbiamo rivelato in dizione araba a che abbiate a comprenderlo. (Corano 12:1-2). La questione della traduzione diviene ancor più complicata se si pensa che per la teologia islamica quello dell’inimitabilità del Corano è un fatto indiscutibile. Tradurre letteralmente il Corano vuol dire pretendere di produrre qualcosa di analogo al Verbo rivelato, ovvero competere con Allâh in cose come la creazione o la produzione di miracoli. L’imprudenza di una tale intento risulta ancor più evidente se si considera che, nella stessa Scrittura, Dio ha sfidato (tahaddî) uomini e jinn a provare a eguagliare la perfezione stilistica e gli argomenti del Libro: E se avete dei dubbi su ciò che abbiamo rivelato al Nostro servo, producete una sûra simile a quelle e chiamate i vostri testimoni altri che Dio, se siete sinceri! (Corano 2:23) Dì: “Se pur si adunassero uomini e jinn per produrre un Corano come questo, non vi riuscirebbero, anche se s’aiutassero l’un l’altro.” (Corano 17:88) Per la teologia islamica gli esseri umani non sono in grado di compiere il miracolo del Corano, di conseguenza il persistere di questa incapacità attraverso le epoche è la conferma della sua inimitabilità. Dio avrebbe reso impossibile l’imitazione del testo in molti modi; innanzitutto attraverso l’intrinseca incapacità degli esseri umani di giungere ad una tale perfezione stilistica, secondariamente in virtù di un divieto che non è d’ordine intellettuale ma d’ordine metafisico. Tale divieto sarebbe evidente nell’intervento divino che puntualmente ostacola e rende impossibile il compiere l’imitazione a chiunque. 8 Così parlava di questa particolare interdizione un famoso teologo maghrebino del XII secolo: I dotti sunniti non trovano accordo su quanto renda inimitabile il Corano. La maggior parte ritiene che l’inimitabilità dipenda dalla forza della penetrante eloquenza, dalla purezza delle espressioni, dalla bontà della composizione, dalla concisione, dal modo innovativo in cui si dispongono le parole, e dallo stile; tutto questo sta racchiuso nel Libro, essi dicono, realmente non rientra nelle capacità di alcun uomo, e va annoverato tra le cose che eccedono e contrastano la possibilità delle creature. Secondo costoro non vi è differenza alcuna col far risuscitar i morti o il far cantare lodi a Dio da un pugno di pietruzze. Il mio maestro Abû Al-Hasan Al-Ash‘arî, affermò invece che gli uomini sono in grado di imitare il Corano, che Iddio li ha creati capaci; ma così non accadde, né accadrà in futuro, perché 8 Gardet (1967), p. 220. 24 Iddio stesso li ha trattenuti dal farlo e li ha resi impotenti. Molti suoi colleghi sono d’accordo con lui. 9 Tradurre o commentare? Per un ipotetico traduttore occidentale i problemi di interpretazione del Corano iniziano subito con il primo capitolo: “La sûra aprente” (Al-Fâtiha). Quella che segue è la traduzione che ne dà Alessandro Bausani. 1) 2) 3) 4) 5) 6) 7) Nel Nome di Dio, clemente misericordioso! Sia lode a Dio il Signore del Creato, il Clemente, il Misericordioso, il Padrone del dì del Giudizio! Te noi adoriamo, Te invochiamo in aiuto: Guidaci per la retta via, La via di coloro sui quali hai effuso la Tua grazia, la via di coloro coi quali non sei adirato, la via di quelli che non vagolano nell’errore! I commentatori non sono d’accordo se la formula introduttiva: “Nel nome di Dio Clemente e Misericordioso,” detta in arabo basmala (dalle prime due parole arabe che la compongono: bismiLlâh), sia da considerarsi o meno come un vero e proprio versetto. Negli esemplari del Corano essa viene riprodotta in testa ad ogni sûra (ad eccezione della IX); vi è dunque chi la considera a tutti gli effetti parte integrante del testo e chi, invece, la ritiene una semplice formula introduttiva o una forma di separazione fra un capitolo e un altro. Nella basmala la pronuncia del Nome divino Allâh, è accompagnata dalla formula degli attributi di Misericordia: Al-Rahmân e Al-Rahîm, i quali derivano da un’unica radice verbale araba (rhm). In arabo come in ebraico la radice rhm conta tra i molti significati anche quello di utero (rahim) ed evoca immediatamente l’idea di una materna protezione. Tra i due attributi vi è però una sottile distinzione, più volte rimarcata dai commentatori orientali. Si sostiene in genere che Rahmân esprima una valenza più ampia e universale che non Rahîm, nel senso che il primo dei due attributi sta a significare la Misericordia di Dio per tutti gli esseri e per tutti gli stati, mentre il secondo si riferirebbe a modalità più circoscritte della stessa clemenza divina, che è rivolta ad esempio solo verso certi esseri e in determinati stati. 10 Per alcuni dei commentatori, infatti, la Misericordia di AlRahmân abbraccia questo mondo e quell’altro, mentre quella di Al-Rahîm è rivolta solamente verso gli esseri di questo mondo. 11 Questo è il classico esempio di come la traduzione letterale ponga seri problemi a chiunque voglia tentare l’impresa, conoscendo bene la lingua araba, soprattutto a causa dell’impossibilità delle lingue occidentali di rendere con esattezza la complessità del lessico arabo e le innumerevoli sfumature dei vocaboli. Per quanto concerne la basmala, il Bonelli ad esempio traduce: “Nel nome di Dio misericordioso e compassionevole”; Bausani traduce: “Nel nome di Dio, clemente misericordioso”; Piccardo: “In nome di Allâh, il Compassionevole, il Misericordioso”; Ventura: “Nel Nome di Dio, Misericordioso e Compassionevole”; padre Ludovico Marracci: “In Nomine Dei Miseratoris Misericordis”; Yusuf Ali: “In the name of God, Most Gracious, Most Merciful”; Arberry: “In the Name of God, the Merciful, the Compassionate”; Jacques Berque: “Au nom de Dieu, le Tout miséricorde, le Miséricordieux”; Blachère: “Au nom d’Allah le Bienfaiteur miséricordieux”. Nell’edizione francese di Medina si legge infine: “Au nom d’Allah, le Tout Miséricordieux, le Très Miséricordieux”. Un altro ordine di problemi insorge invece quando si affronta il versetto quarto: Il Padrone del dì del Giudizio! 9 Qadî ‘Iyâd (1995), pp. 22-23. Ventura (1991), pp. 47-48. 11 Al-Baydâwî (1998), vol. I, p.7. 10 25 La prima parola di questo versetto ha infatti due letture possibili: Mâlik (Padrone) e Malik (Re). Entrambe le varianti testuali vengono ammesse dalla tradizione anche se la prima, che è quella contenuta nell’edizione standard di re Fu’âd del 1923, è certamente la più diffusa ed accettata. Accanto a questa c’è però la cosiddetta lettura “maghrebina” in cui è riportata appunto la variante Malik.12 Entrambi i vocaboli derivano dalla radice verbale mlk, che comprende sia il significato di sovranità che quello di possesso, che in arabo sono strettamente legati. Chiosando il versetto, un illustre commentatore medievale ha annotato la differenza tra i due termini, facendone risaltare la sottile differenza: Il Padrone (Mâlik ) è colui che, nel suo dominio, fa quel che vuole delle anime degli esseri in suo possesso; il Re (Malik ) è colui che ha facoltà di ordinare il bene e proibire il male a coloro che nel suo regno sono sottomessi alla sua autorità.13 Tenendo conto delle varianti di scrittura i traduttori hanno diversamente interpretato; ad esempio Bausani scrive: “Il Padrone del dì del Giudizio!”; Piccardo: “Re del Giorno del Giudizio”; Ventura: “Padrone del giorno del giudizio”; Yusuf Ali: “Master of the Day of Judgement”; Arberry: “The Master of the Day of Doom”; Berque: “Le roi du jour de l’allégeance”. La versione francese di Medina propone : “Maître du Jour de la rétribution”. Nell’ultimo versetto di questa prima sûra appaiono poi i primi problemi relativi al significato, poiché di un passaggio in particolare è possibile dare più di una spiegazione: La via di coloro sui quali hai effuso la Tua grazia, la via di coloro coi quali non sei adirato, la via di quelli che non vagolano nell’errore! Molti commentatori distinguono in questo particolare versetto tre generi di uomini, il primo dei quali ovviamente è composto dai pii, dai santi e dai Profeti, che sono i ricettori della Grazia divina, coloro che sono degni di ricevere i doni di Dio e che sono preservati dalla Sua Ira. Sulle altre due categorie invece non vi è accordo; su chi siano di fatto coloro con i quali Iddio è adirato, e quelli che vagano nell’errore vi è infatti discordanza di pareri. È però consuetudine diffusa tra i commentatori identificare il primo gruppo con gli Ebrei e il secondo con i Cristiani14 in base al confronto con altri passaggi coranici (5:60 e 5:77). Ma non è sempre così, secondo certi autori, e in particolar modo quelli legati alle correnti spirituali e al sufismo, coloro coi quali Iddio sarebbe adirato sarebbero: “Quelli che si sono fidati di questo basso mondo e che in esso ripongono le loro speranze”; mentre “quelli che vagano nell’errore” sarebbero coloro vengono respinti sulla via della conoscenza di Dio, e che sono stati privati della Sua tutela. 15 Versetti “chiari” e versetti “allegorici” La differenza di interpretazione dell’ultimo versetto della prima sûra, ci permette di introdurre un ultimo genere di considerazioni che riguarda tutti quei versetti del Corano il cui significato non è ben definibile, e che hanno generato nei lettori e nei traduttori non pochi errori ed equivoci. Nel Corano stesso ve n’è un accenno in un versetto della sûra “Della famiglia di Imrân”, in cui si legge: Egli è Colui che vi ha rivelato il Libro: ed esso contiene sia versetti solidi, che sono la Madre del Libro, che versetti allegorici. Ma quelli che hanno il cuore traviato seguono ciò che vi è d’allegorico, 12 Le “varianti” o “letture” del Corano hanno avuto origine da preferenze testuali fondate sia sulla tradizione orale, sia su un lavoro esegetico operato sul prototipo della vulgata del califfo ‘Uthmân. Dalle sette varianti iniziali si è poi giunti a due, una delle quali, quella risalente alla lettura medinese di Nâfi‘ (m. 785 d.C) e tramandata da Ibn Sa‘îd, alias Warsh (m. 813 d.C.), è contenuta nell’edizione detta “maghrebina” in uso in Africa del Nord e in Africa subsahariana. L’edizione standard egiziana è quella realizzata da una commissione di esperti espressamente voluta da re Fu’âd I nel 1923. Quest’ultima edizione, largamente diffusa, adotta la lettura di ‘Asim di Kufa, tramandata da Hafs (m. 806 d.C.). Tra le due varianti di lettura le differenze sono minime e raramente a una variante scritturale corrisponde una vera differenza di significato. 13 Al-Baydâwî (1998) , vol. I, p. 8. 14 Ivi, p.11; Al-Zamakhsharî (1977), vol. I, p.71. 15 Al-Sulamî (1995), p. 7; Al-Sulamî (2001), vol. I, p. 44. 26 bramosi di portar scisma e di interpretare fantasiosamente, mentre la vera interpretazione di quei passi non la conosce che Dio (Corano 3:7). Vi sono quindi dei versetti chiamati muhkamât, solidi, chiari, che hanno in sé elementi inequivocabili e comprensibili a tutti, che contengono prove assolutamente irrefutabili di cose da affermare o da negare, sia in campo legale e giuridico, che in quello dottrinale e teologico; e dei versetti mutashâbihât, “analoghi”, la cui lettura può dare adito a più di una interpretazione. Secondo l’evoluzione semantica della parola, mutashâbih può significare anche “ambiguo” (nel senso di “simile ad altre parole”) o anche, come ha tradotto Alessandro Bausani, “allegorico”. In pratica tutti i versetti che esprimono un precetto sono muhkamât; invece i versetti mutashâbihât sono quelli sui quali è possibile discutere, e sono, genericamente, tutti quelli in cui sono contenute storie, parabole e giuramenti. In diverse sure, ad esempio, si giura su entità abbastanza misteriose, su stelle o su fenomeni della natura. Sono espressioni o argomenti non totalmente chiari, di cui spesso alcuni commentatori forniscono una spiegazione altamente simbolica. Si vedano ad esempio i primi versetti della sûra “dell’Aurora”, del primo periodo meccano, di trenta versetti : 1. 2. 3. 4. 5. Nel Nome di Dio Clemente e Misericordioso! Per l’Aurora! Per le dieci notti! Per il Pari e il Dispari! Per la notte che si dilegua! Non è questo un giuramento per gli uomini di sano intelletto? (Corano 89:1-5). Oppure i primi cinque della sûra “delle Puledre Veloci”, anch’essa meccana, di undici versetti: 1. 2. 3. 4. 5. Nel Nome di Dio Clemente e Misericordioso! Per le puledre veloci correnti anelanti Scalpitanti scintille Gareggianti a corsa di primo mattino Suscitando polvere a nembi Nel pieno della turba nemica! (Corano 100:1-5). In genere, mentre i commentatori più conosciuti danno di questi versetti una spiegazione filologica, e non escono mai dal tracciato dell’interpretazione letterale, per gli autori che ricorrono al metodo esegetico caratteristico del misticismo islamico, versetti come questi rinviano, ad esempio, ad argomenti escatologici, e richiamano immagini sia della “Grande Resurrezione” (AlQiyâma Al-Kubrâ) e del Giudizio Universale, sia della “Piccola Resurrezione” (Al-Qiyâma AlSughrâ) che è il trapasso dell’essere individuale al momento della morte. 16 In fin dei conti, però, consapevoli che una sola interpretazione non riesce a risolvere fino in fondo il nodo dei versetti allegorici, tutti i commentatori sono concordi nell’affermare che, qualsiasi sforzo di interpretazione possa essere fatto: La vera interpretazione di quei passi non la conosce che Dio (Corano 3:7). Conclusioni Sono state elencate alcune delle principali difficoltà della traduzione del Corano, esse sono sia di tipo dottrinale e teologico, sia di tipo prettamente filologico. È evidente da quanto è stato detto che non è pensabile affrontare la traduzione del testo sacro senza lo studio dei commentari classici. Lo sapeva bene il Marracci, il quale, pur non avendo mai vissuto in ambiente islamico, e non avendo avuto dei maestri arabi, riuscì però a portare a termine il suo lungo lavoro dopo essersi dedicato all’apprendimento delle opere dei più importanti mufassirûn dell’Islam classico, e dopo 16 Al-Qâshânî, ‘Abd Al-Razzâq (1968), vol. II, pp. 803-839. 27 aver raccolto le loro spiegazioni sui temi teologici fondamentali. Quanto alle difficoltà linguistiche, è davvero impensabile poter produrre una traduzione letterale del Corano con la stessa sicurezza e precisione di una versione tra lingue europee: l’arabo non lo permette, la vastità del vocabolario e la difficoltà di adattamento dei significati originali ha bisogno di aggiunte e sottrazioni, molto spesso di perifrasi. È particolarmente vero quindi quel che dice Alessandro Bausani quando afferma di non aver voluto fare della sua traduzione: “un ‘traduttore’ o ausilio per la lettura del testo originale”. Egli ammette chiaramente di essersi preso qualche libertà per poter rendere l’espressività e il ritmo del testo originale, che una traduzione letterale avrebbe tradito, e dice infine: Molte altre scelte le giustificherà, o criticherà, il lettore specialista, alla cui clemenza di giudizio mi affido, dichiarando che il mio scopo non è stato di fare cosa filologicamente nuova, che a questo non mi sarebbero bastate le forze, ma piuttosto di presentare al pubblico in una forma letterariamente più accessibile questo capolavoro del genio religioso semitico. 17 BIBLIOGRAFIA ‘Alî (cur.) (1936) ‘Alî, Yûsuf (cur.) The Meaning of the Glorious Qur’ân. Text, Translation and Commentary by Abdullah Yusuf Ali, II voll., Il Cairo-Beirut, Dâr al-Kutub al-Misrî, Dâr al-Kutub al-Lubnânî, 1936 Arberry (cur.) (1964) Arberry, Arthur (cur.), The Koran translated by Arthur J. Arberry, London, Oxford University Press, 1964 Bausani (cur.) (2001) Bausani, Alessandro (cur.), Il Corano: Introduzione, traduzione e commento di Alessandro Bausani, Milano, BUR, 2001 Al-Baydâwî (1998) Al-Baydâwî, Anwâr al-Tanzîl wa Asrâr al-Ta’wîl, 2 voll., Beirut, Dâr al-Kutub al-‘Ilmiyya, 1988 Berque (1995) Berque, Jacques (cur.), Le Coran. Essai de Traduction par Jacques Berque, Paris, Albin Michel, 1995 Borrmans/Branca/Cottini/Lagarde/Negri/Ventura (1998) Borrmans, M./ Branca, P./ Cottini, V./ Lagarde, M./ Negri, A.T./ Ventura, A., Conoscere il Corano. Introduzione e letture scelte del Libro sacro dell’Islam, Torino Millelibri, 1998 Gabrieli (1960) Gabrieli, Francesco, Le parole del Corano, in “Saggi Orientali”, Caltanissetta-Roma, 1960 Gardet (1967) Gardet, Louis, Dieu et la Destinée de l’Homme, Paris, Vrin, 1967 Le Saint Coran (1410) Le Saint Coran et la traduction en langue française. Medina 1410 H. Marracci (1691) Marracci, Ludovico, Prodromi ad Refutationem Alcorani, Roma, 1691 Mérad (1998) Mérad, Ali, L’exégèse coranique, Paris, PUF 1998 Moreno (1925) 17 Bausani (cur.) (2001), p. LXXVIII. 28 Moreno, M.M., E’ lecito ai musulmani tradurre il Corano?, in “Oriente Moderno”, V, 1925, pp. 532-543 Piccardo (cur.) (2003) Piccardo, “Hamza” (cur.), Il Corano. A cura di Hamza Roberto Piccardo, introduzione di Pino Blasone, Roma, Newton Compton, 2003 Qâdî ‘Iyâd (1995) Qâdî ‘Iyâd, I miracoli del Profeta , a cura di Ida Zilio-Grandi, Torino, Einaudi, 1995 Al-Qâshânî, ‘Abd Al-Razzâq (1968) Al-Qâshânî, ‘Abd Al-Razzâq, Ta’wîlât Al-Qur’ân (attribuito a Muhyiddîn Ibn ‘Arabî come Tafsîr Al-Qur’ân al Karîm) 2 voll., Beirut, Dâr Al-Andalus, 1968 Ridâ (1983) Ridâ, Rashîd, Fatwâ al-Manâr fî Hazra Tarjama al-Qur’ân, in “Etudes Arabes” – Dossier n. 65, 1983-2., Roma, PISAI Rizvi (1980) Rizvi, Saiyid Athar Abbas, Shâh Walî Allâh and His Times, Canberra, Ma‘rifat Publishing House, 1980 Al-Sulamî (1995) Al-Sulamî, ‘Abd Al-Rahmân, Ziyâdât Haqâ’iq Al-Tafsîr. The Minor Qur’ân Commentary of Abû ‘Abd arRahmân Muhammad b. al-Husayn as-Sulamî; edizione critica a cura di Gerhard Bowering, Beirut, Dâr AlMachreq, 1995 Al-Sulamî (2001) Al-Sulamî, ‘Abd Al-Rahmân, Haqâ’iq Al-Tafsîr, 2 voll., Beirut, Dâr al-Kutub al-‘Ilmiyya, 2001 Ventura (1991) Ventura, Alberto, Al-Fâtiha – L’Aprente, Genova, Marietti 1991 Al-Zamakhsharî (1977) Al-Zamakhsharî, Al-Kashshâf ‘an Haqâ’iq al-Tanzîl, 4 voll., Il Cairo, Dâr al-Fikr, 1977 Zatti (cur.) (2000) G. Zatti (cur.), Il Corano. Traduzioni, Traduttori, e Lettori in Italia (saggi di M. Borrmans, P. Branca, V. Cottini, M.P. Pedani Fabris, C.M. Guzzetti, V. Poggi, G. Rizzardi, G. Zatti), Milano, ITL, 2000 29 CESARE GIACOBAZZI Tradurre è interpretare: Il testo letterario come testo ideale nella formazione del traduttore Testi specialistici e testo letterario La proposta del testo letterario come testo ideale per imparare a tradurre qualsiasi tipo di testo può apparire a prima vista provocatoria, se non addirittura insensata. Come esistono – si ritiene – da un lato i testi specialistici e dall’altro i testi letterari, così deve esistere da un lato anche la traduzione letteraria e dall’altro la traduzione di testi specialistici. Le scuole per interpreti e traduttori conoscono bene tale differenza e, visto che si prefiggono il compito di formare interpreti e traduttori di testi tecnico-scientifici, escludono generalmente il testo letterario. Chi nella vita professione dovrà tradurre testi giuridici, economici, commerciali e così via, deve nel corso della sua formazione – si ritiene apparentemente con tutte le ragioni del mondo – confrontarsi con tali tipologie testuali. Del resto esistono anche le scuole specializzate nella formazione di traduttori letterari e in quelle, ovviamente, non deve mancare il testo letterario. Tale convinzione sulla separazione netta tra testo di finzione e testo tecnico-scientifico si fonda su una contrapposizione per così dire tradizionale, una distinzione apparentemente così ovvia, così conforme al senso comune, da non meritare alcuna riflessione. La differenza tra testi della letteratura e quelli della realtà risulta, infatti, così immediata e naturale che si capisce da sé e, dunque, apparentemente non merita una mente che compia uno sforzo di comprensione. Tutti sanno, infatti, che un testo specialistico è importante per il contenuto mentre in un testo letterario ciò che conta è la forma. L’uno è dunque esclusivamente informativo, l’altro invece è essenzialmente espressivo: un testo letterario mette in scena un particolare individuo mentre un testo specialistico rappresenta solo la realtà degli oggetti, quella dei dati di fatto e non quella del soggetto. L’uno si occupa, infatti, della realtà oggettiva, l’altro della fantasia soggettiva. Anche per questo il testo specialistico tende alla semplicità e alla chiarezza, mentre un testo letterario mira a rispecchiare la complessa unicità dell’individuo. Un luogo comune ben radicato: la distinzione tra forma e contenuto Già queste distinzioni di chiara natura dialettica potrebbero suggerire una loro intima e ineludibile vicinanza: per capire cosa sia un testo specialistico occorre riferirsi al testo letterario, l’uno ha bisogno dell’altro, del modello opposto, per definirsi. A ben guardare può poi accadere di rendersi conto di come in realtà non viga necessariamente un rapporto di esclusione tra le categorie che tradizionalmente definiscono le differenze tra un testo letterario e un testo specialistico. Prendiamo per esempio l’apparentemente ovvia dicotomia tra forma e contenuto che se applicata all’analisi di tipologie testuali conduce a ritenere che possano esistere testi formalmente ineccepibili ma vuoti di contenuti e, d’altro canto, contenuti che si esprimono e si comunicano indipendentemente dalla materialità delle forme linguistiche. Ora non appare difficile smascherare tale ovvietà come una palese insensatezza, giacché si sa bene come determinate tipologie testuali, siano esse di natura narrativa o esplicativa, discorsiva o metadiscorsiva, selezionino specifici contenuti. Le cose cambiano a seconda di come le si dicono e, dunque, anche la forma è a suo modo un contenuto. Nell’ambito della teoria della letteratura non può esservi alcun dubbio in proposito. È sufficiente il richiamo ai tre generi classici – lirica, dramma ed epos, generi dai quali discendono tutti gli altri più moderni come romanzo, novella, racconto e così via – per riconoscere con chiarezza come a determinate forme espressive corrispondano altrettanto determinati ambiti di contenuto: la lirica permette l’espressione del soggetto, il dramma la messa in scena di eventi nella loro oggettività, l’epos la fusione di conoscenze condivise – per esempio quelle relative alle gesta degli dei – con la posizione soggettiva del narratore. Anche tipologie testuali scientifiche rendono, ovviamente, manifesto il rapporto inscindibile tra la lingua e l’oggetto che essa rappresenta o 30 spiega. Uno scienziato sarebbe ben poco credibile se riferisse della clamorosa scoperta di tutte le sequenze del DNA nelle forme di un articolo divulgativo. Se poi lo stesso scienziato volesse rendere di pubblico dominio la sua scoperta allora dovrebbe scegliere un linguaggio comprensibile anche per chi non è addetto ai lavori. Del resto anche l’esperienza quotidiana contraddice il luogo comune dell’esistenza di un contenuto libero da ogni forma. Quale innamorato potrebbe mai scrivere, per esempio, una lettera d’amore nella forma di una lettera commerciale? Forma e contenuto, si può affermare sinteticamente, sono aspetti inscindibili e di rilevanza simile in tutte le tipologie testuali, sia dunque in un testo letterario sia in un testo tecnico-scientifico. Da tali considerazioni si può trarre la conclusione che anche in testo specialistico la forma è importante per definire l’oggetto, esattamente come in un testo letterario. L’inscindibilità tra forma e contenuto porta a rivedere un’ulteriore convinzione su cui si fonda la pregiudiziale contrapposizione tra testi di finzione e testi pragmatici. È vero che i primi mettono in scena una realtà soggettiva, unica e irripetibile – vi sono anzi molte estetiche che fondano il valore di un’opera letteraria proprio nella sua originalità. Appare tuttavia palesemente insensato ritenere che i testi pragmatici possano esistere senza un soggetto che li rediga e uno, o più, che li legga. Se vi fossero tipologie testuali concepibili senza soggetti che li scrivano si potrebbe raggiungere ciò che molti considerano qualcosa di auspicabile: la traduzione automatica. Un testo simile potrebbe essere tradotto da una macchina senza che un soggetto, ossia un traduttore, debba intervenire per verificarne la correttezza e l’efficacia. Anche un testo specialistico, per esempio appunto il testo scientifico di cui si diceva, è il risultato di particolari scelte lessicali, compositive e retoriche operate da un soggetto che conosce il contesto in cui appare il proprio testo e può dunque immaginare come il fruitore lo recepisca. Un enunciato che sia pura informazione indipendentemente da chi lo produce e lo fruisce evidentemente non può esistere, giacché non esistono informazioni indipendenti dal contesto comunicativo in cui vengono fornite e, dunque, neutre rispetto all’istanza che le produce e a quella che le recepisce. Informazioni non si comprendono mai da sole, ma occorre sempre qualcuno che le trasmetta e trasmettendole fa filtrare qualcosa di sé, di ciò che sa del contesto comunicativo e di ciò che immagina sia il fruitore. Vi sono certo in alcuni casi di informazioni in cui si può pensare a una sorta di grado zero dell’interpretazione, si pensi, per esempio, all’indicazione dell’uscita in una stazione o di una curva pericolosa. In questi casi però il testo si riduce ad una icona senza la necessità di un enunciato linguistico. Per faccende più complicate, se si vuole per esempio spiegare ad un possibile acquirente tutti i vantaggi economici ed ecologici di un frigorifero di nuova generazione, occorre fornire informazioni che non si capiscono da sole, ossia informazioni che abbisognino di un soggetto pensate che faccia ipotesi sulla conformazione mentale del proprio interlocutore. In casi appena più complessi di una semplice indicazione di direzione o di avvertimento di pericolo, non è più possibile affidarsi a strutture che richiedono semplicemente il grado zero dell’interpretazione. Ulteriori luoghi comuni Un altro ben radicato luogo comune che fonda la tradizione distinzione tra testi letterari e testi specialistici riguarda il ruolo della fantasia. I primi godrebbero della libertà di dar vita ai più irresponsabili mondi fantastici, mentre i secondi avrebbero il dovere di attenersi in modo rigoroso alla realtà. Ora, anche tralasciando di approfondire la complessa questione di carattere filosofico del rapporto tra fantasia e realtà, si può tranquillamente ribadire una banalità filosofica che però ha il pregio di contrastare tale luogo comune: la lingua non è la realtà, ma una strumento per richiamarla. Le parole dunque, anche quelle dei testi specialistici, né sono né raffigurano oggetti, un nebulizzatore per esempio, ma sono uno strumento per richiamarli nella mente di chi legge. Non è dunque vero che il lettore di una lettera commerciale, o di un manuale d’uso di un macchinario, non abbia nulla da immaginare. Il traduttore sa bene che non può tradurre un manuale che illustra per esempio, del sistema di frenata ABS senza potersi immaginare il suo funzionamento. Esattamente come il lettore di un testo letterario che deve fare ricorso alla sue esperienze di lettura e di vita per tradurre in immagini le parole del testo (ripensare per esempio al bosco se legge una fiaba 31 romantica), così anche il tradurre di un testo specialistico non può che fare riferimento a ciò che ha visto ed esperito al fine di prefigurare ciò a cui le parole rimandano. La realtà a cui si richiama il testo, sia essa di natura fantastica o connessa all’esperienza sensibile, ha sempre bisogno di una mente che la pensi, dell’immaginazione del lettore, affinché possa acquisire consistenza. Il luogo comune che nel testo specialistico si incontri per così dire con immediatezza la realtà è generalmente accompagnato da quello secondo il quale i testi letterari sarebbero caratterizzati dalla complessità, mentre gli altri – descrittivi, informativi, esplicativi o appellativi che siano – sarebbero semplici, o almeno la semplicità, la chiarezza e la trasparenza, ne sarebbe un indice di qualità. Di contro un testo letterario non ricercato che si limiti all’essenziale viene definito con categorie connotate negativamente come “piatto naturalismo” o “asfittico minimalismo”. In realtà tale luogo comune dimentica come una rappresentazione linguistica chiara e trasparente sia il risultato della scelta di modalità rappresentativo o esplicative che schematizzano ad arte la realtà a cui si riferiscono al fine di renderla accessibile alla comprensione altrui. La semplicità è il frutto di una strategia comunicativa, il risultato di una prestazione linguistica che si produce da scelte che escludono e selezionano. La chiarezza o la complessità sono qualità del testo che presuppongo comunque una rielaborazione linguistica dell’esperienza, una traduzione della percezione in forme linguistiche. Il pregiudizio che determina tale luogo comune fa ritenere che la realtà degli oggetti, del mondo esperibile direttamente, sia semplice e occorra osservarla per capirla. La fantasia, il mondo dei pensieri e dell’immaginazione, al contrario sarebbero faccende complesse che devono essere interpretate giacché non sono chiare come sarebbe, ad esempio, un nebulizzatore. Al contrario, si può ben dire, anche la semplicità con cui si rappresenta appunto un nebulizzatore è il prodotto dell’abilità linguistica e interpretativa di chi lo rappresenta. La chiarezza non è un carattere immanente agli oggetti rappresentati, ma è l’effetto che si produce da determinate scelte linguistiche. Tutti i testi circolano inseparabilmente Lo svelamento del carattere pregiudiziale delle distinzioni comunemente accettate tra testi di finzione e testi pragmatici e il rifiuto dunque di accettare come ovvia la loro separazione 1 induce a ritenere che il testo letterario non viva semplicemente accanto ad altri come se fosse collocato in un orizzonte ad essi estraneo, ma venga influenzato, o “contaminato” da tutti i testi che fanno parte dell’orizzonte in cui è scritto e recepito. In effetti è facilmente verificabile il fatto di come nelle opere letterarie confluiscano tutti i testi della realtà linguistica. Non esiste, infatti, la lingua della letteratura. Al massimo può esiste la lingua letteraria, ma è solo una delle tante lingue che compaiono in letteratura. Se per esempio in Pavese la lingua dei Dialoghi con Leucò, è facilmente identificabile come lingua letteraria – nessun essere umano nelle situazioni comunicative della sua vita potrebbe esprimersi in tal modo, se non come evidente citazione dell’opera letteraria – la lingua di altre sue opere – in Paesi tuoi, per esempio – è facilmente identificabile come calco del dialetto piemontese veramente parlato nelle Langhe. Si pensi, ancora per esempio, alla prima pagina de L’uomo senza qualità di Musil: le strutture lessicali sono quelle di un testo prettamente informativo, quello delle previsioni atmosferiche. Del resto nel romanzo compaiono le lingue più diverse: quella della filosofia, del diritto, della pubblicistica e così via. Le differenze non sono dunque riscontrabili né su un piano terminologico né morfosintattico e semantico, ma si ritrovano su altri piani, su piani non identificabili nella materialità filologica del testo, per esempio negli aspetti funzionali, ossia nell’intento di chi usa e fruisce la lingua. Ora, se è vero che tutti i testi circolano inseparabilmente e, dunque, che i testi letterari sono contaminati dai testi non letterari, occorre chiedersi in che modo i primi si espandono sui secondi, in definitiva cosa ci sia di letterario in un testo specialistico. La risposta appare ovvia: poiché la materialità filologica dei testi, anche di quelli specialistici, è semplicemente uno strumento per 1 La riflessione postmoderna, per esempio quella espressa nelle posizione del cosiddetto New Historicism, può essere considerata l’artefice di tale svelamento poiché in essa si presuppone che tutti i testi, letterari e non-letterari, circolino inseparabilmente. A tal proposito si menziona Veeser (cur.) (1994). 32 ottenere determinati effetti (la prefigurazione del funzionamento di un’apparecchiatura, per esempio), ciò che li accomuna, li colloca sullo stesso piano, è la necessità di individuare strutture comunicative, strategie retoriche e piani significativi impliciti. In tal senso occorre considerare il testo tecnico-scientifico anche nella sue dimensioni ‘letterarie’ o – nei termini della riflessione postmoderna – assumere consapevolezza della contaminazione che subisce circolando contestualmente ai testi letterari. Per riconoscere tale omogeneità si deve allora ricorrere agli strumenti dell’interpretazione dei testi letterari nella didattica del testo specialistico. Vediamo come questo possa accadere. GLI ASPETTI REALI DEL TESTO LETTERARIO E GLI ASPETTI DI FINZIONE NEL TESTO SPECIALISTICO Autenticità del testo letterario e inautenticità del testo specialistico In genere si tende a considerare un testo specialistico come un testo autentico e un testo letterario un testo di finzione. Nella didattica della traduzione può essere vero esattamente il contrario: il vero testo autentico è quello letterario, mentre il testo specialistico serve per simulare la realtà e, dunque, ha molti dei caratteri della finzione. Innanzitutto a un testo specialistico nella prassi didattica manca proprio quella prerogativa per cui vi si fa ricorso, ossia quella dell’autenticità. Un testo è, infatti, autentico in relazione al contesto d’uso. Una lettera commerciale è autentica se è scritta o letta per vendere o comprare merce; un articolo di medicina è autentico se viene letto da un medico che deve curare pazienti; è autentico un articolo di giornale se è letto da un lettore che voglia informarsi. Ogni lettore può fare uso proprio, ossia conforme all’origine, ma ha anche la possibilità di ignorare il motivo per cui era stato redatto e utilizzarlo come meglio crede. Musil, per esempio, con l’incipit del sul romanzo testimonia di essere un lettore di previsioni atmosferiche che trasforma una destinazione d’uso informativa con una letteraria. Gli studi culturologici insegnano che tutto ciò che avviene in una orizzonte culturale, dalle lotte di galli ai reality shows, ha sì una sua funzione specifica, ma può anche essere considerato un documento utile per scoprire strutture simboliche di una cultura. Esistono, dunque, diverse forme di autenticità e ognuna è connessa ad un particolare uso, o interpretazione, del testo. Un testo specialistico nella prassi didattica non svolge la funzione originaria ma quella di strumento per una simulazione: si presume che nella vita si verifichino condizioni d’uso simili. Si presuppone, non si è certi, che nella prassi professionale, o nella vita, si presenteranno testi analoghi. La simulazione didattica dunque è fondata su un gesto interpretativo che deve prefigurare il futuro. In tal senso il testo specialistico, al contrario di ciò che comunemente si crede, è utilizzato nella didattica della traduzione non perché rappresenta un “magazzino” di strutture terminologiche pronte da utilizzare nella prassi traduttiva. Nessuno, infatti, può prevedere come saranno i testi della futura vita reale. Il loro utilizzo è dettato dal fatto che è espressione di una possibilità sì verificatasi nel passato, ma che deve essere verificata ogni volta nella sua pertinenza. L’attività che bisogna allora esercitare, assieme a quella della memorizzazione e della scrittura riproduttiva di una determinata terminologia, è dunque connessa alla domanda: è ancora attuale la lingua che ho imparato? In che modo può essere attualizzata? Che differenza c’è tra il contesto d’uso della simulazione e quello autentico in cui occorre tradurre? Poiché è proprio il testo letterario che richiede ci si pongano tali domande si può tranquillamente sostenere che la letteratura offra i veri testi autentici nella formazione del traduttore. Il carattere dell’autenticità è inoltre sottolineato da una caratteristica del testo letterario, quella della sincerità, estranea ad altri tipi di testo: non pretende, infatti, di essere sempre “autentico”, “vero” e attuale. A nessuno verrebbe in mente che si possa parlare come scrive Goethe, o come parlano gli argonauti nei Dialoghi con Leucò o Talino nei Paesi tuoi e, dunque, di imitare la lingua della letteratura. Il palese smascheramento della sua inautenticità fornisce al lettore la consapevolezza che per parlare di letteratura occorra usare un’altra lingua, quella per esempio, che permette di rispondere alla domanda: “cosa dice a me Goethe?”, “come posso capirlo?”, “quali sono nelle sue 33 opere le tematiche ancora attuali?”, “cosa c’è di nascosto, di non detto che occorre comprendere e trasformare in discorso?”. Il testo letterario permette, insomma, l’esercizio dell’abilità più utile al tradurre: creare un testo da un altro testo che sia sì da questo dipendente, ma che non riproduca la stessa lingua. Le domande “cosa vuole dire questa cosa?”, “cosa ha in mente il mio interlocutore?”, “come posso dire le stesse cose con le mie parole” sono le domande autentiche che ci si pone ogni qualvolta ci si debba confrontare con interlocutori, ogni qualvolta li si voglia comprendere e si voglia farsi comprendere da loro. Le stesse domande deve porsele il traduttore. Non è sufficiente chiedersi: “cosa si dice in questo testo?”. La traduzione alla lettera, parola per parola (come appunto potrebbe fare una macchina) non è una traduzione. Occorre invece porsi domande di altra natura, domande che potrebbero essere così formulate: “cosa pensa chi ha scritto il testo?”, “cosa voleva dire?”, “come posso dire le stesse cose a modo mio, cioè nella mia lingua?” Queste domande presuppongono i processi mentali autentici che deve esercitare e apprendere il traduttore. E queste sono le domande che si pone un lettore di un testo letterario perché questo si presenta come un testo che ha bisogno di un lettore per essere compreso: non illude che il senso sia evidente, sia ancorato alle parole, ma invita a cercarlo. È, dunque un testo, che ha bisogno della voce, della parola, della lingua del lettore, esattamente come un testo da tradurre ha bisogno della voce, della lingua del traduttore. Il testo specialistico nasconde la sua immobilità, mentre la realtà a cui si riferisce cambia L’esigenza di non limitare nella didattica della traduzione allo sviluppo di abilità prettamente terminologiche ma di indirizzarla verso competenze interpretative è resa ulteriormente evidente dal carattere di marcata dinamicità del testo specialistico. Il progresso tecnologico, infatti, modifica costantemente la realtà a cui la terminologia deve adeguarsi introducendo continuamente neologismi o modificando i termini linguistici già in uso. Anche la concorrenza tra i produttori di tecnologie che intendono mettere il loro “marchio” sui loro prodotti chiamandoli a modo proprio, è un aspetto che concorre in modo decisivo a rendere instabile il lessico tecnico-scientifico nonostante tutti i tentativi dirigistici di normalizzazione. L’uso del testo specialistico nella didattica della traduzione non può allora essere sorretto dall’intento di presentare materiali linguistici definitivi, compiuti, completi. In effetti il lessico di un testo specialistico deve alimentare l’illusione di rappresentare in modo certo e inequivocabile la realtà a cui si riferisce. Il traduttore tuttavia non può credere a questa sua bugia, non può dunque limitarsi ad apprendere la terminologia specialistica come se questa non potesse più mutare. Ciò allora che dovrebbe far parte della sua formazione è l’abilità di riconoscere ciò che non si è mai presentato, e di affrontare le difficoltà di una traduzione anche quando questa propone aspetti linguistici che non si sono incontrati in precedenza. Non si tratta dunque, ancora una volta, di “immagazzinare” strutture terminologiche da “spendere” nella prassi traduttiva, ma di sapere affrontare la loro dinamicità, prendere atto della loro fugacità, della loro labilità. Ciò che dunque è opportuno sviluppare nella didattica della traduzione è l’abilità di fare ipotesi sulla conformazione, sul senso e la funzione di espressioni possibili, la capacità di sapere affrontare non solo ciò che è ma anche potrebbe essere. In termini vagamente filosofici si potrebbe affermare che il traduttore non può affidarsi solo all’empiria, ossia a ciò che ha esperito, ma deve fare ricorso anche alla razionalità, ossia a ciò che si può prefigurare, al fine di affrontare il continuo processo di attualizzazione richiesto dalle terminologie specialistiche. Il testo letterario anche in tal senso fornisce la possibilità di fare esercizio in questo ambito creativo richiesto dalla connaturata dinamicità del testo tecnico-scientifico. Il testo letterario, infatti, non rivelando apertamente il suo senso, esige l’esercizio dell’abilità di fare costantemente ipotesi, di considerare ciò che si comprende come una possibilità che deve essere costantemente verificata e rivista, riformulata. Fornisce, in definitiva, la consapevolezza della necessità di trovare sempre nuove parole, nuove formulazioni, ossia la consapevolezza della incompiutezza e dinamicità del gesto linguistico, un gesto che per essere vero e autentico non deve riprodurre l’esistente ma 34 attualizzare ciò che si conoscere, rinnovare le conoscenze di cui già si è in possesso. Grazie alla coscienza della dinamicità del lessico le competenze terminologiche non dovrebbero riguardare solo ciò che il linguaggio terminologico è, ma anche a come potrebbe diventare. Ancora in termini vagamente filosofici si potrebbe affermare che la formazione del traduttore non deve limitarsi a chiarire l’essere del linguaggio specialistico, ma a prendere coscienza del suo divenire. L’apprendimento di abilità traduttive non può allora affidarsi solo a capacità mnemoniche, alla registrazione di ciò che è stato, ma presuppone capacità creative: la capacità di fare ipotesi, di attualizzare il passato, di prefigurare ciò che ancora non è. La riflessione e l’azione Dalle considerazioni finora proposte si può dunque a ragione sostenere che una delle caratteristiche principali del testo specialistico, o anche puramente informativo, è quella di mentire. Ci suggerisce, infatti, qualcosa di palesemente falso: “Questa non è lingua ma realtà”. Se fosse sincero dovrebbe dirci: “Questa è la lingua e la lingua è solo uno strumento, anche se di certo il migliore che abbiamo per rappresentare o spiegare la realtà”. Ovviamente, la bugia su cui si fonda non solo è a fin di bene ma è indispensabile affinché realizzi la sua funzione. Il testo specialistico, infatti, non può smascherare i suoi limiti perché è impegnato non a riflettere su se stesso ma a fare qualcosa, a dare informazioni, per esempio, o a mettersi d’accordo quando ci si incontra, o, ancora, a spiegare come si installa un’antenna parabolica. Ha, infatti, l’esigenza non di svelare ma di alimentare l’illusione di vedere come funziona l’ABS, o un montacarichi. Allo stesso modo un testo di anatomia medica deve dare l’illusione di essere realtà affinché il chirurgo la possa riconoscere quando opera. Non può perdere tempo mettendo il dubbio nel lettore-medico che la milza possa essere rappresentata anche con altre parole, diverse, più precise. La lingua dei testi specialistici deve, insomma, essere “chiara” e dunque nascondere la complessità della realtà che rappresenta. Un traduttore tuttavia non può mentire a se stesso dicendosi che ciò che deve tradurre non è lingua, ma una cosa della realtà. Non può non porsi la domanda in merito a come la cosa sia stata detta e a come la si possa dire nel modo più efficace, ovvero sul come si possano produrre gli stessi effetti, alimentare la stessa illusione di realtà con un’altra lingua. La pratica della lettura e dell’interpretazione del testo letterario offre l’opportunità di un ulteriore esercizio indispensabile al traduttore: quello di vivere in due realtà differenti, ossia nella realtà rappresentata, quindi di pensare ed agire in essa, ma anche nella propria. Il testo letterario permette insomma tanto l’esercizio dell’immersione in una prassi, quanto quello della presa di distanza da essa e dell’osservazione. 2 Per un traduttore è infatti indispensabile pensarsi nell’azione di rappresentare e spiegare, quanto il prendere le distanze dal testo, di svelarne gli aspetti che un suo uso esclusivamente funzionale, totalmente immerso nella prassi, non permette di riconoscere. Per imparare a tradurre occorre, infatti, svelare le illusioni che il testo tecnico-scientifico alimenta affinché queste vengano ricostruite negli stessi effetti in un altro contesto linguistico. Proprio questo continuo movimento tra l’immersione del mondo della finzione e la presa di distanza da esso – uno dei caratteri fondamentali dell’esperienza della lettura – è ciò di cui il traduttore ha maggiore esigenza, giacché gli permette di pensare a un testo sia come documento ‘autentico’ (di immergersi in esso e nella prassi che fonda), sia come strumento di osservazione e riflessione sulla prassi reale (di prenderne le distanze). Conclusioni Le considerazioni sulla contaminazioni tra testi letterari e testi specialistici e sulla necessità della pratica col testo letterario al fine della formazione del traduttore, non possono evidentemente 2 Secondo Iser, per esempio, la letteratura offre un modello di interpretazione della realtà attraverso il quale si attivano quei processi non riconoscibili nella prassi della vita reale perché in essa non si può agire e nello stesso tempo prendere le distanze dalla propria azione: “Insofern bietet sich Literatur und die ihr geltende Theorie als ein Modell der Weltherstellung, durch das jene Vorgänge ausgespielt werden, die wir im Vollzug lebensweltlicher Praxis nicht zu erkennen vermögen, weil wir gleichzeitig tätig und in Distanz zu dieser Tätigkeit sind” (Iser (1992), p. 19). 35 essere interpretate in modo palesemente insensato come sarebbe l’intendere in esse l’auspicio dell’abolizione del testo specialistico nella formazione del traduttore o addirittura la negazione dell’esistenza di testi che non siano letterari. Testo letterario e testo specialistico non possono essere considerati in alternativa, ma l’uno vive, può vivere, in perfetta armonia accanto all’altro. La funzione del primo rispetto al secondo è infatti quella di svelarne aspetti che ne agevolino la comprensione. In tal senso si potrebbe richiamare una efficace formulazione di Günter Figal, e affermare che se di certo non tutto è letteratura, tutto si comprende però meglio grazie alla letteratura 3 . Ciò che rende preziosa la pratica col testo letterario nella fruizione e nella traduzione di testi specialistici può essere innanzitutto identificato nella consapevolezza smascherante che esso sviluppa nel lettore. La pratica col testo letterario porta a svelare la dimensione autoriale e soggettiva dei testi, dunque ciò che un testo specialistico di norma tende a nascondere: la posizione contingente, l’intenzione latente, la connotazione soggettiva di ogni testo. Raramente si persegue un unico intento di natura pragmatica anche quando il proprio gesto linguistico è finalizzato ad un’azione ben precisa. Non si intende, per esempio, solo presentare i vantaggi di un frigorifero, ma anche dare un’immagine di sé. In tal senso l’esperienza col testo letterario può sviluppare la consapevolezza di come in ogni tipo di testo si mettano necessariamente in atto strategie comunicative di volta in volta finalizzate ad ottenere effetti sul fruitore, come, ad esempio, convincerlo, o ottenerne la benevolenza, o provocarlo, o sollevare in lui determinate attese e così via. Rende insomma sensibili verso le dimensioni implicite dei testi e stimola a produrre una loro formulazione esplicita e a verificare la pertinenza di quest’ultima. In conclusione si può affermare che l’obiettivo didattico della proposta dell’utilizzo del testo letterario nella didattica della traduzione non mira a soppiantare il testo specialistico ma a considerarlo per quello che è, ossia lo strumento di una simulazione che presuppone e richiede processi interpretativi. In tal senso il testo specialistico nella didattica della traduzione dovrebbe svolgere una funzione molto simile a quella del testo letterario, ossia quella di sviluppare l’abilità di recepirne aspetti impliciti ‘contingenti’ e, dunque, un’abilità non semplicemente riproduttiva, ma anche produttiva. Il testo specialistico non può essere semplicemente considerato come ‘serbatoio’ di strutture lessicali, ma valorizzato come ‘appello’ all’allievo affinché non si aspetti una lingua da imitare ma ne ricerchi l’originalità e l’autenticità, questo sia nella sua fruizione, sia nella sua produzione. L’apprendimento di linguaggi specifici non avviene così solamente per contatto, assimilazione e ripetizione, ma anche attraverso interventi interpretativi, processi di comprensione e di verbalizzazione di aspetti non rivelati espressamente dal testo. L’applicazione dell’esperienza estetica alla comprensione di testi specialistici permette inoltre l’esercizio di prendere le distanze dal testo – di osservare ciò che accade mentre lo si produce o lo si recepisce – e, nello stesso tempo, anche l’esercizio opposto, ossia quello di orientarsi verso una prassi ben determinata. La consapevolezza fruitiva sviluppata dalla lettura di testi letterari permette, in definitiva, di svelare la complessità della comunicazione linguistica perché smaschera come illusoria, come funzionale, la semplicità, l’immediatezza, la trasparenza. Nel testo specialistico e nel testo letterario agiscono dunque medesimi aspetti finzionali, la loro differenza consiste essenzialmente nel fatto che il testo letterario questi si svelano con chiarezza mentre nel testo specialistico tendono a nascondersi. Per un traduttore è indispensabile saperli riconoscere perché è indispensabile tradurre l’effetto della finzione sul lettore. 3 Figal parla di “Kunst”, di arte ma la sua riflessione vale evidentemente anche per ogni modalità d’espressione artistica (Figal (1996), p. 81). 