Arte e umanesimo
a Firenze al
tempo di Lorenzo
il Magnifico
di André Chastel
Storia dell’arte Einaudi
1
Edizione di riferimento:
André Chastel, Arte e umanesimo a Firenze al tempo
di Lorenzo il Magnifico. Studi sul Rinascimento e sull’umanesimo platonico, trad. it. di Renzo Federici,
Einaudi, Torino 1964
Titolo originale:
Art et Humanisme à Florence au temps de Laurent le
Magnifique. Études sur la Renaissance et l’Humanisme
platonicien
© 1959 Presses Universitaires de France
Storia dell’arte Einaudi
2
Indice
Prefazione
10
Introduzione La leggenda medicea
Il mecenatismo di Lorenzo
La politica di prestigio artistico
L’azione personale
La «Scuola del giardino di San Marco»
La leggenda dell’«età d’oro»
25
29
30
34
37
45
48
Appendice I ritratti degli umanisti
Parte prima Artisti e umanisti
sezione prima Le collezioni
60
Introduzione Le incertezze del museo fiorentino
60
i. Il medaglione del «carro dell’anima»
70
ii. I medaglioni di palazzo Medici e la corniola
di Cosimo
77
iii. Le figure «dionisiache» di Donatello
89
iv. Il museo etrusco e l’ «etruscan revival»
99
v. Il busto di Platone
111
vi. I bronzi di Bertoldo
115
sezione seconda I testi
145
Introduzione Le pubblicazioni dell’Accademia di
Careggi
145
Appendice I manoscritti miniati degli umanisti
150
i. Le strutture umanistiche della storia dell’arte 156
ii. Le strutture umanistiche della teoria dell’arte 162
Storia dell’arte Einaudi
3
Indice
iii. Dante, l’Accademia platonica e gli artisti
1 L’annessione di Dante da parte dell’Accademia platonica
2. Il ritratto di Dante
3. I manoscritti e le edizioni illustrate della
«Commedia»
4. Due interpretazioni della «Commedia»:
Botticelli e Signorelli
5. Cosmologia e simboli: Leonardo e Giuliano da Sangallo
6. Dante e l’arte classica: Raffaello e Michelangelo
177
sezione terza I programmi
Introduzione Il paradigma dell’architetto
i. Il Tempio
ii. La villa
Poggio a Caiano
iii. La decorazione sacra: il rinnovamento del
mosaico e le tombe
Il mosaico fiorentino
Le tombe
iv. La decorazione profana
La villa di Spedaletto
Cicli botticelliani nelle ville
Il palazzetto di Bartolomeo Scala
Le tavole per interni di Botticelli e Piero
di Cosimo
224
224
235
246
250
177
182
184
188
195
199
259
259
266
273
277
278
282
283
Storia dell’arte Einaudi
4
Indice
Parte seconda Problemi dell’iconografia e dello stile
Introduzione L’originalità di Firenze
Le feste
L’ellenismo
Una dottrina della poesia e dell’arte
La «musica» e la cultura delle botteghe degli
artisti
304
306
307
311
sezione prima Il regno delle immagini
Introduzione Il profano e il sacro
i. La natura
1.La sfera e gli elementi
2.I cicli del tempo a Poggio a Caiano
3. «Pan Saturnius»
ii. La storia
1. La storia profetica
2. La storia sacerdotale. L’adorazione dei Magi
3. I saggi e gli eroi
iii. Il sapere
1 . Le sette Arti e le Muse
2. Pallade medicea
iv. La vita dell’anima
1. Le tre Grazie
2. I due Amori
3. La nuova «psicomachia»
326
326
342
344
358
368
378
381
385
386
404
406
411
426
420
422
425
313
Storia dell’arte Einaudi
5
Indice
sezione seconda L’esigenza della bellezza
Introduzione La metafisica del bello e gli artisti
i. «Eros socraticus»
ii. La dignità delle forme
1. L’estetica matematica
2. La vita e il movimento
3. L’uomo e il mondo
iii. L’«idea» artistica e i problemi di bottega
I problemi del colore
Il primato del disegno
Il disegno e l’invenzione
L’invenzione e il «non finito»
La decorazione animata
461
461
475
487
492
500
506
516
518
521
523
527
539
Parte terza I maestri e le città
Introduzione Il mito rinascimentale: età d’oro e
563
catastrofi
sezione prima Le iniziative dei condottieri
L’arte «umanistica» a Rimini e a Urbino
1. Praeclarum Arimini Templum
2. Il palazzo d’Urbino
582
582
583
591
sezione seconda Le incertezze fiorentine
i. Botticelli e la drammaturgia sensibile
ii. Filippino Lippi: le singolarità del paganesimo
iii. Il Savonarola e l’arte
615
622
633
641
Storia dell’arte Einaudi
6
Indice
sezione terza Leonardo da Vinci e il neoplatonismo
i. Leonardo a Firenze
ii. La «scienza» di Leonardo e la reazione antiplatonica
1. La visione della natura
2. Il primato della pittura
3. Scoperta dell’ambiguità
iii. La verità dell’arte
1. L’«Adorazione dei Magi»
2. Il sorriso e il furore
3. La caverna e le lontananze
661
sezione quarta I cicli umbri
1. Gli appartamenti Borgia
2. La sala del Cambio di Perugia
3. La cappella di San Brizio a Orvieto
730
731
733
734
sezione quinta Le certezze romane: Giulio II e
l’arte sacra
i. Il nuovo San Pietro e il problema del mausoleo
ii. Lo «speculum historiale»: la volta della Sistina
iii. Lo «speculum doctrinale»: la stanza della
Segnatura
Il trionfo del Sacramento
La «Scuola d’Atene»
Il Parnaso
La Giustizia e le Virtú
663
670
675
683
691
697
699
702
707
742
752
760
764
771
773
777
783
Storia dell’arte Einaudi
7
Indice
conclusione Il genio e le regole
La gloria dei maestri e l’età delle accademie
i. La gloria di Raffaello: il trionfo d’Eros
2. La grandezza di Leonardo: il trionfo d’Hermes
3. La tragedia di Michelangelo: il trionfo di Saturno
4. L’età delle accademie
796
796
799
812
820
831
Riferimenti bibliografici principali
855
Titoli abbreviati dei periodici
856
Bibliografia
857
Storia dell’arte Einaudi
8
arte e umanesimo a firenze
Alla memoria di Henri Focillon e Augustin Renaudet
Storia dell’arte Einaudi
9
Prefazione
Taine, che fu un eccellente osservatore, anche se con
troppa disinvoltura passava poi alla sintesi, racconta di
aver indugiato per ore in contemplazione delle opere fiorentine della seconda metà del Quattrocento: «Momento incantevole, delicata aurora che è la giovinezza dell’anima, in cui l’uomo per la prima volta scopre la poesia delle cose reali. In quel momento non traccia linea
che non esprima un sentimento personale; ciò che racconta l’ha veramente provato; non esiste ancora una
forma di maniera che racchiuda in una bellezza convenzionale le aspirazioni nascenti del suo cuore...»1. E
lo storico passa subito al tentativo di definire l’ambiente e l’epoca che hanno permesso tanta freschezza e originalità. Un certo stato della società determina l’atteggiamento intellettuale da cui si deve dedurre questo
«momento incantevole» dell’arte.
Firenze era, ai tempi del Magnifico, nelle mani di
«una società di ricchi mercanti, che amano l’antichità e
vogliono vivere allegramente». Quali sono le loro preoccupazioni intellettuali? L’atteggiamento essenziale, da
cui «gli altri derivano» è «la ricerca di un’umanità completa», «l’appagamento degli istinti nobili, non meno di
quelli naturali». Donde una sorta di «festa dell’intelligenza» che tutto dispone e comprende. Anziché combattere il cristianesimo, essi l’interpretano; la loro tolleranza è quella dei contemporanei di Goethe e Marsi-
Storia dell’arte Einaudi
10
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
lio Ficino sembra uno Schleiermacher. La sua opera è
agevolmente definita: «Unendo la filosofia, la fede e le
scienze, ne compone un edificio armonioso in cui la saggezza laica e il dogma rivelato si completano e si affinano
reciprocamente, non solo per fornire un rifugio e delle
immagini a una folla grossolana, ma anche per aprire
un’aerea balconata e delle prospettive indefinite all’élite degli spiriti pensanti».
Questa evocazione suggestiva, e un po’ facile, veniva ad aggiungere, con un tocco di cultura delicata, un’interessante dimensione filosofica all’idea che ci si faceva
dopo il Roscoe e il Rio dell’arte dei «primitivi»2: si continua a giudicare i fiorentini sulla base del loro candore
d’immaginazione e della loro freschezza di sentimento,
ma non si tratta piú di effusione ingenua e di semplicità
cristiana. Questa immagine venne tuttavia a complicarsi, sulla fine del secolo, delle curiose fantasticherie di
Huysmans, di Péladan e dei poeti decadenti, che andavano scoprendo nell’eleganza fiorentina straordinarie
perversità, che trovavano la Primavera «satanica, irresistibile e terrificante» (Jean Lorrain), e attribuivano le
piú torbide intenzioni a Botticelli, Leonardo, o Signorelli3. I platonici di Careggi non erano piú dei sognatori tolleranti e sensibili, ma degli «iniziati», adepti di una
teosofia misteriosa che s’imponeva agli artisti superiori
e di cui Gustave Moreau, quale lo interpretava Péladan,
era il vero erede. Il fascino misterioso dell’esoterismo,
che allora venne ad avvolgere della sua bruma il Rinascimento fiorentino, non si è ancora del tutto dissipato.
L’interesse per «l’età d’oro fiorentina», per l’arte
del tempo di Lorenzo, si è cosi trovato connesso a due
immagini ugualmente suggestive ed arbitrarie d’una
civiltà perduta. Attraverso i grandi dilettanti, come
Walter Pater, Suarès o Proust, che seppero approfittarne, il fascino di questo episodio singolare dell’arte e
della cultura venne insomma ad essere definito in ter-
Storia dell’arte Einaudi
11
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
mini che gli storici non osavano o non sapevano smentire. L’interpretazione poetica e letteraria di quest’epoca non ha in seguito affatto proceduto; le ricerche precise cominciate piú di mezzo secolo fa sul mecenatismo
mediceo, sulla esatta natura del movimento platonico,
sulla crisi dell’arte fiorentina, hanno spostato tutti i termini di tale interpretazione, tuttavia un’immagine d’insieme nuova dell’epoca non è venuta a sostituirsi a quella – o quelle – del secolo scorso. Queste sono invecchiate, come lo sono del resto i sentimenti e i valori che
esse sembravano celebrare; il gusto attuale se n’è in
certa misura allontanato. Tuttavia una vera e propria
disamina critica non ne è avvenuta. In questo volume ci
siamo appunto sforzati di raccogliere gli elementi per un
quadro d’insieme nuovo.
L’ampiezza del «movimento» platonico e il suo successo a Firenze sono fuori discussione; ma questo «movimento» non esaurisce l’intera storia dell’umanesimo fiorentino4. Dal 1460-70 in poi ci si viene sempre piú allontanando dalle preoccupazioni morali e letterarie della
prima generazione. Il gruppo, per altro fragile e ben presto diviso, dell’Accademia era animato da un’ambizione dichiarata di renovatio universale, che, dopo il 1480,
fece in pochi anni di queste dottrine una delle forze conduttrici della cultura italiana: il neoplatonismo si trovò,
verso la fine del secolo, al centro di quello che si può
chiamare il «mito del Rinascimento». Ma il suo fondamentale sincretismo, il suo orientamento idealistico, le
sue esigenze speculative rispondevano a un disagio, a
una situazione inquieta della cultura. A Firenze non
tutti gli spiriti erano attratti dalle sue tendenze; non solo
c’erano degli scettici e degli avversari, ma il grammatico Landino, il poeta Poliziano e un po’ piú tardi Pico il
metafisico sono ben lontani dall’essere su tutti i punti
d’accordo con l’insegnamento spesso incerto e ondeggiante del Ficino. Per lo meno in questo clima intellet-
Storia dell’arte Einaudi
12
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
tuale nuovo sono state elaborate e in certi casi rese esplicite le idee fondamentali dell’epoca: la nozione dell’uomo-centro del mondo, quella di un cosmo organico, la
scoperta dell’antichità come civiltà completa. Erano
concezioni destinate a sconvolgere quella che era l’economia corrente del sapere e le tradizioni della cultura;
ma piú ancora a questo risultato avrebbe portato l’accento che veniva posto volta a volta sul valore metafisico del Bello, sulla dignità del poeta e dell’artista. sulla
legge «musicale» dell’universo, sulla funzione misteriosa dell’amore, l’interesse per i simboli, giú giú fino al
senso del difficile destino dell’anima d’eccezione5.
Considerata in modo meno generico, la Firenze dei
tempi del Magnifico offre lo spettacolo di una città in
cui i problemi sono piú numerosi delle certezze. L’immagine suggestiva e soave di paradiso della cultura può
valere per essa solo come eco di aspirazioni confuse,
come il sogno grazie al quale l’epoca sperò di superare
le difficoltà del momento, prima di farne il rifugio che
permettesse d’eluderle. Sarebbe estremamente fallace
voler spiegare questo sviluppo storico col conflitto tra
nozioni tradizionali e un pensiero già «moderno». Siamo
indubbiamente alla sutura di due epoche della storia; ma
la cultura che si elabora a Firenze e che si imporrà al
Rinascimento formula i problemi in termini tali che la
distinguono sia dall’epoca che la seguirà come da quella che l’ha preceduta. La situazione intellettuale alla
fine del Quattrocento non può essere definita correttamente se non servendosi delle nozioni ad essa proprie.
Era quindi necessario tentar di definirne qualcuna. Per
comodità d’esposizione, ma anche perché essa è stata
finora impropriamente valutata nel suo tono e nell’influenza che essa ha avuto, ci siamo riferiti di preferenza all’opera di Marsilio Ficino.
Abbiamo dunque affrontato nel loro sviluppo e, per
cosí dire, nella loro «problematica» particolare, i rap-
Storia dell’arte Einaudi
13
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
porti tra arte e umanesimo. All’epoca in cui la storia dell’arte era semplicemente un capitolo della storia della
cultura, l’accordo tra questi due campi era ovvio. Proprio contro questo «rapporto evidente» abbiamo ritenuto utile reagire. Come intendere l’accordo tra una
cerchia di intellettuali sorpresi delle loro scoperte e dei
pittori o degli scultori anch’essi assillati dal problema di
nuove forme e di un nuovo stile? Dove e come avviene
l’incontro tra questi due ordini?
Si tratta di tutta una serie di problemi urgenti e precisi che l’immagine «letteraria» che del Rinascimento si
è avuta finora ha per tanto tempo lasciato nell’ombra.
Non pretendiamo di essere riusciti a enuclearne gli elementi con tutta la precisione necessaria, ma solo di aver
tentato, su alcuni punti capitali, di verificare e raggruppare metodicamente i dati utili, e in qualche caso
decisivi, al loro chiarimento. Si tratterà quindi piú di
indicazioni, di interrogativi e di temi di ricerca che non
di risultati conclusivi. Le analisi dedicate alla funzione
delle collezioni, dei testi e delle commissioni artistiche
sono lungi dall’essere complete: però descrivono almeno alcuni fatti essenziali. Dovevo premettervi un’indagine preliminare sull’economia toscana, sulle diverse
«classi» sociali, sui mezzi e le ambizioni di ognuna, sulle
conseguenze che la loro «ideologia» e le loro aspirazioni hanno avuto nell’arte? In verità i risultati negativi di
un tentativo in questo senso, compiuto qualche anno fa,
con tutta l’informazione desiderabile, sul periodo immediatamente precedente al nostro, non risultano incoraggianti per una ricerca del genere6. Sarebbe necessario
rinnovare le nozioni della sociologia storica perché questa possa davvero servire a intendere la vitalità di un
centro artistico. Voler spiegare questa attraverso il conflitto degli interessi può essere angusto e grossolano cosí
come volerla spiegare attraverso il semplice movimento
delle idee e dei gusti risulta spesso ingenuo. Non abbia-
Storia dell’arte Einaudi
14
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
mo dunque trascurato nessuno dei dati che potessero
interessare: l’importanza della crisi fiorentina di fine
secolo è stata messa in evidenza quanto piú possibile,
con tutte le conseguenze che essa ha avuto per la vita
intellettuale e per l’arte. Essa anzi rappresenta, a nostro
avviso, una svolta capitale dell’epoca, ma ai nostri fini
era sufficiente descriverla e, per analizzarne gli effetti,
insistere ancora una volta sull’importanza che la vita
religiosa e il sentimento repubblicano hanno avuto a
Firenze. E a questo proposito, non senza sorpresa,
abbiamo avvertito – e poi volutamente sottolineato – un
elemento fin qui troppo trascurato dagli storici del Rinascimento: il senso, comune al popolo come alla borghesia, della funzione eccezionale attribuita a Firenze, in
altre parole l’orgoglio nazionale con le sue illusioni e i
suoi limiti, che tendeva a fare di una città il centro
naturale della cultura e l’asse della renovatio universale7.
È nel corso del Cinquecento che la dogmatica umanistica e la codificazione delle formule tenteranno di
definire e di fissare i simboli utili, i canoni e le regole.
La fine del Quattrocento ci fa assistere invece al conflitto delle iniziative; vi si scoprono tutt’insieme incertezze e audacie, esitanze e innovazioni; vi si coglie, nella
sua piena vitalità, lo sforzo dei maestri, da cui il secolo
successivo trarrà conclusioni definitive. Anziché l’immagine sontuosa ma un po’ inerte di una cultura che,
all’ombra di un mecenate intelligente, dà i suoi frutti piú
felici nell’arte, ne ricaviamo un quadro contrastato, piú
torbido, in cui le mode si incrociano, le scoperte possono non aver seguito, gli artisti si interrogano, sbagliano,
lavorano su ordinazione, lasciano la città, e in cui, infine, i risultati piú alti non maturano a Firenze. Infatti se
Firenze è ancora al centro dell’attenzione generale,
avviene però che essa venga superata nella rivalità tra i
centri d’arte. Alle trovate squisite di certi artisti fa
riscontro l’appesantirsi e l’involgarirsi dello stile nelle
Storia dell’arte Einaudi
15
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
botteghe cariche di lavoro. L’eleganza nervosa degli uni
non basta piú a compensare la faciloneria degli altri. I
toscani sembrano ignorare Piero della Francesca e Giovanni Bellini, il Laurana e Bramante. Si direbbe che
Firenze si preoccupi meno di essere la capitale dell’arte
e piú invece di restare fedele a se stessa. Per concludere, siamo di fronte a un gusto che si evolve e a un’arte
che si interroga. E doveva essere cosí se in essa qualcuno ha potuto vedere una sorta di generale reazione che
ritorna alle consuetudini «gotiche» nella poesia e nell’arte, per cui si assisterebbe a un quasi abbandono delle
conquiste recenti dell’intelligenza e dell’arte8, e altri
invece vi ha visto il progresso regolare di una cultura che
anticipa un nuovo universo mentale se pure attraverso
realizzazioni artistiche e scientifiche ancora parziali9.
«La storia dell’arte, – diceva Henri Focillon, – è la
storia dello spirito umano attraverso le forme». Questa
definizione, che condividiamo, contiene in sé le condizioni per un oggettivo lavoro d’indagine sulle opere e
sugli uomini (che è poi il limite inferiore della disciplina) e quelle per un approfondimento specifico che ricerca le sole articolazioni valide nella natura stessa degli
stili e nella loro autorità sullo spirito. Nel primo caso si
tratta di esporre e organizzare i dati d’un certo ordine
di «prodotti» umani; nel secondo, si ubbidisce alla particolare attrazione di questi che invita sia a tener conto
solo del loro sviluppo autonomo, della loro «logica interna», sia a speculare su analogie e accordi per i quali solo
giudice sarebbe la sensibilità moderna. Il primo modo di
procedere gira intorno alle opere e rischia di dimenticare le forme in una indagine esteriore e spesso indiretta;
il secondo affronta quella che è l’evidenza artistica, ma
non è in grado di rendere esplicita l’intuizione se non
rinunciando a separare la «vita delle forme» dalla realtà
delle opere. Questo secondo modo di procedere è diret-
Storia dell’arte Einaudi
16
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
to, l’altro indiretto. Lo storico dell’arte è costretto a
situarsi attivamente tra questi due limiti. Non può limitarsi alla cronologia e ai rapporti «oggettivi», piú di
quanto non possa abbandonarsi all’impressione; il suo
lavoro mira a combinare la spiegazione esterna e l’interpretazione interna. Esige le molteplici verifiche delle
attribuzioni, delle date e l’esposizione delle condizioni
concrete, e in questo il discorso diviene impersonale; e
d’altra parte tende a recuperare i «valori» cui le opere
si richiamano, come se ne fosse il rappresentante moderno e il patrono responsabile. Mette cosí in opera dei
dispositivi che inquadrano e alla fine stringono da presso il problema centrale, che rimane quello della qualità.
La situazione di Firenze alla fine del Quattrocento
permette per l’appunto di individuare e di utilizzare
certi rapporti specifici. Il fatto capitale, il fenomeno
che si può considerare come la definizione tecnica del
Rinascimento, è l’esigenza di «decompartimentare» la
vita dello spirito. La cosa è stata chiaramente dimostrata: le gerarchie della scolastica, nella misura in cui
agivano sulla pratica, non permettevano a un pittore di
conoscere l’ottica, né a un segretario della Signoria di
aver letto i filosofi. Il successo degli studia humanitatis
in Italia veniva a rompere queste chiusure dando vita,
ai margini del sapere universitario, a una cultura viva,
fondata sulla conoscenza delle lettere antiche e quindi
animata dalla convinzione dell’originalità dell’Italia. Gli
artisti ambiziosi, come gli scrittori desiderosi di affermarsi, trovano in questa corrente l’occasione di guardare
al di là dei limiti tradizionali della loro attività: si rifanno alle fonti del sapere, che possono essere trattati antichi (fino allora utilizzati solo nelle enciclopedie scolastiche) o pagine di filosofi. E se ne valgono per iniziative di grande risonanza: l’arte va al di là della tecnica: la
rottura progressiva delle strutture tradizionali è una
conseguenza non trascurabile di questa evoluzione gene-
Storia dell’arte Einaudi
17
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
rale che lo storico dell’arte deve considerare attentamente10.
Dal momento in cui il capo di una bottega non si considera piú un artigiano, ma si permette certe curiosità
intellettuali, si nota tutta una serie di trasformazioni nel
suo lavoro. L’elaborazione della «prospectiva pingendi»
è, tutto sommato, il risultato dello sviluppo tecnico delle
nozioni d’ottica note che però nessuno fino allora aveva
interpretato e che Brunelleschi ha avuto l’idea di utilizzare11, allo stesso modo che l’Alberti trovava nei trattati di retorica (riservati al clero) il mezzo per definire una
nuova condizione della pittura12. La rappresentazione
grafica diventa una forma d’indagine «scientifica» e,
come è stato chiaramente dimostrato, le «scoperte»
essenziali dell’epoca si devono alle esigenze irrecusabili
del disegnatore e dello scultore che vogliono dominare,
attraverso la forma organizzata, il mondo dei fenomeni. In questo la parte avuta dai fiorentini è essenziale;
l’opera di Leonardo non appare piú una eccezione, ma
la fioritura geniale di un lavoro che costantemente si
muove alle frontiere della scienza e dell’arte. È in conseguenza di questi mutamenti di orizzonte e di queste
nuove connessioni tra campi distinti che si modifica
l’immagine del mondo. L’arte cosí è stata per due generazioni lo strumento di una rivoluzione che andava al di
là del suo stesso ambito.
È a questo punto che si pone il nostro problema particolare. Nel pensiero occidentale quale si configura nel
xv secolo la distinzione tra scienza e riflessione filosofica non è piú reale di quella che intercorre tra conoscenze positive e forme artistiche in cui queste si esprimono; o almeno i legami provvisori che si stabiliscono
tra la matematica o l’anatomia e l’attività dei disegnatori e dei pittori che accanitamente le utilizzano, hanno
una contropartita nella riflessione degli umanisti che,
non piú semplici filologi o puri moralisti, vedono nel-
Storia dell’arte Einaudi
18
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
l’evoluzione della cultura l’occasione e addirittura la
necessità di una sintesi universale, diversa da quella
della scolastica che non prevedeva tutte queste nuove
manifestazioni del genio umano. Si vedono gli umanisti
interessarsi sempre piú (in un modo che rimane certamente letterario, ma che non è per questo meno significativo) alle creazioni artistiche e agli stessi creatori. La
logica della «decompartimentazione» doveva, in un
primo momento, dare agli artisti il coraggio di ricorrere alla geometria e ai testi eruditi; in un secondo momento l’evoluzione cosí impetuosamente avviata tenderà a
porre l’artista in una condizione di privilegio. È valorizzato, al pari del poeta, in quanto rappresentante dei
veri «modi» del sapere. Il prestigio di cui godranno
Michelangelo e Raffaello è quello stesso che si accordava ai rappresentanti piú alti della cultura. Anche in questo, la dignità dei maestri si spiega come conclusione
ultima di un processo che si delinea nella seconda metà
del secolo xv. Ci sembra che questa evoluzione, pur
cosí semplice e, se si vuole, del tutto naturale, non si
comprenda che attraverso le nozioni, imperfette ma di
assoluto prestigio, del neoplatonismo, che tendeva, sia
pur con esitazioni e scrupoli, a promuovere un sapere
totale di tipo nuovo. L’estetica, nel senso moderno del
termine, non fa la sua comparsa nel Rinascimento non
piú che nell’età classica13; ma attraverso l’interazione che
a quell’epoca si verifica tra le arti e le nuove nozioni che
vengono elaborandosi, si puó meglio valutare il contributo dei pensatori e dei maestri toscani alla rivoluzione
spirituale dell’epoca e a quella promozione degli artisti
che si precisa col «mito del Rinascimento»14.
I rapporti tra arte e umanesimo devono dunque essere esaminati una volta che si sia potuto accertare che
l’arte e la scienza sono vissute largamente in «simbiosi»
durante il «Quattrocento fiorentino». Il movimento
neoplatonico infatti si presenta come una riforma del-
Storia dell’arte Einaudi
19
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
l’umanesimo anteriore e nello stesso tempo pretende di
incorporare le discipline scientifiche sottomettendole
alla speculazione teologica. Abbiamo ritenuto opportuno indagare come, in queste condizioni, abbiano potuto moltiplicarsi non solo i contatti tra il mondo delle
«idee» e quello delle «forme», ma anche le giustificazioni intellettuali delle iniziative artistiche. Ci sono
ancora due aspetti dell’originale situazione fiorentina
che completano l’analisi da noi tentata e che hanno guidato la nostra esposizione: il clima di «critica» proprio
della città di Donatello e di Leonardo, in cui le opere dei
maestri sono commentate con passione, e il conflitto tra
stili diversi che si accende entro le tendenze accademizzanti dell’ambiente toscano. Si ha in effetti una
sorta di paradosso nell’evoluzione fiorentina alla fine del
secolo che non era possibile ignorare. I «simboli» dell’umanesimo erano, verso il 1460, associati all’arte minuta e precisa del Quattrocento; il loro interprete piú alto
rimane Botticelli. I temi «all’antica» che il neoplatonismo favorisce e le allegorie piú o meno complicate che
ispira non coincidono con la preparazione di un gusto
classico15; eppure il movimento neoplatonico veniva elaborando idee della natura, della storia, dell’anima che
sono state importanti per Leonardo, Michelangelo, Raffaello; ha maturato l’idea di una «intelligibilità» delle
forme superiore all’ordine razionale vero e proprio, idea
senza la quale non sarebbe stato possibile definire un
ordine estetico autonomo. Se l’arte nel corso del secolo
xv è stata lo strumento d’una rivoluzione intellettuale
che andava oltre l’arte stessa, il successo dei maestri –
che d’altronde è avvenuto fuori Firenze – è andato oltre
il contenuto esplicito del pensiero umanistico: l’arte cioè
ha a sua volta assicurato una dimensione nuova alla speculazione intellettuale, che si è sforzata, nel corso del
secolo xvi, d’interpretarla secondo i suoi canoni.
Risulta cosí possibile proporre una conclusione piú
Storia dell’arte Einaudi
20
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
generale. La coscienza dell’arte va al di là della stessa
percezione delle forme; la teoria dell’arte – e dell’artista – utilizza schemi e nozioni mutuate da altre discipline; solo a queste condizioni essa riesce a trovare una
sua articolazione. Questo trasferirsi di concetti da un
campo all’altro noi l’abbiamo fissato nelle sue linee schematiche in vista di quella svolta decisiva del Rinascimento che avviene intorno al 150016.
Le conclusioni della nostra indagine risultano negative su un punto: non esiste un’«età d’oro» fiorentina.
L’idea di epoche privilegiate è una di quelle finzioni
retrospettive che servono a imporre un ritmo al corso
della storia; non resiste di solito al vaglio dell’indagine.
Nel caso specifico di Firenze, tuttavia, crediamo di poter
affermare che quest’idea ha cominciato a circolare assai
presto con un preciso valore propagandistico: cioè subito dopo le vicende sfortunate della fine del secolo xv e
la rivolta, allo stesso tempo antimedicea e antiumanistica, provocata e ispirata dal Savonarola.
La storia fiorentina della seconda metà del Quattrocento era abbastanza ricca di iniziative e di opere di
valore per suscitare delle nostalgie. La cultura, al pari
dell’arte, era stata a quell’epoca piena di contrasti, e
ogni iniziativa aveva incontrato ostacoli, di cui però ci
si dimenticò allorché la libertà intellettuale, artistica e
politica fu sottoposta, dopo il 1500, a gravi limitazioni.
All’epoca del Magnifico erano sorte speranze prodigiose: le opere tradiscono a volte l’esultanza delle certezze
piene e una gioia singolare, riboccante di promesse. Ma
questo clima di candida felicità in cui si vorrebbe chiudere Firenze, è solo uno dei sogni di Firenze stessa. Non
solo la crisi dello stato e gli avvenimenti della politica
estera lo infrangono brutalmente, ma già prima l’inquietudine degli spiriti l’aveva contraddetto. L’ambiente
fiorentino aspirava a un ordine nuovo che non riusciva
Storia dell’arte Einaudi
21
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
a definire esattamente e meno che mai a realizzare. Il
«momento incantevole» di cui parla il Taine ebbe la
durata di un sogno; e di un sogno aveva il valore. E uno
dei problemi essenziali del Rinascimento (uno di quelli,
comunque, che esamineremo in questo volume) è come
dall’idea di un’«età d’oro» a venire si passi all’idea di
un’«età d’oro» già conclusa.
Non abbiamo dunque cercato di definire la «visione
del mondo», da cui dedurre le manifestazioni artistiche.
Anche se comodo per le trattazioni generali, questo
metodo è, in realtà, una sorta di illuminazione artificiale: distrae l’attenzione dalle situazioni concrete in
nome di un’unità assoluta che rimane da dimostrare.
Noi abbiamo preferito un percorso diametralmente
opposto: abbiamo cioè cercato di mettere in luce anzitutto i minima significativi, cioè quelle opere, quelle
forme, quelle affermazioni, che erano decisamente
nuove all’epoca del Magnifico (e la prova se ne ha nell’eco che hanno suscitato). L’origine di queste novità è
quasi sempre la stessa; i quadri, i rilievi, le decorazioni
e perfino gli edifici che hanno fatto data possono essere ogni volta messi in rapporto con qualche figura dell’umanesimo, e altrettanto puntualmente possono essere commentati con qualche aspetto delle dottrine umanistiche; inoltre non vi manca mai, vi è anzi chiaramente avvertibile, il senso dell’originalità fiorentina.
Questa indagine occupa il nostro primo libro. Ne risulta l’indicazione di un certo numero di problemi che le
nozioni da mettere in figura e i nuovi modi di figurazione hanno posto all’artista: per le coscienze pronte a
reagire e per le immaginazioni alacri i materiali iconografici sono altrettanto interessanti da organizzare che
le forme da costruire. Tuttavia queste creazioni non formano un insieme omogeneo, un sistema; il secondo libro
quindi non ambisce a fornire una «chiave» dell’arte del
tempo, propone semplicemente un quadro di questi ele-
Storia dell’arte Einaudi
22
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
menti attivi della cultura artistica fiorentina. Questa
d’altronde rivela tutto il suo senso solo se paragonata
con quella dei centri vicini. Non si può isolare Firenze
al punto di ignorare certi parallelismi e certe derivazioni. Un terzo libro doveva dunque presentare di scorcio,
intorno ai principali fatti di Firenze, gli altri punti di
incontro tra le idee fiorentine e lo stile fiorentino. In
questa maniera era possibile, entro certi limiti, analizzare i modi di lavoro propri di ogni ambiente e di ogni
artista, fino a determinare gli elementi base che hanno
permesso la formazione dell’arte classica. Ma per questa via l’orizzonte viene a dilatarsi in misura pericolosa: non è stato senza timore infatti che, in questa prospettiva, abbiamo visto entrare in scena i capolavori piú
celebri e famosi del pieno Rinascimento. Tuttavia ci è
sembrato necessario correre il rischio della banalità o
addirittura di quel leggero ridicolo che è oggi inevitabile allorché ci si occupa di opere troppo gloriose, pur
di non rinunciare ai vantaggi che sarebbero venuti da
questa costruzione d’insieme. Il «mito del Rinascimento» trova il suo compimento a Roma, non a Firenze. Era
necessario ricordarlo.
Questo lavoro non ha dunque altra originalità che il
suo tentativo temerario di comporre un quadro d’insieme e di creare dei legami tra i diversi ordini della conoscenza storica. Non è stato per una decisione a priori,
ma ubbidendo alla logica di ogni situazione e talvolta di
ogni singola opera, che abbiamo cercato di integrare
l’un con l’altro i vari metodi. Siamo cosí passati, senza
tuttavia confonderle, dalla storia degli stili all’«iconologia», connettendole entrambe alla volontà e ai modi
di lavoro dell’artista17.
Le conclusioni raggiunte sono in qualche modo scaturite dall’intersezione di molteplici prospettive. Abbiamo pensato che forse questo era il modo migliore per
individuare i congegni, cosí delicati, dell’arte, nella
Storia dell’arte Einaudi
23
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
quale, si sa, lo spirito opera nella sua totalità. Solo
quand’era troppo tardi ci siamo resi conto della temerarietà del proposito. Occorre riconoscerlo con le parole del poeta fiorentino:
...chi pensasse il ponderoso tema
E l’omero mortal che se ne carca,
Nol biasmerebbe se sott’esso trema.
(Paradiso, XXIII, 64-66).
Storia dell’arte Einaudi
24
Introduzione
La leggenda medicea
«All’ombra del lauro».
(bellincioni, sonetto cxcvii)
Nel Seicento i granduchi di Toscana vollero celebrare «l’età del Magnifico» con una serie di affreschi
(1635). Il piano fu elaborato da Giovanni Mannozzi
(Giovanni da San Giovanni) e i pittori ufficiali del ducato realizzarono tre grandi pannelli allegorici che tuttora si vedono al pianterreno di palazzo Pitti: uno rappresenta Lorenzo a Careggi, l’altro Lorenzo tra gli artisti, il terzo Lorenzo al governo di Firenze: l’uomo di
stato, cioè, viene dopo il mecenate e l’adepto dell’umanesimo «platonico»18. Nel primo affresco, opera di Francesco Furini, si vede, sotto un cielo azzurro e giallo, la
collina di Careggi con la villa medicea e, ai piedi di un
monumento a Platone, il «Principe» fiorentino intorno
al quale si affollano deferentemente gli umanisti e i
poeti. Nel secondo, condotto da Ottavio Vannini,
Lorenzo appare seduto tra i giovani artisti al «casino di
San Marco»: in prima fila, a destra, Michelangelo presenta la testa di fauno scolpita a imitazione d’un frammento antico che, secondo Vasari, aveva attratto l’attenzione del signore di Firenze. L’«apoteosi» di Lorenzo completa la rievocazione dell’«età d’oro fiorentina».
Questa leggenda medicea era nata tre quarti di secolo prima, contemporaneamente al sorgere del granducato di Toscana, in stretta connessione con la sua struttura
aristocratica e le sue istituzioni accademiche. La prima
versione integrale di essa è dato in effetti trovarla in
Storia dell’arte Einaudi
25
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
palazzo Vecchio: si tratta del ciclo dipinto dal Vasari
sulle mura degli appartamenti principeschi da lui sistemati nel 1556-58, in quello che poi è stato detto il Quartiere monumentale, cioè l’appartamento al secondo
piano, mentre il grande salone centrale, detto del Cinquecento, è interamente dedicato all’esaltazione di Cosimo I. Il Vasari ne ha dato una lunga e compiaciuta
descrizione nei suoi Ragionamenti19. Scene tipiche compendiano il ruolo storico avuto da ognuno degli «eroi»:
un grande medaglione nella sala maggiore dedicato al
fondatore della famiglia, mostra Cosimo tra i dotti e gli
artisti (il Ficino, il Toscanelli, l’Angelico, il Ghiberti);
in due riquadri della sala attigua, nel cui soffitto domina l’apoteosi di Lorenzo, questi conversa con gli umanisti e gli artisti. «Ora, se vi pare, abbassiamo gli occhi
a quest’ultima, dove io veggo sedere Lorenzo con quel
libro aperto, in mezzo a tante persone litterate che
hanno tanti libri in mano, e mappamondi e seste da
misurare; ditemi i nomi loro, – conclude il duca, – e chi
sono». «Volentieri, – risponde il Vasari: – questo è
quando con felice giudizio ed ottimo modo, poi che alle
cose pubbliche egli aveva dato gli ordini, e simile alle private della città, si diede a piaceri e studi della filosofia
e delle buone lettere in compagnia di questa scuola di
uomini dottissimi, co’ quali, quando alla villa di Careggi, e quando al Poggio a Caiano, per piú lor quiete,
esercitava gli onorati studi». E vengono citati: Gentile
da Urbino, Demetrio Calcondila, Pico, l’Accolti, il Poliziano, il Pulci, il Ficino, il Landino, il greco Lascaris, il
Marullo, «Leon Battista Alberti, grandissimo architettore, il quale scrisse nel tempo di Lorenzo i libri d’architettura» e perfino Leonardo Bruni (morto nel 1444)
che non scrisse la sua storia di Firenze al tempo del
Magnifico, ma che rientra bene in questo gruppo ideale. Il duca conclude formulando la definizione dell’età
aurea medicea all’epoca di Lorenzo: «Io non credo Gior-
Storia dell’arte Einaudi
26
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
gio, che mai in tempo alcuno in questa città sia accaduto che si sia trovato maggiore abbondanza di begl’ingegni, o volete nelle lettere greche, o latine, o vulgari, o
nella scultura, o pittura, o architettura, o ne’ legnami,
o ferramenti, o ne’ getti di bronzo, né chi ancora di casa
nostra le pareggiasse e le onorasse e premiasse e piú se
ne intendesse, che Lorenzo». Cosí la composizione
seguente presenta il mecenate in una scena che riassume tutta la sua azione sulla cultura dell’epoca: «...e
vedetelo, che Lorenzo aveva fatto fare il giardino, ch’è
ora in su la piazza di S. Marco, solamente perché lo teneva pieno di figure antiche di marmo, e pitture assai, e
tutte eccellenti, solo per condurre una scuola di giovani, i quali alla scultura, pittura e architettura attendessino a imparare sotto la custodia di Bertoldo, scultore,
già discepolo di Donatello; i quali giovani, tutti o la maggior parte, furono eccellenti». Fra essi va ricordato in
primo luogo Michelangelo che, conclude il Vasari, non
poteva evidentemente nascere «se non sotto questo
magnifico e illustre uomo». Abbiamo qui in realtà la
spiegazione di quei passi delle Vite, in cui, già nel 1550,
ma ancora piú esplicitamente nella seconda edizione del
1568, lo storico ha moltiplicato le allusioni alla funzione attiva avuta dai due grandi Medici, soprattutto da
Lorenzo, nello sviluppo dell’arte fiorentina. Occorreva
legare il piú strettamente possibile al mecenatismo mediceo il momento glorioso che ha prodotto sia i grandi
umanisti che i maestri dell’arte. La corrispondenza è
esatta in tutti i campi: come Lorenzo, con la sua posizione eccezionale nello stato, annunciava già alla fine del
secolo xv la futura organizzazione monarchica del ducato (1537), cosí l’accolta degli umanisti platonici a Careggi prefigura l’«Accademia fiorentina» (1541)20, e la
Scuola del giardino di San Marco, voluta dal Magnifico
per l’educazione dei pittori e degli scultori, deve essere
considerata come il germe della nascente istituzione
Storia dell’arte Einaudi
27
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
dell’«Accademia del disegno» (1562). D’altronde nella
sala successiva il duca Cosimo è presentato a sua volta
come l’amico dei letterati e degli artisti. Il presente
alquanto mediocre dell’«età accademica» trova la sua
giustificazione nel passato glorioso dell’«età d’oro»; si
consolida l’uno celebrando l’altro. Al principato di
Lorenzo (1469-92), non ancora consacrato da alcun titolo nobiliare, fa riscontro il momento in cui, in tutti i
campi, Firenze ha conosciuto la «pienezza dei tempi» e
realizzato il suo destino21.
Questa figurazione simbolica, elaborata dal Vasari e
sviluppata poi dai frescanti di palazzo Pitti, preludeva
alla consacrazione di Lorenzo come uno degli antenati
del «dispotismo illuminato». Rinnovato in forma durevole da W. Roscoe agli inizi del secolo scorso22, quest’elogio di Lorenzo ha spesso tenuto luogo presso gli
storici di un’indagine piú precisa. Collegando al mecenatismo di Lorenzo una sorta d’accademia letteraria e
una sorta d’accademia artistica, che comprendevano
tutti gli umanisti e gli artisti di rilievo, l’elogio dell’«età
d’oro» non veniva solo a creare dei raggruppamenti
significativi: veniva anche a mettere in luce la struttura
della civiltà fiorentina e assumeva il valore di un’interpretazione. Il Vasari, compendiando la dottrina accademica, aveva chiaramente affermato che il «genio» ha
bisogno di essere fecondato dal sapere e riconosciuto dal
potere. Questa concezione ha ispirato la sua interpretazione di storico non meno che i suoi quadri celebrativi.
Oggi essa risulta meno convincente. L’immagine
dell’«età d’oro» è il travestimento di una realtà storica
il cui sviluppo appare ben diverso. Un esame della cultura e dell’arte del Quattrocento fiorentino deve prendere le mosse proprio con l’eliminare questo schermo
artificiale che rende falsa l’ammirazione non meno che
la critica23.
Storia dell’arte Einaudi
28
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Il mecenatismo di Lorenzo.
Da tempo sono stati sollevati dubbi sull’esatta portata del mecenatismo mediceo. È stato fatto notare che
nel 1480 o 1490 il potere non era affatto cosí accentrato, né l’opinione pubblica cosí docile come si sarebbe portati a credere. La parte che hanno i Medici nelle
commissioni agli artisti risulta minore di quella dei conventi, delle confraternite o dei notabili fiorentini. È
vero che essi potevano influenzare il gusto, ma Lorenzo, che fu un finanziere incerto e un amatore d’arte
egoista, si sforzò invano di agire sulle arti attraverso le
sue collezioni di oggetti minori, di medaglie e di statue
antiche: non v’è nulla di piú mediocre delle composizioni fiorentine della fine del XV e degli inizi del XVI secolo.
I dotti consiglieri del signore di Firenze non erano piú
in grado di esercitare un ruolo utile. Si ha piuttosto
l’impressione di essere di fronte a un periodo di decadenza. «Il compenetrarsi delle due discipline [l’arte e
l’umanesimo] non è piú cosí completo come era stato in
passato». Né il Poliziano che «verso l’arte nutriva niente piú che una sorta di interesse banale», né soprattutto Marsilio Ficino «spirito portato essenzialmente all’astrazione» erano in grado di arrecare qualcosa di stimolante per i pittori e gli scultori. Alla fine, disilluso
degli umanisti e dei poeti, il Magnifico si sarebbe rivolto
ai dotti specialisti di certe discipline, agli eruditi, agli epigrafisti, ai numismatici... le cui conoscenze precise lo trascinavano sempre piú e lo consolavano del suo fallimento.
In effetti il suo mecenatismo non avrebbe portato a
nulla di grande. L’allegoria del Furini e il quadro lusinghiero del Vasari sarebbero tipiche menzogne dell’adulazione storica; il loro valore di verità sarebbe nullo24.
Pur schierandosi contro la tesi classica, questa teoria ne
mantiene purtroppo le premesse: la stretta connessione
tra Lorenzo e il corso delle arti. Questo rapporto di
Storia dell’arte Einaudi
29
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
causa ed effetto tra la direzione medicea e lo sviluppo
delle arti a Firenze deve essere invece riesaminato. L’azione di Lorenzo si è in realtà esplicata in due modi:
attraverso una precisa politica di prestigio artistico e
attraverso un certo numero di iniziative personali e di
commissioni. L’ampiezza della prima non può essere
sottovalutata; tale politica però portava a privare Firenze dei suoi artisti migliori. Quanto alle seconde, i progetti piú interessanti furono quasi tutti interrotti dalla
morte prematura di Lorenzo a quarantatre anni e quelli realizzati corrispondono solo imperfettamente alle
intenzioni che a lui si attribuiscono.
La politica di prestigio artistico.
È inutile cercare a Firenze, all’epoca di Lorenzo,
un’azione sistematica di mecenatismo paragonabile a
quella di Luigi XIV, protettore di Lebrun e iniziatore
dell’Académie des Inscriptions, né interventi precisi ed
efficaci al modo di Giulio II. Nel periodo felice, prima
della congiura dei Pazzi e della crisi italiana del 147880, le commissioni per il palazzo di via Larga sembra
siano andate, come già prima, ai fratelli Pollaiolo, in particolare ad Antonio; ma a piú riprese lavori di circostanza sono affidati alla bottega del Verrocchio, soprattutto al momento della Giostra del 1475; ed è il maestro di Leonardo che Lorenzo nel 1477 raccomanderà al
capitolo di Pistoia a preferenza di Piero Pollaiolo25. Dieci
anni dopo, in una lettera assai nota a Giovanni Lanfredini del 12 novembre 1489, Antonio è definito come il
«principale maestro della città», il migliore che mai si
sia visto secondo l’opinione dei competenti. Questo
gran maestro non viene trattenuto a Firenze. Nel 1484
Antonio Pollaiolo e suo fratello si sono trasferiti a Roma
per attendere al monumento funebre in bronzo di Sisto
Storia dell’arte Einaudi
30
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
IV voluto dai Della Rovere. La lettera citata non è dunque, verosimilmente, destinata a raccomandare lo scultore ai Romani; dovrebbe piuttosto riferirsi alle preoccupazioni di Ludovico il Moro, che chiedeva un grande
artista, ma attivo, per sostituire Leonardo26. Cosí, per
una fiducia forse eccessiva, le risorse di Firenze sembravano inesauribili e Lorenzo si preoccupava piú di
inviare gli artisti fiorentini fuori Firenze che non di
occuparli in città. Nel 1480 raccomanda al re di Napoli Giuliano da Maiano, poi, nel 1490, Luca Fancelli e
perfino Giuliano da Sangallo che pure gli era particolarmente caro. Al re di Portogallo, Giovanni II, indirizzerà Andrea Sansovino che inizierà per lui un palazzo a quattro torri senza equivalenti a Firenze. Si è vista
in questi interventi soprattutto l’importanza che i principi o i prelati stranieri attribuivano al gusto di Lorenzo e la prova dell’autorità del suo giudizio in fatto d’arte27. Questo è indubbio, ma si trattava anche di una
sorta di «propaganda culturale». È certo che il signore
di Firenze aveva in ogni cosa presenti i tre principî che
si vantava di applicare nella condotta degli affari: patriae
decus, familiae amplitudo, incrementum artium28.
È anche lecito chiedersi se questa politica non abbia
contribuito all’esaurirsi di Firenze in quanto provocò
una dispersione eccessiva delle botteghe. Intorno al
1485, forse già nel 1481-82, quella del Verrocchio perde
il suo capo che si reca a Venezia, di dove non farà piú
ritorno. Alla stessa data Leonardo da Vinci va in esilio
a Milano, verosimilmente in seguito a una raccomandazione del signore di Firenze desideroso di compiacere
Ludovico il Moro, che chiede uno scultore capace per la
statua di Francesco Sforza. Nel 1481, questa volta su
richiesta del sommo pontefice riconciliato con Firenze,
un gruppo di pittori, tra cui le personalità piú forti dell’arte toscana, Botticelli, Domenico Ghirlandaio, Signorelli, sono chiamati a Roma per decorare la cappella
Storia dell’arte Einaudi
31
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Sistina. Al ritorno, tre di loro, piú Filippino Lippi sono
incaricati della decorazione di una villa per Lorenzo; ma
l’iniziativa, benché limitata, non avrà seguito. Nel 1488,
su consiglio del signore di Firenze, il cardinale Carafa
invita Filippino a decorare la sua cappella alla Minerva
a Roma. Solo il Signorelli dipingerà, un po’ piú tardi,
due quadri di qualche rilievo per Lorenzo. In realtà nessun complesso paragonabile alla cappella di Sisto IV, o
anche agli appartamenti Borgia, verrà intrapreso a Firenze. I cicli di Domenico Ghirlandaio e di Filippino Lippi
a Santa Maria Novella si devono a famiglie legate ai
Medici, i Tornabuoni e gli Strozzi. Queste si permettono ciò a cui Lorenzo sembrava non voler pensare, e
comunque tutte queste iniziative si hanno solo dopo il
1485, dopo quindici anni di ben scarsa attività del sedicente «mecenate».
A questo palese (ed efficace) desiderio di far brillare
il prestigio di Firenze nelle altre città d’Italia, occorre
aggiungere anche la propaganda interna: Lorenzo infatti è stato l’iniziatore della esaltazione ufficiale delle glorie dell’arte toscana, rivolgendosi alle personalità piú in
vista dell’umanesimo29. Nel 1481, dettando la prefazione per un’edizione in certo modo ufficiale della Commedia di Dante, il Landino aveva abbozzato una storia
dell’arte fiorentina nel quadro del tradizionale elogio
della città. Nel 1488 Filippino Lippi ha l’incarico di
innalzare un monumento funebre a suo padre nel duomo
di Spoleto e il Poliziano ne redige l’epitaffio. Nel 1490
Benedetto da Maiano disegna in Santa Maria del Fiore
un monumento a Giotto e il Poliziano detta l’inscrizione celebre: Giotto – fatto singolare – viene rappresentato come mosaicista, e della cosa daremo una spiegazione piú avanti30. Nello stesso anno 1490 nel coro di
Santa Maria Novella, sull’arco di trionfo che si vede nell’Annuncio a Zaccaria, viene dipinta la scritta solenne
dovuta al Poliziano: «An. mcccclxxxx quo pulcherri-
Storia dell’arte Einaudi
32
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
ma civitas opibus victoriis artibus aedificiisque nobilis
copia salubritate pace perfruebatur». Il dipinto è occupato in gran parte dai personaggi della famiglia Tornabuoni, al centro si vedono due altri gruppi, a destra tre
giovani amici dei Medici e, in basso a sinistra, quattro
umanisti (il Landino, il Ficino, il Poliziano, Gentile de’
Vecchi) la cui presenza mira non tanto a rendere onore
all’Accademia di Careggi quanto a ricordare i quattro
precettori di Lorenzo31. Questa inscrizione laudativa e
rassicurante conferma piú d’ogni altra cosa lo sforzo
compiuto da Lorenzo per celebrare lui stesso la gloria e
il prestigio di Firenze. In questo sta il succo della sua
politica artistica piú che non nei grandi lavori o nelle
grandi decorazioni, che sarebbe ben difficile poter enumerare. Tale politica si manifesta anche nella velleità di
completare la cattedrale. Nel 1491 Lorenzo infatti indisse un concorso per la facciata che non portò ad alcuna
decisione. Il paramento provvisorio in legno eretto nel
1515 per l’entrata di Leone X32 pare che si sia ispirato
ad alcuni progetti presi in considerazione da Lorenzo;
ma fu solo per rendere retrospettivamente onore al
Magnifico. Intorno alla stessa data (1490) si facevano
alcune prove, per iniziativa sua, per la decorazione in
mosaico della cappella di San Zanobi, forse con la segreta intenzione di estenderla a tutta la cupola ad imitazione di quella del Battistero. Nessuna impresa piú di
questa poteva riuscire gradita all’opinione pubblica, sensibile a tutto ciò che esaltava l’originalità fiorentina. L’unica fondazione religiosa del Magnifico è il convento
degli Agostiniani alla porta Sangallo, studiato dopo il
1487 da Giuliano da Sangallo per fra Mariano33. Si trattava forse dell’inizio di un programma piú vasto; nel
1489 un decreto della Signoria accordava notevoli facilitazioni fiscali ai nuovi cantieri34.
Storia dell’arte Einaudi
33
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
L’azione personale.
Non si puó tuttavia misconoscere l’interesse di Lorenzo per tutte le forme dell’attività artistica e la diffusione del suo gusto. Questo atteggiamento ha fatto impressione sui contemporanei ed è stato notato dal Guicciardini nella sua Storia fiorentina. Dopo aver notato l’interesse del «Principe» per la filosofia, insiste sul favore da
lui dimostrato «alla musica, alla architettura, alla pittura, alla scultura, a tutte le arti di ingegno e di industria,
in modo che la città era copiosissima di tutte queste gentilezze, le quali tanto piú emergevano quanto lui, sendo
universalissimo, ne dava judicio e distingueva gli uomini, in forma che tutti per piú piacergli facevano a gara
l’uno dell’altro»35. Non si tratta di commissioni ufficiali. La leggenda del mecenate organizzatore dilegua per
lasciar posto al prestigio di un esteta, gran conoscitore,
di cui si ricerca il giudizio. La sfumatura è importante e
quadra meglio con quel che sappiamo del clima di Firenze, agitato da curiosità molteplici. La Vita Laurentii Medices, scritta in latino da Nicola Valori poco dopo il 1515
e pubblicata in italiano nel 1569, ci fornisce sull’argomento indicazioni nello stesso senso e qualche altro particolare36. Era soprattutto per sé, con tutti gli egoismi del
collezionista e dell’amatore, che Lorenzo si interessava
alle arti e la sua grande preoccupazione è stata quella di
completare la raccolta di antichità e di oggetti preziosi
lasciata da Cosimo, insistendo in particolare su tutte le
forme di Kleinkunst che lo appassionavano. In questo
senso è stato il vetustatis amator, l’amatore di «anticaglie»
piú tipico del suo tempo: «tutti quelli che volevano renderglisi graditi gli offrivano delle medaglie preziose e
lavorate, delle pietre e tutto ciò che avesse un sapore
antico da tutti gli angoli del mondo37». Seppe metter le
mani sul gabinetto di medaglie costituito da papa Paolo
II, teneva agenti in tutta Italia e si mostrava cosí attivo,
Storia dell’arte Einaudi
34
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
impaziente e prodigo per tutto ciò che era raro e bello
che Galeazzo Sforza poteva affermare non senza invidia
che presso Lorenzo gli oggetti piú nobili erano confluiti
dal mondo intero. È assai facile constatare questo incremento metodico delle collezioni medicee, almeno per
quel che riguarda i pezzi custoditi nel palazzo di via
Larga, confrontando l’inventario del 1492 con quelli del
1456 e del 1463 redatti per Cosimo, nonché con quello
del 1465 steso per Piero. A questa data la collezione contava 100 medaglie d’oro, 500 medaglie d’argento, 30
cammei o intagli e dei vasi. Nel 1494 è quasi raddoppiata. Quando sale al potere, sono i bronzisti, i medaglisti, gli intarsiatori, i decoratori che Lorenzo fa lavorare38. Si vede bene ciò che l’attira e le capacità che
apprezza: quelle del Verrocchio, d’Antonio Pollaiolo, di
Bertoldo o di quell’Andrea Guazzalotti di cui si conosce
una lettera indirizzata a Lorenzo nel 1478. I casi in cui
egli commissioni un affresco, un quadro, sono assai rari
e, praticamente, Lorenzo non si è rivolto ai pittori della
Sistina se non dopo il loro ritorno da Roma, come se si
fosse accorto solo allora dell’inadeguatezza delle imprese fiorentine: si trattava della villa di Spedaletto presso
Volterra, oggi perduta39. L’unica impresa degna di quelle di Cosimo e anche di Piero, che avevano molto costruito, fu in fin dei conti la villa di Poggio a Caiano, sulla
quale la testimonianza del Valori getta una luce particolare: «Egli [Lorenzo] aveva il gusto dell’architettura, ma
soprattutto di quella che aveva un sapore antico, come
si può vedere a Poggio a Caiano dove appare la magnificenza degli antichi, e che Poliziano ha celebrato in un
poema»40. Si tratta di un’iniziativa degli anni 1485-86,
nel corso della quale cominciò l’amicizia del principe per
Giuliano da Sangallo, cosa che le assicura una particolare importanza. Negli anni seguenti Lorenzo intervenne
nelle polemiche per la facciata di Santo Spirito e raccomandò il suo architetto per la sagrestia della chiesa. Se
Storia dell’arte Einaudi
35
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
lo si confronta con i programmi grandiosi di un Federico d’Urbino o di un Sisto IV, il bilancio risulta modesto.
Si è pensato di spiegare questo fatto ricordando che
si doveva anzitutto portare a compimento lavori iniziati da gran tempo, che le ville medicee erano nel 1469 già
numerose, ben adorne di quadri e statue e che lo spazio
non occupato era ormai poco41. In realtà il gusto di
Lorenzo si rivolgeva alle «arti dette minori» ed è solo
verso i quarant’anni che il suo interesse per l’architettura e le imprese di decorazione sembra aver preso
nuovo slancio. L’insufficienza della sua opera in questo
campo è stata riconosciuta come controvoglia dagli storici. Il Vasari è costretto a scrivere: «Non fu finita né
quella né l’altre [fabbriche di Lorenzo] per la morte di
esso Lorenzo»; ma questo vale solo per la villa di Poggio a Caiano42. Questa fama di amatore d’architettura
(che era fondata) e di costruttore (che non lo era affatto) si era diffusa in tutte le province italiane e perfino
all’estero. Giovanni II di Portogallo come Alfonso d’Aragona si rivolgevano a Lorenzo per consiglio. Nel suo
opuscolo sugli ordini architettonici (Venezia 1509) il
Pacioli racconta di aver conosciuto, attraverso i modelli portati a Napoli da Giuliano da Maiano, l’interesse di
Lorenzo per la grande arte; egli spiega il felice sviluppo
dell’architettura fiorentina con l’esempio del principe e
conclude: «Chi oggi vol fabricare in Italia e fore subito
recorreno a Firenze per architecti»43.
Si ha infine l’impressione che Lorenzo si interessasse agli uomini piú che alle opere: «Ammetteva – dice il
Valori – nel gruppo dei suoi famigliari tutti quelli di cui
aveva riconosciuto le doti naturali o il talento artistico,
li trattava con generosità, li accarezzava e non li lasciava mai»44. Amava il contatto dell’intelligenza e del talento, come per coltivare in se stesso una sorta d’artista universale, per acquisire o presentire tutte le possibilità del
genio: poeta, musico, Lorenzo s’interessa a tutto. Il
Storia dell’arte Einaudi
36
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
segreto della sua vita intellettuale, indubbiamente tanto
ricca, sta forse in questo. Alla generazione virile, quella di Cosimo, che amava costruire in tutti i campi, è succeduta la generazione degli esteti, mirabilmente dotati,
che all’attività preferiscono il godimento e la contemplazione. Le sue poesie nostalgiche, le sue aspirazioni
contemplative, il suo gusto del bucolico e del segreto
della natura, i suoi periodici progetti di ritirarsi a vita
privata, sono altrettanti indizi in questo senso45. C’era
una sfumatura insolita e magari una sorta di ambiguità
nel suo prestigio di grande «conoscitore».
È dunque inutile parlare di mecenatismo nel senso
classico del termine e nemmeno in quello corrente.
Rimane tuttavia un problema aperto e d’importanza
decisiva, quello della Scuola del giardino di San Marco.
Se Lorenzo ha costituito intorno al vecchio scultore
Bertoldo, conservatore delle sue anticaglie, una scuola
aperta ai giovani artisti, per la quale sarebbero passati,
con Michelangelo, moltissimi giovani di talento, non
sono stati solo la sua personalità e i suoi gusti ad avere
un peso: egli allora ha voluto veramente imprimere una
direzione allo sviluppo dell’arte fiorentina e la tradizione avrebbe avuto ragione di salutare in lui il piú moderno dei mecenati.
La «Scuola del giardino di San Marco».
Nessun documento contemporaneo accenna all’esistenza di una «scuola» d’artisti raccolti intorno a Bertoldo sotto l’egida di Lorenzo il Magnifico. È solo nelle
«vite» del Vasari che questa istituzione di fondamentale importanza si trova descritta: come al solito, in forma
di digressione, nella vita di Torrigiano, condiscepolo di
Michelangelo. La scuola viene descritta già nella prima
edizione delle Vite (1550); ma è solo nella seconda
Storia dell’arte Einaudi
37
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
(1568) che compare la parola-chiave: la Scuola del giardino di San Marco. questo «seminario» dei geni era
una sorta d’accademia ante lettera46. L’indicazione tradisce l’intenzione recondita dello storico che scopre le
premesse di un insegnamento metodico dell’arte in una
grande idea dell’età aurea medicea47. Si trattava, per il
Vasari, di un passaggio indispensabile: il segreto dell’arte
italiana del Cinquecento stava, secondo lui, nel disegno
toscano, ma era necessaria anche la cultura romana, e
l’uno e l’altra erano complementi indispensabili delle
facoltà naturali, che essi potevano guidare48. Come spiegare allora l’apparizione dei grandi toscani e in particolare di Michelangelo? Non si erano formati in un clima
molto diverso da quello romano? Il Vasari doveva fatalmente arrivare a dimostrare che il genio si nutriva, già
nella Firenze di Lorenzo, dello studio, nel senso in cui
era possibile intenderlo nel Cinquecento, cioè di imitazione dei maestri e studio dell’arte antica, mentre il
resto dipendeva dalla natura, privilegio del genio, che
egli definirà in modo cosí eloquente nello straordinario
esordio della vita di Michelangelo. Questo centro di
formazione moderna che doveva esistere a Firenze è
stato, secondo lui, il giardino di piazza San Marco. I dati
precisi che lo storico ci fornisce si possono ricondurre a
cinque punti:
1. la «scuola» rispondeva a un piano preordinato di
rinnovamento artistico disposto da Lorenzo, «desiderando egli sommamente di creare una scuola di pittori e
di scultori eccellenti» (Vita di Michelangelo); e piú oltre:
«dolendosi Lorenzo, che amor grandissimo portava alla
pittura ed alla scultura, che ne’ suoi tempi non si trovassero scultori celebrati e nobili, come si trovavano
molti pittori di grandissimo pregio e fama, deliberò,
come io dissi, di fare una scuola» (ibid.).
2. La selezione per questa scuola era, in linea generale, fatta con criteri puramente aristocratici, «atteso
Storia dell’arte Einaudi
38
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
che il detto Magnifico Lorenzo teneva per fermo, che
coloro che nascono di sangue nobile possano piú agevolmente in ogni cosa venire a perfezione»49 (Vita di Torrigiano).
3. Capo dell’istituzione era, fin dalla sua fondazione,
Bertoldo: «Voleva [Lorenzo] che elli avessero per guida
e per capo Bertoldo, che era discepolo di Donato» (Vita
di Michelangelo). Il Vasari insiste sul fatto che, nonostante la sua età, Bertoldo non era solo «custode o guardiano», ma era anche considerato «maestro molto pratico».
4. L’insegnamento si svolgeva fra le meravigliose raccolte medicee di opere antiche e anche di fronte a cartoni moderni50: «Insegnava loro, e parimente aveva cura
alle cose del giardino, ed a molti disegni, cartoni e modelli di mano di Donato, Pippo, Masaccio, Paolo Uccello,
fra Giovanni, fra Filippo» (Vita di Torrigiano). Questo
complesso mirabilmente adatto all’educazione artistica è
andato disperso nel 1494 ma, aggiunge il Vasari, è stato
in gran parte ricostituito nel 1512 e si sarebbe trovato
nel 1550 nel «guardaroba» del granduca.
5. La lista di coloro che cosí hanno potuto studiare
«le arti del disegno» è molto lunga e contiene piú di 10
nomi: «Michelagnolo, Giovan Francesco Rustici, Torrigiano Torrigiani, Francesco Granacci, Niccolò di
Domenico Soggi, Lorenzo di Credi e Giuliano Bugiardini, e de’ forestieri Baccio da Monte Lupo, Andrea
Contucci dal Monte Sansovino, ed altri...» (Vita di Torrigiano).
Si comprende cosí l’entusiasmo dello storico che conclude la sua esposizione ritornando sui suoi due temi
favoriti: la funzione dello «studio» («Queste arti non si
possono imparare se non con lungo studio fatto in ritrarre e sforzarsi di imitare le cose buone; e chi non ha di
si fatte commodità, sebbene è della natura aiutato, non
si può condurre se non tardi a perfezione»; e la gran-
Storia dell’arte Einaudi
39
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
dezza del mecenate («Il quale esempio, veramente
magnifico di Lorenzo, sempre che sarà imitato da’ principi e da altre persone onorate, recherà loro onore e lode
perpetua...» [Vita di Torrigiano]). Per concludere, l’istituzione creata da Lorenzo «nel giardino che aveva in
su la piazza di S. Marco di Firenze», è esattamente il
prototipo e l’antenato dell’Accademia che verrà fondata dal granduca Cosimo nel 1561 dietro suggerimento
del nostro Vasari; e questi, nella sua seconda edizione
del 1568, non puó fare a meno di introdurre la parola
anacronistica che compendia tutto il suo pensiero: «Le
quali tutte cose [gli oggetti delle raccolte] erano come
una scuola ed academia ai giovanetti pittori e scultori ed
a tutti gli altri che attendevano al disegno» (Vita di Torrigiano).
Il suggerimento del Vasari è stato scarsamente notato dagli eruditi dei secoli successivi: l’abate Lanzi parla
degli inizi del nuovo stile «classico» senza far cenno del
«giardino»; ma il racconto vasariano è stato dilatato in
misura sempre maggiore dai moderni. Il romantico
Roscoe è stato il primo, sembra, a trattarne in modo
solenne, nella frase spesso ricordata: «A questa istituzione, piú che ad ogn’altra circostanza, possiamo noi
francamente attribuire i rapidi e maravigliosi progressi,
fatti nelle belle arti verso la fine del secolo xv, che da
Firenze per gradi si estesero in tutto il resto d’Europa»51. Nulla di piú vasariano del resto di questa idea del
progresso. I dotti venuti dopo hanno messo in dubbio
il mecenatismo di Lorenzo52; ciò nonostante la formula
vasariana ha sempre indotto a vedere nel giardino «il
primo museo e la prima accademia artistica d’Europa».
Senza nascondersi l’esiguità delle informazioni di cui
disponiamo e il fatto che dipendiamo interamente da un
racconto in certi punti contestabile, gli storici migliori
hanno continuato a parlare de «la scuola del giardino»53.
Lo scetticismo è piu facile quando, ritornando allo
Storia dell’arte Einaudi
40
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
stesso testo vasariano, ci si sforza di valutare storicamente tutti i dati che esso contiene. Gli argomenti del
Vasari non si lasciano tradurre in dati precisi.
1. La cronologia è inconsistente: il «casino» presso il
convento di San Marco è stato dapprima proprietà di
donna Clarice, moglie di Lorenzo, per la quale Lorenzo
l’aveva acquistato nel 1480; essa morí il 30 luglio 1488.
Lorenzo vi aveva già trasferito le sue «anticaglie»? È
probabile. Ma Bertoldo che era anziano (era nato forse
intorno al 1420), e il Vasari lo riconosce, e che aveva
scarsa capacità di lavoro, viveva in intimità con Lorenzo nel palazzo di via Larga, lo accompagnava ai bagni di
Volterra e di Bagno a Morra, e morirà al Poggio il 28
dicembre 1491, un anno prima del Magnifico. Se vi
sono state delle lezioni nel casino e se si sono raccolti
degli allievi intorno a Bertoldo, questo non può essere
avvenuto che nel breve periodo tra il 1489 e il 1491, e
in modo del tutto discontinuo54.
2. L’elenco degli allievi suscita perplessità non minori: né Niccolò Soggi, né Lorenzo di Credi, né Andrea
Sansovino si trovavano a Firenze intorno al 149055. Chi
è Torrigiano Torrigiani? Si tratta del compagno di
Michelangelo oppure di Bastiano Torrigiani detto il
Bologna56? Il Rustici e il Granacci sono noti, ma sono
questi gli artisti «eccellentissimi» usciti dalla scuola dei
giovani aristocratici? La scelta dei primi nomi non induce forse a pensare che il Vasari stesso abbia sentito l’insufficienza di questa «promozione» e si sia risolutamente deciso a un «quadro simbolico» aggiungendo ciò
che rimaneva della bottega del Verrocchio ai principali
allievi del Ghirlandaio57?
3. Il Vasari non sa che dire dell’illustre «capo» di
questa «accademia». Non dedica a Bertoldo nemmeno
una biografia a sé e non lo conosce da vicino se non
come aiuto di Donatello nel Pergamo di San Lorenzo e
come restauratore delle «anticaglie» medicee (al modo
Storia dell’arte Einaudi
41
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
del Verrocchio)58. Non sa riferire alcun aneddoto sulla
vita della «scuola». Quelli che riporta, la conversazione
di Lorenzo con il giovane Michelangelo a proposito della
testa di fauno ridente, i consigli del Poliziano ci riportano alla cerchia di Lorenzo e dei suoi amici. Il Condivi, sempre piú chiaro del Vasari, riferisce le cose in
modo molto diverso. È grazie a un’iniziativa dell’amico
Granacci che Michelangelo ha potuto essere ammesso a
visitare le collezioni medicee: «Avenne che un giorno fu
dal Granacci menato al giardin de’ Medici a San Marco:
il qual giardino il Magnifico Lorenzo... avea di varie statue antiche e di figure adornato».
Di Bertoldo professore di disegno neppure un cenno
e qualche rigo piú sotto l’«accademia» fatidica del Vasari è riportata alle proporzioni di una semplice metafora,
allorché il Condivi parla della gioia del giovane scultore di lavorare liberamente, lontano dalla fastidiosa bottega del Ghirlandaio: «Qui tutto il giorno, come in
migliore scuola, di tal facultà si stava sempre facendo
qualche cosa».
Bertoldo, modesto consegnatario e già restauratore
degli oggetti antichi, non ha alcuna parte. Si tratta solamente dell’accesso alle collezioni che Lorenzo concedeva a suo piacimento alle persone di sua fiducia. L’osservazione del Vasari, elaborata in modo tanto tendenzioso, sul reclutamento aristocratico della scuola, è
indubbiamente la deformazione di una realtà piú semplice. Queste autorizzazioni non vigevano solo per il
giardino di San Marco. In una lettera indirizzata il 9
maggio 1490 dalla val d’Orcia a suo figlio Piero a proposito di un certo Baccio il Magnifico scrive: «Parmi
persona intendente e che si dilecti di vedere anticaglie.
Vorrei che tu li facessi mostrare tutte quelle dell’orto e
cosí delle nostre altre che sono nello scriptoio...» E sembra trattarsi piuttosto delle collezioni del palazzo di via
Larga e del suo «giardino» verso San Lorenzo59.
Storia dell’arte Einaudi
42
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Il Vasari ci permette addirittura di rettificare il suo
stesso racconto valendoci della lunga descrizione che
egli ci da delle «anticaglie» di palazzo Medici e del giardino annesso. Leggiamo nelle Vite che l’Albertinelli vi
studiava intorno al 1490 e che la maggior parte dei pittori e scultori del momento lo imitavano. Si tratta dunque di visite libere col permesso di Lorenzo. La versione autentica dei fatti è questa; e ci è fornita a proposito del giardino verso San Lorenzo60, mentre la versione
tendenziosa è quella fornita a proposito del giardino su
piazza San Marco.
4. L’elenco dei modelli è impressionante ma vago.
Nel 1510 l’Albertini scriveva nel suo Memoriale: «Nel
giardino de’ Medici sono assai cose antique venute da
Roma». Il casino non fu ricostruito dal Buontalenti che
nel 1576; nel 1550 si potevano ancora vedere i portici
e i giardini, ma, sembra, senza piú le anticaglie che
erano state raccolte altrove61.
La presenza dei cartoni dei maestri toscani non trova
alcuna conferma. L’elenco di essi appare cosí eccezionale
che è lecito chiedersi se non ci sia una confusione, piú
o meno volontaria, con le collezioni del palazzo di via
Larga. Ma allora si tratterebbe ancora una volta di uno
scorcio simbolico. Il Vasari insomma ha fatto coincidere la «scuola del giardino» con l’ambiente mediceo, con
la corte di Lorenzo, prendendo in pratica la parte per il
tutto: e cosi facendo ha voluto dire che nel «giardino»
si respirava il gusto piú puro e la migliore tradizione
toscana62.
Non abbiamo dunque, nell’esposizione del Vasari,
che una serie di generalizzazioni e di trasposizioni abusive insieme con uno sforzo ingegnoso di spiegare la
situazione dell’arte fiorentina intorno al 1490 in termini del tutto impropri. Lo storico è troppo legato al granduca per non mettere in evidenza le benemerenze del
mecenatismo mediceo, per non ricordare che un gran
Storia dell’arte Einaudi
43
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
regno suppone una grande scuola artistica, sotto una
direzione autorizzata, e per non insistere sulla dignità
degli artisti, cui i principi dell’«età d’oro» tanta importanza attribuivano. C’è dunque troppo Cinquecento del
quadro che egli traccia per analogia della Firenze del
1490. D’altronde egli ha per cosí dire la mania delle
scuole: ama ricomporre un gruppo, un tutto coerente, un
momento decisivo dell’evoluzione artistica, sotto un’autorità comune. Nell’età manieristica si crede alla necessità storica degli istituti e delle accademie d’intonazione dogmatica. Si è ormai perduto il senso della vita, piú
stretta sul piano tecnico, e nello stesso tempo meno
ambiziosa delle botteghe di un tempo.
Se dobbiamo credere al Condivi è per sottrarsi ai
fastidi della bottega che Michelangelo si è fatto dare il
permesso di lavorare nel giardino di San Marco. Sarebbe debitore di questa fortuna al Granacci. Gl’insegnamenti di Bertoldo sono ancora meno reali delle lezioni
del Ghirlandaio, presso il quale Michelangelo è stato per
un tempo quanto mai breve63. Michelangelo naturalmente ha conosciuto l’uno e l’altro; ma lo stesso errore
di prospettiva ha indotto a collocare i suoi inizi sotto il
patronato del pittore e dello scultore che sembravano i
piú degni rappresentanti della tecnica fiorentina intorno al 149064. Il mito della «Scuola del giardino» è nato
in sostanza dal bisogno di spiegare meglio la formazione toscana di Michelangelo. Il Vasari è stato guidato da
un’induzione parallela a quella che ha sollevato le libere riunioni del «club» di Careggi a prototipo delle accademie moderne65.
Il modo migliore per ricondurre alla sua base concreta
e sicura questa splendida costruzione, in cui la grandezza
del mecenate e l’ideale scolastico sono celebrati in modo
anche troppo lusinghiero, è quello di cercare di immaginare la funzione che poteva avere la collezione personale di un grande signore del Quattrocento e i suoi
Storia dell’arte Einaudi
44
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
amici nella formazione di alcuni giovani scultori. Questi potevano essere chiamati in quelle collezioni a titolo di restauratori, cosa che pone un altro problema66.
Ma Lorenzo apriva i suoi giardini e i suoi gabinetti a
tutti coloro che giudicava degni, e non si distinguevano
i frequentatori abituali del giardino di San Marco dagli
invitati del palazzo: «Haec ubi undecumque comparaverat, domi apud se venerabundus custodiebat, ostendens non palam omnibus, sed generoso cuique»67. Lorenzo riservava dunque la frequentazione dei suoi pezzi
antichi a una élite: forse egli se ne esagerava il valore
archeologico, ma erano per lui il simbolo di una cultura. Nicola Valori che ricorda come Lorenzo sapesse accogliere tutti i talenti, non perde occasione per insistere
sulle sue iniziative generose. Egli non dice parola della
«scuola di Bertoldo»; dato che ha scritto la sua Vita di
Lorenzo agli inizi del secolo xvi (intorno al 1517), nel
momento stesso in cui si cristallizzava la leggenda medicea, questo argomento a silentio sembra decisivo contro
la tesi del Vasari e degli storici del secolo scorso.
La leggenda dell’«età d’oro».
Se il mecenatismo di Lorenzo è in buona parte una
invenzione storica, è interessante analizzare brevemente il formarsi della «leggenda dell’età d’oro». La formula
era stata impiegata dal Ficino in una lettera del 1492,
in cui descriveva il generale rinnovamento delle lettere
e delle arti. Ma essa aveva qui un valore quanto mai
generale e si ricollegava al mito piú alto dell’epoca68. È
stato piuttosto il Savonarola che involontariamente ha
preparato l’esaltazione di Lorenzo, accusando volta volta
la «tirannia» dei Medici, l’«errore» del pensiero umanistico e la «degradazione» dell’arte. Il riformatore unificava idealmente la cultura medicea denunciandola
Storia dell’arte Einaudi
45
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
come paganesimo, decadenza e corruzione in tutti i
campi69. La reazione fu altrettanto energica. Ritorcendo le formule del riformatore, i partigiani del ritorno dei
Medici cominciarono a presentare l’epoca testè conclusa non come un periodo di pietà e di virtú, ma come un
periodo felice di pace e di alta civiltà, che valeva ben la
pena di rimpiangere: Piero Parenti parla, nel 1501, nel
suo diario de «la buona stagione preterita»; un umanista, il Crinito, nel 1504 parla delle sciagure del 149270.
Lottando, dopo la caduta del Savonarola, contro la propaganda «piagnona», la contropropaganda medicea riuscí facilmente a costruire il mito che gli amici dei Medici e i servitori dei duchi vennero in seguito via via precisando. L’importanza che dopo il 1500 ebbero in questo senso Bernardo Rucellai e la sua cerchia, dove gli
studi politici erano prevalenti, è essenziale. Fautore di
una repubblica aristocratica, il Rucellai era stato contrario successivamente a Piero e al Savonarola; ora era
contrario al Soderini. Nei convegni degli «Orti Oricellari» in cui si riunivano i sopravvissuti dell’Accademia
ficiniana, come il Diacceto e gli storici dell’umanesimo,
il Guicciardini, L. Alamanni e, piú tardi, il Machiavelli, l’idealizzazione dell’epoca di Lorenzo si accompagnava in modo del tutto naturale alla ricerca di un nuovo
ideale politico insieme antico e moderno, di tipo romano e di tipo veneziano. E la fama di cultura di Lorenzo
non poteva che favorire tale idealizzazione. È di questo
che si farà eco il Guicciardini: dopo un giudizio ancora
incerto nelle Storie fiorentine, che diviene piú favorevole nel Dialogo, nella Storia d’Italia infine presenterà
un’immagine ideale del principe che, secondo le sue
parole (Storia, I, cap. xv), «dopo la morte si convertí in
memoria molto chiara»71.
Da tutte queste riflessioni, da questi rimpianti del
passato, usciranno immagini concordanti. La Vita di
Ficino di G. Corsi (1506) è l’opera di un politico che
Storia dell’arte Einaudi
46
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
mira a dimostrare che lo sviluppo dell’umanesimo è
avvenuto in stretta connessione con le fortune del principato mediceo72. La vita di Lorenzo del Valori (circa
1517) afferma nello stesso tempo la saggezza del politico che ha saputo salvaguardare la pace dell’Italia, il suo
attaccamento alla filosofia platonica di Careggi e infine
l’ammirevole funzione di conoscitore e uomo di gusto
che egli ha saputo esercitare. Le sue conclusioni concordano con l’iscrizione del 1490: «Hoc illud fuit tempus quo omnium maxime Florentia dicitur floruisse
imperio aucta et nominis fama quam per totum terrarum
orbem Laurentii sapientia et auctoritas dilataverat»73.
Non v’è mai cenno, in questi elogi, di una «accademia»
ufficiale e meno ancora di una «scuola» artistica; essi
semplicemente mettono insieme le tre glorie di Firenze,
quella politica, quella letteraria e quella artistica. Questa disposizione psicologica si paleserà appieno con la
ripresa delle feste «medicee», allorché, nel settembre
1512, il giovane Giuliano de’ Medici rientrerà a Firenze per ristabilirvi il principato. La piú significativa di
queste feste fu quella organizzata, con la collaborazione del giovane Pontormo e di Andrea del Sarto, dalle
compagnie del «Diamante» e del «Broncone» (si tratta
di due emblemi medicei) per il carnevale del 1513. Si
trattò, per usare le parole di uno storico, di una sorta di
«carnevale postumo» alla Lorenzo, di una sfilata di carri
del genere di quelli che egli aveva messo di moda
trent’anni prima: in pratica, dei quadri viventi di gusto
classico, Saturno e Giano, Numa Pompilio...; e, infine,
il Trionfo dell’età d’oro. Si cantavano in coro i Canti di
Jacopo Nardi; l’ultimo di questi comprendeva i versi:
... Come la fenice
Rinasce dal broncon del vecchio alloro,
Cosí nasce dal ferro un secol d’oro.
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
E qui la formula «secol d’oro», «età d’oro» acquista
tutto il suo significato74.
Si era alla vigilia dell’elezione del cardinale Giovanni al soglio pontificio col nome di Leone X (11 marzo
1513). Bastò poco tempo perché si costituisse a Firenze, sotto la protezione del papa, una «Sacra Academia
florentina», a carattere ufficiale, che rappresentava l’auspicata ricostituzione dell’Accademia di Careggi. Si trattava però di un circolo erudito, in cui l’ispirazione dotta
e teologica tendeva perfino a tingersi di pietismo antipagano. Una delle sue manifestazioni fu, nel 1519, la
petizione rivolta al papa per chiedere il ritorno delle
ceneri di Dante75. Nel 1521 il busto del Ficino, opera del
Ferrucci, sarà collocato nella Cattedrale. Ci volle però
ancora una generazione perché il nuovo ducato si consolidasse e perché intorno al potere si raccogliesse una
vera e propria accademia letteraria e una vera e propria
accademia del disegno, istituzioni che trovavano i loro
titoli di nobiltà in una glorificazione tendenziosa della
civiltà medicea dell’età d’oro. Lo studio della cultura fiorentina alla fine del Quattrocento deve dunque tener
conto di tutti questi schermi deformanti. Il movimento
intellettuale ed artistico del tempo di Lorenzo è stato
brutalmente interrotto e negato, al pari del regime mediceo, dalla rivoluzione del 1494, poi rivalorizzato oltre
misura dalla propaganda dei Medici negli anni 1500-20,
finche non si avrà la ricomposizione in termini convenzionali ad opera degli storici toscani della metà del Cinquecento76.
Appendice I ritratti degli umanisti
Non esiste alcun lavoro di insieme sui ritratti degli
umanisti. Fra i ritratti di gruppo ricordiamo anzitutto i
due affreschi famosi di Santa Maria Novella (Annuncio
Storia dell’arte Einaudi
48
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
a Zaccaria, coro) del Ghirlandaio, e quello di Sant’Ambrogio (cappella del SS. Sacramento) di Cosimo Rosselli. Il quadro segnalato dal Mencken nella sua Vita del
Poliziano all’Accademia di Lipsia è una copia tarda e cattiva del gruppo di Santa Maria Novella, rappresentato
qui sullo sfondo di un paesaggio del Nord delle Alpi:
HILL, Iconografia di Angiolo Poliziano, in «Rinascimento», ii (1951), p. 271. Il punto di partenza dovrebbe essere costituito dalle gallerie di uomini illustri del
Cinquecento, di cui le piú notevoli sono state quella di
Paolo Giovio, quella dei duchi di Toscana (le tele sono
opera di Cristofano dell’Altissimo, ma egli si limita spesso a riprodurre la serie di Paolo Giovio) e certe collezioni
principesche, come quella, ad esempio, dei duchi del
Tirolo: f. kenner, Die Porträtsammlung des Erzherzogs
Ferdinand von Tirol: die italienischen Bildnisse, in «JW»,
xviii (1897), pp. 134-261.
Ficino: oltre le testimonianze, abbiamo affreschi e iniziali miniate (ad esempio la m iniziale del Plotino,
Biblioteca Laurenziana [1490], riprodotto in Marsile
Ficin et l’art, tav. v), la medaglia di Niccolò e il busto
tardo (1521) di Andrea Ferrucci nella cattedrale di
Firenze: op. cit., p. 48.
Elenco dei manoscritti in cui si trova una iniziale col
ritratto del Ficino: p. d’ancona, La miniatura fiorentina,
Firenze 1914, 2 vv. Bottega d’Attavante: Plut. 73-79 (n.
1518), foll. 4, b iniziale e, 77 l iniziale; Plut. 82-15 (n.
1531), fol. 1, medaglioni; Plut. 83-10 (n. 895, ms della
Theologia platonica), vol. 1, p iniziale; Strozzi 97 (n.
1541), fol. 1; Wolfenbüttel 2924 (n. 1587), foll. 2 e 31;
2994 (n. 1598), fol. 2. Di un’altra bottega fiorentina,
quella dei Boccardi, Biblioteca Casanatense, Roma, cod.
1297 (n. 1667), fol. 1: m iniziale. Di mano di Francesco
Antonio del Cherico: Wolfenbüttel, cod. 73 (841), fol. 1.
Poliziano: art. cit., supra.
Landino: una miniatura di Gherardo e Monte per le
Storia dell’arte Einaudi
49
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
edizioni di Plinio (1478) lo rappresenta a mezzo busto
davanti alla cattedrale di Firenze: o. pächt, Italian Illuminated Manuscripts, Bodleian Library, Oxford 1948, n.
83, riprodotto in a. chastel, Marsile Ficin et l’art, tav. v.
Pico: un disegno della collezione Bonnat di Bayonne
(cat. II, 1925, n. 18) sembra sicuramente d’origine settentrionale: Baldassarre d’Este o Ambrogio de Predis:
e. tietze-conrat, An Unknown Portrait of Pico della
Mirandola, in «Gazette des Beaux-Arts», xxvii (1945),
gennaio, pp. 59-62. Ciò è da avvicinare alla citazione,
nell’inventario di Fulvio Orsini del 1600 di un disegno
di Pico attribuito a Leonardo: «Gazette des BeauxArts», i (1884), p. 435, n. 102. È indubbio che questo
tipo abbia avuto diffusione fuori Firenze. Il Montaigne
nel suo Journal de voyage descrive una effige al naturale
di «Picus Mirandula» a Urbino: «Un visage beau, très
blanc, sans barbe de la façon de 17 ou 18 ans, le nez longuet, les yeux doux, le visage maigrelet, le poil blond qui
lui bat jusque sur les épaules et un étrange accoutrement».
Gli altri personaggi della cerchia di Careggi sono rappresentati piú di rado o è piú difficile identificarli.
È esistito un ritratto di Girolamo Benivieni, opera
di Lorenzo di Credi, segnalato (vasari, ed. C. L. Ragghianti, II, p. 243), come «molto suo amico». Secondo
il Milanesi (1878) questo ritratto si trovava nella collezione Volpini di Firenze: è scomparso in seguito.
Il ritratto di Lorenzo Lorenzi, professore a Pisa e
grande amico di Pico, stando alla testimonianza di p.
crinito, De honesta disciplina, V, 1, eseguito dal Botticelli, si trova al Museo di Filadelfia: j. mesnil, Botticelli,
Paris 1938, p. 138.
Le medaglie, databili tra il 1490 e il 1495, di Niccolò
Fiorentino dimostrano la notorietà degli umanisti: c.
von fabriczy, Medaillen der italienisches Renaissance,
Leipzig s. d., pp. 60 sgg.
Storia dell’arte Einaudi
50
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
h. taine, Voyage en Italie, Paris 1865, 18ª ed., 1930, vol. II, p. 148.
a. chastel, Le goût des primitifs en France, introduzione al catalogo della mostra «De Giotto à Bellini», Paris 1956, trad. it. in «Paragone», vii (1956), n. 79, pp. 3 sgg.
3
m. praz, La carne, la morte e il diavolo, 3ª ed., Firenze 1948, cap.
V (Bisanzio).
4
L’opera a lungo celebrata di p. monnier, Le Quattrocento, Paris
1901, non è piú sufficiente. I numerosi lavori di e. garin e p. o. kristeller, citati piú avanti, hanno accumulato materiali inediti e tracciato delle prospettive sicure per una storia dell’umanesimo italiano che
è ancora da scrivere.
5
Tutti questi punti sono stati svolti in uno studio su Marsile Ficin
et l’art, Genève 1955.
6
f. antal, Florentine Painting and its Social Background, The Bourgeois Republic before Cosimo de’ Medici’s Advent to Power: XIV and XV
Centuries, London 1947 (trad. it. La pittura fiorentina e il suo ambiente
sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento, Torino 1960). Storici dell’arte cosí diversi come E. H. Gombrich, M. Meiss, e P. Francastel
hanno moltiplicato le loro riserve sulla tesi di F. Antal.
7
L’opera recente di w. welliver, L’impero fiorentino, Firenze
1957 (che noi non possiamo seguire nella interpretazione delle opere
d’arte), insiste su questo punto.
8
f. antal, Studien zur Gotik im Quattrocento, in «Jahrbuch der
preussischen Kunstsammlungen», xlvi (1925), pp. 3-32; questa tesi è
stata parzialmente ripresa da g. weiss, Die spätgotische Stilrichtung in
der Kunst der italienischen Renaissance, in «Bibliothèque d’humanisme
et renaissance», xiv (1952), pp. 99 sgg., e combinata con la tesi di
wölfflin all’opposizione radicale tra il xvi secolo e l’età precedente in
Renaissance und Antike, «Tübinger Forschungen zur Kunstgesch.», 5,
Tübingen 1953.
9
p. francastel, Peinture et société, Lyon 1954, parte I (trad. it. Lo
spazio figurativo dal Rinascimento al Cubismo, Torino 1957).
10
Il concetto di «decompartimentazione» è stato messo in luce in
modo assai perspicuo da e. panofsky nel saggio Artist, Scientist, Genius,
notes on the «Renaissance-Dämmerung», apparso in The Renaissance, a
Symposium, The Metropolitan Museum of Art, New York 1953.
11
Lo stesso era accaduto per Paolo Uccello, stando agli studi di a.
parronchi, Le fonti di Paolo Uccello, in «Paragone», nn. 95 e 97,
novembre e gennaio 1958.
12
Cfr. j. r. spencer, Ut rhetorica pictura, in «jwci», xx (1957).
13
L’ha chiaramente dimostrato p. o. kristeller, The modern system
of the arts: a modern study in the history of aesthetics, in «Journal of the
History of Ideas», xii (1951), pp. 496-528 e xiii (1952), pp. 17-45.
14
e müntz, Histoire de l’art pendant la Renaissance, vol. II (Italie:
1
2
Storia dell’arte Einaudi
51
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
l’âge d’or), Paris 1891, pp. 70 sgg., ha indicato anzitutto fra i fattori
dell’arte classica «il passaggio dal realismo all’idealismo favorito dal
trionfo della filosofia platonica». Gli altri aspetti decisivi sarebbero una
migliore conoscenza dell’antico (definito piú chiaramente dal primato
di Roma) e la maturità degli stili (che s’esprime con l’abbandono della
maniera dura e secca del Quattrocento). Ciò che ci interessa qui è l’interazione di tutti questi fattori a Firenze, quindi il loro sviluppo a
Roma. Le prime indicazioni in questo senso in h. hettner, Italienische
Studien zur Geschichte der Renaissance, Brunswick 1879, II, 2, e V, 12. Cosí anche w. goetz, Renaissance und Antike, in «Historische Zeitschrift», vol. II, Leipzig 1942: «Il fondamento spirituale di quest’arte [l’arte classica] risulta chiaramente, allorché si risalga al pensiero degli
artisti e alla generale tendenza dei loro propositi, l’umanesimo, e in
primo luogo il platonismo».
15
Come ormai da tempo ha messo in evidenza A. Warburg, a proposito del Botticelli, nel suo studio del 1894, ripubblicato nei Gesammelte Schriften, Leipzig 1932, vol. I, pp. 1 e 5. Apparirà agevolmente
quanto su tutti questi argomenti la nostra esposizione debba agli studi
di F. Saxl, E. Panofsky, E. H. Gombrich, R. Wittkower. Da venticinque anni e questa parte non ha fatto che crescere il nostro debito
di gratitudine verso i membri dell’Institut Warburg (passato a Londra
nel 1933).
16
Dopo che questo libro era stato licenziato (1957) un nuovo libro
del professor e. wind, Pagan Misteries in the Renaissance, London 1958
è venuto a mettere in evidenza i rapporti che si possono stabilire tra
la Poetica Theologia rinascimentale e certi capolavori d’arte: la Primavera del Botticelli, l’Amor sacro e profano di Tiziano, il Bacco di Michelangelo. Egli dunque tratta alcuni degli argomenti di questo studio e si
vale in piú d’un caso della stessa serie di testi e di argomenti (ad esempio per Marsia e Apollo).
Tuttavia lo spirito che anima queste sue pagine è assai diverso: il professor Wind non si preoccupa dello sviluppo degli ambienti e delle
generazioni; egli trascura volutamente quelle che sono le posizioni correnti per mettere invece in evidenza i paradossi illuminanti e svolge con
finezza un’idea dell’arte del Rinascimento che ricorda quella di Walter
Pater; ciò che l’attira è «una mistura di malinconia e spirito burlesco»
e l’azione stimolante dell’ermetismo che libera gli istinti poetici. Il simbolo rivelatore è l’immagine delle Grazie impressa sul rovescio della
medaglia di Pico. Questi è l’eroe favorito del professor Wind che sarebbe anche propenso a metterlo a contrasto col Savonarola (i suggerimenti
delle pp. 66 n. 7 e 68 n. 3 sono quanto mai soggetti a cauzione) e che
minimizza a torto il contributo del Ficino (rimproverando a noi, p. 110
n. 3, di non aver operato la necessaria distinzione tra «l’influenza del
Ficino sulle arti e il concetto che egli aveva di queste», nonostante ciò
Storia dell’arte Einaudi
52
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
che è detto nel nostro Marsile Ficin et l’art, pp. 32 e 49). Il professor
Wind spiega ragionevolmente come gli artisti del Cinquecento arrivassero attraverso la semplice conversazione a conoscenze che noi dobbiamo ritrovare per vie piú o meno laboriose. Ma questa giustificazione
dell’«iconologia» non deve farci dimenticare le confusioni, le esitazioni, le crisi e le incertezze del passato, al fine di comporre un’immagine
perfettamente coerente e bella. In realtà l’idea dei «misteri» pagani permette al professor Wind di ricostruire: 1) un postulato teorico basilare
sul tipo della concordia discors, fondata sulla dialettica dei complementari del tipo Virtú e Voluttà ecc.; 2) un’interpretazione letteraria, e volutamente «trascendentalistica» di tutti i motivi, cosa che ci sembra eccessiva. Non saremo noi a negare il valore del principio del «gioco serio»
(«serio ludere») nel Rinascimento, né la funzione della «triade» nell’attività speculativa. Ma i criteri metodologici presentati nella nostra
introduzione precisano l’apparato storico che può aiutare ad evitare l’inopportuna confusione tra la mitologia personale che ognuno di noi ha
e i precisi fenomeni del periodo che si studia.
17
Sulla funzione essenziale che ha avuto l’«ordinazione», cfr. a.
warburg, Bildniskunst und florentinisches Bürgertum (1901), raccolto in
Gesammelte Schriften, Leipzig 1932, vol. I, p. 95 e m. wackernagel,
Der Lebensraum des Kunstlers in der florentinischen Renaissance, Leipzig
1938. Su di essa ha insistito anche j. mesnil, L’éducation des peintres
florentins au XVe siècle, in «Revue des idées», 15 settembre 1910.
18
t. trapesnikoff, Die Porträtdarstellungen der Mediceer des XV.
Jahrh., Strassbur 1909, pp. 63 sgg.; l. buerkel, Francesco Furini, Wien
1908, p. 80. Sulla base della statua di Platone si legge: «Sal in mente,
mel in ore», e in un cartiglio che gira intorno alla stessa base «Platonem laudaturus et sile et mirare».
19
Descrizione sommaria in a. lensi, Palazzo Vecchio, trad. fr. Paris
1932, pp. 161 sgg. Il testo del vasari, ed. Milanesi, vol. VIII, p. 250;
ed. C. L. Ragghianti, Milano 1949, vol. IV, pp. 127-70.
20
Cosa tutt’altro che vera: i. del lungo, Florentia, Firrenze 1893,
p. 231, e Marsile Ficin et l’art cit., p. 7.
21
Su questa utilizzazione accademica delle glorie del Quattrocento
torneremo con maggior ampiezza nella conclusione generale, iv.
22
w. roscoe, Life of Lorenzo de’ Medici called the Magnificent, London 1795; ed. it., Pisa 1816.
23
Attraverso Lorenzo è tutta l’epoca che viene celebrata nell’opera di W. Roscoe, e successivamente in quella di a. von reumont,
Lorenzo de’ Medici il Magnifico, 2 voll., Leipzig 1874, e nell’opera di
innumerevoli volgarizzatori che hanno seguito e imitato questi autori.
La tendenza a riferire tutto all’azione personale del «Principe» ispira
l’opera di e. barfucci, Lorenzo de’ Medici e la società artistica del suo
tempo, Firenze 1945.
Storia dell’arte Einaudi
53
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
e. müntz, Les précurseurs de la Renaissance, Paris 1882; cosí anche
f.-t. perrens, Histoire de Florence depuis la domination des Médicis
jusqu’à la chute de la République (1434-1531), vol. I, Paris 1888, p. 573.
25
e. wilder, The unfinished monument by Andrea del Verrocchio to
the Cardinal N. Forteguerri at Pistoia, Northampton (Mass.) 1932; a.
chastel, Marsile Ficin et l’art cit., p. 38 n. 64.
26
l. d. ettlinger, Pollaiuolo’s Tomb of Sixtus IV, in «jwci», xvi
(1953), p. 243 n. 3; s. meller, I progetti di Antonio Pollaiuolo per la
statua equestre di F. Sforza, in Miscellanea in onore di A. Petrovic, Budapest 1934, pp. 5 sgg.; a. sabatini, Antonio e Piero del Pollaiolo, Firenze 1944, p. 71.
27
E. müntz, Les précurseurs ecc. cit., pp. 171 sgg.; a. von reumont,
Lorenzo de’ Medici ecc. cit., vol. II, pp. 186-87; m. wackernagel, Der
Lebensraum ecc. cit., Leipzig 1938, pp. 268-69.
28
a. fabroni, Laur. Medicis Magnifici Vita, Pisa 1784, p. 217. Questa ipotesi ci sembra confermata dall’analisi della situazione artistica
di Firenze che ci dà il vasari nella Vita del Perugino, ed. Milanesi, III,
p. 566; ed. C. L. Ragghianti, I, p. 930. La descrizione è retrospettiva
e si riferisce agli anni 1475-80 (cfr. piú avanti, parte II, introduzione).
Dopo aver spiegato perché «in Firenze piú che altrove venivano gli
uomini perfetti in tutte l’arti...», il Vasari conclude che dopo aver
approfittato del clima elevato della città «bisogna partirsi di quivi e
vender fuora la bontà dell’opere sue e la riputazione di essa città,
come fanno i dottori quella del loro studio. Perché Firenze fa degli artefici suoi quel che il tempo delle cose sue, che, fatte, se le disfa e se le
consuma a poco a poco».
a. von reumont, Lorenzo de’ Medici ecc. cit., II, pp. 130 sgg., ci
dà un quadro dell’arte fiorentina al tempo del Magnifico su cui non si
può contare per una valutazione del mecenatismo di Lorenzo. Piú preciso il wackernagel, Der Lebensraum ecc. cit., II, pp. 150 sgg.; noi tuttavia non lo seguiamo per quanto riguarda la «scuola d’arte» del giardino di San Marco (p. 269).
29
a. chastel, Marsile Ficin et l’art cit., Genève-Lille 1954, pp. 18384; m. wackernagel, Der Lebensraum ecc. cit., pp. 268-69.
30
Per questa commemorazione, cfr. vasari, ed. Milanesi, II, p. 630:
«per pubblico decreto e per opera ed affezione particulare dei Magnifico Lorenzo vecchio de’ Medici...» Su Giotto mosaicista, cfr. piú
avanti.
31
j. lauts, Domenico Ghirlandaio, Wien 1943, tav. lxxxii. Molto
diverso, sotto questo aspetto, l’affresco leggermente anteriore del Miracolo del Sacramento in Sant’Ambrogio (1485-86): Cosimo Rosselli vi ha
riunito i ritratti del Ficino, di Pico e del Poliziano, che figurano proprio in mezzo alla piazza, per celebrare le celebrità fiorentine del
momento: il Ficino aveva pubblicato nel 1482 la Teologia platonica, il
24
Storia dell’arte Einaudi
54
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Poliziano aveva iniziato nel 1488 i suoi corsi sui Fasti d’Ovidio, Virgilio, Omero; Pico proprio allora era stato accolto nel gruppo dei filosofi fiorentini dopo la sua lettera d’omaggio a Lorenzo. Sui «ritratti
degli umanisti» cfr. la nota in fine di capitolo.
32
m. wackernagel, Der Lebensraum ecc. cit., pp. 266-67; w. paatz,
Kirchen, III, p. 577.
33
vasari, Vita di Giuliano da Sangallo, ed. Milanesi, IV, p. 274; m.
wackernagel, Der Lebensraum ecc. cit., p. 267; g. marchini, Giuliano da Sangallo, Firenze 1942, pp. 32 sgg.
34
Diario di L. Landucci, ed. Firenze 1883, p. 58, citato in e. barfucci, Lorenzo de’ Medici ecc. cit., p. 268; cfr. su questo punto piú
avanti. Alcuni hanno riferito al tempo di Lorenzo un progetto di palazzo mediceo in borgo Pinti, già sensibilmente classico, noto da un disegno un tempo attribuito a Giuliano (circa 1488) e in realtà di Antonio
da Sangallo (dopo il 1512): cfr. g. marchini, Giuliano da Sangallo cit.,
p. 101, e piú avanti, III, cap. IV.
35
guicciardini, Scritti scelti ed. L. Bonfigli, Firenze 1924, p. 7. Sulle
fonti della storia di Lorenzo: a. renaudet, Laurent le Magnifique, in
Hommes d’Etat, Paris 1937, vol. II pp. 415-507.
36
n. valori, Laurentii Medices Vita, ed. P. Mehus, Firenze 1749.
37
e. müntz, Les collections des Médicis au XVe siècle, Paris 1888. Sul
tesoro di Lorenzo, cfr. w. holzhausen, Studien über den Schatz des
Lorenzo il Magnifico im Museo degli argenti zu Florenz, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Instituts in Florenz», III (1929), 3. Lorenzo nutriva un particolare interesse per la miniatura e non risparmiava
sforzi per arricchire la biblioteca di manoscritti miniati: nel 1490, alla
morte di Mattia Corvino, si assicurò i manoscritti di Gherardo e Attavante che erano destinati al re: cfr. vasari, ed. Milanesi, III, p. 240.
Sulla biblioteca dei Medici, cfr. piccolomini, Le vicende della libreria
medicea, in «Archivio storico italiano», V (1892). Ma la miniatura non
è certo il settore piú felice della pittura fiorentina.
38
c. von fabriczy, Medaillen der italienischen Renaissance, Leipzig s.d.
39
Cfr. piú avanti.
40
valori, Laurentii Medices Vita ecc. cit., p.46.
41
m. wackernagel, Der Lebensraum ecc. cit., p. 269; a. von reumont, Lorenzo de’ Medici ecc. cit., pp.150 sgg.
42
vasari, Vite (Vita del Sangallo), ed. Milanesi, vol. IV, p. 277. Agli
anni 1491-92 viene assegnata la loggetta aggiunta sul fianco della villa
di Careggi: cfr. G. marchini, Giuliano da Sangallo cit., p. 91.
43
luca pacioli, De divina proportione, ed. C. Winterberg, Wien
1889, pp. 148-49.
44
valori, Laurentii Medices Vita ecc. cit., p. 46.
45
a. chastel, Ambra, l’Altercation et les chansons de carnaval, Paris
1946, e piú avanti, pp. 234-36.
Storia dell’arte Einaudi
55
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
vasari, ed. Milanesi, IV, pp. 256 sgg., VII, p. 141. Cfr. a. chastel, Vasari et la légende médicéenne: l’Ecole du jardin de Saint-Marc, in
«Studi vasariani», Firenze 1950, pp. 159-67, e piú avanti, conclusione generale, iv.
47
All’inizio della Vita di Botticelli il Vasari parla dell’epoca di
Lorenzo «che fu veramente per le persone d’ingegno secol d’oro...»
48
Questa teoria viene formulata, in particolare, all’inizio della Vita
di Verrocchio (ed. Milanesi, p. 357) e il giudizio assai severo che vi compare viene attenuato nella seconda edizione. Altri passi significativi a
proposito di Dürer, ibid., vol. V, p. 402 e (solo nell’edizione 1550) nella
Vita di Vincenzo da San Gimignano, ibid., p. 55. Sull’intero problema,
cfr. w. von obernitz, Vasaris allgemeine Kunstanschauungen auf dem
Gebiete der Malerei, Strassburg 1897, pp. 101-3.
49
Questa professione di fede è illustrata da un pomposo verso dell’Alciati, di cui il Vasari si è valso piú volte nella sua carriera: cfr.
Descrizione delle opere di Giorgio Vasari, nelle Vite, ed. C. L. Ragghianti, III, p. 717.
50
Qualche altro particolare si trova all’inizio del testo, IV, p. 256:
«La loggia i viali e tutte le stanze erano adorne di buone figure antiche di marmo e di pitture e d’altre cose fatte di mano de migliori maestri che mai fussero stati in Italia e fuori».
51
w. roscoe, Life of Lorenzo ecc. cit., ed. it., Pisa 1799, IV, p. 30.
52
Cfr. e. müntz, Les précurseurs ecc. cit., pp. 204-9 e sopra.
53
k. frey, Michelagniolo Buonarroto: Sein Leben und seine Werke, I:
Michelagniolos Jugendjahre, Berlin 1907, p. 45; c. de tolnay, The youth
of Michelangelo, Princeton 1947, pp. 16-17; e. barfucci, Lorenzo de’
Medici ecc. cit., cap. V (Il giardino di San Marco) intende nel senso piú
largo l’istituzione che finisce cosí per abbracciare tutta l’arte fiorentina.
54
k. frey, Michelagniolos Jugendjahre cit., p. 63: «la scuola d’arte
appartiene agli ultimi anni di vita di Lorenzo, non all’ottavo decennio
e tanto meno a un’epoca ancora anteriore». La lettera di Lorenzo al
figlio Piero del 9 maggio 1490 non riguarda verosimilmente il giardino di San Marco, ma quello di via Larga; cfr. piú avanti.
55
k. frey, p. 64.
56
È l’opinione di C. L. Ragghianti, ed. delle Vite, IV, p. 404 n. 7.
57
Il Vasari si tradisce leggermente all’inizio della Vita di Giovanni
Francesco Rustici (ed. C. L. Ragghianti, III, p. 249), quando riferisce
l’amicizia tra il Rustici e Leonardo (attestata nel 1507) alla circostanza che erano stati insieme nella bottega del Verrocchio (benché il
Rustici fosse nato nel 1474, cioè piú di vent’anni dopo Leonardo, e che
il Verrocchio avesse lasciato Firenze intorno al 1485) e corona questo
anacronismo con una affermazione dell’eccellenza di tutti coloro «i
quali furono della scuola del giardino de’ Medici e favoriti del magnifico Lorenzo vecchio».
46
Storia dell’arte Einaudi
56
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
L’opera di w. von bode, Bertoldo und Lorenzo de’ Medici, Freiburg im Brisgau 1925, non reca chiarimenti.
59
Contrariamente a ciò che pensa k. frey, Michelagniolos Jugendjahre cit., pp. 74-75.
60
vasari, Vita di Mariotto Albertinelli, ed. Milanesi, IV, p. 218. Cfr.
anche piú avanti, I, introduzione.
61
f. albertini, Memoriale di molte statue et picture nella città di Firenze, 1519, ed. Milanesi-Guasti, Firenze 1863, p. 10; c. de tolnay, The
youth of Michelangelo cit., p. 263. La pianta del Bonsignori (1584)
mostra ancora lo stato primitivo del «casino», ibid., tav. cxcviii.
62
L’esposizione di k. frey, Michelagniolos Jugendjahre cit., pp. 4849 giunge a negare la teoria vasariana per insistere invece su una visione complessiva del mecenatismo di Lorenzo.
63
Il saggio di G. Fiocco, La data di nascita di Francesco Granacci ed
un’ipotesi michelangiolesca, in «Rivista d’arte», 1930, p. 193, anticipando al 1469 la data di nascita del Granacci permette di attribuire a
quest’ultimo una maggior importanza nella formazione artistica di
Michelangelo: il Granacci era stato il suo primo amico. Mal si comprende anche come s. bottari, Michelangelo, Catania 1941, che pur
aderisce largamente alla versione neocondiviana del Fiocco, scriva per
inciso che Bertoldo «come è noto sopraintendeva a quella – la denominazione non è impropria – Accademia» (p. 64). L’affermazione è
ripetuta, anche qui di passata, da a. bertini, Michelangelo fino alla Sistina, Torino 1945, p.13.
64
c. de tolnay, The youth of Michelangelo cit., capp. III e IV, arriva alla conclusione che il Ghirlandaio non ha avuto grande influenza
sul suo allievo e che l’accademia del giardino non era una scuola come
le altre. Noi proponiamo una soluzione piú radicale.
65
Marsile Ficin et l’art cit., introduzione, p. 8.
66
Cfr. piú avanti. Il passo dell’Anonimo Magliabechiano relativo a
Leonardo: «Stette da giovano col Magnifico Lorenzo, per se il faceva
lavorare nel giardino sulla piazza di san Marco di Firenze» (la cosa
dovrebbe risalire al 1480 circa, dopo l’acquisto del terreno e prima della
partenza di Leonardo) non significa, come invece hanno creduto g.
uzielli, Ricerche intorno a Leonardo da Vinci, I, Torino 1896, p. 365,
e e. barfucci, Lorenzo de’ Medici ecc. cit., p. 209, che Leonardo sia
stato ammesso (a 30 anni!) alla «Scuola del giardino», ma semplicemente che fu qui impiegato dal Magnifico, come era avvenuto per il
Verrocchio, in lavori di restauro e sistemazione: k. frey, Michelagniolos Jugendjahre cit., p. 64.
67
n. valori, Laurentii Medices Vita ecc. cit., p. 46.
68
ficino, Opera, p. 244, citato in Marsile Ficin et l’art cit., p. 61.
Cfr. piú avanti.
69
Cfr. piú avanti.
58
Storia dell’arte Einaudi
57
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
j. schnitzer, Savonarola, München 1924, p. 52; crinito, libro
XV, cap. IX.
71
Tutto ciò è ottimamente chiarito da f. gilbert, Bernardo Rucellai and the Orti Oricellari (a study on the origin of the modern political
thought), in «jwci» (1949), pp. 101-31. Cfr. anche r. von albertini,
Das florentinische Staatsbewusstsein im Übergang von der Republik zum
Prinzipat, Bern 1955, I, 4 (Die Orti Oricellari), pp. 74 sgg.
72
p. o. kristeller, Per la biografia di Marsilio Ficino, in «Civiltà
moderna», X (1958), e id., Un uomo di stato e umanista fiorentino:
Giovanni Corsi, in «Bibliofilia», xxxviii (1936), ripreso poi in Studies,
8 e 9.
Un passo significativo del cap. IX ricorda: «Hic magnus ille Laurentius... quem Respublica Florentina Augustum, Maecenatem vero
bonae artes expertae sunt» (Ecco il grande e famoso Lorenzo... che la
Repubblica Fiorentina ha conosciuto come un nuovo Augusto, le arti
belle come un nuovo Mecenate), e deplora le avverse condizioni del presente, in cui venuta meno la grande famiglia, «in nostra civitate pro
disciplinis ac bonis artibus inscitia et ignorantia, pro liberalitate avaritia, pro modestia et continentia ambitio et luxuria dominantur» (nella
nostra città anziché la disciplina e le arti belle dominano l’insipienza e
l’ignoranza, anziché la liberalità l’avarizia, anziché la modestia e la continenza l’ambizione e la lussuria).
73
n. valori, Laurentii Medices Vita ecc. cit., p. 48.
74
vasari, Vita del Pontormo, ed. Milanesi, XI, p. 34; ed. C. L. Ragghianti, III, p. 45; f.-t. perrens, Histoire de Florence ecc. cit., III, pp.
35-36; i. del lungo, Carnasciale postumo, in Florentia, Firenze 1897,
pp. 415-21. L’entrata di Leone X a Firenze suscitò l’entusiasmo del
vecchio Landucci: cfr. perrens, Histoire de Florence ecc. cit., III, 54;
l’avvenimento sarà rappresentato dal Vasari in palazzo Vecchio fra le
date fauste della storia medicea: cfr. Ragionamenti, II, 3.
75
a. lesen, Leone X e l’Accademia Sacra Florentina. La reazione contro il neopaganesimo umanistico, in «Convivium», 1931-33, pp. 232-46;
p. o. kristeller, Studies, pp. 301 sgg., con nuovi documenti su questa accademia, pp. 328 sgg.
76
Ulteriori indicazioni si troveranno nella conclusione generale, iv.
Come aveva fatto per Lorenzo de’ Medici, w. roscoe ha narrato The
Life and Pontificate of Leo the Tenth, Liverpool 1805, 2ª ed. Heidelberg 1828, ampliando oltre misura l’importanza del mecenate per giustificare la formula, divenuta classica dopo Voltaire, di «secolo di
Leone X». Lo storico inglese ha avuto almeno il merito di raccogliere
una mole imponente di documenti di cui non sempre chi è venuto dopo
ha saputo servirsi. Il tema del «grande pontificato» è stato preso come
sfondo per narrazioni facili come quella di e. rodocanachi, Rome au
temps de Jules II et de Léon X, Paris 1911. Lavori piú rigorosi, come
70
Storia dell’arte Einaudi
58
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
quello di d. gnoli, La Roma di Leone X, Milano 1938, permettono di
ridurre sensibilmente la portata degli elogi enfatici che hanno accompagnato Leone X nel Cinquecento. L’elogio rivoltogli da Erasmo nel
1515 non è dei meno significativi: «sensit illico mundus gubernaculis
admotum repente saeculum illud plusquam ferreum in aurum versum...» (Epist., II, n. 534, ed. Allen, p. 479).
Storia dell’arte Einaudi
59
Parte prima Artisti e umanisti
Sezione prima le collezioni
Introduzione
Le incertezze del museo fiorentino
Donatello, morto nel 1466, fu, secondo la tradizione, il creatore del Museo Mediceo, di cui Bertoldo
avrebbe assunto la direzione sotto Lorenzo. Il Vasari ci
presenta Donatello come un competente in fatto d’arte
antica e aggiunge:
E tanto piú merita commendazione, quanto nel tempo
suo le antichità non erano scoperte sopra la terra, dalle
colonne, i pili, e gli archi trionfali in fuora. Ed egli fu
potissima cagione che a Cosimo de’ Medici si destasse la
volontà dell’introdurre a Fiorenza le antichità che sono ed
erano in casa Medici; le quali tutte di sua mano acconciò1.
L’informazione è preziosa. Donatello è dunque fra
coloro che hanno organizzato, per conto dei magnati fiorentini, la caccia alle opere antiche e il loro restauro.
Questo movimento avrebbe contribuito in mezzo secolo a trasformare radicalmente l’orizzonte culturale. Ma
a Firenze la cosa non era del tutto semplice. La città non
ha mai avuto rovine paragonabili nemmeno lontanamente a quelle di Roma: in riva al Tevere le vestigia del
passato escono dalla terra stessa, in riva all’Arno sono
frutto della curiosità, occorre scoprirle, portarle qui,
oppure immaginarle.
Sulla metà del secolo xv erano parecchie, come oggi
del resto, le vie di accesso alle arti dell’antichità e parec-
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
chie erano anche le forme di museo. Anzitutto c’era il
«museo naturale» costituito da tutti i resti che si trovavano in situ: sarcofagi che servivano da fontana, rilievi incastonati nei muri, resti di muratura e frammenti
di tutti i generi, ancora mescolati alla vita quotidiana;
c’era poi il «museo privato» cioè quello dei palazzi, i
quali possedevano oggetti minuti, statue o bronzi, e piú
ancora delle chiese, nelle quali i «tesori» comprendevano, insieme a curiosità di tutti i tipi, vasellame, oreficeria e anche pezzi antichi; infine c’era un «museo ideale» fondato sull’immagine e costituito dalle rappresentazioni del mondo antico, dalle descrizioni dei libri,
dagli elenchi di mirabilia, dai ricordi leggendari e (si
tratta di una novità introdotta dal Quattrocento) dalle
raccolte di disegni e di rilievi architettonici. È impossibile analizzare i rapporti del Rinascimento con l’arte
antica senza tener conto di questi tre settori distinti: nel
primo le opere sono misconosciute, logore, ma anche
pubbliche e familiari; nel secondo si spiegano con la ricchezza e le tradizioni costituite; nel terzo esse sono alla
mercè di tutti i movimenti della fantasia e dell’immagine che ci si fa del mondo. Agli inizi del secolo l’equilibrio tra questi tre «musei» era vincolato, anche in Italia, alle energiche semplificazioni dell’epoca gotica.
Nello spazio di due generazioni le abitudini mutano
profondamente: i resti in situ vengono considerati piú
attentamente, i «tesori» privati sono sensibilmente cresciuti, la mappa ideale di queste opere che ora si citano,
si disegnano, è in pieno sviluppo2. Tuttavia il rapporto
dei tre elementi rimane molto mutevole.
Roma è il campo di rovine piú imponente; i resti piú
interessanti raccolti in collezioni o conservati nei «tesori» si trovano invece nell’Italia settentrionale, soprattutto a Padova e Venezia, che per tutto il secolo saranno i centri del mercato artistico. Firenze, infine, risvegliata dai maestri dell’umanesimo e disponendo di una
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
cultura letteraria avvertita, spicca per l’ampiezza delle
rappresentazioni storiche, piú che per la sua disponibilità di oggetti. I pochi frammenti visibili per le strade e
i pezzi che si trovano in collezione privata sono poca
cosa rispetto agli elementi già molto ricchi di cui dispone la cultura letteraria e storica. Cosí un patrizio come
Giovanni Rucellai è a Roma che scopre veramente, nel
1450, il mondo delle arti e registra su un suo taccuino
le sue scoperte per le strade e nei palazzi3. Sin dal suo
primo soggiorno, nel 1465, Giuliano da Sangallo inizia
una campagna di rilievi dei monumenti antichi che verranno a costituire una vera e propria raccolta, senza
confronto in Toscana. Tuttavia i fiorentini non sempre
ammettono di buon grado questa situazione d’inferiorità. A proposito di un allievo di Raffaello, Vincenzo da
San Gimignano, il Vasari si abbandonerà a un elogio
entusiasta di Roma: l’atmosfera eccezionale della città,
egli dice, risulta da queste rovine che, nonostante tutto,
sono sopravvissute al tempo e al fuoco4. Ma nella seconda edizione della sua opera riterrà opportuno sopprimere
questa osservazione non gradita ai toscani. Da tempo
costoro volentieri s’ingegnavano a dimostrare che Firenze possedeva tutte le rovine che si potevano desiderare
e i cronisti ripetevano che essa non era in nulla inferiore a Roma. Il Cellini lo ricorda, con una punta d’ironia,
all’inizio delle sue Memorie: i nostri vecchi fiorentini,
dice, ad esempio Giovanni Villani, scrivono che Firenze è fatta ad imitazione di Roma, con rovine di terme
vicino a Santa Croce, un Campidoglio dove ora si trova
il Mercato vecchio; la rotonda del Pantheon sopravvive
nel tempio di Marte, cioè il nostro San Giovanni. Tutto
questo, conclude, è ottimo e vero, ma questi edifici
sono parecchio inferiori a quelli di Roma. Agli inizi del
Cinquecento un fiorentino, l’Albertini, aveva compilato una piccola guida artistica di Roma, ma subito dopo
aveva pubblicato una piccola guida della sua città nata-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
le come se fosse preoccupato di non lasciare tutto il
vantaggio alla Città eterna5.
Dai rilievi incastonati nei muri del Camposanto e
della Cattedrale di Pisa il Vasari ha fatto nascere tutta
un’epoca dell’arte moderna, quella iniziata, secondo lui,
da Nicola Pisano6. Ci si sorprende che non abbia assegnato una funzione analoga alle tombe e ai sepolcri marmorei che circondavano il Battistero di San Giovanni e
che eran stati rimossi per ordine di Arnolfo nel 1293 (o
1296): eppure tre di questi almeno erano d’origine paleocristiana e romana e hanno sempre attirato l’attenzione
degli eruditi toscani7. Si suppliva all’assenza di architetture antiche, di templi, di archi di trionfo, con uno
sforzo d’immaginazione: tradizioni di comodo (diffuse
da Giovanni Villani nel 1400 e riprese da umanisti come
Matteo Palmieri o il Poliziano) facevano risalire il Battistero e San Miniato a date inverosimilmente remote:
il primo diventava un tempio di Marte innalzato all’epoca di Augusto e passato al culto di san Giovanni al
tempo di Costantino8; primo germe del secondo monumento sarebbe stata una cappella innalzata già nel 62 in
onore di san Pietro, addirittura prima del martirio di san
Miniato (avvenuto nel 250), che forse ha dato origine a
una fondazione precarolingia9. O ancora ci si appoggiava a immaginarie fondazioni carolinge (come quella della
chiesa dei Santi Apostoli che si faceva risalire all’805),
per dedurne, quasi senza fratture, la trasmissione della
«buona architettura» dall’impero al medioevo fiorentino. Questa favola è sostenuta dal Villani. Il Vasari ne
approfitterà per contrapporre all’architettura lombarda, da lui considerata corrotta, la «buona maniera» di
questo edificio. La leggenda per lui dimostrerà che in
Toscana erano rimasti alcuni buoni artisti o che vi erano
resuscitati. L’autore della Vita di Brunelleschi (circa
1480) era già cosí convinto di questa tradizione che per
lui l’architetto dei Santi Apostoli era venuto da Roma:
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
in questo modo riusciva facile capire perché l’edificio
avesse avuto tanta importanza per il Brunelleschi. Già
Coluccio Salutati, nel 1403, era partito dalla scoperta di
reliquie e documenti carolingi trovati nella chiesa per
arrivare ad affermare che Firenze era la vera erede di
Roma10. Nel Quattrocento tutti gli spiriti colti di Firenze condividevano questa illusione, sulla quale si diffondevano volentieri anche le narrazioni popolari. Essa
d’altronde non escludeva la convinzione che Firenze
avesse avuto nel medioevo e occupasse nella «rinascita»
una posizione indipendente dalle tradizioni propriamente romane11. Si pretendeva dunque uguagliare l’Urbs
imperiale e nello stesso tempo si prestava nuova attenzione alle origini etrusche e alle rovine originali della
provincia12.
Nel Quattrocento gli umanisti sono tutti un po’ collezionisti e non c’è studio che non si adorni di qualche
statuetta, di qualche medaglia. Le testimonianze sono
numerose. Vespasiano da Bisticci descrive il grazioso
gabinetto di antichità del Niccoli e Poggio i busti mutili della sua villa Valderiniana. Cosimo svilupperà la sua
galleria dopo il 1440. In realtà però tutti questi amatori fiorentini sono alquanto in ritardo rispetto alle città
a nord degli Appennini; dipendono il piú delle volte dai
mercanti dell’Adriatico o da intermediari bizantini. Poggio espone in una celebre lettera la sua diffidenza per le
attribuzioni erronee dei graeculi; attende perciò i risultati della missione nel Levante di un minorita di Pistoia.
La forza di Donatello starà non solo nell’aver esplorato
direttamente le rovine e le possibilità offerte da Roma,
ma anche nell’essere in rapporto con la zona di Ancona-Rimini-Padova dove il mercato degli oggetti d’arte
era fiorente e dove aveva raccolto piú di una informazione utile13. Il Filarete citerà delle statue da lui viste
intorno al 1435 presso Donatello e il Ghiberti; ma le
botteghe meglio fornite sono quelle della pianura pada-
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
na. Intorno al 1440-50 lo Squarcione prevede l’utilizzazione dei pezzi antichi e li raccoglie in vista di ciò;
Gentile Bellini possiede delle vedute di Roma e dei
frammenti di scultura greca e romana, una Venere, un
busto di Platone. Il viaggiatore Ciriaco d’Ancona già
ricordava, tra le collezioni serie, quella di un certo medico Pietro e quella di Benedetto Dandolo a Venezia.
Felice Feliciano di Verona, amico del Mantegna, di Giovanni Bellini, dello Zoppo, era già dal 1460 un esperto
di antichità e un epigrafista che avrebbe aperto la strada all’illustre fra Giocondo14.
L’interesse archeologico, d’altronde, non andava
distinto (e forse non lo è mai stato) dal culto delle mirabilia antiquitatis. Già per Poggio e il Niccoli ogni oggetto era un simbolo: un vaso, una statuetta, una moneta
con l’effige imperiale avevano per loro il valore di talismani e servivano come punti d’appoggio per l’immaginazione. Le cose che contano a Firenze, come nelle città
dell’Italia del Nord, sono la glittica, le piccole sculture,
la ceramica. S’insiste soprattutto sul loro aspetto prezioso. Negli inventari medicei sono registrati uno a uno,
ed esattamente valutati, dei vasi di origine ellenistica o
sassanide, i cammei, gli intagli antichi, le medaglie, ma
non i pezzi di scultura15.
Questi erano riuniti senza essere inventariati in «giardini» circondati da portici; i piú forniti di questi giardini erano, come si è detto, quello all’altezza di piazza
San Marco e quello sul retro del palazzo di via Larga.
In questo si vedevano, racconterà il Vasari,
quadretti di mezzo rilievo che erano sotto la loggia nel giardino di verso San Lorenzo; che in uno è Adone con un cane
bellissimo, ed in un altro duoi ignudi, un che siede ed ha
a’ piedi un cane, l’altro è ritto con le gambe sopraposte che
s’appoggia ad un bastone, che sono miracolosi: e parimente due altri di simil grandezza, in uno de’ quali sono due
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
putti che portano il fulmine di Giove, nell’altro è uno ignudo vecchio, fatto per l’occasione, che ha le ali sopra le spalle ed a’ piedi, ponderando con le mani un par di bilance.
Ed oltre a questi, era quel giardino tutto pieno di torsi di
femmine e maschi, che erano non solo lo studio di Mariotto, ma di tutti gli scultori e pittori del suo tempo; che una
buona parte vi è oggi nella guardaroba del duca Cosimo, ed
un’altra nel medesimo luogo, come i dua torsi di Marsia, e
le teste sopra le finestre, e quelle degl’imperatori sopra le
porte16.
La data d’ingresso di tutti questi pezzi non è nota:
alcuni risalivano all’epoca di Cosimo, la maggior parte
al tempo di Lorenzo.
Il primo esempio caratteristico di studio-museo era
stato quello della casa del Mantegna a Mantova. La
casa, costruita tra il 1466 e il 1473 da Giovanni da
Padova su precise indicazioni del pittore, nel quartiere
di San Sebastiano, non sembra in realtà esser stata l’abitazione del Mantegna, ma invece il suo luogo di lavoro e la sua galleria personale. La casa resterà celebre per
il suo nobile aspetto; ed è significativo che sopra la
porta centrale del cortile recasse l’iscrizione ab Olympo,
divisa dei Gonzaga; che qui diviene l’insegna di un
museo17. È un veneziano, Pietro Barbo, divenuto papa
col nome di Paolo II (1464-71), che nello stesso momento concepisce la sua fortezza romana, il palazzo Venezia, ai piedi del Campidoglio, come un museo di grandi
proporzioni. L’esempio sarà decisivo per il giovane
Lorenzo de’ Medici che farà di tutto, alla morte del
papa, per assicurarsi i pezzi di maggior pregio della sua
raccolta18. I depositi di marmi di Lorenzo svilupperanno invece, intorno al 1480-90, un’altra formula: quella
del museo all’aperto con portico. La terza formula sarà,
dopo il 1502, quella messa in atto nel cortile del Belvedere in Vaticano, dove un intero cortile è organizzato
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
in modo da servire da giardino delle Muse. In seguito il
giardino-museo conobbe a Roma e in tutto l’Occidente
la voga irresistibile che si sa19. Però quest’idea di un
luogo di riposo e di piacere, animato da opere antiche,
si era venuta definendo nel corso del Cinquecento e, in
parte, per merito dei fiorentini. In essa venivano a confluire la galleria, il gabinetto di studio dell’umanista, il
giardino disegnato a terrazze adorne da busti e figure
storiche. Le ville suburbane erano delle succursali naturali del Museo. A Careggi, a Fiesole, a Poggio a Caiano
i pezzi antichi dovevano nobilitare la decorazione; come
un po’ piú tardi avverrà negli «Orti Oricellari», alle
porte di Firenze, dove furono raccolti molti dei pezzi
medicei dispersi nel 149420.
La posizione dei fiorentini era piú originale ancora
per quanto riguarda l’illustrazione grafica delle cose
antiche, e quello che si può chiamare il «museo ideale»
del Rinascimento. Nelle città dell’Est e del Nord si era
diffusa a una data precoce quella visione pittoresca, tormentata, ingegnosa e spesso sovraccarica che avrebbe
portato alle illustrazioni della Hypnerotomachia Políphili (1499), illustrazioni, come sappiamo, piene di rovine,
geroglifici e templi misteriosi. Il Mantegna dilatava con
tutte le sue forze la lezione dello Squarcione. Giovanni
Marcanova, l’amico del Feliciano, componeva nel 1465
il suo De antiquitatibus. Si tratta insomma di un’archeologia romantica come piú non si potrebbe: essa trasforma i luoghi celebri in scenari fantastici, metamorfosa
in maghi dalla gran toga e in profili di guerrieri simili a
oreficerie le figure illustri della storia. Le raccolte di
disegni lasciate da Ciriaco d’Ancona alimentano questa
moda del pittoresco e del meraviglioso che dilaga nelle
province settentrionali e si rispecchierà nelle architetture dell’Amadeo e del primo Bramante21.
I fiorentini l’hanno conosciuta, ma ancora strettamente legata alle forme pseudo-gotiche, con la Cronaca
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
universale del Finiguerra (circa 1460). Non vi si avverte
alcuna curiosità archeologica, e invece un gusto del lambiccato ben diverso dalle invenzioni già familiari a Verona e Padova. I disegni del lascito di Ciriaco saranno
conosciuti, in parte, grazie alla raccolta epigrafica di
Bartolomeo Fonzio (poco dopo il 1489) che li ha copiati; altri sono stati utilizzati da Giuliano da Sangallo.
Questi si trova al centro di tutto il serio lavoro di documentazione iconografica che viene compiuto a Firenze
dopo il 1475 o 1480, e delle prime raccolte epigrafiche.
Questo movimento coinvolge pittori come Filippino
Lippi, che si specializzerà negli accessori fatti d’«anticaglie», e il Ghirlandaio che, ad esempio, nell’Epifania
per la cappella Sassetti a Santa Trinita (1485) introduce la curiosa iscrizione lapidaria dell’augure22.
Ma anche se a queste rievocazioni episodiche aggiungiamo l’impegno parallelo degli scultori che ricreano
figure di divinità o di eroi antichi, il «museo ideale» dei
fiorentini rimane povero ed incerto rispetto alle intrepide visioni romane del Mantegna. L’informazione concreta è ineguale, approssimativa. L’esattezza ha meno
importanza dello stile con cui l’antico viene interpretato, stile che è veemente nel Pollaiolo, aggraziato e ancor
meno fedele nel Botticelli. Le tipologie antiche entrano
in un mondo di forme che è del tutto autonomo rispetto all’arte antica. Questo stato di cose corrisponde del
resto all’originale situazione della città che è povera di
opere del passato e ricca di immagini poetiche e di
descrizioni, nelle quali cultura letteraria e cultura
archeologica non combaciano. È possibile quindi prevedere due fenomeni che saranno, se non esclusivi di
Firenze, per lo meno particolarmente evidenti nella città
del Magnifico. Da un lato cioè l’ambiente umanistico
avrebbe finito per valorizzare il Museo Mediceo ed esaltarne l’importanza oltre il giusto. Esso ha avuto per gli
artisti un peso che può sorprendere oggi. D’altra parte
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
la generosa produzione filosofica e poetica suscitata dal
movimento di Careggi avrebbe creato un clima propizio
alle ricostruzioni immaginarie, alle immagini composite,
all’interpretazione non-classica degli dei e degli eroi
antichi, cioè a quelle che sono state chiamate le «pseudo-morfosi»23. Tuttavia anche queste fantasie meritano
di essere interpretate; e lo si può fare tenendo presenti
le idee proprie dell’ambiente umanistico.
Storia dell’arte Einaudi
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Capitolo primo
Il medaglione del «carro dell’anima»
L’arte funeraria si presta ad esprimere un’infinità di
cose. Le successive trasformazioni della tomba parietale ad ordini sovrapposti, che intervengono nella seconda metà del Quattrocento, non segnano appena con
esattezza l’evoluzione dello stile; i grandi sepolcri ci
rivelano l’atteggiamento verso la condizione umana e la
morte nei suoi aspetti piú tipici24. La tomba di Leonardo Bruni, eretta da Bernardo Rossellino a Santa Croce
(1445), fu intesa come una manifestazione di grande
importanza: anziché una sorta di cappella, essa ci presenta un portale a pieno sesto il cui arco posa su pilastri
corinzi. L’unico tema tradizionale è rappresentato dal
medaglione della Madonna che occupa il timpano sotto
l’arco, al di sopra del defunto. Coronato di lauro, questi non tiene le mani giunte, le tiene invece incrociate
sul libro. Il catafalco, sostenuto da aquile, poggia su un
sarcofago antico, preciso, duro, sul quale è inciso l’epitaffio retto da due geni alati. La struttura e la fredda
dignità del monumento esprimono ed esaltano il carattere del defunto, di cui d’altronde si sapeva che aveva
fatto dell’ironia su coloro che, come B. Aragazzi, si
preoccupavano troppo della loro tomba. Il Bruni era
l’incarnazione del saggio consapevole in misura eccezionale della «virtú» stoica e della civica rettitudine.
Quarant’anni dopo Pico e il Ficino ancora lo ricordano
come il prototipo del Saggio. Il suo biografo, Vespasia-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
no da Bisticci, parla della sua lunga cappa e del suo
incedere pieno di «grandissima gravità». Il fatto che il
Bruni abbia pubblicato la grande Historia fiorentina del
secolo xv, spiega la sua popolarità; sulla sua effige funeraria non è stato dimenticato il libro che onorava la
città. Ma nello stesso tempo il Rossellino, ispirato da
questa originale personalità, ha riscoperto il motivo dei
sarcofagi antichi e paleocristiani, nei quali il libro sta a
significare l’immortalità assicurata dalla cultura, come
l’iscrizione del sarcofago mette in evidenza. L’«eroicizzazione» in senso umanistico porta a una commemorazione che non è piú quella della santità cristiana, che non
è in nessun modo l’esaltazione dei meriti terreni e «pagani», ma l’elogio della personalità spirituale che comprende insieme l’ordine profano e quello religioso della
vita umana25.
