CULTURA
il nostro
tempo
AUTRICE Dacia Maraini parla del suo ultimo, incantevole racconto
Dacia Maraini, fotografata
a Venezia; sotto, lo scrittore
Joseph Conrad, di cui
la Maraini è traduttrice, e uno
scorcio di Palermo, a cui l’autrice
siciliana ha dedicato il racconto
autobiografico «Bagheria»
Quella nave per Kobe
ha segnato la mia vita
EMANUELE REBUFFINI
E
RA IL 31 ottobre del 1938
quando,
sul
molo di Brindisi, una giovane pittrice siciliana, Topazia, si apprestava a salire, con la figlioletta Dacia, di appena
due anni, sul piroscafo
Conte Verde, per seguire
il suo avventuroso marito fiorentino, Fosco, verso la lontana terra del
Giappone, verso le nevi
di Sapporo e gli Ainu, un
antico popolo di cacciatori d’orso. Con questa scena si apre «La nave per
Kobe» (Rizzoli), l’ultimo,
incantevole, libro di Dacia Maraini. Nata a Fiesole (Firenze) nel 1936 da
Topazia Alliata di Salaparuta e dall’etnologo Fosco Maraini, Dacia Maraini ha vissuto la sua
infanzia in Giappone, insieme alle sorelline Yuki
e Toni. Finita la guerra
ha poi fatto ritorno in Sicilia, a Bagheria, per poi
trasferirsi a Roma dove
prenderà il via l’itinerario che la trasformerà in
una delle più importanti
narratrici italiane (Premio Strega nel 1999). «La
nave per Kobe» è un racconto autobiografico, un
libro di memorie, dove le
citazioni del diario materno sono lo spunto continuo per il riaccendersi
di ricordi e per divagazioni che dal passato giungono al presente.
Perché questo libro di
viaggio e di memorie?
È nato per caso, dal ritrovamento degli straordinari diari di mia madre.
Stavo scrivendo un altro
libro, quando mio padre
Fosco, frugando nei cassetti, trovò quei diari che
si pensavano persi e me
li ha donati. Leggendoli
sono stata investita dai
ricordi. Il passato ha la
capacità di saltarti addosso a tradimento attraverso
una fotografia, una lettera. Ti racconta di un tempo che non c’è più e che
pure si fa vivo ai tuoi occhi
con una vivacità e una corposità assolutamente insospettate. Ero molto piccola, quindi si tratta di
ricordi inconsapevoli, che
appartengono al nostro
corpo. La memoria si rifugia nei posti più incredibili, dove non pensiamo
neppure. Credo che esista una “memoria cieca”
una memoria inconsapevole. La lettura di quei diari ha poi sollecitato altre
mie memorie, memorie di
altri viaggi e di altre esperienze. Così è nato un intreccio lungo il quale la
mia memoria si è mossa
con strani salti, mettendo
il presente dentro la scatola del passato e così via.
RACCONTO
Domenica 19 Gennaio 2003
n. 2
Un gioco mnemonico. Un
libro che è nato veramente da solo. Non previsto.
«Bagheria» (1993) fu il mio
primo scritto autobiografico. Raccontavo del mio
ritorno in Sicilia dal Giappone. Una Sicilia ancora
integra, con le coste, il mare, le ville settecentesche,
e mi piange il cuore nel vedere quello che poi è stato
fatto con quel cemento che
ha deturpato tutto e cancellato la vista del mare.
In quest’ultimo romanzo,
faccio un salto indietro e
racconto la mia famiglia
nel suo momento di pienezza amorosa.
Perché i suoi genitori
scelsero il Giappone?
I diari di mia madre riguardano proprio quel
viaggio. Porto Said, Aden,
Bombay, Colombo, Singapore, Manila, Hong
Kong, Shanghai e infine
Kobe che era il porto di
approdo delle navi che
ROMANZO
arrivano dall’Europa. Un
viaggio che oggi non esiste più. Siamo nel 1938
e allora il viaggio era un
lento avvicinamento, la
lenta conquista di una
meta. Quel nostro viaggio
aveva due scopi. Mio padre si era laureato in antropologia e voleva studiare un mondo che stava scomparendo, quello
dei cacciatori di orsi che
vivono nell’estremo nord
del Giappone. L’altra ragione stava nella volontà
di andar via dall’Italia,
che attraversava un momento infelice, con un’atmosfera culturale che mio
padre e mia madre non
amavano. Erano due giovani pieni di interessi culturali e artistici, non si
interessavano di politica,
ma detestavano il razzismo. Così capitammo in
quella zona del Giappone dove nevica per sei
mesi l’anno. Vivemmo là
parecchi anni, completamente isolati, senza renderci conto della guerra,
che, poi, nel 1943 ci è cascata addosso. Arrivarono le guardie e chiesero
ai miei di firmare l’adesione alla Repubblica di
Salò. Tutti e due dissero
di no. Così ci vennero a
prendere e ci portarono
nel campo di prigionia di
Nagoya.
