Arte e umanesimo a Firenze al tempo di Lorenzo il Magnifico di André Chastel Storia dell’arte Einaudi 1 Edizione di riferimento: André Chastel, Arte e umanesimo a Firenze al tempo di Lorenzo il Magnifico. Studi sul Rinascimento e sull’umanesimo platonico, trad. it. di Renzo Federici, Einaudi, Torino 1964 Titolo originale: Art et Humanisme à Florence au temps de Laurent le Magnifique. Études sur la Renaissance et l’Humanisme platonicien © 1959 Presses Universitaires de France Storia dell’arte Einaudi 2 Indice Prefazione 10 Introduzione La leggenda medicea Il mecenatismo di Lorenzo La politica di prestigio artistico L’azione personale La «Scuola del giardino di San Marco» La leggenda dell’«età d’oro» 25 29 30 34 37 45 48 Appendice I ritratti degli umanisti Parte prima Artisti e umanisti sezione prima Le collezioni 60 Introduzione Le incertezze del museo fiorentino 60 i. Il medaglione del «carro dell’anima» 70 ii. I medaglioni di palazzo Medici e la corniola di Cosimo 77 iii. Le figure «dionisiache» di Donatello 89 iv. Il museo etrusco e l’ «etruscan revival» 99 v. Il busto di Platone 111 vi. I bronzi di Bertoldo 115 sezione seconda I testi 145 Introduzione Le pubblicazioni dell’Accademia di Careggi 145 Appendice I manoscritti miniati degli umanisti 150 i. Le strutture umanistiche della storia dell’arte 156 ii. Le strutture umanistiche della teoria dell’arte 162 Storia dell’arte Einaudi 3 Indice iii. Dante, l’Accademia platonica e gli artisti 1 L’annessione di Dante da parte dell’Accademia platonica 2. Il ritratto di Dante 3. I manoscritti e le edizioni illustrate della «Commedia» 4. Due interpretazioni della «Commedia»: Botticelli e Signorelli 5. Cosmologia e simboli: Leonardo e Giuliano da Sangallo 6. Dante e l’arte classica: Raffaello e Michelangelo 177 sezione terza I programmi Introduzione Il paradigma dell’architetto i. Il Tempio ii. La villa Poggio a Caiano iii. La decorazione sacra: il rinnovamento del mosaico e le tombe Il mosaico fiorentino Le tombe iv. La decorazione profana La villa di Spedaletto Cicli botticelliani nelle ville Il palazzetto di Bartolomeo Scala Le tavole per interni di Botticelli e Piero di Cosimo 224 224 235 246 250 177 182 184 188 195 199 259 259 266 273 277 278 282 283 Storia dell’arte Einaudi 4 Indice Parte seconda Problemi dell’iconografia e dello stile Introduzione L’originalità di Firenze Le feste L’ellenismo Una dottrina della poesia e dell’arte La «musica» e la cultura delle botteghe degli artisti 304 306 307 311 sezione prima Il regno delle immagini Introduzione Il profano e il sacro i. La natura 1.La sfera e gli elementi 2.I cicli del tempo a Poggio a Caiano 3. «Pan Saturnius» ii. La storia 1. La storia profetica 2. La storia sacerdotale. L’adorazione dei Magi 3. I saggi e gli eroi iii. Il sapere 1 . Le sette Arti e le Muse 2. Pallade medicea iv. La vita dell’anima 1. Le tre Grazie 2. I due Amori 3. La nuova «psicomachia» 326 326 342 344 358 368 378 381 385 386 404 406 411 426 420 422 425 313 Storia dell’arte Einaudi 5 Indice sezione seconda L’esigenza della bellezza Introduzione La metafisica del bello e gli artisti i. «Eros socraticus» ii. La dignità delle forme 1. L’estetica matematica 2. La vita e il movimento 3. L’uomo e il mondo iii. L’«idea» artistica e i problemi di bottega I problemi del colore Il primato del disegno Il disegno e l’invenzione L’invenzione e il «non finito» La decorazione animata 461 461 475 487 492 500 506 516 518 521 523 527 539 Parte terza I maestri e le città Introduzione Il mito rinascimentale: età d’oro e 563 catastrofi sezione prima Le iniziative dei condottieri L’arte «umanistica» a Rimini e a Urbino 1. Praeclarum Arimini Templum 2. Il palazzo d’Urbino 582 582 583 591 sezione seconda Le incertezze fiorentine i. Botticelli e la drammaturgia sensibile ii. Filippino Lippi: le singolarità del paganesimo iii. Il Savonarola e l’arte 615 622 633 641 Storia dell’arte Einaudi 6 Indice sezione terza Leonardo da Vinci e il neoplatonismo i. Leonardo a Firenze ii. La «scienza» di Leonardo e la reazione antiplatonica 1. La visione della natura 2. Il primato della pittura 3. Scoperta dell’ambiguità iii. La verità dell’arte 1. L’«Adorazione dei Magi» 2. Il sorriso e il furore 3. La caverna e le lontananze 661 sezione quarta I cicli umbri 1. Gli appartamenti Borgia 2. La sala del Cambio di Perugia 3. La cappella di San Brizio a Orvieto 730 731 733 734 sezione quinta Le certezze romane: Giulio II e l’arte sacra i. Il nuovo San Pietro e il problema del mausoleo ii. Lo «speculum historiale»: la volta della Sistina iii. Lo «speculum doctrinale»: la stanza della Segnatura Il trionfo del Sacramento La «Scuola d’Atene» Il Parnaso La Giustizia e le Virtú 663 670 675 683 691 697 699 702 707 742 752 760 764 771 773 777 783 Storia dell’arte Einaudi 7 Indice conclusione Il genio e le regole La gloria dei maestri e l’età delle accademie i. La gloria di Raffaello: il trionfo d’Eros 2. La grandezza di Leonardo: il trionfo d’Hermes 3. La tragedia di Michelangelo: il trionfo di Saturno 4. L’età delle accademie 796 796 799 812 820 831 Riferimenti bibliografici principali 855 Titoli abbreviati dei periodici 856 Bibliografia 857 Storia dell’arte Einaudi 8 arte e umanesimo a firenze Alla memoria di Henri Focillon e Augustin Renaudet Storia dell’arte Einaudi 9 Prefazione Taine, che fu un eccellente osservatore, anche se con troppa disinvoltura passava poi alla sintesi, racconta di aver indugiato per ore in contemplazione delle opere fiorentine della seconda metà del Quattrocento: «Momento incantevole, delicata aurora che è la giovinezza dell’anima, in cui l’uomo per la prima volta scopre la poesia delle cose reali. In quel momento non traccia linea che non esprima un sentimento personale; ciò che racconta l’ha veramente provato; non esiste ancora una forma di maniera che racchiuda in una bellezza convenzionale le aspirazioni nascenti del suo cuore...»1. E lo storico passa subito al tentativo di definire l’ambiente e l’epoca che hanno permesso tanta freschezza e originalità. Un certo stato della società determina l’atteggiamento intellettuale da cui si deve dedurre questo «momento incantevole» dell’arte. Firenze era, ai tempi del Magnifico, nelle mani di «una società di ricchi mercanti, che amano l’antichità e vogliono vivere allegramente». Quali sono le loro preoccupazioni intellettuali? L’atteggiamento essenziale, da cui «gli altri derivano» è «la ricerca di un’umanità completa», «l’appagamento degli istinti nobili, non meno di quelli naturali». Donde una sorta di «festa dell’intelligenza» che tutto dispone e comprende. Anziché combattere il cristianesimo, essi l’interpretano; la loro tolleranza è quella dei contemporanei di Goethe e Marsi- Storia dell’arte Einaudi 10 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze lio Ficino sembra uno Schleiermacher. La sua opera è agevolmente definita: «Unendo la filosofia, la fede e le scienze, ne compone un edificio armonioso in cui la saggezza laica e il dogma rivelato si completano e si affinano reciprocamente, non solo per fornire un rifugio e delle immagini a una folla grossolana, ma anche per aprire un’aerea balconata e delle prospettive indefinite all’élite degli spiriti pensanti». Questa evocazione suggestiva, e un po’ facile, veniva ad aggiungere, con un tocco di cultura delicata, un’interessante dimensione filosofica all’idea che ci si faceva dopo il Roscoe e il Rio dell’arte dei «primitivi»2: si continua a giudicare i fiorentini sulla base del loro candore d’immaginazione e della loro freschezza di sentimento, ma non si tratta piú di effusione ingenua e di semplicità cristiana. Questa immagine venne tuttavia a complicarsi, sulla fine del secolo, delle curiose fantasticherie di Huysmans, di Péladan e dei poeti decadenti, che andavano scoprendo nell’eleganza fiorentina straordinarie perversità, che trovavano la Primavera «satanica, irresistibile e terrificante» (Jean Lorrain), e attribuivano le piú torbide intenzioni a Botticelli, Leonardo, o Signorelli3. I platonici di Careggi non erano piú dei sognatori tolleranti e sensibili, ma degli «iniziati», adepti di una teosofia misteriosa che s’imponeva agli artisti superiori e di cui Gustave Moreau, quale lo interpretava Péladan, era il vero erede. Il fascino misterioso dell’esoterismo, che allora venne ad avvolgere della sua bruma il Rinascimento fiorentino, non si è ancora del tutto dissipato. L’interesse per «l’età d’oro fiorentina», per l’arte del tempo di Lorenzo, si è cosi trovato connesso a due immagini ugualmente suggestive ed arbitrarie d’una civiltà perduta. Attraverso i grandi dilettanti, come Walter Pater, Suarès o Proust, che seppero approfittarne, il fascino di questo episodio singolare dell’arte e della cultura venne insomma ad essere definito in ter- Storia dell’arte Einaudi 11 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze mini che gli storici non osavano o non sapevano smentire. L’interpretazione poetica e letteraria di quest’epoca non ha in seguito affatto proceduto; le ricerche precise cominciate piú di mezzo secolo fa sul mecenatismo mediceo, sulla esatta natura del movimento platonico, sulla crisi dell’arte fiorentina, hanno spostato tutti i termini di tale interpretazione, tuttavia un’immagine d’insieme nuova dell’epoca non è venuta a sostituirsi a quella – o quelle – del secolo scorso. Queste sono invecchiate, come lo sono del resto i sentimenti e i valori che esse sembravano celebrare; il gusto attuale se n’è in certa misura allontanato. Tuttavia una vera e propria disamina critica non ne è avvenuta. In questo volume ci siamo appunto sforzati di raccogliere gli elementi per un quadro d’insieme nuovo. L’ampiezza del «movimento» platonico e il suo successo a Firenze sono fuori discussione; ma questo «movimento» non esaurisce l’intera storia dell’umanesimo fiorentino4. Dal 1460-70 in poi ci si viene sempre piú allontanando dalle preoccupazioni morali e letterarie della prima generazione. Il gruppo, per altro fragile e ben presto diviso, dell’Accademia era animato da un’ambizione dichiarata di renovatio universale, che, dopo il 1480, fece in pochi anni di queste dottrine una delle forze conduttrici della cultura italiana: il neoplatonismo si trovò, verso la fine del secolo, al centro di quello che si può chiamare il «mito del Rinascimento». Ma il suo fondamentale sincretismo, il suo orientamento idealistico, le sue esigenze speculative rispondevano a un disagio, a una situazione inquieta della cultura. A Firenze non tutti gli spiriti erano attratti dalle sue tendenze; non solo c’erano degli scettici e degli avversari, ma il grammatico Landino, il poeta Poliziano e un po’ piú tardi Pico il metafisico sono ben lontani dall’essere su tutti i punti d’accordo con l’insegnamento spesso incerto e ondeggiante del Ficino. Per lo meno in questo clima intellet- Storia dell’arte Einaudi 12 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze tuale nuovo sono state elaborate e in certi casi rese esplicite le idee fondamentali dell’epoca: la nozione dell’uomo-centro del mondo, quella di un cosmo organico, la scoperta dell’antichità come civiltà completa. Erano concezioni destinate a sconvolgere quella che era l’economia corrente del sapere e le tradizioni della cultura; ma piú ancora a questo risultato avrebbe portato l’accento che veniva posto volta a volta sul valore metafisico del Bello, sulla dignità del poeta e dell’artista. sulla legge «musicale» dell’universo, sulla funzione misteriosa dell’amore, l’interesse per i simboli, giú giú fino al senso del difficile destino dell’anima d’eccezione5. Considerata in modo meno generico, la Firenze dei tempi del Magnifico offre lo spettacolo di una città in cui i problemi sono piú numerosi delle certezze. L’immagine suggestiva e soave di paradiso della cultura può valere per essa solo come eco di aspirazioni confuse, come il sogno grazie al quale l’epoca sperò di superare le difficoltà del momento, prima di farne il rifugio che permettesse d’eluderle. Sarebbe estremamente fallace voler spiegare questo sviluppo storico col conflitto tra nozioni tradizionali e un pensiero già «moderno». Siamo indubbiamente alla sutura di due epoche della storia; ma la cultura che si elabora a Firenze e che si imporrà al Rinascimento formula i problemi in termini tali che la distinguono sia dall’epoca che la seguirà come da quella che l’ha preceduta. La situazione intellettuale alla fine del Quattrocento non può essere definita correttamente se non servendosi delle nozioni ad essa proprie. Era quindi necessario tentar di definirne qualcuna. Per comodità d’esposizione, ma anche perché essa è stata finora impropriamente valutata nel suo tono e nell’influenza che essa ha avuto, ci siamo riferiti di preferenza all’opera di Marsilio Ficino. Abbiamo dunque affrontato nel loro sviluppo e, per cosí dire, nella loro «problematica» particolare, i rap- Storia dell’arte Einaudi 13 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze porti tra arte e umanesimo. All’epoca in cui la storia dell’arte era semplicemente un capitolo della storia della cultura, l’accordo tra questi due campi era ovvio. Proprio contro questo «rapporto evidente» abbiamo ritenuto utile reagire. Come intendere l’accordo tra una cerchia di intellettuali sorpresi delle loro scoperte e dei pittori o degli scultori anch’essi assillati dal problema di nuove forme e di un nuovo stile? Dove e come avviene l’incontro tra questi due ordini? Si tratta di tutta una serie di problemi urgenti e precisi che l’immagine «letteraria» che del Rinascimento si è avuta finora ha per tanto tempo lasciato nell’ombra. Non pretendiamo di essere riusciti a enuclearne gli elementi con tutta la precisione necessaria, ma solo di aver tentato, su alcuni punti capitali, di verificare e raggruppare metodicamente i dati utili, e in qualche caso decisivi, al loro chiarimento. Si tratterà quindi piú di indicazioni, di interrogativi e di temi di ricerca che non di risultati conclusivi. Le analisi dedicate alla funzione delle collezioni, dei testi e delle commissioni artistiche sono lungi dall’essere complete: però descrivono almeno alcuni fatti essenziali. Dovevo premettervi un’indagine preliminare sull’economia toscana, sulle diverse «classi» sociali, sui mezzi e le ambizioni di ognuna, sulle conseguenze che la loro «ideologia» e le loro aspirazioni hanno avuto nell’arte? In verità i risultati negativi di un tentativo in questo senso, compiuto qualche anno fa, con tutta l’informazione desiderabile, sul periodo immediatamente precedente al nostro, non risultano incoraggianti per una ricerca del genere6. Sarebbe necessario rinnovare le nozioni della sociologia storica perché questa possa davvero servire a intendere la vitalità di un centro artistico. Voler spiegare questa attraverso il conflitto degli interessi può essere angusto e grossolano cosí come volerla spiegare attraverso il semplice movimento delle idee e dei gusti risulta spesso ingenuo. Non abbia- Storia dell’arte Einaudi 14 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze mo dunque trascurato nessuno dei dati che potessero interessare: l’importanza della crisi fiorentina di fine secolo è stata messa in evidenza quanto piú possibile, con tutte le conseguenze che essa ha avuto per la vita intellettuale e per l’arte. Essa anzi rappresenta, a nostro avviso, una svolta capitale dell’epoca, ma ai nostri fini era sufficiente descriverla e, per analizzarne gli effetti, insistere ancora una volta sull’importanza che la vita religiosa e il sentimento repubblicano hanno avuto a Firenze. E a questo proposito, non senza sorpresa, abbiamo avvertito – e poi volutamente sottolineato – un elemento fin qui troppo trascurato dagli storici del Rinascimento: il senso, comune al popolo come alla borghesia, della funzione eccezionale attribuita a Firenze, in altre parole l’orgoglio nazionale con le sue illusioni e i suoi limiti, che tendeva a fare di una città il centro naturale della cultura e l’asse della renovatio universale7. È nel corso del Cinquecento che la dogmatica umanistica e la codificazione delle formule tenteranno di definire e di fissare i simboli utili, i canoni e le regole. La fine del Quattrocento ci fa assistere invece al conflitto delle iniziative; vi si scoprono tutt’insieme incertezze e audacie, esitanze e innovazioni; vi si coglie, nella sua piena vitalità, lo sforzo dei maestri, da cui il secolo successivo trarrà conclusioni definitive. Anziché l’immagine sontuosa ma un po’ inerte di una cultura che, all’ombra di un mecenate intelligente, dà i suoi frutti piú felici nell’arte, ne ricaviamo un quadro contrastato, piú torbido, in cui le mode si incrociano, le scoperte possono non aver seguito, gli artisti si interrogano, sbagliano, lavorano su ordinazione, lasciano la città, e in cui, infine, i risultati piú alti non maturano a Firenze. Infatti se Firenze è ancora al centro dell’attenzione generale, avviene però che essa venga superata nella rivalità tra i centri d’arte. Alle trovate squisite di certi artisti fa riscontro l’appesantirsi e l’involgarirsi dello stile nelle Storia dell’arte Einaudi 15 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze botteghe cariche di lavoro. L’eleganza nervosa degli uni non basta piú a compensare la faciloneria degli altri. I toscani sembrano ignorare Piero della Francesca e Giovanni Bellini, il Laurana e Bramante. Si direbbe che Firenze si preoccupi meno di essere la capitale dell’arte e piú invece di restare fedele a se stessa. Per concludere, siamo di fronte a un gusto che si evolve e a un’arte che si interroga. E doveva essere cosí se in essa qualcuno ha potuto vedere una sorta di generale reazione che ritorna alle consuetudini «gotiche» nella poesia e nell’arte, per cui si assisterebbe a un quasi abbandono delle conquiste recenti dell’intelligenza e dell’arte8, e altri invece vi ha visto il progresso regolare di una cultura che anticipa un nuovo universo mentale se pure attraverso realizzazioni artistiche e scientifiche ancora parziali9. «La storia dell’arte, – diceva Henri Focillon, – è la storia dello spirito umano attraverso le forme». Questa definizione, che condividiamo, contiene in sé le condizioni per un oggettivo lavoro d’indagine sulle opere e sugli uomini (che è poi il limite inferiore della disciplina) e quelle per un approfondimento specifico che ricerca le sole articolazioni valide nella natura stessa degli stili e nella loro autorità sullo spirito. Nel primo caso si tratta di esporre e organizzare i dati d’un certo ordine di «prodotti» umani; nel secondo, si ubbidisce alla particolare attrazione di questi che invita sia a tener conto solo del loro sviluppo autonomo, della loro «logica interna», sia a speculare su analogie e accordi per i quali solo giudice sarebbe la sensibilità moderna. Il primo modo di procedere gira intorno alle opere e rischia di dimenticare le forme in una indagine esteriore e spesso indiretta; il secondo affronta quella che è l’evidenza artistica, ma non è in grado di rendere esplicita l’intuizione se non rinunciando a separare la «vita delle forme» dalla realtà delle opere. Questo secondo modo di procedere è diret- Storia dell’arte Einaudi 16 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze to, l’altro indiretto. Lo storico dell’arte è costretto a situarsi attivamente tra questi due limiti. Non può limitarsi alla cronologia e ai rapporti «oggettivi», piú di quanto non possa abbandonarsi all’impressione; il suo lavoro mira a combinare la spiegazione esterna e l’interpretazione interna. Esige le molteplici verifiche delle attribuzioni, delle date e l’esposizione delle condizioni concrete, e in questo il discorso diviene impersonale; e d’altra parte tende a recuperare i «valori» cui le opere si richiamano, come se ne fosse il rappresentante moderno e il patrono responsabile. Mette cosí in opera dei dispositivi che inquadrano e alla fine stringono da presso il problema centrale, che rimane quello della qualità. La situazione di Firenze alla fine del Quattrocento permette per l’appunto di individuare e di utilizzare certi rapporti specifici. Il fatto capitale, il fenomeno che si può considerare come la definizione tecnica del Rinascimento, è l’esigenza di «decompartimentare» la vita dello spirito. La cosa è stata chiaramente dimostrata: le gerarchie della scolastica, nella misura in cui agivano sulla pratica, non permettevano a un pittore di conoscere l’ottica, né a un segretario della Signoria di aver letto i filosofi. Il successo degli studia humanitatis in Italia veniva a rompere queste chiusure dando vita, ai margini del sapere universitario, a una cultura viva, fondata sulla conoscenza delle lettere antiche e quindi animata dalla convinzione dell’originalità dell’Italia. Gli artisti ambiziosi, come gli scrittori desiderosi di affermarsi, trovano in questa corrente l’occasione di guardare al di là dei limiti tradizionali della loro attività: si rifanno alle fonti del sapere, che possono essere trattati antichi (fino allora utilizzati solo nelle enciclopedie scolastiche) o pagine di filosofi. E se ne valgono per iniziative di grande risonanza: l’arte va al di là della tecnica: la rottura progressiva delle strutture tradizionali è una conseguenza non trascurabile di questa evoluzione gene- Storia dell’arte Einaudi 17 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze rale che lo storico dell’arte deve considerare attentamente10. Dal momento in cui il capo di una bottega non si considera piú un artigiano, ma si permette certe curiosità intellettuali, si nota tutta una serie di trasformazioni nel suo lavoro. L’elaborazione della «prospectiva pingendi» è, tutto sommato, il risultato dello sviluppo tecnico delle nozioni d’ottica note che però nessuno fino allora aveva interpretato e che Brunelleschi ha avuto l’idea di utilizzare11, allo stesso modo che l’Alberti trovava nei trattati di retorica (riservati al clero) il mezzo per definire una nuova condizione della pittura12. La rappresentazione grafica diventa una forma d’indagine «scientifica» e, come è stato chiaramente dimostrato, le «scoperte» essenziali dell’epoca si devono alle esigenze irrecusabili del disegnatore e dello scultore che vogliono dominare, attraverso la forma organizzata, il mondo dei fenomeni. In questo la parte avuta dai fiorentini è essenziale; l’opera di Leonardo non appare piú una eccezione, ma la fioritura geniale di un lavoro che costantemente si muove alle frontiere della scienza e dell’arte. È in conseguenza di questi mutamenti di orizzonte e di queste nuove connessioni tra campi distinti che si modifica l’immagine del mondo. L’arte cosí è stata per due generazioni lo strumento di una rivoluzione che andava al di là del suo stesso ambito. È a questo punto che si pone il nostro problema particolare. Nel pensiero occidentale quale si configura nel xv secolo la distinzione tra scienza e riflessione filosofica non è piú reale di quella che intercorre tra conoscenze positive e forme artistiche in cui queste si esprimono; o almeno i legami provvisori che si stabiliscono tra la matematica o l’anatomia e l’attività dei disegnatori e dei pittori che accanitamente le utilizzano, hanno una contropartita nella riflessione degli umanisti che, non piú semplici filologi o puri moralisti, vedono nel- Storia dell’arte Einaudi 18 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze l’evoluzione della cultura l’occasione e addirittura la necessità di una sintesi universale, diversa da quella della scolastica che non prevedeva tutte queste nuove manifestazioni del genio umano. Si vedono gli umanisti interessarsi sempre piú (in un modo che rimane certamente letterario, ma che non è per questo meno significativo) alle creazioni artistiche e agli stessi creatori. La logica della «decompartimentazione» doveva, in un primo momento, dare agli artisti il coraggio di ricorrere alla geometria e ai testi eruditi; in un secondo momento l’evoluzione cosí impetuosamente avviata tenderà a porre l’artista in una condizione di privilegio. È valorizzato, al pari del poeta, in quanto rappresentante dei veri «modi» del sapere. Il prestigio di cui godranno Michelangelo e Raffaello è quello stesso che si accordava ai rappresentanti piú alti della cultura. Anche in questo, la dignità dei maestri si spiega come conclusione ultima di un processo che si delinea nella seconda metà del secolo xv. Ci sembra che questa evoluzione, pur cosí semplice e, se si vuole, del tutto naturale, non si comprenda che attraverso le nozioni, imperfette ma di assoluto prestigio, del neoplatonismo, che tendeva, sia pur con esitazioni e scrupoli, a promuovere un sapere totale di tipo nuovo. L’estetica, nel senso moderno del termine, non fa la sua comparsa nel Rinascimento non piú che nell’età classica13; ma attraverso l’interazione che a quell’epoca si verifica tra le arti e le nuove nozioni che vengono elaborandosi, si puó meglio valutare il contributo dei pensatori e dei maestri toscani alla rivoluzione spirituale dell’epoca e a quella promozione degli artisti che si precisa col «mito del Rinascimento»14. I rapporti tra arte e umanesimo devono dunque essere esaminati una volta che si sia potuto accertare che l’arte e la scienza sono vissute largamente in «simbiosi» durante il «Quattrocento fiorentino». Il movimento neoplatonico infatti si presenta come una riforma del- Storia dell’arte Einaudi 19 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze l’umanesimo anteriore e nello stesso tempo pretende di incorporare le discipline scientifiche sottomettendole alla speculazione teologica. Abbiamo ritenuto opportuno indagare come, in queste condizioni, abbiano potuto moltiplicarsi non solo i contatti tra il mondo delle «idee» e quello delle «forme», ma anche le giustificazioni intellettuali delle iniziative artistiche. Ci sono ancora due aspetti dell’originale situazione fiorentina che completano l’analisi da noi tentata e che hanno guidato la nostra esposizione: il clima di «critica» proprio della città di Donatello e di Leonardo, in cui le opere dei maestri sono commentate con passione, e il conflitto tra stili diversi che si accende entro le tendenze accademizzanti dell’ambiente toscano. Si ha in effetti una sorta di paradosso nell’evoluzione fiorentina alla fine del secolo che non era possibile ignorare. I «simboli» dell’umanesimo erano, verso il 1460, associati all’arte minuta e precisa del Quattrocento; il loro interprete piú alto rimane Botticelli. I temi «all’antica» che il neoplatonismo favorisce e le allegorie piú o meno complicate che ispira non coincidono con la preparazione di un gusto classico15; eppure il movimento neoplatonico veniva elaborando idee della natura, della storia, dell’anima che sono state importanti per Leonardo, Michelangelo, Raffaello; ha maturato l’idea di una «intelligibilità» delle forme superiore all’ordine razionale vero e proprio, idea senza la quale non sarebbe stato possibile definire un ordine estetico autonomo. Se l’arte nel corso del secolo xv è stata lo strumento d’una rivoluzione intellettuale che andava oltre l’arte stessa, il successo dei maestri – che d’altronde è avvenuto fuori Firenze – è andato oltre il contenuto esplicito del pensiero umanistico: l’arte cioè ha a sua volta assicurato una dimensione nuova alla speculazione intellettuale, che si è sforzata, nel corso del secolo xvi, d’interpretarla secondo i suoi canoni. Risulta cosí possibile proporre una conclusione piú Storia dell’arte Einaudi 20 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze generale. La coscienza dell’arte va al di là della stessa percezione delle forme; la teoria dell’arte – e dell’artista – utilizza schemi e nozioni mutuate da altre discipline; solo a queste condizioni essa riesce a trovare una sua articolazione. Questo trasferirsi di concetti da un campo all’altro noi l’abbiamo fissato nelle sue linee schematiche in vista di quella svolta decisiva del Rinascimento che avviene intorno al 150016. Le conclusioni della nostra indagine risultano negative su un punto: non esiste un’«età d’oro» fiorentina. L’idea di epoche privilegiate è una di quelle finzioni retrospettive che servono a imporre un ritmo al corso della storia; non resiste di solito al vaglio dell’indagine. Nel caso specifico di Firenze, tuttavia, crediamo di poter affermare che quest’idea ha cominciato a circolare assai presto con un preciso valore propagandistico: cioè subito dopo le vicende sfortunate della fine del secolo xv e la rivolta, allo stesso tempo antimedicea e antiumanistica, provocata e ispirata dal Savonarola. La storia fiorentina della seconda metà del Quattrocento era abbastanza ricca di iniziative e di opere di valore per suscitare delle nostalgie. La cultura, al pari dell’arte, era stata a quell’epoca piena di contrasti, e ogni iniziativa aveva incontrato ostacoli, di cui però ci si dimenticò allorché la libertà intellettuale, artistica e politica fu sottoposta, dopo il 1500, a gravi limitazioni. All’epoca del Magnifico erano sorte speranze prodigiose: le opere tradiscono a volte l’esultanza delle certezze piene e una gioia singolare, riboccante di promesse. Ma questo clima di candida felicità in cui si vorrebbe chiudere Firenze, è solo uno dei sogni di Firenze stessa. Non solo la crisi dello stato e gli avvenimenti della politica estera lo infrangono brutalmente, ma già prima l’inquietudine degli spiriti l’aveva contraddetto. L’ambiente fiorentino aspirava a un ordine nuovo che non riusciva Storia dell’arte Einaudi 21 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze a definire esattamente e meno che mai a realizzare. Il «momento incantevole» di cui parla il Taine ebbe la durata di un sogno; e di un sogno aveva il valore. E uno dei problemi essenziali del Rinascimento (uno di quelli, comunque, che esamineremo in questo volume) è come dall’idea di un’«età d’oro» a venire si passi all’idea di un’«età d’oro» già conclusa. Non abbiamo dunque cercato di definire la «visione del mondo», da cui dedurre le manifestazioni artistiche. Anche se comodo per le trattazioni generali, questo metodo è, in realtà, una sorta di illuminazione artificiale: distrae l’attenzione dalle situazioni concrete in nome di un’unità assoluta che rimane da dimostrare. Noi abbiamo preferito un percorso diametralmente opposto: abbiamo cioè cercato di mettere in luce anzitutto i minima significativi, cioè quelle opere, quelle forme, quelle affermazioni, che erano decisamente nuove all’epoca del Magnifico (e la prova se ne ha nell’eco che hanno suscitato). L’origine di queste novità è quasi sempre la stessa; i quadri, i rilievi, le decorazioni e perfino gli edifici che hanno fatto data possono essere ogni volta messi in rapporto con qualche figura dell’umanesimo, e altrettanto puntualmente possono essere commentati con qualche aspetto delle dottrine umanistiche; inoltre non vi manca mai, vi è anzi chiaramente avvertibile, il senso dell’originalità fiorentina. Questa indagine occupa il nostro primo libro. Ne risulta l’indicazione di un certo numero di problemi che le nozioni da mettere in figura e i nuovi modi di figurazione hanno posto all’artista: per le coscienze pronte a reagire e per le immaginazioni alacri i materiali iconografici sono altrettanto interessanti da organizzare che le forme da costruire. Tuttavia queste creazioni non formano un insieme omogeneo, un sistema; il secondo libro quindi non ambisce a fornire una «chiave» dell’arte del tempo, propone semplicemente un quadro di questi ele- Storia dell’arte Einaudi 22 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze menti attivi della cultura artistica fiorentina. Questa d’altronde rivela tutto il suo senso solo se paragonata con quella dei centri vicini. Non si può isolare Firenze al punto di ignorare certi parallelismi e certe derivazioni. Un terzo libro doveva dunque presentare di scorcio, intorno ai principali fatti di Firenze, gli altri punti di incontro tra le idee fiorentine e lo stile fiorentino. In questa maniera era possibile, entro certi limiti, analizzare i modi di lavoro propri di ogni ambiente e di ogni artista, fino a determinare gli elementi base che hanno permesso la formazione dell’arte classica. Ma per questa via l’orizzonte viene a dilatarsi in misura pericolosa: non è stato senza timore infatti che, in questa prospettiva, abbiamo visto entrare in scena i capolavori piú celebri e famosi del pieno Rinascimento. Tuttavia ci è sembrato necessario correre il rischio della banalità o addirittura di quel leggero ridicolo che è oggi inevitabile allorché ci si occupa di opere troppo gloriose, pur di non rinunciare ai vantaggi che sarebbero venuti da questa costruzione d’insieme. Il «mito del Rinascimento» trova il suo compimento a Roma, non a Firenze. Era necessario ricordarlo. Questo lavoro non ha dunque altra originalità che il suo tentativo temerario di comporre un quadro d’insieme e di creare dei legami tra i diversi ordini della conoscenza storica. Non è stato per una decisione a priori, ma ubbidendo alla logica di ogni situazione e talvolta di ogni singola opera, che abbiamo cercato di integrare l’un con l’altro i vari metodi. Siamo cosí passati, senza tuttavia confonderle, dalla storia degli stili all’«iconologia», connettendole entrambe alla volontà e ai modi di lavoro dell’artista17. Le conclusioni raggiunte sono in qualche modo scaturite dall’intersezione di molteplici prospettive. Abbiamo pensato che forse questo era il modo migliore per individuare i congegni, cosí delicati, dell’arte, nella Storia dell’arte Einaudi 23 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze quale, si sa, lo spirito opera nella sua totalità. Solo quand’era troppo tardi ci siamo resi conto della temerarietà del proposito. Occorre riconoscerlo con le parole del poeta fiorentino: ...chi pensasse il ponderoso tema E l’omero mortal che se ne carca, Nol biasmerebbe se sott’esso trema. (Paradiso, XXIII, 64-66). Storia dell’arte Einaudi 24 Introduzione La leggenda medicea «All’ombra del lauro». (bellincioni, sonetto cxcvii) Nel Seicento i granduchi di Toscana vollero celebrare «l’età del Magnifico» con una serie di affreschi (1635). Il piano fu elaborato da Giovanni Mannozzi (Giovanni da San Giovanni) e i pittori ufficiali del ducato realizzarono tre grandi pannelli allegorici che tuttora si vedono al pianterreno di palazzo Pitti: uno rappresenta Lorenzo a Careggi, l’altro Lorenzo tra gli artisti, il terzo Lorenzo al governo di Firenze: l’uomo di stato, cioè, viene dopo il mecenate e l’adepto dell’umanesimo «platonico»18. Nel primo affresco, opera di Francesco Furini, si vede, sotto un cielo azzurro e giallo, la collina di Careggi con la villa medicea e, ai piedi di un monumento a Platone, il «Principe» fiorentino intorno al quale si affollano deferentemente gli umanisti e i poeti. Nel secondo, condotto da Ottavio Vannini, Lorenzo appare seduto tra i giovani artisti al «casino di San Marco»: in prima fila, a destra, Michelangelo presenta la testa di fauno scolpita a imitazione d’un frammento antico che, secondo Vasari, aveva attratto l’attenzione del signore di Firenze. L’«apoteosi» di Lorenzo completa la rievocazione dell’«età d’oro fiorentina». Questa leggenda medicea era nata tre quarti di secolo prima, contemporaneamente al sorgere del granducato di Toscana, in stretta connessione con la sua struttura aristocratica e le sue istituzioni accademiche. La prima versione integrale di essa è dato in effetti trovarla in Storia dell’arte Einaudi 25 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze palazzo Vecchio: si tratta del ciclo dipinto dal Vasari sulle mura degli appartamenti principeschi da lui sistemati nel 1556-58, in quello che poi è stato detto il Quartiere monumentale, cioè l’appartamento al secondo piano, mentre il grande salone centrale, detto del Cinquecento, è interamente dedicato all’esaltazione di Cosimo I. Il Vasari ne ha dato una lunga e compiaciuta descrizione nei suoi Ragionamenti19. Scene tipiche compendiano il ruolo storico avuto da ognuno degli «eroi»: un grande medaglione nella sala maggiore dedicato al fondatore della famiglia, mostra Cosimo tra i dotti e gli artisti (il Ficino, il Toscanelli, l’Angelico, il Ghiberti); in due riquadri della sala attigua, nel cui soffitto domina l’apoteosi di Lorenzo, questi conversa con gli umanisti e gli artisti. «Ora, se vi pare, abbassiamo gli occhi a quest’ultima, dove io veggo sedere Lorenzo con quel libro aperto, in mezzo a tante persone litterate che hanno tanti libri in mano, e mappamondi e seste da misurare; ditemi i nomi loro, – conclude il duca, – e chi sono». «Volentieri, – risponde il Vasari: – questo è quando con felice giudizio ed ottimo modo, poi che alle cose pubbliche egli aveva dato gli ordini, e simile alle private della città, si diede a piaceri e studi della filosofia e delle buone lettere in compagnia di questa scuola di uomini dottissimi, co’ quali, quando alla villa di Careggi, e quando al Poggio a Caiano, per piú lor quiete, esercitava gli onorati studi». E vengono citati: Gentile da Urbino, Demetrio Calcondila, Pico, l’Accolti, il Poliziano, il Pulci, il Ficino, il Landino, il greco Lascaris, il Marullo, «Leon Battista Alberti, grandissimo architettore, il quale scrisse nel tempo di Lorenzo i libri d’architettura» e perfino Leonardo Bruni (morto nel 1444) che non scrisse la sua storia di Firenze al tempo del Magnifico, ma che rientra bene in questo gruppo ideale. Il duca conclude formulando la definizione dell’età aurea medicea all’epoca di Lorenzo: «Io non credo Gior- Storia dell’arte Einaudi 26 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze gio, che mai in tempo alcuno in questa città sia accaduto che si sia trovato maggiore abbondanza di begl’ingegni, o volete nelle lettere greche, o latine, o vulgari, o nella scultura, o pittura, o architettura, o ne’ legnami, o ferramenti, o ne’ getti di bronzo, né chi ancora di casa nostra le pareggiasse e le onorasse e premiasse e piú se ne intendesse, che Lorenzo». Cosí la composizione seguente presenta il mecenate in una scena che riassume tutta la sua azione sulla cultura dell’epoca: «...e vedetelo, che Lorenzo aveva fatto fare il giardino, ch’è ora in su la piazza di S. Marco, solamente perché lo teneva pieno di figure antiche di marmo, e pitture assai, e tutte eccellenti, solo per condurre una scuola di giovani, i quali alla scultura, pittura e architettura attendessino a imparare sotto la custodia di Bertoldo, scultore, già discepolo di Donatello; i quali giovani, tutti o la maggior parte, furono eccellenti». Fra essi va ricordato in primo luogo Michelangelo che, conclude il Vasari, non poteva evidentemente nascere «se non sotto questo magnifico e illustre uomo». Abbiamo qui in realtà la spiegazione di quei passi delle Vite, in cui, già nel 1550, ma ancora piú esplicitamente nella seconda edizione del 1568, lo storico ha moltiplicato le allusioni alla funzione attiva avuta dai due grandi Medici, soprattutto da Lorenzo, nello sviluppo dell’arte fiorentina. Occorreva legare il piú strettamente possibile al mecenatismo mediceo il momento glorioso che ha prodotto sia i grandi umanisti che i maestri dell’arte. La corrispondenza è esatta in tutti i campi: come Lorenzo, con la sua posizione eccezionale nello stato, annunciava già alla fine del secolo xv la futura organizzazione monarchica del ducato (1537), cosí l’accolta degli umanisti platonici a Careggi prefigura l’«Accademia fiorentina» (1541)20, e la Scuola del giardino di San Marco, voluta dal Magnifico per l’educazione dei pittori e degli scultori, deve essere considerata come il germe della nascente istituzione Storia dell’arte Einaudi 27 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze dell’«Accademia del disegno» (1562). D’altronde nella sala successiva il duca Cosimo è presentato a sua volta come l’amico dei letterati e degli artisti. Il presente alquanto mediocre dell’«età accademica» trova la sua giustificazione nel passato glorioso dell’«età d’oro»; si consolida l’uno celebrando l’altro. Al principato di Lorenzo (1469-92), non ancora consacrato da alcun titolo nobiliare, fa riscontro il momento in cui, in tutti i campi, Firenze ha conosciuto la «pienezza dei tempi» e realizzato il suo destino21. Questa figurazione simbolica, elaborata dal Vasari e sviluppata poi dai frescanti di palazzo Pitti, preludeva alla consacrazione di Lorenzo come uno degli antenati del «dispotismo illuminato». Rinnovato in forma durevole da W. Roscoe agli inizi del secolo scorso22, quest’elogio di Lorenzo ha spesso tenuto luogo presso gli storici di un’indagine piú precisa. Collegando al mecenatismo di Lorenzo una sorta d’accademia letteraria e una sorta d’accademia artistica, che comprendevano tutti gli umanisti e gli artisti di rilievo, l’elogio dell’«età d’oro» non veniva solo a creare dei raggruppamenti significativi: veniva anche a mettere in luce la struttura della civiltà fiorentina e assumeva il valore di un’interpretazione. Il Vasari, compendiando la dottrina accademica, aveva chiaramente affermato che il «genio» ha bisogno di essere fecondato dal sapere e riconosciuto dal potere. Questa concezione ha ispirato la sua interpretazione di storico non meno che i suoi quadri celebrativi. Oggi essa risulta meno convincente. L’immagine dell’«età d’oro» è il travestimento di una realtà storica il cui sviluppo appare ben diverso. Un esame della cultura e dell’arte del Quattrocento fiorentino deve prendere le mosse proprio con l’eliminare questo schermo artificiale che rende falsa l’ammirazione non meno che la critica23. Storia dell’arte Einaudi 28 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Il mecenatismo di Lorenzo. Da tempo sono stati sollevati dubbi sull’esatta portata del mecenatismo mediceo. È stato fatto notare che nel 1480 o 1490 il potere non era affatto cosí accentrato, né l’opinione pubblica cosí docile come si sarebbe portati a credere. La parte che hanno i Medici nelle commissioni agli artisti risulta minore di quella dei conventi, delle confraternite o dei notabili fiorentini. È vero che essi potevano influenzare il gusto, ma Lorenzo, che fu un finanziere incerto e un amatore d’arte egoista, si sforzò invano di agire sulle arti attraverso le sue collezioni di oggetti minori, di medaglie e di statue antiche: non v’è nulla di piú mediocre delle composizioni fiorentine della fine del XV e degli inizi del XVI secolo. I dotti consiglieri del signore di Firenze non erano piú in grado di esercitare un ruolo utile. Si ha piuttosto l’impressione di essere di fronte a un periodo di decadenza. «Il compenetrarsi delle due discipline [l’arte e l’umanesimo] non è piú cosí completo come era stato in passato». Né il Poliziano che «verso l’arte nutriva niente piú che una sorta di interesse banale», né soprattutto Marsilio Ficino «spirito portato essenzialmente all’astrazione» erano in grado di arrecare qualcosa di stimolante per i pittori e gli scultori. Alla fine, disilluso degli umanisti e dei poeti, il Magnifico si sarebbe rivolto ai dotti specialisti di certe discipline, agli eruditi, agli epigrafisti, ai numismatici... le cui conoscenze precise lo trascinavano sempre piú e lo consolavano del suo fallimento. In effetti il suo mecenatismo non avrebbe portato a nulla di grande. L’allegoria del Furini e il quadro lusinghiero del Vasari sarebbero tipiche menzogne dell’adulazione storica; il loro valore di verità sarebbe nullo24. Pur schierandosi contro la tesi classica, questa teoria ne mantiene purtroppo le premesse: la stretta connessione tra Lorenzo e il corso delle arti. Questo rapporto di Storia dell’arte Einaudi 29 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze causa ed effetto tra la direzione medicea e lo sviluppo delle arti a Firenze deve essere invece riesaminato. L’azione di Lorenzo si è in realtà esplicata in due modi: attraverso una precisa politica di prestigio artistico e attraverso un certo numero di iniziative personali e di commissioni. L’ampiezza della prima non può essere sottovalutata; tale politica però portava a privare Firenze dei suoi artisti migliori. Quanto alle seconde, i progetti piú interessanti furono quasi tutti interrotti dalla morte prematura di Lorenzo a quarantatre anni e quelli realizzati corrispondono solo imperfettamente alle intenzioni che a lui si attribuiscono. La politica di prestigio artistico. È inutile cercare a Firenze, all’epoca di Lorenzo, un’azione sistematica di mecenatismo paragonabile a quella di Luigi XIV, protettore di Lebrun e iniziatore dell’Académie des Inscriptions, né interventi precisi ed efficaci al modo di Giulio II. Nel periodo felice, prima della congiura dei Pazzi e della crisi italiana del 147880, le commissioni per il palazzo di via Larga sembra siano andate, come già prima, ai fratelli Pollaiolo, in particolare ad Antonio; ma a piú riprese lavori di circostanza sono affidati alla bottega del Verrocchio, soprattutto al momento della Giostra del 1475; ed è il maestro di Leonardo che Lorenzo nel 1477 raccomanderà al capitolo di Pistoia a preferenza di Piero Pollaiolo25. Dieci anni dopo, in una lettera assai nota a Giovanni Lanfredini del 12 novembre 1489, Antonio è definito come il «principale maestro della città», il migliore che mai si sia visto secondo l’opinione dei competenti. Questo gran maestro non viene trattenuto a Firenze. Nel 1484 Antonio Pollaiolo e suo fratello si sono trasferiti a Roma per attendere al monumento funebre in bronzo di Sisto Storia dell’arte Einaudi 30 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze IV voluto dai Della Rovere. La lettera citata non è dunque, verosimilmente, destinata a raccomandare lo scultore ai Romani; dovrebbe piuttosto riferirsi alle preoccupazioni di Ludovico il Moro, che chiedeva un grande artista, ma attivo, per sostituire Leonardo26. Cosí, per una fiducia forse eccessiva, le risorse di Firenze sembravano inesauribili e Lorenzo si preoccupava piú di inviare gli artisti fiorentini fuori Firenze che non di occuparli in città. Nel 1480 raccomanda al re di Napoli Giuliano da Maiano, poi, nel 1490, Luca Fancelli e perfino Giuliano da Sangallo che pure gli era particolarmente caro. Al re di Portogallo, Giovanni II, indirizzerà Andrea Sansovino che inizierà per lui un palazzo a quattro torri senza equivalenti a Firenze. Si è vista in questi interventi soprattutto l’importanza che i principi o i prelati stranieri attribuivano al gusto di Lorenzo e la prova dell’autorità del suo giudizio in fatto d’arte27. Questo è indubbio, ma si trattava anche di una sorta di «propaganda culturale». È certo che il signore di Firenze aveva in ogni cosa presenti i tre principî che si vantava di applicare nella condotta degli affari: patriae decus, familiae amplitudo, incrementum artium28. È anche lecito chiedersi se questa politica non abbia contribuito all’esaurirsi di Firenze in quanto provocò una dispersione eccessiva delle botteghe. Intorno al 1485, forse già nel 1481-82, quella del Verrocchio perde il suo capo che si reca a Venezia, di dove non farà piú ritorno. Alla stessa data Leonardo da Vinci va in esilio a Milano, verosimilmente in seguito a una raccomandazione del signore di Firenze desideroso di compiacere Ludovico il Moro, che chiede uno scultore capace per la statua di Francesco Sforza. Nel 1481, questa volta su richiesta del sommo pontefice riconciliato con Firenze, un gruppo di pittori, tra cui le personalità piú forti dell’arte toscana, Botticelli, Domenico Ghirlandaio, Signorelli, sono chiamati a Roma per decorare la cappella Storia dell’arte Einaudi 31 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Sistina. Al ritorno, tre di loro, piú Filippino Lippi sono incaricati della decorazione di una villa per Lorenzo; ma l’iniziativa, benché limitata, non avrà seguito. Nel 1488, su consiglio del signore di Firenze, il cardinale Carafa invita Filippino a decorare la sua cappella alla Minerva a Roma. Solo il Signorelli dipingerà, un po’ piú tardi, due quadri di qualche rilievo per Lorenzo. In realtà nessun complesso paragonabile alla cappella di Sisto IV, o anche agli appartamenti Borgia, verrà intrapreso a Firenze. I cicli di Domenico Ghirlandaio e di Filippino Lippi a Santa Maria Novella si devono a famiglie legate ai Medici, i Tornabuoni e gli Strozzi. Queste si permettono ciò a cui Lorenzo sembrava non voler pensare, e comunque tutte queste iniziative si hanno solo dopo il 1485, dopo quindici anni di ben scarsa attività del sedicente «mecenate». A questo palese (ed efficace) desiderio di far brillare il prestigio di Firenze nelle altre città d’Italia, occorre aggiungere anche la propaganda interna: Lorenzo infatti è stato l’iniziatore della esaltazione ufficiale delle glorie dell’arte toscana, rivolgendosi alle personalità piú in vista dell’umanesimo29. Nel 1481, dettando la prefazione per un’edizione in certo modo ufficiale della Commedia di Dante, il Landino aveva abbozzato una storia dell’arte fiorentina nel quadro del tradizionale elogio della città. Nel 1488 Filippino Lippi ha l’incarico di innalzare un monumento funebre a suo padre nel duomo di Spoleto e il Poliziano ne redige l’epitaffio. Nel 1490 Benedetto da Maiano disegna in Santa Maria del Fiore un monumento a Giotto e il Poliziano detta l’inscrizione celebre: Giotto – fatto singolare – viene rappresentato come mosaicista, e della cosa daremo una spiegazione piú avanti30. Nello stesso anno 1490 nel coro di Santa Maria Novella, sull’arco di trionfo che si vede nell’Annuncio a Zaccaria, viene dipinta la scritta solenne dovuta al Poliziano: «An. mcccclxxxx quo pulcherri- Storia dell’arte Einaudi 32 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze ma civitas opibus victoriis artibus aedificiisque nobilis copia salubritate pace perfruebatur». Il dipinto è occupato in gran parte dai personaggi della famiglia Tornabuoni, al centro si vedono due altri gruppi, a destra tre giovani amici dei Medici e, in basso a sinistra, quattro umanisti (il Landino, il Ficino, il Poliziano, Gentile de’ Vecchi) la cui presenza mira non tanto a rendere onore all’Accademia di Careggi quanto a ricordare i quattro precettori di Lorenzo31. Questa inscrizione laudativa e rassicurante conferma piú d’ogni altra cosa lo sforzo compiuto da Lorenzo per celebrare lui stesso la gloria e il prestigio di Firenze. In questo sta il succo della sua politica artistica piú che non nei grandi lavori o nelle grandi decorazioni, che sarebbe ben difficile poter enumerare. Tale politica si manifesta anche nella velleità di completare la cattedrale. Nel 1491 Lorenzo infatti indisse un concorso per la facciata che non portò ad alcuna decisione. Il paramento provvisorio in legno eretto nel 1515 per l’entrata di Leone X32 pare che si sia ispirato ad alcuni progetti presi in considerazione da Lorenzo; ma fu solo per rendere retrospettivamente onore al Magnifico. Intorno alla stessa data (1490) si facevano alcune prove, per iniziativa sua, per la decorazione in mosaico della cappella di San Zanobi, forse con la segreta intenzione di estenderla a tutta la cupola ad imitazione di quella del Battistero. Nessuna impresa piú di questa poteva riuscire gradita all’opinione pubblica, sensibile a tutto ciò che esaltava l’originalità fiorentina. L’unica fondazione religiosa del Magnifico è il convento degli Agostiniani alla porta Sangallo, studiato dopo il 1487 da Giuliano da Sangallo per fra Mariano33. Si trattava forse dell’inizio di un programma piú vasto; nel 1489 un decreto della Signoria accordava notevoli facilitazioni fiscali ai nuovi cantieri34. Storia dell’arte Einaudi 33 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze L’azione personale. Non si puó tuttavia misconoscere l’interesse di Lorenzo per tutte le forme dell’attività artistica e la diffusione del suo gusto. Questo atteggiamento ha fatto impressione sui contemporanei ed è stato notato dal Guicciardini nella sua Storia fiorentina. Dopo aver notato l’interesse del «Principe» per la filosofia, insiste sul favore da lui dimostrato «alla musica, alla architettura, alla pittura, alla scultura, a tutte le arti di ingegno e di industria, in modo che la città era copiosissima di tutte queste gentilezze, le quali tanto piú emergevano quanto lui, sendo universalissimo, ne dava judicio e distingueva gli uomini, in forma che tutti per piú piacergli facevano a gara l’uno dell’altro»35. Non si tratta di commissioni ufficiali. La leggenda del mecenate organizzatore dilegua per lasciar posto al prestigio di un esteta, gran conoscitore, di cui si ricerca il giudizio. La sfumatura è importante e quadra meglio con quel che sappiamo del clima di Firenze, agitato da curiosità molteplici. La Vita Laurentii Medices, scritta in latino da Nicola Valori poco dopo il 1515 e pubblicata in italiano nel 1569, ci fornisce sull’argomento indicazioni nello stesso senso e qualche altro particolare36. Era soprattutto per sé, con tutti gli egoismi del collezionista e dell’amatore, che Lorenzo si interessava alle arti e la sua grande preoccupazione è stata quella di completare la raccolta di antichità e di oggetti preziosi lasciata da Cosimo, insistendo in particolare su tutte le forme di Kleinkunst che lo appassionavano. In questo senso è stato il vetustatis amator, l’amatore di «anticaglie» piú tipico del suo tempo: «tutti quelli che volevano renderglisi graditi gli offrivano delle medaglie preziose e lavorate, delle pietre e tutto ciò che avesse un sapore antico da tutti gli angoli del mondo37». Seppe metter le mani sul gabinetto di medaglie costituito da papa Paolo II, teneva agenti in tutta Italia e si mostrava cosí attivo, Storia dell’arte Einaudi 34 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze impaziente e prodigo per tutto ciò che era raro e bello che Galeazzo Sforza poteva affermare non senza invidia che presso Lorenzo gli oggetti piú nobili erano confluiti dal mondo intero. È assai facile constatare questo incremento metodico delle collezioni medicee, almeno per quel che riguarda i pezzi custoditi nel palazzo di via Larga, confrontando l’inventario del 1492 con quelli del 1456 e del 1463 redatti per Cosimo, nonché con quello del 1465 steso per Piero. A questa data la collezione contava 100 medaglie d’oro, 500 medaglie d’argento, 30 cammei o intagli e dei vasi. Nel 1494 è quasi raddoppiata. Quando sale al potere, sono i bronzisti, i medaglisti, gli intarsiatori, i decoratori che Lorenzo fa lavorare38. Si vede bene ciò che l’attira e le capacità che apprezza: quelle del Verrocchio, d’Antonio Pollaiolo, di Bertoldo o di quell’Andrea Guazzalotti di cui si conosce una lettera indirizzata a Lorenzo nel 1478. I casi in cui egli commissioni un affresco, un quadro, sono assai rari e, praticamente, Lorenzo non si è rivolto ai pittori della Sistina se non dopo il loro ritorno da Roma, come se si fosse accorto solo allora dell’inadeguatezza delle imprese fiorentine: si trattava della villa di Spedaletto presso Volterra, oggi perduta39. L’unica impresa degna di quelle di Cosimo e anche di Piero, che avevano molto costruito, fu in fin dei conti la villa di Poggio a Caiano, sulla quale la testimonianza del Valori getta una luce particolare: «Egli [Lorenzo] aveva il gusto dell’architettura, ma soprattutto di quella che aveva un sapore antico, come si può vedere a Poggio a Caiano dove appare la magnificenza degli antichi, e che Poliziano ha celebrato in un poema»40. Si tratta di un’iniziativa degli anni 1485-86, nel corso della quale cominciò l’amicizia del principe per Giuliano da Sangallo, cosa che le assicura una particolare importanza. Negli anni seguenti Lorenzo intervenne nelle polemiche per la facciata di Santo Spirito e raccomandò il suo architetto per la sagrestia della chiesa. Se Storia dell’arte Einaudi 35 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze lo si confronta con i programmi grandiosi di un Federico d’Urbino o di un Sisto IV, il bilancio risulta modesto. Si è pensato di spiegare questo fatto ricordando che si doveva anzitutto portare a compimento lavori iniziati da gran tempo, che le ville medicee erano nel 1469 già numerose, ben adorne di quadri e statue e che lo spazio non occupato era ormai poco41. In realtà il gusto di Lorenzo si rivolgeva alle «arti dette minori» ed è solo verso i quarant’anni che il suo interesse per l’architettura e le imprese di decorazione sembra aver preso nuovo slancio. L’insufficienza della sua opera in questo campo è stata riconosciuta come controvoglia dagli storici. Il Vasari è costretto a scrivere: «Non fu finita né quella né l’altre [fabbriche di Lorenzo] per la morte di esso Lorenzo»; ma questo vale solo per la villa di Poggio a Caiano42. Questa fama di amatore d’architettura (che era fondata) e di costruttore (che non lo era affatto) si era diffusa in tutte le province italiane e perfino all’estero. Giovanni II di Portogallo come Alfonso d’Aragona si rivolgevano a Lorenzo per consiglio. Nel suo opuscolo sugli ordini architettonici (Venezia 1509) il Pacioli racconta di aver conosciuto, attraverso i modelli portati a Napoli da Giuliano da Maiano, l’interesse di Lorenzo per la grande arte; egli spiega il felice sviluppo dell’architettura fiorentina con l’esempio del principe e conclude: «Chi oggi vol fabricare in Italia e fore subito recorreno a Firenze per architecti»43. Si ha infine l’impressione che Lorenzo si interessasse agli uomini piú che alle opere: «Ammetteva – dice il Valori – nel gruppo dei suoi famigliari tutti quelli di cui aveva riconosciuto le doti naturali o il talento artistico, li trattava con generosità, li accarezzava e non li lasciava mai»44. Amava il contatto dell’intelligenza e del talento, come per coltivare in se stesso una sorta d’artista universale, per acquisire o presentire tutte le possibilità del genio: poeta, musico, Lorenzo s’interessa a tutto. Il Storia dell’arte Einaudi 36 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze segreto della sua vita intellettuale, indubbiamente tanto ricca, sta forse in questo. Alla generazione virile, quella di Cosimo, che amava costruire in tutti i campi, è succeduta la generazione degli esteti, mirabilmente dotati, che all’attività preferiscono il godimento e la contemplazione. Le sue poesie nostalgiche, le sue aspirazioni contemplative, il suo gusto del bucolico e del segreto della natura, i suoi periodici progetti di ritirarsi a vita privata, sono altrettanti indizi in questo senso45. C’era una sfumatura insolita e magari una sorta di ambiguità nel suo prestigio di grande «conoscitore». È dunque inutile parlare di mecenatismo nel senso classico del termine e nemmeno in quello corrente. Rimane tuttavia un problema aperto e d’importanza decisiva, quello della Scuola del giardino di San Marco. Se Lorenzo ha costituito intorno al vecchio scultore Bertoldo, conservatore delle sue anticaglie, una scuola aperta ai giovani artisti, per la quale sarebbero passati, con Michelangelo, moltissimi giovani di talento, non sono stati solo la sua personalità e i suoi gusti ad avere un peso: egli allora ha voluto veramente imprimere una direzione allo sviluppo dell’arte fiorentina e la tradizione avrebbe avuto ragione di salutare in lui il piú moderno dei mecenati. La «Scuola del giardino di San Marco». Nessun documento contemporaneo accenna all’esistenza di una «scuola» d’artisti raccolti intorno a Bertoldo sotto l’egida di Lorenzo il Magnifico. È solo nelle «vite» del Vasari che questa istituzione di fondamentale importanza si trova descritta: come al solito, in forma di digressione, nella vita di Torrigiano, condiscepolo di Michelangelo. La scuola viene descritta già nella prima edizione delle Vite (1550); ma è solo nella seconda Storia dell’arte Einaudi 37 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze (1568) che compare la parola-chiave: la Scuola del giardino di San Marco. questo «seminario» dei geni era una sorta d’accademia ante lettera46. L’indicazione tradisce l’intenzione recondita dello storico che scopre le premesse di un insegnamento metodico dell’arte in una grande idea dell’età aurea medicea47. Si trattava, per il Vasari, di un passaggio indispensabile: il segreto dell’arte italiana del Cinquecento stava, secondo lui, nel disegno toscano, ma era necessaria anche la cultura romana, e l’uno e l’altra erano complementi indispensabili delle facoltà naturali, che essi potevano guidare48. Come spiegare allora l’apparizione dei grandi toscani e in particolare di Michelangelo? Non si erano formati in un clima molto diverso da quello romano? Il Vasari doveva fatalmente arrivare a dimostrare che il genio si nutriva, già nella Firenze di Lorenzo, dello studio, nel senso in cui era possibile intenderlo nel Cinquecento, cioè di imitazione dei maestri e studio dell’arte antica, mentre il resto dipendeva dalla natura, privilegio del genio, che egli definirà in modo cosí eloquente nello straordinario esordio della vita di Michelangelo. Questo centro di formazione moderna che doveva esistere a Firenze è stato, secondo lui, il giardino di piazza San Marco. I dati precisi che lo storico ci fornisce si possono ricondurre a cinque punti: 1. la «scuola» rispondeva a un piano preordinato di rinnovamento artistico disposto da Lorenzo, «desiderando egli sommamente di creare una scuola di pittori e di scultori eccellenti» (Vita di Michelangelo); e piú oltre: «dolendosi Lorenzo, che amor grandissimo portava alla pittura ed alla scultura, che ne’ suoi tempi non si trovassero scultori celebrati e nobili, come si trovavano molti pittori di grandissimo pregio e fama, deliberò, come io dissi, di fare una scuola» (ibid.). 2. La selezione per questa scuola era, in linea generale, fatta con criteri puramente aristocratici, «atteso Storia dell’arte Einaudi 38 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze che il detto Magnifico Lorenzo teneva per fermo, che coloro che nascono di sangue nobile possano piú agevolmente in ogni cosa venire a perfezione»49 (Vita di Torrigiano). 3. Capo dell’istituzione era, fin dalla sua fondazione, Bertoldo: «Voleva [Lorenzo] che elli avessero per guida e per capo Bertoldo, che era discepolo di Donato» (Vita di Michelangelo). Il Vasari insiste sul fatto che, nonostante la sua età, Bertoldo non era solo «custode o guardiano», ma era anche considerato «maestro molto pratico». 4. L’insegnamento si svolgeva fra le meravigliose raccolte medicee di opere antiche e anche di fronte a cartoni moderni50: «Insegnava loro, e parimente aveva cura alle cose del giardino, ed a molti disegni, cartoni e modelli di mano di Donato, Pippo, Masaccio, Paolo Uccello, fra Giovanni, fra Filippo» (Vita di Torrigiano). Questo complesso mirabilmente adatto all’educazione artistica è andato disperso nel 1494 ma, aggiunge il Vasari, è stato in gran parte ricostituito nel 1512 e si sarebbe trovato nel 1550 nel «guardaroba» del granduca. 5. La lista di coloro che cosí hanno potuto studiare «le arti del disegno» è molto lunga e contiene piú di 10 nomi: «Michelagnolo, Giovan Francesco Rustici, Torrigiano Torrigiani, Francesco Granacci, Niccolò di Domenico Soggi, Lorenzo di Credi e Giuliano Bugiardini, e de’ forestieri Baccio da Monte Lupo, Andrea Contucci dal Monte Sansovino, ed altri...» (Vita di Torrigiano). Si comprende cosí l’entusiasmo dello storico che conclude la sua esposizione ritornando sui suoi due temi favoriti: la funzione dello «studio» («Queste arti non si possono imparare se non con lungo studio fatto in ritrarre e sforzarsi di imitare le cose buone; e chi non ha di si fatte commodità, sebbene è della natura aiutato, non si può condurre se non tardi a perfezione»; e la gran- Storia dell’arte Einaudi 39 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze dezza del mecenate («Il quale esempio, veramente magnifico di Lorenzo, sempre che sarà imitato da’ principi e da altre persone onorate, recherà loro onore e lode perpetua...» [Vita di Torrigiano]). Per concludere, l’istituzione creata da Lorenzo «nel giardino che aveva in su la piazza di S. Marco di Firenze», è esattamente il prototipo e l’antenato dell’Accademia che verrà fondata dal granduca Cosimo nel 1561 dietro suggerimento del nostro Vasari; e questi, nella sua seconda edizione del 1568, non puó fare a meno di introdurre la parola anacronistica che compendia tutto il suo pensiero: «Le quali tutte cose [gli oggetti delle raccolte] erano come una scuola ed academia ai giovanetti pittori e scultori ed a tutti gli altri che attendevano al disegno» (Vita di Torrigiano). Il suggerimento del Vasari è stato scarsamente notato dagli eruditi dei secoli successivi: l’abate Lanzi parla degli inizi del nuovo stile «classico» senza far cenno del «giardino»; ma il racconto vasariano è stato dilatato in misura sempre maggiore dai moderni. Il romantico Roscoe è stato il primo, sembra, a trattarne in modo solenne, nella frase spesso ricordata: «A questa istituzione, piú che ad ogn’altra circostanza, possiamo noi francamente attribuire i rapidi e maravigliosi progressi, fatti nelle belle arti verso la fine del secolo xv, che da Firenze per gradi si estesero in tutto il resto d’Europa»51. Nulla di piú vasariano del resto di questa idea del progresso. I dotti venuti dopo hanno messo in dubbio il mecenatismo di Lorenzo52; ciò nonostante la formula vasariana ha sempre indotto a vedere nel giardino «il primo museo e la prima accademia artistica d’Europa». Senza nascondersi l’esiguità delle informazioni di cui disponiamo e il fatto che dipendiamo interamente da un racconto in certi punti contestabile, gli storici migliori hanno continuato a parlare de «la scuola del giardino»53. Lo scetticismo è piu facile quando, ritornando allo Storia dell’arte Einaudi 40 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze stesso testo vasariano, ci si sforza di valutare storicamente tutti i dati che esso contiene. Gli argomenti del Vasari non si lasciano tradurre in dati precisi. 1. La cronologia è inconsistente: il «casino» presso il convento di San Marco è stato dapprima proprietà di donna Clarice, moglie di Lorenzo, per la quale Lorenzo l’aveva acquistato nel 1480; essa morí il 30 luglio 1488. Lorenzo vi aveva già trasferito le sue «anticaglie»? È probabile. Ma Bertoldo che era anziano (era nato forse intorno al 1420), e il Vasari lo riconosce, e che aveva scarsa capacità di lavoro, viveva in intimità con Lorenzo nel palazzo di via Larga, lo accompagnava ai bagni di Volterra e di Bagno a Morra, e morirà al Poggio il 28 dicembre 1491, un anno prima del Magnifico. Se vi sono state delle lezioni nel casino e se si sono raccolti degli allievi intorno a Bertoldo, questo non può essere avvenuto che nel breve periodo tra il 1489 e il 1491, e in modo del tutto discontinuo54. 2. L’elenco degli allievi suscita perplessità non minori: né Niccolò Soggi, né Lorenzo di Credi, né Andrea Sansovino si trovavano a Firenze intorno al 149055. Chi è Torrigiano Torrigiani? Si tratta del compagno di Michelangelo oppure di Bastiano Torrigiani detto il Bologna56? Il Rustici e il Granacci sono noti, ma sono questi gli artisti «eccellentissimi» usciti dalla scuola dei giovani aristocratici? La scelta dei primi nomi non induce forse a pensare che il Vasari stesso abbia sentito l’insufficienza di questa «promozione» e si sia risolutamente deciso a un «quadro simbolico» aggiungendo ciò che rimaneva della bottega del Verrocchio ai principali allievi del Ghirlandaio57? 3. Il Vasari non sa che dire dell’illustre «capo» di questa «accademia». Non dedica a Bertoldo nemmeno una biografia a sé e non lo conosce da vicino se non come aiuto di Donatello nel Pergamo di San Lorenzo e come restauratore delle «anticaglie» medicee (al modo Storia dell’arte Einaudi 41 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze del Verrocchio)58. Non sa riferire alcun aneddoto sulla vita della «scuola». Quelli che riporta, la conversazione di Lorenzo con il giovane Michelangelo a proposito della testa di fauno ridente, i consigli del Poliziano ci riportano alla cerchia di Lorenzo e dei suoi amici. Il Condivi, sempre piú chiaro del Vasari, riferisce le cose in modo molto diverso. È grazie a un’iniziativa dell’amico Granacci che Michelangelo ha potuto essere ammesso a visitare le collezioni medicee: «Avenne che un giorno fu dal Granacci menato al giardin de’ Medici a San Marco: il qual giardino il Magnifico Lorenzo... avea di varie statue antiche e di figure adornato». Di Bertoldo professore di disegno neppure un cenno e qualche rigo piú sotto l’«accademia» fatidica del Vasari è riportata alle proporzioni di una semplice metafora, allorché il Condivi parla della gioia del giovane scultore di lavorare liberamente, lontano dalla fastidiosa bottega del Ghirlandaio: «Qui tutto il giorno, come in migliore scuola, di tal facultà si stava sempre facendo qualche cosa». Bertoldo, modesto consegnatario e già restauratore degli oggetti antichi, non ha alcuna parte. Si tratta solamente dell’accesso alle collezioni che Lorenzo concedeva a suo piacimento alle persone di sua fiducia. L’osservazione del Vasari, elaborata in modo tanto tendenzioso, sul reclutamento aristocratico della scuola, è indubbiamente la deformazione di una realtà piú semplice. Queste autorizzazioni non vigevano solo per il giardino di San Marco. In una lettera indirizzata il 9 maggio 1490 dalla val d’Orcia a suo figlio Piero a proposito di un certo Baccio il Magnifico scrive: «Parmi persona intendente e che si dilecti di vedere anticaglie. Vorrei che tu li facessi mostrare tutte quelle dell’orto e cosí delle nostre altre che sono nello scriptoio...» E sembra trattarsi piuttosto delle collezioni del palazzo di via Larga e del suo «giardino» verso San Lorenzo59. Storia dell’arte Einaudi 42 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Il Vasari ci permette addirittura di rettificare il suo stesso racconto valendoci della lunga descrizione che egli ci da delle «anticaglie» di palazzo Medici e del giardino annesso. Leggiamo nelle Vite che l’Albertinelli vi studiava intorno al 1490 e che la maggior parte dei pittori e scultori del momento lo imitavano. Si tratta dunque di visite libere col permesso di Lorenzo. La versione autentica dei fatti è questa; e ci è fornita a proposito del giardino verso San Lorenzo60, mentre la versione tendenziosa è quella fornita a proposito del giardino su piazza San Marco. 4. L’elenco dei modelli è impressionante ma vago. Nel 1510 l’Albertini scriveva nel suo Memoriale: «Nel giardino de’ Medici sono assai cose antique venute da Roma». Il casino non fu ricostruito dal Buontalenti che nel 1576; nel 1550 si potevano ancora vedere i portici e i giardini, ma, sembra, senza piú le anticaglie che erano state raccolte altrove61. La presenza dei cartoni dei maestri toscani non trova alcuna conferma. L’elenco di essi appare cosí eccezionale che è lecito chiedersi se non ci sia una confusione, piú o meno volontaria, con le collezioni del palazzo di via Larga. Ma allora si tratterebbe ancora una volta di uno scorcio simbolico. Il Vasari insomma ha fatto coincidere la «scuola del giardino» con l’ambiente mediceo, con la corte di Lorenzo, prendendo in pratica la parte per il tutto: e cosi facendo ha voluto dire che nel «giardino» si respirava il gusto piú puro e la migliore tradizione toscana62. Non abbiamo dunque, nell’esposizione del Vasari, che una serie di generalizzazioni e di trasposizioni abusive insieme con uno sforzo ingegnoso di spiegare la situazione dell’arte fiorentina intorno al 1490 in termini del tutto impropri. Lo storico è troppo legato al granduca per non mettere in evidenza le benemerenze del mecenatismo mediceo, per non ricordare che un gran Storia dell’arte Einaudi 43 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze regno suppone una grande scuola artistica, sotto una direzione autorizzata, e per non insistere sulla dignità degli artisti, cui i principi dell’«età d’oro» tanta importanza attribuivano. C’è dunque troppo Cinquecento del quadro che egli traccia per analogia della Firenze del 1490. D’altronde egli ha per cosí dire la mania delle scuole: ama ricomporre un gruppo, un tutto coerente, un momento decisivo dell’evoluzione artistica, sotto un’autorità comune. Nell’età manieristica si crede alla necessità storica degli istituti e delle accademie d’intonazione dogmatica. Si è ormai perduto il senso della vita, piú stretta sul piano tecnico, e nello stesso tempo meno ambiziosa delle botteghe di un tempo. Se dobbiamo credere al Condivi è per sottrarsi ai fastidi della bottega che Michelangelo si è fatto dare il permesso di lavorare nel giardino di San Marco. Sarebbe debitore di questa fortuna al Granacci. Gl’insegnamenti di Bertoldo sono ancora meno reali delle lezioni del Ghirlandaio, presso il quale Michelangelo è stato per un tempo quanto mai breve63. Michelangelo naturalmente ha conosciuto l’uno e l’altro; ma lo stesso errore di prospettiva ha indotto a collocare i suoi inizi sotto il patronato del pittore e dello scultore che sembravano i piú degni rappresentanti della tecnica fiorentina intorno al 149064. Il mito della «Scuola del giardino» è nato in sostanza dal bisogno di spiegare meglio la formazione toscana di Michelangelo. Il Vasari è stato guidato da un’induzione parallela a quella che ha sollevato le libere riunioni del «club» di Careggi a prototipo delle accademie moderne65. Il modo migliore per ricondurre alla sua base concreta e sicura questa splendida costruzione, in cui la grandezza del mecenate e l’ideale scolastico sono celebrati in modo anche troppo lusinghiero, è quello di cercare di immaginare la funzione che poteva avere la collezione personale di un grande signore del Quattrocento e i suoi Storia dell’arte Einaudi 44 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze amici nella formazione di alcuni giovani scultori. Questi potevano essere chiamati in quelle collezioni a titolo di restauratori, cosa che pone un altro problema66. Ma Lorenzo apriva i suoi giardini e i suoi gabinetti a tutti coloro che giudicava degni, e non si distinguevano i frequentatori abituali del giardino di San Marco dagli invitati del palazzo: «Haec ubi undecumque comparaverat, domi apud se venerabundus custodiebat, ostendens non palam omnibus, sed generoso cuique»67. Lorenzo riservava dunque la frequentazione dei suoi pezzi antichi a una élite: forse egli se ne esagerava il valore archeologico, ma erano per lui il simbolo di una cultura. Nicola Valori che ricorda come Lorenzo sapesse accogliere tutti i talenti, non perde occasione per insistere sulle sue iniziative generose. Egli non dice parola della «scuola di Bertoldo»; dato che ha scritto la sua Vita di Lorenzo agli inizi del secolo xvi (intorno al 1517), nel momento stesso in cui si cristallizzava la leggenda medicea, questo argomento a silentio sembra decisivo contro la tesi del Vasari e degli storici del secolo scorso. La leggenda dell’«età d’oro». Se il mecenatismo di Lorenzo è in buona parte una invenzione storica, è interessante analizzare brevemente il formarsi della «leggenda dell’età d’oro». La formula era stata impiegata dal Ficino in una lettera del 1492, in cui descriveva il generale rinnovamento delle lettere e delle arti. Ma essa aveva qui un valore quanto mai generale e si ricollegava al mito piú alto dell’epoca68. È stato piuttosto il Savonarola che involontariamente ha preparato l’esaltazione di Lorenzo, accusando volta volta la «tirannia» dei Medici, l’«errore» del pensiero umanistico e la «degradazione» dell’arte. Il riformatore unificava idealmente la cultura medicea denunciandola Storia dell’arte Einaudi 45 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze come paganesimo, decadenza e corruzione in tutti i campi69. La reazione fu altrettanto energica. Ritorcendo le formule del riformatore, i partigiani del ritorno dei Medici cominciarono a presentare l’epoca testè conclusa non come un periodo di pietà e di virtú, ma come un periodo felice di pace e di alta civiltà, che valeva ben la pena di rimpiangere: Piero Parenti parla, nel 1501, nel suo diario de «la buona stagione preterita»; un umanista, il Crinito, nel 1504 parla delle sciagure del 149270. Lottando, dopo la caduta del Savonarola, contro la propaganda «piagnona», la contropropaganda medicea riuscí facilmente a costruire il mito che gli amici dei Medici e i servitori dei duchi vennero in seguito via via precisando. L’importanza che dopo il 1500 ebbero in questo senso Bernardo Rucellai e la sua cerchia, dove gli studi politici erano prevalenti, è essenziale. Fautore di una repubblica aristocratica, il Rucellai era stato contrario successivamente a Piero e al Savonarola; ora era contrario al Soderini. Nei convegni degli «Orti Oricellari» in cui si riunivano i sopravvissuti dell’Accademia ficiniana, come il Diacceto e gli storici dell’umanesimo, il Guicciardini, L. Alamanni e, piú tardi, il Machiavelli, l’idealizzazione dell’epoca di Lorenzo si accompagnava in modo del tutto naturale alla ricerca di un nuovo ideale politico insieme antico e moderno, di tipo romano e di tipo veneziano. E la fama di cultura di Lorenzo non poteva che favorire tale idealizzazione. È di questo che si farà eco il Guicciardini: dopo un giudizio ancora incerto nelle Storie fiorentine, che diviene piú favorevole nel Dialogo, nella Storia d’Italia infine presenterà un’immagine ideale del principe che, secondo le sue parole (Storia, I, cap. xv), «dopo la morte si convertí in memoria molto chiara»71. Da tutte queste riflessioni, da questi rimpianti del passato, usciranno immagini concordanti. La Vita di Ficino di G. Corsi (1506) è l’opera di un politico che Storia dell’arte Einaudi 46 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze mira a dimostrare che lo sviluppo dell’umanesimo è avvenuto in stretta connessione con le fortune del principato mediceo72. La vita di Lorenzo del Valori (circa 1517) afferma nello stesso tempo la saggezza del politico che ha saputo salvaguardare la pace dell’Italia, il suo attaccamento alla filosofia platonica di Careggi e infine l’ammirevole funzione di conoscitore e uomo di gusto che egli ha saputo esercitare. Le sue conclusioni concordano con l’iscrizione del 1490: «Hoc illud fuit tempus quo omnium maxime Florentia dicitur floruisse imperio aucta et nominis fama quam per totum terrarum orbem Laurentii sapientia et auctoritas dilataverat»73. Non v’è mai cenno, in questi elogi, di una «accademia» ufficiale e meno ancora di una «scuola» artistica; essi semplicemente mettono insieme le tre glorie di Firenze, quella politica, quella letteraria e quella artistica. Questa disposizione psicologica si paleserà appieno con la ripresa delle feste «medicee», allorché, nel settembre 1512, il giovane Giuliano de’ Medici rientrerà a Firenze per ristabilirvi il principato. La piú significativa di queste feste fu quella organizzata, con la collaborazione del giovane Pontormo e di Andrea del Sarto, dalle compagnie del «Diamante» e del «Broncone» (si tratta di due emblemi medicei) per il carnevale del 1513. Si trattò, per usare le parole di uno storico, di una sorta di «carnevale postumo» alla Lorenzo, di una sfilata di carri del genere di quelli che egli aveva messo di moda trent’anni prima: in pratica, dei quadri viventi di gusto classico, Saturno e Giano, Numa Pompilio...; e, infine, il Trionfo dell’età d’oro. Si cantavano in coro i Canti di Jacopo Nardi; l’ultimo di questi comprendeva i versi: ... Come la fenice Rinasce dal broncon del vecchio alloro, Cosí nasce dal ferro un secol d’oro. Storia dell’arte Einaudi 47 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze E qui la formula «secol d’oro», «età d’oro» acquista tutto il suo significato74. Si era alla vigilia dell’elezione del cardinale Giovanni al soglio pontificio col nome di Leone X (11 marzo 1513). Bastò poco tempo perché si costituisse a Firenze, sotto la protezione del papa, una «Sacra Academia florentina», a carattere ufficiale, che rappresentava l’auspicata ricostituzione dell’Accademia di Careggi. Si trattava però di un circolo erudito, in cui l’ispirazione dotta e teologica tendeva perfino a tingersi di pietismo antipagano. Una delle sue manifestazioni fu, nel 1519, la petizione rivolta al papa per chiedere il ritorno delle ceneri di Dante75. Nel 1521 il busto del Ficino, opera del Ferrucci, sarà collocato nella Cattedrale. Ci volle però ancora una generazione perché il nuovo ducato si consolidasse e perché intorno al potere si raccogliesse una vera e propria accademia letteraria e una vera e propria accademia del disegno, istituzioni che trovavano i loro titoli di nobiltà in una glorificazione tendenziosa della civiltà medicea dell’età d’oro. Lo studio della cultura fiorentina alla fine del Quattrocento deve dunque tener conto di tutti questi schermi deformanti. Il movimento intellettuale ed artistico del tempo di Lorenzo è stato brutalmente interrotto e negato, al pari del regime mediceo, dalla rivoluzione del 1494, poi rivalorizzato oltre misura dalla propaganda dei Medici negli anni 1500-20, finche non si avrà la ricomposizione in termini convenzionali ad opera degli storici toscani della metà del Cinquecento76. Appendice I ritratti degli umanisti Non esiste alcun lavoro di insieme sui ritratti degli umanisti. Fra i ritratti di gruppo ricordiamo anzitutto i due affreschi famosi di Santa Maria Novella (Annuncio Storia dell’arte Einaudi 48 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze a Zaccaria, coro) del Ghirlandaio, e quello di Sant’Ambrogio (cappella del SS. Sacramento) di Cosimo Rosselli. Il quadro segnalato dal Mencken nella sua Vita del Poliziano all’Accademia di Lipsia è una copia tarda e cattiva del gruppo di Santa Maria Novella, rappresentato qui sullo sfondo di un paesaggio del Nord delle Alpi: HILL, Iconografia di Angiolo Poliziano, in «Rinascimento», ii (1951), p. 271. Il punto di partenza dovrebbe essere costituito dalle gallerie di uomini illustri del Cinquecento, di cui le piú notevoli sono state quella di Paolo Giovio, quella dei duchi di Toscana (le tele sono opera di Cristofano dell’Altissimo, ma egli si limita spesso a riprodurre la serie di Paolo Giovio) e certe collezioni principesche, come quella, ad esempio, dei duchi del Tirolo: f. kenner, Die Porträtsammlung des Erzherzogs Ferdinand von Tirol: die italienischen Bildnisse, in «JW», xviii (1897), pp. 134-261. Ficino: oltre le testimonianze, abbiamo affreschi e iniziali miniate (ad esempio la m iniziale del Plotino, Biblioteca Laurenziana [1490], riprodotto in Marsile Ficin et l’art, tav. v), la medaglia di Niccolò e il busto tardo (1521) di Andrea Ferrucci nella cattedrale di Firenze: op. cit., p. 48. Elenco dei manoscritti in cui si trova una iniziale col ritratto del Ficino: p. d’ancona, La miniatura fiorentina, Firenze 1914, 2 vv. Bottega d’Attavante: Plut. 73-79 (n. 1518), foll. 4, b iniziale e, 77 l iniziale; Plut. 82-15 (n. 1531), fol. 1, medaglioni; Plut. 83-10 (n. 895, ms della Theologia platonica), vol. 1, p iniziale; Strozzi 97 (n. 1541), fol. 1; Wolfenbüttel 2924 (n. 1587), foll. 2 e 31; 2994 (n. 1598), fol. 2. Di un’altra bottega fiorentina, quella dei Boccardi, Biblioteca Casanatense, Roma, cod. 1297 (n. 1667), fol. 1: m iniziale. Di mano di Francesco Antonio del Cherico: Wolfenbüttel, cod. 73 (841), fol. 1. Poliziano: art. cit., supra. Landino: una miniatura di Gherardo e Monte per le Storia dell’arte Einaudi 49 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze edizioni di Plinio (1478) lo rappresenta a mezzo busto davanti alla cattedrale di Firenze: o. pächt, Italian Illuminated Manuscripts, Bodleian Library, Oxford 1948, n. 83, riprodotto in a. chastel, Marsile Ficin et l’art, tav. v. Pico: un disegno della collezione Bonnat di Bayonne (cat. II, 1925, n. 18) sembra sicuramente d’origine settentrionale: Baldassarre d’Este o Ambrogio de Predis: e. tietze-conrat, An Unknown Portrait of Pico della Mirandola, in «Gazette des Beaux-Arts», xxvii (1945), gennaio, pp. 59-62. Ciò è da avvicinare alla citazione, nell’inventario di Fulvio Orsini del 1600 di un disegno di Pico attribuito a Leonardo: «Gazette des BeauxArts», i (1884), p. 435, n. 102. È indubbio che questo tipo abbia avuto diffusione fuori Firenze. Il Montaigne nel suo Journal de voyage descrive una effige al naturale di «Picus Mirandula» a Urbino: «Un visage beau, très blanc, sans barbe de la façon de 17 ou 18 ans, le nez longuet, les yeux doux, le visage maigrelet, le poil blond qui lui bat jusque sur les épaules et un étrange accoutrement». Gli altri personaggi della cerchia di Careggi sono rappresentati piú di rado o è piú difficile identificarli. È esistito un ritratto di Girolamo Benivieni, opera di Lorenzo di Credi, segnalato (vasari, ed. C. L. Ragghianti, II, p. 243), come «molto suo amico». Secondo il Milanesi (1878) questo ritratto si trovava nella collezione Volpini di Firenze: è scomparso in seguito. Il ritratto di Lorenzo Lorenzi, professore a Pisa e grande amico di Pico, stando alla testimonianza di p. crinito, De honesta disciplina, V, 1, eseguito dal Botticelli, si trova al Museo di Filadelfia: j. mesnil, Botticelli, Paris 1938, p. 138. Le medaglie, databili tra il 1490 e il 1495, di Niccolò Fiorentino dimostrano la notorietà degli umanisti: c. von fabriczy, Medaillen der italienisches Renaissance, Leipzig s. d., pp. 60 sgg. Storia dell’arte Einaudi 50 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze h. taine, Voyage en Italie, Paris 1865, 18ª ed., 1930, vol. II, p. 148. a. chastel, Le goût des primitifs en France, introduzione al catalogo della mostra «De Giotto à Bellini», Paris 1956, trad. it. in «Paragone», vii (1956), n. 79, pp. 3 sgg. 3 m. praz, La carne, la morte e il diavolo, 3ª ed., Firenze 1948, cap. V (Bisanzio). 4 L’opera a lungo celebrata di p. monnier, Le Quattrocento, Paris 1901, non è piú sufficiente. I numerosi lavori di e. garin e p. o. kristeller, citati piú avanti, hanno accumulato materiali inediti e tracciato delle prospettive sicure per una storia dell’umanesimo italiano che è ancora da scrivere. 5 Tutti questi punti sono stati svolti in uno studio su Marsile Ficin et l’art, Genève 1955. 6 f. antal, Florentine Painting and its Social Background, The Bourgeois Republic before Cosimo de’ Medici’s Advent to Power: XIV and XV Centuries, London 1947 (trad. it. La pittura fiorentina e il suo ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento, Torino 1960). Storici dell’arte cosí diversi come E. H. Gombrich, M. Meiss, e P. Francastel hanno moltiplicato le loro riserve sulla tesi di F. Antal. 7 L’opera recente di w. welliver, L’impero fiorentino, Firenze 1957 (che noi non possiamo seguire nella interpretazione delle opere d’arte), insiste su questo punto. 8 f. antal, Studien zur Gotik im Quattrocento, in «Jahrbuch der preussischen Kunstsammlungen», xlvi (1925), pp. 3-32; questa tesi è stata parzialmente ripresa da g. weiss, Die spätgotische Stilrichtung in der Kunst der italienischen Renaissance, in «Bibliothèque d’humanisme et renaissance», xiv (1952), pp. 99 sgg., e combinata con la tesi di wölfflin all’opposizione radicale tra il xvi secolo e l’età precedente in Renaissance und Antike, «Tübinger Forschungen zur Kunstgesch.», 5, Tübingen 1953. 9 p. francastel, Peinture et société, Lyon 1954, parte I (trad. it. Lo spazio figurativo dal Rinascimento al Cubismo, Torino 1957). 10 Il concetto di «decompartimentazione» è stato messo in luce in modo assai perspicuo da e. panofsky nel saggio Artist, Scientist, Genius, notes on the «Renaissance-Dämmerung», apparso in The Renaissance, a Symposium, The Metropolitan Museum of Art, New York 1953. 11 Lo stesso era accaduto per Paolo Uccello, stando agli studi di a. parronchi, Le fonti di Paolo Uccello, in «Paragone», nn. 95 e 97, novembre e gennaio 1958. 12 Cfr. j. r. spencer, Ut rhetorica pictura, in «jwci», xx (1957). 13 L’ha chiaramente dimostrato p. o. kristeller, The modern system of the arts: a modern study in the history of aesthetics, in «Journal of the History of Ideas», xii (1951), pp. 496-528 e xiii (1952), pp. 17-45. 14 e müntz, Histoire de l’art pendant la Renaissance, vol. II (Italie: 1 2 Storia dell’arte Einaudi 51 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze l’âge d’or), Paris 1891, pp. 70 sgg., ha indicato anzitutto fra i fattori dell’arte classica «il passaggio dal realismo all’idealismo favorito dal trionfo della filosofia platonica». Gli altri aspetti decisivi sarebbero una migliore conoscenza dell’antico (definito piú chiaramente dal primato di Roma) e la maturità degli stili (che s’esprime con l’abbandono della maniera dura e secca del Quattrocento). Ciò che ci interessa qui è l’interazione di tutti questi fattori a Firenze, quindi il loro sviluppo a Roma. Le prime indicazioni in questo senso in h. hettner, Italienische Studien zur Geschichte der Renaissance, Brunswick 1879, II, 2, e V, 12. Cosí anche w. goetz, Renaissance und Antike, in «Historische Zeitschrift», vol. II, Leipzig 1942: «Il fondamento spirituale di quest’arte [l’arte classica] risulta chiaramente, allorché si risalga al pensiero degli artisti e alla generale tendenza dei loro propositi, l’umanesimo, e in primo luogo il platonismo». 15 Come ormai da tempo ha messo in evidenza A. Warburg, a proposito del Botticelli, nel suo studio del 1894, ripubblicato nei Gesammelte Schriften, Leipzig 1932, vol. I, pp. 1 e 5. Apparirà agevolmente quanto su tutti questi argomenti la nostra esposizione debba agli studi di F. Saxl, E. Panofsky, E. H. Gombrich, R. Wittkower. Da venticinque anni e questa parte non ha fatto che crescere il nostro debito di gratitudine verso i membri dell’Institut Warburg (passato a Londra nel 1933). 16 Dopo che questo libro era stato licenziato (1957) un nuovo libro del professor e. wind, Pagan Misteries in the Renaissance, London 1958 è venuto a mettere in evidenza i rapporti che si possono stabilire tra la Poetica Theologia rinascimentale e certi capolavori d’arte: la Primavera del Botticelli, l’Amor sacro e profano di Tiziano, il Bacco di Michelangelo. Egli dunque tratta alcuni degli argomenti di questo studio e si vale in piú d’un caso della stessa serie di testi e di argomenti (ad esempio per Marsia e Apollo). Tuttavia lo spirito che anima queste sue pagine è assai diverso: il professor Wind non si preoccupa dello sviluppo degli ambienti e delle generazioni; egli trascura volutamente quelle che sono le posizioni correnti per mettere invece in evidenza i paradossi illuminanti e svolge con finezza un’idea dell’arte del Rinascimento che ricorda quella di Walter Pater; ciò che l’attira è «una mistura di malinconia e spirito burlesco» e l’azione stimolante dell’ermetismo che libera gli istinti poetici. Il simbolo rivelatore è l’immagine delle Grazie impressa sul rovescio della medaglia di Pico. Questi è l’eroe favorito del professor Wind che sarebbe anche propenso a metterlo a contrasto col Savonarola (i suggerimenti delle pp. 66 n. 7 e 68 n. 3 sono quanto mai soggetti a cauzione) e che minimizza a torto il contributo del Ficino (rimproverando a noi, p. 110 n. 3, di non aver operato la necessaria distinzione tra «l’influenza del Ficino sulle arti e il concetto che egli aveva di queste», nonostante ciò Storia dell’arte Einaudi 52 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze che è detto nel nostro Marsile Ficin et l’art, pp. 32 e 49). Il professor Wind spiega ragionevolmente come gli artisti del Cinquecento arrivassero attraverso la semplice conversazione a conoscenze che noi dobbiamo ritrovare per vie piú o meno laboriose. Ma questa giustificazione dell’«iconologia» non deve farci dimenticare le confusioni, le esitazioni, le crisi e le incertezze del passato, al fine di comporre un’immagine perfettamente coerente e bella. In realtà l’idea dei «misteri» pagani permette al professor Wind di ricostruire: 1) un postulato teorico basilare sul tipo della concordia discors, fondata sulla dialettica dei complementari del tipo Virtú e Voluttà ecc.; 2) un’interpretazione letteraria, e volutamente «trascendentalistica» di tutti i motivi, cosa che ci sembra eccessiva. Non saremo noi a negare il valore del principio del «gioco serio» («serio ludere») nel Rinascimento, né la funzione della «triade» nell’attività speculativa. Ma i criteri metodologici presentati nella nostra introduzione precisano l’apparato storico che può aiutare ad evitare l’inopportuna confusione tra la mitologia personale che ognuno di noi ha e i precisi fenomeni del periodo che si studia. 17 Sulla funzione essenziale che ha avuto l’«ordinazione», cfr. a. warburg, Bildniskunst und florentinisches Bürgertum (1901), raccolto in Gesammelte Schriften, Leipzig 1932, vol. I, p. 95 e m. wackernagel, Der Lebensraum des Kunstlers in der florentinischen Renaissance, Leipzig 1938. Su di essa ha insistito anche j. mesnil, L’éducation des peintres florentins au XVe siècle, in «Revue des idées», 15 settembre 1910. 18 t. trapesnikoff, Die Porträtdarstellungen der Mediceer des XV. Jahrh., Strassbur 1909, pp. 63 sgg.; l. buerkel, Francesco Furini, Wien 1908, p. 80. Sulla base della statua di Platone si legge: «Sal in mente, mel in ore», e in un cartiglio che gira intorno alla stessa base «Platonem laudaturus et sile et mirare». 19 Descrizione sommaria in a. lensi, Palazzo Vecchio, trad. fr. Paris 1932, pp. 161 sgg. Il testo del vasari, ed. Milanesi, vol. VIII, p. 250; ed. C. L. Ragghianti, Milano 1949, vol. IV, pp. 127-70. 20 Cosa tutt’altro che vera: i. del lungo, Florentia, Firrenze 1893, p. 231, e Marsile Ficin et l’art cit., p. 7. 21 Su questa utilizzazione accademica delle glorie del Quattrocento torneremo con maggior ampiezza nella conclusione generale, iv. 22 w. roscoe, Life of Lorenzo de’ Medici called the Magnificent, London 1795; ed. it., Pisa 1816. 23 Attraverso Lorenzo è tutta l’epoca che viene celebrata nell’opera di W. Roscoe, e successivamente in quella di a. von reumont, Lorenzo de’ Medici il Magnifico, 2 voll., Leipzig 1874, e nell’opera di innumerevoli volgarizzatori che hanno seguito e imitato questi autori. La tendenza a riferire tutto all’azione personale del «Principe» ispira l’opera di e. barfucci, Lorenzo de’ Medici e la società artistica del suo tempo, Firenze 1945. Storia dell’arte Einaudi 53 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze e. müntz, Les précurseurs de la Renaissance, Paris 1882; cosí anche f.-t. perrens, Histoire de Florence depuis la domination des Médicis jusqu’à la chute de la République (1434-1531), vol. I, Paris 1888, p. 573. 25 e. wilder, The unfinished monument by Andrea del Verrocchio to the Cardinal N. Forteguerri at Pistoia, Northampton (Mass.) 1932; a. chastel, Marsile Ficin et l’art cit., p. 38 n. 64. 26 l. d. ettlinger, Pollaiuolo’s Tomb of Sixtus IV, in «jwci», xvi (1953), p. 243 n. 3; s. meller, I progetti di Antonio Pollaiuolo per la statua equestre di F. Sforza, in Miscellanea in onore di A. Petrovic, Budapest 1934, pp. 5 sgg.; a. sabatini, Antonio e Piero del Pollaiolo, Firenze 1944, p. 71. 27 E. müntz, Les précurseurs ecc. cit., pp. 171 sgg.; a. von reumont, Lorenzo de’ Medici ecc. cit., vol. II, pp. 186-87; m. wackernagel, Der Lebensraum ecc. cit., Leipzig 1938, pp. 268-69. 28 a. fabroni, Laur. Medicis Magnifici Vita, Pisa 1784, p. 217. Questa ipotesi ci sembra confermata dall’analisi della situazione artistica di Firenze che ci dà il vasari nella Vita del Perugino, ed. Milanesi, III, p. 566; ed. C. L. Ragghianti, I, p. 930. La descrizione è retrospettiva e si riferisce agli anni 1475-80 (cfr. piú avanti, parte II, introduzione). Dopo aver spiegato perché «in Firenze piú che altrove venivano gli uomini perfetti in tutte l’arti...», il Vasari conclude che dopo aver approfittato del clima elevato della città «bisogna partirsi di quivi e vender fuora la bontà dell’opere sue e la riputazione di essa città, come fanno i dottori quella del loro studio. Perché Firenze fa degli artefici suoi quel che il tempo delle cose sue, che, fatte, se le disfa e se le consuma a poco a poco». a. von reumont, Lorenzo de’ Medici ecc. cit., II, pp. 130 sgg., ci dà un quadro dell’arte fiorentina al tempo del Magnifico su cui non si può contare per una valutazione del mecenatismo di Lorenzo. Piú preciso il wackernagel, Der Lebensraum ecc. cit., II, pp. 150 sgg.; noi tuttavia non lo seguiamo per quanto riguarda la «scuola d’arte» del giardino di San Marco (p. 269). 29 a. chastel, Marsile Ficin et l’art cit., Genève-Lille 1954, pp. 18384; m. wackernagel, Der Lebensraum ecc. cit., pp. 268-69. 30 Per questa commemorazione, cfr. vasari, ed. Milanesi, II, p. 630: «per pubblico decreto e per opera ed affezione particulare dei Magnifico Lorenzo vecchio de’ Medici...» Su Giotto mosaicista, cfr. piú avanti. 31 j. lauts, Domenico Ghirlandaio, Wien 1943, tav. lxxxii. Molto diverso, sotto questo aspetto, l’affresco leggermente anteriore del Miracolo del Sacramento in Sant’Ambrogio (1485-86): Cosimo Rosselli vi ha riunito i ritratti del Ficino, di Pico e del Poliziano, che figurano proprio in mezzo alla piazza, per celebrare le celebrità fiorentine del momento: il Ficino aveva pubblicato nel 1482 la Teologia platonica, il 24 Storia dell’arte Einaudi 54 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Poliziano aveva iniziato nel 1488 i suoi corsi sui Fasti d’Ovidio, Virgilio, Omero; Pico proprio allora era stato accolto nel gruppo dei filosofi fiorentini dopo la sua lettera d’omaggio a Lorenzo. Sui «ritratti degli umanisti» cfr. la nota in fine di capitolo. 32 m. wackernagel, Der Lebensraum ecc. cit., pp. 266-67; w. paatz, Kirchen, III, p. 577. 33 vasari, Vita di Giuliano da Sangallo, ed. Milanesi, IV, p. 274; m. wackernagel, Der Lebensraum ecc. cit., p. 267; g. marchini, Giuliano da Sangallo, Firenze 1942, pp. 32 sgg. 34 Diario di L. Landucci, ed. Firenze 1883, p. 58, citato in e. barfucci, Lorenzo de’ Medici ecc. cit., p. 268; cfr. su questo punto piú avanti. Alcuni hanno riferito al tempo di Lorenzo un progetto di palazzo mediceo in borgo Pinti, già sensibilmente classico, noto da un disegno un tempo attribuito a Giuliano (circa 1488) e in realtà di Antonio da Sangallo (dopo il 1512): cfr. g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., p. 101, e piú avanti, III, cap. IV. 35 guicciardini, Scritti scelti ed. L. Bonfigli, Firenze 1924, p. 7. Sulle fonti della storia di Lorenzo: a. renaudet, Laurent le Magnifique, in Hommes d’Etat, Paris 1937, vol. II pp. 415-507. 36 n. valori, Laurentii Medices Vita, ed. P. Mehus, Firenze 1749. 37 e. müntz, Les collections des Médicis au XVe siècle, Paris 1888. Sul tesoro di Lorenzo, cfr. w. holzhausen, Studien über den Schatz des Lorenzo il Magnifico im Museo degli argenti zu Florenz, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Instituts in Florenz», III (1929), 3. Lorenzo nutriva un particolare interesse per la miniatura e non risparmiava sforzi per arricchire la biblioteca di manoscritti miniati: nel 1490, alla morte di Mattia Corvino, si assicurò i manoscritti di Gherardo e Attavante che erano destinati al re: cfr. vasari, ed. Milanesi, III, p. 240. Sulla biblioteca dei Medici, cfr. piccolomini, Le vicende della libreria medicea, in «Archivio storico italiano», V (1892). Ma la miniatura non è certo il settore piú felice della pittura fiorentina. 38 c. von fabriczy, Medaillen der italienischen Renaissance, Leipzig s.d. 39 Cfr. piú avanti. 40 valori, Laurentii Medices Vita ecc. cit., p.46. 41 m. wackernagel, Der Lebensraum ecc. cit., p. 269; a. von reumont, Lorenzo de’ Medici ecc. cit., pp.150 sgg. 42 vasari, Vite (Vita del Sangallo), ed. Milanesi, vol. IV, p. 277. Agli anni 1491-92 viene assegnata la loggetta aggiunta sul fianco della villa di Careggi: cfr. G. marchini, Giuliano da Sangallo cit., p. 91. 43 luca pacioli, De divina proportione, ed. C. Winterberg, Wien 1889, pp. 148-49. 44 valori, Laurentii Medices Vita ecc. cit., p. 46. 45 a. chastel, Ambra, l’Altercation et les chansons de carnaval, Paris 1946, e piú avanti, pp. 234-36. Storia dell’arte Einaudi 55 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze vasari, ed. Milanesi, IV, pp. 256 sgg., VII, p. 141. Cfr. a. chastel, Vasari et la légende médicéenne: l’Ecole du jardin de Saint-Marc, in «Studi vasariani», Firenze 1950, pp. 159-67, e piú avanti, conclusione generale, iv. 47 All’inizio della Vita di Botticelli il Vasari parla dell’epoca di Lorenzo «che fu veramente per le persone d’ingegno secol d’oro...» 48 Questa teoria viene formulata, in particolare, all’inizio della Vita di Verrocchio (ed. Milanesi, p. 357) e il giudizio assai severo che vi compare viene attenuato nella seconda edizione. Altri passi significativi a proposito di Dürer, ibid., vol. V, p. 402 e (solo nell’edizione 1550) nella Vita di Vincenzo da San Gimignano, ibid., p. 55. Sull’intero problema, cfr. w. von obernitz, Vasaris allgemeine Kunstanschauungen auf dem Gebiete der Malerei, Strassburg 1897, pp. 101-3. 49 Questa professione di fede è illustrata da un pomposo verso dell’Alciati, di cui il Vasari si è valso piú volte nella sua carriera: cfr. Descrizione delle opere di Giorgio Vasari, nelle Vite, ed. C. L. Ragghianti, III, p. 717. 50 Qualche altro particolare si trova all’inizio del testo, IV, p. 256: «La loggia i viali e tutte le stanze erano adorne di buone figure antiche di marmo e di pitture e d’altre cose fatte di mano de migliori maestri che mai fussero stati in Italia e fuori». 51 w. roscoe, Life of Lorenzo ecc. cit., ed. it., Pisa 1799, IV, p. 30. 52 Cfr. e. müntz, Les précurseurs ecc. cit., pp. 204-9 e sopra. 53 k. frey, Michelagniolo Buonarroto: Sein Leben und seine Werke, I: Michelagniolos Jugendjahre, Berlin 1907, p. 45; c. de tolnay, The youth of Michelangelo, Princeton 1947, pp. 16-17; e. barfucci, Lorenzo de’ Medici ecc. cit., cap. V (Il giardino di San Marco) intende nel senso piú largo l’istituzione che finisce cosí per abbracciare tutta l’arte fiorentina. 54 k. frey, Michelagniolos Jugendjahre cit., p. 63: «la scuola d’arte appartiene agli ultimi anni di vita di Lorenzo, non all’ottavo decennio e tanto meno a un’epoca ancora anteriore». La lettera di Lorenzo al figlio Piero del 9 maggio 1490 non riguarda verosimilmente il giardino di San Marco, ma quello di via Larga; cfr. piú avanti. 55 k. frey, p. 64. 56 È l’opinione di C. L. Ragghianti, ed. delle Vite, IV, p. 404 n. 7. 57 Il Vasari si tradisce leggermente all’inizio della Vita di Giovanni Francesco Rustici (ed. C. L. Ragghianti, III, p. 249), quando riferisce l’amicizia tra il Rustici e Leonardo (attestata nel 1507) alla circostanza che erano stati insieme nella bottega del Verrocchio (benché il Rustici fosse nato nel 1474, cioè piú di vent’anni dopo Leonardo, e che il Verrocchio avesse lasciato Firenze intorno al 1485) e corona questo anacronismo con una affermazione dell’eccellenza di tutti coloro «i quali furono della scuola del giardino de’ Medici e favoriti del magnifico Lorenzo vecchio». 46 Storia dell’arte Einaudi 56 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze L’opera di w. von bode, Bertoldo und Lorenzo de’ Medici, Freiburg im Brisgau 1925, non reca chiarimenti. 59 Contrariamente a ciò che pensa k. frey, Michelagniolos Jugendjahre cit., pp. 74-75. 60 vasari, Vita di Mariotto Albertinelli, ed. Milanesi, IV, p. 218. Cfr. anche piú avanti, I, introduzione. 61 f. albertini, Memoriale di molte statue et picture nella città di Firenze, 1519, ed. Milanesi-Guasti, Firenze 1863, p. 10; c. de tolnay, The youth of Michelangelo cit., p. 263. La pianta del Bonsignori (1584) mostra ancora lo stato primitivo del «casino», ibid., tav. cxcviii. 62 L’esposizione di k. frey, Michelagniolos Jugendjahre cit., pp. 4849 giunge a negare la teoria vasariana per insistere invece su una visione complessiva del mecenatismo di Lorenzo. 63 Il saggio di G. Fiocco, La data di nascita di Francesco Granacci ed un’ipotesi michelangiolesca, in «Rivista d’arte», 1930, p. 193, anticipando al 1469 la data di nascita del Granacci permette di attribuire a quest’ultimo una maggior importanza nella formazione artistica di Michelangelo: il Granacci era stato il suo primo amico. Mal si comprende anche come s. bottari, Michelangelo, Catania 1941, che pur aderisce largamente alla versione neocondiviana del Fiocco, scriva per inciso che Bertoldo «come è noto sopraintendeva a quella – la denominazione non è impropria – Accademia» (p. 64). L’affermazione è ripetuta, anche qui di passata, da a. bertini, Michelangelo fino alla Sistina, Torino 1945, p.13. 64 c. de tolnay, The youth of Michelangelo cit., capp. III e IV, arriva alla conclusione che il Ghirlandaio non ha avuto grande influenza sul suo allievo e che l’accademia del giardino non era una scuola come le altre. Noi proponiamo una soluzione piú radicale. 65 Marsile Ficin et l’art cit., introduzione, p. 8. 66 Cfr. piú avanti. Il passo dell’Anonimo Magliabechiano relativo a Leonardo: «Stette da giovano col Magnifico Lorenzo, per se il faceva lavorare nel giardino sulla piazza di san Marco di Firenze» (la cosa dovrebbe risalire al 1480 circa, dopo l’acquisto del terreno e prima della partenza di Leonardo) non significa, come invece hanno creduto g. uzielli, Ricerche intorno a Leonardo da Vinci, I, Torino 1896, p. 365, e e. barfucci, Lorenzo de’ Medici ecc. cit., p. 209, che Leonardo sia stato ammesso (a 30 anni!) alla «Scuola del giardino», ma semplicemente che fu qui impiegato dal Magnifico, come era avvenuto per il Verrocchio, in lavori di restauro e sistemazione: k. frey, Michelagniolos Jugendjahre cit., p. 64. 67 n. valori, Laurentii Medices Vita ecc. cit., p. 46. 68 ficino, Opera, p. 244, citato in Marsile Ficin et l’art cit., p. 61. Cfr. piú avanti. 69 Cfr. piú avanti. 58 Storia dell’arte Einaudi 57 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze j. schnitzer, Savonarola, München 1924, p. 52; crinito, libro XV, cap. IX. 71 Tutto ciò è ottimamente chiarito da f. gilbert, Bernardo Rucellai and the Orti Oricellari (a study on the origin of the modern political thought), in «jwci» (1949), pp. 101-31. Cfr. anche r. von albertini, Das florentinische Staatsbewusstsein im Übergang von der Republik zum Prinzipat, Bern 1955, I, 4 (Die Orti Oricellari), pp. 74 sgg. 72 p. o. kristeller, Per la biografia di Marsilio Ficino, in «Civiltà moderna», X (1958), e id., Un uomo di stato e umanista fiorentino: Giovanni Corsi, in «Bibliofilia», xxxviii (1936), ripreso poi in Studies, 8 e 9. Un passo significativo del cap. IX ricorda: «Hic magnus ille Laurentius... quem Respublica Florentina Augustum, Maecenatem vero bonae artes expertae sunt» (Ecco il grande e famoso Lorenzo... che la Repubblica Fiorentina ha conosciuto come un nuovo Augusto, le arti belle come un nuovo Mecenate), e deplora le avverse condizioni del presente, in cui venuta meno la grande famiglia, «in nostra civitate pro disciplinis ac bonis artibus inscitia et ignorantia, pro liberalitate avaritia, pro modestia et continentia ambitio et luxuria dominantur» (nella nostra città anziché la disciplina e le arti belle dominano l’insipienza e l’ignoranza, anziché la liberalità l’avarizia, anziché la modestia e la continenza l’ambizione e la lussuria). 73 n. valori, Laurentii Medices Vita ecc. cit., p. 48. 74 vasari, Vita del Pontormo, ed. Milanesi, XI, p. 34; ed. C. L. Ragghianti, III, p. 45; f.-t. perrens, Histoire de Florence ecc. cit., III, pp. 35-36; i. del lungo, Carnasciale postumo, in Florentia, Firenze 1897, pp. 415-21. L’entrata di Leone X a Firenze suscitò l’entusiasmo del vecchio Landucci: cfr. perrens, Histoire de Florence ecc. cit., III, 54; l’avvenimento sarà rappresentato dal Vasari in palazzo Vecchio fra le date fauste della storia medicea: cfr. Ragionamenti, II, 3. 75 a. lesen, Leone X e l’Accademia Sacra Florentina. La reazione contro il neopaganesimo umanistico, in «Convivium», 1931-33, pp. 232-46; p. o. kristeller, Studies, pp. 301 sgg., con nuovi documenti su questa accademia, pp. 328 sgg. 76 Ulteriori indicazioni si troveranno nella conclusione generale, iv. Come aveva fatto per Lorenzo de’ Medici, w. roscoe ha narrato The Life and Pontificate of Leo the Tenth, Liverpool 1805, 2ª ed. Heidelberg 1828, ampliando oltre misura l’importanza del mecenate per giustificare la formula, divenuta classica dopo Voltaire, di «secolo di Leone X». Lo storico inglese ha avuto almeno il merito di raccogliere una mole imponente di documenti di cui non sempre chi è venuto dopo ha saputo servirsi. Il tema del «grande pontificato» è stato preso come sfondo per narrazioni facili come quella di e. rodocanachi, Rome au temps de Jules II et de Léon X, Paris 1911. Lavori piú rigorosi, come 70 Storia dell’arte Einaudi 58 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze quello di d. gnoli, La Roma di Leone X, Milano 1938, permettono di ridurre sensibilmente la portata degli elogi enfatici che hanno accompagnato Leone X nel Cinquecento. L’elogio rivoltogli da Erasmo nel 1515 non è dei meno significativi: «sensit illico mundus gubernaculis admotum repente saeculum illud plusquam ferreum in aurum versum...» (Epist., II, n. 534, ed. Allen, p. 479). Storia dell’arte Einaudi 59 Parte prima Artisti e umanisti Sezione prima le collezioni Introduzione Le incertezze del museo fiorentino Donatello, morto nel 1466, fu, secondo la tradizione, il creatore del Museo Mediceo, di cui Bertoldo avrebbe assunto la direzione sotto Lorenzo. Il Vasari ci presenta Donatello come un competente in fatto d’arte antica e aggiunge: E tanto piú merita commendazione, quanto nel tempo suo le antichità non erano scoperte sopra la terra, dalle colonne, i pili, e gli archi trionfali in fuora. Ed egli fu potissima cagione che a Cosimo de’ Medici si destasse la volontà dell’introdurre a Fiorenza le antichità che sono ed erano in casa Medici; le quali tutte di sua mano acconciò1. L’informazione è preziosa. Donatello è dunque fra coloro che hanno organizzato, per conto dei magnati fiorentini, la caccia alle opere antiche e il loro restauro. Questo movimento avrebbe contribuito in mezzo secolo a trasformare radicalmente l’orizzonte culturale. Ma a Firenze la cosa non era del tutto semplice. La città non ha mai avuto rovine paragonabili nemmeno lontanamente a quelle di Roma: in riva al Tevere le vestigia del passato escono dalla terra stessa, in riva all’Arno sono frutto della curiosità, occorre scoprirle, portarle qui, oppure immaginarle. Sulla metà del secolo xv erano parecchie, come oggi del resto, le vie di accesso alle arti dell’antichità e parec- Storia dell’arte Einaudi 60 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze chie erano anche le forme di museo. Anzitutto c’era il «museo naturale» costituito da tutti i resti che si trovavano in situ: sarcofagi che servivano da fontana, rilievi incastonati nei muri, resti di muratura e frammenti di tutti i generi, ancora mescolati alla vita quotidiana; c’era poi il «museo privato» cioè quello dei palazzi, i quali possedevano oggetti minuti, statue o bronzi, e piú ancora delle chiese, nelle quali i «tesori» comprendevano, insieme a curiosità di tutti i tipi, vasellame, oreficeria e anche pezzi antichi; infine c’era un «museo ideale» fondato sull’immagine e costituito dalle rappresentazioni del mondo antico, dalle descrizioni dei libri, dagli elenchi di mirabilia, dai ricordi leggendari e (si tratta di una novità introdotta dal Quattrocento) dalle raccolte di disegni e di rilievi architettonici. È impossibile analizzare i rapporti del Rinascimento con l’arte antica senza tener conto di questi tre settori distinti: nel primo le opere sono misconosciute, logore, ma anche pubbliche e familiari; nel secondo si spiegano con la ricchezza e le tradizioni costituite; nel terzo esse sono alla mercè di tutti i movimenti della fantasia e dell’immagine che ci si fa del mondo. Agli inizi del secolo l’equilibrio tra questi tre «musei» era vincolato, anche in Italia, alle energiche semplificazioni dell’epoca gotica. Nello spazio di due generazioni le abitudini mutano profondamente: i resti in situ vengono considerati piú attentamente, i «tesori» privati sono sensibilmente cresciuti, la mappa ideale di queste opere che ora si citano, si disegnano, è in pieno sviluppo2. Tuttavia il rapporto dei tre elementi rimane molto mutevole. Roma è il campo di rovine piú imponente; i resti piú interessanti raccolti in collezioni o conservati nei «tesori» si trovano invece nell’Italia settentrionale, soprattutto a Padova e Venezia, che per tutto il secolo saranno i centri del mercato artistico. Firenze, infine, risvegliata dai maestri dell’umanesimo e disponendo di una Storia dell’arte Einaudi 61 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze cultura letteraria avvertita, spicca per l’ampiezza delle rappresentazioni storiche, piú che per la sua disponibilità di oggetti. I pochi frammenti visibili per le strade e i pezzi che si trovano in collezione privata sono poca cosa rispetto agli elementi già molto ricchi di cui dispone la cultura letteraria e storica. Cosí un patrizio come Giovanni Rucellai è a Roma che scopre veramente, nel 1450, il mondo delle arti e registra su un suo taccuino le sue scoperte per le strade e nei palazzi3. Sin dal suo primo soggiorno, nel 1465, Giuliano da Sangallo inizia una campagna di rilievi dei monumenti antichi che verranno a costituire una vera e propria raccolta, senza confronto in Toscana. Tuttavia i fiorentini non sempre ammettono di buon grado questa situazione d’inferiorità. A proposito di un allievo di Raffaello, Vincenzo da San Gimignano, il Vasari si abbandonerà a un elogio entusiasta di Roma: l’atmosfera eccezionale della città, egli dice, risulta da queste rovine che, nonostante tutto, sono sopravvissute al tempo e al fuoco4. Ma nella seconda edizione della sua opera riterrà opportuno sopprimere questa osservazione non gradita ai toscani. Da tempo costoro volentieri s’ingegnavano a dimostrare che Firenze possedeva tutte le rovine che si potevano desiderare e i cronisti ripetevano che essa non era in nulla inferiore a Roma. Il Cellini lo ricorda, con una punta d’ironia, all’inizio delle sue Memorie: i nostri vecchi fiorentini, dice, ad esempio Giovanni Villani, scrivono che Firenze è fatta ad imitazione di Roma, con rovine di terme vicino a Santa Croce, un Campidoglio dove ora si trova il Mercato vecchio; la rotonda del Pantheon sopravvive nel tempio di Marte, cioè il nostro San Giovanni. Tutto questo, conclude, è ottimo e vero, ma questi edifici sono parecchio inferiori a quelli di Roma. Agli inizi del Cinquecento un fiorentino, l’Albertini, aveva compilato una piccola guida artistica di Roma, ma subito dopo aveva pubblicato una piccola guida della sua città nata- Storia dell’arte Einaudi 62 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze le come se fosse preoccupato di non lasciare tutto il vantaggio alla Città eterna5. Dai rilievi incastonati nei muri del Camposanto e della Cattedrale di Pisa il Vasari ha fatto nascere tutta un’epoca dell’arte moderna, quella iniziata, secondo lui, da Nicola Pisano6. Ci si sorprende che non abbia assegnato una funzione analoga alle tombe e ai sepolcri marmorei che circondavano il Battistero di San Giovanni e che eran stati rimossi per ordine di Arnolfo nel 1293 (o 1296): eppure tre di questi almeno erano d’origine paleocristiana e romana e hanno sempre attirato l’attenzione degli eruditi toscani7. Si suppliva all’assenza di architetture antiche, di templi, di archi di trionfo, con uno sforzo d’immaginazione: tradizioni di comodo (diffuse da Giovanni Villani nel 1400 e riprese da umanisti come Matteo Palmieri o il Poliziano) facevano risalire il Battistero e San Miniato a date inverosimilmente remote: il primo diventava un tempio di Marte innalzato all’epoca di Augusto e passato al culto di san Giovanni al tempo di Costantino8; primo germe del secondo monumento sarebbe stata una cappella innalzata già nel 62 in onore di san Pietro, addirittura prima del martirio di san Miniato (avvenuto nel 250), che forse ha dato origine a una fondazione precarolingia9. O ancora ci si appoggiava a immaginarie fondazioni carolinge (come quella della chiesa dei Santi Apostoli che si faceva risalire all’805), per dedurne, quasi senza fratture, la trasmissione della «buona architettura» dall’impero al medioevo fiorentino. Questa favola è sostenuta dal Villani. Il Vasari ne approfitterà per contrapporre all’architettura lombarda, da lui considerata corrotta, la «buona maniera» di questo edificio. La leggenda per lui dimostrerà che in Toscana erano rimasti alcuni buoni artisti o che vi erano resuscitati. L’autore della Vita di Brunelleschi (circa 1480) era già cosí convinto di questa tradizione che per lui l’architetto dei Santi Apostoli era venuto da Roma: Storia dell’arte Einaudi 63 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze in questo modo riusciva facile capire perché l’edificio avesse avuto tanta importanza per il Brunelleschi. Già Coluccio Salutati, nel 1403, era partito dalla scoperta di reliquie e documenti carolingi trovati nella chiesa per arrivare ad affermare che Firenze era la vera erede di Roma10. Nel Quattrocento tutti gli spiriti colti di Firenze condividevano questa illusione, sulla quale si diffondevano volentieri anche le narrazioni popolari. Essa d’altronde non escludeva la convinzione che Firenze avesse avuto nel medioevo e occupasse nella «rinascita» una posizione indipendente dalle tradizioni propriamente romane11. Si pretendeva dunque uguagliare l’Urbs imperiale e nello stesso tempo si prestava nuova attenzione alle origini etrusche e alle rovine originali della provincia12. Nel Quattrocento gli umanisti sono tutti un po’ collezionisti e non c’è studio che non si adorni di qualche statuetta, di qualche medaglia. Le testimonianze sono numerose. Vespasiano da Bisticci descrive il grazioso gabinetto di antichità del Niccoli e Poggio i busti mutili della sua villa Valderiniana. Cosimo svilupperà la sua galleria dopo il 1440. In realtà però tutti questi amatori fiorentini sono alquanto in ritardo rispetto alle città a nord degli Appennini; dipendono il piú delle volte dai mercanti dell’Adriatico o da intermediari bizantini. Poggio espone in una celebre lettera la sua diffidenza per le attribuzioni erronee dei graeculi; attende perciò i risultati della missione nel Levante di un minorita di Pistoia. La forza di Donatello starà non solo nell’aver esplorato direttamente le rovine e le possibilità offerte da Roma, ma anche nell’essere in rapporto con la zona di Ancona-Rimini-Padova dove il mercato degli oggetti d’arte era fiorente e dove aveva raccolto piú di una informazione utile13. Il Filarete citerà delle statue da lui viste intorno al 1435 presso Donatello e il Ghiberti; ma le botteghe meglio fornite sono quelle della pianura pada- Storia dell’arte Einaudi 64 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze na. Intorno al 1440-50 lo Squarcione prevede l’utilizzazione dei pezzi antichi e li raccoglie in vista di ciò; Gentile Bellini possiede delle vedute di Roma e dei frammenti di scultura greca e romana, una Venere, un busto di Platone. Il viaggiatore Ciriaco d’Ancona già ricordava, tra le collezioni serie, quella di un certo medico Pietro e quella di Benedetto Dandolo a Venezia. Felice Feliciano di Verona, amico del Mantegna, di Giovanni Bellini, dello Zoppo, era già dal 1460 un esperto di antichità e un epigrafista che avrebbe aperto la strada all’illustre fra Giocondo14. L’interesse archeologico, d’altronde, non andava distinto (e forse non lo è mai stato) dal culto delle mirabilia antiquitatis. Già per Poggio e il Niccoli ogni oggetto era un simbolo: un vaso, una statuetta, una moneta con l’effige imperiale avevano per loro il valore di talismani e servivano come punti d’appoggio per l’immaginazione. Le cose che contano a Firenze, come nelle città dell’Italia del Nord, sono la glittica, le piccole sculture, la ceramica. S’insiste soprattutto sul loro aspetto prezioso. Negli inventari medicei sono registrati uno a uno, ed esattamente valutati, dei vasi di origine ellenistica o sassanide, i cammei, gli intagli antichi, le medaglie, ma non i pezzi di scultura15. Questi erano riuniti senza essere inventariati in «giardini» circondati da portici; i piú forniti di questi giardini erano, come si è detto, quello all’altezza di piazza San Marco e quello sul retro del palazzo di via Larga. In questo si vedevano, racconterà il Vasari, quadretti di mezzo rilievo che erano sotto la loggia nel giardino di verso San Lorenzo; che in uno è Adone con un cane bellissimo, ed in un altro duoi ignudi, un che siede ed ha a’ piedi un cane, l’altro è ritto con le gambe sopraposte che s’appoggia ad un bastone, che sono miracolosi: e parimente due altri di simil grandezza, in uno de’ quali sono due Storia dell’arte Einaudi 65 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze putti che portano il fulmine di Giove, nell’altro è uno ignudo vecchio, fatto per l’occasione, che ha le ali sopra le spalle ed a’ piedi, ponderando con le mani un par di bilance. Ed oltre a questi, era quel giardino tutto pieno di torsi di femmine e maschi, che erano non solo lo studio di Mariotto, ma di tutti gli scultori e pittori del suo tempo; che una buona parte vi è oggi nella guardaroba del duca Cosimo, ed un’altra nel medesimo luogo, come i dua torsi di Marsia, e le teste sopra le finestre, e quelle degl’imperatori sopra le porte16. La data d’ingresso di tutti questi pezzi non è nota: alcuni risalivano all’epoca di Cosimo, la maggior parte al tempo di Lorenzo. Il primo esempio caratteristico di studio-museo era stato quello della casa del Mantegna a Mantova. La casa, costruita tra il 1466 e il 1473 da Giovanni da Padova su precise indicazioni del pittore, nel quartiere di San Sebastiano, non sembra in realtà esser stata l’abitazione del Mantegna, ma invece il suo luogo di lavoro e la sua galleria personale. La casa resterà celebre per il suo nobile aspetto; ed è significativo che sopra la porta centrale del cortile recasse l’iscrizione ab Olympo, divisa dei Gonzaga; che qui diviene l’insegna di un museo17. È un veneziano, Pietro Barbo, divenuto papa col nome di Paolo II (1464-71), che nello stesso momento concepisce la sua fortezza romana, il palazzo Venezia, ai piedi del Campidoglio, come un museo di grandi proporzioni. L’esempio sarà decisivo per il giovane Lorenzo de’ Medici che farà di tutto, alla morte del papa, per assicurarsi i pezzi di maggior pregio della sua raccolta18. I depositi di marmi di Lorenzo svilupperanno invece, intorno al 1480-90, un’altra formula: quella del museo all’aperto con portico. La terza formula sarà, dopo il 1502, quella messa in atto nel cortile del Belvedere in Vaticano, dove un intero cortile è organizzato Storia dell’arte Einaudi 66 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze in modo da servire da giardino delle Muse. In seguito il giardino-museo conobbe a Roma e in tutto l’Occidente la voga irresistibile che si sa19. Però quest’idea di un luogo di riposo e di piacere, animato da opere antiche, si era venuta definendo nel corso del Cinquecento e, in parte, per merito dei fiorentini. In essa venivano a confluire la galleria, il gabinetto di studio dell’umanista, il giardino disegnato a terrazze adorne da busti e figure storiche. Le ville suburbane erano delle succursali naturali del Museo. A Careggi, a Fiesole, a Poggio a Caiano i pezzi antichi dovevano nobilitare la decorazione; come un po’ piú tardi avverrà negli «Orti Oricellari», alle porte di Firenze, dove furono raccolti molti dei pezzi medicei dispersi nel 149420. La posizione dei fiorentini era piú originale ancora per quanto riguarda l’illustrazione grafica delle cose antiche, e quello che si può chiamare il «museo ideale» del Rinascimento. Nelle città dell’Est e del Nord si era diffusa a una data precoce quella visione pittoresca, tormentata, ingegnosa e spesso sovraccarica che avrebbe portato alle illustrazioni della Hypnerotomachia Políphili (1499), illustrazioni, come sappiamo, piene di rovine, geroglifici e templi misteriosi. Il Mantegna dilatava con tutte le sue forze la lezione dello Squarcione. Giovanni Marcanova, l’amico del Feliciano, componeva nel 1465 il suo De antiquitatibus. Si tratta insomma di un’archeologia romantica come piú non si potrebbe: essa trasforma i luoghi celebri in scenari fantastici, metamorfosa in maghi dalla gran toga e in profili di guerrieri simili a oreficerie le figure illustri della storia. Le raccolte di disegni lasciate da Ciriaco d’Ancona alimentano questa moda del pittoresco e del meraviglioso che dilaga nelle province settentrionali e si rispecchierà nelle architetture dell’Amadeo e del primo Bramante21. I fiorentini l’hanno conosciuta, ma ancora strettamente legata alle forme pseudo-gotiche, con la Cronaca Storia dell’arte Einaudi 67 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze universale del Finiguerra (circa 1460). Non vi si avverte alcuna curiosità archeologica, e invece un gusto del lambiccato ben diverso dalle invenzioni già familiari a Verona e Padova. I disegni del lascito di Ciriaco saranno conosciuti, in parte, grazie alla raccolta epigrafica di Bartolomeo Fonzio (poco dopo il 1489) che li ha copiati; altri sono stati utilizzati da Giuliano da Sangallo. Questi si trova al centro di tutto il serio lavoro di documentazione iconografica che viene compiuto a Firenze dopo il 1475 o 1480, e delle prime raccolte epigrafiche. Questo movimento coinvolge pittori come Filippino Lippi, che si specializzerà negli accessori fatti d’«anticaglie», e il Ghirlandaio che, ad esempio, nell’Epifania per la cappella Sassetti a Santa Trinita (1485) introduce la curiosa iscrizione lapidaria dell’augure22. Ma anche se a queste rievocazioni episodiche aggiungiamo l’impegno parallelo degli scultori che ricreano figure di divinità o di eroi antichi, il «museo ideale» dei fiorentini rimane povero ed incerto rispetto alle intrepide visioni romane del Mantegna. L’informazione concreta è ineguale, approssimativa. L’esattezza ha meno importanza dello stile con cui l’antico viene interpretato, stile che è veemente nel Pollaiolo, aggraziato e ancor meno fedele nel Botticelli. Le tipologie antiche entrano in un mondo di forme che è del tutto autonomo rispetto all’arte antica. Questo stato di cose corrisponde del resto all’originale situazione della città che è povera di opere del passato e ricca di immagini poetiche e di descrizioni, nelle quali cultura letteraria e cultura archeologica non combaciano. È possibile quindi prevedere due fenomeni che saranno, se non esclusivi di Firenze, per lo meno particolarmente evidenti nella città del Magnifico. Da un lato cioè l’ambiente umanistico avrebbe finito per valorizzare il Museo Mediceo ed esaltarne l’importanza oltre il giusto. Esso ha avuto per gli artisti un peso che può sorprendere oggi. D’altra parte Storia dell’arte Einaudi 68 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze la generosa produzione filosofica e poetica suscitata dal movimento di Careggi avrebbe creato un clima propizio alle ricostruzioni immaginarie, alle immagini composite, all’interpretazione non-classica degli dei e degli eroi antichi, cioè a quelle che sono state chiamate le «pseudo-morfosi»23. Tuttavia anche queste fantasie meritano di essere interpretate; e lo si può fare tenendo presenti le idee proprie dell’ambiente umanistico. Storia dell’arte Einaudi 69 Capitolo primo Il medaglione del «carro dell’anima» L’arte funeraria si presta ad esprimere un’infinità di cose. Le successive trasformazioni della tomba parietale ad ordini sovrapposti, che intervengono nella seconda metà del Quattrocento, non segnano appena con esattezza l’evoluzione dello stile; i grandi sepolcri ci rivelano l’atteggiamento verso la condizione umana e la morte nei suoi aspetti piú tipici24. La tomba di Leonardo Bruni, eretta da Bernardo Rossellino a Santa Croce (1445), fu intesa come una manifestazione di grande importanza: anziché una sorta di cappella, essa ci presenta un portale a pieno sesto il cui arco posa su pilastri corinzi. L’unico tema tradizionale è rappresentato dal medaglione della Madonna che occupa il timpano sotto l’arco, al di sopra del defunto. Coronato di lauro, questi non tiene le mani giunte, le tiene invece incrociate sul libro. Il catafalco, sostenuto da aquile, poggia su un sarcofago antico, preciso, duro, sul quale è inciso l’epitaffio retto da due geni alati. La struttura e la fredda dignità del monumento esprimono ed esaltano il carattere del defunto, di cui d’altronde si sapeva che aveva fatto dell’ironia su coloro che, come B. Aragazzi, si preoccupavano troppo della loro tomba. Il Bruni era l’incarnazione del saggio consapevole in misura eccezionale della «virtú» stoica e della civica rettitudine. Quarant’anni dopo Pico e il Ficino ancora lo ricordano come il prototipo del Saggio. Il suo biografo, Vespasia- Storia dell’arte Einaudi 70 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze no da Bisticci, parla della sua lunga cappa e del suo incedere pieno di «grandissima gravità». Il fatto che il Bruni abbia pubblicato la grande Historia fiorentina del secolo xv, spiega la sua popolarità; sulla sua effige funeraria non è stato dimenticato il libro che onorava la città. Ma nello stesso tempo il Rossellino, ispirato da questa originale personalità, ha riscoperto il motivo dei sarcofagi antichi e paleocristiani, nei quali il libro sta a significare l’immortalità assicurata dalla cultura, come l’iscrizione del sarcofago mette in evidenza. L’«eroicizzazione» in senso umanistico porta a una commemorazione che non è piú quella della santità cristiana, che non è in nessun modo l’esaltazione dei meriti terreni e «pagani», ma l’elogio della personalità spirituale che comprende insieme l’ordine profano e quello religioso della vita umana25. Nei monumenti funebri vedremo dunque tutta una serie di rappresentazioni il cui soggetto sarà l’eroicizzazione dell’anima e il suo doppio destino. La tappa piú significativa è costituita dal monumento funebre del cardinale Giacomo di Lusitania, nipote del re Alfonso di Portogallo, scolpito, a partire dal 1459, da Antonio Rossellino a San Miniato. Si tratta di un mausoleo; il monumento occupa uno dei bracci laterali della cappella a croce greca edificata da Antonio Manetti, che rappresenta uno dei primi esempi di pianta centrale schietta che si abbiano nel Quattrocento. La decorazione è lussuosa: comprende medaglioni e dipinti celebri. I rossi e i verdi del serpentino e del porfido che coprono i muri, assicurano all’insieme eccezionale unità e raffinatezza. Nella tomba, a destra, non si ritrova l’esatta inquadratura del monumento Bruni: un grande velario si dischiude al sommo dell’arcata, il tondo con la Madonna, sostenuto da due angioli, rimane sospeso, senza elementi di supporto. Due altre figure d’angeli poste alle estremità della composizione quasi sembrano Storia dell’arte Einaudi 71 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze non aver peso, come se fossero coinvolti in un movimento rotatorio e destinati a gravitare intorno alla figura della Madonna. Non è la struttura che conta, ma la fluidità e l’animazione delle forme. Particolare importanza ha il colore: una splendida lastra di alabastro color miele serve di collegamento tra l’ordine superiore, dove figura la visione «mistica», e l’ordine inferiore dove il catafalco posa su un immenso sarcofago26. Il disegno di questo è stato ripreso dalla tazza di porfido che si vedeva ancora nel Cinquecento davanti al Pantheon a Roma27. Sulla fascia frontale e sui lati dello zoccolo, sui pilastri dei montanti si moltiplicano dei minuti motivi a rilievo leggero, di uno stile grazioso, «ellenistico», che rappresentano uno dei repertori piú completi di decorazione funebre: candelabri con fiamme, vasi, sfingi, geni alati