Ubaldo Baldi
Prima che altro silenzio
entri negli occhi
Storie di Salernitani
dall’Antifascismo alla Resistenza:
Perseguitati, Partigiani, Ribelli
e combattenti per la Liberazione
Quaderni dell’Istituto “Galante Oliva”
n. 1 - Aprile 2010
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Ringraziamenti
Desidero esprimere la mia gratitudine a tutti coloro - e a elencarli tutti,
come si dice in questi casi, rischierei di dimenticarne qualcuno a torto che ho coinvolto per rendere possibile questo mio lavoro. In questi tre
anni ho ricevuto il gentile e spesso appassionato supporto di tante persone
in Campania, in Piemonte, in Veneto, nel Lazio, in Toscana, in Emilia, in
Lombardia, ecc. Un ringraziamento particolare devo però agli amici Elia,
Giuseppe e Donato che mi hanno sempre supportato con professionalità e
pazienza. A tutti veramente ancora grazie.
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Alle donne e agli uomini
dell’Antifascismo salernitano
di ieri e di oggi.
Ora e sempre.
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4
Colore di pioggia e di ferro
Dicevi: morte, silenzio, solitudine;
come amore, vita, Parole
delle nostre provvisorie immagini.
E il vento s’è levato leggero ogni mattina
e il tempo colore di pioggia e di ferro
è passato sulle pietre,
sul nostro chiuso ronzio di maledetti.
Ancora la verità è lontana.
E dimmi, uomo spaccato sulla croce,
e tu dalle mani grosse di sangue,
come risponderò a quelli che domandano?
Ora, ora: prima che altro silenzio
entri negli occhi, prima che altro vento
salga e altra ruggine fiorisca.
(Salvatore Quasimodo da La vita non è sogno, 1946-1948)
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PREFAZIONE
Già ad apertura di libro si capisce che la ricerca di Ubaldo Baldi, pur richiamandosi ai saggi e ai benemeriti contributi di Tonino
Masullo e Pietro Laveglia sull’Antifascismo salernitano, ne innova,
tuttavia, in modo anche radicale, non solo il metodo (più rigoroso e
sistematico), ma anche i contenuti. Baldi, pur non essendo storico
di mestiere, ha lavorato utilizzando alcuni degli strumenti, per così
dire, «classici», della ricerca storica: la verifica delle fonti già utilizzate, l’ampliamento dei materiali con ulteriori fonti e documenti,
il puntuale riscontro incrociato delle diverse fonti, la pignola, e pur
necessaria, verifica dei dati cronologici. Il racconto di Baldi ha inoltre un ulteriore pregio: quello di oltrepassare il livello aneddotico
e biografico (senza per questo trascurarlo) e di inserire i fatti e gli
eventi di tanti singoli individui in uno spazio-tempo non limitato
agli anni di guerra, ma dilatato fino a contenere le origini «eroiche»
del socialismo e del sindacalismo salernitano e l’avvento della dittatura fascista.
L’altro tratto distintivo del volume di Baldi sta, indubbiamente,
nel legame che egli esibisce fin da subito, tra la ricerca storica e le
passioni civili. Le storie di antifascisti, prigionieri, deportati, militari che non tradirono il giuramento di fedeltà, diventano i tasselli
di una storia che non è solo quella dei nudi fatti, ma anche e soprattutto delle idee, di un forte sentimento etico, di una concezione
della politica che seppe spingere e raccogliere dallo stesso lato della
barricata giovani operai e professionisti, contadini e intellettuali,
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studenti e militari. Le storie individuali descritte da Baldi, così, si
inseriscono tutte in una scelta di fondo, morale politica e istituzionale, che fu la scelta antifascista, ma anche la scelta di ben 650.000
militari italiani che preferirono i campi di lavoro e i lager all’offerta
di passare nel campo nazifascista. È quella che – sulla scorta delle
ricerche di Rochat – è stata definita la «fedeltà alle stellette». Ma
vi fu anche una fedeltà alle proprie idee, una coerenza tra vecchio e
nuovo antifascismo che si saldarono nel movimento di liberazione
nazionale dopo l’8 settembre 1943. E vi fu, infine, il riverberarsi
degli ideali e dei principi della democrazia antifascista sugli avvenimenti politico-costituzionali dell’Italia repubblicana.
Così, accanto a importanti capitoli che ricostruiscono le cruciali
giornate del settembre del 1943 e il passaggio del fronte a Salerno
(con episodi di limpido eroismo come quello del Gen. Gonzaga trucidato dai tedeschi e con lui quello delle altre medaglie d’oro salernitane assegnate alla memoria dei generali Martelli Castaldi e Lordi
e del maggiore Giudice; o di resistenza di gruppi e individui a Roccadaspide, Altavilla, Olevano, Acerno dove agiva un gruppo armato
e organizzato di resistenza, Salerno, con gli eroici comportamenti di ufficiali e sottufficiali dei carabinieri come Telesca e Iaconis,
Cava con il sublime ed estremo sacrificio del maggiore Pasquale
Capone, la Valle dell’Irno con la fucilazione dei carabinieri fratelli
Giovanni e Alessandro Napoli) vi è anche la puntuale ricostruzione
di quella che fu una vera e propria risposta armata e organizzata
alle rappresaglie e agli eccidi dei nazisti. In questo contesto il libro
racconta gli episodi di resistenza a Montoro Superiore, a Quindici
con la banda Graziano, a Sarno (dove si registra la presenza di una
donna partigiano, Maria Chirico), a Scafati (con l’attiva presenza
della banda Nappi o Brigata 28 settembre e la famosa battaglia del
ponte). L’esempio di Scafati costituisce forse la migliore testimonianza del metodo di lavoro adottato da Baldi: la ricerca delle radici
culturali e politiche (furono molti gli scafatesi che ebbero a che
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fare con il Tribunale Speciale e ve ne furono alcuni che andarono a
combattere in Spagna con le Brigate Internazionali), delle ragioni
sociali ed economiche che avevano fatto di Scafati uno dei terreni
più politicamente e socialmente disponibili a far scattare la molla
della ribellione antifascista.
Baldi però è andato più a fondo nell’indagine ed ha ricostruito la
partecipazione e il ruolo dei salernitani nella resistenza nazionale,
innanzitutto in Piemonte, là dove operarono i gruppi della disciolta IV Armata. Grazie a una indagine svolta negli archivi dell’Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza, Baldi ha elencato
i partigiani combattenti nati nel salernitano (269) e quelli caduti
(23). Di alcuni di essi Baldi ha dato precise schede informative biobibliografiche liberandoli in tal modo dal polveroso oblio di archivi
e biblioteche. È ancora il caso, oltre di quelli già elencati, dei salernitani che operarono in altre zone d’Italia: di Quintino Di Vona
l’eroico professore originario di Buccino, torturato e fucilato nella
piazza di Inzago, di Lorenzo Fava, di Ugo Stanzione, Eduardo Cucci, Max Casaburi e tanti altri. Ma i salernitani diedero il loro contributo alla Resistenza anche all’estero: in Francia, Albania, Grecia e
Jugoslavia. Anche a tal proposito si utilizza il fondato e sperimentato metodo dell’analisi generale del contesto delle situazioni militari
e politiche in Grecia e nelle isole greche – è il caso di Cefalonia e
Corfù -. e delle storie individuali di singoli partigiani. Così vi furono divisioni come la «Venezia» e la «Taurinense» che passarono a
combattere con i partigiani jugoslavi e si costituì la divisione «Garibaldi» una delle formazioni partigiane italiane più famose
La «Storia» di Baldi si conclude con una rapida analisi di quelli
che furono gli effetti degli ideali di nuova solidarietà sociale, di un
diverso modo di guardare ai problemi del lavoro, della terra, della
questione meridionale, che si erano sprigionati con la resistenza. Le
conseguenze della drammatica crisi dopo i lutti e le devastazioni
della guerra, di una crisi che veniva a sovrapporsi a quella eco9
nomica e sociale prodotta dalla politica del regime negli anni’30,
si fecero drammaticamente sentire nell’esplodere delle lotte sociali
in Campania già a partire dal luglio del 1943. A Calitri, in Irpinia,
i contadini in lotta proclamarono una repubblica indipendente, tra
ottobre e dicembre del 1943 vi furono rivolte contadine e popolari
nel salernitano a Caggiano e a Montesano sulla Marcellana, dove
furono ben 8 i manifestanti uccisi dalla polizia. Ma è Sanza, un
paesino del Cilento, che fu lo scenario di un’originale esperienza
di autogoverno popolare con Tommaso Ciorciari, a rappresentare
l’emblema di un malessere sociale che era caratterizzato dall’eredità delle vecchie lotte contadine dell’800 e da una interpretazione
radicalmente libertaria e comunista del processo di liberazione. Al
culmine della analisi dei primi anni del dopoguerra si pone la storia
del formarsi e del riformarsi delle nuove organizzazione politiche e
sindacali della sinistra a Salerno e, ancora una volta, le storie delle
strutture si intrecciano con e storie degli uomini e dei militanti come
Danilo Mannucci ed Ettore Bielli. Infine, quasi a dare il suggello
ideale all’intera ricerca, si ricostruisce nell’ultima parte il lavoro
svolto dall’Anpi di Salerno a favore dei partigiani: la traslazione
delle salme dei caduti, i vari convegni per celebrare e ricordare la
Resistenza, le lapidi, i censimenti dei caduti e il riconoscimento
della qualifica di combattente.
Baldi affida la conclusione del suo libro a una piccola immagine
fotografica sbiadita dal tempo: sono due giovani amici che militano
in gruppi di Giustizia e Libertà e che furono fucilati nel febbraio
del 1945. L’immagine di una amicizia, di un sentimento possente
e capace di unire in una istantanea destini comuni, ideali vissuti
in simbiosi, il sorriso di una gioventù che sarebbe stata spento dal
piombo repubblichino. Ma, osserva giustamente Baldi, la foto è la
metafora di una memoria che può, deve sempre più diventare patrimonio collettivo di una comunità.
In questo senso, allora, la memoria non deve ridursi a un atteggia10
mento di statica conservazione del ricordo. Ben vengano i musei, le
mostre, i mausolei, i libri e le ricerche storiche. Ma guai se tutto ciò
non fosse accompagnato da un uso dinamico della memoria, dalla
finalizzazione, per così dire, del ricordo storico alla costruzione di
un atteggiamento etico contro i fascismi di ieri e di oggi, contro i
populismi leaderistici di ieri e di oggi, contro le disuguaglianze,
contro l’annichilimento dell’altro, contro le discriminazioni razziali
e religiose, un atteggiamento che deve diventare patrimonio di tutti
e specialmente delle nuove generazioni. La memoria è innanzitutto
un diritto/dovere individuale, è la capacità del singolo individuo di
dare senso e continuità alla sua esperienza del tempo, tanto nelle
sue coordinate interiori quanto nelle sue proiezioni esterne, ma essa
può e deve diventare pratica collettiva. È la forma della memoria
condivisa, memoria di valori comuni (la memoria delle lotte per la
democrazia, la memoria delle sofferenze e delle violenze subite in
nome di ideologie aberranti, la memoria degli stermini e dei genocidi). Se così non fosse, se la memoria non diventasse collettiva e
sempre di nuovo trasmissibile, se fosse affidata solo ai viventi e alle
loro esperienze di vita, se non si trasformasse in memoria culturale
(la memoria degli archivi, dei documenti, dei musei, dei libri di
storia, dei data base mediatici), l’oblio diventerebbe inarrestabile.
Proprio per questo bisogna esser grati a lavori come questo di Ubaldo Baldi, un ulteriore tassello di memoria storica da preservare e da
far conoscere.
Giuseppe Cacciatore
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PRESENTAZIONE
Quando nell’aprile del 2009 con Luca Pastore e Anna D’Ascenzio
scendevamo le scale della sede dell’Anpi di Napoli con i pacchi dei
fascicoli dell’Archivio dell’Anpi di Salerno per riportarli nella nostra sede, la concretezza del peso di quei pacchi e di quelle scatole
ci diede la sensazione quasi fisica di prendere dalle mani dei partigiani e dei patrioti salernitani il testimone della loro lotta. Ubaldo
Baldi, con la sua analisi storica accurata e puntigliosa, ma che non
mortifica mai la grande carica di umanità che era rimasta nascosta
in quelle carte, ha ridato luce a quelle lotte e ci ha mostrato che
furono esattamente quelle lotte e quella ribellione alla prepotenza
e all’ignoranza che diedero dignità alla vita e al sacrificio di tanti
uomini e donne della nostra terra.
L’Archivio Anpi di Salerno non è la sola fonte cui ha attinto
Baldi nel suo lavoro. La sua ricerca è stata ampia e si è avvalsa
di numerose testimonianze documentali appartenenti a un ampio
spettro di archivi storici. Tuttavia, questo suo studio, al di là dei
fatti che illustra, ha un merito aggiunto che è appunto quello della
«scoperta» dell’Archivio di Salerno. E’ questo infatti il primo studio storico in assoluto che fa ricorso a quella «carte» che furono
trasferite a Napoli quando l’Anpi di Salerno chiuse la sua attività
con la scomparsa dei partigiani che gli avevano dato vita. Il fatto
che Ettore Bonavolta, Presidente del Comitato provinciale Anpi di
Napoli, si preoccupò di portare quei fascicoli a Napoli, e che i partigiani napoletani ne abbiano curato gelosamente la conservazione
per lunghi anni, denota la grande statura morale dell’Associazione
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dei Partigiani e la sua profonda coscienza del valore della Storia
(perché qui Baldi ci mostra che si tratta di memoria che si è fatta
Storia, cioè, come egli stesso ci dice nella nota introduttiva al libro,
radice etico-politica del nostro presente).
In un’affollata assemblea all’Università di Salerno, dopo i fatti di Genova del G8 (c’erano anche la madre e il padre di Carlo
Giuliani) rivelai nel mio intervento che mi ero iscritto all’Anpi e
non pensavo che quella «confessione» avrebbe indotto studenti e
colleghi a chiedermi di iscriversi anche loro all’Associazione dei
Partigiani. Fu così che dopo un po’ di tempo, quando il numero
di tessere fu sufficiente, il 3 giugno del 2004, ci riunimmo alle 19
nei locali dell’ex municipio di Salerno in via Canali per ricostituire il Comitato provinciale dell’Anpi di Salerno. Alla riunione
partecipò Ettore Bonavolta, per l’Anpi di Napoli, e l’Assessore
Francesco Mari dell’Amministrazione del Comune di Salerno. Ubaldo Baldi, che con la sua ricerca ripercorre in modo così vivido
e al tempo stesso rigoroso la storia dei nostri partigiani e con essa
dell’Anpi di Salerno, mi fa sentire tutta la responsabilità di cui mi
sono caricato per aver innescato la rinascita del Comitato provinciale dell’Associazione.
In questi tempi bui di prepotente violazione delle più elementari regole di convivenza civile, prima ancora che di democrazia,
chiederò al Presidente della nostra Provincia di promuovere la distribuzione di questo libro nelle scuole. Ce n’è veramente bisogno,
«prima che altro silenzio entri negli occhi».
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Peppino Vitiello
INTRODUZIONE
Questo lavoro ha l’ambizione di inserirsi nel filone storiografico
che ha studiato il contributo dato dai salernitani all’Antifascismo,
alla Resistenza e alla Liberazione ed essenzialmente rappresentato
dai volumi - di seguito ampiamente citati - di Tonino Masullo e di
Pietro Laveglia, volendone costituire quindi una logica prosecuzione.
Rispetto a fatti collettivi o storie personali inevitabilmente già
descritte contiene nondimeno alcune innovazioni: in modo particolare sul versante metodologico si è cercato di ampliare le fonti di
ricerca e di essere quanto più precisi possibile - spesso incrociando
dati provenienti da varie documentazioni - soprattutto per quel che
riguarda gli elenchi dei caduti, le loro schede biografiche e una più
puntuale cronologia degli eventi; si è cercato altresì di ampliare sia
la descrizione «ambientale» che l’inquadramento dei contesti storico-politici – in Italia o all’estero - dove maggiore fu la presenza dei
salernitani che scelsero di combattere nella Resistenza. Tutto questo
legandolo anche a storie personali e al loro inevitabile riverbero
sugli assetti più complessivi delle dinamiche sociali.
Rappresenta inoltre il tentativo di narrare una vicenda che si dispiega lungo l’arco dei primi 50 anni dello scorso secolo, compiendo lo sforzo di ordinare - con un nesso coerentemente capace di
soddisfare i parametri temporo/spaziali - una serie di avvenimenti
storici legati fra loro da un unico filo rosso, che nel dipanarsi delle
vicende personali o collettive, diventava di volta in volta più sottile
o più robusto, senza tuttavia mai interrompersi.
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Si è così delineata una appassionante storia di storie di passioni
civili.
La stessa passione che legava i primi militanti all’idea di riscatto
civile e di socialismo, la ritroviamo in chi seppe tenere viva anche sotto il giogo della violenta dittatura del fascismo la speranza
di libertà e l’idea di democrazia, in chi nel disgregarsi dello stato
monarchico asservito al fascismo e alle sue guerre seppe schierarsi, pressoché inerme, contro un esercito potente e spietato a difesa
della propria terra, dei valori di libertà e indipendenza nazionale. Ed
è ancora la stessa passione che rintracciamo in chi anche all’estero,
spesso in contrasto con l’ignavia degli alti comandi militari non si
sottomise alle imposizioni degli ex alleati tedeschi e affrontò per
questo la loro feroce repressione. Quello che ancora oggi colpisce
dunque è la capacità da parte di molti giovani di allora (la generazione del 1919-24), «generazione ribelle» come l’ha definita Mario
Avagliano1, nella più parte dei casi di estrazione proletaria e semianalfabeta, a non avere esitazioni e scegliere di schierarsi ben sapendo che da quella scelta sarebbero derivate conseguenze gravi
e rischiose. Anche se non impegnati direttamente nelle fila della
Resistenza armata – all’estero come in Italia- furono molti i giovani
militari e non, che rifiutarono di arruolarsi nelle fila della RSI o di
sottostare alle umilianti imposizioni dei tedeschi e che affrontarono
la deportazione o spesso il plotone d’esecuzione più o meno sommaria.
E in questa «scelta» possiamo rintracciare alcune ben definite
tipologie di motivazioni: una, quella più istintiva, immediata e che
Rochat definisce, la «fedeltà alle stellette», e che secondo lo storico
«...fu la motivazione più comune e diretta della grande maggioranza dei 650.000 militari italiani che preferirono la prigionia nei
lager tedeschi al passaggio dalla parte nazifascista...»; la seconda,
che possiamo definire della «rivincita», maggiormente espressa dagli antifascisti di epoca pre-dittatoriale che, quando cominciò a in1 M. Avagliano, Generazione ribelle, Einaudi, Torino 2006
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crinarsi il regime fascista, seppe uscire allo scoperto e porsi a capo
di manifestazioni e lotte che poi confluiranno nel più grande filone
della lotta di Resistenza e di Liberazione nazionale; ma c’è anche
una terza motivazione, più politica, se vogliamo anche più ideologica, quella di chi intravide e con lungimiranza, la possibilità che
con questa scelta si potesse arrivare alla costruzione di un mondo
nuovo: di modificare l’esistente, di cambiare radicalmente i rapporti sociali, economici e di potere della società prebellica.
Tutte queste diverse motivazioni confluiranno nel vortice unico
del fenomeno resistenziale italiano e meritano – oggi a distanza di
tanti anni – uguale rispetto e capacità di comprensione e di riconoscenza.
Abbiamo articolato un percorso su due binari, il primo è quello
della memoria affinché il ricordo delle esperienze di vita, i valori
e la cultura espresse anche in singole persone – magari ritenuti di
secondario livello - non andassero persi ma al contrario ritrovati
e rinvigoriti nella considerazione del valore delle loro scelte esistenziali. Il secondo è quello della conoscenza, in modo che tutto
questo potesse essere trasformato in documentazione offerta alla
comprensione, allo studio, all’approfondimento di quanti ne fossero
in qualche modo interessati sia per motivi professionali ma anche
per semplice volontà di apprendimento.
Un altro aspetto che abbiamo privilegiato è stato il voler partire
da una ricerca diretta delle fonti – la documentazione esistente negli archivi ma anche acquisendone di nuova – a cui attingere per la
narrazione di molte delle storie e delle vicende riportate.
Determinata è stata la nostra necessità di mantenere vigile l’attenzione sul senso della storia, quel senso che da qualche tempo si
cerca di «deviare», in qualche caso di «capovolgere» o di «negare»:
il dovere di non dimenticare è imprescindibile per chi anche per
sola passione o interesse «culturale» ha avuto accesso allo studio
delle carte, degli archivi, dei documenti relativi a quelle vicende.
Alle nuove generazioni è stata in massima parte negata la conoscenza di molti di quegli avvenimenti: episodi di lotta, di «ostina17
to rigore», di lacrime e sangue, accantonati spesso con dispregio,
perché non funzionali alla storia delle classi dominanti. Così come
il fenomeno resistenziale è stato catalogato come marginale a una
«normale» guerra di eserciti, altrettanto a livello locale si è subito
richiuso il velo dell’oblio su una Resistenza salernitana attiva sia
localmente -durante il settembre ’43- ma anche, e in maniera numericamente non marginale, in Italia e nei Balcani.
Sono state queste motivazioni a costituire il presupposto del percorso a ritroso che abbiamo voluto compiere come memoria storica,
intesa come ricerca attiva delle radici etico-politiche del nostro presente. Affinchè – pur a distanza di tanti anni - fosse mantenuta viva
la memoria di molti nostri conterranei che in Italia o all’estero hanno preso parte alla Resistenza e alla Guerra di Liberazione: PRIMA
CHE ALTRO SILENZIO ENTRI NEGLI OCCHI.
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CAPITOLO 1
La crisi dell’antifascismo salernitano
Gli schieramenti politici moderati -essenzialmente costituiti da
quelli facenti capo alla componente liberal-democratica di origine
amendoliana e a quella più strettamente cattolico-popolare - preesistenti al dilagare del fascismo nel salernitano, che qui si afferma
sicuramente dopo la marcia su Roma, seppero mantenere comunque un atteggiamento antifascista anche durante la massima espansione del regime. Furono però costretti a fare i conti con le pesanti
conseguenze subite dai loro militanti, dovute alle violenze grazie
alle quali il nuovo sistema politico si andava affermando nei gangli
vitali dello stato nazionale e locale. Molti di loro furono indotti a
comportamenti più «prudenti», tanto che in particolare i militanti
cattolici del Partito Popolare, finirono con l’aderire pressoché totalmente al fascismo, ad eccezione di rari ed isolati casi1.
Anche le formazioni politiche della sinistra salernitana, nonostante una ampia e radicata tradizione del Movimento operaio e
contadino in svariate zone della provincia, patirono i colpi della
repressione fascista che si abbatté sistematicamente - nel periodo
che va dal 1922 al ’26 - sia sui singoli militanti che sulle loro sedi
e organizzazioni2.
Questo comportò il dover subire sulla propria pelle tutta una serie di violente vessazioni che causarono patimenti fisici e morali
non indifferenti, fino ad arrivare al totale sconvolgimento della vita
sia personale che familiare, il che mise a dura prova sia la loro fe1 P. Laveglia, Fascismo antifascismo e resistenza nel salernitano, ESI 1978, p. 341
2 U. Baldi, Tra fascismo e antifascismo in http://www.igo900.org/res/DOC/
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deltà ad una «idea» sia nel concreto del quotidiano, la loro sopravvivenza materiale.
Esplicative al proposito appaiono alcune storie di militanti e dirigenti del movimento operaio e antifascista:
GIUSEPPE VICEDOMINI: nato a Nocera Inferiore nel 1879, pur
provenendo da famiglia modesta - il padre era un artigiano bottaio
- compì gli studi fino al ginnasio presso il locale seminario. Negli
anni successivi si dedica al lavoro sindacale nella locale Società
Operaia dei mugnai e dei pastai fino a trasformarla nel 1902 in
Camera del Lavoro e diventandone così il primo segretario. La sua
azione sindacale e politica è vigorosa, organizzando e dirigendo gli
scioperi dei pastai nel 1902, 1903, 1906. Continuò la sua azione
politico-sindacale anche con gli operai dello stabilimento tessile
della Aselmeyer, fondando la lega dei cotonieri che in 900 si iscrissero alla CdL. Fondò anche la locale sezione del Partito Socialista
lavorando di concerto con la Direzione del partito di Napoli e con
i segretari delle Camere del Lavoro di Torre Annunziata, Salerno e
Napoli. Nel 1912 la Direzione del Partito Socialista lo inviò a dirigere alcune Camere del Lavoro dell’Italia centromeridionale (Mirandola, Ancona, Ferrara). Nel ’14 ritorna a Nocera, riprendendo
il suo ruolo di dirigente, e nel primo dopoguerra si allontana dalla
corrente del sindacalismo rivoluzionario avvicinandosi a quella riformista. Come esponente di questa corrente riformista fu Sindaco
a Nocera di una maggioranza socialista che si era affermata alle
elezioni amministrative del 1920. L’avvento del fascismo lo costrinse alla clandestinità e nel 1926 fu condannato in contumacia
al confino per due anni. Per sfuggire ai fascisti locali e per evitare
il confino fu costretto ad allontanarsi da Nocera portando con sé
l’intera famiglia (erano a suo carico i vecchi genitori, la moglie e
otto figli). La sua vicenda umana si conclude tristemente: al suo
ritorno a Nocera per sopravvivere fu costretto ad ammorbidire il
suo antifascismo. Ma gli ideali antifascisti furono riscattati dal fi20
glio Raffaele, che ritroviamo valoroso combattente della guerra di
Spagna3.
MICHELE FELESE: nato a Salerno il 11 giugno 1898, di professione manovale e residente nel centro operaio di Fratte. Combattente
della prima guerra mondiale dove riporta anche una ferita al capo.
Un rapporto prefettizio dell’Ufficio Provinciale di P.S. del 1927 lo
definisce un pericoloso comunista e Ardito del Popolo. Sempre nei
rapporti di polizia viene descritto come di statura media, corporatura esile, pallido, capelli castano chiari, baffi rasi e naso rettilineo.
Della sua breve attività politica troviamo tre importanti riscontri:
- nell’aprile del 1924 le elezioni politiche erano avvenute in un
clima di estesa violenza fascista in città e in provincia. Dirigenti
ed attivisti di sinistra erano impossibilitati a raggiungere i seggi e
gli elettori perché i portoni delle loro abitazioni erano presidiati da
fascisti armati. I due soli rappresentanti di lista che erano riusciti a
rimanere nei seggi — Luigi Rarità al Seminario e Michele Felese a
Fratte — ne furono allontanati con la forza al momento dello scrutinio. Sempre dai rapporti di polizia è segnalato perché sorpreso a
cantare canzoni sovversive per le vie di Fratte;
- il primo maggio del 1925 è arrestato assieme agli altri dirigenti e
militanti di sinistra;
- nella notte tra il 20 e 21 aprile del 1926 alcune camicie nere della M.V.S.N. in servizio di vigilanza per l’occasione del Natale di
Roma, lo riconobbero come uno dei quattro individui intenti ad affiggere volantini incitanti «... alla rivoluzione sociale ed all’odio di
classe...». Il giorno dopo fu rintracciato e tratto in arresto. Per tale
reato fu in Corte d’Assise condannato a cinque mesi di detenzione e
L. 500 di multa. Ma il 27 novembre dello stesso anno, fu assegnato
al confino poi commutato in ammonizione dalla Commissione di
Appello.
Costantemente e attentamente vigilato, disoccupato – in una sua
istanza alla Commissione Centrale per i ricorsi, fa presente che nonostante la Legge Labriola avesse previsto una riserva di posti per
i mutilati di guerra, non riusciva a trovare lavoro – con il carico
3 I. Poerio – V. Sapere, Vento del Sud, Ed. Scirocco 2007, p. 252
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delle sue ferite di guerra (circa trenta cicatrici, più fratture, perdita
della vista all’occhio destro, quasi totale inabilità al braccio destro
e gli esiti della frattura cranica). Persi i contatti con gli altri antifascisti, lentamente si allontana dall’attiva militanza antifascista. In
un rapporto della Prefettura di Salerno del 18.3.1941 è riferito che
il Felese «... dal dicembre del 1937, data in cui venne prosciolto dai
vincoli dell’ammonizione per atto di clemenza del Duce, non ha
dato luogo ad ulteriori rilievi sul suo comportamento in genere. È
disoccupato e vive in condizioni di grave disagio economico. Viene
attentamente vigilato...».
NICOLA FIORE: originario di Marigliano, si era stabilito a Salerno per dissidi insorti con la Federazione Socialista di Napoli. È a
Salerno che attua la riorganizzazione della Camera del Lavoro della quale assume la carica di segretario nel 1914. La Grande Guerra
ne interrompe l’attività ma a marzo del 1919 egli torna a Salerno e
riprende sia le pubblicazioni del giornale «Il Lavoratore», sia una
intensa e febbrile attività politica e sindacale che gli consente di
cominciare ad avere un seguito personale sempre più ampio. Nel
novembre 1919, in occasione delle elezioni politiche, Fiore aderisce ad una lista indipendente alternativa a quella ufficiale del Partito Socialista; la lista di Fiore si assicura un consistente successo
nella Valle dell’Irno, dovuto sia al suo carisma individuale che al
notevole lavoro politico-sindacale svolto su temi concreti quali la
riduzione dell’orario di lavoro, la difesa dei salari e la lotta contro
il carovita.
Fiore intensifica il suo impegno e organizza sempre più larghi strati
di lavoratori, sia tra gli operai delle Manifatture Cotoniere di Fratte
che tra i metallurgici della fonderia Pisani, conquistando seguito
anche presso altri settori proletari quali i ferrovieri, pastai, mugnai,
edili. A gennaio del 1920 è lui ad organizzare a Salerno uno sciopero
di otto giorni dei postelegrafonici; era inoltre previsto uno sciopero
nazionale dei ferrovieri per il seguente 21 gennaio. A questo punto
il governo Nitti, preoccupato di evitare una possibile propagazione
di agitazioni anche nel settore dell’amministrazione statale, decise
di intervenire pesantemente scatenando l’apparato repressivo, che
si concretizza con l’arresto di alcuni dirigenti del sindacato ferrovieri, della CdL e naturalmente del segretario Fiore.
22
Il processo non si tenne a Salerno per motivi di «ordine pubblico»,
fu trasferito a Napoli e si svolse solo ad agosto. Fiore fu condannato a 6 mesi (già scontati) ma non fu liberato perché sul suo capo
pendevano altre imputazioni (offese al Re, istigazione a delinquere,
ecc).
Grazie alla sua capacità di azione politica, associata ad un eccezionale carisma aveva saputo conquistarsi l’adorazione dei proletari
salernitani – sugli organi di stampa locali si parlò addirittura di fiorismo - fino a divenirne leader incontrastato. Tutto questo ingenerò
negli organi repressivi delle Stato (prima nittiano e poi fascista) una
vera e propria costanza persecutoria che fu favorita anche dalla volontà di isolamento cui era sottoposto dai vertici della Camera del
Lavoro per i suoi contrasti con il gruppo socialista moderato. Fiore
subì oltre ai numerosi processi giudiziari, arresti, lunghi periodi di
detenzione e confino, anche diverse aggressioni fisiche violente.
In una di queste, nel giugno del ’22, fu ferito con un coltello ad
una gamba le cui conseguenze lo resero permanentemente zoppo.
Grazie alle continue persecuzioni e agli scioperi della fame cui fu
costretto a ricorrere nei lunghi periodi di carcere, si ammalò di tubercolosi e ne morì nel 1934.
Il «colpo di coda» dei movimenti antifascisti
Il fascismo dilaga a Salerno e provincia dal ’22 al ’24, solo la
FIOT– il sindacato tessile della CGIL- nel 1924 riesce ancora a portare gli operai allo sciopero a difesa dell’occupazione nelle MCM.
Sull’onda di questo sciopero, una delle ultime occasioni di opposizione politica organizzata all’imperversante regime è costituita
dalla ricorrenza del Primo Maggio 1925: sarà il «colpo di coda» dei
movimenti antifascisti.
Per quella data infatti a Salerno ed in provincia, comunisti, socialisti e antifascisti, danno luogo ad una estesa e organizzata clandestinamente azione di propaganda antifascista. L’iniziativa unitaria è articolata attraverso la diffusione di volantini4 e l’affissione
di manifesti. Volantini furono distribuiti presso le fabbriche, alla
4 vedi copia del volantino originale gentilmente fornita dal prof. Giuseppe Cacciatore
23
stazione ferroviaria, ai giardini pubblici, nei teatri. Ma la polizia fascista, basandosi su una rete di informatori prezzolati, si prodigherà
in una controffensiva repressiva altrettanto ampia e che comporterà
una trentina di fermi e di arresti.
L’antifascismo salernitano quindi già indebolito dal dilagare
dello squadrismo e dalla espansione del fascismo nelle istituzioni, sarà in pratica annientato, almeno nelle sue forme organizzate,
dall’istituzione dei tribunali speciali5 del ’26 e con le prime condanne ai suoi esponenti6.
Isolate e spesso singole forme di opposizione resistono in clandestinità e tra coloro costretti all’esilio; vale per tutti l’esempio della
non certo trascurabile schiera di antifascisti salernitani che parteciparono alla guerra di Spagna nelle fila dell’esercito repubblicano7.
Certo è che questi pochi indomabili formeranno quella trama
sottile ma tenace della opposizione ad un sistema totalizzante, ra5 Il Tribunale Speciale costituì la massima espressione dell’apparato repressivo del fascismo che diventava regime. Istituito nel novembre 1926 con la legge n. 2008 del Consiglio dei
Ministri, che prevedeva anche la pena di morte, era territorialmente unico per tutto il regno
e aveva sede a Roma nella famigerata aula IV. Riportiamo i numeri di coloro che, tra il ’26
e il ’43 furono deferiti al T.S.: 15806 antifascisti, di questi oltre l’80% fu inviato al confino,
mentre gli «ammoniti» o sottoposti a «vigilanza speciale» furono 160.000 (De Luna, Donne
in oggetto cit., p. 17).
Altro strumento di controllo repressivo fu la riorganizzazione del Casellario Politico Centrale: che permetteva così sia un controllo continuo del singolo ma anche una misura quantitativa dei «sovversivi», siano stati essi confinati, ammoniti, diffidati o comunque oggetto
di speciale attenzione.
Questi strumenti repressivi, associati ad un abile sfruttamento delle spie - i cosiddetti «fiduciari», o infiltrati ad hoc nel movimento o persone che incappate nelle maglie della polizia
venivano indotte a «rientrare» nelle organizzazioni di partito da cui provenivano e svolgere
opera di delazione – hanno comportato, anche volendo considerare il solo dato numerico,
un crollo degli iscritti ai partiti e alle organizzazioni sindacali antifasciste. È il 1927 «l’anno
terribile», le cifre riferentesi al solo Partito Comunista sono esplicative: i riconfermati nella
loro militanza sono poco meno di 6500 mentre in 23 province, soprattutto in quelle meridionali e insulari, i militanti sono «dispersi» (P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano,
Einaudi 1969, Vol. II p. 96)
Il numero degli antifascisti salernitani inclusi nell’elenco del CPC in data successiva al
1922 risulta essere di 439. (A. Conte, Gli schedati salernitani al Casellario Politico Centrale, in «Rassegna Storica Salernitana», giu. 1992, p. 203)
6 Baldi, Tra fascismo e antifascismo cit.
7 G. Galzerano, Vincenzo Perrone, Ed. Galzerano 1999, p. 165 e sgg.
24
dicata nella realtà viva della società salernitana – così come avviene anche in quella nazionale8 – costituita dalle attività industriali
e agricole, dai quartieri popolari delle città e dai paesi dell’Agro
nocerino-sarnese, della Valle dell’Irno, dell’entroterra cilentano,
della piana del Sele e del Vallo di Diano.
