Domenica il fatto Harvard, la vendetta delle streghe La di DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007 VITTORIO ZUCCONI il reportage Repubblica Le scuole divise dell’Irlanda del nord JOHN LLOYD Br Trent’anni dopo Fabbrica e sindacato, centro sociale ribelle, lotta armata clandestina Le tre vite del compagno R, FOTO PAOLO PEDRIZZETTI GRAZIA NERI l’ultimo terrorista JENNER MELETTI S PADOVA uona presto la sveglia al secondo piano di via Volturno 23/1. Un quarto d’ora dopo le cinque bisogna essere in piedi. Appena il tempo per lavarsi la faccia poi giù dalle scale, cercando di non fare rumore, perché nell’appartamento di sotto c’è la signora Sriyanikontha, arrivata dal Pakistan, che ha i bambini piccoli. Un caffè veloce al Rosy’s bar proprio di fronte a casa (a quell’ora i giornali ancora non sono arrivati) e via in macchina, dieci chilometri verso Vigonza. Alla “Fin. Al”, lavorazione trafilati di alluminio, il turno del mattino inizia alle sei. Ma è bello entrare in fabbrica assieme ai compagni che hanno gli occhi ancora pieni di sonno. «Ciao Davide», «Davide, ci vediamo in mensa?». È bello perché qui Davide non è solo un operaio e nemmeno solo un sindacalista. È il vero leader della fabbrica e quando c’è l’assemblea tutti l’ascoltano in silenzio e gli danno ragione. Ha fatto il pieno di voti anche nell’ultima elezione per la Rsu, la Rappresentanza sindacale di base. «Solo tu sei capace di strappare qualcosa ai padroni. Davide, tu sì che conosci le leggi». Davide Bortolato, trentasei anni compiuti il 7 novembre, quando entra alla “Fin. Al” è «il compagno della Fiom», quello che ha finito il liceo scientifico Curiel a pieni voti e poi è andato a lavorare perché «non serve essere i primi della classe a scuola, bisogna esserlo in fabbrica». (segue nelle pagine successive) GIORGIO BOCCA i luoghi hisono questi nuovi terroristi? Diversi o identici a quelli degli anni Settanta? Certamente molto simili, figli della stessa incapacità di adeguarsi al mondo come è. Ho chiesto trent’anni fa a Giorgio Semeria, brigatista del gruppo storico, ciò che potrei, che vorrei chiedere oggi ai terroristi di ultima generazione: abbiamo età diverse, storie diverse, ma siamo cresciuti nello stesso Paese, letto gli stessi libri, gli stessi giornali, partecipato agli stessi mutamenti della produzione e delle tecniche, agli stessi andirivieni della storia... e dunque come è possibile che abbiamo visto il mondo, la vita in modi così diversi? «Non so dirtelo — rispose allora Semeria — so solo che avevo nausea dello stato delle cose, terrore di doverlo accettare, di essere condannato a vivere in quella gabbia». Guardo i nuovi terroristi, leggo le loro dichiarazioni, le loro storie e riconosco la patologia di quelli che sono come sono e non possono rinunciare a quello che sono, impazienti, ossessivi, presuntuosi, decisi a ridefinire tutto, la società, se stessi, la produzione, il tempo libero. Sicuri delle loro analisi quanto più sono lontane dalla realtà, marxisti quanto più sideralmente lontani dal marxismo, dallo storicismo, dal materialismo, senza accorgersene fichtiani idealisti, del tipo «posso ciò che voglio, se dici non posso è segno che non vuoi». (segue nelle pagine successive) Mosca, i fantasmi della vecchia Russia C DEMETRIO VOLCIC cultura Dc-Pci, la guerra fredda di celluloide FILIPPO CECCARELLI la lettura Il gioco del calcio, miseria e nobiltà EDOARDO NESI e SANDRO VERONESI le tendenze Il reggiseno, cent’anni di vita spericolata LAURA LAURENZI Repubblica Nazionale 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007 la copertina Brigatisti 2007 Le tre vite del compagno R JENNER MELETTI (segue dalla copertina) a Davide Bortolato è un uomo che unisce molte vite. È il «compagno Davide», e basta, quando entra al Gramigna, il “collettivo politico autogestito” dove da più di vent’anni si sogna la rivoluzione e si organizzano cortei con passamontagna in testa e manici di piccone in mano. E nell’ultimo anno Davide Bortolato è diventato anche «il compagno Roberto», capo clandestino del nucleo padovano delle nuove Brigate rosse. Ha cercato di vivere queste tre vite — operaio sindacalista, compagno antagonista nel collettivo, sergente dell’esercito rosso — cercando di non farle incontrare mai. Ha dormito poco, ha macinato migliaia di chilometri, ha raccontato molte bugie. Anche alla donna che sta con lui, Manuela Musolla, che è una funzionaria dirigente della Fiom provinciale. I Nocs hanno preso Davide a casa della donna, alle cinque di lunedì. Lo hanno ammanettato, incappucciato e portato via. Solo in quel momento la signora ha scoperto che Davide, «affettuoso, sempre gentile», era un capo delle nuove Br. È riuscita a dire soltanto: «Sono sconvolta». Adesso che è stato arrestato, Davide Bortolato ha perso anche il suo vero nome. Nel “comunicato sindacale” approvato dai centodieci lavoratori della “Fin. Al” di lui si dice soltanto che è «un componente della Rsu coinvolto nei fatti contestati dalla magistratura di Milano» e si esprimono ovviamente «rabbia, amarezza e sorpresa». Eppure qui in fabbrica — era entrato quindici anni fa — Davide Bortolato ha passato le sue giornate più belle. I turni iniziano alle sei del mattino, alle due del pomeriggio e alle dieci di sera. Un altro caffè alla macchinetta, prima di timbrare il cartellino, poi il lavoro di taglio e di assemblaggio dell’alluminio per gli infissi. «Nel pre-contratto del 2004 Davide ha organizzato settanta ore di sciopero ma è riuscito a conquistare un aumento di centoventi euro, trenta in più di quelli ottenuti da Cisl e Uil che avevano fatto l’accordo separato con il governo Berlusconi». Sono importanti, trenta euro al mese. Con i turni, se hai più di dieci anni di anzianità, porti a casa millecentocinquanta euro. Se non fai i turni, arrivi appena a mille. Per chi inizia alle sei, alle undici c’è la pausa di mezz’ora per la mensa. Con un euro, pasta al ragù, pollo e verdure. Nel documento del Comitato politico per la ricostruzione del Partito comunista, trovato dietro l’armadio nell’appartamento di via Volturno, c’è scritto che si può entrare nel sindacato ma senza sostenerlo davvero. L’iscrizione serve solo a reclutare i militanti più frustrati o rabbiosi. Davide non obbedisce, non segue la linea. Per la Fiom si impegna davvero e i risultati delle elezioni in fabbrica, a voto segreto, lo dimostrano. «Lui era il leader con cui parlavi di piattaforma e contratto ma anche della strage di Erba, degli operai giovani che quando finisce il turno scappano come se uscissero di galera, di questo Tfr che chissà come andrà a finire». La fabbrica sta cambiando, ma unisce ancora. E soprattutto in mensa parli di tutto. «Uno come Davide aveva successo perché era preparato su tutto, tranquillo e ad un bancomat, per finanziare l’organizzazione. Dovrà fare sopralluoghi continui, prima di avere l’ok dei milanesi. Senza soldi non si fa la rivoluzione e Bortolato si dà da fare, come se organizzasse il versamento delle quote sindacali alla Fiom. «Noi di Padova possiamo contare su un giro di una ventina di compagni che possono contribuire a livello economico. Un compagno a mille euro al mese secondo me ce la può fare… Bisogna cominciare ad essere più regolari nel pagamento delle quote. Bisogna essere più stabili… e risparmiare. Mobilito tutti: servono i sghei». Porta millecinquecento euro ad Alfredo Davanzo, clandestino all’estero. Altri mille euro per «finanziare il suo rientro in Italia». Bortolato non si lamenta mai. Non è come Vincenzo Sisi, cin- Un solo “amore vero, per la rivoluzione” STAGIONE DI PIOMBO Davide Bortolato, 36 anni, sindacalista e “nuovo brigatista”. Qui sopra, il muro esterno del centro sociale “La Fucina” di Sesto San Giovanni. Per la copertina e come cornice delle pagine è stata utilizzata la foto di Paolo Pedrizzetti (Grazia Neri) scattata nel 1977 durante gli scontri in via De Amicis, a Milano IMAGES FOTO GETTY Famiglia di ceto medio, liceo con ottimi voti ma niente università “perché non serve essere i primi della classe a scuola, bisogna esserlo in fabbrica”, così come vent’anni prima di lui aveva fatto il brigatista Roberto Ognibene FOTO ANSA FOTO FOTOGRAMMA M sempre pronto a darti una mano». Anche quando diventa “Roberto” e si incontra con «Prof., Sberla e Tyson» che stanno reclutando l’esercito rosso, Davide Bortolato cerca di essere preparato e tranquillo. Ma non è facile diventare brigatista, si subiscono anche umiliazioni. Ci sono i ragazzi più giovani, ma anche quelli più anziani di lui. Come Claudio Latino detto Gallinella, cinquant’anni e Bruno Ghirardi, cinquantuno anni, che a Milano fanno i capi e guardano un po’ dall’alto in basso quelli che arrivano da Padova. Sono già stati clandestini, hanno assaggiato la lotta armata, hanno provato la galera. Durante un incontro con Bortolato, parlano di un attentato contro una casa di Berlusconi, discutono di cosa si debba fare contro Pietro Ichino, docente di diritto del lavoro. «Non è che gli puoi fare nient’altro che farlo fuori». A “Roberto” invece si limitano a chiedere di trovare un posto dove provare le armi, e soprattutto di organizzare un furto Repubblica Nazionale DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 Davide Bortolato ha trentasei anni. Col nome di “Roberto” è il capo del nucleo padovano delle nuove Br. Ma è anche il sindacalista Fiom che guida gli scioperi nella fabbrica di trafilati d’alluminio dove lavora. E anche il “compagno” che dà la linea ai ragazzi ribelli del Centro sociale Gramigna quantaquattro anni, che quando riceve un rimborso di mille euro è tutto felice. «Così metto a tacere i familiari. Loro non capiscono che la rivoluzione ha un costo». Si fa il colpo al bancomat, finalmente. Ma questi apprendisti del terrore, che si infilano in bicicletta contromano e cambiano strada decine di volte quando hanno un appuntamento, non sanno che sulla Ford Kia di Bortolato, e non solo su quella, la Digos ha messo un Gps satellitare e controlla ogni movimento. Così, quando si trovano davanti al bancomat di Albignasego e si mettono a siliconare la macchina dei soldi per farla saltare con il gas, i poliziotti fanno suonare l’allarme e mettono tutti in fuga. Per una volta, il compagno “Roberto” perde la calma. «Porca puttana, tutta sta fatica per fare un cazzo. Mi girano i coglioni. Adesso facciamo qualcosa di politico». La strada verso il terrorismo è tutta in discesa. Si provano le armi nelle campagne di San Martino di Venezze. Bortolato accompagna in auto quelli che sparano e poi controlla che non arrivino «gli sbirri». Ma non si accorge che i poliziotti sono già lì: «Dalle ore 17,50 alle 18 del 19 novembre 2006 si sono sentite brevi e ripetute raffiche di mitra». Bortolato si esalta. Al ristorante cinese Song He di Milano, in una delle tante «riunioni strategiche» fatte a portata di microfono direzionale o di microspie della polizia, dirà a compagni: «Gli strumenti suonano bene». Ora anche i milanesi si fidano dei padovani. Si possono decidere gli obiettivi «strategici», fra i tanti di cui si è discusso per mesi. Ma arriva l’ora dei reparti speciali. Porte sfondate, “bombe” che assordano e abbagliano, pistole puntate. Alla stessa ora, tutti i nuovi soldati dell’esercito rosso si trovano buttati giù dal letto e ammanettati prima che riescano a capire cosa stia succedendo. Per comprendere perché il «compagno della Fiom» diventi anche il «compagno Roberto» I brigatisti Settanta, tic e manie visti da vicino Maglie colorate e doppiopetti così il terrore litigava sul look GIORGIO BOCCA (segue dalla copertina) il terrorista, il brigatista vuole tutto e subito, vuole soprattutto uscire dalla vita come è, avere una vita fuori dalla norma, sordo a ogni richiamo della ragione, imprudente quanto più cerca di essere prudente, uno che entra e esce dalle gabbie che fabbrica con le sue mani. Il terrorismo è comprensibile solo perché esiste, evento irresistibile quando si alza nel mondo il vento ardente del furore e il terrorista si alza e va alla morte degli altri e sua. Mi ha raccontato Lauro Azzolini: «Ero a Reggio Emilia da ragazzo e andavo in giro in camioncino a distribuire bombole di gas. Portavo con me anche una bomboletta di vernice rossa spray e scrivevo sui muri dappertutto: W le Brigate rosse. Di brigatisti allora a Reggio ce ne erano tre, Ognibene, Bonisoli, Franceschini. Capirono che c’ero anche io e io andai con loro». È la incontenibile sindrome terrorista che li fa incontrare e che se li trascina dietro verso la inevitabile cattura, la inevitabile galera. Diversissimi fuori, identici dentro. Ricorda Morucci: «Il primo incontro con i compagni del nord lo ebbi a Milano. Io e Adriana arrivammo da Roma su un’auto spider color argento, in jeans e maglioni colorati. Ognibene e Franceschini, i compagni del nord, indossavano dei doppiopetti scuri come impiegati delle pompe funebri. Capii che non vedevano l’ora di separarsi dalla nostra imprudenza romanesca». La follia comune teneva assieme le Br e gli antichi vizi dell’uomo si riproducevano nel loro moralismo settario. Si stenterà a crederlo ma anche nel terrorismo, anche nel quotidiano rischio della morte le ambizioni del comando, dell’affermazione personale, le debolezze personali restavano e si nascondevano. C’erano due donne nella colonna torinese che più diverse non potevano essere: la Vai, aggressiva al massimo, uscita da anni di miseria e di malattie, con un rancore sociale divorante; e la Ponti, un donnino grazioso e feroce capace di uccidere senza la minima esitazione che si lamenta perché il “logistico” non vuole pagarle un sapone speciale per la sua pelle delicata. Un giorno la sentono dire: «Le Br mi hanno aperto degli spiragli, certe cose della vita non mi bastano più». Ha piantato un marito infermiere per far carriera nelle Br e la fa con fredda determinazione. Micaletto, il comandante della colonna genovese, la capisce di istinto e glielo dice, quando muore Piancone, il suo compagno, e lei non ha un momento di turbamento: «Tu sei contenta che il tuo uomo sia caduto, così puoi entrare nella direzione del fronte». Per gli intellettuali carichi di prudenze e di dubbi pratici Micaletto è la quintessenza del brigatista, è «un brigatista per intenditori», come dice il professor Fenzi. «Parlava pochissimo ed era sempre molto ironico. Non rispondeva volentieri, a volte canticchiava: “È inutile che bussi, qui non ti risponderà nessuno”, ma comunicava sicurezza, aveva la capacità di essere lui l’organizzazione. La impenetrabilità delle Br genovesi è stata tutta opera sua». E nelle Br c’era Mario Moretti, un personaggio drammatico che ha accettato di parlare con me del tema centrale, del rovello di un terrorista: la rivoluzione ti giustifica se uccidi? «Moretti — gli chiedevo nei nostri incontri a San Vittore, quando cercai di capire il terrorismo — ma era proprio necessario uccidere l’avvocato Croce solo perché presidente dell’ordine degli avvocati torinesi al tempo del primo processo alle Brigate rosse? Bisognava proprio piantargli una pallottola in testa per dissuadere gli avvocati torinesi dal partecipare al processo?». «Noi — rispondeva — non abbiamo ucciso l’avvocato Croce come persona, ma la sua funzione». È un ragionamento politico a cui un terrorista non può rinunciare ma è un dubbio che si porta dietro insoluto per tutta la vita. E bisogna andare nel capannone del Gramigna («l’erba cattiva non muore mai»). Davide Bortolato entra qui quando è ancora al liceo e non si è mai allontanato. Questo è il posto dove «il Proletariato non dimentica» e anche adesso che sono stati trovati i kalashnikov si continua a dire che «il vero terrorismo è costruire basi di guerra». Si fanno anche feste, ogni tanto. Per la Befana, «Bruxemo ea vecia», bruciamo la vecchia, che naturalmente è Romano Prodi. Un paio di cinquantenni ricordano a ragazze e ragazzi i bei tempi antichi, quando Padova voleva dire rivolta e ogni notte bruciavano i fuochi dell’Autonomia. Ma i “miti” non sono Toni Negri e soci. Tutti invece conoscono la storia di Walter Maria Greco detto Pedro, autonomo padovano ucciso a Trieste il 9 marzo 1985 dalla polizia. «Hanno detto che era armato ma quando è caduto a terra hanno visto che in mano aveva solo un ombrello». Tutti conoscono Nicola Pasian, «che ha vissuto una vita intensissima in pochi anni». Prima autonomo, poi latitante, sempre ribelle. Morto in un incidente nel 1997. «Guidava l’auto senza patente, non accettava nessuna regola». È qui, nel capannone con Che Guevara sulla facciata, che «si tramanda l’amore vero, quello per la rivoluzione». Davide Bortolato — famiglia di ceto medio, genitori separati, tre fratelli, madre segretaria di scuola media e consigliere comunale a Vigonza — rinuncia all’università per andare in fabbrica perché così avevano fatto, quasi vent’anni prima di lui, i brigatisti rossi come Roberto Ognibene. E Bortolato passa il testimone ad altri ragazzi che hanno poco più di vent’anni e come lui hanno lasciato il liceo per «indossare la tuta da operaio». «Li vedi lì fuori dal centro, tengono addosso la tuta anche quando vanno a una riunione o a bere birra. La tuta è un simbolo, per qualcuno una divisa». Sono una cinquantina, i militanti. A comandare è «il collettivo». La