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Alessandro Sacchi
Alessandro Sacchi, presbitero del Pontificio Istituto Missioni Estere, ha
conseguito la laurea in Scienze Bibliche presso il Pontificio Istituto Biblico
di Roma e ha insegnato esegesi biblica nello studentato del suo Istituto.
È stato anche docente nel Seminario Regionale di Hyderabad (India) e
all’Università Cattolica del S. Cuore di Milano. Ha curato il volume Lettere
paoline e altre lettere (Logos 6), 1995. Inoltre ha pubblicato i seguenti
volumi: Una comunità si interroga (commento alla 1Corinzi), 1998; Cos’è
la Bibbia, 1999; Marco. Un vangelo per i lontani, 1999; 2014; Lettera ai
Romani, 2000; Israele racconta la sua storia, 2000; 2012; Per un mondo
senza frontiere (Lettere autentiche di Paolo), 2012; Paolo e i non credenti,
2008; Alle origini della missione. (Atti degli Apostoli), 2014. Con Sandra
Rocchi ha dato alla luce la trilogia: La Bibbia. Un percorso di liberazione,
2007-2009.
Alessandro Sacchi
La morte del Messia - L’interpretazione sacrificale
Secondo diversi testi del NT Gesù ci ha liberato dal peccato
perché sulla croce ha offerto se stesso in sacrificio a Dio. Ma
in che senso la metafora sacrificale è stata applicata alla sua
morte? Secondo Anselmo d’Aosta, morendo sulla croce Gesù
avrebbe scontato la pena dovuta ai peccatori, soddisfacendo
così una volta per tutte le esigenze della giustizia di Dio e
riconciliando l’umanità con lui.
Questa teoria, chiamata «espiazione vicaria», è diventata per
secoli la spiegazione ufficiale della morte di Gesù. Essa però ha
rivelato da tempo i suoi lati deboli. Da una parte non risponde
all’idea di sacrificio dell’Antico e del Nuovo Testamento e,
dall’altra, riduce la morte del Messia a un fatto mitologico, al
pagamento cioè di un debito contratto da tutta l’umanità nella
persona del suo lontano progenitore.
In questo studio cerco di dimostrare come la spiegazione di
Anselmo sia frutto di un malinteso e debba essere messa da
parte se si vuole comprendere in che senso la morte di Gesù
comporti ancora oggi un messaggio di salvezza valido non solo
per i cristiani ma per tutta l’umanità.
La morte del Messia
L’interpretazione sacrificale
LA MORTE DEL MESSIA Alessandro Sacchi LA MORTE DEL MESSIA L’interpretazione sacrificale Milano 2015 Titolo | La morte del messia
Autore | Alessandro Sacchi
Immagine di copertina | Chagall, «Exodus»
ISBN | 978-88-91196-00-2
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A mons. Oscar Romero, umile discepolo di Gesù e coraggioso pastore del gregge, che ha dato la vita per le sue pecorelle. PREFAZIONE Il quadro di Chagall riprodotto in copertina rappresen-­‐
ta, come suggerisce il nome, l’esodo degli ebrei dall’Egitto. In basso a destra è rappresentato Mosè che stringe le ta-­‐
vole della legge ricevute dalla mano di Dio. Dietro di lui, emerge un’immensa folla che raffigura il popolo d’Israele martoriato che cammina verso la terra promessa. Sullo sfondo domina la figura gialla del Cristo in croce. L’impressione che si coglie da questa rappresentazione è quella di una luce che promana dal Crocifisso e illumina non solo gli israeliti ma tutta l’umanità. L’intuizione di Chagall è veramente rivelatrice. Il mo-­‐
vimento sorto a seguito della morte di Gesù si è fatto in-­‐
terprete di valori che hanno influito profondamente sullo sviluppo etico dell’umanità. Gli ideali di giustizia, libertà e democrazia, già presenti nella legge di Mosè, si sono af-­‐
fermati nel mondo occidentale in gran parte grazie all’opera dei cristiani, spesso in contrasto con l’Istituzione che avrebbe dovuto rappresentarli. Ma, a monte, è importante chiedersi che cosa ha fatto Gesù per salvare l’umanità dal baratro in cui a volte sem-­‐
bra precipitare. Se egli si fosse limitato a predicare i valori della giustizia e dell’amore senza dare un contributo riso-­‐
lutivo per la loro realizzazione, la sua opera perderebbe oggi gran parte del suo significato. Nella società moderna, infatti, tali valori sono largamente riconosciuti, anche a prescindere dalla sua persona. Secondo la visione cristiana, però, Gesù non si è limita-­‐
to a predicare il Vangelo, ma ha contribuito in modo de-­‐
terminante, soprattutto mediante la sua morte in croce, a vincere il male che pervade la convivenza umana. Non è chiaro però a prima vista come questa morte abbia potuto 8
LA MORTE DEL MESSIA
influire sulla condizione dell’umanità nel corso della sto-­‐
ria. Una spiegazione largamente attestata nel Nuovo Te-­‐
stamento, anche se per lo più mediante semplici allusioni, è quella che si rifà alle categorie sacrificali: Gesù avrebbe liberato l’umanità offrendosi a Dio come vittima per espia-­‐
re i peccati di tutti. A questa interpretazione ha dato voce in modo determinante la lettera agli Ebrei. Questa concezione è stata ulteriormente elaborata da Anselmo d’Aosta, il quale ne ha tratto la dottrina denomi-­‐
nata «espiazione vicaria». In base a essa Gesù avrebbe preso su di sé il peccato che, da Adamo, si era trasmesso a tutta l’umanità. Morendo sulla croce egli avrebbe scontato la pena dovuta ai peccatori, soddisfacendo così una volta per tutte le esigenze della giustizia divina. In tal modo avrebbe riconciliato l’umanità con Dio, rendendo possibile a tutti la felicità eterna, già anticipata in questo mondo mediante l’adesione alla Chiesa e la vita sacramentale. Questa interpretazione della morte di Gesù, ancora lar-­‐
gamente diffusa nella teologia e nella catechesi, rispecchia chiaramente, come il racconto del primo peccato, la con-­‐
cezione mitologica dell’antichità. Oggi essa è messa in di-­‐
scussione in quanto suscita tutta una serie di interrogativi. Come è possibile, infatti, che un uomo prenda su di sé i peccati di tutta l’umanità? Come può una morte, accettata per soddisfare le esigenze di un Dio offeso, attuare una salvezza valida per tutti? Ma soprattutto ci si può chiedere in che misura il concetto di espiazione vicaria risponda al bisogno di salvezza presente nella società di oggi. Per ri-­‐
spondere a queste domande è necessario prima di tutto verificare se questo concetto è veramente radicato nella Bibbia e poi confrontarlo con le categorie mentali moder-­‐
ne. In questo lavoro mi propongo di affrontare in modo critico la teoria anselmiana. A tale scopo esaminerò anzi-­‐
Prefazione
9
tutto il concetto di espiazione vicaria (capitolo 1), poi cer-­‐
cherò di delineare il significato del sacrificio nelle diverse religioni (capitolo 2); in seguito affronterò il tema del sa-­‐
crificio nel Primo Testamento, mostrando anzitutto come esso si configuri all’interno della religione dell’alleanza (capitolo 3); passerò poi a indicare il significato specifico del sacrificio israelitico alla luce di alcuni testi riportati nel Pentateuco (capitolo 4) e poi all’interno della corrente profetica (capitolo 5); in questo contesto riserverò una trattazione speciale alla figura del Servo di YHWH (capitolo 6); successivamente illustrerò il significato della «morte per» gli altri nel mondo ellenistico (capitolo 7); infine mo-­‐
strerò in che senso nel Nuovo Testamento la metafora del sacrificio sia stata applicata alla morte di Cristo in quanto Messia (capitolo 8). Da questa ricerca apparirà chiaramen-­‐
te come la teoria dell’espiazione vicaria non abbia nessun fondamento biblico. Nella conclusione mostrerò come es-­‐
sa sia inconciliabile con la mentalità moderna e proporrò qualche soluzione alternativa per presentare oggi in modo più convincente la morte di Gesù (capitolo 9). Numerosi studiosi hanno già espresso in modi diversi le idee che cercherò di trasmettere in questo volumetto. Non ho però l’impressione che il risultato delle loro ricer-­‐
che abbia raggiunto gli operatori pastorali e i semplici cri-­‐
stiani, presso i quali la teoria anselmiana è ancora impe-­‐
rante. Penso quindi che non sia male riprendere in modo divulgativo questo argomento. Nella bibliografia al termine di questa opera ho elenca-­‐
to i libri da me consultati, limitandomi quasi esclusiva-­‐
mente a quelli in lingua italiana. In essi i lettori troveran-­‐
no, se lo desiderano, gli strumenti per ulteriori approfon-­‐
dimenti. A motivo dello scopo che mi sono prefisso, non 10
LA MORTE DEL MESSIA
ho pensato che fosse necessario fare uso di note a piè di pagina per citare le fonti delle mie affermazioni o discute-­‐
re i pareri diversi dal mio. Gli specialisti in questo campo sono in grado di scoprire senza difficoltà quali sono le opere alle quali mi sono ispirato. Invece i lettori ordinari, ai quali questa opera è rivolta, non hanno bisogno di un’ulteriore documentazione. È mia speranza che quanto andrò affermando si giustifichi da sé, senza bisogno di fare ricorso ad altre autorità. I L’ESPIAZIONE VICARIA La morte di Gesù in croce è facilmente spiegabile nel contesto religioso e politico della sua epoca. Gli interessi che egli ha toccato erano tali da giustificare la sua elimina-­‐
zione fisica. È difficile però spiegare come mai, secondo la dottrina cristiana, tale morte abbia provocato la salvezza non solo dei suoi contemporanei ma di tutta l’umanità. La spiegazione che ha retto maggiormente alla prova dei tempi è quella che si rifà all’idea di un sacrificio offerto a Dio mediante il quale Gesù avrebbe espiato i peccati di tutta l’umanità. Questa interpretazione è antica e getta le sue radici nel Nuovo Testamento. Non così la teoria dell’espiazione vicaria che ne è una successiva rielabora-­‐
zione. Questa è entrata ufficialmente nella teologia cristia-­‐
na grazie ad Anselmo d’Aosta ed è diventata dottrina co-­‐
mune fino a oggi. a. La dottrina anselmiana
Nel suo opuscolo Cur Deus homo («Perché Dio si è fatto uomo»), Anselmo d’Aosta (1033-­‐1109 d.C.) si pone lo sco-­‐
po di spiegare razionalmente il motivo per cui Dio si è fat-­‐
to uomo. Egli presuppone che il disegno di Dio espresso nella creazione abbia lo scopo di far sì che l’umanità rag-­‐
giunga la beatitudine. Purtroppo l’ordine naturale è stato stravolto dal peccato di Adamo, che da lui è stato trasmes-­‐
so a tutti i suoi discendenti. Questo peccato, in quanto rappresenta un’offesa fatta a Dio, ha deteriorato in modo determinante il rapporto dell’uomo con lui. Con esso viene 12
LA MORTE DEL MESSIA
dunque compromessa la possibilità stessa che l’umanità raggiunga la beatitudine e ottenga la salvezza. D’altra par-­‐
te, se l’uomo si perdesse, Dio non potrebbe realizzare il suo progetto. È dunque necessario che si ristabilisca il rapporto originario tra Dio e la sua creatura. Perché ciò avvenga, si prospettano due vie ugualmente impercorribili: o l’uomo restituisce a Dio l’onore che gli è stato tolto o Dio stesso perdona gratuitamente l’umanità peccatrice. Nel primo caso, siccome l’entità della colpa si misura in base alla dignità dell’offeso e non dell’offensore, l’ampiezza della soddisfazione richiesta è tale da preclu-­‐
dere all’uomo la possibilità di realizzarla. Infatti esiste uno squilibrio insuperabile tra Creatore e creatura, tra gran-­‐
dezza dell’offeso e piccolezza dell’offensore. Nel secondo caso sarebbe Dio stesso a perdonare di sua iniziativa l’umanità. Ma se Dio rimettesse il debito dell’uomo con un atto di pura misericordia, non verrebbe ristabilito l’ordine turbato dal peccato. Ciò può avvenire soltanto mediante la spontanea soluzione del debito («soddisfazione») da parte dell’offensore. Senza di essa né Dio può perdonare il peccato dell’uomo né l’uomo può giungere alla beatitudine. La necessità che questa si rea-­‐
lizzi si scontra quindi con l’impossibilità da parte dell’uomo di offrire un’adeguata soddisfazione e, da parte di Dio, di perdonare senza di essa. Si crea quindi una si-­‐
tuazione a prima vista senza via d’uscita. Per superare questa impasse, Dio stesso ha adottato l’unica soluzione possibile. Egli ha inviato nel mondo il suo unico Figlio il quale si è fatto uomo e ha preso su di sé il peccato dell’umanità; offrendosi in sacrificio sulla croce egli ha scontato la pena dovuta ai peccatori e così ha offer-­‐
to a Dio la soddisfazione che gli era dovuta. Solo lui, infatti, essendo al tempo stesso Dio e uomo, poteva soddisfare le esigenze dell’onore dovuto a Dio, e così liberare l’umanità I. L'espiazione vicaria
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dal castigo che incombeva su di essa. Questa interpreta-­‐
zione è stata chiamata «espiazione vicaria» in quanto Cri-­‐
sto, come vittima sacrificale, avrebbe preso su di sé i no-­‐
stri peccati e li avrebbe espiati al nostro posto. Questa spiegazione della morte di Cristo suppone una certa visione del sacrificio in quanto soddisfazione offerta a Dio per l’offesa a lui arrecata dal peccato. Inoltre essa dà per scontato che Dio non può conferire all’uomo peccatore la salvezza se non come effetto di un recupero dell’onore a lui dovuto. Infine la salvezza viene vista come il frutto di uno scambio che avviene esclusivamente tra Dio Padre e il suo Figlio incarnato. b. Tommaso d’Aquino
La teoria anselmiana ha avuto un largo spazio nella teologia cristiana. Tommaso d’Aquino esprime così la soddisfazione compiuta da Cristo: «Soddisfa pienamente per l'offesa colui che offre all'offeso ciò che questi ama in una misura uguale o ancora maggiore di quanto abbia detestato l'offesa. Ora Cristo, accettando la passione per carità e per obbedienza, offrì a Dio un bene su-­‐
periore a quello richiesto per compensare tutte le offese del genere umano. Primo, per la grandezza della carità con la quale volle soffrire. Secondo, per la dignità della sua vita, che era la vita dell'uomo-­‐Dio, e che egli offriva come soddi-­‐
sfazione. Terzo, per l'universalità delle sue sofferenze e la grandezza dei dolori accettati. Perciò la passione di Cristo fu una soddisfazione non solo sufficiente per i peccati del ge-­‐
nere umano, ma anche sovrabbondante, secondo le parole di S. Giovanni: “Egli è vittima di espiazione per i nostri pec-­‐
cati, e non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1Gv 2,2)» (Somma teologica III, 48,2). 14
LA MORTE DEL MESSIA
c. Il Catechismo della Chiesa Cattolica
Alla teoria di Anselmo si ispirano, il più delle volte in modo allusivo, diverse formule liturgiche. Ma soprattutto essa è ancora largamente utilizzata nella catechesi e nella predicazione. Nel Catechismo della Chiesa Cattolica del 1997 questa dottrina è così formulata: «Per il suo peccato, Adamo, in quanto primo uomo, ha perso la santità e la giustizia originali che aveva ricevuto da Dio non soltanto per sé, ma per tutti gli esseri umani. Adamo ed Eva hanno trasmesso alla loro discendenza la natura umana ferita dal loro primo peccato, privata, quindi, della santità e della giustizia originali. Questa privazione è chiamata “pec-­‐
cato originale”. In conseguenza del peccato originale, la na-­‐
tura umana è indebolita nelle sue forze, sottoposta all’ignoranza, alla sofferenza, al potere della morte, e incli-­‐
nata al peccato (inclinazione che è chiamata “concupiscen-­‐
za”)». «Noi dunque riteniamo, con il Concilio di Trento, che il peccato originale viene trasmesso insieme con la natura umana, "non per imitazione ma per propagazione", e che perciò è "proprio a ciascuno"» (nn. 416-­‐419). «Come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati co-­‐
stituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (Rm 5,19). Con la sua obbe-­‐
dienza fino alla morte, Gesù ha compiuto la sostituzione del Servo sofferente che offre se stesso in espiazione, mentre porta il peccato di molti, e li giustifica addossandosi la loro iniquità. Gesù ha riparato per i nostri errori e dato soddisfa-­‐
zione al Padre per i nostri peccati (n. 615). La teoria di Anselmo ha influito profondamente sul modo in cui è stata intesa la redenzione in Occidente nel secondo millennio. A livello popolare, in forza della cate-­‐
chesi dei bambini, essa continua a essere intesa come l’unica spiegazione della morte di Gesù. Essa perciò viene I. L'espiazione vicaria
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considerata dai più come un dogma indiscutibile della fe-­‐
de cristiana; come reazione coloro che non l’accettano so-­‐
no spinti all’abbandono della chiesa. Dall’accettazione o dal rifiuto della dottrina di Anselmo dipende in gran parte la visione di Dio e dei suoi rapporti con il mondo. Ma soprattutto è da essa che deriva l’idea di salvezza che la Chiesa propone ai credenti e all’umanità in generale. Se infatti la liberazione dal peccato dipende da uno scambio privato tra Dio e il suo Figlio, allora resta po-­‐
co da fare per cambiare le realtà terrene alla luce del Van-­‐
gelo. Il peccato è stato eliminato una volta per tutte. Ma purtroppo si ha l’impressione che la morte di Gesù non abbia cambiato nulla nella condizione oggettiva dell’uma-­‐
nità, in cui domina il sopruso e la violenza. Se si desidera veramente che il messaggio cristiano in-­‐
cida sulla vita delle persone e sulle strutture sociali, biso-­‐
gna rivedere alla radice la dottrina dell’espiazione vicaria, mettendo in discussione i suoi presupposti e correggendo, nella catechesi, nella liturgia e nella predicazione, il lin-­‐
guaggio religioso che si rifà a essa. Prima di dare voce alle critiche che sono state fatte a questa teoria, è necessario però chiedersi se essa corri-­‐
sponda ai dati biblici sui quali si fonda. È quanto faremo ora a partire dall’AT e dal NT. Ma prima è necessario ac-­‐
cennare al concetto di sacrificio prevalente nelle religioni in genere e specialmente in quelle dell’antico Medio Orien-­‐
te: da esso deriva infatti tutta una serie di idee che hanno condizionato erroneamente l’interpretazione del sacrificio così come è presentato in campo biblico e cristiano. II I SACRIFICI NELL’ANTICO MEDIO ORIENTE Il culto sacrificale è presente in tutte le religioni, nelle quali viene incontro al bisogno di stabilire un rapporto con la divinità. Nel mondo in cui è nata la Bibbia, sono at-­‐
testati diversi tipi di sacrifici, dei quali è difficile ricostrui-­‐
re con qualche esattezza i rituali con cui venivano fatti. Infatti i sacrifici assumevano forme diverse in funzione della condizione di vita delle popolazioni che li praticava-­‐
no. Sono invece chiari gli scopi che con essi si volevano raggiungere. In modo molto generale si può dire che il sa-­‐
crificio consisteva nell’offrire un dono alla divinità per renderla propizia e ottenere da essa un aiuto per risolvere i problemi più assillanti della vita. a. Lo scopo dei sacrifici
Siccome ogni dono deve essere accettato da colui che lo riceve, bisognava far sì che anche i doni offerti alla divi-­‐
nità entrassero in suo possesso. Era quindi necessario tro-­‐
vare il modo di far passare le offerte sacrificali dal mondo materiale in cui vive l’uomo a quello immateriale proprio degli esseri superiori. Questo ostacolo era superato me-­‐
diante l’uso di oggetti religiosi che rappresentavano la di-­‐
vinità e la rendevano presente. Nell’antico Medio Oriente questi oggetti erano soprattutto la statua della divinità, l’altare, la stele o il palo sacro. Anche i sacerdoti avevano un ruolo rappresentativo nei confronti della divinità. Per far giungere un dono alla divinità era dunque suffi-­‐
ciente metterlo a contatto con i simboli che la rappresen-­‐
18
LA MORTE DEL MESSIA
tavano. I doni alimentari venivano posti ai piedi della sta-­‐
tua, con la convinzione che la divinità presente in essa po-­‐
tesse consumarli in segreto (cfr. Dn 14,3). Quando invece si trattava del sacrificio di animali, il primo passo era l’uccisione della vittima. Ad esso facevano seguito i riti sa-­‐
crificali veri e propri. Quello più ordinario era di bruciare la carne della vittima sull’altare: questo rito aveva un forte significato simbolico perché la carne della vittima, andan-­‐
do in fumo, raggiungeva il cielo, cioè la sfera in cui si rite-­‐
neva che abitasse la divinità. Un altro modo per trasferire la vittima nel mondo divi-­‐
no era quello basato sull’uso del sangue. Secondo una con-­‐
vinzione diffusa in tutta l’antichità, il sangue era conside-­‐
rato come la parte più nobile di un essere vivente, in quan-­‐