36 BIBLIOGRAFIA Figal (1996) Figal, Günter, Der Sinn des Verstehens, Stuttgart, Reclam, 1996 Iser (1992) Iser, Wolfgang, Theorie der Literatur. Eine Textperspektive, Konstanz, Universitätsverlag, 1992 Veeser (cur.) (1994) Veeser, Aaram (cur.), The New Historicism - Reader, Routledge, New-London, 1994 37 FRANCO NASI Da un italiano ad altri: riscritture e traduzioni endolinguistiche del “Decameron” Il valore ‘intrinseco’ di un’opera letteraria non ne garantisce da solo il successo duraturo, che è determinato almeno in egual misura dalle riscritture: cessare di riscrivere un autore, significa condannarlo definitivamente all’oblio.1 Le analisi comparate di traduzioni letterarie sono in genere molto particolareggiate, spesso pedanti, quasi sempre noiose. Servono a poco se non sono sostenute da una solida riflessione teorica o se non contribuiscono alla definizione di una teoria. Dovendo economizzare al meglio il tempo che ho a disposizione vorrei che immaginaste questa conversazione come una sorta di appendice alla lezione di apertura del professor Emilio Mattioli, al quale devo gran parte del poco che so su queste questioni. Assumerò dunque l’approccio fenomenologico di Mattioli 2 come sfondo teorico e mi soffermerò su una serie di casi (prima interlinguistici poi endolinguistici) che potranno forse esemplificare quell’approccio, nella speranza di dimostrare che tradurre un testo (letterario, ma non solo) è una cosa complessa; che giudicare una traduzione richiede come minimo una grande cautela; che lo studio delle traduzioni letterarie ci dice molto sulla storia della letteratura e delle idee; e infine che più si analizzano con mente aperta e disponibile diverse versioni d’autore di un’opera letteraria più ci si accorge di quanto poco conosciamo sia la lingua da cui si traduce sia quella in cui si traduce. 1. Traduzione e poetiche: un esempio sincronico Ch’a m’so ardota a crédar / d’nö ësi gnânca tota, / ch’a m’so vesta piò d’na vôlta / a cve e a lè int e’ stes zir ad temp, / una matêda a dirì vuiétar, / e u m’è dvent stret ste ‘sti, / ös-cia, s’u m’è dgvent stret, / e cun piò ch’e’ pasa e’ temp / sta matasa la s’ingavâgna, / e alóra e’ ven che dè / che on u s’stofa (…) Sono i versi di apertura di ? ? ? ? , un lungo monologo drammatico di Bêlda, una leggendaria stregaguaritrice romagnola. Il testo, scritto dal poeta Nevio Spadoni, è stato messo in scena da Ermanna Montanari e dal teatro delle Albe di Ravenna nel 1995 e da allora ha girato per il mondo, con consenso unanime della critica. Nel 2003 Nevio Spadoni ha raccolto in un volume la sua produzione poetica per il teatro. Con l’esclusione di Galla Placidia, tutti i testi di Spadoni sono in dialetto romagnolo con traduzione a fronte dell’autore. L’attacco del monologo di Bêlda nella versione in italiano suona così: E mi sono ridotta a credere / di aver perso persino il senno, / e mi sono vista più di una volta / qui e lì nello stesso torno di tempo, / un momento di pazzia direte voi, / e mi è divenuto stretto questo vestito, / accidenti, se mi è divenuto stretto, / e più passa il tempo / questa matassa si aggroviglia, / e allora viene quel giorno / che uno si stanca.3 Si ha l’impressione, leggendo questa traduzione, che quella potenza espressiva, materica e immaginifica del dialetto romagnolo, che comincia a delineare sin da subito il carattere della protagonista, si sia come annacquata. Sembra che la lingua italiana ingentilisca e attenui la forza della lingua romagnola, come se le parole si volessero mettere in posa davanti all’obiettivo di un fotografo. Una posa innaturale, forzata: “aver perso persino il senno” è un bel novenario, con 1 Lefevere (1998), p. 118. In particolare Mattioli (1983), (1993) e (2001). 3 Spadoni (2003), p. 19. 2 38 allitterazioni e andamento metrico aggraziato, ma è tutt’altra cosa rispetto al duro e sospeso: “d’nö ësi gnânca tota”. Nell’espressione dialettale siamo chiamati in causa; siamo chiamati a completare l’immagine; ma nello stesso tempo sentiamo una voce davanti a noi che si fa corpo, che comincia ad assumere una fisionomia precisa. In italiano, in quell’italiano della traduzione, invece sembra che tutto venga svelato e che la persona che pronuncia quelle parole sia un’attrice affettata, una prestatrice di voce, e non la voce originaria di una donna fuori di sé. “Senno” poi è parola troppo carica di richiami letterari per non portarci su altri palcoscenici, magari sulla luna, con Astolfo. In una nota introduttiva al libro di Spadoni, Gianni Celati, con il suo orecchio sensibilissimo, coglie subito che il monologo in dialetto di Spadoni – in modo simile a quanto avviene nella poesia di Raffaello Baldini, altro poeta dialettale romagnolo fra i massimi della poesia italiana contemporanea – “diventa racconto”, deviando “dal lirismo”. “Il dialetto romagnolo di Spadoni – scrive Celati – si rivela una risorsa incomparabilmente più adeguata e duttile, rispetto all’italiano letterario, scolarizzato in tutto il suo sistema espressivo. Ci sono cose che con l’italiano scritto non è più possibile fare. Una di queste è la ricerca d’una lingua plurale, abitata non da una sola voce (l’autore!), ma da tante voci sparse come echi del mondo”. 4 Poco dopo Celati, senza peraltro dire nulla della traduzione offerta nel volume da Spadoni, si sofferma su quello che lui definisce “attacco-capolavoro” di ? ? ? ? e ne dà una sua versione. Che mi sono ridotta a credere / di non esserci neanche tutta / che mi son vista più d’una volta / e qua e là nella stessa fetta di tempo / una mattolica direte voialtri / e m’è diventato stretto sto vestito / ostia, se m’è diventato stretto / e con più che passa il tempo / sta massa s’intriga tutta / e allora vien quel giorno / che uno si stufa …5 La traduzione di Celati è, da un certo punto di vista, molto più alla lettera di quanto non sia quella di Spadoni sia nelle forme sintattiche sia nelle scelte lessicali. Eppure, basta avere un po’ di familiarità con la scrittura di Celati per rendersi conto di come questo suo assaggio di traduzione si accordi con la tonalità della sua opera. “Aver perso persino il senno”, “torno di tempo”, “divenuto”, “aggroviglia”, “stanca”, sono parole di un altro colore rispetto a “Non esserci neanche tutta”, “fetta di tempo”, “diventato”, “s’intriga”, “stufa”. Tutto arriva in modo diverso, persino “mattolica” che non è nel dizionario e probabilmente è un’italianizzazione del ferrarese matôlica (per mattezza), come attesta il Vocabolario Ferrarese Italiano di Luigi Ferri, 6 ma che è chiaro nel contesto. Per rigore filologico segnalo che ? ? ? ? uscì in prima edizione nel 1995. Anche quella volta il testo era accompagnato da una traduzione italiana dell’autore: Mi sono ridotta a credere / di non esserci neppure tutta, / mi sono vista più di una volta / qui e lì allo stesso tempo, / una pazzia direte voi, / e mi è divenuto stretto questo vestito, / accidenti, se mi è divenuto stretto, / e più passa il tempo / questa matassa si aggroviglia, / e allora viene quel giorno / che uno si stanca.7 In questa prima versione di Spadoni ci troviamo di fronte a scelte intermedie tra la versione più scolastica e aggraziata del 2003 e quella pulsante e poetica di Celati. Da quest’esempio si possono ricavare alcune semplici considerazioni: 1. I traduttori sono spesso insoddisfatti delle proprie traduzioni e ritornano su di esse modificandole vistosamente (un caso canonico sono le versioni di Raboni delle poesie di Baudelaire).8 2. Non sempre le nuove versioni sono migliori delle precedenti. 3. L’autore non è necessariamente il miglior traduttore di se stesso, così come non ne è il miglior interprete. Il testo, una volta pubblicato, va per conto suo e vive nelle diverse interpretazioni o riscritture. 4. Esistono modi diversi di tradurre anche perché esistono poetiche diverse. 4 Celati (2003), p. 9. Ivi, p. 11. 6 Ferri (1889), p. 245. 7 Spadoni (1995), p. 13. 5 8 Si veda Roboni (2004). 39 2. Traduzione e poetiche: un esempio diacronico Se ci sono differenze così evidenti fra tre traduzioni fatte quasi nello stesso “torno di tempo”, ancora più marcate e prevedibili saranno le varianti fra traduzioni svolte in momenti fra loro distanti. Vediamo ora una breve lirica di Saffo in quattro traduzioni in italiano:9 A. È tramontata la luna E le Pleiadi, è mezzanotte, il tempo passa ed io, io dormo sola. B. Sparìr le Pleiadi Sparìo la luna, È a mezzo corso La notte bruna. Già fugge rapida Ogni ora, e intanto, Sola in le piume, Io giaccio in pianto. C. È sparita la luna, le Pleiadi. Notte alta. L’ora del tempo varca. Io dormo sola. D. Cinzia tramonta; la fatal carola Le Pleiadi rimena a Teti in braccio; È mezzanotte; l’ora passa; sola Intanto io giaccio. Si potrebbe rendere meno noiosa l’esposizione chiedendo di ordinare cronologicamente le quattro versioni e di individuarne la data approssimativa di stesura. Il gioco (e la traduzione ha molto a che fare con il gioco e con le sfide) dovrebbe essere molto semplice anche per chi non sia uno studioso della storia delle istituzioni letterarie e dei modelli retorici della letteratura italiana. In B. la forma chiusa della quartina di quinari, con il primo sdrucciolo e gli altri piani, e la rima abcb, il tipo di lessico scelto fanno pensare a un traduttore sette-ottocentesco. In D. il sistema di rime, gli endecasillabi e la forma metricamente regolare della quartina, insieme alle personificazioni e alle perifrasi suggeriscono un traduttore classicheggiante, forse ottocentesco. A. e C. assumono molte delle convenzioni poetiche del Novecento: il verso è libero, non c’è una forma chiusa, il lessico non si discosta da quello parlato. Confrontandole è altrettanto evidente che in C. il linguaggio è più ellittico, con una frammentazione e una spazializzazione del testo che rimanda alla poetica dell’ermetismo ungarettiano. Più distesa, almeno così sembra a noi lettori di oggi, la versione D. Ecco la soluzione del piccolo gioco, integrata con il nome del traduttore: B. Foscolo (1794); D. Nievo (1856); C. Pontani (1969); A. Paduano (1991). I quattro testi riguardano indubbiamente la stessa malinconica riflessione notturna di una donna sola, ma i modi in cui questa meditazione diventa poesia sono diversissimi e viene il dubbio che non traducano lo stesso testo. 3. Progetto traduttivo e figure del traduttore 9 L’esempio di Saffo e parti del paragrafo 5 su Petrarca e Boccaccio sono ripresi da Nasi (2004). 40 Si è trascurato volutamente il testo originale di Saffo perché a questo punto non è tanto interessante verificare la “fedeltà” della traduzione (paradigma valutativo quello della fedeltà che uso qui tra virgolette solo per dire che sarebbe bene abolirlo del tutto dalla critica alle traduzioni letterarie, perché ingannevole, ambiguo e pertanto insignificante), ma piuttosto fermarsi sulle traduzioni per verificare se sono “testi”, se hanno mantenuto la coerenza interna e la forza espressiva dei versi da cui traggono origine. Berman suggerisce nella parte introduttiva della sua Pour un critique productive di lasciare all’ultima parte dell’analisi valutativa delle traduzioni il confronto tra testo di partenza e testo di arrivo, e di concentrarsi piuttosto: (A) sulla verifica della qualità del testo considerato come testo autonomo e non come insieme di parole derivate e dipendenti, (B) sullo scopo per cui la traduzione è stata fatta, e (C) sulla figura del traduttore (una cosa ci si potrà aspettare dalla traduzione di un poeta, una cosa diversa da quella di uno studioso ecc.). 10 Che le quattro versioni di Saffo siano dei testi coesi per scelte lessicali, sintattiche, metrico ritmiche mi sembra evidente. Ma per comprendere meglio le ragioni che hanno guidato il traduttore è opportuno interrogarsi su chi sia il traduttore, sui motivi per cui traduce, sulla base di quale idea di traduzione. Si tratta insomma di considerarne il progetto traduttivo. Foscolo, uno dei traduttori di Saffo citati, ha un’idea precisa: la traduzione di una poesia deve essere fatta da un poeta e non da un filologo. Molto chiara e sferzante è la sua critica a Anton Maria Salvini, considerato all’inizio del secolo XIX uno dei più “esatti” traduttori di Omero. Scrive Foscolo: Nei versi salviniani v’era la massima infedeltà, perché la parola essendo tradotta col dizionario, ogni immagine, ogni frase della poesia rimanevasi muta d’ogni armonia, cieca, fredda di splendore e di fuoco e l’Iliade pareva cadavere. Niuno lo legge, è vero; ma torno a dirlo, i maestri e i dotti di mestiere lo lodano, e gl’imberbi de’ collegi e de’ licei a chi ponno credere se non a’ maestri? Aprono il Salvini, e mandano ai corvi l’Iliade divenuta carogna.11 Per il Foscolo solo il poeta è in grado di “animare” una traduzione. Il filologo, che traduce parola per parola, uccide l’opera, la trasforma in cadavere. Naturalmente la figura del traduttore poeta, è soltanto una delle molte possibili figure di traduttore, ed è quasi ovvio che un poeta come Foscolo difenda la “categoria” dei poeti traduttori. Ma ci saranno anche il traduttore filologo che lavorerà con l’occhio rivolto soprattutto alla comunità degli studiosi; il traduttore traduttore che guarderà (o che sarà costretto dagli editori a guardare) al mercato, alle attese del pubblico, e dovrà fare i conti con i tempi di lavoro, di consegna e con le retribuzioni; il traduttore teorico che cercherà di evidenziare nell’atto della traduzione quegli elementi che ritiene essenziali del testo letterario e della traduzione (se la paronomasia è l’elemento centrale della definizione di poesia naturalmente la paronomasia sarà irrinunciabile in qualunque traduzione poetica, lo stesso vale per il ritmo, l’ambiguità, l’evasione dalla norma ecc.), il traduttore critico che suggerirà agli editori certi autori da tradurre funzionali a un’ipotesi interpretativa di certi movimenti letterari, il traduttore linguista che si preoccuperà di evidenziare nelle versioni interlineari le funzioni grammaticali di ogni singolo elemento della frase… Le diverse figure, pur avendo obiettivi e progetti traduttivi differenti, interagiscono continuamente fra loro così come le poetiche, nel loro continuo movimento, s’intrecciano e s’influenzano. Paduano, un altro dei traduttori di Saffo, è un valente grecista. Il suo progetto traduttivo non è quello imitativo o ri-creativo assunto spesso dai poeti. Pur dichiarando “l’intenzione e l’ambizione di trasferire in italiano il piacere della lettura (“perché la lettura e non l’informazione è il fine essenziale di questo libro”) egli si augura di coniugare leggibilità e “rigoroso rispetto del testo, considerato con attenzione filologica”. 12 Ma forse la sua traduzione non sarebbe come è, e neppure la poesia italiana del Novecento sarebbe stata come poi è stata, se 10 Berman (1995). Foscolo (1810), p. 1348. 12 Paduano (1991), p. VI. 11 41 Quasimodo, non avesse pubblicato nel 1940 la sua raccolta del Lirici Greci, con un importante e programmatico “Chiarimento alle traduzioni”. Nella raccolta si legge: Tramontata è la luna E le Pleiadi a mezzo della notte; anche giovinezza già dilegua, e ora nel mio letto resto sola. 4. Traduzione e ideologie: le scelte, le censure Oltre alle scelte di poetica, alla diversa “professione” del traduttore, alla sua intenzione traduttiva, nella trasformazione dell’opera originale interviene, secondo Lefevere, anche l’ideologia del traduttore, “accettata spontaneamente o imposta da qualche forma di patronato”, che “detta la strategia di base del traduttore e quindi le soluzioni a problemi traduttivi connessi non solo alla lingua dell’originale, ma anche all’Universo del Discorso che vi trova espressione (oggetti, nozioni, usanze del mondo dell’autore).”13 L’ideologia condiziona ampiamente le scelte su quali testi tradurre in una determinata situazione storico-politica. Piuttosto sorprendente è scoprire leggendo The Scandals of translation di Venuti (1998) che i libri di Guareschi furono in cima alle classifiche di vendita statunitensi con centinaia di migliaia di copie vendute mentre i grandi capolavori della nostra letteratura moderna e contemporanea raramente erano presi in considerazione per traduzioni. Ma erano gli anni della guerra fredda e i personaggi statici e stereotipati come Peppone e Don Camillo rientravano perfettamente nell’orizzonte di attesa del pubblico americano. 14 L’ideologia modifica una traduzione non solo scegliendo cosa tradurre, ma anche intervenendo volontariamente o meno con censure, perifrasi o eufemismi nell’atto concreto della traduzione. Lefevere dedica alcuni saggi molto interessanti alla storia delle versioni inglesi di Catullo. Anche in questo caso un esempio di traduzioni in italiano potrà chiarire come piccoli spostamenti possano produrre testi diversissimi. Giura la mia donna Non sposerebbe Giove, Giura; ma quel che giura Scrivilo sopra il vento, che vuole me solo, me solo; se la chiedesse Giove. al cupido amante una donna scrivilo sopra il rivo. Dice che mia, sol mia vuol essere donna la donna Mia; no, d’altri; se lei Giove solleciti, no! Dice; ma quello che dice a l’adoratore la donna, scrivi nel vento ch’è vano, uomo, e ne l’acqua che va! Che non sarà di nessuno, dice la mia donna: soltanto mia, dovesse tentarla pure Giove. Dice: ma ciò che donna dice ad un amante, scrivilo nel vento o in acqua che va rapida. Solo con te dice la donna mia Solo con te chiaverei, direi Di no anche a Giove. Dice così ma quel che donna dice A un amante pazzo di lei Nel vento è scritto sull’acqua è scritto. Anche in questo caso è possibile un’analisi comparata delle scelte stilistiche. Si vede bene che molte di queste versioni sono splendide per compattezza ritmica e tonale. È come se ciascuna fosse una “interpretazione” originale (nel senso che si attribuisce a questo termine quando riferito alla 13 14 Lefevere (1998), p. 41. Venuti (1998), pp. 124-157. 42 “messa in suono” di uno spartito musicale). I nomi dei primi tre traduttori nell’ordine sono Guido Mazzoni (latinista e critico di vaglia), Giovanni Pascoli e Salvatore Quasimodo. Di fronte all’ultima traduzione si rimane un poco interdetti. L’autore è Guido Ceronetti, noto studioso di questioni bibliche e forse ancor più noto come moralista. Non si può certo pensare che Ceronetti abbia scelto di rendere il “nubere” di Catullo con un’espressione così metaforicamente forte e rozza a cuor leggero. Avrà trovato delle ragioni filologiche che giustificano questa scelta. Sta di fatto che dopo aver letto la traduzione di Ceronetti, le perifrasi o gli eufemismi adottati delle altre tre traduzioni suonano diversamente. Una traduzione seguente risignifica e carica di significati nuovi l’operazione più reticente dei tre poeti che avevano tradotto in precedenza. Per chi volesse cimentarsi con un’ulteriore versione ecco il testo di Catullo (LXX). Nulli se dicit mulier mea nubere malle quam mihi, non si se Iuppiter ipse petat, dicit: sed mulier cupido quod dicit amanti, in vento et rapida scribere oportet aqua. Nonostante l’indicazione preziosa di Berman di dimenticarsi dell’originale, almeno nella fase iniziale dell’analisi di una traduzione, la comparazione delle traduzioni con il loro testo generatore è importantissima, purché non si limiti a un confronto parola per parola, ma sappia comprendere le ragioni testuali, intertestuali ed extratestuali che orientano le scelte traduttive. Mengaldo sostiene che non si può giudicare una traduzione, neppure fatta da un grande poeta, senza considerare il testo di partenza: In nessun caso (…) l’analisi confitta nella pura immanenza serve veramente a qualcosa; sempre la buona critica è confronto di ciò di cui si parla con altro, testuale o extratestuale (…): e la versione offre, nell’andirivieni del nostro occhio, orecchio, gusto fra il tradotto e il traduttore, il caso più stringente di efficacia critica del confronto, comparabile in un certo senso alla chiamata in giudizio delle differenti redazioni e varianti d’autore.15 La storia delle letteratura d’altronde esiste proprio perché la letteratura vive nel tempo, e nel tempo i testi vanno e vengono (l’intertestualità ha mostrato quanto i fili siano intrecciati) ed è questo continuo movimento, questo “andirivieni” che fa sì che le riscritture non siano semplici tautologie. 5. Traduzione e ideologie: Petrarca e Boccaccio Un altro esempio di come l’ideologia possa intervenire nel processo traduttivo e quindi nella vita di un testo lo troviamo all’inizio della letteratura italiana ed europea con la traduzione latina di Petrarca dell’ultima novella del Decameron, e arriviamo così, finalmente, al testo oggetto della nostra conversazione. Probabilmente nel marzo del 1373 Petrarca scrive all’amico Boccaccio e gli racconta di avere avuta tra le mani, forse per caso, una copia del Decameron. Data la mole del volume, la lingua volgare in cui era scritto, e le preoccupazioni gravissime che lo affliggevano, confessa di non averlo letto integralmente: “Gli ho dato un’occhiata, come fa il viaggiatore frettoloso che si guarda intorno qua e là senza fermarsi” (Seniles, XVII, 3). 16 Elogia, in parte, il lavoro “giovanile” di Boccaccio, in parte lo critica: “e se mi sono imbattuto in qualche eccesso di licenziosità, ti scusavo per l’età che avevi allora, per lo stile, per la lingua, per l’inconsistenza dell’argomento e dei futuri lettori. Ha grande importanza il pubblico per il quale si scrive, e la diversità dello stile è giustificata dalla diversa mentalità di chi legge”. 17 È interessante notare questa attenzione di Petrarca per il tipo di pubblico a cui il libro era rivolto. Fino allora il Decameron aveva ottenuto un rapido successo circolando soprattutto fra il pubblico mercantile o quello più popolare, che lo aveva apprezzato attraverso i cantari o le raffigurazioni ispirate al libro, ma non aveva riscontrato uguale ricezione nel pubblico più colto. Petrarca prosegue soffermandosi inaspettatamente e a lungo sull’ultima novella, 15 Mengaldo (1998a), p. VII. Traduzione italiana in Boccaccio – Petrarca (1991), p. 13. 17 Ibidem. 16 43 quella in cui il marchese di Saluzzo mette disumanamente alla prova la fedeltà della moglie Griselda dapprima togliendole i due figli e fingendo di farli uccidere, poi ripudiandola come moglie e infine chiedendole di assistere la nuova giovanissima sposa nei preparativi del secondo matrimonio. La storia gli sembrò diversa da tutte le altre e lo colpì al punto da volerla imparare a memoria per ripeterla a se stesso e poterla narrare agli amici. Petrarca continua scrivendo che il raccontare la novella fu per lui motivo di tale piacere che decise alla fine di tradurla in latino, a vantaggio di un più vasto uditorio. Nella traduzione si ricordò del precetto di Orazio che raccomandava di non tradurre parola per parola: Ho reso la tua novella con parole mie, anzi in qualche caso ho sostituito le tue, in altri ne ho aggiunte, convinto che non solo l’avresti tollerato, ma addirittura incoraggiato. 18 Petrarca, poeta della scrittura e dello studiolo, appartato e silenzioso, sente dunque il bisogno di mandare a memoria una lunga novella come quella di Griselda per diletto personale e per il piacere di riraccontarla agli amici. Ma la storia non è certo un motto di spirito: il diletto qui non consiste nella battuta ingegnosa e sorprendente. Petrarca coglie la forza formativa di questa storia che turba e commuove, esaspera e indigna. Il volerla riraccontare non è tanto determinato dall’urgenza di “intrattenere” gli amici, ma piuttosto dal bisogno di raccontare una storia carica di saggezza, una storia esemplare, come quella di Giobbe o di Abramo. Le trasformazioni che Petrarca apporta al testo non sono solo scelte di stile, ma tendono a rendere ancor più esplicite le potenzialità educative della vicenda. Nella traduzione la storia è resa più verosimile, alcuni passi vengono omessi, altri invece sono ampliati. All’inizio ad esempio, Boccaccio scrive che i sudditi del marchese di Saluzzo erano preoccupati perché il loro signore non si sposava, e lo pregavano genericamente di farlo “acciò che senza erede né essi senza signore rimanessero”. 19 Questa è l’unica motivazione addotta dai sudditi. Petrarca invece costruisce un dialogo tra il marchese e un portavoce autorevole dei cittadini. Costui, con un’elegante argomentazione, cerca di convincere il marchese a prendere moglie perché quell’atto è giusto e legittimo in sé, e perché la vita passa velocemente per tutti, senza risparmiare nessuno: “Volant enim dies rapidi et, quanquam florida sis etate, continue tamen hunc florem tacita senectus insequitur morsque ipsa omni proxima est etati. Nulli muneris huius immunitas datur, eque omnibus moriendum est: utque id certum, sic illud ambiguum quando eveniat”. 20 Griselda è l’ultima novella del Decameron e la sua funzione edificante si può cogliere meglio se inserita nella struttura architettonica delle cento novelle. Traducendo la novella senza cornice, senza il macrotesto in cui è inserita e in cui assume un particolare significato, Petrarca deve riorganizzare il contesto e trasformare la fabula in un exemplum autonomo, compiuto e verosimile. Luca Carlo Rossi, che ha curato un’edizione molto utile delle due versioni, spiega l’operazione di Petrarca “come parte del suo programma di ‘ritorno’ all’età classica in era cristiana e costituisce una vera e propria lezione per il suo più grande e affezionato discepolo Giovanni Boccaccio: per scrivere un capolavoro occorre respingere le costruzioni architettoniche di aspetto barbaro, scegliere argomenti nobili, comporre in latino, attenersi alla verosimiglianza sul modello degli exempla storici della tradizione classica, e insieme rendere più trasparente la valenza figurale di Griselda mediante un massiccio ricorso a temi e moduli tratti dai modelli biblici.”21 Quando Geoffrey Chaucer, con la voce del chierico di Oxford, racconta nei Canterbury Tales la storia di Griselda lo fa riscrivendo in inglese l’exemplum di Petrarca, con le sue manipolazioni ideologiche. Così, grazie a una traduzione/interpretazione latina, inizia la peregrinazione del Decameron fuori dall’Italia. 22 Un testo, quello del Decameron, che non è mai stato fermo e che è stato riscritto e riraccontato in mille modi, da punti di vista diversi (e basterà ricordare come Christine de Pizan 18 Ivi, p. 14. 19 Ivi, p. 30. Ivi, pp. 31 e 33. 21 Rossi (1991), pp. 17-18. 22 Si veda Branca (1986), pp. 388-393. 20 44 nella sua Cité des Dames riprenda diverse novelle offrendone però una lettura femminile, ideologicamente opposta a quella di Petrarca, 23 con mezzi diversi (e qui viene in mente subito il film di Pasolini), con lingue e forme letterarie diverse (Keats dà ad esempio una splendida versione in versi della storia di Lisabetta da Messina), ma anche con le sempre più numerose traduzioni endolinguistiche. 6. La traduzione endolinguistica Esistono, secondo Jakobson, tre modi di interpretare un segno linguistico: La traduzione endolinguistica o riformulazione consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di altri segni della stessa lingua; la traduzione interlinguistica o traduzione propriamente detta consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di un’altra lingua; la traduzione intersemiotica o trasmutazione consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di sistemi di segni non linguistici. 24 Il Decameron di Pasolini è quindi una traduzione intersemiotica del testo di Boccaccio, la Griselda di Petrarca è una traduzione interlinguistica, e la parafrasi dell’Introduzione (una delle parti linguisticamente più complesse della raccolta) che si trova in lunghe note nelle antologie scolastiche è una traduzione endolinguistica. Per Lefevere le varie forme di traduzione così come l’antologizzazione o il saggio critico possono essere chiamate, con il termine generico di riscritture. Tutte queste forme sono regolate da uno stesso processo che è quello della manipolazione. 25 Non ci sono interventi “neutri”. Ogni traduzione, interpretazione, antologizzazione ecc. manipola il testo. Abbiamo visto come questo avvenga sulla base di scelte di poetica o ideologiche. Ma la riscrittura è fondamentale per la salute di un testo. La polvere che si deposita sui libri non è salutare. La sacralizzazione dei testi, contro la quale ha parole molto critiche Lefevere, 26 può forse imbalsamarli (termine che appartiene allo stesso campo semantico dei cadaveri di cui parlava Foscolo), non certo tenerli in movimento, tenerli in vita. Quando uscì, pochi anni fa, un’edizione delle Canzoni di Leopardi accompagnata da una traduzione in prosa di Santagata per gli Oscar Mondadori, ci fu sulle pagine dei giornali una vivace polemica sull’utilità o il danno delle traduzioni dei classici. C’era chi sosteneva che in questo modo si perdeva il senso di lontananza e della storia, che si banalizzavano questi grandi testi rendendo termini complessi e carichi di rimandi al platonismo come “beltà” con un poco evocativo “bellezza”, che la lingua di Leopardi è comprensibile e non ha bisogno di traduzioni. 27 Basta insegnare per alcuni anni in una scuola superiore in Italia per rendersi conto che oggi uno studente non riesce a leggere con piacere i classici della nostra tradizione. Ma forse questo vale anche per un pubblico adulto e colto, se è vero quanto scrive Melograni nella Premessa alla sua versione in italiano contemporaneo del Principe di Machiavelli: Alcuni anni or sono, Goffredo Parise mi confidò che abbastanza di frequente l’italiano di Machiavelli gli risultava difficile, complicato e oscuro. Mi disse di esser riuscito a capire e a gustare Il Principe di Machiavelli solamente dopo averlo letto in traduzione francese. Soggiunse che gli stranieri conoscevano Machiavelli meglio degli italiani, poiché avevano la fortuna di leggerlo tradotto. Suggerì di tradurre Il Principe in italiano moderno, e sostenne che la cultura politica degli italiani ne avrebbe tratto gran giovamento. 28 Ho avuto la fortuna di insegnare per diversi anni all’estero. Una cosa che mi ha sempre sorpreso era proprio la diversa velocità con cui gli studenti stranieri leggevano alcuni nostri classici. Il Principe è un testo richiesto nei corsi di Scienze politiche, e gli studenti lo leggono, con piacere, in un paio di sere. Così la Divina Commedia, che a me è sempre sembrata un libro lunghissimo, forse 23 Si veda Caraffi (2003), 126. Jakobson (1966), p. 57. 25 Lefevere (1998), p. 10. 26 Ivi, p. 94. 27 Si vedano Mengaldo (1998b), Santagata (1998), Renzi (1998). 28 Melograni (1998), p. 5. 24 45 perché il rito di iniziazione a questo testo, consumato sui banchi di scuola del liceo, è durato tre anni e mentre leggevo quel libro, lentamente, faticosamente (un canto ogni settimana era la razione che ci veniva assegnata) la barba è spuntata davvero e sono successe anche mille altre cose. E mi sono sempre chiesto che effetto debba fare leggere per la prima volta una Divina Commedia tutto d’un fiato, senza dovere ricorrere alle note, se non per sapere qualcosa di più sui personaggi incontrati da Dante. È un’esperienza che un lettore straniero può facilmente fare leggendo la Commedia tradotta nella lingua del suo paese, mentre per la maggioranza degli italiani credo che la fruizione piacevole della Commedia sia quasi sempre frutto di una rilettura. Si dirà che gli stranieri non leggono davvero la Divina Commedia, ma una versione della Divina Commedia, una delle tante possibili riscritture. Su questo non ci sono dubbi, così come non ci sono dubbi sul fatto che pochissimi sono quelli che oggi in Italia leggono la Bibbia o il Vangelo nella lingua in cui furono scritti, eppure questi libri, per molti, non sono solo libri belli, ma sono fonte di verità, anche in traduzione. Una polemica analoga a quella che accompagnò l’uscita delle Canzoni di Leopardi curate da Santagata si era riproposta per i classici italiani apparsi negli ultimi trent’anni in traduzioni endolinguistiche. Nonostante discrete o meno discrete reprimenda, sta di fatto che ora anche alcune antologie scolastiche riportano accanto alla novella di Calandrino di Boccaccio la versione in italiano contemporaneo dello scrittore Piero Chiara, e che nei dipartimenti di italianistica all’estero le riscritture di Busi del Decameron, di Celati dell’Orlando innamorato, di Calvino dell’Orlando furioso, di Melograni del Principe, di Giuliani della Gerusalemme Liberata, ancora di Busi e Covito del Cortegiano e del Novellino sono spesso testi di studio e non di curiosità. E chissà che presto non arrivino da questi dipartimenti stranieri studi rigorosi come quelli che hanno accompagnato la fortuna delle riscritture di Domenichi o del Berni dell’Orlando innamorato di Boiardo, esempio illustre di un testo italiano tradotto in italiano dopo circa cinquant’anni dalla prima pubblicazione. Di nuovo: prima di dare giudizi sbrigativi, sarà opportuno cercare di entrare nel merito di queste riscritture. Più la critica sarà produttiva (per usare l’espressione di Berman), più riusciremo a comprendere le manipolazioni (Lefevere) che ogni riscrittura inevitabilmente produce. 7. Il Decamerone: edizioni per bambini, per stranieri, per studenti… Basta scorrere il catalogo in rete della sistema bibliotecario nazionale (www.sbn.it) per accorgersi della quantità enorme di edizioni del Decameron, spesso con l’intento esplicitato nel titolo di “emendare” (e quindi riscrivere) il testo. Vediamone alcuni: Il Decameron di Messer Giovanni Boccacci Cittadino Fiorentino. Ricorretto in Roma, et emendato secondo l’ordine del Sacro Conc. di Trento, et riscontrato in Firenze con Testi Antichi e alla sua vera lezione ridotto da’ Deputati di loro Alt. Ser. Nuouamente stampato con Privilegij del Sommo Pontefice, Fiorenza, 1573. Decamerone di Giovanni Boccaccio ripurgato con somma cura da ogne cosa notevole al buon costume e corredato con note riguardanti al buon indirizzo di chi desidera scrivere, Venezia 1754. Decameron accomodato ad uso delle scuole, Faenza 1822. Decamerone… nuovamente purgato ad uso delle scuole , Pistoia 1825. Ventisei novelle di Giovanni Boccaccio tratte dal suo Decamerone e ridotte ad uso della gioventù con annotazioni tratte da A. M. Bandiera, Venezia 1857. Novelle commentate ad uso delle scuole , Firenze 1886. Novelle scelte, purgate ed annotate da Celestino Durando, Torino 1891. Accanto a questi ne compare uno di particolare interesse: Ettore Fabietti, Il Decamerone di Giovanni Boccaccio, tradotto in lingua italiana moderna ad uso del popolo. Edizione integrale illustrata dall’artista A. Bastianini, 2 voll., Nerbini, Firenze 1906. Già in precedenza si erano avute traduzioni di novelle del Decamerone, come nel Seicento con il letterato padovano Paolo Beni, che “rassettò” la nona novella della prima giornata. 29 Ma, a quanto mi risulta, quella di Fabietti è la prima versione integrale (e unica, visto che Busi tralascia 29 Si veda Dell’Aquila (2004). 46 intenzionalmente alcune parti). Sempre seguendo l’elenco bibliografico, si troverà che il numero di riscritture-traduzioni in italiano del Decameron è notevolmente aumentato negli ultimi vent’anni. Alcune dichiarano esplicitamente, già in copertina o nel sottotitolo, il loro progetto traduttivo. Si hanno così: 1. Traduzioni graduate per studenti stranieri, dove viene proposto un numero limitato di novelle, in genere quelle che si trovano in ogni antologia scolastica. 2. Riduzioni o riscritture per l’infanzia o la prima adolescenza. Anche in questo caso si tratta di novelle scelte. 3. Riassunti per gli studenti delle scuole superiori. 4. Traduzioni per il lettore generico. Riporto qui di seguito alcune ulteriori indicazioni bibliografiche con riferimento alla tipologia indicata: 1. Edizioni per studenti stranieri - Frate Cipolla, a cura di M.A. Covino Bisaccia e M.R. Francomacaro, Guerra, Perugia 1996 (Livello elementare). - Cinque novelle dal Decamerone, a cura di M. Spagnesi, Bonacci, Roma 1995 (Livello intermedio). 2. Edizioni per ragazzi Decamerone. Dieci novelle raccontate da Piero Chiara, Mondadori, Milano 1984 (Scuola elementare). Il Decamerone, Scelta e riduzione a cura di E. Fiengo, Derva, Torino 1991 (Scuola media). 3. Riassunti Decameron, a cura di R. Fabietti, Mursia, Milano 1992. 4. Traduzioni Giovanni Boccaccio Aldo Busi, Decamerone. Da un italiano a un altro, Rizzoli, Milano 1990. 8. Frate Cipolla e i testi moltiplicati Vediamo ora alcune specificità di queste riscritture unitamente a quella di Ettore Fabietti del 1906, limitando l’analisi comparata alla novella di Frate Cipolla, che è quasi sempre presente nelle scelte antologiche per bambini e per studenti stranieri. La novella è l’ultima della sesta giornata, dedicata alle vicende di coloro che seppero sottrarsi a una situazione pericolosa o imbarazzante grazie ad una risposta arguta ed immediata. Frate Cipolla, un monaco astuto e smaliziato, promette agli ingenui contadini di Certaldo di mostrare loro una penna miracolosa delle ali “dello Agnolo Gabriello”, in cambio, naturalmente, di generose elemosine. Nell’attesa della funzione religiosa due amici del frate, in vena di scherzi, decidono di sostituire la presunta penna dell’angelo con dei carboni. Il frate si accorge della sostituzione solo durante la predica e deve fare ricorso alle sue abilità oratorie per cavarsi d’impaccio di fronte ai fedeli che gremivano la chiesa. Con un lungo discorso riesce a far loro credere che la provvidenza ha fatto sì che lui sbagliasse reliquiario e portasse con sé non la penna dell’angelo Gabriele, ma i carboni del martirio di San Lorenzo, la cui festa si celebrava in quei giorni. Nella novella, che ha struttura teatrale, il lettore è a conoscenza della truffa che si sta consumando sul palcoscenico, si trova cioè in una posizione privilegiata rispetto al popolo di Certaldo: sa quanto poco attendibili siano le reliquie del Frate e sa anche che nei suoi confronti è stato organizzato uno scherzo. Ridendo della credulità del popolo, il lettore può dunque osservare il modo in cui l’astuto frate riesce a riparare alla beffa. La felice riuscita di questa novella è dovuta alla maestria retorica con cui Boccaccio racconta la storia il cui tema principale è appunto l’arte del ben parlare. Il sermone di Frate Cipolla, con le sue invenzioni linguistiche e i suoi ritmi che stordiscono, è in questo senso un capolavoro. Ma l’abilità di Boccaccio si mostra anche nelle descrizioni dei personaggi, nell’architettura interna del testo, nei riferimenti intertestuali. Insomma, una novella divertente e terribilmente difficile da tradurre. Ecco i primi paragrafi nella versione di Boccaccio, introdotti dalla rubrica, a cui segue la cornice e la novella. 47 Frate Cipolla promette a certi contadini di mostrar loro la penna dell’agnolo Gabriello, in luogo della quale trovando carboni, quegli dice esser di quegli che arrostirono san Lorenzo. Essendo ciascuno della brigata della sua novella riuscito, conobbe Dioneo che a lui toccava il dover dire; per la qual cosa, senza troppo solenne comandamento aspettare, imposto silenzio a quegli che il sentito motto di Guido lodavano, incominciò: “Vezzose donne, quantunque io abbia per privilegio di poter di quel che più mi piace parlare, oggi io non intendo di voler da quella materia separarmi della quale voi tutte avete assai acconciamente parlato; ma, seguitando le vostre pedate, intendo di mostrarvi quanto cautamente con subito riparo uno de’ frati di Santo Antonio fuggisse uno scorno che da due giovani apparecchiato gli era. Né vi dovrà esser grave perché io, per ben dir la novella compiuta, alquanto in parlar mi distenda, se al sol guarderete il qual è ancora a mezzo il cielo. Certaldo, come voi forse avete potuto udire, è un castel di Valdelsa posto nel nostro contado, il quale, quantunque piccol sia, già di nobili uomini e d’agiati fu abitato; nel quale, per ciò che buona pastura vi trovava, usò un lungo tempo d’andar ogni anno una volta a ricoglier le limosine fatte loro dagli sciocchi un de’ frati di santo Antonio, il cui nome era frate Cipolla, forse non meno per lo nome che per altra divozione vedutovi volentieri, con ciò sia cosa che quel terreno produca cipolle famose per tutta Toscana. Era questo frate Cipolla di persona piccolo, di pelo rosso e lieto nel viso e il miglior brigante del mondo: e oltre a questo, niuna scienza avendo, sì ottimo parlatore e pronto era, che chi conosciuto non l’avesse, non solamente un gran rettorico l’avrebbe estimato, ma avrebbe detto esser Tulio medesimo o forse Quintiliano: e quasi di tutti quegli della contrada era compare o amico o benevolente. Nell’edizione più antica fra quelle citate, 30 la trasformazione è sorprendente: Frate Cipolla diventa un semplice pellegrino, ogni riferimento alla sua filiazione con Sant’Antonio viene censurato, compresa la predica finale dove Frate Cipolla non solo è un religioso, ma si prende gioco del suo ordine. Ecco come viene riscritta la rubrica: “Cipolla promette a certi contadini di mostrar loro una penna, in luogo della quale trovandosi carboni, con presto avviso sé dalla soprastante beffa delibera”. 31 Così poco dopo, si legge. “Usò un lungo tempo d’andare ogn’anno una volta a ricogliere limosine una piacevole persona, il cui nome era Cipolla”. 32 Insomma, una versione ottusamente “religiously correct”. Ma veniamo alle riscritture più recenti concentrandoci maggiormente sugli aspetti linguistici e stilistici. Ho sottolineato tre termini che apparentemente non hanno bisogno di traduzione. Nella tabella si possono vedere le scelte dei traduttori. Dove non compare nulla significa che chi ha riscritto il testo ha tolto il termine o la frase che lo conteneva. Boccaccio Covino (1996) Spagnesi (1995) Chiara (1984) Fabietti (1992) Fabietti (1906) Busi (1990) Vezzose donne Graziose donne Contado Brigante Campagna Di buona compagnia Campagna Compagnone Il miglior compagnone Mie belle ragazze Contado Buon compagnone Zuccherine mie Hinterland Eccellente furfante Una delle maggiori insidie nella traduzione endolinguistica è il lessico. Di fronte a una struttura sintattica complessa ci rendiamo subito conto di dover prestare attenzione. Di fronte invece a termini come “Donna” o “Brigante” il più delle volte non sospettiamo di avere a che fare con false friends, con parole che nel corso del tempo hanno perso in parte almeno il loro significato originale e sono rimaste nell’uso con un significato diverso. 30 Boccaccio (1573). Ivi, p. 339. 32 Ivi, pp. 339-349. 31 48 Gli esempi studiati dai filologi tratti dalla nostra letteratura del Due-Trecento sono molti. In “Tanto gentile e tanto onesta pare” ci sono tre termini “gentile”, “onesta” e “pare” che sono assolutamente comprensibili a un qualunque parlante medio. Essi sono di solito intesi come “di buone maniere, ben educata”, “incorrotta” e “sembra o appare”. Gianfranco Contini, in un famoso saggio, mostra invece che i tre termini per essere compresi devono essere contestualizzati filologicamente. Scrive Contini che il sonetto di Dante: Passa per il tipo di componimento linguisticamente limpido, che non richiede spiegazioni, che potrebbe “essere stato scritto ieri”; e si può dire invece che non ci sia parola, almeno delle essenziali, che abbia mantenuto nella lingua moderna il valore dell’originale. (…) Gentile è “nobile”, termine insomma tecnico del linguaggio cortese; onesta , naturalmente latinismo, è un suo sinonimo, nel senso però del decoro esterno (…); più importante, essenziale anzi, determinare che pare non vale già “sembra”, e neppure soltanto “appare”, ma “appare evidentemente, è o si manifesta nella sua evidenza”.33 A nessuno credo venga in mente oggi, pronunciando il termine “Donna” l’origine “Domina” (mia Signora e padrona”). Semmai oggi si usa l’espressione “la mia donna” nel senso molto meno nobile di “la donna di cui io sono possessore”. Così il termine brigante ha come primo significato “ladro” e non, come al tempo di Boccaccio, uno appartenente a una “brigata”, una compagnia di amici, magari “allegra”, come quella dei protagonisti del Decameron. Scorrendo le traduzioni ci rendiamo conto che tutti i traduttori hanno colto la variazione storica del significato di “brigante”. Busi, ha giocato con questa ambivalenza accompagnando “furfante”, che sarebbe stato appunto un false friend, a eccellente, caratterizzando così in modo più gioviale la figura del Frate. Per il vocativo con cui Dioneo si indirizza alle compagne dell’allegra brigata la soluzione di Busi stupisce: sembra che abbia voluto enfatizzare l’aspetto teatrale della situazione. Per il termine contado invece vale un discorso differente. La parola è ora molto meno frequente di un tempo. Se Fabietti a inizio secolo poteva ancora usarla senza remore, oggi i due traduttori delle versioni per studenti stranieri devono sostituire contado con il generico campagna. Busi, che evidentemente sente che il termine è desueto, non si accontenta e fa ricorso a un termine straniero, certamente eccentrico in questo contesto. Consideriamo ora un paio di espressioni idiomatiche. La prima si trova alla fine del passo citato e riguarda Frate Cipolla che viene descritto come un abile retore; la seconda Guccio Imbratta, il servo di Frate Cipolla che svolge un ruolo centrale nella dinamica della novella. In entrambi i casi Boccaccio fa ricorso alla figura retorica dell’antonomasia. Mentre nel primo caso il riferimento ai retori antichi è ancor oggi proverbiale, nel secondo il riferimento a Lippo Topo è per un lettore odierno oscuro. Boccaccio Avrebbe detto esser Tulio Aveva frate Cipolla un suo fante, medesimo o forse Quintiliano il quale alcuni chiamavano Guccio Balena e altri Guccio Imbratta, e chi gli diceva Guccio Porco; il quale era tanto cattivo che egli non è vero che mai Lippo Topo ne facesse alcun cotanto. Covino (1996) Potrebbero prenderlo per lo stesso Era così brutto che neppure il Cicerone o Quintiliano pittore Lippo Topo aveva mai fatto un personaggio simile. Avrebbe detto che era Cicerone in che neppure Lippo Topo riusciva persona o forse Quintiliano mai a farne di così grosse … maestro d’eloquenza era grasso, aveva la peggior fama del mondo. Spagnesi (1995) Chiara (1984) 33 Contini (1970), p. 161. 49 Fabietti (1992) Fabietti (1906) un novello Cicerone o un Quintiliano redivivo. Cicerone o Quintiliano in persona che nemmeno Lippo Topo ne aveva fatte ai suoi tempi quante lui Busi (1991) The Voice era talmente idiota che nemmeno Lippo Topo, specializzato in ritratti di gobbi, guerci e sciancati, è mai riuscito a ritrarne uno così Anche nel caso quasi scontato della prima figura non mancano le sorprese. A Tulio si preferisce Cicerone, ma Chiara non può dare per scontato che la figura retorica sia nota ai bambini per cui scrive, e perciò la rende esplicita con “Maestro d’eloquenza” (termine peraltro che non credo dica molto a un bambino delle scuole elementari). Busi invece di nuovo “attualizza” con un termine straniero, questa volta inglese – a rigore The Voice starebbe per Frank Sinatra, quindi il cantante e non il retore per antonomasia, ma evidentemente qui Busi sta continuando nel suo gioco di ammiccamenti e complicità con il lettore. Più complessa invece è la figura usata per descrivere Guccio Imbratta. Nella versione di Fabietti del 1906 Lippo Topo è un delinquente della peggior specie. Così lo interpretano anche Chiara e Spagnesi. Busi invece spiega chi fosse Lippo Topo, inserendo un inciso all’interno del testo. Anche Covino aggiunge il termine “pittore” che non compare in Boccaccio. Sono due modi, più o meno discreti, per evitare di inserire una nota a piè di pagina, che è vista spesso dai traduttori come una dichiarazione di sconfitta. Veniamo ora ad un terzo esempio. Si diceva che la novella sull’arte dell’eloquenza di frate Cipolla è un capolavoro retorico anche per la maestria con cui Boccaccio riesce a giocare con la tradizione alta della letteratura parodiandola. Uno dei momenti più interessanti è la breve scena dell’incontro di Guccio Imbratta e della Nuta. Ecco il testo: Ma Guccio Imbratta, il quale era più vago di stare in cucina che sopra i verdi rami l’usignolo, e massimamente se fante vi sentiva niuna, avendone in quella dell’oste una veduta, grassa e grossa e piccola e mal fatta, con un paio di poppe che parean due ceston da letame e con un viso che parea de’ Baronci, tutta sudata, unta e affumicata, non altrimenti che si gitti l’avoltoio alla carogna, lasciata la camera di frate Cipolla aperta e tutte le sue cose in abbandono, là si calò. La struttura sintattica è un capolavoro architettonico: si inizia con il soggetto, ma poi si apre una lunga sequela di secondarie che tengono in sospeso il lettore, fino alla conclusione che chiude perentoriamente, con il verbo tronco, la lunga e concitata descrizione di Guccio e Nuta. Il passo si struttura su contrasti semantici e su ricorrenze metriche, che danno all’intero andamento un ritmo compatto. Guccio è “vago”, scrive il Boccaccio. Questo termine appartiene certamente al linguaggio della tradizione cortese e si addice a un personaggio gentile che desidera la bellezza di una donna. Ma Guccio è “vago di stare in cucina”, e qui abbiamo il primo contrasto stridente: al termine scelto per dire “desiderio” non corrisponde un desiderio altrettanto nobile. Le situazioni contrastanti continuano con il paragone fra lo “sgugliardo” e “scostumato” Guccio e l’usignolo fra i verdi rami, che si esplicita con due endecasillabi dal tono idillicamente canzonatorio: “era più vago di stare in cucina / che sopra i verdi rami l’usignolo”. La descrizione della Nuta è altrettanto esilarante e in contrasto con le norme cortesi che non volevano che della donna si desse alcuna descrizione fisica: “grassa e grossa e piccola e mal fatta” (si noti qui il polisindeto e la paronomasia nei primi due aggettivi), “con un paio di poppe che parean due cestoni di letame e con un viso che parea de’ Baronci” (i due paragoni, il secondo dei quali non dissimile dall’antonomasia fiorentina di Lippo Topo, enfatizzano ancor più il ribaltamento dei valori di gentilezza e cortesia di Guccio) “tutta sudata, unta e affumicata” (c’è qui un evidente richiamo a caratteristiche fisiche già descritte di Guccio e, linguisticamente un divertimento nell’iperbole e nel climax). Riprendendo il paragone con il mondo ornitologico, Guccio si trasforma in un avvoltoio “che si gitta ... alla carogna”. 