militanza è la ragione di vita. Occupazioni di case, manifestazioni a volto coperto. Vanno anche all’estero: sono andati a Praga a sfasciare un Mc Donald’s. Ragazzi di vent’anni che vivono per la politica, per il comunismo. L’amore arriva solo dopo. «Il collettivo decide se la ragazza scelta è quella giusta. Certo, puoi sempre andartene, ma se vuoi essere del Gramigna devi sapere che l’individuo non può decidere da solo». Tredici sfratti, a volte con le ruspe, con amministrazioni di destra e di sinistra, «ma noi risorgiamo dalle nostre ceneri». L’importante è trovarsi, dopo la fabbrica, a discutere del Chapas o dell’imperialismo americano e annunciare a tutti che «la guerra non è solo in Afghanistan, in Iraq o in Libano ma è anche a casa nostra». Davide Bortolato eredita dai «vecchi» un testimone che scotta le mani e brucia la vita. Senza rimorsi, lo passa a chi ha vent’anni adesso. Ai fratelli Alessandro e Massimiliano Toschi (sono fra quelli che hanno lasciato la scuola) che ora come tutti gli altri si trovano accusati di «partecipazione a banda armata con finalità terroristiche e di eversione dell’ordine democratico». Testimone passato anche ad Amarilli Caprio, studentessa poi operaia che a ventisette anni viene mandata all’università statale di Milano ma solo per cercare «nuove reclute». Con lei il fidanzato Alfredo Mazzamauro. Per loro, davanti ai milanesi, garantisce Davide Bortolato. «Sono fra i più fervidi militanti del Gramigna». Nel giardino della casa popolare di via Volturno (Davide Bortolato aveva occupato un appartamento, poi l’ha avuto in affitto dopo una sanatoria) sono spuntate le prime viole. Non c’erano, lunedì, quando i poliziotti sono venuti a prendere Massimiliano Toschi che abitava nello stesso appartamento del capo. Una sistemazione comoda, così si poteva partire assieme, a qualsiasi ora, per un sopralluogo a un bancomat o per controllare il casolare con i kalashnikov. E poi bisogna tenerseli vicini, i ragazzi da crescere. Repubblica Nazionale 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA il fatto DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007 Nel 1692 per impiccare tre cittadine di Salem accusate di avere scambi con il Maligno ci si rivolse alla neonata università sulla riva del fiume Charles già riconosciuta come indiscussa autorità. I professori benedissero l’esecuzione Oggi, dopo oltre tre secoli, la scuola più importante del mondo, “l’incubatrice della virilità americana”, abbatte il suo antico Rivoluzioni tabù: Catherine Drew Gilpin Faust è nominata presidente UNA PIOGGIA DI NOBEL Tra i 43 harvardiani insigniti del premio, sono stati Nobel per la pace Theodore Roosevelt nel 1906 ed Henry Kissinger nel 1973; Nobel per la letteratura T.S. Eliot nel 1948. Nel 2005 il professor Roy J. Glauber, docente ad Harvard di teoria dei quanti, ha vinto il Nobel per la fisica VITTORIO ZUCCONI BOSTON L e prime tre impiccate furono donne. Nessuno, in quel villaggio di puritani chiamato Salem in omaggio a Jerusalem, si era meravigliato quando tre donne, Titùba la schiava nera, Sarah Good e Sarah Osborn, le sue succube e complici, avevano ammesso i propri commerci carnali con il Maligno, nell’anno del Signore 1692. Da oltre due secoli, da quando Papa Innocenzo VIII aveva pubblicato nel 1487 il Malleus Maleficarum, il martello delle streghe, ogni buon cristiano, cattolico o protestante che fosse, sapeva bene che le donne erano portate alle consorterie sataniche. «Essendo che il sesso femminile è preoccupato di faccende della carne, perché è nato da una costola d’uomo e le femmine sono animali imperfetti e corrotti». Ma i bravi Puritani di Salem volevano essere certi. Per mettersi la coscienza a posto, si rivolsero a dottori indiscussi della legge e della fede e si affidarono a quel seminario-università da pochi anni aperto nella vicina Boston ma già investito da un’aureola di indiscussa autorità: Harvard. E il giudizio estratto dai testi e dalle opinioni dal presidente della neonata Università, il reverendo Increase Mather, e dal figlio, l’altrettanto reverendo Cotton Mather, non lasciarono dubbi. Tutti gli indizi, le manifestazioni, le convulsioni, i cedimenti alla carne di quelle tre donne provavano la loro colpevolezza. La schiava Titùba e Sarah Osborne furono impiccate. Sarah Good, che era incinta, fu incarcerata in attesa del parto. Il neonato morì di freddo in cella. La puerpera fu impiccata. E il primo omicidio di americane uccise nel nome della lotta al demonio, fu consumato con la benedizione dell’Università destinata a divenire la più celebrata e premiata al mondo. Quell’Harvard che ha come motto, nel sigillo araldico, tre sillabe: Ve-ri-tas. Trecentoquindici anni, quanti ne sono trascorsi dall’impiccagione di quelle donne alla scelta di una donna per guidare Harvard fatta in questi giorni, possono sembrare molti per assistere alla rivincita delle “streghe”. Ma per un’istituzione che predata di un secolo e mezzo la nascita degli Stati Uniti d’America e che, come disse forse scherzando un suo noto “alunno” e insegnante, Henry Kissinger, «sicuramente sopravviverà anche alla fine del mondo», sono una fulminea rivoluzione, uno scatto bruciante di sensibilità. Quando ci si crede, e si è, l’ombelico del sapere, del potere e della veritas, ammettere di avere avuto torto nel giudicare le donne può anche richiedere tre secoli. La Chiesa cattolica ne ha impiegati altrettanti per ammettere, con Papa Wojtyla, che in fondo in fondo Galileo non aveva tutti i torti. E la Harvard University è quanto di più vicino a un Vaticano l’America possieda e veneri, per il suo immenso e crescente potere temporale, per la impronta che si allarga sulla società americana. Con sette presidenti degli Stati Uniti e quarantatré premi Nobel tra i propri cardinali, compresi due italiani, Rubbia e Giacconi, comunque transitati anche loro da Harvard, un poco di spocchia cardinalizia e autoreferenziale è comprensibile. Eppure, sorprendendo anche la scrittrice bostoniana e premio Pulitzer, Ellen Goodman che «mai avrebbe previsto una donna chiamata a guidare Harvard prima di una donna presidente», la storica cinquantanovenne Catherine Drew Gilpin Faust è stata la prescelta come nuovo Papa. Satana, se ne fosse capace, sorriderebbe al pensiero che la prima femmina presidente dell’Università degli ex cacciatori di stre- ghe porti il nome di Faust. Se non fosse già defunto da centoventi anni, certamente non sarebbe sopravvissuto a questa notizia quel presidente emerito di Harvard e considerato il creatore del suo trionfo nel ventesimo secolo, l’insigne chimico e matematico Charles Eliot, che nel 1869 definì l’insigne istituzione come «la incubatrice della virilità americana» e buttò in scienza le tesi di Innocenzo VIII quando aggiunse che «le donne hanno capacità mentali inferiori agli uomini». Sorpresissima sarebbe rimasta anche la madre della dottoressa Gilpin Faust, che inv a n o aveva spiegato alla figlia, nella Virginia natale, che «questo è un mondo che appartiene agli uomini e prima ti rassegni, figlia mia, meglio è». Né molto meglio si deve sentire il presidente deposto, Lawrence Summer, già ministro del Tesoro nell’amministrazione Clinton, che dannò il proprio regno all’inferno della political correctness con una famosa osservazione sulle donne che non possederebbero «le qualità intrinseche» necessarie per assumere una cattedra ad Harvard. Dove ci sono, proporzionalmente, meno professoresse nelle facoltà di quante signore ci siano nell’amministrazione Bush, non accusabile di sfrenato femminismo. Tanta spasmodica, ammirata e invidiosa attenzione per la più antica e incomparabilmente più ricca università privata americana, con una “dote” finanziaria di circa trenta miliardi di dollari donati da ex alunni e un costo annuale fra retta e alloggio vicino ai cinquantamila dollari per studente, è ovviamente la conferma della unicità di Harvard non soltanto nel panorama accademico americano, ma nella storia di questa nazione. Se quel nome, Faust, è solo una coincidenza, non lo è il fatto che la nuova presidentessa sia una delle massime specialiste di storia americana. Dunque, è un caso unico di una storica chiamata a fare la storia, e non più soltanto a scrivere di storia. Sobbalzino pure sulle loro sedie gli studenti delle altre celebri università americane, le consorelle della Ivy League, legate dai rampicanti che ne coprono le facciate e dalla qualità dell’insegnamento e dalla, per noi italiani, sconvolgente disponibilità di mezzi economici (Harvard ha la terza biblioteca nel mondo, dopo la Library of Congress e la British Library). È un fatto che nessuna delle altre grandi, dentro e fuori la “Lega dell’Edera”, neppure Yale e Princeton che pure con essa rivaleggiano formando il triangolo detto di “Yarverton”, ha il prestigio assoluto dell’università creata, con i propri libri personali e i propri soldi, dall’inglese John Harvard, un religioso laureato a Cambridge ed emigrato in questo terreno sulla riva nord del fiume Charles ribattezzata, comprensibilmente, Cambridge. Anche il Times di Londra, ingoiando l’orgoglio british per le sue Oxford e Cambridge, ha definito Harvard e il vicino L’ex rettore disse che solo gli uomini hanno le “qualità intrinseche” IL FONDATORE L’anno della fondazione dell’Harvard College è il 1636. L’Università prende il nome dal primo donatore, il ministro protestante John Harvard, che alla sua morte lasciò una ricca biblioteca e la metà dei suoi beni immobili per quella carica FAMOSI NEL MONDO Molti gli ex-allievi famosi: oltre allo scrittore T.S. Eliot, il compositore Leonard Bernstein, il vice di Clinton Al Gore, il papà di Jurassic Park Michael Crichton e il primo capo di governo donna pakistano Benazir Bhutto LE DONNE Nel 1943, a causa della guerra e dell’assenza di numerosi insegnanti impegnati al fronte, le ragazze della sezione femminile sono ammesse all’interno del campus per seguire i corsi dei maschi Sotto il motto Veritas ne potrebbe campeggiare uno più onesto: Potestas, potere 19.789 studenti nel 2004 35% Una donna al potere iscritti di varie etnie 70% 23mila $ i borsisti la borsa di studio media Repubblica Nazionale DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 ust a F in Gilp Gilpin ew , Drethw e Dr erin e 1947 ia Ca st, class a di stor i libri, s Fau studio ra i suo n: a è un ricana. T Inventio olding m a e thers of e Slaveh n “Mo en of th merica o Wom h in the A il prim Sout l War”. È al 1672, ad Civi idente, d laureato pres n essersi a no vard Har DAL CAMPUS ALLA CASA BIANCA Sette presidenti degli Stati Uniti hanno studiato ad Harvard: John Adams, John Quincy Adams, Rutherford B. Hayes, Theodore Roosevelt, Franklin Delano Roosevelt, John F. Kennedy e, da ultimo, George W. Bush (prima laureato a Yale, come suo padre, e poi specializzato ad Harvard) Mit, «le due migliori università del mondo». Sotto il simbolo dei tre libri - tre Bibbie - aperte sulle sillabe di Veritas, potrebbe campeggiare oggi un altro motto latino più onesto: Potestas, potere, perché potere - politico, finanziario, scientifico - è ciò che oggi realmente Harvard vende in cambio dei duecentomila dollari necessari per una laurea quadriennale, più le altre centinaia di migliaia per i livelli superiori di master e di dottorato. I duemila fortunati liceali ammessi a frequentare il primo anno, sono il dieci per cento dei ric h i e denti, c o scienti di essere “la crème de la crème” prodotta dalle scuole superiori, poiché nessun mediocre studente oserebbe neppure tentare la fortuna. E se i meccanismi di accettazione sempre apparentemente meritocratici conoscono purtroppo le solite eccezioni del favoritismo e del familismo, come dimostrano i casi celebri di John Kennedy, di John Kerry e di George Bush, mediocri studenti ammessi a Harvard o a Yale in forza della family connection, i prodotti della antica macchina crimson, cremisi, il colore ufficiale della scuola, prendono titoli di studio nella materia essenziale per avere successo nella vita: la conoscenza di chi guiderà la nazione, il suo governo, le sue aziende, le sue università. La legge del «non è importante che cosa conosci, ma chi conosci» trova a Harvard la propria massima espressione. «Ad Harvard non diventerai un avvocato migliore», scrisse con la solita punta di invidia malevola un avvocatoscrittore di grande successo, Michael Crichton, «ma conoscerai gli avvocati migliori. O, ancora meglio, incontrerai i futuri clienti più ricchi». In una società ufficialmente senza classi e senza nobiltà ereditaria, le università come Harvard rappresentano quanto di più vicino esista a un meccanismo di cooptazione e di autoriproduzione del potere e delle caste. Non è un caso se i bostoniani di più alto rango sociale, e destinati ad Harvard, sono stati soprannominai “bramini”. Chi vi vuole accedere, deve imboccare fin dall’asilo le strade giuste, e con asili privati che ormai chiedono fra i cinque e i diecimila dollari all’anno per i bambini di tre anni, la strada è sbarrata per la maggioranza ancora prima di avere imparato a fare pipì nel vasino. La popolazione americana nella metà inferiore dei redditi manda appena il dieci per cento degli studenti nelle trenta università top americane (su tremila) mentre il dieci per cento più alto dei redditi copre il settantaquattro per cento degli iscritti. È più facile, relativamente, per un cittadino straniero trovare un posto, soprattutto nei corsi post laurea, di quanto lo sia per un americano nato ad esempio nel Sud, perché la presenza di dottorandi europei, asiatici, africani, mantiene quell’aura di internazionalità che Harvard ricerca e che serve a coltivare il proprio prestigio internazionale. Qui studiarono l’ammiraglio Yamamoto, lo stratega di Pearl Harbor, e il presidente francese Jacques Chirac, e vi tenne lezione Romano Prodi. Il sentimento di essere coloro che erediteranno l’America, e con essa buona parte del mondo, non ha bisogno di essere coltivato o insegnato, perché dalle finestre dei dormitori o dalle classi la testimonianza di appartenere ai “bramini” della terra è ovunque. Da queste stesse piazze e strade oltre il fiume Charles, che divide Cambridge da Boston, uscirono sette presidenti: John Adams, laureato nel 1775, quando ancora le graduatorie fra gli studenti erano stabilite non in base ai voti ma «attraverso il rango sociale delle loro famiglie»; suo figlio (a proposito di famiglie) John Quincy Adams; Rutheford Hayes; Theodore Roosevelt; suo cugino Franklin Delano Roosevelt; John F. Kennedy (che non riuscì a completare però il master); e George W. Bush. E se per il futuro incombono i rischi di una Yalie, una laureata in legge a Yale come Hillary, o di un prodotto della New York University come Rudy Giuliani, Harvard ha un solido cavallo in gara in Barak Hussein Obama, il primo studente di colore chiamato a dirigere la Harvard Law Review, la rivista di studi di giurisprudenza. Qualunque sia la corsa, se il traguardo è importante, ci sarà un fantino con la casacca crimson, cremisi, in gara. L’ideologia non conta, conta il potere. Harvardiano è l’ideologo più garrulo della destra neo con, William Kristol, come harvardiano è il ministro della giustizia in carica e sommo giustificazionista delle tecniche di interrogatorio che altrove si chiamerebbero torture, Alberto Gonzales. Ma harvardiano è il capofila della sinistra nel partito democratico, il senatore di New York Charles Schumer, come lo è il verdissimo Ralph Nader. Anche il creatore di un serial televisivo di successo mondiale quale Dr. House, Peter Blake, è laureato ad Harvard. Ci studiò anche Bill Gates, ad Harvard, senza laurearsi. La scarsità di donne, in un elenco di notabili e di potenti che richiederebbe le pagine gialle, è evidente e ha un’altra conferma nel fatto che soltanto da otto anni, dopo essere stata trattata semplicemente come un annex, un’appendice, l’università femminile di Radcliffe, gemella di campus, è stata finalmente assimilata e parificata ad Harvard. Ma nessuna parificazione, e nessuno sforzo di creare “diversità” di pelle, di cultura e di genere, è riuscita ancora a scardinare la cabala dei porcelli, anzi, per essere corretti e classici, dei Porcellians, il club esclusivamente maschile e aperto soltanto al sangue più blu del potere e della ricchezza, che dal 1791 raccoglie l’essenza migliore, e peggiore, di questa mirabile istituzione del sapere. Tra i Porcellians, che esibiscono nelle loro riunioni riservate distintivi a forma di porcellino all’occhiello, non si entra, si viene chiamati, e persino un futuro presidente come Franklin Roosevelt fu respinto perché giudicato troppo populista. Ne rimase amareggiato per tutta la vita e neppure quattro elezioni consecutive alla presidenza della nazione, record che resterà imbattibile, lo consolò, forse perché il cugino Teddy, invece, ci era riuscito. Oserà adesso una donna presidente spezzare anche l’ultima incubatrice della “virilità” sopravvissuta nella fabbrica dei Nobel e dei ministri? Sarà sicuramente tentata di farlo, a costo di pestare il codino al demonio. O ai porcelli. In una società ufficialmente senza classi i bostoniani sono soprannominati “bramini” LE DIECI FACOLTÀ Dopo i quattro anni obbligatori per tutti