«Bagheria» prendeva le
mosse dal ritorno in
Sicilia. «La nave per
Kobe» si ferma sul limitare del campo di prigionia. Perché non ha
mai voluto raccontare
il periodo dell’internamento?
Ho avuto molte difficoltà
a parlare di quella esperienza. Anche se prima o
poi dovrò raccontarla. A
cinquant’anni di distanza vedo che ci sono persone che tirano fuori storie della Shoah, e questo
significa che di fronte a
un dolore atroce c’è bisogno di molto tempo. Tutti gli altri italiani in Giappone scelsero di firmare,
i miei preferirono la prigionia con le loro tre piccole figlie. Sono felice che
abbiano scelto così, perché fu un esempio di coerenza, anche se siamo
stati davvero ai limiti della morte per fame durante quei due anni in cui ci
bombardavano in continuazione. Un’esperienza
lacerante.
I suoi genitori e quel
viaggio in Giappone sono stati determinanti
per il suo futuro di narratrice?
Nelle nostre stanze non
c’erano bambole e sugli
scaffali carichi di libri non
trovavi romanzo rosa o
inutili enciclopedie, ma
Proust e Dostoevskij, Vir-
ginia Woolf, Henry James
e Svevo Ancora oggi divento svogliata e triste se
non ho una storia che mi
catturi e mi porti per mano in paesaggi sconosciuti, dentro stanze non mie,
in tempi lontani e seducenti. Non potrei vivere
senza leggere. E senza
viaggiare. Il nomadismo
è un torrente che scorre
nelle vene di famiglia e
non credo che potrò mai
veramente sostare senza
progettare un viaggio subito dopo. La nave è rimasta per me il luogo del piacere narrativo, non a caso
i primi grandi amori lette-
«Tutto il ferro della torre Eiffel»
rari sono stati gli scrittori di viaggi e di mare: Jules Verne, Robert Louis
Stevenson, Joseph Conrad, Herman Melville. Da
adulta mi sono chiesta il
perché, e probabilmente
è dovuto a quell’esperienza su quella nave per Kobe. E anche oggi Conrad
è lo scrittore che più mi
appassiona.
Infatti ne ha tradotto il
racconto intitolato «Il
compagno segreto»...
È un romanzo breve che
tratta il tema del “doppio”. Un capitano che in
una notte di luna piena
se ne sta sul ponte a fu-
Lo scrittore
Michele Mari
Mari, un narratore
che soffoca il lettore
MASSIMO ROMANO
M
ICHELE MARI
è uno di quegli
scrittori, purtroppo sempre
più numerosi,
affetti da un vizio inguaribile, quello di soffocare
il lettore con il peso della
loro cultura. Ciò determina due tipi di reazione: il
lettore colto non si emoziona più di tanto per figure, personaggi e situazioni che conosce già, il
lettore meno smaliziato si
annoia subito per le citazioni che non capisce e
abbandona il libro.
Se questo vizio era già
evidente nei romanzi precedenti, «Di bestia in bestia» (1989), delirante storia gotica giocata sul tema del doppio, «Io venìa
pien d’angoscia a rimirarti» (1990), un falso diario
scritto dal fratello che ipotizza un Leopardi licantropo, «La stiva e l’abisso» (1992), una sorta di
romanzo conradiano che
narra l’avventura di un
galeone spagnolo immobilizzato nell’oceano da una
bonaccia, e nella raccolta
di racconti «Tu, sanguinosa infanzia» (1997), sguardo originale sul mondo
immaginario dei bambini, appesantito però da
un linguaggio troppo erudito, il vizio diventa cronico e devastante nel nuovo romanzo «Tutto il ferro
della torre Eiffel» (Einaudi, pp. 277, 16,50 euro),
un impasto onnivoro di
tutte le icone della modernità. Non a caso Angelo Guglielmi ha paragonato questo libro a «un blob
televisivo» e Giuseppe Bonura ha definito Mari «un
professore che scrive per
i suoi colleghi».
