l’ORIOLI
Periodico di cultura, costume e società
Anno 2 - Numero 2 - Euro 0,50
EDITORIALE
D’amore
e d’arte
di Nicola Piermartini
Non è trionfalismo, né autocelebrazione.
Certo è però che l’esordio de L’Orioli,
qualche mese addietro, ha registrato apprezzamenti lusinghieri da lettori di varia
estrazione, anche personalità consacrate
del mondo della cultura. Riflessi chiaramente confortanti, che confermano l’associazione “Francesco Orioli” e la redazione
nel loro intento di proseguire il cammino
intrapreso, con gli obiettivi - dichiarati con
modestia in precedenza e qui ribaditi - di
offrire stimoli all’approfondimento culturale. Tema centrale di questo numero è l’amore: argomento di vastità immensa, articolato in sfaccettature infinite, scintilla di
vita, d’arte, di progettualità umana, di elevazione spirituale; l’amore, artefice di avvenimenti decisivi nella sfera individuale e
sociale. Un sentimento (ma forse è riduttivo circoscriverlo in questa definizione)
“che muove il sole e l’altre stelle”, per dirla con l’ultimo verso della Divina Commedia. Un tema, quindi, la cui trattazione può far precipitare nello scontato, nel
“già detto”. L’Orioli, comunque, offre
spunti di riflessione sicuramente non obsoleti: gli interventi del prof. Franco Lanza sulla vicenda di Paolo e Francesca come
affrescata nel canto V dell’Inferno dantesco, del dott. Massimo Fornicoli, con una
lettura originale della canzone Ho capito
che ti amo di Luigi Tenco, di don Ampelio Santagiuliana, parroco di Vallerano,
sul “Senso cristiano dell’amore”, per limitarci a qualche nome, contengono considerazioni di valenza indubbia per molteplici
riguardi. Voltiamo pagina. La mostra di
pittura, organizzata dall’associazione in
settembre a Viterbo, nell’ex Chiesa degli
Almadiani, è stata un successo: le opere di
Nora Orioli, Giacomo Maria Giuffra, Mischa Faust, Elio Rizzo e Vittorio Verolini
hanno suscitato interesse e ammirazione.
Vittorio Arista propone un excursus molto particolare all’interno di alcuni quadri
esposti. In questo numero è inaugurata
una nuova rubrica: “Dentro l’opera d’arte”: un invito ad entrare in un quadro, in
una poesia, in un brano letterario, in un
capolavoro architettonico, ad entrarci quasi fisicamente. Federeico Zeri, critico d’arte famosissimo scomparso qualche anno fa,
scrisse “Dietro l’immagine”; Vittorio
Sgarbi, che non necessita di presentazione, scrisse invece “Davanti all’immagine”. L’Orioli, con “Dentro l’opera d’arte”, intende offrire un’esperienza diversa:
è un tentativo. Non si intende proporre
nuove pagine di critica: le innumerevoli
antologie o i trattati sulla storia dell’arte
sono molto eloquenti, informati, variegati.
Il nostro è, lo ripetiamo, un tentativo di indicare un modo diverso d’approccio all’espressione artistica, sempre con l’obiettivo
di suscitare o accentuare l’amore per l’arte
e invitare alla riflessione e all’introspezione, non secondo modalità classiche che talvolta sono stereotipate e scostanti.
Sono, questi, soltanto scarni flash sulle diverse proposte della rivista, che contempla
altri centri di interesse nell’ottica consueta di offrire contributi sinceri alla causa
della diffusione e della ricerca culturali.
Diretto da Nicola Piermartini
www.orioli.it
IL
Febbraio/Marzo 2004
PERCHÉ DI UNA SCELTA
Domande
Q
per ogni forma di amore? Varrà per
ogni nostro interesse questo limite
apparentemente insuperabile del
nostro orizzonte interiore ? Il soffrire
che segue ad un amore non corrisposto soggiace forse a questa logica, ed è
per questo, spesso, che fa aumentare
“l’amore”?
E la maggior quota di sensibilità che
accompagna l’attesa del compimento
di un desiderio è forse da computare
a merito di ogni relazione amorosa o
non è piuttosto il presagio della sua
estrema provvisorietà?
E la pietà che non un uomo di Chiesa,
ma Eduardo invocava per i protagonisti della scombinata vicenda affettiva di “Gli esami non finiscono mai“, è
prerogativa di chi ha la Fede nel Dio
dei cristiani o è anche l’obbligo di
chiunque voglia “amare“ l’uomo per
quello che è, e non per quello che vorremmo che fosse?
uesto secondo numero
dell’ Orioli, interamente
dedicato al tema dell’amore, esce molto in ritardo rispetto al concepimento
della sua idea. I limiti di una attività
editoriale come la nostra non ci permettono naturalmente di tenere il passo rispetto al modo di procedere dei
giganti maggiori, ma anche minori,
che abitano il mondo della carta stampata.
Con il solito gusto per la provocazione presuntuosa pensiamo, però, non
tanto di giungere tardi ma di sopraggiungere utilmente, con contenuti e
angolazioni di visuale non frequenti.
Libero Bigiaretti, scrittore che come
Francesco Orioli ebbe cara la residenza, anche se saltuaria, a Vallerano, in
un suo epigramma così stigmatizza la
valenza egoistica di certi amori: “A
tante donne ho detto/ amore, amore
mio…/ ma parlavo al mio petto,/ lusingavo il mio io” ( L. Bigiaretti, Epigrammi e
proverbi, 1975-1981, pag 9). Sarà così
CENNI
Ma anche in questa occasione il ruolo
di chi ha promosso il dibattito è quello
di farsi al più presto da parte per rispetto (posso dire: per amore?) della competenza di chi dovrà parlare, e della
generosità dei nostri cinque lettori.
[email protected]
Paris Bordon, Gli amanti - Milano, Pinacoteca di Brera
DI STORIA
La viterbesità di Francesco Orioli
di Bruno Barbini
N
el corso del convegno
organizzato nell’ottobre del 1983 dal Comitato di Viterbo dell’Istituto per la Storia del
Risorgimento Italiano per ricordare
Francesco Orioli nel bicentenario della nascita, V. E. Giuntella sottolineò
nel suo intervento la viterbesità del
personaggio: una caratteristica che
trova giustificazione non soltanto nella sua nascita a Vallerano e nelle scuole da lui frequentate a Viterbo e a
Montefiascone, ma anche nel costante
EVENTI
amore sempre dimostrato nei confronti del natìo loco, un amore tutt’altro che affievolito dai lunghi anni di
assenza, trascorsi prima a Bologna,
nella cui università occupò la cattedra
di Fisica, e, dopo la partecipazione ai
moti del ’31, in esilio a Parigi e a
Corfù.
Significative, in proposito, risultano le
accorate espressioni di nostalgia che
compaiono in alcune lettere scritte in
quel doloroso periodo della sua vita,
in cui la lontananza dalla propria terra è interrotta soltanto dalle brevi pa-
rentesi della partecipazione agli annuali congressi scientifici tenutisi in
varie città d’Italia dal 1839 al 1847, ai
quali poté recarsi godendo di speciali
autorizzazioni. Le lettere - complessivamente quarantotto, conservate nell’archivio della Biblioteca viterbese
degli Ardenti - sono indirizzate al
“compare e amico” Filippo Saveri, un
personaggio di tutto rilievo nell’ambito della città e del territorio, come dimostrano gli importanti incarichi da
lui ricoperti in seno alla civica amministrazione e i suoi rapporti epistolari
con due donne della famiglia di Luciano Bonaparte, fratello di Napoleone e principe di Canino, la moglie
Alessandrina Bléchamps e la figlia
Maria, sposata al conte Vincenzo Valentini, un aristocratico caninese eletto
nel 1849 nella Costituente della Repubblica Romana e chiamato poi a
reggere il dicastero delle Finanze.
Il 24 agosto 1841 Orioli scrive all’amico da Firenze: “È parsa dura cosa fermarsi otto eterne ore nel porto di Cisegue a pag. 2
UN CONSIGLIO
CULTURALI
Successo di una mostra
di Vitttorio Arista
P
iù di 1500 persone sono venute a visitarla. Una settimana intensa, ricca di emozioni, nelle quali i timori sono stati vinti dalla gioia di
vedere premiato l’impegno di un
gruppo di persone che ha in comune
un unico ideale: l’amore per l’arte.
La ex Chiesa degli Almadiani, con il
suo suggestivo campanile in stile romanico, è stata la giusta cornice di
una manifestazione culturale degna
della città di Viterbo. Devo ammettere che i visitatori entravano all’interno con il rispetto di chi si trova in una
segue a pag. 2
C’è una verità elementare,
la cui ignoranza uccide
innumerevoli idee e splendidi
piani: nel momento in cui uno si
impegna a fondo, anche la
provvidenza allora si muove.
Infinite cose accadono per aiutarlo,
cose che altrimenti mai sarebbero
avvenute...
Qualunque cosa tu possa fare, o
sognare di poter fare, incominciala.
L’audacia ha in sé genio, potere e
magia. Incomincia adesso.
Johann Wolfgang Goethe
CENNI
segue da pag. 1
La viterbesità di Francesco Orioli
vitavecchia; guardar sospirando le
montagne che coronano l’orizzonte;
pensar alle dolcezze passate dell’infanzia e della puerizia; fare in spirito
la rivista di tanti che ci son cari; e trovarsi incatenato alla fortuna sul nobile palco della nave, senza che pur uno
venga a portarti l’amplesso dell’amicizia... Pazienza!”.
In questo passo, al rimpianto di non
poter varcare la pur breve distanza
che lo separa dai luoghi dove è nato e
ha trascorso gli anni dell’infanzia e
dell’adolescenza, si unisce un sia pur
velato rimprovero per gli amici che, timorosi di compromettersi di fronte alle autorità, non hanno approfittato
della sua sosta nel porto tirrenico per
venirlo a salutare. Più esplicito su
questo punto era stato nella lettera
precedente, datata 21 luglio e scritta
non appena sbarcato a Livorno: “Vi
sarebbe egli speranza di riabbracciarvi e d’avere il bene d’essere due o tre
giorni con voi e colla Commare? O la
mia rogna potrebbe avvaccarvisi a
senso di codesti Magistrati? ... Io però
sto bene, e la mia rogna non mi rode”.
La mancata risposta a questa lettera
fece pensare ad Orioli che l’amico temesse di compromettersi con le autorità governative mantenendo rapporti, anche se solo epistolari, con un
compromesso politico. Pertanto gli inviò la lettera successiva a mano, tramite un amico comune, e aggiunse un
significativo post-scriptum: “Se volete
aver la bontà di rispondere almeno a
questa, potete in tutta sicurezza affidare ad esso la risposta”.
Già due anni prima, in una lettera
scritta il 18 novembre 1839, troviamo
espresso un analogo stato d’animo. Al
suo rientro a Corfù dopo aver partecipato al primo dei congressi tenutosi a
Pisa, aveva espresso la sua delusione
ma, nel contempo, aveva cercato una
plausibile giustificazione del mancato
incontro: “Io speravo d’avere la felicità di rivedervi nel mio passaggio da
Civitavecchia: ma la fortuna non m’ha
accordato questo piacere. Forse io ve
ne scrissi troppo tardi. Forse non potevate allontanarvi dal vostro impiego. Forse il cattivo tempo v’ha ritenuto? Forse ... non importa. Tanto e tanto io v’ho nel pensiero e nel cuore...”.
La tristezza che caratterizza il tono
delle lettere scritte negli anni dell’esilio lascia, però, il posto alla gioia non
appena l’Editto del Perdono, promulgato da Pio IX il 17 luglio 1846, conferisce concretezza alla speranza, da così lungo tempo accarezzata, del ritorno in patria.
Lo possiamo riscontrare in un passo
della “Lettera al Marchese Massimo
d’Azeglio”, un opuscolo che commenta favorevolmente l’editto con cui la
Segreteria di Stato aveva concesso, il
15 marzo 1847, una certa libertà di
stampa: “Dopo lungo navigare tra
tempeste, bello è ricoverarsi nel porto,
e prender terra sotto un cielo sereno,
quando, al mancare del verno, primavera s’aspetta, incoronata di fiori, e
larga promettitrice di frutti. E questo
di me avviene...”. Dopo il ritorno,
Orioli si stabilisce a Roma, ma pur nei
numerosi impegni della militanza politica, che lo assorbono fino agli ultimi
mesi del ’48, ha più volte occasione di
rivendicare la propria viterbesità nella
corrispondenza con Saveri, che in
quei mesi diviene particolarmente intensa. Ragguagliando l’amico sulla
propria candidatura alle elezioni politiche indette per il 19-20 maggio di
quell’anno, il 15 aprile gli scrive tra
l’altro: “... quantunque avrei qualche
buona ragione per concepir la speranza d’esser fatto uno dei deputati della
capitale, preferisco le mille volte l’offerta della mia Viterbo, posto che in
mezzo a questa patria comune, l’Italia, e a quest’altra più ristretta ancora,
lo stato, ve n’è una terza di più care ed
intime simpatie, quella dove noi possiamo dire: “qui aspettano la resurrezione le ceneri di tutti i miei, quest’aria ho respirato fanciullo, qui ho folleggiato giovane, qui ho maturato la
2
I
DI STORIA
N. 2 Febbraio/Marzo 2004
mia virilità... qui desidero posare il capo nella tomba avita ancorché sarò
inanimato cadavere”. Torna sull’argomento in una lettera di nove giorni
dopo, nella quale le affermazioni della precedente trovano piena conferma:
“Anche eletto altrove, ciocché non è
né impossibile, né improbabile, io
darò sempre le preferenze al voto ed
alla rappresentanza del mio paese, del
paese di mia moglie, di quello de’
miei antichi”. Ancora più esplicita la
conclusione: “Gli Orioli han diritto di
chiamarsi Viterbesi e si gloriano di
questo diritto”. Il 12 maggio ribadisce
questa preferenza per la propria terra:
“... Ho dichiarato agli Iesini, a que’ di
Sanginesio, a que’ di S. Elpidio a Mare, ai Ronciglionesi, agli Urbinati ecc.
ch’io non accettavo altra candidatura
che la viterbese”, e conclude: “Se sì, sì,
se no, vorrà dire che i miei Compatriotti mi ricusano, e ci vorrà pazienza”.
La partecipazione dei cittadini alle urne fu decisamente scarsa, ma i risultati non delusero le sue aspettative. Dei
964 elettori iscritti nelle liste viterbesi,
il 19 maggio votarono soltanto 278,
ma ben 244 suffragi si concentrarono
sul suo nome. Nel ballottaggio del
giorno successivo a lui andarono 222
dei 232 voti espressi. Il legame sentimentale che univa Orioli a Viterbo trovava, in tal modo, un’eloquente conferma nell’opinione pubblica o, quanto meno, nella parte di essa comprendente la ristretta cerchia di quelli che
“contavano”.
Nei mesi successivi, però, la posizione
moderata assunta da Orioli nell’espletamento del suo mandato si contrappose spesso a quella dei molti parlamentari che - talvolta per intima convinzione, più spesso per la ricerca di
una facile popolarità tra le masse - si
attestavano su una linea politica sempre più decisamente rivoluzionaria.
Ce lo dicono anche i risultati delle successive elezioni, tenutesi il 9 e il 10 novembre. Lo scienziato viterbese - che
poco prima si era dimesso per contrasti con i colleghi - fu rieletto, ma con
un più modesto margine di voti: 50 su
83 al primo scrutinio e 83 su 113 nel
ballottaggio.