ci si può specializzare in arte e scienze, economia, medicina, design, teologia, odontoiatria, giurisprudenza, scienze politiche, scienze dell’educazione, scienze della salute CARRIERE FEMMINILI La prima donna ad insegnare ad Harvard è stata Alice Hamilton nel 1919. Nel 1956 viene assunta la prima donna full professor, Cecilia PayneGaposchkin, docente di astronomia Oggi le insegnanti sono il tredici per cento del totale CREMISI Il cremisi (crimson in inglese) è il colore ufficiale dell’Università dal 1910, scelto in omaggio a Charles Eliot, ex campione di canottaggio diventato rettore che scelse sciarpe di questo colore per il suo team Neanche Franklin Roosevelt riuscì a entrare nel club esclusivo dei Porcellians vendica le streghe 27.448$ la retta più economica 35.600$ il dottorato più costoso 15mln 931 i libri della biblioteca 25 mld di $ le donazioni del 2005 Repubblica Nazionale 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007 il reportage Separati in casa Un gruppo di madri, riunite in una cittadina nordirlandese, discutono della possibilità di spezzare la storica divisione tra scuole cattoliche e protestanti La località è Omagh, dove nove anni fa un attentato uccise ventotto persone. Dopo un dibattito imbarazzato e teso, i progetti di integrazione fanno passi avanti JOHN LLOYD “Qui da noi c’è un forte razzismo Una delle cause è l’insegnamento” AFFRESCHI DI PROPAGANDA Murales di propaganda repubblicana e unionista a Belfast (le foto risalgono alla fine degli anni Novanta) FOTO REUTERS vise. La Chiesa cattolica insisteva che tutti i cattolici dovevano frequentare scuole cattoliche; il governo nordirlandese, dominato dai protestanti, fece uno sforzo per creare scuole miste, ma rinunciò quasi subito, senza sforzarsi più di tanto: molti protestanti preferivano scuole separate. E così, per oltre ottant’anni, le scuole nella provincia sono state cattoliche o “statali” (che voleva dire, per lo più, protestanti). La maggior parte degli osservatori, e molti cittadini nordirlandesi, ritengono che scuole divise significhino comunità divise: è più facile odiare, perfino uccidere, gente che non hai mai incontrato. Ma di fronte alla domanda diretta «Che cosa fareste?» - dare una risposta non era semplice. Alla fine, però, qualcuno ha rotto il silenzio. Una donna che chiameremo Mary e che durante la mattina spesso aveva assunto un ruolo guida nella discussione ha fatto un lungo respiro e parlando lentamente e misurando le parole ha detto: «Mi piace l’idea di un’istruzione cattolica. Mantiene un equilibrio fra istruzione e moralità. È bello avere un’istruzione religiosa. Ha una lunga storia, una storia positiva, e a me FOTO MAGNUM/CONTRASTO n una stanza, con otto donne, una delle quali è lì per presiedere la riunione. Nella cittadina di Omagh, nell’Irlanda del nord, dove nell’agosto del 1998 una bomba lasciata in un furgoncino da un gruppo di terroristi repubblicani, in una strada affollata da gente che faceva shopping, uccise ventotto persone, in maggioranza donne - una era incinta - e in maggioranza cattoliche. La stanza era silenziosa. Le donne evitavano di guardarsi negli occhi. Erano state radunate, insieme ad altre centocinquanta persone, un sabato mattina di inizio febbraio, per discutere dell’istruzione dei loro figli. In realtà, la convocazione era rivolta anche ai padri ma, com’è nella natura delle cose, a rispondere all’invito sono state soprattutto le madri, le donne. La richiesta era quella di partecipare a un sondaggio deliberativo sulla scuola, un progetto ideato da un professore americano, James Fishkin. Tutti gli intervenuti avevano compilato un lungo questionario prima di venire; e un altro questionario li aspettava al termine della giornata, scandita alternativamente da discussioni in piccoli gruppi e sessioni plenarie in cui tutti i centocinquanta genitori intervenuti potevano porre delle domande a un gruppo di amministratori scolastici ed esperti del settore. Questo gruppo di donne aveva passato la mattinata insieme, inizialmente con un certo disagio, dato che nessuna si conosceva; poi, con l’aiuto della donna che presiedeva la riunione (una moderatrice di professione), avevano cominciato a parlare più liberamente, discutendo della qualità delle scuole frequentate dai figli, della difficoltà degli esami, se la selezione scolastica sia necessaria o meno, tutti interrogativi che stanno a cuore ai genitori di ogni parte del mondo. Durante la sessione plenaria del mattino avevano fatto delle domande, poi alcune di loro erano andate a pranzo insieme. Quando è ripresa la riunione, però, c’è stato un momento di silenzio e di disagio. La pausa tra la domanda fatta dalla moderatrice e la risposta che non arrivava si prolungava. Le donne si spostavano nervosamente sulle sedie disposte a semicerchio nella spoglia sala delle riunioni dell’istituto di formazione professionale superiore della città. La moderatrice ha riformulato la domanda, ma la risposta è stata ancora il silenzio. La domanda era una delle tante che la gente, in Irlanda del nord, cerca di evitare. Quelle donne sarebbero state disposte a mandare i loro figli in una scuola di un’altra fede? I protestanti sarebbero stati disposti a mandare i loro figli a scuola con i cattolici, e viceversa? In Irlanda del nord - dopo la divisione dell’isola nei primi anni Venti, quando la Repubblica irlandese proclamò l’indipendenza dalla Gran Bretagna e il Nord, in maggioranza protestante, rifiutò di unirsi alla nuova Repubblica e insistette per rimanere sotto la corona inglese - le scuole sono di- FOTO CORBIS I OMAGH sta bene». Un’altra donna, Bernadette, che anche lei era stata fra le più attive nelle sessioni mattutine, ha preso la parola per sostenere la posizione di Mary. «La cosa spaventosa dell’istruzione pubblica è che tratta i bambini come unità. La cosa importante è l’etica della scuola. Io capisco le argomentazioni di chi vuole una scuola integrata; ma il governo è ingenuo se pensa che mettere protestanti e cattolici nella stessa scuola possa cambiare qualcosa. In ogni caso, in questa cittadina, c’è dialogo fra di noi, non è un problema se sei cattolico o se sei protestante». Mentre le prime due parlavano, una delle altre donne, di nome Carol, sembrava irrequieta, ed è intervenuta parlando velocemente, quasi con aggressività: «Io sono decisamente a favore dell’integrazione scolastica. Non penso che sia un’idea ingenua, tutt’altro. In questo momento, a Omagh, esiste un forte razzismo e una delle cause è la divisione delle scuole. Secondo me ci illudiamo se diciamo che c’è dialogo fra di noi». Un altro momento di silenzio. Come in qualsiasi gruppo di persone civilizzate l’intenzione delle donne era di rimanere in buoni rapporti con le altre. E così era stato, fintanto che non era stato affrontato questo argomento. Ora si trovavano di fronte a una domanda che le invitava a dire: la mia religione è migliore della tua e voglio tenere i miei figli lontano dai tuoi. Una quarta donna, Christina, è intervenuta, anche in lei in modo quasi aggressivo, per replicare a Carol: «La religione è parte della tua identità: l’essere cattolici è una parte importante di quello che sei. Se perdi la tua identità, non sai più chi sei e da dove vieni. I bambini perderebbero rapidamente la loro identità se imboccassimo la strada dell’integrazione scolastica». Poi ha preso la parola una donna di nome Brenda, che fino a quel momen- Repubblica Nazionale DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 Irlanda del nord, un muro tra i banchi Più tardi, nella riunione plenaria, gli esperti che rispondono alle domande cercano di nascondere il loro disaccordo e si comportano educatamente. Ma una cosa esce fuori con chiarezza. Protestanti e cattolici hanno una visione fondamentalmente differente della scuola. Per la maggioranza dei protestanti, le scuole devono essere responsabilità dello Stato. La religione deve avere un ruolo, ma molti dicono di non essere contrari all’integrazione se verrà lasciato spazio alla religione. Per gli esponenti cattolici all’interno del gruppo di esperti - uno era un gesuita, un’altra una suora preside di una scuola - la scuola fa parte di una trinità della fede cattolica composta da famiglia, scuola e comunità. Le scuole, secondo loro, non potrebbero decidere di diventare miste, perché sono gestite sulla base della fede in Dio. Tra gli esperti c’era un uomo chiamato Michael Wardlow, direttore del Consiglio per l’integrazione scolastica dell’Irlanda del nord. Wardlow dice che il suo movimento è nato vent’anni fa, quando un gruppo di genitori, stanchi della divisione, hanno messo in piedi una scuola integrata in un’aula della cittadina di Lagan. Oggi circa il sei per cento dei bambini nordirlandesi frequenta una scuola integrata e la percentuale è in crescita: sono state fondate nuove scuole e qualcuna di quelle già esistenti - tutte protestanti - hanno votato a favore dell’integrazione. Wardlow dice che la gente ha un’idea sbagliata delle scuole integrate: sono scuole fortemente religiose, l’unica differenza è che sono presenti entram- “Se unificassimo gli istituti, i bambini perderebbero presto la loro identità” FOTO GETTY IMAGES to aveva parlato poco. Dall’accento e dal modo di parlare sembrava provenire da un ambiente più popolare rispetto a quelle che avevano parlato prima, tutte donne della classe media. «Secondo me l’integrazione scolastica è la strada giusta. Io sono cattolica, ma ho sposato un protestante. I miei figli vanno a una scuola cattolica. Mia figlia, quando la gente glielo chiede, dice: “Mia mamma è verde e mio papà è arancione” [i colori che identificano rispettivamente i repubblicani e gli unionisti] e ne è tutta orgogliosa. Ma qui sento molta ostilità. Se la gente frequentasse le stesse scuole, fin da piccoli, ce ne sarebbe meno». L’ultima a prendere la parola è una ragazza, vestita piuttosto male, che fino a quel momento non aveva mai parlato. Anche lei sembra meno benestante delle altre: parla con chiarezza e con enfasi. «Io sono favorevolissima all’integrazione scolastica. Anche la mia famiglia è mista: io sono protestante e il mio compagno è cattolico. Mio figlio ha frequentato scuole cattoliche e scuole protestanti, e ha amici dall’una e dall’altra parte. Dovrebbe essere così per tutti». Le inibizioni cominciano a cadere, gli schieramenti diventano più evidenti. Mary riprende la parola con decisione. «Vogliamo una società atea? Vogliamo che la separazione fra Stato e Chiesa arrivi al punto in cui è arrivata?». Carol replica seccamente: «Io penso che Stato e religione debbano essere separati. Secondo me, dire che c’è un’etica cattolica nelle scuole, e che quest’etica è migliore, è arrogante: siamo tutti cristiani, dopotutto». La moderatrice interviene con gentilezza per spegnere sul nascere il diverbio. La conversazione continua, ma ben presto scivola su questioni di minore importanza, come condividere i campi sportivi o prevedere giorni in cui le scuole fanno lezione insieme. La sessione giunge a termine. LA PROTESTA Altri murales sui muri di Belfast La foto grande è stata scattata nel quartiere cattolico di Falls be le religioni. La scuola chiude sia in occasione delle festività cattoliche che delle festività protestanti. Vengono insegnati anche i precetti dell’altra confessione. Alla morte di Giovanni Paolo II, tutti i bambini hanno partecipato a un servizio funebre. È straordinario che in uno Stato democratico avanzato ci sia tutta questa necessità di fare discorsi del genere; è straordinario che abbia tutta quest’importanza. Nel resto della Gran Bretagna ci sono scuole anglicane e scuole cattoliche, e anche scuole metodiste, quacchere, ebraiche e battiste. Tutte queste scuole hanno elementi legati alla tradizione delle rispettive fedi, ma tutte, quale più quale meno, sono miste, con genitori che cercano le scuole migliori per i loro figli: e tutte sono finanziate dallo Stato. Ora, in Gran Bretagna, anche i musulmani chiedono di avere delle loro scuole: una richiesta a cui molti guardano con timore, perché è dimostrato che le scuole islamiche possono insegnare ai bambini a odiare i cristiani e gli ebrei. L’esempio dell’Irlanda del nord non è incoraggiante: dove esistono divisioni e sfiducia, la segregazione scolastica sembra peggiorare le cose. E una volta che si creano scuole separate, tornare alle scuole miste è difficile. Alla fine della giornata, i partecipanti all’incontro di Omagh hanno riempito i loro questionari. Analizzandoli, è uscito fuori che sia i protestanti che i cattolici, in molti casi, avevano cambiato idea: avevano un’opinione migliore gli uni degli altri, si guardavano con meno diffidenza, ed erano molto più numerosi, una netta maggioranza, quelli che pensavano che l’integrazione scolastica fosse una buona cosa. La sfida ora ricade sulle spalle dei politici, e soprattutto delle gerarchie ecclesiastiche. Seguiranno l’orientamento dei loro fedeli? Eviteremo un’altra divisione nelle scuole britanniche? traduzione di Fabio Galimberti Repubblica Nazionale FOTO AFP LE TAPPE DI UNA GUERRA CIVILE Col trattato del 1921 l’Irlanda del nord rimane sotto il dominio britannico.Travagliata da una politica di discriminazione nei confronti della minoranza cattolica la regione piomba nella guerriglia: il 30 gennaio 1972 (“the Bloody Sunday”) tredici civili vengono uccisi da soldati britannici. Per tutti gli anni Ottanta il terrorismo prevale sui negoziati e i morti sono migliaia. Nel 1998 l’Accordo del Venerdì Santo permette di avviare un processo di pace 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007 i luoghi Tombe monumentali Nel famoso cimitero moscovita di Novodevichy sono sepolti molti dei maggiori scrittori, musicisti e pensatori russi, accanto alle personalità politiche di spicco del settantennio comunista Adesso, per un programma di RaiSat Extra, un grande conoscitore di quel mondo si è aggirato in mezzo alle lapidi e ne ha raccontato le storie, singolarissime eppure esemplari I fantasmi della vecchia Russia Krusciov insultò lo scultore d’avanguardia Neizvestny: “Il mio asino avrebbe dipinto meglio con la sua coda”. Ma quando Krusciov morì la sua famiglia si rivolse a lui per il sepolcro va obbedire alla moglie che gli chiedeva di mangiare questo o quell’altro, di cambiarsi la cravatta o qualcosa del genere. Era una famiglia molto legata e lui si divertiva con lei, ma riceveva anche stimoli intellettuali. Il testo che segue è tratto dalle prime due puntate della nuova serie di Extraterreni, un programma di Valeria Paniccia in onda ogni sabato alle 22,30 dal 24 febbraio su RaiSat Extra, il canale satellitare Rai su Sky diretto da Marco Giudici. È un viaggio della memoria attraverso i cimiteri monumentali Prima tappa Mosca, dove il giornalista Demetrio Volcic racconta Novodevichy, il camposanto di un monastero che dal secolo scorso ospita le spoglie di personaggi celebri Nikolai Vasilevic Gogol (1809-1852), scrittore Non era sepolto a Novodevichy. A un certo momento quando hanno deciso di fare la rappresentativa nazionale dei personaggi celebri, l’hanno disseppellito dal monastero Danilovskij e l’hanno portato qui nel 1931. Aveva una salute cagionevole e ogni tanto cadeva in preda a crisi mistiche che culminarono in una specie di autopunizione. A un certo punto non volle più mangiare né lavarsi né curarsi. Una crisi di inedia. «È dunque necessario morire», disse, «e io sono pronto. Morirò». Gli legarono le mani e cominciarono a curarlo, gli bagnarono la testa con l’acqua fredda, gli fecero le sanguisughe e via con quello che per l’epoca poteva essere l’accanimento terapeutico. Una notte, in preda al delirio, si svegliò e urlò: «La scala, fate presto, la scala!». Si riaddormentò e morì nel sonno. Trovarono una lettera, scritta qualche tempo prima che diceva: «Ci sarà una scala, pronta a esserci lanciata dal cielo e una mano, tesa verso di noi, ci aiuterà a salire». DEMETRIO VOLCIC jaceslav Mikhailovic Molotov (18931986), ministro degli Esteri di Stalin, e sua moglie Polina (1897-1970). Fedelissimo di Stalin, insieme a Kaganovic, Molotov era un grande servitore dello Stato e in questa funzione ha avuto momenti di declino, momenti di semiombra o penombra e poi è sempre rispuntato di nuovo. Morì alle prime luci della perestrojka. Lo hanno mandato in posti secondari, in Mongolia addirittura, lui il grande diplomatico, e negli ultimi anni della sua vita è stato spedito a Vienna come rappresentante sovietico presso l’Agenzia atomica internazionale dove faceva l’ambasciatore, posto di scarso rilievo ma di bella vita. E lì l’ho incontrato. Un giorno passeggio per la strada vedo un signore che aveva una faccia conosciuta e una signora cinque o sei metri dietro. I due non si scambiano una parola, fanno qualche chilometro, poi si siedono nella loro macchina, partono, il tutto senza le guardie del corpo. La donna è la moglie, Polina, che aveva trascorso alcuni anni nei campi di concentramento, accusata di un complotto ebraico e persino di corruzione sessuale. Era amica della Golda Meir, il primo ambasciatore israeliano a Mosca. Nel ‘48 era stato creato lo Stato di Israele e Polina, per promuovere la causa di Israele, mise in piedi un comitato ebraico a Mosca, con