con la cornucopia, ghirlande che chiaramente derivano dall’arte romana28. Tra questi motivi appaiono anche scene allegoriche: sulla stessa base, a sinistra, una palma affiancata da una scena di tauroctonia, a destra, un’altra palma accanto a un genio alato su una biga; il sacrificio pagano e il carro allegorico. L’occasione che ha suggerito l’impiego di questi motivi è degna di nota. Il giovane cardinale era una figura virginale e pura: i suoi ammiratori volevano far celebrare degnamente da un umanista hunc sanctissimum virum et quasi virtutum domicilium. È lecito supporre che lo stesso criterio ispiratore abbia presieduto alla costruzione della sua tomba29. Il Vasari mostra un’ammirazione particolare per gli angeli della tomba e precisa: «Di questi, l’uno tiene la corona della verginità di quel cardinale, il quale si dice che morí vergine; l’altro, la palma della vittoria che egli acquistò contra il mondo». Sullo zoccolo liocorni affrontati insistono su questo tema centrale della purezza dell’animo, tema sviluppato poi dal taurobolo e dall’auriga, che simboleggiano l’uno la vittoria sulle passioni, l’al- Storia dell’arte Einaudi 72 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze tro l’ascesa dell’anima30. I due soggetti derivano dall’arte funeraria romana; il Rossellino ha potuto vederli su sarcofagi31, il che non esclude per altro l’utilizzazione d’un cammeo o d’una pietra incisa, oggetti su cui entrambe le scene sono abbastanza frequenti. Ce n’erano parecchi di questo tipo nelle raccolte medicee, almeno nel 1471 e probabilmente anche prima32. Piú difficile dire come siano stati intesi: il taurobolo può essere stato preso piú che per un’immagine di culto pagana, per un Ercole che abbatte il mostro di Creta, aneddoto che si presta a essere trasformato in analogia morale. Tuttavia la derivazione antica è chiara e l’auriga sull’altra faccia non deve essere una rappresentazione del carro d’Elia. Questo motivo si trova nei rilievi funerari del iv e v secolo a significare la Resurrezione33; indubbiamente il carro è qui decorato con un motivo di fiamme, come il carro del profeta, ma il tipo dell’auriga è vicino a quello degli Eroti ad ali aperte che si vedono sui carri comuni nell’arte ellenistica, e che appaiono numerosi anche nei rilievi funerari. Associato a un rito purificatorio, ha potuto essere considerato come un’immagine dell’anima forse anche per analogia con la celebre allegoria del Fedro. Il problema è tanto piú importante in quanto ci sono almeno due altre opere contemporanee nelle quali questo tema ha una sua importanza e in quanto se ne trovano dopo il 1460 moltissime imitazioni nelle placchette e nelle medaglie34. La sensibilità fiorentina si trasformava. Le favole platoniche non erano piú ignorate: il Landino era stato nominato professore nello Studio nel 1458. Nel 1459 Cosimo chiamava presso di sé il Ficino col compito di tradurre tutto Platone e di commentargli il Filebo: cioè la dottrina dei «misteri ermetici» e dei miti antichi di salvazione l’attirava prima d’ogni altra cosa35. Nel platonismo si ricercava la dottrina dell’anima e della sua vocazione attraverso i tormenti delle passioni e dei Storia dell’arte Einaudi 73 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze mutamenti terrestri. Il Landino compone un De anima, il Ficino un De voluptate che esprime l’aspirazione incontenibile dell’anima alla felicità assoluta; e l’umanesimo fiorentino, per queste preoccupazioni, assumerà un’inflessione nuova, piú sensibile, piú speculativa, dominata dall’affermazione dell’immortalità e della trasfigurazione promessa dopo la morte, che spiriti privilegiati possono sperimentare già in questo mondo. Il «carro dell’anima» sembra quanto mai adatto a simboleggiare questa vocazione superiore: è come l’emblema del suo slancio e della sua forza. Intorno al 1460 comincia a diventare un luogo comune lo schema plotiniano delle «virtú» che si ritrova nel Palmieri, nel Foresi, nel Trionfo delle Virtú (1461), composto in onore di Cosimo, e nel Ficino stesso, che colloca gli atteggiamenti contemplativi al vertice dei valori spirituali. Di contro alla tomba Bruni, quella del giovane cardinale si ispira interamente a questo orientamento. Questi elementi però non bastano certo a spiegare la comparsa del «carro dell’anima»: spiegano solo in quale clima il Rossellino abbia scolpito il suo singolare rilievo in omaggio a un’«anima bella». Lo stesso tema aveva già attratto l’attenzione dello scultore piú sensibile ai simboli umanistici, Agostino di Duccio. In un rilievo appena accennato, di Madonna, che si deve datare agli ultimi anni del cantiere del Tempio Malatestiano (1454-55), il Bambino porta al collo un grosso medaglione tondo che rappresenta un carro con tutti i suoi finimenti guidato da un genio alato. Gli elementi trionfali abbondano: uno degli angeli assistenti regge con la sinistra una corona di lauro e con l’altra mano un vaso adorno delle palme della vittoria. È possibile che si tratti qui del motivo della Vittoria sulla quadriga, utilizzato come simbolo trionfale36, e che il motivo derivi da una moneta anziché da un cammeo o da un rilievo. Rimane tuttavia da chiedersi in quale misura il tema muti valore mutando l’insieme in cui è inserito: gli Storia dell’arte Einaudi 74 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze angeli e le palme, e quindi il medaglione, rappresentano qui, come a San Miniato, la «vittoria sulle passioni del mondo», e la superiore vocazione dell’anima. Si ritrova cosí l’idea cristiana. Tuttavia l’inserimento di un tema pagano in un’immagine devota raramente è stato piú palese37. Un terzo esempio lo abbiamo nel celebre busto in bronzo del Bargello, che rappresenta un giovane dal bel viso ovale, col petto nudo adorno di un cammeo: su di questo si vede una biga guidata da un genio alato, che mostra chiaramente di derivare dallo stesso modello da cui è stata tratta la biga di San Miniato. Una superficiale parentela tra questo viso tranquillo e il volto del David bronzeo (circa 1440) ha potuto suggerire l’attribuzione a Donatello. In realtà il giovane dal cammeo ha qualche cosa di prezioso, di riservato, che mal si accorda con la fierezza e la franchezza proprie delle figure donatelliane. Analizzando accuratamente le forme (ad esempio a confronto con quelle del busto-reliquiario di San Rossore) certi elementi come gli occhi a mandorla, l’esecuzione dei capelli e della bocca vengono a confermare questa impressione38. C’è nell’opera una sorta di freddezza classica, che difficilmente può trovar posto nella carriera di Donatello, né nel periodo 1430-40 cioè all’epoca della cantoria, né nel periodo padovano, cioè all’epoca del Gattamelata, e meno che mai nel 1460 all’epoca dei pulpiti di San Lorenzo. Tuttavia poiché il tema figura nella tomba di San Miniato, è intorno a questo anno che si deve datarlo, non prima. Se il busto dal cammeo risalisse all’epoca di Leonardo Bruni e del concilio di Firenze39, come mai il tema, che dopo il 1460 ha avuto un notevole successo, avrebbe dovuto attendere tanto prima di essere imitato? Il busto deve dunque essere tolto dal catalogo di Donatello e datato invece agli anni 1460-80, data alla quale risulta meglio comprensibile il suo stile indubbiamente ricercato. Si dovrebbe pensare Storia dell’arte Einaudi 75 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze a Desiderio o Mino da Fiesole, se la delicatezza dei due artisti si fosse espressa in altre materie oltre al marmo. Forse ci troviamo di fronte a Bertoldo40. Questo giovane eroe è un contemporaneo del Ficino, dei suoi trattatelli e delle sue conferenze platoniche. La coincidenza aiuta forse a spiegare perché, imitando i reliquiari medievali, nei quali non mancava mai il posto per una pietra incisa o una reliquia, il bronzista abbia trasposto in metallo, ingrandendolo, un medaglione antico che rappresenta per l’appunto la biga guidata da un genio alato. L’immagine non è stata, in questo caso, scelta appunto per la sua doppia risonanza platonica, cioè la definizione dell’anima e la potenza d’Eros, «custode dei bei giovani», celebrato in una forma «sportiva e mitica»? Il passaggio corrispondente del Fedro è stato ampiamente citato e commentato dal Ficino nel 1475 nel suo Convito: «Platone... la Mente data alle cose divine chiama nell’Anima Auriga, che vuol dire guidatore del carro dell’Anima. La unità dell’Anima chiama capo dell’Auriga. La ragione... il buon cavallo; la fantasia confusa, e l’appetito de’ sensi, chiama il cavallo cattivo. E la natura di tutta l’Anima chiama carro... Attribuisce due ali». E ciò in un contesto in cui non si tratta che della potenza nobilitante dell’amore. E l’anima-auriga appare in forma ancora piú decisa nel passo che precede la traduzione del secondo libro delle Leggi dove il Ficino riassume la «paideia» platonica41. È stato osservato che sul cammeo dello pseudo-Donatello i due cavalli della biga sono nettamente diversi42. Lo stile del busto è in accordo con questa ispirazione: la forma stessa, l’ovale pieno, le labbra decise, l’aspetto calmo e misurato del viso mirano a definire un tipo umano. La figura di questo giovane incarna in qualche modo l’ideale proclamato dall’emblema che reca sul petto. Ci troviamo quindi di fronte a un’incidenza precisa della speculazione neoplatonica sull’arte fiorentina. Storia dell’arte Einaudi 76 Capitolo secondo I medaglioni di palazzo Medici e la corniola di Cosimo Il palazzo Medici di via Larga fu fatto costruire da Cosimo a partire dal 1444 nello stesso tempo che in via della Vigna si costruiva il palazzo dei Rucellai. Di contro all’Alberti, che introdusse la distribuzione classica, Michelozzo rimase fedele alla tradizione del palazzo a bugnato, fortemente scandito dalle cornici orizzontali e dal cornicione, ma tentò una composizione nuova nel cortile interno, cortile concepito risolutamente per la prima volta come una sorta di chiostro a destinazione profana. Il cortile è scandito in tre ordini: in alto una loggia aperta, un piano con finestre bifore, un pianterreno dove si ha un portico quadrato con tre archi di tipo brunelleschiano per ogni lato. Una larga fascia corre al di sopra di questi archi e serve d’appoggio alla base delle finestre; in corrispondenza dell’asse di ognuna di queste il fregio è adorno di un tondo scolpito. I tondi al centro di ognuno dei lati sono decorati con uno stemma mediceo, gli altri sono ornati di scene e presentano temi classici che si succedono come nella piantina che segue. Vi è stata a lungo incertezza sulla data e l’autore di queste composizioni mitologiche. Poiché Michelozzo aveva spesso collaborato con Donatello, si sono attribuite a lui; la scelta dei temi sembrava potersi facilmente spiegare con le conoscenze dell’artista, esperto in anti- Storia dell’arte Einaudi 77 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze caglie. In realtà i medaglioni sono di una esecuzione sciatta, che non ha nulla a che vedere con l’arte di Donatello; gli si possono attribuire con ancor meno probabilità che il busto del Bargello. Il nome dello scultore Maso di Bartolomeo (o Masaccio), che ricorre nelle liste dei pagamenti del 1452, ha indotto ad attribuire a questo artista l’insieme. Però questa attribuzione e la data 1452 non sono in ultima analisi molto sicure; si tratta in realtà, nei pagamenti, di disegni forniti per una decorazione a «sgraffito», cioè a monocromo, e di «teste disegnate che sono nel fregio sopra le colonne del cortile»43. Se la fascia in origine era dipinta i medaglioni sono da assegnare ad un rifacimento posteriore44. Tardiva o meno la comparsa di questi medaglioni decorativi presenta un suo interesse. Il tema al centro di ogni lato, dove compaiono le armi medicee, viene a codificare l’uso di ostentare lo stemma di famiglia. I tondi che l’accompagnano riempiono efficacemente la larga fascia; nell’uso stabilito dal Brunelleschi nel loggiato degli Innocenti (dal 1419 in poi), che verrà riecheggiato da Benedetto da Maiano nel palazzo Pazzi (1462-1470), i tondi decoravano piuttosto i pennacchi degli archi. La distribuzione che si vede in palazzo Medici è piú elegante. Ma non troverà seguito a Firenze; alcuni anni dopo palazzo Strozzi non presenta tondi di sorta. Abbiamo però qui, in ultima analisi, una nuova trasformazione del vecchio tema decorativo dei dischi di Storia dell’arte Einaudi 78 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze facciata, anche questo derivato alla lontana dalla pratica classica dei clipei, cioè degli scudi che decoravano i muri45. E poiché vi si notano delle scene «dionisiache», ci si è chiesti se queste non siano state suggerite dal desiderio di ritrovare una simbologia religiosa pagana46. In realtà gli otto dischi si richiamano a motivi molto dispersi della mitologia classica ed è difficile scoprire in essi un ciclo unitario di simboli pagani, cosí come è difficile scoprirvi un insieme di simboli moderni destinati, ad esempio, a celebrare le virtú medicee47. La cosa in realtà e piú semplice: tutti questi tondi sono trasposizioni di gemme antiche presenti nelle raccolte medicee. Il medaglione di Diomede, ad esempio, deriva da un intaglio in corniola che, dopo aver appartenuto a Niccolò Niccoli, era passato a Lorenzo; il gruppo Poseidone-Athena è noto ugualmente in piú d’un esemplare e uno di questi apparteneva ai Medici48. L’unico disco di cui non si ritrovi il modello nelle gemme deriva da un sarcofago antico che si vedeva davanti al Battistero49. La decorazione del cortile di via Larga celebra quindi la casa Medici valorizzando i pezzi ormai celebri del suo «museo». Si trattava della continuazione e del coronamento di una consuetudine diffusa nelle botteghe fiorentine, quella di riprodurre i pezzi del museo mediceo. Intorno al 1430 Donatello si era ispirato, per ornare l’elmo del mostruoso Golia, a un trionfo di Bacco e Arianna visto su un cammeo in onice; questo David bronzeo del resto sarà alla fine collocato nel cortile di palazzo Medici50. Le opere scelte come modello per la decorazione del cortile erano quelle che imitazioni e copie avevano già fatto conoscere. L’intento del decoratore era di metterle in evidenza, proprio come facevano i miniatori quando le inserivano nei medaglioni e nelle cornici dei loro frontespizi. Intorno al 1470, con Francesco Antonio del Cherico, coi fratelli del Fora, Gherardo e Monte (auto- Storia dell’arte Einaudi 79 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze ri dei manoscritti destinati a Mattia Corvino, poi del famoso Didimo) e infine con Attavante, questa consuetudine assume uno sviluppo notevole: i frontespizi dei grandi manoscritti diventano delle vere e proprie vetrine d’esposizione51. Si hanno numerose miniature in cui, come nel Plinio (Biblioteca Bodleiana) del 1476, o nel Didimo (Pierpont Morgan Library), del 1488, si moltiplicano i temi «medicei»52. Il manoscritto del Tolomeo (Bibliothèque Nationale di Parigi), destinato a Mattia Corvino, presenta, al fol. 1 e al fol. 2, una serie di 10 cammei e 8 medaglie legate insieme da girali; fra i «cammei», il Trionfo di Bacco e Arianna e la scena di Arianna sdraiata che rispondono in tutto ai tipi del cortile e che sono molto simili alle teste d’imitazione antica53. Rifuggendo dalle medaglie con teste d’imperatori e sviluppando esclusivamente, su questi tondi di grande formato, episodi della leggenda di Athena e Bacco, con una figura tipica della mitologia antica come il Centauro, la decorazione del cortile presentava questo tratto originale: di presentare cioè non i personaggi della storia (come si vedrà costantemente nelle province settentrionali) ma il mondo degli dei. Attingendo i suoi soggetti alle collezioni di casa Medici, questa decorazione veniva a insistere sul fatto che Firenze era divenuta per cosí dire la dimora di questi dei. Essi sono ora definibili e accessibili. I loro interpreti sono di casa nel palazzo. In questo è da vedere il segno di una nuova sicurezza intellettuale e in ogni caso l’impronta di una cultura che si afferma. Tutti i pezzi, che vengono cosí celebrati e per cosí dire pubblicati, hanno una doppia storia: saranno oggetto dell’attenzione tanto degli umanisti, che conoscono i testi dei poeti, che degli artisti che si rivolgono d’istinto ai gesti e alle figure interessanti54. Un caso particolarmente significativo è costituito da un altro pezzo del museo fiorentino, la corniola d’Apollo55. Si tratta forse della piú celebre delle gemme Storia dell’arte Einaudi 80 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze medicee, quella che figura piú spesso nelle decorazioni dipinte e scolpite. Il Ghiberti ne parla con esattezza nel secondo libro dei suoi Commentari: Verso la stessa epoca [1428] montai anche una corniola della grossezza di una noce: vi erano incise alla perfezione tre figure ad opera di un antico maestro. Come montatura applicai ad essa un drago con le ali un po’ aperte e la testa inclinata; la curva del collo cade al centro e le ali permettono di chiudere il tutto. Il drago, o come noi diciamo il serpente alato, si trovava al centro di foglie d’edera, e io incisi di mia mano, attorno alle dette figure, in lettere antiche, con molta cura, una iscrizione col nome di Nerone. Sul cammeo c’era un vecchio seduto su una roccia su cui era distesa una pelle di leone; le sue mani eran legate dietro il dorso a un albero secco; ai suoi piedi un bimbo inginocchiato su una gamba alzava gli occhi verso un giovane che teneva nella mano destra un rotolo e nella sinistra una cetra, come se il bambino supplicasse il giovane di istruirlo. Queste tre figure significavano le tre età della vita. Esse sono state certamente fatte dalla mano di Pyrgotele o di Policleto. Mai in vita mia ho visto un lavoro piú rifinito56. Dunque già nel 1428 Cosimo dava tanta importanza a una gemma antica da decidere di farla montare in forma preziosa da uno dei maggiori artisti del momento e questi ne ha conservato un ricordo particolarmente vivo. L’esattezza della sua descrizione è tanto piú notevole quanto piú l’interpretazione è fantastica. Il Ghiberti vede una allegoria morale, un’invenzione perfettamente «gotica», nella rappresentazione d’un grande mito; questo assurdo si spiega con l’interesse quasi esclusivo del patrizio per la riuscita tecnica e la qualità dell’opera. Ma non si limita a questo: ha bisogno anche di una giustificazione storica e senza esitare si applicano al piccolo capolavoro i nomi piú famosi dell’antichità: Storia dell’arte Einaudi 81 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze il cammeo è opera di Policleto o di Pyrgotele ed è appartenuto a Nerone. Per restituire all’oggetto tutto il suo vero splendore il Ghiberti mette intorno alla pietra l’iscrizione: «Nero Claudius Caesar Augustus Germanicus P. Max. Tr. P. Imp. P. P.», che si è potuta decifrare sulla copia in bronzo del Museo di Berlino. Il processo è dunque chiaro: interesse per la bellezza dell’opera, interpretazione frettolosa del soggetto, falsificazione storica57. La descrizione particolareggiata permette tuttavia di identificare facilmente la pietra: il vecchio legato all’albero è Marsia, il satiro suonatore di flauto, che ha osato provocare Apollo, la sua pelle strappata dal dio è stesa sulla roccia; il dio in piedi a destra tiene la lira che gli è valsa la vittoria; il «bambino» è l’immagine minuscola di Olympos, discepolo di Marsia che interviene per chieder grazia al dio o forse si tratta di un fraintendimento di chi ha fatto la copia. Il Vasari, che accenna al lavoro del Ghiberti, descrive correttamente l’oggetto58. Ma quando si era riconosciuto questo tema che si trova ripetuto in un gran numero di rilievi funerari romani, nei quali si vedono le Muse assistere alla gara tra il dio e il satiro e celebrano «la vittoria della lira, strumento divino che trasporta le anime verso il cielo, sul flauto che eccita le passioni impure», secondo l’esegesi pitagorica e neoplatonica del mito59? In questo è lecito pensare all’intervento dell’umanesimo fiorentino. Qualche anno dopo il lavoro del Ghiberti, Donatello si lasciava indurre a restaurare per Cosimo «un Marsia antico di marmo bianco»; l’opera fu collocata in palazzo Medici all’entrata del giardino, là dove il Verrocchio, verso il 1475, gli avrebbe dato un pendant trasformando un torso antico di marmo rosso in un satiro legato all’albero e scorticato60. Il primo Marsia, e verosimilmente anche il secondo, erano dei frammenti staccati di versioni classiche di un gruppo celebre di origi- Storia dell’arte Einaudi 82 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze ne pergamena, al quale si deve riferire l’Arrotino degli Uffizi, cioè lo schiavo scita che, secondo la tradizione, affila il coltello destinato al supplizio: manca solo la figura del dio che infligge al satiro la tremenda punizione. Il Marsia, allungato in un’anatomia che mette in risalto i muscoli, ha potuto d’altronde essere copiato a parte. Mentre il satiro seduto della corniola attende il supplizio61, quello del gruppo monumentale con le braccia alzate sopra la testa si torce con smorfie terribili. Donatello si è tenuto al tema: il suo restauro non ha fatto che accentuare la maschera sofferente del sileno; il Verrocchio invece l’ha trasformato in un fauno «che ride» per ricavarne un’opposizione interessante rispetto alla figura simmetrica che si trovava già collocata all’entrata del giardino fin dai tempi di Cosimo. Il «tipo», con le sue varianti d’espressione, interessa piú del tema. Il successo della pietra di Nerone fu notevole nel corso del Quattrocento62. La pietra era ancora nel gabinetto mediceo nel 1492; l’inventario di Lorenzo la registra valutandola 1000 fiorini: «una chorgnola grande con tre figure intagliate»63. Fra le copie eseguite nel corso del secolo si trova il bordo con l’iscrizione: «Prudentia, puritas et tertium quod ignoro», che sta a dimostrare che si è dimenticata la fantasia ghibertiana e che ci si orienta verso una combinazione astratta64. Il cammeo, montato in forma di medaglione, si vede al collo di una giovane dama dipinta nella bottega di Botticelli intorno al 1480 (Francoforte, Istituto Staedel): il profilo esatto, l’acconciatura da ninfa consentono di avvicinare questo ritratto al busto di dama del Museo di Berlino, in cui si è voluto riconoscere Simonetta65. La presenza del cammeo può indicare una persona della cerchia dei Medici66. È lecito chiedersi se, secondo l’abitudine del Rinascimento italiano, il gioiello non è stato scelto come portafortuna. Ogni tipo di pietra, in quanto cor- Storia dell’arte Einaudi 83 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze rispondeva ad una divinità planetaria, richiedeva un certo tipo di rappresentazioni. Se la corniola dei Medici ha servito come talismano «apollineo», la giusta identificazione era stata raggiunta67. Come è accaduto per le pietre riprese nei tondi del cortile di palazzo Medici, cosí si ritrova spessissimo la corniola nei motivi decorativi dei manoscritti realizzati dalla bottega di Attavante, in particolare quello delle Heroica di Filostrato, destinato a Mattia Corvino: il frontespizio comprende una cornice adorna di fiori ed un fregio in cui il cammeo è incastonato insieme ad altri medaglioni68. Lo stesso avviene nel frontespizio di un manoscritto della Sforziada69 e sulla fronte dell’edizione di Omero del 148870. Vi si deve vedere un semplice marchio d’origine, oppure la scelta del medaglione rappresentava una sorta di preludio allegorico a composizioni di alta poesia? Marsia è stato evocato da Dante nella supplica messa ad apertura della cantica piú sottile, il Paradiso: la sua splendida immagine non poteva che attribuire particolare valore al tema del satiro suppliziato: Entra nel petto mio, e spira tue Sí come quando Marsia traesti Dalla vagina delle membra sue (Paradiso, I, 19-21). Il tema della corniola, rettamente interpretato in queste miniature, esprime un valore simbolico preciso. L’associazione è avvenuta certamente alla fine del secolo poiché il gruppo ha potuto rappresentare in forma solenne nella stanza della Segnatura il «mistero poetico». Essa si deve al gruppo degli umanisti di Careggi. Gli umanisti neoplatonici non hanno infatti mancato di utilizzare una favola cosí eloquente. Il mito viene ricordato in ottima posizione nella celebre lettera di Pico (1485) in cui si polemizza contro le compiacenze Storia dell’arte Einaudi 84 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze letterarie in filosofia, nella quale invece deve contare solo lo splendore del vero, anche se espresso senza grazia e inaccessibile alla folla: Vuoi che ti dia una immagine del nostro parlare? Esso è proprio come i Sileni del nostro Alcibiade. Le loro immagini erano di aspetto rozzo, triste e spregevole, ma dentro erano piene di gemme, di suppellettile rara e preziosa. Cosí se guardi l’esterno, vedi un mostro; se l’interno, riconosci un Dio. Ma, dirai, son le orecchie che non sopportano il costrutto ora aspro, ora roco e sempre disarmonico; che non sopportano i nomi barbari, che intimoriscono anche col suono. O uomo di gusti delicati, quando vai dai flautisti e dai citaredi, stai pur tutto orecchi; ma quando vai dai filosofi, ritorna in te, nei penetrali dell’anima, nei recessi della mente. Abbi le orecchie del Tianeo, con cui, liberandosi dal corpo, sentiva non Marsia terreno, ma Apollo celeste che sulla cetra divina modulava con ineffabili armonie gli inni dell’universo71. Spogliarsi di Marsia significa dunque sottrarre l’anima ai legami terrestri, la vittoria d’Apollo è la vittoria della musica «divina»: in quest’immagine emblematica vengono a coincidere l’insegnamento degli antichi pitagorici, quello di Dante e dei neoplatonici fiorentini. Ecco dunque su quali basi il motivo ha potuto essere valorizzato72. Le innumerevoli variazioni che la glittica e la piccola scultura italiana compiono sul tema di Apollo e Marsia non sempre mostrano l’imitazione della corniola medicea. Esistevano altre pietre antiche, seppure meno belle, decorate con lo stesso soggetto73. Una è segnalata nel trattato del Filarete (libro XXIV) presso il patriarca d’Aquileia con una descrizione esatta ma senza illustrazione iconografica74. Si ebbero dunque parecchie copie indipendenti dal Museo mediceo, e fra queste la meda- Storia dell’arte Einaudi 85 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze glia in bronzo di Paolo II (Museo Correr), anteriore al 1471, le placchette di Padova o di Milano75, nonché il rilievo scolpito sul portale di palazzo Stanga a Cremona76. In Toscana alla fine del secolo la composizione, ormai familiare agli artisti, comincia ad essere divisa: Apollo e Marsia sono studiati a parte. Cosí avviene in un foglio di studi di Francesco di Simone (circa 1499, British Museum): Apollo in piedi con la lira in mano, con Satiro ai piedi, appare schizzato piú in alto e a parte rispetto a un personaggio seduto su una roccia, legato a un tronco d’albero, che non può essere che Marsia77. Ognuna delle figure tende a seguire un suo destino indipendente. La cosa si verifica soprattutto nella cerchia artistica che meglio ha inteso e valorizzato il significato del tema, la bottega del Perugino. In essa si presta un’attenzione particolare all’immagine d’Apollo, come è dimostrato dal celebre disegno di Venezia e dal piccolo pannello del Louvre: il mito viene addolcito, il conflitto tra «musica superiore» e melodia rustica si trasforma in una sorta di idillio da cui non può venire nulla di crudele. Raffaello tuttavia ha conosciuto le figure della corniola. Sul portico della Scuola d’Atene l’Apollo rappresentato nella nicchia di sinistra deriva in realtà dall’intaglio mediceo: il corpo nudo che appoggia sulla gamba sinistra, la mano destra leggermente ripiegata, egli tiene la sua grande lira all’altezza della spalla sinistra, con la testa fieramente ruotata. Questa figura di Apollo trionfante appare staccata dalla scena oscura e tragica, come una celebrazione della bellezza intellettuale. Anche il Marsia seduto della corniola viene soppiantato dalla scultura del giardino mediceo. Sulla volta della stanza della Segnatura quattro riquadri corrispondenti ai quattro affreschi delle pareti illustrano le grandi allegorie della vita dello Spirito; quello della Poesia mostra l’incoronazione di Apollo e il supplizio di Marsia. Il gruppo, opera del Sodoma, non dipende in nulla dalla pietra Storia dell’arte Einaudi 86 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze medicea: il satiro di profilo, per meglio far risaltare l’allungamento del corpo e lo sbalzo dei muscoli, deriva dalla statua restaurata da Donatello per il giardino di via Larga78. La scena viene intesa nel senso di Dante e dei platonici, ma la piccola composizione della corniola subisce nuovi sviluppi. Il tema era stato dunque incorporato nel contesto di uno stile. Si comprende cosí meglio come il famoso «torso» del Belvedere non sia mai stato messo in rapporto col tema di Marsia benché si tratti, con ogni verosimiglianza, come del resto per il frammento primitivo del Fauno rosso restaurato dal Verrocchio, dei resti di un Marsia seduto che attende il supplizio79. Nel Cinquecento non seppero vederci che il busto dell’eroe sovrumano, cioè Ercole, colto in un momento di sogno malinconico o di riposo. Esso suggerí a Michelangelo numerosi atteggiamenti di figure nei suoi dipinti e gruppi monumentali 80. Ma l’artista sembra essersi servito soprattutto dell’immagine del sileno confuso e umiliato, la cui energia deve essere sacrificata, negli schiavi destinati alla tomba di Giulio II (figure che rappresentano il mondo inferiore delle passioni) e in certe cariatidi sofferenti81. In questo modo egli si avvicinò al simbolo della corniola, ma non la imitò mai direttamente. Il gruppo mantenne una certa voga nell’arte toscana del secolo xvi: figura in una placchetta anonima, condotta con uno stile largo e drammatico, e soprattutto in un tondo in terracotta del Rustici alla villa Salviati (Torre) di Firenze eseguito intorno al 1520-2582. Senza dubbio occorre riferire alla stessa epoca il bassorilievo fiorentino marmoreo di forma ovale la cui composizione (ridotta, è vero, a due personaggi) rimane molto vicina all’intaglio mediceo; presenta uno stile abbastanza vigoroso perché si sia pensato, almeno per un momento, ad attribuirla a Michelangelo83. Tuttavia il rilievo abbastanza indeciso richiama le placchette metalliche Storia dell’arte Einaudi 87 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze che hanno potuto servire di modello per esso. La composizione era strettamente legata all’arte del Rinascimento classico84. Quando ritornarono agli esempi di quest’epoca, nel soffitto della galleria Farnese, i Carracci non se ne dimenticarono: un finto disco bronzeo, imitazione di quelli della volta della Sistina, raffigura la scena come se si trattasse di un calco in bronzo ricalcato della pietra medicea. Eppure la scena non ha la rara forza di evocazione che aveva fatto il suo pregio nella Firenze di Lorenzo. Storia dell’arte Einaudi 88 Capitolo terzo Le figure «dionisiache» di Donatello Lo stile di Donatello non sempre fu apprezzato a Firenze, mentre a Padova fu oggetto di una costante e fedele ammirazione. Un ricordo di questa si ha ancora mezzo secolo dopo nel trattato di un umanista competentissimo di scultura, Pomponio Gaurico, dedicato appunto a La Scultura (1504)85. Firenze vi è considerata come la madre di quest’arte, e Donatello vi è di continuo citato come il suo eroe. I due principî essenziali di essa sono il disegno (graficø), capo e fondamento di tutta la scultura, e l’animazione (Yucicø). Quest’ultima si realizza attraverso l’imitazione. È lecito pensare che questa dottrina sia un riflesso fedele dell’estetica di Donatello: l’animatio e il disegno compendiavano interamente per lui lo stile; anche se egli sapeva arricchirne di continuo le possibilità grazie a una cultura che, sulla metà del secolo, sembra esser stata press’a poco senza precedenti. L’ampiezza delle sue conoscenze superava quelle di ogni altro toscano, Ghiberti compreso86. Le sue probabili fonti sono state largamente studiate87; non sarà forse inutile cercare di vedere ora come le sue conoscenze tendessero a ordinarsi. Il Museo Mediceo non è estraneo all’ispirazione di Donatello; ma, se si tolgono dalla sua opera i medaglioni di palazzo Medici e pezzi come il busto di giovane dal cammeo, nei quali si ha una ripresa letterale dell’antico, ben poche risultano le sue derivazioni dirette. Oltre alla Storia dell’arte Einaudi 89 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze scena di trionfo dell’elmo di Golia, che si ispira a un cammeo in onice di Cosimo, la derivazione piú puntuale si riscontra nei tondi degli Evangelisti nella sacrestia di San Lorenzo (circa 1440): le figure sono sedute su troni resi con una complessità architettonica, di fronte a superbe tavole che hanno l’apparenza di altari antichi. La figura di san Matteo è accompagnata da due Eroti nudi sotto le ghirlande; in quella di san Marco i pilastri inquadrano la lotta di due Eroti alati secondo un tipo che ricorre nelle placchette dei Medici. Si tratta della prima apparizione del gruppo di Eros e di Anteros, che illustra la vittoria della Virtú o dell’amore divino che nel Cinque e Seicento avrà un immenso successo negli emblemi88. Di contro alla maniera del Ghiberti, e poi del Rossellino, che compone pacatamente elementi ben distinti e ben articolati, Donatello ricerca composizioni complesse. Il caso piú significativo è certo quello della Madonna di Padova il cui tipo deriva dalla Nikopoia bizantina, nota in Toscana grazie alla Madonna di Santa Maria Maggiore a Firenze, dipinta da Coppo di Marcovaldo89. Questo modello era familiare all’artista e non è quindi necessario supporre il ricordo di una statua miracolosa90. Esso ripete un tipo tradizionale che suggerisce la disposizione frontale e la presentazione ieratica del Bambino. Tuttavia le intenzioni dell’opera sono assai piú complesse. Anzitutto occorre ricollocarla con l’immaginazione nell’edicola a forma di tempietto che la inquadrava e di cui la pala di San Zeno a Verona del Mantegna sembra aver conservato un ricordo esatto91. È in questa specie di spazio chiuso che la statua si trovava. È stato notato che la ghirlanda di cherubini è un’imitazione dell’acconciatura a onde delle Cibeli antiche e che il trono chiuso ai lati da sfingi che finiscono in zampe belluine è una trasposizione del tema del trono fiancheggiato da leoni92. L’opera però può anche essere Storia dell’arte Einaudi 90 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze accostata alla celebre statua cineraria etrusca di Chianciano, nella quale si ritrovano la frontalità, le sfingi di sostegno, e questa fisionomia un po’ strana di idolo che sorprende nell’opera padovana. Il bronzo ne accresce il vigore accentuando il contrasto tra le parti lisce e quelle drappeggiate, definendo in maniera piú energica il modello. Donatello sembra aver voluto risalire dal tipo trecentesco a un’immagine che, grazie all’assorbimento pieno di elementi derivati da «maternità» pagane, poteva sembrargli come la forma superiore del soggetto. Ma in questo caso si deve ammettere che non siamo di fronte semplicemente a una nobilitazione artistica analoga all’effetto che poteva raggiungere utilizzando un sarcofago per una tomba o per la decorazione di un portale; l’artista ha qui compiuto una lunga meditazione sul tema della Vergine-Madre. Cioè egli realizza un approfondimento originale del tema. Le sfingi che appaiono nei montanti del trono costituiscono una sorta di commentario figurato al «mistero cristiano»93. Dovrebbe anche esser possibile definire certe reazioni dell’artista alle forme antiche. Il caso piú suggestivo e quello del «putto», la figura in cui vengono a confondersi i tratti del bimbo, dell’angelo e del Cupido antico, e che introduce un elemento di gioco e di fantasia che rimane fondamentale per l’arte del Quattrocento e di cui Donatello può essere considerato l’inventore moderno94. Nella cantoria del Duomo (1433-39), che è stata la sua prima composizione di grande respiro, lo scultore usa un fondo musivo di ispirazione arcaizzante; mette nei pannelli laterali degli amores affrontati, un tema che deriva da certi frammenti dei «troni degli dei» di Ravenna. Questo complesso romano, di epoca imperiale, disperso nel xiii e xiv secolo, è stato molto noto nell’Italia del Nord e un piccolo gruppo di amores, resto del trono di Saturno, si trovava in Santa Maria dei Miracoli alla fine del Quattrocento, dove una Storia dell’arte Einaudi 91 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze guida lo ricorderà poi come «i putti di marmo... di mano dell’antico Prassitele». Già dalla metà del Quattrocento placchette della Scuola padovana avevano utilizzato il tema. Ci si può chiedere se anche la sua voga non fosse in qualche modo dovuta a Donatello95. L’attribuzione grossolana e fantastica a Prassitele di questo tipo di figure merita tuttavia di essere considerata. Essa non ha il semplice valore elogiativo implicito nel riferimento a un grande nome; sembra invece voler definire un certo tono dell’immaginazione, quello proprio degli Erotes, degli «amori», cioè di immagini festose e vivaci la cui diffusione rappresenta proprio allora una novità. L’attribuzione verrebbe cosí a precisare uno stile e nello stesso tempo un’ispirazione96, dato che Prassitele era rimasto lo scultore per eccellenza delle Afroditi e dei Cupidi. Il cerchio degli amorini e la danza frenetica dei putti realizzano una gamma nuova, in cui si esprime una vitalità elementare in ciò che essa ha di piú spontaneo e vivo. Il motivo antico è un «eccitante» non solo per lo stile, ma anche per l’immaginazione, dato che viene impiegato in circostanze diverse, e Donatello non ignorava che in moltissimi sarcofagi romani i bimbi eroicizzati danzano e si agitano nel regno degli eletti. Sono gli Eroti alati che giocano nel paradiso di Dioniso; altrove si dedicano allo studio o ai giochi sportivi che costituiscono anch’essi aspetti validi di quella saggezza che porta all’immortalità97. Nel 1423, sul pastorale del San Ludovico di Tolosa, Donatello crea il putto porta-emblema che deriva da queste fonti; nel 1425, nel rilievo per il fonte battesimale di Siena, introduce degli amori sotto forma di angeletti che assistono Erode, mentre «putti» a tutto tondo suonano con i loro strumenti sulla balaustra dell’edicola. I putti trionfano nel bassorilievo a fondo oro della cantoria, nelle formelle del pulpito di Prato, dove il girotondo e il gioco tendono al parossismo. Il putto Storia dell’arte Einaudi 92 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze indica una folle allegria che per la sua violenza contrasta con la gioia piú tranquilla che emana dalla cantoria di Luca della Robbia. Il putto viene associato all’idea della virtus e figurerà perfino nella sella e nell’armatura del Gattamelata. Parallelamente si nota la tendenza ad accentuare il valore orgiastico e quindi «dionisiaco» del tema. Sull’elmo di Golia, calpestato dal vincitore, si vede realizzata a cesello una scena di trionfo. È un ricordo del gruppo di Bacco e Arianna che si vedeva su un cammeo in onice, conservato nella raccolta medicea98. In questo caso si tratta di un simbolo delle passioni brutali incarnate da Golia. E lo stesso si deve certamente dire del baccanale degli amorini che orna la base triangolare della statua della Giuditta: essi servono a ricordare lo stupro e l’ubriachezza del nemico di Israele99. Donatello ha cura di rappresentare con precisione tutto ciò che sottolinea il riferimento ai «misteri antichi»: nel rilievo di Erode a Siena le figure che assistono alla scena sono nude, come saranno in seguito i pastori che il Signorelli e Michelangelo collocheranno (come testimoni del paganesimo) sul fondo delle loro Sacre Famiglie. Nei rilievi di Padova la benda dionisiaca (che, secondo gli archeologi, deve essere distinta dai nastri per i capelli e dalle bende della Vittoria100) la benda, dicevamo, dei «mystes» non è stata dimenticata sulla fronte dei musici. L’interesse per una sorta di esotismo pagano si rivela soprattutto nel piccolo personaggio che partecipa insieme della natura di Eros e di Atys, l’immagine piú suggestiva e piú graziosa di gioia esuberante e impudica che il Quattrocento abbia creato. Le gambiere a spacchi, analoghe alle anaxyrides frige, ci riportano agli Atys alati dell’Asia Minore, attraverso qualche fonte letteraria o forse un esempio etrusco101. Il moto frenetico dei putti in gruppo è perfettamente a suo luogo nelle feste dionisiache: i piccoli danzatori della cantoria si ritrovano sotto forma di baccanti nella metà sinistra di Storia dell’arte Einaudi 93 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze un corteo bacchico: nudi, incoronati e brandendo grappoli, essi costituiscono un corteggio che si ritrova nei fregi del pulpito di San Lorenzo. Questa parte dell’opera è di mano di Bertoldo, ma questi amorini dotati di minuscole ali, che giocano a vendemmiare, costituiscono l’ultima trasposizione sul piano sacro del tema «dionisiaco». Insomma la danza dei putti è l’equivalente naturale, terrestre del girotondo degli angeli che, nell’Angelico o nel Lippi, accompagna in cielo gli avvenimenti sacri. Il fatto nuovo è che Donatello abbia saputo trovare i riferimenti che gli consentirono di affrontare questa forma elementare e piena di vitalità da lui considerata come l’espressione piú audace, piú forte del «paganesimo». È dunque il caso di prestare una certa attenzione alla lettera che Matteo di Simone Strozzi scrive a un amico segnalandogli, intorno al 1428-30, alcune antichità a San Frediano di Lucca in questi termini: «Due sepolture antiche, che vi sono; spiritegli a l’uno a l’altro e la storia di Bacho. Donato l’a lodate per chose buone»102. Donatello sapeva bene di star parlando di scene e tipi propri delle religioni antiche. Egli lo precisa quanto piú può, poiché pensa, come già cominciavano a credere gli umanisti contemporanei, che certi aspetti benintesi dei riti e delle credenze antiche potessero trovar posto nell’arte cristiana. Buona parte dei modelli studiati da Donatello si possono classificare nella categoria «dionisiaca»; ma soprattutto per via delle combinazioni di movimenti, per la mimica e i gesti che accentuano quella animatio di cui avrebbe parlato il Gaurico. Per la sua ampia cultura archeologica lo scultore ha un posto a sé nell’ambiente fiorentino, dove le sue novità non sono gradite agli amici del Ghiberti. Egli cerca elementi che valgano a intensificare la tensione della forma plastica fino ai limiti della «terribilità» e dell’esultanza. In sostanza egli amplia metodicamente la gamma delle passioni che pos- Storia dell’arte Einaudi 94 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze sono trovar luogo nell’opera scolpita e il movimento è per lui l’elemento fondamentale. Era questa una intuizione nuova. Il Quattrocento fiorentino in fondo è dominato da questo problema di cui il Ficino metterà in luce tutto il significato scrivendo che «essendo l’anima fonte del movimento, ne risulta una libera e universale animazione»103. È noto che i profeti scolpiti sulla porta della sagrestia di San Lorenzo verranno criticati dal Filarete per il loro gestire da «schermidori»; è possibile che già l’Alberti li avesse presi di mira quando aveva rivolto la sua ironia contro coloro che dànno ai personaggi un atteggiamento di «schermidori et istrioni senza alcuna degnità di pittura, onde non solo sono senza gratia et dolcezza, ma piú ancora mostrano l’ingegnio dell’artefice troppo fervente et furioso». L’Alberti che esigeva dal pittore di mostrare i movimenti dell’anima attraverso quelli del corpo aveva concluso nel 1435 imponendo a questi una regola di misura e limitandoli ai «movimenti soavi e grati». In scultura era questo l’ideale del Ghiberti e non quello di Donatello, nel quale, insieme con la varietà nell’organizzazione dell’opera, il gusto per la violenza non ha fatto che aumentare sempre piú104. Le formelle di Padova (circa 1450) presentano scene di folla di una eccezionale complessità e i pulpiti di San Lorenzo (circa 1460) un’animazione quasi insostenibile. All’estremità destra del grande rilievo della Crocifissione una delle pie donne si strappa i capelli in un accesso di disperazione furiosa: si tratta di una figura di sarcofago dionisiaco la cui violenza mistica passa nel contesto dell’opera cristiana. Questo motivo verrà ripreso da Bertoldo nella sua Crocifissione del Bargello, dove vediamo la stessa testa rovesciata nello slancio e gli stessi veli fluttuanti con le pieghe sottili, come bagnate105. La plorante ha riassorbito in sé la menade, trovando però una sua stilizzazione che la differenzia in modo radicale dal Storia dell’arte Einaudi 95 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze tipo «gotico» che verrà usato piú tardi da Niccolò dell’Arca nella patetica Maddalena di Santa Maria della Vita a Bologna (1485). La stessa figura, con la stessa patetica torsione, compare in una Crocifissione (Venezia, Chiesa del Carmine) fusa da Francesco di Giorgio intorno al 1475 per Federico da Montefeltro. Ecco qui un legame tra Donatello e lo scultore senese, che negli anni seguenti avrebbe realizzato il rilievo, alquanto enigmatico, della Discordia106. Quest’opera, di un’esecuzione assai tormentata, è una vera e propria illustrazione del delirio «dionisiaco» (Londra, Victoria and Albert Museum). Al centro di un cortile circondato da portici si scatena una violenza folle provocata da un personaggio femminile che brandisce un bastone, incoraggiata da un principe: si tratta probabilmente della scena di Licurgo eccitato contro le menadi dal messaggio di Iride (Iliade, VI, 134). L’episodio è raccontato anche nelle Dionisiache di Nonno (XX, 182). La figura centrale sarebbe quella di Iride che guida la danza frenetica della Furia. Nella seconda metà del secolo queste immagini di furor, di smarrimento frenetico, in cui l’anima è fuori di sé, vengono nel complesso riprese abbastanza di frequente in Toscana. Le scoperte di Donatello avevano arrecato all’arte fiorentina una libertà che si palesa in tutte le arti, in particolare nell’incisione. La voga del baccanale pagano è dimostrata da una serie di lastre anonime che compongono un Trionfo di Bacco e Arianna con menadi agitate nella cornice di un gigantesco pergolato. Queste tavole sono comunemente assegnate a un momento abbastanza tardo, intorno al 1470-80, in quanto le vesti ondeggianti delle figure si richiamano ai panneggi botticelliani: gli accostamenti con la serie di stampe dei pianeti e altri prodotti della bottega del Finiguerra inducono ad attribuirle a questo maestro ed a riportarle all’epoca 1460-64. Questa data arretrata presenterebbe un dop- Storia dell’arte Einaudi 96 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze pio vantaggio: aggiungerebbe un elemento in piú al gruppo delle immagini di tipo «dionisiaco» di questo periodo e verrebbe a confermare la suggestione esercitata da questo tema pagano sulle fantasie degli artisti107. È perfino possibile scorgere, in queste immagini di vita veemente, il punto di partenza dell’arte di Botticelli. Le vesti ondeggianti delle sue ninfe e delle sue dee sono una versione piú poetica e piú elaborata delle vesti di queste figure108. Comunque, si tratti di una anticipazione, o di opere contemporanee di quelle di Botticelli, è certo possibile avvicinare questa incisione al famoso carro di Bacco e Arianna sul quale furono cantati, durante un carnevale (intorno al 1480), i versi di Lorenzo: Non fatica, non dolore! Quel c’ha esser, convien sia: Di doman non c’è certezza109. Il gruppo descritto dalla canzone, cioè Bacco e Arianna tra le ninfe e i «satiretti», era in certo modo un adattamento popolare dei numerosi rilievi in cui il soggetto era figurato, soprattutto del medaglione mediceo che era stato replicato e ingrandito nel cortile di palazzo Medici, che era stato diffuso dalle miniature e ripreso nelle placchette. Il carnevale veniva cosí a tingersi della nuova cultura. E per contro la festa veniva a dare un preciso valore alle divinità del mito: Bacco era il dio della vitalità frenetica e della gioia sensuale, di cui il carnevale era dopo tutto una buona espressione moderna. Il successo di questi «baccanali» fu tale che se ne ritrova l’eco nelle decorazioni degli interni, ad esempio nel fregio del camino della Jole nel palazzo d’Urbino (circa 1455-60), col Trionfo di Bacco a sinistra, Sileno ubriaco a destra. Dei disegni che hanno certo qualche rapporto con queste scene ci mostrano Pan e le Menadi e l’Ubriachezza di Pan (Ambrosiana e Louvre)110. Si deve Storia dell’arte Einaudi 97 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze pensare che questo genere di figurazioni fosse diventato una sorta di elemento piccante nelle decorazioni degli interni, se Piero di Cosimo l’ha trattato in chiave decisamente volgare e comica nel suo complesso per la casa di Giovanni Vespucci sulla fine del secolo. Si tratta, con la folla di faunetti e di menadi che divertivano il Vasari, della rievocazione parodistica del corteo di Bacco con batteria di cucina anziché cimbali e con un gesticolare sgraziato111. Ma si tratta di una tendenza un po’ particolare, che ben risponde alla misantropia caustica di Piero; in generale invece si tendeva a dare di questi stessi elementi un’interpretazione allegorica. Si ritrovano cosí la menade, il satiro, con un centauro armato di una torcia e diverse figure, in un rilievo che finora ha resistito ad ogni interpretazione e che sembra opera di Francesco di Giorgio. In mancanza di un titolo migliore viene chiamato Allegoria dell’anima112. L’agitazione «dionisiaca» sembra in quest’opera servire ad illustrare le energie vitali e i conflitti interni dello spirito, cioè l’urto delle «facoltà» nel senso del neoplatonismo fiorentino. L’opera è di un’esecuzione abbastanza nervosa, non senza rapporti con lo stile di Bertoldo, e si apparenta a tutto un ciclo di placchette nelle quali, intorno al 1480-90, il repertorio creato negli anni 1450-60 si organizza in immagini emblematiche di sapore dotto113. Storia dell’arte Einaudi 98 Capitolo quarto Il museo etrusco e l’«etruscan revival» Il piú notevole complesso decorativo d’intonazione «dionisiaca» del Quattrocento fiorentino è rappresentato indubbiamente dalla serie di affreschi di cui due ancora rimangono alla torre del Gallo, sulla collina di Arcetri, a sud di Firenze. Lo zoccolo della sala appare ornato di archi visti in una prospettiva rigida, separati gli uni dagli altri da «putti musicanti». Sopra queste cavità profonde si svolge una specie di scena in cui appaiono gruppi di danzatori dai gesti frenetici. I dipinti sono assai guasti e i contorni vi assumono un valore sorprendente; forse in origine il loro peso era minore. Non si vede chi potrebbe aver disegnato questi contorni nodosi e inventato questi gesti spezzati se non Antonio del Pollaiolo: i tipi sono vicini alle figure nervose dei ricami del Battistero114. Una circostanza precisa suggerisce di datare l’opera poco dopo il 1464. È a quell’epoca infatti che la villa viene ceduta ai Lanfredini: Giovanni, il futuro ambasciatore di Lorenzo, e Jacopo notabile fiorentino, che figurerà, con il figlio Antonio, fra gli amici del Ficino115. È lecito supporre che essi non siano stati estranei alla decorazione della villa allorché provvidero alla sua sistemazione. Si trattava senza dubbio di una decorazione destinata a creare un’atmosfera di gioia e di vitalità nella grande sala. I putti dello zoccolo forniti di strumenti musicali sembrano trascinare i danzatori del pal- Storia dell’arte Einaudi 99 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze coscenico. Le figurazioni di gioia frenetica erano di moda. Ma non potrebbe essere che il Pollaiolo abbia avuto presente un esempio preciso nel realizzare, nella villa d’Arcetri, questa decorazione di figure danzanti che appare in certo senso come la versione profana della cantoria di Donatello? La composizione è talmente inconsueta che è lecito chiedersi se l’artista non abbia conosciuto dei dipinti antichi e non abbia voluto assimilare la loro mimica espressiva. Vasi antichi sembrano indubbiamente essere stati all’origine di certi schemi lineari e di certi contorni tormentati del Pollaiolo116. Il riferimento piú eloquente è quello che si può fare alle figure delle tombe delle Baccanti, dei Leoni e del Triclinio a Tarquinia. Queste tombe non saranno scoperte che molto piú tardi117 e il prototipo quindi ci sfugge. È lecito supporre che l’artista abbia voluto adattare allo stile delle case toscane le immagini violente che egli aveva potuto vedere su vasi, forse su muri di ipogei. Sarebbe però necessario stabilire anzitutto se c’è veramente stato nel Quattrocento un interesse per questi aspetti dell’arte antica. Il Ficino aveva cari e proteggeva i due fratelli Pollaiolo. Il caso vuole che proprio a proposito di Piero abbia scambiato delle lettere nel 1477 col cancelliere di Pistoia, Antonio Ivano da Sarzana. Era questi persona di cultura molto viva, e sappiamo che nel 1473 cercava delle «anticaglie»118 nella zona di Luni. Questo rapporto sta a dimostrare che i Pollaiolo sono stati a diverse riprese in contatto con umanisti in grado di fornir loro notizie sui vasi antichi e piú in particolare su quelli etruschi. Non vi possono infatti essere dubbi sulla natura delle opere antiche che si trovano nella Lunigiana. Questa zona del Carrarino, benché già fuori dei confini dell’antica Etruria, da secoli era considerata un luogo etrusco119. Dante ricorda le cave fantastiche, in cui si era ritirato l’aruspice Aruni, nel passo estremamente suggestivo dell’Inferno (XXV, 46 sgg.). Storia dell’arte Einaudi 100 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze La riscoperta delle antichità etrusche avveniva lentamente nel corso del Quattrocento. I toscani prendevano a poco a poco coscienza dell’originalità del loro passato in un modo piú positivo e piú dotto. La testimonianza piú interessante in questo senso (interessante per la data, per la precisione e l’entusiasmo dell’autore) è rappresentata dal celebre passo che Ristoro d’Arezzo, nel suo Libro della composizione del mondo (1282), dedica ai vasi nati dalla terra e nella terra nascosti, che si trovano in tutta la zona d’Arezzo120. Il gran numero di motivi dipinti o scolpiti (dunque entrambe le categorie di vasi erano rappresentate) viene analizzato con precisione e l’antico autore mette in evidenza soprattutto le battaglie d’animali, le scene di caccia e pesca, la vivacità d’espressione delle figure («tale ridea e tale piangea e tale morto e tale vivo...») Insomma nulla meglio di questo passo preannuncia la smania di curiosità naturalistiche che caratterizza l’arte toscana intorno al 1450-70, le sue incisioni d’animali che si divorano a vicenda e le sue forme in movimento. In Ristoro si trova ricordato anche il tema degli «spiriti che volano nell’aria sotto forma di fanciulli nudi, portando ghirlande variate di frutti», cioè dei putti reggi-ghirlanda, già pronti per riprendere il loro posto nell’arte toscana. Intorno al 1460 si assiste al diffondersi di questi motivi di vitalità animale nella pittura e nell’incisione con la famosa Battaglia di nudi di Antonio del Pollaiolo (1460-62), con i combattimenti di leoni e di draghi, le scene di caccia che forse derivano da composizioni perdute di Paolo Uccello e del Pesellino121. Tutti questi temi sono oggetto di una moda molto diffusa. Inoltre è il momento in cui tutta l’attenzione viene a concentrarsi sulle esigenze del contorno e le possibilità che la linea nei suoi precisi sviluppi offre per caratterizzare la figura: cosa che ha per risultato di restituire tutta la sua importanza al contorno e al profilo anatomico e attribuisce un interesse d’at- Storia dell’arte Einaudi 101 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze tualità alla celebre definizione della «linea espressiva» formulata da Plinio a proposito di Parrasio. Questo concetto stimolante, e un po’ misterioso, della linea di contorno che è mezzo compiuto di rappresentazione, presentava il vantaggio di porre un precedente storico illustre all’origine di una formula stilistica di cui universalmente si attribuisce l’invenzione a Antonio Pollaiolo122. La teoria delle origini della pittura, elaborata dagli umanisti toscani sulla base dei testi classici, sembra appunto implicare, sotto il nome di pittura primitiva, un riferimento alle pitture vascolari. All’inizio del II libro del Trattato della pittura l’Alberti non manca di ricordare che «i nostri Toscani antiquissimi furono in Italia maestri in dipigniere peritissimi». Si tratta, con ogni verosimiglianza, semplicemente di una frase ispirata da Plinio (Naturalis Historia, XXXV, 17, 18): ma forse questa frase non mancava del tutto di riferimenti concreti come si è generalmente supposto, e sembra lecito vedere un’allusione alle pitture vascolari in un passo in cui, per completare le indicazioni dell’Alberti, il Landino precisa che alle sue origini la pittura era fatta di una sola linea poi «d’un solo colore, donde il termine di monocromata», cosa che in Plinio (XXXIII, 117...), dal quale la parola deriva, indica una pittura a due toni: nero su bianco, o bianco su nero123. Si attribuivano in realtà agli etruschi non solo i vasi a rilievo, familiari a tutti gli abitanti di Arezzo, ma anche tutti i vasi a figure rosse di provenienza greca. Indubbiamente questi vasi entravano nelle raccolte medicee come antichità toscane124: l’arte etrusca era intesa in senso largo, cosa che viene a dare un peso anche maggiore al riferimento. La curiosità per le «antichità etrusche» si era fatta in effetti abbastanza viva nella seconda metà del secolo e in particolare nella cerchia di Lorenzo. A questo proposito abbiamo una testimonianza precisa. Il nonno di Vasari, Giorgio, faceva il vasaio ad Arezzo «il quale atte- Storia dell’arte Einaudi 102 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze se continuamente all’antichità de’ vasi di terra aretini; e nel tempo che in Arezzo dimorava messer Gentile Urbinate vescovo di quella città, ritrovò i modi del colore rosso e nero...» Si condussero allora degli scavi all’entrata della città, e ne vennero fuori quattro vasi interi: in occasione di una visita di Lorenzo il Magnifico ad Arezzo «Giorgio gli fu presentato dal Vescovo e offrí quei vasi al principe». Si tratta del vescovo Gentile de’ Betti che col Ficino fu precettore di Lorenzo. L’episodio va collocato intorno al 1475125. Tutti sapevano che Lorenzo si occupava di vasi antichi. Per vent’anni le novità di qualche interesse furono regolarmente inviate al giovane principe o ai suoi amici umanisti126. Non potendosi ritrovare con esattezza i pezzi e stabilire la data del loro ingresso nella collezione fiorentina, è quasi impossibile indicare gli esempi che grazie a questo interesse diffuso furono sotto gli occhi dei notabili e degli artisti. La ceramica antica greca e etrusca entrava nel Quattrocento nell’orizzonte artistico dei fiorentini. Un interesse non minore veniva portato ai pezzi di scultura, alle urne, alle cisti o alle statuette che potevano esser considerate «etrusche». Il Vasari non esiterà a considerare i vasi a rilievo detti aretini fra le fonti del rilievo a «stiacciato» praticato dai moderni sulla scia di Donatello127. Non è da escludere che Donatello sia stato spinto a valersi di questa tecnica particolare da certi pezzi della raccolta di Cosimo; ne fece tuttavia un uso piú complesso di quanto non sia possibile vedere nei rilievi antichi. È inoltre lecito chiedersi se, nell’uso di certi temi, l’artista non abbia voluto «fare etrusco», ad esempio nel trono con le teste di sfinge della Madonna di Padova, che è cosí vicino a quello della celebre statua cineraria di Chianciano128, in certi putti danzanti con le braccia alzate che si ritrovano nelle decorazioni vascolari129, forse in certi tipi umani130. La Toscana disponeva inoltre di un certo numero di Storia dell’arte Einaudi 103 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze «fonti antiche» che, per fantasie eccitate dai ricordi storici ed esaltate dalla conoscenza dei testi familiari agli umanisti, potevano apparire non inferiori a quelle della Domus Aurea di Nerone, o a quelle grotte dell’Esquilino che verranno scoperte proprio alla fine del secolo xv. Numerose tombe etrusche erano state visitate, scavate e spogliate nel corso dei secoli. Ma è nel Quattrocento che si assiste alla celebrazione del loro mistero e della loro grandezza. In un poema dedicato a Francesco Filelfo (1454) L. Vitelli fa cosí l’elogio della collina e del palazzo sotterraneo di Corneto che, secondo lui, altro non è che il palazzo di Corythus ricordato nell’Eneide: «Sunt immensa albis exausta palatia saxis», e sotto Innocenzo VIII vi furono messi in luce nuovi elementi131. Siamo qui nelle vicinanze della località piú importante per l’arte etrusca, cioè Tarquinia. Le cronache degli archeologi ci hanno conservato il ricordo della scoperta di ipogei, ad esempio la tomba detta della Mula e vicino a Sesto Fiorentino, avvenuta nel 1494 (è la data fornita da un graffito sull’imposta destra all’entrata della cella), e un po’ piú tardi, nel 1507, delle scoperte avvenute a Castellina in Chianti132. Si è creduto di scoprire, in un disegno del Museo Buonarroti, una copia dell’Ade della tomba dell’Orco a Tarquinia: un viso barbuto sotto un’enorme testa d’animale. Ma nell’affresco si tratta di un lupo e invece nel disegno di un cinghiale; occorre piuttosto pensare a qualche portastendardo romano sul tipo di quelli che si vedono nella colonna traiana133. Invece in un taccuino di viaggio (una raccolta di schizzi che risalgono per lo piú agli anni tra il 1491 e 1495 e di cui rimangono venti foglietti agli Uffizi) Francesco di Giorgio ha notato, passando per Chiusi, il rilievo di un’urna funeraria etrusca che non è stata ritrovata ma il cui stile basta a indicarne chiaramente l’origine134. Storia dell’arte Einaudi 104 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Le allusioni alla grandezza dell’arte etrusca non mancavano nei testi, dove sempre i fiorentini riservavano ad essa una parte teoricamente notevole. L’Alberti nel suo De re aedificatoria dichiara: «Conciosa che havendo l’arte edificatoria il suo antico seggio in Italia e massimamente appresso de Toscani, de quali fuor’ di que’ miracoli, che si leggono dei loro Re, e ancora de laberinti, e de Sepolchri, si truovano alcuni scritti antichissimi e approvatissimi, che ne insegnano il modo del fare i Tempii secondo che gli usavano i Toscani anticamente» (VI, 3); e fornisce altrove (VIII, 3) una descrizione dell’incredibile sepolcro di Porsenna «sotto la città di Chiusi di pietre riquadrate, dentro a la basa, del quale, alta cinquanta piedi era un laberinto... e sopra essa basa cinque Pyramidi una nel mezzo, e una per una fu per i cantoni...»135. Contemporaneamente il Filarete testimonia anch’egli del labirinto gigante di Porsenna che, dice, secondo Varrone, si trovava in Toscana, e che, come il mausoleo d’Artemise fu uno di quegli edifici colossali la cui celebrità è documentata e di cui non rimane alcuna traccia136. Il «mito» etrusco era dunque tenuto vivo dai letterati del Quattrocento. Un po’ piú tardi il Vasari accoglierà tutte queste tradizioni aggiungendovi il richiamo a scoperte recenti come quella della Chimera d’Arezzo e inserendo d’autorità, tra il resoconto sommario dell’arte greca e quello dell’arte romana, una notevole messa a punto sulle antichità etrusche. In essa viene richiamata la testimonianza dell’Alberti, viene richiamato il «labirinto» di Porsenna con le sue «figure a mezzo rilievo», i vasi aretini rossi e neri con le loro piccole figure, le statue trovate a Viterbo nel 1493. Questo paragrafo mirava a valorizzare una tradizione «nazionale», ma questa era già stata messa in valore proprio in questo senso all’epoca del Magnifico137. Un fatto minimo viene a confermare l’attaccamento dei toscani ai Storia dell’arte Einaudi 105 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze grandi nomi della storia etrusca: durante un suo soggiorno ad Arezzo Andrea Sansovino modellò per Montepulciano «di terra una figura grande..., cioè un re Porsenna che era cosa singolare». Il Vasari ricordava d’averla vista138. Non saremo noi a sostenere, come ha fatto il Ruskin, che l’eredità etrusca si sarebbe improvvisamente risvegliata dopo secoli di sonno per ispirare la poesia infernale di Dante, poi la vitalità esuberante o irrequieta di certi artisti del Quattrocento. Ma risulta chiaro che al livello popolare delle leggende (di cui il poema del Vitelli può essere un’eco) e al livello «umanistico» delle grandi prospettive storiche (Alberti) una certa coscienza del passato etrusco e della sua originalità ha cominciato ad affiorare nel Quattrocento. Il «Museo etrusco» nasce lentamente; l’interesse che sembrano dimostrare per esso Antonio Pollaiolo o Donatello non è un’eccezione. Lo stesso interrogativo si può d’altronde porre a proposito di certi artisti della fine del Quattrocento e anzitutto del pittore «bizzarro» (la parola è del Vasari) Piero di Cosimo. Egli dipinse per Francesco del Pugliese (circa 1495) una serie di scene della vita primitiva, piene di battaglie fantastiche, di centauri e di fauni. In una d’esse, il Ritorno dalla caccia, il paesaggio presenta un tratto di mare attraversato da due navi d’una esattezza archeologica che sorprende; è necessario supporre che il pittore abbia avuto presenti dei vasi greci arcaici, cioè «etruschi»139. I rilievi di Bertoldo nel palazzo di Bartolomeo Scala (circa 1490 presentano temi aspri e violenti e lo stesso modo di trattare le forme appare «appiattito» per cui si è portati a chiedersi se questo scultore un po’ a sé non abbia voluto imitare qualche sarcofago etrusco140. Non meno significativo tuttavia è trovare (sia pure trasposta in uno stile da profilo ellenistico) la figura di un demone ctonio con serpenti, una figura che sembra tipica- Storia dell’arte Einaudi 106 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze mente etrusca, sul fregio della villa di Poggio a Caiano (circa 1485)141. Leonardo aveva passato la sua infanzia nel Valdarno. Si è parlato di atavismo etrusco a proposito di certi suoi interessi che colpiscono solo per una generica analogia con certi aspetti della vecchia civiltà toscana, ad esempio la scrittura rovesciata da destra a sinistra, gli studi di idraulica, l’attenzione al volo degli uccelli, il gusto per la scultura modellata e in bronzo con esclusione della pietra142. Nemmeno il sorriso «arcaico», è da considerare come una reminiscenza o una derivazione143. Ma ci sono forse dei dati piú precisi: si nota nell’opera giovanile la frequenza di figurazioni di animali, in particolare di combattimenti tra bestie selvagge e draghi fantastici, e soprattutto il fatto che la prima opera di Leonardo sia stato quel volto di Medusa che suo padre volle portare ai collezionisti fiorentini. Non si può trattare in questo caso che di una invenzione «all’antica» ispirata da un modello etrusco, forse qualche antefissa o maschera di Gorgona144. Il soggetto era di moda: lo si ritrova, adattato certamente sulla base di armature romane, sulle corazze modellate dal Verrocchio145. Cosí è da vedere senza dubbio una ricomposizione dall’etrusco nello strano mausoleo di forma conica, con vani a ipogeo (Louvre), la cui struttura e lo stesso andamento delle volte richiamano espressamente i tumuli di Cerveteri e di Vulci. Il disegno però e abbastanza freddo, non è condotto con la mano sinistra e l’attribuzione a Leonardo è con buon fondamento contestata. Si pensa piuttosto a Francesco di Giorgio, sebbene non vi possano essere dubbi sulla fonte a cui questi si è ispirato146. Gli ambienti romani alla fine del Quattrocento non risparmiavano sforzi per ricomporre intorno alla loro città il mito imperiale, e i primi musei che vi furono creati, ad esempio quello Capitolino al tempo di Sisto Storia dell’arte Einaudi 107 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze IV, erano in funzione del mito di Roma147. Gli umanisti toscani si sforzavano di convogliare in favore di Firenze la grande idea «nazionale» (cioè romana). È ciò che spiega come ad esempio, nella celebre epistola del Poliziano De civitatis florentinae origine, si avverta una certa discrezione a proposito dell’origine etrusca; l’unico accenno si ha allorché si parla delle conoscenze della ninfa Faesula (Fiesole) nell’arte aruspicale148. Non tutti gli umanisti erano sensibili al «mito etrusco»; questo però continuava a svilupparsi dato che se ne troverà l’espressione completa vent’anni piú tardi in circostanze particolarmente significative. Nel settembre 1513, dopo l’elezione di Leone X, Giuliano de’ Medici fu invitato in Campidoglio per ricevervi, con un fasto eccezionale, il titolo di cittadino romano. Opuscoli e lettere ci descrivono le cerimonie che hanno segnato una data nella storia del teatro, dato che una sala di grandi dimensioni (m 33 X 27 X 15 d’altezza) fu costruita appositamente da Antonio da Sangallo e decorata sulla facciata e sui fianchi con numerosi pannelli istoriati dal Peruzzi col consiglio di Tommaso Inghirami. Ora i soggetti di questa decorazione erano stati pensati da cima a fondo in funzione della storia etrusca e degli episodi nei quali, secondo Tito Livio, questo popolo era venuto in contatto con Roma, cioè gli antenati di Giuliano si erano incontrati con i fondatoti del Campidoglio. Allusioni trasparenti al presente non mancavano e iscrizioni opportune venivano a metterli in evidenza: Foedus a populo romano cum Hetruscis, Tarquinius hetruscus Romae regnat né manca il ricordo dell’originalità degli antichi toscani: Augurum disciplina Hetruria Romam invecta. Roma liberi erudiendi se in Hetruriam mittuntur. Storia dell’arte Einaudi 108 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze In queste ricostruzioni storiche, ad esempio sulla facciata dove si vedevano Enea e gli etruschi, Porsenna e Muzio Scevola, l’incontro dei due popoli a Caere, ecc., i costumi, i tipi, gli atti dovevano mostrare le differenze tra etruschi e romani. Questi quadri evidentemente presupponevano la modesta «archeologia etrusca» che si era venuta lentamente costituendo nel corso del Quattrocento149. Chi vi si applicò piú a fondo sembrano essere stati gli eruditi di Viterbo150. Egidio da Viterbo, ammiratore entusiasta del Ficino in gioventú, e il piú illustre rappresentante del platonismo a Roma all’epoca di Giulio II e Leone X, aveva pensato di scrivere una storia d’Etruria. Nella sua Historia XX saeculorum, l’unica opera da lui realizzata, lo spazio dedicato agli etruschi nella evoluzione dell’umanità è di una ampiezza eccezionale: gli etruschi sono venuti dalla Caldea a portare la civiltà in Italia; la loro storia è parallela a quella di Israele, i Lucumoni «divinarum rerum interpretes» sono la stessa cosa che i patriarchi; Giano è contemporaneo di Noé, Giasone di Mosé. Ercole ha fondato presso di loro una potente dinastia (un Ercole italico distinto dall’eroe greco), e, sotto questa dinastia, l’Etruria ha dominato su tutto il mondo prima di dare origine, attraverso Roma, figlia di Italo, ad una nuova potenza storica151. L’opera degli etruschi si è esercitata soprattutto sul piano religioso, ciò che permette d’affermare: «Tyrreni imperio, cultu, religione, divinarum humanarumque scientia fuisse universo orbi terrarum admirabiles» (fol. 31); nelle ore difficili si è visto il papa rifugiarsi in Toscana, come nello «eterno rifugio e difesa della Chiesa» (fol. 200). Accettando l’etimologia, del resto già proposta dall’antichità e ripresa da Annio da Viterbo, che fa derivare Tyrrenius da turris, Egidio non esitava proporre di innalzare un’alta torre al di sopra di San Pietro Vaticano per ricordare queste origini (fol. 121)152. Storia dell’arte Einaudi 109 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Egli aveva saputo sviluppare, all’interno del suo neoplatonismo, curiosità precise in direzione della Cabala e dei geroglifici. A questo si deve aggiungere il suo importante intervento nel senso dell’«etruscan revival», in cui ancora una volta egli si riallaccia ai fiorentini153. Storia dell’arte Einaudi 110 Capitolo quinto Il busto di Platone Stando a un celebre passo del Valori, Lorenzo sognava da tempo un ritratto di Platone; e fu per lui una grande gioia quando ricevette da un certo Girolamo Roscio da Pistoia un busto del filosofo «scoperto tra le rovine stesse dell’Accademia»154. Una copia di quest’opera preziosa si trovava certo a Careggi, dato che una leggenda malevola, d’origine savonaroliana, racconta che il Ficino aveva acceso davanti all’immagine venerata una lampada da chiesa155. Quest’opera, considerata una delle piú preziose «anticaglie» medicee, costituiva il simbolo della nuova Accademia. Ma il suo era un valore essenzialmente immaginario; l’opera non poteva esser stata trovata nei giardini di Academos, dato che se ne ignorava la collocazione. Piú che di un falso, si trattava certamente di una replica romana identificata abusivamente (forse fraudolentemente) come l’originale di una scultura famosa, il busto scolpito da Silanione156. È difficile seguirne la storia a causa del saccheggio del 1494, della dispersione delle raccolte medicee, dell’abbandono della villa del Ficino a Careggi. Il Platone mediceo figura successivamente nella collezione di Fulvio Orsini, poi in quella del Gori; in seguito sarebbe passato all’Università di Pisa, donde sarebbe alla fine pervenuto agli Uffizi157. Fino a non molto tempo fa si poteva vedere in palazzo Medici una testa antica posata su una base e accompagnata dall’iscrizione greca: plßtwn. Un’altra opera dello Storia dell’arte Einaudi 111 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze stesso tipo si trova da gran tempo nella sala delle epigrafi agli Uffizi158. È fra questi busti che si deve cercare il Platone di Lorenzo. Il tipo che si ammetteva nel Quattrocento era quello del vecchio barbuto; Fulvio Orsini l’ha confermato in modo abbastanza avventuroso attraverso l’iscrizione di una gemma. Una serie di busti di divinità, di Dioniso o di Ermete, ha potuto cosí essere battezzata come Platone159; è proprio il caso degli esemplari fiorentini conservati. Gli umanisti fiorentini cercavano anzitutto il significato «etico» del personaggio che, secondo la tradizione, Silanione era riuscito a individuare in modo assai felice160. Nella sua Vita Platonis il Ficino, fondandosi sui biografi antichi, ricorda che il filosofo era di «una prestanza splendida e particolarmente robusto... e che il suo nome derivava dalle sue larghe spalle, dalla sua grande fronte, dalla sua mirabile apparenza»161. Il motivo del «grande Platone» ricorre frequente nelle evocazioni letterarie del tempo. Cosí Ugolino Verino, all’inizio del suo poema teologico Paradisus, descrive un personaggio dagli occhi scintillanti, «quique humeris late longe supereminet omnes»162. In un curioso passo del suo Convito Dante aveva proposto Platone come tipo ideale del vecchio; egli ne avrebbe incarnato e la sua fisionomia ne avrebbe espresso tutte le virtú. Perfetto esemplare della natura umana, egli sarebbe vissuto, stando al De Senectute, 81 anni (9 x 9), cifra che fissa un termine preciso della vita. Se Cristo non fosse stato crocifisso al culmine della curva della parabola vitale e se l’avesse seguita fino alla morte naturale, sarebbe vissuto, afferma Dante, fino ad avere la stessa età di Platone163. Si doveva dunque cercare nell’immagine di Platone il tipo del Saggio perfetto secondo le regole della «fisionomica». Il Ficino non poteva, a questo proposito, che confermare ciò che Dante aveva detto. Il risultato fu non solo un equivoco sul «ritratto» del maestro dell’Accademia: si arrivò Storia dell’arte Einaudi 112 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze anche a sostituire immagini moderne ai busti antichi od almeno ad accontentarsi di un curioso compromesso. In concorrenza con l’immagine antica si venne diffondendo in effetti nel Quattrocento un tipo «contemporaneo» del Saggio, ispirato alle personalità in cui meglio sembrava rivivere l’ideale filosofico. Aristotele nella seconda metà del secolo xv aveva cosí assunto la figura di un «mago» ispirata all’aspetto di certi greci moderni, seguaci dello Stagirita, e piú precisamente di Manuele Crisolora164. Una tavoletta in bronzo, spesso copiata, del Museo di Braunschweig ci presenta questo Aristotele con berretta e cappuccio e una lunga barba che, unendosi ai capelli, discende sulle spalle e sul petto165. La figura rappresenta a meraviglia ciò che nel Quattrocento si intendeva per «dignità del sapere». Quest’immagine maestosa doveva attrarre l’attenzione di Leonardo e forse servirgli di modello per la sua pettinatura e il suo aspetto fisico in genere166. L’attrattiva di questa immagine sembra esser stata cosí forte che anche Platone finí per essere concepito in modo analogo. E questo tipo convenzionale è forse all’origine del ritratto ideale dello «studiolo» di Urbino (Louvre), nel quale Platone con lunghi capelli biondi e ricci assume un aspetto sognante e sentimentale167. Piú solido e conforme al modello diffuso dalle placchette bronzee, il profilo di Platone corrisponde a quello di Aristotele sull’arco trionfale della «Filosofia» in una celebre pagina dell’Etica a Nicomaco, illustrata a Napoli poco prima del 1500168. A Firenze i miniaturisti che ornarono le traduzioni e trattati del Ficino, in particolare Attavante, non han fatto alcun sforzo di immaginazione: hanno ripetuto la figura del Saggio in berretta, figurandolo il piú delle volte con una barba bionda senza alcun tratto «fisionomico» piú preciso. Il caso piú tipico è forse costituito dal manoscritto delle Enneadi illustrato anteriormente al 1490 da Attavante per conto di Filippo Valori. Se dobbiamo Storia dell’arte Einaudi 113 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze credere alla dedica, questi l’aveva fatto ornare in modo ricco per la sua biblioteca: la lettera iniziale ci mostra il ritratto del Ficino, i busti dei medaglioni sono banali figure di profeti e filosofi in tocco e berretta169. Un serio tentativo di rinnovare e meglio definire l’immagine dei poeti, dei dotti e dei saggi, era però necessario170. L’immagine di Platone si ispirava da secoli a una prospettiva ideale: celebrato tradizionalmente come medico e un po’ anche mago, profeta della Trinità, padre della Metafisica (cosa che permette di collocarlo, di contro ad Aristotele, nei quadri dipinti in gloria di san Tommaso) Platone alla fine del Quattrocento diventa il «maestro del Divino»171. La soluzione, come avviene in molti altri casi, si deve a Raffaello. Nella Scuola d’Atene lo stesso suo piano rendeva necessaria una precisazione dell’iconografia dei saggi ed egli cercava di preferenza la «convenienza», cioè l’accordo tra la fisionomia, l’atteggiamento e lo spirito. Per Platone egli tenne presente insieme il modello antico, cioè il busto mediceo, dal quale deve derivare la calvizie ed il profilo, e il modello moderno, che esigeva la lunga barba e i lunghi capelli; e infine derivò da Leonardo il gesto tipico che assicura alla figura il suo slancio e la sua unità172. Storia dell’arte Einaudi 114 Capitolo sesto I bronzi di Bertoldo Bertoldo è una personalità sacrificata soprattutto se si pensa a Donatello, che è stato suo maestro, al Verrocchio, suo contemporaneo, e a Michelangelo che quindicenne fu in contatto con lui. Della sua carriera si sa assai poco. Nato nel 1440, lavorò tra il 1460-68 ai pulpiti di San Lorenzo con Donatello. Al pari di lui era specialista del bronzo; ma non ha mai realizzato opere di grande respiro, come ha fatto invece Antonio Pollaiolo a Roma o il Verrocchio a Venezia. Una lettera del 1479 attesta che era familiare dei Magnifico, e tale rimase fino alla morte avvenuta nel 1491. La sua attività era doppia: sorvegliava e custodiva le collezioni medicee, componeva e fondeva per Lorenzo e i suoi amici dei piccoli bronzi nei tre generi allora di moda: statuette, placchette, medaglie173. Secondo Benedetto Dei, «faceva sempre col Magnifico Lorenzo cose degne»174. Cosí egli occupava nella cerchia medicea una posizione centrale. Se la sua personalità avesse avuto maggior respiro e maggiore autorità, la sua attività ci permetterebbe di cogliere con esattezza il punto in cui, all’epoca di Lorenzo, si passa dal museo all’invenzione, dall’umanesimo all’arte. I fiorentini non erano i soli che amassero i piccoli bronzi. Dopo il 1460 a Padova si era sviluppato, per suggestione di Donatello, una sorta di iperclassicismo: placchette fini come quelle del Moderno su soggetti antichi Storia dell’arte Einaudi 115 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze e pagani, statuette e figurine d’un naturalismo analitico, in cui, prima del vigoroso Riccio, si avverte, intorno al 1490, un’ispirazione che si frantuma e tende al bibelot175. In Toscana non avviene lo stesso: il ricordo di Donatello e l’esempio del Pollaiolo assicurano una maggiore vivacità; spesso la ricerca dell’effetto arriva alla confusione, nel momento in cui il gusto si orienta piú che mai verso il piccolo formato. Verrebbe fatto di attribuire la paternità di questo stile a Bertoldo, se i rilievi e le placchette in bronzo del senese Francesco di Giorgio non rivelassero un’ispirazione analoga, però con una sensibilità superiore a quella di Bertoldo176. Il rilievo della Battaglia (Bargello), che si trovava in una delle sale di palazzo Medici, è l’unica opera di qualche respiro di Bertoldo: un pezzo di bravura in cui però la mancanza di unità e di profondità sono innegabili. Oltre che nelle molte medaglie-ritratto, in cui il rovescio è generalmente ornato di complicate allegorie, Bertoldo sembra essersi specializzato nella esecuzione di statuette, placchette ornamentali e medaglioni tondi (65 mm) che si distinguono dalle medaglie in quanto si compongono in serie e non si riferiscono ad un personaggio definito, né recano ritratti. Se ne conoscono una ventina, tutti a soggetto mitologico, fra i quali il piccolo gruppo che in un primo tempo si era creduto dover isolare attribuendolo al cosiddetto «Maestro della leggenda di Orfeo»177. Non è chiaro quale fosse la loro destinazione: forse, fusi in oro, questi medaglioni ornavano scrittoi o gabinetti. Ci rimangono solamente dei modelli in bronzo, spesso d’una fattura un po’ sommaria: i pezzi in metallo prezioso può darsi che siano stati fusi in momenti difficili178. Nell’inventario di Lorenzo del 1492 non figurano piú in realtà le medaglie d’oro che esistevano prima; vengono però ricordate le medaglie d’argento e di bronzo come distinte dalle monete. Il modo in cui Bertoldo realizza queste opere è un po’ Storia dell’arte Einaudi 116 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze confuso e sembra che vada aumentando sempre piú la tendenza agli effetti di tocco e di riflessi a spese dell’incisività e del modellato liscio. Ma questa scultura minore tende, per cosí dire, a creare delle opere di devozione ad uso degli umanisti, in cui i grandi fatti del mito sono distribuiti in episodi con poche figure. Abbiamo cosí fra i medaglioni ispirati all’Eneide la Fucina di Vulcano, Venere che consegna le armi ad Enea, Enea agli Inferi, e, fra quelli ispirati al mito d’Orfeo, almeno tre scene: Orfeo e gli animali, Orfeo agli Inferi, Orfeo e le Menadi, che sono in realtà delle eccellenti miniature in bronzo. La statuetta d’Apollo (o Orfeo) che suona la viola sollevando dolcemente una gamba (Bargello) rivela un piglio piú personale del bronzo del Bellerofonte. Ma la serie piú originale è quella che si ispira alle dotte allegorie dell’amore. In una placca conservata in due mediocri esemplari (Victoria and Albert Museum, collezione del palazzo Ducale di Venezia) è rappresentata l’Educazione d’Eros: a sinistra Eros studia con Mercurio, a destra è presentato da Venere a Vulcano che gli applica le ali179; come in tutte queste scene, Venere appare alata e Marte porta un grande elmo. Un piccolo rilievo circolare (cm 0,15) conservatoci in migliore stato, presenta, in una fusione esperta, una composizione abbastanza elegante (Victoria and Albert Museum): tra Mercurio che gli insegna come usare il filo a piombo e due personaggi che reggono strumenti di misurazione, il piccolo Eros si esercita nel modellare. È l’illustrazione della massima adottata dagli umanisti per cui «Amore è il principio di tutte le arti» (cioè dell’attività creatrice). Come le piccole serie composte in margine ai grandi miti richiamano i «medaglioni» poetici del Poliziano delle Sylvae, nei quali pochi versi riassumono un episodio e fissano un personaggio, cosí questi rilievi sono come dei formulari emblematici delle dottrine dell’ambiente laurenziano. Certe composizioni sono difficilmente deci- Storia dell’arte Einaudi 117 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze frabili: ad esempio il rilievo con L’Albero degli amorini (Kaiser Fredrich-Museum), nel quale l’accento un po’ grezzo, le linee confuse e la condotta spezzata sono tipiche di Bertoldo. Una figura di fauno vista di schiena sembra voler «cogliere» un amorino dall’albero al quale le figurine sono sospese, e una divinità fa segno a un giovane a sinistra che esita, e che forse attende una giovane donna in piedi a destra. Cosí Venere alza la mano verso l’albero180. La composizione, un po’ maldestra e priva di spazio, è animata anche dalla coppia di amorini che lottano in primo piano e che dopo tutto forniscono la chiave della scena. Essi sono copiati da una gemma antica che già Donatello aveva utilizzato nella sagrestia vecchia di San Lorenzo. Essi rappresentano Eros e Anteros e la lotta dei due amori181. In passato sono stati attribuiti al Verrocchio (poi con fondamento ancora minore a Leonardo) parecchi rilievi di qualità abbastanza elevata, che forse datano del 1475, per i quali l’unica incertezza possibile è tra Bertoldo e Francesco di Giorgio: tra gli altri, l’allegoria detta della Gelosia (Victoria and Albert Museum) e un rilievo di esecuzione sommaria che rappresenta il ratto di una donna ad opera di un centauro aiutato (o contrastato) da due satiri (Louvre). Se si devono riferire a Bertoldo, queste composizioni attestano un interesse per le immagini di violenza e la ricerca dei contrasti, per gruppi che valgano a suggerire la diversità delle passioni e delle forze dell’anima182. Il punto d’arrivo di questa ricerca si trova nel fregio che orna il cortile del palazzo di Bartolomeo Scala (circa 1490), capolavoro complesso, e zeppo di allegorie «umanistiche», di Bertoldo. La leggenda della Scuola del giardino di San Marco può in queste condizioni assumere valore di simbolo. Bertoldo è l’esponente di quel complicato processo attraverso il quale certi artisti fiorentini si sono, poco a poco, impadroniti di tutta la cultura dei musei e di ciò che que- Storia dell’arte Einaudi 118 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze sta poteva rappresentare per la cerchia di Lorenzo. Bertoldo ormai non conosce altra fonte che le gemme, le statue, le sculture dei sarcofagi. Con lui siamo giunti alla fase in cui le botteghe si servono regolarmente del repertorio grafico e plastico costituito attraverso mezzo secolo di interesse per le vestigia antiche e custodito nei taccuini di bottega del Ghirlandaio, nelle raccolte del Sangallo e nei margini miniati, infine in tutti questi piccoli bronzi che assicurano ad esso utilizzazioni e divulgazione durevoli. È una situazione diversa da quella di Donatello e del Verrocchio: Bertoldo lavora entro un mondo chiuso, in cui l’invenzione è di breve respiro. Le composizioni dei rovesci delle medaglie mancano di chiarezza, ma le piccole allegorie delle placchette, le scene mitiche presentano una discrezione e una notevole applicazione intellettuale, che sono tipicamente fiorentine e si accordano con il tono della letteratura umanistica: si trova addirittura una Nascita di Minerva che sembra fatta apposta per illustrare le molteplici variazioni che il Ficino comporrà su questo tema; e sul rovescio di una placchetta tonda si vede un’allegoria dell’amore platonico che deve essere riferita direttamente all’insegnamento del De amore183. Siamo ad una uguale distanza dalle fantasie naturalistiche dell’ambiente settentrionale come dalle forme pompose che ben presto prenderanno piede a Roma. In realtà l’arte antica è oggetto di un’attenzione nuova, di cui non è il caso di attribuire la paternità alla «Scuola di Bertoldo», ma invece a tutto quanto l’ambiente fiorentino intorno al 1490: si tratta della «reintegrazione» consapevole delle immagini antiche nelle forme antiche184. Con Botticelli la tendenza a illustrare liberamente i temi poetici o filosofici del mito era arrivata il piú lontano possibile. Filippino aveva inteso questo orientamento in senso opposto, accumulava particolari precisi in un modo tutto Storia dell’arte Einaudi 119 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze esteriore, introducendo nelle sue composizioni religiose una specie di fantasia «archeologica». Lo scenario di «anticaglie» è piú esteriore ancora nel Ghirlandaio. Nulla di comune con l’ansia del Mantegna a Mantova, che imponeva uno stile «romano» a una visione ferma e a un’umanità «eroica», e insomma riusciva ad accordare una forma e un contenuto entrambi derivati dalle fonti umanistiche. Il problema a Firenze sembra essere stato avvertito solo da Bertoldo: egli sembra interessarsi quasi esclusivamente ai temi mitologici, con la doppia preoccupazione di decifrarne compiutamente il valore e di ritrovarne la forma antica185. Concepita nell’ambito del museo mediceo, questa «reintegrazione» tendeva a realizzarsi a Firenze in collaborazione con l’umanesimo di Careggi. Questo appare chiaramente nella formazione di Michelangelo giovane. Il Condivi, in questo meno tendenzioso del Vasari, riferisce che a quindici anni il piccolo Buonarroti fu introdotto, grazie al Granacci, nel casino mediceo e si mise a lavorare con passione dalla mattina alla sera «come in migliore scuola». Già da tempo gli artisti entravano in questo luogo in veste di restauratori, ma il giovane Michelangelo sa trarre da questo privilegio un partito nuovo, che risulta illustrato nel modo migliore dal famoso aneddoto della testa di fauno antico copiata con attenzione ai particolari «fisionomici»186. Nello stesso tempo che disegnava gli affreschi di Masaccio per assimilarne la gravità e la struttura, assimilava, imitando i pezzi antichi, i principî di uno stile. Nel campo del disegno, come in quello della scultura, la sua grande abilità gli permetteva di fabbricare dei veri e propri falsi187, cioè di raggiungere una precisione e una coerenza nuove nell’effetto d’insieme. Ammesso a studiare le collezioni di monete e di toreutica nei gabinetti di via Larga, raggiunse una competenza d’esperto e ci si è sforzati di ritrovare nelle sue opere tracce precise della cul- Storia dell’arte Einaudi 120 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze tura che si era cosí assicurato188. Ma il problema non si riduce a quello di un inventario delle sue fonti che non erano se non un punto di richiamo per l’immaginazione; tale problema si amplia necessariamente per il fatto che Michelangelo, frequentatore abituale delle raccolte medicee, era nello stesso tempo commensale del Landino, del Ficino, di Pico e del Poliziano189. Per alcuni mesi almeno è divenuto cosa concreta il legame tra poesia ed arte, tra visione simbolica e esperienze di conoscitore. Il Poliziano si era legato al giovane scultore e «di continuo lo spronava, benché non bisognasse, allo studio; dichiarandogli sempre e dandogli da far qualche cosa. Tra le quali un giorno gli propose il ratto di Deianira e la zuffa dei Centauri, dichiarandogli a parte per parte tutta la favola»190. Si trattava qui non di Deianira ed Ercole, ma della Battaglia di Teseo e dei Centauri al festino di Piritoo, raccontata in Ovidio (Metamorfosi, XII, 210). Il giovane Michelangelo ha saputo realizzare nel suo rilievo marmoreo la costruzione che mancava nel bronzo di Bertoldo; ha cercato e trovato un legame drammatico tra le figure individuando nel racconto i tre elementi dominanti: il ratto della donna contesa tra un centauro e un lapita (a destra), il gesto di Piritoo in atto di colpire (a sinistra), l’intervento di Teseo (in alto). Confrontandolo con la fronte di cassone di Piero di Cosimo, in cui appaiono lo stesso soggetto e gli stessi episodi191, risulta chiaro che lo scultore ha cercato una coerenza e un’unità di cui il pittore non si è curato. Questo esempio mostra chiaramente dove abbia inizio lo sviluppo decisivo. Le stesse osservazioni si possono fare a proposito di tutte le opere giovanili di Michelangelo: il Bacco ubriaco del 1496 si stacca già per una ampiezza e una varietà d’intenzioni nuove dalla tradizione fiorentina dei piccoli rilievi «dionisiaci». Il Condivi dirà che la sua forma e il suo aspetto rispondono in tutto all’intenzione degli autori antichi. Questa stessa chiarezza di Storia dell’arte Einaudi 121 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze concezione è l’elemento fondamentale del Cupido addormentato, di cui verosimilmente si conserva il ricordo nel quadro di Marte e Venere del Tintoretto (Monaco, Pinacoteca)192, e dell’Ercole scolpito al momento della morte di Lorenzo. Nelle composizioni religiose Michelangelo istintivamente cerca un’ampiezza di volumi che di per se stessa esclude le minute derivazioni pittoresche. Il Vasari ha giustamente indicato il punto di partenza della Madonna della Scala, eseguita da Michelangelo «giovanetto»: lo scultore ha voluto qui «contrafare la maniera di Donatello». Si tratta in realtà di un rilievo a «stiacciato» con contrasti di piani che richiamano, ad esempio, il rilievo di Siena. Ma inutilmente si è cercata nell’ambito donatelliano una composizione di questo tipo: la figura seduta, vista di profilo, con grandi veli, non trova riscontro che in stele funerarie o gemme antiche. Il rilievo michelangiolesco si ispira alla loro chiarezza di taglio e alla loro linea continua nonché alla ricerca delle minute accidentalità significative del rilievo193. Le opere antiche non sono piú considerate come repertori di particolari interessanti che basta riprendere e ricomporre liberamente; ciò che ora importa è il legame dello stile e l’unità dell’effetto: in un rilievo di battaglia ciò che conta è il movimento d’insieme, in una figura l’energia che sembra animarla. Una preoccupazione di questo genere risulta nuova, per quanto se ne può giudicare, nel 1490194. Applicata ai personaggi del mito, essa presuppone che questo abbia un significato che interessa ricostruire di per se stesso, non come pretesto per una illustrazione in cui sarebbe agevole mettere in evidenza un simbolo morale o uno spettacolo che allontanerebbe dal grande stile. L’Antichità non appare piú come una serie di episodi e di temi isolati, ma come un tutto, come un «cosmo storico». Tutto in esso è solidale: idee, sentimenti, forme. Era questa la conse- Storia dell’arte Einaudi 122 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze guenza del rispetto che Lorenzo aveva per l’architettura degli antichi, il Poliziano per la loro poesia, il Ficino per la loro religione, Donatello e Bertoldo per la loro scultura. L’imitazione episodica di un tema da allora in poi appare come un’ingenuità. A questo punto prevale la vera e propria emulazione degli antichi. Michelangelo affermerà sempre, come il Poliziano, che la cultura non è nulla se non è vivificata dall’energia personale. A proposito di uno scultore che si vantava di fare copie dall’antico superiori agli originali, egli sentenzierà senza incertezze: «Chi va dietro a altri, mai non gli passa innanzi. Chi non sa far bene da sé non può servirsi bene delle cose d’altri»195. Per intendere la posizione originale dei moderni è bene avere inteso l’unità del mondo antico. Ma quest’idea a Firenze era ancora una intuizione a mezz’aria: è a Roma, all’epoca di Giulio II e di Leone X, che essa è stata intesa in tutta la sua portata. vasari, ed. Milanesi, vol. II, p. x; ed. C. L. Ragghianti, I, p. 650. Su tutti questi problemi: f. v. duhn, Über die Anfänge der Antikesammlungen in Italien, in «Nord und Süd», xv (1880), pp. 293-308; j. burckhardt, Die Sammler, in Beiträge zur Kunstgeschichte von Italien, edizione completa, XII, Berlin 1930, pp. 293-396; r. krautheimer, Lorenzo Ghiberti, Princeton 1956, ci ha dato un prezioso catalogo dei sarcofagi e rilievi antichi accessibili agli artisti intorno al 1450. 3 Il Giubileo dell’anno 1450 secondo una relazione di Giovanni Rucellai, in «Archivio della Società romana di storia patria», iv (1881). 4 vasari, ed. Milanesi, V, p. 55. 5 Vita di B. Cellini, ed. A. Padovan, Milano 1915, pp. 3 e 18. e. müntz, Les précurseurs ecc. cit., cap. II, pp. 44 sgg.; f. albertini, Memoriale di molte statue e picture della Città di Firenze, Firenze 1510. 6 vasari, Vita di Nicola e Giovanni Pisani, ed. Milanesi, I, pp. 294 sgg. 7 vasari, Vita d’Arnolfo, ibid., p. 285, e successivamente g. lami, Lezioni di antichità toscane, Firenze 1766, pp. xii-xiii e tav. i, p. 196; anche Boccaccio (Decameron, VI, 9) li ricorda. Se ne conoscono cinque, due dei quali si trovano ancora ai lati della porta sud, uno segnalato a 1 2 Storia dell’arte Einaudi 123 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze palazzo Medici, un altro che serve da tomba all’interno dello stesso Battistero, un quinto agli Uffizi: w. paatz, Kirchen, vol. II, pp. 207 e 265, n. 178. 8 w. paatz, Kirchen cit., II, pp. 173 e 211 n. 2; su questa leggenda, dante, Inferno, XIII, 143 e soprattutto g. villani, I, capp. 42 e 60. Sulle testimonianze di M. Palmieri e del Poliziano, cfr. g. richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine, Firenze 1757, vol. V. 9 w. paatz, Kirchen cit., vol. IV (1952), p. 245 n. 2. Sulla cappella del 62: g. villani, cap. 57, g. lami, Lezioni ecc. cit., vol. I, p. 27. Si trovano dei rilievi della chiesa dei SS. Apostoli in una raccolta di disegni d’edifici romani di Firenze attribuita con fondamento a Simone Cronaca: l. grassi, in «Palladio», vii (1943), pp. 14-22. 10 w. paatz, Kirchen cit., vol. I, p. 245 n. 3. g. villani, III, 3; coluccio salutati, ed. Moreni, Firenze 1826, pp. 21-22; Vita anonima di Brunelleschi, ed. E. Toesca, Firenze 1927, p. 29. Il vasari, ed. Milanesi, vol. I, p. 238, ricorda un’iscrizione marmorea che ricordava la fondazione dei SS. Apostoli nell’805; vi si è visto un falso dell’epoca del Magnifico connesso con la diffusa celebrazione delle glorie fiorentine che si ebbe intorno al 1490. La cosa non sarebbe sorprendente: i falsi destinati a confortare le glorie storiche di una città non erano rari nel Quattrocento: quelli di Annio da Viterbo sono celebri: i. faldi, Dipinti e sculture del Museo civico, Viterbo 1955, n. 38. Ma secondo w. paatz, Kirchen cit., vol. I, in fine, l’iscrizione che si trova sul verso di una lastra degli inizi del secolo xiii deve risalire a quest’epoca: si tratta di un falso medievale. 11 g. soulier, Les influences orientales dans la peinture toscane, Paris 1924, ha posto questo grande problema senza risolverlo plausibilmente, non avendo chiara la componente d’esotismo che è propria di tutta la cultura «gotica» (tale componente è stata in seguito evidenziata da j. baltrusaitis, Le Moyen-Age phantastique, Paris 1955); egli però ha mostrato la diversa atmosfera che regnava a Roma e a Firenze e ha sollevato il problema «etrusco». 12 I fiorentini richiameranno spesso, fondandosi sulla vecchia Chronica de origine civitatis (inizi del secolo xiii) e su G. Villani, le origini romane di Firenze fondata da Silla o Cesare in concorrenza con la città etrusca di Fiesole: n. rubinstein, The beginnings of political thought in Florence, in «jwci», v (1942), p. 198. Sul problema «etrusco», cfr. piú avanti. 13 a. chastel, Di mano dell’antico Prassitele, in Eventail de l’histoire vivante (Mélanges Lucien Febvre), Paris 1953, col. II, pp. 265-71. e. müntz, Les précurseurs ecc. cit., trad. it. Firenze 1902; e. walser, Poggius Florentinus, Leben und Werke, Leipzig 1914, cap. XVIII; e. jaeschke, Die Antike in der florentinischen Malerei des Quattrocento, Strassburg 1900; j. von schlosser, Leben und Meinungen des florentinischen Storia dell’arte Einaudi 124 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Bildners Lorenzo Ghiberti, Basel 1941, III (Der Sammler und Liebhaber der Antike). 14 Sullo Squarcione: c. ridolfi, Le maraviglie dell’arte, 1648, pp. 6768; sul medico veneziano Giovanni Dondi, che cercava pezzi interessanti a Roma nel 1375, e la funzione dei da Carrara di Padova: j. von schlosser, Die ältesten Medaillen und die Antike, in «Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen», xviii (1897). Su Gentile Bellini: g. gronau, Die Kunstlerfamilie Bellini, Leipzig 1909, p. 51. Su F. Feliciano (1433-80): g. fiocco, Felice Feliciano amico degli artisti, in «Archivio venetotridentino», ix (1926), pp. 188-206. 15 Cfr. piú sopra l’introduzione; e. müntz, Les collections ecc. cit.; e Mostra Medicea, Firenze 1939; soprattutto: e. kris, Meister und Meisterwerke der Steinschneidekunst in der italienischen Renaissance, Wien 1929, 3 (Die Sammlungen). 16 vasari, Vita di Mariotto Albertinelli, ed. Milanesi, IV, p. 218. 17 Documenti su questa costruzione in a. kristeller, Andrea Mantegna, Berlin 1902, pp. 429, 525, 528, e sull’abitazione propriamente detta del Mantegna a Mantova, pp. 214-15. g. fiocco, Andrea Mantegna e il Brunelleshi, in «Atti del I Congresso Nazionale di Storia dell’Architettura» (1936), Firenze 1938, p. 180 n. 2 ha corretto l’errore di c. yriarte, La maison de Mantegna à Padoue, in «Cosmopolis», marzo 1897, p. 738, e ha ammesso l’interpretazione del motto ab Olympo proposta da l. dorez, Andrea Mantegna et la légende «ab Olympo», in «C. R. Académie des Inscriptions et Belles-Lettres», 1918, pp. 370-72. 18 Gli inventari sono pubblicati in e. müntz, Les arts à la cour des papes, Paris 1879, vol. II, pp. 181-287. id., Les précurseurs ecc. cit., ed. it., pp. 138-39. 19 u. aldrovandi, Delle statue antiche che per tutta Roma in diversi luoghi e case si veggono, Venezia 1556; p. g. hubner, Le statue di Roma, Grundlagen für eine Geschichte der antiken Monumente in der Renaissance, in «Römische Forschungen der Bibliotheca Herziana», ii, Leipzig 1912; c. hülsen, Römische Antikengarten des XVI Jh., in «Abh. Heidelberger Akad. Wiss.», Heidelberg 1917. 20 l. passerini, Curiosità storico-artistiche fiorentine, Firenze 1866; e. müntz, Les collections ecc. cit., p. 107. I pezzi archeologici divisi nel Quattrocento tra le residenze medicee, poi spostati nel corso dei secoli seguenti, sono stati in gran parte depositati agli Uffici; gli inventari di h. dütschke, Die antiken Marmorbildwerke der Uffizien in Florenz, München 1897, non sempre però sanno precisare la data del loro ingresso nelle collezioni ducali. gori, Inscriptiones anticae Etruriae, vol. III, tav. xxxiv, cita un sarcofago (da lui creduto etrusco) che si trova «in hortis regiae villae ad podium caianum» (cfr. r. förster, Miscellen, in «Archaeologische Zeitung», vol. xxxii [1875], p. 102 n. 4). Storia dell’arte Einaudi 125 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze c. hülsen, La Roma antica di Ciriaco d’Ancona, Roma 1907. La testimonianza piú significativa delle forme fantasiose che assume la curiosità archeologica metà popolare e metà erudita intorno al 1500, è costituita dalla compilazione Antiquarie prospettiche romane che si deve a qualche lombardo e che è stata ripubblicata da g. govi, Intorno a un opuscolo rarissimo, in «Atti dell’Accademia dei Lincei», serie II, 3, Roma 1876; cfr. Marsile Ficin et l’art cit., p. 149. 22 Sul Fonzio cfr. g. marchesi, Bartolomeo della Fonte, Firenze 1900, p. 103. Sul Sangallo e il Ghirlandaio: h. egger, Codex Escurialensis, ein Skizzenbuch aus der Werkstatt D. Ghirlandaios, Wien 1906; f. saxl, The classical inscription in Renaissance art and politics, in «jwci», iv (1940), pp. 367 sgg. Sui taccuini archeologici di Giuliano da Sangallo cfr. piú avanti. 23 Sulla ricostruzione di opere antiche sulla base delle descrizioni: r. förster, Wiederherstellung antiker Gemälde durch Künstler der Renaissance, in «Jahrbuch der preussischen Kunstsammlungen», xliii (1922), pp. 12 sgg.; è tuttavia possibile estendere ad altri campi la suggestione delle formule e dei testi; cfr. piú avanti. Il concetto di «pseudomorfosi» è stato elaborato da f. saxl, e e. panofsky nel saggio Classical Mythology in mediaeval art, in «Metropolitan Museum Studies», iv (New York 1933). 24 f. bürger, Geschichte des florentinische Grabmals von den ältesten Zeiten bis Michelangelo, Strassburg 1904. Cfr. anche le osservazioni di carattere generale di e. panofsky, in Studies in Iconology, New York 1939, pp. 183 sgg. 25 Su L. Bruni e l’importanza della sua Historia, cfr. v. rossi, Il Quattrocento, 4ª ed., Milano 1949, pp. 31 sgg., 170 sgg. Sull’ammirazione del Ficino per il Bruni, piú avanti, sezione III, cap. II. Circa il tema del libro: h. marrou, Mousicÿj ¶nør, Grenoble 1937. Sulla tomba del Bruni cfr. l. planiscig, Bernardo und Antonio Rossellino, Wien 1942, tav. xiii, e f. bürger, Geschichte des florentinischen Grabmals ecc. cit., cap. V. L’iscrizione afferma il cordoglio della Storia, dell’Eloquenza e delle Muse. 26 m. reymond, La sculpture florentine, III (Seconde moitié du XV siècle), Paris 1889, p. 81. «Non so se esista un’altra cappella che dal punto di vista della sintesi di pittura, scultura e architettura, possa essere paragonata a questa». l. planiscig, Bernardo und Antonio Rossellino cit., tavv. xli sgg. 27 Riprodotto dall’incisione del Lafréri (1549) in c. de tolnay, The Medici Chapel (Michelangelo III), Princeton 1948, fig. 209. 28 Sui motivi antichi, palmette e candelabre, w. altmann, Architektur und Ornamentik der antiken Sarcophage, Berlin 1905, pp. 122 sgg. 29 Abbiamo una lettera di Pierfilippo Pandolfini indirizzata al Platina nel settembre del 1459 a richiesta del segretario del cardinale per 21 E Storia dell’arte Einaudi 126 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze avere una poesia di tono elevato sul defunto: a. della torre, Storia, p. 535. Il Pandolfini insiste sulle qualità e le virtú dei giovane prelato e conclude: «habes campum latissime ad hunc virum exornandum: cum a genere in quo fere omnes mortales excedit, tum quod majus est a virtutibus maximeque a virginitate...» (Anonimo Magliabechiano, cap. VI, 166, foll. 105 b-106 b). 30 vasari, ed. Milanesi, III, pp. 94-95. f. saxl, The origin and survival of a pictorial type, in «Proceedings of the classical Association», vol. XXXII (maggio 1935), pp. 32-35, vede nel tema una combinazione di quello di Ercole vittorioso del toro e dell’altro del sacrificio mitridatico; cfr. anche f. saxl, Mithras, Typengeschichtliche Untersuchungen, Berlin 1931 (con riproduzioni). 31 Sul posto che l’Eros auriga ha nell’arte funeraria antica, cfr. f. cumont, Recherches sur le symbolisme funéraire des Romains, Paris 1942, p. 348. C. Picard segnala il genio alato sulla biga nel tholos di Kazanlak (Bulgaria) in «Revue d’histoire des religions», 1947-48, pp. 113 sgg. 32 Un esemplare proveniente dalla raccolta di Paolo II (dunque acquistato nel 1471) compare in un inventario della collezione di Lorenzo: seymor de ricci, The Gustave Dreyfus Collection, Reliefs and Plaquettes, London 1931, p. 30 (tav. xiv, n. 27); una serie di gemme è citata da gori, Museum florentinum, vol. II, tav. lxx, fig. 2. 33 È la doppia interpretazione di p. schubring, Die italienische Plastik des Quattrocento, Berlin 1919, p. 125: «Nei rilievi laterali del basamento sono raffigurati Ercole vincitore del leone e la salita al cielo di Elia». 34 seymour de ricci, The Gustave Dreyfus Collection, Reliefs and Plaquettes, London 1931, p. 30; g. f. hill, A corpus of italian medals ol the Renaissance before Cellini, London 1930, n. 563, 5, 6. 35 Cfr. Marsile Ficin et l’art cit., int. 3 e parte II, cap. I. 36 j. pope-hennessy, The Virgin and Child by Agostino di Duccio, Victoria and Albert Museum Monograph, n. 6, London 1952, p. 15; il medaglione è avvicinato a una moneta d’argento di Gerone II di Siracusa. 37 Cfr. piú avanti. 38 w. von bode, Denkmäler der Renaissance-Skulptur Toscanas, München 1892, tav. cxxxiv a, l’ha per primo considerato come il busto del figlio del Gattamelata, Antonio da Narni, eseguito da Donatello a Padova verso il 1443. La data, l’attribuzione e l’identificazione del personaggio non sono attualmente piú accettati. Il catalogo della «Exposition de l’art italien» di Parigi del 1935 fornisce la bibliografia fino a tale data e le diverse attribuzioni senza però arrivare a una conclusione. j. lanyi, Problemi della critica donatelliana, ne «La critica d’arte», xix (1939), pp. 9-23, istituisce un lungo confronto tra questo busto e il busto di San Rossore, la cui immediatezza gli sembra inconciliabile Storia dell’arte Einaudi 127 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze con «l’estetismo» del busto del Bargello. Le sue conclusioni sono accolte da l. planiscig, Donatello, Firenze 1947. Anche noi le abbiamo accettate in una breve nota apparsa in «Proporzioni», III (1950), pp. 73-74. Ma h. w. janson, The sculpture of Donatello, Princeton 1957, pp. 141-43, conserva l’attribuzione a Donatello e la datazione intorno al 1440. 39 Come suggerisce it. wittkower, A symbol of platonic love in a portrait buste by Donatello, in «jwci», vol. I (1937-38), pp. 260-61. Il Fedro era stato tradotto da Leonardo Bruni nel 1424; la prefazione del cancelliere (h. baron, Leonardo Bruni Aretinos humanistisch-philosophischen Schriften, Leipzig 1928, pp. 125-28), a differenza del Convito del Ficino, non ha avuto risonanze estetiche. 40 Le attribuzioni di a. schmarsow, in «Repertorium fur Kunstwissenschaft», xii (1889), p. 206 e di m. semrau, Donatellos Kanzeln in San Lorenzo, Breslau 1891, p. 95, al ferrarese Niccolò Baroncelli sono tutt’altro che convincenti. 41 m. ficino, In convivium Platonis sive de amore, VII, 14, versione it. dello stesso Ficino (Firenze 1554), ed. Renzi, 1914, p. 151. De legibus, Dialogus secundus, M. F. argumentum, ed. platone, Opera, Venezia 1571, p. 435: «Aurigam pueritiae equis imponit (Plato), voluptatis et doloris habenas manu tenentem. Um quidem aurigam virtutum scilicet quie primo pueris advenit, qua voluptas et amor dolorque et odium per alienam rationem recte in animos influunt antequam ratione moveantur». 42 h. w. janson, The sculpture of Donatello cit., pp. 142-43 ha istituito parecchi accostamenti interessanti tra i cavalli dei medaglione e i motivi analoghi che si riscontrano nel Gattamelata (tav. ccliii) e nel Golia (tav. cclxviii); egli d’altronde considera il personaggio come abbastanza vicino al San Daniele di Padova ad esempio (tav. cclxxxiv) e ritorna cosí all’idea di un’opera eseguita intorno al 1440 e contemporanea dell’Atys (Bargello). È indubbio che il giovane dal cammeo deriva dall’arte di Donatello ma con una stilizzazione, dei particolari preziosi (come l’arricciatura dei capelli: cfr. tavv. ccxxxiv e ccxxxvi) che sono troppo lontani dalla maniera del maestro. La data proposta lascia perplessi; la voga del tema del «carro dell’anima» non comincia che intorno al 1460. 43 c. yriarte, Livre de souvenirs de Maso de Bartolomeo (Masaccio), Paris 1894, p. 35-37. Cfr. anche: a. foratti, I tondi nel cortile del Palazzo Riccardi a Firenze, in «L’arte», XX (1917), pp. 19-30, e g. pesce, I tondi del Cortile di Palazzo Riccardi, in «Rivista del R. Istituto di archeologia e storia dell’arte», Roma 1935, studi che rispecchiano l’incertezza circa l’attribuzione. 44 Nel palazzo Piccolomini di Pienza (1460-63) il cortile interno, che sembra chiaramente ispirarsi a palazzo Medici, presenta, come questo, Storia dell’arte Einaudi 128 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze una larga fascia sopra gli archi: alcuni segni della presenza di medaglioni circolari sono ancora visibili ai lati del medaglione centrale che reca le armi dei Piccolomini: J. BAUM, Baukunst und dekorative Plastik der Frührenaissance in Italien, Stuttgaft 1926, tav. Cxx. 45 Sull’uso dei «bacini» o tondi di ceramica inseriti nelle facciate delle chiese: e. biavati, Bacini di Pisa, in «Faenza», xxxiv (1948), pp. 51 sgg. Sui «tondi» antichi: j. m. c. toynbee, Roman medaillons, in «Numismatic studies», v (New York 1944). Charles Picard fa notare che l’origine del motivo è greca: altare di Priene (sec. iii), Heroon di Calidonia (sec. ii). 46 a. von salis, Antike und Renaissance cit., p. 280. Secondo il Picard quest’autore fa intervenire qui a torto gli oscilla (dischi liberi a due facce) dei culti bacchici. 47 Nonostante le ipotesi di h. kauffmann, Donatello, Berlin 1936, pp. 172 sgg., che vi vede una serie di allegorie di virtú medicee: il centauro della parete orientale che porta le «palle» ne sarebbe la chiave. Ma, come ha fatto notare J. Lanyi, non si tratta che di un canestro di frutta, e il «ciclo» mediceo non esiste: h. w. janson, The sculpture of Donatello cit., p. 83. 48 e. kris, Meister und Meisterwerke ecc. cit., I, pp. 17 sgg. La storia dell’intaglio di Diomede in l. planiscig, Die Estensische Kunstsammlung, Wien 1919. È questa una ragione di piú per ritardare la data dei medaglioni, dato che nel 1452 non si trovano tutti i modelli nell’inventario di Cosimo: figurano invece tutti in quello di Lorenzo del 1492. 49 e. dütschke, Antike Bildwerke cit., III, 10. 50 e. kris, Meister und Meisterwerke ecc. cit., p. 21; l. planiscig, Die Estensische Kunstsammlung cit., p. 50. 51 p. d’ancona, La miniatura fiorentina, Firenze 1914. 52 Italian manuscripts in the Pierpoint Morgan Library, New York 1953, n. 71, tav. xlix. 53 Bibliothèque Nationale, Lat. 8834. l. delisle, Le cabinet des manuscrits, Paris 1868, vol. I, 218. a. de hevesy, La bibliothèque du roi Mathias Corvin, Paris 1923, tav. xxxiv 54 Il tipo di Diomede seduto che tiene il palladio, frequente nelle gemme antiche (furtwängler, Die antiken Gemmen, nn. 19, 21, tav. ix, nn. 1, 2, 4) si ritrova su placchette. La figura del cortile di palazzo Medici è stata anch’essa ripetuta nei manoscritti medicei e ha servito di esempio a uno degli «ignudi» di Michelangelo, quello a destra sopra la Sibilla Eritrea. c. de tolnay, The Sistine Ceiling, Princeton 1945, p. 65. 55 K. Frey ha studiato sommariamente questo pezzo famoso a proposito del rilievo falsamente attribuito a Michelangelo: Quellen und Forschungen, vol. I, Berlin 1907, pp. 91 sgg. Storia dell’arte Einaudi 129 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Testo in: l. ghiberti, I Commentarii, libro II, ed. cit., I, p. 47 (testo) e II, pp. 177-78 (commento). Cfr. j. von schlosser, Leben und Meinungen ecc. cit., p. 212. L’Anonimo Magliabechiano, ed. K. Frey, Berlin 1892, riporta il passo ghibertiano con molti errori (il bambino diventa un putto, il «giovane» diventa «Giove»), che forse vanno attribuiti a un intermediario; in ogni caso l’intaglio poteva essere ancora mal inteso agli inizi del Cinquecento. 57 j. von schlosser, Der Geist der ghibertinischen Kunst, in Leben und Meinungen ecc. cit., p. 112, e soprattutto: Zwei antike Siegelsteine: der Chalzedon des Niccolò Niccoli und der Karneol der Medici, ibid., pp. 16064. Il nome di Pyrgoteles, tratto da Plinio (Historia Naturalis, XXXVII, 4) è stato particolarmente caro alla fantasia dei quattrocentisti prima di essere adottato da falsari come G. G. Lascari di Venezia. e. kris, Meister und Meisterwerke ecc. cit., pp. 24 sgg. e w. von bode, Der Bronze-Katalog (Museo di Berlino), n. 490. 58 vasari, ed. Milanesi, II, p. 235. La preziosa cornalina, che era un intaglio e non, come si scrive spesso, un cammeo, è andata perduta. Una replica in bronzo si trova al museo di Berlino e questa sembra riprodurre esattamente la montatura del Ghiberti e il pezzo in questione: j. von schlosser, Zwei antike Siegelsteine ecc. cit., p. 16, con riproduzione, e e. kris, Meister und Meisterwerke ecc. cit., n. 28, tav. p. 12. 59 Cosí sul fianco del sarcofago di San Paolo fuori le mura, citato da h. marrou, Mousicÿj ¶nør, Etude de la vie intellectuelle figurant sur les monuments romains, Grenoble 1937, n. 109, p. 108. Il repertorio dei rilievi con Marsia si trova in c. robert, Die antiken Sarcophagreliefs, tomo III, vol. II, Berlin 1904, n. 196-216, tavv. lxiii-lxix. f. cumont, Recherches sur le symbolisme funéraire des Romains, Paris 1942, pp. 28-30. Oltre alla gara di Apollo e Marsia, che qui non ci interessa, l’arte greco-romana ha rappresentato il Supplizio del Fauno impudente: 1) In pittura: quadro di Zeusi ancora ricordato da Plinio (Naturalis Historia, XXXV, 66) nel tempio della Concordia (ghiberti, I Commentarii, I, 2ª ed. cit., p. 22, cita il passo, ma per un equivoco dovuto a una cattiva lettura intende: un Marsia relegato al tempio); 2) Nella scultura monumentale: gruppo di Pergamo; 3) Nella toreutica; 4) Nell’arte funeraria. Sul complesso, j. overbeck, Griechische Kunstmythologie, Leipzig 1887, III, libro V (Apollo), cap. XII (Der musikalische Wettstreit mit Marsyas), pp. 420-32. Nell’arte greca classica Marsia è già chiaramente la «personificazione del genio frigio» come mostra, a proposito del gruppo Athena-Marsia di Mirone, c. picard, Manuel d’archéologie grecque, La scuIpture, II (Ve siècle), vol. I, Paris 1939, p. 232. 60 vasari, ed. Milanesi, II, p. 407 (per Donatello) e II, pp. 366-67 (per Verrocchio). Sul restauro del Verrocchio e il suo significato, cfr. 56 Storia dell’arte Einaudi 130 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze w. r. valentiner, Der «rote Marsyas» des Verrocchio, in «Pantheon», xx (1937), pp. 329-34. 61 h. dütschke, Die antiken Marmorbildwerke der Uffizien in Florenz, Leipzig 1878 (III vol. di Antike Bildwerke in Oberitalien), n. 549: lo Scita e n. 169: il Marsia. Sul gruppo ellenistico: c. picard, La sculpture antique (de Phidias à l’ère byzantine), Paris 1926, pp. 253-54. Sull’altare d’Apollo (sec. i d. C.) trovato ad Arles, il dio citaredo occupa il rilievo centrale e sui fianchi si vedono lo Scita e Marsia appeso per le braccia a una quercia; f. benoit, Le musée lapidaire d’Arles, Paris 1936, pp. 28-29. 62 e. müntz, Histoire des arts cit., Paris 1889, vol. I, p. 257 e K. Frey, ed. cit. dell’Anonimo Magliabechiano, pp. 275 sgg. hanno tracciato la storia del tema. 63 e. müntz, Les collections ecc. cit., p. 69. Si sa che Piero de’ Medici la portò con sé fuggendo da Firenze: id., Les précurseurs ecc. cit., p. 215. 64 e. kris, Meister und Meisterwerke ecc. cit., n. 30 (tav. p. 12), intaglio della Bibliothèque Nationale di Parigi. g. seymour de ricci, The Gustave Dreyfus collection cit., n. 24, pp. 28-29, elenca le versioni note. Sul n. 8 la scritta: «Prudentia, puritas et tertium quod ignoro». 65 c. gamba, Botticelli, trad. fr., Paris s. d., tav. cxiii (riproduzione). j. mesnil, Botticelli, Paris 1938, p. 220. 66 w. von bode, in«Jahrbuch der preussischen Kunstsammlungen», II, xii (1891), p. 167. 67 C’era la moda di portare dei cammei, come dice il vasari, ed. Milanesi, V, p. 337 e come ricorda l. courajod nell’opuscolo Limitation et la contrefaçon des objets d’art antiques aux XVe, et XVIe siècles, Paris 1889. 68 Cod. hist. prof. 66 (Biblioteca di Vienna) vol. I: Philostratus, Heroica, Icones, descritto in: Beschreibendes Verzeichnis der illuminierten Handschriften in Österreich (nuova serie a cura di J. Schlosser e H. J. Hermann), VI, Die Handschriften und Inkunabeln der italienischen Renaissance, vol. III: Mittelitalien: Toskana, Umbrien, Rom, Leipzig 1932, n. 25, pp. 101 sgg. e in particolare p. 105 n. 2. Su questa bella pagina, una delle piú felici di Attavante, cfr. anche: p. d’ancona, La miniatura fiorentina cit., II, p. 805 (n. 1592) e tav. xci, e infine: a. de hevesy, La bibliothèque du roi Mathias Corvin cit., pp. 38 e 82 (n. 130) e tav. xxxi. 69 e. müntz, op. cit., p. 257; mss Biblioteca Riccardiana. 70 Mostra della Biblioteca di Lorenzo, Firenze 1951, n. 90. 71 g. pico della mirandola, De genere dicendi philosophorum, testo delle prime edizioni in e. garin, Filosofi italiani del Quattrocento, Firenze 1942, pp. 428-44, trad. it., ibid., p. 437. 72 Avendo f. bérence, A la recherche d’un mythe, in «Nouvelles Storia dell’arte Einaudi 131 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze littéraires», 21 marzo 1946, presentato in modo un po’ generico il mito di Marsia nel Rinascimento come la ricomparsa del mito antico di salvazione, p. renucci (Dante et le mythe de Marsyas, in «Bulletin de la Société d’Etudes dantesques», 1949, pp. 1 sgg.) ha creduto di poter affermare che l’immagine evocata all’inizio del Paradiso ha un valore puramente decorativo; lo stesso autore sostiene in Dante, disciple et juge du monde gréco-latin, Paris 1954, pp. 205-6 che il poeta vuole solo dire che eviterà il folle orgoglio di Marsia e saprà sottomettersi «all’intelligenza celeste che si degnerà d’ispirarlo». L’interesse cosí palese del poeta per gli «arcani della religione pagana» (sul quale A. Renaudet ha attirato l’attenzione in Dante humaniste, Paris 1952) suggerisce di ammettere il «senso mistico» sotto il «senso morale». Il mito comunque è stato inteso in questa forma completa dai neoplatonici quattrocenteschi, come dimostra il passo di Pico. 73 Ad esempio il cammeo in corniola del museo di Napoli, d’altronde piú grande dell’intaglio mediceo; e. kris, Meister und Meisterwerke ecc. cit., n. 29, e a. furtwängler, Die antiken Gemmen, Geschichte der Steinschneidekunst im klassischen Altertum, Berlin 1900, tav. xlii, n. 28, con commento, vol. II, pp. 201-2, illustrano le numerose varianti antiche che si trovano a Parigi, Londra, Pietroburgo. 74 Filarete, ed. cit., p. 658: «la corniuola del patriarcha [si tratta del patriarca di Aquileia] che c’è tre figure degnissime quanto sia possibile a fare: uno inudo, leghato colle mani dirieto a uno arbore seccho; et uno con uno certo strumento in mano con un poco di panno dal mezzo in giú, et uno in ginocchioni». 75 e. kris, Meister und Meisterwerke ecc. cit., n. 68, tav. XIX. e. molinier, Les plaquettes (catalogo ragionato), 2 voll., Paris 1886, nn. 2-6. Il n. 252 indica anche un Apollo e Marsia attribuito a Vlocrino; analogamente nel catalogo del Victoria and Albert Museum del McLagan, London, ristampa del 1924, p. 27, tav. ix. Fra le imitazioni settentrionali: medaglione della tomba di G. Brivio (morto nel 1484), di T. Cazzaniga e B. Briosco, nella chiesa di Sant’Eustorgio a Milano: cfr. a. venturi, Storia dell’arte italiana, t. VI, Milano 1910, p. 912. Dall’Italia settentrionale il motivo è passato nelle Fiandre; il medaglione figura in un Giudizio di Davide (o di Cambise) attribuito a Gérard David (circa 1498) nel Museo di Bruges. 76 Museo del Louvre. 77 Supplement to the Catalogue of Italian drawings XIV-XV centuries, in «The British Museum Quarterly», xvii (1952), 3, p. 61, tav. i (dove il Marsia è erroneamente interpretato come «un Cristo seduto»). 78 Sulla stanza della Segnatura, come cappella platonica, cfr. piú avanti. 79 a. von salis, Antike und Renaissance cit., p. 165. e. langenskjöld, Torso del Belvedere, in «Acta Archaelogica», I, Köbenhavn Storia dell’arte Einaudi 132 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze 1930, pp. 121-46, lo ricolloca in un gruppo Marsia-Olympos (che si trova su gemme e a Ercolano), senza escludere un rapporto con la scena Marsia-Apollo (con un rimando a una copia del nostro cammeo, p. 145). 80 h. weiszäcker, Michelangelo im Statuenhof des Belvedere, in «Jahrbuch der preussischen Kunstsammlungen», lxiv (1943), pp. 51 sgg. 81 a. von salis, Antike und Renaissance cit., p. 143. Il punto di partenza sarebbe stato il Marsia che si vede al Museo Torlonia, già galleria Giustiniani. Nel disegno di una torre poligonale a piú piani, Giuliano da Sangallo immagina sugli spigoli una corona di cariatidi che derivano la loro forma dai Marsia medicei: Cod. Barb. 4424 (Biblioteca Vaticana), fol. 15 v. In uno studio di difficile datazione (forse circa 1540-50) di Francesco da Sangallo, Cod. Geymüller, fol. 27, 8° (Uffizi), il Marsia figura in una nicchia con un’iscrizione. 82 a. venturi, Storia dell’arte italiana cit., X, i. 83 Trovato da K. von Liphart a Firenze nel 1891, questo bassorilievo ovale di medie dimensioni (cm 40 x 30) è stato attribuito a Michelangelo giovane da w. von bode nel suo articolo in «Jahrbuch der preussischen Kunstsammlungen», xii (1891), ripreso poi in Florentinische Bildhauer der Renaissance, Berlin 1921, p. 318, per via dei suoi evidenti rapporti col cammeo mediceo; l’attribuzione è accettata con riserva da h. thode, Michelangelo, t. II, vol. I, Berlin 1913, p. 74, decisamente sostenuta da h. mackowsky, Michelangelo’s first Sculpture, in «The Burlington Magazine», vi (1928), pp. 165-70. k. key (1937) e c. de tolnay, The youth of Michelangelo (2ª ed.) hanno dimostrato come l’opera non possa essere attribuita a Michelangelo; si tratta del lavoro di un dilettante degli anni 1520-30, che presenta tuttavia rapporti con certe composizioni di Bertoldo. 84 La storia di Apollo e Marsia occupava tre riquadri «all’antica» nella «loggetta» del Vaticano (c. 1520), la cui decorazione spetta a Giulio Romano; la scena del supplizio è andata perduta: d. redig de campos, Raffaello e Michelangelo, Roma 1946, p. 47. 85 p. gauricus, De sculptura, ed. H. Brockhaus, Leipzig 1886. 86 La bibliografia anteriore è raccolta in a. colasanti, Donatello, Milano 1931, che fornisce anche un catalogo assai esteso e le attribuzioni tradizionali. Gli studi sull’artista sono entrati in una nuova fase con le premesse critiche formulate da j. lanyi, Problemi della critica donatelliana cit. e il catalogo severo di l. planiscig, Donatello, Wien 1939, ed. it., Firenze 1947. L’opera di H. W. Janson (1957) incorpora la parte essenziale del materiale lasciato da J. Lanyi. 87 O. siren, The importance of the antique to Donatello, in «American Journal of Archaeology», xviii (1914), pp. 138-61, enumera le principali opere dello scultore alla cui origine sta una vivace reazione a esemplari antichi. Riferimenti piú precisi sono stati in seguito proposti parecchie volte, ad esempio quello al sarcofago di Pisa per la base Storia dell’arte Einaudi 133 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze della Giuditta da g. de nicola, La Giuditta di Donatello, in «Rassegna d’arte», iv (1917), pp. 153 sgg. e quello suggerito da F. Gebelin nell’introduzione all’album Donatello, Paris 1943, che ha provocato alcune osservazioni da parte di c. picard, Donatello et l’antique, in «Revue archéologique», xxiii (1947), pp. 77-78. 88 e. panofsky, Der gefesselte Eros, in «Oud Holland», i (1923), pp. 193 sgg.; Studies in Iconology cit., pp. 126 sgg. Secondo il sanpaolesi, La Sacristia vecchia di San Lorenzo, Pisa 1949, la decorazione della cupola risalirebbe agli anni 1427-28 e non al 1435 e seguenti; sarebbe cioè esattamente contemporanea alla costruzione terminata nel 1428. h. w. janson, The sculpture of Donatello cit., mantiene le date 143443; i due amorini che lottano sono indicati a p. 135 come «quasi un Eros e Anteros». La riserva non sembra necessaria. 89 h. kauffmann, Donatello, Berlin 1935, pp. 122-23; o. siren, Toskanische Maler im Trecento, Berlin, 1922, p. 247. 90 l. planiscig, Donatello cit., pp. 89-90. 91 Ricostruzione di r. band, Donatellos Altar im Santo zu Padua, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», v (1940), presentata da l. planiscig, Donatello cit., pp. 86-88, g. fiocco, Mantegna, Milano, tav. xlvii. Si vedono ancora al Museo di Padova frammenti degli acroteri; elementi del fregio e delle colonne sono stati riutilizzati nella chiesa (comunicazione del prof. Bettini). Una messa a punto completa in h. w. janson, The sculpture of Donatello cit., pp. 169 sgg. 92 f. gebelin, op. cit.: «Una simile confusione tra la madre di Dio e la madre degli Dei costituisce una prova assai curiosa dell’influenza esercitata su Donatello da Gemisto e dalla nascente accademia neoplatonica di Cosimo de Medici, che tendevano a collegare religione cristiana e mitologia greco-romana». h. w. janson, The sculpture of Donatello cit., p. 184 n. 11, respinge questa ipotesi come fantastica, ma ammette che molti dettagli nella composizione sono all’antica (perché non anche la corona merlata?) e cita Pico a proposito delle sfingi dei montanti del trono (p. 185). 93 Come l’ha indicato h. w. janson, The sculpture of Donatello cit., p. 185. L’immagine della Caduta (Adamo ed Eva) è scolpita sul retro del trono (tav. ccxcv a e b). 94 w. von bode, Versuche der Ausbildung des Genre in der florentiner Plastik des Quattrocento, in «jb», ix (1890), ripreso in Florentiner Bildhauer der Renaissance, Berlin 1921, cap. X. 95 a. chastel, Di mano dell’antico Prassitele cit., vol. II, pp. 26571. Cfr. anche h. w. janson, The sculpture ot Donatello cit., p. 125. 96 hahr, Donatellos Bronze-David und das praxitelische Erosmotiv, in «Monatshefte für Kunstwissenschaft», v (1912), pp. 303-10. Si conoscono tre Eros di Prassitele, uno dei quali ricordato da callistrate, Ecphr., 13; w. klein, Praxiteles, Leipzig 1898, p. 219. Storia dell’arte Einaudi 134 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze h. marrou, Trois sarcophages romains, in «Revue archéologique», serie VI, 1931 pp. 163-65. f. cumont, Recherches ecc. cit., pp. 339 e 472. 98 e. kris, Meister und Meisterwerke ecc. cit., pp. 21-22. Il gruppo compare in molti bordi miniati di Attavante: il piú notevole è quello del messale di Thomas James, vescovo di Dol, fol. 6 v, datato 1483: cfr. h. joly, Le missel d’Attavante pour Thomas James évêque de Dol, s. l. né d. (Lyon 1932). 99 g. de nicola, La Giuditta di Donatello cit., indica le fonti romane. 100 c. picard, Dionysos Mutr’foroj, in Mélanges Glotz, Paris 1932, vol. II, pp, 707 sgg. 101 h. semper, Donatello, p. 311; e. müntz, Les précurseurs ecc. cit., p. 241; h. w. janson, The sculpture of Donatello cit., p. 143. 102 h. w. janson, The sculpture of Donatello cit., p. 125 giunge a conclusioni analoghe sulla «danza» dei putti nella cantoria. 103 Theologia platonica, III, 1, Opera, p. 117; p. o. kristeller, The philosophy ecc. cit., pp. 416 sgg. 104 l. b. alberti, Della pittura, ed. L. Mallé, pp. 96-97; r. krautheimer, Ghiberti cit., p. 327. Le porte del Battistero sono certamente anteriori al 1443; è possibile che esse fossero in parte già composte negli anni 1434-35. l. planiscig, Donatello cit., p. 74. Cfr. anche h. w. janson, The sculpture of Donatello cit., p. 136. 105 Questi rapporti sono stati rilevati in due brevi articoli di e. wind e f. antal, The maenad under the Cross, in «jwci», i (1937-38), pp. 7073, a proposito di un disegno dello scultore fiorentino Baccio Bandinelli (Ecole des Beaux-Arts): la esagitata Maddalena del disegnatore manierista si ricollega per l’appunto alla «menade» cristiana di Bertoldo e Donatello. 106 Le antiche attribuzioni al Verrocchio o al Pollaiolo non sono piú sostenibili: a. s. weller, Francesco di Giorgio, Chicago 1943, pp. 15455. e. panofsky, Das Discordia-Relief im Victoria and Albert Museum. Ein Interpretations versuch, in «Belvedere», V (1924), pp. 189 sgg. Secondo p. schubring, Die Plastik Sienas im Quattrocento, Berlin 1917, p. 188, si tratterebbe delle nozze di Piritoo e Ippodamia, interpretazione che risponde alla scena ancor meno dell’ipotesi che si tratti di Licurgo. 