Il primo atto della rivoluzione che
porterà alla Repubblica Romana, l’uccisione del ministro Pellegrino Rossi,
avvenne il 15 novembre, il giorno stesso in cui fu comunicata ufficialmente
la rielezione di Orioli, il quale però, di
fronte al progressivo affermarsi di una
situazione politica che non condivideva, si dimise definitivamente ventiquattro ore dopo.
Da allora in poi, si dedicò con passione e competenza alle ricerche, già iniziate nei decenni precedenti, che tendevano a riscoprire e valorizzare il patrimonio archeologico di Viterbo e
della Tuscia. Questa rappresenta
un’altra importante testimonianza
dell’amore di Francesco Orioli per la
propria terra: ma ne parleremo la
prossima volta.
Nota – Gli Atti del Convegno su “La figura e
l’opera di Francesco Orioli”, tenutosi a Viterbo il 15 e 16 ottobre 1983, sono stati pubblicati in volume, a cura del Comitato organizzatore, nel 1986.
NdR: Bruno Barbini, per molti anni docente di lettere e storia all’Istituto Magistrale
“S. Rosa” di Viterbo, svolge, dal 1955,
un’intensa attività giornalistica e di ricerca
storiografica. Oltre alle numerosissime collaborazioni con quotidiani locali e nazionali, e con riviste di cui, in alcuni casi, è stato
o è tuttora direttore responsabile, ha al suo
attivo la pubblicazione di molti volumi dedicati alla storia e ai monumenti di Viterbo
e della Tuscia, e una serie di importanti
scritti sul Risorgimento. Nel 1993 ha pubblicato Viterbo - politica, economia, cultura e sport - 1945-1992, in cui ha ripercorso l’attività dell’amministrazione comunale viterbese a partire dal secondo dopoguerra; mentre, come presidente del locale
Comitato dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, ha diretto l’organizzazione di un congresso nazionale e di quattro
convegni interregionali. È a tutt’oggi il più
importante studioso dell’opera di Francesco
Orioli.
NOSTRI SOCI NEL MONDO
Cronaca di un impegno
ueste foto ritraggono la nostra socia Sua Altezza Reale
la Principessa India d’Afghanistan in visita a Piacenza alla Mostra “Sguardo afghano”, in cui la pittrice Ludovica Ba-
Q
EVENTI
rattieri, moglie dell’Ambasciatore d’Italia a Kabul, ha presentato alcune sue
tele dedicate alle difficili condizioni di
vita nel paese asiatico. La Principessa
India, che ha dovuto lasciare la sua terra nella prima metà del ‘900 in seguito
al colpo di stato di cui rimase vittima
suo padre, il Re progressista Abdullah,
vive a Roma e sostiene il progetto di
padre Giuseppe Moretti per la costruzione di una “Scuola di Pace” nella capitale afghana.
abbandono nel quadro di Giuffra nel
quale il paesaggio, ed in particolare il
forte, sembrano composti di una materia di cui non riesci a comprendere
la natura. Quando alla mostra venivano i bambini, si dirigevano subito verso le opere di Mischa Faust, attratti
dai colori sgargianti, dall’acqua e dai
pesci di origine sconosciuta che in essa erano immersi. Simbolismo? Allegoria? I grandi (padri e madri dei
bambini) restavano incerti, senza poter dare risposta a queste silenziose
domande interiori… Dalì, Mirò, Magritte i suoi ispiratori? Credo proprio
di sì. I quadri di Elio Rizzo, tutti eseguiti con la tecnica della tempera all’uovo, lasciano al visitatore la possibilità di immaginare un mondo che
vive sotto i suoi colori, sfumati ed accesi nello stesso tempo. Il giallo, l’azzurro e il blu prevalgono su tutti. In
questo cromatismo si intravedono figure appena accennate, evanescenti,
fantastiche. La sua “Alba Finlandese”
ti avvicina a un tempo lontano nello
spazio, come se potessi cogliere il
freddo di un luogo che il sole non
riesce a scaldare. Ho lasciato per ultimi i quadri di Nora Orioli e Mario
Verolini. Della Orioli il “Goffredo di
Buglione” è un vero capolavoro.
L’antico condottiero delle crociate
viene rappresentato come un uomo
ormai stanco, quasi imbolsito. Potrebbe rappresentare (è questa la mia
emozione) il passato che ha lasciato
profondo sconforto nel cuore di chi
ha vinto tante battaglie. Sulle sue
mani si è posato un piccione viaggiatore bianco che ha legato sulla zampetta un messaggio. Ho voluto pensarlo come un messaggio di speranza: l’uomo non ne conosce ancora il
contenuto, ma quello scritto potrebbe indicare la nuova via, il futuro,
che, sebbene pieno di incognite, traccia un percorso diverso e meno sconsolante.
Infine Verolini, e un’opera su tutte: il
“Magnificat”. Un orizzonte dove
bianche nuvole si specchiano in un
mare lontano: un vecchio forte, una
grande distesa di erba attraversata
da una strada bianca, quasi una lama, fiancheggiata da alberi dalle
tondeggianti chiome verde scuro,
ancora più presenti per l’ombra che
spargono intorno. Ho parlato con
l’autore di questo quadro: un colloquio semplice, tra due amici che si
incontrano per la prima volta dopo
esperienze diverse. Quasi non ascoltavo le parole di Verolini, ero troppo
preso da quel quadro. Ho immaginato che l’artista, vagando senza una
meta in un paese a lui sconosciuto, si
sia imbattuto per caso in quel paesaggio e, colpito da tanta bellezza,
ne abbia voluto imprigionare i segreti e le luci, nascondendoli in una
nebbia ovattata. Quante emozioni!
La mostra è finita da tempo. Sono rimasti i ricordi ancora vivi. Un grazie
a questi artisti che, per qualche giorno, hanno fatto volare la mia fantasia
in tanti mondi diversi, arricchendo il
mio spirito e la mia anima.
CULTURALI
segue da pag. 1
Successo di una mostra
vera chiesa: le voci basse, i movimenti controllati; non mi sarei meravigliato se qualcuno, varcando la soglia, si
fosse fatto il segno della croce. La sapiente disposizione dei quadri sui
cinque espositori e le luci diffuse, mai
accecanti ma dirette sulle tele, esaltando i colori e creando un “rapporto
d’amorosi sensi” con chi le osservava,
hanno contribuito a determinare
un’atmosfera quasi astratta, un filo
invisibile tra l’autore dell’opera e il
suo critico.
Ho una mia teoria, sul rapporto tra
l’uomo e l’arte, che prescinde dalla
conoscenza delle tecniche e delle correnti che ne hanno generato l’espres-
sione. E’ una teoria basata sull’emozione che un quadro, una scultura
possono causare in chi le ammira.
Non importa se l’autore sia Michelangelo o Caravaggio, ma è importante il rapporto subliminale che può
scaturire dall’incontro.
Ho pensato al saggio sull’arte di Benedetto Croce nella sua opera dal titolo Estetica. Il grande filosofo ne
esalta proprio l’universalità che prescinde dagli schemi e, al contrario, fa
leva sui sentimenti, in una continua
ricerca delle ragioni della propria esistenza e in un incessante confronto
con chi, baciato dalla genialità, ne ha
saputo rappresentare il fine. Osservando il “Deserto dei tartari” del pittore Giacomo Maria Giuffra ho cercato subito la corrispondenza tra quel
quadro e l’omonimo romanzo di Dino Buzzati: solitudine e paura in quegli uomini chiusi in un fortino, nel
mezzo del deserto, in attesa di un nemico che mai arriverà; solitudine e
Allegato al n. 2 de L’Orioli Periodico di cultura, costume e società
Speciale
sull’Amore
Febbraio/Marzo 2004
...muore lentamente chi evita la passione,
chi non rischia la propria sicurezza
per l’insicurezza di un sogno...
Pablo Neruda
Venere che guida Cupido a scuola
da Mercurio, Correggio 1523,
Londra National Gallery
Voce del verso amare
di Umberto Broccoli e Patrizia Cavalieri
UN AMORE
IMPOSSIBILE
(condizionale)
Quante sfaccettature, quanti aspetti
di uno stesso amore.
E quante ne conosciamo, anche se
non riusciremo mai a impadronirci di
tutti i colori dell’amore.
Un amore può essere proibito, può
essere ostacolato dagli uomini o dalle
situazioni create dagli uomini.
Allora diventa impossibile resistere a
quel tipo di amore.
Ti sembra di esplodere, quando qualcosa o qualcuno attraversa la strada
del tuo percorso di vita. Ti senti scoppiare dentro e - potenzialmente - sei
nella condizione di fare ogni tipo di
sciocchezza.
Ti passa ogni voglia: dimentichi ogni
altra circostanza che non sia quell’appuntamento nascosto, quel momento
di incontro, quel tentativo di raggiungere lei o lui.
Vivi quell’attimo, poi ti lasci andare.
Ti lasci trasportare dalla vita quotidiana, quasi senza reagire. Aspettando un altro momento, un’altra possibilità d’incontro.
E se non arriva? Se si allontana? Non
pensi ad altro.
Riempi fogli di carta di parole. Riempi i tuoi occhi di orizzonti sempre più
lontani e sempre più malinconici, anche se splendenti.
Sono orizzonti solitari: orizzonti senza orizzonti.
Riduci la tua vita al solo pensiero di
come sarà possibile, domani, ottenere
quanto ti è impedito oggi.
Sapendo come e quanto domani diventerà oggi, domani aspetterai un
altro domani. E ancora domani, e ancora domani, e poi domani ancora...
Un amore impossibile forse può diventare possibile; già Sesto Properzio
lo credeva:
rale e alle regole sociali, eternamente
insoddisfatto delle sue conquiste e alla ricerca dell’amore assoluto, costituisce anzi un vero e proprio mito della
modernità, da quando fece la sua
comparsa nel 1630 nel dramma dello
spagnolo Tirso de Molina per essere
successivamente rielaborata nelle opere immortali di Molière (1665) e di Mozart (1787, con libretto di Da Ponte).
Un esempio più recente? “Forse Tomas, il protagonista de L’insostenibile
nunzio; ai secondi Giacomo Casanova, il conquistatore democratico, che
passava dalla servetta alla nobildonna
senza fare differenze. Ma c’è anche chi
ha preso un po’ in giro questi conquistatori coatti: pensiamo a Il bell’Antonio o al Don Giovanni in Sicilia di Vitaliano Brancati. C’è poi un seduttore,
forse compulsivo, che al momento opportuno si tira indietro con classe, senza consumare: è il Philip Marlowe di
Raymond Chandler”.
bertà; mentre il suo frustrato desiderio di perfezione ne fa una figura
profondamente umana.
Con lui l’amore diviene inganno,
guerra, seduzione intellettuale: il suo
piacere non è nel possesso tout court
ma nella conquista, nell’assoggettamento psicologico, nell’affermazione
di sé.
Come scrive Kierkegaard, egli vive
“nell’attimo”, alla perpetua ricerca di
un piacere che non sazia mai.
Ho capito che ti amo quando ho
visto che bastava una tua FRASE
per far sì che una serata come
un’altra cominciasse per incanto ad
ILLUMINARSI
E allora Amore è pura fantasia, dove
una frase basta a illuminare il più grigio inverno o a colorare intensamente il più sbiadito bosco autunnale. Il
linguaggio degli amanti è ancora più
povero, non può eguagliare la tavolozza dei colori di un Raffaello; solo il
gesto talvolta tradisce questa pochezza e si fa eloquente in un abbraccio
sovrabbondante di significato. Ma il
corpo da solo nella sua pienezza non
basta, deve poter lasciare ampio spazio alla creazione dell’Altro, che raramente corrisponde al nostro partner
reale.
E pensare che poco tempo prima
parlando con qualcuno mi ero messo
a dire che oramai non sarei più
tornato a CREDERE all’amore, a
ILLUDERMI e SOGNARE
Il salto nel mondo della fede apre
dunque la strada all’amare, dove illudersi e sognare diventano elementi
costituenti, se non la vera essenza di
questo sentimento misterioso, vecchio e sempre nuovo.
Ognuno di noi si crea un'immagine
virtuale con quanto l’altro manifesta,
e offre qualcosa o una parte di sé. In
questo nostro tempo siamo così racchiusi nella nostra solitudine per
paura che la nostra individualità venga dispersa, o in qualche modo diluita nell’altro, e rivendichiamo con forza solo la nostra creazione e in essa
amiamo noi stessi; il frutto a cui siamo riusciti a dar corpo senza tuttavia
possederlo completamente incorporandolo.
Alla fantasia spetta dunque il ruolo
decisivo nella scelta e nel permanere
con un certo partner.
“È un amore impossibile”, mi dici.
“È un amore impossibile”, ti dico.
Ma scopri che sorridi se mi guardi,
e scopro che sorrido se ti vedo.
“Di notte” - tu confessi - “io ti penso.
“La società, le regole, i doveri...”,
ma tremi quando stringo le tue mani.
“Meglio felici o meglio allineati?”,
ti chiedo. E il tuo sorriso accende il giorno,
cambiando veste ad ogni mio pensiero.
“Questo amore è possibile”, mi dici,
“questo amore è possibile”, ti dico.
Amore impossibile.
A ben vedere, è l’amore dei poeti.
I poeti soffrono le pene d’amore: forse per questo riescono a raccontarle
bene e a farci da specchio per l’anima.
DON GIOVANNI,
FARABUTTO
MA SIMPATICO
In letteratura i seduttori impenitenti
sono stati quasi sempre rappresentati
come personaggi affascinanti, piuttosto che come soggetti con problemi
comportamentali. La figura dell’inguaribile libertino, contrario alla mo-
Nelle cose d’amore che definiamo
“sentimento”, proprio il superare
l’indifferenza ci fa accorgere che può
esistere ed esiste una vita che si nutre
di emozioni profonde. All’attrazione
fisica carnale si sostituisce (anzi si
riappropria del terreno lasciato libero) una parvenza d’amore quando
l’assenza si fa più intensa: una presenza dove il sentire sovrasta il capire. L’immaginazione fa poi il
resto: spesso colora un vuoto, trasformandolo nel più dolce dei rifugi d’amore, un’alcova vellutata di un rosso
intenso.
Ecco che ho capito che ti amo
e già era troppo tardi per tornare
per un po’ ho cercato in me
l’indifferenza poi mi son LASCIATO
ANDARE nell’amore
Nora Orioli, Roma primavera sul lungo Tevere, 1960
leggerezza dell’essere di Milan Kundera:
nonostante ami davvero Teresa, Tomas non riesce a fare a meno di passare da una donna all’altra”, ricorda Simona Micali, docente di Letterature
Comparate a Bologna. “Kundera divide i grandi seduttori in due categorie:
i lirici, che in ogni donna cercano il loro ideale — e devono cambiare continuamente perché sempre delusi — e
gli epici, che in ciascuna storia colgono e si appropriano di un frammento
di femminilità. Ai primi appartengono senz’altro il mitico Don Giovanni e
l’Andrea Sperelli de Il piacere di D’An-
E al cinema? Possiamo ricordare L’uomo che amava le donne di Truffaut, o la
seduzione seriale di James Bond, che a
ogni film ha una nuova fiamma. Ma
molti altri esempi si possono fare, e
tutti, invariabilmente, risultano mossi
dalla stessa incontenibile gioia di vivere, da un misto di sfacciataggine e
coraggio che nonostante tutto ce li
rende simpatici.