l’appoggio di Stalin il quale aveva capito l’importanza della faccenda e fece entrare nel comitato, presieduto da Polina, i più illustri ebrei della città. Compilata la lista degli ebrei influenti, entro pochi mesi caddero tutti in disgrazia, e la moglie di Molotov fu spedita nel lager. Quando, subito dopo la morte di Stalin, Beria, ministro degli interni, l’anima nera del regime, rilascia dal lager la signora Polina, Molotov va a prenderla. Lei gli chiede: «Che cosa c’è di nuovo?». «Lo sai no, che è morto Stalin?», risponde lui. E lei si mette a piangere. Non perdonò il marito; perdonava Stalin, ma non perdonava il marito che non aveva fatto tutto il possibile per salvarla dal lager. Molotov era presente a tutte le cene che Stalin organizzava di notte nella sua dacia e i compagni lo prendevano pure in giro, chiedendogli: «Ma come sta tua moglie?». Tutti erano a conoscenza del fatto che lei, Polina, si trovava in un lager. V Sergei Mikhailovic Eisenstein (1898-1948), regista cinematografico Sergei Eisenstein ha realizzato sette film, tutti sotto l’influenza diretta di Stalin il quale era molto interessato alla trilogia su Ivan Groznij, “Giovanni il terribile”. Stalin per certi versi durante la guerra si identificava nella figura del grande zar russo e dunque anche meditava sui mezzi necessari per dominare la Russia nel momento in cui combatteva Hitler. Pertanto voleva essere informato sia sulla sceneggiatura sia su come procedevano i lavori. Questo evidentemente disturbava Eisenstein che non si sentiva molto libero. Il problema però era anche un altro. La casa di Prokofiev, quella di Eisenstein e quella di Osip Mandel’stam, distavano in linea d’aria trecento, quattrocento metri dal Cremlino. La rivoluzione russa nasce anche sotto la speranza di una rinascita culturale e gli artisti ci credevano. Allora non deve meravigliarci il fatto che esistono delle lettere che il regista indirizzò a Stalin, ma anche lettere di scrittori a Stalin, missive a cui puntualmente venivano date delle risposte. Era un circuito molto limitato, geograficamente chiuso, e si sapeva tuttavia che se Stalin, volubile, cambiava il parere in qualche modo si poteva lavorare ancora e andare avanti ma anche trovarsi ai margini o peggio. Stalin voleva un Ivan Groznij non proprio modellato sulla sua figura ma non in contrasto con le sue idee sul potere. È stata realizzata la prima parte, il secondo film, intitolato La congiura dei boiardi, è uscito ma non ha circolato tra il pubblico in quanto il Comitato centrale del Pcus lo giudicò negativamente. Il regista ebbe un infarto e la terza puntata non è stata realizzata. Sergei Mikhailovic Eisenstein è stato gay, intellettuale, ebreo. Nessuna delle tre cose piaceva in quel momento al regime. Andrei Andreevic Gromyko (1909-1989), ministro degli Esteri dell’Urss La caratteristica dei grandi diplomatici sovietici è stata di essere servitori dello Stato. Hanno seguito le Vladimir Vladimirovic Majakovskij (1893-1930), poeta Un po’ è dimenticato perché con l’ideologia un po’ è scesa anche la sua immagine. Era il “megafono della rivoluzione”, così lui si definiva, e la sua poesia era esplicitamente politica anche se poi era un personaggio molto più complesso di quanto appariva a prima vista. Aveva quattordici anni, figlio di un guardaboschi, e già si era dato alla poesia. Conobbe nel ’12 Marinetti. Gli piacevano i futuristi italiani, e scrisse un documento antiborghese: si definiva un futurista comunista. Uomo molto piacevole, anche fisicamente. Quando qualcosa gli andava bene amava radersi i capelli a zero. Di bella presenza, aveva molti contatti in Occidente, in quanto la donna principale della sua vita, Lili Brik, aveva una sorella che si chiamava, è morta sì, si chiamava Elsa Triolet, la quale era sposata con il poeta francese Louis Aragon, e da qui il collegamento del poeta con il mondo intellettuale francese e occidentale. [A proposito dell’interrogativo sulla vera ragione del suicidio di Majakovskij, se si sia trattato di amore, disgrazia politica o disillusione sull’ideale comunista] Alla povera Lili Brik, tutti quanti le chiedevano la stessa cosa, e lei per trent’anni ripeteva — lo ha detto anche a me — che se lei fosse stata presente in quei giorni lui non si sarebbe ammazzato perché lei lo conosceva. C’era di mezzo anche la delusione d’amore, forse si sentiva un invecchiato, lui vitalista spinto, forse qualcuno lo ha offeso; perché il poeta è sensibile, anche quando si tratta del megafono della rivoluzione. 13 SOTTO LA NEVE In alto a sinistra, una veduta del cimitero moscovita di Novodevichy; a destra Demetrio Volcic tra le tombe; sopra la tomba di Konstantin Stanislavsky. Nella pagina di destra, dall’alto in senso orario, i monumenti funebri di: Molotov e sua moglie Polina; lo scrittore Mikhail Bulgakov sotto la neve; Sergei Eisenstein; Andrei Gromyko; Anton Cecov; Raissa Gorbaciova; Nikolai Gogol; Vladimir Majakovskij; Nikita Krusciov decisioni dell’Ufficio politico, certamente non una loro politica personale, ma si sono adoperati per realizzare le decisioni del loro vertice. Un diplomatico di punta vale qualcosa. È molto difficile sostituirlo, quando manca una ragione precisa. Se uno che ha speso tanti anni alle Nazioni Unite nel dialogo con gli Stati Uniti, poi sparisce, bisogna pur spiegarlo. Si può inviare un sostituto ma sono i Gromyko che hanno realizzato la politica, hanno dato anche un proprio apporto: quando c’erano due vie, la possibilità di un dialogo, la possibilità di sprigionare la forza della mediazione e della diplomazia, avendo come alternativa la guerra e il conflitto, hanno sempre puntato sulla via tranquilla, guadagnandosi un buon nome nella diplomazia mondiale. È lui che ha votato e ha sempre sottolineato di essere stato il primo ad aver votato per l’istituzione dello Stato di Israele; la politica sovietica sosteneva Israele, in quanto Israele era avversato dalla Gran Bretagna. Più tardi invece è prevalsa la lobby araba nel vertice sovietico e Gromyko doveva imporre un’altra linea. Il problema nella diplomazia è spesso lo stile: uno spostamento che il nostro aveva affrontato, benché personalmente, pensiamo soltanto alla moglie attivista ebraica, lui abbia saputo farlo bene. Anton Pavlovic Cecov (1860-1904), drammaturgo Il suo teatro fu un grande insuccesso all’inizio. Al suo debutto nell’ottobre del 1896 al teatro Aleksandrinskij, a San Pietroburgo, fu un clamoroso fiasco e nessuno lo aveva apprezzato e anche di Try sestry, “Tre sorelle”, dicevano: «Beh, la trama è molto semplice, tre ragazze dalla provincia vogliono andare a Mosca, che ci vadano, si prendano un biglietto, anziché star sedute per tutti e tre gli atti su un divano». Poi si scoprì che si può leggere il teatro a più livelli, quello della quotidianità molto bassa, il secondo livello è psicologico e il terzo raggiunge le dimensioni di una parabola umana. E dunque le pause avevano un ruolo espressivo non meno del dialogo, le didascalie erano ampie e descrittive, e quel tipo di dramma era un vero e proprio teatro d’atmosfera, di stati d’animo. Alla fine del Diciannovesimo secolo, nel 1898, Il gabbiano, la pièce di Cecov, ottiene un grande successo e diventa anche il simbolo del teatro borghese, che è molto lontano dal teatro popolare, satirico, crasso ma anche molto lontano dal teatro aristocratico. Raissa Maksimovna Gorbaciova (1932-1999), moglie di Mikhail Gorbaciov, ultimo leader sovietico L’Unione Sovietica non era abituata a vedere le mogli dei capi nello svolgimento della propria funzione. Qualche volta, in penombra, la moglie di Lenin; la moglie di Stalin si è suicidata nel ‘32. Dopo non abbiamo visto nessuna signora del regime accompagnare il marito all’estero, fare della beneficenza, comportarsi come se fosse la prima compagna occidentale. In Russia hanno sempre contato di più i padri che le madri e nel caso delle zarine queste diventavano “padrine”. Il loro era un bellissimo matrimonio che durava da quarantasei anni, si amavano molto, si completavano, discutevano di politica e delle questioni da risolvere. Noi corrispondenti abbiamo accompagnato i Gorbaciov nelle visite di Stato e ovviamente si parlava di tutto. Lei era sempre presente e interveniva nelle discussioni di politica. Era in disaccordo su piccoli dettagli della vita quotidiana. Lui era compiaciuto e divertito; dopo aver preso in una giornata mille decisioni dove- Nikita Sergevic Krusciov (1894-1971), segretario generale del Partito comunista sovietico L’autore [della tomba] si chiama Ernest Neizvestny. Era, ed è ancora, il migliore scultore russo, anche se adesso vive in America. Era il dicembre del 1962 quando, in una celebre visita al Maneggio di Mosca, Krusciov vede le sue opere d’avanguardia e lo insulta dicendo: «Il mio asino avrebbe dipinto meglio con sua la coda, perché fai diventare mostri gli uomini sovietici?». E Neizvestny ebbe il coraggio di rispondere: «Segretario generale, io ho fatto la guerra, ho combattuto per l’Unione Sovietica, non può darmi del traditore, ho diritto di vedere il mondo così come lo vedo io». Krusciov arriva a insultarlo dandogli del pideraz, del pederasta, ma pronunciava male la parola. La risposta dello scultore pesca nelle favole russe e dice: «Lei Nikita Sergevic è mezzo diavolo e mezzo angelo. Se in lei vince l’angelo sarà un bene per tutta la Russia, ma guai se dovesse vincere in lei il diavolo». È questa la ragione per cui l’ultimo riposo di Nikita Krusciov è costruito con la pietra bianca da angeli e con il marmo nero che è il colore del diavolo. Dopodiché Ernest Neizvestny venne tolto da tutte le associazioni degli artisti, che contavano molto, e gli venne negata la possibilità di esporre nei musei. Senonché, quando Krusciov è morto la sua famiglia si rivolse proprio a Neizvestny, dicendogli che nei suoi scritti Krusciov si era in qualche modo scusato ed era rimasto dispiaciuto per quanto aveva detto. Verso la fine della sua vita si era ravveduto e aveva annunciato che il partito non deve intromettersi nelle vicende dell’arte e che dunque si pentiva di quel suo giudizio, quella volta alla mostra del Maneggio. L’ho visitato un giorno nel suo studio, l’artista, mentre realizzava questa testa in bronzo. Ecco, l’ha fatto mezzo diavolo, mezzo angelo. La testa avrebbe dovuto essere metà in oro, metà in bronzo ma l’oro avrebbe potuto esser portato via da una gazza. Le gazze a Mosca sono un problema. Tant’è vero che ai tempi russi e sovietici esisteva un reparto falconieri al Cremlino che addestrava i falchi da lanciare contro le gazze che rischiavano di rovinare e portare via le cipolle dorate delle chiese. Repubblica Nazionale DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 3 7 La moglie di Molotov non lo perdonò mai Sergei Eisenstein era gay, intellettuale, ebreo di non aver fatto il possibile per salvarla dal lager Nessuna delle tre cose piaceva al regime 15 1 5 6 2 4 11 Repubblica Nazionale 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007 Per trent’anni, dal 1946 al 1975, prima che la tv restasse la sola padrona del campo, i due grandi partiti di massa del dopoguerra si sono sfidati a colpi di film proiettati nella sale, negli oratori, nelle sezioni. Ora un convegno alla Camera riporta alla luce queste pellicole segnate dal tempo: pubblicità elettorale rudimentale, eppure specchio di un Paese in rapida evoluzione FILIPPO CECCARELLI A ROMA llaricerca della cinepolitica perduta, nei meandri di archivi che d’un tratto si accorgono di aver accumulato tesori. Fotogrammi sgranati e messi a repentaglio da macchie che esplodono sugli schermi degli odierni dvd. Pellicole che sfidano il tempo per spiegarlo meglio. Immagini insieme fantasmatiche e mummificate, ma proprio per questo decisive e definitive. I film di propaganda dei comunisti e dei democristiani, grosso modo. Quaranta, cinquanta, sessant’anni fa gli italiani se li sorbirono al buio, nei cinema, in parrocchia, in sezione. Religiosamente assistevano a quelle visioni, tra ombre e abbagli, cielo e terra, santi e diavoli, troni celesti e povera gente. Togliatti che dopo l’attentato del 1948 gioca a scacchi in giardino con Longo. Voce dello speaker: «E guardate il compagno Secchia com’è tranquillo!». Secchia si accende la pipa, guarda la cinepresa, fa un mezzo sorriso. Oppure. Primo piano, ad allargare, di un libro aperto. Si tratta dell’Imitazione di Cristo che De Gasperi portò con sé in carcere. Stacco, musica: la sedia vuota del presidente del tribunale che lo condannò a quattro anni per antifascismo. Altro stacco: la foto incorniciata della moglie e delle figlie bambine che l’illustre prigioniero teneva accanto al pagliericcio di Regina Coeli. Esterno, giorno. Le corse ciclistiche e gli incontri di boxe organizzati sulla spiaggia, sotto il sole, dall’Associazione Amici dell’Unità. Milioni di lettori, centomila diffusori s’intitola il cortometraggio, 1949. L’anno prima, per spingere il popolo ad andare a votare, i Comitati Civici hanno fatto riadattare a Eduardo De Filippo la celebre scenetta di Questi fantasmi sulla preparazione del caffè alla napoletana. E ancora alla fine degli anni Sessanta, in un film pilota di Eros Macchi, compaiono Franco e Ciccio, al bar. Fanno gli spiritosi sulla cassiera: «Vita stret- ta! Gambe lunghe!» commenta Ciccio da intenditore. Solo alla fine, come di sfuggita, convengono che occorre votare Dc. Anche il sonoro di questi cine-reperti, denso com’è di salti e fruscii, rinvia a un tempo vertiginosamente lontano dall’epoca televisiva. Quando non sono cori solenni, vagamente sovietici, o canti gregoriani, la voce dello speaker risuona stentorea oppure ammic- Nella retrospettiva autentiche gemme di grandi registi cante. Comunque asseconda il più completo dispiegamento di simboli: decine di falci che svettano al sole, sfilate di crocifissi, piazze strapiene di folla, a perdita d’occhio. Tra mercoledì 28 febbraio e giovedì 1 marzo la Camera dei deputati si aprirà per la prima volta a un flusso quasi ininterrotto di immagini. Le hanno fornite, in lodevole concordanza, la Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio, l’Istituto Luigi Sturzo, la Cineteca del Comune di Bologna, l’Istituto Gramsci Emilia-Romagna. Montecitorio ospita un convegno-monstre: Cinema di propaganda. La comunicazione politica in Italia attraverso il Cinema. 1946-1975. Sette presentatori, sette relazioni introduttive (significativa quella di Tatti Sanguineti), una tavola rotonda finale con Andreotti e Macaluso (che per un attimo si rivedrà in foto, giovanissimo, su un cartellone che illustrava al modo dei cantastorie il sacrificio del sindacalista Turiddu Carnevale). Previsti nella due giorni quasi sessanta interventi, una specie di sinedrio composto da studiosi, registi, critici, esperti di comunicazione, nonché dai superstiti di quella lunga stagione nella quale, attraverso le immagini, si forgiò appunto l’immaginario della Prima Repubblica: da Ettore Bernabei a Pupi Avati, da Giuseppe De Rita a Goffredo Fofi, passando per Paolo Mereghetti, Bartolo Ciccardini, Giuseppe Bertolucci, Gian Luigi Rondi, Francesco Rosi, Turi Vasile, Damiano Damiani, Edoardo Novelli. Una retrospettiva che riporta alla luce preziose gemme, offrendole a generazioni di cinefili. Fonti, ispirazioni, esperimenti. Le prime prove, ad esempio, dei fratelli Taviani che per il Pci si misurarono con un Mezzogiorno (Sicilia all’addritta, 1959) in bilico fra la preistoria, il terzo mondo e la tragedia greca. Come pure certe sequenze del 1956 sul Primo Maggio delle Acli, con atterraggio di un Cristo bronzeo elitrasportato da Roma a Milano: «Con somma gioia di Federico Fellini — nota Tatti Sanguineti — che tre anni dopo, nell’apertura de La dolce vita, imbarcherà sullo stesso elicottero, che trasporta il Cristo lavoratore, anche Marcello Mastroianni e Paparazzo». Cinepolitica a suo modo profetica. Cartoni animati democristiani contro Achille Lauro, davvero molto simile a un proto-Berlusconi: dispiego di quattrini, conflitto di interessi, sovrana megalomania, utilizzo elettoralistico del calcio e del tifo. Oppure Modugno, che sempre per lo scudo crociato racconta una barzelletta su Krusciov e canta «Libero, sono liberoooo!». Sketch comunisti e divorzisti con Gianni Morandi in versione famigliare, Gigi Proietti che si profonde in gorgheggianti virtuosismi sul «No», Pino Caruso ritratto in uno specchio barocco e uno scanzonatissimo Nino Manfredi, al trucco. Propaganda elementare, anzi primordiale, e vista con gli occhi dell’oggi per certi aspetti anche un po’ selvatica. All’inizio ancora indissolubilmente dominata dalla parola, come dimostrano le tante inquadrature di titoli di giornale, scritte sui muri («Vota comunismo») o frasi riprese dai cartelli delle manifestazioni e ripetute in voce con straniante effetto karaoke. Eppure, per quei tempi, una comunicazione del tutto efficace, espressiva, professionale, pur nella sua limitata varietà di forme, comunque in Repubblica Nazionale DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 MANIFESTI Nella pagina accanto, due manifesti elettorali del Pci: il primo, contro le basi americane, è del 1958; il secondo è datato 1946. Qui a destra, tre poster della Dc datati 1952, 1959 e 1953 Le