Massimo Polidoro
titanic
Un viaggio
che non dimenticherete
Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano
Redazione: Edistudio, Milano
I Edizione 2012
© 2012 - EDIZIONI PIEMME Spa
20145 Milano - Via Tiziano, 32
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TUTTI A BORDO!
Southampton, 10 aprile 1912
Joseph Bruce Ismay portò la tazza di tè alle labbra, poi
si asciugò i baffi con un tovagliolo di lino. Dalla grande
finestra della sala da pranzo del South Western Hotel
osservava compiaciuto l’interminabile processione di
fuochisti, stivatori, macchinisti, camerieri e altri membri
dell’equipaggio che dalle prime ore del mattino aveva
iniziato a snodarsi, alla spicciolata, lungo la strada che
conduceva al porto.
Era una bella giornata di sole, anche se un po’ fredda,
quel mercoledì 10 aprile e Ismay non poteva sentirsi più
soddisfatto. Era giunto a Southampton il giorno prima,
dopo avere viaggiato da Londra con la famiglia a bordo
della sua Daimler Landaulette guidata dal suo fidato
chauffeur, e finalmente avrebbe mostrato a Florence e
ai bambini l’opera di cui tutti i giornali parlavano e di
cui era più orgoglioso, il Titanic.
Da quando aveva preso il posto del padre alla guida
della White Star Line, dodici anni prima, era riuscito a
trasformare la compagnia nella più agguerrita concorrente della Cunard. Grazie al forte supporto economico
del governo britannico, che intendeva contendere la supremazia navale ai tedeschi, la compagnia rivale era riu-
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scita nel 1907 a creare due supernavi per la navigazione
transatlantica, il Lusitania e il Mauritania, considerate
le più grandi e veloci esistenti in mare.
L’occasione di ribaltare la situazione giunse per la
White Star con l’adesione all’americana International
Mercantile Marine Company, fondata dal ricchissimo
banchiere statunitense John P. Morgan. Era una fusione
di più compagnie navali che, grazie alla grande disponibilità economica dei suoi soci, offriva il capitale necessario
alla costruzione di un nuovo tipo di transatlantici giganti.
Il primo era stato l’Olympic, presentato al pubblico nel
1908 e varato tre anni dopo, subito acclamato come «il
prodotto più completo e raffinato della formidabile maestria della prima nazione marinara del mondo».
Ismay ricordava ancora il giorno in cui, giunto a terra
dopo avere accompagnato la nave nel suo primo viaggio
fino a Liverpool, aveva telegrafato entusiasta alla moglie:
«L’Olympic è una meraviglia!».
Era un vero e proprio palazzo galleggiante e si era rivelato così richiesto dalla clientela abbiente, soprattutto
tra i ricchi americani, che la prima classe non riusciva
ad accogliere tutte le richieste. Per questo era stato necessario accelerare i lavori di una seconda nave che, pur
riprendendo la struttura e i piani dell’Olympic, puntava
a superarlo in lusso e sfarzo.
Il nome era certo legato alla necessità della White Star
di avere tutte navi che finissero in “ic”, come era stato
per le precedenti Oceanic, Adriatic, Baltic, Germanic,
Teutonic, Majestic e, naturalmente, Olympic. Ma Ismay
aveva superato se stesso quando aveva proposto per il
nuovo transatlantico il nome di Titanic. Era un nome
perfetto, ripreso dai titani del mito greco, che riusciva
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a trasmettere istantaneamente un’idea di superiorità e
magnificenza. Non era riuscito a trattenere un sorriso di
soddisfazione quando, qualche tempo dopo l’annuncio
del nome della nuova nave, proprio quel termine era
comparso in un discorso del ministro del commercio
Winston Churchill.
In visita a Manchester, Churchill aveva dichiarato
che un’epoca era finita e ne stava cominciando una
nuova: «E con questa nuova epoca strani metodi, forze
enormi e più grandi unioni – a titanic world, un mondo
titanico – si sono aperti intorno a noi. Le fondamenta
del nostro potere stanno cambiando. Restare immobili
significherebbe cadere e cadere vorrebbe dire perire.
Dobbiamo andare avanti. E andremo avanti!».
Il Titanic, dunque, era ben presto divenuto il simbolo
di questa nuova era che, nessuno ne dubitava, avrebbe
portato enormi progressi e benessere per tutti.