Don Giovanni diviene mito perché si
ribella sempre (etimologicamente
“dissoluto” significa infatti “sciolto da
ogni legame”), perché il suo burlarsi
delle regole costituisce un inno alla li-
DA UN POETA
ALL’ALTRO…
breve riflessione sull’amore
attraverso una nota canzone
di Luigi Tenco
HO CAPITO CHE TI AMO
Ho capito che ti amo quando ho visto
che bastava un tuo RITARDO per
sentir svanire in me L’INDIFFERENZA
per temere che tu non venissi più
E infine, non potendo più ritornare sui
propri passi, avviene come per miracolo il “lasciarsi andare”: si arriva a
sconfinare dal terreno del conosciuto,
del razionale protetto, esondando nell’irrazionale più puro dove il vero
Amore ha l’ultima parola, riempiendo
talvolta di significato e senso un’esistenza degna di essere vissuta, che, se
siamo "sensibilmente dotati", può
coincidere con la nostra vita.
Massimo Fornicoli
N. 2 Febbraio/Marzo 2004
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ETRURIA BEL SUOL
D’AMOR...
L’Etruria è un grande ricordo che permea sottilmente le lande viterbesi e si
traduce nella calma maestosa del loro
paesaggio, nelle distese d’alberi e di
rovi che coprono le ondulazioni delle
superfici e condensano l’ombra del
massiccio cimino al tramonto. Nel riparo dei burroni tufacei, degli antri
scavati, dei sepolcri che si dipanano
nel profondo, l’intenso ocra della terra etrusca assorbe lo sguardo e rimanda indietro nel tempo, in compagnia del sorriso stereotipato dei dipinti, della fissità delle figure umane
e del fruscìo delle fronde con cui il
vento squarcia il silenzio della natura. Dov’è la presenza di quella gente?
Solo nei luoghi artificiali in cui i loro
prodotti sono stati raccolti? O tutt’al
più nel chiuso delle necropoli, o nello
svettare delle poderose vestigia architettoniche? E’ sempre una presenza
misteriosa, la loro,
anche perché erano
maestri nello svelare l’occulto. Una civiltà assorbita e celata, che a fatica
stentiamo a ricostruire. Ma già ai
tempi della Roma
repubblicana, quando gli Etruschi erano ancora una realtà
politica molteplice e
declinante, l’immagine che essi offrivano di sé non era trasparente e si prestava a interpretazioni
assai particolari.
Leggiamo presso alcuni storici greci notizie singolari e intriganti su alcune
abitudini degli Etruschi. Incominciando
da Aristotele, meravigliato che essi
banchettassero con
le mogli sdraiati sotto la stessa coperta,
per passare a dati
più circostanziati e
piccanti preservatici
dal tardo erudito
Ateneo, da lui appresi nelle opere
storiche di Timeo e
di Teopompo prima
che si perdessero nel
naufragio della letteratura antica. “Le
cameriere – dice Timeo - servono gli
uomini a banchetto
svestite”. Teopompo
aggiunge: “Vige l’abitudine presso i
Tirreni di avere le
donne in comune;
queste hanno gran
cura del proprio
corpo e fanno ginnastica spesso assieme ai maschi, talvolta da sole: non si
vergognano di mocon:
strarsi nude. Si stenRegia:
dono sui lettini per
pranzare non accanto ai propri mariti,
ma a chi capita dei
convitati, e brindano a chi esse vogliano. Sono invero
esperte bevitrici e il
loro aspetto è assai gradevole. I Tirreni poi, tutti i figli che vengono fuori,
li mantengono in vita senza sapere di
chi è figlio ciascuno; e questi vivono
alla stessa maniera di coloro che li allevano, sbevazzando e accostandosi a
tutte le donne. Per nulla vergognoso
è per i Tirreni mostrarsi non solo a fare loro qualcosa davanti a tutti, ma altresì a subirla: anche questa è un’abitudine locale. E tanto son lontani dal
ritenerlo vergognoso che specificano
pure, quando il padrone della casa
sta facendo l’amore e qualcuno lo cer-
ca, che sta subendo questo e quello, e
indicano l’azione spudoratamente.
Quando poi si riuniscono in gruppi
associativi o di parenti, fanno così: innanzitutto quando smettono di bere e
si mettono sdraiati i servitori fanno
entrare nella stanza, all’ultimo chiarore delle lucerne, certe volte le cosiddette etère, altre volte maschi assai
belli, altre ancora le mogli. Dopo essersi rinfrancati con queste, di nuovo
fanno entrare giovanotti nel fior dell’età che si mettono accanto ad essi.
Fanno l’amore nelle riunioni talora
guardandosi tra loro, per lo più circondando i lettini con paraventi fatti
di verghe intrecciate su cui vengon
gettate sopra le vesti. Si coricano con
impeto assieme alle mogli, ma molto
più volentieri traggono piacere nello
sdraiarsi con i giovanotti: ché infatti
da loro ce ne sono di assai belli nel fisico, dato il lusso godereccio che conducono e la cura della cute che osservano. Tutti gli stranieri d’Occidente si
depilano il corpo con ceretta e con ra-
L’amore per il lusso, per la vita comoda e raffinata, per i piaceri corporali
emerge dalle testimonianze figurative
dell’epoca che segna la decadenza politica etrusca, ma contemporaneamente l’apogeo della civiltà. Pur tuttavia il
tenore del resoconto di Teopompo, anche considerando il contesto in cui è
conservato - una sezione dell’opera di
Ateneo che tratta della tryphè in particolare dei Sibariti - ci fa sospettare sulla buona fede dell’informatore. Per
quanto la struttura economico-sociale
etrusca si possa interpretare con la
chiave della tryphè (lusso) e dell’habròtes (raffinatezza) e far dipendere da
una classe dirigente tipicamente oligarchica che poggiava il suo dominio
sullo sfruttamento del lavoro dipendente, servile o semiservile, e quantunque alcuni osservatori critici come
Posidonio abbiano spiegato il declino
della potenza militare etrusca con il
tenore di vita molle e la redditività
della terra, sembra tuttavia poco probabile una diffusione così estesa di
re e nella vita pubblica, aveva un ruolo molto più sacrificato e ristretto ad
Atene e in parte a Roma che nelle società oligarchiche quali quella spartana o l’etrusca. Qui infatti era esaltato il
suo ruolo di custode dei beni mobili e
immobili e di comunicatrice dei possessi fondiari oltre che della discendenza familiare, anche nei casi di rischio di estinzione per colpa maschile.
In Etruria l’importanza della donna si
manifestò invece tanto nell’onomastica, come mostra l’indicazione dei cittadini di pieno diritto che – per lo meno dal IV secolo - era completata col
nome materno, quanto nell’evidenza
dell’intervento femminile in vari luoghi della casa, anche borghese, contrariamente alla scarsa presenza della
donna nella dimora ateniese, limitata
ai cosiddetti ginecei.
Le donne etrusche risultavano anche
proprietarie di oggetti importanti, su
cui apponevano il proprio nome, e ricevevano un’istruzione quasi equivalente a quella degli uomini. Dunque
una dote si prostituissero.
Così Aristotele dà l’informazione sopra riportata sulle coppie a banchetto
malinterpretando forse le scene rituali di un matrimonio. Che il quadro
offerto da Teopompo non mostri una
forte coerenza interna trapela ad una
rilettura attenta del testo.
Qui si insiste dapprima, per le donne, sulla facilità di costumi e addirittura sulla pluralità di partner che si
oppone alla monogamia tradizionale; in seguito si distingue tra etère e
donne sposate. Per quanto riguarda
gli uomini, a proposito dei figli bastardi viene evidenziato il loro forte
impulso sessuale verso le donne, ma
dal testo (che riflette le parole di Teopompo, ma non ne sarà certo una trascrizione letterale) non si comprende
se lo specificare “tutte quante” indichi la faciloneria e il trasporto animalesco di tali signori oppure l’assenza
di discriminazione sociale, ossia se
con uomini di incerta paternità e
quindi di scarso peso sociale andassero non solo le sgualdrine ma pure le aristocratiche, nel qual caso
sarebbe un’ennesima tirata contro la categoria
femminile.
Inoltre,
mentre nella prima parte gli Etruschi risultano
dei gran donnaioli, nella seconda si legge chiaramente che essi traggono piacere di gran lunga
maggiore dai rapporti
con lo stesso sesso.
Insomma, sembra che la
fonte abbia idee un po’
confuse, e attribuisca alle signore comportamenti tenuti per lo più
dalle sgualdrine, forse
anche per l’abitudine
diffusa in qualche periodo e in qualche zona
di prostituirsi per crearsi la dote (come attestato in Plauto).
Certo da affreschi tombali come quelli del Triclinio la presenza delle
signore ai banchetti è
documentata, ma le illazioni sui comportamenti successivi sembrano
frutto di eccessiva maliziosità.
La quale peraltro trapela dietro l’insistenza sul
voyeurismo e l’esibizionismo, con una prima
osservazione che enfatizza la bisessualità –
come indica l’opposizione fare/subire – dei
personaggi, e una seconda che stranamente
frena il proclamato esibizionismo e lo riduce
ad una minore frequenza di casi. Voyeurismo
implicito è nella scenetta del servo che indica
con precisione in quali
pratiche sessuali passive sia impegnato il padrone al visitatore capitato casualmente e che
quindi non potrà essere
ricevuto (dunque il
voyeurismo è limitato
al servo!).
L’attendibilità delle notizie è infine indebolita
dall’ultima parte del resoconto, quella che si riferisce alla tryphè e l’habròtes dei popoli occidentali e in particolare
dei Sibariti. Qui i Greci d’Italia
avrebbero appreso l’arte degli estetisti dai Sanniti e dai Messapi, gente
semplice, guerriera e rude: e ciò sembra francamente strano. Come che
sia, tra i misteri della terra d’Etruria
c’è anche la reale natura della sua
gente. Ma dalle testimonianze che
conserviamo sottoforma di oggettistica, costruzioni, raffigurazioni fittili e
dipinte, ci sembra comunque… che
sapessero godersi la vita.
TEATRO COMUNALE “FRANCESCO ORIOLI” DI VALLERANO
28 febbraio 2004
ore 17:30
Luna d’Amore
Le più belle poesie d’amore d’ogni tempo e paese
William Dyce, Paolo e Francesca, 1837
Le vicende della passione amorosa paragonate, nel loro succedersi , alle fasi della luna. Luna crescente: l’innamoramento, l’oggetto d’amore; luna piena: il desiderio, la
passione; luna calante: il distacco, l’assenza; luna cinerea: il rimpianto, la memoria.
Si affiancano così in questo spettacolo poeti lontanissimi per epoca e per cultura che
tuttavia testimoniano con i loro versi l’immutabilità dell’amore esprimendo gli stessi stati d’animo persino con immagini e metafore analoghe.
Queste poesie di tutte le letterature propongono emozioni, slanci, le luci della
gioia e le ombre della sofferenza in cui ogni spettatore potrà riconoscersi.
4
N. 2 Febbraio/Marzo 2004
Miriam Nori, Oliviero Piacenti, Carla Chiuppi, Roberto Rosati, Antonio Cianchetti
Oliviero Piacenti
In occasione dello spettacolo verrà distribuito il secondo numero
del foglio L’Orioli con lo speciale dedicato all’Amore
soi, e presso i Tirreni ci sono molti centri estetici e operatori esperti di queste
pratiche, come presso di noi i barbieri.
E quando vengono in questi centri si
mettono pronti senza reticenze, non
vergognandosi dinanzi a chi li guarda
o che passa davanti. Tali abitudini le
hanno molti dei Greci che vivono in
Italia, e le hanno apprese dai Sanniti e
dai Messapi. Per via del loro amore
per la raffinatezza i Tirreni, come attesta Alcimo, impastano il pane e fanno
pugilato e danno i colpi di frusta al ritmo di uno strumento a fiato”.
pose “petroniane”, quale emerge nel
quadro di taluni storici ellenistici peraltro già anticamente tacciati di viziosità (“Theopompus… et Timaeus…
duo maledicentissimi”, Nep.Alcib.
11). Dagli studi relativi è emerso che la
società etrusca si fondava sulla famiglia monogamica. Come allora interpretare gli atteggiamenti osé delle scene sopra descritte, in cui compare
ostentazione del nudo, negazione della struttura familiare tradizionale e
piena libertà sessuale delle mogli?
In realtà la donna, nell’ambito familia-
agli occhi dei Romani o di certi Greci
esse godevano di un’importanza particolare e fruivano di una possibilità
di presenza in pubblico insperata altrove. Di qui ad attribuire una forte libertà sessuale il cammino è breve,
specie tenendo conto della tendenza
comune ad ogni età a mettere in cattiva luce popoli stranieri confinanti o
con cui si sono avuti rapporti ostili o
di rivalità. I vicini latini dell’età repubblicana – a quanto leggiamo in
Plauto - pensavano che le ragazze
etrusche non abbienti per costituirsi
Filippo Sallusto
FRANCESCA
DA RIMINI
Il più celebre ed ammirato episodio
dell’Inferno dantesco ha sempre goduto di una reputazione eccezionale,
se perfino nei detrattori del Seicento
(Beni, Frugoni) e del Settecento (Cesarotti, Bettinelli) esercitò un certo fascino. Con l’inizio dell’età romantica
poi si trasformò in un mito di formidabile portata, tanto da proporsi come prototipo dell’amore-passione,
dell’amore-rivolta contro la società,
le convenzioni, le leggi, la morale
borghese. Dal punto di vista estetico,
la critica romantica gareggiò con
quella decadente nell’evidenziare la
maestria compositiva dell’episodio,
dello stesso canto V che è per metà
diegetico ed enumerativo (“vedi Paris, Tristano... E più di mille / ombre
mostrommi e nominommi a dito”) e
per metà psicologico e tragico. Passare dal catalogo al ritratto — e che ritratto: è la scoperta della persona col
suo destino di salvezza o di dannazione — costituisce una novità portentosa che supera di colpo tutta la
letteratura cortese della Table Ronde.
Francesca di Rimini si presenta come
un gigante che occupa tutto lo spazio
della scena.
Ma quale ragione ha portato Dante
ad un’invenzione poetica di tale portata? E quale è il rapporto fra lui stesso, personaggio ed autore del poema,
con il personaggio rappresentato?
Come ha conosciuto, assorbito, rappresentato una storia così forte e dolorosa? Qui bisogna dire subito quella che è l’unica certezza in questa storia d’un delitto passionale nell’alta
società romagnola del Duecento: che
cioè nulla, proprio nulla esiste nelle
cronache del tempo prima che il poeta ne facesse oggetto di poesia. Abbiamo soltanto i nomi certi: Francesca figlia di Guido il Vecchio da Polenta, Paolo Malatesta fratello minore di Gianciotto Malatesta, signore di
Rimini. Tutto il resto è leggenda: che
Paolo fosse bello e gentile quanto
Gianni detto Ciotto (lo zoppo) era
brutto e deforme; che Francesca
avesse sposato quest’ultimo credendo di sposare Paolo; che la tresca fra
i due cognati si prolungasse per anni,
finché Gianciotto non tese l’agguato
mortale, facendoli uccidere l’uno sull’altra. Come talvolta accade, la poesia aveva preceduto la cronaca e non
viceversa.
Ora, chi è stato l’autore della finzione? Certamente Giovanni Boccaccio,
che nelle sue Esposizioni o commenti
della Commedia che lui avrebbe chiamata “Divina” raccolse — non si sa
da dove — le notizie che tutte insieme hanno formato il celebre episodio
così come lo conosciamo, e cui la critica moderna presta scarsissima fede.
Secondo il Parodi, la storia di Paolo e
Francesca sarebbe “la più bella e famosa novella del Decameron” ed
equivale in fondo ad un’apologia di
Francesca e del suo stesso peccato.