Ma se l’ascesa del regime mussoliniano aveva determinato lo
scompaginamento delle strutture dei vecchi partiti antifascisti non
sarà tanto la sua caduta a luglio, ma solo gli avvenimenti susseguenti al settembre ’43, a favorire la ripresa delle fila di una rinnovata
capacità organizzativa con la costituzione a Salerno di un Comitato
provinciale di Liberazione Nazionale (C. p. L. N.)9.
8 G. De Luna, Donne in oggetto, Bollati Boringhieri, 1995, p. 26
9 M. Mazzetti, La ripresa politica, in «1944 Salerno Capitale», Ed. Cassa di Risparmio
Sal., 1984, p. 87
Laveglia, Fascismo antifascismo e resistenza cit., p. 348
25
CAPITOLO 2
Settembre 1943: il passaggio del fronte a Salerno
È indubbio e acclarato che, a Salerno come in Italia, la data cruciale che marca un svolta decisiva nel divenire degli eventi bellici
del secondo conflitto mondiale - e che inciderà non solo su questi - è
quella dell’armistizio.
E avvenimento cruciale si paleserà anche per i tanti giovani salernitani sotto le armi e sparpagliati sui vari fronti di guerra dell’Asse, registrando per tutti una svolta della vita non immaginabile fino
a poche ore prima, mentre per molti di loro segnerà invece un tragico destino di non ritorno.
Nel complesso della storia della città di Salerno e del proprio
territorio, quella sarà appunto una data speciale e memorabile: allo
scadere della mezzanotte inizia il trasbordo delle truppe alleate sui
mezzi da sbarco al largo del golfo di Salerno. Atteso il calare della luna, alle 3,30 del 9 settembre – il D day - le prime ondate dei
soldati della Va Armata, al comando del gen. Clark, cominciano a
riversarsi lungo l’arco di spiagge costiere da Paestum a Maiori: è
l’inizio dell’Operation Avalanche.
Lo Sbarco
In particolare il 9 settembre sbarcheranno a Paestum i soldati della 36ª Divisione di Fanteria americana al comando del gen.
Walker, della 34ª divisione Fanteria al comando del gen. Ryder; a
Pontecagnano gli inglesi della 46a divisione di fanteria al comado
del gen. Hawkesworth e della 56a divisione fanteria comandati dal
gen. Graham, ancora – quali forze speciali inquadrate nella 46a di26
visione- a Vietri i commandos del gen. Laycock e a Maiori i rangers
U.S. del tenente colonnello Darby1.
I tedeschi non si faranno trovare impreparati: già alle 15,40
dell’otto settembre, l’ordine di allerta Orkan era stato trasmesso a
tutte le unità della sedicesima divisione corazzata, e quell’ordine
lasciava poco spazio a dubbi. Ai soldati tedeschi infatti potevano
essere trasmessi tre tipologie di livelli d’allerta: «Wind» indicativo
di una piccola incursione nemica, «Sturm» che prevedeva un attacco di medio livello e «Orkan» (uragano) che invece indicava uno
sbarco importante2.
Il lancio dell’allerta Orkan preparava lo scontro della 16a Divisione corazzata Panzer, rinforzata da altre unità, con l’Avalanche
alleata!
Salerno era una città in parte e indirettamente preparata alla battaglia: molti dei suoi abitanti erano sfollati verso i paesi collinari
limitrofi, a partire dal 21 giugno quando c’era stato un devastante
bombardamento sulla città e su Battipaglia. Da allora l’aviazione
alleata aveva continuato i bombardamenti aerei con incursioni specialmente interessanti la direttrice che seguiva il percorso della linea ferroviaria da Battipaglia a Napoli. Salerno dall’11 al 29 agosto
subì sei incursioni con oltre 300 morti3.
Il sette luglio avviene uno dei più intensi bombardamenti a Nocera Inferiore in particolare al rione Pietraccetta; il 14 luglio a Napoli; il 12 agosto nuovamente interessata Nocera; il 19 e 20 agosto
Salerno, il 21 e 28 agosto Napoli e provincia, il 5 settembre nuovamente Napoli con una pesante incursione aerea4.
Fabbriche, depositi, caserme, ma anche capannoni, case, ponti
strade, tutto era bersaglio dei raid dei B25 e dei Wellington.
1 A. Pesce, Salerno 1943- Operation Avalanche, Ed. Cassa Risparmio Sal. 1996, p. 29 e
sgg.
2 H. Pond, Salerno!, Longanesi & C., 1966, p. 20
3 T. Masullo, Antifascismo, Resistenza e Guerra di Liberazione - il contributo del Salernitano, InterPress, 1999, p. 55
4 R. Vitolo, Diario di quei giorni - Il Risorgimento Nocerino del 28.9.2007, p. 3
27
L’otto settembre a Salerno vede già verificarsi un avvenimento che diventerà emblematico e primo di quello che sarebbe poi
stato un susseguirsi di episodi drammaticamente simili. A Buccoli
di Conforti tra Battipaglia e Eboli, era localizzato il comando della 222ª Divisione costiera italiana, comando affidato al generale
Ferrante Gonzaga, che - forse appena informato dell’armistizio- in
quelle ore ricevette un plotone di militari tedeschi al comando del
maggiore Alvensleben. Questi voleva disarmare gli ufficiali e il generale italiano, ma questi si rifiutò fermamente di consegnargli la
sua pistola d’ordinanza al grido di «... un Gonzaga non si arrende
mai!... ». Dal gruppo dei militari tedeschi partì una sventagliata di
mitra che uccise l’eroico generale al quale successivamente verrà
conferita la Medaglia d’oro al V.M.5
A livello del fronte aperto con lo sbarco, i giorni seguenti il 9
settembre vedranno la fiera opposizione militare dei tedeschi che
riusciranno anche a mettere in crisi i generali alleati e i loro piani
di penetrazione lungo le varie direttrici previste. Infatti dopo i primi momenti di superiorità della Va Armata americana, i tedeschi
si riorganizzarono, sfruttando l’arrivo di altre Divisioni corazzate
da Gaeta, da Napoli e dalla Calabria. I rapporti di forza sembrarono modificarsi a svantaggio degli alleati: il 13 settembre i tedeschi
sfondarono lo schieramento alleato tra Persano e Altavilla e solo un
possente fuoco di sbarramento dalle corazzate ancorate nel golfo e
il ricorso ai bombardieri pesanti riuscì a fermare la controffensiva
che si realizzò tra il 16 e il 17 settembre. Il 18 però la battaglia di
nuovo volge decisamente a favore degli Alleati e inizia in pratica il
ritiro delle truppe tedesche.
Episodi di resistenza a Salerno e zone limitrofe
Collateralmente agli eventi bellici veri e propri, avvengono diversi episodi – spesso interessanti singoli individui o piccoli gruppi
5 Pesce, Salerno 1943 cit., p. 25
28
di persone - che documentano la partecipazione della popolazione
alla Liberazione dall’invasore e nemico tedesco. Episodi che, a posteriori collegati tra loro, possono essere letti come la trama di una
vera e propria Resistenza salernitana.
Roccadaspide
Nella fase cruciale della battaglia, vengono riportate azioni di
collaborazione con gli americani da parte di civili ed elementi sbandati di militari del presidio italiano, che contribuiscono così alla liberazione di Roccadaspide e Controne. In particolare è documentata un’azione di cattura di una motocarrozzetta blindata tedesca, con
sottrazione di armi del presidio italiano destinate dai tedeschi alla
distruzione, brillamento di mine, azioni armate in collaborazione
con pattuglie alleate contro le truppe di copertura tedesche nascoste
nelle grotte di Controne6.
Altavilla
Sempre in questa fase emergono anche altri episodi di fattiva
collaborazione con gli alleati. Esemplificativa la testimonianza della giovane Mary Chieffi7 di Altavilla Silentina, che riferisce di aver
collaborato con il padre medico alla costituzione di un posto di soccorso per i feriti.
Olevano sul Tusciano
Non sappiamo che cosa mosse l’iniziativa personale di un singolo civile, documentata da una sua dichiarazione giurata e controfirmata da testimoni, certo è che questa si concretizzò in alcune azioni
di sabotaggio delle linee telefoniche tedesche (in contrada Melito,
in prossimità della centrale elettrica «Tusciano», in contrada Dromafiume a Campagna). Inoltre il patriota isolato riuscì a catturare,
su incarico dei CC. locali, un sottufficiale tedesco nascosto nella
6 Fascicolo Viola Manlio, Archivio Anpi, Salerno
7 Fascicolo Chieffi Mary, Archivio Anpi, Salerno
29
Grotta di S.Michele nel bosco Difesole. Il Comando alleato riconobbe i meriti del patriota e lo nominò Vice Brigadiere dei VV.UU.
di Olevano8.
Acerno
In questa località e precisamente nella zona della «Grotta del
bosco di S. Lorenzo» a 7 km circa dall’abitato cittadino, si costituì
un nucleo di civili e militari sbandati agli ordini dell’ex Comandante della locale stazione dei Carabinieri Felice Ricci da Giffoni
Valle Piana. Il Ricci condannato a morte dai tedeschi per insubordinazione dopo l’8 settembre, dovette darsi alla macchia riuscendo
a raccogliere attorno a sé il predetto gruppo di sbandati e civili.
Questa banda si mosse nella zona in attività prevalente di controllo dei movimenti delle truppe tedesche e riuscendo così a fornire
informazioni al Comando della 5° Armata Alleata. La notte del 23
settembre il gruppo, grazie anche alla collaborazione di un sacerdote di Acerno, assalì in armi un reparto tedesco, capeggiato da un
sergente della divisione «Goering», che si apprestava a fucilare un
gruppo di 16 soldati italiani e 1 capitano catturati poco prima nel
loro precario nascondiglio in contrada «Pesca dell’Acqua». L’azione ebbe successo in quanto i militari germanici colti di sorpresa
furono costretti alla ritirata e liberando così i prigionieri. La sera
del 3 ottobre il gruppo partecipò, combattendo con le truppe della V
Armata, alla Liberazione di Acerno9.
Salerno
Anche in città avvengono alcuni episodi che sono riportati dalle
cronache e che possono far parlare di resistenza armata ai tedeschi.
Il primo riguarda l’azione di un gruppo di carabinieri ai quali si
unì il giovane salernitano sedicenne Carlo Jaconis - figlio di Umberto capitano dei carabinieri - riconosciuto poi partigiano com8 Fascicolo Verderame Pasquale, Archivio Anpi, Salerno
9 Cfr. Relazione olografa del Ricci Felice alla Commissione Regionale Campana del
2.7.1947
30
battente e al quale fu concessa una Medaglia d’Argento al V.M.;
Il gruppo di carabinieri capeggiati dal maggiore Telesca Donato10
che si avvalsero probabilmente dell’aiuto di un esperto, nella notte
dell’8 settembre riuscì a disinnescare una gran parte degli ordigni
esplosivi disseminati dai tedeschi lungo tutte le banchine del porto.
Quando i tedeschi poco dopo fecero brillare le mine, i danni alle
strutture furono limitati e quindi questo lavoro di sabotaggio impedì la distruzione del porto rendendo possibile l’attracco della navi
alleate nei giorni successivi.
la mattina del 9 settembre un reparto germanico con alcuni carri
armati fece sosta nei pressi del Teatro Verdi a Piazza Luciani. Nella
soprastante galleria ferroviaria di via Monti erano rifugiati un migliaio di civili soprattutto donne, bambini e anziani, ma anche alcuni militari sbandati e qualcuno di questi armato. E proprio dall’alto
di via Monti e via Spinosa vengono esplosi alcuni colpi di fucile
che attingono mortalmente due dei soldati germanici fermi ai piedi
di panzer in piazza Luciani. Pare che autori del gesto siano stati
sia civili che militari italiani. Contemporaneamente11 quella stessa
mattina il maresciallo Telesca «...informato che i militari tedeschi
si stavano dirigendo verso la galleria ferroviaria «Madonna del
Monte» -dove erano rifugiati numerosi civili per sfuggire ai bombardamenti- per compiere azione di rappresaglia...» accorre e con
i suoi carabinieri riesce «... frustrare questo loro intendimento...».
Ma i tedeschi non desistono e per rappresaglia bloccano immediatamente via Indipendenza e via Monti, catturano 20 civili e soldati
italiani. Fortunatamente l’ufficiale comandante di quel reparto era
di nazionalità austriaca e cattolico e forse per questo cedette alle
preghiere del parroco dell’Annunziata don Aniello Vicinanza e verso sera gli ostaggi furono liberati12.
Ancora l’eroico Telesca sarà protagonista di altre due azioni
assieme al capitano Umberto Iaconis, addetto al comando della
10 Fascicolo Telesca Donato, Archivio Anpi, Salerno
11 Ibid.
12 P. Laveglia, Fascismo antifascismo e resistenza nel salernitano, ESI, 1978, p. 431
31
caserma di Salerno. La prima si svolse la mattina del 10 quando
una quindicina di soldati tedeschi armati di pistole mitragliatrici
e a bordo di un’autoblinda fanno irruzione nel cortile della caserma chiedendo il disarmo dei militi italiani. Il rifiuto e la dichiarata
intenzione di difendersi con le armi obbligò il gruppo germanico
a desistere. Poche ore dopo, nello stesso giorno, i soldati tedeschi
ormai in ritirata si portarono nei locali del Banco di Napoli ubicati
nei pressi del Teatro Verdi con lo scopo evidente di saccheggiarli ed
impossessarsi dei notevoli valori qui conservati. Il capitano Iaconis
e il Telesca, aiutati anche da civili, riuscirono a sventare il tentativo
di saccheggio attaccando in armi i tedeschi che preferirono darsi
alla fuga.
Cava dei Tirreni
Nella cittadina metelliana va citato l’episodio di ribellione ai
rastrellamenti nazisti da parte del maggiore Pasquale Capone. Il
16 settembre il maggiore vide passare dalla sua casa in campagna,
località Castagneto, un gruppo di civili che evidentemente era stato rastrellato dai tedeschi, e che venivano scortati da quest’ultimi
armati. Nonostante fosse solo con il padre e il figlioletto, non esitò
ad aprire il fuoco sulle guardie tedesche, ci fu uno sbandamento e
i civili riuscirono a darsi alla fuga. I militi individuata l’abitazione
dalla quale erano partiti i colpi ne sfondarono la porta e sparando
a raffica colpirono sia il maggiore che il padre. Capone, ferito ed
avendo esaurito le munizioni fu portato via e fucilato immediatamente. Il suo corpo fu ritrovato solo dopo due mesi poco distante e
insepolto. Alla memoria gli fu conferita la Medaglia d’oro al V.M.
I rastrellamenti
Il clima di quei giorni con la linea di scontro a Salerno e zone
limitrofe e nei giorni successivi, quando iniziò la ritirata tedesca,
rese la vita particolarmente dura anche alla popolazione civile ancora residente o sfollata nelle zone periurbane. I decreti militari te32
deschi come quelli che ordinavano agli uomini di presentarsi al più
vicino comando ingeneravano terrore e confusione. La confusione
dettata dal fatto che quando i soldati tedeschi, aiutati da spregevoli
spie prezzolate, introducendosi anche nei cortili e nelle case incominciarono a rastrellare gruppi di uomini giovani per caricarli sui
camion e portarli via, alla gente comune venne spontaneo pensare
che si trattasse o di persone da arrestare perché già pregiudicati, da
renitenti alla leva o, nella migliore delle ipotesi, mano d’opera da
impiegare momentaneamente localmente a seconda delle esigenze
degli occupanti. Ma le prime confuse notizie sulla loro sorte ingenerarono vivo allarme e quindi l’esigenza di predisporre nascondigli
più o meno sicuri e piani di fuga. Solo più tardi ci fu la consapevolezza che i rastrellati erano deportati in Germania o fatti arruolare
nella RSI13.
Al proposito si riporta la testimonianza di un all’epoca giovanissimo salernitano, Gennaro Egidio appena diciottenne, che era stato
colto dall’armistizio a Livorno dove si trovava per seguire il Corso di Ufficiale c/o l’Accademia Navale. Dopo essere scappato per
non cooperare con i tedeschi, riuscì, dopo un avventuroso viaggio
durato sette giorni, a raggiungere la famiglia sfollata a Fimiani di
Castel S. Giorgio. Appena arrivato però, nella zona era stato appena
emanato uno dei bandi di reclutamento dei giovani. Continuiamo
con le sue parole: «... dopo le 24 ore concesse dal decreto tedesco, incominciarono le razzie da parte delle SS tedesche. La vita
era insostenibile... le strade e le campagne battute dalle SS.....il
20 settembre mi recai di nascosto a casa di mio zio per poter riabbracciare mia madre e salutarla... mentre attraversavo il giardino
di casa, a pochi metri da me trovavasi il sig. Fimiani Antonio... le
SS tedesche irruppero nel giardino e presero il Fimiani. Io scappai
e mentre scavalcavo il muro, sotto gli occhi di mia madre... fui fatto segno a colpi di fucile mitragliatore...riuscii [a scappare e] ad
unirmi ad altri quattro [fuggitivi] e con essi raggiunsi la montagna
13 G. Amarante in «Memoria storica», p. 177
33
dell’Acquarola. Quivi riuscii a sapere dove erano piazzate le pattuglie tedesche che evitavano che gli italiani passassero le linee e
… solo verso le 19 ad attraversare la linea di fuoco... e dopo essere
stati inseguiti dai tedeschi a presentarci alle truppe inglesi di prima
linea della frazione Pregiato di Cava dei Tirreni...»14
Sempre in questi giorni proprio i rastrellamenti daranno luogo a
singoli e piccoli episodi di ardimento e solidarietà, come quello del
giovane militare in licenza a Spiano, che riusciva a nascondere nella
sua casa un certo numero di giovani sfollati salernitani per sottrarli
alle razzie dei tedeschi. E proprio questi giovani assieme al militare,
armato solo di una pistola, si diedero anche ad azioni di sabotaggio
tagliando le linee telefoniche e spostando i cartelli indicatori stradali. Le azioni nella zona di Spiano e Torello culminarono anche con
il posizionamento di due mine anticarro sulla strada percorsa dagli
automezzi tedeschi in ritirata che effettivamente fecero saltare in
aria un loro camion15.
Durante una di queste retate, venne catturato – casualmente e
senza che fosse riconosciuto - anche Cecchino Cacciatore, avvocato
e noto antifascista, ma questi in una curva della strada riusciva a
saltare dal camion e a darsi alla fuga, scampando così alla deportazione16.
La determinazione e la ferocia dei tedeschi in ritirata è testimoniata da svariati episodi di spietata volontà terroristica: il 25 settembre a Villa Silvia di Roccapiemonte viene uccisa – sospettata di aver
prestato la sua opera sanitaria verso patrioti e prigionieri alleati – la
giovane Filomena Galdieri, poi decorata con medaglia d’argento 17;
si riporta inoltre l’episodio drammatico, avvenuto a Lancusi nella
Valle dell’Irno, della fucilazione sulla soglia di casa appena rag-
14 Fascicolo Egidio Gennaro, Archivio Anpi, Salerno
15 Fascicolo Parisi Alfredo, Archivio Anpi, Salerno
16 Ricordo di Francesco Cacciatore, Plectica ed., 2005
17 G. De Antonellis, Napoli sotto il regime, Coop. Ed. Donati, Milano 1972, p. 266
34
giunta, di due fratelli entrambi carabinieri: Giovanni e Alessandro
Napoli, rei soltanto di non aver smesso la loro divisa18.
La Risposta Armata
Tutti questi drammatici accadimenti furono alla base di una
spontanea capacità di risposta anche armata. Trattasi certo di eventi
limitati e concentrati nel tempo, con una serie di episodi di Resistenza locale che di lì a pochi giorni si verificarono a Montoro
Superiore, nell’Agro sarnese-nolano, a Quindici e Scafati.
Nella zona di Montoro Superiore l’8 settembre era di stanza
un Battaglione reclute dipendente dal 15° regg. Fanteria «Savona»
che, al comando del maggiore Deidda, nei giorni dal 9 al 12 vide alcuni di loro ingaggiare, nelle frazioni di S.Pietro, Banzano e Monte
Telegrafo una serie di scontri a fuoco con i tedeschi19. Viene inoltre
riportato un episodio analogo anche in territorio di Montoro Inferiore con un attacco ad una autocolonna blindata tedesca da parte di
un gruppo «Bandiera Rossa», guidato dall’avvocato Angelo Montella20.
Nella zona di Sarno (tra la località Foce una frazione del paese
e quella dell’altopiano del Prato, nei pressi del Monte Tuoro) operò un nucleo di partigiani combattenti21. Il gruppo era costituito in
parte da civili organizzati da Giuseppe Chirico22 e vedrà l’apporto
collaborativo anche di una donna, Maria Chirico, che sui monti di
Palma aveva organizzato un posto di medicazione. Assieme ai civili
vi erano inoltre alcuni militari italiani sbandati e provenienti dal 48°
Reggimento di artiglieria di stanza a Nola nella caserma «Principe
Amedeo». In questa caserma il 10 settembre i tedeschi entrati con
18 Masullo, Antifascismo, Resistenza e Guerra di Liberazione cit.
19 Fascicoli Festa Emilio e Speranza Leonzio, Archivio Anpi, Salerno
20 P. Speranza, Irpinia ’43, in «L’alba della democrazia», Ed. Mediterranea, 2005, p. 35
21 Fascicoli Aito G.,D’Alessio C., Esposito M., Franco G., Manfredonia C., Menna L.,
Morlicchio D., Archivio Anpi, Salerno
22 Fascicoli Chirico Giuseppe e Chirico Maria, Archivio Anpi, Salerno
35
uno stratagemma, separarono la truppa da dieci ufficiali che furono
fucilati sul posto, ad essi si aggiunge un civile, il contadino Giuseppe Napoletano che solo per essersi indignato per la vigliacca
azione nazista viene colpito dalle baionette dei soldati tedeschi e
abbandonato sulla strada23. L’attività di questo gruppo si sviluppò
in sabotaggi e scaramucce con i tedeschi, ma vi fu anche un’azione
di «fuoco» che si svolse nella notte tra il 28 e 29 settembre quando
i partigiani guidarono alcune avanguardie alleate in una operazione
volta al sabotaggio di varie batterie tedesche poste sul monte Tribucco in località «Castello di Palma». L’azione si concluse favorevolmente comportando anche la cattura di alcuni militari tedeschi24.
Si hanno inoltre notizie di barricate erette spontaneamente a via
Fiume a Sarno e di altri armati provenienti da Striano – completamente distrutta dalle batterie tedesche e dalle bombe alleate- che
avrebbero attaccato e ostacolato la ritirata tedesca25.
La Banda di Quindici
Per meglio comprendere e inquadrare gli episodi di resistenza
armata compiuti dalla cosiddetta Banda di Quindici nel territorio
dell’Agro compreso tra Quindici e Sarno, nel periodo che va dalla
fine agosto sino ai primi di ottobre 1943, bisogna partire da due
considerazioni.
La prima di natura prettamente geografica: Quindici è situata
infatti sul versante opposto a quello dove è localizzato Sarno, della montagna detta Pizzo d’Alvano, ed è raggiungibile dalla valle
del Lauro percorrendo una strada che segue il rinserrarsi dei suoi
versanti attorno a un poggio. Tra la catena del Pizzo d’Alvano e il
Vesuvio localizzato più a ovest si distende la piana che dall’agro
23 De Antonellis, Napoli sotto il regime cit., p. 264
Furono trucidati due colonnelli (Ruberto e Di Pasqua) tre capitani (Sidoli, De Manuele,
Berninzone) e cinque tenenti (Nizzi, Forzati, Consolato, Iacovoni, Pesce)
24 Laveglia, Fascismo Antifascismo e Resistenza cit., p. 434
25 S. Ruocco, Storia di Sarno e dintorni, vol. II, Ed. Buonaiuto, 1999, pp. 311, 334, 343
36
nocerino-sarnese, passando dal nolano, conduce poi alla direttrice
Caserta-Capua. La Valle del Sarno dal punto di vista politico-militare è stata importante anche dall’antichità, si pensi solo alle vie
romane che la percorrevano come la «consolare» Popilia e che fu
percorsa anche da Annibale dopo Canne26. Proprio questa era una
delle direzioni percorse dalle rabbiose truppe tedesche in ritirata,
dopo l’avvenuto sfondamento delle loro linee operato dagli alleati, vincitori della conclusa battaglia di Salerno. Si capisce quindi
l’importanza strategica di un territorio montuoso e ricco di anfratti
in cui nascondersi e da cui si domina in lungo e in largo la pianura
sottostante
L’altra è di natura più prettamente socio-antropologica, nasce
ispirata cioè da uno spiccato senso «protettivo/possessivo» del territorio di appartenenza e quindi proprio di una cultura rurale prevalentemente votata alla conservazione di un dominio tribale, anche
questa fortemente radicata da secoli in una popolazione – i Sarrastri- umile ma sempre fortemente legati alla salvaguardia del loro
territorio.
Inoltre – e ritorniamo al settembre ’43- alla base della decisione
di questi civili di darsi alla macchia vi sono sicuramente le difficili
condizioni di vita di quei giorni e le violenze subite a causa delle
angherie degli occupanti. Nel caso in questione – anche rapportato
agli usi e costumi dell’epoca degli accadimenti – tutto ciò non va
letto in un’ottica negativa in quanto interpretabile nel senso concreto e ancora accettabile dei comportamenti tipici dell’«uomo d’onore» e del suo connaturato principio di autorità. Contrariamente a
quello che poi accadrà negli anni successivi alla fine del periodo
bellico, quando invece tutto ciò assumerà connotazioni diverse e
decisamente negative. Va anche detto che quello che si verifica in
queste zone non rappresenta un caso isolato, ad esempio la figura
26 D. Cosimato, P. Natella, Il territorio del Sarno, Ed. Di Mauro, 1980, pp.12 e sgg.
37
del «bandito d’onore» la si ritrova anche nelle prime fasi della nascita di altri movimenti partigiani come quelli balcanici o greci27
La Banda di Quindici partendo da questi presupposti si aggrega
attorno ad un nucleo formato nella maggioranza dei suoi componenti da membri della stessa famiglia/clan; basta scorrere l’elenco
degli elementi costituitisi allo scopo di «…proteggere gli interessi
della popolazione privata sperduta in casolari isolati in questa vallata (dalle angherie delle truppe tedesche) e… accelerare la liberazione del territorio nazionale…»28: ben dieci di loro hanno lo stesso
cognome Graziano!
La Banda Graziano tra la fine di agosto e l’inizio di settembre
tenne una serie di riunioni in aperta campagna e quindi, la sera del
12 settembre, il capo banda Salvatore Graziano si reca alla stazione
dei Carabinieri e comunica sia la costituzione del gruppo sia l’intenzione di operare contro i tedeschi, avendo deciso di «... trasferire
la banda in contrada ‘Prato’ per iniziare atti di sabotaggio e [...]
ingaggiare combattimenti coi tedeschi…»29
I Carabinieri, secondo quanto relazionato, aderiscono favorevolmente alla iniziativa spontanea e come primo atto collaborativo
fornirono le munizioni per le armi private già in possesso ad alcuni
componenti la banda. Nel frattempo i tedeschi particolarmente attivi in zona, esercitavano la loro serrata azione di pattugliamento con
l’utilizzo di motociclette e carri armati. Fu stabilito dai partigiani
un «...servizio di vedetta per la segnalazione dell’entità del traffico
nemico...»30 e di allertamento degli abitanti delle case rurali per un
eventuale aiuto logistico.
Nei primi giorni l’«…azione ebbe carattere eminentemente di
disturbo delle pattuglie isolate, sabotaggio degli impianti telefoni27 A. Kedros, Storia della Resistenza greca, Marsilio, 1968, p. 131
28 Relazione relativa alla costituzione di una banda di partigiani, Fascicolo Banda di
Quindici, Archivio Anpi, Salerno
29 Ibid.
30 Ibid.
38
ci...[e]...delle tabelle indicatrici, false informazioni ecc»31. Con uno
stratagemma si provvide ad ottemperare al bando, emanato dal comando germanico, di consegna ai carabinieri delle armi in possesso
alla popolazione civile, di fatto consegnando solo quelle inservibili
mentre quelle efficienti e valide furono passate ai partigiani.
Nel frattempo la Banda svolse anche una azione di allargamento
del consenso, provvedendo a prelevare generi alimentari nella zona
per approvvigionare il gran numero di sfollati che si erano rifugiati
su quelle montagne.
Il 29 settembre si verificò uno scontro armato con un plotone
germanico, nel corso del combattimento rimasero uccisi un capitano e un altro militare. Il resoconto del Graziano a questo punto
è veramente esemplare della mentalità dell’uomo d’onore: «… da
una perquisizione operata sui cadaveri vennero rinvenuti documenti importanti di carattere militare, armi e denaro: il tutto fu
consegnato alle truppe alleate avanzate a Torello di Castel S. Giorgio – presente certo Aliberto Alfredo ed altre persone da Siano…»
l’ufficiale americano a cui fu consegnato il bottino ebbe parole di
elogio per i partigiani e li invitò a proseguire nella loro azione32.
Il 3 ottobre si conclude la breve vita della formazione: i tedeschi
erano stati respinti in direzione nord e i componenti della banda
poterono far ritorno alle loro case.
Il resoconto di Graziano si conclude con il menzionare un loro
caduto, Falciano Angelo da Sarno, decapitato da un colpo di granata
e la cattura di Graziano Teodoro, successivamente liberato33.
Scafati: la banda Nappi e la Battaglia del ponte
Mentre per la Banda di Quindici valgono le considerazioni fatte,
per quello che accadde a Scafati – negli stessi giorni- le cose sono
un poco più complesse.
31 Ibid.
32 Ibid.
33 Ibid.
39
Pressati dall’avanzata degli alleati provenienti da Salerno, i tedeschi si erano dati a saccheggi, distruzioni, requisizione del bestiame e frequenti retate con caccia all’uomo per poi avviarli alla
deportazione nei campi di lavoro o di concentramento.
A Scafati quindi il clima era molto pesante: da un lato i tedeschi
minavano fabbriche, ponti, case e vie preparando la ritirata verso
Napoli facendo terra bruciata dietro di loro, dall’altro gli alleati intensificavano i bombardamenti. Il 13 e 15 settembre Scafati subì
due pesanti bombardamenti che fece numerosi danni e vittime.
Questa situazione drammatica determinò il coagularsi di due
componenti in una sinergia che esitò in quella che fu definita la
Battaglia del Ponte e la nascita di una delle prime formazioni partigiane armate: appunto la Banda Nappi o anche detta Brigata 28
settembre.
La prima componente è quella - che abbiamo già trovata nell’episodio relativo a Quindici e Sarno - e cioè la componente protettiva
del territorio di appartenenza, tipica di una mentalità che trovava
origine in uno spiccato senso dell’onore e che va letta nel senso
positivo del termine esitando – come vedremo- in manifestazioni di
abnegazione e coraggio non certo irrilevanti.
Ma in questo caso si innesta anche un’altra componente quella
più propriamente politica e antifascista: Scafati è cittadina di antica
tradizione operaia e antifascista.
Nella zona lungo il decorso del fiume Sarno, sin dal 1824 si
sono insediati stabilimenti tessili sia artigianali che industriali. Il
territorio risultava favorevole in tal senso in quanto oltre a poter
sfruttare l’energia delle acque del fiume permetteva di utilizzare
una particolare erba, la robbia, dalla cui bollitura si ricavava un famoso rosso porporino detto di Adrianopoli34. Questo aveva permesso il consolidarsi, nel corso dei primi anni del ’900, in quell’agro
e nella adiacente Valle dell’Irno di una solida tradizione del Movimento Operaio. Forte è stata l’influenza del sindacalismo e dei
34 Cosimato, Natella, Il territorio del Sarno cit., p. 61
40
partiti di sinistra nei primi anni del secolo e anche negli anni bui
dell’imperante repressione fascista. Molti scafatesi avevano subito
le condanne del Tribunale speciale e alcuni di loro combatterono in
Spagna a fianco dei repubblicani35. Per questo motivo alcuni vecchi
antifascisti non si fecero scappare l’occasione di una rivalsa verso
gli odiati nazifascisti. Tra questi spicca la figura di Oreste Catalano,
panettiere antifascista e comunista soprannominato «la quercia»,
già condannato nel ’26 dal Tribunale Speciale per «incitamento
all’odio di classe»36, che partecipa attivamente alla battaglia e che
vedrà il figlio Domenico di 19 anni tra i caduti di quella battaglia.
La strategia di inseguimento da parte degli alleati dei tedeschi in
ritirata dal 18 settembre, aveva riservato agli inglesi due direttrici:
quella di Salerno-S.Severino-Sarno – che come abbiamo visto fu
interessata dalle azioni della Banda di Quindici e quella di Sarno –
mentre la 46a Divisione di fanteria doveva percorrere la SS 18 in
direzione Napoli, trovando un ulteriore ostacolo nel punto critico
dell’attraversamento del fiume Sarno, possibile solo sfruttando –se
mantenuti integri- i ponti di Scafati37.
Verso la metà di settembre un giovane scafatese Vittorio Nappi,
assieme al fratello Ubaldo e ad un altro giovane operaio Vitiello
Francesco, nottetempo eludendo la sorveglianza delle sentinelle tedesche, penetrarono in un deposito di munizioni dell’Esercito sito
in via Cappella, riuscendo a sottrarre una gran quantità di armi, vecchi fucili e alcune casse di bombe a mano. Il materiale fu caricato su
un carretto di proprietà di una certo Freddo Alfonso e nascosto nel
suo giardino grazie anche all’aiuto di Bruno Pasquale38.
Questa si rivelò un’azione lungimirante e contemporaneamente
segnò la nascita della Banda Nappi. I giovani guidati da Vittorio
Nappi, seppero soprassedere ad azioni temerarie e si limitarono ad
un’azione di discreta sorveglianza delle mosse e spostamenti dei
35 I. Poerio, V. Sapere, Vento del Sud, Ed. Istituto Ugo Arcuri, 2007, pp. 232, 252
36 Fascicolo Catalano Oreste Archivio Anpi, Salerno
37 A. Pesce, Scafati e l’Agro, Ed Comune di Scafati, 1993
38 «Resistenza Salernitana» Salerno Quadrante, 1955, pp. 9, 10
41
tedeschi. Il 28 settembre si ebbero chiari segni di un imminente arrivo degli alleati, il suono a distesa delle campane di Angri e Bagni
annunziava il loro avvicinarsi.
I tedeschi avevano da una parte allestito in piazza Vittorio Veneto sulle sommità delle case o negli angoli delle strade postazioni di
mitragliatrici e cannoni, dall’altra andavano intensificando la loro
furia distruttrice: la Manifattura Tabacchi (già stabilimento Torregiani), la fabbrica di conserve Cirillo erano state saccheggiate; in
zona S. Pietro - per ostruire la strada – abbatterono parte del vecchio palazzo ducale.
Ma l’azione devastatrice è particolarmente rivolta alla distruzione dei ponti sul Sarno, sia a Scafati che nelle sue vicinanze: tra il 27
e la mattina del 28 furono fatti saltare il ponte di S. Marzano, quello
di via Diaz, quello dell’Istituto Tabacchi, il ponte tra Scafati e Pompei e ancora altri ponti verso la foce. Rimase in piedi per esigenze
tattiche, dovendo le retroguardie tedesche attraversarlo per portarsi
sulla sponda destra del fiume, solo quello principale prospiciente
Piazza Vittorio Veneto ma che era stato minato in attesa di farlo
saltare per ultimo a ritirata completata39.
