ACCADEMIA PROPERZIANA DEL SUBASIO - ASSISI SUBASIO Anno XIX - N. 3 LUIG QUADRIMESTRALE DI INFORMAZIONI CULTURALI DEL TERRITORIO 1 Settembre 2011 I MASI In questo numero: Luigi Masi e Colomba Antonietti Giovanni Pennacchi e Antonio Cristofani Le visite di Pio IX e di Garibaldi ad Assisi L’anno scolastico 1861-1862 Una poesia di Luigi Mercantini Il dibattito sul coro della Basilica di S. Francesco Una tesi sul Teatro Metastasio Fanny Mendelssohn e l’Italia SOMMARIO EDITORIALE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1 STORIA La visita di Pio IX ad Assisi e il “bacio del piede” (P. M. Della Porta) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 3 L’anno scolastico 1861-1862 per le classi elementari dell’Umbria (A. Mencarelli) . . . . . . . . . » 6 PERSONAGGI Da Petrignano un protagonista del Risorgimento: Luigi Masi (A. Cianetti) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 20 L’Unità d’Italia nel pensiero e nell’azione di due testimoni umbri: il bettonese Giovanni Pennacchi (1811-1883) e l’assisano Antonio Cristofani (1828-1883) (P. Tuscano). . . . . . . . . . . . » 23 RECENSIONI E SEGNALAZIONI LETTERATURA Il poeta risorgimentale Mercantini autore di un canto su “Rivo Torto” (F. Santucci). . . . . . . . . . . . . » 9 Fanny Mendelssohn e l’Italia: innovativa ricerca della studiosa Paola Maurizi (F. Tuscano) . . . . . . . . » 27 Il Teatro Metastasio di Assisi dal 1840 al 1861 (Red.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 28 MEMORIE ARTE Un Coro che ‘stona’ (D. Abbati) . . . . . . . . . . . . . . . . » 10 Iconografia di Colomba Antonietti (1826-1849) (F. Guarino) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 13 Il generale a teatro (G. Fortini) . . . . . . . . . . . . . . . » 34 Direttore Responsavbile: GESUINO BULLA Direttore Editoriale: DAMIANO FRASCARELLI Vice Direttore: FRANCESCO GUARINO In redazione: FRANCO CALDARI, PIER MAURIZIO DELLA PORTA, ALESSANDRO PIOBBICO, DANIELE SINI, FRANCESCA TUSCANO Subasio. Quadrimestrale di informazioni culturali del territorio, edito dall’Accademia Properziana del Subasio. Autorizzazione del Tribunale di Perugia, n. 23-2009 del 28.05.2009. La collaborazione è completamente gratuita, sotto qualsiasi aspetto. Gli articoli pubblicati riflettono il pensiero dei loro autori che ne sono responsabili di fronte alla legge e possono non coincidere con la linea direzionale del giornale. © Copyright Accademia Properziana del Subasio. Grafica, fotocomposizione fotolito e stampa: Tipografia Metastasio - Palazzo di Assisi (Pg) In copertina: PETRIGNANO – Il più antico documento a noi noto riguardante la località di Petrignano è un praeceptum dell’anno 1027, con cui Corrado il Salico, per intercessione di papa Giovanni XIX, prendeva sotto la sua protezione il monastero perugino di S. Pietro e i beni a questo appartenenti, tra cui l’«ecclesiam sancti Petri cum sua pertinentia», sita «in comitatu Asesinatu, in loco quod dicitur Petroriana». Il castello di Petrignano, risalente al sec. XIV, fu più volte teatro di lotta tra Perugia e Assisi, schierandosi ora da una parte, ora dall’altra. Nel 1378, durante la tirannia di Guglielmo di Carlo in Assisi (1376-1385), detto castello, insieme con Rocca Paida e Montecchio, si dette a Perugia contro Assisi, cadendo in tal modo nelle mani del perugino M. Oddo di M. Baglione de’ Baglioni. Successivamente fu sotto il potere dei Montefeltro: si devono al conte Guidantonio importanti interventi strutturali. Soltanto nel 1498 Assisi poteva recuperare le terre perdute, fra cui Petrignano (didascalia a cura di Francesco Santucci). 1 EDITORIALE A lla girandola di eventi che, a livello sia locale sia nazionale, hanno giustamente celebrato i 150 anni dell’Unità d’Italia e che hanno investito la fine del 2010 e tutto il 2011 l’Accademia Properziana del Subasio – siamo onesti – non ha avuto le forze per partecipare. Ma mentre quegli stessi appuntamenti erano in svolgimento progettavamo già un nostro piccolo tributo al Risorgimento e all’Unità, tributo che sapevamo sarebbe venuto dopo la chiusura di tutte le manifestazioni ma al quale non per questo abbiamo creduto di rinunciare: se state leggendo, è questo piccolo tributo che avete in mano. In coerenza con l’identità ‘territoriale’ con cui vorremmo caratterizzare la nostra testata, qui leggerete gli echi che il Risorgimento ha avuto nell’Assisano e nelle aree immediatamente circostanti oppure i contributi – a volte davvero pregevoli, anche se colpevolmente ignorati – che queste terre al Risorgimento hanno dato. Un “numero monografico”, quindi, comporre il quale non è stato facile (ma sono difficoltà che non ci faranno desistere dal ripetere l’operazione in futuro…): non è stato facile vincere la tendenza diffusa tra tutti noi a fare di Subasio lo spazio per i più variegati interventi; non è stato facile focalizzare gli argomenti che valesse veramente la pena presentare; non è stato facile capire ciò di cui si riuscisse dignitosamente a parlare in tempi ragionevoli e quindi senza mettere in campo indagini troppo vaste, troppo profonde, troppo lunghe (col passare delle settimane e dei mesi, alcune idee sono infatti decadute, rimandate magari ad altre occasioni); non è stato facile dare una cornice di criterio e coerenza ai vari interventi e forse nemmeno ci siamo riusciti (se lo credete, perdonateci!). Bisognerebbe avere chiaro, innanzitutto, quali siano gli estremi cronologici del Risorgimento italiano – e quindi cosa esso sia con precisione: inizia nel 1815? con il ’20-’21 o addirittura successivamente? o viceversa inizia già in epoca napoleonica? e finisce nel 1861, nel 1870 (o 1871) oppure nel 1918 (o 1919)? Di fronte a queste domande probabilmente oltre la nostra portata, avevamo adottato un cri- terio piuttosto grossolano: trattare eventi che andassero dagli anni ’20 agli anni ’70 del XIX secolo: ci sembra di aver sostanzialmente rispettato tale criterio; anzi, i fatti e le biografie di cui si discute prendono davvero avvio solo dagli anni ’30, stante che la generazione risorgimentale cui appartengono i vari protagonisti è, più o meno, quella dei nati negli anni ’10. Ad ogni modo, sembra che il Risorgimento ‘subasiano’ s’incarni soprattutto nell’esperienza della Repubblica Romana del 1849, alla quale il nostro territorio ha dato diversi combattenti e dirigenti di spicco: Luigi Masi, deputato della Costituente e vice presidente della stessa assemblea nonché comandante delle difese alla città insieme a Garibaldi; Giovanni Pennacchi, segretario della Costituente; Luigi Porzi e Colomba Antonietti, i due coniugi noti per il combattimento in cui lei, eroicamente e in divisa militare, per amore di lui oltreché dell’idea di patria, morì a 22 anni sotto i colpi francesi, durante la stessa – disperata – difesa di Roma guidata da Masi e Garibaldi. Alcuni di questi nomi tornano nella Passeggiata del Gianicolo a Roma, dove, insieme a diversi altri eroi, hanno dedicata una statua. Ovvio a questo punto che anche il nome di papa Pio IX si ritrovi frequentemente nelle nostre pagine, lui che della Repubblica Romana fu la prima ‘vittima’ politica e che regnò sull’Umbria prima e dopo quel tanto glorioso quanto effimero stato. Comunque, oltre agli eroismi, alle battaglie, alle prese di posizione, ai dibattiti politici e culturali che caratterizzarono il Risorgimento degli Assisani, dei Bettonesi, dei Bastioli, dei Folignati… leggerete in tralice anche il costume del tempo, le abitudini sociali e familiari, la storia non evenemenziale. E forse ne verrà fuori qualche sorpresa; vi accorgerete ad esempio che nell’800 i nostri avi erano, sugli orari del divertimento, meno castigati di quanto potrebbe pensarsi e che facevano molto molto tardi la sera, in virtù di spettacoli che iniziavano – oggi sarebbe impossibile – alle due di notte. Prima di chiudere, una nota sugli autori di questo numero monografico, dei quali mi piace la varietà ri- 2 EDITORIALE spetto all’età, ai campi d’interesse, alla formazione. Si riconfermano gli estensori su cui – credo – potremo contare sempre: Pier Maurizio Della Porta, Francesco Guarino, Francesca Tuscano e il presidente onorario dell’Accademia Santucci. Ritorna – spero per restare tra i più frequenti autori – il prof. Pasquale Tuscano. Partecipano anche Alessandro Cianetti, autore di alcuni volumi e osservatore di lungo corso della società umbra e italiana, e Antonio Mencarelli, direttore del Museo della Scuola, ricercatore e saggista specializzato nella storia delle istituzioni scolastiche. Ci sono poi la novità assoluta della giovane docente di Lettere Denise Abbati e – non come redattrici d’interventi ma come autrici di studi dei quali si parla qui – i nomi di Fulvia Angeletti, animatrice del settore teatrale in Assisi da poco laureata, e della musicologa Paola Maurizi, che ha condotto un originale studio. Compare infine, ospite d’eccezione, Gemma Fortini, della quale, con piena autorizzazione dell’erede Donatella Radicetti che ringraziamo, abbiamo riproposto alcune belle pagine. Vi auguro a questo punto buona lettura e buona immersione nel XIX secolo, scusandomi di nuovo, a nome di tutto il Consiglio Direttivo dell’Accademia, per il ritardo con cui la rivista vi è arrivata: un ritardo ripetuto, ma che ci stiamo impegnando a non far diventare cronico! W L’ITALIA! Damiano Frascarelli Nell’anno 2012 sono mancati molti soci dell’Accademia: Bianca Romagnoli, padre Salvatore Zavarella o.f.m., Pietro Profumi, il vescovo emerito Sergio Goretti, Vittorio Lardera, Antonietta Marcelli Catanzaro, Rita Cruciani Bazzoffia. Non è il presente numero di Subasio la sede per parlare diffusamente di queste persone esemplari, con le loro esperienze, conoscenze, aspettative e rimandiamo alle prossime uscite il nostro desiderio di fare, su di loro, i nostri racconti e considerazioni. Ma intanto vogliamo in tutta sincerità associarci al lutto dei loro famigliari e ricordare che i soci scomparsi, ciascuno a suo modo, hanno molto sostenuto l’Accademia e in particolare il Consiglio Direttivo nei suoi ultimi mandati, chi contribuendo su queste pagine, chi mettendoci a parte delle proprie pubblicazioni e attività, chi partecipando con intelligenza alle nostre iniziative, chi offrendo suggerimenti, esortazioni, rimproveri e lodi espressi con una sincerità e autorevolezza tali da risultare, per noi, imprescindibili e motivanti. 3 STORIA La visita di Pio IX ad Assisi e il “bacio del piede” di Pier Maurizio della Porta Attraverso alcune fonti e soprattutto grazie a sue ricerche d’archivio, Pier Maurizio della Porta ricostruisce lo svolgersi della visita ad Assisi dell’ultimo papa temporale Pio IX. La visita si tenne il 7 e l’8 maggio 1857, con un prologo il 10 maggio al ritorno del papa da Perugia, e vi ebbe evidente ricorrenza la cerimonia del “bacio del piede”. N el maggio 1857 Pio IX visitò Assisi nell’ambito di un viaggio che lo portò a toccare varie località dei territori dello Stato della Chiesa. Dopo le delusioni seguite agli eventi culminati nel Quarantotto, la visita papale veniva compiuta nel tentativo di alleggerire alcune situazioni di tensione createsi a causa della negligenza e rigidità di alcuni funzionari dello Stato. La situazione politica generale era in quel momento in totale effervescenza. Dopo il fallimento dei moti più autenticamente mazziniani, i riformisti moderati si stringevano intorno a Vittorio Emanuele II e al regno sabaudo, vedendo in questo l’unica vera possibilità di un cambiamento della situazione politica della penisola (proprio nel 1857 venne fondata la “Società nazionale”, per opera di ex mazziniani convinti, quali anche Giuseppe Garibaldi, Daniele Manin, Giuseppe Montanelli). Contemporaneamente tra lo stato sabaudo e la Chiesa erano cominciati i primi contrasti: per opera di D’Azeglio prima, poi dello stesso Cavour (per esempio con le leggi Siccardi del 1850 e la cosiddetta “questione Calabiana”) era iniziato un processo di laicizzazione dello stato che tendeva a un’assoluta autonomia della sfera civile da quella religiosa. Insomma questi fatti e le loro ripercussioni negli animi già predisposti alla nuova situazione storico-politica, che si sarebbe realizzata di lì a poco con l’Unità d’Italia, generava l’esigenza di ristabilire un rapporto diretto e di fiducia tra il pontefice e i suoi sudditi. Questo intervento e i documenti che vi si citano si aggiungono a un articolo che padre Giuseppe Zaccaria scrisse basandosi su una cronaca conventuale1 e permette di completare il racconto delle vicende relative alla visita di Pio IX, che fu l’ultima di un pontefice ad Assisi prima di quella di Giovanni XXIII nel 1962. L’articolo di padre Zaccaria riporta maggiori informazioni sulla permanenza del papa presso la Basilica, dove s’intrattenne in preghiera più volte, e presso il Sacro Convento dove dormì. Nell’articolo si legge che il pellegrinaggio di Pio IX fu compiuto per ‘voto’; infatti, durante una festa religiosa presso il palazzo pontificio di Sant’Agnese fuori le Mura a Roma, si era sprofondato il pavimento di una sala coinvolgendo il pontefice e altre 130 persone, ma egli non aveva riportato alcuna ferita: decise di mostrare la sua gratitudine alla Vergine per lo scampato pericolo recandosi in pellegrinaggio a Loreto, pellegrinaggio che riuscì a compiere solo a due anni circa dall’accaduto. Certamente però l’estensione della visita ad altre località del suo Stato fu decisa anche per le ragioni di opportunità politica di cui si è già accennato. Pio IX fu ricevuto ovunque con grandi onori e anche Assisi accolse con entusiasmo il suo sovrano. Molti furono i lavori di restauro alle porte, alle strade e ai monumenti, che la cittadinanza intraprese per rendersi degna di ricevere il pontefice. Di questa visita accenna Antonio Cristofani nelle Storie d’Assisi. Una cronaca fedele della visita è riportata negli atti delle Congregazioni straordinarie del Magistrato di Assisi2 in cui i magistrati cittadini si compiacciono per l’onore che il papa aveva voluto accordare alla città visitandola, ma anche per la dimostrazione di efficienza che essi e la municipalità tutta avevano saputo dimostrare in quella occasione, cosa che fu riconosciuta dallo stesso pontefice. Facevano parte della magistratura cittadina in quel momento: Paolo Bassi pro gonfaloniere, Alessandro Pucci, Carlo Rossi, il conte Franceso Cilleni Nepis, Marco Valeri; era governatore della città Carlo Urbini, che fu l’ultimo nella sua carica prima dell’annessione al Regno d’Italia. In un fondo miscellaneo, in corso di riordinamento presso la Sezione di Archivio di Stato di Assisi, ho trovato il Rendiconto di tutte le spese incontrate da questo comune per la venuta in Assisi di Sua Santità Pio IX, con i contratti e le quietanze relative alle varie prestazioni di lavoro o servizio necessarie a organizzare l’evento. La città, per l’occasione, si fece il ‘maquillage’, soprattutto lungo il tragitto che il papa percorse da Porta Nova a San Francesco. 4 STORIA Pio IX Naturalmente le strade furono ripulite dalle erbe, rifatti i marciapiedi, le porte della città furono restaurate: Porta Nova, la “Portella dei Pucci”, la “Portella di Pietro Paolo”. Per l’occasione fu acquistato un terreno fuori Porta Nova, appartenente al Beneficio Cavaceppi e al Canonicato di San Taddeo; in totale vennero acquistati 230 metri quadrati di superficie. Il terreno servì per allargare il piazzale davanti alla Porta, attraverso la quale il Pontefice entrò nella città e dove i nobili cittadini lo ricevettero. Un consistente restauro venne fatto alla “Torre pubblica”: furono sostituiti alcuni conci di pietra, inserite due chiavi per solidificare la struttura e venne anche risistemato il castello della campana. Magnifico fu il decoro che la città volle darsi per l’occasione; il pittore Eugenio Romagnoli fu incaricato di ridipingere lo stemma del papa che fu posto sulla Porta Nova e quello installato all’ingresso del Palazzo Comunale insieme allo stemma del Comune; statue del papa, realizzate da Francesco Rosignoli e Canzio Cangi, furono poste sulla Porta Nova e alla “Portella di Pietro Paolo”. Alcune stanze del Palazzo Comunale furono ridipinte, ornate con broccati, sete e velluti rossi; nella sala del Consiglio fu posto il trono papale. Una loggia in ferro, ancora STORIA visibile in vecchie fotografie di inizio secolo, fu posta sulla facciata del Palazzo. Pio IX affacciandosi da questa loggia salutò il popolo acclamante. Per quanto riguarda la cronaca della visita mi sembra interessante evocare la testimonianza di chi visse e organizzò i festeggiamenti e riportare alcuni passi delle Congregazioni del Magistrato sopra citate. A Porta Nova attendevano il delegato di Perugia e il governatore di Assisi; il pontefice giunse «alle ore 6 1/4 pomeridiane del dì 7 maggio corrente» e fu ricevuto dai magistrati cittadini in compagnia di venti nobili «destinati all’Ufficio di recare all’interno della città la carrozza pontificia togliendone i cavalli. All’arrivo del Sommo Pontefice il concerto cittadino diede segno della comune esultanza. Fatta la cerimonia delle chiavi, che il Pro Gonfaloniere Illustrissimo Signor Paolo Bassi rassegnò all’augusto sovrano», Pio IX arrivò a S. Chiara, dove era atteso dal cardinale Gioacchino Pecci arcivescovo di Perugia e da monsignor Luigi Landi Vittori vescovo di Assisi. Scese dalla carrozza e seguito dal corteggio proseguì a piedi fino alla “Piazza Grande”, salendo poi nel Palazzo Comunale; si affacciò dalla loggia appositamente predisposta e impartì la benedizione agli astanti inginocchiati. Nella sala del Consiglio dove era stato posto in trono «degnossi di ammetter subito al bacio del piede Monsignor Vescovo, il Governatore e la magistratura municipale, gl’impiegati del ramo giudiziario, il Capitolo Cattedrale, il Clero ed alcuni Signori», seguendo la gerarchia attestata dal protocollo usuale. Dopo aver partecipato a un rinfresco (in cui furono serviti malaga, vini di Cipro, bordeaux, marsala e vari rosoli accompagnati