Questo romanzo allestisce una fiera della cultura novecentesca, dove i
protagonisti dello spettacolo sono il critico-filosofo Walter Benjamin, che
diventa collezionista di
relitti del passato, e lo
storico Marc Bloch, sempre sbronzo, che raccoglie
schede sugli eventi luttuosi della storia europea
e compila elenchi di scrittori morti suicidi. Siamo a
Parigi nel 1936, l’anno in
cui viene fucilato il poeta
Garcìa Lorca nella guerra
civile spagnola, in cui Gide torna dal suo viaggio
in Russia, in cui muore la
madre di Gadda, Borges
pubblica «Storia dell’eternità» e Auerbach scrive
«Mimesis», e in cui, a scorrere qualche agenda culturale, succedono tante
altre cose. C’è un legame
tra questi eventi? Nessuno, tranne il fatto che si
tratta di un momento tragico della storia europea,
ma si potrebbero trovare
molte altre date significative e piene di eventi luttuosi nel corso del secolo.
Benjamin, che sta scrivendo «L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica», si aggira
incantato nei passages
di Parigi a caccia dell’aura distrutta dai meccanismi industriali. La mania
del collezionismo lo spinge a frequentare il mercato delle pulci di rue Clignancourt, i rigattieri del
Marais e i bouquinistes
del lungosenna. Nel passage Potocki, inesistente
nella realtà, incontra diversi scrittori suicidi,
Roth, Weiss, Zweig, Klaus
Mann, Witkiewicz. Arriva
un incantatore col mantello nero, il regista Murnau, e fa sparire gli scrittori. Bloch e Benjamin,
seduti al tavolino di un
caffè, discutono di nani,
di angeli e di celebri
partite a scacchi giocate
da campioni come Capa-
blanca e Alekhin; in un
caffè di Montmartre incontrano l’attore e regista Erich von Stroheim
con cui discutono sugli
scienziati pazzi e criminali del cinema espressionista tedesco.
Il dottor Caligari e il
Golem, l’omino di gomma
della Michelin e i sette
nani di Walt Disney,
Frankenstein con il volto
di Boris Karloff, Dracula
con il volto di Bela Lugosi,
Mata Hari, Isadora Duncan, la Bella Otero, Sarah
Bernhard, Alma Mahler,
Marlene Dietrich, Charles
Lindberg, Celine, sono alcune delle figure che movimentano, si fa per dire,
le scene di questo libro.
Mari sembra preoccu-
parsi, più che di raccontare una storia, che dovrebbe essere lo scopo di
ogni romanziere, di fornire un catalogo il più
esauriente possibile della
modernità. Le rare scene,
frutto della sua invenzione, ci sembrano poco felici. Ne citiamo due: il dialogo a Roma tra Gadda e
un balilla, che gli suggerisce sviluppi per i suoi romanzi in cambio di denaro, e gli eteronimi di
Pessoa che vogliono dar
fuoco ai barboni sotto i
ponti della Senna, salvati
dal Santo Bevitore di Roth
che li avvolge in un rogo
emettendo dalla bocca un
getto di alcol.
Invece di soffocare il lettore con questo eccesso di
cultura e di citazioni per
rispettare fino in fondo le
regole di un gioco intellettualistico fine a se stesso,
non era meglio raccontare più semplicemente una
storia provando a usare
le doti dell’invenzione?
mare un sigaro quando
sente uno sciabordio, si
affaccia e vede un naufrago che invoca aiuto, e
scopre che quell’uomo è
identico a lui, esattamente come fosse l’immagine
riflessa da uno specchio.
Conrad è forse il più inquietante tra gli scrittori
di mare, non finisce mai
di sorprendere. Tutti i
suoi libri raccontano la
storia di un senso di colpa, tutti i suoi personaggi
vivono drammaticamente un rimorso per qualcosa che hanno compiuto. L’inglese di Conrad ha
struttura stratificata e innaturale, si capisce che
è una lingua di adozione
fatta propria a fatica, ma
forse proprio per questo
seducente e amabile.
Già, uno dei padri della letteratura inglese
era di origini polacche.
Questo si avverte nella traduzione?
La scrittura di Conrad ha
un andamento contraddittorio: a volte le frasi si
inseguono lunghe e pensose, curvandosi verso il
centro della pagina, dolenti, enigmatiche e oscure. A volte il discorso si
interrompe per fare posto
a frasi brevissime, contratte, che sembrano lacerare l’aria come schiocchi di frusta. La musica
che se ne ricava è sussultoria, come certi mari
mossi in cui le onde lunghe vengono continuamente interrotte da brevi
scarti di creste infuriate
che scompigliano il disegno dell’acqua. È una
scrittura in cui le metafore sono dense e si accavallano sensualmente,
formando delle rotondità
barocche. Ma queste rotondità vengono poi cancellate o per lo meno corrette da un ragionare spigoloso e lucido. Non so
quanto questo particolare
modo di comporre le frasi provenisse dalle complicate esperienze linguistiche vissute da Conrad:
dal polacco dell’infanzia al
francese dell’adolescenza, per poi trasferirsi armi
e bagagli all’inglese della
maturità, lingua tanto
amata da farla propria
per il resto della vita e che
gli ha consentito straordinari slanci lirici.
