Girolamo Maggi
De tintinnabulis
Le campane
A cura di Lorenzo Carpanè
Traduzione di Alessandra Testa
QuiEdit
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Via S. Francesco, 7 – 37129 Verona, Italy
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e-mail: [email protected]
Edizione I - Anno 2015
ISBN: 978-88-6464-346-5
Finito di stampare nel mese di Dicembre 2015
La riproduzione per uso personale, conformemente alla convenzione di
Berna per la protezione delle opere letterarie ed arti-stiche, è consentita
esclusivamente nei limiti del 15%.
INDICE
7Premessa
11 Una vita di studi
33Introduzione
34 Descrizione del manoscritto
35Contenuto
37 Storia del manoscritto
41 Apparato iconografico
42 Frans Sweerts, editore del «De Tintinnabulis»
46 La princeps a stampa
50 Criteri di edizione
51 Il suono delle campane
55 Un percorso tra passato e presente
58 La fortuna
61 De tintinnabulis
97 Le campane
127 Note al testo
127Prefazione
153Bibliografia
153 1. Manoscritti
155 2. Opere a stampa
163 3. Bibliografia citata (in ordine alfabetico)
169 Indice dei nomi citati da Maggi nel De Tintinnabulis
171 Indice dei nomi
Premessa
Ci sono uomini che, pur senza essere personaggi straordinari, per le circostanze che la vita riserva si trovano a vivere situazioni eccezionali, che
li segnano, a volte anche tragicamente. Tra questi va annoverato anche
Girolamo Maggi, il quale ha condotto una vita che si può definire tranquilla, per quanto era possibile nell’Italia della metà del Cinquecento, fino a
quando, come si suol dire, si trovò (o volle trovarsi?) nel luogo sbagliato, al
momento sbagliato, e la sua vita venne troncata. Per pochi mesi fu prigioniero dei Turchi a Costantinopoli, e lì, in cattività, si trovò (volle trovarsi?)
nella possibilità di comporre due trattati: uno, forse il primo tra i due, che
qui andiamo a pubblicare nuovamente; l’altro, De equuleo, rimasto incompiuto forse proprio a causa della morte, su un argomento ben diverso, cioè
su uno strumento di tortura.
Le circostanze della stesura del De tintinnabulis dunque sono senz’altro
eccezionali, come anche del resto quelle che permisero al testo di giungere
in Europa, di essere pubblicato al principio del Seicento e di vedere nuovamente la luce oggi, a distanza di quattro secoli esatti, sulla base dell’autografo neerlandese e con una nuova traduzione in italiano di Alessandra
Testa.
Queste, appunto, le circostanze, che non sono irrilevanti, perché il
testo le lascia più volte trasparire negli accenni che ad esse fa l’autore in
vari luoghi dell’opera, e soprattutto in quella umanissima conclusione, nella quale, scrivendo della costruzione delle campane, ricorda quelle del suo
paese, dove spera un giorno di poter tornare. In esse, non c’è dubbio, sta
una parte delle ragioni per la nuova pubblicazione del trattato.
Accanto alle fonti erudite non mancano dunque riferimenti alla sua
propria esperienza, che si gioca su almeno quattro diverse realtà storiche e
geografiche: quella toscana della giovinezza, quella veneziana della maturità, quella cipriota della guerra ed infine quella della prigionia a Costantinopoli. Ed è qui che emerge maggiormente – per forza di cose – l’umanità
di Girolamo Maggi, da cui traspare nettamente quello che potremmo definire il bisogno di elaborare il lutto. Il racconto della storia e degli usi delle
campane diventa il modo per superarne la mancanza. Ma sono probabilmente, le campane, simbolo di altro: la loro mancanza è la mancanza del
7
Lorenzo Carpanè
mondo del quale sono espressione, della patria e della famiglia in primo
luogo. E non sarà un caso quindi che nella cattività costantinopolitana
Maggi componga due opere che sono espressione di sentimenti opposti:
se il De tintinnabulis può rappresentare insieme la mancanza della patria e la
speranza di potervi tornare, non c’è dubbio, credo, che il secondo trattato,
il De equuleo, strumento di tortura, stia ad indicare la paura del presente, il
tormento, psichico prima che fisico, della sua condizione di schiavo.
Ma faremmo torto al Maggi se considerassimo il testo solo per questi
motivi e ne dimenticassimo il valore in sé. Certo, è un prodotto che potremmo definire di erudizione: costante è il bisogno di Maggi non tanto
di citare le fonti, quanto di partire da esse e di trovare spesso in esse anche le ragioni finali della scrittura. Emerge anche in questo libello dunque
quella tendenza, propria di tutto il Cinquecento1, alla citazione, della quale
peraltro il Maggi stesso aveva già dato prova nelle Miscellanee qualche anno
prima. E di cui egli stesso, per così dire, rimane vittima, nell’uso erudito e
per lacerti che del De tintinnabulis viene fatto da coloro che nei secoli successivi lo prenderanno in mano. Ma non si dimentichi che l’esibizione – in
senso stretto – delle auctoritates si nutre esclusivamente del proprio patrimonio interiore, essendogli preclusa, ovviamente, ogni fonte. Come, ed il
pensiero non può che andare a lui, accadrà di lì a pochi anni ad un altro
illustre recluso, e almeno in quella vicenda, più fortunato: Torquato Tasso.
Da questa erudizione Maggi è tuttavia capace di partire per costruire
un percorso che potremmo definire sia storico che geografico: il quale se è
vero che lascia emergere la bellezza e il valore delle campane nella cristianità occidentale, manifesta anche una sostanziale apertura anche agli usi
di quella orientale, senza mai nemmeno arrivare a deplorare la mancanza
di esse nel mondo islamico. Forse in ciò ha influito la sua condizione di
schiavo ed evidenti ragioni di opportunità gli hanno suggerito una condotta prudente. Eppure certi accenti del testo sembrano suggerire qualcosa di
diverso, quasi una forma di stupore per inaspettate armonie che anche tra
gli «infedeli» era possibile trovare. Malinconia, stupore e curiosità dunque
sono le parole chiave per comprendere questo trattato, per non lasciarlo
1
Si veda ad esempio quanto scrive M. Carpo, Metodo ed ordini nella teoria architettonica dei primi
moderni: Alberti, Raffaello, Serlio e Camillo, Genève 1993, laddove, in particolare, sostiene che i
testi antichi, «dissolti e risolti in frammenti», «divengono per gli autori moderni una miniera
di citazioni».
8
Premessa
confinato nella trattatistica erudita, per farlo risuonare ancora nell’etere
benigno della storia.
Verona, settembre 2015
9
Una vita di studi
Possiamo ricostruire la vita di Maggi, come avremo modo di vedere, più
nella maturità che non nella giovinezza, come spesso accade, e ciò in virtù di una caratteristica propria del personaggio, che è quella di inserire
riferimenti sparsi al suo vissuto un po’ in tutto ciò che scrisse e mandò
alle stampe, non solo nei luoghi di solito a ciò deputati (prefazioni, dedicatorie e tutto ciò che si definisce paratesto), ma anche, spesso, nel corpo
stesso dei suoi lavori. Una volontà, si direbbe, di parlare di sé, di lasciare
una traccia del proprio vissuto, che segna tutte le sue opere, dalla prima
all’ultima, dal poema su una guerra, quella di Fiandra, non vissuta, ma
epicamente narrata, fino ai due trattati, sulle campane e sullo strumento di
tortura chiamato ‘eculeo’, scritti in condizioni di guerra, nella sua cattività
costantinopolitana.
Annotazioni, le sue, spesso utili per ricostruire passaggi della sua vita
o il senso di citazioni testuali; a volte, invece, capaci di dare spessore all’immagine di un uomo che non solo ambisce a far emergere le amicizie delle
quali gode tra i letterati suoi coevi o le protezioni alle quali ambisce tra i
potenti del suo tempo, ma che sembra anche volerci consegnare il ritratto
di una persona che sa godere dei semplici piaceri della vita. Si veda, ad
esempio, ciò che scrive nelle Variarum lectionum, in un capitolo (il XX, c.
57r) in cui discute di come Giustiniano abbia discettato sulla inesistenza
dell’ippocentauro:
Cum in villam agri Anglarensis, cui Camparma nomen est, nontanam
quidem, at aucupiis, venationibusque et lucorum umbra ingentium aestate
gratissimam, concessissem; essetque mecum Paulum Ligius, iuvenis legalis
Philosophiae studiosissimus, inclinato in postmeridianum tempus die, ut
obrepentem somnum amolitertur depelleretque, anagnostis ille coepit fungi
munere. Anglare nanque digrediens, mutos quosdam magistros in enchiridii
formam contractos, sibi comites acierat, inter quos Iustiniani eran Institutiones.
Già i più antichi biografi secenteschi si accorsero di ciò e pertanto utilizzarono sostanzialmente quanto lo stesso Maggi scrisse di sé nelle
sue opere, così che i successivi eruditi settecenteschi poterono aggiungere
11
Lorenzo Carpanè
pressoché nulla. Notizie più dettagliate, ma non sempre precise, troviamo
poi nei due studi ottocenteschi, di Buratti2 e soprattutto del Promis3, il lavoro del quale a tutt’oggi è il più completo, al quale si aggiungono recenti
acquisizioni da parte di studiosi sia italiani che stranieri, ed in particolare,
negli anni più recenti, di Daniela Lamberini.
Va anche segnalato che altra storiografia moderna, prima degli studi
più recenti, cade talvolta nel grossolano errore, derivante forse da una
lettura superficiale del Della fortificatione, di fonderne i due autori (lo stesso
Maggi e il Castriotto) e di far nascere quindi un «Maggi Castriotto» del
tutto inesistente4. Segno questo, però, anche dell’interesse verso il Maggi,
oggi rivolto in massima parte alla produzione di argomento militare, mentre del tutto ancora da indagare risultano le opere più specificamente letterarie. Mancano inoltre edizioni moderne delle sue opere: esclusa l’edizione
anastatica del trattato Della fortificazione delle città5 si ha solo una traduzione
in italiano del De tintinnabulis6, peraltro non attendibile sul piano critico e
filologico, oltre che la presente edizione dello stesso trattato, condotta,
come vedremo, sull’originale autografo.
Prima di proseguire, una breve annotazione di natura onomastica.
Nelle stampe più antiche, così come anche nelle fonti manoscritte, si legge la forma ‘Magi’, senza la geminata, che venne introdotta dalle stampe
veneziane. A rigore quindi si dovrebbe scegliere questa soluzione; noi qui
invece preferiamo mantenere la forma con la geminata, quindi ‘Girolamo
Maggi’, in quanto quella ormai invalsa sia nell’uso degli studiosi che nelle
biografie e nei repertori bibliografici.