Ismay poteva ben dire di avere raggiunto il picco della
sua carriera. Solo a dicembre avrebbe compiuto cinquant’anni, ma quel giorno di aprile, il giorno della partenza per il viaggio inaugurale del Titanic, rappresentava
per lui il più bel regalo di compleanno che avrebbe mai
potuto desiderare.
I quattro giganteschi fumaioli della nave torreggiavano
in lontananza sovrastando gli edifici che ospitavano le
compagnie di navigazione e gli spedizionieri. Lawrence
Beesley, che li osservava seduto nella veranda del South
Western Hotel, ebbe la conferma di avere fatto un’ottima scelta. Erano stati gli amici che avevano viaggiato
magnificamente sull’Olympic a consigliargli quella nave.
Non ci sarebbe stato modo migliore di iniziare la sua va-
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canza se non a bordo di quella reggia galleggiante. Era
rimasto vedovo, con un solo figlio che aveva lasciato a
casa, e un viaggio che lo avrebbe portato a Toronto in
visita a suo fratello era sembrato il modo migliore per
riprendersi dalla stanchezza accumulata.
I suoi studenti al Dulwich College di Londra sarebbero rimasti a bocca aperta di fronte a tanta imponenza
ma lui, come loro insegnante di scienze, si sarebbe schiarito la voce e avrebbe colto l’occasione per raccontare
come fosse possibile, secondo il principio di Archimede,
che una nave tanto pesante restasse a galla. I giornali, che
Beesley aveva praticamente divorato nei giorni passati,
erano stati generosi di dettagli: 46.328 tonnellate lorde,
52.310 tonnellate di dislocamento. E poi le dimensioni:
268,83 metri di lunghezza, 28 metri di larghezza, 18 metri
dalla linea di galleggiamento al ponte lance e 53 metri
dalla chiglia alla cima dei quattro fumaioli.
Come l’Olympic, il Titanic era una nave a tre eliche,
dotata di due macchine alternative a quattro cilindri,
ciascuna delle quali azionava un’elica laterale, e di una
turbina a bassa pressione che comandava l’elica centrale. Una potenza da 50.000 cavalli che, spinta al massimo regime, poteva raggiungere i 24, forse addirittura
i 25 nodi.
Nonostante tanta grandezza apparisse senza precedenti, la caratteristica che la rendeva unica era un’altra:
la sua costruzione stagna. Era dotata di un doppio fondo
ed era divisa in sedici compartimenti stagni, formati da
quindici paratie trasversali, a tenuta. È vero che non
erano molto alte: le prime due e le ultime cinque raggiungevano solo il ponte D, mentre le otto centrali si fermavano al ponte E. D’altra parte, la nave era stata costruita
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per poter galleggiare con due compartimenti allagati.
Era la catastrofe peggiore che si potesse immaginare,
una collisione alla congiuntura tra due compartimenti:
se un’altra nave le fosse finita contro, i compartimenti
si sarebbero riempiti d’acqua e non sarebbe successo
niente. Il mastodonte avrebbe forse oscillato ma sarebbe
rimasto tranquillamente a galla. Ecco perché in tanti
avevano iniziato a definire il Titanic “l’inaffondabile”.
«Vorrai scherzare!» esclamò una voce maschile alle
sue spalle.
«Ti dico che è così, niente potrebbe tirare giù quel
bestione.»
Beesley sorrise. Evidentemente il Titanic era l’unico
argomento di cui fosse concepibile parlare in città quel
giorno.
«È troppo grosso» continuò la prima voce. «Può andare a sbattere da qualche parte. Come fai a fare una
manovra d’emergenza con quel mastodonte?»
«Se l’hanno chiamato l’inaffondabile ci sarà un motivo» tagliò corto il secondo interlocutore.
«Per tutti i diavoli! Non esistono navi inaffondabili.»
Beesley si guardò intorno e concluse che buona
parte degli ospiti dell’hotel sarebbe salita sul Titanic
quel giorno. Riconobbe l’armatore della nave, Bruce
Ismay, un uomo alto, con un bel portamento, elegante.
Sfoggiava due baffi neri impomatati e aveva una bella
carnagione abbronzata. Si alzò dal tavolo della colazione
seguito dalla moglie e dai suoi tre bambini. Sembravano
una famiglia perfetta.
La sera prima Beesley aveva notato nella hall dell’albergo un altro volto che gli era sembrato famigliare.