Nei monumenti funebri vedremo dunque tutta una
serie di rappresentazioni il cui soggetto sarà l’eroicizzazione dell’anima e il suo doppio destino. La tappa piú
significativa è costituita dal monumento funebre del
cardinale Giacomo di Lusitania, nipote del re Alfonso
di Portogallo, scolpito, a partire dal 1459, da Antonio
Rossellino a San Miniato. Si tratta di un mausoleo; il
monumento occupa uno dei bracci laterali della cappella a croce greca edificata da Antonio Manetti, che rappresenta uno dei primi esempi di pianta centrale schietta che si abbiano nel Quattrocento. La decorazione è
lussuosa: comprende medaglioni e dipinti celebri. I rossi
e i verdi del serpentino e del porfido che coprono i
muri, assicurano all’insieme eccezionale unità e raffinatezza. Nella tomba, a destra, non si ritrova l’esatta
inquadratura del monumento Bruni: un grande velario
si dischiude al sommo dell’arcata, il tondo con la
Madonna, sostenuto da due angioli, rimane sospeso,
senza elementi di supporto. Due altre figure d’angeli
poste alle estremità della composizione quasi sembrano
Storia dell’arte Einaudi
71
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
non aver peso, come se fossero coinvolti in un movimento rotatorio e destinati a gravitare intorno alla figura della Madonna. Non è la struttura che conta, ma la
fluidità e l’animazione delle forme. Particolare importanza ha il colore: una splendida lastra di alabastro color
miele serve di collegamento tra l’ordine superiore, dove
figura la visione «mistica», e l’ordine inferiore dove il
catafalco posa su un immenso sarcofago26. Il disegno di
questo è stato ripreso dalla tazza di porfido che si vedeva ancora nel Cinquecento davanti al Pantheon a
Roma27. Sulla fascia frontale e sui lati dello zoccolo, sui
pilastri dei montanti si moltiplicano dei minuti motivi
a rilievo leggero, di uno stile grazioso, «ellenistico»,
che rappresentano uno dei repertori piú completi di
decorazione funebre: candelabri con fiamme, vasi, sfingi, geni alati con la cornucopia, ghirlande che chiaramente derivano dall’arte romana28. Tra questi motivi
appaiono anche scene allegoriche: sulla stessa base, a
sinistra, una palma affiancata da una scena di tauroctonia, a destra, un’altra palma accanto a un genio alato su
una biga; il sacrificio pagano e il carro allegorico. L’occasione che ha suggerito l’impiego di questi motivi è
degna di nota. Il giovane cardinale era una figura virginale e pura: i suoi ammiratori volevano far celebrare
degnamente da un umanista hunc sanctissimum virum et
quasi virtutum domicilium. È lecito supporre che lo stesso criterio ispiratore abbia presieduto alla costruzione
della sua tomba29.
Il Vasari mostra un’ammirazione particolare per gli
angeli della tomba e precisa: «Di questi, l’uno tiene la
corona della verginità di quel cardinale, il quale si dice
che morí vergine; l’altro, la palma della vittoria che egli
acquistò contra il mondo». Sullo zoccolo liocorni affrontati insistono su questo tema centrale della purezza dell’animo, tema sviluppato poi dal taurobolo e dall’auriga, che simboleggiano l’uno la vittoria sulle passioni, l’al-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
tro l’ascesa dell’anima30. I due soggetti derivano dall’arte funeraria romana; il Rossellino ha potuto vederli su
sarcofagi31, il che non esclude per altro l’utilizzazione
d’un cammeo o d’una pietra incisa, oggetti su cui
entrambe le scene sono abbastanza frequenti. Ce n’erano parecchi di questo tipo nelle raccolte medicee, almeno nel 1471 e probabilmente anche prima32. Piú difficile dire come siano stati intesi: il taurobolo può essere
stato preso piú che per un’immagine di culto pagana, per
un Ercole che abbatte il mostro di Creta, aneddoto che
si presta a essere trasformato in analogia morale. Tuttavia la derivazione antica è chiara e l’auriga sull’altra
faccia non deve essere una rappresentazione del carro
d’Elia. Questo motivo si trova nei rilievi funerari del iv
e v secolo a significare la Resurrezione33; indubbiamente il carro è qui decorato con un motivo di fiamme, come
il carro del profeta, ma il tipo dell’auriga è vicino a
quello degli Eroti ad ali aperte che si vedono sui carri
comuni nell’arte ellenistica, e che appaiono numerosi
anche nei rilievi funerari. Associato a un rito purificatorio, ha potuto essere considerato come un’immagine
dell’anima forse anche per analogia con la celebre allegoria del Fedro. Il problema è tanto piú importante in
quanto ci sono almeno due altre opere contemporanee
nelle quali questo tema ha una sua importanza e in quanto se ne trovano dopo il 1460 moltissime imitazioni
nelle placchette e nelle medaglie34.
La sensibilità fiorentina si trasformava. Le favole
platoniche non erano piú ignorate: il Landino era stato
nominato professore nello Studio nel 1458. Nel 1459
Cosimo chiamava presso di sé il Ficino col compito di
tradurre tutto Platone e di commentargli il Filebo: cioè
la dottrina dei «misteri ermetici» e dei miti antichi di
salvazione l’attirava prima d’ogni altra cosa35. Nel platonismo si ricercava la dottrina dell’anima e della sua
vocazione attraverso i tormenti delle passioni e dei
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
mutamenti terrestri. Il Landino compone un De anima,
il Ficino un De voluptate che esprime l’aspirazione incontenibile dell’anima alla felicità assoluta; e l’umanesimo
fiorentino, per queste preoccupazioni, assumerà un’inflessione nuova, piú sensibile, piú speculativa, dominata dall’affermazione dell’immortalità e della trasfigurazione promessa dopo la morte, che spiriti privilegiati
possono sperimentare già in questo mondo. Il «carro dell’anima» sembra quanto mai adatto a simboleggiare questa vocazione superiore: è come l’emblema del suo slancio e della sua forza. Intorno al 1460 comincia a diventare un luogo comune lo schema plotiniano delle «virtú»
che si ritrova nel Palmieri, nel Foresi, nel Trionfo delle
Virtú (1461), composto in onore di Cosimo, e nel Ficino stesso, che colloca gli atteggiamenti contemplativi al
vertice dei valori spirituali. Di contro alla tomba Bruni,
quella del giovane cardinale si ispira interamente a questo orientamento. Questi elementi però non bastano
certo a spiegare la comparsa del «carro dell’anima»:
spiegano solo in quale clima il Rossellino abbia scolpito
il suo singolare rilievo in omaggio a un’«anima bella».
Lo stesso tema aveva già attratto l’attenzione dello
scultore piú sensibile ai simboli umanistici, Agostino di
Duccio. In un rilievo appena accennato, di Madonna,
che si deve datare agli ultimi anni del cantiere del Tempio Malatestiano (1454-55), il Bambino porta al collo un
grosso medaglione tondo che rappresenta un carro con
tutti i suoi finimenti guidato da un genio alato. Gli elementi trionfali abbondano: uno degli angeli assistenti
regge con la sinistra una corona di lauro e con l’altra
mano un vaso adorno delle palme della vittoria. È possibile che si tratti qui del motivo della Vittoria sulla quadriga, utilizzato come simbolo trionfale36, e che il motivo derivi da una moneta anziché da un cammeo o da un
rilievo. Rimane tuttavia da chiedersi in quale misura il
tema muti valore mutando l’insieme in cui è inserito: gli
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
angeli e le palme, e quindi il medaglione, rappresentano qui, come a San Miniato, la «vittoria sulle passioni
del mondo», e la superiore vocazione dell’anima. Si
ritrova cosí l’idea cristiana. Tuttavia l’inserimento di un
tema pagano in un’immagine devota raramente è stato
piú palese37.
Un terzo esempio lo abbiamo nel celebre busto in
bronzo del Bargello, che rappresenta un giovane dal bel
viso ovale, col petto nudo adorno di un cammeo: su di
questo si vede una biga guidata da un genio alato, che
mostra chiaramente di derivare dallo stesso modello da
cui è stata tratta la biga di San Miniato. Una superficiale
parentela tra questo viso tranquillo e il volto del David
bronzeo (circa 1440) ha potuto suggerire l’attribuzione
a Donatello. In realtà il giovane dal cammeo ha qualche
cosa di prezioso, di riservato, che mal si accorda con la
fierezza e la franchezza proprie delle figure donatelliane. Analizzando accuratamente le forme (ad esempio a
confronto con quelle del busto-reliquiario di San Rossore) certi elementi come gli occhi a mandorla, l’esecuzione dei capelli e della bocca vengono a confermare
questa impressione38. C’è nell’opera una sorta di freddezza classica, che difficilmente può trovar posto nella
carriera di Donatello, né nel periodo 1430-40 cioè all’epoca della cantoria, né nel periodo padovano, cioè all’epoca del Gattamelata, e meno che mai nel 1460 all’epoca
dei pulpiti di San Lorenzo. Tuttavia poiché il tema figura nella tomba di San Miniato, è intorno a questo anno
che si deve datarlo, non prima. Se il busto dal cammeo
risalisse all’epoca di Leonardo Bruni e del concilio di
Firenze39, come mai il tema, che dopo il 1460 ha avuto
un notevole successo, avrebbe dovuto attendere tanto
prima di essere imitato? Il busto deve dunque essere
tolto dal catalogo di Donatello e datato invece agli anni
1460-80, data alla quale risulta meglio comprensibile il
suo stile indubbiamente ricercato. Si dovrebbe pensare
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
a Desiderio o Mino da Fiesole, se la delicatezza dei due
artisti si fosse espressa in altre materie oltre al marmo.
Forse ci troviamo di fronte a Bertoldo40.
Questo giovane eroe è un contemporaneo del Ficino,
dei suoi trattatelli e delle sue conferenze platoniche. La
coincidenza aiuta forse a spiegare perché, imitando i reliquiari medievali, nei quali non mancava mai il posto per
una pietra incisa o una reliquia, il bronzista abbia trasposto in metallo, ingrandendolo, un medaglione antico
che rappresenta per l’appunto la biga guidata da un
genio alato. L’immagine non è stata, in questo caso, scelta appunto per la sua doppia risonanza platonica, cioè
la definizione dell’anima e la potenza d’Eros, «custode
dei bei giovani», celebrato in una forma «sportiva e
mitica»? Il passaggio corrispondente del Fedro è stato
ampiamente citato e commentato dal Ficino nel 1475 nel
suo Convito: «Platone... la Mente data alle cose divine
chiama nell’Anima Auriga, che vuol dire guidatore del
carro dell’Anima. La unità dell’Anima chiama capo dell’Auriga. La ragione... il buon cavallo; la fantasia confusa, e l’appetito de’ sensi, chiama il cavallo cattivo. E
la natura di tutta l’Anima chiama carro... Attribuisce
due ali». E ciò in un contesto in cui non si tratta che
della potenza nobilitante dell’amore. E l’anima-auriga
appare in forma ancora piú decisa nel passo che precede la traduzione del secondo libro delle Leggi dove il
Ficino riassume la «paideia» platonica41. È stato osservato che sul cammeo dello pseudo-Donatello i due cavalli della biga sono nettamente diversi42.
Lo stile del busto è in accordo con questa ispirazione: la forma stessa, l’ovale pieno, le labbra decise, l’aspetto calmo e misurato del viso mirano a definire un
tipo umano. La figura di questo giovane incarna in qualche modo l’ideale proclamato dall’emblema che reca sul
petto. Ci troviamo quindi di fronte a un’incidenza precisa della speculazione neoplatonica sull’arte fiorentina.
Storia dell’arte Einaudi
76
Capitolo secondo
I medaglioni di palazzo Medici
e la corniola di Cosimo
Il palazzo Medici di via Larga fu fatto costruire da
Cosimo a partire dal 1444 nello stesso tempo che in via
della Vigna si costruiva il palazzo dei Rucellai. Di contro all’Alberti, che introdusse la distribuzione classica,
Michelozzo rimase fedele alla tradizione del palazzo a
bugnato, fortemente scandito dalle cornici orizzontali
e dal cornicione, ma tentò una composizione nuova nel
cortile interno, cortile concepito risolutamente per la
prima volta come una sorta di chiostro a destinazione
profana. Il cortile è scandito in tre ordini: in alto una
loggia aperta, un piano con finestre bifore, un pianterreno dove si ha un portico quadrato con tre archi di tipo
brunelleschiano per ogni lato. Una larga fascia corre al
di sopra di questi archi e serve d’appoggio alla base
delle finestre; in corrispondenza dell’asse di ognuna di
queste il fregio è adorno di un tondo scolpito. I tondi
al centro di ognuno dei lati sono decorati con uno stemma mediceo, gli altri sono ornati di scene e presentano
temi classici che si succedono come nella piantina che
segue.
Vi è stata a lungo incertezza sulla data e l’autore di
queste composizioni mitologiche. Poiché Michelozzo
aveva spesso collaborato con Donatello, si sono attribuite a lui; la scelta dei temi sembrava potersi facilmente
spiegare con le conoscenze dell’artista, esperto in anti-
Storia dell’arte Einaudi
77
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
caglie. In realtà i medaglioni sono di una esecuzione
sciatta, che non ha nulla a che vedere con l’arte di Donatello; gli si possono attribuire con ancor meno probabilità che il busto del Bargello. Il nome dello scultore
Maso di Bartolomeo (o Masaccio), che ricorre nelle liste
dei pagamenti del 1452, ha indotto ad attribuire a questo artista l’insieme. Però questa attribuzione e la data
1452 non sono in ultima analisi molto sicure; si tratta
in realtà, nei pagamenti, di disegni forniti per una decorazione a «sgraffito», cioè a monocromo, e di «teste
disegnate che sono nel fregio sopra le colonne del cortile»43. Se la fascia in origine era dipinta i medaglioni
sono da assegnare ad un rifacimento posteriore44.
Tardiva o meno la comparsa di questi medaglioni
decorativi presenta un suo interesse. Il tema al centro
di ogni lato, dove compaiono le armi medicee, viene a
codificare l’uso di ostentare lo stemma di famiglia. I
tondi che l’accompagnano riempiono efficacemente la
larga fascia; nell’uso stabilito dal Brunelleschi nel loggiato degli Innocenti (dal 1419 in poi), che verrà riecheggiato da Benedetto da Maiano nel palazzo Pazzi
(1462-1470), i tondi decoravano piuttosto i pennacchi
degli archi. La distribuzione che si vede in palazzo
Medici è piú elegante. Ma non troverà seguito a Firenze; alcuni anni dopo palazzo Strozzi non presenta tondi
di sorta. Abbiamo però qui, in ultima analisi, una nuova
trasformazione del vecchio tema decorativo dei dischi di
Storia dell’arte Einaudi
78
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
facciata, anche questo derivato alla lontana dalla pratica classica dei clipei, cioè degli scudi che decoravano i
muri45. E poiché vi si notano delle scene «dionisiache»,
ci si è chiesti se queste non siano state suggerite dal desiderio di ritrovare una simbologia religiosa pagana46.
In realtà gli otto dischi si richiamano a motivi molto
dispersi della mitologia classica ed è difficile scoprire in
essi un ciclo unitario di simboli pagani, cosí come è difficile scoprirvi un insieme di simboli moderni destinati,
ad esempio, a celebrare le virtú medicee47. La cosa in
realtà e piú semplice: tutti questi tondi sono trasposizioni di gemme antiche presenti nelle raccolte medicee.
Il medaglione di Diomede, ad esempio, deriva da un
intaglio in corniola che, dopo aver appartenuto a Niccolò Niccoli, era passato a Lorenzo; il gruppo Poseidone-Athena è noto ugualmente in piú d’un esemplare e
uno di questi apparteneva ai Medici48. L’unico disco di
cui non si ritrovi il modello nelle gemme deriva da un
sarcofago antico che si vedeva davanti al Battistero49. La
decorazione del cortile di via Larga celebra quindi la casa
Medici valorizzando i pezzi ormai celebri del suo
«museo».
Si trattava della continuazione e del coronamento di
una consuetudine diffusa nelle botteghe fiorentine, quella di riprodurre i pezzi del museo mediceo. Intorno al
1430 Donatello si era ispirato, per ornare l’elmo del
mostruoso Golia, a un trionfo di Bacco e Arianna visto
su un cammeo in onice; questo David bronzeo del resto
sarà alla fine collocato nel cortile di palazzo Medici50. Le
opere scelte come modello per la decorazione del cortile erano quelle che imitazioni e copie avevano già fatto
conoscere. L’intento del decoratore era di metterle in
evidenza, proprio come facevano i miniatori quando le
inserivano nei medaglioni e nelle cornici dei loro frontespizi. Intorno al 1470, con Francesco Antonio del
Cherico, coi fratelli del Fora, Gherardo e Monte (auto-
Storia dell’arte Einaudi
79
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
ri dei manoscritti destinati a Mattia Corvino, poi del
famoso Didimo) e infine con Attavante, questa consuetudine assume uno sviluppo notevole: i frontespizi dei
grandi manoscritti diventano delle vere e proprie vetrine d’esposizione51. Si hanno numerose miniature in cui,
come nel Plinio (Biblioteca Bodleiana) del 1476, o nel
Didimo (Pierpont Morgan Library), del 1488, si moltiplicano i temi «medicei»52. Il manoscritto del Tolomeo
(Bibliothèque Nationale di Parigi), destinato a Mattia
Corvino, presenta, al fol. 1 e al fol. 2, una serie di 10
cammei e 8 medaglie legate insieme da girali; fra i «cammei», il Trionfo di Bacco e Arianna e la scena di Arianna sdraiata che rispondono in tutto ai tipi del cortile e
che sono molto simili alle teste d’imitazione antica53.
Rifuggendo dalle medaglie con teste d’imperatori e
sviluppando esclusivamente, su questi tondi di grande
formato, episodi della leggenda di Athena e Bacco, con
una figura tipica della mitologia antica come il Centauro, la decorazione del cortile presentava questo tratto
originale: di presentare cioè non i personaggi della storia (come si vedrà costantemente nelle province settentrionali) ma il mondo degli dei. Attingendo i suoi soggetti alle collezioni di casa Medici, questa decorazione
veniva a insistere sul fatto che Firenze era divenuta per
cosí dire la dimora di questi dei. Essi sono ora definibili e accessibili. I loro interpreti sono di casa nel palazzo. In questo è da vedere il segno di una nuova sicurezza
intellettuale e in ogni caso l’impronta di una cultura che
si afferma. Tutti i pezzi, che vengono cosí celebrati e per
cosí dire pubblicati, hanno una doppia storia: saranno
oggetto dell’attenzione tanto degli umanisti, che conoscono i testi dei poeti, che degli artisti che si rivolgono
d’istinto ai gesti e alle figure interessanti54.
Un caso particolarmente significativo è costituito da
un altro pezzo del museo fiorentino, la corniola d’Apollo55. Si tratta forse della piú celebre delle gemme
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
medicee, quella che figura piú spesso nelle decorazioni
dipinte e scolpite. Il Ghiberti ne parla con esattezza nel
secondo libro dei suoi Commentari:
Verso la stessa epoca [1428] montai anche una corniola
della grossezza di una noce: vi erano incise alla perfezione
tre figure ad opera di un antico maestro. Come montatura
applicai ad essa un drago con le ali un po’ aperte e la testa
inclinata; la curva del collo cade al centro e le ali permettono di chiudere il tutto. Il drago, o come noi diciamo il serpente alato, si trovava al centro di foglie d’edera, e io incisi di mia mano, attorno alle dette figure, in lettere antiche,
con molta cura, una iscrizione col nome di Nerone. Sul cammeo c’era un vecchio seduto su una roccia su cui era distesa una pelle di leone; le sue mani eran legate dietro il dorso
a un albero secco; ai suoi piedi un bimbo inginocchiato su
una gamba alzava gli occhi verso un giovane che teneva
nella mano destra un rotolo e nella sinistra una cetra, come
se il bambino supplicasse il giovane di istruirlo. Queste tre
figure significavano le tre età della vita. Esse sono state certamente fatte dalla mano di Pyrgotele o di Policleto. Mai
in vita mia ho visto un lavoro piú rifinito56.
Dunque già nel 1428 Cosimo dava tanta importanza
a una gemma antica da decidere di farla montare in
forma preziosa da uno dei maggiori artisti del momento e questi ne ha conservato un ricordo particolarmente vivo. L’esattezza della sua descrizione è tanto piú
notevole quanto piú l’interpretazione è fantastica. Il
Ghiberti vede una allegoria morale, un’invenzione perfettamente «gotica», nella rappresentazione d’un grande mito; questo assurdo si spiega con l’interesse quasi
esclusivo del patrizio per la riuscita tecnica e la qualità
dell’opera. Ma non si limita a questo: ha bisogno anche
di una giustificazione storica e senza esitare si applicano al piccolo capolavoro i nomi piú famosi dell’antichità:
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
il cammeo è opera di Policleto o di Pyrgotele ed è appartenuto a Nerone. Per restituire all’oggetto tutto il suo
vero splendore il Ghiberti mette intorno alla pietra l’iscrizione: «Nero Claudius Caesar Augustus Germanicus
P. Max. Tr. P. Imp. P. P.», che si è potuta decifrare
sulla copia in bronzo del Museo di Berlino. Il processo
è dunque chiaro: interesse per la bellezza dell’opera,
interpretazione frettolosa del soggetto, falsificazione
storica57.
La descrizione particolareggiata permette tuttavia di
identificare facilmente la pietra: il vecchio legato all’albero è Marsia, il satiro suonatore di flauto, che ha osato
provocare Apollo, la sua pelle strappata dal dio è stesa
sulla roccia; il dio in piedi a destra tiene la lira che gli è
valsa la vittoria; il «bambino» è l’immagine minuscola
di Olympos, discepolo di Marsia che interviene per chieder grazia al dio o forse si tratta di un fraintendimento
di chi ha fatto la copia. Il Vasari, che accenna al lavoro
del Ghiberti, descrive correttamente l’oggetto58. Ma
quando si era riconosciuto questo tema che si trova ripetuto in un gran numero di rilievi funerari romani, nei
quali si vedono le Muse assistere alla gara tra il dio e il
satiro e celebrano «la vittoria della lira, strumento divino che trasporta le anime verso il cielo, sul flauto che
eccita le passioni impure», secondo l’esegesi pitagorica
e neoplatonica del mito59? In questo è lecito pensare
all’intervento dell’umanesimo fiorentino.
Qualche anno dopo il lavoro del Ghiberti, Donatello si lasciava indurre a restaurare per Cosimo «un Marsia antico di marmo bianco»; l’opera fu collocata in
palazzo Medici all’entrata del giardino, là dove il Verrocchio, verso il 1475, gli avrebbe dato un pendant trasformando un torso antico di marmo rosso in un satiro
legato all’albero e scorticato60. Il primo Marsia, e verosimilmente anche il secondo, erano dei frammenti staccati di versioni classiche di un gruppo celebre di origi-
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
ne pergamena, al quale si deve riferire l’Arrotino degli
Uffizi, cioè lo schiavo scita che, secondo la tradizione,
affila il coltello destinato al supplizio: manca solo la
figura del dio che infligge al satiro la tremenda punizione. Il Marsia, allungato in un’anatomia che mette in
risalto i muscoli, ha potuto d’altronde essere copiato a
parte. Mentre il satiro seduto della corniola attende il
supplizio61, quello del gruppo monumentale con le braccia alzate sopra la testa si torce con smorfie terribili.
Donatello si è tenuto al tema: il suo restauro non ha
fatto che accentuare la maschera sofferente del sileno;
il Verrocchio invece l’ha trasformato in un fauno «che
ride» per ricavarne un’opposizione interessante rispetto alla figura simmetrica che si trovava già collocata
all’entrata del giardino fin dai tempi di Cosimo. Il
«tipo», con le sue varianti d’espressione, interessa piú
del tema.
Il successo della pietra di Nerone fu notevole nel
corso del Quattrocento62. La pietra era ancora nel gabinetto mediceo nel 1492; l’inventario di Lorenzo la registra valutandola 1000 fiorini: «una chorgnola grande
con tre figure intagliate»63. Fra le copie eseguite nel
corso del secolo si trova il bordo con l’iscrizione: «Prudentia, puritas et tertium quod ignoro», che sta a dimostrare che si è dimenticata la fantasia ghibertiana e che
ci si orienta verso una combinazione astratta64. Il cammeo, montato in forma di medaglione, si vede al collo
di una giovane dama dipinta nella bottega di Botticelli
intorno al 1480 (Francoforte, Istituto Staedel): il profilo esatto, l’acconciatura da ninfa consentono di avvicinare questo ritratto al busto di dama del Museo di Berlino, in cui si è voluto riconoscere Simonetta65. La presenza del cammeo può indicare una persona della cerchia
dei Medici66. È lecito chiedersi se, secondo l’abitudine
del Rinascimento italiano, il gioiello non è stato scelto
come portafortuna. Ogni tipo di pietra, in quanto cor-
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
rispondeva ad una divinità planetaria, richiedeva un
certo tipo di rappresentazioni. Se la corniola dei Medici ha servito come talismano «apollineo», la giusta identificazione era stata raggiunta67.
Come è accaduto per le pietre riprese nei tondi del
cortile di palazzo Medici, cosí si ritrova spessissimo la
corniola nei motivi decorativi dei manoscritti realizzati
dalla bottega di Attavante, in particolare quello delle
Heroica di Filostrato, destinato a Mattia Corvino: il frontespizio comprende una cornice adorna di fiori ed un fregio in cui il cammeo è incastonato insieme ad altri medaglioni68. Lo stesso avviene nel frontespizio di un manoscritto della Sforziada69 e sulla fronte dell’edizione di
Omero del 148870. Vi si deve vedere un semplice marchio
d’origine, oppure la scelta del medaglione rappresentava
una sorta di preludio allegorico a composizioni di alta
poesia? Marsia è stato evocato da Dante nella supplica
messa ad apertura della cantica piú sottile, il Paradiso:
la sua splendida immagine non poteva che attribuire particolare valore al tema del satiro suppliziato:
Entra nel petto mio, e spira tue
Sí come quando Marsia traesti
Dalla vagina delle membra sue
(Paradiso, I, 19-21).
Il tema della corniola, rettamente interpretato in queste miniature, esprime un valore simbolico preciso. L’associazione è avvenuta certamente alla fine del secolo poiché il gruppo ha potuto rappresentare in forma solenne
nella stanza della Segnatura il «mistero poetico». Essa
si deve al gruppo degli umanisti di Careggi.
Gli umanisti neoplatonici non hanno infatti mancato di utilizzare una favola cosí eloquente. Il mito viene
ricordato in ottima posizione nella celebre lettera di
Pico (1485) in cui si polemizza contro le compiacenze
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
letterarie in filosofia, nella quale invece deve contare
solo lo splendore del vero, anche se espresso senza grazia e inaccessibile alla folla:
Vuoi che ti dia una immagine del nostro parlare? Esso
è proprio come i Sileni del nostro Alcibiade. Le loro immagini erano di aspetto rozzo, triste e spregevole, ma dentro
erano piene di gemme, di suppellettile rara e preziosa. Cosí
se guardi l’esterno, vedi un mostro; se l’interno, riconosci
un Dio. Ma, dirai, son le orecchie che non sopportano il
costrutto ora aspro, ora roco e sempre disarmonico; che non
sopportano i nomi barbari, che intimoriscono anche col
suono. O uomo di gusti delicati, quando vai dai flautisti e
dai citaredi, stai pur tutto orecchi; ma quando vai dai filosofi, ritorna in te, nei penetrali dell’anima, nei recessi della
mente. Abbi le orecchie del Tianeo, con cui, liberandosi dal
corpo, sentiva non Marsia terreno, ma Apollo celeste che
sulla cetra divina modulava con ineffabili armonie gli inni
dell’universo71.
Spogliarsi di Marsia significa dunque sottrarre l’anima ai legami terrestri, la vittoria d’Apollo è la vittoria
della musica «divina»: in quest’immagine emblematica
vengono a coincidere l’insegnamento degli antichi pitagorici, quello di Dante e dei neoplatonici fiorentini.
Ecco dunque su quali basi il motivo ha potuto essere
valorizzato72.
Le innumerevoli variazioni che la glittica e la piccola scultura italiana compiono sul tema di Apollo e Marsia non sempre mostrano l’imitazione della corniola
medicea. Esistevano altre pietre antiche, seppure meno
belle, decorate con lo stesso soggetto73. Una è segnalata
nel trattato del Filarete (libro XXIV) presso il patriarca
d’Aquileia con una descrizione esatta ma senza illustrazione iconografica74. Si ebbero dunque parecchie copie
indipendenti dal Museo mediceo, e fra queste la meda-
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
glia in bronzo di Paolo II (Museo Correr), anteriore al
1471, le placchette di Padova o di Milano75, nonché il
rilievo scolpito sul portale di palazzo Stanga a Cremona76. In Toscana alla fine del secolo la composizione,
ormai familiare agli artisti, comincia ad essere divisa:
Apollo e Marsia sono studiati a parte. Cosí avviene in
un foglio di studi di Francesco di Simone (circa 1499,
British Museum): Apollo in piedi con la lira in mano,
con Satiro ai piedi, appare schizzato piú in alto e a parte
rispetto a un personaggio seduto su una roccia, legato a
un tronco d’albero, che non può essere che Marsia77.
Ognuna delle figure tende a seguire un suo destino indipendente. La cosa si verifica soprattutto nella cerchia
artistica che meglio ha inteso e valorizzato il significato del tema, la bottega del Perugino. In essa si presta
un’attenzione particolare all’immagine d’Apollo, come
è dimostrato dal celebre disegno di Venezia e dal piccolo
pannello del Louvre: il mito viene addolcito, il conflitto tra «musica superiore» e melodia rustica si trasforma
in una sorta di idillio da cui non può venire nulla di crudele. Raffaello tuttavia ha conosciuto le figure della corniola. Sul portico della Scuola d’Atene l’Apollo rappresentato nella nicchia di sinistra deriva in realtà dall’intaglio mediceo: il corpo nudo che appoggia sulla gamba
sinistra, la mano destra leggermente ripiegata, egli tiene
la sua grande lira all’altezza della spalla sinistra, con la
testa fieramente ruotata. Questa figura di Apollo trionfante appare staccata dalla scena oscura e tragica, come
una celebrazione della bellezza intellettuale. Anche il
Marsia seduto della corniola viene soppiantato dalla scultura del giardino mediceo. Sulla volta della stanza della
Segnatura quattro riquadri corrispondenti ai quattro
affreschi delle pareti illustrano le grandi allegorie della
vita dello Spirito; quello della Poesia mostra l’incoronazione di Apollo e il supplizio di Marsia. Il gruppo,
opera del Sodoma, non dipende in nulla dalla pietra
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
medicea: il satiro di profilo, per meglio far risaltare l’allungamento del corpo e lo sbalzo dei muscoli, deriva
dalla statua restaurata da Donatello per il giardino di via
Larga78. La scena viene intesa nel senso di Dante e dei
platonici, ma la piccola composizione della corniola subisce nuovi sviluppi.
Il tema era stato dunque incorporato nel contesto di
uno stile. Si comprende cosí meglio come il famoso
«torso» del Belvedere non sia mai stato messo in rapporto col tema di Marsia benché si tratti, con ogni verosimiglianza, come del resto per il frammento primitivo
del Fauno rosso restaurato dal Verrocchio, dei resti di un
Marsia seduto che attende il supplizio79. Nel Cinquecento non seppero vederci che il busto dell’eroe sovrumano, cioè Ercole, colto in un momento di sogno malinconico o di riposo. Esso suggerí a Michelangelo numerosi atteggiamenti di figure nei suoi dipinti e gruppi
monumentali 80. Ma l’artista sembra essersi servito
soprattutto dell’immagine del sileno confuso e umiliato,
la cui energia deve essere sacrificata, negli schiavi destinati alla tomba di Giulio II (figure che rappresentano il
mondo inferiore delle passioni) e in certe cariatidi sofferenti81. In questo modo egli si avvicinò al simbolo
della corniola, ma non la imitò mai direttamente.
Il gruppo mantenne una certa voga nell’arte toscana
del secolo xvi: figura in una placchetta anonima, condotta con uno stile largo e drammatico, e soprattutto in
un tondo in terracotta del Rustici alla villa Salviati
(Torre) di Firenze eseguito intorno al 1520-2582. Senza
dubbio occorre riferire alla stessa epoca il bassorilievo
fiorentino marmoreo di forma ovale la cui composizione (ridotta, è vero, a due personaggi) rimane molto vicina all’intaglio mediceo; presenta uno stile abbastanza
vigoroso perché si sia pensato, almeno per un momento, ad attribuirla a Michelangelo83. Tuttavia il rilievo
abbastanza indeciso richiama le placchette metalliche
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
che hanno potuto servire di modello per esso. La composizione era strettamente legata all’arte del Rinascimento classico84. Quando ritornarono agli esempi di quest’epoca, nel soffitto della galleria Farnese, i Carracci
non se ne dimenticarono: un finto disco bronzeo, imitazione di quelli della volta della Sistina, raffigura la
scena come se si trattasse di un calco in bronzo ricalcato della pietra medicea. Eppure la scena non ha la rara
forza di evocazione che aveva fatto il suo pregio nella
Firenze di Lorenzo.
Storia dell’arte Einaudi
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Capitolo terzo
Le figure «dionisiache» di Donatello
Lo stile di Donatello non sempre fu apprezzato a
Firenze, mentre a Padova fu oggetto di una costante e
fedele ammirazione. Un ricordo di questa si ha ancora
mezzo secolo dopo nel trattato di un umanista competentissimo di scultura, Pomponio Gaurico, dedicato
appunto a La Scultura (1504)85. Firenze vi è considerata
come la madre di quest’arte, e Donatello vi è di continuo citato come il suo eroe. I due principî essenziali di
essa sono il disegno (graficø), capo e fondamento di
tutta la scultura, e l’animazione (Yucicø). Quest’ultima
si realizza attraverso l’imitazione. È lecito pensare che
questa dottrina sia un riflesso fedele dell’estetica di
Donatello: l’animatio e il disegno compendiavano interamente per lui lo stile; anche se egli sapeva arricchirne
di continuo le possibilità grazie a una cultura che, sulla
metà del secolo, sembra esser stata press’a poco senza
precedenti. L’ampiezza delle sue conoscenze superava
quelle di ogni altro toscano, Ghiberti compreso86. Le sue
probabili fonti sono state largamente studiate87; non sarà
forse inutile cercare di vedere ora come le sue conoscenze tendessero a ordinarsi.
Il Museo Mediceo non è estraneo all’ispirazione di
Donatello; ma, se si tolgono dalla sua opera i medaglioni di palazzo Medici e pezzi come il busto di giovane dal
cammeo, nei quali si ha una ripresa letterale dell’antico,
ben poche risultano le sue derivazioni dirette. Oltre alla
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
scena di trionfo dell’elmo di Golia, che si ispira a un
cammeo in onice di Cosimo, la derivazione piú puntuale si riscontra nei tondi degli Evangelisti nella sacrestia
di San Lorenzo (circa 1440): le figure sono sedute su
troni resi con una complessità architettonica, di fronte
a superbe tavole che hanno l’apparenza di altari antichi.
La figura di san Matteo è accompagnata da due Eroti
nudi sotto le ghirlande; in quella di san Marco i pilastri
inquadrano la lotta di due Eroti alati secondo un tipo
che ricorre nelle placchette dei Medici. Si tratta della
prima apparizione del gruppo di Eros e di Anteros, che
illustra la vittoria della Virtú o dell’amore divino che nel
Cinque e Seicento avrà un immenso successo negli
emblemi88.
Di contro alla maniera del Ghiberti, e poi del Rossellino, che compone pacatamente elementi ben distinti e ben articolati, Donatello ricerca composizioni complesse. Il caso piú significativo è certo quello della
Madonna di Padova il cui tipo deriva dalla Nikopoia
bizantina, nota in Toscana grazie alla Madonna di Santa
Maria Maggiore a Firenze, dipinta da Coppo di Marcovaldo89. Questo modello era familiare all’artista e non è
quindi necessario supporre il ricordo di una statua miracolosa90. Esso ripete un tipo tradizionale che suggerisce
la disposizione frontale e la presentazione ieratica del
Bambino. Tuttavia le intenzioni dell’opera sono assai
piú complesse. Anzitutto occorre ricollocarla con l’immaginazione nell’edicola a forma di tempietto che la
inquadrava e di cui la pala di San Zeno a Verona del
Mantegna sembra aver conservato un ricordo esatto91. È
in questa specie di spazio chiuso che la statua si trovava. È stato notato che la ghirlanda di cherubini è un’imitazione dell’acconciatura a onde delle Cibeli antiche
e che il trono chiuso ai lati da sfingi che finiscono in
zampe belluine è una trasposizione del tema del trono
fiancheggiato da leoni92. L’opera però può anche essere
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
accostata alla celebre statua cineraria etrusca di Chianciano, nella quale si ritrovano la frontalità, le sfingi di
sostegno, e questa fisionomia un po’ strana di idolo che
sorprende nell’opera padovana. Il bronzo ne accresce il
vigore accentuando il contrasto tra le parti lisce e quelle drappeggiate, definendo in maniera piú energica il
modello. Donatello sembra aver voluto risalire dal tipo
trecentesco a un’immagine che, grazie all’assorbimento
pieno di elementi derivati da «maternità» pagane, poteva sembrargli come la forma superiore del soggetto. Ma
in questo caso si deve ammettere che non siamo di fronte semplicemente a una nobilitazione artistica analoga
all’effetto che poteva raggiungere utilizzando un sarcofago per una tomba o per la decorazione di un portale;
l’artista ha qui compiuto una lunga meditazione sul tema
della Vergine-Madre. Cioè egli realizza un approfondimento originale del tema. Le sfingi che appaiono nei
montanti del trono costituiscono una sorta di commentario figurato al «mistero cristiano»93.
Dovrebbe anche esser possibile definire certe reazioni dell’artista alle forme antiche. Il caso piú suggestivo e quello del «putto», la figura in cui vengono a
confondersi i tratti del bimbo, dell’angelo e del Cupido
antico, e che introduce un elemento di gioco e di fantasia che rimane fondamentale per l’arte del Quattrocento e di cui Donatello può essere considerato l’inventore moderno94. Nella cantoria del Duomo (1433-39),
che è stata la sua prima composizione di grande respiro, lo scultore usa un fondo musivo di ispirazione arcaizzante; mette nei pannelli laterali degli amores affrontati, un tema che deriva da certi frammenti dei «troni
degli dei» di Ravenna. Questo complesso romano, di
epoca imperiale, disperso nel xiii e xiv secolo, è stato
molto noto nell’Italia del Nord e un piccolo gruppo di
amores, resto del trono di Saturno, si trovava in Santa
Maria dei Miracoli alla fine del Quattrocento, dove una
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
guida lo ricorderà poi come «i putti di marmo... di mano
dell’antico Prassitele». Già dalla metà del Quattrocento placchette della Scuola padovana avevano utilizzato
il tema. Ci si può chiedere se anche la sua voga non fosse
in qualche modo dovuta a Donatello95. L’attribuzione
grossolana e fantastica a Prassitele di questo tipo di
figure merita tuttavia di essere considerata. Essa non ha
il semplice valore elogiativo implicito nel riferimento a
un grande nome; sembra invece voler definire un certo
tono dell’immaginazione, quello proprio degli Erotes,
degli «amori», cioè di immagini festose e vivaci la cui
diffusione rappresenta proprio allora una novità. L’attribuzione verrebbe cosí a precisare uno stile e nello stesso tempo un’ispirazione96, dato che Prassitele era rimasto lo scultore per eccellenza delle Afroditi e dei Cupidi. Il cerchio degli amorini e la danza frenetica dei putti
realizzano una gamma nuova, in cui si esprime una vitalità elementare in ciò che essa ha di piú spontaneo e
vivo. Il motivo antico è un «eccitante» non solo per lo
stile, ma anche per l’immaginazione, dato che viene
impiegato in circostanze diverse, e Donatello non ignorava che in moltissimi sarcofagi romani i bimbi eroicizzati danzano e si agitano nel regno degli eletti. Sono gli
Eroti alati che giocano nel paradiso di Dioniso; altrove
si dedicano allo studio o ai giochi sportivi che costituiscono anch’essi aspetti validi di quella saggezza che
porta all’immortalità97.
Nel 1423, sul pastorale del San Ludovico di Tolosa,
Donatello crea il putto porta-emblema che deriva da
queste fonti; nel 1425, nel rilievo per il fonte battesimale di Siena, introduce degli amori sotto forma di
angeletti che assistono Erode, mentre «putti» a tutto
tondo suonano con i loro strumenti sulla balaustra dell’edicola. I putti trionfano nel bassorilievo a fondo oro
della cantoria, nelle formelle del pulpito di Prato, dove
il girotondo e il gioco tendono al parossismo. Il putto
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
indica una folle allegria che per la sua violenza contrasta con la gioia piú tranquilla che emana dalla cantoria
di Luca della Robbia. Il putto viene associato all’idea
della virtus e figurerà perfino nella sella e nell’armatura
del Gattamelata. Parallelamente si nota la tendenza ad
accentuare il valore orgiastico e quindi «dionisiaco» del
tema. Sull’elmo di Golia, calpestato dal vincitore, si vede
realizzata a cesello una scena di trionfo. È un ricordo
del gruppo di Bacco e Arianna che si vedeva su un cammeo in onice, conservato nella raccolta medicea98. In
questo caso si tratta di un simbolo delle passioni brutali
incarnate da Golia. E lo stesso si deve certamente dire
del baccanale degli amorini che orna la base triangolare
della statua della Giuditta: essi servono a ricordare lo stupro e l’ubriachezza del nemico di Israele99.
Donatello ha cura di rappresentare con precisione
tutto ciò che sottolinea il riferimento ai «misteri antichi»: nel rilievo di Erode a Siena le figure che assistono alla scena sono nude, come saranno in seguito i pastori che il Signorelli e Michelangelo collocheranno (come
testimoni del paganesimo) sul fondo delle loro Sacre
Famiglie. Nei rilievi di Padova la benda dionisiaca (che,
secondo gli archeologi, deve essere distinta dai nastri per
i capelli e dalle bende della Vittoria100) la benda, dicevamo, dei «mystes» non è stata dimenticata sulla fronte dei musici. L’interesse per una sorta di esotismo pagano si rivela soprattutto nel piccolo personaggio che partecipa insieme della natura di Eros e di Atys, l’immagine piú suggestiva e piú graziosa di gioia esuberante e
impudica che il Quattrocento abbia creato. Le gambiere a spacchi, analoghe alle anaxyrides frige, ci riportano
agli Atys alati dell’Asia Minore, attraverso qualche fonte
letteraria o forse un esempio etrusco101. Il moto frenetico dei putti in gruppo è perfettamente a suo luogo nelle
feste dionisiache: i piccoli danzatori della cantoria si
ritrovano sotto forma di baccanti nella metà sinistra di
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
un corteo bacchico: nudi, incoronati e brandendo grappoli, essi costituiscono un corteggio che si ritrova nei
fregi del pulpito di San Lorenzo. Questa parte dell’opera
è di mano di Bertoldo, ma questi amorini dotati di minuscole ali, che giocano a vendemmiare, costituiscono l’ultima trasposizione sul piano sacro del tema «dionisiaco».
Insomma la danza dei putti è l’equivalente naturale,
terrestre del girotondo degli angeli che, nell’Angelico o
nel Lippi, accompagna in cielo gli avvenimenti sacri. Il
fatto nuovo è che Donatello abbia saputo trovare i riferimenti che gli consentirono di affrontare questa forma
elementare e piena di vitalità da lui considerata come l’espressione piú audace, piú forte del «paganesimo». È
dunque il caso di prestare una certa attenzione alla lettera che Matteo di Simone Strozzi scrive a un amico
segnalandogli, intorno al 1428-30, alcune antichità a
San Frediano di Lucca in questi termini: «Due sepolture antiche, che vi sono; spiritegli a l’uno a l’altro e la storia di Bacho. Donato l’a lodate per chose buone»102.
Donatello sapeva bene di star parlando di scene e tipi
propri delle religioni antiche. Egli lo precisa quanto piú
può, poiché pensa, come già cominciavano a credere gli
umanisti contemporanei, che certi aspetti benintesi dei
riti e delle credenze antiche potessero trovar posto nell’arte cristiana.
Buona parte dei modelli studiati da Donatello si possono classificare nella categoria «dionisiaca»; ma soprattutto per via delle combinazioni di movimenti, per la
mimica e i gesti che accentuano quella animatio di cui
avrebbe parlato il Gaurico. Per la sua ampia cultura
archeologica lo scultore ha un posto a sé nell’ambiente
fiorentino, dove le sue novità non sono gradite agli
amici del Ghiberti. Egli cerca elementi che valgano a
intensificare la tensione della forma plastica fino ai limiti della «terribilità» e dell’esultanza. In sostanza egli
amplia metodicamente la gamma delle passioni che pos-
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
sono trovar luogo nell’opera scolpita e il movimento è
per lui l’elemento fondamentale. Era questa una intuizione nuova. Il Quattrocento fiorentino in fondo è
dominato da questo problema di cui il Ficino metterà in
luce tutto il significato scrivendo che «essendo l’anima
fonte del movimento, ne risulta una libera e universale
animazione»103.
È noto che i profeti scolpiti sulla porta della sagrestia di San Lorenzo verranno criticati dal Filarete per il
loro gestire da «schermidori»; è possibile che già l’Alberti li avesse presi di mira quando aveva rivolto la sua
ironia contro coloro che dànno ai personaggi un atteggiamento di «schermidori et istrioni senza alcuna
degnità di pittura, onde non solo sono senza gratia et
dolcezza, ma piú ancora mostrano l’ingegnio dell’artefice troppo fervente et furioso». L’Alberti che esigeva dal
pittore di mostrare i movimenti dell’anima attraverso
quelli del corpo aveva concluso nel 1435 imponendo a
questi una regola di misura e limitandoli ai «movimenti soavi e grati». In scultura era questo l’ideale del Ghiberti e non quello di Donatello, nel quale, insieme con
la varietà nell’organizzazione dell’opera, il gusto per la
violenza non ha fatto che aumentare sempre piú104.
Le formelle di Padova (circa 1450) presentano scene
di folla di una eccezionale complessità e i pulpiti di San
Lorenzo (circa 1460) un’animazione quasi insostenibile.
All’estremità destra del grande rilievo della Crocifissione una delle pie donne si strappa i capelli in un accesso
di disperazione furiosa: si tratta di una figura di sarcofago dionisiaco la cui violenza mistica passa nel contesto dell’opera cristiana. Questo motivo verrà ripreso da
Bertoldo nella sua Crocifissione del Bargello, dove vediamo la stessa testa rovesciata nello slancio e gli stessi veli
fluttuanti con le pieghe sottili, come bagnate105. La plorante ha riassorbito in sé la menade, trovando però una
sua stilizzazione che la differenzia in modo radicale dal
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
tipo «gotico» che verrà usato piú tardi da Niccolò dell’Arca nella patetica Maddalena di Santa Maria della
Vita a Bologna (1485). La stessa figura, con la stessa
patetica torsione, compare in una Crocifissione (Venezia,
Chiesa del Carmine) fusa da Francesco di Giorgio intorno al 1475 per Federico da Montefeltro. Ecco qui un
legame tra Donatello e lo scultore senese, che negli anni
seguenti avrebbe realizzato il rilievo, alquanto enigmatico, della Discordia106. Quest’opera, di un’esecuzione
assai tormentata, è una vera e propria illustrazione del
delirio «dionisiaco» (Londra, Victoria and Albert
Museum). Al centro di un cortile circondato da portici
si scatena una violenza folle provocata da un personaggio femminile che brandisce un bastone, incoraggiata da
un principe: si tratta probabilmente della scena di Licurgo eccitato contro le menadi dal messaggio di Iride (Iliade, VI, 134). L’episodio è raccontato anche nelle Dionisiache di Nonno (XX, 182). La figura centrale sarebbe quella di Iride che guida la danza frenetica della
Furia. Nella seconda metà del secolo queste immagini di
furor, di smarrimento frenetico, in cui l’anima è fuori di
sé, vengono nel complesso riprese abbastanza di frequente in Toscana.
Le scoperte di Donatello avevano arrecato all’arte fiorentina una libertà che si palesa in tutte le arti, in particolare nell’incisione. La voga del baccanale pagano è
dimostrata da una serie di lastre anonime che compongono un Trionfo di Bacco e Arianna con menadi agitate
nella cornice di un gigantesco pergolato. Queste tavole
sono comunemente assegnate a un momento abbastanza tardo, intorno al 1470-80, in quanto le vesti ondeggianti delle figure si richiamano ai panneggi botticelliani: gli accostamenti con la serie di stampe dei pianeti e
altri prodotti della bottega del Finiguerra inducono ad
attribuirle a questo maestro ed a riportarle all’epoca
1460-64. Questa data arretrata presenterebbe un dop-
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
pio vantaggio: aggiungerebbe un elemento in piú al gruppo delle immagini di tipo «dionisiaco» di questo periodo e verrebbe a confermare la suggestione esercitata da
questo tema pagano sulle fantasie degli artisti107. È perfino possibile scorgere, in queste immagini di vita veemente, il punto di partenza dell’arte di Botticelli. Le
vesti ondeggianti delle sue ninfe e delle sue dee sono una
versione piú poetica e piú elaborata delle vesti di queste figure108. Comunque, si tratti di una anticipazione, o
di opere contemporanee di quelle di Botticelli, è certo
possibile avvicinare questa incisione al famoso carro di
Bacco e Arianna sul quale furono cantati, durante un
carnevale (intorno al 1480), i versi di Lorenzo:
Non fatica, non dolore!
Quel c’ha esser, convien sia:
Di doman non c’è certezza109.
Il gruppo descritto dalla canzone, cioè Bacco e Arianna tra le ninfe e i «satiretti», era in certo modo un adattamento popolare dei numerosi rilievi in cui il soggetto
era figurato, soprattutto del medaglione mediceo che era
stato replicato e ingrandito nel cortile di palazzo Medici, che era stato diffuso dalle miniature e ripreso nelle
placchette. Il carnevale veniva cosí a tingersi della nuova
cultura. E per contro la festa veniva a dare un preciso
valore alle divinità del mito: Bacco era il dio della vitalità frenetica e della gioia sensuale, di cui il carnevale era
dopo tutto una buona espressione moderna.
Il successo di questi «baccanali» fu tale che se ne
ritrova l’eco nelle decorazioni degli interni, ad esempio
nel fregio del camino della Jole nel palazzo d’Urbino
(circa 1455-60), col Trionfo di Bacco a sinistra, Sileno
ubriaco a destra. Dei disegni che hanno certo qualche
rapporto con queste scene ci mostrano Pan e le Menadi
e l’Ubriachezza di Pan (Ambrosiana e Louvre)110. Si deve
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
pensare che questo genere di figurazioni fosse diventato una sorta di elemento piccante nelle decorazioni degli
interni, se Piero di Cosimo l’ha trattato in chiave decisamente volgare e comica nel suo complesso per la casa
di Giovanni Vespucci sulla fine del secolo. Si tratta, con
la folla di faunetti e di menadi che divertivano il Vasari, della rievocazione parodistica del corteo di Bacco
con batteria di cucina anziché cimbali e con un gesticolare sgraziato111. Ma si tratta di una tendenza un po’ particolare, che ben risponde alla misantropia caustica di
Piero; in generale invece si tendeva a dare di questi
stessi elementi un’interpretazione allegorica. Si ritrovano cosí la menade, il satiro, con un centauro armato di
una torcia e diverse figure, in un rilievo che finora ha
resistito ad ogni interpretazione e che sembra opera di
Francesco di Giorgio. In mancanza di un titolo migliore viene chiamato Allegoria dell’anima112. L’agitazione
«dionisiaca» sembra in quest’opera servire ad illustrare
le energie vitali e i conflitti interni dello spirito, cioè
l’urto delle «facoltà» nel senso del neoplatonismo fiorentino. L’opera è di un’esecuzione abbastanza nervosa, non senza rapporti con lo stile di Bertoldo, e si apparenta a tutto un ciclo di placchette nelle quali, intorno
al 1480-90, il repertorio creato negli anni 1450-60 si
organizza in immagini emblematiche di sapore dotto113.
Storia dell’arte Einaudi
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Capitolo quarto
Il museo etrusco e l’«etruscan revival»
Il piú notevole complesso decorativo d’intonazione
«dionisiaca» del Quattrocento fiorentino è rappresentato indubbiamente dalla serie di affreschi di cui due
ancora rimangono alla torre del Gallo, sulla collina di
Arcetri, a sud di Firenze. Lo zoccolo della sala appare
ornato di archi visti in una prospettiva rigida, separati
gli uni dagli altri da «putti musicanti». Sopra queste
cavità profonde si svolge una specie di scena in cui
appaiono gruppi di danzatori dai gesti frenetici. I dipinti sono assai guasti e i contorni vi assumono un valore
sorprendente; forse in origine il loro peso era minore.
Non si vede chi potrebbe aver disegnato questi contorni nodosi e inventato questi gesti spezzati se non Antonio del Pollaiolo: i tipi sono vicini alle figure nervose dei
ricami del Battistero114.
Una circostanza precisa suggerisce di datare l’opera
poco dopo il 1464. È a quell’epoca infatti che la villa
viene ceduta ai Lanfredini: Giovanni, il futuro ambasciatore di Lorenzo, e Jacopo notabile fiorentino, che
figurerà, con il figlio Antonio, fra gli amici del Ficino115.
È lecito supporre che essi non siano stati estranei alla
decorazione della villa allorché provvidero alla sua sistemazione. Si trattava senza dubbio di una decorazione
destinata a creare un’atmosfera di gioia e di vitalità
nella grande sala. I putti dello zoccolo forniti di strumenti musicali sembrano trascinare i danzatori del pal-
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
coscenico. Le figurazioni di gioia frenetica erano di
moda. Ma non potrebbe essere che il Pollaiolo abbia
avuto presente un esempio preciso nel realizzare, nella
villa d’Arcetri, questa decorazione di figure danzanti che
appare in certo senso come la versione profana della cantoria di Donatello? La composizione è talmente inconsueta che è lecito chiedersi se l’artista non abbia conosciuto dei dipinti antichi e non abbia voluto assimilare
la loro mimica espressiva.
Vasi antichi sembrano indubbiamente essere stati
all’origine di certi schemi lineari e di certi contorni tormentati del Pollaiolo116. Il riferimento piú eloquente è
quello che si può fare alle figure delle tombe delle Baccanti, dei Leoni e del Triclinio a Tarquinia. Queste
tombe non saranno scoperte che molto piú tardi117 e il
prototipo quindi ci sfugge. È lecito supporre che l’artista abbia voluto adattare allo stile delle case toscane le
immagini violente che egli aveva potuto vedere su vasi,
forse su muri di ipogei. Sarebbe però necessario stabilire anzitutto se c’è veramente stato nel Quattrocento un
interesse per questi aspetti dell’arte antica.
Il Ficino aveva cari e proteggeva i due fratelli Pollaiolo. Il caso vuole che proprio a proposito di Piero abbia
scambiato delle lettere nel 1477 col cancelliere di Pistoia,
Antonio Ivano da Sarzana. Era questi persona di cultura
molto viva, e sappiamo che nel 1473 cercava delle «anticaglie»118 nella zona di Luni. Questo rapporto sta a dimostrare che i Pollaiolo sono stati a diverse riprese in contatto
con umanisti in grado di fornir loro notizie sui vasi antichi e piú in particolare su quelli etruschi. Non vi possono
infatti essere dubbi sulla natura delle opere antiche che si
trovano nella Lunigiana. Questa zona del Carrarino, benché già fuori dei confini dell’antica Etruria, da secoli era
considerata un luogo etrusco119. Dante ricorda le cave fantastiche, in cui si era ritirato l’aruspice Aruni, nel passo
estremamente suggestivo dell’Inferno (XXV, 46 sgg.).
Storia dell’arte Einaudi
100
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
La riscoperta delle antichità etrusche avveniva lentamente nel corso del Quattrocento. I toscani prendevano a poco a poco coscienza dell’originalità del loro passato in un modo piú positivo e piú dotto. La testimonianza piú interessante in questo senso (interessante per
la data, per la precisione e l’entusiasmo dell’autore) è
rappresentata dal celebre passo che Ristoro d’Arezzo,
nel suo Libro della composizione del mondo (1282), dedica ai vasi nati dalla terra e nella terra nascosti, che si trovano in tutta la zona d’Arezzo120. Il gran numero di
motivi dipinti o scolpiti (dunque entrambe le categorie
di vasi erano rappresentate) viene analizzato con precisione e l’antico autore mette in evidenza soprattutto le
battaglie d’animali, le scene di caccia e pesca, la vivacità
d’espressione delle figure («tale ridea e tale piangea e
tale morto e tale vivo...») Insomma nulla meglio di questo passo preannuncia la smania di curiosità naturalistiche che caratterizza l’arte toscana intorno al 1450-70,
le sue incisioni d’animali che si divorano a vicenda e le
sue forme in movimento. In Ristoro si trova ricordato
anche il tema degli «spiriti che volano nell’aria sotto
forma di fanciulli nudi, portando ghirlande variate di
frutti», cioè dei putti reggi-ghirlanda, già pronti per
riprendere il loro posto nell’arte toscana. Intorno al
1460 si assiste al diffondersi di questi motivi di vitalità
animale nella pittura e nell’incisione con la famosa Battaglia di nudi di Antonio del Pollaiolo (1460-62), con i
combattimenti di leoni e di draghi, le scene di caccia che
forse derivano da composizioni perdute di Paolo Uccello e del Pesellino121. Tutti questi temi sono oggetto di
una moda molto diffusa. Inoltre è il momento in cui
tutta l’attenzione viene a concentrarsi sulle esigenze del
contorno e le possibilità che la linea nei suoi precisi sviluppi offre per caratterizzare la figura: cosa che ha per
risultato di restituire tutta la sua importanza al contorno e al profilo anatomico e attribuisce un interesse d’at-
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
tualità alla celebre definizione della «linea espressiva»
formulata da Plinio a proposito di Parrasio. Questo concetto stimolante, e un po’ misterioso, della linea di contorno che è mezzo compiuto di rappresentazione, presentava il vantaggio di porre un precedente storico illustre all’origine di una formula stilistica di cui universalmente si attribuisce l’invenzione a Antonio Pollaiolo122.
La teoria delle origini della pittura, elaborata dagli
umanisti toscani sulla base dei testi classici, sembra
appunto implicare, sotto il nome di pittura primitiva, un
riferimento alle pitture vascolari. All’inizio del II libro
del Trattato della pittura l’Alberti non manca di ricordare che «i nostri Toscani antiquissimi furono in Italia
maestri in dipigniere peritissimi». Si tratta, con ogni
verosimiglianza, semplicemente di una frase ispirata da
Plinio (Naturalis Historia, XXXV, 17, 18): ma forse questa frase non mancava del tutto di riferimenti concreti
come si è generalmente supposto, e sembra lecito vedere un’allusione alle pitture vascolari in un passo in cui,
per completare le indicazioni dell’Alberti, il Landino
precisa che alle sue origini la pittura era fatta di una sola
linea poi «d’un solo colore, donde il termine di monocromata», cosa che in Plinio (XXXIII, 117...), dal quale
la parola deriva, indica una pittura a due toni: nero su
bianco, o bianco su nero123. Si attribuivano in realtà agli
etruschi non solo i vasi a rilievo, familiari a tutti gli abitanti di Arezzo, ma anche tutti i vasi a figure rosse di
provenienza greca. Indubbiamente questi vasi entravano nelle raccolte medicee come antichità toscane124: l’arte etrusca era intesa in senso largo, cosa che viene a dare
un peso anche maggiore al riferimento.
La curiosità per le «antichità etrusche» si era fatta in
effetti abbastanza viva nella seconda metà del secolo e
in particolare nella cerchia di Lorenzo. A questo proposito abbiamo una testimonianza precisa. Il nonno di
Vasari, Giorgio, faceva il vasaio ad Arezzo «il quale atte-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
se continuamente all’antichità de’ vasi di terra aretini;
e nel tempo che in Arezzo dimorava messer Gentile
Urbinate vescovo di quella città, ritrovò i modi del colore rosso e nero...» Si condussero allora degli scavi all’entrata della città, e ne vennero fuori quattro vasi interi:
in occasione di una visita di Lorenzo il Magnifico ad
Arezzo «Giorgio gli fu presentato dal Vescovo e offrí
quei vasi al principe». Si tratta del vescovo Gentile de’
Betti che col Ficino fu precettore di Lorenzo. L’episodio va collocato intorno al 1475125. Tutti sapevano che
Lorenzo si occupava di vasi antichi. Per vent’anni le
novità di qualche interesse furono regolarmente inviate
al giovane principe o ai suoi amici umanisti126. Non
potendosi ritrovare con esattezza i pezzi e stabilire la
data del loro ingresso nella collezione fiorentina, è quasi
impossibile indicare gli esempi che grazie a questo interesse diffuso furono sotto gli occhi dei notabili e degli
artisti. La ceramica antica greca e etrusca entrava nel
Quattrocento nell’orizzonte artistico dei fiorentini.
Un interesse non minore veniva portato ai pezzi di
scultura, alle urne, alle cisti o alle statuette che potevano esser considerate «etrusche». Il Vasari non esiterà a
considerare i vasi a rilievo detti aretini fra le fonti del
rilievo a «stiacciato» praticato dai moderni sulla scia di
Donatello127. Non è da escludere che Donatello sia stato
spinto a valersi di questa tecnica particolare da certi
pezzi della raccolta di Cosimo; ne fece tuttavia un uso
piú complesso di quanto non sia possibile vedere nei
rilievi antichi. È inoltre lecito chiedersi se, nell’uso di
certi temi, l’artista non abbia voluto «fare etrusco», ad
esempio nel trono con le teste di sfinge della Madonna
di Padova, che è cosí vicino a quello della celebre statua cineraria di Chianciano128, in certi putti danzanti con
le braccia alzate che si ritrovano nelle decorazioni vascolari129, forse in certi tipi umani130.
La Toscana disponeva inoltre di un certo numero di
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
«fonti antiche» che, per fantasie eccitate dai ricordi
storici ed esaltate dalla conoscenza dei testi familiari agli
umanisti, potevano apparire non inferiori a quelle della
Domus Aurea di Nerone, o a quelle grotte dell’Esquilino che verranno scoperte proprio alla fine del secolo xv.
Numerose tombe etrusche erano state visitate, scavate
e spogliate nel corso dei secoli. Ma è nel Quattrocento
che si assiste alla celebrazione del loro mistero e della
loro grandezza.
In un poema dedicato a Francesco Filelfo (1454) L.
Vitelli fa cosí l’elogio della collina e del palazzo sotterraneo di Corneto che, secondo lui, altro non è che il
palazzo di Corythus ricordato nell’Eneide: «Sunt
immensa albis exausta palatia saxis», e sotto Innocenzo
VIII vi furono messi in luce nuovi elementi131.
Siamo qui nelle vicinanze della località piú importante per l’arte etrusca, cioè Tarquinia. Le cronache
degli archeologi ci hanno conservato il ricordo della scoperta di ipogei, ad esempio la tomba detta della Mula e
vicino a Sesto Fiorentino, avvenuta nel 1494 (è la data
fornita da un graffito sull’imposta destra all’entrata della
cella), e un po’ piú tardi, nel 1507, delle scoperte avvenute a Castellina in Chianti132.
Si è creduto di scoprire, in un disegno del Museo
Buonarroti, una copia dell’Ade della tomba dell’Orco a
Tarquinia: un viso barbuto sotto un’enorme testa d’animale. Ma nell’affresco si tratta di un lupo e invece nel
disegno di un cinghiale; occorre piuttosto pensare a
qualche portastendardo romano sul tipo di quelli che si
vedono nella colonna traiana133. Invece in un taccuino di
viaggio (una raccolta di schizzi che risalgono per lo piú
agli anni tra il 1491 e 1495 e di cui rimangono venti
foglietti agli Uffizi) Francesco di Giorgio ha notato,
passando per Chiusi, il rilievo di un’urna funeraria etrusca che non è stata ritrovata ma il cui stile basta a indicarne chiaramente l’origine134.
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Le allusioni alla grandezza dell’arte etrusca non mancavano nei testi, dove sempre i fiorentini riservavano ad
essa una parte teoricamente notevole. L’Alberti nel suo
De re aedificatoria dichiara: «Conciosa che havendo l’arte edificatoria il suo antico seggio in Italia e massimamente appresso de Toscani, de quali fuor’ di que’ miracoli, che si leggono dei loro Re, e ancora de laberinti, e
de Sepolchri, si truovano alcuni scritti antichissimi e
approvatissimi, che ne insegnano il modo del fare i Tempii secondo che gli usavano i Toscani anticamente» (VI,
3); e fornisce altrove (VIII, 3) una descrizione dell’incredibile sepolcro di Porsenna «sotto la città di Chiusi
di pietre riquadrate, dentro a la basa, del quale, alta cinquanta piedi era un laberinto... e sopra essa basa cinque
Pyramidi una nel mezzo, e una per una fu per i cantoni...»135. Contemporaneamente il Filarete testimonia
anch’egli del labirinto gigante di Porsenna che, dice,
secondo Varrone, si trovava in Toscana, e che, come il
mausoleo d’Artemise fu uno di quegli edifici colossali la
cui celebrità è documentata e di cui non rimane alcuna
traccia136.
Il «mito» etrusco era dunque tenuto vivo dai letterati del Quattrocento. Un po’ piú tardi il Vasari accoglierà tutte queste tradizioni aggiungendovi il richiamo
a scoperte recenti come quella della Chimera d’Arezzo
e inserendo d’autorità, tra il resoconto sommario dell’arte greca e quello dell’arte romana, una notevole
messa a punto sulle antichità etrusche. In essa viene
richiamata la testimonianza dell’Alberti, viene richiamato il «labirinto» di Porsenna con le sue «figure a
mezzo rilievo», i vasi aretini rossi e neri con le loro piccole figure, le statue trovate a Viterbo nel 1493. Questo paragrafo mirava a valorizzare una tradizione «nazionale», ma questa era già stata messa in valore proprio
in questo senso all’epoca del Magnifico137. Un fatto minimo viene a confermare l’attaccamento dei toscani ai
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grandi nomi della storia etrusca: durante un suo soggiorno ad Arezzo Andrea Sansovino modellò per Montepulciano «di terra una figura grande..., cioè un re Porsenna che era cosa singolare». Il Vasari ricordava d’averla vista138.
Non saremo noi a sostenere, come ha fatto il Ruskin,
che l’eredità etrusca si sarebbe improvvisamente risvegliata dopo secoli di sonno per ispirare la poesia infernale di Dante, poi la vitalità esuberante o irrequieta di
certi artisti del Quattrocento. Ma risulta chiaro che al
livello popolare delle leggende (di cui il poema del Vitelli può essere un’eco) e al livello «umanistico» delle grandi prospettive storiche (Alberti) una certa coscienza del
passato etrusco e della sua originalità ha cominciato ad
affiorare nel Quattrocento. Il «Museo etrusco» nasce
lentamente; l’interesse che sembrano dimostrare per
esso Antonio Pollaiolo o Donatello non è un’eccezione.
Lo stesso interrogativo si può d’altronde porre a proposito di certi artisti della fine del Quattrocento e anzitutto del pittore «bizzarro» (la parola è del Vasari) Piero
di Cosimo. Egli dipinse per Francesco del Pugliese (circa
1495) una serie di scene della vita primitiva, piene di
battaglie fantastiche, di centauri e di fauni. In una d’esse, il Ritorno dalla caccia, il paesaggio presenta un tratto di mare attraversato da due navi d’una esattezza
archeologica che sorprende; è necessario supporre che il
pittore abbia avuto presenti dei vasi greci arcaici, cioè
«etruschi»139.
I rilievi di Bertoldo nel palazzo di Bartolomeo Scala
(circa 1490 presentano temi aspri e violenti e lo stesso
modo di trattare le forme appare «appiattito» per cui si
è portati a chiedersi se questo scultore un po’ a sé non
abbia voluto imitare qualche sarcofago etrusco140. Non
meno significativo tuttavia è trovare (sia pure trasposta
in uno stile da profilo ellenistico) la figura di un demone ctonio con serpenti, una figura che sembra tipica-
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
mente etrusca, sul fregio della villa di Poggio a Caiano
(circa 1485)141.
Leonardo aveva passato la sua infanzia nel Valdarno.
Si è parlato di atavismo etrusco a proposito di certi suoi
interessi che colpiscono solo per una generica analogia
con certi aspetti della vecchia civiltà toscana, ad esempio la scrittura rovesciata da destra a sinistra, gli studi
di idraulica, l’attenzione al volo degli uccelli, il gusto per
la scultura modellata e in bronzo con esclusione della
pietra142.
Nemmeno il sorriso «arcaico», è da considerare come
una reminiscenza o una derivazione143. Ma ci sono forse
dei dati piú precisi: si nota nell’opera giovanile la frequenza di figurazioni di animali, in particolare di combattimenti tra bestie selvagge e draghi fantastici, e
soprattutto il fatto che la prima opera di Leonardo sia
stato quel volto di Medusa che suo padre volle portare
ai collezionisti fiorentini. Non si può trattare in questo
caso che di una invenzione «all’antica» ispirata da un
modello etrusco, forse qualche antefissa o maschera di
Gorgona144. Il soggetto era di moda: lo si ritrova, adattato certamente sulla base di armature romane, sulle
corazze modellate dal Verrocchio145. Cosí è da vedere
senza dubbio una ricomposizione dall’etrusco nello strano mausoleo di forma conica, con vani a ipogeo (Louvre), la cui struttura e lo stesso andamento delle volte
richiamano espressamente i tumuli di Cerveteri e di
Vulci. Il disegno però e abbastanza freddo, non è condotto con la mano sinistra e l’attribuzione a Leonardo
è con buon fondamento contestata. Si pensa piuttosto
a Francesco di Giorgio, sebbene non vi possano essere
dubbi sulla fonte a cui questi si è ispirato146.
Gli ambienti romani alla fine del Quattrocento non
risparmiavano sforzi per ricomporre intorno alla loro
città il mito imperiale, e i primi musei che vi furono
creati, ad esempio quello Capitolino al tempo di Sisto
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
IV, erano in funzione del mito di Roma147. Gli umanisti
toscani si sforzavano di convogliare in favore di Firenze la grande idea «nazionale» (cioè romana). È ciò che
spiega come ad esempio, nella celebre epistola del Poliziano De civitatis florentinae origine, si avverta una certa
discrezione a proposito dell’origine etrusca; l’unico
accenno si ha allorché si parla delle conoscenze della
ninfa Faesula (Fiesole) nell’arte aruspicale148. Non tutti
gli umanisti erano sensibili al «mito etrusco»; questo
però continuava a svilupparsi dato che se ne troverà l’espressione completa vent’anni piú tardi in circostanze
particolarmente significative. Nel settembre 1513, dopo
l’elezione di Leone X, Giuliano de’ Medici fu invitato
in Campidoglio per ricevervi, con un fasto eccezionale,
il titolo di cittadino romano. Opuscoli e lettere ci descrivono le cerimonie che hanno segnato una data nella storia del teatro, dato che una sala di grandi dimensioni (m
33 X 27 X 15 d’altezza) fu costruita appositamente da
Antonio da Sangallo e decorata sulla facciata e sui fianchi con numerosi pannelli istoriati dal Peruzzi col consiglio di Tommaso Inghirami. Ora i soggetti di questa
decorazione erano stati pensati da cima a fondo in funzione della storia etrusca e degli episodi nei quali, secondo Tito Livio, questo popolo era venuto in contatto con
Roma, cioè gli antenati di Giuliano si erano incontrati
con i fondatoti del Campidoglio.
Allusioni trasparenti al presente non mancavano e
iscrizioni opportune venivano a metterli in evidenza:
Foedus a populo romano cum Hetruscis,
Tarquinius hetruscus Romae regnat
né manca il ricordo dell’originalità degli antichi toscani:
Augurum disciplina Hetruria Romam invecta.
Roma liberi erudiendi se in Hetruriam mittuntur.
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
In queste ricostruzioni storiche, ad esempio sulla facciata dove si vedevano Enea e gli etruschi, Porsenna e
Muzio Scevola, l’incontro dei due popoli a Caere, ecc.,
i costumi, i tipi, gli atti dovevano mostrare le differenze tra etruschi e romani. Questi quadri evidentemente
presupponevano la modesta «archeologia etrusca» che si
era venuta lentamente costituendo nel corso del Quattrocento149.
Chi vi si applicò piú a fondo sembrano essere stati gli
eruditi di Viterbo150. Egidio da Viterbo, ammiratore
entusiasta del Ficino in gioventú, e il piú illustre rappresentante del platonismo a Roma all’epoca di Giulio
II e Leone X, aveva pensato di scrivere una storia d’Etruria. Nella sua Historia XX saeculorum, l’unica opera
da lui realizzata, lo spazio dedicato agli etruschi nella
evoluzione dell’umanità è di una ampiezza eccezionale:
gli etruschi sono venuti dalla Caldea a portare la civiltà
in Italia; la loro storia è parallela a quella di Israele, i
Lucumoni «divinarum rerum interpretes» sono la stessa cosa che i patriarchi; Giano è contemporaneo di Noé,
Giasone di Mosé. Ercole ha fondato presso di loro una
potente dinastia (un Ercole italico distinto dall’eroe
greco), e, sotto questa dinastia, l’Etruria ha dominato su
tutto il mondo prima di dare origine, attraverso Roma,
figlia di Italo, ad una nuova potenza storica151. L’opera
degli etruschi si è esercitata soprattutto sul piano religioso, ciò che permette d’affermare: «Tyrreni imperio,
cultu, religione, divinarum humanarumque scientia fuisse universo orbi terrarum admirabiles» (fol. 31); nelle
ore difficili si è visto il papa rifugiarsi in Toscana, come
nello «eterno rifugio e difesa della Chiesa» (fol. 200).
Accettando l’etimologia, del resto già proposta dall’antichità e ripresa da Annio da Viterbo, che fa derivare
Tyrrenius da turris, Egidio non esitava proporre di innalzare un’alta torre al di sopra di San Pietro Vaticano per
ricordare queste origini (fol. 121)152.
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Egli aveva saputo sviluppare, all’interno del suo neoplatonismo, curiosità precise in direzione della Cabala e
dei geroglifici. A questo si deve aggiungere il suo importante intervento nel senso dell’«etruscan revival», in cui
ancora una volta egli si riallaccia ai fiorentini153.
Storia dell’arte Einaudi
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Capitolo quinto
Il busto di Platone
Stando a un celebre passo del Valori, Lorenzo sognava da tempo un ritratto di Platone; e fu per lui una grande gioia quando ricevette da un certo Girolamo Roscio
da Pistoia un busto del filosofo «scoperto tra le rovine
stesse dell’Accademia»154. Una copia di quest’opera preziosa si trovava certo a Careggi, dato che una leggenda
malevola, d’origine savonaroliana, racconta che il Ficino aveva acceso davanti all’immagine venerata una lampada da chiesa155. Quest’opera, considerata una delle
piú preziose «anticaglie» medicee, costituiva il simbolo
della nuova Accademia. Ma il suo era un valore essenzialmente immaginario; l’opera non poteva esser stata
trovata nei giardini di Academos, dato che se ne ignorava la collocazione. Piú che di un falso, si trattava certamente di una replica romana identificata abusivamente
(forse fraudolentemente) come l’originale di una scultura famosa, il busto scolpito da Silanione156. È difficile
seguirne la storia a causa del saccheggio del 1494, della
dispersione delle raccolte medicee, dell’abbandono della
villa del Ficino a Careggi. Il Platone mediceo figura successivamente nella collezione di Fulvio Orsini, poi in
quella del Gori; in seguito sarebbe passato all’Università
di Pisa, donde sarebbe alla fine pervenuto agli Uffizi157.
Fino a non molto tempo fa si poteva vedere in palazzo
Medici una testa antica posata su una base e accompagnata dall’iscrizione greca: plßtwn. Un’altra opera dello
Storia dell’arte Einaudi
111
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
stesso tipo si trova da gran tempo nella sala delle epigrafi
agli Uffizi158. È fra questi busti che si deve cercare il Platone di Lorenzo. Il tipo che si ammetteva nel Quattrocento era quello del vecchio barbuto; Fulvio Orsini l’ha
confermato in modo abbastanza avventuroso attraverso
l’iscrizione di una gemma. Una serie di busti di divinità,
di Dioniso o di Ermete, ha potuto cosí essere battezzata come Platone159; è proprio il caso degli esemplari fiorentini conservati.
Gli umanisti fiorentini cercavano anzitutto il significato «etico» del personaggio che, secondo la tradizione,
Silanione era riuscito a individuare in modo assai felice160. Nella sua Vita Platonis il Ficino, fondandosi sui biografi antichi, ricorda che il filosofo era di «una prestanza splendida e particolarmente robusto... e che il suo
nome derivava dalle sue larghe spalle, dalla sua grande
fronte, dalla sua mirabile apparenza»161. Il motivo del
«grande Platone» ricorre frequente nelle evocazioni letterarie del tempo. Cosí Ugolino Verino, all’inizio del suo
poema teologico Paradisus, descrive un personaggio dagli
occhi scintillanti, «quique humeris late longe supereminet omnes»162. In un curioso passo del suo Convito Dante
aveva proposto Platone come tipo ideale del vecchio;
egli ne avrebbe incarnato e la sua fisionomia ne avrebbe espresso tutte le virtú. Perfetto esemplare della natura umana, egli sarebbe vissuto, stando al De Senectute,
81 anni (9 x 9), cifra che fissa un termine preciso della
vita. Se Cristo non fosse stato crocifisso al culmine della
curva della parabola vitale e se l’avesse seguita fino alla
morte naturale, sarebbe vissuto, afferma Dante, fino ad
avere la stessa età di Platone163. Si doveva dunque cercare nell’immagine di Platone il tipo del Saggio perfetto secondo le regole della «fisionomica». Il Ficino non
poteva, a questo proposito, che confermare ciò che
Dante aveva detto. Il risultato fu non solo un equivoco
sul «ritratto» del maestro dell’Accademia: si arrivò
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
anche a sostituire immagini moderne ai busti antichi od
almeno ad accontentarsi di un curioso compromesso. In
concorrenza con l’immagine antica si venne diffondendo in effetti nel Quattrocento un tipo «contemporaneo»
del Saggio, ispirato alle personalità in cui meglio sembrava rivivere l’ideale filosofico. Aristotele nella seconda metà del secolo xv aveva cosí assunto la figura di un
«mago» ispirata all’aspetto di certi greci moderni, seguaci dello Stagirita, e piú precisamente di Manuele Crisolora164. Una tavoletta in bronzo, spesso copiata, del
Museo di Braunschweig ci presenta questo Aristotele
con berretta e cappuccio e una lunga barba che, unendosi ai capelli, discende sulle spalle e sul petto165. La figura rappresenta a meraviglia ciò che nel Quattrocento si
intendeva per «dignità del sapere». Quest’immagine
maestosa doveva attrarre l’attenzione di Leonardo e
forse servirgli di modello per la sua pettinatura e il suo
aspetto fisico in genere166. L’attrattiva di questa immagine sembra esser stata cosí forte che anche Platone finí
per essere concepito in modo analogo. E questo tipo
convenzionale è forse all’origine del ritratto ideale dello
«studiolo» di Urbino (Louvre), nel quale Platone con
lunghi capelli biondi e ricci assume un aspetto sognante e sentimentale167. Piú solido e conforme al modello diffuso dalle placchette bronzee, il profilo di Platone corrisponde a quello di Aristotele sull’arco trionfale della
«Filosofia» in una celebre pagina dell’Etica a Nicomaco,
illustrata a Napoli poco prima del 1500168. A Firenze i
miniaturisti che ornarono le traduzioni e trattati del
Ficino, in particolare Attavante, non han fatto alcun
sforzo di immaginazione: hanno ripetuto la figura del
Saggio in berretta, figurandolo il piú delle volte con
una barba bionda senza alcun tratto «fisionomico» piú
preciso. Il caso piú tipico è forse costituito dal manoscritto delle Enneadi illustrato anteriormente al 1490 da
Attavante per conto di Filippo Valori. Se dobbiamo
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
credere alla dedica, questi l’aveva fatto ornare in modo
ricco per la sua biblioteca: la lettera iniziale ci mostra il
ritratto del Ficino, i busti dei medaglioni sono banali
figure di profeti e filosofi in tocco e berretta169.
Un serio tentativo di rinnovare e meglio definire
l’immagine dei poeti, dei dotti e dei saggi, era però
necessario170. L’immagine di Platone si ispirava da secoli a una prospettiva ideale: celebrato tradizionalmente
come medico e un po’ anche mago, profeta della Trinità,
padre della Metafisica (cosa che permette di collocarlo,
di contro ad Aristotele, nei quadri dipinti in gloria di san
Tommaso) Platone alla fine del Quattrocento diventa il
«maestro del Divino»171. La soluzione, come avviene in
molti altri casi, si deve a Raffaello. Nella Scuola d’Atene lo stesso suo piano rendeva necessaria una precisazione dell’iconografia dei saggi ed egli cercava di preferenza la «convenienza», cioè l’accordo tra la fisionomia,
l’atteggiamento e lo spirito. Per Platone egli tenne presente insieme il modello antico, cioè il busto mediceo,
dal quale deve derivare la calvizie ed il profilo, e il
modello moderno, che esigeva la lunga barba e i lunghi
capelli; e infine derivò da Leonardo il gesto tipico che
assicura alla figura il suo slancio e la sua unità172.
Storia dell’arte Einaudi
114
Capitolo sesto
I bronzi di Bertoldo
Bertoldo è una personalità sacrificata soprattutto se
si pensa a Donatello, che è stato suo maestro, al Verrocchio, suo contemporaneo, e a Michelangelo che quindicenne fu in contatto con lui. Della sua carriera si sa
assai poco. Nato nel 1440, lavorò tra il 1460-68 ai pulpiti di San Lorenzo con Donatello. Al pari di lui era specialista del bronzo; ma non ha mai realizzato opere di
grande respiro, come ha fatto invece Antonio Pollaiolo
a Roma o il Verrocchio a Venezia. Una lettera del 1479
attesta che era familiare dei Magnifico, e tale rimase fino
alla morte avvenuta nel 1491. La sua attività era doppia: sorvegliava e custodiva le collezioni medicee, componeva e fondeva per Lorenzo e i suoi amici dei piccoli bronzi nei tre generi allora di moda: statuette, placchette, medaglie173. Secondo Benedetto Dei, «faceva
sempre col Magnifico Lorenzo cose degne»174. Cosí egli
occupava nella cerchia medicea una posizione centrale.
Se la sua personalità avesse avuto maggior respiro e
maggiore autorità, la sua attività ci permetterebbe di
cogliere con esattezza il punto in cui, all’epoca di Lorenzo, si passa dal museo all’invenzione, dall’umanesimo
all’arte.
I fiorentini non erano i soli che amassero i piccoli
bronzi. Dopo il 1460 a Padova si era sviluppato, per suggestione di Donatello, una sorta di iperclassicismo: placchette fini come quelle del Moderno su soggetti antichi
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
e pagani, statuette e figurine d’un naturalismo analitico, in cui, prima del vigoroso Riccio, si avverte, intorno al 1490, un’ispirazione che si frantuma e tende al
bibelot175. In Toscana non avviene lo stesso: il ricordo
di Donatello e l’esempio del Pollaiolo assicurano una
maggiore vivacità; spesso la ricerca dell’effetto arriva
alla confusione, nel momento in cui il gusto si orienta
piú che mai verso il piccolo formato. Verrebbe fatto di
attribuire la paternità di questo stile a Bertoldo, se i
rilievi e le placchette in bronzo del senese Francesco di
Giorgio non rivelassero un’ispirazione analoga, però con
una sensibilità superiore a quella di Bertoldo176.
Il rilievo della Battaglia (Bargello), che si trovava in
una delle sale di palazzo Medici, è l’unica opera di qualche respiro di Bertoldo: un pezzo di bravura in cui però
la mancanza di unità e di profondità sono innegabili.
Oltre che nelle molte medaglie-ritratto, in cui il rovescio è generalmente ornato di complicate allegorie, Bertoldo sembra essersi specializzato nella esecuzione di
statuette, placchette ornamentali e medaglioni tondi (65
mm) che si distinguono dalle medaglie in quanto si compongono in serie e non si riferiscono ad un personaggio
definito, né recano ritratti. Se ne conoscono una ventina, tutti a soggetto mitologico, fra i quali il piccolo
gruppo che in un primo tempo si era creduto dover isolare attribuendolo al cosiddetto «Maestro della leggenda di Orfeo»177. Non è chiaro quale fosse la loro destinazione: forse, fusi in oro, questi medaglioni ornavano
scrittoi o gabinetti. Ci rimangono solamente dei modelli in bronzo, spesso d’una fattura un po’ sommaria: i
pezzi in metallo prezioso può darsi che siano stati fusi
in momenti difficili178. Nell’inventario di Lorenzo del
1492 non figurano piú in realtà le medaglie d’oro che
esistevano prima; vengono però ricordate le medaglie
d’argento e di bronzo come distinte dalle monete.
Il modo in cui Bertoldo realizza queste opere è un po’
Storia dell’arte Einaudi
116
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
confuso e sembra che vada aumentando sempre piú la
tendenza agli effetti di tocco e di riflessi a spese dell’incisività e del modellato liscio. Ma questa scultura
minore tende, per cosí dire, a creare delle opere di devozione ad uso degli umanisti, in cui i grandi fatti del mito
sono distribuiti in episodi con poche figure. Abbiamo
cosí fra i medaglioni ispirati all’Eneide la Fucina di Vulcano, Venere che consegna le armi ad Enea, Enea agli Inferi, e, fra quelli ispirati al mito d’Orfeo, almeno tre scene:
Orfeo e gli animali, Orfeo agli Inferi, Orfeo e le Menadi,
che sono in realtà delle eccellenti miniature in bronzo.
La statuetta d’Apollo (o Orfeo) che suona la viola sollevando dolcemente una gamba (Bargello) rivela un
piglio piú personale del bronzo del Bellerofonte. Ma la
serie piú originale è quella che si ispira alle dotte allegorie dell’amore. In una placca conservata in due mediocri esemplari (Victoria and Albert Museum, collezione
del palazzo Ducale di Venezia) è rappresentata l’Educazione d’Eros: a sinistra Eros studia con Mercurio, a
destra è presentato da Venere a Vulcano che gli applica
le ali179; come in tutte queste scene, Venere appare alata
e Marte porta un grande elmo. Un piccolo rilievo circolare (cm 0,15) conservatoci in migliore stato, presenta,
in una fusione esperta, una composizione abbastanza
elegante (Victoria and Albert Museum): tra Mercurio
che gli insegna come usare il filo a piombo e due personaggi che reggono strumenti di misurazione, il piccolo
Eros si esercita nel modellare. È l’illustrazione della
massima adottata dagli umanisti per cui «Amore è il
principio di tutte le arti» (cioè dell’attività creatrice).
Come le piccole serie composte in margine ai grandi miti
richiamano i «medaglioni» poetici del Poliziano delle
Sylvae, nei quali pochi versi riassumono un episodio e
fissano un personaggio, cosí questi rilievi sono come dei
formulari emblematici delle dottrine dell’ambiente laurenziano. Certe composizioni sono difficilmente deci-
Storia dell’arte Einaudi
117
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
frabili: ad esempio il rilievo con L’Albero degli amorini
(Kaiser Fredrich-Museum), nel quale l’accento un po’
grezzo, le linee confuse e la condotta spezzata sono tipiche di Bertoldo. Una figura di fauno vista di schiena
sembra voler «cogliere» un amorino dall’albero al quale
le figurine sono sospese, e una divinità fa segno a un giovane a sinistra che esita, e che forse attende una giovane donna in piedi a destra. Cosí Venere alza la mano
verso l’albero180. La composizione, un po’ maldestra e
priva di spazio, è animata anche dalla coppia di amorini che lottano in primo piano e che dopo tutto forniscono la chiave della scena. Essi sono copiati da una
gemma antica che già Donatello aveva utilizzato nella
sagrestia vecchia di San Lorenzo. Essi rappresentano
Eros e Anteros e la lotta dei due amori181.
In passato sono stati attribuiti al Verrocchio (poi con
fondamento ancora minore a Leonardo) parecchi rilievi
di qualità abbastanza elevata, che forse datano del 1475,
per i quali l’unica incertezza possibile è tra Bertoldo e
Francesco di Giorgio: tra gli altri, l’allegoria detta della
Gelosia (Victoria and Albert Museum) e un rilievo di
esecuzione sommaria che rappresenta il ratto di una
donna ad opera di un centauro aiutato (o contrastato) da
due satiri (Louvre). Se si devono riferire a Bertoldo, queste composizioni attestano un interesse per le immagini
di violenza e la ricerca dei contrasti, per gruppi che valgano a suggerire la diversità delle passioni e delle forze
dell’anima182. Il punto d’arrivo di questa ricerca si trova
nel fregio che orna il cortile del palazzo di Bartolomeo
Scala (circa 1490), capolavoro complesso, e zeppo di
allegorie «umanistiche», di Bertoldo.
La leggenda della Scuola del giardino di San Marco
può in queste condizioni assumere valore di simbolo.
Bertoldo è l’esponente di quel complicato processo attraverso il quale certi artisti fiorentini si sono, poco a poco,
impadroniti di tutta la cultura dei musei e di ciò che que-
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
sta poteva rappresentare per la cerchia di Lorenzo. Bertoldo ormai non conosce altra fonte che le gemme, le statue, le sculture dei sarcofagi. Con lui siamo giunti alla
fase in cui le botteghe si servono regolarmente del repertorio grafico e plastico costituito attraverso mezzo secolo di interesse per le vestigia antiche e custodito nei taccuini di bottega del Ghirlandaio, nelle raccolte del Sangallo e nei margini miniati, infine in tutti questi piccoli bronzi che assicurano ad esso utilizzazioni e divulgazione durevoli. È una situazione diversa da quella di
Donatello e del Verrocchio: Bertoldo lavora entro un
mondo chiuso, in cui l’invenzione è di breve respiro. Le
composizioni dei rovesci delle medaglie mancano di chiarezza, ma le piccole allegorie delle placchette, le scene
mitiche presentano una discrezione e una notevole applicazione intellettuale, che sono tipicamente fiorentine e
si accordano con il tono della letteratura umanistica: si
trova addirittura una Nascita di Minerva che sembra
fatta apposta per illustrare le molteplici variazioni che
il Ficino comporrà su questo tema; e sul rovescio di una
placchetta tonda si vede un’allegoria dell’amore platonico che deve essere riferita direttamente all’insegnamento del De amore183. Siamo ad una uguale distanza
dalle fantasie naturalistiche dell’ambiente settentrionale come dalle forme pompose che ben presto prenderanno piede a Roma. In realtà l’arte antica è oggetto di
un’attenzione nuova, di cui non è il caso di attribuire la
paternità alla «Scuola di Bertoldo», ma invece a tutto
quanto l’ambiente fiorentino intorno al 1490: si tratta
della «reintegrazione» consapevole delle immagini antiche nelle forme antiche184.
Con Botticelli la tendenza a illustrare liberamente i
temi poetici o filosofici del mito era arrivata il piú lontano possibile.
Filippino aveva inteso questo orientamento in senso
opposto, accumulava particolari precisi in un modo tutto
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
esteriore, introducendo nelle sue composizioni religiose
una specie di fantasia «archeologica». Lo scenario di
«anticaglie» è piú esteriore ancora nel Ghirlandaio.
Nulla di comune con l’ansia del Mantegna a Mantova,
che imponeva uno stile «romano» a una visione ferma
e a un’umanità «eroica», e insomma riusciva ad accordare una forma e un contenuto entrambi derivati dalle
fonti umanistiche. Il problema a Firenze sembra essere
stato avvertito solo da Bertoldo: egli sembra interessarsi quasi esclusivamente ai temi mitologici, con la doppia preoccupazione di decifrarne compiutamente il valore e di ritrovarne la forma antica185. Concepita nell’ambito del museo mediceo, questa «reintegrazione» tendeva a realizzarsi a Firenze in collaborazione con l’umanesimo di Careggi. Questo appare chiaramente nella
formazione di Michelangelo giovane.
Il Condivi, in questo meno tendenzioso del Vasari,
riferisce che a quindici anni il piccolo Buonarroti fu
introdotto, grazie al Granacci, nel casino mediceo e si
mise a lavorare con passione dalla mattina alla sera
«come in migliore scuola». Già da tempo gli artisti
entravano in questo luogo in veste di restauratori, ma il
giovane Michelangelo sa trarre da questo privilegio un
partito nuovo, che risulta illustrato nel modo migliore
dal famoso aneddoto della testa di fauno antico copiata
con attenzione ai particolari «fisionomici»186. Nello stesso tempo che disegnava gli affreschi di Masaccio per
assimilarne la gravità e la struttura, assimilava, imitando i pezzi antichi, i principî di uno stile. Nel campo del
disegno, come in quello della scultura, la sua grande
abilità gli permetteva di fabbricare dei veri e propri
falsi187, cioè di raggiungere una precisione e una coerenza nuove nell’effetto d’insieme. Ammesso a studiare le
collezioni di monete e di toreutica nei gabinetti di via
Larga, raggiunse una competenza d’esperto e ci si è sforzati di ritrovare nelle sue opere tracce precise della cul-
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
tura che si era cosí assicurato188. Ma il problema non si
riduce a quello di un inventario delle sue fonti che non
erano se non un punto di richiamo per l’immaginazione; tale problema si amplia necessariamente per il fatto
che Michelangelo, frequentatore abituale delle raccolte
medicee, era nello stesso tempo commensale del Landino, del Ficino, di Pico e del Poliziano189. Per alcuni mesi
almeno è divenuto cosa concreta il legame tra poesia ed
arte, tra visione simbolica e esperienze di conoscitore.
Il Poliziano si era legato al giovane scultore e «di continuo lo spronava, benché non bisognasse, allo studio;
dichiarandogli sempre e dandogli da far qualche cosa.
Tra le quali un giorno gli propose il ratto di Deianira e
la zuffa dei Centauri, dichiarandogli a parte per parte
tutta la favola»190. Si trattava qui non di Deianira ed
Ercole, ma della Battaglia di Teseo e dei Centauri al
festino di Piritoo, raccontata in Ovidio (Metamorfosi,
XII, 210). Il giovane Michelangelo ha saputo realizzare
nel suo rilievo marmoreo la costruzione che mancava nel
bronzo di Bertoldo; ha cercato e trovato un legame
drammatico tra le figure individuando nel racconto i tre
elementi dominanti: il ratto della donna contesa tra un
centauro e un lapita (a destra), il gesto di Piritoo in atto
di colpire (a sinistra), l’intervento di Teseo (in alto).
Confrontandolo con la fronte di cassone di Piero di
Cosimo, in cui appaiono lo stesso soggetto e gli stessi
episodi191, risulta chiaro che lo scultore ha cercato una
coerenza e un’unità di cui il pittore non si è curato. Questo esempio mostra chiaramente dove abbia inizio lo sviluppo decisivo. Le stesse osservazioni si possono fare a
proposito di tutte le opere giovanili di Michelangelo: il
Bacco ubriaco del 1496 si stacca già per una ampiezza e
una varietà d’intenzioni nuove dalla tradizione fiorentina dei piccoli rilievi «dionisiaci». Il Condivi dirà che
la sua forma e il suo aspetto rispondono in tutto all’intenzione degli autori antichi. Questa stessa chiarezza di
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
concezione è l’elemento fondamentale del Cupido addormentato, di cui verosimilmente si conserva il ricordo nel
quadro di Marte e Venere del Tintoretto (Monaco, Pinacoteca)192, e dell’Ercole scolpito al momento della morte
di Lorenzo.
Nelle composizioni religiose Michelangelo istintivamente cerca un’ampiezza di volumi che di per se stessa
esclude le minute derivazioni pittoresche. Il Vasari ha
giustamente indicato il punto di partenza della Madonna della Scala, eseguita da Michelangelo «giovanetto»:
lo scultore ha voluto qui «contrafare la maniera di Donatello». Si tratta in realtà di un rilievo a «stiacciato» con
contrasti di piani che richiamano, ad esempio, il rilievo
di Siena. Ma inutilmente si è cercata nell’ambito donatelliano una composizione di questo tipo: la figura seduta, vista di profilo, con grandi veli, non trova riscontro
che in stele funerarie o gemme antiche. Il rilievo michelangiolesco si ispira alla loro chiarezza di taglio e alla loro
linea continua nonché alla ricerca delle minute accidentalità significative del rilievo193.
Le opere antiche non sono piú considerate come
repertori di particolari interessanti che basta riprendere e ricomporre liberamente; ciò che ora importa è il
legame dello stile e l’unità dell’effetto: in un rilievo di
battaglia ciò che conta è il movimento d’insieme, in una
figura l’energia che sembra animarla. Una preoccupazione di questo genere risulta nuova, per quanto se ne
può giudicare, nel 1490194. Applicata ai personaggi del
mito, essa presuppone che questo abbia un significato
che interessa ricostruire di per se stesso, non come pretesto per una illustrazione in cui sarebbe agevole mettere in evidenza un simbolo morale o uno spettacolo che
allontanerebbe dal grande stile. L’Antichità non appare piú come una serie di episodi e di temi isolati, ma
come un tutto, come un «cosmo storico». Tutto in esso
è solidale: idee, sentimenti, forme. Era questa la conse-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
guenza del rispetto che Lorenzo aveva per l’architettura degli antichi, il Poliziano per la loro poesia, il Ficino
per la loro religione, Donatello e Bertoldo per la loro
scultura. L’imitazione episodica di un tema da allora in
poi appare come un’ingenuità. A questo punto prevale
la vera e propria emulazione degli antichi. Michelangelo affermerà sempre, come il Poliziano, che la cultura
non è nulla se non è vivificata dall’energia personale. A
proposito di uno scultore che si vantava di fare copie
dall’antico superiori agli originali, egli sentenzierà senza
incertezze: «Chi va dietro a altri, mai non gli passa
innanzi. Chi non sa far bene da sé non può servirsi
bene delle cose d’altri»195. Per intendere la posizione originale dei moderni è bene avere inteso l’unità del mondo
antico. Ma quest’idea a Firenze era ancora una intuizione a mezz’aria: è a Roma, all’epoca di Giulio II e di
Leone X, che essa è stata intesa in tutta la sua portata.
vasari, ed. Milanesi, vol. II, p. x; ed. C. L. Ragghianti, I, p. 650.
Su tutti questi problemi: f. v. duhn, Über die Anfänge der Antikesammlungen in Italien, in «Nord und Süd», xv (1880), pp. 293-308; j.
burckhardt, Die Sammler, in Beiträge zur Kunstgeschichte von Italien,
edizione completa, XII, Berlin 1930, pp. 293-396; r. krautheimer,
Lorenzo Ghiberti, Princeton 1956, ci ha dato un prezioso catalogo dei
sarcofagi e rilievi antichi accessibili agli artisti intorno al 1450.
3
Il Giubileo dell’anno 1450 secondo una relazione di Giovanni Rucellai, in «Archivio della Società romana di storia patria», iv (1881).
4
vasari, ed. Milanesi, V, p. 55.
5
Vita di B. Cellini, ed. A. Padovan, Milano 1915, pp. 3 e 18. e.
müntz, Les précurseurs ecc. cit., cap. II, pp. 44 sgg.; f. albertini,
Memoriale di molte statue e picture della Città di Firenze, Firenze 1510.
6
vasari, Vita di Nicola e Giovanni Pisani, ed. Milanesi, I, pp.
294 sgg.
7
vasari, Vita d’Arnolfo, ibid., p. 285, e successivamente g. lami,
Lezioni di antichità toscane, Firenze 1766, pp. xii-xiii e tav. i, p. 196;
anche Boccaccio (Decameron, VI, 9) li ricorda. Se ne conoscono cinque,
due dei quali si trovano ancora ai lati della porta sud, uno segnalato a
1
2
Storia dell’arte Einaudi
123
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
palazzo Medici, un altro che serve da tomba all’interno dello stesso Battistero, un quinto agli Uffizi: w. paatz, Kirchen, vol. II, pp. 207 e 265,
n. 178.
8
w. paatz, Kirchen cit., II, pp. 173 e 211 n. 2; su questa leggenda, dante, Inferno, XIII, 143 e soprattutto g. villani, I, capp. 42 e
60. Sulle testimonianze di M. Palmieri e del Poliziano, cfr. g. richa,
Notizie istoriche delle chiese fiorentine, Firenze 1757, vol. V.
9
w. paatz, Kirchen cit., vol. IV (1952), p. 245 n. 2. Sulla cappella del 62: g. villani, cap. 57, g. lami, Lezioni ecc. cit., vol. I, p. 27.
Si trovano dei rilievi della chiesa dei SS. Apostoli in una raccolta di
disegni d’edifici romani di Firenze attribuita con fondamento a Simone Cronaca: l. grassi, in «Palladio», vii (1943), pp. 14-22.
10
w. paatz, Kirchen cit., vol. I, p. 245 n. 3. g. villani, III, 3;
coluccio salutati, ed. Moreni, Firenze 1826, pp. 21-22; Vita anonima di Brunelleschi, ed. E. Toesca, Firenze 1927, p. 29. Il vasari, ed.
Milanesi, vol. I, p. 238, ricorda un’iscrizione marmorea che ricordava
la fondazione dei SS. Apostoli nell’805; vi si è visto un falso dell’epoca del Magnifico connesso con la diffusa celebrazione delle glorie fiorentine che si ebbe intorno al 1490. La cosa non sarebbe sorprendente: i falsi destinati a confortare le glorie storiche di una città non erano
rari nel Quattrocento: quelli di Annio da Viterbo sono celebri: i. faldi,
Dipinti e sculture del Museo civico, Viterbo 1955, n. 38. Ma secondo w.
paatz, Kirchen cit., vol. I, in fine, l’iscrizione che si trova sul verso di
una lastra degli inizi del secolo xiii deve risalire a quest’epoca: si tratta di un falso medievale.
11
g. soulier, Les influences orientales dans la peinture toscane, Paris
1924, ha posto questo grande problema senza risolverlo plausibilmente, non avendo chiara la componente d’esotismo che è propria di tutta
la cultura «gotica» (tale componente è stata in seguito evidenziata da
j. baltrusaitis, Le Moyen-Age phantastique, Paris 1955); egli però ha
mostrato la diversa atmosfera che regnava a Roma e a Firenze e ha sollevato il problema «etrusco».
12
I fiorentini richiameranno spesso, fondandosi sulla vecchia Chronica de origine civitatis (inizi del secolo xiii) e su G. Villani, le origini
romane di Firenze fondata da Silla o Cesare in concorrenza con la città
etrusca di Fiesole: n. rubinstein, The beginnings of political thought in
Florence, in «jwci», v (1942), p. 198. Sul problema «etrusco», cfr. piú
avanti.
13
a. chastel, Di mano dell’antico Prassitele, in Eventail de l’histoire vivante (Mélanges Lucien Febvre), Paris 1953, col. II, pp. 265-71. e.
müntz, Les précurseurs ecc. cit., trad. it. Firenze 1902; e. walser, Poggius Florentinus, Leben und Werke, Leipzig 1914, cap. XVIII; e. jaeschke, Die Antike in der florentinischen Malerei des Quattrocento, Strassburg 1900; j. von schlosser, Leben und Meinungen des florentinischen
Storia dell’arte Einaudi
124
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Bildners Lorenzo Ghiberti, Basel 1941, III (Der Sammler und Liebhaber
der Antike).
14
Sullo Squarcione: c. ridolfi, Le maraviglie dell’arte, 1648, pp. 6768; sul medico veneziano Giovanni Dondi, che cercava pezzi interessanti a Roma nel 1375, e la funzione dei da Carrara di Padova: j. von
schlosser, Die ältesten Medaillen und die Antike, in «Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen», xviii (1897). Su Gentile Bellini: g. gronau, Die Kunstlerfamilie Bellini, Leipzig 1909, p. 51. Su F. Feliciano
(1433-80): g. fiocco, Felice Feliciano amico degli artisti, in «Archivio
venetotridentino», ix (1926), pp. 188-206.
15
Cfr. piú sopra l’introduzione; e. müntz, Les collections ecc. cit.;
e Mostra Medicea, Firenze 1939; soprattutto: e. kris, Meister und Meisterwerke der Steinschneidekunst in der italienischen Renaissance, Wien
1929, 3 (Die Sammlungen).
16
vasari, Vita di Mariotto Albertinelli, ed. Milanesi, IV, p. 218.
17
Documenti su questa costruzione in a. kristeller, Andrea Mantegna, Berlin 1902, pp. 429, 525, 528, e sull’abitazione propriamente
detta del Mantegna a Mantova, pp. 214-15. g. fiocco, Andrea Mantegna e il Brunelleshi, in «Atti del I Congresso Nazionale di Storia dell’Architettura» (1936), Firenze 1938, p. 180 n. 2 ha corretto l’errore
di c. yriarte, La maison de Mantegna à Padoue, in «Cosmopolis»,
marzo 1897, p. 738, e ha ammesso l’interpretazione del motto ab
Olympo proposta da l. dorez, Andrea Mantegna et la légende «ab Olympo», in «C. R. Académie des Inscriptions et Belles-Lettres», 1918, pp.
370-72.
18
Gli inventari sono pubblicati in e. müntz, Les arts à la cour des
papes, Paris 1879, vol. II, pp. 181-287. id., Les précurseurs ecc. cit., ed.
it., pp. 138-39.
19
u. aldrovandi, Delle statue antiche che per tutta Roma in diversi
luoghi e case si veggono, Venezia 1556; p. g. hubner, Le statue di Roma,
Grundlagen für eine Geschichte der antiken Monumente in der Renaissance, in «Römische Forschungen der Bibliotheca Herziana», ii, Leipzig 1912; c. hülsen, Römische Antikengarten des XVI Jh., in «Abh. Heidelberger Akad. Wiss.», Heidelberg 1917.
20
l. passerini, Curiosità storico-artistiche fiorentine, Firenze 1866;
e. müntz, Les collections ecc. cit., p. 107. I pezzi archeologici divisi nel
Quattrocento tra le residenze medicee, poi spostati nel corso dei secoli seguenti, sono stati in gran parte depositati agli Uffici; gli inventari
di h. dütschke, Die antiken Marmorbildwerke der Uffizien in Florenz,
München 1897, non sempre però sanno precisare la data del loro
ingresso nelle collezioni ducali. gori, Inscriptiones anticae Etruriae, vol.
III, tav. xxxiv, cita un sarcofago (da lui creduto etrusco) che si trova
«in hortis regiae villae ad podium caianum» (cfr. r. förster, Miscellen, in «Archaeologische Zeitung», vol. xxxii [1875], p. 102 n. 4).
Storia dell’arte Einaudi
125
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
c. hülsen, La Roma antica di Ciriaco d’Ancona, Roma 1907. La
testimonianza piú significativa delle forme fantasiose che assume la
curiosità archeologica metà popolare e metà erudita intorno al 1500, è
costituita dalla compilazione Antiquarie prospettiche romane che si deve
a qualche lombardo e che è stata ripubblicata da g. govi, Intorno a un
opuscolo rarissimo, in «Atti dell’Accademia dei Lincei», serie II, 3,
Roma 1876; cfr. Marsile Ficin et l’art cit., p. 149.
22
Sul Fonzio cfr. g. marchesi, Bartolomeo della Fonte, Firenze
1900, p. 103. Sul Sangallo e il Ghirlandaio: h. egger, Codex Escurialensis, ein Skizzenbuch aus der Werkstatt D. Ghirlandaios, Wien 1906;
f. saxl, The classical inscription in Renaissance art and politics, in «jwci»,
iv (1940), pp. 367 sgg. Sui taccuini archeologici di Giuliano da Sangallo cfr. piú avanti.
23
Sulla ricostruzione di opere antiche sulla base delle descrizioni:
r. förster, Wiederherstellung antiker Gemälde durch Künstler der Renaissance, in «Jahrbuch der preussischen Kunstsammlungen», xliii (1922),
pp. 12 sgg.; è tuttavia possibile estendere ad altri campi la suggestione delle formule e dei testi; cfr. piú avanti. Il concetto di «pseudomorfosi» è stato elaborato da f. saxl, e e. panofsky nel saggio Classical Mythology in mediaeval art, in «Metropolitan Museum Studies», iv
(New York 1933).
24
f. bürger, Geschichte des florentinische Grabmals von den ältesten
Zeiten bis Michelangelo, Strassburg 1904. Cfr. anche le osservazioni di
carattere generale di e. panofsky, in Studies in Iconology, New York
1939, pp. 183 sgg.
25
Su L. Bruni e l’importanza della sua Historia, cfr. v. rossi, Il
Quattrocento, 4ª ed., Milano 1949, pp. 31 sgg., 170 sgg. Sull’ammirazione del Ficino per il Bruni, piú avanti, sezione III, cap. II. Circa il
tema del libro: h. marrou, Mousicÿj ¶nør, Grenoble 1937. Sulla
tomba del Bruni cfr. l. planiscig, Bernardo und Antonio Rossellino,
Wien 1942, tav. xiii, e f. bürger, Geschichte des florentinischen Grabmals ecc. cit., cap. V. L’iscrizione afferma il cordoglio della Storia, dell’Eloquenza e delle Muse.
26
m. reymond, La sculpture florentine, III (Seconde moitié du XV siècle), Paris 1889, p. 81. «Non so se esista un’altra cappella che dal punto
di vista della sintesi di pittura, scultura e architettura, possa essere paragonata a questa». l. planiscig, Bernardo und Antonio Rossellino cit.,
tavv. xli sgg.
27
Riprodotto dall’incisione del Lafréri (1549) in c. de tolnay, The
Medici Chapel (Michelangelo III), Princeton 1948, fig. 209.
28
Sui motivi antichi, palmette e candelabre, w. altmann, Architektur und Ornamentik der antiken Sarcophage, Berlin 1905, pp. 122 sgg.
29
Abbiamo una lettera di Pierfilippo Pandolfini indirizzata al Platina nel settembre del 1459 a richiesta del segretario del cardinale per
21
E
Storia dell’arte Einaudi
126
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
avere una poesia di tono elevato sul defunto: a. della torre, Storia,
p. 535. Il Pandolfini insiste sulle qualità e le virtú dei giovane prelato
e conclude: «habes campum latissime ad hunc virum exornandum:
cum a genere in quo fere omnes mortales excedit, tum quod majus est
a virtutibus maximeque a virginitate...» (Anonimo Magliabechiano,
cap. VI, 166, foll. 105 b-106 b).
30
vasari, ed. Milanesi, III, pp. 94-95. f. saxl, The origin and survival of a pictorial type, in «Proceedings of the classical Association»,
vol. XXXII (maggio 1935), pp. 32-35, vede nel tema una combinazione
di quello di Ercole vittorioso del toro e dell’altro del sacrificio mitridatico; cfr. anche f. saxl, Mithras, Typengeschichtliche Untersuchungen,
Berlin 1931 (con riproduzioni).
31
Sul posto che l’Eros auriga ha nell’arte funeraria antica, cfr. f.
cumont, Recherches sur le symbolisme funéraire des Romains, Paris
1942, p. 348. C. Picard segnala il genio alato sulla biga nel tholos di
Kazanlak (Bulgaria) in «Revue d’histoire des religions», 1947-48, pp.
113 sgg.
32
Un esemplare proveniente dalla raccolta di Paolo II (dunque
acquistato nel 1471) compare in un inventario della collezione di Lorenzo: seymor de ricci, The Gustave Dreyfus Collection, Reliefs and Plaquettes, London 1931, p. 30 (tav. xiv, n. 27); una serie di gemme è citata da gori, Museum florentinum, vol. II, tav. lxx, fig. 2.
33
È la doppia interpretazione di p. schubring, Die italienische Plastik des Quattrocento, Berlin 1919, p. 125: «Nei rilievi laterali del basamento sono raffigurati Ercole vincitore del leone e la salita al cielo di
Elia».
34
seymour de ricci, The Gustave Dreyfus Collection, Reliefs and Plaquettes, London 1931, p. 30; g. f. hill, A corpus of italian medals ol
the Renaissance before Cellini, London 1930, n. 563, 5, 6.
35
Cfr. Marsile Ficin et l’art cit., int. 3 e parte II, cap. I.
36
j. pope-hennessy, The Virgin and Child by Agostino di Duccio, Victoria and Albert Museum Monograph, n. 6, London 1952, p. 15; il medaglione è avvicinato a una moneta d’argento di Gerone II di Siracusa.
37
Cfr. piú avanti.
38
w. von bode, Denkmäler der Renaissance-Skulptur Toscanas, München 1892, tav. cxxxiv a, l’ha per primo considerato come il busto del
figlio del Gattamelata, Antonio da Narni, eseguito da Donatello a
Padova verso il 1443. La data, l’attribuzione e l’identificazione del personaggio non sono attualmente piú accettati. Il catalogo della «Exposition de l’art italien» di Parigi del 1935 fornisce la bibliografia fino a
tale data e le diverse attribuzioni senza però arrivare a una conclusione. j. lanyi, Problemi della critica donatelliana, ne «La critica d’arte»,
xix (1939), pp. 9-23, istituisce un lungo confronto tra questo busto e
il busto di San Rossore, la cui immediatezza gli sembra inconciliabile
Storia dell’arte Einaudi
127
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
con «l’estetismo» del busto del Bargello. Le sue conclusioni sono accolte da l. planiscig, Donatello, Firenze 1947. Anche noi le abbiamo
accettate in una breve nota apparsa in «Proporzioni», III (1950), pp.
73-74. Ma h. w. janson, The sculpture of Donatello, Princeton 1957,
pp. 141-43, conserva l’attribuzione a Donatello e la datazione intorno
al 1440.
39
Come suggerisce it. wittkower, A symbol of platonic love in a
portrait buste by Donatello, in «jwci», vol. I (1937-38), pp. 260-61. Il
Fedro era stato tradotto da Leonardo Bruni nel 1424; la prefazione del
cancelliere (h. baron, Leonardo Bruni Aretinos humanistisch-philosophischen Schriften, Leipzig 1928, pp. 125-28), a differenza del Convito del Ficino, non ha avuto risonanze estetiche.
40
Le attribuzioni di a. schmarsow, in «Repertorium fur Kunstwissenschaft», xii (1889), p. 206 e di m. semrau, Donatellos Kanzeln
in San Lorenzo, Breslau 1891, p. 95, al ferrarese Niccolò Baroncelli sono
tutt’altro che convincenti.
41
m. ficino, In convivium Platonis sive de amore, VII, 14, versione
it. dello stesso Ficino (Firenze 1554), ed. Renzi, 1914, p. 151. De legibus, Dialogus secundus, M. F. argumentum, ed. platone, Opera, Venezia 1571, p. 435: «Aurigam pueritiae equis imponit (Plato), voluptatis
et doloris habenas manu tenentem. Um quidem aurigam virtutum scilicet quie primo pueris advenit, qua voluptas et amor dolorque et
odium per alienam rationem recte in animos influunt antequam ratione moveantur».
42
h. w. janson, The sculpture of Donatello cit., pp. 142-43 ha istituito parecchi accostamenti interessanti tra i cavalli dei medaglione e
i motivi analoghi che si riscontrano nel Gattamelata (tav. ccliii) e nel
Golia (tav. cclxviii); egli d’altronde considera il personaggio come
abbastanza vicino al San Daniele di Padova ad esempio (tav. cclxxxiv)
e ritorna cosí all’idea di un’opera eseguita intorno al 1440 e contemporanea dell’Atys (Bargello). È indubbio che il giovane dal cammeo
deriva dall’arte di Donatello ma con una stilizzazione, dei particolari
preziosi (come l’arricciatura dei capelli: cfr. tavv. ccxxxiv e ccxxxvi)
che sono troppo lontani dalla maniera del maestro. La data proposta
lascia perplessi; la voga del tema del «carro dell’anima» non comincia
che intorno al 1460.
43
c. yriarte, Livre de souvenirs de Maso de Bartolomeo (Masaccio),
Paris 1894, p. 35-37. Cfr. anche: a. foratti, I tondi nel cortile del Palazzo Riccardi a Firenze, in «L’arte», XX (1917), pp. 19-30, e g. pesce, I
tondi del Cortile di Palazzo Riccardi, in «Rivista del R. Istituto di
archeologia e storia dell’arte», Roma 1935, studi che rispecchiano l’incertezza circa l’attribuzione.
44
Nel palazzo Piccolomini di Pienza (1460-63) il cortile interno, che
sembra chiaramente ispirarsi a palazzo Medici, presenta, come questo,
Storia dell’arte Einaudi
128
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
una larga fascia sopra gli archi: alcuni segni della presenza di medaglioni
circolari sono ancora visibili ai lati del medaglione centrale che reca le
armi dei Piccolomini: J. BAUM, Baukunst und dekorative Plastik der
Frührenaissance in Italien, Stuttgaft 1926, tav. Cxx.
45
Sull’uso dei «bacini» o tondi di ceramica inseriti nelle facciate
delle chiese: e. biavati, Bacini di Pisa, in «Faenza», xxxiv (1948), pp.
51 sgg. Sui «tondi» antichi: j. m. c. toynbee, Roman medaillons, in
«Numismatic studies», v (New York 1944). Charles Picard fa notare
che l’origine del motivo è greca: altare di Priene (sec. iii), Heroon di
Calidonia (sec. ii).
46
a. von salis, Antike und Renaissance cit., p. 280. Secondo il
Picard quest’autore fa intervenire qui a torto gli oscilla (dischi liberi a
due facce) dei culti bacchici.
47
Nonostante le ipotesi di h. kauffmann, Donatello, Berlin 1936,
pp. 172 sgg., che vi vede una serie di allegorie di virtú medicee: il centauro della parete orientale che porta le «palle» ne sarebbe la chiave.
Ma, come ha fatto notare J. Lanyi, non si tratta che di un canestro di
frutta, e il «ciclo» mediceo non esiste: h. w. janson, The sculpture of
Donatello cit., p. 83.
48
e. kris, Meister und Meisterwerke ecc. cit., I, pp. 17 sgg. La storia dell’intaglio di Diomede in l. planiscig, Die Estensische Kunstsammlung, Wien 1919. È questa una ragione di piú per ritardare la
data dei medaglioni, dato che nel 1452 non si trovano tutti i modelli
nell’inventario di Cosimo: figurano invece tutti in quello di Lorenzo
del 1492.
49
e. dütschke, Antike Bildwerke cit., III, 10.
50
e. kris, Meister und Meisterwerke ecc. cit., p. 21; l. planiscig, Die
Estensische Kunstsammlung cit., p. 50.
51
p. d’ancona, La miniatura fiorentina, Firenze 1914.
52
Italian manuscripts in the Pierpoint Morgan Library, New York
1953, n. 71, tav. xlix.
53
Bibliothèque Nationale, Lat. 8834. l. delisle, Le cabinet des
manuscrits, Paris 1868, vol. I, 218. a. de hevesy, La bibliothèque du
roi Mathias Corvin, Paris 1923, tav. xxxiv
54
Il tipo di Diomede seduto che tiene il palladio, frequente nelle
gemme antiche (furtwängler, Die antiken Gemmen, nn. 19, 21, tav.
ix, nn. 1, 2, 4) si ritrova su placchette. La figura del cortile di palazzo Medici è stata anch’essa ripetuta nei manoscritti medicei e ha servito di esempio a uno degli «ignudi» di Michelangelo, quello a destra
sopra la Sibilla Eritrea. c. de tolnay, The Sistine Ceiling, Princeton
1945, p. 65.
55
K. Frey ha studiato sommariamente questo pezzo famoso a proposito del rilievo falsamente attribuito a Michelangelo: Quellen und Forschungen, vol. I, Berlin 1907, pp. 91 sgg.
Storia dell’arte Einaudi
129
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Testo in: l. ghiberti, I Commentarii, libro II, ed. cit., I, p. 47
(testo) e II, pp. 177-78 (commento). Cfr. j. von schlosser, Leben und
Meinungen ecc. cit., p. 212. L’Anonimo Magliabechiano, ed. K. Frey,
Berlin 1892, riporta il passo ghibertiano con molti errori (il bambino
diventa un putto, il «giovane» diventa «Giove»), che forse vanno
attribuiti a un intermediario; in ogni caso l’intaglio poteva essere ancora mal inteso agli inizi del Cinquecento.
57
j. von schlosser, Der Geist der ghibertinischen Kunst, in Leben und
Meinungen ecc. cit., p. 112, e soprattutto: Zwei antike Siegelsteine: der
Chalzedon des Niccolò Niccoli und der Karneol der Medici, ibid., pp. 16064. Il nome di Pyrgoteles, tratto da Plinio (Historia Naturalis, XXXVII, 4) è stato particolarmente caro alla fantasia dei quattrocentisti
prima di essere adottato da falsari come G. G. Lascari di Venezia. e.
kris, Meister und Meisterwerke ecc. cit., pp. 24 sgg. e w. von bode, Der
Bronze-Katalog (Museo di Berlino), n. 490.
58
vasari, ed. Milanesi, II, p. 235. La preziosa cornalina, che era
un intaglio e non, come si scrive spesso, un cammeo, è andata perduta. Una replica in bronzo si trova al museo di Berlino e questa sembra
riprodurre esattamente la montatura del Ghiberti e il pezzo in questione: j. von schlosser, Zwei antike Siegelsteine ecc. cit., p. 16, con
riproduzione, e e. kris, Meister und Meisterwerke ecc. cit., n. 28, tav.
p. 12.
59
Cosí sul fianco del sarcofago di San Paolo fuori le mura, citato
da h. marrou, Mousicÿj ¶nør, Etude de la vie intellectuelle figurant sur
les monuments romains, Grenoble 1937, n. 109, p. 108. Il repertorio
dei rilievi con Marsia si trova in c. robert, Die antiken Sarcophagreliefs, tomo III, vol. II, Berlin 1904, n. 196-216, tavv. lxiii-lxix. f.
cumont, Recherches sur le symbolisme funéraire des Romains, Paris
1942, pp. 28-30.
Oltre alla gara di Apollo e Marsia, che qui non ci interessa, l’arte
greco-romana ha rappresentato il Supplizio del Fauno impudente: 1) In
pittura: quadro di Zeusi ancora ricordato da Plinio (Naturalis Historia,
XXXV, 66) nel tempio della Concordia (ghiberti, I Commentarii, I, 2ª
ed. cit., p. 22, cita il passo, ma per un equivoco dovuto a una cattiva
lettura intende: un Marsia relegato al tempio); 2) Nella scultura monumentale: gruppo di Pergamo; 3) Nella toreutica; 4) Nell’arte funeraria.
Sul complesso, j. overbeck, Griechische Kunstmythologie, Leipzig 1887,
III, libro V (Apollo), cap. XII (Der musikalische Wettstreit mit Marsyas),
pp. 420-32. Nell’arte greca classica Marsia è già chiaramente la «personificazione del genio frigio» come mostra, a proposito del gruppo
Athena-Marsia di Mirone, c. picard, Manuel d’archéologie grecque, La
scuIpture, II (Ve siècle), vol. I, Paris 1939, p. 232.
60
vasari, ed. Milanesi, II, p. 407 (per Donatello) e II, pp. 366-67
(per Verrocchio). Sul restauro del Verrocchio e il suo significato, cfr.
56
Storia dell’arte Einaudi
130
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
w. r. valentiner, Der «rote Marsyas» des Verrocchio, in «Pantheon»,
xx (1937), pp. 329-34.
61
h. dütschke, Die antiken Marmorbildwerke der Uffizien in Florenz,
Leipzig 1878 (III vol. di Antike Bildwerke in Oberitalien), n. 549: lo
Scita e n. 169: il Marsia.
Sul gruppo ellenistico: c. picard, La sculpture antique (de Phidias à
l’ère byzantine), Paris 1926, pp. 253-54. Sull’altare d’Apollo (sec. i d.
C.) trovato ad Arles, il dio citaredo occupa il rilievo centrale e sui fianchi si vedono lo Scita e Marsia appeso per le braccia a una quercia; f.
benoit, Le musée lapidaire d’Arles, Paris 1936, pp. 28-29.
62
e. müntz, Histoire des arts cit., Paris 1889, vol. I, p. 257 e K.
Frey, ed. cit. dell’Anonimo Magliabechiano, pp. 275 sgg. hanno tracciato la storia del tema.
63
e. müntz, Les collections ecc. cit., p. 69. Si sa che Piero de’ Medici la portò con sé fuggendo da Firenze: id., Les précurseurs ecc. cit., p.
215.
64
e. kris, Meister und Meisterwerke ecc. cit., n. 30 (tav. p. 12), intaglio della Bibliothèque Nationale di Parigi. g. seymour de ricci, The
Gustave Dreyfus collection cit., n. 24, pp. 28-29, elenca le versioni
note. Sul n. 8 la scritta: «Prudentia, puritas et tertium quod ignoro».
65
c. gamba, Botticelli, trad. fr., Paris s. d., tav. cxiii (riproduzione). j. mesnil, Botticelli, Paris 1938, p. 220.
66
w. von bode, in«Jahrbuch der preussischen Kunstsammlungen»,
II, xii (1891), p. 167.
67
C’era la moda di portare dei cammei, come dice il vasari, ed.
Milanesi, V, p. 337 e come ricorda l. courajod nell’opuscolo Limitation et la contrefaçon des objets d’art antiques aux XVe, et XVIe siècles, Paris
1889.
68
Cod. hist. prof. 66 (Biblioteca di Vienna) vol. I: Philostratus,
Heroica, Icones, descritto in: Beschreibendes Verzeichnis der illuminierten Handschriften in Österreich (nuova serie a cura di J. Schlosser e H.
J. Hermann), VI, Die Handschriften und Inkunabeln der italienischen
Renaissance, vol. III: Mittelitalien: Toskana, Umbrien, Rom, Leipzig
1932, n. 25, pp. 101 sgg. e in particolare p. 105 n. 2. Su questa bella
pagina, una delle piú felici di Attavante, cfr. anche: p. d’ancona, La
miniatura fiorentina cit., II, p. 805 (n. 1592) e tav. xci, e infine: a. de
hevesy, La bibliothèque du roi Mathias Corvin cit., pp. 38 e 82 (n. 130)
e tav. xxxi.
69
e. müntz, op. cit., p. 257; mss Biblioteca Riccardiana.
70
Mostra della Biblioteca di Lorenzo, Firenze 1951, n. 90.
71
g. pico della mirandola, De genere dicendi philosophorum, testo
delle prime edizioni in e. garin, Filosofi italiani del Quattrocento, Firenze 1942, pp. 428-44, trad. it., ibid., p. 437.
72
Avendo f. bérence, A la recherche d’un mythe, in «Nouvelles
Storia dell’arte Einaudi
131
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
littéraires», 21 marzo 1946, presentato in modo un po’ generico il mito
di Marsia nel Rinascimento come la ricomparsa del mito antico di salvazione, p. renucci (Dante et le mythe de Marsyas, in «Bulletin de la
Société d’Etudes dantesques», 1949, pp. 1 sgg.) ha creduto di poter
affermare che l’immagine evocata all’inizio del Paradiso ha un valore
puramente decorativo; lo stesso autore sostiene in Dante, disciple et juge
du monde gréco-latin, Paris 1954, pp. 205-6 che il poeta vuole solo dire
che eviterà il folle orgoglio di Marsia e saprà sottomettersi «all’intelligenza celeste che si degnerà d’ispirarlo». L’interesse cosí palese del
poeta per gli «arcani della religione pagana» (sul quale A. Renaudet ha
attirato l’attenzione in Dante humaniste, Paris 1952) suggerisce di
ammettere il «senso mistico» sotto il «senso morale». Il mito comunque è stato inteso in questa forma completa dai neoplatonici quattrocenteschi, come dimostra il passo di Pico.
73
Ad esempio il cammeo in corniola del museo di Napoli, d’altronde
piú grande dell’intaglio mediceo; e. kris, Meister und Meisterwerke ecc.
cit., n. 29, e a. furtwängler, Die antiken Gemmen, Geschichte der
Steinschneidekunst im klassischen Altertum, Berlin 1900, tav. xlii, n. 28,
con commento, vol. II, pp. 201-2, illustrano le numerose varianti antiche che si trovano a Parigi, Londra, Pietroburgo.
74
Filarete, ed. cit., p. 658: «la corniuola del patriarcha [si tratta del
patriarca di Aquileia] che c’è tre figure degnissime quanto sia possibile a fare: uno inudo, leghato colle mani dirieto a uno arbore seccho; et
uno con uno certo strumento in mano con un poco di panno dal mezzo
in giú, et uno in ginocchioni».
75
e. kris, Meister und Meisterwerke ecc. cit., n. 68, tav. XIX. e.
molinier, Les plaquettes (catalogo ragionato), 2 voll., Paris 1886, nn.
2-6. Il n. 252 indica anche un Apollo e Marsia attribuito a Vlocrino;
analogamente nel catalogo del Victoria and Albert Museum del McLagan, London, ristampa del 1924, p. 27, tav. ix. Fra le imitazioni settentrionali: medaglione della tomba di G. Brivio (morto nel 1484), di
T. Cazzaniga e B. Briosco, nella chiesa di Sant’Eustorgio a Milano: cfr.
a. venturi, Storia dell’arte italiana, t. VI, Milano 1910, p. 912. Dall’Italia settentrionale il motivo è passato nelle Fiandre; il medaglione
figura in un Giudizio di Davide (o di Cambise) attribuito a Gérard
David (circa 1498) nel Museo di Bruges.
76
Museo del Louvre.
77
Supplement to the Catalogue of Italian drawings XIV-XV centuries,
in «The British Museum Quarterly», xvii (1952), 3, p. 61, tav. i (dove
il Marsia è erroneamente interpretato come «un Cristo seduto»).
78
Sulla stanza della Segnatura, come cappella platonica, cfr. piú
avanti.
79
a. von salis, Antike und Renaissance cit., p. 165. e. langenskjöld, Torso del Belvedere, in «Acta Archaelogica», I, Köbenhavn
Storia dell’arte Einaudi
132
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
1930, pp. 121-46, lo ricolloca in un gruppo Marsia-Olympos (che si
trova su gemme e a Ercolano), senza escludere un rapporto con la scena
Marsia-Apollo (con un rimando a una copia del nostro cammeo, p. 145).
80
h. weiszäcker, Michelangelo im Statuenhof des Belvedere, in «Jahrbuch der preussischen Kunstsammlungen», lxiv (1943), pp. 51 sgg.
81
a. von salis, Antike und Renaissance cit., p. 143. Il punto di partenza sarebbe stato il Marsia che si vede al Museo Torlonia, già galleria Giustiniani. Nel disegno di una torre poligonale a piú piani, Giuliano da Sangallo immagina sugli spigoli una corona di cariatidi che derivano la loro forma dai Marsia medicei: Cod. Barb. 4424 (Biblioteca
Vaticana), fol. 15 v. In uno studio di difficile datazione (forse circa
1540-50) di Francesco da Sangallo, Cod. Geymüller, fol. 27, 8° (Uffizi), il Marsia figura in una nicchia con un’iscrizione.
82
a. venturi, Storia dell’arte italiana cit., X, i.
83
Trovato da K. von Liphart a Firenze nel 1891, questo bassorilievo ovale di medie dimensioni (cm 40 x 30) è stato attribuito a
Michelangelo giovane da w. von bode nel suo articolo in «Jahrbuch der
preussischen Kunstsammlungen», xii (1891), ripreso poi in Florentinische Bildhauer der Renaissance, Berlin 1921, p. 318, per via dei suoi evidenti rapporti col cammeo mediceo; l’attribuzione è accettata con
riserva da h. thode, Michelangelo, t. II, vol. I, Berlin 1913, p. 74, decisamente sostenuta da h. mackowsky, Michelangelo’s first Sculpture, in
«The Burlington Magazine», vi (1928), pp. 165-70. k. key (1937) e c.
de tolnay, The youth of Michelangelo (2ª ed.) hanno dimostrato come
l’opera non possa essere attribuita a Michelangelo; si tratta del lavoro
di un dilettante degli anni 1520-30, che presenta tuttavia rapporti con
certe composizioni di Bertoldo.
84
La storia di Apollo e Marsia occupava tre riquadri «all’antica»
nella «loggetta» del Vaticano (c. 1520), la cui decorazione spetta a Giulio Romano; la scena del supplizio è andata perduta: d. redig de campos, Raffaello e Michelangelo, Roma 1946, p. 47.
85
p. gauricus, De sculptura, ed. H. Brockhaus, Leipzig 1886.
86
La bibliografia anteriore è raccolta in a. colasanti, Donatello,
Milano 1931, che fornisce anche un catalogo assai esteso e le attribuzioni tradizionali. Gli studi sull’artista sono entrati in una nuova fase
con le premesse critiche formulate da j. lanyi, Problemi della critica
donatelliana cit. e il catalogo severo di l. planiscig, Donatello, Wien
1939, ed. it., Firenze 1947. L’opera di H. W. Janson (1957) incorpora la parte essenziale del materiale lasciato da J. Lanyi.
87
O. siren, The importance of the antique to Donatello, in «American Journal of Archaeology», xviii (1914), pp. 138-61, enumera le principali opere dello scultore alla cui origine sta una vivace reazione a
esemplari antichi. Riferimenti piú precisi sono stati in seguito proposti parecchie volte, ad esempio quello al sarcofago di Pisa per la base
Storia dell’arte Einaudi
133
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
della Giuditta da g. de nicola, La Giuditta di Donatello, in «Rassegna
d’arte», iv (1917), pp. 153 sgg. e quello suggerito da F. Gebelin nell’introduzione all’album Donatello, Paris 1943, che ha provocato alcune osservazioni da parte di c. picard, Donatello et l’antique, in «Revue
archéologique», xxiii (1947), pp. 77-78.
88
e. panofsky, Der gefesselte Eros, in «Oud Holland», i (1923), pp.
193 sgg.; Studies in Iconology cit., pp. 126 sgg. Secondo il sanpaolesi,
La Sacristia vecchia di San Lorenzo, Pisa 1949, la decorazione della
cupola risalirebbe agli anni 1427-28 e non al 1435 e seguenti; sarebbe
cioè esattamente contemporanea alla costruzione terminata nel 1428.
h. w. janson, The sculpture of Donatello cit., mantiene le date 143443; i due amorini che lottano sono indicati a p. 135 come «quasi un
Eros e Anteros». La riserva non sembra necessaria.
89
h. kauffmann, Donatello, Berlin 1935, pp. 122-23; o. siren,
Toskanische Maler im Trecento, Berlin, 1922, p. 247.
90
l. planiscig, Donatello cit., pp. 89-90.
91
Ricostruzione di r. band, Donatellos Altar im Santo zu Padua, in
«Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», v (1940),
presentata da l. planiscig, Donatello cit., pp. 86-88, g. fiocco, Mantegna, Milano, tav. xlvii. Si vedono ancora al Museo di Padova frammenti
degli acroteri; elementi del fregio e delle colonne sono stati riutilizzati
nella chiesa (comunicazione del prof. Bettini). Una messa a punto completa in h. w. janson, The sculpture of Donatello cit., pp. 169 sgg.
92
f. gebelin, op. cit.: «Una simile confusione tra la madre di Dio
e la madre degli Dei costituisce una prova assai curiosa dell’influenza
esercitata su Donatello da Gemisto e dalla nascente accademia neoplatonica di Cosimo de Medici, che tendevano a collegare religione cristiana e mitologia greco-romana». h. w. janson, The sculpture of Donatello cit., p. 184 n. 11, respinge questa ipotesi come fantastica, ma
ammette che molti dettagli nella composizione sono all’antica (perché
non anche la corona merlata?) e cita Pico a proposito delle sfingi dei
montanti del trono (p. 185).
93
Come l’ha indicato h. w. janson, The sculpture of Donatello cit.,
p. 185. L’immagine della Caduta (Adamo ed Eva) è scolpita sul retro
del trono (tav. ccxcv a e b).
94
w. von bode, Versuche der Ausbildung des Genre in der florentiner
Plastik des Quattrocento, in «jb», ix (1890), ripreso in Florentiner
Bildhauer der Renaissance, Berlin 1921, cap. X.
95
a. chastel, Di mano dell’antico Prassitele cit., vol. II, pp. 26571. Cfr. anche h. w. janson, The sculpture ot Donatello cit., p. 125.
96
hahr, Donatellos Bronze-David und das praxitelische Erosmotiv, in
«Monatshefte für Kunstwissenschaft», v (1912), pp. 303-10. Si conoscono tre Eros di Prassitele, uno dei quali ricordato da callistrate,
Ecphr., 13; w. klein, Praxiteles, Leipzig 1898, p. 219.
Storia dell’arte Einaudi
134
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
h. marrou, Trois sarcophages romains, in «Revue archéologique»,
serie VI, 1931 pp. 163-65. f. cumont, Recherches ecc. cit., pp. 339 e 472.
98
e. kris, Meister und Meisterwerke ecc. cit., pp. 21-22. Il gruppo
compare in molti bordi miniati di Attavante: il piú notevole è quello
del messale di Thomas James, vescovo di Dol, fol. 6 v, datato 1483:
cfr. h. joly, Le missel d’Attavante pour Thomas James évêque de Dol, s.
l. né d. (Lyon 1932).
99
g. de nicola, La Giuditta di Donatello cit., indica le fonti romane.
100
c. picard, Dionysos Mutr’foroj, in Mélanges Glotz, Paris 1932,
vol. II, pp, 707 sgg.
101
h. semper, Donatello, p. 311; e. müntz, Les précurseurs ecc. cit.,
p. 241; h. w. janson, The sculpture of Donatello cit., p. 143.
102
h. w. janson, The sculpture of Donatello cit., p. 125 giunge a conclusioni analoghe sulla «danza» dei putti nella cantoria.
103
Theologia platonica, III, 1, Opera, p. 117; p. o. kristeller, The
philosophy ecc. cit., pp. 416 sgg.
104
l. b. alberti, Della pittura, ed. L. Mallé, pp. 96-97; r. krautheimer, Ghiberti cit., p. 327. Le porte del Battistero sono certamente
anteriori al 1443; è possibile che esse fossero in parte già composte negli
anni 1434-35. l. planiscig, Donatello cit., p. 74. Cfr. anche h. w. janson, The sculpture of Donatello cit., p. 136.