Nel contempo i tedeschi commettono un grave errore: trascurano di demolire o rendere inutilizzabile una stretta passerella metallica, tuttora esistente, situata poco più a monte del ponte principale di
Scafati. Sarà proprio quella passerella che i partigiani utilizzeranno
per i loro spostamenti e manovre di accerchiamento.
I partigiani di Vittorio Nappi passarono – già durante la notte
e le prime ore del 28 - all’azione armata: si posero a difesa dello
stabilimento Delsa e del ponte sul Sarno; trasportando le armi in via
Roma, attraverso case e vicoli e cortili riescono a trovare sbocco
sulla Statale.
Il primo a sparare è il giovane Francesco Vitiello in via Roma,
ma tutte le armi disponibili vengono distribuite anche ai molti cittadini che le richiedevano.
39 Pesce, Scafati e l’Agro, cit., p. 52
42
Nel frattempo le prime avanguardie inglesi arrivano nell’abitato
di Scafati. È Ubaldo Nappi che scorta il gruppo di fucilieri inglesi,
guidati da un sottufficiale, nell’attraversamento del giardino Fienga
per poi passare sulla famosa passerella di ferro che lì attraversa il
Sarno, portandosi così sulla riva opposta a quella dove erano attestati i tedeschi. Il piano ben congegnato permise loro una manovra
di aggiramento e di arrivare dal lato opposto alla piazza Vittorio
Veneto. Il loro scopo era quindi prendere i tedeschi alle spalle e
impedire la distruzione del ponte.
Qui vengono raggiunti da un altro folto gruppo di partigiani tra
cui Vittorio Nappi, Francesco Vitiello, Francesco Bonaduce e una
quindicina di inglesi. Sul corso Trieste si uniscono al gruppo Ernesto Tommaso, Vincenzo Abbagnale e Graziantonio Fiore. Un altro
partigiano, Raffaele Raiola, li avverte che in via Duca d’Aosta vi
è un carro armato tedesco; si stacca un gruppo che attraversando
la proprietà Langella arriva a prenderlo alle spalle e con un nutrito
lancio di bombe a mano riesce ad averne ragione; il giovane Fiore
viene ferito al petto ma continua a battersi.
Oltre a questa manovra i partigiani riescono a guidare le truppe
inglesi in altri due punti e completare l’assedio delle postazioni tedesche: una colonna di automezzi blindati viene guidata dal partigiano
Alfredo Berritto a prendere posizione nei pressi del ponte, mentre
una terza colonna guidata da Giuseppe Catapano prese posizione
sulla riva sinistra del fiume sempre in prospicienza del ponte.
È il momento dell’attacco al ponte: da via Chiesa Madre Ubaldo
Nappi con i cinque inglesi aprono il fuoco; Berritto, Catapano, Lustro, Romano dall’estremità di via Roma supportati dai ben armati
fucilieri inglesi sparano sulle postazioni tedesche; questo cerchio
di fuoco induce i tedeschi alla resa. Anche in vicolo Falanga i militi addetti ad un cannone tedesco vengono attaccati e colpiti: sette
soldati e un ufficiale escono sulla piazza a braccia levate e si arrendono. La battaglia prosegue ancora per alcune ore con il resto dei
tedeschi che arretrando si difende casa per casa.
43
Numerosi sono i caduti di quella giornata: Raffaele Cavallaro
colpito al capo, Domenico Catalano di 19 anni colpito da una bomba nemica; Antonio Vittorino, era riuscito ad armarsi con delle bombe a mano, fu catturato assieme ad un altro partigiano, ma mentre
quest’ultimo riesce a scappare lui viene messo al muro e falciato da
una raffica di mitra; Luigi Cavallaro e Pasquale Nappi gravemente
feriti da schegge di granate, pur trasportati in un ospedale alleato
muoiono nei giorni successivi. Resta ancora da riferire che in quella giornata i tedeschi non mancarono di mostrare la loro ferocia
compiendo una strage: in località Tre Ponti furono trucidati quattro
persone mentre una quinta riuscì miracolosamente a salvarsi.
Nel 1962 l’Anpi nazionale ha assegnato al Comune di Scafati
una medaglia d’oro per onorare l’eroica resistenza ai nazifascisti.
Tre medaglie d’oro salernitane
Cavese era il generale Martelli Castaldi, aviatore che aveva avuto la ventura di criticare i suoi superiori, per questo collocato a riposo senza stipendio. Aveva anche rifiutato di rientrare nell’esercito
badogliano dopo il 25 luglio, mentre l’8 settembre combatté a Porta
S. Paolo nelle fila del movimento clandestino di Montezemolo. Insieme al suo amico Lordi, originario di S. Gregorio Magno, avevano fatto parte anche di una banda autonoma nella zona di Tivoli.
Insieme si fecero volontariamente arrestare per evitare rappresaglie
contro i dirigenti e le maestranze del polverificio dove avevano lavorato. Incarcerato a Regina Coeli subì numerose torture, beffandosi
dei suoi aguzzini. Famosa la sua «pernacchia» alla 24ª frustata sotto
le piante dei piedi che gli costò però una ulteriore scarica di pugni e
calci. Fucilato alle Fosse Ardeatine come il suo amico generale Roberto Lordi il 24 marzo 1944, anche quest’ultimo dopo essere stato
lungamente torturato senza però che rivelasse nomi o fatti inerenti
la sua attività partigiana: insigniti entrambi della M.O.V. M.
44
Originario di Eboli era il maresciallo maggiore della Guardia di
Finanza Vincenzo Giudice40 che il 16 settembre del 1944, offrendosi volontario come ostaggio da fucilare per rappresaglia al posto
dei civili del paesino di Bergiola Foscalina nei pressi di Carrara.
Questo suo eroico gesto non fu sufficiente a cambiare il corso della
feroce vendetta nazista: fu trucidato assieme ai civili di Bergiola.
M.O.V.M. alla memoria.
40 cfr. http://www.resistenzatoscana.it/storie/il_rogo_della_scuola_di_bergiola_foscalina/
«Alle ore 14 del 16 settembre 1944 un colpo di fucile uccide un militare tedesco in località
Foce, subito fuori Carrara. Il colpo sembra essere partito dal paese sovrastante, Bergiola
Foscalina. Due ore dopo si scatena la rappresaglia. Alle quattro del pomeriggio entra in Bergiola
il battaglione di SS comandato dal maggiore Walter Reder con al seguito alcuni uomini di
reparti repubblichini. In paese trovano solo vecchi, donne e bambini. Gli uomini avevano
abbandonato le loro case, alcuni già pochi giorni prima a seguito di reiterate minacce, gli altri
non appena videro salire al paese gli autoblindo dei nazisti. Il maresciallo della Guardia di
Finanza Vincenzo Giudice viene a sapere di quello che sta per succedere e si offre per salvare
la vita agli ostaggi civili, fra cui vi erano anche la moglie e la figlia. L’ufficiale nazista rifiuta
il cambio in quanto le leggi di guerra impediscono di accettare una tale proposta proveniente
da un militare. Vincenzo Giudice si spoglia della casacca della divisa e insiste presentandosi
come civile, viene allora ucciso senza che questo fermi l’imminente massacro. I nazifascisti
radunano nella scuola elementare del paese una trentina di persone, li chiudono dentro e
appiccano il fuoco aiutandosi con benzina, catrame e l’uso dei lanciafiamme. Altre persone
vengono ferite ma non uccise, poi chiuse nelle loro case e date ugualmente alle fiamme. Nel
frattempo i partigiani della zona vengono avvertiti e immediatamente si mettono in marcia
verso il paese. Quando arrivano a Bergiola i nazifascisti si sono allontanati da meno di un’ora
e quello che possono fare è arrestare gli incendi e soccorrere i feriti. La conta dei morti si
fermerà a 71 vittime, in maggioranza bambini, quasi tutti arsi nel rogo della loro scuola».
45
CAPITOLO 3
La partecipazione e il ruolo dei salernitani
nella resistenza in Italia
La partecipazione dei salernitani alla Resistenza al nazifascismo e alla Guerra di Liberazione, oltre gli episodi descritti avvenuti
nel territorio salernitano a cornice dei giorni seguenti l’armistizio e
lo sbarco alleato, comprende ancora altri fondamentali e consistenti
nuclei di presenza attiva. Questa partecipazione attiva si svolge lungo tre direttrici fondamentali:
- nell’Italia del nord-ovest e in particolare in Piemonte
- in altre zone d’Italia
- all’Estero
Dall’esame dei fascicoli presenti nell’archivio dell’Anpi di Salerno risulta che:
- più di 160 sono i salernitani che hanno operato in Italia, dei
quali oltre 60 – pari al 37% - in Piemonte (quelli censiti nella banca
dati dell’Istoreto1 sono 269);
- i rimanenti sono distribuiti nelle formazioni attive in altre zone
d’Italia, ampiamente rappresentative del territorio nazionale (Campania, Lazio, Toscana, Marche, Emilia, Romagna, Liguria, Lombardia, Veneto, ecc.)
Il Piemonte e la 4ª Armata
La comprensione del non trascurabile contributo dato dai salernitani al movimento di Resistenza armata e alla Guerra di Liberazione
1 Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea «Aldo
Agosti» http://intranet.istoreto.it/partigianato/
46
nel centro-nord deve iniziare dal registrare una consistente presenza
di meridionali e di salernitani – nati cioè a Salerno e provincia- nei
ranghi del movimento partigiano in Piemonte. Ciò è essenzialmente
legato alla presenza, all’epoca dell’armistizio dell’otto settembre,
della 4ª Armata italiana nella Francia meridionale.
In Italia infatti, il Piemonte è l’unica regione nella quale si
verificò un collegamento precoce ed evidente tra la dissoluzione
dell’esercito e l’inizio del movimento partigiano2.
Nel maggio del ’43 la 4ª Armata dell’esercito italiano era dispiegata in territorio francese tra il confine alpino, il fiume Rodano e la
fascia costiera compresa tra La Spezia e Mentone. Essa si articolava
in quattro Divisioni di fanteria, due alpine, tre divisioni costiere,
più altri reparti di supporto per un totale di 6000 ufficiali e 140.000
soldati3.
È importante sottolineare come fino al 25 luglio sia la popolazione civile che la Resistenza francese dimostravano di operare
una netta distinzione tra gli occupanti tedeschi e quelli italiani. In
particolare l’attività militare della Resistenza francese fu rivolta soprattutto contro i germanici mentre verso gli italiani operò maggiormente con mezzi di propaganda, diffondendo volantini e ciclostilati
clandestini, sicuri di far leva su un più diffuso sentimento antifascista della truppa italiana4.
2 R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi 1964, p. 117
3 S. Orlando, La presenza e il ruolo della 4° Armata Italiana in Francia, in www.esercito.
difesa.it/root/storia/memoria
4 Le autorità francesi non furono certo benevole verso gli italiani, questo si può dedurre
dalla testimonianza del partigiano Strino (vedi Fascicolo Anpi di Salerno) che dopo essere
stato internato dai tedeschi all’8 settembre ad Arles, riuscì ad evadere a maggio del ’44, partecipò alla liberazione di Arles e poi si arruolò volontario nell’Armata Francese combattendo
nella zona di Nizza e restando anche ferito, ma poi riferisce «... il 27 marzo [1945] fui congedato e presi come domicilio momentaneo Nizza, e il 27 maggio la polizia francese avendomi chiesti i documenti e conosciuto la mia origine italiana… mi condussero in campo di
concentramento a Nizza... il 27 novembre fui inviato a casa... nel campo di Nizza mi tolsero
ogni documento come la tessera di partigiano, tessera di appartenenza al 74° Bt H-te Tenée,
il congedo, il vestito e tremila franchi...»
47
Dopo il 25 luglio però il Maquis paradossalmente intensificò la
sua azione militare nei confronti degli italiani, azioni probabilmente
volte ad incunearsi e far breccia in quel senso di crescente disorientamento che gli avvenimenti politici avevano determinato tra le
truppe italiane all’estero.
Dopo il 15 agosto in seguito ad accordi tra i Comandi supremi,
italiano e germanico, fu ordinato alla 4ª Armata di riposizionarsi in
territorio italiano con passaggio ai tedeschi del controllo dell’area
da questi precedentemente occupata. Ma l’armistizio dell’8 settembre arrivò a scompaginare tutti i piani, cogliendo di sorpresa i comandi e la truppa della 4ª Armata. Il gen. Vercellino, comandante
della 4ª Armata pur colto di sorpresa dall’armistizio, già alle 22 di
quel giorno diramò l’ordine immediato di ritiro in territorio italiano
e di concentrare le truppe nella zona di Cuneo-Mondovì.
I tedeschi dimostrando un’efficacia tempistica straordinaria,
come poi vedremo similmente reiterata sia in territorio nazionale
che nei balcani, evidente frutto di disposizioni precise e preordinate, riuscirono subito a sabotare tutti i collegamenti radio tra le varie
unità italiane e presentandosi quindi presso i distaccamenti italiani imponendo la consegna delle armi o la dichiarazione di fedeltà
all’alleato germanico in cambio di un ipotetico rimpatrio in Italia.
Tra il 9 e l’11 i tedeschi occupano le maggiori città del Piemonte
compresa Torino, mentre la maggior parte delle unità italiane erano
state rese inattive. La sera dell’11 il gen. Vercellino diramò l’ordine
di scioglimento dell’Armata, dando il via alla cattura, deportazione
e internamento della più parte dei militari italiani per una cifra numerica stimata in circa 60.000.
Si verificarono isolati, ma non certo rari o per questo meno eroici, episodi di resistenza armata ai tedeschi da parte di reggimenti
interi o battaglioni o singoli presidi. Molti furono però, sia singoli
che gruppi di militari che pur sbandati decisero di aderire a forme
organizzate di Resistenza e questo si verificò soprattutto nel versante francese dove era già operativa una Resistenza organizzata. Però
i soldati che aderirono al Maquis, in generale non furono inquadrati
48
in unità partigiane autonome ma si distribuirono in quelle già presenti alle dipendenze del comando militare francese.
Sul versante italiano i militari della disciolta 4ª Armata si dispersero soprattutto nella zona delle Langhe. Qualche nucleo consistente di militari sbandati cerca di non disperdersi, conservando armi e
materiali nella zona di Boves, ma l’attacco degli organizzatissimi
tedeschi vanifica subito questa loro velleità. Un’altra parte di loro
però cerca contatto con i rappresentanti dell’antifascismo civile della zona in Val Varaita5, sono fra questi Mario Morbiducci e Nicandro Conte6. Si organizzano così i primi nuclei armati che aderiranno
al neonato movimento partigiano.
Molti ex militari, nella maggior parte dei casi meridionali, tentano di raggiungere comunque i loro paesi di origine ma sono costretti a tornare indietro visto il valido sbarramento operato dai tedeschi
tra Genova e Bologna. Facendo leva sul valido aiuto delle donne e
i vecchi dei paesi e borghi rurali delle Langhe, decidono di fermarsi nelle campagne, all’inizio magari prima solo per nascondersi e
poi per cercare di arrivare alla fine della guerra aiutando i contadini nei lavori dei campi. Ma proprio la presenza di ex militari, la
preoccupante pressione delle retate operate dai tedeschi, determina
la spinta allo sviluppo di un movimento partigiano organizzato di
montagna – grazie anche all’invio di emissari dei partiti antifascisti
con esperienza partigiana o politica consolidata – che appunto in
queste zone si realizza già a partire dal settembre del ’43, mentre
nelle altre zone d’Italia si svilupperà più tardivamente nella seconda
metà del ’447.
Numerosi sono quindi i meridionali che combatteranno nelle
file della resistenza piemontese e tra questi molti sono i salernitani. Grazie all’archivio e banca dati del Partigianato piemontese
5 M. Ruzzi, Garibaldini in Val Varaita, Anpi Verzuolo – Istituto Storico della Resistenza
Cuneo, p. 15
6 Ernesto Conte Nicandro (si veda la scheda relativa)
7 Diana Carminati Masera, Langa partigiana ’43-’45, ed. Araba Fenice, Boves 2007, p.
56 e sgg.
49
dell’«Istituto Piemontese per la Storia Della Resistenza e della Società Contemporanea ‘Giorgio Agosti’ e incrociando i dati derivanti
da nostre ricerche possiamo dare delle cifre, anche se non certamente complete, ma sicuramente molto vicine alla realtà: i partigiani
combattenti nati a Salerno e provincia sarebbero 269; di questi i caduti sono stati 23, così come riportati nella tabella che segue (nella
colonna ‘modalità’, le lettere ‘c’ ed ‘f’ significano rispettivamente
‘caduto’ e ‘fucilato’)
nome
data di
nascita
luogo
di nascita
data
decesso
località
modalità
1
Bevilacqua
Alfredo
4.4.1921
Nocera S.
20.4.1945
Colle
della Portia
c
2
Caggiano
Domenico
20.12.1923
Caggiano
29.1.1944
Giaveno
f
3
Capuano
Domenico
1917
Siano
24.10.1944
Gambasca
f
4
Celano
Ortensio
12.11.1924
Salerno
5.4.1945
Piemonte
c
5
Crescenzo
Alfonso
15.6.1924
Sarno
10.1.1944
Saluzzo
f
6
Cusati
Franco
4.10.1922
Camerota
31.12.1944
Moschieres
c
7
De Dominicis
Alfonso
13.8.1911
Ascea
20.12.1944
Piemonte
c
8
De Marco
Giovanni
10.2.1918
Rofrano
26.6.1944
Sommariva
del Bosco
f
9
De Vita
Domenico
1.8.1921
Torre
Orsaia
26.4.1945
10
Dente
Giuseppe
16.12.1922
Sacco
20.2.1945
Robilante
c
11
Fortis
Ettore
Eboli
5.6.44
Val Cuseo
c
12
Jannone
Salvatore
Nocera I.
12.8.1944
Pralungo
c
50
2.1.1924
c
13
Iuliano
Pasquale
14
1.9.1910
Pagani
14.5.1944
Manta (Cn)
c
Lammardo
Pasqualino
30.7.1922
Teggiano
15.9.1944
Boschi
di Barbania
c
15
Mastrolia
Attilio
16.3.1922
Campagna
31.7.1944
16
Mazzeo
Salvatore
30.12.1912
Camerota
16.5.1944
Forno
di Coazze
f
17
Monaco
Nicola
19.4.1924
Sacco
31.3.1945
S. Albano
Stura
f
18
Montello
Antonio
1.1.1909
San Pietro
al Tanagro
22.7.1944
Sommariva
del Bosco
f
19
Parente
Pasquale
16.3.1922
Bellosguardo
20.2.1945
Robilante
c
20
Pastore
Oreste
26.10.1926
Salerno
27.4.1945
Torino
c
21
Pellegrino
Vittorio
5.7.1920
Salerno
20.12.1944
Bra
f
22
Traetta
Franco
1922
Salerno
27.4.45
Borgo
S. Dalmazzo
c
23
Tramontano
Antonio
3.5.1922
Nocera I.
26.11.1944
Cuneo
f
c
51
Le schede dei Partigiani in Piemonte
NICOLA MONACO
Nato a Sacco (Sa) il 19.4.1924, fucilato a Sant’Albano Stura (Cn)
il 31 marzo 1945, studente, Medaglia d’oro al valor militare alla
memoria.
Richiamato alle armi per la seconda guerra mondiale fu assegnato
al 54º Reggimento Fanteria «Novara» e poi al 259º Reggimento
della Divisione «Murge»8.
In Piemonte dopo l’8 settembre 1943, si dà alla macchia e partecipa alla formazione delle prime bande partigiane autonome delle
Langhe. Nel giugno del 1944 entra a far parte della IIa Divisione
Langhe, aggregate dal comandante Enrico Martini «Mauri», partecipando attivamente a tutte le operazioni della formazione e comandando un distaccamento nella zona di Rocca Cigliè (Cuneo)
con il nome di battaglia «Nicola»9.
Rimane nella predetta II Divisione fino all’ottobre del ’44, partecipando quindi alle operazioni che portarono alla Liberazione di
Alba. In seguito alla riorganizzazione delle formazioni autonome
«Mauri» dal 4.10.1944 è inquadrato nella 1ª Divisione Langhe. In
questa Divisione deve subire la controffensiva nazifascista del novembre 1944. Sfuggendo ai rastrellamenti del 14 e 15 novembre
la 1° div Autonoma si aggangia alla 2ª div. nella zona di CastinoMango. Il 20 novembre i nazifascisti sferrano l’attacco decisivo e
gli uomini della 1ª div. Autonoma si attestano a sud di Cortemilia e
da qui, sfuggendo agli accerchiamenti, riescono a ritirarsi ordinatamente verso le valli alpine10.
La riorganizzazione dei partigiani dopo la controffensiva del novembre-dicembre ’44, consente la ripresa delle attività a febbraio-marzo del ’45. Ma a marzo si hanno proprio gli ultimi attacchi
nemici, con l’«Operazione Marder». Nei pressi di Piozzo, Nicola
si offre volontario «... in una azione di estrema importanza e del
massimo rischio, circondato da forze soverchianti, resisteva sino
8 www.anpi.it/uomini/monaco_nicola.htm
9 Scheda Istoreto cod. CN12078
10 Carminati Masera, Langa Partigiana cit., p. 164 e sgg.
52
all’esaurimento delle munizioni. Catturato, suscitava l’ammirazione del nemico che gli concedeva l’onore delle armi»11.
Durante gli interrogatori successivi alla sua cattura, nonostante la
tortura, non parlò e affrontò coraggiosamente la fucilazione avvenuta presso il «casone vecchio» di via Morozzo a Sant’Albano Stura (come personalmente abbiamo potuto ricostruire dalla scheda di
morte recuperata nei registri del Comune di S. Albano Stura) il 31
marzo alle ore diciassette.
TRAMONTANO ANTONIO
Nato il 3.5.1922, fucilato a Cuneo il 26.11.1944.
«Dopo l’armistizio entrò a far parte della XI Divisione Garibaldi
181° battaglione in forza al Comando Varaita. Arrestato dai fascisti
di Salò a Castelletto di Brusca; condotto a Cuneo fu torturato e poi
fucilato»12.
Al mattino di domenica 26 novembre 1944 le autorità militari fasciste di Cuneo decisero di fucilare cinque detenuti politici, come
rappresaglia per l’uccisione del maresciallo Bernabè, avvenuta due
giorni prima sul piazzale della nuova stazione ferroviaria. La triste
sorte toccò a Maria Luisa Alessi, Pietro Fantone di Paesana, ingegnere Rocco Repice di Tropea, sergente automobilista Antonio
Tramontano di Nocera e cavaliere Ettore Garelli, cancelliere della
Pretura, ex capitano del 2° Reggimento Alpini, decorato con Medaglia d’Argento.
11 Decreto di concessione della MOVM alla memoria di «Nicola»: «Accorreva tra i primi
nelle file partigiane, partecipando a numerose e rischiose imprese. Volontario in una azione
di estrema importanza e del massimo rischio, circondato da forze soverchianti, resisteva sino
all’esaurimento delle munizioni. Catturato, suscitava l’ammirazione del nemico che gli concedeva l’onore delle armi. Condotto in carcere, sottoposto ad estenuanti interrogatori seguiti
da percosse, rispondeva virilmente: «Preferisco morire piuttosto che tradire». A testa alta,
sorridente, si avviava al luogo del supplizio e si immolava da eroe, come da eroe aveva combattuto. La sua voce non tremò nel lanciare l’ultimo grido: Viva l’Italia!».
12 Mario Giovana, Resistenza in Val Varaita
53
L’arresto13
«Alle prime luci del 16 settembre 1944 un camion carico di brigatisti neri agli ordini del federale di Cuneo, Dino Ronza, si reca
a Castelletto Busca percorrendo la strada vicinale del Bosco e si
ferma all’incrocio di questa con lo stradone Dronero/Busca. I militi circondano la casa Belliardo Bandi ed arrestano due partigiani,
Guglielmo Strumia (Tom Mix) ed Antonio Tramontano (Totò), entrambi della 15ª brigata, e Jolanda Eandi, collaboratrice dei patrioti.
Strumia, trovato in possesso di un’arma, è malmenato dallo stesso Ronza. Il gruppo rientra immediatamente a Cuneo e, dopo aver
assistito ai funerali dello squadrista Gabriele Contù, ucciso pochi
giorni prima a S. Chiaffredo di Busca, fucila Strumia presso la recinzione del cimitero.
Antonio Tramontano verrà ucciso nel novembre, insieme alla partigiana Maria Luisa Alessi, presso la stazione ferroviaria del capoluogo e Jolanda Eandi, dopo alcuni giorni di prigione, sarà rimandata a casa poiché riconosciuta inidonea al servizio del lavoro in
Germania.
Il fatto è doppiamente doloroso poiché causato dalla delazione della moglie di una guardia repubblicana uccisa a Venasca. Questa
donna, non paga dell’assassinio di Strumia, si ripresenta all’ufficio
della brigata nera di Cuneo per confermare l’appartenenza dell’altro prigioniero alle formazioni partigiane garibaldine della valle
Varaita e riceve come compenso seicento lire...»
La sorella di Tramontano Antonio, Anna si era trasferita a Savigliano (Cn) nel ’42 per seguire il marito che colà prestava servizio
militare; Antonio dopo l’8 settembre aveva raggiunto i partigiani
in montagna assieme al suo amico Strumia. Spesso scendevano in
paese per abbracciare i familiari (il nipote di Totò ha un ricordo
dello zio che lo sollevava abbracciandolo) e ricorda inoltre che la
madre nascondeva nelle sue scarpe di bambino i biglietti che poi
Tramontano e Strumia avrebbero portato ai comandi.
Sia Strumia che Tramontano sono sepolti assieme nel sacrario del
cimitero di Savigliano e sono ricordati con lapidi e cippi.
13 Ruzzi, Garibaldini in Val Varaita cit., pp. 42, 43
54
GIALLORENZO RAFFAELE
Nato ad Auletta il, morto a Ponte Chisone il 10.3.1945.
Allievo della Scuola di Cavalleria di Pinerolo, dopo l’8 settembre
cercò di ritornare ad Auletta ma a Bologna fu costretto a ritornare
indietro per i ferrei controlli dei nazisti. Ritornato a Pinerolo divenne aiutante del calzolaio della Caserma, ma essendo questi fascista
lo voleva indurre ad aderire alla RSI. Raffaele rifiutò l’arruolamento nelle milizie della RSI e non potendo più continuare il suo lavoro
col calzolaio per ovvi motivi, riuscì a trovare ospitalità e appoggio
presso la famiglia di una ragazza del luogo che aveva nel frattempo
conosciuta e con cui si era fidanzato.
Dopo un secondo tentativo di ritorno a casa, anch’esso fallito, per
evitare di incappare nelle retate nazifasciste, matura la decisione di
andare in montagna e si unisce alle formazioni di GL. Diventa un
partigiano della Va Divisione Alpina G L «Sergio Toja» con mansioni di staffetta.
Una sera, è il 3 gennaio 1945, essendo lui in possesso di una bicicletta che gli serviva per la sua attività di staffetta, un altro partigiano lo pregò di accompagnarlo in paese perché il figlio era ammalato. Ma incapparono in un posto di blocco delle Brigate Nere
di Pinerolo a Campiglione Fenile. Nella perquisizione fu scoperto
che aveva del materiale clandestino sotto il sellino della bicicletta,
arrestato viene arrestato e condotto nella caserma dei carabinieri di
Pinerolo.
Durante la detenzione resiste alle torture cui è sottoposto, senza
rivelare nomi o fatti di cui era a conoscenza. Nel corso della prigionia scrive alcune lettere alla fidanzata Emilia (pubblicate nel libro
Lettere dei condannati a morte della resistenza).
Carcere di Pinerolo, 9 marzo 1945
Cara Emilia,
È passata la notte con l’aiuto di Dio e siamo nella prime ore del pomeriggio e non si sa ancora. Sono col palpito
nel cuore, rivolto il mio cuore al buon Gesù. Baci cari per
quest’altra volta (l’ultima) ed addio.
Raffaele
55
Alle ore 17 del 10 marzo 1945 Raffaele Giallorenzo assieme agli
altri condannati a morte Gino Genre, suo fratello Ugo, Mario Lossani, Luigi Ernesto Monnet, Luigi Palombini e Francesco Salvioli
sono condotti a Ponte Chisone e fucilati da un plotone composto da
soldati tedeschi e militi delle Brigate Nere di Pinerolo.
La strage è operata per rappresaglia ad una bomba che aveva fatto
strage di tedeschi e repubblichini sul vagone della tramvia Pinerolo
Perosa ad essi riservato e compiuto da un gruppo non ben identificato.
Sul luogo della strage fu posta una edicola con una lapide che a
seguito dell’evento alluvionale del 16 ottobre 2000 fu distrutta nel
crollo del vecchio Ponte Chisone in via Saluzzo. La nuova lapide
fu inaugurata il 10 marzo 2005.
Il fratello prof. Roberto racconta così l’arrivo della sua salma ad
Auletta: «... La salma di Raffaele ci fu restituita dopo qualche mese
e quando il camion che la trasportava arrivò dalle parti di Auletta
si fermò a chiedere informazione ai cantonieri che lì lavoravano
[...] uno di quelli era il padre. Quando chiese di chi fosse quella
salma gli fu risposto Raffaele Giallorenzo [...] lui a sua volta piangendo disse ‘è mio figlio’ [...] salì sul camion e riaccompagnò a
casa il figlio...».
BEVILACQUA ALFREDO
Nato a Nocera Superiore il 4.4.1921, morto il 20.4.1945 a Prato del
Rio-Condove (To), medaglia d’argento al VM.
Aderisce al movimento partigiano del Piemonte sin dal 12.9.1943
e combatte nella 42ª Divisione Garibaldi. Si distingue per le sue
capacità di attaccamento agli ideali della Resistenza e per le sue
qualità militari tanto da avere l’incarico di comandante di distaccamento.
Il 20 aprile del ’45 fu una giornata tragica per la Divisione: in quella giornata si ebbe l’eccidio di Vaccherezza dove caddero sotto il
fuoco di preponderanti forze nemiche 13 partigiani e in località
Colle della Portia morirono altri 3 partigiani, tra questi Bevilacqua
che impegnato in un aspro combattimento contro reparti fascisti,
appoggiati dalle SS, fu ferito ad una gamba. Noncurante del dolore
continuò a battersi fino all’ultimo colpo di munizione. Circondato
56
e sopraffatto, invece di cedere al nemico e di arrendersi, preferì
suicidarsi con la propria arma.
Recentemente la Sezione Anpi di Condove Caprie, per accomunare
nel ricordo i caduti del 20 aprile ’44, ha collocato al Colle della
Portia una croce in memoria del sacrificio di Guido Bobba, Alfredo
Bevilacqua, Bruno Girardi. Da questa conca la mulattiera conduce
poi al sacrario di Vaccherezza.
MAZZEO SALVATORE
Nato il 30.12.1912 in Colombia ma residente a Camerota (Sa) alla
frazione Lentiscosa, tenente medico, aderisce dal 15.2.1944 alla
Resistenza partigiana in Val Sangone. Caduto mediante fucilazione
a Coazze-Forno il 16.5.1944
Il padre Luigi era medico ed esattamente Ufficiale medico a bordo
di navi transatlantiche sulla linea Napoli-New-York. Durante una
traversata la nave in seguito ad una tempesta fece naufragio - o
comunque fu costretta a fare scalo - sulle coste della Colombia. Qui
Luigi conobbe e si innamorò di una bella donna del posto (Rosalia
Bustilla) dalla quale ebbe tre figli: Antonio nel 1910, Salvatore nel
1912 e Giovanni nel 1914. Nel 1919 Luigi torna in Italia a Lentiscosa, dove esercita la professione di medico, portando con se i tre
figli che vengono cresciuti dalla sua nuova sposa italiana.
Da questo nuovo matrimonio nascono: Teresa nel gennaio del ’21
che però muore subito, Michele nel dicembre dello stesso anno,
Giovannino nel ’23 (unico dei fratelli attualmente vivente) e Vincenzo nel ’26.
È uno studente modello meritando anche diversi riconoscimenti,
ma anche generoso e altruista. Il fratello Giovannino a conferma di
ciò, ricorda che un’estate Salvatore meritò una medaglia al merito
civile per aver salvato una donna a mare. Salvatore prosegue i suoi
studi, sempre al convitto dei gesuiti, come esterno e si iscrive alla
facoltà di Medicina fino al conseguimento della Laurea.
Ritorna a Lentiscosa - il padre era nel frattempo ritornato in Colombia, dove aveva ancora interessi sia economici che professionali - e
qui comincia ad esercitare la professione - ma sempre a detta di
Giovannino «a scopo benefico e senza alcun intento di profitto».
57
Viene richiamato alle armi al Distretto di Salerno fino al suo trasferimento ad Avigliana nel gennaio del ’42.
In Val Sangone dal settembre del ’43 si formano i primi gruppi e
bande partigiane; ne fanno parte giovani ufficiali quali Luigi Milano, Giulio Nicoletta, Fassino, ecc. La Val Sangone faceva parte
della 4ª zona delle nove del Piemonte.
Il 1º aprile del ’44 si svolge una vera e propria azione di guerra della «banda Nicoletta» che ebbe anche un morto, Lillo Moncada (a
cui sarà intitolata la Brigata di appartenenza di Mazzeo). Di contro
i nazifascisti ebbero diversi morti e prigionieri, fra i quali anche
due marescialli tedeschi e un sottotenente. Questa azione partigiana
scatenò una rappresaglia nazifascista (con la partecipazione delle
SS italiane) che portò all’eccidio di Cumiana con l’esecuzione di
50 civili e un partigiano. Tutto ciò poco prima dell’arrivo di Nicoletta che avrebbe dovuto trattare uno scambio di prigionieri. Lo
scambio avverrà lo stesso ma con i soli superstiti.
È il mese delle più gravi perdite subite dalla Resistenza in Val Sangone.
Dal 10 al 18 maggio le truppe nazifasciste del generale Hansen si
scatenano in un rastrellamento di proporzioni mai viste in precedenza, attaccando dalle valli di Susa, del Chisone e dal fondovalle.
Gli scontri più duri avvengono sotto il Colle della Roussa (Sellery
e palazzina Sertorio), al col Bione, nell’alta valle dell’Indiritto ed
al Pontetto.
Alla fine del rastrellamento e della battaglia, durati nove giorni, e
nel prosieguo dell’ultima decade di maggio le mani amiche e fraterne dei valligiani, guidati da don Busso, raccolgono un centinaio
di caduti sia nei combattimenti che per fucilazione o esecuzioni
barbare e sommarie. In parte - 23 - nascosti in una fossa comune a
Forno, in parte prelevati dalle Carceri Nuove di Torino (provenienti
da rastrellamenti anche nella valle del Chisone e nel Canavese) e
fucilati alla Bonaria 11, a Valgioie 10, a Giaveno 10 e a Coazze
10.
I nazifascisti si abbandonano a violenze inenarrabili, culminate nel
cannoneggiamento delle borgate Selvaggio e San Pietro.
58
Riportiamo le notizie relative a Mazzeo (dall’archivio privato di
Mauro Sonzini dell’Anpi di Cuneo)
«... Salvatore Mazzeo, figlio di Luigi e fu Rosalia Bustillas, nasce
il 30 dicembre 1912 a Barranquilla in Colombia, Abita a Lentiscosa di Camerota in provincia di Salerno. Di professione è medico.