immagini di queste pagine sono fornite dalla banca dati on-line Manifestipolitici.it, a cura dell’Istituto Gramsci Emilia Romagna, e dall’Istituto Luigi Sturzo L’arma del l a c i n epolitica nel lungo d uello Dc-Pc i IL CONV Un pezzo EGNO passa su della storia d’Ita lia il 28 febb llo schermo, nella Salaraio e il 1° marzo, della Cam delle conferenze Palazzo Mera dei deputati , via del Po arini, Per la pri zzetto 158, Rom audiovis ma volta gli archiva i (Istituto Livi della Dc (Istituto Guigi Sturzo) e del Romagn ramsci Emilia- Pci alcuni filma) mettono a confr mai più p di propaganda onto dopo la loroiettati in pubblic Il conveg ro realizzazione o di propagno - Cinema La comu andaattravers nicazione politica è promoso il cinema 1946-1in Italia generale so da: Mibac-Dir 975 del Com per il cinema, Cin ezione Fondazioune di Bologna, eteca del Movimne Archivio Audio visivo e Democ ento Operaio Sturzo, Isratico, Istituto Lu ig i Emilia-R tituto Gramsci La rassegomagna da Franc na sarà presenta ta e Tatti Saesco Malgeri Partecipenguineti Luciano ranno, tra gli altri Bertoluc Violante, Giusepp: Mimmo Cci, Pietro Scoppo e Anselmi, alopresti, Gian Mla, Sandro C ario urzi grado di accendere la fantasia e mobilitare le emozioni di un’Italia che più profondamente e intimamente ideologizzata non poteva essere, tanto meno sembrare. Il cinema restava, come aveva detto Mussolini, «l’arma più potente». E così, come il Centro Cinematografico Cattolico di padre Galletto si peritava di promuovere, bocciare o esprimere riserve sui film, con lo stesso intento pedagogico un opuscolo del Pci venuto fuori durante l’organizzazione del convegno consigliava la proiezione di questa o quella pellicola e intimava di «denunciare» e «smascherare» altri film, in genere americani, «per il loro carattere fascista e guerrafondaio». A vedere il materiale della Dc e del Pci nel suo insieme, a perdifiato, appare evidente la riserva di sacralità che le due chiese secolari trasmettevano alle rispettive masse di fedeli. In primo piano e sullo sfondo dei filmati cattolici abbondano croci, chiese, basiliche, cupole, campane che si sciolgono festose. E papi, pasti, mamme, nascite, bimbi che vengono al mondo in tuguri: «È un maschio! Un maschio!» si felicita la levatrice con il papà, il protagonista di Nasce una speranza (1952), un poverissimo contadino pugliese le cui condizioni verranno sensibilmente migliorate dalla riforma agraria e poi dall’entrata in funzione della Cassa per il Mezzogiorno. Ma anche l’ecclesia rossa ha la sua fede, il suo Olimpo, i suoi riti sacrali. Nel film di Giuseppe De Sanctis sul VII congresso del Pci all’Adriano (1951), dove compare a un certo punto un bellissimo Berlinguer, le delegazioni regionali, in costume, recano doni al banco della presidenza con lo spirito — altro che materialismo storico! — di chi depone offerte votive sopra un altare: prodotti industriali, modellini, capi di vestiario, generi alimentari (un’enorme mortadella), addirittura una pecora viva, portata a braccia dalla Sardegna. Oltre alle stoviglie carcerarie di Antonio Gramsci, chia- C’era anche una lista comunista di film “buoni e cattivi” ITALIA IN BIANCO E NERO ramente assurte al ruolo di reliquie. E tuttavia, ferma restando l’asprezza del conflitto tra le due confessioni, i due popoli, le due tribù, a distanza di mezzo secolo si resta impressionati dalla specularità delle loro immagini. O meglio: sembra di cogliere nel complesso del materiale una corrispondenza di tipo archeologico, una simmetrica divisione dei compiti. Per cui, spiega bene Sanguineti, se il monolitismo comunista si concentrò sul film, sul suo valore artistico e d’autore, i prodotti cattolici, spesso anonimi e di assai variegata provenienza (Comitati Civici, Spes, Rai, Istituto Luce, Settimana Incom, anche filmati made in Usa) dicono chiaramente che la Dc preferì dedicarsi a tutto quanto stava dietro Sopra, proiezione all’aperto in un paese del Lazio negli anni Quaranta. Nell’altra pagina in basso, un camioncino elettorale della Dc e intorno al film: apparati, produzione, distribuzione. Lo stesso vale per l’approccio, lo stile e i contenuti. Nel senso che la cinematografia del Pci si ispira ai modelli del neorealismo, mentre quella democristiana traduce in immagini la retorica della ricostruzione. Ma il punto è che l’Italia di allora, dopo tutto, era una sola, e ad entrambe le culture politiche apparteneva nella sua stragrande maggioranza. Un paese ancora agricolo sospeso tra macerie e risanamento. Un panorama almeno all’inizio segnato da bestie, covoni, sacchi di farina, sguardi famelici, carriole, canottiere, biciclette, bambini con il sedere scoperto, adolescenti in pantaloni a “zompafosso”, e muri scrostati, fango, assalti al treno, dormitori, mutilati. Né la Dc, né tanto meno i cineasti comunisti volevano o potevano ignorarne quella realtà visiva. In un documentario comunista sulla dura vita degli operai immigrati nella periferia di Milano (Il prezzo del miracolo, l’anno è il 1963) si mostrano i segni scandalosi di quel che di lì a poco si sarebbe chiamato benessere, additando al ludibrio degli spettatori il tutto esaurito alla Scala, le vetrine con il caviale, le acconciature delle signore borghesi, un’auto sportiva (definita, per non fare pubblicità ai padroni, «cilindrata da sette milioni») e pure un innocente barboncino. Il tutto a sottolineare una diversità quasi più antropologica che ideologica. Ma l’impressione è che la più flessibile e lungimirante cine-politica cattolica raccolse proprio quella sfida lì; e ai dolenti accenni sociali, alle coreografie funerarie per la morte di Togliatti (stupendi i materiali sovietici girati a Yalta nel- l’agosto del 1964), alla poetica della miseria e del riscatto, cinquant’anni prima di Berlusconi lo scudo crociato rispose mettendo in scena la speranza, l’ottimismo prudente, il sogno di progresso graduale ma inesorabile. E quindi esibiva a tutto spiano ruspe, ciminiere, tralicci dell’elettricità, lavori di bonifica, famigliole e bambini in salute, pranzi e cene. E sì: la Scala riapre, «l’Italia ritorna a cantare!», s’entusiasma lo speaker; «gli italiani riscoprono la bellezza!», e si vede una bella ragazza discinta; «ci invadono milioni di turisti!», detto con l’aria di chi ben altre invasioni ha vissuto e teme che possano avvenire di nuovo. Ma forse aveva già vinto, la Dc, prima di inventarsi la tv a sua immagine e somiglianza, perché mossa dall’istinto, sul piano ottico, visivo e cognitivo andò spedita al cuore dei più inconfessabili e vibranti archetipi dell’identità nazionale: la furbizia, tanto più risolutiva, quanto più misurata e perfino bonaria. Detta in modo brutale: vinse, tenne il potere e fece a lungo il suo comodo perché riuscì a far sentire i suoi elettori meno fessi. Meno disposti ad abboccare all’amo delle promesse come Il compagno Gnocco Allocco, del 1958, non a caso raffigurato in un acquario all’inizio del film in compagnia di pesci boccaloni. Un ometto brutto e mezzo calvo che è sempre in prima riga negli scioperi, scrive di continuo sui muri «Viva la pace», «Viva la pa...» e subito un uomo belloccio e determinato gli completa la scritta in «Viva la pasta al sugo»; e alla fine spende un sacco di soldi per comprarsi un’orrida crosta da un pittore d’avanguardia, e quello con i soldi si compra da bere, e si ubriaca pure. Repubblica Nazionale 46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la lettura Riti collettivi DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007 L’Argentina di Kempes e quella di Maradona, l’Inghilterra e le Malvinas, l’Uruguay con il suo inno da otto minuti, il Paraguay di Chilavert, il Messico dell’Azteca, l’Italia, il suo Mondiale e i suoi scandali Due scrittori, davanti a una bottiglia di vino, pane e formaggio, parlano del più grande spettacolo del mondo Dialogo sul calcio e sulla guerra EDOARDO NESI e SANDRO VERONESI re 12.00. Una grande cucina con un tavolo con il piano in marmo. Sul tavolo due piatti e due bicchieri; un tagliere e del pane; un bel pezzo di spalla e un coltello. Dalla porta entrano due persone: uno, N., è alto, ben messo, scarmigliato e ha in mano una bottiglia di Faugère del 2002 alla quale sta per tirare il collo; l’altro, V., è pure alto, ma è più sottile, e porta sotto braccio tre bei tocchi di formaggio. N. Che si deve fare? V. Si deve ragionare intorno al calcio sudamericano, all’Argentina, ma poi si va anche oltre. N. (Indica il caprino ricoperto di cenere)Si mangia anche la cenere? V. Certo. Toc! Salta il tappo della bottiglia. V. (Versa il vino nei bicchieri) [...] Il mio cuore di tifoso ha sempre battuto dalla parte sbagliata rispetto a tutte le ragioni che uno come me dovrebbe avere per scegliere da che parte stare. Per esempio, io, nel ‘78, tifavo per l’Argentina. Appassionatamente. Ma era l’Argentina dei colonnelli! Eppure mi commuovo solo a pensare a quei giocatori lì: Kempes, Luque, Tarantini, Olguín. N. Galván. V. Galván. Nell’86, invece, io tifavo contro l’Argentina, e quando Maradona fece gol di mano, mi indignai perché per me quella partita fu rubata a una squadra che doveva vincere i Mondiali. Ed era una squadra molto ma molto più bella, l’Inghilterra di allora, se pure gli inglesi mi stanno anche sui coglioni. Ho tifato contro l’Argentina nell’86 e ho tifato contro l’Argentina nel ‘90 quando giocò con la Germania. Perché tifavo contro Maradona. Eppure il mio cuore batte per Maradona, capito? Io tifo per la Juve, ma in teoria non dovrei esser tifoso della Juve, dovrei star dietro a tutte le retoriche del Torino, della Fiorentina… Perché, mi chiedo, io, in fondo, trovo giusta questa contraddizione? N. Senti: io ti posso dire perché tifavo per l’Argentina nel ‘78 e perché mi sembrava una squadra straordinaria. Perché i giocatori, il loro aspetto e il modo in cui giocavano in campo, erano la cosa più lontana dai colonnelli che ci potesse essere: le zazzere tenute in quel modo e chiaramente poco lavate; i baffoni; i riccioli di Tarantini; i capelli lunghi sulle spalle di Kempes e di Luque. E mi sembrava che l’essenza di quella squadra fosse, in assoluto, la vera forma di protesta contro l’Argentina di quei tempi. Per questo mi piaceva. V. Ti piaceva perché era poco marziale. [...] N. Tu, contro Maradona, hai detto delle cose impegnative, ma io non l’ho mai giudicato perché sono sempre stato accecato dal grande amore per lui. E [...] a me quel colpo di mano sembrò geniale e mi sembrò la vendetta per le Malvinas perché, alla fine, ogni partita Argentina-Inghilterra è la guerra delle Malvinas. In fondo ho perdonato quel gesto a Maradona perché non ho mai perdonato gli inglesi per aver silurato il General Belgrano, forse l’unico incrociatore argentino, e aver ammazzato un mucchio di gente. [...] (Addenta un pezzo di formaggio) E che è questo? V. Caprino piccante. O N. (Dopo aver mandato giù un boccone) Buono! [...] V. Ma io non credo che Maradona abbia fatto quel gol di mano perché dall’altra parte c’erano gli inglesi. [...] (Alza il bicchiere e beve un sorso) È buonissimo, ‘sto vino. N. È biodinamico. V. Cioè? N. Cioè senza chimica, nessun diserbante, tutto ciò che gli è stato fatto è stato fatto a mano, in cantina lo hanno lasciato stare. [...] V. Però a me, francamente, questa cosa del gol di mano non mi va giù. [...] N. Guarda che prima del gol di mano lui aveva fatto quel gol incredibile… V. No! lo ha fatto dopo. N. Sicuro? [...] Comunque, io ti dirò che quando nel ‘90 ci furono i Mondiali, durante quella partita a Milano quando tutto il pubblico fischiò l’inno argentino e Maradona disse: “Hijos de puta!”, io [...] lo giudicai un gesto veramente eroico e pensai: «Se fossi argentino, gli darei tutto, a quest’uomo». Perché nel momento in cui ti insulta una nazione e gli altri giocatori argentini stanno zitti, lui, la bestia vera, ha fatto un grande gesto in mondovisione. [...] V. (Taglia una fetta di formaggio) Toma valdostana. N. Sentiamo. V. Io, invece, esultare a un gol di Maradona, mai. N. Davvero? V. Non ero io a deciderlo, ma il mio cuore, sul campo di calcio. Forse ero semplicemente contro la dittatura di un genio e di un talento così insolente che sul campo si permetteva di tutto. [...] N. E comunque Maradona era amato dai suoi compagni perché li faceva giocare bene tutti. Ti ricordi Careca? Lo lanciava in diagonale e lui tirava il gol nell’angolo opposto della porta. Giordano, Carnevale… Pensa che faceva queste cose e la sera prima magari aveva preso cocaina. [...] Pensa a come avrebbe giocato se non l’avesse presa, la cocaina. [...] V. Più di così che cosa doveva fare? N. Io spero che non muoia, perché se muore per la droga è una tragedia per i ragazzi. Che il cuore non gli ceda! Zidane ha chiamato suo figlio Enzo in onore di Francescoli, il giocatore più bello che il Sudamerica abbia mai avuto. Alzò una coppa con un braccio rotto come Beckenbauer V. Se non muore Keith Richards, perché deve cedere il cuore di Maradona? N. Keith Richards bisognerebbe ammazzarlo. Maradona, invece, deve vivere, invecchiare e diventare saggio. V. (Riempie nuovamente i bicchieri)… [...] N. Senti, alla fine gli argentini sono parenti nostri e parenti veri. Anche i nomi (si alza in piedi e con tono solenne): Mario Alberto Kempes, Leopoldo Luque. A guardarli sembravano due motociclisti sfortunati e invece giocavano a calcio, e anche bene. [...] (Alza il bicchiere) A me piacerebbe raccontare il grande calcio sfortunato del Sudamerica. V. Ma ti ricordi i Mondiali di Francia? Tutta la partita il Paraguay, negli ottavi di finale, — ottavi di finale! — contro i francesi, Chilavert tranquillizzava i suoi dieci inferiori compagni, perché non valevano mica nulla i suoi compagni. N. C’era Gamarra il rosso. V. Chilavert sapeva che se si andava ai rigori, vinceva lui. Perché lui li parava. N. E li tirava pure. V. E questi persero ai supplementari, le maglie sudicie… N. Bianche e rosse con i pantaloncini blu: una roba orrenda, da dilettantissimi. Come quelle squadre costrette a indossare la maglia con i pantaloncini di riserva… V. Ma hanno tutti e tre i colori della loro bandiera addosso. Però io mi ricordo Chilavert che, invece di incazzarsi con i compagni quando Blanc segnò a dieci minuti dalla fine dei supplementari, lui, Chilavert, li consolò. Non li mandò affanculo come fanno i portieri, giustamente, tutte le volte che vengono presi d’assedio per colpa dei difensori. Li consolò. Perse e pareva avesse vinto lui. Questo vuol dire essere grandi, ragazzi. [...] Ma li vogliamo enumerare questi eroi sudamericani sudici e bravissimi a giocare a calcio? N. Teófilo Cubillas; Marco Etcheverry, il boliviano, tocco di palla, velocità di base pazzesca, capelli lunghissimi, basso. V. Basso, ma non lo buttavi mai in terra. N. Era duro come un sasso. V. E Ayala? Forse era ancora più basso di Etcheverry. N. Come si chiamava di nome? V. Guillermo. N. A me viene in mente Tony Ayala, detto El Torito, pugile imbattuto che quando buttava a terra l’avversario, gli sputava. Stava per fare il Mondiale, che avrebbe vinto di sicuro, ma stuprò una donna e finì in galera. C’è stato per vent’anni, è uscito poco fa e ha ricominciato. V. Il Messico invece è sempre stato un po’ deludente. L’unico paese del Sudamerica che ha avuto due volte i Mondiali in casa e non ha mai vinto. N. Avevano lo stadio Azteca, però. V. Hugo Sánchez che faceva gol di testa e di piede. N. Il portiere Campos. V. Già. Però, proprio perché ha sempre avuto giocatori buoni, come ha fatto a non aver mai avuto un momento di vera gloria? Aveva tutto e aveva i Mondiali in casa. N. Gli mancava la tecnologia. Repubblica Nazionale DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47 LIBRO E DVD I due dialoghi tra Edoardo Nesi e Sandro Veronesi (Conversazione etilica in margine al calcio in Sudamerica e Conversazione a 90°) sono tratti da La matematica del gol a cura di Marta Trucco (Fandango, 184 pagine +dvd 50’, 20 euro). Raccoglie scritti di Francesco Piccolo, Carlo Verdelli, Antonio Dipollina e molti altri. Il dvd è Con la mano di Dio, il documentario di Umberto Nigri che, prendendo lo spunto dal gol di mano di Maradona all’Inghilterra nell’86, rievoca la guerra delle Malvinas. In libreria il 23 febbraio I disegni di queste pagine sono di Gianluigi Toccafondo e sono tratti da Io sono el Diego (Fandango Libri 2002) ‘‘ Edoardo Nesi Io non l’ho mai giudicato perché sono sempre stato accecato dal grande amore per lui. E a me quel colpo di mano sembrò una vendetta. Non perdonai mai agli inglesi il siluramento del “General Belgrano” ILLUSTRAZIONI DI GIANLUIGI TOCCAFONDO ‘‘ Sandro Veronesi Quando Diego fece quel gol di mano mi indignai perché quella partita fu rubata a una squadra che doveva vincere. Anche se non mi stavano simpatici gli inglesi erano una squadra più bella V. Che c’entra? Guarda che questi messicani si sono inventati la ola, vogliamo dirlo? Nel 1986. Prima non esisteva, la ola. [...] Altro che tecnologia. N. Dico tecnologia perché vincere un Mondiale, per una nazione, è un po’ come fare una navicella spaziale: è una faccenda di una difficoltà spaventosa. [...] V. Suvvia. N. All’ultimo Mondiale il Senegal arrivò quasi in fondo — e ora non so se sia vero ma mi garba pensare che