105
Questi rapporti sono stati rilevati in due brevi articoli di e. wind
e f. antal, The maenad under the Cross, in «jwci», i (1937-38), pp. 7073, a proposito di un disegno dello scultore fiorentino Baccio Bandinelli (Ecole des Beaux-Arts): la esagitata Maddalena del disegnatore
manierista si ricollega per l’appunto alla «menade» cristiana di Bertoldo
e Donatello.
106
Le antiche attribuzioni al Verrocchio o al Pollaiolo non sono piú
sostenibili: a. s. weller, Francesco di Giorgio, Chicago 1943, pp. 15455. e. panofsky, Das Discordia-Relief im Victoria and Albert Museum.
Ein Interpretations versuch, in «Belvedere», V (1924), pp. 189 sgg.
Secondo p. schubring, Die Plastik Sienas im Quattrocento, Berlin 1917,
p. 188, si tratterebbe delle nozze di Piritoo e Ippodamia, interpretazione che risponde alla scena ancor meno dell’ipotesi che si tratti di
Licurgo.
107
Cfr. a. hind, Early italian engravings, A, II, 26. j. g. phillips,
Early florentine designers and engravers, Cambridge (Mass.), 1955, p. 54,
per la datazione precoce.
108
Cfr. in particolare il disegno botticelliano pubblicato da b. berenson, The Drawings of the Florentine Painters, 572, fig. 199. Cfr. piú
avanti, III.
109
Su questo punto: h. horne, Botticelli cit., p. 83. Abbiamo l’indicazione precisa e valida del Vasari: «Il detto Lorenzo de’ Medici fu
primo inventore di quelle mascherate che rappresentano alcuna cosa,
97
Storia dell’arte Einaudi
135
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
e sono dette a Firenze canti, non si trovando che prima ne fussero state
fatte in altri tempi» (Vita del Granacci, ed. C. L. Ragghianti, II, 492).
Il Granacci, nato nel 1469, era uno degli autori di questi carri a soggetto che il Vasari (Vita di Piero di Cosimo, ibid., II, 51) chiama «trionfi». In mancanza di una data precisa, si possono collocare i primi intorno al 1480, gli ultimi intorno al 1490. La loro ricomparsa nel 1511 e
poi nel 1515 fu considerata come il segno di un «ritorno ai Medici»
(cfr. piú sopra, introduzione). Nell’adattamento in cinque atti, ad
opera del Tebaldeo (1490), l’Orfeo del Poliziano, divenuto Rappresentazione di Orfeo e di Euridice, comprende un Baccanale con galoppata
di centauri. i. del lungo, Florentia cit., pp. 284, 349; la data 1471 deve
essere corretta in 1480 come afferma G. B. Picotti.
110
b. degenhart, Michele Giovanni di Bartolo: disegni dall’antico e
il camino della «Jole», in «Bollettino d’arte», xxxv (1950), pp. 208 sgg.
p. rotondi, Il palazzo ducale d’Urbino, 2 voll., Urbino 1950, p. 477,
n. 266 respinge l’attribuzione dei disegni a Michele Giovanni di Bartolo che è piú vicino all’ambiente riminese di quanto non sia l’autore
del fregio.
111
Ispirato da ovidio, Fasti, III, 725 sgg.; e. panofsky, Studies in
Iconology cit., cap. I.
112
g. f. hartlaub, Francesco di Giorgio und seine Allegorie der Seele,
in «jb», lxi (1939), 4, pp. 197-211.
113
Cfr. piú avanti.
114
a. sabatini, Antonio e Piero del Pollaiuolo, Firenze 1944, pp. 32
sgg.; b. berenson, The Drawings of the Florentine Painters, 2a ed., Chicago 1938, vol. I, p. 24. Gli affreschi non sono stati rimessi in luce che
alla fine del secolo scorso (1897): cfr. mary logan, in «Chronique des
Arts», 1897, pp. 343-44, e c. carnesecchi, in «Arte e storia», xix
(1900), p. 64.
115
c. carocci, Dintorni di Firenze, Firenze 1881, p. 239. Il Ficino
ricorda Jacobus Lanfredinus in parecchie lettere, Opera, pp. 761, 835,
e nomina Antonio fra i suoi allievi, p. 937. gaye (I, p. 341) ha pubblicato una celebre lettera di Lorenzo a Giovanni Lanfredini, allora
ambasciatore presso il Vaticano, del 12 novembre 1489, in cui si parla
di conversazioni con Antonio Pollaiolo (che, come ha già accertato l.
d. ettlinger, Pollaiuol’s Tomb of Sixtus IV cit., non riguardano verosimilmente la tomba di Sisto IV); per l’ammirazione di Lorenzo per l’artista, cfr. piú sopra, introduzione.
116
f. r. shapley, A student of ancient ceramics, Antonio Pollaiuolo,
in «The Art Bulletin», II (1919), pp. 78-86.
117
m. pallottino, Tarquinia, Roma 1937, e La peinture étrusque,
Genève 1952, pp. 45, 53, 76.
118
e. müntz, Les précurseurs ecc. cit., p. 136; a. chastel, Marsile
Ficin et l’art cit., p. 38 n. 64.
Storia dell’arte Einaudi
136
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
c. promis, Dell’antica città di Luni, Massa 1857.
nannucci, Manuale del primo secolo della letteratura italiana,
Firenze 1858, t. III, p. 201. j. von schlosser, Über einige Antiken Ghibertis, in «Jahrbuch der Kunsthist. Sammlungen des All. Kaiserhauses»,
xxiv (Wien 1903), pp. 125 sgg., ripreso in Leben und Meinungen ecc.
cit., III.
121
a. hind, Early Italian Engraving cit., vol. I, London 1938. m.
salmi, Riflessioni su Paolo Uccello, in «Commentari», i (1950), pp.
29 sgg.
122
plinio, Naturalis Historia, XXXV, 67-69. Cfr. r. bianchi bandinelli, Piccoli problemi da risolvere, I, Parrasio: linea, spazio, volume,
in «Critica d’arte», III (1938), n. 13, pp. 4 sgg.; c. l. ragghianti, Storia d’un problema critico, in Commenti di critica d’arte, Bari 1946, pp.
174 sgg.
123
alberti, Della pittura, ed. Mallé, Firenze 1952, p. 78 (dove la
nota 1 ci sembra discutibile); a. chastel, Marsile Ficin et l’art cit., p.
187 n. 25. Sui testi antichi che tenevano vivo il ricordo dell’Etruria:
g. buonamici, Fonti di storia etrusca tratte dagli autori classici, Firenze
1939.
124
e. müntz, Les collections ecc. cit., p. 57.
125
vasari, ed. C. L. Ragghianti, I, p. 715. Gentile fu nominato alla
sede d’Arezzo nel 1475; Giorgio Vasari morí nel 1482.
126
Cosí gori, Storia antiquaria etrusca, Firenze 1749, p. cxcviii, a
proposito di una statua trovata a Pistoia e subito portata a Lorenzo.
127
vasari, Introduzione alle tre arti: della scultura, cap. X: «Di questa sorte se n’è visto ne’ vasi antichi aretini assai figure, maschere, ed
altre storie antiche, e similmente nei cammei antichi e nelle monete».
128
c. a. milani, Il R. Museo Archeologico di Firenze, Firenze 1912,
p. 234; Catalogo della Mostra dell’arte e della civiltà etrusca, Milano
1955, n. 33; Art et civilisation des Etrusques, Paris 1955, n. 260.
129
Ad esempio il Putto col tamburello (Berlino), l. planiscig, Donatello cit., tav. liii, e il giovane danzatore che funge da ansa in un vaso
di bronzo: Mostra dell’arte e della civiltà etrusca, n. 351, ma questo è
soprattutto vicino, nel movimento delle gambe a un Orfeo di Bertoldo: w. von bode, op. cit., p. 92.
130
r. bloch, Le mystère étrusque, Paris 1956, p. 114, accosta la testa
del San Giorgio alla Testa Malvolta di Veio. h. w. janson, The sculpture of Donatello cit., p. 146 accosta certe divinità alate etrusche all’Atys.
131
f. weege, Etruskische Malerei, Halle-Saale 1921, cap. VI. L’autore si chiede se questo palazzo di Corythus non sia la sala rimessa in
luce ai tempi d’Innocenzo VIII, ricordata dal Dennis e incisa nel secolo xviii col nome di «tomba della Mercareccia».
132
p. ducati, La ricerca archeologica dell’Etruria, cenni storici, in
«Atene e Roma», xvi (1913), pp. 277-305.
119
120
Storia dell’arte Einaudi
137
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
e. petersen, Eine antike Vorlage Michelangelos, in «Zeitschrift
für bildende Kunst», lxi (1898), p. 294, ripreso da F. Weege. Il disegno, che si trova fra altri schizzi tra cui un profilo femminile, è stato
pubblicato da k. frey, Die Dichtungen des M. A., Berlin 1897, p. 385,
che inclina a vedervi un autoritratto di fronte a Vittoria Colonna. l.
goldscheider, Michelangelo’s Drawings, London 1951, p. 177 n. 13,
ha contestato l’attribuzione (il disegno sarebbe di Raffaello da Montelupo) e l’interpretazione: egli ha probabilmente ragione sul secondo
punto, ma non sul primo, dato che il disegno si trova su una pagina di
poesie (cod. XIII, foll. 4-6) e non può essere che di Michelangelo.
134
Uffizi, Disegni architettonici, n. 335, V; cfr. w. bome, Chiusi, in
«Der Cicerone», 11 (1910), pp. 124-25; a. s. weller, Francesco di
Giorgio ecc. cit., p. 267.
135
Tutte le citazioni in italiano del De re aedificatoria sono tratte
dalla classica traduzione di Cosimo Bartoli, I dieci Libri de l’Architettura, Firenze, 1550 [N.d.R].
136
filarete, Traktat über die Baukunst, ed. W. von Oettingen,
Wien 1890, pp. 61 e 180; è plinio, Naturalis Historia, XXXVI , 13,
che cita Varrone. Gli architetti piú ricchi di fantasia della fine del xviii
secolo s’interesseranno alla tomba favolosa: e. kauffmann, J. J.
Lequeu, in «The Art Bulletin», xxxi (1949), p. 130, fig. 10.
137
vasari, Proemio delle Vite, ed. Milanesi, I, p. 220; il labirinto di
Porsenna deve essere cercato fra le tombe circolari di Vetulonia (resti
al Museo archeologico di Firenze).
138
vasari, Vita di Andrea da Monte S. Savino, ed. C. L. Ragghianti, II, p. 227.
139
e. panofsky, The early history of man in two cycles of paintings by
Piero di Cosimo, in Studies in Iconology, New York 1939, p. 52, n. 55.
140
Cfr. piú avanti.
141
Cfr. piú avanti.
142
g. calvi, Abbozzo di un capitolo introduttivo ad una storia della
vita e delle opere di Leonardo da Vinci, in «Raccolta vinciana», xiii
(1928-29), pp. 6-7.
143
Sul sorriso, cfr. piú avanti.
144
Come, ad esempio: Mostra dell’arte e della civiltà etrusca, n. 297.
145
l. planiscig, Verrocchio, Wien 1941, tavv. xxxvii e xxxix.
146
Louvre, n. 2386 (Vallardi, 182), pubblicato e commentato da j.
p. richter, The literary works of Leonardo da Vinci, 2ª ed., London
1939, vol. II, tav. XCVIII e pp. 44-45; a. sartoris, Léonard architecte, Paris 1952, p. 120. Sono contrari all’attribuzione a Leonardo, a.
venturi, «L’arte», xlii (1939), pp. 167-73, c a. s. weller, Francesco
di Giorgio, Chicago 1943, p. 276, n. 115.
147
Cfr. f. saxl, Lectures, London 1957, vol. I, pp. 200 sgg.; cfr.
anche piú avanti.
133
Storia dell’arte Einaudi
138
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
poliziano, Epistolarum Libri XII, libro I, lettera 2. Si trovano per
contro numerose indicazioni mitiche sul periodo anteriore ad Enea,
cioè preromano, dell’Italia in F. Villani (circa 1381-82): g. calò, Filippo Villani e il libro de origine civitatis florentiae, Rocca San Casciano
1904, pp. 91 sgg.
149
h. janitschek, Das Capitolinische Theater von Jahre 1513, in
«Repertorium für Kunstwissenschaft», v (1882), pp. 259 sgg. Le relazioni antiche sono state ripubblicate: quella di p. palliolo fanese., Le
feste per conferimento del patriziato a Giuliano e Lorenzo de Medici, dal
Guerrini (Bologna 1885) e quella di M. A. Altieri da L. Pasqualucci
(Roma 1881). Il Vasari ricorda i pannelli dipinti e soprattutto la «prospettiva ovvero scena di una commedia» (ed. Milanesi, IV, p. 595, ed.
C. L. Ragghianti, II, p. 257).
150
Il promotore di questa «etruscologia» destinata a esaltare l’importanza nell’antichità di Viterbo era stato Fra Giovanni Nanni l’umanista autore di falsi piú noto della fine del xv secolo: k. giehlow,
Die Hieroglyphenkunde des Humanismus in der Allegorie der Renaissance, in «jw», xxxii (1915), p. 40; cfr. piú avanti.
151
«Hi rem thyreniam ita auxere ut non Italiam modo possiderent
sed maritima etiam ditione potiti Thyrreniam a se dicerent et quasi orbi
terrarum jura darent nomenque aeternum gentibus nationibusque
relinquerent» (vol. VI), citato da g. signorelli, Il Card. Egidio da
Viterbo, agostiniano, umanista e riformatore (1469-1532), Firenze 1929,
cap. XI e p. 213 n. 21.
152
g. signorelli, Il Card. Egidio da Viterbo ecc. cit., pp. 115 e 214
n. 24. Altre affermazioni concordanti (1502) sulla «scienza religiosa»
degli etruschi, sono citate a p. 133 n. 45. Sul platonismo entusiasta di
Egidio da Viterbo cfr. e. garin, La filosofia, Milano 1947, vol. I, pp.
328-29.
153
L’«ipertoscanesimo» degli eruditi del Settecento li porterà a
riprendere questi temi rinascimentali: cosí g. lami, Lezioni di antichità
toscane, Firenze 1766, vol. I, afferma nella terza lezione l’origine etrusca del Tempio di Marte e, nella sesta lezione, l’idea che le architetture antiche di Firenze «non erano riscontri per provare o arguire che
la Città fosse stata da Romani edificata, ma che anzi confermavano la
mia opinione che ella fosse veramente d’origine etrusca». Questo varrebbe soprattutto per le torri, «...alcune porzioni, o pezzi o reliquie di
certe Torri, le quali in Firenze ancor fin oggi sussistono, mostrano d’essere etrusche o di etrusca architettura».
154
valori, Laurentii Medices Vita cit., p. 17: «Platonis imaginem diu
multumque desideraverat. Hunc tandem in ipsis Academiae ruinis
repertam quum a Hieronymo Roscio Pistoriensi accepisset, gaudio
exultavit»; e. müntz, Les précurseurs ecc. cit., p. 168; r. marcel, Marsile Ficin, Paris 1958, p. 294.
148
Storia dell’arte Einaudi
139
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Cfr. a. della torre, Storia, p. 640 n. 3. Il testo della Vita Hieronymi Savonarolae attribuita a Fr. Burlamacchi, Lucca 1761, p. 77, che
è la fonte della leggenda è riprodotto in Supplementum ficinianum, II,
p. 223: «Marsilio Ficino, Canonico del Duomo, che di continuo tenea
una lampada accesa dinanzi all’immagine di Platone, tanto li era affezionato». Questa affermazione si trova in un passo che ricorda l’azione del Ficino contro il Domenicano; la critica del passo è stata compiuta da p. o. kristeller, Per la biografia di Marsilio Ficino, in «Studies», pp. 191 sgg.
156
Sul busto di Silanione, c. picard, Manuel ecc. cit., III (iv secolo), vol. II, Paris 1948, pp. 814-829. La questione è stata oggetto di
numerose messe a punto; le piú recenti sono quelle di r. boehringer,
Das Antlitz des Genius, Platon, Bildnisse und Nachweise, Breslau 1935,
e di k. schefold, Die Bildnisse der antiken Dichter, Redner, und Denker,
Basel 1943, che osserva (p. 36): «è profondamente significativo che il
primo ritratto del nuovo stile sia quello di Socrate che, secondo una
suggestiva ipotesi proveniente dalla cerchia di Platone, gli fu consacrato
in occasione della fondazione dell’Accademia. Cosí il capolavoro del
nuovo stile doveva necessariamente essere l’immagine di Platone».
157
La prima tappa risulta da p. bellori, Imagines veterum illustrium
philosophorum, poetarum, rhetorum ac oratorum, Roma 1686, p. 27. Cfr.
gori, Historia glyptografica praestantiorum sculptorum..., Firenze 1767,
p. xcix. Mal si comprende perché l’Orsini non l’abbia riprodotto nelle
sue Imagines et elogia illustrium..., Roma 1570 (con incisioni del Lafréri) anziché riprodurre una gemma.
158
Sulla prima: j. j. bernoulli, Griechische Ikonographie mit Einschluss Alexanders und der Diadochen, München 1901, t. II, pp. 18 sgg.
(riprod. n. 2, p. 21). Sulla seconda: h. dütschke, Die antiken Marmorbildwerke ecc. cit., t. III, n. 393.
159
f. poulsen, Greek and roman portraits in english houses, Oxford
1923, p. 33. j. j. bernoulli, Griechische Ikonographie ecc. cit., pp.
18 sgg.
160
Stando a un epigramma di Plinio. Anche a. keller, Portraits antiques, Paris 1913, trova la testa di Silanione troppo astratta (p. xxiv) e
piú convincente invece l’erma di Platone (Vaticano) e una testa a Copenaghen, tavv. xxii e xxiii.
161
La «vita di Platone» (con oroscopo) nell’epistola a Bandini,
Opera, pp. 763 sgg.; il Ficino aggiunge: «Conatus sum... ideam philosophi platonicis coloribus pingere. Verum si Platonem ipsum in medium
adduxissem ideam ipsam veri philosophi digitis ostendissem», mettendo il ritratto in rapporto con l’idea del saggio. La medaglia del Ficino non reca che l’iscrizione: «Platone» (Marsile Ficin et l’art cit., III,
conclusione, n. 31).
162
a. della torre, Storia, p. 687.
155
Storia dell’arte Einaudi
140
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Convivio, IV, 24. Su questi 81 anni (9 x 9) di Platone, saggio perfetto, cfr. j. bidez, Platon et l’Orient, Bruxelles 1945, cap. I, pp. 1 sgg.
164
f. studniczka, Das Bildnis des Aristoteles, Leipzig 1900, e l. planiscig, Manuele Crisolora trasformato in Aristotele, ne «La Rinascita»,
iv (1941), pp. 218-26. Il tipo è già abbozzato con il Salomone della
porta del Paradiso (1440), come ha notato l. goldscheider, Léonard
de Vinci, ed. fr., Paris 1948, p. 22.
165
l. courajod, L’imitation et la contrefaçon ecc. cit.; e. molinier,
Les plaquettes cit.; g. seymour de ricci, The Gustave Dreyfus collection
cit., p. 4 n. 2, ne cita un bell’esemplare considerato come «fiorentino».
Il tipo sarà ripreso nelle illustrazioni della bizzarra Civitas veri del fiorentino Bartolomeo Del Bene, scritta prima del 1585 e pubblicata a
Parigi nel 1609. f. a. yates, The french Academies ecc. cit., tav. viii,
pp. 11 sgg.
166
Cfr. piú avanti, conclusione. Il culto di Platone fa la sua comparsa anche nell’Italia del Nord; esiste una statua di Platone nel cortile dell’Ambrosiana, firmata e datata 1470 da Gabriele da Rho, scultore milanese: a. venturi, Storia dell’arte ecc. cit., vol. VI, Roma 1908, p. 908.
167
C. 1475, attribuzione probabile al Berruguete, cfr. piú avanti.
168
Cfr. piú avanti.
169
a. della torre, Storia, pp. 622-24.
170
Cfr. piú avanti.
171
r. klibansky, The continuity of the platonic tradition during the
middle ages, London 1939.
172
Su questo Platone-Leonardo, cfr. piú avanti.
173
Il vasari, ed. Milanesi, II, p. 431, lo cita come «il fedele imitatore» di Donatello, e, VII, p. 141, come il «maestro» di Michelangelo: cosa che non si può piú sostenere: cfr. piú sopra, l’introduzione. L’opera già citata di w. von bode, Bertoldo und Lorenzo de’ Medici (1925),
ha giustamente sottoposto a critica i giudizi anteriori sullo scultore, ma
la ricostruzione dell’opera da lui tentata è lungi dal riuscire convincente
e il problema rimane aperto.
174
w. von bode, Bertoldo ecc. cit., p. 38. Bertoldo ha fuso un gran
numero di medaglie per i componenti la cerchia medicea. Su questo
aspetto dell’opera di Bertoldo cfr. g. hebich, Die Medaillen der italienischen Renaissance, Stuttgart 1922.
175
l. planiscig, Venezianische Bildhauer der Renaissance, Wien 1922.
Tuttavia c’è un testimone imbarazzante dei legami tra Firenze e il Nord
ed è lo «specchio Martelli» (cfr. piú avanti, II, introduzione), le cui
principali figure derivano da intagli medicei, ma il cui stile arcaizzante e la cui esecuzione rimandano piuttosto agli inizi del xvi secolo e
all’Italia del Nord.
176
Nel secolo scorso la placchetta di san Gerolamo (collezione
Duveen), i medaglioni con busti di santi (ibid.), il ritratto-medaglia di
163
Storia dell’arte Einaudi
141
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Federico di Montefeltro, con sul retro Bellerofonte e la Chimera, che
sono di Francesco di Giorgio, sono stati regolarmente attribuiti a Bertoldo: a. s. weller, Francesco di Giorgio cit., pp. 143, 163, 171.
177
e. molinier, Les plaquettes cit.
178
w. von bode, Bertoldo ecc. cit., pp. 38 sgg.
179
Questa placchetta ha avuto una certa diffusione: è stata parzialmente utilizzata nel bassorilievo di destra inserito dal Carpaccio
nella parete del palazzo dove si svolge la scena del Ritorno degli ambasciatori (nel Ciclo di Sant’Orsola, 1490-95): p. paoletti, L’architettura e la scultura del Rinascimento in Venezia, Venezia 1893, p. 272 e tav.
cxl fig. 9; Le Gallerie dell’Accademia di Venezia, catalogo, Venezia
1949, n. 574, p. 36.
180
L’origine della favola è in teocrito, IX, XV, dove gli erotes sono
degli uccelli. L’idea è stata ripresa nella poesia cortese e, ad esempio,
da G. de Machaut (Dit du vergier): cfr. e. koechlin, Le dieu d’amour
et le château d’amour sur les ivoires, in «Gazette des Beaux-Arts», lxiii
(1921), pp. 279-97. j. von schlosser, Die Wandgemälde aus Schloss
Lichtenberg in Tirol, Wien 1916, p. 23, segnala un affresco in cui l’albero reca rose e falli.
181
Cfr. piú sopra e piú avanti.
182
Cfr. piú sopra; w. von bode, Bertoldo ecc. cit., pp. 113 sgg.
183
Opera, p. 675; Marsile Ficin et l’art cit., pp. 45-46, e piú avanti.
184
e. panofsky e f. saxl, Classical mythology in mediaeval art, in
«Metropolitan Museum Studies», iv (1932-33), pp. 270 sgg.; j. seznec,
La survivance des dieux antiques, London 1940, trad. ingl., New York
1953, pp. 184 sgg.; e. panofsky, Iconography and Iconology: an introduction to the study of Renaissance art, in Meaning in the visual arts, Garden City 1955, pp. 26-54 (trad. it., Il significato nelle arti visive, Torino 1962, pp. 29-57).
185
L’unica serie di manoscritti astrologici che abbia recato immagini delle divinità planetarie fedeli al tipo antico, è quella di Arato: Poggio ne vide un esemplare; copie ne furono eseguite per Federico d’Urbino, per Lorenzo e per Ferdinando d’Aragona: j. seznec, La survivance
des dieux antiques, London 1940, trad. ingl. 1953, p. 184
186
a. condivi, Vita di Michelangelo, ed. P. D’Ancona, Milano 1928,
§ VII; vasari, VII, p. 142; c. de tolnay, The youth of Michelangelo
cit., p. 195. Sull’interesse di queste maschere espressive: k. borinski,
Die Rätsel Michelangelos, München 1908, pp. 163 sgg.
187
L’aneddoto delle copie di disegni antichi in condivi, 4; del Cupido venduto per antico ibid., 18: c. de tolnay, The youth of Michelangelo cit., pp. 65 e 201. Sui disegni: l. goldscheider, Michelangelo’s
drawings, London 1951. Sulla strana indulgenza del Rinascimento per
i falsi antichi, o. kurz, Fakes, London 1948, pp. 116 sgg. (trad. it., Falsi
e falsari, Venezia 1960).
Storia dell’arte Einaudi
142
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
f. wickhoff, Die Antike im Bildungsgange Michelangelos, in «Mitteilungen des Instituts für Oesterreichische Geschichtsforschung», ii
(1882), pp. 408 sgg. r. lanckoronska, Antike Elemente im Bacchus
Michelangelos und in seinen Dartsellungen des David, in «Dawna Sztuka»,
i (1938), pp. 183 sgg. a. hekler, Michelangelo und die Antike, in «Wiener Jahrbuch für Kunstgeschichte», vii (1930), pp. 201 sgg., e c. de
tolnay, The youth of Michelangelo cit. Talvolta si scambiano per fonti
quelle che sono semplicemente imitazioni piú o meno tarde d’opere
moderne: a. grunwald, Über einige Werke Michelangelos in ihrem
Verhaltnis zur Antike, in «jw», xxii (1908), pp. 133 sgg. ha indicato una
gemma rappresentante Orfeo (Vienna) come fonte di uno degli «ignudi» della volta della Sistina; interpretazione accettata da a. von salis,
Antike und Renaissance cit., p. 182. Ma e. kris, Meister und Meisterwerke ecc. cit., p. 49 n. 13 ha dimostrato in modo assai convincente che si tratta di un intaglio di Valerio Belli derivato dalla figura di
Michelangelo. f. eichler e e. kris, Die Kameen in dem Kunsthistorischen Museum, Wien 1927, hanno mostrato quanto sia difficile, se non
impossibile, la discriminazione tra pezzi antichi e pezzi antichizzanti
nel campo della glittica.
189
Fu da questi incontri che nacque in Michelangelo quel gusto per
la poesia che gli sarebbe poi sempre rimasto; ci sono pervenute purtroppo solo pochissime poesie della giovinezza. In quella che comincia:
«Nuovo piacere e di maggiore stima...» e che si deve attribuire agli anni
1506-508, si trova un elogio della vita rustica assai vicino alla poesia
del Poliziano e a quella di Lorenzo. Il paesaggio è convenzionale, ma
animato da allegorie, da figure simboliche: l’Avarizia, l’Adulazione...,
il Dubbio... e tra queste alcune sono disegnate con energia: il Dubbio
simile a una cavalletta, il Perché coperto di chiavi...: k. frey, Die Dichtungen des Michelagniolo cit., n. clxiii, pp. 249 sgg., la data assai tardi
(c. 1555). c. de tolnay, The youth of Michelangelo cit., p. 54 n. 81,
propone giustamente di anticiparla di mezzo secolo.
190
condivi, cap. X. Il Condivi si sbaglia parlando del ratto di Deianira, e il Vasari intitolando il rilievo Ercole e i Centauri: cfr. c. de tolnay, The youth of Michelangelo cit., pp. 133-34. La fonte è certamente Ovidio e non c’è ragione di trascurare l’intervento del Poliziano.
191
p. schubring, Cassoni, Leipzig 1915, n. 385. e. panofsky, Studies in Iconology cit., p. 51, n. 4, ha notato: 1) che la tavola appartiene a un complesso diverso dalla serie della «storia primitiva» e 2) che
non è senza rapporti con il rilievo di Michelangelo; cfr. martin davies,
The earlier italian school (National Gallery), pp. 328-30.
192
j. wilde, Eine Studie Michelangelos nach der Antike, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», iv (1932), pp. 41
sgg. È noto che Giuliano da Sangallo portò, nel 1488, da Napoli un
Cupido dormiente in marmo come dono di Ferdinando a Lorenzo de’
188
Storia dell’arte Einaudi
143
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Medici: vasari, ed. Milanesi, IV, p. 473. È un’opera tardo-antica di
cui sono state segnalate parecchie versioni: j. wilde, Eine Studie Michelangelos ecc. cit., p. 53. Ma è certo quello delle collezioni medicee che
ha fornito il tema a Michelangelo per il Cupido in marmo delle collezioni estensi (1496, perduto), che per breve tempo passò per antico, e
per il particolare di destra del disegno degli «Arceri» (c. 1530: c. de
tolnay, The youth of Michelangelo cit., p. 202). Sull’Ercole (1492-93,
perduto), ibid., pp. 197-98.
193
vasari, ed. Milanesi, VII; sulle ipotesi circa le «fonti»: c. de tolnay, The youth of Michelangelo cit., pp. 127 sgg.
194
Il rilievo della battaglia non ha nessuna «fonte» precisa, ma molte
analogie con pezzi noti: c. de tolnay, The youth of Michelangelo cit.,
p. 134. Un curioso aneddoto mostra l’interesse spontaneo dell’artista
per tutte le forme d’espressione: una sera si divertí, sembra, con degli
amici pittori «a chi faceva una figura, che non avesse niente di disegno, che fusse goffa, simile a quei fantocci che fanno coloro, che non
sanno, ed imbrattano le mura» (ed. C. L. Ragghianti, III, p. 513)
195
vasari, ed. Milanesi, VII, p. 210.
Storia dell’arte Einaudi
144
Sezione seconda i testi
Introduzione
Le pubblicazioni dell’Accademia di Careggi
Uno degli aspetti nuovi dell’umanesimo fiorentino
all’epoca di Lorenzo fu di andar oltre sia la tradizione
morale della scuola del Salutati che la consuetudine scolastica. La traduzione e il commento dei filosofi greci gli
assicurarono un punto di partenza nuovo. La versione
integrale di Platone in latino, compiuta nel 1484, e quella di Plotino, compiuta nel 1492, resero celebre il Ficino in tutta Europa; le lezioni del Poliziano allo Studio
(1482-92), dedicate a Omero, Esiodo o Aristotele, fecero data. L’originalità del movimento consistette però
nell’utilizzare tutti questi testi riscoperti per rinnovare
le lettere, sia attraverso le dissertazioni morali e teologiche, di cui un esempio famoso lo abbiamo nelle Disputationes Camaldulenses, redatte dal Landino intorno al
1480, sia attraverso trattati didattici e scientifici, come
la Teologia platonica (1482), l’opuscolo di medicina
astrologica De vita triplici, oppure l’opera Contro l’astrologia di Pico; sia infine (e questo è fenomeno piú
largo) attraverso le poesie amorose, le egloghe, gli epigrammi, i poemi-visioni, in latino o in volgare, che si
moltiplicarono dopo il 1460 e di cui le Stanze e l’Orfeo
del Poliziano rappresentano certamente i conseguimenti piú alti1. Si tratta di tutta una serie di opere che
improvvisamente vennero ad ampliare il campo della
produzione letteraria in Toscana, e nelle quali domina
l’amore della poesia. Pico aveva cominciato con versi
Storia dell’arte Einaudi
145
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
lirici per passare poi al commento filosofico della Canzone del Benivieni; il Ficino cita i poeti ad ogni pagina
delle sue opere. Nelle sue Sylvae, vere parafrasi in versi,
il Poliziano compendia i suoi commenti a Virgilio,
Omero e ai lirici latini. Si nota, nei fiorentini di questo
gruppo, una sorta di oscillazione incessante tra scienza
e letteratura, tra filosofia e poesia, tra speculazione e
arte. Ne viene un tono nuovo e in numero sempre maggiore vengono riprese le favole antiche, le figure simboliche, gli aneddoti tratti dagli antichi. Le edizioni del
Landino hanno glossato, e a loro modo «platonizzato»,
Plinio (1476), Dante (1481), Orazio (1482), Virgilio
(1487); ma non si ignorava nemmeno Lucrezio (ritrovato da Poggio e al quale il Ficino consacrerà un commento, piú o meno apertamente rinnegato in seguito, ma
decisivo per la sua speculazione), né Ovidio e i poeti
della mitologia come Flacco o anche Claudiano, per il
quale i fiorentini, credendolo loro compatriota, hanno
nutrito un particolare interesse; né infine tutte le opere
della «mistica pagana» che sono state veramente rivelate al Rinascimento dal Ficino e dai suoi amici2. Insieme
con il suo interesse per la poesia e questo dilatarsi dell’orbita della cultura, il terzo aspetto che caratterizza l’umanesimo fiorentino è la mancanza di prospettiva storica, o meglio la tendenza a comprendere il pensiero e
l’arte degli antichi in una costruzione ideale che culminava nel platonismo; e a contrapporre ad essi unicamente il mondo moderno, orientato dalla rivoluzione
spirituale in corso. In questa prospettiva il sincretismo
pagano-cristiano della bassa antichità assumeva eccezionale importanza in quanto si trovava al punto di
sutura di due età: ad esso riportava la coscienza d’una
storia spirituale che, sviata per secoli, ora finalmente
riprendeva il suo corso. Certamente i maestri della scolastica non erano né ignorati né disprezzati; erano piuttosto trattati come eccezioni in secoli senza cultura,
Storia dell’arte Einaudi
146
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
senza per altro intralciare la tendenza spontanea degli
umanisti a connettere il Quattrocento alla fine dell’Antichità. Analogamente il Ghiberti dichiarava nei suoi
Commentari che, dopo dieci secoli di deviazione o
comunque di immobilità, la pittura, la scultura, l’architettura «moderne» avevano ritrovato la forza degli antichi, quale ancora era possibile vedere alla fine dell’impero romano. Nella sua cronologia il secolo xv è la continuazione del iv3. Il Petrarca, il Salutati e il Bruni non
si erano espressi diversamente: insieme con tutto l’umanesimo italiano, si erano posti sotto il patrocinio dei
Padri del secolo iv: san Gerolamo, traduttore erudito,
san Basilio il cui scritto «sull’utile che si può trarre dalle
lettere greche» era stato pubblicato dal Bruni nel 1403,
e infine sant’Agostino4. L’esempio di questi Padri veniva ad autorizzare, per il cristiano «moderno», la frequentazione dei poeti e dei filosofi antichi, contrariamente all’ostilità nutrita verso di loro dagli ambienti
monastici, soprattutto dai domenicani. Rappresentanti
di una cultura cristiana aperta e piena, questi Padri
erano anche grandi scrittori, ultimi rappresentanti di
quell’«eloquenza» costituitasi alla scuola di Cicerone
per Agostino, o di Platone per Basilio. Il Salutati poteva dichiarare di preferire, fra gli evangelisti, Giovanni,
fra gli apostoli Paolo, fra i dottori Agostino. Questa è
esattamente la scelta ideale del Ficino e, nel complesso,
dell’umanesimo fiorentino.
Questo stato d’animo spiega l’interesse suscitato da
Origene e dal suo perã ©rcwn: quanto ai pericoli che,
nonostante la sua dottrina della redenzione universale,
egli poteva rappresentare per la fede, questi sono stati
minimizzati dai teologi amici del gruppo di Careggi5.
Anteriormente gli umanisti erano stati attratti dal «tesoro sacro» degli Hieroglyphica. Ritrovata nel 1419 da
Cristoforo di Buondelmonte, l’opera fu nota all’Alberti, citata dal Ficino, utilizzata negli «emblemi», prima
Storia dell’arte Einaudi
147
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
che fosse pubblicata, nel 1505, nelle edizioni aldine e
che fornisse materiali per la raccolta dell’Alciati (1531)6.
In linea generale i testi di quella che si può chiamare la
«mistica» pagana hanno esercitato una viva suggestione sul Ficino e i suoi amici, i quali hanno nutrito per essi
una predilezione di cui è impossibile misconoscere la
portata7. Gl’inni degli Oracoli caldei, i poemi orfici sono
considerati con rispetto. Il Ficino si sentiva autorizzato
a raccoglierli, a tradurli, ma non sempre a diffonderli.
Tuttavia si diffusero abbastanza largamente perché si
formasse intorno a Careggi un clima esoterico di cui
tutta l’epoca ha voluto approfittare. Una prova se ne ha
nella diffusione dell’Asclepius ermetico, tradotto a partire dal 1463 dal Ficino, pubblicato nel 1471 e diffuso
da versioni italiane, spagnole, francesi in tutta Europa8.
L’esempio dell’Heptaplus può aiutare ad intendere come
questi molteplici richiami potessero essere utilizzati contemporaneamente: Pico riprende il compito dei trattati
in Hexaemeron, dei quali il piú importante fu forse il
trattato di Thierry di Chartres del secolo xii, e che si
propongono di accordare il racconto biblico con le esigenze della fisica, cioè il commento di Calcidio al
Timeo9. Tuttavia l’impresa di Pico è infinitamente piú
vasta: l’interpretazione per physica non è che uno dei
sette gradi che egli scopre nell’opera dei sette giorni: egli
tiene piuttosto a generalizzare l’interpretazione allegorica della Scrittura e, con un salto decisivo, nel suo trattato sulla Creazione risale all’Hexaemeron di sant’Ambrogio, come chiave dell’edificio universale. L’umanista
del Quattrocento, operando una sintesi di sei secoli di
esegesi, si ricollega direttamente anch’egli alla cultura
del secolo iv. Ma il nuovo commento fiorentino può vantare, secondo Pico, un punto di vista che domina e esaurisce di colpo tutte le opposizioni della filosofia orientale ed occidentale: sotto la Bibbia ebraica, letta per la
prima volta nel testo originale, egli colloca le esegesi
Storia dell’arte Einaudi
148
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
della Cabala e nel Timeo, anche questo studiato nel
testo greco, ritrova la mole coerente di idee del Corpus
platonicum10. Pico pensa di occupare un posto d’eccezione nella storia universale, proprio alla vigilia di quella pax philosophica che è l’aspirazione centrale della
nuova Accademia.
Cosí tutti i grandi testi vengono ad essere complementari l’uno dell’altro; sembra possibile poterne fare la
sintesi e renderne poeticamente attuale il significato,
poiché i grandi miti e perfino i racconti epici sono una
sorta di sviluppo fantastico, la grande allegoria di una
unica dottrina fondamentale, che occorre saper riscoprire. Questo travestimento è piú che mai chiaro per
Virgilio. Egli non è piú un mago, un indovino, come l’avevano fatto apparire nel medioevo i commentatori
«cortesi» e scolastici. La sua leggenda viene adattata
all’umanesimo: Virgilio è un adepto della «teologia
sacra», quella del platonismo eterno; per questa via egli
raggiunge il mondo cristiano. Egli è un Dante romano
alla vigilia del cristianesimo, nel quale Landino ritrova
agevolmente i grandi temi teologici11. La legittimità della
grande poesia in lingua volgare è ora definitivamente
ammessa dai fiorentini. Dante è uno dei loro riferimenti essenziali e l’edizione commentata del Landino (1481)
ha fatto data: Dante rappresenta per loro il vertice della
«poesia platonica», l’equivalente toscano di Omero e di
Virgilio. Su questa definitiva consacrazione conviene
soffermarci in quanto la Commedia, testo letto da tutti,
diviene uno dei tramiti naturali tra l’umanesimo e il
mondo delle arti. Questo interesse per la poesia moderna e antica portava a riflettere piú attivamente sui principi stessi dell’arte letteraria: le dottrine dell’Accademia
diffusero una teoria dell’ispirazione e dell’allegoria che
segnò una tappa nell’evoluzione delle «poetiche» e la
corrente platonica s’intreccerà per tutto il secolo xvi con
i trattati classici di Aristotele. Questi sviluppi sono stati
Storia dell’arte Einaudi
149
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
spesso studiati12. È tuttavia lecito chiedersi se le dottrine generali elaborate dagli umanisti fiorentini per la storia e la teoria della poesia non abbiano avuto a loro volta
un peso nell’elaborazione lenta ma regolare delle idee
sull’arte che preparò, nel secolo xv, le grandi pubblicazioni del xvi.
Appendice I manoscritti miniati degli umanisti
Le illustrazioni, in genere limitate al frontespizio e
alle capitali, che accompagnano i manoscritti dei maggiori umanisti, non presentano alcuna originalità. Fra i
duecentoventi manoscritti che si conoscono delle opere
del Ficino, la maggior parte del secolo xv o dei primi
anni del xvi, solo una decina presenta miniature che
meritino di essere ricordate13. Esse spettano quasi tutte
alla bottega di Attavante, operoso essenzialmente tra il
1480 e il 148514. Già abbiamo avuto occasione di ricordare quelle che presentano un ritratto del filosofo. La
decorazione delle pagine è ricca e monotona: in nastri e
fregi, ornati di girali e di fiori dorati, si aprono medaglioni che contengono di solito «imprese» medicee (le
api all’alveare, le farfalle alla fiamma, il lauro verde, l’albero verde, il tronco tagliato e, naturalmente, lo scudo
con le palle azzurre intorno al giglio), oppure busti di
filosofi con la rappresentazione stilizzata del sacerdos
musarum. Il piú notevole di questi è il manoscritto del
De vita: vi si vede a destra un personaggio barbuto in
robone azzurro con collo di pelliccia, in testa una berretta dal bordo arrotolato, due dita alzate in un gesto
professorale che è tipicamente «medievale»; a sinistra,
un altro personaggio barbuto in robone giallo, con un
nastro dorato nei capelli grigi, di aspetto chiaramente
«antico». Le due figure possono rappresentare il padre
Ficino, Medicus corporum, e Platone, Medicus animo-
Storia dell’arte Einaudi
150
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
rum, ai quali la dedica allude. All’inizio del terzo libro
un’altra pagina intera riproduce la stessa incorniciatura,
le stesse «imprese» e due analoghi busti: un saggio
imberbe e un dotto calvo e barbuto in toga azzurra, che
rappresentano in modo vago due dei Philosophi veteres
di cui parla la dedica a Mattia Corvino, forse Plotino e
Pitagora15. Una traduzione incompleta di Plotino preceduta da opuscoli del Ficino presenta, in uno stile piú
debole, che tradisce la mano di qualche aiuto, una sorta
di sinossi dei medaglioni dei saggi: dodici nella doppia
pagina iniziale e altri sei nella pagina in cui inizia
l’Exhortatio del Ficino16. Tutta la «famiglia platonica»
sembra radunata in questi piccoli personaggi dalle tuniche rosse o azzurre, nei quali talvolta si notano certi elementi tipici del lavoro intellettuale: un giovane presenta un libro con aria raccolta, un altro guarda con una
sorta di espressione sognante; un saggio di profilo che
alza gli occhi al cielo fa un po’ pensare, per la sicurezza
del disegno, ai poeti del Signorelli a Orvieto. In una
bella raccolta di dialoghi platonici, miniata per Federico d’Urbino, torna, circondata da fregi a girali, con i
soliti uccelli e fiori, un’effige di Platone in una capitale
che presenta curiosamente il busto del filosofo circondato da fiorellini17. Occorre infine ricordare la figura di
san Paolo che accompagna una scelta di scritti teologici
del Ficino datata del settembre 1491: all’inizio del De
raptu Pauli in tertium coelum il miniaturista ha dipinto,
in un azzurro scuro monocromo, attraversato da raggi
d’oro realizzati a trattini, un san Paolo coronato dal
nimbo, che tiene il libro e la spada. Questo involucro
notturno e il contorno scintillante costituiscono senza
dubbio degli aspetti eccezionali18.
Notiamo maggior forza e originalità nei frontespizi
dei testi dotti dipinti dai fratelli del Fora, Monte e
soprattutto Gherardo, i cui legami con gli umanisti sono
d’altronde meglio documentati. Già sono state segnala-
Storia dell’arte Einaudi
151
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
te le miniature piú notevoli nelle quali sono raccolti i
medaglioni ed i rilievi derivati dalle collezioni medicee:
i manoscritti di Plinio, di Tolomeo e soprattutto il trattato De Spiritu Sancto di Didimo, destinati a Mattia
Corvino. Ad essi sono da aggiungere due manoscritti di
Aristotele miniati da Francesco Antonio del Cherico:
una logica e una scelta d’opere tradotte dall’Argiropulo. Nell’incorniciatura ricompaiono, fra i fiori, quei girali e quelle candelabre a colori vivi, quei putti col corno
dell’abbondanza che sono motivi correnti; le candelabre
sono fiancheggiate da grifoni alla base e da delfini; i
medaglioni sono diventati «cammei neroniani», nei
quali il tipo dell’imperatore subentra a quello del filosofo. Cosimo compare a destra in una ghirlanda rotonda; in basso una medaglia di Piero; e quanto allo Stagirita, rappresentato nell’iniziale, egli porta un abito
moderno, un cappello da viaggio e si può pensare che il
suo portamento e i suoi tratti siano quelli del suo interprete, cioè l’autore della traduzione19.
Nessun’opera del Ficino, nessuno dei trattati latini
di Platone e di Plotino sono stati, per quanto ne sappiamo, decorati con una serie completa di miniature
paragonabile a quella della straordinaria Etica a Nicomaco miniata intorno al 1495 per il duca A. M. Acquaviva di Napoli20. È questa certamente la piú interessante illustrazione di un testo filosofico che si abbia alla
fine del Quattrocento. L’opera fa parte di un complesso di manoscritti miniati da artisti usciti dalle botteghe
ferraresi. L’autore è un certo Reginaldus Piramus di
Monopoli che ha inserito il suo nome nell’ultima miniatura. Il suo stile presenta affinità evidenti con l’arte del
Cossa. Le ultime miniature sono invece di un continuatore piú greve e meno felice21. L’opera è conservata
a Vienna (ms. phil. gr. 4).
L’illustrazione consta di 10 miniature grandi, con
incorniciatura a piena pagina, poste all’inizio di ognuno
Storia dell’arte Einaudi
152
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
dei 10 libri dell’Etica. Le prime sette presentano la
medesima struttura: una zona allegorica sovrapposta a
scene «storiche» collocate nella parte bassa del foglio.
Le due seguenti presentano al contrario un tema centrale
circondato da medaglioni che lo completano, l’ultima ne
presenta due22. Ognuna illustra in linea di principio il
tema filosofico essenziale del libro corrispondente: la
prima il potere della Ragione, la seconda il significato
della Virtú, la terza le sue applicazioni pratiche, la quarta la Grandezza, la quinta la Giustizia, la sesta la Riflessione, la settima la Perfezione eroica, l’ottava l’Amicizia, la nona le sue applicazioni pratiche, la decima Atene
e il suo filosofo. Ora parecchi particolari di queste composizioni non si spiegano se riferiti ad Aristotele; si tratta infatti di motivi esplicitamente platonici inseriti fra
queste immagini destinate alla Etica.
Questa confusione appare particolarmente evidente
nella prima miniatura nella quale si vede sotto un arco
di trionfo una raggiante figura della Ragione (l’goj) trasposta in Yucø platonica senza alcun rapporto col contesto; la figura reca brevi ali sulla testa e accoglie sotto
il suo mantello le quattro Virtú23. Ai pennacchi dell’arco popolato di numerose figure di un significato poco
chiaro, si notano due profili simmetrici, e affrontati, di
saggi barbuti: si tratta di Aristotele e Platone. Il loro
tipo si ritrova infatti in una serie ben nota di medaglioni in cui i due filosofi si rispondono24. Infine lo straordinario paesaggio che circonda l’arco di trionfo mostra,
in una figurazione assolutamente eccezionale della dottrina delle idee, una enorme sfera celeste piena di prototipi dorati; ne escono i raggi che comunicano l’essenza superiore agli esseri particolari: un cane riceve l’influsso del cane celeste, e cosí una talpa, un uomo, un
cavallo dal loro modello superno... È l’immagine fantastica della partecipazione affermata da Platone. L’illustratore dimentica che essa è stata vigorosamente nega-
Storia dell’arte Einaudi
153
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
ta da Aristotele. Non sembra però che questa figurazione sia stata posta in testa all’opera perché lo Stagirita la nega, ma piuttosto perché s’impone, nonostante
tutto, alla fantasia eclettica dei pittori: questi hanno
mostrato piú zelo e piú brio nel dare una versione figurata della mûqexij platonica (vista sulla falsariga astrologica) di quanto non abbiano mai fatto gli stessi platonizzanti.
La seconda miniatura presenta sulle balze di una roccia sinistra, e seminata di vittime, la Virtú (>Aretø) e il
suo simbolo di equilibrio. Saturno a destra, Fetonte a
sinistra sopra ad un bel paesaggio infuocato, Icaro in
basso, modello di eccesso (¤perbolø) o di insufficienza
(†lleiyij), riportano alle dimensioni dell’allegoria morale, di quelle favole che i neoplatonici utilizzavano in un
senso teologico25.
La sesta allegoria spicca per la sua inquadratura adorna di ghirlande e grosse pietre preziose; dei putti ne ravvivano le cornici; in una prospettiva a scacchiera una
figura bionda in abito violetto chiaro accarezza una
curiosa piccola sfinge, mentre la metà inferiore della
pagina è riservata ad una illustrazione assai grossolana
di tre avventure dell’accorto Ulisse. Si tratta dunque dell’allegoria della fr’nhsij. Grazie ad un nuovo passaggio iconografico, essa suggerisce meno la saggezza pratica, che invece andrebbe d’accordo con le immagini dell’Odissea, che non la vita contemplativa alle prese con
l’enigma del sapere26.
Di una esecuzione meno brillante, i temi successivi
moltiplicano anche i riferimenti platonici e, attraverso
le immagini, connettono il testo di Aristotele ad una dottrina piú generale. Cosí Ercole è in atto di ascoltare un
Mercurio che è poi il Trismegisto, maestro del sapere
occulto. Come un’attrice sulla scena, una donna nuda,
dipinta in modo abbastanza grossolano, passa nel fondo
di una arcata, con un cane tra le gambe: è fil’thj, l’a-
Storia dell’arte Einaudi
154
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
micizia, che, secondo un passo di Empedocle citato nel
libro VIII dell’Etica, è il principio della coesione universale. Questo richiamo permette un’inattesa rappresentazione delle muse che nulla nell’opera richiama:
ognuna di esse ha il suo strumento e la sua sfera, secondo la tradizione dei «tarocchi del Mantegna» e conforme anche alle interpretazioni messe di moda dagli umanisti di Careggi.
La mediocre miniatura successiva presenta le Grazie,
come altra espressione dell’accordo universale; l’ultima,
in una pagina che avrebbe potuto essere stata eseguita
a Firenze, illustra le capacità del saggio che è volta a
volta cosmologo, astronomo e geometra e lo presenta
infine su una piccola isola scoscesa in mezzo ai cespugli:
cosí l’immagine di san Giovanni a Patmos viene trasposta in simbolo del lavoro intellettuale solitario27. Sul fregio del monumento che serve da inquadratura si vede
una scena di lotta fra mostri marini e un gruppo d’uomini, mezzo nascosti dal testo, che sembra richiamare,
secondo una formula antica, il tumulto delle passioni,
mentre la piccola città di Atene è rappresentata con una
civetta su ogni tetto ed una statua di Pallade, di tipo botticelliano, sulla cupola centrale.
L’illustrazione di questo importante manoscritto
costituisce cosí una sorta di commento inatteso; presenta
un ampliamento platonico del testo che sembra corrispondere alla generale influenza dell’Accademia negli
ultimi anni del secolo xv28.
Storia dell’arte Einaudi
155
Capitolo primo
Le strutture umanistiche della storia dell’arte
La storia degli artisti è nata, modestamente, dall’elogio delle città. Cosi Filippo Villani, poco prima del
1400, unisce la celebrazione delle origini romane di
Firenze e l’esaltazione dei suoi grandi uomini. Fra questi «uomini famosi» figurano i pittori: Cimabue, Giotto... confusi tra i musici e i retori. Questa prospettiva
municipale rimarrà per lungo tempo la cornice naturale della storia dell’arte; la dottrina delle «Scuole» verrà
formulata nel secolo xvi in funzione di queste consuetudini29. Esse comportavano anche uno stretto legame
tra la storia delle arti e quella delle lettere. Lo si vede
chiaramente in una lettera di Enea Silvio sulla meta del
Quattrocento: «Videmus picturas ducentorum annorum nulla prorsus arte politas. Scripta illius aetatis rudia
sunt, inepta, incompta. Post Petrarcham emerserunt
literae. Post Jotum surrexere pictorum manus...»30. La
coscienza che esisteva un parallelismo naturale e che si
trattava per cosí dire di due aspetti di uno stesso fenomeno di renovatio, costituisce la molla stessa del Rinascimento31. Il Boccaccio già lo metteva in evidenza
(Decameron, VI, 5) lodando Giotto per aver riportato
alla luce un’arte sepolta dall’errore di coloro che «piú a
dilettar gli occhi degl’ignoranti che a compiacere allo
intelletto de’ savi dipignendo intendevano». Questa
affermazione non deve essere dimenticata seguendo gli
sviluppi del Quattrocento32. Nel campo della storiogra-
Storia dell’arte Einaudi
156
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
fia come in quello delle humaniores litterae e delle arti,
le iniziative principali furono opera dei fiorentini. Una
certa importanza deve essere riconosciuta al Proemio del
Landino alla Divina Commedia, che incastona l’uno nell’altro i temi principali: elogio della città, glorificazione dei suoi uomini illustri, presentazione dei pittori e
degli architetti insieme ai filosofi e ai poeti, e un’importanza essenziale attribuita all’entusiasmo poetico,
forma particolarmente elevata della vita spirituale33.
Poiché Firenze nel Quattrocento era l’unica città dove
si affermassero punti di vista cosí generali, ci si abituò
facilmente in Toscana all’idea che non si dovesse parlare di rinascenza delle arti al di fuori di Firenze e dell’arte fiorentina. L’ambiente lombardo cominciò sulla
fine del Quattrocento a reagire contro questa pretesa,
poi nel corso del Cinquecento vennero i grandi centri
rivali di Venezia, Roma, Milano34. Ma in ultima analisi
la storia dell’arte moderna aveva trovato la sua prima
formulazione nel quadro dell’umanesimo. Questo divideva la storia umana in grandi periodi storici, in cicli
organici che imponevano un ritmo unitario a tutte le
arti. È sullo schema dell’età dell’uomo, dilatato a scala
delle civiltà e combinato con l’idea di successive nascite, che verrà costruita la grande opera del Vasari35. Questo ritmo si trova già abbozzato nei cronisti fiorentini.
Esso si fonda sulla convinzione che l’epoca presente ha
visto realizzarsi la perfezione nelle arti e che essa è
come la conclusione dell’evoluzione universale. Questa
convinzione era già stata degli umanisti di Careggi:
attraverso le vicende confuse del presente, Firenze, l’Italia, il mondo intero procedevano verso una fioritura
mai vista, una sorta d’età d’oro, di cui uno dei segni piú
sintomatici era lo splendore della cultura. Questo senso
della plenitudo temporum imporrà il suo segno a tutte le
imprese degli inizi del Cinquecento, soprattutto a
Roma. Questo mito dell’età d’oro doveva alla fine cri-
Storia dell’arte Einaudi
157
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
stallizzarsi per Firenze, nella prima metà del secolo xvi,
in favore dell’epoca di Lorenzo36.
La conoscenza delle fonti storiche dell’antichità,
Vitruvio (ritrovato intorno al 1410, pubblicato nel
1514), Plinio (in circolazione intorno al 1430, pubblicato
nel 1469, tradotto nel 1470 dal Landino), contribuiva a
determinare nei moderni questa sicurezza. Tuttavia la
reazione dell’Alberti nel suo De pictura (1435) è ben
diversa da quella del Ghiberti nei suoi Commentari (circa
1450)37. L’umanista che rifiuta di occuparsi della «recitazione» dei nomi compone una sorta di compendium di
formule tratte da Plinio e da Vitruvio e un repertorio
degli exempla corrispondenti. Ogni punto dottrinale ha
il suo eroe: la «circoscrizione» o disegno Apelle, i lumi
Zeusi. Questa moda delle analogie ebbe negli epigrammi e negli elogi un successo esorbitante; i riferimenti
agli antichi vi ricorrono senza discernimento alcuno.
Ma questa confusione non rivela solo l’ingenuo bisogno
di fare piú grande Filippo Lippi o Botticelli dichiarandoli uguali ad Apelle o Zeusi, come fa Verino nella sua
Illustrazione di Firenze; si trattava di creare agli artisti
una sorta d’identità nell’assoluto e di definire un piano
dello spirito umano al di fuori della storia38. I moderni
s’avvantaggiavano cosí della eroicizzazione degli artisti
antichi.
Il Ghiberti nel primo libro dei suoi Commentari aveva
elaborato un compendio di cronaca universale dell’arte;
in pratica si era limitato a giustapporre una lista decorativa di nomi, non sostenuti da nessuna opera, a una
cronaca moderna costruita in modo assai debole senza
altra linea conduttrice che il proposito di affermare il
«progresso» dell’arte39. Piero della Francesca si sentirà
in obbligo di presentare, all’inizio del terzo libro del suo
trattato prospettico, una lista di auctoritates: i nomi tratti da Vitruvio (libro III, prefazione) vi sono grossolanamente storpiati40. La conoscenza dei trattati antichi
Storia dell’arte Einaudi
158
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
poteva alla fine creare l’impressione che, nell’immensa
cultura artistica della Grecia e di Roma, tutto fosse già
stato trovato e sviluppato fino alle ultime conseguenze;
istintivamente quindi si era portati a considerare le scoperte dei moderni come mere reminiscenze. Esse erano
di origine dotta e dovevano quindi spiegarsi con una
buona lettura dei testi. Questa è l’interpretazione sorprendente che darà il napoletano Facio (1456), per il
quale la perfezione tecnica dei Van Eyck si deve allo studio di Plinio41. Lo stesso principio d’interpretazione
ricorre in tutto il Ghiberti: a suo avviso i maestri antichi hanno consegnato il loro sapere ai «vilumi et commentarii et lineamenti et regole» il cui benefico influsso si è a poco a poco perduto. Si tratta di recuperarlo42.
Quest’idea di un tesoro di cultura già costituito non era
nuova: ma originale del Quattrocento era il modo di
ricercarlo, originale era il repertorio di testi cui si rivolgeva con la certezza che essi erano legati da una comune dottrina. Gli artisti non sono piú dei «pratici» separati dalla cultura. Ogni loro iniziativa rimette in luce una
grande verità. Il Manetti nella sua Vita di Brunelleschi
scrive a proposito della prospettiva: «Alcuni affermano
lui esserne suto o ritrovatore o inventore»43.
Esiste un parallelismo assai notevole fra l’atteggiamento degli ambienti artistici e quello degli umanisti
contemporanei. Nei loro momenti di esaltazione e di
fiducia, il Ficino ed i suoi amici arrivavano a concepire
l’idea d’una esatta reviviscenza dei personaggi platonici: ciò che spiega il Convito di Careggi ispirato dal Simposio. Su questa idea della imitatio Platonis, spinta fino
a particolari sorprendenti, il Ficino costruirà la storia
dell’Accademia nel senso di un’istituzione ideale sempre
pronta a ricostituirsi44. La cultura diventa, per i platonici conseguenti, un’immensa ¶namnøsij, in cui è difficile separare la ripetizione libresca dalla riscoperta interiore. Quest’orientamento contribuirà ad alimentare l’i-
Storia dell’arte Einaudi
159
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
dea che la cultura debba trovare i suoi istituti non nelle
università, meno che mai nei conventi, ma in centri
liberamente organizzati, di cui l’Academia chareggiana
fornisce l’esempio. Di qui il valore, suggestivo ma vago,
del termine stesso academia, che sarà alla fine utilizzato
per indicare accolte d’artisti desiderosi di cultura e dottrina al di fuori dei loro problemi di mestiere. La parola indicava indifferentemente ogni accolta di dotti; ed è
sintomatico che intorno al 1500 abbia potuto essere
applicata ironicamente alla bottega del Botticelli, dove
ci si occupava meno alla pratica e piú alle interminabili
discussioni dei perditempo: «In bottega sua era sempre
un’accademia di scioperati». Nel 1531 una incisione di
Agostino Veneziano intitola Academia dello Belvedere la
rappresentazione di un gruppo di artisti allo studio. Infine il Vasari, uniformandosi a questa valorizzazione specifica del termine, lo applicherà retrospettivamente a
quella che egli crede essere «La Scuola del giardino di
San Marco»45. La trasposizione dell’idea poteva cosí stabilmente considerarsi compiuta.
Fino a che punto gli artisti, consapevoli della loro
posizione storica, trovavano, nei compendi d’arte antica, una conferma dei loro interessi? La storia della pittura greca presentava una sorta di sviluppo coerente, di
cui volta volta l’Alberti, il Landino ed altri hanno messo
in evidenza le tappe. Il nome di Polignoto è rimasto
associato all’introduzione dei drappeggi trasparenti e
dei mezzi «fisionomici»: «Plurimum picturae primus
contulit, siquidem instituit os aperire, dentes ostendere, vultum ab antiquo rigore variare» (Plinio, Naturalis
Historia, XXXV, 58). Le tappe successive si snodavano
logicamente, almeno per quanto era possibile in realtà
riferire a Zeusi il dono del colore, a Parrasio il trionfo
della linea, ad Apelle la sintesi di tutti gli elementi necessari per creare la venustas46. Il pittore di Alessandro poteva facilmente esser preso a simbolo della perfezione
Storia dell’arte Einaudi
160
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
della pittura. Sembra sia stato veramente cosí per gli
umanisti fiorentini.
Fondandosi su una fonte non ancora individuata, il
Ficino ha per l’appunto indicato il pittore di Alessandro
come incarnazione esemplare del processo artistico nel
suo ritmo alterno di analisi e sintesi, percezione e concezione47. Il Landino conclude il suo rapido compendio
dell’arte antica ricordando solo il nome di Apelle considerato come insuperabile anche nei secoli a venire48. Ed
è lecito chiedersi se, in queste condizioni, la figura di
Apelle, pittore ideale degli umanisti, non si sia imposta
ad un artista come Botticelli al punto da influenzarne la
carriera e determinare alcune delle sue concezioni. Nel
passo della Carliades, in cui descrive le pareti del palazzo di Giustino in Epiro, attribuendo ogni affresco ad un
grande nome dell’arte fiorentina, Ugolino Verino ricorda, di fronte all’opera di Pullus Tyrrhenus (Pollaiolo)
quella di: «Choi successor Apellis»: il nuovo Apelle è
Botticelli49. Si è tentati di attribuire una certa importanza a questo soprannome a differenza di tanti altri casi
in cui il parallelo era senza conseguenze. Il Botticelli
infatti ha per l’appunto ricreato, sulla base delle testimonianze letterarie, le due opere fondamentali di Apelle: Afrodite anadiomene (Plinio, XXXV, 91) e la Calunnia (Luciano, De Calomnia, V)50. La sua arte corrisponde alle due caratteristiche fondamentali del pittore di
Cos: Apelle è il pittore della grazia, «praecipua eius in
arte venustas fuit» (Plinio, XXIV, 79); ma è anche il
maestro della linea, del segno fine e preciso, grazie al
quale ha trionfato nella sua rivalità con Protogene, e che
lo spingeva a compendiare l’arte nel detto: «nulla dies
sine linea». Una sorta di modello ideale dell’arte botticelliana è dunque suggerito dalla figura di Apelle. Forse
per i contemporanei Sandro era il nuovo Apelle nel
senso in cui il Ficino rappresentava la reincarnazione di
Platone51.
Storia dell’arte Einaudi
161
Capitolo secondo
Le strutture umanistiche della teoria dell’arte
L’evoluzione della cultura è dominata nel Quattrocento da due fatti essenziali. Anzitutto l’importanza
preponderante che assumono le discipline del trivium
(Grammatica, Retorica, Dialettica) nelle mani di un ceto
nuovo, distinto dai dottori dell’Università. Il loro sviluppo, indicato col nome di studia humanitatis, tende a
dominare tutta l’attività dello spirito52. A questa rivoluzione, che darà il nome all’umanesimo, corrisponde un
lavoro analogo, ma piú lento e incerto, per quel che
riguarda le arti. Il vocabolario scolastico non forniva
alcun termine comprensivo per definire ciò che c’è in
comune tra l’attività dell’architetto, quella dello scultore e quella del pittore: la formula «arti del disegno» è in
gestazione a cominciare dai trattati dell’Alberti e del
Ghiberti. Essa non s’impone che un secolo dopo col
Vasari53. Era necessaria una dottrina generale, che fosse
indipendente dall’edificio scolastico, perché essa potesse essere accolta. Proprio per questo è interessante definire la situazione di Firenze.
Già nel suo trattato di bottega (circa 1400) il Cennini aveva ritenuto opportuno ricordare che la pittura, al
pari della poesia, aveva il privilegio di creare esseri
immaginari. Nella sua lettera a Niklas von Wyle, Enea
Silvio (circa 1451) opponeva alla schematicità dei filosofi scolastici la vera forza dello spirito, da lui chiamata eloquentia, e scopriva una linea di sviluppo generale
Storia dell’arte Einaudi
162
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
comune alle arti che per semplificare erano da lui comprese sotto il termine generico di pictura: «dum viguit
eloquentia, viguit pictura». Questo parallelismo sta a
dimostrare come si possa attribuire alle arti quella
dignità teorica che esse meritano. In realtà saranno due
i modi per arrivare a questo: sfruttare l’analogia con l’eloquenza fino ad ottenere una trasposizione integrale
delle nozioni della retorica all’attività artistica, oppure,
su un piano piú ristretto insistere sulla particolarità
essenziale delle arti del disegno, cioè la loro struttura
matematica54. Ed è ciò che si verifica nel secondo terzo
del secolo. A partire da quest’epoca a poco a poco si
accede ad una nuova fase della «coscienza artistica».
Un’estetica autonoma naturalmente non sarà mai formulata, ma i concetti tradizionali della filosofia greca
(nozione aristotelica di imitazione [màmhsij] e nozione
platonica d’ispirazione [furor animi], vengono via via
applicati. Per questa via si sono venuti delineando, per
tappe successive, i fondamenti, della teoria dell’arte.
Era facile, e un po’ ingenuo, esaltare l’artista insistendo sull’universalità della sua cultura. Nell’esordio
del suo terzo libro il Ghiberti afferma che l’artista deve
conoscere tutte le «arti liberali»; elenca cosí un numero impressionante di discipline nel quale si è creduto
vedere un preannuncio delle curiosità universali di Leonardo. Si tratta invece, in realtà, di una formula precostituita, una regola aurea derivata da Vitruvio. All’inizio del suo trattato sull’architettura questi aveva affermato che il suo eroe, l’Architetto, doveva possedere un
sapere enciclopedico allo stesso modo che Cicerone l’aveva affermato per il suo eroe, l’Oratore. L’unico merito del Ghiberti consiste nell’aver fatto propria, sia pure
confusamente, questa affermazione a vantaggio dello
scultore divenuto il rappresentante completo della cultura. In realtà vengono qui confuse due idee: l’insieme
delle conoscenze utili al «pratico» e la superiorità d’una
Storia dell’arte Einaudi
163
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
attività sulle altre. Affermando che l’oratore, l’architetto
o lo scultore deve essere in grado di dominare tutte le
forme del sapere, si crede di dimostrarne la superiorità.
Egli deve non solo essere al corrente delle altre discipline, egli è l’unico capace di sfruttarle a fondo per il
bene dell’uomo; egli rappresenta un massimo d’efficacia
e d’appropriazione. In questo stesso modo Leonardo ha
voluto alla fine sostenere le parti del pittore nelle famose dispute del «Paragone», in cui la pittura appare come
dotata d’una universalità di mezzi senza precedenti55.
L’idea di giustificare l’artista in questo modo tuttavia è stata poco sfruttata a Firenze nel periodo tra il Ghiberti e Leonardo. Ciò dipende dal fatto che l’Alberti,
con la sua consueta penetrazione critica, aveva insistito
all’opposto sulla necessità di adeguare le conoscenze al
lavoro specifico «Piacemi, – scrive nel De pictura (libro
III), il pittore sia dotto in quanto e possa in tutte l’arti
liberali ma imprima desidero sappi giometria»; contro le
pretese enciclopediche di Vitruvio e del Ghiberti, preciserà piú tardi, nella De re aedificatoria, che l’architetto deve essere anzitutto maestro nel disegno e nella
matematica. Per il resto, aggiunge, poco importa che sia
dottore in diritto e mi preoccupa poco che sia buon
astronomo. Ciò che colpisce nel trattato dell’Alberti è
il suo tono positivo, il suo indirizzare tutto a un fine preciso. Ma la sua originalità, piú che nelle nozioni stesse,
consiste nel coraggio che egli ha di trasferire per la prima
volta alla pittura gli schemi astratti e le nozioni della
retorica56. Egli si basa su un adattamento coerente dei
trattati di Poetica e Retorica di tipo aristotelico che gli
umanisti, soprattutto quelli padovani, ben noti all’Alberti, avevano cominciato a studiare, trascurando le
artes dictandi e i formulari tradizionali. Aristotele, studiato direttamente nel testo o almeno nelle derivazioni
di Cicerone (De inventione e De oratore) e di Quintiliano (De compositione), era stato commentato dal Guari-
Storia dell’arte Einaudi
164
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
no e dagli umanisti dell’Italia settentrionale molto avanti la pubblicazione-traduzione latina di Lorenzo Valla,
avvenuta nel 1498, ed è la sua Poetica che l’Alberti utilizza57. La distinzione fondamentale era quella tra: ars
(tecnø) e natura (f›sij) cioè: studium e ingenium, dove
il primo termine si suddivideva a sua volta in inventio e
elocutio, il secondo comprendendo non una psicologia
del creatore, ma un quadro delle rappresentazioni che lo
interessavano. È la stessa disposizione del trattato dell’Alberti:
I.
Rudimenta = inventio
II. Pictura = elocutio
III. Pictor= ingenium
}
studium
Solo la prima parte rappresenta una novità, se pure
di grande importanza rispetto all’impostazione tradizionale. Sotto il titolo di Rudimenta si espongono in
essa le regole della proiezione geometrica adatta a definire lo spazio pittorico; ma l’analogia con le retoriche
continua anche nelle sezioni successive perfino nei particolari piú minuti. La celebre definizione della pittura
nei tre termini di circumscriptio, compositio e lumina è
anch’essa un adattamento dello schema ciceroniano che
si articolava nei tre termini di inventio, dispositio, elocutio, cioè: idea, distribuzione delle parti e rivestimento sensibile58.
Con la natura (ingenio) e lo studio dei maestri (studio)
vengono ad esser posti i grandi temi che forniranno le
formule canoniche al giudizio artistico per un secolo o
due: cioè l’imitazione della natura, in altre parole il
conformarsi a leggi generali, e la nozione di «storia»,
cioè di un’azione drammatica considerata come la forma
piú alta di rappresentazione. Questa conversione delle
formule della poetica e della retorica antiche in teoria
dell’arte veniva a creare solide basi all’analogia ut poe-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
sis pictura, facendone il principio generale di ogni riflessione sull’arte. Questa massima, che ritornerà in innumerevoli epigrammi, derivava da Plutarco (Della gloria
degli Ateniesi) dove è messa in bocca a Simonide. Sulla
metà del secolo xv essa riappare in B. Facio, nell’Alberti
(De re aedificatoria, VII, 10) e viene citata da Leonardo,
dal Gaurico e piú tardi dal Lomazzo59. Essa si riferisce
anzitutto alla composizione: ciò che le due arti hanno in
comune è di poter rappresentare le «azioni» umane e
quindi le «passioni» e pertanto di agire su di queste: la
descrizione d’un quadro diventa una sorta di verifica letteraria della sua buona organizzazione.
L’elogio massimo per l’artista è quello di aver saputo uguagliare o superare la natura60. La formula è cosí
generica e vaga che può valere per gli stili piú diversi.
Essa può riferirsi all’effetto illusionistico che induce a
paragonare il quadro a uno specchio, oppure alla chiara
definizione di un tipo o all’obbedienza alle leggi universali dell’armonia; non esclude nemmeno il ricorso
alle forme immaginarie che possono risultare piú significative degli oggetti dell’esperienza e di cui Aristotele
aveva «concessa la libertà al poeta» (Poetica, 25). Il
richiamo alla natura è un modo per dar forza alle ambizioni universali dell’arte: di qui il valore che certi spiriti, preoccupati di evitare un impoverimento dell’idea
d’arte, hanno attribuito alla sentenza di Filostrato:
« ÷stij m¬ ¶spazetaã t¬n zwgrafàan ¶diceé t¬n
¶løqeian». Questa massima viene ripresa press’a poco
contemporaneamente da Leonardo per il pittore e da
Pomponio Gaurico per la scultura. Essa ricorda che l’arte contiene in sé un «discorso mentale» per lo meno
uguale a quello delle discipline liberali e che la «verità
della natura» non si palesa senza l’intervento attivo
dello spirito e senza le risorse della tecnica61. L’«imitazione della natura» tende cosí ad assumere, intorno al
1500, un valore molto forte che fino allora non aveva
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
avuto: non è possibile intendere questa evoluzione
senza richiamarsi alle posizioni assunte dall’ambiente di
Careggi.
L’Alberti, se è stato il primo a costruire una teoria
della pittura sul modello delle poetiche, ha avuto anche
cura di insistere sul principio matematico: questo nuovo
fondamento dell’arte bastava a sollevare la pittura al
piano delle «artes» tradizionali o almeno non consentiva piú di considerarla subalterna rispetto ad esse. I
difensori delle arti del disegno non cesseranno piú di
insistere su questo argomento fondamentale; esso sarà
nel Quattrocento l’indice piú sicuro del gusto «moderno». Il Ficino lo svilupperà sul piano filosofico, soprattutto nel commento al Filebo (1492)62 e Leonardo lo farà
dal punto di vista dell’artista col vigore e la chiarezza di
pensiero che sono ben note. Queste posizioni sono però
legate ad una doppia rivoluzione che ne spiega appieno
l’eccezionale valore. Anzitutto la scienza matematica si
stacca dal complesso delle discipline liberali; essa viene
cosí ad emanciparsi ed elevarsi al di sopra di tutto l’edificio del sapere per costituire una sorta di nuovo organum universale. Questa concezione viene in particolare
sviluppata dal Ficino nella teoria della Ratio, funzione
superiore dell’anima, che si vale essenzialmente dello
strumento matematico per dominare il reale. D’altra
parte le botteghe piú progredite, rinunciando alle minute prescrizioni della pratica, affrontano la geometria, la
sottraggono in qualche modo alle scuole e compendiano
il loro ideale nell’idea della prospettiva dei pittori o prospectiva pingendi. Intorno al 1470-75 Piero della Francesca dimostra la sua eccellenza di «monarca della pittura» e conferma la sua autorità redigendo i suoi trattati di matematica applicata. Un lavoro analogo vien
compiuto a Firenze nello stesso periodo nella cerchia del
Verrocchio: stando alla testimonianza del Vasari,
Andrea «attese alle scienze e particolarmente alla geo-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
metria». Il Verrocchio non fu solo il maestro di Leonardo, ma secondo la formula rivelatrice del Verino di
«quasi tutti coloro il cui nome oggi corre tra le città d’Italia», anche se la parte da lui avuta in questo sviluppo
della cultura delle botteghe rimane da valutare. La lista
degli artisti matematici che Luca Pacioli colloca all’inizio della sua Summa de arithmetica (Venezia 1494), comprende maestri del Nord, della Toscana e dell’Umbria
che rispondono all’esigenze moderne: i Bellini, il Mantegna, Melozzo, Luca da Cortona, il Perugino, il Botticelli, Filippino Lippi e Domenico Ghirlandaio, «quali
sempre con libello e circino lor opere proportionando a
perfection mirabile conducano»63. Questo elenco ha un
valore pubblicitario: attribuire alle arti del disegno capacità matematiche significa intervenire in loro favore. Il
Pacioli ritorna su questo punto nel suo trattato sulla
Divina proportione (1509); e qui il suo pensiero è piú
esplicito, egli raccomanda ai pratici «di che arte, misteri e scientie si vogliano», una conoscenza astratta dei
rapporti e delle misure «come nel suo Tymeo el divin
philosopho Platone el rende manifeste»: si tratta di geometria applicata alle tecniche. La giustificazione di questa attività si trova a livello del neoplatonismo64. Siamo
di fronte ad una nuova fase della dissoluzione delle rigide divisioni della vita intellettuale. La prima generazione fiorentina aveva fatto sí che arte e scienze comunicassero tra di loro; nell’ultimo terzo del secolo entrano
in gioco le nozioni filosofiche e si tratta di quelle del
neoplatonismo.
Ció si vede chiaramente nella storia di una formula
di moda, quella di symetria. Era stato convenuto fin dall’inizio, e ripetuto per un secolo, che la parola non avesse equivalente latino. Il termine suonava greco65. Si legge
nel Landino (1481): «Fu adunque il primo Joanni fiorentino cognominato Cimabue che retrovo e lineamenti naturali e la vera proportione la quale e greci chiama-
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no symetria». Il termine ha palesemente un suo prestigio: per lui compendia l’ideale delle proporzioni razionali66. La formula ricompare nella Vita di Brunelleschi per
consacrare la superiorità dell’architetto: «Nel guardare
le scolture, come quello che aveva buono occhio, ancora mentale, ed avveduto in tutte le cose vide del modo
del murare degli antichi e le loro symetrie; e parvegli
conoscere un certo ordine di membri e d’ossa molto evidente, come quello che da Dio, rispetto a gran cose, era
illuminato»67. La symetria offrirà anche l’occasione per
un lungo capitolo, piú penetrante, al Gaurico (1504),
secondo il quale la misura, legge mirabile della natura,
assume tutto il suo significato nelle proporzioni interne
del corpo umano, «strumento armonioso, compiuto in
tutti i suoi elementi». Le sue leggi vanno spiegate partendo dal Timeo e attraverso l’analogia con la musica. La
«proporzionalità» è cosa essenziale; ma è misteriosa, in
quanto rientra in un ordine piú vasto, piú occulto, nel
quale ogni artista deve penetrare. Passando dallo studio
delle proporzioni a quello dell’espressione «fisionomica», il Gaurico rivendica i diritti dello studio dottrinale, attento ai rapporti nascosti tra le forme: «L’uomo
volgare può disprezzare fin che vuole gli arcani della filosofia socratica e pitagorica; essi ce ne hanno conservata
la santissima eredità»68.
Già nel passo del Manetti (o pseudo-Manetti) la scoperta della symetria viene associata a una illuminazione
spirituale; la nozione appare quindi colorita della psicologia dell’ispirazione. Il fatto è che è impossibile cogliere il gioco delle proporzioni senza formarsene un’immagine interiore che illumini l’ordine naturale: misura
e «idea» corrispondono.
Il numero deve infine essere riportato all’ordine totale del Bello, che trascende ogni evidenza razionale. Questa ulteriore esigenza, intravista dall’Alberti, assume per
i neoplatonici un’importanza sconfinata. Essi si sforza-
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no di elaborarla attraverso forme «mistiche», attraverso i concetti di «illuminazione» e di «splendore», che
insistono sul carattere unico e sconvolgente della bellezza, sottraendola ad ogni definizione. Per il Ficino e
per quanti seguiranno le sue intuizioni, la coscienza di
questa istanza metafisica porta ad esasperare la coscienza delle corrispondenze simboliche nell’universo. Egli si
sforza nel commento al Timeo di renderle rappresentabili mediante dati matematici, nel De vita triplici mediante le analogie «magiche» delle forme e delle qualità, nel
De sole et de lumine mediante le proprietà sublimi dell’irradiamento luminoso69. Non mancheranno teorici, e
persino artisti, che considereranno questa complessa
dottrina del cosmo come l’orizzonte normale dell’attività
artistica. L’opera del francescano Pacioli, discepolo di
Piero della Francesca, costituisce l’esempio piú chiaro di
questa dilatazione in senso esoterico e «mistico» della
matematica artistica. Il suo De divina proportione svolge, ad uso dei pittori, dei decoratori e degli architetti, i
modi speculativi «pitagorici» sui corpi puri e le analogie universali, astrologiche e teologiche, di cui sono
suscettibili le forme e i numeri70. A Firenze, come a
Roma o a Venezia, non si può sottovalutare l’importanza di questi interessi71; essi circondano e stimolano il
lavoro artistico, s’impongono nelle forme della decorazione e negli schemi compositivi. Ma la sua stessa oscurità suscita dei dubbi intorno alla mistica «pitagorica»:
essa non è universalmente accettata72. Altre nozioni vengono a limitarla. Sollevando le qualità naturali al di
sopra della conoscenza, l’intuizione al di sopra delle formule, i platonici fornivano essi stessi l’antidoto agli
eccessi speculativi, almeno nella misura in cui le idee
della loro nuova «arte poetica» erano applicate nel
mondo dell’arte73.
L’idea che lo studio oggettivo e «scientifico» della
natura è necessario senza però esser sufficiente, che esso
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cioè non è l’ultima parola nell’arte, si diffonde già a partire dalla fine del Quattrocento. Lo dimostra l’aneddoto dell’abaco di Donatello che è oggetto di un curioso
sainete nell’opera del Gaurico: durante il suo soggiorno
padovano l’artista, sollecitato da un curioso, lo porta
nella sua bottega per svelargli il suo strumento segreto
e gli rivela alla fine che lo porta nella testa74. Le capacità personali non si possono comunicare cosí facilmente come, con molta ingenuità, crede la gente comune.
L’artista viene definito da una organizzazione tutta particolare che gli intenditori conoscono e rispettano. Egli
nella sua opera non mette solo i prodotti del suo sapere
ma qualche cosa di piú. L’idea era nuova: essa circolava in alcuni ambienti fiorentini come dimostra la voga
della formula: «Ogni dipintore dipinge sé». La frase
viene attribuita a Cosimo de’ Medici in una raccolta
d’aforismi che sono stati raccolti sotto il nome del Poliziano75. Cosimo, a quanto riferisce il Vasari, difendeva
con spirito il non conformismo e addirittura le stravaganze di Filippo Lippi dicendo: «Gli ingegni rari sono
forme celesti e non asini vetturini».
Questo rispetto per la personalità dell’artista era un
fatto nuovo; significava riconoscergli quell’indipendenza di fronte alle norme comuni, quel genere di privilegio entro al mondo umano che i platonici rivendicavano per il sacerdos musarum76. L’opera d’arte non è un prodotto meccanico: essa coinvolge tutta una disposizione
dell’animo che si solleva al di sopra delle contingenze.
È certamente la prima volta che quest’idea rivoluzionaria si presenta nella cultura moderna. Essa si consoliderà, riferita alle attività «nobili» della vista e dell’udito, nella Teologia platonica (X, 4). L’idea che l’artista si
esprima nella sua opera viene qui sviluppata attraverso
l’analogia dello «specchio che riflette il viso»: «noi possiamo», dice il Ficino, «vedervi la disposizione e per cosí
dire l’immagine del suo spirito». L’opera d’arte non ci
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
presenta solo un certo complesso di rappresentazioni,
essa le riflette attraverso una sensibilità. L’affermazione è tuttavia meno «moderna» di quanto non sembri.
Per il Ficino che non ha mai risolto con precisione il problema della «individuazione», l’anima dell’artista agisce
in sincronia con l’«anima universale». Si tratta dunque
meno della soggettività personale e piú invece di un
certo livello dell’essere. Nel quadro dell’antropologia
metafisica del platonismo fiorentino, sensibilità e immaginazione occupano un posto nuovo; ma sono concepite in una forma del tutto oggettiva77.
La frase era divenuta addirittura banale. Ricompare
incidentalmente in un facile sonetto di Matteo Franco,
il poeta di Lorenzo78. È lecito supporre che essa dovesse irritare gli avversari di un’arte troppo emancipata
rispetto alle norme tradizionali, dato che viene commentata dal Savonarola, in una delle sue prediche su
Ezechiele, in un senso puramente morale, per ricondurre gli artisti al senso della loro responsabilità cristiana:
il quadro rivela il livello morale della loro anima. Le loro
predilezioni e le loro compiacenze vi si dispiegano in
modo pericoloso. Essi devono riformare il loro cuore per
fare della buona pittura79.
Leonardo riprende la stessa idea di una proiezione
inconsapevole del pittore nella sua opera, ma la riprende su un piano psico-fisiologico. In una pagina che verrà
ripresa nel Trattato egli scrive: «Ne ho cognosciuti alcuni che in tutte le sue figure pareva avervisi ritratto al
naturale e in quelle si vede li atti e li moti del loro fattore...» Non si tratta qui della visione propria dell’anima, né della purezza o impurità del suo cuore, che il pittore traduce nei tipi e nei gesti dei personaggi, ma in
certo senso della sua forma vitale, e ciò in modo tale che,
se non vi fa attenzione, può risolversi in una specie di
autocaricatura. Si deve diffidare della spontaneità e contrastare la tendenza a imitare e ripetere le proprie forme,
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attraverso lo studio oggettivo delle forme stesse. Si correggerà cosí la tendenza inconsapevole dell’anima (nel
senso di principio vitale) alle immagini che le assomigliano80. Leonardo abbozza allora incidentalmente un’analisi del tutto nuova del processo artistico: la formula
«ogni dipintore dipinge sé» viene limitata ad una operazione istintiva e considerata come la fonte di una cattiva pittura in cui non interviene l’autocritica. In una
pagina dei suoi manoscritti egli propone una formula
celebre che sembra suggerire uno sforzo di immaginazione per identificarsi con gli esseri da rappresentare:
chi pinge figura, e se non po’ esser lei, non la pò porre81.
Ma anche qui si tratta di un’altra formula familiare
agli umanisti. La formula risale a Dante: si legge nella
III canzone del Convivio, dedicata alla vera nobiltà che
la ricchezza non può dare, che è poi la nobiltà dello spirito:
poi chi pinge figura
Se non può esser lei, non la può porre.
Il che significa: nessun pittore potrebbe realizzare
una figura, se preliminarmente non s’identificasse intenzionalmente con ciò che essa deve essere. La nobiltà del
cuore dipende dall’altezza delle sue aspirazioni. E Dante
aggiunge: «Onde nullo pittore potrebbe porre alcuna
figura se intenzionalmente non si facesse prima tale
quale la figura esser dee»82.
Pico nel suo commento alla Canzone d’Amore (1486,
pubblicato dopo il 1500) aveva ripreso la massima: la
forma deve essere concepita dallo spirito prima d’esser
realizzata nella materia, «e questo è quello che nostro
poeta Dante tocca in una sua canzone dove dice: poi chi
pinge figura, se non può esser lei, non la può porre»83.
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Pico veniva cosí a sottolineare il primato della forma
intelligibile, dell’archetipo, nell’attività intellettuale
come nell’operare artistico.
Certamente non era in questo senso metafisico che
l’intendeva Leonardo. Piú d’una volta egli ha trasformato in un senso suo le formule umanistiche. Ma se egli
deve utilizzarle o rettificarle è perché esse venivano gradualmente a costituire, alla fine del Quattrocento, una
«problematica» nuova dell’attività artistica. Tra lo sforzo compiuto dall’Alberti, dal Brunelleschi e dal Ghiberti, tra il 1430 e il 1460, perché la teoria, e la pratica, potessero valersi delle nozioni letterarie delle retoriche e dei principî della scienza, e la cristallizzazione
dottrinaria che avverrà dopo il 1540 su un piano accademico, si delinea, tra il 1480 e il 1500, un inquadramento dottrinale delle manifestazioni artistiche legato al
platonismo fiorentino. Il ricorso alla matematica viene
mantenuto come un’operazione essenziale per ogni arte
elevata: esso ne garantisce l’organizzazione metodica,
chiara, razionale, ma in una prospettiva piú complessa.
Il numero fa sí che lo spirito comunichi con gli «arcani» di cui tratta la «filosofia socratica e pitagorica»; e
l’ordine elaborato dal pittore, lo scultore e l’architetto
dovrebbe essere connesso ad una simbologia universale.
Questa esigenza confusa si fa sentire sempre piú viva alla
fine del secolo xv, e arriva a poter modificare sensibilmente le intenzioni dell’artista. Il principio per cui
bastava interrogare direttamente la natura ha perso
molto della sua semplicità. L’analogia generale che viene
posta tra le arti e le lettere continua a restare l’elemento fondamentale del nuovo credo; l’idealizzazione del
poeta nell’ambiente mediceo tende a provocare una analoga promozione per l’artista. Gli si attribuiscono ora
una «psicologia» particolare e degli interessi ignoti ai
comuni mortali.
Nell’antropologia del Ficino e di Pico l’idea dello
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
artifex universale aveva tanta importanza che anche nel
caso che nessun’altra delle teorie dell’Accademia avesse
raggiunto gli ambienti artistici, questa almeno vi avrebbe trovato largo consenso. Il Manetti l’aveva presentata energicamente. Il Ficino non lo dimenticò nella sua
Teologia platonica, ricordando che questa attività (che
per lui sta a dimostrare la realtà assoluta dell’anima) si
estende a tutti gli aspetti del reale. Non si tratta piú di
un risultato particolare, di una prestazione tecnica eccezionale ma isolata, quanto invece di una «attitudine» a
penetrare e a organizzare l’ordine del mondo mediante
strumenti appropriati. Donde la consuetudine del tutto
nuova di insistere sulle molteplici attività concrete, di
raccogliere in una sola idea l’onnipresenza ideale dell’artista. La somma quasi sconcertante di attitudini che
si attribuiscono all’Alberti, che vengono rivendicate da
Leonardo, che si assegnano al Verrocchio, assume tutto
il suo significato solo se vista contro questo sfondo teorico: essa è tipica dello svolgimento delle idee sull’arte
dopo il 1475-80.
Siamo ormai prossimi all’idea del «genio»84 ormai
tutti gli elementi essenziali ci sono, con l’idea di ispirazione (la forza irrazionale del «furor»), quella della conoscenza intuitiva del mistero universale, quella del difficile destino del sacerdos musarum. Ma in seno all’umanesimo platonico c’era tutta una serie di contraddizioni, per le quali esso non poteva giungere a formulare
questa idea. La crisi che intorno al 1490 dilania il platonismo, in attesa della reazione «piagnona», allontana
Pico e i suoi amici, il Poliziano e il Ficino stesso dalle
audaci affermazioni di cui in passato avevano avuto il
coraggio: essi ripiegano sui problemi dell’esegesi e della
filosofia religiosa. Le loro conclusioni ultime sulle altre
attività spirituali sono reticenti e involute. Nel disagio
della fine del secolo la riflessione sull’arte viene a trovarsi ad un punto morto. Ma è allora che si verifica il
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
fatto decisivo che l’evoluzione generale della cultura
lasciava prevedere: assumendosi tutte le responsabilità
della vita intellettuale, alcuni maestri, che saranno le
autorità del Cinquecento, assimilano, rivivono ed esprimono in proprio le esigenze spirituali maturate dalla
riflessione dei platonici. La loro esperienza conferisce
alle linee generali elaborate dall’umanesimo un valore
convincente, fa sí che si mescolino intimamente alle
realtà dell’arte, e si individui cosí la «problematica» del
futuro. È con i loro problemi che l’evoluzione del secolo xv si conclude ed è attraverso il loro esempio che le
idee del platonismo hanno potuto inserirsi definitivamente nella teoria dell’arte85.
Storia dell’arte Einaudi
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Capitolo terzo
Dante, l’Accademia platonica e gli artisti
Dantes redivivus et in patriam restitutus
ac denique coronatus.
ficino
1. L’annessione di Dante da parte dell’Accademia
platonica
La gloria del poeta si è stabilmente definita nel Quattrocento per impulso dell’ambiente neoplatonico e in
circostanze che interessano la storia dell’arte. Nella
prima metà del secolo gli umanisti avevano ancora delle
incertezze. Si rimproverava al poeta una conoscenza
imperfetta dell’antichità, i suoi legami con la barbara
scolastica, il suo fanatismo ghibellino; intorno al 1400 i
promotori della restitutio studiorum erano intransigenti
circa la qualità della latinitas. Da Petrarca in poi essi
erano avversari dichiarati dell’aristotelismo tomistico e
in genere facevano professione di guelfismo repubblicano86. Lo stesso Salutati, pure ammirando la Commedia,
e Poggio un po’ piú tardi lamentavano che Dante non
avesse scritto in latino. Le obiezioni dei puristi verranno formulate da Niccolò Niccoli nei dialoghi del Bruni
dove egli figura come protagonista87. Dante era sospetto ai teologi per l’importanza da lui attribuita ai miti
antichi. Nella Lucula Noctis del 1405 il domenicano
Giovanni Dominici moltiplica le sue riserve per questo
ricorso eccessivo ai miti pagani che fatalmente riporta gli
spiriti a un «falsum et vetustissimum chaos». Sant’Antonino si meraviglierà che Dante avesse accordato ai
saggi e ai poeti antichi un trattamento di favore che non
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trovava alcuna giustificazione. Per il pensiero domenicano, che rappresenta una corrente molto forte in tutto
il secolo e che trionferà col Savonarola, nulla è piú condannabile della continua mescolanza di profano e sacro
operata da Dante e Petrarca nelle loro opere88.
Con lo sviluppo dell’umanesimo le obiezioni vennero a cadere una a una: nel 1436 Leonardo Bruni pubblica
una Vita dell’Alighieri in cui giustifica il poeta d’aver
scritto in toscano. Il «volgare» era d’altronde in pieno
sviluppo letterario e avrebbe trionfato con Lorenzo de’
Medici, lo stesso che decreterà la definitiva consacrazione di Dante e Petrarca. La «lettera a Ferdinando
D’Aragona», «difesa e illustrazione del toscano», presenta un numero grande di citazioni del «venerato
Dante» e dei poeti del «dolce stil nuovo»89. Il culto di
Dante diventa ufficiale90. Il Niccoli poteva ancora rimproverare al Poeta di aver trascurato la vera grandezza
degli antichi collocando Bruto nell’Inferno. Gli umanisti platonici invece sono piuttosto favorevoli a Cesare.
Il ghibellinismo di Dante non li turba piú come una aberrazione «gotica»: essi vi scorgono una giusta comprensione delle esigenze temporali la quale sembra giustificare non certo l’evoluzione del Sacro Romano Impero,
ma quella della Repubblica fiorentina e il richiamo, generale in Italia a quell’epoca, al principio d’autorità. Nel
1468 Marsilio Ficino pubblica, ed è un lavoro in un
certo senso sorprendente e anacronistico, una traduzione toscana del De Monarchia di Dante. La breve prefazione ivi premessa, e dedicata a Bernardo del Nero e
Antonio Manetti, segna una data molto importante per
la «fortuna di Dante nel Quattrocento». È il caso di
riportarla per intero:
Dante Aleghieri per patria celeste, per abitazione fiorentino, di stirpe angelico, in professione philosopho poetico, benché non parlassi in lingua greca con quel sacro
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padre de’ philosophi, interpetre della verità Platone, niente di meno in ispirito parlò in modo con lui, che di molte
sententie Platoniche adornò e libri suoi e per tale ornamento massime illustrò tanto la ciptà fiorentina, che cosí
bene Firenze di Dante come Dante da Firenze si può dire.
Tre regni troviamo scripti dal nostro rettissimo duce Platone: Uno de’ beati, l’altro de’ miseri, el terzo de’ peregrini. Beati chiama quelli che sono alla ciptà di vita restituiti, miseri quelli che per sempre ne sono privati, peregrini
quelli che fuori della città sono, ma non indicati in sempiterno exilio. In questo terzo ordine pone tutti e viventi et
de’ morti quella parte che a temporale purgatione è deputata. Questo ordine Platonico prima seguí Virgilio. Questo
seguí Dante di poi, col vaso di Virgilio beendo alle Platoniche fonti. Et però del regno de’ beati et de’ miseri et de’
peregrini di questa vita passati nelle Sue Commedie, elegantemente tractò, et del regno de’ peregrini viventi nel
libro da lui chiamato Monarchia91.
Il filosofo di Careggi non solo consacra senza riserve
la grandezza del «sommo poeta», ma accenna a un’interpretazione nuova che molto audacemente elimina l’ultima ragione di diffidenza fra gli umanisti, cioè la struttura propriamente scolastica dell’Inferno e del Purgatorio
e il carattere aristotelico, tomistico delle sue esposizioni
dottrinarie92. La «platonizzazione» della Commedia fu
compiuta da Cristoforo Landino. La grande edizione
commentata della Commedia, pubblicata il 30 agosto
1481 fu accompagnata da appoggi ufficiali; vi si trova,
in calce alla lunga prefazione del Landino una lettera del
Ficino: «Fiorenza già lungo tempo mesta, ma finalmente lieta col suo Dante Alighieri, già dopo due secoli risuscitato, e a la patria reso, e finalmente coronato si rallegra». Ficino, spesso tanto solenne, ha superato se stesso
in questa pagina entusiastica che lega per sempre Firenze e Dante, «suo secondo sole», alla fine compreso93.
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Il commento in sé occupa solo «un posto di secondo
piano nella storia degli studi danteschi», ma segna una
data in quella della cultura e perfino della vita artistica.
Questo Dante travestito da poeta platonico s’imporrà
alla fine del Quattrocento; il commento del Landino
sarà ancora «quasi il solo ad essere letto nei primi decenni del ’500»94. Leonardo, Raffaello, Michelangelo, tutti
gli artisti hanno conosciuto Dante in questa edizione
nella quale l’hanno studiato gli umanisti ed i poeti. Paolo
Manuzio, figlio dello stampatore veneziano, poteva dire
stando a Sperone Speroni: «Mio padre che stampò
Dante e il Petrarca, lodava Dante, non per suo proprio
giudicio, ma per quello dell’accademia del gran Lorenzo de’ Medici»95.
Il commento del Landino utilizza largamente glosse
anteriori, ma ad esse sovrappone una interpretazione
neoplatonica che altera, la fisionomia scolastica della
Commedia. Egli riesce meglio nell’esporre gli elementi
della mistica di Dionigi incorporati nel Paradiso, e sa
mettere in valore la bellezza poetica dell’insieme96.
Soprattutto, non si fa scrupolo di dilatare i simboli spesso difficili del poeta mediante una illuminazione allegorica, e, secondo il metodo dell’Accademia, porta tutte le
sue immagini su un piano assoluto. Gli episodi del mito
e della storia pagani sono introdotti in funzione dell’allegoria morale, ma Dante vi cercava anche la manifestazione di una specie di «mistero pagano» che veniva
a completare il «mistero cristiano» e doveva alla fine
accordarsi con questo97. Il mito interviene, attraverso i
demoni planetari, al principio della vita fisica; fornisce
una specie di chiave poetica per tutte le articolazioni
oscure della vita intellettuale: cosí il supplizio inflitto a
Marsia da Apollo viene invocato alle porte del Paradiso
e seguito da una preghiera98. Anche per Dante si ha una
coincidenza misteriosa tra «teologie» antiche e ordine
cristiano che trascende il piano della storia. L’ambiente
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
di Careggi veniva cosí a trovare nella Commedia tutte le
conferme che voleva. Vi ammirava soprattutto la perfetta fusione di dottrina e poesia per cui visibile e invisibile venivano ad articolarsi in «forme rappresentabili» che realizzavano un universo interamente spiritualizzato. L’architettura della Commedia sarà uno dei problemi che attireranno l’attenzione degli umanisti e dei
dotti fiorentini. Ma in questa costruzione di idee è la
sensibilità ad orientare tutto: come è stato giustamente
osservato, è l’esperienza estetica che guida lo sviluppo
del poema: «I colori dell’Inferno sono rosso, giallo e
nero, quelli del Purgatorio grigio chiaro e verde, quelli
del Paradiso bianco e rosa»; «nell’Inferno l’orecchio era
l’organo piú attivo... nel Purgatorio (il poeta) subisce la
prova del fuoco..., nel Paradiso l’occhio è il tramite
essenziale»99. La visione, portata al suo grado piú alto,
diventa, soprattutto nel Paradiso, l’organo mistico per
eccellenza, capace di suggerire l’ineffabile. Quando il
Ficino sostiene il valore assoluto della visione intellettuale, ha presente allo spirito l’esempio degli ultimi canti
della Commedia100. Ciò che soprattutto conta per gli umanisti di Careggi è la rappresentazione delle passioni dell’anima, come il poeta l’ha realizzata nell’Inferno e il
lento succedersi di gradi del cielo per cui il Paradiso
risulta un’iniziazione poetica alla contemplazione. In
questo la Commedia costituisce il paradigma della visione: il movimento che dalla bestialità terrestre porta alle
gioie della contemplazione è il principio stesso della
nuova filosofia, dove l’accento, come già in Dante,
anche dal Ficino è posto sull’onnipotenza oscura dell’Amore, che ha ispirato anche l’Inferno e che muove le
stelle101. Il Landino in questo caso non doveva far altro
che mettere in evidenza rapporti espliciti. La Commedia
diveniva cosí l’arca del sapere moderno102 e il «poeta
theologus» l’eroe spirituale dell’umanesimo fiorentino.
Le imitazioni della Commedia furono numerose alla
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
fine del Quattrocento; il poema forniva una cornice adeguata alle visioni cosmologiche che il neoplatonismo
rimetteva di moda103. In certi casi il colore antichizzante è piú marcato, come nella Città di Vita di Matteo Palmieri (tra il 1455 e il 1464), che racconta la traversata
del mondo invisibile sotto la guida della Sibilla cumana
e di cui un curioso quadro «eretico» (un tempo attribuito a Botticelli, in realtà del Botticini) rivela direttamente l’influenza104, o nel trattato astrologico del Bonincontri, composto a Firenze tra il 1475 e il 1478 e dedicato a Lorenzo, il grande componimento didattico De
rebus coelestibus che non è se non una glossa poetica a
Manilio in spirito ficiniano e dantesco105. A volte la
«visione celeste» presenta un accento piú cristiano: cosí
avviene nel Paradisus (in latino) di Ugolino Verino, pubblicato nel 1489, che si apre con una invocazione a Platone assurto a guida dell’anima nell’altro mondo106, e,
alla fine del secolo, nel Poema visione rimasto incompiuto di Giovanni Nesi, nei cui 28 canti in terzine la
cosmologia platonica appare legata alle tappe descritte da
Dante107.
2. Il ritratto di Dante.
È in questo clima che si è venuta fissando l’immagine del poeta108. La tradizione aveva tramandato due tipi
per il volto di Dante: quello che si trova nella cappella
della Maddalena al Bargello, allora attribuito a Giotto
(attualmente quasi del tutto cancellato), cioè un viso
giovane e sognante, e quello di Nardo di Cione nel Giudizio della cappella Strozzi a Santa Maria Novella, un
Dante invecchiato, con una espressione di pietà e di
timore: si trattava insomma dell’autore della Vita Nova
e di quello dell’Inferno. Pur continuando ad essere utilizzate, queste due immagini vennero a poco a poco
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
cedendo il posto a una nuova rappresentazione, nella
quale veniva accentuata la forza del personaggio (affresco di Andrea del Castagno, eseguito intorno al 1450) e
la figura era accompagnata dai simboli del libro e della
corona d’alloro propri del «sommo poeta» (ad esempio
Gozzoli in San Francesco di Montefalco, 1452).
Nel 1465 fu dipinta su una delle pareti di Santa
Maria del Fiore un’immagine di Dante dovuta, come
precisa l’iscrizione, a Domenico di Michelino. Qui
Dante è raffigurato in piedi, col libro aperto di fronte a
Firenze, in atto di designare con la mano destra il regno
dei dannati; dietro a lui, la montagna del Purgatorio percorsa dai peccatori; fasce curve, simili ad un arcobaleno, stanno ad indicare infine i cerchi del Paradiso. Questa figurazione ancora «trecentesca» è certamente la
modernizzazione di un’opera piú antica109. Una maggior
ampiezza si nota nel profilo inserito tra le tarsie, eseguite
nel 1478 da Francione e Giuliano da Maiano nella sala
dei Gigli in palazzo Vecchio, verosimilmente su disegno
del Botticelli110: qui il poeta appare con un viso ossuto,
il naso ricurvo, il mento forte, tutti elementi che ora
sono correnti111, e immagini piú intense ancora appariranno tra poco.
Un elemento che già il Boccaccio aveva notato viene
ora comunemente rilevato e messo in evidenza: «È sempre nella faccia malinconico e pensoso». È la caratteristica su cui insisterà Pietro Lombardo nella sua figura a
rilievo depresso (1483) per la tomba del poeta a Ravenna; ma gli ornamenti dello «studio», i ricami del collo
indeboliscono l’intento iniziale. Con Signorelli, nel
medaglione di Orvieto, la forza drammatica del genio
saturnino si rivela in una piega di disprezzo e di stanchezza sul viso, e ne risulta un’immagine di indubbia
intensità e profondo pathos. Non meno rigoroso, ma piú
grave, piú completo, risulta il busto anonimo in bronzo
che si trova nel Museo di Napoli, il quale fissa quella che
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183
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
sarà di poi l’espressione definitiva del poeta. L’opera
però deve essere assegnata alla fine del secolo; non è
infatti lontana dai due ritratti che Raffaello dipingerà
nella stanza della Segnatura, il ritratto del Parnaso, nel
quale domina il disincanto delle cose terrene e l’abbandono alla forza poetica, e l’altro, dipinto nella Disputa,
che ci presenta la maschera del «teologo» pronto ad
affrontare i misteri supremi. Si tratta appunto dei due
volti del Dante dell’Accademia fiorentina.
Petrarca era stato contrapposto a Dante sulle porte
di palazzo Vecchio, dove si volevano celebrare le glorie
toscane112. Ma Petrarca ha poca importanza per gli umanisti neoplatonici: il culto di Dante, rinnovato con tanta
energia intorno al 1480, caratterizza l’Accademia, il
culto di Petrarca prevarrà nei suoi eredi mondani del
1510. All’epoca di Lorenzo la Commedia non solo godeva di un prestigio eccezionale, ma è stato attraverso di
essa che l’umanesimo platonico ha avuto uno dei suoi
contatti piú fruttuosi con i maestri dell’arte classica113.
3. I manoscritti e le edizioni illustrate della «Commedia».
La storia delle illustrazioni dantesche è tuttora difficile e confusa114. La parte che in esse spetta alla Toscana non è decisiva. Le tre iniziali delle cantiche, «N» per
l’Inferno, «P» per il Purgatorio e «L» per il Paradiso,
includono già nel Trecento scene stereotipe che continuano nel secolo successivo, nel quale le miniature a
piena pagina sono sempre piú rare. L’illustrazione canto
per canto sembra aver scoraggiato molto presto i pittori di manoscritti: si hanno molte serie rimaste incomplete o limitate alla prima cantica, forse perché le scene
dell’Inferno presentano aspetti pittoreschi piú facilmente accessibili. Un manoscritto della Biblioteca Naziona-
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le di Firenze di poco posteriore al completamento del
poema presenta 37 miniature, 32 per l’Inferno, 2 per il
Purgatorio e 3 per il Paradiso115. Coloro che hanno abbordato il Paradiso sembrano di regola essersi fondati, piú
che sul testo, considerato troppo elevato per la rappresentazione figurata, su didascalie schematiche, e questo
starebbe a spiegare certi errori116. Nei casi in cui la serie
si presenta completa, come nel manoscritto della Biblioteca Nazionale di Firenze datato 1387, vediamo un’illustrazione letterale che mette insieme particolari minuti fra mezzo a tappeti di fiori o di stelle117. In un manoscritto di Venezia, che viene riferito alla scuola di Altichiero (1400 circa), i profili dei personaggi principali
occupano per gran parte la superficie del disegno. Questa soluzione impedisce al pittore di rappresentare le
grandi scene dove compaiono molte figure: cosí nel
canto XXXI del Purgatorio si vede Beatrice avanzare su
un carro ridicolo e i cori celesti appaiono distribuiti
molto goffamente118. La varietà negli spazi e l’ampiezza
descrittiva della Commedia sfuggono all’interpretazione
dei miniaturisti gotici.
Un manoscritto senese del 1440 circa comprende 115
illustrazioni disposte a strisce alla base delle pagine: l’Inferno e il Purgatorio sarebbero del Vecchietta, il Paradiso di Giovanni di Paolo119. Questa illustrazione si fonda
sull’Ottimo commento, antica glossa composta a Firenze
a partire dal 1337, ricca soprattutto di allusioni classiche, la quale contiene il commento piú popolare al Paradiso120. Certi particolari dell’illustrazione non si spiegano
se non con le caratteristiche del commento. Secondo la
consuetudine degli illustratori medievali, il miniatore
attribuisce la stessa importanza agli episodi del testo e
ai commenti che lo accompagnano: raffigura ad esempio
Dante inginocchiato davanti ad Apollo che si appresta
a incoronarlo di foglie d’oro, davanti al doppio corno di
Parnaso, mentre Marsia scorticato giace a terra, sul
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
verde prato121. Questa immagine, come molte altre, rappresenta una digressione. Un importante manoscritto
dell’Italia settentrionale, press’a poco contemporaneo,
lega le scene l’una all’altra attraverso un formicolare di
elementi decorativi122. Siamo quindi quanto mai lontani
da una interpretazione «monumentale» della Commedia.
La situazione si fa piú grave ancora con la comparsa
delle prime Commedie a stampa illustrate. L’edizione del
Landino del 1481 doveva essere illustrata; e si sono fatte
numerose ipotesi sulle ragioni per cui l’impresa non è riuscita. Alcuni esemplari contengono 19 incisioni su rame
per i primi canti dell’Inferno, e la maggior parte di queste incisioni sono state incollate successivamente. Piú
spesso però il posto previsto per l’illustrazione è rimasto
vuoto. Questa serie, tanto incompleta, dovuta all’incisore
Baccio Baldini, è stata eseguita su disegni del Botticelli.
Il Vasari afferma esplicitamente che questi ha illustrato
e pubblicato l’Inferno123. Però questa illustrazione lasciata in tronco non ha nulla a che vedere con il grande ciclo
illustrativo della Commedia che verrà disegnato dall’artista quindici o vent’anni piú tardi. I disegni della serie
Baldini rappresentano semplicemente un primo studio.
Queste incisioni rimangono in realtà molto vicine alla
miniatura. Tutt’al piú la visione è un po’ piú larga, le
figure si muovono meno incerte attraverso lo spazio, il
paesaggio infernale, alberi, rocce o rovine, presenta talvolta un suo carattere. Ma con le sue piccole cinte di
mura concentriche ai piedi degli eroi e dei saggi, il «nobile castello» del canto IV è rappresentato piú debolmente che non nei manoscritti del 1400124.
Le pubblicazioni successive non sono meno deludenti. Nel 1487 il testo e il commento del Landino furono
accompagnati da 68 incisioni su legno: le due prime cantiche al completo e una incisione per il primo canto del
Paradiso. Le illustrazioni sono chiuse entro cornici nere
con candelabre di un bell’effetto decorativo, ma lo stile
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rimane grossolano e ci sono dei veri e propri assurdi125.
L’autore si è rifatto a modelli della miniatura; il tipo dei
poeti, certi mostri sono «modernizzati», con qualche elemento forse orientale126. Nel 1491 Venezia pubblicò a
sua volta la Commedia e il commento del Landino con
una serie completa di 100 incisioni che rimangono deboli, benché qualcuno abbia voluto attribuirne il disegno
al Mantegna127. Come se avesse intuito l’insufficienza
della tecnica della stampa, un francescano preparò una
nuova edizione, migliorando le immagini mediante i
colori, le figure marginali ed un segno piú delicato128. Ma
egli non realizzò illustrazioni originali se non per l’Inferno: le incisioni che accompagnano il Purgatorio ed il
Paradiso derivano direttamente da un manoscritto fiorentino del Trecento con la stessa impaginazione ridotta e particolari d’uno stile duro e puerile129.
In questa generale mediocrità delle illustrazioni della
Commedia fanno spicco due complessi: le miniature
dipinte tra il 1476 e il 1482 per Federico da Montefeltro e la serie dei disegni del Botticelli destinati a Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici. Gli autori della Commedia miniata a Urbino appartengono a un gruppo ferrarese, il cui personaggio piú autorevole sembra essere
Guglielmo Giraldi130: essi hanno compiuto uno sforzo
artistico ben notevole per l’ampiezza e anche per la qualità. A Ferrara l’arte della miniatura aveva raggiunto
un’originalità, una grazia poetica e una forza di penetrazione che si ritrovano in alcune di queste pagine; tuttavia la diversità di mani porta talvolta a un indebolimento e a una sorta di mollezza, nonché a una tendenza alle formule. Paesaggi minuziosi alla fiamminga fanno
da sfondo a scene ben disposte; nel canto IV dell’Inferno l’isola degli eroi antichi appare contro un orizzonte
liscio come una dimora di sogno; Gerione, Cerbero non
hanno piú nulla di diavoli odiosi, i centauri corrono
lungo le rive dello stagno rosso dei peccatori e colpisco-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
no con gravità. Tutto ciò che è antico è messo in valore; i cortei hanno una loro consistenza. Non rimane
nulla della minuzia acida dei vecchi illustratori: almeno
nel senso della monumentalità, questo ciclo rappresenta un grande risultato della miniatura in un campo per
lungo tempo ostico.
4. Due interpretazioni della «Commedia»: Botticelli e
Signorelli.
Se l’opera dantesca ha provocato solo mediocri illustrazioni nel Trecento e ben poche che possano dirsi
eccellenti nel Quattrocento131, ha però attirato ben presto l’attenzione dei pittori, soprattutto a Siena e Firenze: nel 1315 la Maestà di Simone Martini presenta una
iscrizione dantesca132; nel 1381 tre versi del Paradiso
sono collocati alla base di una tavola di Paolo di Giovanni Fei. A metà del Quattrocento Giovanni di Paolo
consacra due predelle del suo Giudizio finale, in cui si
notano reminiscenze dantesche, ai due regni soprannaturali dell’Inferno e del Paradiso. Ciò accadeva spesso
nella maggior parte dei Giudizi che, come quello della
cappella Strozzi a Santa Maria Novella, non sono altro
che miniature gigantesche. Tuttavia nessun pittore può
essere considerato interprete del poema. Lo stesso non
si può piú dire alla fine del secolo: due artisti, che avevano familiare il nuovo umanesimo, realizzarono allora
un’interpretazione personale ed elevata della Commedia.
Si tratta del Botticelli e del Signorelli. Le loro fantasie,
diametralmente opposte, hanno individuato i due registri sui quali il pittore può cogliere la sostanza poetica
della Commedia: il mondo dell’estasi e quello del terrore; ed hanno cosí rivelato i due volti dell’universo dantesco che si presentano alla visione: i suoi ritmi «gotici» e la sua monumentalità133.
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Il Botticelli dipinse e illustrò un Dante su pergamena per Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, e quest’opera passò per una meraviglia, come scrive un cronista134. Il cugino del Magnifico verosimilmente aveva
finanziato l’edizione del Landino e sembra certo che
abbia ispirato le composizioni mitologiche del Botticelli135. Questo Dante che gli era destinato fu disegnato
su grandi fogli di pergamena (cm 47 x 32)136 dopo il
1482, e l’esecuzione dell’opera dovette prolungarsi fino
ai primi anni del Cinquecento. Il lavoro ha in definitiva occupato l’ultimo periodo della carriera del Botticelli
e, secondo il Vasari, ne spiega i disordini e l’inattività137. Le composizioni dell’Inferno richiamano la miniatura; sono piú letterali e lo scrupolo della completezza
e della rappresentazione minuziosa dei temi pittoreschi, ad esempio la Città di Dite nei canti VIII e IX, i
serpenti diabolici nei canti XXIV e XXV, rendono
dispersiva la composizione. Questa però appare già
mossa da una vivacità di segno e una leggerezza davvero
eccezionali, che sfruttano la ripetizione «cinematografica» di un personaggio come accade spesso nella miniatura. L’illustrazione relativa al canto I presenta quattro
volte Dante al margine della «selva oscura», assalito da
animali che presentano un profilo araldico. Lo spazio è
composito e mobile, il poeta viene guidato da un Virgilio che porta la berretta, la barba lunga, il cappuccio
del «mago» medievale138. Nel Purgatorio brusche variazioni nella «qualità dello spazio» permettono al pittore di sovrapporre efficacemente in una stessa tavola, ad
esempio nel canto XII, episodi immaginari e le scene
descritte139, dato che la preoccupazione maggiore dell’artista è quella di assicurare «la continuità della
scena»; tuttavia queste scene incatenate sono a volte di
una lettura faticosa140. Nei canti del Paradiso l’immaginazione dell’artista si concentra sull’essenziale: le figure affrontate di Dante e Beatrice in ogni cerchio cele-
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ste, e il lento progresso del poeta attraverso i cori paradisiaci141. Il Botticelli non rappresenta piú avvenimenti e neppure gesti; con una ammirevole economia dei
mezzi grafici, lega insieme movimenti sottili di gioia, di
disperazione, di sgomento, d’abbandono. Nel canto
XXV Dante viene esaminato da san Pietro, san Giacomo, san Giovanni; ma bastano al pittore tre nomi scritti sotto le fiamme che danzano intorno al poeta142. Ogni
pagina cosí aderisce meravigliosamente alla «visione»,
spoglia di ogni gravezza143.
Questa interpretazione cosí fluida e di un respiro
cosí puro fa sí che l’opera di Botticelli costituisca un
risultato unico. Essa domina e in certa misura spiega le
opere degli ultimi anni con le quali essa presenta precisi rapporti144. L’ordine razionale della prospettiva è abolito e, con esso, ogni sorta di spunti «pagani»: lo spirito antico è completamente scomparso dall’opera, gli dei
non vi regnano piú. Il Dante di Botticelli non è piú
nemmeno «umanistico», tanta è la libertà che l’interpretazione personale ha raggiunto: si deve vedervi un
risultato solitario del genio lirico, che supera insieme la
minuzia gotica e la precisione quattrocentesca per valersi unicamente della vibrazione della linea e della purezza del disegno145.
L’analogia, cosí strana e tanto spesso notata, tra
molte di queste composizioni e i disegni dell’Estremo
Oriente può apparire allora meno misteriosa146. L’esotismo aveva sempre esercitato una certa attrattiva nel
Quattrocento e, grazie ad esso, alcuni illustratori di
Dante avevano assimilato certi elementi della miniatura persiana147; è possibile d’altronde che rotuli asiatici
abbiano circolato fra gli amici dei Medici e non è nemmeno escluso che si conoscessero i disegni su seta148. Ma
per arrivare all’estetica «idealistica» dell’Asia occorreva questa capacità di rinuncia, questa sensibilità contemplativa che «rifiuta le cose terrene lasciandole
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
sopravvivere solo in una metafisica di simboli»149. Da
questo punto di vista la interpretazione botticelliana
sembra collocarsi al punto estremo di questa poesia dell’estasi e della visione angelica che era stata favorita dal
neoplatonismo fiorentino, ma che era stata invano tentata da dei letterati contemporanei. Nei canti del Paradiso non si hanno che composizioni trasparenti e lineari, senza dimensioni fisse, fuori del tempo, dove l’immagine si piega ai motivi ornamentali: ad esempio nel
canto VI un cerchio chiude su un fondo di fiamme che
potrebbe apparire araldico, se non simboleggiasse il
Paradiso, Dante e l’amata; altrove le figure si dispongono lungo i raggi e i cerchi concentrici delle sfere. E
cosí anche nel I canto del Paradiso dove, attraverso il
fogliame leggero di un altro mondo, Beatrice e il poeta
attraversano, come se fossero attratti da una forza superiore, il fragile intreccio del cerchio celeste. In questa
invenzione, di un gusto cosí «preraffaellita», il segno si
spoglia e nella sua nudità arriva a suggerire l’estasi. È
indubbio che l’artista ha lui stesso riportato questa ispirazione alla forza dell’Eros mistico. Nel coro degli angeli del IX cerchio, che, nel canto XXVIII del Paradiso,
tengono il loro meraviglioso «concistoro» descritto da
Dionigi l’Areopagita e contemplato da san Paolo, il Botticelli ha messo nelle mani di una di queste creature
superiori un piccolo cartiglio con la scritta «Sandro di
Mariano»150. È in questo coro felice al di sopra delle
sfere celesti, in questo empireo descritto dal Ficino sulla
base di Dante, come sede della Mens, lo spirito superiore, che Botticelli ha voluto indicare o «prenotare» il
suo posto, in una specie di professione di fede che è
insieme quella di un’anima esaltata dalla visione mistica e quella di un artista che, attraverso la visione, in
senso platonico, raggiunge il regno del perfetto «intelligibile»151.
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Gli affreschi della cappella di San Brizio nel Duomo
di Orvieto furono eseguiti a cominciare dal 1499, cioè
negli stessi anni in cui Botticelli concludeva la sua figurazione mistica. Il complesso orvietano non è meno
eccezionale: è la prima volta che un’intera cappella (sei
affreschi che completano la decorazione iniziata nelle
volte mezzo secolo prima dall’Angelico) viene dedicata
esclusivamente all’illustrazione dei «novissimi»152; e una
spiegazione di ciò può indicarsi nella scossa che aveva
subito la Chiesa con la predicazione apocalittica, la rivolta e il supplizio del Savonarola, l’Anticristo di Ferrara153.
Il tema escatologico vi è trattato in uno spirito «antipiagnone», e una parte spettacolare è riservata ai testimoni del mondo antico in modo da poter unire insieme
i poeti-teologi del paganesimo e quelli del cristianesimo.
È questo che costituisce l’importanza dell’alto zoccolo,
dipinto tutto intorno alla cappella, in quanto i medaglioni tondi disposti intorno ai «poetae famosi» costituiscono anch’essi parte integrante dell’insieme iconografico. Nella seconda campata il Giudizio finale si
estende ai due lati della finestra che domina l’altare, l’Inferno sulla parete destra, il Paradiso sulla sinistra. Il terzo
regno, il Purgatorio mancherebbe se proprio lo zoccolo
non presentasse, negli 11 medaglioni della parete di sinistra, disposti intorno a Dante e Virgilio, un’illustrazione parziale dei canti dal II al IX della seconda cantica
della Commedia. Gli 11 medaglioni della parete di
destra, che ruotano intorno ad Omero ed Ovidio, fanno
da pendant con motivi tratti dalla mitologia e scelti proprio per le loro «concordanze» con i temi del Purgatorio cristiano154. Si tratta della discesa di Orfeo agli Inferi, della liberazione di Andromeda ecc.
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
La struttura generale della seconda campata è dunque
chiara. La scomparsa di molti medaglioni e l’oscurità
delle scene non consentono di affermare che anche nella
prima si avesse un analogo sistema di analogie155.
Il riferimento alla Commedia è fondamentale, dato
che il poema dantesco, nella rappresentazione dell’oltretomba, ha integrato il piú possibile quanto di meglio
aveva il paganesimo al mondo cristiano. Essa però appare qui come veicolo di una concezione che si giustifica
piú chiaramente se riportata alla dottrina degli umanisti. Nella sua prefazione alla traduzione del De Monarchia, il Ficino affermava che Dante aveva abbracciato i
tre regni descritti da Platone e seguiti da Virgilio, quello dei dannati, l’Inferno, quello dei felici il Paradiso e
quello dei «peregrini», cioè di coloro che sono ancora
lontani dalla «città di vita» come è di tutti i viventi in
questo mondo e, nell’altro, di coloro che sono condannati a purificarsi per un certo tempo. I medaglioni dello
zoccolo, almeno quelli della prima campata, illustrano
nel loro doppio registro, a partire dai miti pagani e dalla
Commedia, questo regno dei peregrini, distinto dal
mondo infernale e dal mondo celeste, che si aprono al
di sopra di essi. L’interpretazione dell’Ade come luogo
di prove per l’anima è costante nell’umanesimo; ed era
stato oggetto di un’analisi penetrante da parte del Ficino156. Aiuti possono essere intervenuti nell’esecuzione di
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
alcuni di questi medaglioni157. Ma la strana decorazione
a «grottesche» turbinanti che serve da sfondo allo zoccolo, con i suoi voli di mostri grigi, i suoi arabeschi, nei
quali creature si torcono con sforzi dolorosi mostra abbastanza bene che il Signorelli ha trovato qui, come il Botticelli nelle pagine della sua illustrazione, il modo di
arrivare al fondo di una visione che lo ossessionava:
anziché l’estasi purificante egli raffigura il mondo dell’angoscia e del terrore. Anche la tecnica scelta per questi medaglioni, il tono brutale del disegno, il modellato
sommario in un monocromo che rileva le figure contro
picchi e fondi lunari, sono propri dello stile della «terribilità»158. Siamo agli antipodi di Botticelli. L’oltretomba descritto da Dante è simile al mondo infernale di
Virgilio e di Ovidio; il primo episodio rappresentato
della Commedia è la scena in cui Dante e Virgilio s’inginocchiano rispettosamente davanti al vecchio Catone.
Virgilio, a testa nuda, coronato di lauro, avvolto in
un’ampia toga, presenta qui per la prima volta l’aspetto
di un poeta antico e non di un «mago» orientale159. L’interpretazione «umanistica» prevale sull’interpretazione
«mistica»; Botticelli nel suo Paradiso aveva dimenticato le nostalgie pagane della Primavera, il Signorelli rimane a Orvieto l’autore della tavola tenebrosa e poetica che
aveva composto in onore di Pan.
Nella finta nicchia della cappella, Dante incoronato
piega la testa su degli in-folio dalle pagine rigide; questa immagine sembra non aver nulla in comune coi ritratti anteriori: tutto è subordinato all’espressione di tragico orrore e il Signorelli fissa qua duramente un’immagine di Dante poeta della «terribilità». Spinto dalla sua
ossessione della fermezza plastica e della profondità spaziale, egli d’istinto si è rivolto all’interpretazione opposta di quella botticelliana160. Queste visioni antitetiche
sono proprie di uomini che hanno seguito da vicino, e
con opposte tendenze, la crisi fiorentina della fine del
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
secolo: le due versioni della Commedia rivelano dunque
un conflitto piú profondo161. È lecito chiedersi alla fine
se gli affreschi della cappella non debbano anch’essi
qualcosa alla Commedia: nella sfilata dei dannati che
s’allontanano verso l’inferno, certi particolari, ad esempio il demone porta-insegna, richiamano scene dantesche162. Ma solo in senso largo la poesia virile di Dante
è servita di base al pittore; l’ha confortata nelle sue trovate piú audaci: i nudi allucinanti che rivestono la loro
carne, il riso folle degli scheletri e tutto il movimento
della resurrezione dei corpi. Ciò che di piú dantesco presenta il ciclo di Orvieto è la concezione dello spazio «tragico» in cui avvengono le catastrofi finali, che aggiunge
una dimensione patetica agli ingenui Giudizi del Trecento.
5. Cosmologia e simboli: Leonardo e Giuliano da
Sangallo.
La Commedia per il Quattrocento non era solo un
poema dell’anima; il Landino fa notare con insistenza
che in essa è contenuta anche una summa scientifica.
Caratteristico della poesia è di includere nei suoi simboli
tutti gli ordini di verità. La Commedia espone la struttura dei mondi e nello stesso tempo i fini ai quali essi
rispondono. Questo interesse per l’aspetto scientifico
dell’opera si sviluppò ai margini degli ambienti universitari e dei «lettori» ufficiali: esso era particolarmente
vivo presso gli artisti attratti dalla rappresentazione
dello spazio. Il Brunelleschi, amico di Paolo del Pozzo
Toscanelli «diede ancora molta opera in questo tempo
alle cose di Dante; le quali furono da lui bene intese circa
i siti e le misure; e spesso, nelle comparazioni allegandolo, se ne serviva ne’ suoi ragionamenti», scrive il
Vasari: la cosmografia dantesca forniva all’architetto
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
una cornice per la misura dello spazio163. Antonio Manetti il supposto autore della Vita di Brunelleschi, tentò una
rappresentazione grafica esatta dell’universo descritto
dal poeta: i suoi studi in forma di dialogo sono stati pubblicati nel 1506 dal suo amico G. Benivieni. L’Inferno,
secondo i suoi calcoli, aveva un raggio che era metà di
quello della terra; i primi sette cerchi misuravano 405
miglia e 15/22,... il pozzo dei giganti fino a Lucifero
misurava 81 miglia e 3/22164. L’aspetto nuovo in questo
senso intorno al 1470-80 è lo sforzo di rappresentare in
modo sistematico l’universo della Commedia nello spazio; e per contro il suo complesso di forme simboliche
viene ad essere il mezzo per definire l’insieme delle
strutture cosmiche che è possibile esplorare e misurare.
In questo senso il poema dantesco sembra avere contribuito soprattutto alla formazione di Leonardo. Su un
foglietto che reca «memoranda» di geologia e di fisica
viene incidentalmente ricordato «il Dante di Niccolo
della Croce» (si tratta di un nobile personaggio della
corte di Ludovico il Moro)165. Si sa che Leonardo era
esperto nell’ esegesi dantesca grazie ad un famoso aneddoto che va collocato tra il 1502 e il 1504: Leonardo
commentava il poema in piazza Santa Trinita quando,
vedendo passare Michelangelo, volle interrogarlo sull’argomento; lo scultore diede una risposta offensiva e
passò oltre166. Non solo il poeta della Commedia ma
anche l’enciclopedico del Convivio ha interessato Leonardo167: egli non era, a quanto sembra, attratto dalla
grande conciliazione dell’antico col cristiano, che costituisce l’umanesimo di Dante, né dalla sua mistica, ma
dalle forme della sua immaginazione. Cosí i disegni fantastici della fine del mondo (circa 1510-15) sono come
imbevuti di una tragicità dantesca. In uno d’essi la caduta delle falde di fuoco sopra una città richiama l’atroce
visione che si trova nell’Inferno (XIV, 28 sgg). Il commento del Landino aveva avvicinato questa scena alla
Storia dell’arte Einaudi
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fine delle città maledette di cui parla la Genesi (XIX, 24)
e il soggetto era tra l’altro pienamente rispondente a
quella dissociazione finale degli elementi che Leonardo
aveva descritto nella sua cosmogonia168. Ma con la sua
solita intransigenza Leonardo riafferma nella sua Apologia della pittura l’insufficienza della poesia, anche di
quella dantesca: «se tu dirai io ti descriverò l’inferno, o
il paradiso, ed altre delizie, o spaventi, il pittore ti supera, perché ti metterà innanzi cose, che tacendo diranno
tali delizie, o ti spaventeranno, e ti muoveranno l’animo a fuggire»169. Dante è familiare a Leonardo, ma egli
non si limiterà a questo universo poetico.
Il problema viene tuttavia a riproporsi con l’attribuzione a Giuliano da Sangallo della maggior parte delle
illustrazioni che si trovano sui margini di un esemplare
dell’edizione del Landino conservato a Roma (Biblioteca Vallicelliana)170. Si tratta di 240 disegni piccoli, per
lo piú poco accurati, buttati alla brava sui margini del
volume: è possibile distinguervi varie mani. Buona parte
degli schizzi non può essere che del Cinquecento; ma
questa stessa particolarità, nonché la presenza di schemi architettonici, lo stile frammentario e corrivo dei
disegni piú antichi permettono di riconoscere nel volume l’esemplare che deve essere appartenuto, passando di
padre in figlio, alla famiglia Sangallo; Giuliano e Francesco, ai quali spetta la maggior parte delle illustrazioni, hanno disegnato per loro divertimento però seguendo interessi opposti. Francesco rappresenta minuti episodi secondari; Giuliano illustra solo certe metafore del
testo ed esclusivamente quelle che si riferiscono alla
natura, agli astri, agli animali. Ad esempio, all’inizio dell’Inferno non rappresenta i tronchi della «selva oscura»
né le fiere allegoriche, ma i fioretti e i gorghi del fiume
ricordati di passaggio da uno dei versi del poema (Inferno, II, 127 e III, 30). Gli schizzi che illustrano i paragoni ottici, l’azione dei raggi luminosi, gli effetti di
Storia dell’arte Einaudi
197
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
riflessione sono particolarmente numerosi. Siamo di
fronte a un modo particolare di commentare il poema,
esplorandone metodicamente cioè gli aspetti poetici e
scientifici nei loro episodi piú acuti. Si tratta di una sorta
di meditazione condotta, penna alla mano, in margine a
una lettura, un’illustrazione che non segue se non un filo
secondario; è un po’ lo stesso atteggiamento che troveremo in Holbein coi suoi disegni in margine all’Elogio
della pazzia. Questa attenzione alle osservazioni «naturalistiche» del poeta e lo spirito stesso dei disegni hanno
incoraggiato l’ipotesi che l’architetto si sia ispirato a
Leonardo. Questo interesse per i «fenomeni» inseriti
nella Commedia corrisponde alle tendenze di Leonardo
e al modo in cui egli poteva leggere Dante. Soprattutto
si notano analogie cosí precise tra alcuni di questi schizzi del Sangallo e le minute figure scientifiche che ricorrono nei manoscritti di Leonardo che si è arrivati a chiedersi se in ultima analisi i disegni del Dante di Sangallo non siano copiati da quelli di un esemplare di Leonardo. Questa ipotesi di un Dante illustrato da Leonardo appare avventurosa, ma tale non appare l’altra ipotesi d’una derivazione del Sangallo da certi disegni del
pittore: i «prototipi» di Leonardo, ai quali si sarebbe
ispirato Giuliano si trovano nei manoscritti A e B (tra
il 1482 e il 1490). In questo periodo i contatti tra i due
artisti sono attestati dalla loro presenza a commissioni
architettoniche in Milano e, in modo piú preciso ancora, da derivazioni fatte da Leonardo dalla raccolta del
Sangallo, ad esempio per la pianta di Santa Maria degli
Angeli. È quindi quanto mai verosimile una serie di
derivazioni in senso opposto: Giuliano potrebbe aver
raccolto delle minute figure di Leonardo ed essersi ispirato ai suoi schizzi «scientifici» in queste illustrazioni
marginali, nelle quali d’altronde gli accade anche di
seguire altri modelli, ad esempio Filippino Lippi.
Storia dell’arte Einaudi
198
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
6. Dante e l’arte classica: Raffaello e Michelangelo.
Formatosi a Urbino e Firenze, Raffaello conosceva e
frequentava con rispetto, come del resto Bramante di lui
piú anziano171, l’opera di Dante172. L’ha d’altronde rappresentato due volte nella stanza della Segnatura, tra i
teologi della Disputa del Sacramento e tra i poeti del Parnaso: il che illustra perfettamente l’idea del «poeta theologus». Il profilo autoritario che compare nel primo
affresco, il viso calmo e sognante del secondo hanno fissato definitivamente per la posterità l’immagine dell’autore della Commedia; e ciò, tutto sommato, conforme l’interpretazione dei fiorentini173.
Siamo spesso tentati di indicare nella Commedia l’origine dei «concetti» di Raffaello soprattutto quelli della
stanza della Segnatura174. Il «nobile castello» del canto
V dell’Inferno, nel quale si trovano raccolti, in un luogo
privilegiato, i saggi e gli eroi pagani, contiene per cosí
dire in germe la Scuola d’Atene175; ma anziché l’isola feerica del manoscritto urbinate, Raffaello ha introdotto
come sfondo il grande portico che sembra una trasposizione figurativa dell’immagine del «Tempio della Filosofia» descritto dal Ficino. Per la Disputa del Sacramento la derivazione è piú semplice: il coro dei teologi
corrisponde con una certa precisione ai santi personaggi che Dante ha riunito negli ultimi canti del Paradiso;
e Raffaello interpreta, attraverso contrasti di luce e
ombra d’ispirazione leonardesca, le notazioni precise di
Dante sullo scintillio dell’Empireo176. Nei primi disegni
Dante figurava al posto d’onore e un celebre disegno
conservato a Windsor gli affianca addirittura Beatrice.
Nell’elaborazione finale questa figura è scomparsa dall’affresco, ma ricompare avvolta di nuova dignità nella
Teologia dipinta sulla volta, la quale presenta esattamente i due colori, rosso e verde, e gli emblemi che
Dante le attribuisce al momento della sua apparizione al
Storia dell’arte Einaudi
199
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
vertice del Purgatorio (XXX, 78 sgg.). È il mondo del
Paradiso quello che meglio risponde alle intenzioni di
Raffaello. La cupola che, ad imitazione delle sfere celesti, costruirà in onore di Agostino Chigi materializza in
certo senso il cielo descritto nel Convivio e la presenza
degli angeli «reggitori delle sfere» accanto alle divinità
planetarie viene a completare l’analogia generale. La
quale per altro non esclude fonti intermedie177.
Raffaello, al pari del Signorelli, aderisce ad un aspetto particolare della Commedia. L’unico artista che l’abbia intesa nella sua totalità e, per cosí dire, senza residui, aderendo all’interpretazione neoplatonica, è in ultima analisi Michelangelo178. Una tradizione, che per altro
non ha gran fondamento, afferma che egli aveva illustrato di suo pugno il suo esemplare dell’edizione del
Landino179; ad ogni modo questa tradizione sta a dimostrare la convinzione, che si era diffusa ben presto, di
una affinità completa tra i due grandi. Il maestro fiorentino sembra addirittura che non abbia mai figurato
il poeta piú illustre della sua città180. A differenza di Botticelli ed anche di Raffaello, Michelangelo non si è mai
ispirato direttamente né alla Commedia né al suo autore. I suoi legami con Dante sono piú intimi e piú complessi. Essi si pongono anzitutto sul piano letterario.