Egli nacque dunque ad Anghiari, nell’odierno territorio aretino, da
Paolo e da Luisa Bigliaffi, i quali ebbero anche di sicuro un altro figlio, Bar2
A. Buratti, Elogio di Girolamo Magi celebre letterato di Anghiari, Perugia 1809.
C. Promis, Vita di G. Maggi d’Anghiari, Ingegnere militare, Poeta, Filosofo, Archeologo, Giurisperito
del secolo XVI, «Miscellanea di storia italiana», I (1862), pp. 105-143.
4
In questo errore incorre M. Tafuri, L’architettura del manierismo nel Cinquecento europeo, Roma
1966.
5
G. Maggi – G. Castriotto, Della fortificazione delle città, di M. Girolamo Maggi, e del Capitan
Iacomo Castriotto Ingegniero del Christianiß. Re di Francia, Libri III, In Venetia, Appresso Camillo
Borgominiero, al Segno di S. Giorgio, 1583. Ristampa anastatica, Roma 1982 (con presentazione di G. E. Ferrari).
6
De tintinnabulis, traduzione a cura di A. V. Arace D’Amaro, in G. Marinelli, L’antro di
Vulcano. I fonditori di Agnone, Napoli 1991, pp. 60-123.
3
12
Una vita di studi
tolomeo, che lo stesso Maggi definì «bonarum litterarum studiosissimus»7.
Sulla data di nascita sussistono ancora delle incertezze; per la maggior
parte dei biografi è da ascrivere al 1523, mentre Buratti8 prima e Lamberini9 oggi propendono per il 1528. In mancanza di documenti certi, ancora
una volta è necessario fare affidamento ai riferimenti autobiografici dello
stesso Maggi. In primo luogo, come persuasivamente sottolinea Lamberini, va ricordato quanto egli scrive nelle Miscellanee10, dove, ricordando la
peste che colpì Anghiari, si definisce «infans». Ora, secondo l’erudito settecentesco Taglieschi11, se è pur vero che la peste fu endemica nel territorio
toscano per quasi tutti gli anni ’20 del Cinquecento, lo è anche che proprio
tra il 1528 e il 1529 essa colpì in modo particolarmente cruento la città di
Anghiari. Se dunque a questi anni va ascritta la memoria della peste citata
da Maggi e se quindi allora egli era «infans», ciò significa che la nascita va
riferita all’incirca al 1528. Ma, su questa testimonianza, rimane il dubbio
che Maggi intendesse riferirsi davvero al periodo di massima recrudescenza della pestilenza e non magari al suo esordio, ascrivibile invece agli inizi
del decennio.
Al 1528 sembrerebbe inoltre condurre un altro indizio: nei versi che
7
Variarum lectionum, lib. III, cap. 3, c. 127v : «Quaerebat a me Bartholomaeus Magius frater
meus, bonarum literarum studiosissimus […]»; la medesima formula è impiegata anche
nella lettera a Gregorio Angeleri e Paolo Ligio, del giugno 1560, pubblicata in appendice
alle Vite di Emilio Probo nel 1560 (p. 168). Bartolomeo Maggi è curatore inoltre di una
raccolta di sentenze di Cicerone, Demostene e Isocrate (M. Tulii Ciceronis, et Demosthenis
Sententiae insigniores. Ad haec apophthegmata, ex CC veteribus oratoribus, philosophis, et poetis selecta.
Ex castigationibus Bartholomaei Magii Anglarensis. Accessit recens Isocratis sententiarum ab eodem
Magio collectarum, Venetiis, apud Nicolaum Bevilacquam, 1569; nel 1565 presso il medesimo
stampatore era già stata pubblicata una edizione contenente solo le sentenze di Cicerone
degli oratori e filosofi antichi): questa edizione del 1565 reca anche una prefatoria di Borgaruzzo Borgaruzzi nella quale, similmente, Bartolomeo è definito «bonarum litterarum
amantissimus»
8
Buratti, Elogio, p. 27, nota c.
9
D. Lamberini, Invenzioni fatali. Gli ingegni militari di Girolamo Magi (Maggi), da Anghiari (ca.
1528-1572) al servizio della Repubblica di Venezia, «Bollettino ingegneri», VII (2007), pp. 3-11:
11, nota 37.
10
Variarum lectionum, libro IV, cap. 9, c. 193v: «Praeterea cum nostra et parentum memoria
pestes per Italiam non leves grassatae sint, quarum novissima, quae Tusciam Anglarensesque nostros invasit, et ego infans correptus sum […]».
11
L. Taglieschi, Delle memorie historiche e annali della terra di Anghiari, a cura di D. Finzi e M.
Parreschi, Sansepolcro, Artigrafiche, 1991, p. 259.
13
Lorenzo Carpanè
il Maggi pubblica ad introduzione dei Cinque libri della guerra di Fiandra, in
un contesto non chiarissimo, Maggi allude ai propri sedici anni (p. 3, vv.
36-40):
molto rincrebbe il spegner’ la memoria
(o fusse Iddio) de la tremenda guerra
di Fiandra, e del Vitel l’alta menzione,
e la prima troncar’ tenera tela
miglior’ ricordo di mia prima etade
anni havend’io, sol sedeci, tornato
grave di confusion’ dal studio, quando
il mio stil mossi in le novelle carte
Il punto centrale qui è determinare a quale evento lega la sua età
Maggi. Infatti subito prima di questi versi egli ricorda un primo tentativo
(che dichiara però abortito) di scrivere versi in onore del Vitelli, e quindi la lettura più semplice di questo passo dovrebbe risultare la seguente:
«quando avevo sedici anni scrissi dei versi sulla guerra di Fiandra, che però
distrussi, dopo essere tornato ancora confuso dai miei primi studi». Così
interpretato il passo, se ne dedurrebbe che Maggi doveva avere sedici anni
dopo la conclusione della guerra, cioè almeno alla fine del 1543; egli così
risulterebbe appunto nato nel 1527 o ’28. Ma non va taciuto che Maggi
qui avrebbe potuto intendere invece altro, ovvero che il primo abbozzo
del poema era il frutto migliore della sua produzione poetica giovanile, che
aveva iniziato a sedici anni.
In un altro luogo, peraltro, egli allude ai sedici anni quale età di composizione del poema, ovvero a c. 193 della Prima parte della espugnatione delle
città e fortezze12. Insomma, pur se su basi indiziare, ci sembra ragionevole
l’ipotesi che egli sia nato nel 1528 e non nel 152313.
Compì i primi studi con un precettore di nome Pietro Antonio Ghezzi da Laterina, che lo istruì sia nelle lettere che nei primi rudimenti di di-
12
È ancora Daniela Lamberini a segnalare questa ulteriore fonte: cfr. Lamberini, Invenzioni,
p. 11, n. 37.
13
Dobbiamo qui dunque rettificare quanto da noi stessi precedentemente scritto nella voce
per il Dizionario biografico degli italiani, LXVII, Roma 2006, pp. 347-350.
14
Una vita di studi
ritto14. Sappiamo che le condizioni economiche sufficientemente prospere
della famiglia gli permisero di frequentare dapprima l’Università a Perugia,
per poi passare a Pisa e infine allo Studio bolognese. Fu a Pisa che con
ogni probabilità conobbe Francesco Robortello, che fu Lettore di Lettere
umane dal 1543, anno della riapertura dello Studio pisano, al 154915. Robortello ebbe un ruolo importante nell’avviamento del Maggi agli studi
letterari, come costui riconosce nelle Variarum lectionum16:
Ab hinc multos annos cum hac de re ad Franciscum Robortellum, virum de Graecis Latinisque literis, deque morali Philosophia bene meritum,
retulissem, illeque ut amantissimum praeceptorem decuit, ingenium meum
esset exosculatus, ac laudibus etiam, ut me ardentiorem in literarum studia
redderet, esset prosecutus […].
Passo da cui si deduce anche la consuetudine da parte di Maggi di sottoporre al Robortello questione di ordine filologico. Il Robortello è inoltre
riconosciuto come amico dal Maggi in una lettera a Gregorio Angeleri e
Paolo Ligio, del giugno del 1560, pubblicata in appendice alla Vite di Emilio Probo annotate dallo stesso Maggi nel 1563 (pp. 168-171).
Sposò, in data non nota, la conterranea Lisabetta (il cui patronimico
non ci è noto) che gli diede sei figli, di cinque dei quali conosciamo i nomi:
Susanna, Maurizio, Bonifacio, Maria Antonia, Cecilia17. La prima tuttavia
era già morta nel 1570; del primo tra i maschi è noto un progetto contro il
14
Variarum lectionum, lib. IV, cap. I, c. 164v: «Cum adhuc adolescens eloquentiae candidatus, in scholis essem, praeceptorem habebam Petrum Antonium Ghetium Laterinensem,
hominem mihi propter doctrinam minime vulgarem, eximiaque probitatem longe charissimum. Is cum aliquando iurisprudentiae non poenitendam operam navasset, mihi aliisque
complusculis commilitonibus, Iustiniani Institutiones festis diebus coeperat, iamque eo
progressus erat, ut de iustitia, et iure non morosa, ut fit a Iureconsultis nostris perplexaque
dissertatione, sed levi, et ut hominem humanitatis addictum studiis decuit, florida ageret».
15
Cfr. D. Barsanti, I docenti e le cattedre dal 1543 al 1737, in Storia dell’Università di Pisa, I/2,
1343-1737, Pisa 2000, pp. 505-567 (531). Va ricordato che Robortello ebbe un ruolo assai
importante nella riapertura dello Studio, tanto che a lui fu affidata l’orazione inaugurale il
1° novembre del 1543. Il Robortello è ricordato soprattutto per la sua attività di commento
alle opere aristoteliche; si veda a questo proposito G. Alfano, Sul concetto di verosimile nei commenti cinquecenteschi alla «Poetica» di Aristotele, «Filologia e critica», XXVI (2001), pp. 187-209.
16
Miscellaneorum, lib. III cap. 5, c. 30 r-v:
17
Cfr. Buratti, Elogio, p. 83.
15
Lorenzo Carpanè
pericolo di interramento della laguna di Venezia18.
Tra il 1546 e il 1548 probabilmente rimase in patria, per intraprendere
invece poi viaggi volti soprattutto a visitare le fortificazioni: il 10 dicembre,
data della dedicatoria dei Cinque primi libri della guerra di Fiandra, annunciò
la sua partenza dalla città natia, il che fece probabilmente solo l’anno successivo per visitare dapprima Pesaro, poi Milano e Padova, tutte città nelle
quali non mancava di studiare le opere di difesa.