Un uomo rossiccio, dalla fronte alta e dalla corporatura
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esile. Lì per lì non lo aveva riconosciuto, ma quando poi
si era ritirato in camera, sfogliando il «Times» di quella
mattina, vi aveva trovato quello che si aspettava, un’illustrazione che ritraeva proprio il viso di quell’uomo. Si
trattava di Thomas Andrews, uno dei direttori generali
della Harland & Wolff, il grande cantiere navale di Belfast che aveva costruito tutte le navi della White Star
Line. Il «Times» lo descriveva come la mente che, a soli
trentanove anni, aveva concepito il Titanic dall’inizio alla
fine. Una nave che lui stesso chiamava con affetto “la
mia creatura”. Eppure, a vederlo mentre parlava con il
concierge, togliendosi il cappello per salutare le signore e
stringendo la mano con affetto a qualcuno che era andato
a porgergli i suoi omaggi, gli era sembrato solo un uomo
gentile e sorridente. Qualcosa nel suo sguardo gli aveva
fatto pensare che nascondesse un’intima preoccupazione
di cui però Beesley non riusciva a indovinare il senso.
Era salito a bordo come gli altri membri dell’equipaggio alle 6 del mattino. In veste di architetto capo della
nave, direttore dell’ufficio progettazione della Harland
& Wolff e leader del Gruppo di garanzia, sarebbe stato
più che naturale prendersela comoda e delegare ai suoi
dipendenti i controlli e le formalità. Invece, per Thomas
Andrews svegliarsi all’alba e seguire i lavori da vicino in
prima persona era una regola a cui non intendeva sottrarsi. Lo aveva fatto sin da quando era stato varato lo
scafo nei cantieri di Belfast il 31 maggio dell’anno prima.
Certo, era il nipote del presidente della compagnia,
l’augusto Lord Pirrie, ma nessuno poteva dire che per
questo fosse stato privilegiato. A differenza di suo fratello John, che era sulla buona strada per diventare,
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un giorno, Primo ministro d’Irlanda, Thomas amava
più il mare e le navi della politica. E a quindici anni,
anziché iniziare il college, aveva chiesto di andare a
lavorare come operaio nel cantiere dello zio. Era stato
accontentato.
Per cinque anni fece la vita del manovale, una vita
durissima. In cantiere alle 6 del mattino e avanti a lavorare fino alle otto e mezza di sera con una pausa per il
pranzo e solo 7 minuti di tempo a disposizione in tutta
la giornata per il gabinetto. Stessi orari anche il sabato.
E poi c’erano i rischi che si correvano nel cantiere e la
mancanza di qualunque tipo di protezione. Aveva visto
più di un operaio lasciarci le penne dopo avere messo
un piede in fallo ed essere precipitato da una delle gigantesche impalcature o perché era rimasto schiacciato
da un pesante sostegno schizzato via durante il varo di
un vascello.
Ma era stata anche un’esperienza che gli aveva lasciato
molto, piena di soddisfazioni e stimoli. Certo, Thomas
non aveva mai pensato di fare l’operaio per sempre,
aveva ben altre ambizioni, ma quegli anni passati a fissare
piastre con la rivettatrice e ad avvitare bulloni furono
essenziali per sviluppare e nutrire il suo talento per la
progettazione.
Così, mentre di giorno lavorava, la sera studiava e
alla fine del suo apprendistato poté passare al reparto
progettazione, dove ben presto iniziò a rivestire ruoli di
responsabilità. A trentadue anni divenne capoprogetto e
poi direttore dell’ufficio progettazione. Lord Pirrie finì
per considerarlo il suo braccio destro e Thomas sapeva
che, presto o tardi, sarebbe toccato a lui prendere in
mano le redini della ditta.
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Qualcuno avrebbe potuto bollare la sua ascesa come
frutto di nepotismo, ma chi lavorava alla Harland &
Wolff sapeva che non era così. Thomas Andrews riusciva a farsi ben volere da tutti, parlava con chiunque,
dall’ultimo degli operai in su, e se c’era da sporcarsi le
mani era il primo a farsi avanti.