Dopo aver conosciuto il Landino a palazzo Medici, lo
scultore ha studiato Dante, Petrarca e Boccaccio, soprattutto durante il suo soggiorno a Bologna presso Gianfrancesco Aldrovandi181. Se le sue prime poesie mostrano piú l’influenza del Petrarca che quella di Dante, il
poeta della Commedia doveva in seguito assumere un’importanza prevalente. Michelangelo gli consacrerà due
sonetti famosi che sono meno un «ritratto» o un «elogio» e piú invece una sorta di identificazione di se stesso con Dante esiliato: «Lucente stella, che co’ raggi suoi
| Fe’ chiaro, a torto, el nido ove naqqu’io; | Ne’ sare’ ’l
premio tutto ’l mondo rio: | Tu sol, che la creasti, esser
Storia dell’arte Einaudi
200
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
quel puoi. | Di Dante dico che mal conosciute | Fur l’opre sue da quel popolo ingrato | Che solo a’ iusti manca
di salute. | Fuss’io pur lui!»182. Nel 1519 Michelangelo
firmò, con altre personalità fiorentine, la petizione formulata dalla «Sacra Academia florentina» che chiedeva
a Leone X il ritorno a Firenze delle ceneri di Dante183.
Fu in questa occasione che egli si offrí per costruire un
sepolcro degno del «divino Poeta»184; ma la cosa rimase
senza seguito.
Dall’epoca (circa 1502-503) in cui ebbe luogo il famoso battibecco con Leonardo, Michelangelo era divenuto
un vero e proprio esperto di studi danteschi: le testimonianze a questo proposito sono numerose185. Una delle
piú rilevanti è la lettera del 1545 in cui esprime la sua
avversione a un nuovo commento che gli sembra vuoto
e povero186, l’edizione cioè di Veluttello da Lucca, che
dopo piú di mezzo secolo di dominio incontrastato del
commento del Landino, rappresentava la prima reazione all’interpretazione neoplatonica della Commedia187. Di
un colloquio, che deve essere avvenuto a Roma nel 1546,
ci è conservato il ricordo in un manoscritto di Donato
Giannotti, uno dei vecchi capi del partito repubblicano
fiorentino. Egli era uno dei pochi amici di Michelangelo. L’artista figura come uno degli interlocutori, che
sono tutti dei dotti o gente di condizione. Si tratta di
stabilire se la cronologia che il Landino fissa per il viaggio dantesco attraverso l’Inferno e il Purgatorio sia soddisfacente. Il colloquio comincia con un elogio dell’umanista che, «havendo egli tutti gli altri nodi, tutti gli
altri sensi oscuri di quel Poeta con tanta diligentia sciolti et dichiarati, che grandissimamente obbligati gli sono
tutti coloro che di leggere quella opera si dilettano, la
quale, innanzi che egli facesse quella sua dotta et copiosa dichiaratione, era senza dubbio molto male intesa» ha
errato solo su questo problema188. È dunque certo che
Michelangelo ha letto Dante come gli umanisti di Careg-
Storia dell’arte Einaudi
201
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
gi; e il commento del Landino per tutta la sua vita l’ha
tenuto in contatto con le immagini e le idee del neoplatonismo fiorentino. Questo dialogo è per Michelangelo
l’occasione per fare alcune dichiarazioni rivelatrici: «Io
sono il piú inclinato huomo all’amar le persone che mai
in alcun tempo nascesse», oppure ancora: «A voler ritrovare et godere sé medesimo, non è mestiero pigliare
tante dilettationi et tante allegrezze, ma bisogna pensare alla morte»189. Eros e la morte terrestre costituiscono
la coppia essenziale che guida l’anima al suo superiore
destino: questo secondo Dante e secondo i neoplatonici. È questo il piano filosofico che si addice, e forse
basta, a Michelangelo; è il piano su cui egli s’incontra
col poeta.
La Commedia non era dunque per lui un repertorio
di temi, né un modello, ma uno degli stimoli piú profondi per il suo spirito. Ben presto si vollero cercare in
Dante analogie con l’opera michelangiolesca, allo stesso
modo che si accosta un poeta a un altro190. Forse è proprio questo che si voleva dire allorché si affermava che
Michelangelo conosceva a memoria Dante191: insomma
che egli non lo illustrava, ma lo continuava. La grande
analogia tra i due fiorentini è il loro comune accento di
«terribilità». È lo stile «eroico» che fa pensare a Dante,
allorché ci troviamo davanti all’Ezechiele della Sistina,
che freme sotto il vento celeste, oppure davanti alle
orribili sofferenze degli ebrei nella scena del Serpente di
bronzo. La Commedia fornisce suggestioni analoghe192.
L’architettura delle composizioni, l’imponenza dei
gruppi, questa volontà d’ordine nella visione sovrannaturale, rivelano la parentela che intercorre tra il poeta e
l’artista; ma quasi tutte le relazioni strette che si possono scoprire in questo senso dimostrano anche l’importanza che ha avuto per Michelangelo il commento del
Landino: l’intermediario neoplatonico spiega appunto
l’interesse prestato a certe figure. Senza dubbio si deve
Storia dell’arte Einaudi
202
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
ad esso se ad esempio Michelangelo ha scelto le due squisite figure di Rachele e Lia per la tomba di Giulio II, o
i quattro fiumi dell’Inferno per il mausoleo mediceo193.
Il Ratto di Ganimede da lui ripreso in un modo molto
personale, ha potuto imporsi alla sua fantasia solo attraverso il commento del Landino194. Dante insieme al Platone rinascimentale condiziona le grandi forme di un’arte nella quale il massimo di tensione plastica si dispiega
in un complesso di simboli umanistici195. È soprattutto
per il Giudizio finale che si sono moltiplicati i riferimenti al poema196: indubbiamente Caronte e Minosse, i
grevi mostri del mondo infero risalgono all’Inferno dantesco; il trasporto dei dannati sulla schiena dei demoni
può essere una reminiscenza puntuale197, pur senza
dimenticare il precedente del Signorelli che già aveva
evocato il mondo del terrore finale in un clima degno
della poesia dantesca. Ma in fin dei conti Michelangelo, che qui rivela interessi teologici abbastanza personali,
rivaleggia con Dante piú che non derivare da lui: le analogie che sorprendono lo spettatore, e già lo sorprendevano nel Cinquecento, risultano dal fatto che la visione
del pittore s’impone in modo irresistibile per cui non riusciamo piú a vedere se non con gli occhi di Michelangelo il «Sommo Giove» del poeta, oppure il grappolo
fitto degli eletti simile a una rosa gigantesca198. Come
prevedeva Leonardo, l’opera dipinta si sostituisce in
certa misura al poema.
I contemporanei ne hanno chiara coscienza: «Ed io
per me non dubito punto, che Michelagelo, come ha imitato Dante nella poesia, cosí non l’habbia imitato nell’opere sue, non solo dando loro quella grandezza, et
maestà, che si vede ne’ concetti di Dante, ma ingegnandosi ancora di fare quello, o nel marmo, o con i
colori, che haveva fatto egli nelle sentenze, et colle parole», scrive il Varchi199, impiegando in un modo d’altronde infelice il termine «imitare» allorché per l’ap-
Storia dell’arte Einaudi
203
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
punto voleva dire che Michelangelo ha «rifatto» Dante
come nessuno potrà piú fare dopo di lui200. Era già un
luogo comune allora chiamare l’artista «Dante pittore»
oppure «Dante scultore». Il Dante del Rinascimento
non poteva essere se non uno scultore o un pittore, cioè
un artista «plastico», capace di tradurre l’opera del
«sommo poeta», che la cultura fiorentina dell’ambiente
di Careggi aveva posto definitivamente al suo centro.
Facendo di Dante il maggiore veicolo delle sue idee fondamentali, il neoplatonismo ne ha imposto e guidato la
proiezione nell’arte.
n. a. robb, Neoplatonism of the italian Renaissance, London 1935;
a. chastel, Marsile Ficin et l’art cit., introduzione, 2.
2
Su Lucrezio, e. garin, Medioevo e Rinascimento. Studi e ricerche,
Bari 1954, pp. 82, 293. Su Ovidio, e. panofsky, Studies in Iconology
cit., p. 61, n. 73. Claudiano, il poeta del basso impero era ritenuto fiorentino. F. Villani l’annovera tra i poeti illustri della città dopo Dante,
Petrarca, Boccaccio, Salutati: nel suo commento a Dante lo cita come
«concivis noster». Cfr. g. calò, Filippo Villani, Rocca San Casciano
1904, p. 131. Le poesie di Claudiano conosciute in manoscritto e pubblicate a Vicenza nel 1482, sono una delle fonti delle Stanze del Poliziano e di uno dei riquadri del fregio di Poggio a Caiano: cfr. piú avanti, p. 230.
3
l. ghiberti, I Commentarii, ed. O. Morisani, Napoli 1947, e i.
krautheimer, Lorenzo Ghiberti cit., p. 309.
4
e. gilson, Histoire de la philosophie du Moyen-Age, Paris 1947, pp.
731 sgg.
5
matteo palmieri, Città di vita (c. 1460); g. pico, Apologia (1487);
egidio di viterbo, ecc., cfr. e. wind, The revival of Origen, in Studies in
art and literature for Belle da Costa Greene, Princeton 1954, pp. 412-24.
6
g. boas, The Hieroglyphics of Horapollo, New York 1950, e k.
giehlow, Die Hieroglyphenkunde des Humanismus in der Allegorie der
Renaissance, in «jb», xxxii (1915), pp. 1 sgg.
7
Il fatto è cosí generale che Alamanno Rinuccini (nato nel 1419, è
piú vecchio del Ficino e figura nelle Disputationes Camaldulenses come
amico dell’Argiropulo) presenta nel 1473 a Federico d’Urbino, con una
bella prefazione, la vita del taumaturgo pagano Apollonio di Tiana scritta da Filostrato.
1
Storia dell’arte Einaudi
204
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
p. o. kristeller, Supplementum ficinianum, I, pp. cxxix sgg.; a.
chastel, Marsile Ficin et l’art cit., introduzione, 3 e III, i (Hermès); e.
garin, Note sull’ermetismo del Quattrocento, in Testi umanistici sull’Ermetismo, Roma 1955.
9
e. gilson, Histoire de la Philosophie ecc. cit., pp. 269-70.
10
a. chastel, Pic de la Mirandole et l’Heptaplus, in «Cahiers
d’Hermès», ii (1947); j.-l. blau, The Christian interpretation of the
Cabala in the Renaissance, New York 1944, cap. II; e piú di recente,
sull’apporto del marrano Paolo Heredia e di Pico, g. scholem, Zur
Geschichte der Anfänge der christlichen Kabbala, in Essays Presented to
Leo Boeck, London 1954, e f. secret, Pico della Mirandola e gli inizi
della cabala cristiana, in «Convivium», xxv (1957), 1.
11
v. zabughin, Vergilio nel Rinascimento italiano da Dante a Torquato Tasso, vol. I (Il Trecento e il Quattrocento), Bologna 1921, cap.
III, mette in evidenza come il Landino: 1) veda Virgilio attraverso
Dante; 2) sviluppi l’analogia, già notata da servio, II, 96, tra il conto
VI dell’Eneide e il dogma platonico perã yuc≈j 3) ricerchi esclusivamente l’allegoria morale, a differenza del Poliziano che nelle epopee
antiche scopre piuttosto un’allegoria delle forze della natura.
12
a. buck, Italienische Dichtungslehre, Stuttgart 1954.
13
p. o. kristeller, Supplementum ficinianum cit., introduzione. p.
d’ancona, La Miniatura fiorentina (xi-xvi secolo), Firenze 1914, nn.
1489, 1518, 1527, 1528, 1531, 1532, 1541, tutti conservati alla Biblioteca Laurenziana, verosimilmente codici rimasti a Firenze di ordinazioni fatte da Mattia Corvino e trattenuti alla sua morte, nel 1490, da
Lorenzo de’ Medici. Un certo numero di questi manoscritti sono stati
esposti alla «Mostra medicea» di Firenze del 1939, n. 95, 117 ecc.
14
g. milanesi, Di Attavante degli Attavanti, miniatore, in «Miscellanea storica della Valdelsa», i (1893), p. 60. p. d’ancona, La miniature italienne du Xe au XVIe siècle, Paris-Bruxelles 1925, p. 74; m. salmi,
La miniatura italiana, Milano 1953, p. 55.
15
d’ancona, La miniatura fiorentina cit., n. 1518 (Plut. 73-39), foll.
64 e 77.
16
Ibid., n. 1529 (Plut. 82-10), foll. 1 v e 2 r, 211.
17
Urb. lat. 185 (ibid., n. 1238), fol. 7 r.
18
Plut. 83-11 (ibid., n. 1532). fol. 65.
19
Plut. 84-1. Cfr. s. vagaggini, La miniatura fiorentina, Milano
1952, tav. xlv
20
Sul duca Andrea III Acquaviva: t. de marinis, Un manoscritto di
Tolomeo fatto per Andrea Matteo Acquaviva e Isabella Piccolomini, Verona 1956; si tratta d’un manoscritto (Paris, Bibliothèque Nationale, lat.
10764) che deve essere anch’esso opera di Reginaldo di Monopoli.
21
Tutti gli autori hanno insistito sul suo corattere eccezionale e sontuoso: p. d’ancona, La miniature italienne cit., pp. 88-89 (a tav. xci la
8
Storia dell’arte Einaudi
205
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
riproduzione del fol. 27). h. j. hermann, Miniaturhandschriften aus der
Bibliothek des Herzogs Andrea Matteo III Acquaviva, in «Jahrbuch der
Kunsthistorischen Sammlungen», xix (Wien 1898), pp. 147-216, ha
compiuto uno studio assai completo, ripreso poi nel corpus dei manoscritti austriaci: Beschreibendes Verzeichnis de illuminierten Handschriften in Österreich (nuova serie a cura di J. von Schlosser e H. J. Hermann), VI (Die Handschriften und Inkunabeln der Italienischen Renaissance), vol. IV (Unteritalien: Neapel, Abruzzen, Apulien und Calabrien),
Leipzig 1933 (n. 40), pp. 79-105. Quest’opera, eseguita da un’officina ferrarese per un principe napoletano rientra in un complesso di rapporti piú generali; ad Eleonora d’Aragona, moglie di Ercole d’Este, si
attribuisce il successo dell’astrologia che porta al grande complesso del
palazzo di Schifanoia, e a lei si deve se i contatti tra l’Italia meridionale e l’ambiente ferrarese si sono moltiplicati. Cfr. a. warburg, Italienische Kunst und internationale Astrologie, in Gesammelte Schriften, II,
p. 475. Per altro la corte aragonese di Napoli è d’osservanza aristotelica, la sua accademia è stata diretta dal Panormita, da Giorgio di Trebisonda e infine, all’epoca di re Ferrante, dal Pontano. Tuttavia la dottrina peripatetica vi è intesa in modo molto eclettico, percorso da forti
elementi platonici e s’incontra con le speculazioni «scientifiche» che
portano ai grandi poemi astrologici del Pontano, e con una corrente
di poesia sentimentale virgiliana, da cui uscirà, intorno al 1485, l’Arcadia del Sannazaro. Il duca, umanista e poeta, era lui stesso uno di
quei peripatetici che non ignorano l’Accademia, come dimostrano i
suoi scritti, ed è probabilmente sotto la sua direzione, o seguendo un
suo programma, che sono state eseguite le singolari allegorie del manocritto.
22
Rispettivamente foll. 1, 10, 17, 27, 36, 45 e 80.
23
h. j hermann, Miniaturhandschriften ecc. cit., p. 65: «Per indicare le virtutes morales ci si serve, per ragioni di chiarezza, delle quattro virtú cardinali dell’etica platonica, per la figurazione della Ratio
ci si vale dell’immagine platonica dell’anima alata». La fonte dell’allegoria dell’anima (creatura alata) è il Fedro, 249 sgg., delle quattro
virtú la Repubblica, 428 sgg. La stessa immagine dell’anima «ricoperta di penne» si ritrova all’inizio di un trattato, Vienna, Phil. graec.,
2, fol. 123, della stessa serie dell’Etica a Nicomaco (h. j. hermann,
ibid., p. 160).
24
Cfr. piú avanti. In un manoscritto della stessa serie (napoletana)
Phil. graec., 2 (ibid., n. 35), il trattato De Caelo d’Aristotele si apre con
un’iniziale H che rappresenta anch’essa i due filosofi sotto la sfera del
cosmo (ibid., p. 65).
25
La miniatura dell’>Aretø è studiata da e. panofsky Herkules am
Scheidewege cit., p. 151.
26
Ulisse, eroe dell’avventura (cosí già l’aveva presentato dante,
Storia dell’arte Einaudi
206
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Inferno, XXVI, 42 sgg.), risponde allo spirito del testo di Aristotele;
l’allegoria della vita contemplativa è posta nell’ordine superiore a causa
della stessa tendenza a collocare l’aristotelismo in un contesto neoplatonico.
27
u. hoff, Méditation in solitude cit. ha raccolto alcuni precedenti
italiani di questa formula.
28
Sul successo dell’Etica a Nicomaco a Firenze, a. warburg, Francesco Sassettis letztwillige Verfügung, in Gesammelte Schriften cit., V, 1,
p. 153; e. garin, Le traduzioni umanistiche di Aristotele nel secolo XV,
in Atti dell’Accademia fiorentina di scienze morali, Firenze 1951.
29
r. krautheimer, Die Anfänge der Kunstgeschichtsschreibung in Italien, in «Repertoriurn für Kunstwissenschaft», l (1929), p. 49; j. von
schlosser, La letteratura artistica, 2ª ed., Firenze 1956, cap. IV; a.
chastel, Marsile Ficin et l’art cit., p. 180. e. van der grinten, Enquiries into the history of art-historical writing, Venlo 1953. Questo capitolo e il seguente sono stati riassunti in «Kunstchronik», 1954.
30
Lettera d’Enea Silvio Piccolomini a Niklas von Wyle, Opera,
1551, p. 646 (Ep. I, n. cxix); ed. Der Briefwechsel des Eneas Silvius Piccolomini, III, 1 (Fontes rerum austriacarum, 68), Wien 1918, p. 98 n.
47. Il parallelismo tra l’eloquenza e le arti è anche, nel 1473, l’argomento della bella lettera di A. Rinuccini, studiata da e. gombrich, The
Renaissance concept of artistic progress and its consequences, in Actes du
XXVIIIe Congrès international d’Histoire de l’Art (1952), Amsterdam
1955, pp. 291 sgg.
31
È una delle idee madri del Burckhardt, di cui abbiamo indicato
le conseguenze nel saggio: Art et religion dans la Renaissance italienne,
in «Humanisme et Renaissance», t. VII (1945), pp. 5 sgg.
32
Sui nuovi «valori» cosí proposti cfr. le osservazioni di e. h. gombrich, Visual metaphors of value in art, in Symbols and Values: an initial
study (Thirteenth Symposium of the Conference on Science, Philosophy and
Religion), New York 1954, p. 262.
33
o. morisani, Art history and art critics, in «The Burlington Magazine», xcv (1953), pp. 267-70.
34
Sulla concorrenza Roma-Firenze: cfr. sopra la introduzione. Un
preciso esempio della concorrenza Venezia-Firenze è costituito dalla
loro rivalità retrospettiva a proposito dei «mosaici», di cui il Vasari
vede gli inizi, prima di San Marco di Venezia, nel battistero fiorentino con Andrea Tafi (ed. Milanesi, I, p. 337) e C. Ridolfi invece in San
Marco prima di Firenze: cfr. a. chastel, La mosaïque à Venise et à Florence au XVIe siècle, in «Arte veneta», XIII (1954), p. 130.
35
e. panofsky, Das Erste Blatt aus dem «Libro» Giorgio Vasaris ecc.,
in «Städel-Jahrbuch», vi (1930), pp. 25-72, ripreso col titolo The first
page of Giorgio Vasari’s «libro», in Meaning in the visual arts, Garden
City 1955, pp. 169-235 (trad. it. cit., pp. 169-224).
Storia dell’arte Einaudi
207
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Cfr. sopra, introduzione; sugli sviluppi di questo «mito» del
Rinascimento, cfr. piú avanti.
37
Ultimamente: r. krautheimer, Lorenzo Ghiberti cit., cap. XXI
(Ghiberti and Alberti).
38
Marsile Ficin et l’art cit, p. 194.
39
r. krautheimer, Lorenzo Ghiberti cit, cap. XX (Ghiberti the writer), p. 313, conclude (contro il tentativo dello Schlosser di rivalutare
l’opera scritta del Ghiberti): «Il Ghiberti fu un umanista e uno studioso
erudito solo nelle ambizioni». Sulle intenzioni del Ghiberti: e. h. gombrich, The Renaissance concept of artistic progress cit., pp. 295 sgg.
Intorno al 1530 l’Anonimo Magliabechiano comporrà anch’egli una storia universale delle arti divisa in due parti: gli antichi e i moderni (dopo
Cimabue).
40
Ed. G. Nicco Fasola, Firenze 1942, p. 129.
41
o. morisani, Gli artisti nel «De viris» di B. Facio, in «Archivio storico per le province napoletane», lxxiii (1955), pp. 107 sgg.
42
r. krautheimer, Lorenzo Ghiberti cit., pp. 311 e 312.
43
Occorre attendere leonardo da pesaro, Speculum lapidum, Venezia 1502, per trovare un giudizio piú avvertito: cfr. j. von schlosser,
La letteratura artistica cit., p. 109.
44
p. o. kristeller, La posizione storica di Marsilio Ficino, in «Civiltà
moderna», v (1933).
45
h. p. horne, Botticelli, London 1908, p. 360. Sui molteplici usi
del termine cfr. Marsile Ficin et l’art cit., p. 191 n. 7; n. pevsner, Academies of art, past and present, London 1939, p. 39; piú sopra, introduzione, e piú avanti.
46
Quest’indicazione non andrà perduta per l’Anonimo Magliabechiano, che scrive a proposito d’Apelle: «e furno nel suo tempo piú
eccellenti pittori e’ quali egli sommamente lodava, ma diceva mancare
loro una certa venustà la quale e’ greci chiamono: charis», ed. K. Frey,
Berlin 1892, p. 22. È lecito chiedersi se già il Ghiberti non si considerasse come il nuovo Lisippo (in base a Plinio, XXXIV, 61-65): e. h.
gombrich, The Renaissance concept ecc. cit., p. 296.
47
Theologia Platonica, II, i, Opera, p. 108; Marsile Ficin et l’art cit.,
pp. 65, 69 n. 8
48 C
ommentario alla Comedia (1481); Marsile Ficin et l’art cit., p. 193.
49 C
arliades, I, citato in e. h. gombrich, Apollonio di Giovanni, in
«jwci», xviii (1955), p. 165
50
Quest’opera, già presentata dall’alberti, Della pittura, III, ed. L.
Mallé, p. 104, come il dipinto-tipo de «l’inventione grata» è ricordata pure da Leonardo come prova della capacità della pittura a uguagliare
la poesia per «dimostrare molti morali costumi», ed. J. P. Richter, nn.
23 e 25; Trattato, ed. McMahon, pp. 19 e 26.
51
Qualche anno dopo la grazia di Raffaello, spiegata col preceden36
Storia dell’arte Einaudi
208
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
te d’Apelle, viene presentata come il vero ideale dell’arte, di contro a
quello della «terribilità»: dolce, L’Aretino, Venezia 1557, ed. Lanciano
1913, p. 7.
52
Recentemente, l’esposizione di p. o. kristeller, The classics and
Renaissance thought, Cambridge (Mass.), 1955, cap. I.
53
p. o. kristeller, «The modern system of the arts», a study in the
history of aesthetics, in «Journal of the History of Ideas», xii (1951), pp.
496-528, e xiii (1952), pp. 17-45, sul complesso di questi problemi.
54
Sull’insieme di questi sviluppi: a. blunt, Artistic theory in Italy,
1450-1600, London 1940, 2ª ed. 1954; i. a. richter, Paragone, a comparison of the arts by Leonardo da Vinci, London 1949, introduzione; l.
olschki, Geschichte der neusprachlichen wissenschaftlichen literatur, I:
Die Literatur der Technik ecc., Leipzig 1919.
55
a. chastel, Léonard de Vinci et la culture, in Léonard de Vinci et
l’expérience scientifique au XVIe siècle, Paris 1953, pp 260 sgg.
56
l. b. alberti, Della pittura, ed. L. Mallé, Firenze 1950, pp. 9 sgg.
c. gilbert, Alberti and Pino, «Marsyas», iii (New York 1946), pp. 87 sgg.
57
Quintiliano era stato ritrovato da Poggio nel 1416: già nel 1420
interessa G. da Barbizza a Padova, poi il Guarino, G. di Trebisonda,
e infine il Poliziano che gli dedicherà un corso nel 1480.
58
r. w. lee, Ut pictura pöesis: the humanistic theory of painting, in
«The Art Bulletin», xxx (1940), 4, pp. 197 sgg.
59
r. w. lee, Ut pictura pöesis ecc. cit., ne ha seguito la storia.
60
Sul tema: Naturam vincere, a. colasanti, Gli artisti nella poesia
del Rinascimento, fonti poetiche per la storia dell’arte italiana, in «Repertorium für Kunstwissenschaft», xxvii (1904), pp. 195 sgg.
61
b. schweitzer, Mimesis and Phantasia, in «Philologus», vol.
LXXXIX (1934), pp. 286-300; Marsile Ficin et l’art cit., p. 68 n. 2.
Leonardo, Cod. Ashburnham, I, 20 r: ed. J. P. Richter, n. 13; g.
fumagalli, op. cit., p. 235; Trattato, ed. McMahon, n. 6, § 5. Solo il
primo editore indica la derivazione da Filostrato. p. gauricus, De
Sculptura cit., pp. 16 e 104. La «licenza» fantastica necessaria al poeta
e al pittore è stata affermata, seguendo Aristotele, da Orazio: Ars poetica, vv. 9-11. Il suggerimento non è passato inosservato: è stato ampiamente sviluppato nei Dialoghi di francisco de hollanda, trad. it., pp
132 sgg., dove i versi d’Orazio sono citati da Michelangelo che dichiara: «Se un grande pittore (e poche volte accade) fa un’opera, che pare
falsa e mentitrice, in quella tale falsità vi è molta verità»: questo a proposito delle chimere e dei grotteschi.
62
Cfr. Marsile Ficin et l’art cit., pp. 66-67.
63
Cfr. e. müntz, Les archives des arts, prima serie, Paris 1890, pp.
33-42. Il passo del De divina proportione, cap. XII, ed. C. Winterberg,
Wien 1889.
64
Marsile Ficin et l’art cit., II, 5.
Storia dell’arte Einaudi
209
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
È ciò che dichiarava plinio, Naturalis Historia, XXXIV, 65, e che
il Landino e il Gaurico si accontentano di ripetere.
66
L’idea di misura (traduzione approssimativa di: symetria) è già per
il Ghiberti la regola aurea: r. krautheimer, Lorenzo Ghiberti cit., p. 231.
67
La vita di Filippo di ser Brunellesco, ed. E. Toesca, Firenze 1927,
p. 18.
68
gauricus, De sculptura, ed. Brockhaus, p. 154; Marsile Ficin et
l’art cit., II, 5.
69
Marsile Ficin et l’art cit., II, 2.
70
l. olschki, Geschichte der neusprachlichen wissenschaftlichen Literatur cit., cap. VI.
71
Il De harmonia mundi di Francesco Zorzi (Venezia) sviluppa il
sistema universale delle forme sulla base dell’analogia musicale; esso ha
potuto essere messo in rapporto con l’estetica del Palladio: r.
wittkower, Architectural principles ecc. cit., IV, I. Su questo Francesco Zorzi o Giorgio Veneto, cfr. c. vasoli, in Testi umanistici sull’Ermetismo, Roma 1955, pp. 79 sgg.
72
V. Danti, autore d’un trattato sulle proporzioni perfette (Firenze 1567) attribuirà a Michelangelo riserve di ogni genere su un uso delle
proporzioni che non tenti di superare il loro rapporto meccanico. e.
panofsky, Idea ecc. cit., cap. IV. c. de tolnay, in IIe Congrès d’Esthétique et de Science de l’Art, Paris 1937 (1), p. 23, e id., Werk und Weltbild des Michelangelo, Zürich 1949, p. 92.
73
a. buck, Dichtungslehre ecc. cit.
74
p. gauricus, De sculptura, ed. H. Brockhaus, p. 122; il Vasari
ricorda la frase di Michelangelo: «...che bisognava avere le seste negli
occhi e non in mano, perché le mani operano, e l’occhio giudica». Cfr.
c. de tolnay, Werk und Weltbild ecc. cit., p. 94.
75
Das Tagebuch des Poliziano, ed. A. Wesselsky, Iena 1929, p. 150.
76
g. gutkind, Cosimo de’ Medici il Vecchio, 2a ed., Firenze 1949,
p. 311; alcune indicazioni in Marsile Ficin et l’art cit., p. 66, e in Léonard et la culture cit., p. 259. Sul problema: g. p. hartlaub, Das Selbstbildnerische in der Kunstgeschichte, in «Zeitschrift für Kunstwissenschaft», ix (1955), 1-2.
77
Marsile Ficin et l’art cit., pp. 65-66. Si deve avanzare questa riserva alle osservazioni di creighton gilbert, On subject and not-subject
in italian Renaissance, in «ab», xxxiv (1952), 3.
78
Sonetti di Matteo Franco e Luigi Pulci, Lucca 1759, ripubblicato
in Il libro dei sonetti, da G. Dolci, Milano 1933. Su questo poeta di
corte, g. volpi, Un cortigiano di Lorenzo il Magnifico, in «Giornale storico della letteratura italiana», xvii (1891), pp. 229 sgg.
79
savonarola, Prediche sopra Ezechiel (XXVI), nell’ed. di Venezia
1517, fol. 71 e: «E si dice che ogni dipintore dipinge se medesimo. Non
dipinge già se in quanto huomo perché fa delle immagini di leoni, caval65
Storia dell’arte Einaudi
210
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
li, huomini e donne che non sono, ma dipinge se in quanto dipintore:
idest secondo il suo concepto. E benché siano diverse phantasie o figure de dipintori che dipingono, tamen sono tutte secondo il concepto
suo: cosí li philosophi perché erano superbi descripsono idio per modi
altieri e gonfiati...»; segue una critica d’Aristotele e Platone.
80
Ms A 23 a: ed. Richter, n. 586. Trattato della pittura, ed. P.
McMahon, Princeton 1956, pp. 44 sgg.: «del massimo diffetto de’ pittori» Michelangelo ne trasse una battuta di spirito riferita dal Vasari:
«Aveva non so ché pittore fatto un’opera dove era un bue che stava
meglio dell’altre cose; fu domandato perché il pittore aveva fatto piú
vivo quello che l’altre cose, disse: Ogni pittore ritrae se medesimo
bene» (vasari, ed. Milanesi, VII, 280).
81
Ms BN 2038, fol. 33 v. g. fumagalli, p. 264; a. chastel, Léonard et la culture cit., p. 259.
82
dante, Convivio, IV, canzone 3, vv. 52-53, e comm. X.
83
g.pico, Opera, ed. E. Garin, 1942, vol. I, pp.467-68.
84
e. zilsel, Die Entstehung des Geniesbegriffes, Tübingen 1926; e.
panofsky e f. saxl, Dürers Melancolia I, 2a ed. (inedita).
85 È
ciò che vedremo piú da vicino nella parte III e nella Conclusione.
86
Queste polemiche risalivano al Trecento: v. rossi, Dante nel Trecento e nel Quattrocento, in Scritti di critica letteraria, Firenze 1930, I,
p. 293, e id., Il Quattrocento cit., pp. 105-15. La polemica piú viva sembra aver riguardato il problema del latino: Coluccio Salutati: «Se avesse saputo scrivere in latino con la stessa eleganza con cui scriveva nella
lingua materna: sarebbe allora superiore a Virgilio e Omero», Epistolario, ed. F. Novati, Roma 1891-1911, vol. III, p. 491. Alla fine del
Trecento un monaco olivetano, Matteo Ronto, aveva tradotto la Commedia in latino. Una altra eco di queste polemiche l’abbiamo nel testo
di f. rinuccini, Invectiva contra a certi caluniatori di Dante, ne Il paradiso degli Alberti, ed. Wesselofsky, Bologna 1867, I, pp. 380 sgg. (citato da e. garin, Il Rinascimento italiano cit., pp. 84-85), in cui si tratta
e del valore di Dante e del primato di Platone. Cfr. soprattutto: a.
della torre, La prima ambascieria di Bernardo Bembo a Firenze, in
«Giornale storico della letteratura italiana», xxxv (1900), pp. 305-8.
e.-g. ledos, Lettre inédite de Cristotoro Landino à B. Bembo, in
«Bibliothèque de l’Ecole des Chartes», liv, 6, pp. 721-24.
87
leonardo bruni, Dialogi ad Petrum Histrum, ed. G. Kirrer,
Livorno 1889.
88
b. johannis dominici, card. s. sixti, Lucula Noctis, ed. R. Coulon, Paris 1908. Questo testo è stato pubblicato in occasione di una
polemica sulla lettura degli autori antichi, tra L. Bruni e il Beato: v.
rossi, Il Quattrocento cit., p. 56. Cfr. anche a. renaudet, Dante humaniste, Paris 1954.
Storia dell’arte Einaudi
211
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
lorenzo il magnifico, Ambra, ed. cit.: Lorenzo imita le pagine
mistiche della Commedia nella sua altercatio.
90
v. rossi, Il Quattrocento cit., p. 336. È anche il momento in cui
per la prima volta verrà sollevata la questione del ritorno delle ceneri,
come dimostra una lettera di Antonio Manetti a Lorenzo del 13 aprile 1476. Cfr. i. del lungo, Un pensiero a Dante, in Florentia cit., pp.
451 sgg. B. Bembo, richiesto d’intervenire durante il suo soggiorno a
Firenze, si limiterà a far restaurare la tomba del poeta a Ravenna nel
1483. La questione sarà ripresa al tempo di Leone X: c. ricci, L’ultimo rifugio di Dante Alighieri, Milano 1891.
91
Prefazione riprodotta nel Supplementum ficinianum cit. (pubblicato da P. O. Kristeller), t. II, pp. 184 e 185. Sulle circostanze della
traduzione, a. della torre, Storia, p. 576.
92
Per quest’aspetto della poesia di Dante: g. busnelli, L’Etica nicomachea e l’ordinamento morale dell’Inferno di Dante, Bologna 1907. e.
gilson, Dante et la philosophie, Paris 1942. È giusto osservare che lo
«stagirismo» del poeta non è esclusivo, in quanto viene coronato dalla
mistica «cistercense» e dunque «dionisiana» nel Paradiso, dove si trovano naturalmente le piú forti influenze del neoplatonismo antico,
come ha rilevato t. whittaker, The neoplatonists, 2a ed., Cambridge
1918, p. 192. Sullo stesso problema: b. nardi, Saggi di filosofia dantesca, Milano 1930, e la recensione di e. testa, in «Giornale storico della
letteratura italiana», 1931, pp. 163-67.
93
Comedia di Dante Alighieri con l’esposizione di Cristoforo Landino, Venezia 1529, proemio p. 9 (testo latino e traduzione italiana). La
lettera del Ficino è ripresa (testo latino) in Opera, p. 840, alla fine del
libro VI dell’Epistolario. I due testi recano «jam redivino», che deve
essere corretto in «redivivo» (trad. it. Figliucci, Venezia 1563, II, p.
50). j. festugière, Dante et Marsile Ficin, in «Bulletin du Jubilé», v
(1922), pp. 535-43, insiste solo sul fatto che «Dante non è affatto platonico»; lo era per i lettori della fine del secolo xv.
94
michele barbi, Della fortuna di Dante nel secolo XVI, Firenze
1890, p. 150; cfr. anche p. l. rambaldi, Dante e Giotto nella letteratura artistica sino al Vasari, in «Rivista d’arte », xix (1937), pp. 286 sgg.
95
sperone speroni, Dialogo dell’istoria, Opera, II, p. 269, citato da m. barbi, Della fortuna di Dante ecc. cit., p. 15 n. Attraverso la
cerchia di Careggi il culto di Dante raggiunse Venezia; l’intermediario
fu Bernardo Bembo, venuto a Firenze nel 1474-75: a. della torre,
La prima ambasceria ecc. cit., pp. 305-8. Cfr. anche e.-g. ledos, Lettre
inédite cit.
96
Il Landino mostra, nella sua lunga prefazione, un particolare
interesse per certe immagini fresche e rustiche del poeta: Inferno,
XXVI, 25, e naturalmente per le immagini astrali piú inattese: Paradiso, XXVII, 13.
89
Storia dell’arte Einaudi
212
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Ad esempio, Purgatorio, XXIX, 120. Tutti questi punti sono commentati da a. renaudet, Dante humaniste cit.
98
Paradiso, I, 19-21. La scena è rappresentata, senza alcun riferimento all’arte antica, nel ms Yates Thompson del British Museum
(Senese, c. 1440) studiato recentemente da j. pope-hennessy, A sienese
codex of the Divine Comedy, London 1947 (tav. xli, fo1. 129 r): accanto ad Apollo in piedi vicino al lauro della gloria poetica, giace Marsia
scorticato; dietro a lui, un curioso Pan, color arancione «accompagnamento tradizionale dell’episodio», suona il flauto (p. 21 n. 91). I miti
antichi attraverso i quali Dante esalta la novità e singolarità della sua
opera (ad esempio, Paradiso, II, 16 e XXXIII, 94, le allusioni agli Argonauti) venivano facilmente a confortare la dottrina neoplatonica dell’allegoria. Su tutti questi punti: y. batard, Dante, Minerve et Apollon,
Paris 1954.
99
p. schubring, Illustrationen zu Dantes Göttlicher Komödie (Italien
14 bis 16 Jh.), Zürich 1931, pp. 12 e 26; le fonti«artistiche» della Commedia sono state studiate da a. venturi, Dante e l’arte, in Dante, Milano 1921. Su questo delicato problema: r. roedel, Il sussidio delle arti
figurative nell’interpretazione dei velami della D. C., in Atti del V Congresso di Lingue e Letterature moderne, Firenze 1955.
100
t. whittaker, The neoplatonists cit., nota che «Dante rende tutto
in termini di estensione senza mai giungere, come i neoplatonici [d’Alessandria] all’apprensione diretta della realtà pura, immateriale»; forse
è proprio questo che egli ha in comune col Ficino.
101
I passi dottrinali della Commedia sulla struttura del mondo (Inferno, XI, Purgatorio, XVII, Paradiso, XXVIII) rinviano tutti al segreto
dell’Amore divino, invocato all’inizio del poema (Inferno, I, 39-40) e
nell’ultimo verso del Paradiso, XXXIII, 145. h. r. patch, The last line
of the «Commedia», in «Speculum», xiv [1939], pp. 56-65, vi rileva
«l’esaltazione dell’amicizia platonica».
102
È cosí che il «Veltro» celebre dell’Inferno, I, 105, viene interpretato, in base ai dati dell’astrologia in voga a Firenze, in funzione
dell’incontro eccezionale di Saturno e Giove previsto nel Cielo del 25
novembre 1484 come annuncio di un grande sconvolgimento e di una
riforma religiosa: a. warburg, Gesammelte Schriften cit., II, p. 654.
A questo proposito si può osservare che la definizione del poema data
dal Poliziano: «Aligerum... Dantem, ï Per styga per stellas mediique
per ardua montis, ï Pulchra Beatricis sub virginis ora, volantem» (in
Nutricia, vv. 720-22, ed. I. del Lungo, Firenze 1925, p. 176) mette
in evidenza essenzialmente l’aspetto celeste e astrologico della Commedia.
103
n. a. robb, Neoplatonism ecc. cit., cap. V. v. rossi, Il Quattrocento cit., pp. 257-62. e. müntz, Histoire de l’art ecc. cit., II, p. 65,
già aveva notato la voga di Dante presso i pittori e gli scultori alla fine
97
Storia dell’arte Einaudi
213
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
del Quattrocento, ma incorrendo in un curioso errore: «Il periodo in
cui Dante trova meno imitatori fra i poeti è per l’appunto quello in cui
riceve piú omaggi dagli artisti».
104
matteo palmieri, Città di Vita (i primi 15 canti), ed. M. Rooke,
Northampton 1927. Cfr. n. a. robb, Neoplatonism ecc. cit., p. 140.
105
b. soldati, La poesia astrologica nel Quattrocento, Firenze 1906,
cap. II. Il poema fu pienamente approvato dal Ficino; cfr. l’epistola in
cui si trova riassunto, in Opera, p. 750.
106
a. della torre, Storia cit., pp. 687-88. a. lazzari, Ugolino e
Michele Verino cit., Torino 1897.
107
n. a. robb, Neoplatonism ecc. cit., p. 157, afferma che il poema
fu scritto intorno al 1489-90 sotto l’influenza del Savonarola; secondo a. della torre, Storia cit., pp. 697-700, sarebbe stato composto
piuttosto dopo il 1499, anno della morte del Ficino, mantenendosi fedele all’insegnamento del maestro neoplatonico.
108
w. goetz, Das Dantebildnis (Schriften der deutschen Dantegesellschaft, I), Weimar 1937, ha fornito la messa a punto piú precisa sul problema confrontando i repertori di Volkmann, Schubring e quello del
Passerini, Il ritratto di Dante, Firenze 1921, con i risultati dello studio
antropologico di f. frasseto, Dantis ossa, la forma corporea di Dante,
Bologna 1933. Altra raccolta: f. j. mather jr, The Portraits of Dante,
Princeton 1921.
109
r. altrocchi, Michelino’s Dante, in «Speculum», vi (1931),
pp. 15-59.
110
f. arcangeli, Tarsie, 2ª ed., Roma 1943, n. 32.
111
Tuttavia il Ritratto di Dante nella serie degli «uomini famosi»
d’Urbino (c. 1475) non sembra dover nulla ai fiorentini.
112
Sull’interesse del Landino e di Lorenzo per Petrarca, cfr. v.
rossi, Il Quattrocento cit., pp. 335 sgg. e 547. Il Landino pronunciò
una celebre oratio inaugurando uno dei suoi corsi sul Canzoniere. Sulle
illustrazioni del Petrarca: principe d’essling e e. müntz, Pétrarque, ses
études d’art, son influence sur les artistes, ses portraits et ceux de Laure, l’illustration de ses écrits, Paris 1902. Sull’importanza del tema trionfale,
connesso al poema del Petrarca: w. weisbach, Trionfi, Berlin 1919.
Alcune di queste illustrazioni pongono dei problemi: al fol. 1 v dei
Trionfi del Petrarca, ed. di Venezia 1470-80 (catalogo della mostra: Italian illuminated manuscripts, Bodleian Library, Oxford 1948, n. 25) si
vedono: nove filosofi in una caverna, motivo che può essere un’allegoria di spirito platonico, come suggerisce O. Pächt.
113
Dopo il rapido studio di b. berenson, Dante and his early illustrators, in The Study and Criticism of italian art, I, London 1901, pp.
13-19, si è spesso insistito sull’importanza dell’opera nella formazione
dei grandi artisti del Rinascimento (w. goetz, op. cit., p. 22, e o.
fischel, Dante und die Künstler, Berlin 1921); resta da dimostrare
Storia dell’arte Einaudi
214
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
come questa nuova importanza di Dante per la vita dell’arte coincida
con la sua adozione da parte dell’accademia platonica.
114
l. volkmann, Bildliche Darstellungen zu Dantes Divina Commedia bis zum Ausgang der Renaissance, 1ª ed., Leipzig 1892, trad. it. Iconografia dantesca, le rappresentazioni figurative della Divina Commedia,
Firenze 1908, rimane, nonostante le lacune, lo studio di base, che viene
integrato da p. schubring, Illustrationen zu Dantes ecc. cit. L’edizione
di C. Ricci, La Divina Commedia illustrata nei luoghi e nelle persone, 3
voll., Milano 1931, raccoglie opere di tutti i tempi ispirate da Dante;
quella di N. Zingarelli e P. D’Ancona, La Divina Commedia, Bergamo
1934 (con introduzione, pp. xxiii sgg. su «la D. C. e le arti figurative») comprende illustrazioni antiche.
115
Firenze, Biblioteca Nazionale, Palatina 313: ms eseguito prima
del 1333.
116
Budapest, Univ. Bibl., n. 33: l. volkmann, Iconografia dantesca
ecc. cit., pp. 49-50.
117
Firenze, Biblioteca Nazionale, Cod. II, 1, 29.
118
e.Biblioteca Marciana, classe IX, n. 276: 245 grandi miniature.
Alcune sono state pubblicate da a. bastermann, Dante und die Kunst,
in Dantes Spuren in Italien, Heidelberg 1897, trad. it. Orme di Dante in
Italia, Bologna 1902. L’autore, al pari di l. volkmann, Bildliche Darstellungen zu Dantes ecc. cit., p. 45, considera il manoscritto come postgiottesco.
119
p. de ricci, Les manuscrits de la collection H. Yates Thompson,
London 1926, n. 33. j. pope-hennessy, A sienese codex of the Divine
Comedy, London 1947, che ha proposto queste attribuzioni, mostra
come il manoscritto sia stato eseguito mentre ottenevano grande successo a Siena le letture di Dante che vi si tennero intorno al 1430-40.
120
l. rocca, Di alcuni commenti della Divina Commedia, Firenze
1891. j. pope.-hennessy, A sienese codex ecc. cit., pp. 28-29. Cosí al
fol. 163 r (op. cit., n. 70), in margine a Paradiso, XXII, 45, la miniatura mostra san Benedetto che abbatte l’idolo d’Apollo, di cui parla solo
il commento.
121
Fol. 129 r (op. cit., nn. 41 e 7.20): da accostare al manoscritto
citato a p. 116 n. 2.
122
Parigi, Bibliothèque Nationale, ms it. 2017 (pubblicato da l.
auvray, Les manuscrits de Dante des Bibliothèques de France, Paris
1892, pp. 115-27, e c. morel, Une illustration de l’«Enfer» de Dante,
71 miniatures du XVe siècle, Paris 1825); e Imola, Biblioteca Comunale, Cod. framm. n. 32. Questo importante manoscritto recava piú di
cento miniature.
123
vasari, ed. Milanesi, V, p. 396. j. mesnil, Botticelli, Paris 1938,
cap. IX, p. 121.
124
g. mambelli, Gli annali delle edizioni dantesche, Bologna 1931,
Storia dell’arte Einaudi
215
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
n. 10. a. m. hind, Early italian engraving, a critical catalogue, I. Florentine engraving, London 1937.
125
Ed. di Brescia, g. l. passerini, La Divina Commedia nelle silografie quattrocentesche, Terni 1920. g. mambelli, Gli annali ecc. cit.,
n. 12. l. volkmann, op. cit., pp. 51-52. L’illustrazione è erronea per
quanto riguarda i bassorilievi del Purgatorio, I.
126
g. soulier, Les influences orientales ecc. cit., p. 226.
127
g. mambelli, Gli annali ecc. cit., nn. 13 e 14: si distinguono un’edizione apparsa nel marzo e una copia pubblicata nel novembre.
128
Catalogue des enluminures de hautes époques (Vendita alla Galleria G. Petit del 6 dicembre 1926), Paris 1926, pp. 26-46: libro miniato della fine del xv secolo, progetto di un’edizione illustrata da Piero
da Figline. t. gnoli, Il Dante di Pietro da Figline, in «Accademie e
Biblioteche d’Italia», i (1927), pp. 20-35, e f. sarri, in «Giornale dantesco», xxx (1927), 3.
129
Firenze, Biblioteca Laurenziana, Plut. 40, 7. l. volkmann, op.
cit., p. 42; 65 miniature che schubring, Illustrationen zu Dantes ecc. cit.,
n. 303, chiama Laur. II, e per le quali ha notato i rapporti con le tavole del 1491.
130
Biblioteca Vaticana, Urb. 365. Complesso di 110 miniature di
grandi dimensioni (4205240), di cui alcune (Purgatorio, 26 e 7, Paradiso, 10, 28-33), sono della fine del xvi secolo. l. volkmann, op. cit.,
pp. 32, 67-90; franciosi, Il Dante vaticano e l’urbinate descritti, Città
di Castello 1896; f. hermanin, Le miniature ferraresi della Biblioteca
Vaticana, ne «L’arte», iii (1900), pp. 341-73, ha distinto diverse mani:
Guglielmo Giraldi, Alessandro Giraldi, Maestro Violaceo I, ecc. Sulla
miniatura ferrarese: j. hermann, in «Jahrbuch der Kunsthistorischen
Sanmmlungen der allerh. Kaiserh», xxiii (1902); p. d’ancona, op. cit.,
pp. 65 sgg., e m. salmi, La miniatura italiana, Milano, 1953 pp. 64.
131
p. d’ancona, op. cit, p. 27-29 ha mostrato la povertà dei manoscritti di Dante nel Trecento.
132
g. mazzoni, Influssi danteschi della «Maestà» di Simone Martini,
in «Archivio storico italiano», ii (1936), pp. 144-62. p. rossi, L’ispirazione dantesca in una pittura di Giovanni di Paolo, in «Rassegna d’arte senese», xiv (1931), p. 149, e l. volkmann, op. cit., p. 14. Il Giudizio finale di Nardo di Cione (avanti 1365) è prossimo a una miniatura della Biblioteca Nazionale 74, a cui è stato spesso accostato: l.
volkmann, op. cit., p. 7.
133
o. fischel, Dante und die Künstler cit., p. 8, ha notato come la
complessità contraddittoria della fantasia dantesca sollecitasse due tipi
opposti di figurazione.
134
Anonimo Magliabechiano, ed. K. Frey (1892), cit., p. 105. vasari, ed. Milanesi, III, p. 321, racconta che in seguito a una burla un po’
eccessiva fatta a un collega, Sandro fu a sua volta preso in giro «poi-
Storia dell’arte Einaudi
216
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
ché senza avere lettere o appena saper leggere, comenta Dante, e mentova il suo nome in vano».
135
e. h. gombrich, Botticelli’s mythologies ecc. cit., p. 43; h. p.
horne, Botticelli, London 1908, p. 59, ha per primo fatto notare che
esiste un rapporto tra la Primavera e il cugino del Magnifico. j. mesnil,
Botticelli cit., cap. IX, pp. 122 sgg.
136
La raccolta è stata ritrovata e resa nota solo alla fine del secolo
scorso. f. lippmann, Zeichnungen von Sandro Botticelli zu Dante’s göttlicher Komödie, Berlin 1887, ed. ingl. (completa), London 1896 (a.
perate, Dessins inédits de Sandro Botticelli pour illustrer l’Enfer de Dante,
in «Gazette des Beaux-Arts», 1887 [1], pp. 196 sgg.). In j. mesnil, Botticelli cit., riprod. tavv. lxxxiilxxx (Purgatorio e Paradiso), h. p. horne,
Botticelli cit., p. 192, c. gamba, Botticelli, Paris s. d., pp. 153-60
(testo, pp. 187-94). I disegni per l’Inferno, completati per gli 8 canti
perduti, con le incisioni Baldini, sono stati pubblicati in una scadente
edizione Lear, New York 1947. Per uno studio completo cfr. y.
batard, Les dessins de Sandro Botticelli pour la «Divine Comédie», Paris
1952.
illustrazioni di botticelli per dante
Bibl. Vaticana
Perdute
Gab. Stampe Berlino
(distrutte 1945)
1-30
Non eseguite
Inferno
(8)
(8)
Purgatorio
Paradiso
1 9-10 12-13 –
15-16 19
2.3.4.5.6.7. 11. 14
(18)
8 17-18 20-34
1-33
31-33
Esistono numerosi studi sulla questione: i. b. supino, I disegni per
la Divina Commedia, Bologna 1909-12. a. venturi, Il Botticelli interprete di Dante, Firenze 1921; p. toesca, Sandro Botticelli e Dante, in
«Bibliofilia», 1922; e la mirabile analisi di b. berenson, The Drawings
of the Florentine Painters cit. La tecnica di questi disegni: punta d’argento ripassata a penna, e forse in origine destinata ad essere acquarellata (tre tavole presentano ombreggiature e tocchi di colore, c.
gamba, Botticelli cit., p. 187), è in un certo senso, il punto d’arrivo di
tutta quanta la pratica fiorentina: cfr. j. meder, Die Handzeichnung,
Wien 1923.
138
Il «taumaturgo gotico» di Botticelli si contrappone al poeta togatus del Signorelli: d. comparetti, Virgilio nel Medioevo, 2a ed., Firenze 1896; g. soulier, op. cit., p. 158.
139
j. mesnil, Botticelli cit., tav. lxxiii.
140 .
venturi, Il Botticelli ecc. cit., p. 38.
137
A
Storia dell’arte Einaudi
217
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
. fischel, Dante und die Künstler cit., p. 8.
j. pope-hennessy, op. cit., fig. xiii (p. 33).
143
j. mesnil, Botticelli cit., p. 127.
144
Cfr. piú avanti.
145
s. bettini, Botticelli cit., p. 40.
146
v. gouloubev, in «Gazette des Beaux-Arts», 1914, e f. r. martin, Zeichnungen nack Wei Tao-Tze, München 1914, pongono a confronto disegni cinesi del xiv secolo. j. mesnil, Botticelli cit., p. 124.
147
g. soulier, op. cit., p. 260, ha richiamato l’attenzione su alcuni
motivi «orientali» nelle miniature del Paradiso. p. d’ancona, La miniatura fiorentina cit., tav. liii.
148
j. baltrusaitis, Le Moyen Age fantastique, Paris 1956, pp. 211 sgg.
149
s. bettini, Botticelli cit., p. 39.
150
f. lippmann, Zeichnungen ecc. cit., cap. XXVIII; riprodotto da
j. mesnil, Botticelli cit., tav. lxxx. L’allusione a Dionigi è al v. 133,
quella a san Paolo ai vv. 138-39.
Il Botticelli ha segnato il suo nome solo su un’altra opera: la Natività mistica della National Gallery di Londra.
I tre ultimi canti e la visione finale di Dante sono rimasti senza illustrazione.
151
Il Ficino espone, seguendo Dionigi, «L’ordine dei cieli, degli
angeli, delle anime» nel De christiana religione, cap. 121, Opera, p. 19
(come, basandosi sulle stesse fonti fa dante, Convivio, II, 9, e soprattutto Paradiso, XXVIII). Il Ficino considera gli angeli, «mentes plurimas corporibus non unitas» (Theologia Platonica, I, 5), come una «multitudo immobilis».
152
La descrizione piú completa rimane quella di r. vischer, Luca
Signorelli und die italienische Renaissance, eine kunsthistorische Ikonographie, Leipzig 1879, pp. 285-304. Cfr. anche l. dussler, Signorelli,
Leipzig1905, e m. salmi, Signorelli, Firenze 1954. L’analisi dei medaglioni si può trovare in l. luzi, Il Duomo di Orvieto, Firenze 1866, pp.
59-200, con alcune correzioni in f. x. kraus, Dante cit., e l. dussler,
Signorelli cit., pp.204-6. Osservazioni generali in a. venturi, Luca
Signorelli interprete di Dante, Firenze 1922.
153
Cfr. piú avanti.
154
Lo «zoccolo» fa di Signorelli un «vero e proprio illustratore di
Dante». n. caioli, Spiriti e forze dantesche negli artisti aretini, in Dante
ed Arezzo, «Atti della R. Accademia Petrarca», ii (Arezzo 1922), p.
287. Sull’ambiente d’Orvieto, dove già dal Trecento si leggeva Dante
in duomo, l. fumi, Il Duomo di Orvieto, Roma 1891.
155
Sull’opera e la sua importanza cfr. piú avanti.
156
Theologia Platonica, XVIII; a. chastel, Marsile Ficin et l’art cit.,
p. 166, n. 6.
157
R. vischer, Luca Signorelli ecc. cit., p. 303, ha pensato ad allie141
O
142
Storia dell’arte Einaudi
218
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
vi: G. Genga, Polidoro, citati da a. venturi, Luca Signorelli ecc. cit.,
p. 43.
158
f. lippmann, Zeichnungen von Sandro Botticelli ecc. cit., ha creduto poter supporre, senza ragione, un’influenza del Botticelli: ipotesi confutata da l. volkmann, Bidliche Darstellungen ecc. cit., p. 70.
159
Purgatorio, I, 31 sgg. Questo aspetto nuovo è quello di Virgilio
saggio platonico che compare nel commento del Landino all’Eneide: v.
zabughin, Vergilio nel Rinascimemto ecc. cit., I, cap. III, p. 198; sarà
poi quello di Raffaello nel Parnaso, come hanno notato l. volkmann,
Bildliche Darstellungen ecc. cit., p. 72 e h. wölfflin, Die Klassische
Kunst, München 1898 (trad. it. L’arte classica, 2ª ed. Firenze 1953).
160
W. goetz, Das Dantebildnis cit., p. 28, osserva l’opposizione totale con il profilo arabescato del poeta (coll. Langton Douglas, C. Gamba,
Botticelli cit., p. 161) attribuito a Botticelli.
161
Cfr. piú avanti.
162
Inferno, III, v. 52. Dello stesso: Caronte sul fiume, da XXV, 1
sgg. Questa tesi è quella di f. x. kraus, Dante cit., e a. venturi, Luca
Signorelli ecc. cit., ripresa da a. von marle, The development of the italian Schools, vol. XXVI, p. 62.
163
vasari, ed. Milanesi, II, p. 353.
164
l. a. michelangeli, Sul disegno dell’inferno dantesco, Bologna
1905, p. 40; l’opuscolo di A. Manetti (1506) ripubblicato dallo Zingarelli, Città di Castello 1897.
165
Ed. J. P. Richter, The literary works ecc. cit., n. 1421, II, p. 355.
166
La scena, riferita dall’Anonimo Gaddiano, sembra essere accaduta verso il 1501, all’epoca del David, al piú tardi nel 1504. g. seailles, Leonard de Vinci, Paris 1892, p. 123.
167
F. schneider, Dante und Leonardo, in «Deutsches Dante Jahrbuch», xxii (nuova serie xiii) (Weimar 1940), pp. 152-55, riassume e
completa le osservazioni di e. solmi, Le fonti dei manoscritti di Leonardo
da Vinci, Torino 1908, n. lviii, e di f. fuggi, Studi filosofici e letterari, Torino 1938, pp. 445-59. p. meller, Leonardo da Vinci’s drawings
to the Divine Comedy, in «Acta Historiae Artium», ii (Budapest 1955),
pp. 135-68, ha ugualmente ricordato la familiarità di Leonardo con l’opera di Dante, proponendo di considerare come delle figure ispirate
dalla Divina Commedia certe maschere demoniache e un certo numero
di figure che si considera di solito come costumi per mascherate: a. e.
popham, The drawings of Leonardo da Vinci, London 1946, n. 121
sgg.; cosí: Piccarda (Paradiso, III, 42) Raab (Paradiso, IX, 112), Matelda (Purgatorio, XXVIII, 79), quest’ultima essendo la celebre «ninfa»
di Windsor. Il parallelismo si stabilirebbe con Botticelli. L’ipotesi non
si fonda che su delle analogie impossibili a precisarsi.
168
M. johnson, Leonardo’s fantastic drawings, in «Burlington Magazine», lxxx (1942), p. 142. Le indicazioni date da a. e. popp, Leonar-
Storia dell’arte Einaudi
219
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
do da Vinci, Zeichnungen, München 1928, sono completate da g. neufeld, A drawing by Leonardo, in «The Art Bulletin», xxviii (1946), 1,
pp. 47-49. Il disegno W. 12388, mostra con l’esplosione e la distruzione
finale del cosmo una piccola resurrezione dei morti; cfr. a. e. popham,
The drawings ecc. cit., p. 288.
169
Trattato della pittura, ed. H. Ludwig, Vienna 1882, n. 25, 1,
p. 50.
170
. degenhart , Dante, Leonardo und Sangallo, in «Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte», vii (1955), pp. 101-291. Un breve riassunto
di questo studio si trova in «Kunstchronik», 1954, 7 (maggio), p. 131,
seguito da una serie di osservazioni; cfr. anche «HR», xix (1957), p.
366.
171
Conosciamo il passo di una lettera del 13 dicembre 1510 che si
riferisce a Giulio II «Parmi si voglia far docto in Dante ché ogni sera
si fa legere Dante e dichiarar da Bramante architetto doctissimo».
Cfr. c. baroni, Bramante, Bergamo 1944, p. 52.
172
. volkmann, Bildliche Darstellungen ecc. cit., non vedeva che
vaghi legami tra Dante e Raffaello;o. fischel, Raphaël und Dante, in
«Jahrbuch der preussischen Kunstsammlungen», xli (1920), pp. 83 sgg.
ha insistito con decisione su tali rapporti; egli ne ha fatto uno degli elementi essenziali della sua interpretazione, secondo la quale Dante è per
Raffaello «una guida ad ogni stadio del suo creare», il che è eccessivo.
Cfr. anche: c. spadoni, Dante e Raffaello, Roma 1921, e o. fischel,
Dante und die Künstler cit., pp. 9-11. Su Bramante dantologo cfr. r.
renier, Gaspare Visconti, in «Archivio storico lombardo», 1886, p. 535
n.
173
w. goetz, Das Dantebildnis cit., p. 34.
174
Le interpretazioni di h. grimm, Raffael’s Schule von Athen in dantescher Beleuchtung, in «Repertorium für Kunstwissenschaft», xlvii
(1926), pp. 94-112, sono suggestive ma troppo sistematiche.
175
. vossler, Die göttliche Komödie, Heidelberg 1907, t. I, p. 805;
p. schubring, Illustrationen zu Dantes ecc. cit., ad. loc.
176
Paradiso, XXX, 115 e XXXI, 122. I disegni citati sono riprodotti in o. fischel, Raphaels Zeichnungen, t. VI, Berlin 1925, n. 258
(Windsor), nn. 259 e 260 (Oxford e Chantilly). Per l’interpretazione
«luminista» del Paradiso, cosí agli antipodi del simbolismo grafico dei
Botticelli, Dante stesso ha fornito un’indicazione preziosa, parlando
della «battaglia de’ debili cigli», e richiamando il movimento delle nubi
che nascondono il sole, Paradiso, XXIII, 78 sgg.
177
. fischel, Raphaël, London 1948, pp. 161-65.
178
I vecchi studi di j. klackzo, Dante et Michel-Ange, in «Revue
des Deux Mondes», 1880, e di h. thode, Michelangelo und das Ende
der Renaissance, II, Berlin 1903, pp. 119-27, appaiono oggi troppo generali; le indicazioni di l. volkmann, Bildliche Darstellungen ecc. cit., conB
L
K
O
Storia dell’arte Einaudi
220
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
servano una loro utilità. k. borinski, Die Rätsel Michelangelos cit. ha
voluto trovare un principio d’interpretazione unitaria di tutta l’opera
di Michelangelo nella Commedia, il che significa dire molto e dire
nulla. Le sue ambiziose proposte sono state severamente criticate da
a. farinelli, Michelangelo e Dante cit., pp. 182 sgg. per quanto riguarda la volta della Sistina. Manca un moderno lavoro di sintesi sull’argomento.
179
Un editore antico del Vasari, il Bottari, Le Vite ecc., Roma 1759,
vol. I, p. 428, a proposito di un passo poco chiaro (ed. Milanesi, VI,
p. 244), ha scritto che Michelangelo aveva illustrato interamente il testo
della Commedia (a. bastermann, Orme di Dante in Italia cit.): l’opera
sarebbe stata perduta casualmente dal suo ultimo proprietario, A. Montanti (morto nel 1740). f. x. kraus, Dante, p. 618, ha analizzato la fondatezza di questa tradizione, che si è dissolta dopo lo studio di a. farinelli, Michelangelo e Dante cit., pp. 67-68.
180
All’identificazione di un ritratto di Dante nel Giudizio (e. nogara, «Rendiconti della Pont. Accad. Romana di Archeologia», ix
[1934]), si oppone la critica generale delle identificazioni in quest’opera, dove verosimilmente non compaiono ritratti (w. goetz, Das Dantebildnis cit., p. 43). Quanto alla «scoperta» di j. d. gonzalez, Scoperta d’un grande segreto dell’arte nel Giudizio universale di Michelangelo,
Roma 1954, cioè un ritratto colossale di Dante (inserito negli interstizi della composizione) e un’immagine di Cristo morto che sarebbe ad
esso sovrapposta, essa non ci sembra attendibile
181
C. de tolnay, The youth of Michelangelo cit., p. 22 (richiami al
Vasari e al Condivi). Fu G. F. Aldrovandi che fece affidare a Michelangelo l’incarico di eseguire le tre statue per l’arca di San Domenico.
182
In Le Rime, ed. C. Guasti, Firenze 1863, p. 153 e in k. frey,
Die Dichtungen des Michelagnolo Buonarroti, Berlin 1897, di cui occorre in alcuni casi rivedere la cronologia, come ha indicato . de tolnay,
The youth of Michelangelo cit., p. 54.
183
i. del lungo, Dell’esilio di Dante, Firenze 1881, pp. 183-88.
184
C. de tolnay, The Medici Chapel cit., 1948, p. 26.
185
Sono state raccolte da h. tietze, Francisco de Hollanda und
Donato Giannottis Dialogi und Michelangelo, in «Repertorium für Kunstwissenschaft», xxviii (1905), pp. 313-20.
186
Le lettere di Michelangelo Buonarrotti, ed. Milanesi, Firenze 1875,
lettera clv, p. 180.
187
m. barbi, Della fortuna di Dante ecc. cit., p.247.
188
Dialogi di Donato Giannotti, de’ Giorni che Dante consumò nel cercare l’Inferno e ’l Purgatorio, ed. D. Redig de Campos (Raccolta di Fonti
per la Storia dell’arte, II), Firenze 1939, p. 37.
189
Ibid., pp. 68-69. Per l’ultimo passo occorre ricordare i rilievi di
p. o. kristeller, The philosophy of Marsilio Ficino cit., pp. 96 sgg.
C
Storia dell’arte Einaudi
221
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
. varchi, Due lezzioni ecc., Firenze 1549, p. 117, richiama un
paragone del Paradiso, XXIII, 121, sul bimbo che si volge verso la
madre (ripreso nel XXX, 82-84), a proposito della Vergine della cappella medicea; c. de tolnay, The Medici Chapel cit., p. 144, nota che
è il primo parallelo istituito tra la poesia di Dante e la scultura di Michelangelo.
191
Precisamente B. Varchi, citato da e. steinmann, Die sixstinische
Kapelle cit., II, pp. 564-65.
192
Purgatorio, XXIX, 100; Inferno, XXIV, 91.
193
Purgatorio, XXVII, 97 sgg. Il riferimento è suggerito dal Condivi, ed. K. Frey (Ausgewählte Biographien Vasaris, II, Berlin 1887) p.
66. L’interpretazione delle due donne di Giacobbe come simboli della
vita attiva e della vita contemplativa si trova in san Tommaso, da cui
Dante evidentemente l’ha derivata; essa è utilizzata da Michelangelo
attraverso l’amplificazione platonica: e. panofsky, Studies in Iconology
cit., pp. 140 e 192. Dei quattro fiumi infernali si parla nell’Inferno,
XIV, 116 e nel Fedone, 15-16. Cfr. anche: c. de tolnay, Werk und
Weltbild des Michelangelo cit., p. 44.
194
Purgatorio, IX, 19; k. borinski, Die Rätsel Michelangelos cit., p.
142; e. panofsky, Studies in Iconology cit., p. 214.
195
È ciò che, unico per quanto ne so, ha riconosciuto e. panofsky,
Studies in Iconology cit., p. 179, in un passo che viene a coincidere con
la tesi generale del nostro studio: «Proprio il suo serio studio della Divina Commedia non poteva che approfondire il suo interesse per le dottrine dell’Accademia neoplatonica. Nessuno leggeva Dante senza un
commento, e delle dieci o undici edizioni di Dante stampate avanti il
1500 nove sono accompagnate dal commento di Cristoforo Landino,
nel quale ogni verso del poeta è interpretato in senso neoplatonico e
messo in rapporto con le teorie elaborate dal Landino negli altri suoi
scritti».
196
k. borinski, Die Rätsel Michelangelos cit., pp. 204 sgg., e w. kallab, Dante und Michelangelos Jüngstes Gericht, in «Zeitschrift für
Aesthetik und allg. Kunstwissenschaft», ii (1907), pp. 202-16, hanno
visto nella Commedia la fonte principale dell’opera di Michelangelo,
oltre al Signorelli di Orvieto. e. steinmann, Die sixtinische Kapelle cit.,
II, che la considera come una fonte importante per l’affresco, cerca in
questo la struttura delle tre cantiche e i personaggi di Dante. Gli studi
recenti: 1) hanno ridotto le identificazioni dantesche ad alcuni motivi
secondari (messa a punto di d. redig de campos e b. biagetti, Il Giudizio universale di Michelangelo, Roma 1943, pp. 46-47); 2) considerano piuttosto la Commedia un veicolo di temi neoplatonici o propriamente mistici, che Michelangelo, soprattutto intorno al 1540, poteva
derivare anche da altre fonti (c. de tolnay, Le jugement dernier de
Michel-Ange, essai d’interpretation, in «The Art Quarterly», 1940, pp.
190
B
Storia dell’arte Einaudi
222
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
125-47).
197
Inferno, III, 109-11, e V, 4-6; ibid., XXI, 29.
198
Purgatorio, VI, 118; Paradiso, XXXI, 1-2, ecc.
199
b. varchi, Due lezzioni cit., p. 116, citato da m. barbi, Della fortuna di Dante ecc. cit., p. 317.
200
Anche il Vasari (di cui non si deve dimenticare il fatto che ha
concluso con la Vita di Michelangelo la sua storia universale dell’arte)
non ha trascurato Dante, ma su un piano piú modesto, inserendolo nella
serie dei Fiorentini illustri: n. caioli, Spiriti e forze dantesche cit., cap.
III, e passerini, Il ritratto di Dante cit., p. 21, sul curioso disegno allegorico dell’Oxford College di Oxford.
Storia dell’arte Einaudi
223
Sezione terza i programmi
Introduzione
Il paradigma dell’architetto
Nel Quattrocento l’architettura era diventata presso
il pubblico fiorentino un’arte superiore, o addirittura, in
un certo senso, l’arte per eccellenza. La conclusione
della cupola di Santa Maria del Fiore aveva avuto un’eco di cui difficilmente si potrebbe esagerare la portata;
l’opera era stata paragonata alle classiche meraviglie del
mondo. L’Alberti, appena arrivato a Firenze, loda nella
prefazione del suo trattatello del 1435 la possente struttura che «copre della sua ombra i popoli della Toscana
tutta». Intorno al 1450 un famoso passo di Giannozzo
Manetti consacra questo significato «assoluto» del capolavoro fiorentino; «si può metterla al di sopra di tutto»,
scriverà il Verino mezzo secolo piú tardi. Le stesse contestazioni del Ghiberti il quale nei suoi Commentari
afferma di avere avuto una parte essenziale nell’opera
confermano l’importanza attribuita a questa realizzazione senza pari dell’«arte dedalea»1.
Amico dei «dotti», in rapporti stretti col cosmografo
e matematico Toscanelli, al quale gli umanisti, e il Ficino in primo luogo, dichiareranno la loro amicizia, sostenuto dagli intellettuali, il Brunelleschi rappresentava
una cultura fondata sul primato dell’architettura e che
aspirava a rinnovare sempre piú tutti gli aspetti dell’arte. Dopo il rifacimento del palazzo di Parte Guelfa,
intorno al 1420-25, il suo progetto per il palazzo Medici sarebbe venuto a trasformare il tipo del palazzo fio-
Storia dell’arte Einaudi
224
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
rentino. Egli però si dedicò a un’altra impresa assai
importante, niente meno che riformare la pianta basilicale tradizionale e compiere una serie di esperienze,
nuove per tutto l’Occidente, sull’edificio a pianta centrale. Le resistenze però non mancarono: molte sue
opere rimasero incompiute e furono oggetto di polemiche assai vive nell’ultimo terzo del secolo, allorché l’esempio del Brunelleschi ritornò di attualità.
La pianta della rotonda di Santa Maria degli Angeli
nel convento dei Camaldolesi (cominciata dopo il 1436,
ma la costruzione si limitò poco piú che alla base) incontrò tra il 1480 e il 1490 un successo rivelatore2. Santo
Spirito di cui il Brunelleschi aveva elaborato il progetto nel 1444 due anni prima di morire, rappresenta la sua
concezione piú matura e completa della pianta basilicale. La costruzione non fu condotta attivamente se non
dopo il 1471; la cupola fu terminata nel 1481 e fu allora che si accese una polemica famosa a proposito delle
aperture della facciata che si prolungò fin oltre il 1486.
Gli amici del Brunelleschi avrebbero voluto che si restasse fedeli al suo progetto, il quale avvolgendo tutto l’interno in un ritmo unitario di archi, prevedeva sulla facciata esterna un portico di quattro campate: ne sarebbero venute quattro porte in luogo delle tre aperture tradizionali che Giuliano da Maiano avrebbe voluto e che
furono alla fine condotte da Salvi d’Andrea. Era l’ultima, se non la piú grave, alterazione dei progetti brunelleschiani3. Paolo Toscanelli, vecchio amico dell’architetto e con piú veemenza ancora Giuliano da Sangallo
nella sua lettera del 15 maggio 1486 a Lorenzo, s’indignarono vedendo correzioni abusive guastare un cosí
bell’edificio. Ci fu insomma per una quindicina d’anni
una sorta di «querelle Brunelleschi». Fu senza dubbio
per sostenere la gloria dell’innovatore che venne composta allora la Vita di Filippo di Ser Brunellesco (incompiuta). L’opera si deve attribuire ad Antonio Manetti
Storia dell’arte Einaudi
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che per i suoi studi di cosmografia dantesca abbiamo già
accostato all’autore della cupola. In questo brillante opuscolo, tutto percorso dai motivi dell’umanesimo ficiniano, architettura, «filosofia» e archeologia vengono strettamente associate per definire il genio dell’artista ideale. Le insufficienze di certe costruzioni brunelleschiane
sono attribuite all’inettitudine degli esecutori. L’autore
attribuisce al Brunelleschi anche conoscenze musicali
attinte dai testi antichi. L’insistenza con cui torna sul
periodo romano e lo studio dell’antico è tanto forte che
è lecito pensare a un’influenza dell’Alberti, molto forte
intorno al 1480, sul biografo. Ma questo è anche un
modo per dimostrare che il Brunelleschi aveva saputo
risalire alle fonti e che le sue opere fiorentine rispondono ad una sintesi universale4.
Questa difesa dell’architetto moderno rispondeva ad
un interesse sempre piú esplicito degli umanisti: cioè illustrare storicamente quello che si può chiamare il «paradigma platonico» dell’architetto. I passi in cui Platone
mette l’architettura in rapporto con la musica (Filebo, 51
c e 56 b, c) e con la contemplazione filosofica (Politica,
240) sono fra quelli che sempre hanno interessato e sono
stati commentati e che sempre erano citati con predilezione negli ambienti neoplatonici5. Nel riassunto della
Repubblica di Platone il Ficino mette in luce la dignità
particolare dell’architetto; la sua arte si fonda su «le
verità eterne» della geometria, cioè sull’«intelligibile».
La distinzione fra concezione ed esecuzione, tra elemento intellettuale e elemento sensibile, risulta qui particolarmente chiara e viene a fornire anche una delucidazione assai felice circa la dottrina delle idee. Già nel
1469 il Ficino aveva sviluppato nel suo Commento al
Convito l’analisi corrispondente:
Se alcuno dimanda in che modo la forma del corpo possa
essere simile alla forma e ragione dell’Anima e dell’Ange-
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lo, prego quel tale, che consideri lo edifizio dello Architettore. Da principio lo Architettore, la ragione e quasi Idea
dello edifizio nello animo suo, concepe: di poi fabbrica la
casa (secondo che i’ può) tale quale nel pensiero dispose –
chi negherà la casa essere corpo? E questa essere molto
simile alla incorporale Idea dello artefice a la cui similitudine fu fatta? Certamente per un certo ordine incorporale
piú tosto, che per la materia, simile si debbe giudicare.
Sforzati un poco a trarne la materia se tu puoi: tu la puoi
trarre col pensiero. Orsú, trai a lo edifizio la materia; e
lascia sospeso lo ordine: non ti resterà di corpo materiale
cosa alcuna: anzi tutto uno sarà l’ordine che venne da lo
artefice, e l’ordine che nello artefice rimase.
È ciò che esprimeva l’Alberti dicendo che è possibile integras formas praescribere animo et mente, seclusa omni
materia6. Quindici anni dopo la stessa dimostrazione si
ritrova in Pico in termini piú scolastici:
Ogni causa che con arte o intelletto opera qualche effetto, ha prima in sé la forma di quella cosa che vuole produrre, come un architetto ha in sé e nella mente sua la
forma dello edifizio che vuole fabbricare, e reguardando a
quella come a esemplo, ad imitazione sua produce e compone l’opera sua. Questa tale forma chiamano e’ Platonici
Idea e esemplare e vogliono che la forma dello edificio, che
ha l’artefice nella mente sua, abbia essere piú perfetto e piú
vero che l’artificio poi da colui produtto nella materia conveniente, cioè o di pietre o di legni o altre cose simile. Quello primo essere chiamano essere ideale ovvero intelligibile;
l’altro chiamano essere materiale o sensibile, e cosí se uno
artefice edifica una casa, diranno essere dua case, una intelligibile, che è quella che ha l’artefice nella mente, un’altra
sensibile che è quella che da lui è composta, o di marmo o
di pietre o di altro, esplicando quanto può in quella materia la forma che in sé ha concetta; e questo è quello che il
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nostro poeta Dante tocca in una sua canzona, dove dice: poi
che pigne figura, se non può essere lei, non la può porre7.
Questa analisi non è nuova; ed è del tutto astratta e
teorica. Pure questa teoria dell’edificio incorporeo che
si «realizza» nella materia abituava a porre l’«idea»
(insieme prototipo astratto e immagine) alla base dell’attività artistica8.
Il Brunelleschi era stato un grande ingegnere9. Ma
egli aveva posto l’immaginazione tecnica al servizio di
un nuovo ordine di problemi. Passo passo con le sue realizzazioni, la sua concezione dello spazio architettonico
era venuta evolvendo. Da semplici superfici armonicamente divise i muri diventano nelle sue opere ultime
masse fortemente articolate e l’edificio assume un nuovo
valore plastico10. Egli ha cosí lasciato ai suoi successori
suggerimenti complessi. Ma l’essenziale è che il problema artistico si era venuto distinguendo dal problema
costruttivo. La rivoluzione era consistita nello studiare
integralmente l’edificio come uno sviluppo coerente di
forme geometriche, senza che l’originalità della concezione restasse subordinata alla soluzione dei problemi
concreti che sarebbero sorti poi. L’importanza annessa
all’«idea», quale era consegnata al «modello» teorico,
veniva a tagliare i ponti con le tecniche del «gotico» o
meglio di quella architettura che proprio allora si cominciava a chiamare cosí: un’architettura nella quale lo schema generale non subordinava a sé interamente le parti,
e in cui l’edificio aveva un carattere per cosí dire addizionale, indefinito, dato che la fioritura degli elementi
decorativi, tabernacoli, pinnacoli, veniva continuamente a oscurare la visione dei volumi11. L’accento verrà
dunque posto anzitutto sull’invenzione e sull’organizzazione astratta, sulle forme pure. L’architettura si allinea cosí tra le arti liberali. Essa è arte di pensiero, non
rientra piú tra le operazioni meccaniche12. Sempre sotto
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l’egida di Platone, il Ficino espone la nuova posizione
centrale assunta dall’architetto, la cui «facoltà» va collocata tra la speculazione pura e l’attività pratica, pur
legandosi maggiormente alla prima; l’architetto è «geometra», ma anche direttore dei lavori: i due aspetti sono
nettamente definiti13. Le conseguenze che ne risultano
sono numerose: la generazione del 1480, fondandosi
sulle nuove dottrine, ha cominciato a svilupparle.
Una prova precisa di questo accordo si ha nell’elogio
del trattato dell’Alberti che il Ficino introduce nel suo
Commento al Timeo, alla vigilia della edizione del 1485.
In tale elogio il Ficino precisa con chiarezza quella che
è la portata dell’opera. Se ciò che interessa è l’interpretazione matematica della realtà fisica, Leon Battista
Alberti l’ha introdotta nell’architettura14. Si tratta di una
definizione abbastanza semplificata del De re aedificatoria, nella quale in realtà i problemi non sono tutti posti
né risolti in questi termini astratti. Ma il Ficino ed i suoi
amici apprezzano nell’Alberti lo sforzo compiuto per
imporre al tecnicismo e all’empirismo di Vitruvio un
orientamento «filosofico» e il suo desiderio di coronare
un insieme di prescrizioni positive attraverso un numero sufficiente di principî superiori. Fin dall’esordio del
suo trattato l’Alberti infatti affermava il principio secondo il quale l’architettura, al pari della musica, è l’arte che
piú profondamente penetra nello spirito e risponde integralmente alle sue esigenze15. Il De re aedificatoria non
era, come non lo era stato il De pictura del 1435, una
codificazione dei procedimenti esecutivi del tempo. Al
pari del meraviglioso romanzo, composto intorno al
1464 sugli stessi argomenti da un altro fiorentino passato al servizio dei signori di Milano, il Filarete, si trattava insieme di un programma ideale, di una raccolta di
consigli pratici, di formule rinnovate dell’antichità e di
argomenti intesi a giustificare il primato dell’architettura
sull’orizzonte delle arti. Questa rielaborazione «umani-
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stica» era originale soprattutto su tre punti: la teoria
delle proporzioni, la teoria degli ordini e l’impiego dei
simboli16.
La struttura degli edifici di particolare interesse (chiese o palazzi) deve essere elaborata in base a calcoli
appropriati. I tipi di pianta possono essere definiti e
caratterizzati come «accordi» semplici: 2/3, 3/5 ecc.,
analoghi a quelli della gamma musicale, e le loro suddivisioni determinano l’articolazione della parete17. Per la
composizione delle masse, considerate puri volumi, solidi matematici, si deve passare dai rapporti semplici alle
«proporzioni». L’Alberti, riprendendo il vocabolario
«pitagorico», propone le tre «medietà», dette rispettivamente aritmetica, geometrica e armonica, come mezzi
per trovare la giusta altezza di un edificio a partire da
una pianta rettangolare18. Questi tre tipi sono tolti da
Platone. Sono i rapporti-chiave proposti nel Timeo per
legare i pieni e i vuoti dell’universo. Cosí l’Alberti espone praticamente il primo grado di una dottrina piú generale che mira a regolare l’opera in base alle leggi dell’edificio cosmico: «Questo calcolo viene introdotto in
Platone per spiegare la composizione dell’anima del
mondo, nell’Alberti per fornire all’architetto le regole di
una bellezza sicura»19. Ora questa teoria delle proporzioni fondamentali ritorna pari pari nel Commento al
Timeo (cap. 29) con valore universale. Questo oscillare
tra cosmologia ed estetica dell’architettura si ritroverà
in tutto il corso del Rinascimento; dall’Alberti al Palladio, l’umanesimo platonico fornisce il telaio generale di
idee utili20.
Le proporzioni vengono a confermare la dignità «speculativa» dell’architettura; gli ordini ne dimostrano la
dignità storica. Tuttavia essi non hanno la precedenza21.
Nella pratica del Brunelleschi e di Michelozzo, le colonne ed i pilastri servono, insieme a tutti gli elementi della
tradizione toscana (cornici, fasce, ecc.) a accentuare l’ar-
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ticolazione dei volumi ed il ritmo dell’insieme. I fusti
delle colonne, i capitelli, e le trabeazioni possono essere rettificati sulla base dell’antico; ma, come avviene
nelle tombe monumentali, le quali partono dallo schema
di massima dell’arco trionfale, l’uso fiorentino non si
preoccupa eccessivamente dell’esattezza archeologica.
Nell’Ospedale degli Innocenti, in San Lorenzo e in
Santo Spirito, Brunelleschi appoggia su pilastri angolari la fascia orizzontale che chiude gli archi e appoggia
questi su colonne. È l’opposto della regola romana,
rimessa in onore dall’Alberti, secondo la quale l’architrave postula la colonna (come accade nella facciata di
San Pancrazio) e l’arco postula il pilastro (facciata di San
Francesco a Rimini)22. Intorno al 1480 le due esigenze
vengono ad incontrarsi, soprattutto nell’opera del Sangallo; le sue varianti nella forma dei capitelli e dei supporti dimostrano quanto sia cosciente del problema. Piú
vicino al Brunelleschi (e alla sacrestia vecchia di San
Lorenzo), nella chiesa delle Carceri a Prato (1485-91),
adotta invece una soluzione romana nel vestibolo della
sagrestia di Santo Spirito23. Cosí egli accoglie la sfida che
i resti antichi avevano lanciato alla fantasia dei moderni. È pensando all’organizzazione degli elementi decorativi che l’Alberti scrive: vorrei che nei templi non ci
fosse nulla sul muro o nelle riquadrature che non avesse un accento filosofico; «e massimo le sacre, percioche
e’ non sara nessuno, che possa sopportare che elle stieno ignude di ornamenti»24. Questa legge risponde sia alle
proprietà psicologiche dell’ornato astratto (figure geometriche, distribuzione di colori ecc.) sia alle risorse
dell’immagine. Si deve evitare ogni ammasso confuso e
partire invece da una lucida coscienza della dignità della
decorazione; questa potrà comprendere cicli di affreschi,
ma anche motivi propri a far sentire la «vita» particolare dell’edificio. Si può attribuire a questo una vera e
propria «personalità», che la decorazione renderà pale-
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se. C’era l’uso di formulare l’oroscopo per le costruzioni importanti: il Ficino farà parte del gruppo di specialisti consultati a questo proposito per palazzo Strozzi25.
L’idea che ogni opera architettonica degna di questo
nome sia paragonabile ad un organismo vivo si trova
esposta nell’introduzione al libro terzo di Vitruvio, che
prescrive una composizione «ad hominis bene figurati
exactam rationem»; quest’idea era stata ripresa dall’Alberti per indicare il carattere completo, coerente e armonioso dell’edificio. Questa è anche la chiave di tutta la
sua dottrina26. L’analogia ricorre spesso nell’ultimo terzo
del secolo; si esprime in forma grafica in Francesco di
Giorgio, in una serie di disegni in cui si vedono figure
umane iscritte nelle piante per mostrare, ad esempio,
come la pianta centrale, possa legarsi con una pianta longitudinale27. Francesco di Giorgio comporrà una specie
di geroglifico della architettura urbana rappresentando
un uomo che porta una fortezza sulla testa, una torre ad
ogni estremità, una basilica nel petto28. Lo stesso artista
renderà concreta la formula vitruviana attraverso la doppia iscrizione di una figura in un cerchio e in un quadrato, tema che verra ripreso da Leonardo in un celebre
disegno e da Dürer, che lo deriva da lui. Questo significava andare molto piú lontano di Vitruvio, dato che
l’uomo, unito cosí alle forme geometriche semplici, simboleggia la «struttura universale, cioè il principio d’armonia e di proporzione comune all’uomo, all’architettura e al mondo»29. L’accordo di questo principio con la
dottrina neoplatonica del cosmo vivente è pieno; questa
analogia si ritrova in tutti i teorici influenzati da questa
dottrina. Il Pacioli si richiama al Timeo nello stesso
tempo che a Vitruvio e ad Euclide per affermare: «del
corpo humano ogni misura con sue denominationi deriva e in esso tutte sorti de proportioni e proporzionalità
si ritrova con lo deto de laltissimo mediante li intrinseci secreti de la natura... E cosi comme dici el nostro
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Vitruvio a sua similtudine dobbiam proportionare ogni
edificio»30. In una lettera che si pensa indirizzata al cardinale di Carpi, Michelangelo molto piú tardi svilupperà
questa stessa formula: «E però è cosa certa, che le membra dell’architettura dipendono dalle membra dell’uomo,
chi non è stato o non è buon maestro di figure, e massime di notomia, non se ne può intendere»31.
Rimane da definire in quale misura queste teorizzazioni abbiano potuto agire dall’epoca di Lorenzo in poi
sui programmi architettonici e determinare sviluppi interessanti. Proprio da questo punto di vista parziale analizzeremo successivamente l’architettura religiosa, il problema della villa, la decorazione delle chiese e quella
delle dimore private.
Alla fine del Quattrocento si riscontra nella cittá
toscana un contrasto tra un certo conformismo toscano
e le tendenze innovatrici. Il ritorno a Brunelleschi avveniva intorno al 1480 con qualche difficoltà; le idee dell’Alberti erano, tutto sommato, rimaste lettera morta.
Non è palazzo Rucellai che serve di prototipo per l’architettura dei palazzi, ma quello di Michelozzo. Quando il biografo di Lorenzo afferma che questi amava l’architettura che aveva un sapore antico, vuol mettere in
evidenza l’originalità di gusto del capo della famiglia
Medici. Il Pacioli dal canto suo ha insistito sull’importanza delle ricerche che si compivano nell’ambiente
mediceo: «In Firenze poi trovo decta architectura molto
magnificata, maxime poi chel Magnifico Lorenzo Medici sene comenzo a delectare: qual de modelli molto in
epsa era prontissimo... in modo che chi oggi vol fabricare in Italia e fore subito recorreno a Firenze per architecti»32.
Il Pacioli ricorda a questo proposito Giuliano da
Maiano da lui incontrato a Napoli; ma la figura dominante del momento è Giuliano da Sangallo. Lo si ritrova ogni volta al centro dei problemi di attualità33. Gra-
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zie alle sue raccolte di rilievi archeologici e tecnici, che
inizia ben presto a Roma e completa poi a Napoli, Genova, in Provenza, egli viene ad avere una parte di primo
piano non solo per gli architetti ma anche per gli scultori e i pittori. È in contatto con Botticelli, Filippino, il
Ghirlandaio, Bertoldo; egli li informa e copia le loro
composizioni34. Ha legami stretti con Leonardo35. I suoi
numerosi soggiorni a Roma, Milano, Loreto, Genova lo
portano a diffondere certi motivi e, per contro, a liberarsi dello stretto ambito delle consuetudini toscane:
sarà il maestro di Michelangelo di cui appoggerà efficacemente la carriera36. Le sue iniziative hanno tutte un
loro significato: con la Madonna delle Carceri fornisce
il primo esempio di chiesa a croce greca e con la villa di
Poggio a Caiano il primo modello di casa di campagna
in uno stile nuovo. Stando al Vasari, egli eresse numerose costruzioni pubbliche e private, fra le quali non solo
palazzo Gondi, ma anche il palazzo del giureconsulto
Bartolomeo Scala, amico del Ficino. Piú si studia la
parte da lui avuta intorno al 1490, piú risulta chiaro che
Giuliano è l’architetto del nuovo umanesimo: egli è completo, dotto, ingegnoso. Ma lo sviluppo rimane interrotto e si deve tener presente l’avvertimento dello storico: «Avvenne, come di continuo avviene, che la fortuna, nemica della virtú, levò gli appoggi delle speranze
a’ virtuosi, con la morte di Lorenzo de’ Medici: la quale
non solo fu cagione di danno agli artefici virtuosi ed alla
patria sua, ma a tutta l’Italia ancora; onde rimase Giuliano con gli altri spirti ingegnosi sconsolatissimo...».37
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Capitolo primo
Il Tempio
L’immagine del Tempio rappresenta l’Universo
quale si rivela alla contemplazione, cioè misteriosamente predisposto per la celebrazione del Divino. L’analogia, assai antica, ha ritrovato tutta la sua efficacia
nel secolo xv, nei commenti ai salmi («in sole posuit
tabernaculum suum», XVIII, 5) e nella poesia liturgica o ancora nelle innumerevoli «meditazioni» e «visioni» ispirate a Dante e consacrate allo spettacolo «sublime» dei cieli stellati, alla vista grandiosa del sole che
risveglia la terra o la vivifica38. Il simbolo del Tempio è
di uso universale. Allorché si tratta del cosmo: «occorre», diceva il Ficino, «che ad ogni cerchio di questo
tempio si muovano i cori dei sacerdoti che cantano in
gloria di Dio». Nel De tranquillitate animi dell’Alberti,
l’antichità viene paragonata a un Tempio, di cui i
moderni si contendono i resti: «Costrussero uno quasi
tempio e domicilio in suoi scritti a Pallade e a quella
Pronoa dea de’ filosofi stoici»39. Si ha anche un Tempio della Filosofia, ampiamente descritto all’inizio della
traduzione di Platone del 148240
L’edificio sacro ideale era stato mirabilmente previsto dall’Alberti:
Certamente che per indirizzare gli huomini alla pietà,
sono molto a proposito i Tempii i quali dilettino sommamente gli animi e gli intrattenghino con gratia, e maraviglia
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di se stessi... Et perciò vorrei io che nel Tempio fusse veramente tanto di bellezza che e’ non sene potesse imaginare
in alcuno altro luogo alcuna maggiore, e vorrei che e’ fusse
da ogni parte cosi ordinato che e’ porgesse a que’ che vi
entrano dentro stupefatti, spavento; per la maraviglia delle
cose degne e eccellenti; e che a gran’ pena si ritenessero, che
non dicessero con maraviglia alzando la voce questo certo
è luogo degno di Dio (De re aedificatoria, VII, 3).
È interessante vedere come avvenga la spiegazione:
la funzione dell’edificio è doppia, disporre l’anima quanto meglio possibile alle sue facoltà contemplative e con
questo arrivare ad una sorta di terapeutica spirituale che
esalta e purifica lo spettatore; tuttavia la sublimità stessa dell’opera realizza un atto di adorazione che raggiunge il tono religioso attraverso la bellezza assoluta. È
impossibile dubitare dell’orientamento religioso di questa dottrina41. È lecito tuttavia chiedersi in quale misura essa fosse pienamente conciliabile con le consuetudini del mondo cristiano e soprattutto con le regole della
liturgia. Che avverrà dell’altare e dello spazio riservato
alle messe? L’Alberti afferma che «non si truova cosa
alcuna appresso de Mortali, ne si può imaginare che sia
piú santa, o degna del sacrifitio» (VII, 13), e raccomanda un altare unico secondo la formula dei primi
tempi del cristianesimo, precisando che le manifestazioni di questo genere hanno tutto da perdere ad essere rese troppo facili: affermazione che porta alla conclusione di limitare il numero delle messe42. La dottrina
albertiana tende sia a semplificare che a rendere solenne il culto. La stessa preoccupazione si ritroverà ad
esempio in Pico. Si trattava di una preoccupazione tipica degli umanisti fiorentini43. Il rinnovamento dell’architettura si accompagnava ad una riforma o almeno una
semplificazione della pratica religiosa. La chiesa tradizionale poteva divenire il tempio dell’anima, nella misu-
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ra in cui la fede cristiana conteneva l’essenziale di una
religione dello Spirito puro.
Non è un caso che queste preoccupazioni vengano a
coincidere con il ritorno alla pianta centrale, che era
stata una delle forme tipiche della bassa antichità prima
di divenire il tipo canonico di chiesa dell’Impero bizantino44. Che esso trionfi tardi in Occidente è un fatto
degno di nota nella storia dell’architettura; né meno
sorprendente è che la sua resurrezione si verifichi in Italia proprio alla fine del Quattrocento. Prima del 1480
le composizioni a pianta centrale sono un’eccezione,
tranne che per alcuni battisteri e sacrestie. Tra il 1480
e il 1520 si moltiplicano nelle province in cui l’architettura conosce una evoluzione originale: Toscana, Lombardia, Roma e il territorio circostante45. Ora l’architettura che si forma a quel tempo in Toscana e che si realizzerà appieno a Roma, non si lega ad alcuna innovazione tecnica; essa non può essere spiegata che con gli
orientamenti dell’intelligenza e del gusto, cioè con l’evoluzione della cultura. Tre serie di considerazioni giocavano a favore della pianta centrale: il valore simbolico annesso alla forma circolare, il gran numero di speculazioni geometriche provocate dallo studio dei volumi in cui venivano a combinarsi sfera e cubo, il prestigio degli esempi storici46.
Già nell’Alberti è notevole l’importanza accordata
alle forme circolari: delle cose che ci produce la natura
chiaramente si vede come essa preferisca la forma rotonda, giacché tali vediamo le sue costruzioni come il globo
terrestre, le stelle. La predilezione della natura non fa
che confermare una disposizione antica: la cupola è tradizionalmente la forma analogica del cielo47. Non basta
dire che la figura circolare occupa un posto privilegiato.
Nel Ficino, ad esempio, essa appare come un simbolo
completo, a molte facce, che rappresenta sia un «geroglifico» filosofico (Dio «cerchio spirituale, la cui cir-
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conferenza è dovunque e il centro in nessun luogo»), sia
la forma madre dell’Universo concreto («prima et ultima figurarum»). L’insistenza sul principio circolare, concepito tanto come un simbolo metafisico che come una
regola matematica, corrisponde a tutti gli aspetti della
fantasia e della dottrina48. Da tempo edifici di tipo centrale apparivano nelle scene figurate dell’arte sacra:
verso il 1450 Giovanni di Paolo colloca la sua Presentazione al Tempio sotto un padiglione ottagonale sostenuto da minute colonne49. Tuttavia gli edifici rotondi sono
di regola associati al ricordo del mondo antico. La scena
della storia di Giuseppe che si vede nella terza porta del
Battistero viene dal Ghiberti immaginata davanti ad un
grande edificio circolare, probabilmente ispirato a Santo
Stefano Rotondo di Roma, la chiesa tonda del Celio che
era considerata volta volta come il Tempio del Fauno o
il Macellum Magnum di Nerone50. Il «colore storico»
viene a tingersi di un’allusione al «paganesimo» nel tempietto circolare (evidentemente il tempio dell’amore)
sostenuto da sei colonne e ornato di un fregio «bacchico», sotto il quale si svolge, nella Cronaca illustrata del
Finiguerra, il Ratto di Elena51. Il riferimento si precisa
nella lunga descrizione del tempio di Venere Physizoe
che si trova nel Sogno di Polifilo, in cui il simbolismo
della Natura si fa esplicito, con l’associarsi dei temi
cosmici e della decorazione «bacchica»52. Si tratta chiaramente di un simbolo del paganesimo nel caso del tempio di Diana in Efeso, rotonda a cupola sormontata da
una mezzaluna, che Filippino introduce nella sua Resurrezione di Drusiana in Santa Maria Novella53. Le vedute
di città dipinte alla fine del Quattrocento dimostrano
che si era sensibili al valore di questo tipo di edificio nel
complesso di una prospettiva architettonica: in questo
gruppo d’opere si trovano per la prima volta edifici indipendenti a pianta ottagonale, inseriti in un panorama
moderno e presentati come modelli. La croce che li
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sovrasta nelle tavole di Urbino e di Baltimora non lascia
alcun dubbio sul loro significato: nella città ideale essi
rappresentano la chiesa nuova, il tempio ideale54. Degna
di nota è la loro articolazione geometrica; il loro rivestimento policromo richiama la decorazione del Battistero fiorentino; tuttavia la loro struttura è piú semplice e moderna, per cui si deve metterli in rapporto con
la voga che intorno al 1490 conosce, presso gli architetti,
l’unico edificio a pianta centrale della prima metà del
secolo, cioè la rotonda non finita di Santa Maria degli
Angeli opera del Brunelleschi.
Come Santo Spirito, di cui il Brunelleschi aveva
lasciato solo il progetto, l’edificio ottagonale (progettato dopo il 1434) destinato al convento dei Camaldolesi
di Firenze, era stato interrotto alla morte dell’architetto (1446). La costruzione non era stata ripresa al tempo
del Magnifico e l’opera, di cui si era appena costruito il
basamento, fu incorporata piú tardi in un insieme che
ne mutò completamente la fisionomia55. La struttura
originaria è nota soprattutto attraverso un disegno della
raccolta di Giuliano da Sangallo (fol. 15 v): una pianta
precisa e accompagnata da misure, affiancata anche da
un elemento dell’alzato ha permesso di ricostruire la
struttura generale dell’edificio: un grande spazio centrale che si dilata in otto absidiole radiali che formano
altrettante cappelle a doppia abside, tranne quella che
si apre su una sorta di nartece quadrato. All’esterno
c’erano nicchie che assicuravano alla chiesa un’articolazione plastica altrettanto forte del gioco dei pilastri
all’interno. Questa invenzione, del tutto eccezionale
intorno al 1440, era la conclusione delle ricerche iniziate con la sacrestia di San Lorenzo e la cappella Pazzi; in
essa veniva ad essere isolato il motivo monumentale
della pianta centrale su base circolare ed anulare. È
indubbio che i priori dei Camaldolesi che adottarono
questa concezione rivoluzionaria erano di idee «moder-
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ne». Il convento dei Camaldolesi era a Firenze, agli
inizi dell’insegnamento del Ficino, il centro principale
dell’Accademia platonica56. La pianta di Santa Maria
degli Angeli fu disegnata da Giuliano da Sangallo, nel
suo Libro prima del 148857. Molto verosimilmente fu alla
fine del 1492, all’epoca del viaggio di Giuliano a Milano, che Leonardo la copiò, insieme con la pianta originale di Santo Spirito, anch’essa tratta dalla raccolta dell’amico58; la composizione brunelleschiana serví a quel
tempo a stimolare le ricerche di Leonardo sul tema della
pianta centrale. Altri disegni contemporanei, senza precisa attribuzione, attestano la voga del motivo fino al
Cinquecento59.
La composizione brunelleschiana, che indubbiamente derivava sia dal Battistero di Firenze che da certi precedenti romani come il tempio di Minerva medica60,
combinava, intorno a un grande volume centrale sormontato da una cupola a otto spicchi, un tipo radiale
centripeto e un tipo anulare centrifugo. Gli otto alveoli sono come piccole edicole distinte disposte secondo
assi a 45° sulle otto facce dell’ottagono; ma sono comunicanti tra di loro e il movimento dei loro archi laterali
potrebbe convenire anche a un deambulatorio circolare.
In realtà c’era la possibilità di insistere sia sull’unità
dello spazio centrale sia sulla molteplicità dei nuclei spaziali gravitanti intorno ad esso. Erano quindi possibili
due sviluppi diversi. Il modo migliore per accentuare l’unità è di inscrivere la forma circolare in un quadrato (o
in una croce greca), cioè collocando la cupola su un cubo
che puó essere sostenuto da segmenti di volta a pieno
sesto. All’opposto, se ne può ricavare un sistema complesso elevando cupole secondarie agli angoli del quadrato o all’estremità degli assi, spesso in entrambe le
posizioni, in modo da creare tutta una corona di nuclei
spaziali: è ciò che interessa a Leonardo nelle note del
manoscritto B (Institut de France). Questo manoscrit-
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to risale al periodo 1485-95, nel quale si moltiplicano le
indagini sul tema della pianta centrale. Queste hanno
rappresentato un contributo decisivo per arrivare a concepire l’architettura come uno spazio interno ben articolato, e all’esterno, come un corpo geometrico nettamente cristallizzato61.
Le composizioni di Leonardo risentono dei modelli
toscani, di cui intensificano decisamente le possibilità
«plastiche»62. Una riflessione metodica sulla pianta propriamente circolare (con deambulatorio anulare) e sulla
sua combinazione col quadrato si vede in una raccolta
manoscritta di Francesco di Giorgio annotata da Leonardo63. È dunque certo che le ricerche contemporanee
di Francesco di Giorgio, di Bramante, di Leonardo e del
Sangallo non sono state indipendenti le une dall’altre. I
contatti tra di loro sono stati troppo numerosi sia prima
che dopo le commissioni di Milano e di Pavia, dove si
sono trovati periodicamente raccolti nel 1490 e nel
1492. I loro interessi sono comuni e li vediamo affaticarsi negli stessi anni intorno a un principio architettonico nuovo, che è strettamente legato allo svolgersi stesso della cultura.
Infatti un’altra novità dell’epoca è costituita dalla
comparsa delle raccolte di documentazione architettonica. I fascicoli di piante e di alzati si moltiplicano tra
il 1470 e il 1520. Colui che ne ha avuto la prima idea e
che ha portato piú a fondo la ricerca è Giuliano da Sangallo; il suo album, il Codice Barb. 4424, iniziato nel
1465 a Roma, è stato continuato per mezzo secolo64.
Tuttavia non è nemmeno trascurabile la parte avuta da
Francesco di Giorgio; egli infatti ha moltiplicato le ricostruzioni di monumenti complessi, come terme, basiliche, con una spiccata tendenza a reinventare i tracciati
secondo le sue concezioni personali65. Le opere dei
moderni, tranne quelle del Brunelleschi, hanno poco
rilievo in queste raccolte rispetto alle rilevazioni di opere
Storia dell’arte Einaudi
241
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
antiche; fra queste la parte che viene attribuita agli edifici a pianta centrale è considerevole. Cosí Francesco di
Giorgio immagina sulla base dei resti romani, «in parte
ruinati», dei «tempietti» con portico circolare, incorporati o meno in edifici piú vasti, e degli ottagoni con
absidiole che richiamano Santa Maria degli Angeli.
Nello stesso manoscritto troviamo la pianta e l’interno
di Santa Costanza66.
I quaderni del Sangallo contengono rilievi piú sviluppati con notazioni circa l’aspetto della muratura e a
volte l’indicazione delle parti in rovina; la forma e piú
sostenuta e, nel trasformarsi del suo disegno, notiamo
uno sforzo metodico per migliorare e rendere piú precisa la presentazione degli edifici67. Il suo repertorio è
molto vasto: vi sono serie di archi di trionfo, ma anche,
in pianta, in alzato, a volte in sezione, i templi rotondi
di Tivoli o di Capua; lo schema completo di Santa Sofia
di Costantinopoli è stato rilevato dalle note di Ciriaco
d’Ancona68. Le fonti romane sono completate mediante
riferimenti all’architettura paleocristiana. Una pianta di
San Lorenzo di Milano si vede nel Taccuino di Siena
(fol. 18), e contemporaneamente in numerosi schizzi di
Leonardo (ms b fol. 35 r; Cod. Atl. fol. 7 v-b ecc.)69.
Tutto cosí concorreva a giustificare la chiesa a pianta
centrale come tipo superiore d’architettura moderna, il
tipo piú vicino, insomma, all’ideale umanistico. Ma se
non si voleva rompere in modo troppo brusco con la pratica tradizionale che in Occidente ignorava la chiesa a
pianta centrale (tranne che per gli annessi: battistero o
sacrestia), diventava una tentazione riservare questa
forma strutturale al coro. Lo si «solennizzava» senza
rinunciare alla navata. Il Brunelleschi aveva insomma
dato l’esempio di questa combinazione a Santo Spirito,
dove il coro consta delle tre braccia di una croce greca.
È forse per reazione a questa sintesi troppo perfetta che
Michelozzo immaginò la rotonda della SS. Annunziata,
Storia dell’arte Einaudi
242
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
la quale isola il piú possibile la cappella assiale70. Il problema non cessò di affaticare Francesco di Giorgio, il
quale moltiplicò gli studi di piante «composite»71.
Questa situazione spiega l’importanza delle due composizioni del Sangallo nelle quali arriva a definirsi la
«liberazione» della pianta centrale: la chiesa di Prato
con pianta a croce greca e la sacrestia di Santo Spirito
a pianta ottagonale con atrio d’ingresso messo per largo.
La chiesa delle Carceri fu progettata nel 1484, a croce
greca perfetta; la lanterna fu montata nel 1492, il rivestimento esterno venne interrotto nel 150672. Questa
croce semplice presenta una chiarezza che non aveva il
progetto albertiano per il San Sebastiano di Mantova
(cominciato nel 1460, complicato da un atrio per il quale
si ebbero esitazioni nel 1470 e che fu purtroppo portato a termine nel 1499)73. L’articolazione dei pilastri e
delle trabeazioni richiama la sacrestia di San Lorenzo;
l’effetto però e piú solenne ancora; la cupola domina con
leggerezza lo spazio chiaro, aereo, svolto con un ritmo
calmo. La sacrestia ottagonale di Santo Spirito fu iniziata alla fine del 1489, coperta nel 1495-96 dal Cronaca con una cupola che differisce leggermente da quella
prevista da Giuliano «nella forma di Sangiovanni», cioè
secondo il modello del Battistero. Il vestibolo, al quale
deve aver collaborato Andrea Sansovino, risulta parzialmente costruito già nel 1493, ma non ancora coperto. Che sia stato progettato da Giuliano è indubbio: la
sua struttura è perfettamente analoga a quella del portico della villa di Poggio a Caiano74. Se la chiesa di Prato
definiva un tipo di santuario perfetto a croce greca, gli
annessi di Santo Spirito venivano ad unire una grande
cupola montata su un ottagono a un atrio, secondo una
disposizione comune ai modelli paleocristiani: Santa
Costanza a Roma, San Lorenzo a Milano, San Vitale di
Ravenna75. Questa soluzione non passò inavvertita e
infatti fu ripresa nella Madonna dell’Umiltà a Pistoia.
Storia dell’arte Einaudi
243
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Ventura Vitoni non ne è stato, come si è a lungo creduto, l’unico autore, dato che Giuliano presentava un
modello nel 1492 e suo fratello Antonio interveniva nel
cantiere nel 149576. Questi grandi spazi accentrati venivano a continuare insomma l’ideale della cupola brunelleschiana, con membrature vigorose che assicuravano un’energia maggiore ai supporti e attiravano la massa.
In questo stesso spirito Giuliano aveva concepito la piccola cappella tonda con nicchie semicircolari nel convento di Santa Maria Maddalena dei Pazzi: i lavori,
finanziati da Bartolomeo Scala, furono interrotti alla sua
morte, avvenuta nel 1497, e la cappella fu in seguito sfigurata77.
Nell’Italia del Nord le chiese contemporanee come
Santa Maria dei Miracoli a Brescia o San Giovanni Crisostomo a Venezia (1497) rappresentano delle variazioni sul tipo bizantino della chiesa a cupola che ha il suo
paradigma in San Marco. Solo l’Incoronata di Lodi
(1488)78 e Santa Maria della Croce a Crema (1492), che
la segue da vicino, dimostrano un marcato interesse per
la dilatazione dello spazio interno e la sua unificazione.
È stato possibile richiamarsi al San Lorenzo di Milano,
ma senza tener conto dell’organizzazione corrispondente dei volumi esterni. L’ambiente milanese era profondamente interessato al problema e la serie di chiese
costruite dalla cerchia di Battagio dimostra che questo
problema continuava ad esser posto negli schemi delle
tradizioni lombarde. Bramante stesso, che deve esserne
stato qui l’iniziatore, non se ne allontana nella sacrestia
di Santa Maria presso San Satiro e nella tribuna di
Santa Maria delle Grazie, nelle quali ricerca, nella prima
la precisione delle forme e nella seconda un’ampiezza
insolita dello spazio.
La suggestione del tempietto di San Pietro in Montorio, una rotonda di martyrium, che ancora risente dei
tipi antichi studiati già da vent’anni dal Sangallo e da
Storia dell’arte Einaudi
244
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Francesco di Giorgio, non deve indurci ad attribuire a
Bramante una specie di priorità nel ritorno alla pianta
centrale. L’interesse per questo tipo si palesa in lui in
seguito alle influenze toscane79. Lungo tempo è stato
necessario perché il nuovo San Pietro arrivasse ad una
sua definizione: nei molti studi e progetti elaborati per
esso si vedono convergere tutte le ricerche dell’epoca.
Se la grande concezione monumentale è propria di Bramante, l’idea di moltiplicare intorno allo spazio centrale numerosi spazi secondari viene da Leonardo e il rigore della pianta a croce greca deriva dal Sangallo, che ne
aveva dimostrato tutto il valore80. È d’altronde possibile che Bramante stesso abbia esitato, come avrebbero
poi fatto i suoi successori, tra pianta centrale integrale
e una pianta basilicale in cui il coro sporgente sarebbe
stato organizzato in un blocco coerente. La cerimonia
del 18 aprile 1506 non sta necessariamente a dimostrare una decisione già presa a favore della pianta centrale81. Ma non dimentichiamo che in fin dei conti la nuova
basilica e stata definita anzitutto dai grandi archi del
transetto e cominciata dalla cupola. Agli inizi del Cinquecento non si concepiva monumento eccezionale
senza cupola e la composizione doveva organizzarsi in
funzione di questa. Il programma «umanistico» si vede,
proprio nello stesso momento, realizzato in modo superbo nella Consolazione di Todi, di cui è forse necessario
attribuire l’idea a Bramante82, e, un po’ piú tardi, nell’ammirevole San Biagio di Montepulciano, capolavoro
d’Antonio da Sangallo83.
Storia dell’arte Einaudi
245
Capitolo secondo
La villa
Al pari del Petrarca, dello stesso Lorenzo, del Poliziano, il Ficino amava la campagna toscana e le passeggiate per le colline: vi vedeva un rimedio contro la malinconia, uno stimolante unico per la salute e la meditazione; egli raccomanda questo esercizio nel suo trattato
destinato agli intellettuali84. Ci sono stati nella sua cerchia abbastanza poeti bucolici, egli stesso ha analizzato
con sufficiente finezza l’incanto dei paesaggi perché si
possa parlare della moda pastorale di Careggi. Questa
moda risulta interessante sia per la poesia che per la pittura; la sua continuazione diretta è costituita dalla Arcadia del Sannazzaro85. Si tratta di una natura senza nulla
di selvaggio, piena di forze mitiche e di divinità: la bellezza dei fiori e lo stesso silenzio sono delle muse; oracoli, manifestazioni meravigliose risuonano dovunque
nel cielo. La vista degli animali, l’animazione dell’aria,
il mormorio delle fonti e delle fronde sembra nascondessero in sé, per questi spiriti sensibili e nutriti di
mitologia, una freschezza augurale, una grazia pronta a
tradursi in figure allegoriche. Nel paesaggio entrano ben
presto statue, altari, simboli che richiamano le forze
attraverso le quali l’uomo prolunga e arricchisce il
mondo della natura. Il sentimento poetico non esclude,
allorché si tratta di scegliere una residenza, preoccupazioni precise circa l’orientamento, l’altitudine, l’esposizione e perfino l’«aura» religiosa dei luoghi. Proprio
Storia dell’arte Einaudi
246
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
questo ci è testimoniato da una curiosa lettera del Ficino che tratta della casa ideale. Il filosofo racconta che
un giorno passeggiando con Giovanni Pico sulle pendici di Fiesole guardavano con ammirazione il panorama
di Firenze:
Ci fingevamo in quel colle una habitatione appresso le
radici del monte di Fiesole per fuggire e quella caligine e’l
vento, né però la volevamo ne la valle al tutto porre accioche nel tempo de la state maggiore aura sentisse. Desideravamo anchora che ella fusse tra i terreni lavorati e le
selve parimente posta, e d’ogn’intorno di fonti abbondante, e che al mezo di e ad oriente fusse volta. Il che Aristotile quando de la famigliar cura disputa negli edificii doversi fare comanda. E cosí andando, mentre che tai cose ci fingevamo, subito ne vedemmo alcune cosí fatte, qui gridando il Pico: «Non ti pare Ficino, disse, che hora vediamo
quello che ci immaginavamo, e desideravamo? Il che ogni
giorno a quelli che sognano intervenir suole. E forse che
quella forma che con la mente componevamo, hora tale
con la potenza de l’immaginazione facciamo, o pure qualche prudente huomo l’ha edificata, nel modo che la buona
e fisica ragione ne ricerca». All’ora io, «Pico mio», gli dissi,
«questa villa si dice haver edificata quel sapientissimo
huomo Leonardo Aretino, et appresso a questa come voi
vedete si dice che habitò Giovanni Boccaccio. Questa di poi
il nostro cittadino Pierfilippo Pandolfini si ha eletta per
habitazione». «O felice lui», disse il Pico, «al quale de le
pubbliche faccende partendosi avenne che in una sacrata
chiesa habitar potesse, et ho detto chiesa, perché ella è
posta appresso a questa sacrata selva, e gli sono intorno queste venti chiese di santi. Tale che questo luogo è sacrato, e
attissimo a li oracoli: e però bene Pandolfino si può dire
costui, perché questo cognome, se secondo il Greco lo
vogliamo interpretare, significa uno che sia tutto Delfico».
Queste cose allhora Valor mio furno tra noi dette et appro-
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
vate, e le medesime al nostro amico ridirete, accioché questi si salutiferi luoghi che dal cielo gli sono stati concessi,
per l’avvenire piú volentieri e piú spesso habiti. A lí 27 d’ottobre 148986.
Si tratta dunque di una casa vista durante una passeggiata sulle pendici di Fiesole: ed è descritta come una
«apparizione» perché realizza alla perfezione il tipo
ideale, in quanto riparata verso nord, ai margini di un
bel bosco, circondata di fonti, infine «edificata nel
modo che la buona e fisica ragione ne ricerca», cioè inserendo una forma opportuna in un ambiente naturale
ben scelto. L’Alberti nel suo trattato Della Famiglia
aveva dato una descrizione suggestiva dei piaceri della
campagna, «un proprio paradiso», e nel suo trattato
(IX, 2), la cui pubblicazione era allora recentissima,
aveva fissato i «principî fisici», cioè geografici, della casa
ideale, posta su un luogo un po’ alto, in un ambiente di
campi e foreste, esposta al sole di cui riceve la festosa
luce («hilaritas ac nitor»)87. Di tutto questo si avverte il
ricordo nella lettera del filosofo. La conclusione della lettera è ancora piú caratteristica dello spirito di Careggi:
è necessario che questo luogo suggestivo sia dichiarato
«sacro»; in quanto propizio agli oracoli, permette un’allusione scherzosa alla villa vicina dei Pandolfini88. Secondo una tradizione già antica sorgeva lí accanto la dimora del Boccaccio (la villa del Decameron) e una piú recente, quella di Leonardo Bruni, il saggio d’Arezzo, che
forse non era se non una modesta casupola, nobilitata
dal ricordo della breve permanenza del cancelliere alla
propositura di Fiesole89.
Gli umanisti fiorentini non mancavano di ville
conformi ai loro sogni. L’avvento dell’Accademia coincide con il dono di Cosimo a Ficino, nel 1462, della piccola casa, «Academiola», vicino a Careggi. Si trattava
senza dubbio di una dimora modesta, ma ai piedi delle
Storia dell’arte Einaudi
248
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
rocce, in mezzo a sorgenti e con un panorama eccezionale su Firenze. Nulla si sa della sua sistemazione e
quasi nulla della sua decorazione90. A Fiesole la villa
costruita da Michelozzo e completamente trasformata
nei secoli successivi, era cara soprattutto al Poliziano.
Egli ricorda nel suo Rusticus (1483):
rusculum hoc Faesulanum
e vi soggiornerà spesso con Pico intorno al 1490. È
presso di loro che Lorenzo sognava di ritirarsi, se dobbiamo credere a una lettera del 1492. Il Ficino veniva
da Careggi per vedere Pico e la lettera dell’autunno
1488 è l’eco delle loro passeggiate91. Secondo il Vasari,
infine, la villa di Poggio a Caiano, alla cui costruzione
Lorenzo teneva molto, è anche un luogo di soggiorno in
cui gli umanisti avevano un loro posto, una dimora dell’otium philosophicum92. Questi esempi consentono di
valutare in quale misura la villa fiorentina della fine del
secolo s’ispiri ai loro principî e giustifichi i loro commenti.
Stando alle indicazioni dell’Alberti, la preoccupazione di una felice ubicazione geografica e soprattutto la
vicinanza del giardino, sembrano aver avuto maggiore
importanza che non le regole architettoniche. Il rapporto tra la casa e l’ambiente immediato è un po’ quello che corre tra la figura e il paesaggio nei quadri. La
massa della casa spicca su un fondo di natura che non è
utilizzato come invece avverrà piú tardi, nel Cinquecento, per fughe prospettiche, giochi d’acqua e sistemazioni complesse. Basta alla villa una zona piana per
il giardino, il fondale a bosco e un terreno a terrazze93.
Il giardino aveva assunto molto presto un’importanza
fondamentale94, come lo dimostra soprattutto la prima
grande villa medicea, quella di Careggi95. Michelozzo
aveva portato a termine il rifacimento della residenza
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
gotica acquistata da Cosimo intorno al 1435-40: l’aveva semplificata, aveva creato una facciata sul retro, aperto delle finestre piú armoniche. Nel 1459 la villa era perfettamente in ordine; Pio II e Galeazzo Maria Sforza la
visitarono trovandola una delle piú belle case d’Italia,
soprattutto per la piacevolezza del giardino e la qualità
dell’arredamento96. Verso il 1490 una graziosa loggia
ionica, inizialmente su archi aperti, fu aggiunta sul fianco ovest della villa97.
Fu soprattutto ai giardini che Lorenzo dedicò ogni sua
cura: ne fece, nonostante le piccole dimensioni, una sorta
di parco botanico celebre in tutta Italia. Un’epistola in
versi latini indirizzata (intorno al 1480) al Bembo da un
amico dei Medici, Alessandro Braccesi, la paragona ai
giardini meravigliosi del mondo antico e ne enumera con
precisione le piante, dal pallido olivo sacro a Minerva
guerriera, al mirto sacro a Venere, alla quercia sacra a
Giove, al pioppo, al platano, l’abano e il pino, fino alle
spezie, il pepe, il balsamo, il basilico, alle piante aromatiche, la mirra, l’incenso, e i vegetali utili e ai fiori, le
viole, le rose e i gelsomini. È la collezione botanica che
vediamo nella Primavera, dove è stata identificata una
scelta di piante appropriate al mito ma verosimilmente
derivate dalle aiuole di Careggi. Questo giardino è anche
l’origine delle speculazioni del Ficino sulle proprietà
mediche delle piante che costituiscono l’argomento del
suo trattato De vita: «Io ho composto, – scrive, – un libro
Fisico de la vita tra la primavera e la state, e tra i fiori,
ne la villa di Careggio»98. La casetta de l’Academia sorgeva difatti a breve distanza, sul poggio vicino.
Poggio a Caiano.
Quando intorno al 1480, sotto la personale direzione di Lorenzo, si comincia a costruire il complesso di
Storia dell’arte Einaudi
250
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Poggio a Caiano, si tratta di una vera e propria ricreazione della villa toscana: il rapporto tra villa e parco,
l’ordinamento generale, l’architettura, la decorazione
interna sono rinnovati e definiti nello spirito della villa
ideale. Questa bella dimora posta sotto l’egida della
ninfa Ambra, a 17 chilometri da Firenze, sulla strada di
Pistoia, è la piú celebre fra le residenze di Lorenzo. Era
come ricorda il suo biografo lo specchio stesso del suo
gusto che si vedeva «a Poggio a Caiano, dove resuscitava la magnificenza di un tempo e di cui il Poliziano ha
tessuto in un poema un incantevole elogio»99. Lorenzo
ha voluto fare del Poggio una dimora all’antica, una
villa modello, una sorta di poema De re rustica e nello
stesso tempo il luogo ideale dell’otium nella natura
sognato dagli umanisti.
La proprietà fu acquistata nel 1479 dai Rucellai; forse
gia dal 1480, piú verosimilmente nel 1485-86, cominciarono grandi lavori che furono affidati a Giuliano da
Sangallo dopo una specie di concorso. Nessun progetto
aveva soddisfatto Lorenzo, quando il Sangallo elaborò
un progetto cosí originale e soprattutto cosí conforme al
gusto del principe («suo capriccio») che questi si decise
improvvisamente a farlo eseguire100. Anziché di un rifacimento, come era avvenuto a Careggi, a Cafaggiolo e
nelle altre ville della famiglia, si tratta qui di una creazione originale, che risponde al gusto dell’epoca laurenziana esattamente allo stesso modo che gli edifici di
Michelozzo avevano corrisposto al gusto dell’epoca anteriore. Tuttavia i lavori non erano ancora finiti nel 1492.
Il Guicciardini lo conferma dicendo che Lorenzo
comandò a Poggio a Caiano un edificio superbo che la
morte gli impedi di portare a termine. Fino all’altezza
della terrazza e del portico l’edificio era stato innalzato; ma fu Leone X a far costruire il piano superiore101.
Il Poggio è una leggera elevazione in cima alla quale
è costruita la villa; a nord si estende un parco per siste-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
mare il quale fu necessario deviare il corso dell’Ombrone. La sommità fu trasformata in un terrapieno chiuso
da quattro costruzioni angolari lungo le quali si stendevano, e tuttora si stendono, ad est dei giardini, ad ovest
dei verzieri di una disposizione notevolmente studiata,
lungo la strada di Pistoia. Tutt’intorno corre una muraglia, unico vestigio «feudale»102. Una veduta dell’Utens
del Seicento ci fornisce lo schema d’insieme e ci mostra
che ben pochi cambiamenti sono nel frattempo intervenuti: l’unico è il fatto che il terrapieno centrale era separato in modo piú netto rispetto al resto. Attualmente
l’accesso ai giardini e al parco e piú agevole. La villa s’innalza al centro di un piazzale adorno su tre lati di aiuole e in leggero pendio sul davanti.
La pianta non è l’aspetto che anzitutto colpisca.
Come si presentano allo spettatore, le fabbriche offrono tre elementi caratteristici: il pianterreno, il blocco
centrale, il portico. Formando una specie di basamento
corre al pianterreno una galleria aperta ad archi su pilastri di cotto, rinforzata agli angoli da due grossi pilastri.
Questa galleria e la terrazza che la sovrasta circondano
completamente la villa, costruita su una pianta quadrata. Una balaustra di gusto donatelliano isola in modo
netto questo motivo decorativo abbastanza austero nel
quale la muratura minuta e gli archi nudi sembrano un
ricordo lontano dei basamenti a bugne dei palazzi fiorentini. Al centro della facciata anteriore un avancorpo
a tre aperture ineguali sosteneva una scala a rampe diritte che ancora si vede nel quadro dell’Utens e nei disegni originali del Sangallo103: una nuova sistemazione dell’entrata è venuta a sostituire, nel Seicento, a questa
scala le due rampe curve e i tre grandi archi separati da
nicchie e decorati pesantemente che si vedono attualmente. Questo ampliamento ha ridotto da cinque a quattro il numero degli archi che al pianterreno corrono da
entrambi i lati di questo avancorpo, il quale tradisce la
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
semplicità del progetto iniziale. La villa propriamente
detta è coronata senza l’intermediario di un cornicione,
da un tetto all’italiana molto abbassato, cosa che toglie
all’insieme, nonostante la sua vastità e la sua imponenza ogni pretesa di palazzo. Le finestre a riquadri, accuratamente disegnate dal Sangallo, sono state sostituite
da finestre moderne, ma la loro ubicazione non è stata
mutata.
L’insieme determinato dalla base, il rettangolo della
facciata e il portico, ubbidisce a una trama di rapporti
geometrici che si può facilmente mettere in evidenza
attraverso uno schema. Al centro del complesso, esattamente al di sopra dell’avancorpo delle scale, che serve
da stilobate, in una posizione calcolata con esattezza, è
inserito il motivo nuovo del portico: i suoi cinque intercolumni scandiscono esattamente, nel rettangolo centrale della facciata, un ritmo netto ed elegante104. Un fregio continuo corre al di sopra dei capitelli: il frontone
aggravato da un medaglione mediceo fa purtroppo sentire sull’insieme la solennità del Cinquecento. Tranne
forse questo particolare, si tratta dell’ordinamento generale previsto dai disegni del Sangallo. Il portico si presenta come una sorta di pronao, che però non sporge;
esso penetra nell’edificio come un vestibolo aperto. La
sua volta a botte trasversale costituisce una delle innovazioni piú interessanti del Sangallo.
Il blocco molto sobrio dell’insieme e l’ampio basamento possono richiamare l’arte di Michelozzo. La
balaustra e le incorniciature primitive delle finestre
hanno un vigore decorativo donatelliano. Le colonne un
po’ fragili del portico spiccano sull’ombra con un’eleganza che può essere un ricordo di certi temi brunelleschiani. Ciò nonostante l’intenzione «ellenistica», la
novità colta sono manifeste. Per la prima volta una facciata di tempio greco viene ricostruita ed adattata all’architettura civile. Giuliano da Sangallo ha creato qui il
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
tema del portico d’ingresso innestato su un volume semplice: sessant’anni prima del Palladio, egli anticipa con
geniale autorità la forma classica della villa rinascimentale105.
L’interno è distribuito in modo non meno notevole:
la pianta quadrata, divisa in modo estremamente regolare, crea al centro della casa, parallelamente alla facciata, una sala rettangolare di dimensioni monumentali, illuminata da «oculi» e finestre, grazie a una doppia
rientranza sui lati106. Questa sala rappresentò l’occasione per ricerche tecniche audaci: essendosi deciso di
coprirla, nonostante la sua ampiezza, con una volta a
botte a pieno sesto e a lacunari, secondo la maniera
«antica», il Sangallo dovette preliminarmente sperimentare il procedimento in una casa che stava costruendosi a quell’epoca a Firenze107. Questa pianta simmetrica in cui le sale dipendono l’una dall’altra era allora una
grande novità: Giuliano l’ha ripresa nel suo progetto per
il palazzo del re di Napoli e Francesco di Giorgio l’ha
studiata108. Questa grande sala non fu portata a compimento, come dimostrano gli emblemi araldici che la
ornano, se non all’epoca di Leone X, cioè intorno al
1520. Essa tuttavia non rappresenta se non la ripresa e,
per cosí dire, l’amplificazione all’interno della casa, del
portico della facciata, anche questo coperto con una
volta a botte a lacunari «antichi». È d’altronde anche
la soluzione che il Sangallo impiegherà ancora nel 148990 nel vestibolo della sacrestia di Santo Spirito, che
rappresenta una sorta di corrispettivo «sacro» del portico profano di Poggio, e sempre alla stessa epoca nel
portico del cortile che orna il palazzetto di Bartolomeo
Scala109. Le tre opere sono legate da questo particolare
tecnico. I lacunari sono trattati allo stesso modo: un
medaglione centrale e quattro spazi angolari, pronti a
ricevere motivi figurati o araldici.
Un grande programma decorativo completava la
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
struttura architettonica di Poggio a Caiano: il fregio del
portico recava e reca ancora una serie di scene allegoriche in terracotta invetriata in azzurro e bianco, al modo
robbiano: la loro bella esecuzione neoclassica pone il
problema della collaborazione con l’architetto di un artigiano di qualità, probabilmente il Sansovino110. Il soggetto del fregio, assolutamente originale, verrà studiato
a sé. Le pareti laterali dell’atrio dovevano essere coperte di dipinti; ma il muro di sinistra è vuoto e sul muro
di destra un affresco non terminato arriva fino a mezza
altezza. Entro strane architetture «pompeiane» si vedono ancora alcuni profili di figure tracciati sull’intonaco.
Era un’opera di Filippino Lippi come ci dice il Vasari:
«Al Poggio a Caiano cominciò per Lorenzo de’ Medici
un sacrifizio, a fresco, in una loggia, che rimase imperfetto» molto verosimilmente prima del 1492111. Sulle
pareti del salone, forate dagli «oculi», sotto l’arco a
pieno sesto, era verosimilmente prevista una decorazione dello stesso tipo, ma queste pareti furono affrescate
nel corso del Cinquecento secondo una concezione
nuova. Per poco dunque Poggio a Caiano, con il suo
parco, la sua architettura, le sue decorazioni, non divenne, alla fine del Quattrocento, l’insieme piú completo e
piú «moderno» non solo dell’arte toscana, ma di tutta
quanta l’arte italiana.
L’edificio è di gusto albertiano: le divisioni armoniche dominano la pianta e la facciata, la quale produce
una forte impressione di forza, di calma e di gravità.
L’ingresso col suo tema templare inserisce un elemento
elegante in questo insieme robusto. Tutto s’ispira alla
celebrazione della vita rustica: nell’intenzione di Lorenzo e del Sangallo si trattava evidentemente di una villa
e non di un castello. I primi scritti che riguardano Poggio a Caiano, cioè il lungo epigramma di Ugolino Verino (1491) e il poema latino del Poliziano che si conclude con un elogio di Lorenzo e la sua bella proprietà, insi-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
stono per l’appunto sulle culture agricole; prima ancora
di citare la villa, essi celebrano gli allevamenti, i vivai,
gli orti modello, gli alveari che il Signore di Poggio
aveva raccolto sotto il segno della ninfa del luogo,
Ambra112. Lorenzo stesso aveva celebrato in una sorta di
egloga la favola di Ambra inseguita dal torrente Ombrone e trasformata in pietra: questo delizioso poema era
come il mito di Poggio a Caiano, luogo posto sotto il
segno delle ninfe: il suo «precettore» umanistico era il
Poliziano, piuttosto che il Ficino. È l’aspetto poetico e
«naturalistico» dell’Accademia che domina nella concezione e nella decorazione di questo Trianon fiorentino.
Il fregio dell’atrio ionico, il cui insieme costituisce una
sorta di celebrazione religiosa dei ritmi della natura,
presenta su uno dei riquadri l’immagine delle stagioni
che regolano i lavori campestri e in particolare quelli
della vigna e del grano.
Quando Giovanni de’ Medici, divenuto papa nel
1513, si preoccupò di portare a termine l’opera del
padre, fece voltare il salone. Ottaviano de’ Medici fu
incaricato di dirigere i lavori: inoltre Paolo Giovio in
persona, amico di Leone X, definí il programma dei
grandi affreschi storici che dovevano rievocare, sul
modello della stanza di Eliodoro, gli avvenimenti della
storia romana che prefiguravano quelli dei Medici. Tuttavia l’esecuzione andò molto per le lunghe113. La decorazione delle lunette laterali era stata affidata al Pontormo. Nel 1521 quella orientale era compiuta. Si tratta di una serie mirabile di figure rustiche, contadini,
contadine e fanciulli, nei quali il Vasari ha voluto ritrovare la favola di Vertumno e Pomona e nella quale si può
vedere, piú semplicemente, un’evocazione della vita dei
campi, forse una variazione sul tema delle stagioni e
delle età114. La serie ispirata da Paolo Giovio è di spirito «cinquecentesco», ma è lecito chiedersi se la lunetta
del Pontormo, d’ispirazione cosí diversa, non sia un
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
resto del vecchio programma iniziato coi temi del fregio
esterno e interrotto nel 1492: si comprende male questa evocazione campestre nel complesso pomposo immaginato per Leone X. In realtà la lunetta orientale è l’unica che sia stata eseguita; quella occidentale, un secolo dopo l’esecuzione del fregio dell’atrio, fu dedicata ad
una allegoria pesante: Fortuna et Virtus accompagnate da
Fama, Gloria et Honor, ed è un soggetto che la lega con
le vicende della storia romana effigiate sulle pareti.
S’ignora anche quali simboli fossero stati previsti nel
portico d’ingresso. Sulla parete orientale sopravvive,
come abbiamo visto, il frammento del «sacrificio» menzionato dal Vasari; ma la denominazione è incompleta.
Il tempio fantastico che si vede sulla destra presenta
tutti gli emblemi di Nettuno, le tracce di figure che
sopravvivono a sinistra indicano una scena agitata. Un
confronto con certi disegni porta a concludere che si
tratta di Laocoonte, sacerdote di Poseidone, aggredito
dai serpenti mostruosi mentre si accinge a offrire il sacrificio al suo dio115. Il famoso gruppo alessandrino non
sarebbe stato scoperto a Roma, ed identificato per l’appunto da Giuliano da Sangallo, esperto in archeologia
antica, che nel 1506. L’affresco di Filippino è una ricostruzione «letteraria» fondata su Virgilio. Rimane sorprendente la scelta del tema: come s’inserisce nel programma previsto per Poggio a Caiano? Si tratta di un
elogio lambiccato del fiume e della sua divinità, mentre
di fronte avrebbe dovuto esserci qualche elogio della
terra con, ad esempio, la sconfitta dei giganti o un altro
«sacrificio antico» celebre? Ci pare comunque indubbio
che, attraverso il mito, si sia voluto esaltare la poesia del
luogo. I simboli del fregio e dell’atrio, dovevano, proprio sulla soglia della casa, impressionare il visitatore116.
La scelta del Laocoonte risponde ad una evidente intenzione di illustrare i prodigi della mitologia e l’antichità
«sacerdotale» cara all’Accademia. Il fregio, il cui tono
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
netto ed elegante contrasta tuttavia con questa scena
nervosa e romantica, celebra i «misteri della natura». Se
fosse stata decorata nel 1490, e non trenta o cento anni
dopo, la sala centrale avrebbe costituito un ciclo notevole, in cui, secondo ogni verosimiglianza, sarebbero
state celebrate, come nella villa di Spedaletto, le meraviglie della mitologia. Il senso generale del tentativo
compiuto a Poggio a Caiano è chiaro117; il suo mito
«umanistico» rimane invece in parte velato.
Storia dell’arte Einaudi
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Capitolo terzo
La decorazione sacra: il rinnovamento
del mosaico e le tombe
Il mosaico fiorentino.