da pasticceria e gelati preparati «dal caffettiere Francesco Benvenuti»), sempre a piedi, il pontefice si recò a San Francesco dove ammise al bacio del piede «tutte le corporazioni Religiose dell’inclita famiglia francescana». Si affacciò poi alla loggia che guarda sulla piazza inferiore «elegantemente ridotta ad anfiteatro e variamente illuminata»; alle due di notte da qui assisté a uno spettacolo pirotecnico magnifico che durò più di un’ora. La città era tutta imbandita da tappeti e arazzi che pendevano dalle finestre. I palazzi erano illuminati come pure la Rocca, dalla quale i mortai spararono per tutto il tempo necessario al corteo papale per percorrere il tragitto verso la basilica di San Francesco. La mattina dopo Pio IX si recò alle ore 7.45 in Basilica, celebrò nella «chiesa di mezzo», sostò poi in preghiera sulla tomba del Santo dove assistè alla messa celebrata dal suo «Cappellano Segreto». Si recò quindi alla basilica di S. Chiara dove ammise al bacio del piede 5 «le monache di tutte le religiose famiglie della città»; constatò dunque lo stato dei lavori del sotterraneo della basilica, per i quali fece anche una generosa donazione. Rientrò a S. Francesco a mezzogiorno in punto: «anche in questo secondo giorno erano stipate le vie di popolo e la città atteggiata a festa accresceva letizia negli animi dei cittadini alla vista dell’augusto pontefice il quale senza seguito di cocchi e cavalli, ma circondato invece da una corona d’innocenti vagamente vestiti in angeli [...] ed aventi fiori, corone e bandiere percorreva le vie della città benedicendo cortesemente il popolo suo». Alle una il Pontefice ricevette i magistrati cittadini che gli chiesero di riunire sotto la giurisdizione di Assisi le parti di territorio smembrate in varie fasi. I magistrati, il presidente dell’Accademia Properziana e il rappresentante del Capitolo della cattedrale offrirono al Papa un opuscolo «compilato dal nostro sacerdote Sig. Don Giuseppe Carmellini contenente poche parole intorno ad Assisi considerato nel suo aspetto civile e religioso uscito dai torchi dell’asisano Pietro Sgariglia». Finito il pranzo, dopo aver sostato in preghiera davanti all’altare papale, Pio IX lasciò la città per dirigersi a Perugia. Il 10 maggio di ritorno da Perugia Pio IX si fermò a Santa Maria degli Angeli dove era atteso dalle magistrature cittadine, dal vescovo e dal governatore. Le bande di Assisi e Cannara «alternarono i loro musicali concerti». Il papa, dopo aver ammesso al bacio del piede i religiosi e le religiose del luogo, proseguì verso Foligno con grande cruccio dei custodi della Porziuncola che avrebbero gradito una sosta più lunga presso «la chiesa che si sta ricostruendo dietro l’infortunio dei terremoti del 1854». Il papa, per riconoscenza della calorosa ospitalità, mandò una medaglia e un biglietto al gonfaloniere Paolo Bassi. I festeggiamenti costarono alla municipalità la ragguardevole somma di circa 1500 scudi e tuttavia il verbale della Congregazione straordinaria della Magistratura di Assisi conclude con queste parole «questo fu tutto quello che la città di Assisi potè nella ristrettezza di tempo e di finanze offrire al Suo Sovrano, verso del quale fu in ogni contraria evenienza devota e leale». Note 1 Giuseppe Zaccaria, La visita di Pio IX ad Assisi nel maggio dell’anno 1857, in Ricerche di archivio, Assisi, pagine sparse, Assisi, 1972, pp. 122-126. 2 Archivio Storico del Comune di Assisi, Amministrativo, tit. X, b. 59, fasc. 10, cc 73r. 76v. 6 STORIA L’anno scolastico 1861-1862 per le classi elementari dell’Umbria di Antonio Mencarelli Antonio Mencarelli, fondatore e direttore del Museo della Scuola di Castelnuovo di Assisi (www. museodellascuola.com), commentando uno dei pezzi esposti in questa collezione, ci guida all’interno del primo anno scolastico dell’Italia unita, con le sue scansioni, le sue festività, le sue priorità didattiche. P resso il Museo della scuola di Castelnuovo di Assisi è esposto un calendario della scuola elementare della Provincia dell’Umbria per l’anno scolastico 1861-1862. Si tratta di un manifesto ufficiale, il primo calendario scolastico del nuovo Regno. Esso costituisce una fonte preziosa per i contenuti e le norme che lo accompagnano. Vi sono indicati dettagliatamente i giorni in cui si doveva far lezione, i giorni di vacanza, l’orario giornaliero da rispettare, le eccezioni che a questo potevano essere apportate dai comuni, che avevano la diretta competenza sulle scuole elementari secondo le prescrizioni della piemontese legge Casati del 1859. Vi si leggono le avvertenze rivolte ai ma- estri e alle maestre, i libri a uso degli insegnanti, i testi dei programmi per tutte le classi. Guardandone in dettaglio le singole parti si ha davanti un quadro ben definito della struttura didattica e organizzativa della scuola elementare di centocinquanta anni fa. Il primo dato che balza in evidenza è la durata dell’anno scolastico: l’apertura delle scuole e l’ammissione degli allievi avveniva il 15 ottobre, il giovedì di ogni settimana era giorno di vacanza oltre naturalmente alla domenica. Per Natale la dispensa dalla frequenza andava dalla vigilia fino al 27 dicembre. A Capodanno i bambini stavano a casa, così come nel giorno dell’Epifania. Non si Il manifesto per l’apertura dell’anno scolastico umbro 1861-62; in alto è riportato il calendario delle lezioni, in basso si trova una densa serie di indicazioni didattiche. STORIA Antonio Mencarelli all’interno del Museo della Scuola da lui gestito; questa recente struttura museale del Comune di Assisi, in frazione Castelnuovo, sta ampliando le proprie iniziative con conferenze e pubblicazioni. faceva scuola il lunedì e il martedì grasso e il giorno delle Ceneri. Le vacanze di Pasqua duravano dal mercoledì santo al lunedì di Pasqua. Per un’altra vacanza i bambini dovevano aspettare la Pentecoste e il giorno successivo. Il termine dell’anno scolastico era fissato al 15 agosto. Le altre ricorrenze che venivano festeggiate erano il 14 marzo, genetliaco del Re, il 19 marzo per S. Giuseppe, il giorno dell’Ascensione, il 24 giugno per S. Giovanni Battista, il 29 giugno per i SS. Pietro e Paolo, il 15 agosto per l’Assunzione di Maria Vergine. Per le scuole di campagna era concesso un orario giornaliero e un calendario che il sindaco e l’ispettore scolastico potevano adattare alle singole località e alle speciali esigenze della vita rurale. 7 Alla scuola, obbligatoria e gratuita, erano ammessi alunni e alunne che non avessero meno di sei anni e non più di dodici. L’orario giornaliero andava, nel periodo dal 1° dicembre fino a tutto febbraio, dalle ore 8 alle 10.30 e dalle 13.30 alle 15.30; dalle 9 alle 11.30 e dalle 15 alle 17 nei mesi di ottobre, novembre, marzo, aprile e maggio; dalle 8 alle 10.30 e dalle 14 alle 16 nei mesi di giugno, luglio, agosto. Le scuole praticavano quindi un orario spezzato ma il sindaco, sentito l’ispettore, poteva modificarlo nel senso di ridurre le due lezioni quotidiane ad una sola lezione, purché però la lezione non durasse meno di cinque ore in qualunque mese dell’anno. Era ammessa nelle cinque ore un’ora di riposo o di ricreazione. Guide, manuali, nozioni, raccolte scritte dei più noti cultori di pedagogia e didattica dovevano essere il corredo professionale per ogni singolo insegnante. Le classi erano quattro, ma la prima elementare era divisa in una sezione inferiore e in una sezione superiore, così che in realtà le classi erano cinque. I programmi per la prima classe (sezione inferiore e superiore) comprendevano lo studio della religione, della lingua italiana, l’aritmetica e gli esercizi di memoria. In seconda si aggiungevano la calligrafia, la geometria e il sistema metrico. Fra i libri di testo coordinati alle materie dei programmi erano raccomandati i classici sillabari graduati del sacerdote Giovanni Scavia per le prime classi, i metodi di scrittura corsiva degli autori Delfino e Trossi, i libri di lettura sempre dello Scavia ma anche quelli di Antonino Parato, Vincenzo Troya, Caterina Ferrucci Francesca. Per la dottrina cristiana si seguiva un compendio ad uso della diocesi di appartenenza della scuola. L’insegnante elementare Girolamo Bambini Angeli (1841-1921), in una foto del 1901 con la sua scolaresca. Fu nominato maestro a vita nel 1887, giovanissimo, «per lodevole servizio». 8 STORIA Ecco i volontari garibaldini di Foligno che parteciparono alla Campagna di Grecia (1897); prima fila in alto (da sinistra a destra): sergente Natali Italo, c. r. Solani Saffi (†), ten. Esdra Innocenti (†), on. capitano Francesco Fazi (†) (deputato di Foligno, aiutante maggiore del gen. Ricciotti Garibaldi), s. ten. Luigi Fongoli (†) aiutante maggiore del col. Gattorno, s. ten. Pieraccini Alessandro (†), corrispondente del «Messaggero» durante la grande guerra; seconda fila (da sinistra a destra): c. r. Polli Confucio, detto Farello (†), serg. magg. Crocchi Ubaldo, c. r. Menotti Brandi (che ritornò volontario in Grecia anche 1912), serg. Bertini Odoardo, c. r. Bencivenga Domenico; terza fila (da sinistra a destra): c. r. Cagnoni Oddone, c. r. Attilio Pasquini (†), serg. Bechelli Gioacchino (†), c. r. Bellucci Paride (Foto-riproduzione Carmine) Pubblichiamo una fotografia mostrataci dalla sig.ra Luigina Passeri Fortini di Assisi. Si tratta di un ritaglio da un non identificato giornale (forse il menzionato Messaggero?) successivo alla I guerra mondiale (nella didascalia si legge un riferimento alla «grande guerra»), quando molti dei combattenti raffigurati erano morti (si notino le ‘crocette’ dopo i nomi); il ritaglio era conservato gelosamente da Ario Bencivenga (†1998), affittuario della sig.ra Fortini in Via Dono Doni ad Assisi. Egli, proprietario dell’Albergo Roma nella vicina Piazza S. Chiara con le sorelle Tatiana, Lina, Umbra (un altro fratello era morto in guerra), era figlio del qui fotografato Domenico che, folignate, aveva sposato Amabile Pilli di Assisi. Egli si considerò garibaldino fino alla fine: la nipote Mirta ricorda che al suo funerale, nel 1939, era esposta la divisa, orgoglio del defunto e della famiglia intera. La foto riprodotta riguarda la “Campagna di Grecia” del 1897. Tale conflitto scoppiò tra Greci e Turchi per il possesso di Creta, allora turca, e in seguito all’ennesima rivolta antiottomana nell’isola. I garibaldini, guidati da Ricciotti Garibaldi (quarto e ultimo figlio di Giuseppe Garibaldi e Anita), parteciparono alla guerra per i consueti motivi dell’ irredentismo e della lotta all’autocrazia, rappresentata in questo caso dalla monarchia ottomana. L’intervento dei volontari italiani interessò in particolare la battaglia di Domokos (Tessaglia), dove essi ebbero molti morti (alcuni dei quali probabilmente tra i fotografati, come sosteneva Ario Bencivenga, sebbene i testimoni dei suoi discorsi non ricordino quali); in tale circostanza rimase ucciso il parlamentare Antonio Fratti, cui Pascoli dedicò per questo un inno (in Odi e Inni, 1906). La Grecia risultò sconfitta, ma l’attenzione internazionale, che dal 1821 continuava a esercitarsi verso i casi di questa nazione, permise di creare uno stato cretese autonomo, diretto da autorità greche sebbene ancora formalmente in seno all’Impero Ottomano. L’ormai 65enne Ricciotti e i garibaldini (tra cui Menotti Brandi ritratto nella foto) tornarono a combattere per la causa ellenica contro gli Ottomani nel 1912, nel quadro delle “guerre balcaniche” che portarono effettivamente Creta a unificarsi con la Grecia. Nel ritaglio di giornale compare, oltre Bencivenga di cui ad Assisi sono molto conosciuti i discendenti Clementi, Mariani e Buzzi, il deputato umbro Francesco Fazi († 1928), ma anche diversi nomi di cui – almeno dal punto di vista di chi scrive – niente altro si sa: s’invitano pertanto eventuali eredi dei garibaldini ritratti ed eventuali amici di famiglia, i ricercatori, i ‘topi d’archivio’ a rendere note o addirittura rintracciare informazioni sia sulle circostanze della pubblicazione della foto sia su questi combattenti che rendono onore alla nostra terra. Damiano Frascarelli Note 1 Primo sindaco di Foligno dopo la legge del 1889 sui comuni che rendeva elettivo questo incarico, eletto deputato la prima volta dal collegio di Foligno-Gubbio nel 1895 e poi nel 1904 e 1909; andò volontario anche alla Grande Guerra; morì nel 1928. 9 LETTERATURA Il poeta risorgimentale Mercantini autore di un canto su “Rivo Torto” di Francesco Santucci Francesco Santucci presenta una poesia di Luigi Mercantini meno nota rispetto ai suoi ‘grandi successi’ risorgimentali e, in coerenza con il suo ruolo ispiratore di presidente onorario dell’Accademia, lancia ai volenterosi una ‘sfida’: indagare le circostanze che condussero alla composizione dell’opera. F orse in pochi sapranno che nel giugno del 1862 il poeta Luigi Mercantini (Ripatransone, 1821 – Palermo, 1872), autore delle ben note composizioni risorgimentali intitolate La spigolatrice di Sapri («Eran trecento, eran giovani e forti…») e L’Inno di Garibaldi («Si scopron le tombe, si levano i morti…»), dava alle stampe in Bologna – dove insegnava Storia ed Estetica all’Accademia di Belle Arti – un opuscolo di 32 pagine intitolato Rivo Torto, testo che poi verrà inserito nella raccolta di tutte le poesie del giovane autore marchigiano, dal titolo Canti, edita dalla Tipografia del Progresso di Fava e Garagnani. Si tratta di una lunga poesia in endecasillabi sciolti, intercalati nell’ultima parte da una strofa di sette settenari a rima baciata che si ripete per sette volte. Sorvolando sulle motivazioni ‘politiche’ della composizione che reca in epigrafe i celebri versi danteschi dell’XI canto del Paradiso dedicati ad Assisi e, in apertura, una lunga dedica «Al Parlamento Italiano», ci limitiamo a riportare i primi versi aventi per oggetto una meticolosa descrizione del ‘paesaggio’ di Rivotorto d’Assisi: Assisi in lieti panni avea pur visto cavalcar baldo le sue vie, guidando le giovanili frotte, or, d’una corda cinto la bigia tonaca, in tra i rami con le braccia levate il guardo ergeva fiso aspettando il sole a cui col primo sussurro delle frondi e il volo e l’inno dei festeggianti augelli alzava il suo Cantico innamorato. Umil capanna, tu sei la nuzïal stanza ove prima il giovinetto al cor la derelitta sua sposa si stringea che, dalla croce con la povera veste immacolata del Nazaren discesa, era fuggita ramingando di là, dove i novelli imporporati apostoli le spine del suo primo marito in perle e in gemme avean converso […]». «Sotto alla costa fertile, che pende infra Tupino e Chiassi, una romita vallèa s’allarga, a cui dà nome il rivo che le sue flessüose acque girando va per lo piano erboso: e però il loco disser le genti Rivo Torto. In cerchio guardano all’infiorato eremo i gioghi selvosi di Apennino che le vette candide lancia negli azzurri; e, al tempo che ad ogni suo voltarsi il bel rigagno grandi tronchi lambìa ch’ei già da cento e cento anni piegato avea germogli con l’erbe di sua ripa ove più chiusa facea l’ombra il querceto, nereggiava una capanna antica. Inginocchiato sull’uscio un giovin uom cui la nativa «Oscure intanto fumano le nubi su l’Appennino: grande, austera, verde da le montagne digradanti in cerchio l’Umbrïa guarda». Leggendo tali parole, il pensiero, oltre che a Dante Alighieri, va anche a Giosue Carducci; si pensi, infatti, ai versi 21-24 di Alle fonti del Clitunno: o a questi altri (vv. 1-4) del sonetto A Santa Maria degli Angeli: «Frate Francesco, quanto d’aere abbraccia questa cupola bella del Vignola, dove incrociando a l’agonia le braccia nudo giacesti su la terra sola!». A questo punto, ci si potrebbe chiedere: come mai il Mercantini fu da queste parti? 