to si pensava che esso fosse la sede della vita. Perciò era soprattutto il sangue delle vittime che doveva entrare nel-­‐
la sfera divina. Ciò veniva ottenuto facendolo scorrere ai piedi dell’altare o aspergendo con esso gli oggetti che indi-­‐
cavano la presenza della divinità, soprattutto la stele o il palo sacro. Lo scopo di far giungere il proprio dono alla divinità era raggiunto anche mediante la consumazione della car-­‐
ne della vittima da parte dei sacerdoti o degli offerenti. Perciò diversi riti sacrificali erano conclusi con un ban-­‐
chetto nella zona del tempio. Sullo sfondo di questo rito vi era la convinzione secondo cui la divinità, dopo aver accol-­‐
to il dono che le veniva fatto, donava la carne della vittima ai suoi fedeli, i quali la mangiavano festosamente alla sua presenza. Naturalmente questo rito significava che la divi-­‐
nità aveva accettato il dono che le era stato fatto e assicu-­‐
rava la sua costante protezione nei confronti degli offeren-­‐
ti. Inoltre il banchetto sacro era espressione di un vincolo strettissimo che univa i devoti alla divinità, la quale non poteva esimersi dall’assicurare loro i suoi favori. II. I sacrifici nell'antico Medio Oriente
b. I riti dei cananei e degli arabi
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Sia i cananei che le popolazioni arabe offrivano alle lo-­‐
ro divinità doni sia vegetali che animali; questi ultimi era-­‐
no i più preziosi e quindi veniva attribuita loro un’efficacia particolare. Presso i cananei esisteva l’uso, attestato anche dalla Bibbia, di offrire in sacrificio esseri umani, soprattut-­‐
to i primogeniti (cfr. Dt 12,31; 2Re 3,27; 17,31). Questi sacrifici avevano il massimo valore in quanto l’offerente donava alla divinità quanto di più caro possedeva. I riti sacrificali erano diversi a seconda delle popola-­‐
zioni che li praticavano. Le popolazioni arabe seminomadi, dedite alla pastorizia, davano la preponderanza ai riti del sangue mentre i cananei assegnavano più importanza al rito di bruciare la carne della vittima sull’altare. Sia gli uni sia gli altri inoltre consumavano, in certi casi, parte delle vittime nel corso di un banchetto sacro. Il sacrificio, dunque, in quanto dono fatto alla divinità, aveva lo scopo di renderla «propizia» nei confronti dell’offerente, cioè di ottenere il suo favore. Esso veniva dunque incontro ai differenti bisogni di una persona o di un gruppo, che vanno dalla elargizione della pioggia e del-­‐
la fecondità dei campi e degli animali alla guarigione delle più disparate malattie. I sacrifici erano anche strettamente connessi con i voti, mediante i quali si prometteva alla di-­‐
vinità l’offerta di una vittima nel caso che la preghiera fos-­‐
se esaudita. Quando ciò si verificava, il sacrificio aveva un carattere di lode e di ringraziamento. I riti sacrificali erano tanto più estesi e importanti quanto più la popolazione si sentiva insicura e bisognosa di aiuto per affrontare le grandi sciagure personali o na-­‐
zionali. Naturalmente gli atteggiamenti interiori con cui i 20
LA MORTE DEL MESSIA
riti venivano eseguiti potevano essere i più disparati. In questo contesto è sufficiente mettere in luce la mentalità che stava normalmente all’origine dei riti sacrificali delle popolazioni in mezzo alle quali si è sviluppato Israele. In genere si trattava di un rapporto tendenzialmente egoisti-­‐
co con la divinità, dalla quale si pensava di poter ottenere certi vantaggi per se stessi o per il proprio clan, spesso a prescindere da una visione più vasta di bene comune. A ben riflettere quella mentalità non era lontana da tante manifestazioni religiose non solo del mondo biblico ma anche di quello moderno, nonostante l’enorme distanza che ci separa dall’antichità. III LA PRASSI SACRIFICALE ISRAELITICA Il tema del rapporto con Dio era molto sentito nell’ambito della vita non solo religiosa, ma anche politica ed economica di Israele. Infatti dalla benevolenza di Dio erano assicurate la stabilità delle istituzioni e la buona riuscita dell’agricoltura, da cui dipendeva in gran parte la prosperità del popolo. Perciò era necessario eliminare tut-­‐
to ciò che poteva nuocere al rapporto tra il popolo e il suo Dio. In questo campo l’ostacolo più grande era il peccato, che consisteva nella trasgressione non solo dei grandi co-­‐
mandamenti morali della legge, ma anche di quelle regole di vita che assicuravano la purezza del popolo di fronte al suo Dio. I riti praticati da Israele erano molto simili a quelli del-­‐
le altre popolazioni che risiedevano nella stessa area geo-­‐
grafica. La somiglianza tra rituali diversi non è però suffi-­‐
ciente per affermare che alla loro origine vi siano le stesse concezioni religiose. Ogni rito deve essere valutato all’in-­‐
terno del suo contesto religioso e culturale. I significati annessi ai sacrifici da parte delle popolazioni cananee non erano necessariamente gli stessi che vi percepivano gli israeliti, anche quando si trattava di riti simili. È dunque necessario, prima di prendere visione dei riti propri di Israele, chiedersi se e in quale misura l’espe-­‐
rienza religiosa di questo popolo si è differenziata da quel-­‐
la del mondo religioso in cui ha avuto origine e si è svilup-­‐
pata. Per fare questo è importante mettere in luce qual è il posto che è stato assegnato al rituale israelitico nel conte-­‐
sto delle tradizioni raccolte nella Bibbia. 22
LA MORTE DEL MESSIA
a. Il culto di Israele
Nel periodo monarchico gli israeliti si distinguevano dalle altre etnie presenti sul territorio palestinese in quan-­‐
to prestavano culto a una specifica divinità il cui nome è racchiuso in quattro consonanti YHWH che, secondo una moderna congettura, venivano lette Jahu o, in seguito, Jahweh (cfr. Es 3,14-­‐15). Essi però condividevano non solo i riti praticati nel loro ambiente culturale, ma anche il si-­‐
gnificato che a essi veniva attribuito. Ne fanno fede le cri-­‐
tiche dei profeti i quali, da tempi remoti, sostenevano l’esigenza di un culto ispirato a precise norme etiche. Secondo il racconto biblico, nel 620 a.C. il re Giosia, sot-­‐
to l’influsso della corrente profetica, ha concentrato il cul-­‐
to sacrificale nel tempio di Gerusalemme (cfr. 2Re 23,4-­‐
14), certamente allo scopo di purificare la religione jahwi-­‐
sta dagli influssi cananei. È difficile dimostrare il carattere storico di questo evento. Comunque si può ragionevol-­‐
mente dubitare che questo re abbia effettivamente cam-­‐
biato alla radice la mentalità del popolo. Alle deviazioni di carattere religioso viene infatti attribuita la massima re-­‐
sponsabilità della caduta di Samaria e poi di Gerusalemme (cfr. 2Re 17,7-­‐23). Dopo l’esilio, mentre coloro che erano rimasti in Pale-­‐
stina hanno mantenuto l’antica pratica religiosa, i giudei rimpatriati hanno elaborato un nuovo sistema rituale: in esso è ancora visibile l’apporto degli antichi riti di origine palestinese, i quali però sono rivisti alla luce delle nuove esperienze maturate durante la permanenza in Mesopo-­‐
tamia. Ma soprattutto in queste disposizioni si rispecchia la nuova concezione religiosa elaborata durante l’esilio. Per questo i rimpatriati si sono tenuti separati dalla popo-­‐
lazione locale, anch’essa di origine israelitica, condannan-­‐
do come idolatriche le loro pratiche religiose, che erano III. La prassi sacrificale israelitica
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poi le stesse praticate dai loro progenitori prima dell’esilio (cfr. 2Re 17,24-­‐41; Esd 4,1-­‐5). Il nuovo significato attribuito al culto israelitico appare dal fatto che la descrizione dettagliata dei riti che ne fanno parte è riportata nel contesto della tradizione sinaitica. Questa si estende da Es 19 fino a Nm 10 e copre tutto il periodo trascorso dagli israeliti ai piedi del monte Sinai. In essa si raccontano anzitutto l’incontro con YHWH e la con-­‐
clusione dell’alleanza sinaitica (Es 19-­‐24). Vengono poi riportate le direttive date da Dio per la costruzione del santuario (Es 25-­‐31). In una seconda sezione narrativa si racconta l’adorazione del vitello d’oro, usuale nel mondo cananeo, presentata come il «peccato originale» di Israele. Esso è punito con una serie di terribili castighi, a cui fa se-­‐
guito il rinnovamento dell’alleanza (Es 32-­‐34). Segue un’altra sezione cultuale in cui si descrive la costruzione del santuario (Es 35-­‐40). Nei due libri successivi si presuppone l’esistenza del santuario e si danno le disposizioni riguardanti la liturgia che in esso doveva svolgersi. Anzitutto sono descritti i sa-­‐
crifici che dovevano essere offerti nel santuario (Lv 1-­‐7); nella sezione successiva si descrive l’investitura dei sacer-­‐
doti (Lv 8-­‐10); vengono poi elencate le norme riguardanti la purezza rituale, che si concludono con la descrizione della festa dell’Espiazione (Kippur) (Lv 11-­‐16); la sezione successiva contiene un codice che, in base alla finalità del-­‐
le norme in esso contenute, viene chiamato «Legge di san-­‐
tità» (Lv 17-­‐26). Il libro termina con un’appendice relativa ai voti (Lv 27). Nel libro dei Numeri è riportato anzitutto il risultato del censimento degli israeliti (Nm 1-­‐4); segue una sezione in cui sono raccolte leggi e disposizioni rituali riguardanti situazioni diverse (Nm 5-­‐8); infine, si raccontano la cele-­‐
24
LA MORTE DEL MESSIA
brazione della prima Pasqua dopo l’uscita dall’Egitto e la partenza dal Sinai (Nm 9-­‐10). Da questa rapida carrellata appare chiaramente come il culto di Israele fosse strettamente collegato con l’alleanza, dalla quale riceveva il suo significato. Le norme di carattere rituale riguardanti i sacrifici sono collocate al centro della tradizione sinaitica, subito dopo il racconto della costruzione del santuario, dove essi saranno offerti, e prima delle norme riguardanti i sacerdoti, a cui ne è de-­‐
mandata l’esecuzione. Questa collocazione mette chiara-­‐
mente in luce l’importanza e il significato dei sacrifici nel culto di Israele. b. Diversi tipi di sacrifici
I diversi tipi di sacrificio sono elencati e descritti in modo scarno e distaccato. È poi indicato lo scopo per cui essi vengono fatti, ma non si dice perché bisogna fare certi gesti piuttosto che altri e neppure si accenna al motivo per cui tali riti producono l’effetto desiderato. I sacrifici di cui si parla in questo contesto sono l’olocausto, le offerte ve-­‐
getali, il sacrificio di comunione, il sacrificio per il peccato e il sacrificio di riparazione. Essi hanno elementi comuni, ma si distinguono soprattutto per lo scopo loro assegnato. 1) Olocausto (Lv 1,1-­‐9) Questo sacrificio era così chiamato in greco perché tut-­‐
ta la vittima, appartenente al bestiame grosso o minuto, era bruciata sull’altare. In ebraico esso era chiamato >olah, che significa «salita», perché tutta la vittima era fatta sali-­‐
re in fumo verso Dio, o anche qorban, dal verbo qarab, «accostare», perché in tal modo la vittima era fatta giun-­‐
III. La prassi sacrificale israelitica
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gere fino a Dio. Non c’era un motivo specifico per cui l’olocausto veniva offerto, se non la volontà dell’offerente. L’animale offerto doveva essere senza difetto. L’offerente imponeva le mani sulla testa della vittima, indicando così che essa era di sua proprietà e la dedicava a YHWH; in se-­‐
guito la vittima veniva uccisa e bruciata interamente. Il sangue veniva sparso dal sacerdote intorno all’altare: era questo il compito sacerdotale per eccellenza. Nel seguito del capitolo vengono date ulteriori specificazioni circa le situazioni concrete in cui questo veniva offerto. 2) Offerte vegetali (Lv 2,1-­‐3) Questo tipo di offerta veniva chiamato minúah, che ori-­‐
ginariamente significa «dono». Parte di esse veniva bru-­‐
ciata sull’altare e parte consumata dai sacerdoti. La parte bruciata era chiamata «memoriale» (<azkarah), in quanto doveva ricordare l’offerente a Dio. Fra le successive speci-­‐
ficazioni si dice che l’offerta doveva essere salata con il «sale dell’alleanza» (cfr. Lv 2,13). 3) Sacrificio di comunione (Lv 3,1-­‐5) Questo sacrificio era chiamato zebaú shelamîm, «sacri-­‐
ficio di pace». Il nome stesso lascia intendere che si tratta di un sacrificio che aveva come scopo la pace, cioè la co-­‐
munione del popolo con Dio. Non è indicata un’occasione specifica in cui esso doveva venire offerto. La vittima po-­‐
teva essere un capo di bestiame grosso o minuto; esso era offerta a Dio mediante l’imposizione delle mani dell’offe-­‐
rente, poi veniva ucciso e il suo sangue era sparso intorno all’altare. In questo contesto si specifica quale parte della vittima doveva essere bruciata sull’altare, mentre altrove 26
LA MORTE DEL MESSIA
si rende noto che il resto della carne veniva diviso tra il sacerdote e l’offerente che lo consumava con i suoi con-­‐
giunti e amici nell’area del tempio (cfr. Lv 7,11-­‐15; 19,5-­‐
8). 4) Sacrificio per il peccato (Lv 4,1-­‐35) Il nome di questo sacrificio era úaÃÃa<t, «peccato». Esso aveva lo scopo di eliminare i peccati commessi per inav-­‐
vertenza dal popolo o da qualcuno dei suoi membri, cioè il sommo sacerdote, un capo o un privato. Il tipo di vittima variava a seconda della dignità di colui per il quale il sacri-­‐
ficio era offerto. Dopo l’imposizione delle mani sul capo della vittima e la sua immolazione, se il sacrificio era per il sommo sacerdote o per tutto il popolo, il sacerdote ne prendeva il sangue e con esso aspergeva il velo del Santo dei santi e gli angoli dell’altare dei profumi, mentre il resto del sangue veniva versato ai piedi dell’altare degli olocau-­‐
sti, che si trovava all’aperto. Per il peccato di un capo o di un privato, il sangue veniva invece posto soltanto sugli angoli dell’altare degli olocausti. Il grasso della vittima era bruciato sull’altare e il resto della carne della vittima era bruciato fuori dell’accampa-­‐
mento, in un luogo a ciò destinato. Altrove si dice invece che la carne della vittima era cosa santissima e doveva es-­‐
sere consumata dai sacerdoti in un luogo santo, a meno che il sacrificio fosse offerto per un peccato del sommo sacerdote, nel qual caso tutta la carne veniva bruciata (cfr. Lv 6,22-­‐23). I casi in cui il sacrificio per il peccato era ri-­‐
chiesto sono diversi. Dopo aver descritto ciascuno di essi si dice, a proposito dell’interessato, questa frase: «Il sa-­‐
cerdote compirà per lui il rito espiatorio (kipper) (…) e gli sarà perdonato (salaú)» (Lv 4,20.26.35; 5,13). III. La prassi sacrificale israelitica
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5) Sacrificio di riparazione (Lv 5,14-­‐26) Questo sacrificio, chiamato <asham, era analogo al pre-­‐
cedente. Non è chiaro quali fossero le sue finalità specifi-­‐
che, ma sembra che venisse offerto esclusivamente dai privati. Se il peccato per cui era offerto aveva causato dei danni, questi dovevano essere previamente risarciti. An-­‐
che in questo caso si afferma che, in forza del rito espiato-­‐
rio, il peccato sarà perdonato (cfr. 5,26). c. Il grande giorno dell’«espiazione» (Lv 16)
Al termine della sezione dedicata alla legge di purità (cfr. Lv 11-­‐15) viene prescritto un particolare rituale, chiamato Kippur («espiazione»), da celebrare una volta all’anno. La descrizione dei riti previsti per questa circo-­‐
stanza è piuttosto complessa e rivela ripetizioni e appro-­‐
fondimenti successivi. Anzitutto vengono indicati i prepa-­‐
rativi del rito, che è officiato dal sommo sacerdote, qui rappresentato da Aronne, fratello di Mosè. Egli indossa le vesti sacre e sceglie gli animali per il sacrificio, che sono un giovenco e due capri (vv. 1-­‐10). Compiuta questa preparazione, si passa all’esecuzione del rito vero e proprio. Questo comprende anzitutto un sacrificio espiatorio, che Aronne celebra con il giovenco, per ottenere il perdono per sé e per tutta la sua famiglia. A tal fine egli scanna il giovenco, poi entra all’interno del Santo dei Santi, cioè la stanza più interna del tempio in cui si trova l’arca dell’alleanza, portando con sé un po’ del suo sangue e un incensiere pieno di brace con due manciate d’incenso. Giunto davanti all’arca pone l’incenso nell’in-­‐
censiere per coprirla con la nube che si sprigiona. Poi compie il rito espiatorio aspergendo per sette volte con il sangue del giovenco il coperchio dell’arca, che era consi-­‐
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LA MORTE DEL MESSIA
derato come la sede della presenza di Dio in mezzo al suo popolo: a motivo di questo rito esso era chiamato kappo-­‐
ret, «espiatorio» (in greco hilastêrion) (vv. 11-­‐15). Viene portato poi il capro scelto per il sacrificio espia-­‐
torio. Aronne lo scanna e con il suo sangue compie nuo-­‐
vamente lo stesso rito, questa volta per l'intero popolo. In tal modo egli «fa l’espiazione» (kipper) sul santuario non solo per le impurità ma anche per le ribellioni (peshaîm) e per tutti i peccati (úaÃÃa<ôt) degli israeliti; egli asperge poi la tenda del convegno (v. 16). Infine esce all’aperto e con il sangue delle due vittime, il giovenco e il capro, asperge i lati dell'altare degli olocausti (vv. 17-­‐19). Il capro usato per questo rito è chiamato «capro espiatorio» poiché con il suo sangue veniva fatta l’espiazione dei peccati. Infine il secondo dei due capri scelti precedentemente viene condotto vivo davanti al sommo sacerdote. Questi impone le mani sul suo capo mentre confessa le colpe (>avonôt), le ribellioni (peshaîm) e i peccati (úaÃÃa<ôt) del popolo (v. 20). Questo gesto aveva lo scopo di far ricadere sul capro i peccati del popolo. Esso però non era sacrifica-­‐
to ma veniva inviato, col suo carico di peccati, nel deserto da Azazel, la potenza demoniaca dalla quale si riteneva che il peccato fosse causato (vv. 21-­‐22.26). Questo rito era probabilmente più arcaico. Il capro che era utilizzato in esso viene solitamente chiamato «capro emissario» in quanto era mandato nel deserto. Mentre le vittime offerte a Dio erano cosa santa, il capro emissario, proprio perché caricato dei peccati del popolo, era impuro e chi lo aveva condotto nel deserto doveva purificarsi prima di ritornare alla vita normale (v. 28). I riti compiuti sui due capri avevano dunque un signifi-­‐
cato diverso, sebbene ambedue servissero allo stesso sco-­‐
po, quello cioè di eliminare i peccati. È importante perciò non confonderli, come si fa quando si dà l’appellativo di III. La prassi sacrificale israelitica
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«capro espiatorio» al capro inviato nel deserto con su di sé i peccati del popolo. d. Caratteristiche dei sacrifici di riparazione
Lo scopo dei sacrifici di riparazione è indicato con il termine «espiare», traduzione del verbo ebraico kafar (da cui deriva Kippur), che significa «cancellare, eliminare, purificare». Esso quindi designa un gesto di Dio che per-­‐
dona il peccatore. Perciò non deve essere confuso, come a volte capita nelle traduzioni, con il verbo «propiziare» che indica invece un atto compiuto dall’uomo per rendere propizia la divinità offesa. Bisogna sottolineare che nella Bibbia il verbo «espiare», diversamente dall’uso corrente moderno, non significa neppure scontare una pena per un crimine commesso: infatti non è l’uomo che espia, ma Dio che fa l’espiazione in quanto «cancella», perdonandolo, il peccato dell’uomo (cfr. Lv 17,11). Perciò l’espiazione era fatta dal sacerdote in quanto rappresentante di Dio e spesso era immaginata come la purificazione di un oggetto sacro contaminato dal peccato dell’uomo. A volte si è pensato che il gesto di imporre le mani sul-­‐
la testa della vittima, presente in diversi tipi di sacrificio, avesse lo scopo di trasferire le colpe dell’offerente sull’ani-­‐
male che sarebbe stato poi ucciso al suo posto, cioè avreb-­‐
be ricevuto la pena a lui dovuta. Ciò è stato suggerito dal fatto che, nella festa del Kippur, il sommo sacerdote impo-­‐
neva le mani sulla testa del capro emissario e confessava i peccati del popolo che si supponeva venissero così trasfe-­‐
riti all’animale. L’analogia però è limitata perché il capro in questione, come si è visto, non era una vittima sacrifica-­‐