Un poeta della cerchia di Careggi, che sullo scorcio
del secolo celebrava le personalità illustri fiorentine,
Ugolino Verino, ricordava tra gli artisti piú eminenti
della città: «Il pittore Gherardo dal talento multiplo»,
il quale «ha anche insegnato, primo tra i toscani, a creare mediante la cottura della materia vetrificabile e ad
animare di figure vive i mosaici»118. Si tratta di Gherardo di Giovanni di Miniato (1445-97), artista in realtà
dai molteplici talenti, di cui Lorenzo aveva voluto fare
il rinnovatore del mosaico fiorentino. Il posto d’onore
che gli assegna il cronista tra i Pollaiolo e il Verrocchio,
basta a dimostrare che per i contemporanei non si trattava di un capriccio anacronistico. Il tentativo aveva
radici profonde e fu portato parecchio avanti e, sembra,
col consenso di tutti gli ambienti che potevano vedervi
sia una restaurazione antica sia la conferma di una superiorità fiorentina. Allievo, si dice, del Poliziano, ricordato piú volte come organista, amico di Leonardo che
accenna alle sue ricerche luministiche, Gherardo fu col
fratello Monte a capo di una bottega di miniatori che,
tra il 1470 e il 1495, lavorò per i grandi conventi di
Firenze (Breviario di san Marco, messale di sant’Egidio),
per la cattedrale (messali del 1492-93) e per persone alto-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
locate: è l’autore del Didimo destinato a Mattia Corvino (1488) e dell’Omero, opere che sono fra i capolavori
della miniatura umanistica119. Gherardo fu anche frescante e molto verosimilmente incisore. È alla fine del
1491 che nei registri di Santa Maria del Fiore figura un
pagamento «Sandro Mariani et Gherardino et Monti
magistris mosaici»: cioè a Botticelli e ai due maestri
mosaicisti Gherardo e Monte, per dei lavori nella cappella di San Zanobi. Pagamenti avvengono anche nel
giugno e nel dicembre del 1492, poi nel marzo del 1494.
Dopo questa data i lavori furono interrotti: fornirono
l’occasione, nel 1504, per un concorso, che però non
diede risultati, fra lo stesso gruppo d’artisti e un gruppo concorrente: la bottega del Ghirlandaio120.
L’elogio di Ugolino Verino è eccessivo in due sensi:
non solo Gherardo non era il mosaicista piú significativo dell’epoca di Lorenzo, ma non era nemmeno il rinnovatore della tecnica. In realtà era stato intorno al
1420-1430, col Ghiberti e con Paolo Uccello, che era
riapparso a Firenze il gusto di questa decorazione scintillante e colorata, di cui lo stesso Donatello si era servito per la sua cantoria. Questa piccola rinascita era
avvenuta proprio nel momento in cui si estinguevano le
vecchie botteghe veneziane di San Marco; il Senato
della Repubblica si era visto costretto, nel 1425, a chiamare Paolo Uccello come «magistro mosayci»121. Una
generazione dopo, negli anni 1450-60, l’arte del mosaico aveva ritrovato una certa attualità a Firenze, non piú
nel cantiere di Or San Michele, ora chiuso e superato,
ma in quello del Battistero, riaperto per lavori di restauro. E l’artista che viene chiamato per questi lavori è il
piú grande forse degli allievi di Domenico Veneziano, il
compagno di Piero della Francesca e del Castagno a
Sant’Egidio (tra il 1430 e il 1445), il maggior rappresentante dell’arte del mosaico a Firenze nel Quattrocento122. Il Baldovinetti per mezzo secolo sorveglia i
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
rifacimenti che si fanno nella cupola e addirittura completa la veneranda decorazione: nel 1453 è infatti incaricato di decorare di mosaici l’intradosso dell’arco sopra
la «porta della croce», nel 1455 quello della «porta che
è rincontro a Santa Maria del Fiore», cioè la Porta del
Paradiso finita dal Ghiberti nel 1452 e ormai messa in
opera123. Si tratta dunque d’un programma metodico.
Nella prima opera si ha la testa del Battista posta al centro dell’arco in un medaglione formato da un girale che
si svolge a destra e a sinistra attorno ad una testa di cherubino a quattro ali; la grana minuta dell’oro, un residuo d’invenzione ornamentale nel disegno, assicurano a
questa decorazione anacronistica una certa dignità.
Sopra la seconda porta l’oro del mosaico sembra voler
avvolgere nel suo fulgore le formelle dorate del Ghiberti;
la composizione presenta due angeli che con le braccia
alzate reggono il medaglione del Salvatore che cade in
corrispondenza della chiave di volta. Qui lo stile del Baldovinetti è libero da ogni affettazione arcaizzante e i
suoi angeli sono fratelli di quelli della cappella del cardinale di Portogallo. Sul fondo oro spiccano leggermente in quanto eseguiti in tessere piú minute, i nastri e le
fasce degli angeli. Abbiamo insomma un incontro abbastanza felice e raro tra «la grande maniera» toscana
della metà del secolo ed il mosaico. Questo buon risultato non si ripeterà nel timpano della porta sud della cattedrale di Pisa, che l’artista ornerà di un mosaico con san
Giovanni Battista nel 1467124.
Il Baldovinetti ha dunque compreso il mosaico meglio
di ogni altro fiorentino, o addirittura veneziano, del
suo secolo. Egli non sembra aver avuto alcun contatto
diretto con Venezia. È da Paolo Uccello e dal Castagno,
dalla pratica musiva fiorentina, che certamente egli ha
derivato la sua scienza. Questo punto tuttavia rimane
oscuro ed è lecito chiedersi che cosa esattamente si
nasconda dietro il curioso aneddoto del Vasari, secon-
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do il quale Alesso, che annaspava senza risultati apprezzabili, aveva infine avuto schiarimenti illuminanti da un
tedesco che si recava a Roma per il giubileo nel 1450 e
che egli aveva ospitato125. È possibile che il Baldovinetti sia riuscito ad avere da qualche vetraio del Reno delle
ricette relative ai problemi di cottura delle materie
vetrose, e questo gli avrebbe permesso di fare funzionare
utilmente dei forni. Ciò che induce a crederlo è, nello
stesso passo, la citazione di un «libretto che insegnava
a fare le pietre del musaico, lo stucco e il modo di lavorare». Qualche anno dopo il Filarete ci offre nel suo trattato una descrizione entusiasta delle possibilità della
decorazione a vetro; ma ai suoi occhi si tratta solo di un
sogno irrealizzabile, dato che non esistono piú botteghe
capaci di lavorare come una volta: «Questa arte è perduta, che da Giotto in qua poco s’è usata. Lui ne fe.
Solo a Roma ne se vede di sua mano; la Nave di Sco Pietro. Et uno Pietro Cavallini romano, ancora lui ne lavoro ne’ suoi tempi...»126.
Era dunque una tradizione toscana e romana, perduta
dai tempi di Giotto e di Cavallini, che veniva resuscitata dal Baldovinetti e dagli artigiani che lavoravano con
lui al Battistero. È in questo cantiere e non in quello di
San Marco, a Firenze e non a Venezia, che nell’ultimo
terzo del Quattrocento ci si tentò di richiamare in vita
l’arte del mosaico127. Chi ebbe l’iniziativa di questo fu
lo stesso Lorenzo de’ Medici, «il quale, come persona di
spirito e speculatore delle memorie antiche, cercò di
rimettere in uso quello che molti anni era stato nascosto; e perché grandemente si dilettava delle pitture e
delle sculture, non potette ancora non dilettarsi del
musaico»128. Le ragioni di ciò erano di due ordini: anzitutto la preoccupazione per la durata delle opere, in
quanto il mosaico era una forma di pittura quasi incorruttibile, come andava ripetendo Domenico Ghirlandaio: «la vera pittura per la eternità essere il musaico»129.
Storia dell’arte Einaudi
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Questa considerazione era indubbiamente meno banale
di quanto non sembri, se vi si aggiunge il prestigio che
la decorazione musiva del Battistero godeva presso i
fiorentini. Ma costoro dopo tutto erano convinti che
fosse stata la loro città a introdurre in Italia questa arte
in epoche passate. Alla suggestione di una grande tecnica, che era stata ammessa anche nell’antichità imperiale, si aggiungeva dunque la convinzione di una originalità toscana.
Quando gli umanisti, ad esempio l’Alberti, e sulla sua
traccia il Landino, vogliono celebrare Giotto ricordano
sempre la Navicella, che era pure, come ricordava il Filarete, un’opera di mosaico130. Il medaglione composto da
Benedetto da Maiano con una scritta del Poliziano per
le commemorazioni del 1490 in Duomo, presenterà il
padre della pittura fiorentina intento a collocare una tessera musiva su una tavola che è in realtà un’icona in
mosaico131.
Abituati alla decorazione policroma delle superfici
monumentali, molti dei fiorentini trovavano normale
che venissero completate con l’inserimento, in luoghi
particolari (lunette, intradosso degli archi) di medaglioni figurati. Era per loro un riallacciarsi alla tradizione nel
momento in cui le terracotte «robbiane» cominciavano
a sostituirsi al mosaico. Questa tendenza suscitava nell’ambiente mediceo un vero e proprio interesse per tutte
le forme di quest’arte, anche quelle greche, come risulta dal gran numero di «tavolette greche di musaico» o
di «quadri di musaicho», cioè delle icone in mosaico
indicate nei loro inventari132. Il fatto piú sorprendente
è che certe di queste icone sono di fabbricazione recente, in particolare il busto di san Pietro a grosse tessere
e d’un effetto un po’ greve (Bargello), che viene dalla
bottega del Ghirlandaio.
Secondo il Vasari, Lorenzo, nel suo appoggio dato al
rinnovamento del mosaico, avrebbe puntato su Gherar-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
do «che, allora miniatore e cervello sofistico, cercava la
difficoltà di tal magistero»133. Egli ottenne che gli fosse
affidata la decorazione della cappella di San Zanobi. Ma
in fin dei conti era dal Baldovinetti che in questo campo
derivavano sia Gherardo (e suo fratello) che i due Ghirlandaio, che, intorno al 1490, rappresentavano una bottega rivale. L’attività del Baldovinetti al Battistero e a
San Miniato era in effetti ricominciata nel 1481; nel
1483 l’artista è nominato capo del cantiere del Battistero
«non si trovando chi sappia... altri». Pagamenti sono
attestati nel 1487, 1489, 1490, 1491134. A questo primo
decennio di lavori di rifacimento segue un periodo in cui
i fiorentini si propongono opere nuove e questa volta in
Duomo: nel 1490 Domenico Ghirlandaio, già chiamato,
nel 1486, come esperto per il Battistero, realizza sul timpano della Porta della Mandorla la sua mediocre Annunciazione, incorniciata da un arco fiorito135. Infine nel
1491 si decide di rivestire di mosaico le vele della cappella di San Zanobi a fianco della cupola e il lavoro è
affidato ai fratelli Ghirlandaio da un lato, ai fratelli del
Fora (Gherardo e Monte), in rapporto col Botticelli, dall’altro.
Tutti questi fatti assumono un certo rilievo allorché
si riportano all’aneddoto ben noto riferito dal Vasari per
sottolineare la libertà di linguaggio dell’allievo del Baldovinetti, il Graffione: «Dicono che il magnifico Lorenzo de’ Medici ragionando un dí col Graffione, che era
uno stravagante cervello, disse: – Io voglio fare di musaico e di stucchi tutti gli spigoli della cupola di dentro –;
e che il Graffione rispose: – Voi non ci avete maestri –.
A che replicò Lorenzo: noi abbiam tanti danari che ne
faremo...»136. L’orgogliosa dichiarazione di Lorenzo corrisponde bene ad una precisa ambizione dell’ambiente
fiorentino. Si trattava di restituire a un’arte, che un
tempo era stata d’importanza nazionale, tutta la sua
dignità, estendendo a Santa Maria del Fiore la magnifi-
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cenza del Battistero. Cosí Firenze avrebbe potuto essere un’altra Venezia, la Toscana un’altra Roma. Si pensò
di porre mosaici anche in luogo del tutto impensato
come la facciata del Duomo di Siena, i cui lavori furono commissionati a David del Ghirlandaio nel 1493137.
Il Vasari, che mostra incertezze nel suo giudizio sul rinnovamento del mosaico toscano, tradisce un entusiasmo abbastanza significativo quando dichiara che Domenico Ghirlandaio ha arricchito l’arte del mosaico, «piú
modernamente lavorato che non fece nessun toscano»138.
Dopo la morte di Domenico, avvenuta nel 1494,
David, piú giovane di lui, che possedeva un forno ed un
impianto adatto a Montaione Valdelsa, Benedetto, l’estroso autore della Natività di Aigueperse, che s’occupava anche lui di mosaico, e il loro nipote Ridolfo prolungarono ancora il sogno del Quattrocento fiorentino139. Tra il 1504 e il 1513 Ridolfo realizzerà con uno
stento sempre maggiore la mediocre Annunciazione del
portale dell’Annunziata cominciata dallo zio140. Gherardo e il fratello erano scomparsi prima della fine del secolo. La tecnica si viene estinguendo in Toscana. Alcuni
anni dopo conoscerà a Venezia una nuova ripresa per
impulso di Tiziano, degli Zuccari, di Vincenzo Bianchini
e altri, e con queste composizioni rinasce anche la pretesa di Venezia di essere l’unica e vera depositaria di
quest’arte, pretesa che provocherà una piccola polemica storica141.
Si assisteva indubbiamente in Italia, alla fine del
secolo, a Roma col Pinturicchio che nel 1494 portava a
termine la decorazione degli appartamenti Borgia (e
ancora nella prima stanza di Raffaello), a Venezia intorno al Crivelli, un ritorno alle materie sontuose, un gusto
dei broccati, delle stoffe impresse che permetteva le
filettature e le punteggiature d’oro142. È lecito supporre
che l’interesse fiorentino per il mosaico non sia stato che
un aspetto di questa generale voga degli effetti pittore-
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schi e dei colori brillanti. Tuttavia il fenomeno ha un suo
carattere propriamente toscano: nulla infatti puó considerarsi piú di esso conforme, in fin dei conti, ai principi dell’Alberti. Lorenzo si sforzò di orientare in questo
senso l’arte fiorentina, certamente senza avere coscienza di commettere un anacronismo e di incoraggiare una
tecnica ormai perenta. Gli umanisti che celebravano il
mosaico di Giotto come modello della pittura moderna,
lo incoraggiavano in queste illusioni. E questo ritorno
alla decorazione «paleocristiana», questo sogno di una
cupola interamente decorata di mosaico deve considerarsi in ultima analisi come una delle illusioni del Quattrocento alimentate dai dotti fiorentini.
Le tombe.
L’Alberti insiste sull’importanza «civile» delle tombe
all’interno delle chiese. Esse debbono essere semplici e,
qualora si tratti di cappelle funerarie, devono essere
qualcosa come delle chiese in miniatura, «pusilla templorum exemplaria» (VIII, 3). Insomma edifici sul genere di quelli in cui egli ha fornito un esempio con la cappella Ruccellai a San Pancrazio (1460-1467), circondata di pilastri, che chiudeva il curioso piccolo edificio rettangolare destinato con una esplicita iscrizione a simboleggiare il sepolcro di Cristo143. Nessuna di queste
opere trovò seguito in Firenze. I precetti dell’Alberti
intervennero in un momento in cui lo stile delle tombe
monumentali stava attraversando una sorta di crisi. Il
monumento del cardinale di Portogallo implicava novità
sostanziali: la struttura architettonica scompariva dietro
gli effetti pittoreschi, gli elementi di decorazione paleocristiana vi si moltiplicavano, un simbolismo nuovo
appariva nei particolari ornamentali. Si era di fronte ad
una «visione» del tutto emotiva, destinata a toccare l’a-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
nima, a commuovere col richiamo alla transitorietà della
vita144. Un altro tipo, ripreso dai primi secoli del cristianesimo e carico di motivi umanistici, aveva trovato
la sua definizione nel tempio Malatestiano di Rimini ad
opera di Agostino di Duccio: il sarcofago qui era chiuso dentro una nicchia inquadrata da un arco a pieno
sesto, che in pratica non era se non l’arcosolium delle
catacombe. Ma a Rimini il monumento posto su mensole, sormontato da una cortina, finiva per rientrare nel
tipo parietale. Due rilievi, uno a sinistra rappresentante il tempio di Minerva con una statua di Athena Promachos, l’altro a destra, che presentava un carro trionfale, stavano a dimostrare i due aspetti fondamentali dell’immortalità: la Saggezza e la Gloria militare. L’orientamento umanistico vi è chiaro come piú non si potrebbe145. Firenze era ritornata già da tempo all’arcosolium.
Nella forma della tomba a lunette, il cui esempio piú
antico sembra esser stato il monumento di Onofrio
Strozzi (circa 1430) a Santa Trinita, Bernardo Rossellino sviluppò questo tipo per Orlando Medici alla SS.
Annunziata (poco dopo il 1455) e uno dei suoi allievi,
forse Desiderio, per Giannozzo Pandolfini (intorno al
1470-80) alla Badia146. Tuttavia l’esempio piú spettacoloso di questo modello sarebbe stata la tomba di Francesco Sassetti eretta in Santa Trinita sotto la direzione
di Giuliano da Sangallo intorno al 1485.
Prima di arrivare a questo risultato le botteghe fiorentine, e prima di tutte quella del Verrocchio, si orientano in altre direzioni, cercando un accordo tra l’arte
funeraria e la nuova cultura. In netta opposizione alla
composizione aperta e indefinita del Rossellino a San
Miniato, la tomba dei Medici inserita, tra il 1469 e il
1472, in una parete della sacrestia vecchia di San Lorenzo, mostra in tutti gli elementi una fermezza impressionante e concentra l’effetto sulla decorazione astratta
che avvolge il sarcofago. Il monumento deriva qualcosa
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
da tutti i tipi anteriori: partecipa della tomba inquadrata
da un arco, del sepolcro sotto la nicchia e del sarcofago
isolato. La trovata eccezionale della griglia di bronzo,
che imita le funi intrecciate (motivo che deriva da Luca
della Robbia) basta a unificare l’insieme; l’ornamento
floreale, distribuito con mirabile sicurezza, completa la
struttura d’insieme; i fasci d’acanto del coperchio del
sarcofago, che si arricciano sotto le cornucopie, reggono l’emblema mediceo della punta di diamante che
ricompare sulle palmette che ornano la bordura dell’arco. L’assenza di ogni altro elemento iconografico sta a
dimostrare la volontà di ritornare agli elementi puramente monumentali dell’arte funeraria147.
Gli altri tipi hanno continuato, naturalmente, ad
essere utilizzati a Firenze; ma la tomba medicea ha servito di riferimento per gli artisti che volevano essere
moderni negli anni 1485-90. Essa ha ispirato tutte le
opere di rilievo delle botteghe toscane sulla fine del
secolo. Tuttavia il Verrocchio, dopo aver dato l’esempio
di un monumento il piú possibile spoglio, ed eloquente
solo per il gioco delle forme, aveva anche pensato di rinnovare l’iconografia funebre mettendo mano al cenotafio del cardinale Forteguerri a Pistoia. Egli aveva ottenuto la commissione, soppiantando Piero del Pollaiolo,
nel 1477 grazie a un intervento di Lorenzo de’ Medici.
Una parte delle figure erano già scolpite nel 1483, al
momento in cui il Verrocchio partiva per Venezia: le statue furono composte in un ordine monumentale nel Cinquecento, sotto la direzione di Andrea Ferrucci, poi di
nuovo suddivise nel 1553, di modo che è ora impossibile giudicare delle intenzioni del loro autore. Si avverte tuttavia, nella figura del Cristo, in quelle delle Virtú,
la Fede e la Speranza, nelle figure animate degli angeli
(in accordo con i due abbozzi in terracotta del Louvre),
una ricerca di soavità e di movimento che tende ad
accentuare al massimo l’espressione delicata: il tema
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principale era, come nel capolavoro del Rossellino a San
Miniato, ma in uno stile piú forte, l’ascesa e la beatitudine dell’anima, il suo accesso al mondo angelico.
Tutt’altra impressione si riceve di fronte alla cappella Sassetti. Dopo infiniti contrasti e difficoltà con i frati
di Santa Maria Novella, alla fine fu in Santa Trinita che
il banchiere Sassetti decise di edificare la sua cappella
funeraria ed è qui che fece porre, affrontati, il suo sarcofago e quello della moglie Nera148. La decorazione a fresco, affidata al Ghirlandaio ed alla sua bottega, è un’esaltazione di san Francesco. L’opera, insieme strana e
splendida, fornisce almeno un’idea dei gusti di un grande mercante fiorentino a quest’epoca: è altrettanto significativa nel suo genere e non meno ricca di intenzioni
«umanistiche» della villa di Poggio a Caiano nel campo
dell’architettura. Il monumento parietale della tradizione toscana si è trasformato in questo caso in una nicchia
profonda circondata da fasce adorne di temi ispirati
direttamente dai rilievi romani: liscio e solenne emerge
dall’ombra un sarcofago di porfido, ornato di bucrani che
incorniciano il cartoccio che contiene l’iscrizione latina.
La sobrietà delle forme e l’effetto cromatico richiamano
la tomba medicea. Tuttavia le molte decorazioni figurate, in cui ogni elemento è tratto da cammei e rilievi antichi, cosa che assicura l’unità decorativa dell’opera, sono
pervase da un linguaggio simbolico. Il Ghirlandaio ha
dipinto la Sibilla Tiburtina sulla facciata della cappella,
quattro altre sibille sulla volta; la pala d’altare, che raffigura la Natività con un sarcofago ornato di una iscrizione profetica, insiste apertamente sull’unità profonda
della latinitas e del cristianesimo149. Il fatto che vengano
ripetuti il centauro e la fronda, emblemi di Francesco
Sassetti, mette in evidenza il carattere personale dell’opera150. Il sacrificio degli Eroti sulla parte sinistra della
fascia orizzontale, il soggetto sacrificale derivato dal sarcofago di Meleagro, sulla parte destra, e le scene della
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Gloria militaris in monocromo, che sovrastano sulla parete e che sono derivate dai medaglioni dell’arco di Costantino, presentano in forma il piú possibile vicina all’antico, le due facce del destino umano, la doppia esigenza
dell’anima, la Religio e la Iustitia.
Nessun’opera funeraria è stata, in forma cosí piena e
diretta, pagana nell’espressione come lo è questa tomba
dei Sassetti. La tomba di Pistoia, almeno come possiamo immaginarla, e questa fiorentina rappresentano,
intorno al 1480, i due poli dell’arte funebre toscana: il
loro soggetto comune è il destino dell’anima, rappresentato nella prima secondo l’iconografia, nella seconda
secondo un vocabolario d’immagini derivate dal mondo
pagano. I due principî si trovano strettamente connessi
nella cappella funeraria piú originale della fine del Quattrocento a Firenze, cioè la cappella Strozzi a Santa
Maria Novella. Rientrato dall’esilio sotto Piero de’
Medici, Filippo Strozzi era diventato priore del 1495.
Prima ancora di iniziare il suo grande palazzo di città nel
1489, definiva, nell’aprile del 1487, con un contratto
molto minuzioso con Filippino Lippi, la fisionomia della
sua cappella di famiglia nella chiesa dei domenicani. Nel
suo testamento del 1491 egli ricorda i miracoli di san
Giovanni e san Filippo rappresentati sulle pareti laterali. La sua morte ritardò la conclusione dei lavori; Filippino non terminò la decorazione che nel 1502 per conto
di Filippo Strozzi il Giovane. Questi era discepolo e
amico di Jacopo da Diacceto151; i legami di suo padre col
Ficino non sono attestati che in occasione della posa
della prima pietra del Palazzo152. Il contratto del 1487
non presenta alcun termine che possa essere indizio di
preoccupazioni «umanistiche». Tuttavia la cappella è
una delle manifestazioni piú tipiche del sentimento religioso suscitato dall’insegnamento del Ficino.
L’insieme s’ispira infatti a un programma coerente.
Come palazzo Strozzi rappresenta una ripresa a scala
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gigantesca del tipo fiorentino di palazzo piú tradizionale, cosí la cappella ritorna, in modo piú deciso che
non avessero fatto i Sassetti a Santa Trinita, alle grandi decorazioni delle «vite dei santi». I patriarchi sostituiscono sulla volta le sibille. La parete di fondo comprende tre elementi. Anzitutto il sarcofago di marmo
nero, opera di Benedetto da Maiano (concepito con la
stessa sobrietà di quello del Sassetti), con due putti in
rilievo, che sta entro una nicchia dominata dal tondo
della Madonna in marmo bianco sostenuto dagli angeli, cosa che richiama la cappella del cardinale di Portogallo a San Miniato153. In una grande vetrata su cartone di Filippino, e in certi punti dipinta direttamente da
lui stesso, si vedono i due santi protettori, san Giovanni
e san Filippo, in atto di venerare la Vergine in gloria154.
L’idea della cappella viene cosí riassunta in questa striscia traslucida, inquadrata e magnificata da una sorprendente decorazione a monocromo. Questa è concepita come un arco di trionfo e brulicante in ogni parte
di scritte e figure, di cartoni e allegorie in cui il mondo
pagano viene a legarsi al mistero cristiano. Nella composizione non solo sono profusi tutti i motivi dell’arte
funebre antica (bucrani, maschere, grifoni, ecc.), ma si
notano, ai lati della struttura architettonica, la ninfa
Partenice accanto alla Caritas, Polimnia e un’altra musa
accanto alla Fides. Le Virtú che si vedevano nel Monumento Forteguerri vanno qui in coppia con le piú tipiche figure simboleggianti le attitudini superiori dell’anima155.
Si assiste dunque a Firenze alla progressiva assunzione dell’arte funeraria dell’antichità nello stile delle
tombe. Il programma decorativo tende a realizzare una
idea di trionfo in cui si fondano l’elogio del defunto e il
concetto della trasfigurazione ultima dell’anima. Gli sviluppi di questo nuovo orientamento si devono cercare a
Roma. Il monumento bronzeo a cui Antonio Pollaiolo
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attese dal 1484 al 1493 deriva dalla Tomba medicea: tratta il sarcofago come un blocco indipendente, con in piú
la figura del defunto giacente realizzata in bronzo. Presenta una decorazione a formelle figurate rappresentanti le sette Virtú sulla parte piana e le dieci «Arti» sulla
superficie obliqua, e queste sembrano il sostegno dell’edificio. La scelta delle allegorie, meglio definite dalle
iscrizioni, non presenta nulla che esca dalla tradizione:
con le «Arti» si rimane nell’ambito dei programmi scolastici156. La Prospectiva è l’ottica, in senso medievale, e
non la nuova scienza degli artisti, la Philosophia cita Aristotele e la Theologia la Genesi. Tuttavia quest’opera
massiccia esce dalle consuetudini medievali. Le «Arti»
non ricorrevano spesso nella decorazione delle tombe; e
se qui accompagnano la spoglia del pontefice è per suggestione dell’elogio contenuto nell’opuscolo di Aurelio
Brandolini, De laudibus ac rebus gestis Sixti IV: cioè la gloria delle Arti e la restaurazione della cultura a Roma.
Questo cenotaffio bronzeo ha avuto una sua influenza,
vent’anni dopo la commissione al Pollaiolo, nella genesi
del mausoleo di Giulio II; ma in quest’ultimo la glorificazione del defunto rimane subordinata ad una concezione piú poderosa157. Riunendo infatti le novità essenziali del Quattrocento fiorentino, il progetto del 1505
riprende il tempietto dell’Alberti nella cappella Ruccellai. Questo rappresentava, con un edificio a quattro
facce, la tomba tipo, la tomba di Cristo; e il Vasari, e poi
il Condivi, descrivono appunto anche il monumento di
Giulio II come un tempio158. Inoltre esso viene concepito come una sorta d’arco trionfale a quattro facce, per
cui viene ad essere la versione architettonica della decorazione abbozzata da Filippino. Il programma della
tomba di Sisto IV ritorna anche qui, ma dilatato dall’impeto fantastico di Michelangelo, fino a raggiungere
le dimensioni di un simbolismo universale. La conclusione dell’evoluzione fiorentina si trova a Roma.
Storia dell’arte Einaudi
272
Capitolo quarto
La decorazione profana
Non vi sono dubbi sull’ampiezza dell’attività costruttiva a Firenze nella seconda metà del Quattrocento. Lo
attesta Benedetto Dei, che parla di trenta palazzi
costruiti tra il 1450 e il 1478 e, per gli anni successivi,
da un testimone popolare, il Landucci, che nel suo diario ricorda, nel 1489, i lavori di palazzo Strozzi, di
palazzo Gondi, della villa di Poggio a Caiano e aggiunge: «Molto altre case si murava per Firenze, per quella
via che va a Santa Caterina, e verso la Porta a Pinti et
la via nuova de’ Servi a Cestello [cioè nel quartiere
nord, dove interviene il Sangallo], e dalla porta a Faenza verso San Barnaba, e inverso Sant’Ambruogio e in
molti luoghi per Firenze», con l’osservazione finale:
«Erano gli uomini in questo tempo atasentati al murare, per modo che c’era carestia di maestri et di materia».
Nel maggio la Signoria aveva accordato un’esenzione
fiscale di quarant’anni per le case costruite entro cinque
anni159.
Nulla ci autorizza a supporre che questi molti palazzi prescindessero dagli esempi del Brunelleschi e di
Michelozzo. Ciò che tuttavia sorprende è, fin verso il
1520, la prudenza dei fiorentini verso gli ordini antichi
(che cominciano invece a fare la loro comparsa a Roma)
e piú ancora verso i rilievi, le decorazioni a figure e gli
effetti dei materiali, che erano invece di moda in Emilia e in Lombardia. In linea generale possiamo dire che
Storia dell’arte Einaudi
273
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
ci fu, dopo il 1460, un ritorno alle formule collaudate,
un rinforzarsi dell’elemento toscano nell’architettura
civile. A giudicare dai progetti di Giuliano da Sangallo,
la cui importanza nella storia del palazzo italiano meriterebbe una valutazione piú approfondita160, certi personaggi in vista, e in primo luogo Lorenzo il Magnifico,
avrebbero desiderato composizioni piú libere e solenni.
Palazzo Gondi e palazzo Strozzi sono variazioni sul tipo
michelozziano di via Larga: un blocco nettamente definito con cornici marcapiano per sottolineare le divisioni orizzontali, un cornicione per concludere le masse, un
cortile quadrato animato dai vari piani risolti a portico.
Solo nel cortile sono ammessi gli ordini antichi. L’originalità, veniva quindi a esplicarsi essenzialmente nella
decorazione interna. Ogni personalità elaborava dei
complessi decorativi a suo piacere: rilievi scolpiti o terrecotte nel cortile, affreschi e serie di tavole, che venivano a comporre un ciclo omogeneo, nelle sale di rappresentanza...161. Gli elementi figurati del palazzo sono
sempre in qualche modo legati alla personalità del signore che li ha ordinati, riflettono con esattezza la sua cultura e il suo gusto. Dato che la maggior parte di questi
proprietari erano amici personali del Ficino e del Poliziano, talvolta seguaci fedeli di Careggi, ecco un punto
di contatto indiscusso tra l’arte e l’umanesimo. Il fatto
che raramente opere di questo tipo siano menzionate nei
testi, che un gran numero di esse siano scomparse e che
le tavole siano andate disperse fa sí che sia possibile
avere solo un’idea approssimativa e un quadro assai
incompleto del fenomeno:
principali decorazioni fiorentine
c. 1455 Villa di Legnaia; ciclo di affreschi.
prima del 1460 Cosimo, Biblioteca della Badia di Fiesole;
decorazione dipinta.
Storia dell’arte Einaudi
274
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
c. 1460 Lanfredini, villa di Arcetri; affreschi.
c. 1460 Palazzo Bardi-Serzelli; affreschi.
c. 1460-65 Piero de’ Medici, palazzo Medici; tre tavole: Fatiche d’Ercole.
c. 1475-80 Sassetti, palazzo di Montughi e palazzo presso Santa Trinita.
c. 1478 Lorenzo di Pier Francesco, villa di Castello
(?); tavole dipinte.
c. 1482 Villa Lemmi a Chiasso Macerelli; loggia con
affreschi.
c. 1484 Lorenzo, villa di Spedaletto, Volterra; affreschi.
c. 1490 Lorenzo, villa di Poggio a Caiano; fregio,
affreschi.
c. 1490 Bartolomeo Scala, palazzo di Borgo Pinti;
rilievi.
c. 1490 Francesco del Pugliese, casa; ciclo dipinto
(Piero di Cosimo).
c. 1500 Giovanni Vespucci, casa di via dei Servi;
cicli dipinti (Botticelli, Piero di Cosimo).
Le serie di «uomini famosi» erano tipiche piuttosto
della decorazione degli edifici pubblici e un esempio se
ne aveva nel palazzo del proconsolo. Fra le decorazioni
di case private il Vasari segnala un complesso dipinto da
Lorenzo di Bicci in casa di Giovanni di Bicci, padre di
Cosimo il Vecchio. Altri ne esistevano certamente e
l’Ercole del cortile di palazzo Bardi-Serzelli deve esserne un resto162. Il ciclo piú notevole di tutto il Quattrocento è quello della villa di Legnaia dipinto, con un’ampiezza di concezione e una fermezza di stile sorprendenti, dal Castagno intorno al 1450-55, nella sala di una
piccola villa suburbana163.
Le sistemazioni di interni comprendevano strutture
lignee che formavano pancale e spalliera intorno ai quadri. L’insieme piú tipico che si conosca in questo tempo
Storia dell’arte Einaudi
275
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
è indubbiamente la sala a pianterreno di palazzo Medici, che veniva indicata come «la chamera di Lorenzo» e
di cui l’inventario del 1492 enumera i quadri incorniciati
dalle strutture in legno: tre Battaglie di Paolo Uccello,
Leoni e draghi, il Giudizio di Paride dello stesso artista,
la Caccia del Pesellino. I quadri erano collocati molto in
alto; la loro precisa disposizione non è tuttavia chiara.
Il tutto risaliva all’epoca di Cosimo (poco dopo il 1450,
e sembra non ispirarsi ad alcun programma: a completare questo ciclo vennero poi il Corteo dei Magi nella cappella (1459) del Gozzoli e la decorazione con Storie d’Ercole nel salone164. Programmi nuovi appaiono intorno al
1460 con la Biblioteca della Badia Fiesolana, decorata
a spese di Cosimo, e soprattutto con la decorazione di
«baccanti» realizzata dal Pollaiolo nel salone della villa
Lanfredini ad Arcetri165. Poco dopo, intorno al 1465,
Piero de’ Medici commissiona allo stesso Pollaiolo i tre
grandi quadri di Ercole destinati ad una delle stanze dell’appartamento mediceo: il Vasari li descrive come opere
impressionanti e audaci, che ebbero grande risonanza166.
Tra il 1465 e il 1480, proprio nel momento in cui si
costruiscono tanti palazzi nuovi, c’è una lacuna nelle
nostre informazioni. Le costruzioni e le fondazioni che
Francesco Sassetti promuoveva intorno al 1475 e che
avevano una particolare ampiezza, dovevano comprendere dei complessi decorativi purtroppo scomparsi. Alle
porte di Firenze, verso nord, a Montughi, il ricco banchiere aveva innalzato, intorno al 1480, un palazzo il cui
lusso, la cui biblioteca e le due cappelle furono ammirati da tutti se dobbiamo prestar fede a una lettera originale e laudativa del Ficino. Un po’ piú tardi Ugolino
Verino scriverà:
Montuguas Saxetti quid si videris aedes,
Regis opus credes.
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276
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Non ne rimane quasi nulla, non piú che del palazzo
cittadino, piú modesto, costruito vicino a Santa Trinita, la chiesa dove il Sassetti eresse la sua cappella funeraria e il suo mausoleo167.
La villa di Spedaletto.
Scarse sono le notizie che ci sono pervenute sugli
affreschi eseguiti alla villa di Spedaletto, vicino a Volterra, dal Botticelli, dal Ghirlandaio, dal Perugino e da
Filippino Lippi168: questi affreschi sono descritti in un
rapporto indirizzato a Ludovico il Moro da uno dei suoi
agenti a proposito dei pittori piú celebri di Firenze169.
Sembra risultarne che essi furono iniziati dopo l’inaugurazione, avvenuta nell’agosto 1483, della nuova cappella Sistina a Roma, dove si erano distinti i primi tre
di questi artisti. Filippino invece era un esordiente ed è
curioso vedere questo giovane artista già attivo accanto
a maestri affermati. Può darsi però che Filippino avesse posto mano a questa decorazione fin dal 1481-82,
quando ancora i collaboratori piú anziani erano a Roma.
Il Vasari precisa che la parte avuta dal Botticelli fu
importante e nella vita del Ghirlandaio ci fornisce una
preziosa indicazione: «Allo Spedaletto per Lorenzo Vecchio de’ Medici [dipinse] la storia di Vulcano, dove
lavorano molti ignudi fabbricando con le martella saette a Giove»170. Si trattava dunque di un complesso mitologico, il primo che sia documentato in modo cosí esplicito: svolto da artisti di tanta importanza, e per Lorenzo stesso, doveva trattarsi indubbiamente di un’opera di
rilievo. Trent’anni prima della Farnesina gli artisti medicei adattavano il mondo dei miti alla decorazione delle
abitazioni private. È impossibile definire la natura e lo
spirito del programma, ma Botticelli era nel pieno della
sua maturità, considerato come l’artista di «optima
Storia dell’arte Einaudi
277
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
ragione et integra proportione», ed è lecito supporre
che, come era avvenuto alla cappella Sistina, desse il
tono a tutti quanti; ma, cosa strana, se n’è parlato assai
poco e tutto è scomparso, tranne alcune tracce irriconoscibili, nel secolo scorso171. Gli affreschi si trovavano
sotto un portico e in una grande sala all’interno e si può
quindi pensare alla disposizione di Poggio a Caiano, ove
sarebbe ricomparso Filippino. Si è perduto con questi
affreschi un punto di confronto fondamentale per distinguere chiaramente la «mitologia», come l’amavano i fiorentini, dalle forme piú fantastiche o piú naturalistiche
che essa poteva assumere a Padova e a Ferrara172.
Cicli botticelliani nelle ville.
Gli affreschi di villa Lemmi facevano parte di tutto
un complesso che ornava una loggia in una villa di
Chiasso Macerelli, appartenuta forse a Giovanni Tornabuoni173. Questa loggia prendeva luce da un piccolo
colonnato; su una delle pareti si vedevano un paesaggio e figure che attualmente sono quasi del tutto perdute, e, di contro, separate da una finestra, le due scene
allegoriche. Si è voluto riconoscere nei dipinti il cugino di Lorenzo, Lorenzo Tornabuoni insieme con Giovanna degli Albizi, il cui matrimonio fu celebrato nel
1486. Nell’affresco meglio conservato, con dei rosa e
dei verdi delicati, figurerebbe la giovane donna accolta da Venere e dalle sue ninfe, mentre nell’altro si
vedrebbe il giovane fiorentino guidato da una «divinità» verso il cerchio delle sette dame rappresentanti le
«Arti», cioè il sapere. In realtà non abbiamo alcuna fondata ragione per ravvisare qui Lorenzo Tornabuoni e la
sua fidanzata e d’altronde l’opera è con ogni verosimiglianza anteriore al 1486. L’interpretazione «nuziale»
non è quindi necessaria174. I due affreschi rappresenta-
Storia dell’arte Einaudi
278
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
no con chiarezza e misura l’accesso alla vita superiore
sotto il segno di Venere, che è una delle idee fondamentali dell’umanesimo di Careggi. Venere porta i
curiosi sandali che si vedono nella Primavera, è scortata da tre ninfe a piedi nudi che non possono essere se
non le Grazie. Essa depone, con un gesto monitorio, un
oggetto nel velo teso dalla giovane donna. Questa figura dallo sguardo serio si ritrova in altri quadri fiorentini. Tracce di colore che rimangono sull’intonaco, nonché la fontana che si vede a sinistra, lasciano supporre
che le figure spiccassero sul fondo di un giardino analogo al boschetto della Primavera. La stessa divinità che
reca il suo dono alla giovane donna conduce il giovane
per mano verso il coro delle «sette Arti», che sono
dame dai veli grevi, dagli atteggiamenti calcolati, sulle
quali spicca la Retorica. In questo caso le foglie e i tronchi del fondo sono ancora visibili. Il bel profilo dell’eroe attento spicca felicemente su questo fondo d’arazzo. È la figura di Venere, ripetuta da un affresco all’altro, a suggerire l’unità dell’opera e certamente dell’intero ciclo. La dea dispone del dono delle grazie e nello
stesso tempo del vero «sapere»175. La villa si trovava a
breve distanza da Careggi; ma ne è piú ancora vicina
per lo spirito della sua decorazione.
Il Vasari ha visto la Primavera e la Nascita di Venere
nella villa di Castello, antica proprietà del giovane cugino del Magnifico.
In diverse case fece [Botticelli] tondi di sua mano – scrive lo storico – e femmine ignude assai; delle quali oggi ancora a Castello... sono due quadri figurati, l’uno, Venere che
nasce, e quelle aure e venti che la fanno venire in terra con
gli Amori; e cosí un’altra Venere, che le Grazie la fioriscono, dinotando la primavera; le quali da lui con grazia si veggono espresse.
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Nonostante le sue consuete inesattezze, il Vasari
ammette chiaramente che le due opere costituiscono
una sorta di dittico176 e si è tentati di considerare questo dittico come il complemento della serie precedente.
Il pittore ha continuato poi a lavorare per Lorenzo di
Pierfrancesco: nel 1495 e 1496 egli ancora dirigeva i
lavori di manutenzione e decorazione a Castello, e si sa
che è stato lo stesso Lorenzo di Pierfrancesco a commissionargli la grande illustrazione della Commedia.
Questo principe era in stretti rapporti col Ficino e i «platonici»177. Il Botticelli, tutto sta a indicarlo, è stato il
«suo» pittore, cosa che non poteva che orientarlo verso
un «discorso umanistico» e «platonico» nello spirito di
Careggi.
Nel 1477 la villa di Castello era stata acquistata per
i due giovani figli di Pierfrancesco, cioè Lorenzo (nato
nel 1463) e Giovanni (nato nel 1467). Lorenzo di Pierfrancesco aveva dunque solo 15 anni nel 1478, data probabile della tavola botticelliana, ma è proprio il momento in cui il Ficino, di cui fu uno dei corrispondenti, gli
indirizza una lunga epistola «pedagogica», che presenta una sorta di oroscopo ideale sotto il segno di Venere, simbolo dell’Humanitas; e poco dopo prega due umanisti suoi amici, Giorgio Antonio Vespucci e Naldo
Naldi, di commentare la lettera al giovanetto. La composizione, in modo ancora piú deciso che negli affreschi
Lemmi ha l’aspetto di un arazzo: davanti al boschetto
di aranci, piegato ad arco al di sopra della divinità, si
stende un tappeto di fiori primaverili, tra i quali sono
state ritrovate la maggior parte delle erbe ricordate nel
giardino di Careggi. Venere, grave come una Madonna, rende la libertà alle Grazie che danzano a sinistra,
accanto a Mercurio, occupato a cacciare le nubi, e a
Flora, a destra, che accompagna una ninfa spinta da
Zeffiro. Sono i due aspetti dell’amore: grazia e lubricità, in un boschetto di sogno. I movimenti piú vari vi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
si legano con una precisione sorprendente; le forme si
risolvono in arabeschi; la gamma dei colori è attenuata
e un poco sorda.
In una cerchia di motivi strettamente definita dalle
descrizioni del regno di Venere (Ovidio, Fasti, V, 33
sgg., Orazio, Odi, 7, 30, e sulla loro scia Poliziano, Stanze, I) il Botticelli ha introdotto un valore allegorico e
astrologico serio; egli «sacralizza» il tema, facendone
una sorta di visione beatifica di tono umanistico e profano178.
Le numerose pagine del Ficino sulla «generazione
spirituale» della Bellezza si addicono altrettanto bene
all’apparizione di Venere tra due venti che soffiano fiori
(sono i fratelli di Zeffiro) e un’«Ora» dalla veste fiorita (sorella di Flora). La Venus pudica è tutta grazia e delicatezza. La scena illustra i grandi testi greci adottati proprio in quel momento dal Poliziano (Stanze, I, 99):
Una donzella non con uman volto
Da’ zefiri lascivi spinta a proda,
Gir sovra un nicchio; e par che il ciel ne goda.
Questo sorriso del cielo e della natura mossa dalla bellezza è ciò che l’umanesimo continuava a descrivere
come la verità superiore che la contemplazione ben guidata deve scoprire. Non abbiamo dunque solo un esercizio letterario impegnato a ricostruire, sulla base di Plinio, il capolavoro di Apelle; ma, insieme con il simbolo
favorito dell’umanesimo, la chiave delle sue effusioni
poetiche, un tema pedagogico essenziale alla dottrina del
Ficino179. Tutte queste composizioni sembrano ben rientrare nel programma della «Paideia» umanistica di
Careggi.
Storia dell’arte Einaudi
281
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Il palazzetto di Bartolomeo Scala.
Qualche anno prima del 1490 Giuliano da Sangallo
innalzava un’ampia dimora per uno degli intimi del Ficino, Bartolomeo Scala180. In una lettera datata 11 novembre 1490 questa amicizia si esprime in formule affettuose: «Unum sumus, immo sumus et unus». Questa
bella «unità» d’anima impedisce al Ficino di ricevere l’amico nella sua piccola casa: è stato dunque un atto di
pietà accettare piuttosto d’essere ricevuto da te nella tua
grande casa di Borgo Pinti. Là d’un cuore solo, all’ombra amabile di Lorenzo dei Medici, celebreremo lo
splendore di Febo sotto la protezione di Apollo, le Muse
e, nel coro delle Muse, Platone... Questa formula che,
nello spirito piú tipico dell’Accademia, unisce Lorenzo,
le Muse e Platone, conclude una lettera in cui il Ficino
accetta l’ospitalità del famoso giureconsulto nella sua
nuova casa «apollinea»181.
La quale è ben nota letterariamente, ma la costruzione, cioè il «palazzetto» di Borgo Pinti, è stata nel
Cinquecento incorporata nel palazzo Della Gherardesca
e in parte trasformata. L’antico cortile, di recente
restaurato, presenta tutti gli elementi dello stile di Giuliano da Sangallo e gli deve essere attribuito senza riserve. Tale cortile, quadrato, comprende tre arcate su ogni
lato; il sottoportico che lo circonda era coperto di una
volta a botte simile a quella di Poggio a Caiano con lacunari policromi. Sui quattro lati i pilastri che inquadrano gli archi continuano oltre la trabeazione dividendo il
fregio superiore in tre parti. Qui sono stati collocati,
verso il 1490, bassorilievi in stucco, color bronzo, opera
della bottega di Bertoldo. Queste grandi formelle rappresentano, sotto iscrizioni oscure che sembrano designare le grandi forze della vita morale: Amor, Mitas, Iurgium, Quies..., scene di battaglia, cortei, incontri solenni, nei quali si riconoscono tutti gli elementi di una
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
sorta di «Psicomachia» pseudo-antica. Queste allegorie
astruse si devono allo stesso giurista neoplatonico. Per
quanto l’opera appaia sorprendente per il vigore e talvolta la rusticità dello stile, manca di suggestione e chiarezza. In un certo senso rappresenta la conclusione e la
dilatazione della serie di tondi collocati, in posizione
analoga e con la stessa funzione, nel cortile del palazzo
mediceo; ma lo stile sovraccarico di Bertoldo inizia attraverso la giustapposizione di grandi scene, che imitano i
bronzi romani, la didattica allegorica di una nuova «psicologia»182.
Le tavole per interni di Botticelli e Piero di Cosimo.
Subito dopo aver ricordato le due Veneri, il Vasari cita
due cicli destinati alla decorazione di interni: «Nella via
de’ Servi in casa Giovanni Vespucci, oggi di Piero Salviati, fece intorno a una camera molti quadri chiusi da
ornamenti di noce, per ricignimento e spalliera, con
molte figure e vivissime e belle. Similmente in casa Pucci
fece di figure piccole la novella del Boccaccio di Nastagio degli Onesti in quattro quadri di pittura molto
vaga»183. Il secondo complesso viene datato sulla base del
matrimonio di Giannozzo Pucci e Lucrezia Bini, all’inizio del 1483, ma non può essere autografo dell’artista.
Se anche egli ne ha dato il cartone, l’esecuzione spetta a
Bartolomeo di Giovanni o Jacopo del Sellaio. Questa storia cortese, insieme feroce e graziosa, deriva, come il suo
stile, dall’arte dei cassoni appena un po’ piú evoluta184.
Le cose cambiano del tutto colla decorazione Vespucci
che deve risalire al 1498 o 1499 se, come è lecito supporre, comprendeva le scene della Vita di Lucrezia
(Boston, Museo Gardner) e quelle di Virginia Romana
(Bergamo, Accademia Carrara). I fondali architettonici
si ispirano (e forse sono stati disegnati da lui) a Giulia-
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
no da Sangallo. In toni smaltati che richiamano i ferraresi si snodano fregi d’una ricchezza di movimento e
d’una vivacità eccezionale. Si tratta di un’antichità eccessiva e drammatica, tutta gesti e espressione patetica185.
È degno di nota che nella stessa casa venga segnalato un complesso non meno singolare di Piero di Cosimo. «Lavorò per Giovanni Vespucci che stava dirimpetto a San Michele della via de’ Servi, oggi di Pier Salviati, alcune storie baccanarie che sono intorno a una
camera; nelle quali fece sí strani fauni, satiri e silvani,
e putti e baccanti, che è una meraviglia a vedere la
diversità de’ zaini e delle vesti, e la varietà delle cere
caprine, con una grazia ed imitazione verissima»186. Era
stato Guidantonio, padre di Giovanni, gonfaloniere
all’epoca del Savonarola e uno degli artefici della sua
rovina, ad acquistare questa casa in via de’ Servi. Egli
ha quindi dovuto farne decorare, intorno al 1500, parecchie sale. Le tavole di Piero costituiscono, ispirandosi
ai Fasti di Ovidio (III, 725 sgg.) un dittico sulla scoperta
del miele ad opera dei compagni di Bacco (e l’invenzione
della torta di miele rituale nelle libazioni), e un episodio burlesco, la caduta di Sileno che aveva voluto impadronirsi di un nido di api e fu preda delle vespe187. L’origine precisa di questa decorazione di «storie baccanarie» ci sfugge: il piglio, insieme sarcastico e rustico, di
Piero trionfa nella figurazione degli alberi secchi in cui
sono allogati gli sciami e dei «baccanti» in disordine.
Non si tratta piú di un «thiaso», ma di una banda di
contadini agitati che, secondo la consuetudine campagnola, rincorrono lo sciame facendo baccano con arnesi di cucina. Abbiamo qui una nota di gusto aspro,
un’insistenza sulle forme strane o mostruose che sembra il contrappunto deliberato delle immagini innocenti del Botticelli: ad esempio la faunessa sdraiata in primo
piano richiama un piccolo rilievo che si vede sullo zoccolo del tempio della Calunnia188.
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Si è riusciti a ricomporre un secondo ciclo di tavole,
comprendente la Caccia e il Ritorno dalla caccia (New
York, Metropolitan Museum) e il Paesaggio con gli animali (Oxford), commissionato, stando al Vasari, da
Francesco del Pugliese per essere collocato «intorno ad
una camera» e rappresentante la vita primitiva189. Si
tratta di una sorta di pastorale feroce, con figure
mostruose e uomini alle prese con una natura ribelle.
Queste tavole sono di piccole dimensioni. Si è dunque
supposto che altri pannelli piú monumentali, dei quali
uno rappresenta Eolo e Vulcano che educano l’Umanità, abbiano potuto completare l’insieme mediante un
ciclo di Vulcano, simbolo della civiltà tecnica. Le due
serie si succedono in realtà come l’era dei terrori primitivi prima del dominio del fuoco e dell’era di Vulcano,
simboleggiata dalla storia del dio. Nella Genealogia degli
Dei del Boccaccio (XII), si trova un lungo passo tratto
da Vitruvio (e chiaramente derivato da Lucrezio) in cui
viene esposta la vita errante dell’umanità primitiva
prima dell’azione del dio-artefice. Ciò che sorprende
abbastanza è l’origine di questa commissione: Francesco
di Filippo del Pugliese, ricco mercante e attivo democratico, era stato un piagnone militante: nel suo testamento del febbraio del 1503 elenca i quadri devoti che
lascia ai monaci di San Marco, tra i quali un Cristo fiammingo, un Giudizio finale dell’Angelico con due laterali dei Botticelli e l’Ultima comunione di San Girolamo,
forse il piú bello dei «quadri mistici» dello stesso Sandro190. Il fatto che qualche anno prima Francesco si fosse
rivolto a Piero di Cosimo per decorare la sua casa con
un ciclo «antiumanistico» dedicato all’umanità primitiva, proietta una luce interessante su questa personalità
e sulle resistenze che potevano incontrare immagini
come quelle del Botticelli. Non è necessario supporre
una confusione del Vasari tra Francesco del Pugliese e
lo zio Piero (morto nel 1498) che era anch’egli amatore
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
d’arte e di cui Filippino Lippi aveva fatto il ritratto
accompagnato da un epigramma del Braccesi. L’eclettismo del nipote è accertato dal fatto che egli commissionò
a Filippino la grande pala con la Vergine che appare a
san Bernardo (1486) e poco dopo s’invaghiva di un quadro del Perugino che voleva sottrarre alle monache di
Santa Chiara. La poesia burlesca e l’asprezza audace di
Piero di Cosimo han dovuto sedurre questo collezionista indipendente.
Sul Manetti: e. garin, Filosofi italiani ecc. cit., pp. 230-42; a.chastel, Marsile Ficin et l’art cit., pp. 181 e 195. Sul Brunelleschi e il Ghiberti: r. krautheimer, orenzo Ghiberti cit., pp. 19 sgg. E cap. XVII
(Ghiberti architetto). Il Brunelleschi e l’Alberti sono messi al di sopra
degli altri da A. Rinuccini, secondo cui: «duo praecipue claruerunt summis ingeniis homines et omnis antiquitatis indagatores accuratissimi.
Unus quidem Philippus Brunelleschi scribae filius Florentinae basilicae
architector, alter autem Baptista Albertus vir et familiae nobilitate et
ingenii praestantia clarissimus qui etiam de picturae architecturaeque
praeceptis libros aliquot scripsit accuratissime». A. Rinuccini, epistola dedicatoria della traduzione de La vita di Apollonio di Tiana (1473),
estratti in e. h. gombrich, A panel by Apollonio di Giovanni cit.
2
Sul palazzo di Parte Guelfa (non terminato), m. salmi, Il palazzo della Parte guelfa di Firenze e Filippo Brunelleschi, in «Rinascimento», ii (1951), pp. 3 sgg. Sul progetto del Brunelleschi per il palazzo
Medici, scartato da Cosimo a favore di quello piú modesto ed «eclettico» di Michelozzo: Libro di A. Billi, ed. Frey, Berlin 1892, p. 34, citato da o. morisani, Michelozzo architetto, Torino 1951, p. 51.
3
c. botto, L’edificazione della chiesa di Santo Spirito in Firenze, in
«Rivista d’arte», 1931, pp. 475-511, e 1932, pp. 25-53; w. paatz, Kirchen cit., vol. V, pp. 120-21, e p. 168, n. 56. La scarsa fedeltà alla pianta brunelleschiana è stata anche notata agli inizi del xvi secolo dai cronisti fiorentini come A. Billi. Il progetto brunelleschiano di Giuliano
da Sangallo (circa 1482-86) contenuto nel Cod. Urb. 4424 (Vaticana),
si ritrova negli appunti di Leonardo, Antonio da Sangallo e Peruzzi.
w. paatz, Kirchen cit., pp. 127-28. La lettera di protesta di Giuliano
a Lorenzo de’ Medici è riprodotta in g. clausse, Les Sangallo, I, Paris
1900, pp. 133-34.
4
Ed. E. Toesca, Roma 1927; cfr. a. chastel, Marsile Ficin et l’art
1
Storia dell’arte Einaudi
286
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
cit., pp. 181-82. Sulla polemica antighibertiana che svolge il Manetti:
r. krautheimer, Lorenzo Ghiberti cit., p. 255. Sui rapporti con l’Alberti: w. kallab, Vasari-Studien, Wien 1908, p. 158.
5
p. m. schuhl, Platon et l’art de son temps (Arts plastiques), 21, ed.,
Paris 1952. k. borinski, Die Antike in Poetik und Kunsttheorie, Leipzig
1914, p. 156. j. bousquet, Le trésor de Cyrène à Delphes, Paris 1952,
cap. VI (Le trésor de Cyrène et les mathématiques au temps de Platon).
6
Riferimenti: ficino, In convivium Platonis, V, 5, ed. R. Marcel,
pp. 187-88, ed. Renzi, p. 71; Marsile Ficin et l’art cit., pp. 70-71;
alberti, De re aedificatoria, I, 1.
7
pico, Commento sopra una canzona de amore, II, 6; ed. e trad. in
e. garin, Filosofi italiani ecc. cit., pp. 467-68; citato in Marsile Ficin et
l’art cit., p. 77, n. 3. Sulla sentenza di Dante, cfr. sopra, sezione II,
cap. II. Il paragone era cosí diffuso nella filosofia greca, per esporre la
distinzione tra materia e forma, che compare in questo senso anche in
san Tommaso: e. panofsky, Gothic architecture and Scholasticism,
Latrobe (Penn.), 1951, p. 28.
8
Sulla diffusione del termine idea nel vocabolario artistico: e.
panofsky, Idea, ein Beitrag zur Begriffsgeschichte der älteren Kunsttheorie, Leipzig 1924 (trad. it., Idea, contributo alla storia dell’estetica, Firenze 1952).
9
Sul Brunelleschi ingegnere, inventore di procedimenti tecnici, che
non sembra siano stati ripresi dopo di lui, cfr. f. d. präger, Brunelleschi’s inventions and the renewal of roman mansonry work, in «Osiris»,
ix (1950), pp. 457-554.
10
l. h. heydenreich, Spätwerke Brunelleschis, in «jb», lii (1931),
pp. 1-28
11
g. giovannoni, Architettura e architetti della Rinascenza, in Saggi
sull’architettura del Rinascimento, Milano 1935, pp. 1e 5, e La figura professionale ed artistica dell’architetto, Firenze 1929, ha sottolineato queste verità di contro alla concezione tradizionale ed erronea di a. choisy, Histoire de l’architecture, Paris 1929, t. II, p. 603: «Il Rinascimento in Italia non comporta che una riforma nel sistema ornamentale».
12
L’indicazione, suggerita sommariamente da m. dvorák, Geschichte der italienischen Kunst, München 1927, I, p. 76, è stata poi precisata da g. c. argan, The architecture of Brunelleschi and the origins of
perspective theory in the XVIth c., in «jwc», ix (1946), pp. 96-121.
13
«Non injuria Plato cum regem quaereret mundi monarcham,
principio architectum produxit in medium, scientiamque in tria tandem
distinxit genera. Quorum primum in cognoscendo, secundum in agendo, tertium in faciendo versatur. In primo arithmetram geometramque,
in secundo architectum, in tertio fabrum ministrumque collocavit, probans architecti facultatem inter speculationem solam solumque ministerium esse ponendam, magis tamen speculationis quarn ministerii esse
Storia dell’arte Einaudi
287
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
partecipern neque judícare solum geometrarum more verum etiam
facientibus imperare opificioque semper adesse» in Platonis Civilis vel
de Regno, M. F. argumentum, ed. Venezia 1571, p. 116
14
Comm. in Timaeum, cap. 40, Opera, II, 1463; cit. in Marsile Ficin
et l’art cit., p..99. Sulla posizione dell’Alberti nelle scienze esatte: i.
wolf, Leone Battista Alberti als Mathematiker, «Scientia», lx (1936) 2,
pp. 353-59.
15
p.-h. michel, La pensée de L. B. Alberti, Paris 1930, pp. 443 sgg.
Osservazioni sull’uso che l’Alberti fa di Vitruvio in k. borinski, Die
Antike ecc. cit., parte I, pp. 152 sgg.
16
De re aedificatoria, IX, 6. Cfr. Marsile Ficin et l’art cit., pp. 101
e 109.
17
Sulle piante, cfr. p.-h. michel, La pensée de L. B. Alberti cit., p.
451, e r. wittkower, Architectural principles cit., cap. II
18
Sulle proporzioni, p.-h. michel, L’esthétique aritmétique du Quattrocento, une application des médiétés pythagoriciennes à l’esthétique architecturale, in Mélanges de philologie, d’histoire et de littérature offerts à H.
Hauvelle, Paris 1934, pp. 181-89, e r. wittkower, Architectural Principles cit., pp. 94 sgg. Esistono diversi modi di esporre questi tre sistemi di rapporti, che, secondo la tradizione, sono d’origine pitagorica:
t. heath, A History of Greek Mathematics, London 1921, p. 85. Nella
forma piú semplice abbiamo per il medio aritmetico: a + b = 2m, per
quello geometrico: ab = m2, per l’armonico: ab/a+b=m/2.
19
p.-h. michel, La pensée de L. B. Alberti cit., p. 158. k. borinski,
Die Antike ecc cit., p. 153 ha dimostrato inoltre l’influenza determinante del passo del Timeo 31 b, nella tradizione del Ficino, De vi ratiorum, che si sostituisce, alla fine del xv secolo, ai testi ormai insufficienti
di Euclide sull’argomento.
20
Partendo da queste indicazioni generali (cui non sempre tutti gli
architetti ricorrevano), si potrebbe precisare come vengano definite le
campate o i piani dell’edificio partendo dalle forme geometriche semplici (quadrato, rettangolo) e, all’interno di queste suddivisioni, come
si determini la forma delle aperture, il ritmo dei supporti ecc. thiersch, Die Proportionen in der Architektur, in Handbuch der Architektur,
Darmstadt 1885, giovannoni, Architettura e architetti ecc. cit., p. 12,
hanno mostrato l’importanza del gioco delle diagonali nel Rinascimento. Tuttavia lo sviluppo di queste formule non è avvenuto regolarmente dal Brunelleschi a Palladio. D’altra parte non si deve dimenticare la funzione della «messa in prospettiva». La divisione ritmica dell’opera è precisata dalla «prospettiva», di cui si riconosce l’importanza, perfino nella decorazione (cfr. piú avanti, parte II, sezione II, cap.
II): lo spazio interno è proiettato su un piano verticale sul quale le campate diminuiscono secondo una scala armonica e questa viene ad assumere evidenza allorché l’architettura viene riprodotta in un dipinto,
Storia dell’arte Einaudi
288
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
come mostra r. wittkower, Brunelleschi and proportion in perspective,
in «jwm», xvi (1953), pp. 275-91.
21
Secondo l’eccellente formula di h. wölfflin, Kunstgeshichtliche
Grundbegriffe: «Occorreva per prima cosa che la bellezza della forma
articolata fosse provata perché gli ordini unitari fossero concepibili».
22
r. wittkower, Architectural Principles ecc. cit., cap. II. Documentazione fotografica in j. baum, Baukunst der Frührenaissance in Italien, Stuttgart 1926.
23
Al Vasari si deve un interessante esame critico di questo vestibolo, nell’esordio della Vita d’Andrea Sansovino, al quale egli l’attribuisce: ed. Milanesi, IV, p. 448; ma da un documento del 1493 risulta che Giuliano da Sangallo era incaricato, con la collaborazione del
Cronaca, di finire la volta del vestibolo: c botto, L’edificazione della
chiesa di S. Spirito ecc. cit., e g. marchini, Giuliano da Sangallo, Firenze 1942, p. 90. Come nel vestibolo di Poggio a Caiano, le travature
della volta non corrispondono all’asse delle colonne. Sulla posizione di
G. da Sangallo, all’incontro delle «correnti» del secolo xv: stegmanngeymüller, Die Arckitektur der Renaissance in der Toskana, vol. V,
München 1908.
24
De re aedif., IX, 8; p.-h. michel, La pensée de L. B. Alberti cit.,
p. 476
25
Marsile Ficin et l’art cit., pp. 163 e 166, n. 1.
26
p.-h. michel, La pensée de L. B. Alberti cit., p. 352.
27
r. wittkower, Architectural Principles ecc. cit., p. 10.
28
Ms 148, Biblioteca Reale di Torino, fol. 32; e Cod. Ashburnham
461 (Biblioteca Laurenziana), fol. 1 r. a. s. weller, Francesco di Giorgio cit., p. 274.
29
r. wittkower, Architectural Principles ecc. cit., pp. 12 sgg.
30
l. pacioli, Trattato di architettura, ed. C. Winterberg, Wien
1889, p. 129
31
g. milanesi, Le lettere di Michelangelo Buonarroti, Firenze 1875,
p. 554. a. schiavo, Michelangelo architetto, Roma 1944, fig. 96 (riprod.
fotogr.).
32
l. pacioli, Trattato di architettura, ed. cit., pp. 148-49; cfr. sopra,
introduzione.
33
Oltre all’opera di G. Marchini (1942) già citata, abbiamo la sicura pubblicazione del Libro di G. da Sangallo ad opera dello Hülsen, Leipzig 1910, e la cronologia fornita da c. von fabriczy, in «Jahrbuch der
preussischen Kunstsammlungen», 1902, suppl., pp. 1-42. Le esposizioni del Clausse (1900) e del Loukomski (1934), non sono sicure.
34
Sul Sangallo e il Botticelli: j. byam shaw, Botticelli oder Sangallo, in «Belvedere», x (1931), p. 163. Sul Sangallo disegnatore: c. von
fabiliczy, Giuliano da Sangallos figürliche Kompositionen, in «Jahrbuch der preussischen Kunstsammlungen», xxiii (1902), pp. 197-204. b.
Storia dell’arte Einaudi
289
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
berenson, The Drawings of the florentine Painters cit., I, pp. 175 sgg. e
g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., pp. 105-6
35
Secondo il vasari, ed. Milanesi, IV, p. 476, egli forní utili consigli a Leonardo per la fusione della statua equestre dello Sforza, quando andò a Milano a presentare al duca il suo progetto di castello
36
c. de tolnay, Michel-Ange et la façade de San Lorenzo, in «Gazette de Beaux-Arts», xiv (1934), I, pp. 24 sgg.
37
vasari, ed. C. L. Ragghianti, II, p. 114.
38
Marsile Ficin et l’art cit., pp. 59 e 62, n. 11.
39
Opere volgari, ed. cit., I, p. 91. Si può avvicinare questo passo al
rilievo del «Tempio di Minerva» a Rimini (tomba degli antenati di S.
Malatesta).
40
Marsile Ficin et l’art cit., p. 30.
41
r. wittkower, Architectural Principles ecc. cit., pp. 5 sgg.
42
Di qui la condanna dell’Indice spagnolo nel 1611: p.-h. michel,
La pensée de L. B. Alberti cit., p. 544; r. wittkower, Architectural Principles ecc. cit., p. 5.
43
i. pusino, Ficinos und Picos religiös-philosophische Anschauungen,
in «Zeitschrift für Kirchengeschichte», xliv (1925), p. 526.
44
Cfr. Symbolisme cosmique et monuments religieux, Musée Guimet,
Paris 1953.
45
Un comodo repertorio in k. strack, Central- und Kuppelkirchen
der Renaissance in Italien, Berlin 1882.
46
La rigorosa esposizione di r. wittkower, Architectural Principles
ecc. cit., cap. I (cfr. «Humanisme et Renaissance», xii [1951] p. 363)
ci permette di tenerci qui ai fatti essenziali.
47
De re aedificatoria, III, cap. XIV; VII, cap. IV. Sulle origini
orientali e imperiali di questo concetto cfr. e. baldwin smith, The
Dome, Princeton 1950, e id., Architectural symbolism of imperial Rome
and middle Ages, Princeton 1956.
48
Theologia Platonica, II, 6, Opera, p. 96, e Comm. in Timaeum, cap.
40; Marsile Ficin et l’art cit., pp. 59 e 101.
49
a. chastel, L’Art italien, Paris 1956, vol. I, tav. xxxv.
50
r. krautheimer, Lorenzo Ghiberti cit., p. 366 n. 22. L’edificio,
restaurato sotto Nicola V, è citato come esempio di basilica rotonda dall’alberti, De re aedificatoria, VII, 15 (cfr. a. mancini, Vita di L. B.
Alberti cit., p. 338).
51
s. colvin, A florentine picture chronicle cit., tav. lvii.
52
Symbolisme cosmique ecc. cit., p. 87
53
a. scharf, Filippino Lippi cit., tav. 127.
54
Per la data e l’attribuzione di queste celebri tavole abbiamo aderito (nell’articolo Marqueterie et perspective ecc., in «Revue des Arts»,
1953, p. 154) all’opinione di p. sanpaolesi, Le prospettive architettoniche di Urbino, di Filadelfia [leggi: Baltimora] e di Berlino, in «Bolletti-
Storia dell’arte Einaudi
290
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
no d’arte», xxxiv (1949), pp. 335 sgg., opinione che viene confermata da b. degenhart, Dante, Leonardo und Sangallo cit., pp. 233 sgg. r.
krautheimer, Lorenzo Ghiberti cit., p. 268, n. 26, crede, secondo noi
a torto, di dover mantenere la data 1470 e l’interpretazione proposta
da f. kimball, Luciano Laurana and the High Renaissance, «The Art
Bulletin», x (1927-28), p. 125, secondo cui si tratterebbe di un adattamento dei modelli vitruviani di scenografia. La destinazione delle
tavole come fronti di cassone, analogamente alle tarsie, non consente
quest’ipotesi
55
c. baroni, Elementi stilistici fiorentini negli studi vinciani di architettura a cupola, in Atti del I Congresso Nazionale di Storia dell’Architettura (1936), Firenze 1938, p. 64. w. paatz, Kirchen cit., vol. III, pp.
114-15 (con bibliografia a p. 130, n. 3). g. marchini, Un disegno di Giuliano da Sangallo, in Atti del I Congresso Nazionale di Storia dell’Architettura (1936), Firenze 1938, pp. 147-54; questo studio corregge certi
particolari arbitrariamente introdotti dal Lastri nella sezione pubblicata
nell’edizione del 1821 de «L’Osservatore fiorentino», sulla base di un
disegno (oggi scomparso) proveniente dal convento dei Camaldolesi.
56
Fu molto probabilmente presso la chiesa incompiuta del Brunelleschi che si tennero nel 1468 le conferenze sul Filebo, mentre le conversazioni da cui il Landino ha tratto il suo dialogo famoso si svolgevano nella sede, piú fresca e riposante in estate, del Casentino: a. della
torre, Storia cit., pp. 573 sgg.
57
Il disegno si trova sulla parte centrale del foglietto che ha due
parti ripiegate, in alto e a sinistra; queste aggiunte hanno avuto luogo
nel 1488.
58
c. baroni, Elementi stilistici fiorentini ecc. cit., p. 63; j. p. richter, The literary works of L. da V. cit., vol. II, p. 31.
59
Coll. Geymüller-Campello (Uffizi), n. 38: n. ferri, La raccolta
Geymüller-Campello, in «Bollettino d’arte», 1908, p. 64. Il granduca
Cosimo I pensava verso il 1563 di far terminare la rotonda per farne
sede dell’Accademia del disegno: w. paatz, Kirchen cit., p. 131.
60
La prima derivazione è proposta da w. paatz, Kirchen cit., p. 133
n. 21, la seconda da l. h. heydenreich, Spätwerke Brunelleschis cit.,
pp. 4 sgg.
61
l. h. heydenreich, Die Sakralbaustudien Leonardo da Vinci’s
(Tesi discussa ad Amburgo), Leipzig 1929.
62
c. baroni, Elementi stilistici fiorentini ecc. cit., p. 63.
63
Cod. Ashburnham 361 (Biblioteca Laurenziana); a. mancini, Di
un codice artistico e scientifico del Quattrocento con alcuni ricordi autografi di Leonardo da Vinci, in «Archivio storico italiano», 1885, pp. 35463; e. berti, in «Belvedere», vii (1925), p. 100; descrizione sommaria
in a. s. weller, Francesco di Giorgio cit., pp. 273-74, il quale pensa
che il manoscritto possa essere stato dato da Francesco a Leonardo nel
Storia dell’arte Einaudi
291
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
1490. Modelli di pianta circolare: foll. 11 v e 12 r. Si ritrovano gli stessi tipi in una serie di disegni che il Geymüller credeva copie di fra Giocondo da originali di Francesco di Giorgio, h. geymüller, Cento disegni di architettura di Fra Giovanni Giocondo.
64
c. hülsen, Il libro di Giuliano da Sangallo (Cod. Vat. Barb. Lat.
4424), Leipzig 1910; e h. egger, Codex Escurialensis, Wien 1906.
65
In particolare nel ms 148 della Biblioteca Reale di Torino.
66
Ms 148, Biblioteca Reale di Torino, rispettivamente 84 r, 87 r.
67
w. lotz, Das Raumbild in der italienischen Architekturzeichnung
der Renaissance, in «Mitteilungen des kunsthistorischen Instituts in Florenz», vii (1956), pp. 193-226.
68
c. hülsen, Il libro di Giuliano da Sangallo cit.
69
c. baroni, Documenti per la storia dell’architettura a Milano nel
Rinascimento e nel Barocco, Firenze 1940, pp. 145-46.
70
l. h. heydenreich, Die Tribuna der SS. Annunziata in Florenz, in
«Mitteilungen des kunsthistorischen Instituts in Florenz», iii (1930),
pp. 268 sgg., espone la polemica del 1471. Recentemente: s. lang, The
Program of the SS. Annunziata in Florence, in «jwci», xvii (1954), p. 288.
71
r. wittkower, Architectural Principles ecc. cit., p. 10.
72
g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., p. 90; r. wittkower,
Architectural Principles ecc. cit., pp. 18-20.
73
r. wittkower, Architectural Principles ecc. cit.,pp. 41 sgg.
74
c. botto, L’edificazione della chiesa di S. Spirito ecc. cit., pp. 23
e 34; e piú sopra, introduzione.
75
c. botto, L’edificazione della chiesa di S. Spirito ecc. cit., p. 34;
g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., p. 90. Sulla decorazione «umanistica» della volta del vestibolo cfr. piú avanti.
76
p. sanpaolesi, Ventura Vitoni, in «Palladio», 1939, p. 249.
77
manni, Bartholomei Scalae collensis vita, Firenze 1768, pp. 22 sgg.;
g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., p. 89. Sui legami del Sangallo
con Bartolomeo Scala cfr. piú avanti.
78
a. terzaghi, L’Incoronata di Lodi, in «Palladio», nuova serie, iii
(1953), 4, pp. 145-52.
79
f. reggiori, in Atti del I Congresso Nazionale di Storia dell’Architettura cit., pp. 173 sgg.
80
l. h. heydenreich, Zur Genesis des S. Peters-Plans von Bramante,
in «Forschungen und Fortschritte», ottobre 1934, pp. 365-67.
81
È l’interpretazione proposta da o. förster, Bramante, Wien
1956; cfr. piú avanti.
82
Contrariamente a a. rossi, Cenno storico sulla chiesa della Consolazione a Todi, in «Giornale di erudizione artistica», i (1872), pp. 3
sgg., che ha posto l’inizio dei lavori nel 1508 e proposto il nome di Cola
da Caprarola, g. de angelis d’ossat, Sul Tempio della Consolazione a
Todi, in «Bollettino d’arte», iv (1956), pp. 207 sgg., ritorna alla data
Storia dell’arte Einaudi
292
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
del marzo 1504 e all’attribuzione del progetto iniziale a Bramante, con
l’eventuale collaborazione di Ventura Vitoni, come aveva proposto il
pungileoni, Memorie intorno alla vita e alle opere di Donato o Donnino
Bramante, Roma 1836. La costruzione si protrasse fino agli inizi del xvii
secolo.
83
Su quest’opera (1519-26), cfr. il «Bollettino del Centro di Studi
di Storia dell’Architettura», 1952, n. 6, pp. 33-50.
84
De vita, I, cap. VIII e IX; Opera, p. 502. a. della torre, Storia
cit., p. 640.
85
Sulla poesia pastorale fiorentina del Quattrocento, n. a. robb,
Neoplatonism ecc. cit., cap. IV; a. hulubei, Naldo Naldi ecc., in
«Humanisme et Renaissance», iii (1936).
86
Lettera a F. Valori, Opera, pp. 893-94, Lettere, IX, 1, trad.
Figliucci, cit., II, pp. 125 sgg.; cfr. anche a. della torre, Storia cit.,
p. 641; Marsile Ficin et l’art cit., p. 147.
87
l. b. alberti, Della famiglia, ed. R. Spongano, Firenze 1946, pp.
309 sgg.
88
Si tratta di Pier Filippo Pandolfini che suo padre aveva affidato
in giovane età a l’Argiropulo, e che era legato, come i suoi fratelli, agli
umanisti: nel 1490 Ficino gli invierà delle «strenne astrologiche»,
Opera, p. 918: cfr. a. della torre, Storia cit., pp. 387-89.
89
La direzione degli Archivi di Firenze ha voluto fare a questo proposito una ricerca il cui risultato è stato negativo. Una menzione in
mazzuchelli, Gli scrittori d’Italia, Brescia 1763, 11, 4, p. 2199, indica che Bruni fu «proposto di Fiesole», ma cedette ben presto la sua carica a Salutati. La villa in cui aveva soggiornato, avrebbe potuto conservare il suo nome: ma allora dovrebbe trovarsi tra i beni ecclesiastici del comune di Fiesole e il Catasto del 1427 non menziona che una
proprietà con una casa da giardiniere, in cui sembrerebbe difficile ravvisare la «villa» di Bruni, a meno che l’epistola di Ficino che insiste
soprattutto sulla felicità del luogo non comporti una trasfigurazione
deliberata dei dati concreti.
90
Cfr. Marsile Ficin et l’art cit., p. 18, n. 24.
91
Ibid., p. 33, n. 1.
92
vasari, Ragionamenti, II, 1, ed. C. L. Ragghianti, IV, pp. 127
sgg., a proposito degli «uomini dottissimi, co’ quali, quando alla villa
di Careggi, e quando al Poggio a Caiano, per piú loro quiete, esercitava gli onorati studi».
93
b. patzak, Die Renaissance- und Barockvillen in Italien, I (Patast
und Villa in Toskana), vol. II (Die Zeit des Suchens und des Findens),
Leipzig 1913, ampiamente utilizzato nell’esposizione che segue.
94
Sui giardini del Quattrocento: concetti generali in j. burckhardt,
Die Kultur der Renaissance, IV, 2; l. dami, Il giardino italiano, Milano
1912. Sulle indicazioni dell’alberti, De re aedificatoria, IX, 4, p.-h.
Storia dell’arte Einaudi
293
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
michel, op. cit., p. 502. Sulle bellezze «orientali» dei giardini, volatili rari, piante esotiche (come le rappresenta la pittura toscana intorno
al 1450), g. soulier, Les influences orientales ecc. cit., pp. 245 sgg.
95
Sulla villa medicea di Careggi, la sua storia e le successive modifiche: g. carocci, I dintorni di Firenze, Firenze 1881, pp. 122-24; La
villa medicea di Careggi, Firenze 1888. c. von stegmann e h. von
geymüller, Die Architektur ecc. cit., vol. II (Michelozzo), pp. 26-28
(piante e sezioni). b. patzak, Die Renaissance- und Barockvillen ecc. cit.,
II, pp. 74 sgg.; o. morisani, Michelozzo architetto cit.
96
e. müntz, Les précurseurs ecc. cit., p. 144, 2.
97
g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., p. 91. Questa piccola ed
elegante opera fu risistemata al tempo di Clemente VII e la bottega del
Pontormo ebbe l’incarico di decorarla. Le composizioni allegoriche,
scomparse, sono note da disegni: sulle pareti, la Fortuna, la Giustizia,
la Vittoria, la Pace e la Gloria; sul soffitto: l’Amore: cfr. vasari, ed.
Milanesi, VI, p. 281, e sulla parte avuta dal Pontormo: f. m. clapp,
Jacopo Carucci ecc. cit., cap. IV. Le vicende di questa loggia sono
parallele alle trasformazioni della villa di Poggio a Caiano, concepita e
decorata in due epoche distinte.
98
a. braccesi, Descriptio horti Laurentii medici, citato da e. garin,
Il Rinascimento italiano cit., p. 340. p. m. bardi, Le Printemps de S. Botticelli, Paris 1946, p. 8: catalogo dei fiori secondo o. mattirolo. m.
ficino, Opera, p. 909, lettera del 29 aprile 1490 (trad. Figliucci, II, p.
144), il Ficino definisce scherzosamente: «utinam florentem» il suo
«librum de vita physicum», pensato tra i fiori.
99
n. valori, Laurentii Medices vita ecc. cit., p. 47. Tre testimonianze
aiutano a definire la storia della proprietà: 1) nel 1460 la dichiarazione al catasto di Lorenzo dice: «uno casamento, che era rovinato al Poggio a Cajano, detto l’Ambra» (indicazione che fornisce un terminus ante
quem); 2) il poema del Poliziano (1485) che celebra gli allevamenti e le
piantagioni della ninfa «Ambra» al Poggio; 3) il passo del Diario fiorentino dal 1450 al 1516 del Landucci, ed. I. del Badia, Firenze 1883,
p. 58, relativo anch’esso alle latterie e ai verzieri (1489).
100
vasari, ed. Milanesi, IV, p. 270. Questa scena è stata rappresentata in un arazzo di D. Squilli, tessuto nel 1570 per il granduca di
Toscana su cartone di G. Stradano (Museo Mediceo).
101
Sulla storia della villa: g. anguillesi, Notizie storiche dei palazzi
e ville appartenenti alla I. et R. Corona di Toscana, Pisa 1815, m. de benedetti, Palazzi e ville d’Italia, I: Roma e Firenze, Firenze 1911; n. tarchiani, I Palazzi e le ville che non sono piú del re, Milano 1921, pp. 12941; c. k. loukomski, Les Sangallo, Paris 1934, pp. 26 sgg. (con molti
errori, in particolare sulla data dell’atrio). Descrizione ed analisi tecnica: stegmann e geymüller, Die Architektur ecc. cit., vol. V (Leonardo da Vinci, Giuliano da Sangallo, Antonio da Sangallo der ältere),
Storia dell’arte Einaudi
294
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
München 1908, pp. 2 sgg.; b. patzak, Die Renaissance- und Barockvillen ecc. cit., pp. 107 sgg.; g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., pp.
16-20 e 84-86.
102
Secondo il tigri, Guida di Pistoia, Pistoia 1854, p. 346 (cit. da
g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., p. 86), Carlo V aveva giudicato questo muro da fortezza eccessivo per un privato. Il quadro dell’Utens non è una testimonianza del tutto sicura: dimentica i pilastri agli
angoli del portico e colloca male gli archi di questo, che appaiono a
bugne, deforma le colonne dell’atrio centrale, ecc.
103
Uffizi, Disegni di architettura, n. 1640. g. marchini, Giuliano da
Sangallo cit., t. II. Il robusto disegno delle balaustre e delle incorniciature delle finestre (che seguono il progetto originale) ci ricordano che
il Sangallo ha cominciato la sua carriera come «decoratore», e che in
particolare, si devono a lui gli stalli della cappella medicea.
104
Nello schema primitivo i cinque archi ai due lati dell’entrata al
pianterreno corrispondevano ai cinque intercolumni dell’atrio. Questo
ritmo «pentametro» era stato adottato dall’Alberti nel suo progetto del
1460 per San Francesco di Rimini, «forse la prima facciata di tempio
antico nell’architettura cristiana», come dice p. funkl, in RenaissanceArchitektur in Italien, Leipzig 1912, p. 36, cit. da r. wittkower, Architectural Principles ecc. cit., p. 5.
105
f. bürger, Die Villen des Andrea Palladio, Leipzig 1909; g. k.
loukomski, Andrea Palladio, Paris 1924.
106
r. wittkower, Architectural Principles ecc. cit., p. 67 n. 5. Il
carattere speculativo delle ville del Palladio è messo bene in evidenza
in questo bel libro, i cui suggerimenti possono, in certa misura, valere
retrospettivamente, per Poggio a Caiano.
107
vasari, ed. Milanesi, IV, p. 271 e n 2. L’acquisto di terreni da
parte dei due fratelli Sangallo nel quartiere di San Pier Maggiore e in
Borgo Pinti risale alla fine del 1490 e agli inizi del 1491. Il Vasari d’altronde attribuisce anche a Bramante (ibid., IV, p. 162) rito d’aver per
primo «gettato le volte di materie che venissero intagliate».
108
Sul palazzo del re di Napoli (1488), g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., p. 88. Un disegno degli Uffizi, presenta un progetto di palazzo Mediceo che si affaccia su Borgo Pinti che è stato creduto di Giuliano e datato 1488: r. redtenbacher, in «Allgemeine Bauzeitung»,
1879, pp. 1 sgg. L’idea è stata sviluppata da b. patzak, Die Renaissanceund Barockvillen ecc. cit., II, p. 125. Ma si tratta di uno studio di Antonio posteriore al 1512, come suggerisce g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., p. 101. È indubbio però che questo tipo di piante deriva dalle
ricerche di Giuliano e Francesco di Giorgio: Uffizi, disegno n. 319 v.
Cfr. a. s. weller, Francesco di Giorgio cit., p. 260.
109
L’interno dell’atrio di Poggio a Caiano presenta somiglianze
assai forti con il vestibolo di Santo Spirito; vi si ritrovano le sei colon-
Storia dell’arte Einaudi
295
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
ne o pilastri con l’intercolumnio di centro un po’ maggiore degli altri
per poter collocare la porta: c. marchini, Giuliano da Sangallo cit., p.
36; veduta dell’interno dell’atrio in stegmann e geymüller, Die Architektur ecc. cit., tav. vii a.
110
u. middeldorf, Giuliano da Sangallo and Andrea Sansovino, in
«ab», xvi (1936), 2, pp. 107-115. Sul fregio, cfr. piú avanti.
111
vasari, ed. Milanesi, t. III, pp. 473-74.
112
Ms Plut., XXXIX, n. 40 (Biblioteca Laurenziana), foll. 38 v 39: ugolino verino, Libri VII epigrammarum ad Matthyam regem, ed.
H. Brockhaus, cit., p. iv: «Descriptio villae Cajanae cum agris suis Laurentii Medicis» (si conosce anche una lettera in prosa dello stesso autore). Su Verino, poeta neoplatonico, a. della torre, Storia cit., p. 637.
113
m. wackernagel, p. 159. vasari, ed. Milanesi: Vita del Pontormo, VI, pp. 264-65. Il programma «storico» comprendeva quattro
episodi: Cesare (Andrea del Sarto, 1521); Scipione (Allori, 1588); Flaminio (Allori, 1588); Cicerone (Franciabigio).
114
f. m. clapp, Jacopo Carucci ecc. cit., cap. IV. vasari, ed. Milanesi, II, p. 365, parla di: «Vertumno con i suoi agricultori…, Pomona
e Diana con altre dee» (ispirato da ovidio, Met., XIV, 623-97).
115
p. halm, Das unvollendete Fresko des Filippino Lippi in Poggio a
Caiano, in «Mitteilungen des kunsthistorischen Instituts in Florenz»,
iii (1931), 7 (luglio), pp. 392-427. Il disegno piú significativo è stato
pubblicato da b. berenson, The Drawings ecc. cit., tav. 1329, n. 1294.
Un altro disegno è pubblicato da a. scharf, Zum Laokoon F. Lippis,
in «Mitteilungen des kunsthistorischen Instituts in Florenz», iii (1932),
8 (gennaio), pp. 530-33. Si può osservare che la favola di Ambra, che
costituiva il «mito» di Poggio, è il racconto di un’inondazione provocata da Oceano, padre dei fiumi, e il poema dei rivi di questo angolo
della Toscana.
116
p. halm, Das unvollendete Fresko ecc. cit., p. 400.
117
Non è dunque esatto dire che i fiorentini non avevano assimilato completamente degli schemi decorativi antichi, come fanno h. willich - p. zucker, Die Baukunst der Renaissance in Italien, vol. I, Berlin, p. 167, e a. von salis, Antike und Renaissance cit., p. 28.
118
u. verino, De illustratione urbis Florentiae, libri tres, ed. Lutetiae
1583; tradotto in Marsile Ficin et l’art cit., p. 195.
119
Alle note di G. Milanesi, vasari, Vita di Gherardo, vol. III, pp.
245-52, e alla notizia del thieme-becker, Künstler-Lexicon, si: può ora
aggiungere: g. s. martini, La bottega di un cartolaio fiorentino della
seconda metà del Quattrocento, Firenze 1956. Per l’annotazione di Leonardo su «le figure che apariano nello scrittoio di Gerardo miniatore
a San Marco in Firenze», cfr. j. p. richter, The literary works ecc. cit.,
n. 1424; sul Didimo illustrato cfr. piú avanti.
120
w. paatz, Kirchen cit., vol. III, pp. 414 e 602-3; i documenti in
Storia dell’arte Einaudi
296
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
G. Pozzi, Il Duomo di Firenze, 1909, nn. 967-92, e g. s. martini, La
bottega di un cartolaio ecc. cit., pp. 33-35.
121
a. chastel, La mosaïque à Venise et à Florence au XVe siècle, in
«Arte veneta», xii (1954), dove si trova esposto l’essenziale di questo
capitolo.
122
r. w. kennedy, Alesso Baldovinetti, New Haven 1938, pp. 60-61.
123
vasari, Vita del Baldovinetti, ed. Milanesi, II, p. 596; ed. C. L.
Ragghianti, I, pp. 727-28; documenti citati da r. w. kennedy, Alesso
Baldovinetti cit., pp. 213-14
124
Ibid., pp. 111-12, documenti a p. 241.
125
vasari, Vita del Baldovinetti, ed. Milanesi, II, p. 596.
126
a. averlino filarete, Trattato di architettura, ed. cit., p. 649. Il
Vasari citerà anche Venezia (e Ravenna), Firenze e Roma come principali centri del mosaico: Della pittura, cap. XXIX.
127
r. w. kennedy, Alesso Baldovinetti cit., pp. 60-61: «Una delle piú
singolari curiosità storiche è il perdurare a Firenze ancora nel Quattrocento dell’uso del mosaico per la decorazione murale dopo che se ne
era perduto il segreto a Venezia... Dopo la metà del secolo il Baldovinetti era l’unico o quasi ad esserne ancora al corrente, poiché il mosaico rispondeva perfettamente al suo gusto; alla fine passerà tale segreto ai fratelli Ghirlandaio coi quali raggiunge un’apparente stabilità e
poi scompare».
128
vasari, Vita di Gherardo, ed. Milanesi, III, p. 237; ed. C. L. Ragghianti, I, p. 837.
129
vasari, Vita di Domenico Ghirlandaio, ed. Milanesi, III, p. 274;
ed. C. L. Ragghianti, I, p. 855.
130
alberti, Della Pittura, ed. L. Mallé, Firenze 1950, p. 95; c. landino, Divina Commedia di Dante Alighieri, Firenze 1482, Proemio (Fiorentini eccelenti in pittura e sculptura). Nel suo capitolo tecnico sul
mosaico, Proemio, cap. 29, il Vasari dichiara: «il piú bello di tutti è
quello di Giotto nella nave del portico di San Pietro a Roma, perché
veramente in quel genere è cosa miracolosa».
131
w. paatz, Kirchen cit., vol. III, pp. 371 e 501, n. 49, raccoglie
le molte fonti. Secondo il vasari, ed. Milanesi, III, p. 336, il busto fu
inaugurato da Lorenzo stesso. La tavola mostra una testa di Cristo vicina a quella della Navicella. w. haftmann, Ein Mosaik der GhirlandaioWerkstatt aus dem Besitz des Lorenzo Magnifico, in «Mitteilungen des
kunsthistorischen Instituts in Florenz», vi (1940), pp. 98-108.
132
e. müntz, Les collections des Médicis, Paris 1888, p. 39: inventario del 1465, p. 63; sala grande, pp. 76-77: scrittoio. e. müntz, Les
mosaïques byzantines portatives, in «Bulletin monumental», lii (1886),
pp. 223-40, ha fornito un rapido inventario di queste opere, realizzate nei secoli xii-xiii a Bisanzio, che si trovano nelle collezioni del Louvre, di Roma, Firenze, Venezia, Londra e Pietroburgo.
Storia dell’arte Einaudi
297
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
vasari, Vita di Gherardo, ed. Milanesi, III, p. 237.
r. w. kennedy, Alesso Baldovinetti cit.
135
l. lauts, Domenico Ghirlandajo, Wien 1943, p. 44, tav. cvii.
Sempre nel capitolo sulla tecnica, il Vasari considera quest’opera al di
sopra di tutti gli altri mosaici moderni.
136
vasari, Vita d’Alesso Baldovinetti, ed. C. L. Ragghianti, I, p. 729.
137
vasari, Vita di Domenico Ghirlandajo, ed. C. L. Ragghianti, I,
p. 858, dove la commissione è, per errore, attribuita a Domenico.
138
Ibid.; nel 1493 Domenico restaurava i mosaici dell’abside della
cattedrale di Pistoia, l. lauts, Domenico Ghirlandajo cit., p. 43.
139
vasari, Vita di Ridolfo, Davide e Benedetto Ghirlandai, ed. C. L.
Ragghianti, III, pp. 201, 203.
140
Ibid., p. 207, con la curiosa osservazione: «perché non poteva
aver pacienza a commettere que’ pezzuoli, non fece mai piú altro di
quel mestiere».
141
vasari, Descrizione dell’opere di Tiziano, ed. Milanesi, VII, pp.
466 sgg.; ed. C. L. Ragghianti, III, pp. 586-87, con l’elogio del Giudizio di Salomone di Vincenzo Bianchini (1532-48), delle composizioni dello Zuccati (1532-64) tra cui il ritratto del Bembo del 1542 (al Bargello), e infine di B. Bozza e G. Dente. Sull’opera di Tiziano autore
di cartoni: c. ridolfi, Le meraviglie dell’arte, I, ed. D. von Hadeln, Berlin 1914, p. 203; p. saccardo, op. cit., p. 45. Il curioso processo del
1563, scoprendo le rivalità tra le varie botteghe, dimostra la vitalità del
mosaico a San Marco. Sulla rivalità Firenze-Venezia: a. chastel, La
mosaïque ecc. cit., in «Arte veneta», 1956
142
f. ehrle e e. stevenson, Les fresques de Pinturicchio aux appartements Borgia, Paris 1899. b. berenson, The italian Painters of the
Renaissance, ed. London 1952, p. 118.
143
stegmann e geymüller, Architektur der Renaissance in Toskana
cit, vol. III, p. 11; w. paatz, Kirchen cit, vol. IV, pp. 568-69 e nn. 3138, pp. 582-83. Il Vasari che critica cosí aspramente l’opera dell’Alberti, fa eccezione solo per il «sepolcro di marmo molto ben fatto», ed.
Milanesi, II, p. 543.
144
f. bürger, Geschichte des florentinischen Grabmals cit., p. 162.
145
f. bürger, Geschichte ecc. cit., cap. VI. Si può rilevare l’analogia tra la figurazione di sinistra e il passo citato sopra relativo al tempio di Minerva a Roma.
146
w. paatz, Kirchen cit., nell’ordine: vol. V, p. 293, n. 232; vol.
I, p. 101 e n. 257; p. 284, n. 96.
147
l. planiscig, A. del Verrocchio, Wien 1941, pp. 18 sgg. w.
paatz, Kirchen cit., vol. II, p. 499 e n. 209 (bibliografia).
148
w. paatz, Kirchen cit., vol. V, p. 295 e nn. 245, 246. Attribuito
al Sangallo dal Fantozzi, Guida di Firenze, Firenze 1842, p. 370, basandosi su una vecchia tradizione, questo singolare monumento è stato stu133
134
Storia dell’arte Einaudi
298
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
diato da a. warburg, Francesco Sassettis letztwillige Verfügung (1907), in
Gesammelte Schriften cit., vol. I, pp. 127 sgg. Sulla sua posizione nella
storia della tomba fiorentina, f. bürger, Geschichte ecc. cit., p. 192.
149
g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., p. 26. Sulle fonti antiche
del fregio: f. schott-müller, Zwei Grabmäler der Renaissance und ihre
antiken Vorbilder, in «Repertorium für Kunstwissenschaft», xxv
(1902), pp. 401-3.
150
Con un gioco di parole sul suo nome latinizzato, richiamato dall’epigrafe: Franciscus Saxettus Sibi U(rnam) p(osuit). I medaglioni dell’arco di Costantino si trovano ai foll. 23 e 24 del taccuino senese di
Giuliano da Sangallo: pubblicato da C. Falb, Wien 1902.
151
l. strozzi, Vita di Filippo Strozzi il vecchio, Firenze 1851, p. 60;
vasari, ed. Milanesi, III, p. 471; a. scharf, Filippino Lippi, Wien
1935, documenti VIII-XII.
152
a. della torre, Storia cit., p. 833.
153
w. paatz, Kirchen cit., vol. III, pp. 708-9 n. 227, p. 797
154
g. marchini, Le vetrate italiane, Milano 1955, p. 44.
155
Su Filippino e l’umanesimo cfr. piú avanti.
156
g. beltrami, Il monumento sepolcrale di Sisto IV e le sue vicende,
in Atti del III Congresso Nazionale di Studi romani, ii (1935), p. 365; a.
sabatini, Antonio e Piero del Pollaiuolo, Firenze 1944, pp. 82-83; l.
d. ettlinger, Pollaiuolo’s Tomb of Pope Sixtus IV, in «jwci», xvi
(1953), pp. 239 sgg
157
c. de tolnay, The Tomb of Julius II, Princeton 1954, p. 28.
158
h. von einem, Michelangelos Juliusgrab im Entwurf von 1505 und
die Frage seiner ursprünglichen Bestimmen, in Festschrift für H. Jantzen,
1951, pp. 152-68.
159
l. landucci, Diario fiorentino cit., pp. 58-59. p. francastel,
L’«architecture civile du Quattrocento, in Eventail de l’histoire vivante
(Hommage à Lucien Febvre), Paris 1933, vol. II, pp. 195-206, rileva giustamente che le forme della nuova architettura sono rimaste a lungo
«immaginarie» e solo lentamente hanno trovato pratica realizzazione;
è però difficile riconoscere nei palazzi fiorentini «l’impianto di residenze rurali isolate» e anche quegli elementi della casa di campagna che
ancora conserverebbero; come è impossibile parlare del «piccolo numero di edifici civili costruiti nel corso del Quattrocento», e affermare che
«dal 1420 al 1500... l’architettura moderna è stata solo opera rara di
isolati». Il prospetto cronologico presentato da m. reymond, ne L’Histoire de l’art ed. a. michel, t. III, vol. II, p. 512, che elenca solo pochi
edifici datati, non deve creare false prospettive.
160
Nella stessa Firenze, dove il Sangallo costruí, per usare le parole del Vasari, «a’ privati cittadini molte case», conosciamo il palazzo
Gondi (prima pietra: 1490), il palazzetto di Bartolomeo Scala, un
palazzo «per un veneziano fuor della porta a Pinti» (cfr. «Commenta-
Storia dell’arte Einaudi
299
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
ri», i [1950], p. 34), ecc., senza contare la villa di Poggio a Caiano e
la loggetta di Careggi. Giuliano costruí inoltre a Savona il palazzo di
Giuliano della Rovere (1495), forní per Napoli il progetto famoso del
palazzo reale (1488), per Milano il progetto per Ludovico il Moro
(1492); e la sua attività a Roma, sia durante il suo primo soggiorno
intorno al 1470 ai tempi di Paolo II, sia sotto Sisto IV e Giulio II, o
addirittura ai tempi di Leone X (progetto del palazzo di piazza Navona, Uffizi, Arch. 7949 A), meriterebbe un esame approfondito. I dati
essenziali si trovano nello studio citato di G. Marchini.
161
m. wackernagel, pp. 152 sgg. Il Filarete (intorno al 1460)
descrive entusiasticamente l’interno di palazzo Medici «il quale a tutta
la città rende honore»: Trattato di architettura, ed. W. von Oettingen,
Wien 1890, pp. 677-78.
162
Sul palazzo del Proconsolo: lami, Deliciae eruditorum, XII, 88.
Sul ciclo di Lorenzo de’ Bicci: vasari, ed. Milanesi, II, p. 50. Sull’Ercole di palazzo Bardi-Serzelli: m. salmi, Paolo Uccello, Andrea del
Castagno, Domenico Veneziano, 2ª ed. Milano 1938, p. 32.
163
La villa fu acquistata nel 1475 da Jacopo di Giannozzo Pandolfini, fratello di Pierfilippo, l’amico di Donato Acciaiuoli e del Ficino.
c. carocci, I dintorni di Firenze, 1907, vol. II, p. 400; m. salmi, Gli
affreschi di Andrea del Castagno ritrovati, in «Bollettino d’arte», iv
(1950), pp. 295-308.
164
a. schiaparelli, La casa fiorentina e i suoi arredi, Firenze 1908;
j. pope-hennessy, Paolo Uccello, London 1950, pp. 149 sgg.
165
Sulla biblioteca di Fiesole, cfr. piú avanti; sugli affreschi di
Arcetri, cfr. sopra.
166
a. sabatini, Antonio e Piero del Pollaiuolo, Firenze 1944, p. 96.
167
m. wackernagel, pp. 272 sgg. e a. warburg, Francesco Sassettis letztwillige Verfügung cit., pp. 133-34. Su ciò che rimane della villa
(oggi Martini Bernardi): g. carocci, I dintorni ecc. cit., p. 183. La lettera del Ficino, Opera, 799-800, si trova nel libro V dell’Epistolario del
Ficino che viene datato 1477-78 (p. o. kristeller, Supplementum Ficinianum, CI). La conclusione della lettera suona: «Duplo tibi Saxette
religiosior domus est quam caeteris, aliae certe sacellum vix unum
habent, tua vera gemina et illa quidem speciosissima continet». Ci si
può chiedere se questi gemina sacella non siano analoghi alle due cappelle del palazzo d’Urbino che vengono costruite esattamente alla stessa epoca e sono consacrate l’una alle Muse, l’altra allo Spirito Santo:
cfr. piú avanti.
168
m. wackernagel, p. 158 e soprattutto: p. horne, Quelques souvenirs sur Botticelli, in «Revue archéologique», t. XXXIX (luglio-agosto 1901), pp. 12-19, parte II (Les fresques de Spedaletto). Lo Spedaletto
è diventato «una casa di fattoria» vicino a Volterra, vasari, ed. Milanesi, III, p. 258, n. 45.
Storia dell’arte Einaudi
300
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
p. müller-walde, Beiträge zur Kenntnis des Leonardo da Vinci,
in «Jahrbuch der preussischen Kunstsammlungen», xviii (1897), p.
165. Questo documento è riprodotto in c. gamba, Botticelli cit., p. 151.
170
Su Botticelli: vasari, ed. Milanesi, III, p. 318: «haveva assai
lavorato allo Spedaletto in quel di Volterra». h. horne, Botticelli cit.,
p. 109. j. mesnil, Botticelli cit., p. 100. Sul Ghirlandaio: vasari, ed.
Milanesi, III, p. 258.
171
Passata alla famiglia Cibo, la villa fu venduta nel Seicento ai Corsini; un antico annotatore del Vasari, G. Bottari, ed. di Roma, 1759,
t. I, p. 428, diceva già che l’affresco del Ghirlandaio «posto sotto un
portico ed esposto all’aria libera, aveva molto sofferto». Un incendio
ha distrutto in parte la villa tra il 1820 e il 1830; attualmente non vi
rimane piú nulla di riconoscibile.
172
Come ha osservato a. warburg, in Gesammelte Schriften cit., t.
I, p. 644; cfr. anche piú avanti.
173
c. gamba, Botticelli cit., p. 158. j. mesnil, Botticelli cit., p. 103.
e. h. gombrich, Botticelli’s Mythologies ecc. cit., e a. chastel, Botticelli, Milano 1958.
174
Il tema «matrimoniale» è stato proposto da f. wickhoff, Die
Hochzeitsbilder Sandro Botticellis, in «Jahrbuch der preussischen Kunstsammlungen», xvii (Berlin 1906), pp. 198 sgg., che ha perfino creduto di ritrovarvi le nozze allegoriche di Mercurio e della Filosofia
descritte da Marziano Capella. L’interpretazione tradizionale riassunta dal wackernagel, p. 187, deve essere corretta su tutti questi punti
seguendo i. mesnil, Botticelli cit., pp. 101 sgg., e e. h. gombrich, Botticellis Mythologies ecc. cit., p. 57 n. 1. In realtà: 1) Lo stemma nell’affresco di Venere, ora assai cancellato, non recava le armi dei Vespucci: queste sono state aggiunte sulla base del pilastro di destra; 2) Il profilo della dama non ha alcun rapporto con quello di Giovanna, ben fissato dall’affresco del Ghirlandaio a Santa Maria Novella (cfr. u. thieme, Ein Porträt der Giovanna Tornabuoni von Domenico Ghirlandaio, in
«Zeitschrift für bildende Kunst», ix [1908], p. 192); 3) Il giovane che
è stato identificato con Pico della Mirandola, prima di diventare Lorenzo Tornabuoni (e. wickhoff, Ein Porträt ecc. cit.) somigliava piuttosto a Lorenzo di Pierfrancesco (medaglia pubblicata da g. p. hill, A
corpus of italian medals, London 1930, nn. 1504-505) che era per l’appunto gran cliente del Botticelli.
175
w. weisbach, Studien zu Pesellino und Botticelli, in «Jahrbuch der
preussischen Kunstsammlungen», xxix (1908), p. 18.
176
vasari, ed. Milanesi, III, p. 312. j. mesnil, Botticelli cit., p. 53
non lo crede. Né le dimensioni né i supporti corrispondono, benché si
tratti di grandi formati: La Primavera: 2035314 (tavola); La nascita di
Venere: 1755279 (tela). Sui lavori di Botticelli a Castello: h. horne,
Botticelli cit., pp. 119 e 184; j. mesnil, Botticelli cit., p. 210.
169
Storia dell’arte Einaudi
301
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Il Ficino ne ha diretto gli studi intorno il 1476; nel suo testamento gli legherà il manoscritto di Platone donatogli nel 1462 da Cosimo il Vecchio: a. della torre, Storia cit., p. 542.
178
Il doppio studio di a. warburg, Sandro Botticelli «Geburt der
Venus» und «Frühling», in Gesammelte Schriften cit., pp. 1 e 3, indica
le fonti poetiche remote; quello di e. h. gombrich, Botticelli’s Mythologies ecc. cit., i punti di partenza immediati dell’artista.
179
Cfr. piú avanti. Questi problemi sono stati di recente ripresi da
e. wind, Pagan mysteries ecc. cit., cap. VII e VIII, che vede nelle due
opere le due Veneri, quella naturale e quella celeste, del platonismo.
180
bocchi-cinelli, Le bellezze ecc. cit., p. 384; g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., pp. 88-89.
181
Bartolomeo Scala (1426-97) è uno degli amici, insieme al Landino e al Poliziano, che il Ficino consultò al momento di dare l’ultima
mano al suo Platone: a. della torre, Storia cit., p. 606. Bartolomeo
Scala era una creatura dei Medici: «messer Bartolomeo deli begli inchini»; nel 1465 era oggetto degli attacchi del Pulci; nel 1493 avrebbe
polemizzato aspramente col Poliziano per questioni di stile latino; cfr.
v. rossi, Il Quattrocento cit., pp. 375 sgg. La lettera del Ficino citata
si trova in un manoscritto conservato alla biblioteca di Monaco, che
contiene, oltre ai libri IX-XI dell’Epistolario del Ficino, un gran numero di lettere inedite che parlano di vicende pubbliche degli anni 146569 e sembrano essere di Bartolomeo. Su questa raccolta: Supplementum
Ficinianum, I, p. xxxv; testo della lettera: ibid., I, p. 60.
182
Cfr. piú avanti. G. Poggi, che aveva iniziato lo studio di questo
complesso, mi ha cortesemente autorizzato a pubblicarne le fotografie
inedite.
183
vasari, ed. C. L. Ragghianti, I, p. 867.
184
Come nel castello di Torchiara, la «camera d’oro» di Pier Maria
Rossi: c. ricci, Santi e artisti, Bologna 1894, pp. 229 sgg. a. roccabianca, Le cycle disparu de l’histoire de Grisélidis; a. colasanti, Due
novelle nuziali del Boccaccio nella pittura del Quattrocento, in «Emporium», marzo 1904. p. schubring, Cassoni cit., nn. 297-300. Le riserve di j. mesnil, Botticelli cit., p. 222, contro l’opinione favorevole di
C. Gamba, Botticelli cit., p. 152, ci sembrano fondate. Questo complesso è, per il gusto fiorentino, l’equivalente dei cicli «cortesi» frequenti negli interni lombardi ed emiliani.
185
j. mesnil, Botticelli cit., p. 209, n.148, ha accostato la Morte di
Lucrezia a una tavola piú antica, eseguita in collaborazione con Filippino Lippi (Pitti). Il Botticelli riprende dunque un modello vecchio di
trent’anni.
186
vasari, ed. Milanesi, IV, p. 141: e. panofsky, The early history
of man in two cycles of paintings by Piero di Cosimo, in Studies in Iconology cit., cap. II.
177
Storia dell’arte Einaudi
302
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Su questa casa: h. horne, Botticelli cit., p. 212.
e. panofsky, The early history ecc. cit., pp. 64-65, ha messo in
evidenza il contrasto tra le due metà del paesaggio, ridente a sinistra,
selvaggio a destra: starebbe a suggerire l’opposizione tra stato selvaggio e vita rustica.
189
Su questo problema: e. panofsky, The early history ecc. cit., p.
51: Ritorno dalla caccia (New York, Metropolitan Museum), Scena di
caccia (ibid.), Paesaggio con gli animali (Oxford, Ashmolean Museum).
190
j. p. horne, The last Communion of Saint Jerome by Sandro Botticelli, in «The Bulletin of the Metropolitan Museum of Art», x (New
York 1915), pp. 52 sgg., 101 sgg.
187
188
Storia dell’arte Einaudi
303
Parte seconda Problemi dell’iconografia e dello stile
Introduzione
L’originalità di Firenze
Dagli inizi del Trecento Firenze ebbe costante la
preoccupazione che nessuna grande iniziativa in Italia,
o addirittura in Occidente, restasse senza una contropartita locale. L’ambizione di essere la «nuova Roma»
grazie al numero, alla vastità e alla solennità degli edifici, vi si nota ben presto nelle rivendicazioni dei cronisti, in certi aspetti dei programmi monumentali: è
stata notata un’analogia di dimensioni tra Santa Croce
e la basilica di San Pietro in Vaticano, analogia che difficilmente può essere casuale, e il progetto di Santa
Maria del Fiore mirava a riassumere e superare in un
solo edificio tutta l’architettura della cristianità1. All’inizio del Quattrocento era vivamente sentita la necessità di portare a termine la chiesa per non restare inferiori a città come Milano e Venezia. La commissione
cittadina preposta a questo era imbarazzata fra mezzo
a progetti vecchi di due generazioni e ai troppo numerosi intrighi. I fiorentini si mostravano impazienti di
arrivare ad una decisione circa la cupola, dato che
Milano, con cui si era in aperto conflitto e contro la
quale gli umanisti toscani si sentivano spinti a celebrare
la storia antica e recente della loro città, era sul punto
di innalzare la piú formidabile cupola «gotica» dell’Occidente2. La riuscita del Brunelleschi fu vista come
un simbolo della superiorità fiorentina e celebrata
come tale. Nell’architettura non ci fu, nel corso di
Storia dell’arte Einaudi
304
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
tutto il Quattrocento, altra impresa paragonabile a
questa3.
All’epoca di Lorenzo il progetto di decorare di mosaici l’interno della cupola fu chiaramente suggerito dal
desiderio di estendere alla Cattedrale la gloriosa decorazione del Battistero e in questo modo sottolineare la
priorità di Firenze su Venezia in questo campo4. L’iniziativa s’arenò ben presto e Santa Maria del Fiore non
divenne un nuovo San Marco. Senza questa preoccupazione di uguagliare Venezia non si spiegherebbe nemmeno l’idea della Signoria repubblicana del 1494 di
creare in palazzo Vecchio una sala del Gran Consiglio
dello stesso tipo, ma piú grande e piú bella ancora, di
quella del palazzo dei Dogi, e di costituire a questo fine
una commissione di architetti e decoratori5. Il concorso
del 1491 per la facciata della cattedrale lasciava prevedere decisioni importanti: che questa facciata non sia
stata compiuta ci priva di un documento fondamentale
sullo stato del gusto fiorentino alla fine del secolo. Dagli
echi che di certi progetti si colgono negli studi elaborati nel 1514-15 per mascherare la facciata di San Lorenzo, s’intravede in qual senso, e cioè in un senso già classicheggiante, fondato sull’impiego di ordini sovrapposti
e di statue, Firenze tendesse ad affermare la sua originalità di contro al pittoresco della Certosa di Pavia e alle
complesse decorazioni delle chiese veneziane6.
I fiorentini avevano un senso elevato della vocazione della loro città: in una miniatura del De civitate Dei
di sant’Agostino, una bella iniziale mostra la città di Dio
contemplata dal Santo Dottore. Questa città non è altro
che Firenze colle sue mura, le sue torri dominate dalla
cupola. Non piú Roma ma Firenze rappresenta la città
ideale7. Questo era il sentimento popolare. Il diario terra
terra di Luca Landucci basta ad attestare l’interesse che
ai nuovi edifici prendevano bottegai e artigiani8. Le celebrazioni ufficiali che si erano venute moltiplicando tra
Storia dell’arte Einaudi
305
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
il 1480 e il 1490 avevano larga risonanza tra il pubblico. E questa fiducia era alimentata dalle dichiarazioni
dei dotti, da scritti come ad esempio il Proemio del Landino alla Commedia, nel quale non manca affatto lo spirito «campanilistico».
Le feste.
Lo si ritrova anche nel successo che hanno le «feste».
I cortei e le cavalcate, accompagnati da spettacoli,
rispondevano a un bisogno irresistibile della vita pubblica, di cui difficilmente si potrebbe esagerare l’estensione. Dotti ed artigiani, notabili e popolo, vi partecipavano in egual misura: lo spirito di competizione con
le altre città e l’intento pubblicitario vi si vedevano
chiaramente9. Le novità della cultura vi si dispiegavano
nella cornice delle tradizioni locali. I divertimenti pubblici a spese della Signoria sono attestati già nel secolo
xiii: la festa del patrono san Giovanni forniva l’occasione per cortei e carri, ricordati volentieri dai cronisti.
Vi si osserva piú che altrove, soprattutto dopo il Concilio del 1434 e le visite dei bizantini, il gusto delle figure esotiche e dei soggetti orientali10. Per la festa di san
Giovanni del 1454 si assiste ad una cavalcata con Mosè,
i profeti e le Sibille, seguiti da «Ermete Trismegisto»,
descritta da Matteo Palmieri. Nel 1459 Lorenzo si presentò con in testa il «mazzocchio» o turbante con piume
d’oro. Particolari analoghi si hanno a proposito delle giostre famose del 1469 e del 1475, nelle quali i Medici
ostentarono una pompa che moveva da un calcolo preciso: i costumi, gli emblemi attrassero l’attenzione dei
poeti e degli osservatori forestieri11.
A partire da queste date Firenze inaugura uno stile
di feste di cui non si era avuto finora alcun equivalente
altrove. La tradizione ha attribuito una parte attiva a
Storia dell’arte Einaudi
306
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Lorenzo nella loro elaborazione; a lui spettano senza
dubbio un certo numero di canti carnascialeschi fra quelli raccolti dal Lasca nel Cinquecento12. Ai carri delle corporazioni si mescolavano quadri storici (fra i quali il
Trionfo di Paolo Emilio, realizzato nel 1491 dal Granacci) e quadri viventi mitologici, come la scena di Bacco
e Arianna. Il Vasari insisterà sulla priorità di Firenze in
questo campo, e il ricordo di queste feste contribuirà
non poco alla gloria postuma di Lorenzo, a giudicare dai
carnevali del 1513 e 151413. Le fronti di cassoni, nelle
quali si vedono giostre e cavalcate, ci documentano in
parte su queste messe in scena. Esse comprendevano
false facciate, tempietti, archi, elementi decorativi fissi;
ma i documenti non permettono di arrivare piú oltre
nello studio e in particolare s’ignora l’importanza che vi
avevano le architetture fantastiche che, sia sui carri, sia
nella strada, accompagnavano i «quadri viventi» della
festa14. Abbiamo per lo meno un’idea abbastanza precisa dei costumi, che conferivano a queste messe in scena
un tono divertente e eccezionale: la Cronaca illustrata di
Maso Finiguerra ne contiene tutto un repertorio e vi si
notano un lusso e una fantasia che contrastano con la
sobrietà degli abiti correnti dei fiorentini. I figurinisti
ed i sarti si mostrano, in questi costumi, attenti alle
mode borgognone; ne riprendono i piumaggi, le guarnizioni e i ricami combinandoli con elementi «orientali»,
e compongono una sorta di fantasmagoria vestiaria, che
rappresenta il piú brillante contributo fiorentino alla
poetica delle feste15.
L’ellenismo.
Importanza non minore si deve attribuire alla progressiva «ellenizzazione» della cultura fiorentina. Anche
in questo essa si è trovata al centro di un’evoluzione che
Storia dell’arte Einaudi
307
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
interessa tutto quanto l’Occidente. I legami col mondo
bizantino erano di data abbastanza remota, ma solo
intorno al 1420-30, in concorrenza con Venezia e le
città della costa adriatica, si cominciò a nutrire un vero
e proprio interesse per la letteratura e l’arte greche. Il
Brunelleschi e Donatello avevano scoperto le risorse di
Roma. Restava da valorizzare Atene: l’affettazione un
po’ ingenua con cui il Ghiberti utilizza la cronologia
delle «Olimpiadi» per presentare la storia universale
dell’arte, rivela uno «snobismo» già serio16. Nel 1437
Ciriaco d’Ancona era venuto a visitare Donatello e il
Ghiberti e si era incontrato col Niccoli. I suoi schizzi
di rilievi greci, le sue note di epigrafia avranno un successo durevole dato che li ritroviamo utilizzati da Bartolomeo Fonzio in una raccolta d’iscrizioni e da Giuliano da Sangallo nella sua grossa raccolta d’archeologia17. L’idea di risalire, al di là dell’eredità di Roma, alla
Grecia non si affermò presso tutti gli artisti, fu invece
ben presto familiare ai letterati. Il Petrarca ci pensava;
Leonardo Bruni ne era tanto convinto da mettersi,
intorno al 1400, alla scuola del mediocre Crisolora18. Le
vicende del Concilio e l’arrivo in massa dei bizantini nel
1439 richiamarono l’attenzione generale: essi apparivano dotati di una cultura superiore a quella dei latini.
Cosí la catastrofe che divise il mondo greco dall’Occidente ebbe una precisa risonanza a Firenze: inculcò
negli ambienti colti la coscienza di nuovi compiti da
svolgere. Impaziente di attrarre a Firenze l’Argiropulo,
Donato Acciaiuoli scriveva nell’ottobre del 1454:
«Nunc eversa nobilissima civitate Byzantiorum, quippe soli aliquod vestigium veteris Graeciae retinebant,
credendum est inde cum Graecia Graecorum scientiam
pene extinctam». Questa scienza in via di estinzione si
trattava di inserirla nella cultura italiana e questa fu
appunto la funzione dell’Argiropulo a Firenze: dal 1456
al 1461 egli illustrò per la prima volta, dai presocratici
Storia dell’arte Einaudi
308
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
agli alessandrini, la storia del pensiero greco mettendo
in luce soprattutto i suoi tre vertici: Socrate, Platone,
Aristotele19. È stata la cerchia degli Acciaiuoli, e non
quella di Cosimo de’ Medici, l’azione dell’Argiropulo,
e non quella del Ficino, che hanno aperto la nuova fase
dell’umanesimo20. Lo sviluppo del fenomeno fu rapido
e si sa che dopo il 1470, e per tutta la durata del principato di Lorenzo, i fiorentini poterono vantarsi di aver
raccolto l’eredita bizantina e di averne tratto, con la
linea maestra del platonismo, i fondamenti di una sintesi universale. La rapida assimilazione dei grandi testi,
la loro traduzione in latino, la loro diffusione attraverso commenti, hanno assicurato a quella che è stata detta
l’«Accademia fiorentina» un prestigio senza precedenti21. Divenne cosí necessario per i moderni passare attraverso Platone, cioè attraverso i suoi esegeti fiorentini22.
Nella sua Apologia del 1487 Pico non mancherà di insistere sul fatto che non si può giungere ad una filosofia
«totale» se non partendo dalle dottrine greche23. In
un’epoca in cui la cultura italiana si rivolge con impazienza alle forme ed alle idee dell’Antichità, il genio fiorentino è attratto dalla chiarezza e dall’eleganza dei
greci. Addirittura aspirava a farle proprie. Poliziano
avrebbe dimostrato, non senza ingratitudine in questo,
qualche segno d’insofferenza per i bizantini, e una vivace ironia verso le loro pretese intellettuali: questo per il
desiderio di sostenere l’originalità dei toscani nel campo
stesso della cultura greca: «vel nitore vel copia vivimus
ex pari cum Graecis»24.
L’autorità della Scuola fiorentina era tanto maggiore in quanto si estendeva anche al campo della lingua,
del «volgare», dove si era posta a capo di una evoluzione decisiva25. Nella lettera a Ferdinando d’Aragona
Lorenzo si faceva forte della solida tradizione toscana,
appoggiata su Dante, Boccaccio e Petrarca. Si trattava
di creare una lingua letteraria abbastanza agile e ricca,
Storia dell’arte Einaudi
309
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
come affermavano, insieme col Landino, tutti i maestri
dello Studio: di questi alcuni si preoccupavano maggiormente dello stile nobile e di un arricchimento della
lingua sulla base del latino26, altri erano maggiormente
interessati all’assimilazione dei dialetti italiani e alle
possibilità offerte dalla lingua parlata27. Ma tutto sommato la preoccupazione di una lingua «nazionale» e il
senso della loro responsabilità in questo campo costituiscono la forza dei letterati dell’ambiente mediceo.
L’Alberti ne aveva dato l’esempio con un’opera scritta
in modo indubbiamente brillante, il Trattato della famiglia, e il Ficino tradurrà lui stesso in volgare qualcuno
dei suoi trattati. Anche in questo gli umanisti fiorentini aprivano un’epoca nuova.
La letteratura fiorentina quattrocentesca non presenta d’altronde una varietà che sia pari alla sua abbondanza: rimane dominata dalle monotone convenzioni
della lirica e dalle forme tradizionali del didatticismo
morale, anche se non mancano alcune notevoli eccezioni
come il racconto del grasso legnaiuolo del Manetti e
l’Orfeo del Poliziano. Essa non conosce né la novella né
la forma drammatica; è invece invasa dalle narrazioni
derivate dal vecchio fondo della letteratura cortese e
dell’epica medievale. Uno degli avvenimenti dell’epoca
sarà la pubblicazione del Morgante, di cui nel 1485
Ludovico il Moro chiedeva d’urgenza un esemplare a
Lorenzo, il quale fece di tutto per accontentarlo immediatamente28. L’ironia e le invenzioni burlesche, il tono
irriverente e «libertino» del Pulci costituivano una
sorta di antidoto alla costante elevatezza dei discorsi
platonici. Questo contrasto ci aiuta meglio a comprendere il tono un po’ distante e sostenuto proprio del
gruppo di Careggi29.
Storia dell’arte Einaudi
310
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Una dottrina della poesia e dell’arte.
L’originalità dell’ambiente fiorentino si rivela soprattutto nell’elaborazione di una dottrina della poesia e dell’arte30. Nel poema Florentia, che data del 1490 circa,
Pandolfo Collenuccio tenta di spiegare l’atmosfera intellettuale della città unendo insieme l’elogio dei neoplatonici di Careggi e quello degli artisti:
Certi scrutano i principi delle cose, i segreti dell’universo
e i misteri nascosti agli occhi degli uomini; per essi Platone, nel suo elevato discorso, non cessa di aver voce, né cessa
il suo sottile discepolo. Occorre aggiungere ad essi le innumerevoli arti alle quali presiede Apollo, che la seconda Pallade favorisce coi suoi doni generosi, e per ammirare e cercare le quali si viene dai paesi lontani.
Non si tratta della poesia, che viene ricordata piú
avanti, ma delle arti e delle tecniche, della pittura e dei
tessuti31. L’elogio della città tessuto dal Ficino non aveva
un significato diverso: «Questo secolo, come aureo, le
discipline liberali, quasi estinte in luce ha ridutte, la
Grammatica, la Poesia, l’Oratoria, la Pittura, la Scultura, la Architettura, la Musica, l’antico modo di cantare i versi e la Lira, come già fece Orfeo, e questo si fu
in Fiorenza»32. Lo sviluppo delle arti e delle lettere entra
cosí in una visuale provvidenziale, nella quale Firenze
tiene un ruolo capitale, e nella quale le arti plastiche
assumono un significato non minore della poesia e della
retorica: le une e le altre hanno trovato un modo nuovo
simboleggiato dalla «lira di Orfeo». Insomma il Ficino
delinea una condizione della vita artistica che gli sembra conforme all’ideale platonico e che si starebbe realizzando a Firenze. L’umanesimo significa cosí anche la
giustificazione dell’arte contemporanea.
Questa presa di coscienza dei valori artistici rappre-
Storia dell’arte Einaudi
311
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
sentava il punto di arrivo di una lunga evoluzione. Il platonismo era, nel Rinascimento, la filosofia degli intellettuali e dei poeti, che non s’accontentavano della lingua
barbara e delle analisi concettuali della scolastica33. Platone per Petrarca impersonava già da solo una «filosofia
letteraria» che egli sognava di opporre allo «scientismo»
della scolastica. Con questo siamo al centro del problema
del Rinascimento: la qualità dell’espressione è altrettanto importante della dottrina, almeno nel senso che questa è l’organizzazione di verità etiche, psicologiche, civiche, le quali hanno un valore in grazia dello sforzo dello
scrittore per adattarle e per farne convinto il pubblico.
Donde l’interesse di un Salutati per Platone34. La fama del
Bruni e, in misura minore, del Marsuppini, verrà dalla
loro qualità di oratori e scrittori; la città li onorerà con
tombe monumentali (che saranno esse stesse manifesti di
una nuova arte) per celebrare la loro funzione civica, il
loro sapere, ma anche la forza e l’originalità del loro stile
che li fa temere e ammirare negli altri paesi.
L’ambiente di Careggi si orienta infine verso un
«estetismo» assai piú caratterizzato. Il porsi sotto l’egida di Platone significava anche contro il peripatetismo
della scolastica, l’ambizione di affermare la poetica theologia e nello stesso tempo (contro gli scettici o libertini)
l’affermazione delle possibilità infinite dell’anima. Questa doppia affermazione va connessa all’elogio dell’uomo come artista, del saggio come poeta, e, in linea generale, alla scoperta dell’arte come attributo fondamentale dell’umanità35. Un insegnamento come questo fa
appello all’interiorità dell’anima e con ciò stesso rende
necessario un ripensamento di tutti i simboli e tutti i
modi di espressione; d’altra parte riconosce un’importanza particolare all’esigenza del bello, il che sollecita
una meditazione piú attenta delle forme.
La sua possibile azione sul mondo delle arti si delinea in queste due direzioni. Il Ficino ha spesso pagine
Storia dell’arte Einaudi
312
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
poetiche e calorose in cui incita lo spirito a raccogliersi,
a dominare le illusioni rovinose e i vani terrori che lo
turbano; la vita in un certo senso non è che un brutto
sogno. Nella curiosa epistola al «genere umano» egli
dice che occorre cercare se stessi al di là del mondo e che
le miserie di questo si superano contemplandolo da un
punto piú elevato. La meditazione filosofica tende anzitutto a restituire all’anima la coscienza della sua alta condizione interiore: è questo per Ficino il senso della predicazione «platonica», come egli dichiara già nel 1470
in un’epistola a Giovanni Cavalcanti36. Era un modo per
rispondere alla inquietudine dell’epoca, ma anche per
confortarne il suo desiderio di poesia.
Questa verità interiore, ostacolata dalle illusioni sensibili, viene rivelata dalle favole, dalle invenzioni poetiche, da un gioco audace di allusioni e metafore. Il neoplatonismo viene cosí a trovarsi strettamente legato alla
generale crisi del «simbolismo» che travaglia il Rinascimento37. Sarebbe stato ben strano che questa non si
facesse sentire in nessun modo sulle immagini e i temi
dell’iconografia. Indubbiamente non ci fu né poteva
esserci un nuovo Vincenzo di Beauvais fra gli umanisti
fiorentini: è solo con il Cartari e il Ripa che l’«iconologia» prenderà forma. Ma le raccolte di costoro non
saranno che un prolungamento di ciò che viene abbozzandosi alla fine del Quattrocento a Firenze, ed è a partire da questa data che si constata il mutarsi e il parziale rinnovarsi degli schemi tradizionali: il principio essenziale che guida il fenomeno è un nuovo equilibrio tra
profano e sacro che merita di essere analizzato38.
La «musica» e la cultura delle botteghe degli artisti.
Non meno nuova era l’insistenza del Ficino e dei
suoi amici sul valore metafisico e pieno della bellezza:
Storia dell’arte Einaudi
313
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
né minori erano le conseguenze che implicava. Il Ficino
ha fornito ampi chiarimenti a questo proposito. Tutte
le attività umane tendono a celebrare la bellezza ineffabile che regna nell’universo, tutte le arti mirano a quell’armonia superiore che si deve chiamare «musica»: il
primo grado di essa sta nella ragione, il secondo nell’immaginazione, vengono in seguito il discorso, il canto,
e ancora il suono degli strumenti, e alla fine i movimenti
della danza ritmica. «La musica de l’animo di grado in
grado discende et si conduce a tutte le membra del
corpo. La quale anchora gl’oratori, i poeti, i dipintori,
gli scultori, gl’architettori ne l’opere loro vanno imitando»39. In questa forma generale, ma suggestiva per la
sua stessa universalità, si veniva delineando una nuova
psicologia della attività spirituale in funzione della bellezza.
La «musica» di cui si parla è la facoltà di provocare,
attraverso il suono degli strumenti, un certo stato incantevole di contemplazione interiore, e nello stesso tempo
è il simbolo di un’operazione piú generale che mobilita
tutta l’anima. La musica instrumentalis è solo il primo
grado, la musica interiore (humana) dell’anima ne è il
secondo, e la musica cosmica (mundana) il grado piú
alto. Questa idea di musica rappresentava dunque un
simbolo perfetto dell’attività artistica con i suoi tre
aspetti: uno strumento appropriato, un piano di effetti
psico-fisiologici, un fine ultimo superiore che si compie
nell’armonia universale40. Tale musica viene cosí ad essere connessa a tutti i gradi dell’essere, tocca sia la coscienza inferiore, legata alla natura fisica, sia la coscienza illuminata che gode della bellezza del numero, sia la
coscienza superiore che coglie un universo trasfigurato.
La «lira d’Orfeo «significa l’accesso alle intuizioni felici; è un rimedio ai mali nascosti dell’anima e in primo
luogo alla malinconia41. La pratica e la teoria della musica, come è stato giustamente osservato, conoscono, per
Storia dell’arte Einaudi
314
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
l’appunto intorno al 1500, grazie all’aumento delle ottave e l’arricchimento delle famiglie di strumenti, lo stesso ampliamento che subisce la concezione del cosmo, la
cui dilatazione è palese in Ficino, come in Nicola Cusano, prima di Copernico: l’ottava disegna una sorta di
cerchio perfetto, l’accordo musicale è in certo modo il
prototipo della bellezza pura42.
È interessante notare come abbia successo il richiamo alla musica in quella che potremmo chiamare la critica d’arte del Quattrocento. Si sa che, nelle istruzioni
date a Matteo de’ Pasti, l’Alberti insiste sulle misure e
proporzioni dei pilastri per cui modificarli significherebbe distruggere l’accordo di tutta la musica. Abbiamo
qui una analogia molto meditata, fondata sul valore puro
del numero, e insieme una di quelle «metafore di valore» che rivelano un nuovo orientamento della sensibilità43. Questo dovette generalizzarsi nell’ambiente fiorentino se il Ficino sentí il bisogno di darne una interpretazione filosofica. Leonardo avrebbe concentrato la
sua attenzione sui rapporti fra pittura e musica che è
sorella ma non rivale della pittura44. Infatti la «sventurata musica» («sventurata» perché destinata a dissolversi nell’aria) viene alla fine ad essere inferiore alla
pittura nella misura stessa in cui l’udito è metafisicamente inferiore alla vista e l’armonia che si svolge nella
durata è inferiore a quella che si dispiega nello spazio.
Per condannare la pittura sentimentale dei fiamminghi,
che gli sembra detestabile, Michelangelo ricorrerà alla
stessa formula dell’Alberti: questa cattiva pittura è fatta
per piacere alle donne, ai frati e «a qualche gentiluomo
privo del senso musicale della vera armonia»45. Questa
frase induce a pensare che il riferimento alla musica
fosse già da lungo tempo elemento corrente della lingua
delle arti. Si è giustamente insistito sul clima «musicale» di Venezia al momento in cui Giorgione vi sviluppa
i suoi sogni penetranti e tutta una nuova gamma di emo-
Storia dell’arte Einaudi
315
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
zioni46. Un’osservazione analoga si deve fare per Firenze, una generazione prima. La tradizione narra che nella
bottega del Verrocchio si teneva molto alla musica; Leonardo nella sua gioventú e noto come cantore e suonatore di lira: una miniatura lo raffigura con lo strumento in mano47. C’era dunque almeno questo elemento
comune tra le botteghe degli artisti e l’accademia ficiniana, dove si suonava la «cetra» e si cantava in ogni
occasione48.
Intorno al 1490 il Verino loda il Verrocchio come il
maestro di quasi «tutti coloro il cui nome vola oggi nelle
città d’Italia»49. La sua partenza per Venezia nel 1483
e la morte prematura nel 1488 hanno privato Firenze di
una personalità robusta proprio nel momento in cui si
moltiplicavano i nuovi compiti. Egli aveva un alto concetto della sua persona e della sua arte a giudicare dalle
discussioni animate che egli ebbe con il Senato veneziano in occasione del monumento al Colleoni; ma la sua
gloria postuma è stata influenzata dal disprezzo mostrato verso di lui dal Vasari, che si è sforzato di ridurne
l’importanza, insistendo nello stesso tempo sulle sue
numerose attività, «orefice, prospettivo, scultore, intagliatore, pittore e musico», e sulla limitatezza delle sue
capacità. Gli sarebbe mancato il genio, quella scintilla
che viene dalla natura; l’unico suo merito sarebbe stato
il lavoro, «lo studio», piú accanito tuttavia che in nessun altro. L’importanza di Andrea de’ Cioni consistette dunque nel concentrare tutte le forze dell’arte fiorentina: ma se è vero che in gioventú «attese alle scienze, e particolarmente alla geometria», e se si tien conto
dell’azione da lui esercitata intorno a sé, il significato
della sua figura risulta maggiore. Occorre chiedersi se la
sua bottega, intorno al 1470-80, non sia stata particolarmente aperta alle varie tendenze della cultura fiorentina. A questo modo di considerare ha fatto ombra l’insistenza del Vasari, e degli storici posteriori, sul natu-
Storia dell’arte Einaudi
316
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
ralismo secco e angusto del Verrocchio, il quale, secondo loro, avrebbe trovato il suo coronamento nel rilevamento e nella coloritura delle maschere funerarie. In
realtà la funzione del Verrocchio si pone su un piano piú
alto; egli seppe accogliere gli stili opposti considerandoli come aspetti diversi da sintetizzare del problema artistico: cosí in scultura la maniera severa di Donatello e
lo stile delicato di Desiderio, in pittura il naturalismo
spinto dei fiamminghi e una tendenza alla composizione ordinata e astratta che si ispira ai modelli antichi50.
L’attività del Verrocchio e della sua bottega corrisponde al momento in cui le migliori fra le botteghe fiorentine interrogano se stesse e cercano i mezzi per dare uno
stile alle aspirazioni moderne.
Esistevano indubbiamente grandi disparità nel pubblico. Accanto ai notabili ormai conquistati alla cultura
moderna, c’erano le corporazioni che, preoccupate di
mettersi in mostra, attraverso le loro fondazioni devote, nei santuari e nelle confraternite assai numerose e
attive, erano in genere piú legate alla tradizione51. Questa diversità spiega in parte lo sviluppo contrastato dell’arte fiorentina. Un’acuta analisi del «clima» della città
ci è fornita dal Vasari all’inizio della Vita del Perugino.
Chiedendo questi consiglio al suo vecchio maestro di
Perugia, intorno al 1470-75, gli fu risposto che i migliori talenti si sviluppavano a Firenze per tre ragioni: l’abito della critica che mantiene una atmosfera di viva
emulazione, la rivalità dovuta al fatto che la Toscana
non è un paese abbastanza grande per tanti artisti, infine il senso della gloria e della dignità personali, che
spinge i maestri ad elevarsi attraverso la cultura e lo
stile52. Gli artisti fanno valere in seguito nelle contrattazioni ciò che hanno imparato, come i chierici il prestigio dello «studio» che hanno frequentato.
Nessun’altra città nel Quattrocento attribuiva in
realtà un’analoga funzione alla critica e alla discussione.