Bisogna tener presente questa tesi
perché, con diverse frange e tonalità,
essa condiziona la lettura, più o meno, dei vari interpreti della creazione
dantesca fino al Romanticismo,
quando per opera del Foscolo e del
De Sanctis il personaggio cresce fino
al prototipo della donna moderna,
cosciente della propria dignità ed autonomia soprattutto per quanto ri-
guarda la sfera sentimentale: vada o
no contro le leggi della società, della
religione, del costume, Francesca è
cosciente della propria passione, non
è pentita, ama per l’eternità l’uomo
che l’ha amata ed appunto per questo
appare vittima di una fatalità ineluttabile. Pertanto risulta anticipatrice
delle grandi creature romantiche, Manon Lescaut, Anna Karenina: eroine
passive e quasi sempre disperate, ma
ingigantite da quell’amore che è palpito dell’universo ed è legge tragica
della vita. Per il De Sanctis Francesca
è una creatura ideale in quanto, di
fronte alle donne del “Dolce stil novo” delle quali ripete le movenze e il
linguaggio, ha il vantaggio di essere
vera, di una verità artistica ed umana
che la rende unica ed inimitabile: “La
donna che Dante va cercando nel
sommo dei cieli l’ha trovata laggiù,
nell’abisso infernale, nella bufera che
mai non resta”.
Una lettura di tal genere pone inevitabilmente il problema del rapporto
fra Dante e la sua creazione, facendo
quasi supporre un duplice contegno,
di condanna come uomo e di assoluzione come poeta. Espressione di questa spaccatura sarebbe lo svenimento
finale che lo fa cadere “come corpo
morto cade”. Volumi sono stati scritti,
in epoca positivistica, sul divario tra il
sistema teologico, dottrinale, allegorico dell’oltretomba dantesco e la
splendida eccezione di Francesca che
lo contraddice in modo così vistoso.
Eppure anche questa lettura, che ha
avuto tanti illustratori, non soddisfa
la riflessione critica moderna, perché
ipotizza una debolezza speculativa
che è tutta da dimostrare. Se c’è un
principio chiaro e ben motivato nel
pensiero dantesco è proprio la concezione dell’amore come epifania divina, Dio stesso nella persona dello Spirito, armonia delle sfere e delle creature, anima della creazione e principio della vita. Ed altrettanto chiara è
l’indistruttibile presenza della legge
morale, che distingue l’uomo dagli
animali e dalle piante. La legge morale, che ha radici naturali (tant’è vero
che in diverse forme interessa tutti i
popoli della Terra) e conferme soprannaturali (cioè la rivelazione dei
Profeti e di Cristo), è obbligante per
tutti, anche se può essere ignorata o
rifiutata dal libero arbitrio. Francesca
l’ha infatti rifiutata per sostituirle
un’altra legge, quella dell’amore. Una
tipica ambivalenza verbale (amore è
la parola più ambivalente del dizionario italiano ed universale, perché
può riferirsi sia al mestiere della meretrice — “facciamo l’amore” — sia
alla divina Bontà che “muove il Sole e
l’altre stelle”) ha trascinato la donna
nella bufera infernale che mai non resta.
Per intendere questa ambivalenza,
che del resto ha risvolti intensamente
poetici e alimenta tanta parte dell’esperienza dantesca, dalla Vita nuova al
Convivio, occorre rileggere l’episodio
dei lussuriosi non solo nella prospettiva infernale ma anche in quella del
Purgatorio che è assai più esplicita.
Nei canti XXV e XXVI è esposta da
Stazio la dottrina aristotelico-tomista
sulla genesi dell’anima attraverso il
concepimento fisico, con un immediato codicillo di Virgilio: “Per questo
loco / si vuol tenere a li occhi stretto
il freno / però ch’errar potrebbesi per
poco”. Appunto per poco ha errato
Francesca, tanto è vero che verbi e aggettivi e stilemi del “Dolce stil novo”
sono passati nel suo linguaggio:
“Amor che al cor gentil ratto s’apprende”, “Amor che a nullo amato
amar perdona”, “aver pace”, “tempo
felice”, “Come colui che piange e dice”, “il disiato riso”, coinvolgendo in
perfetta corresponsione quello dell’ignoto pellegrino che ha pietà di lei:
“Quanti dolci pensier, quanto desio...”, “i tuoi martìri”, “i dolci sospiri”, “i dubbiosi desiri” con tipica iterazione musicale; e la confessione
d’essere “tristo e pio” al cospetto della tragedia amorosa, dove la tristizia e
la pietà si fondono, mantenendo tuttavia alla prima il significato passivo
di dolore ed alla seconda quello attivo
di partecipazione.
Ma c’è di più: l’iniziale similitudine
“Quali colombe dal disio chiamate,
ecc.” è di iconografia sacra (altro che
motivarla “perché animali lussuriosissimi” di cui già rideva il Foscolo!) e
il vento incessante si richiama allo
“Spiro”, allo Spirito Santo che può
scuotere le piante come le anime
(“scendi bufera ai tumidi / pensier
del violento” avrebbe invocato il
Manzoni), né si trascuri lo scolorire
del viso ed il tremare delle membra,
tutte denotazioni del timor Domini.
Se dunque il controcanto dell’illusoria felicità di Francesca è una collezione di emblemi sacri (c’è perfino la
“preghiera condizionata” che piacque
tanto al De Sanctis: “Se fosse amico il
re dell’universo / noi pregheremmo
lui per la tua pace...”), perché condannare una peccatrice che gode di tante
attenuanti e che per giunta è circonfusa di vera ed alta poesia?
La risposta non può essere che una:
l’ancella d’Amore che ha affascinato
tanti lettori e tanti emuli (Paolo ha per
lei perduto la vita, ma forse d’uno
struggimento ancor più profondo se
n’è innamorato il De Sanctis) non è
pentita e quindi non può ottenere misericordia. La sua auto-apologia, se
tale può chiamarsi, è iperbolica ed
esclusiva. Ipostatizza l’amore come
un assoluto, una necessità inderogabile che ha distrutto lei e Paolo, loro
soli al mondo. E il loro sangue ha tinto il mondo. Se proviamo a rileggere
il celeberrimo episodio in chiave moralistica, i conti tornano perfettamente. L’amore come corresponsione necessaria è una favola, che l’esperienza
smentisce ogni giorno: ma Francesca
lo pone innanzi a tutto quasi tavola di
una nuova legge.
Quando poi Dante la interroga per sapere come quel sentimento che era celato e quasi silente (e quindi puro, come puro è ogni amore al primo germoglio) fosse divenuto d’un tratto rovinoso e colpevole, egli sa di cogliere
il centro del problema. Finché la lettura della storia di Lancillotto e Ginevra
rimaneva sul piano dell’immaginazione, l’idillio non debordava dall’amore-cortesia descritto nel famoso
trattato di Andrea Cappellano e, benché non scevro di pericoli, rientrava
nel gioco aristocratico di una società
raffinata e galante; ma dal momento
in cui il bacio dei due personaggi fittizi si invera in quello dei due protagonisti reali l’amore-passione prende
il sopravvento e il talento sommerge
la ragione. L’ultima pennellata al quadro è il tracollo del poeta che “come
corpo morto cade”: che è parte anch’esso del rituale stilnovista, ma qui
porta all’estremo il conflitto tra giustizia e pietà. Ed equivale, come osserva ogni commentatore, ad una personale confessione di Dante.
Da ultimo, c’è un altro particolare che
contrassegna l’originalità dell’episodio nel quadro dell’amore cortese: il
libro. La mediazione amorosa era
svolta, nei romanzi della Table Ronde,
dai sortilegi, dai filtri, dagli anelli fatati, dalle pozioni afrodisiache (si ricordi quella che per equivoco, destinata a Re Marco, è bevuta da Tristano); e, nel peggiore dei casi, da un
personaggio lascivo come Galeotto.
Ma che tale funzione sia svolta da un
libro comporta un salto di qualità che
per la prima volta illumina con Dante
un fattore di capitale importanza nella civiltà umanistica. C’è anche qui un
possibile ammonimento cautelativo
(la polemica contro i libri cattivi, senza dubbio; ma la carta è materiale infiammabile ed occorre discernimento;
l’incendiario può finire acceso, come
sperimentò tragicamente il Savonarola), tuttavia resta fondamentale la
consacrazione della letteratura quale
scelta operativa fra il bene e il male.
Chi legge non è una spugna ma un filtro, non assorbe tutto ma solo quello
che consuona con la propria sensibilità, col suo giudizio, con la sua tempra morale.
In ogni caso, il libro vince il tempo.
Fermando il pensiero nella scrittura,
compie un atto che per sua natura si
sottrae alla legge della consumazione
dell’attimo, alla triste soggezione alle
cose. Ed è per questa legge dell’intelletto e dello spirito che l’uomo si apre
alle sfere superiori. È per il libro che
noi stessi, leggendo la storia di Francesca, possiamo crescere nella conoscenza delle anime e delle passioni, e
della catarsi che in noi si produce distaccandole da noi e contemplandole
nella non peritura bellezza.
Franco Lanza
(All Rights Reserved)
NdR: Franco Lanza, italianista di riconosciuta fama, è stato ordinario di letteratura italiana presso le Università di Palermo, Salerno e Viterbo.
Ha al suo attivo una ricchissima bibliografia che va dagli studi danteschi all’analisi di momenti e protagonisti fondamentali nella storia letteraria italiana antica e moderna (tra gli altri G.B. Vico, Alfieri, Manzoni, Leopardi, la poesia barocca e del ‘900, la figura di Benedetto Croce, l’Umanesimo cattolico). Nel 1994 ha
pubblicato Paolo VI e gli scrittori. Da lungo tempo, inoltre, si adopera per la diffusione della nostra cultura in campo internazionale, e in particolare presso le istituzioni dell’isola di Malta.
La critica letteraria
VINCENZO
CARDARELLI
Presentiamo in questo numero dedicato all’amore alcune poesie sul tema
di Vincenzo Cardarelli, il poeta originario di Tarquinia che, intorno al
1920, propone attraverso la rivista La
Ronda un ritorno all’ordine e all’equilibrio formale contro i recenti eccessi
delle avanguardie letterarie. Per lui
essere moderni, infatti, non significa
estirpare le radici che fissano l'arte
contemporanea alla tradizione, bensì
riuscire a esprimere gli ideali del proprio tempo seguendo l’insegnamento
di rigorosa armonia dei classici antichi.
In Cardarelli, dunque, l’esigenza di
novità si attua - seguendo la lezione di
Leopardi - nella ricerca di un linguaggio estremamente controllato e elegante, e in uno stile attraverso il quale
le vicende personali ed i dati paesaggistici sono elevati dal piano contingente a quello di una assorta e universale meditazione.
Le emozioni che in lui suscitano, ad
esempio, il mutare delle stagioni o il
fascino ingannevole della bellezza, la
fugacità dei sentimenti o la solitudine,
diventano nei suoi versi il paradigma
della condizione umana, l’espressione
di una visione pessimistica dell’esistenza che è condotta però senza sentimentalismi e compiacimenti autobiografici, anzi sempre all’insegna di
una sobria e dignitosa compostezza
espressiva. Allo stesso modo, i ricordi
penosi dell’infanzia e del paese natio,
sempre avvertito come ostile, vengono trasfigurati attraverso la funzione
idealizzante della memoria e resi mitici dagli echi culturali e letterari: così è
per la riabilitazione in chiave leggendaria della figura paterna, o per la rievocazione della amata-odiata Maremma come terra dei misteriosi Etruschi,
sorta di “paradiso perduto”.
Se vogliamo rintracciare una presenza
femminile nella vita solitaria di Cardarelli, l’unico suo vero amore è Sibilla Aleramo: egli se ne innamora a poco più di vent’anni, subendone tutto il
fascino e restando quasi travolto
quando capisce che questa passione
tormentosa altro non è che un’effimera fiammata.
Presto i due amanti si rivelano infatti
l’uno l’antitesi dell’altra, lei tutta istinto e passione, lui trattenuto da una naturale introversione che finisce per
trincerarlo dietro continue razionalizzazioni nevrotiche. Il poeta considererà sempre la donna come un mistero adorabile ma inafferrabile - “Io non
crederò mai nella donna. Questa è la
mia dannazione” - e si lascerà sopraffare dalla misantropia, risucchiato nel
vuoto esistenziale.
Nella nostra selezione, a un efficace
ritratto della donna amata dal titolo
omonimo, segue una composizione
dalla quale emerge la malinconia per
l’amore ormai finito e mai pienamente vissuto, e un’altra invece in cui la
memoria ingannevole e pietosa interviene a mitigare nel cuore del poeta il
ricordo doloroso della sua patria.
Chiude questo brevissimo excursus
nella poesia cardarelliana “Astrid”,
l'ironico racconto carico di umori misogini della breve avventura tra il
poeta trentenne e una giovanissima
ragazza norvegese.
Silvia Camicia
Ritratto
Esiste una bocca scolpita,
un volto d'angiolo chiaro e ambiguo,
una opulenta creatura pallida
dai denti di perla,
dal passo spedito,
esiste il suo sorriso,
aereo, dubbio, lampante,
come un indicibile evento di luce.
Amicizia
Noi non ci conosciamo. Penso ai giorni
che, perduti nel tempo, c'incontrammo,
alla nostra incresciosa intimità.
Ci siamo sempre lasciati
senza salutarci,
con pentimenti e scuse da lontano.
Ci siam riaspettati al passo,
bestie caute,
cacciatori affinati,
a sostenere faticosamente
la nostra parte di estranei.
Ritrosie disperanti,
pause vertiginose e insormontabili,
dicevan, nelle nostre confidenze,
il contatto evitato e il vano incanto.
Qualcosa ci è sempre rimasto,
amaro vanto,
di non ceduto ai nostri abbandoni,
qualcosa ci è sempre mancato.
Arabesco
Se non fossero i ritorni
che mi assicurano l’eternità!
I belli orizzonti che ospito
negli occhi con poco amore
e mutano rapidamente,
se non fosse il sagace inganno
che si consuma nella mia memoria
a riserbarmene il senso!
Poi da un barlume, un ricordo,
forse illusorio, ariose nostalgie,
recuperate realtà distese.
Dalle ignude concezioni
le prospettive ridenti
che si rifanno!
E i suoni, difficile scherzo,
senza dei quali il ritmo non sussiste.
Attesa
Oggi che t’aspettavo
Non sei venuta...
... Amore, amore, come sempre,
vorrei coprirti di fiori e d’insulti.
Astrid
(Temporale d’estate)
Fin dalla prima sera, è inutile
nasconderlo, io avevo messo gli occhi su
Astrid.
Ci voleva poco a capire l’enorme
differenza che correva fra lei e le sue
compagne.
La sua persona aveva infinitamente più
peso, più importanza.
Ella spiccava come una regina fra le sue
ancelle. Soltanto un osservatore
superficiale o dispettoso avrebbe potuto
non riconoscerla o trascurarla come si
trascurano d’istinto e si eliminano dal
commercio usuale i capolavori del genio,
le grandi opere d’arte.
Tutte le altre ragazze erano assai più alla
mano, rappresentavano un tipo
femminile abbastanza corrente.
In lei sola il mistero del sesso pareva
assumere un carattere, una figura, una
faccia.
Era dunque Astrid una fanciulla
segreta, naturalissima, con qualcosa di
tenero, di precocemente matronale e
nobile.
Più geniale che intelligente; e piena
d’imprevisto.
Perfidamente donna, aveva il gusto di
esasperare l’amore e di far soffrire.
Astrid era nata per piacermi.
N. 2 Febbraio/Marzo 2004
5
IL SENSO
CRISTIANO
DELL’AMORE
merito ne avrete? Anche i peccatori
concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri
nemici, fate del bene e prestate senza
sperarne nulla, e il vostro premio sarà
grande e sarete figli dell'Altissimo; perché egli è benevolo verso gl'ingrati e i
malvagi”. (Luca 6, 27-35).