Nel 1548 Maggi risulta scolaro, ma non matricolato, dello Studio pisano19 dove è tuttavia già definito «philosophiae professor»; nel 1552 ottenne la laurea in Utroque iure20; la data esatta non è riportata negli atti, ma
deve essere stata ai primi dell’anno, se già il 30 gennaio egli compare tra i
testimoni per la laurea di «Matthaeus Romanus burgensis» con la qualifica
di «legum professor»21; già in precedenza, il 29 aprile del 1548 il Maggi era
stato tra i testimoni per la laurea di Nicolaus Beccius, certaldese; qui Maggi
è definito, come già si è visto, «philosophiae professor». L’anno successivo, probabilmente, conobbe a Pisa anche Pietro Angeli da Barga22; costui,
infatti, in quell’anno venne incaricato dal duca Cosimo dell’insegnamento
di lettere umane nello Studio pisano.
Nel 1548 sostò a Bologna dove probabilmente incontrò Carlo Sigo23
nio e altri letterati; almeno temporaneamente soggiornò anche a Firenze,
dove ebbe modo di ascoltare delle invettive pubbliche contro Benedetto
18
Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. It.VII 394 n. 8516.
Cfr. Libri matricularum studii Pisani (1543-1737). Pisa 1983, p. 144, n. 55.
20
Cfr. R. Del Gratta, Acta graduum Academiae Pisanae, I, 1543-1599, Pisa 1980, p. 17. Vi
si riportano il patronimico (Paolo), la carriera di studente (quinquennio di studi a Perugia
e Pisa), i promotori («Iohannes Franciscus Vegius, Nicolaus Guiciardinus, Paradisus Mazzinghus, Nicolaus Beltraminus») e i testimoni («Matthaeus Malferitus Maioricensis legum
doctor; Franciscus Spadarius Aretinus legum doctor, Dominicus Petrus Bacchius Aretinus
legum doctor, Petrus Sancassianus pisanus legum doctor, Antonius Meliorius florentinus,
legum doctor»).
21
Ibid, p. 18 n. 161.
22
Una prima informazione sull’Angeli nella voce curata da A. Asor Rosa, Angèli, Pietro, in
Dizionario biografico degli italiani, VIII, Roma 1961, pp. 201-204, dove tuttavia non si fa cenno
delle relazioni con Maggi.
23
«Amicus meus» lo definisce Maggi nel De equuleo (p. 35). Sul Sigonio cfr. W. McCuaig,
Carlo Sigonio. The Changing World of the Late Renaissance, Princeton 1989, pp. 5-6. Peraltro di
Girolamo Maggi non vi si fa alcuna menzione.
19
16
Una vita di studi
Varchi24.
Giunse infine a Venezia, dove diede alla stampe la sua prima opera,
il poema in cinque canti in ottave sulla guerra di Fiandra25, per i torchi
veneziani di Comin da Trino, che manifesta già alcune delle caratteristiche
che poi avranno anche le successive pubblicazioni: argomento bellico, ricchezza di apparato iconografico. La dedicatoria è a firma di Pietro Aretino
(che conobbe proprio nella città veneta), il quale ringrazia il Maggi con una
lettera del novembre 155426, ma anche citandolo nei Ternali in gloria della
Reina di Francia, vv. 268-269:
Tiepolo, Magi e Brusantino, i vanti
che poetando posson dar le carte
nel dir di lei, vi apariran davanti27
Il poema si fonda sulla recente (1543) campagna di Carlo V contro
il Duca di Guelders; alla sua realizzazione non sono estranei intenti di
autopromozione dell’autore, che non a caso, già nei primi versi, cita come
esempio di combattente Chiappino Vitelli, dal quale, come si vedrà, otterrà i primi incarichi ufficiali, e che è inoltre protagonista della narrazione.
A questo proposito si potrebbe anche ricordare come, caso non così frequente e anzi raro, un’immagine xilografica del Maggi compaia sul frontespizio. Ma rilevante è anche il catalogo di autori moderni citati nell’opera
ossia Ariosto, Aretino, Boiardo, fino al Robortello, ricordato proprio nei
versi finali, Dolce e molti altri che si occuparono di arte militare e quindi
Valturio, il veneziano Cristofor Canal, del quale, presumibilmente, vide il
manoscritto della sua opera sulla guerra navale.
Il poema è preceduto da una dedica in endecasillabi sciolti, datata 10
24
Così si può dedurre da De mundi exhustione, V, 3. Sul Varchi cfr. U. Pirotti, Benedetto Varchi
e la cultura del suo tempo, Firenze 1971. Non si fa alcuna menzione del Maggi.
25
Su questo poema ci permettiamo di rinviare al nostro intervento: L. Carpanè, Il «crudo
furor» delle armi: Girolamo Maggi e i «Cinque primi libri della Guerra di Fiandra» (1551), in Id.,
Delle stampe nel mar. Studi di letteratura latina e volgare del Cinquecento, Verona, Cierre Edizioni,
2013, pp. 59-84.
26
P. Aretino, Lettere, a cura di P. Procaccioli, vol. VI, Roma 2002, pp. 395-396.
27
Così in P. Aretino, Poesie varie, a cura di G. Aquilecchia e A. Romano, Roma 1992, p.
282; nelle Lettere, (ed. cit., p. 50) il testo tuttavia reca una variante: «Tiepolo, Magi, Mezzabarba, i vanti».
17
Lorenzo Carpanè
dicembre 1550, che quindi costituirà il terminus ante quem per la composizione del libro, dove, peraltro, Maggi asserisce di aver già compiuto tempo
addietro, all’età di sedici anni, un’altra opera in versi sul medesimo soggetto; ma, continua poi, «temendo haver’ disnor’ posci’a Vulcano / ogni nata
memoria dar’ mi piacque». La prefatoria di Pietro Aretino, più ancora che
la qualità dei personaggi citati nel poema, rappresenta chiara testimonianza
del fatto che Maggi già in quel momento, nonostante la ancora giovane età,
era personaggio di un qualche rilievo.
In quello stesso anno completò anche trattato Ingegni et invenzioni militari, manoscritto ancora inedito28, che dedica al granduca Cosimo I di
Toscana, del quale si possono vedere le insegne miniate nell’iniziale della
dedicatoria. Maggi vi dice di averlo scritto dopo aver esaminato molte fortificazioni moderne (cita Pesaro e la porta di Pisa a Lucca) e aver discusso
con esperti (ricorda Giovan Giacomo Leonardi29). Nel manoscritto, per
spiegare la brevità della parte dedicata all’artiglieria, Maggi scrive di discorrerne più ampiamente «ne’ libri di architettura»30, probabilmente quindi da
intendersi come un manoscritto preparatorio della princeps del Della fortificatione del 1564 o con altro materiale confluito poi in quell’opera. Nel libro,
diviso in 23 capitoli, si descrivono inoltre alcune «inventioni», come un
mulino mosso dalla trasmissione meccanica di un carro, in modo da poter
lavorare durante la marcia, ingegnose certo ma di impossibile applicazione per la tecnologia dell’epoca31. Il Maggi inoltre dichiara esplicitamente
di aver cercato una via autonoma rispetto ai precedenti trattatisti, come
Vitruvio e Valturio.
Nel 1552 fu incaricato dal duca Cosimo32 di seguire i progetti di for28
Ma ora studiato da J. R. Hale, Girolamo Maggi: A Renaissance Scholar and Military Buff, «Italian Studies», XL (1985), pp. 31-50.
29
Giovan Giacomo Leonardi (1498-1562) esperto in fortificazioni ed armi, sui quali temi
pubblicò alcuni trattati. Come Maggi, anche Leonardi fu amico di Aretino. Cfr. la voce
curata da V. Mandelli, in Dizionario biografico degli italiani, LXIV, Roma 2005, pp. 411-413.
30
c. 44v; cfr. Hale, Girolamo Maggi, p. 35.
31
Così correttamente osserva Hale, ivi, p. 36.
32
Ricordiamo che solo nel 1543 Cosimo aveva ottenuto la restituzione delle fortezze alla
città di Firenze e che quindi negli anni immediatamente successivi si pone la necessità di
una loro riqualificazione, anche alla luce della politica di espansione nel territorio toscano.
Per un quadro sintetico della figura di Cosimo I e delle trasformazioni politiche fiorentine nel Cinquecento è assai utile il volume di R. von Albertini, Firenze dalla Repubblica al
18
Una vita di studi
tificazione di Anghiari, nell’ambito di un più generale quadro di rafforzamento delle difese della Valdichiana in occasione del passaggio delle
truppe francesi, il che testimonia di un suo temporaneo ritorno in terra
toscana. Negli anni immediatamente successivi probabilmente esercitò la
professione giuridica nella sua città, ma è nota una sua visita a Bologna nel
1553 e probabilmente anche a Ferrara, durante la quale ebbe la possibilità
di presentare al duca Ercole un manoscritto, ritenuto perso ma che crediamo di poter identificare con il codice conservato nella Houghton Library
di Harvard, Della espugnatione della città; si tratterebbe, ipotizza lo Hale, di
una rivisitazione degli Ingegni composto nel 1551, per i quali ricevette in
cambio una collana d’oro33. Nel biennio 1556-5734, grazie ai buoni uffici
di Giacomo, Giulio e Vincenzo Vitelli, principi di Cisterna, fu giudice ad
Amatrice, nel territorio del Regno di Napoli.
Secondo il Trichet35 nel 1556 scrisse un opuscolo De veteri Etruriae
situ, che dedicò all’Angeli. Di quest’opera non si possiedono copie, ma
Trichet scrive d’averlo letto nella biblioteca reale svedese nell’anno 165236,
giudicandolo «dignum certe eius ingenio argumentum, sed in quo melius
se gessisset, si numquam in Pseudo-Berosum aliosque Annianos auctores
impegisset».
Nel 1560 si stabilì a Venezia, dove, secondo Bayle, lavorò come correttore di bozze nella bottega di Giordano Ziletti, ipotesi messa in dubbio
da Ferrari, il quale, pur non potendo negare assolutamente il fatto, non
esclude che il lavoro presso lo Ziletti si limitasse alla cura dei propri libri
che in quel mentre con lui andava stampando. Tuttavia va anche osservato
che il nome del Maggi compare almeno in un’altra edizione dello Ziletti,
ovvero nel De quadripertita iustitia dell’eremitano di Sant’Agostino Gaspar
Principato. Storia e coscienza politica, Torino1995, specialmente alle pp. 280-305; cfr. anche F.
Diaz, Cosimo I e il consolidarsi dello Stato assoluto, in Istituzioni e società nella storia d’Italia. Potere
e società negli stati regionali italiani del ‘500 e ‘600, a cura di E. Fasano Guarini, III, Bologna
1978, pp. 75-229.
33
Variarum lectionum, I, 14.
34
Ma tra il 1558 e il 1560, secondo Hale, Girolamo Maggi, p. 36 e Ferrari nella Presentazione
a Maggi-Castriotto, Della fortificazion, p. XVI.
35
Raphael Trichet du Fresne, in Maggi, De equuleo, Parigi 1659, c. A9r-v.