10 ARTE Un Coro che ‘stona’ Dibattimento sulla rimozione del Coro della Basilica Superiore di S. Francesco di Denise Abbati Utilizzando come fonti privilegiate gli interventi sulla stampa dell’epoca da parte degli studiosi coinvolti, Denise Abbati ricostruisce un dibattito storico-artistico che dovette apparire importante e dietro al quale alcuni videro, ancora dopo il 1871 e quindi a Unità completata, la contrapposizione tra l’anima laica e l’anima cattolica del movimento risorgimentale. N ell’anno 1873 lo storico dell’arte Giovanni Battista Cavalcaselle, che sovrintendeva ai restauri della Basilica di S. Francesco, dispose la rimozione del coro ligneo della Chiesa Superiore realizzato da Domenico Indivini da S. Severino tra il 1491 e il 1501. Questa decisione suscitò lo sdegno di molti cultori dell’arte e dei cittadini assisiati, determinando un rovente dibattito, che rimbalzò in molti quotidiani e periodici dell’epoca. Il primo ad attirare l’attenzione sulla questione fu lo storico Cesare Cantù, che in un articolo dal titolo Restauri Indiscreti, pubblicato nel quotidiano L’Opinione il 5 dicembre 1872, stimava il coro rinascimentale un insigne lavoro, in armonia perfetta con la struttura medievale dell’edificio, e considerava un atto barbarico volerlo sconnettere dalla Basilica per cui era stato eseguito. L’8 dicembre comparve nel giornale Il Diritto la risposta del Cavalcaselle, il quale motivava la sua decisione, sostenendo che gli stalli di legno, per quanto pregevolissimi e appartenenti alla più bella epoca dell’arte, avevano il limite di non appartenere alla stessa epoca della chiesa, in secondo luogo avrebbero ostacolato il ripristino dell’altare marmoreo nel centro dell’abside; infine la rimozione degli stalli avrebbe aumentato l’effetto prospettico del monumento, rimanendo interamente libero lo sviluppo di tutte le sue linee. Il coro quindi doveva essere collocato nella Sala dei Musici dell’attiguo convento e in luogo di esso «sulle tracce dell’antico» dovevano essere realizzati sedili di marmo bianco. In modo sarcastico intervenne lo storico assisiate Antonio Cristofani sulle pagine del Corriere dell’Umbria il 15 gennaio 1873. Secondo lui, infatti, la decisione del Ministero della Pubblica Istruzione di far tornare la Basilica al suo stato primitivo poteva essere un principio buono in sé, che tuttavia avrebbe dovuto trovare applicazione con le molte limitazioni che il buon senso sa suggerire anche alle menti più volgari: «andando innanzi [...] con una logica sì inesorabile dovrebbe atterrarsi il bel portico innalzato da Baccio Pintelli innanzi alla porta della Basilica inferiore, perché contemporaneo al coro del Sanseverinate e condotto con lo stile del secolo XV. [...] Anzi, a voler essere giusti, sarebbe inevitabile la rimozione dei dipinti di Giotto, del Gaddi, del Giottino, del Cavallini, dei Memmi e del Capanna, perchè anco queste opere d’arte sono notabilmente posteriori alla fondazione del monumento. E così questo mirabile edifizio, le cui pareti ci offrono la storia viva del rinascimento della pittura italiana [...] dovrebbe contentarsi dei soli pochi frammenti di Giunta pisano, perché Giunta è l’unico pittore coevo all’innalzamento della Basilica». Forte perplessità circa la rimozione del coro dalla Basilica Superiore fu inoltre espressa dal deputato perugino Coriolano Monti che, intervenendo nella seduta della Camera dei Deputati del 7 febbraio 1873, si rivolgeva al Ministro della Pubblica Istruzione Scialoia, augurandosi che il coro di Assisi rimanesse al suo posto, in quanto non sarebbe stato possibile perseguire in modo così rigoroso l’idea di togliere dai monumenti antichi opere pregevoli di epoche successive, senza correre il rischio di deteriorarli, anziché valorizzarli. Da parte sua il Ministro rispondeva sostenendo che la rimozione del coro, da lui definito «mobile soprapposto», era necessaria per permettere la ricollocazione dell’altare nel suo posto originario, al centro dell’abside; aggiungeva infine che a differenza di altri monumenti italiani, che essendo opera di diversi tempi risultano un aggregato di cose diverse, la Chiesa Superiore di Assisi era stata edificata in pochissimo tempo con un unico concetto artistico e che tale uniformità, che a suo dire rappresentava il suo principale pregio, sarebbe stata recuperata solo togliendo gli stalli di legno aggiunti posteriormente. ARTE L’interno e l’esterno della Basilica superiore di San Francesco in immagini scattate da Mariano Guardabassi (1823-1880) e relative al periodo del dibattito sul coro. 11 Il 12 febbraio interveniva nel Corriere dell’Umbria il pittore perugino Mariano Guardabassi, membro della Commissione Artistica della provincia dell’Umbria, che nel 1863 aveva stilato con il conte Giovanni Battista Rossi Scotti e il prof. Luigi Carattoli una puntuale descrizione della Chiesa di S. Francesco volta ad accertare lo stato di conservazione del monumento, nella quale erano stati suggeriti i restauri da doversi effettuare. Guardabassi faceva notare che nei registri del convento non si menzionava nessun coro precedente a quello del 1501 e che, a seguito di un esame accurato delle pareti da lui stesso condotto, era possibile affermare senza ombra di dubbio l’assenza di tracce di antichi sedili marmorei. Il 24 febbraio nelle pagine dello stesso giornale, Cavalcaselle replicava sostenendo che il motivo dello spostamento dell’altare dal centro della crociera era stato l’ingombro causato dai sedili del coro di legno. Per questo si consigliava di rimuoverli, sostituendoli provvisoriamente con un altro coro di legno colorato con una tinta chiara, simile a quella del trono papale, affinché tutti potessero suggerire i miglioramenti necessari per potere «a suo tempo e a ragion veduta ricollocarvi gli stalli di marmo», che in principio dovevano pur esserci, in quanto egli non era disposto a credere che prima del coro del XVI secolo fossero utilizzate semplici panche di legno. Il 6 marzo, nel Corriere dell’Umbria, Guardabassi rispondeva affermando che l’altare era stato spostato nel 1755 e che quindi era rimasto al centro della crociera con gli stalli del coro ligneo per ben 254 anni; per rimettere in luogo l’altare non era quindi necessario rimuovere il coro. Infine si chiedeva come mai, senza alcuna ragione plausibile, si volesse condannare all’ostracismo il più antico coro che la Basilica Superiore avesse mai avuto, sostituendolo con un nuovo coro marmoreo, che mai sarebbe potuto essere né più antico né più conveniente né più ricco né più bello. Il 14 giugno La Voce della Verità pubblicava una lettera diretta al deputato Monti da parte del prof. Cristofani nella quale venivano espressi i ringraziamenti per il suo intervento in parlamento contro la rimozione del coro e si biasimavano le parole del ministro, che in una parte del suo discorso aveva fatto allusione a delle minacce ricevute dal Cav. Guglielmo Botti, restauratore degli affreschi di Giotto, perché rinunciasse a quell’incarico. Cristofani interpretava le parole del ministro come un tentativo di far credere che l’opposizione alla rimozione del coro avesse un colore politico, quindi con decisione affermava: «noi protestiamo altamente, che intendimenti politici qui 12 ARTE né ci sono, né ci ponno esser mai». L’Osservatore Romano del 18 giugno 1873 dava notizia della rimozione del coro e giudicava riprovevole la condotta della rappresentanza comunale che non aveva protestato né si era dimessa in presenza dell’ «orribile misfatto». Dallo stesso giornale, il 22 giugno, venivano utilizzati toni aspri: «L’orrendo misfatto artistico pur troppo è consumato. Il coro magnifico di maestro Domenico da S. Severino [...] già da qualche settimana fu tolto dal tempio, ed ora scomposto trovasi accumulato alla rinfusa nei corridoi dell’attiguo convento, come si farebbe di legnami vecchi e inservibili». Si ricordava inoltre che il Municipio aveva tenuto un’adunanza, voluta dalla maggioranza dei consiglieri contraria alla rimozione del coro; tuttavia aveva prevalso il servilismo nei confronti del Ministero e la protesta era stata evitata; mentre i tre membri della Commissione Artistica dell’Umbria Rossi Scotti, Guardabassi e Carattoli avevano dato le dimissioni. L’articolo si concludeva quasi con un atto di accusa: «Ulteriori informazioni da Assisi sono aspettate [...] con vivo interesse, importandoci di sapere se “quel vecchio ed inservibile cumulo di legname, che ora giace alla rinfusa nei corridoi del convento” dovesse mai per avventura uscirne e pigliar forse la via dell’estero! In tal caso ci sarebbe più agevole di spiegare il vero concetto artistico da cui partirono le risoluzioni degli Scialoia, dei Cavalcasella e di altrettali!». In una missiva di Cristofani inviata a Luigi Carattoli e pubblicata da L’Osservatore Romano il 12 luglio si faceva riferimento alla mobilitazione della cittadinanza assisiate: «il sig. Cavalcaselle [...] propose al Consiglio superiore l’ostracismo del coro. Poi, veduto che molti intendenti s’apparecchiavano a contraddirgli, veduto che la Commissione perugina gli si scopriva avversa, veduto che una numerosa soscrizione della cittadinanza d’Assisi indirizzavasi al R. Prefetto dell’Umbria a dimostrazione di gratitudine e d’adesione a quel voto sapiente della stessa Commissione; che ti fa il sig. Cavalcaselle? [...] inizia precipitosamente la rimozione del coro. Gran bella cosa se i giudici dei nostri tribunali tenessero una prammatica simile, e quando vedessero una folla di patrocinatori levarsi a difesa di un povero accusato, essi per far finito il chiasso, lo facessero lì per lì fucilare su due piedi». Nel Corriere di Roma del 13 luglio compariva un breve articolo a difesa del Cavalcaselle, riconosciuto come uno dei più intelligenti cultori di opere d’arte in Italia, che avendo la “grave colpa” di essere liberale, era stato oggetto di critiche dure e ingiustificate da parte dei clericali. Dello stesso tenore un articolo su Il Fanfulla del 19 luglio, in cui si pubblicizzava tra l’altro un prestigioso incarico ottenuto dal Cavalcaselle, chiamato dall’imperatore d’Austria a classificare i quadri della sua galleria a Vienna. Il Corriere dell’Umbria del 25 luglio dava notizia del fatto che la Giunta Municipale del Comune di Assisi aveva deliberato di scolpire il nome del ministro Scialoia nell’Albo dei benemeriti della Chiesa di S. Francesco, affinché fosse espressa adeguata riconoscenza alle cure spese dal ministro medesimo per conservare e restaurare il celebre monumento. Il 27 e il 30 luglio La Voce della Verità pubblicava una lettera di Cristofani inviata al conte Giambattista Rossi Scotti, in cui Cristofani sosteneva che Cavalcaselle avrebbe dovuto far precedere all’atto di rimozione due cose: 1) presentare un disegno del nuovo coro, che, qualora fosse stato riconosciuto preferibile all’antico, avrebbe reso ragionevole all’opinione pubblica la sua sostituzione; 2) mettere in ordine un locale che potesse accogliere degnamente gli stalli del maestro Domenico. Entrambe le cose erano state disattese e non si era posta mano alla riparazione del tetto, che era invece da considerarsi cosa molto urgente: «Tutti lo sanno, che il vento qui ha la rara abilità di spiccare fin le campane dai campanili [...] State a vedere che gli metterà pensiero di spazzare in una notte una fila di coppi dal tetto elevato di S. Francesco e farli ruzzolare sui tetti più bassi delle cappelle! E se, come accade spessissimo, dopo il turbine del vento sopravviene uno scroscio di pioggia, eccoti le acque penetrate a rigagnoli nelle volte, inondare i peducci, infiltrarsi tra pietra e pietra, ed inzuppando gl’intonachi, alterare le tinte degli affreschi e prepararne la caduta». Il 20 agosto il conte Giambattista Rossi Scotti rispondeva a Cristofani. La lettera fu in seguito pubblicata dal giornale umbro La Provincia; lo scrivente esprimeva rammarico nel constatare che l’opinione di molti avesse confuso con la politica una questione che non era mai uscita dal campo dell’arte. Esprimeva inoltre meraviglia per il comportamento tenuto dalla Giunta municipale di Assisi, che invece di protestare per il discorso del ministro, che alludendo alle presunte minacce al cav. Botti aveva lanciato un atto di accusa alla cittadinanza intera, aveva dato un esempio di timidità servile applaudendo alla rimozione del coro. Ricordava inoltre che nella relazione (già citata) stilata con Guardabassi e Carattoli sin dal 1863 erano stati proposti tutti i restauri disposti l’anno prima dal Cavalcaselle, a eccezione della rimozione del coro: ARTE «cotesta rimozione [...] io la credo un vero peccato, perché nell’insieme quell’opera era in perfetta armonia con l’indole architettonica dell’edifizio. [...] Si è detto e ripetuto [...] che la rimozione s’è fatta col suffragio della Giunta superiore di belle arti [...] ma quanti di quegli artisti e letterati [...] furono presenti alla discussione e alla deliberazione? E dei presenti, quanti avevano esaminato da presso la cosa della quale eran chiamati a deliberare, oltre il Cavalcaselle? Oh qui davvero è forza confessare, essersi usata col vostro coro il sistema di certi medici, che determinano il medicamento e spediscono la ricetta senza neppur curarsi di vedere il malato!». Poiché Cavalcaselle era rimasto completamente sordo alle ragioni degli avversari, il decreto aveva trovato prontamente e sventuratamente attuazione: «ed invece 13 di cominciar saggiamente con la rinnovazione del tetto [...] si volle gettar denaro per rimuovere subito il coro; mentre questa rimozione, quando anche per strano puntiglio si fosse voluta fare, si doveva almeno per ultimo e dopo che il monumento avesse in tutto il resto riacquistato l’impronta primitiva». La polemica continuò ancora per qualche tempo, dividendo autorevoli rappresentanti della cultura, che si schierarono a favore della rimozione o contro di essa. Sul finire del secolo, comunque, per iniziativa dei frati, che attraverso delle elemosine raccolsero la somma necessaria alla ricollocazione, il coro ligneo oggetto dell’accesa disputa tornò al suo posto. Nell’anno 1900, a quattro secoli di distanza dalla prima, fu effettuata una seconda inaugurazione. Iconografia di Colomba Antonietti (1826-1849) di Francesco Guarino «Dovunque i passi il suo Luigi volse, ella i passi volgea, guerriera ardita» (G. Ricciardi, Epopea Biennale (1848-49), Polimetro, XXVI) «Beati quei popoli che non hanno bisogno di eroi» (Berthold Brecht) Premessa Come per tutti i personaggi di rilievo che hanno avuto la ventura di lasciare nel tempo una profonda traccia di se stessi e la cui epopea è stata variamente celebrata, anche l’iconografia di Colomba Antonietti, l’eroina di Bastia Umbra morta giovanissima in Roma, presso le mura di Porta San Pancrazio, nella difesa della seconda Repubblica Romana (quella dei triumviri Mazzini, Armellini e Saffi e del segretario Giovanni Pennacchi, bettonese) si può distinguere in iconografia identificativa, relativa cioè a quelle raffigurazioni strettamente prosopografiche che ne tratteggiano il ritratto fisico con particolare riferimento all’aspetto, alle espressioni, ai lineamenti del volto, ed in iconografia celebrativa volta principalmente a rimarcare l’aspetto epico, i fatti, le azioni, che l’hanno connotata in uno specifico contesto. I tratti salienti nonché i particolari della breve esistenza di Colomba sono ben noti alla, ormai ricca, storiografia risorgimentale nazionale e locale, così come ben nota è l’epigrafia che ne ricorda le vicende e l’azione. Pertanto, tralasciando in questa sede i risvolti – ripetutamente trattati – della sua romantica biografia, tra i tanti profili che di essa sono stati tracciati, ritengo particolarmente diretto ed efficace quello tratteggiato da Giustiniano degli Azzi Vitelleschi pubblicato ad vocem nel Dizionario del Risorgimento Nazionale (noto anche come il Dizionario Rosi dal nome del curatore) e che si riporta nella finestra qui di seguito a necessario corredo di queste brevi note. Iconografia identificativa Va subito detto in via preliminare come di Colomba Antonietti non esista alcun ritratto realizzato dal vivo e che tutta l’iconografia in proposito è frutto di ricostruzioni a posteriori fatte, dai diversi artisti che vollero effigiarla, sulla base di descrizioni suggerite 14 ARTE a memoria da chi direttamente somigliante alla zia, è il bel busto conobbe la giovane donna (nello bronzeo (fig. 3) del noto scultore specifico parenti stretti come il assisano Vincenzo Rosignoli eseguito marito, i fratelli, le sorelle e i nipoti) o tra il 1906 ed il 1907 per essere posto, dal confronto con ritratti di esponenti in Bastia Umbra, sul monumento femminili della famiglia come ad celebrativo dell’eroina, inaugurato esempio quello assai noto che sembra ufficialmente il 4 settembre 1910. disegnato a penna (fig. 1) il quale, La vicenda di questo monumento, non smentendo la tradizione della sua che si trovava nella piazza centrale venustà, è certo un ritratto giovanile del paese, risulta peraltro essere della madre, Diana Trabalza, forse abbastanza travagliata se, dal sito desunto da un dipinto realizzato – originario in cui fu eretto all’inizio non si sa – dal pittore fulginate Decio del secolo, venne, cinquantacinque Trabalza (1804-1842) suo nipote e che, anni dopo (nel 1964), trasferito fig. 1 almeno sino al 1907, era conservato ove attualmente si trova (dinnanzi presso il Municipio di Foligno. La all’ingresso principale della cosa, peraltro, potrebbe in qualche residenza municipale) e trasformato modo essere confermata dalla dicitura nell’aspetto arricchendosi di quattro manoscritta in calce che recita: «da formelle realizzate dallo scultore un ritratto di famiglia». perugino Artemio Giovagnoni Sono invece del tutto ignoti a chi (1922 - 2007), lasciandosi tuttavia scrive la fonte e l’autore del ritratto campeggiare il busto e la formella del di Colomba (fig. 2) che correda la Rosignoli nonché la lapide dettata da voce che su di essa compilò il noto Isidoro del Lungo. L’espressione di archivista perugino Giustiniano degli sereno, quasi trascendente, distacco Azzi Vitelleschi e che venne inserita da ogni cosa; il trapelare di un’intima, fig. 2 (volume II, alle pp. 88-89) nel già sicura e consapevole proiezione verso citato Dizionario del Risorgimento un futuro certo e migliore quale Nazionale pubblicato dall’editore potrebbe essere quello di una patria milanese Vallardi tra il 1931 ed il 1937 realizzata nella sua unità (Isidoro Del in quattro volumi. I tratti somatici ed Lungo parla di «carattere e fermezza i lineamenti del volto, ad eccezione di propositi»); la tranquilla certezza dei lisci capelli neri (Colomba li aveva di un dovere civile compiuto o da ricci ed indomabili), sembrerebbero compiere, tratti tutti che connotano corrispondere in qualche modo alla il volto della giovane ritratta dal descrizione fattane dai suoi parenti Rosignoli, sembrano assolutamente (cfr. nota 3) e a quella ricavata dal contrastare con le descrizioni delle ritratto del Trabalza, in particolare due icone precedenti caratterizzate l’ovale del viso, l’atteggiarsi della esclusivamente dalla naturale, più bocca, gli occhi e il profilo. Potrebbe esteriore, appartenenza alla vita data pertanto trattarsi della stessa persona, dalla giovane età della protagonista, anche se qualche dubbio rimane dal talché possiamo sicuramente momento che, in mancanza di un affermare come da aspetti meramente fig. 3 archetipo certo, qualsiasi ipotesi è identificativi, come un busto accettabile. vorrebbe, si passi alla certezza dell’epos fatto trasparire Di totale, anche se probabilmente fedele, dai lineamenti della donna. Il busto del Rosignoli è ricostruzione a posteriori fatta avvalendosi dei ricordi pertanto il terminus attraverso il quale, idealmente, si delle sorelle e del fratello di Colomba, Feliciano, passa, per Colomba Antonietti, da un’iconografia di nonché della disponibilità come modella della nipote tipo identificativo ad una di tipo più specificamente Michelina figlia di quest’ultimo e considerata la più celebrativo. ARTE fig. 4 Iconografia celebrativa E ben poco di identificativo mostra di avere il busto (fig. 4), realizzato nel 1911 e inaugurato il primo maggio di quell’anno