107 Cfr. a. hind, Early italian engravings, A, II, 26. j. g. phillips, Early florentine designers and engravers, Cambridge (Mass.), 1955, p. 54, per la datazione precoce. 108 Cfr. in particolare il disegno botticelliano pubblicato da b. berenson, The Drawings of the Florentine Painters, 572, fig. 199. Cfr. piú avanti, III. 109 Su questo punto: h. horne, Botticelli cit., p. 83. Abbiamo l’indicazione precisa e valida del Vasari: «Il detto Lorenzo de’ Medici fu primo inventore di quelle mascherate che rappresentano alcuna cosa, 97 Storia dell’arte Einaudi 135 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze e sono dette a Firenze canti, non si trovando che prima ne fussero state fatte in altri tempi» (Vita del Granacci, ed. C. L. Ragghianti, II, 492). Il Granacci, nato nel 1469, era uno degli autori di questi carri a soggetto che il Vasari (Vita di Piero di Cosimo, ibid., II, 51) chiama «trionfi». In mancanza di una data precisa, si possono collocare i primi intorno al 1480, gli ultimi intorno al 1490. La loro ricomparsa nel 1511 e poi nel 1515 fu considerata come il segno di un «ritorno ai Medici» (cfr. piú sopra, introduzione). Nell’adattamento in cinque atti, ad opera del Tebaldeo (1490), l’Orfeo del Poliziano, divenuto Rappresentazione di Orfeo e di Euridice, comprende un Baccanale con galoppata di centauri. i. del lungo, Florentia cit., pp. 284, 349; la data 1471 deve essere corretta in 1480 come afferma G. B. Picotti. 110 b. degenhart, Michele Giovanni di Bartolo: disegni dall’antico e il camino della «Jole», in «Bollettino d’arte», xxxv (1950), pp. 208 sgg. p. rotondi, Il palazzo ducale d’Urbino, 2 voll., Urbino 1950, p. 477, n. 266 respinge l’attribuzione dei disegni a Michele Giovanni di Bartolo che è piú vicino all’ambiente riminese di quanto non sia l’autore del fregio. 111 Ispirato da ovidio, Fasti, III, 725 sgg.; e. panofsky, Studies in Iconology cit., cap. I. 112 g. f. hartlaub, Francesco di Giorgio und seine Allegorie der Seele, in «jb», lxi (1939), 4, pp. 197-211. 113 Cfr. piú avanti. 114 a. sabatini, Antonio e Piero del Pollaiuolo, Firenze 1944, pp. 32 sgg.; b. berenson, The Drawings of the Florentine Painters, 2a ed., Chicago 1938, vol. I, p. 24. Gli affreschi non sono stati rimessi in luce che alla fine del secolo scorso (1897): cfr. mary logan, in «Chronique des Arts», 1897, pp. 343-44, e c. carnesecchi, in «Arte e storia», xix (1900), p. 64. 115 c. carocci, Dintorni di Firenze, Firenze 1881, p. 239. Il Ficino ricorda Jacobus Lanfredinus in parecchie lettere, Opera, pp. 761, 835, e nomina Antonio fra i suoi allievi, p. 937. gaye (I, p. 341) ha pubblicato una celebre lettera di Lorenzo a Giovanni Lanfredini, allora ambasciatore presso il Vaticano, del 12 novembre 1489, in cui si parla di conversazioni con Antonio Pollaiolo (che, come ha già accertato l. d. ettlinger, Pollaiuol’s Tomb of Sixtus IV cit., non riguardano verosimilmente la tomba di Sisto IV); per l’ammirazione di Lorenzo per l’artista, cfr. piú sopra, introduzione. 116 f. r. shapley, A student of ancient ceramics, Antonio Pollaiuolo, in «The Art Bulletin», II (1919), pp. 78-86. 117 m. pallottino, Tarquinia, Roma 1937, e La peinture étrusque, Genève 1952, pp. 45, 53, 76. 118 e. müntz, Les précurseurs ecc. cit., p. 136; a. chastel, Marsile Ficin et l’art cit., p. 38 n. 64. Storia dell’arte Einaudi 136 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze c. promis, Dell’antica città di Luni, Massa 1857. nannucci, Manuale del primo secolo della letteratura italiana, Firenze 1858, t. III, p. 201. j. von schlosser, Über einige Antiken Ghibertis, in «Jahrbuch der Kunsthist. Sammlungen des All. Kaiserhauses», xxiv (Wien 1903), pp. 125 sgg., ripreso in Leben und Meinungen ecc. cit., III. 121 a. hind, Early Italian Engraving cit., vol. I, London 1938. m. salmi, Riflessioni su Paolo Uccello, in «Commentari», i (1950), pp. 29 sgg. 122 plinio, Naturalis Historia, XXXV, 67-69. Cfr. r. bianchi bandinelli, Piccoli problemi da risolvere, I, Parrasio: linea, spazio, volume, in «Critica d’arte», III (1938), n. 13, pp. 4 sgg.; c. l. ragghianti, Storia d’un problema critico, in Commenti di critica d’arte, Bari 1946, pp. 174 sgg. 123 alberti, Della pittura, ed. Mallé, Firenze 1952, p. 78 (dove la nota 1 ci sembra discutibile); a. chastel, Marsile Ficin et l’art cit., p. 187 n. 25. Sui testi antichi che tenevano vivo il ricordo dell’Etruria: g. buonamici, Fonti di storia etrusca tratte dagli autori classici, Firenze 1939. 124 e. müntz, Les collections ecc. cit., p. 57. 125 vasari, ed. C. L. Ragghianti, I, p. 715. Gentile fu nominato alla sede d’Arezzo nel 1475; Giorgio Vasari morí nel 1482. 126 Cosí gori, Storia antiquaria etrusca, Firenze 1749, p. cxcviii, a proposito di una statua trovata a Pistoia e subito portata a Lorenzo. 127 vasari, Introduzione alle tre arti: della scultura, cap. X: «Di questa sorte se n’è visto ne’ vasi antichi aretini assai figure, maschere, ed altre storie antiche, e similmente nei cammei antichi e nelle monete». 128 c. a. milani, Il R. Museo Archeologico di Firenze, Firenze 1912, p. 234; Catalogo della Mostra dell’arte e della civiltà etrusca, Milano 1955, n. 33; Art et civilisation des Etrusques, Paris 1955, n. 260. 129 Ad esempio il Putto col tamburello (Berlino), l. planiscig, Donatello cit., tav. liii, e il giovane danzatore che funge da ansa in un vaso di bronzo: Mostra dell’arte e della civiltà etrusca, n. 351, ma questo è soprattutto vicino, nel movimento delle gambe a un Orfeo di Bertoldo: w. von bode, op. cit., p. 92. 130 r. bloch, Le mystère étrusque, Paris 1956, p. 114, accosta la testa del San Giorgio alla Testa Malvolta di Veio. h. w. janson, The sculpture of Donatello cit., p. 146 accosta certe divinità alate etrusche all’Atys. 131 f. weege, Etruskische Malerei, Halle-Saale 1921, cap. VI. L’autore si chiede se questo palazzo di Corythus non sia la sala rimessa in luce ai tempi d’Innocenzo VIII, ricordata dal Dennis e incisa nel secolo xviii col nome di «tomba della Mercareccia». 132 p. ducati, La ricerca archeologica dell’Etruria, cenni storici, in «Atene e Roma», xvi (1913), pp. 277-305. 119 120 Storia dell’arte Einaudi 137 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze e. petersen, Eine antike Vorlage Michelangelos, in «Zeitschrift für bildende Kunst», lxi (1898), p. 294, ripreso da F. Weege. Il disegno, che si trova fra altri schizzi tra cui un profilo femminile, è stato pubblicato da k. frey, Die Dichtungen des M. A., Berlin 1897, p. 385, che inclina a vedervi un autoritratto di fronte a Vittoria Colonna. l. goldscheider, Michelangelo’s Drawings, London 1951, p. 177 n. 13, ha contestato l’attribuzione (il disegno sarebbe di Raffaello da Montelupo) e l’interpretazione: egli ha probabilmente ragione sul secondo punto, ma non sul primo, dato che il disegno si trova su una pagina di poesie (cod. XIII, foll. 4-6) e non può essere che di Michelangelo. 134 Uffizi, Disegni architettonici, n. 335, V; cfr. w. bome, Chiusi, in «Der Cicerone», 11 (1910), pp. 124-25; a. s. weller, Francesco di Giorgio ecc. cit., p. 267. 135 Tutte le citazioni in italiano del De re aedificatoria sono tratte dalla classica traduzione di Cosimo Bartoli, I dieci Libri de l’Architettura, Firenze, 1550 [N.d.R]. 136 filarete, Traktat über die Baukunst, ed. W. von Oettingen, Wien 1890, pp. 61 e 180; è plinio, Naturalis Historia, XXXVI , 13, che cita Varrone. Gli architetti piú ricchi di fantasia della fine del xviii secolo s’interesseranno alla tomba favolosa: e. kauffmann, J. J. Lequeu, in «The Art Bulletin», xxxi (1949), p. 130, fig. 10. 137 vasari, Proemio delle Vite, ed. Milanesi, I, p. 220; il labirinto di Porsenna deve essere cercato fra le tombe circolari di Vetulonia (resti al Museo archeologico di Firenze). 138 vasari, Vita di Andrea da Monte S. Savino, ed. C. L. Ragghianti, II, p. 227. 139 e. panofsky, The early history of man in two cycles of paintings by Piero di Cosimo, in Studies in Iconology, New York 1939, p. 52, n. 55. 140 Cfr. piú avanti. 141 Cfr. piú avanti. 142 g. calvi, Abbozzo di un capitolo introduttivo ad una storia della vita e delle opere di Leonardo da Vinci, in «Raccolta vinciana», xiii (1928-29), pp. 6-7. 143 Sul sorriso, cfr. piú avanti. 144 Come, ad esempio: Mostra dell’arte e della civiltà etrusca, n. 297. 145 l. planiscig, Verrocchio, Wien 1941, tavv. xxxvii e xxxix. 146 Louvre, n. 2386 (Vallardi, 182), pubblicato e commentato da j. p. richter, The literary works of Leonardo da Vinci, 2ª ed., London 1939, vol. II, tav. XCVIII e pp. 44-45; a. sartoris, Léonard architecte, Paris 1952, p. 120. Sono contrari all’attribuzione a Leonardo, a. venturi, «L’arte», xlii (1939), pp. 167-73, c a. s. weller, Francesco di Giorgio, Chicago 1943, p. 276, n. 115. 147 Cfr. f. saxl, Lectures, London 1957, vol. I, pp. 200 sgg.; cfr. anche piú avanti. 133 Storia dell’arte Einaudi 138 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze poliziano, Epistolarum Libri XII, libro I, lettera 2. Si trovano per contro numerose indicazioni mitiche sul periodo anteriore ad Enea, cioè preromano, dell’Italia in F. Villani (circa 1381-82): g. calò, Filippo Villani e il libro de origine civitatis florentiae, Rocca San Casciano 1904, pp. 91 sgg. 149 h. janitschek, Das Capitolinische Theater von Jahre 1513, in «Repertorium für Kunstwissenschaft», v (1882), pp. 259 sgg. Le relazioni antiche sono state ripubblicate: quella di p. palliolo fanese., Le feste per conferimento del patriziato a Giuliano e Lorenzo de Medici, dal Guerrini (Bologna 1885) e quella di M. A. Altieri da L. Pasqualucci (Roma 1881). Il Vasari ricorda i pannelli dipinti e soprattutto la «prospettiva ovvero scena di una commedia» (ed. Milanesi, IV, p. 595, ed. C. L. Ragghianti, II, p. 257). 150 Il promotore di questa «etruscologia» destinata a esaltare l’importanza nell’antichità di Viterbo era stato Fra Giovanni Nanni l’umanista autore di falsi piú noto della fine del xv secolo: k. giehlow, Die Hieroglyphenkunde des Humanismus in der Allegorie der Renaissance, in «jw», xxxii (1915), p. 40; cfr. piú avanti. 151 «Hi rem thyreniam ita auxere ut non Italiam modo possiderent sed maritima etiam ditione potiti Thyrreniam a se dicerent et quasi orbi terrarum jura darent nomenque aeternum gentibus nationibusque relinquerent» (vol. VI), citato da g. signorelli, Il Card. Egidio da Viterbo, agostiniano, umanista e riformatore (1469-1532), Firenze 1929, cap. XI e p. 213 n. 21. 152 g. signorelli, Il Card. Egidio da Viterbo ecc. cit., pp. 115 e 214 n. 24. Altre affermazioni concordanti (1502) sulla «scienza religiosa» degli etruschi, sono citate a p. 133 n. 45. Sul platonismo entusiasta di Egidio da Viterbo cfr. e. garin, La filosofia, Milano 1947, vol. I, pp. 328-29. 153 L’«ipertoscanesimo» degli eruditi del Settecento li porterà a riprendere questi temi rinascimentali: cosí g. lami, Lezioni di antichità toscane, Firenze 1766, vol. I, afferma nella terza lezione l’origine etrusca del Tempio di Marte e, nella sesta lezione, l’idea che le architetture antiche di Firenze «non erano riscontri per provare o arguire che la Città fosse stata da Romani edificata, ma che anzi confermavano la mia opinione che ella fosse veramente d’origine etrusca». Questo varrebbe soprattutto per le torri, «...alcune porzioni, o pezzi o reliquie di certe Torri, le quali in Firenze ancor fin oggi sussistono, mostrano d’essere etrusche o di etrusca architettura». 154 valori, Laurentii Medices Vita cit., p. 17: «Platonis imaginem diu multumque desideraverat. Hunc tandem in ipsis Academiae ruinis repertam quum a Hieronymo Roscio Pistoriensi accepisset, gaudio exultavit»; e. müntz, Les précurseurs ecc. cit., p. 168; r. marcel, Marsile Ficin, Paris 1958, p. 294. 148 Storia dell’arte Einaudi 139 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Cfr. a. della torre, Storia, p. 640 n. 3. Il testo della Vita Hieronymi Savonarolae attribuita a Fr. Burlamacchi, Lucca 1761, p. 77, che è la fonte della leggenda è riprodotto in Supplementum ficinianum, II, p. 223: «Marsilio Ficino, Canonico del Duomo, che di continuo tenea una lampada accesa dinanzi all’immagine di Platone, tanto li era affezionato». Questa affermazione si trova in un passo che ricorda l’azione del Ficino contro il Domenicano; la critica del passo è stata compiuta da p. o. kristeller, Per la biografia di Marsilio Ficino, in «Studies», pp. 191 sgg. 156 Sul busto di Silanione, c. picard, Manuel ecc. cit., III (iv secolo), vol. II, Paris 1948, pp. 814-829. La questione è stata oggetto di numerose messe a punto; le piú recenti sono quelle di r. boehringer, Das Antlitz des Genius, Platon, Bildnisse und Nachweise, Breslau 1935, e di k. schefold, Die Bildnisse der antiken Dichter, Redner, und Denker, Basel 1943, che osserva (p. 36): «è profondamente significativo che il primo ritratto del nuovo stile sia quello di Socrate che, secondo una suggestiva ipotesi proveniente dalla cerchia di Platone, gli fu consacrato in occasione della fondazione dell’Accademia. Cosí il capolavoro del nuovo stile doveva necessariamente essere l’immagine di Platone». 157 La prima tappa risulta da p. bellori, Imagines veterum illustrium philosophorum, poetarum, rhetorum ac oratorum, Roma 1686, p. 27. Cfr. gori, Historia glyptografica praestantiorum sculptorum..., Firenze 1767, p. xcix. Mal si comprende perché l’Orsini non l’abbia riprodotto nelle sue Imagines et elogia illustrium..., Roma 1570 (con incisioni del Lafréri) anziché riprodurre una gemma. 158 Sulla prima: j. j. bernoulli, Griechische Ikonographie mit Einschluss Alexanders und der Diadochen, München 1901, t. II, pp. 18 sgg. (riprod. n. 2, p. 21). Sulla seconda: h. dütschke, Die antiken Marmorbildwerke ecc. cit., t. III, n. 393. 159 f. poulsen, Greek and roman portraits in english houses, Oxford 1923, p. 33. j. j. bernoulli, Griechische Ikonographie ecc. cit., pp. 18 sgg. 160 Stando a un epigramma di Plinio. Anche a. keller, Portraits antiques, Paris 1913, trova la testa di Silanione troppo astratta (p. xxiv) e piú convincente invece l’erma di Platone (Vaticano) e una testa a Copenaghen, tavv. xxii e xxiii. 161 La «vita di Platone» (con oroscopo) nell’epistola a Bandini, Opera, pp. 763 sgg.; il Ficino aggiunge: «Conatus sum... ideam philosophi platonicis coloribus pingere. Verum si Platonem ipsum in medium adduxissem ideam ipsam veri philosophi digitis ostendissem», mettendo il ritratto in rapporto con l’idea del saggio. La medaglia del Ficino non reca che l’iscrizione: «Platone» (Marsile Ficin et l’art cit., III, conclusione, n. 31). 162 a. della torre, Storia, p. 687. 155 Storia dell’arte Einaudi 140 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Convivio, IV, 24. Su questi 81 anni (9 x 9) di Platone, saggio perfetto, cfr. j. bidez, Platon et l’Orient, Bruxelles 1945, cap. I, pp. 1 sgg. 164 f. studniczka, Das Bildnis des Aristoteles, Leipzig 1900, e l. planiscig, Manuele Crisolora trasformato in Aristotele, ne «La Rinascita», iv (1941), pp. 218-26. Il tipo è già abbozzato con il Salomone della porta del Paradiso (1440), come ha notato l. goldscheider, Léonard de Vinci, ed. fr., Paris 1948, p. 22. 165 l. courajod, L’imitation et la contrefaçon ecc. cit.; e. molinier, Les plaquettes cit.; g. seymour de ricci, The Gustave Dreyfus collection cit., p. 4 n. 2, ne cita un bell’esemplare considerato come «fiorentino». Il tipo sarà ripreso nelle illustrazioni della bizzarra Civitas veri del fiorentino Bartolomeo Del Bene, scritta prima del 1585 e pubblicata a Parigi nel 1609. f. a. yates, The french Academies ecc. cit., tav. viii, pp. 11 sgg. 166 Cfr. piú avanti, conclusione. Il culto di Platone fa la sua comparsa anche nell’Italia del Nord; esiste una statua di Platone nel cortile dell’Ambrosiana, firmata e datata 1470 da Gabriele da Rho, scultore milanese: a. venturi, Storia dell’arte ecc. cit., vol. VI, Roma 1908, p. 908. 167 C. 1475, attribuzione probabile al Berruguete, cfr. piú avanti. 168 Cfr. piú avanti. 169 a. della torre, Storia, pp. 622-24. 170 Cfr. piú avanti. 171 r. klibansky, The continuity of the platonic tradition during the middle ages, London 1939. 172 Su questo Platone-Leonardo, cfr. piú avanti. 173 Il vasari, ed. Milanesi, II, p. 431, lo cita come «il fedele imitatore» di Donatello, e, VII, p. 141, come il «maestro» di Michelangelo: cosa che non si può piú sostenere: cfr. piú sopra, l’introduzione. L’opera già citata di w. von bode, Bertoldo und Lorenzo de’ Medici (1925), ha giustamente sottoposto a critica i giudizi anteriori sullo scultore, ma la ricostruzione dell’opera da lui tentata è lungi dal riuscire convincente e il problema rimane aperto. 174 w. von bode, Bertoldo ecc. cit., p. 38. Bertoldo ha fuso un gran numero di medaglie per i componenti la cerchia medicea. Su questo aspetto dell’opera di Bertoldo cfr. g. hebich, Die Medaillen der italienischen Renaissance, Stuttgart 1922. 175 l. planiscig, Venezianische Bildhauer der Renaissance, Wien 1922. Tuttavia c’è un testimone imbarazzante dei legami tra Firenze e il Nord ed è lo «specchio Martelli» (cfr. piú avanti, II, introduzione), le cui principali figure derivano da intagli medicei, ma il cui stile arcaizzante e la cui esecuzione rimandano piuttosto agli inizi del xvi secolo e all’Italia del Nord. 176 Nel secolo scorso la placchetta di san Gerolamo (collezione Duveen), i medaglioni con busti di santi (ibid.), il ritratto-medaglia di 163 Storia dell’arte Einaudi 141 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Federico di Montefeltro, con sul retro Bellerofonte e la Chimera, che sono di Francesco di Giorgio, sono stati regolarmente attribuiti a Bertoldo: a. s. weller, Francesco di Giorgio cit., pp. 143, 163, 171. 177 e. molinier, Les plaquettes cit. 178 w. von bode, Bertoldo ecc. cit., pp. 38 sgg. 179 Questa placchetta ha avuto una certa diffusione: è stata parzialmente utilizzata nel bassorilievo di destra inserito dal Carpaccio nella parete del palazzo dove si svolge la scena del Ritorno degli ambasciatori (nel Ciclo di Sant’Orsola, 1490-95): p. paoletti, L’architettura e la scultura del Rinascimento in Venezia, Venezia 1893, p. 272 e tav. cxl fig. 9; Le Gallerie dell’Accademia di Venezia, catalogo, Venezia 1949, n. 574, p. 36. 180 L’origine della favola è in teocrito, IX, XV, dove gli erotes sono degli uccelli. L’idea è stata ripresa nella poesia cortese e, ad esempio, da G. de Machaut (Dit du vergier): cfr. e. koechlin, Le dieu d’amour et le château d’amour sur les ivoires, in «Gazette des Beaux-Arts», lxiii (1921), pp. 279-97. j. von schlosser, Die Wandgemälde aus Schloss Lichtenberg in Tirol, Wien 1916, p. 23, segnala un affresco in cui l’albero reca rose e falli. 181 Cfr. piú sopra e piú avanti. 182 Cfr. piú sopra; w. von bode, Bertoldo ecc. cit., pp. 113 sgg. 183 Opera, p. 675; Marsile Ficin et l’art cit., pp. 45-46, e piú avanti. 184 e. panofsky e f. saxl, Classical mythology in mediaeval art, in «Metropolitan Museum Studies», iv (1932-33), pp. 270 sgg.; j. seznec, La survivance des dieux antiques, London 1940, trad. ingl., New York 1953, pp. 184 sgg.; e. panofsky, Iconography and Iconology: an introduction to the study of Renaissance art, in Meaning in the visual arts, Garden City 1955, pp. 26-54 (trad. it., Il significato nelle arti visive, Torino 1962, pp. 29-57). 185 L’unica serie di manoscritti astrologici che abbia recato immagini delle divinità planetarie fedeli al tipo antico, è quella di Arato: Poggio ne vide un esemplare; copie ne furono eseguite per Federico d’Urbino, per Lorenzo e per Ferdinando d’Aragona: j. seznec, La survivance des dieux antiques, London 1940, trad. ingl. 1953, p. 184 186 a. condivi, Vita di Michelangelo, ed. P. D’Ancona, Milano 1928, § VII; vasari, VII, p. 142; c. de tolnay, The youth of Michelangelo cit., p. 195. Sull’interesse di queste maschere espressive: k. borinski, Die Rätsel Michelangelos, München 1908, pp. 163 sgg. 187 L’aneddoto delle copie di disegni antichi in condivi, 4; del Cupido venduto per antico ibid., 18: c. de tolnay, The youth of Michelangelo cit., pp. 65 e 201. Sui disegni: l. goldscheider, Michelangelo’s drawings, London 1951. Sulla strana indulgenza del Rinascimento per i falsi antichi, o. kurz, Fakes, London 1948, pp. 116 sgg. (trad. it., Falsi e falsari, Venezia 1960). Storia dell’arte Einaudi 142 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze f. wickhoff, Die Antike im Bildungsgange Michelangelos, in «Mitteilungen des Instituts für Oesterreichische Geschichtsforschung», ii (1882), pp. 408 sgg. r. lanckoronska, Antike Elemente im Bacchus Michelangelos und in seinen Dartsellungen des David, in «Dawna Sztuka», i (1938), pp. 183 sgg. a. hekler, Michelangelo und die Antike, in «Wiener Jahrbuch für Kunstgeschichte», vii (1930), pp. 201 sgg., e c. de tolnay, The youth of Michelangelo cit. Talvolta si scambiano per fonti quelle che sono semplicemente imitazioni piú o meno tarde d’opere moderne: a. grunwald, Über einige Werke Michelangelos in ihrem Verhaltnis zur Antike, in «jw», xxii (1908), pp. 133 sgg. ha indicato una gemma rappresentante Orfeo (Vienna) come fonte di uno degli «ignudi» della volta della Sistina; interpretazione accettata da a. von salis, Antike und Renaissance cit., p. 182. Ma e. kris, Meister und Meisterwerke ecc. cit., p. 49 n. 13 ha dimostrato in modo assai convincente che si tratta di un intaglio di Valerio Belli derivato dalla figura di Michelangelo. f. eichler e e. kris, Die Kameen in dem Kunsthistorischen Museum, Wien 1927, hanno mostrato quanto sia difficile, se non impossibile, la discriminazione tra pezzi antichi e pezzi antichizzanti nel campo della glittica. 189 Fu da questi incontri che nacque in Michelangelo quel gusto per la poesia che gli sarebbe poi sempre rimasto; ci sono pervenute purtroppo solo pochissime poesie della giovinezza. In quella che comincia: «Nuovo piacere e di maggiore stima...» e che si deve attribuire agli anni 1506-508, si trova un elogio della vita rustica assai vicino alla poesia del Poliziano e a quella di Lorenzo. Il paesaggio è convenzionale, ma animato da allegorie, da figure simboliche: l’Avarizia, l’Adulazione..., il Dubbio... e tra queste alcune sono disegnate con energia: il Dubbio simile a una cavalletta, il Perché coperto di chiavi...: k. frey, Die Dichtungen des Michelagniolo cit., n. clxiii, pp. 249 sgg., la data assai tardi (c. 1555). c. de tolnay, The youth of Michelangelo cit., p. 54 n. 81, propone giustamente di anticiparla di mezzo secolo. 190 condivi, cap. X. Il Condivi si sbaglia parlando del ratto di Deianira, e il Vasari intitolando il rilievo Ercole e i Centauri: cfr. c. de tolnay, The youth of Michelangelo cit., pp. 133-34. La fonte è certamente Ovidio e non c’è ragione di trascurare l’intervento del Poliziano. 191 p. schubring, Cassoni, Leipzig 1915, n. 385. e. panofsky, Studies in Iconology cit., p. 51, n. 4, ha notato: 1) che la tavola appartiene a un complesso diverso dalla serie della «storia primitiva» e 2) che non è senza rapporti con il rilievo di Michelangelo; cfr. martin davies, The earlier italian school (National Gallery), pp. 328-30. 192 j. wilde, Eine Studie Michelangelos nach der Antike, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», iv (1932), pp. 41 sgg. È noto che Giuliano da Sangallo portò, nel 1488, da Napoli un Cupido dormiente in marmo come dono di Ferdinando a Lorenzo de’ 188 Storia dell’arte Einaudi 143 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Medici: vasari, ed. Milanesi, IV, p. 473. È un’opera tardo-antica di cui sono state segnalate parecchie versioni: j. wilde, Eine Studie Michelangelos ecc. cit., p. 53. Ma è certo quello delle collezioni medicee che ha fornito il tema a Michelangelo per il Cupido in marmo delle collezioni estensi (1496, perduto), che per breve tempo passò per antico, e per il particolare di destra del disegno degli «Arceri» (c. 1530: c. de tolnay, The youth of Michelangelo cit., p. 202). Sull’Ercole (1492-93, perduto), ibid., pp. 197-98. 193 vasari, ed. Milanesi, VII; sulle ipotesi circa le «fonti»: c. de tolnay, The youth of Michelangelo cit., pp. 127 sgg. 194 Il rilievo della battaglia non ha nessuna «fonte» precisa, ma molte analogie con pezzi noti: c. de tolnay, The youth of Michelangelo cit., p. 134. Un curioso aneddoto mostra l’interesse spontaneo dell’artista per tutte le forme d’espressione: una sera si divertí, sembra, con degli amici pittori «a chi faceva una figura, che non avesse niente di disegno, che fusse goffa, simile a quei fantocci che fanno coloro, che non sanno, ed imbrattano le mura» (ed. C. L. Ragghianti, III, p. 513) 195 vasari, ed. Milanesi, VII, p. 210. Storia dell’arte Einaudi 144 Sezione seconda i testi Introduzione Le pubblicazioni dell’Accademia di Careggi Uno degli aspetti nuovi dell’umanesimo fiorentino all’epoca di Lorenzo fu di andar oltre sia la tradizione morale della scuola del Salutati che la consuetudine scolastica. La traduzione e il commento dei filosofi greci gli assicurarono un punto di partenza nuovo. La versione integrale di Platone in latino, compiuta nel 1484, e quella di Plotino, compiuta nel 1492, resero celebre il Ficino in tutta Europa; le lezioni del Poliziano allo Studio (1482-92), dedicate a Omero, Esiodo o Aristotele, fecero data. L’originalità del movimento consistette però nell’utilizzare tutti questi testi riscoperti per rinnovare le lettere, sia attraverso le dissertazioni morali e teologiche, di cui un esempio famoso lo abbiamo nelle Disputationes Camaldulenses, redatte dal Landino intorno al 1480, sia attraverso trattati didattici e scientifici, come la Teologia platonica (1482), l’opuscolo di medicina astrologica De vita triplici, oppure l’opera Contro l’astrologia di Pico; sia infine (e questo è fenomeno piú largo) attraverso le poesie amorose, le egloghe, gli epigrammi, i poemi-visioni, in latino o in volgare, che si moltiplicarono dopo il 1460 e di cui le Stanze e l’Orfeo del Poliziano rappresentano certamente i conseguimenti piú alti1. Si tratta di tutta una serie di opere che improvvisamente vennero ad ampliare il campo della produzione letteraria in Toscana, e nelle quali domina l’amore della poesia. Pico aveva cominciato con versi Storia dell’arte Einaudi 145 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze lirici per passare poi al commento filosofico della Canzone del Benivieni; il Ficino cita i poeti ad ogni pagina delle sue opere. Nelle sue Sylvae, vere parafrasi in versi, il Poliziano compendia i suoi commenti a Virgilio, Omero e ai lirici latini. Si nota, nei fiorentini di questo gruppo, una sorta di oscillazione incessante tra scienza e letteratura, tra filosofia e poesia, tra speculazione e arte. Ne viene un tono nuovo e in numero sempre maggiore vengono riprese le favole antiche, le figure simboliche, gli aneddoti tratti dagli antichi. Le edizioni del Landino hanno glossato, e a loro modo «platonizzato», Plinio (1476), Dante (1481), Orazio (1482), Virgilio (1487); ma non si ignorava nemmeno Lucrezio (ritrovato da Poggio e al quale il Ficino consacrerà un commento, piú o meno apertamente rinnegato in seguito, ma decisivo per la sua speculazione), né Ovidio e i poeti della mitologia come Flacco o anche Claudiano, per il quale i fiorentini, credendolo loro compatriota, hanno nutrito un particolare interesse; né infine tutte le opere della «mistica pagana» che sono state veramente rivelate al Rinascimento dal Ficino e dai suoi amici2. Insieme con il suo interesse per la poesia e questo dilatarsi dell’orbita della cultura, il terzo aspetto che caratterizza l’umanesimo fiorentino è la mancanza di prospettiva storica, o meglio la tendenza a comprendere il pensiero e l’arte degli antichi in una costruzione ideale che culminava nel platonismo; e a contrapporre ad essi unicamente il mondo moderno, orientato dalla rivoluzione spirituale in corso. In questa prospettiva il sincretismo pagano-cristiano della bassa antichità assumeva eccezionale importanza in quanto si trovava al punto di sutura di due età: ad esso riportava la coscienza d’una storia spirituale che, sviata per secoli, ora finalmente riprendeva il suo corso. Certamente i maestri della scolastica non erano né ignorati né disprezzati; erano piuttosto trattati come eccezioni in secoli senza cultura, Storia dell’arte Einaudi 146 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze senza per altro intralciare la tendenza spontanea degli umanisti a connettere il Quattrocento alla fine dell’Antichità. Analogamente il Ghiberti dichiarava nei suoi Commentari che, dopo dieci secoli di deviazione o comunque di immobilità, la pittura, la scultura, l’architettura «moderne» avevano ritrovato la forza degli antichi, quale ancora era possibile vedere alla fine dell’impero romano. Nella sua cronologia il secolo xv è la continuazione del iv3. Il Petrarca, il Salutati e il Bruni non si erano espressi diversamente: insieme con tutto l’umanesimo italiano, si erano posti sotto il patrocinio dei Padri del secolo iv: san Gerolamo, traduttore erudito, san Basilio il cui scritto «sull’utile che si può trarre dalle lettere greche» era stato pubblicato dal Bruni nel 1403, e infine sant’Agostino4. L’esempio di questi Padri veniva ad autorizzare, per il cristiano «moderno», la frequentazione dei poeti e dei filosofi antichi, contrariamente all’ostilità nutrita verso di loro dagli ambienti monastici, soprattutto dai domenicani. Rappresentanti di una cultura cristiana aperta e piena, questi Padri erano anche grandi scrittori, ultimi rappresentanti di quell’«eloquenza» costituitasi alla scuola di Cicerone per Agostino, o di Platone per Basilio. Il Salutati poteva dichiarare di preferire, fra gli evangelisti, Giovanni, fra gli apostoli Paolo, fra i dottori Agostino. Questa è esattamente la scelta ideale del Ficino e, nel complesso, dell’umanesimo fiorentino. Questo stato d’animo spiega l’interesse suscitato da Origene e dal suo perã ©rcwn: quanto ai pericoli che, nonostante la sua dottrina della redenzione universale, egli poteva rappresentare per la fede, questi sono stati minimizzati dai teologi amici del gruppo di Careggi5. Anteriormente gli umanisti erano stati attratti dal «tesoro sacro» degli Hieroglyphica. Ritrovata nel 1419 da Cristoforo di Buondelmonte, l’opera fu nota all’Alberti, citata dal Ficino, utilizzata negli «emblemi», prima Storia dell’arte Einaudi 147 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze che fosse pubblicata, nel 1505, nelle edizioni aldine e che fornisse materiali per la raccolta dell’Alciati (1531)6. In linea generale i testi di quella che si può chiamare la «mistica» pagana hanno esercitato una viva suggestione sul Ficino e i suoi amici, i quali hanno nutrito per essi una predilezione di cui è impossibile misconoscere la portata7. Gl’inni degli Oracoli caldei, i poemi orfici sono considerati con rispetto. Il Ficino si sentiva autorizzato a raccoglierli, a tradurli, ma non sempre a diffonderli. Tuttavia si diffusero abbastanza largamente perché si formasse intorno a Careggi un clima esoterico di cui tutta l’epoca ha voluto approfittare. Una prova se ne ha nella diffusione dell’Asclepius ermetico, tradotto a partire dal 1463 dal Ficino, pubblicato nel 1471 e diffuso da versioni italiane, spagnole, francesi in tutta Europa8. L’esempio dell’Heptaplus può aiutare ad intendere come questi molteplici richiami potessero essere utilizzati contemporaneamente: Pico riprende il compito dei trattati in Hexaemeron, dei quali il piú importante fu forse il trattato di Thierry di Chartres del secolo xii, e che si propongono di accordare il racconto biblico con le esigenze della fisica, cioè il commento di Calcidio al Timeo9. Tuttavia l’impresa di Pico è infinitamente piú vasta: l’interpretazione per physica non è che uno dei sette gradi che egli scopre nell’opera dei sette giorni: egli tiene piuttosto a generalizzare l’interpretazione allegorica della Scrittura e, con un salto decisivo, nel suo trattato sulla Creazione risale all’Hexaemeron di sant’Ambrogio, come chiave dell’edificio universale. L’umanista del Quattrocento, operando una sintesi di sei secoli di esegesi, si ricollega direttamente anch’egli alla cultura del secolo iv. Ma il nuovo commento fiorentino può vantare, secondo Pico, un punto di vista che domina e esaurisce di colpo tutte le opposizioni della filosofia orientale ed occidentale: sotto la Bibbia ebraica, letta per la prima volta nel testo originale, egli colloca le esegesi Storia dell’arte Einaudi 148 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze della Cabala e nel Timeo, anche questo studiato nel testo greco, ritrova la mole coerente di idee del Corpus platonicum10. Pico pensa di occupare un posto d’eccezione nella storia universale, proprio alla vigilia di quella pax philosophica che è l’aspirazione centrale della nuova Accademia. Cosí tutti i grandi testi vengono ad essere complementari l’uno dell’altro; sembra possibile poterne fare la sintesi e renderne poeticamente attuale il significato, poiché i grandi miti e perfino i racconti epici sono una sorta di sviluppo fantastico, la grande allegoria di una unica dottrina fondamentale, che occorre saper riscoprire. Questo travestimento è piú che mai chiaro per Virgilio. Egli non è piú un mago, un indovino, come l’avevano fatto apparire nel medioevo i commentatori «cortesi» e scolastici. La sua leggenda viene adattata all’umanesimo: Virgilio è un adepto della «teologia sacra», quella del platonismo eterno; per questa via egli raggiunge il mondo cristiano. Egli è un Dante romano alla vigilia del cristianesimo, nel quale Landino ritrova agevolmente i grandi temi teologici11. La legittimità della grande poesia in lingua volgare è ora definitivamente ammessa dai fiorentini. Dante è uno dei loro riferimenti essenziali e l’edizione commentata del Landino (1481) ha fatto data: Dante rappresenta per loro il vertice della «poesia platonica», l’equivalente toscano di Omero e di Virgilio. Su questa definitiva consacrazione conviene soffermarci in quanto la Commedia, testo letto da tutti, diviene uno dei tramiti naturali tra l’umanesimo e il mondo delle arti. Questo interesse per la poesia moderna e antica portava a riflettere piú attivamente sui principi stessi dell’arte letteraria: le dottrine dell’Accademia diffusero una teoria dell’ispirazione e dell’allegoria che segnò una tappa nell’evoluzione delle «poetiche» e la corrente platonica s’intreccerà per tutto il secolo xvi con i trattati classici di Aristotele. Questi sviluppi sono stati Storia dell’arte Einaudi 149 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze spesso studiati12. È tuttavia lecito chiedersi se le dottrine generali elaborate dagli umanisti fiorentini per la storia e la teoria della poesia non abbiano avuto a loro volta un peso nell’elaborazione lenta ma regolare delle idee sull’arte che preparò, nel secolo xv, le grandi pubblicazioni del xvi. Appendice I manoscritti miniati degli umanisti Le illustrazioni, in genere limitate al frontespizio e alle capitali, che accompagnano i manoscritti dei maggiori umanisti, non presentano alcuna originalità. Fra i duecentoventi manoscritti che si conoscono delle opere del Ficino, la maggior parte del secolo xv o dei primi anni del xvi, solo una decina presenta miniature che meritino di essere ricordate13. Esse spettano quasi tutte alla bottega di Attavante, operoso essenzialmente tra il 1480 e il 148514. Già abbiamo avuto occasione di ricordare quelle che presentano un ritratto del filosofo. La decorazione delle pagine è ricca e monotona: in nastri e fregi, ornati di girali e di fiori dorati, si aprono medaglioni che contengono di solito «imprese» medicee (le api all’alveare, le farfalle alla fiamma, il lauro verde, l’albero verde, il tronco tagliato e, naturalmente, lo scudo con le palle azzurre intorno al giglio), oppure busti di filosofi con la rappresentazione stilizzata del sacerdos musarum. Il piú notevole di questi è il manoscritto del De vita: vi si vede a destra un personaggio barbuto in robone azzurro con collo di pelliccia, in testa una berretta dal bordo arrotolato, due dita alzate in un gesto professorale che è tipicamente «medievale»; a sinistra, un altro personaggio barbuto in robone giallo, con un nastro dorato nei capelli grigi, di aspetto chiaramente «antico». Le due figure possono rappresentare il padre Ficino, Medicus corporum, e Platone, Medicus animo- Storia dell’arte Einaudi 150 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze rum, ai quali la dedica allude. All’inizio del terzo libro un’altra pagina intera riproduce la stessa incorniciatura, le stesse «imprese» e due analoghi busti: un saggio imberbe e un dotto calvo e barbuto in toga azzurra, che rappresentano in modo vago due dei Philosophi veteres di cui parla la dedica a Mattia Corvino, forse Plotino e Pitagora15. Una traduzione incompleta di Plotino preceduta da opuscoli del Ficino presenta, in uno stile piú debole, che tradisce la mano di qualche aiuto, una sorta di sinossi dei medaglioni dei saggi: dodici nella doppia pagina iniziale e altri sei nella pagina in cui inizia l’Exhortatio del Ficino16. Tutta la «famiglia platonica» sembra radunata in questi piccoli personaggi dalle tuniche rosse o azzurre, nei quali talvolta si notano certi elementi tipici del lavoro intellettuale: un giovane presenta un libro con aria raccolta, un altro guarda con una sorta di espressione sognante; un saggio di profilo che alza gli occhi al cielo fa un po’ pensare, per la sicurezza del disegno, ai poeti del Signorelli a Orvieto. In una bella raccolta di dialoghi platonici, miniata per Federico d’Urbino, torna, circondata da fregi a girali, con i soliti uccelli e fiori, un’effige di Platone in una capitale che presenta curiosamente il busto del filosofo circondato da fiorellini17. Occorre infine ricordare la figura di san Paolo che accompagna una scelta di scritti teologici del Ficino datata del settembre 1491: all’inizio del De raptu Pauli in tertium coelum il miniaturista ha dipinto, in un azzurro scuro monocromo, attraversato da raggi d’oro realizzati a trattini, un san Paolo coronato dal nimbo, che tiene il libro e la spada. Questo involucro notturno e il contorno scintillante costituiscono senza dubbio degli aspetti eccezionali18. Notiamo maggior forza e originalità nei frontespizi dei testi dotti dipinti dai fratelli del Fora, Monte e soprattutto Gherardo, i cui legami con gli umanisti sono d’altronde meglio documentati. Già sono state segnala- Storia dell’arte Einaudi 151 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze te le miniature piú notevoli nelle quali sono raccolti i medaglioni ed i rilievi derivati dalle collezioni medicee: i manoscritti di Plinio, di Tolomeo e soprattutto il trattato De Spiritu Sancto di Didimo, destinati a Mattia Corvino. Ad essi sono da aggiungere due manoscritti di Aristotele miniati da Francesco Antonio del Cherico: una logica e una scelta d’opere tradotte dall’Argiropulo. Nell’incorniciatura ricompaiono, fra i fiori, quei girali e quelle candelabre a colori vivi, quei putti col corno dell’abbondanza che sono motivi correnti; le candelabre sono fiancheggiate da grifoni alla base e da delfini; i medaglioni sono diventati «cammei neroniani», nei quali il tipo dell’imperatore subentra a quello del filosofo. Cosimo compare a destra in una ghirlanda rotonda; in basso una medaglia di Piero; e quanto allo Stagirita, rappresentato nell’iniziale, egli porta un abito moderno, un cappello da viaggio e si può pensare che il suo portamento e i suoi tratti siano quelli del suo interprete, cioè l’autore della traduzione19. Nessun’opera del Ficino, nessuno dei trattati latini di Platone e di Plotino sono stati, per quanto ne sappiamo, decorati con una serie completa di miniature paragonabile a quella della straordinaria Etica a Nicomaco miniata intorno al 1495 per il duca A. M. Acquaviva di Napoli20. È questa certamente la piú interessante illustrazione di un testo filosofico che si abbia alla fine del Quattrocento. L’opera fa parte di un complesso di manoscritti miniati da artisti usciti dalle botteghe ferraresi. L’autore è un certo Reginaldus Piramus di Monopoli che ha inserito il suo nome nell’ultima miniatura. Il suo stile presenta affinità evidenti con l’arte del Cossa. Le ultime miniature sono invece di un continuatore piú greve e meno felice21. L’opera è conservata a Vienna (ms. phil. gr. 4). L’illustrazione consta di 10 miniature grandi, con incorniciatura a piena pagina, poste all’inizio di ognuno Storia dell’arte Einaudi 152 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze dei 10 libri dell’Etica. Le prime sette presentano la medesima struttura: una zona allegorica sovrapposta a scene «storiche» collocate nella parte bassa del foglio. Le due seguenti presentano al contrario un tema centrale circondato da medaglioni che lo completano, l’ultima ne presenta due22. Ognuna illustra in linea di principio il tema filosofico essenziale del libro corrispondente: la prima il potere della Ragione, la seconda il significato della Virtú, la terza le sue applicazioni pratiche, la quarta la Grandezza, la quinta la Giustizia, la sesta la Riflessione, la settima la Perfezione eroica, l’ottava l’Amicizia, la nona le sue applicazioni pratiche, la decima Atene e il suo filosofo. Ora parecchi particolari di queste composizioni non si spiegano se riferiti ad Aristotele; si tratta infatti di motivi esplicitamente platonici inseriti fra queste immagini destinate alla Etica. Questa confusione appare particolarmente evidente nella prima miniatura nella quale si vede sotto un arco di trionfo una raggiante figura della Ragione (l’goj) trasposta in Yucø platonica senza alcun rapporto col contesto; la figura reca brevi ali sulla testa e accoglie sotto il suo mantello le quattro Virtú23. Ai pennacchi dell’arco popolato di numerose figure di un significato poco chiaro, si notano due profili simmetrici, e affrontati, di saggi barbuti: si tratta di Aristotele e Platone. Il loro tipo si ritrova infatti in una serie ben nota di medaglioni in cui i due filosofi si rispondono24. Infine lo straordinario paesaggio che circonda l’arco di trionfo mostra, in una figurazione assolutamente eccezionale della dottrina delle idee, una enorme sfera celeste piena di prototipi dorati; ne escono i raggi che comunicano l’essenza superiore agli esseri particolari: un cane riceve l’influsso del cane celeste, e cosí una talpa, un uomo, un cavallo dal loro modello superno... È l’immagine fantastica della partecipazione affermata da Platone. L’illustratore dimentica che essa è stata vigorosamente nega- Storia dell’arte Einaudi 153 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze ta da Aristotele. Non sembra però che questa figurazione sia stata posta in testa all’opera perché lo Stagirita la nega, ma piuttosto perché s’impone, nonostante tutto, alla fantasia eclettica dei pittori: questi hanno mostrato piú zelo e piú brio nel dare una versione figurata della mûqexij platonica (vista sulla falsariga astrologica) di quanto non abbiano mai fatto gli stessi platonizzanti. La seconda miniatura presenta sulle balze di una roccia sinistra, e seminata di vittime, la Virtú (>Aretø) e il suo simbolo di equilibrio. Saturno a destra, Fetonte a sinistra sopra ad un bel paesaggio infuocato, Icaro in basso, modello di eccesso (¤perbolø) o di insufficienza (†lleiyij), riportano alle dimensioni dell’allegoria morale, di quelle favole che i neoplatonici utilizzavano in un senso teologico25. La sesta allegoria spicca per la sua inquadratura adorna di ghirlande e grosse pietre preziose; dei putti ne ravvivano le cornici; in una prospettiva a scacchiera una figura bionda in abito violetto chiaro accarezza una curiosa piccola sfinge, mentre la metà inferiore della pagina è riservata ad una illustrazione assai grossolana di tre avventure dell’accorto Ulisse. Si tratta dunque dell’allegoria della fr’nhsij. Grazie ad un nuovo passaggio iconografico, essa suggerisce meno la saggezza pratica, che invece andrebbe d’accordo con le immagini dell’Odissea, che non la vita contemplativa alle prese con l’enigma del sapere26. Di una esecuzione meno brillante, i temi successivi moltiplicano anche i riferimenti platonici e, attraverso le immagini, connettono il testo di Aristotele ad una dottrina piú generale. Cosí Ercole è in atto di ascoltare un Mercurio che è poi il Trismegisto, maestro del sapere occulto. Come un’attrice sulla scena, una donna nuda, dipinta in modo abbastanza grossolano, passa nel fondo di una arcata, con un cane tra le gambe: è fil’thj, l’a- Storia dell’arte Einaudi 154 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze micizia, che, secondo un passo di Empedocle citato nel libro VIII dell’Etica, è il principio della coesione universale. Questo richiamo permette un’inattesa rappresentazione delle muse che nulla nell’opera richiama: ognuna di esse ha il suo strumento e la sua sfera, secondo la tradizione dei «tarocchi del Mantegna» e conforme anche alle interpretazioni messe di moda dagli umanisti di Careggi. La mediocre miniatura successiva presenta le Grazie, come altra espressione dell’accordo universale; l’ultima, in una pagina che avrebbe potuto essere stata eseguita a Firenze, illustra le capacità del saggio che è volta a volta cosmologo, astronomo e geometra e lo presenta infine su una piccola isola scoscesa in mezzo ai cespugli: cosí l’immagine di san Giovanni a Patmos viene trasposta in simbolo del lavoro intellettuale solitario27. Sul fregio del monumento che serve da inquadratura si vede una scena di lotta fra mostri marini e un gruppo d’uomini, mezzo nascosti dal testo, che sembra richiamare, secondo una formula antica, il tumulto delle passioni, mentre la piccola città di Atene è rappresentata con una civetta su ogni tetto ed una statua di Pallade, di tipo botticelliano, sulla cupola centrale. L’illustrazione di questo importante manoscritto costituisce cosí una sorta di commento inatteso; presenta un ampliamento platonico del testo che sembra corrispondere alla generale influenza dell’Accademia negli ultimi anni del secolo xv28. Storia dell’arte Einaudi 155 Capitolo primo Le strutture umanistiche della storia dell’arte La storia degli artisti è nata, modestamente, dall’elogio delle città. Cosi Filippo Villani, poco prima del 1400, unisce la celebrazione delle origini romane di Firenze e l’esaltazione dei suoi grandi uomini. Fra questi «uomini famosi» figurano i pittori: Cimabue, Giotto... confusi tra i musici e i retori. Questa prospettiva municipale rimarrà per lungo tempo la cornice naturale della storia dell’arte; la dottrina delle «Scuole» verrà formulata nel secolo xvi in funzione di queste consuetudini29. Esse comportavano anche uno stretto legame tra la storia delle arti e quella delle lettere. Lo si vede chiaramente in una lettera di Enea Silvio sulla meta del Quattrocento: «Videmus picturas ducentorum annorum nulla prorsus arte politas. Scripta illius aetatis rudia sunt, inepta, incompta. Post Petrarcham emerserunt literae. Post Jotum surrexere pictorum manus...»30. La coscienza che esisteva un parallelismo naturale e che si trattava per cosí dire di due aspetti di uno stesso fenomeno di renovatio, costituisce la molla stessa del Rinascimento31. Il Boccaccio già lo metteva in evidenza (Decameron, VI, 5) lodando Giotto per aver riportato alla luce un’arte sepolta dall’errore di coloro che «piú a dilettar gli occhi degl’ignoranti che a compiacere allo intelletto de’ savi dipignendo intendevano». Questa affermazione non deve essere dimenticata seguendo gli sviluppi del Quattrocento32. Nel campo della storiogra- Storia dell’arte Einaudi 156 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze fia come in quello delle humaniores litterae e delle arti, le iniziative principali furono opera dei fiorentini. Una certa importanza deve essere riconosciuta al Proemio del Landino alla Divina Commedia, che incastona l’uno nell’altro i temi principali: elogio della città, glorificazione dei suoi uomini illustri, presentazione dei pittori e degli architetti insieme ai filosofi e ai poeti, e un’importanza essenziale attribuita all’entusiasmo poetico, forma particolarmente elevata della vita spirituale33. Poiché Firenze nel Quattrocento era l’unica città dove si affermassero punti di vista cosí generali, ci si abituò facilmente in Toscana all’idea che non si dovesse parlare di rinascenza delle arti al di fuori di Firenze e dell’arte fiorentina. L’ambiente lombardo cominciò sulla fine del Quattrocento a reagire contro questa pretesa, poi nel corso del Cinquecento vennero i grandi centri rivali di Venezia, Roma, Milano34. Ma in ultima analisi la storia dell’arte moderna aveva trovato la sua prima formulazione nel quadro dell’umanesimo. Questo divideva la storia umana in grandi periodi storici, in cicli organici che imponevano un ritmo unitario a tutte le arti. È sullo schema dell’età dell’uomo, dilatato a scala delle civiltà e combinato con l’idea di successive nascite, che verrà costruita la grande opera del Vasari35. Questo ritmo si trova già abbozzato nei cronisti fiorentini. Esso si fonda sulla convinzione che l’epoca presente ha visto realizzarsi la perfezione nelle arti e che essa è come la conclusione dell’evoluzione universale. Questa convinzione era già stata degli umanisti di Careggi: attraverso le vicende confuse del presente, Firenze, l’Italia, il mondo intero procedevano verso una fioritura mai vista, una sorta d’età d’oro, di cui uno dei segni piú sintomatici era lo splendore della cultura. Questo senso della plenitudo temporum imporrà il suo segno a tutte le imprese degli inizi del Cinquecento, soprattutto a Roma. Questo mito dell’età d’oro doveva alla fine cri- Storia dell’arte Einaudi 157 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze stallizzarsi per Firenze, nella prima metà del secolo xvi, in favore dell’epoca di Lorenzo36. La conoscenza delle fonti storiche dell’antichità, Vitruvio (ritrovato intorno al 1410, pubblicato nel 1514), Plinio (in circolazione intorno al 1430, pubblicato nel 1469, tradotto nel 1470 dal Landino), contribuiva a determinare nei moderni questa sicurezza. Tuttavia la reazione dell’Alberti nel suo De pictura (1435) è ben diversa da quella del Ghiberti nei suoi Commentari (circa 1450)37. L’umanista che rifiuta di occuparsi della «recitazione» dei nomi compone una sorta di compendium di formule tratte da Plinio e da Vitruvio e un repertorio degli exempla corrispondenti. Ogni punto dottrinale ha il suo eroe: la «circoscrizione» o disegno Apelle, i lumi Zeusi. Questa moda delle analogie ebbe negli epigrammi e negli elogi un successo esorbitante; i riferimenti agli antichi vi ricorrono senza discernimento alcuno. Ma questa confusione non rivela solo l’ingenuo bisogno di fare piú grande Filippo Lippi o Botticelli dichiarandoli uguali ad Apelle o Zeusi, come fa Verino nella sua Illustrazione di Firenze; si trattava di creare agli artisti una sorta d’identità nell’assoluto e di definire un piano dello spirito umano al di fuori della storia38. I moderni s’avvantaggiavano cosí della eroicizzazione degli artisti antichi. Il Ghiberti nel primo libro dei suoi Commentari aveva elaborato un compendio di cronaca universale dell’arte; in pratica si era limitato a giustapporre una lista decorativa di nomi, non sostenuti da nessuna opera, a una cronaca moderna costruita in modo assai debole senza altra linea conduttrice che il proposito di affermare il «progresso» dell’arte39. Piero della Francesca si sentirà in obbligo di presentare, all’inizio del terzo libro del suo trattato prospettico, una lista di auctoritates: i nomi tratti da Vitruvio (libro III, prefazione) vi sono grossolanamente storpiati40. La conoscenza dei trattati antichi Storia dell’arte Einaudi 158 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze poteva alla fine creare l’impressione che, nell’immensa cultura artistica della Grecia e di Roma, tutto fosse già stato trovato e sviluppato fino alle ultime conseguenze; istintivamente quindi si era portati a considerare le scoperte dei moderni come mere reminiscenze. Esse erano di origine dotta e dovevano quindi spiegarsi con una buona lettura dei testi. Questa è l’interpretazione sorprendente che darà il napoletano Facio (1456), per il quale la perfezione tecnica dei Van Eyck si deve allo studio di Plinio41. Lo stesso principio d’interpretazione ricorre in tutto il Ghiberti: a suo avviso i maestri antichi hanno consegnato il loro sapere ai «vilumi et commentarii et lineamenti et regole» il cui benefico influsso si è a poco a poco perduto. Si tratta di recuperarlo42. Quest’idea di un tesoro di cultura già costituito non era nuova: ma originale del Quattrocento era il modo di ricercarlo, originale era il repertorio di testi cui si rivolgeva con la certezza che essi erano legati da una comune dottrina. Gli artisti non sono piú dei «pratici» separati dalla cultura. Ogni loro iniziativa rimette in luce una grande verità. Il Manetti nella sua Vita di Brunelleschi scrive a proposito della prospettiva: «Alcuni affermano lui esserne suto o ritrovatore o inventore»43. Esiste un parallelismo assai notevole fra l’atteggiamento degli ambienti artistici e quello degli umanisti contemporanei. Nei loro momenti di esaltazione e di fiducia, il Ficino ed i suoi amici arrivavano a concepire l’idea d’una esatta reviviscenza dei personaggi platonici: ciò che spiega il Convito di Careggi ispirato dal Simposio. Su questa idea della imitatio Platonis, spinta fino a particolari sorprendenti, il Ficino costruirà la storia dell’Accademia nel senso di un’istituzione ideale sempre pronta a ricostituirsi44. La cultura diventa, per i platonici conseguenti, un’immensa ¶namnøsij, in cui è difficile separare la ripetizione libresca dalla riscoperta interiore. Quest’orientamento contribuirà ad alimentare l’i- Storia dell’arte Einaudi 159 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze dea che la cultura debba trovare i suoi istituti non nelle università, meno che mai nei conventi, ma in centri liberamente organizzati, di cui l’Academia chareggiana fornisce l’esempio. Di qui il valore, suggestivo ma vago, del termine stesso academia, che sarà alla fine utilizzato per indicare accolte d’artisti desiderosi di cultura e dottrina al di fuori dei loro problemi di mestiere. La parola indicava indifferentemente ogni accolta di dotti; ed è sintomatico che intorno al 1500 abbia potuto essere applicata ironicamente alla bottega del Botticelli, dove ci si occupava meno alla pratica e piú alle interminabili discussioni dei perditempo: «In bottega sua era sempre un’accademia di scioperati». Nel 1531 una incisione di Agostino Veneziano intitola Academia dello Belvedere la rappresentazione di un gruppo di artisti allo studio. Infine il Vasari, uniformandosi a questa valorizzazione specifica del termine, lo applicherà retrospettivamente a quella che egli crede essere «La Scuola del giardino di San Marco»45. La trasposizione dell’idea poteva cosí stabilmente considerarsi compiuta. Fino a che punto gli artisti, consapevoli della loro posizione storica, trovavano, nei compendi d’arte antica, una conferma dei loro interessi? La storia della pittura greca presentava una sorta di sviluppo coerente, di cui volta volta l’Alberti, il Landino ed altri hanno messo in evidenza le tappe. Il nome di Polignoto è rimasto associato all’introduzione dei drappeggi trasparenti e dei mezzi «fisionomici»: «Plurimum picturae primus contulit, siquidem instituit os aperire, dentes ostendere, vultum ab antiquo rigore variare» (Plinio, Naturalis Historia, XXXV, 58). Le tappe successive si snodavano logicamente, almeno per quanto era possibile in realtà riferire a Zeusi il dono del colore, a Parrasio il trionfo della linea, ad Apelle la sintesi di tutti gli elementi necessari per creare la venustas46. Il pittore di Alessandro poteva facilmente esser preso a simbolo della perfezione Storia dell’arte Einaudi 160 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze della pittura. Sembra sia stato veramente cosí per gli umanisti fiorentini. Fondandosi su una fonte non ancora individuata, il Ficino ha per l’appunto indicato il pittore di Alessandro come incarnazione esemplare del processo artistico nel suo ritmo alterno di analisi e sintesi, percezione e concezione47. Il Landino conclude il suo rapido compendio dell’arte antica ricordando solo il nome di Apelle considerato come insuperabile anche nei secoli a venire48. Ed è lecito chiedersi se, in queste condizioni, la figura di Apelle, pittore ideale degli umanisti, non si sia imposta ad un artista come Botticelli al punto da influenzarne la carriera e determinare alcune delle sue concezioni. Nel passo della Carliades, in cui descrive le pareti del palazzo di Giustino in Epiro, attribuendo ogni affresco ad un grande nome dell’arte fiorentina, Ugolino Verino ricorda, di fronte all’opera di Pullus Tyrrhenus (Pollaiolo) quella di: «Choi successor Apellis»: il nuovo Apelle è Botticelli49. Si è tentati di attribuire una certa importanza a questo soprannome a differenza di tanti altri casi in cui il parallelo era senza conseguenze. Il Botticelli infatti ha per l’appunto ricreato, sulla base delle testimonianze letterarie, le due opere fondamentali di Apelle: Afrodite anadiomene (Plinio, XXXV, 91) e la Calunnia (Luciano, De Calomnia, V)50. La sua arte corrisponde alle due caratteristiche fondamentali del pittore di Cos: Apelle è il pittore della grazia, «praecipua eius in arte venustas fuit» (Plinio, XXIV, 79); ma è anche il maestro della linea, del segno fine e preciso, grazie al quale ha trionfato nella sua rivalità con Protogene, e che lo spingeva a compendiare l’arte nel detto: «nulla dies sine linea». Una sorta di modello ideale dell’arte botticelliana è dunque suggerito dalla figura di Apelle. Forse per i contemporanei Sandro era il nuovo Apelle nel senso in cui il Ficino rappresentava la reincarnazione di Platone51. Storia dell’arte Einaudi 161 Capitolo secondo Le strutture umanistiche della teoria dell’arte L’evoluzione della cultura è dominata nel Quattrocento da due fatti essenziali. Anzitutto l’importanza preponderante che assumono le discipline del trivium (Grammatica, Retorica, Dialettica) nelle mani di un ceto nuovo, distinto dai dottori dell’Università. Il loro sviluppo, indicato col nome di studia humanitatis, tende a dominare tutta l’attività dello spirito52. A questa rivoluzione, che darà il nome all’umanesimo, corrisponde un lavoro analogo, ma piú lento e incerto, per quel che riguarda le arti. Il vocabolario scolastico non forniva alcun termine comprensivo per definire ciò che c’è in comune tra l’attività dell’architetto, quella dello scultore e quella del pittore: la formula «arti del disegno» è in gestazione a cominciare dai trattati dell’Alberti e del Ghiberti. Essa non s’impone che un secolo dopo col Vasari53. Era necessaria una dottrina generale, che fosse indipendente dall’edificio scolastico, perché essa potesse essere accolta. Proprio per questo è interessante definire la situazione di Firenze. Già nel suo trattato di bottega (circa 1400) il Cennini aveva ritenuto opportuno ricordare che la pittura, al pari della poesia, aveva il privilegio di creare esseri immaginari. Nella sua lettera a Niklas von Wyle, Enea Silvio (circa 1451) opponeva alla schematicità dei filosofi scolastici la vera forza dello spirito, da lui chiamata eloquentia, e scopriva una linea di sviluppo generale Storia dell’arte Einaudi 162 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze comune alle arti che per semplificare erano da lui comprese sotto il termine generico di pictura: «dum viguit eloquentia, viguit pictura». Questo parallelismo sta a dimostrare come si possa attribuire alle arti quella dignità teorica che esse meritano. In realtà saranno due i modi per arrivare a questo: sfruttare l’analogia con l’eloquenza fino ad ottenere una trasposizione integrale delle nozioni della retorica all’attività artistica, oppure, su un piano piú ristretto insistere sulla particolarità essenziale delle arti del disegno, cioè la loro struttura matematica54. Ed è ciò che si verifica nel secondo terzo del secolo. A partire da quest’epoca a poco a poco si accede ad una nuova fase della «coscienza artistica». Un’estetica autonoma naturalmente non sarà mai formulata, ma i concetti tradizionali della filosofia greca (nozione aristotelica di imitazione [màmhsij] e nozione platonica d’ispirazione [furor animi], vengono via via applicati. Per questa via si sono venuti delineando, per tappe successive, i fondamenti, della teoria dell’arte. Era facile, e un po’ ingenuo, esaltare l’artista insistendo sull’universalità della sua cultura. Nell’esordio del suo terzo libro il Ghiberti afferma che l’artista deve conoscere tutte le «arti liberali»; elenca cosí un numero impressionante di discipline nel quale si è creduto vedere un preannuncio delle curiosità universali di Leonardo. Si tratta invece, in realtà, di una formula precostituita, una regola aurea derivata da Vitruvio. All’inizio del suo trattato sull’architettura questi aveva affermato che il suo eroe, l’Architetto, doveva possedere un sapere enciclopedico allo stesso modo che Cicerone l’aveva affermato per il suo eroe, l’Oratore. L’unico merito del Ghiberti consiste nell’aver fatto propria, sia pure confusamente, questa affermazione a vantaggio dello scultore divenuto il rappresentante completo della cultura. In realtà vengono qui confuse due idee: l’insieme delle conoscenze utili al «pratico» e la superiorità d’una Storia dell’arte Einaudi 163 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze attività sulle altre. Affermando che l’oratore, l’architetto o lo scultore deve essere in grado di dominare tutte le forme del sapere, si crede di dimostrarne la superiorità. Egli deve non solo essere al corrente delle altre discipline, egli è l’unico capace di sfruttarle a fondo per il bene dell’uomo; egli rappresenta un massimo d’efficacia e d’appropriazione. In questo stesso modo Leonardo ha voluto alla fine sostenere le parti del pittore nelle famose dispute del «Paragone», in cui la pittura appare come dotata d’una universalità di mezzi senza precedenti55. L’idea di giustificare l’artista in questo modo tuttavia è stata poco sfruttata a Firenze nel periodo tra il Ghiberti e Leonardo. Ciò dipende dal fatto che l’Alberti, con la sua consueta penetrazione critica, aveva insistito all’opposto sulla necessità di adeguare le conoscenze al lavoro specifico «Piacemi, – scrive nel De pictura (libro III), il pittore sia dotto in quanto e possa in tutte l’arti liberali ma imprima desidero sappi giometria»; contro le pretese enciclopediche di Vitruvio e del Ghiberti, preciserà piú tardi, nella De re aedificatoria, che l’architetto deve essere anzitutto maestro nel disegno e nella matematica. Per il resto, aggiunge, poco importa che sia dottore in diritto e mi preoccupa poco che sia buon astronomo. Ciò che colpisce nel trattato dell’Alberti è il suo tono positivo, il suo indirizzare tutto a un fine preciso. Ma la sua originalità, piú che nelle nozioni stesse, consiste nel coraggio che egli ha di trasferire per la prima volta alla pittura gli schemi astratti e le nozioni della retorica56. Egli si basa su un adattamento coerente dei trattati di Poetica e Retorica di tipo aristotelico che gli umanisti, soprattutto quelli padovani, ben noti all’Alberti, avevano cominciato a studiare, trascurando le artes dictandi e i formulari tradizionali. Aristotele, studiato direttamente nel testo o almeno nelle derivazioni di Cicerone (De inventione e De oratore) e di Quintiliano (De compositione), era stato commentato dal Guari- Storia dell’arte Einaudi 164 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze no e dagli umanisti dell’Italia settentrionale molto avanti la pubblicazione-traduzione latina di Lorenzo Valla, avvenuta nel 1498, ed è la sua Poetica che l’Alberti utilizza57. La distinzione fondamentale era quella tra: ars (tecnø) e natura (f›sij) cioè: studium e ingenium, dove il primo termine si suddivideva a sua volta in inventio e elocutio, il secondo comprendendo non una psicologia del creatore, ma un quadro delle rappresentazioni che lo interessavano. È la stessa disposizione del trattato dell’Alberti: I. Rudimenta = inventio II. Pictura = elocutio III. Pictor= ingenium } studium Solo la prima parte rappresenta una novità, se pure di grande importanza rispetto all’impostazione tradizionale. Sotto il titolo di Rudimenta si espongono in essa le regole della proiezione geometrica adatta a definire lo spazio pittorico; ma l’analogia con le retoriche continua anche nelle sezioni successive perfino nei particolari piú minuti. La celebre definizione della pittura nei tre termini di circumscriptio, compositio e lumina è anch’essa un adattamento dello schema ciceroniano che si articolava nei tre termini di inventio, dispositio, elocutio, cioè: idea, distribuzione delle parti e rivestimento sensibile58. Con la natura (ingenio) e lo studio dei maestri (studio) vengono ad esser posti i grandi temi che forniranno le formule canoniche al giudizio artistico per un secolo o due: cioè l’imitazione della natura, in altre parole il conformarsi a leggi generali, e la nozione di «storia», cioè di un’azione drammatica considerata come la forma piú alta di rappresentazione. Questa conversione delle formule della poetica e della retorica antiche in teoria dell’arte veniva a creare solide basi all’analogia ut poe- Storia dell’arte Einaudi 165 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze sis pictura, facendone il principio generale di ogni riflessione sull’arte. Questa massima, che ritornerà in innumerevoli epigrammi, derivava da Plutarco (Della gloria degli Ateniesi) dove è messa in bocca a Simonide. Sulla metà del secolo xv essa riappare in B. Facio, nell’Alberti (De re aedificatoria, VII, 10) e viene citata da Leonardo, dal Gaurico e piú tardi dal Lomazzo59. Essa si riferisce anzitutto alla composizione: ciò che le due arti hanno in comune è di poter rappresentare le «azioni» umane e quindi le «passioni» e pertanto di agire su di queste: la descrizione d’un quadro diventa una sorta di verifica letteraria della sua buona organizzazione. L’elogio massimo per l’artista è quello di aver saputo uguagliare o superare la natura60. La formula è cosí generica e vaga che può valere per gli stili piú diversi. Essa può riferirsi all’effetto illusionistico che induce a paragonare il quadro a uno specchio, oppure alla chiara definizione di un tipo o all’obbedienza alle leggi universali dell’armonia; non esclude nemmeno il ricorso alle forme immaginarie che possono risultare piú significative degli oggetti dell’esperienza e di cui Aristotele aveva «concessa la libertà al poeta» (Poetica, 25). Il richiamo alla natura è un modo per dar forza alle ambizioni universali dell’arte: di qui il valore che certi spiriti, preoccupati di evitare un impoverimento dell’idea d’arte, hanno attribuito alla sentenza di Filostrato: « ÷stij m¬ ¶spazetaã t¬n zwgrafàan ¶diceé t¬n ¶løqeian». Questa massima viene ripresa press’a poco contemporaneamente da Leonardo per il pittore e da Pomponio Gaurico per la scultura. Essa ricorda che l’arte contiene in sé un «discorso mentale» per lo meno uguale a quello delle discipline liberali e che la «verità della natura» non si palesa senza l’intervento attivo dello spirito e senza le risorse della tecnica61. L’«imitazione della natura» tende cosí ad assumere, intorno al 1500, un valore molto forte che fino allora non aveva Storia dell’arte Einaudi 166 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze avuto: non è possibile intendere questa evoluzione senza richiamarsi alle posizioni assunte dall’ambiente di Careggi. L’Alberti, se è stato il primo a costruire una teoria della pittura sul modello delle poetiche, ha avuto anche cura di insistere sul principio matematico: questo nuovo fondamento dell’arte bastava a sollevare la pittura al piano delle «artes» tradizionali o almeno non consentiva piú di considerarla subalterna rispetto ad esse. I difensori delle arti del disegno non cesseranno piú di insistere su questo argomento fondamentale; esso sarà nel Quattrocento l’indice piú sicuro del gusto «moderno». Il Ficino lo svilupperà sul piano filosofico, soprattutto nel commento al Filebo (1492)62 e Leonardo lo farà dal punto di vista dell’artista col vigore e la chiarezza di pensiero che sono ben note. Queste posizioni sono però legate ad una doppia rivoluzione che ne spiega appieno l’eccezionale valore. Anzitutto la scienza matematica si stacca dal complesso delle discipline liberali; essa viene cosí ad emanciparsi ed elevarsi al di sopra di tutto l’edificio del sapere per costituire una sorta di nuovo organum universale. Questa concezione viene in particolare sviluppata dal Ficino nella teoria della Ratio, funzione superiore dell’anima, che si vale essenzialmente dello strumento matematico per dominare il reale. D’altra parte le botteghe piú progredite, rinunciando alle minute prescrizioni della pratica, affrontano la geometria, la sottraggono in qualche modo alle scuole e compendiano il loro ideale nell’idea della prospettiva dei pittori o prospectiva pingendi. Intorno al 1470-75 Piero della Francesca dimostra la sua eccellenza di «monarca della pittura» e conferma la sua autorità redigendo i suoi trattati di matematica applicata. Un lavoro analogo vien compiuto a Firenze nello stesso periodo nella cerchia del Verrocchio: stando alla testimonianza del Vasari, Andrea «attese alle scienze e particolarmente alla geo- Storia dell’arte Einaudi 167 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze metria». Il Verrocchio non fu solo il maestro di Leonardo, ma secondo la formula rivelatrice del Verino di «quasi tutti coloro il cui nome oggi corre tra le città d’Italia», anche se la parte da lui avuta in questo sviluppo della cultura delle botteghe rimane da valutare. La lista degli artisti matematici che Luca Pacioli colloca all’inizio della sua Summa de arithmetica (Venezia 1494), comprende maestri del Nord, della Toscana e dell’Umbria che rispondono all’esigenze moderne: i Bellini, il Mantegna, Melozzo, Luca da Cortona, il Perugino, il Botticelli, Filippino Lippi e Domenico Ghirlandaio, «quali sempre con libello e circino lor opere proportionando a perfection mirabile conducano»63. Questo elenco ha un valore pubblicitario: attribuire alle arti del disegno capacità matematiche significa intervenire in loro favore. Il Pacioli ritorna su questo punto nel suo trattato sulla Divina proportione (1509); e qui il suo pensiero è piú esplicito, egli raccomanda ai pratici «di che arte, misteri e scientie si vogliano», una conoscenza astratta dei rapporti e delle misure «come nel suo Tymeo el divin philosopho Platone el rende manifeste»: si tratta di geometria applicata alle tecniche. La giustificazione di questa attività si trova a livello del neoplatonismo64. Siamo di fronte ad una nuova fase della dissoluzione delle rigide divisioni della vita intellettuale. La prima generazione fiorentina aveva fatto sí che arte e scienze comunicassero tra di loro; nell’ultimo terzo del secolo entrano in gioco le nozioni filosofiche e si tratta di quelle del neoplatonismo. Ció si vede chiaramente nella storia di una formula di moda, quella di symetria. Era stato convenuto fin dall’inizio, e ripetuto per un secolo, che la parola non avesse equivalente latino. Il termine suonava greco65. Si legge nel Landino (1481): «Fu adunque il primo Joanni fiorentino cognominato Cimabue che retrovo e lineamenti naturali e la vera proportione la quale e greci chiama- Storia dell’arte Einaudi 168 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze no symetria». Il termine ha palesemente un suo prestigio: per lui compendia l’ideale delle proporzioni razionali66. La formula ricompare nella Vita di Brunelleschi per consacrare la superiorità dell’architetto: «Nel guardare le scolture, come quello che aveva buono occhio, ancora mentale, ed avveduto in tutte le cose vide del modo del murare degli antichi e le loro symetrie; e parvegli conoscere un certo ordine di membri e d’ossa molto evidente, come quello che da Dio, rispetto a gran cose, era illuminato»67. La symetria offrirà anche l’occasione per un lungo capitolo, piú penetrante, al Gaurico (1504), secondo il quale la misura, legge mirabile della natura, assume tutto il suo significato nelle proporzioni interne del corpo umano, «strumento armonioso, compiuto in tutti i suoi elementi». Le sue leggi vanno spiegate partendo dal Timeo e attraverso l’analogia con la musica. La «proporzionalità» è cosa essenziale; ma è misteriosa, in quanto rientra in un ordine piú vasto, piú occulto, nel quale ogni artista deve penetrare. Passando dallo studio delle proporzioni a quello dell’espressione «fisionomica», il Gaurico rivendica i diritti dello studio dottrinale, attento ai rapporti nascosti tra le forme: «L’uomo volgare può disprezzare fin che vuole gli arcani della filosofia socratica e pitagorica; essi ce ne hanno conservata la santissima eredità»68. Già nel passo del Manetti (o pseudo-Manetti) la scoperta della symetria viene associata a una illuminazione spirituale; la nozione appare quindi colorita della psicologia dell’ispirazione. Il fatto è che è impossibile cogliere il gioco delle proporzioni senza formarsene un’immagine interiore che illumini l’ordine naturale: misura e «idea» corrispondono. Il numero deve infine essere riportato all’ordine totale del Bello, che trascende ogni evidenza razionale. Questa ulteriore esigenza, intravista dall’Alberti, assume per i neoplatonici un’importanza sconfinata. Essi si sforza- Storia dell’arte Einaudi 169 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze no di elaborarla attraverso forme «mistiche», attraverso i concetti di «illuminazione» e di «splendore», che insistono sul carattere unico e sconvolgente della bellezza, sottraendola ad ogni definizione. Per il Ficino e per quanti seguiranno le sue intuizioni, la coscienza di questa istanza metafisica porta ad esasperare la coscienza delle corrispondenze simboliche nell’universo. Egli si sforza nel commento al Timeo di renderle rappresentabili mediante dati matematici, nel De vita triplici mediante le analogie «magiche» delle forme e delle qualità, nel De sole et de lumine mediante le proprietà sublimi dell’irradiamento luminoso69. Non mancheranno teorici, e persino artisti, che considereranno questa complessa dottrina del cosmo come l’orizzonte normale dell’attività artistica. L’opera del francescano Pacioli, discepolo di Piero della Francesca, costituisce l’esempio piú chiaro di questa dilatazione in senso esoterico e «mistico» della matematica artistica. Il suo De divina proportione svolge, ad uso dei pittori, dei decoratori e degli architetti, i modi speculativi «pitagorici» sui corpi puri e le analogie universali, astrologiche e teologiche, di cui sono suscettibili le forme e i numeri70. A Firenze, come a Roma o a Venezia, non si può sottovalutare l’importanza di questi interessi71; essi circondano e stimolano il lavoro artistico, s’impongono nelle forme della decorazione e negli schemi compositivi. Ma la sua stessa oscurità suscita dei dubbi intorno alla mistica «pitagorica»: essa non è universalmente accettata72. Altre nozioni vengono a limitarla. Sollevando le qualità naturali al di sopra della conoscenza, l’intuizione al di sopra delle formule, i platonici fornivano essi stessi l’antidoto agli eccessi speculativi, almeno nella misura in cui le idee della loro nuova «arte poetica» erano applicate nel mondo dell’arte73. L’idea che lo studio oggettivo e «scientifico» della natura è necessario senza però esser sufficiente, che esso Storia dell’arte Einaudi 170 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze cioè non è l’ultima parola nell’arte, si diffonde già a partire dalla fine del Quattrocento. Lo dimostra l’aneddoto dell’abaco di Donatello che è oggetto di un curioso sainete nell’opera del Gaurico: durante il suo soggiorno padovano l’artista, sollecitato da un curioso, lo porta nella sua bottega per svelargli il suo strumento segreto e gli rivela alla fine che lo porta nella testa74. Le capacità personali non si possono comunicare cosí facilmente come, con molta ingenuità, crede la gente comune. L’artista viene definito da una organizzazione tutta particolare che gli intenditori conoscono e rispettano. Egli nella sua opera non mette solo i prodotti del suo sapere ma qualche cosa di piú. L’idea era nuova: essa circolava in alcuni ambienti fiorentini come dimostra la voga della formula: «Ogni dipintore dipinge sé». La frase viene attribuita a Cosimo de’ Medici in una raccolta d’aforismi che sono stati raccolti sotto il nome del Poliziano75. Cosimo, a quanto riferisce il Vasari, difendeva con spirito il non conformismo e addirittura le stravaganze di Filippo Lippi dicendo: «Gli ingegni rari sono forme celesti e non asini vetturini». Questo rispetto per la personalità dell’artista era un fatto nuovo; significava riconoscergli quell’indipendenza di fronte alle norme comuni, quel genere di privilegio entro al mondo umano che i platonici rivendicavano per il sacerdos musarum76. L’opera d’arte non è un prodotto meccanico: essa coinvolge tutta una disposizione dell’animo che si solleva al di sopra delle contingenze. È certamente la prima volta che quest’idea rivoluzionaria si presenta nella cultura moderna. Essa si consoliderà, riferita alle attività «nobili» della vista e dell’udito, nella Teologia platonica (X, 4). L’idea che l’artista si esprima nella sua opera viene qui sviluppata attraverso l’analogia dello «specchio che riflette il viso»: «noi possiamo», dice il Ficino, «vedervi la disposizione e per cosí dire l’immagine del suo spirito». L’opera d’arte non ci Storia dell’arte Einaudi 171 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze presenta solo un certo complesso di rappresentazioni, essa le riflette attraverso una sensibilità. L’affermazione è tuttavia meno «moderna» di quanto non sembri. Per il Ficino che non ha mai risolto con precisione il problema della «individuazione», l’anima dell’artista agisce in sincronia con l’«anima universale». Si tratta dunque meno della soggettività personale e piú invece di un certo livello dell’essere. Nel quadro dell’antropologia metafisica del platonismo fiorentino, sensibilità e immaginazione occupano un posto nuovo; ma sono concepite in una forma del tutto oggettiva77. La frase era divenuta addirittura banale. Ricompare incidentalmente in un facile sonetto di Matteo Franco, il poeta di Lorenzo78. È lecito supporre che essa dovesse irritare gli avversari di un’arte troppo emancipata rispetto alle norme tradizionali, dato che viene commentata dal Savonarola, in una delle sue prediche su Ezechiele, in un senso puramente morale, per ricondurre gli artisti al senso della loro responsabilità cristiana: il quadro rivela il livello morale della loro anima. Le loro predilezioni e le loro compiacenze vi si dispiegano in modo pericoloso. Essi devono riformare il loro cuore per fare della buona pittura79. Leonardo riprende la stessa idea di una proiezione inconsapevole del pittore nella sua opera, ma la riprende su un piano psico-fisiologico. In una pagina che verrà ripresa nel Trattato egli scrive: «Ne ho cognosciuti alcuni che in tutte le sue figure pareva avervisi ritratto al naturale e in quelle si vede li atti e li moti del loro fattore...» Non si tratta qui della visione propria dell’anima, né della purezza o impurità del suo cuore, che il pittore traduce nei tipi e nei gesti dei personaggi, ma in certo senso della sua forma vitale, e ciò in modo tale che, se non vi fa attenzione, può risolversi in una specie di autocaricatura. Si deve diffidare della spontaneità e contrastare la tendenza a imitare e ripetere le proprie forme, Storia dell’arte Einaudi 172 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze attraverso lo studio oggettivo delle forme stesse. Si correggerà cosí la tendenza inconsapevole dell’anima (nel senso di principio vitale) alle immagini che le assomigliano80. Leonardo abbozza allora incidentalmente un’analisi del tutto nuova del processo artistico: la formula «ogni dipintore dipinge sé» viene limitata ad una operazione istintiva e considerata come la fonte di una cattiva pittura in cui non interviene l’autocritica. In una pagina dei suoi manoscritti egli propone una formula celebre che sembra suggerire uno sforzo di immaginazione per identificarsi con gli esseri da rappresentare: chi pinge figura, e se non po’ esser lei, non la pò porre81. Ma anche qui si tratta di un’altra formula familiare agli umanisti. La formula risale a Dante: si legge nella III canzone del Convivio, dedicata alla vera nobiltà che la ricchezza non può dare, che è poi la nobiltà dello spirito: poi chi pinge figura Se non può esser lei, non la può porre. Il che significa: nessun pittore potrebbe realizzare una figura, se preliminarmente non s’identificasse intenzionalmente con ciò che essa deve essere. La nobiltà del cuore dipende dall’altezza delle sue aspirazioni. E Dante aggiunge: «Onde nullo pittore potrebbe porre alcuna figura se intenzionalmente non si facesse prima tale quale la figura esser dee»82. Pico nel suo commento alla Canzone d’Amore (1486, pubblicato dopo il 1500) aveva ripreso la massima: la forma deve essere concepita dallo spirito prima d’esser realizzata nella materia, «e questo è quello che nostro poeta Dante tocca in una sua canzone dove dice: poi chi pinge figura, se non può esser lei, non la può porre»83. Storia dell’arte Einaudi 173 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Pico veniva cosí a sottolineare il primato della forma intelligibile, dell’archetipo, nell’attività intellettuale come nell’operare artistico. Certamente non era in questo senso metafisico che l’intendeva Leonardo. Piú d’una volta egli ha trasformato in un senso suo le formule umanistiche. Ma se egli deve utilizzarle o rettificarle è perché esse venivano gradualmente a costituire, alla fine del Quattrocento, una «problematica» nuova dell’attività artistica. Tra lo sforzo compiuto dall’Alberti, dal Brunelleschi e dal Ghiberti, tra il 1430 e il 1460, perché la teoria, e la pratica, potessero valersi delle nozioni letterarie delle retoriche e dei principî della scienza, e la cristallizzazione dottrinaria che avverrà dopo il 1540 su un piano accademico, si delinea, tra il 1480 e il 1500, un inquadramento dottrinale delle manifestazioni artistiche legato al platonismo fiorentino. Il ricorso alla matematica viene mantenuto come un’operazione essenziale per ogni arte elevata: esso ne garantisce l’organizzazione metodica, chiara, razionale, ma in una prospettiva piú complessa. Il numero fa sí che lo spirito comunichi con gli «arcani» di cui tratta la «filosofia socratica e pitagorica»; e l’ordine elaborato dal pittore, lo scultore e l’architetto dovrebbe essere connesso ad una simbologia universale. Questa esigenza confusa si fa sentire sempre piú viva alla fine del secolo xv, e arriva a poter modificare sensibilmente le intenzioni dell’artista. Il principio per cui bastava interrogare direttamente la natura ha perso molto della sua semplicità. L’analogia generale che viene posta tra le arti e le lettere continua a restare l’elemento fondamentale del nuovo credo; l’idealizzazione del poeta nell’ambiente mediceo tende a provocare una analoga promozione per l’artista. Gli si attribuiscono ora una «psicologia» particolare e degli interessi ignoti ai comuni mortali. Nell’antropologia del Ficino e di Pico l’idea dello Storia dell’arte Einaudi 174 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze artifex universale aveva tanta importanza che anche nel caso che nessun’altra delle teorie dell’Accademia avesse raggiunto gli ambienti artistici, questa almeno vi avrebbe trovato largo consenso. Il Manetti l’aveva presentata energicamente. Il Ficino non lo dimenticò nella sua Teologia platonica, ricordando che questa attività (che per lui sta a dimostrare la realtà assoluta dell’anima) si estende a tutti gli aspetti del reale. Non si tratta piú di un risultato particolare, di una prestazione tecnica eccezionale ma isolata, quanto invece di una «attitudine» a penetrare e a organizzare l’ordine del mondo mediante strumenti appropriati. Donde la consuetudine del tutto nuova di insistere sulle molteplici attività concrete, di raccogliere in una sola idea l’onnipresenza ideale dell’artista. La somma quasi sconcertante di attitudini che si attribuiscono all’Alberti, che vengono rivendicate da Leonardo, che si assegnano al Verrocchio, assume tutto il suo significato solo se vista contro questo sfondo teorico: essa è tipica dello svolgimento delle idee sull’arte dopo il 1475-80. Siamo ormai prossimi all’idea del «genio»84 ormai tutti gli elementi essenziali ci sono, con l’idea di ispirazione (la forza irrazionale del «furor»), quella della conoscenza intuitiva del mistero universale, quella del difficile destino del sacerdos musarum. Ma in seno all’umanesimo platonico c’era tutta una serie di contraddizioni, per le quali esso non poteva giungere a formulare questa idea. La crisi che intorno al 1490 dilania il platonismo, in attesa della reazione «piagnona», allontana Pico e i suoi amici, il Poliziano e il Ficino stesso dalle audaci affermazioni di cui in passato avevano avuto il coraggio: essi ripiegano sui problemi dell’esegesi e della filosofia religiosa. Le loro conclusioni ultime sulle altre attività spirituali sono reticenti e involute. Nel disagio della fine del secolo la riflessione sull’arte viene a trovarsi ad un punto morto. Ma è allora che si verifica il Storia dell’arte Einaudi 175 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze fatto decisivo che l’evoluzione generale della cultura lasciava prevedere: assumendosi tutte le responsabilità della vita intellettuale, alcuni maestri, che saranno le autorità del Cinquecento, assimilano, rivivono ed esprimono in proprio le esigenze spirituali maturate dalla riflessione dei platonici. La loro esperienza conferisce alle linee generali elaborate dall’umanesimo un valore convincente, fa sí che si mescolino intimamente alle realtà dell’arte, e si individui cosí la «problematica» del futuro. È con i loro problemi che l’evoluzione del secolo xv si conclude ed è attraverso il loro esempio che le idee del platonismo hanno potuto inserirsi definitivamente nella teoria dell’arte85. Storia dell’arte Einaudi 176 Capitolo terzo Dante, l’Accademia platonica e gli artisti Dantes redivivus et in patriam restitutus ac denique coronatus. ficino 1. L’annessione di Dante da parte dell’Accademia platonica La gloria del poeta si è stabilmente definita nel Quattrocento per impulso dell’ambiente neoplatonico e in circostanze che interessano la storia dell’arte. Nella prima metà del secolo gli umanisti avevano ancora delle incertezze. Si rimproverava al poeta una conoscenza imperfetta dell’antichità, i suoi legami con la barbara scolastica, il suo fanatismo ghibellino; intorno al 1400 i promotori della restitutio studiorum erano intransigenti circa la qualità della latinitas. Da Petrarca in poi essi erano avversari dichiarati dell’aristotelismo tomistico e in genere facevano professione di guelfismo repubblicano86. Lo stesso Salutati, pure ammirando la Commedia, e Poggio un po’ piú tardi lamentavano che Dante non avesse scritto in latino. Le obiezioni dei puristi verranno formulate da Niccolò Niccoli nei dialoghi del Bruni dove egli figura come protagonista87. Dante era sospetto ai teologi per l’importanza da lui attribuita ai miti antichi. Nella Lucula Noctis del 1405 il domenicano Giovanni Dominici moltiplica le sue riserve per questo ricorso eccessivo ai miti pagani che fatalmente riporta gli spiriti a un «falsum et vetustissimum chaos». Sant’Antonino si meraviglierà che Dante avesse accordato ai saggi e ai poeti antichi un trattamento di favore che non Storia dell’arte Einaudi 177 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze trovava alcuna giustificazione. Per il pensiero domenicano, che rappresenta una corrente molto forte in tutto il secolo e che trionferà col Savonarola, nulla è piú condannabile della continua mescolanza di profano e sacro operata da Dante e Petrarca nelle loro opere88. Con lo sviluppo dell’umanesimo le obiezioni vennero a cadere una a una: nel 1436 Leonardo Bruni pubblica una Vita dell’Alighieri in cui giustifica il poeta d’aver scritto in toscano. Il «volgare» era d’altronde in pieno sviluppo letterario e avrebbe trionfato con Lorenzo de’ Medici, lo stesso che decreterà la definitiva consacrazione di Dante e Petrarca. La «lettera a Ferdinando D’Aragona», «difesa e illustrazione del toscano», presenta un numero grande di citazioni del «venerato Dante» e dei poeti del «dolce stil nuovo»89. Il culto di Dante diventa ufficiale90. Il Niccoli poteva ancora rimproverare al Poeta di aver trascurato la vera grandezza degli antichi collocando Bruto nell’Inferno. Gli umanisti platonici invece sono piuttosto favorevoli a Cesare. Il ghibellinismo di Dante non li turba piú come una aberrazione «gotica»: essi vi scorgono una giusta comprensione delle esigenze temporali la quale sembra giustificare non certo l’evoluzione del Sacro Romano Impero, ma quella della Repubblica fiorentina e il richiamo, generale in Italia a quell’epoca, al principio d’autorità. Nel 1468 Marsilio Ficino pubblica, ed è un lavoro in un certo senso sorprendente e anacronistico, una traduzione toscana del De Monarchia di Dante. La breve prefazione ivi premessa, e dedicata a Bernardo del Nero e Antonio Manetti, segna una data molto importante per la «fortuna di Dante nel Quattrocento». È il caso di riportarla per intero: Dante Aleghieri per patria celeste, per abitazione fiorentino, di stirpe angelico, in professione philosopho poetico, benché non parlassi in lingua greca con quel sacro Storia dell’arte Einaudi 178 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze padre de’ philosophi, interpetre della verità Platone, niente di meno in ispirito parlò in modo con lui, che di molte sententie Platoniche adornò e libri suoi e per tale ornamento massime illustrò tanto la ciptà fiorentina, che cosí bene Firenze di Dante come Dante da Firenze si può dire. Tre regni troviamo scripti dal nostro rettissimo duce Platone: Uno de’ beati, l’altro de’ miseri, el terzo de’ peregrini. Beati chiama quelli che sono alla ciptà di vita restituiti, miseri quelli che per sempre ne sono privati, peregrini quelli che fuori della città sono, ma non indicati in sempiterno exilio. In questo terzo ordine pone tutti e viventi et de’ morti quella parte che a temporale purgatione è deputata. Questo ordine Platonico prima seguí Virgilio. Questo seguí Dante di poi, col vaso di Virgilio beendo alle Platoniche fonti. Et però del regno de’ beati et de’ miseri et de’ peregrini di questa vita passati nelle Sue Commedie, elegantemente tractò, et del regno de’ peregrini viventi nel libro da lui chiamato Monarchia91. Il filosofo di Careggi non solo consacra senza riserve la grandezza del «sommo poeta», ma accenna a un’interpretazione nuova che molto audacemente elimina l’ultima ragione di diffidenza fra gli umanisti, cioè la struttura propriamente scolastica dell’Inferno e del Purgatorio e il carattere aristotelico, tomistico delle sue esposizioni dottrinarie92. La «platonizzazione» della Commedia fu compiuta da Cristoforo Landino. La grande edizione commentata della Commedia, pubblicata il 30 agosto 1481 fu accompagnata da appoggi ufficiali; vi si trova, in calce alla lunga prefazione del Landino una lettera del Ficino: «Fiorenza già lungo tempo mesta, ma finalmente lieta col suo Dante Alighieri, già dopo due secoli risuscitato, e a la patria reso, e finalmente coronato si rallegra». Ficino, spesso tanto solenne, ha superato se stesso in questa pagina entusiastica che lega per sempre Firenze e Dante, «suo secondo sole», alla fine compreso93. Storia dell’arte Einaudi 179 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Il commento in sé occupa solo «un posto di secondo piano nella storia degli studi danteschi», ma segna una data in quella della cultura e perfino della vita artistica. Questo Dante travestito da poeta platonico s’imporrà alla fine del Quattrocento; il commento del Landino sarà ancora «quasi il solo ad essere letto nei primi decenni del ’500»94. Leonardo, Raffaello, Michelangelo, tutti gli artisti hanno conosciuto Dante in questa edizione nella quale l’hanno studiato gli umanisti ed i poeti. Paolo Manuzio, figlio dello stampatore veneziano, poteva dire stando a Sperone Speroni: «Mio padre che stampò Dante e il Petrarca, lodava Dante, non per suo proprio giudicio, ma per quello dell’accademia del gran Lorenzo de’ Medici»95. Il commento del Landino utilizza largamente glosse anteriori, ma ad esse sovrappone una interpretazione neoplatonica che altera, la fisionomia scolastica della Commedia. Egli riesce meglio nell’esporre gli elementi della mistica di Dionigi incorporati nel Paradiso, e sa mettere in valore la bellezza poetica dell’insieme96. Soprattutto, non si fa scrupolo di dilatare i simboli spesso difficili del poeta mediante una illuminazione allegorica, e, secondo il metodo dell’Accademia, porta tutte le sue immagini su un piano assoluto. Gli episodi del mito e della storia pagani sono introdotti in funzione dell’allegoria morale, ma Dante vi cercava anche la manifestazione di una specie di «mistero pagano» che veniva a completare il «mistero cristiano» e doveva alla fine accordarsi con questo97. Il mito interviene, attraverso i demoni planetari, al principio della vita fisica; fornisce una specie di chiave poetica per tutte le articolazioni oscure della vita intellettuale: cosí il supplizio inflitto a Marsia da Apollo viene invocato alle porte del Paradiso e seguito da una preghiera98. Anche per Dante si ha una coincidenza misteriosa tra «teologie» antiche e ordine cristiano che trascende il piano della storia. L’ambiente Storia dell’arte Einaudi 180 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze di Careggi veniva cosí a trovare nella Commedia tutte le conferme che voleva. Vi ammirava soprattutto la perfetta fusione di dottrina e poesia per cui visibile e invisibile venivano ad articolarsi in «forme rappresentabili» che realizzavano un universo interamente spiritualizzato. L’architettura della Commedia sarà uno dei problemi che attireranno l’attenzione degli umanisti e dei dotti fiorentini. Ma in questa costruzione di idee è la sensibilità ad orientare tutto: come è stato giustamente osservato, è l’esperienza estetica che guida lo sviluppo del poema: «I colori dell’Inferno sono rosso, giallo e nero, quelli del Purgatorio grigio chiaro e verde, quelli del Paradiso bianco e rosa»; «nell’Inferno l’orecchio era l’organo piú attivo... nel Purgatorio (il poeta) subisce la prova del fuoco..., nel Paradiso l’occhio è il tramite essenziale»99. La visione, portata al suo grado piú alto, diventa, soprattutto nel Paradiso, l’organo mistico per eccellenza, capace di suggerire l’ineffabile. Quando il Ficino sostiene il valore assoluto della visione intellettuale, ha presente allo spirito l’esempio degli ultimi canti della Commedia100. Ciò che soprattutto conta per gli umanisti di Careggi è la rappresentazione delle passioni dell’anima, come il poeta l’ha realizzata nell’Inferno e il lento succedersi di gradi del cielo per cui il Paradiso risulta un’iniziazione poetica alla contemplazione. In questo la Commedia costituisce il paradigma della visione: il movimento che dalla bestialità terrestre porta alle gioie della contemplazione è il principio stesso della nuova filosofia, dove l’accento, come già in Dante, anche dal Ficino è posto sull’onnipotenza oscura dell’Amore, che ha ispirato anche l’Inferno e che muove le stelle101. Il Landino in questo caso non doveva far altro che mettere in evidenza rapporti espliciti. La Commedia diveniva cosí l’arca del sapere moderno102 e il «poeta theologus» l’eroe spirituale dell’umanesimo fiorentino. Le imitazioni della Commedia furono numerose alla Storia dell’arte Einaudi 181 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze fine del Quattrocento; il poema forniva una cornice adeguata alle visioni cosmologiche che il neoplatonismo rimetteva di moda103. In certi casi il colore antichizzante è piú marcato, come nella Città di Vita di Matteo Palmieri (tra il 1455 e il 1464), che racconta la traversata del mondo invisibile sotto la guida della Sibilla cumana e di cui un curioso quadro «eretico» (un tempo attribuito a Botticelli, in realtà del Botticini) rivela direttamente l’influenza104, o nel trattato astrologico del Bonincontri, composto a Firenze tra il 1475 e il 1478 e dedicato a Lorenzo, il grande componimento didattico De rebus coelestibus che non è se non una glossa poetica a Manilio in spirito ficiniano e dantesco105. A volte la «visione celeste» presenta un accento piú cristiano: cosí avviene nel Paradisus (in latino) di Ugolino Verino, pubblicato nel 1489, che si apre con una invocazione a Platone assurto a guida dell’anima nell’altro mondo106, e, alla fine del secolo, nel Poema visione rimasto incompiuto di Giovanni Nesi, nei cui 28 canti in terzine la cosmologia platonica appare legata alle tappe descritte da Dante107. 2. Il ritratto di Dante. È in questo clima che si è venuta fissando l’immagine del poeta108. La tradizione aveva tramandato due tipi per il volto di Dante: quello che si trova nella cappella della Maddalena al Bargello, allora attribuito a Giotto (attualmente quasi del tutto cancellato), cioè un viso giovane e sognante, e quello di Nardo di Cione nel Giudizio della cappella Strozzi a Santa Maria Novella, un Dante invecchiato, con una espressione di pietà e di timore: si trattava insomma dell’autore della Vita Nova e di quello dell’Inferno. Pur continuando ad essere utilizzate, queste due immagini vennero a poco a poco Storia dell’arte Einaudi 182 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze cedendo il posto a una nuova rappresentazione, nella quale veniva accentuata la forza del personaggio (affresco di Andrea del Castagno, eseguito intorno al 1450) e la figura era accompagnata dai simboli del libro e della corona d’alloro propri del «sommo poeta» (ad esempio Gozzoli in San Francesco di Montefalco, 1452). Nel 1465 fu dipinta su una delle pareti di Santa Maria del Fiore un’immagine di Dante dovuta, come precisa l’iscrizione, a Domenico di Michelino. Qui Dante è raffigurato in piedi, col libro aperto di fronte a Firenze, in atto di designare con la mano destra il regno dei dannati; dietro a lui, la montagna del Purgatorio percorsa dai peccatori; fasce curve, simili ad un arcobaleno, stanno ad indicare infine i cerchi del Paradiso. Questa figurazione ancora «trecentesca» è certamente la modernizzazione di un’opera piú antica109. Una maggior ampiezza si nota nel profilo inserito tra le tarsie, eseguite nel 1478 da Francione e Giuliano da Maiano nella sala dei Gigli in palazzo Vecchio, verosimilmente su disegno del Botticelli110: qui il poeta appare con un viso ossuto, il naso ricurvo, il mento forte, tutti elementi che ora sono correnti111, e immagini piú intense ancora appariranno tra poco. Un elemento che già il Boccaccio aveva notato viene ora comunemente rilevato e messo in evidenza: «È sempre nella faccia malinconico e pensoso». È la caratteristica su cui insisterà Pietro Lombardo nella sua figura a rilievo depresso (1483) per la tomba del poeta a Ravenna; ma gli ornamenti dello «studio», i ricami del collo indeboliscono l’intento iniziale. Con Signorelli, nel medaglione di Orvieto, la forza drammatica del genio saturnino si rivela in una piega di disprezzo e di stanchezza sul viso, e ne risulta un’immagine di indubbia intensità e profondo pathos. Non meno rigoroso, ma piú grave, piú completo, risulta il busto anonimo in bronzo che si trova nel Museo di Napoli, il quale fissa quella che Storia dell’arte Einaudi 183 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze sarà di poi l’espressione definitiva del poeta. L’opera però deve essere assegnata alla fine del secolo; non è infatti lontana dai due ritratti che Raffaello dipingerà nella stanza della Segnatura, il ritratto del Parnaso, nel quale domina il disincanto delle cose terrene e l’abbandono alla forza poetica, e l’altro, dipinto nella Disputa, che ci presenta la maschera del «teologo» pronto ad affrontare i misteri supremi. Si tratta appunto dei due volti del Dante dell’Accademia fiorentina. Petrarca era stato contrapposto a Dante sulle porte di palazzo Vecchio, dove si volevano celebrare le glorie toscane112. Ma Petrarca ha poca importanza per gli umanisti neoplatonici: il culto di Dante, rinnovato con tanta energia intorno al 1480, caratterizza l’Accademia, il culto di Petrarca prevarrà nei suoi eredi mondani del 1510. All’epoca di Lorenzo la Commedia non solo godeva di un prestigio eccezionale, ma è stato attraverso di essa che l’umanesimo platonico ha avuto uno dei suoi contatti piú fruttuosi con i maestri dell’arte classica113. 3. I manoscritti e le edizioni illustrate della «Commedia». La storia delle illustrazioni dantesche è tuttora difficile e confusa114. La parte che in esse spetta alla Toscana non è decisiva. Le tre iniziali delle cantiche, «N» per l’Inferno, «P» per il Purgatorio e «L» per il Paradiso, includono già nel Trecento scene stereotipe che continuano nel secolo successivo, nel quale le miniature a piena pagina sono sempre piú rare. L’illustrazione canto per canto sembra aver scoraggiato molto presto i pittori di manoscritti: si hanno molte serie rimaste incomplete o limitate alla prima cantica, forse perché le scene dell’Inferno presentano aspetti pittoreschi piú facilmente accessibili. Un manoscritto della Biblioteca Naziona- Storia dell’arte Einaudi 184 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze le di Firenze di poco posteriore al completamento del poema presenta 37 miniature, 32 per l’Inferno, 2 per il Purgatorio e 3 per il Paradiso115. Coloro che hanno abbordato il Paradiso sembrano di regola essersi fondati, piú che sul testo, considerato troppo elevato per la rappresentazione figurata, su didascalie schematiche, e questo starebbe a spiegare certi errori116. Nei casi in cui la serie si presenta completa, come nel manoscritto della Biblioteca Nazionale di Firenze datato 1387, vediamo un’illustrazione letterale che mette insieme particolari minuti fra mezzo a tappeti di fiori o di stelle117. In un manoscritto di Venezia, che viene riferito alla scuola di Altichiero (1400 circa), i profili dei personaggi principali occupano per gran parte la superficie del disegno. Questa soluzione impedisce al pittore di rappresentare le grandi scene dove compaiono molte figure: cosí nel canto XXXI del Purgatorio si vede Beatrice avanzare su un carro ridicolo e i cori celesti appaiono distribuiti molto goffamente118. La varietà negli spazi e l’ampiezza descrittiva della Commedia sfuggono all’interpretazione dei miniaturisti gotici. Un manoscritto senese del 1440 circa comprende 115 illustrazioni disposte a strisce alla base delle pagine: l’Inferno e il Purgatorio sarebbero del Vecchietta, il Paradiso di Giovanni di Paolo119. Questa illustrazione si fonda sull’Ottimo commento, antica glossa composta a Firenze a partire dal 1337, ricca soprattutto di allusioni classiche, la quale contiene il commento piú popolare al Paradiso120. Certi particolari dell’illustrazione non si spiegano se non con le caratteristiche del commento. Secondo la consuetudine degli illustratori medievali, il miniatore attribuisce la stessa importanza agli episodi del testo e ai commenti che lo accompagnano: raffigura ad esempio Dante inginocchiato davanti ad Apollo che si appresta a incoronarlo di foglie d’oro, davanti al doppio corno di Parnaso, mentre Marsia scorticato giace a terra, sul Storia dell’arte Einaudi 185 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze verde prato121. Questa immagine, come molte altre, rappresenta una digressione. Un importante manoscritto dell’Italia settentrionale, press’a poco contemporaneo, lega le scene l’una all’altra attraverso un formicolare di elementi decorativi122. Siamo quindi quanto mai lontani da una interpretazione «monumentale» della Commedia. La situazione si fa piú grave ancora con la comparsa delle prime Commedie a stampa illustrate. L’edizione del Landino del 1481 doveva essere illustrata; e si sono fatte numerose ipotesi sulle ragioni per cui l’impresa non è riuscita. Alcuni esemplari contengono 19 incisioni su rame per i primi canti dell’Inferno, e la maggior parte di queste incisioni sono state incollate successivamente. Piú spesso però il posto previsto per l’illustrazione è rimasto vuoto. Questa serie, tanto incompleta, dovuta all’incisore Baccio Baldini, è stata eseguita su disegni del Botticelli. Il Vasari afferma esplicitamente che questi ha illustrato e pubblicato l’Inferno123. Però questa illustrazione lasciata in tronco non ha nulla a che vedere con il grande ciclo illustrativo della Commedia che verrà disegnato dall’artista quindici o vent’anni piú tardi. I disegni della serie Baldini rappresentano semplicemente un primo studio. Queste incisioni rimangono in realtà molto vicine alla miniatura. Tutt’al piú la visione è un po’ piú larga, le figure si muovono meno incerte attraverso lo spazio, il paesaggio infernale, alberi, rocce o rovine, presenta talvolta un suo carattere. Ma con le sue piccole cinte di mura concentriche ai piedi degli eroi e dei saggi, il «nobile castello» del canto IV è rappresentato piú debolmente che non nei manoscritti del 1400124. Le pubblicazioni successive non sono meno deludenti. Nel 1487 il testo e il commento del Landino furono accompagnati da 68 incisioni su legno: le due prime cantiche al completo e una incisione per il primo canto del Paradiso. Le illustrazioni sono chiuse entro cornici nere con candelabre di un bell’effetto decorativo, ma lo stile Storia dell’arte Einaudi 186 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze rimane grossolano e ci sono dei veri e propri assurdi125. L’autore si è rifatto a modelli della miniatura; il tipo dei poeti, certi mostri sono «modernizzati», con qualche elemento forse orientale126. Nel 1491 Venezia pubblicò a sua volta la Commedia e il commento del Landino con una serie completa di 100 incisioni che rimangono deboli, benché qualcuno abbia voluto attribuirne il disegno al Mantegna127. Come se avesse intuito l’insufficienza della tecnica della stampa, un francescano preparò una nuova edizione, migliorando le immagini mediante i colori, le figure marginali ed un segno piú delicato128. Ma egli non realizzò illustrazioni originali se non per l’Inferno: le incisioni che accompagnano il Purgatorio ed il Paradiso derivano direttamente da un manoscritto fiorentino del Trecento con la stessa impaginazione ridotta e particolari d’uno stile duro e puerile129. In questa generale mediocrità delle illustrazioni della Commedia fanno spicco due complessi: le miniature dipinte tra il 1476 e il 1482 per Federico da Montefeltro e la serie dei disegni del Botticelli destinati a Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici. Gli autori della Commedia miniata a Urbino appartengono a un gruppo ferrarese, il cui personaggio piú autorevole sembra essere Guglielmo Giraldi130: essi hanno compiuto uno sforzo artistico ben notevole per l’ampiezza e anche per la qualità. A Ferrara l’arte della miniatura aveva raggiunto un’originalità, una grazia poetica e una forza di penetrazione che si ritrovano in alcune di queste pagine; tuttavia la diversità di mani porta talvolta a un indebolimento e a una sorta di mollezza, nonché a una tendenza alle formule. Paesaggi minuziosi alla fiamminga fanno da sfondo a scene ben disposte; nel canto IV dell’Inferno l’isola degli eroi antichi appare contro un orizzonte liscio come una dimora di sogno; Gerione, Cerbero non hanno piú nulla di diavoli odiosi, i centauri corrono lungo le rive dello stagno rosso dei peccatori e colpisco- Storia dell’arte Einaudi 187 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze no con gravità. Tutto ciò che è antico è messo in valore; i cortei hanno una loro consistenza. Non rimane nulla della minuzia acida dei vecchi illustratori: almeno nel senso della monumentalità, questo ciclo rappresenta un grande risultato della miniatura in un campo per lungo tempo ostico. 4. Due interpretazioni della «Commedia»: Botticelli e Signorelli. Se l’opera dantesca ha provocato solo mediocri illustrazioni nel Trecento e ben poche che possano dirsi eccellenti nel Quattrocento131, ha però attirato ben presto l’attenzione dei pittori, soprattutto a Siena e Firenze: nel 1315 la Maestà di Simone Martini presenta una iscrizione dantesca132; nel 1381 tre versi del Paradiso sono collocati alla base di una tavola di Paolo di Giovanni Fei. A metà del Quattrocento Giovanni di Paolo consacra due predelle del suo Giudizio finale, in cui si notano reminiscenze dantesche, ai due regni soprannaturali dell’Inferno e del Paradiso. Ciò accadeva spesso nella maggior parte dei Giudizi che, come quello della cappella Strozzi a Santa Maria Novella, non sono altro che miniature gigantesche. Tuttavia nessun pittore può essere considerato interprete del poema. Lo stesso non si può piú dire alla fine del secolo: due artisti, che avevano familiare il nuovo umanesimo, realizzarono allora un’interpretazione personale ed elevata della Commedia. Si tratta del Botticelli e del Signorelli. Le loro fantasie, diametralmente opposte, hanno individuato i due registri sui quali il pittore può cogliere la sostanza poetica della Commedia: il mondo dell’estasi e quello del terrore; ed hanno cosí rivelato i due volti dell’universo dantesco che si presentano alla visione: i suoi ritmi «gotici» e la sua monumentalità133. Storia dell’arte Einaudi 188 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Il Botticelli dipinse e illustrò un Dante su pergamena per Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, e quest’opera passò per una meraviglia, come scrive un cronista134. Il cugino del Magnifico verosimilmente aveva finanziato l’edizione del Landino e sembra certo che abbia ispirato le composizioni mitologiche del Botticelli135. Questo Dante che gli era destinato fu disegnato su grandi fogli di pergamena (cm 47 x 32)136 dopo il 1482, e l’esecuzione dell’opera dovette prolungarsi fino ai primi anni del Cinquecento. Il lavoro ha in definitiva occupato l’ultimo periodo della carriera del Botticelli e, secondo il Vasari, ne spiega i disordini e l’inattività137. Le composizioni dell’Inferno richiamano la miniatura; sono piú letterali e lo scrupolo della completezza e della rappresentazione minuziosa dei temi pittoreschi, ad esempio la Città di Dite nei canti VIII e IX, i serpenti diabolici nei canti XXIV e XXV, rendono dispersiva la composizione. Questa però appare già mossa da una vivacità di segno e una leggerezza davvero eccezionali, che sfruttano la ripetizione «cinematografica» di un personaggio come accade spesso nella miniatura. L’illustrazione relativa al canto I presenta quattro volte Dante al margine della «selva oscura», assalito da animali che presentano un profilo araldico. Lo spazio è composito e mobile, il poeta viene guidato da un Virgilio che porta la berretta, la barba lunga, il cappuccio del «mago» medievale138. Nel Purgatorio brusche variazioni nella «qualità dello spazio» permettono al pittore di sovrapporre efficacemente in una stessa tavola, ad esempio nel canto XII, episodi immaginari e le scene descritte139, dato che la preoccupazione maggiore dell’artista è quella di assicurare «la continuità della scena»; tuttavia queste scene incatenate sono a volte di una lettura faticosa140. Nei canti del Paradiso l’immaginazione dell’artista si concentra sull’essenziale: le figure affrontate di Dante e Beatrice in ogni cerchio cele- Storia dell’arte Einaudi 189 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze ste, e il lento progresso del poeta attraverso i cori paradisiaci141. Il Botticelli non rappresenta piú avvenimenti e neppure gesti; con una ammirevole economia dei mezzi grafici, lega insieme movimenti sottili di gioia, di disperazione, di sgomento, d’abbandono. Nel canto XXV Dante viene esaminato da san Pietro, san Giacomo, san Giovanni; ma bastano al pittore tre nomi scritti sotto le fiamme che danzano intorno al poeta142. Ogni pagina cosí aderisce meravigliosamente alla «visione», spoglia di ogni gravezza143. Questa interpretazione cosí fluida e di un respiro cosí puro fa sí che l’opera di Botticelli costituisca un risultato unico. Essa domina e in certa misura spiega le opere degli ultimi anni con le quali essa presenta precisi rapporti144. L’ordine razionale della prospettiva è abolito e, con esso, ogni sorta di spunti «pagani»: lo spirito antico è completamente scomparso dall’opera, gli dei non vi regnano piú. Il Dante di Botticelli non è piú nemmeno «umanistico», tanta è la libertà che l’interpretazione personale ha raggiunto: si deve vedervi un risultato solitario del genio lirico, che supera insieme la minuzia gotica e la precisione quattrocentesca per valersi unicamente della vibrazione della linea e della purezza del disegno145. L’analogia, cosí strana e tanto spesso notata, tra molte di queste composizioni e i disegni dell’Estremo Oriente può apparire allora meno misteriosa146. L’esotismo aveva sempre esercitato una certa attrattiva nel Quattrocento e, grazie ad esso, alcuni illustratori di Dante avevano assimilato certi elementi della miniatura persiana147; è possibile d’altronde che rotuli asiatici abbiano circolato fra gli amici dei Medici e non è nemmeno escluso che si conoscessero i disegni su seta148. Ma per arrivare all’estetica «idealistica» dell’Asia occorreva questa capacità di rinuncia, questa sensibilità contemplativa che «rifiuta le cose terrene lasciandole Storia dell’arte Einaudi 190 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze sopravvivere solo in una metafisica di simboli»149. Da questo punto di vista la interpretazione botticelliana sembra collocarsi al punto estremo di questa poesia dell’estasi e della visione angelica che era stata favorita dal neoplatonismo fiorentino, ma che era stata invano tentata da dei letterati contemporanei. Nei canti del Paradiso non si hanno che composizioni trasparenti e lineari, senza dimensioni fisse, fuori del tempo, dove l’immagine si piega ai motivi ornamentali: ad esempio nel canto VI un cerchio chiude su un fondo di fiamme che potrebbe apparire araldico, se non simboleggiasse il Paradiso, Dante e l’amata; altrove le figure si dispongono lungo i raggi e i cerchi concentrici delle sfere. E cosí anche nel I canto del Paradiso dove, attraverso il fogliame leggero di un altro mondo, Beatrice e il poeta attraversano, come se fossero attratti da una forza superiore, il fragile intreccio del cerchio celeste. In questa invenzione, di un gusto cosí «preraffaellita», il segno si spoglia e nella sua nudità arriva a suggerire l’estasi. È indubbio che l’artista ha lui stesso riportato questa ispirazione alla forza dell’Eros mistico. Nel coro degli angeli del IX cerchio, che, nel canto XXVIII del Paradiso, tengono il loro meraviglioso «concistoro» descritto da Dionigi l’Areopagita e contemplato da san Paolo, il Botticelli ha messo nelle mani di una di queste creature superiori un piccolo cartiglio con la scritta «Sandro di Mariano»150. È in questo coro felice al di sopra delle sfere celesti, in questo empireo descritto dal Ficino sulla base di Dante, come sede della Mens, lo spirito superiore, che Botticelli ha voluto indicare o «prenotare» il suo posto, in una specie di professione di fede che è insieme quella di un’anima esaltata dalla visione mistica e quella di un artista che, attraverso la visione, in senso platonico, raggiunge il regno del perfetto «intelligibile»151. Storia dell’arte Einaudi 191 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Gli affreschi della cappella di San Brizio nel Duomo di Orvieto furono eseguiti a cominciare dal 1499, cioè negli stessi anni in cui Botticelli concludeva la sua figurazione mistica. Il complesso orvietano non è meno eccezionale: è la prima volta che un’intera cappella (sei affreschi che completano la decorazione iniziata nelle volte mezzo secolo prima dall’Angelico) viene dedicata esclusivamente all’illustrazione dei «novissimi»152; e una spiegazione di ciò può indicarsi nella scossa che aveva subito la Chiesa con la predicazione apocalittica, la rivolta e il supplizio del Savonarola, l’Anticristo di Ferrara153. Il tema escatologico vi è trattato in uno spirito «antipiagnone», e una parte spettacolare è riservata ai testimoni del mondo antico in modo da poter unire insieme i poeti-teologi del paganesimo e quelli del cristianesimo. È questo che costituisce l’importanza dell’alto zoccolo, dipinto tutto intorno alla cappella, in quanto i medaglioni tondi disposti intorno ai «poetae famosi» costituiscono anch’essi parte integrante dell’insieme iconografico. Nella seconda campata il Giudizio finale si estende ai due lati della finestra che domina l’altare, l’Inferno sulla parete destra, il Paradiso sulla sinistra. Il terzo regno, il Purgatorio mancherebbe se proprio lo zoccolo non presentasse, negli 11 medaglioni della parete di sinistra, disposti intorno a Dante e Virgilio, un’illustrazione parziale dei canti dal II al IX della seconda cantica della Commedia. Gli 11 medaglioni della parete di destra, che ruotano intorno ad Omero ed Ovidio, fanno da pendant con motivi tratti dalla mitologia e scelti proprio per le loro «concordanze» con i temi del Purgatorio cristiano154. Si tratta della discesa di Orfeo agli Inferi, della liberazione di Andromeda ecc. Storia dell’arte Einaudi 192 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze La struttura generale della seconda campata è dunque chiara. La scomparsa di molti medaglioni e l’oscurità delle scene non consentono di affermare che anche nella prima si avesse un analogo sistema di analogie155. Il riferimento alla Commedia è fondamentale, dato che il poema dantesco, nella rappresentazione dell’oltretomba, ha integrato il piú possibile quanto di meglio aveva il paganesimo al mondo cristiano. Essa però appare qui come veicolo di una concezione che si giustifica piú chiaramente se riportata alla dottrina degli umanisti. Nella sua prefazione alla traduzione del De Monarchia, il Ficino affermava che Dante aveva abbracciato i tre regni descritti da Platone e seguiti da Virgilio, quello dei dannati, l’Inferno, quello dei felici il Paradiso e quello dei «peregrini», cioè di coloro che sono ancora lontani dalla «città di vita» come è di tutti i viventi in questo mondo e, nell’altro, di coloro che sono condannati a purificarsi per un certo tempo. I medaglioni dello zoccolo, almeno quelli della prima campata, illustrano nel loro doppio registro, a partire dai miti pagani e dalla Commedia, questo regno dei peregrini, distinto dal mondo infernale e dal mondo celeste, che si aprono al di sopra di essi. L’interpretazione dell’Ade come luogo di prove per l’anima è costante nell’umanesimo; ed era stato oggetto di un’analisi penetrante da parte del Ficino156. Aiuti possono essere intervenuti nell’esecuzione di Storia dell’arte Einaudi 193 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze alcuni di questi medaglioni157. Ma la strana decorazione a «grottesche» turbinanti che serve da sfondo allo zoccolo, con i suoi voli di mostri grigi, i suoi arabeschi, nei quali creature si torcono con sforzi dolorosi mostra abbastanza bene che il Signorelli ha trovato qui, come il Botticelli nelle pagine della sua illustrazione, il modo di arrivare al fondo di una visione che lo ossessionava: anziché l’estasi purificante egli raffigura il mondo dell’angoscia e del terrore. Anche la tecnica scelta per questi medaglioni, il tono brutale del disegno, il modellato sommario in un monocromo che rileva le figure contro picchi e fondi lunari, sono propri dello stile della «terribilità»158. Siamo agli antipodi di Botticelli. L’oltretomba descritto da Dante è simile al mondo infernale di Virgilio e di Ovidio; il primo episodio rappresentato della Commedia è la scena in cui Dante e Virgilio s’inginocchiano rispettosamente davanti al vecchio Catone. Virgilio, a testa nuda, coronato di lauro, avvolto in un’ampia toga, presenta qui per la prima volta l’aspetto di un poeta antico e non di un «mago» orientale159. L’interpretazione «umanistica» prevale sull’interpretazione «mistica»; Botticelli nel suo Paradiso aveva dimenticato le nostalgie pagane della Primavera, il Signorelli rimane a Orvieto l’autore della tavola tenebrosa e poetica che aveva composto in onore di Pan. Nella finta nicchia della cappella, Dante incoronato piega la testa su degli in-folio dalle pagine rigide; questa immagine sembra non aver nulla in comune coi ritratti anteriori: tutto è subordinato all’espressione di tragico orrore e il Signorelli fissa qua duramente un’immagine di Dante poeta della «terribilità». Spinto dalla sua ossessione della fermezza plastica e della profondità spaziale, egli d’istinto si è rivolto all’interpretazione opposta di quella botticelliana160. Queste visioni antitetiche sono proprie di uomini che hanno seguito da vicino, e con opposte tendenze, la crisi fiorentina della fine del Storia dell’arte Einaudi 194 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze secolo: le due versioni della Commedia rivelano dunque un conflitto piú profondo161. È lecito chiedersi alla fine se gli affreschi della cappella non debbano anch’essi qualcosa alla Commedia: nella sfilata dei dannati che s’allontanano verso l’inferno, certi particolari, ad esempio il demone porta-insegna, richiamano scene dantesche162. Ma solo in senso largo la poesia virile di Dante è servita di base al pittore; l’ha confortata nelle sue trovate piú audaci: i nudi allucinanti che rivestono la loro carne, il riso folle degli scheletri e tutto il movimento della resurrezione dei corpi. Ciò che di piú dantesco presenta il ciclo di Orvieto è la concezione dello spazio «tragico» in cui avvengono le catastrofi finali, che aggiunge una dimensione patetica agli ingenui Giudizi del Trecento. 5. Cosmologia e simboli: Leonardo e Giuliano da Sangallo. La Commedia per il Quattrocento non era solo un poema dell’anima; il Landino fa notare con insistenza che in essa è contenuta anche una summa scientifica. Caratteristico della poesia è di includere nei suoi simboli tutti gli ordini di verità. La Commedia espone la struttura dei mondi e nello stesso tempo i fini ai quali essi rispondono. Questo interesse per l’aspetto scientifico dell’opera si sviluppò ai margini degli ambienti universitari e dei «lettori» ufficiali: esso era particolarmente vivo presso gli artisti attratti dalla rappresentazione dello spazio. Il Brunelleschi, amico di Paolo del Pozzo Toscanelli «diede ancora molta opera in questo tempo alle cose di Dante; le quali furono da lui bene intese circa i siti e le misure; e spesso, nelle comparazioni allegandolo, se ne serviva ne’ suoi ragionamenti», scrive il Vasari: la cosmografia dantesca forniva all’architetto Storia dell’arte Einaudi 195 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze una cornice per la misura dello spazio163. Antonio Manetti il supposto autore della Vita di Brunelleschi, tentò una rappresentazione grafica esatta dell’universo descritto dal poeta: i suoi studi in forma di dialogo sono stati pubblicati nel 1506 dal suo amico G. Benivieni. L’Inferno, secondo i suoi calcoli, aveva un raggio che era metà di quello della terra; i primi sette cerchi misuravano 405 miglia e 15/22,... il pozzo dei giganti fino a Lucifero misurava 81 miglia e 3/22164. L’aspetto nuovo in questo senso intorno al 1470-80 è lo sforzo di rappresentare in modo sistematico l’universo della Commedia nello spazio; e per contro il suo complesso di forme simboliche viene ad essere il mezzo per definire l’insieme delle strutture cosmiche che è possibile esplorare e misurare. In questo senso il poema dantesco sembra avere contribuito soprattutto alla formazione di Leonardo. Su un foglietto che reca «memoranda» di geologia e di fisica viene incidentalmente ricordato «il Dante di Niccolo della Croce» (si tratta di un nobile personaggio della corte di Ludovico il Moro)165. Si sa che Leonardo era esperto nell’ esegesi dantesca grazie ad un famoso aneddoto che va collocato tra il 1502 e il 1504: Leonardo commentava il poema in piazza Santa Trinita quando, vedendo passare Michelangelo, volle interrogarlo sull’argomento; lo scultore diede una risposta offensiva e passò oltre166. Non solo il poeta della Commedia ma anche l’enciclopedico del Convivio ha interessato Leonardo167: egli non era, a quanto sembra, attratto dalla grande conciliazione dell’antico col cristiano, che costituisce l’umanesimo di Dante, né dalla sua mistica, ma dalle forme della sua immaginazione. Cosí i disegni fantastici della fine del mondo (circa 1510-15) sono come imbevuti di una tragicità dantesca. In uno d’essi la caduta delle falde di fuoco sopra una città richiama l’atroce visione che si trova nell’Inferno (XIV, 28 sgg). Il commento del Landino aveva avvicinato questa scena alla Storia dell’arte Einaudi 196 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze fine delle città maledette di cui parla la Genesi (XIX, 24) e il soggetto era tra l’altro pienamente rispondente a quella dissociazione finale degli elementi che Leonardo aveva descritto nella sua cosmogonia168. Ma con la sua solita intransigenza Leonardo riafferma nella sua Apologia della pittura l’insufficienza della poesia, anche di quella dantesca: «se tu dirai io ti descriverò l’inferno, o il paradiso, ed altre delizie, o spaventi, il pittore ti supera, perché ti metterà innanzi cose, che tacendo diranno tali delizie, o ti spaventeranno, e ti muoveranno l’animo a fuggire»169. Dante è familiare a Leonardo, ma egli non si limiterà a questo universo poetico. Il problema viene tuttavia a riproporsi con l’attribuzione a Giuliano da Sangallo della maggior parte delle illustrazioni che si trovano sui margini di un esemplare dell’edizione del Landino conservato a Roma (Biblioteca Vallicelliana)170. Si tratta di 240 disegni piccoli, per lo piú poco accurati, buttati alla brava sui margini del volume: è possibile distinguervi varie mani. Buona parte degli schizzi non può essere che del Cinquecento; ma questa stessa particolarità, nonché la presenza di schemi architettonici, lo stile frammentario e corrivo dei disegni piú antichi permettono di riconoscere nel volume l’esemplare che deve essere appartenuto, passando di padre in figlio, alla famiglia Sangallo; Giuliano e Francesco, ai quali spetta la maggior parte delle illustrazioni, hanno disegnato per loro divertimento però seguendo interessi opposti. Francesco rappresenta minuti episodi secondari; Giuliano illustra solo certe metafore del testo ed esclusivamente quelle che si riferiscono alla natura, agli astri, agli animali. Ad esempio, all’inizio dell’Inferno non rappresenta i tronchi della «selva oscura» né le fiere allegoriche, ma i fioretti e i gorghi del fiume ricordati di passaggio da uno dei versi del poema (Inferno, II, 127 e III, 30). Gli schizzi che illustrano i paragoni ottici, l’azione dei raggi luminosi, gli effetti di Storia dell’arte Einaudi 197 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze riflessione sono particolarmente numerosi. Siamo di fronte a un modo particolare di commentare il poema, esplorandone metodicamente cioè gli aspetti poetici e scientifici nei loro episodi piú acuti. Si tratta di una sorta di meditazione condotta, penna alla mano, in margine a una lettura, un’illustrazione che non segue se non un filo secondario; è un po’ lo stesso atteggiamento che troveremo in Holbein coi suoi disegni in margine all’Elogio della pazzia. Questa attenzione alle osservazioni «naturalistiche» del poeta e lo spirito stesso dei disegni hanno incoraggiato l’ipotesi che l’architetto si sia ispirato a Leonardo. Questo interesse per i «fenomeni» inseriti nella Commedia corrisponde alle tendenze di Leonardo e al modo in cui egli poteva leggere Dante. Soprattutto si notano analogie cosí precise tra alcuni di questi schizzi del Sangallo e le minute figure scientifiche che ricorrono nei manoscritti di Leonardo che si è arrivati a chiedersi se in ultima analisi i disegni del Dante di Sangallo non siano copiati da quelli di un esemplare di Leonardo. Questa ipotesi di un Dante illustrato da Leonardo appare avventurosa, ma tale non appare l’altra ipotesi d’una derivazione del Sangallo da certi disegni del pittore: i «prototipi» di Leonardo, ai quali si sarebbe ispirato Giuliano si trovano nei manoscritti A e B (tra il 1482 e il 1490). In questo periodo i contatti tra i due artisti sono attestati dalla loro presenza a commissioni architettoniche in Milano e, in modo piú preciso ancora, da derivazioni fatte da Leonardo dalla raccolta del Sangallo, ad esempio per la pianta di Santa Maria degli Angeli. È quindi quanto mai verosimile una serie di derivazioni in senso opposto: Giuliano potrebbe aver raccolto delle minute figure di Leonardo ed essersi ispirato ai suoi schizzi «scientifici» in queste illustrazioni marginali, nelle quali d’altronde gli accade anche di seguire altri modelli, ad esempio Filippino Lippi. Storia dell’arte Einaudi 198 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze 6. Dante e l’arte classica: Raffaello e Michelangelo. Formatosi a Urbino e Firenze, Raffaello conosceva e frequentava con rispetto, come del resto Bramante di lui piú anziano171, l’opera di Dante172. L’ha d’altronde rappresentato due volte nella stanza della Segnatura, tra i teologi della Disputa del Sacramento e tra i poeti del Parnaso: il che illustra perfettamente l’idea del «poeta theologus». Il profilo autoritario che compare nel primo affresco, il viso calmo e sognante del secondo hanno fissato definitivamente per la posterità l’immagine dell’autore della Commedia; e ciò, tutto sommato, conforme l’interpretazione dei fiorentini173. Siamo spesso tentati di indicare nella Commedia l’origine dei «concetti» di Raffaello soprattutto quelli della stanza della Segnatura174. Il «nobile castello» del canto V dell’Inferno, nel quale si trovano raccolti, in un luogo privilegiato, i saggi e gli eroi pagani, contiene per cosí dire in germe la Scuola d’Atene175; ma anziché l’isola feerica del manoscritto urbinate, Raffaello ha introdotto come sfondo il grande portico che sembra una trasposizione figurativa dell’immagine del «Tempio della Filosofia» descritto dal Ficino. Per la Disputa del Sacramento la derivazione è piú semplice: il coro dei teologi corrisponde con una certa precisione ai santi personaggi che Dante ha riunito negli ultimi canti del Paradiso; e Raffaello interpreta, attraverso contrasti di luce e ombra d’ispirazione leonardesca, le notazioni precise di Dante sullo scintillio dell’Empireo176. Nei primi disegni Dante figurava al posto d’onore e un celebre disegno conservato a Windsor gli affianca addirittura Beatrice. Nell’elaborazione finale questa figura è scomparsa dall’affresco, ma ricompare avvolta di nuova dignità nella Teologia dipinta sulla volta, la quale presenta esattamente i due colori, rosso e verde, e gli emblemi che Dante le attribuisce al momento della sua apparizione al Storia dell’arte Einaudi 199 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze vertice del Purgatorio (XXX, 78 sgg.). È il mondo del Paradiso quello che meglio risponde alle intenzioni di Raffaello. La cupola che, ad imitazione delle sfere celesti, costruirà in onore di Agostino Chigi materializza in certo senso il cielo descritto nel Convivio e la presenza degli angeli «reggitori delle sfere» accanto alle divinità planetarie viene a completare l’analogia generale. La quale per altro non esclude fonti intermedie177. Raffaello, al pari del Signorelli, aderisce ad un aspetto particolare della Commedia. L’unico artista che l’abbia intesa nella sua totalità e, per cosí dire, senza residui, aderendo all’interpretazione neoplatonica, è in ultima analisi Michelangelo178. Una tradizione, che per altro non ha gran fondamento, afferma che egli aveva illustrato di suo pugno il suo esemplare dell’edizione del Landino179; ad ogni modo questa tradizione sta a dimostrare la convinzione, che si era diffusa ben presto, di una affinità completa tra i due grandi. Il maestro fiorentino sembra addirittura che non abbia mai figurato il poeta piú illustre della sua città180. A differenza di Botticelli ed anche di Raffaello, Michelangelo non si è mai ispirato direttamente né alla Commedia né al suo autore. I suoi legami con Dante sono piú intimi e piú complessi. Essi si pongono anzitutto sul piano letterario. Dopo aver conosciuto il Landino a palazzo Medici, lo scultore ha studiato Dante, Petrarca e Boccaccio, soprattutto durante il suo soggiorno a Bologna presso Gianfrancesco Aldrovandi181. Se le sue prime poesie mostrano piú l’influenza del Petrarca che quella di Dante, il poeta della Commedia doveva in seguito assumere un’importanza prevalente. Michelangelo gli consacrerà due sonetti famosi che sono meno un «ritratto» o un «elogio» e piú invece una sorta di identificazione di se stesso con Dante esiliato: «Lucente stella, che co’ raggi suoi | Fe’ chiaro, a torto, el nido ove naqqu’io; | Ne’ sare’ ’l premio tutto ’l mondo rio: | Tu sol, che la creasti, esser Storia dell’arte Einaudi 200 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze quel puoi. | Di Dante dico che mal conosciute | Fur l’opre sue da quel popolo ingrato | Che solo a’ iusti manca di salute. | Fuss’io pur lui!»182. Nel 1519 Michelangelo firmò, con altre personalità fiorentine, la petizione formulata dalla «Sacra Academia florentina» che chiedeva a Leone X il ritorno a Firenze delle ceneri di Dante183. Fu in questa occasione che egli si offrí per costruire un sepolcro degno del «divino Poeta»184; ma la cosa rimase senza seguito. Dall’epoca (circa 1502-503) in cui ebbe luogo il famoso battibecco con Leonardo, Michelangelo era divenuto un vero e proprio esperto di studi danteschi: le testimonianze a questo proposito sono numerose185. Una delle piú rilevanti è la lettera del 1545 in cui esprime la sua avversione a un nuovo commento che gli sembra vuoto e povero186, l’edizione cioè di Veluttello da Lucca, che dopo piú di mezzo secolo di dominio incontrastato del commento del Landino, rappresentava la prima reazione all’interpretazione neoplatonica della Commedia187. Di un colloquio, che deve essere avvenuto a Roma nel 1546, ci è conservato il ricordo in un manoscritto di Donato Giannotti, uno dei vecchi capi del partito repubblicano fiorentino. Egli era uno dei pochi amici di Michelangelo. L’artista figura come uno degli interlocutori, che sono tutti dei dotti o gente di condizione. Si tratta di stabilire se la cronologia che il Landino fissa per il viaggio dantesco attraverso l’Inferno e il Purgatorio sia soddisfacente. Il colloquio comincia con un elogio dell’umanista che, «havendo egli tutti gli altri nodi, tutti gli altri sensi oscuri di quel Poeta con tanta diligentia sciolti et dichiarati, che grandissimamente obbligati gli sono tutti coloro che di leggere quella opera si dilettano, la quale, innanzi che egli facesse quella sua dotta et copiosa dichiaratione, era senza dubbio molto male intesa» ha errato solo su questo problema188. È dunque certo che Michelangelo ha letto Dante come gli umanisti di Careg- Storia dell’arte Einaudi 201 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze gi; e il commento del Landino per tutta la sua vita l’ha tenuto in contatto con le immagini e le idee del neoplatonismo fiorentino. Questo dialogo è per Michelangelo l’occasione per fare alcune dichiarazioni rivelatrici: «Io sono il piú inclinato huomo all’amar le persone che mai in alcun tempo nascesse», oppure ancora: «A voler ritrovare et godere sé medesimo, non è mestiero pigliare tante dilettationi et tante allegrezze, ma bisogna pensare alla morte»189. Eros e la morte terrestre costituiscono la coppia essenziale che guida l’anima al suo superiore destino: questo secondo Dante e secondo i neoplatonici. È questo il piano filosofico che si addice, e forse basta, a Michelangelo; è il piano su cui egli s’incontra col poeta. La Commedia non era dunque per lui un repertorio di temi, né un modello, ma uno degli stimoli piú profondi per il suo spirito. Ben presto si vollero cercare in Dante analogie con l’opera michelangiolesca, allo stesso modo che si accosta un poeta a un altro190. Forse è proprio questo che si voleva dire allorché si affermava che Michelangelo conosceva a memoria Dante191: insomma che egli non lo illustrava, ma lo continuava. La grande analogia tra i due fiorentini è il loro comune accento di «terribilità». È lo stile «eroico» che fa pensare a Dante, allorché ci troviamo davanti all’Ezechiele della Sistina, che freme sotto il vento celeste, oppure davanti alle orribili sofferenze degli ebrei nella scena del Serpente di bronzo. La Commedia fornisce suggestioni analoghe192. L’architettura delle composizioni, l’imponenza dei gruppi, questa volontà d’ordine nella visione sovrannaturale, rivelano la parentela che intercorre tra il poeta e l’artista; ma quasi tutte le relazioni strette che si possono scoprire in questo senso dimostrano anche l’importanza che ha avuto per Michelangelo il commento del Landino: l’intermediario neoplatonico spiega appunto l’interesse prestato a certe figure. Senza dubbio si deve Storia dell’arte Einaudi 202 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze ad esso se ad esempio Michelangelo ha scelto le due squisite figure di Rachele e Lia per la tomba di Giulio II, o i quattro fiumi dell’Inferno per il mausoleo mediceo193. Il Ratto di Ganimede da lui ripreso in un modo molto personale, ha potuto imporsi alla sua fantasia solo attraverso il commento del Landino194. Dante insieme al Platone rinascimentale condiziona le grandi forme di un’arte nella quale il massimo di tensione plastica si dispiega in un complesso di simboli umanistici195. È soprattutto per il Giudizio finale che si sono moltiplicati i riferimenti al poema196: indubbiamente Caronte e Minosse, i grevi mostri del mondo infero risalgono all’Inferno dantesco; il trasporto dei dannati sulla schiena dei demoni può essere una reminiscenza puntuale197, pur senza dimenticare il precedente del Signorelli che già aveva evocato il mondo del terrore finale in un clima degno della poesia dantesca. Ma in fin dei conti Michelangelo, che qui rivela interessi teologici abbastanza personali, rivaleggia con Dante piú che non derivare da lui: le analogie che sorprendono lo spettatore, e già lo sorprendevano nel Cinquecento, risultano dal fatto che la visione del pittore s’impone in modo irresistibile per cui non riusciamo piú a vedere se non con gli occhi di Michelangelo il «Sommo Giove» del poeta, oppure il grappolo fitto degli eletti simile a una rosa gigantesca198. Come prevedeva Leonardo, l’opera dipinta si sostituisce in certa misura al poema. I contemporanei ne hanno chiara coscienza: «Ed io per me non dubito punto, che Michelagelo, come ha imitato Dante nella poesia, cosí non l’habbia imitato nell’opere sue, non solo dando loro quella grandezza, et maestà, che si vede ne’ concetti di Dante, ma ingegnandosi ancora di fare quello, o nel marmo, o con i colori, che haveva fatto egli nelle sentenze, et colle parole», scrive il Varchi199, impiegando in un modo d’altronde infelice il termine «imitare» allorché per l’ap- Storia dell’arte Einaudi 203 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze punto voleva dire che Michelangelo ha «rifatto» Dante come nessuno potrà piú fare dopo di lui200. Era già un luogo comune allora chiamare l’artista «Dante pittore» oppure «Dante scultore». Il Dante del Rinascimento non poteva essere se non uno scultore o un pittore, cioè un artista «plastico», capace di tradurre l’opera del «sommo poeta», che la cultura fiorentina dell’ambiente di Careggi aveva posto definitivamente al suo centro. Facendo di Dante il maggiore veicolo delle sue idee fondamentali, il neoplatonismo ne ha imposto e guidato la proiezione nell’arte. n. a. robb, Neoplatonism of the italian Renaissance, London 1935; a. chastel, Marsile Ficin et l’art cit., introduzione, 2. 