36
Tuttavia non risultano oggi manoscritti del Maggi nella Kungliga Biblioteket di Stoccolma. Cfr. M. Hedlund, Katalog der datierten Handschriften in lateinischer Schrift vor 1600 in
Schweden, Stockholm 1977-1980.
19
Lorenzo Carpanè
do Casal37, portoghese, nella quale si legge una lettera dello stesso al teologo Diego de Paiva; non si può quindi escludere del tutto che la collaborazione con il tipografo andasse oltre l’impressione dei propri libri. Né scioglie del tutto il dubbio lo stesso Maggi, che nelle Variarum lectionum ricorda
di aver incontrato l’umanista fiammingo Arnoldo Arlenio, che collaborò
con il tipografo Lorenzo Torrentino a Firenze, e dice quindi «mensibus
superioribus cum apud Iordanum Ziletum bibliopolam essemus» (c. 207r).
Il che, appunto non chiarisce quale ruolo colà avesse il Maggi, ma indica
quantomeno che prima dell’ottobre del 1563 (data della dedicatoria), Maggi aveva comunque rapporti con il tipografo veneziano.
È forse da scrivere a quegli anni la conoscenza con Giambattista Giraldi Cinzio, verso il quale Maggi dichiara amicizia e ammirazione. Nelle
note alle Vite di Emilio Probo (come vedremo qui sotto), egli infatti dichiara (p. 9):
Sententiam hanc, fixam adeo ut convelli disiicique non possit, tum ex
supra dictis existimo, tum quod Ioannis Baptistae Giraldo, Poetae atque Oratori percelebri, inque humanioribus literis magni, ut nemo ignorat, nominis
placuerit. Amici enim viri, cui plurimum debeo, et quem aetate nostra ab
omnibus, ob virtutes eruditionemque incomparabilem suspici animadverto,
tantum iudicio tribuere soleo, ut me cum eo semper benedicere, et rationi
consentanea loqui confidam.
Nel 1562 uscirono a Basilea i cinque libri De mundi exustione, già conclusi tuttavia nel maggio del 1560 («Kal. Iun. 1560» è infatti datata l’«epistola nuncupatoria», cc. α2v-4r). Nella stessa epistola dedicatoria Maggi
tuttavia ricostruisce anche le fasi di ideazione di questo lavoro, nato, egli
scrive, il secondo anno che si trovava a Pisa per studiare la legge (e quindi
dobbiamo supporre circa meta degli anni Quaranta) quando, «tunc sidere
anni flagrantissimo» nacque una discussione tra lui e altri due personaggi
altrimenti ignoti, Matteo Dottori e Guido Morgalanti. In breve scrisse un
opuscolo, che negli anni successivi, a Bologna e poi a Venezia, fece leggere
a vari amici, tra i quali Girolamo Ruscelli. Ma, scrive sempre il Maggi, lo
teneva «in promptu et ad manus», così che continuava ad aggiungere via
via nuove cose, fino ad arrivare a cinque libri.
37
G. Do Casal, De quadripertita iustitia libri tres, Venezia, Giordano Ziletti, 1563.
20
Una vita di studi
Quest’opera dunque tratta della fine del mondo, partendo tuttavia da
un primo capitolo in cui, citando numerosi autori antichi, spiega perché
«mundus an increatus sit, et aeternus»; centrale il terzo capitolo, nel quale
si sofferma sul perché l’universo sarà distrutto dal fuoco, mentre nei due
ultimi capitoli tratta rispettivamente dell’ordine che si avrà dopo il giudizio
universale e della resurrezione dei morti. Caso unico tra tutte le opere del
Maggi, il De mundi exustione ebbe anche una traduzione, in lingua francese,
curata da Louis de Serres e pubblicata a Lione nel 162838.
Nel 1563 per l’officina dello Ziletti escono le Variarum lectionum seu
miscellaneorum libri IIII39, dissertazione su diverse materie, che spaziano
dall’arte militare (e in particolare le bombarde), a questioni mediche e filosofiche, scritte, secondo quanto si legge nella dedica ad Adamo Konarskio,
ambasciatore di Polonia, su istigazione di vari amici, tra i quali il Sigonio,
che forse aveva già conosciuto in precedenza. Costui, secondo quanto scrive Maggi, lesse alcune parti del manoscritto, che giudicò degne di essere
pubblicate40. La lettera di dedica è datata Padova ottobre 1563, dal che si
può dedurre che, almeno in quel frangente, lì dimorasse.
Questo volume del Maggi si segnala per una serie di fattori: anzitutto
perché affronta vari argomenti che hanno suscitato nel tempo l’interesse
degli studiosi, come, ad esempio il passo di c. 84r, nel quale si sofferma
sull’origine delle due statue profiretiche poste all’angolo della basilica di
San Marco a Venezia, sostenendo la tesi che rappresentino due greci, Aristogitone e Armodio, e che servano per ricordare ai veneziani che la tirannia deve esser combattuta41.
Ma più interessante, dal nostro punto di vista, è, come si vedrà nelle
38
De l’embrasement du monde…, Lyon, Chez Antoine Pillehotte, 1628. Nella prefazione (c. ¶
6r), lo si definisce erroneamente lombardo («C’est ce docte personnage Hieronymo Maggio, que la Lombardie a donné à l’Univers»).
39
La stampa fu riemessa, senza mutazioni, l’anno successivo dalla medesima officina tipografica.
40
A c. a4r-v delle Variarum lectionum…, così infatti si legge: «Huic cum nonnulla ex his
libris memoriter, quo eius extorquerem sententiam, recensuissem, tantm abest, ut ille ea
improbaverit, ut ex eo, quod illi ostensum esset, exemplo reliqua perpendens, ut quam
primum praelo libros hosce in communem studiosorum utilitatem subdendos curarem,
hortatus sit».
41
Cfr. M. Perry, Saint Mark’s Trophies, «Journal of the Courtald and Warburg Institutes»,
XL (1977), pp. 34-45 (44-45).
21
Lorenzo Carpanè
Note al testo, la frequenza dei richiami testuali tra quest’opera e il De tintinnabulis, rispetto al quale quindi assume la funzione quasi di repertorio di
citazioni e fonte.
Al di là delle singole riprese, due sono i passi che segnano questa relazione. Il primo è il capitolo tredicesimo della prima parte (cc. 44r-48v), nel
quale, con l’occasione di commentare un passo di Aulo Gellio, si sofferma
su forma uso e funzioni degli strumenti a fiato: una sorta di prodromo a
quanto farà più tardi proprio con il De tintinabulis. Segno questo, evidentemente, di un interesse già maturato negli anni ’60 verso strumenti che
producono suoni funzionali anche nella vita comune e in quella militare.
Il secondo è il capitolo XIV della seconda parte, dedicato alle proprietà antidiaboliche del suono della campana: argomento che transita direttamente poi nel De tintinnabulis.
Per lo stesso editore nel medesimo anno vengono pubblicati i De fato
libri novem di Giulio Sireno, con una prefazione del Maggi, delle brevissime
perioche (in tutto tre pagine) e un componimento in dedica di 16 versi in
distici elegiaci. Anche in questo caso la prefazione fornisce qualche dato
interessante sulla biografia del Maggi, laddove, al principio, scrive che nei
mesi precedenti (siamo qui nel 1562) aveva avuto frequenti conversazioni
con Giovanni Donato (o Donà)42 e l’ottuagenario Giovanni Andrea Badoer, due personaggi piuttosto in vista nella Venezia dell’epoca, a testimonianza dunque di un relativamente rapido inserimento nell’estabilishment
veneziano. Certo è che, leggendo a posteriori la vita del Maggi, la curatela
di un’opera sul fato, per quanto tema assai comune al tempo, può risultare
in qualche modo profetica. Tanto più che la sintesi estrema dell’opera di
Iulius Sirenus è così proposta dal Maggi:
Totius vero operis huius praeclarissimi sumam est, Fato, hoc est inevitabili necessitate, Orbe in universo, fieri nihil. Omnia vero Fato, idest divina
sic moderante Providentia, evenire.
Nello stesso anno, nell’officina elvetica di Henricus Petri43, mandò
42
Su Giovanni Donà (1509-1592) cfr. la voce di G. Gullino, in Dizionario biografico degli
italiani, XL, Roma 1991, pp. 732-734.
43
Annotationes in Aemilium Probum De vita excellentium imperatorum Graecorum et Romanorum,
Basileae, per Henricum Petri, 1563.
22
Una vita di studi
alle stampe le annotazioni alle Vite dei principi e imperatori greci di Emilio
Probo, ovvero Cornelio Nepote, composte già nel 1560. Qui, nelle note
alla prefazione, dichiara di aver consultato, nella biblioteca del monastero
di Sant’Antonio a Venezia, un antico codice manoscritto insieme a Francesco Patrizi44 e di averlo collazionato, al fine dell’edizione, con la stampa
Aldina del 1512 e con l’incunabolo jensoniano del 1476. Ed in effetti, nelle
annotazioni, non manca di segnalare qua e là le varianti tramandate dai
diversi testimoni.
Nel 1564 diede alle stampe il trattato sicuramente più famoso, quel
Della fortificatione delle città, scritto insieme a Giacomo Castriotto, un anno
dopo la morte di costui; la successiva edizione del 1583-84 ricomposta tipograficamente è immutata nei contenuti e nelle illustrazioni. Ferrari, nella
sua introduzione alla ristampa anastatica della seconda cinquecentina45, ha
rilevato l’esistenza di una sola edizione databile più precisamente 1584,
ma uscita in diverse emissioni caratterizzate da varianti nelle sole carte
iniziali e nella data (alcune copie recano 1583 sia nel colophon che nel
frontespizio, altre 1583 nell’uno e 1584 nell’altro, altre ancora solo 1584) ,
ma dovendosi intendere, ci sembra correttamente, il 1583 quale indicazione more veneto, essendo la dedicatoria del gennaio. Nella prima edizione si
legge una dedicatoria del Maggi a Filippo II di Spagna e una del tipografo
a Eugenio Singlitico, «collaterale generale di Terraferma», che condividerà
con il Maggi la sorte in quel di Cipro, quale comandante della cavalleria.
Nel primo libro vengono trattate questioni generali di urbanistica, mentre
nel secondo entra nel vivo lo studio delle fortificazioni in generale; nel terzo si affrontano in modo particolare le fortificazioni d’acqua (le veneziane
fortezze «da mar»). Il trattato è ampiamente illustrato con incisioni di vario
tipo (disegni tecnico-geometrici, urbanistici, piante corografiche) e include
anche il Discorso sopra la fortificazione del Borgo di Roma di Francesco Montemellino e il Trattato delle Ordinanze, overo Battaglie di Gioacchino da Coniano.