sia andata così — ma poi finirono i quattrini! V. Ah ah ah! [...] N. Ma, scusa un attimo, e il Perù? E Ramón Quiroga? E la storia di Ramón Quiroga? V. Ma… la vendette davvero la partita con l’Argentina? N. Sì, sì. E lo disse proprio. E lo scrisse, anzi: fece lettera aperta sul Clarín. V. (Abbacchiato) Prese sei gol. N. (Ride) Sei gol! V. Ed era un portiere talmente forte che io francamente non ci credevo che fosse venduta… Ci rimasi male, ricordo. (China la testa) E ci rimango male pure adesso. [...] N. Poi c’è anche l’Uruguay che ha una bella storia. V. Io in Uruguay ci sono stato e ti dico la verità: la sai la cosa più bella che ha fatto Zidane nella sua vita? Stiamo parlando di Zidane, lo sai qual è il capolavoro di Zidane? N. (Alza le sopracciglia con fare interrogativo)… V. Chiamare Enzo suo figlio. N. Eh, sì. V. In onore di Enzo Francescoli, che era meno famoso di lui. Era già meno famoso di lui, quando gli nacque il figlio. Era famoso nel Torino e nel Cagliari, soprattutto nel Cagliari perché lui aveva quel procuratore, come si chiama? N. Casal. V. Paco Casal, sì. Sempre coi pantaloni di pelle. Comunque Enzo Francescoli è, secondo me, il giocatore più bello, più bello, che il Sudamerica abbia avuto. […] Io ho visto Francescoli alzare la Coppa America con un braccio rotto alla Beckenbauer, perché giocò la finale, lo stroncarono ma giocò a casa sua a Montevideo. Era come vedere il mondo andare a posto, non so come dire. Lui segnò il rigore decisivo. [...] N. E poi ci sono i brasiliani. Però per essere un Mondiale sudamericano bisogna che si giochi là e non in Brasile. Il Brasile è un mondo a sé. V. Il Brasile è un altro continente. Se si parla tutti la stessa lingua e in Brasile no, ci sarà una ragione… Nel calcio non è Sudamerica, il Brasile. N. Sicché dei brasiliani non si parla. V. Dei brasiliani, no. Io in Uruguay ci sono stato. Sempre la bandiera hanno e gli inni nazionali li cantano per intero. L’inno dell’Uruguay è una cosa commovente, dura otto minuti, altro che. Non finisce più. A me mi commuovono tutti gli inni nazionali: però quelli sudamericani hanno un’aria da melodramma di seconda mano. Come c’hanno di seconda mano tutti i monumenti: il Campidoglio è copiato dal Campidoglio americano che è copiato dal Pantheon di Parigi che è copiato da San Pietro di Roma. Ma gli inni sono romanze d’amore, che sembrano non aver a che fare con la patria ma invece ce l’hanno, e sono talmente solenni che a sentirli ti commuovi. [...] V. e N. si ritrovano verso l’ora di pranzo allo Sporting a Prato. L’estate è finita, l’Italia ha vinto i Mondiali, la Juve è in serie B. Decidono di fare una sauna. Anzi, prima un bagno turco. Dentro non c’è nessuno e la temperatura si aggira intorno ai 60 gradi. Ma le voci rimbombano e il discorso non sempre è comprensibile. N. Io, a proposito dei Mondiali, vorrei dire una cosa. Torniamo un po’ indietro ai minuti finali di Italia-Australia. Noi siamo in dieci, Totti è zoppo, la nostra unica punta è Iaquinta. È finita. I Mondiali per noi sono finiti. Siamo stati eliminati. Quella fuga di Grosso che è rimasto in difesa per tutta la partita, da dove viene? ‘Sto Grosso fa uno slalom straordinario, poi il tonno del terzino australiano… V. ...abbocca, certo. Ma se ti ricordi, non fa fallo. Non era rigore. Però dinanzi a un gesto del genere, doppio dribbling in area all’ultimo minuto, e poi giù in terra, anche l’arbitro abbocca per forza. Gli Azzurri in Germania ci credevano. Sono stati come l’ispettore Clouseau: perché lui lo vuole prendere il ladro, lui ci crede sempre e alla fine lo piglia N. [...] E allora mi è sembrato un segno del destino... che negli italiani si riconosce prima che negli altri. V. Ecco il discorso è questo: noi, voglio dire, non io, ma loro, ecco, ci credevano. Perché, se non ci credevano, Grosso non avrebbe fatto quella cosa lì. Loro si sono preparati per vincere il Mondiale. Sono stati come l’ispettore Clouseau: perché lui lo vuole prendere il ladro, lui ci crede sempre, e alla fine lo piglia. Gli azzurri hanno fatto così. Come è possibile? [...] Fa caldo. Decisamente molto caldo. Il vapore sale con ampie volute dove si attorcigliano parole intere. N. E poi in conferenza stampa lo dicevano che se lo sentivano… V. Li volevano buttare fuori prima ancora di cominciare: Cannavaro, Buffon, tutti via li volevano mandare. E questi non solo hanno resistito, ma hanno vinto. N. Senza meritarlo. V. No. Meritandolo ma senza giocare bene. Via! [...] Si passa dal bagno turco alla sauna finlandese, il caldo è più secco e le voci non rimbombano. N. Ma te, per esempio, questa vittoria, la senti tua o no? Ora. V. Ora no. In verità io non l’ho mai sentita mia perché ero a Los Roques, l’ho vista là. [...] Quando son tornato Lippi non c’era più e veramente era finito tutto. Sicché alla prima partita della nazionale — battuta 2-0 in casa con la Croazia — mi son detto: ma ho sognato o che? Forse sono vecchio, ho detto. Perché nell’82 godetti un anno. [...] N. Già, perché non è durato? È colpa nostra o lo è anche per gli altri? V. Secondo me è una cosa collettiva. In Federazione si sono scordati di mettere la stelletta nella prima uscita. Via! Vai a fare la passerella a Livorno e ti scordi di mettere la quarta stelletta? [...] Noi siamo stati per due mesi e mezzo prima del Mondiale tutti i giorni concentrati su quell’altra rumba… N. Nella lavatrice, a girare… V. Sollecitati da un’altra cosa che era lo scandalo. Quindi il Mondiale è stato un accidente, nel frattempo. Pensavamo tutti di andare a fare una figuraccia e poi la cosa importante era la Juve in B, il Milan in B o in A. [...] Senti, a proposito di Milan, ma a te sembra giusto che la Juve sia in B e quegli altri no? N. Io credo che sia giusto che la Juve sia in B. Però come hanno fatto la Lazio e la Fiorentina a non finirci, è del tutto incomprensibile. [...] Però per la Juve è un lavacro meraviglioso. [...] V. È strano ma ora a me il calcio mi interessa di meno, tutto quanto. Perché? Sarà per quella faccenda dello scandalo? N. Quella faccenda è stata devastante. [...] Poi ci sono tutti quegli altri, i giornalisti, i telecronisti e quelli che stavano dietro. Io non credo molto però a questo repulisti. Mi dispiace per tutti quelli del processo… io lo guardavo spesso… il dottor Aldo, i tifosi coi cartelli che ridevano di lui… il casino fenomenale… [...] N. Però adesso che sono praticamente disidratato, io voglio dire: non si fa così. Se si ha il convincimento che una partita sia truccata, si rovina tutto. (affranto) Non si fa così. Come si dice al bambino che dice le bugie. (ancora più affranto) Non si fa così. E il calcio, non lo guarda più nessuno. Tratto da La matematica del gol, © 2007 Fandango Libri Repubblica Nazionale 48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007 Cinque concerti-mito per festeggiare i suoi ottant’anni. E per provare a far rivivere quella Parigi febbrile, quando “la cultura esplodeva in bolle iridate” davanti ai suoi giovani occhi e Boris Vian raccontava la “masnada di dissennati perdigiorno”delle strade di Saint-Germain-des-Prés Greco la musa degli esistenzialisti IL MANUALE/1 UOMO CAPELLI Scompigliati che cadono a ciocche sulla fronte (vedi il famoso ritratto di Arthur Rimbaud, padre dell’esistenzialismo) CAMICIA Stropicciata e aperta fin quasi all’ombelico, sia in estate che in inverno SCARPE Dai colori sgargianti a strisce orizzontali GIUSEPPE VIDETTI S PARIGI ul marciapiede di Boulevard Saint-Germain che va dal Flore ai Deux Magots, due dei caffè letterari più rinomati della capitale francese, gruppi di turisti transitano ignari. Sono capitati in un hotel nei paraggi con un pacchetto all-inclusive. Chiedono ai vigili la direzione per Champs-Elysées, Concorde, Louvre. E naturalmente Torre Eiffel. Non sanno di essere nel quadrilatero magico della rive gauche. Sessant’anni fa il quartiere di Saint-Germain-des-Prés diventò la tana degli esistenzialisti, in una Parigi esplosiva che profumava d’arte e di quella joie de vivre che Picasso aveva raccontato a pennellate nel celebre quadro dipinto a Antibes, una sorta di manifesto della rinascita dello spirito umano dopo gli anni bui della guerra. Nel 1947 Picasso è a Parigi, dove ha messo a punto le scene di uno spettacolo di teatrodanza, Le rendez-vous, che contiene “Les Feuilles mortes”, una delle canzoni più potenti del secolo: testo di Jacques Prévert, musica di Pierre Kosma, coreografia di Roland Petit. E lavora alla realizzazione di un Oedipe roidi Sofocle che va in scena al Théâtre des Champs-Elysée. Bighellona, come gli altri artisti e le loro corti, nel quadrilatero che sembra esplodere sotto i colpi del jazz degli alleati, i ritmi caraibici, le percussioni africane, e Stephane Grappelli e Boris Vian e Orson Welles e Jean Cocteau e Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir con la cravatta che ha appena pubblicato Il secondo sesso e Camus che sta per pubblicare La peste e negresse esotiche dai seni al vento molti anni prima dello spogliarello di Aiché Nana al Rugantino di Roma. Anche Greta Garbo fa la sua apparizione al Tabou. Ma la musa degli esistenzialisti è una francese di Montpellier, si chiama Juliette Greco. Nel ’47, quando incide la prima canzone, ha vent’anni, è meravigliosamente bella, libera, anticonformista, ma già con molte storie dolorose da raccontare. Nella sua autobiografia, Jujube, ricordando quell’anno si racconta in terza persona: «La cultura esplode in bolle iridate davanti agli occhi attoniti di Jujube. Al Tabou, ogni notte, lei distinguerà, secondo il capriccio delle onde della vita di quella Parigi traboccante di idee e di desideri, i volti di Albert Camus, François Mauriac e Simone de Beauvoir, che ha occhi azzurri come un mare in burrasca. Quando li tiene abbassati su un foglio per ore intere, al Flore o al Deux Magots, ci si chiede se il foglio bianco non prenderà fuoco». Il mito continua, a dispetto delle mode. Ieri sera, al Théâtre du Châtelet, la Greco ha tenuto l’ultimo di cinque concerti tutto-esaurito con cui ha festeggiato i suoi ottant’anni, compiuti il 7 febbraio, ma soprattutto i sessant’anni di carriera, perché spegnere le candeline sulla torta è una cosa che ha sempre detestato. «Sono felice di essere ancora qui, di poter camminare, correre, di sentirmi così piena di vita», ha detto ai parigini prima di cantare le ultime dodici “creature” incise nell’album Le temps d’une chanson, in cui accanto a brani di Brel, Trenet e Gainsbourg ha incluso anche Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno. Accarezzata dalle luci di scena, sembra ancora il volto-immagine degli esistenzialisti che Boris Vian inserì nel suo Manuale di Saint Germain-Des-Prés, di cui recentemente Rizzoli New York ha pubblicato una preziosa ristampa in inglese (Editori Riuniti ne ha curato un’edizione nel ’99 con il titolo La Parigi degli esistenzialisti). Una delle foto più belle del libro la mostra su un letto disfatto dell’hotel La Louisiane, nella camera d’angolo che era stata di Sartre, il corpo nudo avvolto in un lenzuolo, mentre sistema un microsolco sul giradischi. Sulla moquette lisa c’è un caos, tipicamente esistenzialista, di bottiglie, “E con una poesia si pagava il conto al bistrot” DONNA CAPELLI Lisci lunghi fino al petto ACCESSORI Nelle tasche dei pantaloni topolini bianchi addomesticati TRUCCO Severamente proibito l’uso del make-up Repubblica Nazionale DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49 FOTO DI GRUPPO Le foto nella pagina di sinistra dall’alto in basso: un gruppo di giovani esistenzialisti; Django Reinhardt; Jean Renoir; interno del Club Tabou Nella foto centrale, Giuliette Greco all’Hotel Louisiane In questa pagina, dall’alto in basso e da sinistra a destra, l’interno della Rose Rouge; William Faulkner con amici; Jean-Paul Sartre e Boris Vian; Don Carlos Bian e amici; Orson Welles; Stephane Grappelli; Marc Doelnitz e un’amica; Simone de Beauvoir Tutte le immagini sono tratte dal libro di Boris Vian Manuel de Saint-Germaindes-Prés (Rizzoli America, 2005, 190 pagine, 40 dollari) IL MANUALE/2 LA GIORNATA UNDICI - UNA Bagno di sole al de Flore (nella foto) UNA Colazione, il più delle volte a credito, in uno dei bistrot della zona, come “Les assassins” di Rue Jacob TRE-SEI Al caffè de Flore La domenica il Flore è rimpiazzato dal Deux Magots (nelle foto) SEI-SEI E MEZZO Chi ha una casa si ritira per lavorare un po' OTTO-MEZZANOTTE Al Bar Vert MEZZANOTTE-DIECI Al Tabou Il sabato il Tabou è rimpiazzato dal Bal Nègre (nella foto) Fonte: Boris Vian, Manuel de Saint-Germain-des Prés tazze, cucchiaini, libri e copertine di dischi sparsi alla rinfusa. Nella prefazione, Vian annota: «Intorno al 1947 Saint-Germain-des-Prés diventò repentinamente la mecca del mondo intellettuale». In quello stesso anno l’artista, che oltre a scrivere suona la tromba, canta e trascorre notti ad alto tasso alcolico al Tabou, pubblica quattro libri, tra cui Autunno a Pechino, e ingordo di gloria dichiara: «Sarò contento solo quando in Francia si dirà V come Vian». E quasi ci riesce. Nel mese di aprile una copia del suo Sputerò sulle vostre tombe, istantaneo best seller pubblicato con lo pseudonimo di Vernon Sullivan, viene trovato accanto al cadavere di una ragazza strangolata dall’amante, un commesso viaggiatore che poi si toglie la vita in un bosco fuori città. Dalle pagine della cultura e dello spettacolo, Vian finisce involontariamente in quelle della cronaca e della politica, insieme alla «masnada di dissennati perdigiorno» che popolano le strade del quartier latin. La verità è che lì si sta consumando una rivoluzione in cui cultura alta e bassa si mischiano senza pregiudizi. Il pianista Henry Renaud, che nel ’47 aveva ventidue anni, ricorda: «Saint-Germain ha fatto per la musica ciò che Montparnasse ha fatto per la pittura dopo il 1918. E non si trattava di una musica qualsiasi. Era jazz». Sartre, travolto dall’energia degli artisti d’oltreoceano ma al tempo stesso preoccupato da quell’ondata di musica d’importazione, in un articolo intitolato Jazz 1947 scrive: «La musica jazz è come la banana: la si deve mangiare sul posto». Il Tabou era più trasgressivo di un rave, restava aperto fino alle dieci del mattino. Nel pomeriggio i modaioli — i più facoltosi erano già “schiavi” del new look di Dior, che nel ’47 aveva aperto il suo atélier — prendevano lezioni di be bop dai maestri afroamericani. Poi si ballava tutta la notte con la musica di Coleman Hawkins o Charlie Parker. Miles Davis non aveva ancora ventitré anni quando sbarcò a Parigi. Con la ventiduenne Jujube fu amore a prima vista. Nella sua autobiografia Davis racconta: «Non mi ero mai sentito così in vita mia: l’euforia di trovarmi in Francia e di essere trattato come un essere umano. Io e Juliette passeggiavamo lungo la Senna, tenendoci per mano e baciandoci, guardandoci negli occhi e baciandoci di nuovo. Magia pura, mi sentivo ipnotizzato, ero in uno stato di trance. Juliette è stata la prima a insegnarmi che si può amare qualcun altro oltre la musica. Era April in Paris e sì, ero innamorato». Restò un paio di settimane. Sartre gli chiese: «Perché non la sposi?». E lui: «L’amo troppo per renderla infelice». E si dileguò. «Non era a causa della sua reputazione di Don Giovanni o per questioni di droga, come molti pensano», dice oggi Greco. «Sapeva quali problemi avrei avuto in America se avessi sposato un uomo di colore». A ottant’anni Jujube conserva intatti stile e charme. Gli stessi che folgorarono Miles: «Lunghi capelli neri, bellissima, chic, un portamento che la rende diversa da tutte le altre». Si nasconde ancora dietro elegantissimi abiti neri che si confondono con la scena buia, così la visione del suo viso pallido, una maschera inconfondibile, arriva chiara e nitida anche agli spettatori delle ultime file. Qualcosa, nel tanto dolore e nella malinconia che da sempre affogano le sue canzoni, lascia indovinare un tentato suicidio (proprio dopo aver girato Belfagor, nel 1965) e i troppi funerali degli eroi di Saint Germain che se ne sono andati, come canta drammaticamente in J’arrive dell’amico Brel («Di crisantemo in crisantemo i nostri amici incominciano ad andarsene…»). Sa di essere l’unica sopravvissuta di tutti quei volti che affollano il “manuale” di Vian, l’ultima testimone di un’epoca gloriosa. «È gentile che la vita mi abbia portato fin qui», dice. «Le persone anziane hanno più paura della morte di quanta ne hanno i giovani, ma io sono rimasta all’immaturità, non la temo. Mi aiutano le canzoni: hanno il profumo di un istante, eppure ce ne sono alcune che ti accompagnano per tutta la vita, entrano a far parte della memoria collettiva. E hanno l’effetto di una madeleine di Proust. Ma io vivo sempre con sorpresa il presente. Solo un po’ di nostalgia quando ripenso a un’epoca in cui si poteva pagare il conto del ristorante con una poesia». Repubblica Nazionale 50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007 i sapori Marmellate, liquori digestivi, biscotti, prodotti dell’orto, torte e piatti casalinghi: in molti monasteri italiani l’ospitalità è un’antica vocazione che adesso viene raccontata in due docufilm realizzati per Rai Tre Si svelano così quelle ricette della “gastronomia benedetta” Cibo