Il Titanic era la prima nave davvero tutta sua. L’aveva
disegnata, aveva seguito la sua costruzione passo per
passo, spesso lavorando gomito a gomito con gli operai e
trascorrendo notti insonni quando qualcosa non funzionava a dovere. Lo zio voleva fossero tre le navi gemelle
che avrebbero dovuto tenere alta la bandiera della White
Star Line, privilegiando come sempre la comodità alla
velocità. Dopo l’Olympic e il Titanic, sarebbe toccato
al Gigantic e ancora una volta sarebbe stato compito di
Thomas occuparsene.
Lui aveva ritenuto quel nome, Gigantic, che all’inizio
doveva essere attribuito a quello che sarebbe poi diventato il Titanic, esagerato e improponibile, ma ci sarebbe
stato tempo per discuterne. I suoi pensieri, ora, erano
tutti per il suo pupillo, il Titanic, e aveva dovuto sudare
sette camicie perché tutto fosse pronto e in regola per la
partenza. Alla fine, una volta completata, la nave aveva
lasciato Belfast ed era stata condotta a Southampton, e
Thomas Andrews aveva potuto telegrafare orgoglioso a
casa: «Il Titanic è ormai quasi perfetto e credo che domani, quando salperemo, farà onore alla vecchia ditta».
Nelle ultime quattro ore, Andrews aveva percorso la
nave da cima a fondo, aprendo porte, accendendo interruttori, controllando le caldaie e i rifornimenti in cambusa, girando maniglie e aprendo rubinetti nelle cabine.
Lo accompagnava il cosiddetto Gruppo di garanzia, otto
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tra gli uomini migliori del cantiere che avevano avuto il
privilegio di imbarcarsi e compiere la traversata insieme a
lui. Il gruppo aveva il compito di annotare ogni possibile
modifica e occuparsi di qualsiasi problema tecnico che si
fosse manifestato. Niente, con una nave come il Titanic,
poteva essere lasciato all’improvvisazione.
La più grossa preoccupazione, fino a poche ore prima,
aveva riguardato il carbone. Un duro sciopero nazionale
si era protratto per sei settimane e si era temuto di dover
ritardare la partenza del grande bastimento. Il 6 aprile,
finalmente, era stato raggiunto un accordo ma non c’era
abbastanza tempo per far giungere dalle miniere fino a
Southampton il carbone necessario a nutrire le enormi
caldaie del vascello. Così, era stato racimolato tutto il
combustibile di cui la White Star poteva disporre nel
porto, quello messo da parte per cinque navi appartenenti alla International Mercantile Marine Company e
quello avanzato dal rifornimento dell’Olympic, salpato
solo una settimana prima. Si trattava di 4.427 tonnellate
di carbone che andavano ad aggiungersi alle 1.880 già
stipate nei carbonili.
Sembravano tante, ma da quando il Titanic era giunto
a Southampton, il 3 aprile, se ne erano già andate in
fumo 415 solo per far funzionare gli argani di carico e
per fornire luce e riscaldamento alla nave.
Tutto, dunque, sembrava a posto, ma mentre risaliva
verso il ponte della nave per incontrarsi con Ismay e con
il capitano Smith, Thomas Andrews non riuscì a scacciare quella sensazione di disagio che da qualche tempo
provava. Tutto quel parlare di nave “inaffondabile” lo
irritava. Sapeva bene che non esistevano navi del genere
e, benché il Titanic fosse stato costruito con i criteri di
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sicurezza più avanzati, c’era sempre la possibilità che
qualcosa andasse storto. Forse, a infastidirlo di più era
il pensiero che per lo scafo si era deciso di impiegare un
rivestimento singolo, anziché doppio o triplo come era
stato per il Cedric o il Baltic, riducendo così lo spessore
da cinque o sette e mezzo, a circa due centimetri e mezzo.
Certo, con tutti quei compartimenti stagni c’era poco
di cui avere paura se anche si fosse prodotta una falla.
Eppure, qualcosa continuava a tormentarlo.
Quando giunse sul ponte di passeggiata della seconda
classe, lasciando il calore dei piani sottocoperta, respirò
l’aria fresca del mattino e lo sguardo gli scivolò sulla
promenade. Sul pennone di prua sventolava la “Blue
Peter”, la bandiera che indicava la partenza imminente.
Sull’albero maestro c’era il vessillo della White Star Line
e su quello di trinchetto la bandiera a stelle e strisce del
paese di destinazione. Sotto gli imponenti fumaioli stazionavano le imbarcazioni di salvataggio.