Già Marini46 aveva evidenziato che la paternità intellettuale del trattato doveva andare al Castriotto, avendo Maggi contribuito con annotazioni
44
«Quamquam ego mox Venetiis in Bibliotheca Coenobii Divi Antonii in vetusto Probi
codice, una cum Francisco Patritio, ut eius pulcherrimae elucubrationes testantur, eruditissimo, perlegi» (p. 3).
45
Ferrari, Introduzione, pp. IX-X.
46
L. Marini, Biblioteca istorico-critica di fortificazione permanente, Roma 1810, pp. 18-22.
23
Lorenzo Carpanè
e commenti, fatto che De La Croix47 più recentemente ha confermato
e ancora più tardi, persuasivamente, Ferrari48, ha ribadito come a Maggi
sia toccata la cura letteraria dell’opera più che l’aspetto tecnico-grafico,
che invece doveva essere stato appannaggio del Castriotto, più anziano di
tredici anni (essendo nato nel 1510) e con alle spalle già una significativa
esperienza di ingegnere militare. In effetti, se si va a leggere il volume, le
parti esplicitamente attribuite all’uno o all’altro dei due autori sono molto
diverse: quelle del Maggi si caratterizzano per i richiami storico-eruditi,
quelle del Castriotto per i problemi tecnici lì affrontati. Di tutte le sue opere, si diceva, questa è la più nota, e ad essa si riferiscono i molti che citano
il Maggi tra gli storici e i bibliografi dell’arte militare, ma spesso corsivamente e che quindi non mette conto qui citare partitamente.
I giudizi via via formulati su quest’opera, pur diversificati, ne hanno
sempre messo in luce i limiti, tanto che Ferrari definisce Maggi «architettologo» piuttosto che «architetto»; così il coevo Galasso Alghisi nel Delle
fortificazioni (Venezia, 1570) esprimeva valutazioni molto critiche, mentre
Ferrari, pur dichiarandole eccessive, riconosce al Galasso una netta superiorità; per arrivare infine allo Hale, che è a tratti fin sarcastico nel demolire
le pretese invenzioni di Maggi, ma che correttamente inserisce questo trattato nella ricca tradizione di trattati d’arte militare usciti dai torchi italiani
e soprattutto veneziani e, viceversa, ne sottolinea la novità nello specifico
degli studi sulle fortificazioni, potendosi all’epoca contare solo due altri
trattati, quello di Giovanni Battista Zanchi del 1554 e di Giacomo Sentieri
del 1557 (oltre ad un vecchio di Dürer). Dal canto suo De La Croix49 mette
in evidenza come la città fortificata di Maggi e Castriotto sia pensata più
per scopi militari che civili: perfino le porte d’accesso «are treated as traffic
traps rather than means of entry». Verrier50 mette in luce come Maggi sia
da ascrivere a quella corrente di pensiero che, insieme ad un personaggio
come Raymond de Fourquevaux, accanto al modello romano di fortificazione utilizza anche quello turco.
47
H. De La Croix, Military Architecture and the Radial City Plan in Sixteenth Century Italy, «Art
Bulletin», XLII (1960), IV, pp. 263-290 (279).
48
Ferrari, Introduzione, pp. IX, XII.
49
De La Croix, Military, p. 285.
50
F. Verrier, Les armes de Minerve. L’Humanisme militaire dans l’Italie du XVIe siècle, Paris 1997,
p. 210.
24
Una vita di studi
Questo trattato tuttavia assicurò grande notorietà al Maggi, tanto che
intorno al 1570 divenne ingegnere militare al servizio della Serenissima,
potendo contare sull’appoggio di Giovanni Donà (membro del Consiglio
dei Dieci), di Michiel Marchiò e di Sforza Pallavicino, Governatore Generale, che approvò le sue idee in fatto di difesa dell’isola di Cipro, consistenti nella necessità di rinforzare anche le difese a terra, oltre che la flotta. Va
anche ricordato che il conflitto con i Turchi rivestì un ruolo fondamentale
non solo sul piano militare e politico, ma anche su quello, ancora più profondo, della weltanschauung dell’epoca, sia nella dimensione più apertamente culturale che in quella psicologica51.
Nel febbraio di quell’anno il Consiglio dei Dieci deliberò di mandarlo
a Cipro, partenza che avvenne nel marzo, dopo alcune settimane di intensi
preparativi, durante i quali il Maggi si occupò sia degli aspetti organizzativi
che di questioni tecnico-militari, che riassunse in un memoriale di 20 carte
(Ricordi per la difesa e conservazione della citta di Famagosta 1570) che consegnò,
teste una nota nel ms. stesso, direttamente nella mani del Cancelliere del
Consiglio dei Dieci52, nel quale Maggi asserisce anche di non aver avuto
tempo sufficiente per allestire dei modelli. Hale ipotizza inoltre che Maggi
abbia accettato l’incarico per motivi economici, portando a testimonianza
la provvigione di 400 ducati l’anno che gli fu assegnata, con una congrua
prebenda ai figli (200 ducati) in caso di morte, come il Maggi stesso scrive
nella prefatoria ai Consiliorum del Socini:
Siquidem finem de rebus meis et agendi et cogitandi nunquam fecisti,
quoad me et honestissimo equestri titulo ornatum, et aureos nummos quadringentos, dum vixero, ac demum, me mortuo, filiis meis, quandiu fuerint
mihi superstites, ducentos, Senatus decreto in singulos annos, opera tua concessos videris53.
51
Su quest’aspetto cfr. J. R. Hale, From Peacetime Estabilishment to Fighting Machine: The Venetian Army and the War of Cyprus and Lepanto, in Il mediterraneo nella seconda metà del ‘500 alla luce
di Lepanto, a cura di G. Benzoni, Firenze 1974, pp. 163-184.
52
Hale, Girolamo Maggi, pp. 40-41. I Ricordi si conservano nell’Archivio di Stato di Venezia (d’or a in poi ASVe, Consiglio dei X, Codici, n. 109. Sulla questione torna ora con ulterori
acquisizioni M. Dal Borgo, Le «inventioni militari» di Girolamo Maggi per la difesa di Famagosta,
in I Greci durante la venetocrazia: uomini, spazio, idee. Atti del Convegno internazionale di Studi,
Venezia 3-7 dicembre 2007, Venezia 2009, pp. 397-408.
53
Le parole del Maggi trovano conferma nelle deliberazioni del Consiglio dei X: ASVe,
25
Lorenzo Carpanè
Da queste parole si può inoltre trarre conferma che fu in quello stesso
frangente che, su proposta del Donà, Maggi, come già si è visto, venne
nominato Cavaliere di San Marco54.
I Ricordi, che contengono molte illustrazioni di macchine belliche e di
altri strumenti atti a migliorare la capacità di difesa, partono da un esame
della situazione a Cipro, molto critica per i limiti strutturali delle fortificazioni e per il prevedibile grande numero degli assalitori. Maggi si sofferma
inoltre sul possibile uso di veleno, sia contro gli animali che contro gli uomini. La conclusione («happy dream» la definisce Hale55) è che se nel numero inferiori, i veneziani potevano resistere con l’ingegno e le invenzioni.
Prima di partire per Cipro Maggi fece in tempo a curare l’edizione dei
Consiliorum di Mariano e Bartolomeo Socini, uscita alle stampe nel 1571,
quando egli era già nell’isola. Si tratta di un’opera in quattro volumi, dei
quali il Maggi dice di voler procurare una nuova edizione emendata dai numerosi errori delle precedenti «ex vetustorum exemplarium collatione, et
castigationibus». Le annotazioni si limitano, come egli stesso avverte della
dedicatoria, ai primi due libri, in quanto, egli scrive (c. *2v):
maiorum districtus negotiis, hanc provinciam deserere coactus sum. Il�lustrissimi enim Senatus Veneti iussu, in Cyprum, ut Reip. Operam pro virili,
hoc Turcici belli tempore navarem, eram navigaturus.
Al Maggi si devono anche le Adnotationes collocate alla fine del quarto
volume, composte invero di sole nove carte e naturalmente la dedicatoria,
senza data, nella quale, come già si è osservato, per la prima volta egli si
firma come «Cavaliere di S. Marco» («Eques D. Marci»).
Lo sbarco a Cipro è probabilmente da ascrivere al 25 maggio 1570,
Consiglio dei X, Secreta, Deliberazioni, reg. 9, cc. 56v-57v, su data 23 febbraio 1570.
54
La concessione è registrata alla data del 10 aprile 1570. Cfr. Privilegium Militiae Hieronimi
Magii, ASVe, Cancelleria inferiore, n. 1, f. 174, c. 36. Va ricordato che Giovanni Donà, per la
seconda volta, nel biennio 1570-1571 entrò a far parte del Consiglio dei X (cfr. Gullino,
Donà, p. 733).
55
Cfr. Hale, Industria del libro. Ma per un quadro della situazione generale a Cipro si veda
dello stesso L’organizzazione militare di Venezia nel ‘500, Roma 1990 (trad. it. di The military
Organization of a Renaissance State. Part II: 1509-1617, Cambridge 1984, pp. 212-501).
26
Una vita di studi
quando Marcantonio Bragadin56, capitano del Regno di Cipro, scrive ai
Dieci dell’arrivo appunto del Maggi con tutta la sua attrezzatura57. Maggi
giunse a Cipro quando era del tutto evidente, anche alla stessa Repubblica
e a tutti coloro che erano chiamati alla tutela dell’isola, che di fatto era indifendibile: come ormai è ampiamente documentato58, le protezioni tanto di
Nicosia quanto di Famagosta erano antiquate e insufficienti e le spese per
il loro ammodernamento oltre le possibilità della Serenissima.
Poiché il Bragadin aveva ricevuto richiesta di materiali (veleni, polvere da sparo) da Nicosia, vi mandò Maggi per spiegarne l’uso che egli
aveva escogitato, salvo poi nell’ottobre, caduta Nicosia (sotto assedio dal
25 luglio), richiamarlo subito a Famagosta, dove si adoperò con zelo per la
difesa della città ormai sotto assedio (dal 25 febbraio 1571), come scrisse
in una lettera a Giovanni Donà del 20 di quel mese e come gli riconobbero anche il vescovo di Famagosta in una lettera indirizzata a Venezia e
Nestore Martinengo (un soldato di professione sfuggito fortunosamente
alla cattura), nell’Assedio e presa di Famagosta59 ma anche in una relazione manoscritta60. In quei mesi, insieme anche all’ingegnere Giovanni Mormoni,
contribuì a rafforzare le opere di difesa e si diede anche all’invenzione di
strumenti utili a gettare fuoco contro gli assedianti61. Nonostante la situazione difficile, riuscì comunque a proseguire gli studi, tanto che proprio
allora per la prima volta lesse Esichio (De tintinnabulis, cap. X).