2 Su Lucrezio, e. garin, Medioevo e Rinascimento. Studi e ricerche, Bari 1954, pp. 82, 293. Su Ovidio, e. panofsky, Studies in Iconology cit., p. 61, n. 73. Claudiano, il poeta del basso impero era ritenuto fiorentino. F. Villani l’annovera tra i poeti illustri della città dopo Dante, Petrarca, Boccaccio, Salutati: nel suo commento a Dante lo cita come «concivis noster». Cfr. g. calò, Filippo Villani, Rocca San Casciano 1904, p. 131. Le poesie di Claudiano conosciute in manoscritto e pubblicate a Vicenza nel 1482, sono una delle fonti delle Stanze del Poliziano e di uno dei riquadri del fregio di Poggio a Caiano: cfr. piú avanti, p. 230. 3 l. ghiberti, I Commentarii, ed. O. Morisani, Napoli 1947, e i. krautheimer, Lorenzo Ghiberti cit., p. 309. 4 e. gilson, Histoire de la philosophie du Moyen-Age, Paris 1947, pp. 731 sgg. 5 matteo palmieri, Città di vita (c. 1460); g. pico, Apologia (1487); egidio di viterbo, ecc., cfr. e. wind, The revival of Origen, in Studies in art and literature for Belle da Costa Greene, Princeton 1954, pp. 412-24. 6 g. boas, The Hieroglyphics of Horapollo, New York 1950, e k. giehlow, Die Hieroglyphenkunde des Humanismus in der Allegorie der Renaissance, in «jb», xxxii (1915), pp. 1 sgg. 7 Il fatto è cosí generale che Alamanno Rinuccini (nato nel 1419, è piú vecchio del Ficino e figura nelle Disputationes Camaldulenses come amico dell’Argiropulo) presenta nel 1473 a Federico d’Urbino, con una bella prefazione, la vita del taumaturgo pagano Apollonio di Tiana scritta da Filostrato. 1 Storia dell’arte Einaudi 204 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze p. o. kristeller, Supplementum ficinianum, I, pp. cxxix sgg.; a. chastel, Marsile Ficin et l’art cit., introduzione, 3 e III, i (Hermès); e. garin, Note sull’ermetismo del Quattrocento, in Testi umanistici sull’Ermetismo, Roma 1955. 9 e. gilson, Histoire de la Philosophie ecc. cit., pp. 269-70. 10 a. chastel, Pic de la Mirandole et l’Heptaplus, in «Cahiers d’Hermès», ii (1947); j.-l. blau, The Christian interpretation of the Cabala in the Renaissance, New York 1944, cap. II; e piú di recente, sull’apporto del marrano Paolo Heredia e di Pico, g. scholem, Zur Geschichte der Anfänge der christlichen Kabbala, in Essays Presented to Leo Boeck, London 1954, e f. secret, Pico della Mirandola e gli inizi della cabala cristiana, in «Convivium», xxv (1957), 1. 11 v. zabughin, Vergilio nel Rinascimento italiano da Dante a Torquato Tasso, vol. I (Il Trecento e il Quattrocento), Bologna 1921, cap. III, mette in evidenza come il Landino: 1) veda Virgilio attraverso Dante; 2) sviluppi l’analogia, già notata da servio, II, 96, tra il conto VI dell’Eneide e il dogma platonico perã yuc≈j 3) ricerchi esclusivamente l’allegoria morale, a differenza del Poliziano che nelle epopee antiche scopre piuttosto un’allegoria delle forze della natura. 12 a. buck, Italienische Dichtungslehre, Stuttgart 1954. 13 p. o. kristeller, Supplementum ficinianum cit., introduzione. p. d’ancona, La Miniatura fiorentina (xi-xvi secolo), Firenze 1914, nn. 1489, 1518, 1527, 1528, 1531, 1532, 1541, tutti conservati alla Biblioteca Laurenziana, verosimilmente codici rimasti a Firenze di ordinazioni fatte da Mattia Corvino e trattenuti alla sua morte, nel 1490, da Lorenzo de’ Medici. Un certo numero di questi manoscritti sono stati esposti alla «Mostra medicea» di Firenze del 1939, n. 95, 117 ecc. 14 g. milanesi, Di Attavante degli Attavanti, miniatore, in «Miscellanea storica della Valdelsa», i (1893), p. 60. p. d’ancona, La miniature italienne du Xe au XVIe siècle, Paris-Bruxelles 1925, p. 74; m. salmi, La miniatura italiana, Milano 1953, p. 55. 15 d’ancona, La miniatura fiorentina cit., n. 1518 (Plut. 73-39), foll. 64 e 77. 16 Ibid., n. 1529 (Plut. 82-10), foll. 1 v e 2 r, 211. 17 Urb. lat. 185 (ibid., n. 1238), fol. 7 r. 18 Plut. 83-11 (ibid., n. 1532). fol. 65. 19 Plut. 84-1. Cfr. s. vagaggini, La miniatura fiorentina, Milano 1952, tav. xlv 20 Sul duca Andrea III Acquaviva: t. de marinis, Un manoscritto di Tolomeo fatto per Andrea Matteo Acquaviva e Isabella Piccolomini, Verona 1956; si tratta d’un manoscritto (Paris, Bibliothèque Nationale, lat. 10764) che deve essere anch’esso opera di Reginaldo di Monopoli. 21 Tutti gli autori hanno insistito sul suo corattere eccezionale e sontuoso: p. d’ancona, La miniature italienne cit., pp. 88-89 (a tav. xci la 8 Storia dell’arte Einaudi 205 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze riproduzione del fol. 27). h. j. hermann, Miniaturhandschriften aus der Bibliothek des Herzogs Andrea Matteo III Acquaviva, in «Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen», xix (Wien 1898), pp. 147-216, ha compiuto uno studio assai completo, ripreso poi nel corpus dei manoscritti austriaci: Beschreibendes Verzeichnis de illuminierten Handschriften in Österreich (nuova serie a cura di J. von Schlosser e H. J. Hermann), VI (Die Handschriften und Inkunabeln der Italienischen Renaissance), vol. IV (Unteritalien: Neapel, Abruzzen, Apulien und Calabrien), Leipzig 1933 (n. 40), pp. 79-105. Quest’opera, eseguita da un’officina ferrarese per un principe napoletano rientra in un complesso di rapporti piú generali; ad Eleonora d’Aragona, moglie di Ercole d’Este, si attribuisce il successo dell’astrologia che porta al grande complesso del palazzo di Schifanoia, e a lei si deve se i contatti tra l’Italia meridionale e l’ambiente ferrarese si sono moltiplicati. Cfr. a. warburg, Italienische Kunst und internationale Astrologie, in Gesammelte Schriften, II, p. 475. Per altro la corte aragonese di Napoli è d’osservanza aristotelica, la sua accademia è stata diretta dal Panormita, da Giorgio di Trebisonda e infine, all’epoca di re Ferrante, dal Pontano. Tuttavia la dottrina peripatetica vi è intesa in modo molto eclettico, percorso da forti elementi platonici e s’incontra con le speculazioni «scientifiche» che portano ai grandi poemi astrologici del Pontano, e con una corrente di poesia sentimentale virgiliana, da cui uscirà, intorno al 1485, l’Arcadia del Sannazaro. Il duca, umanista e poeta, era lui stesso uno di quei peripatetici che non ignorano l’Accademia, come dimostrano i suoi scritti, ed è probabilmente sotto la sua direzione, o seguendo un suo programma, che sono state eseguite le singolari allegorie del manocritto. 22 Rispettivamente foll. 1, 10, 17, 27, 36, 45 e 80. 23 h. j hermann, Miniaturhandschriften ecc. cit., p. 65: «Per indicare le virtutes morales ci si serve, per ragioni di chiarezza, delle quattro virtú cardinali dell’etica platonica, per la figurazione della Ratio ci si vale dell’immagine platonica dell’anima alata». La fonte dell’allegoria dell’anima (creatura alata) è il Fedro, 249 sgg., delle quattro virtú la Repubblica, 428 sgg. La stessa immagine dell’anima «ricoperta di penne» si ritrova all’inizio di un trattato, Vienna, Phil. graec., 2, fol. 123, della stessa serie dell’Etica a Nicomaco (h. j. hermann, ibid., p. 160). 24 Cfr. piú avanti. In un manoscritto della stessa serie (napoletana) Phil. graec., 2 (ibid., n. 35), il trattato De Caelo d’Aristotele si apre con un’iniziale H che rappresenta anch’essa i due filosofi sotto la sfera del cosmo (ibid., p. 65). 25 La miniatura dell’>Aretø è studiata da e. panofsky Herkules am Scheidewege cit., p. 151. 26 Ulisse, eroe dell’avventura (cosí già l’aveva presentato dante, Storia dell’arte Einaudi 206 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Inferno, XXVI, 42 sgg.), risponde allo spirito del testo di Aristotele; l’allegoria della vita contemplativa è posta nell’ordine superiore a causa della stessa tendenza a collocare l’aristotelismo in un contesto neoplatonico. 27 u. hoff, Méditation in solitude cit. ha raccolto alcuni precedenti italiani di questa formula. 28 Sul successo dell’Etica a Nicomaco a Firenze, a. warburg, Francesco Sassettis letztwillige Verfügung, in Gesammelte Schriften cit., V, 1, p. 153; e. garin, Le traduzioni umanistiche di Aristotele nel secolo XV, in Atti dell’Accademia fiorentina di scienze morali, Firenze 1951. 29 r. krautheimer, Die Anfänge der Kunstgeschichtsschreibung in Italien, in «Repertoriurn für Kunstwissenschaft», l (1929), p. 49; j. von schlosser, La letteratura artistica, 2ª ed., Firenze 1956, cap. IV; a. chastel, Marsile Ficin et l’art cit., p. 180. e. van der grinten, Enquiries into the history of art-historical writing, Venlo 1953. Questo capitolo e il seguente sono stati riassunti in «Kunstchronik», 1954. 30 Lettera d’Enea Silvio Piccolomini a Niklas von Wyle, Opera, 1551, p. 646 (Ep. I, n. cxix); ed. Der Briefwechsel des Eneas Silvius Piccolomini, III, 1 (Fontes rerum austriacarum, 68), Wien 1918, p. 98 n. 47. Il parallelismo tra l’eloquenza e le arti è anche, nel 1473, l’argomento della bella lettera di A. Rinuccini, studiata da e. gombrich, The Renaissance concept of artistic progress and its consequences, in Actes du XXVIIIe Congrès international d’Histoire de l’Art (1952), Amsterdam 1955, pp. 291 sgg. 31 È una delle idee madri del Burckhardt, di cui abbiamo indicato le conseguenze nel saggio: Art et religion dans la Renaissance italienne, in «Humanisme et Renaissance», t. VII (1945), pp. 5 sgg. 32 Sui nuovi «valori» cosí proposti cfr. le osservazioni di e. h. gombrich, Visual metaphors of value in art, in Symbols and Values: an initial study (Thirteenth Symposium of the Conference on Science, Philosophy and Religion), New York 1954, p. 262. 33 o. morisani, Art history and art critics, in «The Burlington Magazine», xcv (1953), pp. 267-70. 34 Sulla concorrenza Roma-Firenze: cfr. sopra la introduzione. Un preciso esempio della concorrenza Venezia-Firenze è costituito dalla loro rivalità retrospettiva a proposito dei «mosaici», di cui il Vasari vede gli inizi, prima di San Marco di Venezia, nel battistero fiorentino con Andrea Tafi (ed. Milanesi, I, p. 337) e C. Ridolfi invece in San Marco prima di Firenze: cfr. a. chastel, La mosaïque à Venise et à Florence au XVIe siècle, in «Arte veneta», XIII (1954), p. 130. 35 e. panofsky, Das Erste Blatt aus dem «Libro» Giorgio Vasaris ecc., in «Städel-Jahrbuch», vi (1930), pp. 25-72, ripreso col titolo The first page of Giorgio Vasari’s «libro», in Meaning in the visual arts, Garden City 1955, pp. 169-235 (trad. it. cit., pp. 169-224). Storia dell’arte Einaudi 207 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Cfr. sopra, introduzione; sugli sviluppi di questo «mito» del Rinascimento, cfr. piú avanti. 37 Ultimamente: r. krautheimer, Lorenzo Ghiberti cit., cap. XXI (Ghiberti and Alberti). 38 Marsile Ficin et l’art cit, p. 194. 39 r. krautheimer, Lorenzo Ghiberti cit, cap. XX (Ghiberti the writer), p. 313, conclude (contro il tentativo dello Schlosser di rivalutare l’opera scritta del Ghiberti): «Il Ghiberti fu un umanista e uno studioso erudito solo nelle ambizioni». Sulle intenzioni del Ghiberti: e. h. gombrich, The Renaissance concept of artistic progress cit., pp. 295 sgg. Intorno al 1530 l’Anonimo Magliabechiano comporrà anch’egli una storia universale delle arti divisa in due parti: gli antichi e i moderni (dopo Cimabue). 40 Ed. G. Nicco Fasola, Firenze 1942, p. 129. 41 o. morisani, Gli artisti nel «De viris» di B. Facio, in «Archivio storico per le province napoletane», lxxiii (1955), pp. 107 sgg. 42 r. krautheimer, Lorenzo Ghiberti cit., pp. 311 e 312. 43 Occorre attendere leonardo da pesaro, Speculum lapidum, Venezia 1502, per trovare un giudizio piú avvertito: cfr. j. von schlosser, La letteratura artistica cit., p. 109. 44 p. o. kristeller, La posizione storica di Marsilio Ficino, in «Civiltà moderna», v (1933). 45 h. p. horne, Botticelli, London 1908, p. 360. Sui molteplici usi del termine cfr. Marsile Ficin et l’art cit., p. 191 n. 7; n. pevsner, Academies of art, past and present, London 1939, p. 39; piú sopra, introduzione, e piú avanti. 46 Quest’indicazione non andrà perduta per l’Anonimo Magliabechiano, che scrive a proposito d’Apelle: «e furno nel suo tempo piú eccellenti pittori e’ quali egli sommamente lodava, ma diceva mancare loro una certa venustà la quale e’ greci chiamono: charis», ed. K. Frey, Berlin 1892, p. 22. È lecito chiedersi se già il Ghiberti non si considerasse come il nuovo Lisippo (in base a Plinio, XXXIV, 61-65): e. h. gombrich, The Renaissance concept ecc. cit., p. 296. 47 Theologia Platonica, II, i, Opera, p. 108; Marsile Ficin et l’art cit., pp. 65, 69 n. 8 48 C ommentario alla Comedia (1481); Marsile Ficin et l’art cit., p. 193. 49 C arliades, I, citato in e. h. gombrich, Apollonio di Giovanni, in «jwci», xviii (1955), p. 165 50 Quest’opera, già presentata dall’alberti, Della pittura, III, ed. L. Mallé, p. 104, come il dipinto-tipo de «l’inventione grata» è ricordata pure da Leonardo come prova della capacità della pittura a uguagliare la poesia per «dimostrare molti morali costumi», ed. J. P. Richter, nn. 23 e 25; Trattato, ed. McMahon, pp. 19 e 26. 51 Qualche anno dopo la grazia di Raffaello, spiegata col preceden36 Storia dell’arte Einaudi 208 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze te d’Apelle, viene presentata come il vero ideale dell’arte, di contro a quello della «terribilità»: dolce, L’Aretino, Venezia 1557, ed. Lanciano 1913, p. 7. 52 Recentemente, l’esposizione di p. o. kristeller, The classics and Renaissance thought, Cambridge (Mass.), 1955, cap. I. 53 p. o. kristeller, «The modern system of the arts», a study in the history of aesthetics, in «Journal of the History of Ideas», xii (1951), pp. 496-528, e xiii (1952), pp. 17-45, sul complesso di questi problemi. 54 Sull’insieme di questi sviluppi: a. blunt, Artistic theory in Italy, 1450-1600, London 1940, 2ª ed. 1954; i. a. richter, Paragone, a comparison of the arts by Leonardo da Vinci, London 1949, introduzione; l. olschki, Geschichte der neusprachlichen wissenschaftlichen literatur, I: Die Literatur der Technik ecc., Leipzig 1919. 55 a. chastel, Léonard de Vinci et la culture, in Léonard de Vinci et l’expérience scientifique au XVIe siècle, Paris 1953, pp 260 sgg. 56 l. b. alberti, Della pittura, ed. L. Mallé, Firenze 1950, pp. 9 sgg. c. gilbert, Alberti and Pino, «Marsyas», iii (New York 1946), pp. 87 sgg. 57 Quintiliano era stato ritrovato da Poggio nel 1416: già nel 1420 interessa G. da Barbizza a Padova, poi il Guarino, G. di Trebisonda, e infine il Poliziano che gli dedicherà un corso nel 1480. 58 r. w. lee, Ut pictura pöesis: the humanistic theory of painting, in «The Art Bulletin», xxx (1940), 4, pp. 197 sgg. 59 r. w. lee, Ut pictura pöesis ecc. cit., ne ha seguito la storia. 60 Sul tema: Naturam vincere, a. colasanti, Gli artisti nella poesia del Rinascimento, fonti poetiche per la storia dell’arte italiana, in «Repertorium für Kunstwissenschaft», xxvii (1904), pp. 195 sgg. 61 b. schweitzer, Mimesis and Phantasia, in «Philologus», vol. LXXXIX (1934), pp. 286-300; Marsile Ficin et l’art cit., p. 68 n. 2. Leonardo, Cod. Ashburnham, I, 20 r: ed. J. P. Richter, n. 13; g. fumagalli, op. cit., p. 235; Trattato, ed. McMahon, n. 6, § 5. Solo il primo editore indica la derivazione da Filostrato. p. gauricus, De Sculptura cit., pp. 16 e 104. La «licenza» fantastica necessaria al poeta e al pittore è stata affermata, seguendo Aristotele, da Orazio: Ars poetica, vv. 9-11. Il suggerimento non è passato inosservato: è stato ampiamente sviluppato nei Dialoghi di francisco de hollanda, trad. it., pp 132 sgg., dove i versi d’Orazio sono citati da Michelangelo che dichiara: «Se un grande pittore (e poche volte accade) fa un’opera, che pare falsa e mentitrice, in quella tale falsità vi è molta verità»: questo a proposito delle chimere e dei grotteschi. 62 Cfr. Marsile Ficin et l’art cit., pp. 66-67. 63 Cfr. e. müntz, Les archives des arts, prima serie, Paris 1890, pp. 33-42. Il passo del De divina proportione, cap. XII, ed. C. Winterberg, Wien 1889. 64 Marsile Ficin et l’art cit., II, 5. Storia dell’arte Einaudi 209 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze È ciò che dichiarava plinio, Naturalis Historia, XXXIV, 65, e che il Landino e il Gaurico si accontentano di ripetere. 66 L’idea di misura (traduzione approssimativa di: symetria) è già per il Ghiberti la regola aurea: r. krautheimer, Lorenzo Ghiberti cit., p. 231. 67 La vita di Filippo di ser Brunellesco, ed. E. Toesca, Firenze 1927, p. 18. 68 gauricus, De sculptura, ed. Brockhaus, p. 154; Marsile Ficin et l’art cit., II, 5. 69 Marsile Ficin et l’art cit., II, 2. 70 l. olschki, Geschichte der neusprachlichen wissenschaftlichen Literatur cit., cap. VI. 71 Il De harmonia mundi di Francesco Zorzi (Venezia) sviluppa il sistema universale delle forme sulla base dell’analogia musicale; esso ha potuto essere messo in rapporto con l’estetica del Palladio: r. wittkower, Architectural principles ecc. cit., IV, I. Su questo Francesco Zorzi o Giorgio Veneto, cfr. c. vasoli, in Testi umanistici sull’Ermetismo, Roma 1955, pp. 79 sgg. 72 V. Danti, autore d’un trattato sulle proporzioni perfette (Firenze 1567) attribuirà a Michelangelo riserve di ogni genere su un uso delle proporzioni che non tenti di superare il loro rapporto meccanico. e. panofsky, Idea ecc. cit., cap. IV. c. de tolnay, in IIe Congrès d’Esthétique et de Science de l’Art, Paris 1937 (1), p. 23, e id., Werk und Weltbild des Michelangelo, Zürich 1949, p. 92. 73 a. buck, Dichtungslehre ecc. cit. 74 p. gauricus, De sculptura, ed. H. Brockhaus, p. 122; il Vasari ricorda la frase di Michelangelo: «...che bisognava avere le seste negli occhi e non in mano, perché le mani operano, e l’occhio giudica». Cfr. c. de tolnay, Werk und Weltbild ecc. cit., p. 94. 75 Das Tagebuch des Poliziano, ed. A. Wesselsky, Iena 1929, p. 150. 76 g. gutkind, Cosimo de’ Medici il Vecchio, 2a ed., Firenze 1949, p. 311; alcune indicazioni in Marsile Ficin et l’art cit., p. 66, e in Léonard et la culture cit., p. 259. Sul problema: g. p. hartlaub, Das Selbstbildnerische in der Kunstgeschichte, in «Zeitschrift für Kunstwissenschaft», ix (1955), 1-2. 77 Marsile Ficin et l’art cit., pp. 65-66. Si deve avanzare questa riserva alle osservazioni di creighton gilbert, On subject and not-subject in italian Renaissance, in «ab», xxxiv (1952), 3. 78 Sonetti di Matteo Franco e Luigi Pulci, Lucca 1759, ripubblicato in Il libro dei sonetti, da G. Dolci, Milano 1933. Su questo poeta di corte, g. volpi, Un cortigiano di Lorenzo il Magnifico, in «Giornale storico della letteratura italiana», xvii (1891), pp. 229 sgg. 79 savonarola, Prediche sopra Ezechiel (XXVI), nell’ed. di Venezia 1517, fol. 71 e: «E si dice che ogni dipintore dipinge se medesimo. Non dipinge già se in quanto huomo perché fa delle immagini di leoni, caval65 Storia dell’arte Einaudi 210 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze li, huomini e donne che non sono, ma dipinge se in quanto dipintore: idest secondo il suo concepto. E benché siano diverse phantasie o figure de dipintori che dipingono, tamen sono tutte secondo il concepto suo: cosí li philosophi perché erano superbi descripsono idio per modi altieri e gonfiati...»; segue una critica d’Aristotele e Platone. 80 Ms A 23 a: ed. Richter, n. 586. Trattato della pittura, ed. P. McMahon, Princeton 1956, pp. 44 sgg.: «del massimo diffetto de’ pittori» Michelangelo ne trasse una battuta di spirito riferita dal Vasari: «Aveva non so ché pittore fatto un’opera dove era un bue che stava meglio dell’altre cose; fu domandato perché il pittore aveva fatto piú vivo quello che l’altre cose, disse: Ogni pittore ritrae se medesimo bene» (vasari, ed. Milanesi, VII, 280). 81 Ms BN 2038, fol. 33 v. g. fumagalli, p. 264; a. chastel, Léonard et la culture cit., p. 259. 82 dante, Convivio, IV, canzone 3, vv. 52-53, e comm. X. 83 g.pico, Opera, ed. E. Garin, 1942, vol. I, pp.467-68. 84 e. zilsel, Die Entstehung des Geniesbegriffes, Tübingen 1926; e. panofsky e f. saxl, Dürers Melancolia I, 2a ed. (inedita). 85 È ciò che vedremo piú da vicino nella parte III e nella Conclusione. 86 Queste polemiche risalivano al Trecento: v. rossi, Dante nel Trecento e nel Quattrocento, in Scritti di critica letteraria, Firenze 1930, I, p. 293, e id., Il Quattrocento cit., pp. 105-15. La polemica piú viva sembra aver riguardato il problema del latino: Coluccio Salutati: «Se avesse saputo scrivere in latino con la stessa eleganza con cui scriveva nella lingua materna: sarebbe allora superiore a Virgilio e Omero», Epistolario, ed. F. Novati, Roma 1891-1911, vol. III, p. 491. Alla fine del Trecento un monaco olivetano, Matteo Ronto, aveva tradotto la Commedia in latino. Una altra eco di queste polemiche l’abbiamo nel testo di f. rinuccini, Invectiva contra a certi caluniatori di Dante, ne Il paradiso degli Alberti, ed. Wesselofsky, Bologna 1867, I, pp. 380 sgg. (citato da e. garin, Il Rinascimento italiano cit., pp. 84-85), in cui si tratta e del valore di Dante e del primato di Platone. Cfr. soprattutto: a. della torre, La prima ambascieria di Bernardo Bembo a Firenze, in «Giornale storico della letteratura italiana», xxxv (1900), pp. 305-8. e.-g. ledos, Lettre inédite de Cristotoro Landino à B. Bembo, in «Bibliothèque de l’Ecole des Chartes», liv, 6, pp. 721-24. 87 leonardo bruni, Dialogi ad Petrum Histrum, ed. G. Kirrer, Livorno 1889. 88 b. johannis dominici, card. s. sixti, Lucula Noctis, ed. R. Coulon, Paris 1908. Questo testo è stato pubblicato in occasione di una polemica sulla lettura degli autori antichi, tra L. Bruni e il Beato: v. rossi, Il Quattrocento cit., p. 56. Cfr. anche a. renaudet, Dante humaniste, Paris 1954. Storia dell’arte Einaudi 211 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze lorenzo il magnifico, Ambra, ed. cit.: Lorenzo imita le pagine mistiche della Commedia nella sua altercatio. 90 v. rossi, Il Quattrocento cit., p. 336. È anche il momento in cui per la prima volta verrà sollevata la questione del ritorno delle ceneri, come dimostra una lettera di Antonio Manetti a Lorenzo del 13 aprile 1476. Cfr. i. del lungo, Un pensiero a Dante, in Florentia cit., pp. 451 sgg. B. Bembo, richiesto d’intervenire durante il suo soggiorno a Firenze, si limiterà a far restaurare la tomba del poeta a Ravenna nel 1483. La questione sarà ripresa al tempo di Leone X: c. ricci, L’ultimo rifugio di Dante Alighieri, Milano 1891. 91 Prefazione riprodotta nel Supplementum ficinianum cit. (pubblicato da P. O. Kristeller), t. II, pp. 184 e 185. Sulle circostanze della traduzione, a. della torre, Storia, p. 576. 92 Per quest’aspetto della poesia di Dante: g. busnelli, L’Etica nicomachea e l’ordinamento morale dell’Inferno di Dante, Bologna 1907. e. gilson, Dante et la philosophie, Paris 1942. È giusto osservare che lo «stagirismo» del poeta non è esclusivo, in quanto viene coronato dalla mistica «cistercense» e dunque «dionisiana» nel Paradiso, dove si trovano naturalmente le piú forti influenze del neoplatonismo antico, come ha rilevato t. whittaker, The neoplatonists, 2a ed., Cambridge 1918, p. 192. Sullo stesso problema: b. nardi, Saggi di filosofia dantesca, Milano 1930, e la recensione di e. testa, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1931, pp. 163-67. 93 Comedia di Dante Alighieri con l’esposizione di Cristoforo Landino, Venezia 1529, proemio p. 9 (testo latino e traduzione italiana). La lettera del Ficino è ripresa (testo latino) in Opera, p. 840, alla fine del libro VI dell’Epistolario. I due testi recano «jam redivino», che deve essere corretto in «redivivo» (trad. it. Figliucci, Venezia 1563, II, p. 50). j. festugière, Dante et Marsile Ficin, in «Bulletin du Jubilé», v (1922), pp. 535-43, insiste solo sul fatto che «Dante non è affatto platonico»; lo era per i lettori della fine del secolo xv. 94 michele barbi, Della fortuna di Dante nel secolo XVI, Firenze 1890, p. 150; cfr. anche p. l. rambaldi, Dante e Giotto nella letteratura artistica sino al Vasari, in «Rivista d’arte », xix (1937), pp. 286 sgg. 95 sperone speroni, Dialogo dell’istoria, Opera, II, p. 269, citato da m. barbi, Della fortuna di Dante ecc. cit., p. 15 n. Attraverso la cerchia di Careggi il culto di Dante raggiunse Venezia; l’intermediario fu Bernardo Bembo, venuto a Firenze nel 1474-75: a. della torre, La prima ambasceria ecc. cit., pp. 305-8. Cfr. anche e.-g. ledos, Lettre inédite cit. 96 Il Landino mostra, nella sua lunga prefazione, un particolare interesse per certe immagini fresche e rustiche del poeta: Inferno, XXVI, 25, e naturalmente per le immagini astrali piú inattese: Paradiso, XXVII, 13. 89 Storia dell’arte Einaudi 212 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Ad esempio, Purgatorio, XXIX, 120. Tutti questi punti sono commentati da a. renaudet, Dante humaniste cit. 98 Paradiso, I, 19-21. La scena è rappresentata, senza alcun riferimento all’arte antica, nel ms Yates Thompson del British Museum (Senese, c. 1440) studiato recentemente da j. pope-hennessy, A sienese codex of the Divine Comedy, London 1947 (tav. xli, fo1. 129 r): accanto ad Apollo in piedi vicino al lauro della gloria poetica, giace Marsia scorticato; dietro a lui, un curioso Pan, color arancione «accompagnamento tradizionale dell’episodio», suona il flauto (p. 21 n. 91). I miti antichi attraverso i quali Dante esalta la novità e singolarità della sua opera (ad esempio, Paradiso, II, 16 e XXXIII, 94, le allusioni agli Argonauti) venivano facilmente a confortare la dottrina neoplatonica dell’allegoria. Su tutti questi punti: y. batard, Dante, Minerve et Apollon, Paris 1954. 99 p. schubring, Illustrationen zu Dantes Göttlicher Komödie (Italien 14 bis 16 Jh.), Zürich 1931, pp. 12 e 26; le fonti«artistiche» della Commedia sono state studiate da a. venturi, Dante e l’arte, in Dante, Milano 1921. Su questo delicato problema: r. roedel, Il sussidio delle arti figurative nell’interpretazione dei velami della D. C., in Atti del V Congresso di Lingue e Letterature moderne, Firenze 1955. 100 t. whittaker, The neoplatonists cit., nota che «Dante rende tutto in termini di estensione senza mai giungere, come i neoplatonici [d’Alessandria] all’apprensione diretta della realtà pura, immateriale»; forse è proprio questo che egli ha in comune col Ficino. 101 I passi dottrinali della Commedia sulla struttura del mondo (Inferno, XI, Purgatorio, XVII, Paradiso, XXVIII) rinviano tutti al segreto dell’Amore divino, invocato all’inizio del poema (Inferno, I, 39-40) e nell’ultimo verso del Paradiso, XXXIII, 145. h. r. patch, The last line of the «Commedia», in «Speculum», xiv [1939], pp. 56-65, vi rileva «l’esaltazione dell’amicizia platonica». 102 È cosí che il «Veltro» celebre dell’Inferno, I, 105, viene interpretato, in base ai dati dell’astrologia in voga a Firenze, in funzione dell’incontro eccezionale di Saturno e Giove previsto nel Cielo del 25 novembre 1484 come annuncio di un grande sconvolgimento e di una riforma religiosa: a. warburg, Gesammelte Schriften cit., II, p. 654. A questo proposito si può osservare che la definizione del poema data dal Poliziano: «Aligerum... Dantem, ï Per styga per stellas mediique per ardua montis, ï Pulchra Beatricis sub virginis ora, volantem» (in Nutricia, vv. 720-22, ed. I. del Lungo, Firenze 1925, p. 176) mette in evidenza essenzialmente l’aspetto celeste e astrologico della Commedia. 103 n. a. robb, Neoplatonism ecc. cit., cap. V. v. rossi, Il Quattrocento cit., pp. 257-62. e. müntz, Histoire de l’art ecc. cit., II, p. 65, già aveva notato la voga di Dante presso i pittori e gli scultori alla fine 97 Storia dell’arte Einaudi 213 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze del Quattrocento, ma incorrendo in un curioso errore: «Il periodo in cui Dante trova meno imitatori fra i poeti è per l’appunto quello in cui riceve piú omaggi dagli artisti». 104 matteo palmieri, Città di Vita (i primi 15 canti), ed. M. Rooke, Northampton 1927. Cfr. n. a. robb, Neoplatonism ecc. cit., p. 140. 105 b. soldati, La poesia astrologica nel Quattrocento, Firenze 1906, cap. II. Il poema fu pienamente approvato dal Ficino; cfr. l’epistola in cui si trova riassunto, in Opera, p. 750. 106 a. della torre, Storia cit., pp. 687-88. a. lazzari, Ugolino e Michele Verino cit., Torino 1897. 107 n. a. robb, Neoplatonism ecc. cit., p. 157, afferma che il poema fu scritto intorno al 1489-90 sotto l’influenza del Savonarola; secondo a. della torre, Storia cit., pp. 697-700, sarebbe stato composto piuttosto dopo il 1499, anno della morte del Ficino, mantenendosi fedele all’insegnamento del maestro neoplatonico. 108 w. goetz, Das Dantebildnis (Schriften der deutschen Dantegesellschaft, I), Weimar 1937, ha fornito la messa a punto piú precisa sul problema confrontando i repertori di Volkmann, Schubring e quello del Passerini, Il ritratto di Dante, Firenze 1921, con i risultati dello studio antropologico di f. frasseto, Dantis ossa, la forma corporea di Dante, Bologna 1933. Altra raccolta: f. j. mather jr, The Portraits of Dante, Princeton 1921. 109 r. altrocchi, Michelino’s Dante, in «Speculum», vi (1931), pp. 15-59. 110 f. arcangeli, Tarsie, 2ª ed., Roma 1943, n. 32. 111 Tuttavia il Ritratto di Dante nella serie degli «uomini famosi» d’Urbino (c. 1475) non sembra dover nulla ai fiorentini. 112 Sull’interesse del Landino e di Lorenzo per Petrarca, cfr. v. rossi, Il Quattrocento cit., pp. 335 sgg. e 547. Il Landino pronunciò una celebre oratio inaugurando uno dei suoi corsi sul Canzoniere. Sulle illustrazioni del Petrarca: principe d’essling e e. müntz, Pétrarque, ses études d’art, son influence sur les artistes, ses portraits et ceux de Laure, l’illustration de ses écrits, Paris 1902. Sull’importanza del tema trionfale, connesso al poema del Petrarca: w. weisbach, Trionfi, Berlin 1919. Alcune di queste illustrazioni pongono dei problemi: al fol. 1 v dei Trionfi del Petrarca, ed. di Venezia 1470-80 (catalogo della mostra: Italian illuminated manuscripts, Bodleian Library, Oxford 1948, n. 25) si vedono: nove filosofi in una caverna, motivo che può essere un’allegoria di spirito platonico, come suggerisce O. Pächt. 113 Dopo il rapido studio di b. berenson, Dante and his early illustrators, in The Study and Criticism of italian art, I, London 1901, pp. 13-19, si è spesso insistito sull’importanza dell’opera nella formazione dei grandi artisti del Rinascimento (w. goetz, op. cit., p. 22, e o. fischel, Dante und die Künstler, Berlin 1921); resta da dimostrare Storia dell’arte Einaudi 214 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze come questa nuova importanza di Dante per la vita dell’arte coincida con la sua adozione da parte dell’accademia platonica. 114 l. volkmann, Bildliche Darstellungen zu Dantes Divina Commedia bis zum Ausgang der Renaissance, 1ª ed., Leipzig 1892, trad. it. Iconografia dantesca, le rappresentazioni figurative della Divina Commedia, Firenze 1908, rimane, nonostante le lacune, lo studio di base, che viene integrato da p. schubring, Illustrationen zu Dantes ecc. cit. L’edizione di C. Ricci, La Divina Commedia illustrata nei luoghi e nelle persone, 3 voll., Milano 1931, raccoglie opere di tutti i tempi ispirate da Dante; quella di N. Zingarelli e P. D’Ancona, La Divina Commedia, Bergamo 1934 (con introduzione, pp. xxiii sgg. su «la D. C. e le arti figurative») comprende illustrazioni antiche. 115 Firenze, Biblioteca Nazionale, Palatina 313: ms eseguito prima del 1333. 116 Budapest, Univ. Bibl., n. 33: l. volkmann, Iconografia dantesca ecc. cit., pp. 49-50. 117 Firenze, Biblioteca Nazionale, Cod. II, 1, 29. 118 e.Biblioteca Marciana, classe IX, n. 276: 245 grandi miniature. Alcune sono state pubblicate da a. bastermann, Dante und die Kunst, in Dantes Spuren in Italien, Heidelberg 1897, trad. it. Orme di Dante in Italia, Bologna 1902. L’autore, al pari di l. volkmann, Bildliche Darstellungen zu Dantes ecc. cit., p. 45, considera il manoscritto come postgiottesco. 119 p. de ricci, Les manuscrits de la collection H. Yates Thompson, London 1926, n. 33. j. pope-hennessy, A sienese codex of the Divine Comedy, London 1947, che ha proposto queste attribuzioni, mostra come il manoscritto sia stato eseguito mentre ottenevano grande successo a Siena le letture di Dante che vi si tennero intorno al 1430-40. 120 l. rocca, Di alcuni commenti della Divina Commedia, Firenze 1891. j. pope.-hennessy, A sienese codex ecc. cit., pp. 28-29. Cosí al fol. 163 r (op. cit., n. 70), in margine a Paradiso, XXII, 45, la miniatura mostra san Benedetto che abbatte l’idolo d’Apollo, di cui parla solo il commento. 121 Fol. 129 r (op. cit., nn. 41 e 7.20): da accostare al manoscritto citato a p. 116 n. 2. 122 Parigi, Bibliothèque Nationale, ms it. 2017 (pubblicato da l. auvray, Les manuscrits de Dante des Bibliothèques de France, Paris 1892, pp. 115-27, e c. morel, Une illustration de l’«Enfer» de Dante, 71 miniatures du XVe siècle, Paris 1825); e Imola, Biblioteca Comunale, Cod. framm. n. 32. Questo importante manoscritto recava piú di cento miniature. 123 vasari, ed. Milanesi, V, p. 396. j. mesnil, Botticelli, Paris 1938, cap. IX, p. 121. 124 g. mambelli, Gli annali delle edizioni dantesche, Bologna 1931, Storia dell’arte Einaudi 215 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze n. 10. a. m. hind, Early italian engraving, a critical catalogue, I. Florentine engraving, London 1937. 125 Ed. di Brescia, g. l. passerini, La Divina Commedia nelle silografie quattrocentesche, Terni 1920. g. mambelli, Gli annali ecc. cit., n. 12. l. volkmann, op. cit., pp. 51-52. L’illustrazione è erronea per quanto riguarda i bassorilievi del Purgatorio, I. 126 g. soulier, Les influences orientales ecc. cit., p. 226. 127 g. mambelli, Gli annali ecc. cit., nn. 13 e 14: si distinguono un’edizione apparsa nel marzo e una copia pubblicata nel novembre. 128 Catalogue des enluminures de hautes époques (Vendita alla Galleria G. Petit del 6 dicembre 1926), Paris 1926, pp. 26-46: libro miniato della fine del xv secolo, progetto di un’edizione illustrata da Piero da Figline. t. gnoli, Il Dante di Pietro da Figline, in «Accademie e Biblioteche d’Italia», i (1927), pp. 20-35, e f. sarri, in «Giornale dantesco», xxx (1927), 3. 129 Firenze, Biblioteca Laurenziana, Plut. 40, 7. l. volkmann, op. cit., p. 42; 65 miniature che schubring, Illustrationen zu Dantes ecc. cit., n. 303, chiama Laur. II, e per le quali ha notato i rapporti con le tavole del 1491. 130 Biblioteca Vaticana, Urb. 365. Complesso di 110 miniature di grandi dimensioni (4205240), di cui alcune (Purgatorio, 26 e 7, Paradiso, 10, 28-33), sono della fine del xvi secolo. l. volkmann, op. cit., pp. 32, 67-90; franciosi, Il Dante vaticano e l’urbinate descritti, Città di Castello 1896; f. hermanin, Le miniature ferraresi della Biblioteca Vaticana, ne «L’arte», iii (1900), pp. 341-73, ha distinto diverse mani: Guglielmo Giraldi, Alessandro Giraldi, Maestro Violaceo I, ecc. Sulla miniatura ferrarese: j. hermann, in «Jahrbuch der Kunsthistorischen Sanmmlungen der allerh. Kaiserh», xxiii (1902); p. d’ancona, op. cit., pp. 65 sgg., e m. salmi, La miniatura italiana, Milano, 1953 pp. 64. 131 p. d’ancona, op. cit, p. 27-29 ha mostrato la povertà dei manoscritti di Dante nel Trecento. 132 g. mazzoni, Influssi danteschi della «Maestà» di Simone Martini, in «Archivio storico italiano», ii (1936), pp. 144-62. p. rossi, L’ispirazione dantesca in una pittura di Giovanni di Paolo, in «Rassegna d’arte senese», xiv (1931), p. 149, e l. volkmann, op. cit., p. 14. Il Giudizio finale di Nardo di Cione (avanti 1365) è prossimo a una miniatura della Biblioteca Nazionale 74, a cui è stato spesso accostato: l. volkmann, op. cit., p. 7. 133 o. fischel, Dante und die Künstler cit., p. 8, ha notato come la complessità contraddittoria della fantasia dantesca sollecitasse due tipi opposti di figurazione. 134 Anonimo Magliabechiano, ed. K. Frey (1892), cit., p. 105. vasari, ed. Milanesi, III, p. 321, racconta che in seguito a una burla un po’ eccessiva fatta a un collega, Sandro fu a sua volta preso in giro «poi- Storia dell’arte Einaudi 216 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze ché senza avere lettere o appena saper leggere, comenta Dante, e mentova il suo nome in vano». 135 e. h. gombrich, Botticelli’s mythologies ecc. cit., p. 43; h. p. horne, Botticelli, London 1908, p. 59, ha per primo fatto notare che esiste un rapporto tra la Primavera e il cugino del Magnifico. j. mesnil, Botticelli cit., cap. IX, pp. 122 sgg. 136 La raccolta è stata ritrovata e resa nota solo alla fine del secolo scorso. f. lippmann, Zeichnungen von Sandro Botticelli zu Dante’s göttlicher Komödie, Berlin 1887, ed. ingl. (completa), London 1896 (a. perate, Dessins inédits de Sandro Botticelli pour illustrer l’Enfer de Dante, in «Gazette des Beaux-Arts», 1887 [1], pp. 196 sgg.). In j. mesnil, Botticelli cit., riprod. tavv. lxxxiilxxx (Purgatorio e Paradiso), h. p. horne, Botticelli cit., p. 192, c. gamba, Botticelli, Paris s. d., pp. 153-60 (testo, pp. 187-94). I disegni per l’Inferno, completati per gli 8 canti perduti, con le incisioni Baldini, sono stati pubblicati in una scadente edizione Lear, New York 1947. Per uno studio completo cfr. y. batard, Les dessins de Sandro Botticelli pour la «Divine Comédie», Paris 1952. illustrazioni di botticelli per dante Bibl. Vaticana Perdute Gab. Stampe Berlino (distrutte 1945) 1-30 Non eseguite Inferno (8) (8) Purgatorio Paradiso 1 9-10 12-13 – 15-16 19 2.3.4.5.6.7. 11. 14 (18) 8 17-18 20-34 1-33 31-33 Esistono numerosi studi sulla questione: i. b. supino, I disegni per la Divina Commedia, Bologna 1909-12. a. venturi, Il Botticelli interprete di Dante, Firenze 1921; p. toesca, Sandro Botticelli e Dante, in «Bibliofilia», 1922; e la mirabile analisi di b. berenson, The Drawings of the Florentine Painters cit. La tecnica di questi disegni: punta d’argento ripassata a penna, e forse in origine destinata ad essere acquarellata (tre tavole presentano ombreggiature e tocchi di colore, c. gamba, Botticelli cit., p. 187), è in un certo senso, il punto d’arrivo di tutta quanta la pratica fiorentina: cfr. j. meder, Die Handzeichnung, Wien 1923. 138 Il «taumaturgo gotico» di Botticelli si contrappone al poeta togatus del Signorelli: d. comparetti, Virgilio nel Medioevo, 2a ed., Firenze 1896; g. soulier, op. cit., p. 158. 139 j. mesnil, Botticelli cit., tav. lxxiii. 140 . venturi, Il Botticelli ecc. cit., p. 38. 137 A Storia dell’arte Einaudi 217 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze . fischel, Dante und die Künstler cit., p. 8. j. pope-hennessy, op. cit., fig. xiii (p. 33). 143 j. mesnil, Botticelli cit., p. 127. 144 Cfr. piú avanti. 145 s. bettini, Botticelli cit., p. 40. 146 v. gouloubev, in «Gazette des Beaux-Arts», 1914, e f. r. martin, Zeichnungen nack Wei Tao-Tze, München 1914, pongono a confronto disegni cinesi del xiv secolo. j. mesnil, Botticelli cit., p. 124. 147 g. soulier, op. cit., p. 260, ha richiamato l’attenzione su alcuni motivi «orientali» nelle miniature del Paradiso. p. d’ancona, La miniatura fiorentina cit., tav. liii. 148 j. baltrusaitis, Le Moyen Age fantastique, Paris 1956, pp. 211 sgg. 149 s. bettini, Botticelli cit., p. 39. 150 f. lippmann, Zeichnungen ecc. cit., cap. XXVIII; riprodotto da j. mesnil, Botticelli cit., tav. lxxx. L’allusione a Dionigi è al v. 133, quella a san Paolo ai vv. 138-39. Il Botticelli ha segnato il suo nome solo su un’altra opera: la Natività mistica della National Gallery di Londra. I tre ultimi canti e la visione finale di Dante sono rimasti senza illustrazione. 151 Il Ficino espone, seguendo Dionigi, «L’ordine dei cieli, degli angeli, delle anime» nel De christiana religione, cap. 121, Opera, p. 19 (come, basandosi sulle stesse fonti fa dante, Convivio, II, 9, e soprattutto Paradiso, XXVIII). Il Ficino considera gli angeli, «mentes plurimas corporibus non unitas» (Theologia Platonica, I, 5), come una «multitudo immobilis». 152 La descrizione piú completa rimane quella di r. vischer, Luca Signorelli und die italienische Renaissance, eine kunsthistorische Ikonographie, Leipzig 1879, pp. 285-304. Cfr. anche l. dussler, Signorelli, Leipzig1905, e m. salmi, Signorelli, Firenze 1954. L’analisi dei medaglioni si può trovare in l. luzi, Il Duomo di Orvieto, Firenze 1866, pp. 59-200, con alcune correzioni in f. x. kraus, Dante cit., e l. dussler, Signorelli cit., pp.204-6. Osservazioni generali in a. venturi, Luca Signorelli interprete di Dante, Firenze 1922. 153 Cfr. piú avanti. 154 Lo «zoccolo» fa di Signorelli un «vero e proprio illustratore di Dante». n. caioli, Spiriti e forze dantesche negli artisti aretini, in Dante ed Arezzo, «Atti della R. Accademia Petrarca», ii (Arezzo 1922), p. 287. Sull’ambiente d’Orvieto, dove già dal Trecento si leggeva Dante in duomo, l. fumi, Il Duomo di Orvieto, Roma 1891. 155 Sull’opera e la sua importanza cfr. piú avanti. 156 Theologia Platonica, XVIII; a. chastel, Marsile Ficin et l’art cit., p. 166, n. 6. 157 R. vischer, Luca Signorelli ecc. cit., p. 303, ha pensato ad allie141 O 142 Storia dell’arte Einaudi 218 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze vi: G. Genga, Polidoro, citati da a. venturi, Luca Signorelli ecc. cit., p. 43. 158 f. lippmann, Zeichnungen von Sandro Botticelli ecc. cit., ha creduto poter supporre, senza ragione, un’influenza del Botticelli: ipotesi confutata da l. volkmann, Bidliche Darstellungen ecc. cit., p. 70. 159 Purgatorio, I, 31 sgg. Questo aspetto nuovo è quello di Virgilio saggio platonico che compare nel commento del Landino all’Eneide: v. zabughin, Vergilio nel Rinascimemto ecc. cit., I, cap. III, p. 198; sarà poi quello di Raffaello nel Parnaso, come hanno notato l. volkmann, Bildliche Darstellungen ecc. cit., p. 72 e h. wölfflin, Die Klassische Kunst, München 1898 (trad. it. L’arte classica, 2ª ed. Firenze 1953). 160 W. goetz, Das Dantebildnis cit., p. 28, osserva l’opposizione totale con il profilo arabescato del poeta (coll. Langton Douglas, C. Gamba, Botticelli cit., p. 161) attribuito a Botticelli. 161 Cfr. piú avanti. 162 Inferno, III, v. 52. Dello stesso: Caronte sul fiume, da XXV, 1 sgg. Questa tesi è quella di f. x. kraus, Dante cit., e a. venturi, Luca Signorelli ecc. cit., ripresa da a. von marle, The development of the italian Schools, vol. XXVI, p. 62. 163 vasari, ed. Milanesi, II, p. 353. 164 l. a. michelangeli, Sul disegno dell’inferno dantesco, Bologna 1905, p. 40; l’opuscolo di A. Manetti (1506) ripubblicato dallo Zingarelli, Città di Castello 1897. 165 Ed. J. P. Richter, The literary works ecc. cit., n. 1421, II, p. 355. 166 La scena, riferita dall’Anonimo Gaddiano, sembra essere accaduta verso il 1501, all’epoca del David, al piú tardi nel 1504. g. seailles, Leonard de Vinci, Paris 1892, p. 123. 167 F. schneider, Dante und Leonardo, in «Deutsches Dante Jahrbuch», xxii (nuova serie xiii) (Weimar 1940), pp. 152-55, riassume e completa le osservazioni di e. solmi, Le fonti dei manoscritti di Leonardo da Vinci, Torino 1908, n. lviii, e di f. fuggi, Studi filosofici e letterari, Torino 1938, pp. 445-59. p. meller, Leonardo da Vinci’s drawings to the Divine Comedy, in «Acta Historiae Artium», ii (Budapest 1955), pp. 135-68, ha ugualmente ricordato la familiarità di Leonardo con l’opera di Dante, proponendo di considerare come delle figure ispirate dalla Divina Commedia certe maschere demoniache e un certo numero di figure che si considera di solito come costumi per mascherate: a. e. popham, The drawings of Leonardo da Vinci, London 1946, n. 121 sgg.; cosí: Piccarda (Paradiso, III, 42) Raab (Paradiso, IX, 112), Matelda (Purgatorio, XXVIII, 79), quest’ultima essendo la celebre «ninfa» di Windsor. Il parallelismo si stabilirebbe con Botticelli. L’ipotesi non si fonda che su delle analogie impossibili a precisarsi. 168 M. johnson, Leonardo’s fantastic drawings, in «Burlington Magazine», lxxx (1942), p. 142. Le indicazioni date da a. e. popp, Leonar- Storia dell’arte Einaudi 219 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze do da Vinci, Zeichnungen, München 1928, sono completate da g. neufeld, A drawing by Leonardo, in «The Art Bulletin», xxviii (1946), 1, pp. 47-49. Il disegno W. 12388, mostra con l’esplosione e la distruzione finale del cosmo una piccola resurrezione dei morti; cfr. a. e. popham, The drawings ecc. cit., p. 288. 169 Trattato della pittura, ed. H. Ludwig, Vienna 1882, n. 25, 1, p. 50. 170 . degenhart , Dante, Leonardo und Sangallo, in «Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte», vii (1955), pp. 101-291. Un breve riassunto di questo studio si trova in «Kunstchronik», 1954, 7 (maggio), p. 131, seguito da una serie di osservazioni; cfr. anche «HR», xix (1957), p. 366. 171 Conosciamo il passo di una lettera del 13 dicembre 1510 che si riferisce a Giulio II «Parmi si voglia far docto in Dante ché ogni sera si fa legere Dante e dichiarar da Bramante architetto doctissimo». Cfr. c. baroni, Bramante, Bergamo 1944, p. 52. 172 . volkmann, Bildliche Darstellungen ecc. cit., non vedeva che vaghi legami tra Dante e Raffaello;o. fischel, Raphaël und Dante, in «Jahrbuch der preussischen Kunstsammlungen», xli (1920), pp. 83 sgg. ha insistito con decisione su tali rapporti; egli ne ha fatto uno degli elementi essenziali della sua interpretazione, secondo la quale Dante è per Raffaello «una guida ad ogni stadio del suo creare», il che è eccessivo. Cfr. anche: c. spadoni, Dante e Raffaello, Roma 1921, e o. fischel, Dante und die Künstler cit., pp. 9-11. Su Bramante dantologo cfr. r. renier, Gaspare Visconti, in «Archivio storico lombardo», 1886, p. 535 n. 173 w. goetz, Das Dantebildnis cit., p. 34. 174 Le interpretazioni di h. grimm, Raffael’s Schule von Athen in dantescher Beleuchtung, in «Repertorium für Kunstwissenschaft», xlvii (1926), pp. 94-112, sono suggestive ma troppo sistematiche. 175 . vossler, Die göttliche Komödie, Heidelberg 1907, t. I, p. 805; p. schubring, Illustrationen zu Dantes ecc. cit., ad. loc. 176 Paradiso, XXX, 115 e XXXI, 122. I disegni citati sono riprodotti in o. fischel, Raphaels Zeichnungen, t. VI, Berlin 1925, n. 258 (Windsor), nn. 259 e 260 (Oxford e Chantilly). Per l’interpretazione «luminista» del Paradiso, cosí agli antipodi del simbolismo grafico dei Botticelli, Dante stesso ha fornito un’indicazione preziosa, parlando della «battaglia de’ debili cigli», e richiamando il movimento delle nubi che nascondono il sole, Paradiso, XXIII, 78 sgg. 177 . fischel, Raphaël, London 1948, pp. 161-65. 178 I vecchi studi di j. klackzo, Dante et Michel-Ange, in «Revue des Deux Mondes», 1880, e di h. thode, Michelangelo und das Ende der Renaissance, II, Berlin 1903, pp. 119-27, appaiono oggi troppo generali; le indicazioni di l. volkmann, Bildliche Darstellungen ecc. cit., conB L K O Storia dell’arte Einaudi 220 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze servano una loro utilità. k. borinski, Die Rätsel Michelangelos cit. ha voluto trovare un principio d’interpretazione unitaria di tutta l’opera di Michelangelo nella Commedia, il che significa dire molto e dire nulla. Le sue ambiziose proposte sono state severamente criticate da a. farinelli, Michelangelo e Dante cit., pp. 182 sgg. per quanto riguarda la volta della Sistina. Manca un moderno lavoro di sintesi sull’argomento. 179 Un editore antico del Vasari, il Bottari, Le Vite ecc., Roma 1759, vol. I, p. 428, a proposito di un passo poco chiaro (ed. Milanesi, VI, p. 244), ha scritto che Michelangelo aveva illustrato interamente il testo della Commedia (a. bastermann, Orme di Dante in Italia cit.): l’opera sarebbe stata perduta casualmente dal suo ultimo proprietario, A. Montanti (morto nel 1740). f. x. kraus, Dante, p. 618, ha analizzato la fondatezza di questa tradizione, che si è dissolta dopo lo studio di a. farinelli, Michelangelo e Dante cit., pp. 67-68. 180 All’identificazione di un ritratto di Dante nel Giudizio (e. nogara, «Rendiconti della Pont. Accad. Romana di Archeologia», ix [1934]), si oppone la critica generale delle identificazioni in quest’opera, dove verosimilmente non compaiono ritratti (w. goetz, Das Dantebildnis cit., p. 43). Quanto alla «scoperta» di j. d. gonzalez, Scoperta d’un grande segreto dell’arte nel Giudizio universale di Michelangelo, Roma 1954, cioè un ritratto colossale di Dante (inserito negli interstizi della composizione) e un’immagine di Cristo morto che sarebbe ad esso sovrapposta, essa non ci sembra attendibile 181 C. de tolnay, The youth of Michelangelo cit., p. 22 (richiami al Vasari e al Condivi). Fu G. F. Aldrovandi che fece affidare a Michelangelo l’incarico di eseguire le tre statue per l’arca di San Domenico. 182 In Le Rime, ed. C. Guasti, Firenze 1863, p. 153 e in k. frey, Die Dichtungen des Michelagnolo Buonarroti, Berlin 1897, di cui occorre in alcuni casi rivedere la cronologia, come ha indicato . de tolnay, The youth of Michelangelo cit., p. 54. 183 i. del lungo, Dell’esilio di Dante, Firenze 1881, pp. 183-88. 184 C. de tolnay, The Medici Chapel cit., 1948, p. 26. 185 Sono state raccolte da h. tietze, Francisco de Hollanda und Donato Giannottis Dialogi und Michelangelo, in «Repertorium für Kunstwissenschaft», xxviii (1905), pp. 313-20. 186 Le lettere di Michelangelo Buonarrotti, ed. Milanesi, Firenze 1875, lettera clv, p. 180. 187 m. barbi, Della fortuna di Dante ecc. cit., p.247. 188 Dialogi di Donato Giannotti, de’ Giorni che Dante consumò nel cercare l’Inferno e ’l Purgatorio, ed. D. Redig de Campos (Raccolta di Fonti per la Storia dell’arte, II), Firenze 1939, p. 37. 189 Ibid., pp. 68-69. Per l’ultimo passo occorre ricordare i rilievi di p. o. kristeller, The philosophy of Marsilio Ficino cit., pp. 96 sgg. C Storia dell’arte Einaudi 221 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze . varchi, Due lezzioni ecc., Firenze 1549, p. 117, richiama un paragone del Paradiso, XXIII, 121, sul bimbo che si volge verso la madre (ripreso nel XXX, 82-84), a proposito della Vergine della cappella medicea; c. de tolnay, The Medici Chapel cit., p. 144, nota che è il primo parallelo istituito tra la poesia di Dante e la scultura di Michelangelo. 191 Precisamente B. Varchi, citato da e. steinmann, Die sixstinische Kapelle cit., II, pp. 564-65. 192 Purgatorio, XXIX, 100; Inferno, XXIV, 91. 193 Purgatorio, XXVII, 97 sgg. Il riferimento è suggerito dal Condivi, ed. K. Frey (Ausgewählte Biographien Vasaris, II, Berlin 1887) p. 66. L’interpretazione delle due donne di Giacobbe come simboli della vita attiva e della vita contemplativa si trova in san Tommaso, da cui Dante evidentemente l’ha derivata; essa è utilizzata da Michelangelo attraverso l’amplificazione platonica: e. panofsky, Studies in Iconology cit., pp. 140 e 192. Dei quattro fiumi infernali si parla nell’Inferno, XIV, 116 e nel Fedone, 15-16. Cfr. anche: c. de tolnay, Werk und Weltbild des Michelangelo cit., p. 44. 194 Purgatorio, IX, 19; k. borinski, Die Rätsel Michelangelos cit., p. 142; e. panofsky, Studies in Iconology cit., p. 214. 195 È ciò che, unico per quanto ne so, ha riconosciuto e. panofsky, Studies in Iconology cit., p. 179, in un passo che viene a coincidere con la tesi generale del nostro studio: «Proprio il suo serio studio della Divina Commedia non poteva che approfondire il suo interesse per le dottrine dell’Accademia neoplatonica. Nessuno leggeva Dante senza un commento, e delle dieci o undici edizioni di Dante stampate avanti il 1500 nove sono accompagnate dal commento di Cristoforo Landino, nel quale ogni verso del poeta è interpretato in senso neoplatonico e messo in rapporto con le teorie elaborate dal Landino negli altri suoi scritti». 196 k. borinski, Die Rätsel Michelangelos cit., pp. 204 sgg., e w. kallab, Dante und Michelangelos Jüngstes Gericht, in «Zeitschrift für Aesthetik und allg. Kunstwissenschaft», ii (1907), pp. 202-16, hanno visto nella Commedia la fonte principale dell’opera di Michelangelo, oltre al Signorelli di Orvieto. e. steinmann, Die sixtinische Kapelle cit., II, che la considera come una fonte importante per l’affresco, cerca in questo la struttura delle tre cantiche e i personaggi di Dante. Gli studi recenti: 1) hanno ridotto le identificazioni dantesche ad alcuni motivi secondari (messa a punto di d. redig de campos e b. biagetti, Il Giudizio universale di Michelangelo, Roma 1943, pp. 46-47); 2) considerano piuttosto la Commedia un veicolo di temi neoplatonici o propriamente mistici, che Michelangelo, soprattutto intorno al 1540, poteva derivare anche da altre fonti (c. de tolnay, Le jugement dernier de Michel-Ange, essai d’interpretation, in «The Art Quarterly», 1940, pp. 190 B Storia dell’arte Einaudi 222 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze 125-47). 197 Inferno, III, 109-11, e V, 4-6; ibid., XXI, 29. 198 Purgatorio, VI, 118; Paradiso, XXXI, 1-2, ecc. 199 b. varchi, Due lezzioni cit., p. 116, citato da m. barbi, Della fortuna di Dante ecc. cit., p. 317. 200 Anche il Vasari (di cui non si deve dimenticare il fatto che ha concluso con la Vita di Michelangelo la sua storia universale dell’arte) non ha trascurato Dante, ma su un piano piú modesto, inserendolo nella serie dei Fiorentini illustri: n. caioli, Spiriti e forze dantesche cit., cap. III, e passerini, Il ritratto di Dante cit., p. 21, sul curioso disegno allegorico dell’Oxford College di Oxford. Storia dell’arte Einaudi 223 Sezione terza i programmi Introduzione Il paradigma dell’architetto Nel Quattrocento l’architettura era diventata presso il pubblico fiorentino un’arte superiore, o addirittura, in un certo senso, l’arte per eccellenza. La conclusione della cupola di Santa Maria del Fiore aveva avuto un’eco di cui difficilmente si potrebbe esagerare la portata; l’opera era stata paragonata alle classiche meraviglie del mondo. L’Alberti, appena arrivato a Firenze, loda nella prefazione del suo trattatello del 1435 la possente struttura che «copre della sua ombra i popoli della Toscana tutta». Intorno al 1450 un famoso passo di Giannozzo Manetti consacra questo significato «assoluto» del capolavoro fiorentino; «si può metterla al di sopra di tutto», scriverà il Verino mezzo secolo piú tardi. Le stesse contestazioni del Ghiberti il quale nei suoi Commentari afferma di avere avuto una parte essenziale nell’opera confermano l’importanza attribuita a questa realizzazione senza pari dell’«arte dedalea»1. Amico dei «dotti», in rapporti stretti col cosmografo e matematico Toscanelli, al quale gli umanisti, e il Ficino in primo luogo, dichiareranno la loro amicizia, sostenuto dagli intellettuali, il Brunelleschi rappresentava una cultura fondata sul primato dell’architettura e che aspirava a rinnovare sempre piú tutti gli aspetti dell’arte. Dopo il rifacimento del palazzo di Parte Guelfa, intorno al 1420-25, il suo progetto per il palazzo Medici sarebbe venuto a trasformare il tipo del palazzo fio- Storia dell’arte Einaudi 224 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze rentino. Egli però si dedicò a un’altra impresa assai importante, niente meno che riformare la pianta basilicale tradizionale e compiere una serie di esperienze, nuove per tutto l’Occidente, sull’edificio a pianta centrale. Le resistenze però non mancarono: molte sue opere rimasero incompiute e furono oggetto di polemiche assai vive nell’ultimo terzo del secolo, allorché l’esempio del Brunelleschi ritornò di attualità. La pianta della rotonda di Santa Maria degli Angeli nel convento dei Camaldolesi (cominciata dopo il 1436, ma la costruzione si limitò poco piú che alla base) incontrò tra il 1480 e il 1490 un successo rivelatore2. Santo Spirito di cui il Brunelleschi aveva elaborato il progetto nel 1444 due anni prima di morire, rappresenta la sua concezione piú matura e completa della pianta basilicale. La costruzione non fu condotta attivamente se non dopo il 1471; la cupola fu terminata nel 1481 e fu allora che si accese una polemica famosa a proposito delle aperture della facciata che si prolungò fin oltre il 1486. Gli amici del Brunelleschi avrebbero voluto che si restasse fedeli al suo progetto, il quale avvolgendo tutto l’interno in un ritmo unitario di archi, prevedeva sulla facciata esterna un portico di quattro campate: ne sarebbero venute quattro porte in luogo delle tre aperture tradizionali che Giuliano da Maiano avrebbe voluto e che furono alla fine condotte da Salvi d’Andrea. Era l’ultima, se non la piú grave, alterazione dei progetti brunelleschiani3. Paolo Toscanelli, vecchio amico dell’architetto e con piú veemenza ancora Giuliano da Sangallo nella sua lettera del 15 maggio 1486 a Lorenzo, s’indignarono vedendo correzioni abusive guastare un cosí bell’edificio. Ci fu insomma per una quindicina d’anni una sorta di «querelle Brunelleschi». Fu senza dubbio per sostenere la gloria dell’innovatore che venne composta allora la Vita di Filippo di Ser Brunellesco (incompiuta). L’opera si deve attribuire ad Antonio Manetti Storia dell’arte Einaudi 225 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze che per i suoi studi di cosmografia dantesca abbiamo già accostato all’autore della cupola. In questo brillante opuscolo, tutto percorso dai motivi dell’umanesimo ficiniano, architettura, «filosofia» e archeologia vengono strettamente associate per definire il genio dell’artista ideale. Le insufficienze di certe costruzioni brunelleschiane sono attribuite all’inettitudine degli esecutori. L’autore attribuisce al Brunelleschi anche conoscenze musicali attinte dai testi antichi. L’insistenza con cui torna sul periodo romano e lo studio dell’antico è tanto forte che è lecito pensare a un’influenza dell’Alberti, molto forte intorno al 1480, sul biografo. Ma questo è anche un modo per dimostrare che il Brunelleschi aveva saputo risalire alle fonti e che le sue opere fiorentine rispondono ad una sintesi universale4. Questa difesa dell’architetto moderno rispondeva ad un interesse sempre piú esplicito degli umanisti: cioè illustrare storicamente quello che si può chiamare il «paradigma platonico» dell’architetto. I passi in cui Platone mette l’architettura in rapporto con la musica (Filebo, 51 c e 56 b, c) e con la contemplazione filosofica (Politica, 240) sono fra quelli che sempre hanno interessato e sono stati commentati e che sempre erano citati con predilezione negli ambienti neoplatonici5. Nel riassunto della Repubblica di Platone il Ficino mette in luce la dignità particolare dell’architetto; la sua arte si fonda su «le verità eterne» della geometria, cioè sull’«intelligibile». La distinzione fra concezione ed esecuzione, tra elemento intellettuale e elemento sensibile, risulta qui particolarmente chiara e viene a fornire anche una delucidazione assai felice circa la dottrina delle idee. Già nel 1469 il Ficino aveva sviluppato nel suo Commento al Convito l’analisi corrispondente: Se alcuno dimanda in che modo la forma del corpo possa essere simile alla forma e ragione dell’Anima e dell’Ange- Storia dell’arte Einaudi 226 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze lo, prego quel tale, che consideri lo edifizio dello Architettore. Da principio lo Architettore, la ragione e quasi Idea dello edifizio nello animo suo, concepe: di poi fabbrica la casa (secondo che i’ può) tale quale nel pensiero dispose – chi negherà la casa essere corpo? E questa essere molto simile alla incorporale Idea dello artefice a la cui similitudine fu fatta? Certamente per un certo ordine incorporale piú tosto, che per la materia, simile si debbe giudicare. Sforzati un poco a trarne la materia se tu puoi: tu la puoi trarre col pensiero. Orsú, trai a lo edifizio la materia; e lascia sospeso lo ordine: non ti resterà di corpo materiale cosa alcuna: anzi tutto uno sarà l’ordine che venne da lo artefice, e l’ordine che nello artefice rimase. È ciò che esprimeva l’Alberti dicendo che è possibile integras formas praescribere animo et mente, seclusa omni materia6. Quindici anni dopo la stessa dimostrazione si ritrova in Pico in termini piú scolastici: Ogni causa che con arte o intelletto opera qualche effetto, ha prima in sé la forma di quella cosa che vuole produrre, come un architetto ha in sé e nella mente sua la forma dello edifizio che vuole fabbricare, e reguardando a quella come a esemplo, ad imitazione sua produce e compone l’opera sua. Questa tale forma chiamano e’ Platonici Idea e esemplare e vogliono che la forma dello edificio, che ha l’artefice nella mente sua, abbia essere piú perfetto e piú vero che l’artificio poi da colui produtto nella materia conveniente, cioè o di pietre o di legni o altre cose simile. Quello primo essere chiamano essere ideale ovvero intelligibile; l’altro chiamano essere materiale o sensibile, e cosí se uno artefice edifica una casa, diranno essere dua case, una intelligibile, che è quella che ha l’artefice nella mente, un’altra sensibile che è quella che da lui è composta, o di marmo o di pietre o di altro, esplicando quanto può in quella materia la forma che in sé ha concetta; e questo è quello che il Storia dell’arte Einaudi 227 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze nostro poeta Dante tocca in una sua canzona, dove dice: poi che pigne figura, se non può essere lei, non la può porre7. Questa analisi non è nuova; ed è del tutto astratta e teorica. Pure questa teoria dell’edificio incorporeo che si «realizza» nella materia abituava a porre l’«idea» (insieme prototipo astratto e immagine) alla base dell’attività artistica8. Il Brunelleschi era stato un grande ingegnere9. Ma egli aveva posto l’immaginazione tecnica al servizio di un nuovo ordine di problemi. Passo passo con le sue realizzazioni, la sua concezione dello spazio architettonico era venuta evolvendo. Da semplici superfici armonicamente divise i muri diventano nelle sue opere ultime masse fortemente articolate e l’edificio assume un nuovo valore plastico10. Egli ha cosí lasciato ai suoi successori suggerimenti complessi. Ma l’essenziale è che il problema artistico si era venuto distinguendo dal problema costruttivo. La rivoluzione era consistita nello studiare integralmente l’edificio come uno sviluppo coerente di forme geometriche, senza che l’originalità della concezione restasse subordinata alla soluzione dei problemi concreti che sarebbero sorti poi. L’importanza annessa all’«idea», quale era consegnata al «modello» teorico, veniva a tagliare i ponti con le tecniche del «gotico» o meglio di quella architettura che proprio allora si cominciava a chiamare cosí: un’architettura nella quale lo schema generale non subordinava a sé interamente le parti, e in cui l’edificio aveva un carattere per cosí dire addizionale, indefinito, dato che la fioritura degli elementi decorativi, tabernacoli, pinnacoli, veniva continuamente a oscurare la visione dei volumi11. L’accento verrà dunque posto anzitutto sull’invenzione e sull’organizzazione astratta, sulle forme pure. L’architettura si allinea cosí tra le arti liberali. Essa è arte di pensiero, non rientra piú tra le operazioni meccaniche12. Sempre sotto Storia dell’arte Einaudi 228 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze l’egida di Platone, il Ficino espone la nuova posizione centrale assunta dall’architetto, la cui «facoltà» va collocata tra la speculazione pura e l’attività pratica, pur legandosi maggiormente alla prima; l’architetto è «geometra», ma anche direttore dei lavori: i due aspetti sono nettamente definiti13. Le conseguenze che ne risultano sono numerose: la generazione del 1480, fondandosi sulle nuove dottrine, ha cominciato a svilupparle. Una prova precisa di questo accordo si ha nell’elogio del trattato dell’Alberti che il Ficino introduce nel suo Commento al Timeo, alla vigilia della edizione del 1485. In tale elogio il Ficino precisa con chiarezza quella che è la portata dell’opera. Se ciò che interessa è l’interpretazione matematica della realtà fisica, Leon Battista Alberti l’ha introdotta nell’architettura14. Si tratta di una definizione abbastanza semplificata del De re aedificatoria, nella quale in realtà i problemi non sono tutti posti né risolti in questi termini astratti. Ma il Ficino ed i suoi amici apprezzano nell’Alberti lo sforzo compiuto per imporre al tecnicismo e all’empirismo di Vitruvio un orientamento «filosofico» e il suo desiderio di coronare un insieme di prescrizioni positive attraverso un numero sufficiente di principî superiori. Fin dall’esordio del suo trattato l’Alberti infatti affermava il principio secondo il quale l’architettura, al pari della musica, è l’arte che piú profondamente penetra nello spirito e risponde integralmente alle sue esigenze15. Il De re aedificatoria non era, come non lo era stato il De pictura del 1435, una codificazione dei procedimenti esecutivi del tempo. Al pari del meraviglioso romanzo, composto intorno al 1464 sugli stessi argomenti da un altro fiorentino passato al servizio dei signori di Milano, il Filarete, si trattava insieme di un programma ideale, di una raccolta di consigli pratici, di formule rinnovate dell’antichità e di argomenti intesi a giustificare il primato dell’architettura sull’orizzonte delle arti. Questa rielaborazione «umani- Storia dell’arte Einaudi 229 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze stica» era originale soprattutto su tre punti: la teoria delle proporzioni, la teoria degli ordini e l’impiego dei simboli16. La struttura degli edifici di particolare interesse (chiese o palazzi) deve essere elaborata in base a calcoli appropriati. I tipi di pianta possono essere definiti e caratterizzati come «accordi» semplici: 2/3, 3/5 ecc., analoghi a quelli della gamma musicale, e le loro suddivisioni determinano l’articolazione della parete17. Per la composizione delle masse, considerate puri volumi, solidi matematici, si deve passare dai rapporti semplici alle «proporzioni». L’Alberti, riprendendo il vocabolario «pitagorico», propone le tre «medietà», dette rispettivamente aritmetica, geometrica e armonica, come mezzi per trovare la giusta altezza di un edificio a partire da una pianta rettangolare18. Questi tre tipi sono tolti da Platone. Sono i rapporti-chiave proposti nel Timeo per legare i pieni e i vuoti dell’universo. Cosí l’Alberti espone praticamente il primo grado di una dottrina piú generale che mira a regolare l’opera in base alle leggi dell’edificio cosmico: «Questo calcolo viene introdotto in Platone per spiegare la composizione dell’anima del mondo, nell’Alberti per fornire all’architetto le regole di una bellezza sicura»19. Ora questa teoria delle proporzioni fondamentali ritorna pari pari nel Commento al Timeo (cap. 29) con valore universale. Questo oscillare tra cosmologia ed estetica dell’architettura si ritroverà in tutto il corso del Rinascimento; dall’Alberti al Palladio, l’umanesimo platonico fornisce il telaio generale di idee utili20. Le proporzioni vengono a confermare la dignità «speculativa» dell’architettura; gli ordini ne dimostrano la dignità storica. Tuttavia essi non hanno la precedenza21. Nella pratica del Brunelleschi e di Michelozzo, le colonne ed i pilastri servono, insieme a tutti gli elementi della tradizione toscana (cornici, fasce, ecc.) a accentuare l’ar- Storia dell’arte Einaudi 230 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze ticolazione dei volumi ed il ritmo dell’insieme. I fusti delle colonne, i capitelli, e le trabeazioni possono essere rettificati sulla base dell’antico; ma, come avviene nelle tombe monumentali, le quali partono dallo schema di massima dell’arco trionfale, l’uso fiorentino non si preoccupa eccessivamente dell’esattezza archeologica. Nell’Ospedale degli Innocenti, in San Lorenzo e in Santo Spirito, Brunelleschi appoggia su pilastri angolari la fascia orizzontale che chiude gli archi e appoggia questi su colonne. È l’opposto della regola romana, rimessa in onore dall’Alberti, secondo la quale l’architrave postula la colonna (come accade nella facciata di San Pancrazio) e l’arco postula il pilastro (facciata di San Francesco a Rimini)22. Intorno al 1480 le due esigenze vengono ad incontrarsi, soprattutto nell’opera del Sangallo; le sue varianti nella forma dei capitelli e dei supporti dimostrano quanto sia cosciente del problema. Piú vicino al Brunelleschi (e alla sacrestia vecchia di San Lorenzo), nella chiesa delle Carceri a Prato (1485-91), adotta invece una soluzione romana nel vestibolo della sagrestia di Santo Spirito23. Cosí egli accoglie la sfida che i resti antichi avevano lanciato alla fantasia dei moderni. È pensando all’organizzazione degli elementi decorativi che l’Alberti scrive: vorrei che nei templi non ci fosse nulla sul muro o nelle riquadrature che non avesse un accento filosofico; «e massimo le sacre, percioche e’ non sara nessuno, che possa sopportare che elle stieno ignude di ornamenti»24. Questa legge risponde sia alle proprietà psicologiche dell’ornato astratto (figure geometriche, distribuzione di colori ecc.) sia alle risorse dell’immagine. Si deve evitare ogni ammasso confuso e partire invece da una lucida coscienza della dignità della decorazione; questa potrà comprendere cicli di affreschi, ma anche motivi propri a far sentire la «vita» particolare dell’edificio. Si può attribuire a questo una vera e propria «personalità», che la decorazione renderà pale- Storia dell’arte Einaudi 231 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze se. C’era l’uso di formulare l’oroscopo per le costruzioni importanti: il Ficino farà parte del gruppo di specialisti consultati a questo proposito per palazzo Strozzi25. L’idea che ogni opera architettonica degna di questo nome sia paragonabile ad un organismo vivo si trova esposta nell’introduzione al libro terzo di Vitruvio, che prescrive una composizione «ad hominis bene figurati exactam rationem»; quest’idea era stata ripresa dall’Alberti per indicare il carattere completo, coerente e armonioso dell’edificio. Questa è anche la chiave di tutta la sua dottrina26. L’analogia ricorre spesso nell’ultimo terzo del secolo; si esprime in forma grafica in Francesco di Giorgio, in una serie di disegni in cui si vedono figure umane iscritte nelle piante per mostrare, ad esempio, come la pianta centrale, possa legarsi con una pianta longitudinale27. Francesco di Giorgio comporrà una specie di geroglifico della architettura urbana rappresentando un uomo che porta una fortezza sulla testa, una torre ad ogni estremità, una basilica nel petto28. Lo stesso artista renderà concreta la formula vitruviana attraverso la doppia iscrizione di una figura in un cerchio e in un quadrato, tema che verra ripreso da Leonardo in un celebre disegno e da Dürer, che lo deriva da lui. Questo significava andare molto piú lontano di Vitruvio, dato che l’uomo, unito cosí alle forme geometriche semplici, simboleggia la «struttura universale, cioè il principio d’armonia e di proporzione comune all’uomo, all’architettura e al mondo»29. L’accordo di questo principio con la dottrina neoplatonica del cosmo vivente è pieno; questa analogia si ritrova in tutti i teorici influenzati da questa dottrina. Il Pacioli si richiama al Timeo nello stesso tempo che a Vitruvio e ad Euclide per affermare: «del corpo humano ogni misura con sue denominationi deriva e in esso tutte sorti de proportioni e proporzionalità si ritrova con lo deto de laltissimo mediante li intrinseci secreti de la natura... E cosi comme dici el nostro Storia dell’arte Einaudi 232 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Vitruvio a sua similtudine dobbiam proportionare ogni edificio»30. In una lettera che si pensa indirizzata al cardinale di Carpi, Michelangelo molto piú tardi svilupperà questa stessa formula: «E però è cosa certa, che le membra dell’architettura dipendono dalle membra dell’uomo, chi non è stato o non è buon maestro di figure, e massime di notomia, non se ne può intendere»31. Rimane da definire in quale misura queste teorizzazioni abbiano potuto agire dall’epoca di Lorenzo in poi sui programmi architettonici e determinare sviluppi interessanti. Proprio da questo punto di vista parziale analizzeremo successivamente l’architettura religiosa, il problema della villa, la decorazione delle chiese e quella delle dimore private. Alla fine del Quattrocento si riscontra nella cittá toscana un contrasto tra un certo conformismo toscano e le tendenze innovatrici. Il ritorno a Brunelleschi avveniva intorno al 1480 con qualche difficoltà; le idee dell’Alberti erano, tutto sommato, rimaste lettera morta. Non è palazzo Rucellai che serve di prototipo per l’architettura dei palazzi, ma quello di Michelozzo. Quando il biografo di Lorenzo afferma che questi amava l’architettura che aveva un sapore antico, vuol mettere in evidenza l’originalità di gusto del capo della famiglia Medici. Il Pacioli dal canto suo ha insistito sull’importanza delle ricerche che si compivano nell’ambiente mediceo: «In Firenze poi trovo decta architectura molto magnificata, maxime poi chel Magnifico Lorenzo Medici sene comenzo a delectare: qual de modelli molto in epsa era prontissimo... in modo che chi oggi vol fabricare in Italia e fore subito recorreno a Firenze per architecti»32. Il Pacioli ricorda a questo proposito Giuliano da Maiano da lui incontrato a Napoli; ma la figura dominante del momento è Giuliano da Sangallo. Lo si ritrova ogni volta al centro dei problemi di attualità33. Gra- Storia dell’arte Einaudi 233 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze zie alle sue raccolte di rilievi archeologici e tecnici, che inizia ben presto a Roma e completa poi a Napoli, Genova, in Provenza, egli viene ad avere una parte di primo piano non solo per gli architetti ma anche per gli scultori e i pittori. È in contatto con Botticelli, Filippino, il Ghirlandaio, Bertoldo; egli li informa e copia le loro composizioni34. Ha legami stretti con Leonardo35. I suoi numerosi soggiorni a Roma, Milano, Loreto, Genova lo portano a diffondere certi motivi e, per contro, a liberarsi dello stretto ambito delle consuetudini toscane: sarà il maestro di Michelangelo di cui appoggerà efficacemente la carriera36. Le sue iniziative hanno tutte un loro significato: con la Madonna delle Carceri fornisce il primo esempio di chiesa a croce greca e con la villa di Poggio a Caiano il primo modello di casa di campagna in uno stile nuovo. Stando al Vasari, egli eresse numerose costruzioni pubbliche e private, fra le quali non solo palazzo Gondi, ma anche il palazzo del giureconsulto Bartolomeo Scala, amico del Ficino. Piú si studia la parte da lui avuta intorno al 1490, piú risulta chiaro che Giuliano è l’architetto del nuovo umanesimo: egli è completo, dotto, ingegnoso. Ma lo sviluppo rimane interrotto e si deve tener presente l’avvertimento dello storico: «Avvenne, come di continuo avviene, che la fortuna, nemica della virtú, levò gli appoggi delle speranze a’ virtuosi, con la morte di Lorenzo de’ Medici: la quale non solo fu cagione di danno agli artefici virtuosi ed alla patria sua, ma a tutta l’Italia ancora; onde rimase Giuliano con gli altri spirti ingegnosi sconsolatissimo...».37 Storia dell’arte Einaudi 234 Capitolo primo Il Tempio L’immagine del Tempio rappresenta l’Universo quale si rivela alla contemplazione, cioè misteriosamente predisposto per la celebrazione del Divino. L’analogia, assai antica, ha ritrovato tutta la sua efficacia nel secolo xv, nei commenti ai salmi («in sole posuit tabernaculum suum», XVIII, 5) e nella poesia liturgica o ancora nelle innumerevoli «meditazioni» e «visioni» ispirate a Dante e consacrate allo spettacolo «sublime» dei cieli stellati, alla vista grandiosa del sole che risveglia la terra o la vivifica38. Il simbolo del Tempio è di uso universale. Allorché si tratta del cosmo: «occorre», diceva il Ficino, «che ad ogni cerchio di questo tempio si muovano i cori dei sacerdoti che cantano in gloria di Dio». Nel De tranquillitate animi dell’Alberti, l’antichità viene paragonata a un Tempio, di cui i moderni si contendono i resti: «Costrussero uno quasi tempio e domicilio in suoi scritti a Pallade e a quella Pronoa dea de’ filosofi stoici»39. Si ha anche un Tempio della Filosofia, ampiamente descritto all’inizio della traduzione di Platone del 148240 L’edificio sacro ideale era stato mirabilmente previsto dall’Alberti: Certamente che per indirizzare gli huomini alla pietà, sono molto a proposito i Tempii i quali dilettino sommamente gli animi e gli intrattenghino con gratia, e maraviglia Storia dell’arte Einaudi 235 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze di se stessi... Et perciò vorrei io che nel Tempio fusse veramente tanto di bellezza che e’ non sene potesse imaginare in alcuno altro luogo alcuna maggiore, e vorrei che e’ fusse da ogni parte cosi ordinato che e’ porgesse a que’ che vi entrano dentro stupefatti, spavento; per la maraviglia delle cose degne e eccellenti; e che a gran’ pena si ritenessero, che non dicessero con maraviglia alzando la voce questo certo è luogo degno di Dio (De re aedificatoria, VII, 3). È interessante vedere come avvenga la spiegazione: la funzione dell’edificio è doppia, disporre l’anima quanto meglio possibile alle sue facoltà contemplative e con questo arrivare ad una sorta di terapeutica spirituale che esalta e purifica lo spettatore; tuttavia la sublimità stessa dell’opera realizza un atto di adorazione che raggiunge il tono religioso attraverso la bellezza assoluta. È impossibile dubitare dell’orientamento religioso di questa dottrina41. È lecito tuttavia chiedersi in quale misura essa fosse pienamente conciliabile con le consuetudini del mondo cristiano e soprattutto con le regole della liturgia. Che avverrà dell’altare e dello spazio riservato alle messe? L’Alberti afferma che «non si truova cosa alcuna appresso de Mortali, ne si può imaginare che sia piú santa, o degna del sacrifitio» (VII, 13), e raccomanda un altare unico secondo la formula dei primi tempi del cristianesimo, precisando che le manifestazioni di questo genere hanno tutto da perdere ad essere rese troppo facili: affermazione che porta alla conclusione di limitare il numero delle messe42. La dottrina albertiana tende sia a semplificare che a rendere solenne il culto. La stessa preoccupazione si ritroverà ad esempio in Pico. Si trattava di una preoccupazione tipica degli umanisti fiorentini43. Il rinnovamento dell’architettura si accompagnava ad una riforma o almeno una semplificazione della pratica religiosa. La chiesa tradizionale poteva divenire il tempio dell’anima, nella misu- Storia dell’arte Einaudi 236 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze ra in cui la fede cristiana conteneva l’essenziale di una religione dello Spirito puro. Non è un caso che queste preoccupazioni vengano a coincidere con il ritorno alla pianta centrale, che era stata una delle forme tipiche della bassa antichità prima di divenire il tipo canonico di chiesa dell’Impero bizantino44. Che esso trionfi tardi in Occidente è un fatto degno di nota nella storia dell’architettura; né meno sorprendente è che la sua resurrezione si verifichi in Italia proprio alla fine del Quattrocento. Prima del 1480 le composizioni a pianta centrale sono un’eccezione, tranne che per alcuni battisteri e sacrestie. Tra il 1480 e il 1520 si moltiplicano nelle province in cui l’architettura conosce una evoluzione originale: Toscana, Lombardia, Roma e il territorio circostante45. Ora l’architettura che si forma a quel tempo in Toscana e che si realizzerà appieno a Roma, non si lega ad alcuna innovazione tecnica; essa non può essere spiegata che con gli orientamenti dell’intelligenza e del gusto, cioè con l’evoluzione della cultura. Tre serie di considerazioni giocavano a favore della pianta centrale: il valore simbolico annesso alla forma circolare, il gran numero di speculazioni geometriche provocate dallo studio dei volumi in cui venivano a combinarsi sfera e cubo, il prestigio degli esempi storici46. Già nell’Alberti è notevole l’importanza accordata alle forme circolari: delle cose che ci produce la natura chiaramente si vede come essa preferisca la forma rotonda, giacché tali vediamo le sue costruzioni come il globo terrestre, le stelle. La predilezione della natura non fa che confermare una disposizione antica: la cupola è tradizionalmente la forma analogica del cielo47. Non basta dire che la figura circolare occupa un posto privilegiato. Nel Ficino, ad esempio, essa appare come un simbolo completo, a molte facce, che rappresenta sia un «geroglifico» filosofico (Dio «cerchio spirituale, la cui cir- Storia dell’arte Einaudi 237 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze conferenza è dovunque e il centro in nessun luogo»), sia la forma madre dell’Universo concreto («prima et ultima figurarum»). L’insistenza sul principio circolare, concepito tanto come un simbolo metafisico che come una regola matematica, corrisponde a tutti gli aspetti della fantasia e della dottrina48. Da tempo edifici di tipo centrale apparivano nelle scene figurate dell’arte sacra: verso il 1450 Giovanni di Paolo colloca la sua Presentazione al Tempio sotto un padiglione ottagonale sostenuto da minute colonne49. Tuttavia gli edifici rotondi sono di regola associati al ricordo del mondo antico. La scena della storia di Giuseppe che si vede nella terza porta del Battistero viene dal Ghiberti immaginata davanti ad un grande edificio circolare, probabilmente ispirato a Santo Stefano Rotondo di Roma, la chiesa tonda del Celio che era considerata volta volta come il Tempio del Fauno o il Macellum Magnum di Nerone50. Il «colore storico» viene a tingersi di un’allusione al «paganesimo» nel tempietto circolare (evidentemente il tempio dell’amore) sostenuto da sei colonne e ornato di un fregio «bacchico», sotto il quale si svolge, nella Cronaca illustrata del Finiguerra, il Ratto di Elena51. Il riferimento si precisa nella lunga descrizione del tempio di Venere Physizoe che si trova nel Sogno di Polifilo, in cui il simbolismo della Natura si fa esplicito, con l’associarsi dei temi cosmici e della decorazione «bacchica»52. Si tratta chiaramente di un simbolo del paganesimo nel caso del tempio di Diana in Efeso, rotonda a cupola sormontata da una mezzaluna, che Filippino introduce nella sua Resurrezione di Drusiana in Santa Maria Novella53. Le vedute di città dipinte alla fine del Quattrocento dimostrano che si era sensibili al valore di questo tipo di edificio nel complesso di una prospettiva architettonica: in questo gruppo d’opere si trovano per la prima volta edifici indipendenti a pianta ottagonale, inseriti in un panorama moderno e presentati come modelli. La croce che li Storia dell’arte Einaudi 238 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze sovrasta nelle tavole di Urbino e di Baltimora non lascia alcun dubbio sul loro significato: nella città ideale essi rappresentano la chiesa nuova, il tempio ideale54. Degna di nota è la loro articolazione geometrica; il loro rivestimento policromo richiama la decorazione del Battistero fiorentino; tuttavia la loro struttura è piú semplice e moderna, per cui si deve metterli in rapporto con la voga che intorno al 1490 conosce, presso gli architetti, l’unico edificio a pianta centrale della prima metà del secolo, cioè la rotonda non finita di Santa Maria degli Angeli opera del Brunelleschi. Come Santo Spirito, di cui il Brunelleschi aveva lasciato solo il progetto, l’edificio ottagonale (progettato dopo il 1434) destinato al convento dei Camaldolesi di Firenze, era stato interrotto alla morte dell’architetto (1446). La costruzione non era stata ripresa al tempo del Magnifico e l’opera, di cui si era appena costruito il basamento, fu incorporata piú tardi in un insieme che ne mutò completamente la fisionomia55. La struttura originaria è nota soprattutto attraverso un disegno della raccolta di Giuliano da Sangallo (fol. 15 v): una pianta precisa e accompagnata da misure, affiancata anche da un elemento dell’alzato ha permesso di ricostruire la struttura generale dell’edificio: un grande spazio centrale che si dilata in otto absidiole radiali che formano altrettante cappelle a doppia abside, tranne quella che si apre su una sorta di nartece quadrato. All’esterno c’erano nicchie che assicuravano alla chiesa un’articolazione plastica altrettanto forte del gioco dei pilastri all’interno. Questa invenzione, del tutto eccezionale intorno al 1440, era la conclusione delle ricerche iniziate con la sacrestia di San Lorenzo e la cappella Pazzi; in essa veniva ad essere isolato il motivo monumentale della pianta centrale su base circolare ed anulare. È indubbio che i priori dei Camaldolesi che adottarono questa concezione rivoluzionaria erano di idee «moder- Storia dell’arte Einaudi 239 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze ne». Il convento dei Camaldolesi era a Firenze, agli inizi dell’insegnamento del Ficino, il centro principale dell’Accademia platonica56. La pianta di Santa Maria degli Angeli fu disegnata da Giuliano da Sangallo, nel suo Libro prima del 148857. Molto verosimilmente fu alla fine del 1492, all’epoca del viaggio di Giuliano a Milano, che Leonardo la copiò, insieme con la pianta originale di Santo Spirito, anch’essa tratta dalla raccolta dell’amico58; la composizione brunelleschiana serví a quel tempo a stimolare le ricerche di Leonardo sul tema della pianta centrale. Altri disegni contemporanei, senza precisa attribuzione, attestano la voga del motivo fino al Cinquecento59. La composizione brunelleschiana, che indubbiamente derivava sia dal Battistero di Firenze che da certi precedenti romani come il tempio di Minerva medica60, combinava, intorno a un grande volume centrale sormontato da una cupola a otto spicchi, un tipo radiale centripeto e un tipo anulare centrifugo. Gli otto alveoli sono come piccole edicole distinte disposte secondo assi a 45° sulle otto facce dell’ottagono; ma sono comunicanti tra di loro e il movimento dei loro archi laterali potrebbe convenire anche a un deambulatorio circolare. In realtà c’era la possibilità di insistere sia sull’unità dello spazio centrale sia sulla molteplicità dei nuclei spaziali gravitanti intorno ad esso. Erano quindi possibili due sviluppi diversi. Il modo migliore per accentuare l’unità è di inscrivere la forma circolare in un quadrato (o in una croce greca), cioè collocando la cupola su un cubo che puó essere sostenuto da segmenti di volta a pieno sesto. All’opposto, se ne può ricavare un sistema complesso elevando cupole secondarie agli angoli del quadrato o all’estremità degli assi, spesso in entrambe le posizioni, in modo da creare tutta una corona di nuclei spaziali: è ciò che interessa a Leonardo nelle note del manoscritto B (Institut de France). Questo manoscrit- Storia dell’arte Einaudi 240 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze to risale al periodo 1485-95, nel quale si moltiplicano le indagini sul tema della pianta centrale. Queste hanno rappresentato un contributo decisivo per arrivare a concepire l’architettura come uno spazio interno ben articolato, e all’esterno, come un corpo geometrico nettamente cristallizzato61. Le composizioni di Leonardo risentono dei modelli toscani, di cui intensificano decisamente le possibilità «plastiche»62. Una riflessione metodica sulla pianta propriamente circolare (con deambulatorio anulare) e sulla sua combinazione col quadrato si vede in una raccolta manoscritta di Francesco di Giorgio annotata da Leonardo63. È dunque certo che le ricerche contemporanee di Francesco di Giorgio, di Bramante, di Leonardo e del Sangallo non sono state indipendenti le une dall’altre. I contatti tra di loro sono stati troppo numerosi sia prima che dopo le commissioni di Milano e di Pavia, dove si sono trovati periodicamente raccolti nel 1490 e nel 1492. I loro interessi sono comuni e li vediamo affaticarsi negli stessi anni intorno a un principio architettonico nuovo, che è strettamente legato allo svolgersi stesso della cultura. Infatti un’altra novità dell’epoca è costituita dalla comparsa delle raccolte di documentazione architettonica. I fascicoli di piante e di alzati si moltiplicano tra il 1470 e il 1520. Colui che ne ha avuto la prima idea e che ha portato piú a fondo la ricerca è Giuliano da Sangallo; il suo album, il Codice Barb. 4424, iniziato nel 1465 a Roma, è stato continuato per mezzo secolo64. Tuttavia non è nemmeno trascurabile la parte avuta da Francesco di Giorgio; egli infatti ha moltiplicato le ricostruzioni di monumenti complessi, come terme, basiliche, con una spiccata tendenza a reinventare i tracciati secondo le sue concezioni personali65. Le opere dei moderni, tranne quelle del Brunelleschi, hanno poco rilievo in queste raccolte rispetto alle rilevazioni di opere Storia dell’arte Einaudi 241 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze antiche; fra queste la parte che viene attribuita agli edifici a pianta centrale è considerevole. Cosí Francesco di Giorgio immagina sulla base dei resti romani, «in parte ruinati», dei «tempietti» con portico circolare, incorporati o meno in edifici piú vasti, e degli ottagoni con absidiole che richiamano Santa Maria degli Angeli. Nello stesso manoscritto troviamo la pianta e l’interno di Santa Costanza66. I quaderni del Sangallo contengono rilievi piú sviluppati con notazioni circa l’aspetto della muratura e a volte l’indicazione delle parti in rovina; la forma e piú sostenuta e, nel trasformarsi del suo disegno, notiamo uno sforzo metodico per migliorare e rendere piú precisa la presentazione degli edifici67. Il suo repertorio è molto vasto: vi sono serie di archi di trionfo, ma anche, in pianta, in alzato, a volte in sezione, i templi rotondi di Tivoli o di Capua; lo schema completo di Santa Sofia di Costantinopoli è stato rilevato dalle note di Ciriaco d’Ancona68. Le fonti romane sono completate mediante riferimenti all’architettura paleocristiana. Una pianta di San Lorenzo di Milano si vede nel Taccuino di Siena (fol. 18), e contemporaneamente in numerosi schizzi di Leonardo (ms b fol. 35 r; Cod. Atl. fol. 7 v-b ecc.)69. Tutto cosí concorreva a giustificare la chiesa a pianta centrale come tipo superiore d’architettura moderna, il tipo piú vicino, insomma, all’ideale umanistico. Ma se non si voleva rompere in modo troppo brusco con la pratica tradizionale che in Occidente ignorava la chiesa a pianta centrale (tranne che per gli annessi: battistero o sacrestia), diventava una tentazione riservare questa forma strutturale al coro. Lo si «solennizzava» senza rinunciare alla navata. Il Brunelleschi aveva insomma dato l’esempio di questa combinazione a Santo Spirito, dove il coro consta delle tre braccia di una croce greca. È forse per reazione a questa sintesi troppo perfetta che Michelozzo immaginò la rotonda della SS. Annunziata, Storia dell’arte Einaudi 242 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze la quale isola il piú possibile la cappella assiale70. Il problema non cessò di affaticare Francesco di Giorgio, il quale moltiplicò gli studi di piante «composite»71. Questa situazione spiega l’importanza delle due composizioni del Sangallo nelle quali arriva a definirsi la «liberazione» della pianta centrale: la chiesa di Prato con pianta a croce greca e la sacrestia di Santo Spirito a pianta ottagonale con atrio d’ingresso messo per largo. La chiesa delle Carceri fu progettata nel 1484, a croce greca perfetta; la lanterna fu montata nel 1492, il rivestimento esterno venne interrotto nel 150672. Questa croce semplice presenta una chiarezza che non aveva il progetto albertiano per il San Sebastiano di Mantova (cominciato nel 1460, complicato da un atrio per il quale si ebbero esitazioni nel 1470 e che fu purtroppo portato a termine nel 1499)73. L’articolazione dei pilastri e delle trabeazioni richiama la sacrestia di San Lorenzo; l’effetto però e piú solenne ancora; la cupola domina con leggerezza lo spazio chiaro, aereo, svolto con un ritmo calmo. La sacrestia ottagonale di Santo Spirito fu iniziata alla fine del 1489, coperta nel 1495-96 dal Cronaca con una cupola che differisce leggermente da quella prevista da Giuliano «nella forma di Sangiovanni», cioè secondo il modello del Battistero. Il vestibolo, al quale deve aver collaborato Andrea Sansovino, risulta parzialmente costruito già nel 1493, ma non ancora coperto. Che sia stato progettato da Giuliano è indubbio: la sua struttura è perfettamente analoga a quella del portico della villa di Poggio a Caiano74. Se la chiesa di Prato definiva un tipo di santuario perfetto a croce greca, gli annessi di Santo Spirito venivano ad unire una grande cupola montata su un ottagono a un atrio, secondo una disposizione comune ai modelli paleocristiani: Santa Costanza a Roma, San Lorenzo a Milano, San Vitale di Ravenna75. Questa soluzione non passò inavvertita e infatti fu ripresa nella Madonna dell’Umiltà a Pistoia. Storia dell’arte Einaudi 243 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Ventura Vitoni non ne è stato, come si è a lungo creduto, l’unico autore, dato che Giuliano presentava un modello nel 1492 e suo fratello Antonio interveniva nel cantiere nel 149576. Questi grandi spazi accentrati venivano a continuare insomma l’ideale della cupola brunelleschiana, con membrature vigorose che assicuravano un’energia maggiore ai supporti e attiravano la massa. In questo stesso spirito Giuliano aveva concepito la piccola cappella tonda con nicchie semicircolari nel convento di Santa Maria Maddalena dei Pazzi: i lavori, finanziati da Bartolomeo Scala, furono interrotti alla sua morte, avvenuta nel 1497, e la cappella fu in seguito sfigurata77. Nell’Italia del Nord le chiese contemporanee come Santa Maria dei Miracoli a Brescia o San Giovanni Crisostomo a Venezia (1497) rappresentano delle variazioni sul tipo bizantino della chiesa a cupola che ha il suo paradigma in San Marco. Solo l’Incoronata di Lodi (1488)78 e Santa Maria della Croce a Crema (1492), che la segue da vicino, dimostrano un marcato interesse per la dilatazione dello spazio interno e la sua unificazione. È stato possibile richiamarsi al San Lorenzo di Milano, ma senza tener conto dell’organizzazione corrispondente dei volumi esterni. L’ambiente milanese era profondamente interessato al problema e la serie di chiese costruite dalla cerchia di Battagio dimostra che questo problema continuava ad esser posto negli schemi delle tradizioni lombarde. Bramante stesso, che deve esserne stato qui l’iniziatore, non se ne allontana nella sacrestia di Santa Maria presso San Satiro e nella tribuna di Santa Maria delle Grazie, nelle quali ricerca, nella prima la precisione delle forme e nella seconda un’ampiezza insolita dello spazio. La suggestione del tempietto di San Pietro in Montorio, una rotonda di martyrium, che ancora risente dei tipi antichi studiati già da vent’anni dal Sangallo e da Storia dell’arte Einaudi 244 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Francesco di Giorgio, non deve indurci ad attribuire a Bramante una specie di priorità nel ritorno alla pianta centrale. L’interesse per questo tipo si palesa in lui in seguito alle influenze toscane79. Lungo tempo è stato necessario perché il nuovo San Pietro arrivasse ad una sua definizione: nei molti studi e progetti elaborati per esso si vedono convergere tutte le ricerche dell’epoca. Se la grande concezione monumentale è propria di Bramante, l’idea di moltiplicare intorno allo spazio centrale numerosi spazi secondari viene da Leonardo e il rigore della pianta a croce greca deriva dal Sangallo, che ne aveva dimostrato tutto il valore80. È d’altronde possibile che Bramante stesso abbia esitato, come avrebbero poi fatto i suoi successori, tra pianta centrale integrale e una pianta basilicale in cui il coro sporgente sarebbe stato organizzato in un blocco coerente. La cerimonia del 18 aprile 1506 non sta necessariamente a dimostrare una decisione già presa a favore della pianta centrale81. Ma non dimentichiamo che in fin dei conti la nuova basilica e stata definita anzitutto dai grandi archi del transetto e cominciata dalla cupola. Agli inizi del Cinquecento non si concepiva monumento eccezionale senza cupola e la composizione doveva organizzarsi in funzione di questa. Il programma «umanistico» si vede, proprio nello stesso momento, realizzato in modo superbo nella Consolazione di Todi, di cui è forse necessario attribuire l’idea a Bramante82, e, un po’ piú tardi, nell’ammirevole San Biagio di Montepulciano, capolavoro d’Antonio da Sangallo83. Storia dell’arte Einaudi 245 Capitolo secondo La villa Al pari del Petrarca, dello stesso Lorenzo, del Poliziano, il Ficino amava la campagna toscana e le passeggiate per le colline: vi vedeva un rimedio contro la malinconia, uno stimolante unico per la salute e la meditazione; egli raccomanda questo esercizio nel suo trattato destinato agli intellettuali84. Ci sono stati nella sua cerchia abbastanza poeti bucolici, egli stesso ha analizzato con sufficiente finezza l’incanto dei paesaggi perché si possa parlare della moda pastorale di Careggi. Questa moda risulta interessante sia per la poesia che per la pittura; la sua continuazione diretta è costituita dalla Arcadia del Sannazzaro85. Si tratta di una natura senza nulla di selvaggio, piena di forze mitiche e di divinità: la bellezza dei fiori e lo stesso silenzio sono delle muse; oracoli, manifestazioni meravigliose risuonano dovunque nel cielo. La vista degli animali, l’animazione dell’aria, il mormorio delle fonti e delle fronde sembra nascondessero in sé, per questi spiriti sensibili e nutriti di mitologia, una freschezza augurale, una grazia pronta a tradursi in figure allegoriche. Nel paesaggio entrano ben presto statue, altari, simboli che richiamano le forze attraverso le quali l’uomo prolunga e arricchisce il mondo della natura. Il sentimento poetico non esclude, allorché si tratta di scegliere una residenza, preoccupazioni precise circa l’orientamento, l’altitudine, l’esposizione e perfino l’«aura» religiosa dei luoghi. Proprio Storia dell’arte Einaudi 246 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze questo ci è testimoniato da una curiosa lettera del Ficino che tratta della casa ideale. Il filosofo racconta che un giorno passeggiando con Giovanni Pico sulle pendici di Fiesole guardavano con ammirazione il panorama di Firenze: Ci fingevamo in quel colle una habitatione appresso le radici del monte di Fiesole per fuggire e quella caligine e’l vento, né però la volevamo ne la valle al tutto porre accioche nel tempo de la state maggiore aura sentisse. Desideravamo anchora che ella fusse tra i terreni lavorati e le selve parimente posta, e d’ogn’intorno di fonti abbondante, e che al mezo di e ad oriente fusse volta. Il che Aristotile quando de la famigliar cura disputa negli edificii doversi fare comanda. E cosí andando, mentre che tai cose ci fingevamo, subito ne vedemmo alcune cosí fatte, qui gridando il Pico: «Non ti pare Ficino, disse, che hora vediamo quello che ci immaginavamo, e desideravamo? Il che ogni giorno a quelli che sognano intervenir suole. E forse che quella forma che con la mente componevamo, hora tale con la potenza de l’immaginazione facciamo, o pure qualche prudente huomo l’ha edificata, nel modo che la buona e fisica ragione ne ricerca». All’ora io, «Pico mio», gli dissi, «questa villa si dice haver edificata quel sapientissimo huomo Leonardo Aretino, et appresso a questa come voi vedete si dice che habitò Giovanni Boccaccio. Questa di poi il nostro cittadino Pierfilippo Pandolfini si ha eletta per habitazione». «O felice lui», disse il Pico, «al quale de le pubbliche faccende partendosi avenne che in una sacrata chiesa habitar potesse, et ho detto chiesa, perché ella è posta appresso a questa sacrata selva, e gli sono intorno queste venti chiese di santi. Tale che questo luogo è sacrato, e attissimo a li oracoli: e però bene Pandolfino si può dire costui, perché questo cognome, se secondo il Greco lo vogliamo interpretare, significa uno che sia tutto Delfico». Queste cose allhora Valor mio furno tra noi dette et appro- Storia dell’arte Einaudi 247 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze vate, e le medesime al nostro amico ridirete, accioché questi si salutiferi luoghi che dal cielo gli sono stati concessi, per l’avvenire piú volentieri e piú spesso habiti. A lí 27 d’ottobre 148986. Si tratta dunque di una casa vista durante una passeggiata sulle pendici di Fiesole: ed è descritta come una «apparizione» perché realizza alla perfezione il tipo ideale, in quanto riparata verso nord, ai margini di un bel bosco, circondata di fonti, infine «edificata nel modo che la buona e fisica ragione ne ricerca», cioè inserendo una forma opportuna in un ambiente naturale ben scelto. L’Alberti nel suo trattato Della Famiglia aveva dato una descrizione suggestiva dei piaceri della campagna, «un proprio paradiso», e nel suo trattato (IX, 2), la cui pubblicazione era allora recentissima, aveva fissato i «principî fisici», cioè geografici, della casa ideale, posta su un luogo un po’ alto, in un ambiente di campi e foreste, esposta al sole di cui riceve la festosa luce («hilaritas ac nitor»)87. Di tutto questo si avverte il ricordo nella lettera del filosofo. La conclusione della lettera è ancora piú caratteristica dello spirito di Careggi: è necessario che questo luogo suggestivo sia dichiarato «sacro»; in quanto propizio agli oracoli, permette un’allusione scherzosa alla villa vicina dei Pandolfini88. Secondo una tradizione già antica sorgeva lí accanto la dimora del Boccaccio (la villa del Decameron) e una piú recente, quella di Leonardo Bruni, il saggio d’Arezzo, che forse non era se non una modesta casupola, nobilitata dal ricordo della breve permanenza del cancelliere alla propositura di Fiesole89. Gli umanisti fiorentini non mancavano di ville conformi ai loro sogni. L’avvento dell’Accademia coincide con il dono di Cosimo a Ficino, nel 1462, della piccola casa, «Academiola», vicino a Careggi. Si trattava senza dubbio di una dimora modesta, ma ai piedi delle Storia dell’arte Einaudi 248 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze rocce, in mezzo a sorgenti e con un panorama eccezionale su Firenze. Nulla si sa della sua sistemazione e quasi nulla della sua decorazione90. A Fiesole la villa costruita da Michelozzo e completamente trasformata nei secoli successivi, era cara soprattutto al Poliziano. Egli ricorda nel suo Rusticus (1483): rusculum hoc Faesulanum e vi soggiornerà spesso con Pico intorno al 1490. È presso di loro che Lorenzo sognava di ritirarsi, se dobbiamo credere a una lettera del 1492. Il Ficino veniva da Careggi per vedere Pico e la lettera dell’autunno 1488 è l’eco delle loro passeggiate91. Secondo il Vasari, infine, la villa di Poggio a Caiano, alla cui costruzione Lorenzo teneva molto, è anche un luogo di soggiorno in cui gli umanisti avevano un loro posto, una dimora dell’otium philosophicum92. Questi esempi consentono di valutare in quale misura la villa fiorentina della fine del secolo s’ispiri ai loro principî e giustifichi i loro commenti. Stando alle indicazioni dell’Alberti, la preoccupazione di una felice ubicazione geografica e soprattutto la vicinanza del giardino, sembrano aver avuto maggiore importanza che non le regole architettoniche. Il rapporto tra la casa e l’ambiente immediato è un po’ quello che corre tra la figura e il paesaggio nei quadri. La massa della casa spicca su un fondo di natura che non è utilizzato come invece avverrà piú tardi, nel Cinquecento, per fughe prospettiche, giochi d’acqua e sistemazioni complesse. Basta alla villa una zona piana per il giardino, il fondale a bosco e un terreno a terrazze93. Il giardino aveva assunto molto presto un’importanza fondamentale94, come lo dimostra soprattutto la prima grande villa medicea, quella di Careggi95. Michelozzo aveva portato a termine il rifacimento della residenza Storia dell’arte Einaudi 249 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze gotica acquistata da Cosimo intorno al 1435-40: l’aveva semplificata, aveva creato una facciata sul retro, aperto delle finestre piú armoniche. Nel 1459 la villa era perfettamente in ordine; Pio II e Galeazzo Maria Sforza la visitarono trovandola una delle piú belle case d’Italia, soprattutto per la piacevolezza del giardino e la qualità dell’arredamento96. Verso il 1490 una graziosa loggia ionica, inizialmente su archi aperti, fu aggiunta sul fianco ovest della villa97. Fu soprattutto ai giardini che Lorenzo dedicò ogni sua cura: ne fece, nonostante le piccole dimensioni, una sorta di parco botanico celebre in tutta Italia. Un’epistola in versi latini indirizzata (intorno al 1480) al Bembo da un amico dei Medici, Alessandro Braccesi, la paragona ai giardini meravigliosi del mondo antico e ne enumera con precisione le piante, dal pallido olivo sacro a Minerva guerriera, al mirto sacro a Venere, alla quercia sacra a Giove, al pioppo, al platano, l’abano e il pino, fino alle spezie, il pepe, il balsamo, il basilico, alle piante aromatiche, la mirra, l’incenso, e i vegetali utili e ai fiori, le viole, le rose e i gelsomini. È la collezione botanica che vediamo nella Primavera, dove è stata identificata una scelta di piante appropriate al mito ma verosimilmente derivate dalle aiuole di Careggi. Questo giardino è anche l’origine delle speculazioni del Ficino sulle proprietà mediche delle piante che costituiscono l’argomento del suo trattato De vita: «Io ho composto, – scrive, – un libro Fisico de la vita tra la primavera e la state, e tra i fiori, ne la villa di Careggio»98. La casetta de l’Academia sorgeva difatti a breve distanza, sul poggio vicino. Poggio a Caiano. Quando intorno al 1480, sotto la personale direzione di Lorenzo, si comincia a costruire il complesso di Storia dell’arte Einaudi 250 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Poggio a Caiano, si tratta di una vera e propria ricreazione della villa toscana: il rapporto tra villa e parco, l’ordinamento generale, l’architettura, la decorazione interna sono rinnovati e definiti nello spirito della villa ideale. Questa bella dimora posta sotto l’egida della ninfa Ambra, a 17 chilometri da Firenze, sulla strada di Pistoia, è la piú celebre fra le residenze di Lorenzo. Era come ricorda il suo biografo lo specchio stesso del suo gusto che si vedeva «a Poggio a Caiano, dove resuscitava la magnificenza di un tempo e di cui il Poliziano ha tessuto in un poema un incantevole elogio»99. Lorenzo ha voluto fare del Poggio una dimora all’antica, una villa modello, una sorta di poema De re rustica e nello stesso tempo il luogo ideale dell’otium nella natura sognato dagli umanisti. La proprietà fu acquistata nel 1479 dai Rucellai; forse gia dal 1480, piú verosimilmente nel 1485-86, cominciarono grandi lavori che furono affidati a Giuliano da Sangallo dopo una specie di concorso. Nessun progetto aveva soddisfatto Lorenzo, quando il Sangallo elaborò un progetto cosí originale e soprattutto cosí conforme al gusto del principe («suo capriccio») che questi si decise improvvisamente a farlo eseguire100. Anziché di un rifacimento, come era avvenuto a Careggi, a Cafaggiolo e nelle altre ville della famiglia, si tratta qui di una creazione originale, che risponde al gusto dell’epoca laurenziana esattamente allo stesso modo che gli edifici di Michelozzo avevano corrisposto al gusto dell’epoca anteriore. Tuttavia i lavori non erano ancora finiti nel 1492. Il Guicciardini lo conferma dicendo che Lorenzo comandò a Poggio a Caiano un edificio superbo che la morte gli impedi di portare a termine. Fino all’altezza della terrazza e del portico l’edificio era stato innalzato; ma fu Leone X a far costruire il piano superiore101. Il Poggio è una leggera elevazione in cima alla quale è costruita la villa; a nord si estende un parco per siste- Storia dell’arte Einaudi 251 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze mare il quale fu necessario deviare il corso dell’Ombrone. La sommità fu trasformata in un terrapieno chiuso da quattro costruzioni angolari lungo le quali si stendevano, e tuttora si stendono, ad est dei giardini, ad ovest dei verzieri di una disposizione notevolmente studiata, lungo la strada di Pistoia. Tutt’intorno corre una muraglia, unico vestigio «feudale»102. Una veduta dell’Utens del Seicento ci fornisce lo schema d’insieme e ci mostra che ben pochi cambiamenti sono nel frattempo intervenuti: l’unico è il fatto che il terrapieno centrale era separato in modo piú netto rispetto al resto. Attualmente l’accesso ai giardini e al parco e piú agevole. La villa s’innalza al centro di un piazzale adorno su tre lati di aiuole e in leggero pendio sul davanti. La pianta non è l’aspetto che anzitutto colpisca. Come si presentano allo spettatore, le fabbriche offrono tre elementi caratteristici: il pianterreno, il blocco centrale, il portico. Formando una specie di basamento corre al pianterreno una galleria aperta ad archi su pilastri di cotto, rinforzata agli angoli da due grossi pilastri. Questa galleria e la terrazza che la sovrasta circondano completamente la villa, costruita su una pianta quadrata. Una balaustra di gusto donatelliano isola in modo netto questo motivo decorativo abbastanza austero nel quale la muratura minuta e gli archi nudi sembrano un ricordo lontano dei basamenti a bugne dei palazzi fiorentini. Al centro della facciata anteriore un avancorpo a tre aperture ineguali sosteneva una scala a rampe diritte che ancora si vede nel quadro dell’Utens e nei disegni originali del Sangallo103: una nuova sistemazione dell’entrata è venuta a sostituire, nel Seicento, a questa scala le due rampe curve e i tre grandi archi separati da nicchie e decorati pesantemente che si vedono attualmente. Questo ampliamento ha ridotto da cinque a quattro il numero degli archi che al pianterreno corrono da entrambi i lati di questo avancorpo, il quale tradisce la Storia dell’arte Einaudi 252 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze semplicità del progetto iniziale. La villa propriamente detta è coronata senza l’intermediario di un cornicione, da un tetto all’italiana molto abbassato, cosa che toglie all’insieme, nonostante la sua vastità e la sua imponenza ogni pretesa di palazzo. Le finestre a riquadri, accuratamente disegnate dal Sangallo, sono state sostituite da finestre moderne, ma la loro ubicazione non è stata mutata. L’insieme determinato dalla base, il rettangolo della facciata e il portico, ubbidisce a una trama di rapporti geometrici che si può facilmente mettere in evidenza attraverso uno schema. Al centro del complesso, esattamente al di sopra dell’avancorpo delle scale, che serve da stilobate, in una posizione calcolata con esattezza, è inserito il motivo nuovo del portico: i suoi cinque intercolumni scandiscono esattamente, nel rettangolo centrale della facciata, un ritmo netto ed elegante104. Un fregio continuo corre al di sopra dei capitelli: il frontone aggravato da un medaglione mediceo fa purtroppo sentire sull’insieme la solennità del Cinquecento. Tranne forse questo particolare, si tratta dell’ordinamento generale previsto dai disegni del Sangallo. Il portico si presenta come una sorta di pronao, che però non sporge; esso penetra nell’edificio come un vestibolo aperto. La sua volta a botte trasversale costituisce una delle innovazioni piú interessanti del Sangallo. Il blocco molto sobrio dell’insieme e l’ampio basamento possono richiamare l’arte di Michelozzo. La balaustra e le incorniciature primitive delle finestre hanno un vigore decorativo donatelliano. Le colonne un po’ fragili del portico spiccano sull’ombra con un’eleganza che può essere un ricordo di certi temi brunelleschiani. Ciò nonostante l’intenzione «ellenistica», la novità colta sono manifeste. Per la prima volta una facciata di tempio greco viene ricostruita ed adattata all’architettura civile. Giuliano da Sangallo ha creato qui il Storia dell’arte Einaudi 253 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze tema del portico d’ingresso innestato su un volume semplice: sessant’anni prima del Palladio, egli anticipa con geniale autorità la forma classica della villa rinascimentale105. L’interno è distribuito in modo non meno notevole: la pianta quadrata, divisa in modo estremamente regolare, crea al centro della casa, parallelamente alla facciata, una sala rettangolare di dimensioni monumentali, illuminata da «oculi» e finestre, grazie a una doppia rientranza sui lati106. Questa sala rappresentò l’occasione per ricerche tecniche audaci: essendosi deciso di coprirla, nonostante la sua ampiezza, con una volta a botte a pieno sesto e a lacunari, secondo la maniera «antica», il Sangallo dovette preliminarmente sperimentare il procedimento in una casa che stava costruendosi a quell’epoca a Firenze107. Questa pianta simmetrica in cui le sale dipendono l’una dall’altra era allora una grande novità: Giuliano l’ha ripresa nel suo progetto per il palazzo del re di Napoli e Francesco di Giorgio l’ha studiata108. Questa grande sala non fu portata a compimento, come dimostrano gli emblemi araldici che la ornano, se non all’epoca di Leone X, cioè intorno al 1520. Essa tuttavia non rappresenta se non la ripresa e, per cosí dire, l’amplificazione all’interno della casa, del portico della facciata, anche questo coperto con una volta a botte a lacunari «antichi». È d’altronde anche la soluzione che il Sangallo impiegherà ancora nel 148990 nel vestibolo della sacrestia di Santo Spirito, che rappresenta una sorta di corrispettivo «sacro» del portico profano di Poggio, e sempre alla stessa epoca nel portico del cortile che orna il palazzetto di Bartolomeo Scala109. Le tre opere sono legate da questo particolare tecnico. I lacunari sono trattati allo stesso modo: un medaglione centrale e quattro spazi angolari, pronti a ricevere motivi figurati o araldici. Un grande programma decorativo completava la Storia dell’arte Einaudi 254 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze struttura architettonica di Poggio a Caiano: il fregio del portico recava e reca ancora una serie di scene allegoriche in terracotta invetriata in azzurro e bianco, al modo robbiano: la loro bella esecuzione neoclassica pone il problema della collaborazione con l’architetto di un artigiano di qualità, probabilmente il Sansovino110. Il soggetto del fregio, assolutamente originale, verrà studiato a sé. Le pareti laterali dell’atrio dovevano essere coperte di dipinti; ma il muro di sinistra è vuoto e sul muro di destra un affresco non terminato arriva fino a mezza altezza. Entro strane architetture «pompeiane» si vedono ancora alcuni profili di figure tracciati sull’intonaco. Era un’opera di Filippino Lippi come ci dice il Vasari: «Al Poggio a Caiano cominciò per Lorenzo de’ Medici un sacrifizio, a fresco, in una loggia, che rimase imperfetto» molto verosimilmente prima del 1492111. Sulle pareti del salone, forate dagli «oculi», sotto l’arco a pieno sesto, era verosimilmente prevista una decorazione dello stesso tipo, ma queste pareti furono affrescate nel corso del Cinquecento secondo una concezione nuova. Per poco dunque Poggio a Caiano, con il suo parco, la sua architettura, le sue decorazioni, non divenne, alla fine del Quattrocento, l’insieme piú completo e piú «moderno» non solo dell’arte toscana, ma di tutta quanta l’arte italiana. L’edificio è di gusto albertiano: le divisioni armoniche dominano la pianta e la facciata, la quale produce una forte impressione di forza, di calma e di gravità. L’ingresso col suo tema templare inserisce un elemento elegante in questo insieme robusto. Tutto s’ispira alla celebrazione della vita rustica: nell’intenzione di Lorenzo e del Sangallo si trattava evidentemente di una villa e non di un castello. I primi scritti che riguardano Poggio a Caiano, cioè il lungo epigramma di Ugolino Verino (1491) e il poema latino del Poliziano che si conclude con un elogio di Lorenzo e la sua bella proprietà, insi- Storia dell’arte Einaudi 255 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze stono per l’appunto sulle culture agricole; prima ancora di citare la villa, essi celebrano gli allevamenti, i vivai, gli orti modello, gli alveari che il Signore di Poggio aveva raccolto sotto il segno della ninfa del luogo, Ambra112. Lorenzo stesso aveva celebrato in una sorta di egloga la favola di Ambra inseguita dal torrente Ombrone e trasformata in pietra: questo delizioso poema era come il mito di Poggio a Caiano, luogo posto sotto il segno delle ninfe: il suo «precettore» umanistico era il Poliziano, piuttosto che il Ficino. È l’aspetto poetico e «naturalistico» dell’Accademia che domina nella concezione e nella decorazione di questo Trianon fiorentino. Il fregio dell’atrio ionico, il cui insieme costituisce una sorta di celebrazione religiosa dei ritmi della natura, presenta su uno dei riquadri l’immagine delle stagioni che regolano i lavori campestri e in particolare quelli della vigna e del grano. Quando Giovanni de’ Medici, divenuto papa nel 1513, si preoccupò di portare a termine l’opera del padre, fece voltare il salone. Ottaviano de’ Medici fu incaricato di dirigere i lavori: inoltre Paolo Giovio in persona, amico di Leone X, definí il programma dei grandi affreschi storici che dovevano rievocare, sul modello della stanza di Eliodoro, gli avvenimenti della storia romana che prefiguravano quelli dei Medici. Tuttavia l’esecuzione andò molto per le lunghe113. La decorazione delle lunette laterali era stata affidata al Pontormo. Nel 1521 quella orientale era compiuta. Si tratta di una serie mirabile di figure rustiche, contadini, contadine e fanciulli, nei quali il Vasari ha voluto ritrovare la favola di Vertumno e Pomona e nella quale si può vedere, piú semplicemente, un’evocazione della vita dei campi, forse una variazione sul tema delle stagioni e delle età114. La serie ispirata da Paolo Giovio è di spirito «cinquecentesco», ma è lecito chiedersi se la lunetta del Pontormo, d’ispirazione cosí diversa, non sia un Storia dell’arte Einaudi 256 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze resto del vecchio programma iniziato coi temi del fregio esterno e interrotto nel 1492: si comprende male questa evocazione campestre nel complesso pomposo immaginato per Leone X. In realtà la lunetta orientale è l’unica che sia stata eseguita; quella occidentale, un secolo dopo l’esecuzione del fregio dell’atrio, fu dedicata ad una allegoria pesante: Fortuna et Virtus accompagnate da Fama, Gloria et Honor, ed è un soggetto che la lega con le vicende della storia romana effigiate sulle pareti. S’ignora anche quali simboli fossero stati previsti nel portico d’ingresso. Sulla parete orientale sopravvive, come abbiamo visto, il frammento del «sacrificio» menzionato dal Vasari; ma la denominazione è incompleta. Il tempio fantastico che si vede sulla destra presenta tutti gli emblemi di Nettuno, le tracce di figure che sopravvivono a sinistra indicano una scena agitata. Un confronto con certi disegni porta a concludere che si tratta di Laocoonte, sacerdote di Poseidone, aggredito dai serpenti mostruosi mentre si accinge a offrire il sacrificio al suo dio115. Il famoso gruppo alessandrino non sarebbe stato scoperto a Roma, ed identificato per l’appunto da Giuliano da Sangallo, esperto in archeologia antica, che nel 1506. L’affresco di Filippino è una ricostruzione «letteraria» fondata su Virgilio. Rimane sorprendente la scelta del tema: come s’inserisce nel programma previsto per Poggio a Caiano? Si tratta di un elogio lambiccato del fiume e della sua divinità, mentre di fronte avrebbe dovuto esserci qualche elogio della terra con, ad esempio, la sconfitta dei giganti o un altro «sacrificio antico» celebre? Ci pare comunque indubbio che, attraverso il mito, si sia voluto esaltare la poesia del luogo. I simboli del fregio e dell’atrio, dovevano, proprio sulla soglia della casa, impressionare il visitatore116. La scelta del Laocoonte risponde ad una evidente intenzione di illustrare i prodigi della mitologia e l’antichità «sacerdotale» cara all’Accademia. Il fregio, il cui tono Storia dell’arte Einaudi 257 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze netto ed elegante contrasta tuttavia con questa scena nervosa e romantica, celebra i «misteri della natura». Se fosse stata decorata nel 1490, e non trenta o cento anni dopo, la sala centrale avrebbe costituito un ciclo notevole, in cui, secondo ogni verosimiglianza, sarebbero state celebrate, come nella villa di Spedaletto, le meraviglie della mitologia. Il senso generale del tentativo compiuto a Poggio a Caiano è chiaro117; il suo mito «umanistico» rimane invece in parte velato. Storia dell’arte Einaudi 258 Capitolo terzo La decorazione sacra: il rinnovamento del mosaico e le tombe Il mosaico fiorentino. Un poeta della cerchia di Careggi, che sullo scorcio del secolo celebrava le personalità illustri fiorentine, Ugolino Verino, ricordava tra gli artisti piú eminenti della città: «Il pittore Gherardo dal talento multiplo», il quale «ha anche insegnato, primo tra i toscani, a creare mediante la cottura della materia vetrificabile e ad animare di figure vive i mosaici»118. Si tratta di Gherardo di Giovanni di Miniato (1445-97), artista in realtà dai molteplici talenti, di cui Lorenzo aveva voluto fare il rinnovatore del mosaico fiorentino. Il posto d’onore che gli assegna il cronista tra i Pollaiolo e il Verrocchio, basta a dimostrare che per i contemporanei non si trattava di un capriccio anacronistico. Il tentativo aveva radici profonde e fu portato parecchio avanti e, sembra, col consenso di tutti gli ambienti che potevano vedervi sia una restaurazione antica sia la conferma di una superiorità fiorentina. Allievo, si dice, del Poliziano, ricordato piú volte come organista, amico di Leonardo che accenna alle sue ricerche luministiche, Gherardo fu col fratello Monte a capo di una bottega di miniatori che, tra il 1470 e il 1495, lavorò per i grandi conventi di Firenze (Breviario di san Marco, messale di sant’Egidio), per la cattedrale (messali del 1492-93) e per persone alto- Storia dell’arte Einaudi 259 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze locate: è l’autore del Didimo destinato a Mattia Corvino (1488) e dell’Omero, opere che sono fra i capolavori della miniatura umanistica119. Gherardo fu anche frescante e molto verosimilmente incisore. È alla fine del 1491 che nei registri di Santa Maria del Fiore figura un pagamento «Sandro Mariani et Gherardino et Monti magistris mosaici»: cioè a Botticelli e ai due maestri mosaicisti Gherardo e Monte, per dei lavori nella cappella di San Zanobi. Pagamenti avvengono anche nel giugno e nel dicembre del 1492, poi nel marzo del 1494. Dopo questa data i lavori furono interrotti: fornirono l’occasione, nel 1504, per un concorso, che però non diede risultati, fra lo stesso gruppo d’artisti e un gruppo concorrente: la bottega del Ghirlandaio120. L’elogio di Ugolino Verino è eccessivo in due sensi: non solo Gherardo non era il mosaicista piú significativo dell’epoca di Lorenzo, ma non era nemmeno il rinnovatore