Il Board of Trade richiedeva per le navi con una stazza
superiore alle 10.000 tonnellate la presenza di 16 scialuppe. Ed era esattamente quello il numero di barche
presenti a bordo, a cui erano state aggiunte per buona
norma quattro zattere smontabili. Però la legge risaliva
al 1894, quando la nave più grande era il Lucania, di
13.000 tonnellate. Il Titanic era quattro volte tanto e
poteva trasportare fino a 3.547 persone: 20 scialuppe
non avrebbero mai potuto contenerle tutte.
Il predecessore di Andrews, Alexander Carlisle, cognato di Lord Pirrie, aveva suggerito di dotare la nave di
64 lance di salvataggio, o almeno 48, capaci di trasportare
fino a 3.120 persone, ma Lord Pirrie si era opposto. A
che cosa sarebbero servite tante scialuppe? Se anche nel
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Titanic si fosse prodotta una falla e per qualche motivo
inimmaginabile ci si fosse trovati costretti a evacuare la
nave, le barche a disposizione erano più che sufficienti.
Avrebbero potuto fare tranquillamente la spola con una
o più navi che fossero giunte in soccorso e avrebbero
potuto metterci tutto il tempo che fosse stato necessario,
perché lo sapevano tutti che il Titanic non sarebbe mai
potuto colare a picco.
E allora via tutte quelle scialuppe antiestetiche, che
avrebbero ingombrato il ponte, ridotto lo spazio per le
passeggiate e allarmato inutilmente i passeggeri.
La sirena della nave lanciò un fischio potente, come
aveva già fatto più volte quella mattina, per segnalare che
quel giorno si salpava. L’eco delle vibrazioni disperse i
gabbiani e sollevò grida di gioia dal pontile. Là sotto i
passeggeri e i loro accompagnatori si stavano ormai raccogliendo a centinaia e presto sarebbe iniziato l’imbarco.
Thomas Andrews sospirò. Forse si stava davvero preoccupando per niente, tutto sarebbe senz’altro andato
per il meglio. Forse.
«Non credo ai miei occhi, eccola là!» esclamò eccitato
Eugene Joseph Abbott quando si trovò di fronte la sagoma
maestosa del Titanic attraccato in porto. Lo scafo enorme
faceva apparire minuscola ogni altra nave all’ancora.
Eugene aveva solo tredici anni, ma non era la prima
volta che andava per mare. L’agosto dell’anno prima era
arrivato in Inghilterra a bordo dell’Olympic. La mamma
si era separata dal papà e aveva, perciò, deciso di lasciare
il Rhode Island e tornare alla sua St. Albans, nell’Hertfordshire, dove ancora viveva la nonna Sarah ormai
vedova, portandosi appresso lui e suo fratello.
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«Fai bene a non crederci perché sei strabico!» ribatté
pronto Rossmore Edward, che di anni ne aveva sedici.
«Guarda che ti do un pugno sul naso, sai?»
«Vediamo se ne sei capace?»
I due fratelli stavano già spintonandosi quando la
madre si mise tra di loro. «Ragazzi, smettetela. Lo so che
siete eccitati per la partenza, ma cercate di controllarvi.»
Sia Ross sia Eugene abbassarono gli occhi. «Scusa
mamma» mormorarono in coro.
«Ci siamo un po’ lasciati prendere la mano» aggiunse
il maggiore.
Rhoda Mary Hunt sorrise e accarezzò loro i capelli.
«Venite qui» disse stringendoseli al petto. «Siete la cosa
più cara che ho. Vi voglio vedere sempre andare d’accordo e volervi bene, ci siamo intesi?»
I ragazzi, abbracciati alla mamma, annuirono.
Era stato un errore tornare in Inghilterra, Rhoda ormai
se ne era resa conto. Eppure, l’anno prima le era sembrata la scelta migliore per i suoi figli. Era stata sposata
con Stanton Abbott, il campione dei pesi medi, ma dopo
la nascita dei bambini, mentre lei si dedicava a crescerli
con tutto l’amore che una madre può avere per i suoi
figli, Stanton si era focalizzato solo sulla sua carriera. Gli
era andata bene, aveva avuto successo, ma il prezzo da
pagare era stato il loro matrimonio. Alla fine, qualcosa
si era spezzato tra loro e dopo una difficile separazione
avevano divorziato.