Storia dell’arte Einaudi
317
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
I novellieri ci hanno conservato una gran quantità di
aneddoti che forse esagerano l’originalità e l’agilità,
intellettuale dei toscani a scapito delle altre province.
Tuttavia il brio dei cronisti e la stessa precocità della storia dell’arte presuppongono una situazione evoluta e ci
confermano una maturità che non si traduce solo in battute di spirito, ma anche in iniziative dei maestri e posizioni critiche. È questa vivacità un po’ acerba, questo
nervosismo un po’ aspro che si deve riconoscere come
essenziale della fine del Quattrocento. Senza parlare
dei concorsi pubblici in cui si affrontavano i gusti e gli
stili, la storia fiorentina è piena di conflitti artistici e di
discussioni personali nelle quali si affinava il modo di
giudicare. La rivalità tra il Brunelleschi e il Ghiberti
ebbe un seguito assai serio, se portò quest’ultimo a formulare una vera e propria dottrina scientifica e storica53.
La maniera di Donatello continuò a provocare reazioni
ostili di cui l’artista stesso sapeva trarre spiritosamente
partito. Quando nel 1454 si decidette a lasciare Padova per Firenze allegò come causa della sua decisione
l’atmosfera, piena d’ammirazione per lui, della città settentrionale, che non gli forniva stimoli, mentre invece
si sentiva assai piú stimolato dalle critiche incessanti che
gli erano rivolte nella sua città54. Questi rapporti di rivalità non sono meno vivi all’epoca del Magnifico e i giudizi penetranti non mancano intorno al 1500. Il disprezzo con cui Leonardo ha trattato i suoi contemporanei
riconoscendo due soli maestri come degni d’interesse,
Giotto e Masaccio; la durezza di Michelangelo verso stili
giudicati deboli, come quello del Perugino, o fenomeni
artistici privi di adeguato respiro intellettuale, come la
pittura fiamminga, attestano una decisione e una severità tipicamente toscane. Si comprende cosí meglio come
la riflessione sull’arte sia stata, nei maestri fiorentini, piú
esigente e penetrante che altrove55.
Storia dell’arte Einaudi
318
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
w. paatz, Werden und wesen der Trecento-Architektur in Toskana,
Burg-am-Main 1937, pp. 76 e 95. Sul precoce sviluppo della «storiografia» fiorentina: e. fueter, Geschichte der neweren Historiographie,
München 1911.
2
Sulla rivalità Firenze-Milano agli inizi del secolo e le sue conseguenze per il «nazionalismo» fiorentino: h. baron, The crisis of the early
italian Renaissance, Princeton 1955.
3
La tribuna circolare della SS. Annunziata solleva per la sua forma
e la sua pianta insolita un piccolo problema nella storia monumentale
della città. Michelozzo aveva cominciato a ricostruire la chiesa nel 1444
sotto il patronato di Cosimo; la pianta fu modificata verso il 1455, una
cappella assiale circolare, che può ricordare prototipi greci e paleocristiani, fu progettata e costruita sotto la direzione di A. Manetti e
seguendo direttive dell’Alberti, mentre il patronato della chiesa era nel
frattempo passato a Ludovico Gonzaga, che teneva a questa fondazione: w. paatz, Kirchen cit., I, pp. 62-196, e s. lang, The programme of
the SS. Annunziata in Florence, in «jwci», xvii (1954), pp. 43 sgg. Il
Mantegna, pittore e consigliere di Ludovico a partire dal 1459, visitò
Firenze nel 1466 (p. o. kristeller, Andrea Mantegna, Berlin 1902, p.
218). Si deve mettere tale visita in rapporto con la decisione dell’Alberti (anch’egli legato al signore di Mantova) di occuparsi attivamente dei lavori nel 1470?
4
a. chastel, La mosäique à Venise ecc. cit., e sopra.
5
j. wilde, The hall of the great Council in Florence, in «jwci», vii
(1944).
6
vasari, Vita di Jacopo Sansovino (il concorso del 1514 e il ritorno
ai progetti medicei); c. de tolnay, Michel-Ange et la façade de San
Lorenzo, in «Gazette des Beaux-Arts», gennaio 1932; cfr. anche:
«Zeitschrift für Kunstgeschichte», 1936, p. 347.
7
Illuminated Books of the Middle Ages and Renaissance, Baltimore
1949, n. 193; cfr. a. chastel, Un épisode de la symbolique urbaine au
XVe siècle: Florence et Rome, cités de Dieu, in «Urbanisme et architecture», Paris 1954, pp. 74-79. I fiorentini insistevano soprattutto sull’aspetto nobile e sulla pulizia della città, considerata quest’ultima cosa
eccezionale. Cosí leonardo bruni, Dialogi ad Petrum Histrum, II: In
magnificenza Firenze supera forse tutte le città oggi esistenti, ma in pulizia supera tutte quelle che mai siano esistite, dato che né Roma, né
Atene, né Siracusa sono state, penso, cosí pulite e ben tenute: citato con
altri testi analoghi da l. thorndike, A History of magic and experimental Science, vol. V (The Fifteenth Century), New York 1941, cap. II.
8
h. janitschek, Kunstgeschichtliche Notizen aus dem Diarium des
Landucci, in «Repertorium für Kunstwissenschaft», iii (1880), pp.
377-86: il buon Landucci arrivò a elaborare lui stesso un progetto di
chiesa che sottopose al Cronaca nel 1505: Diario, pp. 272 e 296.
1
Storia dell’arte Einaudi
319
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
j. burckhardt, Die Kultur der Renaissance in Italien, parte V; r.
truffi, Giostre e cantori di giostre, Rocca San Casciano 1911.
10
g. soulier, Les influences orientales dans la peinture toscane, Paris
1924, pp. 304 sgg. (La fête turco-persane à Florence).
11
a. d’ancona, Origini del teatro italiano, vol. I, Torino 1891, pp.
228 sgg.
12
Tutti i trionfi carri mascherate o canti carnascialeschi andati per
Firenze dal tempo del Magnifico Lorenzo vecchio de’ Medici, ed. Lasca,
Firenze 1559; a. simioni, in «Studi di storia e di critica letteraria»
(Miscellanea F. Flamini), Pisa 1915, pp. 997 sgg. g. reese, Music in the
Renaissance, New York 1954, I, pp. 153-84.
13
Cfr. sopra, introduzione generale.
14
p. francastel, La fête mythologique au Quattrocento, in «Revue
d’esthétique», iv (1951), pp. 376-410.
15
s. colvin, A florentine picture chronicle by Maso Finiguerra, London 1898. S. Colvin aveva proposto di attribuire all’orafo Maso Finiguerra (1426-64) questa importante raccolta da lui datata intorno al
1460. P. O. Kristeller aveva avanzato riserve in una sua nota apparsa
nel «Repertorium für Kunstwissenschaft», 1899, p. 135; ma la messa
a punto di a. hind, Early italian engravings ecc. cit., è tornata ad insistere sull’importanza della posizione di Maso e sulla attendibilità dell’attribuzione, appoggiata ora da j. goldsmith phillips, Early florentine designers and engravers, Cambridge (Mass.) 1955. Si intende male
quindi perché E. Möller in un articolo postumo su Maso Finiguerra,
in «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», xix (1959), I, pp. 18589, rifiuti di legare il nome dell’orafo, gran disegnatore di cartoni e
modelli, alla «Cronaca illustrata», e proponga di datare questa al 147580 facendone dipendere le illustrazioni da incisioni che in realtà ne sono
derivazioni.
16
r. krautheimer, Lorenzo Ghiberti cit., pp. 353 sgg.
17
f. saxl, The classical inscription in Renaissance Art and Politics, in
«jwci», iv (1940-41).
18
Egli scriveva allora: Da settecento anni in qua nessuno in Italia
è stato in grado di comprendere il greco, eppure riconosciamo che ogni
sapere viene dalla Grecia: g. voigt, Wiederbelebung des classischen
Altertum, trad. fr., vol. I, Paris 1894, p. 222.
19
e. garin, La giovinezza di D. Acciaiuoli, in «Rinascimento», i
(1950), 1, pp. 66 sgg., ripreso in Medioevo e Rinascimento cit., e Influenze dell’Argiropulo, in Testi umanistici inediti sul «De Anima», Padova
1951, pp. 10-15.
20
e. garin, Ricerche sulle traduzioni di Platone nella prima metà del
sec. XV, in Medioevo e Rinascimento (Studi in onore di Bruno Nardi),
Firenze 1955.
21
e. garin, in L’Umanesimo italiano, Filosofia e vita civile nel Rina9
Storia dell’arte Einaudi
320
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
scimento, Bari 1952, e nei suoi numerosi scritti sull’argomento, considera l’umanesimo, fin dalle sue origini, intorno a Dante e al Petrarca,
come il movimento «filosofico» caratteristico del Rinascimento; i valori umani sono ricercati per l’appunto nei campi che sfuggono alla tradizione delle scuole, e raggiungono cosí un grado di precisione concreta
e di serietà, che è all’origine di una nuova epoca. p. o. kristeller, in
The Place of classical Humanism in Renaissance Thought, in «Journal of
the History of Ideas», iv (1943), e Humanism and Scholasticism in the
Italian Renaissance, in «Byzantion», xvii (1944-45), ripreso in Studies,
2 e 25 (e completato, da Philosophical movements of the Renaissance,
ibid., 3) ha proposto una definizione piú stretta dell’umanesimo, che
viene a contrapporlo alle correnti filosofiche. Egli insiste sulla categoria dei chierici, dei segretari, degli oratori, che sono professionalmente interessati alla conoscenza dei testi antichi e, attraverso questa, alla
filologia, alla storia, alla «dissertazione» morale ecc. Questa polemica
ha il vantaggio di finir per sottolineare in tutti i modi la posizione originale dell’ambiente fiorentino nell’ultimo terzo del xv secolo. Se si
ammette che l’umanesimo rappresenti praticamente tutto il «pensiero»
del Rinascimento, Ficino e Pico vengono in sostanza a costituire il
primo tentativo di assicurare alla filosofia implicita nel movimento la
sua struttura speculativa. Se si limita l’umanesimo all’orientamento professionale dei letterati, si deve però ammettere che i loro interessi sono
piú vasti, nei lavori del Landino, del Ficino, di Pico ecc. e che c’è stato
l’impegno di costituire a poco a poco una nuova enciclopedia. È d’altronde utile mantenere una certa distinzione tra gli interessi letterari
e quelli propriamente filosofici dell’epoca, e ne hanno sentito la necessità gli stessi umanisti di Careggi. In una lettera a Antonio da San
Miniato, il Ficino dichiara di voler abbandonare del tutto la retorica
per assumere il linguaggio serio del filosofo (citata da p. o. kristeller,
Studies, p. 573, n. 60); la Theologia platonica è un trattato a struttura
ancora scolastica. Ma lo stesso Ficino, per contro, impiega tutta la sua
energia a propugnare una «teologia poetica» e ricorre volentieri alle
immagini e alle forme poetiche. Il Poliziano, cosciente piú d’ogni altro
della distinzione dei due metodi, si convertí verso il 1490 alla pura filosofia (quella di Pico) in opposizione alle speculazioni confuse (quelle del
Ficino) che in passato gli erano bastate (e. garin, L’ambiente del Poliziano, ne Il Poliziano e il suo tempo, Firenze 1957), ma senza rimettere in questione la sua opera filologica e poetica. Pico infine, in una
famosa lettera a E. Barbaro, giustifica il rozzo linguaggio dei filosofi
scolastici in quanto non si tratta piú di eloquenza ma di verità (cfr. g.
breen, Giovanni Pico della Mirandola on the conflict of Philosophy and
Rhetoric, in «Journal of the History of Ideas», xiii [1952], pp. 384
sgg.). Si intende male il movimento se non si tiene conto delle difficoltà che questo conflitto di tendenze e questo oscillare dei pensatori
Storia dell’arte Einaudi
321
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
fiorentini mette a nudo (cfr. piú avanti, parte III, introduzione). Ma
questo fatto non indebolisce, se mai viene a confermare, l’interpretazione secondo cui il movimento fiorentino rappresenta il punto in cui
l’umanesimo tende a darsi, per la prima volta, una filosofia sul tipo di
quella scolastica, con un contenuto e ambizioni diverse: cfr. Marsile
Ficin et l’art cit., introduzione, I.
22
Nel Paradisus di Ugolino Verino, scritto poco prima del 1470, Platone ha la funzione di guida soprannaturale che aveva Virgilio nella Commedia: a. lazzari, Ugolino e Michele Verino, Torino 1897, pp. 66 sgg.
23
Apologia, ed. Garin, vol. I, p. 142.
24
e. garin, L’ambiente del Poliziano, ne Il Poliziano e il suo tempo,
Firenze 1957.
25
b. migliorini, Panorama dell’italiano quattrocentesco, in «Rassegna della letteratura italiana», 1955, 2, pp. 193-231.
26
m. santoro, Cristoforo Landino e il volgare, in «Giornale storico
della letteratura italiana», lxxi (1954), pp. 501-47.
27
g. fumagalli, Leonardo e Poliziano, ne Il Poliziano e il suo tempo
cit., pp. 131 sgg.
28
r. palmarocchi, Lettera di Lorenzo de’ Medici a Jacopo Guicciardini, in «Pegaso», maggio 1932, pp. 513 sgg.
29
Si devono dunque mettere in contrasto (pur senza troppo accentuare l’opposizione) questi diversi gruppi di spiriti. Il Ficino si adombrò del Morgante, dove il Pulci lo punzecchiava, ma il Pulci stesso ricorda, XXVIII, st. 145, la collaborazione amichevole del Poliziano. Cfr.
g. fumagalli, Leonardo e Poliziano cit., pp. 144 sgg. Si possono mettere in rapporto certe massime gaudenti del Ficino con le canzoni epicuree di Lorenzo: cfr. Marsile Ficin et l’art cit., p. 18, n. 21 ecc.
30
A partire dal secondo terzo del secolo in Firenze avevano anche
preso piede gli studi scientifici, di cui tuttavia i centri rimangono
Bologna e Padova. Con i matematici e i cosmografi, il piú insigne dei
quali fu Paolo del Pozzo Toscanelli (1397-1482), e certi medici come
Antonio Benivieni, l’ambiente fiorentino non è piú estraneo al movimento scientifico: cfr. Marsile Ficin et l’art cit., p. 13, e piú avanti,
pp. 214-15.
31
Florentia, in Operette Morali, poesie latine e volgari, ed. Saviotti,
Bari 1929, p. 108. Passo citato in e. garin, Il rinascimento italiano,
Milano 1941, pp. 370 sgg.: «Sunt et qui causas rerum mundique recessus | Explorent caelique vias atque abdita tentent | Inconcessa oculis
hominum, queis personat alto | Plurimus ore Platon et acutus mentis
alumnus | His adde innumeras artes quibus altus Apollo | Praesidet et
largo concedit munere Pallas | Feta bonis, quae longinquis de gentibus
usque | Vel spectanda homini et convectanda petuntur». Una lettera
del Collenuccio al Ficino (Opera, p. 913) suggerisce di porre nel 1490
la visita del poeta.
Storia dell’arte Einaudi
322
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Lettera del 13 settembre 1492, Ep. XI, Opera, p. 944 (trad.
Figliucci, II, p. 188); Marsile Ficin et l’art cit., p. 61.
33
Su questo punto capitale, ora solidamente acquisito, convergono
la tesi del rinnovamento letterario, sostenuta da p. o kristeller, e
ripresa recentemente in The classics and Renaissance Thought, Cambridge (Mass.) 1955, la tesi filosofica di e. garin, in Medioevo e Rinascimento cit., 14 (Interpretazioni del Rinascimento), e II, 2 (Discussioni
sulla retorica), e la nostra esposizione sul significato della «teologia poetica» a Firenze: Marsile Ficin et l’art cit., pp. 141 sgg.
34
r. p. oliver, Plato and Salutati, in «Transactions of the american
philological Association», lxxi (1940), pp. 315-34.
35
Marsile Ficin et l’art cit., I.
36
Opera, p. 659; Marsile Ficin et l’art cit., p. 42. Lo stesso orientamento si nota nell’abbozzo del trattato Homo (1490), che compendia
l’essenziale della dottrina; ibid., p. 52.
37
Cfr., in particolare, e. cassirer, Govanni Pico della Mirandola,
in «Journal of the History of the Ideas», iii (1942), 2, p. 137, e 3, p.
333, e Individuum und Kosmos in der Philosophie der Renaissance, Leipzig 1927; Marsile Ficin et l’art cit., p. 28.
38
Questi sviluppi sono studiati nella prima sezione di questa seconda parte: Il regno delle immagini.
39
Lettera a Antonio Canisiano, Opera, p. 651 (trad. Figliucci, I, p.
74 v); cfr. Marsile Ficin et l’art cit., p. 101. d. p. walker con Le chant
orphique de Marsile Ficin, in Musique et poésie au XVIe siècle, Paris 1954,
pp. 16-28, ha analizzato la «psicologia» della musica nel Ficino (soprattutto riferendosi al De triplici vita) in funzione della complessa nozione di spiritus.
40
Già per l’Alberti, anche se le «categorie» pittoriche sono analoghe a quelle poetiche, la pittura è paragonabile alla musica nei suoi
effetti sull’anima. Sulla «musica» e il controllo delle «passioni»: e. h.
gombrich, Icones Symbolicae, in «jwci», viii (1948). Cfr. anche d. p.
walker, Le chant orphique ecc. cit., e Spiritual and demonic magic,
London 1958, cap. I.
41
j. hutton, Some english poems in praise of music, in «English
Miscellany», ii (1951), p. 24: «È nell’ambiente del neoplatonismo ficiniano che per la prima volta troviamo questa stretta unione di sfere e
angeli introdotta nel contesto delle laudes musicae». Il Panepistemon
del Poliziano (1490-91) contiene una teoria analoga della musica: a.
bonaventura, Il Poliziano e la musica, «La Bibliofilia», lxiv (1942),
pp. 114-71.
42
e. lowinski, The concept of physical and musical space in the
Renaissance, in Papers of the American Musicological Society, 1941 (ma
pubblicato nel 1946).
43
Cfr. p.-h. michel, La pensée de L. B. Alberti cit., pp. 452 sgg.
32
Storia dell’arte Einaudi
323
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
leonardo, Trattato, ed. H. Ludwig, § 29. La formula «sventurata musica» ha dato luogo a un memorabile equivoco del Péladan, che
parla di «aventureuse musique», Traité de la peinture, Paris 1934, p. 43.
45
f. de hollanda, Da Pintura Antigua Tratado, s. 1., 1548 (trad. it.
Dialoghi michelangioleschi, a cura di A. M. Bessone Aurelj, Roma 1926,
p. 63); la stessa formula ritorna piú volte nei dialoghi.
46
È il gran tema del famoso saggio di w. pater, The school of Giorgione, in The Renaissance, London 1873. L’articolo di r. jullian, Peinture et musique à Venise, in «Arte veneta», viii (1954), riguarda la fine
del secolo xvi.
47
g. uzielli, Ricerche intorno a Leonardo da Vinci, serie V, Torino
1896, p. 586; e e. möller, Wie sah Leonardo aus?, in «Belvedere»,
1926, pp. 29 sgg. Sul simbolismo degli strumenti musicali nella pittura fiorentina: cfr. piú avanti.
48
Marsile Ficin et l’art cit., introduzione, I.
49
Verino allude certamente a Leonardo, Perugino e Lorenzo di
Credi. I tre artisti hanno strettamente collaborato ai lavori della bottega negli anni 1470-75: b. berenson, Verrocchio e Leonardo, Leonardo e Credi, in «Bollettino d’arte», xxvii (1933). La pratica di collaborazione sembra esser stata portata il piú avanti possibile. La Madonna
di Piazza di Pistoia, che spetta a Lorenzo di Credi su disegno del Verrocchio, presentava probabilmente nella predella la tavoletta con La
nascita di San Giovanni (Liverpool), che si attribuisce al Perugino, la
tavoletta dell’Annunciazione del Louvre di Leonardo giovane e Lorenzo di Credi, infine quella con San Donato (Worcester): w. valentiner,
Studies of Italian Renaissance sculpture, London 1950, pp. 140 e 141.
Un certo numero di Madonne di notevole qualità, come quella di Londra (National Gallery), sembrano presupporre l’intervento del Perugino. Sulla funzione di quest’ultimo e la formazione del gruppo umbro
in questo stesso periodo cfr. piú avanti. Fra gli scultori della cerchia
del Verrocchio il Vasari ricorda: Francesco di Simone Ferrucci, Agnolo di Polo, G. F. Rustici e Nanni Grosso, di cui per altro nulla si conosce, «persona molto astratta nell’arte e nel vivere», che non poteva confessarsi in extremis davanti a un crocifisso mal scolpito.
50
Questa funzione del Verrocchio è stata intesa soprattutto da j.
thiis, Leonardo da Vinci, the florentine years of Leonardo and Verrocchio,
trad. ingl., London s. d. (1911).
51
m. wackernagel, pp. 301 sgg.; sulle confraternite fiorentine cfr.
piú avanti.
52
vasari, ed. Milanesi, III, p. 567. La conclusione dell’esposizione fornisce una spiegazione interessante della continua dispersione
delle botteghe fiorentine: cfr. sopra, introduzione generale.
53
r. krautheimer, Lorenzo Ghiberti cit., capp. XVII, XIX, XX.
54
vasari, ed. Milanesi, II, p. 413. Un esempio di queste critiche
44
Storia dell’arte Einaudi
324
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
sarà citato piú avanti, sezione II. In compenso Donatello è messo in
scena intorno al 1470 in una sacra rappresentazione: h. semper, Donatello, seine Zeit und seine Schule, Wien 1875, pp. 321-22.
55
Questi sviluppi verranno esaminati nella sezione II: L’esigenza
della bellezza.
Storia dell’arte Einaudi
325
Sezione prima il regno delle immagini
Introduzione
Il profano e il sacro
Si può e si deve indicare la caratteristica fondamentale della cultura fiorentina del Quattrocento nel secolarizzarsi dei suoi interessi. Tuttavia essa non era affatto «paganizzante», nel senso che non mirava affatto a
minare l’autorità della Chiesa e a combattere i principî
della vita cristiana. Si è potuto crederlo nel secolo scorso, ma questa interpretazione ormai non può piú essere
difesa dopo che sono state accuratamente indagate le
preoccupazioni religiose degli umanisti e dei letterati.
Nell’ultimo terzo del Quattrocento la maggior parte
degli intellettuali fiorentini si ritrovano in associazioni
devote, in confraternite, come quella dei Magi, o quella di Sant’Antonio da Padova. Essi vi tengono orationes
nelle quali espongono le loro dotte dottrine, i grandi
temi dell’ermetismo e del platonismo ridotti in forma
volgare ad uso dei confratelli; e questi temi sono messi
in rapporto con i problemi morali del momento che sono
sempre quelli della renovatio e della salvezza della Chiesa1. Questo problema era allora piú grave e nello stesso
tempo piú semplice di quello di una emancipazione spirituale al di fuori del mondo cristiano. Si insisteva sulla
forza e sull’originalità dell’uomo; ma con altrettanto
vigore si insisteva sulla necessità di riformare l’ordine
attuale, sul piano della dottrina come su quello della vita
morale. Le due idee erano inseparabili. Dal loro incontro sorgeva una situazione del tutto nuova e questo per-
Storia dell’arte Einaudi
326
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
mette di capire perché continuamente si annunciasse
l’avvento di tempi nuovi. Solo in questa prospettiva si
possono chiarire le conquiste, le illusioni, le sofferenze
che a poco a poco hanno creato la civiltà moderna2.
All’inizio del Quattrocento gli umanisti cresciuti alla
scuola del Salutati e quelli della generazione di Niccolò
Niccoli avevano elaborato una concezione robusta dell’uomo in funzione della vita civica. Definendo un’etica di tipo «stoico», erano arrivati a una distinzione
netta tra la vita profana, che si esercita nelle attività
mondane, nella politica repubblicana, nel lavoro scientifico ecc. e la vita religiosa regolata dalla Chiesa e dalle
sue tradizioni3. Ma queste ultime presentano una varietà
sterminata: e lo studio dei testi lo rende sempre piú evidente e fornisce armi agli spiriti preoccupati di ampliare l’orizzonte intellettuale. Vediamo moltiplicarsi i riferimenti imprevisti nelle rappresentazioni dell’arte sacra.
Quando Leonardo Bruni elabora il programma della
seconda porta del Battistero (1424) a richiesta degli
«uffiziali di mosaico», afferma che le storie devono essere «illustri» e «significanti», cioè belle e ben scelte, ma
si attiene a dati banali. Il suo piano, criticato dal Niccoli, non sarà seguito alla lettera e, dopo l’intervento di
Ambrogio Traversari, la maggior parte delle formelle, in
particolare quelle di Noè, di Giuseppe e di Salomone,
avranno numerosi particolari eruditi, tratti da fonti poco
note4. La disciplina aveva cominciato ad allentarsi nel
complesso iconografico del Campanile. Andrea Pisano,
intorno al 1340, aveva previsto un ciclo completo di
riquadri che avrebbero costituito una vera e propria
enciclopedia della natura e del sapere; però cinque sul
lato nord non erano stati eseguiti5. Allorché si volle
completare l’insieme monumentale, Luca della Robbia
fu incaricato di completare questa fila di esagoni, che era
quella delle «arti liberali» (circa 1437-39). La Grammatica e il gruppo che rappresentava la Dialettica erano già
Storia dell’arte Einaudi
327
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
in opera. Luca scolpí un Orfeo, due «sofisti» in turbante per l’aritmetica e Tubalcain che rappresentava la
musica. L’immagine di Orfeo rientra male nella serie tradizionale. È delicata, un po’ affettata, il cantore-musico, avvolto in un grande mantello, suona la viola ai
piedi di una sorta d’albero; leoni, colombe e anitre vi si
affollano intorno. Non si tratta qui della musica strumentale rappresentata da Tubalcain che ascolta il suono
dei magli; si deve pensare alla «musica superiore», cioè
il principio ideale della vita dello spirito6. Il medaglione
dei «Matematici» non è meno curioso. Su un fondo
neutro spiccano le forme animate di due «saggi» barbuti
in turbante e tunica ricamata7. Questo tipo esotico si
ritroverà qualche anno dopo nel Salomone del Ghiberti
nella porta del Paradiso. Il Vasari loderà «la pulitezza,
grazia e disegno» dei medaglioni di Luca della Robbia
credendo di riconoscervi «Platone e Aristotele per la
Filosofia» e «uno che suona un liuto per la musica»8.
All’epoca del Concilio per la riunione delle chiese assistiamo al delinearsi di un nuovo repertorio di simboli.
La sorveglianza dei teologi continuava ad esercitarsi contro le immagini sospette di eresia. Nella sua
Summa (1477) sant’Antonino, arcivescovo di Firenze,
denuncia l’immagine della Trinità raffigurata mediante
una testa a tre volti, quod mostrum est in natura: Donatello aveva collocato questo signum triciput nel timpano
della nicchia della Parte Guelfa a Or San Michele, Filippo Lippi nella sua Visione di sant’Agostino nella predella della pala Barbadori (1438); il Pollaiolo lo riprenderà
nell’allegoria della Teologia nella tomba di Sisto IV. I critici ufficiali non arrivarono ad eliminare questo simbolo che forse trovava seguito per la sua stranezza9. La
vicenda del «quadro eretico» di cui parla il Vasari nella
Vita di Botticelli ha un’importanza relativa: si tratta di
una tavola, oggi attribuita a Botticini e datata circa
1475, che sarebbe stata coperta per ordine dell’autorità
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
ecclesiastica nella cappella Palmieri a San Pier Maggiore, perché conteneva una rappresentazione eterodossa
dei cori celesti, essendo stati dei santi terrestri introdotti
fra le gerarchie angeliche. La Città di Vita, opera del
committente del quadro, contiene in realtà una lunga
esposizione derivata da Origene sull’origine delle anime:
secondo lui, le anime non sono che angeli rimasti neutri al momento della rivolta di Lucifero. Il quadro sembra illustrare questa dottrina attraverso l’inserimento di
figure umane nella gerarchia angelica. Nulla conferma
che sia stato emesso un vero e proprio veto a proposito
del quadro; ma la leggenda ha potuto nascere per il
discredito che per qualche anno, tra il 1485 e il 90 fu
gettato sull’opera del Palmieri da censori diffidenti10.
Non meno significativa è la novità, che si nota negli stessi anni, per quanto riguarda la forma dell’arca di Noè.
Secondo una tradizione, derivata per l’appunto da Origene, si trattava di una piramide e questo per ragioni di
simbologia universale, che erano invece respinte da Ugo
di San Vittore e da numerosi dottori medievali. Questa
«piramide» è stata improvvisamente raffigurata a Firenze, negli anni 1440-50, dal Ghiberti nella seconda porta
del Battistero e da Paolo Uccello nel Chiostro Verde11.
Abbiamo qui una piccola manifestazione di indipendenza erudita che conferma il prestigio di cui godevano
le fonti rare. Inoltre, come già abbiamo accennato, intorno al 1460 assistiamo ad una invasione silenziosa di
motivi «pagani», soprattutto di quei motivi che si potevano investire di un valore religioso e mistico, come
l’immagine del «carro dell’anima». Ma è un fenomeno
che ha sviluppi ben maggiori.
Assecondato da un interesse, che si rivela perfino
nelle feste, per tutte le forme esotiche, veniva diffondendosi a Firenze la curiosità per gli aspetti meno conosciuti del paganesimo. Quando nel 1487 il Ficino pronuncerà a Santa Maria degli Angeli una predica sul tema
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Philosophia platonica tamquam sacra legenda est in sacris,
egli mirerà, tra l’altro, a giustificare il fatto che si illustrassero i dogmi cristiani attraverso i miti e le credenze antiche12. Il Salutati già prima aveva potuto usare
come un exemplum morale il racconto della serena morte
del mitico Trismegisto. Si trattava ora di considerare,
come faceva già nel 1475 Pier Filippo Pandolfini nel suo
Protesto, Ermete come un vero e proprio elemento tratto dalle Scritture13. Perché Ermete? La theologia platonica rappresentava l’ultimo sviluppo di quelle che erano
considerate come le dottrine primitive dell’umanità: la
prisca theologia, quella di Ermete, di cui il Ficino aveva
tradotto il Pimandro già nel 1471 e quella di Orfeo di
cui teneva inedita la traduzione14. Essa rappresentava
una sorta di «rivelazione» parallela, grazie alla quale
l’uomo pagano era anch’egli giunto alla dottrina dell’immortalità, nonché alla concezione «magica» della
natura. Da Ermete e Zoroastro, a Orfeo, a Pitagora e a
Platone si sarebbe avuto uno svolgimento continuo. La
congiunzione di questa tradizione «ermetica» col cristianesimo rappresentava la chiave dalla storia universale15. Il Ficino, che già nel 1472 aveva tradotto l’inno
all’universo, si serví in continuità delle fonti «orfiche»;
nella sua opera le menzioni di queste sono piú numerose di quelle dell’opera di Platone. Egli non pubblicò
questi grandi testi della Scrittura pagana per timore che,
essendo fraintesi, non riportassero certi spiriti «ad priscum Deorum daemonumque cultum iamdiu merito
reprobatum»16. Questa precauzione indusse il suo biografo a supporre che l’autore della Theologia platonica
avesse in gioventú attraversato una crisi morale provocata da queste scoperte e miracolosamente superata.
Questa fantasia non è che la trasposizione del fatto che
tutto il pensiero del Ficino, come quello di Pico e, su un
altro piano, quello del Poliziano, si muove in un’assidua
esplorazione dei testi «mistici» del mondo antico. Non
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
si trattava di preziosismo erudito, ma di un’esigenza
intellettuale; ed è questa sfumatura che distingue il
modo di affrontare la vita antica proprio dei fiorentini,
da quello delle province settentrionali, nelle quali lo
studio delle letterature pagane non ha carattere teologico ma letterario e storico17. La curiosità dei fiorentini si
estendeva anche ai riti, alle preghiere, alle forme liturgiche, tutti elementi tramandati da Giamblico e Apuleio, dato che la diversità delle religioni contribuisce
mirabilmente all’ornamento dell’Universo. È interessante conoscerli bene e il Ficino si rivela all’occasione
ben attento a ristabilire, sulla base dei testi, l’immagine «corretta» degli dei antichi con i loro attributi. In
una lettera del 1492 egli fa seguire alle sue citazioni da
Orfeo un estratto di Porfirio sulla statua ideale di
Giove18. L’attenzione a queste fonti «segrete» è una
delle forme d’evasione verso il mitico e l’esotico che si
manifestano dovunque a Firenze a quest’epoca. Esse
però forniscono un’articolazione fondamentale al pensiero filosofico: l’ermetismo contribuisce in modo diretto a fondare la dottrina della «divinità» dell’uomo, l’orfismo a creare un nuovo simbolismo. Uno dei vertici
della Theologia platonica si ha allorché il Ficino richiama l’esclamazione ammirativa di Zoroastro: «O homo
naturae audentissimae artificium», e Pico, all’inizio della
Oratio, richiama la parola di Asclepio: «Magnum miraculum est homo»19. Agli inizi del secolo Giannozzo
Manetti aveva scritto in risposta al cupo De contemptu
mundi di Innocenzo III, il suo trattatello De dignitate et
excellentia hominis, che difende l’umanità allegando,
sulla scia di Lattanzio, la parola di Ermete e invocando
la testimonianza delle opere dell’arte umana, dalle piramidi alla cupola fiorentina. Si tratta di una concezione
ancora ingenua; ma, nel grosso trattato del Ficino del
1482 e nella Apologia di Pico del 1486, questa viene
ripresa con una vivacità e una cultura filosofica che rin-
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novano l’orizzonte del pensiero occidentale20. Dichiarando che la nostra anima tende a diventare tutte le
cose, come Dio è tutte le cose, Ficino conferisce alla
formula ermetica un contenuto nuovo e pressante. Egli
la completa attraverso uno slancio di adorazione esaltata che rappresenta la parola ultima della sua fede: lo
spirito umano raggiunge Dio tutti i giorni: grazie ad
esso il cuore arde, il petto lo respira, la lingua lo celebra: teste, mani e ginocchia lo adorano, le creazioni dell’uomo lo celebrano. Questa certezza è per il Ficino il
beneficio recato, a coloro che sanno intenderla, dalla
teologia orfica21.
La riflessione, cosí orientata, ricerca di preferenza i
punti in cui le credenze dell’umanità antica e quelle
attuali coincidono. La maggior parte dei temi filosofici
e poetici del neoplatonismo fiorentino si può raccogliere lungo una linea continua d’intersezione tra i due
mondi storici. La Trinità viene dimostrata richiamando
un’affermazione dei magi che ammettono tre principî
universali, Oromasis, Mitris, Arimanis, id est Deus, Mens,
Anima; affermando che ogni filosofo che si ispira a Platone considera tre aspetti in tutte le cose, si troverà un
principio universale della natura e della vita morale, di
cui si potranno a piacere illustrare tutti gli aspetti attraverso il girotondo delle Grazie22. È seguendo questa
doppia linea che il Ficino e Pico hanno l’impressione di
abbracciare entrambi i versanti della storia e la totalità
dello spirito umano. Ciò che sembra sovversivo e conturbante nelle presenze del mondo antico è una verità
velata. Occorre saperla svelare superando le frontiere
dell’ortodossia ingenua. Cosí le opere poetiche e i miti
del paganesimo devono essere considerati con occhio
nuovo. Il Landino nella sua introduzione alla Commedia scriveva esser verosimile che Dante si fosse proposto lo stesso fine che Omero presso i greci e Virgilio
presso i latini. Non si tratta, beninteso, dell’analogia let-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
teraria che corre tra le grandi epopee, ma di una analogia di natura e funzione, di uno stesso fondo poetico e
dottrinale. Si chiamerà platonismo la scienza comune ai
tre poemi, in quanto somma motivi dottrinari23. Gli ultimi due libri delle Disputationes Camaldulenses cercheranno di individuare questo sistema di immagini e di
simboli universali a partire dall’Eneide.
Ogni grande testo poetico deve essere esaminato
come la Scrittura, cioè come un documento allegorico
con parecchi significati. Tuttavia il modo tradizionale
della scolastica di glossare i testi è artificiale. Oltre al
«senso naturale» cioè la narrazione continua, non c’è
che un significato utile da ricavare: tutti i significati
secondari sono solidali fra di loro «e li chiameremo tutti
insieme allegorici». Si trattava anche qui di una riforma audace dei canoni interpretativi. Pico arriva addirittura piú lontano ancora. L’esperienza tentata nello
Heptaplus, in cui riprende il commento alla Genesi «in
un ordine di esposizione continuo e senza confusioni»
lo porta ad una scoperta sorprendente: la corrispondenza tra i gradi del reale è cosí completa e sicura che «legati da vincoli di concordia, tutti questi mondi si scambiano con reciproca liberalità come le nature cosí anche
le denominazioni. Da tal principio, se v’è ancora qualcuno che non l’ha compreso, è derivata ogni disciplina
dell’interpretazione allegorica». In altre parole non si ha
piú, nei casi privilegiati, allegoria in senso proprio: non
ci sono che simboli fondati sulla corrispondenza dei
piani dell’essere, come quelli del fuoco, del sole, dei
serafini, dell’amore24.
L’umanesimo fiorentino giustificava cosí una tendenza che si era fatta sempre piú generale da Dante in
poi. L’enorme massa delle immagini e dei miti pagani
poteva essere vantaggiosamente introdotta nell’economia dell’arte e della poesia cristiana. Si toccava cosí un
punto estremo facendo della mitologia non solo una
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
metafora della vita morale, ma anche una simbologia
continua della vita universale, e infine, attraverso i suoi
interpreti orfici, un’anticipazione quasi soddisfacente
della verità cristiana. Questo atteggiamento giustifica la
mania delle immagini pagane che si impone in tutta la
cultura. L’influenza dell’ambiente di Careggi si nota
nella consuetudine di interpretare le immagini in un
senso filosofico25. Ma non si tratta che di uno degli
aspetti della straordinaria confusione di profano e sacro,
che si verifica a Firenze, a partire dal 1470-80, in due
maniere: attraverso l’introduzione di forme antiche nelle
tombe, nei pulpiti, nei pavimenti, nelle miniature, in
tutte le opere a destinazione religiosa; e per contro nella
estensione alle immagini profane di una sorta di «devozione» e di una carica «simbolica» che si intende bene
solo nell’arte sacra. Questi sviluppi non trovavano consensi unanimi e finiranno per provocare la reazione violenta del Savonarola e dei piagnoni alla fine del secolo.
Questa crisi, e le sue propaggini nel Cinquecento, permettono di cogliere meglio l’audacia dell’arte umanistica. Sono le sue imprudenze in fatto di dottrina a costituire l’interesse dell’ambiente di Careggi26.
Il dogma chiave del neoplatonismo è l’immortalità e
l’universalità dell’anima. La «teologia» pagana anticipa
tale dogma; il pensiero cristiano lo sviluppa e lo porta a
compimento: dunque le due dottrine devono incontrarsi; ma nella rappresentazione del destino umano ne viene
un’ambiguità costante tra realtà sovrannaturali e interiorità dell’anima. Quando il Ficino nella sua introduzione alla traduzione del De monarchia (1468) distingue
il regno dei beati «reintegrati nella Città di Vita», quello dei dannati «che ne sono privati per sempre» e quello dei peregrini che si trovano sia nell’altra vita (le anime
che si purificano nel Purgatorio), sia in questa stessa
vita, l’opposizione tra Cielo e Inferno ha meno importanza che gli «stati» dell’anima. L’Inferno non può esse-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
re concepito, al modo platonico, se non come il regno
della materia, mondo della pesantezza e forza negativa
in cui l’anima è come insabbiata. L’Ade è dunque,
secondo un’analisi spregiudicata della Theologia platonica, l’incubo dell’anima impura e «phantasticae rationis imperium in homine impio»; i mostri del mito esprimono l’orribile realtà delle passioni e la loro fatalità;
ognuno dei fiumi infernali e ogni regione dell’Inferno
rappresentano, in rapporto con gli elementi, una delle
radici dell’attaccamento peccaminoso al mondo dei
sensi27. Si potrà ugualmente confondere il Paradiso terrestre con i Campi Elisi del mito; il soggiorno dei beati
e il mondo superiore delle «idee», cielo platonico al
quale l’anima giunge nell’esercizio assoluto delle sue
facoltà. Questo stato di perfezione si può raggiungere
già in questa vita. L’anima che già su questa terra può
rendersi signora e governatrice degli uomini, al di sopra
del cielo, uguale agli angeli, simile a Dio, sarà nell’aldilà,
press’a poco come lo si può sperimentare ogni giorno al
vertice della contemplazione. La deificatio dell’anima è
affermata con troppa energia perché non ne risulti indebolita la nozione di trascendenza28.
Il grado intermedio del reale è quello in cui l’anima
lotta, si espone e si purifica. Anche qui la lotta sovrannaturale del demone e di Dio, del Bene e del Male ha
meno importanza del conflitto interiore fra gli elementi inferiori dell’anima schiavi della pesantezza, del
corpo, del determinismo della natura, e quelli della
regione superiore dove si esercitano la Ratio e la Mens29.
Capaci di dominare e superare la natura, queste due
facoltà intervengono nel campo della vita attiva, per
regolare secondo il principio della justitia, e nel campo
della contemplazione che ubbidisce alla religio. Questi
due principî sono «le due ali dell’anima», di cui si parla
nella Scrittura (Mosè, san Paolo), sono l’analogia cosmica (Giove, Saturno) e l’analogia dei simboli antichi (Pro-
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
meteo, Ganimede). Sono queste le idee che sembrano
meglio adatte a definire l’ordine del mondo e il destino
dell’anima. Esse si presentano come un nuovo modo di
comprendere e di esporre il pensiero cristiano, dato che
la stessa verità era stata affermata dagli antichi e dai
moderni. La novità consisteva nell’accento posto sull’attività dell’anima, solidale con tutti i gradi del mondo
e nel moltiplicarsi delle analogie poetiche che rendono
sensibili tutte le sue tappe: la vita umana appare cosí
ampliata e drammatizzata. Nessun’altra dottrina poteva apparire piú completa agli occhi di un moderno e piú
assimilabile dall’artista: è la «sintesi» che verrà sviluppata nella volta della Sistina e nella tomba di Giulio II30.
Essa implicava in modo sempre piú urgente una rielaborazione dell’iconografia le cui conseguenze appariranno tutte quante nelle «iconologie» dotte della metà
del Cinquecento31.
Era in realtà impossibile comprendere tutte queste
esigenze in un sistema filosofico unitario. Il mito da
lungo tempo aveva un suo posto nella cultura grazie ai
poeti e ai compendi dei mitografi, ma con una destinazione diversa. Per i primi umanisti, ad esempio il Boccaccio od il Salutati, le storie di Orfeo o di Ercole erano
da intendere come dei bei sogni, degni di nota per la loro
qualità poetica, il carattere inatteso dell’invenzione e la
loro possibilità di rappresentare la realtà della esperienza: «Potius Physiologia aut ethologia quam theologia»32.
Questo modo di affrontare il mito veniva ad accentuare il suo valore di invenzione anziché quello di simbolo; era un modo piú letterario che filosofico. Offriva cioè
una serie di immagini pittoresche nello stesso tempo
che un sistema di simboli necessari per la crescita e l’articolazione delle conoscenze. Meno ambizioso sul piano
speculativo, questo modo di vedere poteva svilupparsi
in riflessione storica e filologica piú precisa, per definire l’intenzione dei poeti nel quadro della loro epoca e
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
della loro cultura. È l’orientamento seguito dal Poliziano. Intorno al 1474-75 egli si occupa di un libellus di un
grammatico bizantino dedicato ai primi cinque canti
dell’Iliade. Egli ne completa le osservazioni filologiche
valendosi del commento di Proclo al Timeo, che gli permette di indugiare sulla descrizione classica della corte
di Giove nella serena beatitudine dell’Olimpo33. Siamo
di fronte a un doppio processo che presenta il massimo
interesse: il testo viene attentamente interrogato e
riscontrato; da esso non viene tratta una verità teologica, come avrebbero fatto il Ficino o Pico, ma un quadro poetico della pienezza e bellezza del mondo. La
poesia antica introduceva direttamente in questo quadro, descrivendo di continuo il mondo, cieli pieni di
energie attive simboleggiate dalle divinità del mito: e la
natura voluttuosa dell’isola di Venere nelle Stanze. Successione coerente di immagini chiare, questa descrizione costituisce un repertorio per gli artisti ai quali direttamente si rivolge.
Non c’era altra possibilità per muoversi sul terreno
delle emozioni fisiche e dei sentimenti naturali e per renderne possibile la rappresentazione. Il linguaggio delle
«passioni» può dispiegarsi tanto meglio attraverso le
storie di Orfeo o di Ercole in quanto queste storie vengono riprese alla fonte rifiutando i compendi e le compilazioni scolastiche.
Cosí l’Antichità, in quanto religione, arte e cultura,
comincia ad essere intesa come qualcosa di globale, un
insieme organico che l’immaginazione può cogliere. Si
comincia a concepire la «distanza storica». Ma nel concepire la forma originale di questa cultura remota si è
portati a definire l’aspetto e i problemi specifici del
mondo umano. L’uomo d’oggi si definisce attraverso
quello di ieri nel suo rapporto con le due sfere di cui è
il tratto di congiunzione, il centro: la natura e la storia.
È a Ferrara che, in uno stile di una precisione sor-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
prendente, viene raffigurato dai decoratori del palazzo
di Schifanoia l’ordine astrologico della vita umana; ma
solo a Firenze si trova un’allegoria poetica della natura
in forma di invocazione a Pan. A Venezia verrà pubblicato, con il Sogno di Polifilo, il romanzo allegorico audacemente consacrato a tutti gli aspetti dell’amore, ma solo
a Firenze è dato incontrare la Venere casta e grave del
Botticelli. L’intellettualismo fiorentino ha le sue angustie e la sua freddezza34. La natura è il «cosmo»; nella
molteplicità dei fenomeni si deve cogliere il principio
che assicuri la coerenza, l’unità «vivente» che può assicurare la circolazione delle energie dagli astri ai minerali, in una sorta di gigantesco giuoco di specchi. È stato
necessario al Quattrocento uno sforzo spirituale fuor del
comune per trarre questa visione dell’ordine naturale
fuori dalla sfera del demoniaco e dell’illecito dove era
ineluttabilmente confinata. L’ambiente fiorentino vi è
riuscito grazie all’idealismo matematico e al gusto della
rappresentazione concreta dei dati celesti o terrestri,
ma anche grazie all’idea di una natura-organismo accessibile attraverso fenomeni compresi sotto il nome di
«realtà magiche», di cui il Ficino espone la portata nel
suo De vita triplici35. Nonostante questa insistenza sulla
struttura matematica e la coerenza funzionale dell’universo visibile, i neoplatonici erano ben lungi dall’intravvedere, o anche semplicemente dal preannunciare,
la scienza di Galileo e di Cartesio. Il Ficino e i suoi allievi, compongono, basandosi su alcuni rapporti privilegiati, una rete di simboli che non arrivano a creare una
organizzazione chiara del mondo dell’esperienza. Il loro
modo di procedere è esattamente l’opposto di quello
delle menti (la piú eloquente e piú ferma delle quali è
quella di Leonardo) che si attengono alla rappresentazione particolareggiata dei meccanismi naturali. Ma la
definizione del mondo visibile è la stessa. Fra la sintesi
a priori degli uni e le innumerevoli analisi particolari del-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
l’altro non esistono quelle nozioni intermedie, quelle
strutture interpretative e classificatorie che costituiscono per l’appunto la «scienza». Sotto il contrasto dei
punti di vista, troviamo un interesse ugualmente vivo
per gli aspetti «meravigliosi» dell’universo e per la sua
definizione «estetica», cioè come un tutto armonioso. È
questa concezione della natura che porta ad una valorizzazione piena dell’attività dell’artista. Il Ficino deriva dagli scritti ermetici l’idea che le tecniche dimostrano il dominio dell’uomo sulla natura, di cui egli è lo specchio e la conclusione36. Leonardo non si esprimerà in
modo diverso; ma questo privilegio dell’artista, che per
l’umanista è il punto di partenza di una nuova antropologia, per Leonardo rappresenta il coronamento del sapere. La stessa intuizione può condurre a conclusioni opposte: anche in questo la fine del secolo vedrà definirsi le
posizioni.
Si arriverà a divergenze analoghe per quanto riguarda la visione dell’uomo nella storia. L’idea di cercare
negli avvenimenti del passato, nelle credenze e nelle
istituzioni, l’immagine vera dell’uomo si impone a tutti
gli spiriti partecipi della nuova cultura. La Bibbia e la
storia antica, soprattutto quest’ultima, mettono a disposizione un repertorio indispensabile di atteggiamenti e
problemi. Donde il nuovo interesse per la conoscenza
esatta e il commento dei testi, per l’esame attento dei
monumenti. La superiorità della cultura italiana si deve
in buona parte a questa convinzione. Tuttavia essa può
essere utilizzata secondo due prospettive diverse: quella della «virtú» e quella della contemplazione. Il primo
umanesimo fiorentino, quello del Salutati e della sua
scuola, aveva accentuato l’idea stoica della lotta, aveva
valorizzato l’attività pratica; tendeva a fare della morale cristiana il coronamento di un’etica profana chiaramente articolata, attraverso gli esempi luminosi della
civiltà antica. Questa concezione non sarà mai del tutto
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
dimenticata. Essa ispira ancora le riflessioni del Machiavelli. Ma se anche lui costruisce la storia in funzione di
un’etica che mira soprattutto alla vita pubblica, non
teme d’altra parte di accusare la decadenza dei costumi
provocata dal cristianesimo: «Pensando adunque donde
possa nascere che in quelli tempi antichi i popoli fussero piú amatori della libertà che in questi, credo nasca da
quella medesima cagione che fa ora gli uomini manco
forti, la quale credo che sia la diversità della religione
nostra dall’antica». A quei tempi la magnificenza non
era inferiore a quella attuale, ma i sacrifici sanguinosi
davanti all’altare temperavano le anime piú di quanto
non possono fare i riti simbolici del cristianesimo37. La
storia rivela il meccanismo delle società e le leggi della
politica, non le vie della Provvidenza.
Siamo agli antipodi delle convinzioni neoplatoniche,
secondo le quali la storia dimostra, è vero, la forza e l’originalità dell’uomo, ma attraverso la crescita e lo sviluppo religioso che ne determinano la linea maestra.
Come la natura tende ad una sorta di «sublimazione
poetica», accessibile all’intuizione ben preparata, cosí la
storia dimostra la superiore vocazione degli uomini.
Questa si esprime attraverso la tradizione dei saggi che,
al momento della Nascita di Cristo, s’incrocia con la
rivelazione biblica. Ma la scienza essenziale era privilegio, dalle origini, degli iniziati; e lo sviluppo delle dottrine non è se non l’illusione del mondo della durata che
la docta religio deve superare.
La fine del Quattrocento, momento in cui queste
diverse concezioni si intrecciano, non si può dire che
abbia rappresentato per Firenze il momento delle posizioni intellettuali semplici e comode. Né la rappresentazione della natura, né quella della storia, né del sapere, né infine quella dell’anima e del suo destino, possono piú quadrare esattamente con le tradizioni iconografiche. Ma il rinnovarsi dei simboli è sempre confuso e
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
difficile: essi piú che mai dipendono dalla personalità di
colui che li ispira. Un esempio significativo l’abbiamo
nello sviluppo degli emblemi. Giovanni Rucellai aveva
commissionato all’Alberti il suo palazzo di via della
Vigna e la cappella non lontana di San Pancrazio. Verso
il 1470 finanziò la costruzione della facciata di Santa
Maria Novella. Egli era uno dei fiorentini piú sensibili
all’arte moderna. Sull’arcata della loggia al centro del
cortile del suo palazzo fece scolpire l’emblema della fortuna; per questo aveva chiesto il parere del Ficino che
gli aveva risposto con una lettera su «che cosa è fortuna e se l’uomo può riparare a essa».
L’argomento fondamentale della lettera è che la saggezza (prudentia) può ovviare al ritmo alterno e al flusso amaro degli avvenimenti; tuttavia questa saggezza
non è un acquisto umano, è un dono di natura e non agisce se non quando l’uomo, attraverso un «processo platonico», sa risalire al principio comune degli effetti fortuiti che ci sconcertano e dell’energia che è in noi, cioè
a Dio, per affrontare e soprattutto per sottrarsi, attraverso la serenità interiore, a questa guerra della Fortuna38. Per unire insieme le allusioni al mondo degli affari, i modelli antichi e l’insegnamento umanistico in una
stessa composizione, nell’emblema è stata posta una
ninfa che tiene tesa la vela in un naviglio che affronta
le onde del mondo. Le medaglie emblematiche di Bertoldo sono di una complicazione ancora maggiore. Il
rovescio di una di queste, destinata intorno al 1480 a un
orator fiorentino, ci mostra il trionfo delle muse, condotte da leoni, presso Mercurio, con la scritta: «Volentem ducunt nolentem trahunt»; e si deve intendere che
il dono dell’eloquenza deve cambiare il corso delle idee
altrui. Sarebbe difficile trovare una applicazione meno
naturale della massima di Seneca39.
Storia dell’arte Einaudi
341
Capitolo primo
La natura
Si toglie alla cultura e all’arte del Rinascimento uno
dei loro motivi essenziali se si dimentica di collocarle nel
loro sfondo «cosmologico»40. Nel secolo xv si manifesta
un interesse appassionato per la varietà concreta dell’universo, ma la «scoperta» non ha significato alcuno
se si prescinde dalle strutture intellettuali necessarie
per comprenderla e comunicarla. Il rovesciamento della
imago mundi tradizionale provocato dalla scoperta del
nuovo mondo e del sistema solare, si è verificato alla
fine di una lunga crisi delle nozioni «fisiche». La revisione delle dottrine scolastiche che fissavano la fisionomia complessiva del mondo41 non ha avuto minor importanza dello studio delle opere di geografia e cosmologia
antiche che ora furono conosciute e studiate piú da vicino. Il paradosso del Rinascimento consiste nel fatto che
la cosmografia si è rinnovata attraverso i dati della scienza greca antica, prima che questi fossero definitivamente rettificati. Con Tolomeo, ripubblicato a partire
dal 1420, la cartografia conosce una nuova fioritura; il
testo della Geographia del Berlinghieri (circa 1480) è una
ripresa di quello del dotto alessandrino, ma viene
accompagnato da atlanti particolareggiati che rappresentano un grande progresso. Il manualetto scolastico
del Sacrobosco (John of Hollywood) resterà fino al Cinquecento la base degli studi astronomici; la Spera volgare di G. Dati (1478) introduce concezioni piú esoteri-
Storia dell’arte Einaudi
342
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
che sulla luce e la teologia; ma quando Lorenzo Bonincontri da San Miniato pubblica l’edizione di Manilio
(1484), la descrizione classica del cielo porta a nuove
precisazioni42.
La scienza umanistica lavorava dunque all’interno
degli schemi antichi nel momento stesso in cui la loro
struttura stava per essere definitivamente negata. E
sono gli stessi ambienti che moltiplicano gli sforzi intesi a rivedere questi schemi. Il caso è soprattutto chiaro
per ciò che riguarda le scoperte geografiche. Il lavoro
cartografico, senza il quale esse non avrebbero potuto
offrire nulla di controllabile, presupponeva la costruzione della fisionomia complessiva della superficie terrestre. Firenze era uno dei centri di questa attività; e fu
una delle città occidentali in cui piú affluirono le notizie interessanti43. Il Toscanelli interrogava continuamente i viaggiatori per verificare le longitudini. Nel
1474 egli scriverà a Fernam Martins, canonico di Lisbona, la famosa lettera, accompagnata da carte nautiche,
sulla via «occidentale» delle Indie; il Poliziano proporrà
a Giovanni II di celebrare le esplorazioni portoghesi
dell’emisfero australe. Abbiamo numerosi esempi dell’interesse dei fiorentini per questi problemi: ad esempio, l’opuscolo che ha consacrato l’attualità delle scoperte geografiche, la lettera sul mundus novus dedicata
a Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, è stata pubblicata a Firenze già nel 1502 da Amerigo Vespucci. Il
«pilota mayor» era nipote del canonico Giorgio Antonio, amico del Ficino44. Non è necessario insistere su
tutti questi fatti per concludere che alla fine del Quattrocento i fiorentini potevano sentirsi al centro delle
ricerche del loro tempo.
Storia dell’arte Einaudi
343
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
1. La sfera e gli elementi.
Se gli elementi della imago mundi geocentrica sono
quelli tradizionali, tuttavia la visione dell’universo è
molto mutata. La vasta sistemazione di nozioni che si
verifica allora porta però ad un’idea della natura assai
diversa da quella descritta dalla scolastica, nonché dalla
struttura guidata dalle leggi della meccanica che verrà
definita piú tardi da Galileo e Cartesio. Nel 1475 il Ficino ha esaminato a Firenze una macchina articolata,
montaggio d’automati che gli parve un eccellente simbolo dell’ordine cosmico:
Vidimus Florentiae Germani opificis tabernaculum,
in quo diversorum animalium statuae ad pilam unam connexae atque libratae, pilae ipsius motu simul diversis motibus agebantur, aliae ad dextram currebant, aliae ad sinistram, sursum atque deorsum, aliae sedentes assurgebant,
aliae stantes inclinabantur, hac illas coronabant, illae alias
vulnerabant. Tubarum quoque et cornuum sonitus et
avium cantus audiebantur, aliaque illic simul fiebant, et
similia succedebant quam plurima uno tantum unius pilae
momento45.
Tutta l’epoca ha avuto il gusto di questi giochi meccanici, delle macchine a sorpresa che appaiono veramente delle meraviglie, dei miracula: l’interesse del Ficino per il «tabernacolo» del fabbricante tedesco dimostra
in qual senso si orientava allora la filosofia degli automata. Essi rappresentano il mondo e nello stesso tempo
dimostrano la forza dell’uomo che lo domina. Sono identici alla natura in quanto anch’essa è un meccanismo perfettamente connesso, nella quale i particolari delle forme
hanno meno importanza del loro intimo legame e del
loro movimento, cioè del grande gioco d’insieme46. Nello
stesso ordine di idee, si deve ricordare la rappresenta-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
zione della «sfera provvista dei suoi movimenti» negli
orologi astronomici, ad esempio quella di Lorenzo della
Volpaia, descritta con ammirazione dal Poliziano (1484),
dal Ficino (1489) e rimasta celebre a Firenze: un capitolo ben noto del De vita triplici intitolato De fabricando universi figura (III, 19), enumera tutti gli elementi che
si devono considerare in questa ricostruzione delicata,
dalla quale non è del tutto escluso un valore «magico»47.
La logica stessa del neoplatonismo lo portava a elaborare una concezione che si allontanava dall’immagine
statica dell’universo. Connettendo le formule dell’ermetismo sul mondo (animale divino) alla speculazione
astrologica ed allo studio dei fenomeni di risonanza e di
«magia», si arrivava a concepire questa consistenza della
natura, questa coerenza del suo ordine e del suo corso,
che ne fanno un sistema matematico ed insieme un organismo completo. La sua origine e il suo fine, la stessa
possibilità del suo funzionamento devono essere riferiti al piano divino; ma tutti i fenomeni del mondo sensibile devono essere anzitutto intesi come espansione di
una potenza «razionale» che verrà definita come anima
mundi. Questa nozione, tanto forte quanto ambigua,
appare oggi mitica; è stata in realtà una tappa indispensabile per arrivare ad affermare l’idea di natura. Si osservano con un’attenzione sconosciuta all’epoca precedente le «simpatie» occulte e le corrispondenze che il
Pimandro, tradotto nel 1463 dal Ficino, erige a legge
stessa del mondo. L’importanza dei filosofi di Careggi,
ed in particolare del Ficino, consiste nell’aver accolto e
diffuso nel momento decisivo i motivi, fin allora sospetti, dell’esoterismo occidentale48. Se si riprende il vecchio
simbolo «pitagorico» dell’uovo come compendio del
mondo, simbolo spesso riprodotto dai commentatori di
Ovidio, ciò avviene da un punto di vista nuovo: la sua
struttura sferica (o quasi) sta a significare il miracolo di
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
una espansione regolare ed infinita; la diversità delle
materie che lo compongono richiama non solo l’equilibrio degli elementi distinti per la loro densità, ma anche
le possibilità della maturazione. In un ordine apparentemente finito e fisso, viene ad esprimersi una energia
infinita e vivente; si deve intendere l’una e l’altra inseriti in qualche modo l’uno nell’altro se si vuol accedere
al mistero universale49. Perché infine tutto è simbolo nel
mondo visibile; un rapporto costante e reciproco si stabilisce fra gli esseri che vivono nello spazio e le realtà
interiori dell’anima. L’astrologia in questo senso rappresenta la chiave della nuova visione. «Totum in nobis
est caelum»; e il Ficino su questo principio svilupperà
una sorprendente «astrologia moralizzata»50:
Sol
Luna
Mars
Saturnus
Jupiter
Mercurius
Venus
Deus
animi et corporis motio continua
celeritas
tarditas
lex
ratio
humanitas
L’Anima mundi è il principio d’unità tra le forme che
servono a enunciare l’ordine cosmico. La teoria «musicale» del mondo, che vede gli stessi intervalli nella scala
dei toni e nell’ordine dei pianeti, era stata sviluppata
sulla base del Timeo dai neopitagorici del i secolo a. C.
come chiaramente attestato dal Somnium Scipionis. In un
secondo momento, Macrobio, che aveva commentato
questo testo classico, Boezio e Marciano Capella avevano elaborato la dottrina dell’armonia universale secondo schemi facili ad essere generalizzati, per cui ogni
sfera corrisponde ad una scienza e tutte le attività
umane possono iscriversi nello stesso sistema di origine
cosmologica51. Questi schemi rivivono, sulla base delle
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346
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
fonti antiche, nell’ambiente fiorentino. Cosí la musica
non è solo espressione di una struttura, ma lo strumento di una comunicazione reale tra l’Anima mundi e l’anima umana. Il rapporto, definito seguendo Dionigi,
tra le sfere e le gerarchie celesti (rapporto che presuppone l’aggiunta ai sette pianeti classici del primo mobile e del cielo cristallino o empireo) cessa di essere un rapporto esteriore: le divinità planetarie sono il volto visibile e gli angeli il volto invisibile dello stesso mondo.
L’armonia originaria viene espressa, ad ogni piano, dall’anima di ogni sfera, in cui Platone (Repubblica, 617)
collocava misteriosamente le sirene e Plutarco (Convito,
IX, 14) le Muse52. L’astrologia, che è l’arte di calcolare
le conseguenze dei vultus caeli nel mondo sublunare,
diviene il mezzo per rendere avvertibile ad ogni momento utile la solidarietà profonda non solo dell’uomo col
cosmo, ma soprattutto di ciò che si manifesta al di fuori,
nei fenomeni fisici, e ciò che avviene all’interno, nell’esperienza psicologica e morale. La famosa tavola del
trattato del Gafurio, dove compaiono le Muse al posto
delle Artes scolastiche e che colloca l’intero sistema
sotto l’invocazione ad Apollo, è l’espressione piú netta
di ciò53.
La visione della natura diventa una immensa proiezione delle energie coscienti ed incoscienti dell’anima.
Vi si ritrovano tutte le passioni, grazie al dispiegarsi del
mito che assicura un «volto» psicologico a Marte, Mercurio, Venere, l’Idra, Pegaso ecc. Nulla nella natura
può essere inerte e indifferente. E, grazie alle intuizioni di cui l’astrologia è il veicolo, la perfezione e il fulgore propri del Paradiso sono ora cercati nel mondo
visibile: essi ne sono gli attributi veri e degni di essere
rappresentati. In effetti da questa forza occulta si possono dedurre tutte le proprietà dell’universo fisico, la
sua articolazione ed i suoi ritmi. Il commento del Ficino al Timeo sviluppa la formula: «Fecit Deus mundum
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
viventem, animatum et intellectualem». È al livello dell’anima che si intrecciano e si articolano la struttura
intelligibile delle cose ed il ritmo vitale che le connette
in un unico organismo. «Per meglio combinare con il
Suo spirito e con la materia del mondo un solo ed unico
essere animato, Dio distinse la materia in quattro elementi che sono come gli umori di questo corpo vivente,
come Egli aveva dato quattro aspetti al Suo spirito».
Essi procedono dall’intelletto e dall’anima che sono
sostanze, dall’intelligenza e dalla natura che sono qualità infuse alla materia. Le immagini di queste quattro
potenze sono i quattro elementi che ad esse corrispondono. Il Fuoco (Spirito-Intelletto), l’Aria (Intelligenza),
l’Acqua (Anima), la Terra (Natura). Cosí il mondo può
partecipare insieme dell’Eternità e del Tempo, essere
uno e multiplo, fisso e mobile; esso comporta quattro
modi di vita in rapporto con questi quattro principî spirituali: una Saturnia vita, fecondata direttamente dal
cielo, che concepisce prototipi e le forme universali
senza bisogno di esperienza esterna, una Jovialis che è
quella delle sfere e delle stelle ed è anch’essa propria dei
gradi fissi e impassibili dell’essere, una Venerea, nella
quale la stessa energia si trova distribuita in anime singole ed esteriorizzata nelle apparenze corporee, infine
una Dionysiaca, cioè immersa interamente nella natura
e abbandonata alla ebrezza della sensibilità immediata.
Attraverso tutti questi gradi si stabilisce il «duplex ad
Deum ordo rerum, alter quo ab eo procedunt, alter quo
procedentes convertuntur ad ipsum». Questo eterno
moto ascendente e discendente è l’unico in grado di
fornire l’idea del mondo, della sua struttura articolata,
della sua sufficienza e del suo fine54.
Le rappresentazioni didattiche, cosí frequenti nei
secoli xiv e xv non potevano ignorare questa evoluzione. I mosaici del Battistero di Firenze, eseguiti nel corso
del Duecento e conclusi solo intorno al 1325, rappre-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
sentavano ancora per gli artisti del Quattrocento il
miglior compendio dell’antica pittura toscana. Era una
sorta di specchio dottrinale a scala monumentale. Quattro degli spicchi dell’ottagono, divisi in ordini regolari,
presentano una specie di compendio della storia universale (Genesi e Redenzione, Giudizio finale, sopra una
galleria di piccoli riquadri che mostrano i santi ed i profeti) con, al vertice della cupola, sopra il Pantocratore,
il Dio della Creazione, circondato di serafini e cherubini; negli altri spicchi dell’ottagono stanno le sette altre
gerarchie angeliche gravitanti, come nel Paradiso dantesco, intorno al punto luminoso centrale, materializzato
qui dalla lanterna55.
Ma si tratta del cielo e non dell’universo. La figura
mundi sottomessa alla potenza divina viene invece rappresentata nel gigantesco disco a ventidue cerchi di colori diversi, dipinto nel Camposanto di Pisa verso la fine
del Trecento. Intorno al mappamondo centrale qui figurano le sfere concentriche degli elementi, alle quali si
aggiungono i cerchi delle gerarchie celesti. Un Cristo
immenso tiene stretto tutto l’insieme secondo lo schema già comparso agli inizi del Duecento in una miniatura del Liber divinorum operum di santa Ildegarda, eseguita a Lucca56. Un nuovo elemento si sviluppa con successo a partire dalla fine del Trecento. Nei quadri religiosi il «concerto degli angeli» viene di moda in Toscana, come in tutta la pittura occidentale, ma il riferimento cosmico vi è piú frequente. Esso accompagna gli
avvenimenti della Storia Sacra, nei quali l’azione dell’amore divino si fa piú sentire, ad esempio l’Annunciazione e l’Incoronazione della Vergine, meno spesso
nella Natività. È un motivo caro soprattutto agli artisti
che prolungano il cosiddetto «gotico internazionale»
come Gentile da Fabriano, Bicci di Lorenzo, Lorenzo
Monaco. Nell’Incoronazione della Vergine di quest’ultimo, eseguita nel 1412-13, due angeli si inginocchiano
Storia dell’arte Einaudi
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sopra degli archi che raffigurano le sfere. In quella di
Gentile da Fabriano, posteriore di quindici anni, otto
angioli (ai quali è da aggiungere il serafino che accompagna il Padre Eterno) suonano i loro strumenti al di
sopra di una volta celeste che include il sole, la luna e le
stelle. Alcuni segni celesti, i fiori dell’hortus conclusus,
l’arpa o la lira degli angeli, bastano a introdurre il tema
della «musica dei salmi», di cui sant’Ambrogio aveva
esposto le ragioni e la grandezza (Expositio Psalmorum,
XII). Ma questa sommessa indicazione, spesso accentuata dal medaglione di David tende ben presto a indebolirsi. Verso la metà del secolo, nel trittico di Sant’Ambrogio, Filippo Lippi ambienta la scena su una specie di
palco in mezzo a un giardino dove degli angeli giovanili cantano tra i gigli; il significato «cosmico» della scena
scompare per lasciar posto ad una visione semplicemente graziosa. Tuttavia all’estremo della sua carriera, nel
1468, il frate componeva nell’abside della cattedrale di
Spoleto una figurazione sorprendente, che indica un
netto mutamento di tono: il Padre, con in capo la tiara
pontificale, corona Maria al centro dell’enorme tondo,
punteggiato di borchie d’oro, e reso a molti colori, simile a un arcobaleno circolare, che sta ad indicare le sfere
celesti; un sole brilla al di sopra delle figure, angeli turiferari e angeli cantori, vicini a quelli di Benozzo Gozzoli nella cappella Medici, accompagnano la cerimonia,
mentre i loro fratelli gettano fiori, suonano il flauto o
l’organo portatile. Ai piedi della scena una serie di santi
personaggi in estasi (patriarchi, profeti e sibille) chiude
vigorosamente la composizione che, accompagnando la
forma curva dell’abside, sembra animata da una gravitazione maestosa 57.
Un Paradiso condotto con maggior densità e animato da maggiori movimenti sincroni, e, tutto sommato piú
conforme alla visione cosmica dei moderni, si trova nella
Incoronazione della Vergine di Francesco di Giorgio.
Storia dell’arte Einaudi
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L’attenzione qui è portata essenzialmente sui «reggitori delle sfere» e sugli atteggiamenti variati delle potenze che occupano i gradi interni del mondo: la confusione tra sistema planetario, animato dalla «musica» cosmica e la gerarchia del Paradiso, ispiratrice della musica
sacra, non potrebbe essere piú completa58. Ciò che
meglio rivela la trasformazione del sentimento cosmico
è l’esitazione che coglie gli artisti al momento di rappresentare il movimento delle sfere. Lo schema tradizionale si complica; si esita tra le sfere una dentro l’altra e viste in sezione come l’arcobaleno, le sfere, ad anelli sempre piú piccoli, formanti una specie di imbuto, e
le sfere viste in sezione equatoriale, come cerchi concentrici orizzontali59. Il Botticelli userà volta volta tutti
questi schemi nelle sue illustrazioni per la Commedia.
Nel canto XXVI si vedono nove cerchi composti di
tante fiammelle rotare intorno al volto luminoso di Dio,
nel canto VI un pullulare di queste piccole siepi di fiamme, il tutto chiuso in un cerchio, rappresenta in sezione il Paradiso. Altrove i voli delle anime seguono degli
assi curvi invisibili. L’immagine piú notevole è senza
dubbio quella del canto I, dove dallo stretto cerchio del
Paradiso terrestre, con alcuni alberi che si inchinano,
Dante e Beatrice si levano attraversando il primo limite delle sfere celesti, limite teso come un filo circolare
che essi devono tagliare. La pianta del cosmo (e il tema
della ascensione di Dante) viene raffigurata in una illustrazione del canto II esattamente nello stesso modo che
nell’affresco di Pisa60.
Se si tolgono alcuni soggetti della pittura religiosa,
in cui era consuetudine introdurre la figura del salmista,
la simbolica monumentale aveva sempre prescritto la
figurazione di un cielo, generalmente dipinto e stellato,
nelle volte che coprivano le chiese. Cosí l’immagine
completa del mondo celeste, si giustificava tanto meglio
in quanto, grazie alla cupola, l’architettura stessa diven-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
tava per analogiam l’edificio dell’universo. Questa è la
soluzione prevista da Raffaello nella cappella Chigi a
Santa Maria del Popolo, dove i suoi cartoni furono tradotti felicemente in mosaico a partire dal 1515: anziché
una successione di cerchi, si ha una corona di medaglioni
tutti uguali, nei quali ogni divinità planetaria è posta
sotto la guida di un angelo che, in qualche modo, prende possesso di essa; nella lunetta il Creatore, con un
gesto spettacolare, mette in movimento tutto l’insieme61. Egli sembra ruotare su se stesso e questa immagine richiama troppo l’arte di Michelangelo per non indurre a cercare nella volta della Sistina una proiezione in
scala gigantesca della cosmologia contemporanea.
Abbandonando ogni forma di schema armonico, Michelangelo si preoccupa solo di esprimere il movimento e la
vita come attributi divini. Nella Creazione di Adamo
Dio irrompe avvolto in un grande manto, dove l’accompagnano non angeli ma geni che rappresentano le
«idee eterne». Se si percorre a ritroso la serie delle storie della Genesi, vi si ritrovano tutte le forme di movimento rotatorio con colori sempre piú chiari e trasparenti che vanno dal grigio al lilla. Nel riquadro che segue
la Creazione dell’uomo, Dio plana nell’aria con le braccia tese; nella Creazione del sole e della luna la giustapposizione di due immagini determina quel senso di movimento furioso che lo travolge e da cui sfuggono gli astri
e le sfere. Il primo affresco rappresenta l’essere divino
in espansione mentre strappa il mondo visibile al caos62.
Nulla piú della violenza dell’atto creatore definisce il
mistero del mondo: Michelangelo ha colto solo il movimento e la vita, Raffaello l’accordo armonioso dello spazio e dello spirito.
La cosmologia era legata alla teoria delle sfere; la fisica prolungava tale teoria attraverso la teoria degli elementi. Questa permetteva di spiegare tutte le manifestazioni che avvengono sulla terra, dalla storia naturale
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
degli animali e delle piante alla geologia e ai suoi misteri. Essa considerava tutti gli accidenti dell’atmosfera ed
i fenomeni meteorologici connettendo tutto ciò che la
riguarda ai movimenti, ai meccanismi meravigliosi di
quella macchina universale che per il suo mirabile ornamento è stata chiamata cosmos dai greci, mondo dai
latini, come dice il Landino nella sua prefazione alla traduzione di Plinio (Firenze, 1476). In questa stessa prospettiva, il Ficino, che fu nel Quattrocento, conviene
ricordarlo, l’unico commentatore del Timeo, attribuisce
alla legge degli elementi un doppio valore, matematico
e organico, che poteva utilmente estendersi alle arti. Il
commento al Timeo ricorda in realtà che «la cifra quaternaria degli elementi conviene al mondo» (cap. XX),
che tutto è composto di essi (cap. XXIV) e che ognuno
ha proprietà particolari facili a illustrare attraverso la
forma semplice da cui risulta:
terra
fuoco
acqua
aria
cubo
piramide (tetraedro)
icosaedro
ottaedro
Questa equivalenza avrebbe dovuto, in teoria, fornire il mezzo per scomporre ogni corpo naturale secondo la varia dosatura degli elementi che lo compongono:
invitava quindi a fondare una sorta di analisi cristallografica delle cose. Aggiungendo alle quattro figure semplici una quinta figura, il dodecaedro, corrispondente
all’elemento invisibile dell’etere, si otteneva il quadro
dei corpi puri che attrasse gli artisti-matematici del
Quattrocento63. Ma non era facile risolvere ogni composto naturale in queste forme elementari; Leonardo,
prendendo in considerazione questo modo di porre il
problema, non ha potuto fare a meno di avanzare dubbi
sulla sua efficacia64. Luca Pacioli ne sostiene con facon-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
dia la fondatezza in quanto vi vede il principio di tutta
una matematica artistica, fondata sulla misura e conforme agli arcana dell’universo, quindi capace di guidare la
pittura nonché la decorazione e l’architettura. Il De divina proportione del 1497 (pubblicato nel 1509) rappresenta il discorso destinato a giustificare, richiamandosi
al Timeo, questo grande segreto dell’organizzazione delle
forme65.
La parte piú nuova dell’insegnamento del Ficino
riguarda la «vita» della natura, quale s’esprime nella
lotta e nel travaglio costante degli elementi: «Habent igitur animam aqua et terra... Quid est ars humana? Natura quaedam materiam tractans extrinsecus. Quid natura?
Ars intrinsecus materiam temperans, ac si faber lignarius
esset in ligno». In ognuna delle zone proprie a questi elementi si trovano in realtà degli esseri viventi, che ne procedono e non possono crescere o muoversi se non per
virtú degli elementi di cui essi figurano e rappresentano
in qualche modo le proprietà. La stessa dimostrazione
vale anche per il fuoco e per l’aria66. L’apparenza meccanica della «vita» della natura, quella di Lucrezio e
degli epicurei, è dunque un’illusione assoluta:
Et quemadmodum si homines ferri quidem ipsius
motum videntes, magnetem non viderent, ferrum ex se
ipso moveri putarent dum trahitur a magnete, ita nunc qui
sphaerarum animas non intelligunt, corpuscula quaelibet
credunt ex se moveri. At enim cum nulla mens artificis tam
recte aut membra sua, aut instrumenta moveat, quam corpuscula illa moventur in mundo, necessarium est illa corpuscula non ab inerti qualitate solummodo, verum etiam
ab artificiosa natura moveri et duci.
Gli elementi normalmente si scalano in base alla
loro densità decrescente: terra, acqua, aria, fuoco; ma in
questo equilibrio generale, che d’altronde viene facil-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
mente sconvolto, ogni elemento possiede una sua attività «artistica». Questo principio ha un nome segreto
nella Teologia di Orfeo, o meglio un doppio nome che si
sdoppia in maschile e femminile67. E l’esposizione si
conclude misteriosamente con l’enumerazione dei
«demoni» che sono la radice delle specie e delle forme.
Questa conclusione ermetica non deve nasconderci l’originalità d’una dottrina che per la prima volta attribuisce una sorta di autonomia alle forze della natura. Per
ordinare le molteplici affermazioni sui fenomeni, Leonardo non disporrà di altra teoria generale che quella
degli elementi, dei quali a sua volta immagina le regioni naturali, i movimenti d’attrazione e di repulsione e
la prodigiosa attività68. Nelle sue osservazioni cosmologiche ritorna continuamente l’idea di «artifiziosa natura» (anche l’espressione è derivata dal Ficino) che gli
serve per poter cogliere, sotto ai fenomeni, una sorta di
intenzione nascosta che l’artista piú di ogni altro è in
grado di avvertire. Ma Leonardo è affascinato dalla tendenza della natura a sconvolgere fino al caos e infine a
distruggere le sue proprie creazioni69.
La rappresentazione dei quattro elementi ricorre frequente fino ad essere banale nell’arte dell’Occidente70.
La distribuzione dei loro simboli nelle composizioni a
quattro scomparti, di cui si voleva elevare il significato,
divenne una forma corrente nel Trecento e nel Quattrocento. Si era in certo senso viziati da queste immagini tradizionali. «Lavorò Paolo in fresco la volta dei
Peruzzi a triangoli in prospettiva, ed in su i cantoni
dipinse nelle quadrature i quattro elementi, ed a ciascuno fece un animale a proposito: alla terra una talpa,
all’acqua un pesce, al fuoco la salamandra, ed all’aria il
camaleonte che ne vive e piglia ogni colore»71. Il famoso qui-pro-quo che divertí tanto i fiorentini: un cammello anziché un camaleonte, sta a dimostrare che Paolo
Uccello non prestò seriamente attenzione a questi sim-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
boli. Nella descrizione del suo palazzo ideale il Filarete
richiede lo stesso programma: «Nelle volte si fanno questi segni celesti, che si facci in prima i quattro tempi dell’anno, e poi e quattro elementi e descriptione della
terra»72. Non precisa però quale tipo volesse. Il gusto
dell’epoca per la varietà delle forme naturali spingeva
verso formule piú pittoresche. Nel Morgante di Luigi
Pulci la lunga descrizione del padiglione offerto a Rinaldo (XIV, st. 44-89) comprende una descrizione dettagliata dei ricami dedicati agli elementi: l’enumerazione
di questi viene accompagnata ogni volta dal simbolo
relativo: la salamandra, il camaleonte, il pesce, la talpa,
come nella volta di Paolo Uccello; tuttavia essa è a dir
vero interminabile e non ha un criterio direttivo preciso. Questa tendenza elencatoria si rivela anche nei pittori che raffiguravano nel cielo dei loro quadri numerosi uccelli e vi profondevano fiori sempre piú vari. Nella
volta della stanza della Segnatura l’allegoria della Filosofia rappresenta un compendio di tutto questo repertorio: la figura porta infatti una veste coi colori dei
quattro elementi, con animali, foglie, stelle corrispondenti a ognuna delle sfere; inoltre il trono è incorniciato da due statue dell’Artemide Efesia, il mostro «polymaste», che fa qui la sua prima comparsa nell’arte
moderna, e basta da solo a portare il simbolo della natura su un nuovo piano. Pare lecito ricollegare all’interesse per questo emblema la voga delle «grottesche», di cui
la bottega di Raffaello elaborerà la formula definitiva
nelle logge vaticane assicurando al «geroglifico» di Artemide un posto privilegiato73.
Il medaglione della Filosofia dà il titolo all’elogio
della Filosofia o, come è piú comunemente nota, alla
Scuola d’Atene. Esso è accompagnato da un riquadro in
cui si vede una figura piegata sul globo del mondo indubbiamente per rappresentare la contemplazione di esso74.
I due genietti che l’incorniciano portano delle scritte
Storia dell’arte Einaudi
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sulle quali si legge: «Moralis et Naturalis»: sono appunto i due aspetti della «filosofia». Nelle sintesi dottrinali si cercava infatti di accomunare il simbolo quaternario degli elementi con i principî intellettuali75. Il Ficino
ha abbozzato una delle combinazioni possibili: «Alij...
gradatim progredientes, lumen divinum in moralibus
primo tanquam in terra, secundo in Physicis, tanquam
aqua; tertio in mathematicis, tanquam in Luna, quarto
Metaphysicis, tanquam in Sole perspicue salubriterque
perspiciant. Hos appellat Orpheus Musarum legitimos
Sacerdotes...»76:
moralia
physica
mathematica
metaphysica
terra
acqua
aria
fuoco
Questa classificazione non vale per la complessa iconografia messa in opera, nella volta della stanza della
Segnatura, dal Sodoma e da Raffaello77. La corrispondenza fra le «storie», sormontate dalle allegorie relative, e i simboli degli elementi viene espressa, al di sopra
di ogni «Storia», mediante un genietto portaemblema e,
accanto ad ogni allegoria, mediante un piccolo riquadro
a due registri il cui valore sembra essere intonato all’argomento. Se si corregge un curioso errore intervenuto
nella distribuzione78, l’insieme risulta costruito, secondo il seguente schema:
Genietti
Giurisprudenza
Filosofia
Poesia
Teologia
Terra
Acqua
Aria
Fuoco
Sulla veste
della Filosofia
giallo
verde
azzurro
rosso
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Le doppie scene inserite accanto ad ogni allegoria
ribadiscono ancora l’esposizione dottrinaria: la prima serie
(Muzio Scevola, Pax Augustea, Mezio Curzio, Giunio
Bruto) deriva da Tito Livio questi esempi di virtus; la
seconda (Vulcano, Anfitrite, trionfo sull’Acqua, sconfitta dei giganti) deriva da Igino e svolge l’idea della potenza dell’amore. Sono i due principî che i platonici amavano porre alla base della vita morale dopo averla riconosciuta come principio stesso della vita della natura.
2. I cicli del tempo a Poggio a Caiano.
I ritmi del tempo ricorrono spesso nelle immagini
cosmologiche del medioevo, e in esse i mesi vanno uniti
ai segni zodiacali, le stagioni agli elementi. La loro successione e le loro contrapposizioni risultano dal loro
posto nel cerchio, o rosone, dove i simboli venivano
iscritti. Altrettanto frequente è la serie dei lavori umani
che corrisponde ai mesi e alle stagioni, disposta in riquadri giustapposti oppure in un fregio continuo. Personaggi allegorici si erano visti anche nell’arte antica e piú
raramente nel medioevo: una serie di tavole ben nota,
destinata al palazzo di Belfiore a Ferrara, conserva il
ricordo di questo tipo di figurazioni ancora sulla metà
del Quattrocento79. In una forma piú vicina all’antico si
troveranno le quattro stagioni nella loggetta del Bibbiena in Vaticano80.
Fra gli schemi astronomici e le allegorie di tipo classico Firenze offre l’unico complesso originale in cui si
sia tentata l’illustrazione poetica dei cicli temporali: si
trova sulla facciata della villa di Poggio a Caiano e risale a circa il 1490. Essa dimostra nel modo piú netto l’incontro tra la cultura umanistica e lo stile narrativo delle
botteghe toscane. Si tratta del fregio in terracotta invetriata collocato sull’atrio corinzio della villa del Magni-
Storia dell’arte Einaudi
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fico. Il Sangallo già a Santa Maria delle Carceri aveva
introdotto elementi di terracotta invetriata bianca su
fondo azzurro; la chiesa di Prato era stata iniziata contemporaneamente alla villa del Poggio e anch’essa rimase incompiuta dopo il 1492. Verosimilmente l’architetto si è rivolto alla stessa bottega per ottenere le fasce di
maiolica chiara che costituiscono uno dei tratti originali di queste due opere. Però il fregio del Poggio presenta una concisione di disegno, una purezza «ellenistica»
che invogliano ad attribuirne la composizione ad Andrea
Sansovino81. È infatti difficile riconoscervi la maniera,
piú rude, del Sangallo.
Il fregio è diviso in cinque settori da quattro «termini», che cadono esattamente in asse con le colonne:
il terzo è scomparso, ma si vede chiaramente il punto
dove stava. Ognuno di questi «termini» rientra, grazie
all’abbigliamento ed all’atteggiamento, nelle scene attigue: il secondo, ad esempio, che conclude la scena guerriera del riquadro centrale porta chiaramente un elmo e
un’insegna militare; il quarto, attiguo alle «stagioni», è
adorno di fiori e di frutti. I cinque temi del fregio si trovano cosí separati e uniti. Non abbiamo una serie narrativa ma un susseguirsi di composizioni, di cui i termini sottolineano l’articolazione. Il fatto che si ritrovino
qui queste figure inconsuete sembra rispondere al desiderio di rimettere in onore delle divinità romane, nella
fattispecie quelle di cui Ovidio nei suoi versi sul calendario, che guidano tutta la decorazione, dice:
Termine, sive lapis, sive es defossus in agro
Stipes, ab antiquis tu quoque numen habes.
(Fasti, II, 641-42)82.
Il primo tema a destra presenta una composizione
doppia, che raffigura il «giorno» e la «notte». La scena
si legge da sinistra a destra. Anzitutto abbiamo un uomo
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seduto, pesantemente abbandonato, che tiene in mano
un mazzo di papaveri, un personaggio disteso su un
letto (degli scuri fori nella terracotta indicano trattarsi
di un viso sfatto) e una donna in piedi; è, accanto alla
Notte, la coppia di Hypnos e Thanatos ricordata da
Esiodo (Theogonia, 747), descritta da Pausania e spesso
rappresentata sui leciti funerari e nei rilievi romani83.
Nella seconda metà della composizione un personaggio
femminile coi capelli a raggiera (l’Aurora), sta finendo
di apprestare la quadriga del Sole che porterà via l’auriga attraverso la porta monumentale del giorno presentata obliquamente come un arco di trionfo. La quadriga, accompagnata con un cenno di saluto dall’Aurora, si precipita nel cielo. L’insieme del cocchio è disegnato con una vivacità che richiama i versi di Ovidio sui
quadripedes animosos e la famosa partenza di Fetonte
(Met., II, 55 sgg.). Abbiamo qui un’immagine canonica
del Giorno, di un deciso tono neoellenico84.
Lo scomparto attiguo, dedicato alle «stagioni», si
ispira ad Ovidio nella parte sinistra, in cui compaiono
le quattro allegorie classiche, di un accento piú romano
che greco; il resto della composizione illustra, seguendo
il corso dell’anno, i lavori campestri. Una figura è andata perduta accanto al personaggio che innesta la vite;
forse rappresentava la potatura, mentre la terza figura
è raffigurata in atto di legare il tralcio all’olmo. L’intento didattico si esprime senza peritanze: i lavori della
mietitura (con la grande falce curva e il falcetto) vengono dopo, seguiti a lor volta dalla vendemmia: un contadino coglie un grappolo sopra la sua testa, un altro, un
po’ piú lontano, curva un ramo per raccogliere le olive,
altri arano e seminano. Infine le ultime due figure rappresentano i lavori della stagione avanzata, la vangatura della terra e la raccolta della legna. Gli abiti stabiliscono un rapporto fra le figure e la successione delle stagioni: le prime figure avevano una tunica corta, erano
Storia dell’arte Einaudi
360
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
nude quelle nel cuore dell’estate, ricompare la tunica
corta in quelle dell’autunno e quelle dell’inverno portano il mantello. Dodici di numero, se si tiene conto
della figura perduta, questi contadini corrispondono
evidentemente alla serie dei mesi. Abbiamo quindi un
calendario rustico, chiaro e ordinato con finezza, di
una novità innegabile, di uno stile perfettamente ovidiano85.
L’episodio centrale è consacrato al ciclo superiore,
cioè all’«anno». Questo è individuato mediante il personaggio della mitologia romana piú suggestivo in questo senso, Giano. Egli è rappresentato davanti al suo
tempio con il tipico volto doppio, con le mani alzate,
come lo descrive Poliziano nell’esordio dell’Ambra:
Claviger in semet redeuntem computat annum
Iam dextra Deus
(Selve: Ambra, 55-56)86.
Gli antichi commenti riferiscono infatti che Giano
è rappresentato nell’atto di contare fino a 300 con la
mano destra e fino a 65 con la mano sinistra per indicare la durata dell’anno alla quale presiede. Ovidio
descrive lungamente e devotamente gli attributi di
Giano nel I libro dei Fasti, che risultano cosí la fonte letteraria principale del fregio. L’invocazione iniziale fornisce il tema:
Iane biceps, anni tacite labentis origo.
(Fasti, I, 63)87.
Il lungo discorso messo in bocca a Giano spiega che
egli è un dio cosmico, che un tempo si identificava col
Caos. Nel mondo attuale regna sugli elementi e dispone della pace e della guerra:
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Me Chaos antiqui (nam sum res prisca) vocabant...
me penes est unum vasti custodia mundi
et jus vertendi cardinis omne meum est.
Cum libuit Pacem placidis emittere tectis
libera perpetuas ambulat illa vias:
sanguine letifero totus miscebitur orbis
ni teneant rigidae condita bella serae,
praesideo foribus caeli cum mitibus Horis:
it, redit officio Jupiter ipse meo.
(Fasti, I, 103 e 119-26).
Il tempio, o piú esattamente il sacrario bronzeo, di
Giano si trovava nel Foro, e se ne aprivano le porte in
tempo di guerra: il fregio di Poggio a Caiano rappresenta
il momento in cui il sacerdote di Giano apre la porta
fatale da cui esce Marte ferocemente armato88. I personaggi che assistono alla scena sono dei soldati romani e
le loro armature e le loro insegne sono state ricostruite
con qualche cura sulla base dei monumenti antichi.
Forse è lecito vedere nei due gruppi di cinque figure una
allusione ai dieci mesi dell’anno secondo il calendario
primitivamente definito da Romolo?
…in anno
constituit menses quinque bis esse suo.
(Fasti, I, 27-28).
Ma, secondo Ovidio, Giano è piú di un dio dell’anno, e in verità la potestà che regola i movimenti piú
generali della natura, una sorta di autorità regolatrice del
tempo. Questa superiore funzione spiega il posto d’onore attribuito al Dio romano e il fregio è consacrato alla
celebrazione dell’ordine universale di cui il vecchio dio
romano è la chiave:
Me penes est unum vasti custodia mundi89.
Storia dell’arte Einaudi
362
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Questa preminenza di Giano, ispirata da Ovidio, ci
scopre chi è l’ispiratore del complesso. Dopo il 1481 il
Poliziano aveva preso ad occuparsi in modo particolare
dei Fasti nelle sue lezioni allo Studio. Il poema latino che
egli chiamava «illius vatis liber pulcherrimus» gli era
divenuto cosí familiare che lo imitava, sotto forma di un
semplice commento, nelle sue Sylvae. Il fregio di Poggio
a Caiano non è se non una parafrasi del trattato sul
calendario romano letto secondo l’esegesi del Poliziano.
L’edicola centrale, cioè il Santuario di Giano, da cui esce
il dio della guerra, deriva da uno dei sarcofagi romani
piú celebri di Firenze, quello che, dopo esser stato per
qualche tempo a palazzo Riccardi, si trova accanto alla
porta sud del Battistero: qui il tempio è quello della
Eternità, dimora delle ombre da cui esce Mercurio psicopompo dischiudendo la porta90.
Il ritmo cosmico superiore a quello dell’anno è il
ritmo delle età del mondo: tenendosi esclusivamente,
secondo la consuetudine dei neoplatonici fiorentini,
all’opposizione fondamentale di Saturno e Giove, l’autore del fregio non ha rappresentato le quattro età che
si trovano in Ovidio, ma la comparsa dell’età di Giove,
la nostra, che, succedendo alla mitica età dell’oro, ha
introdotto il ritmo delle stagioni, l’agricoltura e l’allevamento91. Ovidio, sempre nei Fasti, racconta dell’ingordigia di Saturno, alla quale Rea riuscí con l’astuzia a
sottrarre il piccolo Giove:
Veste latens saxum caelesti gutture dedit
sic genitor fatis decipiendus erat
(Fasti, V, 205-6)
mentre nelle solitudini del monte Ida i coribanti,
sacerdoti danzatori, coprono con le loro grida i vagiti del
piccolo:
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
pars clipeos rudibus, galeas pars tundit inanes,
hoc Curetes habent, hoc Corybantes opus
(Fasti, IV, 209-10).
Poiché ogni tema è svolto in tono pittoresco, la
danza dei coribanti, rappresentati qui come soldati
romani, occupa il centro della composizione; fa cosí
riscontro al coro delle stagioni nell’episodio simmetrico.
A destra, la roccia coperta di alveari e a sinistra la culla,
accanto alla quale la ninfa Amaltea trattiene la sua capra,
completano il quadro. Si vede infine Rea presentare a
Saturno la pietra dell’inganno e con l’altra mano tendere una foglia alla capra; si sa che il corno spezzato di questa divenne poi il corno dell’abbondanza (Fasti, V, 3).
Queste allusioni ai cibi degli dei e ai frutti della
terra sono perfettamente intonate al fregio che celebra
l’ordine del mondo e le colture della villa. Ma l’insistenza portata sulla parte che hanno avuto i Coribanti
ci fa ricordare che essi sono, secondo la tradizione antica ripresa dal Ficino e da Pico, i maestri dell’iniziazione92. L’elogio mitico del miele e del latte assume cosí un
valore particolare, in accordo con la figurazione di
Giano, signore del tempo, e soprattutto coll’episodio
cosmologico iniziale.
Questo primo episodio è oscuro e singolare. Il fondo
azzurro-verde del fregio è occupato per due terzi da una
roccia scura, una grotta, in cui un personaggio barbuto
tiene in mano dei serpenti. Al centro, in ricche vesti,
una dea-madre, allegoria della Natura, apre le braccia e
dal suo seno escono esseri alati, anime minuscole che si
diffondono a destra e a sinistra: due si dirigono verso il
dio coi serpenti, due altre procedono a destra verso un
personaggio nudo, girato verso la roccia enorme, con una
sfera in una mano ed un compasso nell’altra. Un serpente gigantesco, munito di piccole orecchie e di testa
canina, sta come coronamento sulla montagna e sulla
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
caverna enigmatica mordendosi la coda. È questa la
chiave di tutta la scena. Si deve vedere in esso un’immagine dell’eternità nella quale si compie la gestazione
delle età93.
Siamo dunque alle origini del mondo; ma non secondo le cosmogonie di Esiodo, e nemmeno di Ovidio, che
raccontano l’uscita dal Caos primitivo. La scena richiama piuttosto l’organizzazione metodica degli elementi e
la creazione delle anime, come si trova raccontata nel
Timeo, attraverso l’intervento del «demiurgo-architetto», per volontà del quale «il mondo è unico, sferico e
si muove in circolo»94. «Preoccupato, – racconta Platone, – di costruire una certa imitazione mobile dell’eternità, pur organizzando il cielo, fece dell’eternità una e
immobile questa immagine eterna che progredisce secondo la legge dei numeri, questa cosa che noi chiamiamo
il tempo» (Timeo, 37 d). Questa è dunque l’origine
nascosta dei diversi ritmi della durata: «I giorni e le
notti, i mesi e le stagioni non esistevano prima della
nascita del Cielo..., infatti sono divisioni del tempo...»
Questa celebre esposizione è la chiave di tutto il fregio,
che la sviluppa e illustra metodicamente attraverso una
serie di scene derivate dai poeti. Ma la scena della «creazione» è in stretta dipendenza da un passo del Panegirico a Stilicone, già utilizzato dal Boccaccio nella sua
Genealogia degli dei. Claudiano immagina che Febo stesso entri nell’antro della Natura in cui si trovano «sedes
aevique arcana», la dimora segreta del Tempo, per scegliervi l’età dell’oro destinata a Stilicone. Questa figurazione fornisce lo schema del riquadro del Poggio:
Est ignota procul, nostraeque impervia menti
Vix adeunda Deis, annorum squalida mater,
Immensa spelunca ævi, que tempora vasto
Suppeditat, revocatque sinu: complectitur antrum
Omnia qui placido consumit numine serpens...
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Ante fores natura sedet, cunctisque volantes
Dependent membris animae: mensura verendus
Scribit jura senex, numeros qui dividit astris,
Et cursus, stabilesque moras, quibus omnia vivunt,
Ac pereunt, fixis cum legibus ille recenset95.
L’antro è la dimora nascosta delle «madri», nello
stesso senso in cui il termine si trova in Goethe96; dalla
«matrona» seduta sulla soglia irraggiano le anime. È il
tema centrale del riquadro. Ma il vecchio che si trova
nel testo si è qui sdoppiato in due figure che costituiscono i due poli della composizione: una è il demone dell’antro e l’altra il giovane demiurgo che «scrive le regole immutabili». Il demone non è né greco né romano:
può derivare dai demoni etruschi come Tuchulcha, che
spesso accompagnano Caronte nei dipinti tombali, ad
esempio nella tomba dell’Orco o sui vasi, e che brandiscono simboli della potenza infernale97. Egli sembra riallacciarsi all’oscuro Demogorgone che nella Genealogia
degli dei viene descritto come «l’antenato di tutti gli dei
pagani», essere spaventoso, avvolto di nubi, nascosto
nelle viscere della terra, vicino all’Eternità e al Caos98.
L’autore del fregio avrebbe qui creato un tipo nuovo per
dare vita plastica all’impenetrabile «padre degli dei»,
accuratamente distinto dal demiurgo «platonico» che
prende il posto del Sole visitatore, che c’è invece in
Claudiano. L’idea di aevum risulta cosí assai meglio, al
di là di tutti i cicli relativi alla durata. Forse qui, come
in Claudiano, essa viene associata all’idea di un benefico novum aevum.
Questa elegante rappresentazione dei signa temporis
non trova precedenti. Inoltre essa comprende una rappresentazione scorciata dell’intero mito; essa corrisponde in realtà all’ordine in cui fecero la loro comparsa le
divinità antiche secondo i principali mitografi del Rinascimento, dal Boccaccio (la cui Genealogia degli dei rima-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
ne sino al Cinquecento un manuale fondamentale) alle
Imagini del Cartari (1556)99. In quest’opera tarda, ma
basata sulle stesse fonti degli umanisti fiorentini, l’ordine dell’esposizione è infatti questo: l’Eternità nella sua
caverna feconda (derivate dal Boccaccio e Claudiano),
Saturno il divoratore, Giano che governa le porte del
cielo e quelle della guerra e che è assistito dalle Quattro
Stagioni, infine Apollo con l’Aurora come messaggera.
Dato che in essa si ritrovano anche i Coribanti, citati
rapidamente a proposito della «Grande madre» (e non
di Giove), i fratelli Mors e Somnium, descritti di passaggio nel capitolo di Mercurio, il mitografo si trova ad
esporre a posteriori (tranne la serie dei mesi) tutta l’organizzazione del fregio; ne ha cioè conservato la struttura «teogonica». Ed anch’egli s’appoggia agli stessi
testi: «Ermete Trismegisto, i pitagorici e Platone hanno
affermato che il tempo è l’immagine dell’Eternità...»;
ma egli ricorda anche che Boezio e i platonici cristiani
distinguono l’eternità divina dalla perpetuità cosmica100.
L’importanza che i Fasti hanno avuto nella scelta dei
vari temi induce ad affermare che Poliziano è l’umanista autore del fregio. Chi altro avrebbe potuto integrare in questo modo Platone con Ovidio nella ricomposizione del tutto naturalistica e pagana dei grandi miti del
Tempo? Il mito antico, secondo un gusto caro all’autore delle Selve, è completamente latinizzato: i coribanti
sono dei guerrieri romani. Giano, dio italico come Saturno, diviene il centro della raffigurazione cosmica: il suo
piccolo tempio cade esattamente al centro del fregio e
segna cosí, con l’emblema del mitico re del Lazio, la facciata del Poggio. L’eleganza un po’ preziosa dell’esecuzione e le trovate compositive vengono ad addolcire la
indubbia ricercatezza del soggetto. Infatti l’insieme è,
nonostante tutto, dominato da un interesse incantevole per le forme della vita rustica col latte e miele nel tema
dell’infanzia di Giove, la vite e il grano nel tema delle
Storia dell’arte Einaudi
367
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
stagioni. Le possibilità della natura fioriscono all’ombra
delle forze che regolano l’attività degli uomini, il che
rappresenta un’allusione diretta agli allevamenti ed alle
colture della villa. L’elogio di Lorenzo agricoltore si
trova in questa pastorale in cui viene sviluppata la delicata convinzione del Poliziano:
…vivit… auctoribus astris,
Cura deum, agricola, atque animo praescita recenset
(Rusticus, 548-49).
3. «Pan Saturnius».
Fra le opere piú singolari della fine del Quattrocento è senza dubbio il Trionfo di Pan del Signorelli. L’asprezza plastica dello stile «duro» tocca qui il suo acme;
è senza dubbio la composizione di figure nude piú audace dell’epoca e si è sempre creduto di vedervi una meditazione sulla forza segreta dell’universo101. Ma si tratta
anche di un’opera fondamentale per chiarire i rapporti
fra l’arte e l’umanesimo a Firenze: la struttura e l’ispirazione di questa «opera affascinante» chiamano infatti direttamente in causa l’ambiente stesso del Magnifico e le consuetudini di Careggi102. Le informazioni
essenziali ci sono fornite dal Vasari che bambino aveva
conosciuto il pittore:
Da Siena venuto a Firenze, cosí per vedere l’opere di
quei maestri che allora vivevano, come quelle di molti passati, dipinse a Lorenzo de’ Medici, in una tela, alcuni Dei
ignudi, che gli furono molto comendati; e un quadro di
Nostra Donna con due Profeti piccoli di terretta, il quale
è oggi a Castello, villa del duca Cosimo: e l’una e l’altra
opera donò al detto Lorenzo, il quale non volle mai da
niuno esser vinto in esser liberale e magnifico103.
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Questa visita di Signorelli a Firenze è databile verso
il 1490-92104. Lo stile dell’opera presenta numerose analogie con i dipinti di questo periodo: la composizione
statica, in cui le linee direttrici sono definite dagli sguardi dei personaggi, si ritrova nella Madonna di Perugia
(1484) e in quella di Volterra (1491). Il Trionfo di Pan
presenta, come è stato spesso notato, la struttura di una
«sacra conversazione» nel disporsi delle figure intorno
al trono centrale, e la gravita di una tavola sacra105. Il
paesaggio, con le sue rocce scure e i suoi elementi architettonici, richiama da vicino la Madonna degli Uffizi
(circa 1490), ricordata dal Vasari, in cui un tempio circolare, un arco diruto e dei pastori suggeriscono il
mondo pagano. Questo stesso mondo lo ritroviamo nello
sfondo di un ritratto di quest’epoca (Berlino) e la pianura ritorna, anche qui punteggiata di edifici, nella Crocifissione di Urbino (1494).
Non c’è alcuna ragione per mettere in dubbio che il
Pan sia stato dipinto per Lorenzo come ci dice il Vasari106: si tratta, notiamo, di un punto capitale. Infatti le
abitudini dell’ambiente fiorentino (e di tutta l’epoca)
impediscono di pensare che un’opera, tanto rilevante
come dimensioni e cosí inconsueta come tema, sia stata
composta senza un preciso motivo. Ora tutta una serie
di testi ci dimostra che Pan era una divinità «medicea»
e compariva di continuo in poesie o epistole di circostanza.
L’origine di questa simbologia risiede in un gioco di
parole, schiettamente umanistico, sul nome di Cosimo
o Cosmus. La parola greca Cosmos permette di identificarlo col mondo e la forza universale che lo anima.
Questa dotta lusinga sembra essere stata usata ben presto107; il Ficino ne approfitterà in modo brillante in una
lettera gentile e celebre del settembre del 1462, in cui
ringrazia Cosimo di avergli assicurato con la villa di
Careggi un ritiro adatto alla contemplazione108. In que-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
sta lettera egli si mostra colmo di entusiasta riconoscenza; dopo aver ricopiato per il suo protettore «hymnum divi Orphei quem ad Cosmum id est mundum ille
cecinit», vede una sorta di presagio nello studio che ne
aveva appena fatto e aggiunge: «Ille si quidem ad te
retulisse videtur hymnum quem Cosmo sacravit, pro
me rogasse quae in orationis calce rogavit. Tu autem
celesti quodam afflatu, instictu exaudisse videris eo ipso
tempore quo a nobis relatus est hymnus, atque eadem
quae votum obsecrat, tradidisse...» L’analogia dei nomi
cela un incontro meraviglioso, che conferisce una nota
provvidenziale all’installazione dell’Academia; per concludere il Ficino prometteva di celebrare insieme l’anniversario di Cosimo e quello di Platone. Questi legami
tra la Academiola di Careggi e il suo fondatore furono
il grande motivo della festa di san Cosma, che venne ad
essere posta sotto il doppio segno di Pan (= Cosmos) e
di Saturno (= la contemplazione bucolica). Nella festa
dei santi Cosma e Damiano (27 settembre), regolarmente celebrata a Firenze e Careggi, si dava meno
importanza al santo medico patrono della città, che non
alla divinità del «cosmos» implicita nel suo nome e che
permetteva, grazie ad una utilizzazione divertente e
interessata, di celebrare insieme il patrono di Firenze,
il dio Pan e il capo della casa dei Medici, come se quest’ultimo fosse l’attuale rappresentante sia del primo
che del secondo109.
Chi viveva la vita della natura (i contadini e gli abitanti della campagna) erano naturalmente protetti da
Pan (Cosmos) e da Cosimo. In un frammento di dialogo del Ficino un contadino che chiede di essere ammesso a un banchetto commemorativo in onore di Cosimo
dichiara «Cosmianus quidam sum...»110. Una lunga epistola del 1480 spiega a Lorenzo le ragioni per le quali è
stata organizzata nella «piccola accademia di Febo»,
cioè nella villa dell’Accademia un banchetto per i con-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
tadini di Careggi il giorno della festa di san Cosma. I
contadini sono creature di Saturno. La festa era dunque
in onore di Pan il Saturnino, le cui virtú, che sono le
gioie della vita rustica, la felicità dei campi, il Ficino
oppone a «Febo che regna nelle città»:
Andandomene io questa mattina in sul levar del Sole
sopra la sommità di Monte Vecchio, il quale Cosimo al suo
Marsilio già diede, e contemplando io de la selva di quel
monte il pallazzo di Carreggio, subbito mi venne ne la
mente essere il giorno de la festa di S. Cosimo e Damiano, il quale dal gran Cosimo e da suoi figlioli è ogni anno
celebrato. Allhora non potei fare ch’io non mi dolessi,
non vedendo io cittadino alcuno venuto a quella festa,
come soleva essere usanza. Allhora subbito quel divino
Cosimo, al quale Giove un Imperio, senza fine ha dato, da
una altissima querce, con tale divine parole parlandomi mi
consolo: «Marsilio mio, questa mia festa hoggi il pietoso
Lorenzo ne la città rinnova. E tu qui in villa se obbedir mi
vorrai in quella selva la celebrerai. Né ti vergognare questi miei vecchi e Saturnini agricoltori sotto la cima di questo monte, ne la Accademia a Febo sacrata a convito invitare. Conciosia che hoggi come l’Astronomia vi insegna,
Saturno e Febo in Cielo si congiungono. La mia volontà
Marsilio è questa; che sí come hoggi in Cielo si fa, cosí in
terra si facci, accioche e quivi e quaggiú le cose di Apollo
con quelle di Saturno si congiungano. O felicissimo humano genere, se la roza sistola del Saturnino, Pane con la civil
cetera di Febo s’accordasse, e se sempre gl’offitii di ambedue questi Iddii appresso di noi congiunti fussero. Queste
come vedi hoggi in Cielo si mescolano, tu anchora appresso gli huomini sempre in terra le mescolerai. Sta sano».
Vere queste cose, ch’io dico, Magnanimo Lorenzo
sono. E cosí prima meco stesso mi rattristava come ho
detto, e cosí mi parve che Cosimo mi ammonisse e consolasse. E cosí finalmente un Apollineo convito, cioè filoso-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
fico, a li Saturnini huomini, cioè a li vecchi agricoltori
nostri apparecchiai, il quale senza la lira et altre solennità
non fu. La festa di San Cosimo, come il tempo, il luogo e
la facultà comportava volentieri e felicemente celebrammo.
Perché ho io detto queste cose? Acciò che noi da le parole di Cosimo ammoniti, se felicemente viver vogliamo,
l’altre cose o tralasciate o abbandonate, conosciamo che
Febo insieme a Saturno honorar doveamo. Cioè che ogni
giorno doviamo cose rustiche a le Muse dedicare. E che
anchora le Muse da le civili faccende, a li colli di Cerere e
di Bacco spesso trasportar si possono. State sane felicemente111.
L’idea era cara al Ficino e, all’avvento del Magnifico, gli aveva scritto: «Si come Iddio haveva formato
Cosimo secondo l’Idea del mondo, cosí voi formate voi
stesso secondo l’idea di Cosimo, come havete cominciato»112. Ma già nelle bucoliche di Naldo Naldi, una
serie di composizioni a chiave in cui si ritrova, travestita, tutta la società medicea, una egloga era consacrata
alla morte di Silvanus o Pan, signore di Firenze, depositario della ars medica (in senso fisico e morale), che è
appena scomparso e salito al cielo: allusione a Piero,
morto nel 1468113. Il soprannome simbolico passava cosí
ai discendenti. In una lettera del Ficino si vede molto
chiaramente come la festa di san Cosma (= Pan) sia
stata trasmessa dal nonno al nipote e si trovi associata
al ciclo Saturnino: «Redeunt hodie, unice patrone, sacra
illa divi Cosmi solemnia, quae integrum jam Saturni
cursum, primo quidem sub magno Cosmo, deinde apud
pium Petrum, demum penes magnanimum Laurentium,
quotannis colere consuevimus»114.
La lunga epistola del 1480 acquista cosí il suo pieno
valore. Giocando sul ricordo di Cosimo, che possedeva
il dono «gioviano» dei reggitori d’uomini (donde l’oracolo dalla quercia), ricorda a Lorenzo che il Pan medi-
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ceo, dio della vita bucolica, è un Pan Saturnino. L’oracolo reso dall’ombra di Cosimo ha il valore di un invito
a non dimenticare l’otium campestre propizio alla meditazione. Il simbolo si amplia e viene ora a indicare un
intreccio molto vasto d’idee filosofiche e poetiche, che
permette di rimproverare con discrezione a Lorenzo di
non essere fedele alla vocazione rustica e contemplativa
della sua stirpe. Il Pan Saturnino porta a Careggi.
Nelle sue poesie giovanili d’altronde il nipote di
Cosimo aveva riservato un certo spazio al mito di Pan.
L’Altercatio che per l’appunto colloca in un ambiente
bucolico una meditazione, derivata direttamente da una
epistola del Ficino, sui gradi della felicità, si apre con
una invocazione al dio:
Pan, quale ogni pastore onora e venera,
il cui nome in Arcadia si celébra
che impera a quel che si corrompe o genera...115.
Nell’egloga incompiuta di Apollo e Pan la doppia
ispirazione che abbiamo già visto nell’epistola del Ficino viene sviluppata in forma di certamen poeticum nella
valle di Tempe. Il canto di Pan è una lagnanza contro
l’amore, forza spietata che ha provocato la morte di
Dafni, il pastore siciliano cresciuto da Pan, e che ora tormenta la ninfa Siringa... Il tema dell’amore viene cosí a
completare la figura del Pan Saturnino dei Medici,
aggiungendovi la tristezza, la nota di disperazione e
malinconia sentimentale propria all’«amore delle creature umane», che costituisce l’ispirazione fondamentale della poesia di Lorenzo116. Di questo terrà conto il
quadro del Signorelli. Il Signore di Firenze ebbe per
tutta la vita la nostalgia delle dimore bucoliche, propizie al sogno e favorevoli alla saggezza contemplativa. Dal
poema dell’Ambra alle Selve, alle egloghe, il motivo
pastorale, le forze vive della natura e il paesaggio tosca-
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no non avevano cessato d’ispirare la poesia di Lorenzo,
che il Ficino nel 1491 descriveva come il poeta puro, in
preda all’ebrezza dionisiaca sulle colline dell’Arno. Due
mesi prima della morte egli pensava (e, pare, seriamente) a ritirarvisi117. È questo certamente solo un aspetto
della personalità di Lorenzo, ma quello che forse lo
lusingava di piú è che, al prestigio della politica e della
grandezza, veniva ad aggiungere il tormento di una vita
pura, di una vocazione personale che non riesce a realizzarsi118.
In questo contesto deve essere visto il grande quadro del Signorelli ed è possibile cogliervi la rappresentazione piú completa dei legami tra i Medici e l’Accademia ficiniana119. Abbiamo insomma qui il corrispettivo del benefico regno di Venere, rappresentata qualche
anno prima, nella Primavera del Botticelli, come la divinità tutelare di Lorenzo di Pierfrancesco, cugino del
Magnifico. E sia nell’uno che nell’altro abbiamo la celebrazione di una potenza accuratamente definita nei
commenti degli umanisti in rapporto a una personalità
particolare120.
L’origine del quadro è del tutto letteraria; ma vi si
possono scoprire rapporti con alcune «immagini» antiche del dio. In piú d’un dipinto pompeiano egli appare
come un giovane, barbuto o imberbe, a volte in aspetto di musico, a volte di dio-pastore. Nella composizione del Signorelli troviamo unite le due forme. D’altra
parte un curioso marmo raffigura il torso d’una divinità
alata tutta segnata, e per cosí dire tatuata, con le figure degli dei per mettere in evidenza la potenza universale di Pan ôreisma pßntwn121.
Abbiamo infine una pietra incisa (già collezione Stosch) nella quale un fauno nettamente disegnato suona il
flauto vicino a un altare circondato tutto intorno da una
corona celeste costituita dai segni dello zodiaco. Un
secondo esemplare è noto da una descrizione. Ma non
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
manca chi pensa che si tratti di contaminazioni rinascimentali. Se cosí fosse questa piccola composizione, verosimilmente proveniente dall’Italia settentrionale, costituirebbe una sorta di parallelo della tavola signorelliana.
Tutte queste rappresentazioni s’ispirano a un’idea di
Pan formatasi non sulla base del folclore greco o delle
bucoliche (dove Pan è un demone turbolento ed irsuto),
ma sulla base dell’interpretazione che ne dánno l’inno
omerico e l’inno orfico, due testi familiari ai grecisti fiorentini del Quattrocento. Comunque è quest’idea poetica e «mistica» di Pan (già attestata da Servio nel ii
secolo) che guida il quadro del Signorelli. Non è quindi
necessario cercare se l’autore abbia seguito in particolare la descrizione di Servio (Comm. ad Buc., II, 31), o
quella di Petrarca (Africa, III, 194 sgg.), o infine quella del Boccaccio (Genealogia deorum gentilium, I) che era
la piú seguita122. Il dio dal piede di capra ha le due corna
a luna, la faccia rossastra, i capelli sparsi, la nebride
costellata, come ricordano il Boccaccio e Servio, essendo fatto «a somiglianza della natura», cioè comprendendo in sé il principio di tutti gli elementi. Impugna il
flauto a sette canne che corrisponde all’armonia del cielo
e la verga ricurva simbolo dell’anno che ritorna senza
fine su se stesso e, quindi, dei cicli dell’universo fisico.
E lo stile severo del Signorelli ha realizzato qui una
delle immagini piú forti di tutto il Rinascimento.
Ma anche la composizione non trova precedenti
nelle fonti mitografiche: essa stessa costituisce invece il
commento originale o, piú esattamente, un adattamento coerente del soggetto. Insieme col dio stanno dei
contadini, dei pastori con la bisaccia ed il bastone; sono
nudi come devono esserlo gli abitanti della campagna
ideale di Tempe ed i seguaci degli dei antichi; i corpi,
alternatamente bianchi e color rame, richiamano le figure del mondo ante legem che ricorrono nei quadri sacri
del Signorelli e nel tondo Doni di Michelangelo (1503-
Storia dell’arte Einaudi
375
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
504)123. La ninfa in piedi a sinistra (il suo corpo è di una
struttura massiccia che è esattamente l’opposto delle
forme flessibili del Botticelli)124 introduce molto verosimilmente il motivo di Siringa che fu inseguita da Pan e
trasformata in canna. Fu allora, secondo il mito, che il
dio, per consolarsi, inventò il flauto. La composizione
raccoglie dunque intorno a Pan il ciclo dei desideri che
si fuggono l’uno l’altro; i rapporti tra i personaggi, definiti dai loro sguardi, ruotano intorno alla ninfa. Pan
tiene gli occhi sulla figura femminile indifferente e non
fa attenzione né al giovane pastore che suona per lui la
cornamusa né al vecchio in piedi che, con la mano alzata, l’ammonisce. L’atteggiamento degli altri personaggi
viene a completare questa trama di attrazioni e repulsioni: il vecchio pastore di profilo a destra, e il giovane
pastore coronato di pampini è bizzarramente coricato a
terra, che equilibrano la composizione, sembrano
entrambi fissare Siringa e sorvegliare il suo atteggiamento. Ad aggiungere una nota significativa alla scena
è la ninfa seduta sul bordo sinistro nel classico atteggiamento della malinconia; essa offre in certo modo la
chiave psicologica della composizione, nella quale, intorno al dio sognante, s’esprime quella catena di desideri e
illusioni di cui le poesie del Magnifico di continuo analizzano il principio e gli effetti. Pan è il dio saturnino
della natura, del desiderio e dei loro cicli senza fine125.
Il giovane suonatore di flauto e il saggio in piedi sul
basamento del trono rappresentano le due forze spirituali che contribuiscono a definire questo universo: la
musica e la filosofia. Esse fanno parte della «pastorale»
completa e l’importanza attribuita a questi compagni del
dio amplia la composizione fino a farle assumere le
dimensioni di una Arcadia degna di essere visitata. Se
Pan rappresenta la divinità tutelare di Lorenzo (e in
certo senso Lorenzo stesso) il vecchio e il pastore devono rappresentare la tentazione dell’otium rustico, cioè
Storia dell’arte Einaudi
376
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
l’aspirazione alle gioie superiori della vita solitaria che
Lorenzo cosí spesso ammetteva in questi anni 1490-92,
nei quali il quadro è stato dipinto, e di cui in gioventú
diceva che la loro seduzione era come il suono del flauto del vecchio montanaro Marsilo. Il Signorelli ha dunque compendiato tutto ciò che Lorenzo spesso aveva
messo in rapporto al dio mediceo. La tristezza sorda
della scena, la sua atmosfera malinconica accentuata dai
toni rossastri di crepuscolo, le lunghe ombre portate
che sottolineano l’immobilità dei personaggi, vengono
ad aggiungere un accento intenso a questa evocazione
letteraria. La poesia di questo capolavoro va al di là di
Lorenzo e per la prima volta esprime il fondo sentimentale di quella vocazione pastorale umanistica che fiorirà nell’Arcadia del Sannazzaro126. La simmetria della
composizione e la rigidità quasi liturgica dell’insieme
accentuano il suo valore di simbolo e la tavola dimostra
i contatti del Signorelli con l’ambiente fiorentino non
meno del suo desiderio di lusingare Lorenzo. Questi
forniva il fondo che permetteva di render concreto il
mito. Per averne in qualche modo una controprova,
basta riflettere che il tema, trattato dallo stesso artista,
ha mutato significato in circostanze diverse. Nel 151314 il Signorelli fu chiamato a decorare il palazzo di Pandolfo Petrucci a Siena. In una serie di otto tavole compose una Festa di Pan che fu celebrata da una descrizione di Guglielmo della Valle e di cui un disegno, probabilmente copia cinquecentesca (British Museum), ci conserva il ricordo. La figura del dio appare qui piú conforme alle notizie dei mitografi: è irsuto e barbuto; a sinistra si levano le tre Parche in quanto Pan, secondo i
miti, è nato da Demogorgone e dal Caos, con le tre Parche. Il tumulto dei rustici musicanti che si agitano intorno a lui non ha piú nulla a che vedere con la serenità
malinconica della pastorale medicea127.
Storia dell’arte Einaudi
377
Capitolo secondo
La storia
Nel Rinascimento, come nel medioevo, la storia nelle
città italiane assumeva due aspetti diversi: uno universale e uno locale, che non sempre riuscivano a saldarsi
con precisione. Le cronache esponevano le leggende
delle origini e agli eroi fondatori venivano ad aggiungersi
gli «uomini famosi» del passato recente. D’altra parte
l’evoluzione dell’umanità era narrata dalla creazione del
mondo, e la successione delle epoche rimaneva quella di
cui la cronaca di Eusebio, tradotta da san Girolamo, e
il libro di Isidoro di Siviglia, avevano da tempo fissato
lo schema. I primi umanisti sentirono la necessità di rinnovare e rendere piú suggestivo il repertorio degli
«uomini famosi»; il De viris illustribus di Petrarca comprende i grandi nomi ex omnibus terris ac saeculis. Ma la
prospettiva in cui questi nomi appaiono non è quella
della durata, ma quella del valore umano e dei suoi
gradi. La storia «umanistica» si presenta anzitutto come
una collezione di exempla: cosí i Rerum memorandarum
libri IV in cui il Petrarca utilizza Valerio Massimo, cosí
le celebri raccolte del Boccaccio: De casibus illustrium
virorum (da Adamo al recente duca d’Atene) e De claris
mulieribus (da Eva a Giovanna di Napoli), cosí la Commedia di Dante e i Trionfi del Petrarca distribuiscono
anch’essi gli «uomini famosi» secondo un ordine morale e filosofico che trascende la storia.
Ne risulta la tendenza, se non a confondere l’eroe
Storia dell’arte Einaudi
378
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
storico col santo, almeno a comporre, di contro al repertorio dei personaggi onorati dalla Chiesa, quello dei personaggi che hanno illustrato la vita profana. E le figure
antiche, considerate come nazionali, vengono ad assumere un posto sempre maggiore nella decorazione delle
sale del consiglio o degli edifici pubblici, spesso per celebrare le virtú cristiane. L’esempio piú significativo sarà
rappresentato dalla galleria di eroi del Cambio di Perugia, dove Licinio, Leonida, Orazio Coclite appaiono
sotto il segno della Fortitudo, Scipione, Pericle, Cincinnato sotto quello della Temperantia ecc. Ma questa fusione si avrà solo a conclusione di un processo assai lento.
Queste gallerie di «uomini famosi», che furono di moda
dopo il 1300 presso i principi e i comuni d’Italia, sono
quasi tutte scomparse; si ha solo il ricordo dei prodi e
degli eroi di Giotto nel Castel dell’Ovo a Napoli (circa
1330), di quelli del palazzo dei Visconti a Milano, del
palazzo degli Scaligeri a Verona. Nel 1370 il Guariento
aveva coperto i muri del palazzo del Capitano a Padova con la serie dei Dodici Cesari128. Il gusto settentrionale era già orientato verso le serie romane nelle quali
trionferà il Mantegna. Mezzo secolo dopo, verso il 142030, troviamo in Umbria, nel palazzo Baglioni di Perugia e nel palazzo Trinci di Foligno, dei complessi meno
esclusivi in cui i prodi vanno insieme con i giuristi ed i
saggi, cosa che in parte preannuncia lo spirito del Collegio del Cambio129. La sala della Jole, decorata dal Boccati intorno al 1445-60, a Urbino, sarà ornata solamente da figure militari. A Firenze, dove le cronache municipali e le serie di illustrazioni locali si erano sviluppate
ad una data assai precoce, la celebrazione degli «uomini famosi» sembra essere stata limitata alle glorie della
città. Un ciclo di uomini famosi è segnalato dal Vasari
nel palazzo di Giovanni di Bicci de’ Medici, ma non se
ne sa nulla. All’inizio del secolo il palazzo del Proconsolo diventa una sorta di museo dei grandi nomi della
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379
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
città: accanto a Claudiano, il Salutati, ecc., il Castagno
vi dipingerà, subito dopo la morte del Bruni, l’immagine sua, il Pollaiolo quelle di Poggio e del Manetti130.
Intorno al 1450 la poderosa decorazione della villa di
Legnaia contrappone a tre dame illustri del Boccaccio i
tre poeti maggiori e tre uomini di stato toscani con una
fermezza che per lungo tempo dominerà in questo genere. I personaggi sono eroici nel tipo, nella statura e nello
stile131.
Verso il 1445-48 Paolo Uccello aveva introdotto a
Padova, nella decorazione di casa Vitaliani, la grande
maniera monumentale con le sue figure di uomini celebri che furono soprannominati i Giganti132. Un’idea di
questa opera perduta si può avere dai disegni della cronaca di Leonardo da Besozzo che contiene due serie di
illustrazioni: una derivata dai modelli della fine del Trecento, l’altra di impronta toscana. La coincidenza di
questo complesso con il programma ideale definito qualche anno dopo dal Filarete: «Tutte l’età e gli uomini di
fama» (le sei età del mondo secondo Isidoro di Siviglia),
sta a dimostrare che verso la metà del secolo ci fu un
ritorno ai grandi panorami di storia universale. A Firenze questo genere di rappresentazioni fino allora non si
era avuto che nei quadri viventi delle feste popolari e
nell’arte dei «cassoni»133. Verso il 1450-60 tutti questi
campi diversi vengono a confluire insieme. La curiosità
si risveglia, in parte per influenze settentrionali; e la rappresentazione storica diventa un genere di moda. Il
documento piú divertente e piú completo è la straordinaria Cronaca illustrata di Maso Finiguerra. I personaggi famosi della storia greca e romana vi si alternano con
quelli della storia biblica e cristiana in una decorazione
sovrabbondante e bizzarra, in vesti complicate immaginate da orefici e disegnatori pieni di spirito. Lo spirito
di queste scene non è meno notevole dello stile. Si insiste sull’insolito e sul meraviglioso: Prometeo modella un
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
homunculus, Saturno è un re pastorale dell’età dell’oro;
Giuseppe trionfa su un carro di covoni. Vi si vedono
anche delle scene eccezionali, Zoroastro fra i libri occulti, Ermete Trismegisto intento ad opere di negromanzia. La storia eroica e quella romanzata assumono in questo contesto un accento nuovo che non si trova fuori
Firenze. L’importanza di questa cronaca sta nei legami
che la bottega del Finiguerra mostra di aver avuto con
i fratelli Pollaiolo e nella parte che essa ha avuto nella
formazione di un gran numero di pittori-orefici della
fine del Quattrocento134. Ma l’interesse che essa dimostra per il «meraviglioso» nella storia, merita anche di
essere avvicinato all’orientamento assunto dall’umanesimo fiorentino nello stesso periodo: il Pimandro viene
pubblicato dal Ficino in traduzione italiana nel 1463 e
una ondata di ermetismo «magico» si diffonde allora
nell’ambiente intellettuale. Ricongiungendosi all’immaginazione popolare esso sembra aver contribuito a conferire un certo colore alle rappresentazioni storiche.
1. La storia profetica.
Per san Giovanni, festa del patrono di Firenze, c’era
la tradizione di compendiare in quadri viventi la storia
del mondo. Se ne presentavano spesso anche il giorno
dell’Annunciazione che era il primo giorno dell’anno.
Per consuetudine comune a tutto l’Occidente in questi
cortei si inserivano scene antiche appropriate nella serie
dei carri consacrati alla Storia Sacra. Nel giugno del
1464, quattordici carri presentavano, dopo il Padre
Eterno, la Caduta, Mosè, un gruppo composto da Profeti, Sibille e da Ermete Trismegisto, annunciante il Messia; dopo l’Annunciazione, venivano Augusto e la Sibilla; la Natività era presentata nel tempio romano della
Pace. I particolari di queste figurazioni e lo stile dei fon-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
dali non sono meglio conosciuti: è possibile solo immaginarli sulla base delle composizioni dipinte che osservano le stesse convenzioni, tanto piú che sono dovute
per lo piú alle stesse mani135.
È nel Quattrocento che, anziché figure isolate, compare l’intero consesso delle sibille136. Le dieci figure del
tempio Malatestiano a Rimini, quelle della «cappella
degli antenati», sono accompagnate da due profeti. Agostino di Duccio dà loro una fisionomia rugosa, agita le
pieghe delle vesti e snoda dei filatteri sui quali figurano
le frasi caratteristiche derivate dal trattato delle Istituzioni divine di Lattanzio. È difficile dire se questo insieme sia in qualche modo debitore agli esempi romani e
in particolare al ciclo dipinto prima del 1438 per il cardinale Orsini, in cui comparivano dodici sibille dotate
di un’età, di un tipo, di un costume e di «parole»,
insomma di una iconografia, piú precise che a Rimini137.
Ma per la prima volta, a quel che sembra, le figure delle
sacerdotesse non appaiono in una chiesa in rapporto
con l’Annunciazione o la Natività, ma come espressione di un fatto dottrinale, che si adatta notevolmente al
programma umanistico del tempio.
L’edizione del 1465 del trattato di Lattanzio può
aver conferito una nuova coerenza al soggetto, soprattutto nei paesi settentrionali138. In Italia non poteva che
confermare un interesse diffuso per le sacerdotesse antiche e la prova piú significativa di questo si ha nell’introduzione delle nuove sibille (1482-83), accompagnate
da Ermete Trismegisto (1488), nei riquadri figurati del
pavimento del Duomo di Siena139. In piedi, panneggiate in vesti sontuose, calzate di sandali, le sacerdotesse
spiccano sul fondo unito del pavimento. Un’iscrizione
fornisce il nome di ognuna; il riferimento dotto: «Cumana cuius meminit Virgilius Eclog. IV, Sibylla delphica
de qua Chrysipus de divinat. Sibylla lybica cuius meminit Euripides...», deriva da Varrone attraverso Lattan-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
zio. Una seconda iscrizione, messa in una cartella retta,
a seconda dei casi, dai putti, dalle sfingi, da un treppiede, o da serpenti, enuncia la profezia per cui ognuna
è entrata nella storia. A volte addirittura, come i santi
annunciatori, le sibille tengono aperto il libro che rivela la concordanza generale tra la «fede» pagana e quella cristiana. Questo sfoggio d’erudizione è meno nuovo
di quanto non sia la stessa presentazione: nel 1488,
conforme al programma dei cortei della festa di san Giovanni, ma anche conforme all’insegnamento del Ficino,
un bell’Ermete Trismegisto verrà a completare la serie140.
Alla tradizione popolare si sovrappone cosí, dopo il
1460 la «resurrezione» erudita di questi personaggi che
si collocano per l’appunto alla congiuntura tra il mondo
antico e il mondo cristiano; il piccolo trattato dedicato
ad esse da F. Barbieri in appendice alle sue Discordantiae (1481) non è un punto di partenza per l’iconografia, ma un tentativo di orientare le curiosità attraverso
il parallelismo dei profeti e delle sibille141. Una teoria
generale del «principio profetico» presso i pagani proprio allora veniva formulata dal Ficino nel suo De christiana religione (1474), e la sua Theologia platonica (XIII,
11) fornirà un’attenta analisi della psicologia dei Profeti, sibille e indovini. La loro grandezza è dovuta a due elementi, il furor divinus che li agita e il sapere occulto che
manifestano. Il vaticinium, celebrato già da Leonardo
Bruni e che è l’oggetto di tanti commenti del Ficino, è
il dono essenziale della Sibilla e del profeta, ma rientra
nella gamma dei furores sacri e apparenta le sibille ai
poeti e ai veggenti superiori142. Viene cosí a formarsi
un’idea generica della sibilla, che può spiegare perché,
al momento in cui l’immagine è sempre piú diffusa, il
numero preciso di queste annunciatrici sembra aver poca
importanza e i loro attributi variano senza che diano
luogo a inconvenienti. L’idea viene apertamente sforzata: non si tratta piú di una serie curiosa di coinciden-
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ze storiche, ma della concordanza di due religioni: il
Ficino, nel suo capitolo Authoritas Sibyllarum richiama
l’esistenza degli Oracula sibyllina nel sacrarium di Roma
e l’uso che ne ha fatto Virgilio, e conclude l’esame della
loro «testimonianza» con la parola di Ermete che afferma la validità della sua dottrina fino all’apparizione di
un saggio piú prossimo al divino, sacratior aliquis. Questa decisa rivalutazione non era ammessa dovunque e si
trovano spesso apprezzamenti piú cauti da parte di teologi, che insistono sull’«ignoranza pagana» di queste
sacerdotesse e non riconoscono loro il vantaggio costante di un sapere superiore, ma solo degli annunci strappati grazie all’intervento divino143.
La voga delle sibille è palese soprattutto in Toscana;
le stampe di Baccio Baldini, i medaglioni di Attavante
nel Breviario di Mattia Corvino (1487) ne sono modeste
testimonianze144. Ci sono però anche sviluppi originali,
sia per quanto riguarda il ruolo «messianico» riservato
alla Tiburtina, sia per quanto riguarda la figura apocalittica incarnata dalla Sibilla Eritrea annunciatrice del
Giudizio finale145. La scena di Augusto e della Sibilla
Tiburtina, che era sempre stata popolare e doveva
restarlo a lungo, era associata alla Natività «nelle rovine del tempio della Pace». Il motivo del tempio-capanna, che diviene generale nell’arte italiana verso la metà
del secolo, era proprio del repertorio fiorentino: lo si
trova nella Cronaca del 1460, in una sacra rappresentazione del 1465 ecc146. Avrà particolare evidenza nella
tavola d’altare della cappella Sassetti, la quale nel suo
insieme è dedicata alla festa del Natale, con la scena di
Augusto e la Sibilla sulla facciata d’ingresso e quattro
delle profetesse pagane agli angoli della volta147. Nella
pala d’altare il Bambino riposa presso un sarcofago antico davanti ad un tetto di canne sostenuto da due colonne scanalate: queste rappresentano l’edificio imperiale
del Templum Pacis che, secondo la pia leggenda, si sareb-
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be aperto alla nascita di Gesú. Allusione che si trova in
tutte le Natività fiorentine ed italiane del Quattrocento in cui figura un portico o una rovina. Ma in questo
caso le due colonne sono anche due pilastri di Santa
Maria Novella a Firenze, che secondo la credenza dei
pellegrini di Roma, attestata dalle note di Giovanni
Rucellai nel 1460, erano in passato appartenuti al tempio romano148. I riferimenti eruditi si sono moltiplicati:
il corteo dei Magi passa a sinistra sotto un arco di
trionfo. Avendo trovato in Giuseppe Flavio la notizia
secondo cui Pompeo avrebbe rispettato il tempio di
Gerusalemme, un amico dei Sassetti, il Fonzio, ebbe l’idea dell’iscrizione del gran sacerdote Hircanus e di quella dell’augure Fulvius, che furono poste rispettivamente sull’arco di trionfo e sul sarcofago antico: la prima
ricorda il rispetto di Roma per Israele, la seconda profetizza la venuta di un nuovo dio. Un episodio della storia di Pompeo serve anche a legare tra di loro le tre grandi religioni del mondo in uno scenario pittoresco, nel
quale la storia antica, grazie anche all’epigrafia, diventa tutta quanta una sorta di oracolo sibillino149.
Nella cappella di Orvieto la sibilla, affiancata da un
impetuoso profeta, sembra dare inizio allo spettacolo
della fine del mondo: è il tema del Dies irae: teste David
cum Sibylla. La sua declamazione è per cosí dire accompagnata, nel registro inferiore, dal violento movimento
del poeta-filosofo che sembra uscire dal suo medaglione: è Empedocle che scopre la catastrofe finale annunciata dalla sua dottrina. Alla stessa data il Perugino
introduceva nella sala del Cambio sei sibille accanto a
sei profeti di fronte agli eroi ed ai saggi: la qualità delle
figure femminili è tale che si è voluto attribuirle a Raffaello. Ma se questo gruppo rappresenta uno dei momenti felici del Perugino, è però impreciso e senza mistero.