Iscritto al distretto militare di Napoli, Salvatore viene arruolato
nell’esercito con l’incarico di tenente medico. Il futuro comandante partigiano aviglianese Carlo Suriani riferisce che Salvatore era
in servizio alla territoriale di Avigliana presso gli impianti legati
ai dinamitifici Nobel, Valloia e Allemandi. Carlo aggiunge anche,
non senza invidia, che Salvatore fosse anche un bell’uomo assai
apprezzato dalle donne. A partire dal 15 febbraio 1944 Salvatore
aderisce alla Resistenza entrando, con il nome di battaglia Dottore,
tra le fila della banda Nicoletta, al comando di Franco Nicoletta,
futura 1ª brigata Lillo Moncada inserita nella 43ª divisione autonoma Valsangone Sergio De Vitis. Il 10 maggio 1944 le bande della
valle sono investite dal massiccio rastrellamento dell’operazione
Habicht: alle ore 3.40 colonne nazifasciste risalgono il fondovalle e
contemporaneamente scendono dalle valli laterali per imbottigliare
i giovani ribelli. L’attacco è atteso: la sera prima le bande hanno
lasciato il fondovalle per ritirarsi a monte in posizioni di sicurezza
predisponendo reti di sentinelle e il minamento dei ponti a Pontepietra e a Sangonetto. Le squadre che hanno il compito di far
saltare i ponti non riescono nell’intento favorendo la penetrazione dei nazifascisti come alla Maddalena dove cominciano subito
a rastrellare attaccando la banda Nino-Carlo. Invece alle spalle i
partigiani non prendono particolari precauzioni. Proprio lì s’annida
l’insidia: nella notte dalle valli Chisone e Susa un ingente numero
di nazisti del 617° battaglione Est, formato da russi di varie nazionalità specializzati in guerra ad alta quota, sale sui colli e nel
silenzio dell’alba piomba a valle. Al colle Bione i nazifascisti s’imbattono subito in un avamposto della banda Genio che ingaggia
combattimento dovendo poi cedere per l’inferiorità. Ma dal colle
della Roussa scendono lungo il corso del Sangone trovando alla
loro sinistra le baite del Sellery inferiore con un distaccamento della banda Sergio e in basso la villa Sertorio con un distaccamen59
to della banda Nicoletta: è attacco simultaneo. Non è ancor l’alba
quando la battaglia s’accende tragica e furiosa: i partigiani son colti
nel sonno, non si sa neppur se riescano a dar l’allarme collettiva,
l’ordine «Si salvi chi può» disunisce il gruppo. Le mitragliatrici
son posizionate in modo da snidar i partigiani dai rifugi e colpirli
mentre fuggono. Priva di vegetazione, la zona non dà scampo: tanti cadono sul posto. Altri, feriti compresi, tentano disperatamente
di mettersi in salvo braccati dai nazisti: alcuni muoiono più in là,
altri finiscono catturati, solo qualcuno riesce a fuggire. Va meglio
alla villa Sertorio: i partigiani resistono all’interno asserragliati fin
quando verso mezzogiorno i nazifascisti si ritirano. Ma appena
escono, i partigiani sono attaccati e messi in fuga dalla colonna che
risale il fondovalle. A sera il bilancio è di una cinquantina di partigiani e dieci civili uccisi, a cui s’aggiungono numerosi prigionieri
portati alle carceri Nuove di Torino, parecchi feriti, un imprecisato
numero di dispersi e oltre cento case incendiate. Il rastrellamento
però continua nei giorni seguenti con pattuglie che percorrono le
montagne rastrellando i partigiani che ormai si muovo allo sbando.
Molti, tra cui anche Salvatore Dottore Mazzeo, vengono catturati,
imprigionati e torturati nella scuola elementare di Coazze mentre
si passa ora ad intimidire le popolazioni locali ree d’esser complici
dei partigiani. Infine, quando ormai s’apprestano a lasciar la valle,
i nazifascisti attuano l’ultimo obiettivo: lasciare un monito a futura
memoria. Il 16 maggio è il giorno della mattanza. Una trentina di
partigiani prelevati dalla scuola vengono portati a Forno di Coazze
e divisi in diversi gruppi: Dottore viene fucilato a trentadue anni in
località Prese Garida a Forno di Coazze, dopo esser stato costretto
con il diciannovenne giavenese Renato Ruffinatti, il ventiseienne
romano Umberto Pavone e il ventisettenne siciliano Filippo maresciallo Franco Mazzaglia a scavarsi la fossa mentre venticinque
altri compagni vengono mitragliati alle gambe, lasciati agonizzare per l’intera notte e l’indomani sepolti vivi in riva al Sangone
nell’eccidio della Fossa Comune di Forno di Coazze e altri compagni ancora proseguono per esser fucilitati in vari altri punti della
località. La salma di Dottore sarà ritrovata il 29 maggio 1944 da
Irma Ruffinatti, mamma di Renato, in una spedizione sopra Forno
di Coazze per ritrovare e seppellire i tanti caduti del rastrellamento.
Gli elementi utili per il riconoscimento della salma di Dottore sono
60
pantaloni grigi chiari, giubba blu, scarpe da sciatore, baffetti neri
piccoli, capelli neri ondulati, vestiti civili. Dottore è oggi sepolto
insieme a 95 compagni partigiani nell’Ossario dei Caduti Partigiani
di Forno di Coazze».
NICANDRO CONTE
La figura del partigiano Tacito non può essere annoverata tra quelle
dei «partigiani salernitani caduti sul campo» in senso stretto, ma
vogliamo brevemente descriverla lo stesso per alcuni precisi motivi. In primo luogo perché Conte è campano e poi ha studiato alla
scuola militare a Salerno e di qui è partito verso la sua destinazione
di Prazzo in qualità di Tenente della GAF. Nato a S. Pietro Infine (Ce) nel 1915, tenente in SPE presso il Sottosettore 1V/B della
GAF, all’armistizio organizza i suoi soldati in bande improvvisate;
è tra i primi a prendere contatto con gli antifascisti che cercano di
organizzare un movimento partigiano. Con l’arrivo dei garibaldini
aderisce al nascente Comando Valle Varaita (Poi XI Div: Garibaldi
Cuneo - 181ª Brg. – «Morbiducci»).
Nome di battaglia «Tacito». Catturato in data imprecisata durante il rastrellamento della valle Varaita (iniziato il 25 Marzo 1944)
viene condotto il 2 Aprile 1944 a Paesana con altri 9 rastrellati (poi
fucilati al cimitero lo stesso giorno) da un reparto tedesco dell’SS
Polizei Rgt. 15 -14ª Pz. Jg. Kp. Da Paesana condotto al Biatonè viene costretto a gettarsi nel bacino della centrale legato ad una corda
per recuperare le trote uccise con bombe a mano dai soldati. Viene
successivamente fucilato e abbandonato sul posto. La salma verrà
trasportata, probabilmente da valligiani, al cimitero di Calcinere e
ivi sepolta.
61
I salernitani nel movimento di resistenza
e nella guerra di liberazione in altre zone d’Italia
Oltre che in Piemonte, notevole è stato l’apporto dei salernitani
anche nelle altre zone d’Italia dove si combatteva la Resistenza e la
Guerra di Liberazione, sia perché militari sbandati, sia perché già
residenti altrove, ma anche per scelta volontaria.
Tutte le zone interessate alla lotta partigiana hanno visto combattenti salernitani: il Lazio, la Toscana, le Marche, l’Abruzzo, la
Liguria, l’Emilia, il Veneto, la Lombardia, il Friuli, il Trentino.
Composita anche l’appartenenza alle varie formazioni: garibaldini,
matteottini, repubblicani, formazioni militari del PCI, appartenenti
a bande autonome, Corpo Italiano di Liberazione, monarchici.
Non è possibile censire esattamente quanti furono complessivamente i salernitani che combatterono in Italia – ad esclusione del
Piemonte - nelle diverse formazioni o settori del CLN, il solo dato
che possiamo dare è quello relativo agli iscritti all’Anpi di Salerno
che sono 104.
Di alcuni di questi riportiamo le schede con brevi note.
QUINTINO DI VONA
Nacque a Buccino (Sa) il 30 novembre 1894, in una modesta
casa di contadini. Presto il padre per poter mantenere la famiglia, fu
costretto ad emigrare negli Stati Uniti. Riuscito con la sua operosità
a trovare un buon lavoro poté rimettere mensilmente quanto necessario ad un migliore tenore di vita della famiglia, tanto che Quintino, destinato ad imparare un «mestiere» e fare il sarto, chiese di
essere mandato al ginnasio. Dotato di ingegno e volontà frequentò
il ginnasio al «Settembrini» e poi il Liceo Tasso a Salerno.
Ferito gravemente alla mascella, lingua e collo, durante la prima
guerra mondiale, portava sempre sul risvolto della giacca il distintivo di mutilato.
Rimase sempre legato alle sue origini «contadine» e proletarie,
già a 15 anni leggeva l’«Avanti» di Milano e nel giugno del 1921 in
62
una lettera indirizzata alla moglie, confidò di doversi recare a Buccino perché incaricato di organizzare le Leghe operaie e la sezione
del Partito Socialista Rivoluzionario.
In effetti divenne promotore di conferenze, di manifestazioni politiche e comizi nonché segretario della sezione Socialista di
Buccino «Andrea Costa». Il primo maggio 1922 per sua iniziativa si
tenne nella piazza del paese un importante comizio e un imponente
corteo. Divenne in quegli anni amico e collaboratore di Matteotti.
Insegnante in diversi istituti medi, senza abbandonare la sua attività antifascista, nel 1933 ebbe la cattedra al Liceo Carducci di
Milano.
Coadiuvò inoltre a pubblicazioni e giornali clandestini antifascisti e fu uno stretto collaboratore di Francesco Saverio Nitti. Anche
nella sua professione di insegnante metteva al primo posto l’attività
antifascista, la segretaria del Liceo batteva a macchina i suoi scritti
di propaganda: il Liceo Carducci fu la sede del primo C.L.N. della
scuola.
A Milano strinse viepiù rapporti con elementi di spicco della
sinistra marxista, sostenne inoltre attivamente Eugenio Curiel nella
fondazione del Fronte della Gioventù, intessendo una rete di collegamenti e contatti che lo portarono ad iscriversi al PCI.
Ma fu dopo l’otto settembre ’43 che intensifica la sua attività
febbrile volta a organizzare gruppi di lotta clandestina e di appoggio logistico per i primi nuclei che si andavano formando di gappisti e di partigiani di montagna. Questo non senza impegnarsi in
prima persona anche in episodi di lotta armata. Una testimonianza
riportata dalla moglie e ricevuta dopo la sua morte rivela che il 10
settembre ’43 assieme ad altri quattro giovani cercò in armi di far
saltare il ponte di Cassano d’Adda ma fu respinto dal forte presidio
militare italiano che non volle aderire al sabotaggio.
Qualche giorno dopo, sempre in compagnia di alcuni giovani
collaboratori a Crescenzago lanciò delle bombe a mano contro un
carro armato tedesco.
63
Continuò in clandestinità a preparare l’insurrezione contro il nazifascismo: sia la sua casa di Milano che quella di Inzago – dove
era sfollata la famiglia - erano sedi di operazioni di supporto alla
lotta partigiana, tutto passava di lì, dalle notizie ai medicinali, dalle
derrate alimentari ai mezzi finanziari, ai documenti.
Nella sua attività clandestina incontra anche vecchi compagni
di lotta: è il caso di Giovanni Vitale da Pellezzano, il «Maggiore
Mariani» comandante della Divisione partigiana «Italia» operante
nel Monferrato, per studiare piani di azione a favore della lotta partigiana.
Fu organizzatore della Brigata Mattei e fece parte della 119ª brigata garibaldina SAP che poi prese il suo nome.
Il tradimento perpetrato da una spia, che rivelò che il bonario
professore di latino dagli occhi cerulei, era anche un elemento di
spicco della lotta clandestina al nazifascismo.
Il 7 settembre 1944 all’alba, decine di repubblichini invasero
Inzago e circondarono la casa del professore. Questi al trambusto
e agli spari cercò di capire cosa stesse accadendo, quando i militi
bussarono al portone dell’ingresso prinicipale. La moglie afferrò
subito la cartella del marito e ordinò alla sorella di nasconderla.
Fu aperto; apparvero i fascisti e con essi le SS che irruppero nella
casa. Il tenente Schage, fascista dell’Alto Adige, diede ordine di
perquisire l’abitazione. Il nascondiglio improvvisato di Quintino Di
Vona fu subito scoperto e questi comparve in mezzo a due tedeschi:
non aveva fatto in tempo a fuggire. Fu spinto verso una parete, perquisito ed ammanettato, ciononostante di nascosto il professore era
riuscito a passare alla moglie la foto di un giovane partigiano di cui
stava falsificando un documento. Mentre i fascisti apparivano appagati dell’esito della loro operazione che aveva finalmente portato
alla cattura di un antifascista da mesi e mesi ricercato, lo spinsero
fuori nel cortile allentando la sorveglianza. Nella casa rimase soltanto un soldato delle SS che dimostrò comprensione e, alla moglie
in lacrime, disse che la spiata era arrivata da Monza. In caserma,
subì lunghi e severi interrogatori, fu preso a pugni al viso, frustato.
64
La dentiera cadde in pezzi, il sangue grondava dalla bocca, lungo il
viso. Volevano sapere i nomi dei suoi compagni, conoscere notizie
sul movimento dei partigiani. Naturalmente non gli cavarono alcunché, il professore non parlò e tenne un atteggiamento fiero, coerente
alla sua personalità. Per creare disorientamento i militi il mattino
seguente fecero affiggere manifesti che annunciavano l’avvenuta
esecuzione del prigioniero. Invece, questa avvenne alle 14,30 dopo
un sommario processo presieduto da un sergente delle SS di nome
Werning. Uno dei militi gli strappò con violenza il distintivo di mutilato a cui lui teneva moltissimo. Lo portarono nella piazza principale di Inzago ed un plotone di repubblichini, tutti ragazzini dai
tredici ai sedici anni, provvide alla spietata esecuzione mediante
fucilazione. Mentre i giovanissimi militi repubblichini si apprestavano alla esecuzione, ebbe la forza di gridare verso di loro: «Col
mio sacrificio l’Italia non sarà vostra lo stesso!»
La salma fu dileggiata, un fascista la colpì con un calcio, un altro
ancora osò sputargli in faccia e abbandonata sulla piazza fino a notte. A sera una mano pietosa adagiò sul cadavere dell’eroico martire
antifascista una dalia rossa.
Renzo e l’assalto al carcere degli scalzi
LORENZO FAVA nacque a Nocera Inferiore, città che gli ha
dedicato una strada e una lapide posta nell’atrio del Municipio, il
20 maggio 1919. Ben presto la sua famiglia si trasferì in Polesine e
compì gli studi medi al Liceo «Scipione Maffei» di Verona per poi
iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Padova.
Nel 1941, benché contrario alla guerra, si arruolò negli alpini e
dopo un anno di corso alla Scuola allievi Ufficiali di Bassano del
Grappa, era stato inviato con grado di sottotenente del Battaglione
Val Chisone con le truppe di occupazione in Montenegro. Durante
una battaglia che culminò con la presa di quota 852 in Montenegro,
fu decorato con la Croce di Guerra al V.M.
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L’otto settembre era in Italia nei pressi di Sarzana, ritornò velocemente a casa dai suoi ma solo per raccogliere poche cose; con
il suo capitano andò in montagna nella zona sovrastante il Lago
di Garda riva bresciana. Suo compito era assicurare i collegamenti
tra i comitati di Brescia-Trento-Milano. In questa fase ebbe anche
modo di accompagnare perseguitati politici ed ebrei alla frontiera
svizzera. Successivamente fu a Brescia dove collaborò con il Partito Comunista bresciano.
Il momento culmine della sua crisi fu determinato dagli avvenimenti successivi al 9 novembre del ’43 quando il Rettore dell’Università di Padova Marchesi pronunciò il famoso discorso inaugurale dell’anno accademico e l’appello agli studenti. Il fratello Nino fu
arrestato per questo e internato proprio agli Scalzi.
Nel marzo del ’44 ritornò a Verona per continuare la sua azione
nelle formazioni dei G.A.P. Nei mesi di maggio, giugno e luglio
assieme ad altri compagni, Fava prese parte a tre azioni lungo la linea ferroviaria Verona-Brennero, con azioni di sabotaggio mediante
ordigni esplosivi di accensione ad acido solforico. Unitamente al
gappista Pretto, Lorenzo Fava collocò un ordigno esplosivo nella
vetrina dell’uffico propaganda del fascio sita in via Mazzini di fronte al bar Cillario. La bomba fu confezionata entro la copertina di un
libro delle opere di Goethe, che fu abilmente sostituito dal Fava con
il vero volume pochi minuti prima della chiusura del locale. Unitamente ad un altro gappista (Ugolini), provvide a collocare un secondo ordigno esplosivo nella nuova sede di propaganda in via Mazzini
angolo via Cappello. Il Fava partecipò all’atto di sabotaggio compiuto in Valdonica contro l’impianto telefonico ivi esistente.
L’azione più clamorosa è l’assalto al Carcere degli Scalzi, dove
era rinchiuso da sette mesi Giovanni Roveda il prestigioso dirigente
sindacale che dopo 17 anni di detenzione il 25 luglio del ’43 era
riuscito ad evadere da Ventotene. Dopo aver ripreso la sua attività di
sindacalista, gli avvenimenti dell’8 settembre lo avevano costretto
alla clandestinità, ma a dicembre fu di nuovo catturato dalla Banda
Koch e portato quasi subito nel carcere di Verona.
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Solo a maggio del ’44 la Direzione del PCI seppe dell’internamento di Roveda a Verona e fu inviato un funzionario in quella città
con il compito di cercare di liberare il popolare sindacalista.
La liberazione di Roveda fu attuata con una ardita operazione
gappista verso le 18,30 del 17 luglio del ’44.
Uno dei gappisti elegantemente vestito (Emilio Berardinelli),
fattosi aprire con uno stratagemma la porta principale del carcere,
punta la pistola al petto del guardiano e permette a quattro suoi
compagni, armati di mitra e bombe a mano, di entrare e impossessarsi delle chiavi. Due di loro salgono al piano superiore, mentre
altri due (e uno di questi era Fava) restano a guardia della porta
principale. I due liberano Roveda e si precipitano giù dove nel frattempo è iniziata la sparatoria, riescono a risalire in macchina ma il
motore si spegne e sono costretti a scendere in tre e farla ripartire a
spinta, uno dei tre era Fava.
La gragnuola di colpi, esplosi anche da militari tedeschi lì accorsi perché richiamati dagli spari, colpiscono a morte Danilo Pretto e
feriscono gravemente Lorenzo Fava. Lorenzo è catturato non prima
di aver distrutto alcuni documenti che avrebbero potuto essere di
aiuto ai nazifascisti per identificare i gappisti. In carcere, ferito e tra
l’altro con una pallottola nel polmone sinistro, non solo non viene
curato adeguatamente ma viene sottoposto a interrogatori estenuanti e a torture, ma non parla.
Il padre riesce a vederlo per caso la mattina del 23 agosto e gli
viene detto che lo trasferiscono in ospedale per curare la mano sinistra che, per la stretta delle manette, aveva tre dita in gangrena.
Ma non è così, lo portano al Forte Procolo di Verona e alle 11 lo
fucilano.
Un anno dopo in occasione della visita di Roveda a Verona per
rendere omaggio ai morti dell’azione che lo aveva liberato, il giornale «Verona libera» pubblicava la testimonianza del «... vicecustode del cimitero, Attilio Gasperini … ci ha narrato che il cadavere
del Fava venne portato ancora sanguinante al camposanto mattina
del 23 agosto alle ore 11. Le SS, scaricando dalla camionetta, su
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cui era deposto, quasi nudo, il corpo del martire, dissero soltanto
che si trattava di un uomo (uno dei tanti) trovato morto in seguito a
colpi di arma da fuoco nel recinto Forte Procolo e che si chiamava
Lorenzo Fava. Null’altro».
Alla memoria di Lorenzo Fava l’Università di Padova ha conferito dopo la Liberazione la laurea «ad honorem» ed è stato insignito
della M.O.V.M.
UGO STANZIONE
Nato il 25.5.1921 a Salerno, morto il 5.2.1944 a Civago - medaglia d’argento al VM.
Tenente dell’Accademia Militare di Modena era stato distaccato a Sassuolo, presso la Caserma detta dell’ISMA in via Radici di
Piano.
A Sassuolo si fidanzò con una ragazza che abitava a Borgo Venezia e proprio frequentando la sua casa, ebbe modo di incontrare
Antonio Braglia e altri giovani detti il «gruppo di Borgo Venezia».
[riportato da Eravamo tutti uguali di Francesco Genitoni ] «[...]
Buona parte di questi uomini abitavano o erano legati al quartiere
operaio di Borgo Venezia. Qui si erano tenute riunioni, da qui partirono le prime spedizioni per strappare o imbrattare manifesti di
minaccia e di guerra, per radunare armi, per raccogliere qualche
finanziamento [...]. Non a caso il Circolo di Borgo Venezia è dedicato ad Alete Pagliani, uno dei ragazzi trucidati a Manno nell’ottobre del ’44, che qui era nato. E non a caso le strade nel cuore
del quartiere sono intitolate a persone e luoghi della resistenza:
Via don Pigozzi, Degli Esposti, don Minzoni, Rosselli, Staffette
Partigiane [...] Via Montefiorino, Manno, Monchio, Santa Giulia,
Costrignano [...] Nomi fondamentali nella mappa della resistenza
modenese [...].
Le note che seguono, invece, sono state desunte dalle testimonianze della commemorazione del 18.11.1984 a cura dei Comuni di
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Villa Minozzo e Sassuolo, e da Una provincia partigiana di Claudio Silingardi.
«[...] Il 9 settembre del ’43 il battaglione corazzato di stanza
a Sassuolo già dal 25 luglio, comandato dal maggiore Schulze (6º
panzerdivision), attaccava prima un plotone di cavalleria proveniente da Parma e quivi per esercitazioni. I soldati sia per la sorpresa che per la palese inferiorità numerica furono costretti a cercare rifugio nel parco. Di contro gli altri militari e civili arroccati
nel Palazzo Ducale iniziarono a sparare verso il mercato allo scopo
di impegnare i tedeschi e proteggere i cavalleggeri. I tedeschi dopo
aver sopraffatto il plotone dei cavalleggeri si diressero - come detto - verso il Palazzo Ducale sede del distaccamento italiano. Qui vi
erano circa 50 uomini (anche civili raccoltisi all’atto dell’armistizio) e 6 ufficiali che con scarso armamento opposero una strenua
resistenza soccombendo solo all’esaurimento delle munizioni. I tedeschi al contrario erano ben armati (fucili, mitragliatori, mortai e
carri armati), dopo avevano usato tutta la potenza di fuoco a loro
disposizione, ricorsero al fuoco dei cannoni dei carri utilizzando
anche proiettili incendiari. Nella battaglia del Palazzo Ducale perse kla vita un soldato italiano Ermes Malavasi e vi furono diversi
feriti. Il generale Ugo Ferrero che rifiutò di aderire al terzo reich
fu per questo deportato in campo di concentramento; morirà brutalmente ucciso da un caporale delle SS in quello che è ricordato
come l’eccidio di 6 generali italiani il 28 gennaio del ’45.
Dopo la battaglia del Palazzo Ducale a Sassuolo, solo una parte
dei combattenti italiani si sottrasse alla cattura - tra questi vi era
anche il Ten. Ugo Stanzione - e impadronendosi delle armi rimaste nel deposito del Palazzo diedero vita ai primi nuclei di ribelli
[...]».
Stanzione tra di loro si impose subito soprattutto per la sua conoscenza ed esperienza militare facilitando non poco la creazione
del primo distaccamento mobile di ribelli quale punto di riferimento
sia per altri volontari che volevano sfuggire alle retate fasciste e dei
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tedeschi, sia a garanzia delle popolazioni esposte in pianura alle
persecuzioni nazifasciste.
Stanzione – era il 7 novembre del ’43 - salì in montagna alle
«macchie» di Monchio con la prima pattuglia ribelle contribuendo
in modo determinante alla sua necessariamente lenta evoluzione in
formazione partigiana.
Ma quando nel febbraio del ’44 la formazione partigiana si stava
riunendo con altri gruppi operanti nel reggiano, Stanzione trovò la
morte in seguito alla aggressione di un certo Fini, un bandito che
unitosi alla formazione si era reso responsabile qualche giorno prima della uccisione di un contadino nella sua abitazione. Stanzione
venuto a conoscenza dell’episodio si portava subito nell’abitazione
della vittima e, offrendo la sua parola di ufficiale, di uomo e di
partigiano, giurò che avrebbe di persona fatto giustizia. Rientrato in
sede strappò al consiglio della formazione l’incarico di eliminare il
Fini giustiziandolo personalmente. Purtroppo questi, non essendo
stato colpito al primo colpo, reagì agilmente colpendo a sua volta
Stanzione prima che gli altri 7 partigiani presenti lo freddassero.
Colpito all’altezza del bacino, non morì che dopo circa 40 minuti
di agonia per dissanguamento, dopo essere stato trasportato in una
povera casa che in quel periodo aveva funzione di infermeria per
tutta la zona; era il 5 febbraio 1944. La sua perdita fu un grave colpo
per la formazione, che da quel momento prese il nome di Distaccamento Stanzione. Inoltre i partigiani reggiani e modenesi inviarono
un dettagliato rapporto ad Ottavio Tassi che con lo pseudonimo di
«ZeroZero» coordinava il movimento a Sassuolo. Quella casa è a
Civago in località Case Catalini e su uno dei suoi muri il 18.11.1984
è stata posta una lapide che ricorda il sacrificio di Stanzione caduto
per la liberazione del Paese.
CUCCI EDUARDO
Nato a Serre (Sa) il 13.10.1914, morto il 30.6.1944 a Grosseto
in un canneto.
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Notizie riferite dal nipote omonimo e medico a Serre:
«[...] Mio zio era ufficiale dell’esercito e poiché era diplomato in
agraria fu addetto alla cura dei cavalli a Persano, di qui fu trasferito
– pare assieme al Passannanti - a Grosseto. Dopo l’8 settembre gli
fu tolta la pistola perché non aveva voluto aderire alla RSI. Catturato dai tedeschi fu ucciso con un colpo alla nuca in un canneto
nei pressi di Grosseto [...]». Un altro parente riferisce che il Cucci
aveva effettivamente preso contatto con i partigiani locali e militato
nelle loro fila.
I suoi resti in un cassettino militare sono conservati nella tomba
di famiglia nel cimitero di Serre.
MAX CASABURI
Nato a Salerno il 26 luglio 1906, ucciso a Mattarello (Trento) il
28 aprile 1945, ufficiale di carriera e capo partigiano, Medaglia di
bronzo al valor militare alla memoria.
In servizio militare in Montenegro, manifestò sentimenti e azioni di tutela nei confronti degli ebrei jugoslavi. Per questi motivi fu
rimpatriato; l’otto settembre lo trovò a Roma e qui prese parte alla
difesa della capitale. Fu catturato dai tedeschi e deportato una prima
volta, ma nei pressi di Parma riuscì a fuggire e unirsi alle forza della
Resistenza locale. Ebbe incarichi di rilievo nelle formazioni partigiane con il nome di Montrone. Nel marzo del ’45 in seguito a una
delazione fu nuovamente catturato dai nazisti, torturato non rivelò
i nome dei suoi collaboratori e rinunziò alla promessa di libertà in
cambio di altri prigionieri. Deportato nuovamente fu internato nel
campo di Gries a Bolzano. Liberato dagli alleati iniziò assieme ad
altri compagni di prigionia il viaggio di ritorno in Italia. Il 28 aprile
nei pressi di Trento, mentre in fila indiana marciavano sul ciglio
della strada, ebbero la ventura di incontrare dei militi fascisti in
fuga proprio da Parma, vennero riconosciuti e fermati. Casaburi si
interpone tra i suoi compagni e i militi fascisti e capita l’intenzione
di quest’ultimi tenta una fuga disperata ma viene subito falciato,
71
mentre gli altri per ironia della sorte vengono salvati proprio nel
mentre stavano per essere fucilati da un colonnello tedesco che ne
impone la liberazione. A Max Casaburi sono state intitolate strade
a Parma e a Salerno.
PASSANNANTI ALFONSO
Nato a Battipaglia (Sa) nel 1922 maestro e studente universitario, fu allievo ufficiale nell’esercito italiano. Fucilato a Maiano
Lavacchio fraz. di Magliano (Gr) il 22.3.1944. Riconosciuto partigiano caduto in combattimento dalla apposita Commissione Regionale nel 1945.
La sua triste vicenda ebbe luogo a Maiano Lavacchio, frazione collinare del comune di Magliano, contraddistinta dalla folta
macchia del Monte Bottigli. Passannanti dopo l’armistizio rifiutò
l’adesione alla Repubblica di Salò e raggiunse Istia una località del
Monte Bottigli, dove fu ospitato dalla famiglia Matteini fino al febbraio ’44. Si trattava di una zona piuttosto isolata e difficile da raggiungere, che divenne presto meta di ex-soldati del Regio Esercito,
renitenti e clandestini che si unirono agli sfollati giunti da Grosseto
e Roma per timore dei bombardamenti. Questi «refrattari», la cui
permanenza in zona fu favorita da alcuni elementi quali Agenore
Matteini e il poeta Mario Cipriani, svolgevano lavori agricoli presso i contadini che li ospitavano, ricevendo in cambio un piatto caldo
ed un modesto alloggio. Questo gruppo di «ragazzi» come erano
conosciuti in zona, in seguito alla delazione di una spia vennero sorpresi dalla spedizione (c.a. 140 uomini) composta da una colonna
di guardie nazionali repubblicane, un plotone di polizia, un nucleo
di carabinieri e alcuni soldati tedeschi, che era capeggiata da un
certo cap. De Anna, il commissario di PS Scalone e il sottotenente
Muller. Nel frattempo gli altri poderi della zona (l’«Appalto», il
«Lavacchio» e la «Sdriscia») furono accerchiati e perquisiti da altri
fascisti, allo scopo di evitare che qualcuno facesse fallire la sorpresa avvisando i renitenti. Alle cinque e mezzo del mattino i fascisti
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raggiunsero l’obiettivo e intimarono la resa ai «ragazzi» colti nel
sonno; le capanne furono subito devastate e i prigionieri, che non
opposero alcuna resistenza in quanto disarmati.
I fascisti coi prigionieri giunsero all’ «Appalto» e, dopo aver
fatto sgombrare la scuola, si servirono dell’aula per inscenare il processo farsa dove furono imputati gli undici giovani insieme ad altri
fermati. Dopo soli venti minuti fu decisa la fucilazione degli 11
giovani. I «ragazzi» furono condotti fuori dell’aula alle 9,10 e barbaramente trucidati tra le urla e i pianti di familiari e amici, tenuti
forzatamente lontani dalla scena. Compiuto il misfatto, i fascisti si
abbandonarono a una macabra danza e urla di gioia. Poco dopo,
l’infida colonna ripartì abbandonandosi alle solite intemperanze e
trasportando sui carri i beni razziati dai poderi.
PAPPACENA FRANCESCO
Nato a Sarno nel 1925, morto il 19.3.1945 fucilato a Chignolo Po. Non aderì alla RSI ed entrò in contatto con la Resistenza a
Pieve Porto Morone in provincia di Pavia. Alla fine di ottobre del
44 aderì alle formazioni partigiane della 167 Brigata SAP «Fratelli
Bianciardi» e ne divenne in poco tempo vice comandante. Partecipò
a svariate azioni belliche tra il dicembre ’44 e il gennaio ’45, combattendo contro le brigate nere che seminavano il terrore nella zona
del lodigiano.
Una in particolare va ricordata, a Chignolo Po c’erano molti tedeschi e dei militari «gordisti» (equivalenti ai fascisti) cecoslovacchi.
Una notte del febbraio 45 Pappacena assieme ad altri due giovani
partigiani, Gianni de Vecchi ed Ermanno Monti sempre inseparabili, entrarono nel municipio e stamparono con il ciclostile volantini
contro gli oppressori, esposero una bandiera rossa con falce e martello al balcone, uscirono sulla via principale affiggendo i volantini
inneggianti alla Resistenza e all’insurrezione armata e riuscendo a
mettere in fuga anche una pattuglia tedesca intervenuta.
73
Dopo qualche settimana, nella notte tra il 18 e il 19 marzo 45,
mentre erano ospitati in una cascina nel comune di Ponticelli Pavese, una spia ne segnalò la presenza ai repubblichini di Corteolona.
Due camion carichi di brigatisti neri e SS circondarono la cascina.
Si sviluppò una violenta sparatoria in quanto i tre partigiani offrirono una strenua resistenza, ma quando i nazifascismi uccisero il
padre e una sorella del fiancheggiatore che li aveva ospitati decisero
di arrendersi per evitare l’annientamento della famiglia intera.
Il de Vecchi ferito per non farsi catturare si uccise. Franchino ed
Ermanno furono condotti dai nazifascisti a Chignolo Po in un fossato sottostante le mura del cimitero, perché a questo paese intero,
antifascista e partigiano, volevano dare una lezione. La popolazione
si radunò attorno al cimitero protestando, ma furono fucilati davanti
a tutti a ridosso appunto delle mura del cimitero. Era il mattino del
19.3.1945.
Le mura del cimitero in seguito furono allargate, ma il tratto
dove erano stati fucilati i giovani partigiani fu lasciato intatto e una
lapide ne ricorda il sacrificio.
GIOVANNI VITALE
Nato a Pellezzano (Sa) l’11 novembre del 1898, aderì sin da
giovane alle idee socialiste. È uno degli arrestati degli antifascisti
salernitani che subirono la pesante reazione repressiva in occasione
del primo maggio 1925. Lo ritroviamo nel racconto della vedova di
Quintino di Vona14 in un incontro con il marito svoltosi a Trino Vercellese per coordinare il movimento partigiano piemontese e quello
lombardo e studiare quindi l’attuazione di un piano di lotta comune.
All’epoca era già comandante della Divisione Italia, col nome di
battaglia «Capitano Mariani», operante nel Monferrato.
Nella scheda dell’Istoreto è riportata la sua appartenenza alla
181° brigata Garibaldi dal 11.9.43 al 7.6.45.
14 Lina Di Vona Caprio, Vita di Quintino di Vona, Milano 1954, p. 132
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CAPITOLO 4
La partecipazione dei salernitani alla Resistenza all’estero
La Resistenza all’estero dei combattenti italiani e quindi anche dei salernitani, oltre ai militari della 4ª Armata che rimasero in
Francia a lottare con la Resistenza Francese, si svolse nei Balcani
e in Grecia.
In particolare i partigiani presenti nell’archivio dell’Anpi di Salerno che hanno appunto combattuto all’estero, sono in totale oltre 320, con questa distribuzione percentuale: Francia 4%, Albania
20%, Grecia 31%, Jugoslavia 45%.
Jugoslavia
La presenza militare italiana in Jugoslavia al momento
dell’armistizio era quantitativamente rilevante e questo dato numerico era dovuto alla presenza di truppe qui stanziate nella fase
successiva all’occupazione di quei territori - avvenuta nella primavera del 1941- grazie all’azione congiunta del nostro esercito e di
quello tedesco.
Gli italiani contavano infatti su una presenza di circa 408.000
uomini1, anche se il loro schieramento era frammentato in una serie
di piccoli presidi e dislocato lungo un arco territoriale ampio, che
andava dall’Istria all’Albania, cosa che ne limitava le possibilità di
un rapido spostamento ai fini di una eventuale azione congiunta.
Vi erano inoltre difficoltà ulteriori sul versante della rapidità decisionale, trasmissione degli ordini e scambio delle informazioni cre1 G. Rochat in Gli Internati Militari Italiani, Einaudi, 2009, Prefazione p. XXI
75
ate dalle diverse dipendenze gerarchiche delle Armate e dei Corpi
d’Armata2.
Le truppe italiane erano inquadrate nelle divisioni della 9ª Armata (Marche, Messina, Emilia, Ferrara, Venezia e Taurinense) di
stanza in Erzegovina e Montenegro, mentre le otto divisioni componenti la 2ª Armata (Cacciatori delle Alpi, Isonzo, Lombardia,
Macerata, Murge, Bergamo, Zara, Eugenio di Savoia) erano schierate in Slovenia, Croazia e Dalmazia.