le e perciò non era immolato ma era inviato nel deserto. Nei sacrifici consueti lo stesso gesto significava invece che la vittima apparteneva veramente all’offerente il quale se 30
LA MORTE DEL MESSIA
ne privava per offrirla a Dio. L’idea di sostituzione era dunque assente. I peccati perdonati mediante riti sacrificali erano le trasgressioni della legge di purità commesse per inavver-­‐
tenza (cfr. Lv 4,13.22), cioè per debolezza e ignoranza, senza un pieno coinvolgimento personale; per quelli commessi volontariamente si esigevano invece il penti-­‐
mento (cfr. 2Sam 12,13) e una riparazione adeguata del torto fatto (cfr. Lv 5,21-­‐25), mentre, nei casi estremi, si richiedeva l’eliminazione del peccatore dal popolo (cfr. Nm 15,30), cioè la pena di morte. Tuttavia, come si è visto, si riteneva che mediante il rito del Kippur venissero eli-­‐
minare anche le colpe e le ribellioni del popolo. È difficile stabilire con precisione a quali tipi di peccato si riferissero questi termini. Sembra però che neanche il rito del Kippur potesse eliminare i peccati che prevedevano la pena di morte. È quindi assente l’idea che a un animale fosse inflit-­‐
ta la morte dovuta al peccatore. È vero che sul capro emis-­‐
sario erano riversate le colpe degli israeliti. Ma questo ca-­‐
pro, come si è detto, non era ucciso in sostituzione del po-­‐
polo peccatore, ma veniva inviato vivo nel deserto perché riportasse le sue colpe al diavolo che ne era l’ispiratore. I riti sacrificali di Israele erano dunque sostanzialmen-­‐
te quelli del mondo cananeo. In essi, come nei riti cananei, aveva particolare importanza l’uso del sangue. Il loro si-­‐
gnificato però era cambiato in quanto erano visti in fun-­‐
zione dell’alleanza, che costituiva la ragione d’essere di Israele. Era infatti l’alleanza israelitica che dava significato ed efficacia ai sacrifici israelitici. Questi erano visti soprat-­‐
tutto come il segno della misericordia di Dio che perdona continuamente i peccati del suo popolo. Essi erano neces-­‐
sari per la sua stessa sopravvivenza. IV SIGNIFICATO DEI SACRIFICI ISRAELITICI Il significato dei sacrifici nel contesto dell’alleanza vie-­‐
ne ulteriormente spiegato in alcuni testi dell’AT nei quali gli autori stessi hanno voluto espressamente mettere in luce il loro carattere specifico. Il più importante è quello in cui si spiega il significato del sangue (Lv 17,10-­‐11). Vi so-­‐
no poi dei racconti nei quali si fa menzione di sacrifici of-­‐
ferti a YHWH da parte di individui o di tutto il popolo. Non tutti questi testi sono ugualmente significativi perché a volte rispecchiano concezioni popolari di origine diversa. In due di essi, però, è chiara l’intenzione di spiegare il sen-­‐
so profondo dei sacrifici: essi sono il racconto del sacrifi-­‐
cio dell’alleanza (Es 24,1-­‐11) e quello del sacrificio di Abramo (Gn 22,1-­‐19). a. L’efficacia unitiva del sangue (Lv 17,10-11)
Questo testo è particolarmente significativo perché in esso la tradizione sacerdotale dà la sua interpretazione del rito del sangue compiuto nella maggior parte dei sacri-­‐
fici. All’inizio di questo brano si formula la proibizione di mangiare il sangue di qualsiasi animale (v. 10); questa norma era già stata promulgata con una validità universa-­‐
le subito dopo il diluvio (cfr. Gn 9,4). Ora viene data a essa la seguente motivazione: «Poiché la vita della carne è nel sangue. Perciò vi ho concesso di porlo sull’altare in espia-­‐
zione per le vostre anime; poiché il sangue espia in quanto è la vita» (7,11). Per interpretare correttamente questa frase, bisogna spiegare i singoli termini che la compongo-­‐
32
LA MORTE DEL MESSIA
no. Il sangue è indicato due volte, all’inizio e alla fine, co-­‐
me sede della «vita» (nefesh). Questo termine indica origi-­‐
nariamente il soffio: da qui il significato di vita e infine di persona in quanto essere vivente animato, vivo (cfr. Gn 2,7). Che la vita avesse sede nel sangue è una ingenua cre-­‐
denza popolare, già attestata in Gn 9,4, che deriva dal fatto che, da una parte, il sangue versato emette un po’ di vapo-­‐
re, e dall’altra la sua fuoruscita produce la morte. Dio concede che il sangue sia posto sull’altare in «espiazione per le vostre anime». Il termine «espiazione» (dalla radice kafar), come si è già osservato precedente-­‐
mente, non indica in ebraico un atto dell’uomo che, con la propria sofferenza, paga il debito contratto mediante la trasgressione di una norma, ma piuttosto un intervento di Dio che rimuove, cancella il peccato dell’uomo. La prepo-­‐
sizione tradotta con «per» (>al) ha diversi significati (so-­‐
pra, al posto di, contro, in favore di, per); qui essa significa «in favore di». Il sangue esercita dunque un ruolo positivo in favore delle «anime» (pl. di nefesh, esseri dotati di vita, persone) degli offerenti. Il brano significa dunque che il sangue è stato dato da Dio perché venisse asperso sull’altare; esso ha lo scopo di espiare, cioè di rimuovere il peccato dell’offerente ristabi-­‐
lendo la sua unione con Dio. Il sangue della vittima ottiene il perdono non in forza di un’iniziativa umana tendente a placare la divinità offesa, ma perché è Dio stesso che, me-­‐
diante il rito compiuto dal suo rappresentante, mette il proprio perdono a disposizione del popolo e di tutti i suoi membri. Il rito del sangue non aveva quindi, come nella religione cananea, lo scopo di fare giungere alla divinità il dono dell’uomo per renderla propizia. Tanto meno si rite-­‐
neva che il sangue della vittima sostituisse quello del pec-­‐
catore a cui sarebbe stata dovuta la pena di morte per i suoi crimini. In primo piano vi è invece un rapporto che IV. Significato dei sacrifici israelitici
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era stato rotto o indebolito dal peccato e ora, in forza di un intervento divino, viene ripristinato o rafforzato proprio mediante il sangue della vittima. Non è detto però in che modo il sangue compie questo suo ruolo a favore degli of-­‐
ferenti. Nella traduzione greca le cose cambiano. In essa l’espressione «il sangue espia in quanto è la vita» (v. 11c) viene così trasformata: «Il suo sangue (della vittima) espierà al posto (anti) dell’anima (tês psychês, cioè della vita dell’offerente)». Secondo questa traduzione, la vittima prenderebbe su di sé la punizione dovuta all’offerente peccatore che in tal modo otterrebbe il perdono da Dio. Questa traduzione è chiaramente influenzata da un altro modo di concepire il sacrificio che non ha fondamento nel testo biblico: in essa infatti è stata introdotta l’idea di espiazione vicaria, secondo la quale la vittima prende su di sé la punizione che sarebbe dovuta al peccatore. Ma si tratta di un’interpretazione che, come vedremo, subisce già fortemente l’influsso della cultura greca. b. Il rito dell’alleanza (Es 24,1-11)
La funzione del sangue in quanto elemento unitivo vie-­‐
ne spiegata in modo più approfondito nel racconto del sa-­‐
crificio solenne effettuato da Mosè ai piedi del Sinai. Que-­‐
sto testo si situa all’interno della tradizione sinaitica, dopo la descrizione dell’alleanza tra YHWH e Israele e la promul-­‐
gazione delle leggi su cui essa si fonda, al termine del bra-­‐
no di origine deuteronomica riguardante la promessa del-­‐
la terra (cfr. Es 19-­‐23). Il redattore finale lo ha inserito in questo contesto poiché in esso è descritto il rito con il qua-­‐
le l’alleanza pattuita al Sinai ha ricevuto la sua ratifica formale. In questo brano si intrecciano due tradizioni di-­‐
34
LA MORTE DEL MESSIA
verse, delle quali la prima (vv. 1-­‐2.9-­‐11) è stata spezzata in due parti per lasciare posto alla seconda (vv. 3-­‐8). Nei vv. 1-­‐2 si dice che Mosè riceve l’ordine di salire «verso YHWH», cioè sulla montagna dove YHWH abita, por-­‐
tando con sé Aronne e i suoi due figli Nadab e Abiu, che rappresentano la casta sacerdotale. Ad essi devono unirsi i settanta anziani che rappresentano tutto il popolo (cfr. Es 18,13-­‐27). Solo Mosè però potrà avvicinarsi a YHWH. Il po-­‐
polo invece dovrà rimanere ai piedi del monte. Dopo l’introduzione, il racconto procede in un’altra di-­‐
rezione. Mosè si trova non più in cammino verso il monte, ma con il popolo al quale riferisce le «parole» di YHWH, cioè il decalogo (Es 20,1-­‐17), a cui sono successivamente ag-­‐
giunte le «norme», ossia le prescrizioni del codice dell’alleanza (Es 20,22−23,19). Questa tradizione ignora che il decalogo e il successivo codice sono già stati comu-­‐
nicati al popolo. Il redattore finale ha voluto sottolineare che, come fondamento dell’alleanza, vi è non solo il deca-­‐
logo ma anche il successivo codice dell’alleanza. Pronta-­‐
mente il popolo risponde dicendosi disposto a eseguire le «parole» che YHWH ha pronunziato (v. 3). Allora Mosè mette per iscritto le parole di YHWH, cioè il decalogo (v. 4a). Sono poi descritti i preparativi del rituale: Mosè si alza di buon mattino ed erige un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele (v. 4b). L’altare è necessario perché su di esso sono bruciate le vittime in onore della divinità (cfr. Es 20,22-­‐26). Esso rappresenta simbolicamente la divinità stessa alla quale viene rivolto il culto. Le stele sono simboli fallici che, nell’antico Medio Oriente, rappresentavano anch’esse la divinità e come tali erano proibite a Israele. Ma qui il significato di questi og-­‐
getti è stato modificato, in quanto ora non sono più simbo-­‐
IV. Significato dei sacrifici israelitici
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li divini ma rappresentano le tribù di Israele. In forza di questo cambiamento, esse assumono il significato di te-­‐
stimoni di quanto sta per accadere. I preparativi proseguono con l’immolazione delle vit-­‐
time (v. 5). Non essendo ancora stato istituito il sacerdo-­‐
zio, sono incaricati di questo compito alcuni giovani che erano probabilmente i primogeniti delle principali fami-­‐
glie. Essi devono offrire «olocausti» (>™l™t) e «sacrifici di comunione» (zebaúîm shelamîm). Sono questi i due tipi di sacrificio più importanti che contemplano l’uccisione della vittima, le cui carni sono poi bruciate tutte o in parte sull’altare (cfr. Lv 1; 3). Mosè però non è interessato all’uccisione delle vittime e alla loro combustione sull’altare, ma al sangue che se ne ricava: «Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare» (v. 6). Il gesto successivo compiuto da Mosè è quello di legge-­‐
re il libro dell’alleanza alla presenza degli israeliti i quali rispondono: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto» (v. 7). Mosè vuole essere certo che il popolo sia disposto a compiere la volontà di Dio. Poi egli prende il sangue dai catini e ne asperge il popolo dicendo: «Ecco il sangue dell’alleanza che YHWH ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole» (v. 8). Il gesto di Mosè significa dunque che, in forza dell’alleanza, la stessa vita unisce ormai Dio e Israele: in altre parole, si stabilisce tra i due contraenti una profonda solidarietà, analoga alla con-­‐
sanguinità esistente fra i parenti più stretti. L’unione tra YHWH e il popolo non avviene però automaticamente, in quanto l’aspersione del popolo è stata preceduta dalla let-­‐
tura del libro dell’alleanza e dalla dichiarazione del popolo che si impegna a osservarne le prescrizioni. Si tratta dun-­‐
que di un rapporto che potrà sussistere solo se il popolo sarà fedele alla legge. 36
LA MORTE DEL MESSIA
Dopo aver raccontato il rito del sangue, il narratore ri-­‐
prende la tradizione menzionata nei due versi iniziali (vv. 9-­‐11). Diversamente da quanto era stato comandato all’inizio, si narra che Aronne, Nadab, Abiu e i settanta an-­‐
ziani di Israele salgono con Mosè sulla montagna: è questo un segno che anche all’interno della stessa tradizione vi erano testi non del tutto armonizzati. Sulla montagna i rappresentanti del popolo vedono Dio: in realtà vedono solo quello che poteva sembrare lo sgabello dei suoi piedi: è questo un modo figurato per dire che hanno avuto una profonda esperienza di Dio. Il narratore si dà pensiero di spiegare che, diversamente da quanto si pensava, la visio-­‐
ne di Dio non ha provocato la morte dei rappresentanti di Israele. Costoro invece mangiano e bevono, cioè consuma-­‐
no un banchetto alla presenza di YHWH. Il banchetto era uno dei modi più comuni con cui veniva ratificata un’alleanza (cfr. Gn 31,46); inoltre nel culto israelitico i sacrifici di comunione includevano un banchetto alla pre-­‐
senza di YHWH. Anche il pasto consumato sulla montagna significa dunque la comunione che si attua tra Dio e Israe-­‐
le in forza dell’alleanza. Le due tradizioni riguardanti la ratifica dell’alleanza hanno un chiaro significativo eziologico in quanto spiega-­‐
no l’origine e il significato dei riti che si compivano in oc-­‐
casione dei sacrifici. In altre parole, essi hanno lo scopo di ricollegare i due maggiori riti sacrificali di Israele, l’olo-­‐
causto e il sacrificio di comunione, all’evento fondamenta-­‐
le dell’alleanza, indicandone in tal modo il significato reli-­‐
gioso. Esternamente questi riti erano simili a quelli delle popolazioni circonvicine, le quali praticavano anch’esse l’aspersione del sangue sugli oggetti del culto e il banchet-­‐
to sacro. Ma il significato era diverso: secondo la religiosi-­‐
tà cananea (e anche quella popolare degli israeliti) questi riti erano un mezzo per fare giungere un dono alla divinità IV. Significato dei sacrifici israelitici
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allo scopo di «propiziarla»; nella Bibbia, invece, essi ser-­‐
vono a ricordare l’alleanza che proprio in tal modo era sta-­‐
ta ratificata e a rinnovare la comunione con Dio mediante un rinnovato impegno di obbedienza alla sua volontà. È significativo il fatto che nei sacrifici israelitici il sangue fosse sparso solo sugli oggetti del culto mentre nel sacrifi-­‐
cio dell’alleanza era sparso anche sul popolo. Ciò manife-­‐
sta l’intenzione di conferire all’antico rito di origine cana-­‐
nea, ancora praticato dagli israeliti, un significato diverso da quello che aveva originariamente, senza con questo vo-­‐
ler mutare un’usanza ormai consolidata. c. Il sacrificio di Isacco (Gn 22,1-19)
Al termine delle tradizioni riguardanti Abramo, il pro-­‐
genitore di tutto il popolo, il narratore riporta, dopo la no-­‐
tizia della nascita del figlio tanto atteso (Gn 21,1-­‐7), il rac-­‐
conto, sicuramente tardivo, del sacrificio di Isacco (Gn 22,1-­‐19). Anche questo testo è importante per capire il significato dei sacrifici che Israele offriva al suo Dio. Il racconto, pur dilungandosi in diversi dettagli, è mol-­‐
to avaro di spiegazioni. Dio dà ad Abramo l’ordine di re-­‐
carsi con Isacco nel territorio di Moria e lì di offrirlo in sa-­‐
crificio. L’unico motivo di tale richiesta è quello di mettere alla prova il patriarca. Abramo obbedisce, ma quando sta per immolare Isacco sull’altare, Dio lo ferma e gli dice: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo fi-­‐
glio, il tuo unico figlio» (v. 12). Allora Abramo sacrifica al suo posto un ariete che si trova lì accanto, impigliato con le corna in un cespuglio. Secondo la Bibbia, il sacrificio dei primogeniti era pra-­‐
ticato dai cananei (cfr. Dt 12,31; 2Re 3,27; 17,31) e a volte dagli stessi israeliti (cfr. 2Re 16,3; 23,10; Ger 32,35; Ez 38
LA MORTE DEL MESSIA
23,39). Il racconto del sacrificio richiesto ad Abramo ave-­‐
va forse lo scopo di spiegare l’origine di un santuario in cui i sacrifici umani erano stati sostituiti con l’offerta di animali. Anche la legge mosaica imponeva agli israeliti di offrire a Dio i primogeniti, i quali però non erano sacrifica-­‐
ti ma dovevano essere riscattati mediante il sacrificio di un animale (cfr. Es 13,1-­‐2.11-­‐16). Nella versione biblica di questa leggenda il protagoni-­‐
sta è Abramo, padre e modello di Israele. Il suo gesto non ha quindi un significato limitato alla sua persona ma as-­‐
sume un valore paradigmatico per tutto il popolo. La sto-­‐
ria descrive una situazione paradossale: dopo l’attesa lun-­‐
ga e sofferta dell’erede promesso da Dio, questi domanda ad Abramo di dargli personalmente la morte. Non si tratta qui soltanto della perdita di un figlio unico e amato, ma anche della rinunzia all’oggetto stesso della promessa di-­‐
vina. In altre parole, ad Abramo è chiesto di credere che Dio, anche senza Isacco, potrà far sì che egli diventi il pa-­‐
dre di un popolo numeroso. Solo quando il patriarca ha dimostrato la sua fede totale in Dio, il figlio gli viene ridato e al suo posto viene sacrificato un capro. Anche questo racconto contiene un insegnamento circa il significato dei sacrifici israelitici. Anzitutto in esso si mette in luce una premessa essenziale al culto sacrificale: YHWH non gradisce i sacrifici umani. Se si considera il sa-­‐
crificio come un dono fatto a Dio, l’offerta di un essere umano sarebbe quanto di più appropriato si possa imma-­‐
ginare in quanto esso rappresenta il bene più grande che uno possedeva. Dio però ha in abominio questa pratica perché, da una parte, il comandamento proibisce di ucci-­‐
dere (cfr. Es 20,13) e, dall’altra, il sacrificio non è un dono fatto a Dio con lo scopo di renderlo propizio ma è un se-­‐
gno della misericordia infinita di Dio verso il suo popolo. IV. Significato dei sacrifici israelitici
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Nel racconto biblico, Isacco viene offerto a Dio in quan-­‐
to sarà il padre del popolo di Israele. Secondo il narratore, offrendo in sacrificio il suo unico figlio, Abramo offre sim-­‐
bolicamente a Dio tutto il popolo che nascerà da lui. All’origine dell’esistenza di Israele vi sono una scelta e una chiamata che fanno di esso un popolo speciale che appar-­‐
tiene a Dio. A questa scelta il popolo deve rispondere con il dono di sé che consiste nel compiere la volontà del suo Dio osservando fino in fondo la sua legge. All’ultimo momento Isacco viene sostituito da un capro che si trova casualmente in quel luogo e quindi è dato da Dio stesso. Ciò non significa che una vittima animale deb-­‐
ba essere uccisa in sostituzione dell’uomo a cui sarebbe dovuta la morte per i suoi peccati. Isacco infatti non era il rappresentante di un’umanità decaduta che meritava la morte; al contrario era l’eletto dal quale avrebbe tratto origine Israele. Il significato di questa sostituzione appare chiaro se si tiene presente che il fatto ha avuto luogo sul monte Moria (cfr. Gn 22,2), dove sorgerà il tempio di Ge-­‐
rusalemme (cfr. 2Cr 3,1), l’unico in cui gli israeliti poteva-­‐
no offrire a YHWH il culto sacrificale. Il racconto ha dunque un significato eziologico: esso vuol dire che le vittime sa-­‐
crificate nel tempio significano simbolicamente il dono di sé che Dio si attende dal suo popolo. Offrendo i loro sacri-­‐
fici nel tempio di Gerusalemme, i giudei reduci dall’esilio volevano esprimere, a imitazione del loro progenitore, la loro fedeltà all’alleanza spinta fino al dono totale di sé. Questo significato del sacrificio di Isacco viene appro-­‐
fondito nella leggenda giudaica chiamata Aqedah («lega-­‐
mento»): in essa si dice che Isacco, al momento del sacrifi-­‐
cio, era già adulto e ha fatto propria la decisione del padre, chiedendogli di essere legato saldamente all’altare per evi-­‐
tare il rischio che, spinto dalla paura, mandasse a monte il suo sacrificio; quando poi si è trovato con la faccia rivolta 40
LA MORTE DEL MESSIA
al cielo, mentre il padre stava per ucciderlo, ha avuto una visione di angeli e ha udito una voce che diceva: «Ecco i miei due unici: uno sacrifica e l’altro è sacrificato. Colui che sacrifica non esita e colui che è sacrificato tende la go-­‐
la» (cfr. Tg Gn 22,10). Questa tradizione mette dunque chiaramente in luce come il sacrificio sia l’espressione rituale della fedeltà a YHWH da parte del popolo che egli ha unito a sé nell’alleanza. L’immolazione di una vittima sull’altare ha solo un significato simbolico. Ciò che conta è una vita spe-­‐
sa per Dio nella fedeltà all’alleanza con lui. I tre testi esaminati sono molto importanti per capire qual era il significato che il sacrificio assumeva nella reli-­‐