della tecnica. In realtà era stato intorno al 1420-1430, col Ghiberti e con Paolo Uccello, che era riapparso a Firenze il gusto di questa decorazione scintillante e colorata, di cui lo stesso Donatello si era servito per la sua cantoria. Questa piccola rinascita era avvenuta proprio nel momento in cui si estinguevano le vecchie botteghe veneziane di San Marco; il Senato della Repubblica si era visto costretto, nel 1425, a chiamare Paolo Uccello come «magistro mosayci»121. Una generazione dopo, negli anni 1450-60, l’arte del mosaico aveva ritrovato una certa attualità a Firenze, non piú nel cantiere di Or San Michele, ora chiuso e superato, ma in quello del Battistero, riaperto per lavori di restauro. E l’artista che viene chiamato per questi lavori è il piú grande forse degli allievi di Domenico Veneziano, il compagno di Piero della Francesca e del Castagno a Sant’Egidio (tra il 1430 e il 1445), il maggior rappresentante dell’arte del mosaico a Firenze nel Quattrocento122. Il Baldovinetti per mezzo secolo sorveglia i Storia dell’arte Einaudi 260 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze rifacimenti che si fanno nella cupola e addirittura completa la veneranda decorazione: nel 1453 è infatti incaricato di decorare di mosaici l’intradosso dell’arco sopra la «porta della croce», nel 1455 quello della «porta che è rincontro a Santa Maria del Fiore», cioè la Porta del Paradiso finita dal Ghiberti nel 1452 e ormai messa in opera123. Si tratta dunque d’un programma metodico. Nella prima opera si ha la testa del Battista posta al centro dell’arco in un medaglione formato da un girale che si svolge a destra e a sinistra attorno ad una testa di cherubino a quattro ali; la grana minuta dell’oro, un residuo d’invenzione ornamentale nel disegno, assicurano a questa decorazione anacronistica una certa dignità. Sopra la seconda porta l’oro del mosaico sembra voler avvolgere nel suo fulgore le formelle dorate del Ghiberti; la composizione presenta due angeli che con le braccia alzate reggono il medaglione del Salvatore che cade in corrispondenza della chiave di volta. Qui lo stile del Baldovinetti è libero da ogni affettazione arcaizzante e i suoi angeli sono fratelli di quelli della cappella del cardinale di Portogallo. Sul fondo oro spiccano leggermente in quanto eseguiti in tessere piú minute, i nastri e le fasce degli angeli. Abbiamo insomma un incontro abbastanza felice e raro tra «la grande maniera» toscana della metà del secolo ed il mosaico. Questo buon risultato non si ripeterà nel timpano della porta sud della cattedrale di Pisa, che l’artista ornerà di un mosaico con san Giovanni Battista nel 1467124. Il Baldovinetti ha dunque compreso il mosaico meglio di ogni altro fiorentino, o addirittura veneziano, del suo secolo. Egli non sembra aver avuto alcun contatto diretto con Venezia. È da Paolo Uccello e dal Castagno, dalla pratica musiva fiorentina, che certamente egli ha derivato la sua scienza. Questo punto tuttavia rimane oscuro ed è lecito chiedersi che cosa esattamente si nasconda dietro il curioso aneddoto del Vasari, secon- Storia dell’arte Einaudi 261 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze do il quale Alesso, che annaspava senza risultati apprezzabili, aveva infine avuto schiarimenti illuminanti da un tedesco che si recava a Roma per il giubileo nel 1450 e che egli aveva ospitato125. È possibile che il Baldovinetti sia riuscito ad avere da qualche vetraio del Reno delle ricette relative ai problemi di cottura delle materie vetrose, e questo gli avrebbe permesso di fare funzionare utilmente dei forni. Ciò che induce a crederlo è, nello stesso passo, la citazione di un «libretto che insegnava a fare le pietre del musaico, lo stucco e il modo di lavorare». Qualche anno dopo il Filarete ci offre nel suo trattato una descrizione entusiasta delle possibilità della decorazione a vetro; ma ai suoi occhi si tratta solo di un sogno irrealizzabile, dato che non esistono piú botteghe capaci di lavorare come una volta: «Questa arte è perduta, che da Giotto in qua poco s’è usata. Lui ne fe. Solo a Roma ne se vede di sua mano; la Nave di Sco Pietro. Et uno Pietro Cavallini romano, ancora lui ne lavoro ne’ suoi tempi...»126. Era dunque una tradizione toscana e romana, perduta dai tempi di Giotto e di Cavallini, che veniva resuscitata dal Baldovinetti e dagli artigiani che lavoravano con lui al Battistero. È in questo cantiere e non in quello di San Marco, a Firenze e non a Venezia, che nell’ultimo terzo del Quattrocento ci si tentò di richiamare in vita l’arte del mosaico127. Chi ebbe l’iniziativa di questo fu lo stesso Lorenzo de’ Medici, «il quale, come persona di spirito e speculatore delle memorie antiche, cercò di rimettere in uso quello che molti anni era stato nascosto; e perché grandemente si dilettava delle pitture e delle sculture, non potette ancora non dilettarsi del musaico»128. Le ragioni di ciò erano di due ordini: anzitutto la preoccupazione per la durata delle opere, in quanto il mosaico era una forma di pittura quasi incorruttibile, come andava ripetendo Domenico Ghirlandaio: «la vera pittura per la eternità essere il musaico»129. Storia dell’arte Einaudi 262 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Questa considerazione era indubbiamente meno banale di quanto non sembri, se vi si aggiunge il prestigio che la decorazione musiva del Battistero godeva presso i fiorentini. Ma costoro dopo tutto erano convinti che fosse stata la loro città a introdurre in Italia questa arte in epoche passate. Alla suggestione di una grande tecnica, che era stata ammessa anche nell’antichità imperiale, si aggiungeva dunque la convinzione di una originalità toscana. Quando gli umanisti, ad esempio l’Alberti, e sulla sua traccia il Landino, vogliono celebrare Giotto ricordano sempre la Navicella, che era pure, come ricordava il Filarete, un’opera di mosaico130. Il medaglione composto da Benedetto da Maiano con una scritta del Poliziano per le commemorazioni del 1490 in Duomo, presenterà il padre della pittura fiorentina intento a collocare una tessera musiva su una tavola che è in realtà un’icona in mosaico131. Abituati alla decorazione policroma delle superfici monumentali, molti dei fiorentini trovavano normale che venissero completate con l’inserimento, in luoghi particolari (lunette, intradosso degli archi) di medaglioni figurati. Era per loro un riallacciarsi alla tradizione nel momento in cui le terracotte «robbiane» cominciavano a sostituirsi al mosaico. Questa tendenza suscitava nell’ambiente mediceo un vero e proprio interesse per tutte le forme di quest’arte, anche quelle greche, come risulta dal gran numero di «tavolette greche di musaico» o di «quadri di musaicho», cioè delle icone in mosaico indicate nei loro inventari132. Il fatto piú sorprendente è che certe di queste icone sono di fabbricazione recente, in particolare il busto di san Pietro a grosse tessere e d’un effetto un po’ greve (Bargello), che viene dalla bottega del Ghirlandaio. Secondo il Vasari, Lorenzo, nel suo appoggio dato al rinnovamento del mosaico, avrebbe puntato su Gherar- Storia dell’arte Einaudi 263 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze do «che, allora miniatore e cervello sofistico, cercava la difficoltà di tal magistero»133. Egli ottenne che gli fosse affidata la decorazione della cappella di San Zanobi. Ma in fin dei conti era dal Baldovinetti che in questo campo derivavano sia Gherardo (e suo fratello) che i due Ghirlandaio, che, intorno al 1490, rappresentavano una bottega rivale. L’attività del Baldovinetti al Battistero e a San Miniato era in effetti ricominciata nel 1481; nel 1483 l’artista è nominato capo del cantiere del Battistero «non si trovando chi sappia... altri». Pagamenti sono attestati nel 1487, 1489, 1490, 1491134. A questo primo decennio di lavori di rifacimento segue un periodo in cui i fiorentini si propongono opere nuove e questa volta in Duomo: nel 1490 Domenico Ghirlandaio, già chiamato, nel 1486, come esperto per il Battistero, realizza sul timpano della Porta della Mandorla la sua mediocre Annunciazione, incorniciata da un arco fiorito135. Infine nel 1491 si decide di rivestire di mosaico le vele della cappella di San Zanobi a fianco della cupola e il lavoro è affidato ai fratelli Ghirlandaio da un lato, ai fratelli del Fora (Gherardo e Monte), in rapporto col Botticelli, dall’altro. Tutti questi fatti assumono un certo rilievo allorché si riportano all’aneddoto ben noto riferito dal Vasari per sottolineare la libertà di linguaggio dell’allievo del Baldovinetti, il Graffione: «Dicono che il magnifico Lorenzo de’ Medici ragionando un dí col Graffione, che era uno stravagante cervello, disse: – Io voglio fare di musaico e di stucchi tutti gli spigoli della cupola di dentro –; e che il Graffione rispose: – Voi non ci avete maestri –. A che replicò Lorenzo: noi abbiam tanti danari che ne faremo...»136. L’orgogliosa dichiarazione di Lorenzo corrisponde bene ad una precisa ambizione dell’ambiente fiorentino. Si trattava di restituire a un’arte, che un tempo era stata d’importanza nazionale, tutta la sua dignità, estendendo a Santa Maria del Fiore la magnifi- Storia dell’arte Einaudi 264 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze cenza del Battistero. Cosí Firenze avrebbe potuto essere un’altra Venezia, la Toscana un’altra Roma. Si pensò di porre mosaici anche in luogo del tutto impensato come la facciata del Duomo di Siena, i cui lavori furono commissionati a David del Ghirlandaio nel 1493137. Il Vasari, che mostra incertezze nel suo giudizio sul rinnovamento del mosaico toscano, tradisce un entusiasmo abbastanza significativo quando dichiara che Domenico Ghirlandaio ha arricchito l’arte del mosaico, «piú modernamente lavorato che non fece nessun toscano»138. Dopo la morte di Domenico, avvenuta nel 1494, David, piú giovane di lui, che possedeva un forno ed un impianto adatto a Montaione Valdelsa, Benedetto, l’estroso autore della Natività di Aigueperse, che s’occupava anche lui di mosaico, e il loro nipote Ridolfo prolungarono ancora il sogno del Quattrocento fiorentino139. Tra il 1504 e il 1513 Ridolfo realizzerà con uno stento sempre maggiore la mediocre Annunciazione del portale dell’Annunziata cominciata dallo zio140. Gherardo e il fratello erano scomparsi prima della fine del secolo. La tecnica si viene estinguendo in Toscana. Alcuni anni dopo conoscerà a Venezia una nuova ripresa per impulso di Tiziano, degli Zuccari, di Vincenzo Bianchini e altri, e con queste composizioni rinasce anche la pretesa di Venezia di essere l’unica e vera depositaria di quest’arte, pretesa che provocherà una piccola polemica storica141. Si assisteva indubbiamente in Italia, alla fine del secolo, a Roma col Pinturicchio che nel 1494 portava a termine la decorazione degli appartamenti Borgia (e ancora nella prima stanza di Raffaello), a Venezia intorno al Crivelli, un ritorno alle materie sontuose, un gusto dei broccati, delle stoffe impresse che permetteva le filettature e le punteggiature d’oro142. È lecito supporre che l’interesse fiorentino per il mosaico non sia stato che un aspetto di questa generale voga degli effetti pittore- Storia dell’arte Einaudi 265 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze schi e dei colori brillanti. Tuttavia il fenomeno ha un suo carattere propriamente toscano: nulla infatti puó considerarsi piú di esso conforme, in fin dei conti, ai principi dell’Alberti. Lorenzo si sforzò di orientare in questo senso l’arte fiorentina, certamente senza avere coscienza di commettere un anacronismo e di incoraggiare una tecnica ormai perenta. Gli umanisti che celebravano il mosaico di Giotto come modello della pittura moderna, lo incoraggiavano in queste illusioni. E questo ritorno alla decorazione «paleocristiana», questo sogno di una cupola interamente decorata di mosaico deve considerarsi in ultima analisi come una delle illusioni del Quattrocento alimentate dai dotti fiorentini. Le tombe. L’Alberti insiste sull’importanza «civile» delle tombe all’interno delle chiese. Esse debbono essere semplici e, qualora si tratti di cappelle funerarie, devono essere qualcosa come delle chiese in miniatura, «pusilla templorum exemplaria» (VIII, 3). Insomma edifici sul genere di quelli in cui egli ha fornito un esempio con la cappella Ruccellai a San Pancrazio (1460-1467), circondata di pilastri, che chiudeva il curioso piccolo edificio rettangolare destinato con una esplicita iscrizione a simboleggiare il sepolcro di Cristo143. Nessuna di queste opere trovò seguito in Firenze. I precetti dell’Alberti intervennero in un momento in cui lo stile delle tombe monumentali stava attraversando una sorta di crisi. Il monumento del cardinale di Portogallo implicava novità sostanziali: la struttura architettonica scompariva dietro gli effetti pittoreschi, gli elementi di decorazione paleocristiana vi si moltiplicavano, un simbolismo nuovo appariva nei particolari ornamentali. Si era di fronte ad una «visione» del tutto emotiva, destinata a toccare l’a- Storia dell’arte Einaudi 266 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze nima, a commuovere col richiamo alla transitorietà della vita144. Un altro tipo, ripreso dai primi secoli del cristianesimo e carico di motivi umanistici, aveva trovato la sua definizione nel tempio Malatestiano di Rimini ad opera di Agostino di Duccio: il sarcofago qui era chiuso dentro una nicchia inquadrata da un arco a pieno sesto, che in pratica non era se non l’arcosolium delle catacombe. Ma a Rimini il monumento posto su mensole, sormontato da una cortina, finiva per rientrare nel tipo parietale. Due rilievi, uno a sinistra rappresentante il tempio di Minerva con una statua di Athena Promachos, l’altro a destra, che presentava un carro trionfale, stavano a dimostrare i due aspetti fondamentali dell’immortalità: la Saggezza e la Gloria militare. L’orientamento umanistico vi è chiaro come piú non si potrebbe145. Firenze era ritornata già da tempo all’arcosolium. Nella forma della tomba a lunette, il cui esempio piú antico sembra esser stato il monumento di Onofrio Strozzi (circa 1430) a Santa Trinita, Bernardo Rossellino sviluppò questo tipo per Orlando Medici alla SS. Annunziata (poco dopo il 1455) e uno dei suoi allievi, forse Desiderio, per Giannozzo Pandolfini (intorno al 1470-80) alla Badia146. Tuttavia l’esempio piú spettacoloso di questo modello sarebbe stata la tomba di Francesco Sassetti eretta in Santa Trinita sotto la direzione di Giuliano da Sangallo intorno al 1485. Prima di arrivare a questo risultato le botteghe fiorentine, e prima di tutte quella del Verrocchio, si orientano in altre direzioni, cercando un accordo tra l’arte funeraria e la nuova cultura. In netta opposizione alla composizione aperta e indefinita del Rossellino a San Miniato, la tomba dei Medici inserita, tra il 1469 e il 1472, in una parete della sacrestia vecchia di San Lorenzo, mostra in tutti gli elementi una fermezza impressionante e concentra l’effetto sulla decorazione astratta che avvolge il sarcofago. Il monumento deriva qualcosa Storia dell’arte Einaudi 267 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze da tutti i tipi anteriori: partecipa della tomba inquadrata da un arco, del sepolcro sotto la nicchia e del sarcofago isolato. La trovata eccezionale della griglia di bronzo, che imita le funi intrecciate (motivo che deriva da Luca della Robbia) basta a unificare l’insieme; l’ornamento floreale, distribuito con mirabile sicurezza, completa la struttura d’insieme; i fasci d’acanto del coperchio del sarcofago, che si arricciano sotto le cornucopie, reggono l’emblema mediceo della punta di diamante che ricompare sulle palmette che ornano la bordura dell’arco. L’assenza di ogni altro elemento iconografico sta a dimostrare la volontà di ritornare agli elementi puramente monumentali dell’arte funeraria147. Gli altri tipi hanno continuato, naturalmente, ad essere utilizzati a Firenze; ma la tomba medicea ha servito di riferimento per gli artisti che volevano essere moderni negli anni 1485-90. Essa ha ispirato tutte le opere di rilievo delle botteghe toscane sulla fine del secolo. Tuttavia il Verrocchio, dopo aver dato l’esempio di un monumento il piú possibile spoglio, ed eloquente solo per il gioco delle forme, aveva anche pensato di rinnovare l’iconografia funebre mettendo mano al cenotafio del cardinale Forteguerri a Pistoia. Egli aveva ottenuto la commissione, soppiantando Piero del Pollaiolo, nel 1477 grazie a un intervento di Lorenzo de’ Medici. Una parte delle figure erano già scolpite nel 1483, al momento in cui il Verrocchio partiva per Venezia: le statue furono composte in un ordine monumentale nel Cinquecento, sotto la direzione di Andrea Ferrucci, poi di nuovo suddivise nel 1553, di modo che è ora impossibile giudicare delle intenzioni del loro autore. Si avverte tuttavia, nella figura del Cristo, in quelle delle Virtú, la Fede e la Speranza, nelle figure animate degli angeli (in accordo con i due abbozzi in terracotta del Louvre), una ricerca di soavità e di movimento che tende ad accentuare al massimo l’espressione delicata: il tema Storia dell’arte Einaudi 268 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze principale era, come nel capolavoro del Rossellino a San Miniato, ma in uno stile piú forte, l’ascesa e la beatitudine dell’anima, il suo accesso al mondo angelico. Tutt’altra impressione si riceve di fronte alla cappella Sassetti. Dopo infiniti contrasti e difficoltà con i frati di Santa Maria Novella, alla fine fu in Santa Trinita che il banchiere Sassetti decise di edificare la sua cappella funeraria ed è qui che fece porre, affrontati, il suo sarcofago e quello della moglie Nera148. La decorazione a fresco, affidata al Ghirlandaio ed alla sua bottega, è un’esaltazione di san Francesco. L’opera, insieme strana e splendida, fornisce almeno un’idea dei gusti di un grande mercante fiorentino a quest’epoca: è altrettanto significativa nel suo genere e non meno ricca di intenzioni «umanistiche» della villa di Poggio a Caiano nel campo dell’architettura. Il monumento parietale della tradizione toscana si è trasformato in questo caso in una nicchia profonda circondata da fasce adorne di temi ispirati direttamente dai rilievi romani: liscio e solenne emerge dall’ombra un sarcofago di porfido, ornato di bucrani che incorniciano il cartoccio che contiene l’iscrizione latina. La sobrietà delle forme e l’effetto cromatico richiamano la tomba medicea. Tuttavia le molte decorazioni figurate, in cui ogni elemento è tratto da cammei e rilievi antichi, cosa che assicura l’unità decorativa dell’opera, sono pervase da un linguaggio simbolico. Il Ghirlandaio ha dipinto la Sibilla Tiburtina sulla facciata della cappella, quattro altre sibille sulla volta; la pala d’altare, che raffigura la Natività con un sarcofago ornato di una iscrizione profetica, insiste apertamente sull’unità profonda della latinitas e del cristianesimo149. Il fatto che vengano ripetuti il centauro e la fronda, emblemi di Francesco Sassetti, mette in evidenza il carattere personale dell’opera150. Il sacrificio degli Eroti sulla parte sinistra della fascia orizzontale, il soggetto sacrificale derivato dal sarcofago di Meleagro, sulla parte destra, e le scene della Storia dell’arte Einaudi 269 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Gloria militaris in monocromo, che sovrastano sulla parete e che sono derivate dai medaglioni dell’arco di Costantino, presentano in forma il piú possibile vicina all’antico, le due facce del destino umano, la doppia esigenza dell’anima, la Religio e la Iustitia. Nessun’opera funeraria è stata, in forma cosí piena e diretta, pagana nell’espressione come lo è questa tomba dei Sassetti. La tomba di Pistoia, almeno come possiamo immaginarla, e questa fiorentina rappresentano, intorno al 1480, i due poli dell’arte funebre toscana: il loro soggetto comune è il destino dell’anima, rappresentato nella prima secondo l’iconografia, nella seconda secondo un vocabolario d’immagini derivate dal mondo pagano. I due principî si trovano strettamente connessi nella cappella funeraria piú originale della fine del Quattrocento a Firenze, cioè la cappella Strozzi a Santa Maria Novella. Rientrato dall’esilio sotto Piero de’ Medici, Filippo Strozzi era diventato priore del 1495. Prima ancora di iniziare il suo grande palazzo di città nel 1489, definiva, nell’aprile del 1487, con un contratto molto minuzioso con Filippino Lippi, la fisionomia della sua cappella di famiglia nella chiesa dei domenicani. Nel suo testamento del 1491 egli ricorda i miracoli di san Giovanni e san Filippo rappresentati sulle pareti laterali. La sua morte ritardò la conclusione dei lavori; Filippino non terminò la decorazione che nel 1502 per conto di Filippo Strozzi il Giovane. Questi era discepolo e amico di Jacopo da Diacceto151; i legami di suo padre col Ficino non sono attestati che in occasione della posa della prima pietra del Palazzo152. Il contratto del 1487 non presenta alcun termine che possa essere indizio di preoccupazioni «umanistiche». Tuttavia la cappella è una delle manifestazioni piú tipiche del sentimento religioso suscitato dall’insegnamento del Ficino. L’insieme s’ispira infatti a un programma coerente. Come palazzo Strozzi rappresenta una ripresa a scala Storia dell’arte Einaudi 270 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze gigantesca del tipo fiorentino di palazzo piú tradizionale, cosí la cappella ritorna, in modo piú deciso che non avessero fatto i Sassetti a Santa Trinita, alle grandi decorazioni delle «vite dei santi». I patriarchi sostituiscono sulla volta le sibille. La parete di fondo comprende tre elementi. Anzitutto il sarcofago di marmo nero, opera di Benedetto da Maiano (concepito con la stessa sobrietà di quello del Sassetti), con due putti in rilievo, che sta entro una nicchia dominata dal tondo della Madonna in marmo bianco sostenuto dagli angeli, cosa che richiama la cappella del cardinale di Portogallo a San Miniato153. In una grande vetrata su cartone di Filippino, e in certi punti dipinta direttamente da lui stesso, si vedono i due santi protettori, san Giovanni e san Filippo, in atto di venerare la Vergine in gloria154. L’idea della cappella viene cosí riassunta in questa striscia traslucida, inquadrata e magnificata da una sorprendente decorazione a monocromo. Questa è concepita come un arco di trionfo e brulicante in ogni parte di scritte e figure, di cartoni e allegorie in cui il mondo pagano viene a legarsi al mistero cristiano. Nella composizione non solo sono profusi tutti i motivi dell’arte funebre antica (bucrani, maschere, grifoni, ecc.), ma si notano, ai lati della struttura architettonica, la ninfa Partenice accanto alla Caritas, Polimnia e un’altra musa accanto alla Fides. Le Virtú che si vedevano nel Monumento Forteguerri vanno qui in coppia con le piú tipiche figure simboleggianti le attitudini superiori dell’anima155. Si assiste dunque a Firenze alla progressiva assunzione dell’arte funeraria dell’antichità nello stile delle tombe. Il programma decorativo tende a realizzare una idea di trionfo in cui si fondano l’elogio del defunto e il concetto della trasfigurazione ultima dell’anima. Gli sviluppi di questo nuovo orientamento si devono cercare a Roma. Il monumento bronzeo a cui Antonio Pollaiolo Storia dell’arte Einaudi 271 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze attese dal 1484 al 1493 deriva dalla Tomba medicea: tratta il sarcofago come un blocco indipendente, con in piú la figura del defunto giacente realizzata in bronzo. Presenta una decorazione a formelle figurate rappresentanti le sette Virtú sulla parte piana e le dieci «Arti» sulla superficie obliqua, e queste sembrano il sostegno dell’edificio. La scelta delle allegorie, meglio definite dalle iscrizioni, non presenta nulla che esca dalla tradizione: con le «Arti» si rimane nell’ambito dei programmi scolastici156. La Prospectiva è l’ottica, in senso medievale, e non la nuova scienza degli artisti, la Philosophia cita Aristotele e la Theologia la Genesi. Tuttavia quest’opera massiccia esce dalle consuetudini medievali. Le «Arti» non ricorrevano spesso nella decorazione delle tombe; e se qui accompagnano la spoglia del pontefice è per suggestione dell’elogio contenuto nell’opuscolo di Aurelio Brandolini, De laudibus ac rebus gestis Sixti IV: cioè la gloria delle Arti e la restaurazione della cultura a Roma. Questo cenotaffio bronzeo ha avuto una sua influenza, vent’anni dopo la commissione al Pollaiolo, nella genesi del mausoleo di Giulio II; ma in quest’ultimo la glorificazione del defunto rimane subordinata ad una concezione piú poderosa157. Riunendo infatti le novità essenziali del Quattrocento fiorentino, il progetto del 1505 riprende il tempietto dell’Alberti nella cappella Ruccellai. Questo rappresentava, con un edificio a quattro facce, la tomba tipo, la tomba di Cristo; e il Vasari, e poi il Condivi, descrivono appunto anche il monumento di Giulio II come un tempio158. Inoltre esso viene concepito come una sorta d’arco trionfale a quattro facce, per cui viene ad essere la versione architettonica della decorazione abbozzata da Filippino. Il programma della tomba di Sisto IV ritorna anche qui, ma dilatato dall’impeto fantastico di Michelangelo, fino a raggiungere le dimensioni di un simbolismo universale. La conclusione dell’evoluzione fiorentina si trova a Roma. Storia dell’arte Einaudi 272 Capitolo quarto La decorazione profana Non vi sono dubbi sull’ampiezza dell’attività costruttiva a Firenze nella seconda metà del Quattrocento. Lo attesta Benedetto Dei, che parla di trenta palazzi costruiti tra il 1450 e il 1478 e, per gli anni successivi, da un testimone popolare, il Landucci, che nel suo diario ricorda, nel 1489, i lavori di palazzo Strozzi, di palazzo Gondi, della villa di Poggio a Caiano e aggiunge: «Molto altre case si murava per Firenze, per quella via che va a Santa Caterina, e verso la Porta a Pinti et la via nuova de’ Servi a Cestello [cioè nel quartiere nord, dove interviene il Sangallo], e dalla porta a Faenza verso San Barnaba, e inverso Sant’Ambruogio e in molti luoghi per Firenze», con l’osservazione finale: «Erano gli uomini in questo tempo atasentati al murare, per modo che c’era carestia di maestri et di materia». Nel maggio la Signoria aveva accordato un’esenzione fiscale di quarant’anni per le case costruite entro cinque anni159. Nulla ci autorizza a supporre che questi molti palazzi prescindessero dagli esempi del Brunelleschi e di Michelozzo. Ciò che tuttavia sorprende è, fin verso il 1520, la prudenza dei fiorentini verso gli ordini antichi (che cominciano invece a fare la loro comparsa a Roma) e piú ancora verso i rilievi, le decorazioni a figure e gli effetti dei materiali, che erano invece di moda in Emilia e in Lombardia. In linea generale possiamo dire che Storia dell’arte Einaudi 273 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze ci fu, dopo il 1460, un ritorno alle formule collaudate, un rinforzarsi dell’elemento toscano nell’architettura civile. A giudicare dai progetti di Giuliano da Sangallo, la cui importanza nella storia del palazzo italiano meriterebbe una valutazione piú approfondita160, certi personaggi in vista, e in primo luogo Lorenzo il Magnifico, avrebbero desiderato composizioni piú libere e solenni. Palazzo Gondi e palazzo Strozzi sono variazioni sul tipo michelozziano di via Larga: un blocco nettamente definito con cornici marcapiano per sottolineare le divisioni orizzontali, un cornicione per concludere le masse, un cortile quadrato animato dai vari piani risolti a portico. Solo nel cortile sono ammessi gli ordini antichi. L’originalità, veniva quindi a esplicarsi essenzialmente nella decorazione interna. Ogni personalità elaborava dei complessi decorativi a suo piacere: rilievi scolpiti o terrecotte nel cortile, affreschi e serie di tavole, che venivano a comporre un ciclo omogeneo, nelle sale di rappresentanza...161. Gli elementi figurati del palazzo sono sempre in qualche modo legati alla personalità del signore che li ha ordinati, riflettono con esattezza la sua cultura e il suo gusto. Dato che la maggior parte di questi proprietari erano amici personali del Ficino e del Poliziano, talvolta seguaci fedeli di Careggi, ecco un punto di contatto indiscusso tra l’arte e l’umanesimo. Il fatto che raramente opere di questo tipo siano menzionate nei testi, che un gran numero di esse siano scomparse e che le tavole siano andate disperse fa sí che sia possibile avere solo un’idea approssimativa e un quadro assai incompleto del fenomeno: principali decorazioni fiorentine c. 1455 Villa di Legnaia; ciclo di affreschi. prima del 1460 Cosimo, Biblioteca della Badia di Fiesole; decorazione dipinta. Storia dell’arte Einaudi 274 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze c. 1460 Lanfredini, villa di Arcetri; affreschi. c. 1460 Palazzo Bardi-Serzelli; affreschi. c. 1460-65 Piero de’ Medici, palazzo Medici; tre tavole: Fatiche d’Ercole. c. 1475-80 Sassetti, palazzo di Montughi e palazzo presso Santa Trinita. c. 1478 Lorenzo di Pier Francesco, villa di Castello (?); tavole dipinte. c. 1482 Villa Lemmi a Chiasso Macerelli; loggia con affreschi. c. 1484 Lorenzo, villa di Spedaletto, Volterra; affreschi. c. 1490 Lorenzo, villa di Poggio a Caiano; fregio, affreschi. c. 1490 Bartolomeo Scala, palazzo di Borgo Pinti; rilievi. c. 1490 Francesco del Pugliese, casa; ciclo dipinto (Piero di Cosimo). c. 1500 Giovanni Vespucci, casa di via dei Servi; cicli dipinti (Botticelli, Piero di Cosimo). Le serie di «uomini famosi» erano tipiche piuttosto della decorazione degli edifici pubblici e un esempio se ne aveva nel palazzo del proconsolo. Fra le decorazioni di case private il Vasari segnala un complesso dipinto da Lorenzo di Bicci in casa di Giovanni di Bicci, padre di Cosimo il Vecchio. Altri ne esistevano certamente e l’Ercole del cortile di palazzo Bardi-Serzelli deve esserne un resto162. Il ciclo piú notevole di tutto il Quattrocento è quello della villa di Legnaia dipinto, con un’ampiezza di concezione e una fermezza di stile sorprendenti, dal Castagno intorno al 1450-55, nella sala di una piccola villa suburbana163. Le sistemazioni di interni comprendevano strutture lignee che formavano pancale e spalliera intorno ai quadri. L’insieme piú tipico che si conosca in questo tempo Storia dell’arte Einaudi 275 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze è indubbiamente la sala a pianterreno di palazzo Medici, che veniva indicata come «la chamera di Lorenzo» e di cui l’inventario del 1492 enumera i quadri incorniciati dalle strutture in legno: tre Battaglie di Paolo Uccello, Leoni e draghi, il Giudizio di Paride dello stesso artista, la Caccia del Pesellino. I quadri erano collocati molto in alto; la loro precisa disposizione non è tuttavia chiara. Il tutto risaliva all’epoca di Cosimo (poco dopo il 1450, e sembra non ispirarsi ad alcun programma: a completare questo ciclo vennero poi il Corteo dei Magi nella cappella (1459) del Gozzoli e la decorazione con Storie d’Ercole nel salone164. Programmi nuovi appaiono intorno al 1460 con la Biblioteca della Badia Fiesolana, decorata a spese di Cosimo, e soprattutto con la decorazione di «baccanti» realizzata dal Pollaiolo nel salone della villa Lanfredini ad Arcetri165. Poco dopo, intorno al 1465, Piero de’ Medici commissiona allo stesso Pollaiolo i tre grandi quadri di Ercole destinati ad una delle stanze dell’appartamento mediceo: il Vasari li descrive come opere impressionanti e audaci, che ebbero grande risonanza166. Tra il 1465 e il 1480, proprio nel momento in cui si costruiscono tanti palazzi nuovi, c’è una lacuna nelle nostre informazioni. Le costruzioni e le fondazioni che Francesco Sassetti promuoveva intorno al 1475 e che avevano una particolare ampiezza, dovevano comprendere dei complessi decorativi purtroppo scomparsi. Alle porte di Firenze, verso nord, a Montughi, il ricco banchiere aveva innalzato, intorno al 1480, un palazzo il cui lusso, la cui biblioteca e le due cappelle furono ammirati da tutti se dobbiamo prestar fede a una lettera originale e laudativa del Ficino. Un po’ piú tardi Ugolino Verino scriverà: Montuguas Saxetti quid si videris aedes, Regis opus credes. Storia dell’arte Einaudi 276 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Non ne rimane quasi nulla, non piú che del palazzo cittadino, piú modesto, costruito vicino a Santa Trinita, la chiesa dove il Sassetti eresse la sua cappella funeraria e il suo mausoleo167. La villa di Spedaletto. Scarse sono le notizie che ci sono pervenute sugli affreschi eseguiti alla villa di Spedaletto, vicino a Volterra, dal Botticelli, dal Ghirlandaio, dal Perugino e da Filippino Lippi168: questi affreschi sono descritti in un rapporto indirizzato a Ludovico il Moro da uno dei suoi agenti a proposito dei pittori piú celebri di Firenze169. Sembra risultarne che essi furono iniziati dopo l’inaugurazione, avvenuta nell’agosto 1483, della nuova cappella Sistina a Roma, dove si erano distinti i primi tre di questi artisti. Filippino invece era un esordiente ed è curioso vedere questo giovane artista già attivo accanto a maestri affermati. Può darsi però che Filippino avesse posto mano a questa decorazione fin dal 1481-82, quando ancora i collaboratori piú anziani erano a Roma. Il Vasari precisa che la parte avuta dal Botticelli fu importante e nella vita del Ghirlandaio ci fornisce una preziosa indicazione: «Allo Spedaletto per Lorenzo Vecchio de’ Medici [dipinse] la storia di Vulcano, dove lavorano molti ignudi fabbricando con le martella saette a Giove»170. Si trattava dunque di un complesso mitologico, il primo che sia documentato in modo cosí esplicito: svolto da artisti di tanta importanza, e per Lorenzo stesso, doveva trattarsi indubbiamente di un’opera di rilievo. Trent’anni prima della Farnesina gli artisti medicei adattavano il mondo dei miti alla decorazione delle abitazioni private. È impossibile definire la natura e lo spirito del programma, ma Botticelli era nel pieno della sua maturità, considerato come l’artista di «optima Storia dell’arte Einaudi 277 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze ragione et integra proportione», ed è lecito supporre che, come era avvenuto alla cappella Sistina, desse il tono a tutti quanti; ma, cosa strana, se n’è parlato assai poco e tutto è scomparso, tranne alcune tracce irriconoscibili, nel secolo scorso171. Gli affreschi si trovavano sotto un portico e in una grande sala all’interno e si può quindi pensare alla disposizione di Poggio a Caiano, ove sarebbe ricomparso Filippino. Si è perduto con questi affreschi un punto di confronto fondamentale per distinguere chiaramente la «mitologia», come l’amavano i fiorentini, dalle forme piú fantastiche o piú naturalistiche che essa poteva assumere a Padova e a Ferrara172. Cicli botticelliani nelle ville. Gli affreschi di villa Lemmi facevano parte di tutto un complesso che ornava una loggia in una villa di Chiasso Macerelli, appartenuta forse a Giovanni Tornabuoni173. Questa loggia prendeva luce da un piccolo colonnato; su una delle pareti si vedevano un paesaggio e figure che attualmente sono quasi del tutto perdute, e, di contro, separate da una finestra, le due scene allegoriche. Si è voluto riconoscere nei dipinti il cugino di Lorenzo, Lorenzo Tornabuoni insieme con Giovanna degli Albizi, il cui matrimonio fu celebrato nel 1486. Nell’affresco meglio conservato, con dei rosa e dei verdi delicati, figurerebbe la giovane donna accolta da Venere e dalle sue ninfe, mentre nell’altro si vedrebbe il giovane fiorentino guidato da una «divinità» verso il cerchio delle sette dame rappresentanti le «Arti», cioè il sapere. In realtà non abbiamo alcuna fondata ragione per ravvisare qui Lorenzo Tornabuoni e la sua fidanzata e d’altronde l’opera è con ogni verosimiglianza anteriore al 1486. L’interpretazione «nuziale» non è quindi necessaria174. I due affreschi rappresenta- Storia dell’arte Einaudi 278 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze no con chiarezza e misura l’accesso alla vita superiore sotto il segno di Venere, che è una delle idee fondamentali dell’umanesimo di Careggi. Venere porta i curiosi sandali che si vedono nella Primavera, è scortata da tre ninfe a piedi nudi che non possono essere se non le Grazie. Essa depone, con un gesto monitorio, un oggetto nel velo teso dalla giovane donna. Questa figura dallo sguardo serio si ritrova in altri quadri fiorentini. Tracce di colore che rimangono sull’intonaco, nonché la fontana che si vede a sinistra, lasciano supporre che le figure spiccassero sul fondo di un giardino analogo al boschetto della Primavera. La stessa divinità che reca il suo dono alla giovane donna conduce il giovane per mano verso il coro delle «sette Arti», che sono dame dai veli grevi, dagli atteggiamenti calcolati, sulle quali spicca la Retorica. In questo caso le foglie e i tronchi del fondo sono ancora visibili. Il bel profilo dell’eroe attento spicca felicemente su questo fondo d’arazzo. È la figura di Venere, ripetuta da un affresco all’altro, a suggerire l’unità dell’opera e certamente dell’intero ciclo. La dea dispone del dono delle grazie e nello stesso tempo del vero «sapere»175. La villa si trovava a breve distanza da Careggi; ma ne è piú ancora vicina per lo spirito della sua decorazione. Il Vasari ha visto la Primavera e la Nascita di Venere nella villa di Castello, antica proprietà del giovane cugino del Magnifico. In diverse case fece [Botticelli] tondi di sua mano – scrive lo storico – e femmine ignude assai; delle quali oggi ancora a Castello... sono due quadri figurati, l’uno, Venere che nasce, e quelle aure e venti che la fanno venire in terra con gli Amori; e cosí un’altra Venere, che le Grazie la fioriscono, dinotando la primavera; le quali da lui con grazia si veggono espresse. Storia dell’arte Einaudi 279 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Nonostante le sue consuete inesattezze, il Vasari ammette chiaramente che le due opere costituiscono una sorta di dittico176 e si è tentati di considerare questo dittico come il complemento della serie precedente. Il pittore ha continuato poi a lavorare per Lorenzo di Pierfrancesco: nel 1495 e 1496 egli ancora dirigeva i lavori di manutenzione e decorazione a Castello, e si sa che è stato lo stesso Lorenzo di Pierfrancesco a commissionargli la grande illustrazione della Commedia. Questo principe era in stretti rapporti col Ficino e i «platonici»177. Il Botticelli, tutto sta a indicarlo, è stato il «suo» pittore, cosa che non poteva che orientarlo verso un «discorso umanistico» e «platonico» nello spirito di Careggi. Nel 1477 la villa di Castello era stata acquistata per i due giovani figli di Pierfrancesco, cioè Lorenzo (nato nel 1463) e Giovanni (nato nel 1467). Lorenzo di Pierfrancesco aveva dunque solo 15 anni nel 1478, data probabile della tavola botticelliana, ma è proprio il momento in cui il Ficino, di cui fu uno dei corrispondenti, gli indirizza una lunga epistola «pedagogica», che presenta una sorta di oroscopo ideale sotto il segno di Venere, simbolo dell’Humanitas; e poco dopo prega due umanisti suoi amici, Giorgio Antonio Vespucci e Naldo Naldi, di commentare la lettera al giovanetto. La composizione, in modo ancora piú deciso che negli affreschi Lemmi ha l’aspetto di un arazzo: davanti al boschetto di aranci, piegato ad arco al di sopra della divinità, si stende un tappeto di fiori primaverili, tra i quali sono state ritrovate la maggior parte delle erbe ricordate nel giardino di Careggi. Venere, grave come una Madonna, rende la libertà alle Grazie che danzano a sinistra, accanto a Mercurio, occupato a cacciare le nubi, e a Flora, a destra, che accompagna una ninfa spinta da Zeffiro. Sono i due aspetti dell’amore: grazia e lubricità, in un boschetto di sogno. I movimenti piú vari vi Storia dell’arte Einaudi 280 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze si legano con una precisione sorprendente; le forme si risolvono in arabeschi; la gamma dei colori è attenuata e un poco sorda. In una cerchia di motivi strettamente definita dalle descrizioni del regno di Venere (Ovidio, Fasti, V, 33 sgg., Orazio, Odi, 7, 30, e sulla loro scia Poliziano, Stanze, I) il Botticelli ha introdotto un valore allegorico e astrologico serio; egli «sacralizza» il tema, facendone una sorta di visione beatifica di tono umanistico e profano178. Le numerose pagine del Ficino sulla «generazione spirituale» della Bellezza si addicono altrettanto bene all’apparizione di Venere tra due venti che soffiano fiori (sono i fratelli di Zeffiro) e un’«Ora» dalla veste fiorita (sorella di Flora). La Venus pudica è tutta grazia e delicatezza. La scena illustra i grandi testi greci adottati proprio in quel momento dal Poliziano (Stanze, I, 99): Una donzella non con uman volto Da’ zefiri lascivi spinta a proda, Gir sovra un nicchio; e par che il ciel ne goda. Questo sorriso del cielo e della natura mossa dalla bellezza è ciò che l’umanesimo continuava a descrivere come la verità superiore che la contemplazione ben guidata deve scoprire. Non abbiamo dunque solo un esercizio letterario impegnato a ricostruire, sulla base di Plinio, il capolavoro di Apelle; ma, insieme con il simbolo favorito dell’umanesimo, la chiave delle sue effusioni poetiche, un tema pedagogico essenziale alla dottrina del Ficino179. Tutte queste composizioni sembrano ben rientrare nel programma della «Paideia» umanistica di Careggi. Storia dell’arte Einaudi 281 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Il palazzetto di Bartolomeo Scala. Qualche anno prima del 1490 Giuliano da Sangallo innalzava un’ampia dimora per uno degli intimi del Ficino, Bartolomeo Scala180. In una lettera datata 11 novembre 1490 questa amicizia si esprime in formule affettuose: «Unum sumus, immo sumus et unus». Questa bella «unità» d’anima impedisce al Ficino di ricevere l’amico nella sua piccola casa: è stato dunque un atto di pietà accettare piuttosto d’essere ricevuto da te nella tua grande casa di Borgo Pinti. Là d’un cuore solo, all’ombra amabile di Lorenzo dei Medici, celebreremo lo splendore di Febo sotto la protezione di Apollo, le Muse e, nel coro delle Muse, Platone... Questa formula che, nello spirito piú tipico dell’Accademia, unisce Lorenzo, le Muse e Platone, conclude una lettera in cui il Ficino accetta l’ospitalità del famoso giureconsulto nella sua nuova casa «apollinea»181. La quale è ben nota letterariamente, ma la costruzione, cioè il «palazzetto» di Borgo Pinti, è stata nel Cinquecento incorporata nel palazzo Della Gherardesca e in parte trasformata. L’antico cortile, di recente restaurato, presenta tutti gli elementi dello stile di Giuliano da Sangallo e gli deve essere attribuito senza riserve. Tale cortile, quadrato, comprende tre arcate su ogni lato; il sottoportico che lo circonda era coperto di una volta a botte simile a quella di Poggio a Caiano con lacunari policromi. Sui quattro lati i pilastri che inquadrano gli archi continuano oltre la trabeazione dividendo il fregio superiore in tre parti. Qui sono stati collocati, verso il 1490, bassorilievi in stucco, color bronzo, opera della bottega di Bertoldo. Queste grandi formelle rappresentano, sotto iscrizioni oscure che sembrano designare le grandi forze della vita morale: Amor, Mitas, Iurgium, Quies..., scene di battaglia, cortei, incontri solenni, nei quali si riconoscono tutti gli elementi di una Storia dell’arte Einaudi 282 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze sorta di «Psicomachia» pseudo-antica. Queste allegorie astruse si devono allo stesso giurista neoplatonico. Per quanto l’opera appaia sorprendente per il vigore e talvolta la rusticità dello stile, manca di suggestione e chiarezza. In un certo senso rappresenta la conclusione e la dilatazione della serie di tondi collocati, in posizione analoga e con la stessa funzione, nel cortile del palazzo mediceo; ma lo stile sovraccarico di Bertoldo inizia attraverso la giustapposizione di grandi scene, che imitano i bronzi romani, la didattica allegorica di una nuova «psicologia»182. Le tavole per interni di Botticelli e Piero di Cosimo. Subito dopo aver ricordato le due Veneri, il Vasari cita due cicli destinati alla decorazione di interni: «Nella via de’ Servi in casa Giovanni Vespucci, oggi di Piero Salviati, fece intorno a una camera molti quadri chiusi da ornamenti di noce, per ricignimento e spalliera, con molte figure e vivissime e belle. Similmente in casa Pucci fece di figure piccole la novella del Boccaccio di Nastagio degli Onesti in quattro quadri di pittura molto vaga»183. Il secondo complesso viene datato sulla base del matrimonio di Giannozzo Pucci e Lucrezia Bini, all’inizio del 1483, ma non può essere autografo dell’artista. Se anche egli ne ha dato il cartone, l’esecuzione spetta a Bartolomeo di Giovanni o Jacopo del Sellaio. Questa storia cortese, insieme feroce e graziosa, deriva, come il suo stile, dall’arte dei cassoni appena un po’ piú evoluta184. Le cose cambiano del tutto colla decorazione Vespucci che deve risalire al 1498 o 1499 se, come è lecito supporre, comprendeva le scene della Vita di Lucrezia (Boston, Museo Gardner) e quelle di Virginia Romana (Bergamo, Accademia Carrara). I fondali architettonici si ispirano (e forse sono stati disegnati da lui) a Giulia- Storia dell’arte Einaudi 283 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze no da Sangallo. In toni smaltati che richiamano i ferraresi si snodano fregi d’una ricchezza di movimento e d’una vivacità eccezionale. Si tratta di un’antichità eccessiva e drammatica, tutta gesti e espressione patetica185. È degno di nota che nella stessa casa venga segnalato un complesso non meno singolare di Piero di Cosimo. «Lavorò per Giovanni Vespucci che stava dirimpetto a San Michele della via de’ Servi, oggi di Pier Salviati, alcune storie baccanarie che sono intorno a una camera; nelle quali fece sí strani fauni, satiri e silvani, e putti e baccanti, che è una meraviglia a vedere la diversità de’ zaini e delle vesti, e la varietà delle cere caprine, con una grazia ed imitazione verissima»186. Era stato Guidantonio, padre di Giovanni, gonfaloniere all’epoca del Savonarola e uno degli artefici della sua rovina, ad acquistare questa casa in via de’ Servi. Egli ha quindi dovuto farne decorare, intorno al 1500, parecchie sale. Le tavole di Piero costituiscono, ispirandosi ai Fasti di Ovidio (III, 725 sgg.) un dittico sulla scoperta del miele ad opera dei compagni di Bacco (e l’invenzione della torta di miele rituale nelle libazioni), e un episodio burlesco, la caduta di Sileno che aveva voluto impadronirsi di un nido di api e fu preda delle vespe187. L’origine precisa di questa decorazione di «storie baccanarie» ci sfugge: il piglio, insieme sarcastico e rustico, di Piero trionfa nella figurazione degli alberi secchi in cui sono allogati gli sciami e dei «baccanti» in disordine. Non si tratta piú di un «thiaso», ma di una banda di contadini agitati che, secondo la consuetudine campagnola, rincorrono lo sciame facendo baccano con arnesi di cucina. Abbiamo qui una nota di gusto aspro, un’insistenza sulle forme strane o mostruose che sembra il contrappunto deliberato delle immagini innocenti del Botticelli: ad esempio la faunessa sdraiata in primo piano richiama un piccolo rilievo che si vede sullo zoccolo del tempio della Calunnia188. Storia dell’arte Einaudi 284 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Si è riusciti a ricomporre un secondo ciclo di tavole, comprendente la Caccia e il Ritorno dalla caccia (New York, Metropolitan Museum) e il Paesaggio con gli animali (Oxford), commissionato, stando al Vasari, da Francesco del Pugliese per essere collocato «intorno ad una camera» e rappresentante la vita primitiva189. Si tratta di una sorta di pastorale feroce, con figure mostruose e uomini alle prese con una natura ribelle. Queste tavole sono di piccole dimensioni. Si è dunque supposto che altri pannelli piú monumentali, dei quali uno rappresenta Eolo e Vulcano che educano l’Umanità, abbiano potuto completare l’insieme mediante un ciclo di Vulcano, simbolo della civiltà tecnica. Le due serie si succedono in realtà come l’era dei terrori primitivi prima del dominio del fuoco e dell’era di Vulcano, simboleggiata dalla storia del dio. Nella Genealogia degli Dei del Boccaccio (XII), si trova un lungo passo tratto da Vitruvio (e chiaramente derivato da Lucrezio) in cui viene esposta la vita errante dell’umanità primitiva prima dell’azione del dio-artefice. Ciò che sorprende abbastanza è l’origine di questa commissione: Francesco di Filippo del Pugliese, ricco mercante e attivo democratico, era stato un piagnone militante: nel suo testamento del febbraio del 1503 elenca i quadri devoti che lascia ai monaci di San Marco, tra i quali un Cristo fiammingo, un Giudizio finale dell’Angelico con due laterali dei Botticelli e l’Ultima comunione di San Girolamo, forse il piú bello dei «quadri mistici» dello stesso Sandro190. Il fatto che qualche anno prima Francesco si fosse rivolto a Piero di Cosimo per decorare la sua casa con un ciclo «antiumanistico» dedicato all’umanità primitiva, proietta una luce interessante su questa personalità e sulle resistenze che potevano incontrare immagini come quelle del Botticelli. Non è necessario supporre una confusione del Vasari tra Francesco del Pugliese e lo zio Piero (morto nel 1498) che era anch’egli amatore Storia dell’arte Einaudi 285 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze d’arte e di cui Filippino Lippi aveva fatto il ritratto accompagnato da un epigramma del Braccesi. L’eclettismo del nipote è accertato dal fatto che egli commissionò a Filippino la grande pala con la Vergine che appare a san Bernardo (1486) e poco dopo s’invaghiva di un quadro del Perugino che voleva sottrarre alle monache di Santa Chiara. La poesia burlesca e l’asprezza audace di Piero di Cosimo han dovuto sedurre questo collezionista indipendente. Sul Manetti: e. garin, Filosofi italiani ecc. cit., pp. 230-42; a.chastel, Marsile Ficin et l’art cit., pp. 181 e 195. Sul Brunelleschi e il Ghiberti: r. krautheimer, orenzo Ghiberti cit., pp. 19 sgg. E cap. XVII (Ghiberti architetto). Il Brunelleschi e l’Alberti sono messi al di sopra degli altri da A. Rinuccini, secondo cui: «duo praecipue claruerunt summis ingeniis homines et omnis antiquitatis indagatores accuratissimi. Unus quidem Philippus Brunelleschi scribae filius Florentinae basilicae architector, alter autem Baptista Albertus vir et familiae nobilitate et ingenii praestantia clarissimus qui etiam de picturae architecturaeque praeceptis libros aliquot scripsit accuratissime». A. Rinuccini, epistola dedicatoria della traduzione de La vita di Apollonio di Tiana (1473), estratti in e. h. gombrich, A panel by Apollonio di Giovanni cit. 2 Sul palazzo di Parte Guelfa (non terminato), m. salmi, Il palazzo della Parte guelfa di Firenze e Filippo Brunelleschi, in «Rinascimento», ii (1951), pp. 3 sgg. Sul progetto del Brunelleschi per il palazzo Medici, scartato da Cosimo a favore di quello piú modesto ed «eclettico» di Michelozzo: Libro di A. Billi, ed. Frey, Berlin 1892, p. 34, citato da o. morisani, Michelozzo architetto, Torino 1951, p. 51. 3 c. botto, L’edificazione della chiesa di Santo Spirito in Firenze, in «Rivista d’arte», 1931, pp. 475-511, e 1932, pp. 25-53; w. paatz, Kirchen cit., vol. V, pp. 120-21, e p. 168, n. 56. La scarsa fedeltà alla pianta brunelleschiana è stata anche notata agli inizi del xvi secolo dai cronisti fiorentini come A. Billi. Il progetto brunelleschiano di Giuliano da Sangallo (circa 1482-86) contenuto nel Cod. Urb. 4424 (Vaticana), si ritrova negli appunti di Leonardo, Antonio da Sangallo e Peruzzi. w. paatz, Kirchen cit., pp. 127-28. La lettera di protesta di Giuliano a Lorenzo de’ Medici è riprodotta in g. clausse, Les Sangallo, I, Paris 1900, pp. 133-34. 4 Ed. E. Toesca, Roma 1927; cfr. a. chastel, Marsile Ficin et l’art 1 Storia dell’arte Einaudi 286 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze cit., pp. 181-82. Sulla polemica antighibertiana che svolge il Manetti: r. krautheimer, Lorenzo Ghiberti cit., p. 255. Sui rapporti con l’Alberti: w. kallab, Vasari-Studien, Wien 1908, p. 158. 5 p. m. schuhl, Platon et l’art de son temps (Arts plastiques), 21, ed., Paris 1952. k. borinski, Die Antike in Poetik und Kunsttheorie, Leipzig 1914, p. 156. j. bousquet, Le trésor de Cyrène à Delphes, Paris 1952, cap. VI (Le trésor de Cyrène et les mathématiques au temps de Platon). 6 Riferimenti: ficino, In convivium Platonis, V, 5, ed. R. Marcel, pp. 187-88, ed. Renzi, p. 71; Marsile Ficin et l’art cit., pp. 70-71; alberti, De re aedificatoria, I, 1. 7 pico, Commento sopra una canzona de amore, II, 6; ed. e trad. in e. garin, Filosofi italiani ecc. cit., pp. 467-68; citato in Marsile Ficin et l’art cit., p. 77, n. 3. Sulla sentenza di Dante, cfr. sopra, sezione II, cap. II. Il paragone era cosí diffuso nella filosofia greca, per esporre la distinzione tra materia e forma, che compare in questo senso anche in san Tommaso: e. panofsky, Gothic architecture and Scholasticism, Latrobe (Penn.), 1951, p. 28. 8 Sulla diffusione del termine idea nel vocabolario artistico: e. panofsky, Idea, ein Beitrag zur Begriffsgeschichte der älteren Kunsttheorie, Leipzig 1924 (trad. it., Idea, contributo alla storia dell’estetica, Firenze 1952). 9 Sul Brunelleschi ingegnere, inventore di procedimenti tecnici, che non sembra siano stati ripresi dopo di lui, cfr. f. d. präger, Brunelleschi’s inventions and the renewal of roman mansonry work, in «Osiris», ix (1950), pp. 457-554. 10 l. h. heydenreich, Spätwerke Brunelleschis, in «jb», lii (1931), pp. 1-28 11 g. giovannoni, Architettura e architetti della Rinascenza, in Saggi sull’architettura del Rinascimento, Milano 1935, pp. 1e 5, e La figura professionale ed artistica dell’architetto, Firenze 1929, ha sottolineato queste verità di contro alla concezione tradizionale ed erronea di a. choisy, Histoire de l’architecture, Paris 1929, t. II, p. 603: «Il Rinascimento in Italia non comporta che una riforma nel sistema ornamentale». 12 L’indicazione, suggerita sommariamente da m. dvorák, Geschichte der italienischen Kunst, München 1927, I, p. 76, è stata poi precisata da g. c. argan, The architecture of Brunelleschi and the origins of perspective theory in the XVIth c., in «jwc», ix (1946), pp. 96-121. 13 «Non injuria Plato cum regem quaereret mundi monarcham, principio architectum produxit in medium, scientiamque in tria tandem distinxit genera. Quorum primum in cognoscendo, secundum in agendo, tertium in faciendo versatur. In primo arithmetram geometramque, in secundo architectum, in tertio fabrum ministrumque collocavit, probans architecti facultatem inter speculationem solam solumque ministerium esse ponendam, magis tamen speculationis quarn ministerii esse Storia dell’arte Einaudi 287 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze partecipern neque judícare solum geometrarum more verum etiam facientibus imperare opificioque semper adesse» in Platonis Civilis vel de Regno, M. F. argumentum, ed. Venezia 1571, p. 116 14 Comm. in Timaeum, cap. 40, Opera, II, 1463; cit. in Marsile Ficin et l’art cit., p..99. Sulla posizione dell’Alberti nelle scienze esatte: i. wolf, Leone Battista Alberti als Mathematiker, «Scientia», lx (1936) 2, pp. 353-59. 15 p.-h. michel, La pensée de L. B. Alberti, Paris 1930, pp. 443 sgg. Osservazioni sull’uso che l’Alberti fa di Vitruvio in k. borinski, Die Antike ecc. cit., parte I, pp. 152 sgg. 16 De re aedificatoria, IX, 6. Cfr. Marsile Ficin et l’art cit., pp. 101 e 109. 17 Sulle piante, cfr. p.-h. michel, La pensée de L. B. Alberti cit., p. 451, e r. wittkower, Architectural principles cit., cap. II 18 Sulle proporzioni, p.-h. michel, L’esthétique aritmétique du Quattrocento, une application des médiétés pythagoriciennes à l’esthétique architecturale, in Mélanges de philologie, d’histoire et de littérature offerts à H. Hauvelle, Paris 1934, pp. 181-89, e r. wittkower, Architectural Principles cit., pp. 94 sgg. Esistono diversi modi di esporre questi tre sistemi di rapporti, che, secondo la tradizione, sono d’origine pitagorica: t. heath, A History of Greek Mathematics, London 1921, p. 85. Nella forma piú semplice abbiamo per il medio aritmetico: a + b = 2m, per quello geometrico: ab = m2, per l’armonico: ab/a+b=m/2. 19 p.-h. michel, La pensée de L. B. Alberti cit., p. 158. k. borinski, Die Antike ecc cit., p. 153 ha dimostrato inoltre l’influenza determinante del passo del Timeo 31 b, nella tradizione del Ficino, De vi ratiorum, che si sostituisce, alla fine del xv secolo, ai testi ormai insufficienti di Euclide sull’argomento. 20 Partendo da queste indicazioni generali (cui non sempre tutti gli architetti ricorrevano), si potrebbe precisare come vengano definite le campate o i piani dell’edificio partendo dalle forme geometriche semplici (quadrato, rettangolo) e, all’interno di queste suddivisioni, come si determini la forma delle aperture, il ritmo dei supporti ecc. thiersch, Die Proportionen in der Architektur, in Handbuch der Architektur, Darmstadt 1885, giovannoni, Architettura e architetti ecc. cit., p. 12, hanno mostrato l’importanza del gioco delle diagonali nel Rinascimento. Tuttavia lo sviluppo di queste formule non è avvenuto regolarmente dal Brunelleschi a Palladio. D’altra parte non si deve dimenticare la funzione della «messa in prospettiva». La divisione ritmica dell’opera è precisata dalla «prospettiva», di cui si riconosce l’importanza, perfino nella decorazione (cfr. piú avanti, parte II, sezione II, cap. II): lo spazio interno è proiettato su un piano verticale sul quale le campate diminuiscono secondo una scala armonica e questa viene ad assumere evidenza allorché l’architettura viene riprodotta in un dipinto, Storia dell’arte Einaudi 288 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze come mostra r. wittkower, Brunelleschi and proportion in perspective, in «jwm», xvi (1953), pp. 275-91. 21 Secondo l’eccellente formula di h. wölfflin, Kunstgeshichtliche Grundbegriffe: «Occorreva per prima cosa che la bellezza della forma articolata fosse provata perché gli ordini unitari fossero concepibili». 22 r. wittkower, Architectural Principles ecc. cit., cap. II. Documentazione fotografica in j. baum, Baukunst der Frührenaissance in Italien, Stuttgart 1926. 23 Al Vasari si deve un interessante esame critico di questo vestibolo, nell’esordio della Vita d’Andrea Sansovino, al quale egli l’attribuisce: ed. Milanesi, IV, p. 448; ma da un documento del 1493 risulta che Giuliano da Sangallo era incaricato, con la collaborazione del Cronaca, di finire la volta del vestibolo: c botto, L’edificazione della chiesa di S. Spirito ecc. cit., e g. marchini, Giuliano da Sangallo, Firenze 1942, p. 90. Come nel vestibolo di Poggio a Caiano, le travature della volta non corrispondono all’asse delle colonne. Sulla posizione di G. da Sangallo, all’incontro delle «correnti» del secolo xv: stegmanngeymüller, Die Arckitektur der Renaissance in der Toskana, vol. V, München 1908. 24 De re aedif., IX, 8; p.-h. michel, La pensée de L. B. Alberti cit., p. 476 25 Marsile Ficin et l’art cit., pp. 163 e 166, n. 1. 26 p.-h. michel, La pensée de L. B. Alberti cit., p. 352. 27 r. wittkower, Architectural Principles ecc. cit., p. 10. 28 Ms 148, Biblioteca Reale di Torino, fol. 32; e Cod. Ashburnham 461 (Biblioteca Laurenziana), fol. 1 r. a. s. weller, Francesco di Giorgio cit., p. 274. 29 r. wittkower, Architectural Principles ecc. cit., pp. 12 sgg. 30 l. pacioli, Trattato di architettura, ed. C. Winterberg, Wien 1889, p. 129 31 g. milanesi, Le lettere di Michelangelo Buonarroti, Firenze 1875, p. 554. a. schiavo, Michelangelo architetto, Roma 1944, fig. 96 (riprod. fotogr.). 32 l. pacioli, Trattato di architettura, ed. cit., pp. 148-49; cfr. sopra, introduzione. 33 Oltre all’opera di G. Marchini (1942) già citata, abbiamo la sicura pubblicazione del Libro di G. da Sangallo ad opera dello Hülsen, Leipzig 1910, e la cronologia fornita da c. von fabriczy, in «Jahrbuch der preussischen Kunstsammlungen», 1902, suppl., pp. 1-42. Le esposizioni del Clausse (1900) e del Loukomski (1934), non sono sicure. 34 Sul Sangallo e il Botticelli: j. byam shaw, Botticelli oder Sangallo, in «Belvedere», x (1931), p. 163. Sul Sangallo disegnatore: c. von fabiliczy, Giuliano da Sangallos figürliche Kompositionen, in «Jahrbuch der preussischen Kunstsammlungen», xxiii (1902), pp. 197-204. b. Storia dell’arte Einaudi 289 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze berenson, The Drawings of the florentine Painters cit., I, pp. 175 sgg. e g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., pp. 105-6 35 Secondo il vasari, ed. Milanesi, IV, p. 476, egli forní utili consigli a Leonardo per la fusione della statua equestre dello Sforza, quando andò a Milano a presentare al duca il suo progetto di castello 36 c. de tolnay, Michel-Ange et la façade de San Lorenzo, in «Gazette de Beaux-Arts», xiv (1934), I, pp. 24 sgg. 37 vasari, ed. C. L. Ragghianti, II, p. 114. 38 Marsile Ficin et l’art cit., pp. 59 e 62, n. 11. 39 Opere volgari, ed. cit., I, p. 91. Si può avvicinare questo passo al rilievo del «Tempio di Minerva» a Rimini (tomba degli antenati di S. Malatesta). 40 Marsile Ficin et l’art cit., p. 30. 41 r. wittkower, Architectural Principles ecc. cit., pp. 5 sgg. 42 Di qui la condanna dell’Indice spagnolo nel 1611: p.-h. michel, La pensée de L. B. Alberti cit., p. 544; r. wittkower, Architectural Principles ecc. cit., p. 5. 43 i. pusino, Ficinos und Picos religiös-philosophische Anschauungen, in «Zeitschrift für Kirchengeschichte», xliv (1925), p. 526. 44 Cfr. Symbolisme cosmique et monuments religieux, Musée Guimet, Paris 1953. 45 Un comodo repertorio in k. strack, Central- und Kuppelkirchen der Renaissance in Italien, Berlin 1882. 46 La rigorosa esposizione di r. wittkower, Architectural Principles ecc. cit., cap. I (cfr. «Humanisme et Renaissance», xii [1951] p. 363) ci permette di tenerci qui ai fatti essenziali. 47 De re aedificatoria, III, cap. XIV; VII, cap. IV. Sulle origini orientali e imperiali di questo concetto cfr. e. baldwin smith, The Dome, Princeton 1950, e id., Architectural symbolism of imperial Rome and middle Ages, Princeton 1956. 48 Theologia Platonica, II, 6, Opera, p. 96, e Comm. in Timaeum, cap. 40; Marsile Ficin et l’art cit., pp. 59 e 101. 49 a. chastel, L’Art italien, Paris 1956, vol. I, tav. xxxv. 50 r. krautheimer, Lorenzo Ghiberti cit., p. 366 n. 22. L’edificio, restaurato sotto Nicola V, è citato come esempio di basilica rotonda dall’alberti, De re aedificatoria, VII, 15 (cfr. a. mancini, Vita di L. B. Alberti cit., p. 338). 51 s. colvin, A florentine picture chronicle cit., tav. lvii. 52 Symbolisme cosmique ecc. cit., p. 87 53 a. scharf, Filippino Lippi cit., tav. 127. 54 Per la data e l’attribuzione di queste celebri tavole abbiamo aderito (nell’articolo Marqueterie et perspective ecc., in «Revue des Arts», 1953, p. 154) all’opinione di p. sanpaolesi, Le prospettive architettoniche di Urbino, di Filadelfia [leggi: Baltimora] e di Berlino, in «Bolletti- Storia dell’arte Einaudi 290 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze no d’arte», xxxiv (1949), pp. 335 sgg., opinione che viene confermata da b. degenhart, Dante, Leonardo und Sangallo cit., pp. 233 sgg. r. krautheimer, Lorenzo Ghiberti cit., p. 268, n. 26, crede, secondo noi a torto, di dover mantenere la data 1470 e l’interpretazione proposta da f. kimball, Luciano Laurana and the High Renaissance, «The Art Bulletin», x (1927-28), p. 125, secondo cui si tratterebbe di un adattamento dei modelli vitruviani di scenografia. La destinazione delle tavole come fronti di cassone, analogamente alle tarsie, non consente quest’ipotesi 55 c. baroni, Elementi stilistici fiorentini negli studi vinciani di architettura a cupola, in Atti del I Congresso Nazionale di Storia dell’Architettura (1936), Firenze 1938, p. 64. w. paatz, Kirchen cit., vol. III, pp. 114-15 (con bibliografia a p. 130, n. 3). g. marchini, Un disegno di Giuliano da Sangallo, in Atti del I Congresso Nazionale di Storia dell’Architettura (1936), Firenze 1938, pp. 147-54; questo studio corregge certi particolari arbitrariamente introdotti dal Lastri nella sezione pubblicata nell’edizione del 1821 de «L’Osservatore fiorentino», sulla base di un disegno (oggi scomparso) proveniente dal convento dei Camaldolesi. 56 Fu molto probabilmente presso la chiesa incompiuta del Brunelleschi che si tennero nel 1468 le conferenze sul Filebo, mentre le conversazioni da cui il Landino ha tratto il suo dialogo famoso si svolgevano nella sede, piú fresca e riposante in estate, del Casentino: a. della torre, Storia cit., pp. 573 sgg. 57 Il disegno si trova sulla parte centrale del foglietto che ha due parti ripiegate, in alto e a sinistra; queste aggiunte hanno avuto luogo nel 1488. 58 c. baroni, Elementi stilistici fiorentini ecc. cit., p. 63; j. p. richter, The literary works of L. da V. cit., vol. II, p. 31. 59 Coll. Geymüller-Campello (Uffizi), n. 38: n. ferri, La raccolta Geymüller-Campello, in «Bollettino d’arte», 1908, p. 64. Il granduca Cosimo I pensava verso il 1563 di far terminare la rotonda per farne sede dell’Accademia del disegno: w. paatz, Kirchen cit., p. 131. 60 La prima derivazione è proposta da w. paatz, Kirchen cit., p. 133 n. 21, la seconda da l. h. heydenreich, Spätwerke Brunelleschis cit., pp. 4 sgg. 61 l. h. heydenreich, Die Sakralbaustudien Leonardo da Vinci’s (Tesi discussa ad Amburgo), Leipzig 1929. 62 c. baroni, Elementi stilistici fiorentini ecc. cit., p. 63. 63 Cod. Ashburnham 361 (Biblioteca Laurenziana); a. mancini, Di un codice artistico e scientifico del Quattrocento con alcuni ricordi autografi di Leonardo da Vinci, in «Archivio storico italiano», 1885, pp. 35463; e. berti, in «Belvedere», vii (1925), p. 100; descrizione sommaria in a. s. weller, Francesco di Giorgio cit., pp. 273-74, il quale pensa che il manoscritto possa essere stato dato da Francesco a Leonardo nel Storia dell’arte Einaudi 291 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze 1490. Modelli di pianta circolare: foll. 11 v e 12 r. Si ritrovano gli stessi tipi in una serie di disegni che il Geymüller credeva copie di fra Giocondo da originali di Francesco di Giorgio, h. geymüller, Cento disegni di architettura di Fra Giovanni Giocondo. 64 c. hülsen, Il libro di Giuliano da Sangallo (Cod. Vat. Barb. Lat. 4424), Leipzig 1910; e h. egger, Codex Escurialensis, Wien 1906. 65 In particolare nel ms 148 della Biblioteca Reale di Torino. 66 Ms 148, Biblioteca Reale di Torino, rispettivamente 84 r, 87 r. 67 w. lotz, Das Raumbild in der italienischen Architekturzeichnung der Renaissance, in «Mitteilungen des kunsthistorischen Instituts in Florenz», vii (1956), pp. 193-226. 68 c. hülsen, Il libro di Giuliano da Sangallo cit. 69 c. baroni, Documenti per la storia dell’architettura a Milano nel Rinascimento e nel Barocco, Firenze 1940, pp. 145-46. 70 l. h. heydenreich, Die Tribuna der SS. Annunziata in Florenz, in «Mitteilungen des kunsthistorischen Instituts in Florenz», iii (1930), pp. 268 sgg., espone la polemica del 1471. Recentemente: s. lang, The Program of the SS. Annunziata in Florence, in «jwci», xvii (1954), p. 288. 71 r. wittkower, Architectural Principles ecc. cit., p. 10. 72 g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., p. 90; r. wittkower, Architectural Principles ecc. cit., pp. 18-20. 73 r. wittkower, Architectural Principles ecc. cit.,pp. 41 sgg. 74 c. botto, L’edificazione della chiesa di S. Spirito ecc. cit., pp. 23 e 34; e piú sopra, introduzione. 75 c. botto, L’edificazione della chiesa di S. Spirito ecc. cit., p. 34; g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., p. 90. Sulla decorazione «umanistica» della volta del vestibolo cfr. piú avanti. 76 p. sanpaolesi, Ventura Vitoni, in «Palladio», 1939, p. 249. 77 manni, Bartholomei Scalae collensis vita, Firenze 1768, pp. 22 sgg.; g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., p. 89. Sui legami del Sangallo con Bartolomeo Scala cfr. piú avanti. 78 a. terzaghi, L’Incoronata di Lodi, in «Palladio», nuova serie, iii (1953), 4, pp. 145-52. 79 f. reggiori, in Atti del I Congresso Nazionale di Storia dell’Architettura cit., pp. 173 sgg. 80 l. h. heydenreich, Zur Genesis des S. Peters-Plans von Bramante, in «Forschungen und Fortschritte», ottobre 1934, pp. 365-67. 81 È l’interpretazione proposta da o. förster, Bramante, Wien 1956; cfr. piú avanti. 82 Contrariamente a a. rossi, Cenno storico sulla chiesa della Consolazione a Todi, in «Giornale di erudizione artistica», i (1872), pp. 3 sgg., che ha posto l’inizio dei lavori nel 1508 e proposto il nome di Cola da Caprarola, g. de angelis d’ossat, Sul Tempio della Consolazione a Todi, in «Bollettino d’arte», iv (1956), pp. 207 sgg., ritorna alla data Storia dell’arte Einaudi 292 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze del marzo 1504 e all’attribuzione del progetto iniziale a Bramante, con l’eventuale collaborazione di Ventura Vitoni, come aveva proposto il pungileoni, Memorie intorno alla vita e alle opere di Donato o Donnino Bramante, Roma 1836. La costruzione si protrasse fino agli inizi del xvii secolo. 83 Su quest’opera (1519-26), cfr. il «Bollettino del Centro di Studi di Storia dell’Architettura», 1952, n. 6, pp. 33-50. 84 De vita, I, cap. VIII e IX; Opera, p. 502. a. della torre, Storia cit., p. 640. 85 Sulla poesia pastorale fiorentina del Quattrocento, n. a. robb, Neoplatonism ecc. cit., cap. IV; a. hulubei, Naldo Naldi ecc., in «Humanisme et Renaissance», iii (1936). 86 Lettera a F. Valori, Opera, pp. 893-94, Lettere, IX, 1, trad. Figliucci, cit., II, pp. 125 sgg.; cfr. anche a. della torre, Storia cit., p. 641; Marsile Ficin et l’art cit., p. 147. 87 l. b. alberti, Della famiglia, ed. R. Spongano, Firenze 1946, pp. 309 sgg. 88 Si tratta di Pier Filippo Pandolfini che suo padre aveva affidato in giovane età a l’Argiropulo, e che era legato, come i suoi fratelli, agli umanisti: nel 1490 Ficino gli invierà delle «strenne astrologiche», Opera, p. 918: cfr. a. della torre, Storia cit., pp. 387-89. 89 La direzione degli Archivi di Firenze ha voluto fare a questo proposito una ricerca il cui risultato è stato negativo. Una menzione in mazzuchelli, Gli scrittori d’Italia, Brescia 1763, 11, 4, p. 2199, indica che Bruni fu «proposto di Fiesole», ma cedette ben presto la sua carica a Salutati. La villa in cui aveva soggiornato, avrebbe potuto conservare il suo nome: ma allora dovrebbe trovarsi tra i beni ecclesiastici del comune di Fiesole e il Catasto del 1427 non menziona che una proprietà con una casa da giardiniere, in cui sembrerebbe difficile ravvisare la «villa» di Bruni, a meno che l’epistola di Ficino che insiste soprattutto sulla felicità del luogo non comporti una trasfigurazione deliberata dei dati concreti. 90 Cfr. Marsile Ficin et l’art cit., p. 18, n. 24. 91 Ibid., p. 33, n. 1. 92 vasari, Ragionamenti, II, 1, ed. C. L. Ragghianti, IV, pp. 127 sgg., a proposito degli «uomini dottissimi, co’ quali, quando alla villa di Careggi, e quando al Poggio a Caiano, per piú loro quiete, esercitava gli onorati studi». 93 b. patzak, Die Renaissance- und Barockvillen in Italien, I (Patast und Villa in Toskana), vol. II (Die Zeit des Suchens und des Findens), Leipzig 1913, ampiamente utilizzato nell’esposizione che segue. 94 Sui giardini del Quattrocento: concetti generali in j. burckhardt, Die Kultur der Renaissance, IV, 2; l. dami, Il giardino italiano, Milano 1912. Sulle indicazioni dell’alberti, De re aedificatoria, IX, 4, p.-h. Storia dell’arte Einaudi 293 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze michel, op. cit., p. 502. Sulle bellezze «orientali» dei giardini, volatili rari, piante esotiche (come le rappresenta la pittura toscana intorno al 1450), g. soulier, Les influences orientales ecc. cit., pp. 245 sgg. 95 Sulla villa medicea di Careggi, la sua storia e le successive modifiche: g. carocci, I dintorni di Firenze, Firenze 1881, pp. 122-24; La villa medicea di Careggi, Firenze 1888. c. von stegmann e h. von geymüller, Die Architektur ecc. cit., vol. II (Michelozzo), pp. 26-28 (piante e sezioni). b. patzak, Die Renaissance- und Barockvillen ecc. cit., II, pp. 74 sgg.; o. morisani, Michelozzo architetto cit. 96 e. müntz, Les précurseurs ecc. cit., p. 144, 2. 97 g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., p. 91. Questa piccola ed elegante opera fu risistemata al tempo di Clemente VII e la bottega del Pontormo ebbe l’incarico di decorarla. Le composizioni allegoriche, scomparse, sono note da disegni: sulle pareti, la Fortuna, la Giustizia, la Vittoria, la Pace e la Gloria; sul soffitto: l’Amore: cfr. vasari, ed. Milanesi, VI, p. 281, e sulla parte avuta dal Pontormo: f. m. clapp, Jacopo Carucci ecc. cit., cap. IV. Le vicende di questa loggia sono parallele alle trasformazioni della villa di Poggio a Caiano, concepita e decorata in due epoche distinte. 98 a. braccesi, Descriptio horti Laurentii medici, citato da e. garin, Il Rinascimento italiano cit., p. 340. p. m. bardi, Le Printemps de S. Botticelli, Paris 1946, p. 8: catalogo dei fiori secondo o. mattirolo. m. ficino, Opera, p. 909, lettera del 29 aprile 1490 (trad. Figliucci, II, p. 144), il Ficino definisce scherzosamente: «utinam florentem» il suo «librum de vita physicum», pensato tra i fiori. 99 n. valori, Laurentii Medices vita ecc. cit., p. 47. Tre testimonianze aiutano a definire la storia della proprietà: 1) nel 1460 la dichiarazione al catasto di Lorenzo dice: «uno casamento, che era rovinato al Poggio a Cajano, detto l’Ambra» (indicazione che fornisce un terminus ante quem); 2) il poema del Poliziano (1485) che celebra gli allevamenti e le piantagioni della ninfa «Ambra» al Poggio; 3) il passo del Diario fiorentino dal 1450 al 1516 del Landucci, ed. I. del Badia, Firenze 1883, p. 58, relativo anch’esso alle latterie e ai verzieri (1489). 100 vasari, ed. Milanesi, IV, p. 270. Questa scena è stata rappresentata in un arazzo di D. Squilli, tessuto nel 1570 per il granduca di Toscana su cartone di G. Stradano (Museo Mediceo). 101 Sulla storia della villa: g. anguillesi, Notizie storiche dei palazzi e ville appartenenti alla I. et R. Corona di Toscana, Pisa 1815, m. de benedetti, Palazzi e ville d’Italia, I: Roma e Firenze, Firenze 1911; n. tarchiani, I Palazzi e le ville che non sono piú del re, Milano 1921, pp. 12941; c. k. loukomski, Les Sangallo, Paris 1934, pp. 26 sgg. (con molti errori, in particolare sulla data dell’atrio). Descrizione ed analisi tecnica: stegmann e geymüller, Die Architektur ecc. cit., vol. V (Leonardo da Vinci, Giuliano da Sangallo, Antonio da Sangallo der ältere), Storia dell’arte Einaudi 294 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze München 1908, pp. 2 sgg.; b. patzak, Die Renaissance- und Barockvillen ecc. cit., pp. 107 sgg.; g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., pp. 16-20 e 84-86. 102 Secondo il tigri, Guida di Pistoia, Pistoia 1854, p. 346 (cit. da g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., p. 86), Carlo V aveva giudicato questo muro da fortezza eccessivo per un privato. Il quadro dell’Utens non è una testimonianza del tutto sicura: dimentica i pilastri agli angoli del portico e colloca male gli archi di questo, che appaiono a bugne, deforma le colonne dell’atrio centrale, ecc. 103 Uffizi, Disegni di architettura, n. 1640. g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., t. II. Il robusto disegno delle balaustre e delle incorniciature delle finestre (che seguono il progetto originale) ci ricordano che il Sangallo ha cominciato la sua carriera come «decoratore», e che in particolare, si devono a lui gli stalli della cappella medicea. 104 Nello schema primitivo i cinque archi ai due lati dell’entrata al pianterreno corrispondevano ai cinque intercolumni dell’atrio. Questo ritmo «pentametro» era stato adottato dall’Alberti nel suo progetto del 1460 per San Francesco di Rimini, «forse la prima facciata di tempio antico nell’architettura cristiana», come dice p. funkl, in RenaissanceArchitektur in Italien, Leipzig 1912, p. 36, cit. da r. wittkower, Architectural Principles ecc. cit., p. 5. 105 f. bürger, Die Villen des Andrea Palladio, Leipzig 1909; g. k. loukomski, Andrea Palladio, Paris 1924. 106 r. wittkower, Architectural Principles ecc. cit., p. 67 n. 5. Il carattere speculativo delle ville del Palladio è messo bene in evidenza in questo bel libro, i cui suggerimenti possono, in certa misura, valere retrospettivamente, per Poggio a Caiano. 107 vasari, ed. Milanesi, IV, p. 271 e n 2. L’acquisto di terreni da parte dei due fratelli Sangallo nel quartiere di San Pier Maggiore e in Borgo Pinti risale alla fine del 1490 e agli inizi del 1491. Il Vasari d’altronde attribuisce anche a Bramante (ibid., IV, p. 162) rito d’aver per primo «gettato le volte di materie che venissero intagliate». 108 Sul palazzo del re di Napoli (1488), g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., p. 88. Un disegno degli Uffizi, presenta un progetto di palazzo Mediceo che si affaccia su Borgo Pinti che è stato creduto di Giuliano e datato 1488: r. redtenbacher, in «Allgemeine Bauzeitung», 1879, pp. 1 sgg. L’idea è stata sviluppata da b. patzak, Die Renaissanceund Barockvillen ecc. cit., II, p. 125. Ma si tratta di uno studio di Antonio posteriore al 1512, come suggerisce g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., p. 101. È indubbio però che questo tipo di piante deriva dalle ricerche di Giuliano e Francesco di Giorgio: Uffizi, disegno n. 319 v. Cfr. a. s. weller, Francesco di Giorgio cit., p. 260. 109 L’interno dell’atrio di Poggio a Caiano presenta somiglianze assai forti con il vestibolo di Santo Spirito; vi si ritrovano le sei colon- Storia dell’arte Einaudi 295 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze ne o pilastri con l’intercolumnio di centro un po’ maggiore degli altri per poter collocare la porta: c. marchini, Giuliano da Sangallo cit., p. 36; veduta dell’interno dell’atrio in stegmann e geymüller, Die Architektur ecc. cit., tav. vii a. 110 u. middeldorf, Giuliano da Sangallo and Andrea Sansovino, in «ab», xvi (1936), 2, pp. 107-115. Sul fregio, cfr. piú avanti. 111 vasari, ed. Milanesi, t. III, pp. 473-74. 112 Ms Plut., XXXIX, n. 40 (Biblioteca Laurenziana), foll. 38 v 39: ugolino verino, Libri VII epigrammarum ad Matthyam regem, ed. H. Brockhaus, cit., p. iv: «Descriptio villae Cajanae cum agris suis Laurentii Medicis» (si conosce anche una lettera in prosa dello stesso autore). Su Verino, poeta neoplatonico, a. della torre, Storia cit., p. 637. 113 m. wackernagel, p. 159. vasari, ed. Milanesi: Vita del Pontormo, VI, pp. 264-65. Il programma «storico» comprendeva quattro episodi: Cesare (Andrea del Sarto, 1521); Scipione (Allori, 1588); Flaminio (Allori, 1588); Cicerone (Franciabigio). 114 f. m. clapp, Jacopo Carucci ecc. cit., cap. IV. vasari, ed. Milanesi, II, p. 365, parla di: «Vertumno con i suoi agricultori…, Pomona e Diana con altre dee» (ispirato da ovidio, Met., XIV, 623-97). 115 p. halm, Das unvollendete Fresko des Filippino Lippi in Poggio a Caiano, in «Mitteilungen des kunsthistorischen Instituts in Florenz», iii (1931), 7 (luglio), pp. 392-427. Il disegno piú significativo è stato pubblicato da b. berenson, The Drawings ecc. cit., tav. 1329, n. 1294. Un altro disegno è pubblicato da a. scharf, Zum Laokoon F. Lippis, in «Mitteilungen des kunsthistorischen Instituts in Florenz», iii (1932), 8 (gennaio), pp. 530-33. Si può osservare che la favola di Ambra, che costituiva il «mito» di Poggio, è il racconto di un’inondazione provocata da Oceano, padre dei fiumi, e il poema dei rivi di questo angolo della Toscana. 116 p. halm, Das unvollendete Fresko ecc. cit., p. 400. 117 Non è dunque esatto dire che i fiorentini non avevano assimilato completamente degli schemi decorativi antichi, come fanno h. willich - p. zucker, Die Baukunst der Renaissance in Italien, vol. I, Berlin, p. 167, e a. von salis, Antike und Renaissance cit., p. 28. 118 u. verino, De illustratione urbis Florentiae, libri tres, ed. Lutetiae 1583; tradotto in Marsile Ficin et l’art cit., p. 195. 119 Alle note di G. Milanesi, vasari, Vita di Gherardo, vol. III, pp. 245-52, e alla notizia del thieme-becker, Künstler-Lexicon, si: può ora aggiungere: g. s. martini, La bottega di un cartolaio fiorentino della seconda metà del Quattrocento, Firenze 1956. Per l’annotazione di Leonardo su «le figure che apariano nello scrittoio di Gerardo miniatore a San Marco in Firenze», cfr. j. p. richter, The literary works ecc. cit., n. 1424; sul Didimo illustrato cfr. piú avanti. 120 w. paatz, Kirchen cit., vol. III, pp. 414 e 602-3; i documenti in Storia dell’arte Einaudi 296 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze G. Pozzi, Il Duomo di Firenze, 1909, nn. 967-92, e g. s. martini, La bottega di un cartolaio ecc. cit., pp. 33-35. 121 a. chastel, La mosaïque à Venise et à Florence au XVe siècle, in «Arte veneta», xii (1954), dove si trova esposto l’essenziale di questo capitolo. 122 r. w. kennedy, Alesso Baldovinetti, New Haven 1938, pp. 60-61. 123 vasari, Vita del Baldovinetti, ed. Milanesi, II, p. 596; ed. C. L. Ragghianti, I, pp. 727-28; documenti citati da r. w. kennedy, Alesso Baldovinetti cit., pp. 213-14 124 Ibid., pp. 111-12, documenti a p. 241. 125 vasari, Vita del Baldovinetti, ed. Milanesi, II, p. 596. 126 a. averlino filarete, Trattato di architettura, ed. cit., p. 649. Il Vasari citerà anche Venezia (e Ravenna), Firenze e Roma come principali centri del mosaico: Della pittura, cap. XXIX. 127 r. w. kennedy, Alesso Baldovinetti cit., pp. 60-61: «Una delle piú singolari curiosità storiche è il perdurare a Firenze ancora nel Quattrocento dell’uso del mosaico per la decorazione murale dopo che se ne era perduto il segreto a Venezia... Dopo la metà del secolo il Baldovinetti era l’unico o quasi ad esserne ancora al corrente, poiché il mosaico rispondeva perfettamente al suo gusto; alla fine passerà tale segreto ai fratelli Ghirlandaio coi quali raggiunge un’apparente stabilità e poi scompare». 128 vasari, Vita di Gherardo, ed. Milanesi, III, p. 237; ed. C. L. Ragghianti, I, p. 837. 129 vasari, Vita di Domenico Ghirlandaio, ed. Milanesi, III, p. 274; ed. C. L. Ragghianti, I, p. 855. 130 alberti, Della Pittura, ed. L. Mallé, Firenze 1950, p. 95; c. landino, Divina Commedia di Dante Alighieri, Firenze 1482, Proemio (Fiorentini eccelenti in pittura e sculptura). Nel suo capitolo tecnico sul mosaico, Proemio, cap. 29, il Vasari dichiara: «il piú bello di tutti è quello di Giotto nella nave del portico di San Pietro a Roma, perché veramente in quel genere è cosa miracolosa». 131 w. paatz, Kirchen cit., vol. III, pp. 371 e 501, n. 49, raccoglie le molte fonti. Secondo il vasari, ed. Milanesi, III, p. 336, il busto fu inaugurato da Lorenzo stesso. La tavola mostra una testa di Cristo vicina a quella della Navicella. w. haftmann, Ein Mosaik der GhirlandaioWerkstatt aus dem Besitz des Lorenzo Magnifico, in «Mitteilungen des kunsthistorischen Instituts in Florenz», vi (1940), pp. 98-108. 132 e. müntz, Les collections des Médicis, Paris 1888, p. 39: inventario del 1465, p. 63; sala grande, pp. 76-77: scrittoio. e. müntz, Les mosaïques byzantines portatives, in «Bulletin monumental», lii (1886), pp. 223-40, ha fornito un rapido inventario di queste opere, realizzate nei secoli xii-xiii a Bisanzio, che si trovano nelle collezioni del Louvre, di Roma, Firenze, Venezia, Londra e Pietroburgo. Storia dell’arte Einaudi 297 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze vasari, Vita di Gherardo, ed. Milanesi, III, p. 237. r. w. kennedy, Alesso Baldovinetti cit. 135 l. lauts, Domenico Ghirlandajo, Wien 1943, p. 44, tav. cvii. Sempre nel capitolo sulla tecnica, il Vasari considera quest’opera al di sopra di tutti gli altri mosaici moderni. 136 vasari, Vita d’Alesso Baldovinetti, ed. C. L. Ragghianti, I, p. 729. 137 vasari, Vita di Domenico Ghirlandajo, ed. C. L. Ragghianti, I, p. 858, dove la commissione è, per errore, attribuita a Domenico. 138 Ibid.; nel 1493 Domenico restaurava i mosaici dell’abside della cattedrale di Pistoia, l. lauts, Domenico Ghirlandajo cit., p. 43. 139 vasari, Vita di Ridolfo, Davide e Benedetto Ghirlandai, ed. C. L. Ragghianti, III, pp. 201, 203. 140 Ibid., p. 207, con la curiosa osservazione: «perché non poteva aver pacienza a commettere que’ pezzuoli, non fece mai piú altro di quel mestiere». 141 vasari, Descrizione dell’opere di Tiziano, ed. Milanesi, VII, pp. 466 sgg.; ed. C. L. Ragghianti, III, pp. 586-87, con l’elogio del Giudizio di Salomone di Vincenzo Bianchini (1532-48), delle composizioni dello Zuccati (1532-64) tra cui il ritratto del Bembo del 1542 (al Bargello), e infine di B. Bozza e G. Dente. Sull’opera di Tiziano autore di cartoni: c. ridolfi, Le meraviglie dell’arte, I, ed. D. von Hadeln, Berlin 1914, p. 203; p. saccardo, op. cit., p. 45. Il curioso processo del 1563, scoprendo le rivalità tra le varie botteghe, dimostra la vitalità del mosaico a San Marco. Sulla rivalità Firenze-Venezia: a. chastel, La mosaïque ecc. cit., in «Arte veneta», 1956 142 f. ehrle e e. stevenson, Les fresques de Pinturicchio aux appartements Borgia, Paris 1899. b. berenson, The italian Painters of the Renaissance, ed. London 1952, p. 118. 143 stegmann e geymüller, Architektur der Renaissance in Toskana cit, vol. III, p. 11; w. paatz, Kirchen cit, vol. IV, pp. 568-69 e nn. 3138, pp. 582-83. Il Vasari che critica cosí aspramente l’opera dell’Alberti, fa eccezione solo per il «sepolcro di marmo molto ben fatto», ed. Milanesi, II, p. 543. 144 f. bürger, Geschichte des florentinischen Grabmals cit., p. 162. 145 f. bürger, Geschichte ecc. cit., cap. VI. Si può rilevare l’analogia tra la figurazione di sinistra e il passo citato sopra relativo al tempio di Minerva a Roma. 146 w. paatz, Kirchen cit., nell’ordine: vol. V, p. 293, n. 232; vol. I, p. 101 e n. 257; p. 284, n. 96. 147 l. planiscig, A. del Verrocchio, Wien 1941, pp. 18 sgg. w. paatz, Kirchen cit., vol. II, p. 499 e n. 209 (bibliografia). 148 w. paatz, Kirchen cit., vol. V, p. 295 e nn. 245, 246. Attribuito al Sangallo dal Fantozzi, Guida di Firenze, Firenze 1842, p. 370, basandosi su una vecchia tradizione, questo singolare monumento è stato stu133 134 Storia dell’arte Einaudi 298 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze diato da a. warburg, Francesco Sassettis letztwillige Verfügung (1907), in Gesammelte Schriften cit., vol. I, pp. 127 sgg. Sulla sua posizione nella storia della tomba fiorentina, f. bürger, Geschichte ecc. cit., p. 192. 149 g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., p. 26. Sulle fonti antiche del fregio: f. schott-müller, Zwei Grabmäler der Renaissance und ihre antiken Vorbilder, in «Repertorium für Kunstwissenschaft», xxv (1902), pp. 401-3. 150 Con un gioco di parole sul suo nome latinizzato, richiamato dall’epigrafe: Franciscus Saxettus Sibi U(rnam) p(osuit). I medaglioni dell’arco di Costantino si trovano ai foll. 23 e 24 del taccuino senese di Giuliano da Sangallo: pubblicato da C. Falb, Wien 1902. 151 l. strozzi, Vita di Filippo Strozzi il vecchio, Firenze 1851, p. 60; vasari, ed. Milanesi, III, p. 471; a. scharf, Filippino Lippi, Wien 1935, documenti VIII-XII. 152 a. della torre, Storia cit., p. 833. 153 w. paatz, Kirchen cit., vol. III, pp. 708-9 n. 227, p. 797 154 g. marchini, Le vetrate italiane, Milano 1955, p. 44. 155 Su Filippino e l’umanesimo cfr. piú avanti. 156 g. beltrami, Il monumento sepolcrale di Sisto IV e le sue vicende, in Atti del III Congresso Nazionale di Studi romani, ii (1935), p. 365; a. sabatini, Antonio e Piero del Pollaiuolo, Firenze 1944, pp. 82-83; l. d. ettlinger, Pollaiuolo’s Tomb of Pope Sixtus IV, in «jwci», xvi (1953), pp. 239 sgg 157 c. de tolnay, The Tomb of Julius II, Princeton 1954, p. 28. 158 h. von einem, Michelangelos Juliusgrab im Entwurf von 1505 und die Frage seiner ursprünglichen Bestimmen, in Festschrift für H. Jantzen, 1951, pp. 152-68. 159 l. landucci, Diario fiorentino cit., pp. 58-59. p. francastel, L’«architecture civile du Quattrocento, in Eventail de l’histoire vivante (Hommage à Lucien Febvre), Paris 1933, vol. II, pp. 195-206, rileva giustamente che le forme della nuova architettura sono rimaste a lungo «immaginarie» e solo lentamente hanno trovato pratica realizzazione; è però difficile riconoscere nei palazzi fiorentini «l’impianto di residenze rurali isolate» e anche quegli elementi della casa di campagna che ancora conserverebbero; come è impossibile parlare del «piccolo numero di edifici civili costruiti nel corso del Quattrocento», e affermare che «dal 1420 al 1500... l’architettura moderna è stata solo opera rara di isolati». Il prospetto cronologico presentato da m. reymond, ne L’Histoire de l’art ed. a. michel, t. III, vol. II, p. 512, che elenca solo pochi edifici datati, non deve creare false prospettive. 160 Nella stessa Firenze, dove il Sangallo costruí, per usare le parole del Vasari, «a’ privati cittadini molte case», conosciamo il palazzo Gondi (prima pietra: 1490), il palazzetto di Bartolomeo Scala, un palazzo «per un veneziano fuor della porta a Pinti» (cfr. «Commenta- Storia dell’arte Einaudi 299 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze ri», i [1950], p. 34), ecc., senza contare la villa di Poggio a Caiano e la loggetta di Careggi. Giuliano costruí inoltre a Savona il palazzo di Giuliano della Rovere (1495), forní per Napoli il progetto famoso del palazzo reale (1488), per Milano il progetto per Ludovico il Moro (1492); e la sua attività a Roma, sia durante il suo primo soggiorno intorno al 1470 ai tempi di Paolo II, sia sotto Sisto IV e Giulio II, o addirittura ai tempi di Leone X (progetto del palazzo di piazza Navona, Uffizi, Arch. 7949 A), meriterebbe un esame approfondito. I dati essenziali si trovano nello studio citato di G. Marchini. 161 m. wackernagel, pp. 152 sgg. Il Filarete (intorno al 1460) descrive entusiasticamente l’interno di palazzo Medici «il quale a tutta la città rende honore»: Trattato di architettura, ed. W. von Oettingen, Wien 1890, pp. 677-78. 162 Sul palazzo del Proconsolo: lami, Deliciae eruditorum, XII, 88. Sul ciclo di Lorenzo de’ Bicci: vasari, ed. Milanesi, II, p. 50. Sull’Ercole di palazzo Bardi-Serzelli: m. salmi, Paolo Uccello, Andrea del Castagno, Domenico Veneziano, 2ª ed. Milano 1938, p. 32. 163 La villa fu acquistata nel 1475 da Jacopo di Giannozzo Pandolfini, fratello di Pierfilippo, l’amico di Donato Acciaiuoli e del Ficino. c. carocci, I dintorni di Firenze, 1907, vol. II, p. 400; m. salmi, Gli affreschi di Andrea del Castagno ritrovati, in «Bollettino d’arte», iv (1950), pp. 295-308. 164 a. schiaparelli, La casa fiorentina e i suoi arredi, Firenze 1908; j. pope-hennessy, Paolo Uccello, London 1950, pp. 149 sgg. 165 Sulla biblioteca di Fiesole, cfr. piú avanti; sugli affreschi di Arcetri, cfr. sopra. 166 a. sabatini, Antonio e Piero del Pollaiuolo, Firenze 1944, p. 96. 167 m. wackernagel, pp. 272 sgg. e a. warburg, Francesco Sassettis letztwillige Verfügung cit., pp. 133-34. Su ciò che rimane della villa (oggi Martini Bernardi): g. carocci, I dintorni ecc. cit., p. 183. La lettera del Ficino, Opera, 799-800, si trova nel libro V dell’Epistolario del Ficino che viene datato 1477-78 (p. o. kristeller, Supplementum Ficinianum, CI). La conclusione della lettera suona: «Duplo tibi Saxette religiosior domus est quam caeteris, aliae certe sacellum vix unum habent, tua vera gemina et illa quidem speciosissima continet». Ci si può chiedere se questi gemina sacella non siano analoghi alle due cappelle del palazzo d’Urbino che vengono costruite esattamente alla stessa epoca e sono consacrate l’una alle Muse, l’altra allo Spirito Santo: cfr. piú avanti. 168 m. wackernagel, p. 158 e soprattutto: p. horne, Quelques souvenirs sur Botticelli, in «Revue archéologique», t. XXXIX (luglio-agosto 1901), pp. 12-19, parte II (Les fresques de Spedaletto). Lo Spedaletto è diventato «una casa di fattoria» vicino a Volterra, vasari, ed. Milanesi, III, p. 258, n. 45. Storia dell’arte Einaudi 300 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze p. müller-walde, Beiträge zur Kenntnis des Leonardo da Vinci, in «Jahrbuch der preussischen Kunstsammlungen», xviii (1897), p. 165. Questo documento è riprodotto in c. gamba, Botticelli cit., p. 151. 170 Su Botticelli: vasari, ed. Milanesi, III, p. 318: «haveva assai lavorato allo Spedaletto in quel di Volterra». h. horne, Botticelli cit., p. 109. j. mesnil, Botticelli cit., p. 100. Sul Ghirlandaio: vasari, ed. Milanesi, III, p. 258. 171 Passata alla famiglia Cibo, la villa fu venduta nel Seicento ai Corsini; un antico annotatore del Vasari, G. Bottari, ed. di Roma, 1759, t. I, p. 428, diceva già che l’affresco del Ghirlandaio «posto sotto un portico ed esposto all’aria libera, aveva molto sofferto». Un incendio ha distrutto in parte la villa tra il 1820 e il 1830; attualmente non vi rimane piú nulla di riconoscibile. 172 Come ha osservato a. warburg, in Gesammelte Schriften cit., t. I, p. 644; cfr. anche piú avanti. 173 c. gamba, Botticelli cit., p. 158. j. mesnil, Botticelli cit., p. 103. e. h. gombrich, Botticelli’s Mythologies ecc. cit., e a. chastel, Botticelli, Milano 1958. 174 Il tema «matrimoniale» è stato proposto da f. wickhoff, Die Hochzeitsbilder Sandro Botticellis, in «Jahrbuch der preussischen Kunstsammlungen», xvii (Berlin 1906), pp. 198 sgg., che ha perfino creduto di ritrovarvi le nozze allegoriche di Mercurio e della Filosofia descritte da Marziano Capella. L’interpretazione tradizionale riassunta dal wackernagel, p. 187, deve essere corretta su tutti questi punti seguendo i. mesnil, Botticelli cit., pp. 101 sgg., e e. h. gombrich, Botticellis Mythologies ecc. cit., p. 57 n. 1. In realtà: 1) Lo stemma nell’affresco di Venere, ora assai cancellato, non recava le armi dei Vespucci: queste sono state aggiunte sulla base del pilastro di destra; 2) Il profilo della dama non ha alcun rapporto con quello di Giovanna, ben fissato dall’affresco del Ghirlandaio a Santa Maria Novella (cfr. u. thieme, Ein Porträt der Giovanna Tornabuoni von Domenico Ghirlandaio, in «Zeitschrift für bildende Kunst», ix [1908], p. 192); 3) Il giovane che è stato identificato con Pico della Mirandola, prima di diventare Lorenzo Tornabuoni (e. wickhoff, Ein Porträt ecc. cit.) somigliava piuttosto a Lorenzo di Pierfrancesco (medaglia pubblicata da g. p. hill, A corpus of italian medals, London 1930, nn. 1504-505) che era per l’appunto gran cliente del Botticelli. 175 w. weisbach, Studien zu Pesellino und Botticelli, in «Jahrbuch der preussischen Kunstsammlungen», xxix (1908), p. 18. 176 vasari, ed. Milanesi, III, p. 312. j. mesnil, Botticelli cit., p. 53 non lo crede. Né le dimensioni né i supporti corrispondono, benché si tratti di grandi formati: La Primavera: 2035314 (tavola); La nascita di Venere: 1755279 (tela). Sui lavori di Botticelli a Castello: h. horne, Botticelli cit., pp. 119 e 184; j. mesnil, Botticelli cit., p. 210. 169 Storia dell’arte Einaudi 301 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Il Ficino ne ha diretto gli studi intorno il 1476; nel suo testamento gli legherà il manoscritto di Platone donatogli nel 1462 da Cosimo il Vecchio: a. della torre, Storia cit., p. 542. 178 Il doppio studio di a. warburg, Sandro Botticelli «Geburt der Venus» und «Frühling», in Gesammelte Schriften cit., pp. 1 e 3, indica le fonti poetiche remote; quello di e. h. gombrich, Botticelli’s Mythologies ecc. cit., i punti di partenza immediati dell’artista. 179 Cfr. piú avanti. Questi problemi sono stati di recente ripresi da e. wind, Pagan mysteries ecc. cit., cap. VII e VIII, che vede nelle due opere le due Veneri, quella naturale e quella celeste, del platonismo. 180 bocchi-cinelli, Le bellezze ecc. cit., p. 384; g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., pp. 88-89. 181 Bartolomeo Scala (1426-97) è uno degli amici, insieme al Landino e al Poliziano, che il Ficino consultò al momento di dare l’ultima mano al suo Platone: a. della torre, Storia cit., p. 606. Bartolomeo Scala era una creatura dei Medici: «messer Bartolomeo deli begli inchini»; nel 1465 era oggetto degli attacchi del Pulci; nel 1493 avrebbe polemizzato aspramente col Poliziano per questioni di stile latino; cfr. v. rossi, Il Quattrocento cit., pp. 375 sgg. La lettera del Ficino citata si trova in un manoscritto conservato alla biblioteca di Monaco, che contiene, oltre ai libri IX-XI dell’Epistolario del Ficino, un gran numero di lettere inedite che parlano di vicende pubbliche degli anni 146569 e sembrano essere di Bartolomeo. Su questa raccolta: Supplementum Ficinianum, I, p. xxxv; testo della lettera: ibid., I, p. 60. 182 Cfr. piú avanti. G. Poggi, che aveva iniziato lo studio di questo complesso, mi ha cortesemente autorizzato a pubblicarne le fotografie inedite. 183 vasari, ed. C. L. Ragghianti, I, p. 867. 184 Come nel castello di Torchiara, la «camera d’oro» di Pier Maria Rossi: c. ricci, Santi e artisti, Bologna 1894, pp. 229 sgg. a. roccabianca, Le cycle disparu de l’histoire de Grisélidis; a. colasanti, Due novelle nuziali del Boccaccio nella pittura del Quattrocento, in «Emporium», marzo 1904. p. schubring, Cassoni cit., nn. 297-300. Le riserve di j. mesnil, Botticelli cit., p. 222, contro l’opinione favorevole di C. Gamba, Botticelli cit., p. 152, ci sembrano fondate. Questo complesso è, per il gusto fiorentino, l’equivalente dei cicli «cortesi» frequenti negli interni lombardi ed emiliani. 185 j. mesnil, Botticelli cit., p. 209, n.148, ha accostato la Morte di Lucrezia a una tavola piú antica, eseguita in collaborazione con Filippino Lippi (Pitti). Il Botticelli riprende dunque un modello vecchio di trent’anni. 186 vasari, ed. Milanesi, IV, p. 141: e. panofsky, The early history of man in two cycles of paintings by Piero di Cosimo, in Studies in Iconology cit., cap. II. 177 Storia dell’arte Einaudi 302 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Su questa casa: h. horne, Botticelli cit., p. 212. e. panofsky, The early history ecc. cit., pp. 64-65, ha messo in evidenza il contrasto tra le due metà del paesaggio, ridente a sinistra, selvaggio a destra: starebbe a suggerire l’opposizione tra stato selvaggio e vita rustica. 189 Su questo problema: e. panofsky, The early history ecc. cit., p. 51: Ritorno dalla caccia (New York, Metropolitan Museum), Scena di caccia (ibid.), Paesaggio con gli animali (Oxford, Ashmolean Museum). 190 j. p. horne, The last Communion of Saint Jerome by Sandro Botticelli, in «The Bulletin of the Metropolitan Museum of Art», x (New York 1915), pp. 52 sgg., 101 sgg. 187 188 Storia dell’arte Einaudi 303 Parte seconda Problemi dell’iconografia e dello stile Introduzione L’originalità di Firenze Dagli inizi del Trecento Firenze ebbe costante la preoccupazione che nessuna grande iniziativa in Italia, o addirittura in Occidente, restasse senza una contropartita locale. L’ambizione di essere la «nuova Roma» grazie al numero, alla vastità e alla solennità degli edifici, vi si nota ben presto nelle rivendicazioni dei cronisti, in certi aspetti dei programmi monumentali: è stata notata un’analogia di dimensioni tra Santa Croce e la basilica di San Pietro in Vaticano, analogia che difficilmente può essere casuale, e il progetto di Santa Maria del Fiore mirava a riassumere e superare in un solo edificio tutta l’architettura della cristianità1. All’inizio del Quattrocento era vivamente sentita la necessità di portare a termine la chiesa per non restare inferiori a città come Milano e Venezia. La commissione cittadina preposta a questo era imbarazzata fra mezzo a progetti vecchi di due generazioni e ai troppo numerosi intrighi. I fiorentini si mostravano impazienti di arrivare ad una decisione circa la cupola, dato che Milano, con cui si era in aperto conflitto e contro la quale gli umanisti toscani si sentivano spinti a celebrare la storia antica e recente della loro città, era sul punto di innalzare la piú formidabile cupola «gotica» dell’Occidente2. La riuscita del Brunelleschi fu vista come un simbolo della superiorità fiorentina e celebrata come tale. Nell’architettura non ci fu, nel corso di Storia dell’arte Einaudi 304 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze tutto il Quattrocento, altra impresa paragonabile a questa3. All’epoca di Lorenzo il progetto di decorare di mosaici l’interno della cupola fu chiaramente suggerito dal desiderio di estendere alla Cattedrale la gloriosa decorazione del Battistero e in questo modo sottolineare la priorità di Firenze su Venezia in questo campo4. L’iniziativa s’arenò ben presto e Santa Maria del Fiore non divenne un nuovo San Marco. Senza questa preoccupazione di uguagliare Venezia non si spiegherebbe nemmeno l’idea della Signoria repubblicana del 1494 di creare in palazzo Vecchio una sala del Gran Consiglio dello stesso tipo, ma piú grande e piú bella ancora, di quella del palazzo dei Dogi, e di costituire a questo fine una commissione di architetti e decoratori5. Il concorso del 1491 per la facciata della cattedrale lasciava prevedere decisioni importanti: che questa facciata non sia stata compiuta ci priva di un documento fondamentale sullo stato del gusto fiorentino alla fine del secolo. Dagli echi che di certi progetti si colgono negli studi elaborati nel 1514-15 per mascherare la facciata di San Lorenzo, s’intravede in qual senso, e cioè in un senso già classicheggiante, fondato sull’impiego di ordini sovrapposti e di statue, Firenze tendesse ad affermare la sua originalità di contro al pittoresco della Certosa di Pavia e alle complesse decorazioni delle chiese veneziane6. I fiorentini avevano un senso elevato della vocazione della loro città: in una miniatura del De civitate Dei di sant’Agostino, una bella iniziale mostra la città di Dio contemplata dal Santo Dottore. Questa città non è altro che Firenze colle sue mura, le sue torri dominate dalla cupola. Non piú Roma ma Firenze rappresenta la città ideale7. Questo era il sentimento popolare. Il diario terra terra di Luca Landucci basta ad attestare l’interesse che ai nuovi edifici prendevano bottegai e artigiani8. Le celebrazioni ufficiali che si erano venute moltiplicando tra Storia dell’arte Einaudi 305 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze il 1480 e il 1490 avevano larga risonanza tra il pubblico. E questa fiducia era alimentata dalle dichiarazioni dei dotti, da scritti come ad esempio il Proemio del Landino alla Commedia, nel quale non manca affatto lo spirito «campanilistico». Le feste. Lo si ritrova anche nel successo che hanno le «feste». I cortei e le cavalcate, accompagnati da spettacoli, rispondevano a un bisogno irresistibile della vita pubblica, di cui difficilmente si potrebbe esagerare l’estensione. Dotti ed artigiani, notabili e popolo, vi partecipavano in egual misura: lo spirito di competizione con le altre città e l’intento pubblicitario vi si vedevano chiaramente9. Le novità della cultura vi si dispiegavano nella cornice delle tradizioni locali. I divertimenti pubblici a spese della Signoria sono attestati già nel secolo xiii: la festa del patrono san Giovanni forniva l’occasione per cortei e carri, ricordati volentieri dai cronisti. Vi si osserva piú che altrove, soprattutto dopo il Concilio del 1434 e le visite dei bizantini, il gusto delle figure esotiche e dei soggetti orientali10. Per la festa di san Giovanni del 1454 si assiste ad una cavalcata con Mosè, i profeti e le Sibille, seguiti da «Ermete Trismegisto», descritta da Matteo Palmieri. Nel 1459 Lorenzo si presentò con in testa il «mazzocchio» o turbante con piume d’oro. Particolari analoghi si hanno a proposito delle giostre famose del 1469 e del 1475, nelle quali i Medici ostentarono una pompa che moveva da un calcolo preciso: i costumi, gli emblemi attrassero l’attenzione dei poeti e degli osservatori forestieri11. A partire da queste date Firenze inaugura uno stile di feste di cui non si era avuto finora alcun equivalente altrove. La tradizione ha attribuito una parte attiva a Storia dell’arte Einaudi 306 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Lorenzo nella loro elaborazione; a lui spettano senza dubbio un certo numero di canti carnascialeschi fra quelli raccolti dal Lasca nel Cinquecento12. Ai carri delle corporazioni si mescolavano quadri storici (fra i quali il Trionfo di Paolo Emilio, realizzato nel 1491 dal Granacci) e quadri viventi mitologici, come la scena di Bacco e Arianna. Il Vasari insisterà sulla priorità di Firenze in questo campo, e il ricordo di queste feste contribuirà non poco alla gloria postuma di Lorenzo, a giudicare dai carnevali del 1513 e 151413. Le fronti di cassoni, nelle quali si vedono giostre e cavalcate, ci documentano in parte su queste messe in scena. Esse comprendevano false facciate, tempietti, archi, elementi decorativi fissi; ma i documenti non permettono di arrivare piú oltre nello studio e in particolare s’ignora l’importanza che vi avevano le architetture fantastiche che, sia sui carri, sia nella strada, accompagnavano i «quadri viventi» della festa14. Abbiamo per lo meno un’idea abbastanza precisa dei costumi, che conferivano a queste messe in scena un tono divertente e eccezionale: la Cronaca illustrata di Maso Finiguerra ne contiene tutto un repertorio e vi si notano un lusso e una fantasia che contrastano con la sobrietà degli abiti correnti dei fiorentini. I figurinisti ed i sarti si mostrano, in questi costumi, attenti alle mode borgognone; ne riprendono i piumaggi, le guarnizioni e i ricami combinandoli con elementi «orientali», e compongono una sorta di fantasmagoria vestiaria, che rappresenta il piú brillante contributo fiorentino alla poetica delle feste15. L’ellenismo. Importanza non minore si deve attribuire alla progressiva «ellenizzazione» della cultura fiorentina. Anche in questo essa si è trovata al centro di un’evoluzione che Storia dell’arte Einaudi 307 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze interessa tutto quanto l’Occidente. I legami col mondo bizantino erano di data abbastanza remota, ma solo intorno al 1420-30, in concorrenza con Venezia e le città della costa adriatica, si cominciò a nutrire un vero e proprio interesse per la letteratura e l’arte greche. Il Brunelleschi e Donatello avevano scoperto le risorse di Roma. Restava da valorizzare Atene: l’affettazione un po’ ingenua con cui il Ghiberti utilizza la cronologia delle «Olimpiadi» per presentare la storia universale dell’arte, rivela uno «snobismo» già serio16. Nel 1437 Ciriaco d’Ancona era venuto a visitare Donatello e il Ghiberti e si era incontrato col Niccoli. I suoi schizzi di rilievi greci, le sue note di epigrafia avranno un successo durevole dato che li ritroviamo utilizzati da Bartolomeo Fonzio in una raccolta d’iscrizioni e da Giuliano da Sangallo nella sua grossa raccolta d’archeologia17. L’idea di risalire, al di là dell’eredità di Roma, alla Grecia non si affermò presso tutti gli artisti, fu invece ben presto familiare ai letterati. Il Petrarca ci pensava; Leonardo Bruni ne era tanto convinto da mettersi, intorno al 1400, alla scuola del mediocre Crisolora18. Le vicende del Concilio e l’arrivo in massa dei bizantini nel 1439 richiamarono l’attenzione generale: essi apparivano dotati di una cultura superiore a quella dei latini. Cosí la catastrofe che divise il mondo greco dall’Occidente ebbe una precisa risonanza a Firenze: inculcò negli ambienti colti la coscienza di nuovi compiti da svolgere. Impaziente di attrarre a Firenze l’Argiropulo, Donato Acciaiuoli scriveva nell’ottobre del 1454: «Nunc eversa nobilissima civitate Byzantiorum, quippe soli aliquod vestigium veteris Graeciae retinebant, credendum est inde cum Graecia Graecorum scientiam pene extinctam». Questa scienza in via di estinzione si trattava di inserirla nella cultura italiana e questa fu appunto la funzione dell’Argiropulo a Firenze: dal 1456 al 1461 egli illustrò per la prima volta, dai presocratici Storia dell’arte Einaudi 308 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze agli alessandrini, la storia del pensiero greco mettendo in luce soprattutto i suoi tre vertici: Socrate, Platone, Aristotele19. È stata la cerchia degli Acciaiuoli, e non quella di Cosimo de’ Medici, l’azione dell’Argiropulo, e non quella del Ficino, che hanno aperto la nuova fase dell’umanesimo20. Lo sviluppo del fenomeno fu rapido e si sa che dopo il 1470, e per tutta la durata del principato di Lorenzo, i fiorentini poterono vantarsi di aver raccolto l’eredita bizantina e di averne tratto, con la linea maestra del platonismo, i fondamenti di una sintesi universale. La rapida assimilazione dei grandi testi, la loro traduzione in latino, la loro diffusione attraverso commenti, hanno assicurato a quella che è stata detta l’«Accademia fiorentina» un prestigio senza precedenti21. Divenne cosí necessario per i moderni passare attraverso Platone, cioè attraverso i suoi esegeti fiorentini22. Nella sua Apologia del 1487 Pico non mancherà di insistere sul fatto che non si può giungere ad una filosofia «totale» se non partendo dalle dottrine greche23. In un’epoca in cui la cultura italiana si rivolge con impazienza alle forme ed alle idee dell’Antichità, il genio fiorentino è attratto dalla chiarezza e dall’eleganza dei greci. Addirittura aspirava a farle proprie. Poliziano avrebbe dimostrato, non senza ingratitudine in questo, qualche segno d’insofferenza per i bizantini, e una vivace ironia verso le loro pretese intellettuali: questo per il desiderio di sostenere l’originalità dei toscani nel campo stesso della cultura greca: «vel nitore vel copia vivimus ex pari cum Graecis»24. L’autorità della Scuola fiorentina era tanto maggiore in quanto si estendeva anche al campo della lingua, del «volgare», dove si era posta a capo di una evoluzione decisiva25. Nella lettera a Ferdinando d’Aragona Lorenzo si faceva forte della solida tradizione toscana, appoggiata su Dante, Boccaccio e Petrarca. Si trattava di creare una lingua letteraria abbastanza agile e ricca, Storia dell’arte Einaudi 309 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze come affermavano, insieme col Landino, tutti i maestri dello Studio: di questi alcuni si preoccupavano maggiormente dello stile nobile e di un arricchimento della lingua sulla base del latino26, altri erano maggiormente interessati all’assimilazione dei dialetti italiani e alle possibilità offerte dalla lingua parlata27. Ma tutto sommato la preoccupazione di una lingua «nazionale» e il senso della loro responsabilità in questo campo costituiscono la forza dei letterati dell’ambiente mediceo. L’Alberti ne aveva dato l’esempio con un’opera scritta in modo indubbiamente brillante, il Trattato della famiglia, e il Ficino tradurrà lui stesso in volgare qualcuno dei suoi trattati. Anche in questo gli umanisti fiorentini aprivano un’epoca nuova. La letteratura fiorentina quattrocentesca non presenta d’altronde una varietà che sia pari alla sua abbondanza: rimane dominata dalle monotone convenzioni della lirica e dalle forme tradizionali del didatticismo morale, anche se non mancano alcune notevoli eccezioni come il racconto del grasso legnaiuolo del Manetti e l’Orfeo del Poliziano. Essa non conosce né la novella né la forma drammatica; è invece invasa dalle narrazioni derivate dal vecchio fondo della letteratura cortese e dell’epica medievale. Uno degli avvenimenti dell’epoca sarà la pubblicazione del Morgante, di cui nel 1485 Ludovico il Moro chiedeva d’urgenza un esemplare a Lorenzo, il quale fece di tutto per accontentarlo immediatamente28. L’ironia e le invenzioni burlesche, il tono irriverente e «libertino» del Pulci costituivano una sorta di antidoto alla costante elevatezza dei discorsi platonici. Questo contrasto ci aiuta meglio a comprendere il tono un po’ distante e sostenuto proprio del gruppo di Careggi29. Storia dell’arte Einaudi 310 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Una dottrina della poesia e dell’arte. L’originalità dell’ambiente fiorentino si rivela soprattutto nell’elaborazione di una dottrina della poesia e dell’arte30. Nel poema Florentia, che data del 1490 circa, Pandolfo Collenuccio tenta di spiegare l’atmosfera intellettuale della città unendo insieme l’elogio dei neoplatonici di Careggi e quello degli artisti: Certi scrutano i principi delle cose, i segreti dell’universo e i misteri nascosti agli occhi degli uomini; per essi Platone, nel suo elevato discorso, non cessa di aver voce, né cessa il suo sottile discepolo. Occorre aggiungere ad essi le innumerevoli arti alle quali presiede Apollo, che la seconda Pallade favorisce coi suoi doni generosi, e per ammirare e cercare le quali si viene dai paesi lontani. Non si tratta della poesia, che viene ricordata piú avanti, ma delle arti e delle tecniche, della pittura e dei tessuti31. L’elogio della città tessuto dal Ficino non aveva un significato diverso: «Questo secolo, come aureo, le discipline liberali, quasi estinte in luce ha ridutte, la Grammatica, la Poesia, l’Oratoria, la Pittura, la Scultura, la Architettura, la Musica, l’antico modo di cantare i versi e la Lira, come già fece Orfeo, e questo si fu in Fiorenza»32. Lo sviluppo delle arti e delle lettere entra cosí in una visuale provvidenziale, nella quale Firenze tiene un ruolo capitale, e nella quale le arti plastiche assumono un significato non minore della poesia e della retorica: le une e le altre hanno trovato un modo nuovo simboleggiato dalla «lira di Orfeo». Insomma il Ficino delinea una condizione della vita artistica che gli sembra conforme all’ideale platonico e che si starebbe realizzando a Firenze. L’umanesimo significa cosí anche la giustificazione dell’arte contemporanea. Questa presa di coscienza dei valori artistici rappre- Storia dell’arte Einaudi 311 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze sentava il punto di arrivo di una lunga evoluzione. Il platonismo era, nel Rinascimento, la filosofia degli intellettuali e dei poeti, che non s’accontentavano della lingua barbara e delle analisi concettuali della scolastica33. Platone per Petrarca impersonava già da solo una «filosofia letteraria» che egli sognava di opporre allo «scientismo» della scolastica. Con questo siamo al centro del problema del Rinascimento: la qualità dell’espressione è altrettanto importante della dottrina, almeno nel senso che questa è l’organizzazione di verità etiche, psicologiche, civiche, le quali hanno un valore in grazia dello sforzo dello scrittore per adattarle e per farne convinto il pubblico. Donde l’interesse di un Salutati per Platone34. La fama del Bruni e, in misura minore, del Marsuppini, verrà dalla loro qualità di oratori e scrittori; la città li onorerà con tombe monumentali (che saranno esse stesse manifesti di una nuova arte) per celebrare la loro funzione civica, il loro sapere, ma anche la forza e l’originalità del loro stile che li fa temere e ammirare negli altri paesi. L’ambiente di Careggi si orienta infine verso un «estetismo» assai piú caratterizzato. Il porsi sotto l’egida di Platone significava anche contro il peripatetismo della scolastica, l’ambizione di affermare la poetica theologia e nello stesso tempo (contro gli scettici o libertini) l’affermazione delle possibilità infinite dell’anima. Questa doppia affermazione va connessa all’elogio dell’uomo come artista, del saggio come poeta, e, in linea generale, alla scoperta dell’arte come attributo fondamentale dell’umanità35. Un insegnamento come questo fa appello all’interiorità dell’anima e con ciò stesso rende necessario un ripensamento di tutti i simboli e tutti i modi di espressione; d’altra parte riconosce un’importanza particolare all’esigenza del bello, il che sollecita una meditazione piú attenta delle forme. La sua possibile azione sul mondo delle arti si delinea in queste due direzioni. Il Ficino ha spesso pagine Storia dell’arte Einaudi 312 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze poetiche e calorose in cui incita lo spirito a raccogliersi, a dominare le illusioni rovinose e i vani terrori che lo turbano; la vita in un certo senso non è che un brutto sogno. Nella curiosa epistola al «genere umano» egli dice che occorre cercare se stessi al di là del mondo e che le miserie di questo si superano contemplandolo da un punto piú elevato. La meditazione filosofica tende anzitutto a restituire all’anima la coscienza della sua alta condizione interiore: è questo per Ficino il senso della predicazione «platonica», come egli dichiara già nel 1470 in un’epistola a Giovanni Cavalcanti36. Era un modo per rispondere alla inquietudine dell’epoca, ma anche per confortarne il suo desiderio di poesia. Questa verità interiore, ostacolata dalle illusioni sensibili, viene rivelata dalle favole, dalle invenzioni poetiche, da un gioco audace di allusioni e metafore. Il neoplatonismo viene cosí a trovarsi strettamente legato alla generale crisi del «simbolismo» che travaglia il Rinascimento37. Sarebbe stato ben strano che questa non si facesse sentire in nessun modo sulle immagini e i temi dell’iconografia. Indubbiamente non ci fu né poteva esserci un nuovo Vincenzo di Beauvais fra gli umanisti fiorentini: è solo con il Cartari e il Ripa che l’«iconologia» prenderà forma. Ma le raccolte di costoro non saranno che un prolungamento di ciò che viene abbozzandosi alla fine del Quattrocento a Firenze, ed è a partire da questa data che si constata il mutarsi e il parziale rinnovarsi degli schemi tradizionali: il principio essenziale che guida il fenomeno è un nuovo equilibrio tra profano e sacro che merita di essere analizzato38. La «musica» e la cultura delle botteghe degli artisti. Non meno nuova era l’insistenza del Ficino e dei suoi amici sul valore metafisico e pieno della bellezza: Storia dell’arte Einaudi 313 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze né minori erano le conseguenze che implicava. Il Ficino ha fornito ampi chiarimenti a questo proposito. Tutte le attività umane tendono a celebrare la bellezza ineffabile che regna nell’universo, tutte le arti mirano a quell’armonia superiore che si deve chiamare «musica»: il primo grado di essa sta nella ragione, il secondo nell’immaginazione, vengono in seguito il discorso, il canto, e ancora il suono degli strumenti, e alla fine i movimenti della danza ritmica. «La musica de l’animo di grado in grado discende et si conduce a tutte le membra del corpo. La quale anchora gl’oratori, i poeti, i dipintori, gli scultori, gl’architettori ne l’opere loro vanno imitando»39. In questa forma generale, ma suggestiva per la sua stessa universalità, si veniva delineando una nuova psicologia della attività spirituale in funzione della bellezza. La «musica» di cui si parla è la facoltà di provocare, attraverso il suono degli strumenti, un certo stato incantevole di contemplazione interiore, e nello stesso tempo è il simbolo di un’operazione piú generale che mobilita tutta l’anima. La musica instrumentalis è solo il primo grado, la musica interiore (humana) dell’anima ne è il secondo, e la musica cosmica (mundana) il grado piú alto. Questa idea di musica rappresentava dunque un simbolo perfetto dell’attività artistica con i suoi tre aspetti: uno strumento appropriato, un piano di effetti psico-fisiologici, un fine ultimo superiore che si compie nell’armonia universale40. Tale musica viene cosí ad essere connessa a tutti i gradi dell’essere, tocca sia la coscienza inferiore, legata alla natura fisica, sia la coscienza illuminata che gode della bellezza del numero, sia la coscienza superiore che coglie un universo trasfigurato. La «lira d’Orfeo «significa l’accesso alle intuizioni felici; è un rimedio ai mali nascosti dell’anima e in primo luogo alla malinconia41. La pratica e la teoria della musica, come è stato giustamente osservato, conoscono, per Storia dell’arte Einaudi 314 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze l’appunto intorno al 1500, grazie all’aumento delle ottave e l’arricchimento delle famiglie di strumenti, lo stesso ampliamento che subisce la concezione del cosmo, la cui dilatazione è palese in Ficino, come in Nicola Cusano, prima di Copernico: l’ottava disegna una sorta di cerchio perfetto, l’accordo musicale è in certo modo il prototipo della bellezza pura42. È interessante notare come abbia successo il richiamo alla musica in quella che potremmo chiamare la critica d’arte del Quattrocento. Si sa che, nelle istruzioni date a Matteo de’ Pasti, l’Alberti insiste sulle misure e proporzioni dei pilastri per cui modificarli significherebbe distruggere l’accordo di tutta la musica. Abbiamo qui una analogia molto meditata, fondata sul valore puro del numero, e insieme una di quelle «metafore di valore» che rivelano un nuovo orientamento della sensibilità43. Questo dovette generalizzarsi nell’ambiente fiorentino se il Ficino sentí il bisogno di darne una interpretazione filosofica. Leonardo avrebbe concentrato la sua attenzione sui rapporti fra pittura e musica che è sorella ma non rivale della pittura44. Infatti la «sventurata musica» («sventurata» perché destinata a dissolversi nell’aria) viene alla fine ad essere inferiore alla pittura nella misura stessa in cui l’udito è metafisicamente inferiore alla vista e l’armonia che si svolge nella durata è inferiore a quella che si dispiega nello spazio. Per condannare la pittura sentimentale dei fiamminghi, che gli sembra detestabile, Michelangelo ricorrerà alla stessa formula dell’Alberti: questa cattiva pittura è fatta per piacere alle donne, ai frati e «a qualche gentiluomo privo del senso musicale della vera armonia»45. Questa frase induce a pensare che il riferimento alla musica fosse già da lungo tempo elemento corrente della lingua delle arti. Si è giustamente insistito sul clima «musicale» di Venezia al momento in cui Giorgione vi sviluppa i suoi sogni penetranti e tutta una nuova gamma di emo- Storia dell’arte Einaudi 315 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze zioni46. Un’osservazione analoga si deve fare per Firenze, una generazione prima. La tradizione narra che nella bottega del Verrocchio si teneva molto alla musica; Leonardo nella sua gioventú e noto come cantore e suonatore di lira: una miniatura lo raffigura con lo strumento in mano47. C’era dunque almeno questo elemento comune tra le botteghe degli artisti e l’accademia ficiniana, dove si suonava la «cetra» e si cantava in ogni occasione48. Intorno al 1490 il Verino loda il Verrocchio come il maestro di quasi «tutti coloro il cui nome vola oggi nelle città d’Italia»49. La sua partenza per Venezia nel 1483 e la morte prematura nel 1488 hanno privato Firenze di una personalità robusta proprio nel momento in cui si moltiplicavano i nuovi compiti. Egli aveva un alto concetto della sua persona e della sua arte a giudicare dalle discussioni animate che egli ebbe con il Senato veneziano in occasione del monumento al Colleoni; ma la sua gloria postuma è stata influenzata dal disprezzo mostrato verso di lui dal Vasari, che si è sforzato di ridurne l’importanza, insistendo nello stesso tempo sulle sue numerose attività, «orefice, prospettivo, scultore, intagliatore, pittore e musico», e sulla limitatezza delle sue capacità. Gli sarebbe mancato il genio, quella scintilla che viene dalla natura; l’unico suo merito sarebbe stato il lavoro, «lo studio», piú accanito tuttavia che in nessun altro. L’importanza di Andrea de’ Cioni consistette dunque nel concentrare tutte le forze dell’arte fiorentina: ma se è vero che in gioventú «attese alle scienze, e particolarmente alla geometria», e se si tien conto dell’azione da lui esercitata intorno a sé, il significato della sua figura risulta maggiore. Occorre chiedersi se la sua bottega, intorno al 1470-80, non sia stata particolarmente aperta alle varie tendenze della cultura fiorentina. A questo modo di considerare ha fatto ombra l’insistenza del Vasari, e degli storici posteriori, sul natu- Storia dell’arte Einaudi 316 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze ralismo secco e angusto del Verrocchio, il quale, secondo loro, avrebbe trovato il suo coronamento nel rilevamento e nella coloritura delle maschere funerarie. In realtà la funzione del Verrocchio si pone su un piano piú alto; egli seppe accogliere gli stili opposti considerandoli come aspetti diversi da sintetizzare del problema artistico: cosí in scultura la maniera severa di Donatello e lo stile delicato di Desiderio, in pittura il naturalismo spinto dei fiamminghi e una tendenza alla composizione ordinata e astratta che si ispira ai modelli antichi50. L’attività del Verrocchio e della sua bottega corrisponde al momento in cui le migliori fra le botteghe fiorentine interrogano se stesse e cercano i mezzi per dare uno stile alle aspirazioni moderne. Esistevano indubbiamente grandi disparità nel pubblico. Accanto ai notabili ormai conquistati alla cultura moderna, c’erano le corporazioni che, preoccupate di mettersi in mostra, attraverso le loro fondazioni devote, nei santuari e nelle confraternite assai numerose e attive, erano in genere piú legate alla tradizione51. Questa diversità spiega in parte lo sviluppo contrastato dell’arte fiorentina. Un’acuta analisi del «clima» della città ci è fornita dal Vasari all’inizio della Vita del Perugino. Chiedendo questi consiglio al suo vecchio maestro di Perugia, intorno al 1470-75, gli fu risposto che i migliori talenti si sviluppavano a Firenze per tre ragioni: l’abito della critica che mantiene una atmosfera di viva emulazione, la rivalità dovuta al fatto che la Toscana non è un paese abbastanza grande per tanti artisti, infine il senso della gloria e della dignità personali, che spinge i maestri ad elevarsi attraverso la cultura e lo stile52. Gli artisti fanno valere in seguito nelle contrattazioni ciò che hanno imparato, come i chierici il prestigio dello «studio» che hanno frequentato. Nessun’altra città nel Quattrocento attribuiva in realtà un’analoga funzione alla critica e alla discussione. Storia dell’arte Einaudi 317 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze I novellieri ci hanno conservato una gran quantità di aneddoti che forse esagerano l’originalità e l’agilità, intellettuale dei toscani a scapito delle altre province. Tuttavia il brio dei cronisti e la stessa precocità della storia dell’arte presuppongono una situazione evoluta e ci confermano una maturità che non si traduce solo in battute di spirito, ma anche in iniziative dei maestri e posizioni critiche. È questa vivacità un po’ acerba, questo nervosismo un po’ aspro che si deve riconoscere come essenziale della fine del Quattrocento. Senza parlare dei concorsi pubblici in cui si affrontavano i gusti e gli stili, la storia fiorentina è piena di conflitti artistici e di discussioni personali nelle quali si affinava il modo di giudicare. La rivalità tra il Brunelleschi e il Ghiberti ebbe un seguito assai serio, se portò quest’ultimo a formulare una vera e propria dottrina scientifica e storica53. La maniera di Donatello continuò a provocare reazioni ostili di cui l’artista stesso sapeva trarre spiritosamente partito. Quando nel 1454 si decidette a lasciare Padova per Firenze allegò come causa della sua decisione l’atmosfera, piena d’ammirazione per lui, della città settentrionale, che non gli forniva stimoli, mentre invece si sentiva assai piú stimolato dalle critiche incessanti che gli erano rivolte nella sua città54. Questi rapporti di rivalità non sono meno vivi all’epoca del Magnifico e i giudizi penetranti non mancano intorno al 1500. Il disprezzo con cui Leonardo ha trattato i suoi contemporanei riconoscendo due soli maestri come degni d’interesse, Giotto e Masaccio; la durezza di Michelangelo verso stili giudicati deboli, come quello del Perugino, o fenomeni artistici privi di adeguato respiro intellettuale, come la pittura fiamminga, attestano una decisione e una severità tipicamente toscane. Si comprende cosí meglio come la riflessione sull’arte sia stata, nei maestri fiorentini, piú esigente e penetrante che altrove55. Storia dell’arte Einaudi 318 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze w. paatz, Werden und wesen der Trecento-Architektur in Toskana, Burg-am-Main 1937, pp. 76 e 95. Sul precoce sviluppo della «storiografia» fiorentina: e. fueter, Geschichte der neweren Historiographie, München 1911. 2 Sulla rivalità Firenze-Milano agli inizi del secolo e le sue conseguenze per il «nazionalismo» fiorentino: h. baron, The crisis of the early italian Renaissance, Princeton 1955. 3 La tribuna circolare della SS. Annunziata solleva per la sua forma e la sua pianta insolita un piccolo problema nella storia monumentale della città. Michelozzo aveva cominciato a ricostruire la chiesa nel 1444 sotto il patronato di Cosimo; la pianta fu modificata verso il 1455, una cappella assiale circolare, che può ricordare prototipi greci e paleocristiani, fu progettata e costruita sotto la direzione di A. Manetti e seguendo direttive dell’Alberti, mentre il patronato della chiesa era nel frattempo passato a Ludovico Gonzaga, che teneva a questa fondazione: w. paatz, Kirchen cit., I, pp. 62-196, e s. lang, The programme of the SS. Annunziata in Florence, in «jwci», xvii (1954), pp. 43 sgg. Il Mantegna, pittore e consigliere di Ludovico a partire dal 1459, visitò Firenze nel 1466 (p. o. kristeller, Andrea Mantegna, Berlin 1902, p. 218). Si deve mettere tale visita in rapporto con la decisione dell’Alberti (anch’egli legato al signore di Mantova) di occuparsi attivamente dei lavori nel 1470? 4 a. chastel, La mosäique à Venise ecc. cit., e sopra. 5 j. wilde, The hall of the great Council in Florence, in «jwci», vii (1944). 6 vasari, Vita di Jacopo Sansovino (il concorso del 1514 e il ritorno ai progetti medicei); c. de tolnay, Michel-Ange et la façade de San Lorenzo, in «Gazette des Beaux-Arts», gennaio 1932; cfr. anche: «Zeitschrift für Kunstgeschichte», 1936, p. 347. 7 Illuminated Books of the Middle Ages and Renaissance, Baltimore 1949, n. 193; cfr. a. chastel, Un épisode de la symbolique urbaine au XVe siècle: Florence et Rome, cités de Dieu, in «Urbanisme et architecture», Paris 1954, pp. 74-79. I fiorentini insistevano soprattutto sull’aspetto nobile e sulla pulizia della città, considerata quest’ultima cosa eccezionale. Cosí leonardo bruni, Dialogi ad Petrum Histrum, II: In magnificenza Firenze supera forse tutte le città oggi esistenti, ma in pulizia supera tutte quelle che mai siano esistite, dato che né Roma, né Atene, né Siracusa sono state, penso, cosí pulite e ben tenute: citato con altri testi analoghi da l. thorndike, A History of magic and experimental Science, vol. V (The Fifteenth Century), New York 1941, cap. II. 8 h. janitschek, Kunstgeschichtliche Notizen aus dem Diarium des Landucci, in «Repertorium für Kunstwissenschaft», iii (1880), pp. 377-86: il buon Landucci arrivò a elaborare lui stesso un progetto di chiesa che sottopose al Cronaca nel 1505: Diario, pp. 272 e 296. 1 Storia dell’arte Einaudi 319 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze j. burckhardt, Die Kultur der Renaissance in Italien, parte V; r. truffi, Giostre e cantori di giostre, Rocca San Casciano 1911. 10 g. soulier, Les influences orientales dans la peinture toscane, Paris 1924, pp. 304 sgg. (La fête turco-persane à Florence). 