Qualche consiglio per
la lettura?
«L’occhio del male» dello
scrittore svedese Björn
Larsson che racconta
della battaglia tra due
musulmani, uno che diventa assassino per fanatismo religioso, l’altro
che sventa coraggiosamente un attentato, perché, da laico crede nella
vita e nella solidarietà.
E poi «Notte e nebbia a
Bombay» di Anita Desai.
Bellissimo.
9
LIBRI
Franco Piccinelli
CON LE RADICI AL VENTO
Ivrea (Torino), Priuli & Verlucca
2002, pp.187, 12 euro
Un uomo che non vuole
o non sa ribellarsi all’agiata
solitudine costruitagli attorno dalla famiglia, rivive
negli spazi domestici e nel
tempo la propria vita. È
l’ultima e sincera confessione di un vecchio contadino che, nato ai tempi del
sacrificio e del dovere, deve
convertirsi al nuovo impostogli dai tempi, da una
moglie scontenta e dai figli
ambiziosamente proiettati
nel futuro. Viene ripercorsa
una avventura lunga settanta anni il cui epilogo è
lasciato alla discrezione del
lettore.
Maria Venturi
CHE PERDONA HA VINTO
Milano, Rizzoli 2002
pp.215, 14 euro
L’adolescenza di Cecilia
finisce con una vacanza di
studio in Scozia da cui torna incinta. La precoce maternità condiziona anche la
sua giovinezza, la paura
di sbagliare, la insicurezza
le impediscono di costruirsi una vita con un amore
adulto. I suoi soli interessi
sono la figlia ed il suo lavoro. L’incontro con Stefano rimette tutto in gioco.
Ma dopo un inizio felice
un primo impatto con il
dolore sembra far naufragare tutto. Un lungo cammino di crescita farà ritrovare l’equilibrio di una vita
insieme.
Ibrahim Souss
LETTERA AD
UN AMICO EBREO
Milano, Tranchida 2002
pp. 82, 6 euro
Il grande scrittore palestinese mette a fuoco con
passione i motivi del conflitto israeliano-palestinese, analizzando con chiarezza i progetti e la sofferenza dei due protagonisti.
Rivolgendosi al suo amico
ebreo fa propri i suoi punti
di vista per poterli confutare, denunciandone la logica d’aggressione che ne è
alla base, ma la sua ardente arringa non può fare a
meno di valutare una realtà tanto più complessa in
quanto multiforme e sfaccettata. Ciò nonostante il
messaggio lanciato non può
che essere di pace.
Eric Hobsbawm
ANNI INTERESSANTI
Milano, Rizzoli 2002
pp. 491, 20 euro
Dopo il celebre libro
«Il secolo breve» dedicato
a quello appena passato
l’autore ripercorre in modo più autobiografico le
sue esperienze che lo portano come storico e osservatore partecipe dall’America del jazz alla Russia
del socialismo reale, dall’Europa della sinistra del
Fronte popolare al Terzo
Mondo dei movimenti di
liberazione. Rivendica la
legittimità delle sue posizioni politiche e culturali,
della sua fedeltà agli insegnamenti di Marx, anche
attraverso le sconfessioni
e le abiure, senza mai essere dogmatico.
a cura di
Luca Fontana
Una scrittrice ricorda il suo incontro con il celebre vulcano paragonato ad un gigantesco essere umano
Stromboli custodisce un sogno
GIOVANNA IOLI
I
MARI DEL SUD, quelli
di Conrad, Maugham
e Kipling, sono fatti di
isole e io amo le isole,
tutte le isole: un mondo
in una tazza, come sperava Emily Dickinson. Una
parte della mente cerca
quella giungla affacciata
sui coralli, la laguna blu,
ma un’altra ritorna sempre a un approdo mediterraneo che risuona come un ritornello. È una
zona franca che cresce
con la mia linea d’ombra: Stromboli, non solo
un luogo per amare o un
rifugio per morire come
ripete dagli opuscoli George Sand, ma piuttosto
un riservato dio, impietrito sulla terra per sfuggire alla ragione degli uo-
mini. Stromboli non è
semplicemente una bocca eruttiva che erompe
dalle acque, con il suo
merletto di spiagge di un
luminoso nero: è un gigantesco essere umano
imprigionato nel cuore
della terra e la sua voce
è un borbottio continuo
di vulcano, che ripete la
teoria del sublime, che
Schiller collocò oltre il
terrore, tra sobbalzi di
pensiero e di filosofie. Il
mio battesimo dell’isola
fu lui, lo Stromboli.