gione israelitica. Esso non era fondamentalmente un dono fatto a Dio per ottenere la sua benevolenza, ma un segno della fedeltà di Dio al suo popolo. Questo, a sua volta, esprimeva nel sacrificio la sua volontà di accettare il dono divino dell’alleanza e di vivere in sintonia con le prescri-­‐
zioni che Dio gli aveva dato quando essa era stata ratifica-­‐
ta ai piedi del monte Sinai. I sacrifici, pur servendosi di riti di diversa origine, rappresentavano il mezzo scelto da Dio per rendere attuale la comunione con lui che faceva di es-­‐
so il suo popolo eletto. A questo significato fondamentale del sacrificio erano collegati altri aspetti della vita religiosa di Israele. I sacri-­‐
fici, e non solo quelli espiatori, erano l’occasione in cui ve-­‐
nivano espressi il pentimento e la richiesta di perdono quando il popolo era colpito da gravi calamità. Essi erano anche l’ambito in cui si ringraziava YHWH per i suoi inter-­‐
venti nella storia del popolo e nella vita dei singoli israeli-­‐
ti. I sacrifici accompagnavano la richiesta di aiuto nei momenti di difficoltà. In essi si facevano preghiere per le autorità, anche straniere, che governavano il paese. V LA PREDICAZIONE PROFETICA I profeti si sono spesso interessati al culto di Israele, nel quale vedevano l’espressione concreta del rapporto del popolo con YHWH. Essi però non erano preoccupati per le modalità pratiche con cui i riti erano compiuti. I profeti si ponevano invece in modo critico nei confronti delle di-­‐
sposizioni interiori di coloro che offrivano i sacrifici, nelle quali vedevano il rischio di una deriva da quello che era il vero significato di ciò che stavano compiendo. Essi segna-­‐
lano la possibilità che il sacrificio diventi uno strumento di contrattazione con la divinità, aprendo così la porta a una visione utilitaristica della religione. La stessa critica del culto si trova anche in alcuni salmi e testi sapienziali di carattere profetico. a. I libri profetici
I profeti condannano anzitutto il culto offerto alle divi-­‐
nità delle nazioni circonvicine (cfr. Os 2,13-­‐15; 4,11-­‐13; 13,2; Am 4,4-­‐5; Ger 7,17-­‐18; ecc.). Ma più direttamente essi colpivano il culto offerto a YHWH secondo modalità che erano tipiche delle altre religioni. Nella religiosità popola-­‐
re ciò poteva avvenire spontaneamente, in quanto nomi come Baal (signore) o Molok (Melek, re), tipici delle altre divinità, erano utilizzati senza difficoltà anche come appel-­‐
lativi di YHWH. I profeti non polemizzano contro i riti o i simboli religiosi in quanto tali. In realtà questi erano stati mutuati in gran parte dalla religiosità del mondo cananeo, nel quale si è sviluppato. Il culto popolare fu riprovato dai 42
LA MORTE DEL MESSIA
profeti in quanto i riti che venivano compiuti, anche se ri-­‐
volti a YHWH, comportavano una visione religiosa in forza della quale la divinità era strumentalizzata a fini egoistici individuali o di gruppo. L’adorazione del vitello d’oro, per esempio, era probabilmente la forma ordinaria del culto jahwista nel regno di Israele: essa è stata condannata in Es 32 come il peccato originale del popolo, perché riduceva YHWH al rango di una divinità della fecondità, che doveva essere resa propizia mediante preghiere e sacrifici. In modo speciale i profeti condannano un culto di-­‐
sgiunto dalla pratica della giustizia sociale. Essi affermano con insistenza che YHWH rifiuta categoricamente i sacrifici degli israeliti perché non può sopportare delitto e solenni-­‐
tà, culto e spargimento di sangue (Is 1,11-­‐17); i loro olo-­‐
causti e sacrifici non gli sono graditi perché essi hanno ri-­‐
gettato la sua legge (Ger 6,19-­‐20); YHWH non ha dato ordi-­‐
ni sull’olocausto e sul sacrificio quando li ha fatti uscire dall’Egitto ma ha semplicemente ordinato: «Ascoltate la mia voce» (Ger 7,22-­‐23); egli non volge lo sguardo ai loro olocausti e alle loro vittime, ma si attende che al loro posto scorrano il diritto e la giustizia (Am 5,22.24). Dio rifiuta le vittime che gli sono offerte in abbondanza e non gradireb-­‐
be neppure il sacrificio del primogenito se gli fosse offer-­‐
to; ciò che egli si aspetta è «praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio» (Mi 6,6-­‐8). I sacrifici dunque sono inutili quando mancano l'obbedien-­‐
za a YHWH, nonché la pratica del diritto e della giustizia. Il rifiuto dei sacrifici da parte di YHWH è sottolineato in modo particolare dal profeta Osea. Nel capitolo 6 del suo libro, Dio rimprovera gli israeliti perché la loro fedeltà (úesed) è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce. Perciò li ha colpiti mediante la sua parola pronunziata dai profeti (vv. 4-­‐5). Al termine dell’ammoni-­‐
zione il profeta attribuisce a YHWH un’affermazione molto V. La predicazione profetica
43
drastica: «Poiché voglio la fedeltà e non il sacrificio (ze-­‐
baú), la conoscenza di Dio più degli olocausti (>ôlôt)» (v. 6). Secondo Osea quindi anche il sacrificio più significati-­‐
vo, l’olocausto, che consisteva nel bruciare integralmente la vittima sull’altare in onore di YHWH, era da lui rifiutato. Ciò che Dio si attende dal suo popolo è un atteggiamento interiore che viene identificato con la «fedeltà» e la «cono-­‐
scenza di YHWH». Dio non si accontenta dunque di gesti esteriori di culto, ma vuole una vera e radicale conversio-­‐
ne del cuore che si manifesta nel compimento della sua volontà. A questo proposito sono significative le parole di Sa-­‐
muele, il quale era profeta ma anche svolgeva un ruolo sa-­‐
cerdotale. Rivolto a Saul egli dice: «YHWH gradisce forse gli olocausti e i sacrifici quanto l'obbedienza alla voce di YHWH? Ecco, obbedire è meglio del sacrificio, essere docili è meglio del grasso degli arieti» (1Sam 15,22). Perciò il rifiuto dei sacrifici da parte dei profeti va di pari passo con gli oracoli di condanna. II giudizio di Dio è deciso, e il ca-­‐
stigo imminente non sarà allontanato da atti esteriori di culto, giacché le colpe del popolo sono troppo gravi (cfr. Ger 6,19-­‐20; 14,12; Mi 3,4; e anche 1Sam 3,14). I profeti dunque non condannano il culto in se stesso e neppure i sacrifici offerti a YHWH, ma un culto privo delle condizioni richieste dal rapporto con lui. Per loro il sacrifi-­‐
cio non può essere usato per propiziare YHWH, ma piutto-­‐
sto deve diventare un segno della fedeltà a lui. Se questa viene a mancare, il sacrificio non serve a nulla, anzi diven-­‐
ta una provocazione che suscita l’ira di YHWH. La posizione profetica si distingue dunque da quella degli esseni, i quali non immolavano animali (Filone, Quod omnis probus liber sit, 75) non perché criticassero l’infedeltà alla legge di chi li offriva ma perché non riconoscevano la legittimità del sacerdozio di Gerusalemme e del culto ufficiale. 44
LA MORTE DEL MESSIA
b. I Salmi
Nella preghiera di Israele appare spesso il riferimento ai sacrifici e al culto. Alcuni salmi si pongono espressa-­‐
mente sulla linea della predicazione profetica. Nel Sal 51 il salmista chiede perdono a Dio per un grave peccato da lui commesso, che non poteva essere cancellato con un sem-­‐
plice sacrificio (cfr. v. 19; cfr. 2Sam 12,13). Al termine fa un voto: se sarà perdonato, il salmista non solo esalterà la giustizia di YHWH, ma aiuterà altri peccatori a redimersi; come ringraziamento egli offrirà l’unico sacrificio che Dio gradisce, quello cioè di un cuore penitente e sottomesso (vv. 15-­‐19; cfr. Os 6,6; Is 66,2). Nella sua situazione, il sa-­‐
crificio non è dunque richiesto e neppure gradito a YHWH (v. 18). Solo nei versetti finali (vv. 20-­‐21), che sono un’aggiunta posteriore, si spiega che YHWH rifiuta i sacrifici perché il tempio è distrutto, ma li accetterà di nuovo quando esso sarà ricostruito. Per l’autore del salmo, inve-­‐
ce, ai fini di un vero rapporto con Dio, i sacrifici sono inuti-­‐
li. Nel Sal 40 il salmista allude anzitutto al pericolo da cui è scampato sottolineando come YHWH, nel quale ha sem-­‐
pre confidato, sia intervenuto in modo risolutivo in suo favore, liberandolo da una morte ormai imminente e aprendo così il suo cuore al canto (vv. 2-­‐4). Come ringra-­‐
ziamento egli vorrebbe offrire a Dio un sacrificio, ma Dio gli ha fatto comprendere che gradisce non i sacrifici, ma il compimento del suo volere: perciò dichiara di aderire fin dal profondo del cuore alla sua legge (vv. 7-­‐9; cfr. Ger 31,33). Secondo il v. 8 il salmista scopre tutto ciò in un li-­‐
bro che, alla luce del versetto successivo, è la Torah di Mo-­‐
sè, che egli porta nel cuore. Come conclusione dichiara di aver annunziato la giustizia divina a tutta l’assemblea (cfr. Is 42,6; Sal 22,23) e implora Dio di non rifiutargli mai la V. La predicazione profetica
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sua misericordia (vv. 10-­‐12). Anche in questo salmo si contesta qualsiasi sacrificio disgiunto dal compimento del-­‐
la volontà di Dio contenuta nella «legge». Nel Sal 50 il salmista, facendo ricorso al genere lettera-­‐
rio del «processo» (rîb) nei confronti del popolo peccato-­‐
re, precisa il significato del culto alla luce dell’alleanza (cfr. Is 1,10-­‐20). Egli esordisce descrivendo, con le immagini classiche della teofania, la venuta di YHWH (vv. 1b-­‐3) e la chiamata in giudizio del popolo, con il quale aveva un giorno stabilito l’alleanza mediante un sacrificio (cfr. Es 24,1-­‐11) (vv. 4-­‐6). Dio rimprovera gli israeliti non perché gli facciano mancare i loro sacrifici, che invece si moltipli-­‐
cano a dismisura. Egli non ha bisogno né di vitelli né di capri perché sono sue tutte le bestie della foresta. Se aves-­‐
se fame, non lo direbbe certamente a loro, perché è suo il mondo e quanto contiene. Egli chiede un’unica cosa: «Offri a Dio come sacrificio la lode e sciogli all’Altissimo i tuoi voti». In questo salmo si auspica dunque l’offerta di un sa-­‐
crificio in cui l’offerente non offre a Dio una vittima anima-­‐
le ma se stesso, non mediante un gesto rituale ma vivendo fino in fondo la fedeltà nei suoi confronti (cfr. Is 66; Dn 3,39-­‐40). Alla luce della predicazione profetica, che sta all’origi-­‐
ne dei salmi che abbiamo citato, appare dunque che il sa-­‐
crificio ha valore solo se rappresenta la manifestazione esterna di un atto di fedeltà interiore a YHWH. Al di fuori di un rapporto sincero con lui, il sacrificio non solo non è gradito a YHWH ma suscita la sua ira. c. La letteratura sapienziale
Anche nella letteratura sapienziale si trovano forti espressioni di origine profetica in cui viene condannato il 46
LA MORTE DEL MESSIA
sacrificio compiuto da chi non osserva la legge. Nel libro dei Proverbi si leggono le massime seguenti: «Il sacrificio dei malvagi è un orrore per YHWH, la preghiera dei buoni gli è gradita» (Pr 15,8); «Praticare la giustizia e l’equità per il Signore vale più di un sacrificio» (Pr 21,3); «Il sacri-­‐
ficio dei malvagi è un orrore, tanto più se offerto con catti-­‐
va intenzione» (Pr 21,27). Il Qohelet avverte: «Bada ai tuoi passi quando ti rechi alla casa di Dio. Avvicinati per ascoltare piuttosto che of-­‐
frire sacrifici, come fanno gli stolti, i quali non sanno di fare del male» (Qo 4,17). Il Siracide riporta una collezione riguardante la legge e i sacrifici, in cui stabilisce il primato della morale sul culto (Sir 34,18–35,10). Secondo lui nella vita religiosa il culto assume un posto secondario rispetto agli obblighi fondamentali della legge. Sulla linea della predicazione profetica, egli afferma chiaramente che Dio non accetta il sacrificio che va di pari passo con l’ingiu-­‐
stizia: «Sacrificare il frutto dell’ingiustizia è un’offerta da scherno e i doni dei malvagi non sono graditi. L’Altissimo non gradisce le offerte degli empi né perdona i peccati se-­‐
condo il numero delle vittime. Sacrifica un figlio davanti al proprio padre chi offre un sacrificio con i beni dei poveri» (Sir 34,21-­‐24). Pur senza condannare i sacrifici, il Siracide sostiene che il vero culto consiste nell’osservanza della legge: «L’osservanza della legge vale quanto molte offerte; chi adempie i comandamenti offre un sacrificio che salva. Chi ricambia un favore offre fior di farina, chi pratica l’elemosina fa sacrifici di lode. Cosa gradita al Signore è tenersi lontano dalla malvagità, sacrificio di espiazione è tenersi lontano dall’ingiustizia» (Sir 35,1-­‐5). Nei testi che abbiamo esaminato il sacrificio viene in-­‐
terpretato non come un dono fatto a Dio, ma come V. La predicazione profetica
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l’espressione rituale di un rapporto con lui che presuppo-­‐
ne la fedeltà e l’obbedienza nei suoi confronti. Si com-­‐
prende perciò come il sacrificio diventi espressione di una dedizione totale del credente o di tutto il popolo nei con-­‐
fronti di Dio e della sua legge. Si passa dunque sponta-­‐
neamente dal concetto di un sacrificio offerto a Dio a quel-­‐
lo di un impegno totale per lui e per il suo progetto di libe-­‐
razione. In questo contesto l’idea stessa che nel sacrificio una vittima possa espiare al posto del peccatore è total-­‐
mente assente. C’è solo un testo nel quale si è pensato che questa idea facesse capolino. Si tratta del quarto carme del Servo di YHWH, al quale dedichiamo ora la nostra attenzio-­‐
ne. VI IL SERVO DI YHWH La concezione sacrificale assume una particolare con-­‐
notazione in un testo, datato alla fine dell’esilio babilone-­‐
se, nel quale essa viene utilizzata per spiegare l’esperienza umana e religiosa di un personaggio chiamato «Servo di YHWH» (Is 53). Al personaggio designato con questo appel-­‐
lativo sono dedicati quattro carmi nei quali si racconta la sua vicenda umana e religiosa. Per il nostro scopo è signi-­‐
ficativo soprattutto il quarto carme, nel quale si accenna all’interpretazione sacrificale della vicenda del Servo. Ma prima di esaminare questo testo è necessario ricostruire il contesto storico in cui si colloca la vicenda, perché solo così sarà poi possibile dare una valutazione il più possibile oggettiva del suo messaggio. a. Situazione storica
I quattro carmi del Servo di YHWH si trovano in punti diversi della seconda parte del libro di Isaia, chiamata an-­‐
che Deutero-­‐Isaia (Is 40-­‐55). La composizione di questo scritto si situa nel tempo che precede immediatamente la caduta dell’impero babilonese e la sua conquista da parte di Ciro il persiano (538 a.C.). Si può pensare che i babilo-­‐
nesi tenessero ancora saldo il potere nelle loro mani, ma già si profilava la svolta che sarà determinata dall’ascesa di Ciro, la cui politica era quella di permettere alle mino-­‐
ranze deportate in diversi territori dell’impero di ritorna-­‐
re nei loro paesi d’origine. La popolazione giudaica esule in Mesopotamia era allora percorsa da fremiti di libera-­‐
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LA MORTE DEL MESSIA
zione. Anche per i giudei infatti cominciava a concretizzar-­‐
si la possibilità di un ritorno nella loro terra. In questo contesto si situa il personaggio a cui è dato il titolo onori-­‐
fico di Servo (rappresentante, portavoce) di YHWH, una fi-­‐
gura che riveste caratteri sia messianici che profetici. Oggi è opinione comune che i testi che lo riguardano debbano essere letti non come un corpo estraneo ma come parte integrante del Deutero-­‐Isaia. Attualmente si è anche d’accordo nel leggere i quattro carmi in modo unitario. Essi dunque raccontano una vi-­‐
cenda che inizia con il primo di essi e raggiunge il suo culmine nell’ultimo. Nel primo carme (Is 42,1-­‐8) viene de-­‐
scritta la missione che il Servo ha ricevuto da Dio. Egli do-­‐
vrà radunare i giudei esiliati in Mesopotamia, riportarli a YHWH mediante una conversione sincera e infine farli usci-­‐
re da quel paese e ricondurli nella loro terra. Nel secondo carme (49,1-­‐7) si dice che egli, nell’esercizio della sua mis-­‐
sione, è andato incontro a un fallimento doloroso, a moti-­‐
vo del quale però non si è scoraggiato, perché YHWH era con lui. Nel terzo carme (50,4-­‐10) si racconta come il rifiu-­‐
to iniziale si sia tramutato in una vera e propria persecu-­‐
zione. Infine, nel quarto carme (52,13− 53,12) si descrive la sua fine dolorosa e si mettono in luce i motivi che l’hanno provocata e le prospettive che essa ha aperto. b. Il quarto carme (Is 52,13−53,12)
Il carme inizia con un oracolo di YHWH nel quale si preannunzia la futura esaltazione del Servo (Is 52,13-­‐15). Segue poi una lamentazione collettiva in cui l’autore, a nome di tutto il popolo, narra la tragica vicenda del Servo (Is 53,1-­‐10). Conclude la composizione un altro oracolo di YHWH (Is 53,11-­‐12). VI. Il Servo di YHWH
51
Nell’oracolo iniziale (Is 52,13-­‐15) l’autore intende aiu-­‐
tare il lettore a non lasciarsi sconvolgere dalle cose terri-­‐
bili che sta per narrare. Il Servo, è vero, ha fatto una brutta fine, ma questa è stata solo la premessa di un grande suc-­‐
cesso. Nella lamentazione che segue (vv. 1-­‐10) l’autore, fa-­‐
cendosi portavoce di un gruppo di persone che hanno as-­‐
sistito alla vicenda del Servo, descrive anzitutto la sua sof-­‐
ferenza (vv. 1-­‐3), passando poi a indicarne le cause: «Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori » (v. 4a). Il Servo è dunque pienamente solidale con le sofferenze che hanno colpito l’autore e i suoi compagni. Vedendo la sua condizione dolorosa, costoro avevano pensato che egli fosse colpito, percosso da Dio e umiliato (v. 4b). Secondo una mentalità molto diffusa, una grave sofferenza non poteva essere che il castigo divino per i peccati commessi. Invece, prosegue l’autore della lamen-­‐
tazione, egli è stato trafitto per i (min, a motivo dei) nostri delitti, schiacciato per le (min, a motivo delle) nostre ini-­‐
quità (v. 5a). C’è dunque un rapporto stretto tra le soffe-­‐
renze del Servo e i peccati di coloro che adesso ne piango-­‐
no la fine. Si può immaginare che, facendosi solidale con il gruppo degli esuli ma dissociandosi dai loro progetti ispi-­‐
rati da sentimenti di egoismo e di violenza, il Servo sia di-­‐
ventato oggetto di ostilità e di cattiverie. Di conseguenza, la sofferenza che si è abbattuta su di lui era «la correzione della nostra pace», cioè una prova che aveva come scopo la loro salvezza; infatti, proprio in forza delle sue piaghe, essi hanno ottenuto la guarigione (v. 5b), cioè hanno supe-­‐
rato la loro violenza e ostilità. L’autore spiega poi come ciò si sia verificato: «noi tut-­‐
ti», cioè il gruppo che si identifica con lui, «eravamo sper-­‐
duti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada» (v. 6a): il loro peccato si identificava dunque con la lacera-­‐
52
LA MORTE DEL MESSIA
zione del tessuto sociale e religioso del gruppo. Sono pre-­‐
cisamente le conseguenze di queste divisioni che sono ri-­‐
cadute sul Servo: infatti «YHWH fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti» (LXX: il Signore lo ha dato [pa-­‐
redôken] ai nostri peccati) (v. 6b). La sua reazione è così caratterizzata: «Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come un agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca» (v. 7). Egli si è comportato dunque in modo mite e non violento, come il profeta Geremia, il quale però, diver-­‐
samente da lui, chiedeva vendetta per i torti subiti (cfr. Ger 11,19): neppure i maltrattamenti più atroci lo hanno fatto desistere dal suo atteggiamento. L’agnello è qui pre-­‐
sentato come simbolo di mitezza e di non violenza, non come vittima di un sacrificio. La vicenda del Servo si conclude in modo tragico. Il Servo è stato condannato e ucciso a motivo della malvagi-­‐
tà del suo popolo: «Con oppressione e (ingiusta) sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua sorte? Sì, fu eli-­‐
minato dalla terra dei viventi, per (min, a motivo di) l’iniquità del mio popolo fu percosso a morte» (v. 8). La sua morte è conseguenza di un’ingiusta sentenza, davanti alla quale i suoi connazionali hanno reagito con l’indifferenza, isolandolo e così mettendolo nelle mani di un potere nemico. Alla fine si ricorda che gli fu data sepol-­‐