dell’anima che custodiscono e tramandano da decenni i segreti della semplicità Ravioli alle bietolone Crostini con le interiora Abbazia di Novacella Monastero di Bose Convento dell’Annunciata Fondato nel 1142 dal vescovo di Bressanone Hartmann, il complesso è formato da una chiesa tardobarocca, da un chiostro gotico, dal pozzo dei miracoli e da una sontuosa biblioteca I monaci agostiniani producono ottimi vini bianchi aromatici e una tisana di erbe coltivate nel maso Rauter Creata nel 1965 da Enzo Bianchi, teologo attivissimo nel dialogo fra Chiesa e società, ristrutturando e ampliando le rovine di una chiesa romanica, è una comunità monastica aperta a uomini e donne di chiese cristiane diverse, sotto la guida di un priore. La coltivazione di orto e frutteto si traduce in confetture, gelatine e conserve Del 1500, divenne santuario mariano, noto per la cura degli appestati nell’epidemia del 1630 Dopo secoli di abbandono, i frati Servi di Maria nel 1960 l’hanno riportato all’antica vita religiosa, culturale e artistica Dalle vigne del convento, nasce un eccellente Chardonnay di Franciacorta, con l’etichetta Bellavista VARNA DI BRESSANONE (BZ) MAGNANO (BI) ROVATO (BS) Via Novacella 1 Tel. 0472-836189 Località Bose Tel. 015-679115 Piazza Santissima Annunciata 2 Tel. 030-7721377 Badia di Santa Maria della Neve Monastero di Camaldoli Due anni dopo la costruzione, cominciata nel 1471, venne annesso un piccolo convento, per una ventina di frati Dopo varie vicissitudini, i monaci benedettini sublacensi sono tornati ad abitarlo a metà Ottocento Storica ed eccellente, la produzione di polline, pappa reale e mieli di qualità diverse nel bel laboratorio apistico Avvolto in un bel bosco e costruito a pochi chilometri dall’Eremo Sacro grazie al conte Maldoli (ca’ Maldoli, da cui il nome), fu a lungo sede ospedaliera per poveri e pellegrini I monaci benedettini camaldolesi vantano una generosa produzione di liquori (Elisir dell’Eremita, Lacrima d’Abeto), tisane, caramelle, confetture, porcini AREZZO Via Badia 28 Tel. 0521-355017 Località Camaldoli Tel. 0575-556012 Sarde in carpione Cucina Chiostro del Quel che passa il convento le scelte Tra le centinaia di monasteri sparsi dalla Val d’Aosta alla Sicilia, alcuni offrono ospitalità ai non-religiosi (quasi sempre con un’offerta libera). Spesso si distinguono anche per la produzione di “chicche” alimentari. Ecco qualche indirizzo per orientarsi LICIA GRANELLO ra, labora… et ede; prega, lavora e mangia. L’estensione del precetto di San Benedetto è fondamentale nella vita di molti monasteri, se è vero, come diceva Santa Teresa d’Avila, che «quando il corpo sta bene l’anima canta». Semplice, genuina e tradizionalissima, la cucina del chiostro rappresenta la summa della cucina casalinga, moltiplicata per il numero dei monaci, impreziosita da piccoli grandi dettagli, a partire dall’orto. Conventi e monasteri ne vantano di bellissimi, veri giardini di verdura, spesso vissuti come luoghi di meditazione e raccoglimento. Ogni gesto — dalla semina alla raccolta — nei precetti dei padri fondatori ha una fortissima valenza di omaggio e ringraziamento, che si traduce in pratiche di agricoltura virtuosa. Niente chimica, niente coltivazioni intensive, rispetto dei ritmi della natura. Dagli orti, i frati cucinieri ricavano gli ingredienti di zuppe, frittate, sughi, contorni; i frutti vanno ad alimentare torte e macedonie. Per restare nei limiti del precetto senza mortificarsi, si adottano piccoli trucchi squisiti, come nel caso delle fritture. È nato così il tempura, apparentemente importato dalla gastronomia giapponese, e invece inventato nei monasteri medievali durante i tempora, ovvero i tempi di penitenza (Quaresima). Il resto della produzione viene trasformato in confetture, composte, gelatine, sottoli e sottaceti, che riempiono gli scaffali della dispensa, dello spaccio interno o dei negozi che li comprano in esclusiva. Ma dentro questi piccoli antri di gastronomia benedetta c’è molto di più. Ben lo raccontano due documentari — Storie di clausura e Storie di dolci— realizzati da Piero Canizzaro e in onda nei prossimi giorni su RaiTre: storie di povertà e redenzione, di sublimazione e riscatto. Le monache benedettine di Monte San Martino, per esempio, svelano che i pasti sono un momento di comunione, una liturgia «per rende- O re lode al Signore». Cibo e preghiera vengono vissuti come strumenti che consentono di star bene e di trasmettere un messaggio positivo agli altri. Ma ci sono anche racconti di ribellione, come quello di Maria Grammatico, affidata bambina alle suore e vissuta vent’anni nel convento di clausura di San Carlo di Erice, Sicilia, gestito da monache custodi gelosissime di antiche ricette di pasticceria di alto livello. Maria — che oggi ha 67 anni — negli anni riuscì a impossessarsi di tanto sapere dolciario. Una volta lasciato il convento e aperto un piccolo laboratorio autonomo, cominciò a sfornare cannoli e cassatine. Una scelta felicissima, se è vero che ormai l’Antica pasticceria del convento manda cabaret dei suoi dolcetti in tutto il mondo. Dolci e non solo. Dallo straordinario formaggio Munster (monastero) alsaziano al prezioso miele di girasole, chiostri e conventi regalano vere prelibatezze senza limiti tra dolce e salato. Su tutte, regnano incontrastati gli alcolici. Dura nel tempo il mito dei Mastri birrai trappisti, seguaci dell’abate cistercense francese La Trappe (1600). Quattrocento anni dopo, sette monasteri (sei in Belgio e uno in Olanda) continuano a regalarci bionde, rosse e scure di grandissimo valore. Altra delizia, la mitica Chartreuse, liquore raffinatissimo preparato alla Grande Chartreuse, nei pressi di Grenoble. Merito primario dei monaci benedettini, al seguito delle armate cristiane in Terra Santa, che a suo tempo avevano carpito dai manoscritti arabi i segreti della distillazione. Non vi basta? Comprate la Guida ai monasteri d’Italia (di Tarallo e Grasselli) e regalatevi un week end spiritual-gastronomico. Oltre a monasteri che offrono ospitalità spartana e pasti semplici, l’Italia abbonda di monasteri trasformati in veri tempi gourmand e locande di lusso, dalla Frateria di Padre Eligio in giù. Ma non vi illudete: dopo l’Elisir del Frate chiudi-pasto, la preghiera di ringraziamento è d’obbligo. Repubblica Nazionale DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51 Frutta secca di origine siciliana Polenta al nero di seppia e bucatoli Benedettine Santa Croce Santa Maria del Monte in Gerusalemme Monastero di Santa Chiara Santa Maria di Montevergine Monastero di Santo Spirito Monastero sorto nel 1108, ristrutturato a metà del Cinquecento è da sempre nelle mani delle monache benedettine che ne hanno fatto un accogliente centro spirituale con seminari e consulenze psicologiche Le monache si dedicano con pari perizia alla produzione di vino, olio, distillati, oltre ai tradizionali dolci e ai biscotti regionali Annesso alla basilica fondata nel Quarto secolo da Sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino, venne edificato nel 1712 I monaci cistercensi lavorano il bellissimo orto ricavato nell’anfiteatro romano Si producono mieli, marmellate, cioccolato e liquori a base di erbe officinali Secondo tradizione, la fondazione, nel Dodicesimo secolo, si deve a una seguace di santa Chiara, alcuni anni dopo la visita di san Francesco in Abruzzo. Le suore clarisse continuano a produrre i “dolci del monastero”: mostaccioli, pasta di noci, rafaioli con marmellata e le bocche di dama nera, con mandorle e cioccolato Il trittico architettonico sorto all’inizio del Dodicesimo secolo a 1270 metri – monastero benedettino, abbazia territoriale e santuario mariano – ospita anche mostre e concerti La produzione di liquori d’erbe è ultrasecolare: si va dall’anisetta benedettina al cognac medicinale Eccellente anche la produzione di miele Nato per una donazione nel 1290, ebbe lunga vita tranquilla fino al 1944, quando fu occupato dai militari e divenne caserma di guerra. A gestirlo, le monache cistercensi, ordine fondato in Francia da tre monaci benedettini. Oltre ai tradizionali dolci di marzapane, viene realizzata una variante del cus cus con pistacchi e mandorle BEVAGNA (PG) ROMA ATRI (TE) MERCOGLIANO (AV) AGRIGENTO Corso Matteotti 15 Tel. 0742-360135 Santa Croce in Gerulasalemme 12 Tel. 06-7014779 Santa Chiara 11 Tel. 085-87206 Via Montevergine Tel. 0825-72924 Cortile Santo Spirito Tel.0922-20664 Pasta reale in minestra Dal peccato di gola di Adamo ed Eva alla sapienza segreta degli chef in saio MASSIMO MONTANARI onaci e gastronomia: un’abbinata vincente. Le affascinanti storie di monasteri immersi nella campagna o fra i boschi facilmente si sposano con immagini di prodotti sani e gustosi, cibi affettuosamente preparati, modi di vita piacevolmente sobri, saperi secolari che profumano di zuppe fumanti, erbe medicinali, salutari elisir, formaggi squisiti. In realtà, il rapporto della cultura monastica col cibo è caratterizzato da un’ambiguità di fondo. Scelte di vita moderate e discrete, come quelle raccomandate da san Benedetto, si incrociarono sempre Il merito dei monaci nell’evoluzione con atteggiamenti feroci verso i piaceri del corpo, primo fra tutti il piacere alimentare, tanto pericoloso quanto necessario, dato che per vivere bisogna mangiare: un piacere “basico”, dunque, inevidella gastronomia del mondo è grande tabile, in qualche modo propedeutico ad altre attenzioni fisiche, ad altri vizi e piaceri. Questo penUn nome su tutti: Dom Perignon, il frate che, savano i padri del pensiero monastico, agli albori del Medioevo cristiano, osservando come lo cercando di imprigionare le bollicine dei vini ristesso progenitore Adamo si fosse macchiato di una colpa “originaria” occasionata dalla passione per un frutto proibito: in buona sostanza, un peccato di gola. fermentati nelle bottiglie della sua cantina, inventò La diffidenza nei confronti del cibo, e più in generale del piacere fisico, legittimava singolalo Champagne. La maggioranza dei formaggi franri esperienze di “anti-cucina” volte ad annullare le qualità organolettiche dei cibi: quando l’abate Lupicino ritornò al suo monastero — racconta un testo agiografico dell’alto Medioevo — cesi sono nati nei monasteri, a partire dal munster (tere si accorse, dal profumo che usciva dalle cucine, che i monaci erano intenti a preparare pesci mine latino monasterium, nome di un monastero-vilsucculenti e altre gustose vivande, ordinò di mescolare tutto insieme e di farne un indistinto pastone. Le pratiche di astinenza e di digiuno, prescritte da ogni regola monastica, sono laggio fondato nel 660 in Alsazia). Francesi e monaespressione di questa cultura, certo non tenera nei confronti del cibo. cali anche i distillati d’uva. Nei centri religiosi tedeMa paradossalmente, furono le stesse regole dell’astinenza a generare attenzioni propriaschi, invece, vengono prodotti meravigliosi distilmente gastronomiche. Soprattutto l’esclusione della carne dalla dieta monastica, che, con molati di frutta. Ma i frati-gourmand più famosi sodalità diverse da comunità a comunità, rappresentò per tutti la scelta di base, rese necessaria un’opera paziente di valorizzazione dei prodotti alternativi, zuppe di verdura e di legumi, mineno i trappisti belgi, capaci di inventare un stre di pasta, uova e formaggi, per non dire dei pesci, che della carne furono l’immediata alternatiproprio stile di birra, con tanto di marva. E poi confetture e conserve di ogni genere, con un’attenzione ossessiva alla dispensa, che ai monaci doveva garantire una completa autosufficienza per impedire che, in linea di principio, vagassechio registrato ed esclusivo di ro a cercar cibo fuori dalla comunità. La solitudine monastica, funzionale alla meditazione e alla preproduzione ghiera, produsse in tal modo una sintonia sghemba con la società contadina, attenta anch’essa a far quadrare il bilancio alimentare, a garantirsi dal pericolo incombente della fame. In tal modo il monastero diventa, quasi a dispetto della scelta di vita che lo genera, un luogo formidabile di elaborazione della cultura gastronomica. L’icona del monaco goloso, stereotipo consegnato da una lunga tradizione orale e letteraria, fonda le sue ragioni su questo fondo di verità. Al quale si aggiunge il fascino del “segreto”, di pratiche e consuetudini gelosamente conservate al riparo dalla corruzione mondana. L’attribuzione monastica può così diventare un valore aggiunto di segno inequivocabilmente positivo. «Quanti formaggi», si chiedeva Léo Moulin, «non sono monastici nelle loro origini?». Nelle loro origini, non saprei. Ma sul piano del marketing è indubbio che quella attribuzione funziona. Sarebbe però ingiusto dimenticare i pastori e i contadini che, lavorando con (e per) i monaci, contribuirono in maniera decisiva a costruire il nostro patrimonio gastronomico. M I monaci Repubblica Nazionale 52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA le tendenze Cassetto intimo DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007 Nel 1907 la rivista “Vogue” pubblica foto e disegni dell’indumento femminile “moderno” che prende il nome di brassière. Comincia così - tra coppe, forme, stecche, lycra, pizzi e gel al silicone di nuova generazione - la carriera di uno dei capi più rivisitati e sexy dell’armadio delle donne ROMANTICO SEXY PRIMAVERILE Romantici cuoricini colorati su fondo bianco e merletto rosa per il reggiseno proposto da Dolce e Gabbana con tanto di logo sul pizzo Trasparente, rosso fuoco, con il ferretto: decisamente sexy il modello La Perla con doppie spalline sottili in raso Push-up in pizzo rosa e piccoli pois con spalline color cioccolato su cui spicca un ricamo floreale È una delle proposte di Intimissimi ANIMALIER PREZIOSO CLASSICO A forma di triangolo in tulle imbottito ma con effetto maculato. Proposto da Yamamay in verde, perfetto per le giovanissime Push-up realizzato in prezioso tulle con giochi di macramè e fiocchetti Fa parte della serie Sharon di Parah della collezione primaverile Realizzato in morbido raso con balza in pizzo a contrasto, il reggiseno Triumph è un classico rivisitato in chiave moderna Cent’anni vissuti pericolosamente LAURA LAURENZI ompleanno tondo per il reggiseno. Taglia il traguardo dei cento anni ed è in ottima salute, rivisitato e riproposto in ogni forma possibile, arma suprema di seduzione, feticcio dei feticci, ma anche indumento indispensabile per la sua praticità a miliardi di donne indipendentemente dalla moda e dalle mode. Un compleanno labile: non esiste una vera data di nascita. Il reggiseno - modello a fascia - è già presente nei mosaici di Villa Armerina. Il 1907 è però l’anno in cui la rivista Vogue, con il nome di brassière, comincia a pubblicare foto e disegni dei primi reggiseni che potremmo definire «moderni». Gli americani e gli inglesi abbreviano e nasce la parola bra. Prima in francese reggiseno si diceva soutiens-gorge ed era molto più parente del corsetto contenitivo. Nato in Francia, saranno poi gli americani a perfezionarlo e a dargli la forma che ha più o meno conservato in questo secolo di vita. In realtà già nel 1889 una signora francese, Herminie Cadolle, borghese agiata ma anche femminista convinta, aveva presentato all’Esposizione Universale di Parigi una sua creazione che si avvicinava molto alla versione poi codificata e pubblicata nel 1907: due coppe di cotone munite di bretelle, dunque il seno separato nel mezzo, una rivoluzione. Ma ci vorranno anni e anni prima di mandare definitivamente in cantina le stecche di balena e altre torture. Il primo brevetto di un reggiseno moderno ha la data del 1914, quando una ricca dama newyorkese, Mary Phelps Jacob, deposita il marchio di una sua invenzione con il nome di “Caresse Crosby” e la cede alla Warner per 1.500 dollari: un reggiseno senza armatura che non fa trasparire segni. Il prototipo se lo era fatto da sola un anno prima utilizzando due fazzoletti ed un nastro, buttando il punitivo corsetto - praticamente un cilicio- alle ortiche. Nel 1917 l’industria bellica esorta le donne americane a fare a meno di reggiseni dotati di parti metalliche. In questo modo furono risparmiate circa 28mila tonnellate di metallo, quanto bastava - si rilevò patriotticamente - per costruire due navi da guerra. Negli anni Dieci e Venti prevale il reggiseno che appiattisce. Il seno Liberty è piccolo e la donna è androgina: guardate le incisioni di Aubrey Beardsley e le sue Salomè. Negli anni Trenta un’emigrata russa di nome Ida Rosenthal fonda negli Stati Uniti assieme al marito un’azienda che farà fortuna producendo reggiseni, la Maidenform, la prima che crea misure differenziate per le coppe con le diverse categorie per circonferenza. Nel 1931 la Warner immette sul mercato i primi reggiseni con le bretelle elastiche, ma sarà durante la Seconda guerra mondiale, grazie al nylon inventato nel ’38, che trionferanno le fibre sintetiche, utilizzate per ripiego in mancanza di materie prime naturali come la seta, la gomma, il cotone. Gli anni Cinquanta sono gli anni delle maggiorate: seni abbondanti dopo le ristrettezze e i patimenti della guerra. Nasce il reggipetto imbottito, antenato artigianale del push-up. Persino Marilyn Monroe - lo