dallo scultore Giovanni Nicolini (1872-1956), posto su di una stele al Gianicolo, in Roma, in una rassegna di busti marmorei che celebra l’epopea patriottica unitaria e onora vari eroi del Risorgimento, che non di rado sacrificarono la loro vita per l’Unità del Paese. La simbolicità di questo ritratto (un vero modello di cultura), che assume il suo massimo valore espressivo solo se considerato nel contesto della lunga teoria di figure effigiate sul colle romano, viene dunque definitivamente a confermare quell’iconografia dell’eroina bastiola che si basa non più sul suo semplice aspetto fisico, ma sugli eventi di cui ella fu protagonista. Il bisogno e la necessità celebrativa del suo sacrificio e del suo valore, proiettati nella dimensione ‘propagandistica’ del patriottismo ed esaltata dai 15 vari artisti che descrissero l’epos di Colomba, fanno pertanto dimenticare l’aspetto squisitamente ‘personale’ della stessa, indissolubilmente legato – quasi in una dimensione di ‘divismo’ ad alto livello – alla umana curiosità di sapere come fisicamente fossero i suoi lineamenti e che connotazione estetica e psicosomatica questi potessero avere. Considerando dunque tre opere pittoriche che, a conoscenza di chi scrive, raffigurano la morte di Colomba sulle mura di Porta S. Pancrazio a Roma, troviamo per primo, in ordine di tempo, il dipinto di Girolamo Induno (1827-1890) eseguito attorno al 1850 e conservato presso il Museo Centrale del Risorgimento di Roma. Bisogna tuttavia, per una migliore comprensione dello spirito che indusse gli artisti ad effigiare l’avvenimento, aprire una parentesi di carattere storico-descrittivo del fatto. Quasi tutta la letteratura cronachistica che parla della morte dell’Antonietti rimarca costantemente alcuni aspetti (spesso digradanti in retorica) relativi al suo abbigliamento maschile (la divisa militare), alla sua condotta di specificità coniugale (la volontà di stare ad ogni costo vicino al suo sposo), al suo coraggio di combattente, alla sua fine gloriosa avvenuta gridando “viva l’Italia” (sue ultime parole), alla massiccia partecipazione di folla al suo funerale e alla sua tumulazione nella chiesa di S. Carlo dei Catinari. Orbene, non sempre nella rappresentazione della sua morte gli artisti sembrano concordare. fig. 5 Difatti nella figurazione di Girolamo Induno (fig. 5) la giovane eroina – peraltro qui colpita al petto, mentre si sa che venne colpita al fianco – appare abbigliata, contro la vulgata patriottica, in abiti femminili mentre, ancora in vita, sta per emettere l’ultimo respiro, attorniata da 16 ARTE un gruppo di camicie rosse garibaldine. Non è quindi improbabile che l’autore abbia tenuto a mente, più di altri, il veloce ricordo che Giuseppe Garibaldi nelle sue Memorie volle farne, paragonandola a sua moglie Anita. La scena, in una studiata temperie cromatica di bianchi, rossi e verdi, non è priva di drammatico realismo che viene accentuato da sprazzi di luci ed ombre sinistre, tese forse ad evidenziare il clima dell’imminente fine – assieme a quella dell’eroina – della stessa Repubblica Romana. fig. 6 Esiste, inoltre, a firma di G. Buzzelli, un’altra figurazione della morte di Colomba (fig. 6) estranea anch’essa alla classica vulgata della retorica risorgimentale. Qui l’attenzione dell’osservatore è fatta ricadere tutta sulla isolata figura femminile vestita di un lungo abito nero e coperta da uno scialle bianco che, già colpita dal fuoco nemico, alza gli occhi al cielo nell’attimo che precede il suo accasciarsi al suolo, là dove nel pieno fragore della battaglia e dell’esplodere della fucileria quasi nessuno sembra accorgersi di quanto sta per accadere: solamente un bersagliere accorre in aiuto verso di lei, sotto lo sguardo incredulo e smarrito del personaggio, in abito borghese, sulla sinistra del quadro. L’evento raffigurato è, pertanto, piuttosto sublimato in una non veritiera situazione in cui si tende a celebrare la fig. 7 non pertinente presenza della donna in mezzo ad un gruppo di soldati impegnati in combattimento, in un clima inadatto alla protagonista il cui sacrificio, proprio per questo, sembrerebbe assumere una più marcata valenza d’eroismo. La più totale adesione alla tradizione risorgimentale è invece offerta nella figurazione che Mariano Piervittori (1820-1888), il cosiddetto “pittore dell’Italia unita”, dipinse (figg. 7 e 8) nel 1887 nella sala consiliare del Municipio di Foligno dove, su una delle pareti, si può vedere, nel pieno del combattimento, Colomba che, in divisa militare e già colpita, sta morendo, amorevolmente sorretta da un bersagliere e con accanto il marito Luigi che la osserva con una espressione di incredulità e sgomento, espressione accentuata dall’allargarsi delle braccia in un gesto di non accettazione del fatto. Ma il volto della donna lascia ormai trasparire il suo allontanamento dalla esistenza terrena in una sorta di serena, trascendente, dormitio. Il tutto, quasi isolato, nell’assordante fragore della battaglia, tra il crepitio dei fucili ed il rombo dei cannoni, in uno sventolio di vessilli e nel baluginare delle baionette dove un cromatismo di bianchi di rossi e di blu (il terreno del combattimento e le divise dei soldati) esalta al massimo la dinamica della scena e dove la celebrazione eroica sembra raggiungere il suo acme in una scenografia di alta suggestione e realismo. Anche la scultura, a mezzo del bassorilievo, paga il suo tributo all’epopea celebrativa di Colomba Antonietti. Già nel primo monumento dedicato all’eroina, Vincenzo Rosignoli volle ricordare la tragicità della sua morte in una formella (fig. 9) tuttora, come si diceva poc’anzi, visibile alla base dell’attuale struttura monumentale che la ricorda in Bastia. Con notevole efficacia plastica e con tratti essenziali, lo scultore rappresenta tre soldati che attorniano Colomba che – al solito in divisa militare, secondo la tradizione – esala l’ultimo alito di vita. Il personaggio centrale, fig. 8 ARTE 17 secondo una diffusa tradizione di pietà, la onorarono con la loro compartecipazione di dolore. «Le onorate spoglie di quella infelice – scrive Carlo Rusconi –, poste su un cataletto, furono portate per le vie di Roma, spettacolo di compianto universale; e il popolo trasse in folla dietro al feretro coperto di bianche rose, simbolo del candore di lei spenta sì crudelmente nel fiore della giovinezza. Deposta nella chiesa la bara, la moltitudine genuflesse piangendo, e orò da Dio pace a una delle più pure anime che mai vestito avessero quaggiù una spoglia mortale». fig. 9 Luigi Porzi, suo marito, ne sorregge il corpo ormai inerte fissandola intensamente, quasi a volerla pregare, sollecitandola, di resistere. Ma l’espressione della giovane, ormai nell’abbandono della morte e col capo reclinato all’indietro, in atteggiamento inequivocabile, è tale da farla apparire già distante dal mondo dei vivi. Anche Artemio Giovagnoni (1922-2007), valente scultore e medaglista perugino, raccoglie la vulgata della tradizione biografica di Colomba nell’illustrarne l’epos in quattro formelle bronzee che adornano anch’esse, lateralmente, l’attuale monumento di Bastia. Sono i punti salienti della vita dell’Antonietti (figg. 10-13): 1) l’amore per il marito ufficiale dell’esercito pontificio, messo agli arresti, in Roma, per averla sposata senza la necessaria autorizzazione, come all’epoca si richiedeva ai militari; 2) la diretta partecipazione, in divisa da soldato, della donna alla battaglia di Velletri (19 maggio 1849) contro l’esercito napoletano, al seguito di Garibaldi; 3) il suo apporto alla difesa delle mura di porta S. Pancrazio; 4) il suo funerale e il compianto delle donne del popolo che, fig. 10-13 18 ARTE Bibliografia – G. DEGLI AZZI VITELLESCHI, Antonietti Colomba in Dizionario del Risorgimento Nazionale (Dizionario Rosi), Voll. I - IV, Milano, Vallardi, 1831 - 1837, al Vol. II, pp. 88-89. – C. RUSCONI, La Repubblica Romana (del 1849) in Documenti della guerra santa d’Italia, fasc. XVI e XVII, Capolago, Tipografia Elvetica - Torino Libreria Patria coeditrici, 1852, pp. 311 - 312. –[G. GARIBALDI], Memorie di Giuseppe Garibaldi pubblicate da Alessandro Dumas. Prima traduzione italiana di Vincenzo Bellagambi con aggiunte e note. Volume secondo, Firenze Tipografia Baracchi, 1861, p. 19. – A. CRISTOFANI, Storia della Bastia Umbra e descrizione delle cose più notabili che sono in essa terra, Assisi, Stabilimento tipografico Sensi, 1872 - ristampa del 1998 a cura delle Grafiche Diemme -, p. 52. Si riporta la voce Antonietti Colomba del Dizionario del Risorgimento. Dalle origini a Roma capitale. Fatti e persone, Milano, Vallardi, 1931-1937. Delle indicazioni bibliografiche a corredo della voce è mantenuto lo stile di citazione originario. ANTONlETTI Colomba (n. 19-X-1829 a Bastia Umbra, m. 13-VI-1849 a Roma). Trasferitasi colla famiglia in Foligno, la giovane Colomba, assai bella d’aspetto, s’innamorò a diciotto anni d’un ufficiale delle truppe pontificie, il conte Luigi Porzi di Imola. I genitori di lei, d’intesa col Comandante della piazza, tentarono ogni mezzo perché i due fidanzati desistessero dalla loro amorosa relazione, ed ottennero anche che il Porzi, riuscite vane le esortazioni, le minaccie [sic] ed anche le punizioni disciplinari, fosse trasferito alla guarnigione di Sinigallia. Questi però, sprezzando ogni ostacolo, il 13 dicembre 1846 si univa in matrimonio con Colomba, e si recava poscia a raggiungere la sua compagnia in Roma, dove, per aver contratte le nozze senza autorizzazione del Governo, fu condannato a tre mesi d’arresto in Castel S. Angelo. Scoppiata la prima guerra d’indipendenza, il Porzi prese parte nel 1848 alla campagna del Veneto, accompagnato sempre dalla giovane sposa, che, tagliatisi i neri capelli e vestita l’uniforme d’ufficiale per evitar possibili imbarazzi, combatté sempre al suo fianco. Il colonnello Luigi Musi [si legga: Masi], cugino germano di Colomba, non avrebbe voluto che questa partecipasse col marito ai combattimenti, ma poi si lasciò persuadere dalle insistenze della giovane. Da Venezia i due coniugi tornarono nell’anno successivo a Roma, e l’A. il 19 maggio 1849 pugnò valorosamente a Velletri meritandosi gli encomi dello stesso generale Garibaldi. Assalita Roma delle truppe francesi, l’A., cui era stato negato il permesso di partecipare alle audaci sortite degli assediati, fu sempre tra i più arditi difensori delle mura: il 13 giugno, aperta dal cannone nemico una breccia a S. Pancrazio, e tentandosi da quei di dentro ogni mezzo per ripararla, la giovane, calma e serena, nel posto, dov’era più incessante e tremendo il pericolo, – ASS. NAZ. MUTILATI E INVALIDI DI GUERRA. SOTTOSEZIONE DI BASTIA UMBRA - ASSOC. NAZ. COMBATTENTI E REDUCI. SEZIONE DI BASTIA UMBRA, Colomba Antonietti contessa Porzi. Vita, Documenti. Ricordi, Perugia, Tipografia Giostrelli 1965. – C. MINCIOTTI TSOUKAS, Colomba Antonietti. Un’esperienza di vita tra mito e realtà (1826 - 1849), Comune di Bastia Umbra - Assessorato alla cultura, 1990. – E. VETTURINI, Una gente in cammino. (Evoluzione popolare a Bastia dall’Isola Romana al primo Novecento), Bastia Umbra, Grafiche DIEMME, 1992. – M. G. MASSAFRA, Musei di Villa Torlonia. Il Casino nobile di Villa Torlonia a Roma. in 4° encuentro internacional. Actualidad e museografia. Madrid, 29, 39 de septiembre y 1 de octubre 2008. Incom - España, p. 46. – A. MIGLIORATI, Mariano Piervittori pittore dell’Italia Unita, Foligno, Orfini Numeister, 2011. aiutava efficacemente il marito nell’opera della difesa animando gli altri colla voce e coll’esempio, quando, colpita al femore da un proiettile d’artiglieria, cadde tra le braccia dello sposo gridando: “Viva l’Italia!”. La salma fu trasportata all’ambulanza delle Fornaci, e per le vie di Roma una moltitudine immensa seguì il feretro coprendolo di bianche rose: poscia il cadavere, vestito ancora dell’uniforme militare, cui si era sovrapposto un abito muliebre, fu sepolto nella chiesa di S. Carlo a Catinari nella cappella di S. Cecilia. Dell’eroismo della giovine umbra lasciò affettuoso ricordo nelle sue Memorie anche Garibaldi, che la paragonò alla sua Annita, e sulla sua morte scrisse una delle più belle sue liriche Luigi Mercantini, esule allora a Corfù (agosto 1849). Il municipio di Bastia l’8 maggio 1892 appose una lapide commemorativa sulla casa dov’essa nacque; quello di Foligno il 20 settembre 1891 ne murò un’altra sulla casa ove avea dimorato ed una pure sulla facciata del palazzo comunale. Il 4 settembre dell’anno 1910 poi venne inaugurato a Bastia un artistico monumento scolpito dal prof. Rossignoli [sic], valoroso scultore umbro, residente in Firenze, cui è stata apposta la seguente iscrizione dettata da Isidoro Del Lungo: «XIII giugno MCMX – Colomba A. Porzi – eroina della crociata italiana – per l’indipendenza e la libertá – della Patria – il 13 giugno 1849 – sulle mura di Roma – combattendo accanto al marito – esalava la pia forte anima – nel grido – “Viva l’Italia!” – che la sua Bastia vuole qui sotto l’effige di lei – in memoria degna perpetuato». Bibliografia Sforza Claudio, Ricordi della vita di Colomba A.; Bologna, Zanichelli, 1899; pp. 37. Sforza Claudio, Ricordi della vita di Luigi Porzi marito di Colomba A., in «Archivio storico del Risorgimento Umbro», an. V, fasc. II, pp. 121-126. G. Degli Azzi Assisi - Palazzo dei Priori, Allegoria del Plebiscito. In ricordo del plebiscito per ratificare l’annessone di Assisi al Regno d’Italia (4 novembre 1860), Alessandro Venanzi (Perugia 1838 - Assisi 1916) dipinse una grande tela con un’ allegoria della Giustizia, impersonata da una donna con in mano una bilancia e una spada, seduta sopra un carro trainato da tre leoni e seguito da angeli festanti. Quattro angeli levano in alto un drappo con lo stemma di Assisi. Altri due putti in basso depongono il voto entro un’urna per le votazioni con le parole “SI - NO”. Apre il corteo un alfiere nudo che porta una bandiera bianca, e lo chiude una fanciulla in volo vestita di verde con una fascia tricolore dove sta scritto LIBERTAS. (Didascalia di Elvio Lunghi) 19 20 PERSONAGGI Da Petrignano un protagonista del Risorgimento: Luigi Masi di Alessandro Cianetti Cugino della più nota Colomba Antonietti, Masi fu padre costituente della Repubblica Romana, fondatore del corpo volontario dei Cacciatori del Tevere, generale del regio esercito nella III guerra d’indipendenza; tenne la piazza di Roma all’indomani di Porta Pia. Fa una sintesi della sua vicenda Alessandro Cianetti, già autore, sul personaggio, di Un petrignanese Gloria del Risorgimento italiano (Assisi, 2010). La redazione si associa a lui nell’augurarsi che la splendida figura di Luigi Masi non ricada nell’oblio ove è rimasta, ingiustamente, per troppo tempo. S ul luogo di nascita di Luigi Masi, classe 1814, ci sono state in passato diverse e contrastanti notizie. Il certificato di nascita attesta che suo padre Giovanni, medico condotto a Petrignano di Assisi, e sua madre Laura Antonietti gli imposero i nomi di Luigi, Francesco e Gabriele. Lo tenne a battesimo lo zio materno Michele Antonietti padre di Colomba Antonietti, l’eroina di Bastia Umbra, caduta appena ventiduenne nella battaglia per la liberazione di Roma. Nel 1832 Luigi Masi s’iscrisse al corso di laurea in Farmacia presso l’Università di Perugia. Conseguita la laurea in Farmacia, continuò gli studi a Roma dove, il 13 dicembre 1840, conseguì anche il diploma di Dottore in Medicina. Il suo maestro Bruschi lo segnalò a Carlo Luciano Bonaparte, principe di Canino e Musignano, figlio di Luciano Bonaparte fratello di Napoleone. Il principe lo volle come consigliere politico e precettore dei suoi dodici figli. Così l’umile figlio del medico condotto di Petrignano divenne educatore dei pronipoti del grande imperatore dei Francesi. Il 16 giugno 1846 il conclave aveva eletto pontefice il cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti che prese il nome di Pio IX. Masi gli dedicò una bella poesia.1 Masi ripose tutte le sue speranze nel papa. Soltanto gli intellettuali però avevano percepito l’importanza delle aperture del papa all’indipendenza e all’unità d’Italia. Poco o nulla ne erano interessate le classi povere e meno colte. Al popolino dei bassi quartieri romani, per esempio, nulla importavano le vicende del Risorgimento. Ecco perché Masi iniziò a frequentare, di sera, le bettole e si mise a cantare e a declamare versi con strofe rimate tra applausi scroscianti.2 Il 16 marzo 1846 Masi fondò il giornale I Popolari e in seguito Il Contemporaneo, primo giornale politico e indipendente dello Stato pontificio. Sotto la sua direzione, il nuovo settimanale divulgò con efficacia idee di progresso e di moderazione. Masi chiamò a scrivere sul suo giornale anche Giuseppe Montanelli il cui figlio Sestilio fu papà di Indro Montanelli. Masi aderiva al pensiero del Gioberti e di Cesare Balbo e nel giornale manifestò palese avversità alle lotte di classe e alle rivoluzioni. Sosteneva la necessità di agire con moderazione e in assonanza con la Chiesa e auspicava che i principi dei vari stati italiani formassero una confederazione presieduta dal papa.3 Masi era anche dotato di grande sensibilità sociale e si adoperò per l’istituzione di asili infantili: nel 1848 ebbe la soddisfazione di vedere aperto nel Rione Trastevere il primo nido per l’infanzia. La sua passione, però, fu soprattutto per la milizia, tanto che non volle sposarsi per servire meglio l’Italia. Divenne soldato e combatté. Il 22 luglio 1847 fu nominato capitano della Guardia civica di Roma. Le sue imprese militari si svolsero in più parti d’Italia: in Veneto,4 a Cornuda,5 a Venezia (per le sue benemerenze acquisite in questa impresa veneta, Guglielmo Pepe lo promosse colonnello). Nei primi giorni di gennaio del 1849 Masi tornò a Roma, dov’era nato il regime repubblicano, e gli fu affidato dal Governo il comando della Provincia romana. Il 21 gennaio 1849 si svolsero le elezioni, vinte dai moderati. Masi fu