tura con gli empi, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse trovato inganno nella sua bocca (v. 9). Egli non ha ceduto neppure un istante alla violenza e all’inganno. Proprio per questo è diventato lui stesso la prima vittima della violenza altrui. Con la sua morte però non è stata detta l’ultima parola: «A YHWH è piaciuto prostrarlo con dolori. Siccome ha offer-­‐
to se stesso come sacrificio di riparazione (<asham), vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo VI. Il Servo di YHWH
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la volontà del Signore» (v. 10). Il termine ebraico <asham (riparazione) indica il secondo dei due tipi di sacrificio ai quale si ricorreva per ottenere il perdono dei peccati (cfr. Lv 5,14-­‐19). Egli è equiparato simbolicamente alla vittima sacrificale perché ha attuato nel modo più pieno quella riconciliazione del popolo con Dio che era lo scopo dei sa-­‐
crifici. La lunga vita promessa al Servo dopo la sua morte indica il successo della sua opera. Per mezzo suo infatti si compie la volontà di Dio, cioè la conversione del popolo e il suo ritorno nella terra promessa. Direttamente non si parla di una glorificazione del Servo nell’altra vita o di una sua risurrezione dopo la morte. Nell’oracolo finale (vv. 11-­‐12) riprende la parola YHWH il quale fa una sintesi della lamentazione precedente. Egli afferma che il Servo, dopo il suo intimo tormento, vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; egli renderà giusti i molti, cioè i membri del suo popolo, perché si è addossato le loro iniquità. YHWH gli darà in premio le moltitudini, i potenti gli saranno sottomessi, perché «ha spogliato se stesso fino alla morte». Questa espressione è tradotta in greco «perché fu data alla morte (paredothê eis thanaton) la sua anima». Non si precisa se sia stato il Servo a fare l’offerta di sé o se sia Dio che l’ha voluta. In conclusione, egli è stato annoverato fra gli empi, mentre portava il pec-­‐
cato di molti e intercedeva per i colpevoli. Ancora una vol-­‐
ta si sottolinea la sua solidarietà con il popolo peccatore. c. Interpretazione del carme
Nel carme non sono indicati né l’identità del Servo né i dettagli storici della vicenda che lo ha avuto come prota-­‐
gonista. Non è detto neppure chi sia responsabile della persecuzione di cui è stato fatto oggetto e della sua ucci-­‐
54
LA MORTE DEL MESSIA
sione: siccome questa è conseguenza di una sentenza in-­‐
giusta, i responsabili potrebbero essere stati i babilonesi che erano pronti a reprimere ogni scintilla di nazionali-­‐
smo nelle popolazioni deportate. Dal quarto carme risulta però che anche i giudei esiliati avevano le loro responsabi-­‐
lità, se non altro perché erano divisi, ancora chiusi nei loro interessi e proprio per questo l’avevano isolato e abban-­‐
donato alla sua sorte. La morte del Servo viene spesso spiegata mediante il concetto di «espiazione vicaria»: egli cioè avrebbe svolto il ruolo di vittima sacrificale, assumendo su di sé il castigo che era dovuto al popolo peccatore (cfr. Is 53,10). Ciò si deduce da due aspetti del racconto: egli ha preso su di sé i peccati del popolo e, di riflesso, la sua morte è stata assi-­‐
milata a un sacrificio di riparazione. Questa interpretazione, per quanto suggestiva, non regge però alla prova dei fatti. Anzitutto, secondo il Deute-­‐
ro-­‐Isaia la colpa di Gerusalemme, cioè del popolo in esilio, è già stata scontata «perché ha ricevuto dalla mano di YHWH il doppio per tutti i suoi peccati» (Is 40,2). Per que-­‐
sto al Servo è stato affidato il compito non di ottenere il perdono divino ma di radunare il popolo disperso per ri-­‐
condurlo nella sua terra. La sua morte quindi deve avere a che fare con la missione che gli è stata conferita. Inoltre, nel linguaggio biblico il termine «peccato» (>awon e i suoi sinonimi) viene spesso usato per indicare non solo la colpa, ma anche le sue conseguenze (sofferen-­‐
za e morte). Come risulta dal contesto, il Servo ha preso su di sé non tanto le colpe, che non sono trasferibili, quanto piuttosto le conseguenze disastrose dell’infedeltà del po-­‐
polo che, a causa del proprio peccato, era stato disperso come un gregge senza pastore (v. 6; cfr. Ger 23,1; 31,10; Ez 34,5). Per due volte la sua solidarietà con il popolo vie-­‐
ne espressa in greco con il verbo «donare» (paradidômi): è VI. Il Servo di YHWH
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YHWH che lo ha donato per i nostri peccati (v. 6) e lui stes-­‐
so si è donato per questo scopo fino alla morte (v. 12). Proprio nel compimento della sua missione, egli ha trova-­‐
to la morte come conseguenza, da una parte, della prepo-­‐
tenza dei poteri politici e, dall’altra dell’omertà del suo popolo, dal quale non è stato compreso e quindi è stato isolato e abbandonato alla sua sorte. La sua morte, però, accettata liberamente come espres-­‐
sione della sua fedeltà totale a Dio e al popolo, ha avuto l’effetto di rompere la spirale della violenza e di creare fra gli esiliati un movimento di riconciliazione e di aggrega-­‐
zione. In seguito a essa gli esuli, ormai consapevoli del progetto di Dio, hanno potuto accettare la sfida del ritorno nella loro terra. In lui la sofferenza e la morte assumono perciò un significato nuovo, diventando il segno della fe-­‐
deltà indefettibile di Dio verso il suo popolo. La fine del Servo è stata quindi riletta in chiave sacrificale in quanto con essa egli ha conseguito lo scopo dei sacrifici, che era quello di ripristinare l’alleanza di YHWH con Israele. In al-­‐
tre parole, la morte del leader mandato da YHWH rappre-­‐
senta lo scossone che darà inizio a un movimento di ritor-­‐
no degli esiliati nella loro patria. Possiamo dunque concludere che il concetto di espia-­‐
zione vicaria è assente anche nei carmi del Servo. La sua morte è intesa, sulla linea profetica, come sacrificio, ma solo nel senso di un impegno per Dio e per il popolo porta-­‐
to fino alle estreme conseguenze. Ma è assente l’idea che una persona possa «sacrificarsi» fino a morire al posto di altri, assumendosi così la punizione a loro dovuta. VII EROI FILOSOFI E MARTIRI L’idea di una morte a favore del popolo, quale è atte-­‐
stata a proposito del Servo di YHWH, riappare in ambito giudaico nel contesto della persecuzione scatenata dal re Antioco IV Epifane, re di Siria (175-­‐164 a.C.), per costrin-­‐
gere i giudei ad assumere le usanze greche. È in questo periodo che si sviluppa l’idea secondo cui la morte di quanti non hanno ceduto alle lusinghe del re, rimanendo fedeli fino in fondo alle leggi dei padri, ha un carattere espiatorio per tutto il popolo. Questa evoluzione è dovuta anche all’influsso della cultura ellenistica, nella quale in-­‐
vece la morte a favore di altri è spesso esaltata. Portiamo qualche esempio di questa concezione ellenistica per mo-­‐
strare poi come essa sia penetrata nel mondo giudaico. a. La concezione greca
Nella mitologia greca appare a più riprese l’idea se-­‐
condo cui personaggi eminenti scelgono liberamente di affrontare la morte. Questo avviene per esempio nel caso di Eracle e di Achille. Del primo si racconta che «fu sottrat-­‐
to alle fiamme di un rogo da una nube che lo trasportò al cielo, nel fragore di tuoni» (Apollodoro, Biblioteca 2,7,7). Achille era un semidio, essendo figlio di Peleo e della ninfa Teti. Egli decide, nonostante gli avvertimenti della madre, di affrontare il combattimento contro Ettore per vendicare l’assassinio del suo amico Patroclo, con la convinzione che fosse più desiderabile una vita breve ma gloriosa di una vita lunga senza gloria (Omero, Iliade 18,114-­‐116). Vi è 58
LA MORTE DEL MESSIA
poi il caso di Socrate il quale, per rispetto delle leggi della città, non volle sottrarsi all’ingiusta pena capitale che gli era stata comminata (cfr. Platone, Critone 54d) Nella letteratura greca è presente anche l’idea di una morte per gli altri, siano essi parenti amici o concittadini, o anche per la verità filosofica. In questo contesto si tro-­‐
vano spesso espressioni come «morire per» (apothnêskein hyper) oppure, più raramente, «donare se stesso per» ([epi]didonai heauton hyper) e altre formule simili con peri o pro. Per esprimere questo fenomeno viene coniato addi-­‐
rittura il verbo composto hyper-­‐apothnêskein («morire per»). In molti testi si celebra la morte affrontata nel combat-­‐
timento per la città. L'idea risale già ad Omero. Ettore sprona i troiani: «Su, combattete contro le navi, in massa; e chi fra voi ferito o colpito incontri la morte e il suo desti-­‐
no, muoia; bello per lui morire difendendo la patria» (Ilia-­‐
de 15,496-­‐497). Il poeta spartano Tirteo si esprime in ma-­‐
niera analoga: «E bello, invero, che un uomo valoroso muoia cadendo nelle prime file, combattendo per la sua patria» (Frammenti). Quasi contemporaneamente, Callino così esorta i giovani di Efeso: «È oggetto di onore e di glo-­‐
ria per un uomo il combattere per (peri) la propria terra, per i figli e la moglie» (Frammenti, vv. 6-­‐7). Dopo le guerre persiane si potevano vedere numerose iscrizioni funerarie e testi onorifici che cantavano la gloria degli eroi morti in combattimento. Una testimonianza fra le più antiche è il monumento ai caduti alle Termopili nel-­‐
la città locrese di Opunte dove è scritto: «Opunte, la ma-­‐
drepatria dei locresi amanti della giustizia, piange costoro, che morirono un tempo per (hyper) l'Ellade contro i Medi» (Strabone 9,4,2). Nel Menesseno di Platone, Socrate fa l'elogio di coloro i quali sono morti per la città: essi «hanno accettato la mor-­‐
VII. Eroi filosofi e martiri
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te in cambio (anti) della salvezza dei vivi» (237a). Pindaro canta la morte per la città presentandola come un sacrifi-­‐
cio religioso: «Ascolta, alalà, ascoltaci, figlia della guerra, preludio di lance, cui i soldati sono sacrificati per (hyper) la salvezza della loro città, nel santo sacrificio di morte» (Frammento 66). Il «morire per la città» fu anche introdotto nei catalo-­‐
ghi dei doveri dei filosofi. È il tema centrale del Menesseno di Platone; nella sua Etica Nicomachea, Aristotele associa al dovere di morire per la città natale quello di dare la propria vita «per gli amici», quando è necessario. Nel Con-­‐
vito di Platone la morte per colui che si ama è presentata come espressione della singolare potenza dell'Eros: «Solo coloro che amano consentono di morire per (hyper-­‐
apothnêskein) coloro che amano» (208d). Il fatto che alla patria siano aggiunti gli «amici» indica l’importanza as-­‐
sunta dal tema filosofico dell'amicizia. L’esaltazione del «morire per» si prolunga fino all'epo-­‐
ca ellenistica. Fra i motivi che giustificano una morte vo-­‐
lontaria, gli Stoici, da Crisippo in poi, ponevano in primo luogo la difesa della patria e degli amici. È noto il verso di Orazio secondo il quale dulce et decorum est pro patria mori («è dolce e bello morire per la patria» ) (Carmina 3,2,13): questo ideale era familiare a romani e a greci sin dall'infanzia in quanto era un tema fisso della scuola anti-­‐
ca. Invece per Epicuro e i suoi discepoli, avversi a ogni at-­‐
tività politica, solo «la morte per un amico, in alcune circo-­‐
stanze», faceva parte delle caratteristiche dell'uomo «sag-­‐
gio». Anche Epitteto ammette solo la morte per gli amici (Dissertazioni 2,7,3cfr. Gv 15,13 e Rm 5,6). I cinici, invece, pur rifiutando la paura della morte, negavano che si do-­‐
vesse morire per le istituzioni, sia per lo Stato che per la famiglia, in quanto si ritenevano cittadini del mondo. 60
LA MORTE DEL MESSIA
Nella letteratura greca si trova anche l'ideale della morte in «sostituzione» di altri. La morte «al posto di…» aveva luogo quando un individuo, per esempio il re o il comandante in capo dell’esercito, accettava volontaria-­‐
mente di morire per evitare la rovina di altri. I testi antichi menzionano con relativa frequenza l'esempio eroico di Codro, l'ultimo leggendario re di Atene, il quale, in guerra contro Sparta, aveva saputo dall'oracolo di Delfi che gli ateniesi avrebbero vinto se il loro sovrano fosse stato uc-­‐
ciso. La notizia giunse presto alle orecchie degli spartani, i quali, naturalmente, facevano attenzione a non fargli del male. Il re, tuttavia, travestito da vecchio, provocò alcuni soldati spartani andati a fare legna, i quali lo uccisero. Gli ateniesi svelarono l'inganno agli spartani, che così seppe-­‐
ro della morte di Codro e persero la guerra (Pausania, Pe-­‐
riegesi della Grecia, IV, 5, 4). La scelta di morire in sostituzione di altri ricorre in modo impressionante nelle tragedie di Euripide. Nell'Alce-­‐
ste si racconta che le Moire accettarono di rinviare la mor-­‐
te ormai prossima di Admeto, se qualcuno fosse stato di-­‐
sposto a morire al suo posto. Admeto era convinto che uno dei suoi anziani genitori sarebbe stato lieto di sostituirlo, ma essi rifiutarono. Allora sua moglie Alceste scelse di morire al suo posto (Alceste, 18,178.282 ecc.). Nelle Feni-­‐
cie, si racconta che Tiresia, un indovino cieco, aveva avvi-­‐
sato i tebani che l’unico modo di salvare la loro città sa-­‐
rebbe stato quello di sacrificare il figlio del re Creonte, Meneceo; questi, contro la volontà del padre, accetta il re-­‐
sponso e parte segretamente dicendo: «Io andrò e salverò la città, e abbandonerò la mia vita alla morte per questo paese» (Fenicie 997-­‐998). Nelle Eraclidi, si racconta che i figli di Eracle, perseguitati da Euristeo, re di Micene, sono accolti e difesi da Demofonte, re di Atene. Tra i due re si va quindi allo scontro armato, ma un oracolo rivela a Demo-­‐
VII. Eroi filosofi e martiri
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fonte che, per conseguire la vittoria, è necessario sacrifica-­‐
re una nobile vergine. Allora Macaria, figlia anche lei di Eracle, offre la vita per i suoi fratelli: «Io do la mia vita per loro di mia spontanea volontà, e non costretta» (Eraclidi 550-­‐551). A prima vista potrebbe sembrare che in questi testi sia assente qualsiasi significato religioso. Ma non è così: nella società antica, il fatto di morire per la città, per i propri dèi, per le leggi sante e il tempio, per le tombe degli ante-­‐
nati e delle famiglie scomparse, ha sempre avuto un carat-­‐
tere essenzialmente religioso e chi moriva in combatti-­‐
mento per questi valori supremi era onorato come eroe, cioè come un essere divino. Le affermazioni riguardanti la morte in favore di altri, della patria o per un ideale o un valore si trovano dunque in grande abbondanza nella letteratura greca. Esistono anche dei casi in cui qualcuno, dietro richiesta degli dèi, è disposto a morire al posto di altri, siano essi singoli indi-­‐
vidui o i propri concittadini. Ma, come è facile intuire, i due tipi di morte non sono facilmente distinguibili l’uno dall’altro. Comunque bisogna riconoscere che nell'elleni-­‐
smo, diversamente dal mondo biblico, l’idea di una morte sostitutiva è presente, soprattutto in testi di carattere mi-­‐
tologico. b. I giudei martiri
L’ideale di una morte eroica per il popolo o per la legge fa il suo ingresso nel mondo giudaico in epoca ellenistica, a partire dal tempo dei Maccabei. Nel primo libro dei Mac-­‐
cabei, originariamente scritto in ebraico, Mattatia esorta i suoi figli con queste parole: «Abbiate zelo per la Legge e date la vostra vita per (hyper) l’alleanza dei nostri padri. Ricordate le gesta compiute dai padri e riceverete grande 62
LA MORTE DEL MESSIA
reputazione e nome imperituro» (1Mac 2,50-­‐51). Flavio Giuseppe rende questo invito in una forma ancor più gre-­‐
cizzante: «Preparate le vostre anime, così che, se è neces-­‐
sario, possiate morire per (hyper) la legge» (Antichità giu-­‐
daiche 12,281). È chiaro che egli utilizza qui una formula greca conosciuta sin dal tempo di Aristotele. Asserzioni simili si trovano spesso negli scritti giudeo-­‐ellenistici sulla bocca di giudei martiri o combattenti per la libertà. Un esempio tipico di questa concezione si trova nel racconto del gesto eroico di Eleazaro che uccide un elefan-­‐
te dell’esercito seleucida, pur sapendo che l'animale gli sarebbe crollato addosso uccidendolo. L’autore commen-­‐
ta: «Pensava che sopra vi fosse il re. Allora diede (edôken) se stesso per salvare il popolo e acquistarsi un nome im-­‐
perituro» (1Mac 6,44). È chiaro che Eleazaro muore per il bene del popolo e non al suo posto. In alcuni casi viene attribuito un carattere espiatorio alla morte di coloro che l’hanno affrontata liberamente perché non erano disposti a trasgredire la legge di Dio. Nel 2Maccabei si legge che, quando Antioco IV profanò il Tempio di Gerusalemme introducendovi un'immagine di Zeus, vietò il culto israelitico e impose ai giudei di parteci-­‐
pare ai sacrifici pagani, sette fratelli furono martirizzati a causa del loro rifiuto di obbedire all’ordine del re. L'ultimo di essi, prima di morire, dice: «Anch’io, come già i miei fra-­‐
telli, offro (prodidômi) il corpo e la vita per (peri) le sacre leggi, supplicando Dio che presto perdoni (hileôs gene-­‐
sthai, faccia l’espiazione per) il suo popolo..., con me e con i miei fratelli possa arrestarsi l'ira dell'Onnipotente, giu-­‐
stamente attirata su tutta la nostra stirpe» (2Mac 7,37-­‐
38). Il martire dunque non prende su di sé la pena dovuta al popolo, ma affronta la morte per essere fedele alle leggi dei padri e spera che il suo gesto possa avere, come le vit-­‐
time dei sacrifici, l’effetto di espiare i peccati del popolo. VII. Eroi filosofi e martiri
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Il concetto specifico di «espiazione vicaria» fa invece la sua velata apparizione in due testi del 4Maccabei, un libro giudaico composto nella prima metà del I secolo d.C. In esso si racconta che Eleazar, durante il suo martirio, dice: «Tu, lo sai, o Dio che avrei potuto salvarmi, ma muoio sot-­‐
to il supplizio del fuoco a causa della legge (dià tòn no-­‐
mon). Perdona (hileôs genou, fai l’espiazione per) il tuo popolo, fa' che ti sia sufficiente la punizione (dikê) che su-­‐
biamo per essi (hyper autôn, cioè per i suoi membri). Fa' che il mio sangue serva loro di purificazione (katharsion), e come sostituto per la loro vita (antipsychon autôn) pren-­‐
di la mia vita» (4Mac 6,27-­‐29). Lo stesso pensiero viene poi ripreso successivamente quando si dice che i martiri sono morti perché, per merito loro, «la patria fosse purifi-­‐
cata (katharisthênai); essi furono nello stesso tempo un sostituto (antipsychon) per il peccato del popolo. Mediante il sangue di quei pii e il sacrificio espiatorio della loro morte (tou hilasteriou thanatou autôn), la provvidenza di-­‐
vina ha salvato Israele, che prima era gravemente oppres-­‐
so» (4Mac 17,21-­‐22). Secondo questi due testi i martiri non muoiono soltan-­‐
to a causa della loro fedeltà alla legge e per espiare i pec-­‐
cati del popolo, ma così facendo prendono su di sé la pena ad esso dovuta. Al tempo stesso si adotta una terminologia cultuale. Eleazar infatti esprime il desiderio che la sua vita sia un antipsychon, un sostituto, un dono dato in contrac-­‐
cambio per la vita del popolo. Inoltre il suo sangue dev'es-­‐
sere un katharsion, un mezzo di purificazione, quindi di espiazione per il suo popolo. In questi due ultimi testi si verifica una confluenza del pensiero ebraico veterotestamentario con quello greco-­‐
ellenistico. Dal primo deriva la concezione, rappresentata dall’esperienza del Servo di YHWH, secondo cui la fedeltà a Dio fino alla morte ha una dimensione sacrificale in quan-­‐
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LA MORTE DEL MESSIA
to è il segno supremo dell’amore di Dio per il suo popolo e il mezzo da lui scelto per provocarne la conversione; dal mondo greco viene invece la concezione (già accennata nella traduzione greca di Lv 17,11) di una morte accettata volontariamente a beneficio di altri e al loro posto. Mediante l’esperienza dei martiri, morti nella persecu-­‐
zione di Antioco IV Epifane, entra dunque nel mondo giu-­‐