50 Dall’usignolo tra i verdi rami e dalla vaghezza si passa nel giro di poche subordinate all’avvoltoio rapace che si lancia sulla carogna. È questo un capolavoro di parodia. Il narratore ha prima utilizzato una figura del repertorio lirico (l’usignolo); ma, applicandola al servo, opera un accostamento stridente che si risolve in un effetto comico, ulteriormente dilatato dallo svelamento dell’oggetto delle brame di Guccio, la cui descrizione sospende il corso dell’azione. Quindi introduce una nuova comparazione, carica di violenta bestialità (carogna avvoltoio), che aumenta la comicità della scena. A questo punto l’intonazione passa dalla lirica all’epica, ed il verbo principale conclude solennemente la rappresentazione (là si calò): ma l’effetto d’insieme non è né epico né lirico, bensì spassosamente grottesco. Una struttura complessa, ricchissima, ma anche segnata da un ritmo che costituisce il senso e non lo accompagna come mero ornamento, quella che Meschonnic chiamerebbe “significanza”. 34 Il compito per i traduttori non è facile. Fiengo (1991) Frate Cipolla aveva un servo, chiamato Guccio, a cui, lasciandolo nell’albergo, aveva raccomandato di stare attento a che nessuno toccasse le cose sue, e specialmente le bisacce, dove erano le cose sacre. Ma i due giovani non lo trovarono nella camera del prete… Covino (1996) Ma Guccio Imbratta, che preferiva stare in cucina soprattutto se lì c’era una donna, lascia aperta la porta della stanza, dove sono le bisacce del frate, e va in cucina dove ha visto Nuta, una donna grassa, grossa, piccola e brutta, con due seni molto grandi. Ma Guccio Imbratta aveva più voglia di stare in una cucina di quanta ne ha l’usignolo di star sopra i rami verdi, specie se vi si trovava qualche serva; capitò che ne vide una nella cucina dell’oste, grassa e tozza e piccola e mal fatta, con due mammelle che sembravano due grosse ceste per il letame e un viso che sembrava dei Baronci, tutta sudata, unta e affumicata; e proprio come l’avvoltoio si getta sulla carogna, se ne andò da lei, lasciando aperta la camera di frate Cipolla e abbandonando tutte le sue reliquie. Spagnesi (1995) Chiara (1984) Ma la Balena o Porcellone, invece di guardarle se n’era andato in cucina a motteggiare con le lavapiatti, lasciando aperta la camera. Fabietti (1992) Guccio, che amava stare in cucina, così come l’usignolo ama starsene fra le fronde e specialmente se c’era una servetta da blandire, visto che nella cucina dell’albergo ce n’era una grassa, piccola e mal combinata con due poppe enormi che parevano cestoni da letame e con una faccia grottesca che sembrava della nota famiglia dei Baronci, tutta unta e affumicata: Guccio Imbratta, così come l’avvoltoio si butta in picchiata sulla carogna, si precipitò nella cucina, dopo aver abbandonato le bisacce del frate. Fabietti (1906) Ma Guccio Imbratta o Guccio Porco, che dir si voglia, piacendogli di stare in cucina, più che l’usignolo sul ramo, specialmente quando c’era una servotta, appena ce ne vide entrare una grassa e grossa, piccola e malfatta, con un paio di poppe che parevano due cestoni da letame e con un viso più brutto di quel de’ Baronci, tutt’unto, sudato e affumicato, fece come l’avvoltoio che si getta sulla carogna; scese, cioè, a precipizio dalla stanza di frate Cipolla, lasciandola aperta con tutte le sue robe a barbara e si calò. Busi (1991) Ma per Guccio Imbratta la cucina era un’attrazione ancora più fatale di un ramo fiorito per l’usignolo, soprattutto se in cucina vedeva una servetta, e in quella dell’albergatore ne aveva vista una grassa, grossa, bassa e culona, con un paio di tette che parevan due sacchi per il letame e una faccia stile Baronci, tutta unta, sudata e affumicata: Guccio mollò la camera di frate Cipolla aperta con tutte le sue robe incustodite e, come l’avvoltoio sulla carogna, si calò là. Ci si può ragionevolmente aspettare che Chiara intervenga pesantemente nella sua trascrizione per bambini. E così avviene. Altrettanto “censoria” è la versione della Fiengo per gli studenti delle 34 Si veda Meschonnic (1982). 51 medie inferiori. È interessante confrontare come viene tradotto il termine “poppe”, che mi pare non abbia cambiato significato nel tempo (curiosa la scelta di Spagnesi), o ancor più l’impegnativo “vago” (le soluzioni spaziano nei vari registri, con quella di Busi che recupera di nuovo un’espressione della cultura popolare, “Attrazione fatale”, titolo di un noto film del 1987). Ma la difficoltà di traduzione di questo passo sta nel ritmo, dato anche, ma non solo, dall’ipotassi. Si può sentire come il ritmo vorticoso del passo, si frantumi nella riscrittura normalizzata di Spagnesi. Fabietti (1992) che dovrebbe riassumere riporta in questo caso integralmente il passo. Fabietti (1906) e Busi mantengono invece la struttura e soprattutto mantengono la chiusura con una parola tronca (calò e là). Di nuovo le scelte di Busi sembrano essere un po’ sopra le righe, con alcune soluzioni però davvero felici per immediatezza e velocità come “stile Baronci” o “mollò la camera”. 9. Sulla stasi ermeneutica e traduttiva Si potrebbe continuare a lungo nel confronto. Credo che da parte di molti ci sia una sorta di insoddisfazione per certe riscritture, considerate più come riduzioni, banalizzazioni (ma non si potrà non riconoscere la “mano” dello scrittore nella versione di Chiara soprattutto se paragonata a tante altre riduzioni per bambini) o stupefacenti “epurazioni” del testo (come nell’edizione del 1573). La traduzione di Fabietti (1906) risulterà in alcuni passi “datata” (lasciare la stanza aperta “con tutte le cose a barbara” è un’espressione oggi certo non usuale). Nel caso di Busi si sarà forse infastiditi da scelte eccessive, ma non si potrà non sentire che la sua non è una “lingua di legno”, priva di ritmo, priva di personalità, come quella che tante volte si incontra purtroppo leggendo le traduzioni. Spagnesi, che pure compie un’operazione utilissima, cade a volte, come nell’ultimo passo analizzato, in questo tipo di lingua. “Lingua di legno” è una traduzione letterale di un’espressione idiomatica francese “langue de bois” che nel linguaggio comune significa lingua artefatta, convenzionale e vuota, come quella di certi politici. L’espressione è usata da Meschonnic proprio per criticare il modo “inanimato”, piatto, vorremmo dire incurante del ritmo e della significanza, che certi traduttori adottano. 35 Si diceva a proposito della “critica produttiva” proposta da Berman che le dichiarazioni di intenti dei traduttori sono momenti importanti per comprendere e quindi valutare meglio il loro progetto traduttivo e la loro traduzione. Ecco allora che la nota introduttiva di Spagnesi chiarisce certe sue scelte. Obiettivo di questo libro è quello di far conoscere al pubblico straniero Giovanni Boccaccio, che con il Decamerone è entrato nella storia della letteratura di tutti i tempi. (…) In questo libro sono presentate al lettore alcune delle novelle più famose, affiancate da un aiuto alla lettura, una sorta di traduzione in lingua italiana moderna, che rende più agevole il compito di comprendere l’italiano trecentesco di Boccaccio, piuttosto complesso soprattutto a causa di particolari scelte sintattiche e lessicali oggi non più in uso. Questa ‘traduzione’ vuole essere il più fedele possibile all’originale; si avverte comunque il lettore che nel passaggio alla lingua moderna non sempre è possibile rendere il colore e lo spirito che hanno fatto di Boccaccio un maestro della letteratura.36 Si potrà non essere d’accordo sull’approccio, si potrà criticare il fatto che sia possibile far conoscere Boccaccio senza “rendere il colore e lo spirito” che lo hanno reso “maestro della letteratura”, ma questo è l’intento dichiarato di Spagnesi, e su questo va valutata la sua lealtà al Decameron. Per citare ancora Berman: “Il traduttore ha tutti i diritti se agisce lealmente”. 37 Inoltre non è male impiegare i classici della letteratura italiana, che così bene rappresentano la nostra storia, per insegnare la lingua (che è sempre anche insegnamento di una civiltà) sia all’estero che nelle nostre scuole, dove sempre maggiore è la richiesta di insegnanti non improvvisati di italiano come L2. 35 Meschonnic (2000). Spagnesi (1995), p.3. 37 Berman (2000), p. 77. 36 52 Così vanno lette anche le due introduzioni di Fabietti e Busi, molto simili anche nelle scelte delle immagini. Sono stato lungamente indeciso prima d’assumermi il carico di ridurre in lingua corrente, comprensibile al popolo, il maggior monumento dell’antica prosa italiana. Mi spaventava e la novità dell’impresa, che poteva meritarmi taccia d’irriverenza, di profanazione e quasi di sacrilegio, e la difficoltà enorme di rendere – in diversa forma – la freschezza, il sapore e la vivacità dell’originale. Del peccato di superbia mi riconosco colpevole e ne faccio atto di contrizione, con poca speranza di essere assolto; del peccato più grave di profanazione, no. Il Decamerone non è una statua o un dipinto su cui l’incoscienza d’un mestierante dello scalpello o del pennello s’adoperi a levar la patina antica per rinfrescarne i colori o le forme: il Decamerone rimane intangibile e intatto, e gli studiosi dell’aureo Trecento, i puristi, i classicisti potranno ancora e sempre baciarne la polvere veneranda fra le pagine ingiallite delle antiche edizioni. Soltanto, perché il popolo non lo capisce e non lo legge nella sua forma originale, si è voluto tentarne una copia per lui e colorirla col suo stesso eloquio presente. Non altro. 38 E Busi a sua volta: Desidero sottolineare che ho tradotto il Decamerone di Giovanni Boccaccio, non ho scritto il mio (…). Perché questa traduzione non ha affatto la pretesa di essere una traslitterazione o una ricreazione o altra cosa dall’originale: è l’originale oggi. Si sa quanto gli originali più autentici siano proprio quelli sottoposti a costanti revisioni e mutilazioni e reintegrazioni, e in questo sta la loro vitale inossidabilità: nella letteratura universale le più grandi opere immutabili sono quelle che hanno ancora e sempre tanta energia in serbo da sopportare (…) lo squartamento, la manipolazione, l’estrapolazione aforistica, e pungolano i contemporanei di ogni epoca a espungerle, passarle sottobanco, santificarle, mandarle al rogo, farle “risorgere” in un’edizione qualsiasi, e renderle, appunto, di volta in volta nuovamente originali – e se non di fatto con una traduzione, con l’ingenuo arbitrio di una reinterpretazione qualsiasi, benvenuta per quanto tirata per i capelli o messa in piega. Per i più schizzinosi, poi, una precisazione fuori dai denti: l’originale non è stato trafugato e sostituito da questa traduzione, è sempre lì al suo posto a loro disposizione. Ma perché, allora, gli orripilanti non sono andati a leggerselo prima o perché contesterebbero a altri la possibilità di accedervi grazie a una traduzione invocando la sacralità del testo e la blasfemità dell’operazione? Non si vorrà negare, per esempio, che la Bibbia sia un testo sacro per qualcuno o fondamentale per gli snob e sapete perché? Perché è mercuriale nel tempo, capricciosa e faziosa, pacifica e sanguinaria nel suo muovere con sé secolo dopo secolo gran parte dell’umanità che ci sta. La Bibbia è quel che è perché non conosce stasi ermeneutiche (non solo per questioni di traduzione, dunque), perché è un’opera scatenatamente ballerina, che al Vaticano piaccia o no. Era ora che si strappasse il Decamerone dal suo mortifero ballo liceale della mattonella per fargli fare un meritato e popolare giro di valzer sul suolo nazionale. Sono sicuro che da adesso in poi non starà più fermo neanche un secolo. 39 Stili diversissimi quelli di Fabietti, bibliotecario e filantropo lombardo, che parla con la fiducia solare del riformatore di inizio Novecento, e di Busi, scrittore turbinoso ed edonista di fine secolo. Sarebbe interessante a questo punto procedere ulteriormente e verificare sulle opere narrative di Busi le affinità fra la sua poetica e la sua traduzione del Decameron. Potrebbe essere utile in questo senso ricorrere alla categoria critica di Camp. Sullo stile Camp hanno scritto in molti, a cominciare da Susan Sontag in un saggio del 1964 raccolto poi in Contro l’interpretazione. Solo adesso tuttavia si inizia ad utilizzare comunemente il termine nella critica italiana, anche grazie agli studi di Fabio Cleto (1999), che ha dedicato al soggetto un’ampia ricerca, sfociata in un utile reader apparso negli USA. Brevemente, e solo per dare alcuni spunti, Camp è uno stile in cui si mescolano i registri stilistici; si fa ricorso ad immagini tratte dalla cultura popolare e della televisione; si usano frequentemente termini stranieri; a differenza del Pop spesso si ricorre all’esagerazione, all’artificio, all’affettazione; le situazioni sono 38 39 Fabietti (1906), pp. 3-4. 2 Boccaccio-Busi (1993 ), pp. 6-7. 53 spesso enfatizzate; c’è un amore per l’eccesso e l’artificioso; il bello e il brutto non sono distinti; come scrive Susan Sontag, si assiste a una “teatralizzazione dell’esperienza”. 40 “Il Camp è solvente della morale. Neutralizza lo sdegno moralistico e favorisce l’atteggiamento di gioco”. 41 Infine, riprendendo questa volta David Bergman, 42 “Camp è associato alla cultura omosessuale, o almeno a un erotismo consapevole che mette in discussione la naturalizzazione del desiderio” (Camp is affiliated with homosexual culture, or at least with a self-conscious eroticism that throws into question the naturalization of desire”). Nei pochi passi visti della traduzione scanzonata di Busi, molti di questi elementi compaiono puntualmente e il Decameron torna immediatamente ad essere quel libro di fronte al quale i giudici dell’inquisizione decretavano la censura o Petrarca mostrava una certa insofferenza. Sembra perdere l’aura di un “rassicurante” classico in-offensivo. Per fortuna fra i compiti del critico non c’è quello di dover dare un voto alla fine di un’indagine. Critica produttiva non credo voglia dire arrivare a giudizi definitivi, ma piuttosto arrivare a comprendere un po’ meglio se possibile quanto altri hanno fatto. Lasciando per un momento le scelte di poetica (e ideologiche) che hanno condotto Fabietti e Busi a tradurre in modi molto differenti, nelle loro note introduttive ci sono molti punti comuni a cominciare dalla difesa contro l’accusa di avere commesso il “peccato di profanazione” o di aver operato in modo blasfemo. Anche il linguaggio afferisce allo stesso campo semantico della religione (“sacrilegio”, “peccato di superbia”, “profanazione”, “blasfemità”, “sacralità”). Il testo originario (o quello che si ritiene tale) è salvo, non è stato né trafugato né profanato e rimane a disposizione di chi voglia leggerlo e studiarlo. Il testo però è stato riscritto (tradotto) ed è stato rimesso in movimento. Il mantenere in vita un testo coincide con il piacere procurato dal movimento e dalla vita. Le traduzioni, scrive Apel, vanno concepite “come processi sospesi, come un contesto problematico dinamico collegato direttamente alle opere. (…) La traduzione di un testo poetico (…) non è un compito che si possa risolvere una volta per tutte, bensì una problematica che si rinnova di continuo sul piano storico, con un orizzonte aperto”. 43 Santificare un testo e ritenere di essere gli unici depositari della chiave interpretativa porta a una stasi ermeneutica, e lo uccide imbalsamandolo. Quanto questo possa essere devastante non solo per l’opera in sé ma per il mondo, lo si vede ogni volta che una setta ha costretto o costringe in rigidi parametri interpretativi un testo: lo è stato per la Bibbia, per il Vangelo, per il Capitale, per il Corano… Laddove cessa il movimento, diceva Pascal, 44 subentra la morte, e la traduzione, con la sua provvisorietà e la sua apertura verso l’altro, l’estraneo, aiuta certamente a muovere le cose. BIBLIOGRAFIA Apel (1997) Apel, Friedmar, Sprachbewegung (1982), tr. it. a cura di E. Mattioli e R. Novello, Il movimento del linguaggio, Milano, Marcos y Marcos, 1997 Ariosto (1970) Ariosto, Ludovico, Orlando furioso raccontato da Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1970 Berman (2000) Berman, Antoine, Pour une critique des traductions: John Donne (1995), tr. it. parz. G. Maiello, Traduzione e critica produttiva, Salerno, Oedipus, 2000 40 Sontag (1967), p. 376. Ivi, p. 381. 42 Citato in Cleto (1999), p. 4. 43 Apel (1997), p. 28. 44 Pascal (1993), p. 119. 41 54 Boccaccio (1573) Boccaccio Giovanni, Il Decameron (…), Fiorenza, Giunti, 1573 Boccaccio (1906) Boccaccio Giovanni, Il Decamerone, tr. it. E. Fabietti, Firenze, Nerbini, 1906 Boccaccio (1984) Boccaccio Giovanni, Decamerone. Dieci novelle raccontate da Piero Chiara, Milano, Mondadori, 1984 Boccaccio (1991) Boccaccio Giovanni, Il Decamerone. Raccolta di novelle, scelta e riduzione di E. Fiengo, Torino, Derva, 1991 Boccaccio (1992) Boccaccio Giovanni, Decameron, a cura di R. Fabietti, Milano, Mursia, 1992 Boccaccio (1995) Boccaccio Giovanni, Cinque novelle dal Decamerone, a cura di M. Spagnesi, Roma, Bonacci, 1995 Boccaccio (1996) Boccaccio Giovanni, Frate Cipolla , a cura di M.A. Covino Bisaccia e M.R. Francomacaro, Perugina, Guerra, 1996 Boccaccio – Busi (19932 ) Boccaccio, Giovanni – Busi, Aldo, Decamerone. Da un italiano a un altro, Milano, Rizzoli, 19932 (19901 ) Boccaccio – Petrarca (1991) Boccaccio, Giovanni – Petrarca, Francesco, Griselda, a cura di L. C. Rossi, Palermo, Sellerio, 1991 Branca (19862 ) Branca, Vittore, Boccaccio Medievale e nuovi studi sul Decameron, Firenze, Sansoni, 19862 (1956) Busi Aldo – Covito, Carmen (cur.) (1992) Busi Aldo – Covito, Carmen (cur.), Il Novellino, Testo originale con la versione in italiano di oggi, Milano, Rizzoli, 1992 Caraffi (2003) Caraffi, Patrizia, Figure femminili del sapere, Roma, Carocci, 2003 Castiglione (1993) Castiglione, Baldassar, Il cortegiano, tradotto da C. Covito e A. Busi, Milano, Rizzoli, Milano, 1993 Catullo (1939) Catullo, Gaio Valerio, Poesie, tr. it. G. Mazzoni, Bologna, Zanichelli, 1939 Catullo (1945) Catullo, Gaio Valerio, Catulli Veronensis carmina, tr. it. S. Quasimodo, Milano, Edizioni di Uomo, 1945 Catullo (19832 ) Catullo, Gaio Valerio, Le poesie (1969), tr. it. G. Ceronetti, Torino, Einaudi, 19832 Celati (1994) Celati, Gianni, L’Orlando innamorato raccontato in prosa, Torino, Einaudi, 1994 55 Celati (2003) Celati, Gianni, Nota, in Spadoni (2003), pp. 9-13. Cleto (cur.) (1999) Cleto Fabio, Camp. Queer Aesthetics and the Performing Subject: A Reader, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1999 Contini (1970) Contini, Gianfranco, Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, 1970 Dell’Aquila (2004) Dell’Aquila, Giulia, La tradizione del testo: Studi su Cellini, Beni e altra letteratura, Pisa, Giardini, 2004 Dolfi (cur.) (2004) Dolfi, Anna, Traduzione e poesia nell’Europa del Novecento , Roma, Bulzoni, 2004 Fabietti (1906) Fabietti, Enrico, Due parole del traduttore, in Boccaccio (1906), pp. 3-4 Ferri (1889) Ferri, Luigi, Vocabolario Ferrarese Italiano, Ferrara, Tipografia Sociale, 1889 Foscolo (1976) Foscolo, Ugo, “Frammento” (1794), in Poesie , a cura di G. Bezzola, Milano, Rizzoli, 1976 Foscolo (1974-1981) Foscolo, Ugo, “Traduzione de’ due primi canti dell’Odissea di Ippolito Pindemonte” (1810), in Opere, a cura di F. Gavazzeni, Milano-Napoli, Ricciardi, 1974-1981 Jakobson (1966) Jakobson, Roman, On translation (1956), tr. it. L. Heilmann, Saggi di linguistica generale , Milano, Feltrinelli, 1966 Lefevere (1998) Lefevere, André, Translation, Rewriting, and the Manipulation of Literary Fame (1992), tr. it. S. Campanili, Traduzione e riscrittura, Torino, Utet, 1998 Leopardi (1998) Leopardi, Giacomo, Canzoni, versione in prosa, note e postfazione di Marco Santagata, Milano, Mondadori, 1998. Mattioli (1983) Mattioli, Emilio, Studi di poetica e retorica, Modena, Mucchi, 1983 Mattioli (1993) Mattioli, Emilio, Contributi alla teoria della traduzione letteraria, Palermo, Aesthetica, 1993 Mattioli (2001) Mattioli, Emilio, Ritmo e traduzione, Modena, Mucchi, 2001 Meschonnic (1982) Meschonnic , Henri, Critique du ryhtme. Antropologie historique du language, Verdier, Lagrasse, 1982 Meschonnic (2000) Meschonnic , Henri, Poetica del tradurre – Cominciando dai principi, in “Testo a fronte”, 23 (2000), pp. 526. 56 Melograni (19982 ) Melograni, Piero, Premessa e dedica in Machiavelli, Il Principe, Testo originale con versione in italiano di oggi di P. Melograni, Rizzoli, Milano, 19982 (19911 ). Mengaldo (1998a) Mengaldo, Pier Vincenzo, Premessa, in Giorgio Caproni, Quaderno di traduzioni, a cura di E. Testa, Torino, Einaudi, 1998, pp. V-XI Mengaldo (1998b) Mengaldo, Pier Vincenzo, Classici. Le traduzioni pericolose, in “Corriere della Sera”, 22 dicembre 1998 Nasi (2004) Nasi, Franco, Poetiche in transito , Milano, Medusa, 2004 Nievo (1964) Nievo, Ippolito, Le odi di Saffo Lesbia letteralmente volgarizzate (1856) Udine, Turchetto (ora Quaderno di traduzioni, a cura di I. de Luca, Torino, Einaudi, 1964) Paduano (cur.) (1991) Paduano, Guido (cur.), Il racconto della letteratura greca, Bologna, Zanichelli, 1991 Pascal (1993) Pascal, Blaise, Pensieri, a cura di A. Bausola, Milano, Rusconi, 1993 Pascoli (19202 ) Pascoli, Giovanni, Traduzioni e riduzioni, a cura di M. Pascoli, Bologna, Zanichelli, 19202 Pontani (1969) Pontani, Filippo Maria (tr. it.), I lirici greci, Torino, Einaudi, 1969 Quasimodo (1940) Quasimodo, Salvatore (tr. it.), Lirici Greci, Milano, Edizioni di Corrente, 1940 Raboni (2004) Raboni, Giovanni, Ovvero tradurre per amore, in Dolfi (2004), pp. 625-628 Rossi (1991) Rossi, Luca Carlo, La novella di Griselda fra Boccaccio e Petrarca, in Boccaccia-Petrarca (1991), pp. 9-21 Renzi (1998) Renzi, Lorenzo, Ma senza le traduzioni Petrarca e Machiavelli sarebbero incomprensibili, in “Corriere della Sera”, 30 dicembre 1998 Santagata (1998) Santagata, Marco, Ma il mio “leopardiano” può parlare ai giovani, in “Corriere della Sera”, 23 dicembre 1998 Spagnesi (1995) Spagnesi, Maurizio, Introduzione, in Boccaccio (1995), p. 3. Sontag (1967) Sontag, Susan, Against Interpretation (1964), tr. it. E. Capriolo, Contro l’interpretazione, Mondadori, Milano, 1967 57 Spadoni (1995) Spadoni, Nevio, ? ? ? ? , Faenza, Moby Dick, 1995 Spadoni (2003) Spadoni, Nevio, Teatro in dialetto romagnolo , Ravenna, Edizioni del Girasole, 2003 Tasso (1970) Tasso, Torquato, Gerusalemme liberata raccontata da Alfredo Giuliani, Torino, Einaudi, 1970 Venuti (1998) Venuti, Lawrence, The Scandals of Translation. Toward an ethics of difference, London-New York, Routledge, 1998 58 GIOVANNA BUONANNO Tradurre Shakespeare oggi 1. Shakespeare, nostro contemporaneo. Parlare di traduzioni shakespeariane oggi vuol dire addentrarsi inevitabilmente in campi ampi e spesso di difficile definizione. Si può procedere ad una rassegna di alcune tra le diverse accezioni di traduzione del testo shakespeariano, facendo riferimento alle numerose suggestioni che ci ha offerto e continua ad offrirci il cinema, passando per il balletto, l’opera o la video-arte, riuscendo spesso a rintracciare una fitta rete di rimandi intertestuali. 1 La riflessione critica intorno a ‘Shakespeare, nostro contemporaneo’ 2 così feconda nel ‘900, viene tutt’ora continuamente arricchita dalla vastissima diffusione dell’opera del drammaturgo in diversi contesti linguistici e culturali, attraverso adattamenti, rappresentazioni, versioni cinematografiche e televisive, o semplici tracce e citazioni che possono far ritenere che Shakespeare più di ogni altro scrittore e drammaturgo occidentale viva e viva proprio in traduzione, attraverso continue esplosioni, rifrazioni, echi che contribuiscono a creare un corpus parallelo a quello propriamente testuale shakespeariano, con il quale intrattengono rapporti di maggiore o minore prossimità. 3 Basti pensare, ad esempio, al regista Akira Kurosawa che ha diretto, a distanza di circa trent’anni l’uno dall’altro, due film di chiara ispirazione shakespeariana, ambientati in un lontano Giappone medievale: Trono di sangue (1957) basato sul Macbeth, e Ran (1985) che propone una rivisitazione di King Lear. 2. Shakespeare: “page or stage”? In uno studio precedente ho trattato le prime traduzioni shakespeariane in Italia soffermandomi in particolare sul lavoro del traduttore e drammaturgo milanese Giulio Carcano, che intorno alla metà dell’Ottocento si avvicina a Shakespeare e fornisce numerose traduzioni ai primi interpreti shakespeariani sulla scena italiana, ponendosi anche l’ambizioso obiettivo di tradurre in versi l’opera completa del drammaturgo inglese. 4 L’Ottocento e in particolare il periodo risorgimentale costituiscono un momento importante per la diffusione di Shakespeare in Italia e per la produzione di traduzioni delle sue opere, che avviene con notevole ritardo rispetto sia alla fioritura del teatro shakespeariano che si compie a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, sia alla successiva diffusione delle opere a stampa, la cui pubblicazione risale al terzo decennio del XVIII secolo. La cultura italiana, dunque, scopre Shakespeare tardi e soprattutto attraverso la mediazione della cultura e della lingua francese, con le traduzioni e gli adattamenti di La Place, Ducis e Le Tourner, cui si deve anche il tentativo di “regolarizzare” Shakespeare, ossia di rendere il suo verso sciolto e intriso di commistioni tra vari registri, conforme ai canoni di purezza e decoro propri del teatro classico francese, al punto che Le Tourner si propone nelle sue traduzioni di “distillare un nuovo testo”5 . La novità di Carcano risiede, oltre che nell’ampiezza della sua opera di traduttore, nella scelta di tradurre direttamente dall’inglese, operando precise scelte stilistiche che rendano le sue traduzioni adatte anche alla scena. L’attenzione al lavoro di Carcano consente, quindi, di toccare un nodo centrale della riflessione critica sul testo shakespeariano e la sua natura che ha forti ricadute sulla maniera di avvicinarsi alla sua traduzione, ossia se esso sia da intendersi come principalmente destinato alla 1 Mi limito a citare il film William Shakespeare’s Romeo + Juliet di Baz Luhrmann (1996), rivisitazione in chiave multietnica e postmoderna della tragedia shakespeariana, non privo di suggestioni da West Side Story (1961). 2 Il riferimento è a Kott (1964), testo chiave nel panorama critico su Shakespeare, attento sia alla dimensione testuale sia a quella teatrale della sua opera. 3 Sulle “tracce”di Shakespeare nella cultura inglese contemporanea si veda Drakakis (1997). 4 Si veda Buonanno (2002). 5 Sulla diffusione di Shakespeare in Italia attraverso la mediazione della cultura francese si veda Buonanno (2002). 59 lettura o se debba essere orientato alla scena. Il dibattito “page vs. stage”, intorno alla validità del testo shakespeariano come opera letteraria in opposizione alla sua natura propriamente scenica, ha interessato la critica sin dagli inizi, sfociando spesso in giudizi e formulazioni teoriche in netta contrapposizione, da indurre quasi a credere nell’esistenza di due distinti Shakespeare, il poeta e il drammaturgo (cosa di per sé non trascurabile, se si pensa ad un versante degli studi shakespeariani, di interesse soprattutto biografico e storiografico, che tende a negare l’esistenza stessa di Shakespeare!) Già Sir Tomas Bodley, studioso e diplomatico contemporaneo di Shakespeare, nonché fondatore di una delle più prestigiose biblioteche al mondo, la Bodleian Libray di Oxford si proponeva di escludere dalla sua costituenda biblioteca tutte le opere drammatiche in quanto “riffraff Books”, libri da poco, e tra questi includeva anche le opere di Shakespeare che per la loro spiccata vocazione scenica, non dovevano essere lette ma recitate ed ascoltate in teatro. Sul versante opposto, in epoca successiva, si possono annoverare tra i più illlustri sostenitori della natura poetica del testo shakespeariano in opposizione a quella scenica, lo scrittore e critico inglese Charles Lamb, autore del saggio “On the tragedies of Shakespeare, considered with reference to their fitness for stage representation” (1811), nonché dei Tales from Shakespeare, adattamenti narrativi delle opere del drammaturgo, e Johann Wolfgang von Goethe che pur attratto dal mondo della scena e attento studioso del mestiere dell’attore, non riteneva che le opere di Shakespeare si dovessero rappresentare. In un saggio del 1814 egli afferma: La fama e il valore di Shakespeare appartengono alla storia della poesia. È un errore supporre che tutti i suoi meriti discendano dal suo ruolo preminente nella storia del teatro (…) Non esiste piacere più puro dello starsene seduti ad occhi chiusi ad ascoltare un’opera di Shakespeare recitata, non declamata, da una voce naturalmente ricca di espressione . 6 Per quanto si possano ritrovare argomentazioni a favore della destinazione scenica delle opere di Shakespeare nei secoli precedenti, si può ritenere che è nel ‘900 che si compie un’ampia rivalutazione e riappropriazione dello Shakespeare teatrale. L’estetica teatrale ‘900 elaborata a partire dai primi decenni del secolo dalle avanguardie storiche, fino alle tendenze più recenti, ha contribuito in maniera significativa alla riflessione su Shakespeare e a ridefinire il rapporto tra pagina e scena. In particolare, anche attraverso Shakespeare si è avviata una intensa riflessione sull’autorità dei classici e sulla necessità di restituire i testi drammatici del canone occidentale alla scena esplorando le diverse potenzialità che essi hanno di rinnovarsi e riproporsi in maniera “viva e umana”, come sostiene Bertolt Brecht. Nella riflessione del drammaturgo tedesco, il teatro di Shakespeare come autore classico può rivivere sulla scena del ‘900 se questa si libera “dall’effetto intimidatorio dei classici”, ossia se essa è in grado di superare “una concezione falsa, superficiale, decadente, meschina della classicità” e abbandonare definitivamente qualunque “bigotta, adulatoria e falsa venerazione” che i classici incutono. 7 Una preoccupazione simile circa l’eccessivo rispetto dei classici, seppure con una tendenza più iconoclasta, viene espressa da Antonin Artaud, secondo il quale bisogna liberarsi dei capolavori, responsabili “dell’asfissiante atmosfera in cui viviamo”, rivendicando il diritto di “dire ciò che è stato, e anche ciò che non è stato detto, in una forma che ci sia propria, che sia immediata, diretta”. 8 Se da un lato un possibile esito della riflessione estrema di Artaud è rappresentato dal rifiuto netto dei capolavori del passato sulla scena contemporanea, dall’altro sembra possibile e forse auspicabile un recupero dei classici facendoli rivivere, in traduzioni e adattamenti che possano riflettere via via nuove condizioni di produzione e fruizione. La volontà di liberare i classici della propria aura e autorità manifestata dai teorici della scena trova un forte punto di convergenza con la riflessione novecentesca sul senso e il valore della traduzione, incentrata sul rapporto tra l’originale e le sue traduzioni, che rivendica l’autonomia della 6 Citato in Fenton (2004) (mia traduzione). Brecht (1979), pp. 110-12. 8 Artaud (1978), p. 192. 7 60 traduzione e la sua natura di testo in sé, al di là del suo essere un derivato di un altro testo. Come suggerisce Walter Benjamin, la traduzione contribuisce a conferire una “seconda vita” (Überleben) all’originale, e a informare la sua ricezione in nuovi contesti. 9 Tornando a Shakespeare, la spinta a riproporre e rivitalizzare la sua opera sulla scena contemporanea ha accomunato molti maestri del teatro contemporaneo, da Brecht a Strehler, a Brook, ai quali si devono significativi scritti e riflessioni sul testo shakespeariano, oltre che importanti messincene. Nel caso del regista inglese Peter Brook, la centralità di Shakespeare nella sua lunga e intensa attività di regista è testimoniata da molte regie di opere shakespeariane lungo un arco di tempo molto ampio, dalle messinscene più tradizionali degli anni ’40 fino all’ultimo Amleto del 2003, affidato all’interpretazione di un attore nero e ad un cast multietnico e inoltre proposto sulla scena internazionale anche in una versione in lingua francese, dunque in traduzione. Gli scritti teatrali di Brook sono ricchi di riferimenti a Shakespeare, a partire da The Empty Space del 1968 nel quale il drammaturgo viene ampiamente discusso e indicato come possibile modello da seguire per creare un’alternativa alle forme teatrali più trite, convenzionali e “mortali”, secondo la definizione di Brook, che infestano molta scena contemporanea. In uno scritto più recente risalente al 1998, Evoking Shakespeare, Brook si sofferma a lungo sulle qualità del testo shakespeariano e le condizioni sceniche in cui veniva rappresentato originalmente, rivelando una puntuale attenzione sia alle qualità propriamente testuali del testo sia alla sua relazione con la struttura e la natura del teatro di epoca elisabettiana. La ricchezza e poliedricità dell’immaginario shakespeariano, la fluidità del verso e la sua qualità di rendere visibile l’invisibile, e strano ciò che è familiare costituiscono per Brook la forza e l’eccezionalità del testo shakespeariano legato in maniera inscindibile alla natura stessa del teatro elisabettiano e alle sue precise modalità di produzione e fruizione. Nelle parole di Brook: Il teatro elisabettiano suscitava un tale entusiasmo paragonabile a quello del cinema di venti o trent’anni fa, quello in cui Orson Welles girò Quarto Potere e che offriva un mondo intero di possibilità nuove. Questa particolare forma di teatro si basava su una semplice piattaforma (…) sulla quale si susseguivano le immagini. Dato che non vi erano scene e fondali, se qualcuno diceva ‘ci troviamo in una foresta’, allora eravamo veramente in una foresta e se un attimo dopo diceva ‘non siamo in una foresta’, allora questa spariva. Questa tecnica è più veloce del montaggio nel cinema.(…) Ed è fluida più di qualsiasi tecnica cinematografica elaborata fino ad ora.10 Per Brook, Shakespeare rappresenta l’apice del teatro elisabettiamo proprio per la sua capacità di esaltare il teatro dell’illusione, (make-believe), ossia dell’evocazione e creazione sulla scena di un mondo credibile per gli spettatori attraverso la magia e il potere della parola, di una parola agita, recitata, condivisa, da far risuonare su uno spazio scenico vuoto, essenziale. Questa riflessione si rivela ricca di implicazioni nel ridefinire il rapporto tra pagina e scena in quanto ne sottolinea la reciproca dipendenza e al contempo consente di esaminare il testo shakespeariano nella sua complessità semantica e stilistica senza perdere di vista la sua valenza di play-text, di testo per la scena. Un breve sguardo alla cronologia delle prime rappresentazioni delle opere di Shakespeare sulla scena elisabettiana può servire a confortare l’argomentazione di Brook e più in generale a tentare una ricomposizione nella tradizionale contrapposizione tra pagina e scena. Le opere di Shakespeare vengono rappresentate per la prima volta a Londra tra il 1590 e il 1613 (Shakespeare vivente) e in questo arco di tempo diciotto delle sue opere vengono anche pubblicate come “quartos” e “bad-quartos”, mentre le restanti diciotto continuano a circolare come copioni. Solo nel 1623 avviene la pubblicazione postuma nella versione a stampa “in folio”, sulla quale si basano molte successive edizioni critiche e traduzioni, delle trentasei opere teatrali attribuite a Shakespeare, cui in seguito verrà aggiunto Pericles. 9 10 Benjamin (1923). Brook, (1998), pp. 22-23 (mia traduzione). 61 Appare chiaro da questi brevi cenni alla cronologia del teatro di Shakespeare che i suoi testi prima di diventare The Complete Dramatic Works of William Shakespeare, Esq., circolassero come play-texts, prompt-books, e forse addirittura come scores, partiture, data la “porosità” di un testo teatrale in forma di copione, aperto a riscritture e rimaneggiamenti successivi. 3. Translation studies e testo teatrale. Se si tende a privilegiare la natura scenica del testo shakespeariano come playtext, nella discussione su metodi e approcci nella sua traduzione si possono rinvenire interessanti spunti di riflessione nell’ambito dei Translation studies, emersi come disciplina accademica soprattutto a partire dagli anni ’70 e che si caratterizzano per la spiccata tendenza interdisciplinare e la compresenza di vari approcci nell’elaborazione di teorie e metodi della traduzione, dal letterario la linguistico al filosofico. Tuttavia, pur proponendo una notevole ampiezza di prospettive e un’attenzione a varie tipologie testuali, all’interno dei Translation studies lo studio dei testi teatrali è stato e in parte continua ad essere un ambito piuttosto marginale. E’ soprattutto nel lavoro di due studiose, Mary Snell Hornby e Susan Bassnett che si rintraccia una puntuale attenzione al fenomeno della traduzione del testo teatrale che conduce all’elaborazione di metodi e approcci differenti ma con non pochi punti di convergenza. Per SnellHornby è importante considerare i diversi elementi costitutivi di un testo teatrale, in vista della sua destinazione scenica. La studiosa propone dunque alcune categorie, in parte individuate già da altri studiosi, che nel loro insieme concorrono a rendere il testo “performable” ossia adatto ad essere recitato. Nella riflessione di Snell-Hornby il testo drammatico è fluido e plasmabile, diventa quasi una partitura nella quale si rinvengono le seguenti caratteristiche: quella di poter essere recitato (performable-spielbar) enunciato (speakable-sprechbar), ma anche cantato (singable-singbar), nel caso dei libretti per opere e musica. Ad essi la studiosa affianca anche la qualità, fondamentale per gli attori, di riuscire ad esprimere il ritmo, il tempo e l’espressione (breathability-Atembarkeit) che incide anche sul polo della fruizione, orientando lo spettatore verso un tipo di risposta empatetica, catartica oppure dissonante e reattiva. 11 Bassnett, privilegiando un approccio di tipo semiotico, vede nella partitura linguistica del testo teatrale uno dei molteplici codici della scena e insiste sull’importanza dell’insieme e dell’interazione dei vari codici. In quest’ottica propone una revisione del concetto di recitabilitàperformability, privilegiandone il carattere operativo che emerga durante il processo di analisi del testo, traduzione e messinscena, tenendo presente le condizioni che contribuiscono all’evento dall’emissione alla fruizione. 12 Entrambe le studiose assumono nella propria riflessione sulla traduzione del testo teatrale la prospettiva e la reale situazione dell’interprete, ossia di colui o colei che deve recitare il testo, e richiamano l’attenzione all’importanza della tradizione scenica e del contesto di produzione nell’elaborazione del testo tradotto, insistendo sulle condizioni vigenti nella cultura teatrale d’arrivo, che contribuisce ad orientare sia la discussione intorno ai testi teatrali da mettere in scena, sia la pratica del tradurre. Snell-Hornby si sofferma anche su alcuni caratteristiche del linguaggio del testo teatrale che si esprime di solito nella forma del dialogo, però è altro rispetto al linguaggio comune, essendo caratterizzato da forme di coesione testuale, densità semantica e al contempo ellissi, slittamenti, allusioni che offrono ampio margine all’interpretazione individuale di chi lo recita, rinviando cioè ad un sottotesto. Inoltre la partitura linguistica del testo drammatico è ricca di metafore, giochi di parole, effetti voluti di climax e anti-climax, anacronismi che non devono essere sottovalutati nell’atto della traduzione affinché il testo di arrivo abbia le stesse qualità di discorso drammatico del testo di partenza. Le caratteristiche individuate da Snell-Hornby sono presenti nei testi di Shakespeare, accanto a elementi costitutivi propri della loro ricca partitura linguistica che pongono problemi non 11 12 Snell-Hornby (1996), pp. 32-33. Bassnett (1998). 62 trascurabili al potenziale traduttore. In un recente saggio sulla traduzione del testo drammatico shakespeariano, il critico e traduttore francese Jean Michel Dèprats si sofferma su aspetti di questi testi particolarmente importanti in vista della traduzione. Egli afferma che il testo shakespeariano è una macchina infernale che contiene miriadi di possibilità di senso e pone chi traduce davanti a continue scelte e interpretazioni. Perché questo oggetto pieno di giochi di parole (puns), arcaismi, giri di frasi sia fruibile in un’altra cultura o lingua il traduttore / la traduttrice deve farlo rivivere, deve “soffiargli dentro la vita”, affinché il suo lavoro-travaglio non produca solo un nato morto. 13 Ciò che distingue una traduzione dalle altre, continua Déprats, sta nella scelta lessicale e nel modo in cui vengono risolti precisi nodi formali quali l’adozione del verso libero piuttosto di una particolare metrica, o, in alternativa, il ricorso alla prosa. Un elemento imprescindibile da considerare nell’accostarsi alla traduzione del testo shakespeariano è proprio la natura del verso. Shakespeare scrive in blank verse, il pentametro giambico senza rime, vale a dire un verso di cinque piedi in cui ciascun piede è formato da una sillaba lunga e una breve. È un verso che si impone nella poesia drammatica inglese proprio in epoca elisabettiana, in quanto adatto a veicolare l’espressione drammatica. Il ritmo e l’accento sono componenti importanti di questo verso, la cui distribuzione al suo interno risulta fondamentale nel determinare l’enfasi, la scansione e l’aggregazione di parole. Un possibile analogo italiano di questo verso, a cui spesso hanno fatto ricorso i traduttori, è l’endecasillabo, che ha però una distribuzione diversa di accenti. 14 Al blank verse, che costituisce il metro prevalente, si affiancano passi in rima nella forma di canzoni o poesie, di natura lirica e dal ritmo regolare se paragonati al blank verse, nonché ampie sezioni in prosa, che nell’insieme contribuiscono a diversificare il tessuto testuale shakespeariano. Queste eccezioni al blank verse contribuiscono ad esaltare la varietà di registri linguistici, attraverso l’alternanza di registro alto e basso, il ricorso a voluti arcaismi e giochi di parole che impongono al traduttore, ancora una volta, di operare scelte precise, spesso racchiuse tra i due poli opposti, secondo la riflessione di Venuti, di “foreignizing” o domesticating”, ossia dell’accentuazione della distanza e dell’estraneità tra testo di partenza e testo d’arrivo o della prossimità tra essi, secondo una tendenza alla familiarizzazione del testo originale nella cultura di arrivo. 15 Nel caso di Shakespeare in quanto classico del ‘600 si può optare per una traduzione che guardi al passato, operando scelte stilistiche e lessicali dal gusto volutamente antico, oppure attualizzarlo. Come sottolinea Serpieri, nel primo caso il rischio è la stesura di un testo troppo erudito, mentre nel secondo un’eccessiva banalizzazione o omologazione, a cui il traduttore può sfuggire se sceglie la strada dell’“ibridazione”, mirando a fare “del testo tradotto un sistema testuale rivolto al pubblico attuale e tuttavia proveniente da un’altra epoca e un’altra cultura.”16 L’attenzione al pubblico e al polo della ricezione nella traduzione di testi drammatici viene sottolineata anche da Dèprats, e si affianca ad una precisa considerazione per la destinazione scenica: L’unica e sola linea guida per il traduttore di testi teatrali è rappresentata dalla dimensione fisica di un testo, scritto per delle bocche, dei polmoni e degli apparati respiratori. Parafrasando ciò che Vitez disse di Molière (…) Vi è un’unica traccia lasciata da Shakespeare, ed è pneumatica.17 4. Tradurre Shakespeare per la pagina e la scena: l’esempio della Tempesta. Tracce “pneumatiche” di Shakespeare in traduzione si può affermare che si imprimono nitide nel lavoro di Agostino Lombardo, traduttore per la pagina e la scena della Tempesta. Noto anglista e studioso di Shakespeare, Agostino Lombardo ha curato importanti edizioni critiche e traduzioni delle opere shakespeariane. Le condizioni del lavoro di Lombardo sulla 13 Déprats (2002), p. 87. Su problemi di metrica del testo shakespeariano e sul rapporto tra blank verse ed endecasillabo si veda l’accurata analisi di Serpieri (2002). 15 Cfr. Venuti (1995). 16 Serpieri (2002), p. 70. 17 Dèprats (2002), p. 100 (mia traduzione). 14 63 Tempesta appaiono singolari e piuttosto eccezionali in quanto la traduzione dell’ultima opera shakespeariana gli fu commissionata da Giorgio Strehler per l’allestimento da lui diretto per il Piccolo Teatro di Milano e andato in scena nell’estate del 1978. Si tratta dunque di una traduzione rivolta direttamente alla scena e ad una precisa produzione, che solo successivamente, secondo un destino analogo al testo shakespeariano, diventa una traduzione per la pagina, pubblicata da Garzanti in edizione testo a fronte nel 1984 e, come precisa lo stesso traduttore, ha come originale l’edizione critica New Arden Shakespeare dell’opera, basata sul testo apparso nell’‘in-folio’ del 1623. Come sottolinea Lombardo nella ‘Premessa’ all’edizione Garzanti, La versione ha inteso obbedire al criterio della più rigorosa fedeltà filologica ma ha tentato, insieme, sia di suggerire l’andamento ritmico del testo (di qui il suo essere in versi che, pur non volendo in alcun modo riprodurre il blank verse elisabettiano, si ripropongono di rievocarne la qualità drammatica e poetica) sia di conseguire il massimo di recitabilità.18 Da queste brevi indicazioni sul suo approccio alla traduzione, si comprende quali siano state le principali linee guida di Lombardo, informate sia al rispetto per il testo, l’attenzione al verso e il ritmo (“fedeltà filologica”, “andamento ritmico”), sia alla reale destinazione della traduzione, ossia la scena (“recitabilità”). Inoltre, Lombardo ribadisce il carattere “scenico” del suo lavoro riducendo all’essenziale le note di corredo al testo che, quando presenti, servono a giustificare particolari scelte lessicali, a spiegare la resa di particolari giochi di parole (puns) o, infine a segnalare i casi in cui la versione pubblicata propone una variante rispetto al testo utilizzato nella messinscena. In uno studio successivo, Lombardo puntualizza alcuni aspetti del lavoro di traduzione e illustra in maggior dettaglio il suo modo di procedere nella traduzione della Tempesta. Sorprende, a prima vista, la riproposizione di un vecchio concetto, spesso abusato nella riflessione sulla traduzione, e che le teorie contemporanee hanno tenacemente avversato, quello di fedeltà. In realtà la professione di fedeltà di Lombardo è un atto piuttosto complesso che egli scorpora in vari elementi, assimilandolo all’idea precedentemente illustrata di performability-recitabilità. Egli insiste infatti sulla necessità del traduttore per il teatro come “mediatore e interprete” di compiere una serie di atti di fedeltà, rivolti a tutti gli agenti e a tutte le componenti dell’evento teatrale, ossia all’autore, al testo, agli attori, al regista e infine al pubblico. 19 Nel loro insieme questi atti contribuiscono a conferire unità e autonomia al testo tradotto, e a giustificare le precise scelte operative del traduttore, quali ad esempio la scelta di un verso che non cerchi di essere un equivalente del blank verse ma piuttosto che assolva alla stessa funzione del verso shakespeariano, privilegiando l’attenzione agli accenti e non al numero delle sillabe. Ne discende un’unità ritmica e stilistica del testo che funga al contempo da “rotaia” per gli attori, secondo una suggestiva definizione proposta da Lombardo, così che il testo “pur rimanendo una traduzione, [abbia] una sua chiave, un suo tono, un’unità stilistica autonoma che però [evochi] l’unità stilistica dell’originale”. 20 La traduzione di Lombardo della Tempesta si caratterizza anche per la puntuale attenzione ai diversi registri presenti nel testo e alla varietà del linguaggio dei personaggi che si desiderava far risaltare particolarmente sulla scena. Così Ariel, “spirito dell’aere”, doveva avere un linguaggio adatto alla sua natura “bizzarra e istrionica”, esaltata nella messinscena dalla scelta di Strehler di farlo apparire come un funambolo Pierrot, scattante e agilissimo, che recita gran parte delle sue battute impegnato in elaborate evoluzioni sospeso ad una fune. Nel caso di Caliban, invece, creatura mostruosa e sub-umana, il linguaggio è ricco di aspre allitterazioni e sonorità quasi pre-verbali, accompagnate da uno “straordinario passaggio dalla durezza alla dolcezza e poi di nuovo alla durezza”. 21 Interessante risulta il linguaggio di alcuni dei personaggi minori, in particolare il servitore Stefano e il giullare Trinculo, immaginati da Strehler come maschere della commedia 18 Lombardo (1984), p. LI. Lombardo (2002). 20 Lombardo (2002), p. 59. 