Le due citazioni ci conducono immediatamente nel cuore del messaggio
evangelico, al punto che l’amore viene
indicato da Gesù come la divisa che distingue i suoi discepoli: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli
uni gli altri; come io vi ho amato, così
Questa semplice incursione nelle pagine del Vangelo sarebbe già sufficiente
per scuotere qualsiasi coscienza adagiata nell’apatia e nella roccaforte del
proprio egocentrismo. Non capisco come mai scritti di questo livello, contenuto e proposta non abbiano trovato
spazio tra gli lezioni letterarie impartite nelle nostre scuole, restando riservate all’ora di religione; la quale peraltro
è facoltativa, quindi significa che tali
insegnamenti possono benissimo essere ignorati. Ritengo questa una privazione fatta ai giovani, sotto il profilo
formativo.
Mi è stato rivolto l’invito a scrivere
questo articolo per il giornale curato
dalla Associazione che porta il nome
di Francesco Orioli: spiegare il senso
cristiano dell’amore. Una bella impresa!
Mi sono messo a tavolino per cercare
di riordinare le notevoli riflessioni provenienti dalla letteratura teologica, e mi sono reso
conto immediatamente di
camminare in spazi vastissimi,
variegati, impossibili da esplorare anche solo in parte.
Preferisco allora seguire il percorso più immediato suggerito
dagli scritti evangelici e dal
Nuovo Testamento, mettendomi
in ascolto delle parole del
Maestro dell’amore, Gesù Cristo, invitando il lettore a sedersi accanto a me, innanzitutto
per apprendere, conservare
nel proprio cuore, se possibile
vivere una proposta davvero
straordinaria.
Anche a Lui, un giorno, un tale fece questa domanda: “Maestro, che cosa devo fare per
ereditare la vita terna?” Gesù
rispose: “Che cosa sta scritto
nella Legge? Che cosa vi leggi?”. Costui disse: “Amerai il
Signore Dio tuo con tutto il tuo
cuore, con tutta la tua anima,
con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo
tuo come te stesso”. E Gesù:
“Hai risposto bene; fa’ questo
e vivrai”.
Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è il
mio prossimo?”. Gesù riprese:
“Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò
nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne
andarono, lasciandolo mezzo
morto. Per caso, un sacerdote
scendeva per quella medesima
strada e quando lo vide passò
oltre dall'altra parte. Anche un
levita, giunto in quel luogo, lo
vide e passò oltre. Invece un
Samaritano, che era in viaggio,
passandogli accanto lo vide e
n'ebbe compassione. Gli si fece
vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento,
lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo:
‘Abbi cura di lui e ciò che
spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno’. Chi di
questi tre ti sembra sia stato il
prossimo di colui che è incappato nei briganti?”. Il tale rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse:
“Va’ e anche tu fa’ lo stesso”.
(Luca 10, 25-37).
La parabola del “Buon Samaritano” dipinge con efficacia
l’immagine dell’amore cristiano.
In un’altra pagina del Vangelo
Gesù fa vedere cosa può compiere chi vive in modo radicale l’amore: “Ma a voi che
ascoltate, io dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite
coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano. A chi ti percuote sulla Sette opere di Misericordia, Caravaggio olio su tela cm 390x260 - Napoli Pio Monte della Misericordia
guancia, porgi anche l'altra; a
chi ti leva il mantello, non rifiutare la
amatevi anche voi gli uni gli altri. Da
Gli apostoli, i primi discepoli, hanno
tunica. Dà a chiunque ti chieda; e a chi
questo tutti sapranno che siete miei diraccolto questa eredità preziosissima
prende del tuo, non richiederlo. Ciò
scepoli, se avrete amore gli uni per gli
lasciata da Gesù, ed hanno percepito
che volete gli uomini facciano a voi,
altri”. (Giovanni 13, 34-35). Questo
con chiarezza che Cristo aveva indicaanche voi fatelo a loro. Se amate quelamore vicendevole è tale da spingere il
to la via giusta per ogni uomo. Guidati
li che vi amano, che merito ne avrete?
discepolo a donare persino la propria
dallo Spirito hanno composto delle sinAnche i peccatori fanno lo stesso. E se
vita per gli altri, e questo è il vertice
tesi capaci di scandagliare i vari tratti e
fate del bene a coloro che vi fanno del
dell’amore secondo Gesù: “Nessuno
virtù che si accompagnano all’amore e
bene, che merito ne avrete? Anche i
ha un amore più grande di questo: dala sua rilevanza esistenziale. Osserviapeccatori fanno lo stesso. E se prestate
re la vita per i propri amici.” (Giovanni
mo, a titolo di esempio, come S. Paolo
a coloro da cui sperate ricevere, che
15, 13)
elabora una teologia dell’amore incen6
N. 2 Febbraio/Marzo 2004
trata sulla figura di Cristo, e che per
questo chiama caritas (in greco agaph,
in italiano carità).
Rivolgendosi ai cristiani di Corinto,
che desideravano primeggiare nei vari
doni ricevuti dallo Spirito Santo, l’apostolo si rende conto che l’attenzione era
attratta maggiormente da manifestazioni straordinarie dello Spirito e i doni più apprezzati erano la capacità di
operare guarigioni, di parlare lingue
diverse, il fare profezie, l’esprimersi in
modo eloquente, la fede eroica e indefettibile. L’apostolo riconosce la legittimità di aspirare ai doni più grandi, ma
la via migliore di tutte sarà la carità,
cioè l’amore.
“Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la
carità, sarei come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.
E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede
così da trasportare le montagne, ma
non avessi la carità, non sarei nulla. E
se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser
bruciato, ma non avessi la carità,
niente mi gioverebbe.”
La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si
vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non
si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma
si compiace della verità. Tutto copre,
tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine… Queste dunque le tre cose che rimangono:
la fede, la speranza e la carità; ma di
tutte più grande è la carità!”.
(Prima Lettera ai Corinti 13, 113).
Dobbiamo però essere avvertiti che, nella nostra sensibilità
moderna, di solito, l’amore si
accompagna e si identifica
con le opere benefiche di vario genere. Esso viene allora
inteso come prassi, azione,
una specie di filantropia che
gode di un consenso generale.
Nella prospettiva cristiana l’amore non può essere ridotto a
semplice prassi: esso è compreso a partire dall’amore di
Cristo, il quale ci rivela e ci inserisce nell’Amore di Dio. Così si esprime Giovanni nella
sua prima lettera: “Carissimi,
amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e
conosce Dio. Chi non ama
non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è
manifestato l'amore di Dio
per noi: Dio ha mandato il suo
unigenito Figlio nel mondo,
perché noi avessimo la vita
per lui. In questo sta l'amore:
non siamo stati noi ad amare
Dio, ma è lui che ha amato noi
e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i
nostri peccati”. (Prima Lettera
di Giovanni 4, 7-10).
Il segno più grande dunque
dell’amore di Dio è Gesù Cristo morto in croce per noi, e
per mezzo di Lui abbiamo accesso all’Amore di Dio. Da
questo radicamento nell’amore di Dio, mediante Gesù Cristo, scaturisce e si fonda l’amore verso il prossimo: “Carissimi, se Dio ci ha amato,
anche noi dobbiamo amarci
gli uni gli altri. … Noi amiamo, perché egli ci ha amati
per primo.” (Prima Lettera di
Giovanni 4, 11 e 19). Gli scritti
del Nuovo Testamento sembrano come condurci per mano
per farci raggiungere la percezione dell’importanza decisiva dell’amore, il quale non
può essere un tema tra i tanti,
argomento di dibattito o di ricerca accademica. Nella prospettiva neotestamentaria e
giovannea diventa questione
di vita o di morte, e infatti,
proprio Giovanni, in modo
quasi lapidario afferma: “Chi
non ama rimane nella morte.” (Prima lettera di Giovanni
3, 14b).
Siamo partiti dal tema del
senso cristiano dell’amore, il
quale ha necessariamente la
possibilità di dispiegamento
solo nell’incontro con l’Amore di Cristo, che ci abilita ad
amare il prossimo alla sua
maniera. Amati da Cristo,
amiamo come Cristo, cioè donando la vita. Sembra paradossale, ma è vero: amando,
entriamo nella vera vita; non
amando, rimaniamo nella
morte. Se le cose stanno così, allora
dobbiamo aggiungere che Gesù ci ha
mostrato non tanto il senso cristiano
dell’amore, ma il vero senso umano
di ogni amore.
Don Ampelio Santagiuliana
NdR: Ampelio Santagiuliana, ordinato
nella diocesi di Vicenza (1978), è sacerdote
fidei donum nella diocesi di Civita Castellana (VT), dove è parroco.
Allegato al n. 2 de L’Orioli Periodico di cultura, costume e società “Speciale sull’Amore”
EROS CON
FORCHETTA
E COLTELLO
Anziché parlare di sublimi sentimenti, vorrei soffermarmi su una
passione molto terrena, vale a dire
l’amore per la buona cucina, che, come novello eros, si sta impadronendo di molti.
Mi si potrà obiettare che il buon cibo
ed il buon vino sono sempre stati annoverati fra i piaceri umani e non
posso che essere d’accordo.
Però mi sembra decisamente esagerato passare le serate disquisendo
sui ristoranti alla moda, citando le
stelle attribuite dalle guide quasi si
trattasse di decorazioni al merito,
oppure filosofeggiando sul sapore di
vini che, a giudizio del sommelier di
turno, di tutto sanno meno che di
uva.
gliate non contribuivano a dare una
sensazione di refrigerio. I signori avevano la fronte imperlata di sudore,
mentre a noi signore, adeguatamente
scollate, andava un po’ meglio. Il
menù che ci venne presentato era un
trionfo di pesce con le pere, carne con
i fichi e pane al sesamo e finocchio.
La mia scelta cadde su un piatto a base di pesce, di cui dimenticai subito il
nome, complicatissimo. La cena iniziò
con un antipasto offerto dallo chef: ci
fu servito un cubetto annegato in una
salsa chiara di origine ignota.
Arrivò poi un secondo piatto con un
cilindretto adagiato su una crema
gialla screziata di verde ed arancione.
Io pensai si trattasse di un altro antipasto: invece scoprii, con sommo stupore, che quello era il mio piatto a base di pesce.
Provai quasi dispiacere nel rovinare
una simile opera d’arte, ma ormai
avevo un certo appetito.
Il fatto più emozionante avvenne pri-
AMORE E BELLEZZA
Sul rapporto che lega il tema dell’amorepassione a quelli della bellezza e dell’arte,
ancora una autorevole riflessione, tratta da
La morte a Venezia di Thomas Man
Tra l’amaro e l’amore c’è un esile confine:
il mare è molto amaro, proprio come l’amore,
nel mare si sprofonda come accade in amore,
perché il mare e l’amore sono assai
tempestosi.
Chi ha paura dell’acqua, stia ben saldo alla
riva:
chi ha paura dei mali che soffrono gli amanti
ANIME GRAFFIATE
Qualche grande estimatore mi potrebbe far notare che, per apprezzare
appieno l’alta cucina, bisogna educare il palato; io stessa, anzi, anche se
mi sembrava fatica sprecata, l’estate
scorsa mi sono lasciata convincere da
alcuni amici a varcare la soglia di un
tempio della gastronomia.
Arrivammo verso le nove e mezzo e
fummo accolti da un cortesissimo cameriere che ci fece accomodare.
Il colpo d’occhio sulla sala da pranzo,
affacciata sul mare, era notevole e i
pochi tavoli rotondi spiccavano per la
loro eleganza. A onor del vero i nostri
vicini risultarono un po’ troppo rumorosi, ma dovevano essere clienti
abituali ai quali era fatta questa concessione. Purtroppo faceva molto caldo e non potevamo godere della
brezza marina, perché eravamo in un
tavolo d’angolo piuttosto lontano
dalla terrazza; inoltre i pesanti cuscini che coprivano le poltrone impa-
(liberamente tratto dal soggetto - scritto da
Maurizio Costanzo - del film Per sempre,
con Giancarlo Giannini e Francesca Neri)
ma del dessert, quando una signora
francese, seduta di fronte a noi e per
sua fortuna accanto alla finestra, all’improvviso perse i sensi.
I suoi amici le si fecero intorno premurosi, tranne uno che non perse il suo
aplomb e continuò imperturbato a cenare. Ci fecero capire che non era nulla
di grave, che il malore doveva essere
attribuito a “le chaud” e a “l’orage” – il
cielo infatti nel frattempo si era fatto
minaccioso -, mentre noi malignamente pensammo che forse la signora avesse visto “l’addition”. La cena si concluse con deliziosi pasticcini, anche questi
di formato più che mignon. Io mi sentivo sazia, ma pensai che qualche commensale con un appetito più robusto
del mio non lo fosse affatto. Alla fine il
conto, presentato su un piattino d’argento, si rivelò salatissimo. Ma, si sa,
anche i riti costano.
Francesca Rossi
Riceviamo e pubblichiamo
da una lettrice anonima questi bei versi:
Amore
Forte, potente
ndo
esce dal profo
a
dell’anim
si
ad occhi chiu
sole
il
o
rs
volge ve
terno
in
o
is
rr
il suo so
…e guarisce
vecchie ferite
felicità
portando una
insperata
a
che si trasform
e…
in dolor
i
lunghi sguard
i
rr
zu
occhi az
mordono
labbra che si
sia la
questa dicono
vera vita
Feeling
Perché è così forte
mi trascina
altrove
senza che io possa fermarlo
è impossibile
travolgente, cattura, si fa
spasimo
amo
questa è la verità
desidero
sogno
mi avvolgo di dolci
ricordi
sì vivo ora…
fama e gli onori di cui godiamo; grottescamente ridicola la fiducia riposta
in noi dal volgo, temeraria e indifendibile impresa l’educazione del popolo e della gioventù per mezzo dell’arte.
Come potrebbe infatti fungere da educatore colui che irrimediabilmente e
per sua propria natura è spinto verso
l’abisso? Vorremmo sì distogliercene,
vorremmo acquistare dignità; ma
ovunque dirigiamo i nostri passi, esso
ci attira. Così avviene che rinneghia-
“...Giacché, sappilo, noialtri poeti non
possiamo percorrere la via della bellezza senza trovarvi Eros, che ben presto ci impone la sua guida; e possiamo
anche, a modo nostro, essere eroi e disciplinati guerrieri; ma
in verità somigliamo
alle donne, perché la
passione è ciò che ci
esalta, perché soltanto
all’amore ci è dato
aspirare: e questa è la
nostra gioia e il nostro
obbrobrio. Or dunque,
vedi che noi poeti non
possiamo essere né
saggi né dignitosi, che
fatalmente cadiamo
nell’errore, fatalmente
rimaniamo dissoluti
venturieri del sentimento?
Menzogna,
millanteria è la nostra
padronanza dello stile, Amore che slaccia la cintura a Venere
buffonaggine la nostra Joshua Reynolds, Olio su tela, particolare - Firenze
Amore amaro
Canestra di frutta Caravaggio Olio su tela, cm 31 x 47
Milano, Pinacoteca Ambrosiana
Febbraio/Marzo 2004
non permetta all’amore di coglierlo
e infiammarlo:
evitino l’uno e l’altro e il naufragio
e l’incendio.
La madre dell’Amore ebbe il mare per culla,
dell’amor sorge il fuoco, e sua madre
dall’acqua,
ma l’acqua contro il fuoco non può prestar
riparo.
Se essa potesse estinguere il mio rogo
quando delle sue avventure, non ha
problemi a conquistare anche Giovanni, che pure di donne ne avute tante
nonostante sia "felicemente" sposato.