daico la concezione greca secondo cui è bello offrire la propria vita per la famiglia, per la patria, per gli amici o per un valore importante quale la verità. Per i martiri si tratta di una morte accettata liberamente per Dio, per la sua legge, per tutto il popolo. Si fa strada anche il concetto secondo cui la morte dei martiri ha un valore espiatorio, in quanto serve a riconciliare il popolo con Dio. Sullo sfondo c’è però l’esempio del Servo di YHWH, il quale si è messo a capo di un movimento di conversione degli israeliti al suo Dio in vista del loro ritorno nella terra dei padri e per que-­‐
sto ha affrontato sofferenze e umiliazioni e alla fine ha da-­‐
to per questo scopo la sua vita. La morte dei martiri è stata considerata metaforica-­‐
mente come un sacrificio offerto a Dio per l’espiazione dei peccati del popolo. Ma siamo sempre sulla linea del con-­‐
cetto biblico di sacrificio, in base al quale l’espiazione av-­‐
viene in forza non di una sostituzione nella pena ma della fedeltà totale di persone che, con il loro esempio, aprono la strada a una conversione di tutto il popolo e alla sua ri-­‐
conciliazione con Dio. L’idea di origine greca secondo cui la morte di uno può sostituire quella dovuta ad altri appa-­‐
re in alcuni testi sotto l’influsso della traduzione greca di Lv 17,11 ma è piuttosto secondaria. VIII LA MORTE DI CRISTO COME SACRIFICIO La morte di Gesù in croce non aveva nulla a che fare con il culto, anzi era considerata dalla legge come una «maledizione» (cfr. Gal 3,13). Tuttavia secondo i primi cri-­‐
stiani, in gran parte di origine giudaica, un'esperienza così importante come quella del culto non poteva non trovare il suo adempimento in lui. Anzi, proprio il culto sacrificale era in grado di fornire una spiegazione convincente della sua morte. Il tema biblico del sacrificio fa da sfondo alle affermazioni in cui la sua morte è presentata come dono di sé, come espiazione e riscatto, come versamento del san-­‐
gue. Solo successivamente queste allusioni saranno utiliz-­‐
zate nella lettera agli Ebrei per elaborare una teoria orga-­‐
nica della morte di Cristo come sacrificio. a. Le formule di dono
La spiegazione della morte di Gesù in chiave sacrificale è presente anzitutto sullo sfondo di tutti quei passi in cui si afferma che egli ha donato se stesso fino alla morte. Questa formula è molto comune e può assumere sfumatu-­‐
re diverse. In tutta una serie di testi si mette in luce uni-­‐
camente la dedizione di Gesù, in altri si sottolinea come questa dedizione sia giunta fino al dono della vita, mentre in altri ancora si afferma che il suo dono di sé ha avuto come effetto il perdono dei peccati. In tutti questi casi la sua dedizione viene espressa mediante i verbi «da-­‐
re/consegnare per» ([para]didômi hyper). 66
LA MORTE DEL MESSIA
1) Formule semplici di donazione In alcuni testi la donazione di Cristo viene vista come un’azione del Padre: Dio «non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi» (Rm 8,32); «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16). Sullo sfondo di questi testi si intravede il rac-­‐
conto del sacrificio di Isacco (cfr. Gn 22,16), riletto secon-­‐
do la prospettiva dell’Aqedah (cfr. Tg Gn 22,8-­‐17), ma so-­‐
prattutto l’esperienza del Servo di YHWH, del quale si dice che «il Signore l’ha consegnato (paredôken) ai nostri pec-­‐
cati» (Is [LXX] 53,6; cfr. v. 11). Nonostante l’allusione a Isacco, il riferimento non è dunque al sacrificio, ma alla sofferenza che il Servo ha dovuto subire come profeta e guida del popolo. Nella maggior parte dei testi è Cristo stesso che si do-­‐
na. Nelle lettere autentiche di Paolo il testo fondamentale è quello in cui l’Apostolo afferma che il Figlio di Dio (…) «mi ha amato e ha consegnato se stesso per me » (Gal. 2,20). Questo tema viene ripreso da lui nel racconto dell’ultima Cena: «Questo è il mio corpo che è per voi» (1Cor 11,24). La formula appare due volte nella lettera agli Efesini: «Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio (come) sacrificio (prosforan) e vittima (thysia) di soave odore» (Ef 5,2); «Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei» (Ef 5,25). Un’altra volta la stessa espres-­‐
sione viene usata nelle Pastorali: «Egli ha dato se stesso per noi» (Tt 2,14). Nei vangeli sinottici la dedizione di Cristo viene espressa nel racconto della Cena dove egli dice che il pane è il suo corpo che è «dato per voi» (Lc 22,19) e il suo san-­‐
gue è «versato per molti» (ekchynnomenon hyper pollôn) (Mc 14,24) oppure «per voi» (Lc 22,19-­‐20). VIII. La morte di Cristo come sacrificio
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Fra tutti questi testi solo in Ef 5,2 la formula di autodo-­‐
nazione viene collegata espressamente con il tema del sa-­‐
crificio. Negli altri casi il dono di sé a Dio fatto da Cristo sulla croce ha solo un riferimento remoto con il rito sacri-­‐
ficale del tempio. Direttamente, esso viene presentato co-­‐
me espressione del suo amore incondizionato per Dio e per i fratelli secondo il modello profetico, e specialmente del Servo di YHWH il quale, secondo la versione greca, ha consegnato se stesso alla morte per liberare il suo popolo. 2) La sofferenza e la morte per noi La morte di Cristo è presentata diverse volte da Paolo come un evento voluto e attuato «per» (hyper) soggetti diversi: «Egli è morto per noi» (1Ts 5,10; cfr. Rm 5,8). Non è Paolo ma Cristo che «è stato crocifisso per voi» (1Cor 1,13; 11,24); «Egli è morto per tutti» (2Cor 5,14.15); «Nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi» (Rm 5,6); «Non mandare in rovina con il tuo cibo colui per il quale Cristo è morto!» (Rm 14,15). Secondo la 1Pietro, «Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio» (1Pt 2,21). Secondo la lettera agli Ebrei Cristo ha sofferto, «perché per la grazia di Dio egli provasse la morte per tutti» (Eb 2,9). A queste si avvicinano due formule usate nella lettera-­‐
tura giovannea. La prima è quella attribuita a Caifa: «È meglio che muoia un solo uomo per (hyper) il popolo» (Gv 11,50-­‐51; cfr. 18,14); in essa la morte di Cristo è vista da Caifa come la condizione per evitare una repressione da parte dei romani che avrebbe provocato la rovina di tutto il popolo, mentre l’evangelista la interpreta come l’affermazione secondo cui «Gesù doveva morire per (hy-­‐
per) il popolo» e «per riunire i figli di Dio che erano di-­‐
spersi» (11,52). Giovanni usa anche un’altra espressione: «Il buon pastore pone (tithêsin) la vita per le pecore» (Gv 10,11.15); «In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fat-­‐
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LA MORTE DEL MESSIA
to che egli ha posto (ethêken) la sua vita per noi» (1Gv 3,16) In questi testi viene sottolineato come il dono di sé è stato portato da Cristo fino alle estreme conseguenze, cioè alla morte. Infatti è solo nella morte accettata liberamente che si esprime il dono totale e irrevocabile a Dio, per il be-­‐
ne del popolo. 3) È morto per i nostri peccati In alcuni testi si indica nell’eliminazione del peccato lo scopo per cui Cristo ha dato se stesso fino alla morte: «Morì per i nostri peccati» (1Cor 15,3); «Ha dato se stesso per i nostri peccati» (Gal 1,4). Egli «fu consegnato per (dia) le nostre trasgressioni» (Rm 4,25). Su questa linea si trovano due testi interessanti nella 1Pietro: «Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia» (1Pt 2,24); «Cristo è morto una volta per sempre per (pe-­‐
ri) i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio» (1Pt 3,18). In Giovanni si trova l’espressione «Agnello di Dio che toglie (ho airôn) il peccato del mondo» (Gv 1,29.35). Infine ricordiamo l’espressione paolina: «Cristo nostra Pasqua è stato immolato (etythê)» (1Cor 5,7-­‐8) che si riferisce anch’essa alla morte in croce, vista però nella prospettiva della Pasqua. L’affermazione secondo cui Cristo è morto per i nostri peccati ha come sfondo il sacrificio compiuto nel giorno del Kippur, in quanto questo rito aveva come scopo ap-­‐
punto l’espiazione/perdono dei peccati. Esso richiama an-­‐
che la morte del Servo di YHWH, di cui si dice nella tradu-­‐
zione greca che ha tolto i peccati di molti in quanto «è sta-­‐
to dato (paredothê) alla morte» (Is 53,12). La preposizione hyper con il genitivo, usata normal-­‐
mente in questi testi, ha una gamma di significati relati-­‐
VIII. La morte di Cristo come sacrificio
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vamente ampia e non sempre esattamente determinabile: «per», «a favore di», «a vantaggio di», ma anche «al posto di», «invece di», o «a causa di», «a motivo di». Tuttavia nei casi citati vuol dire chiaramente «a favore di…». In alcuni casi hyper è sostituito con peri o con dia, che assumono lo stesso significato (cfr. Mt 26,28; cfr. Mc 14,24; 1Pt 3,18; 1Gv 2,2). In due passi si usa, sempre con lo stesso signifi-­‐
cato, dia con l'accusativo: 1Cor 8,11 (= Rm 14,15); Rm 4,25. In Mc 10,45 e Mt 20,28 si trova anti, anche qui con lo stesso significato. In due casi soltanto la morte di Gesù potrebbe essere stata interpretata come la condanna del giusto al posto dei peccatori. Il primo è quello in cui Paolo afferma che «Cri-­‐
sto ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, diven-­‐
tando lui stesso maledizione per (hyper) noi» (Gal 3,13). Nel secondo dice che «colui che non aveva conosciuto pec-­‐
cato, Dio lo ha fatto peccato per (hyper) noi» (2Cor 5,21). Ma anche questi due testi sono più comprensibili alla luce del concetto di solidarietà, in forza della quale il giusto si fa partecipe della condizione del peccatore comunicando-­‐
gli i frutti di una vita tutta donata a Dio. In tutti i testi citati, il dono di sé, che Gesù ha fatto nel corso della sua vita fino alla sua morte cruenta, viene dunque presentato come il modo scelto da Dio per con-­‐
durre a sé l’umanità. Sullo sfondo di questi testi si scorge chiaramente l’immagine sacrificale, filtrata però attraver-­‐
so l’esperienza del Servo di YHWH, il cui dono, nella tradu-­‐
zione greca della Bibbia, viene espresso con il verbo para-­‐
didômi (cfr. Is 53,12). In essi è assente invece l’idea di un sacrificio offerto «al posto» dell’umanità peccatrice; anzi è Dio stesso che, per mezzo di Cristo, manifesta la sua mise-­‐
ricordia infinita per i peccatori. 70
LA MORTE DEL MESSIA
b. Espiazione
I termini derivati dalla radice kafar, con cui in ebraico viene espresso il concetto di espiazione, vengono tradotti in greco con hilaskomai «espiare», da cui derivano hila-­‐
smos «espiazione» e hilastêrion «espiatorio»; quest’ultimo traduce l’ebraico kapporet che designa, come si è visto, il coperchio dell’arca dell’alleanza: su di esso, una volta all’anno, nella festa del Kippur, il sommo sacerdote asper-­‐
geva il sangue del capro espiatorio (Lv 16,15-­‐17). Questi vocaboli vengono utilizzati molto raramente nel NT per indicare il significato della morte di Cristo. Il testo più importante si trova nella lettera ai Romani, dove si di-­‐
ce che «Dio lo [Cristo] ha stabilito come espiatorio per mezzo della fede nel suo sangue, per manifestare la sua giustizia» (Rm 3,25a). Il termine «espiatorio», applicato a Gesù, potrebbe significare che egli ha preso il posto dell’«espiatorio» stesso, cioè è diventato il luogo in cui Dio ha posto la sua presenza in mezzo agli uomini per perdo-­‐
nare i loro peccati; oppure più in generale vorrebbe dire che egli è diventato lo strumento scelto da Dio per operare il perdono. In ogni caso la sua opera è presentata qui se-­‐
condo un modello sacrificale inusuale per Paolo, il quale probabilmente ha preso questa frase dalla tradizione, ag-­‐
giungendo di suo l’espressione «per mezzo della fede», che svilupperà subito dopo. In tutto il NT il termine «espiatorio» riappare solo in Eb 9,5 semplicemente per indicare il coperchio dell’arca dell’alleanza. L’espiazione compiuta da Gesù ha come finalità la ma-­‐
nifestazione della giustizia di Dio. Questa non è certamen-­‐
te la giustizia punitiva, ma piuttosto quella che ha luogo «mediante il perdono dei peccati precedenti (commessi) nel tempo della divina pazienza» (v. 25b). In sintonia con il concetto biblico di espiazione, il testo vuole dire non che VIII. La morte di Cristo come sacrificio
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Gesù ha sostituito la vittima sacrificale «pagando» per i peccati del popolo, ma piuttosto che, morendo in croce, egli ha manifestato la fedeltà e la misericordia di Dio che, di sua iniziativa, ricostituisce con tutta l’umanità il rappor-­‐
to di alleanza compromesso dal peccato. Il verbo hilaskesthai, «espiare», appare ancora nella lettera agli Ebrei dove si dice che Gesù è diventato sommo sacerdote misericordioso e fedele «allo scopo di espiare i peccati del popolo» (Eb 2,17). Dal contesto appare che ciò è avvenuto per mezzo della sua morte, che è vista non co-­‐
me sostituzione di quella dovuta ai peccatori, ma come vittoria sul potere del diavolo che, mediante la paura della morte, teneva schiava l’umanità (cfr. Eb 2,14-­‐15). In tutto il NT questo verbo riappare solo in Lc 18,13 sulla bocca del pubblicano con il senso di «avere misericordia». Il sostantivo hilasmos, «strumento di espiazione», se-­‐
guito dalla preposizione peri viene usato due volte nella prima lettera di Giovanni: «(Cristo) è strumento di espia-­‐
zione per i nostri peccati; non soltanto i nostri, ma anche quelli di tutto il mondo» (1Gv 2,2); «In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come strumento di espiazio-­‐
ne per i nostri peccati» (1Gv 4,10). In questi due testi il linguaggio sacrificale è implicito nel termine «espiazione», ma manca qualsiasi idea di una punizione inflitta a Cristo al posto dei peccatori. Al contrario egli rappresenta il se-­‐
gno e lo strumento del perdono gratuito di Dio, determi-­‐
nato dal suo amore per tutta l’umanità. Al di fuori di questi casi non esiste altro utilizzo del termine «espiazione» da parte degli autori del NT. È pos-­‐
sibile che costoro, pur conoscendo la rilettura sacrificale della morte di Cristo, non abbiano voluto spingere in que-­‐
sta direzione, proprio prevedendo il malinteso che poteva derivare nel mondo greco dall’associazione di questo con-­‐
72
LA MORTE DEL MESSIA
cetto con quello della morte sostitutiva che, come abbiamo visto, era presente in quel contesto culturale. c. Redenzione-riscatto
Il concetto di redenzione, applicato alla morte di Cristo, deriva dall’AT dove è espresso mediante due diverse radi-­‐
ci ebraiche (ga<al e padah). La prima di esse deriva dal termine go<el, che designava il parente più prossimo, al quale spettava il compito di prestare soccorso a colui che si trovava in una situazione di grande pericolo: egli dove-­‐
va per esempio riscattare le sue terre per impedirne l'a-­‐
lienazione a estranei (Lv 25,23-­‐25), sposare sua moglie per dargli una prole in caso di morte (cfr. Rt 4,1-­‐8) o ven-­‐
dicarlo in caso di uccisione (Dt 19,12; Nm 35,19). In forza dell'alleanza stabilita con i suoi padri, YHWH è diventato il go<el di Israele: a lui spettava quindi il compito di liberarlo dalla situazione di oppressione in cui si trovava. Ciò appa-­‐
re per esempio nel libro dell'Esodo dove si attribuiscono a Dio queste parole: «Vi sottrarrò ai gravami degli egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi redimerò (ga<al) con braccio teso e con grandi castighi» (Es 6,6). Ma soprattutto Dio viene visto come il go<el di Israele nel contesto del ri-­‐
torno dall'esilio (cfr. Ger 50,34; Is 41,14; Sal 19,15). La radice padah indica invece il riscatto dei primogeni-­‐
ti degli animali e degli uomini (Es 13,13.15; 34,20), oppu-­‐
re la liberazione degli schiavi dietro pagamento di un prezzo (Es 21,8). In senso metaforico si dice che Dio ha riscattato Israele dall'Egitto (cfr. Dt 9,26; 15,15; Mi 6,4) e dall'esilio babilonese (cfr. Is 35,10), acquistandolo così per se stesso, cioè facendone il suo popolo. I due verbi ga<al e padah possono essere abbinati, formando così un’endiadi. Riferendosi al ritorno dall'esilio, Geremia afferma: «Il Si-­‐
VIII. La morte di Cristo come sacrificio
73
gnore ha riscattato Giacobbe, lo ha redento dalle mani del più forte di lui» (Ger 31,11). Le due radici ga<al e padah, quando designano la libe-­‐
razione di Israele, sono state rese nella versione greca dell’AT con il verbo lytroô a cui corrisponde il latino redi-­‐
mere (ricomprare). Esso designa il riscatto di uno schiavo mediante il pagamento di un prezzo. Se il traduttore greco, e poi quello latino, hanno scelto un termine dotato di que-­‐
sto significato, ciò è dovuto al fatto che anche Israele era schiavo in Egitto o in Mesopotamia; per di più Dio non lo aveva semplicemente liberato, ma lo aveva «acquistato», unendolo a sé nell'alleanza. Il concetto di riscatto/reden-­‐
zione proviene dunque dall’ambito delle transazioni eco-­‐
nomiche. Il pagamento di un prezzo fa parte dell’immagi-­‐
ne del fare propria, acquistare una cosa (il popolo). Questa però non implica il pagamento di un prezzo a qualcuno: la liberazione appare come conseguenza di un atto sovrano di Dio mediante il quale il popolo è riscattato dalla schiavi-­‐
tù ed entra in un rapporto speciale con lui. Nel NT l’immagine del riscatto, applicata alla morte di Gesù, viene espressa qualche volta con il verbo apo-­‐
lytrousthai («redimere», «liberare mediante il pagamento di un prezzo») e i suoi derivati usati nell’AT greco. Nella lettera ai Romani, Paolo afferma che tutti «sono giustificati gratuitamente in virtù della redenzione realizzata da Cri-­‐
sto Gesù» (Rm 3,24). Altrove si trovano queste espressio-­‐
ni: «Egli ha dato se stesso per noi per redimerci da ogni iniquità» (Tt 2,14); in un caso il sangue di Gesù è presenta-­‐
to come prezzo del riscatto: «Non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati redenti dal vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri, ma col prezioso san-­‐
gue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia» (1Pt 1,18-­‐19). 74
LA MORTE DEL MESSIA
I sostantivi lytron o antilytron («prezzo di riscatto») appaiono in due testi. Nel primo si dice: «(…) il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per (anti) molti» (Mc 10,45; par. Mt 20,28). Nel secondo si fa ricorso a una frase simile: «Ha dato se stesso come prezzo di ri-­‐
scatto per (hyper) tutti» (1Tm 2,6). Dal confronto tra i due testi appare che le due preposizioni usate hanno pratica-­‐
mente lo stesso significato di «in favore di». L’immagine del riscatto viene anche espressa nel NT con il verbo agorazô («acquistare»), non utilizzato nella versione greca dell’AT. Rivolgendosi ai corinzi Paolo dice loro: «Non sapete ... che non appartenete a voi stessi? Poi-­‐
ché siete stati acquistati a (caro) prezzo (timês)» (1Cor 6,19-­‐20); «Poiché colui che è stato chiamato nel Signore, essendo schiavo, è un liberto del Signore; ugualmente co-­‐
lui che è stato chiamato mentre era libero, è schiavo di Cristo. Voi siete stati acquistati a (caro) prezzo; non diven-­‐
tate schiavi degli uomini» (1Cor 7,22-­‐23). Nella seconda lettera di Pietro si dice: «Ci saranno anche tra di voi falsi dottori che introdurranno occultamente eresie di perdi-­‐
zione e, rinnegando il Signore che li ha acquistati, si attire-­‐
ranno addosso una rovina immediata» (2Pt 2,1). La formula dell’acquisto si trova anche nell’Apocalisse: «Sei stato immolato e hai acquistato a Dio, con il tuo san-­‐
gue, gente di ogni tribù, lingua, popolo e nazione, e ne hai fatto per il nostro Dio un regno e dei sacerdoti... » (Ap 5,9-­‐
10); «Nessuno poteva imparare il cantico se non i cento quarantaquattromila, che sono stati acquistati dalla terra... Essi sono stati acquistati tra gli uomini per esser primizie a Dio ed all'Agnello» (Ap 14,3-­‐4). In altri due testi Paolo usa con lo stesso significato il composto ex-­‐agorazô, riacquistare. Egli afferma: «Cristo ci ha riacquistati dalla maledizione della legge, essendo di-­‐
VIII. La morte di Cristo come sacrificio
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venuto maledizione per noi» (Gal 3,13); « ... Dio mandò suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riacqui-­‐
stare quelli che erano sotto la legge, affinché noi riceves-­‐
simo l'adozione» (Gal. 4,5-­‐6). Infine a questo contesto ap-­‐