abbiamo visto quando, nell’ultima asta dei suoi memorabilia, è stata impudicamente messa all’incanto persino la sua biancheria personale - utilizzava i famosi “pescetti”: le imbottiture ovali rimovibili da sistemare all’interno delle coppe. Reggiseno è una parola da pronunciare a bassa voce, con pudore, arrossendo. Nell’Italia moralista di quegli anni Carosello, la trasmissione simbolo del nostro boom economico, ha un suo catalogo di termini da censurare che vieta l’uso di parole considerate «indecenti», fra cui spicca proprio reggiseno. I formidabili anni Sessanta sono anche quelli del rogo. Che tirasse aria punitiva, per il seno e il reggiseno, lo si capiva già dal successo di una modella - diventata presto un modello - come la penitenziale C Repubblica Nazionale DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 53 ✯ LE STAR ✯ ‘‘ La fanciulla (...) e il corsettino di broccato che sosteneva il seno con due punte ricurve, davano alla fanciulla una grazia orientale Da CENERE di Grazia Deledda MARILYN MONROE SOPHIA LOREN BRIGITTE BARDOT MADONNA Una giovanissima Marilyn al telefono nei primi anni Cinquanta: la star divenne famosa anche per le sue forme “burrose” e le sue scollature Sophia Loren in reggiseno nero nella celebre scena dello strip del film Ieri, oggi e domani, regia di Vittorio De Sica 1963 È il 1957 B.B recita ne Gli amanti del chiaro di luna ha un aria sbarazzina e un modello di reggiseno a balconcino La rockstar fece scandalo nei concerti anni Novanta con i reggiseni aggressivi “costruiti” per lei da J. Paul Gaultier Reggiseno il Twiggy, simil-anoressica, emaciata e con un busto taglia zero. Il 1968 è l’anno in cui le femministe danno fuoco, idealmente ma anche materialmente, ai loro reggiseni. Accade di fronte al grande albergo in cui si tengono le finalissime del concorso di Miss America. Nello storico falò, filmato dai telegiornali, c’è di tutto: giarrettiere, piastre per capelli, pinzette, cere depilatorie, scarpe con i tacchi a spillo, tutto quello che viene catalogato come arma di oppressione e strumento di tortura finalizzato a rendere la popolazione femminile del pianeta «donne oggetto». Ma il simbolo supremo di discriminazione e ineguaglianza fra i sessi, più di ogni belletto, di ogni trucco e ogni inganno, è considerato il reggiseno. Mandato in soffitta dalle purghe emancipatorie, in realtà mai tramontato, il reggiseno aveva però già fatto il suo ingresso nella leggenda e nel nostro immaginario collettivo, conquistandosi un posto d’onore fra i miti e le icone del Ventesimo secolo. Il reggiseno di Mata Hari, che vi custodiva documenti segreti. Quello, anzi quelli della miliardaria Barbara Hutton, che li collezionava a centinaia. Il reggiseno di Marilyn, che in Quando la moglie è in vacanza racconta di «tenere gli intimi in frigorifero». Il balconcino delle grandi dive: nero con nastrino per la Loren nel celebre spogliarello di Ieri, oggi, domani, a quadrettini Vichy per la Bardot, color carne e scultoreo per Gina Lollobrigida. Il reggiseno diventa materia di provocazione, se non addirittura di parodia da fumetto, in mano a stilisti come Jean Paul Gaultier e Vivienne Westwood. Ecco i turbo-reggiseni a forma di siluro esibiti da Madonna. Il resto è storia recente, anzi, cronaca dei nostri giorni. La riabilitazione, i progressi tecnologici, la ricerca. Abbiamo capito che il reggiseno non soltanto non opprime (al massimo comprime) ma sostanzialmente aiuta, dona, ed è il più versatile dei nostri indumenti o accessori, più un alleato che un nemico e non soltanto in palestra, indipendentemente dalla sua carica erotica. Contiene i forti, sostiene i deboli e raduna i dispersi, osserva goliardicamente un collezionista. L’anno 1994, che vede il lancio del Wonderbra, e cioè del reggiseno col push-up che fa lievitare anche i busti meno dotati, fa da spartiacque. È l’anno che dà il via all’impiego delle nuovissime tecnologie applicate alla biancheria intima. La fine del secondo millennio e l’alba del terzo consacrano il trionfo del seno abbondante, vero o presunto che sia, ingrandito ed esaltato dal reggiseno col trucco o magari dal bisturi, vessillo di una femminilità esagerata. Oggi viviamo gli anni della biancheria “esternabile”, così sexy e sofisticata da doverla ostentare sotto le giacche. Modellante, effetto lifting, o semplicemente riparatrice, come ha sfilato nei giorni scorsi al Salone annuale dell’intimo di Parigi. Un intimo che non si accontenta più di coprire e scoprire elegantemente le nudità ma piuttosto le plasma, le scolpisce, le rimpolpa, le sfina. L’industria ci propone ogni giorno reggiseni con optional ed effetti speciali sempre nuovi e diversi, in una corsa fantascientifica verso la biancheria intelligente, quando non addirittura parlante. Abbiamo il reggiseno che cambia colore al momento dell’ovulazione, quello con l’airbag, quello che controlla il dispendio calorico, quello supervolumizzante che si gonfia a volontà con apposita cannuccia. Il reggiseno dotato di microchip in grado di monitorare battito cardiaco e pressione. Quello antiaggressione che consente di dare l’allarme via radio. Il reggiseno dotato di un bip luminoso che entra in funzione per segnalare i pericoli dal cielo, battezzato non a caso Armageddon, realizzato con il tessuto usato dalla Nasa per le tute degli astronauti. Quello al titanio, capace di memorizzare la forma iniziale impressa la prima volta. Il reggiseno a olio, quello aerodinamico progettato sui principi del frisbee, l’antifumo, che rende l’aroma della sigaretta intollerabile e infine quello anti buco nell’ozono e pro risparmio energetico. È in pelliccia ecologica, con imbottitura al gel: si infila qualche secondo nel forno a microonde e aiuta a combattere il grande freddo. LA STORIA 1907 La rivista Vogue pubblica col nome di brassière foto, modelli e disegni dei primi reggiseni moderni La parola del capo viene abbreviata e diventa bra 1928 Ida Rosenthal, immigrata russa, fonda con il marito William l’azienda Maidenform: qui vengono definite per la prima volta le misure di coppa dei reggiseni 1959 Warners e Dupont producono il materiale sintetico che cambierà la vita della donne: la lycra. Così il reggiseno diventa impalpabile 1994 Arriva Wonderbra: il reggiseno non copre nè sostiene più ma evidenzia con il push-up le rotondità femminili È una rivoluzione 2007 Ad aria, ad olio, con silicone incorporato con microchip che riscalda o luminescente: il reggiseno da indumento diventa gadget Repubblica Nazionale 54 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007 l’incontro Maestri della regia Nel tempo, per i suoi modi e per il contenuto delle sue pellicole, da “Mani sulla città” a “Il caso Mattei”, il popolo di Cinecittà gli ha affibbiato il nomignolo un po’ sfottente di “professore” E lui, a 84 anni, infaticabile, non si sottrae ai doveri (e ai vezzi) del pedagogo “Io faccio cinema della realtà”, dice della propria opera, “per questo è diverso. Si fa in tante maniere il cinema per carità... Però bisogna saperlo fare” Francesco Rosi ice, scandendo le parole: «Quando si parla di Mani sulla città se ne parla per la speculazione edilizia. Ma è riduttivo. Come quando definiscono il mio “cinema politico”. Riduttivo. Quel film, stia bene attento, è la storia di come viene cambiata a un terreno la destinazione assegnata dal piano regolatore. E la storia di come un imprenditore delle costruzioni, realizzando un illimitato conflitto di interessi, riesce a diventare assessore all’urbanistica da consigliere comunale che era, per potersi servire di quel potere a vantaggio delle proprie imprese. Da qui parte il riconoscimento di qualcosa che era valido ieri, 1963, come è valido oggi. Rendere legale attraverso il potere politico corrotto ciò che è illegale. Non so se mi sono spiegato». Si è spiegato forte e chiaro Francesco Rosi. Sempre sulla breccia, a 84 anni peraltro artisticamente attivi: la regia teatrale di Napoli milionaria prima, e ora di Le voci di dentro, con occhio attentissimo alla sensibilità “politica” dell’Eduardo dell’immediato dopoguerra, fratello stretto del Rossellini della trilogia neorealista: fondatori paralleli, anche se l’uno non sapeva niente dell’altro, di uno sguardo radicalmente nuovo sull’Italia. Il regista non perde un’occasione né un colpo, malgrado quel pizzico di civetteria che gli fa dire: «Ma sono stanco, e poi non mi va di parlare, parlare. Non mi piace». (Gli piace eccome, invece. Non è sua la tentazione di fare come lo zi’ Nicola di Eduardo che sceglie il silenzio «perché è inutile parlare ai sordi»). Passa da un omaggio alla carriera a una laurea honoris causa, alla commemorazione di que- cato preciso. «Io ho fatto cinema della realtà», dice. Combinazione dentro la quale è nascosto il “Rosi touch”, il suo tocco. Cinema: «Il linguaggio di comunicazione più potente che esista. Fa sentire e vedere, emozionare e identificare, fa soffrire e sperare insieme ai personaggi. Io faccio il cinema, racconto storie di uomini e di passioni umane, di virtù e difetti». Realtà: «Scelgo fatti che hanno importanza storica, ma non altero la verità. Non inserisco elementi di fantasia per fare il cinematografo. Tutto documentato, riscontrabile storicamente e giudiziariamente. Però non faccio film a tesi o di propaganda. Coinvolgo lo spettatore, che è interlocutore: lo chiamo a partecipare al processo, per capire». Se non fosse chiaro: «Non dico che Mattei è stato ucciso ma porto elementi vagliati che affacciano il dubbio. Non invento. E così per Giuliano. I nomi dei presunti mandanti della strage di Portella non li ho fatti. Perché il film non me l’avrebbero fatto girare, ed era più importante farlo. Non potevo convocarli io se non li aveva convocati il tribunale. Avrei voluto ma mi avrebbero mandato in galera. E Lucky Luciano: gli interrogatori si fondava- I film sono il linguaggio di comunicazione più potente che esista Fanno sentire e vedere, emozionare e identificare FOTO CONTRASTO D ROMA sto o l’altro dei vecchi compagni e colleghi che non ci sono più; non si sottrae a un dibattito né a un’intervista, oggi su Napoli domani sulla mafia. Non è narcisismo, è senso del dovere. Anche correndo, pazientemente, il rischio di dover subire un’interpretazione riduttiva della sua opera. Del resto, lui è stufo di sentirselo ripetere, ma resta verissimo che ad ogni emergenza napoletana, ad ogni ripresa di discorso sul separatismo siciliano e sulla strage di Portella della Ginestra come momento fondante della moderna criminalità mafiosa, e ad ogni periodico risveglio di interesse per la fine del fondatore dell’Eni, i giornali corrono da lui e corrono ai suoi Mani sulla città, Salvatore Giuliano, Il caso Mattei. Perché, come solo i capolavori (vedi La dolce vita di Fellini, Il sorpasso di Risi, Rocco e i suoi fratelli di Visconti e pochi altri), quei film — quindi fiction, e fino a prova contraria elaborazioni di una soggettività artistica — sono diventati documenti, più veri del vero. La sua Napoli è rimasta naturalmente, e sempre, nel cuore del suo interesse e al centro della sua passione. E nei mesi scorsi, fitti di rinnovate emergenze cui qualcuno ha avuto la tentazione di far fronte con l’esercito, Rosi non si è fatto pregare a scendere in campo per dire e ripetere ciò in cui crede. Questo: «Purtroppo tutto ciò che ho raccontato molti anni fa è profondamente radicato nell’ambiente e nella città di Napoli. La cui storia è storia di plebe. Napoli ancora oggi vive una tragedia che è conseguenza della mancanza di lavoro. Della mancanza di legalità e di stabilità sociale. E della mancanza di istruzione e di educazione civile alla convivenza e al rispetto per gli altri: le condizioni per il formarsi di una mentalità diversa, capace di opporsi alla sopraffazione; a un degrado e a una corruzione nei quali la criminalità organizzata si è insinuata con violenza feroce e si è fatta dominante a tutti i livelli, malgrado gli sforzi dei tanti cittadini onesti e delle istituzioni. Ma guai a dimenticare che Napoli è questione nazionale». Rosi sa bene che c’è un tessuto di consenso alla camorra perché è l’unica a dare “lavoro”. Continua a difendere la sua proposta di aprire le scuole, di tenerle aperte fino a sera perché siano luogo di aggregazione alternativo e sano per i ragazzi. Parlando come è fatale del boom editoriale di Gomorra, il libro-inchiesta di Roberto Saviano, dice che ha un po’ paura della sua possibile, anzi probabile versione cinematografica: «Mi allarma il rischio dell’estetizzazione del terrore». Francesco Rosi rivendica con orgoglio di non aver mai fatto «il cinematografo». Affermazione che va forse decodificata, che ha però un signifi- no sulla documentazione dell’Onu. Io li ho fatti “passare”», ecco la chiusura del cerchio perfetto, «attraverso i personaggi e le facce e le sensibilità degli attori, il grande Volonté per primo. Coloro che comunicano l’emozione. La realtà è talmente piena di spunti spettacolari che non c’è bisogno di ricrearla attraverso la fantasia». E qui, con vezzo tipico del maestro, anzi del “professore” secondo il nomignolo un po’ sfottente che nel tempo il popolo di Cinecittà gli ha affibbiato, Rosi conclude: «Il mio cinema ha questo di diverso. Si fa in tante maniere il cinema, per carità... Però bisogna saperlo fare». Finto modesto, assolutamente cosciente di quanto sia grande quello che ha fatto. E infaticabile. Veramente infaticabile. Di recente lo abbiamo accompagnato in una serie di occasioni celebrative a distanza ravvicinata tra loro. Dall’università di Siviglia che gli ha chiesto di tenere una lezione, all’Accademia dell’immagine dell’Aquila che lo ha voluto per inaugurare il suo anno accademico (ma dietro l’angolo lo aspettano un omaggio primaverile in Lussemburgo e uno parigino in estate). Sfidando (senza caderci) la pedanteria del professore, Rosi è l’unico dei grandi autori italiani che, distinguendosi dalla pur nobilissima stirpe dei commedianti cultori dello scetticismo e di un esibito (ma finto) cinismo, non lesina mai partecipazioni, spiegazioni, confronti, precisazioni. Insomma un comportamento che nasce da una profonda consapevolezza. Quella di essere portatore di grande responsabilità civile. E di essere chiamato ad assolvere a un dovere educativo, didattico: l’introduzione della storia del cinema — del suo patrimonio artistico, civile, emotivo — nelle materie d’insegnamento scolastico è un pallino di Rosi. E una proposta che non si stanca mai di rilanciare. Un’altra è la creazione di un canale satellitare culturale europeo. Del maestro, insomma, ha il talento, e del professore la vocazione. Più forte di lui. Altra cosa che i critici ripetono di lui e di cui lui forse si è stufato. Colpisce che questo giovane e promettente intellettuale napoletano del dopoguerra, formatosi in una temperie piena di belle promesse, da Ghirelli a Patroni Griffi, da La Capria a Vittorio Caprioli, invece di seguire una delle tante strade per cui sembrava tagliato — poteva diventare un uomo di legge, un giornalista di prim’ordine, un leader politico, uno storico — si sia invece ritrovato a venticinque anni o giù di lì accanto a Luchino Visconti ad Acitrezza sul set de La terra trema. «Io non ho frequentato scuole di cinema. Ma è come se le avessi fatte tutte le scuole, le accademie e i centri sperimentali di cinematografia». In effetti un “diploma” così non può che segnare. E Rosi ne è stato segnato profondamente. Ma la cosa rara è che ha portato dentro il cinema, dentro l’arte della regia, trasfigurandole in stile, tutte quelle chances e tutti quei numeri di cui era dotato il giovanissimo intellettuale napoletano del dopoguerra. L’uomo di legge e lo storico, il giornalista e il politico. Caso davvero unico. Quale artista, come lui, riassume in sé lo studio e la comunicazione, la riflessione e l’emozione, quell’insieme particolarissimo che gli ha permesso, ha permesso a molti dei suoi film, di scavare a fondo nei problemi e contemporaneamente di colpire al cuore il pubblico? «Troppo americani», disse qualcuno dei suoi primi film, storcendo il naso. Ma quanti americani hanno pescato dalla sua lezione? Rendendogli peraltro merito: da Sidney Pollack a Oliver Stone. Il suo sguardo è terribilmente esigente. Verso se stesso — con tutta la lecita soddisfazione per ciò che ha fatto, ma sempre da implacabile perfezionista — e quindi verso gli altri. Dal suo santuario-studio in uno dei posti più belli di Roma, a un passo da Trinità dei Monti, legge, consulta, classifica, ritaglia. E telefona. Rosi è uno che, se gli è piaciuto il film magari di un collega anche molto più giovane, non esita ad alzare il telefono per complimentarsi. Quella volta che chiamò Gabriele Muccino questi rimase a bocca aperta, incerto se fosse uno scherzo. Segue, s’informa, commenta, partecipa, s’indigna Francesco Rosi. Non lascia che le ombre dell’età avanzata, del tempo che passa, del rimpianto per chi non c’è più lo sovrastino. E non dice che era meglio prima (anche se qualche volta di sicuro lo pensa, ma chi non sarebbe tentato soprattutto se parte di un gruppo che è stato artefice di una sfilza di capolavori). È presente nell’oggi e guarda al futuro con (relativa) fiducia. ‘‘ PAOLO D’AGOSTINI Repubblica Nazionale