11 a. d’ancona, Origini del teatro italiano, vol. I, Torino 1891, pp. 228 sgg. 12 Tutti i trionfi carri mascherate o canti carnascialeschi andati per Firenze dal tempo del Magnifico Lorenzo vecchio de’ Medici, ed. Lasca, Firenze 1559; a. simioni, in «Studi di storia e di critica letteraria» (Miscellanea F. Flamini), Pisa 1915, pp. 997 sgg. g. reese, Music in the Renaissance, New York 1954, I, pp. 153-84. 13 Cfr. sopra, introduzione generale. 14 p. francastel, La fête mythologique au Quattrocento, in «Revue d’esthétique», iv (1951), pp. 376-410. 15 s. colvin, A florentine picture chronicle by Maso Finiguerra, London 1898. S. Colvin aveva proposto di attribuire all’orafo Maso Finiguerra (1426-64) questa importante raccolta da lui datata intorno al 1460. P. O. Kristeller aveva avanzato riserve in una sua nota apparsa nel «Repertorium für Kunstwissenschaft», 1899, p. 135; ma la messa a punto di a. hind, Early italian engravings ecc. cit., è tornata ad insistere sull’importanza della posizione di Maso e sulla attendibilità dell’attribuzione, appoggiata ora da j. goldsmith phillips, Early florentine designers and engravers, Cambridge (Mass.) 1955. Si intende male quindi perché E. Möller in un articolo postumo su Maso Finiguerra, in «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», xix (1959), I, pp. 18589, rifiuti di legare il nome dell’orafo, gran disegnatore di cartoni e modelli, alla «Cronaca illustrata», e proponga di datare questa al 147580 facendone dipendere le illustrazioni da incisioni che in realtà ne sono derivazioni. 16 r. krautheimer, Lorenzo Ghiberti cit., pp. 353 sgg. 17 f. saxl, The classical inscription in Renaissance Art and Politics, in «jwci», iv (1940-41). 18 Egli scriveva allora: Da settecento anni in qua nessuno in Italia è stato in grado di comprendere il greco, eppure riconosciamo che ogni sapere viene dalla Grecia: g. voigt, Wiederbelebung des classischen Altertum, trad. fr., vol. I, Paris 1894, p. 222. 19 e. garin, La giovinezza di D. Acciaiuoli, in «Rinascimento», i (1950), 1, pp. 66 sgg., ripreso in Medioevo e Rinascimento cit., e Influenze dell’Argiropulo, in Testi umanistici inediti sul «De Anima», Padova 1951, pp. 10-15. 20 e. garin, Ricerche sulle traduzioni di Platone nella prima metà del sec. XV, in Medioevo e Rinascimento (Studi in onore di Bruno Nardi), Firenze 1955. 21 e. garin, in L’Umanesimo italiano, Filosofia e vita civile nel Rina9 Storia dell’arte Einaudi 320 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze scimento, Bari 1952, e nei suoi numerosi scritti sull’argomento, considera l’umanesimo, fin dalle sue origini, intorno a Dante e al Petrarca, come il movimento «filosofico» caratteristico del Rinascimento; i valori umani sono ricercati per l’appunto nei campi che sfuggono alla tradizione delle scuole, e raggiungono cosí un grado di precisione concreta e di serietà, che è all’origine di una nuova epoca. p. o. kristeller, in The Place of classical Humanism in Renaissance Thought, in «Journal of the History of Ideas», iv (1943), e Humanism and Scholasticism in the Italian Renaissance, in «Byzantion», xvii (1944-45), ripreso in Studies, 2 e 25 (e completato, da Philosophical movements of the Renaissance, ibid., 3) ha proposto una definizione piú stretta dell’umanesimo, che viene a contrapporlo alle correnti filosofiche. Egli insiste sulla categoria dei chierici, dei segretari, degli oratori, che sono professionalmente interessati alla conoscenza dei testi antichi e, attraverso questa, alla filologia, alla storia, alla «dissertazione» morale ecc. Questa polemica ha il vantaggio di finir per sottolineare in tutti i modi la posizione originale dell’ambiente fiorentino nell’ultimo terzo del xv secolo. Se si ammette che l’umanesimo rappresenti praticamente tutto il «pensiero» del Rinascimento, Ficino e Pico vengono in sostanza a costituire il primo tentativo di assicurare alla filosofia implicita nel movimento la sua struttura speculativa. Se si limita l’umanesimo all’orientamento professionale dei letterati, si deve però ammettere che i loro interessi sono piú vasti, nei lavori del Landino, del Ficino, di Pico ecc. e che c’è stato l’impegno di costituire a poco a poco una nuova enciclopedia. È d’altronde utile mantenere una certa distinzione tra gli interessi letterari e quelli propriamente filosofici dell’epoca, e ne hanno sentito la necessità gli stessi umanisti di Careggi. In una lettera a Antonio da San Miniato, il Ficino dichiara di voler abbandonare del tutto la retorica per assumere il linguaggio serio del filosofo (citata da p. o. kristeller, Studies, p. 573, n. 60); la Theologia platonica è un trattato a struttura ancora scolastica. Ma lo stesso Ficino, per contro, impiega tutta la sua energia a propugnare una «teologia poetica» e ricorre volentieri alle immagini e alle forme poetiche. Il Poliziano, cosciente piú d’ogni altro della distinzione dei due metodi, si convertí verso il 1490 alla pura filosofia (quella di Pico) in opposizione alle speculazioni confuse (quelle del Ficino) che in passato gli erano bastate (e. garin, L’ambiente del Poliziano, ne Il Poliziano e il suo tempo, Firenze 1957), ma senza rimettere in questione la sua opera filologica e poetica. Pico infine, in una famosa lettera a E. Barbaro, giustifica il rozzo linguaggio dei filosofi scolastici in quanto non si tratta piú di eloquenza ma di verità (cfr. g. breen, Giovanni Pico della Mirandola on the conflict of Philosophy and Rhetoric, in «Journal of the History of Ideas», xiii [1952], pp. 384 sgg.). Si intende male il movimento se non si tiene conto delle difficoltà che questo conflitto di tendenze e questo oscillare dei pensatori Storia dell’arte Einaudi 321 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze fiorentini mette a nudo (cfr. piú avanti, parte III, introduzione). Ma questo fatto non indebolisce, se mai viene a confermare, l’interpretazione secondo cui il movimento fiorentino rappresenta il punto in cui l’umanesimo tende a darsi, per la prima volta, una filosofia sul tipo di quella scolastica, con un contenuto e ambizioni diverse: cfr. Marsile Ficin et l’art cit., introduzione, I. 22 Nel Paradisus di Ugolino Verino, scritto poco prima del 1470, Platone ha la funzione di guida soprannaturale che aveva Virgilio nella Commedia: a. lazzari, Ugolino e Michele Verino, Torino 1897, pp. 66 sgg. 23 Apologia, ed. Garin, vol. I, p. 142. 24 e. garin, L’ambiente del Poliziano, ne Il Poliziano e il suo tempo, Firenze 1957. 25 b. migliorini, Panorama dell’italiano quattrocentesco, in «Rassegna della letteratura italiana», 1955, 2, pp. 193-231. 26 m. santoro, Cristoforo Landino e il volgare, in «Giornale storico della letteratura italiana», lxxi (1954), pp. 501-47. 27 g. fumagalli, Leonardo e Poliziano, ne Il Poliziano e il suo tempo cit., pp. 131 sgg. 28 r. palmarocchi, Lettera di Lorenzo de’ Medici a Jacopo Guicciardini, in «Pegaso», maggio 1932, pp. 513 sgg. 29 Si devono dunque mettere in contrasto (pur senza troppo accentuare l’opposizione) questi diversi gruppi di spiriti. Il Ficino si adombrò del Morgante, dove il Pulci lo punzecchiava, ma il Pulci stesso ricorda, XXVIII, st. 145, la collaborazione amichevole del Poliziano. Cfr. g. fumagalli, Leonardo e Poliziano cit., pp. 144 sgg. Si possono mettere in rapporto certe massime gaudenti del Ficino con le canzoni epicuree di Lorenzo: cfr. Marsile Ficin et l’art cit., p. 18, n. 21 ecc. 30 A partire dal secondo terzo del secolo in Firenze avevano anche preso piede gli studi scientifici, di cui tuttavia i centri rimangono Bologna e Padova. Con i matematici e i cosmografi, il piú insigne dei quali fu Paolo del Pozzo Toscanelli (1397-1482), e certi medici come Antonio Benivieni, l’ambiente fiorentino non è piú estraneo al movimento scientifico: cfr. Marsile Ficin et l’art cit., p. 13, e piú avanti, pp. 214-15. 31 Florentia, in Operette Morali, poesie latine e volgari, ed. Saviotti, Bari 1929, p. 108. Passo citato in e. garin, Il rinascimento italiano, Milano 1941, pp. 370 sgg.: «Sunt et qui causas rerum mundique recessus | Explorent caelique vias atque abdita tentent | Inconcessa oculis hominum, queis personat alto | Plurimus ore Platon et acutus mentis alumnus | His adde innumeras artes quibus altus Apollo | Praesidet et largo concedit munere Pallas | Feta bonis, quae longinquis de gentibus usque | Vel spectanda homini et convectanda petuntur». Una lettera del Collenuccio al Ficino (Opera, p. 913) suggerisce di porre nel 1490 la visita del poeta. Storia dell’arte Einaudi 322 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Lettera del 13 settembre 1492, Ep. XI, Opera, p. 944 (trad. Figliucci, II, p. 188); Marsile Ficin et l’art cit., p. 61. 33 Su questo punto capitale, ora solidamente acquisito, convergono la tesi del rinnovamento letterario, sostenuta da p. o kristeller, e ripresa recentemente in The classics and Renaissance Thought, Cambridge (Mass.) 1955, la tesi filosofica di e. garin, in Medioevo e Rinascimento cit., 14 (Interpretazioni del Rinascimento), e II, 2 (Discussioni sulla retorica), e la nostra esposizione sul significato della «teologia poetica» a Firenze: Marsile Ficin et l’art cit., pp. 141 sgg. 34 r. p. oliver, Plato and Salutati, in «Transactions of the american philological Association», lxxi (1940), pp. 315-34. 35 Marsile Ficin et l’art cit., I. 36 Opera, p. 659; Marsile Ficin et l’art cit., p. 42. Lo stesso orientamento si nota nell’abbozzo del trattato Homo (1490), che compendia l’essenziale della dottrina; ibid., p. 52. 37 Cfr., in particolare, e. cassirer, Govanni Pico della Mirandola, in «Journal of the History of the Ideas», iii (1942), 2, p. 137, e 3, p. 333, e Individuum und Kosmos in der Philosophie der Renaissance, Leipzig 1927; Marsile Ficin et l’art cit., p. 28. 38 Questi sviluppi sono studiati nella prima sezione di questa seconda parte: Il regno delle immagini. 39 Lettera a Antonio Canisiano, Opera, p. 651 (trad. Figliucci, I, p. 74 v); cfr. Marsile Ficin et l’art cit., p. 101. d. p. walker con Le chant orphique de Marsile Ficin, in Musique et poésie au XVIe siècle, Paris 1954, pp. 16-28, ha analizzato la «psicologia» della musica nel Ficino (soprattutto riferendosi al De triplici vita) in funzione della complessa nozione di spiritus. 40 Già per l’Alberti, anche se le «categorie» pittoriche sono analoghe a quelle poetiche, la pittura è paragonabile alla musica nei suoi effetti sull’anima. Sulla «musica» e il controllo delle «passioni»: e. h. gombrich, Icones Symbolicae, in «jwci», viii (1948). Cfr. anche d. p. walker, Le chant orphique ecc. cit., e Spiritual and demonic magic, London 1958, cap. I. 41 j. hutton, Some english poems in praise of music, in «English Miscellany», ii (1951), p. 24: «È nell’ambiente del neoplatonismo ficiniano che per la prima volta troviamo questa stretta unione di sfere e angeli introdotta nel contesto delle laudes musicae». Il Panepistemon del Poliziano (1490-91) contiene una teoria analoga della musica: a. bonaventura, Il Poliziano e la musica, «La Bibliofilia», lxiv (1942), pp. 114-71. 42 e. lowinski, The concept of physical and musical space in the Renaissance, in Papers of the American Musicological Society, 1941 (ma pubblicato nel 1946). 43 Cfr. p.-h. michel, La pensée de L. B. Alberti cit., pp. 452 sgg. 32 Storia dell’arte Einaudi 323 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze leonardo, Trattato, ed. H. Ludwig, § 29. La formula «sventurata musica» ha dato luogo a un memorabile equivoco del Péladan, che parla di «aventureuse musique», Traité de la peinture, Paris 1934, p. 43. 45 f. de hollanda, Da Pintura Antigua Tratado, s. 1., 1548 (trad. it. Dialoghi michelangioleschi, a cura di A. M. Bessone Aurelj, Roma 1926, p. 63); la stessa formula ritorna piú volte nei dialoghi. 46 È il gran tema del famoso saggio di w. pater, The school of Giorgione, in The Renaissance, London 1873. L’articolo di r. jullian, Peinture et musique à Venise, in «Arte veneta», viii (1954), riguarda la fine del secolo xvi. 47 g. uzielli, Ricerche intorno a Leonardo da Vinci, serie V, Torino 1896, p. 586; e e. möller, Wie sah Leonardo aus?, in «Belvedere», 1926, pp. 29 sgg. Sul simbolismo degli strumenti musicali nella pittura fiorentina: cfr. piú avanti. 48 Marsile Ficin et l’art cit., introduzione, I. 49 Verino allude certamente a Leonardo, Perugino e Lorenzo di Credi. I tre artisti hanno strettamente collaborato ai lavori della bottega negli anni 1470-75: b. berenson, Verrocchio e Leonardo, Leonardo e Credi, in «Bollettino d’arte», xxvii (1933). La pratica di collaborazione sembra esser stata portata il piú avanti possibile. La Madonna di Piazza di Pistoia, che spetta a Lorenzo di Credi su disegno del Verrocchio, presentava probabilmente nella predella la tavoletta con La nascita di San Giovanni (Liverpool), che si attribuisce al Perugino, la tavoletta dell’Annunciazione del Louvre di Leonardo giovane e Lorenzo di Credi, infine quella con San Donato (Worcester): w. valentiner, Studies of Italian Renaissance sculpture, London 1950, pp. 140 e 141. Un certo numero di Madonne di notevole qualità, come quella di Londra (National Gallery), sembrano presupporre l’intervento del Perugino. Sulla funzione di quest’ultimo e la formazione del gruppo umbro in questo stesso periodo cfr. piú avanti. Fra gli scultori della cerchia del Verrocchio il Vasari ricorda: Francesco di Simone Ferrucci, Agnolo di Polo, G. F. Rustici e Nanni Grosso, di cui per altro nulla si conosce, «persona molto astratta nell’arte e nel vivere», che non poteva confessarsi in extremis davanti a un crocifisso mal scolpito. 50 Questa funzione del Verrocchio è stata intesa soprattutto da j. thiis, Leonardo da Vinci, the florentine years of Leonardo and Verrocchio, trad. ingl., London s. d. (1911). 51 m. wackernagel, pp. 301 sgg.; sulle confraternite fiorentine cfr. piú avanti. 52 vasari, ed. Milanesi, III, p. 567. La conclusione dell’esposizione fornisce una spiegazione interessante della continua dispersione delle botteghe fiorentine: cfr. sopra, introduzione generale. 53 r. krautheimer, Lorenzo Ghiberti cit., capp. XVII, XIX, XX. 54 vasari, ed. Milanesi, II, p. 413. Un esempio di queste critiche 44 Storia dell’arte Einaudi 324 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze sarà citato piú avanti, sezione II. In compenso Donatello è messo in scena intorno al 1470 in una sacra rappresentazione: h. semper, Donatello, seine Zeit und seine Schule, Wien 1875, pp. 321-22. 55 Questi sviluppi verranno esaminati nella sezione II: L’esigenza della bellezza. Storia dell’arte Einaudi 325 Sezione prima il regno delle immagini Introduzione Il profano e il sacro Si può e si deve indicare la caratteristica fondamentale della cultura fiorentina del Quattrocento nel secolarizzarsi dei suoi interessi. Tuttavia essa non era affatto «paganizzante», nel senso che non mirava affatto a minare l’autorità della Chiesa e a combattere i principî della vita cristiana. Si è potuto crederlo nel secolo scorso, ma questa interpretazione ormai non può piú essere difesa dopo che sono state accuratamente indagate le preoccupazioni religiose degli umanisti e dei letterati. Nell’ultimo terzo del Quattrocento la maggior parte degli intellettuali fiorentini si ritrovano in associazioni devote, in confraternite, come quella dei Magi, o quella di Sant’Antonio da Padova. Essi vi tengono orationes nelle quali espongono le loro dotte dottrine, i grandi temi dell’ermetismo e del platonismo ridotti in forma volgare ad uso dei confratelli; e questi temi sono messi in rapporto con i problemi morali del momento che sono sempre quelli della renovatio e della salvezza della Chiesa1. Questo problema era allora piú grave e nello stesso tempo piú semplice di quello di una emancipazione spirituale al di fuori del mondo cristiano. Si insisteva sulla forza e sull’originalità dell’uomo; ma con altrettanto vigore si insisteva sulla necessità di riformare l’ordine attuale, sul piano della dottrina come su quello della vita morale. Le due idee erano inseparabili. Dal loro incontro sorgeva una situazione del tutto nuova e questo per- Storia dell’arte Einaudi 326 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze mette di capire perché continuamente si annunciasse l’avvento di tempi nuovi. Solo in questa prospettiva si possono chiarire le conquiste, le illusioni, le sofferenze che a poco a poco hanno creato la civiltà moderna2. All’inizio del Quattrocento gli umanisti cresciuti alla scuola del Salutati e quelli della generazione di Niccolò Niccoli avevano elaborato una concezione robusta dell’uomo in funzione della vita civica. Definendo un’etica di tipo «stoico», erano arrivati a una distinzione netta tra la vita profana, che si esercita nelle attività mondane, nella politica repubblicana, nel lavoro scientifico ecc. e la vita religiosa regolata dalla Chiesa e dalle sue tradizioni3. Ma queste ultime presentano una varietà sterminata: e lo studio dei testi lo rende sempre piú evidente e fornisce armi agli spiriti preoccupati di ampliare l’orizzonte intellettuale. Vediamo moltiplicarsi i riferimenti imprevisti nelle rappresentazioni dell’arte sacra. Quando Leonardo Bruni elabora il programma della seconda porta del Battistero (1424) a richiesta degli «uffiziali di mosaico», afferma che le storie devono essere «illustri» e «significanti», cioè belle e ben scelte, ma si attiene a dati banali. Il suo piano, criticato dal Niccoli, non sarà seguito alla lettera e, dopo l’intervento di Ambrogio Traversari, la maggior parte delle formelle, in particolare quelle di Noè, di Giuseppe e di Salomone, avranno numerosi particolari eruditi, tratti da fonti poco note4. La disciplina aveva cominciato ad allentarsi nel complesso iconografico del Campanile. Andrea Pisano, intorno al 1340, aveva previsto un ciclo completo di riquadri che avrebbero costituito una vera e propria enciclopedia della natura e del sapere; però cinque sul lato nord non erano stati eseguiti5. Allorché si volle completare l’insieme monumentale, Luca della Robbia fu incaricato di completare questa fila di esagoni, che era quella delle «arti liberali» (circa 1437-39). La Grammatica e il gruppo che rappresentava la Dialettica erano già Storia dell’arte Einaudi 327 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze in opera. Luca scolpí un Orfeo, due «sofisti» in turbante per l’aritmetica e Tubalcain che rappresentava la musica. L’immagine di Orfeo rientra male nella serie tradizionale. È delicata, un po’ affettata, il cantore-musico, avvolto in un grande mantello, suona la viola ai piedi di una sorta d’albero; leoni, colombe e anitre vi si affollano intorno. Non si tratta qui della musica strumentale rappresentata da Tubalcain che ascolta il suono dei magli; si deve pensare alla «musica superiore», cioè il principio ideale della vita dello spirito6. Il medaglione dei «Matematici» non è meno curioso. Su un fondo neutro spiccano le forme animate di due «saggi» barbuti in turbante e tunica ricamata7. Questo tipo esotico si ritroverà qualche anno dopo nel Salomone del Ghiberti nella porta del Paradiso. Il Vasari loderà «la pulitezza, grazia e disegno» dei medaglioni di Luca della Robbia credendo di riconoscervi «Platone e Aristotele per la Filosofia» e «uno che suona un liuto per la musica»8. All’epoca del Concilio per la riunione delle chiese assistiamo al delinearsi di un nuovo repertorio di simboli. La sorveglianza dei teologi continuava ad esercitarsi contro le immagini sospette di eresia. Nella sua Summa (1477) sant’Antonino, arcivescovo di Firenze, denuncia l’immagine della Trinità raffigurata mediante una testa a tre volti, quod mostrum est in natura: Donatello aveva collocato questo signum triciput nel timpano della nicchia della Parte Guelfa a Or San Michele, Filippo Lippi nella sua Visione di sant’Agostino nella predella della pala Barbadori (1438); il Pollaiolo lo riprenderà nell’allegoria della Teologia nella tomba di Sisto IV. I critici ufficiali non arrivarono ad eliminare questo simbolo che forse trovava seguito per la sua stranezza9. La vicenda del «quadro eretico» di cui parla il Vasari nella Vita di Botticelli ha un’importanza relativa: si tratta di una tavola, oggi attribuita a Botticini e datata circa 1475, che sarebbe stata coperta per ordine dell’autorità Storia dell’arte Einaudi 328 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze ecclesiastica nella cappella Palmieri a San Pier Maggiore, perché conteneva una rappresentazione eterodossa dei cori celesti, essendo stati dei santi terrestri introdotti fra le gerarchie angeliche. La Città di Vita, opera del committente del quadro, contiene in realtà una lunga esposizione derivata da Origene sull’origine delle anime: secondo lui, le anime non sono che angeli rimasti neutri al momento della rivolta di Lucifero. Il quadro sembra illustrare questa dottrina attraverso l’inserimento di figure umane nella gerarchia angelica. Nulla conferma che sia stato emesso un vero e proprio veto a proposito del quadro; ma la leggenda ha potuto nascere per il discredito che per qualche anno, tra il 1485 e il 90 fu gettato sull’opera del Palmieri da censori diffidenti10. Non meno significativa è la novità, che si nota negli stessi anni, per quanto riguarda la forma dell’arca di Noè. Secondo una tradizione, derivata per l’appunto da Origene, si trattava di una piramide e questo per ragioni di simbologia universale, che erano invece respinte da Ugo di San Vittore e da numerosi dottori medievali. Questa «piramide» è stata improvvisamente raffigurata a Firenze, negli anni 1440-50, dal Ghiberti nella seconda porta del Battistero e da Paolo Uccello nel Chiostro Verde11. Abbiamo qui una piccola manifestazione di indipendenza erudita che conferma il prestigio di cui godevano le fonti rare. Inoltre, come già abbiamo accennato, intorno al 1460 assistiamo ad una invasione silenziosa di motivi «pagani», soprattutto di quei motivi che si potevano investire di un valore religioso e mistico, come l’immagine del «carro dell’anima». Ma è un fenomeno che ha sviluppi ben maggiori. Assecondato da un interesse, che si rivela perfino nelle feste, per tutte le forme esotiche, veniva diffondendosi a Firenze la curiosità per gli aspetti meno conosciuti del paganesimo. Quando nel 1487 il Ficino pronuncerà a Santa Maria degli Angeli una predica sul tema Storia dell’arte Einaudi 329 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Philosophia platonica tamquam sacra legenda est in sacris, egli mirerà, tra l’altro, a giustificare il fatto che si illustrassero i dogmi cristiani attraverso i miti e le credenze antiche12. Il Salutati già prima aveva potuto usare come un exemplum morale il racconto della serena morte del mitico Trismegisto. Si trattava ora di considerare, come faceva già nel 1475 Pier Filippo Pandolfini nel suo Protesto, Ermete come un vero e proprio elemento tratto dalle Scritture13. Perché Ermete? La theologia platonica rappresentava l’ultimo sviluppo di quelle che erano considerate come le dottrine primitive dell’umanità: la prisca theologia, quella di Ermete, di cui il Ficino aveva tradotto il Pimandro già nel 1471 e quella di Orfeo di cui teneva inedita la traduzione14. Essa rappresentava una sorta di «rivelazione» parallela, grazie alla quale l’uomo pagano era anch’egli giunto alla dottrina dell’immortalità, nonché alla concezione «magica» della natura. Da Ermete e Zoroastro, a Orfeo, a Pitagora e a Platone si sarebbe avuto uno svolgimento continuo. La congiunzione di questa tradizione «ermetica» col cristianesimo rappresentava la chiave dalla storia universale15. Il Ficino, che già nel 1472 aveva tradotto l’inno all’universo, si serví in continuità delle fonti «orfiche»; nella sua opera le menzioni di queste sono piú numerose di quelle dell’opera di Platone. Egli non pubblicò questi grandi testi della Scrittura pagana per timore che, essendo fraintesi, non riportassero certi spiriti «ad priscum Deorum daemonumque cultum iamdiu merito reprobatum»16. Questa precauzione indusse il suo biografo a supporre che l’autore della Theologia platonica avesse in gioventú attraversato una crisi morale provocata da queste scoperte e miracolosamente superata. Questa fantasia non è che la trasposizione del fatto che tutto il pensiero del Ficino, come quello di Pico e, su un altro piano, quello del Poliziano, si muove in un’assidua esplorazione dei testi «mistici» del mondo antico. Non Storia dell’arte Einaudi 330 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze si trattava di preziosismo erudito, ma di un’esigenza intellettuale; ed è questa sfumatura che distingue il modo di affrontare la vita antica proprio dei fiorentini, da quello delle province settentrionali, nelle quali lo studio delle letterature pagane non ha carattere teologico ma letterario e storico17. La curiosità dei fiorentini si estendeva anche ai riti, alle preghiere, alle forme liturgiche, tutti elementi tramandati da Giamblico e Apuleio, dato che la diversità delle religioni contribuisce mirabilmente all’ornamento dell’Universo. È interessante conoscerli bene e il Ficino si rivela all’occasione ben attento a ristabilire, sulla base dei testi, l’immagine «corretta» degli dei antichi con i loro attributi. In una lettera del 1492 egli fa seguire alle sue citazioni da Orfeo un estratto di Porfirio sulla statua ideale di Giove18. L’attenzione a queste fonti «segrete» è una delle forme d’evasione verso il mitico e l’esotico che si manifestano dovunque a Firenze a quest’epoca. Esse però forniscono un’articolazione fondamentale al pensiero filosofico: l’ermetismo contribuisce in modo diretto a fondare la dottrina della «divinità» dell’uomo, l’orfismo a creare un nuovo simbolismo. Uno dei vertici della Theologia platonica si ha allorché il Ficino richiama l’esclamazione ammirativa di Zoroastro: «O homo naturae audentissimae artificium», e Pico, all’inizio della Oratio, richiama la parola di Asclepio: «Magnum miraculum est homo»19. Agli inizi del secolo Giannozzo Manetti aveva scritto in risposta al cupo De contemptu mundi di Innocenzo III, il suo trattatello De dignitate et excellentia hominis, che difende l’umanità allegando, sulla scia di Lattanzio, la parola di Ermete e invocando la testimonianza delle opere dell’arte umana, dalle piramidi alla cupola fiorentina. Si tratta di una concezione ancora ingenua; ma, nel grosso trattato del Ficino del 1482 e nella Apologia di Pico del 1486, questa viene ripresa con una vivacità e una cultura filosofica che rin- Storia dell’arte Einaudi 331 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze novano l’orizzonte del pensiero occidentale20. Dichiarando che la nostra anima tende a diventare tutte le cose, come Dio è tutte le cose, Ficino conferisce alla formula ermetica un contenuto nuovo e pressante. Egli la completa attraverso uno slancio di adorazione esaltata che rappresenta la parola ultima della sua fede: lo spirito umano raggiunge Dio tutti i giorni: grazie ad esso il cuore arde, il petto lo respira, la lingua lo celebra: teste, mani e ginocchia lo adorano, le creazioni dell’uomo lo celebrano. Questa certezza è per il Ficino il beneficio recato, a coloro che sanno intenderla, dalla teologia orfica21. La riflessione, cosí orientata, ricerca di preferenza i punti in cui le credenze dell’umanità antica e quelle attuali coincidono. La maggior parte dei temi filosofici e poetici del neoplatonismo fiorentino si può raccogliere lungo una linea continua d’intersezione tra i due mondi storici. La Trinità viene dimostrata richiamando un’affermazione dei magi che ammettono tre principî universali, Oromasis, Mitris, Arimanis, id est Deus, Mens, Anima; affermando che ogni filosofo che si ispira a Platone considera tre aspetti in tutte le cose, si troverà un principio universale della natura e della vita morale, di cui si potranno a piacere illustrare tutti gli aspetti attraverso il girotondo delle Grazie22. È seguendo questa doppia linea che il Ficino e Pico hanno l’impressione di abbracciare entrambi i versanti della storia e la totalità dello spirito umano. Ciò che sembra sovversivo e conturbante nelle presenze del mondo antico è una verità velata. Occorre saperla svelare superando le frontiere dell’ortodossia ingenua. Cosí le opere poetiche e i miti del paganesimo devono essere considerati con occhio nuovo. Il Landino nella sua introduzione alla Commedia scriveva esser verosimile che Dante si fosse proposto lo stesso fine che Omero presso i greci e Virgilio presso i latini. Non si tratta, beninteso, dell’analogia let- Storia dell’arte Einaudi 332 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze teraria che corre tra le grandi epopee, ma di una analogia di natura e funzione, di uno stesso fondo poetico e dottrinale. Si chiamerà platonismo la scienza comune ai tre poemi, in quanto somma motivi dottrinari23. Gli ultimi due libri delle Disputationes Camaldulenses cercheranno di individuare questo sistema di immagini e di simboli universali a partire dall’Eneide. Ogni grande testo poetico deve essere esaminato come la Scrittura, cioè come un documento allegorico con parecchi significati. Tuttavia il modo tradizionale della scolastica di glossare i testi è artificiale. Oltre al «senso naturale» cioè la narrazione continua, non c’è che un significato utile da ricavare: tutti i significati secondari sono solidali fra di loro «e li chiameremo tutti insieme allegorici». Si trattava anche qui di una riforma audace dei canoni interpretativi. Pico arriva addirittura piú lontano ancora. L’esperienza tentata nello Heptaplus, in cui riprende il commento alla Genesi «in un ordine di esposizione continuo e senza confusioni» lo porta ad una scoperta sorprendente: la corrispondenza tra i gradi del reale è cosí completa e sicura che «legati da vincoli di concordia, tutti questi mondi si scambiano con reciproca liberalità come le nature cosí anche le denominazioni. Da tal principio, se v’è ancora qualcuno che non l’ha compreso, è derivata ogni disciplina dell’interpretazione allegorica». In altre parole non si ha piú, nei casi privilegiati, allegoria in senso proprio: non ci sono che simboli fondati sulla corrispondenza dei piani dell’essere, come quelli del fuoco, del sole, dei serafini, dell’amore24. L’umanesimo fiorentino giustificava cosí una tendenza che si era fatta sempre piú generale da Dante in poi. L’enorme massa delle immagini e dei miti pagani poteva essere vantaggiosamente introdotta nell’economia dell’arte e della poesia cristiana. Si toccava cosí un punto estremo facendo della mitologia non solo una Storia dell’arte Einaudi 333 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze metafora della vita morale, ma anche una simbologia continua della vita universale, e infine, attraverso i suoi interpreti orfici, un’anticipazione quasi soddisfacente della verità cristiana. Questo atteggiamento giustifica la mania delle immagini pagane che si impone in tutta la cultura. L’influenza dell’ambiente di Careggi si nota nella consuetudine di interpretare le immagini in un senso filosofico25. Ma non si tratta che di uno degli aspetti della straordinaria confusione di profano e sacro, che si verifica a Firenze, a partire dal 1470-80, in due maniere: attraverso l’introduzione di forme antiche nelle tombe, nei pulpiti, nei pavimenti, nelle miniature, in tutte le opere a destinazione religiosa; e per contro nella estensione alle immagini profane di una sorta di «devozione» e di una carica «simbolica» che si intende bene solo nell’arte sacra. Questi sviluppi non trovavano consensi unanimi e finiranno per provocare la reazione violenta del Savonarola e dei piagnoni alla fine del secolo. Questa crisi, e le sue propaggini nel Cinquecento, permettono di cogliere meglio l’audacia dell’arte umanistica. Sono le sue imprudenze in fatto di dottrina a costituire l’interesse dell’ambiente di Careggi26. Il dogma chiave del neoplatonismo è l’immortalità e l’universalità dell’anima. La «teologia» pagana anticipa tale dogma; il pensiero cristiano lo sviluppa e lo porta a compimento: dunque le due dottrine devono incontrarsi; ma nella rappresentazione del destino umano ne viene un’ambiguità costante tra realtà sovrannaturali e interiorità dell’anima. Quando il Ficino nella sua introduzione alla traduzione del De monarchia (1468) distingue il regno dei beati «reintegrati nella Città di Vita», quello dei dannati «che ne sono privati per sempre» e quello dei peregrini che si trovano sia nell’altra vita (le anime che si purificano nel Purgatorio), sia in questa stessa vita, l’opposizione tra Cielo e Inferno ha meno importanza che gli «stati» dell’anima. L’Inferno non può esse- Storia dell’arte Einaudi 334 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze re concepito, al modo platonico, se non come il regno della materia, mondo della pesantezza e forza negativa in cui l’anima è come insabbiata. L’Ade è dunque, secondo un’analisi spregiudicata della Theologia platonica, l’incubo dell’anima impura e «phantasticae rationis imperium in homine impio»; i mostri del mito esprimono l’orribile realtà delle passioni e la loro fatalità; ognuno dei fiumi infernali e ogni regione dell’Inferno rappresentano, in rapporto con gli elementi, una delle radici dell’attaccamento peccaminoso al mondo dei sensi27. Si potrà ugualmente confondere il Paradiso terrestre con i Campi Elisi del mito; il soggiorno dei beati e il mondo superiore delle «idee», cielo platonico al quale l’anima giunge nell’esercizio assoluto delle sue facoltà. Questo stato di perfezione si può raggiungere già in questa vita. L’anima che già su questa terra può rendersi signora e governatrice degli uomini, al di sopra del cielo, uguale agli angeli, simile a Dio, sarà nell’aldilà, press’a poco come lo si può sperimentare ogni giorno al vertice della contemplazione. La deificatio dell’anima è affermata con troppa energia perché non ne risulti indebolita la nozione di trascendenza28. Il grado intermedio del reale è quello in cui l’anima lotta, si espone e si purifica. Anche qui la lotta sovrannaturale del demone e di Dio, del Bene e del Male ha meno importanza del conflitto interiore fra gli elementi inferiori dell’anima schiavi della pesantezza, del corpo, del determinismo della natura, e quelli della regione superiore dove si esercitano la Ratio e la Mens29. Capaci di dominare e superare la natura, queste due facoltà intervengono nel campo della vita attiva, per regolare secondo il principio della justitia, e nel campo della contemplazione che ubbidisce alla religio. Questi due principî sono «le due ali dell’anima», di cui si parla nella Scrittura (Mosè, san Paolo), sono l’analogia cosmica (Giove, Saturno) e l’analogia dei simboli antichi (Pro- Storia dell’arte Einaudi 335 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze meteo, Ganimede). Sono queste le idee che sembrano meglio adatte a definire l’ordine del mondo e il destino dell’anima. Esse si presentano come un nuovo modo di comprendere e di esporre il pensiero cristiano, dato che la stessa verità era stata affermata dagli antichi e dai moderni. La novità consisteva nell’accento posto sull’attività dell’anima, solidale con tutti i gradi del mondo e nel moltiplicarsi delle analogie poetiche che rendono sensibili tutte le sue tappe: la vita umana appare cosí ampliata e drammatizzata. Nessun’altra dottrina poteva apparire piú completa agli occhi di un moderno e piú assimilabile dall’artista: è la «sintesi» che verrà sviluppata nella volta della Sistina e nella tomba di Giulio II30. Essa implicava in modo sempre piú urgente una rielaborazione dell’iconografia le cui conseguenze appariranno tutte quante nelle «iconologie» dotte della metà del Cinquecento31. Era in realtà impossibile comprendere tutte queste esigenze in un sistema filosofico unitario. Il mito da lungo tempo aveva un suo posto nella cultura grazie ai poeti e ai compendi dei mitografi, ma con una destinazione diversa. Per i primi umanisti, ad esempio il Boccaccio od il Salutati, le storie di Orfeo o di Ercole erano da intendere come dei bei sogni, degni di nota per la loro qualità poetica, il carattere inatteso dell’invenzione e la loro possibilità di rappresentare la realtà della esperienza: «Potius Physiologia aut ethologia quam theologia»32. Questo modo di affrontare il mito veniva ad accentuare il suo valore di invenzione anziché quello di simbolo; era un modo piú letterario che filosofico. Offriva cioè una serie di immagini pittoresche nello stesso tempo che un sistema di simboli necessari per la crescita e l’articolazione delle conoscenze. Meno ambizioso sul piano speculativo, questo modo di vedere poteva svilupparsi in riflessione storica e filologica piú precisa, per definire l’intenzione dei poeti nel quadro della loro epoca e Storia dell’arte Einaudi 336 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze della loro cultura. È l’orientamento seguito dal Poliziano. Intorno al 1474-75 egli si occupa di un libellus di un grammatico bizantino dedicato ai primi cinque canti dell’Iliade. Egli ne completa le osservazioni filologiche valendosi del commento di Proclo al Timeo, che gli permette di indugiare sulla descrizione classica della corte di Giove nella serena beatitudine dell’Olimpo33. Siamo di fronte a un doppio processo che presenta il massimo interesse: il testo viene attentamente interrogato e riscontrato; da esso non viene tratta una verità teologica, come avrebbero fatto il Ficino o Pico, ma un quadro poetico della pienezza e bellezza del mondo. La poesia antica introduceva direttamente in questo quadro, descrivendo di continuo il mondo, cieli pieni di energie attive simboleggiate dalle divinità del mito: e la natura voluttuosa dell’isola di Venere nelle Stanze. Successione coerente di immagini chiare, questa descrizione costituisce un repertorio per gli artisti ai quali direttamente si rivolge. Non c’era altra possibilità per muoversi sul terreno delle emozioni fisiche e dei sentimenti naturali e per renderne possibile la rappresentazione. Il linguaggio delle «passioni» può dispiegarsi tanto meglio attraverso le storie di Orfeo o di Ercole in quanto queste storie vengono riprese alla fonte rifiutando i compendi e le compilazioni scolastiche. Cosí l’Antichità, in quanto religione, arte e cultura, comincia ad essere intesa come qualcosa di globale, un insieme organico che l’immaginazione può cogliere. Si comincia a concepire la «distanza storica». Ma nel concepire la forma originale di questa cultura remota si è portati a definire l’aspetto e i problemi specifici del mondo umano. L’uomo d’oggi si definisce attraverso quello di ieri nel suo rapporto con le due sfere di cui è il tratto di congiunzione, il centro: la natura e la storia. È a Ferrara che, in uno stile di una precisione sor- Storia dell’arte Einaudi 337 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze prendente, viene raffigurato dai decoratori del palazzo di Schifanoia l’ordine astrologico della vita umana; ma solo a Firenze si trova un’allegoria poetica della natura in forma di invocazione a Pan. A Venezia verrà pubblicato, con il Sogno di Polifilo, il romanzo allegorico audacemente consacrato a tutti gli aspetti dell’amore, ma solo a Firenze è dato incontrare la Venere casta e grave del Botticelli. L’intellettualismo fiorentino ha le sue angustie e la sua freddezza34. La natura è il «cosmo»; nella molteplicità dei fenomeni si deve cogliere il principio che assicuri la coerenza, l’unità «vivente» che può assicurare la circolazione delle energie dagli astri ai minerali, in una sorta di gigantesco giuoco di specchi. È stato necessario al Quattrocento uno sforzo spirituale fuor del comune per trarre questa visione dell’ordine naturale fuori dalla sfera del demoniaco e dell’illecito dove era ineluttabilmente confinata. L’ambiente fiorentino vi è riuscito grazie all’idealismo matematico e al gusto della rappresentazione concreta dei dati celesti o terrestri, ma anche grazie all’idea di una natura-organismo accessibile attraverso fenomeni compresi sotto il nome di «realtà magiche», di cui il Ficino espone la portata nel suo De vita triplici35. Nonostante questa insistenza sulla struttura matematica e la coerenza funzionale dell’universo visibile, i neoplatonici erano ben lungi dall’intravvedere, o anche semplicemente dal preannunciare, la scienza di Galileo e di Cartesio. Il Ficino e i suoi allievi, compongono, basandosi su alcuni rapporti privilegiati, una rete di simboli che non arrivano a creare una organizzazione chiara del mondo dell’esperienza. Il loro modo di procedere è esattamente l’opposto di quello delle menti (la piú eloquente e piú ferma delle quali è quella di Leonardo) che si attengono alla rappresentazione particolareggiata dei meccanismi naturali. Ma la definizione del mondo visibile è la stessa. Fra la sintesi a priori degli uni e le innumerevoli analisi particolari del- Storia dell’arte Einaudi 338 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze l’altro non esistono quelle nozioni intermedie, quelle strutture interpretative e classificatorie che costituiscono per l’appunto la «scienza». Sotto il contrasto dei punti di vista, troviamo un interesse ugualmente vivo per gli aspetti «meravigliosi» dell’universo e per la sua definizione «estetica», cioè come un tutto armonioso. È questa concezione della natura che porta ad una valorizzazione piena dell’attività dell’artista. Il Ficino deriva dagli scritti ermetici l’idea che le tecniche dimostrano il dominio dell’uomo sulla natura, di cui egli è lo specchio e la conclusione36. Leonardo non si esprimerà in modo diverso; ma questo privilegio dell’artista, che per l’umanista è il punto di partenza di una nuova antropologia, per Leonardo rappresenta il coronamento del sapere. La stessa intuizione può condurre a conclusioni opposte: anche in questo la fine del secolo vedrà definirsi le posizioni. Si arriverà a divergenze analoghe per quanto riguarda la visione dell’uomo nella storia. L’idea di cercare negli avvenimenti del passato, nelle credenze e nelle istituzioni, l’immagine vera dell’uomo si impone a tutti gli spiriti partecipi della nuova cultura. La Bibbia e la storia antica, soprattutto quest’ultima, mettono a disposizione un repertorio indispensabile di atteggiamenti e problemi. Donde il nuovo interesse per la conoscenza esatta e il commento dei testi, per l’esame attento dei monumenti. La superiorità della cultura italiana si deve in buona parte a questa convinzione. Tuttavia essa può essere utilizzata secondo due prospettive diverse: quella della «virtú» e quella della contemplazione. Il primo umanesimo fiorentino, quello del Salutati e della sua scuola, aveva accentuato l’idea stoica della lotta, aveva valorizzato l’attività pratica; tendeva a fare della morale cristiana il coronamento di un’etica profana chiaramente articolata, attraverso gli esempi luminosi della civiltà antica. Questa concezione non sarà mai del tutto Storia dell’arte Einaudi 339 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze dimenticata. Essa ispira ancora le riflessioni del Machiavelli. Ma se anche lui costruisce la storia in funzione di un’etica che mira soprattutto alla vita pubblica, non teme d’altra parte di accusare la decadenza dei costumi provocata dal cristianesimo: «Pensando adunque donde possa nascere che in quelli tempi antichi i popoli fussero piú amatori della libertà che in questi, credo nasca da quella medesima cagione che fa ora gli uomini manco forti, la quale credo che sia la diversità della religione nostra dall’antica». A quei tempi la magnificenza non era inferiore a quella attuale, ma i sacrifici sanguinosi davanti all’altare temperavano le anime piú di quanto non possono fare i riti simbolici del cristianesimo37. La storia rivela il meccanismo delle società e le leggi della politica, non le vie della Provvidenza. Siamo agli antipodi delle convinzioni neoplatoniche, secondo le quali la storia dimostra, è vero, la forza e l’originalità dell’uomo, ma attraverso la crescita e lo sviluppo religioso che ne determinano la linea maestra. Come la natura tende ad una sorta di «sublimazione poetica», accessibile all’intuizione ben preparata, cosí la storia dimostra la superiore vocazione degli uomini. Questa si esprime attraverso la tradizione dei saggi che, al momento della Nascita di Cristo, s’incrocia con la rivelazione biblica. Ma la scienza essenziale era privilegio, dalle origini, degli iniziati; e lo sviluppo delle dottrine non è se non l’illusione del mondo della durata che la docta religio deve superare. La fine del Quattrocento, momento in cui queste diverse concezioni si intrecciano, non si può dire che abbia rappresentato per Firenze il momento delle posizioni intellettuali semplici e comode. Né la rappresentazione della natura, né quella della storia, né del sapere, né infine quella dell’anima e del suo destino, possono piú quadrare esattamente con le tradizioni iconografiche. Ma il rinnovarsi dei simboli è sempre confuso e Storia dell’arte Einaudi 340 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze difficile: essi piú che mai dipendono dalla personalità di colui che li ispira. Un esempio significativo l’abbiamo nello sviluppo degli emblemi. Giovanni Rucellai aveva commissionato all’Alberti il suo palazzo di via della Vigna e la cappella non lontana di San Pancrazio. Verso il 1470 finanziò la costruzione della facciata di Santa Maria Novella. Egli era uno dei fiorentini piú sensibili all’arte moderna. Sull’arcata della loggia al centro del cortile del suo palazzo fece scolpire l’emblema della fortuna; per questo aveva chiesto il parere del Ficino che gli aveva risposto con una lettera su «che cosa è fortuna e se l’uomo può riparare a essa». L’argomento fondamentale della lettera è che la saggezza (prudentia) può ovviare al ritmo alterno e al flusso amaro degli avvenimenti; tuttavia questa saggezza non è un acquisto umano, è un dono di natura e non agisce se non quando l’uomo, attraverso un «processo platonico», sa risalire al principio comune degli effetti fortuiti che ci sconcertano e dell’energia che è in noi, cioè a Dio, per affrontare e soprattutto per sottrarsi, attraverso la serenità interiore, a questa guerra della Fortuna38. Per unire insieme le allusioni al mondo degli affari, i modelli antichi e l’insegnamento umanistico in una stessa composizione, nell’emblema è stata posta una ninfa che tiene tesa la vela in un naviglio che affronta le onde del mondo. Le medaglie emblematiche di Bertoldo sono di una complicazione ancora maggiore. Il rovescio di una di queste, destinata intorno al 1480 a un orator fiorentino, ci mostra il trionfo delle muse, condotte da leoni, presso Mercurio, con la scritta: «Volentem ducunt nolentem trahunt»; e si deve intendere che il dono dell’eloquenza deve cambiare il corso delle idee altrui. Sarebbe difficile trovare una applicazione meno naturale della massima di Seneca39. Storia dell’arte Einaudi 341 Capitolo primo La natura Si toglie alla cultura e all’arte del Rinascimento uno dei loro motivi essenziali se si dimentica di collocarle nel loro sfondo «cosmologico»40. Nel secolo xv si manifesta un interesse appassionato per la varietà concreta dell’universo, ma la «scoperta» non ha significato alcuno se si prescinde dalle strutture intellettuali necessarie per comprenderla e comunicarla. Il rovesciamento della imago mundi tradizionale provocato dalla scoperta del nuovo mondo e del sistema solare, si è verificato alla fine di una lunga crisi delle nozioni «fisiche». La revisione delle dottrine scolastiche che fissavano la fisionomia complessiva del mondo41 non ha avuto minor importanza dello studio delle opere di geografia e cosmologia antiche che ora furono conosciute e studiate piú da vicino. Il paradosso del Rinascimento consiste nel fatto che la cosmografia si è rinnovata attraverso i dati della scienza greca antica, prima che questi fossero definitivamente rettificati. Con Tolomeo, ripubblicato a partire dal 1420, la cartografia conosce una nuova fioritura; il testo della Geographia del Berlinghieri (circa 1480) è una ripresa di quello del dotto alessandrino, ma viene accompagnato da atlanti particolareggiati che rappresentano un grande progresso. Il manualetto scolastico del Sacrobosco (John of Hollywood) resterà fino al Cinquecento la base degli studi astronomici; la Spera volgare di G. Dati (1478) introduce concezioni piú esoteri- Storia dell’arte Einaudi 342 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze che sulla luce e la teologia; ma quando Lorenzo Bonincontri da San Miniato pubblica l’edizione di Manilio (1484), la descrizione classica del cielo porta a nuove precisazioni42. La scienza umanistica lavorava dunque all’interno degli schemi antichi nel momento stesso in cui la loro struttura stava per essere definitivamente negata. E sono gli stessi ambienti che moltiplicano gli sforzi intesi a rivedere questi schemi. Il caso è soprattutto chiaro per ciò che riguarda le scoperte geografiche. Il lavoro cartografico, senza il quale esse non avrebbero potuto offrire nulla di controllabile, presupponeva la costruzione della fisionomia complessiva della superficie terrestre. Firenze era uno dei centri di questa attività; e fu una delle città occidentali in cui piú affluirono le notizie interessanti43. Il Toscanelli interrogava continuamente i viaggiatori per verificare le longitudini. Nel 1474 egli scriverà a Fernam Martins, canonico di Lisbona, la famosa lettera, accompagnata da carte nautiche, sulla via «occidentale» delle Indie; il Poliziano proporrà a Giovanni II di celebrare le esplorazioni portoghesi dell’emisfero australe. Abbiamo numerosi esempi dell’interesse dei fiorentini per questi problemi: ad esempio, l’opuscolo che ha consacrato l’attualità delle scoperte geografiche, la lettera sul mundus novus dedicata a Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, è stata pubblicata a Firenze già nel 1502 da Amerigo Vespucci. Il «pilota mayor» era nipote del canonico Giorgio Antonio, amico del Ficino44. Non è necessario insistere su tutti questi fatti per concludere che alla fine del Quattrocento i fiorentini potevano sentirsi al centro delle ricerche del loro tempo. Storia dell’arte Einaudi 343 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze 1. La sfera e gli elementi. Se gli elementi della imago mundi geocentrica sono quelli tradizionali, tuttavia la visione dell’universo è molto mutata. La vasta sistemazione di nozioni che si verifica allora porta però ad un’idea della natura assai diversa da quella descritta dalla scolastica, nonché dalla struttura guidata dalle leggi della meccanica che verrà definita piú tardi da Galileo e Cartesio. Nel 1475 il Ficino ha esaminato a Firenze una macchina articolata, montaggio d’automati che gli parve un eccellente simbolo dell’ordine cosmico: Vidimus Florentiae Germani opificis tabernaculum, in quo diversorum animalium statuae ad pilam unam connexae atque libratae, pilae ipsius motu simul diversis motibus agebantur, aliae ad dextram currebant, aliae ad sinistram, sursum atque deorsum, aliae sedentes assurgebant, aliae stantes inclinabantur, hac illas coronabant, illae alias vulnerabant. Tubarum quoque et cornuum sonitus et avium cantus audiebantur, aliaque illic simul fiebant, et similia succedebant quam plurima uno tantum unius pilae momento45. Tutta l’epoca ha avuto il gusto di questi giochi meccanici, delle macchine a sorpresa che appaiono veramente delle meraviglie, dei miracula: l’interesse del Ficino per il «tabernacolo» del fabbricante tedesco dimostra in qual senso si orientava allora la filosofia degli automata. Essi rappresentano il mondo e nello stesso tempo dimostrano la forza dell’uomo che lo domina. Sono identici alla natura in quanto anch’essa è un meccanismo perfettamente connesso, nella quale i particolari delle forme hanno meno importanza del loro intimo legame e del loro movimento, cioè del grande gioco d’insieme46. Nello stesso ordine di idee, si deve ricordare la rappresenta- Storia dell’arte Einaudi 344 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze zione della «sfera provvista dei suoi movimenti» negli orologi astronomici, ad esempio quella di Lorenzo della Volpaia, descritta con ammirazione dal Poliziano (1484), dal Ficino (1489) e rimasta celebre a Firenze: un capitolo ben noto del De vita triplici intitolato De fabricando universi figura (III, 19), enumera tutti gli elementi che si devono considerare in questa ricostruzione delicata, dalla quale non è del tutto escluso un valore «magico»47. La logica stessa del neoplatonismo lo portava a elaborare una concezione che si allontanava dall’immagine statica dell’universo. Connettendo le formule dell’ermetismo sul mondo (animale divino) alla speculazione astrologica ed allo studio dei fenomeni di risonanza e di «magia», si arrivava a concepire questa consistenza della natura, questa coerenza del suo ordine e del suo corso, che ne fanno un sistema matematico ed insieme un organismo completo. La sua origine e il suo fine, la stessa possibilità del suo funzionamento devono essere riferiti al piano divino; ma tutti i fenomeni del mondo sensibile devono essere anzitutto intesi come espansione di una potenza «razionale» che verrà definita come anima mundi. Questa nozione, tanto forte quanto ambigua, appare oggi mitica; è stata in realtà una tappa indispensabile per arrivare ad affermare l’idea di natura. Si osservano con un’attenzione sconosciuta all’epoca precedente le «simpatie» occulte e le corrispondenze che il Pimandro, tradotto nel 1463 dal Ficino, erige a legge stessa del mondo. L’importanza dei filosofi di Careggi, ed in particolare del Ficino, consiste nell’aver accolto e diffuso nel momento decisivo i motivi, fin allora sospetti, dell’esoterismo occidentale48. Se si riprende il vecchio simbolo «pitagorico» dell’uovo come compendio del mondo, simbolo spesso riprodotto dai commentatori di Ovidio, ciò avviene da un punto di vista nuovo: la sua struttura sferica (o quasi) sta a significare il miracolo di Storia dell’arte Einaudi 345 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze una espansione regolare ed infinita; la diversità delle materie che lo compongono richiama non solo l’equilibrio degli elementi distinti per la loro densità, ma anche le possibilità della maturazione. In un ordine apparentemente finito e fisso, viene ad esprimersi una energia infinita e vivente; si deve intendere l’una e l’altra inseriti in qualche modo l’uno nell’altro se si vuol accedere al mistero universale49. Perché infine tutto è simbolo nel mondo visibile; un rapporto costante e reciproco si stabilisce fra gli esseri che vivono nello spazio e le realtà interiori dell’anima. L’astrologia in questo senso rappresenta la chiave della nuova visione. «Totum in nobis est caelum»; e il Ficino su questo principio svilupperà una sorprendente «astrologia moralizzata»50: Sol Luna Mars Saturnus Jupiter Mercurius Venus Deus animi et corporis motio continua celeritas tarditas lex ratio humanitas L’Anima mundi è il principio d’unità tra le forme che servono a enunciare l’ordine cosmico. La teoria «musicale» del mondo, che vede gli stessi intervalli nella scala dei toni e nell’ordine dei pianeti, era stata sviluppata sulla base del Timeo dai neopitagorici del i secolo a. C. come chiaramente attestato dal Somnium Scipionis. In un secondo momento, Macrobio, che aveva commentato questo testo classico, Boezio e Marciano Capella avevano elaborato la dottrina dell’armonia universale secondo schemi facili ad essere generalizzati, per cui ogni sfera corrisponde ad una scienza e tutte le attività umane possono iscriversi nello stesso sistema di origine cosmologica51. Questi schemi rivivono, sulla base delle Storia dell’arte Einaudi 346 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze fonti antiche, nell’ambiente fiorentino. Cosí la musica non è solo espressione di una struttura, ma lo strumento di una comunicazione reale tra l’Anima mundi e l’anima umana. Il rapporto, definito seguendo Dionigi, tra le sfere e le gerarchie celesti (rapporto che presuppone l’aggiunta ai sette pianeti classici del primo mobile e del cielo cristallino o empireo) cessa di essere un rapporto esteriore: le divinità planetarie sono il volto visibile e gli angeli il volto invisibile dello stesso mondo. L’armonia originaria viene espressa, ad ogni piano, dall’anima di ogni sfera, in cui Platone (Repubblica, 617) collocava misteriosamente le sirene e Plutarco (Convito, IX, 14) le Muse52. L’astrologia, che è l’arte di calcolare le conseguenze dei vultus caeli nel mondo sublunare, diviene il mezzo per rendere avvertibile ad ogni momento utile la solidarietà profonda non solo dell’uomo col cosmo, ma soprattutto di ciò che si manifesta al di fuori, nei fenomeni fisici, e ciò che avviene all’interno, nell’esperienza psicologica e morale. La famosa tavola del trattato del Gafurio, dove compaiono le Muse al posto delle Artes scolastiche e che colloca l’intero sistema sotto l’invocazione ad Apollo, è l’espressione piú netta di ciò53. La visione della natura diventa una immensa proiezione delle energie coscienti ed incoscienti dell’anima. Vi si ritrovano tutte le passioni, grazie al dispiegarsi del mito che assicura un «volto» psicologico a Marte, Mercurio, Venere, l’Idra, Pegaso ecc. Nulla nella natura può essere inerte e indifferente. E, grazie alle intuizioni di cui l’astrologia è il veicolo, la perfezione e il fulgore propri del Paradiso sono ora cercati nel mondo visibile: essi ne sono gli attributi veri e degni di essere rappresentati. In effetti da questa forza occulta si possono dedurre tutte le proprietà dell’universo fisico, la sua articolazione ed i suoi ritmi. Il commento del Ficino al Timeo sviluppa la formula: «Fecit Deus mundum Storia dell’arte Einaudi 347 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze viventem, animatum et intellectualem». È al livello dell’anima che si intrecciano e si articolano la struttura intelligibile delle cose ed il ritmo vitale che le connette in un unico organismo. «Per meglio combinare con il Suo spirito e con la materia del mondo un solo ed unico essere animato, Dio distinse la materia in quattro elementi che sono come gli umori di questo corpo vivente, come Egli aveva dato quattro aspetti al Suo spirito». Essi procedono dall’intelletto e dall’anima che sono sostanze, dall’intelligenza e dalla natura che sono qualità infuse alla materia. Le immagini di queste quattro potenze sono i quattro elementi che ad esse corrispondono. Il Fuoco (Spirito-Intelletto), l’Aria (Intelligenza), l’Acqua (Anima), la Terra (Natura). Cosí il mondo può partecipare insieme dell’Eternità e del Tempo, essere uno e multiplo, fisso e mobile; esso comporta quattro modi di vita in rapporto con questi quattro principî spirituali: una Saturnia vita, fecondata direttamente dal cielo, che concepisce prototipi e le forme universali senza bisogno di esperienza esterna, una Jovialis che è quella delle sfere e delle stelle ed è anch’essa propria dei gradi fissi e impassibili dell’essere, una Venerea, nella quale la stessa energia si trova distribuita in anime singole ed esteriorizzata nelle apparenze corporee, infine una Dionysiaca, cioè immersa interamente nella natura e abbandonata alla ebrezza della sensibilità immediata. Attraverso tutti questi gradi si stabilisce il «duplex ad Deum ordo rerum, alter quo ab eo procedunt, alter quo procedentes convertuntur ad ipsum». Questo eterno moto ascendente e discendente è l’unico in grado di fornire l’idea del mondo, della sua struttura articolata, della sua sufficienza e del suo fine54. Le rappresentazioni didattiche, cosí frequenti nei secoli xiv e xv non potevano ignorare questa evoluzione. I mosaici del Battistero di Firenze, eseguiti nel corso del Duecento e conclusi solo intorno al 1325, rappre- Storia dell’arte Einaudi 348 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze sentavano ancora per gli artisti del Quattrocento il miglior compendio dell’antica pittura toscana. Era una sorta di specchio dottrinale a scala monumentale. Quattro degli spicchi dell’ottagono, divisi in ordini regolari, presentano una specie di compendio della storia universale (Genesi e Redenzione, Giudizio finale, sopra una galleria di piccoli riquadri che mostrano i santi ed i profeti) con, al vertice della cupola, sopra il Pantocratore, il Dio della Creazione, circondato di serafini e cherubini; negli altri spicchi dell’ottagono stanno le sette altre gerarchie angeliche gravitanti, come nel Paradiso dantesco, intorno al punto luminoso centrale, materializzato qui dalla lanterna55. Ma si tratta del cielo e non dell’universo. La figura mundi sottomessa alla potenza divina viene invece rappresentata nel gigantesco disco a ventidue cerchi di colori diversi, dipinto nel Camposanto di Pisa verso la fine del Trecento. Intorno al mappamondo centrale qui figurano le sfere concentriche degli elementi, alle quali si aggiungono i cerchi delle gerarchie celesti. Un Cristo immenso tiene stretto tutto l’insieme secondo lo schema già comparso agli inizi del Duecento in una miniatura del Liber divinorum operum di santa Ildegarda, eseguita a Lucca56. Un nuovo elemento si sviluppa con successo a partire dalla fine del Trecento. Nei quadri religiosi il «concerto degli angeli» viene di moda in Toscana, come in tutta la pittura occidentale, ma il riferimento cosmico vi è piú frequente. Esso accompagna gli avvenimenti della Storia Sacra, nei quali l’azione dell’amore divino si fa piú sentire, ad esempio l’Annunciazione e l’Incoronazione della Vergine, meno spesso nella Natività. È un motivo caro soprattutto agli artisti che prolungano il cosiddetto «gotico internazionale» come Gentile da Fabriano, Bicci di Lorenzo, Lorenzo Monaco. Nell’Incoronazione della Vergine di quest’ultimo, eseguita nel 1412-13, due angeli si inginocchiano Storia dell’arte Einaudi 349 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze sopra degli archi che raffigurano le sfere. In quella di Gentile da Fabriano, posteriore di quindici anni, otto angioli (ai quali è da aggiungere il serafino che accompagna il Padre Eterno) suonano i loro strumenti al di sopra di una volta celeste che include il sole, la luna e le stelle. Alcuni segni celesti, i fiori dell’hortus conclusus, l’arpa o la lira degli angeli, bastano a introdurre il tema della «musica dei salmi», di cui sant’Ambrogio aveva esposto le ragioni e la grandezza (Expositio Psalmorum, XII). Ma questa sommessa indicazione, spesso accentuata dal medaglione di David tende ben presto a indebolirsi. Verso la metà del secolo, nel trittico di Sant’Ambrogio, Filippo Lippi ambienta la scena su una specie di palco in mezzo a un giardino dove degli angeli giovanili cantano tra i gigli; il significato «cosmico» della scena scompare per lasciar posto ad una visione semplicemente graziosa. Tuttavia all’estremo della sua carriera, nel 1468, il frate componeva nell’abside della cattedrale di Spoleto una figurazione sorprendente, che indica un netto mutamento di tono: il Padre, con in capo la tiara pontificale, corona Maria al centro dell’enorme tondo, punteggiato di borchie d’oro, e reso a molti colori, simile a un arcobaleno circolare, che sta ad indicare le sfere celesti; un sole brilla al di sopra delle figure, angeli turiferari e angeli cantori, vicini a quelli di Benozzo Gozzoli nella cappella Medici, accompagnano la cerimonia, mentre i loro fratelli gettano fiori, suonano il flauto o l’organo portatile. Ai piedi della scena una serie di santi personaggi in estasi (patriarchi, profeti e sibille) chiude vigorosamente la composizione che, accompagnando la forma curva dell’abside, sembra animata da una gravitazione maestosa 57. Un Paradiso condotto con maggior densità e animato da maggiori movimenti sincroni, e, tutto sommato piú conforme alla visione cosmica dei moderni, si trova nella Incoronazione della Vergine di Francesco di Giorgio. Storia dell’arte Einaudi 350 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze L’attenzione qui è portata essenzialmente sui «reggitori delle sfere» e sugli atteggiamenti variati delle potenze che occupano i gradi interni del mondo: la confusione tra sistema planetario, animato dalla «musica» cosmica e la gerarchia del Paradiso, ispiratrice della musica sacra, non potrebbe essere piú completa58. Ciò che meglio rivela la trasformazione del sentimento cosmico è l’esitazione che coglie gli artisti al momento di rappresentare il movimento delle sfere. Lo schema tradizionale si complica; si esita tra le sfere una dentro l’altra e viste in sezione come l’arcobaleno, le sfere, ad anelli sempre piú piccoli, formanti una specie di imbuto, e le sfere viste in sezione equatoriale, come cerchi concentrici orizzontali59. Il Botticelli userà volta volta tutti questi schemi nelle sue illustrazioni per la Commedia. Nel canto XXVI si vedono nove cerchi composti di tante fiammelle rotare intorno al volto luminoso di Dio, nel canto VI un pullulare di queste piccole siepi di fiamme, il tutto chiuso in un cerchio, rappresenta in sezione il Paradiso. Altrove i voli delle anime seguono degli assi curvi invisibili. L’immagine piú notevole è senza dubbio quella del canto I, dove dallo stretto cerchio del Paradiso terrestre, con alcuni alberi che si inchinano, Dante e Beatrice si levano attraversando il primo limite delle sfere celesti, limite teso come un filo circolare che essi devono tagliare. La pianta del cosmo (e il tema della ascensione di Dante) viene raffigurata in una illustrazione del canto II esattamente nello stesso modo che nell’affresco di Pisa60. Se si tolgono alcuni soggetti della pittura religiosa, in cui era consuetudine introdurre la figura del salmista, la simbolica monumentale aveva sempre prescritto la figurazione di un cielo, generalmente dipinto e stellato, nelle volte che coprivano le chiese. Cosí l’immagine completa del mondo celeste, si giustificava tanto meglio in quanto, grazie alla cupola, l’architettura stessa diven- Storia dell’arte Einaudi 351 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze tava per analogiam l’edificio dell’universo. Questa è la soluzione prevista da Raffaello nella cappella Chigi a Santa Maria del Popolo, dove i suoi cartoni furono tradotti felicemente in mosaico a partire dal 1515: anziché una successione di cerchi, si ha una corona di medaglioni tutti uguali, nei quali ogni divinità planetaria è posta sotto la guida di un angelo che, in qualche modo, prende possesso di essa; nella lunetta il Creatore, con un gesto spettacolare, mette in movimento tutto l’insieme61. Egli sembra ruotare su se stesso e questa immagine richiama troppo l’arte di Michelangelo per non indurre a cercare nella volta della Sistina una proiezione in scala gigantesca della cosmologia contemporanea. Abbandonando ogni forma di schema armonico, Michelangelo si preoccupa solo di esprimere il movimento e la vita come attributi divini. Nella Creazione di Adamo Dio irrompe avvolto in un grande manto, dove l’accompagnano non angeli ma geni che rappresentano le «idee eterne». Se si percorre a ritroso la serie delle storie della Genesi, vi si ritrovano tutte le forme di movimento rotatorio con colori sempre piú chiari e trasparenti che vanno dal grigio al lilla. Nel riquadro che segue la Creazione dell’uomo, Dio plana nell’aria con le braccia tese; nella Creazione del sole e della luna la giustapposizione di due immagini determina quel senso di movimento furioso che lo travolge e da cui sfuggono gli astri e le sfere. Il primo affresco rappresenta l’essere divino in espansione mentre strappa il mondo visibile al caos62. Nulla piú della violenza dell’atto creatore definisce il mistero del mondo: Michelangelo ha colto solo il movimento e la vita, Raffaello l’accordo armonioso dello spazio e dello spirito. La cosmologia era legata alla teoria delle sfere; la fisica prolungava tale teoria attraverso la teoria degli elementi. Questa permetteva di spiegare tutte le manifestazioni che avvengono sulla terra, dalla storia naturale Storia dell’arte Einaudi 352 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze degli animali e delle piante alla geologia e ai suoi misteri. Essa considerava tutti gli accidenti dell’atmosfera ed i fenomeni meteorologici connettendo tutto ciò che la riguarda ai movimenti, ai meccanismi meravigliosi di quella macchina universale che per il suo mirabile ornamento è stata chiamata cosmos dai greci, mondo dai latini, come dice il Landino nella sua prefazione alla traduzione di Plinio (Firenze, 1476). In questa stessa prospettiva, il Ficino, che fu nel Quattrocento, conviene ricordarlo, l’unico commentatore del Timeo, attribuisce alla legge degli elementi un doppio valore, matematico e organico, che poteva utilmente estendersi alle arti. Il commento al Timeo ricorda in realtà che «la cifra quaternaria degli elementi conviene al mondo» (cap. XX), che tutto è composto di essi (cap. XXIV) e che ognuno ha proprietà particolari facili a illustrare attraverso la forma semplice da cui risulta: terra fuoco acqua aria cubo piramide (tetraedro) icosaedro ottaedro Questa equivalenza avrebbe dovuto, in teoria, fornire il mezzo per scomporre ogni corpo naturale secondo la varia dosatura degli elementi che lo compongono: invitava quindi a fondare una sorta di analisi cristallografica delle cose. Aggiungendo alle quattro figure semplici una quinta figura, il dodecaedro, corrispondente all’elemento invisibile dell’etere, si otteneva il quadro dei corpi puri che attrasse gli artisti-matematici del Quattrocento63. Ma non era facile risolvere ogni composto naturale in queste forme elementari; Leonardo, prendendo in considerazione questo modo di porre il problema, non ha potuto fare a meno di avanzare dubbi sulla sua efficacia64. Luca Pacioli ne sostiene con facon- Storia dell’arte Einaudi 353 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze dia la fondatezza in quanto vi vede il principio di tutta una matematica artistica, fondata sulla misura e conforme agli arcana dell’universo, quindi capace di guidare la pittura nonché la decorazione e l’architettura. Il De divina proportione del 1497 (pubblicato nel 1509) rappresenta il discorso destinato a giustificare, richiamandosi al Timeo, questo grande segreto dell’organizzazione delle forme65. La parte piú nuova dell’insegnamento del Ficino riguarda la «vita» della natura, quale s’esprime nella lotta e nel travaglio costante degli elementi: «Habent igitur animam aqua et terra... Quid est ars humana? Natura quaedam materiam tractans extrinsecus. Quid natura? Ars intrinsecus materiam temperans, ac si faber lignarius esset in ligno». In ognuna delle zone proprie a questi elementi si trovano in realtà degli esseri viventi, che ne procedono e non possono crescere o muoversi se non per virtú degli elementi di cui essi figurano e rappresentano in qualche modo le proprietà. La stessa dimostrazione vale anche per il fuoco e per l’aria66. L’apparenza meccanica della «vita» della natura, quella di Lucrezio e degli epicurei, è dunque un’illusione assoluta: Et quemadmodum si homines ferri quidem ipsius motum videntes, magnetem non viderent, ferrum ex se ipso moveri putarent dum trahitur a magnete, ita nunc qui sphaerarum animas non intelligunt, corpuscula quaelibet credunt ex se moveri. At enim cum nulla mens artificis tam recte aut membra sua, aut instrumenta moveat, quam corpuscula illa moventur in mundo, necessarium est illa corpuscula non ab inerti qualitate solummodo, verum etiam ab artificiosa natura moveri et duci. Gli elementi normalmente si scalano in base alla loro densità decrescente: terra, acqua, aria, fuoco; ma in questo equilibrio generale, che d’altronde viene facil- Storia dell’arte Einaudi 354 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze mente sconvolto, ogni elemento possiede una sua attività «artistica». Questo principio ha un nome segreto nella Teologia di Orfeo, o meglio un doppio nome che si sdoppia in maschile e femminile67. E l’esposizione si conclude misteriosamente con l’enumerazione dei «demoni» che sono la radice delle specie e delle forme. Questa conclusione ermetica non deve nasconderci l’originalità d’una dottrina che per la prima volta attribuisce una sorta di autonomia alle forze della natura. Per ordinare le molteplici affermazioni sui fenomeni, Leonardo non disporrà di altra teoria generale che quella degli elementi, dei quali a sua volta immagina le regioni naturali, i movimenti d’attrazione e di repulsione e la prodigiosa attività68. Nelle sue osservazioni cosmologiche ritorna continuamente l’idea di «artifiziosa natura» (anche l’espressione è derivata dal Ficino) che gli serve per poter cogliere, sotto ai fenomeni, una sorta di intenzione nascosta che l’artista piú di ogni altro è in grado di avvertire. Ma Leonardo è affascinato dalla tendenza della natura a sconvolgere fino al caos e infine a distruggere le sue proprie creazioni69. La rappresentazione dei quattro elementi ricorre frequente fino ad essere banale nell’arte dell’Occidente70. La distribuzione dei loro simboli nelle composizioni a quattro scomparti, di cui si voleva elevare il significato, divenne una forma corrente nel Trecento e nel Quattrocento. Si era in certo senso viziati da queste immagini tradizionali. «Lavorò Paolo in fresco la volta dei Peruzzi a triangoli in prospettiva, ed in su i cantoni dipinse nelle quadrature i quattro elementi, ed a ciascuno fece un animale a proposito: alla terra una talpa, all’acqua un pesce, al fuoco la salamandra, ed all’aria il camaleonte che ne vive e piglia ogni colore»71. Il famoso qui-pro-quo che divertí tanto i fiorentini: un cammello anziché un camaleonte, sta a dimostrare che Paolo Uccello non prestò seriamente attenzione a questi sim- Storia dell’arte Einaudi 355 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze boli. Nella descrizione del suo palazzo ideale il Filarete richiede lo stesso programma: «Nelle volte si fanno questi segni celesti, che si facci in prima i quattro tempi dell’anno, e poi e quattro elementi e descriptione della terra»72. Non precisa però quale tipo volesse. Il gusto dell’epoca per la varietà delle forme naturali spingeva verso formule piú pittoresche. Nel Morgante di Luigi Pulci la lunga descrizione del padiglione offerto a Rinaldo (XIV, st. 44-89) comprende una descrizione dettagliata dei ricami dedicati agli elementi: l’enumerazione di questi viene accompagnata ogni volta dal simbolo relativo: la salamandra, il camaleonte, il pesce, la talpa, come nella volta di Paolo Uccello; tuttavia essa è a dir vero interminabile e non ha un criterio direttivo preciso. Questa tendenza elencatoria si rivela anche nei pittori che raffiguravano nel cielo dei loro quadri numerosi uccelli e vi profondevano fiori sempre piú vari. Nella volta della stanza della Segnatura l’allegoria della Filosofia rappresenta un compendio di tutto questo repertorio: la figura porta infatti una veste coi colori dei quattro elementi, con animali, foglie, stelle corrispondenti a ognuna delle sfere; inoltre il trono è incorniciato da due statue dell’Artemide Efesia, il mostro «polymaste», che fa qui la sua prima comparsa nell’arte moderna, e basta da solo a portare il simbolo della natura su un nuovo piano. Pare lecito ricollegare all’interesse per questo emblema la voga delle «grottesche», di cui la bottega di Raffaello elaborerà la formula definitiva nelle logge vaticane assicurando al «geroglifico» di Artemide un posto privilegiato73. Il medaglione della Filosofia dà il titolo all’elogio della Filosofia o, come è piú comunemente nota, alla Scuola d’Atene. Esso è accompagnato da un riquadro in cui si vede una figura piegata sul globo del mondo indubbiamente per rappresentare la contemplazione di esso74. I due genietti che l’incorniciano portano delle scritte Storia dell’arte Einaudi 356 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze sulle quali si legge: «Moralis et Naturalis»: sono appunto i due aspetti della «filosofia». Nelle sintesi dottrinali si cercava infatti di accomunare il simbolo quaternario degli elementi con i principî intellettuali75. Il Ficino ha abbozzato una delle combinazioni possibili: «Alij... gradatim progredientes, lumen divinum in moralibus primo tanquam in terra, secundo in Physicis, tanquam aqua; tertio in mathematicis, tanquam in Luna, quarto Metaphysicis, tanquam in Sole perspicue salubriterque perspiciant. Hos appellat Orpheus Musarum legitimos Sacerdotes...»76: moralia physica mathematica metaphysica terra acqua aria fuoco Questa classificazione non vale per la complessa iconografia messa in opera, nella volta della stanza della Segnatura, dal Sodoma e da Raffaello77. La corrispondenza fra le «storie», sormontate dalle allegorie relative, e i simboli degli elementi viene espressa, al di sopra di ogni «Storia», mediante un genietto portaemblema e, accanto ad ogni allegoria, mediante un piccolo riquadro a due registri il cui valore sembra essere intonato all’argomento. Se si corregge un curioso errore intervenuto nella distribuzione78, l’insieme risulta costruito, secondo il seguente schema: Genietti Giurisprudenza Filosofia Poesia Teologia Terra Acqua Aria Fuoco Sulla veste della Filosofia giallo verde azzurro rosso Storia dell’arte Einaudi 357 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Le doppie scene inserite accanto ad ogni allegoria ribadiscono ancora l’esposizione dottrinaria: la prima serie (Muzio Scevola, Pax Augustea, Mezio Curzio, Giunio Bruto) deriva da Tito Livio questi esempi di virtus; la seconda (Vulcano, Anfitrite, trionfo sull’Acqua, sconfitta dei giganti) deriva da Igino e svolge l’idea della potenza dell’amore. Sono i due principî che i platonici amavano porre alla base della vita morale dopo averla riconosciuta come principio stesso della vita della natura. 2. I cicli del tempo a Poggio a Caiano. I ritmi del tempo ricorrono spesso nelle immagini cosmologiche del medioevo, e in esse i mesi vanno uniti ai segni zodiacali, le stagioni agli elementi. La loro successione e le loro contrapposizioni risultano dal loro posto nel cerchio, o rosone, dove i simboli venivano iscritti. Altrettanto frequente è la serie dei lavori umani che corrisponde ai mesi e alle stagioni, disposta in riquadri giustapposti oppure in un fregio continuo. Personaggi allegorici si erano visti anche nell’arte antica e piú raramente nel medioevo: una serie di tavole ben nota, destinata al palazzo di Belfiore a Ferrara, conserva il ricordo di questo tipo di figurazioni ancora sulla metà del Quattrocento79. In una forma piú vicina all’antico si troveranno le quattro stagioni nella loggetta del Bibbiena in Vaticano80. Fra gli schemi astronomici e le allegorie di tipo classico Firenze offre l’unico complesso originale in cui si sia tentata l’illustrazione poetica dei cicli temporali: si trova sulla facciata della villa di Poggio a Caiano e risale a circa il 1490. Essa dimostra nel modo piú netto l’incontro tra la cultura umanistica e lo stile narrativo delle botteghe toscane. Si tratta del fregio in terracotta invetriata collocato sull’atrio corinzio della villa del Magni- Storia dell’arte Einaudi 358 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze fico. Il Sangallo già a Santa Maria delle Carceri aveva introdotto elementi di terracotta invetriata bianca su fondo azzurro; la chiesa di Prato era stata iniziata contemporaneamente alla villa del Poggio e anch’essa rimase incompiuta dopo il 1492. Verosimilmente l’architetto si è rivolto alla stessa bottega per ottenere le fasce di maiolica chiara che costituiscono uno dei tratti originali di queste due opere. Però il fregio del Poggio presenta una concisione di disegno, una purezza «ellenistica» che invogliano ad attribuirne la composizione ad Andrea Sansovino81. È infatti difficile riconoscervi la maniera, piú rude, del Sangallo. Il fregio è diviso in cinque settori da quattro «termini», che cadono esattamente in asse con le colonne: il terzo è scomparso, ma si vede chiaramente il punto dove stava. Ognuno di questi «termini» rientra, grazie all’abbigliamento ed all’atteggiamento, nelle scene attigue: il secondo, ad esempio, che conclude la scena guerriera del riquadro centrale porta chiaramente un elmo e un’insegna militare; il quarto, attiguo alle «stagioni», è adorno di fiori e di frutti. I cinque temi del fregio si trovano cosí separati e uniti. Non abbiamo una serie narrativa ma un susseguirsi di composizioni, di cui i termini sottolineano l’articolazione. Il fatto che si ritrovino qui queste figure inconsuete sembra rispondere al desiderio di rimettere in onore delle divinità romane, nella fattispecie quelle di cui Ovidio nei suoi versi sul calendario, che guidano tutta la decorazione, dice: Termine, sive lapis, sive es defossus in agro Stipes, ab antiquis tu quoque numen habes. (Fasti, II, 641-42)82. Il primo tema a destra presenta una composizione doppia, che raffigura il «giorno» e la «notte». La scena si legge da sinistra a destra. Anzitutto abbiamo un uomo Storia dell’arte Einaudi 359 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze seduto, pesantemente abbandonato, che tiene in mano un mazzo di papaveri, un personaggio disteso su un letto (degli scuri fori nella terracotta indicano trattarsi di un viso sfatto) e una donna in piedi; è, accanto alla Notte, la coppia di Hypnos e Thanatos ricordata da Esiodo (Theogonia, 747), descritta da Pausania e spesso rappresentata sui leciti funerari e nei rilievi romani83. Nella seconda metà della composizione un personaggio femminile coi capelli a raggiera (l’Aurora), sta finendo di apprestare la quadriga del Sole che porterà via l’auriga attraverso la porta monumentale del giorno presentata obliquamente come un arco di trionfo. La quadriga, accompagnata con un cenno di saluto dall’Aurora, si precipita nel cielo. L’insieme del cocchio è disegnato con una vivacità che richiama i versi di Ovidio sui quadripedes animosos e la famosa partenza di Fetonte (Met., II, 55 sgg.). Abbiamo qui un’immagine canonica del Giorno, di un deciso tono neoellenico84. Lo scomparto attiguo, dedicato alle «stagioni», si ispira ad Ovidio nella parte sinistra, in cui compaiono le quattro allegorie classiche, di un accento piú romano che greco; il resto della composizione illustra, seguendo il corso dell’anno, i lavori campestri. Una figura è andata perduta accanto al personaggio che innesta la vite; forse rappresentava la potatura, mentre la terza figura è raffigurata in atto di legare il tralcio all’olmo. L’intento didattico si esprime senza peritanze: i lavori della mietitura (con la grande falce curva e il falcetto) vengono dopo, seguiti a lor volta dalla vendemmia: un contadino coglie un grappolo sopra la sua testa, un altro, un po’ piú lontano, curva un ramo per raccogliere le olive, altri arano e seminano. Infine le ultime due figure rappresentano i lavori della stagione avanzata, la vangatura della terra e la raccolta della legna. Gli abiti stabiliscono un rapporto fra le figure e la successione delle stagioni: le prime figure avevano una tunica corta, erano Storia dell’arte Einaudi 360 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze nude quelle nel cuore dell’estate, ricompare la tunica corta in quelle dell’autunno e quelle dell’inverno portano il mantello. Dodici di numero, se si tiene conto della figura perduta, questi contadini corrispondono evidentemente alla serie dei mesi. Abbiamo quindi un calendario rustico, chiaro e ordinato con finezza, di una novità innegabile, di uno stile perfettamente ovidiano85. L’episodio centrale è consacrato al ciclo superiore, cioè all’«anno». Questo è individuato mediante il personaggio della mitologia romana piú suggestivo in questo senso, Giano. Egli è rappresentato davanti al suo tempio con il tipico volto doppio, con le mani alzate, come lo descrive Poliziano nell’esordio dell’Ambra: Claviger in semet redeuntem computat annum Iam dextra Deus (Selve: Ambra, 55-56)86. Gli antichi commenti riferiscono infatti che Giano è rappresentato nell’atto di contare fino a 300 con la mano destra e fino a 65 con la mano sinistra per indicare la durata dell’anno alla quale presiede. Ovidio descrive lungamente e devotamente gli attributi di Giano nel I libro dei Fasti, che risultano cosí la fonte letteraria principale del fregio. L’invocazione iniziale fornisce il tema: Iane biceps, anni tacite labentis origo. (Fasti, I, 63)87. Il lungo discorso messo in bocca a Giano spiega che egli è un dio cosmico, che un tempo si identificava col Caos. Nel mondo attuale regna sugli elementi e dispone della pace e della guerra: Storia dell’arte Einaudi 361 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Me Chaos antiqui (nam sum res prisca) vocabant... me penes est unum vasti custodia mundi et jus vertendi cardinis omne meum est. Cum libuit Pacem placidis emittere tectis libera perpetuas ambulat illa vias: sanguine letifero totus miscebitur orbis ni teneant rigidae condita bella serae, praesideo foribus caeli cum mitibus Horis: it, redit officio Jupiter ipse meo. (Fasti, I, 103 e 119-26). Il tempio, o piú esattamente il sacrario bronzeo, di Giano si trovava nel Foro, e se ne aprivano le porte in tempo di guerra: il fregio di Poggio a Caiano rappresenta il momento in cui il sacerdote di Giano apre la porta fatale da cui esce Marte ferocemente armato88. I personaggi che assistono alla scena sono dei soldati romani e le loro armature e le loro insegne sono state ricostruite con qualche cura sulla base dei monumenti antichi. Forse è lecito vedere nei due gruppi di cinque figure una allusione ai dieci mesi dell’anno secondo il calendario primitivamente definito da Romolo? …in anno constituit menses quinque bis esse suo. (Fasti, I, 27-28). Ma, secondo Ovidio, Giano è piú di un dio dell’anno, e in verità la potestà che regola i movimenti piú generali della natura, una sorta di autorità regolatrice del tempo. Questa superiore funzione spiega il posto d’onore attribuito al Dio romano e il fregio è consacrato alla celebrazione dell’ordine universale di cui il vecchio dio romano è la chiave: Me penes est unum vasti custodia mundi89. Storia dell’arte Einaudi 362 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Questa preminenza di Giano, ispirata da Ovidio, ci scopre chi è l’ispiratore del complesso. Dopo il 1481 il Poliziano aveva preso ad occuparsi in modo particolare dei Fasti nelle sue lezioni allo Studio. Il poema latino che egli chiamava «illius vatis liber pulcherrimus» gli era divenuto cosí familiare che lo imitava, sotto forma di un semplice commento, nelle sue Sylvae. Il fregio di Poggio a Caiano non è se non una parafrasi del trattato sul calendario romano letto secondo l’esegesi del Poliziano. L’edicola centrale, cioè il Santuario di Giano, da cui esce il dio della guerra, deriva da uno dei sarcofagi romani piú celebri di Firenze, quello che, dopo esser stato per qualche tempo a palazzo Riccardi, si trova accanto alla porta sud del Battistero: qui il tempio è quello della Eternità, dimora delle ombre da cui esce Mercurio psicopompo dischiudendo la porta90. Il ritmo cosmico superiore a quello dell’anno è il ritmo delle età del mondo: tenendosi esclusivamente, secondo la consuetudine dei neoplatonici fiorentini, all’opposizione fondamentale di Saturno e Giove, l’autore del fregio non ha rappresentato le quattro età che si trovano in Ovidio, ma la comparsa dell’età di Giove, la nostra, che, succedendo alla mitica età dell’oro, ha introdotto il ritmo delle stagioni, l’agricoltura e l’allevamento91. Ovidio, sempre nei Fasti, racconta dell’ingordigia di Saturno, alla quale Rea riuscí con l’astuzia a sottrarre il piccolo Giove: Veste latens saxum caelesti gutture dedit sic genitor fatis decipiendus erat (Fasti, V, 205-6) mentre nelle solitudini del monte Ida i coribanti, sacerdoti danzatori, coprono con le loro grida i vagiti del piccolo: Storia dell’arte Einaudi 363 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze pars clipeos rudibus, galeas pars tundit inanes, hoc Curetes habent, hoc Corybantes opus (Fasti, IV, 209-10). Poiché ogni tema è svolto in tono pittoresco, la danza dei coribanti, rappresentati qui come soldati romani, occupa il centro della composizione; fa cosí riscontro al coro delle stagioni nell’episodio simmetrico. A destra, la roccia coperta di alveari e a sinistra la culla, accanto alla quale la ninfa Amaltea trattiene la sua capra, completano il quadro. Si vede infine Rea presentare a Saturno la pietra dell’inganno e con l’altra mano tendere una foglia alla capra; si sa che il corno spezzato di questa divenne poi il corno dell’abbondanza (Fasti, V, 3). Queste allusioni ai cibi degli dei e ai frutti della terra sono perfettamente intonate al fregio che celebra l’ordine del mondo e le colture della villa. Ma l’insistenza portata sulla parte che hanno avuto i Coribanti ci fa ricordare che essi sono, secondo la tradizione antica ripresa dal Ficino e da Pico, i maestri dell’iniziazione92. L’elogio mitico del miele e del latte assume cosí un valore particolare, in accordo con la figurazione di Giano, signore del tempo, e soprattutto coll’episodio cosmologico iniziale. Questo primo episodio è oscuro e singolare. Il fondo azzurro-verde del fregio è occupato per due terzi da una roccia scura, una grotta, in cui un personaggio barbuto tiene in mano dei serpenti. Al centro, in ricche vesti, una dea-madre, allegoria della Natura, apre le braccia e dal suo seno escono esseri alati, anime minuscole che si diffondono a destra e a sinistra: due si dirigono verso il dio coi serpenti, due altre procedono a destra verso un personaggio nudo, girato verso la roccia enorme, con una sfera in una mano ed un compasso nell’altra. Un serpente gigantesco, munito di piccole orecchie e di testa canina, sta come coronamento sulla montagna e sulla Storia dell’arte Einaudi 364 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze caverna enigmatica mordendosi la coda. È questa la chiave di tutta la scena. Si deve vedere in esso un’immagine dell’eternità nella quale si compie la gestazione delle età93. Siamo dunque alle origini del mondo; ma non secondo le cosmogonie di Esiodo, e nemmeno di Ovidio, che raccontano l’uscita dal Caos primitivo. La scena richiama piuttosto l’organizzazione metodica degli elementi e la creazione delle anime, come si trova raccontata nel Timeo, attraverso l’intervento del «demiurgo-architetto», per volontà del quale «il mondo è unico, sferico e si muove in circolo»94. «Preoccupato, – racconta Platone, – di costruire una certa imitazione mobile dell’eternità, pur organizzando il cielo, fece dell’eternità una e immobile questa immagine eterna che progredisce secondo la legge dei numeri, questa cosa che noi chiamiamo il tempo» (Timeo, 37 d). Questa è dunque l’origine nascosta dei diversi ritmi della durata: «I giorni e le notti, i mesi e le stagioni non esistevano prima della nascita del Cielo..., infatti sono divisioni del tempo...» Questa celebre esposizione è la chiave di tutto il fregio, che la sviluppa e illustra metodicamente attraverso una serie di scene derivate dai poeti. Ma la scena della «creazione» è in stretta dipendenza da un passo del Panegirico a Stilicone, già utilizzato dal Boccaccio nella sua Genealogia degli dei. Claudiano immagina che Febo stesso entri nell’antro della Natura in cui si trovano «sedes aevique arcana», la dimora segreta del Tempo, per scegliervi l’età dell’oro destinata a Stilicone. Questa figurazione fornisce lo schema del riquadro del Poggio: Est ignota procul, nostraeque impervia menti Vix adeunda Deis, annorum squalida mater, Immensa spelunca ævi, que tempora vasto Suppeditat, revocatque sinu: complectitur antrum Omnia qui placido consumit numine serpens... Storia dell’arte Einaudi 365 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Ante fores natura sedet, cunctisque volantes Dependent membris animae: mensura verendus Scribit jura senex, numeros qui dividit astris, Et cursus, stabilesque moras, quibus omnia vivunt, Ac pereunt, fixis cum legibus ille recenset95. L’antro è la dimora nascosta delle «madri», nello stesso senso in cui il termine si trova in Goethe96; dalla «matrona» seduta sulla soglia irraggiano le anime. È il tema centrale del riquadro. Ma il vecchio che si trova nel testo si è qui sdoppiato in due figure che costituiscono i due poli della composizione: una è il demone dell’antro e l’altra il giovane demiurgo che «scrive le regole immutabili». Il demone non è né greco né romano: può derivare dai demoni etruschi come Tuchulcha, che spesso accompagnano Caronte nei dipinti tombali, ad esempio nella tomba dell’Orco o sui vasi, e che brandiscono simboli della potenza infernale97. Egli sembra riallacciarsi all’oscuro Demogorgone che nella Genealogia degli dei viene descritto come «l’antenato di tutti gli dei pagani», essere spaventoso, avvolto di nubi, nascosto nelle viscere della terra, vicino all’Eternità e al Caos98. L’autore del fregio avrebbe qui creato un tipo nuovo per dare vita plastica all’impenetrabile «padre degli dei», accuratamente distinto dal demiurgo «platonico» che prende il posto del Sole visitatore, che c’è invece in Claudiano. L’idea di aevum risulta cosí assai meglio, al di là di tutti i cicli relativi alla durata. Forse qui, come in Claudiano, essa viene associata all’idea di un benefico novum aevum. Questa elegante rappresentazione dei signa temporis non trova precedenti. Inoltre essa comprende una rappresentazione scorciata dell’intero mito; essa corrisponde in realtà all’ordine in cui fecero la loro comparsa le divinità antiche secondo i principali mitografi del Rinascimento, dal Boccaccio (la cui Genealogia degli dei rima- Storia dell’arte Einaudi 366 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze ne sino al Cinquecento un manuale fondamentale) alle Imagini del Cartari (1556)99. In quest’opera tarda, ma basata sulle stesse fonti degli umanisti fiorentini, l’ordine dell’esposizione è infatti questo: l’Eternità nella sua caverna feconda (derivate dal Boccaccio e Claudiano), Saturno il divoratore, Giano che governa le porte del cielo e quelle della guerra e che è assistito dalle Quattro Stagioni, infine Apollo con l’Aurora come messaggera. Dato che in essa si ritrovano anche i Coribanti, citati rapidamente a proposito della «Grande madre» (e non di Giove), i fratelli Mors e Somnium, descritti di passaggio nel capitolo di Mercurio, il mitografo si trova ad esporre a posteriori (tranne la serie dei mesi) tutta l’organizzazione del fregio; ne ha cioè conservato la struttura «teogonica». Ed anch’egli s’appoggia agli stessi testi: «Ermete Trismegisto, i pitagorici e Platone hanno affermato che il tempo è l’immagine dell’Eternità...»; ma egli ricorda anche che Boezio e i platonici cristiani distinguono l’eternità divina dalla perpetuità cosmica100. L’importanza che i Fasti hanno avuto nella scelta dei vari temi induce ad affermare che Poliziano è l’umanista autore del fregio. Chi altro avrebbe potuto integrare in questo modo Platone con Ovidio nella ricomposizione del tutto naturalistica e pagana dei grandi miti del Tempo? Il mito antico, secondo un gusto caro all’autore delle Selve, è completamente latinizzato: i coribanti sono dei guerrieri romani. Giano, dio italico come Saturno, diviene il centro della raffigurazione cosmica: il suo piccolo tempio cade esattamente al centro del fregio e segna cosí, con l’emblema del mitico re del Lazio, la facciata del Poggio. L’eleganza un po’ preziosa dell’esecuzione e le trovate compositive vengono ad addolcire la indubbia ricercatezza del soggetto. Infatti l’insieme è, nonostante tutto, dominato da un interesse incantevole per le forme della vita rustica col latte e miele nel tema dell’infanzia di Giove, la vite e il grano nel tema delle Storia dell’arte Einaudi 367 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze stagioni. Le possibilità della natura fioriscono all’ombra delle forze che regolano l’attività degli uomini, il che rappresenta un’allusione diretta agli allevamenti ed alle colture della villa. L’elogio di Lorenzo agricoltore si trova in questa pastorale in cui viene sviluppata la delicata convinzione del Poliziano: …vivit… auctoribus astris, Cura deum, agricola, atque animo praescita recenset (Rusticus, 548-49). 3. «Pan Saturnius». Fra le opere piú singolari della fine del Quattrocento è senza dubbio il Trionfo di Pan del Signorelli. L’asprezza plastica dello stile «duro» tocca qui il suo acme; è senza dubbio la composizione di figure nude piú audace dell’epoca e si è sempre creduto di vedervi una meditazione sulla forza segreta dell’universo101. Ma si tratta anche di un’opera fondamentale per chiarire i rapporti fra l’arte e l’umanesimo a Firenze: la struttura e l’ispirazione di questa «opera affascinante» chiamano infatti direttamente in causa l’ambiente stesso del Magnifico e le consuetudini di Careggi102. Le informazioni essenziali ci sono fornite dal Vasari che bambino aveva conosciuto il pittore: Da Siena venuto a Firenze, cosí per vedere l’opere di quei maestri che allora vivevano, come quelle di molti passati, dipinse a Lorenzo de’ Medici, in una tela, alcuni Dei ignudi, che gli furono molto comendati; e un quadro di Nostra Donna con due Profeti piccoli di terretta, il quale è oggi a Castello, villa del duca Cosimo: e l’una e l’altra opera donò al detto Lorenzo, il quale non volle mai da niuno esser vinto in esser liberale e magnifico103. Storia dell’arte Einaudi 368 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Questa visita di Signorelli a Firenze è databile verso il 1490-92104. Lo stile dell’opera presenta numerose analogie con i dipinti di questo periodo: la composizione statica, in cui le linee direttrici sono definite dagli sguardi dei personaggi, si ritrova nella Madonna di Perugia (1484) e in quella di Volterra (1491). Il Trionfo di Pan presenta, come è stato spesso notato, la struttura di una «sacra conversazione» nel disporsi delle figure intorno al trono centrale, e la gravita di una tavola sacra105. Il paesaggio, con le sue rocce scure e i suoi elementi architettonici, richiama da vicino la Madonna degli Uffizi (circa 1490), ricordata dal Vasari, in cui un tempio circolare, un arco diruto e dei pastori suggeriscono il mondo pagano. Questo stesso mondo lo ritroviamo nello sfondo di un ritratto di quest’epoca (Berlino) e la pianura ritorna, anche qui punteggiata di edifici, nella Crocifissione di Urbino (1494). Non c’è alcuna ragione per mettere in dubbio che il Pan sia stato dipinto per Lorenzo come ci dice il Vasari106: si tratta, notiamo, di un punto capitale. Infatti le abitudini dell’ambiente fiorentino (e di tutta l’epoca) impediscono di pensare che un’opera, tanto rilevante come dimensioni e cosí inconsueta come tema, sia stata composta senza un preciso motivo. Ora tutta una serie di testi ci dimostra che Pan era una divinità «medicea» e compariva di continuo in poesie o epistole di circostanza. L’origine di questa simbologia risiede in un gioco di parole, schiettamente umanistico, sul nome di Cosimo o Cosmus. La parola greca Cosmos permette di identificarlo col mondo e la forza universale che lo anima. Questa dotta lusinga sembra essere stata usata ben presto107; il Ficino ne approfitterà in modo brillante in una lettera gentile e celebre del settembre del 1462, in cui ringrazia Cosimo di avergli assicurato con la villa di Careggi un ritiro adatto alla contemplazione108. In que- Storia dell’arte Einaudi 369 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze sta lettera egli si mostra colmo di entusiasta riconoscenza; dopo aver ricopiato per il suo protettore «hymnum divi Orphei quem ad Cosmum id est mundum ille cecinit», vede una sorta di presagio nello studio che ne aveva appena fatto e aggiunge: «Ille si quidem ad te retulisse videtur hymnum quem Cosmo sacravit, pro me rogasse quae in orationis calce rogavit. Tu autem celesti quodam afflatu, instictu exaudisse videris eo ipso tempore quo a nobis relatus est hymnus, atque eadem quae votum obsecrat, tradidisse...» L’analogia dei nomi cela un incontro meraviglioso, che conferisce una nota provvidenziale all’installazione dell’Academia; per concludere il Ficino prometteva di celebrare insieme l’anniversario di Cosimo e quello di Platone. Questi legami tra la Academiola di Careggi e il suo fondatore furono il grande motivo della festa di san Cosma, che venne ad essere posta sotto il doppio segno di Pan (= Cosmos) e di Saturno (= la contemplazione bucolica). Nella festa dei santi Cosma e Damiano (27 settembre), regolarmente celebrata a Firenze e Careggi, si dava meno importanza al santo medico patrono della città, che non alla divinità del «cosmos» implicita nel suo nome e che permetteva, grazie ad una utilizzazione divertente e interessata, di celebrare insieme il patrono di Firenze, il dio Pan e il capo della casa dei Medici, come se quest’ultimo fosse l’attuale rappresentante sia del primo che del secondo109. Chi viveva la vita della natura (i contadini e gli abitanti della campagna) erano naturalmente protetti da Pan (Cosmos) e da Cosimo. In un frammento di dialogo del Ficino un contadino che chiede di essere ammesso a un banchetto commemorativo in onore di Cosimo dichiara «Cosmianus quidam sum...»110. Una lunga epistola del 1480 spiega a Lorenzo le ragioni per le quali è stata organizzata nella «piccola accademia di Febo», cioè nella villa dell’Accademia un banchetto per i con- Storia dell’arte Einaudi 370 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze tadini di Careggi il giorno della festa di san Cosma. I contadini sono creature di Saturno. La festa era dunque in onore di Pan il Saturnino, le cui virtú, che sono le gioie della vita rustica, la felicità dei campi, il Ficino oppone a «Febo che regna nelle città»: Andandomene io questa mattina in sul levar del Sole sopra la sommità di Monte Vecchio, il quale Cosimo al suo Marsilio già diede, e contemplando io de la selva di quel monte il pallazzo di Carreggio, subbito mi venne ne la mente essere il giorno de la festa di S. Cosimo e Damiano, il quale dal gran Cosimo e da suoi figlioli è ogni anno celebrato. Allhora non potei fare ch’io non mi dolessi, non vedendo io cittadino alcuno venuto a quella festa, come soleva essere usanza. Allhora subbito quel divino Cosimo, al quale Giove un Imperio, senza fine ha dato, da una altissima querce, con tale divine parole parlandomi mi consolo: «Marsilio mio, questa mia festa hoggi il pietoso Lorenzo ne la città rinnova. E tu qui in villa se obbedir mi vorrai in quella selva la celebrerai. Né ti vergognare questi miei vecchi e Saturnini agricoltori sotto la cima di questo monte, ne la Accademia a Febo sacrata a convito invitare. Conciosia che hoggi come l’Astronomia vi insegna, Saturno e Febo in Cielo si congiungono. La mia volontà Marsilio è questa; che sí come hoggi in Cielo si fa, cosí in terra si facci, accioche e quivi e quaggiú le cose di Apollo con quelle di Saturno si congiungano. O felicissimo humano genere, se la roza sistola del Saturnino, Pane con la civil cetera di Febo s’accordasse, e se sempre gl’offitii di ambedue questi Iddii appresso di noi congiunti fussero. Queste come vedi hoggi in Cielo si mescolano, tu anchora appresso gli huomini sempre in terra le mescolerai. Sta sano». Vere queste cose, ch’io dico, Magnanimo Lorenzo sono. E cosí prima meco stesso mi rattristava come ho detto, e cosí mi parve che Cosimo mi ammonisse e consolasse. E cosí finalmente un Apollineo convito, cioè filoso- Storia dell’arte Einaudi 371 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze fico, a li Saturnini huomini, cioè a li vecchi agricoltori nostri apparecchiai, il quale senza la lira et altre solennità non fu. La festa di San Cosimo, come il tempo, il luogo e la facultà comportava volentieri e felicemente celebrammo. Perché ho io detto queste cose? Acciò che noi da le parole di Cosimo ammoniti, se felicemente viver vogliamo, l’altre cose o tralasciate o abbandonate, conosciamo che Febo insieme a Saturno honorar doveamo. Cioè che ogni giorno doviamo cose rustiche a le Muse dedicare. E che anchora le Muse da le civili faccende, a li colli di Cerere e di Bacco spesso trasportar si possono. State sane felicemente111. L’idea era cara al Ficino e, all’avvento del Magnifico, gli aveva scritto: «Si come Iddio haveva formato Cosimo secondo l’Idea del mondo, cosí voi formate voi stesso secondo l’idea di Cosimo, come havete cominciato»112. Ma già nelle bucoliche di Naldo Naldi, una serie di composizioni a chiave in cui si ritrova, travestita, tutta la società medicea, una egloga era consacrata alla morte di Silvanus o Pan, signore di Firenze, depositario della ars medica (in senso fisico e morale), che è appena scomparso e salito al cielo: allusione a Piero, morto nel 1468113. Il soprannome simbolico passava cosí ai discendenti. In una lettera del Ficino si vede molto chiaramente come la festa di san Cosma (= Pan) sia stata trasmessa dal nonno al nipote e si trovi associata al ciclo Saturnino: «Redeunt hodie, unice patrone, sacra illa divi Cosmi solemnia, quae integrum jam Saturni cursum, primo quidem sub magno Cosmo, deinde apud pium Petrum, demum penes magnanimum Laurentium, quotannis colere consuevimus»114. La lunga epistola del 1480 acquista cosí il suo pieno valore. Giocando sul ricordo di Cosimo, che possedeva il dono «gioviano» dei reggitori d’uomini (donde l’oracolo dalla quercia), ricorda a Lorenzo che il Pan medi- Storia dell’arte Einaudi 372 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze ceo, dio della vita bucolica, è un Pan Saturnino. L’oracolo reso dall’ombra di Cosimo ha il valore di un invito a non dimenticare l’otium campestre propizio alla meditazione. Il simbolo si amplia e viene ora a indicare un intreccio molto vasto d’idee filosofiche e poetiche, che permette di rimproverare con discrezione a Lorenzo di non essere fedele alla vocazione rustica e contemplativa della sua stirpe. Il Pan Saturnino porta a Careggi. Nelle sue poesie giovanili d’altronde il nipote di Cosimo aveva riservato un certo spazio al mito di Pan. L’Altercatio che per l’appunto colloca in un ambiente bucolico una meditazione, derivata direttamente da una epistola del Ficino, sui gradi della felicità, si apre con una invocazione al dio: Pan, quale ogni pastore onora e venera, il cui nome in Arcadia si celébra che impera a quel che si corrompe o genera...115. Nell’egloga incompiuta di Apollo e Pan la doppia ispirazione che abbiamo già visto nell’epistola del Ficino viene sviluppata in forma di certamen poeticum nella valle di Tempe. Il canto di Pan è una lagnanza contro l’amore, forza spietata che ha provocato la morte di Dafni, il pastore siciliano cresciuto da Pan, e che ora tormenta la ninfa Siringa... Il tema dell’amore viene cosí a completare la figura del Pan Saturnino dei Medici, aggiungendovi la tristezza, la nota di disperazione e malinconia sentimentale propria all’«amore delle creature umane», che costituisce l’ispirazione fondamentale della poesia di Lorenzo116. Di questo terrà conto il quadro del Signorelli. Il Signore di Firenze ebbe per tutta la vita la nostalgia delle dimore bucoliche, propizie al sogno e favorevoli alla saggezza contemplativa. Dal poema dell’Ambra alle Selve, alle egloghe, il motivo pastorale, le forze vive della natura e il paesaggio tosca- Storia dell’arte Einaudi 373 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze no non avevano cessato d’ispirare la poesia di Lorenzo, che il Ficino nel 1491 descriveva come il poeta puro, in preda all’ebrezza dionisiaca sulle colline dell’Arno. Due mesi prima della morte egli pensava (e, pare, seriamente) a ritirarvisi117. È questo certamente solo un aspetto della personalità di Lorenzo, ma quello che forse lo lusingava di piú è che, al prestigio della politica e della grandezza, veniva ad aggiungere il tormento di una vita pura, di una vocazione personale che non riesce a realizzarsi118. In questo contesto deve essere visto il grande quadro del Signorelli ed è possibile cogliervi la rappresentazione piú completa dei legami tra i Medici e l’Accademia ficiniana119. Abbiamo insomma qui il corrispettivo del benefico regno di Venere, rappresentata qualche anno prima, nella Primavera del Botticelli, come la divinità tutelare di Lorenzo di Pierfrancesco, cugino del Magnifico. E sia nell’uno che nell’altro abbiamo la celebrazione di una potenza accuratamente definita nei commenti degli umanisti in rapporto a una personalità particolare120. L’origine del quadro è del tutto letteraria; ma vi si possono scoprire rapporti con alcune «immagini» antiche del dio. In piú d’un dipinto pompeiano egli appare come un giovane, barbuto o imberbe, a volte in aspetto di musico, a volte di dio-pastore. Nella composizione del Signorelli troviamo unite le due forme. D’altra parte un curioso marmo raffigura il torso d’una divinità alata tutta segnata, e per cosí dire tatuata, con le figure degli dei per mettere in evidenza la potenza universale di Pan ôreisma pßntwn121. Abbiamo infine una pietra incisa (già collezione Stosch) nella quale un fauno nettamente disegnato suona il flauto vicino a un altare circondato tutto intorno da una corona celeste costituita dai segni dello zodiaco. Un secondo esemplare è noto da una descrizione. Ma non Storia dell’arte Einaudi 374 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze manca chi pensa che si tratti di contaminazioni rinascimentali. Se cosí fosse questa piccola composizione, verosimilmente proveniente dall’Italia settentrionale, costituirebbe una sorta di parallelo della tavola signorelliana. Tutte queste rappresentazioni s’ispirano a un’idea di Pan formatasi non sulla base del folclore greco o delle bucoliche (dove Pan è un demone turbolento ed irsuto), ma sulla base dell’interpretazione che ne dánno l’inno omerico e l’inno orfico, due testi familiari ai grecisti fiorentini del Quattrocento. Comunque è quest’idea poetica e «mistica» di Pan (già attestata da Servio nel ii secolo) che guida il quadro del Signorelli. Non è quindi necessario cercare se l’autore abbia seguito in particolare la descrizione di Servio (Comm. ad Buc., II, 31), o quella di Petrarca (Africa, III, 194 sgg.), o infine quella del Boccaccio (Genealogia deorum gentilium, I) che era la piú seguita122. Il dio dal piede di capra ha le due corna a luna, la faccia rossastra, i capelli sparsi, la nebride costellata, come ricordano il Boccaccio e Servio, essendo fatto «a somiglianza della natura», cioè comprendendo in sé il principio di tutti gli elementi. Impugna il flauto a sette canne che corrisponde all’armonia del cielo e la verga ricurva simbolo dell’anno che ritorna senza fine su se stesso e, quindi, dei cicli dell’universo fisico. E lo stile severo del Signorelli ha realizzato qui una delle immagini piú forti di tutto il Rinascimento. Ma anche la composizione non trova precedenti nelle fonti mitografiche: essa stessa costituisce invece il commento originale o, piú esattamente, un adattamento coerente del soggetto. Insieme col dio stanno dei contadini, dei pastori con la bisaccia ed il bastone; sono nudi come devono esserlo gli abitanti della campagna ideale di Tempe ed i seguaci degli dei antichi; i corpi, alternatamente bianchi e color rame, richiamano le figure del mondo ante legem che ricorrono nei quadri sacri del Signorelli e nel tondo Doni di Michelangelo (1503- Storia dell’arte Einaudi 375 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze 504)123. La ninfa in piedi a sinistra (il suo corpo è di una struttura massiccia che è esattamente l’opposto delle forme flessibili del Botticelli)124 introduce molto verosimilmente il motivo di Siringa che fu inseguita da Pan e trasformata in canna. Fu allora, secondo il mito, che il dio, per consolarsi, inventò il flauto. La composizione raccoglie dunque intorno a Pan il ciclo dei desideri che si fuggono l’uno l’altro; i rapporti tra i personaggi, definiti dai loro sguardi, ruotano intorno alla ninfa. Pan tiene gli occhi sulla figura femminile indifferente e non fa attenzione né al giovane pastore che suona per lui la cornamusa né al vecchio in piedi che, con la mano alzata, l’ammonisce. L’atteggiamento degli altri personaggi viene a completare questa trama di attrazioni e repulsioni: il vecchio pastore di profilo a destra, e il giovane pastore coronato di pampini è bizzarramente coricato a terra, che equilibrano la composizione, sembrano entrambi fissare Siringa e sorvegliare il suo atteggiamento. Ad aggiungere una nota significativa alla scena è la ninfa seduta sul bordo sinistro nel classico atteggiamento della malinconia; essa offre in certo modo la chiave psicologica della composizione, nella quale, intorno al dio sognante, s’esprime quella catena di desideri e illusioni di cui le poesie del Magnifico di continuo analizzano il principio e gli effetti. Pan è il dio saturnino della natura, del desiderio e dei loro cicli senza fine125. Il giovane suonatore di flauto e il saggio in piedi sul basamento del trono rappresentano le due forze spirituali che contribuiscono a definire questo universo: la musica e la filosofia. Esse fanno parte della «pastorale» completa e l’importanza attribuita a questi compagni del dio amplia la composizione fino a farle assumere le dimensioni di una Arcadia degna di essere visitata. Se Pan rappresenta la divinità tutelare di Lorenzo (e in certo senso Lorenzo stesso) il vecchio e il pastore devono rappresentare la tentazione dell’otium rustico, cioè Storia dell’arte Einaudi 376 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze l’aspirazione alle gioie superiori della vita solitaria che Lorenzo cosí spesso ammetteva in questi anni 1490-92, nei quali il quadro è stato dipinto, e di cui in gioventú diceva che la loro seduzione era come il suono del flauto del vecchio montanaro Marsilo. Il Signorelli ha dunque compendiato tutto ciò che Lorenzo spesso aveva messo in rapporto al dio mediceo. La tristezza sorda della scena, la sua atmosfera malinconica accentuata dai toni rossastri di crepuscolo, le lunghe ombre portate che sottolineano l’immobilità dei personaggi, vengono ad aggiungere un accento intenso a questa evocazione letteraria. La poesia di questo capolavoro va al di là di Lorenzo e per la prima volta esprime il fondo sentimentale di quella vocazione pastorale umanistica che fiorirà nell’Arcadia del Sannazzaro126. La simmetria della composizione e la rigidità quasi liturgica dell’insieme accentuano il suo valore di simbolo e la tavola dimostra i contatti del Signorelli con l’ambiente fiorentino non meno del suo desiderio di lusingare Lorenzo. Questi forniva il fondo che permetteva di render concreto il mito. Per averne in qualche modo una controprova, basta riflettere che il tema, trattato dallo stesso artista, ha mutato significato in circostanze diverse. Nel 151314 il Signorelli fu chiamato a decorare il palazzo di Pandolfo Petrucci a Siena. In una serie di otto tavole compose una Festa di Pan che fu celebrata da una descrizione di Guglielmo della Valle e di cui un disegno, probabilmente copia cinquecentesca (British Museum), ci conserva il ricordo. La figura del dio appare qui piú conforme alle notizie dei mitografi: è irsuto e barbuto; a sinistra si levano le tre Parche in quanto Pan, secondo i miti, è nato da Demogorgone e dal Caos, con le tre Parche. Il tumulto dei rustici musicanti che si agitano intorno a lui non ha piú nulla a che vedere con la serenità malinconica della pastorale medicea127. Storia dell’arte Einaudi 377 Capitolo secondo La storia Nel Rinascimento, come nel medioevo, la storia nelle città italiane assumeva due aspetti diversi: uno universale e uno locale, che non sempre riuscivano a saldarsi con precisione. Le cronache esponevano le leggende delle origini e agli eroi fondatori venivano ad aggiungersi gli «uomini famosi» del passato recente. D’altra parte l’evoluzione dell’umanità era narrata dalla creazione del mondo, e la successione delle epoche rimaneva quella di cui la cronaca di Eusebio, tradotta da san Girolamo, e il libro di Isidoro di Siviglia, avevano da tempo fissato lo schema. I primi umanisti sentirono la necessità di rinnovare e rendere piú suggestivo il repertorio degli «uomini famosi»; il De viris illustribus di Petrarca comprende i grandi nomi ex omnibus terris ac saeculis. Ma la prospettiva in cui questi nomi appaiono non è quella della durata, ma quella del valore umano e dei suoi gradi. La storia «umanistica» si presenta anzitutto come una collezione di exempla: cosí i Rerum memorandarum libri IV in cui il Petrarca utilizza Valerio Massimo, cosí le celebri raccolte del Boccaccio: De casibus illustrium virorum (da Adamo al recente duca d’Atene) e De claris mulieribus (da Eva a Giovanna di Napoli), cosí la Commedia di Dante e i Trionfi del Petrarca distribuiscono anch’essi gli «uomini famosi» secondo un ordine morale e filosofico che trascende la storia. Ne risulta la tendenza, se non a confondere l’eroe Storia dell’arte Einaudi 378 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze storico col santo, almeno a comporre, di contro al repertorio dei personaggi onorati dalla Chiesa, quello dei personaggi che hanno illustrato la vita profana. E le figure antiche, considerate come nazionali, vengono ad assumere un posto sempre maggiore nella decorazione delle sale del consiglio o degli edifici pubblici, spesso per celebrare le virtú cristiane. L’esempio piú significativo sarà rappresentato dalla galleria di eroi del Cambio di Perugia, dove Licinio, Leonida, Orazio Coclite appaiono sotto il segno della Fortitudo, Scipione, Pericle, Cincinnato sotto quello della Temperantia ecc. Ma questa fusione si avrà solo a conclusione di un processo assai lento. Queste gallerie di «uomini famosi», che furono di moda dopo il 1300 presso i principi e i comuni d’Italia, sono quasi tutte scomparse; si ha solo il ricordo dei prodi e degli eroi di Giotto nel Castel dell’Ovo a Napoli (circa 1330), di quelli del palazzo dei Visconti a Milano, del palazzo degli Scaligeri a Verona. Nel 1370 il Guariento aveva coperto i muri del palazzo del Capitano a Padova con la serie dei Dodici Cesari128. Il gusto settentrionale era già orientato verso le serie romane nelle quali trionferà il Mantegna. Mezzo secolo dopo, verso il 142030, troviamo in Umbria, nel palazzo Baglioni di Perugia e nel palazzo Trinci di Foligno, dei complessi meno esclusivi in cui i prodi vanno insieme con i giuristi ed i saggi, cosa che in parte preannuncia lo spirito del Collegio del Cambio129. La sala della Jole, decorata dal Boccati intorno al 1445-60, a Urbino, sarà ornata solamente da figure militari. A Firenze, dove le cronache municipali e le serie di illustrazioni locali si erano sviluppate ad una data assai precoce, la celebrazione degli «uomini famosi» sembra essere stata limitata alle glorie della città. Un ciclo di uomini famosi è segnalato dal Vasari nel palazzo di Giovanni di Bicci de’ Medici, ma non se ne sa nulla. All’inizio del secolo il palazzo del Proconsolo diventa una sorta di museo dei grandi nomi della Storia dell’arte Einaudi 379 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze città: accanto a Claudiano, il Salutati, ecc., il Castagno vi dipingerà, subito dopo la morte del Bruni, l’immagine sua, il Pollaiolo quelle di Poggio e del Manetti130. Intorno al 1450 la poderosa decorazione della villa di Legnaia contrappone a tre dame illustri del Boccaccio i tre poeti maggiori e tre uomini di stato toscani con una fermezza che per lungo tempo dominerà in questo genere. I personaggi sono eroici nel tipo, nella statura e nello stile131. Verso il 1445-48 Paolo Uccello aveva introdotto a Padova, nella decorazione di casa Vitaliani, la grande maniera monumentale con le sue figure di uomini celebri che furono soprannominati i Giganti132. Un’idea di questa opera perduta si può avere dai disegni della cronaca di Leonardo da Besozzo che contiene due serie di illustrazioni: una derivata dai modelli della fine del Trecento, l’altra di impronta toscana. La coincidenza di questo complesso con il programma ideale definito qualche anno dopo dal Filarete: «Tutte l’età e gli uomini di fama» (le sei età del mondo secondo Isidoro di Siviglia), sta a dimostrare che verso la metà del secolo ci fu un ritorno ai grandi panorami di storia universale. A Firenze questo genere di rappresentazioni fino allora non si era avuto che nei quadri viventi delle feste popolari e nell’arte dei «cassoni»133. Verso il 1450-60 tutti questi campi diversi vengono a confluire insieme. La curiosità si risveglia, in parte per influenze settentrionali; e la rappresentazione storica diventa un genere di moda. Il documento piú divertente e piú completo è la straordinaria Cronaca illustrata di Maso Finiguerra. I personaggi famosi della storia greca e romana vi si alternano con quelli della storia biblica e cristiana in una decorazione sovrabbondante e bizzarra, in vesti complicate immaginate da orefici e disegnatori pieni di spirito. Lo spirito di queste scene non è meno notevole dello stile. Si insiste sull’insolito e sul meraviglioso: Prometeo modella un Storia dell’arte Einaudi 380 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze homunculus, Saturno è un re pastorale dell’età dell’oro; Giuseppe trionfa su un carro di covoni. Vi si vedono anche delle scene eccezionali, Zoroastro fra i libri occulti, Ermete Trismegisto intento ad opere di negromanzia. La storia eroica e quella romanzata assumono in questo contesto un accento nuovo che non si trova fuori Firenze. L’importanza di questa cronaca sta nei legami che la bottega del Finiguerra mostra di aver avuto con i fratelli Pollaiolo e nella parte che essa ha avuto nella formazione di un gran numero di pittori-orefici della fine del Quattrocento134. Ma l’interesse che essa dimostra per il «meraviglioso» nella storia, merita anche di essere avvicinato all’orientamento assunto dall’umanesimo fiorentino nello stesso periodo: il Pimandro viene pubblicato dal Ficino in traduzione italiana nel 1463 e una ondata di ermetismo «magico» si diffonde allora nell’ambiente intellettuale. Ricongiungendosi all’immaginazione popolare esso sembra aver contribuito a conferire un certo colore alle rappresentazioni storiche. 