Avevo sedici anni e la
complicità di Eolo, che
scatenò un’improvvisa
bufera di scirocco, lasciandomi completamente sola a Stromboli, per
tre giorni. Andai a pensione da donna Peppina,
una vecchia sorda, nata
e cresciuta su quello scoglio al quale assomigliava
tanto da sembrare scolpita nella lava. Per cento
lire il giorno mi dava da
dormire, l’acqua gelida
del pozzo e un piatto di
spaghetti, perché, diceva,
toccandomi le cosce, che
ero «troppo secca». Borbottava anche lei, come
il vulcano, restando ore
e ore seduta davanti alla
porta della casa, l’unica
rossa tra il bianco abbagliante delle altre, con le
spalle rivolte al mare e gli
occhi puntati sul vulcano. Scoprii che gli parlava, mormorando in dialetto litanie che non riuscivo a districare. Ogni
tanto interrompevo quel
dialogo per chiederle il
perché di un boato o il significato di tanti tremiti
avvertiti sulla sciara, sulle tante colate che avevano cercato la strada verso
il mare. Peppina rispondeva sempre nello stesso
modo: «Lui sente il tempo». «Lui», con la maiuscola, capii solo più tardi,
per lei non era una divinità: era un amore cresciuto con la vita, interamente spesa a guardare il suo
cuore di ossidiana. Da allora anch’io provai per
quel vulcano la gratitudine riservata a un amante
di pietra, immobile, sovrano dei pensieri. Scoprii l’incanto dei colori,
il nero della lava rappresa contro il blu egizio
del mare, il rosso dell’ibiscus, il verde del canneto, il bianco delle case, il
viola nascosto di un’uva
in miniatura.
Furono, però, le notti
a produrre un concentrato di inquietudini e fantasmi, che si scioglievano
solo con la festa luminosa del giorno. In quel lucido buio, interrotto a tratti
dall’alone rossastro delle
esplosioni, compresi che
lui, Stromboli, con il suo
boato sommesso, parlava
anche del mondo, usando le corde vocali delle
bocche eruttive, morbida
e piena quella del cratere
centrale, stridula e acuta
l’altra, direttamente affacciata sulla sciara. Una
sera, forse, mi mise anche
in guardia dai “formiconi
degli approdi” di Montale,
dagli impegni veri o presunti, mostrandomi il suo
linguaggio invisibile, magico, che si spingeva al
di là dell’anello cangiante
del mare, oltre l’orizzonte
chiaro come di cristallo,
su cui si staglia il punto
bianco della nave che ormeggerà ai suoi piedi. Mi
raccontò che il suo potere
di fuoco creava una barriera invisibile, custodiva
un sogno.
Da allora, da quel tempo lontano in cui ascoltai
i suoni del suo spirito,
la musica che lui sapeva
sprigionare, capaci di dissolvere il peso dei pensieri, ogni volta che vedo sulla carta geografica i puntini delle isole sparse nell’azzurro, mi prende un
acuto desiderio di andare ad ascoltare il mormorio di quelle pietre. Davanti a una carta geografica, si sa, è sempre uno
sgomento grande, un’inquietudine, paragonabile
Il vulcano
Stromoboli
visto
dal mare
solo al primo ingresso in
biblioteca, dove senti che
ci vorrebbero non una,
ma tante vite per raggiungere tutti quei puntini sparsi sulla carta, misteriosi come i tanti libri
che non riusciremo mai a
sfogliare.
Qualcuno ha calcolato
che per vedere tutte le
isole dell’Indonesia occor-
rano 47 anni. Gli atolli
delle Maldive racchiudono 2000 isole, e il numero diventa esponenziale per quelle disseminate
nel Pacifico. Persino il Mediterraneo, così strenuamente circoscritto, è cosparso di briciole di mondi che non riusciremo
mai a contare. Perciò,
parto quasi a caso, e
quando torno dai miei
viaggi, prendo una bandierina e la pianto sulla cima di Stromboli, su quella terrazza sospesa sul
fuoco dei crateri, e mormoro sempre la stessa litania: «Cerchi la vita, cerchi, e ti sgorga splendendo / divino fuoco dal fondo della terra». Parola di
Hölderlin.
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