In questo caso, infatti, l'uomo si lascia
completamente irretire nelle seduzioni della ragazza; schiavo di questa relazione, mette in discussione tutti i
successi della sua vita, progetta un
nuovo futuro con lei e lascia la famiglia: perdendo la testa in un rapporto
che fin dall'inizio appare squilibrato, e
in cui egli è totalmente passivo, succube di un'amante ambigua e dominatrice.
Sara infatti non gli si dà mai del tutto,
non prova nessun desiderio di vera
intimità, rimane fredda, e - nel profondo - distante; dopo quattro anni, durante i quali alterna momenti di passione travolgente a distacchi improvvisi in cui si nega a Giovanni con
Raramente l'amore è sinonimo di felicità. Spesso, anzi, quella sensazione di
gioia e di leggerezza che si prova nei
giorni dell'innamoramento lascia presto il posto al dolore, a volte così straziante da annientare. L'espressione
"morire per amore" non rappresenta
un'assurdità, un'iperbole dei poeti o
delle canzonette. Può accadere davvero che qualcuno, disilluso dalla persona amata a cui ha donato tutto se stesso, riceva un tale graffio sull'anima da
perdere completamente la voglia di
vivere, da lasciarsi andare all'apatia
senza reagire e alla fine soccombere.
Quando tutti i suoi valori crollano, e le
speranze e i sogni sono distrutti, la realtà
può apparire priva di
ogni interesse rispetto a ciò che ha perso;
con il vuoto intorno e
dentro di sé, senza
più energia per affrontare gli eventi
quotidiani, avverte il
bisogno di annullarsi, di sparire.
È ciò che accade a
Giovanni, uomo e avvocato di successo,
quando conosce la
sfuggente e sensualissima Sara, che lo
coinvolge in una passione totale e devastante. La donna è
spietata con lui come
lo è stata con gli altri
uomini che ha incontrato nella sua vita,
prendendo da loro
solo pochi, distillati
momenti di piacere
fisico senza mai concedersi
completamente, senza rivelare
se stessa, e lasciandoli quando se ne è
stancata.
Abituata a condurre
il gioco, a stabilire il Circe , Lorenzo Garbieri 1580-1654, Olio su tavola cm. 66 x 51
come, il dove e il Bologna, Pinacoteca nazionale
mo la forza dissolvitrice della conoscenza: poiché, mio Fedro, la conoscenza non possiede dignità né rigore; è consapevole, comprensiva, clemente, priva di riserbo e di forma; ha
simpatia per l’abisso, è l’abisso medesimo. Noi dunque la ripudiamo energicamente, e da questo momento
ogni nostro studio avrà di mira la bellezza, ossia la semplicità, la grandezza e il nuovo vigore, la rinnovata
spontaneità, la forma. Ma forma e
spontaneità, mio Fedro, conducono al
desiderio delirante, facilmente portano il nobile animo a orribili colpe sentimentali, che a
lui stesso, nel suo armonioso rigore, appariranno infami; portano,
insomma, anch’esse all’abisso. Vi portano, intendimi bene, noi poeti:
perché a noi non è dato
elevarci, è dato soltanto
imbestiarci.
E ora, Fedro, io me ne
andrò e tu rimarrai qui;
e aspetta di non vedermi più, per andartene.”
Thomas Mann,
La morte a Venezia
amoroso,
il tuo amore che m’arde mi dà un tale
tormento
che il suo fuoco avrei spento col mio mare
di lacrime.
P. DE MARBEUF, “Amore amaro”,
in Le miracle d’amour,
a cura di M. Lever, Obsidiane, s.i.l. 1983.
un'indifferenza che rasenta la crudeltà, inaspettatamente tronca la relazione. Giovanni, allora, con il cuore
dilaniato, incapace di convivere con il
dolore e di gestire la sua vita dopo il
rifiuto, cade in uno stato di cupa depressione che, nonostante le cure del
suo medico, lo conduce alla morte.
Eppure...
Eppure, Sara non è una donna perfida, che si diverte a fare del male senza una ragione. In realtà è lei stessa
un'anima graffiata, che non ha ricevuto mai amore sin da quando era
bambina, e dunque non solo non è capace di amare, ma si è convinta che
l'amore non esista. Quando capisce
che Giovanni vuole con lei un legame
vero e completo, ella si spaventa e lo
abbandona. Sara ha paura di confrontarsi con gli altri, ha paura d'amare
perché ha paura di soffrire, e così
maltratta i suoi uomini
prima che questi maltrattino lei. Nasconde
l'anima perché è incapace di mettersi in gioco, perché cerca di difendersi; il suo vuoto
di affettività le ha fatto
credere di poter fare a
meno dell'amore, e
quando si accorge che
questo suo ennesimo
rapporto superficiale
rischia di tramutarsi in
qualcosa di più importante, fugge spaventata. Soltanto quando
Giovanni non c'è più,
Sara si accorge del suo
errore e capisce di aver
imparato ad amarlo, di
avere bisogno di lui;
ma ormai è troppo tardi. I ricordi, i rimorsi,
una dolce e leggera follia si insinuano lentamente nella donna, che
mette fine alla propria
esistenza affinché il loro amore possa continuare per sempre in
un'altra dimensione.
Un amore che ha corroso due vite, che ha annientato due anime.
Silvia Camicia
N. 2 Febbraio/Marzo 2004
7
Allegato al n. 2 de L’Orioli Periodico di cultura, costume e società
Xenia
Perchè gli “Xenia” sono soprattutto un
colloquio, un tenerissimo racconto a due voci.
Palmo su palmo
palmo contro palmo
e le dita intrecciate
per ancorarsi al suolo
a questo silenzio di odori,
di pelle
di gocce clandestine
perché il vento
che è più grande di noi
non ci porti via a questi istanti
per farci appartenere all’universo
che su di noi
in questo momento
vigila e si compiace
attento.
FERNANDO RIGON, “Rima baciata”, in
Dimore, Einaudi, Torino, 1989.
LA
Quando si parla troppo
L’amante ostinato
Giorno dopo giorno invecchio,
e non sono più saggio dell’anno
passato.
Un altro si lagnerebbe della propria
sorte
e si darebbe molto degni consigli.
Ma io non ho per me che consigli
cattivi.
Del resto so assai bene ciò che m’ha
nociuto:
che non le ho mai nascosto il mio
tormento.
Gliene ho parlato tanto e tanto
che non vuole più ascoltarmi.
Ora me ne sto zitto e m’inchino
davanti a lei.
In fondo ai flutti
posa una perla bianca.
Il vento può soffiare,
il mare scatenare la sua furia,
non avrò requie
finché non l’avrò presa.
REINMAR VOV HAGENAU, “Quando si
parla troppo“, in Chants d’amour, trad. di
B.Weis, Arfuyen, Paris, 1990.
ANONIMO GIAPPONESE, “L’amante
ostinato”, in Anthologie de la poésie
japonaise classique.
Le foglie morte
... Ma la vita separa chi si ama
piano piano
senza nessun rumore
e il mare cancella sulla sabbia
i passi degli amanti divisi.
Jacques Prévert
(Venezia, Marsilio, 2002, pp. 117-9)
L
a polarizzazione dimensionale è stata spesso considerata, a ragione, una delle caratteristiche fondamentali del
panorama industriale italiano. Il quale appariva quindi costituito,
per un verso, da poche grandi imprese,
pubbliche e private, operanti in settori
ad alta intensità di capitale, e per l’altro
da un gran numero di piccole aziende,
in molti casi piccolissime, labour intensive, attive soprattutto nei comparti tradizionali e legate a circuiti locali di formazione, reddito, risparmio e consumo. In un contesto così delineato, era
però quasi inevitabile che si tendesse a
trascurare la presenza e il ruolo delle
medie imprese.
Con Il quarto capitalismo – un’espressione coniata da Giuseppe Turani per distinguere tali aziende dalle grandi nonché dalle microimprese dei distretti, la
cosiddetta “Terza Italia” – Andrea Colli
intende invece analizzare lo sviluppo
di un universo, quello del Mittelstand
italiano, che appare in condizione di
fornire risultati eccellenti in termini di
produttività, valore aggiunto e redditività complessiva. Utilizzando il metodo della business history, egli ha pertanto preso le mosse dall’esame delle varie
vicende aziendali, le ha messe a confronto, ed è riuscito poi a ricavare alcuni tratti comuni di un processo di considerevole crescita.
È uno sviluppo che sembra aver tratto
beneficio sia dalle difficoltà in cui versavano le grandi imprese attorno alla
fine degli anni Ottanta, sia dall’avvento
delle privatizzazioni in seguito alla crisi della finanza pubblica. Le dismissioni delle holding di Stato avrebbero consentito a molte imprese di dimensioni
non grandi, ma neanche trascurabili, di
conoscere e assorbire delle pratiche gestionali moderne. Afferma in proposito
Colli: “Se da un lato è innegabile che le
proiezioni di carattere internazionale
siano andate progressivamente, e in
particolare nel corso degli ultimi due
decenni, svincolandosi dalle dimensioni d’impresa – per cui è proprio dai segmenti dimensionali minori ma anche
dalle agglomerazioni distrettuali che
sono giunti i contributi più dinamici al
processo di espansione sui mercati esteri dell’industria italiana, anche in termini di investimenti diretti – è altrettanto vero che tale sviluppo va ad esaltare il ruolo degli attori dotati di una
N. 2 Febbraio/Marzo 2004
IL MOTIVO
DI UN SOSTEGNO
“Una vita senza amore è come gli alberi senza fiori e senza frutti. E un
amore senza bellezza è come i fiori
senza profumo” (Kahlil Gibran): le
parole del poeta, scrittore e pittore
libanese sono
perfette per introdurre il tema a cui il secondo numero
de L’Orioli dedica il suo speciale, l’amore.
Questa scintilla
della vita, infatti, motore del mondo, ispiratore
di ogni azione, nella storia del pensiero dell’uomo non è mai apparso
disgiunto dal concetto di bellezza:
già Platone, ad esempio, afferma tra
l’altro nel Convito che “l’amore è
l’attrazione esercitata dalla bellezza”, che “esso nasce a contatto della bellezza sensibile”; e sempre,
dall’età classica in poi, Eros (egli
stesso fanciullo incantevole) è stato
raffigurato nelle opere dell’arte e
della letteratura in compagnia di
Afrodite, la dea della bellezza e
dell’armonia, della quale molto
spesso
viene
addirittura indicato come figlio.
Ecco allora perché abbiamo accolto con gioia
la proposta della Dolomia di
sostenere attivamente la nostra associazione; nulla ci è sembrato più appropriato che avere come
sponsor un’azienda che ha fatto
della bellezza e dell’amore per il
corpo la sua filosofia.
PROSSIMAMENTE A TEATRO
RECENSIONE
Andrea Colli,
Il quarto capitalismo.
Un profilo italiano
8
Febbraio/Marzo 2004
minima massa critica, in grado di agire
con successo avviando percorsi di crescita svincolati dai tradizionali modelli
di fabbrica integrata”. Ecco dunque
emergere, nel corso degli anni Novanta,
un consistente numero di imprese dalle
dimensioni medio grandi, presenti sui
mercati internazionali sia attraverso una
rete commerciale sia mediante acquisizioni di unità produttive, e organizzate
in forma di gruppo, con una holding a
proprietà familiare che è a capo di un
ampio ventaglio di aziende.
Ma cosa si intende per media industria?
Colli prende in esame circa 350 gruppi
industriali a controllo italiano, ciascuno
dei quali impiega almeno 500 addetti e
totalizza un fatturato netto consolidato
non superiore a 1,5 miliardi di Euro. Si
tratta di gruppi che, alla fine dello scorso decennio, realizzavano circa il 30%
del fatturato delle principali società industriali rilevate da Mediobanca, occupando il 40% dei loro dipendenti. Sotto
l’aspetto della distribuzione settoriale,
occorre aggiungere che i comparti maggiormente rappresentati sono quelli ad
alta intensità di lavoro ed elevata specializzazione: per esempio il settore
meccanico, con la produzione di beni
strumentali e di macchine utensili, l’edilizio, l’alimentare, il tessile e dell’abbigliamento. Riguardo infine alla collocazione geografica, sembra che la stragrande maggioranza delle imprese considerate affondi le proprie radici nei sistemi locali e nei distretti, ma anche nelle aree a più antica industrializzazione.
Il Mezzogiorno appare invece sostanzialmente estraneo a questa ondata di
sviluppo.
I gruppi hanno sovente avuto origine da
piccole aziende che, negli ultimi decenni, hanno dimostrato la capacità di adattarsi rapidamente all’evoluzione sia
qualitativa che quantitativa della domanda, dando luogo al consolidamento
e alla successiva espansione, soprattutto
all’estero. Le iniziative imprenditoriali
sono dunque andate a soddisfare solo
dei segmenti di domanda, magari in
vorticosa crescita. Non si è quindi trattato di produzioni di massa, ma estremamente specializzate (le lavatrici nel
caso della Candy, o i televisori in quello
della Mivar), e realizzate in maniera
flessibile grazie al terzismo e al decentramento. Va pure rilevato che, a partire
dagli anni Sessanta, le medie imprese
hanno realizzato acquisizioni sia per li-
nee orizzontali – cioè in settori contigui
– sia verticali: nel tessile, ad esempio, è
stata frequente l’integrazione a monte
attraverso l’acquisto di quote maggioritarie in aziende produttrici di macchine
utensili, o fornitrici di materie prime. Si
sono così formati dei gruppi assai concentrati sulla propria attività fondamentale, composti da unità operative
che godono di un certo grado di autonomia. Altri hanno invece mostrato una
spiccata tendenza alla diversificazione.
L’aspetto forse più interessante del
“quarto capitalismo” è però la sua
proiezione internazionale, che si manifesta in particolare sotto due profili: l’elevata incidenza delle esportazioni sul
fatturato e, come già accennato, la costituzione all’estero non solo di reti
commerciali ma anche di complessi
produttivi. Sono infatti molti i gruppi
che realizzano oltre confine più della
metà delle proprie vendite, mentre per
alcuni di essi le esportazioni arrivano a
rappresentare i quattro quinti del fatturato. Tuttavia, anche se internazionalizzati, i gruppi continuano ad avere rapporti assai stretti con le istituzioni bancarie locali, visto che tendono a non
chiedere risorse né al mercato obbligazionario né a quello azionario: d’altra
parte, l’elevata redditività consente alla
stragrande maggioranza delle medie
imprese di evitare forme di finanziamento eccessivamente onerose.
Per concludere, alla decadenza dell’impresa pubblica e al parziale ridimensionamento degli esponenti tradizionali
del capitalismo italiano ha corrisposto
una notevole trasformazione dei distretti, orientati a seguire la strada della presenza sui mercati mondiali mediante lo strumento del gruppo gerarchizzato. Sono questi i protagonisti che
sono andati emergendo, nell’ultimo
quarto di secolo, sulla scena economica
italiana, e che Colli considera “una
nuova, ennesima concretizzazione del
modello industriale italiano, in grado
di adeguarsi alle trasformazioni e ai
cambiamenti imposti dalla fase di internazionalizzazione dei mercati e di
globalizzazione delle produzioni”. Ci
chiediamo tuttavia se il “quarto capitalismo” sia in grado di contrastare efficacemente anche il declino industriale
del nostro Paese, che non ha più un
comparto informatico, vede la chimica
e la farmaceutica relegate in un ruolo
marginale e registra un aumento costante della propria dipendenza energetica. Se dunque il successo della media impresa attesta da un lato la vitalità
del capitalismo italiano, esso ne conferma dall’altro la collocazione nei settori
maturi del sistema economico mondiale, nei quali si fa sempre più minacciosa la concorrenza di nazioni che riescono a raggiungere degli standard qualitativi accettabili, potendo però contare
su un costo del lavoro assai più basso
del nostro.