I tedeschi già la sera dell’8 settembre misero in atto l’operazione
«Achse»3 con l’arresto dei comandanti di più alto grado e sabotando
la rete dei collegamenti sia tra le singole unità che verso l’Italia.
Le possibilità decisionali furono quindi forzatamente assunte dai
comandanti di unità i quali, in mancanza di ordini precisi, poterono
solo reagire secondo quanto dettato dal loro istinto alle intimazioni
di resa dei reparti germanici.
I militari italiani si trovarono quindi letteralmente sotto il fuoco
incrociato dei partigiani locali e dei tedeschi, cosa che per molti di
loro significò l’inizio del calvario della deportazione e internamento in campi di concentramento e di lavoro, mentre per molti ufficiali
si tradusse nella fucilazione immediata.
Per molti altri militari italiani fu invece il momento di scelte
coraggiose e di non ritorno, come la decisione di non arrendersi e di
combattere a fianco della Resistenza contro i nazifascisti e nei territori slavi si aggregò così la parte numericamente più consistente
del partigianato italiano all’estero4.
2 S. Gestro, La Divisione partigiana Garibaldi, Mursia, 2007, pag.67
3 Operazione Achse («Asse») è il nome in codice di un piano predisposto
dall’Oberkommando der Wehrmacht (OKW) e affidato al Generalfeldmarschall Erwin Rommel, relativo all’occupazione dell’Italia, da parte della Wehrmacht, in caso di defezione
dell’Italia dalla guerra. Era appunto prevista una ferma azione volta a rendere innocue le
forze armate italiane, impadronendosi dei loro equipaggiamenti, e, se fosse stato necessario,
di distruggerle o catturarle in quanto nemiche del Terzo Reich.
4 Nel corso della seconda guerra mondiale la Jugoslavia venne spartita tra Italia e Germania. Parte della Slovenia con Lubiana e la Dalmazia divennero italiane, la Croazia e
la Bosnia-Erzegovina divenne il Regno Croato indipendente ma con reggenza affidata al
fascista ustascia Ante Pavelic, la Srbia un protettorato tedesco, il Montenegro aggregato
76
Questo fu quello che avvenne per due Divisioni del nostro esercito:
- il 9 ottobre 1943 la Divisione di fanteria da montagna «Venezia» passò al completo e con le armi nel II° Korpus dell’EPLJ, e
ciò non accadde in modo incruento ma dopo una serie di scontri e
combattimenti furiosi come quello di Jernisa Glava del 14 ottobre
nella presa del passo di Ciakor che determinò forti perdite tra gli
uomini della ex-Venezia;
- la Divisione alpina «Taurinense» era dislocata nel triangolo
Ledenice-Crkvice-Dragalj, costituendo di fatto una minaccia per la
transitabilità e per i collegamenti intorno alle Bocche di Cattaro. Per
questo fu attaccata dai tedeschi e la battaglia durò dal 25 settembre
fino al 29, ma senza che la Wehrmacht riuscisse ad aver ragione
della accanita resistenza opposta. Anche questa Divisione con i suoi
reparti superstiti si unì ai partigiani di Tito.
Le due divisioni che decisero di passare nelle fila della Resistenza jugoslava andarono a costituire a dicembre del ’43, il nucleo
fondamentale della Divisione Partigiana italiana «Garibaldi». Ma
in quei tre mesi di scontri con i tedeschi avevano già subito perdite
per circa il 40% delle forze disponibili all’8 settembre.
all’Italia e il Kosovo all’Albania – che era già annessa all’Italia-; la Macedonia occupata
dalla Bulgaria come la Vojvodina dall’Ungheria entrambe alleate della Germania. in Montenegro, nella Krajina e nella Bosnia-Erzegovina si sviluppò un movimento partigiano subito
dopo l’occupazione italo-tedesca e prima che negli altri paesi occupati dai nazifascisti. Il
movimento di resistenza era all’inizio automisti e indipendentisti e con molte connotazioni
etnico-politiche che si incrociavano: massacri ustascia ai danni dei serbi con il pretesto di
una loro identità ariana e non slavo-croata; gli italiani occupanti aiutavano i cetnici serbi filo
monarchici che combattevano i partigiani slavi filocomunisti, ma anche gli alleati tedeschi.
Nel 1943 però il movimento partigiano era stato pressoché tutto organizzato da Tito che era
riuscito ad ottenere un ampio consenso basandosi su due cardini: lo jugoslavismo inteso
come federazione (che prevedeva l’ingresso anche della Bulgaria e dell’Albania) e dall’altro
con l’ideologia comunista filtrata attraverso la promessa di una profonda riforma agraria a
favore dei contadini. Tito alla fine potè quindi affidarsi ad un vero e proprio esercito forte di
circa 800 mila uomini e la Jugoslavia fu l’unico paese europeo a non aver bisogno per la sua
liberazione dell’appoggio militare alleato.
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In Montenegro, era dislocato anche un gruppo di tre Ospedali
da Campo della Croce Rossa Italiana: il 73°, il 74° e il 79°. Dopo
giorni di marcia a piedi i resti di tali formazioni si ricongiunsero con
la divisione «Venezia» e «Taurinense» - confluendo anch’essi nella
Divisione italiana «Garibaldi» – per poi continuare ad assolvere il
loro ruolo fino al termine della guerra.
Inizialmente l’intenzione degli alti comandi Jugoslavi e di Tito
in persona era quella di costituire una unità italiana formata da due
battaglioni «Garibaldi» e «Matteotti» dipendente dal comando supremo dell’EPLJ e inquadrando gli elementi esuberanti in battaglioni di lavoratori.
Il passaggio delle Divisioni italiane al completo scompagina i
piani dei comandi supremi partigiani jugoslavi e dopo una fase di
alterne trattative, scontri e spostamenti, alla fine di novembre le due
Divisioni sono sciolte ed elementi scelti di esse costituiranno la Divisione italiana partigiana «Garibaldi» su tre brigate di 1300 uomini
ciascuna. La Ia brigata sarà formata con elementi della «Taurinense», la II e la III brigata con elementi della «Venezia»5.
Quello della «Garibaldi» fu la divisione più consistente ma non
certo la sola, altre formazioni italiane si costituirono in Croazia, in
Slovenia, in Dalmazia, in Istria; ricordiamo la Divisione «Italia» che
operò in Bosnia e Serbia e Croazia, la Divisione «Garibaldi-Natisone» in Slovenia, dove furono costituite e attive altre formazioni
autonome come la «Triestina d’assalto» e «Fratelli Fontanot»; un
battaglione «Mameli» a Zara; in Krajina un battaglione comandato
da un ufficiale siciliano, in Dalmazia un battaglione denominato
«Ercole Ercoli», una brigata «Garibaldi» in Kosovo e Macedonia,
più altri piccoli gruppi.
Un cenno particolare va dedicato a quei combattenti che varcarono l’Adriatico volontariamente proprio per combattere al fianco
dei partigiani jugoslavi. Erano arruolati in Brigate d’Oltremare costituitesi in Puglia con l’adesione di circa 800 volontari ed ex dete5 Gestro, La Divisione partigiana Garibaldi cit., pp. 335 e sgg.
78
nuti politici, affluiti da molte regioni dell’Italia meridionale e che
andarono a formare un battaglione «Antonio Gramsci».
Queste formazioni italiane si batterono eroicamente a fianco dei
partigiani jugoslavi, e questo è supportato dalle cifre dei riconoscimenti con 5 M.O.V.M. ai reparti, 1 M.A.V.M. ai reparti, 8 M.O.V.M.
individuali, oltre a numerosi riconoscimenti e medaglie individuali. La Rep. Fed. Socialista Jugoslava insignì la Divisione Italia
dell’Ordine al merito della Fratellanza e Unità
La Divisione «Garibaldi» in cifre6
Forza delle divisioni «Venezia» e «Taurinense» all’8.9.43
20.000
Caduti accertati
3.556
Dispersi
5.000 ca.
Rimpatriati per ferite e malattie
3.500 ca.
Rimpatriati dalla prigionia
4.000 ca.
Forza della divisione «Garibaldi» al rientro l’8.3.45
3.900
E la durezza di vita che gli italiani nei Balcani dovettero subire
sia prima, ma soprattutto dopo l’armistizio è confermata da questa
testimonianza di un partigiano salernitano7:
«[...] alla notizia dell’armistizio, dopo un inevitabile sbandamento..la divisione ‘Venezia’, raggiunti dei formali accordi col comando partigiano delle truppe di Tito, trasformando i suoi organici
e snellendoli per uniformarsi alla meglio alle truppe di Liberazione
nazionale [...] preferì allearsi alle truppe di Tito [...] e per quasi
due anni, affrontando i rigori di due inverni terribili, di montagna
in montagna, fin sulla più alta cima del Montenegro, il ‘Durmitor’8
6 cfr. http://nuke.garibaldini.com/ANVRG/Lanostrastoria/IlsecondoRisorgimento/LaDivi-
sioneGaribaldiincifre/
7 Fascicolo Sessa Antonio, Archivio Anpi Salerno
8 Il Durmitor è un massiccio montuoso delle Alpi Dinariche, nel Montenegro settentrionale. Il picco Bobotov Kuk, il più alto del gruppo, raggiunge i 2.522 m s.l.m. e rappresenta la
massima elevazione dell’intero Montenegro.
79
[...] io partecipai ai duri combattimenti contro le sempre forti e caparbie truppe tedesche [...] indi verso il mese di aprile (’44) partecipammo alle operazioni di Kolašin [...] fino a Šavnik. Seguirono
duri combattimenti di Brodarevo e Straniani, dove la «Garibaldi»
combattendo eroicamente [...] soverchiata dalle preponderanti
forze avversarie, tra cui erano compresi moltissimi mussulmani assoldati ai tedeschi, perdette moltissimi uomini [...] nel luglio-agosto
’44 ebbero inizio i duri combattimenti sul Durmitor [...] guidati dal
nostro comandante col. Ravnich, affamati, senz’acqua e seminudi,
riuscimmo a fermare il nemico [...] liberato il paese dalle barbare
truppe tedesche la gloriosa «Garibaldi» col simbolico fazzoletto
rosso al collo.. anche a nome dei tanti umili eroi seppelliti nei cimiterini di tante montagne [...] vollero dire all’Italia ho fatto il mio
dovere [...]»9.
Albania
La situazione in Albania, dove era dislocato dal 1939 il corpo
di occupazione italiano forte di circa 150.000 soldati, alla notizia
dell’Armistizio fece registrare nelle truppe lo stesso cliché a base di
ordini contraddittori, voci incontrollate, confusione.
Pochi giorni prima – fine agosto ’43 – si era conclusa
un’operazione di rastrellamento che aveva impegnato oltre i mili9 Le drammatiche condizioni di vita dei soldati italiani che scelsero di combattere a fianco
dei partigiani jugoslavi e quelli che subirono l’internamento in campi di prigionia, determinarono l’insorgere di una terribile epidemia di tifo petecchiale. Il freddo, la denutrizione,
l’impossibilità di lavarsi e del cambio degli indumenti ne furono elementi determinanti. Il tifo
petecchiale è una malattia infettiva batterica dovuta ad una rickettsia (r. prowazeki) trasmessa
dal pidocchio degli abiti (pediculus hominis) che funge da insetto vettore. Il suo quadro clinico è caratterizzato da febbre elevata, stato stuporoso e l’esantema petecchiale. Già le truppe
di Napoleone in Russia furono decimate da questa malattia e dopo la Rivoluzione Russa si
ebbero 30 milioni di casi con una mortalità calcolata in oltre il 10%.Le complicanze gravi
sono a carico del Sistema cardio-vascolare, respiratorio, renale e nervoso. Caratteristica la
cosiddetta «sindrome delle estremità» con evoluzione in forme gangrenose degli arti. L’epidemia che si sviluppa nei primi mesi del ’44 è inarrestabile e, viste le drammatiche condizioni
igieniche e nutrizionali dei soldati italiani, ha indici di letalità e mortalità elevatissimi
80
tari di varie divisioni anche reparti di camicie nere dei «Battaglioni
Mussolini». Queste erano operazioni di rastrellamento che di fatto
facevano terra bruciata al loro passaggio con villaggi incendiati,
fucilazioni sommarie, violenze di ogni tipo; però - nonostante gli
spietati comportamenti perpetrati dalle truppe di occupazione nazifasciste - proprio da quelle popolazioni perseguitate, verrà per
i militari italiani sbandati e sotto il tiro della rappresaglia tedesca
un’ancora di salvezza. La determinata ferocia delle imboscate tedesche, così come avvenne in Grecia, produrrà comunque un massacro tra gli italiani. Drammatici alcuni episodi, come la resistenza
della divisione Perugia che tenne in armi il porto di Santi Quaranta
e che vide tutti gli ufficiali fucilati e i soldati superstiti internati in
Polonia. Ancora, una colonna di carabinieri a Burreli il 16 ottobre
del ’43, ebbe un centinaio di fucilati e il resto dei sopravvissuti deportati in Germania. La quasi totalità degli uomini della divisione
Firenze, circa 10.000 uomini compresi trecento ufficiali, rifiutando di obbedire alla resa, combatterono per tre giorni contro forze
soverchianti finché furono costretti al ripiegamento.
Nel complesso anche in Albania lo sfaldamento delle truppe inevitabilmente comporterà che la maggior parte dei soldati superstiti
finirà nei campi di concentramento nazisti convinti dalla ingannevole propaganda di andare verso un rimpatrio immediato, mentre alcune migliaia saranno invece quelli che passeranno in armi nelle
fila della resistenza albanese.
Il nucleo fondamentale degli italiani aderenti alla Resistenza si
costituì quando, a nome del Fronte di Liberazione Nazionale Albanese, il 9 settembre Mehemet Shehu parlò a un gruppo di soldati
italiani raccolti sulle rive del fiume Erzen, invitandoli a combattere al fianco dei partigiani. Tra quei soldati c’era Terzilio Cardinali10, questi era un toscano di mestiere fornaio, vecchio antifascista e perseguitato, che in quella occasione non esitò a rispondere
all’appello e si presentò seguito da 170 soldati. Fu così costituito un
10 cfr. http://memoria.provincia.ar.it/biografie/terzilio_cardinali.asp
81
reparto a cui venne dato il nome di «Battaglione Antonio Gramsci»,
del quale Cardinali divenne comandante.
Due giorni dopo, il 12 a Pekin il battaglione ebbe il suo vittorioso battesimo di fuoco ancora a Lusnia11.
Si distinse in particolare nella difesa di Berat, resistendo con altri
gruppi italiani per cinque ore, fino all’estremo limite, a un violento
attacco scatenato di sorpresa dai nazisti. Da quel combattimento
il battaglione uscì praticamente annientato, avendo avuto 120 tra
morti, feriti e dispersi, con soli 48 superstiti. Nello scontro cadde
tra gli altri il commissario Leo Dal Ponte e tutti gli italiani fatti prigionieri dai tedeschi vennero fucilati sul posto.
L’unità fu poi ricostituita con nuovi quadri e, sempre al comando
di Cardinali continuò a battersi valorosamente nel corso di numerose azioni. L’8 luglio 1944, nei pressi del villaggio di Strelsa, durante un combattimento di estrema violenza, Cardinali fu colpito a
morte mentre, alla testa dei suoi uomini, si lanciava all’attacco delle
linee nemiche. Il Battaglione Gramsci per un anno e mezzo coi suoi
uomini combattè a fianco dell’Esercito di Liberazione Albanese,
dovendo affrontare oltre che i tedeschi anche reparti di camicie nere
italiane, fino alla liberazione di Tirana avvenuta nel novembre del
194412.
11 cfr. opuscolo Tersilio Cardinali, edito dall’Anpi di S. Giovanni Valdarno
12 cfr. http://www.storiaxxisecolo.it/resistenza/resitenzaeuropa.htm
82
Grecia
L’8 settembre 1943 si trovavano in Grecia circa 80.000 tedeschi del gruppo armate sudest, suddivisi in massicci nuclei di distaccamenti motorizzati, invece gli italiani erano disseminati in innumerevoli e statici presidi facenti capo alla XI armata composta
da circa 7.000 ufficiali e 200.000 militari di truppa nel continente
mentre 41.000 risultavano quelli di stanza nelle centinaia di isole
dell’Egeo13. Proprio pochi giorni prima i comandi italiani avevano
messo le loro truppe sotto il diretto comando dei tedeschi e, nelle
ore successive all’avvenuta conoscenza dell’Armistizio, questo si
rivelò un ulteriore aggravio alla generale incapacità di reazione alle
risolute azioni messe in atto dai comandi nazisti in attuazione del
piano Achse.
La Div. Pinerolo che si trovava dislocata in Tessaglia però, per
iniziativa spontanea di pochi suoi uomini, si oppose ai tedeschi e
dopo aver difeso in armi l’aeroporto di Larissa nella notte tra l’8 e
il 9 settembre, riuscì a raggiungere faticosamente le montagne nella
zona di Trikkala: la zona venne affidata al presidio del 6º Lancieri
Aosta. Il Reggimento Lancieri Aosta è agli ordini del gen. Infante e
del Col. Berti, e sono loro che dopo aver respinto la richiesta di resa
dei tedeschi, arrivano alla determinazione di stipulare un accordo
con i partigiani dell’ELAS14 e con gli inglesi, cosa che avviene
qualche giorno dopo nel villaggio di Sotira15.
Dopo l’accordo il Reggimento inizia un lungo trasferimento verso le falde della catena montuosa del Pindo. I tedeschi però non
stanno a guardare e sferrano una robusta controffensiva con unità
blindate e un reggimento di SS lungo la direttrice Larissa –Trikkala.
Nei giorni il 16 e il 18 settembre i lancieri combattono al fianco dei
13 Rochat, in Gli Internati Militari Italiani cit., p. XXI
14 I partigiani greci erano chiamati «andartes», l’E.A.M. è il Fronte di Liberazione Nazi-
onale mentre l’ELAS è il vero e proprio esercito di Liberazione a maggioritaria ispirazione
comunista. In Grecia agiva anche il servizio segreto britannico con il SOE (Special Operations Executive) con lo scopo di rafforzamento delle attività di guerriglia e di resistenza.
15 A. Kedros, Storia della Resistenza Greca, Marsilio Editori, 1968, p. 356
83
partigiani dell’ELAS a Kalabaka e sulla strada di San Giorgio verso Karpenision nel Pindo, mentre il 18 i tedeschi vengono fermati
nella gola di Porta nei pressi di Gourgouri. Su indicazione della
Missione Militare Britannica, il 25 avviene l’azione di sabotaggio
al campo di aviazione di Larissa che aveva come obiettivo la sua
distruzione; tra gli attaccanti anche un piccolo corpo di volontari
italiani 16 costituito da circa un centinaio di uomini, in prevalenza
del 3° squadrone con in dotazione 2 pezzi di artiglieria da montagna
e che per raggiungere l’obiettivo avevano attraversato per 100 km
circa la zona occupata dai Tedeschi. Questa azione riesce solo in
parte, gli assalitori riuscirono a distruggere solo alcuni aerei tedeschi (dai 4 ai 7)17.
Ma i rapporti con l’ELAS si incrinano abbastanza presto, molti
sono i soldati italiani che preferiscono non combattere ed essere
internati nel campo di Neraide, e quando nell’inverno 43-44 le offensive tedesche si fanno pressanti – da ricordare la distruzione di
un piccolo ospedale da campo con uccisione sul posto di 50 italianisono numerosi quelli che sono costretti a rifugiarsi in alta montagna.
I contrasti con la Resistenza greca portarono allo sfaldamento anche
delle poche formazioni attive con tanti militari che furono internati
in campi di concentramento esposti a malnutrizione e malattie18.
Solo la solidarietà dei montanari greci impedisce che la cosa si trasformi in disastrosa ecatombe; parecchi ex militari lavoreranno in
montagna alle dipendenze dei greci19.
Un certo numero di militari della Pinerolo però mantenne una
sua unità e continuò a combattere con l’ELAS.
16 Un preciso riscontro si ha dalle dichiarazioni del partigiano Riva Giuseppe (cfr. Fasciscolo Anpi di Salerno) e in R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi 1964, p. 99
17 Kedros, Storia cit., p. 358
18 Bisogna tener presente che tra la Pinerolo e i partigiani greci i rapporti erano comunque
macchiati da gravi precedenti: molte le azioni di rappresaglia nei villaggi greci, come quella
del febbraio ’43, quando in seguito alla morte di 9 soldati italiani uccisi in un agguato ci fu
una rappresaglia nel villaggio di Dominikon con la fucilazione di circa 150 civili greci.
19 Kedros, Storia cit., p. 360
84
Anche in Macedonia orientale si costituisce, in collaborazione
con l’ELAS un contingente di combattenti italiani (TIMO, che sta
per Truppe Italiane in Macedonia Orientale).
Nelle Isole
Nella maggioranza delle isole greche gli italiani riescono a sostenere una azione di resistenza per un tempo sufficiente a rinforzi
britannici di sbarcare, ma questi rinforzi sono scarsi e insufficienti e
soprattutto non sono sostenuti da alcuna copertura aerea, mentre invece i tedeschi possono contare sull’appoggio determinante di una
flotta aerea quantitativamente consistente e assai efficiente.
A Rodi la resistenza italiana determina conseguenze meno sanguinose che a Cefalonia e Corfù; la battaglia si sviluppa immediatamente, ma l’intervento aereo tedesco si rivela subito risolutivo,
anche se nel settore settentrionale la resistenza dura fino al giorno
15. L’ammiraglio Campioni alla fine è costretto alla resa ed è arrestato e trasferito in Germania.
A Creta tra i caduti vi è anche il salernitano Cirillo Attilio da
Atena Lucana, carabiniere e M.A.V.M.
A Lero invece la battaglia è lunga, accanita e cruenta.
L’isola era presidiata da milleduecento uomini, prevalentemente
marinai delle batterie costiere supportati da 500 soldati di una divisione di fanteria. In pochi anni l’isola era diventata un’importante
base della Marina dove all’inizio della guerra erano dislocati, oltre
a naviglio di superficie, per lo più MAS e siluranti e numerosi sommergibili.
In aiuto degli italiani sbarcarono in momenti successivi circa
quattromila uomini dell’esercito inglese al comando del Generale
Tilney, e che si sistemarono alla meglio nella zona centrale dell’
Isola.
Dal giorno 13 settembre, data d’inizio dei bombardamenti aerei
tedeschi, si arriva al 26 settembre, quando alle 9.05 del mattino, vi fu
il primo consistente attacco tedesco con gli Stukas. Un numero im85
precisato di Stukas, con il loro urlo caratteristico, piombò sull’isola
in picchiata, arrecando in pochi minuti danni ingentissimi.
Riportiamo alcune testimonianze dirette, la prima delle quali del
capitano Virgilio Spigai: «[...] Su Lero si ebbero in 35 giorni oltre
180 incursioni, con aerei nemici perennemente in vista. Durante
l’assedio furono da noi sparati circa 150.000 (centocinquantamila)
colpi di cannone, con un tormento quasi insostenibile per i pezzi
(alcuni scoppiarono) che alla fine non poterono svolgere che tiro
navale, perché a forza di sparare le molle di ritorno in batteria si
erano snervate e il cannone, a forti elevazioni, non si toglieva più
dalla posizione di rinculo. Il tiro delle batterie cominciò con qualche imperfezione, ma si sviluppò con grande maestria al rinnovarsi
degli attacchi, per cui la batteria sulla quale gli aerei picchiavano
faceva sparire il personale, mentre le batterie vicine la soccorrevano sparando furiosamente in ragionevole sicurezza [...]»20.
La seconda testimonianza è quella del nostro concittadino e
partigiano combattente Ricco Mario21: «[...] all’otto settembre mi
trovavo a Lero (isola dell’Egeo) distaccato con altri sei marinai
aerofonisti, comandati dal sergente Piccoli. All’alba del giorno
9 dall’isola di Rodi venne l’ordine all’Ammiraglio Mascherpa di
cedere l’isola ai tedeschi, ma l’Ammiraglio rifiutò la resa e da
quel giorno cominciò la tremenda battaglia protratta per ben 56
giorni [...] il giorno 11 reparti armati anglo americani sbarcavano
nell’isola rafforzandone le posizioni e per diversi giorni continuarono ad affluire mezzi ed uomini [...] calma fino al 26 data in cui i
tedeschi cominciarono i loro terribili bombardamenti. Nello stesso
giorno mi trovavo a far parte del pezzo n. 3 e benché vi fu un fuoco
di sbarramento infernale dal quale trovò la tomba qualche stukas,
gli altri riuscirono a sganciare tutto il loro carico [...] non abbandonammo le nostre postazioni [...] ma era visibile in tutti i volti la
pesante stanchezza di una lotta impari [...] i bombardieri tedeschi
20 cfr. http://cronologia.leonardo.it/storia/a1943l.htm
21 Fascicolo Ricco Mario, partigiano combattente riconosciuto, Archivio Anpi, Salerno
86
continuarono a scorazzare indisturbati martellando ad una a una
le nostre batterie. La mattina del 3 novembre una ventina di stukas
presero di mira la nostra batteria, reagimmo [...] ma ciò non bastò
perché delle bombe raggiungessero le piazzuole di vari pezzi [...]
seminando distruzioni e morte [...] la notte del 12 novembre ero di
guardia agli aerofoni [...] quando udimmo uno strano rumore non
era aereo ma veniva dal mare.. diedi l’allarme ed accesi il faro, il
fascio di luce investì in pieno una motozattera seguita da altre, cariche di tedeschi preparati allo sbarco, i tedeschi avevano creduto
alla distruzione completa della batteria e caddero così nelle grinfie
del fuoco..la motozattera di testa aprì il fuoco contro il faro, ma ben
presto furono scacciati e una di esse perdeva il carico di uomini e
armi inabissandosi [...] tentarono ancora nei giorni 13, 14, 15 in
diversi punti per sbarcare [...] riuscimmo in parte a rintuzzare [...]
fu una lotta terribile e impari: dal cielo coperto di aerei cominciarono la discesa i paracadutisti e benché chi non trovò la morte
in aria la trovò nei campi minati della valle del monte Meraviglia
[...] aprirono un altro fronte logorando pian piano le nostre forze
[...]». Il racconto prosegue con la ricerca sull’isola di altri suoi due
fratelli militari e con la descrizione della prigionia. A marce forzate
attraverso la Macedonia fino a Zagabria, qui fuggì una prima volta e
fu riacciuffato; indomito ritentò la fuga, il 2 maggio 1945, e questa
volta incontrò i partigiani jugoslavi che lo avevano scambiato per
una spia, ma fortunatamente riuscì a dimostrare la sua vera identità
e fu così avviato al rimpatrio.
Queste le vicende personali di due testimoni diretti e compartecipi della resistenza opposta dai militari italiani sull’isola per oltre
due mesi.
Altra testimonianza diretta è quella che riguarda un caduto a
Lero, Quaranta Antonio22 trucidato dai tedeschi il 17 novembre, e la
testimonianza è di altro militare Galeota Umberto che comandava
un gruppo di batterie a Lero, e che conferma «[...] I tedeschi, con22 Fascicolo Quaranta Antonio, Archivio Anpi, Salerno
87
travvenendo ai patti della resa, uno dei quali era di far salva la vita
ai superstiti, si abbandonarono a rappresaglie inumane, mostruose [...] il sottoten. artigliere Antonio Quaranta, uscito illeso dalla
battaglia, cadde vittima della rappresaglia tedesca all’alba del 17
novembre [...]».
Il giorno 16 novembre 1943, alle 18,30, solo dopo la resa del
generale Tilney, il comandante dell’isola l’ammiraglio Mascherpa
diramò l’ordine di cessare il fuoco; i combattimenti però terminarono del tutto solo la mattina del 17.
L’ ammiraglio Luigi Mascherpa, anch’egli tratto prigioniero, fu
consegnato poi alla Repubblica Sociale Italiana e dopo essere stato
processato da un tribunale fascista, fu condannato a morte e fucilato
a Parma il 24 maggio 1944 (per questo è stato insignito della Medaglia d’Oro al valor militare).
La battaglia di Lero costò 520 perdite ai tedeschi, 600 agli inglesi e un centinaio agli italiani; furono catturati 3200 inglesi e 5000
italiani.
Cefalonia e Corfù
Cefalonia e Corfù al momento dell’armistizio erano occupate
dai soldati italiani della Divisione Acqui, comandati a Cefalonia dal
generale Gandin e a Corfù dal colonnello Lusignani. Le pseudo trattative per il disarmo vengono fin da subito respinte nei fatti da un
gruppo di ufficiali inferiori che reagiscono d’impeto ad una prima
provocazione tedesca a Liscuri. Questo atto infervora gli uomini,
Gandin è praticamente costretto ad indire il 13 settembre un referendum che prevedeva tre opzioni: unirsi ai tedeschi, cedere le armi
in vista di un possibile rimpatrio, resistere e accettare un eventuale
scontro. Quest’ultima opzione fu quella che prevalse a stragrande
maggioranza. La decisione «Per ordine del Comando supremo e
per volontà degli ufficiali e dei soldati, la divisione Acqui non cede
le armi [...]» fu comunicata ai tedeschi sbigottiti e rabbiosi, forti di
un consistente appoggio aereo delle vicine basi greche tanto che già
88
il 15 iniziano i bombardamenti a tappeto e ininterrotti per sette giorni sulle postazioni italiane prive di difesa contraerea. La battaglia
durò fino al 22 settembre data in cui i micidiali attacchi tedeschi
supportati dai cacciabombardieri e da un forte fuoco di artiglieria
pesante, non indussero Gandin a dichiarare la resa. Negli scontri
caddero 1200 soldati e 65 ufficiali, molti di questi fucilati sul posto al momento della resa. Dopo la cessazione dei combattimenti
man mano che si arrendevano vennero trucidati 155 ufficiali e 4700
soldati italiani. In esecuzione di ordini provenienti direttamente da
Hitler, tra il 24 e il 28 settembre vennero fucilati il Generale Gandin, altri 193 ufficali e 17 marinai.
Anche a Cefalonia c’erano salernitani che combatterono e morirono [vedi tabelle allegate in nota]. Riportiamo alcuni passi della
testimonianza del sergente Lordi Vincenzo di S. Gregorio Magno,
sopravvissuto all’eccidio e combattente nella resistenza greca «[...]
Appena saputo che il comando tedesco voleva la consegna delle
armi tutti i soldati di S.Teodoro, Ringlades, e comando marina, rifiutammo la proposta tedesca [...] i tedeschi attaccarono di sorpresa la marina italiana.[...] il sergente Lordi con tutto il plotone mitraglieri della 2° compagnia raggiunse i marinai in combattimento
e furono i primi ad attaccare i tedeschi [...] il giorno 22 settembre
cominciò la grande battaglia di Cefalonia, e ben che la nostra divisione era completamente priva di [appoggio aereo] e né si poteva sperare nessun aiuto da parte degli alleati si battè in modo
brillante sotto i bombardamenti [...] aerei del nemico che in quei
giorni oscuravano il cielo dell’isola [...] il 25 settembre ultimate le
munizioni, il nostro comando dopo aver tentato un attacco decisivo
riuscito vano per le grandi superiorità di mezzi a disposizione del
nemico, decise la resa [...] il sottoscritto assieme ad altri superstiti
fu imbarcato nei primi di ottobre e non appena la nave era ancora
poco lontana dal porto affondò [...] si diceva fosse stata una mina
[...] morivano tanti soldati [...] chi fucilato dai tedeschi di scorta
alla nave [io] a nuoto riuscivo a raggiungere di nuovo l’isola e
dopo sei giorni [...] mi feci accompagnare da un greco al comando
89
partigiano [...] nelle vicinanze del villaggio Grizata [...] così rimasi
con bande greche combattendo e vincere i tedeschi fino alla liberazione completa dell’isola [...]»23.
A Corfù dove staziona l’altra parte della divisione Acqui la resistenza italiana è aspra, si combatte dal 13 al 25 settembre con il
tragico bilancio di oltre 2000 morti. In una prima fase grazie anche
all’aiuto di partigiani greci le sorti della battaglia sembrano volgere a favore degli italiani. Questo solo per poco e neanche l’arrivo
il giorno 15 di due cacciatorpedinieri italiani, lo Stocco e il Sirtori riesce a volgere le sorti della battaglia a favore degli italiani.
Decisivi sono in tal senso gli Stukas, all’epoca formidabili aerei
bombardieri da picchiata, che affondano il primo e danneggiano il
secondo. Inoltre il 24 i tedeschi sbarcano in forze e il giorno dopo
passano all’attacco dei passi di Stavros, Coriza, e Garuna. Grazie
ad un forte appoggio aereo che scompagina le difese degli italiani,
la battaglia volge in favore dei tedeschi e il colonnello Lusignani
è costretto alla resa. Alle 14,30 Il Col. Lusignani e il suo aiutante
vengono fucilati, gli altri ufficiali uccisi con un colpo alla nuca o
gettati in mare chiusi in un sacco. Tutti gli italiani sopravvissuti
sono fatti prigionieri e imbarcati su piroscafi che avrebbero dovuto
condurli chissà dove, ma che invece si imbattono prima nelle mine
e poi negli attacchi inglesi. Si calcola che almeno 13.000 italiani
moriranno nell’affondamento del naviglio, che il «fuoco amico»
inglese consapevole o no che sia, continua a colpire spietatamente.
interessante la testimonianza del medico dott. Strollo24: all’8 settembre si trovava a Cattaro col suo reparto ma nei giorni successivi
fu trasferito a Corfù; dopo aver partecipato alla difesa dell’isola il
battaglione fu travolto e quindi catturato e internato dai tedeschi
prima in Macedonia poi a Salonicco nel Gulag 185.