eletto deputato dal Collegio di Poggio Mirteto. Il 7 febbraio fu nominato vice presidente dell’Assemblea costituente6 e della Commissione per la guerra di cui erano membri anche Garibaldi e Ferrari. Nel governo di Roma, Luigi Masi fece valere le sue vaste cognizioni militari, la sua fede politica, e l’indipendenza del suo carattere giovò molto alla Nazione. Nell’aprile del 1849, assieme a Garibaldi, il colonnello Masi preparò la difesa di Roma contro i soldati francesi sbarcati a Civitavecchia con l’intento di ripristinare il potere pontificio. Assunse il comando della seconda brigata composta di 2100 soldati, impegnata in ardui combattimenti tra Porta Cavalleggeri e Porta PERSONAGGI Angelica ove il valoroso petrignanese fornì prova del suo eccelso valore militare. Escluso dall’amnistia del papa perché capo di corpo militare, Luigi Masi riparò a Parigi e successivamente trascorse anni anche a Londra e a Genova. Sugli Appennini liguri, a levante di Genova, scoprì ricchissime miniere di rame e con i relativi guadagni acquistò un vasto territorio in Messico, dove fondò una colonia agricola e, utilizzando bastimenti di sua proprietà, condusse moltissime famiglie italiane. Gli sconvolgimenti politici che accaddero poi in quella terra messicana e l’incendio della grossa nave mercantile costruita a sue spese (incendio che verosimilmente fu causato dalla perfidia umana e non da caso fortuito) travolse il Masi in una lunga serie di sventure e nel 1859 fece ritorno in Italia dove gli fu affidato il comando del 1° reggimento delle colonne mobili in Romagna, divenuto poi il 25° di fanteria e nel gennaio del 1860 il 47° fanteria dell’esercito italiano. Nel settembre del 1860 assunse il comando dei Cacciatori del Tevere. Anche in questo ruolo seguitò a fornire prova della sua abilità e scaltrezza in tante battaglie per la liberazione di molte città umbre e laziali tra cui Narni, Città della Pieve, Spoleto, Orvieto,7 Montefiascone, Viterbo, Civita Castellana, Poggio Mirteto, Ficulle, Monte Fiascone, Ronciglione, Regnano Flaminio, Castelnuovo Di Porto, Nazzaro, Torrita, Terni, Spoleto, Gubbio, Nocera, Amatrice e tutti i paesi sabini. Combatté vittoriosamente anche contro i briganti di Arquata, Quindicesimo, Acquasanta, Todi, Collalto, Monteleone, Poggio Ginolfo e in alcune città abruzzesi. Masi meritò ambiti riconoscimenti. Con Regio decreto del 3 ottobre 1860 fu decorato della Croce di Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia per l’intelligenza e il valore con il quale, alla testa dei Cacciatori volontari del Tevere, aveva liberato Orvieto, Montefiascone e Viterbo. Fu insignito di vari gradi dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro e fu fatto Grande Ufficiale della Corona d’Italia. Il 2 settembre 1861 Nervi lo ascrisse al suo Patriziato. Nel dicembre del 1861 fu promosso maggiore generale. Nel 1862 divenne comandante di brigata nel 50° Dipartimento e nel giugno del 1863 assunse il comando della brigata Umbria alla testa della quale partecipò, nel 1866, alla guerra contro l’Austria. Sciolta la milizia dei Cacciatori del Tevere nel 1863, Masi era entrato nell’esercito regolare come colonnello poi promosso maggiore e tenente generale. Fu grande protagonista delle giornate di Palermo del 1866 ove fu inviato al comando della X divisione, cui 21 appartenevano la brigata Umbria e la 53° e 54° fanteria. Il generale affrontò con straordinaria risolutezza i ribelli che si erano posti in potenti barricate, tra la marina e il Palazzo Reale. Per quest’azione gli fu conferita la medaglia d’oro al valor militare così motivata: «Con intelligenza e bravura, alla testa di sei battaglioni aprì le comunicazioni interrotte tra la marina e il Palazzo Reale, conquistando col fuoco e con la baionetta case e barricate. Il petrignanese fece sentire a quel popolo la comune italianità delle sue truppe, di se stesso e di loro».8 Durante l’epidemia del colera che in quegli anni colpì la Sicilia, Luigi Masi, facendo appello alle sue virtù di medico, organizzò una squadra di soccorso e di assistenza. Difficile che un generale possa essere considerato dal popolo un uomo benedetto e amato nella città ove spiegò la sua forza. Eppure Masi ebbe l’amore dei Palermitani e dei Siciliani per il suo istinto politico, giudizioso e fine e, soprattutto, per la nobiltà e la generosità del suo cuore verso i poveri e i bisognosi. Il 4 dicembre 1870 fu promosso luogotenente generale e gli fu conferito l’incarico di comandare la divisione di Palermo. Palermo seppe apprezzarne le doti e ne fece l’elogio anche Edmondo De Amicis.9 Il 31 maggio 1872, a soli 58 anni, terminava l’esistenza terrena di Luigi Masi. Palermo gli tributò, nella sua ultima sera di vita, il conforto e l’affetto di tutto il proprio popolo che lo aveva amato, apprezzato e stimato forte e gentile.10 Tutta la popolazione seguì la sua salma quando il 18 giugno partì per Perugia, dove, per suo desiderio più volte palesato, riposa nel civico cimitero. Dalla cronaca redatta dal Municipio di Perugia, si legge che per vari giorni la salma rimase nella cappella del Municipio e fu vegliata da tantissima gente di ogni condizione che diceva: «Povero Masi non dovevi morir così presto!». Alle ore 15 del 24 giugno, giorno in cui Perugia ricordava i caduti nella memoranda giornata del 20 giugno 1859, la salma, tra una calca indescrivibile di folla, fu accompagnata al civico cimitero. La figura di Masi, in conclusione, non può carcerarsi in una nicchia partigiana; la sua vita fu parte della vita italiana, profondamente coerente nella libera e forte coscienza, sovrastata da due sentimenti fondamentali: patriottismo e fede. «Il patriottismo – come disse Francesco Innamorati – non gli impose mai gli atteggiamenti del libero pensatore; la fede non lo fece mai titubante nel dirigere i colpi, e guidare gli assalti contro i soldati e gli spalti del sovrano temporale di Roma e dei suoi variopinti alleati francesi, austriaci, 22 PERSONAGGI sulla prora / al novello Redentor. 2 Masi era anche poeta e con le sue poesie propagandava sentimenti di patriottismo ovunque si recasse. Scrisse un inno alla bandiera (recentemente musicato dal maestro Franceschelli) e un inno nazionale che partecipò al concorso vinto da Mameli. Interessante e valido anche per il tempo che viviamo, è questo suo 3 pensiero scritto a Montanelli «[…] finiamola una volta col guardar sempre fuori di noi, e coll’aspettare il nostro rinnovamento ora di tal uomo, ora di tal legge, ora di rivoluzione, come se dovessimo esserne noi stessi gli operatori. Vuoi riforme? Ripetiamoci l’uno all’altro. Comincia da te! Crei ciascuno in sé l’italiano e avremo l’Italia. Se incontri uno di buona volontà, stendigli la mano e digli: Vediamo cosa possiamo fare insieme e facciamo. Ecco che la riforma allora diventa l’opera di tutti e tutti cominciamo a far qualcosa […] non dividiamoci tra Attori e Spettatori, ma ciascuno faccia la sua parte nel gran dramma della rigenerazione» (nel Fondo Montanelli della Biblioteca Labronica di Livorno). 4 Il 26 marzo 1848 partì da Roma e andò nelle pianure venete, chiamato dal generale Andrea Ferrari che lo volle come suo aiutante in campo. 5 In un elenco di militari segnalatasi per eroismo in quella battaglia, egli figura al primo posto con questa motivazione: «Si vide in mezzo al fuoco incoraggiare i soldati. Ufficiale distintosi per coraggio, intelligenza ed amore alla santa causa. Merita i più grandi elogi». Questo riconoscimento Il busto che apre la passeggiata del Gianicolo gli valse la promozione a tenente colonnello per merito di guerra. 6 borbonici». Inneggiò al pontefice quando Metternich si disperava dell’imprevista elezione di un papa liberale come Pio IX; combatté accanto a Garibaldi per la Repubblica Romana contro i Francesi che volevano ridare al pontefice il potere temporale. Più tardi venne in soccorso dell’esercito del re liberatore. Sul Gianicolo, tra i busti dedicati agli eroi della Repubblica Romana e del Risorgimento, c’è quello di Luigi Masi, stella d’Italia insieme a tante altre stelle di varia luce, scomparse dal firmamento della vita terrena per cadere là dove il tempo non ha fine. 11 Presidente fu eletto Giuseppe Galletti; un altro vice presidente era Aurelio Saffi. 7 Grazie all’opera di Masi, anche Orvieto entrò a far parte dell’Umbria e Vittorio Emanuele II accolse la città con il plebiscito di questa regione. 8 Un soldato, che allora combatteva ai suoi ordini, scrisse: «Il generale Masi, con quel suo particolare coraggio, tratta la spada, era sempre il primo a dare esempio della pugna, al grido di “Savoia!” lanciandosi contro le barricate. Noi soldati facevamo del nostro meglio per renderci grati al generale, imitandone l’esempio, e mai un ostacolo fermò la nostra marcia vittoriosa» (in: Nazareno Buccioni, Memorie ed episodi militari della campagna di guerra dell’anno 1866 e dei moti di Palermo dello stesso anno, Roma, Officina Poligrafica, 1910). 9 Note Edmondo De Amicis, allora ufficiale e partecipe alla cruenta prova palermitana, scrisse alcune pagine bellissime per narrare commoventi episodi di coraggio, di sacrificio, di carità, di amore cristiano compiuti Semo stretti noi qui tutti fratelli / come stanno sul capo li capelli / dai soldati dei reggimenti 53° e 54° Fanteria comandati da Masi che, ecco risorti tutti li romani / com’Urazi, Fabrizi e Coriolani. / Tu che pur in mezzo a mille difficoltà, fornì la massima prova del «tatto più agli oppressi e ai miseri sorridi / pietoso il guardo a noi volgi, o Signor; delicato e dell’istinto politico più giudizioso e fine» meritandosi così la / affretta il dì della giustizia ai lidi / tu invocanti nell’inno del dolor. / Se riconoscenza e l’affetto della popolazione e la medaglia d’argento dei pio giudice al popolo assidi, / voci di gioia e cielo e terra avran; / l’aure benemeriti della salute pubblica. dei campi e il sonito dei lidi / della Giustizia il dì saluteran! // Fratelli, 10 alzate il canto / al Levita profetato / che di olivo incoronato / tocca il del minacciato ordine pubblico; e, questo ristabilito, lo salutò quale sacro limitar, / e perdona e fa nel pianto / la letizia germogliar. // Nuova promotore di utilissime istituzioni e quale elemento di cittadina 1 Questa città, scrisse Bruschi, «lo vide ed ammirò intrepido difensore luce si diffonde / sugli spiriti redenti; / è disceso fra le genti / l’inviato del concordia». Signor; / e la terra al ciel risponde: / viva Pio liberator. / Se tu tocchi ad 11 ora ad ora / l’alte sponde desiate, / io su l’arpe armonizzate / darò cantico Petrignano. Discorso commemorativo pronunciato il 22 novembre 1914 a PERSONAGGI 23 L’Unitá d’Italia nel pensiero e nell’azione di due testimoni umbri: il bettonese Giovanni Pennacchi (1811-1883) e l’assisano Antonio Cristofani (1828-1883) di Pasquale Tuscano Pasquale Tuscano dà una lettura politica di due personaggi chiamati spesso in causa nel campo degli sudi locali (ma sui quali resta ancora da indagare), evidenziando la differenza tra le loro indoli, le loro esperienze e il loro atteggiamento verso i fatti del Risorgimento. Chiude l’intervento la riproposizione di una salace poesia a tema socio-politico di Antonio Cristofani, le cui ironie – dobbiamo constatare – rimangono purtroppo attuali. I Nella storia civile e culturale umbra del secolo XIX, le figure del bettonese Giovanni Pennacchi e dell’assisano Antonio Cristofani, per motivi diversi, com’erano diversi per indole e per visione del mondo e della storia, occupano un posto di tutto rilievo. Eclettico il Pennacchi, di formazione letteraria arcadica e neoclassica imbevuta di positive tensioni illuministe e romantiche; figlio di umili popolani il Cristofani. Entrato nel seminario diocesano nel 1839 grazie all’interessamento del dotto canonico Guiducci e a una borsa di studio che ottenne per concorso, la sua vocazione letteraria e storica fu squisitamente ancorata alla tradizione, allo studio dei trecentisti e di san Francesco e del francescanesimo.1 Vissero entrambi, intensamente, i problemi politici, economici, sociali, culturali di quegli anni torbidi e inquieti, con un’ansia prepotente di capirli e di testimoniarli. Fatta l’Italia, dopo tante lacrime e lutti, “una d’arme, di lingua e d’altare”, si era ben lontani – e lo si è ancora! – d’averla fatta una anche “di memorie, di sangue e di cor”, per richiamare i due noti versi manzoniani del Marzo 1821, tanto brutti – e lo riconosceva lo stesso Manzoni –, quanto efficaci. Pennacchi e Cristofani si rendevano ben conto che avendo fatto dell’Italia uno Stato si era ben lontani dall’elevarla conseguentemente a Nazione. Ai problemi civili e culturali che urgevano, la classe egemone, uscita dalle pur eroiche e leggendarie guerre risorgimentali, aveva imposto quelli della politica tanto sottile quanto effimera, e della ragion di Stato. II Nato a Bettona nel 1811, Giovanni Pennacchi studiò a Foligno, dove a undici anni frequentò come ‘convittore laico’ il Seminario vescovile, a Spello, a Perugia, acquisendo una cultura giuridica e letteraria di prim’ordine. Fervente mazziniano, nel 1849, venne eletto, nel collegio di Spoleto, con 6000 voti, deputato all’Assemblea della Repubblica Romana, nella quale fece parte dell’Ufficio di Presidenza con l’incarico di Segretario, insieme ad altri due componenti umbri, il perugino Ariodante Fabretti e il todino Giuseppe Cocchi. Caduta la Repubblica Romana, per evitare l’arresto, andò in esilio a Genova, dove, in un primo momento, non venne ben accolto. Qui, infatti, visse per alcuni mesi in una serie di ristrettezze economiche, come conferma una lettera del 2 aprile 1850, inviata all’amico Fabretti: «Dacché sono in esilio non sono riuscito a guadagnarmi un soldo […]. Se un due mesi fa i miei buoni fratelli non mi mandavano cinquanta scudi era al verde. Capisci? Al verde!».2 Bandito il concorso per la cattedra di retorica al liceo-ginnasio municipale di Genova, venne escluso. Rifatto il concorso, lo superò e, con comprensivo senso liberatorio, scrisse, sempre al Fabretti, il 22 ottobre dello stesso anno: «Finalmente la mia nomina è venuta, e di questo vado superbo, senza che a me abbia costato neppure una cavata di cappello».3 Espressione che incide fermamente il senso di dignità e di rettitudine della sua indole. Insegnò in quel liceo genovese fino al 1861. A Genova maturò l’adesione alla monarchia costituzionale. Repubblicano dichiarato, antepose il problema dell’Unità a quello istituzionale. Scrisse ad Annibale Vecchi, da Genova, in data 6 ottobre 1860: «Oggi noi siamo travagliati dal bisogno di essere Nazione; i figli, se ne saran degni, faranno altre conquiste. Repubblicano qual fui nel ’49, oggi io voto per la Monarchia, perché la Monarchia oggi mi 24 PERSONAGGI fa la Nazione».4 Tale moderatismo e realismo politico giustifica anche i suoi giudizi, ad esempio, su Garibaldi e su Pio IX. Fatte salve le qualità del condottiero, il suo giudizio su Garibaldi ‘politico’ è decisamente negativo. A parer suo, «ogni suo proclama governativo, ogni suo decreto portava l’impronta dell’ignoranza di ogni principio economico e politico […]. Il trovo men che mediocre alla testa di un Governo».5 Quanto a Pio IX Pennacchi, pur sempre avverso al potere temporale dei papi, si lasciò anche lui ingannare dal giubilo che aveva accolto le promesse del ‘papa liberale’. In un Carme a Pio IX, redazionalmente tormentato e sciatto, ne esaltò, come si legge nelle note apposte al manoscritto,6 il «decreto di amnistia che scarcerò i prigionieri politici e riaprì la patria agli esuli»; «le promesse date d’incoraggiar le Arti Belle»; «gli asili d’infanzia che ammise e protesse». Nello stesso manoscritto, richiamando la lezione dantesca, ribadì che si è «fatto succo e sangue di quel principio tradizionale in Italia, che il Papato, come potere politico, è, e sarà l’eterna sventura della nostra penisola, finché la maturità de’ tempi civili non compia l’antico voto di Dante; rispogliando il Pontefice da ogni terrena potestà». Sul ‘liberalismo’ di Pio IX si sarebbe presto ricreduto, ritrovandosi nel pensiero espresso nel 1849 in una forte pagina di polemica politica, intitolata significativamente La decadenza del potere temporale dei Papi: «Credemmo a Pio IX, benché si serbasse al potere gli uomini della vecchia stampa; benché i decreti palesi fossero sempre paralizzati dagli ordini secreti; benché trasparisse in ogni atto la voglia d’indietreggiare; benché in ogni ora del giorno fosse violata quella monca e informe Costituzione, che paura e necessità gli ebbero strappato di mano. Riversando su’ ministri tutta l’odiosità delle violazioni, e pure di scagionare lui, mentimmo al nostro intelletto, alla nostra coscienza».7 Dopo la campagna del 1859-60, Perugia liberata, venne chiamato dalla Giunta Municipale ad assumere il duplice incarico di Preside del Liceo e di Rettore dell’Università, carica che ricoprì fino all’anno accademico 1882-83, anno della sua morte. Dotato di non comuni qualità umane, discreto e leale, Giovanni Pennacchi, pur amareggiato per quel presente torbido e incerto, nutrì sempre ferme speranze nel futuro, nella certezza, cioè che, in un avvenire non lontano, gli eventi acquistassero sbocchi positivi. Speranza che aveva radici lontane e che mai l’aveva abbandonato. Lo testimonia una lettera indirizzata ad Ariodante Fabretti, da Genova, datata 25 dicembre 1856: «Io nutro speranza in un quid latente, in una necessità storica, che spinga il mondo avanti a dispetto dei cataplasmi de’ moderati, e della guerra a morte de’ despoti. O presto o tardi, ad un’ora che nessun di noi può fissare, questo quid, o sia egli una tradizione, un interesse, un bisogno, un’utopia, questo quid si farà innanzi, e risolverà la questione in un modo che niun di noi si aspetta, e l’umanità farà un gran passo sul cammino dell’avvenire».8 III Per indole e per vocazione, Antonio Cristofani fu l’esatto contrario di Giovanni Pennacchi. Nato ad Assisi nel 1828, morì nel 1883, a 55 