21 Ivi, p. 62 19 64 dell’arte cui la traduzione di Lombardo conferisce un lessico ricco di espressioni colloquiali e connotato regionalmente, qualità che la rappresentazione tendeva ulteriormente a enfatizzare. In conclusione si può affermare che l’esempio della Tempesta tradotta da Lombardo illumini, nella sue varie sfaccettature, in maniera efficace e suggestiva i diversi aspetti e problemi della traduzione shakespeariana oggi, contribuendo a ricomporre la presunta e a lungo dibattuta dicotomia tra pagina-scena e, al contempo, portando alla luce il lavoro di chi si confronta concretamente con la traduzione di Shakespeare, “nostro contemporaneo”. BIBLIOGRAFIA Artaud (1978) Artaud, Antonin, Basta con i capolavori, in Il teatro e il suo doppio , Torino, Einaudi, 1978 (19681 ) Bassnett (1998) Bassnett, Susan, Still Trapped in the Labyrinth: Further Reflections on Translation and Theatre, in Constructing Cultures: Essays on Literary Translation, Clevendon, Multilingual Matters, 1998, pp. 90-108 Benjamin (1923) Benjamin, Walter, Die Aufgabe der Übersetzung, in Gesammelte Schriften (1980), a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1923 Brecht (1979) Brecht, Bertolt, Effetto intimidatorio dei classici, in Scritti teatrali, Torino, Einaudi, 1979 (19621 ) Brook (1968) Brook, Peter, The Empty Space, London, Penguin, 1968 Brook (1999) Brook, Peter, Evoking Shakespeare, London, Nick Hern, 1999 Buonanno (2002) Buonanno, Giovanna, Shakespeare’s Early Reception and Translation in Italy, Modena, Il Fiorino, 2002 Déprats (2002) Déprats, J. Michel, Translating Shakespeare: An Overview, in “Textus. English Studies in Italy”, XV (1) (2002), pp. 87-100 Drakakis (2003) Drakakis, John, Shakespeare in Quotations, in Studying British Cultures, a cura di Susan Bassnett, London, Routledge, 2003 (19971 ), pp. 156-176 Fenton (2004) Fenton, James, Shakespeare, Stage or Page?, in “The New York Review of Books”, 8 April (2004), pp. 5660 Kott (1964) Kott, Jan, Shakespeare nostro contemporaneo, Milano, Feltrinelli, 1964 Lombardo (1984) Lombardo, Agostino, Premessa a Shakespeare, William (1984), La tempesta, trad. A. Lombardo, Milano, Garzanti, 1984 65 Lombardo (2002) Lombardo, Agostino, Tradurre “La tempesta” per il teatro, in La grande conchiglia, Roma, Bulzoni, 2002, pp. 51-67 Serpieri (2002) Serpieri, Alessandro, Tradurre per il teatro, in Manuale di traduzioni dall’inglese, a cura di R. Zacchi e M.Morini, Milano, B.Mondadori, 2002, pp. 64-75. Shakespeare (1984) Shakespeare, William, La tempesta , trad. A. Lombardo, Milano, Garzanti, 1984 Snell-Hornby (1996) Snell-Hornby, Mary, “All the world’s a stage”: Multimedial translation – constraint or potential? , in Traduzione multimediale, per il cinema, la televisione e la scena, a cura di C. Heiss e R. M. Bollettieri Bosinelli, Bologna, CLUEB, 1996, pp. 29-45 Venuti (1995) Venuti, Lawrence, The Translator’s Invisibility: A History of Translation, Londra e New York, Routledge, 1995 66 ADELE D’ARCANGELO L’uso del testo filmico nella didattica della traduzione: un workshop su Raging Bull/Toro Scatenato Premessa L’attenzione di autorevoli studiosi nel campo della Teoria della traduzione verso le problematiche che sottendono la produzione di prodotti cinematografici e televisivi doppiati o sottotitolati per paesi diversi da quelli di origine, si è espressa, soprattutto negli ultimi due decenni, in una seria produzione di articoli e volumi che concentrano la propria attenzione sul delicato equilibrio delle molteplici componenti caratterizzanti il mezzo espressivo filmico nel corso del processo traduttivo. Fra i tanti aspetti sui quali la critica ha focalizzato la propria attenzione segnaliamo, ad esempio, gli elementi caratterizzanti la realizzazione di film doppiati o sottotitolati in relazione ai sistemi culturali di partenza e a quelli di arrivo, 1 la pratica del sottotitolaggio, 2 il discorso sulle aspettative del pubblico nel quadro delle teorie sulla ricezione, 3 l’interpretazione simultanea come particolare tipologia di doppiaggio 4 e la validità dell’uso dei testi filmici nella didattica della traduzione. 5 Con specifico riferimento agli studi in ambito italiano, la versatilità del testo filmico come strumento didattico è stata in particolare analizzata in recenti pubblicazioni frutto di una consolidata esperienza che si è concretizzata presso la SSLMIT della Università di Bologna nella proposta di corsi di Specializzazione e Master di II livello in Traduzione e Adattamento dei Testi Audiovisivi e Multimediali, così come nella pubblicazione di una serie di articoli e volumi dedicati a questo argomento fra i quali citiamo: Il doppiaggio, trasposizioni linguistiche e culturali, che riporta una sezione dedicata ai risultati ottenuti attraverso l’uso di testi multimediali nella didattica della traduzione, 6 “The relevance of Dubbing and Subtitling to Language Teaching” 7 o “Using Subtitles to Teach Translation” 8 e infine “La traduzione filmica come pratica didattica”. 9 Su quest’ultimo aspetto, in particolare, verte anche la nostra indagine che si presenta in forma di case study, utilizzato per presentare lezioni di traduzione Inglese/Italiano a gruppi di studenti frequentanti Corsi di Laurea in Traduzione e Interpretazione presso la SSLMIT (Università di Bologna) e/o, come nel caso della lezione tenuta presso l’Università di Modena e Reggio Emilia da cui prende spunto questo articolo, a studenti frequentanti Corsi di Laurea in Mediazione Linguistica e Culturale. Il nostro esame presenterà, innanzitutto, una breve sinopsi e analisi del film scelto per il case study, ovvero RagingBull/Toro scatenato di Martin Scorsese, si passerà in seguito a evidenziare gli elementi su cui verte la nostra indagine contrastiva per poi, infine, riportare alcune possibili conclusioni cui si è giunti grazie anche al contributo degli studenti. 1. Raging Bull di Martin Scorsese Il testo scelto per la nostra indagine è Raging Bull di Martin Scorsese, un film d’autore realizzato nel 1980 con la sceneggiatura di Paul Shrader e Mardik Martin, che vede protagonista uno straordinario Robert De Niro. 10 Definito dalla critica come miglior film mai prodotto sul mondo 1 Delabastida (1989) e (1990). Taylor (2000). 3 Fink (1984). 4 Nadaud (1995). 5 Kaufmann (1995). 6 Baccolini/Bollettieri Bosinelli/Gavioli (1994). 7 Taylor (1996). 8 Rundle (2000). 9 Heiss (2000). 10 Per la sua generosa interpretazione De Niro vinse meritatamente l’Oscar come miglior attore. 2 67 del pugilato, 11 quest’opera magistrale dal punto di vista formale e tecnico, racconta, in forma di autobiografia, la storia del pugile Jake La Motta, detto “the Bronx bull”, il quale conquistò il titolo mondiale dei pesi medi nel 1949, per poi cederlo nel 1951 all’eterno rivale Sugar Ray Robinson. 12 La produzione, costata due anni di lavorazione e 14 milioni di dollari, narra con violenza il mondo violento della boxe e il substrato socio-culturale che lo caratterizza, ma soprattutto è “il ritratto di un uomo eccezionale sul ring, ma esemplare, nella sua normalità, in privato come prodotto avvelenato di una cultura, di un ambiente e di una società”. 13 La fotografia in bianco e nero dona al film, in cui la dimensione della fisicità è prorompente, una potenza d’immagine che cattura lo spettatore e rende ancora più persuasiva la prospettiva della regia. La scelta di questo testo di partenza (TP), suggerita da Christopher Rundle (SSLMIT, Università di Bologna), come oggetto della nostra indagine è stata dettata fondamentalmente da tre motivi: - è un film di cui esisteva anche la versione sottotitolata, utilizzata da Rundle stesso per presentare un ciclo di lezioni molto apprezzato da parte di studenti e colleghi. 14 - è un film d’autore celeberrimo, la cui sceneggiatura privilegia la parola dosandola con una parsimonia che ne esalta la qualità e il valore. Si è inteso, così, verificare se, nei confronti di film d’autore come questo, si potesse notare una cura particolare nella realizzazione del doppiaggio, in particolare; - i principali protagonisti dell’opera sono appartenenti della comunità italo-americana di New York e vengono caratterizzati, nella versione originale, da una inflessione brooklynese, elemento che ci è parso utile per affrontare anche una riflessione in termini diastratici del prodotto doppiato. Il lavoro, svolto in collaborazione presso la SSLMIT, è stato presentato in una prima fase sulla versione sottotitolata, gestita da Rundle e in seguito su quella doppiata, gestita da chi scrive. 15 Per l’analisi del sottotitolaggio si è proposto agli studenti di lavorare su un particolare software, ideato dal ricercatore, molto utile a fini didattici. 16 Tale esperienza ha costituito, inoltre, l’occasione per dare inizio a una seria attività di ricerca, tuttora in corso, nel settore specifico del sottotitolaggio filmico, di cui Rundle è responsabile. Le scene su cui abbiamo deciso di concentrare la nostra attenzione sono tre momenti relativi alla presentazione dei personaggi nelle sequenze iniziali del film. Nel caso del presente lavoro, l’analisi verterà sul solo esempio della realizzazione del doppiaggio in lingua italiana di Raging Bull/Toro scatenato: verranno riportati integralmente sia il TP sia il testo di arrivo (TA) e le considerazioni saranno elaborate così come è stato fatto nel corso della lezione proposta da chi scrive agli studenti frequentanti il II anno del Corso di Laurea in Mediazione Linguistica e Culturale, il 12 maggio del 2004 presso l’Università di Modena. Di ogni scena sarà presentata una breve analisi che cercherà di tenere presenti sia gli elementi linguistici sia quelli più prettamente filmici (tipo di ripresa, caratterizzazione dei personaggi e delle loro voci, bande sonore, scenografie 11 Mereghetti (2004). I due sceneggiatori si sono ispirati alla autobiografia di Jake La Motta scritta dal pugile in collaborazione con Joseph Carter e Peter Savage, (1970/[1997]). Raging Bull, My Story, New York: Bantam Books. 13 Morandini (2001), p. 1353. Il film si conquistò nel 1980, oltre all’Oscar per la miglior intepretazione maschile, anche quello per il miglior montaggio. 14 In anni ancora lontani dalla diffusione dei DVD, il sottotitolaggio di Raging Bull è stato realizzato in occasione di una programmazione RAI di film in lingua originale. Si tratta della fortunata trasmissione “Movies: i film come non li avete mai sentiti” ideata dal critico Vieri Razzini e trasmessa alla fine degli anni Novanta. 15 La trascrizione dei dialoghi è stata curata da Rundle, per la versione originale, e da D’Arcangelo per la versione italiana. Desidero, in questa occasione, ringraziare Chris Rundle per avermi proposto di collaborare con lui, così come per gli utili consigli offertimi durante la stesura di questo articolo. 16 Rundle (2000). 12 68 ecc.) altrettanto fondamentali, nell’ambito della discussione relativa al doppiaggio, per apprezzare, criticare, ma soprattutto comprendere le scelte compiute. 17 2. Toro Scatenato di Martin Scorsese 2.1 Jake La Motta -“The Bronx Bull” -“Il toro del Bronx” Jake La Motta: I remember those cheers, they still ring in my ears, and for years they remain in my thoughts... ‘cause one night I took off my robe, and what’d I do? I forgot to wear shorts. I recall every fall, every hook, every jab, the worst way a guy can get rid of his flab, as you know my life was a drab. Though I’d much... though I’d rather hear you cheer when you tell... Though I’d rather hear you cheer when I tell them the Shakespeare: “A hoss, a hoss, my kingdom for a hoss” I haven’t had a winner in six months. And though I’m no Olivier I would much rather... And though I’m no Olivier, ‘cause if he fought Sugar Ray, he would say that the thing ain’t the ring it’s the play. So give me a stage where this bull here can rage and though I can fight I’d much rather recite... That’s entertainment!! Jake La Motta: Me li ricordo ancora gli applausi e li sento ancora nelle orecchie e me li porterò dietro per tutta la vita. Ricordo una sera... levai l’accappatoio e cascò il mondo. M’ero scordato i calzoncini. Mi ricordo tutti i K.O., tutti i ganci, tutti i jab. E’ il sistema peggiore per fare una bella cura dimagrante. La mia non è stata una vita squallida. Anch’io ho avuto... e mi farebbe piacere sentirmi applaudire quando recito come fanno con Lawrence Olivier quando recita Shakespeare: “Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo, sono sei mesi che non ne becco uno. Ma io non sono Olivier anche se mi farebbe piacere. E poi lo vorrei vedere sul quadrato recitare se con Sugar si misurasse chissà quante ne pigliasse, per cui datemi un’arena Jake il toro si scatena. Perché oltre al pugilato sono attore raffinato. Questo è spettacolo. Con queste parole il pugile Jake La Motta, invecchiato e ingrassato si presenta sullo schermo nella scena iniziale del film. Siamo nel 1964, l’ex pugile si è trasformato in uno stand-up comedian di scarso successo che lavora in locali di terz’ordine. Dopo una ripresa fissa della locandina che pubblicizza il suo spettacolo la macchina stacca sul camerino in cui Jake si concentra prima di entrare in scena, caricandosi come era solito fare anche prima di salire sul ring. Posizionato sulla destra dello schermo, in piano americano, davanti a uno specchio prova la parte, tentenna, riprende a recitare con una voce in presa diretta poco pulita; a metà del breve monologo si concede una pausa durante la quale si accende un sigaro, gesto che renderà la dizione di De Niro ancora più impastata. Nel brevissimo spazio di questo efficace monologo Jake riassume la sua intera esistenza, gli anni in cui era un campione e la sua attuale condizione di attore sfortunato, paragonando la sua esperienza di uomo di spettacolo a quella del grande Lawrence Olivier, il cui nome risulta utile alla sua improvvisazione soprattutto per trovare una rima. Dal punto di vista linguistico/stilistico, infatti, il monologo di Jake è caratterizzato da una metrica regolata da rime ed assonanze che ne scandiscono il ritmo veloce. Nel TP si notano alcune forme contratte o elisioni tipiche della lingua parlata, in uso nella comunità italo-americana e nel cosiddetto “broccolino”; così pure dal punto di vista lessicale il registro dei termini scelti è colloquiale “drab”, “flab” cheers”. Nella versione doppiata si evidenzia un vistoso errore di decodifica del testo quando Jake afferma “as you know my life was a drab” che viene tradotto in senso affatto opposto “La mia non è stata una vita squallida”. 18 Inoltre la resa complessiva del TA fatica a riproporre il ritmo dell’originale: solo nella fase conclusiva si apprezzano alcune assonanze efficaci che velocizzano la 17 Castellano (1996), p. 395. Del termine “drab” il Longman Dictionary of contemporary English (1995), p. 407, riporta la seguente definizione: “not bright in color or not interesting”; una possibile traduzione proposta dagli studenti per questo particolare contesto è stato il termine “schifo”. 18 69 recitazione dell’attore Ferruccio Amendola, doppiatore di Robert De Niro in questo come in molteplici altri film:19 E poi lo vorrei vedere sul quadrato recitare se con Sugar si misurasse chissà quante ne pigliasse, per cui datemi un’arena Jake il toro si scatena. Perché oltre al pugilato sono attore raffinato. L’uso sgrammaticato del congiuntivo, tipico di varianti dell’italiano regionale del centro/sud (Campania/Lazio), che in questo caso permette di migliorare la metrica del testo, e di espressioni quali “lo vorrei vedere” caratterizzano il personaggio Jake connotandolo come italo-americano grazie anche a una marcata inflessione centro-meridionale. Tuttavia questa scelta di un italiano substandard colorito da colloquialismi (“Non ne becco uno”), non è in linea con la prima parte del monologo, in cui il doppiatore fatica a scandire i tempi del parlato, proprio per la resa fin troppo formale di alcuni tempi verbali (“mi farebbe piacere” ripetuto per ben due volte) e per scelte lessicali non particolarmente congrue, come ad esempio “fare una bella cura dimagrante” che traduce “to get rid of his flab”, espressione artificiosa e soprattutto poco probabile considerata l’irruente violenza che caratterizza la maschia personalità di Jake. Appare molto valida, invece, la resa “per cui datemi un’arena, Jake il toro si scatena” che rispecchia tono, ritmo e spirito della conclusione del monologo nel TP, oltre a richiamare, in questo caso efficacemente, l’attenzione sul titolo del film e sul carattere del suo protagonista. Infine, dal punto di vista della resa sonora dello spezzone in esame, il riversamento della voce di Amendola sullo stesso canale usato per i rumori circostanti rende la recitazione nel doppiaggio più limpida e forte, la voce “sfora” anche nel momento in cui Jake ha in bocca il sigaro. 20 2.2. Jake e suo fratello Joey Joey: ... he turns his fucking back, they pick up his arm, he’s dead, they tell him he won the fight. People went crazy! Salvy: That shit woulda’ never happened if Tommy was over there taking care of it. I mean you know he’s gotta be with Tommy to fight in New York, to get a title shot, I mean he’s gonna wind up fucking punch drunk your brother. Joey: I know! Salvy: You know?! You gotta make him understand that it’s the best thing for everybody involved. Joey I said I know. Salvy: YOU know, but you gotta make him know, you gotta tell him, make him understand it. Joey: Jesus Christ! You wanna stop? When the fuck you gonna stop with all that stuff. I told you. I understand everything. He just wants to do things for himself, that’s all. Hard to understand? Salvy: It’s because you got a head like concrete. Joey: You make me laugh! You think it’s easy, why don’t you talk to him? You know what to say: tell him! Salvy: You know I can’t talk to him. Joey: Well why can’t you talk to him? Joey:… tre volte l’ha mandato al tappeto. Ha tirato su il braccio, ma sembrava cadavere e gli han fatto vincere l’incontro. Salvy: Non sare… sì non sarebbe successo se Tommy organizzava la cosa. Si deve mettere con Tommy se vuole combattere a New York per avere la chance per il titolo. Se continua così tuo fratello finisce ubriaco su un marciapiede Joey: Lo so. Salvy: Lo sai? Allora gli devi fare capire che è la cosa migliore per lui e per tutti e quattro. Joey: T’ho detto che lo so. Salvy: Tu lo sai, però lo deve sapere anche lui, diglielo, faglielo capire. Joey: Oh Cristo santo, che è ricominci? Ripeti sempre le stesse cose. E gliel’ho già detto, io mi rendo conto di tutto. E’ lui che vuole fare tutto da solo. E’ questo il punto, lo vuoi capire? Salvy: Perché c’ha una zucca al posto del cervello. Joey: Eh, mi fai ridere. Ti sembra facile? Perché non ci parli tu? Sai quello che devi dire: diglielo! Salvy: Lo sai che non ci posso parlare. Joey: Perché non ci puoi parlare? 19 Il celebre attore, scomparso nel 2001, prestando la propria voce anche ad Al Pacino, Sylvester Stallone e Dustin Hoffman, ha tributato a molti dei loro film parte del successo. 20 Nel TP, invece, grazie all’uso del sistema dolby nel camerino in cui Jake recita, che si trova a ridosso di una strada trafficata, si sentono, anche se in lontananza, i motori delle macchine e il suono di un’ambulanza, che rendono più naturale l’atmosfera sonora del film. 70 Salvy: ‘Cause he don’t like me. Salvy: Perché non gli sto simpatico. Joey Yeah, nobody likes ya, you oughta be used to Joey: A lui gli stanno antipatici tutti quanti. that! Questa scena è immediatamente successiva alla prima ripresa di un incontro tra Jake La Motta e un suo rivale, occorso la sera precedente. Rispetto allo spezzone sopra commentato siamo tornati indietro negli anni. I protagonisti si trovano nel Bronx nel 1948. Nel piano sequenza vediamo Joey, fratello di Jake, che si sta dirigendo a piedi verso la casa di quest’ultimo, in compagnia dell’amico Salvy. I due commentano la sconfitta di Jake avvenuta per cause tecniche, nonostante egli abbia steso al tappeto il suo avversario. 21 Conoscendo il forte ascendente che Joey ha su suo fratello, l’amico cerca di convincerlo a far pressione su Jake affinché si leghi alla famiglia di Tommy Como, il boss di una delle organizzazioni criminali coinvolte nel “business” degli incontri di boxe - cui Salvy stesso appartiene - e possa così essere spinto da un promoter che gli garantisca di battersi contro avversari seri, al fine di arrivare al mondiale (“to get a title shot”). Uno degli aspetti su cui il film punta l’attenzione è proprio l’intenso rapporto che unisce Jake al fratello Joey, il quale ricopre anche il ruolo di suo preparatore atletico e manager. Si tratta di un legame tipico delle famiglie di immigrati italo-americani che vedono i membri del proprio nucleo familiare d’origine intoccabili e degni di fiducia assoluta. In realtà nel corso del film il rapporto fra i due verrà distrutto e mai risanato: Jake accuserà il fratello di avergli rovinato la vita, proprio perché lo ha costretto a vendersi alla mafia e a non seguire una strada pulita verso il titolo mondiale, come è convinto che avrebbe saputo fare. Lo sviluppo della trama del film è fondamentale anche per comprendere la scena qui in esame, che, alla luce del contenuto complessivo dell’opera risulta, a maggior ragione, fondamentale. Anche in questo caso iniziamo la nostra analisi comparativa evidenziando alcuni punti del doppiaggio in cui sono rilevabili problemi di decodifica o resa del TP. All’inizio del dialogo Salvy risponde a Joey che si lamenta per il risultato negativo dell’incontro dicendo “I mean he’s gonna wind up fucking punch drunk your brother” tradotto come “Se continua così tuo fratello finisce ubriaco su un marciapiede”. L’espressione “punch drunk”, oltre al significato comune di “very confused” ha un’altra accezione, così riportata nel Longman Dictionary of Contemporary English “A boxer who is punch drunk is suffering brain damage from being hit too much”. 22 Probabilmente non è stato individuato il senso dell’aggettivo e chi ha realizzato il doppiaggio si è basato sul significato letterale del termine “drunk /ubriaco”. Possibili opzioni in questo caso avrebbero potuto essere “rimbambito/rimbecillito di pugni”, come suggerito da alcuni studenti, non essendoci peraltro difficoltà dovute al sync labiale dato che la ripresa dei due dialoganti non è in primo piano. Nella parte conclusiva del dialogo si riscontra un ulteriore problema di scelte non congrue rispetto al contenuto del TP. Nel cercare di convincere Joey, Salvy a un certo punto inizia a scaldarsi e lo apostrofa dicendogli “It’s because you got a head like concrete”, che nel TA diventa “Perché c’ha una zucca al posto del cervello”, ovvero l’affermazione viene indirizzata non a Joey, bensì a Jake. Questo errore viene ripetuto poco dopo, quando Salvy afferma di aver bisogno dell’intermediazione di Joey per parlare con Jake perché quest’ultimo non lo stima “Cause he don’t like me” alla quale Joey risponde riferendo la battuta del TA a Jake, invece cha a Salvy, in questo caso “A lui gli stanno antipatici tutti quanti”. In un articolo sul doppiaggio e sulle cause di tanti problemi che è possibile riscontrare nella realizzazione di film in una lingua diversa da quella di partenza, Thomas Herbst sostiene che non 21 Per la precisione, mentre il rivale di La Motta è a terra, suona il gong prima che l’arbitro finisca di contare fino a 10 e quindi la vittoria viene decretata ai punti. 22 In un sito-web che descrive i trauma subiti da atleti professionisti in diversi sport, con particolare riferimento al pugilato, leggiamo anche: ““punch drunk” means that continued brain loss has become so severe that the individual’s brain reserve has disappeared and the fighter is left with only those brain cells upon which basic function depends” (www.burtonreport.com). In altri siti dedicati alle arti marziali si riporta anche un’altra definizione, cioè “close to being knocked out but still fighting” (www.martialartsnwes.it). 71 sia sufficiente giustificare sempre scelte “bizzarre” facendo appello alla scusa dei tempi ridotti con cui molta parte di film per cinema e TV vengono doppiati. Lo studioso riscontra un altro ordine di difficoltà, a suo avviso più significativo, cioè la scarsa consapevolezza con cui si affronta il lavoro di traduzione per il doppiaggio e di revisione dello stesso. Molte problematiche appartengono alla categoria di rese inadeguate o macroscopicamente errate (come nel caso degli esempi sopra riportati) dovute al fatto che chi lavora al doppiaggio si concentra su una singola scena, proprio per come è strutturata la catena che porta alla realizzazione definitiva di un film. Gli attori si trovano, cioè, a recitare brevi spezzoni di dialoghi, magari anche rivisti con maestria da esperti adattatori, e focalizzano la propria attenzione sulla battuta che doppieranno in quello specifico momento, spesso perdendo di vista la scena nel suo insieme, o l’intero film come unità testuale completa: In my view, an approach to translation that is based on the overall sense of the whole film or a particular scene can help overcome most of these problems. Identifying all the important meaning elements of a scene […] should lead to natural dialogue if one takes a wider approach which is not sentence based.23 Si tratta di una ingenuità in cui incorrono molti studenti che frequentano corsi di traduzione i quali tendono ad evidenziare un approccio verso il processo traduttivo in termini di “sentence by sentence translation”. Proprio per questo un esempio quale quello riportato nel nostro case study può risultare particolarmente efficace in un uso a scopi didattici del testo filmico. Alla luce dell’analisi di questo particolare spezzone durante la discussione collettiva gli studenti hanno sottolineato come nel caso della versione doppiata, i problemi tra Joey e Jake, che vengono espressi rispettando tempi precisi e giustificati nello sviluppo della trama del TP, siano anticipati già nelle prime sequenze della versione doppiata; hanno inoltre rilevato come, pur senza possedere una competenza particolare nella lingua inglese, la sequenzialità del TA risulta vistosamente incongrua in diversi punti e il contenuto dei dialoghi si sarebbe potuto revisionare con maggiore attenzione. Un altro ordine di difficoltà, immediatamente individuato dagli studenti, è quello del linguaggio edulcorato nel TA rispetto al TP in questa scena specifica. Termini grossolani quali “fucking back”, “that shit” “fucking punch drunk”, “when the fuck you” inspiegabilmente scompaiono tutti nell’italiano in questo punto del testo che preserva solo la bestemmia “Jesus Christ/Cristo Santo”, mentre vengono mantenuti nel caso del veloce scambio di battute che Joey e Salvy riprendono e concludono dopo un breve stacco sull’interno della casa di Jake. Joey: I agree with you, he should be with Tommy. If he’s in a good mood I’ll talk to him What the fuck you want me to do? Salvy It’s just, Joey, Tommy tells me every day to talk you and speak to Jake, to straighten this thing out, I mean I’m gonna wind up in the middle in this thing. Joey: You’re in the middle? I’m his brother! He’s got me fucking nuts! Salvy: You’re his brother, if you can’t talk to him, whose gonna talk to him? Joey: I’ll talk to him. Salvy Do watcha can. That’s all. That’s all I’m askin’ ya. Right? Joey: All right, I’ll see you tomorrow. Salvy: Where you gonna be? Joey: Be at the gym or the other joint. One of the two. 23 Joey: Lo so anch’io che si dovrebbe mettere con Tommy. Se è di buon umore ci parlerò. E che cazzo devo fare?! Salvy Vedi Joey, Tommy mi dice tutti i giorni di parlare con te perché tu parli con Jake. E sistemi le cose. Qua va a finire che ci vado di mezzo io. Joey: Ci vai di mezzo tu? E io che sono il fratello? A me m’ha fatto uscire pazzo. Salvy: Se non riesci a parlarci tu chi ci deve parlare? Joey: Ci parlerò. Salvy Fai quello che puoi, non ti chiedo altro Joey: Va bene. Ci vediamo domani adesso vado. Salvy: D’accordo, dove ti trovo? Joey: In palestra o giù al locale. Salvy: Vengo in palestra. Joey: D’accordo. Salvo! Salvy: Sì? Joey: Mavaffanculo. Herbst (1996), p. 113. 72 Salvy: Joey: Salvy: Joey: I’ll catch ya by the gym. All right... Sal! Yeah? Go fuck yourself!! La soppressione di questo lessico si nota anche in altri parti di testo nel corso del film, benché a volte, forse per esigenze di compensazione, assistiamo anche a un’espansione e/o a un inserimento di turpiloquio non presente nel TP, come avremo modo di vedere nell’esempio del dialogo tra Jake e sua moglie riportato in 2.3. 24 Anche nel caso del dialogo tra Joey e Salvy, così come per il monologo di Jake, si nota l’uso di forme contratte “would’a never”, “gotta”, “like ya”, “oughta’” tipiche della caratterizzazione sociolinguistica dei protagonisti nel film e riproposte in forme analoghe in italiano “t’ho detto”, “glielo’ho detto”, c’ha una zucca”. In generale nel TA è più evidente una resa informale e simile al parlato più convincente rispetto al monologo iniziale, e forse più facile da ottenere in questo caso, considerato che il dialogo in esame è costituito da frasi concise e di struttura semplificata. Si sottolinea, sotto questo punto di vista, anche la resa dell’espressione “got a head like concrete” con “c’ha una zucca al posto del cervello” che aiuta a ricreare efficacemente l’effetto della lingua parlata. Per quanto riguarda l’aspetto dell’interpretazione dei doppiatori nella caratterizzazione dei personaggi ha giocato anche il ruolo che questi ultimi hanno all’interno del film. Piero Tiberi, voce di Joe Pesci, propone un’inflessione ricollegabile alle varietà regionali campane, simile a quella di Amendola/Jake, mentre risulta decisamente più marcata la recitazione di Michele Gammino/Frank Vincent/Salvy, il cui vistoso accento siciliano rappresenta uno stereotipo che contribuisce a radicare certe aspettative del pubblico, probabilmente create proprio dalla produzione di film doppiati nel corso dei decenni. 25 Salvy, inoltre, mentre cammina lungo una tipica strada del Bronx affiancato da Joey, indossa un completo scuro gessato (anche questo uno stereotipo della rappresentazione di certi ambienti mafiosi italo-americani degli anni in cui ha luogo l’azione filmica) che spicca anche perché in contrasto con il pur elegante, ma chiaro, completo di Joey. 26 L’inflessione siciliana, tuttavia, appare forzata poiché la voce del doppiatore è comunque molto più calda e profonda di quella dell’originale e soprattutto troppo impostata dal punto di vista della dizione, a scapito della naturalezza e a favore di uno strano effetto nella recitazione, per cui Salvy assume un tono quasi supplichevole che non sembra combaciare né con le espressioni facciali, né con il ruolo che questo personaggio ricopre nel TP. Infine, anche in questo caso, a peggiorare l’effetto dell’atmosfera sonora del TA si può evidenziare quanto le voci arrivino più pulite rispetto al TP. 2.3 Jake e sua moglie Irma L’ultima scena che intendiamo analizzare segue, con un veloce stacco quella appena commentata. Dall’esterno strada si passa all’interno della casa di Jake e Irma (l’attrice Lori Ann Flax), sua prima moglie, di origine ebrea, nel film. Anche Jake, seduto a tavola a mangiare, esprime nervosamente le proprie considerazioni sull’incontro che lo ha visto sconfitto la sera prima, mentre la moglie, in piedi nel cucinino, gli sta preparando una bistecca. 24 Sarebbe utile a questo proposito compiere un’indagine diacronica su un corpus più vasto di film drammatici il cui doppiaggio è stato realizzato negli anni Ottanta e paragonare i risultati a film doppiati in epoca più recente al fine di verificare se questa censura del linguaggio forte in parti di testo sia da imputare a una prassi traduttiva in atto in quegli anni. 25 Castellano (1996), p. 396. 26 Peraltro nella ripresa di questa sequenza, mentre i due percorrono il marciapiede fino all’ingresso della casa di Jake, compaiono alcuni figuranti in vesti di mamme con bambini, lavoratori impiegati in attività commerciali che si affacciano sulla strada, i cui abiti dichiarano la povertà delle classi sociali che abitano nel quartiere. 73 Jake: ... I know, I know who’s the boss. The judges didn’t know, who knows what happened with them, the people knew. Now you don’t believe me, you thought I was over there foolin’ around ya? Tell me the truth. I didn’t go no foolin’ around. That’s in your mind. Irma: Yeah, so what? Jake: That championship belt on me, that’s my foolin’ around! Is it done? Irma: No it’s not done. Jake: Don’t over-cook it, you’re over-cooking it, it’s no good. It defeats its own purpose. What ya doing? I just said don’t over-cook it, bring it over. Irma: You want your steak? Jake: Bring it over! Bring it over!! It’s like a piece of charcoal, bring it over here! Irma: You want your steak? Jake: Yeah right now! Irma: Good! Here it is, steak! Can’t wait for it to be done? Jake: No I can’t wait Irma: Here, good! Happy?! Happy?! Jake: That’s all I want, that’s all I want. Irma: No more! There!! Jake: Botherin’ me about a steak! You bothering me about a steak huh!? Irma: Yeah! Jake: Lo sanno tutti... lo sanno chi è il capo. I giudici non lo sapevano. Quelli non sanno mai niente. Ma la gente lo sa. Tu credevi che io stavo lì a fare lo scemo eh? Eh? Credevi che me la divertivo? Dì la verità? Be’ io non me la divertivo, questo lo pensi tu. Irma: Eh va bene e allora? Jake : Se riesco a vincere il titolo mondiale, allora sì che me la diverto… E’ fatta? Irma: No non è fatta. Jake: Non la cuocere troppo, se la cuoci troppo diventa cattiva, non serve più allo scopo poi ah? Ma che fai? T’ho detto non la cuocere troppo. La cuoci troppo. Portamela qua va. Irma: Vuoi la tua bistecca? Jake: Portala qua. Portala qua. Sembra un tizzo di carbone. La vuoi portare o no? Irma : La vuoi la tua bistecca? Va bene! Jake: Sì, ma adesso. Irma: Va bene eccotela qua la tua bistecca, non puoi aspettare che sia cotta? No? Jake: No, non posso aspettare. Irma: Ah sì? OK, contento? Contento? Jake: … sì so’ contento adesso, so’ contento. Irma: No! Ancora! Tieni, tieni! Jake: Rompi le palle pe’ na’ bistecca? Irma: Eh, bravo! Jake: Rompi le palle pe’ na’ bistecca? Eh? Irma: Sì! Jake ha il viso tumefatto, indossa una canottiera e compie gesti quotidiani che caratterizzano la sua appartenenza alla comunità italo-americana, per esempio usa una grattugia per aggiungere del parmigiano sulla pasta che sta per mangiare. Gli elementi dell’arredo scenografico e gli abiti dei due attori definiscono anche in questo caso la classe sociale di appartenenza: la banale pettinatura di Irma e il dozzinale grembiule che indossa connotano il suo ruolo di semplice moglie, costretta a dedicarsi alla casa. I primi piani con cui la donna viene inquadrata, mentre la voce di Jake si lamenta sia dell’incontro sia, indirettamente, dei sospetti da lei nutriti sulla infedeltà del marito, dichiarano con eloquenza la frustrazione di Irma che proprio in questa scena si sfogherà, gridando tutta la sua rabbia repressa, nell’atto di servire la bistecca reclamata da Jake. Questi risponderà con furia violenta, ribaltando tutto il tavolo, urlando con foga e poi richiudendo la moglie nella stanza da letto. In questa scena il contenuto del TP risulta trasmesso in maniera integra, anche se notiamo il caso della resa un po’ forzata di “Is it done” riferito alla carne con il calco “E’ fatta?” dove l’italiano forse esprimerebbe lo stesso concetto più naturalmente con espressioni quali “E’ cotta?”, oppure “E’ pronta?”. Il phrasal verb “fooling around” chiarisce meglio il discorso di Jake nel TP in quanto contempla i due significati di “to waste time behaving in a silly way”, ma anche “to have a sexual intercourse with someone else’s wife, or boyfriend etc.” (Longman Dictionary of Contemporary English), motivando così, lo sguardo di fuoco lanciatogli dalla moglie in un significativo primo piano. La scelta del dialoghista di tradurre il phrasal verb con “divertirsela”, resa lessicale sicuramente meno esplicita del TP, appare giustificabile perché permette al doppiatore Amendola di caricare la caratterizzazione di Jake sfruttando questa come altre espressioni tipiche del parlato piuttosto efficaci in un simile contesto: - “Tu credevi che io stavo lì a fare lo scemo?” “Credevi che me la divertivo?”, “Allora sì che me la diverto”, “Sembra un tizzo di carbone”, “Rompi le palle…” 74 oppure strutture sintattiche che evidenziano l’uso di forme contratte o elisioni - “Quelli non sanno mai niente”, “Portamela qua”, “T’ho detto non la cuocere troppo” “La vuoi portare o no?”, “So’ contento”, “… pe’ na bistecca”. e infine interiezioni tipiche del parlato - “eh?”, “va”. Come già anticipato nel precedente paragrafo si nota che in questa porzione di testo la violenza fisica con cui esplode la rabbia di Jake trova corrispondenza nel TA anche grazie all’appropriato uso dell’espressione volgare “rompi le palle” che traduce “bothering me”, decisamente più neutra nel TP. Riteniamo opportuno concludere la nostra analisi di questa scena con un confronto fra la resa nel complesso efficace, sia per le scelte a livello linguistico sia per le abilità del doppiatore, delle battute di Jake rispetto a quelle di Irma. 27 La prima moglie di Jake è decisamente un personaggio minore all’interno del film, ma l’attenzione con cui Scorsese e i suoi sceneggiatori descrivono la sua personalità, anche se solo nelle prime scene del film, rende anche questo character fondamentale nell’economia della storia. La voce di Lori Ann Flax/Irma nel TP è piuttosto acuta, e diventa decisamente stridula nel furioso scambio verbale con Jake, in perfetta simbiosi con il nervoso carattere del personaggio e con il corpo minuto dell’attrice che interpreta la sua parte. La voce della doppiatrice italiana, al contrario, è calma e profonda, più simile a quella di una femme fatale, in termini di aspettative del pubblico. 28 La sua dizione, come anche nel caso di Salvy, è ben articolata e si nota anche una sfasatura nelle sue battute in cui alcune rese colloquiali come “Vuoi la tua bistecca? Eccotela!”, in linea con il personaggio, sono opposte a rese invece fin troppo formali come “Non puoi aspettare che sia cotta?”, come è stato notato durante la discussione nel workshop. Anche in questo nostro ultimo esempio per proporre un’analisi qualitativa del TA è risultato necessario osservare il doppiaggio attraverso diversi livelli, tutti ugualmente utili per affrontare una discussione proficua. 3. Conclusioni L’esame di questo particolare TP ha permesso di sviluppare un discorso su alcune delle componenti che occorre considerare quando si affronta un’analisi contrastiva nell’ambito di testi filmici, sia per ciò che concerne la realizzazione di un prodotto doppiato, sia sottotitolato. Per tornare alle domande che ci siamo posti come premessa della nostra analisi possiamo affermare che nel caso di questo particolare film la regia firmata da Martin Scorsese non ha garantito al processo traduttivo una particolare cura nella resa anche di parti significative dal punto di vista del contenuto del TP. Ai fattori già citati quali elementi che giustificano alcune rese poco efficaci o errate di porzioni del TP possiamo aggiungere anche il fatto che nella maggior parte dei casi nelle fasi del doppiaggio di film stranieri non esiste un controllo da parte della casa di produzione del TP, né dell’autore del film stesso, fatto salvo rari casi, come quello spesso citato dagli addetti ai lavori, di Stanley Kubrick, che ha sempre preteso di verificare la qualità dei propri film nei paesi in cui questi venivano doppiati. 29 Le considerazioni sulla caratterizzazione dei protagonisti, svolta non solo su alcuni aspetti prettamente linguistici, ma anche su altri fattori, quali la scelta delle voci e di elementi tecnici legati alla resa delle bande sonore, hanno permesso agli studenti di riflettere sulla molteplicità dei problemi sottesi alla produzione di testi tradotti nel settore multimediale. Il confronto fra prodotto doppiato e prodotto sottotitolato di un medesimo film (in particolare nel caso delle lezioni svolte presso la SSLMIT, Università di Bologna) ha inoltre 27 Purtroppo attraverso le nostre ricerche non è stato possibile reperire il nome dell’attrice che presta la voce a Lori Ann Flax/Irma nel film. 28 Castellano (1996). 29 Comunicazione personale rilasciata da Mario Maldesi, direttore del doppiaggio di grande esperienza che ha lavorato sui film di Kubrick, 2000. 75 costituito una possibilità di verificare in concreto quali siano le problematiche che si presentano in questo specifico campo di specializzazione su due livelli diversi (doppiaggio/sottotitolaggio) offrendo agli studenti spunti di riflessione da acquisire come bagaglio di esperienza sia durante il proprio curriculum accademico, sia per futuri percorsi di studio o professionali. A questo si è aggiunta la possibilità di aprire anche una riflessione su alcuni elementi caratterizzanti la cultura cinematografica di partenza e su alcuni stereotipi su cui si fonda la prassi del doppiaggio nella cultura di arrivo, grazie ai quali è stato avviato un discorso sui diversi effetti che il TP può produrre rispetto al TA sui ricettori dei due distinti prodotti. L’impatto che un testo con componente visiva ha su giovani studenti costituisce un valore aggiunto che aiuta a sviluppare un discorso complessivo sulla consapevolezza indispensabile per affrontare l’attività di traduzione in questo come in altri ambiti di indagine. Soprattutto ci è parso che il testo filmico abbia offerto la possibilità di “vedere” letteralmente le conseguenze che alcune scelte traduttive determinano sulla ricezione di un prodotto, anche aldilà di una valutazione sulla loro effettiva qualità, risultato che non sempre si riesce ad ottenere affrontando per esempio TP letterari o tecnico-scientifici. La discussione e il confronto sui problemi individuati, hanno stimolato una partecipazione attiva da parte degli studenti che hanno mostrato di apprezzare il percorso compiuto durante il workshop offrendo spesso il proprio indispensabile contributo critico. BIBLIOGRAFIA Baccolini/Bollettieri Bosinelli/Gavioli (1994) Baccolini R./Bollettieri Bosinelli R.M./Gavioli L, Il doppiaggio. Trasposizioni linguistiche e culturali, Bologna, CLUEB, 1994 Castellano (1996) Castellano, Alberto, Dalla teoria alla pratica, in Traduzione multimediale per il cinema, la televisione e la scena, a cura di C. Heiss e Bollettieri Bosinelli, R.M., Bologna, CLUEB, 1996 Delabastida, Dirk, (1989) Delabastida, Dirk, Translation and Mass Communication: Film and TV Translation as Evidence of Cultural Dynamics, “Babel” 35/4 (1989), pp 193-218 Delabastida (1990) Delabastida, Dirk, Translation and the Mass Media , in Translation, History and Culture, Bassnett Susan, Lefevere André, eds. London, Pinter, 1990, pp. 97-109 Fink (1984) Fink, Guido, Orgoglio e pregiudizio: stereotipi hollywoodiani e doppiaggio di casa nostra, in “Cinema & Cinema” 6 (1984), pp. 26-35 Heiss (2000) Heiss, Christine, La traduzione filmica come pratica didattica, in La traduzione multimediale: Quale traduzione per quale testo, a cura di Bollettieri Bosinelli, R.M., Heiss C., Bernardini S., Bologna, CLUEB, 2000 Herbst (1996) Herbst, Thomas, Why Dubbing Is Impossible, in Traduzione multimediale per il cinema, la televisione e la scena, a cura di C. Heiss e Bollettieri Bosinelli, R.M., Bologna, CLUEB, 1996, pp. 97-115 Kaufmann (1995) Kaufmann, Francine, Formation a la traduction et à l’interpretation pour les medias audiovisuals, in “Nouvelles de la FIT-FIT Newsletter” 14 (1995), pp. 431-442 76 Mereghetti (2004) Mereghetti, Paolo, Dizionario dei film, Milano, Baldini & Castoldi, 2004 Morandini (2001) Morandini, Morando, Dizionario dei film, Bologna, Zanichelli, 2001 Nadaud (1995) Nadaud, A., Traduire et interpreter pour les medias, in “Le Journal du traducteur” 7 (1995), pp 3-5 Rundle (2000) Rundle, Christopher, Using Subtitles to Teach Translation in La traduzione multimediale: Quale traduzione per quale testo? a cura di Rosa Maria Bollettieri Bosinelli, Christina Heiss e Marcello Soffritti, Bologna: CLUEB, 2000. pp. 167-182. Taylor (1996) Taylor, Christopher, The relevance of Dubbing and Subtitling to Language Teaching, in Traduzione multimediale per il cinema, la televisione e la scena, a cura di C. Heiss e Bollettieri Bosinelli, R.M., Bologna, CLUEB, 1996 Taylor (2000) Taylor, Christopher, In Defence of the Word: Subtitles as Conveyors of Meanings and Guardians of Culture, in La traduzione multimediale: Quale traduzione per quale testo , a cura di Bollettieri Bosinelli, R.M., Heiss C., Bernardini S., Bologna, CLUEB, 2000 Dizionari Longman Dictionary of Contemporary English, London, Longman, 1995 Siti-Web www.burtonreport.com www.martialartsnwes.it 77 ANTONELLO LA VERGATA Specialismo e divulgazione 1 La tesi che intendo sostenere è semplice e radicale: il linguaggio tecnico è spesso più tecnico del necessario. Il tecnicismo esasperato non è effetto della necessità di usare un linguaggio preciso; è figlio, sì, della specializzazione, ma un figlio malformato a causa di una malattia comune a specialisti e non specialisti, che si può chiamare “complicazionismo” o “difficilosi”. Il tecnicismo ne è un sintomo, ma le cause sono diverse e più profonde. Nelle pagine che seguono intenderò dunque specialismo e divulgazione in un senso molto ampio. Per usare termini molto impegnativi, tratterò dell’etica della corretta comunicazione, ma in un modo molto terra terra. Affermerò che sia del tecnicismo giustificabile sia del tecnicismo ingiustificabile siamo tutti al tempo stesso vittime e colpevoli, anche fuori dell’ambito strettamente scientifico-tecnico. Concluderò con un’ipotesi psicosociologica, se così posso dire, sulle cause del complicazionismo. Non suggerirò rimedi, perché sono convinto che ci sia poco da fare, almeno nell’immediato: non è possibile raddrizzare le gambe ai cani; si può solo acquisire una sensibilità individuale alle brutture – che non sono solo estetiche, come vedremo – e servirsene per fare le proprie scelte (non sarebbe poco); per il resto, succeda che può. Il linguaggio difficile e oscuro è oggetto da sempre di esecrazioni e di prese in giro. Per cominciare, ricorderò una gag di Totò in un film che tutti avranno visto, Totò, Peppino e la malafemmina. Totò, spendaccione, ha comprato un trattore e lo presenta al fratello Peppino, contadino parsimonioso e diffidente. “E questo cos’è, il motore?”, chiede Peppino. “Che dici, ignorante”, risponde Totò, “questo è un apparato meccanico-movimentale”. Bene, quante volte abbiamo avuto la sensazione che un nostro interlocutore parlasse così, tanto per posare a esperto? Altro esempio, preso, purtroppo, dal mondo della scuola, il luogo in cui si dovrebbe imparare a leggere e scrivere. E’ tratto da una vignetta di Altan – una delle più alte coscienze morali dell’Italia contemporanea – a proposito delle famigerate schede che furono introdotte tempo fa al posto dei voti. Vista la pagella del figlio, un signore dai modi molto diretti va dall’insegnante e gli dice: “A professo’, qua ce sta scritto che mi fijo ‘presenta uno spiccato livello de appropriazione lessicale non disgiunto da un adeguato bilanciamento fra uso attivo e uso passivo delle risorse linguistiche formali e contenutistiche, pur nell’incostanza – affatto prevedibile nell’età di transizione attraversata dal discente in oggetto – della gestione critica della partecipazione alle attività comuni e del livello progressivo di attenzione richiesto per slatentizzare le potenzialità del soggetto.’ Nunn’ho capito se je devo mena’ o no”. Procediamo. A conclusione di un comunicato di Banca Intesa elencante i nuovi tipi di conto corrente offerti ai clienti: “Contestualmente saranno storicizzati i prodotti già in essere”. Vuol dire: i tipi di conto che non sono compresi nell’elenco saranno conservati per i vecchi clienti che li possiedono già, ma non saranno disponibili per i nuovi clienti. Il termine “storicizzare” ha un significato tecnico in certe discipline; una sua ritecnicizzazione non ne esporta il significato preciso in una nuova area, ma produce una complicazione al quadrato. Prova ne sia il fatto che, senza la mia traduzione, non si sarebbe capito niente. E’ comunicare questo? Andiamo avanti. Da un verbale dei carabinieri: “Il soggetto generalizzato in oggetto”. Nessun hegelismo particolare. Vuol dire: la persona (il soggetto) di cui si danno le generalità alla voce “oggetto” del presente verbale. Ultimo esempio di questa prima serie. Telefono ad una ditta. Mi risponde una segreteria automatica. Se ho “un apparecchio telefonico in multifrequenza”, dice, devo digitare 1, se no 2. Ma 1 In questo saggio ho ripreso e sviluppato alcuni argomenti svolti in due lavori precedenti, ai quali mi permetto di rimandare: Vergata (1998) e Vergata (2002). Questo saggio è stato già pubblicato in Vergata (2004). 