Rimasta sola, Rhoda aveva pensato che la cosa migliore
fosse tornare dove era nata e dove viveva ancora sua madre. Una volta a St. Albans, non era stato difficile trovare
lavoro per lei come sarta e per Rossmore come calzolaio.
Eugene invece, che era ancora piccolo per lavorare, era
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stato subito accolto alla Priory Park School. Ma per
quanto avessero cercato di adattarsi al Vecchio Mondo,
i ragazzi non erano inglesi e soffrivano di nostalgia. Alla
fine, stanca di vederli sempre giù di corda, Rhoda aveva
annunciato ai figli che avrebbero fatto ritorno in America. Era stata una serata di festeggiamenti e di lacrime
per la nonna che tornava a essere sola.
Poi, per un momento, Rhoda aveva quasi temuto che
il loro piano fosse sul punto di naufragare, dopo che lo
sciopero del carbone aveva reso impossibile la partenza.
Ma quando le comunicarono che il suo biglietto per la
piccola e vecchia nave su cui avrebbero dovuto fare
la traversata era stato cambiato con un passaggio sul
magnifico Titanic aveva accolto la notizia con sollievo
e stupore. Certo, lei e i bambini avrebbero viaggiato in
terza classe, ma da quello che aveva sentito dire la terza
del Titanic era come la prima di una nave di vecchio tipo.
E poi aveva voluto spendere un po’ di più per assicurarsi
che dessero loro una cabina particolarmente buona. Era
logico che i ragazzi fossero tanto emozionati.
Avvicinandosi al pontile, affollatissimo, Rhoda alzò
gli occhi verso l’immensa struttura nera ed ebbe quasi
l’impressione di trovarsi di fronte a una scogliera che
scendeva a picco in mare. Lassù in cima, sulla poppa,
scintillava in lettere d’oro la scritta Titanic e, sotto, il
nome del porto d’armamento, Liverpool.
«Non voglio partire con quella nave!» protestò una
donna a due passi da lei. Dal forte accento si sarebbe
detta provenire dalla Cornovaglia.
Il marito cercava di tranquillizzarla, ma senza troppo
successo.
«Ti dico di no» insisteva la donna. «È troppo grande!»
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«Non tema, signora» disse sorridendo un giovane
in divisa poco distante. Dalla bandierina con la stella
che campeggiava sul cappello e sui bottoni dorati della
giubba, Rhoda capì che doveva trattarsi di un membro
dell’equipaggio del Titanic. «È robustissima. Nemmeno
Dio potrebbe affondare questa nave!»
Anche Rhoda aveva provato una sensazione simile a
quella della donna arrivando sul molo: si era sentita un
microbo in confronto a quel colosso. Anziché intimorirla,
però, su di lei tutta quell’imponenza aveva avuto piuttosto l’effetto di rassicurarla. Come aveva detto l’ufficiale,
che cosa mai avrebbe potuto rappresentare una minaccia
per un gigante simile?
Intorno a loro la gente scambiava saluti e abbracci,
c’era chi piangeva e chi scoppiava in grasse risate. I
bambini più piccoli correvano e i genitori faticavano a
tenerli a freno. Qualcuno suonò qualche nota con un
banjo e un gruppetto intonò una canzone popolare che
Rhoda ricordava vagamente dalla sua gioventù. Uomini
e ragazzi si erano arrampicati sui carrelli merci e sulle
altre strutture del ponte per gustarsi meglio lo spettacolo.
«Questa volta hanno battuto tutti i record!» esclamò
un uomo dall’aspetto aristocratico.
«Già con l’Olympic credevo avessero raggiunto il
culmine» gli rispose un altro gentiluomo in guanti e cappello a cilindro. «Ma da quello che ho sentito il Titanic
è qualcosa di ancora più straordinario.»
«Sa, io ricordo ancora quando attraversai l’oceano a
bordo del New York, allora lo si definì l’ultimo grido in
fatto di costruzione navale. E ora la guardi laggiù quella
barca, sembra un chiatta a confronto del Titanic!»
L’uomo col cilindro scosse la testa. «Non so… La
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White Star, la Cunard e anche la linea Amburgo-America
sono ormai completamente assorbite da una lotta per la
supremazia che sembra non avere limiti. Ognuno vuole
la nave più lussuosa, la più veloce, ma verrà presto un
tempo in cui il risultato di questa folle corsa sarà il più
grande e devastante dei disastri marini. Glielo dico io.»