partiene anche il verbo peripoieomai usato da Luca per affermare che Dio ha acquistato la Chiesa con il sangue del proprio (Figlio) (At 20,28). Per i cristiani dunque è stato Cristo a liberare l’umanità riscattandola dalla schiavitù del peccato. La re-­‐
denzione che gli israeliti avevano sperimentato in occa-­‐
sione dell'esodo o del ritorno dall'esilio diventa così una semplice figura della vera e definitiva redenzione realizza-­‐
ta da Cristo. Naturalmente si tratta anche qui di un’immagine, in quanto Gesù riscatta l’uomo peccatore senza dover pagare alcun prezzo. Questa liberazione però ha un costo, in quanto esige la sofferenza e la morte di Cri-­‐
sto. Non si tratta però di un prezzo pagato a qualcuno, ma semplicemente di un amore senza limiti che lo ha spinto ad affrontare una prova così dolorosa. Tanto meno questa immagine implica l’idea che la sua morte sia un prezzo pa-­‐
gato da Cristo a Dio in sostituzione dell’umanità peccatri-­‐
ce. Il concetto di redenzione non ha nulla a che vedere con quello di espiazione vicaria. d. Il sangue
Un collegamento alla sfera sacrificale è contenuto an-­‐
che nel riferimento al sangue versato da Cristo sulla croce. Che si tratti di un’immagine appare dal fatto che Gesù sul-­‐
la croce non è morto dissanguato ma soffocato; quindi non ha versato il suo sangue, come capitava alle vittime dei sacrifici, le quali erano sgozzate perché fosse possibile prelevare il loro sangue. Quindi il sangue da lui versato 76
LA MORTE DEL MESSIA
non è altro che una metafora con la quale si proietta sulla sua morte la concezione biblica di sacrificio. Al di fuori della lettera agli Ebrei, di cui parleremo in seguito, si fa riferimento al sangue di Cristo soprattutto nei racconti dell’ultima cena. Questo aspetto è maggior-­‐
mente sottolineato nella tradizione sinottica: secondo Marco, egli invita tutti a bere dal calice e poi soggiunge: «Questo è il mio sangue dell’alleanza che è versato per molti» (Mc 14,24); Matteo riprende la stessa formula ma aggiunge che il sangue è stato versato «in remissione dei peccati», con chiaro riferimento sia al rito del Kippur sia alla morte del Servo di YHWH (cfr. Is 53,12). Secondo Luca Gesù dice invece: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue che è versato per voi», con riferimento a coloro che effettivamente entrano a far parte della nuova alleanza. Con questa formula, nella quale è implicito il riferimento al rito del sangue celebrato ai piedi del monte Sinai (Es 24,3-­‐8), si vuol dire che Gesù con il suo sangue ha attuato la «nuova alleanza» promessa da Geremia per gli ultimi tempi (Ger 31,33; cfr. 2Cor 3,6.10). Paolo fa un accenno al sangue di Cristo al termine del dibattito sulla liceità di consumare le carni sacrificate agli idoli: «Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo?» (1Cor 10,16a). Nel racconto della Cena, Paolo si avvicina a Luca in quanto secondo lui Gesù, indicando la coppa, colma di vino, dice: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue» (1Cor 11,25b). Egli aggiunge poi questo commento: «Perciò chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore» (1Cor 11,27). Nelle sue lettere autentiche Paolo si riferisce altre due volte al sangue di Cristo. Anzitutto lo fa nel testo che ab-­‐
biamo già esaminato dove si dice che Dio ha stabilito Cri-­‐
VIII. La morte di Cristo come sacrificio
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sto come strumento di espiazione, per mezzo della fede, «nel suo sangue» (Rm 3,25). Parlando della giustificazione ormai avvenuta egli afferma: «A maggior ragione ora, giu-­‐
stificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui» (Rm 5,9). Il riferimento al sangue di Cristo appare altre tre volte nelle lettere deuteropaoline. In esse si dice: «In lui, me-­‐
diante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia» (Ef 1,7); «Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lon-­‐
tani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo» (Ef 2,13); egli è stato strumento di riconciliazione «avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli» (Col 1,20). Secondo 1Pietro i credenti sono aspersi dal sangue di Cristo (1Pt 1,2); essi sono liberati dalla loro vuota condot-­‐
ta «con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia» (1,19). Secondo 1Gv 1,7 «il sangue di Ge-­‐
sù, suo Figlio [di Dio] ci purifica da ogni peccato». Secondo l’Apocalisse Cristo «ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue» (Ap 1,5); «hai riscattato con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione» (Ap 5,9); «quelli che vengono dalla grande tribolazione hanno lava-­‐
to le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’agnello» (7,14); «essi hanno vinto il drago grazie al sangue dell’agnello» (12,11). Infine secondo gli Atti degli apostoli Paolo dice, come abbiamo già ricordato, che Dio ha acquistato la Chiesa «con il sangue del proprio (Figlio)» (At 20,28). In tutti questi testi il versamento del sangue da parte di Cristo viene utilizzato simbolicamente per indicare, alla luce dei testi biblici riguardanti i sacrifici, il compito di ri-­‐
conciliazione e di comunione con Dio che Cristo ha attuato 78
LA MORTE DEL MESSIA
mediante la sua morte. Come nei sacrifici dell’AT, il sangue di Cristo, che simboleggia la sua dedizione fino alla morte, è visto come l’elemento unitivo per eccellenza, mediante il quale l’alleanza viene rinnovata. In altre parole, alla fedel-­‐
tà di Cristo fino alla morte viene attribuito l’effetto unitivo tipico del sangue versato sull’altare e sul popolo nel sacri-­‐
ficio con cui è stata ratificata l’alleanza (cfr. Es 24,6-­‐8). Il concetto di un’espiazione vicaria, in forza della quale il sangue di Cristo è sostituito a quello dei peccatori, è to-­‐
talmente assente. e. La lettera agli Ebrei
La presentazione di Gesù come sommo sacerdote della nuova alleanza rappresenta il punto centrale del messag-­‐
gio della lettera agli Ebrei. Prima però di esplicitare questa dottrina, l’autore mette in luce la vera natura del sacerdo-­‐
te: da un parte questi è pienamente solidale con gli uomi-­‐
ni, per i quali offre a Dio doni e sacrifici, e dall'altra è stret-­‐
tamente unito a Dio, il quale lo ha chiamato a questo mini-­‐
stero (Eb 5,1-­‐3). Alla luce di questa definizione è chiaro che nessuno più di Cristo merita il titolo di sacerdote. Egli infatti è il Figlio di Dio intronizzato alla destra del Padre (Eb 1,5-­‐14) e oc-­‐
cupa presso di lui una posizione di piena autorità (3,1-­‐
2.6); al tempo stesso è anche un uomo come tutti gli altri, un loro fratello (2,11-­‐12), il quale è giunto alla gloria per-­‐
correndo un cammino di totale solidarietà con i peccatori (2,9.14-­‐16). Intimamente unito a Dio e agli uomini egli è dunque il mediatore perfetto, e deve essere riconosciuto come sommo sacerdote (2,17; 3,1; 4,14), capace di confe-­‐
rire la salvezza a tutti coloro che per mezzo suo si acco-­‐
stano a Dio (7,24-­‐25; cfr. 9,11). VIII. La morte di Cristo come sacrificio
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Questa conclusione rappresenta un vero e proprio dato di fede, in quanto il sacerdozio di Cristo era stato prean-­‐
nunziato nel Salmo 110 che l'autore, in sintonia con tutta la tradizione cristiana, considera come messianico (Eb 1,3.13; 8,1; 10,12; 12,2; cfr. Mc 12,35-­‐37 e par.; 14,62 e par.; 16,19; At 2,34-­‐35; Ef 1,20 ecc.). In esso infatti si af-­‐
ferma: «Il Signore ha giurato e non si pente: Tu sei sacer-­‐
dote per sempre al modo di Melchisedek» (Sal 110,4). Questo testo, spesso citato nello scritto (cfr. Eb 5,6.10; 6,20; 7,1-­‐25), non si limita ad attestare in modo inequivo-­‐
cabile il sacerdozio di Cristo, ma lo collega a quello dell'an-­‐
tico re di Gerusalemme a cui Abramo aveva pagato la de-­‐
cima (cfr. Gn 14,18-­‐20). Una volta affermato il sacerdozio di Cristo, resta il compito di determinare in che modo egli lo ha esercitato. La tradizione, come abbiamo visto, aveva già utilizzato al-­‐
lusioni sacrificali per spiegare la sua morte in croce. Su questa linea l'autore afferma che Cristo offrì un sacrificio del quale egli stesso è la vittima: imitando il gesto che il sommo sacerdote compiva una volta all'anno nel gran giorno dell'espiazione, Cristo entrò una volta per tutte con il proprio sangue nel santuario, non però in quello terre-­‐
stre ma in quello celeste, procurando così una redenzione eterna (Eb 9,11-­‐14; 10,8-­‐10). Nella sua nuova condizione, Cristo continua ad attuare il suo servizio sacerdotale mediante l’intercessione in fa-­‐
vore di coloro che per mezzo suo si accostano a Dio (Eb 7,25). Il suo sacrificio si distacca perciò radicalmente da quello antico: a un culto rituale, esteriore e inefficace su-­‐
bentra un culto personale e interiore, che prende tutto l'uomo e lo rende perfetto (2,10; 5,9; 7,28). In forza del suo ruolo sacerdotale Cristo riceve alcuni appellativi significativi: egli è «autore e perfezionatore della fede» (Eb 12,2), «guida-­‐capo» che conduce gli altri 80
LA MORTE DEL MESSIA
alla salvezza (2,10), «garante» e «mediatore» di un'allean-­‐
za nuova e migliore (7,22; 8,6; 9,15; 12,24), «precursore» nel tempio celeste (6,20) e «apostolo» della professione di fede (3,1). Ma soprattutto egli è presentato nel prologo (1,1-­‐4) come la sapienza divina, mediante la quale Dio ha creato il mondo e ha rivolto la sua parola ultima e definiti-­‐
va a tutta l'umanità. Attraverso questi attributi si possono già cogliere gli effetti che l'opera sacerdotale di Cristo ha prodotto nei confronti della comunità cristiana. L’autore della lettera agli Ebrei proietta dunque sulla persona di Cristo le categorie sacrificali. Ma non dice che egli si è offerto come vittima al nostro posto. Al contrario Cristo è presentato come il Figlio che, mediante il dono di sé, conduce l’umanità a Dio. Il suo sangue, più volte ricor-­‐
dato, sostituisce quello delle vittime sacrificali in quanto realizza la nuova alleanza e attua quella purificazione che il sangue delle vittime non poteva ottenere. Possiamo dunque concludere che nel NT le categorie sacrificali sono usate raramente per indicare la morte di Cristo, e soprattutto in un modo estremamente allusivo e reticente. Solo la lettera agli Ebrei fa un ricorso massiccio a queste categorie, ma sia in questo come negli altri scritti manca qualsiasi riferimento che faccia pensare a un’espiazione vicaria da parte di Cristo. Ma soprattutto è chiaro che i testi si ispirano non tanto all’ambito cultuale ma più direttamente all’esperienza del Servo di YHWH, sul-­‐
la cui morte era già stata proiettata la categoria del sacrifi-­‐
cio di riparazione. Alla luce di questo accostamento, Gesù appare come un capo religioso che conduce l’umanità all’incontro con Dio pagando un prezzo doloroso, quello dell’incomprensione e della persecuzione fino alla morte. Ma così facendo egli dà inizio a un movimento di riconci-­‐
liazione che coinvolge tutta l’umanità. IX LA MORTE DI GESÙ OGGI La morte del Messia è stata considerata dai primi cri-­‐
stiani come una tappa necessaria nel piano di Dio che vuo-­‐
le la salvezza di tutta l’umanità. A prima vista però il ruolo che ad essa competeva non era del tutto chiaro. Per i primi cristiani di origine giudaica era spontaneo interpretare la morte di Gesù applicando a essa le categorie sacrificali di cui era impregnata la loro cultura religiosa. Era questo un modo efficace per spiegare come mai Dio aveva voluto la morte del Figlio e come mai questa morte aveva un’effi-­‐
cacia salvifica per tutta l’umanità. Il ricorso alle categorie sacrificali non deve essere con-­‐
fuso con quella teoria che è stata definita come «espiazio-­‐
ne vicaria». In base ad essa il Figlio di Dio incarnato ha of-­‐
ferto la sua vita in sacrificio per il peccato dell’umanità in quanto ha assunto su di sé la pena dovuta ai peccatori e ha soddisfatto con la sua morte le esigenze della giustizia pu-­‐
nitiva divina; in conseguenza di ciò i peccatori sarebbero stati perdonati e Dio li avrebbe accolti nuovamente come figli. Questa interpretazione della morte di Gesù non ha, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, alcun fonda-­‐
mento biblico. In conclusione dobbiamo dunque rispondere a tre que-­‐
siti: nonostante l’assenza di un fondamento biblico, la teo-­‐
ria dell’espiazione vicaria è ancora proponibile oggi in campo teologico e catechetico? A prescindere da essa, l’in-­‐
terpretazione sacrificale della morte di Gesù ha ancora senso per i nostri contemporanei? Quali piste bibliche possono aiutarli a capire il significato della sua morte? 82
LA MORTE DEL MESSIA
a. L’«espiazione vicaria»:
una teoria inaccettabile
L’idea secondo cui il Messia avrebbe assunto su di sé una pena che non gli spettava per soddisfare le esigenze della giustizia vendicativa di Dio non solo non ha fonda-­‐
mento biblico ma va contro i presupposti di una sana teo-­‐
logia e proietta un’immagine di Dio che offende la sensibi-­‐
lità cristiana. I punti d’accusa nei suoi confronti riguarda-­‐
no sostanzialmente i tre aspetti che la definiscono: quello di espiazione, quello di vicarietà e quello di peccato. 1) L’espiazione Il termine «espiazione», così come viene utilizzato da Anselmo, assume un significato diverso da quello che ha in ambito biblico, in quanto esprime l’azione con cui chi sba-­‐
glia sconta una pena proporzionata al crimine commesso, al fine di ristabilire l’ordine costituito. La regola della giu-­‐
sta compensazione, comunemente accolta in tutti i codici penali, si trova anche nella Bibbia, dove è conosciuta col nome di «legge del taglione». Questa è così formulata: «Vi-­‐
ta per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede» (Dt 19,21; cfr. Es 21,24-­‐25; Lv 24,19-­‐20). Essa ha lo scopo non di prescrivere la vendetta, ma di porle un limite, per contrastare l’esplodere di una violenza arbitraria, quale appare nel «canto di Lamec» (cfr. Gn 4,23-­‐24). Secondo la teoria dell’espiazione vicaria anche Dio si regolerebbe secondo questa norma e richie-­‐
derebbe dall’umanità di scontare una pena adeguata all’offesa che gli è stata fatta. L’applicazione del principio della giusta compensazio-­‐
ne ai rapporti dell’umanità con Dio suscita però dei grossi problemi. Anzitutto è difficile pensare che Dio debba sot-­‐
tostare a una legge che, secondo la Bibbia, sarebbe stata IX. La morte di Gesù oggi
83
stabilita da lui stesso per l’umanità. Come pensare che Dio, per perdonare gli uomini peccatori, abbia richiesto l’ese-­‐
cuzione di una pena adeguata, consistente addirittura nel-­‐
la morte del reo? Dio, per poter perdonare, ha davvero bi-­‐
sogno che i peccatori paghino con la vita per il male com-­‐
messo? Non poteva Dio perdonare mediante un atto di mi-­‐
sericordia, senza esigere alcuna soddisfazione? La dottrina anselmiana presuppone l’immagine di un Dio che, pur amando l’umanità e volendo salvarla, non può farlo se non quando essa ha pagato per i suoi crimini. Gesù nella sua predicazione non ha avallato questa idea di Dio. Secondo lui Dio è come un padre che aspetta il ritorno del suo figlio ingrato e lo perdona senza condizio-­‐
ni. Il Dio di Gesù non chiede un risarcimento per le offese ricevute, ma instaura un regno di pace in cui tutti possano godere di una felicità senza fine. Se si vuole ritornare all’annunzio evangelico originario bisogna dunque elimi-­‐
nare l’immagine di un Dio che, pur volendo il bene dell’umanità, non può fare a meno di esigere da essa una soddisfazione per il torto ricevuto. Da un punto di vista penale, l’idea secondo cui un cri-­‐
mine deve essere punito con una pena proporzionata, nel-­‐
la convinzione che ciò serva a ristabilire l’ordine, è oggi messa in discussione. Da tempo si è fatta strada la convin-­‐
zione secondo cui lo scopo della pena non è quello di ri-­‐
stabilire l’ordine infliggendo a chi ha commesso un reato una sofferenza pari a quella che egli ha inflitto alla vittima, ma di favorirne il ricupero e il reinserimento nella società. Il concetto di pena rieducativa è entrato nel diritto penale a partire da Cesare Beccaria (Dei delitti e delle pene, 1764) ed è stato accolto anche nella Costituzione italiana, dove si dice: «Le pene non possono consistere in trattamenti con-­‐
trari al senso di umanità e devono tendere alla rieduca-­‐
zione del condannato» (Art. 27). 84
LA MORTE DEL MESSIA
L’idea che si possa compensare il male fatto dal delin-­‐
quente mediante un male di eguale entità esercitato su di lui si rivela sempre più come una pretesa assurda. Il male si vince non punendo chi lo ha commesso, ma dandogli la possibilità di ricredersi e di condurre una vita onesta. In questo contesto l’immagine di un Dio che, pur essendo in-­‐
finitamente misericordioso, attende dal suo Figlio, me-­‐
diante una morte ignominiosa, la soddisfazione che i pec-­‐
catori gli devono, non è per nulla convincente. Al contrario ha un grande fascino l’idea di un uomo mandato da Dio che si prodiga per sanare le ferite dei suoi fratelli, accet-­‐
tando coraggiosamente i rischi e le incomprensioni che ciò comporta. Purtroppo la concezione vendicativa della pena è anco-­‐
ra diffusa nel comune modo di pensare. Ci si può chiedere se questa mentalità non sia anche frutto, nei Paesi cristia-­‐
ni, del principio dell’espiazione vicaria, inculcato nella ca-­‐
techesi fin dalla più tenera infanzia. È facile infatti tra-­‐
sporre nei rapporti interpersonali il comportamento at-­‐
tribuito a Dio nei confronti di tutta l’umanità. Per un vero progresso non solo religioso ma anche sociale dell’umanità, è dunque necessario che il concetto di espia-­‐
zione vicaria sia rimosso dalla teologia e dalla catechesi cristiane. 2) La vicarietà La teoria dell’espiazione vicaria ha un altro aspetto che crea notevoli problemi. Essa infatti si basa sul principio secondo cui un innocente possa pagare per i delitti altrui. Questo concetto si trova a volte, come abbiamo visto, nella mitologia greca, ma non è accolto in nessun modo sia nell’AT che nel NT. In nessuna parte della Bibbia appare infatti che nei sacrifici la vittima sostituisca il peccatore. Si è pensato di trovare il principio dell’espiazione vicaria in IX. La morte di Gesù oggi
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Is 53 dove a prima vista sembra che il Servo di YHWH sia punito al posto dei peccatori. Ma si tratta, come si è visto, di un’interpretazione gratuita: ciò che qualifica l’operato del Servo non è il principio di sostituzione ma quello di solidarietà. Nell’AT si afferma, è vero, che Dio «punisce la colpa dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione» (Es 20,5) ma si precisa che ciò riguarda solo coloro che lo odiano, cioè coloro che sono conniventi con il peccato del proprio genitore. Altrimenti vale il principio secondo cui «Chi pecca morirà; il figlio non sconterà l’iniquità del pa-­‐
dre né il padre l’iniquità del figlio» (Ez 18,20). Si nota qui ancora l’idea arcaica del Dio punitore, ma la sostituzione del peccatore con il giusto è tassativamente esclusa. Ognuno deve rispondere per se stesso. Gesù, dal canto suo, non ha mai parlato di un’espiazione dovuta a Dio da parte degli uomini, e tanto meno della possibilità che qualcuno dovesse pagare il conto aperto da altri. Oggi l’idea di una pena comminata a un innocente al posto del criminale è vista comunemente come il delitto più grande contro i diritti della persona. La disponibilità a interporsi per prendere su di sé l’ingiusta condanna com-­‐
minata a un innocente, come nel caso di Massimiliano Kolbe, può essere considerata come un atto di eroismo. Non così viene valutato il gesto di chi prende su di sé la giusta pena spettante a un altro. Il diritto esige che ciascu-­‐
no risponda della sua colpa davanti alla legge. Lavorare per il recupero di chi ha commesso un crimine è apprezza-­‐
to, non il prendere su di sé una pena dovuta a un altro. Si può dunque affermare che l’idea di vicarietà nei con-­‐
fronti della pena non è accettata nella Bibbia, anzi è con-­‐
traria alla visione di Dio che in essa è presentata. Oggi questa idea è motivo di scandalo per i nostri contempora-­‐
nei. Perciò deve essere eliminata, togliendo così uno dei 86