Enrico Paventi
L
a storia. 1968: poco più che
tredicenne
Oliviero
Piacenti abbozzò la sceneggiature di un film, Il vento
del Nord, e insieme al suo
amico di sempre Antonio Maria
Frascarelli (Tonino) coniò il nome di
una ipotetica casa di produzione: la
EuroSperimentalFilm.
Muniti di una cinepresa 8mm appartenente al padre di Tonino, e di un traballante treppiede, i due iniziarono a
lavorare coinvolgendo un gruppo di
coetanei alla realizzazione del film.
Ogni bobina di pellicola da impressionare durava circa tre minuti e aveva un
costo tra le 2500/3000 lire, un prezzo
altissimo se si pensa che un litro di
benzina costava all'epoca 100 lire.
La "produzione" ebbe delle grosse
pause di lavorazione perché occorreva
reperire i fondi necessari per l'acquisto
della materia prima. Così i mesi e gli
anni passavano inesorabili fino a quando nel 1971 un giovane laureato,
Zefferino Cerquaglia, venne a conoscenza della loro impresa; aveva ottenuto da poco un posto di insegnante in
UN
Sardegna e, interessatosi al progetto,
decise di aiutarli inviando ogni mese
5000 lire. Questo insperato aiuto permise loro di finire le riprese e giungere
alla proiezione del film nel 1973.
Il vento del Nord aveva una durata di
un ora e quindici minuti e venne
proiettato al Teatro Sociale di Avigliano
Umbro dove ottenne un notevole successo di pubblico e di critica.
Seguirono altri lungometraggi, questa
volta in S8: Pensavo a noi due (1974),
Storia di un autonomia (1974), Io cittadino
italiano (1975), TG1 - TG2 - TG speciale
(1976), A.A.A. Assassino cercasi (1977).
Con l'avvento del SVHS nacquero
Rural Comics (1988), La vera storia di Sir
Lancillotto del Lago (1992) e i documentari Te lo do io il Venezuela (1989), Paris
(1992), Otto giorni dall'Est all'Ovest
(1993), Un caliente viaje por la Espania
(1994), Praga (1995), Laghi città monti e
valli d'Italia (1996), Fino alla grande diga
(1997); gli spot pubblicitari Erboristeria
Monterotondo (1992), Distributori
Automatici Illy Caffè - D.A.C. (1997); le
videoclip del 1992: Pellicceria Elisa,
Sartoria Pozzi, Maglieria Novella,
Lingeria Gil'Asso; il back stage per il
calendario Rimembranze 1993; ed infine
le parodie di films Robin Hood al castello di Sismano (2000) e Casablanca secondo
noi (2002).
Dopo sette anni di pausa la ESF un
sogno mai dimenticato, ha ripreso vita
grazie a Paola Contili, che insieme ad
Oliviero Piacenti è stata promotrice del
nuovo gruppo di appassionati di arte e
cultura cinematografica che ha come
scopo quello di realizzare produzioni
video e cinematografiche privilegiando soggetti di autori umbri girati sul
territorio; entrambi sono direttori di
tutto il progetto dal 1999.
RICORDO
Riflessioni in posa poetica di Maria Cristina Bigarelli
La nostra Africa
L’Africa che conosco è quella che
respiro senza sentirne il sole cocente
sulla pelle, è quella che emana
odori sottili e gradevoli senza
che io ne assorba le impurità.
La nostra Africa non è solo il
penetrante linguaggio dei tam-tam,
è quella che suscita la magica
illusione dello scorrere dell’acqua
dei maestosi fiumi plastici e
dei mille luccichii senza correre
il rischio di inzupparsi le membra.
La nostra Africa è quella delle forti
sensazioni, dei misteriosi rumori,
dei mille colori della foresta,
del fruscio dell’immenso cupo mare
verde, dell’orchestra gaia, varia,
insidiosa, letale, infinita della fauna
tropicale che scuote le orecchie.
La nostra Africa è quella degli
Yoruba, degli Ibo, degli Hausa, dei
Fulani che nelle loro ricchezze tribali
e nelle loro leggi semplici, vivaci,
rigorose, severe, nel contempo
crudeli, ma estremamente vere, ci
insegna ad amare, è quella che ci
rende cittadini di
un mondo che in realtà
ci appartiene, e che ci fa soffrire ed
anche gioire,
che ci rattrista e ci esalta,
che ci separa per poi stringerci tutti
come uniti da uno splendido anello
d’avorio sottile ma resistente e
pregiato.
RIFLESSI D’ARTE
RIFLESSI D’ARTE
Emilio Troncarelli di Nicola Piermartini
Bernd Rosenheim
A
lla ricerca di echi del
passato, di atmosfere
colte in condizioni particolari d’animo e di luce,
di dimensioni forse sognate, ammirando le opere pittoriche
di una mostra. Gli acquerelli e gli oli
di Emilio Troncarelli stimolano quella
ricerca, che in fondo è un viaggio interminabile nei territori delle proprie
esperienze, della propria sensibilità,
del desiderio - forse mai affiorato nitidamente - di varcare le soglie del reale. Nonostante l’impianto dei quadri
sia figurativo, l’atmosfera che li anima, però, è quasi atemporale. Una luce ovattata, discreta, crepuscolare a
volte, avvolge e lega
i primi piani alle diverse lontananze: tutto
sembra sul
punto di
mutare, di
annullarsi
nell’ombra,
o di incendiarsi nella
luce.
Le nature
morte travalicano la pura rappresentazione:
comunicano
atmosfere metafisiche, nelle quali gli
oggetti esprimono la propria quotidianità ma assurgono, nel contempo,
a modelli universali. Pur collocabili in
una spazialità definita, in uno spazio
cioè chiaramente individuabile, un
frutto, un vaso, una pianta diventano
attori di un momento unico, irripetibi-
le, senza dimensioni spaziali e temporali. Nature morte, quindi, che sono illuminazioni improvvise dell’anima,
più che fenomeni ingadati dagli occhi,
sia per l’essenzialità dei volumi e della
composizione, sia per la luminosità della pennellata. I brani del paesaggio romano assumono caratteristiche particolari se impreziositi dall’olio, o se centellinati dagli acquerelli. In questi ultimi
dominano cupole eteree, veleggianti
nell’infinito, al di sopra della quotidianità; non si scorge figura umana, ma le
mura e i tetti sono vivi: trasmettono i
fremiti di un’attività instancabile con la
contrapposizione, la variazione, il dialogo di colori e toni. In splendido isolamento
si
stagliano
monumenti
conosciuti
universalmente. Gli
oli sono più
intimi; gli
elementi del
paesaggio
bisbigliano,
a volte nella
penombra,
a volte nella
luce mattutina, a volte
in quella
pomeridiana, sempre
però interpretati dall’originale sentire del pittore.
Ponti, cupole, monumenti, case: il respiro dell’antico e i segni del presente si
legano in maniera nuova, inusitata, nelle opere di Troncarelli, generando emozioni particolari. Le evoluzioni delle
pennellate sono sempre guidate dagli
intenti espressivi.
Il mondo pittorico
di Eraldo Bigarelli
di Claudio Strinati
B
igarelli è un uomo che ha visto molto e ha molto viaggiato. La sua attività gli ha permesso di conoscere realtà remote rispetto alla nostra, situazioni diverse, retaggi di civiltà multiformi.
Ma il pittore Bigarelli è piuttosto colui
che mira a descrivere una grande “galleria” di personaggi, come accadeva un
tempo quando i pittori antichi costituivano delle “serie” di tele rievocanti una famiglia nobiliare o
la storia di un
ordine religioso .
E’ una forma
moderna e del
tutto insolita di
“rappresentazione storica”,
riproducente un
ideale visivo che
l’artista si è portato e si porta
dietro ormai da
molti anni di ricerca continua e
coerente. Lavora
con passione e
con singolare capacità produttiva, in un esercizio continuo della mano che potrebbe
sorprendere in tempi come i nostri, dediti a ben scarsa attenzione per il momento tecnico nel campo figurativo.
Ma è stretto il rapporto che c’è nell’artista tra l’amore dell’arte in sé e il senso
di dignità etica che egli conferisce alle
sue immagini. Il suo occhio è ravvicinato e partecipe, sente con intima partecipazione e, si può dire, ben poco condi-
zionato dal peso delle tradizioni pittoriche che lo hanno preceduto.
Il suo è un rapporto immediato, dal
punto di vista della sensibilità emotiva,
con la materia pittorica e non ha bisogno di particolari supporti storiografici
per essere compreso e apprezzato.
Il mondo pittorico di Bigarelli nasce e si
sviluppa integralmente nella fantasia
dell’artista, una fantasia tutt’altro che
aliena da suggestioni culturali ma determinata da un
approccio quasi
magico e meditativo con le figure che si accinge a rappresentare. Non si
saprebbe se sia
più giusto riferirsi a quel concetto di “conoscenza” interiore che anima
tutte le cose e le
trasfigura nell’immagine pittorica o piuttosto a quello di
adesione a una
realtà
sentita
senza alcun intellettualismo e
quindi propria,
nel senso più intimo del termine. Certo è
che dalla visione dei lavori di Bigarelli si
ricava una compattezza e una unitarietà
di intenti degna di segnalazione nel panorama artistico dell’Italia contemporanea ed è da augurarsi che alla sua opera
possano accostarsi con interesse soprattutto i giovani che sono alla ricerca di
prospettive estetiche di contenuto e di rispetto per il mestiere stesso dell’arte.
N
on è facile inquadrare
questo eclettico artista
dai molteplici interessi.
È scultore, pittore, grafico, architetto, cineasta,
poeta, saggista impegnato.
Che egli abbia una cultura a tutto campo lo dimostrano i suoi studi, le ricerche, le opere, i libri e i telefilm dai quali traspare l’ammirazione per la cultura
orientale, in particolare quella indiana e
soprattutto cinese. Però influenze non
ce ne sono. Possono affacciarsi solo approcci, e vanno lontano. Vanno all’arte
cinese e alle collezioni grafiche di poesie cinesi. Qualcosa va anche all’antica
arte egizia, indiana, azteca; qualcosa sembra - all’Ordine dei Cavalieri Teutonici, alle loro favolose armature, teste
immense in quegli elmi a gorgiera “a
profilo”. Maschere? Teste metafisiche. Il
segno, oggi, della plastica multimaterica dell’artista.
Bernd Rosenheim nasce a Offenbach
nel 1931 e qui inizia gli studi alla Kunstschule, studi conclusi alla Städelhochschule della vicina Francoforte sul Meno. Attualmente ha tre case-laboratorio:
a Michelstadt, a Offenbach e in Irlanda,
a Kenmare. Qui, in particolare, lo studio è attrezzato per la produzione di
grandi sculture di acciaio inossidabile.
Fa tutto lui, progetto e manualità.
Rosenheim ha lavorato anche a Roma,
città di cui è innamorato. Parla benissimo l’italiano. Preso dalle tinte di Roma,
dell’Appia antica, negli anni dal 1958 al
1961 dipinge molto, ma il colore predomina talmente sulla forma che a un certo punto sparisce, ovvero è tutto colore.
A seguito di un incidente - degente ingessato per lunghi mesi - ha una pausa.
Poi torna ai pennelli, ma non c’è più il
gran colore; ci sono il bianco e il nero, e
un terzo elemento: la luce. Ecco la vibrazione. La luce è inclusa nella forma,
è la forza concettuale della forma, anzi
della Gestaldt che è qualcosa di più della semplice forma. Infatti le opere di
questo periodo sono tutt’altro che prive
di contenuto, perché quelle forme
astratte il contenuto ce l’hanno, almeno
così dicono i titoli. Spesso appare un segno criptico, una gran virgola, un becco, un segno appunto.
A Rosenheim non interressano i contenuti ideologici, ma la Gestaltung, la
forma in sé, e il Kunstbetrieb, l’esercizio dell’arte, la manualità.
L’artista tende allo spazio, pittura
e scultura, tende alla terza dimensione, alla ricerca della materia, all’unione dei tre elementi spazio-luce-vibrazione.
Arriva allora l’acciaio inossidabile,
che secondo lui cattura la luce. Rosenheim entra anche nell’arte integrata, progetta complessi
architettonici, alcuni anche
utopici, ma l’utopia altro
non è che un irraggiungibile traguardo. Un fine
che non c’è mai.
Nel 1970 Rosenheim crea, e
allestisce con le sue mani,
una grande struttura sferica
tubolare del diametro di cinque metri, che è una trasparente, intricata ma geometrica composizione di tubi e
tubicini di acciaio inossidabile in parte saldati e in
parte imbullonati. Lavoro
da ingegnere, esibizione
tecnologica, ma pur
sempre opera d’arte.
Per la città natale
di
Offenbach
compone
nel
1971 una struttura di acciaio
inossidabile di
4,5 metri: lamiera saldata, una
forma in equilibrio su un
punto, che non titola, ma
che i concittadini battezzano “Flamme”. E
fiamma rimane. Da
allora si susseguono
numerose grandi sculture di acciaio
inossidabile.
C’è però, in tempi recenti, anche un approccio all’arte antica, alla mitologia.
Rosenheim si mette al di fuori della
propria cultura. È un punto - dice - come il punto di Archimede, al di là della
leva. L’incontro
con l’acciaio inossidabile apre una ricca stagione di scultura
monumentale. C’è sempre il “segno” dell’artista,
e c’è un’allitterazione del segno in quelle sculture lamellari
stratificate.
Dopo il 1983 lo scultore trascura l’acciaio per introdurre nuovi materiali, specialmente legno, bronzo, leghe,
cuoio, pelle. In certi casi
distende il colore e al
di sopra dipinge a
tempera e grafite.
Dall’astratto e dall’astrazione
Rosenheim si inoltra
nel surreale. Probabilmente memorie affondate nel surreale che in questi anni emergono dall’inconscio. C’è un occhio allucinato che esce dalle tenebre
del ricordo e affiora in molte
composizioni di questo periodo. Talvolta i calligrammi
sono i segni, quasi arabeschi,
che sulla tela portano i versi
dell’artista. Potrebbero essere opere finite, ma si sublimano. In questa atmosfera, dopo “Testa di Sfinge” del 1991, è
importante
l’opera
polimaterica
“L’Ombra del Samurai”, che egli chiama impropriamente installazione ma
che tale non è nel senso di collocamento in un sito di pezzi o frammenti più o
meno banali. È invece una poetica opera pittoscultorea che si presenta come
una specie di collage a distacco, come
un trittico parte in seconda e parte in
terza dimensione, nel quale la scultura
esce dal piano dipinto. Sono i calligrammi, i versi di Rosenheim, e su di
essi grava un’ombra che non è propriamente l’ombra del soggetto, ma una
stele, il trascendente Samurai. Non è
un’ombra reale, è un’ombra virtuale.