A conclusione del lungo e sanguinoso assedio, dopo che erano state
esaurite le scorte di viveri e di polvere da sparo, Bragadin il 5 agosto del
1571 consegnò le chiavi della città ai Turchi. Rompendo i patti stabiliti
(per una probabile strage di prigionieri perpetrata dallo stesso Bragadin),
Mustafà Pascià ordinò l’arresto di tutti i cristiani, tra i quali anche Maggi.
Costui, secondo quanto correttamente arguisce Lamberini62, riuscì a non
56
Sulla figura del Bragadin cfr. la voce di A. Ventura, in Dizionario biografico degli italiani,
XIII, Roma 1971, pp. 686-689. Sulla fine del Bragadin e sugli ultimi giorni di Famagosta
cfr. la lettera di Giovanni Antonio Facchinetti a Girolamo Rusticucci del 5 dicembre 1571
in Nunziature di Venezia, vol. X (26 maggio 1571 – 4 luglio 1573), pp. 153-158.
57
Cfr. Hale, Girolamo Maggi, p. 45.
58
Cfr. Lamberini, Invenzioni, pp. 3-4.
59
Verona, Dalle Donne, 1572.
60
Ora nella Biblioteca Apostolica Vaticana, Ottoboniano 2604.
61
Cfr. A. M. Graziani, De Bello Cypro libri quinque, Roma, Alessando Zanetti, 1624, p. 181.
62
Lamberini, Invenzioni, p. 4.
27
Lorenzo Carpanè
farsi riconoscere quale inventore di molte delle macchine di difesa usate
durante l’assedio e quindi in tal modo a salvare momentaneamente la vita.
Da Famagosta fu condotto come schiavo a Costantinopoli insieme ad altri
prigionieri (quali Angelo Calepino) sorpreso, come egli stesso scrive «vix
enim tunicatus»63, ma potendo comunque portare con sé qualche libro,
tra i quali le opere di Eschilo e di Aristofane. Nei mesi che seguirono, pur
potendo disporre di questi pochi dei suoi libri, nonostante, appunto fosse
stato ridotto in schiavitù al servizio del comandante di una nave mercantile, al quale era stato venduto, costretto, insieme ad altri, a svolgere i lavori
più faticosi, riuscì comunque a portare a termine alcune opere letterarie,
quali il De tintinnalibus e il De equuleo, su uno strumento di tortura; entrambi
editi postumi, su di essi rinviamo alle pagine seguenti.
Lo Swerts elenca anche una serie di opere che sarebbe giaciute inedite
in mano agli eredi: In bucolica P. Virgili Maronis; De antiquorum prandis et coenis, Anotationes in A. Gellium; Hortorum libros; De machinis ex Heronis libro; De
urbium architectura; Necroptaphologia seu de sepulchris et sepeliendi ritu; Miscellaneorum lib.IV; Misopugisias lib. V; Lexicon iuris, Annotationes in Institutiones Iuris,
Ad L. Iuliam de adult. L. cum vir nubit; Apophyades ad Budaei annotationes in
Pandectas, oltre a De urbium expugnatione e De urbium propugnatione in volgare.
Ma è in effetti lo stesso Maggi a fare un elenco di sue opere ancora
manoscritte nelle pagine conclusive del De mundi exustione (cap. XIII, pp.
217-218), già quindi al principio degli anni ‘60:
Nunc autem, si vobis, studiosisque permultis, labores meos probari
animadvertero, annotationes in Iustiniani institutiones, in A. Gellium, in Aemilium Probum, in Aristotelis Meteor. Libros, ad Budaei opera Appendices,
libros de Machinis, de Urbium architectura ex expugnatione, de Sepulchris
et sepeliendi ritu, Miscellaneorum, miso(p)ugisias, De serpentum temperamento & veneno, aliisque de rebus, typographis excudendos, invulgandosque praebebo.
Trichet a sua volta scrive:
opusculum suum dicavit amicissimo sibi viro Petro Angelio Bargaeo
an. 1556 cuius exemplar propria, ut videbatur, auctoris manu descriptum
63
De Tintinnabulis, p. 15, cap. I
28
Una vita di studi
legimus Stocholmiae, cum ibi anno 1652 regiae bibliothecae post Naudaeum
praefecti essemus.
cia.
Manoscritto del quale, come abbiamo giù visto, non si conserva trac-
Mentre era prigioniero Maggi non rinunciò a tentare di ottenere dai
suoi protettori i mezzi per potersi riscattare, senza però esito alcuno. A
questo proposito, una testimonianza molto interessante è riportata nella
stampa del De equuleo (pp. 45-46), dove si pubblica una lettera dello stesso
Maggi, indirizzata al Commissario della chiesa di San Giacomo racconta
di come si svolgeva la vita in casa del suo padrone, ma soprattutto ci fa
intendere i maneggi tentati per liberarsi:
Si more nationis magnam petat pecuniam, quid sit respondendum nosti. Ad haec scias me illi iam in Mahona dedisse ducatos 60 Venetos argenteos, ut si inter constituendum pretium illum alloquaris, nuntio minime intelligente, possis ei dicere, et illud addere, me non esse pugnando ab eo captum,
deo no debere ad vivum secare, cum sim pauper, omniaque Cypri amiserim.
Come si nota, Maggi tenta di far valere tre argomenti: che aveva già
dato 60 ducati d’argento come una forma di acconto per il prezzo della sua
liberazione; che comunque egli non era ricco, ma anzi povero, dal momento che aveva perso tutto a Cipro. E, soprattutto, che era stato catturato da
non combattente. Nel seguito della lettera aggiunge anche che false erano
le voci messe in giro da qualche altro schiavo che egli sarebbe stato ricco.
Ma dalla lettera emerge anche la delusione verso l’ambascatore, «minime intelligente»; e pertanto, forse deluso da ciò, tentò la fuga, rifugiandosi nella sede dell’ambasciata imperiale alla Porta Ottomana. Prelevato,
per aver violato la legge, fu ucciso per strangolamento probabilmente il
27 marzo del 1572: «strangulatus» testimonia infatti il Manlius64, che, poi
anche aggiunge:
Martii nocte diei Iovis necatur in carcere Hieronymus Magius eques,
doctissimus, tormentarius magister (ingegnero) Famagustae captus, ac imprudenti ambitione in nostram Caravassaram ductus. Postridie ostenditur
64
Testimonianza citata da Seget in Maggi, De e quul e o , p. 15. Si tratterebbe, sempre secondo Seget, di note manoscritte apposte dal Manlius sul codice autografo del De equuleo.
29
Lorenzo Carpanè
cadaver eius Dominico Dragomanno65 (sed non sine colli notis) ac sepelitur
in sepulchreto Schiavorum Mahometis Bassae.66
Questa sua fine lo fece da qualcuno intendere come martire, come
in effetti venne classificato nel De SS. Martyrum cruciatibus del Gallonio67.
Questa sua fine ha lasciato perplessi già gli antichi biografi, che hanno
proposto diverse soluzioni. Per il Trichet quello della tentata fuga può anche essere stato un pretesto o una buona occasione per colpire un efficace
avversario dei Turchi, ragione che spiegherebbe anche il particolare dell’esposizione pubblica del corpo prima dell’inumazione; de Thou (che fu in
corrispondenza con lo Sweerts68), invece, vede una responsabilità di chi,
Venezia inclusa, non volle pagare il prezzo del riscatto69; Bayle attribuisce
la responsabilità a Maggi di aver esibito eccessivamente la sua amicizia con
i due ambasciatori; Gabrieli70 accoglie sostanzialmente entrambe le tesi.
Ciò che è certo è che il Noailles aveva mandato di stringere i tempi per un
accordo con i Turchi, come in effetti avvenne e come fece la stessa Venezia poco tempo dopo. Una situazione, quella dei rapporti con i Turchi,
peraltro, piuttosto fluida, nella quale Venezia è non sempre in sintonia con
le iniziative dell’ambasciatore francese a Costantinopoli, il de Noailles71.
Fluida, la situazione, mai limpida, nella quale, al di là delle dichiarazioni
65
Una nota a margine spiega che si trattava dell’interprete.
Maggi, De equuleo, p. 15.
67
A. Gallonio, De SS. Martyrum cruciatibus, Roma, Tipografia della Congregazione dell’Oratorio, 1594.
68
Lettere di questi al de Thou a Parigi Bibliothèque National, 632.
69
Da valutare sarà anche il fatto che ci furono sicuramente anche delle iniziative per così
dire private vlte alla raccolta di fondi per il pagamento del riscatto di persone rimaste
prigionieri dei Turchi. Ne è prova, ad esempio, una lettera di Agostino Valier a Carlo Borromeo dell’8 maggio 1571, quindi a seguito della presa di Nicosia, dove si fa riferimento
all’iniziativa appunto di Troilo Zappo, cui diede un contributo anche lo stesso Valier, il
quale annuncia peraltro al Borromeo anche che lo Zappo era in procinto di partire per Milano, dove contava di poter raccogliere altri fondi presso lo stesso Borromeo (Biblioteca
Ambrosiana di Milano, F.86 inf. c. 186r: il testo è leggibile nel sito http://epistolariosancarlo.ambrosiana.it).
70
V. Gabrieli, Il cavaliere di S. Marco Girolamo Maggi, «La Cultura», XXXIII (1995), pp. 417432.
71
Cfr. Nunziature di Venezia, vol. X (26 maggio 1571 – 4 luglio 1573), a cura di A. Stella,
Roma 1977, pp. XXVII-XXVIII.
66
30
Una vita di studi
ufficiali, il sottobosco affaristico poteva continuare a prosperare anche
nei momenti di massima tensione, popolata com’era la Costantinopoli del
tempo da Veneziani, Turchi, Greci, cristiani, ebrei, musulmani, rinnegati
d’ogni sorta, schiavi, spie e tutto ciò che faceva della città un autentico
crogiolo72.
Ma è forse proprio a causa della sua morte in qualche modo eroica, conobbe una certa notorietà postuma, come testimoniato anche dalla
menzione che ottiene nel Mambrino Roseo73, oltre che nelle relazioni redatte
su quella guerra74.
Arduo è sicuramente formulare un giudizio su un personaggio così
poliedrico come il Maggi; riduttivo sembra quanto scritto da Gabrieli75, per
cui la preferenza per i «temi eruditi, asettici, accademici» è da spiegare con
«il clima di religioso conformismo prevalente allora in Italia e culminante
per la Controriforma» e ingeneroso sembra definirne «alla don Ferrante»
la cultura. Hale, uno dei massimi studiosi di storia militare, correttamente,
come si è detto, ne mette in luce i limiti in questo settore, così come fa
anche Lamberini. Di certo ebbe una vasta cultura umanistica, testimoniata
non solo dalle opere sopravvissute, ma anche da quelle delle quali abbiamo
soltanto i titoli. Né si dimentichino a questo riguardo le note che si leggono a margine di un esemplare delle tragedie di Euripide conservato alla
British Library (come attestato da una nota ms. sul verso della guardia ant.:
«Le varianti lettioni nella margine sono della mano di Gieronimo Maggio,
l’autor del libro Variarum lectionum e d’altre cose»): oltre a riportare varianti da altri manoscritti definiti «antichi», le note propongono anche passi
paralleli di Virgilio. Erroneo senz’altro sarebbe giudicarlo sulla base solo
degli scritti di natura militare, gli unici, come si diceva, di fatto studiati dalla
critica, mentre del tutto ignorati risultano tutti gli altri e tra questi anche il
De tintinnabulis, sul quale cerchiamo qui di gettare un po’ di luce.