LA MORTE DEL MESSIA
più grossi ostacoli che l’uomo moderno trova nei confronti del cristianesimo. 3) Il peccato Il principio dell’espiazione vicaria si basa sul presup-­‐
posto che tutta l’umanità si sia allontanata da Dio a causa del peccato commesso dal suo lontano progenitore e quindi abbia bisogno di essere riconciliata con lui. Ora è proprio questo aspetto che oggi ha bisogno di una corre-­‐
zione radicale alla luce dell’insegnamento biblico e della sensibilità moderna. Nell’AT è certamente presente una visione pessimistica dello stato morale di tutta l’umanità, non escluso quello del popolo che Dio si è scelto. Questa situazione viene fatta risalire, mediante un procedimento mitologico, a un pec-­‐
cato commesso dal primo progenitore. Il racconto della caduta di Adamo (Gn 3) non ha lo scopo di affermare l’esistenza di uno stato di peccato in cui tutti sono coinvol-­‐
ti a prescindere dai loro peccati personali. L’autore del racconto vuole piuttosto spiegare l’origine del male diffu-­‐
so nel mondo, con lo scopo di affermare che esso non di-­‐
pende dalla volontà di Dio ma è conseguenza del compor-­‐
tamento umano. Non si tratta certo di una spiegazione ra-­‐
zionale, in quanto è difficile immaginare come Dio abbia potuto lasciarsi sfuggire di mano la creatura più perfetta da lui creata. Ma è sufficiente per evitare di attribuire a Dio l’esistenza di tanto male e di tanta sofferenza in que-­‐
sto mondo. L’idea però che questo peccato sia stato tra-­‐
smesso da padre in figlio a tutta l’umanità è totalmente assente. La concezione di un peccato originale così come è inte-­‐
so dalla teologia cattolica è assente anche nel NT. Certa-­‐
mente in esso la presenza del male nel mondo è presup-­‐
posta e spesso è descritta a fosche tinte (cfr. Rm IX. La morte di Gesù oggi
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2,18−3,20). Anche nel NT è presente la visione mitologica di un peccato che è entrato nel mondo a causa di Adamo e si è diffuso fra tutti i suoi figli; ma è assente l’idea che que-­‐
sto peccato sia stato trasmesso a tutti i suoi discendenti. È ormai chiarito che in Rm 5,12 Paolo non afferma che tutti hanno peccato «in Adamo», come aveva affermato Agosti-­‐
no, ma che i discendenti di Adamo sono diventati conni-­‐
venti con il peccato del loro progenitore in quanto anch’essi hanno peccato. Mentre una solidarietà nel pecca-­‐
to è concepibile, non è invece accettabile l’idea che un pec-­‐
cato commesso da una persona possa essere stato trames-­‐
so ad altre. Si può essere solidali nel peccato, ma in ultima analisi ciascuno deve rispondere per le proprie azioni. La dottrina classica del peccato originale è oggi impro-­‐
ponibile anche perché va contro la visione del mondo tipi-­‐
ca della nostra cultura. In seguito alle scoperte scientifiche si è giunti alla conclusione, ormai generalmente accettata, secondo cui l’umanità attuale è il punto d’arrivo di una lunga evoluzione durata milioni di anni. Da una forma di vita primordiale l’essere umano è giunto allo stato attuale di grande differenziazione e continua a progredire, con la propria collaborazione, non solo in campo biologico ma anche in quello più sofisticato della psiche. In questo con-­‐
testo non si può più presentare l’uomo come un essere creato in uno stato di perfezione il quale, in seguito a una ribellione, è caduto nell’attuale situazione di sofferenza e di peccato. Al contrario, esso appare come un essere in via di trasformazione, che si è progressivamente liberato e continua a liberarsi da tutta una serie di condizionamenti. Quindi, più che di una situazione di peccato, bisogna par-­‐
lare del limite tipico dell’essere umano che questi tende continuamente a superare, spesso purtroppo con notevoli passi indietro a livello sia individuale che sociale. 88
LA MORTE DEL MESSIA
In questa prospettiva, è per noi inaccettabile l’inter-­‐
pretazione mitologica di una creazione perfetta che è stata subito deteriorata da una ribellione, i cui effetti si fanno sentire ancora oggi. L’idea che la nostra situazione dipen-­‐
da da quanto avvenuto agli inizi del mondo e che la nostra salvezza sia stata attuata mediante un sacrificio offerto a Dio dal suo Figlio al nostro posto duemila anni fa è sentito come contraria alla ragione e al buon senso. Ciò di cui l’umanità sente il bisogno non è una sanatoria effettuata mediante l’espiazione vicaria di un Dio incarnato, ma piut-­‐
tosto un aiuto costante perché possa ulteriormente pro-­‐
gredire, evitando i passi all’indietro che sono tipici di un’evoluzione che non è necessariamente lineare e pro-­‐
gressiva. b. La morte di Gesù come sacrificio
La teoria dell’espiazione vicaria ha il difetto non di fare uso delle categorie sacrificali, ma di stravolgerle introdu-­‐
cendo in esse degli aspetti che non fanno parte della visio-­‐
ne biblica del sacrificio. Quindi l’importante non è elimi-­‐
nare l’interpretazione sacrificale della morte di Gesù, ma di comprenderla alla luce delle categorie culturali dei pri-­‐
mi cristiani. In base ai testi evangelici, Gesù è stato ucciso al termi-­‐
ne di una vita dedicata all’annunzio del regno di Dio. È im-­‐
portante quindi non isolare la sua morte dalla sua vita e dalla sua predicazione. Durante la sua vita pubblica Gesù si è scontrato con i poteri che allora dominavano la Giu-­‐
dea. Anzitutto Gesù è diventato ben presto oggetto delle attenzioni dei romani. Infatti, annunziando la venuta del regno di Dio, egli proclamava implicitamente la fine del regno di Cesare. Questo annunzio non poteva non preoc-­‐
cupare i romani, dal momento che Gesù aveva la capacità IX. La morte di Gesù oggi
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di radunare le folle, composte certamente da persone che rifiutavano il dominio romano. Egli poi ha deluso anche le autorità religiose. Facendo i segni che anticipavano la venuta del regno di Dio nella storia umana, egli prendeva posizione anzitutto nei con-­‐
fronti dei farisei e degli scribi appartenenti al loro partito. Costoro non potevano tollerare non solo gli attacchi sfer-­‐
rati nei propri confronti (cfr. Mc 7) ma neppure la critica del loro modo di intendere la legge. Gesù infatti subordi-­‐
nava l’osservanza del sabato al rispetto della dignità dell’uomo, trasgrediva le regole di purità, socializzava con gli esclusi e i peccatori. Ai sacerdoti non potevano far piacere il suo distacco dal culto (cfr. Mt 9,13; 12,7; citazione di Os 6,6) e le sue critiche nei confronti del tempio (cfr. Mc 11,15-­‐18). Se-­‐
condo Giovanni la sua morte sarebbe stata voluta proprio dai sacerdoti per paura che egli sollevasse le folle e provo-­‐
casse una repressione violenta da parte dei romani (cfr. Gv 11,47-­‐52). Il sinedrio, nel quale sedevano anche i rap-­‐
presentanti degli scribi di estrazione farisaica, l’avrebbe invece condannato per un improbabile reato di bestem-­‐
mia, esigendo poi da Ponzio Pilato la sua condanna a mor-­‐
te. In realtà è probabile che la condanna sia stata pronun-­‐
ziata dal rappresentante di Roma per sua iniziativa, non senza la connivenza interessata delle autorità giudaiche. La sua eliminazione fisica è presentata dagli evangelisti non come un evento rituale ma come conseguenza delle scelte da lui fatte durante il suo ministero pubblico. Si può dunque parlare di un sacrificio da parte di Gesù solo nella misura in cui questo, nella religione profetica, era un’immagine del dono che in Israele i giusti facevano di sé a Dio nell’osservanza della legge. Tutta la sua vita infatti è stata l’espressione di una fedeltà totale al piano di Dio, che si manifesta nel suo amore per tutti i suoi figli. In senso 90
LA MORTE DEL MESSIA
esistenziale, parlare di sacrificio a proposito della morte di Cristo aveva un carattere evocativo molto profondo, in quanto univa la sua esperienza a quella di tutti i giusti che avevano «sacrificato» la loro vita per il bene del popolo. Oggi, però, in un diverso contesto culturale e a motivo della poca familiarità con l’AT, presentare la morte di Cri-­‐
sto come un sacrificio non ha più la forza evocativa che aveva per i cristiani di estrazione giudaica. Inoltre la dot-­‐
trina dell’espiazione vicaria, insegnata fin dalla più tenera età, fa dell’interpretazione sacrificale la fonte di malintesi difficilmente superabili. Perciò è consigliabile lasciar ca-­‐
dere il modello sacrificale e far ricorso ad altri modelli in-­‐
terpretativi, ugualmente suggeriti dalla Bibbia, ma che ri-­‐
spondono meglio alla mentalità moderna. c. Modelli alternativi
I modelli a cui si riferisce il NT per spiegare la morte di Cristo sono numerosi, e molti di essi hanno forti risonanze nel mondo moderno, in quanto si riferiscono a esperienze molto vive anche nella nostra società. Le più significative sono quelle del profeta, del martire e del maestro. 1) Il profeta perseguitato Nell’AT il profeta è colui che trasmette al popolo la pa-­‐
rola di Dio (cfr. Dt 18,15-­‐18). Nell’esercizio della sua mis-­‐
sione egli mette in crisi comportamenti difformi dal vero jahwismo e, così facendo, suscita incomprensione, opposi-­‐
zione o aperta persecuzione. Perciò il profeta può portare a termine la sua missione solo con la sofferenza e la morte. Gli esempi sono numerosi: Amos è scacciato da Betel (Am 7,10-­‐15); Geremia esprime nelle sue «confessioni» tutta la sua angoscia per gli attacchi dei suoi persecutori (cfr. Ger 11,18-­‐20); il Servo di YHWH viene perseguitato e condan-­‐
IX. La morte di Gesù oggi
91
nato a morte (Is 53,8). Per definizione i profeti sono per-­‐
seguitati (At 7,52). Gesù stesso si è presentato come un profeta perseguitato (Mc 6,4; Lc 13,34-­‐35). Il modello pro-­‐
fetico è oggi molto apprezzato in quanto forse come non mai si sente il bisogno di figure profetiche capaci di op-­‐
porsi alla violenza e alla corruzione e di interpretare i se-­‐
gni dei tempi. La presentazione di Gesù come profeta che muore per la sua fedeltà al compito di annunziare la paro-­‐
la di Dio in un mondo dominato da interessi personali e di casta ha un grande impatto nella mentalità della gente. 2) Il giusto che affronta il martirio L’esperienza del giusto perseguitato è descritta soprat-­‐
tutto, come abbiamo visto, in 2Maccabei, nel contesto del tentativo di Antioco IV Epifane di allontanare i giudei dalle loro pratiche religiose. Sullo sfondo si percepiscono l’esperienza del Servo di YHWH (Is 53) e quella di diversi salmisti che descrivono le loro sofferenze e chiedono aiuto a YHWH (cfr. Sal 22). L’immagine del giusto perseguitato viene elaborata nel libro della Sapienza di Salomone (Sap 3,2-­‐20). Questo modello è quello che è stato maggiormen-­‐
te utilizzato dagli evangelisti per raccontare la passione e la morte di Gesù. Molti dettagli che essi riferiscono non corrispondono necessariamente a fatti oggettivi ma sono piuttosto trasposizioni alla persona di Gesù di esperienze passate. Anche la figura del giusto perseguitato a motivo della sua coerenza nel perseguire i valori in cui ha riposto la sua fede è molto sentita specialmente in quest’epoca in cui le persecuzioni contro i cristiani si sono acuite ed estese. Perciò presentare Gesù in questa luce ha un effetto deter-­‐
minante sul rapporto che i nostri contemporanei sono chiamati a stringere con lui. 92
LA MORTE DEL MESSIA
3) Maestro, pastore e guida del popolo Durante il suo ministero pubblico, Gesù si è presentato soprattutto come un maestro, e così è stato riconosciuto dalla gente che si è rivolta a lui con il titolo di «rabbi». La folla lo seguiva perché parlava con autorità, non come gli scribi (cfr. Mc 1,21-­‐22.27). In quanto maestro riconosciuto egli ha fatto, secondo Matteo, cinque grandi discorsi met-­‐
tendo le basi di quella che sarà la sua comunità. Sempre come maestro è stato seguito da diversi discepoli, fra cui ne ha scelto dodici (Mc 3,13-­‐19) ai quali ha affidato il compito di collaborare con lui nell’annunzio del regno di Dio (Mc 6,7-­‐13). Analoga a quella del maestro è la figura del pastore, già attribuita nell’AT ai capi del popolo che spesso venivano criticati perché facevano i loro interessi e non quelli delle persone a loro affidate; per questo Dio stesso si presenta come l’unico pastore del popolo che, dopo averlo liberato dalla schiavitù egiziana, lo riconduce nella terra promessa al termine dell’esilio (cfr. Is 40,10-­‐11; Ez 34). Anche Gesù viene presentato da Giovanni come il buon pastore (Gv 10,1-­‐18). In un’epoca in cui emerge sempre più la corru-­‐
zione dei politici e degli amministratori della cosa pubbli-­‐
ca, l’immagine di Gesù come colui che non è un mercena-­‐
rio ma dà la vita per le sue pecore è estremamente sugge-­‐
stiva. Alla luce di queste figure bibliche la morte di Gesù rap-­‐
presenta un esempio capace di illuminare e di trascinare (cfr. Gv 13,15; Eb 12,1-­‐3; 1Pt 2,21). In realtà, è proprio con il suo esempio che Gesù ci salva. L’idea di un sacrificio espiatorio offerto tanti anni fa da un uomo-­‐Dio a un Dio preoccupato di ricevere la giusta soddisfazione per i pec-­‐
cati commessi dall’umanità non può fare breccia nel cuore dell’uomo moderno, così lontano dalla visione mitologica IX. La morte di Gesù oggi
93
contenuta in tale messaggio. Mentre oggi ci si rende sem-­‐
pre più conto che solo l’esempio di una fedeltà portata fi-­‐
no alla fine può motivare l’impegno per una ricerca vera-­‐
mente efficace del bene comune. È con il suo esempio che Gesù ha aperto una strada per tutta l’umanità, chiamando alla sequela non solo i suoi discepoli, ma tutti gli uomini che cercano la verità e la giustizia (cfr. Gv 13,14-­‐15; 1Pt 2,21). La salvezza che Gesù ci ha portato non deve dunque essere vista come frutto di una transazione giuridica in-­‐
tercorsa tra lui e il Padre, ma come la conclusione di una vita impegnata per il bene del suo popolo e di tutta l’umanità. In altre parole, la morte di Gesù ha un effetto salvifico perché imprime alla sua dedizione verso Dio e verso gli uomini il sigillo della totalità e della irreversibili-­‐
tà. Per questo il suo esempio, accompagnato dalla potenza dello Spirito che promana da lui, è l’unica causa capace di trasformare i cuori, sia a livello di individui che di comuni-­‐
tà. Solo la sua morte poteva smuovere l’inerzia di persone chiuse nel loro egoismo, intente unicamente alla ricerca del proprio interesse. Per questo Gesù diventa un modello non solo per i cristiani ma per tutta l’umanità. È importan-­‐
te però non isolare la figura di Gesù da quella di tanti uo-­‐
mini e donne di buona volontà che hanno speso la loro vi-­‐
ta fino all’ultimo per il bene comune. Gesù è uno di loro, anche se per i cristiani li sorpassa tutti per la sua eccezio-­‐
nalità e per la potenza dello Spirito che promana da lui. Per concludere è interessante rileggere quanto scrive-­‐
va J. Ratzinger nella sua Introduzione al cristianesimo del 1969: «… la coscienza cristiana è in genere ancora impron-­‐
tata a una grossolana e rozza idea della teologia d’espia-­‐
zione risalente ad Anselmo di Canterbury… Per molti cri 94
LA MORTE DEL MESSIA
stiani… le cose stanno come se la croce andasse vista inserita
in un meccanismo costituito dal diritto offeso e riparato. Sarebbe la forma in cui la giustizia di Dio infinitamente lesa verrebbe nuovamente placata da un’infinita espiazione… la ‘infinita espiazione’ su cui Dio sembra reggersi si presenta in
una luce doppiamente sinistra… s’infiltra così nella coscienza
proprio l'idea che la fede cristiana nella croce immagini un
Dio la cui spietata giustizia abbia preteso un sacrificio umano,
l’immolazione del suo stesso Figlio. Per cui si volgono con
terrore le spalle ad una giustizia, la cui tenebrosa ira rende
inattendibile il messaggio dell'amore» (pp. 227-228; cfr. anche pp. 182-185). BIBLIOGRAFIA Albanesi N., Cur Deus Homo: la logica della redenzione. Studio sulla teoria della soddisfazione di S. Anselmo ar-­‐
civescovo di Canterbury (Tesi Gregoriana -­‐ Serie Teolo-­‐
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LA MORTE DEL MESSIA
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gero, Padova 1998. Vouga F., La religion crucifiée. Essai sur la mort de Jésus, Labor et Fides, Genève 2013. INDICE PREFAZIONE .......................................................................................................... 7 I. L’ESPIAZIONE VICARIA .................................................................................. 11 a. La dottrina anselmiana .................................................................. 11 b. Tommaso d’Aquino ......................................................................... 13 c. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ......................................... 14 II. I SACRIFICI NELL’ANTICO MEDIO ORIENTE ............................................. 17 a. Lo scopo dei sacrifici ....................................................................... 17 b. I riti dei cananei e degli arabi ...................................................... 19 III. LA PRASSI SACRIFICALE ISRAELITICA ...................................................... 21 a. Il culto di Israele ............................................................................... 22 b. Diversi tipi di sacrifici .................................................................... 24 c. Il grande giorno dell’«espiazione» (Lv 16) ............................ 27 d. Caratteristiche dei sacrifici di riparazione ............................ 29 IV. SIGNIFICATO DEI SACRIFICI ISRAELITICI ................................................. 31 a. L’efficacia unitiva del sangue (Lv 17,10-­‐11) ......................... 31 b. Il rito dell’alleanza (Es 24,1-­‐11) ................................................ 33 c. Il sacrificio di Isacco (Gn 22,1-­‐19) ............................................. 37 V. LA PREDICAZIONE PROFETICA .................................................................... 41 a. I libri profetici .................................................................................... 41 b. I Salmi .................................................................................................... 44 c. La letteratura sapienziale ............................................................. 45 VI. IL SERVO DI YHWH ...................................................................................... 49 a. Situazione storica ............................................................................. 49 b. Il quarto carme (Is 52,13−53,12) .............................................. 50 c. Interpretazione del carme ............................................................ 53 VII. EROI FILOSOFI E MARTIRI ........................................................................ 57 a. La concezione greca ........................................................................ 57 b. I giudei martiri .................................................................................. 61 98
LA MORTE DEL MESSIA
VIII. LA MORTE DI CRISTO COME SACRIFICIO .............................................. 65 a. Le formule di dono ........................................................................... 65 b. Espiazione ........................................................................................... 70 c. Redenzione-­‐riscatto ........................................................................ 72 d. Il sangue ............................................................................................... 75 e. La lettera agli Ebrei ......................................................................... 78 IX. LA MORTE DI GESÙ OGGI ............................................................................ 81 a. L’«espiazione vicaria»: una teoria inaccettabile ................ 82 b. La morte di Gesù come sacrificio .............................................. 88 c. Modelli alternativi ............................................................................ 90 BIBLIOGRAFIA .................................................................................................... 95 
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