Rhoda ebbe un brivido a sentire quelle parole e non
volle ascoltare oltre. Prese i bambini per mano e si allontanò di qualche passo.
Nell’aria si diffondevano gli odori più disparati, i
profumi delicati ed esotici delle signore eleganti in attesa di salire sui ponti della prima classe si mescolavano
all’odore di carbone e di sterco di cavallo delle carrozze.
Via via che ci si dirigeva verso le passerelle per i passeggeri di terza, a poppa, gli aromi si facevano più forti e
penetranti. L’odore di cibo si confondeva con l’olezzo
di chi aveva bisogno di farsi un bel bagno.
Poco più avanti, il medico di bordo passava in rassegna i passeggeri di terza prima di ammetterli sulla
passerella che conduceva a bordo. Le leggi americane
sull’immigrazione erano particolarmente severe, Rhoda
lo sapeva bene. Quando toccò a lei e ai bambini se la
cavarono in fretta. Il medico si limitò a chiedere loro se
avessero contratto malattie contagiose, poi, considerato
che erano cittadini americani, li lasciò passare senza
altre domande. Gli immigrati, provenienti dai paesi
mediterranei o dall’aspetto più dimesso, erano invece
sottoposti a un esame più scrupoloso. Si controllavano
i capelli in cerca di pidocchi o si rovesciavano loro le
palpebre per scoprire tracce di tracoma e chi risultava
affetto da questa malattia altamente infettiva era rispedito indietro.
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Finalmente, Rhoda e i bambini si diressero verso la
passatoia. C’era molta gente che saliva e da come parlavano quegli sconosciuti le sembrarono in gran parte
scandinavi, probabilmente diretti in America in cerca
di occasioni. Sopra di loro torreggiava il passaggio coperto che conduceva ai ponti di prima classe. Le parve
tristemente simbolico che chi viaggiava in prima accedesse alla nave dalla parte superiore dipinta di bianco,
mentre chi viaggiava in terza entrasse dal basso dove la
nave era dipinta di nero. Il bianco e il nero, l’alto e il
basso, i ricchi e i poveri. Era evidente che anche in pieno
oceano quella separazione netta tra le classi che tanto ossessionava i suoi connazionali doveva essere mantenuta
a tutti i costi. Quando aveva acquistato i biglietti le era
stato consegnato anche un opuscolo in cui si descrivevano le caratteristiche della nave ma si specificava anche
che ogni passeggero avrebbe dovuto scrupolosamente
restare nei “confini” della propria classe. Sarebbe stato
tanto disdicevole per un passeggero di terza varcare la
soglia degli ambienti di seconda o di prima, quanto per
uno di prima passeggiare sul ponte di seconda o incontrare un passeggero di terza. In certe cose, gli inglesi
non sarebbero mai cambiati.
Rhoda si girò ancora una volta indietro a guardare la
città. Non era nata a Southampton, non la conosceva
bene, eppure quella era ancora Inghilterra, la terra su
cui era nata. Era praticamente certa che non ci sarebbe
mai più tornata. Sua madre era anziana e quando fosse
venuta a mancare non ci sarebbe stato più nulla che
l’avrebbe legata a quell’isola.
La sua vita era a Providence, negli Stati Uniti, accanto a Rossmore e a Eugene. Non sapeva che cosa
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avrebbe fatto una volta là, ma di amici ne aveva ancora
tanti. Qualcosa avrebbe certamente trovato, in fondo
l’America era la terra delle opportunità. Poi, levò dalla
borsetta il suo biglietto: era il numero CA2673. Venti
sterline e cinque scellini, tanto costava cambiare vita.
Quel biglietto le avrebbe portato fortuna, se lo sentiva.
Mostrò dunque carta d’imbarco e tagliando all’ufficiale
di bordo che controllò sul suo elenco. «Ecco qua, signora
Abbott e due bambini» confermò l’uomo con un sorriso.
«La vostra cabina si trova a poppa e i bagagli per il viaggio vi saranno consegnati non appena avremo salpato
l’ancora. In cima alle scale troverete un cameriere che
vi indicherà dove andare. Vi auguro un buon viaggio!»
Rhoda Mary Abbott, nata Hunt, strinse forte le mani
dei suoi ragazzi e con il cuore più leggero salì a bordo
del Titanic.
«Riferisco qui che la nave è carica e pronta a prendere
il mare. Macchine e caldaie sono in perfetto ordine per
il viaggio e tutte le carte e i portolani sono aggiornati.