anni. Visse una vita modesta, dignitosa, aliena dalle lotte politiche e dagli incarichi pubblici, ma fervida di studi e di ricerche archivistiche. Frutto di questa intensa ed appassionata attività, oltre ai numerosi contributi di storiografia francescana, sono le Storie di Assisi (1866), apprezzate, tra gli altri, dal Tommaseo e dal Capponi, e tuttora miniera inesauribile di preziose notizie. Dal 1872, fu Direttore della Biblioteca Comunale di Assisi. Cristofani guardò al Risorgimento e all’Unità d’Italia con la prudenza dello storico, con animo liberale sì, ma sgombro da enfasi trionfalistiche. Soprattutto trovava urtanti e farseschi i facili entusiasmi delle manifestazioni anche dei suoi concittadini, che non appartenevano certamente al ceto più popolare. Sintomatico di questo suo umore è un passaggio del libro VI delle Storie d’Assisi nel quale evoca le celebrazioni per l’arrivo, nel 1848, di Garibaldi in città: «Nell’autunno del 1848 fu in Assisi Giuseppe Garibaldi, accorso dall’America a combattere per l’indipendenza della patria sua: e in quell’occasione più che in qualunque altra mai si sfogò l’entusiasmo popolare al teatro in nastri, in bandiere, in catene di fazzoletti e di veli femminili che si dicevano d’unione nazionale, e in tutte le altre baldorie innocenti di quel vero carnevale che si continuò per tutto il tempo della guerra d’indipendenza […]. Ma quella commedia un bel giorno finì, e chi col non fare o col non ben fare erasi lasciata fuggire quella magnifica occasione di ricuperar l’indipendenza ebbe presto a patir l’onta d’un’invasione straniera e la restaurazione del governo assoluto de’ chierici, puntellato nell’Umbria prima dalle armi spagnole, poi dalle austriache».9 E quando, nel 1861, il decreto Pepoli ordinò l’incameramento dei beni ecclesiastici, scrisse, per incarico del Comune, un documento tra commosso e risentito per chiedere al nuovo governo un deposito PERSONAGGI permanente di milizie che aiutasse Assisi a risollevarsi dalle tristi condizioni in cui era stata condotta. Scrisse: «La città d’Asisi, decaduta già di lunga mano per lo soverchio arricchire degli ecclesiastici, e per l’assoluto difetto d’ogni commerciale e industriale risorsa, e perciò condannata a veder languire nella miseria la più parte degli abitanti, sentì aumentarsi smisuratamente l’aspetto della pubblica indigenza dopoché il decreto del Regio Commissario G. N. Pepoli, sopprimendo nell’Umbria le famiglie religiose, ne incamerava i beni: il che per Asisi importava la perdita di due terzi del suo censo. Così veniva qui a togliersi l’unico modo di tener in vita la numerosa poveraglia insino allora vissuta della carità de’ luoghi pii senza che a quel mezzo, illiberale sì, ma nondimeno sicuro, di sussistenza per tanti infelici se ne surrogasse alcun altro [...]. Ora anche questo pane è tolto: ed ecco innumerabili famiglie di buoni e laboriosi artigiani condotte per la prima volta a provare una miseria che non ha più speranza di ristoro».10 Verseggiatore di professione, capace di maneggiare, con mirabile perizia, rime e schemi metrici, non c’era occasione di un certo rilievo, pubblica o privata, lieta o triste, che non meritasse un suo verso. Suoi modelli privilegiati sono Parini, Manzoni, sopra tutti Giusti, trasferendo, originalmente, la sua pungente passione polemica sul risvolto mitologico o della favolistica dominata dalla presenza degli animali più vari. Coi suoi componimenti, siamo di fronte a un ‘bestiario’ di straordinaria ricchezza, col quale il poeta intende fustigare i vizi ed esaltare le virtù dell’uomo del suo e del nostro tempo. Le bestie – dal pavone al camaleonte, dal gambero alla civetta, dal porco alla scimmia, dall’asino all’allocco – nei momenti più felici si traducono in maschere indimenticabili e ammonitrici. Ne riporto un solo componimento, intitolato Il bove, apparso su La Favilla del 1877,11 capace di comunicare l’amarezza per un Risorgimento che ritiene ‘tradito’ e per un governo nuovo che ha deluso le migliori attese, diffondendo un costume di vanità e di boria, accompagnato da codazzi di vili che, per paura o per servilismo, s’inchinano ai boriosi e li festeggiano: Povera bestia! Crede per un eroico eccesso di quella buona fede ch’è tanto rara adesso, d’esser per questo un coso beato e glorïoso. Il bove Se rinnegato Aronne in maschera d’Adone va tra facili donne grattando il colascione, vorresti a quella voce farti un segno di croce? A dirvela, salvando la maestà di Giove, crepo dal rider quando m’abbatto in qualche bove ch’aria si dà d’arconte per quel po’ d’arme in fronte. E il volgo incivilito che sa d’aver la testa, a quello scimunito s’inchina e gli fa festa, pronto, se mai gli torna, a baciargli le corna. Oh non mi state a dire che ormai la tolleranza sia di là da venire; n’abbiam che ce n’avanza! D’umanità le cime tocca l’età sublime. Cattolici e Giudei alfieri e stenterelli, Sègneri e Galilei, su, su, tutti fratelli! Esige tolleranza la gran cittadinanza. Bella! Se un bue patrizio bestemmia il Balbo o il Tosti, vorrai del sant’uffizio risuscitar gli arrosti? Ripensa, anima sciocca, che ognuno ha lingua in bocca. Se un asino strigliato ragliando contro al vero leva in apostolato lo strazio del pensiero, dovrà metterlo in susta di Scannabue la frusta? 25 26 PERSONAGGI Ubbie, fratello, ubbie de’ tempi su di Dante! Non soffre ipocrisie un secolo mercante: là, là per chi la vuole, libertà di parole. Sarebbe bene che facessimo qualche riflessione anche noi oggi a centocinquant’anni dall’Unità! Note 1 Un puntuale saggio bio-bibliografico si deve al compianto p. Gino Zanotti: Antonio Cristofani storico e letterato, Assisi, Tip. Porziuncola, Abbasso il culto indegno e l’aristocrazia del senno e dell’ingegno! Peste alla dateria che rilascia brevetto a pro dell’intelletto! 1980. 2 Lettera ad Ariodante Fabretti del 2 aprile 1850. Ms 2170 della Biblioteca Augusta di Perugia. Quanto alla generosità dei “buoni fratelli”, occorre tenere presente che il Pennacchi occupava un posto di prim’ordine nella Loggia “Fermezza” della Massoneria perugina. (Cfr. U. BistoniP. Monacchia, Due secoli di Massoneria a Perugia e in Umbria (17751975), Perugia, Editrice Volumnia, 1975, pp. 95-96). La pubblica bilancia pareggi le partite, e tocchi egual la mancia a Nestore e a Tersite: il voto in piazza e in chiesa si conta, non si pesa. Lettera ad Ariodante Fabretti del 22 ottobre 1850. Ms 2170 della 3 Biblioteca Augusta di Perugia. 4 Lettera da Genova del 6 ottobre 1860 ad Annibale Vecchi, Museo Storico del Risorgimento Umbro, Busta I, Archivio di Stato di Perugia. 5 Ibidem. 6 Ms 2716, conservato presso la Biblioteca Augusta di Perugia. G. Pennacchi, La decadenza del potere temporale dei Papi, in 7 E se pur voglia porsi in bilancia a ogni costo, senza tanti discorsi ceda sbrattando il posto la povera ragione al censo e al blasone. Contemporaneo di Roma, a. III, n. 42, 22 febbraio 1849, p. 1. 8 Lettera da Genova del 25 dicembre 1856 ad Ariodante Fabretti. Ms 2170 della Biblioteca Augusta di Perugia. 9 A. Cristofani, Le storie di Assisi, Venezia, Nuova editoriale, IV ed., 1959, pp. 580-581. 10 Sembrano ‘scherzi’ giustiani adatti esclusivamente agli anni lontani delle delusioni postrisorgimentali? A. Cristofani, Brevi parole intorno alle presenti condizioni d’Asisi, Assisi, Tip. Sgariglia, 1861. 11 Apparsi quasi tutti nel periodico perugino La Favilla negli anni 1869- 1877, questi componimenti non sono mai stati raccolti in volume. È attivo il sito ufficiale dell’Accademia: www.accademiaproperziana.eu 27 RECENSIONI E SEGNALAZIONI Fanny Mendelssohn e l’Italia: innovativa ricerca della studiosa Paola Maurizi A dispetto del titolo, questo interessante saggio di Paola Maurizi non si limita ad indagare i rapporti tra Fanny Mendelssohn e l’Italia dei viaggiatori dell’Ottocento, ma offre un ritratto completo (anche da un punto di vista bibliografico) di una compositrice che ha avuto un ruolo importante nella storia della musica romantica, e che, come tutte le sue contemporanee, ha visto riconoscersi questo ruolo con molto più di un secolo di ritardo. Sorella del più noto Felix, moglie del pittore e poeta Wilhelm Hensel, Fanny Mendelssohn (18051847) ricevette la stessa educazione musicale del fratello (i suoi genitori erano molto attenti a curare i talenti dei figli), ma non le stesse opportunità di fare della propria attività compositiva un vero e proprio lavoro, retribuito e riconosciuto (anche tramite le pubblicazioni delle proprie opere). Come ricorda la Maurizi, il padre, Abraham, consentì solo a Felix di andare a Weimar, perché si formasse professionalmente come musicista, e a Fanny scrisse che «la musica forse diventerà la professione di Felix, mentre per te può e deve essere solo un ornamento». Coerentemente alla mentalità borghese ottocentesca, una donna poteva (e doveva) essere colta, e coltivare i suoi talenti artistici, ma solo ‘per diletto’. Come ricorda ancora l’autrice, nella Germania di Fanny (ma non solo, aggiungerei), per una donna erano importanti solo le tre K – Kirche, Küche e Kinder (chiesa, cucina e bimbi). Fanny, però, non si arrese e, persino in contrasto con l’amatissimo fratello Felix (che, proseguendo negli insegnamenti paterni, scoraggiò continuamente la sorella, pur riconoscendone il valore artistico), non solo non smise mai di comporre, ma riuscì anche a pubblicare alcune opere (le prime erano state pubblicate dal fratello, a proprio nome). Il volume della Maurizi contiene il catalogo delle opere vocali e di quelle pianistiche di Fanny Mendelssohn, che, oltre a rendere nota la produzione della compositrice, le ‘restituisce’ anche opere rimaste anonime o ritenute composizioni del fratello Felix. Sono opere ispirate a poeti e poetesse conosciuti personalmente (come Goethe e Heine) o amati (come Müller, che fu fonte di ispirazione anche per Schumann), tra i quali il marito che, al contrario del padre e del fratello, la incoraggiò sempre nel suo lavoro di compositrice ed esecutrice, e scrisse per lei e con lei alcune opere vocali. PAOLA MAURIZI, Fanny Mendelssohn e l’Italia, Anteo, Perugia, 2011, pp. 161; € 18,00 L’opera di Fanny è caratterizzata dall’amore per Bach e Beethoven e gli altri autori della sua formazione berlinese, formazione che ebbe in comune con il fratello; ma, malgrado questo e la stretta collaborazione con Felix (soprattutto nel periodo che va dal 1819 al 1829), nelle composizioni di Fanny si trova una nota originale e indipendente, che la porterà, tra l’altro, ad indagare con profondità il rapporto tra suono e parola, e anche tra suono, parola e immagine, ponendosi lungo la strada più innovativa e significativa della musica dell’Ottocento e del Novecento (e anche della contemporaneità), quella stessa di Musorgskij o Wagner, ad esempio, che indaga la musica come arte (e linguaggio) profondamente integrata con le altre arti (e gli altri linguaggi). E a confermare il senso della ricerca di Fanny sarà ancora il marito, che dipingerà traendo ispirazione dall’attività musicale della compositrice, così come Fanny comporrà ispirandosi ai suoi quadri, fino a giungere alla realizzazione, a quattro mani, di 28 RECENSIONI E SEGNALAZIONI opere nelle quali sono raccolte musica, poesia e pittura. Tra le fonti di ispirazione della creazione di Fanny Mendelssohn c’è, senza dubbio, l’Italia, con il suo paesaggio e la sua cultura. Nel solco della tradizione del Grand Tour, anche Fanny, con il marito e il figlio Sebastian, viaggia per due volte in Italia, e annota in un diario le emozioni che le procura la conoscenza con il paese della grande pittura medievale, tanto amata (e rivalutata) soprattutto nel Romanticismo tedesco e inglese (lo stesso marito, Hensel, faceva parte della corrente dei Nazzareni, la cui pittura era ispirata dai grandi maestri del Rinascimento, primo fra tutti Raffaello). Nel 1839-40 la musicista compie il suo primo viaggio in Italia, durante il quale, a Roma, viene apprezzata da Gounod e Bousquet, e dalla ricca compagnia di pittori e musicisti che anima l’ambiente intellettuale romano. Il riconoscimento del suo valore musicale la spinge a credere di più nella propria arte, e a comporre con maggiore entusiasmo e produttività. La sua prima esperienza dell’Italia rimarrà come un segno profondo nella sua attività musicale. Nel 1845, per aiutare la sorella rimasta bloccata a Firenze, colpita dall’itterizia, Fanny parte nuovamente per l’Italia, ancora una volta accompagnata dal figlio e dal marito. Ha così l’opportunità di visitare l’Umbria, che nel primo viaggio non era riuscita ad attraversare del tutto (aveva potuto conoscere solo Orvieto), e rimane affascinata da Perugia e Assisi. Quest’ultima città, poi, le rimarrà particolarmente impressa, tanto da considerarla, con Pisa, «uno dei luoghi più poetici e meravigliosi di tutta l’Italia». Dimostrando ancora una volta autonomia di giudizio, anche rispetto ai grandi viaggiatori del passato (autonomia dimostrata già nei diari del primo viaggio), e coerentemente alla sua formazione romantica, Fanny si innamora della Basilica di S. Francesco e, in particolare, della Chiesa Inferiore, luogo di culto della pittura medievale che, dopo l’esperienza neoclassica, tornava ad essere esaltata come esempio di grandezza artistica e spirituale. Così, Fanny critica all’amato Goethe di aver preferito il tempio della Minerva (sebbene esso sia «molto bello») a S. Francesco, luogo «unico […] al mondo», che, persino per la protestante Fanny, «fa diventare realmente quasi cattolici» – un «miracolo» che la ricchezza delle chiese romane non permette. Anche nei suoi diari italiani (qui in parte tradotti, per la prima volta, in Italiano), Fanny dimostra, dunque, di essere un’artista completa e pienamente integrata nella cultura romantica. E pesa ancora di più, perciò, la responsabilità di una società (e di una storia) che ha limitato il riconoscimento dovutole e la diffusione delle sue opere. Per questo, il valore del libro della Maurizi non si limita all’aspetto (seriamente) divulgativo e scientifico (senza – per fortuna! – artifici accademici), ma risiede innanzitutto nel collocarsi all’interno dell’attuale operazione di ‘riscoperta’ delle opere di musiciste che una storia a senso unico (maschile) ha voluto mettere colpevolmente in secondo piano. Francesca Tuscano Il Teatro Metastasio di Assisi dal 1840 al 1861 Tesi di Fulvia Angeletti per la laurea in Conservazione dei Beni culturali* I n circa 100 pagine Fulvia Angeletti affronta la storia del teatro Metastasio di Assisi dalla sua costruzione, iniziata nel 1835, all’Unità d’Italia; ma supera il 1861 canonico per giungere al 15 ottobre 1862, giorno che segna il passaggio di proprietà del teatro dalla Società Metastasiana al Comune di Assisi. Nessun altro studio aveva finora documentato le tappe della fondazione e dell’esistenza di questo teatro. Fonti della ricerca sono state per la quasi totalità carte della Sezione di Archivio di Stato di Assisi: manoscritti, atti amministrativi, corrispondenza tra istituzioni, progetti, regolamenti, atti notarili, carteggi delle compagnie che nel tempo si sono esibite al Metastasio o hanno fatto richiesta di esibirvisi. L’autrice ha trascritto completamente i documenti utilizzati, 164 in tutto, e li ha riportati in un’appendice di 115 pagine; il primo è del 1825 e relativo all’antecedente del Metastasio, il Teatro del Leone interno al Palazzo dei Priori; l’ultimo riguarda significativamente la celebrazione per l’Unità d’Italia del I giugno 1861, celebrazione che prevedeva, alle 2 di notte, un concerto al Metastasio. Il primo dei tre capitoli di cui si compone la tesi RECENSIONI E SEGNALAZIONI 29 la rappresentazione. Per questo alla metà del ’600 la Sala del Consiglio nel Palazzo dei Priori fu adibita a teatro, con lavori di adattamento affidati a Giorgetti. Nel 1755 fu con ulteriori lavori resa un teatro vero e proprio, il piccolo ma elegante “Teatro del Leone”. Ma l’esiguità dei suoi spazi, i danni avuti dai terremoti del 1832 e 1833, il pericolo che la struttura costituiva per gli uffici comunali convinsero la cittadinanza a erigerne uno più grande: da ciò il progetto dell’architetto Lorenzo Carpinelli per il nuovo edificio dedicato a Pietro Metastasio. Il secondo capitolo della tesi verte propriamente sul Teatro Metastasio dalla costruzione all’apertura nel 1840. Costruire un teatro era un’operazione dai costi talmente consistenti da richiedere sempre il coinvolgimento di più soggetti, in una collaborazione tra pubblico e privato che aveva per “unità di base” del sistema di finanziamento lo stesso “palchetto”: il progetto di costruzione era infatti accompagnato da Manifesto del 1° giugno che indice le celebrazioni per l’Unità nel Comune di Assisi ripercorre innanzitutto le tappe che dal ’500 all’800 hanno segnato la diffusione dei teatri in Umbria. La costruzione dei teatri è specialmente legata alla diffusione sei-settecentesca delle Accademie, che in molti casi si posero il problema di avere sale per pubblici spettacoli e ne garantirono la costruzione. Fulvia Angeletti cita Giovanni Valle, autore di Cenni teorico-pratici sulle Aziende teatrali (Milano, 1823), per il quale il teatro è «un oggetto necessario al decoro delle città, all’onesto trattenimento dei cittadini, influente sulla civilizzazione, sul commercio, sui costumi e sull’andamento d’altri diversivi, fatali purtroppo all’economia domestica, alla moralità ed al buon costume». Anche nello Stato pontificio una certa ostilità della Chiesa per il teatro venne a patti con l’idea della funzione civica dello spazio ricreativo teatrale. Sempre il primo capitolo della tesi ricostruisce il formarsi di un’attività teatrale ad Assisi. L’autrice, appoggiandosi a Città di Poeti (Assisi, 1954) di Gemma Fortini, rintraccia nella cinquecentesca Accademia del Monte (poi dei Desiosi, quindi degli Eccitati nel 1654 e dei Rinati nel 1750) il nascere dell’interesse per Manifesto per l’apertura del Teatro Metastasio con il