1. La storia profetica. Per san Giovanni, festa del patrono di Firenze, c’era la tradizione di compendiare in quadri viventi la storia del mondo. Se ne presentavano spesso anche il giorno dell’Annunciazione che era il primo giorno dell’anno. Per consuetudine comune a tutto l’Occidente in questi cortei si inserivano scene antiche appropriate nella serie dei carri consacrati alla Storia Sacra. Nel giugno del 1464, quattordici carri presentavano, dopo il Padre Eterno, la Caduta, Mosè, un gruppo composto da Profeti, Sibille e da Ermete Trismegisto, annunciante il Messia; dopo l’Annunciazione, venivano Augusto e la Sibilla; la Natività era presentata nel tempio romano della Pace. I particolari di queste figurazioni e lo stile dei fon- Storia dell’arte Einaudi 381 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze dali non sono meglio conosciuti: è possibile solo immaginarli sulla base delle composizioni dipinte che osservano le stesse convenzioni, tanto piú che sono dovute per lo piú alle stesse mani135. È nel Quattrocento che, anziché figure isolate, compare l’intero consesso delle sibille136. Le dieci figure del tempio Malatestiano a Rimini, quelle della «cappella degli antenati», sono accompagnate da due profeti. Agostino di Duccio dà loro una fisionomia rugosa, agita le pieghe delle vesti e snoda dei filatteri sui quali figurano le frasi caratteristiche derivate dal trattato delle Istituzioni divine di Lattanzio. È difficile dire se questo insieme sia in qualche modo debitore agli esempi romani e in particolare al ciclo dipinto prima del 1438 per il cardinale Orsini, in cui comparivano dodici sibille dotate di un’età, di un tipo, di un costume e di «parole», insomma di una iconografia, piú precise che a Rimini137. Ma per la prima volta, a quel che sembra, le figure delle sacerdotesse non appaiono in una chiesa in rapporto con l’Annunciazione o la Natività, ma come espressione di un fatto dottrinale, che si adatta notevolmente al programma umanistico del tempio. L’edizione del 1465 del trattato di Lattanzio può aver conferito una nuova coerenza al soggetto, soprattutto nei paesi settentrionali138. In Italia non poteva che confermare un interesse diffuso per le sacerdotesse antiche e la prova piú significativa di questo si ha nell’introduzione delle nuove sibille (1482-83), accompagnate da Ermete Trismegisto (1488), nei riquadri figurati del pavimento del Duomo di Siena139. In piedi, panneggiate in vesti sontuose, calzate di sandali, le sacerdotesse spiccano sul fondo unito del pavimento. Un’iscrizione fornisce il nome di ognuna; il riferimento dotto: «Cumana cuius meminit Virgilius Eclog. IV, Sibylla delphica de qua Chrysipus de divinat. Sibylla lybica cuius meminit Euripides...», deriva da Varrone attraverso Lattan- Storia dell’arte Einaudi 382 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze zio. Una seconda iscrizione, messa in una cartella retta, a seconda dei casi, dai putti, dalle sfingi, da un treppiede, o da serpenti, enuncia la profezia per cui ognuna è entrata nella storia. A volte addirittura, come i santi annunciatori, le sibille tengono aperto il libro che rivela la concordanza generale tra la «fede» pagana e quella cristiana. Questo sfoggio d’erudizione è meno nuovo di quanto non sia la stessa presentazione: nel 1488, conforme al programma dei cortei della festa di san Giovanni, ma anche conforme all’insegnamento del Ficino, un bell’Ermete Trismegisto verrà a completare la serie140. Alla tradizione popolare si sovrappone cosí, dopo il 1460 la «resurrezione» erudita di questi personaggi che si collocano per l’appunto alla congiuntura tra il mondo antico e il mondo cristiano; il piccolo trattato dedicato ad esse da F. Barbieri in appendice alle sue Discordantiae (1481) non è un punto di partenza per l’iconografia, ma un tentativo di orientare le curiosità attraverso il parallelismo dei profeti e delle sibille141. Una teoria generale del «principio profetico» presso i pagani proprio allora veniva formulata dal Ficino nel suo De christiana religione (1474), e la sua Theologia platonica (XIII, 11) fornirà un’attenta analisi della psicologia dei Profeti, sibille e indovini. La loro grandezza è dovuta a due elementi, il furor divinus che li agita e il sapere occulto che manifestano. Il vaticinium, celebrato già da Leonardo Bruni e che è l’oggetto di tanti commenti del Ficino, è il dono essenziale della Sibilla e del profeta, ma rientra nella gamma dei furores sacri e apparenta le sibille ai poeti e ai veggenti superiori142. Viene cosí a formarsi un’idea generica della sibilla, che può spiegare perché, al momento in cui l’immagine è sempre piú diffusa, il numero preciso di queste annunciatrici sembra aver poca importanza e i loro attributi variano senza che diano luogo a inconvenienti. L’idea viene apertamente sforzata: non si tratta piú di una serie curiosa di coinciden- Storia dell’arte Einaudi 383 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze ze storiche, ma della concordanza di due religioni: il Ficino, nel suo capitolo Authoritas Sibyllarum richiama l’esistenza degli Oracula sibyllina nel sacrarium di Roma e l’uso che ne ha fatto Virgilio, e conclude l’esame della loro «testimonianza» con la parola di Ermete che afferma la validità della sua dottrina fino all’apparizione di un saggio piú prossimo al divino, sacratior aliquis. Questa decisa rivalutazione non era ammessa dovunque e si trovano spesso apprezzamenti piú cauti da parte di teologi, che insistono sull’«ignoranza pagana» di queste sacerdotesse e non riconoscono loro il vantaggio costante di un sapere superiore, ma solo degli annunci strappati grazie all’intervento divino143. La voga delle sibille è palese soprattutto in Toscana; le stampe di Baccio Baldini, i medaglioni di Attavante nel Breviario di Mattia Corvino (1487) ne sono modeste testimonianze144. Ci sono però anche sviluppi originali, sia per quanto riguarda il ruolo «messianico» riservato alla Tiburtina, sia per quanto riguarda la figura apocalittica incarnata dalla Sibilla Eritrea annunciatrice del Giudizio finale145. La scena di Augusto e della Sibilla Tiburtina, che era sempre stata popolare e doveva restarlo a lungo, era associata alla Natività «nelle rovine del tempio della Pace». Il motivo del tempio-capanna, che diviene generale nell’arte italiana verso la metà del secolo, era proprio del repertorio fiorentino: lo si trova nella Cronaca del 1460, in una sacra rappresentazione del 1465 ecc146. Avrà particolare evidenza nella tavola d’altare della cappella Sassetti, la quale nel suo insieme è dedicata alla festa del Natale, con la scena di Augusto e la Sibilla sulla facciata d’ingresso e quattro delle profetesse pagane agli angoli della volta147. Nella pala d’altare il Bambino riposa presso un sarcofago antico davanti ad un tetto di canne sostenuto da due colonne scanalate: queste rappresentano l’edificio imperiale del Templum Pacis che, secondo la pia leggenda, si sareb- Storia dell’arte Einaudi 384 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze be aperto alla nascita di Gesú. Allusione che si trova in tutte le Natività fiorentine ed italiane del Quattrocento in cui figura un portico o una rovina. Ma in questo caso le due colonne sono anche due pilastri di Santa Maria Novella a Firenze, che secondo la credenza dei pellegrini di Roma, attestata dalle note di Giovanni Rucellai nel 1460, erano in passato appartenuti al tempio romano148. I riferimenti eruditi si sono moltiplicati: il corteo dei Magi passa a sinistra sotto un arco di trionfo. Avendo trovato in Giuseppe Flavio la notizia secondo cui Pompeo avrebbe rispettato il tempio di Gerusalemme, un amico dei Sassetti, il Fonzio, ebbe l’idea dell’iscrizione del gran sacerdote Hircanus e di quella dell’augure Fulvius, che furono poste rispettivamente sull’arco di trionfo e sul sarcofago antico: la prima ricorda il rispetto di Roma per Israele, la seconda profetizza la venuta di un nuovo dio. Un episodio della storia di Pompeo serve anche a legare tra di loro le tre grandi religioni del mondo in uno scenario pittoresco, nel quale la storia antica, grazie anche all’epigrafia, diventa tutta quanta una sorta di oracolo sibillino149. Nella cappella di Orvieto la sibilla, affiancata da un impetuoso profeta, sembra dare inizio allo spettacolo della fine del mondo: è il tema del Dies irae: teste David cum Sibylla. La sua declamazione è per cosí dire accompagnata, nel registro inferiore, dal violento movimento del poeta-filosofo che sembra uscire dal suo medaglione: è Empedocle che scopre la catastrofe finale annunciata dalla sua dottrina. Alla stessa data il Perugino introduceva nella sala del Cambio sei sibille accanto a sei profeti di fronte agli eroi ed ai saggi: la qualità delle figure femminili è tale che si è voluto attribuirle a Raffaello. Ma se questo gruppo rappresenta uno dei momenti felici del Perugino, è però impreciso e senza mistero. Nei programmi umbri le sacerdotesse antiche occupano semplicemente il posto loro accordato dalla nuova fase Storia dell’arte Einaudi 385 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze dell’iconografia cristiana150. Questo invece non avverrà nella cappella Sistina, dove Michelangelo ha chiaramente cercato di penetrare i valori spirituali a loro attribuiti. L’artista ha mantenuto solo le prime cinque figure dell’elenco di Lattanzio, le quali si alternano con i profeti di cui sono la versione femminile. Esse sono rappresentate come depositarie della visione teologica e probabilmente sono state disposte in relazione con le storie della genesi figurate nella volta. Rappresentano le diverse fasi del tormento dello «spirito», nel suo passare dalla ricerca alla scoperta, dalla passività all’azione, in un complesso che non è piú storico ma dottrinario. Le vesti e i mantelli hanno uno stile piú largo e semplice; la Delfica porta un vero e proprio chitone151. Raffaello non poteva a sua volta ignorare questa nobilitazione della sibilla: nel 1514, sulla fronte della cappella di Santa Maria della Pace costruita per Agostino Chigi rappresentò un gruppo di sibille e un gruppo di profeti, che dispose su due ordini sovrapposti. La Cumana, la Persica, la Frigia, la Tiburtina sono indicate da cartelle o filatteri con scritte in greco, tranne quello della Frigia (iam nova progenies). È possibile dubitare dell’autografia di queste figure, ma i disegni ci dimostrano le varie fasi delle sue riflessioni sul soggetto. La risposta alla Sistina michelangiolesca si vede negli atteggiamenti, nei drappeggi, nel moltiplicarsi degli angeli e dei putti. Solo c’è piú dolcezza negli sguardi: il regno della visione rientra qui in quello dell’amore. Raffaello ha dichiarato il suo sentimento mettendo in mano al genietto che sta sulla chiave di volta, fratello di quello della Segnatura, una torcia accesa. È l’emblema sia del furor amatorius che del vaticinium: in un primo abbozzo, noto da un disegno (Stoccolma), il genietto sollevava due piccoli vassoi infuocati152. Storia dell’arte Einaudi 386 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze 2. La storia sacerdotale. L’adorazione dei Magi. Un numero grande, addirittura eccezionale, di quadri dell’Epifania è stato ordinato dai Medici o eseguito in loro onore. La storia della pittura fiorentina nella seconda metà del Quattrocento è per cosí dire contrappuntata da una serie di celebri Adorazioni dei Magi, nelle quali la tradizione ha indicato, a torto o a ragione, dei ritratti medicei: l’affresco di Benozzo Gozzoli, dipinto nella cappella di palazzo Medici nel 1459, la tavola commessa nel 1475 a Botticelli da Gasparre di Zanobi del Lama, la composizione non finita di Leonardo del 1481-82, l’opera tarda e non finita di Botticelli certamente posteriore al 1492, il gruppo eseguito da Filippino Lippi nel 1496 per i monaci di San Donato a Scopeto, senza dimenticare il tondo del Ghirlandaio (1487) e la sua tavola dell’ospedale degli Innocenti a Firenze. Questo soggetto trattato tanto volentieri in tutto l’Occidente conosce un notevole favore a Firenze dove gli artisti sembrano attratti volta volta dal problema della composizione nello spazio o da quello dei tipi e dei ritratti153. La decorazione della cappella Medici mostra chiaramente come, già all’epoca di Cosimo, il soggetto sollecitasse una trattazione simbolica e l’introduzione di elementi d’attualità. Il paesaggio-giardino, la caccia al gattopardo, il corteo in cui abbondano i ritratti, vengono a ambientare la scena in Toscana. I tre Magi rappresentano le tre età della vita sotto forma di tre personaggi celebri: il piú vecchio è il patriarca di Costantinopoli, Giuseppe, morto a Firenze dopo il celebre concilio del 1439; il re malinconico è l’imperatore Giovanni VII che, in questa occasione, aveva ottenuto un trattato contro gli Ottomani. Ai «Magi greci» che avevano stupito i fiorentini vent’anni prima, il pittore aggiunge un «Mago fiorentino» nel costume in cui si era distinto in Storia dell’arte Einaudi 387 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze occasione della festa orientale data in piazza della Signoria nel 1459: è Lorenzo, che porta lo stesso turbante decorato di «quarti disposti alla turca» che si vede in capo anche al Paleologo154. L’unità è piú marcata e le allusioni contemporanee piú sottili nelle tavole del Botticelli. La Natività con i Magi fu uno dei suoi temi preferiti155: egli seppe immediatamente evitare, attraverso una rigorosa costruzione prospettica, la dispersione narrativa del Gozzoli. Nel tondo di Londra si trovano ancora i cavalieri, gli araldi e perfino, a destra, la scena di caccia, insomma tutti quegli elementi che rientrano in quello che potremmo dire il pittoresco del tema. Ma le due file di spettatori sono disposte simmetricamente intorno alla Vergine che occupa il centro esatto. Una certa ingenuità nel raggruppare le figure non fa che rendere piú sensibile lo sforzo del pittore per tenere in pugno il quadro. La festa profana tende a trasformarsi in una riunione appassionata: un ebreo che si vede di faccia, in basso a sinistra, appoggiato su un blocco, rimane pensoso, mentre al suo fianco due personaggi indicano con perplessità i fenomeni celesti: è questo un elemento antico delle Natività, ma contribuisce alla serietà della tavola. La celebre pala d’altare degli Uffizi è una delle opere piú solidamente disegnate del pittore. Egli concentra ancora di piú l’effetto e non fa che sviluppare la parte centrale del tondo. Il quadro, piú equilibrato, interamente svolto secondo la prospettiva ascendente, mostra i personaggi presi da un interesse comune: solo tre sono distratti (tra questi verosimilmente il pittore e il donatore a destra) e guardano verso lo spettatore; tutti gli altri sono attenti al «mistero» centrale. In base a indicazioni del Vasari, sono stati identificati i Magi: Cosimo (morto nel 1464) sarebbe Melchiorre, Piero il Gottoso (morto nel 1463) Baldassarre inginocchiato al centro, Giovanni (morto a 32 anni nel 1463) sarebbe Storia dell’arte Einaudi 388 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Gasparre a destra. I due eredi della casa Medici, Lorenzo e Giuliano, fanno parte del seguito in cui si vede anche il committente del quadro, Gasparre di Zanobi del Lama, che l’aveva commissionato per il suo altare di Santa Maria Novella156. La presenza di tutta la famiglia medicea, morti e vivi, non è mai stata chiaramente spiegata: senza dubbio, come fa Fouquet che pone Carlo VII ai piedi della Vergine e del Bambino, i pittori dell’occidente cercavano abitualmente il tipo di re orientali nei principi del loro tempo e il Gozzoli già ne aveva dato l’esempio. Ma nell’opera del Botticelli notiamo un’insistenza tanto piú notevole in quanto la composizione non è piú una sfilata pittoresca e gioiosa; si ha piuttosto l’impressione di assistere ad una cerimonia religiosa, a un atto liturgico. A partire dal 1480 le Natività fiorentine assumono un doppio carattere: di pittoresco antichizzante (che si sostituisce al pittoresco orientale) nel Ghirlandaio, di concentrazione drammatica in Leonardo. Il Ghirlandaio mantiene le formule botticelliane, ma vi introduce un’insistenza tutta «fiamminga» per gli orizzonti, gli sviluppi e le tonalità del paesaggio (nel 1477 il trittico di Hugo van der Goes era giunto all’ospedale di Santa Maria Nuova). Nel quadro destinato ai Sassetti a Santa Trinita egli insiste sullo sfondo di rovine: un grande tempio avvolge la capanna, un sarcofago serve da culla, capitelli e frammenti di colonne sono disseminati a terra. La cavalcata dei Magi diventa un episodio storico. E si è visto come, per accentuare questa impressione di un punto d’incontro delle diverse ere, il pittore collochi una iscrizione profetica sul marmo antico e faccia passare il corteo dei Magi sotto l’arco trionfale di Pompeo157. Già nel 1481-82 Leonardo aveva indicato una via diversa con la grande tavola che era un po’ il manifesto di un nuovo stile e che rimase incompleta in casa dei suoi amici Benci158. Effetti profondi di luce ed ombra rita- Storia dell’arte Einaudi 389 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze gliano tre zone nel triangolo centrale; i Magi e il loro seguito si affollano intorno alla Madre e al Bambino disposti su una sorta di poggetto ai piedi di un lauro. Il re che appare di fronte dietro la Vergine sembra tremare di fervore, il secondo umilmente prosternato innalza il suo dono verso il Bambino, mentre non si indovina chiaramente l’espressione del terzo a metà girato in primo piano e disegnato in chiaro; ma davanti a lui un vecchio s’inchina fino al suolo. Una sorta di sacro nervosismo circonda il placido gruppo divino; il Bimbo accoglie con gravità l’offerta degli adoratori nei quali non c’è piú nulla che serva a farli riconoscere come re. Anziché una cerimonia di corte, o un momento storico, il pittore ha voluto evocare le forme piú intense dell’esaltazione religiosa. I Magi appaiono come testimoni della scienza che subiscono l’urto del mistero divino: lottano, discutono, si inchinano, un personaggio a destra è come abbagliato. Il tema della Natività finora era stato legato all’annuncio degli angeli: «Oggi, nella città di David, è nato un Salvatore» (Luca, 2, 11); Leonardo invece ci mostra una folla sorpresa e sconvolta. Intorno al gruppo centrale appaiono gli angeli sotto forma di creature sorridenti e meravigliose. Anziché celebrare animatamente un avvenimento gioioso sembrano circolare gravemente intorno a un avvenimento misterioso. Sono incoronati, ma non sembrano suonare. In terzo piano il corteo dà luogo ad una agitazione estrema: suggerisce l’ignoranza e la confusione di coloro che non sono ancora iniziati. Due figure a contrasto, un filosofo in meditazione a sinistra e un giovane cavaliere a destra, servono ad equilibrare questo insieme drammatico, come nel quadro del Botticelli. Era certamente questa la Natività di gran lunga piú ambiziosa e piú complessa che mai fosse stata concepita. Interrotta alla partenza di Leonardo, l’opera ebbe grande risonanza; i monaci di San Donato a Scopeto, ai quali era destinata, commis- Storia dell’arte Einaudi 390 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze sionarono per sostituirla un nuovo quadro a un altro pittore allora in voga, Filippino Lippi, che non l’eseguí se non nel 1496159. Egli introdusse nell’opera, dice il Vasari, i tratti di molti personaggi di casa Medici e inoltre, aggiunge, «sono in quest’opera Mori, Indiani, abiti stranamente acconci, ed una capanna bizzarrissima»160. Il quadro ha qualcosa di Botticelli e molto di Leonardo, ma l’unità spirituale della scena è compromessa da una sfilata di figure esotiche e barbare e dall’insistere oltre il lecito sui cortei. Il romano in toga in piedi nell’angolo destro riprende l’atteggiamento del personaggio corrispondente di Leonardo; ha la fisionomia di uno degli assistenti nella Resurrezione del figlio del re alla cappella del Carmine ed è nient’altri che Piero del Pugliese. All’estremità sinistra, anziché il filosofo in meditazione, abbiamo un vecchio in abiti sontuosi che si inginocchia con un astrolabio in mano. Si è riconosciuto nella figura il nipote di Cosimo, Pierfrancesco, il Vecchio, morto nel 1476; egli aveva due figli, Lorenzo il Popolano e Giovanni il Popolano, che molto verosimilmente figurano anch’essi nel quadro, forse sotto l’aspetto dei due giovani Magi, nonostante il tipo convenzionale delle due figure. Filippino sembra dunque aver concepito in onore del ramo cadetto dei Medici un quadro di famiglia sotto le spoglie dei Magi e del loro seguito, come aveva fatto il Botticelli per il ramo maggiore della famiglia vent’anni prima. Avviene come se nel 1496 i cugini di Lorenzo avessero voluto sostituirsi idealmente alla famiglia di Cosimo e di Lorenzo che proprio allora era stata dispersa dalla rivoluzione del Savonarola161. Ma Botticelli a sua volta veniva trasformando la scena dell’Epifania. Leonardo l’aveva concepita come un avvenimento «psicologico», Botticelli la vede alla fine come una scena patetica e straziante. L’Adorazione ritrovata nel 1890, anche questa non finita e purtroppo in parte ridipinta nel Seicento, soprattutto nei fondi, e Storia dell’arte Einaudi 391 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze una delle composizioni piú «visionarie» della fine del Quattrocento. La si è considerata un tentativo non riuscito di imitare Leonardo e addirittura superarlo nella rappresentazione del movimento162. È infatti di una animazione non comune; i gruppi, i visi rivelano una devozione estatica o una sorpresa inquieta; gli uni sembrano vicini alle lacrime, gli altri all’abbattimento, solo a destra alcuni violenti ignorano il miracolo per combattere fra di loro. La scena non è piú unificata dalla prospettiva, ma dai movimenti e dai gesti della folla: le braccia tese degli spettatori che indicano il Bambino segnano gli assi della composizione; il richiamo all’osservatore e cosí diretto che si sono cercati dei ritratti e, non senza ragione, si è creduto riconoscere qui il Savonarola, Lorenzo, Leonardo163. Meno di quarant’anni dopo la cavalcata «cortese» del Gozzoli, l’Epifania viene immaginata in una forma straordinariamente tormentata. È chiaro che il soggetto aveva un valore particolare per la sensibilità dei fiorentini. Che i Medici occupino il posto d’onore nelle Epifanie non è affatto sorprendente, dato che per tutto il Quattrocento la loro famiglia ha tenuto stretti contatti con la Confraternita dei Re Magi, uno dei sodalizi devoti piú importanti di Firenze164. È un fatto su cui si deve richiamare l’attenzione. Della confraternita si hanno le prime notizie nel 1428; già nel 1446 organizzava una festa i cui apparati furono affidati a Michelozzo; del comitato direttivo faceva parte anche Cosimo165. Questa confraternita si riuniva nella sacrestia del convento di San Marco che sempre fu favorito da Cosimo. Una cronaca antica ci dice che a pianterreno, sotto il Noviziato, avevano sede tre Compagnie, alle quali si entrava dalla parte della via. Il lato di ponente era diviso fra la Compagnia dei Tessitori di seta e la Compagnia dei Magi. Questa Confraternita possedeva una tavola di Benozzo Gozzoli, rappresentante la Vergine seduta in Storia dell’arte Einaudi 392 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze trono col Bambino seduto sulle ginocchia, circondata da angeli e attorniata dai santi Giovanni Battista, Zanobi e Francesco a sinistra166. Lorenzo, dopo il padre e il nonno, fu presidente di questa confraternita167, e furono i Fratelli dei Magi che accompagnarono solennemente il corpo del Magnifico nel 1492dalla cappella di San Marco alla sacrestia di San Lorenzo168. Nel dicembre del 1494, al momento della fuga di Piero, il locale della confraternita, probabilmente sciolta, fu restituito ai frati di San Marco. I quadri dell’Epifania dunque interessavano direttamente i Medici: la cella del convento di San Marco riservata a Cosimo era quella in cui l’Angelico aveva dipinto l’Adorazione dei Magi, contro uno sfondo roccioso e, nella parte destra, una serie di astrologi e di orientali con treccia e scimitarra169. Un tondo dello stesso artista e dello stesso soggetto decorava la «camera terrena» di Lorenzo in palazzo Medici170. Nulla di piú naturale quindi che si rappresentasse questa famiglia cosí legata alla devozione per i Magi nel gruppo stesso degli adoratori del Bambino: era in questa veste «evangelica» che conveniva immortalarli. La confraternita d’altronde si occupava attivamente dei cortei nei quali comparivano i re orientali: ne abbiamo la prova per il 1446. È lecito supporre che essa abbia avuto anche la direzione delle feste date sotto Piero nel 1465 per celebrare l’Epifania171. La cavalcata del Gozzoli assume cosí tutto il suo significato. La confraternita però si dedicava anche a pratiche di devozione: almeno dopo il 1470 era divenuta il punto di convegno degli umanisti devoti e dei membri dell’Accademia platonica. «Il dotto Landino e messer Donato Acciaiuoli, fra gli altri, vi leggevano i loro discorsi (sermones) ai quali faceva seguito il canto dei cantici»172. Donato Acciaiuoli, grande figura dell’umanesimo fiorentino, la cui parte era stata decisiva nella Storia dell’arte Einaudi 393 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze organizzazione dello Studio nel 1458, nella fondazione della Accademia e che il Landino prese come uno degli interlocutori delle sue Disputationes Camaldulenses, aveva pronunciato nel 1468, davanti alla compagnia, un’oratio celebre sull’Eucarestia, che ci è conservata in parecchi manoscritti173. Quanto al Landino era in seno alla Confraternita in qualche modo il portavoce ufficiale dell’accademia; con il Nesi vi tenne delle esposizioni complete dell’ermetismo platonico174. È possibile che anch’egli abbia partecipato alle pratiche devote della compagnia e abbia tenuto davanti ai confratelli una di queste orationes prendendo a soggetto la stella dei Magi, alla quale teneva tanto175. L’Epifania è al centro stesso della sua costruzione storica: i Magi, eredi spirituali di Zoroastro, magorum princeps, ferratissimi in astrologia, sacerdoti dell’Oriente pagano, sono in essa i personaggi chiave. Il loro incontro col Cristo non è solo un segno curioso della venuta del Cristo, ma anche un momento essenziale della storia sacerdotale e della teologia platonica. I Magi non sono dei re, ma dei sacerdoti e dei filosofi, in un certo senso dei «platonici». Anziché ridurre la loro venuta a un aneddoto edificante, il Ficino accetta tutte le pericolose implicazioni che sono legate al loro ricordo: «Quid igitur expavescis Magi nomen formidolose? Nomen Evangelio gratiosum, quod non maleficum et veneficum, sed sapientem sonat, et sacerdotem»176. Egli li considera come maestri superiori di ogni scienza, che hanno previsto perfino l’avvenimento in cui il loro sapere fa atto di sottomissione, senza tuttavia negarsi. L’Epifania non è per lui un quadro esotico, una festa strana, ma un gesto simbolico: simbolizza lo sforzo stesso della Theologia platonica che assume e rende infine sovrannaturali le conoscenze naturali; corrisponde al penultimo grado della «scala platonica» che «a Iddio fatto huomo, cioè a Christo, insieme con li Magi guidandomi la stella, mi conduce»177. Cosí lo spettacolo Storia dell’arte Einaudi 394 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze astrologico dell’Epifania, familiare al medioevo, dispiegato da Lorenzo Monaco nella sua Epifania del 1416, e ancora presente nell’affresco dell’Angelico178, era destinato ad essere superato. Per l’umanesimo fiorentino l’atmosfera dell’Epifania deve essere quella della meraviglia e del turbamento «interiore». Proprio in questo senso le commissioni degli amici del Ficino venivano orientando il soggetto179. Ma non tutti i dotti erano d’accordo su questa interpretazione «magica» della Adorazione dei Magi; per alcuni vi era un dubbio sul vero significato dell’avvenimento. I Magi, che per il Ficino rappresentavano il mirabile edificio del sapere sacerdotale dei caldei, dovevano significare piuttosto, secondo Pico (e secondo il Savonarola che derivava da lui) l’insufficienza e la vanità della scienza pagana. Per essi l’Epifania non poteva in nessun modo essere una giustificazione della «magia» e dell’esoterismo astrologico180. Se tenendo presenti questi dati riprendiamo l’evoluzione del tema epifanico a Firenze, appare piú facile comprenderne lo sviluppo: in un certo senso esso riflette le trasformazioni della Confraternita dei Magi fiorentina. La cavalcata principesca del Gozzoli corrisponde ai cortei che essa organizza; il rappresentante dei Medici, protettori di diritto della compagnia, si trova giustamente accanto ai re - sacerdoti orientali, accanto all’imperatore e al patriarca. Quando nel 1476 il Botticelli raggruppa tutta la famiglia nella Epifania di Gasparre del Lama va oltre questa interpretazione «regale», e riunisce i successivi presidenti della confraternita raccolti nell’atteggiamento dei Magi intorno alla Madonna. E vent’anni dopo Filippino celebra i loro cugini e rivali nello stesso posto d’onore. Ma, per una evoluzione che sembra quanto mai caratteristica di Firenze fra il 1465 e il 1485, la Natività ci presenta un consesso attento, grave, sorpreso. Leonardo, sensibile a tutto ciò che può accrescere l’intensità psicologica della pittura, libera Storia dell’arte Einaudi 395 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze allora il tema epifanico dall’esotismo ingenuo che ne alimenta le versioni popolari, e ne fa una grande scena della storia umana. 3. I saggi e gli eroi. Quando Benedetto da Maiano ebbe costruito la sala dell’Udienza in palazzo Vecchio, sul portale marmoreo che introduce alla sala dei Gigli fu messa una statua della Giustizia; sugli stipiti marmorei furono rappresentati Dante e Petrarca (1481). Sul fondo della sala dei Gigli fu posto il motivo decorativo di tre grandi archi trionfali, opera del Ghirlandaio e della sua bottega: al centro san Zanobi tra i santi protettori della città, Stefano e Lorenzo fiancheggiati dal Marzocco e dal Giglio; a destra e a sinistra su un piedistallo elevato e visti in una prospettiva dal basso in alto che può richiamare gli effetti del Castagno si trovano riuniti, Bruto, Muzio Scevola e Camillo, Decio Scipione e Cicerone, modelli di virtú civiche. È uno dei migliori complessi di Domenico che ha dispiegato con sicurezza le sue capacità di decoratore. La frattura con le consuetudini delle generazioni anteriori è abbastanza netta: non vi si vedono piú contemporanei e i rappresentanti del sapere sono scomparsi. Siamo lontani dalle figure del palazzo del Proconsolo. È vero che ora i contemporanei appaiono fra gli astanti delle storie sacre e che l’ambiente mediceo si ritrova al completo negli affreschi di Santa Maria Novella in una forma che non è «eroica» ma quotidiana e familiare181. Mancava a Firenze, cosa curiosa, la possibilità di rappresentare i dottori e i saggi antichi e moderni. Non vi troviamo alla fine del Quattrocento alcun equivalente del ciclo dei «filosofi» (i sette saggi) dipinto intorno al 1477 da Bramante nel palazzo del Podestà a Bergamo182, né dei poeti, giuristi e teologi che Storia dell’arte Einaudi 396 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Federico da Montefeltro faceva dipingere, a partire dal 1474-75, a Giusto di Gand e al Berruguete nell’ordine superiore del suo «studiolo» di Urbino183. Lascia abbastanza interdetti che l’unica opera che si possa avvicinare al gruppo di Democrito e Eraclito descritto dal Ficino come ornamento della sua Accademia sia per l’appunto il riquadro di Bramante per casa Panigarola a Milano verso il 1480184. La lacuna è tanto piú sorprendente in quanto il neoplatonismo incoraggiava a Firenze, come già aveva fatto nell’antichità, il culto dell’«eroe» in un senso molto generale: «Cuncti denique homines – scrive il Ficino – excellentissimos animos, atque optime de humano genere meritos in hac vita, ut divinos honorant, solutos a corporibus adorant, ut Deos quosdam Deo summo charissimos, quos prisci Heroas nominaverunt... Atque hic primus est modus, quo homines divinum imitantur cultum, videlicet quia seipsos ut Deos colunt»185. In un curioso passo su certi riti di divisione delle statue che egli attribuisce all’India, Leonardo chiede agli uomini di onorare i «virtuosi»: «questi sono li vostri Iddii terrestri, questi merita da voi le statue, simulacri e li onori»186. Da premesse come queste ci si aspetterebbe una nuova, vigorosa definizione del «ritratto storico»: in realtà la maturazione di questo tema fu lenta. Il «nobile castello», questa dimora eccezionale in cui i saggi e i poeti antichi vivono per l’eternità, insieme con gli altri uomini illustri, una vita calma e serena, sta a dimostrare che già all’epoca di Dante gli ammiratori del passato greco e romano tendevano a riunire le grandi figure di quel passato in un ambiente d’eccezione. Nel manoscritto illustrato della Commedia di Urbino, il castello appare posto su un’isola, separato dal resto dei mortali187. I cicli di «uomini famosi» di Urbino e Orvieto presentano solo busti: si è badato essenzialmente al costume ed alla fisionomia. L’unica invenzione degna Storia dell’arte Einaudi 397 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze del «castello» dantesco per accogliere i personaggi illustri della poesia e del sapere sarà quella di Raffaello nella stanza della Segnatura: il Portico della Scuola d’Atene e la collina ombreggiata di lauri del Parnaso realizzeranno lo spazio in cui possono distribuirsi efficacemente le immagini dei saggi e dei poeti. Dante, seguendo le tradizioni antiche, in particolare Lucano (Farsalia, II, 373), aveva rappresentato il saggio ideale in Catone, con un’apparenza solenne e «Lunga la barba e di pel bianco mista... de’ quai cadeva al petto doppia lista» (Purgatorio, I, 34-37). È la figura imponente e un po’ irsuta che appare in uno dei medaglioni di Orvieto che illustra scene del Purgatorio. Ma il tipo del saggio dal profilo calmo, dai lunghi capelli e dalla lunga barba era stato definito anzitutto (e l’abbiamo visto) dall’immagine di Aristotele, ben presto sdoppiata in Platone, e capace di rappresentare insieme la dignità morale, la fatica dello studio e la stessa stranezza del sapere188. Il carattere «psicologico» di questi ritratti ideali portava a rinunciare ai gesti stereotipi del «computo», al drappo d’onore ieratico che ancora sussistono nello studiolo di Urbino. Il segno tradizionale del saggio è la lunga berretta al modo orientale. Filosofi antichi sono rappresentati fino alla fine del Quattrocento con un turbante in testa come i dotti arabi, o con un berretto in testa come gli eruditi bizantini. Ma fino alla fine del Quattrocento si continua a usare il tipo «esotico» anche per denunciare la falsa scienza dei pagani incarnata da Averroè nei programmi teologici. Filippino Lippi nella cappella di Filippo Strozzi assegna un superbo turbante al «filosofo» posto a fianco del proconsole che condanna al supplizio san Giovanni Evangelista. In una delle xilografie che illustrano il Dialogo della Verità prophetica del Savonarola (1497) si vede il monaco discutere con i «sette saggi» ai piedi dell’albero della Verità di fronte al panorama di Firenze: i sette Storia dell’arte Einaudi 398 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze rappresentanti della saggezza pagana sono rappresentati con i turbanti, le tuniche, le berrette dei professori e degli orientali, accanto al domenicano incappucciato di nero sul quale discende la colomba dello Spirito Santo189. La figura piú sorprendente di questi «orientali» quattrocenteschi, è indubbiamente l’Hermes Mercurius Trismegistus nel pavimento di Siena, eseguito su cartone di Giovanni di Stefano, che venne a completare nel 1488 la serie delle Sibille190. Ritto di fronte a un discepolo in turbante, che ne riceve rispettosamente l’opera, il principe dell’ermetismo, con una gran berretta appuntita ai lati, curva al bordo, porta una barba e lunghi capelli sparsi su un mantello dal collo largo. La mano posa su una iscrizione de l’Asclepius sostenuta da due sfingi. Un Egitto favoloso aleggia su questa rappresentazione devota del saggio pagano per eccellenza, il cui panneggio maestoso e lo strano copricapo ne fanno una specie di classico. Confrontandolo con il disegno della cronaca del 1460, si vede quanto l’immagine abbia guadagnato in serietà e dignità, in seguito alla pubblicazione del Pimandro del Ficino e della sua traduzione ad opera di Tommaso Benci nel 1463191. Solo è un peccato che non se ne abbia un equivalente negli stessi manoscritti del Ficino, nei quali i medaglioni sono deboli e monotoni192. C’era dunque una sorta di conflitto tra un tipo generico e invece la «convenienza» storica. Socrate ad esempio rimase a lungo il «mago» orientale che si vede in una delle incisioni del Dante veneziano del 1491, nel Cambio di Perugia, e ancora nel 1505 nel pavimento del duomo di Siena, dove troneggia, insieme con Cratete, nell’allegoria della fortuna, condotta su cartone del Pinturicchio. Eppure pezzi antichi nei quali egli figura erano accessibili, ma l’«integrazione iconografica» non si ha che nella Scuola d’Atene: il personaggio attorno al quale si raccolgono a sinistra i giovani filosofi presenta almeno la maschera famosa descritta da Platone. Il tipo Storia dell’arte Einaudi 399 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze del sileno obeso non si ritroverà che piú tardi193. Con questo si arriva ad un nuovo stadio del ritratto storico: esso presuppone una preoccupazione di autenticità fino allora sconosciuta. Lo stesso avviene con i poeti, e il caso di Virgilio non è meno indicativo: dal poeta-negromante della leggenda napoletana, accettato da tutto il medioevo, è uscito il mago con in capo la berretta degli orientali e abbigliato con un gran mantello dal collo d’ermellino che il Botticelli ancora assegna come compagno di Dante nella serie incisa dal Baldini e nelle illustrazioni della Commedia194. Tuttavia nel commento del Landino all’Eneide, nei libri III e IV delle Disputationes Camaldulenses c’erano già gli elementi di un’altra immagine: l’umanista neoplatonico non insiste piú sulla leggenda di Virgilio profeta del Cristo; quello che interessa per lui è il seguace di Platone e il rappresentante completo della vecchia religione romana195. L’abbigliamento e l’aspetto esotici rimangono validi per il Virgilio poeta pitagorico della Discesa agli inferi; ma non si addicono al poeta di Roma. Cosí il ritratto di Virgilio dipinto dal Signorelli fra i medaglioni di Orvieto è per l’appunto quello del poeta «terribile» dell’Inferno, ma con la fisionomia e gli abiti di un romano; e Raffaello non avrà che da collocarlo fra i poeti del Parnaso panneggiati nella loro toga e coronati di lauro, attribuendogli un volto fine che meglio lo inserisce nel coro degli «ispirati»196. Gli umanisti tenevano assai alla figura di Scipione; Petrarca aveva composto in suo onore il terzo libro dell’Africa; quando in una epistola ben nota del 1435 Poggio aveva violentemente criticato la figura di Cesare contrapponendogli quella di Scipione, vero modello del grand’uomo, Ciriaco d’Ancona si era sentito in dovere, e con lui Guarino veronese, di levarsi a difendere il signore di Roma197. Ciononostante era Scipione che veniva sentito sempre piú come il modello per eccellenza del- Storia dell’arte Einaudi 400 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze l’uomo completo, allo stesso tempo attivo e capace di contemplazione, eroe e saggio. Il posto a lui riservato da Cicerone nel celebre frammento del De Republica, che contiene l’esposizione neoplatonica del Sogno (conservatoci da Macrobio) contribuiva non poco ad assicurare dignità al personaggio198. Egli figurava tradizionalmente nella serie degli uomini illustri, ad esempio quella del castello Trinci a Foligno, di una data precoce come il 1420, o quella del Cambio a Perugia; nella sala dell’Udienza in palazzo Vecchio, decorata dal Ghirlandaio, lo si vede rivestito dell’armatura e levato in un gesto vivace verso Cicerone in toga. Ma il favore degli umanisti assicurò alla figura di Scipione una notevole diffusione nel tema, che compare verso il 1470, dei «capitani affrontati»199. Il poema Punica di Silio Italico, capolavoro di sterile ridondanza, era stato ritrovato nel 1417 a San Gallo da Poggio e fu considerato con interesse continuo dai fiorentini200. In esso si poteva trovare tutto un repertorio di motivi facili da illustrare. Questo riferimento letterario sembra spiegare l’inserimento del personaggio in parecchie situazioni canoniche, come il giovane eroe tra il Vizio e la Virtú, il capitano nobile e generoso di fronte al terribile Annibale ecc. La prima di queste situazioni simboliche, ripresa dall’apologo di Prodico (Senofonte, Memorabili, II, 1), ispirerà il quadretto di Raffaello alla Galleria Nazionale di Londra: il cavaliere Scipione deve scegliere, piú che tra il Bene e il Male, tra due regole di condotta, Venere e Pallade, la via delle soddisfazioni terrestri e quella della dignità superiore. La tavola affine delle Tre Grazie (Chantilly) verosimilmente è solo il seguito dell’episodio: la ricompensa che tocca alla virtú, i pomi delle Esperidi che per mano delle Grazie vengono attribuiti all’eroe vincitore201. La sostituzione di Scipione a Ercole, la scelta dei temi morali: <Hdon¬ >Aretø, la presenza delle Grazie accanto a questa figura giova- Storia dell’arte Einaudi 401 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze nile e dolce, corrispondono alle forme assunte, con l’umanesimo platonico, dal problema etico. Il tono non è piú quello dell’epopea, ma quello della storia «moralizzata». Non è lecito affermare che il «sogno del cavaliere» sia un tema d’invenzione toscana. Invece tipicamente fiorentino è il tema dei due capitani affrontati che è per cosí dire il complemento del primo. Il poema di Silio Italico è tutto quanto ordito sul violento contrasto tra i due generali, il fiero Scipione di fronte a un Annibale bestiale; quest’opposizione offriva uno schema oratorio facilmente sfruttabile. Nel 1452-53 Porcelio Pandone, allora al servizio del condottiero Piccinino, nei suoi Commentaria paragonava di continuo lo Sforza ad Annibale e il suo signore a Scipione202. Il Vasari a proposito di Attavante, che egli crede per errore autore dell’opera, ci dà la descrizione delle miniature di un Silio Italico conservato a Venezia; in particolare analizza la doppia pagina in cui sono raffigurati a riscontro l’«immagine seducente e bionda» di Scipione di contro al crudele Annibale. Su altri fogli si trova la stessa contrapposizione di Marte e Nettuno, Roma e Cartagine, dove la lotta tra le due potenze è simbolizzata dal contrasto tra il drago e il delfino, nonché dei due capitani che portano questi emblemi. Questa opera, di ignoto autore, deve datare degli anni 1450-60, dato che il ritratto di papa Nicola V († 1455) si trova nel libro. Essa è dunque con ogni probabilità il punto di partenza della grande diffusione del tema che avvenne intorno al 1475-80 nella bottega del Verrocchio. Si hanno infatti intorno a queste date molti rilievi in marmo e in bronzo, terrecotte, incisioni e disegni, in cui si viene sviluppando il tema dei «capitani affrontati»; il marmo anonimo del Louvre intitolato: P. Scipioni, è una di queste figure; vi faceva riscontro un guerriero analogo a quello di cui il vigoroso disegno di Leonardo al British Museum (il vir belli- Storia dell’arte Einaudi 402 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze cus in tutto il suo vigore) suggerisce la fisionomia. Lo stesso contrasto si ritrovava anche nella coppia Alessandro-Dario di cui, secondo il Vasari, il Verrocchio fuse le due immagini invertendo le caratteristiche delle armi e degli emblemi203. Il successo del tema è attestato dalle versioni grottesche che ne esistono nelle incisioni e nei nielli con le piú divertenti varianti sugli elmi e gli ornamenti fantastici204. Storia dell’arte Einaudi 403 Capitolo terzo Il sapere Il Vasari loda Botticelli per aver saputo mostrare nel Sant’Agostino di Ognissanti «quella profonda cogitazione ed acutissima sottigliezza, che suole essere nelle persone sensate ed astratte continuamente nella investigazione di cose altissime e molto difficili»205. L’interesse per la «fisiognomica» era nuovo in Occidente: era soprattutto spiccato presso i maestri fiamminghi, gli incisori renani, i pittori dell’Italia del Nord, soprattutto a Padova. A Firenze, dopo che l’Alberti aveva creduto di poterne fare uno dei fini della pittura, il Pollaiolo ne aveva sviluppato le possibilità. Ma ancora non era stata mai affrontata con tanta forza la «psicologia» degli «uomini di studio». Il Botticelli fu con Leonardo l’artista piú stimolato dai meccanismi e dai modi dell’attenzione. Lo studio da lui compiuto ad Ognissanti degli indizi attivi del viso: le rughe, gli occhi ecc. veniva a rinnovare il tipo tradizionale del Saggio o del Dottore. La posizione seduta, la testa appoggiata alla mano e la fisionomia concentrata costituivano da tempo una sorta di «ideogramma» del dolore o del pensiero, del raccoglimento doloroso206. Gli artisti del Quattrocento continuavano a servirsene per rappresentare la meditazione dei profeti o il ripiegamento malinconico del «pensatore»: è la posizione di Mardocheo nella tavoletta detta della Derelitta; sarà quello di Eraclito sui gradini della Scuola d’Atene. Ma l’affresco di Ognissanti veni- Storia dell’arte Einaudi 404 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze va a dare allo schema una dimensione nuova: il lavoro intellettuale non è solo rappresentato dall’insieme dei libri e degli strumenti scientifici e da un atteggiamento convenzionale. È anche scrutato in ciò che ha di piú intimo. La rappresentazione di Dante, familiare agli artisti fiorentini, aveva spesso fornito loro l’occasione di definire mediante un tipo appropriato l’ideale del poeta e del pensatore. Ma fino alla fine del secolo questi «ritratti» erano tutt’altro che convincenti. Solo verso il 1480 essi acquistano una nuova intensità, e ciò avviene nell’epoca stessa in cui l’umanesimo platonico fa del Saggio e del Poeta i superiori testimoni dell’umanità207. Nello studiolo di Federico da Montefeltro la serie degli uomini illustri, teologi e poeti, si compone di coppie studiate, dagli abiti sovraccarichi, i gesti stereotipi. L’insieme manca di grandezza, ma ci sono almeno dei contrasti efficaci e alcune trovate nei visi208. Venticinque anni piú tardi, a Orvieto, i poeti del Signorelli per la prima volta compongono una galleria di ispirati: Empedocle è come rovesciato indietro dallo sgomento della sua visione, Virgilio si solleva, Dante si ritrae, ecc. Non solo la mimica del volto, ma anche il movimento e la tensione del corpo si fanno eloquenti. Raffaello e Michelangelo segnano l’autorevole conclusione di questo sviluppo: ognuno dei grandi affreschi della Segnatura presenta non solo una sorprendente varietà di tipi corrispondente a tutte le fasi del lavoro intellettuale, ma questi sono disposti intorno al «focolare» spirituale che li anima secondo una differenziazione progressiva. Questa caratterizzazione gerarchica è proprio ciò che mancava nelle tavole di Urbino. Nello stesso momento Michelangelo realizzava sulla volta della Sistina la serie dei Profeti e delle Sibille che, intorno alle visioni della Genesi, fissano le varie fasi dell’esaltazione spirituale. Tutti questi fatti si legano tra di loro. Abbiamo in Storia dell’arte Einaudi 405 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze queste immagini non solo un interesse eccezionale per la rappresentazione del poeta o del visionario, ma anche l’insistenza su una sorta di radice comune a tutte le manifestazioni del sapere, cioè l’entusiasmo, quell’ardore che il Ficino, il Poliziano, Pico avevano in ogni occasione indicato come il principio stesso della vita dello spirito e che il Landino aveva volgarizzato nella sua introduzione alla Commedia209. Questa semplificazione fu immediatamente intesa e il suo successo fu rapido. Essa però finiva per sconvolgere la visione tradizionale dei vari gradi del sapere. Rendeva secondaria se non inutile la gerarchia delle discipline che era l’armatura stessa della cultura scolastica. I nuovi simboli che entravano in circolazione favoriti dall’insegnamento degli umanisti, presentavano tutti lo stesso orientamento. 1. Le sette Arti e le Muse. Il quadro delle sette Arti era uno dei piú solidi tra gli schemi tradizionali: era molto comodo nelle scuole e presentava facili corrispondenze con i pianeti, le virtú, i sacramenti, come si poteva vedere nei rilievi del Campanile210. Questo modello didattico era protetto soprattutto dalla sua stessa origine: il canone risaliva al romanzo di Marciano Capella (secolo v) che racconta le nozze della Filologia e di Mercurio e, dopo aver rappresentato il seguito delle Muse e delle Grazie, descrive la presentazione delle sette Arti a Febo211. Uno dei migliori manoscritti di Attavante, destinato a Mattia Corvino, contiene questo testo con una illustrazione che segue fedelmente l’iconografia medievale e in pieno Quattrocento si trovano, seppure, è vero, nell’area umbra, rappresentazioni complete delle sette allegorie. A Urbino la biblioteca del duca (a meno che non si tratti dello «studio» di Gubbio) comprendeva un insieme memorabile Storia dell’arte Einaudi 406 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze delle sette allegorie (attualmente rimangono solo le due belle tavole della Galleria Nazionale di Londra): seduta su un trono, in un apparato lussuoso e di pretesa, ognuna delle «Dame» del sapere appare accompagnata da un suo servitore preso fra i cortigiani e gli intimi del duca. Alcuni anni dopo, negli appartamenti di Alessandro VI il Pinturicchio rappresenterà ugualmente, su seggi d’onore, le sette allegorie, circondate dai loro eroi storici; ed è stato possibile avvicinare i loro tipi alla Amorosa Visione del Boccaccio (cap. IV), di cui esse non sono che una modernizzazione poco espressiva. Evidentemente gli artisti cercavano di dare una versione piú originale di questi programmi didattici. A villa Lemmi Botticelli rappresentò, davanti a un boschetto che ricorda quello della Primavera, le allegorie del trivium e del quadrivium. Il loro gruppo si stringe intorno al trono della «Retorica»: nonostante alcuni emblemi ancora visibili, come ad esempio lo scorpione della «Dialettica», tutte le sorelle si somigliano. Grazie ad una innovazione degna d’interesse, Venere stessa guida il giovane iniziato verso le «Arti»; nello stesso modo, secondo l’insegnamento recente del Ficino, l’Amore è il principio di ogni attività spirituale212. Una versione piú fedele allo schema scolastico dei domenicani, ci è fornita da Filippino nel suo Trionfo di San Tommaso alla Minerva a Roma (1488-93). Le «Arti» sono meno numerose, ma il loro movimento piú vivo. Il Dottore è posto tra due gruppi di due figure: Teologia e Retorica a sinistra, Dialettica e Grammatica a destra, cioè le scienze del trivium, alle quali è stata aggiunta la disciplina superiore. Alla base dell’imponente basamento su cui esse stanno, si agitano gli eretici; numerose iscrizioni, tratte dalla Summa e dalla Scrittura, sottolineano, non senza qualche pesantezza, il trionfo del tomismo. Gli ornamenti esuberanti, il disegno dell’edificio allegorico, gli innumerevoli motivi secondari tratti dai templi romani, indicano un Storia dell’arte Einaudi 407 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze linguaggio piú evoluto; la decorazione si intona male allo spirito della scena213. Altri ambienti mostravano di preferire una diversa allegoria che insisteva piuttosto sull’unità dell’attività spirituale che non sulla gerarchia delle discipline, sostituendo al quadro tradizionale il coro delle Muse. Ammesso che le arti liberali e le muse sono la stessa cosa, il Salutati si era paradossalmente sforzato di accordare l’elenco delle nove muse con lo schema settenario delle arti214. È a Firenze, intorno al 1460, che troviamo per la prima volta, pare, una rappresentazione del coro delle Muse. Nell’antica abbazia benedettina della badia di Fiesole, passata poi ai canonici regolari di Sant’Agostino, verso il 1440 Cosimo aveva fatto costruire un chiostro notevole nello stile del Brunelleschi e subito dopo una biblioteca, da lui dotata, in pochi mesi, stando a Vespasiano da Bisticci, di stupendi manoscritti. Una descrizione sommaria di questa biblioteca, costituita verso il 1460, l’abbiamo in un poema di Alberto Advogadro. Essa comprendeva una decorazione murale assai notevole: accanto a Febo seduto al centro e in atto di condurre il loro coro «con il suo plettro», vi si vedeva danzare la «folla venerabile» delle muse: Calliope che si muove ore gravi, accompagnata da Virgilio, Ovidio con la lasciva Thalia, Seneca e Melpomene maesto vultu, e cosí di seguito215. La novità non consiste solamente nel fatto che siano state sostituite le muse alle arti per decorare una biblioteca, ma ancora che ad ognuna d’esse sia stato unito il rappresentante piú eminente di esse e che si sia costituita, come per le arti, una galleria di poeti illustri. Anni dopo, in una composizione piú agile, avremo il programma del Parnaso nella stanza della Segnatura. A Urbino un’intera cappella, un sacellum, sarà consacrata alle muse. Il programma sembra sicuramente risalire ai tempi di Federico; l’esecuzione, nella quale interviene Giovanni Santi accanto a Timoteo Viti, ha Storia dell’arte Einaudi 408 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze potuto protrarsi fino al 1490. I riquadri isolati in cui compaiono le muse, gracili ed esaltate, in curiosi paesaggi crepuscolari, compongono a mo’ di fregio un coro, guidato da un Apollo che suona la viola. Ognuna delle figure porta un abito diverso e uno strumento specifico; una scritta latina precisa il carattere d’ognuna: ad esempio Calliope suona una lunga tromba «carmina Calliopa libris heroica mandat», Melpomene che impugna un corno nero, abbigliata di una veste scura «tragico proclamat maesta boatu»216. È un Parnaso piú elegante di quello del Mantegna nello «studiolo» di Isabella d’Este217. La musica, arte di Apollo e delle muse, cessa di rientrare nel quadro delle «arti liberali»; essa ormai può rappresentare non solo le opere della poesia e del sapere, ma il principio stesso della vita intellettuale, a cui è dedicata la «cappella»218. Questa idea centrale compare in un quadro schematico che trova allora diffusione nell’Italia settentrionale e in cui la serie delle muse viene associata alla gamma musicale e all’ordine cosmico. La migliore illustrazione di questo è costituita dalla serie dei «tarocchi», nella quale ogni musa reca una sfera che simboleggia il suo posto e la sua altezza nell’universo col suo strumento caratteristico: Talia, che corrisponde alla Terra, è messa fuori della serie e Urania corrisponde al cerchio delle «Stelle fisse»: grazie a questa sottrazione e a questa addizione il numero dei pianeti torna con quello delle muse219. Lo schema che illustra i due aspetti dell’ordine apollineo: la scala «pitagorica» del cielo e la gerarchia delle arti, avrà un certo successo220. Si ritrova nella illustrazione del trattato musicale del Gafurio edito a Milano nel 1496221. Questa incisione reca a mo’ d’exergo il verso dello pseudo-Ausonio: «Mentis apollineae vis has movet undique musas». Di contro alla tradizione che isola Talia dal resto delle muse, il Ficino aveva affermato nel De divino furore che la musa superiore è l’armonia Storia dell’arte Einaudi 409 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze «che nasce dall’accordo d’insieme». Il quadro tracciato nel commento allo Ione mostra Calliope al vertice della gerarchia: «vox est ex omnibus resultans spherarum vocibus», e Talia rientra nella gerarchia delle muse, signore delle sfere, la quale gerarchia viene ad essere in certo modo accentuata verso l’alto. Il filosofo è cosí portato a proporre un ordine un po’ diverso da quello di Marciano Capella222, e inoltre mette ognuna delle muse in rapporto non con un’arte particolare, ma con un poeta. Abbiamo qui tutti gli elementi letterari del complesso di Raffaello alla stanza della Segnatura223. L’Apollo della Practica musice, come quello del Parnaso, impugna una viola. È questa un piccolo tratto di fantasia moderna che deve essere preso in considerazione nello sviluppo dei simboli umanistici. La lira antica era formata di due bracci arrotondati tra i quali si stendeva la serie delle corde, generalmente sette; la lira moderna quattrocentesca, «lira da braccio», risultato di una lenta evoluzione, è una cassa a forma di cuore o di foglia, sulla quale sono tese le corde che si fanno vibrare con un archetto. Dunque si tratta dell’antenato del violino moderno224. La sua forma non era ancora definita e lasciava il campo aperto ad ogni sorta di ricerche tecniche, nelle quali l’immaginazione poteva sbizzarrirsi. Leonardo, abile suonatore di lira moderna, viene ricordato per l’aspetto insolito che aveva saputo dare ad uno di questi strumenti225. In una forma piú regolare la lira moderna, con un contorno ondulato e intagli neri, appare spesso nelle tarsie, ad esempio ad Urbino. Questo strumento, per la sua forma, per l’uso cui si prestava, per le sue proprietà musicali era quanto mai diverso dalla lira antica. Ma il Rinascimento, come d’altronde l’epoca successiva, voleva a tutti i costi, con un candore ostinato, vedervi la restaurazione di un modello inventato all’alba dei tempi da Orfeo e diffuso da Saffo; siamo cioè di fronte a un altro caso di «reminiscenza» artistica. Per Storia dell’arte Einaudi 410 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze sostenere tale tesi si interpretavano spesso forzosamente i documenti antichi o addirittura si falsificavano226. Si era convinti di dare una giusta interpretazione del tipo mettendolo fra le mani di Orfeo o di David, suo collega nella musica sacra, inserendolo nelle allegorie dell’arte musicale e degli angeli. Tutti questi fatti corrispondono ad una evoluzione della musica e della organologia italiane, che risale assai lontano e non si localizza affatto in Toscana. Ma l’interesse per la musica e il suo principio «orfico», l’insistenza sulle metafore «musicali», che erano proprie dell’ambiente fiorentino, incoraggiavano le innovazioni nell’iconografia musicale227. Il valore simbolico della lira rimane in realtà lo stesso sia che si tratti dello strumento antico o della viola moderna. L’Apollo nella tarsia di Urbino impugna uno strumento ad archetto, di tipo composito, che è insieme lira e viola moderna228. Ma l’artista che ha saputo servirsi nel modo piú inatteso dell’iconografia musicale è Filippino. Nella sua Allegoria del Kaiser Friedrich Museum la musa che tenta di incatenare un cigno ha presso di sé una strana lira ottenuta con un cranio di cervo. La tavola con le feste del bue Api (Londra, Galleria Nazionale) è un repertorio di strumenti insoliti. Queste forme bizzarre sono immaginate per illustrare i riti antichi. Il valore di questi attributi è notevole, tanto che val la pena di citarli accanto alle muse della cappella Strozzi che costituiscono le allegorie della «teologia poetica»229. 2. Pallade medicea. Nel 1475 il Botticelli dipinse per la grande giostra fiorentina lo stendardo di Giuliano. L’opera, a suoi tempi celebre, è scomparsa; è però descritta in parecchie testimonianze che risultano tutte concordi230. La piú Storia dell’arte Einaudi 411 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze precisa è un epigramma indirizzato a Bernardo Bembo da Aurelio Augurelli: «Tu mi chiedi perché, sull’insegna di Giuliano, è dipinto Amore con le mani legate dietro la schiena, ai suoi piedi l’arco e la faretra spezzati, perché nessuna piuma pende dalle sue spalle e perché immobile egli tiene gli occhi bassi come se soffrisse un supplizio immeritato... La terribile Pallade lo domina con la sua lancia, diffondendo lo sgomento con il suo casco e la sua crudele Medusa. Chi ne dà una spiegazione, chi un’altra: nessuno è dello stesso parere. Ecco una cosa piú bella che le immagini dipinte»231. Sappiamo che nello stesso poema del Poliziano scritto per celebrare il torneo, la Dama di Giuliano appariva per l’appunto come Minerva con l’armatura indossata sulla veste virginale (II, st. 28), impugnando la lancia e lo scudo con la maschera della Gorgona: in piedi su rami d’ulivo fiammeggianti (i «bronconi», emblema mediceo), ella teneva gli occhi levati al cielo. La Minerva della tarsia del palazzo d’Urbino, che è di stile fiorentino, è stata chiaramente eseguita tenendo presente il modello botticelliano; non manca che il particolare che la fronteggiava sullo stendardo: Cupido legato all’ulivo con l’arco e le frecce spezzate ai piedi. L’elmo, la lancia di Pallade, il suo scudo, nonostante la testa di Medusa, non hanno nulla di antico. Si tratta della stilizzazione di un simbolo cortese232. Il soggetto in fondo è chiaro: rappresenta la metamorfosi dell’eroe negato al destino comune dell’amore; l’ardore della sua anima non lo destina alle gioie facili ma lo vota alle opere della gloria. Nella Giostra Giuliano esclama rivolgendosi a Pallade: S’Amor con teco a grandi opre mi chiama, Mostrami il porto, o dea, d’eterna fama (Giostra, II, st. 42). Storia dell’arte Einaudi 412 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Ma egli chiede anche all’amore che lo ispira di prestargli il suo «santo furore» per rispondere all’appello di Pallade233. Se si tien conto che il Commento al Convito, scritto dal Ficino nel 1469, viene per l’appunto pubblicato nel 1474, e che la dottrina della conversione di Eros è il tema fondamentale di esso, si comprendono meglio l’originalità dello stendardo dipinto da Botticelli e la sorpresa degli spettatori. L’emblema era uscito direttamente dalla nuova filosofia dell’Amore, la cui prima trasposizione artistica era fatta proprio in onore del fratello di Lorenzo. L’imbarazzo del pubblico è comprensibile solo se il significato simbolico dello stendardo, che in pochi anni sarebbe diventato uno dei temi piú banali, era nel 1475 di una sconcertante novità. Il tipo fu replicato per Lorenzo se dobbiamo credere al Vasari il quale ricorda fra i lavori eseguiti per lui «una Pallade su una impresa di bronconi che buttavano fuoco, la quale dipinse grande quanto il vivo»234. Questo particolare, che richiama la Giostra, distingue quest’opera dallo stendardo; ma si ha il ricordo di un’altra Pallade (forse anche un quadro, certamente un cartone) di Botticelli in un arazzo appartenente alla famiglia de Baudreuil235: la dea con leggeri veli bianchi tiene l’elmo nella mano destra, un ramo d’ulivo nella sinistra; l’egida è appesa ad un arbusto di agrifoglio, un cartiglio reca la scritta: «E capite etherei nata sum Iovis alma Minerva mortales cunctis artibus erudiens». Questa scritta ne fa chiaramente un simbolo platonico del sapere e delle arti pacifiche. Il Ficino ne aveva indicato il significato generale in un testo di uno stile particolarmente lambiccato: «La Sapienza nata dal capo del Sommo Giove creator de l’universo, comanda e insegna a gli filosofi suoi amatori, che se desiderano a qualche tempo della cosa amata godersi, sempre cerchino i primi, e piú alti capi delle cose piú tosto che le basse». Questa Pallade è dunque la sana dottrina dell’Accademia che tende a Storia dell’arte Einaudi 413 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze staccare l’anima dalle zone inferiori, dalle praterie seducenti per elevarla ai vertici piú impervi dell’intelligenza pura236. La sua forza si esercita su quegli elementi dell’anima che gli scolastici chiamavano concupiscibile e irascibile: contro Venere, che rappresenta la voluttà, Pallade è la castità vittoriosa che mantiene la qualità spirituale dell’amore: contro Marte e le sue violenze, essa è il dono della contemplazione. La sua forza particolare è di ridare all’anima la sua vera altezza interiore. Lorenzo la rappresenta come quella che tende la mano alla debolezza del nostro spirito. La novità stava nel fatto che di Minerva, sotto forma di Pallade-Venere o di Pallade pacifica, si facesse una divinità completa, subordinando, nello spirito di Platone, l’etica alla vista dell’intelligenza237. Pallade e il Centauro (Uffizi) riunisce tutti questi elementi in un simbolo mediceo: molto verosimilmente essa allude alla saggezza di Lorenzo e al suo buon governo della nuova Atene. La veste ondeggiante è ornata dei tre anelli raccolti intorno ad un diamante, emblema che, senza essere proprio di Lorenzo, colloca esplicitamente la figura238. Il gesto di Pallade che trae per i capelli il centauro dal viso umile e pacificato, il tema dell’ulivo che orna la veste fiorita e corona la dea, forse le due parti del paesaggio, rocce a sinistra, orizzonte aperto di una valle a destra, hanno il valore di un’allegoria morale. Minerva non è la forza che colpisce, ma quella che risana; non si tratta di una lotta, ma di una metamorfosi che può applicarsi ad una città, all’anima, alla natura stessa. Un ultimo elemento viene ad illuminare l’arte di Botticelli: la testa del centauro, che richiama il viso di san Giovanni (Berlino), è una stilizzazione di rilievi romani; ma la forma di Minerva, sotto i minuti ricami d’ulivo, col suo mantello nero, la sua alabarda, non ha alcun precedente, come non ne ha l’immagine complessa ch’essa anima con il suo arabesco. Anche in questo Storia dell’arte Einaudi 414 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze caso l’originalità dell’opera fiorentina risulta confermata se la si confronta con altre analoghe dell’Italia settentrionale. I quadri del Mantegna, concepiti verso la fine del secolo per lo studiolo di Isabella d’Este, presenteranno la Psicomachia, cioè il combattimento di Minerva guerriera contro i Vizi: la concezione letterale, i toni acidi, il disegno duro contrastano con l’equilibrio e l’eleganza del Botticelli. La tavola medicea (degli anni 1480-85) non è meno lontana dal naturalismo che trionfava nel palazzo di Schifanoia di Ferrara (1470). Nel ciclo astrologico Minerva è la dea del mese di marzo, o piú esattamente corrisponde ai segni zodiacali che distinguono questo mese. Circondata da giuristi, medici e fanciulle intente a tessere, essa presenta una immagine autoritaria e precisa, tanto diversa da quella dei fiorentini quanto la straordinaria Venere che trionfa nel riquadro successivo è lontana dalla sottile Primavera239. L’originalità della Pallade fiorentina è stata intesa: la sua figura ritorna nell’ultima pagina del manoscritto napoletano dell’Etica a Nicomaco, al vertice di una cupola «ateniese», che fa pensare alla cupola brunelleschiana240. Essa scomparirà agli inizi del secolo successivo: la statua di Minerva che Raffaello inserirà nel portico della Scuola d’Atene, deriva, attraverso Urbino, dal tipo mediceo, ma pare rielaborata sul modello delle statue antiche di Atena e di Venere241. Storia dell’arte Einaudi 415 Capitolo quarto La vita dell’anima L’anima umana, secondo gli umanisti neoplatonici, è portata in misura rilevante alla felicità. Sua vocazione è quella della beatitudine e della voluttà242. E tutto vi concorre: la natura con le sue pulsazioni di essere vivo, il cielo stesso la cui luce raggiante costituisce come un sorriso che procede dalla gioia degli spiriti celesti. Cosí Venere era la divinità di questi poeti e di questi dotti: «Venus id est Humanitas». In questo modo essi riconoscevano a se stessi la libertà di muoversi liberamente nei campi del desiderio, della vita emotiva, e di considerare come fine ultimo della speculazione le estasi ineffabili dell’Amore. Essi rivendicavano cosí tutti questi moti coscienti, o appena coscienti, dell’anima, certi di poter riconciliarli in una prospettiva ascendente in cui tutto si sarebbe purificato. Proprio attraverso questa dottrina l’ambiente fiorentino ha esercitato sul pubblico italiano l’influenza piú viva e profonda; ed è anche l’aspetto del nuovo insegnamento che piú rapidamente si è degradato e che comunque era piú difficile a sostenere senza contraddizioni o cadute243. Il modo in cui l’immensa letteratura pagana e cristiana sull’Amore è stata utilizzata dai fiorentini dimostra un rifiuto fondamentale della distinzione che i primi pensatori cristiani avevano affermato, e che poi si era venuta gradualmente attenuando, tra l’Eros (slancio misterioso dell’anima) e l’Agapè (Caritas) che è il dono Storia dell’arte Einaudi 416 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze gratuito di Dio ad una creatura senza meriti244. Una vera e propria summa «erotica» era stata offerta dalla Commedia, in cui la mistica cistercense esposta da san Bernardo (Paradiso, XXXI) viene a coronare, senza tuttavia guastarla, l’ascesa guidata da Beatrice e regolarmente ritmata dalle implicazioni volta volta personali e dottrinarie dell’Amore245. Il platonismo poteva facilmente rinascere su un terreno cosí ben preparato; ma esso vi apportava un gusto, ereditato dal Petrarca, per l’analisi dei sentimenti, e, soprattutto nel Ficino, una suscettibilità molto viva alle alternative di ardore e di atonia che costituiscono la vita segreta dell’anima. Lo sviluppo di questa metafisica non avverrà senza difficoltà246. La posizione un po’ ingenua del Convivio non potrà essere mantenuta fino alla fine. Pico moltiplicherà le obiezioni circa la parte, tuttavia discreta, attribuita alla apprensione sensuale della bellezza. Ma tutto sommato l’ipotesi maestra del neoplatonismo resterà quest’accordo fondamentale fra l’appetitus dell’anima e l’amore superiore, che sono entrambi risposte alla attrazione dell’amore divino. Sulla base di questo postulato si potevano ricostruire la morale, la psicologia e la stessa teoria della conoscenza. I dubbi formulati dal grande critico dell’umanesimo fiorentino, il Savonarola, vennero a mettere in luce il punto debole di questo ottimismo; e il ritorno alla stretta dottrina paolina che avverrà con la Riforma lo avrebbe negli anni successivi smentito brutalmente, nel momento stesso in cui si diffondeva nella società italiana la dottrina abbastanza equivoca del «platonismo mondano»247. Anche in questo la situazione raggiunta tra il 1470 e il 1500 rappresentò, tutto sommato, un equilibrio che non ebbe equivalenti nel periodo anteriore e in quello successivo. Se ne misura meglio la portata allorché ci si rende conto di ciò che la filosofia fiorentina doveva alla recente scoperta del testo di Lucrezio, il cui manoscritto era Storia dell’arte Einaudi 417 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze stato recuperato da Poggio nel 1414248. La lettura di quest’opera provocò nell’umanesimo fiorentino una sorta di choc intellettuale, come dimostra l’opera ben nota di Lorenzo Valla (1431 e 1433), oppure l’inno a Venere di Leonardo Bruni. La generazione del Ficino fu insieme affascinata e atterrita dalla visione poetica e dalla violenza del De rerum natura. Il ricorso al platonismo fu in certo senso il rimedio all’attrazione che esercitava la dottrina epicurea: la Theologia platonica e le epistole del Ficino ritornano spesso su questa alternativa. C’era dunque nella cultura fiorentina una tentazione del naturalismo, che scopre la vitalità universale solo per perdere in essa il sentimento del destino sovrannaturale dell’anima. In questa prospettiva la storia dell’umanità è quella di una civiltà sempre precaria. All’idea di una età dell’oro il pessimismo sostituisce una visione tetra delle prime età dell’uomo. Questa idea lucreziana doveva essere abbastanza diffusa perché Piero di Cosimo potesse, alla fine del secolo, svolgere per Giovanni Vespucci le sue strane «storie baccanarie» e per Francesco del Pugliese il suo sorprendente ciclo della vita primitiva249. Proprio del neoplatonismo era, invece, alimentare l’idea di una natura felice, giardino dell’anima, concesso alle gioie dell’amore lentamente «sublimato». Il Quattrocento in questo campo veniva ad esser l’erede di un repertorio poetico profondamente organizzato, al quale corrispondeva invece una tradizione iconografica assai debole. Dante aveva in qualche modo definito l’ambiente ideale delle «visioni» d’amore, all’altezza del Paradiso terrestre, dove l’incantevole paesaggio conserva tutti gli elementi dei luoghi destinati alla felicità e dove avvengono l’uno dopo l’altro l’apparizione della «bella donna» che canta e danza tra i fiori, immagine della gioia irresistibile dell’amore, poi il corteo di Beatrice, che è la rivelazione promessa a questa dimora unica. Questi tre elementi, un ambiente squisito, l’ap- Storia dell’arte Einaudi 418 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze parizione femminile e una sfilata o una festa ritorneranno senza fine nelle innumerevoli poesie d’amore, di cui costituiranno l’ossatura fantastica. Il Boccaccio descrive con insistenza, nella Amorosa visione, il castello dell’anima con il gioco delle ùkfrßseij, che consiste nell’inserire delle scene figurate in queste architetture immaginarie. Questo scenario, fantastico farà parte del genere, non meno che il corteo di dame, cavalieri e uomini illustri. Le regole di questa letteratura lasciavano scarsa libertà. Uno dei tentativi piú originali di restituirgli qualche freschezza fu quello di Giovanni Gherardo da Prato nei frammenti che sono stati riuniti sotto il titolo di Paradiso degli Alberti250: l’avventura è qui raccontata come un viaggio a Creta, dove vengono scoperti i regni distrutti di Saturno, e a Cipro, l’isola di Venere, di cui il paesaggio, le architetture e le numerose storie dipinte o scolpite rappresentano la potenza universale. Questo testo fu una delle fonti del Poliziano; sembra anche aver ispirato a Leonardo la rappresentazione di Cipro che si trova in un frammento mutilo: e la descrizione, forse ideata come modello di un quadro, di una riva bellissima che attrae le navi e le fa naufragare sugli scogli: questi relitti sono disseminati per tutta l’isola favolosa251. Non c’è alcuna intenzione sarcastica nella celebre descrizione delle Stanze, dove, attraverso un brillante accumularsi di motivi graziosi, viene suggerita la natura ridente e il palazzo della dea. Siamo cosí tornati all’idea del Paradiso terrestre, regno di Venere. Le formelle delle porte e le sculture del castello di sogno costituiscono una sorta di repertorio dell’iconografia di Venere. Il tema della Afrodite anadyomene, introdotto qui in ricordo di Apelle, sara ripreso dal Botticelli. Nella Primavera lo stesso artista ha rappresentato il regno della dea con un prestigio non minore e un’arte meno prolissa del Poliziano. Storia dell’arte Einaudi 419 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Senza dubbio c’è una comunanza d’ispirazione tra il discorso poetico del Poliziano, l’arte squisita del Botticelli e le pagine del Ficino sull’amore252: questa comunanza è da vedere anzitutto in una certa fragilità dell’immaginazione, in una stilizzazione della visione che insiste su motivi semplici, eleganti, luminosi e senza peso. La rappresentazione assume cosí una chiarezza di emblema che conferma il suo valore di simbolo intellettuale: il regno di Venere indica l’energia spontanea dell’anima, la forza che spinge la natura, la vita e lo spirito stesso. È il principio al quale l’umanesimo e la cultura cortese di Firenze tutto riportavano e che mancava di una grande illustrazione in figura. Ma intorno a questa «visione beatifica» gravitava un certo numero di immagini in cui il segno della nuova cultura non è meno evidente. 1. Le tre Grazie. Un gruppo delle tre Grazie, da tempo scoperto a Roma, nel 1502 fu inviato dal cardinal Piccolomini al Duomo di Siena253. Artisti l’avevano già studiato a Roma, come dimostra il disegno di Antonio Federighi, eseguito intorno al 1470-80, con la scritta autografa: «queste femine sono in chasa chardinale di Siena, sono 3, sono fatte dreto e dinansi, chiamansi le 3 grazie, in Roma, antiche»254. Il documento dimostra che il gruppo non è ancora molto noto: il Federighi l’ha appena scoperto. Giustapponendo nel suo disegno tre figure viste di dietro al gruppo visto davanti, egli le intende come la combinazione di due rilievi piatti: cioè egli lo legge da pittore e non da scultore, cosa d’altronde conforme allo stile dell’opera dove il profilo come limite di volume non ha importanza. Si comprende cosí meglio perché il successo del gruppo si colga soprattutto nella pittura. Storia dell’arte Einaudi 420 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Il gruppo tuttavia era noto già ai tempi del trattato dell’Alberti. In esso è descritto, fondandosi su Seneca (De beneficiis, 1, 3), come un tema di danza, dato che le Grazie sono «prese fra loro l’una l’altra per mano, ridendo, con la vesta scinta et ben monda». Questa citazione letteraria fu senza dubbio il punto di partenza del Botticelli quando introdusse la danza delle Grazie nella Primavera255. Sembra invece che ci sia un ricordo del gruppo del cardinal di Siena nell’affresco di Venere al palazzo Schifanoia, precedente di qualche anno: le tre ninfe poste su una base di roccia e dotate di una intensità sensuale e quasi demoniaca, appaiono alte sopra gli amanti. L’immagine non ha né la grazia né il pudore di quella botticelliana: anzi fa apprezzare per contrasto il candore di quest’ultima. Gli umanisti fiorentini continuamente ricordano le Grazie per confortare le dimostrazioni piú diverse: in base alle autorità antiche e cristiane, aristoteliche e platoniche che si possono moltiplicare all’infinito, sul numero tre e il principio trinitario del mondo, ogni nozione può essere divisa in tre principî, cosa che permette di applicare ad essa l’immagine delle Grazie256. Ma si ricorre a queste per insistere sul primato metafisico della bellezza. Sulla medaglia incisa da Niccolò Fiorentino per Pico, le Grazie appaiono con la scritta: «Amor, Pulchritudo, Voluptas», che le riconnette al «cerchio spirituale» dell’universo e all’iniziazione platonica della bellezza257. Nel suo Commento alla canzone di Benivieni, Pico le descrive insistendo sui tratti caratteristici del gruppo già indicati dagli antichi mitografi: l’intreccio delle tre ninfe e la loro disposizione, l’una «col volto inverso noi come procedente e non ritornante; le altre dua... col volto in là»258. Le Cariti divengono cosí una sorta di ideogramma, un geroglifico dell’universo «armonico» nella tavola del cosmo «musicale» del Gafurio e nella ricca illustrazione umanistica del manoscritto dell’Etica a Nicomaco259. Il qua- Storia dell’arte Einaudi 421 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze dretto di Raffaello a Chantilly non presenta a quel che sembra legame alcuno col gruppo senese nella composizione260. Le tre divinità che senza dubbio fanno pendant al quadro del Sogno di Scipione presentano le sfere, simbolo di immortalità; esse rappresentano il principio morale grazie alla stessa trasposizione di significato che permetteva di fare di Venere il principio della perfetta Humanitas261. 2. I due Amori. Di solito si designa come un Trionfo una tavola della collezione Wallace attribuita in modo dubitativo a Piero di Cosimo262. L’opera deve risalire a circa il 1488, data del bel manoscritto di Didimo Alessandrino De spiritu sancto, miniato da Gherardo e Monte del Fora per Mattia Corvino, nel quale si trova una composizione analoga: sul basamento dell’arco molto decorato, in cui figurano a sinistra il re d’Ungheria e a destra la moglie Beatrice d’Aragona, si possono vedere cinque rilievi in monocromo su fondo oro: Apollo e Marsia, un cavallo che viene domato, il Trionfo, un nuovo cavallo, la Fonte di Castalia263. L’immagine ritorna piú completa sul rovescio di una medaglia di Bertoldo, che data degli stessi anni 1490 e che, con un’incertezza molto caratteristica, viene descritta a volte come un Trionfo della Castità a volte come un carro «dionisiaco», dove una baccante farebbe punire un personaggio restio all’amore264. Abbiamo qui una delle composizioni «letterarie» proprie dell’ambiente fiorentino: ma se dovessimo basarci sulle tradizioni iconografiche anteriori o posteriori sarebbe difficile decidere se si tratta d’una celebrazione della castità (come nel Trionfo del Petrarca) o di una rappresentazione della crudele tirannia di Venere. La medaglia di Bertoldo presenta il terreno disseminato delle spoglie di Storia dell’arte Einaudi 422 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Eros (o Cupido), che mancano nella miniatura e nella tavola e, d’altra parte, la figura che guida il carro manca nella tavola. Questa è dunque un derivato e se riesce difficile spiegarla è perché la composizione incompleta diventa confusa. Le ali, la faretra, l’arco e le frecce strappate, spezzate e gettate a terra, bastano in realtà a far capire che la vittima posta sull’altare è lo stesso Eros o Cupido, un fratello del carnefice, che è egli stesso Eros o Cupido, che attizza il fuoco. La miniatura attribuisce ad essi lo stesso aspetto. D’altra parte la tavola ornando di una testa di faunessa l’enorme vaso sul quale sta seduta la «divinità» o l’allegoria di sinistra, fornisce un’indicazione utile che non si ritrova nelle altre versioni. Non si tratta di un «Trionfo». Indubbiamente si vedono spesso nel Trionfo della Castità le ancelle di questa spogliare e legare l’Amore vinto seguendo il gesto imperioso dell’irresistibile Virtú: cosí si vede, ad esempio, su una celebre tavola di Jacopo del Sellaio265. Ma la nostra composizione non è una semplice riduzione di questo tipo con una variante originale che sarebbe costituita dalla purificazione attraverso il fuoco. Vediamo che ogni corteo è eliminato; il carro trascinato da cavalli ombrosi (che si vedono ripetuti nei monocromi della miniatura) introduce l’allegoria dell’anima; la scena, in cui l’amore vinto è consumato dalla fiamma stessa dell’amore, si adatta ad un concetto piú sottile. Il carro, condotto dai putti alati, richiama ad esempio quello di Bacco e Arianna che, derivato da un cammeo d’onice della collezione di Lorenzo, figurava fra i tondi del cortile di palazzo Medici266. Donatello se ne era giá servito per ornare l’elmo di Golia ai piedi di David: questo particolare veniva a unire Golia alla folle e colpevole esuberanza delle passioni. Ma il «concetto» di Eros consumato sull’altare dell’amore viene d’altra parte ad illuminarsi attraverso un’altra opera contemporanea: Storia dell’arte Einaudi 423 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze egli compare in effetti in uno degli scomparti della volta a pieno sesto con cui il Sangallo e il Cronaca hanno coperto il vestibolo della sacrestia di Santo Spirito267. Come nell’atrio di Poggio a Caiano, di cui questo vestibolo riprende la disposizione, la volta è divisa in sei file di tre cassettoni quadrati: in ognuno di essi sta un disco centrale legato da quattro forti nastri ornati ai quattro lati del cassettone. Il cassettone centrale reca nel tondo l’emblema dello Spirito Santo che richiama la dedica della chiesa; invece nei riquadri d’angolo, lato verso la chiesa, sono scolpite due spesse palmette che escono da un vaso; nei due riquadri corrispondenti appaiono due scene che illustrano, «sub invocatione Sancti Spiriti», il tema dei due amori. A sinistra Eros bruciato sull’altare del Sacrificio, di cui un amore alato attizza la fiamma soffiando all’interno; questo altare reca una decorazione decifrabile in bassorilievo che viene ripetuta per metà nel riquadro di destra. Vi si riconosce un uomo abbattuto da delle donne, cioè Orfeo massacrato dalle baccanti per non aver ceduto all’orgia (a destra l’esecuzione erronea ha sostituito la baccante con un uomo)268. Questa allusione al supplizio inflitto dalle sacerdotesse dell’orgia illustra il conflitto tra l’amore puro e gli istinti inferiori. Immediatamente il sacrificio sull’altare rivela tutto il suo significato come consunzione dell’amore «terrestre» attraverso l’ardore dell’amore «celeste» che trasforma la sua natura. Siamo dunque al centro della nuova iconografia dei due amori e delle due Veneri, iconografia definita dal Ficino nel suo Convivium de amore e di cui il Poliziano ha dato una interpretazione personale nel passo delle Stanze in cui Giuliano domanda a Cupido il suo aiuto per superarlo: …Se mi presti il tuo santo furore Leverai me sopra la tua natura. Storia dell’arte Einaudi 424 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Cosí Pico, in una celebre pagina del Commento descriveva l’uomo simile a una materia che per la potenza d’amore «mirabilmente allor s’incende e’ infiamma»269. La successione delle scene che compaiono nel Trattato di Didimo sembra confermare questa interpretazione: non è certamente un caso che si trovi allo stesso punto la scena dell’olocausto dell’amore nel vestibolo della chiesa di Santo Spirito e sul frontespizio di un trattato sullo Spirito Santo. Nella miniatura il sacrificio dell’amore inferiore è inquadrato da due pannelli che mostrano dei cavalli che vengono domati (allegoria della natura che deve essere dominata)270 e completato da due immagini laterali che sono a destra il supplizio di Marsia, a sinistra la fontana di Castalia, cioè il principio superiore del «santo furore». Si tratta dunque di Venere che agisce d’accordo con Apollo, sottomessa all’azione del principio superiore, e non della sua vendetta, e meno ancora di un elogio della castità che sarebbe la rinuncia all’amore. Come nello stendardo per la Giostra, si tratta di una nuova immagine destinata a rappresentare la «sublimazione di Eros». La figura allegorica che presiede alla scena deve essere dunque la «potenza d’amore» cioè la Venere celeste che prende possesso dell’anima: il vaso su cui è seduta rappresenta senza dubbio il ricettacolo delle passioni e dei vizi (di qui le teste di fauno o di faunessa); quello piú piccolo che essa tiene in mano è un piccolo vaso purificatorio. Da questo punto di vista sembra lecito avvicinarlo al piccolo vaso, da cui esce una fiamma simbolica, che l’allegoria dell’Amor Sacro tiene sollevato nella tela di Tiziano. 3. La nuova «psicomachia». Nessuno dei miti antichi che si prestavano a rappresentare la vita dell’anima ha attirato tanto gli uma- Storia dell’arte Einaudi 425 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze nisti di osservanza platonica quanto quello di Orfeo271. Il Ficino, Pico se lo sono appropriato; esso contiene tutte le dimensioni del loro sogno filosofico. Orfeo è il primo poeta: i suoi inni oscuri celebrano i principî stessi del mondo e il Caos dominato dall’Amore. I miracoli compiuti dalla sua voce che muoveva le pietre e rabboniva le belve stanno a dimostrare la potenza intera dell’anima sull’universo creato. Il mito di Orfeo è il mito dell’uomo-poeta al grado piú alto delle sue facoltà272. Esso mostra anzitutto l’anima presa d’ammirazione e tenerezza per l’universo creato, di cui essa si scopre in qualche modo come la forza viva. Trasponendo audacemente la favola antica il Ficino evocherà Dio stesso come un pastore orfico che veglia sull’universo: il divino «aratore» fa sorgere le giovani gemme e le radici; come senza di ciò i pampini si rivolgerebbero verso il sole fuggendo l’ombra?... Dio fa crescere gli alberi, conduce e pasce le bestie, come hanno affermato gli antichi teologi273. Orfeo circondato dagli animali partecipa lui stesso a questa straordinaria pastorale. Dante nel Convivio aveva ricordato la «moralizzazione» della favola di Orfeo: Lo savio uomo con lo strumento de la sua voce faria mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e faria muovere a la sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d’arte: e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre274. Ma si tratta ora di una ragione penetrata di estasi poetica: Orfeo sta a indicare insieme la comunione totale con la natura e l’abbandono totale a Dio. Il suo nome servirà naturalmente ad indicare gli stati eccezionali della vita spirituale a contatto con la divinità: Storia dell’arte Einaudi 426 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Septima et omnium praestantissima ea animi alienatio est, quae fit castitate mentis Deo devotae, quaemadmodum Orpheus in hymno Deorum omnium Musaeum docet. Talis quippe mens non ad tempus, ut aliae, sed ferme semper pacatum est Dei templum, cuius ostium (ut Joannes inquit Theologus) Deus pulsat primum, quod statim apertum ingreditur, quod inhabitat sedulo, in quo hominem pascit ambrosia275. In questo Orfeo è insieme maestro ed esempio: dietro la sua invocazione è a una sorta di «mistica» della contemplazione e del sogno che si allude. Questa viene a completarsi attraverso la tragedia dell’amore perduto e ritrovato, attraverso l’episodio della discesa agli Inferi, attraverso il crimine delle baccanti; tutte prove queste poco comuni che attendono l’uomo dedito alla contemplazione. L’Orfeo del Poliziano, frettolosamente composto nel 1480, è una sorta di balletto pittoresco, una sacra rappresentazione su tutti questi temi. Si sa che a Milano Leonardo fu indotto a studiarne la messa in scena276. La maggior parte dei quadri che illustrano la favola sembrano legati al dramma del Poliziano. La fronte di cassone composta da Jacopo del Sellaio merita di essere avvicinata ad esso per la sua disposizione paratattica e i suoi accessori di scena277. Altre attribuite a Baldassare Carrari di Forlí sembrano anch’esse attestare il successo «provinciale» della favola polizianesca. In una d’esse si vede Plutone e Proserpina seduti in una caverna infernale che ha la forma di una sfera trasparente e che è forse anche un artificio scenico278. Su una serie di piatti un tempo attribuiti a Timoteo Viti, amico di Raffaello, ma in realtà posteriore al 1500 e dovuta a Nicola Pellipario da Casteldurante (Museo Correr) gli episodi della favola appaiono ugualmente volgarizzati in una forma sentimentale e facile279. La serie delle placchette in bronzo del «Maestro Storia dell’arte Einaudi 427 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze della leggenda di Orfeo», attualmente identificato con Bertoldo, è la sola illustrazione fiorentina degna della favola umanistica. I suoi tre grandi episodi: Orfeo e le fiere, Orfeo davanti a Plutone e Orfeo e le menadi sono svolti con forza, in uno stile accurato, impreziosito da tocchi antichizzanti, non senza qualche analogia con i medaglioni monocromi del Signorelli a Orvieto. Poiché la serie risale al 1490 deve essere stata fusa per un adepto di Careggi280. Ma la presentazione piú originale della favola si trova nel pavimento di una cappella di San Domenico a Siena. Questa composizione è stata a lungo attribuita al Beccafumi. Se essa come è piú verosimile risale agli anni 1480-90, viene ad essere contemporanea dei riquadri del Duomo. Forse è il caso di attribuirne il cartone a Francesco di Giorgio281. Nello stile un po’ duro tipico dell’incrostazione marmorea, si ritrova la scena «pastorale» scolpita tanti anni prima da Luca della Robbia, ma con un simbolismo piú ricco. Sotto i dischi del sole e della luna, fra gli alberi stilizzati, l’eroe mitico impugna uno specchio in mezzo alle belve minacciose. È un particolare inatteso che induce a cercare qui il «mago» delle età passate, il priscus theologus del platonismo. Lo specchio che riflette l’ardore del sole è, come la cetra che risuona a distanza, lo strumento tipico delle azioni apollinee. Ciò anzitutto in un senso fisico: la forma liscia, concava e brillante dello specchio, analoga a quella del cielo, raccoglie esattamente proprio per ciò il dono stesso del cielo, concentra i raggi di Febo e può consumare immediatamente ogni corpo solido che si trovi sull’asse del suo fuoco282; ma anche in senso morale, dove le belve sono le passioni, che il saggio doma grazie alle virtú occulte della «magia» e del sapere. Ecco, sembra, la ragione per cui lo specchio è stato sostituito alla lira283. Se le cose stanno cosí, abbiamo qui la chiave di uno dei disegni piú singolari di Leonardo: il combattimento di animali intorno all’uomo con lo specchio Storia dell’arte Einaudi 428 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze infiammato (Louvre)284. Vediamo a Siena nello stesso atteggiamento minaccioso, il liocorno, il leone, la pantera che Leonardo rappresenta scatenati gli uni contro gli altri, ponendo al centro del suo disegno il combattimento bestiale dell’aquila e del dragone. Il giovane dirige contro di essi la superficie concava dello scudo-specchio per abbagliarli, per cui è lecito chiedersi se «l’allegoria morale» di Leonardo non sia una variante sul tema di Orfeo, riferito alla magia della luce. La favola di Ercole è quasi altrettanto completa di quella di Orfeo: piú familiare al medioevo, questa favola era divenuta, in mano ai mitografi del Trecento, la favola morale per eccellenza: «Hercules id est virtus»285. Nella distruzione dei mostri di natura si vede la purificazione delle passioni. Il Salutati sul mito di Ercole aveva costruito tutta una dottrina della vita attiva. Il Landino e il Ficino non fanno che continuare una lunga tradizione allorché citano, uno nel De vera nobilitate e nelle Disputationes Camaldulenses, l’altro in diverse epistole, Ercole fra gli eroi che mostrano la ragione all’opera: «unicus in nobis est homo, bestiae vero sunt multae». Il Ficino loderà l’energia polemica del Poliziano paragonandolo ad Ercole, cosa che non piacque al poeta, i cui nemici ripresero il complimento in chiave ironica286. Ma non è da queste interpretazioni filosofiche che derivava il successo di una favola troppo nota, che tendeva naturalmente ad assumere un altro aspetto. Il diffondersi dell’aneddoto morale di Ercole al bivio e l’abbondante illustrazione che esso trova287 non impedivano che Ercole significasse anzitutto la forza fisica e i trionfi della gloria. Egli era il primo degli «uomini famosi»; il Petrarca l’aveva celebrato come tale; e il nerboruto eroe compariva tra i grandi uomini di cui Piero della Francesca aveva decorata una casa a Borgo San Sepolcro e un imitatore di Paolo Uccello il palazzo Bardi-Sarzelli a Firen- Storia dell’arte Einaudi 429 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze ze288. In queste opere non è dato ritrovare alcun rapporto con l’Ercole «immortale», che tiene in mano il pomo simbolico della vita felice, noto per la statua antica (palazzo dei Conservatori) che uno scultore seguace di Bertoldo rappresenterà intorno al 1500289. Non è l’eroe stoico per due volte trionfatore della morte, né il personaggio tormentato di Seneca che interessa gli artisti rinascimentali, ma una solida immagine dell’attività e del successo, uomo della «virtú», irresistibile e vendicativa. Egli ritorna spesso nei manoscritti. Nel 1463 una miniatura di Francesco di Giorgio in un manoscritto dell’Osservanza, nel 1472, a Ferrara, una miniatura astrologica che rappresenta Ercole che abbatte l’Idra290 si ispirano alle famose composizioni del Pollaiolo: i tre grandi quadri su tela (perduti dopo il 1495) che verso il 1460 vennero ad ornare la casa dei Medici, rappresentavano per la prima volta con ampiezza le fatiche d’Ercole che soffoca Anteo, che abbatte il leone e distrugge l’Idra. Versioni ridotte ne hanno conservato il ricordo: su uno sfondo di paesaggio si vedono dispiegati tutto lo sforzo fisico e la «terribilità» dell’eroe. Non si deve dimenticare, per intendere questo interesse, che Ercole figurava tra i protettori leggendari di Firenze291. Sul grazioso busto di guerriero del Bargello, che forse è un ritratto di Giuliano, la corazza appare decorata con due dei «fatti d’Ercole» ai lati del medaglione di Nerone. Una statua antica di Ercole si trovava nel giardino del casino di San Marco; Leonardo sembra alludervi in una sua nota del Codex Atlanticus292. Il tipo «erculeo» ossessionerà Michelangelo: alla morte del Magnifico lavorerà ad una statua dell’eroe con la clava; piú tardi la Repubblica gli commissionerà con insistenza un gruppo che sembra essere stato quello di Ercole e Anteo293. Si tratta di immagini della Fortitudo civica294. Se si passa a considerare le celebrazioni trionfali, cosí numerose e diffuse nel Rinascimento295, si deve ricono- Storia dell’arte Einaudi 430 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze scere che, rispetto alle altre province d’Italia, Firenze ha tenuto un atteggiamento riservato, almeno nel Quattrocento. L’elogio di Cosimo-Cosmos e di Lorenzo sotto il nome di Pan rimane un gioco poetico rispetto alla esaltazione che si fa di Sigismondo Malatesta a Rimini. Il modo in cui i personaggi di casa Medici vengono trasposti in immagini appare come una adulazione meno smaccata rispetto alle figurazioni eroiche che cominciano ad essere di moda nell’Italia settentrionale; rimane comunque molto al di sotto di ciò che si permetterà Giulio II. Nel desiderio di glorificazione era implicita una pericolosa tendenza alla insincerità e all’impostura. L’immagine del personaggio viene completata ingrandendo le sue attitudini, le sue virtú, la sua dignità perché possa rispondere a un tipo splendido, per poterlo rappresentare come un «eroe». Non si tratta di un artificio nuovo. Però Firenze preferiva una glorificazione piú discreta. Ci si accontenta di velate allusioni alla ricchezza, alla nobiltà e alle ambizioni del personaggio, o addirittura si preferisce alludere a un elemento dominante della sua figura: la purezza dell’anima nel caso del cardinal di Portogallo a San Miniato, l’energia del Sassetti a Santa Trinita. Parrebbe che il clima intellettuale creato dall’umanesimo platonico avesse favorito una rielaborazione in senso «psicologico» dei temi trionfali dell’arte antica, il cui uso già si era diffuso nella decorazione, con intenti meno sottili. Cosí la figura di una Vittoria viene a suggerire piuttosto la grandezza morale che non il prestigio militare; uno schiavo incatenato sta a indicare l’anima serva delle passioni, anziché la sottomissione a un vincitore. Come l’influenza del neoplatonismo fiorentino porta a cercare quelle figure a doppio senso che servono a collegare il mondo pagano al pensiero cristiano, cosí incoraggia l’utilizzazione dei simboli della glorificazione mondana per suggerire una grandezza di tutt’altro genere. Storia dell’arte Einaudi 431 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Non solo il valore dei temi non è sempre esplicito, ma il modo in cui vengono combinati può risultare per noi, in mancanza di un testo e di un documento che serva da intermediario, del tutto oscuro. È questo il caso del ciclo allegorico piú originale che ci abbia lasciato la fine del Quattrocento: i dodici riquadri in stucco ad imitazione del bronzo che si trovavano nel cortile del palazzo di Bartolomeo Scala296. Il piglio robusto di questi rilievi porterebbe ad attribuire l’opera curiosa alla bottega di Bertoldo. Lo stile è quello delle sue placchette, e tale è anche la doppia componente dell’ispirazione, per cui le scene di violenza, le battaglie di animali si alternano con altre in cui appaiono allegorie dell’attività umana. A tratti siamo in prossimità della Educazione di Eros (Victoria and Albert Museum) a tratti in prossimità del Combattimento di cavalieri (Bargello) che rappresentano per cosí dire le due facce dell’arte di Bertoldo, con lo stesso contrasto di una composizione turbinosa e aggrovigliata nelle scene di violenza, e di una fredda dignità, di figure semplicemente allineate, nei quadri simbolici. Non è da escludere che anche qui come a Poggio a Caiano si debba pensare a una certa elaborazione ad hominem: la personalità di Bartolomeo Scala, giurista e uomo di stato, oltre che umanista e amico del Ficino, spiega indubbiamente perché nel lato sud si insista in modo particolare su rilievi dedicati al negotium (Negligentia), alla potenza politica (Gloria Militaris), all’unione di Minerva e Marte (Imperatoria Potestas), mentre la serie opposta, Amor, Mitas, Jurgium rappresenta la sottomissione degli istinti grazie alla vera potenza di Eros. La serie orientale: Ebrietas, Proelium, Regnum, illustra lo scatenarsi delle passioni bestiali297; la serie occidentale, Tempestas, Victoria, Quies, la pace e la serenità dell’anima vittoriosa. Come ogni rilievo s’inserisca esattamente nel ciclo e quale sia il suo particolare significato Storia dell’arte Einaudi 432 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Palazzetto di Bartolomeo Scala: decorazione del cortile 1. Quies: Suonatore di viola (Orfeo?); nove personaggi; grotta con drago. – 2. Victoria: Quattro figure; donna su una biga. – 3. Tempestas: Vecchio con discepolo; gruppo rustico. – 4. Imperatoria Potestas: le Scienze (?); Orfeo-Minerva; imperator e soldati. – 5. Gloria Militaris: Carro con Ercole, la Fortuna, ecc. – 6. Negligentia: Mercurio e un mendico; donna con una giovane vittima (?); gruppo. – 7. Ebrietas: Centauri intorno a un’urna fumante da cui esce un porco. – 8. Proelium: Battaglie di cavalieri. – 9. Regnum: Uomo che abbatte alcuni animali. – 10. Amor: Due guerrieri e un vecchio seduti; Venere (?) che reca il pomo; guerriero; uomo nudo (Marte?) che percuote Cupido davanti a una vecchia. – 11. Mitas: Uomo nudo; leone che divora un bue. – 12. Jurgium: Danza rustica; musici, uomo ebbro. Storia dell’arte Einaudi 433 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze si comprende a fatica nonostante le iscrizioni al centro di ognuno. Vi si vedono comunque in modo indubbio tutti gli elementi di una nuova «psicomachia»: non è la lotta del bene e del male che viene raffigurata qui, ma la rivalità tra le varie parti dell’anima, il conflitto dell’elemento razionale con gli elementi «irascibili» e gli appetiti inferiori298. Un’indicazione piú precisa ci viene fornita dalla figura del suonatore di viola, posta a sinistra della Quies e ripetuta al centro della Imperatoria Potestas: questa figura è vicina alla statuetta di Bertoldo, considerata un Orfeo o un Apollo, che si trova al Bargello. La robusta figura di Ercole che compare nella Gloria Militaris sembra definire l’altro aspetto essenziale di questa «psicologia» allegorica la quale, nonostante la sua oscurità, viene a confermare, tutto sommato, che lo «specchio morale» aveva trovato in Ercole e in Orfeo, eroi della vita attiva e della vita contemplativa, i suoi due simboli essenziali. Il gran numero di queste riunioni è ricordato da b. varchi, Storia fiorentina, IX, 36: la loro struttura è stata studiata da g. m. monti, Le confraternite medievali dell’alta e media Italia, Venezia 1927 e recentemente commentata da p. o. kristeller, Lay religious traditions and florentine Platonism, in Studies cit., cap. V. Sull’importanza della Confraternita dei Magi cfr. piú avanti, cap. II, 2. 2 È ciò che risulta dalla rassegna, alquanto laboriosa, dei successivi punti di vista compiuta da a. chastel, Art et religion dans la Renaissance italienne, in «Humanisme et Renaissance», vi (1945), e w. k. ferguson, The Renaissance in historical thought, Boston 1948. 3 e. garin, L’Umanesimo italiano ecc. cit. 4 h. brockhaus, Die Paradiestür Ghibertis, in Forschungen über florentinische Kunstwerke, vol. I, 1902. Sulle sottigliezze del programma: r. krautheimer, Lorenzo Ghiberti cit., cap. XII. Alcuni esempi saranno forniti piú avanti. 5 j. von schlosser, Giusto’s Fresken in Padua und die Vorlaufer der Stanza della Segnatura, in «Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen der all. Kaiserhauses», xvii (Wien 1896), pp. 13 sgg.: analisi dei 1 Storia dell’arte Einaudi 434 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze medaglioni e della loro disposizione. a. van marle, Iconographie de l’art profane au Moyen-Age et à la Renaissance, L’Aja 1932, vol. II, p. 228; l. planiscig, Luca della Robbia, Wien 1940. 6 Secondo la cruttwell, Luca and Andrea della Robbia and their successors, London 1902, p. 19, e a. marquand, Luca della Robbia, London 1914, pp. 36-37 («È difficile trovare qui un simbolo della retorica o anche della poesia»). 7 La composizione è ispirata alle formelle delle porte di San Lorenzo scolpite da Donatello a partire dal 1435: l. planiscig, Donatello, Firenze 1947, p. 74. 8 vasari, ed. Milanesi, II, p. 169; l. goldscheider, Leonardo da Vinci, London 1947, trad. fr., Paris 1948, p. 22 (n. 39). 9 g. j. hoogewerf, Vultus Trifons, in «R. C. Pont. Accademia Romana», XIX (1942-43), pp. 205 sgg. Sull’emblema trinitario: e. panofsky, Signum Triceps, nel volume degli Studien der Bibliothek Warburg, XVIII, Leipzig 1930. Sull’attribuzione della nicchia a Donatello seguiamo il paatz, Kirchen cit., IV, p. 533. 10 m. davies, The earlier italian schools (National Gallery), London 1951, pp. 94-98. Sull’«eresia»: g. boffito, L’eresia di Matteo Palmieri, «cittadino fiorentino», in «Giornale storico della letteratura italiana», xxxvii (1901), pp. 1-69. Secondo filippo da bergamo, Supplementum chronicarum, Venezia 1483, il Palmieri sarebbe stato condannato e bruciato. Cfr. e. wind, The revival of Origen, in Studies in Art and Literature for Belle da Costa Greene, Princeton 1954. Un documento pubblicato di recente da p. o. kristeller, Studies cit., p. 328, rivela tuttavia che ancora nel 1515 un domenicano era stato incaricato di rivedere il testo del poema. 11 d. c. allen, The Legend of Noah, 1949, p. 169; e. wind, The revival of Origen cit., p. 419; r. krautheimer, Lorenzo Ghiberti cit., p. 177. 12 a. della torre, Storia cit., pp. 619-20. 13 e. garin, Problemi di religione e filosofia nella cultura fiorentina del Quattrocento, in «Humanisme et Renaissance», XIV (1952). 14 d. p. walker, Orpheus the theologian and Renaissance Platonists, in «jwci», xv (1943); p. o. kristeller, Studies cit., pp. 51 sgg. 15 Marsile Fícin et l’art cit., pp. 157 sgg. 16 Opera, 933 (lettera a Martinus Uranicus, giugno 1492); g. corsi, Vita Ficini, cap. VIII; p. o. kristeller, Studies cit., p. 202. 17 Come ha notato f. saxl, Pagan sacrifice in the italian Renaissance, in «jwci», ii (1939), 4. 18 Opera, p. 935. Questo testo sarà ripreso dal mitografo V. Cartari. Su questo nuovo concetto dell’immagine «esatta» delle divinità antiche: e. h. gombrich, Icones Symbolicae, The visual image in the neoplatonic thought, in «jwci», xi (1948), p. 78. Storia dell’arte Einaudi 435 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Theologia platonica, XIV, 1, Opera, 305; Pico, ed. Garin (1942), p. 102. 20 e. garin, La «Dignitas hominis» e la letteratura patristica, ne «La Rinascita», i (1938), pp. 102-46. g. gentile, Il concetto dell’uomo nel Rinascimento, ne Il pensiero italiano del Rinascimento, Firenze 1940, pp. 90 sgg. 21 Theologia platonica, XIV, 3, Opera, 309; ibid., XIV, 8, Opera, 360, citati in Marsile Ficin et l’art cit., pp. 43 e 45. 22 Theologia platonica, XIV, 1, Opera, 308; Convito, I, 2; Marsile Ficin et l’art cit., p. 146. 23 a. buck, Dichtung und Dichter bei Cristoforo Landino, in «Romanische Forschungen», lviii-lix (1947), pp. 233-46. 24 pico, Heptaplus, proemio, ed. E. Garin, pp. 191-93; e. h. gombrich, Icones Symbolicae ecc. cit., p. 168. 25 Cosí la stele funeraria di una famiglia completata a Roma intorno al 1490 con le scritte: Honor, Amor, Veritas: p. l. williams, Two roman reliefs in Renaissance disguise, in «jwci», iv (1940-1941), pp. 47 sgg. 26 Il Ficino ha spesso la sensazione di spingersi troppo lontano. Se la cava di solito dichiarando di star esponendo le dottrine degli Antichi senza assumersene la responsabilità in proprio, e affermando che si tratta di un gioco poetico. Cosí quando indugia sulla simbologia dell’Eros e sui principî della «magia» universale, scrive: «liceat hic una cum Pythagoricis parumper confabulari» (Theologia platonica, III, I, Opera, p. 125). 27 Theologia platonica, XVIII, 10, Opera, p. 418; Marsile Ficin et l’art cit., pp. 164, 166, n. 6. 28 Theologia platonica, VIII, Opera, p. 185; Theologia platonica, XVI, 8, Opera, p. 385; Marsile Ficin et l’art cit., pp. 68 e 53, n. 33. p. o. kristeller, Il Pensiero filosofico ecc. cit., pp. 37 sg. 29 Si tratta di uno degli aspetti di una evoluzione piú generale descritta da e. panofsky, Hercules am Scheidewege, Leipzig 1930. 30 Marsile Ficin et l’art cit., III. e. panofsky, Studies in Iconology cit., cap. VI; c. de tolnay, Werk und Weltbild des Michelangelo cit., II. 31 Su tutti questi punti: j. seznec, La survivance des dieux antiques cit., e le osservazioni di e. garin, Le favole antiche, in Medioevo e Rinascimento cit., I, 3. 32 boccaccio, Genealogia Deorum, XV, 8. 33 Cfr. piú avanti. 34 Un oggetto ben piú significativo da questo punto di vista è il medaglione in bronzo, niellato in oro e argento, che è stato chiamato lo Specchio Martelli (Victoria and Albert Museum, Catalogue of italian plaquettes, a cura di E. Maclagan, London 1924, p. 11): nessuno pensa piú d’attribuirlo a Donatello e di datarlo 1450-60, come faceva il Bode. 19 Storia dell’arte Einaudi 436 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Esso risale al 1500 circa e può essere padovano (cfr. sopra, parte I, cap. VI). Esso presenta intorno a un piccolo ermete circondato di pampini e d’emblemi rituali un fauno che fa il gesto delle corna e una baccante che si spreme il latte dal seno facendolo cadere in un rhyton. Sotto una maschera posta in primo piano la scritta: Natura favet} quae { Necessitas urget sta a indicare con il maggior vigore possibile l’idea della coerenza e dell’onnipotenza delle forze della generazione nella natura (f. saxl, Pagan sacrifice in the Renaissance, in «jwci», ii [1939] pp. 359 sgg.). Se ne ritrovano gli elementi nel Sogno di Polifilo: la ninfa generosa ricompare nell’allegoria della Natura con la dedica pßntwn tokadà, la maschera nella testa di Medusa raffigurata sulla chiave di volta del tempio di Venere Physizoé e torna anche a piú riprese il motivo priapico. 35 Cfr. Marsile Ficin et l’art cit., I, 3. Sul posto della «magia» nella cultura del Rinascimento: e. garin, Magia ed astrologia nella cultura del Rinascimento, in «Belfagor», 1950. 36 Marsile Ficin et l’art cit., I, cap. I. 37 Discorso sopra le decadi di Tito Livio, libro II, cap. II; cfr. a. renaudet, Machiavel, 2ª ed., Paris 1952. 38 Su Govanni Rucellai (1403-81): g. marcotti, Un mercante fiorentino e la sua famiglia, Firenze 1881. La lettera del Ficino in p. o. kristeller, Supplementum ficinianum cit., II, pp. 169-72; essa è stata studiata da a. warburg, Francesco Sassettis ecc., in Gesammelte Schriften cit., vol. I, pp. 147 sgg. Cosí la Fortuna ha perduto il carattere di mera illusione che aveva in Dante, senza ancora aver assunto il valore di sfida alla virtú che avrà in Machiavelli: cfr. e. cassirer, Individuum und Kosmos ecc. cit. Il motivo della Fortuna che tiene la vela è stato utilizzato da un medaglista fiorentino, il cosí detto «Maestro della Fortuna»: c. von fabriczy, Medaillen der italienischen Renaissance, Leipzig, s. d., p. 63. 39 w. von bode, Bertoldo ecc. cit., pp. 23-25. 40 a. chastel, Le «cosmos» à la Renaissance, in L’Europe humaniste, catalogo della mostra tenuta a Bruxelles nel 1954. 41 Si è a volte attribuita un’importanza decisiva ai legami di Nicola Cusano con Paolo del Pozzo Toscanelli, per quanto riguarda la critica della cosmografia tradizionale. I fatti non depongono in questo senso. Il rapporto di dipendenza di Leonardo dal cardinale, affermato da p. duhem, Etudes sur Léonard de Vinci, serie II, Paris 1909, è tutt’altro che provato; e. cassirer, Individuum und Kosmos ecc. cit., cap. I, ha attribuito al cardinale un’influenza sulla quale si possono avanzare riserve. 42 r. almagià, Osservazioni sull’opera geografica di Francesco Berlinghieri, in «Archivio della Deputazione romana di storia patria», xi (1946), pp. 211-55. Storia dell’arte Einaudi 437 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze k. kretschmer, Die Entdeckung Amerikas in ihrer Bedeutung für die Geschichte des Weltbildes, Berlin 1892, cap. IV. l. olschki, Storia letteraria delle scoperte geografiche, Firenze 1937. g. battelli, La corrispondenza del Poliziano col re don Giovanni di Portogallo, in «Rinascimento», ii (1939), pp. 290-98. 44 a. m. bandini, Vita di Amerigo Vespucci, ed. G. Uzielli, Firenze 1898; a. della torre, Storia cit., p. 772. Sul problema nel suo complesso: r. almagià Il primato di Firenze negli studi geografici durante i secoli XV e XVI, Firenze 1929. Ultimamente: e. garin, Ritratto di Paolo del Pozzo Toscanelli, in «Belfagor», xii (1937), 3. 45 Theologia platonica, II, xiii, Opera, p. 112: citato in Marsile Ficin et l’art cit., p. 59. 46 È significativo che si trovino figure cosmologiche (divinità planetarie, muse guidate da Apollo) nel famoso gioco di carte noto come i «tarocchi del Mantegna». È lecito vedervi un gioco «neoplatonico» certamente composto da Nicola Cusano, il Bessarione e Pio II durante il concilio di Ferrara (1459-60), sul tema dei gradi del mondo. h. brockhaus, Ein edles Geduldspiel: die Leitung der Welt oder die Himmelsieiter, die sogenannten Taroks Mantegnas vom Jahre 1459-60, in Miscellanea I. B. Supino, Firenze 1933, pp. 397 sgg. 47 Riferimenti in Marsile Ficin et l’art cit., p. 95 e n. 48 Su questo punto: w. e. peuckert, Pansophia, Stuttgart 1936; e. garin, Magia ed astrologia ecc. cit. 49 a. chastel, L’œuf de Ronsard, in Mélanges... offerts a H. Chamard, Paris 1951, pp. 109-11. L’uovo sospeso a perpendicolo sul Bambino Gesú nella pala di Piero della Francesca a Brera unisce in sé parecchi simboli: riprende il motivo dell’uovo di struzzo che veniva posto spesso nel coro delle chiese, cosa particolarmente opportuna per onorare un principe (Federico di Montefeltro) che fra i suoi emblemi aveva anche lo struzzo: m. meiss, Ovum Struthionis, symbol and allusion in Piero della Francesca’s Montefeltro altarpiece, in Studies... for B. da Costa Greene, Princeton 1954; il valore cosmico non è meno palese nella posizione che l’oggetto occupa al centro della sfera absidale e del cerchio degli adoratori: k. clark, Piero della Francesca, London 1952. 50 Epist. V, Opera, p. 805; w. dress, Die Mystik des Marsilio Ficino, Berlin 1929, p. 130. 51 t. reinach, La musique des sphères, in «Revue des études grecques», xiii (1900), p. 432; p. boyancé, Etudes sur le Songe de Scipion, Paris 1936, p. 27. Sul valore simbolico della sfera nell’antichità: o. brendel, Symbolik der Kugel, in «Mitteilungen des deutschen Archäologischen Instituts», li (Roma 1936), pp. 1-95. Sullo sviluppo di questo tema nel medioevo: j. baltrusaitis, Cosmographie chrétienne dans l’art du Moyen-Age, in «Gazette des Beaux-Arts». febbraio 1937, ottobre e dicembre 1938, febbraio 1939, estratto, Paris 1939. 43 Storia dell’arte Einaudi 438 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Marsile Ficin et l’art cit., III, cap. II c. de tolnay, The music of the universe, in «Journal of the Walters Art Gallery», 1943; j. hutton, Some english poems ecc. cit., p. 24. 53 Cfr. piú avanti, cap. III. Un curioso passo della Commedia, Paradiso, XII, 7-9, fa allusione alle «muse» e alle «sirene» in connessione con le sfere celesti. 54 Commentarium in Timaeum, capp. 26 e 27, Opera, II, p. 1447. 55 c. fasola, Il Battistero di S. Giovanni, Firenze 1948. 56 j. baltrusaitis, Cosmographie chrétienne ecc. cit., p. 46, fig. 54. 57 a. venturi, Storia dell’arte italiana, VI, p. 3, fig. 3; r. oertel, Filippo Lippi, Wien 1942; m. pittaluga, Filippo Lippi, Firenze 1948. 58 Il tracciato astrologico del cielo è fornito dallo stesso artista nel celebre disegno di Atlante: a. s. weller, Francesco di Giorgio cit., pp. 98 sgg. 59 c. de tolnay, The music of the universe cit. 60 y. batard, Les dessins de Sandro Botticelli pour la Divine Comédie, Paris 1952, p. 80. 61 o fischel, in «jb», xli (1920), p. 98, id., Raphaël, London 1948, pp. 149 sgg. 62 c. de tolnay, The Sistine Ceiling cit., pp. 35 sgg. 63 E che si ritrova nelle tarsie contemporanee. 64 j. p. richter, The literary works ecc. cit., nn. 939 e 1422; a. chastel, Léonard de Vinci et la culture cit., p. 257. 65 Sui «corpi platonici» e l’arte cfr. piú avanti. 66 Theologia platonica, IV, i, Opera, pp. 122-25. 67 Ibid., pp. 129-31. I «demoni» sono: Plutone-Proserpina (terra), Oceano-Teti (acqua), Giove-Giunone (aria), Faneta-Aurora (fuoco). 68 Sull’azione dell’atmosfera tra l’acqua e il fuoco: Codex Atlanticus 75 v (a); op. cit., pp. 337-352. 69 Ad esempio, ed. j. p. richter, The literary works ecc. cit., n. 1218, vol. II, p. 257; come per le coppie dolore-piacere, morte-vita, esiste un’opposizione dialettica che non può essere risolta dall’«artifiziosa natura» e dal «tempo consumatore delle cose» (cfr. piú avanti). 70 e. mâle, L’art religieux du XIIIe siècle en France, Paris, pp. 316 sgg. e r. von marle, Iconographie de l’art profane ecc. cit. 71 vasari, ed. C. L. Ragghianti, I, p. 541 72 filarete, Trattato di architettura, ed. cit., p. 302. 73 f. weege, Der malerische Smuck von Raffaels Loggien in seinem Verhaltnis zur Antike, in t. hofmann, Raffael als Architekt, vol. IV, Leipzig 1911, p. 174; a. von salis, Antike und Renaissance cit., p. 44. Sul «naturalismo» delle grottesche: a. chastel, La Renaissance fantaisiste, ne «L’Œil», 1956, n. 21 (settembre), e piú avanti, pp. 339 sgg. 74 Sul programma della Stanza: cfr. piú avanti, sezione V, cap. III. 75 Si trova nella volta della cappella del Sacramento a Cremona 52 Storia dell’arte Einaudi 439 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze (circa 1498), attribuita a Altobello Meloni, una curiosa combinazione dei simboli della natura, dei simboli evangelici e dei medaglioni dei dottori: a. puerari, Gli affreschi cremonesi di Giovanni Pietro da Cemmo, in «Bollettino d’arte», xxxvii (1952), p. 220. 76 Theologia platonica, XIV, x, Opera, p. 322. 77 Come suggerisce invece, a torto, e. wind, The four Elements in Raphaels Stanza della Segnatura, in «jwci», ii (1939), pp. 75-79. È stato tuttavia questo articolo a offrire la prima esegesi particolareggiata della composizione. Noi la riassumiamo senza tener conto delle molteplici «intersezioni» di significato indicate dall’autore, in vista della posizione di ogni riquadro tra due simboli fondamentali. 78 Ne parleremo piú avanti. 79 d. levi, The Allegories of the months in classical art, in «The Art Bulletin», xxiii (1941). a. colasanti, Le stagioni nell’antichità e nell’arte cristiana, in «Rivista d’arte», 1901, pp. 669 sgg. r. van marle, Iconographie de l’art profane ecc. cit., vol. I, cap. IV. 80 r. de campos, Raffaello e Michelangelo cit., p. 51. 81 a. marquand, Andrea della Robbia cit., p. 109. g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., p. 37. u. middeldorf, Giuliano da Sangallo and Andrea Sansovino, in «The Art Bulletin», xvi (1934), 2, pp. 107-15. Alcune note inedite del professor Middeldorf sono state utilizzate nell’analisi che segue. 82 w. h. roscher, Ausführliches Lexicon der griechischen und römischen Mythologie, vol. V, Leipzig 1924, col. 379, alla voce Terminus. 83 h. dütschke, Die antiken Marmorbildwerke ecc. cit., I, n. 44, p. 33, cita un sarcofago romano di Pisa, che presenta i due fratelli. c. robert, Sarkophaggräber cit., III, 1, nn. 50, 58, 65, 72. f. cumont, Recherches ecc. cit., p. 397, a proposito del papavero: «Questa pianta narcotica è propria di Hypnos e caratterizza le sue immagini...». 84 Analogie nell’arte greca: t. homolle, Deux bas-reliefs néoattiques, in «Bulletin de correspondance hellénique», 1892, pp. 325-43, tav. viii. Questi bassorilievi provengono da Ercolano e sono opera di botteghe attiche attive in Italia nel ii secolo a. C. 85 ovidio, Metamorfosi, II, 13-16: «Verque novum stabat cinctum florente corona | Stabat nuda Aestas et apicea serta gerebat, | Stabat et Autumnus calcatis sordidus uvis | Et glacialis Hiems canos hirsute capillos». r. van marle, Iconographie de l’art profane ecc. cit., I, p. 316. Associate alle ore, le quattro stagioni rientrano nel quadro mitologico. Ovidio le assegna dapprima come compagne di Giano, in quanto sono espressione dell’ordine celeste, poi di Flora, in quanto regolano la vegetazione, come provano i fiori, i frutti, che le circondano (Fastes, I e VI). Di qui il preciso legame con il motivo centrale del fregio, consacrato a Giano. Sui sarcofagi con rappresentazioni delle stagioni a Pisa, in palazzo Barberini (oggi a Harvard): f. cumont, Recherches ecc. cit., Storia dell’arte Einaudi 440 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze p. 487. Per il confronto con l’antico: d. levi, The allegories of the months ecc. cit., pp. 259-92. 86 poliziano, Selve, ed. i. del lungo, p. 24; con per fonti: macrobio, Saturnales, I, 9, plinio, Naturalis Historia, XXXIV, cap. VII. 87 j. g. frazer, The Fasti of Ovid, London 1929, testo, vol. I, pp. 7 sgg.; commento, vol. II, pp. 82 sgg. 88 j. g. frazer, The Fasti of Ovid cit., vol. II, pp. 101 sgg. virgilio, Eneide, VII, 611-14, rappresenta già questa scena. 89 L’inno VI di Proclo a Ecate e a Giano contiene anch’esso un’invocazione: «Salute anche a te, Giano, antenato degli antenati» (v. 4), che sottolinea il significato cosmico del dio. Gli inni di Proclo non sono stati editi che nel 1500 a Firenze (senza il sesto però): m. meunier, Aristote, Cléanthe, Proclus, Hymnes philosophiques, Paris 1935, pp. 56 e 111-13. Nelle Stanze il Poliziano sottomette Giano al potere sovrano di Atena: «O sacrosanta dea figlia di Giove, | Per cui il tempio di Gian s’apre e riserra; | La cui potente destra serba e move | Intero arbitrio e di pace e di guerra» (Stanze per la Giostra, II, st. 41). Nel carnevale del 1513 uno dei carri realizzati dal Pontormo seguendo le direttive di J. Nardi, presenterà l’Età di Saturno e di Giano, cioè l’età dell’oro, e Giano vi apparirà con in mano le chiavi del tempio della guerra. 90 l. dütschke, op. cit., I, 113 (porta dell’Eternità), e II, p. 61. Sulla porta dell’Ade nella scultura romana: altmann, Architektur und Ornamentik ecc. cit., p. 13; f. cumont, Recherches ecc. cit., tav. XXX, 2. 91 Sull’opposizione Giove-Saturno, a. chastel, Le mythe de Saturne dans la Renaissance italienne, in «Phoebus», iii (1948). 92 Numerosi passi di Platone (Ione, Eutidemo); Inni orfici, XXXVIII, I: «Coribanti che fate risuonare il bronzo, siete voi che per primi avete disposto l’iniziazione». Pico scrive esplicitamente: «Idem sunt Curetes apud Orpheum et potestates apud Dionysium»: b. kieszkowski, op. cit., p. 119. 93 Il simbolo del serpente-eternità è descritto in Giamblico. Il Ficino lo cita da Horapollo come esempio di geroglifico: Opera, p. 768; cfr. e. h. gombrich, Icones Symbolicae cit., p. 172 e n. 1. È l’«impresa» che si vede sul rovescio delle medaglie di Lorenzo di Pierfrancesco: g. p. hill, A corpus of italian medals ecc. cit., nn. 1034, 1055. Era già stato attribuito come simbolo, nella serie dei Tarocchi, al personaggio chiamato «Chronico», demone della durata: h. brockhaus, Ein edles Geduldspiel ecc. cit. (b 32). 94 ficino, Compendium in Timaeum, cap. XVI: «Cur mundus sit unus et sphaericus et moveatur in sphaeram» (Timeo, 37 d). 95 claudiano, ed. Koch, Leipzig 1893. Abbiamo segnalato sopra, parte I, II, introduzione, che Claudiano era ritenuto fiorentino. 96 Faust, seconda parte, atto I, vv. 6216 sg. Goethe ha tratto il moti- Storia dell’arte Einaudi 441 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze vo da plutarco, De defectu oraculorum, cap. XXII; cfr. l’edizione del Faust a cura di h. lichtenberger, Paris 1933, t. II, p. lxviii. 97 Cfr. f. de ruyt, Charon démon étrusque de la mort, Bruxelles 1934. Caronte con un serpente in una mano (e un mazzuolo nell’altra): nn. 52, 75, 96, 103, 123, 124, 124 bis, 125 e 131 bis; demoni con serpenti: nn. 152, 158 e 161, e soprattutto Tuchulcha che impugna serpenti: n. 1 (tomba dell’Orco a Tarquinia, seconda stanza), n. 34 (cratere di Vulci alla Bibliothèque Nationale di Parigi), n. 42 (cratere di Toscanella, museo di Trieste). Cfr. ancora: e. kuster, Die Schlange in der griechischen Kunst und Religion, Giessen 1913, p. 88. 98 c. landi, Demogorgone con saggio di nuova edizione delle Genealogiae Deorum gentilium del Boccaccio, Palermo 1930, n. 18. j. seznec, La survivance des dieux antiques cit., p. 139. La figura del Demogorgone è nata da un equivoco degli scoli a stazio, Tebaide, IV, 512-13, e lucano, Farsaglia, IV, 742-49. Indicazioni sulla vita successiva di questa figura nel breve articolo di m. castelain, Démogorgon ou le barbarisme déifié, in «Bulletin de l’Association G. Budé», n. 36 (luglio 1932), pp. 22-39. 99 c. c. coulter, The Genealogy of the Gods, in Vassar mediaeval Studies, a cura di S. Forsyth Fiske, New Haven 1923, pp. 315-41. 100 v. cartari, Le imagini con la spositione de i Dei degli antichi, Venezia 1556. Citato dall’edizione latina: id., Imagines deorum qui ab antiquis colebantur, Lyon 1581, pp. 18, 32 ecc. Sul Cartari e i mitografi, j. seznec, La survivance des dieux antiques cit., pp. 197 sgg. 101 Cosí B. Berenson nella bella pagina, scritta in uno stile che ricorda W. Pater, che egli dedica al quadro, Italian Painters of the Renaissance, ed. London 1952, p. 114. 102 Le indicazioni di r. vischer, Signorelli und die italienische Renaissance, Leipzig 1879, sono state riprese dalla maggior parte degli autori, M. Cruttwell (1899), A. Venturi (Storia, VII, 2, 1913; Luca Signorelli, 1923), L. Dussler (1927). Recentemente: mario salmi, Signorelli, Firenze 1954. 103 vasari, ed. Milanesi, III, pp. 688-89. 104 Il Signorelli è tra gli artisti invitati a presentare un progetto per la facciata del duomo di Firenze nel 1490: il 5 gennaio 1491 egli è assente dalla riunione finale (documento in vasari, ed. Milanesi, IV, pp. 306-9). 105 Dipinto su tela: cm 945×257. Ricordato nel 1687 nell’inventario di palazzo Pitti, è stato ritrovato nel 1865 nella collezione di Cosimo Corsi; passò quindi al museo di Berlino nel 1875. Distrutto nel 1945. Il catalogo del Kaiser Friedrich Museum a cura di H. Posse, Berlin 1909, fornisce indicazioni sui colori. 106 h. p. horne, Botticelli cit., 1908, p. 59, ha supposto che si tratti di Lorenzo (di Pierfrancesco) de’ Medici, e che l’allegoria di Pan sia Storia dell’arte Einaudi 442 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze stata dipinta per la stessa persona per cui era stata dipinta la Primavera. Il passo del Vasari non consente questa ipotesi: l’allusione alla magnificenza identifica chiaramente il Magnifico e l’accenno alla villa di Castello (che nel Quattrocento era quella di Laurentius Minor) non riguarda che il secondo dipinto citato, la Madonna coi profeti, e anche se riguardasse il Pan non lo localizzerebbe che alla data 1550. 107 Nella sua V egloga Naldo Naldi (1436-1513), dopo aver descritto la gioia di Antea (cioè Firenze) che ritrova Antifilo (l’amante di Antea cioè Cosimo) al suo ritorno dall’esilio, aggiunge: «Fate che io dedichi altri poemi piú importanti a Cosimo, a questo Cosimo che riempie il mondo del suo nome»: a. hulubei, Etude sur la joute de Julien et sur les bucoliques dédiés à Laurent de Médicis, in «Humanisme et Renaissance», iii (1936), p. 314. Questi componimenti poetici scritti certamente al tempo di Cosimo e relativi agli avvenimenti del 1433-35, sono stati rifusi intorno al 1469 in modo da formare un ciclo gradito a Lorenzo. Sul Naldi poeta di corte: g. bottiglioni, La lirica latina in Firenze, Pisa 1913, pp. 47 sgg.; sui legami del Naldi con l’Accademia: a. della torre, Storia cit., pp. 668 sgg. 108 Lettera del settembre 1462: Opera, p. 608. L’epistola si trova anche in un manoscritto della Biblioteca Laurenziana pubblicato in Supplementum Ficinianum, II, p. 87. Cfr.: Marsile Ficin et l’art cit., pp. 8 e 55; a. della torre, Storia cit., pp. 537-38. 109 Sulla festa di san Cosma a Firenze: lettera di Lorenzo a Pietro Alemanni del 27 settembre 1491 ed epigramma di Naldo Naldi (Magl., VII, 1057, C. 4): «ecce dies cosmi redeunt...», ricordati con altri riferimenti in Supplementum Ficinianum, vol. I, p. 155; cfr. anche a. della torre, Storia cit., p. 642. 110 Supplementum Ficinianum, I, p. 47. 111 Opera, pp. 843-44. 112 Ibid., pp. 648-49 (avanti il 1435). 113 a. hulubei, Etude sur la joute ecc. cit., pp. 319-20. 114 Opera, p. 728, 2. 115 lorenzo de’ medici, Altercatio, IV, 1 sgg., ed. Simioni, vol. II, p. 53. 116 g. spagnolo, Apollo e Pan, carme bucolico di Lorenzo de’ Medici, Cremona 1930; a. chastel, Melancholia in the sonnets of Lorenzo de Medici, in «jwci», viii (1945), pp. 61-67. Lorenzo stesso aveva contrapposto l’amore individuato nel movimento incessante della natura, di cui tratta nel «commento», a quello che, secondo Platone, spinge tutte le creature a riposarsi in Dio: cfr. Marsile Ficin et l’art cit., p. 29. 117 Poliziano, Opera, vol. I, Epist., libri XII, Lyon 1536, p. 109: «Duobus circiter ante obitum mensibus, cum in suo cubiculo sedens (ut solebat) Laurentius de philosophia et litteris nobiscum fabularetur, ac se destinare diceret reliquam aetatem in iis studiis mecum et cum Storia dell’arte Einaudi 443 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Ficino Picoque ipso Mirandola consumere, procul scilicet ab urbe et strepitu...» Su questo aspetto di Lorenzo, cfr. Marsíle Ficin et l’art cit., pp. 28-29. 118 Il ricordo del «Pan mediceo» restò ancora vivo nel secolo successivo: in una raccolta di poesie in onore del duca d’Urbino, morto nel 1516, questi è detto: «Pan medica de gente satus». Lauretum sive carmina in laudem Laurentii Medicis, Firenze 1516 (ed. 1820, pp. 3839). Questa indicazione è stata scoperta da f. saxl, Antike Götter in der Spätrenaissance, Leipzig 1927, pp. 22 sgg. 119 Ciò viene a coincidere con l’interpretazione proposta di r. herbig, Alcuni dei ignudi, in «Rinascimento», 1952, pp. 3-23: noi però non seguiamo in tutto tale interpretazione. 120 Su Saturno, simbolo dell’Accademia: Marsile Ficin et l’art cit., introduzione, I. 121 r. herbig, Pan, der griechische Bocksgott. Versuch einer Monographie, Frankfurt am Main 1949. In particolare: 1) Pan seduto, una musa citareda e due ninfe, dipinto murale, Pompei (3° stile). Herbig, tav. xxxix, 1; 2) Pan imberbe in piedi, frammento di pittura murale, Ercolano, ibid., tav. XVIII, 2; 3) Torso di Pan sul quale sono state incise le immagini degli dei, marmo, 200 c. d. C., ibid., tav. xiv, 1-2. 122 I principali testi addotti dal Lübke (1874), H. Vischer (1879), R. Fry (1901), C. von Fabriczy (1903), sono stati raggruppati da r. herbig, Alcuni dei ignudi cit., e r. eisler, Luca Signorelli’s School of Pan, in «Gazette des Beaux-Arts», xxxiv (1948), pp. 77-92: questo ultimo studio contiene un’osservazione utile sul ciclo degli amori infelici, ma presenta (senza una valida ragione) il Filelfo (morto nel 1481) come ispiratore del quadro vedendovi l’allusione a un rimedio osceno contro i tormenti d’amore (desunto da Dione Crisostomo, VI), che sarà piú tardi illustrato da Luca Cambiaso. 123 c. de tolnay, The youth of Michelangelo cit., pp. 103-4. 124 k. clark, The nude, London 1956, pp. 102-3. 125 a. chastel, Melancholia in the sonnets ecc. cit., p. 66. Il portico e gli edifici del fondo, se non sono un semplice scenario classicheggiante, possono richiamare il tempio oracolare di Menalo in Arcadia, di cui Pan era il dio temuto; ne parla il Poliziano: Nutricia, v. 211. 126 Per l’avvicinamento al Sannazzaro, la cui Arcadia, composta dopo il 1480, è stata pubblicata solo nel 1504, cfr. f. saxl, Antike Götter ecc. cit., p. 25. 127 guglielmo della valle, Lettere sanesi, Roma 1786, III, p. 320. b. berenson, The Drawings of the florentine Painters cit., n. 2509 (3), fig. 121, e id., Nouveaux dessins de Signorelli, in «Gazette des BeauxArts», 1931, pp. 288-93. a. e. popham e p. pouncey, Italian Drawings Storia dell’arte Einaudi 444 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze (British Museum) cit., n. 236, tav. ccviii. Sul ciclo di Siena: m. davies, The earlier italian Schools (National Gallery), London 1951, pp. 367 sgg., e piú avanti. 128 p. schubring, Uomini famosi, in «Repertorium für Kunstwissenschaft», xxiii (1900), p. 424 t. mommsen, Petrarch and the Decoration of the Sala Virorum illustrium, in «The Art Bulletin», xxxiv (1952), pp. 95 sgg. 129 w. bombe, Der Palast des Braccio Baglione in Perugia und Domenico Veneziano, «Repertorium für Kunstwissenschaft», xxxii (1909), pp. 295-301; m. salmi, Gli affreschi del Palazzo Trinci a Foligno, in «Bollettino d’arte», xiii (1919), pp. 139-80. 130 g. poggi Su Andrea del Castagno, in «Rivista d’arte», xi (1929), pp. 54 sgg. 131 m. salmi, La villa della Legnaia, in «Bollettino d’arte», 1950; e. schaeffer, Über Andrea del Castagno’s uomini famosi, in «Repertorium für Kunstwissenschaft», xxv (1902), pp. 170-77. 132 c. l. ragghianti, Casa Vitaliani, ne «La critica d’arte», xi (1937), pp. 236-50. 133 f. novati, Un cassone nuziale senese e la raffigurazione delle donne illustri nell’arte italiana dei sec. XIV e XV, in «Rassegna d’arte», xi (1911), pp. 62-67. 134 s. colvin, A florentine picture-chronicle, London 1898. j. g. phillips, Early florentine designers and engravers, Cambridge (Mass.) 1955. 135 g. mancini, Il bel San Giovanni e le feste patronali di Firenze descritte nel 1475 da Piero Cennini, ne «L’arte», vi (1909), pp. 186 sgg. (da un manoscritto della Biblioteca Nazionale di Firenze). Dunque il teatro e le feste hanno avuto importanza in quanto occasioni per mostrare «per la strada» le composizioni dell’arte; il mâle, L’art religieux de la fin du Moyen-Age en France, 5ª ed., Paris 1949, cap. II, ha forse esagerato tale importanza: il rapporto tra la sacra rappresentazione dell’Annunciazione e la serie delle incisioni raffiguranti i Profeti e le Sibille di Baccio Baldini non è forse cosí stretto come egli mostra di credere nell’articolo in «Gazette des Beaux-Arts», febbraio 1906; cfr. a. hind, Early italian engraving ecc. cit., vol. I, pp. 9 sgg. L’apparato iconografico: costumi, troni, accessori dovette essere lo stesso sia per i «quadri viventi» che per le tavole dipinte (e P. Francastel ha insistito su questo punto nel saggio già citato nella introduzione). 136 e. mâle, L’art religieux de la fin da M.-A. ecc. cit., pp. 253 sgg. e soprattutto l. freund, Studien zur Bildgeschicke der Sybillen in der neueren Kunst, Hamburg 1936; sul tempio di Rimini: cfr. piú avanti. 137 Il problema della decorazione di palazzo Orsini a Monte Giordano è particolarmente difficile: una sala d’«uomini famosi» è attribuita a Giottino nel 1369 (vasari, ed. Milanesi, I, 621), ma anche Masolino vi sarebbe intervenuto prima del 1425 o verso il 1440 (ibid., Storia dell’arte Einaudi 445 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze II, 264). Questa serie di Sibille è stata diffusa dalla miniatura: m. helin, Un texte inédit sur l’iconographie des Sybilles, in «Revue belge de philologie de l’histoire», xv (1930), pp. 349 sgg. 138 In particolare si ricordino gli stalli della cattedrale di Ulma (intorno al 1470) di G. Syrlin: e. mâle, L’art religieux de la fin du M.A. ecc. cit., p. 256. Per l’arte italiana, oltre allo studio di L. Freund, si vedano gli articoli di a. rossi, Le Sibille nelle arti figurative italiane, ne «L’arte», xviii (1913), pp. 209-21, 272-85 e 427-58. 139 e. micheli, Il pavimento del Duomo di Siena, Siena 1870; d. dami, Siena e le sue opere d’arte, Firenze 1915. Pavimento del Duomo di Siena 29. Sibilla Cumana (1482) di Giovanni di Stefano 39. Ermete Trismegisto (1488) 30. Sibilla Persiana (1482) di Urbano da Cortona 35. Sibilla Ellespontica (1483) di Neroccio Landi 37. Sibilla Tiburtina (1483) 32. Sibilla Cumea (1482) di Benvenuto di Giovanni 36. Sibilla Libica di Guido Cozzarelli 33. Sibilla Frigia (1483) 26. Sibilla Eritrea (1482) di A. Federighi 31. Sibilla Delfica (1482) 34. (parte centrale: i riquadri sono numerati in ordine cronologico). 140 Cfr. piú avanti. 141 e. mâle, L’art religieux de la fin du M.-A. ecc. cit., pp. 259 sgg., attribuisce un’importanza decisiva a questo trattato. Tra gli storici prevale invece la tendenza a limitarne la portata: cfr. anche, c. de tolnay, The Sistine Ceiling cit., pp. 152 sgg. 142 Marsile Ficin et l’art cit., pp. 152 sgg. 143 ficino, Opera, pp. 23-24. Sulla tradizione ostile: f. neri, Le tradizioni italiane delle Sibille, in «Studi medievali», iv (Torino 1912-13), pp. 213 sgg. (citato in c. de tolnay, The Sistine Ceiling cit., p. 153). Questa sarà la posizione del Savonarola. 144 Roma, Vaticano, Cod. Urb. 112, fol. 7. Su questo manoscritto: a. de hevesy, La Bibliothèque de Mathias Corvin, Paris 1923, n. 90. 145 a. rossi, Le Sibille ecc. cit., p. 440, distingue tre correnti: apocalittica (Orvieto), messianica (sibilla di Tivoli), visionaria (cappella Sistina). 146 Sullo scenario delle Natività: cfr. il capitolo seguente. 147 a. warburg, in Gesammelte Schriften cit., I, pp. 156-57. w. paatz, Kirchen cit., vol. V, pp. 294 sgg. 148 a. warburg, Gesammelte Schriften cit., p. 363. 149 f. saxl, The classical inscription ecc. cit., pp. 28-29. Storia dell’arte Einaudi 446 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Cosí il Pinturicchio negli appartamenti Borgia (1494) e a Santa Maria Maggiore di Spoleto (1501). Cfr. piú avanti. 151 a. rossi, Le Sibille ecc. cit., p. 451; c. de tolnay, The Sistine Ceiling cit., cap. VII. Lo stesso autore indica chiaramente, p. 133, perché sarebbe eccessivo ritenere con k. borinski, Die Rätsel Michelangelos cit., p. 187, che il testo del Ficino guidi direttamente la scelta e l’interpretazione di Michelangelo 152 o. fischel, Raphaël cit., p. 182, tav. cxciii. 153 n. hamilton, Die Darstellung der heiligen drei Könige in der toskanische Malerei von Giotto bis Leonardo (Zur Kunstgeschichte des Auslandes, VI), Strassburg 1901, non contiene che un debole abbozzo dell’argomento. 154 g. soulier, Les influences orientales ecc. cit., pp. 166, 228, 241, 276; u. mengin, Benozzo Gozzoli, Paris s. d. 155 Ecco le principali Adorazioni dei Magi di Botticelli: 1. Prima del 1475 cade l’Adorazione su una tavoletta bassa e lunga, ancora pollaiolesca, della National Gallery, che è una delle composizioni piú rigorose del giovane maestro (j. mesnil, Botticelli cit., tavv. xvi e xvii). 2. La composizione degli Uffizi, del 1476: le sue dimensioni sono modeste, 1115134 cm. 3. h. horne, A lost «Adoration of the Magi» by S. Botticelli, in «Burlington Magazine», i (1903), pp. 63-74, richiama l’attenzione su una Adorazione dei Magi scomparsa, che Botticelli aveva dipinto per il palazzo della Signoria, dopo il 1475 e prima del 1492. Ma la cronologia ivi proposta per la serie delle Adorazioni del maestro fiorentino è stata respinta. j. mesnil, Botticelli cit., p. 199, n. 58. 4. L’Adorazione della collezione Mellon: j. mesnil, Botticelli cit., tav. xxx, deve essere di poco posteriore al soggiorno romano (1481-82) come suggerisce c. gamba, Botticelli cit., p. 190. 5. Il quadro non finito degli Uffizi ritorna alla composizione per lungo: riprende forse uno schizzo già sviluppato da Filippino: c. gamba, Botticelli cit., p. 197. 156 j. mesnil, Botticelli cit., p. 29; ci sono state esitazioni nell’identificazione dei due giovani principi: t. trapesnikoff, Die Porträtdarstellungen ecc. cit. 157 f. saxl, The classical inscription ecc. cit., p. 28; cfr. anche sopra. 158 k. clark, Leonardo da Vinci, London 1939, p. 32; cfr. anche piú avanti. 159 g. poggi, Note su Filippino Lippi, la tavola per San Donato di Scopeto e l’Adorazione dei Magi di Leonardo da Vinci, ne «La rivista d’arte», maggio-agosto 1910, pp. 93-101. 160 vasari, ed. Milanesi, III, p. 473. 161 u. mengin, Les deux Lippi, Paris 1932, p.198; a. scharf, Filip150 Storia dell’arte Einaudi 447 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze pino Lippi, Wien 1935. Su Piero del Pugliese e Filippino: m. wackernagel, pp. 282-83. 162 j. mesnil, Botticelli cit., p. 68. h. horne, A lost «Adoration of the Magi» ecc. cit., p. 73, cita il versetto di Isaia «tunc videbis... et mirabitur et dilatabitur cor tuum». 163 Cosí c. heath wilson, in «The Academy», 20 novembre 1880, p. 372; queste identificazioni, accolte da h. ulmann, Sandro Botticelli, München 1903, sono state respinte da h. horne, A lost «Adoration of the Magi» ecc. cit., p. 74, che ha il torto di datare l’opera al 1480. È stato e. moeller, Wie sah Leonardo aus, in «Belvedere», 1926, p. 29, che ha creduto di identificare Leonardo nel personaggio in berretta che medita a destra. 164 L’importanza della confraternita nella vita religiosa e mondana di Firenze è stata messa in evidenza da un erudito del Settecento, e. fossi, nei suoi Monumenta ad Alammanni Rinuccini vitam contexendam, Firenze 1792, p. 26, n.; i documenti dell’Archivio di Stato ad essa relativi sono stati raccolti da C. von Fabriczy in appendice al suo studio Michelozzo di Bartolomeo nel «Jahrbuch der preussischen Kunstsammlungen», xxv (1904), supplemento, pp. 93-94. 165 Una deliberazione del 7 gennaio 1428 chiede che si riprenda «representationem ceremoniarum oblationis trium Regum Magorum» (c. von fabriczy, Michelozzo di Bartolomeo cit., p. 93). Il verbale della riunione del 29 novembre 1446 nomina una commissione di dieci membri (tra cui Giovanni Cosimo de’ Medici e Michelozino Orafus) «ad ordinandum festum majus et honorevole magorum presentis anni», ibid., p. 94. 