78 se io non so che cosa vuol dire “apparecchio telefonico in multifrequenza” sono escluso di fatto dal servizio. E’ ovvio che gli esempi possono moltiplicarsi all’infinito. Sembra che il mondo intorno a noi sia animato da una frenesia di ricerca della complicazione. E che la complicazione sia camuffata da precisione e da innovazione non fa che aggravare le cose. Anche qui l’esperienza di ognuno può fornire esempi a iosa. Ad un certo punto, come per una decisione presa in un convegno nazionale, i fiorai sono diventati fioristi, i dipartimenti di Zoologia sono diventati dipartimenti di Biologia animale, quelli di Farmacia dipartimenti di Scienze farmaceutiche, quelli di Filosofia dipartimenti di ricerche filosofiche (se no come si fa a ricordare al grande pubblico che la filosofia è ricerca?), il Polo delle Libertà Polo per le Libertà (più preciso, no?) e poi di nuovo Polo delle Libertà (ancora più preciso), la polizia Polizia di Stato (ma chi ha mai pensato che fosse privata?). In banca da qualche tempo non c’è più un tetto alle operazioni, ma un plafond; non si cambiano più le valute, ma le “divise”. Sui treni italiani Chef Express, “la ristorazione che viaggia” non offre fette di torta (come le abbiamo sempre chiamate tutti fin da bambini, compresi i libri delle elementari che ci spiegavano le frazioni), ma “tranci di torta” (e vi assicuro che non sono più grossi). Il cronista di calcio si esalta al “quarto gol personale di Totti” (ma esiste anche il gol collettivo?). Il Consiglio Nazionale delle Ricerche finanzia “progetti finalizzati”, che sono in realtà “applicativi” (conoscete un progetto che non sia, in quanto tale, rivolto ad un fine?). Gli economisti parlano dell’“interscambio” fra l’Italia e gli Stati Uniti (ma scambi che non siano “inter” non sono scambi; altrimenti dobbiamo concludere, come quel personaggio di Molière, che da ragazzi abbiamo interscambiato figurine senza saperlo). Negli uffici postali, lettere e raccomandate si chiamano “prodotti postali”, e le zone degli stessi uffici in cui si possono acquistare cartoni per pacchi, spaghi eccetera “aree dedicate” (a che cosa? Dedicate, e tanto vi basti). Al telegiornale sentiamo dei “costi in termini monetari della manovra economica” (per distinguerli dai costi in vite umane, naturalmente). E in che cosa il manageriale, tecnico, moderno cartello “non operativo” su uno sportello informa più del vecchio “chiuso”? Ma il grande vincitore di questa nobile gara del superfluo è la parola “apposito”: “servirsi degli appositi sottopassaggi”, “introdurre la moneta necessaria (a proposito: quella necessaria no) nell’apposita feritoia”, “premere l’apposito pulsante”, ecc. ecc. Caso mai qualcuno fraintendesse, e imboccasse il sottopassaggio che conduce alle fogne di Parigi, o inserisse le monete (anche quelle non necessarie, per generosità) nella buca delle lettere, o premesse il bottone della camicia… Secondo in classifica il termine “provvedere”: il vigile (anzi, l’“operatore di vigilanza”, com’era scritto sulle motociclette dei vigili di Montepulciano) non fa la multa, ma “provvede a elevare contravvenzione”; i carabinieri, tempestivamente sopraggiunti, non arrestano, ma “provvedono ad arrestare”; nei verbali dei concorsi universitari (cioè delle “valutazioni comparative”, come si chiamano ora che sono stati resi più rigorosi) la commissione non apre i plichi delle pubblicazioni inviate, non affigge i risultati, non fa entrare i candidati, ma “provvede ad aprire i plichi”, “provvede ad affiggere i risultati”, “provvedere a far entrare i candidati”. Terzi classificati a pari merito i termini “operazione” e “opera”, come nelle frasi paradigmatiche (quante volte sentite!) “procedono regolarmente le operazioni di voto relative alla consultazione referendaria” (frase che meriterebbe uno studio a sé), “prosegue l’opera di soccorso delle vittime…” o “l’opera di spegnimento dell’incendio”. Da questa serie di esempi si ricava facilmente la morale che ispira questo modo di parlare: mai dire con una parola quello che si può dire con quattro. Questa sembra una regola a cui tutti si sentono in dovere di attenersi scrupolosamente. Esempio tratto dal giornale radio: “Il conflitto armato che ha opposto l’apparato militare britannico all’esercito dei generali argentini” (= la guerra anglo-argentina per le Falkland). Esempio tratto dall’annuncio dell’altoparlante della stazione di Bologna (ma che vale per tutte): “Detto treno nella tratta Bologna-Milano non effettua fermate intermedie” (a che serve aggiungere “intermedie”?). Siamo nella categoria del famigerato “entro e non oltre” o del “solo ed esclusivamente”. Ho detto: “tutti”. Infatti, questa morale non vige solo fra telegiornalisti, vigili, carabinieri, bancari, fiorai, ferrovieri e filosofi: vige universalmente. In molti casi non è possibile tradurre 79 questo linguaggio in lingua umana: è bacato il pensiero, non la forma. Certe cose nascono storte e non possono più essere raddrizzate: non dovrebbero proprio essere pensate, insomma. I colpevoli non lo fanno apposta: non sanno quello che fanno. Non parlano male perché non vogliano comunicare; tutt’altro: credono di essere precisi, moderni, tecnici, efficienti. Andiamo avanti. Letto in una bacheca su un marciapiede della stazione di Modena (fra parentesi i miei commenti): Avviso alla clientela (solo alla clientela?) Sui marciapiedi delle stazioni (siamo già in stazione: è necessario dirlo?) è tracciato, con segnaletica orizzontale (poteva essere verticale una segnalazione tracciata su un marciapiede?) di colore giallo, il limite massimo (poteva anche essere minimo) da rispettare per (per!!) arrivi, partenze e transiti di treni (e che altro?) e manovre (c’è differenza fra un transito e una manovra, visto che non si può far altro che andare su e giù per un binario?). Pertanto si invitano i signori viaggiatori (non i loro accompagnatori? ) che sostano sui marciapiedi (e se camminano? Se stanno seduti non c’è problema) in attesa del treno (solo quelli in attesa?) a prestare particolare (non un’attenzione normale) attenzione a non oltrepassarla. Insomma: Vietato oltrepassare la linea gialla. Caso inoffensivo, d’accordo, ma chi si esercita così sulle inezie chissà che cosa produce sulle cose importanti? Quanto siano pericolosi soggetti che si esprimono in questo modo è dimostrato dallo stesso ente. L’esempio che segue dimostra che chi è capace di eccesso è capace anche di difetto di informazione. Avviso pendente dai bagagliai dei treni italiani nel febbraio 2003: CON INTERCITY CARD VIAGGI IN 1° CLASSE Nei giorni di lunedì, martedì e mercoledì, dal 3 al 26 marzo, i titolari di Intercity Card viaggiano in 1° classe su tutti i treni Intercity acquistando un biglietto di 2° classe. Per usufruire del vantaggio, occorre presentare l’IC Card definitiva plastificata. Per acquisto biglietti: Biglietterie di Stazione, Agenzie di viaggio, www.trenitalia.com Call Center: 89.20.21 (senza prefisso). L’acquisto è possibile fino a 24 ore prima della partenza. Come ci si può aspettare da chi usa tante maiuscole e chiama call center un centralino, questa comunicazione è truffaldina, poiché tace particolari importanti. Voi credete che si tratti solo di comprare il giorno prima un biglietto di seconda, salire sul treno, andare in prima classe, mostrare la carta intercity plastificata quando passa il controllore (cioè “il personale viaggiante incaricato di effettuare il servizio di controlleria”) e viaggiare tranquilli. Errore! Se fate così siete in regola con la lettera dell’avviso, ma non con quello che l’avviso non dice, come vi insegnerà il controllore facendovi la multa: perché il biglietto dev’essere acquistato 24 ore prima con una prenotazione del posto; e se non prendete quel treno su cui avete prenotato non solo perdete il posto e lo sconto, ma siete considerati viaggiatori senza biglietto. Quello che nell’avviso sul marciapiede era imbroglio linguistico qui è imbroglio e basta. Troppo spesso, quando si parla del diritto all’informazione corretta, si ha in mente soprattutto il difetto di comunicazione: ci si lamenta soprattutto perché non si viene informati abbastanza. Ma l’eccesso non è meno pericoloso. Tutti sanno che un contratto con una banca o con una compagnia di assicurazione presupporrebbero la lettura accurata di un testo lunghissimo, non solo scritto per lo più in caratteri minuti, ma pieno di clausole, perifrasi, tecnicismi, lungaggini, rinvii a leggi e circolari, insomma una selva di parole che nessuno, nessuno legge da cima a fondo e si fa spiegare dall’inizio alla fine. Tempo fa, a chi voleva comprare azioni approfittando dell’offerta pubblica di acquisto dell’ENI o di altri enti veniva dato addirittura un volume (chiamano vezzosamente “prospetto illustrativo”), la cui lettura era obbligatoria prima della firma! Si sa, la legge non ammette ignoranza. Ma come sono scritte le leggi in questo paese? Come non possono non essere scritte da persone che scambiano la precisione con il narcisismo e la superfetazione. Viviamo in un paese in cui a scuola non si viene abituati alla chiarezza e alla concisione. Quindi il 80 burocrate o il leguleio, anche quando non ha intenzioni cattive, anche quando non cerca di cautelarsi da inconvenienti mediante scappatoie linguistiche e formule ambigue, scrive oscuro per abitudine: anzi, proprio perché cerca di essere preciso, conformemente ai modelli che la scuola, la società, i colleghi ecc. gli hanno imposto, mediante vere e proprie pratiche di iniziazione così efficaci da fargli il lavaggio del cervello e da distruggere il buon senso. Non dimentichiamo mai quanto sia pericolosa la ricerca ossessiva della precisione ad opera di persone che pensano male. I gerghi tecnici (ma forse a questo punto sarebbe meglio dire “tecnicistici”) non sono altro che la ciliegina sulla torta della complicazione, l’effetto cutaneo di una malattia interna mortale. Quanti di noi sono stati capaci di installare una lavatrice o una televisione o un videoregistratore solo seguendo le istruzioni del libretto? Quanti hanno imparato a usare un computer senza chiedere aiuto a un amico passato già attraverso le stesse forche caudine? Si dirà che le istruzioni, come i “bugiardini” che accompagnano le medicine, sono rivolte agli esperti: tecnici, medici, idraulici, farmacisti. Ma dove sta scritto che debba essere così? Ricordo con orrore la prima trasmissione dedicata dalla RAI al computer, nella rubrica Telescuola (oggi si chiama RAI Educational!). Saranno passati forse vent’anni da quello che considero un documento storico straordinario. Nello studio erano schierati cinque o sei esperti, in rappresentanza di marche diverse, ognuno con la sua postazione. Presero la parola uno dopo l’altro e scaricarono sull’ascoltatore dati sulle prestazioni dei loro strumenti, facendo pubblicità piuttosto che informazione, e comunque in un linguaggio letteralmente incomprensibile. La presentatrice restò così sconvolta che farfugliò qualcosa come “Be’, ci rendiamo conto che è difficile spiegare per televisione a chi si accosta al computer per la prima volta quali straordinarie possibilità offra uno strumento come questo. Vi invitiamo a seguire le altre puntate di questo programma. Col tempo tutto diventerà più facile”. Quel programma finì lì. Io devo ancora riavermi dallo spavento, tant’è che uso il mio PC come una macchina per scrivere, col telefono a portata di mano per chiedere aiuto ad un amico paziente e bravo. Quella trasmissione è, per usare un termine abusato, emblematica: o nessuno spiegò chiaramente a quegli esperti che dovevano introdurre al computer gli ignoranti e non fare i piazzisti o qualcuno glielo spiegò ma loro non capirono niente oppure capirono e si dimostrarono costituzionalmente incapaci di farsi capire. Comunque fosse, il fallimento fu totale, perché nel cervello di tutti i colpevoli non c’era un’area specializzata nella funzione “immedesimarsi nel destinatario della comunicazione”. Mancanza di cultura della comunicazione e di una tradizione nazionale nella divulgazione, pressappochismo italico, compiacimento tecnicistico e provinciale di figure sociali emergenti e aggressive, animate da un forte senso di casta: tutto questo concorre a determinare risultati disastrosi. Il linguaggio dell’informatica scivola troppo spesso nel gergo degli informatici, un italiese che non ha né i vantaggi dell’inglese né quelli dell’italiano, che non può essere giustificato con l’esigenza di precisione tecnica, poiché non è precisione quella che non serve a comunicare, a divulgare, ma a rendere indispensabile la mediazione dei membri di una corporazione. Il discorso non vale solo per gli informatici, naturalmente. Ecco un esempio tratto dalla trasmissione Check up (per altro benemerita). Parla un illustre medico: “Ove la sintomatologia dolorosa divenisse eclatante bisognerebbe predisporre tutte le procedure finalizzate all’exenteratio”. Vuol dire: “Se il dolore diventa insopportabile, bisogna asportare”. In che cosa quello sproloquio era più preciso della mia traduzione? In che cosa l’“assunzione per os” è più precisa dell’“inghiottire”? Ad un convegno ho sentito biologi dire “ancestori” e “splittaggio” invece di “antenati” e “scissione”. Ho visto tradurre l’inglese template theory of inheritance con “teoria del templato dell’eredità” (un template è un normografo o sagoma). Ho sentito in televisione un altro illustre medico dire, nel tentativo di essere più preciso dei precisi, “l’origine eziologica della patologia”. Ho sentito un ex ministro della Giustizia, uno che deve esprimersi nel più fetido scartoffiese anche quando ordina un caffè, negare con le seguenti parole di essersi candidato alle elezioni politiche con un certo partito per vendicarsi di un altro partito che, quando lui era ministro, aveva avanzato una mozione di sfiducia ai suoi danni: “L’evento della mia candidatura non è affatto da considerarsi reattivo all’accadimento del voto di sfiducia”. Come non meravigliarsi che i cittadini sentano come un mondo alieno quello della legge 81 o della medicina o della scienza. Una cosa è la difficoltà oggettiva dei concetti e dei termini (senza la matematica non si capirà mai la fisica quantistica), tutt’altra cosa la scelta di un registro comunicativo fatto per respingere. Non si tratta di sostituire con perifrasi termini come “RNA messaggero”, “enfiteusi”, “palindromo”, “traslazione”, “sfigmomanometro” o “elettroforesi”; si tratta di usarli in un contesto chiaro e accessibile, che concentri la difficoltà dove è necessario. Né, a ben vedere, ci si può limitare ad auspicare una più diffusa capacità di divulgare. La comunicazione oscura è inammissibile anche fra addetti ai lavori: chi si abitua al tecnichese e al difficilese ne resta prigioniero, e il suo cervello si impoverisce. Ne risente la stessa comunicazione fra addetti ai lavori. Tempo fa “Science” e “Nature” ospitarono dure critiche al modo in cui era scritto un numero crescente degli articoli sottoposti per la pubblicazione: un linguaggio inutilmente sciatto e complicato li rendeva incomprensibili agli stessi collaboratori delle due riviste. Vengono i brividi a pensare come si sarebbero chiamati oggi gli strumenti che Galileo chiamava semplicemente “occhiale” e, con umorismo che oggi si attribuirebbe ad understatement anglosassone, “celatone” (una sorta di casco per misurare la longitudine): forse si chiamerebbero “supporti ottici mobili operativi”. Da qualche tempo, “fertilizzare” e “fertilizzazione” hanno sostituito “fecondare” e “fecondazione” nel lessico dei biologi e dei medici, senza nessun guadagno per la precisione, ma per la sola attrazione dell’inglese, e del piacere di sentirsi moderni. La cosa suscitò a suo tempo la protesta di Giuseppe Montalenti, uno dei massimi genetisti italiani. L’adeguamento a standard internazionali di precisione allo scopo di facilitare la comunicazione oltre l’ostacolo delle lingue non è, né in questo né nella maggior parte dei casi simili, una giustificazione valida. O si crede che il medico che dicesse “fecondare” in un consesso specialistico sarebbe considerato poco aggiornato dai colleghi? Se fosse solo una questione della maggior precisione dell’inglese (ma davvero “fecondare” è meno preciso di “fertilizzare”?), sarebbe più logico sostituire completamente l’italiano con l’inglese anche nella comunicazione quotidiana fra colleghi. Ma quanti ne sarebbero capaci? L’Italia è piena di tecnici che non sono in grado di sostenere una conversazione in una lingua straniera, ma infarciscono il loro gergo di parole straniere che non sanno nemmeno pronunciare. E comunque, per chi sa che “fecondità” in inglese si dice fertility non dovrebbe essere difficile tradurre all’occorrenza nell’uno o nell’altro senso. Ma è inutile insistere: qui non è in gioco la logica, ma fattori di altro ordine: sciatteria, provincialismo, senso di casta, e forse anche una sopravvivenza di pensiero magico… Nel pensiero magico, dare un nome a una cosa vuol dire possederla, cambiarle nome vuol dire trasformarla e rafforzarne il possesso. Un esperto non è necessariamente una persona capace di spiegare. Anzi, spesso non lo è affatto, e proprio perché è un esperto. Nel suo orizzonte mentale appare naturale quello che al profano appare incomprensibile; non sente il dovere di uscirne per entrare in quello di chi ascolta e poi rientrare nel proprio e così via per tutto il tempo della comunicazione, che consiste proprio in questo “dentro e fuori”. Quando rimane nella propria gabbia, l’esperto crede di comunicare, ma in realtà officia un rito. Sembra che parli ad un’altra persona, ma in realtà parla a se stesso – come il peggiore dei poetastri narcisisti – ripetendo una lezione imparata a memoria durante riti di iniziazione e congratulandosi con se stesso per averla appresa così bene. Parla a sé e ai suoi sodali mentre parla a voi. E se cercate di far valere il vostro diritto di capire vi dirà: “Questo è linguaggio tecnico: non ci posso fare niente”. Viene in mente il personaggio della trasmissione “Mai dire gol”, il nonno telematico, che viveva attraverso il computer e a chi gli chiedeva spiegazioni di quello che diceva rispondeva: “Ma tu capisci di computer? No? E allora che parli a fare?” In molti casi il linguaggio non serve a comunicare, ma ad escludere. Michel Foucault (per altro campione lui stesso del linguaggio inutilmente oscuro) parlava di “meccanismi di esclusione dal discorso”. Il linguaggio inutilmente, falsamente tecnico è un linguaggio di sopraffazione. Serve a mantenere il predominio di una casta, nonostante le buone intenzioni di chi lo usa. Al tempo stesso, i meccanismi di esclusione rafforzano ritualmente un’identità. E’ come se chi parla si rivolgesse non solo all’interlocutore, ma soprattutto a se stesso, dicendo: “Io appartengo al tale gruppo, ne parlo il gergo. Poiché parlo così, sono degno di farne parte”. Nei consessi specialistici, il 82 linguaggio tecnicistico (non quello tecnico, è necessario ripeterlo?) svolge la funzione, anch’essa rituale, di rinnovare l’iscrizione al gruppo e di rinsaldare il senso di appartenenza, come nelle cerimonie religiose che rinsaldano il legame alla comunità degli eletti. In ogni discorso tecnicistico si può sentire un basso continuo che dice: “Vedete? Sono dei vostri. Merito di essere qui”. Il linguaggio assicura un’identità al prezzo di molte esclusioni. L’incomunicabilità non consiste nella difficoltà delle parole, ma nel modo e nello scopo del loro uso. Che cosa lo spirito di casta abbia in comune con l’ideale del sapere come apertura, partecipazione, collaborazione, allargamento della base sociale della ricerca è un mistero. Mi rifiuto di pensare che l’aumento delle conoscenze e della specializzazione comporti inevitabilmente incomunicabilità. Anche perché ne siamo vittime tutti, e non posso credere che vogliamo restare tali. Ognuno di noi, infatti, è escluso da decine di comunità, ma per altri versi, in quanto elettore, marito, malato, derubato, acquirente di beni immobili, titolare di un conto bancario, proprietario di un’auto, ecc., è costretto ad entrare continuamente in comunità in cui viene subito emarginato e fatto oggetto di violenza da parte di chi abusa del proprio potere. Anche in campo strettamente scientifico l’incomunicabilità è un male che colpisce tutti. Entro certi limiti, è un male inevitabile: un paleontologo, uno zoologo e un biologo molecolare hanno in mente tre cose diverse quando usano la parola “specie”, perché pensano ad aspetti diversi della stessa realtà, pur affrontando il problema generale dell’evoluzione della vita. Ma sarebbe ridicolo che ognuno considerasse il proprio punto di vista come il migliore o l’unico. Quando si parla di divulgazione, s’intende per lo più la trasmissione semplificata delle conoscenze dallo specialista al profano. E’ un errore: siamo tutti profani in un’infinità di cose, e tutt’al più siamo esperti solo in qualcuna. La divulgazione riguarda anche il rapporto fra specialisti di diverse discipline. Davvero c’è chi crede che un etolologo, per il solo fatto di essere uno scienziato, possa leggere senza difficoltà una rivista di astrofisica? O uno storico contemporaneo un testo di ermeneutica biblica? I linguaggi settoriali vengono blindati non solo per facilitare la comunicazione fra i membri del gruppo, ma anche per escludere i colleghi di altri campi. Il dialogo fra specialisti di discipline diverse somiglia troppe volte ad un dialogo fra sordi, e, come si sa, non c’è peggior sordo chi non vuol sentire. Le cause di questa sordità sono le stesse che impediscono l’abbattimento delle barriere: gelosie professionali, concorrenza per i finanziamenti, lotta per l’egemonia, spirito di casta, presunzione, ignoranza, mancanza di curiosità. Ognuno coltiva il proprio orticello, perché in quello farà carriera e otterrà una piccola fetta di potere; quindi lascia che gli altri facciano altrettanto: sembra discrezione, ma è disinteresse; è una tolleranza fondata sull’intolleranza: “A casa tua comandi tu, ma qui comando io, ed è questo che conta”. E’ l’atteggiamento di chi crede di bastare a se stesso. E’ un’illusione, come tutti siamo pronti ad ammettere, ma troppe volte dura un’intera vita; e quando s’impara la lezione, il danno arrecato alla comunità è fatto. Anche se ammantato di rigore scientifico, questo è fondamentalismo, e nessuno ne è immune. Una situazione del genere si può cambiare solo lentissimamente, e certo non se ci si limita a invocare ritualmente una “nuova cultura della comunicazione”. Per informarsi bisogna volersi informare. Per avere bisogna chiedere. L’indifferenza e l’assuefazione sono i nemici maggiori. I gerghi tecnici di dominio creano indifferenza: è il loro più potente mezzo di difesa. Il primo, decisivo passo è la diffusione del desiderio di ficcare il naso in casa altrui, accompagnato dalla faccia tosta di esigere dal padrone di casa che adatti in qualche modo la cucina ai gusti dell’intruso. Ma prima, naturalmente, si dovrà cominciare dalla propria. Questa è quindi la prima risposta alla domanda: Che fare? Fare pulizia in casa propria, esercitarsi già fra le mura domestiche a comportarsi bene in pubblico, fare continuamente ginnastica intellettuale (e morale), poi uscire e visitare molte case (la curiosità è la madre del sapere) e pretendere dagli altri lo stesso comportamento. Poi si tratta di ridurre l’abisso che separa la ricerca dalla divulgazione. La necessità della divulgazione scientifica era al centro della battaglia culturale dei padri della scienza moderna. Per Bacone, Cartesio, Galileo la scienza doveva parlare un linguaggio chiaro, accessibile, scevro da compiacimenti. La produzione del sapere era inseparabile dalla diffusione del sapere. Leibniz spinse questa convinzione fino ad auspicare la creazione di una 83 lingua universale che fosse terreno d’intesa fra tutti gli uomini e ponesse fine alle controversie scientifiche, filosofiche, religiose, politiche. Il positivismo di Comte sviluppò questa fiducia nella scienza fino a farne un elemento centrale del suo progetto di riforma spirituale e sociale. Per esercitare la sua funzione morale e sociale, per compiere il rinnovamento spirituale che è il suo compito e il suo destino, lo spirito scientifico deve diffondersi. L’istruzione scientifica è parte integrante del programma positivistico. Comte stesso si impegnò in lezioni popolari e contro lo specialismo ebbe parole durissime. “Una filosofia direttamente scaturita dalle scienze – scrive nel Discours sur l’esprit positif (1844) – troverà probabilmente i suoi più pericolosi nemici in quelli che oggi le coltivano. La principale causa di questo deplorevole conflitto consiste nella specializzazione cieca e dispersiva che caratterizza profondamente lo spirito scientifico attuale, per la sua formazione necessariamente parziale”. Un “pericoloso andazzo accademico” sviluppa la vera positività solo in un settore, lasciando tutto il resto sotto il regime teologico-metafisico o abbandonato a un empirismo gretto e oppressivo. Per superare le resistenze opposte dall’“intima antipatia”, dall’“insuperabile avversione a ogni idea generale”, dal “disastroso lavoro specialistico” c’è un solo mezzo: “un appello diretto e continuo all’universale buon senso, sforzandosi ormai di propagare sistematicamente, nella massa attiva [della popolazione], i principali studi scientifici idonei a costruire la base indispensabile della sua grande elaborazione filosofica”. Insomma, contro quella che oggi chiameremmo una eccessiva specializzazione (Comte dice “professione esclusiva”), bisogna fare appello all’“educazione universale”. “Il pubblico, infatti, che non vuole diventare né geometra né astronomo né chimico ecc., prova continuamente il bisogno simultaneo di tutte le scienze fondamentali, ridotta ciascuna alle sue nozioni essenziali: ha bisogno, secondo la notevolissima espressione del nostro grande Molière, dei lumi di tutto […] Il pubblico […] avverte sempre di più che le scienze non sono esclusivamente riservate agli scienziati”. 2 Il pubblico che ha in mente Comte è l’umanità intera, anche quella futura. Questo spiega il pathos religioso che avvolge la sua perorazione dell’istruzione universale e lo stretto nesso da lui stabilito fra questa e l’altruismo, in nome della religione dell’umanità. Queste parole suonano oggi ancora più utopiche di allora. Oggi siamo costretti a sostituire quella certezza con una fioca speranza, ma anche con un’esigenza ancora più forte di quella certezza. Per Comte la divulgazione era un compito della filosofia. La filosofia positiva era di per sé antispecialistica, consistendo nel coordinare i fatti e le osservazioni, nello stabilire nessi tra i fenomeni e leggi generali, nell’ordinare le conoscenze, sempre relative, in una visione globale. Come Comte aveva previsto, le critiche vennero anche dagli scienziati: il grande fisiologo Claude Bernard, per esempio, gli rimproverò di assegnare al filosofo la specialità di non avere specialità. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, e l’illusione di una filosofia universale – rinata di volta in volta sotto le vesti dell’enciclopedismo, del materialismo dialettico o del neopositivismo – sembra svanita per sempre. Non è detto che sia un male. Comunque sia, la specializzazione si è accentuata talmente che non esistono più scienziati universali. E se ci sono tentativi, ad esempio, di una teoria universale della materia, si tratta di imprese così astrattamente matematiche da aver perso ogni legame con l’immaginazione sensibile e con l’“universale buon senso”. Pochi autori hanno analizzato le conseguenze psicologiche ed esistenziali dello specialismo inevitabile della scienza moderna e della sovrabbondanza di informazioni e di occasioni di conoscenza tipiche del mondo contemporaneo con l’acutezza di Georg Simmel. In un saggio del 1907, Concetto e tragedia della cultura (1907), Simmel definiva la cultura come la “via dell’anima a se stessa”, un cammino che parte dal soggetto, percorre la molteplicità delle forme e degli oggetti della cultura e ritorna al soggetto, modificato e arricchito dall’averli incorporati in sé. Il viaggio dev’essere compiuto, poiché la cultura non può essere mera emanazione del soggetto, ma comporta ad ogni passo il pericolo dello smarrimento. La quantità degli oggetti è illimitata, mentre è limitata la capacità di ricezione del soggetto. La molteplicità degli oggetti e delle forme della cultura è tale, 2 Comte (1985), pp. 93, 95-96. 84 le loro ramificazioni tante che non potremo mai percorrerle tutte; in quanto oggettivi, essi seguono una logica autonoma, che non è quella del soggetto; per cogliere a pieno i frutti di ognuna sarebbe necessaria una vita intera. Dobbiamo rinunciare a molte fonti di arricchimento, forse alle più vitali e consone alle nostre esigenze; oppure ci smarriremo nei sentieri laterali che si diramano ad ogni passo. Fra gli estremi dello smarrimento e della rinuncia si compie la tragedia inevitabile della cultura; ma in questa tragedia consiste la sua grandezza. La tragedia deve compiersi, pena il solipsismo. In questo e in altri saggi Simmel rifletteva sul fatto che la modernità complica sempre più lo scenario: l’aumento crescente di dati, informazioni, occasioni di conoscenza, stimoli, esperienze, possibilità di godimento, “la smisurata specializzazione” che ovunque procede con “demoniaca inesorabilità”, sballottano l’uomo contemporaneo fra la sovreccitazione e la nausea da eccesso, fra il desiderio di fuga e l’insensibilità protettiva. La riserva di spirito oggettivo che cresce a perdita d’occhio pone al soggetto delle esigenze, risveglia in lui delle velleità, lo abbatte con il sentimento della propria inadeguatezza e della propria miseria, lo inserisce nell’ordito di rapporti complessivi, alla cui totalità egli non può sottrarsi senza riuscire tuttavia a dominarne i singoli contenuti. Nasce così la tipica situazione problematica dell’uomo moderno: la sensazione di essere circondato da un’infinità di elementi culturali che per lui non sono certamente privi di significato ma, fondamentalmente, neppure significativi: in quanto massa, essi hanno qualcosa di soffocante, dato che l’uomo non può assimilare interiormente ogni singolo contenuto, ma neanche rifiutarlo a cuor leggero se questo appartiene, per così dire, potenzialmente alla sfera della sua evoluzione culturale. 3 Poiché la tragedia deve compiersi, e la vita non è vita senza la cultura, bisognerà affrontarla virilmente, senza cedere alla disperazione. Ognuno sceglierà il suo modo di farlo. Ma proprio i due pericoli opposti dell’indifferenza e della dispersione, della stanchezza e dell’eccitabilità superficiale, del “vicolo cieco” e dello “svuotamento della vita interiore” rendono più urgente la necessità della divulgazione, l’elevano anzi a compito sociale primario, a dovere dell’intellettuale. La comunità del sapere deve diventare una comunità di traduttori e divulgatori, di mediatori e messaggeri, di incompetenti curiosi e comunicativi. Altrimenti… Le conseguenze sono già sotto gli occhi di tutti. L’ignoranza scientifica nel nostro paese raggiunge livelli inconcepibili. Un sondaggio rivela che due italiani su tre considerano rischiose e inutili le biotecnologie agroalimentari solo perché non sanno di che cosa si tratta: per esempio credono che i pomodori naturali non contengano geni, mentre quelli transgenici sì. Né in matematica le cose vanno meglio, se non è stato sommerso da una risata universale un Presidente del Consiglio che annunciava come qualmente in sette mesi del suo governo gli arrivi dei clandestini fossero diminuiti del 247%. Le difficoltà con i centesimi di euro dimostrano che molti italiani non sanno fare addizioni e sottrazioni (e perciò si meritano gli arrotondamenti perpetrati da bottegai e altri furbastri). Siamo un paese di automobilisti che non sanno come funziona il motore a scoppio, ingurgitiamo tonnellate di medicine senza sapere che cos’è la tavola periodica degli elementi, usiamo il computer senza sapere che cos’è una numerazione binaria. Quanti sanno fare con carta e penna, non dico mentalmente, una divisione a due cifre? Si può essere fruitori entusiasti della tecnologia senza sapere nulla della scienza che c’è dietro. La scienza diventa sempre più complessa e impervia non solo al profano. La specializzazione crescente determina nello specialista un’ulteriore chiusura nella propria specialità, e nel profano la tentazione sempre più forte di cercare altrove compensi e soluzioni: arte, letteratura, filosofia, religione, politica, ma anche magia, astrologia, pseudoscienze; oppure attività meramente tecnico-pratiche, quelle in cui “non si pensa” e le cose “si prendono così come sono”, senza tante complicazioni. Il divario crescente fra ricerca e cultura media rende sempre più difficile il controllo da parte dell’opinione pubblica e favorisce le reazioni istintive. L’ignoranza aggrava il disinteresse e la diffidenza. 3 Simmel (1985), p. 209. 85 E’ accettabile la prospettiva di circoli sempre più specialistici e sempre più isolati gli uni dagli altri e dal resto del mondo? Fin tanto che la parcellizzazione del sapere procede inevitabile, c’è una sola via da seguire: istruire e divulgare, o, in altri termini, coinvolgere un sempre maggiore numero di cittadini, se non nella ricerca, almeno nella consapevolezza di che cosa e come si ricerca. Bisogna investire nell’istruzione e nella divulgazione scientifiche quanto nella ricerca. In proporzione, gli insegnanti devono essere pagati quanto i ricercatori. Senza istruzione e divulgazione, intorno alla scienza e alla tecnica ci sarà sempre indifferenza e diffidenza. I loro risultati saranno usati come meri beni di consumo (come i gadget e i farmaci) o rifiutati come trappole pericolose. Purtroppo, nel nostro paese molti scienziati hanno guardato con fastidio e alterigia non solo ai filosofi che se lo meritavano, ma a chiunque, anche nelle loro stesse file, mostrasse interesse per gli aspetti filosofici, storici, epistemologici, etici della propria disciplina. Anche nella scienza, gli incompresi sono quelli che non si sanno esprimere. Nell’intera nostra tradizione culturale non c’è il culto della chiarezza. Non è sentito come un dovere civile il parlare tutte le volte che è possibile al pubblico più vasto possibile. Chi scrive per divulgare è considerato inferiore a chi fa ricerca. Il paese del burocratese, del politichese, del sindacalese non è il terreno ideale per la circolazione delle idee e delle informazioni. Ma qui il discorso si allarga troppo: non è possibile partecipare criticamente, combattivamente ai fatti della cultura senza lottare per la partecipazione a tutta la vita politica e sociale del paese. E questa, per chi non lo avesse capito, è una conclusione politica, non linguistica o filosofica. BIBLIOGRAFIA Comte (1985) Comte, A., Discorso sullo spirito positivo, tr. it. di A. Negri, Roma-Bari, Laterza, 1985 Simmel (1985) Simmel, G., Concetto e tragedia della cultura, in La moda e altri saggi di cultura fìlosofica, trad. it. di M. Monaldi, Milano, Longanesi, 1985 Vergata (1998) Vergata, A., Scienza, tecnica e fondamentalismo, in “Bollettino filosofico”, Dipartimento di filosofia, Università della Calabria, 14 (1998), pp. 127-134 Vergata (2002) Vergata, A., Scienziati, politici, cittadini, in “Rivista di filosofia”, XCIII (2002), (fascicolo monografico Cultura scientifica e politica della ricerca, a cura di C.A. Viano), pp. 239-261 Vergata (2004) Vergata, A., Specialismo e divulgazione, in Bioetica e mass media. Le questioni della privacy e della buona informazione, a cura di M. Balistreri e S. Pollo, Milano, Guerini, 2004, pp. 193-211 86 MARCO CIPOLLONI Il Secolo d’Oro delle traduzioni o la nascita di un “nación traducida”: il mercato della mediazione linguistico-culturale nella Spagna del secondo Settecento e dello Entresiglos 1. Una “nación traducida” Ramón de Mesonero Romanos, nel 1842, scrive nel suo “Semanario Pintoresco Español” (serie periodica di bozzettistiche riflessioni costumbristas): nuestro país, en otro tiempo tan original, no es en el día otra cosa que una nación “traducida”. Questo bilancio, perentorio e trasparente solo in apparenza, rappresenta, per l’argomento del nostro incontro di oggi, un verosimile punto di arrivo (cronologico), ma noi cercheremo di rovesciare la prospettiva, utilizzandolo sia come falsariga che come possibile punto di partenza (logico). Il primo passo può essere rappresentato da due domande. La prima domanda, per la quale cercheremo una risposta nella nascita e nel funzionamento semiprofessionale di un mercato spagnolo della traduzione “giornalistico-editoriale” nel secondo Settecento e nel cosiddetto Entresiglos, formula una questione storica e particolare: davvero la Spagna del 1842 era una nación traducida e, se sì, a partire da quando, in che modo, in che misura e in virtù di che tipo di nation rebuilding lo era diventata? La seconda domanda, che utilizzeremo come spunto per formulare alcune ipotesi comparative, ha una portata più metodologica e generale: è davvero possibile diventare una nación traducida e, se sí, cosa significa diventarlo, in termini di identità e nazionalizzazione? Detto in altri termini, utilizzeremo il caso spagnolo per riflettere sulle relazioni tra nazioni (cioè Europa delle nazioni, concerto delle nazioni, Restaurazione) e traduzioni (cioè Europa delle traduzioni, invenzione e costruzione dello spazio culturale europeo occidentale, di quello mitteleuropeo e della cosidetta Europa orientale). Si tratta, lo anticipiamo, di una relazione che attraversa un ventaglio di atteggiamenti che vanno dalla contrapposizione (traduzioni come veicolo di cosmopolitismo, per cui traduzioni versus nazioni) ad una quasi identità (tutte le nazioni, in quanto invented traditions, sono e non possono essere che traducidas, per cui traduzioni = nazioni). Forti di queste anticipazioni, possiamo ora tornare a riflettere sui meccanismi linguistici e sulle implicazioni culturali della nostra citazione di apertura. Lo schema retorico-ideologico contrappositivo che soggiace alla formulazione di Mesonero Romanos (scandita dalle opposizioni “nuestro país” versus “otra cosa”, “en otro tiempo” versus “en el día”, “original” versus “nación traducida”) può infatti fornirci, come anticipavo, una eccellente falsariga. a) “nuestro país” versus “otra cosa” E’ il tema dell’identità culturale, percepito e rappresentato non come risultato di un processo e di un portato relazionale, ma come “dato” oggettivo e reificato: l’uso della parola “cosa” è desemantizzato — otra cosa = altro —, ma non del tutto: otra cosa vale “altro”, ma suggerisce anche “cosa d’altri”, proprietà altrui, il che, applicato a sé o al mito di sé, induce e amplifica la convinzione, solo in parte fondata, a) che “nuestro país” equivalga a “cosa nostra” e b) che la Spagna sia o si senta invasa e trasformata in terra di conquista, in cosa e casa di genti e idee venute da fuori. L’identità è vissuta come un patrimonio da tesaurizzare e museificare (una tradizione, un “bene culturale”), restaurandolo e preservandolo da epidemie e contagi (purismo linguistico, assolutismo, culto delle tradizioni, purezza etnica e religiosa, limpieza de sangre, marchi D.O.C., etc.), e non come il frutto di uno scambio (al punto da identificarsi con esso): lingua come strumento di comunicazione, relativismo, analisi comparata delle tradizioni, anche religiose, ibridazione e manipolazione, identificazione dei prodotti non con la loro origine, ma con le varie forme della loro fortuna, traduzione inclusa. 87 Il valore della traduzione cambia in modo radicale a seconda che ci si collochi nell’una o nell’altra prospettiva. Nel primo caso si tratterà di una pratica pericolosa (in potenza inquinante e discutibile nei metodi e negli obiettivi), accettabile solo in quanto strumento da applicare per ridurre e neutralizzare quanto più possibile le alterità e le novità davvero inevitabili. Nel secondo caso si tratterà invece di un contributo irrinunciabile alla fabbrica dell’identità collettiva, quando non addirittura del luogo deputato alla continua ridefinizione di sé e dell’altro da sé. Tra la restaurazione fernandina e l’epoca in cui scrive Mesonero Romanos, dopo che le due prospettive avevano sperimentato una lunga coesistenza e diverse utopie di componenda entro i contraddittori palinsesti della ilustración española, la prospettiva puristica e patrimonialista aveva guadagnato terreno su quella relativista e universalista, consentendo una rilettura molto selettiva sia delle polemiche sulla traduzione scritta (gli afrancesados!), sia delle peculiari consuetudini traduttive (ritraduzione, adattamento, plagio) che in Spagna si erano sviluppate sul mercato librario e giornalistico-editoriale del secondo Settecento e del cosiddetto Entresiglos. 1 Il risultato di questo approccio selettivo da un lato perfeziona la metamorfosi del cattivo traduttore in un tipo da bozzetto letterario costumbrista e dall’altro ne generalizza la figura, lasciando intendere che il cattivo traduttore è colui che meglio incarna lo spirito di un’attività di per sé censurabile, in quanto canale di ibridazione, cavallo di Troia e veicolo di contagio di forestierismi e mode straniere (nel campo della poesia, del teatro e del romanzo, ma anche dell’arte militare, della scienza, del pensiero, etc.). Un bilancio meno prevenuto dei dibattiti e delle pratiche che in materia di traduzione si erano imposte all’attenzione e avevano fatto opinione nei cento anni precedenti evidenzia una traiettoria storica molto più articolata, incardinata su un ideario neoclassico che ha come referente, sia tecnico che linguistico, il caso delle traduzioni dalle lingue classiche (in particolare dal latino) e, di conseguenza, la riproposizione in ambito traduttivo della tradizionale dottrina della aemulatio (con ampi margini di intervento delegati a colui che, traducendo, serve l’originale, ma lo fa entrando in competizione con esso e con il dichiarato obiettivo di “migliorarlo”). L’identificazione della traduzione col tipo bozzettistico del cattivo traduttore è in effetti il risultato di un percorso composito, in cui contraddittorie circostanze di breve periodo (quali la dipendenza strumentale da circuiti di committenza ideologicamente preorientati, le proscrizioni politiche e le restrizioni materiali — sia censorie che di distribuzione e mercato) si sono innestate su modelli a dir poco impegnativi e su un trend di indubbia popolarizzazione del fenomeno, conseguenza di un duplice passaggio. Dapprima le traduzioni passano dalla sfera progettuale dei circoli riformatori dell’assolutismo illuminato (dove la pratica traduttiva veniva legittimata, ma serviva a poco, perché quasi tutti sapevano leggere e scrivere in latino, francese, inglese e italiano), alla sfera panflettistica della propaganda protonazionalista (rivoluzionaria e controrivoluzionaria, napoleonica e antinapoleonica, liberale e fernandina), di cui è destinataria una sorta di élite allargata (più intellettuale che borghese), portatrice di una soggettività sociale lacunosa, contraddittoria e intermittente, in bilico tra civismo e comunitarismo, valori e interessi. Questo segmento della società, che la restaurazione trasforma da potenziale mente in fragile corpo della propria deficitaria statualità, si identifica, almeno in Spagna, più con i riti di autoidentificazione e consumo intellettuale di una embrionale opinione pubblica che con gli albori di una vera e propria sfera pubblica e/o di una società civile davvero articolata e responsabilmente partecipativa. Esaurita la spinta polemica del triennio liberale e consolidatisi i circuiti della restaurazione, la traduzione passa così dalla sfera panflettistica del nazionalismo progressista e della propaganda ideologica alla retorica tradizionalista, bozzettistica e di costume, di un nazionalismo conservatore molto sensibile alle esigenze di bottega di una redditività economica collegata al successo di generi, come il teatro comico e il romanzo, fin troppo rispondenti ai calcoli commerciali di un’editoria “tipografica”, interessata a utilizzare traduttori e traduzioni come strumenti per rifornire in fretta il mercato accelerando i tempi e riducendo all’osso i costi e i rischi d’impresa (in questo nuovo 1 Per un buon panorama storico ed una serie di pertinenti case studies si può segnalare la miscellanea curata da Francisco Lafarga (Lafarga (1999)). 88 scenario la traduzione è indispensabile, ma viene guardata con sospetto e concepita in modo molto target oriented, come veicolo di adattamento del prodotto importato alle esigenze del mercato locale, oltre che come tecnica idonea per intercettare e soddisfare in modo rapido e redditizio la crescente domanda di romanzi e commedie stranieri). Il passaggio dai riti di aristocrazia civile del riformismo carolino (basati sulla honra legal, le Accademie e l’associazionismo culturale degli Amigos del país) alle pratiche commerciali del preromanticismo costumbrista non è diretto. Tra la stagione di coloro che sognavano di trasformare “nuestro país” in “otra cosa”, e il momento di chi invece si identificava con la contrapposizione tra i due ambiti (cioè con la celebrazione patriottica dell’uno e la demonizzazione dell’altro in quanto alieno) si colloca, anche per il mercato della traduzione, un perido molto interessante, caratterizzato dalle “urgenze” (di tempi e di toni) della panflettistica rivoluzionaria (epoca di Carlo IV), dalle convulsioni dell’invasione napoleonica e dalla Peninsular War e del trienio liberale e, infine, dalla seconda fase della restaurazione fernandina. Gli esili e i contatti generati da questa fase di precarietà e instabilità generano un quadro schizofrenico, in cui la domanda di mediazione linguistica e culturale cresce a dismisura, mentre l’offerta si disarticola (per gli esili, le censure, le proscrizioni, etc.), collocando ai margini del mercato (o addirittura al centro di circuiti di nicchia e dunque sostanzialmente fuori mercato) buona parte delle migliori competenze, vuoi perché residenti all’estero, vuoi perché ostinatamente legate a settori (quali la saggistica e la divulgazione scientifica) in cui la crescita della domanda è tutt’altro che vorticosa e molto più condizionata dalle permanenti diffidenze degli apparati censori. Questa situazione, combinandosi con le crescenti fortune della narrativa e del teatro sul mercato interno spagnolo, finisce per lasciare spazio e occasioni di attività ad una disoccupazione intellettuale di livello sociale e culturale relativamente modesto. Si tratta di un ceto debole e ricattabile, composto in gran parte di aspiranti professionisti delle lettere, senza prestigio e senza mezzi. Membri di una protobohème portatrice di una professionalità poco e male riconosciuta e peggio o per nulla tutelata, questi piccolo esercito di penne in vendita costituiscono il corpo inurbato di un gremio solo potenziale, disorganizzato e atomizzato, spesso costretto a difendere la propria nicchia di committenza accettando di lavorare con ritmi frenetici, rispettando i tempi (sempre più brevi) e i compensi (in genere bassi) imposti al mercato dagli spietati meccanismi della concorrenza sul prezzo (cioè sui costi) tra i differenti tipografi. Ne risulta, sociologicamente, specie a Madrid e Barcellona, la formazione di un ambiente di paradossale scapigliatura preromantica invece che premodernista, legata ai caffé letterari, al teatro comico e al mondo della farándula e del teatro leggero almeno quanto la scapigliatura italiana lo sarà al mondo dell’Opera lirica. Questa trasformazione del mercato, che sposta gli equilibri e gli orizzonti di attesa del professionismo paraletterario verso il gusto popolaresco e le atmosfere da sainete della città e della notte, genera sul mondo delle traduzioni un momentaneo scompenso i cui effetti costituiscono la base storica tanto del mito delle cattive traduzioni, quanto del tipo del cattivo traduttore. Nell’esilio gesuitico prima e in quello liberale poi il mercato e la preparazione linguistica, metalinguistica e interculturale dei traduttori erano migliorati molto. Fuori dalla Spagna, sia dallo spagnolo che verso lo spagnolo, si traduce di più e nel complesso si traduce meglio di prima, cioè partendo da una migliore e più diretta conoscenza sia degli originali, che delle lingue straniere. Il rapporto che questi “stranierizzati” sviluppano con la propria lingua comincia anche a includere echi del rapporto che, soprattutto a Londra, si sviluppano tra le comunità di esuli liberali spagnole e ispanoamericane, posto che gli uni e gli altri cooperano alle stesse iniziative pubblicistiche ed editoriali e costituiscono l’ossatura di uno stesso pubblico potenziale. In Spagna, per contro, l’esodo forzato di gran parte degli intellettuali più interessati alle problematiche della mediazione linguistica e culturale apre spazi di professionismo a molti “nuovi traduttori”, cioè ad intellettuali di seconda categoria e di paradossale provincialismo, le cui mediocri prestazioni, oltre ad alimentare il mito e poi il tipo del cattivo traduttore, modificano in modo sostanziale obiettivi, tempi, metodi e orizzonti di aspettativa implicati nella produzione, nella circolazione e nel consumo delle opere tradotte. Il moltiplicarsi di liberi adattamenti, refundiciones e plagi ha un duplice effetto: 89 – da un lato riduce, occulta e offusca la radicale estraneità dell’opera straniera, coinvolgendola in un processo di ambigua naturalizzazione che, in realtà, la sradica e la ricolloca entro le complementari convenzioni dell’esotismo idealizzato e della tradizione inventata (come la lingua del doppiaggio, anche quella della nazione tradotta è il risultato di un compromesso tra neutralizzazione e nazionalizzazione, in virtù del quale, l’identità dell’alterità viene al tempo stesso idealizzata e negata); – d’altro canto il risultato, per definizione “transitorio”, di questo compromesso nazionalizzatore suscita il risentimento dei puristi, che hanno vita fin troppo facile nel sottolineare la composita inautenticità di un necessario artificio. Alla traduzione si richiede di nazionalizzare e popolarizzare il prodotto, e al contempo si nega a tale prodotto la qualità di autenticamente autoctono e popolare. Il mercato lo vuole e lo consuma perché altro e borghese, ma non vuole consumarlo come altro e borghese. Assumendo fome bozzettistiche e caricaturali, l’atteggiamento di purismo demagogico della nascente “cultura nazionale” nei confronti del fenomeno riflette una duplice condanna (degli “stranierizzati” per ragioni ideologiche e dei “nuovi traduttori”, per la loro impreparazione), esprimendola con toni di sempre maggiore diffidenza. Sono molto frequenti in materia di traduzioni, metafore militari come “invasione”, “occupazione”, “tirannia”, tutte volte a orientare il dibattito verso una lettura non solo nazionale, ma legittimista, esplicitamente collegata alla memoria collettiva della campagna napoleonica del 1808, traumatico capolinea di un secolo di afrancesamiento. b) “en otro tiempo” versus “en el día” La cronologia reale del fenomeno (con le diverse fasi cui si è fatto cenno, la prima più teorico-politica, la seconda segnata dalle convulsioni rivoluzionarie e la terza legata agli equilibri della restaurazione) viene deliberatamente ignorata da Mesonero, in favore di una lettura che sceglie di disegnare l’identità della letteratura nazionale spagnola a partire dalle sue radici medievali e barocche, trasformando il Settecento in sciagurata parentesi e mito negativo, contro i cui perversi effetti era opportuno procedere con una logica di restaurazione culturale e confessionale pienamente in linea con i retrivi capisaldi della politica fernandina. La dimensione di comparazione cronologica suggerita dal testo di Mesonero è il perfetto specchio di questa operazione di rimozione del secolo della traduzione (il Settecento) dalla coscienza collettiva della nación traducida (una rimozione i cui effetti di lungo periodo possono essere facilmente misurati ancora oggi nel mito del Settecento come secolo “poco spagnolo”, nello scarso spazio che il Settecento ha, in Spagna e all’estero, sia nei manuali di letteratura e storia culturale, sia nel panorama generale della formazione universitaria degli ispanisti). La locuzione “en otro tiempo” non rinvia infatti ad un’età dorata di buone traduzioni, ma ad un’età dorata di poche o nulle traduzioni, cioè ad’un epoca di autarchia e autoconsumo letterario legata ad una violenta idealizzazione dei cosiddetti Siglos de Oro, cioè, in sostanza, alla costruzione del mito barocco e teatrale della Spagna medievale e alla reinvenzione scenica, cerimoniale e cavalleresca della società militante e cristiano-feudale degli ordini, utilizzata come fonte di legittimazione per la monarchia delle caste e degli statuti di limpieza de sangre. Da questa Spagna metaidealizzata (nel senso che idealizza una idealizzazione), che bastava a se stessa e che, di conseguenza, aveva poco bisogno di traduzioni, si passa, di botto, a quella che vive “en el día”, cioè alla Spagna del 1842, snaturata e traviata da un secolo di traduzioni e aperture al mondo esterno. Il programma restauratore è implicito: si tratta (o si tratterebbe, se fosse possibile) di tornare quanto prima alla supposta purezza delle supposte origini, smontando, in modo da non lasciarne pietra su pietra, il secolare castello della nación traducida. c) “original” versus “nación traducida” Se non che, ed è il punto centrale dell’intera questione e della peculiare “hidiosincrasia nacional” che ne deriva, in Spagna ancor più che altrove, non c’è davvero altra nazione che quella 90 tradotta. Nonostante gli echi ruralisti e di fondamentalismo ecologico che a volte ne accompagnano la retorica (basti pensare all’abuso del tema delle radici nel discorso nazionalista, o, per converso, al sottotesto di autenticità identitaria che caratterizza la rivendicazione di marchi doc o la propaganda agrituristica), la nazione moderna è, in Spagna come e più che altrove, un OGM e un prodotto importato (in gran parte dalla Francia e, in minore misura, dall’Inghilterra). La dimensione “original” che “en otro tiempo” caratterizzava “nuestro país” non è che un mito apocrifo, il risultato di una manipolazione della memoria operata e promossa da una élite storica concreta e legittimata in nome e per conto di un soggetto, la “nación” appunto, che ha cominciato ad esistere, in bene e in male, proprio nel vilipeso secolo della traduzione e in gran parte per effetto delle traduzioni. Persino la mitica fiesta nacional, la festa taurina, destinata a catalizzare ricorrenti polemiche tra neocasticistas ed europeizzatori, riceve la sua forma da una “ri-forma” del Settecento, perfezionata nello Entresiglos (una riforma che introduce e sistematizza, con manuali e scuole di tauromachia, la pratica del “toreo de a pie”). La “nación traducida” di “en el día”, risultato di un secolo di traduzioni e di reinvenzione delle tradizioni è dunque un soggetto paradossale, che rinnega la propria storia di riforme e di rivoluzione (di traduzione e di traduzioni) per rivendicare come propria una originalità ideomatica che, vera o falsa che sia, era comunque federativa e imperiale e che, proprio per questo, precede e non prepara la nascita di una “nazione”, che, senza i Borboni, gli afrancesados, gli afamados traidores, la Pepa e i liberali non avrebbe potuto essere restaurata, per la semplice ragione che proprio non ci sarebbe stata. 