Nei programmi umbri le sacerdotesse antiche occupano
semplicemente il posto loro accordato dalla nuova fase
Storia dell’arte Einaudi
385
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
dell’iconografia cristiana150. Questo invece non avverrà
nella cappella Sistina, dove Michelangelo ha chiaramente cercato di penetrare i valori spirituali a loro attribuiti. L’artista ha mantenuto solo le prime cinque figure dell’elenco di Lattanzio, le quali si alternano con i
profeti di cui sono la versione femminile. Esse sono
rappresentate come depositarie della visione teologica e
probabilmente sono state disposte in relazione con le
storie della genesi figurate nella volta. Rappresentano le
diverse fasi del tormento dello «spirito», nel suo passare dalla ricerca alla scoperta, dalla passività all’azione,
in un complesso che non è piú storico ma dottrinario.
Le vesti e i mantelli hanno uno stile piú largo e semplice; la Delfica porta un vero e proprio chitone151. Raffaello non poteva a sua volta ignorare questa nobilitazione della sibilla: nel 1514, sulla fronte della cappella
di Santa Maria della Pace costruita per Agostino Chigi
rappresentò un gruppo di sibille e un gruppo di profeti,
che dispose su due ordini sovrapposti. La Cumana, la
Persica, la Frigia, la Tiburtina sono indicate da cartelle
o filatteri con scritte in greco, tranne quello della Frigia
(iam nova progenies). È possibile dubitare dell’autografia di queste figure, ma i disegni ci dimostrano le varie
fasi delle sue riflessioni sul soggetto. La risposta alla
Sistina michelangiolesca si vede negli atteggiamenti, nei
drappeggi, nel moltiplicarsi degli angeli e dei putti. Solo
c’è piú dolcezza negli sguardi: il regno della visione rientra qui in quello dell’amore. Raffaello ha dichiarato il
suo sentimento mettendo in mano al genietto che sta
sulla chiave di volta, fratello di quello della Segnatura,
una torcia accesa. È l’emblema sia del furor amatorius
che del vaticinium: in un primo abbozzo, noto da un
disegno (Stoccolma), il genietto sollevava due piccoli
vassoi infuocati152.
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
2. La storia sacerdotale. L’adorazione dei Magi.
Un numero grande, addirittura eccezionale, di quadri dell’Epifania è stato ordinato dai Medici o eseguito
in loro onore. La storia della pittura fiorentina nella
seconda metà del Quattrocento è per cosí dire contrappuntata da una serie di celebri Adorazioni dei Magi,
nelle quali la tradizione ha indicato, a torto o a ragione,
dei ritratti medicei: l’affresco di Benozzo Gozzoli,
dipinto nella cappella di palazzo Medici nel 1459, la
tavola commessa nel 1475 a Botticelli da Gasparre di
Zanobi del Lama, la composizione non finita di Leonardo del 1481-82, l’opera tarda e non finita di Botticelli certamente posteriore al 1492, il gruppo eseguito da
Filippino Lippi nel 1496 per i monaci di San Donato a
Scopeto, senza dimenticare il tondo del Ghirlandaio
(1487) e la sua tavola dell’ospedale degli Innocenti a
Firenze. Questo soggetto trattato tanto volentieri in
tutto l’Occidente conosce un notevole favore a Firenze
dove gli artisti sembrano attratti volta volta dal problema della composizione nello spazio o da quello dei tipi
e dei ritratti153.
La decorazione della cappella Medici mostra chiaramente come, già all’epoca di Cosimo, il soggetto sollecitasse una trattazione simbolica e l’introduzione di elementi d’attualità. Il paesaggio-giardino, la caccia al gattopardo, il corteo in cui abbondano i ritratti, vengono
a ambientare la scena in Toscana. I tre Magi rappresentano le tre età della vita sotto forma di tre personaggi
celebri: il piú vecchio è il patriarca di Costantinopoli,
Giuseppe, morto a Firenze dopo il celebre concilio del
1439; il re malinconico è l’imperatore Giovanni VII
che, in questa occasione, aveva ottenuto un trattato
contro gli Ottomani. Ai «Magi greci» che avevano stupito i fiorentini vent’anni prima, il pittore aggiunge un
«Mago fiorentino» nel costume in cui si era distinto in
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occasione della festa orientale data in piazza della Signoria nel 1459: è Lorenzo, che porta lo stesso turbante
decorato di «quarti disposti alla turca» che si vede in
capo anche al Paleologo154. L’unità è piú marcata e le
allusioni contemporanee piú sottili nelle tavole del Botticelli. La Natività con i Magi fu uno dei suoi temi preferiti155: egli seppe immediatamente evitare, attraverso
una rigorosa costruzione prospettica, la dispersione narrativa del Gozzoli. Nel tondo di Londra si trovano ancora i cavalieri, gli araldi e perfino, a destra, la scena di
caccia, insomma tutti quegli elementi che rientrano in
quello che potremmo dire il pittoresco del tema. Ma le
due file di spettatori sono disposte simmetricamente
intorno alla Vergine che occupa il centro esatto. Una
certa ingenuità nel raggruppare le figure non fa che rendere piú sensibile lo sforzo del pittore per tenere in
pugno il quadro. La festa profana tende a trasformarsi
in una riunione appassionata: un ebreo che si vede di
faccia, in basso a sinistra, appoggiato su un blocco, rimane pensoso, mentre al suo fianco due personaggi indicano con perplessità i fenomeni celesti: è questo un elemento antico delle Natività, ma contribuisce alla serietà
della tavola.
La celebre pala d’altare degli Uffizi è una delle opere
piú solidamente disegnate del pittore. Egli concentra
ancora di piú l’effetto e non fa che sviluppare la parte
centrale del tondo. Il quadro, piú equilibrato, interamente svolto secondo la prospettiva ascendente, mostra
i personaggi presi da un interesse comune: solo tre sono
distratti (tra questi verosimilmente il pittore e il donatore a destra) e guardano verso lo spettatore; tutti gli
altri sono attenti al «mistero» centrale. In base a indicazioni del Vasari, sono stati identificati i Magi: Cosimo (morto nel 1464) sarebbe Melchiorre, Piero il Gottoso (morto nel 1463) Baldassarre inginocchiato al centro, Giovanni (morto a 32 anni nel 1463) sarebbe
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Gasparre a destra. I due eredi della casa Medici, Lorenzo e Giuliano, fanno parte del seguito in cui si vede
anche il committente del quadro, Gasparre di Zanobi
del Lama, che l’aveva commissionato per il suo altare di
Santa Maria Novella156. La presenza di tutta la famiglia
medicea, morti e vivi, non è mai stata chiaramente spiegata: senza dubbio, come fa Fouquet che pone Carlo VII
ai piedi della Vergine e del Bambino, i pittori dell’occidente cercavano abitualmente il tipo di re orientali nei
principi del loro tempo e il Gozzoli già ne aveva dato l’esempio. Ma nell’opera del Botticelli notiamo un’insistenza tanto piú notevole in quanto la composizione
non è piú una sfilata pittoresca e gioiosa; si ha piuttosto l’impressione di assistere ad una cerimonia religiosa, a un atto liturgico.
A partire dal 1480 le Natività fiorentine assumono
un doppio carattere: di pittoresco antichizzante (che si
sostituisce al pittoresco orientale) nel Ghirlandaio, di
concentrazione drammatica in Leonardo. Il Ghirlandaio
mantiene le formule botticelliane, ma vi introduce un’insistenza tutta «fiamminga» per gli orizzonti, gli sviluppi e le tonalità del paesaggio (nel 1477 il trittico di
Hugo van der Goes era giunto all’ospedale di Santa
Maria Nuova). Nel quadro destinato ai Sassetti a Santa
Trinita egli insiste sullo sfondo di rovine: un grande
tempio avvolge la capanna, un sarcofago serve da culla,
capitelli e frammenti di colonne sono disseminati a terra.
La cavalcata dei Magi diventa un episodio storico. E si
è visto come, per accentuare questa impressione di un
punto d’incontro delle diverse ere, il pittore collochi una
iscrizione profetica sul marmo antico e faccia passare il
corteo dei Magi sotto l’arco trionfale di Pompeo157. Già
nel 1481-82 Leonardo aveva indicato una via diversa
con la grande tavola che era un po’ il manifesto di un
nuovo stile e che rimase incompleta in casa dei suoi
amici Benci158. Effetti profondi di luce ed ombra rita-
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gliano tre zone nel triangolo centrale; i Magi e il loro
seguito si affollano intorno alla Madre e al Bambino
disposti su una sorta di poggetto ai piedi di un lauro. Il
re che appare di fronte dietro la Vergine sembra tremare di fervore, il secondo umilmente prosternato innalza
il suo dono verso il Bambino, mentre non si indovina
chiaramente l’espressione del terzo a metà girato in
primo piano e disegnato in chiaro; ma davanti a lui un
vecchio s’inchina fino al suolo. Una sorta di sacro nervosismo circonda il placido gruppo divino; il Bimbo
accoglie con gravità l’offerta degli adoratori nei quali
non c’è piú nulla che serva a farli riconoscere come re.
Anziché una cerimonia di corte, o un momento storico,
il pittore ha voluto evocare le forme piú intense dell’esaltazione religiosa. I Magi appaiono come testimoni
della scienza che subiscono l’urto del mistero divino: lottano, discutono, si inchinano, un personaggio a destra
è come abbagliato. Il tema della Natività finora era stato
legato all’annuncio degli angeli: «Oggi, nella città di
David, è nato un Salvatore» (Luca, 2, 11); Leonardo
invece ci mostra una folla sorpresa e sconvolta. Intorno
al gruppo centrale appaiono gli angeli sotto forma di
creature sorridenti e meravigliose. Anziché celebrare
animatamente un avvenimento gioioso sembrano circolare gravemente intorno a un avvenimento misterioso.
Sono incoronati, ma non sembrano suonare. In terzo
piano il corteo dà luogo ad una agitazione estrema: suggerisce l’ignoranza e la confusione di coloro che non
sono ancora iniziati. Due figure a contrasto, un filosofo
in meditazione a sinistra e un giovane cavaliere a destra,
servono ad equilibrare questo insieme drammatico,
come nel quadro del Botticelli. Era certamente questa
la Natività di gran lunga piú ambiziosa e piú complessa
che mai fosse stata concepita. Interrotta alla partenza di
Leonardo, l’opera ebbe grande risonanza; i monaci di
San Donato a Scopeto, ai quali era destinata, commis-
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
sionarono per sostituirla un nuovo quadro a un altro pittore allora in voga, Filippino Lippi, che non l’eseguí se
non nel 1496159. Egli introdusse nell’opera, dice il Vasari, i tratti di molti personaggi di casa Medici e inoltre,
aggiunge, «sono in quest’opera Mori, Indiani, abiti stranamente acconci, ed una capanna bizzarrissima»160. Il
quadro ha qualcosa di Botticelli e molto di Leonardo, ma
l’unità spirituale della scena è compromessa da una sfilata di figure esotiche e barbare e dall’insistere oltre il
lecito sui cortei. Il romano in toga in piedi nell’angolo
destro riprende l’atteggiamento del personaggio corrispondente di Leonardo; ha la fisionomia di uno degli
assistenti nella Resurrezione del figlio del re alla cappella
del Carmine ed è nient’altri che Piero del Pugliese.
All’estremità sinistra, anziché il filosofo in meditazione,
abbiamo un vecchio in abiti sontuosi che si inginocchia
con un astrolabio in mano. Si è riconosciuto nella figura il nipote di Cosimo, Pierfrancesco, il Vecchio, morto
nel 1476; egli aveva due figli, Lorenzo il Popolano e
Giovanni il Popolano, che molto verosimilmente figurano anch’essi nel quadro, forse sotto l’aspetto dei due
giovani Magi, nonostante il tipo convenzionale delle
due figure. Filippino sembra dunque aver concepito in
onore del ramo cadetto dei Medici un quadro di famiglia sotto le spoglie dei Magi e del loro seguito, come
aveva fatto il Botticelli per il ramo maggiore della famiglia vent’anni prima. Avviene come se nel 1496 i cugini di Lorenzo avessero voluto sostituirsi idealmente alla
famiglia di Cosimo e di Lorenzo che proprio allora era
stata dispersa dalla rivoluzione del Savonarola161.
Ma Botticelli a sua volta veniva trasformando la
scena dell’Epifania. Leonardo l’aveva concepita come un
avvenimento «psicologico», Botticelli la vede alla fine
come una scena patetica e straziante. L’Adorazione ritrovata nel 1890, anche questa non finita e purtroppo in
parte ridipinta nel Seicento, soprattutto nei fondi, e
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
una delle composizioni piú «visionarie» della fine del
Quattrocento. La si è considerata un tentativo non riuscito di imitare Leonardo e addirittura superarlo nella
rappresentazione del movimento162. È infatti di una animazione non comune; i gruppi, i visi rivelano una devozione estatica o una sorpresa inquieta; gli uni sembrano
vicini alle lacrime, gli altri all’abbattimento, solo a destra
alcuni violenti ignorano il miracolo per combattere fra
di loro. La scena non è piú unificata dalla prospettiva,
ma dai movimenti e dai gesti della folla: le braccia tese
degli spettatori che indicano il Bambino segnano gli assi
della composizione; il richiamo all’osservatore e cosí
diretto che si sono cercati dei ritratti e, non senza ragione, si è creduto riconoscere qui il Savonarola, Lorenzo,
Leonardo163. Meno di quarant’anni dopo la cavalcata
«cortese» del Gozzoli, l’Epifania viene immaginata in
una forma straordinariamente tormentata. È chiaro che
il soggetto aveva un valore particolare per la sensibilità
dei fiorentini.
Che i Medici occupino il posto d’onore nelle Epifanie non è affatto sorprendente, dato che per tutto il
Quattrocento la loro famiglia ha tenuto stretti contatti
con la Confraternita dei Re Magi, uno dei sodalizi devoti piú importanti di Firenze164. È un fatto su cui si deve
richiamare l’attenzione. Della confraternita si hanno le
prime notizie nel 1428; già nel 1446 organizzava una
festa i cui apparati furono affidati a Michelozzo; del
comitato direttivo faceva parte anche Cosimo165. Questa confraternita si riuniva nella sacrestia del convento
di San Marco che sempre fu favorito da Cosimo. Una
cronaca antica ci dice che a pianterreno, sotto il Noviziato, avevano sede tre Compagnie, alle quali si entrava dalla parte della via. Il lato di ponente era diviso fra
la Compagnia dei Tessitori di seta e la Compagnia dei
Magi. Questa Confraternita possedeva una tavola di
Benozzo Gozzoli, rappresentante la Vergine seduta in
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
trono col Bambino seduto sulle ginocchia, circondata da
angeli e attorniata dai santi Giovanni Battista, Zanobi
e Francesco a sinistra166. Lorenzo, dopo il padre e il
nonno, fu presidente di questa confraternita167, e furono i Fratelli dei Magi che accompagnarono solennemente il corpo del Magnifico nel 1492dalla cappella di
San Marco alla sacrestia di San Lorenzo168. Nel dicembre del 1494, al momento della fuga di Piero, il locale
della confraternita, probabilmente sciolta, fu restituito
ai frati di San Marco.
I quadri dell’Epifania dunque interessavano direttamente i Medici: la cella del convento di San Marco
riservata a Cosimo era quella in cui l’Angelico aveva
dipinto l’Adorazione dei Magi, contro uno sfondo roccioso e, nella parte destra, una serie di astrologi e di
orientali con treccia e scimitarra169. Un tondo dello stesso artista e dello stesso soggetto decorava la «camera terrena» di Lorenzo in palazzo Medici170. Nulla di piú naturale quindi che si rappresentasse questa famiglia cosí
legata alla devozione per i Magi nel gruppo stesso degli
adoratori del Bambino: era in questa veste «evangelica»
che conveniva immortalarli. La confraternita d’altronde si occupava attivamente dei cortei nei quali comparivano i re orientali: ne abbiamo la prova per il 1446. È
lecito supporre che essa abbia avuto anche la direzione
delle feste date sotto Piero nel 1465 per celebrare l’Epifania171. La cavalcata del Gozzoli assume cosí tutto il
suo significato.
La confraternita però si dedicava anche a pratiche di
devozione: almeno dopo il 1470 era divenuta il punto
di convegno degli umanisti devoti e dei membri dell’Accademia platonica. «Il dotto Landino e messer
Donato Acciaiuoli, fra gli altri, vi leggevano i loro
discorsi (sermones) ai quali faceva seguito il canto dei
cantici»172. Donato Acciaiuoli, grande figura dell’umanesimo fiorentino, la cui parte era stata decisiva nella
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
organizzazione dello Studio nel 1458, nella fondazione
della Accademia e che il Landino prese come uno degli
interlocutori delle sue Disputationes Camaldulenses,
aveva pronunciato nel 1468, davanti alla compagnia,
un’oratio celebre sull’Eucarestia, che ci è conservata in
parecchi manoscritti173. Quanto al Landino era in seno
alla Confraternita in qualche modo il portavoce ufficiale dell’accademia; con il Nesi vi tenne delle esposizioni
complete dell’ermetismo platonico174. È possibile che
anch’egli abbia partecipato alle pratiche devote della
compagnia e abbia tenuto davanti ai confratelli una di
queste orationes prendendo a soggetto la stella dei Magi,
alla quale teneva tanto175. L’Epifania è al centro stesso
della sua costruzione storica: i Magi, eredi spirituali di
Zoroastro, magorum princeps, ferratissimi in astrologia,
sacerdoti dell’Oriente pagano, sono in essa i personaggi chiave. Il loro incontro col Cristo non è solo un segno
curioso della venuta del Cristo, ma anche un momento
essenziale della storia sacerdotale e della teologia platonica. I Magi non sono dei re, ma dei sacerdoti e dei filosofi, in un certo senso dei «platonici». Anziché ridurre
la loro venuta a un aneddoto edificante, il Ficino accetta tutte le pericolose implicazioni che sono legate al loro
ricordo: «Quid igitur expavescis Magi nomen formidolose? Nomen Evangelio gratiosum, quod non maleficum
et veneficum, sed sapientem sonat, et sacerdotem»176.
Egli li considera come maestri superiori di ogni scienza,
che hanno previsto perfino l’avvenimento in cui il loro
sapere fa atto di sottomissione, senza tuttavia negarsi.
L’Epifania non è per lui un quadro esotico, una festa
strana, ma un gesto simbolico: simbolizza lo sforzo stesso della Theologia platonica che assume e rende infine
sovrannaturali le conoscenze naturali; corrisponde al
penultimo grado della «scala platonica» che «a Iddio
fatto huomo, cioè a Christo, insieme con li Magi guidandomi la stella, mi conduce»177. Cosí lo spettacolo
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
astrologico dell’Epifania, familiare al medioevo, dispiegato da Lorenzo Monaco nella sua Epifania del 1416, e
ancora presente nell’affresco dell’Angelico178, era destinato ad essere superato. Per l’umanesimo fiorentino
l’atmosfera dell’Epifania deve essere quella della meraviglia e del turbamento «interiore». Proprio in questo
senso le commissioni degli amici del Ficino venivano
orientando il soggetto179. Ma non tutti i dotti erano d’accordo su questa interpretazione «magica» della Adorazione dei Magi; per alcuni vi era un dubbio sul vero
significato dell’avvenimento. I Magi, che per il Ficino
rappresentavano il mirabile edificio del sapere sacerdotale dei caldei, dovevano significare piuttosto, secondo
Pico (e secondo il Savonarola che derivava da lui) l’insufficienza e la vanità della scienza pagana. Per essi l’Epifania non poteva in nessun modo essere una giustificazione della «magia» e dell’esoterismo astrologico180.
Se tenendo presenti questi dati riprendiamo l’evoluzione del tema epifanico a Firenze, appare piú facile
comprenderne lo sviluppo: in un certo senso esso riflette le trasformazioni della Confraternita dei Magi fiorentina. La cavalcata principesca del Gozzoli corrisponde ai cortei che essa organizza; il rappresentante dei
Medici, protettori di diritto della compagnia, si trova
giustamente accanto ai re - sacerdoti orientali, accanto
all’imperatore e al patriarca. Quando nel 1476 il Botticelli raggruppa tutta la famiglia nella Epifania di Gasparre del Lama va oltre questa interpretazione «regale», e
riunisce i successivi presidenti della confraternita raccolti nell’atteggiamento dei Magi intorno alla Madonna.
E vent’anni dopo Filippino celebra i loro cugini e rivali nello stesso posto d’onore. Ma, per una evoluzione che
sembra quanto mai caratteristica di Firenze fra il 1465
e il 1485, la Natività ci presenta un consesso attento,
grave, sorpreso. Leonardo, sensibile a tutto ciò che può
accrescere l’intensità psicologica della pittura, libera
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
allora il tema epifanico dall’esotismo ingenuo che ne
alimenta le versioni popolari, e ne fa una grande scena
della storia umana.
3. I saggi e gli eroi.
Quando Benedetto da Maiano ebbe costruito la sala
dell’Udienza in palazzo Vecchio, sul portale marmoreo
che introduce alla sala dei Gigli fu messa una statua della
Giustizia; sugli stipiti marmorei furono rappresentati
Dante e Petrarca (1481). Sul fondo della sala dei Gigli
fu posto il motivo decorativo di tre grandi archi trionfali, opera del Ghirlandaio e della sua bottega: al centro san Zanobi tra i santi protettori della città, Stefano
e Lorenzo fiancheggiati dal Marzocco e dal Giglio; a
destra e a sinistra su un piedistallo elevato e visti in una
prospettiva dal basso in alto che può richiamare gli effetti del Castagno si trovano riuniti, Bruto, Muzio Scevola e Camillo, Decio Scipione e Cicerone, modelli di
virtú civiche. È uno dei migliori complessi di Domenico che ha dispiegato con sicurezza le sue capacità di
decoratore. La frattura con le consuetudini delle generazioni anteriori è abbastanza netta: non vi si vedono
piú contemporanei e i rappresentanti del sapere sono
scomparsi. Siamo lontani dalle figure del palazzo del
Proconsolo. È vero che ora i contemporanei appaiono
fra gli astanti delle storie sacre e che l’ambiente mediceo si ritrova al completo negli affreschi di Santa Maria
Novella in una forma che non è «eroica» ma quotidiana e familiare181. Mancava a Firenze, cosa curiosa, la possibilità di rappresentare i dottori e i saggi antichi e
moderni. Non vi troviamo alla fine del Quattrocento
alcun equivalente del ciclo dei «filosofi» (i sette saggi)
dipinto intorno al 1477 da Bramante nel palazzo del
Podestà a Bergamo182, né dei poeti, giuristi e teologi che
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Federico da Montefeltro faceva dipingere, a partire dal
1474-75, a Giusto di Gand e al Berruguete nell’ordine
superiore del suo «studiolo» di Urbino183. Lascia abbastanza interdetti che l’unica opera che si possa avvicinare al gruppo di Democrito e Eraclito descritto dal Ficino come ornamento della sua Accademia sia per l’appunto il riquadro di Bramante per casa Panigarola a
Milano verso il 1480184. La lacuna è tanto piú sorprendente in quanto il neoplatonismo incoraggiava a Firenze, come già aveva fatto nell’antichità, il culto
dell’«eroe» in un senso molto generale: «Cuncti denique
homines – scrive il Ficino – excellentissimos animos,
atque optime de humano genere meritos in hac vita, ut
divinos honorant, solutos a corporibus adorant, ut Deos
quosdam Deo summo charissimos, quos prisci Heroas
nominaverunt... Atque hic primus est modus, quo homines divinum imitantur cultum, videlicet quia seipsos ut
Deos colunt»185. In un curioso passo su certi riti di divisione delle statue che egli attribuisce all’India, Leonardo chiede agli uomini di onorare i «virtuosi»: «questi
sono li vostri Iddii terrestri, questi merita da voi le statue, simulacri e li onori»186. Da premesse come queste ci
si aspetterebbe una nuova, vigorosa definizione del
«ritratto storico»: in realtà la maturazione di questo
tema fu lenta.
Il «nobile castello», questa dimora eccezionale in cui
i saggi e i poeti antichi vivono per l’eternità, insieme con
gli altri uomini illustri, una vita calma e serena, sta a
dimostrare che già all’epoca di Dante gli ammiratori del
passato greco e romano tendevano a riunire le grandi
figure di quel passato in un ambiente d’eccezione. Nel
manoscritto illustrato della Commedia di Urbino, il
castello appare posto su un’isola, separato dal resto dei
mortali187. I cicli di «uomini famosi» di Urbino e Orvieto presentano solo busti: si è badato essenzialmente al
costume ed alla fisionomia. L’unica invenzione degna
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
del «castello» dantesco per accogliere i personaggi illustri della poesia e del sapere sarà quella di Raffaello
nella stanza della Segnatura: il Portico della Scuola d’Atene e la collina ombreggiata di lauri del Parnaso realizzeranno lo spazio in cui possono distribuirsi efficacemente le immagini dei saggi e dei poeti.
Dante, seguendo le tradizioni antiche, in particolare Lucano (Farsalia, II, 373), aveva rappresentato il saggio ideale in Catone, con un’apparenza solenne e
«Lunga la barba e di pel bianco mista... de’ quai cadeva al petto doppia lista» (Purgatorio, I, 34-37). È la figura imponente e un po’ irsuta che appare in uno dei
medaglioni di Orvieto che illustra scene del Purgatorio.
Ma il tipo del saggio dal profilo calmo, dai lunghi capelli e dalla lunga barba era stato definito anzitutto (e l’abbiamo visto) dall’immagine di Aristotele, ben presto
sdoppiata in Platone, e capace di rappresentare insieme
la dignità morale, la fatica dello studio e la stessa stranezza del sapere188. Il carattere «psicologico» di questi
ritratti ideali portava a rinunciare ai gesti stereotipi del
«computo», al drappo d’onore ieratico che ancora sussistono nello studiolo di Urbino. Il segno tradizionale del
saggio è la lunga berretta al modo orientale. Filosofi
antichi sono rappresentati fino alla fine del Quattrocento con un turbante in testa come i dotti arabi, o con
un berretto in testa come gli eruditi bizantini. Ma fino
alla fine del Quattrocento si continua a usare il tipo
«esotico» anche per denunciare la falsa scienza dei pagani incarnata da Averroè nei programmi teologici. Filippino Lippi nella cappella di Filippo Strozzi assegna un
superbo turbante al «filosofo» posto a fianco del proconsole che condanna al supplizio san Giovanni Evangelista. In una delle xilografie che illustrano il Dialogo
della Verità prophetica del Savonarola (1497) si vede il
monaco discutere con i «sette saggi» ai piedi dell’albero della Verità di fronte al panorama di Firenze: i sette
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398
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
rappresentanti della saggezza pagana sono rappresentati con i turbanti, le tuniche, le berrette dei professori e
degli orientali, accanto al domenicano incappucciato di
nero sul quale discende la colomba dello Spirito Santo189.
La figura piú sorprendente di questi «orientali» quattrocenteschi, è indubbiamente l’Hermes Mercurius Trismegistus nel pavimento di Siena, eseguito su cartone di
Giovanni di Stefano, che venne a completare nel 1488
la serie delle Sibille190. Ritto di fronte a un discepolo in
turbante, che ne riceve rispettosamente l’opera, il principe dell’ermetismo, con una gran berretta appuntita ai
lati, curva al bordo, porta una barba e lunghi capelli
sparsi su un mantello dal collo largo. La mano posa su
una iscrizione de l’Asclepius sostenuta da due sfingi. Un
Egitto favoloso aleggia su questa rappresentazione devota del saggio pagano per eccellenza, il cui panneggio
maestoso e lo strano copricapo ne fanno una specie di
classico. Confrontandolo con il disegno della cronaca del
1460, si vede quanto l’immagine abbia guadagnato in
serietà e dignità, in seguito alla pubblicazione del Pimandro del Ficino e della sua traduzione ad opera di Tommaso Benci nel 1463191. Solo è un peccato che non se ne
abbia un equivalente negli stessi manoscritti del Ficino,
nei quali i medaglioni sono deboli e monotoni192.
C’era dunque una sorta di conflitto tra un tipo generico e invece la «convenienza» storica. Socrate ad esempio rimase a lungo il «mago» orientale che si vede in una
delle incisioni del Dante veneziano del 1491, nel Cambio di Perugia, e ancora nel 1505 nel pavimento del
duomo di Siena, dove troneggia, insieme con Cratete,
nell’allegoria della fortuna, condotta su cartone del Pinturicchio. Eppure pezzi antichi nei quali egli figura
erano accessibili, ma l’«integrazione iconografica» non
si ha che nella Scuola d’Atene: il personaggio attorno al
quale si raccolgono a sinistra i giovani filosofi presenta
almeno la maschera famosa descritta da Platone. Il tipo
Storia dell’arte Einaudi
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del sileno obeso non si ritroverà che piú tardi193. Con
questo si arriva ad un nuovo stadio del ritratto storico:
esso presuppone una preoccupazione di autenticità fino
allora sconosciuta.
Lo stesso avviene con i poeti, e il caso di Virgilio non
è meno indicativo: dal poeta-negromante della leggenda
napoletana, accettato da tutto il medioevo, è uscito il
mago con in capo la berretta degli orientali e abbigliato
con un gran mantello dal collo d’ermellino che il Botticelli ancora assegna come compagno di Dante nella serie
incisa dal Baldini e nelle illustrazioni della Commedia194.
Tuttavia nel commento del Landino all’Eneide, nei libri
III e IV delle Disputationes Camaldulenses c’erano già gli
elementi di un’altra immagine: l’umanista neoplatonico
non insiste piú sulla leggenda di Virgilio profeta del
Cristo; quello che interessa per lui è il seguace di Platone e il rappresentante completo della vecchia religione romana195. L’abbigliamento e l’aspetto esotici rimangono validi per il Virgilio poeta pitagorico della Discesa agli inferi; ma non si addicono al poeta di Roma. Cosí
il ritratto di Virgilio dipinto dal Signorelli fra i medaglioni di Orvieto è per l’appunto quello del poeta «terribile» dell’Inferno, ma con la fisionomia e gli abiti di
un romano; e Raffaello non avrà che da collocarlo fra i
poeti del Parnaso panneggiati nella loro toga e coronati
di lauro, attribuendogli un volto fine che meglio lo inserisce nel coro degli «ispirati»196.
Gli umanisti tenevano assai alla figura di Scipione;
Petrarca aveva composto in suo onore il terzo libro dell’Africa; quando in una epistola ben nota del 1435 Poggio aveva violentemente criticato la figura di Cesare
contrapponendogli quella di Scipione, vero modello del
grand’uomo, Ciriaco d’Ancona si era sentito in dovere,
e con lui Guarino veronese, di levarsi a difendere il
signore di Roma197. Ciononostante era Scipione che veniva sentito sempre piú come il modello per eccellenza del-
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l’uomo completo, allo stesso tempo attivo e capace di
contemplazione, eroe e saggio. Il posto a lui riservato da
Cicerone nel celebre frammento del De Republica, che
contiene l’esposizione neoplatonica del Sogno (conservatoci da Macrobio) contribuiva non poco ad assicurare dignità al personaggio198. Egli figurava tradizionalmente nella serie degli uomini illustri, ad esempio quella del castello Trinci a Foligno, di una data precoce
come il 1420, o quella del Cambio a Perugia; nella sala
dell’Udienza in palazzo Vecchio, decorata dal Ghirlandaio, lo si vede rivestito dell’armatura e levato in un
gesto vivace verso Cicerone in toga. Ma il favore degli
umanisti assicurò alla figura di Scipione una notevole
diffusione nel tema, che compare verso il 1470, dei
«capitani affrontati»199.
Il poema Punica di Silio Italico, capolavoro di sterile ridondanza, era stato ritrovato nel 1417 a San Gallo
da Poggio e fu considerato con interesse continuo dai
fiorentini200. In esso si poteva trovare tutto un repertorio di motivi facili da illustrare. Questo riferimento letterario sembra spiegare l’inserimento del personaggio in
parecchie situazioni canoniche, come il giovane eroe tra
il Vizio e la Virtú, il capitano nobile e generoso di fronte al terribile Annibale ecc. La prima di queste situazioni
simboliche, ripresa dall’apologo di Prodico (Senofonte,
Memorabili, II, 1), ispirerà il quadretto di Raffaello alla
Galleria Nazionale di Londra: il cavaliere Scipione deve
scegliere, piú che tra il Bene e il Male, tra due regole di
condotta, Venere e Pallade, la via delle soddisfazioni terrestri e quella della dignità superiore. La tavola affine
delle Tre Grazie (Chantilly) verosimilmente è solo il
seguito dell’episodio: la ricompensa che tocca alla virtú,
i pomi delle Esperidi che per mano delle Grazie vengono attribuiti all’eroe vincitore201. La sostituzione di Scipione a Ercole, la scelta dei temi morali: <Hdon¬ >Aretø,
la presenza delle Grazie accanto a questa figura giova-
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nile e dolce, corrispondono alle forme assunte, con l’umanesimo platonico, dal problema etico. Il tono non è
piú quello dell’epopea, ma quello della storia «moralizzata».
Non è lecito affermare che il «sogno del cavaliere»
sia un tema d’invenzione toscana. Invece tipicamente
fiorentino è il tema dei due capitani affrontati che è per
cosí dire il complemento del primo. Il poema di Silio Italico è tutto quanto ordito sul violento contrasto tra i due
generali, il fiero Scipione di fronte a un Annibale bestiale; quest’opposizione offriva uno schema oratorio facilmente sfruttabile. Nel 1452-53 Porcelio Pandone, allora al servizio del condottiero Piccinino, nei suoi Commentaria paragonava di continuo lo Sforza ad Annibale
e il suo signore a Scipione202. Il Vasari a proposito di
Attavante, che egli crede per errore autore dell’opera,
ci dà la descrizione delle miniature di un Silio Italico
conservato a Venezia; in particolare analizza la doppia
pagina in cui sono raffigurati a riscontro l’«immagine
seducente e bionda» di Scipione di contro al crudele
Annibale. Su altri fogli si trova la stessa contrapposizione di Marte e Nettuno, Roma e Cartagine, dove la
lotta tra le due potenze è simbolizzata dal contrasto tra
il drago e il delfino, nonché dei due capitani che portano questi emblemi. Questa opera, di ignoto autore, deve
datare degli anni 1450-60, dato che il ritratto di papa
Nicola V († 1455) si trova nel libro. Essa è dunque con
ogni probabilità il punto di partenza della grande diffusione del tema che avvenne intorno al 1475-80 nella bottega del Verrocchio. Si hanno infatti intorno a queste
date molti rilievi in marmo e in bronzo, terrecotte, incisioni e disegni, in cui si viene sviluppando il tema dei
«capitani affrontati»; il marmo anonimo del Louvre
intitolato: P. Scipioni, è una di queste figure; vi faceva
riscontro un guerriero analogo a quello di cui il vigoroso disegno di Leonardo al British Museum (il vir belli-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
cus in tutto il suo vigore) suggerisce la fisionomia. Lo
stesso contrasto si ritrovava anche nella coppia Alessandro-Dario di cui, secondo il Vasari, il Verrocchio
fuse le due immagini invertendo le caratteristiche delle
armi e degli emblemi203. Il successo del tema è attestato
dalle versioni grottesche che ne esistono nelle incisioni
e nei nielli con le piú divertenti varianti sugli elmi e gli
ornamenti fantastici204.
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Capitolo terzo
Il sapere
Il Vasari loda Botticelli per aver saputo mostrare nel
Sant’Agostino di Ognissanti «quella profonda cogitazione ed acutissima sottigliezza, che suole essere nelle persone sensate ed astratte continuamente nella investigazione di cose altissime e molto difficili»205. L’interesse
per la «fisiognomica» era nuovo in Occidente: era
soprattutto spiccato presso i maestri fiamminghi, gli
incisori renani, i pittori dell’Italia del Nord, soprattutto a Padova. A Firenze, dopo che l’Alberti aveva creduto di poterne fare uno dei fini della pittura, il Pollaiolo ne aveva sviluppato le possibilità. Ma ancora non
era stata mai affrontata con tanta forza la «psicologia»
degli «uomini di studio». Il Botticelli fu con Leonardo
l’artista piú stimolato dai meccanismi e dai modi dell’attenzione. Lo studio da lui compiuto ad Ognissanti
degli indizi attivi del viso: le rughe, gli occhi ecc. veniva a rinnovare il tipo tradizionale del Saggio o del Dottore. La posizione seduta, la testa appoggiata alla mano
e la fisionomia concentrata costituivano da tempo una
sorta di «ideogramma» del dolore o del pensiero, del
raccoglimento doloroso206. Gli artisti del Quattrocento
continuavano a servirsene per rappresentare la meditazione dei profeti o il ripiegamento malinconico del «pensatore»: è la posizione di Mardocheo nella tavoletta
detta della Derelitta; sarà quello di Eraclito sui gradini
della Scuola d’Atene. Ma l’affresco di Ognissanti veni-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
va a dare allo schema una dimensione nuova: il lavoro
intellettuale non è solo rappresentato dall’insieme dei
libri e degli strumenti scientifici e da un atteggiamento
convenzionale. È anche scrutato in ciò che ha di piú intimo.
La rappresentazione di Dante, familiare agli artisti
fiorentini, aveva spesso fornito loro l’occasione di definire mediante un tipo appropriato l’ideale del poeta e del
pensatore. Ma fino alla fine del secolo questi «ritratti»
erano tutt’altro che convincenti. Solo verso il 1480 essi
acquistano una nuova intensità, e ciò avviene nell’epoca stessa in cui l’umanesimo platonico fa del Saggio e del
Poeta i superiori testimoni dell’umanità207. Nello studiolo di Federico da Montefeltro la serie degli uomini
illustri, teologi e poeti, si compone di coppie studiate,
dagli abiti sovraccarichi, i gesti stereotipi. L’insieme
manca di grandezza, ma ci sono almeno dei contrasti
efficaci e alcune trovate nei visi208. Venticinque anni
piú tardi, a Orvieto, i poeti del Signorelli per la prima
volta compongono una galleria di ispirati: Empedocle è
come rovesciato indietro dallo sgomento della sua visione, Virgilio si solleva, Dante si ritrae, ecc. Non solo la
mimica del volto, ma anche il movimento e la tensione
del corpo si fanno eloquenti. Raffaello e Michelangelo
segnano l’autorevole conclusione di questo sviluppo:
ognuno dei grandi affreschi della Segnatura presenta
non solo una sorprendente varietà di tipi corrispondente a tutte le fasi del lavoro intellettuale, ma questi sono
disposti intorno al «focolare» spirituale che li anima
secondo una differenziazione progressiva. Questa caratterizzazione gerarchica è proprio ciò che mancava nelle
tavole di Urbino. Nello stesso momento Michelangelo
realizzava sulla volta della Sistina la serie dei Profeti e
delle Sibille che, intorno alle visioni della Genesi, fissano le varie fasi dell’esaltazione spirituale.
Tutti questi fatti si legano tra di loro. Abbiamo in
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
queste immagini non solo un interesse eccezionale per
la rappresentazione del poeta o del visionario, ma anche
l’insistenza su una sorta di radice comune a tutte le
manifestazioni del sapere, cioè l’entusiasmo, quell’ardore che il Ficino, il Poliziano, Pico avevano in ogni
occasione indicato come il principio stesso della vita
dello spirito e che il Landino aveva volgarizzato nella sua
introduzione alla Commedia209. Questa semplificazione
fu immediatamente intesa e il suo successo fu rapido.
Essa però finiva per sconvolgere la visione tradizionale
dei vari gradi del sapere. Rendeva secondaria se non inutile la gerarchia delle discipline che era l’armatura stessa della cultura scolastica. I nuovi simboli che entravano in circolazione favoriti dall’insegnamento degli umanisti, presentavano tutti lo stesso orientamento.
1. Le sette Arti e le Muse.
Il quadro delle sette Arti era uno dei piú solidi tra
gli schemi tradizionali: era molto comodo nelle scuole e
presentava facili corrispondenze con i pianeti, le virtú,
i sacramenti, come si poteva vedere nei rilievi del Campanile210. Questo modello didattico era protetto soprattutto dalla sua stessa origine: il canone risaliva al romanzo di Marciano Capella (secolo v) che racconta le nozze
della Filologia e di Mercurio e, dopo aver rappresentato il seguito delle Muse e delle Grazie, descrive la presentazione delle sette Arti a Febo211. Uno dei migliori
manoscritti di Attavante, destinato a Mattia Corvino,
contiene questo testo con una illustrazione che segue
fedelmente l’iconografia medievale e in pieno Quattrocento si trovano, seppure, è vero, nell’area umbra, rappresentazioni complete delle sette allegorie. A Urbino la
biblioteca del duca (a meno che non si tratti dello «studio» di Gubbio) comprendeva un insieme memorabile
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
delle sette allegorie (attualmente rimangono solo le due
belle tavole della Galleria Nazionale di Londra): seduta
su un trono, in un apparato lussuoso e di pretesa, ognuna delle «Dame» del sapere appare accompagnata da un
suo servitore preso fra i cortigiani e gli intimi del duca.
Alcuni anni dopo, negli appartamenti di Alessandro VI
il Pinturicchio rappresenterà ugualmente, su seggi d’onore, le sette allegorie, circondate dai loro eroi storici;
ed è stato possibile avvicinare i loro tipi alla Amorosa
Visione del Boccaccio (cap. IV), di cui esse non sono che
una modernizzazione poco espressiva.
Evidentemente gli artisti cercavano di dare una versione piú originale di questi programmi didattici. A villa
Lemmi Botticelli rappresentò, davanti a un boschetto
che ricorda quello della Primavera, le allegorie del trivium
e del quadrivium. Il loro gruppo si stringe intorno al
trono della «Retorica»: nonostante alcuni emblemi ancora visibili, come ad esempio lo scorpione della «Dialettica», tutte le sorelle si somigliano. Grazie ad una innovazione degna d’interesse, Venere stessa guida il giovane iniziato verso le «Arti»; nello stesso modo, secondo
l’insegnamento recente del Ficino, l’Amore è il principio di ogni attività spirituale212. Una versione piú fedele allo schema scolastico dei domenicani, ci è fornita da
Filippino nel suo Trionfo di San Tommaso alla Minerva
a Roma (1488-93). Le «Arti» sono meno numerose, ma
il loro movimento piú vivo. Il Dottore è posto tra due
gruppi di due figure: Teologia e Retorica a sinistra, Dialettica e Grammatica a destra, cioè le scienze del trivium,
alle quali è stata aggiunta la disciplina superiore. Alla
base dell’imponente basamento su cui esse stanno, si agitano gli eretici; numerose iscrizioni, tratte dalla Summa
e dalla Scrittura, sottolineano, non senza qualche pesantezza, il trionfo del tomismo. Gli ornamenti esuberanti, il disegno dell’edificio allegorico, gli innumerevoli
motivi secondari tratti dai templi romani, indicano un
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
linguaggio piú evoluto; la decorazione si intona male allo
spirito della scena213.
Altri ambienti mostravano di preferire una diversa
allegoria che insisteva piuttosto sull’unità dell’attività
spirituale che non sulla gerarchia delle discipline, sostituendo al quadro tradizionale il coro delle Muse.
Ammesso che le arti liberali e le muse sono la stessa cosa,
il Salutati si era paradossalmente sforzato di accordare
l’elenco delle nove muse con lo schema settenario delle
arti214. È a Firenze, intorno al 1460, che troviamo per
la prima volta, pare, una rappresentazione del coro delle
Muse. Nell’antica abbazia benedettina della badia di
Fiesole, passata poi ai canonici regolari di Sant’Agostino, verso il 1440 Cosimo aveva fatto costruire un chiostro notevole nello stile del Brunelleschi e subito dopo
una biblioteca, da lui dotata, in pochi mesi, stando a
Vespasiano da Bisticci, di stupendi manoscritti. Una
descrizione sommaria di questa biblioteca, costituita
verso il 1460, l’abbiamo in un poema di Alberto Advogadro. Essa comprendeva una decorazione murale assai
notevole: accanto a Febo seduto al centro e in atto di
condurre il loro coro «con il suo plettro», vi si vedeva
danzare la «folla venerabile» delle muse: Calliope che si
muove ore gravi, accompagnata da Virgilio, Ovidio con
la lasciva Thalia, Seneca e Melpomene maesto vultu, e
cosí di seguito215. La novità non consiste solamente nel
fatto che siano state sostituite le muse alle arti per decorare una biblioteca, ma ancora che ad ognuna d’esse sia
stato unito il rappresentante piú eminente di esse e che
si sia costituita, come per le arti, una galleria di poeti
illustri. Anni dopo, in una composizione piú agile, avremo il programma del Parnaso nella stanza della Segnatura. A Urbino un’intera cappella, un sacellum, sarà
consacrata alle muse. Il programma sembra sicuramente risalire ai tempi di Federico; l’esecuzione, nella quale
interviene Giovanni Santi accanto a Timoteo Viti, ha
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
potuto protrarsi fino al 1490. I riquadri isolati in cui
compaiono le muse, gracili ed esaltate, in curiosi paesaggi crepuscolari, compongono a mo’ di fregio un coro,
guidato da un Apollo che suona la viola. Ognuna delle
figure porta un abito diverso e uno strumento specifico; una scritta latina precisa il carattere d’ognuna: ad
esempio Calliope suona una lunga tromba «carmina Calliopa libris heroica mandat», Melpomene che impugna
un corno nero, abbigliata di una veste scura «tragico
proclamat maesta boatu»216. È un Parnaso piú elegante
di quello del Mantegna nello «studiolo» di Isabella d’Este217. La musica, arte di Apollo e delle muse, cessa di
rientrare nel quadro delle «arti liberali»; essa ormai può
rappresentare non solo le opere della poesia e del sapere, ma il principio stesso della vita intellettuale, a cui è
dedicata la «cappella»218.
Questa idea centrale compare in un quadro schematico che trova allora diffusione nell’Italia settentrionale e in cui la serie delle muse viene associata alla gamma
musicale e all’ordine cosmico. La migliore illustrazione
di questo è costituita dalla serie dei «tarocchi», nella
quale ogni musa reca una sfera che simboleggia il suo
posto e la sua altezza nell’universo col suo strumento
caratteristico: Talia, che corrisponde alla Terra, è messa
fuori della serie e Urania corrisponde al cerchio delle
«Stelle fisse»: grazie a questa sottrazione e a questa
addizione il numero dei pianeti torna con quello delle
muse219. Lo schema che illustra i due aspetti dell’ordine
apollineo: la scala «pitagorica» del cielo e la gerarchia
delle arti, avrà un certo successo220. Si ritrova nella illustrazione del trattato musicale del Gafurio edito a Milano nel 1496221. Questa incisione reca a mo’ d’exergo il
verso dello pseudo-Ausonio: «Mentis apollineae vis has
movet undique musas». Di contro alla tradizione che
isola Talia dal resto delle muse, il Ficino aveva affermato
nel De divino furore che la musa superiore è l’armonia
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
«che nasce dall’accordo d’insieme». Il quadro tracciato
nel commento allo Ione mostra Calliope al vertice della
gerarchia: «vox est ex omnibus resultans spherarum
vocibus», e Talia rientra nella gerarchia delle muse,
signore delle sfere, la quale gerarchia viene ad essere in
certo modo accentuata verso l’alto. Il filosofo è cosí
portato a proporre un ordine un po’ diverso da quello
di Marciano Capella222, e inoltre mette ognuna delle
muse in rapporto non con un’arte particolare, ma con un
poeta. Abbiamo qui tutti gli elementi letterari del complesso di Raffaello alla stanza della Segnatura223.
L’Apollo della Practica musice, come quello del Parnaso, impugna una viola. È questa un piccolo tratto di
fantasia moderna che deve essere preso in considerazione nello sviluppo dei simboli umanistici. La lira antica era formata di due bracci arrotondati tra i quali si
stendeva la serie delle corde, generalmente sette; la lira
moderna quattrocentesca, «lira da braccio», risultato di
una lenta evoluzione, è una cassa a forma di cuore o di
foglia, sulla quale sono tese le corde che si fanno vibrare con un archetto. Dunque si tratta dell’antenato del
violino moderno224. La sua forma non era ancora definita e lasciava il campo aperto ad ogni sorta di ricerche tecniche, nelle quali l’immaginazione poteva sbizzarrirsi.
Leonardo, abile suonatore di lira moderna, viene ricordato per l’aspetto insolito che aveva saputo dare ad uno
di questi strumenti225. In una forma piú regolare la lira
moderna, con un contorno ondulato e intagli neri, appare spesso nelle tarsie, ad esempio ad Urbino. Questo
strumento, per la sua forma, per l’uso cui si prestava, per
le sue proprietà musicali era quanto mai diverso dalla lira
antica. Ma il Rinascimento, come d’altronde l’epoca
successiva, voleva a tutti i costi, con un candore ostinato, vedervi la restaurazione di un modello inventato
all’alba dei tempi da Orfeo e diffuso da Saffo; siamo cioè
di fronte a un altro caso di «reminiscenza» artistica. Per
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
sostenere tale tesi si interpretavano spesso forzosamente i documenti antichi o addirittura si falsificavano226. Si
era convinti di dare una giusta interpretazione del tipo
mettendolo fra le mani di Orfeo o di David, suo collega nella musica sacra, inserendolo nelle allegorie dell’arte
musicale e degli angeli.
Tutti questi fatti corrispondono ad una evoluzione
della musica e della organologia italiane, che risale assai
lontano e non si localizza affatto in Toscana. Ma l’interesse per la musica e il suo principio «orfico», l’insistenza sulle metafore «musicali», che erano proprie dell’ambiente fiorentino, incoraggiavano le innovazioni nell’iconografia musicale227. Il valore simbolico della lira
rimane in realtà lo stesso sia che si tratti dello strumento antico o della viola moderna. L’Apollo nella tarsia di
Urbino impugna uno strumento ad archetto, di tipo
composito, che è insieme lira e viola moderna228. Ma l’artista che ha saputo servirsi nel modo piú inatteso dell’iconografia musicale è Filippino. Nella sua Allegoria del
Kaiser Friedrich Museum la musa che tenta di incatenare un cigno ha presso di sé una strana lira ottenuta con
un cranio di cervo. La tavola con le feste del bue Api
(Londra, Galleria Nazionale) è un repertorio di strumenti insoliti. Queste forme bizzarre sono immaginate
per illustrare i riti antichi. Il valore di questi attributi è
notevole, tanto che val la pena di citarli accanto alle
muse della cappella Strozzi che costituiscono le allegorie della «teologia poetica»229.
2. Pallade medicea.
Nel 1475 il Botticelli dipinse per la grande giostra
fiorentina lo stendardo di Giuliano. L’opera, a suoi
tempi celebre, è scomparsa; è però descritta in parecchie
testimonianze che risultano tutte concordi230. La piú
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
precisa è un epigramma indirizzato a Bernardo Bembo
da Aurelio Augurelli: «Tu mi chiedi perché, sull’insegna
di Giuliano, è dipinto Amore con le mani legate dietro
la schiena, ai suoi piedi l’arco e la faretra spezzati, perché nessuna piuma pende dalle sue spalle e perché immobile egli tiene gli occhi bassi come se soffrisse un supplizio immeritato... La terribile Pallade lo domina con
la sua lancia, diffondendo lo sgomento con il suo casco
e la sua crudele Medusa. Chi ne dà una spiegazione, chi
un’altra: nessuno è dello stesso parere. Ecco una cosa piú
bella che le immagini dipinte»231.
Sappiamo che nello stesso poema del Poliziano scritto per celebrare il torneo, la Dama di Giuliano appariva per l’appunto come Minerva con l’armatura indossata sulla veste virginale (II, st. 28), impugnando la lancia e lo scudo con la maschera della Gorgona: in piedi
su rami d’ulivo fiammeggianti (i «bronconi», emblema
mediceo), ella teneva gli occhi levati al cielo. La Minerva della tarsia del palazzo d’Urbino, che è di stile fiorentino, è stata chiaramente eseguita tenendo presente
il modello botticelliano; non manca che il particolare che
la fronteggiava sullo stendardo: Cupido legato all’ulivo
con l’arco e le frecce spezzate ai piedi. L’elmo, la lancia
di Pallade, il suo scudo, nonostante la testa di Medusa,
non hanno nulla di antico. Si tratta della stilizzazione
di un simbolo cortese232. Il soggetto in fondo è chiaro:
rappresenta la metamorfosi dell’eroe negato al destino
comune dell’amore; l’ardore della sua anima non lo
destina alle gioie facili ma lo vota alle opere della gloria. Nella Giostra Giuliano esclama rivolgendosi a Pallade:
S’Amor con teco a grandi opre mi chiama,
Mostrami il porto, o dea, d’eterna fama
(Giostra, II, st. 42).
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Ma egli chiede anche all’amore che lo ispira di prestargli il suo «santo furore» per rispondere all’appello di
Pallade233. Se si tien conto che il Commento al Convito,
scritto dal Ficino nel 1469, viene per l’appunto pubblicato nel 1474, e che la dottrina della conversione di Eros
è il tema fondamentale di esso, si comprendono meglio
l’originalità dello stendardo dipinto da Botticelli e la sorpresa degli spettatori. L’emblema era uscito direttamente dalla nuova filosofia dell’Amore, la cui prima
trasposizione artistica era fatta proprio in onore del fratello di Lorenzo. L’imbarazzo del pubblico è comprensibile solo se il significato simbolico dello stendardo, che
in pochi anni sarebbe diventato uno dei temi piú banali, era nel 1475 di una sconcertante novità.
Il tipo fu replicato per Lorenzo se dobbiamo credere al Vasari il quale ricorda fra i lavori eseguiti per lui
«una Pallade su una impresa di bronconi che buttavano
fuoco, la quale dipinse grande quanto il vivo»234. Questo particolare, che richiama la Giostra, distingue quest’opera dallo stendardo; ma si ha il ricordo di un’altra
Pallade (forse anche un quadro, certamente un cartone)
di Botticelli in un arazzo appartenente alla famiglia de
Baudreuil235: la dea con leggeri veli bianchi tiene l’elmo
nella mano destra, un ramo d’ulivo nella sinistra; l’egida è appesa ad un arbusto di agrifoglio, un cartiglio reca
la scritta: «E capite etherei nata sum Iovis alma Minerva mortales cunctis artibus erudiens». Questa scritta ne
fa chiaramente un simbolo platonico del sapere e delle
arti pacifiche. Il Ficino ne aveva indicato il significato
generale in un testo di uno stile particolarmente lambiccato: «La Sapienza nata dal capo del Sommo Giove
creator de l’universo, comanda e insegna a gli filosofi
suoi amatori, che se desiderano a qualche tempo della
cosa amata godersi, sempre cerchino i primi, e piú alti
capi delle cose piú tosto che le basse». Questa Pallade
è dunque la sana dottrina dell’Accademia che tende a
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
staccare l’anima dalle zone inferiori, dalle praterie seducenti per elevarla ai vertici piú impervi dell’intelligenza
pura236. La sua forza si esercita su quegli elementi dell’anima che gli scolastici chiamavano concupiscibile e
irascibile: contro Venere, che rappresenta la voluttà,
Pallade è la castità vittoriosa che mantiene la qualità spirituale dell’amore: contro Marte e le sue violenze, essa
è il dono della contemplazione. La sua forza particolare
è di ridare all’anima la sua vera altezza interiore. Lorenzo la rappresenta come quella che tende la mano alla
debolezza del nostro spirito. La novità stava nel fatto
che di Minerva, sotto forma di Pallade-Venere o di Pallade pacifica, si facesse una divinità completa, subordinando, nello spirito di Platone, l’etica alla vista dell’intelligenza237.
Pallade e il Centauro (Uffizi) riunisce tutti questi elementi in un simbolo mediceo: molto verosimilmente
essa allude alla saggezza di Lorenzo e al suo buon governo della nuova Atene. La veste ondeggiante è ornata dei
tre anelli raccolti intorno ad un diamante, emblema che,
senza essere proprio di Lorenzo, colloca esplicitamente
la figura238. Il gesto di Pallade che trae per i capelli il centauro dal viso umile e pacificato, il tema dell’ulivo che
orna la veste fiorita e corona la dea, forse le due parti
del paesaggio, rocce a sinistra, orizzonte aperto di una
valle a destra, hanno il valore di un’allegoria morale.
Minerva non è la forza che colpisce, ma quella che risana; non si tratta di una lotta, ma di una metamorfosi che
può applicarsi ad una città, all’anima, alla natura stessa. Un ultimo elemento viene ad illuminare l’arte di
Botticelli: la testa del centauro, che richiama il viso di
san Giovanni (Berlino), è una stilizzazione di rilievi
romani; ma la forma di Minerva, sotto i minuti ricami
d’ulivo, col suo mantello nero, la sua alabarda, non ha
alcun precedente, come non ne ha l’immagine complessa ch’essa anima con il suo arabesco. Anche in questo
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
caso l’originalità dell’opera fiorentina risulta confermata se la si confronta con altre analoghe dell’Italia settentrionale. I quadri del Mantegna, concepiti verso la
fine del secolo per lo studiolo di Isabella d’Este, presenteranno la Psicomachia, cioè il combattimento di
Minerva guerriera contro i Vizi: la concezione letterale, i toni acidi, il disegno duro contrastano con l’equilibrio e l’eleganza del Botticelli. La tavola medicea (degli
anni 1480-85) non è meno lontana dal naturalismo che
trionfava nel palazzo di Schifanoia di Ferrara (1470).
Nel ciclo astrologico Minerva è la dea del mese di marzo,
o piú esattamente corrisponde ai segni zodiacali che
distinguono questo mese. Circondata da giuristi, medici e fanciulle intente a tessere, essa presenta una immagine autoritaria e precisa, tanto diversa da quella dei fiorentini quanto la straordinaria Venere che trionfa nel
riquadro successivo è lontana dalla sottile Primavera239.
L’originalità della Pallade fiorentina è stata intesa: la sua
figura ritorna nell’ultima pagina del manoscritto napoletano dell’Etica a Nicomaco, al vertice di una cupola
«ateniese», che fa pensare alla cupola brunelleschiana240.
Essa scomparirà agli inizi del secolo successivo: la statua di Minerva che Raffaello inserirà nel portico della
Scuola d’Atene, deriva, attraverso Urbino, dal tipo
mediceo, ma pare rielaborata sul modello delle statue
antiche di Atena e di Venere241.
Storia dell’arte Einaudi
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Capitolo quarto
La vita dell’anima
L’anima umana, secondo gli umanisti neoplatonici,
è portata in misura rilevante alla felicità. Sua vocazione è quella della beatitudine e della voluttà242. E tutto
vi concorre: la natura con le sue pulsazioni di essere
vivo, il cielo stesso la cui luce raggiante costituisce come
un sorriso che procede dalla gioia degli spiriti celesti.
Cosí Venere era la divinità di questi poeti e di questi
dotti: «Venus id est Humanitas». In questo modo essi
riconoscevano a se stessi la libertà di muoversi liberamente nei campi del desiderio, della vita emotiva, e di
considerare come fine ultimo della speculazione le estasi ineffabili dell’Amore. Essi rivendicavano cosí tutti
questi moti coscienti, o appena coscienti, dell’anima,
certi di poter riconciliarli in una prospettiva ascendente in cui tutto si sarebbe purificato. Proprio attraverso
questa dottrina l’ambiente fiorentino ha esercitato sul
pubblico italiano l’influenza piú viva e profonda; ed è
anche l’aspetto del nuovo insegnamento che piú rapidamente si è degradato e che comunque era piú difficile a sostenere senza contraddizioni o cadute243.
Il modo in cui l’immensa letteratura pagana e cristiana sull’Amore è stata utilizzata dai fiorentini dimostra un rifiuto fondamentale della distinzione che i primi
pensatori cristiani avevano affermato, e che poi si era
venuta gradualmente attenuando, tra l’Eros (slancio
misterioso dell’anima) e l’Agapè (Caritas) che è il dono
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
gratuito di Dio ad una creatura senza meriti244. Una vera
e propria summa «erotica» era stata offerta dalla Commedia, in cui la mistica cistercense esposta da san Bernardo (Paradiso, XXXI) viene a coronare, senza tuttavia guastarla, l’ascesa guidata da Beatrice e regolarmente
ritmata dalle implicazioni volta volta personali e dottrinarie dell’Amore245. Il platonismo poteva facilmente
rinascere su un terreno cosí ben preparato; ma esso vi
apportava un gusto, ereditato dal Petrarca, per l’analisi
dei sentimenti, e, soprattutto nel Ficino, una suscettibilità molto viva alle alternative di ardore e di atonia che
costituiscono la vita segreta dell’anima. Lo sviluppo di
questa metafisica non avverrà senza difficoltà246. La posizione un po’ ingenua del Convivio non potrà essere mantenuta fino alla fine. Pico moltiplicherà le obiezioni
circa la parte, tuttavia discreta, attribuita alla apprensione sensuale della bellezza. Ma tutto sommato l’ipotesi maestra del neoplatonismo resterà quest’accordo
fondamentale fra l’appetitus dell’anima e l’amore superiore, che sono entrambi risposte alla attrazione dell’amore divino. Sulla base di questo postulato si potevano
ricostruire la morale, la psicologia e la stessa teoria della
conoscenza. I dubbi formulati dal grande critico dell’umanesimo fiorentino, il Savonarola, vennero a mettere
in luce il punto debole di questo ottimismo; e il ritorno
alla stretta dottrina paolina che avverrà con la Riforma
lo avrebbe negli anni successivi smentito brutalmente,
nel momento stesso in cui si diffondeva nella società italiana la dottrina abbastanza equivoca del «platonismo
mondano»247. Anche in questo la situazione raggiunta tra
il 1470 e il 1500 rappresentò, tutto sommato, un equilibrio che non ebbe equivalenti nel periodo anteriore e
in quello successivo.
Se ne misura meglio la portata allorché ci si rende
conto di ciò che la filosofia fiorentina doveva alla recente scoperta del testo di Lucrezio, il cui manoscritto era
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
stato recuperato da Poggio nel 1414248. La lettura di quest’opera provocò nell’umanesimo fiorentino una sorta di
choc intellettuale, come dimostra l’opera ben nota di
Lorenzo Valla (1431 e 1433), oppure l’inno a Venere di
Leonardo Bruni. La generazione del Ficino fu insieme
affascinata e atterrita dalla visione poetica e dalla violenza del De rerum natura. Il ricorso al platonismo fu in
certo senso il rimedio all’attrazione che esercitava la
dottrina epicurea: la Theologia platonica e le epistole del
Ficino ritornano spesso su questa alternativa. C’era dunque nella cultura fiorentina una tentazione del naturalismo, che scopre la vitalità universale solo per perdere in
essa il sentimento del destino sovrannaturale dell’anima.
In questa prospettiva la storia dell’umanità è quella di
una civiltà sempre precaria. All’idea di una età dell’oro
il pessimismo sostituisce una visione tetra delle prime età
dell’uomo. Questa idea lucreziana doveva essere abbastanza diffusa perché Piero di Cosimo potesse, alla fine
del secolo, svolgere per Giovanni Vespucci le sue strane
«storie baccanarie» e per Francesco del Pugliese il suo
sorprendente ciclo della vita primitiva249.
Proprio del neoplatonismo era, invece, alimentare
l’idea di una natura felice, giardino dell’anima, concesso alle gioie dell’amore lentamente «sublimato». Il
Quattrocento in questo campo veniva ad esser l’erede di
un repertorio poetico profondamente organizzato, al
quale corrispondeva invece una tradizione iconografica
assai debole. Dante aveva in qualche modo definito
l’ambiente ideale delle «visioni» d’amore, all’altezza del
Paradiso terrestre, dove l’incantevole paesaggio conserva tutti gli elementi dei luoghi destinati alla felicità e
dove avvengono l’uno dopo l’altro l’apparizione della
«bella donna» che canta e danza tra i fiori, immagine
della gioia irresistibile dell’amore, poi il corteo di Beatrice, che è la rivelazione promessa a questa dimora
unica. Questi tre elementi, un ambiente squisito, l’ap-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
parizione femminile e una sfilata o una festa ritorneranno senza fine nelle innumerevoli poesie d’amore, di
cui costituiranno l’ossatura fantastica. Il Boccaccio
descrive con insistenza, nella Amorosa visione, il castello dell’anima con il gioco delle ùkfrßseij, che consiste
nell’inserire delle scene figurate in queste architetture
immaginarie. Questo scenario, fantastico farà parte del
genere, non meno che il corteo di dame, cavalieri e
uomini illustri. Le regole di questa letteratura lasciavano scarsa libertà. Uno dei tentativi piú originali di restituirgli qualche freschezza fu quello di Giovanni Gherardo da Prato nei frammenti che sono stati riuniti sotto
il titolo di Paradiso degli Alberti250: l’avventura è qui raccontata come un viaggio a Creta, dove vengono scoperti i regni distrutti di Saturno, e a Cipro, l’isola di Venere, di cui il paesaggio, le architetture e le numerose storie dipinte o scolpite rappresentano la potenza universale. Questo testo fu una delle fonti del Poliziano; sembra anche aver ispirato a Leonardo la rappresentazione
di Cipro che si trova in un frammento mutilo: e la
descrizione, forse ideata come modello di un quadro, di
una riva bellissima che attrae le navi e le fa naufragare
sugli scogli: questi relitti sono disseminati per tutta l’isola favolosa251.
Non c’è alcuna intenzione sarcastica nella celebre
descrizione delle Stanze, dove, attraverso un brillante
accumularsi di motivi graziosi, viene suggerita la natura ridente e il palazzo della dea. Siamo cosí tornati all’idea del Paradiso terrestre, regno di Venere. Le formelle delle porte e le sculture del castello di sogno costituiscono una sorta di repertorio dell’iconografia di Venere. Il tema della Afrodite anadyomene, introdotto qui in
ricordo di Apelle, sara ripreso dal Botticelli. Nella Primavera lo stesso artista ha rappresentato il regno della
dea con un prestigio non minore e un’arte meno prolissa del Poliziano.
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Senza dubbio c’è una comunanza d’ispirazione tra il
discorso poetico del Poliziano, l’arte squisita del Botticelli e le pagine del Ficino sull’amore252: questa comunanza è da vedere anzitutto in una certa fragilità dell’immaginazione, in una stilizzazione della visione che
insiste su motivi semplici, eleganti, luminosi e senza
peso. La rappresentazione assume cosí una chiarezza di
emblema che conferma il suo valore di simbolo intellettuale: il regno di Venere indica l’energia spontanea dell’anima, la forza che spinge la natura, la vita e lo spirito stesso. È il principio al quale l’umanesimo e la cultura cortese di Firenze tutto riportavano e che mancava
di una grande illustrazione in figura. Ma intorno a questa «visione beatifica» gravitava un certo numero di
immagini in cui il segno della nuova cultura non è meno
evidente.
1. Le tre Grazie.
Un gruppo delle tre Grazie, da tempo scoperto a
Roma, nel 1502 fu inviato dal cardinal Piccolomini al
Duomo di Siena253. Artisti l’avevano già studiato a
Roma, come dimostra il disegno di Antonio Federighi,
eseguito intorno al 1470-80, con la scritta autografa:
«queste femine sono in chasa chardinale di Siena, sono
3, sono fatte dreto e dinansi, chiamansi le 3 grazie, in
Roma, antiche»254. Il documento dimostra che il gruppo
non è ancora molto noto: il Federighi l’ha appena scoperto. Giustapponendo nel suo disegno tre figure viste
di dietro al gruppo visto davanti, egli le intende come
la combinazione di due rilievi piatti: cioè egli lo legge da
pittore e non da scultore, cosa d’altronde conforme allo
stile dell’opera dove il profilo come limite di volume non
ha importanza. Si comprende cosí meglio perché il successo del gruppo si colga soprattutto nella pittura.
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Il gruppo tuttavia era noto già ai tempi del trattato
dell’Alberti. In esso è descritto, fondandosi su Seneca
(De beneficiis, 1, 3), come un tema di danza, dato che le
Grazie sono «prese fra loro l’una l’altra per mano, ridendo, con la vesta scinta et ben monda». Questa citazione letteraria fu senza dubbio il punto di partenza del
Botticelli quando introdusse la danza delle Grazie nella
Primavera255. Sembra invece che ci sia un ricordo del
gruppo del cardinal di Siena nell’affresco di Venere al
palazzo Schifanoia, precedente di qualche anno: le tre
ninfe poste su una base di roccia e dotate di una intensità sensuale e quasi demoniaca, appaiono alte sopra gli
amanti. L’immagine non ha né la grazia né il pudore di
quella botticelliana: anzi fa apprezzare per contrasto il
candore di quest’ultima. Gli umanisti fiorentini continuamente ricordano le Grazie per confortare le dimostrazioni piú diverse: in base alle autorità antiche e cristiane, aristoteliche e platoniche che si possono moltiplicare all’infinito, sul numero tre e il principio trinitario del mondo, ogni nozione può essere divisa in tre
principî, cosa che permette di applicare ad essa l’immagine delle Grazie256. Ma si ricorre a queste per insistere
sul primato metafisico della bellezza. Sulla medaglia
incisa da Niccolò Fiorentino per Pico, le Grazie appaiono con la scritta: «Amor, Pulchritudo, Voluptas», che
le riconnette al «cerchio spirituale» dell’universo e all’iniziazione platonica della bellezza257. Nel suo Commento alla canzone di Benivieni, Pico le descrive insistendo
sui tratti caratteristici del gruppo già indicati dagli antichi mitografi: l’intreccio delle tre ninfe e la loro disposizione, l’una «col volto inverso noi come procedente e
non ritornante; le altre dua... col volto in là»258. Le Cariti divengono cosí una sorta di ideogramma, un geroglifico dell’universo «armonico» nella tavola del cosmo
«musicale» del Gafurio e nella ricca illustrazione umanistica del manoscritto dell’Etica a Nicomaco259. Il qua-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
dretto di Raffaello a Chantilly non presenta a quel che
sembra legame alcuno col gruppo senese nella composizione260. Le tre divinità che senza dubbio fanno pendant
al quadro del Sogno di Scipione presentano le sfere, simbolo di immortalità; esse rappresentano il principio
morale grazie alla stessa trasposizione di significato che
permetteva di fare di Venere il principio della perfetta
Humanitas261.
2. I due Amori.
Di solito si designa come un Trionfo una tavola della
collezione Wallace attribuita in modo dubitativo a Piero
di Cosimo262. L’opera deve risalire a circa il 1488, data
del bel manoscritto di Didimo Alessandrino De spiritu
sancto, miniato da Gherardo e Monte del Fora per Mattia Corvino, nel quale si trova una composizione analoga: sul basamento dell’arco molto decorato, in cui figurano a sinistra il re d’Ungheria e a destra la moglie Beatrice d’Aragona, si possono vedere cinque rilievi in
monocromo su fondo oro: Apollo e Marsia, un cavallo
che viene domato, il Trionfo, un nuovo cavallo, la Fonte
di Castalia263. L’immagine ritorna piú completa sul rovescio di una medaglia di Bertoldo, che data degli stessi
anni 1490 e che, con un’incertezza molto caratteristica,
viene descritta a volte come un Trionfo della Castità a
volte come un carro «dionisiaco», dove una baccante
farebbe punire un personaggio restio all’amore264. Abbiamo qui una delle composizioni «letterarie» proprie dell’ambiente fiorentino: ma se dovessimo basarci sulle tradizioni iconografiche anteriori o posteriori sarebbe difficile decidere se si tratta d’una celebrazione della castità
(come nel Trionfo del Petrarca) o di una rappresentazione della crudele tirannia di Venere. La medaglia di
Bertoldo presenta il terreno disseminato delle spoglie di
Storia dell’arte Einaudi
422
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Eros (o Cupido), che mancano nella miniatura e nella
tavola e, d’altra parte, la figura che guida il carro manca
nella tavola. Questa è dunque un derivato e se riesce
difficile spiegarla è perché la composizione incompleta
diventa confusa. Le ali, la faretra, l’arco e le frecce
strappate, spezzate e gettate a terra, bastano in realtà
a far capire che la vittima posta sull’altare è lo stesso
Eros o Cupido, un fratello del carnefice, che è egli stesso Eros o Cupido, che attizza il fuoco. La miniatura
attribuisce ad essi lo stesso aspetto. D’altra parte la
tavola ornando di una testa di faunessa l’enorme vaso
sul quale sta seduta la «divinità» o l’allegoria di sinistra,
fornisce un’indicazione utile che non si ritrova nelle
altre versioni.
Non si tratta di un «Trionfo». Indubbiamente si
vedono spesso nel Trionfo della Castità le ancelle di questa spogliare e legare l’Amore vinto seguendo il gesto
imperioso dell’irresistibile Virtú: cosí si vede, ad esempio, su una celebre tavola di Jacopo del Sellaio265. Ma la
nostra composizione non è una semplice riduzione di
questo tipo con una variante originale che sarebbe costituita dalla purificazione attraverso il fuoco. Vediamo
che ogni corteo è eliminato; il carro trascinato da cavalli ombrosi (che si vedono ripetuti nei monocromi della
miniatura) introduce l’allegoria dell’anima; la scena, in
cui l’amore vinto è consumato dalla fiamma stessa dell’amore, si adatta ad un concetto piú sottile.
Il carro, condotto dai putti alati, richiama ad esempio quello di Bacco e Arianna che, derivato da un cammeo d’onice della collezione di Lorenzo, figurava fra i
tondi del cortile di palazzo Medici266. Donatello se ne era
giá servito per ornare l’elmo di Golia ai piedi di David:
questo particolare veniva a unire Golia alla folle e colpevole esuberanza delle passioni. Ma il «concetto» di
Eros consumato sull’altare dell’amore viene d’altra parte
ad illuminarsi attraverso un’altra opera contemporanea:
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423
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
egli compare in effetti in uno degli scomparti della volta
a pieno sesto con cui il Sangallo e il Cronaca hanno
coperto il vestibolo della sacrestia di Santo Spirito267.
Come nell’atrio di Poggio a Caiano, di cui questo vestibolo riprende la disposizione, la volta è divisa in sei file
di tre cassettoni quadrati: in ognuno di essi sta un disco
centrale legato da quattro forti nastri ornati ai quattro
lati del cassettone. Il cassettone centrale reca nel tondo
l’emblema dello Spirito Santo che richiama la dedica
della chiesa; invece nei riquadri d’angolo, lato verso la
chiesa, sono scolpite due spesse palmette che escono da
un vaso; nei due riquadri corrispondenti appaiono due
scene che illustrano, «sub invocatione Sancti Spiriti», il
tema dei due amori. A sinistra Eros bruciato sull’altare
del Sacrificio, di cui un amore alato attizza la fiamma
soffiando all’interno; questo altare reca una decorazione decifrabile in bassorilievo che viene ripetuta per metà
nel riquadro di destra. Vi si riconosce un uomo abbattuto da delle donne, cioè Orfeo massacrato dalle baccanti per non aver ceduto all’orgia (a destra l’esecuzione erronea ha sostituito la baccante con un uomo)268.
Questa allusione al supplizio inflitto dalle sacerdotesse
dell’orgia illustra il conflitto tra l’amore puro e gli istinti inferiori. Immediatamente il sacrificio sull’altare rivela tutto il suo significato come consunzione dell’amore
«terrestre» attraverso l’ardore dell’amore «celeste» che
trasforma la sua natura. Siamo dunque al centro della
nuova iconografia dei due amori e delle due Veneri, iconografia definita dal Ficino nel suo Convivium de amore
e di cui il Poliziano ha dato una interpretazione personale nel passo delle Stanze in cui Giuliano domanda a
Cupido il suo aiuto per superarlo:
…Se mi presti il tuo santo furore
Leverai me sopra la tua natura.
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Cosí Pico, in una celebre pagina del Commento descriveva l’uomo simile a una materia che per la potenza d’amore «mirabilmente allor s’incende e’ infiamma»269.
La successione delle scene che compaiono nel Trattato di Didimo sembra confermare questa interpretazione: non è certamente un caso che si trovi allo stesso
punto la scena dell’olocausto dell’amore nel vestibolo
della chiesa di Santo Spirito e sul frontespizio di un trattato sullo Spirito Santo. Nella miniatura il sacrificio
dell’amore inferiore è inquadrato da due pannelli che
mostrano dei cavalli che vengono domati (allegoria della
natura che deve essere dominata)270 e completato da due
immagini laterali che sono a destra il supplizio di Marsia, a sinistra la fontana di Castalia, cioè il principio
superiore del «santo furore». Si tratta dunque di Venere che agisce d’accordo con Apollo, sottomessa all’azione del principio superiore, e non della sua vendetta, e
meno ancora di un elogio della castità che sarebbe la
rinuncia all’amore. Come nello stendardo per la Giostra,
si tratta di una nuova immagine destinata a rappresentare la «sublimazione di Eros». La figura allegorica che
presiede alla scena deve essere dunque la «potenza d’amore» cioè la Venere celeste che prende possesso dell’anima: il vaso su cui è seduta rappresenta senza dubbio il ricettacolo delle passioni e dei vizi (di qui le teste
di fauno o di faunessa); quello piú piccolo che essa tiene
in mano è un piccolo vaso purificatorio. Da questo
punto di vista sembra lecito avvicinarlo al piccolo vaso,
da cui esce una fiamma simbolica, che l’allegoria dell’Amor Sacro tiene sollevato nella tela di Tiziano.
3. La nuova «psicomachia».
Nessuno dei miti antichi che si prestavano a rappresentare la vita dell’anima ha attirato tanto gli uma-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
nisti di osservanza platonica quanto quello di Orfeo271.
Il Ficino, Pico se lo sono appropriato; esso contiene
tutte le dimensioni del loro sogno filosofico. Orfeo è il
primo poeta: i suoi inni oscuri celebrano i principî stessi del mondo e il Caos dominato dall’Amore. I miracoli compiuti dalla sua voce che muoveva le pietre e rabboniva le belve stanno a dimostrare la potenza intera
dell’anima sull’universo creato. Il mito di Orfeo è il
mito dell’uomo-poeta al grado piú alto delle sue
facoltà272. Esso mostra anzitutto l’anima presa d’ammirazione e tenerezza per l’universo creato, di cui essa si
scopre in qualche modo come la forza viva. Trasponendo audacemente la favola antica il Ficino evocherà Dio
stesso come un pastore orfico che veglia sull’universo:
il divino «aratore» fa sorgere le giovani gemme e le
radici; come senza di ciò i pampini si rivolgerebbero
verso il sole fuggendo l’ombra?... Dio fa crescere gli
alberi, conduce e pasce le bestie, come hanno affermato gli antichi teologi273. Orfeo circondato dagli animali
partecipa lui stesso a questa straordinaria pastorale.
Dante nel Convivio aveva ricordato la «moralizzazione»
della favola di Orfeo:
Lo savio uomo con lo strumento de la sua voce faria
mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e faria muovere a
la sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e
d’arte: e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna
sono quasi come pietre274.
Ma si tratta ora di una ragione penetrata di estasi
poetica: Orfeo sta a indicare insieme la comunione totale con la natura e l’abbandono totale a Dio. Il suo nome
servirà naturalmente ad indicare gli stati eccezionali
della vita spirituale a contatto con la divinità:
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Septima et omnium praestantissima ea animi alienatio
est, quae fit castitate mentis Deo devotae, quaemadmodum Orpheus in hymno Deorum omnium Musaeum docet.
Talis quippe mens non ad tempus, ut aliae, sed ferme semper pacatum est Dei templum, cuius ostium (ut Joannes
inquit Theologus) Deus pulsat primum, quod statim apertum ingreditur, quod inhabitat sedulo, in quo hominem
pascit ambrosia275.
In questo Orfeo è insieme maestro ed esempio: dietro la sua invocazione è a una sorta di «mistica» della
contemplazione e del sogno che si allude. Questa viene
a completarsi attraverso la tragedia dell’amore perduto
e ritrovato, attraverso l’episodio della discesa agli Inferi, attraverso il crimine delle baccanti; tutte prove queste poco comuni che attendono l’uomo dedito alla contemplazione. L’Orfeo del Poliziano, frettolosamente
composto nel 1480, è una sorta di balletto pittoresco,
una sacra rappresentazione su tutti questi temi. Si sa che
a Milano Leonardo fu indotto a studiarne la messa in
scena276. La maggior parte dei quadri che illustrano la
favola sembrano legati al dramma del Poliziano. La fronte di cassone composta da Jacopo del Sellaio merita di
essere avvicinata ad esso per la sua disposizione paratattica e i suoi accessori di scena277. Altre attribuite a
Baldassare Carrari di Forlí sembrano anch’esse attestare il successo «provinciale» della favola polizianesca. In
una d’esse si vede Plutone e Proserpina seduti in una
caverna infernale che ha la forma di una sfera trasparente e che è forse anche un artificio scenico278. Su una
serie di piatti un tempo attribuiti a Timoteo Viti, amico
di Raffaello, ma in realtà posteriore al 1500 e dovuta a
Nicola Pellipario da Casteldurante (Museo Correr) gli
episodi della favola appaiono ugualmente volgarizzati in
una forma sentimentale e facile279.
La serie delle placchette in bronzo del «Maestro
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
della leggenda di Orfeo», attualmente identificato con
Bertoldo, è la sola illustrazione fiorentina degna della
favola umanistica. I suoi tre grandi episodi: Orfeo e le
fiere, Orfeo davanti a Plutone e Orfeo e le menadi sono
svolti con forza, in uno stile accurato, impreziosito da
tocchi antichizzanti, non senza qualche analogia con i
medaglioni monocromi del Signorelli a Orvieto. Poiché
la serie risale al 1490 deve essere stata fusa per un adepto di Careggi280. Ma la presentazione piú originale della
favola si trova nel pavimento di una cappella di San
Domenico a Siena. Questa composizione è stata a lungo
attribuita al Beccafumi. Se essa come è piú verosimile
risale agli anni 1480-90, viene ad essere contemporanea
dei riquadri del Duomo. Forse è il caso di attribuirne il
cartone a Francesco di Giorgio281. Nello stile un po’
duro tipico dell’incrostazione marmorea, si ritrova la
scena «pastorale» scolpita tanti anni prima da Luca della
Robbia, ma con un simbolismo piú ricco. Sotto i dischi
del sole e della luna, fra gli alberi stilizzati, l’eroe mitico impugna uno specchio in mezzo alle belve minacciose. È un particolare inatteso che induce a cercare qui il
«mago» delle età passate, il priscus theologus del platonismo. Lo specchio che riflette l’ardore del sole è, come
la cetra che risuona a distanza, lo strumento tipico delle
azioni apollinee. Ciò anzitutto in un senso fisico: la
forma liscia, concava e brillante dello specchio, analoga
a quella del cielo, raccoglie esattamente proprio per ciò
il dono stesso del cielo, concentra i raggi di Febo e può
consumare immediatamente ogni corpo solido che si
trovi sull’asse del suo fuoco282; ma anche in senso morale, dove le belve sono le passioni, che il saggio doma grazie alle virtú occulte della «magia» e del sapere. Ecco,
sembra, la ragione per cui lo specchio è stato sostituito
alla lira283. Se le cose stanno cosí, abbiamo qui la chiave
di uno dei disegni piú singolari di Leonardo: il combattimento di animali intorno all’uomo con lo specchio
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
infiammato (Louvre)284. Vediamo a Siena nello stesso
atteggiamento minaccioso, il liocorno, il leone, la pantera che Leonardo rappresenta scatenati gli uni contro
gli altri, ponendo al centro del suo disegno il combattimento bestiale dell’aquila e del dragone. Il giovane dirige contro di essi la superficie concava dello scudo-specchio per abbagliarli, per cui è lecito chiedersi se «l’allegoria morale» di Leonardo non sia una variante sul tema
di Orfeo, riferito alla magia della luce.
La favola di Ercole è quasi altrettanto completa di
quella di Orfeo: piú familiare al medioevo, questa favola era divenuta, in mano ai mitografi del Trecento, la
favola morale per eccellenza: «Hercules id est virtus»285.
Nella distruzione dei mostri di natura si vede la purificazione delle passioni. Il Salutati sul mito di Ercole
aveva costruito tutta una dottrina della vita attiva. Il
Landino e il Ficino non fanno che continuare una lunga
tradizione allorché citano, uno nel De vera nobilitate e
nelle Disputationes Camaldulenses, l’altro in diverse epistole, Ercole fra gli eroi che mostrano la ragione all’opera: «unicus in nobis est homo, bestiae vero sunt multae». Il Ficino loderà l’energia polemica del Poliziano
paragonandolo ad Ercole, cosa che non piacque al poeta,
i cui nemici ripresero il complimento in chiave ironica286.
Ma non è da queste interpretazioni filosofiche che derivava il successo di una favola troppo nota, che tendeva
naturalmente ad assumere un altro aspetto. Il diffondersi dell’aneddoto morale di Ercole al bivio e l’abbondante illustrazione che esso trova287 non impedivano che
Ercole significasse anzitutto la forza fisica e i trionfi
della gloria.
Egli era il primo degli «uomini famosi»; il Petrarca
l’aveva celebrato come tale; e il nerboruto eroe compariva tra i grandi uomini di cui Piero della Francesca
aveva decorata una casa a Borgo San Sepolcro e un imitatore di Paolo Uccello il palazzo Bardi-Sarzelli a Firen-
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ze288. In queste opere non è dato ritrovare alcun rapporto
con l’Ercole «immortale», che tiene in mano il pomo
simbolico della vita felice, noto per la statua antica
(palazzo dei Conservatori) che uno scultore seguace di
Bertoldo rappresenterà intorno al 1500289. Non è l’eroe
stoico per due volte trionfatore della morte, né il personaggio tormentato di Seneca che interessa gli artisti
rinascimentali, ma una solida immagine dell’attività e
del successo, uomo della «virtú», irresistibile e vendicativa. Egli ritorna spesso nei manoscritti. Nel 1463
una miniatura di Francesco di Giorgio in un manoscritto dell’Osservanza, nel 1472, a Ferrara, una miniatura
astrologica che rappresenta Ercole che abbatte l’Idra290
si ispirano alle famose composizioni del Pollaiolo: i tre
grandi quadri su tela (perduti dopo il 1495) che verso il
1460 vennero ad ornare la casa dei Medici, rappresentavano per la prima volta con ampiezza le fatiche d’Ercole che soffoca Anteo, che abbatte il leone e distrugge
l’Idra. Versioni ridotte ne hanno conservato il ricordo:
su uno sfondo di paesaggio si vedono dispiegati tutto lo
sforzo fisico e la «terribilità» dell’eroe. Non si deve
dimenticare, per intendere questo interesse, che Ercole
figurava tra i protettori leggendari di Firenze291. Sul grazioso busto di guerriero del Bargello, che forse è un
ritratto di Giuliano, la corazza appare decorata con due
dei «fatti d’Ercole» ai lati del medaglione di Nerone.
Una statua antica di Ercole si trovava nel giardino del
casino di San Marco; Leonardo sembra alludervi in una
sua nota del Codex Atlanticus292. Il tipo «erculeo» ossessionerà Michelangelo: alla morte del Magnifico lavorerà
ad una statua dell’eroe con la clava; piú tardi la Repubblica gli commissionerà con insistenza un gruppo che
sembra essere stato quello di Ercole e Anteo293. Si tratta di immagini della Fortitudo civica294.
Se si passa a considerare le celebrazioni trionfali, cosí
numerose e diffuse nel Rinascimento295, si deve ricono-
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scere che, rispetto alle altre province d’Italia, Firenze ha
tenuto un atteggiamento riservato, almeno nel Quattrocento. L’elogio di Cosimo-Cosmos e di Lorenzo sotto
il nome di Pan rimane un gioco poetico rispetto alla esaltazione che si fa di Sigismondo Malatesta a Rimini. Il
modo in cui i personaggi di casa Medici vengono trasposti in immagini appare come una adulazione meno
smaccata rispetto alle figurazioni eroiche che cominciano ad essere di moda nell’Italia settentrionale; rimane
comunque molto al di sotto di ciò che si permetterà Giulio II. Nel desiderio di glorificazione era implicita una
pericolosa tendenza alla insincerità e all’impostura.
L’immagine del personaggio viene completata ingrandendo le sue attitudini, le sue virtú, la sua dignità perché possa rispondere a un tipo splendido, per poterlo
rappresentare come un «eroe». Non si tratta di un artificio nuovo. Però Firenze preferiva una glorificazione
piú discreta. Ci si accontenta di velate allusioni alla ricchezza, alla nobiltà e alle ambizioni del personaggio, o
addirittura si preferisce alludere a un elemento dominante della sua figura: la purezza dell’anima nel caso del
cardinal di Portogallo a San Miniato, l’energia del Sassetti a Santa Trinita. Parrebbe che il clima intellettuale
creato dall’umanesimo platonico avesse favorito una rielaborazione in senso «psicologico» dei temi trionfali
dell’arte antica, il cui uso già si era diffuso nella decorazione, con intenti meno sottili. Cosí la figura di una
Vittoria viene a suggerire piuttosto la grandezza morale che non il prestigio militare; uno schiavo incatenato
sta a indicare l’anima serva delle passioni, anziché la sottomissione a un vincitore. Come l’influenza del neoplatonismo fiorentino porta a cercare quelle figure a doppio senso che servono a collegare il mondo pagano al
pensiero cristiano, cosí incoraggia l’utilizzazione dei
simboli della glorificazione mondana per suggerire una
grandezza di tutt’altro genere.
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Non solo il valore dei temi non è sempre esplicito,
ma il modo in cui vengono combinati può risultare per
noi, in mancanza di un testo e di un documento che
serva da intermediario, del tutto oscuro. È questo il caso
del ciclo allegorico piú originale che ci abbia lasciato la
fine del Quattrocento: i dodici riquadri in stucco ad imitazione del bronzo che si trovavano nel cortile del palazzo di Bartolomeo Scala296. Il piglio robusto di questi
rilievi porterebbe ad attribuire l’opera curiosa alla bottega di Bertoldo. Lo stile è quello delle sue placchette,
e tale è anche la doppia componente dell’ispirazione, per
cui le scene di violenza, le battaglie di animali si alternano con altre in cui appaiono allegorie dell’attività
umana. A tratti siamo in prossimità della Educazione di
Eros (Victoria and Albert Museum) a tratti in prossimità
del Combattimento di cavalieri (Bargello) che rappresentano per cosí dire le due facce dell’arte di Bertoldo, con
lo stesso contrasto di una composizione turbinosa e
aggrovigliata nelle scene di violenza, e di una fredda
dignità, di figure semplicemente allineate, nei quadri
simbolici.
Non è da escludere che anche qui come a Poggio a
Caiano si debba pensare a una certa elaborazione ad
hominem: la personalità di Bartolomeo Scala, giurista e
uomo di stato, oltre che umanista e amico del Ficino,
spiega indubbiamente perché nel lato sud si insista in
modo particolare su rilievi dedicati al negotium (Negligentia), alla potenza politica (Gloria Militaris), all’unione di Minerva e Marte (Imperatoria Potestas), mentre la
serie opposta, Amor, Mitas, Jurgium rappresenta la sottomissione degli istinti grazie alla vera potenza di Eros.
La serie orientale: Ebrietas, Proelium, Regnum, illustra
lo scatenarsi delle passioni bestiali297; la serie occidentale, Tempestas, Victoria, Quies, la pace e la serenità dell’anima vittoriosa. Come ogni rilievo s’inserisca esattamente nel ciclo e quale sia il suo particolare significato
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Palazzetto di Bartolomeo Scala: decorazione del cortile
1. Quies: Suonatore di viola (Orfeo?); nove personaggi; grotta con
drago. – 2. Victoria: Quattro figure; donna su una biga. – 3. Tempestas: Vecchio con discepolo; gruppo rustico. – 4. Imperatoria Potestas:
le Scienze (?); Orfeo-Minerva; imperator e soldati. – 5. Gloria Militaris: Carro con Ercole, la Fortuna, ecc. – 6. Negligentia: Mercurio e un
mendico; donna con una giovane vittima (?); gruppo. – 7. Ebrietas:
Centauri intorno a un’urna fumante da cui esce un porco. – 8. Proelium: Battaglie di cavalieri. – 9. Regnum: Uomo che abbatte alcuni animali. – 10. Amor: Due guerrieri e un vecchio seduti; Venere (?) che
reca il pomo; guerriero; uomo nudo (Marte?) che percuote Cupido
davanti a una vecchia. – 11. Mitas: Uomo nudo; leone che divora un
bue. – 12. Jurgium: Danza rustica; musici, uomo ebbro.
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si comprende a fatica nonostante le iscrizioni al centro
di ognuno. Vi si vedono comunque in modo indubbio
tutti gli elementi di una nuova «psicomachia»: non è la
lotta del bene e del male che viene raffigurata qui, ma
la rivalità tra le varie parti dell’anima, il conflitto dell’elemento razionale con gli elementi «irascibili» e gli
appetiti inferiori298. Un’indicazione piú precisa ci viene
fornita dalla figura del suonatore di viola, posta a sinistra della Quies e ripetuta al centro della Imperatoria
Potestas: questa figura è vicina alla statuetta di Bertoldo, considerata un Orfeo o un Apollo, che si trova al
Bargello. La robusta figura di Ercole che compare nella
Gloria Militaris sembra definire l’altro aspetto essenziale di questa «psicologia» allegorica la quale, nonostante
la sua oscurità, viene a confermare, tutto sommato, che
lo «specchio morale» aveva trovato in Ercole e in Orfeo,
eroi della vita attiva e della vita contemplativa, i suoi
due simboli essenziali.
Il gran numero di queste riunioni è ricordato da b. varchi, Storia
fiorentina, IX, 36: la loro struttura è stata studiata da g. m. monti, Le
confraternite medievali dell’alta e media Italia, Venezia 1927 e recentemente commentata da p. o. kristeller, Lay religious traditions and florentine Platonism, in Studies cit., cap. V. Sull’importanza della Confraternita dei Magi cfr. piú avanti, cap. II, 2.
2
È ciò che risulta dalla rassegna, alquanto laboriosa, dei successivi punti di vista compiuta da a. chastel, Art et religion dans la Renaissance italienne, in «Humanisme et Renaissance», vi (1945), e w. k. ferguson, The Renaissance in historical thought, Boston 1948.
3
e. garin, L’Umanesimo italiano ecc. cit.
4
h. brockhaus, Die Paradiestür Ghibertis, in Forschungen über florentinische Kunstwerke, vol. I, 1902. Sulle sottigliezze del programma:
r. krautheimer, Lorenzo Ghiberti cit., cap. XII. Alcuni esempi saranno forniti piú avanti.
5
j. von schlosser, Giusto’s Fresken in Padua und die Vorlaufer der
Stanza della Segnatura, in «Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen der all. Kaiserhauses», xvii (Wien 1896), pp. 13 sgg.: analisi dei
1
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medaglioni e della loro disposizione. a. van marle, Iconographie de l’art
profane au Moyen-Age et à la Renaissance, L’Aja 1932, vol. II, p. 228;
l. planiscig, Luca della Robbia, Wien 1940.
6
Secondo la cruttwell, Luca and Andrea della Robbia and their
successors, London 1902, p. 19, e a. marquand, Luca della Robbia,
London 1914, pp. 36-37 («È difficile trovare qui un simbolo della retorica o anche della poesia»).
7
La composizione è ispirata alle formelle delle porte di San Lorenzo scolpite da Donatello a partire dal 1435: l. planiscig, Donatello,
Firenze 1947, p. 74.
8
vasari, ed. Milanesi, II, p. 169; l. goldscheider, Leonardo da
Vinci, London 1947, trad. fr., Paris 1948, p. 22 (n. 39).
9
g. j. hoogewerf, Vultus Trifons, in «R. C. Pont. Accademia
Romana», XIX (1942-43), pp. 205 sgg. Sull’emblema trinitario: e.
panofsky, Signum Triceps, nel volume degli Studien der Bibliothek Warburg, XVIII, Leipzig 1930. Sull’attribuzione della nicchia a Donatello
seguiamo il paatz, Kirchen cit., IV, p. 533.
10
m. davies, The earlier italian schools (National Gallery), London
1951, pp. 94-98. Sull’«eresia»: g. boffito, L’eresia di Matteo Palmieri, «cittadino fiorentino», in «Giornale storico della letteratura italiana»,
xxxvii (1901), pp. 1-69. Secondo filippo da bergamo, Supplementum
chronicarum, Venezia 1483, il Palmieri sarebbe stato condannato e
bruciato. Cfr. e. wind, The revival of Origen, in Studies in Art and Literature for Belle da Costa Greene, Princeton 1954. Un documento pubblicato di recente da p. o. kristeller, Studies cit., p. 328, rivela tuttavia che ancora nel 1515 un domenicano era stato incaricato di rivedere il testo del poema.
11
d. c. allen, The Legend of Noah, 1949, p. 169; e. wind, The
revival of Origen cit., p. 419; r. krautheimer, Lorenzo Ghiberti cit.,
p. 177.
12
a. della torre, Storia cit., pp. 619-20.
13
e. garin, Problemi di religione e filosofia nella cultura fiorentina del
Quattrocento, in «Humanisme et Renaissance», XIV (1952).
14
d. p. walker, Orpheus the theologian and Renaissance Platonists,
in «jwci», xv (1943); p. o. kristeller, Studies cit., pp. 51 sgg.
15
Marsile Fícin et l’art cit., pp. 157 sgg.
16
Opera, 933 (lettera a Martinus Uranicus, giugno 1492); g. corsi,
Vita Ficini, cap. VIII; p. o. kristeller, Studies cit., p. 202.
17
Come ha notato f. saxl, Pagan sacrifice in the italian Renaissance, in «jwci», ii (1939), 4.
18
Opera, p. 935. Questo testo sarà ripreso dal mitografo V. Cartari. Su questo nuovo concetto dell’immagine «esatta» delle divinità
antiche: e. h. gombrich, Icones Symbolicae, The visual image in the neoplatonic thought, in «jwci», xi (1948), p. 78.
Storia dell’arte Einaudi
435
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Theologia platonica, XIV, 1, Opera, 305; Pico, ed. Garin (1942),
p. 102.
20
e. garin, La «Dignitas hominis» e la letteratura patristica, ne «La
Rinascita», i (1938), pp. 102-46. g. gentile, Il concetto dell’uomo nel
Rinascimento, ne Il pensiero italiano del Rinascimento, Firenze 1940, pp.
90 sgg.
21
Theologia platonica, XIV, 3, Opera, 309; ibid., XIV, 8, Opera,
360, citati in Marsile Ficin et l’art cit., pp. 43 e 45.
22
Theologia platonica, XIV, 1, Opera, 308; Convito, I, 2; Marsile
Ficin et l’art cit., p. 146.
23
a. buck, Dichtung und Dichter bei Cristoforo Landino, in «Romanische Forschungen», lviii-lix (1947), pp. 233-46.
24
pico, Heptaplus, proemio, ed. E. Garin, pp. 191-93; e. h. gombrich, Icones Symbolicae ecc. cit., p. 168.
25
Cosí la stele funeraria di una famiglia completata a Roma intorno al 1490 con le scritte: Honor, Amor, Veritas: p. l. williams, Two
roman reliefs in Renaissance disguise, in «jwci», iv (1940-1941), pp.
47 sgg.
26
Il Ficino ha spesso la sensazione di spingersi troppo lontano. Se
la cava di solito dichiarando di star esponendo le dottrine degli Antichi senza assumersene la responsabilità in proprio, e affermando che
si tratta di un gioco poetico. Cosí quando indugia sulla simbologia dell’Eros e sui principî della «magia» universale, scrive: «liceat hic una
cum Pythagoricis parumper confabulari» (Theologia platonica, III, I,
Opera, p. 125).
27
Theologia platonica, XVIII, 10, Opera, p. 418; Marsile Ficin et l’art
cit., pp. 164, 166, n. 6.
28
Theologia platonica, VIII, Opera, p. 185; Theologia platonica,
XVI, 8, Opera, p. 385; Marsile Ficin et l’art cit., pp. 68 e 53, n. 33. p.
o. kristeller, Il Pensiero filosofico ecc. cit., pp. 37 sg.
29
Si tratta di uno degli aspetti di una evoluzione piú generale
descritta da e. panofsky, Hercules am Scheidewege, Leipzig 1930.
30
Marsile Ficin et l’art cit., III. e. panofsky, Studies in Iconology cit.,
cap. VI; c. de tolnay, Werk und Weltbild des Michelangelo cit., II.
31
Su tutti questi punti: j. seznec, La survivance des dieux antiques
cit., e le osservazioni di e. garin, Le favole antiche, in Medioevo e Rinascimento cit., I, 3.
32
boccaccio, Genealogia Deorum, XV, 8.
33
Cfr. piú avanti.
34
Un oggetto ben piú significativo da questo punto di vista è il
medaglione in bronzo, niellato in oro e argento, che è stato chiamato
lo Specchio Martelli (Victoria and Albert Museum, Catalogue of italian
plaquettes, a cura di E. Maclagan, London 1924, p. 11): nessuno pensa
piú d’attribuirlo a Donatello e di datarlo 1450-60, come faceva il Bode.
19
Storia dell’arte Einaudi
436
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Esso risale al 1500 circa e può essere padovano (cfr. sopra, parte I, cap.
VI). Esso presenta intorno a un piccolo ermete circondato di pampini
e d’emblemi rituali un fauno che fa il gesto delle corna e una baccante che si spreme il latte dal seno facendolo cadere in un rhyton. Sotto
una maschera posta in primo piano la scritta:
Natura favet} quae { Necessitas urget
sta a indicare con il maggior vigore possibile l’idea della coerenza e dell’onnipotenza delle forze della generazione nella natura (f. saxl, Pagan
sacrifice in the Renaissance, in «jwci», ii [1939] pp. 359 sgg.). Se ne
ritrovano gli elementi nel Sogno di Polifilo: la ninfa generosa ricompare nell’allegoria della Natura con la dedica pßntwn tokadà, la maschera nella testa di Medusa raffigurata sulla chiave di volta del tempio di
Venere Physizoé e torna anche a piú riprese il motivo priapico.
35
Cfr. Marsile Ficin et l’art cit., I, 3. Sul posto della «magia» nella
cultura del Rinascimento: e. garin, Magia ed astrologia nella cultura del
Rinascimento, in «Belfagor», 1950.
36
Marsile Ficin et l’art cit., I, cap. I.
37
Discorso sopra le decadi di Tito Livio, libro II, cap. II; cfr. a.
renaudet, Machiavel, 2ª ed., Paris 1952.
38
Su Govanni Rucellai (1403-81): g. marcotti, Un mercante fiorentino e la sua famiglia, Firenze 1881. La lettera del Ficino in p. o. kristeller, Supplementum ficinianum cit., II, pp. 169-72; essa è stata studiata da a. warburg, Francesco Sassettis ecc., in Gesammelte Schriften
cit., vol. I, pp. 147 sgg. Cosí la Fortuna ha perduto il carattere di mera
illusione che aveva in Dante, senza ancora aver assunto il valore di sfida
alla virtú che avrà in Machiavelli: cfr. e. cassirer, Individuum und
Kosmos ecc. cit. Il motivo della Fortuna che tiene la vela è stato utilizzato da un medaglista fiorentino, il cosí detto «Maestro della Fortuna»: c. von fabriczy, Medaillen der italienischen Renaissance, Leipzig, s. d., p. 63.
39
w. von bode, Bertoldo ecc. cit., pp. 23-25.
40
a. chastel, Le «cosmos» à la Renaissance, in L’Europe humaniste, catalogo della mostra tenuta a Bruxelles nel 1954.
41
Si è a volte attribuita un’importanza decisiva ai legami di Nicola Cusano con Paolo del Pozzo Toscanelli, per quanto riguarda la critica della cosmografia tradizionale. I fatti non depongono in questo
senso. Il rapporto di dipendenza di Leonardo dal cardinale, affermato
da p. duhem, Etudes sur Léonard de Vinci, serie II, Paris 1909, è tutt’altro che provato; e. cassirer, Individuum und Kosmos ecc. cit., cap. I,
ha attribuito al cardinale un’influenza sulla quale si possono avanzare
riserve.
42
r. almagià, Osservazioni sull’opera geografica di Francesco Berlinghieri, in «Archivio della Deputazione romana di storia patria», xi
(1946), pp. 211-55.
Storia dell’arte Einaudi
437
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
k. kretschmer, Die Entdeckung Amerikas in ihrer Bedeutung für
die Geschichte des Weltbildes, Berlin 1892, cap. IV. l. olschki, Storia
letteraria delle scoperte geografiche, Firenze 1937. g. battelli, La corrispondenza del Poliziano col re don Giovanni di Portogallo, in «Rinascimento», ii (1939), pp. 290-98.
44
a. m. bandini, Vita di Amerigo Vespucci, ed. G. Uzielli, Firenze
1898; a. della torre, Storia cit., p. 772. Sul problema nel suo complesso: r. almagià Il primato di Firenze negli studi geografici durante i
secoli XV e XVI, Firenze 1929. Ultimamente: e. garin, Ritratto di Paolo
del Pozzo Toscanelli, in «Belfagor», xii (1937), 3.
45
Theologia platonica, II, xiii, Opera, p. 112: citato in Marsile Ficin
et l’art cit., p. 59.
46
È significativo che si trovino figure cosmologiche (divinità planetarie, muse guidate da Apollo) nel famoso gioco di carte noto come
i «tarocchi del Mantegna». È lecito vedervi un gioco «neoplatonico»
certamente composto da Nicola Cusano, il Bessarione e Pio II durante il concilio di Ferrara (1459-60), sul tema dei gradi del mondo. h.
brockhaus, Ein edles Geduldspiel: die Leitung der Welt oder die Himmelsieiter, die sogenannten Taroks Mantegnas vom Jahre 1459-60, in
Miscellanea I. B. Supino, Firenze 1933, pp. 397 sgg.
47
Riferimenti in Marsile Ficin et l’art cit., p. 95 e n.
48
Su questo punto: w. e. peuckert, Pansophia, Stuttgart 1936; e.
garin, Magia ed astrologia ecc. cit.
49
a. chastel, L’œuf de Ronsard, in Mélanges... offerts a H. Chamard,
Paris 1951, pp. 109-11. L’uovo sospeso a perpendicolo sul Bambino
Gesú nella pala di Piero della Francesca a Brera unisce in sé parecchi
simboli: riprende il motivo dell’uovo di struzzo che veniva posto spesso nel coro delle chiese, cosa particolarmente opportuna per onorare
un principe (Federico di Montefeltro) che fra i suoi emblemi aveva
anche lo struzzo: m. meiss, Ovum Struthionis, symbol and allusion in
Piero della Francesca’s Montefeltro altarpiece, in Studies... for B. da Costa
Greene, Princeton 1954; il valore cosmico non è meno palese nella posizione che l’oggetto occupa al centro della sfera absidale e del cerchio
degli adoratori: k. clark, Piero della Francesca, London 1952.
50
Epist. V, Opera, p. 805; w. dress, Die Mystik des Marsilio Ficino, Berlin 1929, p. 130.
51
t. reinach, La musique des sphères, in «Revue des études grecques», xiii (1900), p. 432; p. boyancé, Etudes sur le Songe de Scipion,
Paris 1936, p. 27. Sul valore simbolico della sfera nell’antichità: o.
brendel, Symbolik der Kugel, in «Mitteilungen des deutschen Archäologischen Instituts», li (Roma 1936), pp. 1-95. Sullo sviluppo di questo tema nel medioevo: j. baltrusaitis, Cosmographie chrétienne dans
l’art du Moyen-Age, in «Gazette des Beaux-Arts». febbraio 1937, ottobre e dicembre 1938, febbraio 1939, estratto, Paris 1939.
43
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Marsile Ficin et l’art cit., III, cap. II c. de tolnay, The music of
the universe, in «Journal of the Walters Art Gallery», 1943; j. hutton,
Some english poems ecc. cit., p. 24.
53
Cfr. piú avanti, cap. III. Un curioso passo della Commedia, Paradiso, XII, 7-9, fa allusione alle «muse» e alle «sirene» in connessione
con le sfere celesti.
54
Commentarium in Timaeum, capp. 26 e 27, Opera, II, p. 1447.
55
c. fasola, Il Battistero di S. Giovanni, Firenze 1948.
56
j. baltrusaitis, Cosmographie chrétienne ecc. cit., p. 46, fig. 54.
57
a. venturi, Storia dell’arte italiana, VI, p. 3, fig. 3; r. oertel,
Filippo Lippi, Wien 1942; m. pittaluga, Filippo Lippi, Firenze 1948.
58
Il tracciato astrologico del cielo è fornito dallo stesso artista nel
celebre disegno di Atlante: a. s. weller, Francesco di Giorgio cit., pp.
98 sgg.
59
c. de tolnay, The music of the universe cit.
60
y. batard, Les dessins de Sandro Botticelli pour la Divine Comédie, Paris 1952, p. 80.
61
o fischel, in «jb», xli (1920), p. 98, id., Raphaël, London 1948,
pp. 149 sgg.
62
c. de tolnay, The Sistine Ceiling cit., pp. 35 sgg.
63
E che si ritrova nelle tarsie contemporanee.
64
j. p. richter, The literary works ecc. cit., nn. 939 e 1422; a. chastel, Léonard de Vinci et la culture cit., p. 257.
65
Sui «corpi platonici» e l’arte cfr. piú avanti.
66
Theologia platonica, IV, i, Opera, pp. 122-25.
67
Ibid., pp. 129-31. I «demoni» sono: Plutone-Proserpina (terra),
Oceano-Teti (acqua), Giove-Giunone (aria), Faneta-Aurora (fuoco).
68
Sull’azione dell’atmosfera tra l’acqua e il fuoco: Codex Atlanticus 75 v (a); op. cit., pp. 337-352.
69
Ad esempio, ed. j. p. richter, The literary works ecc. cit., n. 1218,
vol. II, p. 257; come per le coppie dolore-piacere, morte-vita, esiste
un’opposizione dialettica che non può essere risolta dall’«artifiziosa
natura» e dal «tempo consumatore delle cose» (cfr. piú avanti).
70
e. mâle, L’art religieux du XIIIe siècle en France, Paris, pp. 316 sgg.
e r. von marle, Iconographie de l’art profane ecc. cit.
71
vasari, ed. C. L. Ragghianti, I, p. 541
72
filarete, Trattato di architettura, ed. cit., p. 302.
73
f. weege, Der malerische Smuck von Raffaels Loggien in seinem
Verhaltnis zur Antike, in t. hofmann, Raffael als Architekt, vol. IV,
Leipzig 1911, p. 174; a. von salis, Antike und Renaissance cit., p. 44.
Sul «naturalismo» delle grottesche: a. chastel, La Renaissance fantaisiste, ne «L’Œil», 1956, n. 21 (settembre), e piú avanti, pp. 339 sgg.
74
Sul programma della Stanza: cfr. piú avanti, sezione V, cap. III.
75
Si trova nella volta della cappella del Sacramento a Cremona
52
Storia dell’arte Einaudi
439
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
(circa 1498), attribuita a Altobello Meloni, una curiosa combinazione
dei simboli della natura, dei simboli evangelici e dei medaglioni dei dottori: a. puerari, Gli affreschi cremonesi di Giovanni Pietro da Cemmo,
in «Bollettino d’arte», xxxvii (1952), p. 220.
76
Theologia platonica, XIV, x, Opera, p. 322.
77
Come suggerisce invece, a torto, e. wind, The four Elements in
Raphaels Stanza della Segnatura, in «jwci», ii (1939), pp. 75-79. È stato
tuttavia questo articolo a offrire la prima esegesi particolareggiata della
composizione. Noi la riassumiamo senza tener conto delle molteplici
«intersezioni» di significato indicate dall’autore, in vista della posizione
di ogni riquadro tra due simboli fondamentali.
78
Ne parleremo piú avanti.
79
d. levi, The Allegories of the months in classical art, in «The Art
Bulletin», xxiii (1941). a. colasanti, Le stagioni nell’antichità e nell’arte
cristiana, in «Rivista d’arte», 1901, pp. 669 sgg. r. van marle, Iconographie de l’art profane ecc. cit., vol. I, cap. IV.
80
r. de campos, Raffaello e Michelangelo cit., p. 51.
81
a. marquand, Andrea della Robbia cit., p. 109. g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., p. 37. u. middeldorf, Giuliano da Sangallo and
Andrea Sansovino, in «The Art Bulletin», xvi (1934), 2, pp. 107-15.
Alcune note inedite del professor Middeldorf sono state utilizzate nell’analisi che segue.
82
w. h. roscher, Ausführliches Lexicon der griechischen und römischen Mythologie, vol. V, Leipzig 1924, col. 379, alla voce Terminus.
83
h. dütschke, Die antiken Marmorbildwerke ecc. cit., I, n. 44, p.
33, cita un sarcofago romano di Pisa, che presenta i due fratelli. c.
robert, Sarkophaggräber cit., III, 1, nn. 50, 58, 65, 72. f. cumont,
Recherches ecc. cit., p. 397, a proposito del papavero: «Questa pianta
narcotica è propria di Hypnos e caratterizza le sue immagini...».
84
Analogie nell’arte greca: t. homolle, Deux bas-reliefs néoattiques,
in «Bulletin de correspondance hellénique», 1892, pp. 325-43, tav. viii.
Questi bassorilievi provengono da Ercolano e sono opera di botteghe
attiche attive in Italia nel ii secolo a. C.
85
ovidio, Metamorfosi, II, 13-16: «Verque novum stabat cinctum
florente corona | Stabat nuda Aestas et apicea serta gerebat, | Stabat
et Autumnus calcatis sordidus uvis | Et glacialis Hiems canos hirsute
capillos». r. van marle, Iconographie de l’art profane ecc. cit., I, p. 316.
Associate alle ore, le quattro stagioni rientrano nel quadro mitologico.
Ovidio le assegna dapprima come compagne di Giano, in quanto sono
espressione dell’ordine celeste, poi di Flora, in quanto regolano la
vegetazione, come provano i fiori, i frutti, che le circondano (Fastes, I
e VI). Di qui il preciso legame con il motivo centrale del fregio, consacrato a Giano. Sui sarcofagi con rappresentazioni delle stagioni a Pisa,
in palazzo Barberini (oggi a Harvard): f. cumont, Recherches ecc. cit.,
Storia dell’arte Einaudi
440
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
p. 487. Per il confronto con l’antico: d. levi, The allegories of the
months ecc. cit., pp. 259-92.
86
poliziano, Selve, ed. i. del lungo, p. 24; con per fonti: macrobio, Saturnales, I, 9, plinio, Naturalis Historia, XXXIV, cap. VII.
87
j. g. frazer, The Fasti of Ovid, London 1929, testo, vol. I, pp. 7
sgg.; commento, vol. II, pp. 82 sgg.
88
j. g. frazer, The Fasti of Ovid cit., vol. II, pp. 101 sgg. virgilio,
Eneide, VII, 611-14, rappresenta già questa scena.
89
L’inno VI di Proclo a Ecate e a Giano contiene anch’esso un’invocazione: «Salute anche a te, Giano, antenato degli antenati» (v. 4),
che sottolinea il significato cosmico del dio. Gli inni di Proclo non
sono stati editi che nel 1500 a Firenze (senza il sesto però): m. meunier, Aristote, Cléanthe, Proclus, Hymnes philosophiques, Paris 1935,
pp. 56 e 111-13. Nelle Stanze il Poliziano sottomette Giano al potere
sovrano di Atena: «O sacrosanta dea figlia di Giove, | Per cui il tempio di Gian s’apre e riserra; | La cui potente destra serba e move | Intero arbitrio e di pace e di guerra» (Stanze per la Giostra, II, st. 41). Nel
carnevale del 1513 uno dei carri realizzati dal Pontormo seguendo le
direttive di J. Nardi, presenterà l’Età di Saturno e di Giano, cioè l’età
dell’oro, e Giano vi apparirà con in mano le chiavi del tempio della
guerra.
90
l. dütschke, op. cit., I, 113 (porta dell’Eternità), e II, p. 61. Sulla
porta dell’Ade nella scultura romana: altmann, Architektur und Ornamentik ecc. cit., p. 13; f. cumont, Recherches ecc. cit., tav. XXX, 2.
91
Sull’opposizione Giove-Saturno, a. chastel, Le mythe de Saturne dans la Renaissance italienne, in «Phoebus», iii (1948).
92
Numerosi passi di Platone (Ione, Eutidemo); Inni orfici, XXXVIII, I: «Coribanti che fate risuonare il bronzo, siete voi che per primi
avete disposto l’iniziazione». Pico scrive esplicitamente: «Idem sunt
Curetes apud Orpheum et potestates apud Dionysium»: b. kieszkowski, op. cit., p. 119.
93
Il simbolo del serpente-eternità è descritto in Giamblico. Il Ficino lo cita da Horapollo come esempio di geroglifico: Opera, p. 768; cfr.
e. h. gombrich, Icones Symbolicae cit., p. 172 e n. 1. È l’«impresa»
che si vede sul rovescio delle medaglie di Lorenzo di Pierfrancesco: g.
p. hill, A corpus of italian medals ecc. cit., nn. 1034, 1055. Era già stato
attribuito come simbolo, nella serie dei Tarocchi, al personaggio chiamato «Chronico», demone della durata: h. brockhaus, Ein edles
Geduldspiel ecc. cit. (b 32).
94
ficino, Compendium in Timaeum, cap. XVI: «Cur mundus sit
unus et sphaericus et moveatur in sphaeram» (Timeo, 37 d).
95
claudiano, ed. Koch, Leipzig 1893. Abbiamo segnalato sopra,
parte I, II, introduzione, che Claudiano era ritenuto fiorentino.
96
Faust, seconda parte, atto I, vv. 6216 sg. Goethe ha tratto il moti-
Storia dell’arte Einaudi
441
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
vo da plutarco, De defectu oraculorum, cap. XXII; cfr. l’edizione del
Faust a cura di h. lichtenberger, Paris 1933, t. II, p. lxviii.
97
Cfr. f. de ruyt, Charon démon étrusque de la mort, Bruxelles
1934. Caronte con un serpente in una mano (e un mazzuolo nell’altra):
nn. 52, 75, 96, 103, 123, 124, 124 bis, 125 e 131 bis; demoni con serpenti: nn. 152, 158 e 161, e soprattutto Tuchulcha che impugna serpenti: n. 1 (tomba dell’Orco a Tarquinia, seconda stanza), n. 34 (cratere di Vulci alla Bibliothèque Nationale di Parigi), n. 42 (cratere di
Toscanella, museo di Trieste). Cfr. ancora: e. kuster, Die Schlange in
der griechischen Kunst und Religion, Giessen 1913, p. 88.
98
c. landi, Demogorgone con saggio di nuova edizione delle Genealogiae Deorum gentilium del Boccaccio, Palermo 1930, n. 18. j. seznec,
La survivance des dieux antiques cit., p. 139. La figura del Demogorgone è nata da un equivoco degli scoli a stazio, Tebaide, IV, 512-13, e
lucano, Farsaglia, IV, 742-49. Indicazioni sulla vita successiva di questa figura nel breve articolo di m. castelain, Démogorgon ou le barbarisme déifié, in «Bulletin de l’Association G. Budé», n. 36 (luglio
1932), pp. 22-39.
99
c. c. coulter, The Genealogy of the Gods, in Vassar mediaeval Studies, a cura di S. Forsyth Fiske, New Haven 1923, pp. 315-41.
100
v. cartari, Le imagini con la spositione de i Dei degli antichi, Venezia 1556. Citato dall’edizione latina: id., Imagines deorum qui ab antiquis colebantur, Lyon 1581, pp. 18, 32 ecc. Sul Cartari e i mitografi,
j. seznec, La survivance des dieux antiques cit., pp. 197 sgg.
101
Cosí B. Berenson nella bella pagina, scritta in uno stile che
ricorda W. Pater, che egli dedica al quadro, Italian Painters of the
Renaissance, ed. London 1952, p. 114.
102
Le indicazioni di r. vischer, Signorelli und die italienische Renaissance, Leipzig 1879, sono state riprese dalla maggior parte degli autori, M. Cruttwell (1899), A. Venturi (Storia, VII, 2, 1913; Luca Signorelli, 1923), L. Dussler (1927). Recentemente: mario salmi, Signorelli, Firenze 1954.
103
vasari, ed. Milanesi, III, pp. 688-89.
104
Il Signorelli è tra gli artisti invitati a presentare un progetto per
la facciata del duomo di Firenze nel 1490: il 5 gennaio 1491 egli è
assente dalla riunione finale (documento in vasari, ed. Milanesi, IV,
pp. 306-9).
105
Dipinto su tela: cm 945×257. Ricordato nel 1687 nell’inventario di palazzo Pitti, è stato ritrovato nel 1865 nella collezione di Cosimo Corsi; passò quindi al museo di Berlino nel 1875. Distrutto nel
1945. Il catalogo del Kaiser Friedrich Museum a cura di H. Posse, Berlin 1909, fornisce indicazioni sui colori.
106
h. p. horne, Botticelli cit., 1908, p. 59, ha supposto che si tratti di Lorenzo (di Pierfrancesco) de’ Medici, e che l’allegoria di Pan sia
Storia dell’arte Einaudi
442
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
stata dipinta per la stessa persona per cui era stata dipinta la Primavera. Il passo del Vasari non consente questa ipotesi: l’allusione alla
magnificenza identifica chiaramente il Magnifico e l’accenno alla villa
di Castello (che nel Quattrocento era quella di Laurentius Minor) non
riguarda che il secondo dipinto citato, la Madonna coi profeti, e anche
se riguardasse il Pan non lo localizzerebbe che alla data 1550.
107
Nella sua V egloga Naldo Naldi (1436-1513), dopo aver descritto la gioia di Antea (cioè Firenze) che ritrova Antifilo (l’amante di
Antea cioè Cosimo) al suo ritorno dall’esilio, aggiunge: «Fate che io
dedichi altri poemi piú importanti a Cosimo, a questo Cosimo che riempie il mondo del suo nome»: a. hulubei, Etude sur la joute de Julien et
sur les bucoliques dédiés à Laurent de Médicis, in «Humanisme et Renaissance», iii (1936), p. 314. Questi componimenti poetici scritti certamente al tempo di Cosimo e relativi agli avvenimenti del 1433-35, sono
stati rifusi intorno al 1469 in modo da formare un ciclo gradito a Lorenzo. Sul Naldi poeta di corte: g. bottiglioni, La lirica latina in Firenze,
Pisa 1913, pp. 47 sgg.; sui legami del Naldi con l’Accademia: a. della
torre, Storia cit., pp. 668 sgg.
108
Lettera del settembre 1462: Opera, p. 608. L’epistola si trova
anche in un manoscritto della Biblioteca Laurenziana pubblicato in Supplementum Ficinianum, II, p. 87. Cfr.: Marsile Ficin et l’art cit., pp. 8
e 55; a. della torre, Storia cit., pp. 537-38.
109
Sulla festa di san Cosma a Firenze: lettera di Lorenzo a Pietro
Alemanni del 27 settembre 1491 ed epigramma di Naldo Naldi (Magl.,
VII, 1057, C. 4): «ecce dies cosmi redeunt...», ricordati con altri riferimenti in Supplementum Ficinianum, vol. I, p. 155; cfr. anche a. della
torre, Storia cit., p. 642.
110
Supplementum Ficinianum, I, p. 47.
111
Opera, pp. 843-44.
112
Ibid., pp. 648-49 (avanti il 1435).
113
a. hulubei, Etude sur la joute ecc. cit., pp. 319-20.
114
Opera, p. 728, 2.
115
lorenzo de’ medici, Altercatio, IV, 1 sgg., ed. Simioni, vol. II,
p. 53.
116
g. spagnolo, Apollo e Pan, carme bucolico di Lorenzo de’ Medici, Cremona 1930; a. chastel, Melancholia in the sonnets of Lorenzo
de Medici, in «jwci», viii (1945), pp. 61-67. Lorenzo stesso aveva contrapposto l’amore individuato nel movimento incessante della natura,
di cui tratta nel «commento», a quello che, secondo Platone, spinge
tutte le creature a riposarsi in Dio: cfr. Marsile Ficin et l’art cit., p. 29.
117
Poliziano, Opera, vol. I, Epist., libri XII, Lyon 1536, p. 109:
«Duobus circiter ante obitum mensibus, cum in suo cubiculo sedens
(ut solebat) Laurentius de philosophia et litteris nobiscum fabularetur,
ac se destinare diceret reliquam aetatem in iis studiis mecum et cum
Storia dell’arte Einaudi
443
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Ficino Picoque ipso Mirandola consumere, procul scilicet ab urbe et
strepitu...» Su questo aspetto di Lorenzo, cfr. Marsíle Ficin et l’art cit.,
pp. 28-29.
118
Il ricordo del «Pan mediceo» restò ancora vivo nel secolo successivo: in una raccolta di poesie in onore del duca d’Urbino, morto
nel 1516, questi è detto: «Pan medica de gente satus». Lauretum sive
carmina in laudem Laurentii Medicis, Firenze 1516 (ed. 1820, pp. 3839). Questa indicazione è stata scoperta da f. saxl, Antike Götter in
der Spätrenaissance, Leipzig 1927, pp. 22 sgg.
119
Ciò viene a coincidere con l’interpretazione proposta di r. herbig, Alcuni dei ignudi, in «Rinascimento», 1952, pp. 3-23: noi però non
seguiamo in tutto tale interpretazione.
120
Su Saturno, simbolo dell’Accademia: Marsile Ficin et l’art cit.,
introduzione, I.
121
r. herbig, Pan, der griechische Bocksgott. Versuch einer Monographie, Frankfurt am Main 1949. In particolare:
1) Pan seduto, una musa citareda e due ninfe, dipinto murale,
Pompei (3° stile). Herbig, tav. xxxix, 1;
2) Pan imberbe in piedi, frammento di pittura murale, Ercolano,
ibid., tav. XVIII, 2;
3) Torso di Pan sul quale sono state incise le immagini degli dei,
marmo, 200 c. d. C., ibid., tav. xiv, 1-2.
122
I principali testi addotti dal Lübke (1874), H. Vischer (1879),
R. Fry (1901), C. von Fabriczy (1903), sono stati raggruppati da r. herbig, Alcuni dei ignudi cit., e r. eisler, Luca Signorelli’s School of Pan,
in «Gazette des Beaux-Arts», xxxiv (1948), pp. 77-92: questo ultimo
studio contiene un’osservazione utile sul ciclo degli amori infelici, ma
presenta (senza una valida ragione) il Filelfo (morto nel 1481) come ispiratore del quadro vedendovi l’allusione a un rimedio osceno contro i
tormenti d’amore (desunto da Dione Crisostomo, VI), che sarà piú tardi
illustrato da Luca Cambiaso.
123
c. de tolnay, The youth of Michelangelo cit., pp. 103-4.
124
k. clark, The nude, London 1956, pp. 102-3.
125
a. chastel, Melancholia in the sonnets ecc. cit., p. 66. Il portico
e gli edifici del fondo, se non sono un semplice scenario classicheggiante, possono richiamare il tempio oracolare di Menalo in Arcadia,
di cui Pan era il dio temuto; ne parla il Poliziano: Nutricia, v. 211.
126
Per l’avvicinamento al Sannazzaro, la cui Arcadia, composta
dopo il 1480, è stata pubblicata solo nel 1504, cfr. f. saxl, Antike Götter ecc. cit., p. 25.
127
guglielmo della valle, Lettere sanesi, Roma 1786, III, p. 320.
b. berenson, The Drawings of the florentine Painters cit., n. 2509 (3),
fig. 121, e id., Nouveaux dessins de Signorelli, in «Gazette des BeauxArts», 1931, pp. 288-93. a. e. popham e p. pouncey, Italian Drawings
Storia dell’arte Einaudi
444
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
(British Museum) cit., n. 236, tav. ccviii. Sul ciclo di Siena: m. davies,
The earlier italian Schools (National Gallery), London 1951, pp. 367
sgg., e piú avanti.
128
p. schubring, Uomini famosi, in «Repertorium für Kunstwissenschaft», xxiii (1900), p. 424 t. mommsen, Petrarch and the Decoration of the Sala Virorum illustrium, in «The Art Bulletin», xxxiv
(1952), pp. 95 sgg.
129
w. bombe, Der Palast des Braccio Baglione in Perugia und Domenico Veneziano, «Repertorium für Kunstwissenschaft», xxxii (1909),
pp. 295-301; m. salmi, Gli affreschi del Palazzo Trinci a Foligno, in
«Bollettino d’arte», xiii (1919), pp. 139-80.
130
g. poggi Su Andrea del Castagno, in «Rivista d’arte», xi (1929),
pp. 54 sgg.
131
m. salmi, La villa della Legnaia, in «Bollettino d’arte», 1950; e.
schaeffer, Über Andrea del Castagno’s uomini famosi, in «Repertorium
für Kunstwissenschaft», xxv (1902), pp. 170-77.
132
c. l. ragghianti, Casa Vitaliani, ne «La critica d’arte», xi (1937),
pp. 236-50.
133
f. novati, Un cassone nuziale senese e la raffigurazione delle donne
illustri nell’arte italiana dei sec. XIV e XV, in «Rassegna d’arte», xi
(1911), pp. 62-67.
134
s. colvin, A florentine picture-chronicle, London 1898. j. g. phillips, Early florentine designers and engravers, Cambridge (Mass.) 1955.
135
g. mancini, Il bel San Giovanni e le feste patronali di Firenze
descritte nel 1475 da Piero Cennini, ne «L’arte», vi (1909), pp. 186 sgg.
(da un manoscritto della Biblioteca Nazionale di Firenze). Dunque il
teatro e le feste hanno avuto importanza in quanto occasioni per
mostrare «per la strada» le composizioni dell’arte; il mâle, L’art religieux de la fin du Moyen-Age en France, 5ª ed., Paris 1949, cap. II, ha
forse esagerato tale importanza: il rapporto tra la sacra rappresentazione
dell’Annunciazione e la serie delle incisioni raffiguranti i Profeti e le
Sibille di Baccio Baldini non è forse cosí stretto come egli mostra di
credere nell’articolo in «Gazette des Beaux-Arts», febbraio 1906; cfr.
a. hind, Early italian engraving ecc. cit., vol. I, pp. 9 sgg. L’apparato
iconografico: costumi, troni, accessori dovette essere lo stesso sia per
i «quadri viventi» che per le tavole dipinte (e P. Francastel ha insistito su questo punto nel saggio già citato nella introduzione).
136
e. mâle, L’art religieux de la fin da M.-A. ecc. cit., pp. 253 sgg.
e soprattutto l. freund, Studien zur Bildgeschicke der Sybillen in der
neueren Kunst, Hamburg 1936; sul tempio di Rimini: cfr. piú avanti.
137
Il problema della decorazione di palazzo Orsini a Monte Giordano è particolarmente difficile: una sala d’«uomini famosi» è attribuita a Giottino nel 1369 (vasari, ed. Milanesi, I, 621), ma anche
Masolino vi sarebbe intervenuto prima del 1425 o verso il 1440 (ibid.,
Storia dell’arte Einaudi
445
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
II, 264). Questa serie di Sibille è stata diffusa dalla miniatura: m.
helin, Un texte inédit sur l’iconographie des Sybilles, in «Revue belge de
philologie de l’histoire», xv (1930), pp. 349 sgg.
138
In particolare si ricordino gli stalli della cattedrale di Ulma
(intorno al 1470) di G. Syrlin: e. mâle, L’art religieux de la fin du M.A. ecc. cit., p. 256. Per l’arte italiana, oltre allo studio di L. Freund,
si vedano gli articoli di a. rossi, Le Sibille nelle arti figurative italiane,
ne «L’arte», xviii (1913), pp. 209-21, 272-85 e 427-58.
139
e. micheli, Il pavimento del Duomo di Siena, Siena 1870; d. dami,
Siena e le sue opere d’arte, Firenze 1915.
Pavimento del Duomo di Siena
29. Sibilla Cumana (1482)
di Giovanni di Stefano
39. Ermete Trismegisto (1488)
30. Sibilla Persiana (1482)
di Urbano da Cortona
35. Sibilla Ellespontica (1483)
di Neroccio Landi
37. Sibilla Tiburtina (1483)
32. Sibilla Cumea (1482)
di Benvenuto di Giovanni
36. Sibilla Libica di Guido Cozzarelli
33. Sibilla Frigia (1483)
26. Sibilla Eritrea (1482) di A. Federighi
31. Sibilla Delfica (1482)
34.
(parte centrale: i riquadri sono numerati in ordine cronologico).
140
Cfr. piú avanti.
141
e. mâle, L’art religieux de la fin du M.-A. ecc. cit., pp. 259 sgg.,
attribuisce un’importanza decisiva a questo trattato. Tra gli storici prevale invece la tendenza a limitarne la portata: cfr. anche, c. de tolnay, The Sistine Ceiling cit., pp. 152 sgg.
142
Marsile Ficin et l’art cit., pp. 152 sgg.
143
ficino, Opera, pp. 23-24. Sulla tradizione ostile: f. neri, Le tradizioni italiane delle Sibille, in «Studi medievali», iv (Torino 1912-13),
pp. 213 sgg. (citato in c. de tolnay, The Sistine Ceiling cit., p. 153).
Questa sarà la posizione del Savonarola.
144
Roma, Vaticano, Cod. Urb. 112, fol. 7. Su questo manoscritto:
a. de hevesy, La Bibliothèque de Mathias Corvin, Paris 1923, n. 90.
145
a. rossi, Le Sibille ecc. cit., p. 440, distingue tre correnti: apocalittica (Orvieto), messianica (sibilla di Tivoli), visionaria (cappella
Sistina).
146
Sullo scenario delle Natività: cfr. il capitolo seguente.
147
a. warburg, in Gesammelte Schriften cit., I, pp. 156-57. w.
paatz, Kirchen cit., vol. V, pp. 294 sgg.
148
a. warburg, Gesammelte Schriften cit., p. 363.
149
f. saxl, The classical inscription ecc. cit., pp. 28-29.
Storia dell’arte Einaudi
446
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Cosí il Pinturicchio negli appartamenti Borgia (1494) e a Santa
Maria Maggiore di Spoleto (1501). Cfr. piú avanti.
151
a. rossi, Le Sibille ecc. cit., p. 451; c. de tolnay, The Sistine Ceiling cit., cap. VII. Lo stesso autore indica chiaramente, p. 133, perché
sarebbe eccessivo ritenere con k. borinski, Die Rätsel Michelangelos cit.,
p. 187, che il testo del Ficino guidi direttamente la scelta e l’interpretazione di Michelangelo
152
o. fischel, Raphaël cit., p. 182, tav. cxciii.
153
n. hamilton, Die Darstellung der heiligen drei Könige in der toskanische Malerei von Giotto bis Leonardo (Zur Kunstgeschichte des Auslandes, VI), Strassburg 1901, non contiene che un debole abbozzo dell’argomento.
154
g. soulier, Les influences orientales ecc. cit., pp. 166, 228, 241,
276; u. mengin, Benozzo Gozzoli, Paris s. d.
155
Ecco le principali Adorazioni dei Magi di Botticelli:
1. Prima del 1475 cade l’Adorazione su una tavoletta bassa e lunga,
ancora pollaiolesca, della National Gallery, che è una delle composizioni
piú rigorose del giovane maestro (j. mesnil, Botticelli cit., tavv. xvi e
xvii).
2. La composizione degli Uffizi, del 1476: le sue dimensioni sono
modeste, 1115134 cm.
3. h. horne, A lost «Adoration of the Magi» by S. Botticelli, in «Burlington Magazine», i (1903), pp. 63-74, richiama l’attenzione su una
Adorazione dei Magi scomparsa, che Botticelli aveva dipinto per il
palazzo della Signoria, dopo il 1475 e prima del 1492. Ma la cronologia ivi proposta per la serie delle Adorazioni del maestro fiorentino è
stata respinta. j. mesnil, Botticelli cit., p. 199, n. 58.
4. L’Adorazione della collezione Mellon: j. mesnil, Botticelli cit.,
tav. xxx, deve essere di poco posteriore al soggiorno romano (1481-82)
come suggerisce c. gamba, Botticelli cit., p. 190.
5. Il quadro non finito degli Uffizi ritorna alla composizione per
lungo: riprende forse uno schizzo già sviluppato da Filippino: c. gamba,
Botticelli cit., p. 197.
156
j. mesnil, Botticelli cit., p. 29; ci sono state esitazioni nell’identificazione dei due giovani principi: t. trapesnikoff, Die Porträtdarstellungen ecc. cit.
157
f. saxl, The classical inscription ecc. cit., p. 28; cfr. anche sopra.
158
k. clark, Leonardo da Vinci, London 1939, p. 32; cfr. anche piú
avanti.
159
g. poggi, Note su Filippino Lippi, la tavola per San Donato di Scopeto e l’Adorazione dei Magi di Leonardo da Vinci, ne «La rivista d’arte», maggio-agosto 1910, pp. 93-101.
160
vasari, ed. Milanesi, III, p. 473.
161
u. mengin, Les deux Lippi, Paris 1932, p.198; a. scharf, Filip150
Storia dell’arte Einaudi
447
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
pino Lippi, Wien 1935. Su Piero del Pugliese e Filippino: m. wackernagel, pp. 282-83.