23 Fascicolo Lordi Vincenzo, Archivio Anpi, Salerno
24 Fascicolo Strollo Giulio, Archivio Anpi, Salerno
90
Cefalonia: elenco dei caduti della città di Salerno e Provincia25
Comune di Salerno
1. Cap. Domenico Fiore 25.1.1900 | Cef. 21.9.1943
2. Cap. Achille Olivieri 26.10.1911 | Casetta Rossa Cef. 24.9.1943
3. Gap. Fulvio Severino 14.4.1912 | Cef. 22.9.1943
4. Ten. Raffaele Paolillo 29.4.1916 | Germania 27.6.1944
5. Serg. Magg. Enrico Ricciardi 6.1.1918 | Gunbinnen (Russia or.) 11.6.1945
6. Sold. Raffaele Monetti 6.3.1922 | disp. a Cef. dal 9.9.1943
Comune di Auletta
7. Sold. Nicola Gagliardi 10.10.1922 | disp. a Corfù dopo l’8.9.1943
8. Sold. Emiddio Natiello 16.12.1912 | disp. a Corfù dopo l’8.9.1943
Comune di Battipaglia
9. Sold. Domenico Oropallo 10.10.1923 | disp. in Grecia dopo l’8.9.1943
Comune di Casalvelino
10. Sold. Luigi Scola 18.10.1922 | disp. in Grecia dopo l’8.9.1943
Comune di Castellabate
11. Fin. Attilio Guariglia 5.1.1923 | 13.2.1945 morto in prig. in territorio sov.
Comune di Cava de’ Tirreni
12. M.Ilo Crescenzo Casaburi 11.10.1909 | disp. a Cef. dal 22.9.1943
13. C. M..Pasquale D’Ursi 15.8.1912 | disp. a Farsa (Cef.) 19.9.1943
14. Sold. Germano Zini 31.5.1918 | disp. in Grecia dopo l’ 8.9.1943
Comune di Centola
15. Sold. Francesco D’Angelo 11.3.1923 | disp. a Cef. dal 23.9.1943
Comune di Eboli
16. Art. Vincenzo Bonavoglia 5.11.1922 | disp. a Corfù dopo l’8.9.1943
17. Sold. Gaspare Dente 19.4.1918 | Zeithain (Germania or.) 20.2.1944
Comune di Fisciano
18. Serg. Lorenzo Guariniello 15.5.1914 | disp. in Grecia dal 9.9.1943
25 L’elenco è tratto da I ragazzi del ’43. L’eccidio della Divisione Acqui Cefalonia-Corfù
sett.’43 a cura di Luciana Baldassarri, Quaderni della Memoria - Liceo Scientifico «G. da
Procida» – Salerno 2008
91
Comune di Giungano
19. Carab. Bruno Amatuccio 23.10.1919 | disp. a Cef. il 29.9.1943
Comune di Mercato S. Severino
20. Serg. Antonio Carpentieri 31.3.1919 | disp. a Corfù dal 9.9.1943
Comune di Montecorvino Pugliano
21. Sold. Angelo Calabritto 9.3.1917 | Cef. 17.9.1943
22. Sold. Ersilio Campagna 3.2.1920 | Tambov (Russia) 14.3.1945
23. Sold. Antonio Montella 6.10.1921 | disp. a Cef. dopo l’8.9.1943
Comune di Montecorvino Rovella
24. Sold. Eugenio Marino 26.10.1915 | Polonia 1.11.1945
Comune di Montesano sulla Marcellana
25. Ten. Antonio Bianculli 23.9.1913 | C.R. 24.9.1943
Comune di Nocera inferiore
26. Cap Antonio Cianciullo Napoli 5.6.1913 | Farsa (Cef.) 22.9.1943
27. St. Luciano Gambardella 29.10.1920 | C.R. (Cef.) 24.9.1943
28. Sold. Michele Manzo 19.7.1913 | disp. in Grecia dal 9.9.1943
Comune di Ogliastro Cilento
29. Sold. Cosimo Petrillo 14.12.1923 | disp. a Corfù dopo l’8.9.1943
Comune di Olevano sul Tusciano
30. Sold. Valentino Maruottolo 15.2.1915 | disp. a Corfù dopo l’8.9.1943
31. Sold. Donato Invitto 28.10.1916 | disp. in Grecia dal 9.9.1943
Comune di Pagani
32. Ten. Alfonso Aufiero New Haven (USA) 2.2.1916 | Kokkolata (Cef.) 21.9.1943
Comune di Pellezzano
33. Ten. Nicola Galdi 30.11.1913 | Astakos (Grecia) 21.10.1944
Comune di Pertosa
34. Sold. Nicola Morrone 24.12.1919 | disp. a Cef dal 23.9.1943
Comune di Policastro
35. Ten. Silvio Liotti 30.9.1916 | C.R. (Cef.) 24.9.1943
92
Comune di Polla
36. Sold. Francesco Paolo Venosa 13.8.1920 | disp. a Cef. dal 9.8.1943
Comune di Rofrano
37. C.M. Pasquale Lettieri 1.2.1922 | disp. in Grecia dopo l’8.9.1943
Comune di San Cipriano
38. C. M. Alfonso Tisi 28.8.1912 | disp. in prig. in Jugoslavia dal 31.3.1944
Comune di S. Egidio Montalbino
39. Sold Alfonso Ferrante 15.6.1915 | disp. in Grecia dopo l’8.9.1943
Comune di S. Gregorio Magno
40. Sold. Gregorio Policastro 3.6.1922 | Germ. Or. 3.12.1944
Comune di S. Pietro al Tanagro
41. Sold. Arsenio Cardiello 15.1.1922 | Germ. Or. 12.7.1944
Comune di Santomenna
42. Serg. Armigio Sarni 17.10.1911 | disp. in Grecia dal 9.9.1943
43. Sold. Francesco Torsiello 11.6.1921 | Cef. 9.9.1943
Comune di Sarno
44. Sold. Fulvio Barbuto 20.4.1923 | disp. a Cef. dal 9.9.1943
45. Sold. Ulderico Milone 9.11.1916 | disp. a Cef. dal 9.9.1943
46. Sold. Quirino Sirica 2.2.1916 | Cef. 23.9.1943
Comune di Siano
47. Carab. Carlo Palmieri 15.6.1915 | disp. in Grecia dopo l’8.9.1943
Comune di Tramonti
48. Sold. Vincenzo Buonocore 23.6.1923| disp. in Grecia dal 9.9.1943
49. Sold. Alessandro Vitagliano 6.10.1922 | disp. in prig. in Grecia dal 25.5.1944
Comune di Valva
50. Sold. Alfonso Feniello 2.5.1911 | disp. a Cef. dal 9.9.1943
51. Sold. Giuseppe Macchia 27.10.1911 | disp. a Corfù dal 9.9.1943
Comune di Vietri sul Mare
52. Sold. Antonio Ferrigno 14.10.1923 | disp. in Grecia dal 9.9.1943
93
Il finale tragico della resistenza greca e il caso Cuomo
La storia della Resistenza greca ha un finale tragico e sanguinoso: il 12 febbraio ’45 viene stipulato l’ «Accordo di Varzika» in base
al quale viene disarmata l’ELAS. L’accordo si rivela un atto politico disastroso che dà via libera al terrore bianco della destra greca
e permise che venissero imprigionati, deportati o fucilati uomini i
quali avevano combattuto come partigiani per scacciare l’invasore.
Migliaia di militanti attenderanno mesi in prigione prima di essere giudicati da Tribunali Speciali militari con processi a dir poco
sommari. Saranno comminate pene durissime e condanne a morte.
Anche un salernitano sarà protagonista di uno di questi processi:
Cuomo Nicola26 nato a Salerno il 13.3.1913, bracciante, che riassume così la sua vicenda
«[...] L’8 settembre [il sottoscritto] si trovava a Cefalonia col
337° Rgt. Ftr. ‘Div. Acqui’ [...] l’11 i tedeschi chiesero la consegna
delle armi, ma il sottoscritto con il suo reparto non aderì, ma combattè contro di essi per una ventina di giorni. Il 25.10.1943 fummo
fatti prigionieri dagli stessi tedeschi, che ci portarono su una nave
diretta a Patrasso. Ad un certo punto detta nave fu silurata, affondando immediatamente. Quasi tutti i prigionieri perirono, mentre il
sottoscritto si salvò a nuoto e andò a finire sulle coste di Rummoli,
ove trovò un battello di partigiani greci, che lo presero con loro
[...]da allora fu con la 2ª Div. ELAS e dopo qualche settimana ebbi
il comando di una piccola banda di una quarantina di partigiani.
Fu in occasione di un forte rastrellamento tedesco che incontrai il
capitano Bertolini, fra gli altri. Successivamente con l’arrivo degli
inglesi, il 6 marzo del 45, venne rinchiuso nelle carceri di Salonicco
ove è stato 20 mesi e giudicato dal Tribunale Civile dal quale fu
condannato all’ergastolo [...]»
La vicenda così appare un po’ confusa ma a dipanarla ci viene in
soccorso la copia di un articolo della rivista «Tempo» dell’ottobre
1950, p. 5: «[...] Il sergente campano (Cuomo) fece parte di una
26 Fascicolo Cuomo Nicola, Archivio Anpi, Salerno
94
banda di partigiani che passò poi al completo con i rivoltosi [...]
dopo i massacri di Atene del 1944, essere partigiani fu considerato reato dal Governo greco. Quando lo acchiapparono, Cuomo si
trovò sulle spalle accuse sufficienti per essere messo al muro [...]
per di più il destino lo portava di fronte alla Corte Militare di Salonicco ritenuta la più spietata della Grecia. Doveva rispondere di
essere italiano, comunista, ribelle e fucilatore, ma Cuomo si difese
bene, disse di essere innocente di tutto, di avere agito sempre sotto
costrizione [...] nell’enfasi della autodifesa (la frase è registrata a
verbale) gridò «Avanti! si faccia avanti uno solo di quelli che ho
fucilato!». La battuta ebbe il suo effetto, il presidente sorrise e, invece della condanna a morte, comminò l’ergastolo [...]».
La vicenda si concluse dopo cinque anni quando dopo le elezioni di marzo seguite da una concitata fase di incarichi e dimissioni,
il 15 aprile il gen. Plastiras riceve l’incarico di formare un governo
centrista con il beneplacito dei nuovi «dominanti» USA. il giovane
Ambasciatore italiano Alessandrini riuscì a sfruttare abilmente la
simpatia che era riuscito ad ispirare al vecchio generale greco, inducendolo così a far sottoporre – tramite il Ministro della Giustiziaa re Paolo di Grecia la domanda di grazia per tre italiani, fra cui il
Cuomo, che il re firmò. Il Cuomo fu scarcerato il 22 settembre 1950
rimpatriando dopo cinque giorni.
95
CAPITOLO 5
L’immediato dopoguerra nel salernitano
Il Fascismo, la guerra, i bombardamenti, avevano lasciato in
eredità alle popolazioni salernitane e campane un quadro sociale
caratterizzato da povertà e disagio. Parallelamente all’approfondirsi
della crisi del regime è proprio nelle campagne meridionali che si
intravede il disgregarsi delle sue basi di massa. La politica dell’ammasso, la estrema fiscalità delle operazioni di rastrellamento del
grano come degli altri prodotti agricoli, sono causa di abbandono
di contratti di colonía e di affitto facendo aumentare il numero dei
braccianti1.
La politica economica del Fascismo negli anni ’20-’30 e poi
quella bellica, produrranno quindi conseguenze dolorose sulle condizioni di vita di pastori e contadini anche nelle zone interne della
Campania: la Battaglia del Grano e la tassa sui capi di bestiame
avevano messo in crisi la zootecnia facendo crollare i prezzi del
bestiame; inoltre la tassa di famiglia (il focatico), il dazio sul vino
e sulla macellazione, saranno tutti elementi oggettivi della crisi che
assommandosi avranno un effetto sinergico nel determinare il pesante aggravamento della già minima economia di sussistenza di
quelle popolazioni, innescando ulteriore malcontento.
Questi disagi uniti all’aspettativa di un reale cambiamento dello
stato delle cose e all’aspro ribellismo abbastanza radicato nelle popolazioni rurali del Cilento, del Vallo di Diano, come pure in quelle
dell’Irpinia, faranno da miscela esplosiva dopo la caduta del Fasci1 N. Gallerano, Il Mezzogiorno, in AA.VV. «Operai e contadini nella crisi italiana del
1943/1944» Feltrinelli, 1974, pp. 458-461
96
smo e lo sbarco alleato, per diversi episodi di sommosse nelle quali
inevitabilmente venivano individuati come capri espiatori i rappresentanti del potere locale più compromessi con il passato regime.
La caduta del Fascismo e la collera popolare nel salernitano
E proprio a partire dal luglio del ’43 si ebbero in Campania una
serie di lotte sociali che in Irpinia videro il loro apice nella rivolta
di Calitri. Nel paese irpino la rivolta culminò nella proclamazione
di una «repubblica» contadina e nel suo compiersi fu anche caratterizzata da ripercussioni violente verso i simboli del sistema e del
potere locale2.
Qualche mese dopo – tra l’ottobre e il dicembre del ’43- nel Vallo
di Diano, a Caggiano e Montesano sulla Marcellana, seguirono altre
manifestazioni popolari anche qui con episodi di violenza nei confronti di coloro che furono identificati come emblemi del vecchio
regime o comunque del potere economico-politico. La repressione
però è ancora più violenta delle manifestazioni stesse: a Montesano
sono 8 i manifestanti uccisi, decine i feriti e gli arrestati3.
Ma l’episodio dalla valenza politica più pregnante – che in parte richiama quello di Calitri - si verifica a Sanza, nella parte più
meridionale del Cilento e tra le più depresse all’epoca della nostra
provincia, poiché si rivela emblematico del quadro politico-sociale
che all’epoca si andava definendo, ma anche della capacità di lotta
e ribellione presenti nel popolo cilentano.
Muovendo da esigenze reali dovute a stenti, miseria e fame, nello sviluppo degli avvenimenti si intrecciano anche in questo caso
tradizioni e ribellismi che affondano le loro radici nelle lotte contadine del secolo precedente.
2 P. Speranza, Irpinia ’43, esili eccellenti e lotte di popolo, in «L’alba della Democrazia»,
Mediterranea 2005, p. 36
3 P. Laveglia, Fascismo antifascismo e resistenza nel salernitano, ESI 1978, pp. 423-424
97
Nell’entroterra cilentano solo nel 1806 fu decretata per legge la
fine del feudalesimo che rimase di fatto una enunciazione di principio senza che mutassero in realtà i rapporti di potere. Le aspettative
deluse dei contadini e le loro precarie condizioni economiche diedero luogo negli anni che vanno dal 1820 al 1848, ad una serie di
lotte rivolte contro i «demanisti», come venivano chiamati i grossi
proprietari terrieri che avevano costruito le loro proprietà latifondiste a spese del demanio comunale o «terra comune» destinate
usualmente al libero uso di tutti, e la forma di lotta più utilizzata fu
l’occupazione delle terre con modalità a volte anche cruente4. Questo nel 1848 aveva fatto chiamare «comunisti» tutti i poveri cristi
che per povertà ambivano a ricavare un magro nutrimento di mera
sussistenza solo grazie alla coltivazione di queste terre demaniali5.
Anche nella fase post-unitaria questo ribellismo contro il padrone di
turno, non ancora incanalato verso una coscienza di classe, sfociava
in forme di lotta primordiali e sporadiche che fecero da terreno di
coltura per ripetuti episodi di brigantaggio che raggiunse nell’Italia
meridionale6 e nel Cilento proporzioni considerevoli7.
Anche più tardi in pieno regime fascista ancora nel Cilento a
Monte S.Giacomo, sulla scorta di una tradizione democratica e socialista legata ad una illuminata famiglia del posto, i fratelli Marone8, il 6 gennaio 1933 si ebbe il culmine di una protesta che aveva
coinvolto i contadini di alcuni paesi viciniori (Ceraso, Moio della
Civitella, Pellare, Acquavella). La protesta era legata all’imposizione di una tassa di famiglia, il cosiddetto « focatico», che costituiva
un duro attacco alle loro già precarie condizioni di vita e i contadini
naturalmente indirizzarono la loro protesta verso il rappresentante locale del regime: il podestà. I carabinieri intervenuti repressero
ancora una volta violentemente una manifestazione di protesta sca4 D. Chieffallo, Cilento, Ed. dell’Ippogrifo, 2002, p. 33
5 L. Cassese, Scritti di Storia Meridionale, Laveglia Editore, 1970, p. 236
6 M. Monti, I briganti italiani, Ed. Partagées, 2005, p. 285 e sgg.
7 Chieffallo, Cilento cit., p. 151 e sgg.
8 A. Marone, Lotta politica nel salernitano 1919-1925, Società Editrice Storia di Napoli, 1978
98
turita solo dalle misere condizioni di vita dei contadini, sparando indistintamente sulla folla e uccidendo due donne e un ragazzo, molti
furono anche i feriti9.
La «Repubblica Popolare» di Sanza10
Paese dalle antiche origini lucane con l’arcaico insediamento
urbano - Sontia - localizzato a metà del passaggio obbligato di un
antico sentiero carovaniero che si dispiegava tra i versanti dei monti
Cervati e Cariusi costeggiando la Valle del Bussento. Era questa
la via del sale percorsa dai carriaggi che trasportavano il prezioso elemento dalla costa di Policastro alle zone interne del Vallo di
Diano.
La fine del feudalesimo anche in questa parte del Cilento non
aveva dato luogo ad una effettiva quotizzazione delle terre demaniali e questo ingenerò miseria e malcontento ma anche lotte e tentativi di occupazione delle terre, come avvenne nel 1848 con quella
del bosco comunale del Centaurino.11 Il degrado socio-economico
obbligò la maggior parte dei contadini e braccianti a trovare lavoro stagionale spostandosi verso la Puglia o ad emigrare, qualcuno
invece andò ad infoltire le bande di «briganti». Va ricordato infine
che proprio nei pressi di Sanza il 2 luglio 1857 si era conclusa sotto
il piombo delle truppe borboniche l’avventura di Carlo Pisacane,
grazie anche a fenomeni di parziale ma sostanziale collaborazione
dei notabili e proprietari terrieri locali.
Tutto questo aveva fatto sì che si sedimentasse nel proletariato
rurale nativo una seppur minima coscienza di classe e comunque in
misura più consistente che altrove, se nel 1922 i fascisti del posto
9 U. Baldi, Tra fascismo e antifascismo, in http://www.igo900.org/res/DOC/
10 Questa è la denominazione che usa Laveglia in Fascismo antifascismo e resistenza
nel salernitano, mentre Fusco in Economia e società a Sanza, forse più adeguatamente lo
definisce «commissariato popolare»
11 F. Fusco, Economia e società a Sanza tra otto e novecento e i trentasei giorni del «commissariato popolare» di Tommaso Ciòrciari, in Storia regionale pp. 171-198
99
dovettero far intervenire squadracce dai paesi limitrofi per azioni
«punitive» nei confronti dei cittadini di Sanza in maggioranza ostili
al fascismo12.
Tra gli antifascisti della prima ora spicca la figura di Tommaso
Ciòrciari (1876-1966) militante socialista, già denunziato e obbligato alla latitanza nel 1927 quale promotore di una rivolta contro
le autorità politiche e amministrative fasciste e per questo a lungo
perseguitato.
Emigrato giovanissimo in Argentina, qui aveva imparato a leggere e scrivere, ma anche frequentato circoli politici che gli permisero di entrare in contatto con esponenti comunisti e antifascisti.
Questi elementi consentirono al giovane emigrante la formazione
di una solida coscienza politica e sociale. Tornato a Sanza la sua
casa divenne sede d’incontro per gli oppositori del regime e luogo
di scambi di idee e di discussioni. Già noto per aver guidato la protesta del ’27 divenne sempre più punto di riferimento del popolo di
Sanza, anche perchè la sua figura, forse per il fatto di esser stato in
America e l’aver qui conosciuto importanti esponenti del bolscevismo (si vantava di aver conosciuto addirittura Lenin), emanava un
evidente carisma sui suoi compaesani.
In quelle settimane cruciali, il crollo del regime fascista, la ritirata dei tedeschi e la presenza degli Alleati diede modo alla popolazione contadina e ai pastori di quelle terre di sperare di estromettere dal
controllo della cosa pubblica i vecchi amministratori compromessi
col potere e con i ricchi proprietari terrieri. In molti paesi del Vallo i
contadini erano in subbuglio e per scongiurare scontri o sommosse
la Tenenza dei Carabinieri di Sala Consilina – dietro sollecitazione
dei comandi Alleati- aveva emanato disposizioni ai vari marescialli
dei Comuni per far eleggere nuovi amministratori.
12 Archivio dell’Istituto Campano per la storia della Resistenza, dell’Antifascismo e
dell’Età Contemporanea «Vera Lombardi». Relazione dattiloscritta e datata 2 maggio 1944,
Fondo Mario Palermo, Busta 20, Fasc.77
100
Il 10 ottobre del 1943 a Sanza veniva estromesso il podestà fascista ancora in carica13, il 14 Tommaso Ciòrciari viene senza motivo imprigionato dal maresciallo dei carabinieri Giuseppe Di Giovanni, ma la sera stessa dietro la pressione popolare viene liberato
e incaricato di «avvisare la popolazione» di riunirsi per procedere
alla nuova elezione. È così che il giorno 16 il vecchio contadino
antifascista, eletto per acclamazione Commissario del Comune,
fu prelevato dalla sua abitazione in via Estravento (oggi via Val
d’Agri) da una folla festante di oltre 300 persone e portato in corteo
ad insediarsi nel municipio.
Ad aprire il corteo c’era una donna, Milina De Franco, che portava una vecchia bandiera rossa mentre gli altri reggevano un quadro a «sfondo socialista» del 1910 in cui erano rappresentati tutti i
«grandi uomini d’Italia» (Garibaldi), prelevati dalla casa del Ciòrciari secondo il suo volere14.
Questi una volta insediato nella sua carica, si recò dal Prefetto
e dal Governo Alleato per la conferma e ricevette anche una lettera
di congratulazioni per tale nomina dal tenente dei carabinieri. Si
avvalse fin da subito della collaborazione del segretario comunale
Aniello Buoninconti e assieme diedero vita ad una breve stagione
amministrativa caratterizzata da una impostazione aperta, libertaria, autonoma e indipendente. A Sanza aleggiava così la speranza
di riuscire finalmente a creare una comunità di uguali, tutti con un
proprio lavoro e la possibilità di vivere dei frutti di questo lavoro.
Furono varate una serie di misure volte a creare le condizioni
per una vera giustizia sociale: fu permessa la lavorazione dei terreni
demaniali incolti, garantito il diritto agli usi civici, si consentì ai
più poveri la molitura senza tener conto dell’ammasso, si impedì
l’accaparramento delle derrate alimentari, si organizzò una squadra
di lavoratori per opere di utilità pubblica.
13 Laveglia, Fascismo antifascismo e resistenza cit., p. 425
14 Archivio dell’Istituto Campano per la storia della Resistenza cit.
101
Tra i primi atti amministrativi ci fu il licenziamento di alcuni impiegati: tra i quali il direttore tecnico dell’Azienda silvo-forestale,
l’addetto all’elettropompa dell’acquedotto, alcuni applicati comunali, l’unica guardia comunale e le bidelle dell’Asilo.
Il Ciòrciari stesso davanti al magistrato che lo interroga nel carcere di Sala Consilina – il 15 dicembre 1943 alle 17 e 10 - dichiara
di aver agito in tal modo, perché il bilancio comunale non consentiva il pagamento dello stipendio tanto è vero che all’epoca costoro
non riscuotevano stipendi da almeno un anno15.
Anche il farmacista comunale dr. Nicola Arenare, fortemente
inviso alla popolazione, che minacciava di incendiargli la farmacia
perché aveva avuto nei confronti dei poveri paesani sempre atteggiamenti prepotenti e superbi essendo un «fascista sfegatato», fu
«licenziato» il 20 ottobre.
Ma non la pensa così il Ten. dei carabinieri Bianco Felice che
nel suo rapporto giudiziario inviato al magistrato competente16, così
descrive i fatti «[...] Il 16 ottobre 1943 il Ciorciari accompagnato
da una sparuta minoranza di pecorai e bifolchi prese possesso della
carica di Commissario del Comune di Sanza.. insidiatosi il Ciorciari iniziò la sua opera amministrativa tutta intonata al suo concetto
personale della inesistenza delle leggi [...]». Nel suo fervore accusatorio il tenente più volte addebita agli imputati la colpa di aver
proclamato un coprifuoco per cui nelle ore serali solo «gli adepti»
del Ciorciari potevano circolare. Ancora accusa Ciorciari e Buoninconti di avere il 30 ottobre inviato una trentina di persone a Caselle
in Pittari per «una dimostrazione tesa a rovesciare l’Amministrazione comunale [...]» di quel paese. Anche questa si rivelerà una montatura: Buoninconti si recò a Caselle invitato dai cittadini di quel
15 Archivio dell’Istituto Campano per la storia della Resistenza, dell’Antifascismo e
dell’Età Contemporanea «Vera Lombardi». Fascicolo Procedimento penale contro Tommaso
Ciorciari, Verbale dell’interrogatorio dell’imputato Ciorciari Tommaso, in Fondo Passaro
Biagio, Busta 53, Fasc. 3
16 Ibid.
102
paese per far assumere la reggenza di quella segreteria comunale il
suo amico antifascista di Monte S.Giacomo Michele Totaro.
Ma l’episodio più clamoroso si svolse sempre a Sanza in località «Farnetàni» quando al mattino i contadini e paesani seguaci del
Ciorciari ostacolano l’escuzione di uno sfratto fondiario che doveva
essere eseguito da un Ufficiale Giudiziario scortato da ben quattro militi. Quando questi si trovano di fronte una folla di contadini
giustamente rabbiosi che agitano le «loro» povere armi di sempre
- vanghe, bastoni, forconi - non possono che fare marcia indietro. il
Ciorciari nel suo interrogatorio da imputato spiega che quella azione fu determinata all’atteggiamento di tal Tommaso Morena che
voleva impedire alla popolazione di esercitare un proprio diritto,
l’uso civico di quei terreni.
Quando gli sfrattatori sono sfrattati, il popolo contadino festante
invade le terre destinate da secoli all’uso civico ma divenute di proprietà del Morena – che guarda caso nel suo albergo a Sala ospitava
anche il tenente dei CC.RR. - è la loro riforma agraria!
Questo è troppo, la borghesia proprietaria terriera che ha saputo
mantenere intatto il suo potere e tutto il vecchio apparato repressivo
fascista di fatto mai smantellato, quando viene toccato il ganglio
cruciale della «proprietà» innesca la macchina violenta della repressione. Oltretutto l’episodio di Caselle in Pittari era il segnale che la
«rivolta» poteva estendersi a macchia d’olio nei paesi viciniori.
Il Ciorciari e i suoi seguaci hanno le ore contate: è un gruppo
formato dal tenente dei carabinieri Di Giovanni, l’ex centurione
della milizia Carlo Eboli e altri maggiorenti locali tutti esponenti dell’ex fascio che ordiscono la trama17. Il 20 novembre con il
pretesto di sventare una presunta azione rivolta contro le suore del
convento di Buonabitacolo, i carabinieri di Sanza con il rinforzo
di altri militi provenienti da Sala Consilina e Vallo armati di fucili,
pistole e mitra, prima si recano a Buonabitacolo ma qui non trovano nessuno. Quindi proseguono per Sanza e irrompono ad armi
17 È quanto sostiene Buoninconti nella sua lettera già citata in nota 14
103
spianate nel Municipio arrestando il Ciòrciari e altri trenta suoi seguaci, che saranno tutti accusati di «banda armata» e «associazione
a delinquere». Gli arrestati che ammonteranno a 35 saranno reclusi
fino al 2 gennaio del ’44 nel carcere di Sala Consilina in condizioni
igieniche precarie e manutriti. Solo la solidarietà popolare permise
di sfamarli, grazie alle donne di Sanza che a piedi e con la cesta
sulla testa raggiungevano il carcere di Sala18.
Fantasiosa si rivelerà l’accusa di formazione di «bande armate», nessuno fu trovato armato, se non di qualche coltello usato da
sempre dai contadini per il loro lavoro e per tagliare il pane. Nei 40
giorni della «repubblica popolare» non ci furono violenze o spargimenti di sangue e le presunte ronde notturne di cui furono accusati,
non erano altro che riunioni che si svolgevano a casa del Buoninconti a sua protezione da minacce pervenutegli da ex-fascisti. In realtà quelle riunioni serali servivano anche alla formazione culturale
dei contadini e braccianti: si discuteva della Rivoluzione Russa, del
socialismo, dell’andamento delle vicende belliche e si era sul punto
di pubblicare un giornale attraverso cui far conoscere e divulgare la
loro esperienza19.
Dopo l’arresto degli «insorti» fu nominato Commissario prefettizio Citro Antonio, già accusato di diserzione nella guerra del
15-18, ex segretario del fascio e capo dell’ufficio sindacale, di professione calzolaio ma scrivano comunale con raccomandazione
del Federale del tempo, e quale segretario comunale Carlo Eboli
«sciarpa littoria» e «centurione» della milizia20: l’ordine regnava
nuovamente a Sanza!
Come se non bastasse i carabinieri cercarono di impedire nei
mesi successivi la costituzione della sezione del Partito Comunista
18 in Zì Tommasì: la memoria che non muore, «U’ kumendo» periodico dell’Associazione
Ermes - Sanza, gennaio 2006, p. 8
19 Fusco, Economia e società a Sanza cit., pp. 171-198
20 Archivio dell’Istituto Campano per la storia della Resistenza, dell’Antifascismo e
dell’Età Contemporanea «Vera Lombardi». Relazione dattiloscritta e datata 2 maggio 1944,
Fondo Mario Palermo, Busta 20, Fasc. 77
104
ammonendo e minacciando gli iscritti di procedimenti giudiziari e
denunce. Ma dopo i circa 50 giorni di carcere Ciorciari e i suoi
vengono liberati e nel maggio del ’44 viene eletto segretario della
sezione del Partito Comunista di Sanza e in quanto tale scrive al
Sottosegretario per la Guerra avv. Mario Palermo per invocare il
suo interessamento nelle vicende giudiziarie all’epoca ancora in sospeso e che l’amnistia poi sanerà21.
L’esperienza di Sanza, pur nella sua breve vita, lascia una traccia
profonda nella coscienza politica del popolo di quel paese. A Sanza il referendum istituzionale del ’46 vide prevalere la Repubblica
con il 49%, mentre nel resto della provincia di Salerno prevalse la
Monarchia con il 75%. Zì Tommasì continuerà negli anni successivi la sua militanza politica nel PCI presiedendo anche il Comitato
Comunale per l’Agricoltura e molte saranno le battaglie che combatterà ancora assieme al figlio Felice a fianco dei lavoratori e per
una reale giustizia sociale. Tommaso Ciòrciari morì nel 1966 tra il
compianto generale.
21 Archivio dell’Istituto Campano per la storia della Resistenza, dell’Antifascismo e
dell’Età Contemporanea «Vera Lombardi». Lettera autografa di Tommaso Ciòrciari al Sottosegretario di Stato per la Guerra del 23.5.1944; Fondo Mario Palermo, Busta 20, Fasc. 77
105
La ripresa dell’attività politica e sindacale dopo il settembre
1943: la ricostruzione del PCI e della Camera del Lavoro attraverso due figure di antifascisti confinati
Il 5 ottobre del ’43 si costituì a Salerno il Comitato di Concentrazione Antifascista che riuniva i rappresentanti dei partiti appena riorganizzati (PSI, PCI, DC, Democrazia del lavoro). Anche la
stampa di giornali di partito riprese e i primi giornali pubblicati
a Salerno liberata (con uno stratagemma risultavano invece editi
a Taranto per sfuggire ai controlli degli organi alleati) furono «Il
Lavoro», giornale socialista che rifletteva l’orientamento politico
di Luigi Cacciatore22 rivolto ad una linea d’intesa delle forze di sinistra e «Il Soviet» organo della Federazione comunista cittadina
orientato anch’esso su una linea di sinistra ispirata dal segretario
avv. Ippolito Ceriello23. Questi due giornali e la linea politica che
esprimevano, riuscirono a destare forti preoccupazioni sia negli organi regionali dei partiti che nelle autorità alleate di controllo, tanto
che quest’ultime perquisirono le tipografie e ne impedirono di fatto
la prosecuzione delle pubblicazioni24.
Il PCI
Nel marzo del ’44 Togliatti a Napoli annuncia «la svolta di Salerno»: una linea politica fortemente innovativa che imponeva la
ricerca prioritaria di un ampio consenso tra le masse popolari e prevedeva anche momenti di collaborazione con il potere o quantome22 Ingegnere, giovanissimo aderisce al socialismo e diventa segretario degli edili e della
FIOT, perseguitato dal fascismo assieme al fratello Cecchino, nel settembre del 44 diventa
vicesegretario nazionale del PSI e nell’ultimo governo De Gasperi di coalizione fu Ministro
delle Poste e Telecomunicazioni.
23 Avvocato nato a Laviano (Sa), condannato a 4 anni di confino nel ’26 e in stretti rapporti
di amicizia con Amadeo Bordiga tanto da essere spesso suo ospite a Napoli.
24 «Il Lavoro» vide l’arresto di Francesco Cacciatore, Raffaele Petti e Vincenzo Avagliano, arresto presto trasformato in pena pecuniaria, mentre «Il Soviet» non riuscì più ad essere
pubblicato. In G. Cacciatore, La sinistra socialista nel dopoguerra, Dedalo libri, 1979, p.
39
106
no con i partiti democratici. Questo di fatto cozzava con le posizioni politiche manifestate da Ceriello, orientato invece su una linea
di purezza ideologica e con un partito di avanguardie espressione
quindi di una lucida minoranza, cosa che lo porterà poco dopo ad
essere accusato di «bordighismo».
A Salerno subito dopo il settembre del ’43 il Partito Comunista
è praticamente inesistente, la sua riorganizzazione viene assunta
appunto dal salernitano avv. Ippolito Ceriello e da pochi altri militanti tra cui il confinato politico livornese Danilo Mannucci25. Nei
fatti costoro costituiscono una vera e propria «frazione di sinistra»
che, almeno in una prima fase, riesce a livello locale ad avere la
maggioranza. La loro azione arriva fino al giugno 1944 quando tentarono di costituire in città un’organizzazione autonoma che vide,
qualche mese dopo, la pubblicazione di un numero unico di giornale «L’Avanguardia»26. A questa «frazione» aderisce anche Ettore
Bielli altro confinato politico salernitano27.
Il Partito e specificamente la Direzione meridionale, nell’aprile
del ’44 decide di dar vita ad un Comitato di Riorganizzazione. Il
compito di arrivare al primo congresso della Federazione di Salerno
con la sconfitta dei «frazionisti» viene affidato a Mario Garuglieri,
altro ex confinato politico ma molto più interno alla linea del partito
e convinto assertore della «svolta» togliattiana di qualche settimana
prima28.
È a questo punto però che l’intervento dall’alto assume aspetti tipici della ferrea disciplina «stalinista» del PCI di quell’epoca:
l’avversario non andava combattuto lealmente, ma al contrario demonizzato, infangato, distrutto anche personalmente. Quello che ne
subisce, da questo punto di vista, le conseguenze peggiori è proprio
Mannucci che sarà accusato di intrattenere rapporti con l’affarismo
e addirittura di appropriazioni indebite.
25 vedi scheda
26 L. Rossi, Salerno capitale, in «Storia di Salerno», ed Sellino, 2008, p. 154
27 vedi scheda
28 L. Bussotti, Studi sul Mezzogiorno repubblicano, ed. Rubettino, 2003, p. 70 e sgg.
107
Memoriale Mannucci
La risposta di Mannucci a queste accuse infamanti è affidata a
un memoriale indirizzato al Fronte Nazionale di Liberazione, organismo del quale l’ex confinato livornese dichiara con orgoglio di
aver firmato il primo verbale di costituzione.
Di questo memoriale finora inedito, se ne riportano alcune parti, quelle che abbiamo ritenute più importanti, assumendoci l’arbitraria ma consapevole responsabilità della scelta di non pubblicare
quelle che appaiono connesse ad un aspetto troppo personale delle
vicende e legate alla contingenza di una emotiva risposta ad accuse
vissute – a torto o a ragione- come menzogne calunniose.
«[...] E veniamo ai fatti. Si giuoca per prima cosa sulle parole,
e come a Salerno si maschera artificialmente la vera causa della
mia espulsione dal partito, ugual cosa si fa per quanto accaduto a
Ventotene durante la mia permanenza al confino. Fui allontanato
dal collettivo (cosa da me mai nascosta) unicamente per non aver
approvata la linea politica della Russia Sovietica, qunado, durante l’aggressione alla Polonia, firmava con Hitler il famoso patto
commerciale spartendosi l’integrità territoriale polacca da buoni
compari. Vedemmo, (poiché non ero evidentemente il solo) qualche cosa di poco chiaro in questo improvviso patto d’amicizia, e
nei confronti del centro del partito, domandammo solo di ragionare
una volta tanto con il nostro cervello. Ma siccome il partito comunista, già terribilmente ammalato di settarismo, non ammetteva la
discussione [...] cadde la scomunica su di un numero rilevante di
compagni, compreso Umberto Terracini [...] in precedenza ero stato richiamato all’ordine più volte poiché nel settarismo derivante
dal centro mi si voleva proibire di aver relazione con ottimi compagni rei di pensare con il proprio cervello. E potrei citare i nomi
di Spinelli Altiero, Tesini, Wodiska, Dino Roberto, Mario Maovar,
Sandro Pertini, Mancini, e tanti altri. Secondo la mentalità dei nostri dirigenti, [...] il partito comunista doveva chiudersi in quella
tradizionale ‘torre d’avorio’ e gli aderenti al medesimo avrebbero
dovuto aver solo relazione con i compagni regolarmente iscritti,
stimando un delitto il fatto di avvicinarsi a chi, pur soffrendo le
pene del confino, non condivideva le nostre ideologie politiche.