2. Il secolo d’oro delle traduzioni Con i risultati di questa riflessione, possiamo ora tornare, con molti più elementi per formulare una soddisfacente ipotesi di risposta, alle nostre due domande di partenza. a) Cominciamo dalla prima domanda (davvero la Spagna del 1842 era una nación traducida e, se sì, a partire da quando, in che modo, in che misura e in virtù di che tipo di nation rebuilding lo era diventata?) Quando Mesonero Romanos dice che la Spagna del 1842 è (è diventata) una “nación traducida” è probabilmente sincero, almeno nel senso che ci restituisce in modo attendibile una percezione e una convinzione che in quegli anni erano abbastanza diffuse (ancorché, come detto, diversamente valutabili e valutate) nei circoli intellettuali e giornalistici di Barcellona e di Madrid. Come detto, i “letterati” che denunciano l’inflazione delle traduzioni hanno in mente soprattutto il teatro comico e il romanzo, che, all’epoca, erano senza dubbio diventati i generi di maggiore diffusione presso il pubblico. Le opinioni in materia rispecchiano in sostanza l’atteggiamento di ciascuno verso questi generi. Condanna le troppe traduzioni di romanzi e commedie sia chi per ragioni di pubblica morale disprezza il romanzo e il teatro comico in quanto tali, sia chi viceversa è a sua volta autore di romanzi e commedie, e di conseguenza vorrebbe avere maggiori spazi e migliori opportunità su un mercato editoriale e dello spettacolo in cui le traduzioni funzionavano di fatto da calmiere dei prezzi, venendo usate dall’imprenditoria del settore come efficace sistema di riduzione dei costi. Bisogna inoltre considerare che la domanda era sì cresciuta, ma soprattutto nelle città e come curiosità per l’Europa, ragion per cui era più che ragionevole che fosse alimentata e soddisfatta quasi esclusivamente attraverso materiali tradotti. Nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di traduzioni dal francese, che veniva utilizzato molto anche come lingua di mediazione, con traduzioni da traduzioni verso il francese che rispecchiavano e amplificavano la dipendenza del mercato culturale spagnolo da quello transpirenaico. Proprio per questo era facile collegare polemicamente la questione delle traduzioni a quella nazionale, contrapponendo le fortune commerciali di una “letteratura” straniera connotata come “leggera” (cioè anche moralmente poco seria) e come “contemporanea” (cioè senza storia) al recupero sistematico della tradizione letteraria nazionale, avviato non molti anni prima con la pubblicazione dei corsi di letteratura spagnola di Alberto Lista, punto di partenza di una fortunata 91 strategia di rilettura del passato, incardinata sul romancero, la novellistica esemplare e il teatro clásico seicentesco de enredo y de honor. Nel passaggio dall’uno all’altro canone letterario, oltre alle ovvie questioni di genere e di tono, pesa molto anche una consistente riduzione del domaine littéraire, che passa dalla inclusiva nozione settecentesca di letteratura (da intendere come quasi sinonimo di scrittura) alla più esclusiva nozione che ancora ci portiamo dietro (e che, collocando al centro la poesia, la prosa narrativa e la parte “non leggera” del teatro, taglia fuori molte cose che prima erano sicuramente incluse, come la letteratura scientifica, la letteratura teologica e devozionale, la letteratura di viaggio, la giurisprudenza, la saggistica non letteraria, la polemistica, la cosiddetta paraletteratura, il giornalismo, etc.). La ricaduta di questa ridefinizione della letterarietà sul mondo delle traduzioni è importante, nel senso che specializza e settorializza il mercato del tradurre (isolando la traduzione letteraria dal resto e riducendo notevolmente la portata delle questioni estetiche per tutte le traduzioni escluse dal ristretto ambito del nuovo canone letterario). Questo processo, relativamente rapido, si innesta, per il periodo che ci interessa, su una deontologia della mediazione linguistica che pretendeva dai traduttori (specie se letterari) una libertà di intervento, riformulazione e competizione con l’originale molto maggiore di quella ammissibile oggi. Se per noi l’etichetta “traduzione letteraria” è se non proprio un sinonimo almeno un attendibile indicatore di una cura particolare, che quasi si identifica con obiettivi di fedeltà traduttiva, per il periodo che ci interessa (e che precede e prepara l’accennata ridefinizione del canone) gli obiettivi della cura erano radicalmente diversi: le traduzioni tecniche erano in genere fedeli perché poco accurate, quelle letterarie, proprio perché curate e accurate, erano e dovevano essere “belle e infedeli” (che come noto è l’etichetta con cui è passata alla storia della traduzione la versione settecentesca italiana dei poemi omerici, realizzata da Vincenzo Monti). I traduttori del Sette e del primo Ottocento erano insomma più simili a mediatori culturali, adattatori e risceneggiatori di un soggetto che non a puri e semplici mediatori linguistici. Utilizzando un meccanismo di analogia con il mercato cinematografico contemporaneo, il termine di paragone più idoneo non sarebbe il doppiaggio, ma il remake (basta pensare a casi come Nikita, Tre uomini e un bebé e Abre los ojos), nel senso che, nelle traduzioni letterarie spagnole del Sette e del primo Ottocento, vengono spesso abbondantemente modificati luoghi e circostanze, codici e stili (di solito aggiungendo molto), portando avanti una versione integrativa e target oriented della dottrina della aemulatio (con casi di annotazione, riscrittura, continuazione, etc...). Questo tipo di pratica, specie nel campo del teatro e del romanzo, investe questioni di autoría, rendendo a volte labili i confini tra traduzione, adattamento, rimaneggiamento, rifacimento, plagio, rielaborazione originale di una idée reçue e costruzione di testi originali, ma conformi agli orizzonti di genere del teatro comico e del romanzo francesi. Questa circostanza avrebbe potuto e in parte dovuto tranquillizzare i nazionalisti e i fautori della storia letteraria e del teatro nazionali, posto che il testo, specie quello destinato alla scena, arrivava alla fine dell’itinerario dopo avere subìto tali e tante modificazioni da risultare ridefinito in senso più che “nazionale” dai successivi interventi di mediazione operati su di esso per adattarlo ai gusti e alle aspettative del pubblico. Ciononostante, le corrispondenze tra la formula comica di un autore teatrale di successo come Bretón de los Herreros e i meccanismi comici dei testi stranieri da lui adattati offriva margini di interpretazione abbastanza ampi da fornire argomenti tanto a chi lo considerava un nazionalizzatore, quanto a chi lo vedeva come un agente di contagio esterofilo (in effetti la sua formula nazionalizzava i modelli stranieri e internazionalizzava la tradizione spagnola). b) Affrontiamo ora la seconda domanda (è davvero possibile diventare una nación traducida e, se sí, cosa significa diventarlo, in termini di identità e nazionalizzazione?) Posto che credeva di esserlo e che si comportava come se davvero lo fosse stata, non è poi così importante (o almeno non lo è da un punto di vista storico) stabilire in che misura nel 1842 la Spagna fosse davvero una nación traducida. Lo era in gran parte, e per ragioni comparabili a quelle per cui lo erano in analoga misura (sia pure con diverse forme e in virtù di specifici meccanismi e 92 circuiti) la totalità delle nazioni del secolo delle nazioni. Si tratta di un problema cruciale sia per la storia della traduzione che per quella delle traduzioni, oltre che per la storia culturale e delle mentalità e per la letteratura comparata (sia intesa nel senso francese di storia delle relazioni letterarie internazionali, della lettura e della ricezione, e che in quello anglosassone di teoria della letteratura e dei generi). Traduttori e traduzioni sono e rappresentano per le nascenti coscienze nazionali una realtà ambigua e problematica, un ibrido di soluzione e di problema. Da un lato aiutano ad addomesticare, naturalizzare e nazionalizzare ciò che è estraneo. Dall’altro inquinano e minacciano la mitica purezza e la presunta autenticità di ciò che si suppone proprio e si postula originario. Le nazioni ottocentesche della restaurazione, “militanti”, “politiche” e “politicizzate” in senso antiuniversalista, antirivoluzionario e antinapoleonico, non solo sognano di mobilitarsi per conquistare il mondo e farlo colonialmente proprio, ma identificano se stesse (e l’accumulo delle proprie frustrazioni) con questo sogno di mobilitazione civilizzatrice, paradossalmente coltivato nel nome del più radicale “ciascuno a casa sua”. La Spagna del primo Ottocento davvero non fa eccezione, se non per le amplificazioni quasi caricaturali introdotte in questo cruciale passaggio da una certa discronia (il mitico ritardo spagnolo, argomento chiave condiviso da nazionalisti ed europeizzatori). Una discronia che tende a riprodursi e manifestarsi tanto in alcuni tratti di inefficienza della macchina statuale (la “mater dolorosa” di cui parla Alvarez Junco), quanto in una perdurante propensione al particolarismo localista e al provincialismo culturale (erudizione, folclorismo, localismo, costumbrismo, caciquismo). Tutti questi tratti caratterizzano ovviamente le cinghie di trasmissione del discorso ancor prima e ancor più che i contenuti e i toni del discorso stesso (riguardano cioè la traduzione e la lettura ancor prima e ancor più che la creazione e la scrittura). Concepite e vissute come miti di identità e autenticità originaria e, di conseguenza, portate a diffondere nello spazio pubblico e pedagogico il profilo solo retoricamente storicizzato di elaborate ipostasi metaletterarie (niente è meno storico delle storie delle letterature nazionali!), le nazioni dell’Ottocento affermano il proprio diritto ad autodeterminarsi, cioè a definire e fondare, come se fosse oggettiva, una propria soggettività collettiva, storica e metastorica insieme. Guidati da élites composite e cosmopolite, per formazione, sensibilità, interessi e cultura, gli stati nazione costruiscono la propria autolegittimazione propagandistica attorno all’ideale puristico di una comunità autosegregata i cui membri percepiscono se stessi e le proprie proiezioni “coloniali” extra moenia, non sempre e non del tutto in malafede, come il prodotto virtuoso e necessario del dispiegarsi storico, attuale e fattuale, di un potenziale metastorico postulato a priori. In questa fantasmatica manipolazione discorsiva, tradizione spirituale inventata, costruita, legittimata e amministrata in nome e per conto di Dio, della Monarchia e del Popolo, vigenza e validità, fatto e valore si sostengono a vicenda: la nazione vige perche vale e il suo valore è dimostrato dal fatto che vige (l’espressione ri-sorgimento nazionale per definire come ri-nascita la nascita di una nazione è un perfetto specchio di questa logica, che vende una costruzione nuova come se fosse un restauro e un testo originale come se fosse una traduzione). Ai margini di questa autodimostrazione, il problema che resta aperto è semmai un altro: la nación traducida del 1842 non era e difficilmente avrebbe potuto diventare la nazione di tutti. Pur essendo la traduzione uno strumento democratico e un veicolo di democratizzazione, il secolo della traduzione era in effetti stato un secolo elitista, di ricambio delle élites e dei progetti di cui i diversi settori di ciascuna élite si erano via via fatti portatori, traendone elementi di legittimità e legittimazione sia per la propria ascesa che per la capitalizzazione della propria egemonia, sempre relativa. All’ampliamento del mercato culturale non corrisponde un parallelo ampliamento della cittadinanza politica. Il mercato culturale passivo (il consumo di cultura e intrattenimento culturale) cresce più in fretta di quello attivo (la partecipazione alla produzione di cultura e intrattenimento culturale), determinando il passaggio da una aristocrazia, che consuma più di quanto produce, ma, essendo composta da “uomini di mondo” che sanno le lingue, può importare senza bisogno di 93 mediatori, a una mesocrazia, che consuma molto più di quanto produce, ma, siccome include lettori linguisticamente illetterati (cioè lettori che non sanno le lingue), necessita di mediazioni e mediatori. Il perdurare di questa sproporzione in un mercato che cresce si rispecchia, per quanto riguarda le traduzioni e l’importazione di usi, costumi e gusti letterari, nella coesistenza di due fenomeni paralleli: il boom e la satira, cioè l’aumento del numero di traduttori e traduzioni e la diffusione di stereotipi negativi che fotografano la svalutazione che inevitabilmente si associa all’inflazione. Nell’interpretazione dei puristi, dei censori e di tutti coloro che si autoinvestono del ruolo di difensori della pubblica morale, tanti romanzi, tante commedie, tante traduzioni e tanti traduttori diventano troppi romanzi, troppe commedie, troppe traduzioni e troppi traduttori e suggeriscono l’idea di cattivi romanzi e commedie, resi accessibili da cattive traduzioni, opera di pessimi traduttori. Per tutto il secolo d’oro della traduzione la fonte principale dei testi da tradurre è stata la Francia e la maggior parte delle traduzioni (anche di opere non francesi) è stata fatta dal francese, ragion per cui il problema della traduzione spagnola del Settecento può essere collocato in gran parte (ma non del tutto) nel quadro di una storia delle relazioni culturali ispano francesi (cioè dell’influenza francese in Spagna e della dipendenza culturale della Spagna dalla Francia, con afrancesamiento e satire dello afrancesamiento da una parte e sprezzanti “Que doit-on à l’Espagne?” dall’altra). Uno degli effetti linguistici che derivano dalla combinazione tra il crescente numero delle traduzioni e il fatto che si traduca in prevalenza da una sola lingua è una certa gallicizzazione (anche lessicale) dello spagnolo dei traduttori e della prosa spagnola delle traduzioni, che si allontanano dalla ricchezza espressiva del barocco per orientarsi verso un modello di eleganza più sobrio e comunicativo. Tutto ciò provoca reazioni non solo nel purismo lessicografico (pro e contro i forestierismi), ma anche in una sorta di paradossale purismo stilistico in cui, a seconda dei momenti, la necessità e l’opportunità di una reazione agli squilibri e agli eccessi del barocco sembrano essere sentite da tutti come urgenza “nazionale”, ma in nome di ideali tra loro tanto diversi quanto possono esserlo l’equilibrio neoclassico, cosmopolita ed europeizzatore (fatto proprio dagli ilustrados del secondo Settecento e dagli afamados traidores) e una progressiva idealizzazione del tradizionalismo popolaresco (che compare con il motín de Esquilache e trova consacrazione nella vita di corte dell’epoca di Carlo IV e poi nell’insurrezione antinapoleonica e nella cultura della restaurazione). La dipendenza del mercato culturale spagnolo dalle forme di quello francese si associa tra l’altro all’affermazione di Barcellona come centro editoriale di primaria importanza per la traduzione e la ritraduzione dal francese. Molto prima di diventare la capitale culturale e linguistica del catalanismo Barcellona ha affermato la propria vocazione di capitale economica e ed editoriale proponendosi, attraverso il mercato del libro, come centro di irradiazione della nación traducida. Varrebbe addirittura la pena di riflettere sul fatto che almeno una parte del presunto gallicismo della lingua della nación traducida potrebbe essere un riflesso, oltre che dell’influenza culturale del francese, anche dell’interferenza linguistica del catalano. Si tratterebbe insomma di un prodotto della mediazione linguistica dei numerosi traduttori catalani, la cui lingua materna presenta, rispetto al castigliano, una prossimità al francese decisamente maggiore (in termini di radici, suffissi, norme di derivazione e caratteri di stile e morfosintassi). Qualcosa di analogo è del resto accaduto anche in tempi più recenti con alcuni americanismi, entrati in uso nello spagnolo peninsulare grazie al boom della nueva novela, favorito, proprio come quello della nación traducida, dal dinamismo del sistema editoriale catalano che, negli ultimi anni del franchismo e in quelli della transizione, ha funzionato da potente vettore per la fortuna europea delle lettere ispanoamericane. Tra Sette e Ottocento, la nascita e la vigorosa crescita del circuito della traduzione quotidianizza lo afrancesamiento della Spagna e lo trasforma da fenomeno culturale in fenomeno commerciale, da progetto ideologico in processo mercantile, da otium a negotium, da obiettivo politico in investimento protoindustriale. 94 L’identità sociale e commerciale dei traduttori si modifica, configurando per le attività di mediazione linguistica e culturale un circuito semiprofessionale. La ridefinizione dell’identikit sociale e commerciale non si accompagna (non ancora) con una parallela ridefinizione dei diritti e dell’identità personale dei traduttori, tutte cose che rimangono ancora poco definite nei loro contorni (con frequenti casi di sfruttamento, anonimato, rubricazione per sigle e pseudonimi). Ad un’ampia gamma di intervento sul testo (in molti casi una co-autoría che va ben al di là dell’attuale diritto d’autore sulla traduzione) non corrisponde un parallelo processo di personalizzazione della prestazione. Il traduttore spagnolo del Settecento (soprattutto sulle gazzette) dispone di ampi margini di riscrittura, ma spesso non ha volto e non ha nome. Operando in incognito o quasi in incognito, con una identità sociale e commerciale che fa aggio su quella personale, il mediatore linguistico della nación traducida agisce per davvero in nome e per conto della lingua-cultura del proprio pubblico. Traduzione spagnola (versión castellana, al castellano, etc.) significa certamente traduzione verso lo spagnolo, ma in molti casi anche traduzione in Spagna, traduzione fatta per la Spagna da una competenza e da una sensibilità talmente vicine a qulle della Spagna stessa da poter quasi essere ascritta all’insieme della collettività ricevente. In questo senso le traduzioni fatte in Spagna dai “cattivi traduttori” sono facilmente distinguibili, non necessariamente perché inferiori (anche se spesso lo sono), da quelle che approdano in Spagna dopo essere state prodotte e stampate nei luoghi d’esilio e che in genere si caratterizzano per una più diretta e viva conoscenza della lingua d’origine, ma anche per un più ostinato attaccamento ai protocolli della panflettistica. In questa fase, fortemente market oriented, il funzionamento del circuito, che per quanto riguarda il singolo testo abbiamo paragonato ad un remake, trova una equivalenza abbastanza convincente con l’odierno mercato dei format TV. Il rapporto tra testo di partenza (poco importa se originale francese o tradotto in francese) e versione spagnola è simile a quello che separa le varie versioni nazionali dei giochi televisivi a premi o dei principali reality shows. Il tutto viene riscritto in termini nazionali, sia pure facendo salvo il marchio, la grafica e lo spirito del gioco. 3. Metafore e modulazioni Gran parte degli argomenti relativi al peso eccessivo delle traduzioni in genere e di quelle dal francese in particolare (già satireggiate nel corso del Settecento, da Cadalso e da altri) assumono un significato e una valenza politici ai tempi dell’invasione napoleonica, offrendo ai polemisti del momento un ampio campo di sovrapposizione tra i due fenomeni: l’occupazione militare viene comparata all’inflazione delle traduzioni e quest’ultima viene descritta come campagna di conquista della Spagna e come equivalente di un’invasione (si tratta peraltro di metafore che in genere si esauriscono in sé, nel senso che non ho finora incontrato paralleli che le sviluppino, accostando per esempio il rilancio costumbrista alla guerriglia, nonostante siano forti le corrispondenze iconografiche tra il tipo del guerrigliero e quello del majo). Un campo metaforico altrettanto frequentato riguarda l’idea del contagio e dello stato patologico (“infección de la traducción”, “plaga de las malas traducciones”, “fiebre de traducciones”, “furor traductoresco”, etc.), fenomenologia che, nell’immaginario dell’epoca, si collega strettamente (come conseguenza) alla simbolica della rivoluzione (spesso stigmatizzata come furor) e alla presenza della guerra (come evidenziano diverse lamine dei famosi Desastres de la guerra di Goya). Tutto ciò può essere facilmente collegato anche agli intensi dibattiti settecenteschi sulla clinica e sulla psichiatria (di cui è ben nota la ricostruzione di Foucault), tutti ambiti in cui ideali di conservazione (della salute sociale) e isolamento (degli agenti patogeni) hanno legittimato pratiche terapeutiche di segregazione che in molti casi hanno anticipato e “tradotto” in pratica la logica politica del dispotismo illuminato prima e della restaurazione poi. Anche in virtù delle implicazioni evidenziate da queste metafore di riferimento, l’abuso delle pratiche traduttive è visto e vissuto, al contempo, come specchio di un retraso e come strumento di una puesta al día. Il mito dell’aggiornamento delle mappe è spesso evocato per quanto 95 riguarda le notizie (le gazzette) e le traduzioni tecniche (abbastanza sviluppate in settori chiave come l’economia, la guerra, l’industria, la moda letteraria, etc.), ma ne sono coinvolti anche generi, settori e fenomeni più di comunicazione che di vera e propria informazione, come le cronache di viaggio o le canzoni. Le traduzioni sono, da questo punto di vista, uno dei lieviti fondamentali che consentono al giornalismo spagnolo di superare la fase unipersonale dell’uomo-orchestra, tipica del secondo Settecento (dove l’autore-editore scrive pubblica e distribuisce tra sottoscrittori noti le opinioni di quello strano alter ego che è il suo personaggio-pseudonimo), per accedere a dinamiche di mercato e di collocazione sul mercato più impersonali e polifoniche (se confrontiamo la situazione descritta dagli studi sul giornalismo di Juan Francisco Fuentes con quella che fa da sfondo alle ricerche di storia della traduzione di Jean-René Aymes, possiamo misurare in modo molto empirico e intuitivo la portata del contributo offerto dalla traduzione in questa direzione). La questione del rapporto tra traduzioni e gazzette, oltre ad essere fondamentale per la nascita del semi-professionismo di cui stiamo parlando (il professionismo giornalistico e quello traduttivo si formano in parallelo e spesso si intrecciano strettamente), consente di evidenziare un altro aspetto cruciale della questione: il secolo delle traduzioni e della nascita della nación traducida è stato anche il secolo delle polemiche, cioè un periodo in cui la polemica è stato uno dei formati dominanti del nascente mercato culturale. In decenni caratterizzati da un quasi permanente incendio panfletario e da discussioni a dir poco vivaci, le traduzioni oltre ad essere veicolo e strumento dei più vari livelli di scontro “ideologico” ne sono a più riprese anche esplicito argomento. Le traduzioni sono una moda, ma anche diffondono mode, consentono alle mode di superare le barriere linguistiche e culturali. Le traduzioni contribuiscono, attraverso la diffusione dei gusti, alla formazione del gusto. In un simile scenario, come fanno rilevare gli studi sulla traduzione di ispanisti come Etienvre e Aymes, le critiche su come si traduce sono in realtà spesso utilizzate per mascherare attacchi relativi a cosa si traduce. Le malas traducciones infatti non sono quasi mai uno stereotipo tipizzato ed evocato con la speranza di contribuire a migliorare gli standard di qualità del settore e del mercato e nascondono quasi sempre un tentativo (in genere privo di vere speranze di successo) di contrastare la crescente popolarità di determinati generi, limitandone la portata e segmentandone le aree di influenza. A ben vedere, il problema non sembra essere quello di determinare forme, tempi e circuiti della comunicazione culturale (un obiettivo “censorio” di cui è possibile registrare un pieno fallimento nel corso di tutto il regno fernandino e in particolare della cosiddetta “década ominosa”: 1823-1833), quanto quello di controllare (cioè, a seconda degli orientamenti, di limitare o di favorire) la conversione della comunicazione culturale in elemento di comunicazione politica (terreno sul quale riprende a svilupparsi, dopo la morte di Ferdinando VII, la contrapposizione tra conservatori e liberali). Il problema non è, se non per i moralisti più retrivi e intransigenti, quello di ostacolare la lettura, ma quello di ponderarne le possibili implicazioni in ambito pubblico (cosa implica il fatto di essere lettori-consumatori di gazzette piene di traduzioni o lettrici-consumatrici di romanzi tradotti?). La vorticosa crescita del settore della traduzione determina come è ovvio una temporanea difficoltà nel mantenere alti gli standard medi di qualità (anche perché produce cambiamenti importanti circa i parametri di tali standard), ma ha come conseguenza anche una certa abitudine nel consumo di opere tradotte, disegnando orizzonti di aspettativa sempre meglio definiti. Il cittadino lettore della “nación traducida” sviluppa con l’andare del tempo un vero e proprio know how da utente del mercato delle traduzioni. Il surplus di idee e riflessioni prodotto nel corso del Settecento viene smaltito nel corso del primo Ottocento, che è epoca in questo senso deficitaria, in cui il mercato si forma, si modifica e cresce in forma disordinata e contraddittoria sotto la spinta di urgenze diverse, che lasciano relativamente poco tempo e poco spazio alla sistematizzazione. Il secolo delle traduzioni raggiunge il suo apogeo combinando una pratica mercantile ottocentesca con teorie e idee di conio settecentesco e ilustrado, la cui vigenza si mantiene, in virtù di una serie di adattamenti evolutivi, per buona parte della Restaurazione. 96 Indipendentemente dal fatto che li odi o li ami, i lettori di gazzette e romanzi imparano a riconoscere i gallicismi e ad associarli a scelte e stili di vita collegabili a precisi significati sociali. La diffusione parallela e spesso congiunta di traduzioni e gallicismi compie, nel corso di questo processo, un significativo salto di qualità, toccando il controverso tema del rapporto tra fortuna e moda. L’inflazione delle traduzioni e dei romanzi è sia strumento che conseguenza della loro fortuna. Questo doppio statuto configura traduttori e traduzioni come gente e cose alla e della moda, como parte di un ambiente modaiolo, portatore di una paradossale tipicità contemporanea, da bozzetto antifolclorico. Proprio per questo la figura del traduttore si espone contemporaneamente a due forme di popolarizzazione in apparenza alternative, ma in realtà vicinissime, quali la moda stessa e la satira costumbrista della moda (tanto che “costume” e “bozzetto”, due parole chiave della reazione tradizionalista contro la moda, vengono proprio dal mondo della moda e conservano a tutt’oggi vigenza in esso). Il tema della moda ha implicazioni di notevole rilievo anche in termini di libertà e licenza traduttiva. Tra le varie formule che definiscono gli statuti dell’adattamento e della refundición figura infatti l’idea di “acomodar” (fare restyling), e addirittura quella di “arreglar a la moda”, dove moda è in parte sinonimo di maniera e gusto e in parte segnale della progressiva emersione del significato specialistico che la parola ha ancora oggi. Il paradosso dei paradossi, il vero punto critico verso cui convergono molti dei cabos sueltos che abbiamo fin qui cercato di reanudar, è l’idea della traduzione come “arreglo a la moda de la tradición”. E’ questa la principale differenza tra i prodotti della tradizione (renitenti ad arreglos e mode) e quelli del tradizionalismo (prodotti dell’arreglo, della moda e delle traduzioni almeno quanto tutte le altre diavolerie moderne cui vorrebbero far da antidoto). Questa lettura del tradizionalismo come moda e come stile e la conseguente lettura della traduzione come punto cruciale di un maquillage tradizionalista consente di collocare meglio molte tessere dell’eterogeneo mosaico che compone la figura “inventata” della nación traducida e delle sue tradizioni. Il nazionalismo tradizionalista, che nel 1842, per bocca di Mesonero prende le distanze dalla nación traducida è in realtà un effetto (e uno dei più tipici prodotti) della nacion traducida e delle sue tecniche di elaborazione e diffusione. Del resto l’idea di una equivalenza tra traducir e arreglar a la moda española non riguarda solo i singoli testi, ma anche i generi cui questi appartengono. Traducendo testi i traduttori adattano, naturalizzano e nazionalizzano anche una lunga serie di generi e di tipi testuali, mediando la loro introduzione sul mercato spagnolo. Non di rado orizzonti, obiettivi e limiti della modulazione e dell’adattamento vengono ulteriormente specificati mediante l’introduzione di aggettivi e avverbi, variamente connotati (in positivo o in negativo). Il caso più interessante (oltre che uno dei più documentati) riguarda l’aggettivo libre e l’avverbio libremente (usati sia come segnali di apprezzamento che come argomenti di critica). L’idea che gli arreglos a la moda española possano e debbano essere libres e/o prodursi libremente comporta (in senso letterale ed etimologico) una serie di significati su cui vale la pena riflettere. Il primo referente di questa libertà è ovviamente la superficie linguistica del testo originale (tradurre libremente significa avere o prendersi licenza di allontanarsi da tale superficie, operando scelte più libere in nome e per conto del lettore, la cui lettura, però, essendo condizionata da tali scelte e per effetto di esse, risulta decisamente più orientata e meno libera). Il secondo referente è la politica: il problema del tradurre libremente indica in questo senso la libertà di tradurre, cioè la licenza editoriale di scegliere che cosa tradurre, come complemento di quella linguistica di scegliere come tradurre. La libertà del traduttore rispetto al testo e quella dell’editore rispetto alla scelta del testo non si implicano a vicenda, ma tendono a comporsi e a risolversi (meglio o peggio) all’interno del concreto contesto negoziale disegnato da un terzo referente. Questo terzo referente che, nella nación traducida e per tutto il corso del siglo de oro delle traduzioni, rende relativa e concreta la libertà cui fanno riferimento l’aggettivo libre e l’avverbio 97 libremente, non è altro che il mercato: libre e libremente indicano la conformità della produzione e del prodotto editoriale alle leggi del commercio, alla libera iniziativa degli imprenditori committenti (editori, gazzettieri e impresari teatrali) e in definitiva ai dettami del libero mercato, il cui gioco, sia chiaro, si basa su calcoli e previsioni che partono da posizioni di forza relativa fortemente asimmetriche. Di questo si lamenta, nel 1836, una recensione di “El amigo de la religión y de los hombres”, testata che non fa mistero delle proprie nostalgie per i filtri censori della década ominosa: La introducción de obras impías en España ha sido una especie de contrabando, hasta hace pocos años. El espíritu mercantil, asociado a la impiedad se ha quitado al fin la máscara (...) y todo se traduce ya, y se vende libremente .2 La logica economica delle “libere” scelte editoriali è nella maggior parte dei casi di breve periodo: i committenti delle traduzioni basano le proprie previsioni ed esercitano la propria libertà a partire da una versione aggiornata del mito lopesco della tirannia del pubblico: il pubblico degli spettatori-lettori di Madrid e Barcellona e il gusto afrancesado delle novelle, dei romanzi e delle commedie che questo pubblico predilige, sono gli equivalenti sette ed ottocenteschi del “vulgo” seicentesco di Lope e della necessità di “hablar en necio para darle gusto”, anche se, rispetto alla società estamental dei tempi di Lope, le distanze sociologiche e culturali tra emittenti, riformulatori e destinatari del messaggio si sono ridotte al punto che l’intero circuito si svolge ora entro i confini di una sola casta, con una ideologia meno aristocratica e un vulgo un po’ meno vulgar. Anche se in modo convenzionale ed un po’ retorico, tanto la scelta dei generi e dei testi (ispirata agli editori dal calcolo economico), quanto quella delle parole che li traducono (delegata ai traduttori) vengono quasi sempre operate e giustificate in nome e nell’interesse del pubblico. Come molte altre parole che abbiamo incontrato (da moda a libertà), anche interesse e pubblico conoscono nel corso del secolo d’oro delle traduzioni e con la nascita della nación traducida una significativa ridefinizione dell’equilibrio tra diverse accezioni possibili. Quando si parla di interessi del pubblico si allude infatti sia ad un’idea economica (nell’interesse del pubblico significa a beneficio del pubblico, come con insistenza ripetono tutti i principali gazzettieri, che dichiarano di operare nell’“esclusivo” interesse del pubblico), sia ad un’idea morale (per il bene del pubblico), ma si allude anche, in termini di autogiustificazione all’insieme delle cose che il pubblico ritiene interessanti e per le quali è disposto a pagare. Quest’ultima accezione, che si traduce in domanda, è un criterio capace di orientare le scelte di traduttori ed editori. Nel corso del secolo d’oro delle traduzioni si definisce, non solo in termini mercantili, ma comunque come mercato e attorno al mercato, una sfera pubblica in cui prendono forma e trovano posto, in parziale competizione tra loro, le complementari nozioni di pubblico e opinione pubblica, interlocutori virtuali delle nascenti retoriche del populismo e dell’elitismo, traduzioni in termini di pubblicistica delle maggioranze silenziose e delle minorías selectas in nome delle quali pretendono di parlare i conservatori e i liberali, che si autoselezionano come portavoce, rispettivamente, dello spirito comunitario, legittimista e ultranazionalista dell’aldea e di quello ultracivico, filorepubblicano e cosmopolita della corte. Inserendo il proprio lavoro in questo scenario, prima e più che come mediatore tra lingue, il traduttore spagnolo del Settecento e dello Entresiglos conquista e definisce il proprio semiprofessionismo attraverso una duplice azione: direttamente opera come mediatore con il pubblico e l’opinione pubblica; indirettamente media tra i diversi settori di un pubblico e di un’opinione pubblica non ancora pienamente integrati. Il mercato della nación traducida, disegnato in funzione dei nuovi ambiti della stampa periodica, del teatro comico, del romanzo e della canzone, misura la propria efficacia sistemica in termini di aggiornamento, cioè di decalage temporale (passa sempre meno tempo tra la commercializzazione dell’originale in Francia e quella della sua traduzione in Spagna). Tra le plausibili conseguenze di questo accorciamento dei tempi c’è anche il perdurare di una minore cura 2 “El amigo de la religión y de los hombres” 9 (1836), p. 19 (corsivo mio). 98 nel lavoro di traduzione (parte delle malas traducciones che i censori dell’epoca imputavano ai malos traductores dipendono probabilmente dai ritmi e dai tempi di lavoro imposti da un sistema che costringe anche i buenos traductores a lavorare in fretta e senza margini di revisione e ripensamento). Dopo la fine della década ominosa la domanda e i compensi crescono, ma le condizioni (cioè i tempi) di lavoro addirittura peggiorano, per cui il risultato non migliora (mentre il traduttore settecentesco doveva lavorare molto e in fretta perché era pagato male, quello ottocentesco viene pagato meglio, ma proprio perché accetta, cioè subisce, una sempre maggiore rapidità nelle consegne). Nazione e nación traducida non solo nascono insieme, ma sono una lo specchio dell’altra. Nonostante la retorica del nazionalismo tenda a demonizzare le traduzioni (la stessa etichetta di nación traducida è chiaramente despectiva), non c’è dubbio che il mito retrospettivo dell’identità culturale spagnola deve molto più di quanto non creda all’esistenza (e alla consistenza) che nel secondo Settecento e nel primo Ottocento ha caratterizzato la nascita e le dinamiche del mercato semiprofessionale della mediazione linguistica e culturale. BIBLIOGRAFIA Lafarga (1999) Lafarga, F., La traducción en España, 1750-1830: lengua, literatura, cultura, Lleida, Un. de Lleida, 1999 99 ALEARDO TRIDIMONTI L’industria delle lingue e i mestieri della traduzione. Il traduttore tecnico, ingegnere della comunicazione multilingue e multimediale 1.1 Il malinteso Generalmente, ? della traduzione si sa: - - ? che è cosa “facile” e “ovvia”, che “basta conoscere le lingue” e “avere il dizionario giusto ”. Perché tradurre significa semplicemente rimpiazzare delle parole (e delle frasi) di una lingua con delle parole e delle frasi di un’altra lingua; che è un male necessario e il committente tentenna nel saldare la fattura a lavoro compiuto; che si paga a cartella, a parole, a caratteri, all’ora, a byte ...; che esistono “dei programmi e delle macchinette che costano poco (ed è vero) e che fanno ottimamente la stessa cosa”. (Molti progressi sono stati compiuto in questo campo, esistono programmi di traduzione automatica o motori di traduzione che sono in grado di sostituire molto più velocemente del traduttore umano le parole e le frasi, ma non per questo si può dire che essi traducono qualsiasi testo o che il prodotto finito che sfornano si possa chiamare traduzione. Vedi esempio di Eco: “Lo spirito è pronto, ma la carne è debole” che viene tradotto con “Il whisky è servito, ma la carne è andata a male ”; oppure il sito ufficiale del Governo italiano dopo le ultime elezioni, con i vari membri e le loro biografie che erano state tradotte in inglese (per fortuna con un traduttore automatico) e che dilettarono gli internauti. delle incomprensibili o odiate istruzioni per l’uso con le quali ognuno di noi ha avuto modo di mettere a prova la sua pazienza; delle esercitazioni (a scopo prevalentemente di verifica della padronanza del lessico e della grammatica) che si facevano/fanno a scuola o all’università. del traduttore si sa: - - che è un tipo strano, le cui tariffe sono proibitive; che è un anonimo dipendente presso un’agenzia di traduzione locale. Più raramente si sa che può esercitare l’attività come free-lance. Ancora meno si sa che spesso lavora anche per grandi enti pubblici o privati, multinazionali, agenzie di traduzione che operano a livello internazionale (GBS, Lion Bridge, Bownglobal, Logos, Gedev, Netword, SFT, Tradutec...); che è di formazione letteraria e che sicuramente non sa nulla degli argomenti tecnici oggetto della traduzione. Pertanto, il committente nutre diffidenza nei suoi confronti; che basta “masticare” un pò le lingue straniere, avere fatto qualche breve soggiorno all’estero o meglio, essere di madrelingua straniera per essere traduttore. ? Risultato: tranne rare eccezioni, il malinteso sulla vera natura della traduzione, sulla sua complessità, sui suoi vincoli e sulle sue implicazioni non aiuta a vedere nel traduttore un protagonista economico e culturale dalle molteplici ed elevate competenze professionali. A questa situazione, contribuiscono anche altri fattori. Contrariamente ad altre libere professioni (vedi architetto, medico, ingegnere, avvocato, ecc.), in Italia, il traduttore non può iscriversi ad un albo professionale per Traduttori, perché inesistente. Chiunque, di fatto, può svolgere l’attività di traduttore. E il dilettantismo rappresentato dai “traducenti” (che conoscono male l’una e l’altra lingua ma intraprendono con audacia di sostituire l’una con l’altra) è senza dubbio la maggior piaga per la traduzione. Tutti gli sforzi per porvi fine attraverso l’approvazione di una legge sullo statuto professionale del traduttore non hanno ancora trovato ascolto presso il mondo politico. Esistono solo delle Associazioni di categoria per consulenze, o per l’annuario nazionale al quale iscriversi come l’ANITI, oppure l’AITI. Il traduttore non può iscriversi nei ruoli della CCIAA. La circolare del Ministero dell’Industria n. 3407/C del 9 gennaio 1997 dichiara esplicitamente: “nel REA non sono iscritte persone fisiche esercenti professioni ‘non protette’ (pranoterapeuti, consulenti finanziari e tributari, traduttori, ecc.) a meno che non le esercitino a forma di impresa (...).” 100 “All’attività di traduzione e interpretariato si applica il comma 1 dell’art.49 del Testo Unico sulle Imposte Dirette DPR 22.12.1986 n. 917, trattandosi appunto di attività professionale e non di terziario e quindi, in assenza di giurisprudenza contraria in materia, l’attività di traduttore e interprete è soggetta solo alla gestione separata INPS relativa al contributo obbligatorio del 10% e non è assimilabile alla gestione commercianti.” 1 A parte la mortificazione per la sua persona e per la figura professionale che il traduttore rappresenta, questo brano potrebbe servire da esercitazione per capire la natura e le difficoltà della traduzione tecnica. 1.2 Tradurre per dire quasi la stessa cosa. La traduzione come conversazione tra due facce del personaggio traduttore “Che cosa vuole dire tradurre? La prima e consolante risposta vorrebbe essere: dire la stessa cosa in un’altra lingua. Se non fosse che, in primo luogo, abbiamo molti problemi a stabilire che cosa significhi “dire la stessa cosa”. 2 La faccenda è che da San Gerolamo a oggi, non abbiamo ancora idee chiare su che cosa voglia dire tradurre. Sappiamo solo che non significa sostituire una parola di una lingua con una parola dell’altra, usando un dizionario. Sarebbe troppo bello. La traduzione non è solo una operazione linguistica, ma è una operazione che implica un insieme di interrelazioni sociali e culturali, prima di tutto nell’ambito della propria cultura e poi tra le culture straniere. Per questo, i parametri culturali hanno un ruolo molto importante non solo nella traduzione letteraria, ma anche in quella tecnica e scientifica. Nel capitolo Xlll di Problèmes théoriques de la traduction,3 Mounin scriveva nel 1963: “Pour traduire une langue étrangère, il faut remplir deux conditions, dont chacune est nécessaire, et dont aucune en soi n’est suffisante: étudier la langue étrangère; étudier (systématiquement) l’ethnographie de la communauté dont cette langue traduite est l’expression. Nulle traduction n’est totalement adéquate si cette double condition n’est pas satisfaite”. Vi sono anche altre scienze umane che sono di grande aiuto come la letteratura, la storia, le scienze del linguaggio, l’antropologia, la sociologia, la psicanalisi, la filosofia. Nel 1973, Meschonnic 4 forgiava, nell’ambito della sua poetica, il concetto di “lingua-cultura” per indicare che una lingua e la sua cultura formano un tutto indissociabile. La traduzione andava dunque pensata in un ampio contesto culturale che comprendeva la storia, la letteratura, il linguaggio, la politica. Nel 1984, un’opera di Berman5 colpì il mondo della traduzione perché dimostrava il ruolo che un intero movimento culturale (in questo caso quello tedesco) può assegnare alla traduzione. Lo stesso Berman, nel 1995, in Pour une critique des traductions scrive: “Un traduttore deve conoscere la Storia della traduzione. Un traduttore senza coscienza storica e culturale è un traduttore mutilato, prigioniero della propria rappresentazione del tradurre e delle rappresentazioni che veicolano i discorsi sociali del momento”. Per cultura, intendiamo ciò che Michel Foucault 6 ha chiamato “i modi di essere” di una cultura: modi di vivere e di pensare comuni a una determinata comunità e che portano gli individui che appartengono a questa comunità ad agire in certe situazioni sociali in maniera comune. Questi modi di essere sono importanti perché possono indurre i traduttori a tradurre in un modo particolare e comune, legato al contesto e ai vincoli sociali che caratterizzano quel momento (a questo proposito, vedremo più avanti il problema dell’anglocentrismo, in tempi di globalizzazione, di TIC e di americanizzazione). Il traduttore svolge dunque un ruolo determinante nei confronti della sua cultura di appartenenza in rapporto con le altre. “Le traducteur n’est pas uniquement prospecteur de différences, explorateur de territoires culturels inconnus. Il est aussi celui qui, dans sa reconnaissance de l’autre, change les perspectives de sa communauté, dérange les “mots de sa 1 http://www.aiti.org/infogiuridiche.html. Eco (2003). 3 Mounin (1963). 4 Meschonnic (1973). 5 Berman (1984). 6 Foucault (1966). 2 101 tribu”, come scriveva Mallarmé nel 1877. Proseguono Delisle e Woodsworth : 7 “Par delà les décideurs (commanditaires, éditeurs, etc.), par delà la matérialité des textes, (...) il brouille les cartes, en l’occurence ces cultures, ces valeurs, celles de l’autre comme les siennes propres qu’on voudrait bordées, délimitées, alors qu’elles sont fluides, mouvantes.” Per Barthes, una lingua la tengono in esercizio, si sa, i suoi parlanti. Ma non è detto che l’esercizio vocale di una lingua sia il migliore per la stessa. Più si parla, più una lingua si consuma, si inflaziona ; più si estende il suo uso, più si riduce il suo lessico. Forse una lingua è “salvata” nella scrittura. Perché quando la si scrive, la lingua ci impone una riflessione, una scelta e un’attenzione speciale: la riduzione d’immediatezza non necessariamente nuoce alla lingua. Anzi, le giova. Da questa panoramica, emergono alcune considerazioni fondamentali: la prima è riconducibile ai parametri linguistici, storici e culturali che determinano il percepire, l’agire e il pensare del traduttore che fanno sì che egli non sia un mero ripetitore, ma sia consapevole del suo ruolo nell’orientamento e consolidamento della propria lingua e cultura di appartenenza. La traduzione costruisce l’essenza delle lingue e delle culture. 