162
j. mesnil, Botticelli cit., p. 68. h. horne, A lost «Adoration of
the Magi» ecc. cit., p. 73, cita il versetto di Isaia «tunc videbis... et mirabitur et dilatabitur cor tuum».
163
Cosí c. heath wilson, in «The Academy», 20 novembre 1880,
p. 372; queste identificazioni, accolte da h. ulmann, Sandro Botticelli, München 1903, sono state respinte da h. horne, A lost «Adoration
of the Magi» ecc. cit., p. 74, che ha il torto di datare l’opera al 1480.
È stato e. moeller, Wie sah Leonardo aus, in «Belvedere», 1926, p.
29, che ha creduto di identificare Leonardo nel personaggio in berretta che medita a destra.
164
L’importanza della confraternita nella vita religiosa e mondana
di Firenze è stata messa in evidenza da un erudito del Settecento, e.
fossi, nei suoi Monumenta ad Alammanni Rinuccini vitam contexendam,
Firenze 1792, p. 26, n.; i documenti dell’Archivio di Stato ad essa relativi sono stati raccolti da C. von Fabriczy in appendice al suo studio
Michelozzo di Bartolomeo nel «Jahrbuch der preussischen Kunstsammlungen», xxv (1904), supplemento, pp. 93-94.
165
Una deliberazione del 7 gennaio 1428 chiede che si riprenda
«representationem ceremoniarum oblationis trium Regum Magorum»
(c. von fabriczy, Michelozzo di Bartolomeo cit., p. 93). Il verbale della
riunione del 29 novembre 1446 nomina una commissione di dieci
membri (tra cui Giovanni Cosimo de’ Medici e Michelozino Orafus)
«ad ordinandum festum majus et honorevole magorum presentis anni»,
ibid., p. 94.
166
p. giuseppe benelli, Firenze nei monumenti domenicani, Firenze
1913, pp. 218 e 219.
167
Gli Archivi di Firenze conservano una lettera di Gentile de’
Bechi a Lorenzo per informarlo che il Sacro Collegio ha accordato
un’indulgenza di un anno ai membri della Confraternita, cfr. a. della
torre, Storia cit., p. 328, n. 3.
168
i. del lungo, Florentia cit., 1697, pp. 193-94.
169
m. wackernagel, p. 156: cella n. 39 al primo piano del convento.
170
e. müntz, Les collections des Médicis ecc. cit., p. 60.
171
machiavelli, Istorie fiorentine, libro VII, cap. XII: «Una [festa]
che rappresentava quando i tre Magi vennero d’Oriente dietro alla stella che dimostrava la natività di Cristo: la quale era di tanta pompa e
si magnifica che in ordinarla e farla teneva piú mesi occupata tutta la
città».
172
g. maria monti, Le confraternite medievali dell’alta e media Italia, Venezia 1927, t. I, p. 187.
173
a. della torre, Storia cit., p. 328: Cod. Riccardiano 2204 C.
Storia dell’arte Einaudi
448
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
1062: «Oratio del Corpo di christo da Donato Acciaiuoli e dellui nella
Compagnia de Magi recitata die xiii aprilis 1468».
174
Riferimenti in Marsile Ficin et l’art cit., p. 12. Le speculazioni
sui Magi, come gli studi sulla «magia» appartengono all’ultimo periodo dell’attività del Ficino; nei due trattati del 1474 non se ne tratta.
I richiami si moltiplicano invece tra il 1480 e il 1490. 1) Nella Disputatio contra judicium astrologorum, trattato incompiuto del 1477, riportato di recente in luce, viene abbozzato il soggetto del piccolo trattato-epistola, divina lex fieri a caelo non potest, dedicato il 6 gennaio
1481 a Federico d’Urbino, e che rappresenta una messa a punto sull’astrologia dell’Epifania. 2) Il sermone del Ficino che porta il titolo di
stella magorom, è una visione d’insieme del problema del riconoscimento dell’ordine cristiano da parte delle religioni pagane. Secondo il
della torre, Storia cit., p. 620, sarebbe stato pronunciato, come le
altre praedicationes, nel 1467 nella chiesa di Sant’Agnese: l’ipotesi
rimane probabile, nonostante le riserve di p. o. kristeller, Supplementum Ficinianum p. lxxxiii. 3) Il IV libro della raccolta Homo, dedicata il 30 ottobre 1490 a Lorenzo il Magnifico (Opera, p. 916), è un
trattato sul significato simbolico dell’Epifania; esso riprendeva, sembra, l’epistola del 1481 piuttosto che la praedicatio precedente.
175
L’Apologia redatta dal Ficino nel 1469 per difendere il suo trattato De triplici vita, contiene un importante e dettagliato passo sul tema
de Magis qui Christum statim natum salutaverunt (Opera, pp. 572 sgg.).
176
Opera, p. 573; Marsile Ficin et l’art cit., p. 158.
177
Opera, p. 916, trad. Figliucci, II, p. 153.
178
h. kehrer, Die heiligen drei Könige in Literatur und Kunst, Leipzig 1909: una miniatura bolognese (?) degli inizi del Cinquecento presenta cosí una specie di castello d’astrologi a fianco della capanna della
Natività: p. toesca, Monumenti e studi per la storia della miniatura italiana, Milano 1930, n. cxlix, tav. clii.
179
In una curiosa lettera a Lorenzo, Bertoldo Corsini chiede al
Magnifico l’ammissione del fratello Amerigo, umanista abbastanza stimato, ad un’accademia che egli chiama «magica», scherzando sembra,
e che forse è quella di Careggi. La lettera si trova nell’Archivio Mediceo avanti il Princip., XXVI, 44 n, citata da l. passerini, Genealogia
e Storia della Famiglia Corsini, Firenze 1858, p. 129, e da a. della
torre, Storia cit., p. 821, n. 2. Si può ancora notare, a lontana conferma di questa interpretazione, che Giangioviano Pontano, il poeta
napoletano famoso per la sua cerchia «accademica» e le sue opere pittoresche e astrologiche, ricorda, in una delle sue egloghe in cui descrive alcuni dipinti, una Adorazione dei magi: Adulescentia VII, vv. 42-54,
in Io. Ioviani Pontani Carmina, ed. B. Soldati, Firenze 1902; la Madonna è circondata da divinità pagane e da figure astrologiche.
180
L’andata dei Magi a Betlemme è, dai primi tempi del Cristiane-
Storia dell’arte Einaudi
449
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
stino, oggetto di dispute sulla validità dell’astrologia: f. boll e g.
bezold, Sternglaube und Sterndeutung cit., pp. 31 e 107. Queste dispute sono ricominciate nei secoli xiv e xv al momento del grande sviluppo dell’astrologia «scientifica», e soprattutto intorno al 1490, in cui
Giovanni Pico scrive nelle sue Disputationes adversus astrologiam, un
capitolo intero (IV, cap. XV) sul tema per stellam Magorum non posse
constellationem aliquam intelligi (ed. Garin, vol. II, pp. 665-66), per
confutare il de stella magorum del Ficino.
181
j. lauts, Domenico Ghirlandaio, Wien 1943, pp. 19 sgg.
182
w. suida, Le pitture del Bramante sulla facciata del Palazzo del
Podestà a Bergamo, in «Emporium», vol. lxxiv (1931), pp. 340-48.
183
Cfr. piú avanti, parte III, sezione I, 2. Sul problema delle attribuzioni: Juste de Gand, Berruguete et la cour d’Urbino (catalogo della
mostra a cura di L. Eckhout), Gand 1957. Nulla si sa dell’opera ricordata dal Vasari nella vita di F. Francia (ed. C. L. Ragghianti, I, p. 924),
«una disputa di filosofi molto excellentemente lavorata» in palazzo
Bentivoglio a Bologna distrutto nel 1507.
184
ficino, Opera, p. 637: «Vidistis pictam in gymnasio meo mundi
sphaeram, et hinc, atque illic Democritum et Heraclitum. Alterum quidem ridentem, alterum vero flentem». Poiché i rapporti tra il Ficino e
Antonio Pollaiolo erano parecchio stretti intorno al 1475, si può supporre che questi fosse l’autore dell’opera. Sul dipinto di Bramante, c.
baroni, Bramante, Bergamo 1944.
185
ficino, Theologia platonica, XIV, VIII, Opera, p. 317.
186
W. 19084 a, ed. j. p. richter, The literary works ecc. cit., n. 1358.
187
Cfr. p. schubring, Illustrationen zu Dantes Göttlicher Commedia
ecc. cit., parte I, sezione II, cap. III.
188
Cfr. sopra.
189
Cfr. piú avanti.
190
Il testo dell’epigrafe: «Deus omnium Creator secum deum fecit
visibilem et hunc fecit primum et solum quo oblectatus est et valde
amavit proprium filium qui appellatur sanctum verbum», è, tranne l’ultima parte della frase, una citazione abbreviata, che era celebre nel
Medioevo e nel Rinascimento, dell’Asclepius (cap. VIII) (ed. NockFestugière), Paris 1945, vol. II, p. 305. È stato osservato che questa
epigrafe è piú vicina alle citazioni dell’Asclepius riportate dai Padri della
Chiesa, che non al testo stesso del Corpus Hermeticum. w. scott, Hermetica, vol. I, London 1924, p. 299 n.: passi greci di Lattanzio, Institutiones Divinae, 4.6.4, e Pseudo-Antimo, Ad Theodorum, 10.11, citati nell’edizione Nock-Festugière, pp. 304 e 305 n.
191
La prefazione di Tommaso Benci in Supplementum Ficinianum,
n. XVI c, t. 1, pp. 98-101. Essa contiene un elogio dell’«oscurità» filosofica, dovuta a una rivelazione superiore, che è impossibile esplicitare interamente. e. garin, Una fonte ermetica poco nota, ne, «La rina-
Storia dell’arte Einaudi
450
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
scita», iii (1940), pp. 201, 232, ha messo in evidenza la penetrazione
di questa scienza ermetica nel gruppo fiorentino. Cfr. anche, per l’ampiezza del fenomeno: p. o. kristeller, Marsilio Ficino e Lodovico Lazzarelli, in Studies cit., capp. XI e XII. Si può rilevare che l’Ermete di
Siena è posteriore alla manifestazione di Giovanni Mercurio da Correggio a Roma nel 1484: cfr. piú avanti parte III, introduzione.
192
Cfr. sopra.
193
a. pigler, Sokrates in der Kunst der Neuzeit, in «Die Antike», XIV
(1913), pp. 281-94.
194
d. comparetti, Virgilio nel Medioevo, 2ª ed., Firenze 1896. v.
zabughin, Virgilio nel Rinascimento italiano ecc. cit., g. soulier, Les
influences orientales ecc. cit., p. 158.
195
v. zabughin, Virgilio nel Rinascimento italiano ecc. cit., cap. III
(Commentatori), p. 198 ed e. wolf, Die allegorische Vergilerklärung des
Cristoforo Landino, in «Neue Jahrbücher für das klassische Altertum»,
xii (1939), pp. 453 sgg., hanno mostrato quanto il Landino si sia valso
del commento di Servio, ad esempio alla egloga II, 96, e di Macrobio,
per definire un Virgilio «dogmatum platonicorum expertem».
196
h. wölfflin, L’arte classica del Rinascimento, Firenze 1941, pp
119 n.
197
v. rossi, Il Quattrocento cit., p. 156.
198
L’edizione di Macrobio, Venezia 1472, è accompagnata da un
bel frontespizio nell’esemplare della Bibl. Capitolare di Padova: m.
salmi, in «Arte veneta», viii (1954), p. 136, fig. 142.
199
a. chastel, Les capitaines antiques affrontés dans l’art florentin du
e
XV siècle, in Mémoires de la Société des Antiquaires de France, volume del
centocinquantesimo anniversario della Società, Paris 1954, pp. 279 sgg.
200
r. sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci ne’ secoli XIV e
XV, Firenze 1915, p. 80. Il poema è la traduzione in versi della III decade di Tito Livio: r. b. steele, The method of Silius Italicus, in «Classical Philology», 1922.
201
e. panofsky, Hercules am Scheidewege, Leipzig 1930. Ambedue
le tavolette devono essere datate agli anni 1504-505, cioè al tempo del
primo soggiorno fiorentino di Raffaello: r. longhi, Percorso di Raffaello
giovine, in «Paragone», 1955. L’identità di formato (17×17 cm) e di
provenienza (Galleria Borghese fino al secolo xvii) permette di supporre
che le due tavole siano gemelle. Il fatto che Scipione di Tommaso Borghese fosse nato nel 1493 induce a pensare che esse formino un dittico augurale, una «exortatio ad juvenem» (come la Primavera botticelliana per Lorenzo di Pierfrancesco). Il gruppo antico delle Tre Grazie,
già disegnato dal Federighi, non fu inviato a Siena che nel 1502, per
cui la presenza delle Tre Grazie nel dittico risulta anche meglio spiegata. Si conoscono numerose figure di Ercole col pomo simbolico. Una
si deve a uno scultore fiorentino della cerchia di Bertoldo intorno al
Storia dell’arte Einaudi
451
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
1500: cfr. w. von bode, Die italienische Bildwerke des Kaiser Friedrich
Museums, II, Bronzestatuen, Berlin 1930, n. 41. Cfr. anche: a. von
salis, Antike und Renaissance cit., pp. 156-57.
202
u. frittelli, Gianantonio dei Pandoni detto il Porcelio, Firenze
1900, c v. rossi, Il Quattrocento cit., p. 182.
203
vasari, ed. Milanesi, III, p. 361.
204
a. blum, Les nielles du Quattrocento, Paris 1950, n. 154.
205
vasari, ed. Milanesi, III, p. 311.
206
a. chastel, Melancholia in the sonnets of Lorenzo de’ Medici, in
«jwci», VII (1945).
207
w. waetzoldt, Die Mimik des Denkens in der Malerei, «Die bildende Kunst», II, pp. 293-306.
208
Cfr. piú avanti.
209
Marsile Ficin et l’art cit., pp. 131, 132.
210
Sull’iconografia delle «Arti liberali» nel Rinascimento: p. d’ancona, Le rappresentazioni allegoriche delle Arti liberali nel Trecento e nel
Rinascimento, ne «L’arte», v (1902), pp. 378 sgg. j. von schlosser,
Giustos Fresken in Padua und die Vorläufer der Stanza della Segnatura, in
«Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen des all. Kaiserhauses»,
xvii (Wien 1896), pp. 13-100. r. van marle, Iconographie de l’art profane ecc. cit., vol. II, L’Aja 1932, cap. III (Les Sciences et les arts).
211
e. mâle, L’art religieux du XIII siècle en France, ried. Paris 1948,
libro II, cap. II. Il ms d’Attavante, Biblioteca Marciana, Venezia, cod.
lat. XIV, 35; a. de hevesy, La bibliothèque ecc. cit., n. 98.
212
e. h. gombrich, Botticelli’s mythologies ecc. cit., p. 57; cfr.
sopra, parte I, sezione III, cap. IV.
213
a. scharf, Filippino Lippi, Wien 1950, p. 29. L’affresco faceva
parte di un complesso didattico abbastanza completo. Sibille (forse di
Raffaellino del Garbo) nella volta, Psycomachia (perduta) a sinistra,
Miracolo e trionfo di san Tommaso a sinistra, Assunzione della Vergine sul fondo. In un disegno preparatorio l’architettura meglio distribuita fa pensare a una sorta di Scuola d’Atene (domenicana) avanti lettera; la presenza delle «Arti» è indubbia, la loro identificazione non è
del tutto sicura per le figure di sinistra; le ragioni della scelta dei soggetti sono forse da ricercare nella personalità dello stesso cardinal Carafa: a. l. popham e p. pouncey, Italian Drawings (British Museum) the
Fourteenth and the Fifteenth century, London 1930, n. 131.
214
c. salutati, Lettere a Bartolomeo del Regno, Epistolario, ed. F.
Novati, Roma 1893, t. II, pp. 345-46, citato da p. d’ancona, Le rappresentazioni allegoriche ecc. cit.
215
Singularis descriptio Abatiae Fesulanae canonicorum regularium
divi Augustini: «Digna suis fiat bibliotheca libris | Fulgeat in primis
amato marmore porta [Sit celata meo dextraque laeva modo | Sederit
aurato cum pectine Phebus in altum | Plectra movens, quae cum cogi-
Storia dell’arte Einaudi
452
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
tat ire lapis. | Et circum poteris turbam vidisse verendam | Ludere atque
ad sonitum gramine ferre pedem | Gramina Calliope magno comitante Marone | Calcat prima, pedes sed movet ore gravi. | Naso celer pedibus, vel fors lasciva Thalia | Cogit, agit motu mollia crura levi. | Dira
canens maesto Senecam Melpomena vultu | Increpat ad choream quod
negat ire Dei | Atque alii quos nunc longum narrare fuisset | Dicentur
tunc cum venerit hora rei». Il testo è stato pubblicato dal lami, Deliciae eruditorum, Firenze 1742, pp. 127 sgg. Il passo relativo alla biblioteca si trova a p. 128 (dobbiamo questo riferimento alla cortesia del
professor E. H. Gombrich). Sul chiostro cfr.: m. wackernagel, pp.
239-40, e sui manoscritti della biblioteca: vespasiano da bisticci, Vite
degli uomini illustri, ed. P. Schubring, Iena 1914, p. 255.
216
Sul sacellum delle muse cfr. piú avanti, parte III, sezione I, 2.
Le sette figure superstiti (Galleria Corsini) sono state esposte alla
«Casa italiana nei secoli», Firenze 1948, Catalogo, p. 46.
217
e. wind, Bellini’s Feast of the Gods, Cambridge (Mass.) 1948, pp.
9 sgg.
218
r. van marle, Iconographie de l’art profane ecc. cit., pp. 278 sgg.
e. peterich, Gli dei pagani nell’arte cristiana, in «Rinascimento», v
(1942), pp. 47-71.
219
Cfr. sopra.
220
Nel Castello Orsini a Bracciano una serie di affreschi, derivati
dai «tarocchi» e attribuiti a Antoniazzo Romano decorava una biblioteca: l. borsari, Il Castello di Bracciano, Roma 1895.
221
a. calabi, L’incisione italiana, Milano 1931, tav. XXX; j. seznec, La survivance des dieux antiques cit., p. 123. Il commento allo studio di a. warburg, Gesammelte Schriften cit., I, pp. 412-15, indica le
principali fonti e riassume la storia del problema (senza nominare il Ficino). Le fonti della tarda Antichità: plutarco, Sumposiak™ problømata, IX, 1417, porfirio, Perã bàon Putagoriko„ l’goj, 31, marciano capella, De Nuptiis, I, 28, boezio, De institutione musicae, I, 27; e
quelle del medioevo come isidoro di siviglia (Patrologia Latina, 83, col.
987) sono state riunite da l. piper, Mythologie der christlichen Kunst,
II, pp. 207, 230. p. cumont, Recherches sur le symbolisme funéraire ecc.
cit., pp. 260-61: «Questo modo d’interpretazione che trasforma le
vergini dell’Elicona in divinità delle sfere celesti, signore dell’armonia
universale, ebbe all’epoca romana un successo durevole. Lo vediamo
ammesso nel i secolo dagli Stoici, infatti Cornuto lo ricorda nel suo
manuale scolastico; nel ii secolo dai platonici eclettici, come il moralista Plutarco o il retore Massimo di Tiro; nel iii i discepoli di Plotino,
come Porfirio e Aurelio gli si tengono fedeli e piú tardi Proclo ne parla
spesso. Il polemista Arnobio mette in ridicolo questa credenza e il poeta
Ausonio la ricorda in una rapida allusione, il che sta a dimostrare
quanto fosse popolare. I neoplatonici la trasmisero agli ultimi esegeti
Storia dell’arte Einaudi
453
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
del paganesimo: Macrobio e Marciano Capella l’espongono dottamente e cosí questo vecchio simbolismo fu trasmesso al Medioevo. Sarebbe stato ancora ripreso dai paltonici del Rinascimento.
222
ficino, Opera, I, p. 614, e II, p. 1282. Tavola in Marsile Ficin et
l’art cit., p. 137. f. a. yates, The french academies of the Sixteenth Century, London 1947, p. 133, n. 2, ha mostrato la concorrenza delle due
classificazioni tra i mitografi e i poeti del Rinascimento.
223
Cfr. piú avanti, sezione V, cap. III.
224
hajdecki, Die italienische Lira da Braccio, Mostar 1892.
225
A forma di testa di cavallo: vasari, ed. Milanesi, IV, p. 18.
226
Una polemica è stata sollevata da e. winternitz, in «The Art
Bulletin», xxviii (1946), pp. 114 sgg. a proposito di questo strumento
nel Festino degli dei di G. Bellini (Washington). Queste notizie sono
tratte dallo studio Winternitz, del quale si annuncia uno studio complessivo su «l’archeologia musicale del Rinascimento»; le sue osservazioni sugli strumenti musicali nel Parnaso raffaellesco saranno citate alle
pp. 495-96.
227
kinsky, Storia della musica attraverso l’immagine, Milano 1930;
a. chastel, Marsile Ficin et l’art cit., pp. 48 sgg.
228
l. parigi, Nota musicale botticelliana, in «Rivista d’arte», xix
(1937), pp. 71-78.
229
e. winternitz, nel volume miscellaneo Les fêtes de la Renaissance, Paris 1956. Sulla cappella Strozzi cfr. piú avanti e sopra.
230
Le principali sono la lettera di Niccolò Michozzi del dicembre
1474: i. del lungo, Florentia cit., p. 393; una descrizione anonima e
l’epistola dell’Augurelli al Bembo, segnalate da g. pozzi, La Giostra
medicea del 1475 e la Pallade di Botticelli, ne «L’Arte», v (1902), pp.
71-77; la lettera di Filippo Corsini pubblicata da p. o. kristeller, Studies cit., pp. 437 sgg. L’eco letteraria della festa è stata notevole; al
poema del Poliziano composto per essa, è da aggiungere quello di
Naldo Naldi, pubblicato da a. hulubei, Naldo Naldi, étude sur la joute
de Julien et sur les Bucoliques dédiés à Laurent de Médicis, in «Humanisme et Renaissance», iii (1936), pp. 169-86.
231
Giovanni Aurelio Augurelli: Carmina, ms Laurenz., Plut. 34, cod.
46, 3 rv: «Aurelius ad M.cum oratorem Bernardum Bembum. | In signis
quare Medici sit, Bembe, requiris | Post tergum vinctis pictus manibus
amor | Sub pedibusque tenens arcus fractamque pharetram, | Pendeat ex
humeris nullaque penna suis; | Atque solo teneat fixos immotus ocellos,
| Immeritam veluti sentiat ille crucem. | Horrida cui terreti Pallas supereminet hasta | Et galea et saeva gorgone, terribilis. | Multi multa ferunt,
eadem sententia nulli est: | Pulchrius est pictis istud imaginibus».
232
a. warburg, Die verschollene Pallas, in Gesammelte Schriften cit.,
t. I, p. 24; r. wittkower, Transformations of Minerva in Renaissance
imagery, in «jwci», ii (1939), pp. 196 sgg.
Storia dell’arte Einaudi
454
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Giuliano dice infatti: «…se mi presti il tuo santo furore | Leverai me sopra la tua natura | E farai, come suol marmorea rota, | Che
lei non taglia e pure il ferro arrota». (Giostra, II, st. 45). Cfr. r.
wittkower, Transformations of Minerva ecc. cit., p. 201; g. pozzi, La
Giostra medicea ecc. cit., p. 74; j. mesnil, Botticelli cit., p. 45, ha intuito la soluzione: «Il rebus era cosí ingegnoso che vedendo lo stendardo
nessuno ne afferrava il significato, tranne la piccola cerchia dei cortigiani iniziati al segreto». L’opposizione di Eros e Anteros, implicita in
questa scena, sarà sviluppata nella serie delle allegorie dei due amori,
intorno al 1490: cfr. piú avanti, cap. IV.
234
vasari, ed. Milanesi, III, p. 312.
235
Lana, seta e argento: cm 243×158. Questo arazzo già segnalato
da e. müntz, Histoire de l’art pendant la Renaissance cit., I, p. 718, figurava all’esposizione dell’arte italiana di Parigi del 1935, catalogo n.
1752: la data 1520 c. che gli era assegnata nel catalogo non è accettata da j. mesnil, Botticelli cit., p. 197, n. 40, che ricorda come l’abate
de Baudreuil fosse titolare dell’abbazia di Saint-Martinaux Bois già nel
1491. Secondo questo autore e h. horne, Botticelli cit., p. 161, il cartone da cui l’arazzo deriva non può essere anteriore al 1490, e deve
essere messo in rapporto con un disegno degli Uffizi e un altro
d’Oxford (c. gamba, Botticelli cit., tav. cxv a e b) del 1490 c. Cfr. r.
wittkower, Transformations of Minerva ecc. cit., p. 197.
236
Opera, pp. 675 sgg. (trad. Figliucci, I, p. 112); questo passo citato in Marsile Ficin et l’art cit., pp. 45-6, è stato studiato da e. h. gombrich, Botticelli’s Mythologies ecc. cit., pp. 51 sgg. Passi equivalenti: De
christiana religione, cap. XIII, ibid., p. 18; Laus Palladis, ibid., p. 1331.
L’antagonismo Pallade-Venere entra in certe versioni figurate del mito
di Prodico: e. panofsky, Herkules am Scheidewege cit., p. 83.
237
h. hill, A corpus of italian medals ecc. cit., nn. 57, 59, Venus Pacifica è l’emblema adottato dal Laurana nella sua medaglia del 1463 per
Renato d’Angiò. r. wittkower, Transformations of Minerva ecc. cit.,
p. 194.
238
L’interpretazione strettamente politica vi vede un’allegoria della
vittoria di Lorenzo sulla rivolta dei Pazzi e la coalizione del 1478; quest’ipotesi è stata avanzata da a. l. frothingham, The real title of Botticelli’s Pallas, in «Journal of the archaelogical Institute of America»,
xii (1906), pp. 438 sgg., e j. mesnil, Botticelli cit., p. 55; l’ipotesi deve
essere corretta sulla base delle indicazioni di r. wittkower, Transformations of Minerva ecc. cit., p. 200 e e. h. gombrich, Botticelli’s Mythologies ecc. cit., p. 53.
239
Il programma è stato definito sulla base del trattato del Manilio: a. warburg, Gesammelte Schriften cit., vol. II, p. 477.
240
Cfr. sopra.
241
e. peterich, Gli dei pagani ecc, cit. (1942).
233
Storia dell’arte Einaudi
455
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Uno dei documenti piú significativi in questo senso è il poema
giovanile di Lorenzo, l’Altercazione, che parafrasa un discorso del Ficino sulla felicità: cfr. b. wadsworth, Landino’s Disputationes Camuldulenses, Ficinos de Felicitate and l’Altercazione of Lorenzo de’ Medici,
in «Modern Philology», l (1952), pp. 23-31.
243
Marsile Ficin et l’art cit., II, 1, e III, 1, con la bibliografia essenziale: per il Ficino gli studi fondamentali sono quelli di P. O. Kristeller piú volte citati. L’evoluzione della filosofia dell’amore e le sue
interpretazioni successive sono state abbozzate da e. f. meylan, L’évolution de la philosophie de l’amour platonique, in «Humanisme et
Renaissance», v (1938), pp. 418-42.
244
Ciò nonostante la tradizione iconografica: r. freyman, The evolution of the Caritas figure, in «jwci», xi (1948), pp. sgg.
245
b. nardi, Dante e la cultura medievale, 2a ed., Bari 1949, I.
246
e. cassirer, Individuum und Kosmos ecc. cit., cap. IV, ha dimostrato come la dottrina dell’amore costituisca il punto centrale della filosofia del Rinascimento.
247
Il mediocre Anteros di B. Fregoso fu pubblicato a Milano nel
1496, il trattato dell’Equicola fu composto nel 1494 a Napoli (pubblicato nel 1525), il Bembo scrisse gli Asolani nel 1496 (pubblicati nel
1505), i Dialoghi di Leone Ebreo sono del 1501-502 (pubblicati nel
1535). Cfr. piú avanti la conclusione finale.
248
h. pflaum, Die Idee der Liebe, Leone Ebreo zwei Abhandlungen
zur Geschichte der Philosophie in der Renaissance, in «Heidelberger
Abhandlungen zur Philosophie und ihrer Geschichte», n. 7, Tubingen
1926, pp. 14 sgg.; a. warburg, Gesammelte Schriften cit., I, p. 41, II,
p. 478; p. o. kristeller, Il pensiero filosofico di M. F. cit., pp. 319 sgg.
249
Cfr. sopra.
250
giovanni da prato, Il Paradiso degli Alberti, ed. A. Wesselofsky,
Bologna 1867; v. rossi, Il Quattrocento cit., pp. 195-96.
251
a. marinoni, Il Regno e il sito di Venere, in «Convivium», iv
(1956), pp. 164 sgg.
252
Gli articoli recenti di a. b. ferruolo, A trend in Renaissance
Thought and Art: Poliziano’s Stanze per la Giostra, in «The romanic
Review», xliv (1953), pp. 246-56, e Botticelli’s Mythologies, Ficino’s
De Amore, Poliziano’s Stanze per la giostra. Their circle of Love, in «The
Art Bulletin», xxxviii (1955), pp. 17-26, non hanno fatto che ripetere in modo generico questa analogia complessiva.
253
a. frey sallmann, Aus dem Nachleben antiker Göttergestalten,
Leipzig 1931, pp 74 sgg.; a. von salis, Antike und Renaissance cit., pp.
133 sgg., non ricorda gli studi precisi sul tema condotti da w. deonna, Le groupe des trois Grâces et sa descendence, in «Revue archéologique», xxxi (1930), 5, pp. 274-332, e Le motif antique des trois Grâces
nues, in «Bulletin du Musée d’Art de Genève», 1931, p. 191.
242
Storia dell’arte Einaudi
456
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
b. degenhart, Unbekannte Zeichnung Francescos di Giorgio, in
«Zeitschrift für Kunstgeschichte», viii (1939), pp.135. Il gruppo si
trova attualmente al Museo dell’Opera: e. carli, Il Museo dell’Opera
e la Libreria Piccolomini di Siena, Siena 1946, p. 11: si tratta di una
copia romana derivata da un dipinto ellenstico del secolo iii a. C.
255
a. warburg, Sandro Botticellis Frühling cit., I, p. 27. alberti,
Della pittura, ed. L. Mallé cit., p. 105.
256
e. h. gombrich, Botticelli’s Mythologies ecc. cit., pp. 32 sgg. Alcuni di questi attributi: splendore, freschezza, felicità (Landino), spirito
gioviano, solare, venusiano (Ficino) hanno potuto essere suggeriti dagli
attributi che si assegnano alle Grazie nell’arte antica: spighe, frutti,
palme... e. wind, Bellini’s Feast of the Gods cit., p. 11, n. 8, rimanda
agli Elementi di teologia di Proclo, 146, che fanno della triade un principio teologico universale. Tuttavia la sua attualità nel Quattrocento è
chiaramente orientata in senso «orfico» e «catetico». Cosí pico, Conclusiones, XXXI, 8: «qui profundo et intellectualiter divisiones unitatis Venereae in trinitatem Gratiarum... intellexerit, videbit modum
debite procedendi in Orphica Theologia»; j. seznec, La survivance des
Dieux antiques cit., p. 103.
257
j. b. supino, Il medagliere mediceo, Firenze 1899, nn. 101, 103, 106.
g. habich, Die Medaillen der italienischen Renaissance cit., p. 68, n. 59.
258
g. pico della mirandola, Commento alla Canzone d’amore, II,
17 «delle tre grazie seguace di Venere e de loro nomi», ed. E. Garin,
vol. I, Firenze 1942, pp. 508-9. Berchorius, l’amico del Petrarca, suggeriva che due delle Grazie devono essere rivolte verso Venere; il
Libellus de deorum imaginibus (c. 1400, Italia del Nord) omette il fatto
che siano abbracciate nonostante le corrette precisazioni del Petrarca
(Africa, III, 216): a. warburg, Gesammelte Schriften cit., p. 540.
259
Le Grazie sulla mano d’Apollo rientrano nella tradizione antica,
come afferma Macrobio, Saturnalia, I, 17, 13, citato da a. warburg,
Gesammelte Schriften cit., p. 414. j. overbeck, Griechische Kunstmythologie cit., I, p. 21.
260
È ciò che ha dimostrato, di contro a r. gruyer, Raphaël et l’Antiquité, Paris 1863, I, 233, e a w. deonna, art. cit., e. tea, Le fonti delle
Grazie di Raffaello, ne «L’arte», xvii (1914), pp. 31 sgg.
261
e. panofsky, Herkules am Scheidewege cit., cui aderisce a. von
salis, Antike und Renaissance cit., p. 155.
262
p. schubring, Cassoni, Leipzig 1923, n. 414; Wallace Collection,
Pictures and Drawings, 3ª ed., London 1949, p. 72, n. 556; a. van
marle, The italian Schools of Painting cit., vol. XIII, p. 347, n. 1. b.
berenson, Italian Pictures of the Renaissance, Oxford 1932, p. 454:
«Triumph of Love (?) not after 1488».
263
Italian manuscripts in the Pierpont Morgan Library, New York
1953, n. 71, tav. xlix (con bibliografia).
254
Storia dell’arte Einaudi
457
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
g. f. hill, A Corpus of Italian Medals ecc. cit., p. 242, n. 919,
tav. cxlix. w. von bode, Bertoldo ecc. cit., p. 21, fig. p. 17.
265
J. del Sellaio, Quattro trionfi provenienti dall’oratorio di
Sant’Anselmo a Fiesole: p. schubring, Cassoni cit., n. 372; e piú tardi
nell’affresco del Signorelli destinato al palazzo di Pandolfo Petrucci a
Siena (c. 1509, Londra, National Gallery), ispirato al Petrarca.
266
e. kris, Meister und Meisterwerke ecc. cit., nn. 19 e 26.
267
Il modello della Sagrestia fu approvato nell’agosto 1489; il vestibolo è leggermente posteriore. Il Sangallo ne ricevette la commissione,
insieme al Cronaca, nel marzo 1493 g. marchini, Giuliano da Sangallo cit., p. 90. Cfr. sopra. Il Vasari attribuisce l’opera al Sansovino.
268
È la scena che il Mantegna aveva dipinto a monocromo nella
volta della camera degli Sposi a Mantova (1473-74): e. tietze-conrat,
Mantegna, London 1955, tav. lxxxiii, e che verrà ripresa da Dürer: e.
panofsky, Albrecht Dürer cit., vol. II, tav. xlix.
269
Citato in Marsile Ficin et l’art cit., pp. 121 e 123; pico, Commento, ed. Garin cit., p. 550. È qui l’origine dell’Anteros di cui trattano p. haedus, De amoris generibus, Treviso 1492, e fregosus,
Anteros, Milano 1496; cfr. e. panofsky, Studies in Iconology cit., pp.
127 sgg.
270
Non si dimentichi che la lotta dei due Eros era stata rappresentata da Donatello (cfr. sopra, parte I), poi da Bertoldo (ibid.) ispirandosi a una gemma medicea.
271
l. marrone, Il mito d’Orfeo nella drammatica italiana, in Studi di
letteratura italiana, Firenze 1922, pp. 119-259. Sull’importanza del
mito per il Ficino: Marsile Ficin et l’art cit., introduzione, pp. 30-31.
272
Il Convivio, I, 3, richiama la cosmogonia «orfica» dell’inizio delle
Argonautiche. Testi su Orfeo simbolo di civiltà, platone, Leggi, III,
orazio, Ars poetica, 391, servio, Commento alle Georgiche, IV, 520,
lattanzio, Divinae Institutiones, I, 5, boccaccio, ecc. raccolti da ch.
w. lemnis, The classic Deities in Bacon (a study in mythological symbolism), Boston 1933, pp. 152-53, che tuttavia tralascia il Ficino.
273
Theologia platonica, XIV, 8, Opera, p. 318, citato e analizzato
da w. dress, Die Mystik des M. F cit., p. 99.
274
Convivio, II, 1, 3; a. pezard, Le «Convivio» de Dante, in «Annales de l’Université de Lyon», iii, 9, Paris 1940, p. 15. Il terna viene da
Cicerone attraverso servio (Commento all’Eneide, VI, 65) e brunetto latini (Tesoretto, III, 11). Ritorna nel boccaccio, De Genealogia
deorum, V, 12, dove la lira d’Orfeo diventa: oratoria facultas.
275
Theologia platonica, XIII, ii, Opera, p. 295.
276
Cfr. ultimamente: c. pedretti, La macchina teatrale per l’«Orfeo»
di Poliziano, in Studi vinciani, Genève 1957, pp. 90-97.
277
p. schubring, Cassoni cit., n. 85, P. 304 (coll. Lanckoronsky,
Vienna); queste «storie d’Orfeo» sono da avvicinare alle fronti di cas264
Storia dell’arte Einaudi
458
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
sone dedicate al mito degli Argonauti che hanno lo stesso carattere narrativo e drammatico: s. reinach, La mythologie figurée cit., n. xliii, pp.
136-37.
278
t. borenius, Some italian cassone pictures, in Italienische Studien
P. Schubring zum 60° Geburtstag gewidmet, Leipzig 1929, pp. 1-9. Lo
stile di queste tavole, che verosimilmente formano due cassoni completi
(3 tavole per cassone) è da avvicinare a quello della Storia d’Arianna (p.
schubring, Cassoni cit., nn. 381 e 382) e a una incisione fiorentina del
1480 c. (a. hind, Earty italian engraving ecc. cit., n. 11) che rappresentano anche la volgarizzazione delle poesie del Poliziano e di Lorenzo.
279
g. ballardini, La majolica italiana (dalle origini alla fine del Cinquecento), Firenze 1938, p. 44 e fig. 42. Secondo O. von Falke questa
serie sarebbe stata eseguita per Piero Ridolfi, genero del Magnifico.
280
e. molinier, Les plaquettes de bronze de la Renaissance, Paris
1886. w. von bode, Bertoldo ecc. cit., p. 41.
281
j. judey, D. Beccafumi, Freiburg im Breisgau, 1932, p. 100, ritiene che il cartone non possa essere del Beccafumi, piú verosimilmente
di G. B. Sozzini. La nuova attribuzione si deve a g. f. hartlaub, Ein
unbekanntes Werk des Francesco di Giorgio, in «Pantheon», febbraio
1943, che crede scoprirvi, senza adeguato fondamento, l’Adamo della
Cabala (secondo Pico), anziché Orfeo (secondo il Ficino).
282
De vita, III, 17, Opera, p. 355.
283
Orfeo è continuamente ricordato dal Ficino come il poeta-filosofo della divinità solare. Cosí Orfeo è chiamato Apollo l’occhio vivente del cielo che possiede il sigillo che dà forma a tutte le cose del mondo
(Theologia platonica, XIII, 2, Opera, p. 295). Per il bene dell’anima
come per quello del corpo Apollo è per gli antichi teologi l’inventore
della medicina. Nel libro dei suoi inni Orfeo ritiene che Apollo diffonda coi raggi della vitalità la salute e la vita in tutti e allontani le malattie (Opera, p. 651).
284
b. berenson, The Drawings ecc. cit., n. 1064; a. e. popp, Leonardo
da Vinci, Zeichnungen cit., n. 21; a. e. popham, The drawings of Leonardo da Vinci, London 1946 (trad. fr. Les dessins de Léonard, Bruxelles 1947, n. 110, A, p. 44); l. goldscheider, Léonard de Vinci cit., n.
54, «il significato di questa allegoria non è ancora stato trovato...» (p.
30). Il disegno è datato 1493-94 e in genere messo in relazione con gli
emblemi, le allegorie e le mascherate inventate da Leonardo alla corte
di Ludovico e ricche d’allusioni politiche e personali: «il sole ha qui la
stessa forza che nello stemma del duca».
285
f. gaeta, L’avventura di Ercole, in «Rinascimento», v (1954), pp.
227-60; il Ficino non è ricordato. Una lettera a Giovanni Nesi, datata 1477, contiene tuttavia una sorta di «Ercole moralizzato» in base
alla tripartizione delle facoltà che si ha nel Timeo:
Storia dell’arte Einaudi
459
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Testa
Cuore
Fegato
rationandi
irascendi
concupiscendi
}
natura
«Ratio in nobis Hercules nominatur. Hic occidit Antaeum id est
immania quaedam simulachra phantasiae», poi «leonem, iracundiam et
hydram, concupiscendi vim» (Opera, p. 775).
286
Su tutti questi punti: Marsile Ficin et l’art cit., p. 176, n. 5.
287
e. panofsky, Herkules am Scheidewege cit.
288
Sul frammento d’Ercole, coll. Gardner, Boston: k. clark, Piero
della Francesca cit., tav. xcviii; sull’Ercole fiorentino, m. salmi, Paolo
Uccello ecc. cit. p. 32.
289
w. von bode, Die italienische Bildwerke des Kaiser Friedrich
Museums, II, Bronze Statuetten, Berlin 1930, tav. x, n.41, e a. von
salis, Antike und Renaissance cit., pp. 56 e 259. Cfr. ancora: f. bayet,
Hercule funéraire, in «Mélanges Ecole de Rome», xxxix (1921), p. 234;
f. cumont, Recherches cit., p. 480 e n. 3; e. cassirer, Individuum und
Kosmos ecc. cit., p. 77.
290
a. s. weller, Francesco di Giorgio cit., fig. 12; f. saxl, m.
meier, Catalogue of Astrological and Mythological illuminated manuscripts of the latin Middle Age, London 1953.
291
e. müntz, Les précurseurs ecc. cit., p. 48. Dal 1277, almeno, il
sigillo di Firenze recava una figura d’Ercole: w. paatz, Werden und
Wesen der Trecento Architektur in Toskana cit., p. 198.
292
e. solmi, Scritti vinciani, Firenze 1924, p. 205.
293
c. de tolnay, Michelangelo, vol. I, p. 197, e vol. III, p. 100-1.
294
Il David del 1502 aveva lo stesso significato e finí per ispirarsi a
un tipo antico d’Ercole. m. wackernagel, p. 105; c. de tolnay,
Michelangelo, I, p. 153.
295
w. weisbach, Trionfi, Berlin 1919 ha semplicemente abbozzato
l’argomento senza distinguerne sufficientemente gli aspetti successivi,
come ha notato e. panofsky, Studies in Iconology cit., p. 291, n. 62.
Già nell’arte romana la pompa militare poteva avere un valore «religioso» oltre che «politico»; f. cumont, Recherches ecc. cit., p. 457.
296
Sul personaggio e il palazzo cfr. sopra.
297
Il tema dell’Ebrietas, cioè i centauri attorno all’urna fumante da
cui esce un porco, merita forse d’essere avvicinato al passo di Plotino,
Enneadi, I, 6-6, su «i porci al pantano».
298
Siamo dunque lontani dall’incisione tarda di B. Bandinelli
(1545), Il combattimento d’Apollo e Cupido in presenza degli dei, presa
come tipo di «psicomachia» neoplatonica: e. panofsky, Studies in Iconology cit.
Storia dell’arte Einaudi
460
Sezione seconda l’esigenza della bellezza
Introduzione
La metafisica del bello e gli artisti
È questo mirabile, questo immortale istinto del Bello
che ci fa considerare la terra e i suoi spettacoli come uno
spiraglio aperto sul Cielo, una «corrispondenza» di esso.
La sete insaziabile di tutto ciò che sta al di là, e che la vita
ci rivela, è la prova piú viva della nostra immortalità. È
grazie alla poesia e attraverso la poesia, grazie e attraverso la musica, che l’anima intravvede gli splendori che stanno dietro la tomba; e quando una poesia squisita fa salire
le lacrime agli occhi, queste lacrime non sono la prova di
un eccesso di piacere, sono piuttosto la testimonianza di
una malinconia irritata, di una supplica dei nervi, di una
natura esiliata nell’imperfetto e che vorrebbe immediatamente impadronirsi già su questa terra di un paradiso rivelato1.
L’aspirazione vaga e acuta descritta da Baudelaire è
stata avvertita con la stessa intensità in certi ambienti
del Quattrocento fiorentino. Vi troviamo infatti testimonianze di questa emotività che fa salire le lacrime agli
occhi in presenza della bellezza e, sulla fine del secolo,
questo «aspirare» all’«ideale» assume talvolta un accento patetico. È ciò che conferisce tutto il suo senso alla
filosofia dell’amore, di cui il Ficino fa la chiave di volta
di ogni dottrina e che conoscerà un successo perfino
eccessivo a partire dalla fine del Quattrocento. L’esaltazione dell’amore sarà sempre meno legata alla «via»
Storia dell’arte Einaudi
461
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
affettiva dei grandi «mistici»; diventerà sempre piú la
giustificazione di un atteggiamento di cui la bellezza rappresenta l’elemento piú suggestivo. Il Ficino, Pico e i
neoplatonici immediati conservano alla vita dell’anima
tutta la sua complessità. L’amore, che si mostra come la
sua manifestazione intima, è indirizzata alla Bellezza
perché questa rivela il «volto» stesso del divino. Essa ha
echi troppo profondi nella sensibilità per non provocare un’inquietudine infinita. La desolazione che coglie l’anima di fronte al vuoto dell’esistenza prosaica era familiare al Ficino e ai suoi amici: era il male degli «spirituali». Si ha l’impressione che un bel viso, un bello
spettacolo, un’opera d’arte possano addolcirlo. L’importanza che la sfera estetica ha assunto nella vita dello
spirito arreca una forma nuova di felicità intellettuale e
insieme un nuovo tormento; la bellezza tocca il cuore in
quanto fa nascere dal reale un oggetto che sta al di là del
mondo e nel quale gli aspetti sensibili sono aboliti. È
l’intuizione che il Ficino tenta di articolare in una successione «platonica» di gradi: «Dimitte materiam,
dimitte rursus et rationem, intellectualis esto, atque
intellectus primo tuus, deinde divinus». Questo principio assume tutto il suo valore nella dialettica dell’amore e della bellezza2.
L’estetismo rinascimentale non sempre si fondava in
modo tanto delicato su una base dottrinaria. L’associazione metafisica della Bellezza ai valori superiori e il continuo passare dal Vero allo Splendido, dal Bene alla
Felicità dimostravano che già si era verificato un mutamento d’orizzonte significativo in cui è da vedere l’azione del neoplatonismo fiorentino. I valori della grazia
e della bellezza furono volentieri sostituiti alle norme
etiche ed intellettuali, e ci si sentiva con questo subito
autorizzati a trarne un edonismo di cui abbiamo numerose testimonianze in tutta l’epoca e che troverà espressione in una pagina famosa del Cortegiano: «In somma,
Storia dell’arte Einaudi
462
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
ad ogni cosa dà supremo ornamento questa graziosa e
sacra bellezza; e dir si po che ’l bono e ’l bello a qualche modo siano una medesima cosa»3.
Indubbiamente è al Ficino che risale la maggior parte
di queste formule, ma per lui la conversione finale avviene in Dio. Se egli descrive, basandosi su san Tommaso,
sull’Areopagita o su Platone, le condizioni e i gradi della
bellezza è per meglio definire, nella natura e nell’anima,
lo sviluppo completo dei valori spirituali4. Il bello fornisce in qualche modo la gamma delle metafore necessarie per esprimere questi valori:
Spirito =
luce
forza ascendente
ordine matematico
= Bello
ombra
pesantezza
massa
= Brutto
= Corpo
Ciò che è superiore viene considerato come luminoso, e, secondo una tendenza costante dello spirito
umano, la «trascendenza» viene associata a un movimento ascensionale; però il fatto nuovo è che si arriva
a un raggruppamento coerente di qualità che designano
dei valori estetici puri:
chiarezza
movimento espressivo
connessione armonica
Non sarà possibile immaginarne altre in quanto il
vocabolario estetico delimitato da queste nozioni deve
restare legato, piú o meno strettamente, ai principi del
Vero e del Bene. L’opposizione di ombra e di luce ha
una risonanza precisa nel campo della conoscenza; l’opposizione tra forza liberatrice e pesantezza che opprime
l’ha nel campo della vita morale. Le «proporzioni matematiche», che sembrano un elemento specifico, giusta-
Storia dell’arte Einaudi
463
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
mente non sono considerate come sufficienti: costituiscono solo il primo grado della Bellezza. Poiché questa
è considerata un assoluto, tutti i termini dell’ideale:
Bellezza, Verità, Perfezione del Bene, sono legati tra di
loro e resi inseparabili. Questa certezza apre una via
nuova al godimento del mondo e alla condotta nella
vita5. Giungere alla Bellezza è possibile solo attraverso
uno sforzo di tutto l’essere; essa presuppone la disposizione contemplativa che è propria del saggio, del mistico, del poeta. Rappresenta cioè un dato fondamentale
che non sarà ulteriormente analizzato: un’estetica differenziata era inconcepibile nel Rinascimento cosí come
lo era una psicologia a sé stante dell’artista. Ma tutti gli
elementi della prima sono impliciti nella dottrina del
Ficino, mentre i dati della seconda lo sono nella definizione del sacerdos musarum che rappresenta un nuovo
tipo di filosofo.
Allorché gli artisti piú evoluti si decideranno a descrivere la loro attività in termini teorici, la coscienza che
essi hanno del fine dell’arte verrà espressa sia in termini di conoscenza, come avviene per Leonardo, sia in termini di etica come avviene in Michelangelo. Leonardo
assegna come oggetto della pittura la totalità dell’essere: la sua mirabile e celebre pagina sui giochi dell’immaginazione di cui il pittore e «signore» si conclude con
una definizione filosofica: «Ciò che è nell’universo per
essenza, presenza o immaginazione, esso lo ha prima
nella mente e poi nelle mani...» Abbiamo qui un’eco
diretta della successione di gradi tomista e aristotelica:
«per essentiam, presentiam et potentiam» che definisce
le modalità dell’essere. Leonardo tuttavia opera una
doppia modificazione per cui immaginazione si sostituisce a potenza e la distinzione ontologica è riportata al
livello dell’universo concreto, il che modifica doppiamente l’equilibrio della formula. Tutta la sua «filosofia»
tenderà a sostituire il procedere dell’arte (e in primo
Storia dell’arte Einaudi
464
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
luogo della pittura) alla «sintesi dottrinale»6. Non come
un risultato del sapere, ma come una forma di salvezza
spirituale Michelangelo concepisce la scultura: un sottrarsi al mondo della materia, della pesantezza e dell’oscurità, una vera e propria kßqarsij. Nelle sorprendenti poesie in cui descrive l’uscire della statua dal blocco di pietra in cui è chiusa, il processo creativo appare
come una liberazione e una purificazione dell’anima realizzate simbolicamente nell’oggetto. La Bellezza è una
«idea» che può e deve trasfigurare l’artista7. Ma in
entrambi i casi l’attrazione della Bellezza deve, secondo l’ipotesi fondamentale del neoplatonismo, essere
descritta nei termini della teoria dell’amore: l’amor è
tanto piú fervente quanto la condizione è piú certa (Leonardo); il principio neoplatonico è altrettanto evidente
nella formula michelangiolesca: «L’artista può solo essere superato da se stesso», che è la parafrasi di una massima dell’etica di Careggi8.
Una delle novità dell’epoca rimane la comparsa della
nozione generica di arte, superiore alla distinzione delle
tecniche e comprendente tutta l’attività umana che
opera nel concreto e opera con le forme. È una delle
conquiste essenziali dell’umanesimo neoplatonico; questa nozione gli era indispensabile per valorizzare l’attività dell’anima9. Allorché Matteo Palmieri, il Ficino,
Pico esaltano la potenza universale dell’uomo, la sua
posizione di deus in terris viene dimostrata attraverso il
prodigioso atteggiamento dell’artifex che organizza il
mondo. Tuttavia la nozione non viene sviluppata e non
porta ad una seria riflessione sull’«attività creatrice»
dello spirito umano. Conforme alla poetica di Aristotele, la perfezione dell’arte è definita dall’imitazione della
natura; l’arte tende alla natura ed è in grado di rifletterla in quanto riflette essa stessa un pensiero divino10.
Il Potere dell’artifex deriva dal fatto che egli prolunga e
riflette l’atto creativo; non può essere staccato da que-
Storia dell’arte Einaudi
465
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
sta prospettiva. L’arte è sentita come un’attività privilegiata in un ordine piú generale. Aiuta a definire il
destino dell’uomo, ne è un episodio centrale; ma per gli
umanisti non c’è ragione alcuna di isolarla ancora di piú.
Anche per un filosofo ricettivo e inquieto come il
Ficino non era possibile arrivare a una teoria distinta
dell’attività artistica; tuttavia gli elementi di essa esistono fusi nella sua dottrina dell’anima. Questa si definisce in rapporto da un lato a una natura tutta orientata verso la Bellezza e dall’altro in rapporto a una divinità che rappresenta la realizzazione assoluta di essa: se,
ad esempio, prende in considerazione i mezzi di cui
l’uomo dispone per giungere all’esperienza completa del
reale, il Ficino suppone un’attività continua e subconscia dell’anima che si trova di continuo in sintonia con
i gradi inferiori e superiori dell’anima stessa anche se
essa non ne è consapevole. «Movent saepe colores aut
voces, oculos. sive aures, confestim visus et auditus
suum explent officium, hic videt, ille audit, nondum
tamen animus et videre se et audire animadvertit, nisi
media nostra potentia sese ad haec intendat»11. Questa
zona mediana è la ragione nel senso largo del termine,
è l’uomo stesso; nulla per noi esiste che non sia riflesso
in essa. Essa risponde senza cessa all’azione dei sensi e
alla pressione delle «idee». Essa può accedere ad una
visione completa delle cose. Tuttavia a una condizione:
Verum cur non animadvertimus tam mirabile nostrae
illius divinae mentis spectaculum? Forsitan quia propter
continuam spectandi consuetudinem admirari et animadvertere desuevimus. Aut quia mediae vires animae, ratio
videlicet et phantasia, cum sint ut plurimum ad negotia
vitae procliviores, mentis illius opera non clare persentiunt, sicut quando oculus praesens aliquid aspicit, phantasia tamen in alijs occupata, quod oculus videat non agnoscit. Sed quando mediae vires agunt ocium, defluunt in eas
Storia dell’arte Einaudi
466
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
intellectualis speculationis illius scintillae velut in speculum12.
In questo modo il Ficino, sotto la diretta influenza
di Plotino è portato ad associare phantasia e ratio per
definire il meccanismo della visione pura, disinteressata, che è il privilegio dell’anima allorché si trova in una
condizione distesa e ricettiva, una condizione di vacatio
speculativa13. La bellezza del mondo non si rivela senza
uno sforzo appropriato che porta lo spirito a uno stato
di distrazione rispetto alla vita pratica per trasformarlo
invece in specchio della realtà vera. Questa analisi quasi
bergsoniana dell’attività spirituale non interessa solo il
filosofo, ma tutti i «sacerdoti delle muse».
In certe descrizioni piú astratte il Ficino precisa ancor
piú quello che è il procedere dello spirito. L’architetto,
egli dice, comincia concependo una nozione (ratio) dell’edificio e per cosí dire una idea (idea) nella sua anima14.
L’impiego di due termini tradisce d’altronde una ambiguità psicologica che rimarrà tipica di tutto il Rinascimento: l’idea qui non è se non un sinonimo per dire l’immagine, dotata di certi caratteri attivi, in altre parole
della «forma» in senso aristotelico. L’immaginazione
affinata è il supporto della speculazione. «Il quadro del
mondo» infatti è «intelligibile» solo al livello superiore, per gli angeli o per le anime delle sfere, dove si trovano le figure di tutte le cose: «Queste pitture si chiamano nelli Angeli, esemplari e idee; nelli animi ragioni
e notizie; nella materia del mondo, imagini e forme.
Queste pitture sono chiare nel Mondo: piú chiare nell’Animo e chiarissime sono nell’Angelo»15.
L’«idea» è «ragione»; essa rivela il primo grado dell’attività spirituale in quanto contiene interamente la
sfera dell’astrazione matematica. In un testo importante, e del resto tardo (1492), il Ficino si esprime in termini analoghi a quelli dì certe affermazioni di Leonar-
Storia dell’arte Einaudi
467
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
do: si chiamano arti le scienze che si servono delle mani;
esse devono soprattutto la loro acutezza e perfezione alla
potenza matematica, cioè alla facoltà di contare, misurare, pesare che piú d’ogni altra deriva da Mercurio e
dalla Ragione. Senza di essa tutte queste arti rimangono in balia dell’illusione; sono preda dell’immaginazione, dell’esperienza, della congettura16.
Si tratta qui delle tecniche, ma la nozione può e deve
estendersi, come affermava l’Alberti, e poi Piero della
Francesca e Leonardo. Siamo qui assai vicini ai problemi di mestiere.
Piú difficile è immaginare ciò che avviene al grado
superiore, al livello di quello che il Ficino chiama lo spirito angelico, il regno della Mens che sta al di sopra della
Ratio. È di qui tuttavia che discende il fulgore decisivo
della Bellezza. Per il Ficino la Bellezza piena non esiste
che a questo livello. È qui che si trova «la bellezza della
luce intellettuale» che risponde alla «bellezza luminosa
del visibile» di contro alla Ratio, «bellezza dell’anima»,
che risponde alla «bellezza armonica dell’udito». In
altre parole, il principio matematico dell’arte deve essere integrato; l’analogia con la «musica», di cui abbiam
visto la portata generale, induce a riflettere che l’armonia dei numeri è solo una preparazione: l’appagamento
che essa arreca all’anima tende solo a metterla in istato
di ricettività. La Bellezza diviene presente allorché;
all’interno di questa struttura, sopraggiunge qualcosa
d’altro, quello splendore che il Ficino, non analizza mai,
e che tutti celebrano dietro il suo esempio: un raggiare
ineffabile e divino che riempie lo spirito.
Il termine «idea» assume allora un valore che ci
sfugge. Sembra che debba intendersi nel senso di rapporti che tendono a una totalità. Il Ficino insiste sull’economia organica della natura, in cui la figura richiama la figura e quando una cetra suona avviene che
un’altra faccia eco. L’universo è un tessuto di corri-
Storia dell’arte Einaudi
468
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
spondenze multiple che si intrecciano sotto la trama
della realtà sensibile. Questi rapporti non sono colti
dalla coscienza se non attraverso lo sforzo intellettuale
della Ratio; ma questa giunge a realizzare solo un primo
grado, quello in cui cessano l’isolamento e la fissità
apparente degli esseri. Allorché questo rapporto intimo
viene energicamente illuminato si sprigiona un senso di
pienezza, quella concordia discors, l’unità del molteplice, che è l’armonia essenziale. La scala degli esseri definita dalla ontologia platonica sta a indicare che occorre sollevarsi al di sopra delle percezioni utili alla nostra
condizione terrena, per attingere alla visione dei movimenti, delle emanazioni e degli scambi continui che
costituiscono la realtà del mondo sotto la specie della
Bellezza. Questo «splendore», che sta al di là della portata normale dei sensi, può essere espresso solo in termini di luce, dato che questa è omogenea allo spirito e
si dispiega come una sorta di divinità che, nel tempio
di questo mondo, riproduce la somiglianza con Dio. Si
tratta di una formula strana escogitata però per suggerire che l’intuizione della Mens, pur procedendo al di là
delle apparenze, è piena, folgorante e si presenta come
una realtà totale, in cui l’infinita diversità delle apparenze vive in una sorprendente unità. Il Ficino e Pico
continuamente rinviano a questo limite superiore il realizzarsi delle aspirazioni costanti dell’uomo. Ciò che è
proprio di un bell’oggetto, di un bello spettacolo è di
risvegliare nell’anima la coscienza di questo rapporto
prodigioso; e piú ancora se si tratta di un bel viso al
quale può rivolgersi l’amore. Insistendo con fervore sul
valore propriamente «sacro» di tutto ciò che riguarda
la bellezza, il Ficino forniva alla sua epoca un’argomentazione complessiva che difficilmente sarebbe stata
dimenticata. Il suo successo si spiega col fatto che essa
poteva esser facilmente messa in rapporto con esperienze consuete. Nonostante le sue confusioni e le sue
Storia dell’arte Einaudi
469
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
ambiguità, si trattava di una versione filosofica di aspirazioni diffuse.
La situazione che in questo modo venne a crearsi è
di una complessità piena d’interesse. Non è píu lecito
considerare le teorie degli umanisti estranee al mondo
delle arti come lo erano state, ad esempio, quelle dei
maestri della scolastica rispetto ai rappresentanti delle
«artes mechanicae». Ormai la divisione delle discipline
in compartimenti incomunicanti comincia a venir meno
e questo si risolve a vantaggio delle arti plastiche: le linee
generali della teoria e della storia dell’arte vengono derivate dalle nozioni scientifiche e dalle formule umanistiche. Si cerca di realizzare l’unità delle aspirazioni umane
non in una definizione concettuale, ma in una intuizione piú larga: la musica può cosí servire come termine
comune di riferimento per gli intellettuali e gli artisti per
indicare un’esigenza essenziale sentita in modo vivo
come non mai prima. L’«estetizzazione» della cultura,
che si verificherà nel secolo successivo, si afferma già
all’epoca di Lorenzo a Firenze. Forse essa è il carattere
essenziale di questa epoca. Tutti questi fenomeni riducono chiaramente la distanza tra i «pensatori» e gli artisti. È d’altra parte chiaro che il metodo speculativo di
un Ficino e l’erudizione di un Poliziano tengono questi
uomini lontano dalla sfera in cui si collocano gli artisti.
La metafisica del Bello e l’elogio dell’Arte discendono
da posizioni dottrinarie che necessariamente dovevano
restare estranee all’ambiente delle botteghe. È difficile
immaginare come queste, dominate da problemi concreti, e forti di quegli interessi positivi che rappresentavano la loro superiorità, avrebbero potuto trarre dalla
teologia platonica e dalla poesia umanistica, di cui sono
parte integrante, atteggiamenti spirituali e nuove indicazioni che potessero interessare loro17. A prima vista,
tra i «sognatori» di Careggi e i pratici c’è una sorta di
muro. Quale rapporto potevano avere le «idee» generali
Storia dell’arte Einaudi
470
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
o le analisi degli intellettuali con l’operare degli artisti,
con l’evoluzione dei generi, con la crisi degli stili? Ci
sono precise ragioni per lasciare il problema aperto. La
prima di queste e la facilità e la rapidità con cui la filosofia dell’amore elaborata dal neoplatonismo fiorentino
è venuta di moda in Italia già a partire dal 1500, penetrando nei circoli aristocratici e mondani e raggiungendo anche la comune persona di cultura. Già attraverso
Dante i grandi temi del neoplatonismo erano stati assimilati dalla cultura corrente e in particolare da quella
delle botteghe fiorentine. Non si tratta di un fenomeno
di secondaria importanza. Tutti i trattatisti ripeteranno,
sulla scia del Ficino e del Bembo, che l’amore è un principio di elevazione e di nobiltà, in quanto nasce dal tormento della Bellezza:
L’amor mi prende e la beltà mi lega
scriverà Michelangelo (XXXI). I rappresentanti di una
cultura come questa, che considera lo stato amoroso
come la condizione naturale dell’anima, cioè coloro che
ne esprimono il contenuto profondo sono il poeta e l’artista. Il Cortegiano arriverà chiaramente a questa conclusione alla fine di una evoluzione che comincia quarant’anni prima a Firenze.
Ora è a Firenze in generale che si notano le prime
manifestazioni di una emancipazione intellettuale che
libera un numero rilevante d’artisti dalle consuetudini
artigianali. I piú brillanti tra questi sembrano consapevoli del posto che loro spetta e accampano pretese del
tutto nuove. Anche le rigide distinzioni sociali cominciano, da questa parte, ad attenuarsi18. Accanto alle
botteghe modeste, che erano la maggioranza, il Vasari
ci parla dell’esistenza di veri e propri circoli artistici
come la bottega di Baccio d’Agnolo, dove la sera si
tenevano «bellissimi discorsi e dispute d’importanza»19.
Storia dell’arte Einaudi
471
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Siamo già qualche anno dopo il 1500, ma queste discussioni sui problemi dell’arte erano diventate una abitudine fiorentina e alla fine del Quattrocento la bottega
del Botticelli era, stando all’espressione ironica di un
cronista, una vera e propria «academia di scioperati»,
dove si parlava di tutto. Se il Botticelli ha potuto passare per un artista «sofisticato» è proprio a causa delle
sue pretese «letterarie». È dal tempo suo che si deve
datare la trasformazione di certe botteghe in piccole
accademie. Gli artisti toscani avranno sempre piú chiaro il senso della loro indipendenza e della loro dignità.
Come è dimostrato da numerosi aneddoti, i maestri
volevano anzitutto arrivare a un rango sociale elevato20.
Non rivendicano appena onori e salari, aspirano anche
ai privilegi degli intellettuali: lo si vede dalla disinvoltura con cui alcuni di loro, e non solo Leonardo, passano da una commissione noiosa a un’opera che li attira di piú e nella quale il loro talento potrà figurare. Leonardo o Michelangelo trattano dall’alto i clienti poco
comprensivi o impazienti21. Il loro esempio avrà seguito22. Se insistono sul posto che spetta alle arti nella
gerarchia delle discipline liberali d’altra parte il pittore o lo scultore pensano di avere prima di tutto dei
doveri verso l’arte. Leonardo lo dichiara esplicitamente: «Se tu pittore te ingegnerai di piacer’ alli primi pittori, tu farai bene la tua pittura, perché sol quelli sono,
che con verità ti potran sindacare...» Il cliente volgare
è cattivo giudice; l’arte ha le sue leggi; solo il conoscitore può apprezzare i problemi che l’artista ha risolto;
la bravura non consiste solo nella abilità tecnica, ma
deriva da qualcosa di piú elevato che rende l’artista
simile al poeta23.
È allora che si comincia a notare e a commentare con
interesse il modo di comportarsi di certi artisti: Domenico Ghirlandaio mostrava un amore cosí frenetico per
il suo lavoro che pretendeva di coprire di affreschi le for-
Storia dell’arte Einaudi
472
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
tificazioni di Firenze; con Piero di Cosimo, che nella sua
foga di dipingere si dimenticava di tutti i suoi obblighi
e dei comodi pratici, nasce la figura dell’artista misantropo, stravagante e ossesso, che l’amore per la sua arte
sottrae alle norme comuni24. Una passione gelosa porta
certi pittori a nascondere a lungo la loro opera, a ritornare su di essa all’infinito, a sottrarla ai curiosi; accade
che qualcuno intraprenda opere solo per se stesso, cosa
che non si nota mai prima della fine del Quattrocento
fiorentino25. È insomma il momento in cui si definisce
un tipo umano nuovo, quello dell’«artista». Questo tipo
presenta alcuni elementi della psicologia fiorentina: la
causticità, la passione intellettuale, una sensibilità acuta
che provoca periodicamente il bisogno dell’isolamento e
della riflessione solitaria, e ancora il gusto della commedia, delle burle fantasiose che non costituiscono solo
uno svago, ma servono a creare nella vita una atmosfera di festa e di irrealtà26. La vita di Leonardo sarà la
dimostrazione piú straordinaria di questa indipendenza
di spirito che nel secolo successivo non sarà piú ben capita. Molti, proseguendo la tradizione di Donatello e del
Ghiberti, si circondano di anticaglie, di oggetti rari, che
non sono modelli di bottega ma simboli di una cultura27.
Il Signorelli, vestito in modo ricercato, si presenta come
un «signore e gentiluomo», Leonardo è elegantissimo.
Raffaello, circondato da un seguito come un principe, fa
contrasto a Michelangelo «solo come un boia»; ma tutti
vogliono essere rispettati.
Tutti questi indizi risultano convergenti e assai significativi. Il Vasari, al quale dobbiamo la maggior parte di
queste notizie, sembra talvolta ripetere semplicemente
degli aneddoti-tipo piú o meno sospetti e non sempre ne
valuta adeguatamente il significato28. Ma è al tempo di
Lorenzo che la sicurezza intellettuale dei maestri comincia ad affermarsi contemporaneamente alla preoccupazione di una dignità sociale. Essi tendono a presentar-
Storia dell’arte Einaudi
473
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
si, al pari dei poeti e degli umanisti, come una categoria umana privilegiata, che ha i suoi diritti e doveri. La
benevolenza di Lorenzo li incoraggia in questo senso: il
Ficino concede la sua amicizia al Pollaiolo, il Poliziano
s’intrattiene con Michelangelo. Le abitudini fiorentine
favorivano questa sorta di promozione sociale dei maestri, che ben presto sarebbero stati considerati alla pari
degli «eroi» superiori della cultura. Indubbiamente
molti di loro soffrono di essere «senza lettere». Possono leggere gli scritti in volgare, ma non i trattati latini;
la base della loro cultura è Dante, piú che le opere degli
umanisti29. È però degno di nota che i nuovi maestri del
1500, Leonardo, Michelangelo, Raffaello, abbiano sentito il bisogno di scrivere e si siano fatti, al momento
opportuno, trattatisti e poeti.
Sulla base di queste osservazioni i rapporti tra l’arte
e l’umanesimo appaiono in una luce nuova: l’esigenza
del Bello, che porta l’anima a un grado di tensione esclusiva, e la rivendicazione dei privilegi del «sacerdos musarum» sono comuni ad entrambi. E le dottrine costituiscono una giustificazione d’ordine generale a un modo
di comportarsi ed a un atteggiamento che si ripercuotono sull’attività dell’artista. Per essere piú precisa l’indagine può avviarsi in tre direzioni: anzitutto il successo della figura adolescente, assunta a tipo ideale della
bellezza; secondo, i modi in cui viene applicato il principio matematico e la ricerca d’una certa «dignità» delle
forme; infine la portata della teoria del disegno-idea e
della distinzione che ne deriva tra l’invenzione e l’esecuzione.
Storia dell’arte Einaudi
474
Capitolo primo
«Eros socraticus»
Nella filosofia del Rinascimento il corpo umano è un
oggetto privilegiato: viene definito come lo strumento
dell’anima, il mezzo di cui essa si serve per inserirsi nel
mondo sensibile. Ma non basta: esso rappresenta un
modo superiore d’organizzazione, di valore universale.
Esso infatti riassume in sé l’economia generale della
natura mediante l’equilibrio degli umori che altro non
sono se non l’aspetto fisiologico degli elementi. La sua
struttura e i suoi rapporti interni sono la chiave dell’armonia, non in un senso accidentale e locale, ma in un
senso assoluto: sono indispensabili per apprezzare il
modo in cui effettivamente opera nel mondo il principio matematico della bellezza. Il canone delle proporzioni deve rendere esplicito questo valore privilegiato
della figura umana30. Procedendo di pari passo con la
ripresa delle formule vitruviane, i commenti del Ficino
al Convito e al Timeo, venuti a confermare l’interesse di
queste speculazioni teoriche, aiutano a definire in termini piú precisi quello che possiamo chiamare il «pitagorismo» rinascimentale.
L’anima è la «forma» del corpo e questo è un
«segno» universale. Allorché si attribuisce agli angeli, ai
pianeti, alle costellazioni, alle forze della terra una «figura», l’immaginazione si sente autorizzata dalla tradizione a rendere tale figura con una forma umana. È il
piano normale di ogni rappresentazione simbolica31. Non
Storia dell’arte Einaudi
475
André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
c’è dunque nulla di nuovo in questo modo di procedere, salvo la curiosità naturalistica che la sollecita e il fatto
che il corpo umano appare dotato di una dignità eccezionale, corrispondente alla posizione centrale che è
attribuita all’uomo nel mondo. Tra tutte le apparenze
sensibili il corpo è il piú adatto a fornirci la rivelazione
della bellezza; esso è come la punta avanzata dello splendore divino nella natura. Il poeta e il filosofo devono
quindi essere sensibili alla sua mirabile struttura e il
Ficino, all’epoca del Convito (1475), quando gli sembra
che si possano conciliare tutte le esperienze, non esita a
scrivere che l’amore appassionato della bellezza fisica e
morale delle persone è proprio della famiglia platonica32.
Che era un modo di accettare e giustificare (al fine di
purificarla ed orientarla filosoficamente) l’inclinazione
piú violenta degli uomini del suo tempo verso la bellezza fisica, in modo particolare quella dei giovanetti. La
teoria dell’«amore platonico» non è stata proposta come
una ripresa, per quanto prudente, dell’amore «greco»,
tuttavia a questo essa riservava un posto particolare. Per
l’appunto proprio in quel momento gli ambienti artistici fiorentini erano ben lungi dal misconoscerlo.
Non è facile quanto si vorrebbe superare nettamente l’affetto «socratico», legittimato e addirittura raccomandato dal Ficino, da un vizio che è stato spesso
denunciato dai predicatori fiorentini del Quattrocento
e attaccato direttamente dal Savonarola33. Non c’erano,
nelle botteghe degli artisti, donne a servire: gli artisti e
i dotti vivevano circondati di «garzoni» che accudivano alla casa, oppure di domestici piú anziani; spesso
tenevano gli uni e gli altri. Un adolescente entrava in
una bottega sia per apprendere la tecnica dell’arte che
per sbrigare le faccende di casa, talvolta per servire da
modello34. Non è dunque tanto strano che i maggiori
artisti di Firenze siano stati, a torto o a ragione, sospettati di sodomia. Il problema può porsi per Botticelli,
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Leonardo e Michelangelo. Il Manoscritto magliabechiano, che fornisce spesso notizie utili sulla vita degli artisti, cita affermazioni misogine del Botticelli; non si
dovrebbe trarne conclusioni affrettate; però uno dei
suoi giovani allievi fu condannato per sodomia nel 1473
e lui stesso fu denunciato nel novembre del 150235. Gli
scandali contro il buon costume non erano in realtà rari
nelle botteghe. È risaputo che Leonardo, quando era
ancora nella bottega del Verrocchio, fu oggetto di una
regolare denuncia al «tamburo», ma la cosa si risolse
rapidamente o fu soffocata36. Originale e segreto in tutte
le sue cose, Leonardo lascia però scorgere nei suoi taccuini e disegni l’interesse che nutriva per la bellezza dei
giovanetti. È stato possibile ricostruire la personalità di
quello che lui aveva soprannominato «Salai», cioè «diavoletto», di cui s’occupava con incredibile pazienza. Il
maestro registra nel suo diario, nel 1490, l’arrivo del
nuovo garzone, Jacomo, di dieci anni; tiene nota delle
spese sostenute per rivestirlo, il giorno dopo il suo arrivo, poi anno per anno, degli acquisti di scarpe (24 paia
all’anno) e di stoffe; il 4 aprile 1497 nota ancora la
spesa per una bellissima cappa destinata all’adolescente.
La cosa piú sorprendente è la sua indulgenza per la cattiva condotta di Salai, di cui fin dall’arrivo nota il cattivo carattere: «ladro, bugiardo, ostinato, goloso», e la
negligenza nel servizio, i piccoli furti. Ciononostante gli
presterà, nel 1508, 30 scudi per fare la dote a una sorella e gli lascerà un legato considerevole «in ricompensa
dei suoi buoni e leali servizi». Questo «diavoletto» d’altronde era figlio di un amico milanese di Leonardo.37 Si
sono tratte talvolta da questi particolari, conclusioni
eccessive. Le intuizioni di Freud (nonostante numerosi
errori di fatto), possono essere giuste; lo sarebbero ancor
piú se tenessero conto del clima dell’epoca e di molte
note e disegni in cui si vede che Leonardo affrontava
con disinvoltura tutte le forme dell’amore38. Soprattut-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
to, non si deve dimenticare la sua massima, che ha un
accento tutto personale: «La passione dell’animo caccia
via la lussuria»39. Ma infine è l’opera sua a rivelare la
passione dell’androgino. In tutta la sua carriera egli disegnerà, l’uno di fronte all’altro, un guerriero maturo e un
grazioso adolescente; il contrapposto di questi due tipi
l’ha chiaramente ossessionato40. Essi appaiono per la
prima volta in un foglio (W. 12276) in cui sono schizzate alla rinfusa immagini di tutti i tipi, e riappariranno trent’anni dopo41.
Le ossessioni dell’Eros platonicus sono non meno esplicite in Michelangelo e i suoi amori ben noti. Poco dopo
la trentina, al tempo della Sistina, s’invaghisce di un giovanetto chiamato Giovanni da Pistoia42, qualche anno
dopo di Gherardo Perini al quale scrive lettere d’amore
nel 152243. Nel 1532 esplode la sua grande passione per
Tommaso Cavalieri, giovane nobile romano di grande
bellezza e elevata spiritualità, al quale lo scultore, con una
sorta d’idolatria, scriverà numerose lettere e dedicherà
ardenti sonetti «petrarcheschi». Forse ebbe anche amicizie meno degne di lui. Tuttavia l’esaltazione provocata da
questi amori «socratici»44 coincide, nella sua opera, con i
momenti in cui con piú abbandono celebra la bellezza fisica45. Le opere di Michelangelo sono altrettante «confessioni», al pari di quelle di Leonardo, se pure meno volgari degli aneddoti, piú o meno benevoli, che ci hanno tramandato al proposito i contemporanei46.
La sodomia degli intellettuali e degli artisti, dai tempi
di Dante in poi, era un tema corrente di condanna morale, benché spesso attenuato dalla benevolenza con cui
tradizionalmente gli italiani considerano tutto ció che ha
attinenza all’amore e alla bellezza47. Due volte nella
prima parte del Quattrocento il problema fu affacciato
in dibattiti pubblici: nel 1426 a proposito dell’oscena
raccolta di epigrammi del Beccadelli, intitolata Hermaphroditus e dedicata a Cosimo48; una seconda volta
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
intorno al 1455-60 al momento della disputa intorno al
platonismo, nella quale il «vizio socratico» fu utilizzato dai bizantini d’Italia come argomento contro il valore «culturale» dei trattati platonici: accusato da Giorgio di Trebisonda di incoraggiare la pederastia, l’autore
del Fedro fu difeso, su questo come su altri punti, dal
cardinal Bessarione nel bel trattato del 1469, in cui
viene invece lodata l’altezza morale della morale platonica fondata sulla potenza catartica dell’amore49. L’Accademia umanistica fiorentina, anche in questo fedele
all’imitatio Platonis, reinventava poco dopo «l’amore
filosofico dei giovanetti» che pare sia stato uno degli
aspetti caratteristici della cultura aristocratica del tempo
dei Medici. Giovanni Cavalcanti e il Ficino, il Plato redivivus, offrono l’esempio di rapporti amorosi appassionati, attenti, al di sopra di ogni torbido equivoco. Nato
nel 1448, Giovanni era quasi sulla ventina quando il
Ficino, in una delle sue crisi di depressione, lo scelse per
amico traendone grande consolazione. E gli dimostrò la
sua gratitudine dedicandogli nel 1467 la prima versione
del Commento al Convito, nel quale la parte di Fedro è
sostenuta dal Cavalcanti di cui i convitati celebrano la
bellezza. Le gioie, i turbamenti, le estasi descritte in
quest’opera erano le stesse vissute dai due conphilosophi, la cui corrispondenza è piena delle stesse formule splendide ed eccessive50. Il Convivio esalta il valore che
l’amor socraticus ha per il maestro che contempla la bellezza divina nel suo riflesso umano, e per il discepolo
che, attraverso questo contatto, impara a staccarsi dalla
mera bestialità sessuale. «Voi mi domandate a che sia
utile lo Amore socratico. Io vi rispondo: che è prima
utile a sé medesimo a ricomperare quelle ali con le quali
a la patria sua rivoli. Oltre a questo è utile a la Patria
sua sommamente a conseguitare la onesta e felice vita»51.
Questo amore socratico per i bei giovani è la prima
espressione completa, nel Rinascimento, di quello che,
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
nelle volgarizzazioni mondane degli inizi del Cinquecento, sarà l’amore platonico tra i sessi o l’unione spirituale delle anime52. Questa tenerezza per la bellezza
virile non fu d’altronde esclusiva del Ficino. Pico fu
legato da un amore del genere a Girolamo Benivieni;
quando questi morí (nel 1542) ebbero una pietra tombale comune nel chiostro di San Marco con un’epigrafe
esplicita53. Si tratta di una tendenza comune a Firenze,
ai tempi del Magnifico, tra i letterati e gli umanisti.
Eppure i loro costumi, tranne che per il Poliziano e
qualche altro, sembrano essere stati puri, il che viene a
caratterizzare ancor meglio questi ceti elevati del Quattrocento, per i quali la grazia e la perfezione dell’adolescente avevano un valore cosí rilevante da ispirare le tre
indimenticabili versioni del giovane David nudo, che
rappresentano i tre capolavori della scultura fiorentina.
Il clima propizio creato dagli umanisti era tanto piú
importante in quanto la rappresentazione del nudo (e del
nudo virile) attirava sempre piú l’interesse delle botteghe fiorentine54. Il David adolescente di Donatello, che
appare come uno dei miracoli dell’arte (tra il 1430 e il
1440) fu una delle prime manifestazioni di questo interesse. La statua ha una bellezza nervosa e bizzarra e il
cappello con la corona di lauro, i gambali adorni di palmette, il vago sorriso, l’abbandono leggero del «contrapposto» vi aggiungono un tocco significativo di civetteria e di capriccio55, e quando, verso il 1460, Firenze
diventa la capitale del nudo, questa figura già cosí sottile fu reinterpretata con ricercatezza e complessità
ancora maggiori nel piccolo eroe, fattosi sognante, del
Verrocchio (1476), in attesa del capolavoro michelangiolesco (1504) che chiude l’epoca.
È nella bottega del Verrocchio che sembra sia venuto costituendosi, intorno al 1470-75, il tipo dell’adolescente «ambiguo» destinato soprattutto alla rappresentazione degli angeli. Gli artisti che sono stati in rapporto
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
con questo maestro originale, soprattutto Botticelli e
Leonardo, hanno voluto chiaramente unire nella forma
angelica i caratteri dei due sessi per trarne un «androgino», un essere ideale e delicato, piú sensuale del putto
e piú grazioso dell’efebo56. È il momento in cui il Ficino fa della creatura angelica la figura superiore, in cui
si rivelano lo splendore e la grazia (nitor et gratia) della
Bellezza suprema, quella che suscita nel cuore dell’uomo un amore imperituro. E questa intensa bellezza è
separata solo d’un grado da quella umana: «La Divina
Potenzia supereminente, allo Universo, agli Angeli e
agli animi da lei creati clementemente infonde... quel
suo raggio: nel quale è virtú feconda a qualunque cosa
creare», cioè una forma capace di una seduzione irresistibile senza nulla concedere ai sensi, e che porta al
grado supremo la grazia e la soavità57.
Se ci si rifà agli angeli cantori del Gozzoli e di Filippo Lippi risulta chiara questa nuova sensibilità, che si
esprime nei graziosi fanciulli, né maschi né femmine, dai
lunghi capelli che accompagnano la Madonna del Magnificat e la Madonna coi sei angeli, nell’angelo inclinato dell’Annunciazione di San Martino della Scala (1481) coi
suoi alti sopraccigli, le sue labbra grosse e sinuose, i suoi
capelli fluttuanti e portati indietro, che hanno dovuto
affascinare Dante Gabriele Rossetti, e infine negli angeli danzanti, vestiti di ampi veli rialzati alla cintura come
le ninfe della Primavera, che occupano il cielo nell’Incoronazione della Vergine agli Uffizi. Oltre a queste immagini anonime della soavità e della gioia, il Botticelli ha
dipinto anche un certo numero di bei adolescenti gracili, il primo dei quali è il San Sebastiano che sembra posare con calma, al quale seguono, piú tardi, le due figurazioni di Cristo morto, quella di Monaco e l’altra del
Poldi Pezzoli a Milano, con le quali si vede entrare nell’arte sacra un elemento pungente di bellezza «plastica»
di cui qualche volta ci si è scandalizzati.
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Dai delicati personaggi di Desiderio all’adolescente
del Verrocchio si vede aumentare l’ambiguità e la grazia dell’efebo sottratto alla volgarità e alla bruttezza58.
Leonardo conserva questo tipo, ma lo individua maggiormente rendendolo insieme piú squisito e piú affascinante. Dopo l’angelo celebre del Battesimo (c. 1475),
dipinse nella sua Annunciazione, nell’Adorazione dei
Magi non finita, nella Vergine delle rocce degli adolescenti
alati, dai capelli graziosamente ricciuti come quelli di
una fanciulla: è il tipo verrocchiesco portato alla perfezione, con una epidermide liscia e brillante come il bronzo59. Nell’angelo, ancora piú ambiguo, della Vergine delle
rocce si è creduto di vedere una somiglianza con il viso
sottile della Dama dell’ermellino e si è pensato trattarsi
di una trasposizione dei lineamenti di Cecilia Gallerani60. I numerosi disegni, fatti prendendo come modello
Salai, portano a compimento la caratterizzazione personale della figura61: in un foglio della raccolta di Windsor si vede lo stesso profilo ripreso in una figurina di
donna, quasi a ritrovare il piú lontano possibile nella
natura l’ambiguità che seduce l’immaginazione62.
Il ciclo dedicato alla bellezza dell’adolescente androgino può completarsi con le figurazioni di san Giovanni
Battista. Abbiamo infatti di Leonardo, intorno al 1476,
un San Giovannino su fondo azzurro disegnato a punta
d’argento, che però non va oltre la semplice esercitazione63; ma trent’anni dopo il Battista del Louvre sta a dimostrare, col suo modellato sottile, la sua luce rara, la sua
inclinazione calcolata, l’importanza ossessiva che la figura emblematica creata dall’artista aveva assunto. Si è
molto fantasticato davanti a queste figure, insistendo su
quel carattere irreale che sembra di un altro mondo64 o
sulla loro suggestione perversa. Quali che siano il valore
del «simbolo» e le sue implicazioni coscienti o subconsce, questa figura cosí sapiente porta a un’intensità estrema un tipo creato nell’ambiente fiorentino.
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Il Signorelli per contro aveva accentuato il principio
scultoreo dell’antica scuola fiorentina: il corpo nudo è
per lui l’elemento principale di un linguaggio meno ricercato. Intorno al 1490, con il Pan e il tondo coevo degli
Uffizi, in cui appare un gruppo di pastori che suonano
il flauto, sembra essere stato il primo a immaginare degli
efebi in una sorta di Arcadia eterna che rappresenterebbe la perennità del mondo antico65. Qui (e si tratta
di una novità decisiva) l’Eros platonicus si lega all’Antichità rappresentata come un paradiso perduto. Le ninfe
del «concerto saturnio» che circonda il dio Pan presentano anch’esse la corporatura alta e muscolosa dei pastori dell’idillio, come se ci fosse un solo tipo valido di bellezza. Le mirabili figure nude della Resurrezione dei
morti a Orvieto suggeriranno la stessa impressione. E l’esempio, è risaputo, avrà la sua importanza per Michelangelo. La nudità trionfante dell’efebo è per lui l’occasione per una sorta di orazione estetica. Il tema appare
per la prima volta nel tondo Doni del 1503 (Uffizi): il
Bambino, simile a un piccolo atleta, porta un nastro di
vittoria; in secondo piano si svolge una contesa amorosa: «Parecchi adolescenti nudi dai capelli inanellati
d’una bellezza elastica e gracile... Uno degli efebi stringe l’altro e un terzo sembra volerlo sottrarre alla stretta...».66
Un’altra coppia di giovani, a sinistra, guarda con aria
sognante all’orizzonte, appoggiati al bordo di una cava
di marmo. Hanno il tipo del David, ma la loro bellezza
atletica, i loro giochi amorosi inducono a vedere in essi
il mondo pagano; questo è separato dalla Sacra Famiglia
da un muro che il piccolo san Giovanni si appresta a saltare. Il Signorelli aveva trasformato i pastori della Natività in nudi scultorei. Michelangelo raggruppa i nudi in
una scena che sembra illustrare il Fedro e li ricollega
apertamente all’Eros platonicus. È anche il momento del
Bacco del Bargello, di cui il Vasari dice esplicitamente
Storia dell’arte Einaudi
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
che Michelangelo «ha voluto tenere una certa mistione
di membra meravigliose, e particolarmente avergli dato
la sveltezza della gioventú del maschio, e la carnosità e
tondezza della femmina»67.
Gli «ignudi» della Sistina sono usciti da questa famiglia. Ben lungi dall’essere semplicemente dei vaghi ornamenti, essi emanano dall’architettura avendo il compito di tener sospesi sulla cornice i medaglioni bronzei;
ma, conferendo una animazione vivissima alla decorazione, essi vengono a introdurvi l’immagine dell’attività
dell’anima68. Essi sono i volti puri d’una giovinezza eterna; i nastri non riescono a trattenere i loro capelli ondeggianti, agitati a volte da un soffio invisibile. Dal fauno
musicante al levita, essi mostrano tutte le incarnazioni
del furor magnificato dalla bellezza69.
Negli anni successivi questa unione di Eros platonicus
e arte cristiana non apparirà piú possibile. Un episodio
ben noto della vita di Michelangelo attesta fino a che
punto la passione potesse orientare la sua arte: nel 1532
dedica a Tommaso Cavalieri delle poesie appassionate,
in cui lo paragona al sole; Dio stesso si rispecchia nella
sua bellezza di modo che l’artista non Lo può percepire
se non attraverso di essa. Tutto qui, perfino le espressioni, richiama «il tipo d’amicizia che regnava nell’ambiente di Lorenzo de’ Medici mezzo secolo prima» 70.
Sempre nel 1532 e 1533 Michelangelo farà dono al
Cavalieri di una serie di disegni che vanno interpretati
richiamandosi alle poesie e da queste risalendo alla dottrina neoplatonica dell’amore: uno di questi rappresenta il supplizio di Tizio divorato come Prometeo da una
tortura senza fine, un altro Ganimede rapito in cielo dall’aquila di Giove, simbolo antico della pederastia, trasformato dai neoplatonici in immagine del furor amatorius che precede la visione intellettuale; un’altra serie
tratta di Fetonte e il sentimento tragico dell’amore platonico vi si esprime in un’allegoria altrettanto chiara71.
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
Si deve infine ricordare che Michelangelo fece il ritratto a grandezza naturale di Tommaso Cavalieri, lui «che
né prima né poi di nessuno fece il ritratto, perché aborriva il fare somigliare il vivo, se non era d’infinita bellezza»72. Ma poco tempo dopo condanna la fragilità dei
sensi:
Al cor di zolfo, a la carne di stoppa...
(CIX, 97).
e la vanità dell’arte che distrae l’anima nell’adorazione della bellezza. Il culto appassionato che egli dedica a Vittoria Colonna significa sia il ripudio dell’amore
socratico che la rinuncia alle illusioni che esso suscita.
Il tormento mistico segna la fine del sogno fiorentino.
L’Eros platonicus, come lo concepivano i nobili spiriti di Careggi favoriva una «sublimazione» necessaria
dei costumi; contribuiva anche a precisare le affinità
elettive che univano l’arte del Quattrocento a quella
antica. Giustificando l’attenzione alla bellezza «epicena» e alla bellezza virile, invitava a sollevarne l’immagine su un piano superiore, dove il sentimento poteva
esprimersi interamente73. Le cose saranno del tutto cambiate nel Cinquecento. Se Michelangelo protrae, in un
secolo che non la comprende piú, e già se ne scandalizza, l’ossessione dell’Eros platonicus, Raffaello, il Correggio e Tiziano celebrano senza tormenti Venere e la
bellezza femminile, nel momento stesso in cui il neoplatonismo diventa a Urbino, Ferrara e nelle corti settentrionali la dottrina dell’amore mondano74. In pochi
anni, agli inizi del Cinquecento, il canone della bellezza femminile si trasforma: in luogo della ninfa flessibile del Botticelli, della figura dolce del Perugino, ecco
apparire figure trionfali dal caldo incarnato. L’ideale
che si definisce a Venezia non è piú quello dell’adolescente e della vergine, ma della donna piena75. Le poe-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
sie e i trattati in onore della bellezza femminile d’ora in
poi si moltiplicheranno: l’Ariosto indugia per parecchie
stanze a descrivere voluttuosamente le seduzioni della
maga Alcina (Orlando furioso, VII, vv. 11 sgg.)76. Il
discorso dei pittori è piú sensuale ancora, ma il vocabolario di moda continua a celebrare la bellezza femminile in termini neoplatonici, e il modo in cui vengono presentate le Veneri giacenti e le Veneri intente alla musica sembra risentirne77. Infine un umanista minore, d’altronde poco interessato al platonismo, Agostino Nifo,
compone il suo trattato sul «bello» in funzione di Giovanna d’Aragona. L’ammiratore non dimentica nessuno
dei dati che interessano i cinque sensi: forma, armonia,
soavità, dolcezza e mollezza. Non si trova piú sconveniente, anzi grazioso, mettere insieme la finezza serica
della pelle e la grazia delle proporzioni. I ricordi letterari e filosofici costellano i trattati alla moda, ma la
virtú «spirituale» dell’amore socratico non è passata
all’amore platonico del Cinquecento78.
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Capitolo secondo
La dignità delle forme
Nel suo elogio di Giotto il Boccaccio rileva incidentalmente l’errore di coloro «che piú a dilettar gli occhi
degl’ignoranti che a compiacere all’intelletto de’ savi
dipignendo intendevano». Il consenso dei letterati andava naturalmente agli artisti novatori. Sarebbe erroneo
credere che questi non ne avessero bisogno. Al pari dell’arte di Giotto, anche la maniera rude e disadorna di
Masaccio o di Donatello incontravano critiche da piú
parti; e piú ci si inoltra nel Quattrocento, piú si ha l’impressione che a Firenze i maestri piú originali, il Verrocchio, il Botticelli. non fossero universalmente accettati79. C’era ancora una clientela legata alle forme del
Trecento, e i pittori s’imbattevano in clienti che non
capivano e si stupivano della loro maniera, portando
argomenti ispirati a un tradizionalismo angusto, legato
allo stile devoto d’altri tempi: la demagogia «piagnona»
utilizzerà questo stato d’animo. La voga di formule
arcaizzanti e convenzionali, come ad esempio quella di
Neri di Bicci, si è protratta a lungo. Periodicamente
apparivano artisti che sapevano dare una versione facile dei nuovi stili e perfino un maestro, di tanto talento
in gioventú, come il Perugino seppe assicurarsi un
immenso successo commerciale lusingando i gusti meno
avvertiti di certo pubblico fiorentino. Un’opera della sua
bottega come il Cenacolo di San Onofrio, che a noi sembra un capolavoro di facilità un po’ scipita, entusiasma-
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
va le monache di via Faenza intorno al 150080. La selezione che ci presenta il Landino nella sua rassegna dei
pittori nel 1481, quella di Verino nei suoi epigrammi De
illustratione Urbis Florentiae, le pubblicazioni e gli interventi dei letterati non erano dunque superflui. Gli innovatori incontrano critiche ed è per questo che c’è chi li
difende; indubbiamente essi trovano dei protettori e
delle commissioni; ma anche per artisti come Verrocchio, Botticelli, Leonardo, l’attenzione ammirata con cui
il pubblico li segue non esclude la diffidenza di certi settori dell’opinione pubblica. Se non fosse stato cosí non
vedremmo Leonardo insistere, in una lettera indirizzata alla commissione civica di Piacenza, perché questa
non scelga artisti apprezzati dal volgo, ma decida invece per quelli stimati dagli esperti, dai conoscitori. Questi sono evidentemente gli amatori, sensibili alla «qualità». E Leonardo è feroce con i pittori che credono di
ottenere il successo a buon mercato insistendo su effetti di bella materia81. Lo stesso atteggiamento si vede nel
1482 tra i pittori che lavorano alla cappella Sistina, se
dobbiamo credere a un famoso aneddoto: Cosimo Rosselli, per ignoranza o pigrizia, era ricorso a soprammissioni «di finissimi azzurri oltramarini e d’altri vivaci
colori» e a lumeggiature d’oro; i suoi colleghi risero di
lui, ma questi effetti di facile sfarzo suscitarono l’ammirazione del pontefice, che, fra l’indignazione di tutti,
assegnò a lui il premio promesso per l’artista migliore82.
Decisione che apparve scandalosa agli occhi dei toscani:
il papa aveva misconosciuto ciò che era l’essenziale, «la
dignità delle forme».
Era convinzione fondamentale dei «moderni» che
l’artista dovesse interrogare la natura e non tenersi agli
schemi monotoni e ormai logori che si assimilavano
copiando i modelli del passato. Ma le varie pratiche di
bottega del Trecento non erano del tutto scomparse. La
«natura» doveva ancora essere ridefinita, anche dopo che
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si era avuta l’esplicita dichiarazione del trattato della
pittura, in cui l’Alberti schernisce gli sciocchi presuntuosi
che pretendono meritare la fama «senza avere esempio
alcuno dalla natura». Questi ignoranti non fanno che perpetuare i propri errori dato che sfugge loro il principio
stesso della Bellezza, quel principio che gli stessi artisti
avvertiti discernono a fatica: «fuggie l’ingegni non periti quella idea delle bellezze quali i beni exercitatissimi
appena discernono»83. In tutte le polemiche artistiche del
secolo ritorna una doppia affermazione che per altro per
i novatori si riduce a una sola. L’idea della bellezza nasce
dall’esplorazione della natura, ma la natura parla solo a
chi sa interrogarla; la natura ubbidisce a una «idea della
bellezza» che non si forma nello spirito senza di essa, ma
che non può essere colta che dall’arte. Come è possibile
questa operazione? Per la generazione del Verrocchio,
del Botticelli, di Leonardo il rapporto tra esperienza e
idea, tra reale e invenzione, tra la forma e il suo significato non è piú semplice. La tensione tra i due termini
non poteva che farsi piú acuta nel momento in cui la
natura assumeva un valore piú forte e la Bellezza diventava un’istanza piú tirannica.
L’indizio piú significativo di quest’evoluzione è rappresentato dalla comparsa di un concetto nuovo dell’opera d’arte concepita ora come un tutto coerente, come
una sorta d’organismo superiore alla semplice somma dei
suoi elementi84. In un passo assai importante della sua
Theologia platonica il Ficino aveva applicata questa
nozione al cosmo: «Considera plantas et animalia, quorum singula membra ita disposita sunt ut alterum alterius gratia sit locatum, alterum, serviat alteri. Certo uno
sublato, tota ferme compago dissolvitur. Cuncta denique membra, totius compositi gratia, sunt digesta...
Tandem partes mundi cunctae ad unum quendam totius
mundi decorem ita concurrunt, ut nihil subtrahi possit,
nihil addi». Questo testo capitale è del 148285. Nel De
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re aedificatoria dell’Alberti, scritto venti o venticinque
anni prima, ma pubblicato nel 1485, si legge ugualmente che la bellezza consiste in «certa cum ratione concinnitas universarum partium in eo cuius sint: ita ut
addi, aut diminui, aut immutari possit nihil, quam
improbabilius reddat»86. Si tratta di un’aggiunta importante alle definizioni date nel Della pittura; deciso ad evitare ogni nozione metafisica, l’Alberti si era limitato a
riferire l’aneddoto delle figlie di Crotone scelte da Zeusi
«per torre da queste qualunque bellezza lodata in una
femmina»87. Questa operazione di scelta non è in realtà
che un punto di partenza; il nuovo concetto indica invece in che cosa consista il punto d’arrivo del processo artistico. È stata una formula di Aristotele ad orientare i
fiorentini. La si trova nella Poetica (VIII, 9), dove la
definizione della poesia come màmhsij, viene immediatamente completata dal principio che nell’oggetto da
imitare si debba considerare la coerenza interna che è
ad esso essenziale: «Gli elementi di esso sono connessi
in tal modo che se uno d’essi è modificato o tolto, l’insieme ne risulta distrutto o mutato, dato che se la presenza o l’assenza di qualche cosa non lo tocca vuol dire
che questo qualcosa non è un elemento del tutto». Si
tratta qui della «verità» alla quale deve aspirare il poeta,
non della bellezza. La trasposizione compiuta dall’Alberti e dal Ficino è quindi tanto piú rilevante: pervenuta
attraverso tramiti diretti o indiretti (Cicerone, Quintiliano), questa nozione dell’unità organica che fa la sua
comparsa tardi, viene assunta risolutamente dall’Alberti per definire l’ideale della bellezza e dal Ficino per celebrare l’universo sub specie pulchri. In entrambi i casi è
palese l’orrore del frammentario e di ciò che è diffuso:
comunque questa definizione del bello artistico è l’unica che abbia avuto valore per il Rinascimento. Due analogie precise vi si avvertono alla base: l’analogia con l’essere vivo e l’analogia con l’universo; la stessa nozione
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che esprime l’ideale dell’arte vale anche per l’unità specifica della vita e per quella del mondo. Ed è un gioco
d’equivalenze caratteristico del pensiero dell’epoca.
A tale nozione si possono ricondurre le due preoccupazioni piú vive delle botteghe fiorentine: lo stretto
rapporto tra arte e matematica e il desiderio di realizzare l’animazione completa delle figure. Il primo sembra riportare al noto principio del platonismo antico
per il quale l’arte è subordinata alle forme assolute88; la
seconda si ispira piuttosto ai principî del neoplatonismo
e all’idea del valore «magico» delle forme. Siamo di
fronte a un accordo che non può essere fortuito tra le
formule riscoperte nei testi antichi e valorizzate dagli
umanisti, e le iniziative degli artisti. È lecito chiedersi
se in alcuni casi salienti queste non siano state stimolate da quelle.
1. L’estetica matematica.
La prospettiva è in sostanza l’ottica. A questo titolo
è raffigurata tra le arti liberali nella tomba bronzea di
Sisto IV con un motto tratto dalla classica opera di John
Peckham: Sine luce nihil videtur. Il trattato di Piero della
Francesca, De perspectiva pingendi, propone un’ottica ad
uso dei pittori. L’Alberti, nel suo trattato del 1435, in
cui il primo libro è dedicato alla costruzione geometrica dello spazio, e tutti gli artisti che vollero esporre
queste formule non pretendevano di fondare una scienza nuova, ma di trarre delle conclusioni pratiche, inedite, dalla teoria matematica della visione. Il procedimento costruttivo che consiste nel trattare il quadro
come l’intersezione di un piano con la piramide ottica è
apertamente derivato dalla geometria89; tuttavia l’Alberti mantiene un consapevole riserbo sulla natura stessa della visione. La novità in questo campo è consistita
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nell’arricchire la tradizione euclidea del «cono» di visione, figura che si adattava alla pratica della prospettiva
assiale, quella di Giotto e dei trecentisti. Tre sono i fattori da considerare: la grandezza dell’oggetto, la sua
distanza, il punto scelto per l’intersezione o piano del
quadro. Si comincia di fatto con la definizione grafica
di un vano spaziale. Questa perspectiva artificialis era la
conclusione di una serie di esperienze condotte nel corso
del Trecento intorno alla rappresentazione dello spazio
(la Presentazione al tempio di Ambrogio Lorenzetti ne è
l’esempio piú significativo); esse vengono normalizzate
dal meccanismo del punto di fuga e dal gioco dei triangoli simili che definiscono le misure decrescenti sulle
linee perpendicolari al piano del quadro, o ortogonali90.
Per la prima volta i procedimenti erano cosí messi in rapporto con le dimostrazioni matematiche. La sua chiarezza e il garbo nell’esposizione rappresentano il merito durevole del trattato, ma la soluzione in esso proposta richiedeva dei perfezionamenti tecnici che si avranno agli inizi del Cinquecento91, e d’altronde essa non si
poneva come l’unica soluzione possibile.
Il fiorentino che si propose di definire le premesse
scientifiche della prospettiva applicata non fu l’Alberti,
ma il Ghiberti nel terzo libro dei suoi Commentari, scritti tra il 1450 e il 1460. La sua teoria dell’ottica è solo
un mediocre compendio di testi tratti da quelle che
erano considerate le autorità in materia, soprattutto
John Peckham e Witelo. A questi egli deve l’idea che
l’atto della visione implichi un giudizio intellettuale
circa la valutazione delle distanze e accumula teoremi su
teoremi per dimostrare che l’angolo visuale non basta a
determinare le distanze; occorre invece la superficie
piana orizzontale determinata dalle linee di fuga delle
ortogonali. Questo piano di riferimento permette di
intensificare e rendere piú fluida l’unità della composizione: i riquadri della seconda porta del Battistero lo
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mostrano chiaramente. Ed è tutto quello che il Ghiberti si attende dalla prospettiva92.
Benché il nome del Brunelleschi venga cortesemente
citato nella dedica del trattato albertiano, nulla ci dice
che Filippo sia all’origine del metodo di costruzione che
viene proposto nel De pictura. L’importanza storica delle
dotte ricerche del Brunelleschi è stata messa in luce
soprattutto dall’umanista della cerchia del Ficino che ha
composto, intorno al 1480, la biografia del grande architetto: «E’ misse innanzi ed in atto, lui proprio, quello
ch’e dipintori oggi dicono prospettiva»; questa scienza
non è che una parte dello studio piú generale degli accrescimenti e delle diminuzioni proporzionali alle distanze,
«e da lui è nato la regola». Il biografo fornisce la descrizione delle due tavolette (veduta del Battistero e veduta di palazzo Vecchio) dipinte a questo scopo dall’architetto, arrivando alla riscoperta di una disciplina antica93. In pratica esalta il Brunelleschi a scapito dell’Alberti che si dichiarava inventore del nuovo metodo.
Questa piccola rivalità non manca d’interesse in quanto la nuova «scienza» presupponeva l’incontro tra la prospettiva dei pittori, che è un mezzo per ordinare la
superficie del quadro, e quella degli architetti, che è un
mezzo per concepire la distribuzione «armonica» degli
edifici94.
La funzione della prospettiva non è semplice né deve
essere semplificata: essa permette di ricreare il reale, di
organizzare la composizione su tre piani e di armonizzare l’insieme cosí formato con la superficie stessa del
quadro95. Ogni artista se ne serve in modo diverso:
Donatello è stato il primo a compiere un’esplorazione
completa delle sue possibilità per giungere ad animare il
piú possibile i suoi rilievi. I pittori moltiplicano come lui
gli accorgimenti: personaggi-quinta, effetti di materia
che riportano le forme verso il primo piano facendole
partecipare alla distribuzione della superficie. Un esame
Storia dell’arte Einaudi
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piú preciso dei metodi rivela anche che la prospettiva in
senso stretto, cioè a punto di fuga unico, che determina uno spazio cubico, non ha avuto affatto una prevalenza assoluta, nemmeno in Paolo Uccello che pure
secondo la leggenda sarebbe stato il fanatico della prospettiva. Questa «leggenda» è tipica espressione della
tendenza che porta a considerare l’artista come un
«ricercatore», un discepolo d’Hermes, al servizio della
Ragione universale. Ma Paolo Uccello solo raramente e
tardi impiega il nuovo metodo. Lungi dall’essere un’applicazione rigorosa della prospettiva centrale, il celebre
Diluvio presenta diversi punti di fuga, come se volesse
suggerire un movimento rotatorio dell’occhio96. Ma, cosa
ancora piú sorprendente, Paolo Uccello nella Natività di
San Martino alla Scala sembra aver incrociato le ortogonali in funzione di due punti di fuga97. Le reazioni di
Filippo Lippi non sono meno capricciose. Se ne deve
concludere che gli artisti tenevano meno a una rappresentazione rigorosa dello spazio, e piú invece a una
nuova gamma di effetti.
Una prova di ciò si può vedere anche nel successo che
incontrano gli studi di prospettiva nel campo della decorazione. Stando a un aneddoto celebre «Donatello scultore, suo amicissimo, gli [a Paolo Uccello] disse molte
volte, mostrandogli Paolo mazzocchi a punte e a quadri
tirati in prospettiva per diverse vedute, e palle a settantadue facce a punte di diamanti, e in ogni faccia trucioli avvolti su per li bastoni e altre bizzarrie in che spendeva e consumava il tempo: «Eh, Paolo, questa tua prospettiva ti fa lasciare il certo per l’incerto: queste sono
cose che non servono se non a questi che fanno le tarsie...»»98. Questa osservazione caustica ha un doppio
valore: mostra che fin dagli inizi lo studio dello spazio
andava unito a quello dei corpi geometrici, e d’altro
canto dimostra l’importanza delle tarsie. Lo studio dei
solidi, non meno di quello delle distanze, fa parte della
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geometria dei pittori: l’astratta gabbia spaziale è fatta
per accogliere corpi armoniosi, si tratti dei cinque corpi
di Platone, che vantano una sorta di primogenitura
cosmologica secondo la scienza contemporanea99, o di
poliedri piú complessi, di corone e nastri di un ricco
effetto ornamentale. È difficile non ricordare la definizione di Platone che ha sempre incantato gli ammiratori delle forme astratte: «Superfici e corpi che sono determinati dalla regola e dalla misura degli angoli sono belli
non solo relativamente agli altri, ma sempre e in se stessi, e generano un piacere specifico che non ha nulla in
comune con l’eccitamento dei sensi» (Filebo, 51 c)100. Si
tratta del cubo, della sfera, della piramide, insomma
delle figure geometriche che la voga della prospettiva ha
contribuito a diffondere e che le tarsie hanno reso comuni nella decorazione. C’era in realtà un’affinità naturale tra la costruzione geometrica delle figure o quella
dello spazio, costruzione che si fondava sull’articolazione dei piani, quindi su un ritagliarsi di forme semplici,
e l’«intarsia» che procede per incastro di triangoli, quadrati e trapezi101. Vediamo in questo caso la forma matematica creare propriamente il suo oggetto. Il piano della
prospettiva è una scacchiera: negli schemi costruttivi si
parte da una trama regolare e i rettangoli uguali giustapposti generano, nella loro fuga, triangoli simili.
Nulla di piú adatto per le tarsie. Quelli che vengono
chiamati «maestri de prospettiva» sono in realtà «intarsiatori». Il legame tra la tecnica dell’«intarsia» e i montaggi prospettici sarà per mezzo secolo cosí stretto che
è lecito riportare ad esso la voga delle decorazioni
«astratte», soprattutto delle belle «prospettive urbane»
o architetture pure. La loro origine va in realtà cercata
nei pannelli intarsiati che ornavano le fronti dei cassoni o che erano posti alla parete entro incorniciature
lignee, come è nel caso della decorazione ricordata dall’inventario dei Medici nella camera di Lorenzo102. Le
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vedute architettoniche che ci sono pervenute non hanno
avuto altra destinazione: ornavano cassoni o pareti di
stanze, sostituendosi alle scene narrative o alle decorazioni a fiori imitate dalle tappezzerie. Questo sviluppo
in senso ornamentale della prospettiva e delle costruzioni astratte negli ultimi due terzi del secolo corrisponde a una «visione a priori», a un gusto delle forme
geometriche, in cui il piacere della speculazione dà luogo
a un fatto di stile.
Era questo un modo di trarre conseguenze originali
dalle conoscenze scientifiche e, in fin dei conti, di applicare all’arte certi teoremi. I principî filosofici della prospettiva si possono in realtà riportare all’idea che lo spazio è completamente attraversato dalla luce (è quindi
«intelligibile») ed è di struttura matematica (è quindi
misurabile). Sono due punti che, benché si possano già
trovare in certi dotti del secolo XIII, hanno un’importanza centrale nella «fisica» del Quattrocento e nella
dottrina del Ficino. In uno dei suoi trattati giovanili, le
Quaestiones de luce, insiste sul fatto che la propagazione dei raggi luminosi non consiste in uno spostamento
di elementi corporei. La luce è cioè «cosa spirituale» e
non può che generare effetti intelligibili. Il commento
al Timeo verrà a consolidare questa intuizione attraverso la teoria dell’anima del mondo e la concezione matematica dello spazio che ne deriva: «Non solum vero per
numeros sed etiam per figuras describitur anima, ut per
numeros quidem incorporea cogitetur, per figuras autem
cognoscatur ad corpora naturaliter declinare»103. Il rapporto che intercorre tra il corpo e la realtà invisibile (o
intelligibile) è lo stesso che corre tra la geometria e l’aritmetica o, se si vuole, tra la prospettiva e la musica. È
questo l’ordine platonico che svolge l’intuizione del
cosmo armonioso. L’arte può avvantaggiarsi tanto agevolmente (come pretendeva l’Alberti) delle «certezze»
matematiche perché essa stessa procede da un sapere
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interamente predisposto al dispiegarsi di un cosmo
«armonico». L’elogio supremo consisterà nel dire di un
artista che ha attitudini alla geometria e alle proporzioni. Nella Summa aritmetica, pubblicata a Venezia nel
1494, il Pacioli fornisce l’elenco dei «pittori matematici», cioè di quegli artisti provetti che non maneggiano
la prospettiva senza gli opportuni calcoli. È il passo
famoso in cui cita il suo maestro, il monarca della pittura, Piero de’ Franceschi. Il suo elenco comprende il
Mantegna, i Bellini, il Signorelli, Melozzo e, per Firenze, il Botticelli con i Ghirlandaio. Il Botticelli ha naturalmente un posto tra coloro che «sempre con libello e
circino lor opere proportionando a perfection mirabile
conducano»104.
Sulla metà del secolo il Castagno e Piero della Francesca avevano fatto in questo senso della perspectiva artificialis la base indispensabile della grande pittura105. Nell’epoca successiva si ebbe per cosí dire un momento di
rifiuto dei metodi albertiani: il Pollaiolo dispone liberamente le figure nel paesaggio, il Botticelli s’interessa alla
linea, al profilo, agli accordi in superficie: cosa tanto piú
significativa in quanto egli conosce perfettamente la
«costruzione legittima», se ne serve quando lo ritiene
opportuno e passa per maestro dell’«integra proporzione»106. La consapevolezza delle insufficienze artistiche
della costruzione albertiana è forse piú forte ancora in
Leonardo; infatti egli ha finalmente elaborato un metodo prospettico diverso da quello del Brunelleschi e dell’Alberti. Il Cellini nelle sue memorie accenna a un trattato di Leonardo che egli avrebbe acquistato in Francia
e di cui loda la semplicità. Per quanto è possibile ricostruirlo, si trattava di una proiezione non su una superficie piana ma su una superficie sferica (il quadro non
sarebbe che una proiezione piana di essa). Questo procedimento presenta il vantaggio di rispettare le leggi
dell’apparente diminuzione allorché l’occhio si sposta
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lateralmente: è quindi una prospettiva sintetica piú flessibile del metodo antico. Leonardo scrive: «E di questa
prospettiva semplicie della quale la pariete taglia le piramidi portatricie delle spetie all’ochio equalmente distanti dalla virtú visiva ci ne dà sperientia la curva lucie dell’ochio sopra la quale tali piramidi si tagliano equalmente distanti dalla virtú visiva» (ms E, fol. 16 a).
Egli preferisce questo procedimento alla regola dell’Alberti, giudicata piú arbitraria, perché altera la diminuzione apparente degli oggetti situati ai margini del
campo visivo107. La riforma della prospettiva è al centro
delle preoccupazioni di Leonardo108.
Tuttavia la pittura, che è scienza, e addirittura scienza per eccellenza, deve poter fornire «dimostrazioni
matematiche». Il rigore dello strumento matematico
chiaramente tende a conquistare «l’armonica proporzionalità la quale è composta di divine proporzioni».
Questa insistenza categorica sul fondamento matematico del sapere trova la sua giustificazione ultima nel
fatto che non c’è pittura senza dominio dell’armonia, e
non c’è armonia senza «proporzionalità», non ci sono
rapporti misurabili senza legge dei numeri109. Ma stringendo cosí i termini per meglio assicurare la «dignità
delle forme», ci si urta a un limite astratto che non soddisfa lo spirito. L’armonia che si vuol raggiungere è l’unita stessa della natura, mentre invece le matematiche
non sono che un aspetto dell’ottica. La pittura «universale» deve rispondere a una scienza «totale» della
visione, ma per questa esistono tre prospettive: quella
delle proporzioni decrescenti, quella della intensità
decrescente dei colori, quella della «percettibilità». Esiste cioè tutta una serie di fenomeni tra i quali l’evanescenza degli oggetti e le illusioni della vista, che è essenziale alla pittura110. Leonardo rinuncia alla fine a una
definizione unitaria. Giunge a raccomandare le regole
prospettiche per il controllo delle figure, non per la
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André Chastel - Arte e umanesimo a Firenze
composizione111; e addirittura a dubitare dell’applicazione della matematica all’arte:
E se ’l Geometra riduce ogni superficie circondata da
linee alla figura del quadrato et ogni corpo alla figura del
cubo, e l’Aritmetica fa il simile co’ le sue radici cube e quadrate, queste due scientie non s’estendono, se non alla
notitia della quantità continua e discontinua, ma della qualità non si travaglia, la quale è bellezza delle opere di natura et ornamento del mondo112.
Dunque Leonardo ha avuto a piú riprese coscienza di
un punto morto nella tentazione dei fiorentini di arrivare a un’identificazione tra scienza matematica e arte.
E qui, in un certo senso, abbiamo la chiave della sua evoluzione. Nel suo crescente riserbo abbiamo uno sviluppo parallelo a quello dei filosofi che affermavano la
necessità del principio matematico pur dichiarandolo
insufficiente. Questa evoluzione può essere caratterizzata come un passaggio dal meccanico all’organico113.
Le esperienze degli ultimi anni del secolo mostrano
abbastanza chiaramente che nel campo del paesaggio e
della figura, in quello dei valori e dei toni c’era una sorta
di generale impazienza per le strutture «statiche». Si
sopportava con minor convinzione l’autorità delle nobili definizioni dell’arte, per le quali lo spazio prospettico
e il suo corollario, cioè i corpi puri, erano il contenente
e il contenuto ideali della pittura114. Si instaura una sorta
di concorrenza tra l’architettura e il paesaggio, tra la
forma geometrica e la figura. Proprio da questa segreta
difficoltà nascerà la composizione «classica». La predilezione di Leonardo, e dopo di lui di Raffaello, per il
gruppo piramidale risponde al desiderio di ristabilire
l’ordinamento geometrico di Piero in un nuovo clima115.
Ma caratteristico di Raffaello è stato per l’appunto di
cercare l’unità completa di struttura ed espressione sfug-
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gendo al conflitto dei due princìpi che ha affaticato
Leonardo.
2. La vita e il movimento.
Il Quattrocento ha scoperto il fascino del «movimento» e della forma «dinamizzata» con una freschezza di cui è prova, ancora una volta, un passo dell’Alberti:
Noi dipintori i quali volliamo coi movimenti delle
membra mostrare i movimenti dell’animo... Cosí adunque
conviene sieno a i pictori notissimi tutti i movimenti del
corpo quali bene impareranno dalla natura, bene che sia
cosa difficile imitare i molti movimenti dello animo. Et chi
mai credesse, se non provando, tanto essere difficile –
volendo dipigniere uno viso che rida, schifare di non lo
fare piuttosto piangioso che lieto? Et ancora chi mai potesse senza grandissimo studio exprimere visi nel quale la
bocca, il mento, li occhi, le guance, il fronte, i cigli tutti
ad uno ridere o piangere convengono? Per questo molto
conviensi impararli da la natura et sempre seguire cose
molto prompte et quali lassino da pensare, a chi le guarda,
molto piú che elli non vede116.
Nell’operetta De statua queste osservazioni sono estese alla scultura e completate dallo studio delle proporzioni del corpo umano. Sono queste difatti le due facce
dell’«antropologia estetica» che comincia col «canone»
e finisce con la «fisiognomica»117.
Uno degli aspetti piú originali del platonismo fiorentino è stato infatti il suo insistere sul fatto che ogni
forma visibile è viva, animata, dotata di movimento, e
che il principio di ogni movimento è l’anima stessa:
nozioni che sono strettamente connesse. Il Ficino riassume uno stato d’animo generale: «per ejus praesen-
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tiam apparet in corpore imago aliqua per se mobilis
facultatis, fitque ibi motus in omnem partem quod significat animam esse fontem motus unde libera et universalis effluit agitatio»118. Per contro, tutti i movimenti dei
corpi visibili rimandano a una forma animata che li dirige. Il muoversi del corpo vivo è per l’appunto il linguaggio dell’anima, e quanto piú esso è frenetico tanto
piú rivela l’impulso psichico, il vivido segreto della
realtà. Cosí si arriverà a fare l’elogio della danza e
soprattutto delle danze violente, dionisiache: «a Baccho
[habemus] festivam in motu membrorum concinnitatem»: cioè le danze dionisiache erano considerate le piú
significative, le piú belle.
La dottrina umanistica anche in questo caso non faceva che fornire una giustificazione e illustrare ciò che
interessava gli artisti toscani. Per i piú moderni di essi
quella «dignità delle forme» che si rivolge all’intelligenza degli intenditori non consiste solo nella «symetria», ma anche nella «vita». Si trattava in pratica di
spezzare i canoni fissati nel Trecento e che continuavano ad aver corso nelle botteghe popolari. Questa esigenza però attendeva ancora d’essere definita e d’altronde apriva la strada a stili molto diversi. Allorché
scriveva che un filosofo in conversazione doveva mostrare un contegno misurato e non un gestire come uno
schermitore l’Alberti pensava probabilmente ai Santi e
Dottori di Donatello; questa stessa critica circa il loro
moto eccessivo verrà ripresa qualche tempo dopo dal
Filarete. Forse è stato il Ghiberti nella seconda porta del
Battistero a realizzare piú pienamente l’ideale di elegante vitalità vagheggiato dall’Alberti119.
Donatello aveva dalla sua l’autorità e l’esempio concreto dei putti e dei baccanali antichi. Verso il 1460 è
ormai generale a Firenze la reazione contro lo stile grave
e misurato, gli atteggiamenti calmi. Nell’incisione si
moltiplicano le figure che saltano e danzano120. Il Pol-
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laiolo dipinge ad Arcetri i suoi «baccanti» frenetici,
disarticolati dal moto. Ormai sono di moda tutte le
forme di vitalità intensa e vigore d’espressione. Il Pollaiolo, l’unico pittore per il quale, a quanto si sa, il Ficino ha dimostrato interesse, ha proposto in questo senso
delle novità sensazionali. Il Vasari non manca di rilevare la sua originalità: «Egli s’intese degl’ignudi piú
modernamente che fatto non avevano gli altri maestri
innanzi a lui, e scorticò molti uomini per vedere la
notomia lor sotto, e fu primo a mostrare il modo di cercare i muscoli, che avessero forma e ordine nelle figure»121. Lo storico cita l’incisione della Battaglia dei nudi
come esempio tipico dello stile «energico» che ne deriva; si possono citare ugualmente il disegno con Adamo
degli Uffizi, le statuette e la serie dipinta delle Fatiche
d’Ercole. È indubbio che Antonio ha scelto il tema dell’eroe «fisico» per esemplificare un nuovo canone della
figura in azione122. L’unico maestro che abbia avuto in
egual misura questi stessi problemi è il Signorelli. Egli
conserva dell’insegnamento di Piero della Francesca il
gusto per i gruppi statici e i gesti contenuti, ma le sue
figure hanno una carica nervosa che è quanto mai lontana dall’impassibilità del maestro di Borgo123.
Lo stile «coreografico» ha avuto a Firenze uno sviluppo tale che merita di essere considerato. In certi casi
esso ritrova dei ritmi «gotici», che possono anche prevalere sulle conoscenze anatomiche e sul senso della vita
organica. Già certi disegni del Pollaiolo ci mostrano
delle figure a puro contorno, senza modellato, che sono
delle sintesi astratte in cui è la sola linea ad avere funzione espressiva. Il braccio che si torce, la gamba che si
piega diventano degli arabeschi funzionali124. Attraverso una sorta di «sublimazione» l’arte del Botticelli è in
parte uscita di qui125. La danza è per lui come lo stato
naturale del corpo, il segno piú efficace dei movimenti
dell’anima. E tutto è intensamente voluto. La pratica del
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Botticelli si accorda con le osservazioni sistematiche
abbozzate dall’Alberti sull’ondeggiare dei veli delle
ninfe, sul volo capriccioso delle capigliature, sul piegarsi delle mani126. Mai la mimica affettiva è giunta a tanta
acutezza; e di qui è venuta un’arte essenzialmente di
contorni che non consentiva di dare importanza, se non
occasionalmente, alla composizione matematica. L’agitazione e la mimica che non conosce se non la gioia sfrenata o la malinconia, suppongono una tensione nervosa
che, agli occhi degli amici del Ficino, accresceva in misura singolare la «dignità» delle forme. Tuttavia, già dal
1475, cominciava a delinearsi una tendenza alla stasi, un
ritorno all’impassibilità che il Verrocchio prepara col suo
consueto senso di responsabilità e che troverà piena
attuazione essenzialmente con Leonardo. Il movimento
violento non è piú un ideale.
Lo sfoggio di muscolature aveva potuto essere considerato come un mezzo particolarmente indicato per
imprimere alle figure quel movimento, che era considerato segno immediato della vita. Ad ogni pagina il Ficino insiste su questa verità, che, secondo lui, dimostra
che la natura vive non meno dell’uomo, poiché anch’essa, come l’uomo, danza negli elementi, negli animali,
nelle piante che crescono, dando lo spettacolo di un
movimento infinitamente differenziato e di una mobilità prodigiosa. Questa agitazione confusa diventa intelligibile nell’ordine del cielo: si può, quindi si deve,
descrivere l’essenza delle cose come una mirabile danza:
ne è simbolo la danza eterna delle muse. Ci si può anche
servire della metafora del viso ridente, dato che l’universo si comunica attraverso un raggiare simile a un sorriso, «quel gratissimo riso il perfetto contento ci rappresenta: del quale la virtú stessa ci riempie e una secura felicità della vita»127. La «fisiognomica» è l’aspetto
essenziale dell’essere universale. Grazie ad essa, il corpo
umano ha in sé una forza di comunicazione completa;
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soprattutto il viso: tu sai, – scrive il Ficino, – quanto
facilmente il viso d’un uomo in lacrime svegli la pietà,
quanto la figura d’una persona gentile colpisca e agisca
immediatamente sugli occhi, l’immaginazione, lo spirito, gli umori... Di qui la forza dell’arte che dispone di
tutti questi segni128.
Leonardo era perfettamente consapevole che queste
speculazioni interessavano l’arte del pittore: «Si prova
la pittura essere filosofia, perché essa tratta del moto de
corpi nella prontitudine delle loro azioni, e la filosofia
anchora lei s’estende nel moto»129. È la concezione dell’Alberti, ma Leonardo moltiplica le precauzioni: critica i nudi troppo muscolosi e le anatomie bozzolute,
simili a sacchi di noci, della scuola del Pollaiolo. Condanna la monotonia dei tipi derivante da un canone
troppo rigido, analizzando quello che egli considera il
maggior difetto dei pittori: «Sommo difetto è de’ pittori replicare li medesimi moti e medesimi volti e maniere di panni in una medesima istoria, e fare la magiore
parte de’ volti che somigliano a’lloro maestro, la quale
cosa m’ha molte volte... dato admiratione». La sua spiegazione è ben nota: si tratta di un’insidia dell’impulso
soggettivo. L’anima del pittore s’invaghisce incoscientemente di un certo tipo e spinge il pittore a raffigurarlo. Occorre difendersene e «fare la sua figura sopra la
regola d’un corpo naturale, il quale comunemente sia di
proportione laudabile, oltre di questa far misurare se
medesimo»130. In altre parole occorre una regola critica
per giungere a una sorta d’impersonalità, alla distanza
necessaria alla grande arte.
Dopo il Ghiberti il gusto delle forme aggraziate e dei
gruppi quietamente ordinati non era andato perduto
nell’arte fiorentina. La crisi degli anni sessanta non
aveva impedito l’arte deliziosa e misurata di Desiderio.
L’incontro di quest’arte delicata con l’«espressionismo»
avvenne nel Verrocchio. Occorreva scegliere nella
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gamma dei sentimenti: il Verrocchio definisce ancor
meglio il tipo soave dell’adolescente e il tipo violento del
guerriero, ed oppone cosí dolcezza e «terribilità» in un
celebre rilievo doppio. Il suo restauro del Fauno scorticato costituisce un vero e proprio esercizio di «fisiognomica» applicata. Il viso calmo del Cristo resuscitato
di Careggi, se l’opera data veramente del 1465, indica
una ricerca nuova, che sfocia nel gruppo bronzeo dell’Incredulità di san Tommaso per la nicchia d’Orsammichele, eseguito intorno al 1475-80, in cui il modellato è
tutto quanto subordinato alla realizzazione di una sorta
di difficile sorriso131. In realtà verso il 1480 si veniva
generalizzando un tipo d’espressione sottilmente
distante e ambigua, in cui si dovevano sentir passare
emozioni opposte e quel moto interiore che sottrae l’anima ai sussulti tumultuosi dell’animalità132. È ciò che
svilupperà Leonardo con una esatta padronanza del
gioco dei muscoli che regolano l’espressione «contenuta» e un senso eccezionale del movimento dolce e
continuo, l’unico capace di suggerire la seduzione elusiva della grazia133.
Fra le molte ricerche di Leonardo quelle da lui condotte nel campo della fisiologia applicata sono state le
piú laboriose. Il trattato di anatomia che ne era la base
solo per poco non fu pubblicato. I disegni anatomici di
Leonardo sono particolarmente numerosi. Certi sono
degli schemi che compendiano le conoscenze comuni,
altri sono note personali, altri infine sono studi comparativi sulla struttura umana e quella animale o quelle sorprendenti variazioni «fisiognomiche» sui visi mostruosi, in cui si costruiscono esseri «possibili» a partire da
elementi d’osservazione134. I suoi lavori furono poco
conosciuti, ma basta qualche esempio a far apparire
come ormai desuete le immagini anteriori. Dopo il 1500
il Botticelli, cosí indifferente alle forme anatomiche,
risulta ben presto, nonostante le sue grandi qualità gra-
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fiche e i suoi effetti di movimento, fuori moda. Le conoscenze anatomiche diventano necessarie per realizzare
un minimo di eloquenza espressiva. Il Vasari molto acutamente ha notato come Raffaello si sia liberato dalla
inerte maniera del Perugino grazie ad alcuni studi d’anatomia: aveva imparato a conoscere le attaccature dei
muscoli e i loro meccanismi e aveva cosí scoperto il
segreto dei movimenti delicati e graziosi135. Le conoscenze scientifiche vengono in questo caso a confermare uno stile. Alla dolce anatomia di Raffaello si contrappone quella di Michelangelo; e il suo interesse per i
problemi anatomici era cosí vivo che un trattato d’anatomia fu l’unico di scienza applicata che abbia mai pensato di scrivere136. In realtà l’anatomia non è che la base
di una «fisiognomica» estesa a tutto l’organismo: la
meccanica del corpo non è distinta da quella dell’anima.
E la figura in movimento ha la possibilità di significare
tutto.
3. L’uomo e il mondo.
Lo sviluppo artistico del Quattrocento si presenta
dunque nient’affatto lineare. Intorno al 1460 si moltiplicano i segni di mutamenti negli interessi delle botteghe italiane. In un’arte maturata sulle grandi esperienze di Masaccio e di Piero e stimolata dagli esempi fiamminghi, si vedono riaffiorare due inclinazioni che erano
state proprie del Trecento toscano: il gusto della figura
individualizzata e il gusto dei grandi panorami.
La posizione di Firenze è tuttavia meno brillante che
agli inizi del secolo: i suoi scultori e i suoi architetti
dominano ancora la penisola, ma questo non avviene piú
per i suoi pittori. I prelati di Roma o i notabili di Venezia non chiedono al Pollaiolo e al Verrocchio i loro quadri. Firenze ha perduto l’iniziativa, anche se ha dei mae-
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stri che non sono da meno delle grandi personalità di
Venezia o di Ferrara. Ma né un Botticelli né un Filippino suscitano interesse fuori della Toscana: solo Leonardo ha un peso, ma per l’appunto egli sfugge per molti
aspetti ai limiti della scuola. Si ha indubbiamente nella
pittura fiorentina degli anni ’70-95 la tendenza a un
ripiegamento locale; le iniziative sono meno risolute, sia
che si senta il bisogno di assimilare le novità, sia che si
accentui l’aspetto intellettuale e voluto delle forme: si
indovina una coscienza piú viva, ma un po’ paralizzante dei «problemi». I cronisti confermano l’impressione
suggerita dalle opere: a volte si nota una concentrazione estrema nel lavoro e artisti che si applicano all’infinito (e il caso di Lorenzo di Credi che si preoccupava
minuziosamente dei minimi particolari tecnici e «non
voleva che si facesse alcun movimento che potesse far
polvere» al punto che il Vasari lo biasima per il troppo
zelo)137, a volte una sottile inquietudine psicologica e per
cosí dire un continuo interrogarsi sulle ragioni d’essere
e sulla dignità dell’arte, che la crisi «piagnona» poi esaspererà e devierà138. L’artista si interroga sui mezzi e i
fini; quando è piú cosciente, cerca delle giustificazioni.
I problemi talvolta danno luogo a dilemmi che non
scompariranno piú.
Nel Purgatorio Dante, mentre cammina tra le anime
senza corpo, è tradito dalla sua ombra:
Quando s’accorser ch’i’ non dava loco
per lo mio corpo al trapassar de’ raggi
(Purgatorio, V, 25-26).
L’ombra portata delle figure umane ha per l’appunto una funzione capitale nel ciclo di Masaccio al Carmine, come se in essa egli avesse visto il mezzo per definire e magnificare l’esistenza terrestre139. Adamo ed Eva
cacciati dal Paradiso, san Pietro che guarisce con l’om-
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bra gli infermi, i passanti sulle piazze cittadine affermano per la prima volta nella pittura il loro volume e la
loro opacità. Questa robusta concezione sarà portata
dal Castagno fino all’affermazione plastica totale delle
figure nella loro massa e nella loro pesantezza. Ma gli
sviluppi successivi dell’arte fiorentina non faranno che
allontanarsi da questa definizione serrata piú adatta alla
creazione di tipi, ad esempio gli Uomini illustri, che non
alla forma moderna del ritratto. L’Alberti interpretava
le idee comuni allorché ricordava che la forza veramente divina della pittura consiste nel fatto che essa può rendere presenti gli assenti e i morti140. Il ritratto si sviluppa dovunque nel corso del Quattrocento; ma l’atteggiamento dei fiorentini verso di esso dimostra una coscienza esigente e inquieta. Essi presentano dapprima una
grande fedeltà alla «figura di profilo», il cui tipo risale
forse a Giotto141 e che aveva grande prestigio grazie ai
medaglioni antichi. L’idea fondamentale di questo genere classico perdura a Firenze dove il volto reso con il solo
contorno conobbe, a partire dal 1440, una voga interessante: anziché una visione completa, con tutti gli
accidenti dello sguardo e della maschera, esso fornisce
un’interpretazione leggera e distaccata, per cosí dire
l’immagine «immortale» del personaggio. Intorno al
1460-80 la figura di profilo, per contrasto al ritratto
monumentale, diventa il mezzo per collocare il modello
in una sfera lontana e accentuare il contorno che gli conferisce qualcosa di «immateriale». Il Pollaiolo, è vero,
fa ruotare leggermente il modello per dare l’impressione che la figura sia uscita dal suo isolamento e tenga
conto dello spettatore, ma rimane dominato dalla tendenza opposta, cioè quella di accentuare la distanza
morale del personaggio. Il Botticelli introduce allora
una nota originale di malinconia e di distacco che indubbiamente conferisce uno stile a un elemento della psicologia del tempo. Egli presenta il viso di per se stesso,
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nella sua singolarità; la posa di tre quarti o di fronte è
sottolineata da fondi uniti, e il viso, in cui dominano la
struttura ossea, la bocca e gli occhi (mentre manca ogni
attenzione agli accidenti epidermici), viene accentuato
da un atteggiamento distratto, fantasticante. Egli ha in
questo modo fissato «quel malinconico che suol dar
spesso la pittura a’ ritratti che si fanno», per usare le
parole del Vasari a proposito della Gioconda. Questi
ritratti ricercati erano in intimo accordo con il gusto fiorentino: se ne ha la prova nella voga parallela dei busti
in bronzo, e soprattutto in marmo, che, intorno al 1460,
erano diventati una specialità toscana. Partendo dalle
sue Madonne e dai suoi san Giovannini, Desiderio
diffonde presto la moda di un tipo di giovane donna e
di giovane gentiluomo dal contegno dolce e calcolato che
forma un bel volume senza pieghe né accidentalità troppo marcate. Questi busti, per la stessa discrezione dello
stile, sono individualizzati in un modo meno energico di
quelli di Antonio Rossellino, Mino da Fiesole e Antonio Pollaiolo142.
La scultura fiorentina tende cosí a fissarsi su due soli
registri: quello della grazia e della verginità sorridente, e
quello dell’energia contenuta. Quasi tutti i ritratti in
scultura dell’epoca vengono cosí ad essere influenzati da
modelli ideali che sono quelli dell’arte religiosa o, grazie
a una innovazione che ormai era necessaria, quelli della
storia: certe figure di «uomini famosi» come il prezioso
rilievo di Cesare del Louvre, opera di Desiderio da Settignano, o quelli del Verrocchio definiscono delle categorie ideali del ritratto nelle quali rientrano le individualità singole. Gli antichi tipi del magistrato, del guerriero, dell’uomo di studio ecc. resistono tuttora; ma anziché caratterizzarli attraverso il costume, gli emblemi, o
un atteggiamen
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Arte e umanesimo a Firenze al tempo di Lorenzo il Magnifico