Vostro devotissimo Edward John Smith.»
Il comandante Smith, o E.J. come lo chiamavano tutti
ormai da una vita, firmò il Gran Rapporto del comandante alla compagnia e lo consegnò a Benjamin Steele,
sovrintendente della marina a Southampton per la White
Star Line.
«Congratulazioni capitano» disse Steele. «Sta per
portarsi in mare un’autentica bellezza!»
Smith annuì soddisfatto, mentre le spire azzurrognole
del sigaro che stringeva tra i denti salivano avvolgendogli
il bel viso squadrato. Il comandante era un uomo massiccio, spalle larghe e barba bianca tipo generale Grant,
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il perfetto ritratto del lupo di mare. Nella sua uniforme
nera perfettamente stirata e con i galloni dorati sulle
maniche emanava sicurezza, autorità e buon umore.
Aveva un’innata attitudine al comando ed era benvoluto
e popolare tanto tra gli ufficiali quanto tra i marinai. Lo
chiamavano il “Capitano dei Milionari” perché era il preferito tra gli aristocratici che attraversavano l’Atlantico.
Non era raro per un benestante informarsi in anticipo
su chi fosse il capitano e, alla fine, rimandare la partenza
pur di fare il viaggio con il comandante Smith. Questo
attaccamento che l’alta società gli dimostrava, fruttava
al buon capitano un salario che era più del doppio di
quello di un comandante della Cunard.
Con i suoi sessantadue anni sulle spalle, quarantanove
dei quali trascorsi in mare, Smith poteva ben dirsi un
marinaio “navigato”. Si diceva che il viaggio sul Titanic
sarebbe stato l’ultimo, un modo perfetto per coronare
una splendida carriera, ma altri sostenevano che avrebbe
continuato ad andare per mare almeno finché il Gigantic, o come si sarebbe chiamata la terza supernave della
White Star Line, non fosse stato completato.
Era infatti tradizione che Smith, che dal 1904 era diventato comandante di tutta la flotta della White Star,
fosse alla guida delle navi della compagnia nei loro viaggi
inaugurali. E lui aveva piena fiducia nei colossi che era
chiamato a manovrare. Appena sei anni prima, quando
era salpato con l’Adriatic, aveva osservato con orgoglio:
«Non riesco nemmeno a immaginare un incidente che
possa causare l’affondamento di una nave. Non posso
concepire un disastro per questo piroscafo. La tecnica
di costruzione delle navi oggigiorno ci permette di abbandonare simili preoccupazioni».
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Quella mattina, mentre il capitano Steele passava in
rassegna il personale, Smith aveva osservato il capitano
Maurice Clarke, l’ispettore del ministero del commercio,
iniziare un controllo accurato della nave. Una nave che
era due volte più grande, e dunque due volte più sicura,
dell’Adriatic. Ma Clarke, che aveva fama di essere il funzionario più detestato dai marinai inglesi, non era il tipo
da trascurare un controllo. Non si lasciava sfuggire nessun dettaglio e non si fidava mai della parola dell’ufficiale
incaricato, voleva accertarsi di persona che tutto fosse in
regola. Furono così ispezionate tutte le attrezzature di
salvataggio, giubbotti, salvagente, razzi di segnalazione,
luci intermittenti azzurre e naturalmente le scialuppe.
Due di queste, la 11 e la 15 dal lato di tribordo, furono
fatte calare in acqua da un gruppo di marinai per verificare che l’argano e la gru che le reggevano funzionassero alla perfezione. Le barche fecero un breve tragitto
di una ventina di minuti in mare e poi furono di nuovo
issate a bordo.
Quando si ritenne soddisfatto, Clarke raggiunse il
capitano Steele nella cabina del comandante a poppavia
della plancia. Quindi, i due scambiarono con Smith le
ultime formalità e i saluti di rito.
«Faccia buon viaggio, comandante. E la riporti indietro sana e salva» si accomiatò Steele.
Il comandante strinse la mano sia a lui sia a Clarke
quindi congedò i suoi ospiti.
Con quei saluti si concludeva l’agitazione e il tramestio
che avevano regnato sulla nave da quando Smith vi era
salito a bordo alle 7.30. C’era stato un rimaneggiamento
tra gli ufficiali di grado superiore e non tutti l’avevano
presa bene.
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