8 Il traduttore destruttura, modella, ristruttura l’identità della sua cultura e, attraverso i testi tradotti, quella della cultura straniera. La seconda constatazione è che ogni cultura, qualunque essa sia, non è un tutto statico, rigido, bensì un insieme variegato e complesso caratterizzato da costanti fluttuanti, in evoluzione. Il cosiddetto spirito del tempo. Oggi, l’anglofonia globalizzante. L’Europa del futuro sarà un continente di traduttori o non sarà (un poliglottismo totale è impossibile, eppure, sarà importante capire che cosa qualcuno dirà in sloveno, perché lo penserà in sloveno, e non sarà lo stesso che pensarlo in inglese). Se poi pensiamo al mondo... Non è un caso se gli studi più avanzati di traduzione attraverso computer li stanno facendo i giapponesi e i cinesi, che più di un inglese o di un francese hanno il problema di capire o di farsi capire. Vorranno forse conquistare il mondo, ma non imponendo la propria lingua, bensì la propria capacità di tradurre. Lo stesso vale per gli studi di terminologia. Non a caso, quelli canadesi e belgi sono i più impegnati. In questo inizio del XXl secolo, non possiamo più comportarci nei confronti dell’Altro come abbiamo fatto nel passato. La terza è che le istituzioni hanno un ruolo essenziale nella “dignificazione” della traduzione che contribuirebbe, di riflesso, a elevare lo statuto del mestiere di traduttore. Quarta constatazione: se tradurre ha a che fare non solo con le parole, ma anche con i contesti, allora nascono le spinose questioni: come calibrare fedeltà alla lettera e libertà di riscrittura? E’ più importante portare il lettore al linguaggio dell’autore, ovvero la traduzione deve essere orientata alla fonte, oppure portare l’autore al linguaggio del lettore, ovvero orientata alla destinazione? Supponiamo, con U. Eco (La Bustina di Minerva, 10 ottobre 1992), che un autore scriva in un articolo, o in un racconto che “Mary era una ragazza che era più abituata a frequentare via Montenapoleone che il Giambellino”. Se questa frase appare in un racconto su Milano il traduttore dovrà sforzarsi di far capire al lettore inglese o cinese che cosa vuol dire – a Milano – andare in via Montenapoleone. Ma supponiamo che egli abbia scritto così tanto per fare capire ai lettori italiani che tipo è questa Mary, che magari vive in un altro paese. E’ allora legittimo che il traduttore americano scriva che Mary ci trovava più a suo agio a Madison Avenue che a Brooklyn (o nel Bronx). Se il suo racconto era un’opera d’arte, il traduttore ha ovviamente cambiato il testo-fonte, non ha tradotto ma interpretato, si è preoccupato del destinatario. Ma se lo stesso traduttore avesse dovuto rendere “Quel ramo del lago di Como” non avrebbe potuto scrivere “Quel ramo del Loch Ness”, anche se traduceva per gli inglesi. In quel caso la traduzione doveva essere orientata alla fonte. Per Ortega y Gasset9 “nel caso di traduzione orientata alla destinazione, traduciamo in un senso improprio del termine: facciamo, a rigore, una imitazione o una parafrasi del testo originale. Solo quando strappiamo il lettore dai suoi costumi linguistici o lo costringiamo a muoversi dentro quelli dell’autore, c’è propriamente traduzione.” Fra l’avvicinare l’autore al linguaggio ordinario (del lettore), e quindi impoverirlo, riducendo la sfera della sua originalità al senso comune, e l’allontanare il lettore oltre se stesso verso il linguaggio creativo (dell’autore), 7 Delisle/Woodsworth (1995). Cordonnier (2002). 9 Ortega y Gasset (1932-1986). 8 102 Ortega preferisce la seconda possibilità. In questa scelta si gioca infatti la differenza fra “la miseria e lo splendore” della traduzione. Per la traduzione tecnica, la situazione è diversa. Essa viene valutata in termini di efficacia della comunicazione. I documenti di questa natura devono essere progettati e scritti pensando appunto a chi li legge, agli effetti immediati per il destinatario. L’atteggiamento oggi prevalente riduce quest’operazione a un fatto puramente linguistico, vincolato a produrre un’equivalenza testuale e ignora la complessità del lavoro che deve effettuare il traduttore tecnico per riplasmare un testo in funzione del pubblico che si vuole raggiungere. Vediamo in quale spirito del tempo il traduttore italiano si trova a dover operare. 1.3 Il potere delle parole e le parole del potere. Il morbus anglicus10 La lingua come grammatica della società. Il dibattito tra Gramsci e Giovanni Gentile sulla risposta da dare alla domanda: “Come si impara l’italiano?” è alquanto attuale. “Studiando la grammatica”, rispose Gramsci. Il “laisser-faire dell’idealista Gentile aveva escluso la grammatica dall’insegnamento nella sua riforma scolastica. “La grammatica non può essere separata dal linguaggio vivo e lì va studiata. Ma se si smette di farlo a scuola, si perde in democrazia, perché la lingua resterà un bene elitario”. E’ quel che pensava anche don Milani. Non si trasmette una civiltà, una cultura, la democrazia con la lingua spontanea. Il mutare dei termini con cui una società esprime informazioni, rapporti, emotività, ovvero comunica, non può che riflettersi sulla sua struttura. Ed è proprio sulle sue strutture reali che una lingua cresce. Dietro ogni parola si sente la presenza della civiltà che gli ha dato forma e che da essa prende forma. In tempi di disgregazione, di separatismi, di sfiducia e crescente disorientamento, Giovanni Nencioni, presidente della Crusca, nonché professore emerito alla Normale di Pisa, ammoniva già nel lontano 1992: la lingua nazionale non si può buttare via come uno straccio vecchio, è la nostra carta d’identità, è una delle conquiste sociali degli ultimi decenni. Può persino avere effetti riparatori, servire da contrappeso nei confronti del rischio di disgregazione politica che stiamo vivendo. Non ogni possibilità tecnica e terminologica ha in quanto tale il diritto di diventare forma sociale perché è anche attraverso l’uso che viene fatto delle parole che gli uomini orientano il tipo di società e di mondializzazione che si sta delineando 11 . Usiamo volutamente la parola mondializzazione, e non globalizzazione. Come gran parte degli anglicismi, questi godono nel nostro paese di una particolare immunità, rispetto e potere di soggezione. In Francia, invece, le parole nuove, i neologismi, prima di essere naturalizzati ed avere diritto di cittadinanza, sono sottoposti agli accertamenti di commissioni specializzate di terminologia e di neologia che operano in collaborazione tra loro: Association Française de Normalisation (AFNOR), Institut National de la Langue Française (CNRS-INaLF), Académie des Sciences. Tutti i nuovi termini ammessi vengono regolarmente pubblicati dalla commissione di terminologia, con la loro esatta definizione e un preciso status. Il traduttore deve tenerne conto. Questo modo di procedere contribuisce non solo ad un progresso quantitativo e qualitativo nella diffusione dei nuovi termini, a un invigorimento della lingua, ma anche a dare forma alla società, a rendere più trasparente la comunicazione. La soluzione non è certo chiudersi a riccio, invocare “l’autarchia linguistica”. Sarebbe anacronistico, ridicolo, impossibile (vedi i risultati della legge Toubon). Tuttavia, emanare raccomandazioni e dare l’esempio nella loro applicazione (che non significa rigoroso divieto) relative all’uso delle parole straniere almeno da parte del mondo della politica, delle pubbliche amministrazioni, degli enti pubblici e dei responsabili della comunicazione (dalla RAI-TV agli organi di stampa che fanno sempre tendenza), rappresenterebbe se non altro, un segnale. Prendiamo l’esempio di black-out. Questo termine è attestato almeno a partire dal 1983 nel significato di “oscuramento totale di una città o di parte di essa, provocato da un guasto dell’impianto d’illuminazione”. 12 Nei suoi comunicati l’ENEL scrive “interruzioni dell’erogazione di energia elettrica”. Forse a causa della sua macchinosità a cui si aggiungono gli usuali motivi 10 Castellano (1988). Laygues (2003). 12 Rando (1987). 11 103 snobistici, a quest’ultima espressione i giornalisti preferiscono la parola inglese, che ha l’indubbio vantaggio della brevità anche se manca di quello della chiarezza per chi non conosca bene l’inglese. Arrigo Castellani ne ha proposto un ottimo sostituto in un suo saggio sull’invasione di termini anglo-americani: abbuio, deverbale a suffisso zero di abbuiare, “oscurare, mettere al buio”. La parola italiana ha lo stesso pregio della brevità offerta da black-out e vi aggiunge quello della maggiore chiarezza e facilità di pronuncia. Ma la comunicazione crea abitudini e “ogni sostituzione, anche se felicemente trovata o autorevolmente sostenuta, ha bisogno di un tempo più o meno lungo d’incubazione”, scrive Migliorini nel saggio citato sopra. 13 Solo se l’ENEL, con la sua autorità tecnica, avesse costantemente adoperato abbuio, questo termine avrebbe avuto buone probabilità di sostituirsi, prima o poi, a black-out. Nella sfera del politico, senza riesumare i dibattiti sull’ingegneria elettorale, sul sistema economico-burocrato finanziario “all’inglese”, l’italianissimo “ministero del Lavoro” è stato di colpo trasformato in “ministero del Welfare”, un termine che non ha identità perché per metà appartiene all’italiano e per metà alla lingua inglese e perché parla di Blair e pensa alla Thatcher. Questa nuova denominazione, è stata poi seguita dall’insediamento di authorities su authorities per risolvere ogni tecnicality con una social card e una dual income tax. Il tutto, in un tripudio di premierato, devolution, governance, no tax day, election day, exit poll, question time, road map, peacekeeping, master plan, spin doctors, time out, I care e altre quotidiane new entry bipartisan dei nostri governanti, accaniti difensori della cultura e delle tradizioni del Bel Paese, ma di fatto tra i più anglocentrici d’Europa. L’anglofilia è un fenomeno insidioso per l’equivoco di fondo che lo accompagna e che in qualche misura lo genera. Essa viene considerata quasi un sinonimo di modernità: un governo o un’amministrazione che si rinnovano non possono che esprimersi con termini inglesi, altrimenti danno la parvenza di non essere al passo con i tempi. E così si attinge in modo sempre più paranoico a costrutti ed elementi lessicali inglesi, non solo in ambiti settoriali e specialistici, ma anche quando si deve denominare unità amministrative, servizi, programmi di azione. Lo Stato pare snobbare le risorse offerte dalla propria lingua nazionale a tutto vantaggio dei global nicknames. Anziché progettata e scritta pensando al basso, al destinatario, la comunicazione sembra concepita pensando all’alto, come per evitare un disturbo al manovratore. L’orientamento che tende ad affermarsi potrebbe condurre, se non adeguatamente contrastato, alla sostituzione del vecchio “burocratese” con un nuovo linguaggio non meno opaco e ingannevole del precedente e l’azzeccagarbugli di manzoniana memoria continuerà a perpetuare l’imbroglio allo sprovveduto di turno con magiche formule di importazione. Cos’altro se non questo complesso di provincialismo cronico può giustificare la sostituzione del tradizionale servizio clienti con l’astrusa formula customer care, oppure il buon vecchio centralino con l’“efficientissimo” call center? I mass media fanno da megafono a questo trend con il loro quotidiano load di target, trailer delle prossime puntate, share, people meter (per l’auditel!), audience, privacy, top, ground zero del ragionamento, counseling del comportamento alimentare, drop down, fall out, blown up, follow up, born down, outing coraggioso, outlet, del tutto shakerato, feedback, versione soft, nick, jetlang, home page, set up, black-out, make up, loudspeaker, smart card, supportare, bypassare, flashare, mixare, lookologo, vipperia, snowboardista, stagista, superstore, fitwalking, body artista, rating, leasing, franchising, forecast, pool car, jump service, e via dicendo senza dimenticare il ricco repertorio dell’internettese, del junk e del trash in ogni ambito. E le nostre periferiche realtà ne percepiscono l’eco. Anche qui, di riflesso, è come se ci fossimo espropriati da soli, oppure come se una coscienza diffusa suggerisse: date un nome inglese alla vostra attività commerciale, alla vostra professione, ai vostri prodotti, o altrimenti si penserà che siete dei pataccari. Vi è veramente bisogno di un project manager? Non basterebbe un semplice capo progetto? E se le aziende, invece che account manager ricercassero responsabili commerciali, forse troverebbero un maggior numero di candidati da esaminare. Quanti sanno con certezza che 13 Migliorini (1990) (vedi sezione I.4, Purismo e neopurismo). 104 cos’è un trust di cervelli, che lavoro fanno un promoter o un sales group leader? E un back office assistance? Oppure un process ingeneer, un content manager, un security officer, un project auditor, un publisher? Perché workshop anziché laboratorio, part-time job e non lavoro a tempo parziale, attachment invece di allegato, zippare invece di comprimere (se zippiamo un pò, ci stiamo in sei in macchina), resettare invece di reimpostare, (il tempo di resettarmi e poi sono tutta tua), scannerizzare invece di scandire, downloadizzare invece di prelevare o scaricare, shiftare invece di spostare (per favore, shiftatevi un pò più a sinistra, se no non riesco a passare) e chi più ne ha più ne metta. Per finire come quella vecchietta che piomba in farmacia per protestare: “Come faccio a comprare tutte queste medicine senza racket?” Una lingua sempre più bastarda dunque, lievemente snob, spocchiosa, e anche un po’ ridicola. In L’inglese. Lezioni semiserie, Beppe Severgnini, commenta e avverte: “Non sono preoccupato per l’integrità della lingua però mi spaventa il ridicolo e gli italiani hanno una vocazione nazionale per il ridicolo”. Malgrado queste rassicurazioni, di fronte alle dimensioni del fenomeno forestierismi, viene da chiedersi: solo moda, oppure sintomo di qualche cosa d’altro? Perché mai uno deve usare l’inglese quando non lo sa e quando, soprattutto, esiste già una più che dignitosa versione italiana? Quanti si accorgono della formidabile mutazione in atto alla quale stiamo assistendo? E sono in grado di gestirla? “The Independant” (e non “La Padania”) del 20 marzo 2003 è giunto a parlare di inglese “linguicida”, chiedendosi retoricamente: “Non è un genere ancora più sinistro del colonialismo che noi praticavamo cento anni fa? Non troppo tempo fa, noi prendevamo le loro materie prime. Ora noi invadiamo le menti, cambiando lo strumento primario col quale essi pensano: la “loro” lingua. Il libro-intervista con Tullio De Mauro curato da Francesco Erbani e intitolato La cultura degli italiani (Laterza, 2004) è ricco di dati sorprendenti e allarmanti a questo proposito e ci aiuta a capire meglio il back ground del fenomeno in atto. Se l’istruzione pubblica riflette il livello culturale d’un paese, nel nostro, è lo specchio fedele di una grave minorità rispetto al resto dell’Europa. E i dati che De Mauro esibisce, sono perentori. Da noi, gli analfabeti completi sono più di due milioni, ma ad essi vanno aggiunti quasi quindici milioni di semianalfabeti. E altri quindici milioni di cittadini rischiano di diventarlo! E con queste credenziali ci concediamo l’illusione della patacca degli anglicismi. Come l’elettricista dell’angolo che chiama il suo negozio Elettrical Shop (sbagliando anche l’ortografia, ma chi se ne accorge?). L’importante è essere trendy. “A un paleoanalfabetismo, eredità del passato”, dice De Mauro, “si è accumulato un neo-analfabetismo fisiologico nei paesi industriali e di alto livello consumistico”. In Italia possiede il diploma di scuola superiore il 42% della popolazione adulta, di fronte a una media europea del 59%. Solo il 9% degli italiani adulti possiede una laurea, di fronte a una media europea del 21%. Da un indagine che un istituto specializzato, il Cede, ha condotto su un campione della popolazione risulta che il 5% dei nostri connazionali adulti non sa leggere il primo e più semplice dei questionari che gli vengono proposti. E un 33% arretra di fronte a frasi appena un po’ complicate. Come meravigliarsi allora che i due terzi della popolazione italiana non leggano mai né un libro né un giornale, ma siano aggiornatissimi in materia di calcio e dianglicismi? Trilussa 14 ne’ L’incontro de li sovrani, già ci mostrava allo specchio: Bandiere e banderuole, penne e pennacchi ar vento un luccichio d’argento da bajonette ar sole, e in mezzo le fanfare spara er cannone e pare che t’arrimbombi drento. 14 Ched’è? Chi se festeggia? E’ un Re che, in mezzo ar mare, su la fregata reggia riceve un antro Re. Ecco che se l’abbraccia, ecco che lo sbaciucchia; zitto, chè adesso parlano… Trilussa (1935). 105 - Stai bene? - Grazzie; e te? E la Reggina? - Allatta. - E er Principino? - Succhia - E er popolo? – Se gratta. - E er resto? - Va da sé… - Benissimo! - Benone! La Patria sta tranquilla; - annamo a colazione…E er popolo lontano, rimasto su la riva, magna le nocchie e strilla: - Evviva, evviva, evviva… E guarda la fregata Sur mare che sfavilla. Inguaribile popolo, sempre ossequioso verso l’invasore e incantato di fronte al fascino del “luccichio d’argento”. L’altro rischio è che, in questo “luccichio d’argento, in mezzo a le fanfare che festeggiano il Sovrano straniero sulla fregata nel mare che sfavilla”, il dominio del linguaggio scritto e parlato diventi privilegio di una élite, un nuovo mandarinato, dove “er popolo, lontano, rimasto sulla riva, se gratta e er resto va da sé”. Qualcuno dei futurologi americani ha detto che, per esistere, una società, ha bisogno che almeno un settimo della popolazione sia competente. Il resto può essere formato da puri consumatori dei mezzi di comunicazione. 1.4 Marketing terminologico e economia politica della traduzione. Il traduttore: ultimo cavaliere errante della parola Quando il termine straniero non è scelto per necessità inderogabile o per scrupolo di precisione, ma piuttosto per conformismo a mode linguistiche, per comoda trasposizione di espressioni tratte dal gergo specialistico, per subordinazione delle esigenze formali agli imperativi della rapidità e anche per scarsa sensibilità linguistica, non solo è fuori luogo, ma ostacola sensibilmente la comunicazione, al punto che le parole perdono significato. Il traduttore tecnico, come l’autore di atti amministrativi in senso stretto, che producono effetti giuridici diretti e immediati per i destinatari, deve tradurre pensando a chi legge. La sua traduzione deve essere orientata alla destinazione. Occorre sfatare un luogo comune: sfoggiare il proprio repertorio di forestierismi, non è né indice di bravura, né di efficacia dal punto di vista della comunicazione. Il traduttore non deve mai dimenticare che un testo tradotto è un testo originale che deve vivere di vita propria nella nuova lingua. Il traduttore è un redattore e, come tale, deve essere in grado di creare contenuti di qualità, fruibili e leggibili come testi originali. Egli deve reagire con vigore contro il pigro e avvilente adattamento a orecchio, con effetti grotteschi, oppure contro il lasciare in inglese la terminologia tecnica e settoriale nonché i sintagmi. Soprattutto nel campo dell’informatica, delle nuove tecnologie, della comunicazione e della finanza dove sembra che non esistano più professioni né operazioni o prodotti con un nome italiano. Per tornare ai nostri Sovrani, ad onor del vero, va detto che gli anglicismi in genere sono oggetto di abbondanti studi ed attenzioni. Da qualche tempo si registra anche in Italia una rinnovata attenzione per il fenomeno della neologia in particolare di origine anglofona. Presso l’Accademia della Crusca è stata istituita la CLIC, Commissione per lo Studio della Lingua Italiana Contemporanea, che tra gli obiettivi ha anche quello di studiare possibili sostituzioni, pur con tutte le cautele necessarie, di parole inglesi con traducenti italiani. Tuttavia, se si vuole evitare un puro esercizio di stile, un semplice elenco di proposte, magari ingegnose, è necessario calare il problema della traduzione o dell’adattamento dei forestierismi in un quadro di riferimento complessivo che tenga conto dello statuto sociolinguistico del forestierismo nella lingua d’origine e quella d’arrivo. Non bisogna dimenticare il principino che succhia, ovvero, i falsi anglicismi, i quali vengono sempre più spesso utilizzati in italiano, ma o non sono debitamente considerati nei dizionari, o le loro definizioni sono spesso fuorvianti. Di conseguenza, la presenza di tali parole potrebbe anche diventare un ostacolo all’internazionalizzazione dell’italiano poiché i falsi anglicismi sono portatori di significati spesso diversi e/o distanti dagli etimi inglesi da cui si suppone traggano origine. Come 106 scriveva Beccaria,18 “Noi siamo spesso più inglesi degli inglesi (…) Usiamo falsi anglismi che nessun inglese sognerebbe di usare”. Esempio: Una stagista fa tremare la Casa Bianca. Il presidente degli Stati Uniti, l’uomo più potente del mondo, rischia l’impeachment perché si è reso colpevole non di tradimento, corruzione o crimini vari, ma semplicemente una love affair con una stagista . Love affair è, un eufemismo: i mass media parlano di sex gate.19 Chiamare stage (termine francese, ma pronunciato come in inglese stage il quale ha tutt’altro significato. Misteri di sinergie!) il periodo di tirocinio è molto di moda. Vi aggiungiamo il suffisso “ista” ed ecco una nuova attività professionale: lo stagista presenta lettere credenziali e, senza colpo ferire, come il look manager (ovvero curatore d’immagine, ovvero acconciatore), è ammesso nella categoria in cui si trovano il barista, il dentista, il giurista, ecc. La stampa anglofona ha sempre chiamato la ormai famosa stagista “intern” e non trainee, termine esatto, corrispondente a stagiaire in francese. Altri esempi: l’aggettivo inglese sensibile che viene tradotto con sensibile”, che in italiano ha un diverso significato. L’espressione obiettivo sensibile (cha ha un ché di sensuale, di erogeno), andrebbe sostituita con obiettivo critico. La parola exciting significa entusiasmante, oppure coinvolgente, emozionante, interessante; molto raramente eccitante. Il significato dipende dal contesto, eppure la parola viene sempre resa con eccitante, anche nel doppiaggio dei film. Idem per designer che significa progettista e non disegnatore come ci si ostina a tradurlo. E via discorrendo. Un atteggiamento aperto nell’uso delle parole straniere che consente di assimilare ciò che è necessario affinché la lingua continui ad aggiornarsi senza degenerare Non solo è inevitabile, ma anche benefico. Come già diceva Machiavelli, nel 1515, in “Dialogo intorno alla nostra lingua”, “le lingue non possono essere semplici, ma conviene che sieno miste con l’altre lingue; ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accettati all’uso suo, ed è sì potente, che i vocaboli accettati non la disordinano, ma ella disordina loro; perché quello ch’ella reca da altri lo tira a sé in modo che par suo”. 20 . Solo che, come sentenziava Ippocrate, ogni medicina è veleno ed ogni veleno è medicina; tutto sta nelle dosi. Infatti, Machiavelli non si accorse che, già a partire dal 1510, il latino era avviato al declino, spodestato dalle lingue volgari, la cui diffusione era accelerata dall’introduzione della stampa in Europa. Un po’ la situazione dell’inglese di oggi con Internet e la traduzione automatica. Per tornare al traduttore, parafrasando Calvino21 quando descrive il Sig. Palomar che fa la coda in un negozio di formaggi, a Parigi, possiamo dire che c’è un rapporto reciproco tra parola, individuo e società, tra termine e traduttore. “Non è questione di scegliere il proprio formaggio, ma di essere scelti. C’è un rapporto reciproco tra formaggio e cliente: ogni formaggio aspetta il suo cliente”. E’ come se, in un alone di complicità viziosa, ogni parola aspettasse di scegliere il suo cliente, “si atteggiasse in modo d’attrarlo con gelosia, come se riconoscesse in lui colui che sa apprezzare quei doni che la natura e la cultura hanno tramandato per millenni e che non devono cadere in mani profane, o al contrario si sciogliesse strumentalmente in un arrendevole abbandono esteriore, come sui divani di un bordello”. Il traduttore deve essere guidato dalla consapevolezza che dietro ogni parola c’è la presenza della civiltà che gli ha dato forma e che da essa prende forma. Sempre più spesso, i calchi o prestiti semantici e sintattici si cristallizzano in moduli “pronti all’uso”, causando un impoverimento nelle scelte terminologiche e stilistiche e tendendo a standardizzare, e in ultima analisi a erodere, non solo la qualità della traduzione, ma più in generale, a accelerare il depauperamento delle risorse linguistiche e culturali. Questo fenomeno è contrastabile solo con un uso attento della lingua. Purtroppo, in presenza di una totale inerzia da parte degli studiosi, delle istituzioni, le parole non hanno più uno status preciso. E il traduttore ne è spesso 18 Beccaria (1992). Tracce, n° 4, marzo 1998, Servizio di traduzione. Commissione Europea. 20 N. Grandi, Università degli Studi Milano Bicocca, citato in “La Repubblica” del 2 ottobre 2004. 21 Calvino (1990). 19 107 complice, dimenticando che, in quanto parola e scrittura, la traduzione non è mai una operazione neutrale. Italo Calvino, introduce la terza delle sue Lezioni americane intitolata “Esattezza” con queste parole: La precisione per gli antichi Egizi era simboleggiata da una piuma che serviva da peso sul piatto della bilancia dove si pesano le anime. Quella piuma leggera aveva nome Maat, dea della bilancia. Il geroglifico di Maat indicava anche l’unità di lunghezza, i 33 centimetri del mattone unitario, e anche il tono fondamentale del flauto”. “Esattezza” significava, per lui, soprattutto tre cose: “un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato; l’evocazione di immagini visuali nitide, incisive, memorabili (in italiano esiste l’aggettivo “icastico” che non esiste in inglese); un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione”. E prosegue: Sento il bisogno di difendere dei valori che ad altri potranno sembrare ovvii perché mi sembra che il linguaggio venga sempre più usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne trovo un fastidio intollerabile. (…) A volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste di linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze. Non m’interessa qui chiedermi se le origini di questa epidemia siano da ricercare nella politica, nell’ideologia, nell’uniformità burocratica, nell’omogeneizzazione dei mass-media, nella diffusione scolastica della media cultura. Quel che mi interessa sono le possibilità di salute. La letteratura (e forse solo la letteratura) può creare degli anticorpi che contrastino l’espandersi della peste del linguaggio. (…) Ma forse l’inconsistenza non è nel linguaggio soltanto: è nel mondo. La peste colpisce anche la vita delle persone e la storia delle nazioni, rende tutte le storie informi, casuali, confuse, senza principio né fine. Il mio disagio è per la perdita di forma che constato nella vita, e a cui cerco d’opporre l’unica difesa che riesco a concepire: un’idea della letteratura. E, aggiungiamo noi, della traduzione. Fruttero & Lucentini gli fanno da eco, fornendoci uno straordinario e toccante ritratto del traduttore. Il problema del traduttore è in realtà il problema stesso dello scrivere e il traduttore ne sta al centro, forse ancor più dell’autore. A lui si chiede (...) di dominare non una lingua, ma tutto ciò che sta dietro una lingua, vale a dire u’intera cultura, un intero mondo, un intero modo di vedere il mondo. (...) Gli si chiede di condurre a termine questa improba e tuttavia appassionata operazione senza farsi notare (...). Gli si chiede di considerare suo massimo trionfo il fatto che il lettore neppure si accorge di lui (...) un asceta, un eroe essenzialmente disinteressato, pronto a dare tutto se stesso in cambio di un tozzo di pane e a scomparire nel crepuscolo, anonimo e sublime, quando l’epica impresa è finita. Il traduttore è l’ultimo, vero cavaliere errante della letteratura.22 1.5 Localizzazione e traduzione La globalizzazione comporta, da un lato l’internazionalizzazione di un prodotto o di un servizio e dall’altro, la sua localizzazione. I “développeurs”, ovvero coloro che hanno il compito di realizzarlo, procedono in maniera tale che esso sia il più neutro e il più generico possibile per consentirne la adattabilità ai molteplici contesti locali. Ogni prodotto deve essere accessibile a tutti, ma allo stesso tempo adattato ai diversi mercati locali. La localizzazione, (anche questo un conio dall’inglese localization) è l’adattamento linguistico e culturale dei contenuti in lingua straniera, affinché possano essere fruiti da utenti che parlano un’altra lingua e che vivono in un altro contesto culturale. 22 Fruttero & Lucentini (2003). “Ultimo cavaliere errante...”. Le parole di Fruttero & Lucentini hanno almeno quel fascino e quel potere magico che non riesce a suggerire l’equivalente “free lance”, ovvero mercenario al soldo di chi meglio paga. Ancora una volta, come per globalizzazione, localizzazione..., ci troviamo di fronte non solo a un problema linguistico, ma anche di grammatica sociale, di cultura, di modo di vivere il mondo. 108 Localizzare un prodotto vuole dire adattarlo alla cultura del paese di destinazione. E’ un processo assimilabile alla traduzione da cui si differenzia per l’approccio, ma anche per onerosità, complessità e dimensioni. La figura del localizzatore ha finito così per assumere caratteri di elevatissima specializzazione che richiedono continui investimenti in tecnologie e formazione. La complessità del processo ha anche imposto, in alcuni casi, figure del tutto nuove. Tuttavia, nel nostro paese, canali, mezzi e strutture sono ancora insufficienti o “inadeguati” non solo tecnico, ma anche culturale e linguistico. 23 La localizzazione linguistica e culturale non è nata spontaneamente da un desiderio da parte delle imprese di promuovere le lingue e le culture minoritarie, per il bene degli abitanti del posto, nell’ambito di una battaglia che punta a fare prevalere la cultura locale su quella globale e di mercato, nel senso antropologico della parola. L’obiettivo è proprio quello di vendere, di vendere sempre di più. Per questo, si ricorre alla tecnica del camaleonte: sotto parvenze locali, si presenta un prodotto straniero, che si cerca di piazzare in un determinato luogo o mercato. La terminologia, perno dell’attività di localizzazione, rappresenta una componente essenziale al servizio di questa operazione commerciale. La terminologia, come la localizzazione obbediscono sempre più agli imperativi dei prodotti commerciali.24 In questo marketing terminologico, il traduttore deve essere molto accorto su come avvengono i transferts linguistici e culturali. ll Traduzione e nuove tecnologie produttive 2.1 La traduzione automatica e la scrittura in macchinese Che cos’è la traduzione automatica? La TA è una pratica che non richiede nessun intervento umano. Viene definita come l’applicazione dell’informatica a testi di una lingua naturale di partenza verso una lingua di arrivo. Portatrice di grandi speranze negli anni ’80 e oggetto di enormi investimenti, la TA è stata poi per un certo tempo messa in secondo piano a vantaggio della traduzione assistita da PC, – tecnicamente più realistica –, per poi ritornare protagonista grazie ad Internet che consente agli strumenti della TA di farsi un’idea del contenuto delle pagine scritte in un’altra lingua. Ma, a parte la funzione di sgrezzamento della comprensione, utile per coloro che vogliono avere una idea generica sul contenuto del testo, la TA dimostra la sua efficacia solo in certe condizioni di normalizzazione e di coerenza dei testi di partenza. Infatti, perché un testo sia traducibile da una macchina, questo deve essere scritto in maniera tale da essere capito da una macchina per poi essere da questa tradotto. Citiamo l’esempio riportato da Sebastiano Messina sul quotidiano “La Repubblica” dell’ 8 dicembre 2001 e intitolato “Palazzo Chigi inventò l’inglese”. Nelle biografie ufficiali dei ministri pubblicate sul sito del governo www.governo.it, si poteva leggere che l’on. Marzano è un ordinary professor (!!) , “autore di circa 150 pubblicazioni sui problemi dell’economia” che diventava in inglese “author of approximately 150 banns on the problems of the economy (banns: parola di lessico religioso adoperabile solo per le pubblicazioni di matrimoni). Roberto Castelli, dopo trent’years of job in company, si è candidato in un collegio a cavallo delle province di Lecco e Bergamo” diventa in inglese senator in the college to horse of the province of Lecco and Bergamo. Paolo Bonaiuti, “è portavoce del presidente Berlusconi di Forza Italia”, tradotto is megaphone of the president Berlusconi and Italy Force (ovvero del Battaglione Italia). Rocco Buttiglione, “….sotto la guida del Prof. Augusto Del Noce di cui diverrà assistente ed amico”, diventerà in versione tradotta: 23 24 Gruppo L10 N, Rimini, settembre 2002. Quiron (2003). 109 under the guide of prof. the August of the walnut of which he will become assistant and friend. Della signora Letizia Moratti, ministro dell’Istruzione si leggeva: Lady Joy Brichetto, it has two sons. Il suo “piano aziendale” è diventato slowly of reorganization. Altero Matteoli, ministro dell’ambiente, viene presentato come minister of the Atmosphere. La Lega del ministro Bossi, anziché league è diventata alloy, cioè una lega metallica come il bronzo. A lui non hanno tradotto né il nome né il cognome, ma la sigla Varese, la sua città: era Va, è diventata Goes. Lucio Stanca risultava amministratore dell’università milanese Mouthfouls, ovvero del sostantivo gastronomico Bocconi. Non solo, ma il suddetto ministro has covered loads with president of IBM e ha lavorato near the center of IBM Italy. Evidentemente, per tradurre, basta un dizionario o uno di quei programmi che fanno tutto da solo! Da questi esempi, si può vedere chiaramente quali sono ancora i limiti di questi programmi di traduzione automatica e riflettere su quali caratteristiche deve avere il tipo di testo da tradurre in automatico. Stile e struttura rigorosamente controllati, frasi corte e standardizzate, linearità, monosemia, trasparenza, assenza di ogni forma di ambiguità, uso solo di termini contenuti nei dizionari della macchina e sempre con lo stesso senso, economia di unità di informazione da tradurre o localizzare e dunque forte economia di senso, loro totale identificazione da parte della macchina… Anche qui, sintomo o rappresentazione ideologica? In un contesto caratterizzato da produzioni ipermedia, sarebbe interessante conoscere più in profondità queste nuove modalità di transfert associate all’internazionalizzazione e i loro risvolti culturali. Già negli anni ’70, Georges Mounin25 avvertiva: Vedremo degli scrittori con velleità di diffusione mondiale, che scrivono in macchinese; elimineranno in anticipo il nome ricercato, l’aggettivo insolito, la costruzione rara che potrebbero non essere accettati dalla macchina”. Come diceva Paulo Rònaï, traduttore ungaro-brasiliano della Comédie Humaine di Balzac in portoghese, “ognuno si adegua molto in fretta allo stile mecatraducibile. Questo tipo di linguaggio controllato, la cui stesura comporta molti vincoli, è soprattutto utilizzabile nell’ambito di documentazioni tecniche particolari, sufficientemente corpose per giustificare l’investimento. Il più noto, e forse anche il più efficace dei sistemi di TA è quello usato in Canada per la traduzione, dall’inglese verso il francese e vice versa, dei bollettini meteorologici. Questi rappresentano un corpus chiuso, molto limitato e con frasi standard. Altro caso di utilizzo: in fase di pre-traduzione oppure a volte, per trovare il termine tecnico appropriato. Una accurata fase di revisione è comunque d’obbligo per rendere il testo d’arrivo leggibile. Ma soprattutto è per gli utenti di Internet che questi motori di traduzione sono utili. Infatti, su Internet, circa il 75% dei siti web sono in inglese. Il resto se lo spartiscono il francese, il tedesco, lo spagnolo… L’accesso a tutta l’informazione è possibile solo se si conosce una moltitudine di lingue. Ed è in questo contesto che un programma di traduzione acquista tutto il suo valore. Diventa uno strumento che permette non solo di capire un testo scritto in una lingua che non conosciamo, ma soprattutto di capire istantaneamente senza dover ricorrere ad un’altra persona. ? Da Gutenberg a Internet. Geopolitica della traduzione automatica Confrontando la rivoluzione che rappresentò l’invenzione della stampa per la società del secolo XVI, quella del telefono per il secolo XIX e l’avvento della traduzione automatica nella società di Internet del XXI secolo, vorremmo azzardare una previsione, anche se a prima vista assurda. Con l’aiuto di Jacques Attali,26 ripercorriamo brevemente la storia di alcune invenzioni epocali per misurare meglio le enormi trasformazioni che sconvolgeranno i rapporti internazionali nei prossimi tre decenni. Alla fine del secolo XV, la stampa ebbe un ruolo determinante nell’indebolire in maniera clamorosa e inattesa il potere della Chiesa cattolica sulle menti e dell’Impero Romano Germanico 25 26 Mounin (1976). Attali (1981). 110 sui corpi. La Riforma, il Rinascimento, i nazionalismi, lo spostamento del potere politico verso le Fiandre e l’Inghilterra sono cominciati con Gutenberg. Alla fine del secolo XIX, l’invenzione del telefono ha accompagnato e accelerato lo spostamento del centro economico e politico del capitalismo dall’Europa verso l’America. Altri cambiamenti geopolitica sono stati accelerati da altre invenzioni nelle comunicazioni, come il telegrafo oppure il cinema. Con sempre una stessa costante: coloro che sanno di più vogliono poter decidere di più. Anche a costo della violenza. Internet rappresenta una rivoluzione tecnologica di portata ancora maggiore, perché il Web, rappresenta solo la punta emergente di un vasto processo di cambiamenti in atto: abbattimento dei costi di produzione, di trasporto, di stoccaggio di tutte le informazioni che porterà a dover ripensare interamente le relazioni tra gli individui, le aziende e le nazioni. Come tutte le rivoluzioni tecnologiche precedenti, Internet comincerà col rafforzare i poteri costituiti. Quando la stampa apparve, i grandi intellettuali dell’epoca, i futurologi, tutti coloro che teorizzavano, furono interrogati dai due poteri dominanti di allora, ovvero la Chiesa cattolica e l’Impero Romano Germanico per sapere se questa nuova tecnologia potesse servire i loro interessi oppure nuocere. Al Papa venne risposto che, con la stampa, la Bibbia sarebbe stata accessibile a tutti e, di conseguenza, il suo potere, in quanto potere religioso si sarebbe esteso. Stessa risposta fu data al Santo Impero romano germanico. Con la stampa, l’accesso a libri scritti in latino sarà possibile per tutti, e a un costo molto basso. In tal modo, tutti quei piccoli dialetti o lingue volgari di poco conto che continuano ad esistere in Europa (francese, castigliano, tedesco…) spariranno. Con il risultato che ci troveremo di fronte ad un’Europa unita intorno al latino e alla Chiesa cattolica. La Storia ci ricorda che, trascorsi alcuni decenni, le cose non andarono esattamente così. Primo risultato: è vero che, 30 anni più tardi, la diffusione della Bibbia conobbe un grande successo, ma la gente si era anche resa ben presto conto che ciò che era scritto nella Bibbia non aveva molto a che fare con ciò che la Chiesa cattolica dell’epoca andava predicando. Questo ha avuto indirettamente un ruolo determinante nello sviluppo della mente critica, del movimento verso il protestantesimo e il ritorno della stessa Chiesa verso un atteggiamento più cauto. Secondo risultato: non solo si è stampato la Bibbia, ma anche altri testi. A partire dal 1485, verrà stampata la prima grammatica del castigliano, una grammatica italiana, una grammatica tedesca e, solo un po’ più tardi, una grammatica francese. Terzo risultato: A partire del 1510, il latino sarà in via di sparizione, anche dai testi ufficiali dell’Impero Romano Germanico. In compenso, il nazionalismo attecchirà sempre più. In conclusione, vediamo che una innovazione che doveva rafforzare i poteri centrali, unificare, di fatto, involontariamente, è stata creatrice di diversità. Per tornare alla traduzione automatica, Internet provocherà la diversità delle lingue e favorirà la localizzazione nel senso linguistico e culturale del termine. Quello che non è riuscito con il traduttore umano, forse sarà possibile con il traduttore automatico. Ogni volta che si è creduto che una invenzione oppure una innovazione che hanno a che fare con le tecnologie della comunicazione avrebbe rafforzato il potere costituito, si è verificato, di fatto, che esse lo hanno indebolito, decentrato, creando occasioni di diversità. Citiamo il caso del grammofono. Edison, l’inventore, pensava che il suo strumento sarebbe servito unicamente per consentire ai direttori di teatro di contrastare gli scioperi degli orchestrali! Bell, uno degli inventori del telefono, pensava che il suo apparecchio dovesse servire prevalentemente ai dirigenti per trasmettere ordini ai loro dipendenti nelle aziende senza doversi scomodare. In questo periodo di fantastica accelerazione dei processi tecnologici dell’informazione, dobbiamo osare allontanarci dagli schemi di sviluppo che abbiamo in mente e trarre la lezione dagli errori di valutazione compiuti nel passato al momento dell’invenzione. Gli attuali assetti linguistici subiranno inevitabilmente enormi sconquassamenti. Riuscirà l’inglese, latino ai tempi di Internet, a difendere i poteri esistenti mentre, storicamente, le tecnologie della comunicazione hanno puntualmente contribuito a sostituirlo? Una cosa è certa: la macchina per tradurre accelererà la diversificazione. 111 2.2 Traduzione assistita da PC o CAT Tools (Computer Assisted Translation Tools): Si tratta di una sorta di dialogo tra uomo e macchina, che consiste nel proporre al traduttore, con l’aiuto di strumenti informatici, dei suggerimenti di traduzione mentre esegue il suo lavoro. I più importanti di questi strumenti gestiscono: - - da un lato, la terminologia specifica del settore oggetto della traduzione: il computer, tramite un motore di traduzione, scannerizza ogni parola ed espressione del testo di partenza, le analizza, per poi cercarle nel dizionario incorporato tra le centinaia di migliaia di forme e fornire una proposta di traduzione che il traduttore può accettare o rifiutare. La velocità è estremamente rapida: 1 pagina a secondo! dall’altro, le memorie di traduzione, che sono una sorta di serbatoio di testi già tradotti e memorizzati che forniscono al programma i suggerimenti per la traduzione, ovvero delle tavole di equivalenze tra testo di partenza e testo d’arrivo. Par fare ciò, il programma divide il testo da tradurre in segmenti. Nel momento in cui il traduttore accetta come valida la proposta di testo in LA, il programma memorizza il segmento di partenza e il segmento di arrivo in quanto equivalenti linguistici. Se il segmento di partenza dovesse riapparire nel testo (le ripetizioni sono frequenti nei testi tecnici), il programma ripropone allora automaticamente la traduzione messa in memoria. Qualora si dovesse aggiornare la versione di partenza di un testo già tradotto, il programma riprende automaticamente le parti già tradotte e segnala al traduttore gli elementi nuovi o modificati. I loro vantaggi sono indubbi: - consentono il riutilizzo automatico delle traduzioni già in memoria; - garantiscono la coerenza delle traduzioni; - garantiscono il rispetto della terminologia in uso; - possono ridurre notevolmente i tempi di lavoro; - consentono di elaborare glossari completi per ciascun cliente. ? Quando si ricorre alla traduzione assistita da PC? Se l’utilità della Traduzione assistita da PC appare ovvia a livello di principio, non bisogna però perdere di vista il fatto che la sua efficacia varia in funzione della tipologia di testi da tradurre, che l’istallazione richiede investimenti elevati e che la sua redditività non è immediata, poiché i dizionari e le memorie richiedono tempo per potersi arricchire. E’ conveniente ricorrere alla traduzione assistita quando si ha a che fare con testi longevi, suscettibili di diversi interventi nel corso della loro esistenza. Come per la TA, perché la Traduzione assistita da PC sia utile, il testo deve possedere certe caratteristiche: - - omogeneità terminologica: lo stesso termine deve essere sempre usato con lo stesso senso; uno stesso oggetto o azione deve essere sempre designato dallo stesso termine; omogeneità fraseologica: una stessa idea, una stessa azione devono sempre essere descritte in maniera identica, utilizzando la stessa punteggiatura; frasi corte e semplici: aumentano la probabilità di ripetizioni e diminuiscono la probabilità di ambiguità. Un brevissimo accenno alle origini della traduzione automatica. Come avvenne poi anche per i laboratori linguistici, per Internet, lo scopo della ricerca e degli investimenti era di natura militare. Essa è stata pensata come modo per imporsi, per rafforzare il potere esistente in periodo di guerra fredda. 2.3 Traduzione e taylorismo informatico. I mestieri della traduzione al tempo delle industrie delle lingue Poiché i mercati si sviluppano, si trasformano, si diversificano, orientano, condizionano, determinano le scelte delle specializzazioni (settore finanziario, economico, medico, giuridico, 112 ludico, informatico... a seconda del momento storico), di riflesso, anche la traduzione e i professionisti del settore ne subiscono i contraccolpi. Essi cambiano, evolvono, si diversificano. Ed è per questo che si parla sempre di più di mestieri della traduzione. In paesi come la Francia, per esempio, in alcune università, esistono specializzazioni (DESS) in “Traduction et industries de la langue” (il cui obiettivo è quello di formare degli specialisti della traduzione nell’ambito delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione), in “Traductique et gestion de l’information” (che prepara ai nuovi mestieri della traduzione, della redazione, dell’elaborazione e gestione di documenti professionali a carattere internazionale), in “Ingénierie multilingue” (che prepara alle professioni di analista e responsabile di prodotti informatici destinati all'acquisizione e al transfert delle conoscenze). Tra gli insegnamenti in programma, troviamo, – a parte ovviamente la linguistica descrittiva e testuale, la terminografia, la lessicografia, le scienze della documentazione e la gestione dell’informazione, i sistemi di traduzione assistita, i nuovi supporti informatici e le esercitazioni di traduzione da e verso 2 lingue straniere di testi di natura giuridica, economica, tecnica –, la normalizzazione terminologica, la semantica cognitiva, la semiotica dei testi specialistici, l’analisi concettuale, le strategie di transfert dei saperi e la modelizzazione del destinatario... Inoltre, accanto al tradizionale traduttore o interprete o agli esperti in sottotitolaggio, in doppiaggio, gli adattatori, ai vocalizzatori, vi sono i tradattatori o specialisti in traduzione audiovisiva (legati allo sviluppo del multimedia, del DVD, dei videogiochi, dei prodotti informatici, dei giochi e spettacoli televisivi, ecc. con le loro particolari esigenze di mercato), i localization engeneer, i localizzatori delle interfacce utente, i localizzatori della documentazione elettronica, i localizzatori di applicazioni web, i clonatori di siti web, i professionisti dell’usabilità dei siti web, i mediatori linguistici e culturali, i revisori, i redattori tecnici multilingue (all’origine, il redattore tecnico era un tecnico con buone capacità di scrittura. Oggi, è un professionista della scrittura capace di capire e rendere comprensibile ciò che è tecnico. Il redattore tecnico ha una cultura tecnica non specifica. Non essendo né ideatore di un progetto, né ingegnere, egli possiede il distacco necessario per sostituirsi all’utente e trattare in maniera ergonomica le informazioni essenziali), i terminologi, i responsabili QA (Assicurazione Qualità), i sistemisti, i responsabili di progetto... Oltre ad assistere ad una mutazione professionale quasi continua, nonché ad una progressiva industrializzazione del settore, assistiamo anche, – e questo è evidente nei grandi gruppi che operano su scala nazionale o multinazionale –, ad una razionalizzazione del lavoro, basato sulla sua divisione, sulla produzione in serie, sulla riduzione dei tempi e sull’abbattimento dei costi, sulla massima produttività. Il documento da tradurre viene consegnato alla grande impresa di traduzione, la quale lo affida a un project manager che “smonta” il prodotto e assegna a diverse figure professionali delle mansioni specifiche e gestisce il coordinamento tra le varie fasi del processo di fabbricazione. Prima fase: la pre-traduzione, per capire di che cosa si tratta, individuazione della terminologia tecnica, ricerca documentaria, lavoro con i motori di traduzione, i dizionari elettronici, i sistemi di TA, le memorie traduttive per giungere alla stesura veloce di una prima bozza e concentrarsi sull’esattezza e la precisione dei termini. Seconda fase, redazione e messa a punto fraseologica localizzata. Terza Fase: messa in forma o su supporto, con l’inserimento di grafici, immagini, conversione nel formato richiesto. Quarta fase: post-editing, revisione, controllo della qualità. Esattamente come in una azienda, con la differenza che il traduttore è un vero specialista dell’argomento trattato, poiché si concentra più sullo sforzo della localizzazione che su quello della traduzione. Per esempio, per tradurre un contratto, il traduttore deve essere un giurista e conoscere il diritto delle due lingue per poter localizzare e non solo tradurre, e dunque poterli adattare in funzione del diritto di ogni paese. E questo vale per qualsiasi testo, come vedremo più avanti con gli esempi di problemi che pone la traduzione tecnica. Chi sceglie, è il traduttore umano e non la macchina informatica. Il traduttore specializzato non ha solitamente una formazione tecnica. Il suo campo rimane prevalentemente quello della lingua e il suo lavoro consiste nel tradurre il testo, nel 113 modo più fedele e naturale possibile, attento al fatto che la sua versione tradotta conservi tutta la sua leggibilità e tutta la sua logica. Troppo spesso ci si dimentica che, per fare una buona traduzione tecnica, occorre saper sfruttare tutte le potenzialità della lingua. E’ dunque importante che il traduttore tecnico sia prima di tutto un buon redattore. La qualità della lingua è considerata come un segno essenziale della qualità della sua professione. Egli deve fare grandi sforzi per limare la sintassi, a caccia di deviazionismi semantici o di abuso di neologismi. Preservare la lingua, strumento del suo lavoro, è suo dovere. Non vi è dubbio che il professionista della traduzione sta vivendo una vera e propria rivoluzione culturale, ma il buon traduttore è comunque una sorta di ecologista della lingua, anche se assistito dalla tecnologia. 