Oltre a essere un autentico artista, Rosenheim è un autentico, candido operatore artistico. Ama l’arte ma sa che
essa è un mondo troppo
chiuso in se stesso. Lo controllano i critici, i galleristi, i direttori dei musei, coloro
che comprano influenzando il mercato. Se non riesce a
entrare nella gilda,
l’artista viene buon
ultimo. Nell’ottica di
questi rigetto della corporazione, Rosenheim che di per sé non ha problemi di mercato - si inoltra
sulla pericolosa strada delle
fondazioni. A Francoforte istituisce generosamente una fondazione per la valorizzazione
dei giovani nel campo del
disegno, della pittura e
della scultura. Nell’ambito della fondazione
comincia ad assegnare un premio per la
pittura e pubblica il
catalogo dei premiati. Immerso in
tali meritevoli attività, ha poco tempo
per il resto; ma poi
riesce a tornare alla
scultura, con la grande
“Sfinge” di acciaio inossidabile situata a Grosswangen,
Lucerna. L’opera monumentale (5x2,30x2 metri) sorge
ora sul lato della strada statale davanti all’Officina
Held (tecniche laser). Im-
di Alessandro G. Amoroso
pressionante l’installazione, avvenuta
in pochi minuti. I tecnici della Held
avevano preparato nel prato il basamento su adeguate fondazioni: una
semplice lamiera di acciaio inossidabile
con quattro fori agli angoli. La “Sfinge”
attendeva su un
autocarro, coperta
da un telone. Al via
una gru altissima l’ha
sollevata contro il cielo
e l’ha abbassata rapidamente con precisione sopra il
basamento. Quattro bulloni
agli angoli e tutto era fatto.
L’opera è stata creata e
realizzata con fatica
interamente dall’artista stesso.
La lamiera piegata a freddo sull’incudine, lentamente: un lavoro da fabbro,
da calderaio. Un
lavoro anche da
saldatore, effettuato
con bacchette Tig.
Creatività e manualità.
Kunstberieb. Ovviamente Rosenheim è
orgoglioso anche di
questa sua raffinata
manualità.
Rondò
apocalittico
Il Cielo però è vuoto
Ed è un grande specchio
Nel quale si specchiano le paure degli
uomini
Lo specchio restituisce a loro
Le immagini dei loro pensieri
E gli uomini si piegarono
Di fronte alle loro proprie immagini
Si prostrarono
E le implorarono
Ed egli parlò:
“Non dovete crearvi idoli,
Né immagini, né colonne,
Né pietre dipinte nel vostro paese,
Davanti a cui pregare”.
Non lo ascoltarono
Perché era morto già da lungo tempo.
Invece diedero un nome a quelle figure
Le richiamarono alla vita
E conferirono loro potere
Ed esse dominarono
Gli uomini
E le creature degli uomini
Mandarono a loro piaghe di ogni genere
Sotto varia forma
Visibili e invisibili
Così che i popoli videro la fine dei tempi.
Delle piaghe le più temibili
Sono le invisibili.
Arrivano sulla Terra
Simili a un’invasione di cavallette
E il loro numero è uguale ai granelli di
sabbia
In riva al mare
E le cavallette sono simili a cavalli
Bardati per la guerra
E sul loro capo ci sono corone
Simili all’oro
E il loro volto è simile a quello umano.
E hanno corazze come carrarmati di ferro,
E il fragore delle loro ali
È come il fragore dei carri trainati da tanti cavalli
Lanciati alla guerra.
E hanno code come gli scorpioni
E aculei ...
E in quei giorni gli uomini
Cercheranno la morte
E non la troveranno,
Desidereranno morire
E la morte li sfuggirà
Ma il cielo sarà vuoto
Come un grande specchio ...
Bernd Rosenheim
N. 2 Febbraio/Marzo 2004
9
DENTRO L’OPERA D’ARTE
Eugenio Montale
L’arcano della melanconia
di Nicola Piermartini
M
elanconia. Etimologicamente: nera bile,
ossia umore nero.
Uno stato d’animo
che vive di silenzi, di
solitudine, di penombre ed ombre.
“Melanconia” è scritto sul piedistallo
di una statua al centro di un quadro,
dal titolo omonimo, di Giorgio De
Chirico. Dipinto nel 1912, fu esposto
per la prima volta a Bruxelles nel 1934,
in occasione della mostra “Minotaure”. L’invenzione del pictor optimus è
magnetica, ammaliante. L’osservatore
sensibile è calamitato nel quadro: calca
l’infinita distesa verde dell’erba, curatissima, con passi incomprensibilmente esitanti; si smarrisce, si stordisce, sovrastato dagli ieratici portici incombenti; volge le spalle alla luce radente
mattutina, accecante, che lancia ombre
lunghissime e vibranti; si avvicina con
l’animo sospeso alla figura femminile
marmorea distesa mollemente: l’espressione del volto, con le palpebre
abbassate e la testa reclinata su una
mano, le membra possenti, opulente,
le pieghe sontuose del panneggio ric-
chissimo comunicano abbandono e
maestosità nel contempo. Forse l’ombra in basso a sinistra appartiene ad
ogni ipotetico osservatore, forse no: un
pilastro cela l’identità di chi origina
quell’ombra: un mistero nel mistero. Il
cielo terso e la distesa di monti lontanissimi sono esclusi da quel mondo
circoscritto e immenso insieme: mondo di pietra, nel quale la presenza
umana è ospite, tollerata, transitoria.
Anche se l’uomo lo ha costruito. Una
sorta di ribellione della creatura contro
l’artefice. I palazzi con portici debordano dal quadro. Non c’è, però, curiosità di conoscere dove e come essi si risolvano. Tutto è compiuto, concluso in
quell’ambientazione: perfezione computerizzata, scaturita dalla mente di
un demiurgo, che ha voluto, più o meno consapevolmente, stupire e atterrire l’umanità. Umanità, esemplata in
due figure lontane: ombre nel controluce, ombre su ombre, delle quali non
si scorgono lineamenti ed espressioni.
Nei loro atteggiamenti si leggono titubanza, sottomissione, ma anche attrazione irresistibile verso la fonte della
Melanconia. Si avvicinano lentamente
a quella fonte: forse per sapere, forse
per rendere omaggio, forse per annullarsi. E lei, nell’impassibilità e nella
grazia ellenistiche, è il cuore pulsante
di quel microcosmo: cuore di roccia viva, ora forse insensibile, malato incurabilmente della Melanconia di chi ha
visto, e sofferto, gli splendori e i declini di tante civiltà.
TEATRO
Lo Zoo crudele di Macbeth
I
l Macbeth è uno zoo? così pensa
Daniele Scattina, giovane allievo
di Leo de Berardinis: gufo, falco,
nottola, gazza, corvo, pipistrello,
topo, serpente, biscia, istrice, rospo, ranocchia, ramarro, lucertola, capra, capriolo, tigre, pantera, leone e così via. Sono solo alcuni degli animali
evocati nel dramma di Shakespeare.
Sembra motivato, pertanto, il titolo dato allo spettacolo: “L’animalità di Macbeth”. Ma l’animalità è del personaggio o del dramma? Sulla scena non si
risponde a questa domanda. Ciò che il
Bardo denuncia è la vanità della violenza e la lotta per il potere - si sa. La
vita è un’ora di recita insensata, futile
e cruenta. Nel Macbeth non si parla
della crudeltà, che è scontata, ma della
grandezza del male. Scattina ha scelto
la traduzione di Salvatore Quasimodo:
un capolavoro in una lingua viva e
pungente che fomenta buone prove
d’attore. Il regista ha sfrondato e interpolato il testo e definisce il suo laoro
“d’avanguardia”. Un pò frettolosamente, credo. La sua lettura non è
avanguardistica, ma classica: riporta
in auge l’aura novecentesca di lady
Macbeth (Danila Bellino è una vera
scoperta) rendendola motore della tragedia. L’interpretazione “classica”
l’ORIOLI
PERIODICO DI CULTURA, COSTUME E SOCIETÀ
Anno 1 - N. 2 Febbraio/Marzo 2004
Iscritto al tribunale di Viterbo al N. 513 del
Registro Stampa con decreto del 7-2-2003
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editing: Via Gramsci 11 - Vallerano (VT)
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Vittorio Arista vicepresidente
Nicola Piermartini direttore responsabile
Progetto grafico Rosanna Cori
Hanno collaborato
Francesca Rossi, Filippo Sallusto,
Mario Mariani, Miriam Nori,
Sandro Piccioni, Silvia Camicia,
Vittorio Arista, Franco Lanza,
Enrico Paventi, Stefania Iurescia
10
N. 2 Febbraio/Marzo 2004
prosegue nella malinconia conferita ai
ruoli principali, in particolare Banquo,
già un’ombra prima di diventarlo effettivamente (l’ottimo Marco di Campli San Vito).
E le streghe, vera invenzione, a metà
sospese fra Tim Burton e il Rocky Horror Picture Show, fluttuano nel buio,
lacerano di suoni e voci le tentazioni
degli ambiziosi (sono Rita Gianini,
Alesssandra Dell’Atti e Manuela Di
Salvia). Godibili gli inserimenti di Vasco Montez e ben calibrati anche gli altri. Daniele Scattina come interprete
sconta un pò il doppio lavoro (meglio
il regista). Ma questo bello spettacolo
sempre coinvolgente scivola verso una
meta con coerenza e una disperata
maieutica, credo non involontaria: la
progressiva distruzione della virilità
di Macbeth da parte della lady, l’irrisione costante e silenziosa dell’uomo
infecondo, ispiratrice di sangue e follia, come se la cieca violenza predatoria fosse una rimozione sessuale, o addirittura - sembra - un atto non compiuto. L’allestimento del Teatro delle
Ombre è coaduivato da opportune
scelte musicali (da Stockhausen a Arvo
Part) di Giandomenico Finamore.
Luca Archibugi
Associazione culturale europea “Francesco Orioli” ONLUS
Assessorato alla Cultura del Comune di Vallerano
Compagnia Teatro delle Ombre associazione culturale
presentano
Spesso il male di
vivere ho incontrato
di Nicola Piermartini
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola,
[e il falco alto levato.
Il male di vivere: un argomento che fa
da sottofondo a tante liriche di
Eugenio Montale (1896-1981), premio
Nobel per la letteratura nel 1975. Il
male di vivere: un sentimento, una
miscela di sentimenti, che, seppure
mai nitidamente connotato, getta una
colorazione particolare su ogni azione
umana e, naturalmente nel caso di
Montale, sull’espressione poetica.
Sentimento, stato d’animo, angoscia
indistinta, che è esemplificata in
frammenti di realtà nella lirica
“Spesso il male di vivere ho
incontrato”. Sette endecasillabi e un
doppio settenario di chiusura: una
breve, incalzante, fragorosa cascata di
versi, che svela, però, un panorama
culturale e umano amplissimo. I
palpiti di sofferenza interminabile,
spossante, del “rivo strozzato che
gorgoglia”, seppure riscontrabili
realisticamente in tante laude del
mondo, non possono non richiamare
alla mente e al cuore le pene,
interminabili, disumane, di tanta parte
d’umanità, che, in silenzio spesso
recita il rosario tristissimo di giorni,
mesi, anni, sostenuta soltanto da un
inesausto istinto di sopravvivenza.
Naturalisticamente, ne “l’incartocciarsi della foglia riarsa” sono avvertiti distintamente gli spasimi, gli scricchiolii, i gemiti, il frangersi inarrestabile,
sadico, impetuoso, insensibile, dell’anima, di un miracolo del creato, che
aveva affidato al vento, all’infinito, il
suo canto d’amore, di giovinezza, di
felicità traboccante. A questo riguardo, la cronaca quotidiana offre una serie interminabile di esempi di anime
belle e entusiaste seviziate, demolite
internamente dagli accidenti più diversi. Come la superba, apollinea vitalità prostrata del “cavallo stramazzato”. L’immagine della “statua nella
sonnolenza del meriggio” rimanda
prepotentemente alle atmosfere sospese, dense di mistero delle “Piazze
d’Italia” di Giorgio De Chirico.
Piazze spesso sorvegliate da capolavori della statuaria greca classica o ellenistica, che assumono il ruolo di numi tutelari dei luoghi o di presenze
evocatrici, ammonitrici, che il decadente riverbero meridiano rende ancora più ammantate di fascino.
Presenze inquietanti: aggettivo, che riconduce a un celeberrimo dipinto di
De Chirico, “Le muse inquietanti” del
1917-1918, che sussurrano in maniera
tragicamente chiara, comprensibile, di
splendori tramontati, di età dell’oro
cancellate dal tempo, di fremiti commossi di un’umanità ingenua, ottimista, sgretolati e precipitati nell’oblio.
Nel verso di chiusura, lo sguardo e
l’anelito del poeta sono rapiti in alto,
verso l’irraggiungibilità delle nuvole,
del falco, dei dominatori dell’aria, così lontani eppure così fragili; manifestazioni di istanti eternamente, incessantemente, mutevoli.
Personificazioni del male di vivere; incisioni ermetiche, nelle quali, in pochi
attimi di riflessione, è possibile ritrovare le immagini di tante angosce
oscure, mai analizzate, mai fatte affiorare dall’inconscio.
Per chi apprezza i nostri sforzi
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Le persone fisiche possono:
Detrarre dall’imposta lorda il 19% dell’importo donato a favore delle ONLUS fino ad un massimo di 2065,83
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del D.P.R. 917/86).
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a 2065,83 euro o al 2% del reddito
d’impresa dichiarato (art. 65, comma 2
lettera c-sexies del D.P.R. 917/86).
L’ASSOCIAZIONE
L’
I.a STREGA
II.a STREGA
III.a STREGA
DUNCAN
MALCOM
DONALBAIN
LENNOX
ROSS
PORTIERE
BANQUO
MACDUFF
LADY MACBETH
MACBETH
ADATTAMENTO TESTI
COLONNA SONORA
TECNICO LUCI
REGIA
DIRETTORE DI SCENA
Rita Gianini
Alessandra Dell’Atti
Manuela Di Salvia
Vincenzo Sartini
Massimiliano MagniChiara
Gioncardi
Marcello Rinaldi
Pierre Bresoliun
Vasco Montez
Marco di Campli San Vito
Cristiano Vaccaro
Danila Bellino
Daniele Scattina
Paola Bianchi
Giandomenico Finamore
Francesca Prosciutti
Daniele Scattina
Raffaella Leproni
Associazione Culturale
Europea
“Francesco
Orioli” o.n.l.u.s., costituita nell’anno 2000,
persegue esclusivamente finalità e solidarietà sociali nel campo della promozione culturale e dell’arte. La sua attività spazia
dalla realizzazione e gestione di spettacoli all’organizzazione
di
manifestazioni, seminari, rassegne, mostre, festival, concorsi, con l’intento di
propagandare e valorizzare ogni aspetto
culturale ed artistico.
L’associazione intende
anche organizzare riunioni e conferenze con personalità del mondo della cultura e istituire premi nel campo artistico e letterario. Attenzione speciale sarà riservata alla tutela e al recupero del patrimonio artistico del territorio come
mezzo di salvaguardia delle tradizioni, di arricchimento individuale e di
promozione turistica. Perché il nome
“Francesco Orioli”? Nato a Vallerano
nel 1783, morto a Roma nel 1856, fisico, medico, etruscologo, storico, poeta, saggista, drammaturgo, poeta e filantropo, Orioli è stato una tra
le ultime incarnazioni dell’universalismo umanistico, interprete di una
cultura globale che
nulla rifiuta di quanto eleva l’uomo verso la scienza, la creatività, la liberalità, la
giustizia e la bellezza.
Dato l’orizzonte europeo delle sue esperienze, il suo nome si raccomanda anche nel segno dell’attualità interdisciplinare ed internazionale come modello per un sodalizio valleranese e viterbese, che nella cultura persegua ad ampio raggio i
valori che informarono la sua vita.
TEATRO COMUNALE “FRANCESCO ORIOLI”DI VALLERANO
SABATO 21 FEBBRAIO 2004 ORE 21,00
Per informazioni ed eventuali adesioni si prega si consultare
il sito www.orioli.it o contattarci tramite le nostre
e-mail: [email protected] [email protected]
Per prenotazioni Tel. 0761 751001 Cell. 328 1235718
Infoline 335.414687 fax 0761.751914
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N.2 Febbraio 2004 - Associazione Culturale Europea Francesco Orioli