72
Per un quadro della presenza veneziana nella prima età moderna rinviamo a E. R. DurVenetians in Constantinople: Nation, Identity, and Coexistence in the Early Modern Mediterranean, Baltimore 2006.
73
Cfr. G. Tarcagnota, Delle istorie del mondo… con l’aggiunta di Mambrino Roseo…, In Venezia,
Appresso i Giunti, 1585, IV, p. 386.
74
Cfr. ad esempio G. Sozomeno, Relazioni delle presa di Nicosia, ms. della Biblioteca Oliveriana di Pesaro, nonché il Bellum Cyprium di Pietro Bizzarri.
75
Gabrieli, Il cavaliere di S. Marco, p. 419.
steler,
31
Introduzione
«Vix enim tunicatus»: Girolamo Maggi e il suo trattato sulle campane
Durtal s’approcha; cette bibliothèque paraissait
surtout composée d’ouvrages sur les cloches; il lut des titres:
sur un très antique et très mince volume en
parchemin, il déchiffra une écriture à la main,
couleur de rouille: «De tintinnabulis», par Jérôme Magius [...]
J. K. Huysmans, Là-bas, Paris 1896, pp. 56-57
Nel 1608 ad Hanau, nella regione tedesca dell’Assia, Frans Sweerts, letterato olandese di Anversa, pubblica un trattato latino sulle campane,
composto, molti anni prima ed in un luogo tutt’affatto diverso, da Girolamo Maggi, cittadino di Anghiari, nel ducato mediceo. Come vedremo
più avanti nella Biografia, costui, incaricato dalla Repubblica di Venezia di
rafforzare le difesa di Famagosta, nell’agosto 1571 si trovò nell’isola al
momento della conquista da parte dei Turchi, che lo condussero come
schiavo a Costantinopoli insieme ad altri prigionieri. Nei mesi di prigionia,
che si protrasse fino all’esecuzione della pena capitale, egli ebbe tempo di
comporre il De tintinnalibus, oltre che un altro trattato, il De equuleo, su uno
strumento di tortura particolarmente brutale: due scritti che hanno goduto di una certa fortuna nel corso dei secoli, anche se per motivi alquanto
differenti, tanto che uno dei due, quello sulle campane, giunse in qualche
modo fino sul tavolo da lavoro di Huysmans.
La storia dei due trattati, intrecciata dunque fin dall’origine, rimane
legata anche nel momento della stampa, che avviene nella medesima città,
Hanau appunto, e dai medesimi editori, a distanza di un solo anno. Tuttavia, se del secondo saggio si conservano solo le edizioni a stampa, del
primo abbiamo la fortuna di possedere l’autografo, con alcune note dello
stesso Sweerts, conservato nell’Istituto Musicale Olandese dell’Aia.
33
Lorenzo Carpanè
Descrizione del manoscritto
Den Haag, Nederlands Muziek Instituut, 10.K.46
Ms. cartaceo sec. XVI (1572), legatura in perg., pp. 88 numerate a
penna, [10]. La carta porta filigrana, forse una corona (v. foto). Nota di
possesso sul margine sup. di p. 1: «Collegii Societat.is IESU Gandavii / M
7».
Sono leggibili due mani, una di Maggi, l’altra probabilmente dello
Sweerts, con inchiostro più chiaro, recante alcune aggiunte, cancellature
e correzioni. La mano del Maggi è calligrafica, con pochi errori e ripensamenti, mediante delle rasure; l’impostazione grafica del testo ricorda da
vicino quella dei testi a stampa, anche nella composizione della pagina
e nella grafia riproducente ora il corsivo (con cui è scritto il testo) ora il
carattere tondo (titoli dei capitoli), ma soprattutto è coerente con l’usus del
Maggi, che, in forme del tutto simili, allestisce anche altri manoscritti, tra i
quali ricordiamo Harvard, Houghton Library, ms. Typ. 261, La prima parte
della espugnatione delle città e fortezze e Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale,
Palat. 464, Ingegni, et inventioni militari76. Viene inoltre introdotto il titolo
corrente («Praefatio»; quindi, su tutte le pagine «Liber de tintinnabulis»)
e si fa uso anche dei richiami (solo nel verso). Il testo è accompagnato da
numerosi disegni a penna, che illustrano i diversi tipi di campane; all’inizio
di ogni capitolo iniziale parlante o ornata.
Il testo si presenta abbastanza pulito, con solo poche correzioni ad
opera dello stesso Maggi. Sono inoltre leggibili, come si diceva, varie note
marginali, sottolineature, cancellature fatte con inchiostro più chiaro, appartenenti ad una seconda mano, probabilmente dello Sweerts. L’attribuzione di tali minimi interventi si può ipotizzare sulla base dell’osservazione che esse, per buona parte, confluiscono poi nel testo a stampa. In
particolare ragguardevole ci sembra il caso di quelle glosse marginali del
manoscritto che indicano la fonte del passo citato, che per buona parte
confluiscono nel testo77.
76
Ringrazio Daniela Lamberini per la segnalazione, oltre che per tutta una serie di preziosi
suggerimenti sulla figura del Maggi, che renderà noti in un saggio sul Maggi architetto
militare, in corso di stampa negli atti del convegno di Lione.
77
In realtà, come si diceva così sempre non è, come le note contenute a p. 16 del ms., che
34
Introduzione
Contenuto:
p. 1: frontespizio: [insegne reali: aquila bicipite coronata] / HIERONYMI
/ MAGII / DE TINTINNABVLIS, / SIVE CAMPANIS / LIBER, AD
/ Illustrissimum, & Ma- / gnanimum D. / CAROLVM RIIM / MAXIMILIANI SEP(TIMI) / Augusti Imp(er)atoris / ORATOREM BYZANTII.
[le ultime tre righe contornate da disegno]
Il testo da rigo 6 in poi è cancellato, con leggeri tratti penna più chiara,
dallo Sweerts. Il nome del dedicatario, inoltre, come anche alla successiva
p. 3, è scritto con inchiostro più chiaro, ma sembra della stessa mano.
p. 2: il verso del frontespizio doveva essere originariamente bianco: di
mano dello Sweerts ora si legge:
Illustriss.o et magnanimo / D. D. Carolo RYM / Maximiliani sempre augusti / Imp. Oratori. / Hieronymus Magius / S. D.
p. 3-10: [la prima riga entro disegno a fiorami] / HIERONYMI MAGII
/ PRAEFATIO IN / librum de Tintinnabu- / lis, siue Campanis; / AD
Illustrissimum, & Magna- / nimum D. D. Carolum / RIYM, / MAXIMILIANI SEMPRE AV= / GVSTI IMP. ORATOREM. / [inc.] P5LAVTVM Latinae / linguae auctore …
A rigo 7 accanto al nome “RIYM”, di mano dello Sweerts si legge “RYM”;
con una unica croce, sono cancellate tutte le righe del titolo.
pp. 11-: testo
pp. 11-21: De Tintinnabuli uoce, et quam uere / Ioannes Tortellius, atque
alii / Tintinnabula apud antiquos / fuisse negauerint. / CAPVT PRIMV(M)
pp. 21-24: De primo Tintinnabuli inuen- / tore. CAP. II.
pp. 24-30: De maioribus, publicisq(ue) antiquorum / Tintinnabulis. CAP.
III.
pp. 30-31: De Tintinnabulis sepulchri Porse- / nae Tuscoru(m) Regis. CAP.
IIII.
pp. 31-33: Quis olim usu esset tintinnabuli in / priuatis Romanoru(m) aedib(us). CAP. V.
pp. 33-36: An apud antiquos horae, ut hodie, / tintinnabuli sono distinguenon si trovano nell’equivalente p. 7 della stampa.
35
Lorenzo Carpanè
rentur. / Luciani locus antea obscurus de / claratus. CAP. VI.
pp. 36-38 : Deae Syriae sacerdotem uti consueuis: / se tintinnabulo. CAP.
VII.
pp. 38-42: Bruta quoque tintinnabuli abusu / non excludi. CAP. VIII.
pp. 42-44: De Tintinnabulis Hebraei sacer- / dotis. CAP. VIIII.
pp. 44-48 : Quis minorum Tintinnabulorum / publice olim apud antiquos
usus / esset. CAP. X.
pp. 48-52 : De Tintinnabulo eorum, qui ad / supplicium ducerentur, et /
triumphantis Imp(er)atoris. / CAP. XI.
pp. 52-54: De antiquorum tympano, quod tin- / tinnabula multa co(n)tinerent. CAP. XII.
pp. 54-57 : De superiorum seculorum castren- / si Campana. Accursii lo�
cus / declaratus. CAP. XIII.
pp. 58-63: De uirtute tinnitus aeris, & Tintinna- / bulorum. CAP. XIIII.
pp. 63-70: Tintinnabulis, Thurcarum, & Graeco- / rum templa carere. De
Symandro, / et Agiosydiro. CAP. XV.
pp. 71-76: De turribus, quae Tintinnabulis / dicantur. CAP. XVI.
pp. 76-78: Tintinnabulorum, siue Campanaru(m) / tinnitu hodie e templorum turribus, / quibusdam in urbibus musicos / concentus magna cu(m)
uolup- / tate exprimi. CAP. XVII.
pp. 78-79: De minorum Tintinnabulorum usu / apud principes uiros, et
magistra- / tus ciuitatum. CAP. XVIII.
pp. 80-83: De Tintinnabulis, quae aedium fori- / bus alligantur. CAP. XIX.
pp. 83-86: De Campanarum conficiendarum, / et suspendendarum arte, &
qua / ratione statere non magno / earu(m) pondus deprehendi / possit.
CAP. XX.
pp. 87-88: PERORATIO. / […] / [explicit] Libri Hieronymi Magii de /
TINTINNABVLIS, / Ad Illustrissimum Maximiliani / Imp. Oratorem
Byzantii, finis. / [fregio].
pp. [89-98]: [fregio] / RERVM, ET VERBORV(M) / MEMORABILIVM,
ET LOCORV(M), / quae in Auctoribus explica(n)t(ur), / INDEX. [su
due colonne]
p. [98 in fine]: fregio, ai cui lati: Kal. Jan. // 1572.