2.4 L’ingegnere della comunicazione multilingue Il traduttore tecnico e il localizzatore fanno parte di un settore industriale tra i più avanzati che richiede continui investimenti in termini di conoscenze, tecnologie e formazione. In quanto fornitore di prestazioni, egli deve essere in grado di fabbricare un prodotto o di fornire un servizio che devono possedere tutte le caratteristiche che rispondono alle attese di quel prodotto, di quel mercato o di quel servizio in un contesto diverso da quello in cui sono nati. La padronanza della lingua è dunque solo una tra le tante abilità che deve possedere il traduttore. In certi ambienti, si parla di traduttore tecnico inteso come tecnico traduttore. Un vero e proprio ingegnere della comunicazione multilingue. Non ci si improvvisa traduttore professionale. Alla stregua del pilota che necessita di un certo numero di ore di volo prima di ottenere il brevetto che lo autorizza a volare, il traduttore, prima di essere riconosciuto come un professionista (o per lo meno considerarsi come tale o pretendere di fare valere la sua qualifica professionale), deve avere tradotto almeno un milione di parole, ovvero avere fatto almeno 2-3 anni di job training. Inoltre, occorre avere ben presente che quelle che fino a 4-5 anni fa potevano essere delle specializzazioni, sono oggi delle competenze di base di cui non si può fare a meno. E lo stesso vale per il futuro: ciò che oggi sembra una specializzazione di punta diventerà competenza di base fra pochi anni! Contrariamente ai comuni cliché, quella del traduttore è una professione estremamente dinamica e rischiosa che lo obbliga a mettersi continuamente in discussione. Un traduttore si identifica: a) per le sue coppie linguistiche: A = lingua madre; B = L2 e C = L3 Le remunerazioni dei traduttori per una determinata lingua sono inversamente proporzionali al numero di traduttori che traducono da/verso quella lingua. Per questo, è importante conoscere anche lingue rare, parlate in paesi a forte attività economica come la Cina e il Giappone. b) per la lingua dalla quale traduce In teoria, verso la sua cultura e la sua lingua materna ovvero da B > A (dalla lingua straniera verso l’italiano nel nostro caso, ovvero “traduzione passiva”). E’ quanto avviene nelle grandi istituzioni internazionali o aziende multinazionali. Ma la selezione è severissima. Allora, occorre fare i conti con la realtà locale, il cui mercato (in generale costituito da piccole aziende) ragiona con criteri più terra a terra. Il traduttore è un po’ un “uomo-orchestra” piuttosto che un “dirigente d’orchestra”. Chi è in grado di operare con più lingue (di solito 3) e nei due sensi (passiva e attiva), ha indubbiamente maggiori possibilità d’impiego rispetto a chi è bravo solo nella traduzione passiva. Non per questo, la qualità e la professionalità nella pratica della traduzione sul territorio locale, per un’azienda, uno studio di avvocati o un'agenzia di traduzione possono essere trascurate. Al contrario! Quello del traduttore è di per sé, comunque ed ovunque, un mestiere molto esigente e delicato, dove l’incompetenza e il ridicolo non perdonano. Rimane sempre vero che è preferibile conoscere molto bene una lingua straniera piuttosto che diventare superficiale e mediocre in varie lingue. A conferma di questo, ricordiamo che rari sono i cosiddetti bilingui in grado di redigere con 114 la stessa qualità professionale nei due sensi. Una perfetta conoscenza della lingua materna e spiccate capacità redazionali sono imprescindibili per una comunicazione efficace e una buona resa a livello di lavoro. E’ sottointeso che i soggiorni, o meglio, le esperienze di lavoro all’estero in settori portanti sono indispensabili per diventare un buon traduttore. Quali lingue i futuri traduttori dovrebbero studiare per avere migliori prospettive professionali? La combinazione con migliori prospettive sembrerebbe essere l’inglese + una lingua diffusa (francese, tedesco, spagnolo) + una lingua molto poco diffusa (a condizione che il volume di scambi con questa lingua sia importante e produca un giro d’affari interessante anche nel settore della traduzione) come ad esempio, il cinese, il giapponese, appunto. c) per la sua o le sue specialità o approfondita conoscenza di determinati settori Per il traduttore, possedere una competenza tecnica ad alto livello in un settore portante (informatica, telecomunicazioni, finanza, giuridico) può, a volte, risultare più redditizio che acquisire una competenza linguistica nuova. Una prestazione specializzata è più valorizzata di una prestazione che non richiede nessuna specializzazione particolare. Inoltre, più la specializzazione aumenta, più rara è la concorrenza, e più il potere contrattuale è alto. Il traduttore professionista qualificato è un agente economico e tecnico insostituibile. Il suo intervento è sempre economicamente redditizio, in maniera diretta o indiretta, a corto o lungo termine. Solo la traduzione negoziata al ribasso o sottopagata, rischia, col tempo di rivelarsi un boomerang. Le prestazione di alta qualità non sono mai in svendita. ? Che cosa pretende dal traduttore colui che gli commissiona una prestazione di traduzione? che egli: - sia professionale e affidabile e che il prodotto traduzione sia di qualità. Essa deve essere: - vera; - trasparente e conforme agli usi linguistici e culturali della comunità destinataria; - ergonomica; - compatibile con la difesa degli interessi del committente; - conosca perfettamente il suo ambito di competenza, il prodotto di cui tratta il documento da tradurre; - dimostri buone capacità di redazione, ovvero che padroneggi lo stile, la fraseologia, la terminologia specifica e che sappia adattare il testo specialistico di partenza ai modelli redazionali nella lingua d’arrivo nel rispetto della conformità, della leggibilità e dell’usabilità del prodotto, ovvero la sua conformità agli schemi mentali legati alla cultura del fruitore al fine di convincerlo; - sappia utilizzare gli strumenti informatici del caso. Tutto questo, per una ragione molto semplice: la prestazione del traduttore deve essere redditizia, contribuire a fare vendere i prodotti e dunque a portare profitti nelle casse del committente. Per questo la qualità non è negoziabile. lll 115 3.1 Competenze che deve possedere un traduttore professionista nell’era delle comunicazioni27 Translation is the process of converting written text or spoken words to another language. It requires that the full meaning of the source material be accurately rendered into the target language with special attention paid to cultural nuance and style.28 Come descritto con passione da Fruttero e Lucentini, tradurre significa riprodurre un determinato messaggio in un’altra lingua trasmettendone in modo accurato il significato e presentando particolare attenzione agli aspetti culturali e stilistici. Per fare questo, il traduttore deve possedere: a) competenze linguistiche e culturali - ottima conoscenza della lingua e cultura di partenza; - elevata qualità linguistica nella lingua di arrivo e elevata conoscenza della relativa cultura; b) competenze di natura traduttiva e redazionale - capacità di analisi e di produzione testuale in genere (ovvero redazionali); - capacità di cogliere l’articolazione del senso nel testo di partenza; - capacità di rendere correttamente, agilmente (e anche con eleganza se necessario), il senso nella lingua d’arrivo senza snaturarlo; - capacità di passare da una lingua all’altra senza interferenze linguistiche; - capacità in genere di gestire e di trattare l’informazione; c) competenze metodologiche - capacità di analizzare le diverse situazioni di traduzione;29 - capacità di documentarsi sull’argomento trattato nel testo per capirne il senso (consentono di ovviare ad alcune difficoltà nella comprensione del testo di partenza); - capacità di ritrovare i dati lessicali e terminologici essenziali per risalire al termine o all’espressione appropriati; d) competenze disciplinari - conoscenza sufficiente di una o due discipline (finanza, informatica, diritto, economia ...) per poter tradurre i testi di queste discipline; - capacità di tradurre testi correnti in varie discipline; e) competenze tecniche - capacità di usare le nuove tecnologie; - capacità di dominare le tecniche di comunicazione. E’ appunto a causa delle competenze multidimensionali che i semplici bilingui, anche se “perfetti bilingui” o i madrelingua espatriati non sono necessariamente buoni traduttori. E’ per questa “multidimensionalità” che la formazione professionale dei traduttori all’università prevede non solo corsi di lingua, ma anche corsi di tecnica della traduzione, di metodologia nella ricerca documentaria e terminologica, di informatica, di economia, di diritto, corsi sui linguaggi settoriali... Detta così, il traduttore dovrebbe essere una vera e propria enciclopedia vivente. Questo, ovviamente, non è possibile. Allora, che cosa deve fare il traduttore per potere comunque svolgere in maniera onorevole il suo lavoro? Egli deve ridurre la sua ignoranza. Formare un traduttore significa insegnargli a imparare. La traduzione è uno dei pochi mestieri dove si è pagati per ridurre la propria ignoranza, in maniera sistematica e continua. Questa lenta acquisizione delle conoscenze rappresenta, tra l’altro, uno degli aspetti più gradevoli del mestiere, dove la routine intellettuale, che è la peggiore di tutte, difficilmente attecchisce. Ma questo atteggiamento richiede dal traduttore una curiosità sconfinata e soprattutto un grande rigore 27 Roberts (1981). Esselink (2000), p. 4. 29 “Nessuno può pretendere di tradurre con ragionevoli probabilità di successo se non sa PER CHI (per quale pubblico) e PER QUALE SCOPO (per quale uso del suo testo) si effettua la mediazione” (Gouadec (1990)). 28 116 intellettuale. Non vi è argomento che, prima o poi, un traduttore non sia portato ad affrontare nell’esercizio della sua professione. Però, una volta acquisito il metodo giusto, egli è in grado di affrontare tutte le situazioni che gli si presenteranno. La ricerca di informazioni, ovvero le tecniche di documentazione rappresentano un elemento centrale della sua attività. Purtroppo, uno dei punti deboli del nostro sistema di formazione è lo scarso livello di padronanza della lingua madre (ovvero dell’italiano), l’esitante efficacia redazionale da parte di molti aspiranti traduttori. E questo comporta il dover fare i conti con difficoltà non preventivate, perché nella mente della gente, traduzione è solo conoscenza della lingua straniera. 3.2 Stazioni di lavoro per il traduttore tecnico Il traduttore è, per forza di cose, un “informatizzato”. L’evoluzione dei mercati è tale che l’informatizzazione completa della postazione di lavoro è diventata una necessità per qualsiasi traduttore. La rivoluzione annunciata da Mac Luhan si è fatta sentire anche nel mondo della traduzione: - la rete diventa il mezzo per ricevere e inoltrare le traduzioni; - la traduzione è un’attività di informazione e di comunicazione; più nessuna attività di comunicazione è concepibile senza la padronanza delle tecniche e delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione: editor di testi, automazione d'ufficio che comprende la documentazione elettronica e la grafica, l’ambiente di sviluppo, gli strumenti di traduzione assistita, di localizzazione e di QA (Assicurazione Qualità). Di seguito, una breve carrellata. ? stazione di lavoro per il traduttore (vedi Trados Translator’s Workbench, una delle più diffuse) ? programmi di videoscrittura, micro-editoria: FrameMaker, PageMaker, Interleaf, QuarkPress, formati SGML, HTML, XML. * gestione di memorie di traduzione: Base Access; Trados; Wordfast; Déjà Vu: http://www.atril.com; Startransit, WordFisher: http://www.wordfisher.com; SDLX; IBM Translation Management; (per maggiori dettagli, vedere: http://foreignword.com/fr/Technology/tm/tm.htm ) * sistemi per la gestione di banche dati: Acquarius: http://aquarius.net; Aleph: http://www.aleph.com; Infomarex: http://www.infomarex.ie/; * banche terminologiche, dizionari e glossari elettronici bilingue: Babylon: http://babylon.com; (per maggiori dettagli, vedere: http://foreignword.com/fr/Technology/other/other.htm ) Eurodicautom:http://eurodic.ip.lu/cgi-bin/edicbin/EuroDicWWW.pl ; Allwords: http://www.allwords.com; Merriam-Webster online: http://www.m-w.com/, Logos Wordtheque: http://www.logos.it); Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori di Forlì: www.sslmit.unimbo.it, sezione terminologia; * programmi di concordanze e corpora: Wordsmth Tools è uno strumento creato appositamente per studiare il comportamento delle parole nei testi. I programmi principali di Wordsmith sono: Wordlist, Concord, KeyWords; * Wordlist: permette di elaborare, una volta selezionati tutti i testi del corpus, la lista di tutte le parole che compaiono in essi, in ordine alfabetico o di frequenza. E’ possibile richiedere la lista delle parole prese singolarmenete, oppure di clusters a due o più parole. In seguito, tali liste possono venire salvate come file di testo e rielaborate in momenti successivi. Eliminando tutta una serie di elementi grammaticali (articoli, preposizioni, avverbi, congiunzioni, ecc.) che sono presenti in abbondanza in qualsiasi testo, ma che non hanno nessun valore al fine di uno studio del lessico specifico, la wordlist potrà essere letta più facilmente. Questo programma è particolarmente utile, perché la lista di frequenza, che evidenzia le parole più ricorrenti, rivela il tipo di terminologia che viene utilizzata nei testi appartenenti a una stessa tipologia. Le wordlist sono dunque uno strumento prezioso per avere un’idea complessiva del tipo di lessico che una o più lingue utilizzano in testi paragonabili. Sempre legato alla frequenza di una parola nel testo, il programma KeyWords permette di individuare le parole chiave, ovvero quelle più ricorrenti in un dato corpus. 117 Per studiare il comportamento nel contesto della frase dei termini specifici più ricorrenti che sono stati individuati, si utilizza Concord. Questo programma permette infatti di specificare una search word che opererà in tutti i file di testo del corpus selezionato, presentando alla fine una lista di concordanze nella quale si potranno reperire le varie collocazioni della parola inserita. In questo modo è possibile osserva un termine in tutti i contesti in cui esso appare, e determinare sia con quali parole e categorie grammaticali esso è più frequentemente associato, sia le sfumature di significato che esso può assumere a seconda del contesto nel quale si inserisce. Queste informazioni sono fondamentali per poter trovare l’equivalente di un termine nella lingua di arrivo, e soprattutto contribuiscono a garantire l’affidabilità di una traduzione. Wordsmith Tools: http://.liv.ac.uk/~ms29287, Wordexpert: http://www.myteam-software.com; *programmi di traduzione automatica: http://www.systransoft.com; http://lant.be/; www.translateonline.com, www.reverso.com; www.infinit.net; http://babel.altavista.com/translate.dyn; http://www.freetranslation.com; traduttore automatico inglese-italiano: Ait 2.12 scaricabile attraverso: http://foreignword.com/fr/Technology/other/other.htm * mailinglist: Intralinea: http://www.intralinea.it/mailinglist.htm Biblit: http://www.biblit.com; * in genere, egli deve conoscere e sapere adattare qualsiasi nuovo prodotto a funzioni specifiche. Certe traduzioni specializzate come la localizzazione di software o di siti web richiedono livelli di competenze in ingegneria linguistica, informatica, gestione, marketing, comunicazione. Utilizzando validi strumenti di ricerca, è possibile affrontare la traduzione di un determinato testo con l’adeguata preparazione e di conseguenza con una maggiore sicurezza ed ottenere una qualità più elevata, guadagni di produttività in un contesto dove i tempi di consegna sono sempre più serrati. La creazione di corpora di confronto permette di ottenere informazioni sugli usi linguistici generalmente non reperibili nei dizionari, in particolar modo quelle relative alla frequenza e tipicità di determinati usi. Tuttavia è necessario tener presente che i corpora, come tra l’altro tutti i CAT Tools, pur costituendo un valido strumento di ricerca e un’ampia fonte di informazioni e di aiuto, non possono essere considerati come una fonte indiscutibile di soluzioni definitive, ovvero come la garanzia di ciò che può o non può essere detto e scritto in una determinata lingua. Per i tecnicismi contenuti nei testi, essi possono essere di grande aiuto perché ci facilitano la ricerca dei possibili traducenti. Ma, in ultima istanza, è la professionalità, la competenza linguistica, culturale e la perfetta padronanza dell’argomento da parte della persona che traduce che, in ultima istanza, determinerà la qualità e l’efficacia del materiale tradotto. 3.3 Problemi che pone la traduzione di testi tecnici Per cogliere meglio la specificità della traduzione tecnica e le difficoltà che comporta, prendiamo in esame alcuni esempi: 1) Testo medico: Rieducazione degli arti inferiori per la funzionalità della rotazione interna, calcagno varo, parte anteriore del piede addotta. Correzione attiva: contrazione degli elevatori e degli eversori del piede, deambulazione sui talloni, appoggio unipodale. 2) Testo giuridico: Il Procuratore dell’appellante ha così concluso: Ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa e reietta, con vittoria di spese, competenze ed onorari di causa 1) in via pregiudiziale, dichiararsi la nullità della sentenza di I grado e dell’intero giudizio per nullità della notifica dell'atto di citazione; 2) in subordine e sempre in via pregiudiziale, ritenersi il difetto di legittimazione attiva della ditta.... 3) Testo commerciale: Fatte salve per il Committente tutte le condizioni pattuite in sede di definizione dell’ordine, la Fornitrice si riserva in qualunque momento la facoltà di valersi (anche solo temporaneamente e parzialmente) di forme di servizio e/o di intermediazione commerciale-finanziaria, quali appunto il 118 Factoring, il Leasing ed altri anche nuovissimi sistemi per la gestione totale o parziale dei pagamenti e/o del contratto. 4) Testo tecnico-meccanico: Sollevatori elettroidraulici predisposti per l’installazione incassata nel pavimento. Sollevatori per allineamento con sedi per piatti rotanti e piattaforme oscillanti. Perfetta sincronizzazione dei cilindri indipendentemente dalla ripartizione del carico. Dispositivo di appoggio meccanico ad inserimento automatico e disinserimento pneumatico, a garanzia della massima sicurezza in fase di stazionamento. Valvole di sicurezza nei confronti di sovraccarichi e rottura di tubi idraulici. 5) Testo turistico: Il tartufo: misterioso, raffinato e un pò ruffiano. I modi tradizionali per utilizzarlo sono semplici e vanno pretesi: affettarlo direttamente sopra le tagliatelle al burro caldissime o al risotto cotto in brodo di carne e fatto stringere con un uovo sbattuto. Oggi, il grande attentato alla cultura del saporeprofumo del tartufo, giunge dall’olio tartufato con il quale viene dato un “aiutino” sintetico anche a quelle specie che sono insipide. L’immaginario collettivo, da cui non è estranea una consolidata letteratura, vuole che sia cibo afrodisiaco, un viagra naturale, che apre insperate porte al piacere. Ben venga. Allusivamente diceva Pietro Aretino che le cortigiane lo danno in abbondanza agli amanti anziani “che hanno buona volontà ma triste gambe” e pensiamolo pure anche noi, che in quella “grattatina dell’estasi”, a detta di D’Annunzio che quanto ad alcove non era secondo a nessuno, messa sopra il piatto sia davvero efficace. In fondo nella vita conta anche questo. 6) Testo pubblicitario: Per l’amica che si aggiorna costantemente, legge molto; per la sorella single, curatissima, che si piace e vuole piacere; per la nonna “sprint”, campionessa di tennis e nuotatrice provetta; per l’appassionata di bellezza, informatissima sulle ultime creme e sugli ultimi preparati cosmetici; per la cognata con due bambini e poco tempo per sé stessa, ma tanta voglia di rimanere giovane. Per tutte loro, la straordinaria sorgente di bellezza..... I problemi che incontriamo di fronte a questi testi possono essere categorizzati in problemi linguistici, problemi culturali e problemi pragmatici. Per risolverli, il traduttore deve ricorrere a tutte quelle competenze e a quel “savoir-faire” precedentemente presi in esame. - I problemi linguistici sono connessi sia al testo specifico da tradurre che agli aspetti sistemici delle lingue in cui si lavora. Fondamentalmente si possono distinguere in problemi terminologici e morfosintattici. L’essenziale dell’informazione da comunicare risiede nel termine e nelle locuzioni che gli sono proprie: nozioni che non riusciamo a capire, che necessitano di un bagaglio di conoscenze specifiche, di un vocabolario tecnicistico. Ma sarebbe un errore voler identificare la lingua di specialità con il lessico settoriale (terminologia), trascurando le peculiarità sintattiche, la struttura di questi linguaggi. Se così fosse, basterebbe consultare buoni dizionari o glossari bilingui per risolvere i diversi problemi di traduzione. E poi ci sono i traduttori automatici che potrebbero svolgere un lavoro perfetto in questo campo. Oltre alle nozioni espresse, la lingua dei documenti tecnici rappresenta da sola una difficoltà per il traduttore. Sono appunto le particolarità sintattiche che conferiscono il particolare stile, l’uso di costruzioni specifiche, di un linguaggio formale. - Tra i problemi pragmatici, citiamo quelli cognitivi che danno luogo alle difficoltà traduttive più comuni. Esse variano a seconda del livello di conoscenza dell’argomento specialistico da parte del traduttore. Ad essi, si aggiungono i problemi socio-retorici che riguardano le diversità delle norme relative al registro oppure alle aspettative di lettura legate a convenzioni diverse a seconda delle tipologie testuali. - Tra i problemi culturali rientrano invece le difficoltà di traduzione legate ai termini che si riferiscono ad aspetti e situazioni tipici della cultura di partenza e che quindi richiedono adattamenti nella lingua e nella cultura di arrivo. Il testo di partenza è un prodotto della cultura di partenza, che, in quanto tale, funziona in quella determinata cultura. Analogamente, il testo di arrivo deve funzionare nella cultura di arrivo. Tutto dipende dalla competenza e dall'abilità del traduttore. 119 lV 4.1 Approccio metodologico Decalogo del traduttore30 ? Principio n° 1: Non si traduce per capire, ma prima si capisce per poi tradurre . Lettura profonda, analisi, individuazione delle problematiche, ricerca documentaria e terminologica. La traduzione è un atto di comunicazione che consiste nel superare gli ostacoli linguistici e culturali per garantire che un determinato messaggio arrivi al suo destinatario che non ne capisce la lingua, né ne condivide la cultura, affinché sia da lui immediatamente capito. Tradurre significa dunque capire per farsi capire. Ma, il Sig. de la Palice avrebbe fatto rimarcare che, per capire, bisogna che ci sia qualche cosa da capire. Viviamo in tempi di frenesia da produzione. Non tutti i testi da tradurre sono coerenti, logici, razionali. E la qualità di una traduzione dipende anzitutto dall’autore del testo da tradurre. • Principio n° 2: Non si traduce una successione di parole, ma un messaggio di cui si è prima capito il senso. Infatti, tutte quelle parole che corrispondono tra una lingua e l’altra, cessano il più delle volte di corrispondere tra un testo e l’altro. Uno dei compiti del traduttore è appunto quello di stabilire equivalenze di senso tra i due testi. Contrariamente a quanto si suole credere, i testi tecnici, in questo, non sono diversi da quelli generali o letterari. ? Principio n° 3: Il senso di un enunciato non è la somma dei significati delle singole parole in successione e prese singolarmente. ? Principio n° 4: Il processo della comprensione inizia con la decodificazione le parole, prosegue con l’identificazione dei significati i quali, combinati alle conoscenze culturali, consentono di cogliere il senso di un enunciato e di valutare la dinamica di un testo. ? Principio n° 5: Solamente una seria ricerca documentaria e terminologica consente di capire veramente ciò di cui si parla e di come se ne parla (vedi corpora paralleli). L’approfondimento della ricerca documentaria va tarato secondo il livello di familiarità che il traduttore ha con l’argomento da trattare. Non vi sono in sé argomenti più o meno difficili di altri. Tutto è in funzione del nostro livello di conoscenze dell’argomento. Il traduttore, comunque, si deve limitare alle ricerche necessarie ma sufficienti per effettuare la sua traduzione, evitando perdite di tempo. 30 Durieux (1988). 120 ? Principio n° 6: Durante la fase di riformulazione, il traduttore si sforza di rendere nella lingua d’arrivo ciò che egli ha capito nel testo redatto in lingua di partenza, indipendentemente dalla sua forma e dalla sua struttura. Più egli ha dimestichezza con l’argomento da tradurre e più egli possiede la terminologia e la sintassi specifica che lo caratterizza, più il testo da lui prodotto sarà leggibile ed efficace. Se applichiamo quanto detto all’estratto della circolare del Ministero dell’Industria citata poc’anzi, ci accorgiamo che: REA, persone fisiche, professioni non protette, il comma, Testo Unico, Imposte Dirette, DPR, attività professionale e non terziario, gestione separata INPS, ecc. sono sì delle parole che fanno tutte parte di una lingua che ci accomuna, ma il rapporto che ognuno di noi intrattiene con esse, il grado di confidenzialità, di comprensione, ovvero la capacità di traduzione intralingua legata generalmente alla nostra appartenenza sociale, alla nostra formazione culturale…ci distingue, ci avvicina o ci allontana, ci fa sentire più o meno estranei. ? Principio n° 7: Non solo il traduttore si destreggerà con la L2 con tanta più facilità ed efficacia quanto più egli saprà di che cosa si parla, ma anche in che termini e con quale dinamica se ne parla. Cogliere il contenuto informativo di un testo non è sufficiente. Occorre anche individuarne l’articolazione logica. ? Principio n° 8: La traduzione è un susseguirsi di prese di decisioni. Il traduttore è condannato a operare delle scelte che devono sempre essere motivate. Non basta affermare qualcosa; occorre dimostrarlo! • Principio n° 9: E’ estremamente importante che il lettore-utente percepisca il documento a lui destinato come naturale, con le stesse caratteristiche di una redazione diretta e non come traduzione, che sa di “ingessato”. Per giungere a ciò, il traduttore deve prima operare un transfert culturale (adattamento) e solo dopo un transfert linguistico. La sostituzione visibile di forme e codici (linguistici e non) è preceduta più in profondità da: ? modalità di analisi o di interpretazione di concetti ? una organizzazione del discorso ? tecniche e logiche di presentazione ? una sostituzione meno visibile di modi di pensare e di schemi mentali ? Principio n° 10: Ogni arricchimento del bagaglio di conoscenze del traduttore avvenuto nell’ambito dell’approfondimento di un argomento specifico rimane valido per molti altri argomenti. Non vi sono scomparti stagni tra i vari settori delle scienze e delle tecniche. Il suo bagaglio di conoscenze deve essere composto da una somma coerente e dinamica di informazioni. 121 La teoria, in tale contesto assume un’importanza relativa. The heart af translation theory is translation problems (...); translation theory broadly consists of, and can be defined as, a large number of generalizations of translation problems.31 E’ con la pratica, “sur le terrain” e con la grande dimestichezza con le lingue e le culture di lavoro che si impara ad affrontare gli innumerevoli problemi e a trasmettere con naturalezza ed efficacia il senso. 4.2 Organigramma del percorso del traduttore 1. PRE-TRADUZIONE analisi del materiale da tradurre ? Una lettura “delicata e fine”,32 destinata a essere socialmente condivisa Prima di passare all'analisi vera e propria del testo di partenza è opportuno soffermarsi sulla fase di lettura. Il traduttore infatti è prima di tutto un lettore, ma un lettore molto particolare, la cui lettura “profonda”, globale ed insieme dettagliata, è orientata alla traduzione: - una prima lettura globale tesa a definire lo scopo, la tipologia testuale, il contesto socio-culturale, ecc.; una lettura intensiva tesa a individuare le informazioni che devono essere trasferite in lingua di arrivo; una lettura per individuare i segmenti testuali problematici per la riformulazione. Per esperienza, spesso un traduttore professionista impara a comprimerle in due fasi, o addirittura in una sola: “interpretazione del testo di partenza finalizzata alla restituzione del suo senso ad altri”, dunque, completamente orientata alla traduzione. Si tratta quindi di “una lettura non come atto privato ma destinata ad essere socialmente condivisa”. 33 Il fine ultimo di questa lettura non è l’interpretazione del significato, ma l’identificazione di quali aspetti del testo privilegiare durante il processo traduttivo (contenuto cognitivo, intenzionalità, situazione, forma superficiale, destinatario, ecc.) alla luce della macro-strategia che il traduttore si prefigge di seguire per adattare il testo di arrivo alla sua nuova situazione comunicativa. 31 Newmark (1988), p. 21. Arcaini (cur.) (1995). 33 Cortese (cur.) (1996), p. 238. 32 122 2. PRE-TRANSFERT Interpretazione affinata del testo, sua articolazione logica, ricerca dell’informazione necessaria per una completa comprensione, programmazione delle strategie più adatte per risolvere le varie problematiche riscontrate, per adattare il testo di arrivo alla nuova situazione comunicativa, ricerca documentaria sull'argomento, analisi fraseologica, ricerca terminologica, dinamica del testo... Il traduttore non può operare in modo efficace se non domina perfettamente il senso di ciò che egli deve tradurre. Ciò significa che egli deve conoscere e capire non solo il contenuto letterale, ma anche tutti i presupposti (in particolare in termini di obiettivi dell’autore) nonché tutte le implicazioni del materiale. Occorre dunque che, quando il materiale da tradurre tratta di un prodotto o di un argomento che il traduttore non conosce bene, egli trovi, con l’aiuto dei CAT Tools, di Internet, oppure consultando fonti varie, appropriate e veloci, i mezzi per capire perfettamente l’integralità del materiale da tradurre. ? Traduzione semantica e traduzione comunicativa Le macro-strategie da adottare affinché la comunicazione non risenta negativamente del passaggio da un sistema culturale all’altro e che facciano fronte alle difficoltà traduttive di vario genere e di diversa complessità che il testo di partenza può presentare, appartengono, secondo Newmark, a due macro-categorie: la traduzione semantica e la traduzione comunicativa. Si tratta di due diversi approcci traduttivi, che ripropongono la dicotomia tra “sourciers” e “ciblistes” (già accennata all’inizio) a seconda che l’accento venga messo sull’aspetto comunicativo e formale del testo di partenza o di quello in LA. Nella traduzione semantica il traduttore, tenendo conto soltanto delle restrizioni sintattiche e semantiche della LA, cerca di riprodurre l’esatto significato contestuale dell’autore, mentre in quella comunicativa, egli cerca di produrre sui lettori della LA lo stesso effetto prodotto dall’originale su quelli della lingua di partenza. Adottare l’approccio comunicativo significa anche che il traduttore si prende la libertà di modificare il testo in LA, migliorandolo laddove la sintassi non sia scorrevole o vi siano ambiguità di ogni genere (a meno che queste non siano volute e non siano funzionali alla trasmissione del messaggio). Per quanto a livello teorico le due posizioni possano sembrare inconciliabili, nella pratica della traduzione tecnica, è frequente un’alternanza dei due approcci. Di volta in volta, il traduttore deciderà, a seconda del testo di partenza, come procedere, scegliendo l’approccio migliore ed avendo egli sempre ben presente che il suo compito è principalmente quello di fornire agli utenti dei testi tradotti degli strumenti di lavoro che siano di una assoluta chiarezza. ? Ricerca documentaria e/o ricerca terminologica? Solitamente, quando si parla di traduzione, si tende a mettere l’accento sulla tecnicità del lessico e/o della fraseologia. Con il risultato che le difficoltà della traduzione tecnica sembrano ridursi alle difficoltà inerenti all'uso di una lingua di specialità. 123 E’ vero che essa ha un ruolo importante, però, è solo un aspetto tra tanti altri. Infatti, la metodologia messa in atto per eseguire la traduzione di un documento tecnico va ben oltre la semplice ricerca di termini o modi di dire. Più che di natura terminologica, i veri problemi della traduzione tecnica sono di natura nozionistica. Da qui la necessità di procedere ad una ricerca documentaria che aiuti il traduttore a capire l’argomento trattato. ? Condizioni necessarie La ricerca documentaria non è un ingrediente obbligatorio per la traduzione di un testo tecnico. Anzitutto, occorre valutare la necessità di procedere a una ricerca di questo tipo. I criteri da considerare non sono assoluti e non dipendono dal testo in sé. Essi dipendono dalla tecnicità dell’argomento e dall’esperienza del traduttore. Non vi sono argomenti che, più di altri giustifichino una ricerca sistematica. Il criterio da utilizzare, di natura molto relativa è che la necessità di procedere ad una ricerca documentaria dipende dalla relazione che esiste tra il traduttore e il testo da tradurre. Che si tratti di un traduttore principiante oppure di un professionista, la procedura sarà sempre la stessa: metodica per essere efficace. L’unica differenza è che un traduttore esperto, per la sua dimestichezza con la procedura, sarà molto più veloce, ma senza per questo bruciare alcune tappe. Più la somma delle conoscenze di cui dispone è scarsa, più la ricerca documentaria deve essere: seria, estesa, approfondita. Estesa, in modo da ricoprire i vari aspetti dell’argomento, approfondita, in modo da consentire una effettiva comprensione dell’argomento. Egli deve individuare velocemente ciò che serve per un bisogno puntuale, evitando di perdersi in voluminosi documenti o in una miriade di siti internet. Il suo metodo si articola secondo due direzioni: dal generale al particolare, dalla volgarizzazione all'informazione specializzata. Un pò come le bambole russe. Occorre seguire e portare avanti la catena di interrogazioni fin quando tutti gli elementi espliciti o presupposti dell’informazione del testo da tradurre, integrati tra di loro in un insieme strutturato, siano anche nella mente del traduttore chiari ed integrati. Ciò porta a formulare un altro criterio per la ricerca documentaria: occorre mirare a un sistema di autonomia. A partire dal momento in cui il traduttore ha acquisito le conoscenze necessarie per ricostruire un insieme di informazioni strutturato, i cui elementi sono interdipendenti e formano un tutto organizzato, si può dire che egli è giunto a uno stadio di comprensione sufficiente per tradurre. La consultazione di corpora paralleli consente non solo di capire meglio l’argomento oggetto della traduzione (poiché a volte, nella lingua straniera, viene affrontato sotto angolazioni diverse), ma consente anche di: - familiarizzarsi con la lingua tecnica usata in quel settore specifico - individuare la terminologia specifica di quell’argomento in contesto - elaborare delle schede terminologiche o dei glossari funzionali. 3. PRE-TRANSFERT riformulazione del testo, stesura della bozza Il traduttore cerca di riformulare nella LA ciò che ha capito dal testo in LP, indipendentemente dalla forma e dalla struttura di quest’ultimo. La sua preoccupazione, a questo stadio, non è quella di sapere se usare un aggettivo laddove nel testo originale inglese veniva usato un avverbio, ma bensì di rendere il senso del testo originale rispettando l’uso nella LA, essendo l’uso che, in ogni lingua, determina la formulazione. E’ solo dopo aver tradotto non solo il contenuto informativo, ma anche il tono e il livello di volgarizzazione che il traduttore avrà assolto al suo compito. 124 4. TRADUZIONE – TRANSFERT Editing interattivo, tappa fondamentale del processo traduttivo Una volta che il traduttore ha verificato e preparato il materiale, definito le opzioni di traduzione, acquisito i saperi che gli mancavano per capire perfettamente il materiale da tradurre, che si è accertato dei modelli, dei termini e delle espressioni che utilizzerà e che ha predisposto la sua postazione in maniera funzionale (programmi, collegamenti...), la fase di transfert può iniziare. Il processo di transfert corrisponde alla ricomposizione di un materiale nuovo, i cui contenuti, forme e formulazioni sono adatti al nuovo pubblico. 5. POST-TRANSFERT Controllo della qualità: riletture, correzioni e revisioni. In traduzione, il ridicolo uccide e la qualità non è negoziabile! Una volta tradotto il materiale, il traduttore deve verificare che tutto ciò che doveva essere tradotto lo è stato effettivamente e che il risultato è conforme: ? alle regole dell’uso linguistico: corretto, leggibile, chiaro, accessibile, trasparente; ? alla qualità linguistica, stilistica, redazionale: verificare che tutto ciò che riguarda la lingua (ortografia, grammatica, sintassi, terminologia, fraseologia), lo stile e le formulazioni è corretto, omogeneo e conforme allo scopo; ? alla qualità tecnica, semantica: verificare che tutto ciò che riguarda il contenuto (dati, informazioni, ragionamento, cronologia, logica...) è giusto, vero, corretto e conforme allo scopo; ? ai principi di convergenza tra il materiale di partenza e il materiale prodotto: corrispondenza dei sensi, delle finalità, degli obiettivi, dell'impaginazione... In pratica, occorre distinguere da un lato la rilettura, dall’altro la revisione. Durante la rilettura, si notano le anomalie, ma non si interviene sulla traduzione, mentre, la revisione corregge o ritocca la traduzione. Quando la traduzione è particolarmente complessa, varie riletture e/o revisioni sono necessarie. 6. POST-TRANSFERT messa in forma o su supporto Inserimento di grafici, immagini, elementi particolari 7. POST-TRANSFERT consegna del prodotto BIBLIOGRAFIA Arcaini (cur.) (1995) Arcaini, E. (cur.), Modelli teorici per la traduzione, in La traduzione. Saggi e documenti, 1, Roma (Ministero per i Beni Culturali), 1995 125 Attali (1981) Attali, J., Les trois mondes, Paris, Fayard, 1981 Beccaria (1992) Beccaria, G.L., Italiano. Antico e nuovo, Milano, Garzanti, 1992 Beccaria (cur.) (1993) Beccaria, G.L. (cur.), I linguaggi settoriali in Italia, Milano, Bompani, 1993 Bédard (1986) Bédard, C., La traduction technique: principes et pratique, Montréal, Linguatech, 1986 Berman (1984) Berman, A., L’épreuve de l’étranger. Culture et traduction dans l’Allemagne romantique, Paris, Gallimard, 1984 Berman (1995) Berman, A., Le projet d’une critique “ productive”. Pour une critique des traductions: John Donne, Paris, Gallimard, 1995 Calvino (1990) Calvino, I., Palomar, Milano, Mondadori, 1990 Carlini (1999) Carlini, F., Lo stile del Web, Torino, Einaudi, 1999 Castellano (1988) Castellano, A., Morbus Anglicus, in Studi Linguistici Italiani, Salerno Editrice, 1988 Cordonnier (2002) Cordonnier, J.L., in “Meta”, 42/1 (2002) Cortese (cur.) (1996) Cortese, G. (cur.), Tradurre i linguaggi settoriali, Torino, Cortina, 1996 Cortelazzo (1994) Cortelazzo, M., Le lingue speciali. La dimensione verticale, Padova, Unipress, 1994 Cortelazzo (2000) Cortelazzo, M., Italiano d’oggi, Esedra Editrice, 2000 Delisle (1988) Delisle, J., Translation. an interpretative approach. Ottawa, University of Ottawa Press, 1988 Delisle/Woodsworth (1995) Delisle, J. E./Woodsworth, J., Les traducteurs dans l’histoire, Presses Universitaires d’Ottawa, Editions UNESCO, 1995 Durieux (1988) Durieux, C., Fondements didactiques de la traduction technique, Paris, Didier Erudition, 1988 Eco (1995) Eco, U., Riflessioni teorico-pratiche sulla traduzione, in Nergaard, S. (cur.), Teorie contemporanee della traduzione, Milano, Bompani, 1995 126 Eco (2003) Eco, U., Dire quasi la stessa cosa, Milano, Bompani, 2003 Esselink (2000) Esselink, B., A practical guide to localization, John Benjamins Publ. Co, 2000 Foucault (1966) Foucault, M., Les mots et les choses, Paris, Gallimard, 1966 Fruttero & Lucentini (2003) Fruttero & Lucentini, I ferri del mestiere, Torino, Einaudi, 2003 Gavioli/Zanattin (2000) Gavioli, L./Zanattin, F., I corpora bilingui nell'apprendimento della traduzione. Riflessioni su un’esperienza pedagogica, in Bernardini S. e Zanettin, F. (cur.), I corpora nella didattica della traduzione, Bologna, Clueb edizioni, 2000 Gotti (1991) Gotti, M., I linguaggi specialistici, Firenze, la Nuova Italia, 1991 Gouadec (1990) Gouadec, D., Traduction signalétique, in “Meta”, 35/2 (1990), pp. 332-341 Gouadec (2002) Gouadec, D., Profession traducteur, Paris, La Maison du Dictionnaire, 2002 Laygues (2003) Laygues, A., Congrès annuel de l’Association canadienne de traductologie, Halifax, Nouvelle Ecosse (2003) Lederer (1994) Lederer, M., La traduction aujour’hui: le modèle interprétatif, Paris, Hachette, 1994 Meschonnic (1973) Meschonnic, H., Pour la poétique II, Paris, Gallimard, 1973 Migliorini (1990) Migliorini, B., La lingua italiana nel Novecento, Casa Editrice Le Lettere, 1990 Monacelli (cur.) (2001) Monacelli, C. (cur.), Traduzione, revisione e localizzazione nel Terzo millennio: da e verso l’inglese, Milano, Franco Angeli, 2001 Mounin (1963) Mounin, G., Les problèmes théoriques de la traduction, Paris, Gallimard, 1963 Mounin (1976) Mounin, G., Linguistique et traduction, Bruxelles, Dessart & Mardaga, 1976 Ortega y Gasset (1932-1986) Ortega y Gasset, Miseria y esplendor de la traducciòn, in Obras completas, Revista de Occidente, Madrid, 1932-1986, Tomo V Osimo (2000) Osimo, B., Traduzione e nuove tecnologie. Informatica e Internet per traduttori, Milano, Hoepli, 2000 127 Newmark (1988) Newmark, P., A Textbook of Translation, London, Prentice Hall, 1988 Podeur (1993) Podeur, J., La pratica della traduzione:dal francese in italiano, dall’italiano in francese, Napoli, Liguori Editori, 1993 Quiron (2003) Quiron, J., Congrès annuel de l’Association canadienne de traductologie, Halifax, Nouvelle Ecosse, 2003 Rando (1987) Rando,G., Dizionario degli anglicismi nell’italiano postunitario, Firenze, Leo S.Olschki, (Presentazione di L. Serianni), 1987 Roberts (1981) Roberts, R.P., The Role of the Practicum in Translator Training Programmes, in Enseignement de l’interprétation et de la traduction: de la théorie à la pratique, Delisle, J., Ottawa, Ed. de l’Université d’Ottawa, 1981 Scarpa (2001) Scarpa, F., La traduzione specializzata – Lingue speciali e mediazione linguistica, Milano, Hoepli, 2001 Scavetta (1992) Scavetta, D., La metamorfosi della scrittura, dal testo all’ipertesto , Firenze, La Nuova Italia, 1992 Schena/Snel Trampus (cur.) (2000) Schena, L./Snel Trampus R.D. (cur.), Traduttori e giuristi a confronto. Interpretazione traducente e comparazione del discorso giuridico, Forlì, Clueb, Biblioteca della Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori, 2000 Severgnini (1992) Severgnini, B., L’inglese. Lezioni semi serie. Milano, Rizzoli, 1992 Spina (1997) Spina, S., Parole in rete , Firenze, La Nuova Italia, 1997 Trilussa (1935) Trilussa, Cento Apologhi di Trilussa, Verona, Mondadori, 1935 Ulrych (1992) Ulrych, M., Translating text. From Theory to Practice, Rapallo, Cideb, 1992 Visciola (2000) Visciola, M., Usabilità dei siti web, Apogeo, 2000 Zanettin (2001) Zanettin, F., Informatica e traduzione, in Monacelli, C. (cur.), Traduzione, revisione e localizzazione nel terzo millennio: da e verso l’inglese, Milano, Franco Angeli, 2001 128 NOTA SUGLI AUTORI ADELE D’ARCANGELO (Teramo, 1963) è lettrice di Lingua Inglese presso l’Università Statale di Milano ed insegna Traduzione Specializzata Inglese/Italiano presso la SSLMIT di Forlì (Università di Bologna). Tra le sue pubblicazioni vanno segnalate le traduzioni italiane di poesie, teatro e prosa di autori britannici contemporanei, tra cui Samuel Beckett, Alan Bennett e Steven Berkoff. GIOVANNA BUONANNO (Napoli, 1965) insegna Lingua Inglese (II anno) e Traduzione Lingua Inglese presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. Fra i suoi lavori, nel campo della traduzione e degli studi shakespeariani, vanno menzionati: Mel Gordon, Il sistema di Stanislavskij , Venezia, Marsilio, 1992 (traduzione dall’inglese in italiano); Shakespeare’s Early Reception and Translation in Italy, Modena, Il Fiorino, 2002. MARCO CIPOLLONI (Roma, 1962) è professore ordinario di Letteratura Spagnola presso l’ateneo modenese. Numerose sono le sue pubblicazioni nel campo della traduttologia (saggi sulla traduzione e lavori di traduzione), oltre a quelle di iberistica. Da segnalare: José Luis Romero, Le città e le idee, Napoli, Guida, 1989 (traduzione dallo spagnolo in italiano); Due traduzioni per una polemica: Léon Felipe e Borges traduttori di Whitman, in AA.VV. Scrittura e riscrittura: traduzioni, refundiciones, parodie e plagi, Roma, Bulzoni, 1995, pp. 171-186; Lingue di celluloide: la traduzione del cinema spagnolo in Italia; la Spagna e lo spagnolo nel cinema italiano e nel film multilingue, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1997. CESARE GIACOBAZZI (Serramazzoni [Modena], 1956) è professore associato presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, dove attualmente insegna Civiltà dei Paesi di Lingua Tedesca. Nel campo della germanistica vanno citati i suoi seguenti lavori fondamentali: La storia risvegliata. Il Barocco nella Trilogia di Danzica di Günter Grass: le forme, le funzioni, gli esiti, Bologna, Pàtron, 1993; Introduzione all’esperienza del senso. Didattica della letteratura e coscienza ermeneutica, Bologna, CLUEB, 2000; L’eroe imperfetto e la sua virtuosa debolezza. La correlazione tra la funzione estetica e la funzione formativa nel Bildungsroman, Modena, Guaraldi, 2001. DEMETRIO GIORDANI (Roma, 1955), dottore di ricerca dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, insegna Storia dei Paesi Islamici presso l’ateneo modenese. Da segnalare le sue seguenti traduzioni: Abd Al-Rahmân Al-Sûlamî (932-1021), Introduzione al Sufismo (2001) (traduzione dall’arabo in italiano); L’inizio e il ritorno di Ahmed Sirhindi (2003) (traduzione dall’arabo e dal persiano in italiano e francese); Appunti per un Commento alla Sûra CII (1992) + XCIV. HANS HONNACKER (Bonn [Germania], 1966) si è laureato in italianistica con una tesi sull’Orlando Furioso all’Università di Firenze nel 1996. Ha conseguito il dottorato di ricerca presso la Freie Universität Berlin nel 2000 e ha tradotto vari saggi della critica tedesca sulla letteratura italiana. Attualmente insegna Traduzione Lingua Tedesca all’Università di Modena e Reggio Emilia. Tra le sue pubblicazioni si ricordano: Der literarische Dialog des primo Cinquecento. Inszenierungsstrategien und ‘Spielraum’ (Baden-Baden, Koerner, 2002) e Die italienische Übersetzung von S. Haffner, Geschichte eines Deutschen: Probleme und Kuriositäten (in corso di stampa). ANTONELLO LA VERGATA (Cosenza, 1954), professore ordinario, insegna presso l’ateneo modenese Storia della Filosofia e Storia della Scienza e della Tecnica in Età Moderna e Contemporanea. Le sue pubblicazioni, nel campo della storia della scienza e filosofia ed anche della traduzione, sono ormai circa un centinaio il che, ovviamente, rende impossibile citarle tutte. Vanno almeno menzionate due traduzioni capitali: Thomas Henry Huxley, Evoluzione ed etica, a cura di A. La Vergata, Torino, Bollati Boringhieri, 1995; George S. Rousseau, La medicina e le Muse, traduzione ed introduzione di A. La Vergata, Firenze, La Nuova Italia, 1993. 129 EMILIO MATTIOLI (Modena, 1933), già professore ordinario di estetica all’Università di Trieste. Oltre a importanti studi sul Sublime e su Luciano di Samosàta (Luciano e l’Umanesimo, Bologna, Il Mulino, 1980), Emilio Mattioli ha pubblicato molti saggi sulla traduzione fin dal 1965, fra gli altri: Introduzione al problema del tradurre, apparso sulla rivista “Il Verri”, 19 (1965), in cui venivano discusse e criticate posizioni teoriche allora molto diffuse come quelle di Benedetto Croce o Roman Jakobson; Contributi alla teoria della traduzione letteraria (Palermo 1993), Per una critica della traduzione (“Studi di estetica”, 14 (1996) e Ritmo e traduzione (Modena, Mucchi, 2001), La traduzione letteraria (“Il confronto letterario”, 39 (2003), pp. 171-179) in cui Mattioli tira le somme delle sue riflessioni sulla traduzione, proponendo, sulla scia di Henri Meschonnic, una poetica della traduzione. Altre iniziative importanti di Mattioli sono la creazione e la direzione della più importante rivista di traduzione letteraria in Italia, “Testo a fronte”. FRANCO NASI (Reggio Emilia, 1956) si è laureato in Filosofia all’Università di Bologna. Dal 1998 al 2001 è stato Visiting Lecturer alla University of Chicago. Attualmente insegna Letteratura Italiana e Traduzione presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. Ha tradotto e curato opere di estetica e teoria letteraria di S.T. Coleridge, W. Wordsworth, J.S. Mill, e raccolte di poesie di Roger McGough e Brian Patten. È curatore della raccolta di saggi Sulla traduzione letteraria. Figure del traduttore – Studi sulla traduzione. Modi del tradurre, Ravenna, Longo, 2001 ed autore di Stile e comprensione. Esercizi di critica fenomenologica sul Novecento , Bologna, CLUEB, 1999 e Poetiche in transito. Sisifo e le fatiche del tradurre, Milano, Medusa, 2004. ALEARDO TRIDIMONTI (Sarsina, 1949) insegna Traduzione Italiano-Francese presso la Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori di Forlì – Università di Bologna e, presso l’ateneo modenese, Mediazione Francese. Si segnala il suo recente lavoro sulla politica linguistica dell’Unione Europea: Europa: la vecchia signora che ama leggere romanzi d’amore ovvero La memoria dimenticata , MEP Model European Parliament, 2001. 130 TITOLI GIÀ PUBBLICATI IN QUESTA COLLANA Nr. 1: Massimiliano Spotti, Constructing native speakers to be in the multilingual classroom. A case study of the discourse of a monolingual primary teacher in Belgian Flanders (2004) Nr. 2: Maria Chiara Felloni, Il plurilinguismo istituzionale all’interno dell’Unione Europea (2004)