dettaglio di tutti gli artisti coinvolti 30 RECENSIONI E SEGNALAZIONI una campagna di prevendite delle logge presso la classe dirigente locale; la somma raccolta copriva in parte o del tutto i costi del cantiere e talvolta forniva anche le prime risorse per la futura gestione, alla quale i proprietari dei palchi avrebbero poi comunque contribuito con un canone annuale. La situazione più consueta era che l’iniziativa di costruzione del teatro partisse dagli stessi “palchettisti”: un gruppo di patrizi e di notabili si costituiva in società per l’edificazione dell’impianto o la proponeva all’autorità civica (nel cui consiglio essi stessi sovente sedevano). Anche il Metastasio fu costruito a spese di privati cittadini e fu inizialmente proprietà di una società, il cui capitale era diviso in 48 carati: ogni socio deteneva un carato e un palco. Per introdurre l’effettiva costruzione del teatro, l’autrice ricorre a parole di Antonio Cristofani: «Nel marzo 1836 si dié principio all’edificazione dell’elegante teatro Metastasio con disegno datone da Lorenzo Carpinelli, nostro architetto, il quale similmente ne diresse l’innalzamento con molta sua lode e con universale appagamento della città. Le pitture del nuovo edifizio furono l’ultimo lavoro del fabrianese Raffaele Fogliardi che a’ suoi tempi fu molto riputato in questo genere» (Le storie di Assisi). Da non trascurare, per capire il singolo caso del Metastasio, le notazioni dell’autrice sulla generale prassi urbanistica relativa ai teatri: per il periodo di riferimento si parla ancora di teatri mimetici, senza particolare evidenza nel tessuto urbano, che fanno i conti con il poco spazio concesso dalle preesistenze edilizie, senza imporre significative modificazioni urbanistiche: non vi era un modello di facciata specifico per il teatro, che manteneva lo stile degli altri palazzi; gli sforzi progettuali erano piuttosto concentrati sulla sala, di solito concepita a ferro di cavallo, con tre ordini di palchi e loggione. L’autrice passa quindi a descrivere il Metastasio originario: le due iscrizioni all’ingresso, una a Pietro Trapassi e l’altra a Lorenzo Carpinelli, tra le quali campeggiava lo stemma della Società Metastasiana, il centauro con arco della famiglia Trapassi cui Il pittore Raffaele Fogliardi e il suo sipario di Assisi Nell’ambito della ricerca sul Teatro Metastasio promossa dall’associazione Commedia Harmonica con la collaborazione di alcuni cittadini di Assisi, come già scritto sulle pagine di questo periodico, è stato ritrovato ed esposto per qualche ora sulla Piazza del Comune, perché i cittadini potessero ammirarlo, il sipario del teatro, opera di Raffaele Fogliardi, con la speranza che si possa anche procedere in tempi brevi al suo restauro. Del sipario, già visto e fotografato da alcuni professionisti qualche anno fa per partecipare a un concorso relativo al restauro, si era poi persa traccia; infatti l’opera è stata ritrovata, su richiesta dei promotori della ricerca sul Teatro Metastasio e con la collaborazione di alcuni dipendenti del Comune di Assisi, in un magazzino del Comune stesso. L’esposizione del sipario è avvenuta con la supervisione di un esperto restauratore. La Società Teatrale Metastasiana incaricò di realizzare l’opera Raffaele Fogliardi, pittore marchigiano; infatti egli era assai conosciuto all’epoca per aver già realizzato il sipario del Teatro dedicato ad Apollo a Foligno, edificio completamente distrutto da un bombardamento nel 1944, e le decorazioni dei teatri di San Benedetto del Tronto e San Severino Marche. Il sipario, raffigurante una complessa allegoria in Il dio Apollo secondo Raffaele Fogliardi RECENSIONI E SEGNALAZIONI 31 cui si vedono la dea Minerva, la città di Assisi, il Monte Subasio, i poeti Properzio e Metastasio coronati d’alloro, poi Ninfe, geni festosi e ancora altri personaggi, è stata l’ultima opera di Raffaele Fogliardi, che volle comunque portarla a termine nonostante già sentisse gli effetti della malattia che poi lo condusse alla morte ospite in casa del figlio Domenico, professore, umanista e patriota, residente a Fabriano. Raffaele Fogliardi nacque ad Apiro nelle Marche il 4 marzo 1776, visse a Tolentino dove conobbe Giuseppe Lucatelli, noto pittore con il quale collaborò e dal quale ottenne consigli e aiuti per la sua arte. Dell’opera di Fogliardi restano testimonianze nella decorazioni di ville di famiglie aristocratiche e della ricca borghesia nelle Marche e la sua produzione artistica è veramente ragguardevole. Particolarmente rilevanti sono la decorazione della Cappella del SS. Sacramento della Cattedrale di Ascoli Piceno, quella della Sala delle Colonne nella pinacoteca della stessa città e ancora la decorazione del piano nobile del Palazzo dei Capitani, ora sede del municipio di Ascoli. Un profilo biografico e artistico del pittore è stato realizzato recentemente da un discendente in linea materna, il professor Paolo Latini, con il libro I Fogliardi nella vita culturale e patriottica dell’Ottocento – Note storiche sulla Famiglia e sul palazzo Fogliardi di Fabriano pubblicato da Porzi Editoriali di Perugia nel 2011. Pier Maurizio Della Porta nell’altra mano era stata collocata una maschera; l’ingresso alla platea sopra cui era scritto che l’esempio «innamora, corregge / persuade, ammaestra»; i tre ordini sovrapposti della sala, con 17 palchi ciascuno; le numerose decorazioni. Attenzione maggiore prende la descrizione del sipario di Fogliardi, cui la committenza aveva fatto condensare in un’unica scena gli elementi ideali della città: il tempio di Minerva e Assisi illuminata dall’aurora, Apollo che scende dal Subasio, Properzio e Metastasio, quest’ultimo che riceve l’investitura dagli altri personaggi. Un’ultima sezione del capitolo tratta dell’apertura del teatro, il 4 ottobre 1840, con l’opera Emma di Antiochia di Mercadante (uno degli artisti allora più eseguiti insieme a Bellini, Donizetti, Rossini, Verdi) e con Ines de Castro di Giuseppe Persiani. A rappresentarle un cast organizzato dal maceratese Ercole Tinti, agente a Bologna e impresario in diversi teatri della Toscana, Particolare del sipario rappresentante la maschera teatrale della tragedia dell’Emilia, delle Marche e dell’Umbria. L’autrice segue i vari passi dell’accordo tra Ercole Tinti e le autorità di Assisi per la serata; traccia brevi profili degli importanti attori coinvolti (orchestra e coro erano invece reclutati localmente); riporta una critica dell’epoca sull’Emma di Antiochia (relativa però alla prima dell’opera alla Fenice di Venezia). Il terzo capitolo della tesi presenta l’attività del Metastasio fino al 1861. Essa rientrava nelle caratteristiche comuni alla maggior parte dei teatri dell’epoca: l’anno teatrale era diviso in più stagioni; la più importante era quella del Carnevale che iniziava il 26 dicembre per finire il martedì grasso e comprendeva una trentina di appuntamenti (ma tra questi solo 2-3 opere importanti); c’erano poi la stagione di Primavera e quella d’Autunno, collegata alle fiere; il periodo estivo si caratterizzava per spettacoli all’aperto. Le compagnie erano classificate in tre ordini: 32 RECENSIONI E SEGNALAZIONI Il teatro Metastasio come di presentava, in stato di abbandono, poco prima della sua ristrutturazione e rifunzionalizzazione (foto Andrea De Giovanni) quelle di prim’ordine giravano per le capitali, i capoluoghi e altre importanti città; quelle di secondo si limitavano alle città meno importanti delle varie province; quelle di terz’ordine operavano nei piccoli centri. Al Metastasio ai suoi primi decenni di vita lavorarono tutte le tre tipologie. La compagnia teatrale ottocentesca era comunque in genere “capocomicale”: un capocomico ne era il proprietario e faceva da impresario nei confronti di teatri e amministrazioni, sceglieva le opere da rappresentare e curava eventuali rapporti con gli autori, assumeva gli attori, si faceva carico delle spese per costumi, scene, ecc, svolgeva il ruolo di regista o comunque di coordinatore e supervisore, amministrava il tutto. Costui, nel proporre la propria compagnia, a volte fingeva, per darsi credito, di avere già dei pretendenti o di essere già in parola con altri teatri. Fulvia Angeletti riporta, con il sostegno di alcuni documenti, la simpatica – ma per lui sfortunata – vicenda del capocomico Feliziani tra il novembre 1841 e il febbraio 1842: egli, vantandosi di avere già scritture a Perugia e a Foligno, pretendeva di “incastrare” tra queste una serie di spettacoli ad Assisi; sennonché la Società teatrale di Assisi raccolse, presso le due città vicine, informazioni opposte a quelle date da Feliziani e gli negò il contratto né si piegò alle sue insistenze e giustificazioni. Il discorso sulle compagnie ha offerto alla studiosa anche l’occasione per discutere del tipico schema fisso di ruoli su cui esse si basavano all’epoca: amoroso, primo attore, prima attrice, brillante, caratterista, padre nobile, madre nobile, attor giovane, attrice giovane, seconda donna sono le “etichette” ricorrenti nel lessico teatrale del tempo. Intervengono a questo punto altre considerazioni generali che vanno oltre il caso del Metastasio di Assisi, come quelle sul tipo di rappresentazioni in voga nella prosa e sull’approccio tenuto dalle compagnie, un assemblaggio di generi in cui in un solo spettacolo tutti facevano tutto – commedia, trasformismo, acrobazie, danza, canto, musica – oppure una versatilità da spettacolo a spettacolo. E comunque – constata l’Angeletti – era il periodo in cui le attenzioni massime erano sull’opera lirica, sia da parte del pubblico sia da parte dei più bravi autori di testi, che s’impegnavano come librettisti. L’importanza non solo artistica ma anche sociale e ideologica della lirica è mostrata dall’autrice nella sezione Il Teatro Metastasio durante il Risorgimento. Particolare rilievo è giustamente dato alla venuta in Assisi di Garibaldi, con annessa serata al Metastasio per la rappresentazione della verdiana I Lombardi alla prima crociata. Si ricorre ancora a Cristofani: «Nell’autunno 1848 [in realtà all’inizio dell’inverno, il 27 dicembre, n.d.r.] fu in Assisi Giuseppe Garibaldi, accorso dall’America a combattere per l’indipendenza della patria sua: e a quell’occasione più che in qualunque altra mai si sfogò l’entusiasmo popolare al teatro in nastri, bandiere, in catene di fazzoletti e di veli femminili che si dicevano d’unione nazionale, e in tutte le altre baldorie innocenti di quel vero carnevale che si continuò per tutto il tempo della guerra d’indipendenza, combattuta felicemente prima, infelicissimamente poi nel Lombardo-Veneto» (Le storie di Assisi). Ed era già dai primi di febbraio che il teatro era divenuto luogo di festeggiamenti legati ai fatti politici, come la concessione di costituzioni da parte dei sovrani italiani; addirittura, una compagnia propose alla deputazione teatrale del Metastasio una serie di spettacoli i cui proventi, in parte, sarebbero andati a finanziare l’armamento della Guardia Civica, istituzione esistente nel territorio pontificio dal luglio 1847. Fulvia Angeletti prende qui lo spunto per tracciare un sintetico quadro sull’operato della censura, che nell’ultimo decennio preunitario si fece più pesante e più marcatamente politico (cioè non si occupò solo di decoro, moralità e ordine pubblico) e che si rivolse in particolare al teatro proprio perché esso aveva finito per essere il termometro dell’effervescenza politica: in proposito l’autrice cita alcune circolari che Delegazione Apostolica di Perugia e Ministro dell’Interno inviarono al gonfaloniere di Assisi negli anni ’50. La penultima sezione del capitolo, e dell’intera tesi, riguarda la cessione del teatro al Comune. La Società Metastasiana, già dal 1846, non riteneva più RECENSIONI E SEGNALAZIONI Foglio di presentazione della compagnia “La guardia civica” inviato alla deputazione teatrale di Assisi l’8 aprile 1848. In fondo alla presentazione si legge ancora «EVVIVA PIO IX»: da pochi giorni il Papa aveva inviato un corpo d’operazione a sostegno dell’esercito sardo; a fine anno invece il Papa sarà ormai considerato un nemico dei patrioti. possibile portare avanti l’impresa a proprie spese; si dichiarava quindi disponibile e cedere la proprietà al Comune se questo avesse garantito la metà delle spese d’esercizio; l’altra metà sarebbe rimasta pertinenza dei vecchi azionisti, che avrebbero mantenuto proprietà dei palchi e diritto di voto sulle scelte del teatro. Non soddisfatto della proposta, il Comune attese due anni prima di esaminare a fondo la questione ed elaborò un suo progetto d’acquisizione: non vi si accennava alla proprietà privata dei palchi e presidente della deputazione teatrale era fatto il gonfaloniere (seduta del Consiglio del 22-12-1848). La Società teatrale 33 accettò. Tuttavia, in parte il puntiglio della Delegazione Apostolica, che non voleva ratificare il passaggio prima della redazione di un nuovo regolamento del teatro in cui la Società e il Comune precisassero più a fondo diritti e doveri reciproci, in parte l’insorgere di problemi di cassa per il Comune, rimandarono la cessione: l’autrice ricostruisce con efficace precisione questo inconcludente iter. I fatti del Risorgimento distrassero da ulteriori pratiche sull’argomento, fino a quando l’Umbria entrò nel Regno d’Italia. Fu quindi Vittorio Emanuele II ad autorizzare l’acquisto da parte del Comune, con regio decreto del 2 marzo 1862, ma l’effettivo contratto tra Società e amministrazione fu stipulato solo il 15 ottobre. La trattazione della tesi si conclude con una carrellata sugli interpreti e le compagnie che caratterizzarono la vita del Metastasio dagli anni ’50 al fatidico ’61. Ad esempio calcò il palcoscenico assisiate Luigi Bonazzi, che lavorò con le più prestigiose compagnie italiane del tempo, ne fondò una propria e chiuse la carriera attoriale alla Reale di Napoli, per poi trasferirsi nella natia Perugia e ‘interpretare i ruoli’ per cui è più noto: professore di liceo e storico. Seguono e chiudono la tesi, prima dell’appendice documentaria, 30 tavole che riproducono in forma fotografica alcuni dei documenti utilizzati, alcuni manifesti degli spettacoli tra cui quello della prima apertura dell’ottobre 1840 e quello del I giugno 1861, il progetto di Venanzi e Brizi del 1880 per la riduzione del teatro, immagini scattate dal fotografo Andrea De Giovanni prima che si decidesse nel 1956 la trasformazione del Metastasio in cinema. Red. * Presentando questa sintesi della tesi, discussa nell’anno accademico 2008-2009 con relatore il prof. Alessandro Tinterri (Storia del teatro e dello spettacolo), ci auguriamo non solo che i lettori, incuriositi, chiedano all’autrice di consultare il suo studio, ma che l’autrice stessa prosegua il lavoro di ricerca e trascrizione portandolo oltre l’anno 1861 e almeno fino al 1956, anno in cui il Metastasio cessò d’essere un teatro all’italiana. È attivo il sito ufficiale dell’Accademia: www.accademiaproperziana.eu 34 MEMORIE Il generale a teatro Garibaldi al Metastasio di Assisi di Gemma Fortini Ripubblichiamo con convinzione le emozionate ed emozionanti pagine in cui Gemma Fortini, nel suo Città di poeti (Tipografia Porziuncola, Assisi, 1954), racconta l’arrivo di Garibaldi ad Assisi nel dicembre 1848. Questo passo è per noi prezioso anche perché contiene una descrizione, tutta letteraria, del sipario che era stato dipinto per il teatro Metastasio dal pittore specializzato Fogliardi. I l 12 dicembre 1848 Giuseppe Garibaldi era arrivato con Masina a Roma, dove la sua Legione, che si trovava allora in Romagna, avrebbe dovuto prendere subito servizio. Ma la diffidenza sparsa contro i suoi soldati lo aveva indotto, il 21 dicembre, a ritornare sui suoi passi. Aveva con sé quattrocento soldati laceri, scalzi, affamati. Scrive Gustavo Sacerdote:1 «I Comuni sono pieni di sgomento, quando odono che si avvicina la Legione di Garibaldi. È come venisse una banda di briganti guidata dall’Anticristo. Quei municipii si rivolgono al Governo, supplicando che tenga lontana da loro una tale iattura». Non così la pensavano i cittadini di Assisi, i quali, essendo venuti a sapere che il 27 dicembre Garibaldi si trovava a Foligno, gli inviarono una commissione per indurlo a recarsi nella loro città. Secondo una vecchia consuetudine, quella sera, festa di San Giovanni, si apriva il teatro e Garibaldi non doveva mancare, dato che si rappresentava un lavoro che rispecchiava lo spirito e i sentimenti dei nuovi tempi, l’opera in musica di Giuseppe Verdi «I Lombardi alla prima Crociata». A capo della commissione era il conte Giuseppe Fiumi,2 il quale si era offerto di ospitare Garibaldi nel suo palazzo. Non ci fu bisogno di molte parole per convincere Garibaldi ad accettare. Si sa la grande passione che l’Eroe ebbe sempre per la musica e per la poesia. Possedeva una voce calda da tenore; una volta, nel 1834, essendo già condannato a morte e correndo il rischio di essere arrestato, riuscì a commuovere i suoi persecutori, cantando una delle più belle e popolari canzoni di Béranger: «Il Dio della gente». Se i Lombardi non fossero stati rappresentati per la prima volta a Milano l’11 febbraio 1843, si potrebbe pensare che siano sgorgati da quello speciale clima di misticismo eroico caratteristico della prima guerra d’indipendenza. Tutti ricordano i versi scritti nel 1846 dal Giusti: «...Dalle trombe di guerra uscian le note Come di voce che si raccomanda, D’una gente che gema in duri Stenti E de’ perduti beni si rammenti. Era un coro del Verdi: il coro a Dio Là de’ Lombardi miseri, assetati; Quello: O Signore, dal tetto nati o, Che tanti petti ha scossi e inebriati». Si comprende perciò come su quest’opera si fosse fermata l’attenzione degli Accademici del Subasio, nell’apprestare la stagione lirica in quell’inverno tra il 1848 e il 1849. Garibaldi accettò l’invito. Insieme con Masina e con altri si diresse a cavallo verso Assisi nelle prime ore del pomeriggio. Diciassette