166 p. giuseppe benelli, Firenze nei monumenti domenicani, Firenze 1913, pp. 218 e 219. 167 Gli Archivi di Firenze conservano una lettera di Gentile de’ Bechi a Lorenzo per informarlo che il Sacro Collegio ha accordato un’indulgenza di un anno ai membri della Confraternita, cfr. a. della torre, Storia cit., p. 328, n. 3. 168 i. del lungo, Florentia cit., 1697, pp. 193-94. 169 m. wackernagel, p. 156: cella n. 39 al primo piano del convento. 170 e. müntz, Les collections des Médicis ecc. cit., p. 60. 171 machiavelli, Istorie fiorentine, libro VII, cap. XII: «Una [festa] che rappresentava quando i tre Magi vennero d’Oriente dietro alla stella che dimostrava la natività di Cristo: la quale era di tanta pompa e si magnifica che in ordinarla e farla teneva piú mesi occupata tutta la città». 172 g. maria monti, Le confraternite medievali dell’alta e media Italia, Venezia 1927, t. I, p. 187. 173 a. della torre, Storia cit., p. 328: Cod. Riccardiano 2204 C. Storia dell’arte Einaudi 448 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze 1062: «Oratio del Corpo di christo da Donato Acciaiuoli e dellui nella Compagnia de Magi recitata die xiii aprilis 1468». 174 Riferimenti in Marsile Ficin et l’art cit., p. 12. Le speculazioni sui Magi, come gli studi sulla «magia» appartengono all’ultimo periodo dell’attività del Ficino; nei due trattati del 1474 non se ne tratta. I richiami si moltiplicano invece tra il 1480 e il 1490. 1) Nella Disputatio contra judicium astrologorum, trattato incompiuto del 1477, riportato di recente in luce, viene abbozzato il soggetto del piccolo trattato-epistola, divina lex fieri a caelo non potest, dedicato il 6 gennaio 1481 a Federico d’Urbino, e che rappresenta una messa a punto sull’astrologia dell’Epifania. 2) Il sermone del Ficino che porta il titolo di stella magorom, è una visione d’insieme del problema del riconoscimento dell’ordine cristiano da parte delle religioni pagane. Secondo il della torre, Storia cit., p. 620, sarebbe stato pronunciato, come le altre praedicationes, nel 1467 nella chiesa di Sant’Agnese: l’ipotesi rimane probabile, nonostante le riserve di p. o. kristeller, Supplementum Ficinianum p. lxxxiii. 3) Il IV libro della raccolta Homo, dedicata il 30 ottobre 1490 a Lorenzo il Magnifico (Opera, p. 916), è un trattato sul significato simbolico dell’Epifania; esso riprendeva, sembra, l’epistola del 1481 piuttosto che la praedicatio precedente. 175 L’Apologia redatta dal Ficino nel 1469 per difendere il suo trattato De triplici vita, contiene un importante e dettagliato passo sul tema de Magis qui Christum statim natum salutaverunt (Opera, pp. 572 sgg.). 176 Opera, p. 573; Marsile Ficin et l’art cit., p. 158. 177 Opera, p. 916, trad. Figliucci, II, p. 153. 178 h. kehrer, Die heiligen drei Könige in Literatur und Kunst, Leipzig 1909: una miniatura bolognese (?) degli inizi del Cinquecento presenta cosí una specie di castello d’astrologi a fianco della capanna della Natività: p. toesca, Monumenti e studi per la storia della miniatura italiana, Milano 1930, n. cxlix, tav. clii. 179 In una curiosa lettera a Lorenzo, Bertoldo Corsini chiede al Magnifico l’ammissione del fratello Amerigo, umanista abbastanza stimato, ad un’accademia che egli chiama «magica», scherzando sembra, e che forse è quella di Careggi. La lettera si trova nell’Archivio Mediceo avanti il Princip., XXVI, 44 n, citata da l. passerini, Genealogia e Storia della Famiglia Corsini, Firenze 1858, p. 129, e da a. della torre, Storia cit., p. 821, n. 2. Si può ancora notare, a lontana conferma di questa interpretazione, che Giangioviano Pontano, il poeta napoletano famoso per la sua cerchia «accademica» e le sue opere pittoresche e astrologiche, ricorda, in una delle sue egloghe in cui descrive alcuni dipinti, una Adorazione dei magi: Adulescentia VII, vv. 42-54, in Io. Ioviani Pontani Carmina, ed. B. Soldati, Firenze 1902; la Madonna è circondata da divinità pagane e da figure astrologiche. 180 L’andata dei Magi a Betlemme è, dai primi tempi del Cristiane- Storia dell’arte Einaudi 449 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze stino, oggetto di dispute sulla validità dell’astrologia: f. boll e g. bezold, Sternglaube und Sterndeutung cit., pp. 31 e 107. Queste dispute sono ricominciate nei secoli xiv e xv al momento del grande sviluppo dell’astrologia «scientifica», e soprattutto intorno al 1490, in cui Giovanni Pico scrive nelle sue Disputationes adversus astrologiam, un capitolo intero (IV, cap. XV) sul tema per stellam Magorum non posse constellationem aliquam intelligi (ed. Garin, vol. II, pp. 665-66), per confutare il de stella magorum del Ficino. 181 j. lauts, Domenico Ghirlandaio, Wien 1943, pp. 19 sgg. 182 w. suida, Le pitture del Bramante sulla facciata del Palazzo del Podestà a Bergamo, in «Emporium», vol. lxxiv (1931), pp. 340-48. 183 Cfr. piú avanti, parte III, sezione I, 2. Sul problema delle attribuzioni: Juste de Gand, Berruguete et la cour d’Urbino (catalogo della mostra a cura di L. Eckhout), Gand 1957. Nulla si sa dell’opera ricordata dal Vasari nella vita di F. Francia (ed. C. L. Ragghianti, I, p. 924), «una disputa di filosofi molto excellentemente lavorata» in palazzo Bentivoglio a Bologna distrutto nel 1507. 184 ficino, Opera, p. 637: «Vidistis pictam in gymnasio meo mundi sphaeram, et hinc, atque illic Democritum et Heraclitum. Alterum quidem ridentem, alterum vero flentem». Poiché i rapporti tra il Ficino e Antonio Pollaiolo erano parecchio stretti intorno al 1475, si può supporre che questi fosse l’autore dell’opera. Sul dipinto di Bramante, c. baroni, Bramante, Bergamo 1944. 185 ficino, Theologia platonica, XIV, VIII, Opera, p. 317. 186 W. 19084 a, ed. j. p. richter, The literary works ecc. cit., n. 1358. 187 Cfr. p. schubring, Illustrationen zu Dantes Göttlicher Commedia ecc. cit., parte I, sezione II, cap. III. 188 Cfr. sopra. 189 Cfr. piú avanti. 190 Il testo dell’epigrafe: «Deus omnium Creator secum deum fecit visibilem et hunc fecit primum et solum quo oblectatus est et valde amavit proprium filium qui appellatur sanctum verbum», è, tranne l’ultima parte della frase, una citazione abbreviata, che era celebre nel Medioevo e nel Rinascimento, dell’Asclepius (cap. VIII) (ed. NockFestugière), Paris 1945, vol. II, p. 305. È stato osservato che questa epigrafe è piú vicina alle citazioni dell’Asclepius riportate dai Padri della Chiesa, che non al testo stesso del Corpus Hermeticum. w. scott, Hermetica, vol. I, London 1924, p. 299 n.: passi greci di Lattanzio, Institutiones Divinae, 4.6.4, e Pseudo-Antimo, Ad Theodorum, 10.11, citati nell’edizione Nock-Festugière, pp. 304 e 305 n. 191 La prefazione di Tommaso Benci in Supplementum Ficinianum, n. XVI c, t. 1, pp. 98-101. Essa contiene un elogio dell’«oscurità» filosofica, dovuta a una rivelazione superiore, che è impossibile esplicitare interamente. e. garin, Una fonte ermetica poco nota, ne, «La rina- Storia dell’arte Einaudi 450 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze scita», iii (1940), pp. 201, 232, ha messo in evidenza la penetrazione di questa scienza ermetica nel gruppo fiorentino. Cfr. anche, per l’ampiezza del fenomeno: p. o. kristeller, Marsilio Ficino e Lodovico Lazzarelli, in Studies cit., capp. XI e XII. Si può rilevare che l’Ermete di Siena è posteriore alla manifestazione di Giovanni Mercurio da Correggio a Roma nel 1484: cfr. piú avanti parte III, introduzione. 192 Cfr. sopra. 193 a. pigler, Sokrates in der Kunst der Neuzeit, in «Die Antike», XIV (1913), pp. 281-94. 194 d. comparetti, Virgilio nel Medioevo, 2ª ed., Firenze 1896. v. zabughin, Virgilio nel Rinascimento italiano ecc. cit., g. soulier, Les influences orientales ecc. cit., p. 158. 195 v. zabughin, Virgilio nel Rinascimento italiano ecc. cit., cap. III (Commentatori), p. 198 ed e. wolf, Die allegorische Vergilerklärung des Cristoforo Landino, in «Neue Jahrbücher für das klassische Altertum», xii (1939), pp. 453 sgg., hanno mostrato quanto il Landino si sia valso del commento di Servio, ad esempio alla egloga II, 96, e di Macrobio, per definire un Virgilio «dogmatum platonicorum expertem». 196 h. wölfflin, L’arte classica del Rinascimento, Firenze 1941, pp 119 n. 197 v. rossi, Il Quattrocento cit., p. 156. 198 L’edizione di Macrobio, Venezia 1472, è accompagnata da un bel frontespizio nell’esemplare della Bibl. Capitolare di Padova: m. salmi, in «Arte veneta», viii (1954), p. 136, fig. 142. 199 a. chastel, Les capitaines antiques affrontés dans l’art florentin du e XV siècle, in Mémoires de la Société des Antiquaires de France, volume del centocinquantesimo anniversario della Società, Paris 1954, pp. 279 sgg. 200 r. sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci ne’ secoli XIV e XV, Firenze 1915, p. 80. Il poema è la traduzione in versi della III decade di Tito Livio: r. b. steele, The method of Silius Italicus, in «Classical Philology», 1922. 201 e. panofsky, Hercules am Scheidewege, Leipzig 1930. Ambedue le tavolette devono essere datate agli anni 1504-505, cioè al tempo del primo soggiorno fiorentino di Raffaello: r. longhi, Percorso di Raffaello giovine, in «Paragone», 1955. L’identità di formato (17×17 cm) e di provenienza (Galleria Borghese fino al secolo xvii) permette di supporre che le due tavole siano gemelle. Il fatto che Scipione di Tommaso Borghese fosse nato nel 1493 induce a pensare che esse formino un dittico augurale, una «exortatio ad juvenem» (come la Primavera botticelliana per Lorenzo di Pierfrancesco). Il gruppo antico delle Tre Grazie, già disegnato dal Federighi, non fu inviato a Siena che nel 1502, per cui la presenza delle Tre Grazie nel dittico risulta anche meglio spiegata. Si conoscono numerose figure di Ercole col pomo simbolico. Una si deve a uno scultore fiorentino della cerchia di Bertoldo intorno al Storia dell’arte Einaudi 451 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze 1500: cfr. w. von bode, Die italienische Bildwerke des Kaiser Friedrich Museums, II, Bronzestatuen, Berlin 1930, n. 41. Cfr. anche: a. von salis, Antike und Renaissance cit., pp. 156-57. 202 u. frittelli, Gianantonio dei Pandoni detto il Porcelio, Firenze 1900, c v. rossi, Il Quattrocento cit., p. 182. 203 vasari, ed. Milanesi, III, p. 361. 204 a. blum, Les nielles du Quattrocento, Paris 1950, n. 154. 205 vasari, ed. Milanesi, III, p. 311. 206 a. chastel, Melancholia in the sonnets of Lorenzo de’ Medici, in «jwci», VII (1945). 207 w. waetzoldt, Die Mimik des Denkens in der Malerei, «Die bildende Kunst», II, pp. 293-306. 208 Cfr. piú avanti. 209 Marsile Ficin et l’art cit., pp. 131, 132. 210 Sull’iconografia delle «Arti liberali» nel Rinascimento: p. d’ancona, Le rappresentazioni allegoriche delle Arti liberali nel Trecento e nel Rinascimento, ne «L’arte», v (1902), pp. 378 sgg. j. von schlosser, Giustos Fresken in Padua und die Vorläufer der Stanza della Segnatura, in «Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen des all. Kaiserhauses», xvii (Wien 1896), pp. 13-100. r. van marle, Iconographie de l’art profane ecc. cit., vol. II, L’Aja 1932, cap. III (Les Sciences et les arts). 211 e. mâle, L’art religieux du XIII siècle en France, ried. Paris 1948, libro II, cap. II. Il ms d’Attavante, Biblioteca Marciana, Venezia, cod. lat. XIV, 35; a. de hevesy, La bibliothèque ecc. cit., n. 98. 212 e. h. gombrich, Botticelli’s mythologies ecc. cit., p. 57; cfr. sopra, parte I, sezione III, cap. IV. 213 a. scharf, Filippino Lippi, Wien 1950, p. 29. L’affresco faceva parte di un complesso didattico abbastanza completo. Sibille (forse di Raffaellino del Garbo) nella volta, Psycomachia (perduta) a sinistra, Miracolo e trionfo di san Tommaso a sinistra, Assunzione della Vergine sul fondo. In un disegno preparatorio l’architettura meglio distribuita fa pensare a una sorta di Scuola d’Atene (domenicana) avanti lettera; la presenza delle «Arti» è indubbia, la loro identificazione non è del tutto sicura per le figure di sinistra; le ragioni della scelta dei soggetti sono forse da ricercare nella personalità dello stesso cardinal Carafa: a. l. popham e p. pouncey, Italian Drawings (British Museum) the Fourteenth and the Fifteenth century, London 1930, n. 131. 214 c. salutati, Lettere a Bartolomeo del Regno, Epistolario, ed. F. Novati, Roma 1893, t. II, pp. 345-46, citato da p. d’ancona, Le rappresentazioni allegoriche ecc. cit. 215 Singularis descriptio Abatiae Fesulanae canonicorum regularium divi Augustini: «Digna suis fiat bibliotheca libris | Fulgeat in primis amato marmore porta [Sit celata meo dextraque laeva modo | Sederit aurato cum pectine Phebus in altum | Plectra movens, quae cum cogi- Storia dell’arte Einaudi 452 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze tat ire lapis. | Et circum poteris turbam vidisse verendam | Ludere atque ad sonitum gramine ferre pedem | Gramina Calliope magno comitante Marone | Calcat prima, pedes sed movet ore gravi. | Naso celer pedibus, vel fors lasciva Thalia | Cogit, agit motu mollia crura levi. | Dira canens maesto Senecam Melpomena vultu | Increpat ad choream quod negat ire Dei | Atque alii quos nunc longum narrare fuisset | Dicentur tunc cum venerit hora rei». Il testo è stato pubblicato dal lami, Deliciae eruditorum, Firenze 1742, pp. 127 sgg. Il passo relativo alla biblioteca si trova a p. 128 (dobbiamo questo riferimento alla cortesia del professor E. H. Gombrich). Sul chiostro cfr.: m. wackernagel, pp. 239-40, e sui manoscritti della biblioteca: vespasiano da bisticci, Vite degli uomini illustri, ed. P. Schubring, Iena 1914, p. 255. 216 Sul sacellum delle muse cfr. piú avanti, parte III, sezione I, 2. Le sette figure superstiti (Galleria Corsini) sono state esposte alla «Casa italiana nei secoli», Firenze 1948, Catalogo, p. 46. 217 e. wind, Bellini’s Feast of the Gods, Cambridge (Mass.) 1948, pp. 9 sgg. 218 r. van marle, Iconographie de l’art profane ecc. cit., pp. 278 sgg. e. peterich, Gli dei pagani nell’arte cristiana, in «Rinascimento», v (1942), pp. 47-71. 219 Cfr. sopra. 220 Nel Castello Orsini a Bracciano una serie di affreschi, derivati dai «tarocchi» e attribuiti a Antoniazzo Romano decorava una biblioteca: l. borsari, Il Castello di Bracciano, Roma 1895. 221 a. calabi, L’incisione italiana, Milano 1931, tav. XXX; j. seznec, La survivance des dieux antiques cit., p. 123. Il commento allo studio di a. warburg, Gesammelte Schriften cit., I, pp. 412-15, indica le principali fonti e riassume la storia del problema (senza nominare il Ficino). Le fonti della tarda Antichità: plutarco, Sumposiak™ problømata, IX, 1417, porfirio, Perã bàon Putagoriko„ l’goj, 31, marciano capella, De Nuptiis, I, 28, boezio, De institutione musicae, I, 27; e quelle del medioevo come isidoro di siviglia (Patrologia Latina, 83, col. 987) sono state riunite da l. piper, Mythologie der christlichen Kunst, II, pp. 207, 230. p. cumont, Recherches sur le symbolisme funéraire ecc. cit., pp. 260-61: «Questo modo d’interpretazione che trasforma le vergini dell’Elicona in divinità delle sfere celesti, signore dell’armonia universale, ebbe all’epoca romana un successo durevole. Lo vediamo ammesso nel i secolo dagli Stoici, infatti Cornuto lo ricorda nel suo manuale scolastico; nel ii secolo dai platonici eclettici, come il moralista Plutarco o il retore Massimo di Tiro; nel iii i discepoli di Plotino, come Porfirio e Aurelio gli si tengono fedeli e piú tardi Proclo ne parla spesso. Il polemista Arnobio mette in ridicolo questa credenza e il poeta Ausonio la ricorda in una rapida allusione, il che sta a dimostrare quanto fosse popolare. I neoplatonici la trasmisero agli ultimi esegeti Storia dell’arte Einaudi 453 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze del paganesimo: Macrobio e Marciano Capella l’espongono dottamente e cosí questo vecchio simbolismo fu trasmesso al Medioevo. Sarebbe stato ancora ripreso dai paltonici del Rinascimento. 222 ficino, Opera, I, p. 614, e II, p. 1282. Tavola in Marsile Ficin et l’art cit., p. 137. f. a. yates, The french academies of the Sixteenth Century, London 1947, p. 133, n. 2, ha mostrato la concorrenza delle due classificazioni tra i mitografi e i poeti del Rinascimento. 223 Cfr. piú avanti, sezione V, cap. III. 224 hajdecki, Die italienische Lira da Braccio, Mostar 1892. 225 A forma di testa di cavallo: vasari, ed. Milanesi, IV, p. 18. 226 Una polemica è stata sollevata da e. winternitz, in «The Art Bulletin», xxviii (1946), pp. 114 sgg. a proposito di questo strumento nel Festino degli dei di G. Bellini (Washington). Queste notizie sono tratte dallo studio Winternitz, del quale si annuncia uno studio complessivo su «l’archeologia musicale del Rinascimento»; le sue osservazioni sugli strumenti musicali nel Parnaso raffaellesco saranno citate alle pp. 495-96. 227 kinsky, Storia della musica attraverso l’immagine, Milano 1930; a. chastel, Marsile Ficin et l’art cit., pp. 48 sgg. 228 l. parigi, Nota musicale botticelliana, in «Rivista d’arte», xix (1937), pp. 71-78. 229 e. winternitz, nel volume miscellaneo Les fêtes de la Renaissance, Paris 1956. Sulla cappella Strozzi cfr. piú avanti e sopra. 230 Le principali sono la lettera di Niccolò Michozzi del dicembre 1474: i. del lungo, Florentia cit., p. 393; una descrizione anonima e l’epistola dell’Augurelli al Bembo, segnalate da g. pozzi, La Giostra medicea del 1475 e la Pallade di Botticelli, ne «L’Arte», v (1902), pp. 71-77; la lettera di Filippo Corsini pubblicata da p. o. kristeller, Studies cit., pp. 437 sgg. L’eco letteraria della festa è stata notevole; al poema del Poliziano composto per essa, è da aggiungere quello di Naldo Naldi, pubblicato da a. hulubei, Naldo Naldi, étude sur la joute de Julien et sur les Bucoliques dédiés à Laurent de Médicis, in «Humanisme et Renaissance», iii (1936), pp. 169-86. 231 Giovanni Aurelio Augurelli: Carmina, ms Laurenz., Plut. 34, cod. 46, 3 rv: «Aurelius ad M.cum oratorem Bernardum Bembum. | In signis quare Medici sit, Bembe, requiris | Post tergum vinctis pictus manibus amor | Sub pedibusque tenens arcus fractamque pharetram, | Pendeat ex humeris nullaque penna suis; | Atque solo teneat fixos immotus ocellos, | Immeritam veluti sentiat ille crucem. | Horrida cui terreti Pallas supereminet hasta | Et galea et saeva gorgone, terribilis. | Multi multa ferunt, eadem sententia nulli est: | Pulchrius est pictis istud imaginibus». 232 a. warburg, Die verschollene Pallas, in Gesammelte Schriften cit., t. I, p. 24; r. wittkower, Transformations of Minerva in Renaissance imagery, in «jwci», ii (1939), pp. 196 sgg. Storia dell’arte Einaudi 454 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Giuliano dice infatti: «…se mi presti il tuo santo furore | Leverai me sopra la tua natura | E farai, come suol marmorea rota, | Che lei non taglia e pure il ferro arrota». (Giostra, II, st. 45). Cfr. r. wittkower, Transformations of Minerva ecc. cit., p. 201; g. pozzi, La Giostra medicea ecc. cit., p. 74; j. mesnil, Botticelli cit., p. 45, ha intuito la soluzione: «Il rebus era cosí ingegnoso che vedendo lo stendardo nessuno ne afferrava il significato, tranne la piccola cerchia dei cortigiani iniziati al segreto». L’opposizione di Eros e Anteros, implicita in questa scena, sarà sviluppata nella serie delle allegorie dei due amori, intorno al 1490: cfr. piú avanti, cap. IV. 234 vasari, ed. Milanesi, III, p. 312. 235 Lana, seta e argento: cm 243×158. Questo arazzo già segnalato da e. müntz, Histoire de l’art pendant la Renaissance cit., I, p. 718, figurava all’esposizione dell’arte italiana di Parigi del 1935, catalogo n. 1752: la data 1520 c. che gli era assegnata nel catalogo non è accettata da j. mesnil, Botticelli cit., p. 197, n. 40, che ricorda come l’abate de Baudreuil fosse titolare dell’abbazia di Saint-Martinaux Bois già nel 1491. Secondo questo autore e h. horne, Botticelli cit., p. 161, il cartone da cui l’arazzo deriva non può essere anteriore al 1490, e deve essere messo in rapporto con un disegno degli Uffizi e un altro d’Oxford (c. gamba, Botticelli cit., tav. cxv a e b) del 1490 c. Cfr. r. wittkower, Transformations of Minerva ecc. cit., p. 197. 236 Opera, pp. 675 sgg. (trad. Figliucci, I, p. 112); questo passo citato in Marsile Ficin et l’art cit., pp. 45-6, è stato studiato da e. h. gombrich, Botticelli’s Mythologies ecc. cit., pp. 51 sgg. Passi equivalenti: De christiana religione, cap. XIII, ibid., p. 18; Laus Palladis, ibid., p. 1331. L’antagonismo Pallade-Venere entra in certe versioni figurate del mito di Prodico: e. panofsky, Herkules am Scheidewege cit., p. 83. 237 h. hill, A corpus of italian medals ecc. cit., nn. 57, 59, Venus Pacifica è l’emblema adottato dal Laurana nella sua medaglia del 1463 per Renato d’Angiò. r. wittkower, Transformations of Minerva ecc. cit., p. 194. 238 L’interpretazione strettamente politica vi vede un’allegoria della vittoria di Lorenzo sulla rivolta dei Pazzi e la coalizione del 1478; quest’ipotesi è stata avanzata da a. l. frothingham, The real title of Botticelli’s Pallas, in «Journal of the archaelogical Institute of America», xii (1906), pp. 438 sgg., e j. mesnil, Botticelli cit., p. 55; l’ipotesi deve essere corretta sulla base delle indicazioni di r. wittkower, Transformations of Minerva ecc. cit., p. 200 e e. h. gombrich, Botticelli’s Mythologies ecc. cit., p. 53. 239 Il programma è stato definito sulla base del trattato del Manilio: a. warburg, Gesammelte Schriften cit., vol. II, p. 477. 240 Cfr. sopra. 241 e. peterich, Gli dei pagani ecc, cit. (1942). 233 Storia dell’arte Einaudi 455 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Uno dei documenti piú significativi in questo senso è il poema giovanile di Lorenzo, l’Altercazione, che parafrasa un discorso del Ficino sulla felicità: cfr. b. wadsworth, Landino’s Disputationes Camuldulenses, Ficinos de Felicitate and l’Altercazione of Lorenzo de’ Medici, in «Modern Philology», l (1952), pp. 23-31. 243 Marsile Ficin et l’art cit., II, 1, e III, 1, con la bibliografia essenziale: per il Ficino gli studi fondamentali sono quelli di P. O. Kristeller piú volte citati. L’evoluzione della filosofia dell’amore e le sue interpretazioni successive sono state abbozzate da e. f. meylan, L’évolution de la philosophie de l’amour platonique, in «Humanisme et Renaissance», v (1938), pp. 418-42. 244 Ciò nonostante la tradizione iconografica: r. freyman, The evolution of the Caritas figure, in «jwci», xi (1948), pp. sgg. 245 b. nardi, Dante e la cultura medievale, 2a ed., Bari 1949, I. 246 e. cassirer, Individuum und Kosmos ecc. cit., cap. IV, ha dimostrato come la dottrina dell’amore costituisca il punto centrale della filosofia del Rinascimento. 247 Il mediocre Anteros di B. Fregoso fu pubblicato a Milano nel 1496, il trattato dell’Equicola fu composto nel 1494 a Napoli (pubblicato nel 1525), il Bembo scrisse gli Asolani nel 1496 (pubblicati nel 1505), i Dialoghi di Leone Ebreo sono del 1501-502 (pubblicati nel 1535). Cfr. piú avanti la conclusione finale. 248 h. pflaum, Die Idee der Liebe, Leone Ebreo zwei Abhandlungen zur Geschichte der Philosophie in der Renaissance, in «Heidelberger Abhandlungen zur Philosophie und ihrer Geschichte», n. 7, Tubingen 1926, pp. 14 sgg.; a. warburg, Gesammelte Schriften cit., I, p. 41, II, p. 478; p. o. kristeller, Il pensiero filosofico di M. F. cit., pp. 319 sgg. 249 Cfr. sopra. 250 giovanni da prato, Il Paradiso degli Alberti, ed. A. Wesselofsky, Bologna 1867; v. rossi, Il Quattrocento cit., pp. 195-96. 251 a. marinoni, Il Regno e il sito di Venere, in «Convivium», iv (1956), pp. 164 sgg. 252 Gli articoli recenti di a. b. ferruolo, A trend in Renaissance Thought and Art: Poliziano’s Stanze per la Giostra, in «The romanic Review», xliv (1953), pp. 246-56, e Botticelli’s Mythologies, Ficino’s De Amore, Poliziano’s Stanze per la giostra. Their circle of Love, in «The Art Bulletin», xxxviii (1955), pp. 17-26, non hanno fatto che ripetere in modo generico questa analogia complessiva. 253 a. frey sallmann, Aus dem Nachleben antiker Göttergestalten, Leipzig 1931, pp 74 sgg.; a. von salis, Antike und Renaissance cit., pp. 133 sgg., non ricorda gli studi precisi sul tema condotti da w. deonna, Le groupe des trois Grâces et sa descendence, in «Revue archéologique», xxxi (1930), 5, pp. 274-332, e Le motif antique des trois Grâces nues, in «Bulletin du Musée d’Art de Genève», 1931, p. 191. 242 Storia dell’arte Einaudi 456 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze b. degenhart, Unbekannte Zeichnung Francescos di Giorgio, in «Zeitschrift für Kunstgeschichte», viii (1939), pp.135. Il gruppo si trova attualmente al Museo dell’Opera: e. carli, Il Museo dell’Opera e la Libreria Piccolomini di Siena, Siena 1946, p. 11: si tratta di una copia romana derivata da un dipinto ellenstico del secolo iii a. C. 255 a. warburg, Sandro Botticellis Frühling cit., I, p. 27. alberti, Della pittura, ed. L. Mallé cit., p. 105. 256 e. h. gombrich, Botticelli’s Mythologies ecc. cit., pp. 32 sgg. Alcuni di questi attributi: splendore, freschezza, felicità (Landino), spirito gioviano, solare, venusiano (Ficino) hanno potuto essere suggeriti dagli attributi che si assegnano alle Grazie nell’arte antica: spighe, frutti, palme... e. wind, Bellini’s Feast of the Gods cit., p. 11, n. 8, rimanda agli Elementi di teologia di Proclo, 146, che fanno della triade un principio teologico universale. Tuttavia la sua attualità nel Quattrocento è chiaramente orientata in senso «orfico» e «catetico». Cosí pico, Conclusiones, XXXI, 8: «qui profundo et intellectualiter divisiones unitatis Venereae in trinitatem Gratiarum... intellexerit, videbit modum debite procedendi in Orphica Theologia»; j. seznec, La survivance des Dieux antiques cit., p. 103. 257 j. b. supino, Il medagliere mediceo, Firenze 1899, nn. 101, 103, 106. g. habich, Die Medaillen der italienischen Renaissance cit., p. 68, n. 59. 258 g. pico della mirandola, Commento alla Canzone d’amore, II, 17 «delle tre grazie seguace di Venere e de loro nomi», ed. E. Garin, vol. I, Firenze 1942, pp. 508-9. Berchorius, l’amico del Petrarca, suggeriva che due delle Grazie devono essere rivolte verso Venere; il Libellus de deorum imaginibus (c. 1400, Italia del Nord) omette il fatto che siano abbracciate nonostante le corrette precisazioni del Petrarca (Africa, III, 216): a. warburg, Gesammelte Schriften cit., p. 540. 259 Le Grazie sulla mano d’Apollo rientrano nella tradizione antica, come afferma Macrobio, Saturnalia, I, 17, 13, citato da a. warburg, Gesammelte Schriften cit., p. 414. j. overbeck, Griechische Kunstmythologie cit., I, p. 21. 260 È ciò che ha dimostrato, di contro a r. gruyer, Raphaël et l’Antiquité, Paris 1863, I, 233, e a w. deonna, art. cit., e. tea, Le fonti delle Grazie di Raffaello, ne «L’arte», xvii (1914), pp. 31 sgg. 261 e. panofsky, Herkules am Scheidewege cit., cui aderisce a. von salis, Antike und Renaissance cit., p. 155. 262 p. schubring, Cassoni, Leipzig 1923, n. 414; Wallace Collection, Pictures and Drawings, 3ª ed., London 1949, p. 72, n. 556; a. van marle, The italian Schools of Painting cit., vol. XIII, p. 347, n. 1. b. berenson, Italian Pictures of the Renaissance, Oxford 1932, p. 454: «Triumph of Love (?) not after 1488». 263 Italian manuscripts in the Pierpont Morgan Library, New York 1953, n. 71, tav. xlix (con bibliografia). 254 Storia dell’arte Einaudi 457 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze g. f. hill, A Corpus of Italian Medals ecc. cit., p. 242, n. 919, tav. cxlix. w. von bode, Bertoldo ecc. cit., p. 21, fig. p. 17. 265 J. del Sellaio, Quattro trionfi provenienti dall’oratorio di Sant’Anselmo a Fiesole: p. schubring, Cassoni cit., n. 372; e piú tardi nell’affresco del Signorelli destinato al palazzo di Pandolfo Petrucci a Siena (c. 1509, Londra, National Gallery), ispirato al Petrarca. 266 e. kris, Meister und Meisterwerke ecc. cit., nn. 19 e 26. 267 Il modello della Sagrestia fu approvato nell’agosto 1489; il vestibolo è leggermente posteriore. Il Sangallo ne ricevette la commissione, insieme al Cronaca, nel marzo 1493 g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., p. 90. Cfr. sopra. Il Vasari attribuisce l’opera al Sansovino. 268 È la scena che il Mantegna aveva dipinto a monocromo nella volta della camera degli Sposi a Mantova (1473-74): e. tietze-conrat, Mantegna, London 1955, tav. lxxxiii, e che verrà ripresa da Dürer: e. panofsky, Albrecht Dürer cit., vol. II, tav. xlix. 269 Citato in Marsile Ficin et l’art cit., pp. 121 e 123; pico, Commento, ed. Garin cit., p. 550. È qui l’origine dell’Anteros di cui trattano p. haedus, De amoris generibus, Treviso 1492, e fregosus, Anteros, Milano 1496; cfr. e. panofsky, Studies in Iconology cit., pp. 127 sgg. 270 Non si dimentichi che la lotta dei due Eros era stata rappresentata da Donatello (cfr. sopra, parte I), poi da Bertoldo (ibid.) ispirandosi a una gemma medicea. 271 l. marrone, Il mito d’Orfeo nella drammatica italiana, in Studi di letteratura italiana, Firenze 1922, pp. 119-259. Sull’importanza del mito per il Ficino: Marsile Ficin et l’art cit., introduzione, pp. 30-31. 272 Il Convivio, I, 3, richiama la cosmogonia «orfica» dell’inizio delle Argonautiche. Testi su Orfeo simbolo di civiltà, platone, Leggi, III, orazio, Ars poetica, 391, servio, Commento alle Georgiche, IV, 520, lattanzio, Divinae Institutiones, I, 5, boccaccio, ecc. raccolti da ch. w. lemnis, The classic Deities in Bacon (a study in mythological symbolism), Boston 1933, pp. 152-53, che tuttavia tralascia il Ficino. 273 Theologia platonica, XIV, 8, Opera, p. 318, citato e analizzato da w. dress, Die Mystik des M. F cit., p. 99. 274 Convivio, II, 1, 3; a. pezard, Le «Convivio» de Dante, in «Annales de l’Université de Lyon», iii, 9, Paris 1940, p. 15. Il terna viene da Cicerone attraverso servio (Commento all’Eneide, VI, 65) e brunetto latini (Tesoretto, III, 11). Ritorna nel boccaccio, De Genealogia deorum, V, 12, dove la lira d’Orfeo diventa: oratoria facultas. 275 Theologia platonica, XIII, ii, Opera, p. 295. 276 Cfr. ultimamente: c. pedretti, La macchina teatrale per l’«Orfeo» di Poliziano, in Studi vinciani, Genève 1957, pp. 90-97. 277 p. schubring, Cassoni cit., n. 85, P. 304 (coll. Lanckoronsky, Vienna); queste «storie d’Orfeo» sono da avvicinare alle fronti di cas264 Storia dell’arte Einaudi 458 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze sone dedicate al mito degli Argonauti che hanno lo stesso carattere narrativo e drammatico: s. reinach, La mythologie figurée cit., n. xliii, pp. 136-37. 278 t. borenius, Some italian cassone pictures, in Italienische Studien P. Schubring zum 60° Geburtstag gewidmet, Leipzig 1929, pp. 1-9. Lo stile di queste tavole, che verosimilmente formano due cassoni completi (3 tavole per cassone) è da avvicinare a quello della Storia d’Arianna (p. schubring, Cassoni cit., nn. 381 e 382) e a una incisione fiorentina del 1480 c. (a. hind, Earty italian engraving ecc. cit., n. 11) che rappresentano anche la volgarizzazione delle poesie del Poliziano e di Lorenzo. 279 g. ballardini, La majolica italiana (dalle origini alla fine del Cinquecento), Firenze 1938, p. 44 e fig. 42. Secondo O. von Falke questa serie sarebbe stata eseguita per Piero Ridolfi, genero del Magnifico. 280 e. molinier, Les plaquettes de bronze de la Renaissance, Paris 1886. w. von bode, Bertoldo ecc. cit., p. 41. 281 j. judey, D. Beccafumi, Freiburg im Breisgau, 1932, p. 100, ritiene che il cartone non possa essere del Beccafumi, piú verosimilmente di G. B. Sozzini. La nuova attribuzione si deve a g. f. hartlaub, Ein unbekanntes Werk des Francesco di Giorgio, in «Pantheon», febbraio 1943, che crede scoprirvi, senza adeguato fondamento, l’Adamo della Cabala (secondo Pico), anziché Orfeo (secondo il Ficino). 282 De vita, III, 17, Opera, p. 355. 283 Orfeo è continuamente ricordato dal Ficino come il poeta-filosofo della divinità solare. Cosí Orfeo è chiamato Apollo l’occhio vivente del cielo che possiede il sigillo che dà forma a tutte le cose del mondo (Theologia platonica, XIII, 2, Opera, p. 295). Per il bene dell’anima come per quello del corpo Apollo è per gli antichi teologi l’inventore della medicina. Nel libro dei suoi inni Orfeo ritiene che Apollo diffonda coi raggi della vitalità la salute e la vita in tutti e allontani le malattie (Opera, p. 651). 284 b. berenson, The Drawings ecc. cit., n. 1064; a. e. popp, Leonardo da Vinci, Zeichnungen cit., n. 21; a. e. popham, The drawings of Leonardo da Vinci, London 1946 (trad. fr. Les dessins de Léonard, Bruxelles 1947, n. 110, A, p. 44); l. goldscheider, Léonard de Vinci cit., n. 54, «il significato di questa allegoria non è ancora stato trovato...» (p. 30). Il disegno è datato 1493-94 e in genere messo in relazione con gli emblemi, le allegorie e le mascherate inventate da Leonardo alla corte di Ludovico e ricche d’allusioni politiche e personali: «il sole ha qui la stessa forza che nello stemma del duca». 285 f. gaeta, L’avventura di Ercole, in «Rinascimento», v (1954), pp. 227-60; il Ficino non è ricordato. Una lettera a Giovanni Nesi, datata 1477, contiene tuttavia una sorta di «Ercole moralizzato» in base alla tripartizione delle facoltà che si ha nel Timeo: Storia dell’arte Einaudi 459 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Testa Cuore Fegato rationandi irascendi concupiscendi } natura «Ratio in nobis Hercules nominatur. Hic occidit Antaeum id est immania quaedam simulachra phantasiae», poi «leonem, iracundiam et hydram, concupiscendi vim» (Opera, p. 775). 286 Su tutti questi punti: Marsile Ficin et l’art cit., p. 176, n. 5. 287 e. panofsky, Herkules am Scheidewege cit. 288 Sul frammento d’Ercole, coll. Gardner, Boston: k. clark, Piero della Francesca cit., tav. xcviii; sull’Ercole fiorentino, m. salmi, Paolo Uccello ecc. cit. p. 32. 289 w. von bode, Die italienische Bildwerke des Kaiser Friedrich Museums, II, Bronze Statuetten, Berlin 1930, tav. x, n.41, e a. von salis, Antike und Renaissance cit., pp. 56 e 259. Cfr. ancora: f. bayet, Hercule funéraire, in «Mélanges Ecole de Rome», xxxix (1921), p. 234; f. cumont, Recherches cit., p. 480 e n. 3; e. cassirer, Individuum und Kosmos ecc. cit., p. 77. 290 a. s. weller, Francesco di Giorgio cit., fig. 12; f. saxl, m. meier, Catalogue of Astrological and Mythological illuminated manuscripts of the latin Middle Age, London 1953. 291 e. müntz, Les précurseurs ecc. cit., p. 48. Dal 1277, almeno, il sigillo di Firenze recava una figura d’Ercole: w. paatz, Werden und Wesen der Trecento Architektur in Toskana cit., p. 198. 292 e. solmi, Scritti vinciani, Firenze 1924, p. 205. 293 c. de tolnay, Michelangelo, vol. I, p. 197, e vol. III, p. 100-1. 294 Il David del 1502 aveva lo stesso significato e finí per ispirarsi a un tipo antico d’Ercole. m. wackernagel, p. 105; c. de tolnay, Michelangelo, I, p. 153. 295 w. weisbach, Trionfi, Berlin 1919 ha semplicemente abbozzato l’argomento senza distinguerne sufficientemente gli aspetti successivi, come ha notato e. panofsky, Studies in Iconology cit., p. 291, n. 62. Già nell’arte romana la pompa militare poteva avere un valore «religioso» oltre che «politico»; f. cumont, Recherches ecc. cit., p. 457. 296 Sul personaggio e il palazzo cfr. sopra. 297 Il tema dell’Ebrietas, cioè i centauri attorno all’urna fumante da cui esce un porco, merita forse d’essere avvicinato al passo di Plotino, Enneadi, I, 6-6, su «i porci al pantano». 298 Siamo dunque lontani dall’incisione tarda di B. Bandinelli (1545), Il combattimento d’Apollo e Cupido in presenza degli dei, presa come tipo di «psicomachia» neoplatonica: e. panofsky, Studies in Iconology cit. Storia dell’arte Einaudi 460 Sezione seconda l’esigenza della bellezza Introduzione La metafisica del bello e gli artisti È questo mirabile, questo immortale istinto del Bello che ci fa considerare la terra e i suoi spettacoli come uno spiraglio aperto sul Cielo, una «corrispondenza» di esso. La sete insaziabile di tutto ciò che sta al di là, e che la vita ci rivela, è la prova piú viva della nostra immortalità. È grazie alla poesia e attraverso la poesia, grazie e attraverso la musica, che l’anima intravvede gli splendori che stanno dietro la tomba; e quando una poesia squisita fa salire le lacrime agli occhi, queste lacrime non sono la prova di un eccesso di piacere, sono piuttosto la testimonianza di una malinconia irritata, di una supplica dei nervi, di una natura esiliata nell’imperfetto e che vorrebbe immediatamente impadronirsi già su questa terra di un paradiso rivelato1. L’aspirazione vaga e acuta descritta da Baudelaire è stata avvertita con la stessa intensità in certi ambienti del Quattrocento fiorentino. Vi troviamo infatti testimonianze di questa emotività che fa salire le lacrime agli occhi in presenza della bellezza e, sulla fine del secolo, questo «aspirare» all’«ideale» assume talvolta un accento patetico. È ciò che conferisce tutto il suo senso alla filosofia dell’amore, di cui il Ficino fa la chiave di volta di ogni dottrina e che conoscerà un successo perfino eccessivo a partire dalla fine del Quattrocento. L’esaltazione dell’amore sarà sempre meno legata alla «via» Storia dell’arte Einaudi 461 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze affettiva dei grandi «mistici»; diventerà sempre piú la giustificazione di un atteggiamento di cui la bellezza rappresenta l’elemento piú suggestivo. Il Ficino, Pico e i neoplatonici immediati conservano alla vita dell’anima tutta la sua complessità. L’amore, che si mostra come la sua manifestazione intima, è indirizzata alla Bellezza perché questa rivela il «volto» stesso del divino. Essa ha echi troppo profondi nella sensibilità per non provocare un’inquietudine infinita. La desolazione che coglie l’anima di fronte al vuoto dell’esistenza prosaica era familiare al Ficino e ai suoi amici: era il male degli «spirituali». Si ha l’impressione che un bel viso, un bello spettacolo, un’opera d’arte possano addolcirlo. L’importanza che la sfera estetica ha assunto nella vita dello spirito arreca una forma nuova di felicità intellettuale e insieme un nuovo tormento; la bellezza tocca il cuore in quanto fa nascere dal reale un oggetto che sta al di là del mondo e nel quale gli aspetti sensibili sono aboliti. È l’intuizione che il Ficino tenta di articolare in una successione «platonica» di gradi: «Dimitte materiam, dimitte rursus et rationem, intellectualis esto, atque intellectus primo tuus, deinde divinus». Questo principio assume tutto il suo valore nella dialettica dell’amore e della bellezza2. L’estetismo rinascimentale non sempre si fondava in modo tanto delicato su una base dottrinaria. L’associazione metafisica della Bellezza ai valori superiori e il continuo passare dal Vero allo Splendido, dal Bene alla Felicità dimostravano che già si era verificato un mutamento d’orizzonte significativo in cui è da vedere l’azione del neoplatonismo fiorentino. I valori della grazia e della bellezza furono volentieri sostituiti alle norme etiche ed intellettuali, e ci si sentiva con questo subito autorizzati a trarne un edonismo di cui abbiamo numerose testimonianze in tutta l’epoca e che troverà espressione in una pagina famosa del Cortegiano: «In somma, Storia dell’arte Einaudi 462 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze ad ogni cosa dà supremo ornamento questa graziosa e sacra bellezza; e dir si po che ’l bono e ’l bello a qualche modo siano una medesima cosa»3. Indubbiamente è al Ficino che risale la maggior parte di queste formule, ma per lui la conversione finale avviene in Dio. Se egli descrive, basandosi su san Tommaso, sull’Areopagita o su Platone, le condizioni e i gradi della bellezza è per meglio definire, nella natura e nell’anima, lo sviluppo completo dei valori spirituali4. Il bello fornisce in qualche modo la gamma delle metafore necessarie per esprimere questi valori: Spirito = luce forza ascendente ordine matematico = Bello ombra pesantezza massa = Brutto = Corpo Ciò che è superiore viene considerato come luminoso, e, secondo una tendenza costante dello spirito umano, la «trascendenza» viene associata a un movimento ascensionale; però il fatto nuovo è che si arriva a un raggruppamento coerente di qualità che designano dei valori estetici puri: chiarezza movimento espressivo connessione armonica Non sarà possibile immaginarne altre in quanto il vocabolario estetico delimitato da queste nozioni deve restare legato, piú o meno strettamente, ai principi del Vero e del Bene. L’opposizione di ombra e di luce ha una risonanza precisa nel campo della conoscenza; l’opposizione tra forza liberatrice e pesantezza che opprime l’ha nel campo della vita morale. Le «proporzioni matematiche», che sembrano un elemento specifico, giusta- Storia dell’arte Einaudi 463 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze mente non sono considerate come sufficienti: costituiscono solo il primo grado della Bellezza. Poiché questa è considerata un assoluto, tutti i termini dell’ideale: Bellezza, Verità, Perfezione del Bene, sono legati tra di loro e resi inseparabili. Questa certezza apre una via nuova al godimento del mondo e alla condotta nella vita5. Giungere alla Bellezza è possibile solo attraverso uno sforzo di tutto l’essere; essa presuppone la disposizione contemplativa che è propria del saggio, del mistico, del poeta. Rappresenta cioè un dato fondamentale che non sarà ulteriormente analizzato: un’estetica differenziata era inconcepibile nel Rinascimento cosí come lo era una psicologia a sé stante dell’artista. Ma tutti gli elementi della prima sono impliciti nella dottrina del Ficino, mentre i dati della seconda lo sono nella definizione del sacerdos musarum che rappresenta un nuovo tipo di filosofo. Allorché gli artisti piú evoluti si decideranno a descrivere la loro attività in termini teorici, la coscienza che essi hanno del fine dell’arte verrà espressa sia in termini di conoscenza, come avviene per Leonardo, sia in termini di etica come avviene in Michelangelo. Leonardo assegna come oggetto della pittura la totalità dell’essere: la sua mirabile e celebre pagina sui giochi dell’immaginazione di cui il pittore e «signore» si conclude con una definizione filosofica: «Ciò che è nell’universo per essenza, presenza o immaginazione, esso lo ha prima nella mente e poi nelle mani...» Abbiamo qui un’eco diretta della successione di gradi tomista e aristotelica: «per essentiam, presentiam et potentiam» che definisce le modalità dell’essere. Leonardo tuttavia opera una doppia modificazione per cui immaginazione si sostituisce a potenza e la distinzione ontologica è riportata al livello dell’universo concreto, il che modifica doppiamente l’equilibrio della formula. Tutta la sua «filosofia» tenderà a sostituire il procedere dell’arte (e in primo Storia dell’arte Einaudi 464 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze luogo della pittura) alla «sintesi dottrinale»6. Non come un risultato del sapere, ma come una forma di salvezza spirituale Michelangelo concepisce la scultura: un sottrarsi al mondo della materia, della pesantezza e dell’oscurità, una vera e propria kßqarsij. Nelle sorprendenti poesie in cui descrive l’uscire della statua dal blocco di pietra in cui è chiusa, il processo creativo appare come una liberazione e una purificazione dell’anima realizzate simbolicamente nell’oggetto. La Bellezza è una «idea» che può e deve trasfigurare l’artista7. Ma in entrambi i casi l’attrazione della Bellezza deve, secondo l’ipotesi fondamentale del neoplatonismo, essere descritta nei termini della teoria dell’amore: l’amor è tanto piú fervente quanto la condizione è piú certa (Leonardo); il principio neoplatonico è altrettanto evidente nella formula michelangiolesca: «L’artista può solo essere superato da se stesso», che è la parafrasi di una massima dell’etica di Careggi8. Una delle novità dell’epoca rimane la comparsa della nozione generica di arte, superiore alla distinzione delle tecniche e comprendente tutta l’attività umana che opera nel concreto e opera con le forme. È una delle conquiste essenziali dell’umanesimo neoplatonico; questa nozione gli era indispensabile per valorizzare l’attività dell’anima9. Allorché Matteo Palmieri, il Ficino, Pico esaltano la potenza universale dell’uomo, la sua posizione di deus in terris viene dimostrata attraverso il prodigioso atteggiamento dell’artifex che organizza il mondo. Tuttavia la nozione non viene sviluppata e non porta ad una seria riflessione sull’«attività creatrice» dello spirito umano. Conforme alla poetica di Aristotele, la perfezione dell’arte è definita dall’imitazione della natura; l’arte tende alla natura ed è in grado di rifletterla in quanto riflette essa stessa un pensiero divino10. Il Potere dell’artifex deriva dal fatto che egli prolunga e riflette l’atto creativo; non può essere staccato da que- Storia dell’arte Einaudi 465 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze sta prospettiva. L’arte è sentita come un’attività privilegiata in un ordine piú generale. Aiuta a definire il destino dell’uomo, ne è un episodio centrale; ma per gli umanisti non c’è ragione alcuna di isolarla ancora di piú. Anche per un filosofo ricettivo e inquieto come il Ficino non era possibile arrivare a una teoria distinta dell’attività artistica; tuttavia gli elementi di essa esistono fusi nella sua dottrina dell’anima. Questa si definisce in rapporto da un lato a una natura tutta orientata verso la Bellezza e dall’altro in rapporto a una divinità che rappresenta la realizzazione assoluta di essa: se, ad esempio, prende in considerazione i mezzi di cui l’uomo dispone per giungere all’esperienza completa del reale, il Ficino suppone un’attività continua e subconscia dell’anima che si trova di continuo in sintonia con i gradi inferiori e superiori dell’anima stessa anche se essa non ne è consapevole. «Movent saepe colores aut voces, oculos. sive aures, confestim visus et auditus suum explent officium, hic videt, ille audit, nondum tamen animus et videre se et audire animadvertit, nisi media nostra potentia sese ad haec intendat»11. Questa zona mediana è la ragione nel senso largo del termine, è l’uomo stesso; nulla per noi esiste che non sia riflesso in essa. Essa risponde senza cessa all’azione dei sensi e alla pressione delle «idee». Essa può accedere ad una visione completa delle cose. Tuttavia a una condizione: Verum cur non animadvertimus tam mirabile nostrae illius divinae mentis spectaculum? Forsitan quia propter continuam spectandi consuetudinem admirari et animadvertere desuevimus. Aut quia mediae vires animae, ratio videlicet et phantasia, cum sint ut plurimum ad negotia vitae procliviores, mentis illius opera non clare persentiunt, sicut quando oculus praesens aliquid aspicit, phantasia tamen in alijs occupata, quod oculus videat non agnoscit. Sed quando mediae vires agunt ocium, defluunt in eas Storia dell’arte Einaudi 466 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze intellectualis speculationis illius scintillae velut in speculum12. In questo modo il Ficino, sotto la diretta influenza di Plotino è portato ad associare phantasia e ratio per definire il meccanismo della visione pura, disinteressata, che è il privilegio dell’anima allorché si trova in una condizione distesa e ricettiva, una condizione di vacatio speculativa13. La bellezza del mondo non si rivela senza uno sforzo appropriato che porta lo spirito a uno stato di distrazione rispetto alla vita pratica per trasformarlo invece in specchio della realtà vera. Questa analisi quasi bergsoniana dell’attività spirituale non interessa solo il filosofo, ma tutti i «sacerdoti delle muse». In certe descrizioni piú astratte il Ficino precisa ancor piú quello che è il procedere dello spirito. L’architetto, egli dice, comincia concependo una nozione (ratio) dell’edificio e per cosí dire una idea (idea) nella sua anima14. L’impiego di due termini tradisce d’altronde una ambiguità psicologica che rimarrà tipica di tutto il Rinascimento: l’idea qui non è se non un sinonimo per dire l’immagine, dotata di certi caratteri attivi, in altre parole della «forma» in senso aristotelico. L’immaginazione affinata è il supporto della speculazione. «Il quadro del mondo» infatti è «intelligibile» solo al livello superiore, per gli angeli o per le anime delle sfere, dove si trovano le figure di tutte le cose: «Queste pitture si chiamano nelli Angeli, esemplari e idee; nelli animi ragioni e notizie; nella materia del mondo, imagini e forme. Queste pitture sono chiare nel Mondo: piú chiare nell’Animo e chiarissime sono nell’Angelo»15. L’«idea» è «ragione»; essa rivela il primo grado dell’attività spirituale in quanto contiene interamente la sfera dell’astrazione matematica. In un testo importante, e del resto tardo (1492), il Ficino si esprime in termini analoghi a quelli dì certe affermazioni di Leonar- Storia dell’arte Einaudi 467 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze do: si chiamano arti le scienze che si servono delle mani; esse devono soprattutto la loro acutezza e perfezione alla potenza matematica, cioè alla facoltà di contare, misurare, pesare che piú d’ogni altra deriva da Mercurio e dalla Ragione. Senza di essa tutte queste arti rimangono in balia dell’illusione; sono preda dell’immaginazione, dell’esperienza, della congettura16. Si tratta qui delle tecniche, ma la nozione può e deve estendersi, come affermava l’Alberti, e poi Piero della Francesca e Leonardo. Siamo qui assai vicini ai problemi di mestiere. Piú difficile è immaginare ciò che avviene al grado superiore, al livello di quello che il Ficino chiama lo spirito angelico, il regno della Mens che sta al di sopra della Ratio. È di qui tuttavia che discende il fulgore decisivo della Bellezza. Per il Ficino la Bellezza piena non esiste che a questo livello. È qui che si trova «la bellezza della luce intellettuale» che risponde alla «bellezza luminosa del visibile» di contro alla Ratio, «bellezza dell’anima», che risponde alla «bellezza armonica dell’udito». In altre parole, il principio matematico dell’arte deve essere integrato; l’analogia con la «musica», di cui abbiam visto la portata generale, induce a riflettere che l’armonia dei numeri è solo una preparazione: l’appagamento che essa arreca all’anima tende solo a metterla in istato di ricettività. La Bellezza diviene presente allorché; all’interno di questa struttura, sopraggiunge qualcosa d’altro, quello splendore che il Ficino, non analizza mai, e che tutti celebrano dietro il suo esempio: un raggiare ineffabile e divino che riempie lo spirito. Il termine «idea» assume allora un valore che ci sfugge. Sembra che debba intendersi nel senso di rapporti che tendono a una totalità. Il Ficino insiste sull’economia organica della natura, in cui la figura richiama la figura e quando una cetra suona avviene che un’altra faccia eco. L’universo è un tessuto di corri- Storia dell’arte Einaudi 468 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze spondenze multiple che si intrecciano sotto la trama della realtà sensibile. Questi rapporti non sono colti dalla coscienza se non attraverso lo sforzo intellettuale della Ratio; ma questa giunge a realizzare solo un primo grado, quello in cui cessano l’isolamento e la fissità apparente degli esseri. Allorché questo rapporto intimo viene energicamente illuminato si sprigiona un senso di pienezza, quella concordia discors, l’unità del molteplice, che è l’armonia essenziale. La scala degli esseri definita dalla ontologia platonica sta a indicare che occorre sollevarsi al di sopra delle percezioni utili alla nostra condizione terrena, per attingere alla visione dei movimenti, delle emanazioni e degli scambi continui che costituiscono la realtà del mondo sotto la specie della Bellezza. Questo «splendore», che sta al di là della portata normale dei sensi, può essere espresso solo in termini di luce, dato che questa è omogenea allo spirito e si dispiega come una sorta di divinità che, nel tempio di questo mondo, riproduce la somiglianza con Dio. Si tratta di una formula strana escogitata però per suggerire che l’intuizione della Mens, pur procedendo al di là delle apparenze, è piena, folgorante e si presenta come una realtà totale, in cui l’infinita diversità delle apparenze vive in una sorprendente unità. Il Ficino e Pico continuamente rinviano a questo limite superiore il realizzarsi delle aspirazioni costanti dell’uomo. Ciò che è proprio di un bell’oggetto, di un bello spettacolo è di risvegliare nell’anima la coscienza di questo rapporto prodigioso; e piú ancora se si tratta di un bel viso al quale può rivolgersi l’amore. Insistendo con fervore sul valore propriamente «sacro» di tutto ciò che riguarda la bellezza, il Ficino forniva alla sua epoca un’argomentazione complessiva che difficilmente sarebbe stata dimenticata. Il suo successo si spiega col fatto che essa poteva esser facilmente messa in rapporto con esperienze consuete. Nonostante le sue confusioni e le sue Storia dell’arte Einaudi 469 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze ambiguità, si trattava di una versione filosofica di aspirazioni diffuse. La situazione che in questo modo venne a crearsi è di una complessità piena d’interesse. Non è píu lecito considerare le teorie degli umanisti estranee al mondo delle arti come lo erano state, ad esempio, quelle dei maestri della scolastica rispetto ai rappresentanti delle «artes mechanicae». Ormai la divisione delle discipline in compartimenti incomunicanti comincia a venir meno e questo si risolve a vantaggio delle arti plastiche: le linee generali della teoria e della storia dell’arte vengono derivate dalle nozioni scientifiche e dalle formule umanistiche. Si cerca di realizzare l’unità delle aspirazioni umane non in una definizione concettuale, ma in una intuizione piú larga: la musica può cosí servire come termine comune di riferimento per gli intellettuali e gli artisti per indicare un’esigenza essenziale sentita in modo vivo come non mai prima. L’«estetizzazione» della cultura, che si verificherà nel secolo successivo, si afferma già all’epoca di Lorenzo a Firenze. Forse essa è il carattere essenziale di questa epoca. Tutti questi fenomeni riducono chiaramente la distanza tra i «pensatori» e gli artisti. È d’altra parte chiaro che il metodo speculativo di un Ficino e l’erudizione di un Poliziano tengono questi uomini lontano dalla sfera in cui si collocano gli artisti. La metafisica del Bello e l’elogio dell’Arte discendono da posizioni dottrinarie che necessariamente dovevano restare estranee all’ambiente delle botteghe. È difficile immaginare come queste, dominate da problemi concreti, e forti di quegli interessi positivi che rappresentavano la loro superiorità, avrebbero potuto trarre dalla teologia platonica e dalla poesia umanistica, di cui sono parte integrante, atteggiamenti spirituali e nuove indicazioni che potessero interessare loro17. A prima vista, tra i «sognatori» di Careggi e i pratici c’è una sorta di muro. Quale rapporto potevano avere le «idee» generali Storia dell’arte Einaudi 470 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze o le analisi degli intellettuali con l’operare degli artisti, con l’evoluzione dei generi, con la crisi degli stili? Ci sono precise ragioni per lasciare il problema aperto. La prima di queste e la facilità e la rapidità con cui la filosofia dell’amore elaborata dal neoplatonismo fiorentino è venuta di moda in Italia già a partire dal 1500, penetrando nei circoli aristocratici e mondani e raggiungendo anche la comune persona di cultura. Già attraverso Dante i grandi temi del neoplatonismo erano stati assimilati dalla cultura corrente e in particolare da quella delle botteghe fiorentine. Non si tratta di un fenomeno di secondaria importanza. Tutti i trattatisti ripeteranno, sulla scia del Ficino e del Bembo, che l’amore è un principio di elevazione e di nobiltà, in quanto nasce dal tormento della Bellezza: L’amor mi prende e la beltà mi lega scriverà Michelangelo (XXXI). I rappresentanti di una cultura come questa, che considera lo stato amoroso come la condizione naturale dell’anima, cioè coloro che ne esprimono il contenuto profondo sono il poeta e l’artista. Il Cortegiano arriverà chiaramente a questa conclusione alla fine di una evoluzione che comincia quarant’anni prima a Firenze. Ora è a Firenze in generale che si notano le prime manifestazioni di una emancipazione intellettuale che libera un numero rilevante d’artisti dalle consuetudini artigianali. I piú brillanti tra questi sembrano consapevoli del posto che loro spetta e accampano pretese del tutto nuove. Anche le rigide distinzioni sociali cominciano, da questa parte, ad attenuarsi18. Accanto alle botteghe modeste, che erano la maggioranza, il Vasari ci parla dell’esistenza di veri e propri circoli artistici come la bottega di Baccio d’Agnolo, dove la sera si tenevano «bellissimi discorsi e dispute d’importanza»19. Storia dell’arte Einaudi 471 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Siamo già qualche anno dopo il 1500, ma queste discussioni sui problemi dell’arte erano diventate una abitudine fiorentina e alla fine del Quattrocento la bottega del Botticelli era, stando all’espressione ironica di un cronista, una vera e propria «academia di scioperati», dove si parlava di tutto. Se il Botticelli ha potuto passare per un artista «sofisticato» è proprio a causa delle sue pretese «letterarie». È dal tempo suo che si deve datare la trasformazione di certe botteghe in piccole accademie. Gli artisti toscani avranno sempre piú chiaro il senso della loro indipendenza e della loro dignità. Come è dimostrato da numerosi aneddoti, i maestri volevano anzitutto arrivare a un rango sociale elevato20. Non rivendicano appena onori e salari, aspirano anche ai privilegi degli intellettuali: lo si vede dalla disinvoltura con cui alcuni di loro, e non solo Leonardo, passano da una commissione noiosa a un’opera che li attira di piú e nella quale il loro talento potrà figurare. Leonardo o Michelangelo trattano dall’alto i clienti poco comprensivi o impazienti21. Il loro esempio avrà seguito22. Se insistono sul posto che spetta alle arti nella gerarchia delle discipline liberali d’altra parte il pittore o lo scultore pensano di avere prima di tutto dei doveri verso l’arte. Leonardo lo dichiara esplicitamente: «Se tu pittore te ingegnerai di piacer’ alli primi pittori, tu farai bene la tua pittura, perché sol quelli sono, che con verità ti potran sindacare...» Il cliente volgare è cattivo giudice; l’arte ha le sue leggi; solo il conoscitore può apprezzare i problemi che l’artista ha risolto; la bravura non consiste solo nella abilità tecnica, ma deriva da qualcosa di piú elevato che rende l’artista simile al poeta23. È allora che si comincia a notare e a commentare con interesse il modo di comportarsi di certi artisti: Domenico Ghirlandaio mostrava un amore cosí frenetico per il suo lavoro che pretendeva di coprire di affreschi le for- Storia dell’arte Einaudi 472 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze tificazioni di Firenze; con Piero di Cosimo, che nella sua foga di dipingere si dimenticava di tutti i suoi obblighi e dei comodi pratici, nasce la figura dell’artista misantropo, stravagante e ossesso, che l’amore per la sua arte sottrae alle norme comuni24. Una passione gelosa porta certi pittori a nascondere a lungo la loro opera, a ritornare su di essa all’infinito, a sottrarla ai curiosi; accade che qualcuno intraprenda opere solo per se stesso, cosa che non si nota mai prima della fine del Quattrocento fiorentino25. È insomma il momento in cui si definisce un tipo umano nuovo, quello dell’«artista». Questo tipo presenta alcuni elementi della psicologia fiorentina: la causticità, la passione intellettuale, una sensibilità acuta che provoca periodicamente il bisogno dell’isolamento e della riflessione solitaria, e ancora il gusto della commedia, delle burle fantasiose che non costituiscono solo uno svago, ma servono a creare nella vita una atmosfera di festa e di irrealtà26. La vita di Leonardo sarà la dimostrazione piú straordinaria di questa indipendenza di spirito che nel secolo successivo non sarà piú ben capita. Molti, proseguendo la tradizione di Donatello e del Ghiberti, si circondano di anticaglie, di oggetti rari, che non sono modelli di bottega ma simboli di una cultura27. Il Signorelli, vestito in modo ricercato, si presenta come un «signore e gentiluomo», Leonardo è elegantissimo. Raffaello, circondato da un seguito come un principe, fa contrasto a Michelangelo «solo come un boia»; ma tutti vogliono essere rispettati. Tutti questi indizi risultano convergenti e assai significativi. Il Vasari, al quale dobbiamo la maggior parte di queste notizie, sembra talvolta ripetere semplicemente degli aneddoti-tipo piú o meno sospetti e non sempre ne valuta adeguatamente il significato28. Ma è al tempo di Lorenzo che la sicurezza intellettuale dei maestri comincia ad affermarsi contemporaneamente alla preoccupazione di una dignità sociale. Essi tendono a presentar- Storia dell’arte Einaudi 473 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze si, al pari dei poeti e degli umanisti, come una categoria umana privilegiata, che ha i suoi diritti e doveri. La benevolenza di Lorenzo li incoraggia in questo senso: il Ficino concede la sua amicizia al Pollaiolo, il Poliziano s’intrattiene con Michelangelo. Le abitudini fiorentine favorivano questa sorta di promozione sociale dei maestri, che ben presto sarebbero stati considerati alla pari degli «eroi» superiori della cultura. Indubbiamente molti di loro soffrono di essere «senza lettere». Possono leggere gli scritti in volgare, ma non i trattati latini; la base della loro cultura è Dante, piú che le opere degli umanisti29. È però degno di nota che i nuovi maestri del 1500, Leonardo, Michelangelo, Raffaello, abbiano sentito il bisogno di scrivere e si siano fatti, al momento opportuno, trattatisti e poeti. Sulla base di queste osservazioni i rapporti tra l’arte e l’umanesimo appaiono in una luce nuova: l’esigenza del Bello, che porta l’anima a un grado di tensione esclusiva, e la rivendicazione dei privilegi del «sacerdos musarum» sono comuni ad entrambi. E le dottrine costituiscono una giustificazione d’ordine generale a un modo di comportarsi ed a un atteggiamento che si ripercuotono sull’attività dell’artista. Per essere piú precisa l’indagine può avviarsi in tre direzioni: anzitutto il successo della figura adolescente, assunta a tipo ideale della bellezza; secondo, i modi in cui viene applicato il principio matematico e la ricerca d’una certa «dignità» delle forme; infine la portata della teoria del disegno-idea e della distinzione che ne deriva tra l’invenzione e l’esecuzione. Storia dell’arte Einaudi 474 Capitolo primo «Eros socraticus» Nella filosofia del Rinascimento il corpo umano è un oggetto privilegiato: viene definito come lo strumento dell’anima, il mezzo di cui essa si serve per inserirsi nel mondo sensibile. Ma non basta: esso rappresenta un modo superiore d’organizzazione, di valore universale. Esso infatti riassume in sé l’economia generale della natura mediante l’equilibrio degli umori che altro non sono se non l’aspetto fisiologico degli elementi. La sua struttura e i suoi rapporti interni sono la chiave dell’armonia, non in un senso accidentale e locale, ma in un senso assoluto: sono indispensabili per apprezzare il modo in cui effettivamente opera nel mondo il principio matematico della bellezza. Il canone delle proporzioni deve rendere esplicito questo valore privilegiato della figura umana30. Procedendo di pari passo con la ripresa delle formule vitruviane, i commenti del Ficino al Convito e al Timeo, venuti a confermare l’interesse di queste speculazioni teoriche, aiutano a definire in termini piú precisi quello che possiamo chiamare il «pitagorismo» rinascimentale. L’anima è la «forma» del corpo e questo è un «segno» universale. Allorché si attribuisce agli angeli, ai pianeti, alle costellazioni, alle forze della terra una «figura», l’immaginazione si sente autorizzata dalla tradizione a rendere tale figura con una forma umana. È il piano normale di ogni rappresentazione simbolica31. Non Storia dell’arte Einaudi 475 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze c’è dunque nulla di nuovo in questo modo di procedere, salvo la curiosità naturalistica che la sollecita e il fatto che il corpo umano appare dotato di una dignità eccezionale, corrispondente alla posizione centrale che è attribuita all’uomo nel mondo. Tra tutte le apparenze sensibili il corpo è il piú adatto a fornirci la rivelazione della bellezza; esso è come la punta avanzata dello splendore divino nella natura. Il poeta e il filosofo devono quindi essere sensibili alla sua mirabile struttura e il Ficino, all’epoca del Convito (1475), quando gli sembra che si possano conciliare tutte le esperienze, non esita a scrivere che l’amore appassionato della bellezza fisica e morale delle persone è proprio della famiglia platonica32. Che era un modo di accettare e giustificare (al fine di purificarla ed orientarla filosoficamente) l’inclinazione piú violenta degli uomini del suo tempo verso la bellezza fisica, in modo particolare quella dei giovanetti. La teoria dell’«amore platonico» non è stata proposta come una ripresa, per quanto prudente, dell’amore «greco», tuttavia a questo essa riservava un posto particolare. Per l’appunto proprio in quel momento gli ambienti artistici fiorentini erano ben lungi dal misconoscerlo. Non è facile quanto si vorrebbe superare nettamente l’affetto «socratico», legittimato e addirittura raccomandato dal Ficino, da un vizio che è stato spesso denunciato dai predicatori fiorentini del Quattrocento e attaccato direttamente dal Savonarola33. Non c’erano, nelle botteghe degli artisti, donne a servire: gli artisti e i dotti vivevano circondati di «garzoni» che accudivano alla casa, oppure di domestici piú anziani; spesso tenevano gli uni e gli altri. Un adolescente entrava in una bottega sia per apprendere la tecnica dell’arte che per sbrigare le faccende di casa, talvolta per servire da modello34. Non è dunque tanto strano che i maggiori artisti di Firenze siano stati, a torto o a ragione, sospettati di sodomia. Il problema può porsi per Botticelli, Storia dell’arte Einaudi 476 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Leonardo e Michelangelo. Il Manoscritto magliabechiano, che fornisce spesso notizie utili sulla vita degli artisti, cita affermazioni misogine del Botticelli; non si dovrebbe trarne conclusioni affrettate; però uno dei suoi giovani allievi fu condannato per sodomia nel 1473 e lui stesso fu denunciato nel novembre del 150235. Gli scandali contro il buon costume non erano in realtà rari nelle botteghe. È risaputo che Leonardo, quando era ancora nella bottega del Verrocchio, fu oggetto di una regolare denuncia al «tamburo», ma la cosa si risolse rapidamente o fu soffocata36. Originale e segreto in tutte le sue cose, Leonardo lascia però scorgere nei suoi taccuini e disegni l’interesse che nutriva per la bellezza dei giovanetti. È stato possibile ricostruire la personalità di quello che lui aveva soprannominato «Salai», cioè «diavoletto», di cui s’occupava con incredibile pazienza. Il maestro registra nel suo diario, nel 1490, l’arrivo del nuovo garzone, Jacomo, di dieci anni; tiene nota delle spese sostenute per rivestirlo, il giorno dopo il suo arrivo, poi anno per anno, degli acquisti di scarpe (24 paia all’anno) e di stoffe; il 4 aprile 1497 nota ancora la spesa per una bellissima cappa destinata all’adolescente. La cosa piú sorprendente è la sua indulgenza per la cattiva condotta di Salai, di cui fin dall’arrivo nota il cattivo carattere: «ladro, bugiardo, ostinato, goloso», e la negligenza nel servizio, i piccoli furti. Ciononostante gli presterà, nel 1508, 30 scudi per fare la dote a una sorella e gli lascerà un legato considerevole «in ricompensa dei suoi buoni e leali servizi». Questo «diavoletto» d’altronde era figlio di un amico milanese di Leonardo.37 Si sono tratte talvolta da questi particolari, conclusioni eccessive. Le intuizioni di Freud (nonostante numerosi errori di fatto), possono essere giuste; lo sarebbero ancor piú se tenessero conto del clima dell’epoca e di molte note e disegni in cui si vede che Leonardo affrontava con disinvoltura tutte le forme dell’amore38. Soprattut- Storia dell’arte Einaudi 477 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze to, non si deve dimenticare la sua massima, che ha un accento tutto personale: «La passione dell’animo caccia via la lussuria»39. Ma infine è l’opera sua a rivelare la passione dell’androgino. In tutta la sua carriera egli disegnerà, l’uno di fronte all’altro, un guerriero maturo e un grazioso adolescente; il contrapposto di questi due tipi l’ha chiaramente ossessionato40. Essi appaiono per la prima volta in un foglio (W. 12276) in cui sono schizzate alla rinfusa immagini di tutti i tipi, e riappariranno trent’anni dopo41. Le ossessioni dell’Eros platonicus sono non meno esplicite in Michelangelo e i suoi amori ben noti. Poco dopo la trentina, al tempo della Sistina, s’invaghisce di un giovanetto chiamato Giovanni da Pistoia42, qualche anno dopo di Gherardo Perini al quale scrive lettere d’amore nel 152243. Nel 1532 esplode la sua grande passione per Tommaso Cavalieri, giovane nobile romano di grande bellezza e elevata spiritualità, al quale lo scultore, con una sorta d’idolatria, scriverà numerose lettere e dedicherà ardenti sonetti «petrarcheschi». Forse ebbe anche amicizie meno degne di lui. Tuttavia l’esaltazione provocata da questi amori «socratici»44 coincide, nella sua opera, con i momenti in cui con piú abbandono celebra la bellezza fisica45. Le opere di Michelangelo sono altrettante «confessioni», al pari di quelle di Leonardo, se pure meno volgari degli aneddoti, piú o meno benevoli, che ci hanno tramandato al proposito i contemporanei46. La sodomia degli intellettuali e degli artisti, dai tempi di Dante in poi, era un tema corrente di condanna morale, benché spesso attenuato dalla benevolenza con cui tradizionalmente gli italiani considerano tutto ció che ha attinenza all’amore e alla bellezza47. Due volte nella prima parte del Quattrocento il problema fu affacciato in dibattiti pubblici: nel 1426 a proposito dell’oscena raccolta di epigrammi del Beccadelli, intitolata Hermaphroditus e dedicata a Cosimo48; una seconda volta Storia dell’arte Einaudi 478 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze intorno al 1455-60 al momento della disputa intorno al platonismo, nella quale il «vizio socratico» fu utilizzato dai bizantini d’Italia come argomento contro il valore «culturale» dei trattati platonici: accusato da Giorgio di Trebisonda di incoraggiare la pederastia, l’autore del Fedro fu difeso, su questo come su altri punti, dal cardinal Bessarione nel bel trattato del 1469, in cui viene invece lodata l’altezza morale della morale platonica fondata sulla potenza catartica dell’amore49. L’Accademia umanistica fiorentina, anche in questo fedele all’imitatio Platonis, reinventava poco dopo «l’amore filosofico dei giovanetti» che pare sia stato uno degli aspetti caratteristici della cultura aristocratica del tempo dei Medici. Giovanni Cavalcanti e il Ficino, il Plato redivivus, offrono l’esempio di rapporti amorosi appassionati, attenti, al di sopra di ogni torbido equivoco. Nato nel 1448, Giovanni era quasi sulla ventina quando il Ficino, in una delle sue crisi di depressione, lo scelse per amico traendone grande consolazione. E gli dimostrò la sua gratitudine dedicandogli nel 1467 la prima versione del Commento al Convito, nel quale la parte di Fedro è sostenuta dal Cavalcanti di cui i convitati celebrano la bellezza. Le gioie, i turbamenti, le estasi descritte in quest’opera erano le stesse vissute dai due conphilosophi, la cui corrispondenza è piena delle stesse formule splendide ed eccessive50. Il Convivio esalta il valore che l’amor socraticus ha per il maestro che contempla la bellezza divina nel suo riflesso umano, e per il discepolo che, attraverso questo contatto, impara a staccarsi dalla mera bestialità sessuale. «Voi mi domandate a che sia utile lo Amore socratico. Io vi rispondo: che è prima utile a sé medesimo a ricomperare quelle ali con le quali a la patria sua rivoli. Oltre a questo è utile a la Patria sua sommamente a conseguitare la onesta e felice vita»51. Questo amore socratico per i bei giovani è la prima espressione completa, nel Rinascimento, di quello che, Storia dell’arte Einaudi 479 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze nelle volgarizzazioni mondane degli inizi del Cinquecento, sarà l’amore platonico tra i sessi o l’unione spirituale delle anime52. Questa tenerezza per la bellezza virile non fu d’altronde esclusiva del Ficino. Pico fu legato da un amore del genere a Girolamo Benivieni; quando questi morí (nel 1542) ebbero una pietra tombale comune nel chiostro di San Marco con un’epigrafe esplicita53. Si tratta di una tendenza comune a Firenze, ai tempi del Magnifico, tra i letterati e gli umanisti. Eppure i loro costumi, tranne che per il Poliziano e qualche altro, sembrano essere stati puri, il che viene a caratterizzare ancor meglio questi ceti elevati del Quattrocento, per i quali la grazia e la perfezione dell’adolescente avevano un valore cosí rilevante da ispirare le tre indimenticabili versioni del giovane David nudo, che rappresentano i tre capolavori della scultura fiorentina. Il clima propizio creato dagli umanisti era tanto piú importante in quanto la rappresentazione del nudo (e del nudo virile) attirava sempre piú l’interesse delle botteghe fiorentine54. Il David adolescente di Donatello, che appare come uno dei miracoli dell’arte (tra il 1430 e il 1440) fu una delle prime manifestazioni di questo interesse. La statua ha una bellezza nervosa e bizzarra e il cappello con la corona di lauro, i gambali adorni di palmette, il vago sorriso, l’abbandono leggero del «contrapposto» vi aggiungono un tocco significativo di civetteria e di capriccio55, e quando, verso il 1460, Firenze diventa la capitale del nudo, questa figura già cosí sottile fu reinterpretata con ricercatezza e complessità ancora maggiori nel piccolo eroe, fattosi sognante, del Verrocchio (1476), in attesa del capolavoro michelangiolesco (1504) che chiude l’epoca. È nella bottega del Verrocchio che sembra sia venuto costituendosi, intorno al 1470-75, il tipo dell’adolescente «ambiguo» destinato soprattutto alla rappresentazione degli angeli. Gli artisti che sono stati in rapporto Storia dell’arte Einaudi 480 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze con questo maestro originale, soprattutto Botticelli e Leonardo, hanno voluto chiaramente unire nella forma angelica i caratteri dei due sessi per trarne un «androgino», un essere ideale e delicato, piú sensuale del putto e piú grazioso dell’efebo56. È il momento in cui il Ficino fa della creatura angelica la figura superiore, in cui si rivelano lo splendore e la grazia (nitor et gratia) della Bellezza suprema, quella che suscita nel cuore dell’uomo un amore imperituro. E questa intensa bellezza è separata solo d’un grado da quella umana: «La Divina Potenzia supereminente, allo Universo, agli Angeli e agli animi da lei creati clementemente infonde... quel suo raggio: nel quale è virtú feconda a qualunque cosa creare», cioè una forma capace di una seduzione irresistibile senza nulla concedere ai sensi, e che porta al grado supremo la grazia e la soavità57. Se ci si rifà agli angeli cantori del Gozzoli e di Filippo Lippi risulta chiara questa nuova sensibilità, che si esprime nei graziosi fanciulli, né maschi né femmine, dai lunghi capelli che accompagnano la Madonna del Magnificat e la Madonna coi sei angeli, nell’angelo inclinato dell’Annunciazione di San Martino della Scala (1481) coi suoi alti sopraccigli, le sue labbra grosse e sinuose, i suoi capelli fluttuanti e portati indietro, che hanno dovuto affascinare Dante Gabriele Rossetti, e infine negli angeli danzanti, vestiti di ampi veli rialzati alla cintura come le ninfe della Primavera, che occupano il cielo nell’Incoronazione della Vergine agli Uffizi. Oltre a queste immagini anonime della soavità e della gioia, il Botticelli ha dipinto anche un certo numero di bei adolescenti gracili, il primo dei quali è il San Sebastiano che sembra posare con calma, al quale seguono, piú tardi, le due figurazioni di Cristo morto, quella di Monaco e l’altra del Poldi Pezzoli a Milano, con le quali si vede entrare nell’arte sacra un elemento pungente di bellezza «plastica» di cui qualche volta ci si è scandalizzati. Storia dell’arte Einaudi 481 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Dai delicati personaggi di Desiderio all’adolescente del Verrocchio si vede aumentare l’ambiguità e la grazia dell’efebo sottratto alla volgarità e alla bruttezza58. Leonardo conserva questo tipo, ma lo individua maggiormente rendendolo insieme piú squisito e piú affascinante. Dopo l’angelo celebre del Battesimo (c. 1475), dipinse nella sua Annunciazione, nell’Adorazione dei Magi non finita, nella Vergine delle rocce degli adolescenti alati, dai capelli graziosamente ricciuti come quelli di una fanciulla: è il tipo verrocchiesco portato alla perfezione, con una epidermide liscia e brillante come il bronzo59. Nell’angelo, ancora piú ambiguo, della Vergine delle rocce si è creduto di vedere una somiglianza con il viso sottile della Dama dell’ermellino e si è pensato trattarsi di una trasposizione dei lineamenti di Cecilia Gallerani60. I numerosi disegni, fatti prendendo come modello Salai, portano a compimento la caratterizzazione personale della figura61: in un foglio della raccolta di Windsor si vede lo stesso profilo ripreso in una figurina di donna, quasi a ritrovare il piú lontano possibile nella natura l’ambiguità che seduce l’immaginazione62. Il ciclo dedicato alla bellezza dell’adolescente androgino può completarsi con le figurazioni di san Giovanni Battista. Abbiamo infatti di Leonardo, intorno al 1476, un San Giovannino su fondo azzurro disegnato a punta d’argento, che però non va oltre la semplice esercitazione63; ma trent’anni dopo il Battista del Louvre sta a dimostrare, col suo modellato sottile, la sua luce rara, la sua inclinazione calcolata, l’importanza ossessiva che la figura emblematica creata dall’artista aveva assunto. Si è molto fantasticato davanti a queste figure, insistendo su quel carattere irreale che sembra di un altro mondo64 o sulla loro suggestione perversa. Quali che siano il valore del «simbolo» e le sue implicazioni coscienti o subconsce, questa figura cosí sapiente porta a un’intensità estrema un tipo creato nell’ambiente fiorentino. Storia dell’arte Einaudi 482 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Il Signorelli per contro aveva accentuato il principio scultoreo dell’antica scuola fiorentina: il corpo nudo è per lui l’elemento principale di un linguaggio meno ricercato. Intorno al 1490, con il Pan e il tondo coevo degli Uffizi, in cui appare un gruppo di pastori che suonano il flauto, sembra essere stato il primo a immaginare degli efebi in una sorta di Arcadia eterna che rappresenterebbe la perennità del mondo antico65. Qui (e si tratta di una novità decisiva) l’Eros platonicus si lega all’Antichità rappresentata come un paradiso perduto. Le ninfe del «concerto saturnio» che circonda il dio Pan presentano anch’esse la corporatura alta e muscolosa dei pastori dell’idillio, come se ci fosse un solo tipo valido di bellezza. Le mirabili figure nude della Resurrezione dei morti a Orvieto suggeriranno la stessa impressione. E l’esempio, è risaputo, avrà la sua importanza per Michelangelo. La nudità trionfante dell’efebo è per lui l’occasione per una sorta di orazione estetica. Il tema appare per la prima volta nel tondo Doni del 1503 (Uffizi): il Bambino, simile a un piccolo atleta, porta un nastro di vittoria; in secondo piano si svolge una contesa amorosa: «Parecchi adolescenti nudi dai capelli inanellati d’una bellezza elastica e gracile... Uno degli efebi stringe l’altro e un terzo sembra volerlo sottrarre alla stretta...».66 Un’altra coppia di giovani, a sinistra, guarda con aria sognante all’orizzonte, appoggiati al bordo di una cava di marmo. Hanno il tipo del David, ma la loro bellezza atletica, i loro giochi amorosi inducono a vedere in essi il mondo pagano; questo è separato dalla Sacra Famiglia da un muro che il piccolo san Giovanni si appresta a saltare. Il Signorelli aveva trasformato i pastori della Natività in nudi scultorei. Michelangelo raggruppa i nudi in una scena che sembra illustrare il Fedro e li ricollega apertamente all’Eros platonicus. È anche il momento del Bacco del Bargello, di cui il Vasari dice esplicitamente Storia dell’arte Einaudi 483 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze che Michelangelo «ha voluto tenere una certa mistione di membra meravigliose, e particolarmente avergli dato la sveltezza della gioventú del maschio, e la carnosità e tondezza della femmina»67. Gli «ignudi» della Sistina sono usciti da questa famiglia. Ben lungi dall’essere semplicemente dei vaghi ornamenti, essi emanano dall’architettura avendo il compito di tener sospesi sulla cornice i medaglioni bronzei; ma, conferendo una animazione vivissima alla decorazione, essi vengono a introdurvi l’immagine dell’attività dell’anima68. Essi sono i volti puri d’una giovinezza eterna; i nastri non riescono a trattenere i loro capelli ondeggianti, agitati a volte da un soffio invisibile. Dal fauno musicante al levita, essi mostrano tutte le incarnazioni del furor magnificato dalla bellezza69. Negli anni successivi questa unione di Eros platonicus e arte cristiana non apparirà piú possibile. Un episodio ben noto della vita di Michelangelo attesta fino a che punto la passione potesse orientare la sua arte: nel 1532 dedica a Tommaso Cavalieri delle poesie appassionate, in cui lo paragona al sole; Dio stesso si rispecchia nella sua bellezza di modo che l’artista non Lo può percepire se non attraverso di essa. Tutto qui, perfino le espressioni, richiama «il tipo d’amicizia che regnava nell’ambiente di Lorenzo de’ Medici mezzo secolo prima» 70. Sempre nel 1532 e 1533 Michelangelo farà dono al Cavalieri di una serie di disegni che vanno interpretati richiamandosi alle poesie e da queste risalendo alla dottrina neoplatonica dell’amore: uno di questi rappresenta il supplizio di Tizio divorato come Prometeo da una tortura senza fine, un altro Ganimede rapito in cielo dall’aquila di Giove, simbolo antico della pederastia, trasformato dai neoplatonici in immagine del furor amatorius che precede la visione intellettuale; un’altra serie tratta di Fetonte e il sentimento tragico dell’amore platonico vi si esprime in un’allegoria altrettanto chiara71. Storia dell’arte Einaudi 484 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Si deve infine ricordare che Michelangelo fece il ritratto a grandezza naturale di Tommaso Cavalieri, lui «che né prima né poi di nessuno fece il ritratto, perché aborriva il fare somigliare il vivo, se non era d’infinita bellezza»72. Ma poco tempo dopo condanna la fragilità dei sensi: Al cor di zolfo, a la carne di stoppa... (CIX, 97). e la vanità dell’arte che distrae l’anima nell’adorazione della bellezza. Il culto appassionato che egli dedica a Vittoria Colonna significa sia il ripudio dell’amore socratico che la rinuncia alle illusioni che esso suscita. Il tormento mistico segna la fine del sogno fiorentino. L’Eros platonicus, come lo concepivano i nobili spiriti di Careggi favoriva una «sublimazione» necessaria dei costumi; contribuiva anche a precisare le affinità elettive che univano l’arte del Quattrocento a quella antica. Giustificando l’attenzione alla bellezza «epicena» e alla bellezza virile, invitava a sollevarne l’immagine su un piano superiore, dove il sentimento poteva esprimersi interamente73. Le cose saranno del tutto cambiate nel Cinquecento. Se Michelangelo protrae, in un secolo che non la comprende piú, e già se ne scandalizza, l’ossessione dell’Eros platonicus, Raffaello, il Correggio e Tiziano celebrano senza tormenti Venere e la bellezza femminile, nel momento stesso in cui il neoplatonismo diventa a Urbino, Ferrara e nelle corti settentrionali la dottrina dell’amore mondano74. In pochi anni, agli inizi del Cinquecento, il canone della bellezza femminile si trasforma: in luogo della ninfa flessibile del Botticelli, della figura dolce del Perugino, ecco apparire figure trionfali dal caldo incarnato. L’ideale che si definisce a Venezia non è piú quello dell’adolescente e della vergine, ma della donna piena75. Le poe- Storia dell’arte Einaudi 485 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze sie e i trattati in onore della bellezza femminile d’ora in poi si moltiplicheranno: l’Ariosto indugia per parecchie stanze a descrivere voluttuosamente le seduzioni della maga Alcina (Orlando furioso, VII, vv. 11 sgg.)76. Il discorso dei pittori è piú sensuale ancora, ma il vocabolario di moda continua a celebrare la bellezza femminile in termini neoplatonici, e il modo in cui vengono presentate le Veneri giacenti e le Veneri intente alla musica sembra risentirne77. Infine un umanista minore, d’altronde poco interessato al platonismo, Agostino Nifo, compone il suo trattato sul «bello» in funzione di Giovanna d’Aragona. L’ammiratore non dimentica nessuno dei dati che interessano i cinque sensi: forma, armonia, soavità, dolcezza e mollezza. Non si trova piú sconveniente, anzi grazioso, mettere insieme la finezza serica della pelle e la grazia delle proporzioni. I ricordi letterari e filosofici costellano i trattati alla moda, ma la virtú «spirituale» dell’amore socratico non è passata all’amore platonico del Cinquecento78. Storia dell’arte Einaudi 486 Capitolo secondo La dignità delle forme Nel suo elogio di Giotto il Boccaccio rileva incidentalmente l’errore di coloro «che piú a dilettar gli occhi degl’ignoranti che a compiacere all’intelletto de’ savi dipignendo intendevano». Il consenso dei letterati andava naturalmente agli artisti novatori. Sarebbe erroneo credere che questi non ne avessero bisogno. Al pari dell’arte di Giotto, anche la maniera rude e disadorna di Masaccio o di Donatello incontravano critiche da piú parti; e piú ci si inoltra nel Quattrocento, piú si ha l’impressione che a Firenze i maestri piú originali, il Verrocchio, il Botticelli. non fossero universalmente accettati79. C’era ancora una clientela legata alle forme del Trecento, e i pittori s’imbattevano in clienti che non capivano e si stupivano della loro maniera, portando argomenti ispirati a un tradizionalismo angusto, legato allo stile devoto d’altri tempi: la demagogia «piagnona» utilizzerà questo stato d’animo. La voga di formule arcaizzanti e convenzionali, come ad esempio quella di Neri di Bicci, si è protratta a lungo. Periodicamente apparivano artisti che sapevano dare una versione facile dei nuovi stili e perfino un maestro, di tanto talento in gioventú, come il Perugino seppe assicurarsi un immenso successo commerciale lusingando i gusti meno avvertiti di certo pubblico fiorentino. Un’opera della sua bottega come il Cenacolo di San Onofrio, che a noi sembra un capolavoro di facilità un po’ scipita, entusiasma- Storia dell’arte Einaudi 487 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze va le monache di via Faenza intorno al 150080. La selezione che ci presenta il Landino nella sua rassegna dei pittori nel 1481, quella di Verino nei suoi epigrammi De illustratione Urbis Florentiae, le pubblicazioni e gli interventi dei letterati non erano dunque superflui. Gli innovatori incontrano critiche ed è per questo che c’è chi li difende; indubbiamente essi trovano dei protettori e delle commissioni; ma anche per artisti come Verrocchio, Botticelli, Leonardo, l’attenzione ammirata con cui il pubblico li segue non esclude la diffidenza di certi settori dell’opinione pubblica. Se non fosse stato cosí non vedremmo Leonardo insistere, in una lettera indirizzata alla commissione civica di Piacenza, perché questa non scelga artisti apprezzati dal volgo, ma decida invece per quelli stimati dagli esperti, dai conoscitori. Questi sono evidentemente gli amatori, sensibili alla «qualità». E Leonardo è feroce con i pittori che credono di ottenere il successo a buon mercato insistendo su effetti di bella materia81. Lo stesso atteggiamento si vede nel 1482 tra i pittori che lavorano alla cappella Sistina, se dobbiamo credere a un famoso aneddoto: Cosimo Rosselli, per ignoranza o pigrizia, era ricorso a soprammissioni «di finissimi azzurri oltramarini e d’altri vivaci colori» e a lumeggiature d’oro; i suoi colleghi risero di lui, ma questi effetti di facile sfarzo suscitarono l’ammirazione del pontefice, che, fra l’indignazione di tutti, assegnò a lui il premio promesso per l’artista migliore82. Decisione che apparve scandalosa agli occhi dei toscani: il papa aveva misconosciuto ciò che era l’essenziale, «la dignità delle forme». Era convinzione fondamentale dei «moderni» che l’artista dovesse interrogare la natura e non tenersi agli schemi monotoni e ormai logori che si assimilavano copiando i modelli del passato. Ma le varie pratiche di bottega del Trecento non erano del tutto scomparse. La «natura» doveva ancora essere ridefinita, anche dopo che Storia dell’arte Einaudi 488 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze si era avuta l’esplicita dichiarazione del trattato della pittura, in cui l’Alberti schernisce gli sciocchi presuntuosi che pretendono meritare la fama «senza avere esempio alcuno dalla natura». Questi ignoranti non fanno che perpetuare i propri errori dato che sfugge loro il principio stesso della Bellezza, quel principio che gli stessi artisti avvertiti discernono a fatica: «fuggie l’ingegni non periti quella idea delle bellezze quali i beni exercitatissimi appena discernono»83. In tutte le polemiche artistiche del secolo ritorna una doppia affermazione che per altro per i novatori si riduce a una sola. L’idea della bellezza nasce dall’esplorazione della natura, ma la natura parla solo a chi sa interrogarla; la natura ubbidisce a una «idea della bellezza» che non si forma nello spirito senza di essa, ma che non può essere colta che dall’arte. Come è possibile questa operazione? Per la generazione del Verrocchio, del Botticelli, di Leonardo il rapporto tra esperienza e idea, tra reale e invenzione, tra la forma e il suo significato non è piú semplice. La tensione tra i due termini non poteva che farsi piú acuta nel momento in cui la natura assumeva un valore piú forte e la Bellezza diventava un’istanza piú tirannica. L’indizio piú significativo di quest’evoluzione è rappresentato dalla comparsa di un concetto nuovo dell’opera d’arte concepita ora come un tutto coerente, come una sorta d’organismo superiore alla semplice somma dei suoi elementi84. In un passo assai importante della sua Theologia platonica il Ficino aveva applicata questa nozione al cosmo: «Considera plantas et animalia, quorum singula membra ita disposita sunt ut alterum alterius gratia sit locatum, alterum, serviat alteri. Certo uno sublato, tota ferme compago dissolvitur. Cuncta denique membra, totius compositi gratia, sunt digesta... Tandem partes mundi cunctae ad unum quendam totius mundi decorem ita concurrunt, ut nihil subtrahi possit, nihil addi». Questo testo capitale è del 148285. Nel De Storia dell’arte Einaudi 489 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze re aedificatoria dell’Alberti, scritto venti o venticinque anni prima, ma pubblicato nel 1485, si legge ugualmente che la bellezza consiste in «certa cum ratione concinnitas universarum partium in eo cuius sint: ita ut addi, aut diminui, aut immutari possit nihil, quam improbabilius reddat»86. Si tratta di un’aggiunta importante alle definizioni date nel Della pittura; deciso ad evitare ogni nozione metafisica, l’Alberti si era limitato a riferire l’aneddoto delle figlie di Crotone scelte da Zeusi «per torre da queste qualunque bellezza lodata in una femmina»87. Questa operazione di scelta non è in realtà che un punto di partenza; il nuovo concetto indica invece in che cosa consista il punto d’arrivo del processo artistico. È stata una formula di Aristotele ad orientare i fiorentini. La si trova nella Poetica (VIII, 9), dove la definizione della poesia come màmhsij, viene immediatamente completata dal principio che nell’oggetto da imitare si debba considerare la coerenza interna che è ad esso essenziale: «Gli elementi di esso sono connessi in tal modo che se uno d’essi è modificato o tolto, l’insieme ne risulta distrutto o mutato, dato che se la presenza o l’assenza di qualche cosa non lo tocca vuol dire che questo qualcosa non è un elemento del tutto». Si tratta qui della «verità» alla quale deve aspirare il poeta, non della bellezza. La trasposizione compiuta dall’Alberti e dal Ficino è quindi tanto piú rilevante: pervenuta attraverso tramiti diretti o indiretti (Cicerone, Quintiliano), questa nozione dell’unità organica che fa la sua comparsa tardi, viene assunta risolutamente dall’Alberti per definire l’ideale della bellezza e dal Ficino per celebrare l’universo sub specie pulchri. In entrambi i casi è palese l’orrore del frammentario e di ciò che è diffuso: comunque questa definizione del bello artistico è l’unica che abbia avuto valore per il Rinascimento. Due analogie precise vi si avvertono alla base: l’analogia con l’essere vivo e l’analogia con l’universo; la stessa nozione Storia dell’arte Einaudi 490 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze che esprime l’ideale dell’arte vale anche per l’unità specifica della vita e per quella del mondo. Ed è un gioco d’equivalenze caratteristico del pensiero dell’epoca. A tale nozione si possono ricondurre le due preoccupazioni piú vive delle botteghe fiorentine: lo stretto rapporto tra arte e matematica e il desiderio di realizzare l’animazione completa delle figure. Il primo sembra riportare al noto principio del platonismo antico per il quale l’arte è subordinata alle forme assolute88; la seconda si ispira piuttosto ai principî del neoplatonismo e all’idea del valore «magico» delle forme. Siamo di fronte a un accordo che non può essere fortuito tra le formule riscoperte nei testi antichi e valorizzate dagli umanisti, e le iniziative degli artisti. È lecito chiedersi se in alcuni casi salienti queste non siano state stimolate da quelle. 1. L’estetica matematica. La prospettiva è in sostanza l’ottica. A questo titolo è raffigurata tra le arti liberali nella tomba bronzea di Sisto IV con un motto tratto dalla classica opera di John Peckham: Sine luce nihil videtur. Il trattato di Piero della Francesca, De perspectiva pingendi, propone un’ottica ad uso dei pittori. L’Alberti, nel suo trattato del 1435, in cui il primo libro è dedicato alla costruzione geometrica dello spazio, e tutti gli artisti che vollero esporre queste formule non pretendevano di fondare una scienza nuova, ma di trarre delle conclusioni pratiche, inedite, dalla teoria matematica della visione. Il procedimento costruttivo che consiste nel trattare il quadro come l’intersezione di un piano con la piramide ottica è apertamente derivato dalla geometria89; tuttavia l’Alberti mantiene un consapevole riserbo sulla natura stessa della visione. La novità in questo campo è consistita Storia dell’arte Einaudi 491 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze nell’arricchire la tradizione euclidea del «cono» di visione, figura che si adattava alla pratica della prospettiva assiale, quella di Giotto e dei trecentisti. Tre sono i fattori da considerare: la grandezza dell’oggetto, la sua distanza, il punto scelto per l’intersezione o piano del quadro. Si comincia di fatto con la definizione grafica di un vano spaziale. Questa perspectiva artificialis era la conclusione di una serie di esperienze condotte nel corso del Trecento intorno alla rappresentazione dello spazio (la Presentazione al tempio di Ambrogio Lorenzetti ne è l’esempio piú significativo); esse vengono normalizzate dal meccanismo del punto di fuga e dal gioco dei triangoli simili che definiscono le misure decrescenti sulle linee perpendicolari al piano del quadro, o ortogonali90. Per la prima volta i procedimenti erano cosí messi in rapporto con le dimostrazioni matematiche. La sua chiarezza e il garbo nell’esposizione rappresentano il merito durevole del trattato, ma la soluzione in esso proposta richiedeva dei perfezionamenti tecnici che si avranno agli inizi del Cinquecento91, e d’altronde essa non si poneva come l’unica soluzione possibile. Il fiorentino che si propose di definire le premesse scientifiche della prospettiva applicata non fu l’Alberti, ma il Ghiberti nel terzo libro dei suoi Commentari, scritti tra il 1450 e il 1460. La sua teoria dell’ottica è solo un mediocre compendio di testi tratti da quelle che erano considerate le autorità in materia, soprattutto John Peckham e Witelo. A questi egli deve l’idea che l’atto della visione implichi un giudizio intellettuale circa la valutazione delle distanze e accumula teoremi su teoremi per dimostrare che l’angolo visuale non basta a determinare le distanze; occorre invece la superficie piana orizzontale determinata dalle linee di fuga delle ortogonali. Questo piano di riferimento permette di intensificare e rendere piú fluida l’unità della composizione: i riquadri della seconda porta del Battistero lo Storia dell’arte Einaudi 492 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze mostrano chiaramente. Ed è tutto quello che il Ghiberti si attende dalla prospettiva92. Benché il nome del Brunelleschi venga cortesemente citato nella dedica del trattato albertiano, nulla ci dice che Filippo sia all’origine del metodo di costruzione che viene proposto nel De pictura. L’importanza storica delle dotte ricerche del Brunelleschi è stata messa in luce soprattutto dall’umanista della cerchia del Ficino che ha composto, intorno al 1480, la biografia del grande architetto: «E’ misse innanzi ed in atto, lui proprio, quello ch’e dipintori oggi dicono prospettiva»; questa scienza non è che una parte dello studio piú generale degli accrescimenti e delle diminuzioni proporzionali alle distanze, «e da lui è nato la regola». Il biografo fornisce la descrizione delle due tavolette (veduta del Battistero e veduta di palazzo Vecchio) dipinte a questo scopo dall’architetto, arrivando alla riscoperta di una disciplina antica93. In pratica esalta il Brunelleschi a scapito dell’Alberti che si dichiarava inventore del nuovo metodo. Questa piccola rivalità non manca d’interesse in quanto la nuova «scienza» presupponeva l’incontro tra la prospettiva dei pittori, che è un mezzo per ordinare la superficie del quadro, e quella degli architetti, che è un mezzo per concepire la distribuzione «armonica» degli edifici94. La funzione della prospettiva non è semplice né deve essere semplificata: essa permette di ricreare il reale, di organizzare la composizione su tre piani e di armonizzare l’insieme cosí formato con la superficie stessa del quadro95. Ogni artista se ne serve in modo diverso: Donatello è stato il primo a compiere un’esplorazione completa delle sue possibilità per giungere ad animare il piú possibile i suoi rilievi. I pittori moltiplicano come lui gli accorgimenti: personaggi-quinta, effetti di materia che riportano le forme verso il primo piano facendole partecipare alla distribuzione della superficie. Un esame Storia dell’arte Einaudi 493 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze piú preciso dei metodi rivela anche che la prospettiva in senso stretto, cioè a punto di fuga unico, che determina uno spazio cubico, non ha avuto affatto una prevalenza assoluta, nemmeno in Paolo Uccello che pure secondo la leggenda sarebbe stato il fanatico della prospettiva. Questa «leggenda» è tipica espressione della tendenza che porta a considerare l’artista come un «ricercatore», un discepolo d’Hermes, al servizio della Ragione universale. Ma Paolo Uccello solo raramente e tardi impiega il nuovo metodo. Lungi dall’essere un’applicazione rigorosa della prospettiva centrale, il celebre Diluvio presenta diversi punti di fuga, come se volesse suggerire un movimento rotatorio dell’occhio96. Ma, cosa ancora piú sorprendente, Paolo Uccello nella Natività di San Martino alla Scala sembra aver incrociato le ortogonali in funzione di due punti di fuga97. Le reazioni di Filippo Lippi non sono meno capricciose. Se ne deve concludere che gli artisti tenevano meno a una rappresentazione rigorosa dello spazio, e piú invece a una nuova gamma di effetti. Una prova di ciò si può vedere anche nel successo che incontrano gli studi di prospettiva nel campo della decorazione. Stando a un aneddoto celebre «Donatello scultore, suo amicissimo, gli [a Paolo Uccello] disse molte volte, mostrandogli Paolo mazzocchi a punte e a quadri tirati in prospettiva per diverse vedute, e palle a settantadue facce a punte di diamanti, e in ogni faccia trucioli avvolti su per li bastoni e altre bizzarrie in che spendeva e consumava il tempo: «Eh, Paolo, questa tua prospettiva ti fa lasciare il certo per l’incerto: queste sono cose che non servono se non a questi che fanno le tarsie...»»98. Questa osservazione caustica ha un doppio valore: mostra che fin dagli inizi lo studio dello spazio andava unito a quello dei corpi geometrici, e d’altro canto dimostra l’importanza delle tarsie. Lo studio dei solidi, non meno di quello delle distanze, fa parte della Storia dell’arte Einaudi 494 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze geometria dei pittori: l’astratta gabbia spaziale è fatta per accogliere corpi armoniosi, si tratti dei cinque corpi di Platone, che vantano una sorta di primogenitura cosmologica secondo la scienza contemporanea99, o di poliedri piú complessi, di corone e nastri di un ricco effetto ornamentale. È difficile non ricordare la definizione di Platone che ha sempre incantato gli ammiratori delle forme astratte: «Superfici e corpi che sono determinati dalla regola e dalla misura degli angoli sono belli non solo relativamente agli altri, ma sempre e in se stessi, e generano un piacere specifico che non ha nulla in comune con l’eccitamento dei sensi» (Filebo, 51 c)100. Si tratta del cubo, della sfera, della piramide, insomma delle figure geometriche che la voga della prospettiva ha contribuito a diffondere e che le tarsie hanno reso comuni nella decorazione. C’era in realtà un’affinità naturale tra la costruzione geometrica delle figure o quella dello spazio, costruzione che si fondava sull’articolazione dei piani, quindi su un ritagliarsi di forme semplici, e l’«intarsia» che procede per incastro di triangoli, quadrati e trapezi101. Vediamo in questo caso la forma matematica creare propriamente il suo oggetto. Il piano della prospettiva è una scacchiera: negli schemi costruttivi si parte da una trama regolare e i rettangoli uguali giustapposti generano, nella loro fuga, triangoli simili. Nulla di piú adatto per le tarsie. Quelli che vengono chiamati «maestri de prospettiva» sono in realtà «intarsiatori». Il legame tra la tecnica dell’«intarsia» e i montaggi prospettici sarà per mezzo secolo cosí stretto che è lecito riportare ad esso la voga delle decorazioni «astratte», soprattutto delle belle «prospettive urbane» o architetture pure. La loro origine va in realtà cercata nei pannelli intarsiati che ornavano le fronti dei cassoni o che erano posti alla parete entro incorniciature lignee, come è nel caso della decorazione ricordata dall’inventario dei Medici nella camera di Lorenzo102. Le Storia dell’arte Einaudi 495 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze vedute architettoniche che ci sono pervenute non hanno avuto altra destinazione: ornavano cassoni o pareti di stanze, sostituendosi alle scene narrative o alle decorazioni a fiori imitate dalle tappezzerie. Questo sviluppo in senso ornamentale della prospettiva e delle costruzioni astratte negli ultimi due terzi del secolo corrisponde a una «visione a priori», a un gusto delle forme geometriche, in cui il piacere della speculazione dà luogo a un fatto di stile. Era questo un modo di trarre conseguenze originali dalle conoscenze scientifiche e, in fin dei conti, di applicare all’arte certi teoremi. I principî filosofici della prospettiva si possono in realtà riportare all’idea che lo spazio è completamente attraversato dalla luce (è quindi «intelligibile») ed è di struttura matematica (è quindi misurabile). Sono due punti che, benché si possano già trovare in certi dotti del secolo XIII, hanno un’importanza centrale nella «fisica» del Quattrocento e nella dottrina del Ficino. In uno dei suoi trattati giovanili, le Quaestiones de luce, insiste sul fatto che la propagazione dei raggi luminosi non consiste in uno spostamento di elementi corporei. La luce è cioè «cosa spirituale» e non può che generare effetti intelligibili. Il commento al Timeo verrà a consolidare questa intuizione attraverso la teoria dell’anima del mondo e la concezione matematica dello spazio che ne deriva: «Non solum vero per numeros sed etiam per figuras describitur anima, ut per numeros quidem incorporea cogitetur, per figuras autem cognoscatur ad corpora naturaliter declinare»103. Il rapporto che intercorre tra il corpo e la realtà invisibile (o intelligibile) è lo stesso che corre tra la geometria e l’aritmetica o, se si vuole, tra la prospettiva e la musica. È questo l’ordine platonico che svolge l’intuizione del cosmo armonioso. L’arte può avvantaggiarsi tanto agevolmente (come pretendeva l’Alberti) delle «certezze» matematiche perché essa stessa procede da un sapere Storia dell’arte Einaudi 496 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze interamente predisposto al dispiegarsi di un cosmo «armonico». L’elogio supremo consisterà nel dire di un artista che ha attitudini alla geometria e alle proporzioni. Nella Summa aritmetica, pubblicata a Venezia nel 1494, il Pacioli fornisce l’elenco dei «pittori matematici», cioè di quegli artisti provetti che non maneggiano la prospettiva senza gli opportuni calcoli. È il passo famoso in cui cita il suo maestro, il monarca della pittura, Piero de’ Franceschi. Il suo elenco comprende il Mantegna, i Bellini, il Signorelli, Melozzo e, per Firenze, il Botticelli con i Ghirlandaio. Il Botticelli ha naturalmente un posto tra coloro che «sempre con libello e circino lor opere proportionando a perfection mirabile conducano»104. Sulla metà del secolo il Castagno e Piero della Francesca avevano fatto in questo senso della perspectiva artificialis la base indispensabile della grande pittura105. Nell’epoca successiva si ebbe per cosí dire un momento di rifiuto dei metodi albertiani: il Pollaiolo dispone liberamente le figure nel paesaggio, il Botticelli s’interessa alla linea, al profilo, agli accordi in superficie: cosa tanto piú significativa in quanto egli conosce perfettamente la «costruzione legittima», se ne serve quando lo ritiene opportuno e passa per maestro dell’«integra proporzione»106. La consapevolezza delle insufficienze artistiche della costruzione albertiana è forse piú forte ancora in Leonardo; infatti egli ha finalmente elaborato un metodo prospettico diverso da quello del Brunelleschi e dell’Alberti. Il Cellini nelle sue memorie accenna a un trattato di Leonardo che egli avrebbe acquistato in Francia e di cui loda la semplicità. Per quanto è possibile ricostruirlo, si trattava di una proiezione non su una superficie piana ma su una superficie sferica (il quadro non sarebbe che una proiezione piana di essa). Questo procedimento presenta il vantaggio di rispettare le leggi dell’apparente diminuzione allorché l’occhio si sposta Storia dell’arte Einaudi 497 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze lateralmente: è quindi una prospettiva sintetica piú flessibile del metodo antico. Leonardo scrive: «E di questa prospettiva semplicie della quale la pariete taglia le piramidi portatricie delle spetie all’ochio equalmente distanti dalla virtú visiva ci ne dà sperientia la curva lucie dell’ochio sopra la quale tali piramidi si tagliano equalmente distanti dalla virtú visiva» (ms E, fol. 16 a). Egli preferisce questo procedimento alla regola dell’Alberti, giudicata piú arbitraria, perché altera la diminuzione apparente degli oggetti situati ai margini del campo visivo107. La riforma della prospettiva è al centro delle preoccupazioni di Leonardo108. Tuttavia la pittura, che è scienza, e addirittura scienza per eccellenza, deve poter fornire «dimostrazioni matematiche». Il rigore dello strumento matematico chiaramente tende a conquistare «l’armonica proporzionalità la quale è composta di divine proporzioni». Questa insistenza categorica sul fondamento matematico del sapere trova la sua giustificazione ultima nel fatto che non c’è pittura senza dominio dell’armonia, e non c’è armonia senza «proporzionalità», non ci sono rapporti misurabili senza legge dei numeri109. Ma stringendo cosí i termini per meglio assicurare la «dignità delle forme», ci si urta a un limite astratto che non soddisfa lo spirito. L’armonia che si vuol raggiungere è l’unita stessa della natura, mentre invece le matematiche non sono che un aspetto dell’ottica. La pittura «universale» deve rispondere a una scienza «totale» della visione, ma per questa esistono tre prospettive: quella delle proporzioni decrescenti, quella della intensità decrescente dei colori, quella della «percettibilità». Esiste cioè tutta una serie di fenomeni tra i quali l’evanescenza degli oggetti e le illusioni della vista, che è essenziale alla pittura110. Leonardo rinuncia alla fine a una definizione unitaria. Giunge a raccomandare le regole prospettiche per il controllo delle figure, non per la Storia dell’arte Einaudi 498 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze composizione111; e addirittura a dubitare dell’applicazione della matematica all’arte: E se ’l Geometra riduce ogni superficie circondata da linee alla figura del quadrato et ogni corpo alla figura del cubo, e l’Aritmetica fa il simile co’ le sue radici cube e quadrate, queste due scientie non s’estendono, se non alla notitia della quantità continua e discontinua, ma della qualità non si travaglia, la quale è bellezza delle opere di natura et ornamento del mondo112. Dunque Leonardo ha avuto a piú riprese coscienza di un punto morto nella tentazione dei fiorentini di arrivare a un’identificazione tra scienza matematica e arte. E qui, in un certo senso, abbiamo la chiave della sua evoluzione. Nel suo crescente riserbo abbiamo uno sviluppo parallelo a quello dei filosofi che affermavano la necessità del principio matematico pur dichiarandolo insufficiente. Questa evoluzione può essere caratterizzata come un passaggio dal meccanico all’organico113. Le esperienze degli ultimi anni del secolo mostrano abbastanza chiaramente che nel campo del paesaggio e della figura, in quello dei valori e dei toni c’era una sorta di generale impazienza per le strutture «statiche». Si sopportava con minor convinzione l’autorità delle nobili definizioni dell’arte, per le quali lo spazio prospettico e il suo corollario, cioè i corpi puri, erano il contenente e il contenuto ideali della pittura114. Si instaura una sorta di concorrenza tra l’architettura e il paesaggio, tra la forma geometrica e la figura. Proprio da questa segreta difficoltà nascerà la composizione «classica». La predilezione di Leonardo, e dopo di lui di Raffaello, per il gruppo piramidale risponde al desiderio di ristabilire l’ordinamento geometrico di Piero in un nuovo clima115. Ma caratteristico di Raffaello è stato per l’appunto di cercare l’unità completa di struttura ed espressione sfug- Storia dell’arte Einaudi 499 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze gendo al conflitto dei due princìpi che ha affaticato Leonardo. 2. La vita e il movimento. Il Quattrocento ha scoperto il fascino del «movimento» e della forma «dinamizzata» con una freschezza di cui è prova, ancora una volta, un passo dell’Alberti: Noi dipintori i quali volliamo coi movimenti delle membra mostrare i movimenti dell’animo... Cosí adunque conviene sieno a i pictori notissimi tutti i movimenti del corpo quali bene impareranno dalla natura, bene che sia cosa difficile imitare i molti movimenti dello animo. Et chi mai credesse, se non provando, tanto essere difficile – volendo dipigniere uno viso che rida, schifare di non lo fare piuttosto piangioso che lieto? Et ancora chi mai potesse senza grandissimo studio exprimere visi nel quale la bocca, il mento, li occhi, le guance, il fronte, i cigli tutti ad uno ridere o piangere convengono? Per questo molto conviensi impararli da la natura et sempre seguire cose molto prompte et quali lassino da pensare, a chi le guarda, molto piú che elli non vede116. Nell’operetta De statua queste osservazioni sono estese alla scultura e completate dallo studio delle proporzioni del corpo umano. Sono queste difatti le due facce dell’«antropologia estetica» che comincia col «canone» e finisce con la «fisiognomica»117. Uno degli aspetti piú originali del platonismo fiorentino è stato infatti il suo insistere sul fatto che ogni forma visibile è viva, animata, dotata di movimento, e che il principio di ogni movimento è l’anima stessa: nozioni che sono strettamente connesse. Il Ficino riassume uno stato d’animo generale: «per ejus praesen- Storia dell’arte Einaudi 500 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze tiam apparet in corpore imago aliqua per se mobilis facultatis, fitque ibi motus in omnem partem quod significat animam esse fontem motus unde libera et universalis effluit agitatio»118. Per contro, tutti i movimenti dei corpi visibili rimandano a una forma animata che li dirige. Il muoversi del corpo vivo è per l’appunto il linguaggio dell’anima, e quanto piú esso è frenetico tanto piú rivela l’impulso psichico, il vivido segreto della realtà. Cosí si arriverà a fare l’elogio della danza e soprattutto delle danze violente, dionisiache: «a Baccho [habemus] festivam in motu membrorum concinnitatem»: cioè le danze dionisiache erano considerate le piú significative, le piú belle. La dottrina umanistica anche in questo caso non faceva che fornire una giustificazione e illustrare ciò che interessava gli artisti toscani. Per i piú moderni di essi quella «dignità delle forme» che si rivolge all’intelligenza degli intenditori non consiste solo nella «symetria», ma anche nella «vita». Si trattava in pratica di spezzare i canoni fissati nel Trecento e che continuavano ad aver corso nelle botteghe popolari. Questa esigenza però attendeva ancora d’essere definita e d’altronde apriva la strada a stili molto diversi. Allorché scriveva che un filosofo in conversazione doveva mostrare un contegno misurato e non un gestire come uno schermitore l’Alberti pensava probabilmente ai Santi e Dottori di Donatello; questa stessa critica circa il loro moto eccessivo verrà ripresa qualche tempo dopo dal Filarete. Forse è stato il Ghiberti nella seconda porta del Battistero a realizzare piú pienamente l’ideale di elegante vitalità vagheggiato dall’Alberti119. Donatello aveva dalla sua l’autorità e l’esempio concreto dei putti e dei baccanali antichi. Verso il 1460 è ormai generale a Firenze la reazione contro lo stile grave e misurato, gli atteggiamenti calmi. Nell’incisione si moltiplicano le figure che saltano e danzano120. Il Pol- Storia dell’arte Einaudi 501 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze laiolo dipinge ad Arcetri i suoi «baccanti» frenetici, disarticolati dal moto. Ormai sono di moda tutte le forme di vitalità intensa e vigore d’espressione. Il Pollaiolo, l’unico pittore per il quale, a quanto si sa, il Ficino ha dimostrato interesse, ha proposto in questo senso delle novità sensazionali. Il Vasari non manca di rilevare la sua originalità: «Egli s’intese degl’ignudi piú modernamente che fatto non avevano gli altri maestri innanzi a lui, e scorticò molti uomini per vedere la notomia lor sotto, e fu primo a mostrare il modo di cercare i muscoli, che avessero forma e ordine nelle figure»121. Lo storico cita l’incisione della Battaglia dei nudi come esempio tipico dello stile «energico» che ne deriva; si possono citare ugualmente il disegno con Adamo degli Uffizi, le statuette e la serie dipinta delle Fatiche d’Ercole. È indubbio che Antonio ha scelto il tema dell’eroe «fisico» per esemplificare un nuovo canone della figura in azione122. L’unico maestro che abbia avuto in egual misura questi stessi problemi è il Signorelli. Egli conserva dell’insegnamento di Piero della Francesca il gusto per i gruppi statici e i gesti contenuti, ma le sue figure hanno una carica nervosa che è quanto mai lontana dall’impassibilità del maestro di Borgo123. Lo stile «coreografico» ha avuto a Firenze uno sviluppo tale che merita di essere considerato. In certi casi esso ritrova dei ritmi «gotici», che possono anche prevalere sulle conoscenze anatomiche e sul senso della vita organica. Già certi disegni del Pollaiolo ci mostrano delle figure a puro contorno, senza modellato, che sono delle sintesi astratte in cui è la sola linea ad avere funzione espressiva. Il braccio che si torce, la gamba che si piega diventano degli arabeschi funzionali124. Attraverso una sorta di «sublimazione» l’arte del Botticelli è in parte uscita di qui125. La danza è per lui come lo stato naturale del corpo, il segno piú efficace dei movimenti dell’anima. E tutto è intensamente voluto. La pratica del Storia dell’arte Einaudi 502 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze Botticelli si accorda con le osservazioni sistematiche abbozzate dall’Alberti sull’ondeggiare dei veli delle ninfe, sul volo capriccioso delle capigliature, sul piegarsi delle mani126. Mai la mimica affettiva è giunta a tanta acutezza; e di qui è venuta un’arte essenzialmente di contorni che non consentiva di dare importanza, se non occasionalmente, alla composizione matematica. L’agitazione e la mimica che non conosce se non la gioia sfrenata o la malinconia, suppongono una tensione nervosa che, agli occhi degli amici del Ficino, accresceva in misura singolare la «dignità» delle forme. Tuttavia, già dal 1475, cominciava a delinearsi una tendenza alla stasi, un ritorno all’impassibilità che il Verrocchio prepara col suo consueto senso di responsabilità e che troverà piena attuazione essenzialmente con Leonardo. Il movimento violento non è piú un ideale. Lo sfoggio di muscolature aveva potuto essere considerato come un mezzo particolarmente indicato per imprimere alle figure quel movimento, che era considerato segno immediato della vita. Ad ogni pagina il Ficino insiste su questa verità, che, secondo lui, dimostra che la natura vive non meno dell’uomo, poiché anch’essa, come l’uomo, danza negli elementi, negli animali, nelle piante che crescono, dando lo spettacolo di un movimento infinitamente differenziato e di una mobilità prodigiosa. Questa agitazione confusa diventa intelligibile nell’ordine del cielo: si può, quindi si deve, descrivere l’essenza delle cose come una mirabile danza: ne è simbolo la danza eterna delle muse. Ci si può anche servire della metafora del viso ridente, dato che l’universo si comunica attraverso un raggiare simile a un sorriso, «quel gratissimo riso il perfetto contento ci rappresenta: del quale la virtú stessa ci riempie e una secura felicità della vita»127. La «fisiognomica» è l’aspetto essenziale dell’essere universale. Grazie ad essa, il corpo umano ha in sé una forza di comunicazione completa; Storia dell’arte Einaudi 503 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze soprattutto il viso: tu sai, – scrive il Ficino, – quanto facilmente il viso d’un uomo in lacrime svegli la pietà, quanto la figura d’una persona gentile colpisca e agisca immediatamente sugli occhi, l’immaginazione, lo spirito, gli umori... Di qui la forza dell’arte che dispone di tutti questi segni128. Leonardo era perfettamente consapevole che queste speculazioni interessavano l’arte del pittore: «Si prova la pittura essere filosofia, perché essa tratta del moto de corpi nella prontitudine delle loro azioni, e la filosofia anchora lei s’estende nel moto»129. È la concezione dell’Alberti, ma Leonardo moltiplica le precauzioni: critica i nudi troppo muscolosi e le anatomie bozzolute, simili a sacchi di noci, della scuola del Pollaiolo. Condanna la monotonia dei tipi derivante da un canone troppo rigido, analizzando quello che egli considera il maggior difetto dei pittori: «Sommo difetto è de’ pittori replicare li medesimi moti e medesimi volti e maniere di panni in una medesima istoria, e fare la magiore parte de’ volti che somigliano a’lloro maestro, la quale cosa m’ha molte volte... dato admiratione». La sua spiegazione è ben nota: si tratta di un’insidia dell’impulso soggettivo. L’anima del pittore s’invaghisce incoscientemente di un certo tipo e spinge il pittore a raffigurarlo. Occorre difendersene e «fare la sua figura sopra la regola d’un corpo naturale, il quale comunemente sia di proportione laudabile, oltre di questa far misurare se medesimo»130. In altre parole occorre una regola critica per giungere a una sorta d’impersonalità, alla distanza necessaria alla grande arte. Dopo il Ghiberti il gusto delle forme aggraziate e dei gruppi quietamente ordinati non era andato perduto nell’arte fiorentina. La crisi degli anni sessanta non aveva impedito l’arte deliziosa e misurata di Desiderio. L’incontro di quest’arte delicata con l’«espressionismo» avvenne nel Verrocchio. Occorreva scegliere nella Storia dell’arte Einaudi 504 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze gamma dei sentimenti: il Verrocchio definisce ancor meglio il tipo soave dell’adolescente e il tipo violento del guerriero, ed oppone cosí dolcezza e «terribilità» in un celebre rilievo doppio. Il suo restauro del Fauno scorticato costituisce un vero e proprio esercizio di «fisiognomica» applicata. Il viso calmo del Cristo resuscitato di Careggi, se l’opera data veramente del 1465, indica una ricerca nuova, che sfocia nel gruppo bronzeo dell’Incredulità di san Tommaso per la nicchia d’Orsammichele, eseguito intorno al 1475-80, in cui il modellato è tutto quanto subordinato alla realizzazione di una sorta di difficile sorriso131. In realtà verso il 1480 si veniva generalizzando un tipo d’espressione sottilmente distante e ambigua, in cui si dovevano sentir passare emozioni opposte e quel moto interiore che sottrae l’anima ai sussulti tumultuosi dell’animalità132. È ciò che svilupperà Leonardo con una esatta padronanza del gioco dei muscoli che regolano l’espressione «contenuta» e un senso eccezionale del movimento dolce e continuo, l’unico capace di suggerire la seduzione elusiva della grazia133. Fra le molte ricerche di Leonardo quelle da lui condotte nel campo della fisiologia applicata sono state le piú laboriose. Il trattato di anatomia che ne era la base solo per poco non fu pubblicato. I disegni anatomici di Leonardo sono particolarmente numerosi. Certi sono degli schemi che compendiano le conoscenze comuni, altri sono note personali, altri infine sono studi comparativi sulla struttura umana e quella animale o quelle sorprendenti variazioni «fisiognomiche» sui visi mostruosi, in cui si costruiscono esseri «possibili» a partire da elementi d’osservazione134. I suoi lavori furono poco conosciuti, ma basta qualche esempio a far apparire come ormai desuete le immagini anteriori. Dopo il 1500 il Botticelli, cosí indifferente alle forme anatomiche, risulta ben presto, nonostante le sue grandi qualità gra- Storia dell’arte Einaudi 505 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze fiche e i suoi effetti di movimento, fuori moda. Le conoscenze anatomiche diventano necessarie per realizzare un minimo di eloquenza espressiva. Il Vasari molto acutamente ha notato come Raffaello si sia liberato dalla inerte maniera del Perugino grazie ad alcuni studi d’anatomia: aveva imparato a conoscere le attaccature dei muscoli e i loro meccanismi e aveva cosí scoperto il segreto dei movimenti delicati e graziosi135. Le conoscenze scientifiche vengono in questo caso a confermare uno stile. Alla dolce anatomia di Raffaello si contrappone quella di Michelangelo; e il suo interesse per i problemi anatomici era cosí vivo che un trattato d’anatomia fu l’unico di scienza applicata che abbia mai pensato di scrivere136. In realtà l’anatomia non è che la base di una «fisiognomica» estesa a tutto l’organismo: la meccanica del corpo non è distinta da quella dell’anima. E la figura in movimento ha la possibilità di significare tutto. 3. L’uomo e il mondo. Lo sviluppo artistico del Quattrocento si presenta dunque nient’affatto lineare. Intorno al 1460 si moltiplicano i segni di mutamenti negli interessi delle botteghe italiane. In un’arte maturata sulle grandi esperienze di Masaccio e di Piero e stimolata dagli esempi fiamminghi, si vedono riaffiorare due inclinazioni che erano state proprie del Trecento toscano: il gusto della figura individualizzata e il gusto dei grandi panorami. La posizione di Firenze è tuttavia meno brillante che agli inizi del secolo: i suoi scultori e i suoi architetti dominano ancora la penisola, ma questo non avviene piú per i suoi pittori. I prelati di Roma o i notabili di Venezia non chiedono al Pollaiolo e al Verrocchio i loro quadri. Firenze ha perduto l’iniziativa, anche se ha dei mae- Storia dell’arte Einaudi 506 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze stri che non sono da meno delle grandi personalità di Venezia o di Ferrara. Ma né un Botticelli né un Filippino suscitano interesse fuori della Toscana: solo Leonardo ha un peso, ma per l’appunto egli sfugge per molti aspetti ai limiti della scuola. Si ha indubbiamente nella pittura fiorentina degli anni ’70-95 la tendenza a un ripiegamento locale; le iniziative sono meno risolute, sia che si senta il bisogno di assimilare le novità, sia che si accentui l’aspetto intellettuale e voluto delle forme: si indovina una coscienza piú viva, ma un po’ paralizzante dei «problemi». I cronisti confermano l’impressione suggerita dalle opere: a volte si nota una concentrazione estrema nel lavoro e artisti che si applicano all’infinito (e il caso di Lorenzo di Credi che si preoccupava minuziosamente dei minimi particolari tecnici e «non voleva che si facesse alcun movimento che potesse far polvere» al punto che il Vasari lo biasima per il troppo zelo)137, a volte una sottile inquietudine psicologica e per cosí dire un continuo interrogarsi sulle ragioni d’essere e sulla dignità dell’arte, che la crisi «piagnona» poi esaspererà e devierà138. L’artista si interroga sui mezzi e i fini; quando è piú cosciente, cerca delle giustificazioni. I problemi talvolta danno luogo a dilemmi che non scompariranno piú. Nel Purgatorio Dante, mentre cammina tra le anime senza corpo, è tradito dalla sua ombra: Quando s’accorser ch’i’ non dava loco per lo mio corpo al trapassar de’ raggi (Purgatorio, V, 25-26). L’ombra portata delle figure umane ha per l’appunto una funzione capitale nel ciclo di Masaccio al Carmine, come se in essa egli avesse visto il mezzo per definire e magnificare l’esistenza terrestre139. Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso, san Pietro che guarisce con l’om- Storia dell’arte Einaudi 507 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze bra gli infermi, i passanti sulle piazze cittadine affermano per la prima volta nella pittura il loro volume e la loro opacità. Questa robusta concezione sarà portata dal Castagno fino all’affermazione plastica totale delle figure nella loro massa e nella loro pesantezza. Ma gli sviluppi successivi dell’arte fiorentina non faranno che allontanarsi da questa definizione serrata piú adatta alla creazione di tipi, ad esempio gli Uomini illustri, che non alla forma moderna del ritratto. L’Alberti interpretava le idee comuni allorché ricordava che la forza veramente divina della pittura consiste nel fatto che essa può rendere presenti gli assenti e i morti140. Il ritratto si sviluppa dovunque nel corso del Quattrocento; ma l’atteggiamento dei fiorentini verso di esso dimostra una coscienza esigente e inquieta. Essi presentano dapprima una grande fedeltà alla «figura di profilo», il cui tipo risale forse a Giotto141 e che aveva grande prestigio grazie ai medaglioni antichi. L’idea fondamentale di questo genere classico perdura a Firenze dove il volto reso con il solo contorno conobbe, a partire dal 1440, una voga interessante: anziché una visione completa, con tutti gli accidenti dello sguardo e della maschera, esso fornisce un’interpretazione leggera e distaccata, per cosí dire l’immagine «immortale» del personaggio. Intorno al 1460-80 la figura di profilo, per contrasto al ritratto monumentale, diventa il mezzo per collocare il modello in una sfera lontana e accentuare il contorno che gli conferisce qualcosa di «immateriale». Il Pollaiolo, è vero, fa ruotare leggermente il modello per dare l’impressione che la figura sia uscita dal suo isolamento e tenga conto dello spettatore, ma rimane dominato dalla tendenza opposta, cioè quella di accentuare la distanza morale del personaggio. Il Botticelli introduce allora una nota originale di malinconia e di distacco che indubbiamente conferisce uno stile a un elemento della psicologia del tempo. Egli presenta il viso di per se stesso, Storia dell’arte Einaudi 508 André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze nella sua singolarità; la posa di tre quarti o di fronte è sottolineata da fondi uniti, e il viso, in cui dominano la struttura ossea, la bocca e gli occhi (mentre manca ogni attenzione agli accidenti epidermici), viene accentuato da un atteggiamento distratto, fantasticante. Egli ha in questo modo fissato «quel malinconico che suol dar spesso la pittura a’ ritratti che si fanno», per usare le parole del Vasari a proposito della Gioconda. Questi ritratti ricercati erano in intimo accordo con il gusto fiorentino: se ne ha la prova nella voga parallela dei busti in bronzo, e soprattutto in marmo, che, intorno al 1460, erano diventati una specialità toscana. Partendo dalle sue Madonne e dai suoi san Giovannini, Desiderio diffonde presto la moda di un tipo di giovane donna e di giovane gentiluomo dal contegno dolce e calcolato che forma un bel volume senza pieghe né accidentalità troppo marcate. Questi busti, per la stessa discrezione dello stile, sono individualizzati in un modo meno energico di quelli di Antonio Rossellino, Mino da Fiesole e Antonio Pollaiolo142. La scultura fiorentina tende cosí a fissarsi su due soli registri: quello della grazia e della verginità sorridente, e quello dell’energia contenuta. Quasi tutti i ritratti in scultura dell’epoca vengono cosí ad essere influenzati da modelli ideali che sono quelli dell’arte religiosa o, grazie a una innovazione che ormai era necessaria, quelli della storia: certe figure di «uomini famosi» come il prezioso rilievo di Cesare del Louvre, opera di Desiderio da Settignano, o quelli del Verrocchio definiscono delle categorie ideali del ritratto nelle quali rientrano le individualità singole. Gli antichi tipi del magistrato, del guerriero, dell’uomo di studio ecc. resistono tuttora; ma anziché caratterizzarli attraverso il costume, gli emblemi, o un atteggiamen