108
Basti dire, per citare un solo esempio, che io ero già guardato in
‘cagnesco’ per avere a Ponza aderito ad un corso di inglese svolto
dal compagno ing. Vincenzo Colace, il quale sembra avesse il torto
di appartenere a ‘Giustizia e Libertà’ [...].
Mannucci prosegue con una ricostruzione della sua vita politica
e delle persecuzioni subite (vedi scheda seguente) e poi continua
«[...] questa la mia attività svolta fino all’epoca del mio invio al
confino ove fui assegnato per 5 anni dalla commissione di Livorno, e che furono prolungati alla scadenza [...] l’ultima attività da
confinato, ed in un periodo perciò illegale e per me pericoloso, può
essere controllata durante un anno circa a Baronissi ove dattilografava manifestini di propaganda per il partito e per la Russia, e che
Matteo Romano e Luigi Rarità, membri del partito e da me conosciuti allora, si incaricavano di portare a Salerno [...] sono sceso a
Salerno dopo l’occupazione di Baronissi da parte degli alleati (28
settembre del ’43) ed in un caos indescrivibile ho subito prestato
la mia opera per l’organizzazione dei Comitati Antifascisti prima e
del Partito Comunista dopo [...] ero scalzo e nudo allora, dopo oltre
7 anni di confino, sono quasi nelle stesse condizioni oggi dopo un
anno di vita politica e sindacale a Salerno. Ho creato (e mi si permetterà di fare del personalismo) il partito per il quale ho dovuto
partire da zero. Ho lavorato quasi sempre solo per mancanza di
quadri o per la manifesta incapacità di chi mi si avvicinava nello
scopo di criticare. Nel mese di gennaio gli aderenti erano già 480
e circa 20 le sezioni costituite da me in provincia. In 42 giorni di
malattia grave dirigevo il partito stando a letto con 40 di febbre
mentre il compagno dr. Chieffi che mi curava dichiarava a tutti che
volevo suicidarmi continuando così. Ho creato, sempre da me solo
le sezioni sindacali della C.d.L. di Salerno una ad una (ed oggi sono
33) e 31 Camere del Lavoro in provincia..
Il memoriale continua con una scrupolosa disamina a confutare
le accuse subite di ammanchi e poco chiare contabilità nei bilanci
del partito e delle CdL
109
«[...] D’altra parte tutta quanta la contabilità è in questo momento
revisionata da due esperti ragionieri della categoria bancari, eletti
dall’assemblea, i quali decideranno loro, senza interferenze di partiti politici se le cose sono o no in regola. Inoltre non dimentichi
questo individuo [Garuglieri] che alla CdL non sarà mai lui che
farà, come vorrebbe, legge, perché una delle basi fondamentali della lotta che mi si muove su questo terreno è costituita dal fatto (e
tutti lo sanno) di essermi sempre e categoricamente opposto affinchè il nostro organismo sindacale diventasse, come taluni volevano,
un’appendice del partito comunista. Fino a che gli operai di salerno
e della provincia mi accorderanno la loro fiducia, io resterò sempre
fedele alle tradizioni sindacali, per le quali e massimamente ho tanto lottato e sofferto, e dirigerò le Camere del Lavoro confidatemi,
al di fuori dell’ingerenza di ogni e qualsiasi partito politico. per
la mia intransigenza in materia; per essermi messo contro la linea
del partito che non condivido in questo momento per diversità di
concezioni ideologiche.. per la mia azione anti-monarchica ed antifascista del «Supercinema» di Salerno; per questo e non per altri
motivi il partito mi ha onorato della sua espulsione [...]. Ho sentito
doveroso esporre ai compagni ed agli amici del Fronte Nazionale
di Liberazione questo succinto dei fatti, senza approfondire troppo
su certe questioni per un senso di pietà nei riguardi di un correttissimo partito che cade nel nulla e nel fango ogni giorno di più [...] a
disposizione vostra per tutto quanto crediate opportuno mentre vi
comunico aver chiesto la convocazione di un giurì d’onore prima di
dare querela, gradite cari compagni ed amici i miei fraterni saluti.
[firmato] Danilo Mannucci».
Per meglio comprendere le figure di questi due «confinati», se
ne riportano alcune note biografiche.
DANILO MANNUCCI
Nasce a Livorno il 28.8.1899 e qui si iscrive alla gioventù socialista nel 1915. Nel marzo 1921 - appena due mesi dopo il Congresso
di Livorno - aderisce al Partito Comunista. Di professione vetraio.
Nel 1922 sempre a Livorno assieme ad altri militanti storici
(Quaglierini, Cini, Pacini ed altri) dirige il movimento degli «Arditi
110
del Popolo» sostenendo numerosi scontri con i fascisti, subendo altresì arresti, fermi e perquisizioni.
È costretto nel maggio del 1923 ad emigrare in Francia in seguito
all’arresto del direttorio degli «Arditi del Popolo» dovuto alla diffusione del manifesto della 3ª Internazionale ai lavoratori d’Italia.
In Francia fu chiamato alla sotto-commissione di Marsiglia del
Partito, e in quella regione (Provenza) svolse per circa 10 anni lavoro sindacale con i lavoratori del «sottosuolo» (CGTU). Diresse i
minatori in memorabili scioperi nel dipartimento delle Bocche del
Rodano (1933 e 1935), dei quali l’ultimo della durata di 76 giorni
nella miniera di Meyreuil-Gardanne.
Fu espulso dal Governo francese per ben tre volte tuttavia in
seguito agli interventi di deputati socialisti e comunisti queste
espulsioni «legali» furono annullate. Ma il 4 gennaio 1936 (ultimo
gabinetto Laval) dietro pressione diretta dei magnati delle miniere
si procedette ad una illegale «espulsione diretta»: nel senso che fu
sequestrato, accompagnato di forza alla frontiera e consegnato direttamente alla polizia fascista italiana.
Ammonito al rimpatrio nel gennaio 1936; fu prosciolto nel maggio del 1936 in occasione della proclamazione dell’Impero. Arrestato nuovamente il 26 giugno del 1936 per aver ripreso l’attività
antifascista.
La Commissione di Livorno del Tribunale Speciale lo assegnò
per cinque anni al confino. I primi anni fu confinato a Ponza e Ventotene, dove benché ammalato non fu inviato in ospedale perché
troppo «pericoloso». Alla scadenza dei cinque anni, in modo illegale, il periodo di confino fu artificiosamente prolungato.
Al termine della pena, il 25 giugno 1941 è rassegnato al confino
per altri 2 anni per cattiva condotta tenuta nella colonia; la nuova
condanna al confino fu decretata dalla Commissione provinciale
dell’allora Littoria (LT) il 9.7.1941.
Per scontare quest’ultimo periodo fu inviato a Baronissi (SA).
Anche qui continuò il suo lavoro politico clandestino, impegnandosi con grande spregio del pericolo a dattilografare manifestini del
111
Partito, che poi altri compagni (Matteo Romano e Luigi Rarità) si
incaricavano di portare a Salerno.
Liberato il 2 giugno del 1943, immediatamente dopo l’arrivo
degli alleati a Baronissi, il 28 settembre del 43, si sposta a Salerno
dove subito si adopera per la costituzione dei Comitati Antifascisti
e la ricostruzione del PCI.
Dà vita di fatto al Partito partendo pressoché da zero: a gennaio
del 44 si contano 480 iscritti e circa 20 sezioni da lui create in provincia. L’attività che svolge è talmente frenetica che pur costretto al
letto per quarantadue giorni perché seriamente ammalato e febbricitante, continua a dirigere il Partito contro il parere del sanitario che
lo ha in cura. E’ grazie a questo intenso lavoro politico che in poco
tempo riesce a creare, sempre con scarsa o pressoché nulla collaborazione, 33 sezioni sindacali della CdL di Salerno e 31 Camere del
Lavoro in provincia.
Mannucci assieme all’avv. Ippolito Ceriello ed altri militanti tra
cui Ettore Bielli -in effetti all’inizio la quasi totalità del partito orientano il Partito salernitano su posizioni di sinistra, fortemente
critici nei confronti della linea togliattiana della «Svolta di Salerno». A luglio del 1944, nel corso del I congresso provinciale del
PCI, si giunse alla espulsione della «frazione di sinistra» che viene
accompagnata da una serie di accuse inerenti anche l’aspetto morale dei dissidenti. Dopo alcuni anni è stato riabilitato pienamente,
muore a Marsiglia il 20.3.1971.
BIELLI ETTORE
Nato a San Paolo (Brasile) il 20.1.1908 dove i suoi genitori, il
padre Michelangelo e la madre Lelli Elvira, erano emigrati. Dopo
circa due anni dalla sua nascita la famiglia rientrò a Roma.
Di professione decoratore, aderì alle idee e al clandestino movimento comunista e già nel 1930, a 22 anni ricevette il primo ammonimento per apologia dì atti terroristici commessi da antifascisti
sloveni nella Venezia Giulia.
112
Per lo stesso reato venne poi deferito al Tribunale speciale, che
nel 1931 lo rinvia alla magistratura ordinaria, dalla quale nel 1932
è assolto per insufficienza di prove.
Iscritto nell’elenco delle persone da arrestare in determinate circostanze. nel periodo 33-34 continuò a subire una sorveglianza tanto opprimente da non consentirgli una normale vivibilità. Pur non
risultando a suo carico in detto periodo azione politica di rilievo la
sorveglianza non si allentò neanche quando fu ricoverato in sanatorio a Prasomaso in provincia di Sondrio.
Arrestato il 21 marzo 1939 è confinato per due anni a Ponza e
quindi a Santo Stefano, piccolo isolotto di fronte a Ventotene. Qui
per le drammatiche condizioni carcerarie si ammalò gravemente e
solo per questo motivo finalmente fu confinato prima a Tricarico e
quindi nell’ottobre del 39 a Sala Consilina.
Nel 1941 è deferito al Tribunale speciale per attività comunista e
con l’accusa di stampigliare etichette e stelle filanti con frasi offensive per Mussolini e per Hitler. Del gruppo, tra gli altri, fanno parte
anche Paolo Bufalini e Antonello Trombadori, futuri parlamentari
del PCI. Sono tutti assolti per non luogo a procedere.
Bielli, prosciolto per insufficienza di prove, è rimandato al confino.
In questa cittadina dopo aver vissuto momenti duri, fu raggiunto
dalla moglie e dal figlio e verso la metà del 1940 cominciò anche a
lavorare a giornate rifacendo l’intonaco esterno al cinema De Marsico. A fine pena è trattenuto come internato. Nel periodo convulso
e disperato della ritirata dei tedeschi nel Vallo di Diano il Bielli
nascose – mettendo a repentaglio la sua vita e quella della sua famiglia- nella cantina della sua povera abitazione due famiglie di ebrei
salvandole dalla deportazione se non dalla fucilazione. Fu liberato
il 17 settembre 1943; da allora inizia un lavoro politico che lo porta
a fondare nel 1944 la sezione del Partito Comunista Italiano e la
locale Camera del Lavoro.
113
Ma alla fine di questa fase di intensa attività politica unitaria,
in seguito all’incrinarsi di questa unità e a contrasti con i dirigenti
comunisti, matura una sua scelta libertaria.
Chiamato da Togliatti a Roma non ne condivide le scelte di
fondo («svolta di Salerno») abbandonando il Partito e aderendo
al movimento anarchico (fondamentale in tal senso l’aver aderito alla cosiddetta «frazione di sinistra» del PCI salernitano guidata dall’altro confinato il livornese Mannucci). Militerà anche negli
anni successivi nel movimento anarchico, scrivendo per il giornale
«Umanità Nova» e vivrà a Salerno, dove fonda il gruppo intitolato
a «Vincenzo Perrone».
Muore a Salerno il 3 aprile 1972, ai suoi funerasli civili partecipano - con bandiere rosse e nere - compagni anarchici e militanti
della sinistra che assieme accompagnano il feretro al canto dell’Internazionale.
La CGIL di Sala Consilina è stata a lui intitolata, con una cerimonia pubblica, nel 200529.
29 M. Calicchio, Ettore Bielli confinato politico comunista, Di Buono edizioni, 2004
114
La fase post bellica tra disagio sociale, povertà e vessazioni:
il difficile reinserimento e la costituzione dell’Anpi a Salerno
Dopo l’entusiasmante ma breve fase immediatamente seguita
alla Liberazione, in Italia nel biennio 1946-47, vengono messe artatamente in atto una serie di azioni politiche tese allo screditamento
del movimento partigiano e quindi della Resistenza.
E’ in questo mutato clima che trova riscontro il famoso appello «Partigiano ascolta!» pubblicato in Vie Nuove del 25 aprile del
’4730, nel quale Pietro Secchia denuncia come sia stato consentito ai
residui del fascismo e della collaborazione di infangare il movimento partigiano allo scopo di colpire e frenare il rinnovamento della
società italiana.
L’assetto politico è fortemente influenzato dagli accadimenti internazionali e dagli equilibri venuti fuori dalla conferenza di Yalta
e in Italia, da parte degli immutati potentati economici e politici,
non ci si fa scrupolo – fomentando la paura del comunismo - di alimentare e foraggiare tutta una serie di gruppi paramilitari, mafiosi
siciliani, forze golpiste. Si fa ricorso anche all’utilizzo del connubio
tra poteri forti e doppio stato, con i micidiali effetti che si rifletteranno pesantemente e negativamente sulla democrazia italiana fino
ad oggi31.
A partire da Portella della Ginestra e fino ai primi anni ’50 si
dipana un lungo elenco di morti per mano delle forze di polizia
«democratiche» che ha fatto da contrappunto repressivo «militare»
a un potere politico che non voleva un vero realizzarsi del processo
democratico in Italia.
Le elezioni del 1948 e il quadro politico che ne viene determinato sancisce il passaggio – soprattutto a livello meridionale- del
«blocco d’ordine» che era già transitato pressoché immutato dal
vecchio assetto sabaudo post-unitario a quello fascista, nel nuovo
schieramento di potere democristiano.
30 P. Secchia, La Resistenza accusa, Mazzotta ed., 1976, p. 44
31 G. Casarrubea, M. J. Cereghino, Tango connection, Bompiani 2007, p. 7
115
A Salerno nella breve stagione seguita alla fine dell’occupazione
tedesca - ottobre ’43 - e fino ai giorni in cui il Governo si insedierà
in città – la stagione di Salerno Capitale - i partiti antifascisti ricostituitisi non furono capaci di esercitare una efficace azione di controllo affinché avvenisse una vera e propria azione di defascistizzazione negli apparati statali locali. Dopo una prima fase di attivismo
nella quale sembrava che si volesse colpire tutto e tutti, i partiti
finirono per concentrare le loro ancora deboli forze sulle questioni
amministrative e sui temi politici di livello nazionale: di fatto la
defascistizzazione non si completò. Non secondaria in tal senso appare l’opera e l’influsso esercitato dalla Chiesa e in particolare del
primate Monterisi32.
L’Anpi di Salerno
L’intrecciarsi in modo dialettico di queste componenti di disagio
economico e di un mutato orientamento politico volto a screditare
il movimento partigiano, consente l’intensificarsi nei mesi e negli
anni successivi, anche localmente, di quelle azioni vessatorie da
parte del ricostituito assetto statale e istituzionale, del quale spesso
facevano parte proprio i vecchi funzionari dell’apparato fascista.
E’ in questo ambito che attorno alla fine del ’46 e la prima metà
del 1947 inizia l’attività ufficiale dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia a Salerno
A luglio del ’51 in una circolare – del comitato Provinciale di
Salerno33- si possono rilevare in sintesi le varie iniziative intraprese
fino a quella data:
- dal giugno 1947, data di inizio dell’attività del Comitato Provinciale di Salerno, l’opera della delegazione è stata rivolta a: pratiche di riconoscimento qualifiche; compilazione dei ricorsi alle
32 Rossi, Salerno capitale cit. p. 147 e sgg.
33 Circolare Anpi Comitato Provinciale di Salerno, n. prot. 1217 del 19.7.1951, Oggetto:
tesseramento 1951
116
Commissioni competenti; liquidazione ai riconosciuti di «premi di
solidarietà»; assistenza varia (avviamento al lavoro dei disoccupati,
pratiche di pensione, pratiche per i caduti);
- nel settembre 1947 si tiene a Salerno il Convegno dell’associazione Centro-Meridionale con la presenza di Arrigo Boldrini;
- nel dicembre 1947 avviene la traslazione, accompagnata da
una manifestazione pubblica, di 17 salme di partigiani caduti in Italia del Nord;
- vengono inaugurate le lapidi a Nicola Monaco e Max Casaburi
- nel 1950 l’Anpi sezione salernitana contava su un numero di
iscritti di 520 Partigiani e Patrioti riconosciuti. Numerosi - 37 - erano i disoccupati, concentrati quasi tutti in città, e sempre nei documenti della associazione abbiamo trovato un elenco, compilato in
quello stesso anno, di 28 Partigiani definiti «bisognosi».
- Fino al 1950 erano stati censiti 88 caduti con 12 mutilati e 19
feriti mentre nel 1951 i caduti riconosciuti erano passati da 88 a
107 ed erano state messe in atto pratiche per l’intitolazione di piazze o strade in tutti i comuni della provincia che avevano dati i natali
a partigiani caduti.
- a giugno ’51 avvenne la traslazione a Bari di altre salme di
caduti
Dal riordino effettuato nel 2009 dei fascicoli (per un totale che
supera le 610 unità) e dalla disamina del contenuto - documenti e
corrispondenza - relativo ai primi anni di vita della associazione salernitana, emerge uno spaccato che riflette perfettamente il quadro
sociale d’insieme dell’epoca, fortemente caratterizzato da aspetti di
indiscutibile povertà e disagio.
I partigiani reduci, nella più parte di loro di estrazione proletaria- contadini, braccianti, manovali- con un pressoché generalizzato
semianalfabetismo, compongono un insieme sociale contraddistinto
appunto dalle difficoltà di reinserimento e dalla povertà che spesso
arriva a costituire vere e proprie forme di indigenza, cosa che appa117
re ancor più accentuata se si passa dall’ambiente rurale a quello più
propriamente urbano.
La prima conseguenza è che trascorsi i primi due tre anni con
la speranza di realizzare un reddito anche minimo, la povertà, la
disoccupazione e il disagio sociale indurranno molti alla emigrazione (su moltissimi fascicoli abbiamo trovato infatti l’annotazione:
emigrato altrove).
Questo aspetto, in alcuni casi, si riflette negativamente anche
nei confronti dell’Anpi salernitana accusata – ingiustamente - di
incapacità a tutela dei diritti dei reduci partigiani. Mentre sono la
macchinosità e il ritardo burocratico dei riconoscimenti pecuniari – premio di solidarietà, pensioni di invalidità, croci al merito,
ecc- che frustrano le aspettative e le pressanti necessità materiali e
contribuiscono a fare del Comitato Provinciale di Salerno – anche
se ciò avviene solo in qualche caso- un ingiusto terminale di malumori e richiami.
In altri casi emerge un aspetto della vita post-bellica dei partigiani salernitani che fa intravedere una vera e propria volontà vessatoria nei loro confronti soprattutto per quel che riguarda il lavoro.
Infatti nonostante la Legge che imponeva il reinserimento dei partigiani a livello occupazionale sono molti i casi di mancata collocazione al lavoro se non addirittura di licenziamenti in posti già
occupati prima della guerra.
Degli aspetti sopra evidenziati se ne riportano di seguito solo
alcuni esempi sempre desunti dai fascicoli degli iscritti all’Anpi di
Salerno.
CODA DOMENICO n. 29.4.1915 a Pagani: ha combattuto dal
9 settembre 43 al 30 ottobre 44 in Grecia con la ex Divisione Pinerolo; ha poi partecipato con l’ELAS al sabotaggio dell’aeroporto
di Larissa distruggendo 8 aerei tedeschi e all’azione di Porta (rimanendo 15 ore sotto il fuoco delle batterie tedesche). Prima della
guerra era falegname e lavorava alle dipendenze della ditta S. Erasmo di Pagani. Quando la fabbrica ha riaperto non è stato riassunto
118
in quanto il direttore dello stabilimento «[...] Ha detto che io sono
stato della Commissione Interna e non ho mai fatto gli interessi della fabbrica [...]». Invano la direzione dell’Anpi provinciale sollecita
la sua assunzione in varie ditte locali, tra cui le MCM, finché da
una lettera del dicembre ’53 apprendiamo che è emigrato in Sudafrica. «[...] Io mi trovo bene qua lavoro e sono felice, quello che in
Italia ci hanno negato, e costringono ancora i nostri fratelli colà alla
fame[...]».
CASCELLA MATTEO da Sarno, ha combattuto in Grecia con i
Reparti Italiani: nel ’48 scrive prima lettera in cui dichiara di essere
disoccupato da due anni, poi nel ’52 invia una richiesta sussidio
straordinario perché disoccupato e con necessità di sostenere spese
per una bambina ammalata. Nel ’62 risulta emigrato.
DI SPIRITO ANTONIO da Sanza che denuncia in una lettera
indirizzata all’Anpi di Salerno il 9 ottobre 1948 «[...] Proprio nel
mio paese si è verificato un fatto, non un reduce, non un Partigiano
[...] ma un semplice riformato ha ottenuto il posto di cantoniere
[...] dopo tutti sacrifici che conoscete, non avere neanche il diritto
di mangiarsi un tozzo di pane acquistato con sudore [...]». Dopo
tre anni è la moglie che scrive al segretario della sezione di Salerno «[...] Aabbiamo aspettato fino ad oggi è niente lavoro [...] sono
quattro anni che viviamo di speranza di essere occupato [...] ma i
figli vogliono pane non vivono di speranza [...]».
CASCIELLO MICHELE all’8 settembre in Montenegro, ha
partecipato tra l’altro alla liberazione di Belgrado. Dalla corrispondenza nel suo fascicolo risulta licenziato nel 1950 dalla ditta Del
Gaizo di Scafati (azienda che i partigiani scafatesi avevano difeso
in armi). Anche lui negli anni successivi emigra in Germania.
FRANCO GIOVANNI che combattè nella zona di Prato di Sarno e riconosciuto partigiano combattente, in data 18 ottobre ’48 in119
via una lettera all’Anpi nella quale denuncia il suo stato di estrema
indigenza in quanto il 28 luglio dello stesso anno pur lavorando
come manovale e custode della linea ferroviaria Codola-Cancello
era stato inesplicabilmente licenziato. Attribuisce tale licenziamento a motivi politici essendosi rifiutato all’epoca di far domanda di
appartenenza alla milizia fascista.
DE MARTINO RAFFAELE iscritto Anpi disoccupato e in condizioni di bisogno che si rivolge tramite l’associazione alla Direzione maternità e infanzia per le necessità di assistenza per la piccola
di mesi nove.
FERRAIOLI GIOACCHINO il 22.10.47 scrive all’Ufficio Provinciale Assistenza post-bellica avendo subito intervento chirurgico
per i postumi di ferita riportata in combattimento chiede la corresponsione di un sussidio per far fronte alle rilevanti spese mediche,
trovandosi in stato di grave disagio economico, disoccupato e con
famiglia a carico
FORLENZA SALVATORE da Contursi il 3 novembre 1948 scrive all’Anpi «[...] Essendo disoccupato da vario tempo, eccetto che
qualche lavoro giornaliero [...] questo paese non offre ai lavoratori
una continua occupazione per mancanza di industrie [...] fiducioso di trovare come tanti altri partigiani una più equa sistemazione
adatta alle sue capacità [...] dandogli la possibilità di trovare una
occupazione togliendolo così dalla miseria [...]» si rivolge all’associazione perché sia tutelato in quanto rileva che «.[...] in queste
contrade vi sono occupati tanti operai che non hanno fatto neanche
il soldato [...]».
PIRONTI ANDREA partigiano combattente ferito, imprigionato a Rodi e poi con la Divisione Italia. Rientrato in Italia, lavora a
Picerno (Pz) quale cantoniere straordinario, ma viene «allontanato
dal servizio». Il 26.6.48 al segretario del Comitato Provinciale di
120
Salerno scrive tra l’altro: «[...] Pur di non rimanere in mezzo a una
strada [...] spero che questo non avverrà che resterò licenziato ma
se avviene io sono deciso [...] a fare atti di sabotaggio [...] occorre
ancora combattere per fare valere i nostri diritti [...]».
FRUSCIANTE GREGORIO da Fratte che è disoccupato, dopo
infruttuosi tentativi di impiego come operaio alla MCM o come autista presso una ditta di trasporti, gli viene in soccorso la solidarietà
militante del Partito. Emigrato a Genova infatti viene assunto per
interessamento immediato del direttore dell’Unità di Genova «[...]
Veramente lui si è interessato vivamente del mio caso di mettermi al
lavoro e dopo pochi giorni che ero a Genova è riuscito a collocarmi
a lavoro per quanto difficile fosse qui [...] senza residenza.[...]».
MORABITO PIETRO da Ispani nel aprile 1950 lamenta di
essere disperato perché non riesce a trovare un qualsiasi posto di
bracciante «[...] Feci sacrifici per pagare la tessera [...] tutti hanno
dimenticato le accanite lotte sostenute sulle montagne contro i tedeschi? Tutti sanno che col sangue dei partigiani si coprì il suolo del
fronte slavo e quello italiano per battere per sempre i nazifascisti
[...] solo il sangue dei nostri partigiani scacciò dal nostro suolo il
superbo esercito tedesco e annientare il ridicolo esercito di Salò [...]
oggi chi lo ricorda più?»
CARUCCI NICOLA nel gennaio 1949 scrive alla segreteria
dell’Anpi «[...] Sono stato ferito nella guerra di liberazione e non
ho potuto occupare il posto che prima occupava [...] esercitava la
professione da carabiniere e tuttora sono a casa disoccupato [...]».
La vedova di FERRAZZANO ATTILIO, caduto in combattimento in Jugoslavia, in una lettera del ’54 lamenta che la sua
«paga» non sia «[...] sufficiente a tutto il mio bisogno [...]» e che
quindi versa in stato di povertà.
121
Particolare la vicenda di LUCIANO PENNETTI, del 1915 e partigiano combattente. Dalla sua scheda personale di partigiano del
Comando Divisioni Garibaldine del Friuli si evince che ha partecipato a nove «fatti d’arme» dal novembre ’43 al 16.4.45 con nome
di battaglia Fulmine, dalla Solvenia alle tre Venezie nella Divisione
Garibaldi Natisone brigata B.Buozzi. Nel suo fascicolo c’è un invito, del 1948, all’avvocato Raffaele Petti di assumere la difesa del
Pennetti che «trovasi ricoverato nelle Carceri Giudiziarie di Salerno» perché arrestato da un Commissario di P.S. durante lo sciopero
dei Tabacchini di Pontecagnano. Nel giugno 1951 scrive all’Anpi
di Salerno nell’imminenza dell’inizio del suo processo giudiziario
«[...] essendo le mie condizioni misere non ciò nemmeno che mi
difende [...] se codesto Comitato è provisto di qualche Avvocato
[...]». Non sappiamo l’esito della sua vicenda giudiziaria, ma possiamo solo aggiungere che da corrispondenza del 1953, ancora non
era stato completato il saldo delle somme a lui dovute dal Distretto
Militare.
FERRARA RAFFAELE da Maiori, combattente nella difesa di
Lero, nel 1953 trovandosi in tristi condizioni perché disoccupato
e con famiglia a carico, lamenta ritardi nel pagamento di somme
spettanti e sollecita la corresponsione delle competenze dell’attività
partigiana.
Le difficoltà di reinserimento nella vita quotidiana sono palesate
anche nel caso di FORTE ALFREDO. Nato il 19.4.1929, nel febbraio ’44 (a 15 anni!) entra a far parte della 11ª Divisione Garibaldi,
104ª Brigata d’assalto «C. Fissore» che ha operato nella Valle Tanaro in Piemonte (assieme al fratello Umberto). Iscritto al Fronte
della Gioventù, combatte come partigiano fino alla Liberazione e
riporta anche ferite in combattimento, con il nome di battaglia di
«Diavolo». E che di Diavolo si trattasse se ne trova conferma in una
lettera dell’Anpi di Fossano a quella di Salerno, nella quale si chiariscono le motivazioni della sua espulsione da quella sezione «[...]
122
Resosi colpevole di minacce a mano armata e di tentato lancio di
bomba a mano in una sala da ballo in occasione di una veglia danzante alla quale gli era stato impedito di intervenire per l’evidente
scopo di cui sopra (?) [...] munito di foglio di via obbligatorio dalla
locale stazione dei carabinieri per essere rimpatriato alla località di
residenza. Comunque se credete di iscrivere ugualmente il Forte
alla vostra sezione [...]», cosa che avviene regolarmente risultando
il Forte iscritto negli anni 1949 e 1950 alla sezione di Salerno dove
risiedeva in via Principessa Sighelgaida. Emigrato in Brasile, qui lo
aspetta un tragico destino, nel suo fascicolo dell’archivio Anpi di
Salerno, infatti ritroviamo la sua prece dove risulta essere morto a
31 anni – il 10.3.1960 – «nell’ospitale terra brasiliana»
Le malattie
Numerosi sono anche i partigiani reduci che continuano a soffrire di malattie contratte a causa delle condizioni di vita e le privazioni subite durante la guerra. Se ne riportano alcuni esempi:
DEL BENE ELIO da Nocera Inferiore, riconosciuto affetto da
TBC polmonare bilaterale per causa bellica nel ’48 si rivolge al
Prefetto di Salerno al fine di ottenere un sussidio per provvedere
all’acquisto di streptomicina, terapia prescrittagli dai sanitari del
sanatorio Principe di Piemonte dove era ricoverato per la sua patologia.
Quella della TBC34 è una patologia che ritroviamo spesso nei
reduci sia partigiani che deportati, è il caso ancora di D’ACUNZI
34 La grande epidemia tubercolare dei primi anni del XX° secolo TBC era stata fino agli
anni quaranta in fase calante, ciò dovuto essenzialmente alle migliorate condizioni sia di nutrizione che ambientali. I disagi socio economici della guerra e il loro riverbero anche nella
fase post bellica ne riaccendono il diffondersi con un innalzamento dei tassi sia di morbilità
che di mortalità. Dal punto di vista medico nei «sanatori» si praticava ancora il «pneumotorace terapeutico» cura introdotta dall’italiano Forlanini, metodo curativo della tisi polmonare
ottenuto mediante induzione artificiale del collasso del polmone colpito, tramite introduzione
di aria nella cavità pleurica e conseguente perdita della pressione negativa grazie alla quale il
123
FRANCESCO – sopravvissuto a Cefalonia- che è stato prigioniero
in campi di concentramento nei Balcani e come racconta lui stesso
«[...] nel 1944 deportato in Serbia, dove si ammalò con febbre alta
[...] e riscontrato affetto da pleura [pleurite] alla spalla destra [...]
detta malattia è sempre più aggravata [...]».
GIORDANO FRANCESCO nato a Tramonti e residente Pagani,
chiedeva riconoscimento di malattia (malaria) contratta in Albania
(lettera del agosto 1954).
IANNONE FRANCESCO da Fisciano chiede nel ’56 riconoscimento della malaria contratta in Albania.
Talvolta le ferite e le grandi invalidità determinavano anche
grave disagio psichico come nel caso del partigiano MARCELLO
SARACINO classe 1921, che in seguito alle ferite riportate nella
guerra partigiana in Jugoslavia subì l’amputazione degli arti inferiori. Questo ebbe conseguenze sul suo equilibrio psichico tanto da
rendere «necessario» il suo internamento nel Manicomio di Nocera
Inferiore35.
polmone poteva rimanere espanso. Ma con gli alleati, oltre la Penicillina sarebbe poi arrivata
anche la Streptomicina – sostanza terapeutica estratta dal batterio Streptomyces griseus – che
almeno in quegli anni risulterà farmaco efficace e capace di «guarire». Altra malattia che
ritroviamo è la Malaria che colpisce soprattutto i reduci dai Balcani. La malaria aveva colpito
le campagne italiane nella prima metà del secolo scorso favorita dal degrado paludico di ampi
tratti del territorio nazionale, dalla povertà, dalle carenze alimentari, dallo sfruttamento del
lavoro bracciantile. Il Fascismo aveva fatto della battaglia alla malaria una delle sue armi
di propaganda più efficaci, ma proprio la guerra e prima ancora le pretese imperialistiche
e coloniali ne avevano determinato il fallimento. E i militari italiani che combatterono nei
balcani, tra i disagi, il freddo, il fango, la malnutrizione dovettero fare i conti, anche dopo
essere rientrati in Italia con questa nemesi sanitaria.
35 Fascicolo Saracino Marcello, Archivio Anpi, Salerno
124
NOTA FINALE
Per chiudere questo scritto abbiamo scelto – per il suo valore
simbolico - una immagine, una piccola foto in b/n caduta per caso
da uno dei polverosi fascicoli dell’Anpi, e che ritrae in una istantanea un momento di vita tranquillo e spensierato di due ragazzi di 70
anni fa: due amici.
Il tema dell’amicizia è uno degli aspetti pregnanti che caratterizzano molte delle storie qui raccontate: per amicizia Raffaele Giallorenzo acconsentì di accompagnare con la sua bicicletta da staffetta
partigiana un suo compagno di lotta clandestina che, preoccupato
dalla notizia di avere il figlio ammalato e febbricitante volle fare un
salto a casa, Raffaele fu fermato ad un posto di blocco delle Brigate
Nere a Campiglione Fenile, catturato e poi fucilato; per amicizia
«Totò» - Antonio Tramontano - accettò di scendere a Castelletto
Busca assieme al suo inseparabile grande amico Guglielmo Strumia (Tom Mix) a casa di una ragazza, dove furono arrestati e poi in
momenti diversi fucilati; erano inseparabili (li avevano soprannominati i «tre moschettieri») Lorenzo Fava, Danilo Pretto ed Emilio
Berardinelli i tre gappisti che a Verona liberano Roveda con una
azione ardita e temeraria che costa la morte di Danilo e la cattura di Lorenzo e la sua successiva fucilazione; è per amicizia che
Ugo Stanzione aderisce a Sassuolo al «gruppo di Borgo Venezia» e
poi al partigianato modenese alle «macchie» di Monchio dove poi
cadrà; erano inseparabili Franchino Pappacena, Gianni de Vecchi
ed Ermanno Monti, che dal balcone del Municipio di Chignolo Po
esposero una bandiera rossa, attirandosi l’odio della spia fascista
che ne segnalò la presenza in zona ai repubblichini e alle SS che li
125
126
catturarono e li trucidarono. Tante ancora sono le storie di amicizia,
molte delle quali possiamo solo immaginare, che contrassegnano le
vicende umane e militari degli antifascisti, dei partigiani, dei combattenti per la libertà in Italia e all’Estero e che travalicano ampiamente il solo aspetto dell’essere commilitoni per assumere l’aspetto
di un sodalizio umano particolare e speciale.
I due ragazzi ritratti nella foto, e questo siamo riusciti a capirlo
interpretando non senza difficoltà una scritta vergata con calligrafia
un poco incerta sul retro dell’istantanea, sono due partigiani salernitani – Giuseppe Dente e Pasquale Parente - militanti nella stessa
formazione di Giustizia e Libertà in Piemonte: due amici appunto.