chilometri separano Foligno da Assisi. Dopo Spello, all’altezza di Santa Trinità, la strada lascia la pianura per arrampicarsi, attraverso ampie curve, su per la collina fino alla frazione di San Vitale per poi proseguire a mezza costa fino alla città. Che cosa provò il Condottiero percorrendo quella via, nella pace donata dalla festa natalizia, in quella pausa delle dure battaglie, respirando la serenità inconsueta del dolce paesaggio che brillava nella vallata tra gli olivi MEMORIE d’argento? Certe descrizioni della sua Autobiografia ci dicono il suo amore per le bellezze naturali. Presso la piccola chiesa di San Potente, a circa due chilometri da Assisi, erano allineate le due compagnie della guardia civica, immobili, impeccabili, con i loro ufficiali. Quando apparve il cavallo, bianco, rullarono i tamburi: ad un comando, duecentocinquanta baionette si sol levarono nel sole. Il generale percorse lentamente il fronte dello schieramento; giunto davanti alla bandiera offerta dalle dame di Assisi, che l’alfiere abbassava davanti a lui, si arrestò per un istante e portò la mano alla fronte, salutando. Quindi tutti si avviarono, egli precedendo sempre a cavallo gli uomini che marciavano con passo cadenzato. A Porta Nuova, attendeva la banda. Squillarono le note del nuovo inno della guardia civica, che, scritto nel settembre 1847, correva ormai trionfalmente per tutta l’Italia, divenuto il canto dell’unione e dell’indipendenza: «Fratelli d’Italia, L’Italia s’è desta…» Giunsero davanti al palazzo Fiumi. Garibaldi discese, accolto sull’ingresso dalla giovane sposa del conte Giuseppe, Virginia Oddi Baglioni, che fece gli onori di casa. Si cenò. Arrivò l’ora della rappresentazione. Il teatro di Assisi era allora presso a poco così, come oggi si scorge: piccolo e armonioso, con i suoi tre ordini di palchi, messi a stucco lucido, ornati di amorini e di figure simboliche. Lo aveva costruito tredici anni prima, nel 1835, Lorenzo Carpinelli, Accademico del Subasio, ornandolo con lapidi, imprese, motti suggeriti dagli altri Accademici, in omaggio a Pallade, alla Musica, alla Poesia, e sopratutto al grande concittadino a cui il teatro era intitolato, Pietro Trapassi, «principe de’ drammatici», come ricordava l’iscrizione posta nell’atrio, «gran maestro d’affetti e di virtù». L’Accademia Properziana aveva dato l’ispirazione per il soggetto raffigurato nel sipario. Vi si scorgeva il monte Subasio, con la vetta illuminata dalla nascente aurora, la città distesa lungo la costa, il tempio di Minerva, un bosco di lauri. Properzio veniva avanti, la fronte coronata d’alloro, conducendo per mano Metastasio; e ambedue mostravano delle scritte dove si leggevano i nomi di Cinzia e di Didone. Ad essi si faceva incontro Apollo, disceso dal monte, accompagnato da Melpomene, con la clava, la maschera e il pugnale; e da Erato, con la lira, il libro e la fiaccola. Properzio presentava Metastasio al dio; e intanto un genio alato arrivava, portando un serto d’alloro per il nuovo poeta. Le Muse intessevano 35 anche esse ghirlande; altri genii volavano gettando fiori; altri ancora stavano seduti sui gradini del tempio, suonando vani istromenti. Era la storia e il poema dell’Accademia durante i suoi tre secoli di vita ed era, al tempo stesso, la storia e il poema del dolce sopore in cui l’Italia per tutto questo tempo si era obliata. Ed ecco, di colpo, come ammoniva l’inno ripetuto dalla banda civica al momento in cui Garibaldi si affacciava dal palco d’onore della seconda fila, la Madre era balzata in piedi, armata e pronta ad ogni cimento. Sfolgorava la camicia rossa dell’Eroe, riverberando un fulgore d’ incendio che vinceva le cento luci accese sul ricco lampadario di cristallo. L’uragano delle grida e degli applausi piegava le fiammelle dei lumi posti intorno al triplice ordine di palchi. Si trovavano di fronte, per la prima volta, in quella sera carica di destino, in quel teatro di Assisi, il passato e l’avvenire, l’Italia cortigiana e l’Italia eroica, i poeti arcadici e i poeti guerrieri. Disperse erano le maliose orchestre dei monaci trasognati, usciti dai chiostri solitarii per celebrare, sul ritmo di languidi madrigali, le rose d’autunno, gli amori senza speranza, le fontane ammutolite nei parchi abbandonati. Una nuova fede, una nuova visione, sorgeva dalle note lunghe, gravi, solenni del preludio, a cui rispondeva, dietro le quinte, un clangore di trombe. Il suono dell’organo si alternava con gli squilli degli ottoni, la preghiera a Maria con i richiami delle scolte, l’invocazione a Dio con la maledizione verso coloro che fossero venuti meno al sacro giuramento: «All’empio che infranse la sacra promessa, L’obbrobrio, l’infamia sul capo ricada». E questo flutto di poesia in cui si univano la fede e la patria, Dio e la libertà, la croce e la spada, era il quarantotto. Nessuna altra cosa avrebbe potuto esprimere la santa primavera della Patria, meglio dell’opera verdiana che, in quella sera dell’anno 1848, veniva rappresentata nel teatro dell’Accademia assisana, consacrata da venti generazioni di poeti, rinnovata nel sacro fervore della riscossa italiana. La presenza di Garibaldi donava alla rappresentazione un’aureola di glorificazione e di predestinazione. Atto terzo. È l’atto della processione. Tre note possenti, lunghe ed uguali dell’orchestra. Poi silenzio. Ed ecco venire di lontano un trepido richiamo, un coro sommesso e dolente: «Gerusalem! Gerusalem! La grande, la promessa città...». 36 MEMORIE Tutti sentivano e intendevano quale fosse la Gerusalemme da tutti invocata, la città più grande di ogni altra, più sacra di ogni altra, più desiderata di ogni altra, verso la quale si volgevano in quell’ora i cuori degli italiani. Pochi giorni prima Garibaldi, salutando la legione in cui avevano combattuto i quaranta volontari di Assisi, l’aveva così rievocata: «Dio benedica voi, che potete scrivere, senza profanarlo, sulla vostra bandiera il sacro nome di Roma». Non c’erano altri lauri nel giardino d’Elicona. Ad essa andava il fremito dei vati, che il suo nome ponevano adesso al posto delle donne del loro sogno. Metastasio ripeteva il severo ammonimento di Catone: «...Ella è per tutto Dove ancor non è spento Di gloria e libertà l’amor natio; Son Roma i fidi miei, Roma son io». Ben potevano essere queste le parole del proclama di guerra che, in quella tregua di armi, Garibaldi si apprestava a lanciare ai difensori della Città Eterna. L’entusiasmo aveva raggiunto toni di delirio. Ne fa attestazione il Cristofani, il quale di questo avvenimento non ci ha trasmesso che un fugace cenno: «Nell’autunno del ’48 fu in Assisi Giuseppe Garibaldi, accorso dall’America a combattere per l’indipendenza della patria sua; e a quell’occasione, più che in qualunque altra mai, si sfogò l’entusiasmo popolare al teatro in nastri, in bandiere, in catene di fazzoletti e di veli femminili che si dicevano d’unione nazionale ». Non una parola su tutto il resto, che viene riportato invece nel solito diario manoscritto e inedito del Marelli. Il teatro non era più ormai che un solo palpito di tricolori. Adesso il coro dei crociati aveva intonato: in quella lontana notte di carnevale, aveva composto il suo melodramma a diletto delle dame e dei cavalieri. Le corone di lauro, che Apollo porgeva ora ai suoi cantori, erano anche esse legate con i colori che gli Accademici del Subasio vedevano rifulgere in cielo ed in terra, quale vaticino di gloria e di libertà. La poesia degli dei innamorati e delle pallide Ninfe era divenuta arma salda e affilata nel pugno dei nuovi cantori della Patria. Garibaldi, Masina e gli altri partirono il mattino seguente. Scesero giù per la strada degli Angeli. Giunti al borgo, dovettero fermarsi presso la bottega di un maniscalco, perchè il cavallo bianco del generale aveva perduto un ferro. Ma si sa che i ferri di cavallo perduti portano fortuna a chi li ritrova. Un paesano degli Angeli, detto per soprannome Passopiano, resse la gamba del cavallo mentre lo ferravano, e se ne vantò per tutta la vita, trovando così il modo di passare anche lui, insieme con Garibaldi, alla posterità.3 Sulla facciata del palazzo Fiumi si legge oggi questa lapide: «Giuseppe Garibaldi – il 27 dicembre 1848 – fu ospite qui del conte Giuseppe Fiumi. – Gli Assisani reduci dalle patrie battaglie – posero questa memoria – al glorioso capitano dei popoli oppressi – 3 luglio 1882». Nessun ricordo dell’avvenimento conserva invece il Teatro Metastasio. Sarebbe opportuno collocarvi un’iscrizione commemorativa, su per giù con queste parole: «Giuseppe Garibaldi, – ascoltando la sera del 27 dicembre 1848 in questo teatro – l’opera di Giuseppe Verdi – I Lombardi alla prima Crociata, — ebbe la certezza — dell’unità e dell’indipendenza — d’Italia». Note 1 2 «Te lodiamo, gran Dio di vittoria Te lodiamo, invincibil Signor...». Era la profezia infallibile. Il sangue versato avrebbe dato i suoi frutti; il tricolore vittorioso avrebbe sventolato un giorno sotto il cielo di Roma, nella luce del Campidoglio. Fu in quell’ora, ad Assisi, nella città dei guerrieri e dei poeti, che Garibaldi ebbe la certezza di ciò che si sarebbe compiuto: nessun fato avverso avrebbe potuto più affievolire questa sua incrollabile fede di vittoria. Nella serena notte invernale scintillavano le stelle sul palazzo patrizio dei Fiumi. Garibaldi riposava sotto l’ampio baldacchino della stanza nobiliare, nel medesimo luogo dove l’accademico conte Ulderico, La vita di Giuseppe Garibaldi, Milano, 1933, pag. 405. Il rappresentante dell’Accademia del Subasio, il poeta Giovanni Bini Cima, parlando il 9 dicembre 1889 sulla bara di quest’altro intrepido soldato della libertà, anche esso letterato e poeta (nell’Archivio Leonelli si conservano di lui un’ «Epistola», scritta nel 1869 e un «Programma per lotta della Verità contro l’Errore», del 1876), anche esso fino dal 30 agosto 1844 entrato nella antica Accademia degli avi, disse: «Tutti sappiamo con quanto ardore ei proseguisse sempre la lotta secolare, continua, d’Italia contro il doppio suo nemico, lo straniero e il temporale dominio dei papi. Nel 1849, al tempo di quella gloriosa repubblica romana per la quale lampeggiarono di luce vivissima, ma breve, gli esempi dell’antica virtù, egli, tenente colonnello della guardia nazionale repubblicana pel nostro circondano, redigeva una dignitosa protesta, a nome del suo battaglione, contro l’invasione francese» (Diario Leonelli, vol I). Era nato il 28 settembre 1821. 3 Diario Leonelli, 1882, 16 luglio. PUBBLICAZIONI DELL’ACCADEMIA PROPERZIANA NEGLI ANNI 1975-2008 Assisi nella poesia italiana del Novecento, a cura di F. SANTUCCI e P. TUSCANO, Assisi 1975, pp. 36 (esaurito). F. CASOLINI, P. Leone Bracaloni ofm, present. di L. Canonici, Assisi, Accademia Properziana del Subasio 1975, pp. 16 (esaurito). Colloquium Propertianum (Atti del I Convegno su Properzio, Assisi, 26-28 marzo 1976), a cura di M. BIGARONI e F. SANTUCCI, Assisi 1977, pp.132, € 10,33. «Atti Accademia Properziana del Subasio», Serie VI, n. 1, Assisi 1978, pp.156, € 10,33. Francesco Pennacchi, «Atti Accademia Properziana del Subasio», Serie VI, n. 2, Assisi 1979, pp. 120 (esaurito). G. ZANOTTI, Antonio Cristofani storico e letterato (Saggio bio-bibliografico), presentazione di S. Vivona, «Atti Accademia Properziana del Subasio», Serie VI, n. 3, Assisi 1980, pp. 128, € 10,33. «Atti Accademia Properziana del Subasio», Serie VI, n. 4, Assisi 1980, pp. 172, € 10,33. Colloquium Propertianum secundum (Atti del II Convegno su Properzio, Assisi, 9-11 novembre 1979), a cura di F. SANTUCCI e S. VIVONA, Assisi 1981, pp. 216, € 10,33. Aspetti di vita benedettina nella storia di Assisi (Atti del Convegno di studi benedettini, Assisi, 12-13 settembre 1980), [a cura di F. SANTUCCI] «Atti Accademia Properziana del Subasio», Serie VI, n. 5, 1981, pp. 310, € 10,33. «Atti Accademia Properziana del Subasio», Serie VI, n. 6, Assisi 1982, pp. 152, € 10,33. Colloquium Propertianum tertium (Atti del III Convegno su Properzio, Assisi, 29-31 maggio 1981), a cura di S. VIVONA, Assisi 1983, pp. 170, € 10,33. San Francesco e il francescanesimo nella letteratura italiana del Novecento (Atti del Convegno Nazionale , Assisi, 13-15 maggio 1982), a cura di S. PASQUAZI, Roma, Bulzoni Ed., 1983, pp. 434, € 12,91. Piccoli conventi nella francescana «Custodia Assisiensis», «Atti Accademia Properziana del Subasio», Serie VI, n. 7, Assisi 1983, pp. 176, € 10,33. «Atti Accademia Properziana del Subasio», Serie VI, n. 8, Assisi 1984, pp. 228, € 10,33. P. FEDELI – P. PINOTTI, Bibliografia properziana (1946-1983), «Atti Accademia Properziana del Subasio», Serie VI, n. 9, Assisi 1985, pp. 114, € 12,91. Propertius. Codex Guelferbytanus Gudianus 224 olim Neapolitanus, prefazione di P. FEDELI, a cura di G. CATANZARO e F. SANTUCCI, Assisi 1985, pp.XIV - 150 € 15,49. M. J. STRAZZULLA, Assisi romana, «Atti Accademia Properziana del Subasio», Serie VI, n. 10, Assisi 1985, pp. 104 + 4 tavole f.t., € 12,91 (esaurito). G. ABATE, La medievale «Piazza Grande» di Assisi, a cura di F. SANTUCCI,«Atti Accademia Properziana del Subasio», Serie VI, n. 11, Assisi 1986, pp. 190, € 15,49. Bimillenario della morte di Properzio (Atti del Convegno internazionale di Studi properziani, Roma-Assisi, 21-26 maggio 1985), a cura di G. CATANZARO e F. SANTUCCI, Assisi 1986, pp. 364, € 23,24. Omaggio ad Alessandro Manzoni, a cura di G. CATANZARO, F. SANTUCCI e S. VIVONA, Assisi 1986, pp. 404, € 25,82. Assisi per il Bimillenario della morte di Properzio, «Atti Accademia Properziana del Subasio», Serie VI, n. 12, Assisi 1986, pp. 224, € 12,91. «Atti Accademia Properziana del Subasio», Serie VI, n. 13, Assisi 1986, pp. 288, € 12,91. Il parco del Monte Subasio. Ambiente fisico e umano, a cura di F. RAMBOTTI, Assisi 1986, € 10,33. MAGISTRI RUFINI EPISCOPI De Bono Pacis, a cura di A. BRUNACCI e G. CATANZARO, Assisi, Fonteviva Editrice, 1986, pp. 272, € 23,24. Properzio nella letteratura italiana (Atti del Convegno Nazionale, Assisi, 15-17 novembre 1985), a cura di S. PASQUAZI, Roma, Bulzoni Ed., 1987, pp. 236, € 15,49. E. LUNGHI, Il Museo della Cattedrale di S. Rufino ad Assisi, Assisi 1987, pp. 235, € 18,08. Accademia Properziana del Subasio, Assisi, Pubblicazioni 1887-1987. Catalogo, a cura di G. CATANZARO, Assisi 1987, pp. 36 (distribuito in omaggio). «Atti Accademia Properziana del Subasio», Serie VI, n. 14, Assisi 1987, pp. 300, € 12,91. G. CATANZARO – O. CIACCI – F. SANTUCCI, Giuseppe Aromatari nel IV Centenario della nascita, «Atti Accademia Properziana del Subasio», Serie VI, n. 15, Assisi 1987, pp. 180, € 15,49. «Atti Accademia Properziana del Subasio», Serie VI, n. 16, Assisi 1988, pp.268, € 15,49. Tredici secoli di elegia latina (Atti del Convegno internazionale, Assisi, 22-24 aprile 1988), a cura di G. CATANZARO e F. SANTUCCI, Assisi 1989, pp. 368, € 25,82. Le fraternite medievali di Assisi. Linee storiche e testi statutari, a cura di U. NICOLINI, E. MENESTÒ, F. SANTUCCI (in collaborazione con il Centro di Ricerca e di Studio sul Movimento dei Disciplinati di Perugia), Assisi 1989, pp. 422, € 36,15. «Atti Accademia Properziana del Subasio», Serie VI, n. 17, Assisi 1989, pp. 285, € 15,49. San Francesco e il Francescanesimo nella letteratura italiana dal Rinascimento al Romanticismo (Atti del Convegno Nazionale, Assisi, 18-20 maggio 1989), a cura di S. PASQUAZI, Roma, Bulzoni Ed., 1990, pp. 400, € 24,79. L. PROIETTI PEDETTA, Le confraternite di Assisi dopo il Concilio di Trento, Assisi 1991, pp. 220, € 10,08. Arnaldo Fortini nel Centenario della nascita ( 1889-1989), [a cura di F. SANTUCCI], «Atti Accademia Properziana del Subasio», Serie VI, n. 18, Assisi 1990, pp. 352, € 23,24. «Atti Accademia Properziana del Subasio», Serie VI, n. 19, Assisi 1991, pp. 284, € 20,66. La favolistica latina in distici elegiaci (Atti del Convegno Internazionale, Assisi, 26-28 ottobre 1990), a cura di G. CATANZARO e F. SANTUCCI, Assisi 1991, pp. 248, € 25,82. Assisi nell’età del Barocco, a cura di A. GROHMANN, Assisi 1992, pp. 424, € 38,73. La poesia cristiana latina in distici elegiaci (Atti del Convegno internazionale, Assisi, 20-22 marzo 1992), a cura di G. CATANZARO e F. SANTUCCI, Assisi 1993, pp. 336, € 30,99. «Atti Accademia Properziana del Subasio», Serie VI, n. 20, Assisi, Tipografia Porziuncola, 1992, pp. 352, € 25,82. «Atti Accademia Properziana del Subasio», Serie VI, n. 21, Assisi 1993, pp. 256, € 25,82. Presenza clariana nella storia di Assisi, a cura di F. SANTUCCI, Assisi 1994, pp. 246, € 25,82. F. SANTUCCI, Assisi 1943-1944. Documenti per una storia, Assisi 1994, pp. 316, € 25,82. E. GENOVESI, Le grottesche della «Volta Pinta» in Assisi, «Quaderno» n. 1, Assisi 1995, pp. 100 ill., € 15,49. «Atti Accademia Properziana del Subasio», Serie VI, n. 22, Assisi 1994, pp. 320, € 25,85. «Atti Accademia Properziana del Subasio in Assisi», voll. I-II-III (1895-1916), pp. XVI + 384 + 438 + 488 (ristampa anastatica), [a cura di G. CATANZARO e F. SANTUCCI], Assisi 1995, € 30,99 a volume. M. BUONOCORE, Properzio nei codici della Biblioteca Apostolica Vaticana, prefazione di P. FEDELI, ed. a cura di G. CATANZARO, Assisi 1995, pp. 144, tavv., € 25,82. F. GUARINO – P. TEDESCHI, L’Archivio della Società Mandamentale di Tiro a Segno Nazionale di Assisi (1883-1927). Note storico-istituzionali e inventario, «Quaderno» n. 2, Assisi 1995, pp. 76, € 10,33. Commentatori e traduttori di Properzio dall’Umanesimo al Lachmann (Atti del Convegno Internazionale, Assisi, 28-30 ottobre 1994), a cura di G. CATANZARO e F. SANTUCCI, Assisi 1996, pp. 406, € 30,99. Accademia Properziana del Subasio, Assisi, Patrimonio storico-artistico, a cura di G. CATANZARO e G. ZANOTTI, Assisi 1996, pp. 280, € 30,99. Assisi al tempo di Federico II, a cura di F. SANTUCCI, «Atti Accademia Properziana del Subasio», Serie VI, n. 23, Assisi 1996, pp. 248, ill., tavv., € 30,99. N. D’ACUNTO, Vescovi e Canonici ad Assisi nella prima metà del sec. 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