36
Introduzione
Storia del manoscritto
Nella prefazione alla prima edizione del De equuleo78, ma con tutta evidenza, si può allargare la testimonianza anche al De tintinnabulis, Maggi spiega
di aver scritto quel trattato di notte mentre era prigioniero dei Turchi in
seguito alla sconfitta di Cipro:
Nocturnis igitur horis, quas dominus Turca quieti indulgere solet (diurnis quo minus quidquam libero homine dignum praestare possim, variis gravissimisque laboribus impedior) in ergastulo utcunque hac de re commentarii ac scribere coepi […].
Il De tintinnabulis fu dunque dedicato a Charles Rym79, ambasciatore
a Costantinopoli dell’imperatore Massimiliano II con lo scopo, non esplicitamente dichiarato, ma del tutto evidente, di poter ottenere così il suo
aiuto per la liberazione dai Turchi. La dedica risponde probabilmente, per
così dire, anche a ragioni politiche: Massimiliano, non a caso, nel 1571 non
era entrato a far parte della Lega Santa contro i Turchi, con i quali egli
mantenne una linea di condotta non apertamente ostile, ed anzi tesa alla
ricerca di accordi volti a garantire una convivenza pacifica. L’attenzione
per il destinatario è desumibile anche ex silentio. Nella Prefazione (par. 8)
nell’elenco che Maggi propone delle proprie opere mancano i Cinque libri
delle guerre di Fiandra, non solo, è lecito supporre, perché l’unica a carattere
esclusivamente letterario, a fronte delle altre citate che hanno invece dimensione erudita, o perché opera giovanile e in qualche modo acerba, ma
anche perché vi si leggevano le imprese di Carlo V contro i fiamminghi:
ricordarle proprio ad un fiammingo sarebbe stato, di certo, operazione
poco accorta.
È da supporre che il manoscritto sia giunto a destinazione: non altrimenti, infatti, si spiega come il codice infatti finì in mano di Philibert Rym
da Gand, figlio di Charles e da costui, secondo lo Sweerts80 (come scrive
78
Hanau, 1609, p. 19.
Su Charles Rym cfr. Biographie nationale, Bruxelles 1866-1986, vol. XX (1908-1910), coll.
677-680.
80
Lo Sweerts, fiammingo (1567-1629), fu a sua volta letterato, autore di Epitaphia iocoseria,
Colonia, 1623 e anche editore di alcune opere di Giusto Lipsio (come ad esempio Justi
Lipsii Flores, Erphordiae, ex Typographeo Philippi Witteli, 1625). Ma è noto anche come
79
37
Lorenzo Carpanè
nell’elogium anteposto all’edizione a stampa) fu poi donato ai Gesuiti di
Gand (dei quali, come si è visto, il manoscritto reca la nota di possesso),
che lo fecero quindi stampare con le note delle Sweerts nel 1608.
La storia del manoscritto, a questo punto si incrocia con quello, di cui
non abbiamo più traccia, del De equuleo, che fu dedicato all’ambasciatore
francese François de Noailles, le cui vicende sono in parte almeno descritte da Gottfried Jungermann81, filologo che per qualche tempo lavorò quale
correttore di bozze presso la tipografia Wechel di Hanau, per la quale curò
la stampa della princeps82: nella dedicatoria scrive di aver ricevuto, all’inizio
della primavera del 1608, dallo scozzese Thomas Seget (o Seghet, la grafia
è incerta nelle fonti), che gli aveva mandato perché fosse pubblicato, copia dell’autografo vergata dallo stesso Seget, avendo costui inteso che allo
stesso Jungermann già tempo prima era pervenuto dal Belgio il manoscritto di un’altra opera, il De tintinnabulis. Questo Seget83 era personaggio di indubbio interesse, per essere stato a vario titolo legato ad alcuni intellettuali
bibliografo: sua infatti è la Athena Belgica sive nomenclator infer. Germaniae scriptorum, Antverpiae, apud Gulielmum a Tungris, 1628. Su di lui cfr. Biographie nationale, XXIV, Bruxelles,
1926-29, coll. 362-367; sulla sua attività di bibliografo cfr. A. Serrai, Storia della bibliografia.
III. Vicende ed ammaestramenti della «Historia literaria», a cura di M. Cochetti, Roma 1991, pp.
308 ss.
81
Una testimonianza, ancora per quanto sappiamo ignota dei legami tra lo Jungermann e
l’Italia, è data da una lettera dello stesso a Scipione Gentili senza anno, conservata nella
Biblioteca Universitaria di Leida, con segnatura BPL 246 e da un’altra, ancora dello
Jungermann al Gentili, nella Biblioteca Universitaria di Utrecht, Hs 987. Sullo Jungermann cfr. la voce di C. Bursian, in Allgemeine Deutsche Biographie, XIV, Berlin 1969, pp.
709-711.
82
Il manoscritto autografo, per quanto ci è dato sapere, non ci è pervenuto. Tuttavia lo Jungermann, nelle note che seguono il testo (da p. 54 a p. 88), più volte lo richiama, fornendo
anche, a p. 55, una sorta di trascrizione facsimilare del frontespizio. Già nel testo (p. 40),
con una lunga nota, spiega che la parte finale del ms., per essere stata scritta corsivamente,
risultava di difficile lettura, se non anche in qualche caso impossibile, ragion per cui indica
con puntini di sospensione le parti non lette. Il Maggi stesso, infine, dovette apporre delle
note a margine, che il curatore riproduce fedelmente.
83
T. A. Birrel, English monarchs and their books: from Henry VII to Charles II, London 1987,
pp. 48-50. Sul Seget cfr. anche l’introduzione di J. Purves a W. Fowler, The Works, vol. III,
Edinburgh & London 1940, pp. cxxxii-cxxxv e soprattutto O. Odlozilik, Thomas Seget, a
Scottish friend of S. Szymonowicz, «Polish Review», XI (1966), pp. 1-37; R. Ferro, Federico Borromeo ed Ericio Puteano. Cultura e letteratura a Milano agli inizi del Seicento, Roma 2007 (soprattutto il cap. II.1: Puteano e Thomas Seghet: due lipsiani a Padova, pp. 65-70, dove si può leggere
anche una aggiornata bibliografia degli studi sul Seget).
38
Introduzione
di grande rilievo, come Giusto Lipsio84, Galilei, Castelvetro85 e per aver
avuto una vita avventurosa che lo aveva anche portato in carcere a Venezia
nei primi anni del Seicento. Nel 1607 risulta essere stato ad Hanau, città
che al principio del secolo divenne luogo di rifugio per molti riformati,
dove pubblicò un libro di versi presso lo stesso Aubrius che impresse il
libro di Maggi.
Non è certo che si trattasse dello stesso manoscritto usato dallo Sweerts (del quale Jungermann si dichiara amico e imitatore86): il filologo tedesco scrive infatti di aver avuto l’intenzione di pubblicare entrambi i testi,
ma di essere stato impedito prima da altri impegni, poi da una lunga malattia87. Trichet scrive invece che il manoscritto era stato donato dallo stesso
Maggi ad Arnoldus Manlius, medico di Gand, il medesimo che avrebbe
visto il Maggi morto, leggendo forse erroneamente quello che scrive lo
Jungermann a proposito del manoscritto del De equuleo88. Questo trattato
è stato comunque lasciato incompiuto dal Maggi, probabilmente a causa
proprio della morte: all’inizio del capitolo XII il testo si interrompe, dopo
di che, come si avverte nelle stampe, nel manoscritto si leggono solo poche note corsive, spesso anche di difficile lettura, ma che fanno pensare
che l’opera si dovesse estendere per un numero più o meno equivalente
84
Due lettere di Seget a Giusto Lipsio nella Biblioteca Universitaria di Leida, LIP 4.
Più che a Ludovico Castelvetro, è probabile che si debba intendere il nipote Giacomo
(1546-1616), che soggiornò a lungo (e poi vi morì), in Inghilterra, ma che trascorse anche
parecchi anni tra Germania, Danimarca, Svezia. Cfr. la voce di L. Firpo, Dizionario biografico
degli italiani, XXII Roma 1979, pp. 1-4.
86
Nella dedicatoria del De equuleo, impresso dai medesimi tipografi nel 1609, lo Jungermann
scrive infatti: «Certe Notulas nostras eominus superfluas plane fore spero: quod in altero
Magii libello, qui de Tintinnabulis est, praeclara doctrina et amicus vir Franc. Sweertius,
similem operam ponere voluerit: cuius exemplum, cur enim negem, imitari volui, non tam
certandi cupidus, quid enim meas naenias cum ipsius doctis dictis comparem, quam propter amorem» (pp. 9-10).
87
«Iam quum aestate preaterita diu feriaremur, seriusque ob quasdam difficultates et iniecta
impedimenta eximius typographorum nos ad pensum redire iuberet, operarum penuria
insuper accedente, vix potuimus, tam iniquo temporis spatio circumscripti, unum atque
alterum libellum maxime ad scholarum usus necessarius deinceps exsculpere» (pp. 4-5).
88
In una lettera datata da Colonia 7 marzo 1608 (e pubblicata nella medesima edizione del
De equuleo, pp. 14-15), lo Jungermann infatti cita una nota che si trovava in principio del manoscritto in suo possesso, nella quale il Manlius avrebbe scritto: «Hunc librum mihi reliquit
D. Hier. Magius paucis post diebus ab impio Mahomete Bassa strangulatus. Const. 1573».
85
39
Lorenzo Carpanè
di pagine89.
Comunque sia, è evidente che lo snodo per i manoscritti del Maggi
è la città di Gand, in Belgio, da dove, per vie che non conosciamo, giunse
alla attuale destinazione dell’Aia.
In tutto ciò, di fronte ad una serie di possibilità, vi sono alcune certezze: che il manoscritto sia transitato dai Gesuiti di Gand (dei quali si legge
la nota di possesso), che la curatela dell’edizione sia dello Sweerts, cui, per
le ragioni che vedremo, sono da attribuire anche le note apposte al ms.
89
Nell’ed. 1689 a p. 231, si legge la seguente nota, preceduta da un asterisco. Tale asterisco,
come avverte più avanti lo Jungermann a p. 252, fu apposto nel manoscritto dal Seget ad
indicare le note scritte da Arnoldo Manlio: «Reliqua deerant: quae tamen restitui posse in
parte videntur ex schedis adiectis auctoris manu descriptis. Continebant illae totius quasi
operis materiem paucis. Nos ea modo censuimus adiicienda quae deerant. Ex fragmenti
mole videntur tot capita secutura fuisse quot praecessere. Lector haec boni consulat, sciatque quod raptim scripta haec erant, multim nobis difficultatis obortum in legendo, adeo
ut in nonnullis expedire non nequiverimus. Iis tale signum additum est *. Ceteras lacunas
auctor ipse libris destitutus reliquit».
40
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