Grazie ad un attento riesame delle fonti, abbiamo potuto ricostruire un pezzo della loro storia e del perché sono caduti assieme e
nello stesso giorno a Robilante in Piemonte: Pasquale – la sera del
20 febbraio 1945- è sceso dalla montagna per raggiungere Giuseppe
che si era già recato in casa di una famiglia fidata di Robilante per
un fugace cambio di abiti. Allorquando è arrivato ha saputo che
Giuseppe assieme ad altri giovani del paese era andato al bar a bere
qualcosa essendo carnevale. Pasquale sapeva che proprio quella
sera sarebbe stato attuato un rastrellamento dei repubblichini e si è
precipitato per avvisare e salvare i compagni, ma era troppo tardi:
erano stati già tutti catturati e anche lui subì la stessa sorte. Poco
dopo furono sommariamente fucilati nella piazza del paese1.
1 Per quanto riguarda Dente Giuseppe, sulla lapide nel cimitero di Salerno è indicata come
data di morte il 11.2.1945 invece sulla scheda dell’Istoreto n. VC06284 è indicata la data
del 20.2.1945 e tale risulta anche dalla documentazione Anpi. Invece per Parente Giuseppe
dalla documentazione Anpi risulta quale data di morte l’11.2.1945, mentre dal volume Vite
spezzate. I 15430 morti nella guerra 1940-45. Un censimento in provincia di Cuneo (a cura
di Michele Calandri, Provincia di Cuneo, Istituto storico della Resistenza in Cuneo e provincia, 2001, p. 791) Parente Pasquale cade a Robilante (Cn) e qui segnala come data di morte
il 20/02/1945 e non l’11. La data di morte e le notizie relative alla loro cattura sono state
fornite dalla testimonianza diretta della sorella di Pasquale, Alessandra Parente che vive oggi
a Torino. Resta ancora da aggiungere che nel fascicolo Anpi di Dente vi è un foglietto in cui
vi è annotato anche il nome di un tenente repubblichino, originario di Benevento, che era tra
i loro fucilatori.
127
Il ritrovamento casuale di quella piccola foto, grazie alla quale è stato possibile ricostruire la loro vicenda, mi è sembrata una
metafora: come un accidentale ma ineluttabile autoaffermarsi di un
vantaggio della memoria, in questo caso memoria affidata alla immagine fotografica, una sua rinnovata capacità di reificazione di
fronte al dissolvimento della morte.
L’immagine fotografica - l’«istantanea» - è un dettaglio della realtà, un attimo «congelato» e immagazzinato - fino a qualche anno
fa in modo esclusivo- su un supporto materiale (la «pellicola» o la
carta fotografica), mentre oggi ciò avviene in maniera pressoché
esclusiva in forma digitale e quindi in qualche modo immateriale
e/o virtuale. Questo aspetto, materiale o virtuale che sia, ha relativa importanza. Quel che conta è che le fotografie nel momento in
cui diventano patrimonio collettivo di una comunità, sia essa più o
meno ampia, identificano gli eventi, diventandone simboli e come
dice la Sontag queste “icone” attribuiscono rilevanza a quegli eventi rendendoli memorabili. Ma nello stesso tempo in cui avviene la
registrazione fotografica questa è registrazione di qualcosa che è
già mutato, documentazione di qualcosa che si è già dissolto, passato. L’istantanea è la capacità dell’immagine fotografica di cogliere
da una situazione in movimento e quindi in divenire, una frazione
di tempo che diventa il dettaglio interpretativo di quell’evento, il
punto critico - se vi vogliamo dare un significato spaziale - andando
così ben oltre la semplice riproduzione dell’immagine.
Il punto critico di quella istantanea - il Kairòs degli antichi greci
è nella immagine di una amicizia che ha legato due ragazzi ad una
esperienza di vita e arrivata fino ad accomunarli nella morte. Ma
proprio grazie al suo essere immagine, capace cioè di rendere «memorabile» quell’istante, ha permesso – pur dopo 65 anni- a questi
due ragazzi l’essere ancora presenti nella memoria storica di una
comunità e intravedere in quella loro esperienza un ancor valido
fondamento del vivere civile.
128
129
CALANDRIELLO FRANCESCO
12
CAPUANO DOMENICO
CAGGIANO DOMENICO
11
13
BUONANNO ENRICO
BEVILACQUA ALFREDO
7
10
2.7.1917
BARONCINI SERGIO
6
BOBICCHIO PIETRO
BARBETTA ORLANDO
5
BRANCACCIO SALVATORE
AVALLONE ANTONIO
4
8
ANTONUCCI GIACOMO
3
9
4.4.1921
AMICO GIUSEPPE
2
1917
15.1.1909
20.12.1923
1916
29.1.1926
1923
1917
1923
?
1925
ALFANO BIAGIO
1
DATA N.
NOME
SIANO
SASSANO
CAGGIANO
CAVA DEI TIRRENI
NAPOLI RES. SA
CAVA DEI TIRRENI
NOCERA SUPERIORE
VIETRI SUL MARE
SCAFATI
CAVA DEI TIRRENI
VIBONATI
? Res. a Salerno
CASTEL S.GIORGIO
LUOGO N.
24.10.1944
26.1.45
29.1.1944
2.10.43
29.6.44
8.10.44
20.4.1945
8.7.1944
13.1.44
29.4.45
9.10.43
9.9.1943
7.9.1944
DATA M.
GAMBASCA
GIAVENO
CAMPOCRINA LUCCA
SLOVENIA
COLLE DELLA PORTIA
FILOTRANO ANCONA
GRECIA
VENETO
LERO
RAGUSA (Dubrovnik)
PARMA
LUOGO M.
FUCILATO
CADUTO
FUCILATO
CADUTO
CADUTO
CADUTO
CADUTO
CADUTO
CADUTO
FUCILATO
CADUTO
FUCILATO
CADUTO
MODALITA’
Tabella 1
Elenco caduti salernitani dopo l’8 settembre in attività di resistenza o prigionia (non compresi in altre tabelle)
APPENDICE
130
CAPUANO LUIGI
CASABURI MAX
CASCIELLO BERNARDO
CASTELLUCCIO DOMENICO
CATALANO DOMENICO
CATAPANO ANTONIO
CAVALLARO LUIGI
CAVALLARO RAFFAELE
CAVAZZI ALBERTO
CELANO ORTENSIO
CIRILLO ATTILIO
COGLIANESE ONOFRIO
CONTALDO SANTOLO
CORVINO ALFREDO
CRESCENZO ALFONSO
CUCCI EDOARDO
CUCINO ARMANDO
CUOMO ORLANDO
CUSATI FRANCO
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
4.10.1922
1924
25.11.1925
13.10.1914
15.6.1924
1909
9.3.1900
1920
10.6.1903
12.11.1924
17.7.1911
1909
1923
20.11.1912
1894
26.7.1906
1887
CAMEROTA
PAGANI
SALERNO
SERRE
SARNO
CASTEL S.GIORGIO
PAGANI
OLIVETO CITRA
ATENA LUCANA
SALERNO
ALBANELLA
SCAFATI
MERCATO S. S.
SCAFATI
SALERNO
SCAFATI
SALERNO
CAVA DEI TIRRENI
SCAFATI
MATTARELLO (TN)
CAVA DEI TIRRENI
FUCILATO
CADUTO
FUCILATO
31.12.1944
?
29.4.44
30.6.1944
10.1.1944
11.11.43
11.9.43
5.12.1943
DIC 43
5.4.1945
?
28.9.43
28.9.43
20.1.44
28.9.43
MOSCHIERES
FIRENZE
JUGOSLAVIA
GROSSETO
SALUZZO
GRECIA
CASTELLAMARE STABIA
PLJEVLJA (MONTENEGRO)
CRETA (GRECIA)
PIEMONTE
MONTENEGRO
SCAFATI
SCAFATI
NERAIDE (GRECIA)
SCAFATI
CADUTO
?
CADUTO
FUCILATO
FUCILATO
CADUTO
CADUTO
CADUTO
CADUTO
CADUTO
CADUTO
CADUTO
CADUTO
CADUTO
CADUTO
20.10.1943 NOCELLETO DI CARINOLA (TN) CADUTO
28.9.43
28.4.45
12.9.43
131
FERRAIOLI ALFONSO
FERRAZZANO ATTILIO
FORTIS ETTORE
FRUSCIANTE ELIO
GALDI VINCENZO
GIALLORENZO RAFFAELE
GUARINO CARLO
44
45
46
47
48
49
50
IZZO RAFFAELE
18.1.1921
FAVA LORENZO
43
51
25.7.1915
FALCIANO ANGELO
42
BUCCINO
SACCO
SALERNO
TORRE ORSAIA
ROFRANO
VIBONATI
ASCEA
ASCEA
7.9.1944
20.2.1945
9.10.1943
26.4.1945
26.6.1944
28.4.45
20.12.1944
13.8.44
INZAGO (MI)
ROBILANTE
GAETA
PIEMONTE
SOMMARIVA DEL BOSCO
PADOVA
PIEMONTE
BALBANO LUCCA
1924
1924
1910
1921
6.7.1918
18.2.1915
20.5.1919
1904
ROCCAPIEMONTE
NOCERA SUPERIORE
AULETTA
PELLEZZANO
SALERNO
EBOLI
OMIGNANO
PAGANI
NOCERA INFERIORE
SARNO
12.11.1943
2.10.43
10.3.1945
5.12.43
6.5.1944
5.6.44
23.6.44
1.10.44
23.8.1944
30.9.43
NAPOLI
PONTE CHISONE
JUGOSLAVIA
ROMA
VAL CUSEO (Novara)
JUGOSLAVIA
VETTE FELTRINE (BELLUNO)
VERONA
QUINDICI
6.12.1889 CAROLEI (CS) RES. TORTORELLA 16.4.1944 BIJELO POLJE (MONTENEGRO)
30.11.1894
16.12.1922
1919
FALCE NICOLA
DELLA MONICA UGO
38
1.8.1921
41
DE VITA DOMENICO
37
10.2.1918
DENTE GIUSEPPE
DE MARCO GIOVANNI
36
1911
DI VONA QUINTINO
DE LUCA MATTEO
35
13.8.1911
39
DE DOMINICIS ALFONSO
34
9.2.1916
40
D’ANGIOLILLO ANIELLO
33
CADUTO
FUCILATO
FUCILATO
CADUTO
CADUTO
CADUTO
CADUTO
CADUTO
FUCILATO
CADUTO
CADUTO
FUCILATO
CADUTO
CADUTO
CADUTO
FUCILATO
CADUTO
CADUTO
CADUTO
132
MARTELLI CASTALDI SABATO 19.8.1896
1921
1908
MASCIA MICHELE
MASTROLIA ATTILIO
MAZZEO SALVATORE
MONACO NICOLA
MONTELLO ANTONIO
MOSCHILLO PASQUALE
NAPPI PASQUALE
PAOLILLO ALESSIO
PAPPACENA FRANCO
61
62
63
64
65
66
67
68
69
70
CAVA DEI TIRRENI
SALA CONSILINA
BUONABITACOLO
CAGGIANO
SAN GREGORIO MAGNO
SALERNO
TEGGIANO
IDRIA
PAGANI
NOCERA INFERIORE
1925
22.2.23
1.1.1909
19.4.1924
30.12.1912
16.3.1922
SARNO
PONTECAGNANO
SCAFATI
LAUREANA CILENTO
FOSSE ARDEATINE
TOSCANA
PARMA
DESIO
FOSSE ARDEATINE
SPALATO
BOSCHI DI BARBANIA
IDRIA (GORIZIA)
MANTA (CN)
PRALUNGO
31.3.1945
16.5.1944
19.3.1945
21.6.44
5.10.1943
23.6.44
CHIGNOLO PO (PV)
FIRENZE
SCAFATI
JUGOSLAVIA
SOMMARIVA DEL BOSCO
S.ALBANO STURA
FORNO DI COAZZE
31.7.1944 SAN COLOMBANO BELMONTE
24.3.44
19.11.43
19.8.44
8.7.45 ??
24.3.44
30.9.1943
15.9.1944
12.10.1943
14.5.1944
12.8.1944
SAN PIETRO AL TANAGRO 22.7.1944
SACCO
CAMEROTA
CAMPAGNA
29.9.1908 GRECI(AV)RES.ROCCAPIEMONTE
1924
10.2.1907
11.4.1894
MARMO GIOVANNI
LORDI ROBERTO
57
1912
60
LAURENZI ALESSANDRO
56
30.7.1922
LORUSSO GIUSEPPE
LAMMARDO PASQUALINO
55
13.10.1912
MARCHESANO ENRICO
KERPAN VILIBALDO
54
1.9.1910
58
JULIANO PASQUALE
53
2.1.1924
59
JANNONE SALVATORE
52
FUCILATO
CADUTO
CADUTO
CADUTO
FUCILATO
FUCILATO
FUCILATO
CADUTO
FUCILATO
CADUTO
FUCILATO
CADUTO
FUCILATO
FUCILATO
CADUTO
FUCILATO
CADUTO
CADUTO
133
1913
1922
PEPE EMILIO
PINTO RAFFAELE
PINTO VINCENZO
PISATURO ORLANO
PIZZO GIUSEPPE
PORCELLI ARMANDO
QUARANTA EMILIO
QUARANTA ANTONIO
RAGO VINCENZO
RAIOLA RENATO
RUSSO RAFFAELE
SABIA GENNARO
SALZANO EMANUELE
SESSA GIOVANNI
75
76
77
78
79
80
81
82
83
84
85
86
87
88
SIANO GIUSEPPE
1912
PELLEGRINO VITTORIO
74
89
1924
PASTORE ORESTE
73
1919
1922
1921
24.8.1916
15.11.1908
20.3.1901
1920
1922
1921
1922
5.7.1920
26.10.1926
1922
PASSANNANTI ALFONSO
72
16.3.1922
PARENTE PASQUALE
71
SARNO
SALERNO
CAVA DEI TIRRENI
CAPACCIO
ROCCADASPIDE
ANGRI
PELLEZZANO
SALERNO
SALERNO
SALERNO
SALERNO
SALERNO
VIETRI SUL MARE
SARNO
BELLOSGUARDO
SALERNO
SALERNO
BATTIPAGLIA
BELLOSGUARDO
26.3.44
9.5.45
14.9.1943
3.5.1945
14.9.1943
12.1.1945
17.11.1943
19.3.1945
4.4.45
gen 1945
6.12.1944
27.11.44
31.12.1943
20.12.1944
27.4.1945
22.3.1944
20.2.45
GRECIA
JUGOSLAVIA
KABILA (CATTARO)
BALCANI
RIO FARNONE (PC)
LERO (GRECIA)
COMO
LOQUA FRAZ NUOVA GORIZA (SLOVENIA)
JUGOSLAVIA
VALLINOVA DI PRATO (UD)
GRECIA
ROMA
BRA
TORINO
Maiano Lavacchio fraz. di Magliano (GR)
ROBILANTE
CADUTO
CADUTO
CADUTO
CADUTO
CADUTO
CADUTO
FUCILATO
FUCILATO
CADUTO
FUCILATO
CADUTO
CADUTO
CADUTO
FUCILATO
FUCILATO
CADUTO
FUCILATO
CADUTO
134
STANZIONE UGO
STORCHI AVIO
TISI ARMANDO
TORRE ANTONIO
TRAETTA FRANCO
TRAMONTANO ANTONIO
TROIANO AMERIGO
TROTTA GIUSEPPE
VELLECA DOMENICO fu Antonio
91
92
93
94
95
96
97
98
99
101 VITTORINO ANTONIO
100 VIETRI STEFANO
SINICONOLFI VINCENZO
90
28.8.1908
1894
1919
1919
3.5.1922
1922
1923
1918
25.5.1921
9.9.1922
NEW-HAVEN (USA)
SALERNO
SCAFATI
NOCERA SUPERIORE
SAN GREGORIO MAGNO
NOCERA INFERIORE
SALERNO
MINORI
GIFFONI VALLEPIANA
SALERNO
SALERNO
GIFFONI VALLEPIANA
28.9.43
12.9.1943
28.9.43
5.8.1944
26.11.1944
27.4.45
28.10.1943
17.9.45 ?
16.8.1944
5.2.1944
17.4.44
SCAFATI
NAPOLI
SCAFATI
UDINE
CUNEO
BORGO S. DALMAZZO
LERO
CARPI
CIVAGO
KALINOVIK (BOSNIA)
CADUTO
CADUTO
CADUTO
CADUTO
DISPERSO
FUCILATO
CADUTO
CADUTO
CADUTO
FUCILATO
CADUTO
CADUTO
135
SOLD.
BONAVOGLIA VINCENZO
BUONOCORE VINCENZO
CALABRITTO ANGELO
CAMPAGNA ERSILIO
CARDIELLO ARSENIO
CARPENTIERI ANTONIO
CASABURI CRESCENZO
CIANCIULLO ANTONIO
D’ANGELO FRANCESCO
DENTE GASPARE
D’URSI PASQUALE
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
FENIELLO ALFONSO
CAP.
BIANCULLI ANTONIO
16
SOLD.
BARBUTO SILVIO
3
4
SOLD.
C.M.
SOLD.
MAR.
SERG.
SOLD.
SOLD.
SOLD.
SOLD.
ART.
TEN
TEN
AUFIERO ALFONSO
2
CAR.
AMATUCCIO BRUNO
GRADO
1
NOME
VALVA
CAVA DEI TIRRENI
EBOLI
CENTOLA
NOCERA INFERIORE
CAVA DEI TIRRENI
MERCATO S. S.
S.PIETRO AL T.
MONTECORVINO P.
MONTECORVINO P.
TRAMONTI
EBOLI
MONTESANO S. M.
SARNO
NEW HAVEN (USA)
GIUNGANO
NATO
Tabella 2
Salernitani caduti o dispersi a Cefalonia e Corfù
2.5.1911
15.8.1912
19.4.1918
11.3.1923
5.6.1913
11.10.1909
31.3.1919
15.1.1922
3.2.1920
9.3.1917
23.6.1923
5.11.1922
23.9.1913
20.4.1923
2.2.1916
23.10.1919
DATA N.
9.9.1943
19.9.1943
20.2.1944
23.9.1943
22.9.1943
22.9.43
9.9.43
12.7.1944
14.3.1945
17.9.1943
9.9.1943
8.9.1943
24.9.1943
9.9.1943
21.9.1943
29.9.43
DATA M.
CEFALONIA
CEFALONIA
ZEITHAIN (B)
CEFALONIA
CEFALONIA
CEFALONIA
CORFÙ
ZEITHAIN (B)
TAMBOV (RUSSIA)
CEFALONIA
GRECIA
CORFÙ
CEFALONIA
CEFALONIA
CEFALONIA
CEFALONIA
LOC.
DISP.
DISP. A FARSA
IMI
DISP.
FARSA
DISP.
DISP.
IMI
IMI
DISP.
DISP.
CASETTA ROSSA
DISP.
KOKKOLATA
DISP.
ALTRO
136
MILONE ULDERICO
32
MORRONE NICOLA
MARUOTTOLO VALENTINO
31
35
SOLD.
MARINO EUGENIO
30
MONETTI RAFFAELE
MANZO MICHELE
29
MONTELLA ANTONIO
MACCHIA GIUSEPPE
28
33
LIOTTI SILVIO
27
34
SOLD.
LETTIERI PASQUALE
26
SOLD.
SOLD.
SOLD.
SOLD.
SOLD.
SOLD.
TEN
C.M.
SOLD.
SERG.
FINANZ.
S.T.
INVITTO DONATO
GAMBARDELLA LUCIANO
22
TEN
25
GALDI NICOLA
21
SOLD.
GUARINIELLO LORENZO
GAGLIARDI NICOLA
20
CAP
GUARIGLIA ATTILIO
FIORE DOMENICO
19
SOLD.
23
FERRIGNO ANTONIO
18
SOLD.
24
FERRANTE ALFONSO
17
PERTOSA
MONTECORVINO P.
SALERNO
SARNO
OLEVANO S. T.
MONTECORVINO R.
NOCERA INFERIORE
VALVA
POLICASTRO
ROFRANO
OLEVANO S. T.
FISCIANO
CASTELLABATE
NOCERA INFERIORE
PELLEZZANO
AULETTA
SALERNO
VIETRI SUL MARE
S. EGIDIO M. A.
24.12.1919
6.10.1921
6.3.1922
9.11.1916
15.2.1915
26.10.1915
19.7.1913
27.10.1911
30.9.1916
1.2.1922
28.10.1916
15.5.1914
5.1.1923
29.10.1920
30.11.1913
10.10.1922
25.1.1900
14.10.1923
15.6.1915
23.9.1943
8.9.1943
9.9.1943
9.9.1943
8.9.1943
1.11.1945
9.9.43
9.9.1943
24.9.1943
8.9.1943
9.9.43
8.9.43
13.2.1945
24.9.1943
21.10.1944
8.9.1943
21.9.1943
9.9.1943
8.9.43
CEFALONIA
CEFALONIA
CEFALONIA
CEFALONIA
CORFÙ
POLONIA
GRECIA
CORFÙ
CEFALONIA
GRECIA
GRECIA
GRECIA
UCRAINA
CEFALONIA
ASTAKOS
CORFÙ
CEFALONIA
GRECIA
GRECIA
DISP.
DISP.
DISP.
DISP.
DISP.
IMI
DISP.
DISP.
CASETTA ROSSA
DISP.
DISP.
DISP.
IMI
CASETTA ROSSA
DISP.
DISP.
DISP.
137
OLIVIERI ACHILLE
OROPALLODOMENICO
PALMIERI CARLO
PAOLILLO RAFFAELE
PETRILLO COSIMO
POLICASTRO GREGORIO
RICCIARDI ENRICO
SARNI ARMIGIO
SCOLA LUIGI
SEVERINO FULVIO
SIRICA QUINTINO
TISI ALFONSO
TORSIELLO FRANCESCO
VENOSA FRANCESCO PAOLO
VITAGLIANO ALESSANDRO
ZINI GERMANO
37
38
39
40
41
42
43
44
45
46
47
48
49
50
51
52
SOLD.
CAVA DEI TIRRENI
TRAMONTI
POLLA
SOLD.
SOLD.
SANTOMENNA
S.CIPRIANO P.
SARNO
SALERNO
CASALVELINO
SANTOMENNA
SALERNO
S.GREGORIO MAGNO
OGLIASTRO CILENTO
SALERNO
SIANO
BATTIPAGLIA
SALERNO
AULETTA
SOLD.
C.M.
SOLD.
CAP
SOLD.
SERG.
SER. M.
SOLD.
SOLD.
TEN
CAR.
SOLD.
CAP
SOLD.
31.5.1918
6.10.1922
13.8.1920
11.6.1921
28.8.1912
2.2.1916
14.4.1912
18.10.1922
17.10.1911
6.1.1918
3.6.1922
14.12.1923
29.4.1916
15.6.1915
10.10.1923
26.10.1911
16.12.1912
8.9.1943
25.5.1944
8.9.1943
9.9.1943
31.3.1944
23.9.1943
22.9.1943
8.9.1943
9.9.1943
11.6.1945
3.12.1944
8.9.1943
27.6.1944
8.9.1943
8.9.1943
24.9.1943
8.9.1943
GRECIA
GRECIA
CEFALONIA
CEFALONIA
SERBIA
CEFALONIA
CEFALONIA
GRECIA
GRECIA
GUMBINNEN (b)
ZEITHAIN (a)
CORFÙ
GERMANIA
GRECIA
GRECIA
CEFALONIA
CORFÙ
DISP.
IMI
DISP.
IMI
DISP.
DISP.
IMI
IMI
DISP.
IMI
DISP.
DISP.
CASETTA ROSSA
DISP.
(a) Il campo di prigionia Reselvelazarett Stalag IV B Zeithain era un campo distaccato di quello di Mühlberg. A partire dal 1943 fu adibito
anche a lazzaretto di riserva per prigionieri di guerra di altre nazionalità tra questi moltissimi furono gli I.M.I.
(b) All’epoca Prussia Orientale - Lituania
NATIELLO EMIDDIO
36
Tabella 3
Deportati salernitani morti in campi di concentramento nazisti1
Konzentrations-Lager di Bergen Belsen
Auletta Stanislao, nato ad Olevano sul Tusciano il 24/12/1924, morto il 25/6/1944
n. 34742 (matricola).
Scalea Sabato, nato a Pontecagnano il 22/11/1919, morto il 3/1/1945 n. 53935
KL Buchenwald
Agresti Alfonso, nato a Sessa Cilento il 12/3/1916, morto il 28/2/1944 n. 35326
Amato Cipriano, nato a San Cipriano P. il 10/5/1915, morto il 17/4/1944 n. 0698
Di Natale Alfonso, nato ad Angri il 10/4/1917, morto il 22/4/1945 n. 132776
(tumulato a Monaco, cimitero italiano-R6-F7-T34 -marcia della morte)
Palese Giuseppe, nato a Morigerati il 26/3/1922, morto il 28/3/1945 n. 132795
Gianni Nicodemo, nato a Salerno il 3/9/1920, morto il 28/6/1944 n. 0664
Infante Pantaleone, nato a Minori 6/10/1905, morto il 28/3/1905 n. 40597
Mastroianni Nicola, nato a Montano A. il 12/5/1892, morto il 18/12/1944 n. 34660
Orlando Umberto, nato ad Angri il 25/12/1913, morto il 16/3/1944 n. 34979
Pacia Vincenzo, nato a Quindici il 9/11/1902, morto il 9/12/1943 n. 34957
KL Dachau
Benincasa Francesco, nato a Vietri S.M. il 24/1/1900, morto l’ 11/12/1943 n. 56448
Ferraioli Osvaldo, nato a Tramonti il 13/1/1924, morto il 14/5/1945 n. 151429
Giordano Gioacchino, nato a Cava d.T. il 20/9/1921, morto il 17/2/1945 n. 113337
Naddeo Giuseppe, nato a Casaletto S. il 15/8/1925, morto il 6/ 3/1945 n. 113396
Morinelli Andrea, nato a Salerno il 7/2/1922, morto F 8/3/1945 n. 70503
Orrigo Aniello, nato a Sarno il 24/8/1887, morto il 5/4/1945 n. 91642
Orsolano Serafino, nato a Monteforte il 10/4/905, morto il 1/2/1945 n. 113438
Scarabino Nicola, nato a Salerno il 10/7/1903, morto il 7/12/1944 n. 108101
Schiavone Antonio, nato a Eboli il 20/11/1890, morto il 26/3/1945 n. 87052
Strianese Gennaro, nato a Pontecagnano Faiano il 23/1/1902, morto il 25/3/45
KL FIossenburg
Gatta Rosario, nato a Salvitelle il 17/1/1906, morto il 20/1/1945 n. 21412
lafulli Antonio, nato a Salerno il 26/6/1927, morto il 2/4/1945 n. 41818
Puglia Antonio, nato ad Ascea il 29/3/1922, morto il 7/4/1945 n. 41250
1 Dati riportati da T. Masullo in «Antifascismo, Resistenza e Guerra di Liberazione», cit.,
pag 187-189 e si riferiscono a quelli sicuramente identificati. Naturalmente molti sono quelli
di cui non si hanno notizie.
138
Romano Bonaventura, nato a Montecorvino P. il 16/6/1896 morto il 12/2/1945 n. 43819
Rosa Giovanni, nato a Tramonti il 25/12/1887, morto il 2/1/1945 n. 40314
Staglieli Espedito, nato a Pagani il 25/5/1920, morto il 26/12/1943 n. 5061
Titolo Ermenegildo, nato a Tramonti il 9/9/1902, morto il 23/1/1945 n. 40334
Vitaliano Giovanni, nato a Cava d. T. il 12/10/1882, morto il 5/11/1944 n. 21801
KL Mauthausen
Citro Giulio, nato a Salerno il 30/12/1919, morto 1’ 11/3/1945 n. 82326
Gallo Federico, nato a Salerno il 7/3/1901, morto il 5/4/1944 n. 53400
Liberatore Vincenzo, nato a Malori 1’ 11/2/1915, morto il 20/10/1944 n. 61668
Maragnino Antonio, nato a Tramonti il 4/8/1914, morto il 12/12/1944 n. 63758
Zorzetti Antonio, nato a Colliano il 25/2/1917, morto il 26/1/1945 n. 108860
Di Gloria Vincenzo, nato a Polla il 28/9/1921, morto il 27/3/1944 n. 9582
Cavaliere Francesco, nato a Montano Antilia il 16/9/1919, morto il 31/12/1944
KL Muchen - Elb
Del Priore Gaetano, classe 1917, morto il 2/6/1944
139
indice dei nomi
abbagnale vincenzo
alessandrini
alessi maria luisa
aliberto alfredo
arenare nicola
berardinelli emilio
berritto alfredo
berti, col. bertolini, cap
bevilacqua alfredo
bianco felice
bielli ettore
bielli michelangelo
bobba guido
boldrini arrigo
bonaduce francesco
braglia antonio
bruno pasquale
bufalini paolo
buoninconti aniello
bustilla rosalia
cacciatore cecchino
cacciatore luigi
capone pasquale
cardinali terzilio
carucci nicola
casaburi max
cascella matteo
casciello michele
castaldi martelli
catalano domenico
catalano oreste
catapano giuseppe
cavallaro luigi
cavallaro raffaele
ceriello ippolito
chieffi mary
chieffi, dr
chirico giuseppe
chirico maria
cini
140
pag.
43
95
53
39
102
67,125
43
83
94
56,57
102
107,112
112
57
117
43
68
41
113
101,102
57
34
106
32
81,82
121
71,117
119
119
44
43
41
43
44
43
106,107,112
29
109
35
35
110
ciòrciari felice
105
ciòrciari tommaso 100,101,102,103,106
cipriani mario
72
cirillo attilio
85
citro antonio
104
clark , gen
26
coda domenico
118
colace vincenzo
109
conte nicandro
49,61
contù gabriele
54
cucci eduardo
70
cuomo nicola
94,95
curiel eugenio
63
d’acunzi francesco
123
dal ponte elio
82
darby, ten.col.
27
de anna
72
de franco milina
101
de martino raffaele
120
de vecchi giovanni
73,125
deidda, magg.
35
del bene elio
123
dente giuseppe
127
di giovanni giuseppe
101,103
di spirito antonio
119
di vona quintino
62,64
dino roberto
108
eandi jolanda
54
eboli carlo
103,104
egidio gennaro
33
falciano angelo
39
fantone pietro
53
fassino
58
fava lorenzo
65,68,125
fava nino
66
felese michele
21
ferraioli gioacchino
120
ferrante gonzaga
28
ferrara raffaele
122
ferrazzano attilio
121
ferrero ugo
69
fimiani antonio
33
fini
70
fiore graziantonio
43
fiore nicola
22,23
forlenza salvatore
120
forte alfredo
122
franco giovanni
119
freddo alfonso
41
frusciante gregorio
121
galdieri filomena
34
galeota umberto
87
gandin, gen
88,89
garelli ettore
53
garuglieri mario
107,110
gasperini attilio
67
genitoni francesco
68
genre gino
56
genre ugo
56
giallorenzo raffaele
55,56,125
giallorenzo roberto
56
giordano francesco
124
girardi bruno
57
giudice vincenzo
44
graham, gen
26
graziano salvatore
38,39
graziano teodoro
39
hansen
58
hawkesworth, gen
26
iannone francesco
124
indice dei nomi
infante, gen
83
jaconis carlo
30
jaconis umberto
30,31,32
laycock, gen
27
lelli elvira
112
lenin
100
lordi roberto
44
lordi vincenzo
89
lossani mario
56
lusignani, col
88,90
malavasi ermes
69
mancini
108
mannucci danilo
107,108,110,114
maovar mario
marchesi concetto
martini enrico
mascaglia franco
mascherpa luigi
matteini agenore
mazzeo antonio
mazzeo giovanni
mazzeo giovannino
mazzeo luigi
mazzeo michele
mazzeo salvatore
mazzeo vincenzo
mehemet shehu
milano luigi
monaco nicola
moncada lillo
monnet luigi ernesto
montella angelo
monterisi
monti ermanno
morabito pietro
morbiducci mario
morena tommaso
muller
napoletano giuseppe
napoli alessandro
napoli giovanni
nappi pasquale
nappi ubaldo
nappi vittorio
nicoletta franco
nicoletta giulio
nitti f. saverio
pacini
pagliani alete
palermo mario
palombini luigi
pappacena francesco
parente pasquale
passannanti alfonso
pavone umberto
108
66
52
60
86,88
72
57
57
57
57
57
57,59,61
57
81
58
52,117
58
56
35
116
73,125
121
49
103
72
35
34
34
44
41,42
41,42,43
59
58
22,63
110
68
105
56
73,125
127
72
60
141
pennetti luciano
pertini sandro
pironti andrea
plastiras, gen
pretto danilo
quaglierini
quaranta antonio
raiola raffaele
rarità luigi
ravnich
repice rocco
ricci felice
ricco mario
romano matteo
ronza dino
roveda giovanni
ruffinatti irma
ruffinatti renato
ryder, gen
salvioli francesco
saracino marcello
schage,ten.
schulze , magg
secchia pietro
silingardi claudio
sontag susan
sonzini mauro
142
122
108
120
95
66,67,125
110
87,88
43
21,109,112
80
53
30
86
109,112
54
66,67
60
60
26
56
124
64
69
115
68
129
59
spigai virgilio
spinelli altieri
stanzione ugo
strumia guglielmo
suriani carlo
tassi ottavio
telesca donato
terracini umberto
tesini
tilney, gen
tito
togliatti
tommaso ernesto
tramontano anna
tramontano antonio
trombadori antonello
ugolini
vercellino, gen
vicedomini giuseppe
vicedomini raffaele
vicinanza aniello
vitale giovanni
vitiello francesco
vittorino antonio
walker, gen
wodiska
86
108
68,69
54,125
59
70
31,32
108
108
85,88
78,79
106,114
43
54
53,54
112
66
48
20
21
31
64,74
41,42,43
43
26
108
Prefazione di Giuseppe Cacciatore*
p. 7
Presentazione di Peppino Vitiello**
p. 13
Introduzione p. 15
CAP 1 - La crisi dell’Antifascismo salernitano
Il colpo di coda dei movimenti antifascisti p. 19
p. 23
CAP 2 - Settembre 1943: il passaggio del fronte a Salerno Lo sbarco
Episodi di resistenza a Salerno e zone limitrofe
I rastrellamenti La risposta armata La banda di Quindici
Scafati: la banda Nappi e la Battaglia del ponte
Tre medaglie d’oro salernitane
p. p. p. p. p. p. p. p. 26
26
28
32
35
36
39
44
CAP 3 - La partecipazione dei salernitani alla Resistenza in Italia Il Piemonte e la IV Armata Partigiani in Piemonte I salernitani nella Resistenza in altre zone d’Italia p. p. p. p. 46
46
52
62
CAP 4 - La partecipazione dei salernitani alla Resistenza all’estero Jugoslavia Albania Grecia nelle isole Cefalonia e Corfù Il finale tragico della Resistenza greca e il caso Cuomo p. p. p. p. p. p. p. 75
75
80
83
85
88
94
CAP 5 - L’immediato dopoguerra nel salernitano La caduta del Fascismo e la collera popolare La “Repubblica Popolare” di Sanza p. 96
p. 97
p. 99
143
La ripresa dell’attività politica e sindacale
dopo il settembre 1943: la ricostruzione del PCI
e della Camera del Lavoro attraverso due figure
di antifascisti confinati p. 106
La fase post bellica tra disagio sociale,
povertà e vessazioni: il difficile reinserimento
e la costituzione dell’ANPI a Salerno p. 115
Nota finale p. 125
Appendice: tabelle
p. 129
Indice dei nomi
p. 140
* Ordinario di Storia della Filosofia presso la Facoltà di Filosofia dell’Università degli
Studi di Napoli
** Docente di Fisica, presso l’Università di Salerno - Presidente del Comitato provinciale
Anpi di Salerno
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Prima che altro silenzio entri negli occhi