numero due
invasionecreativa.it
erodotozerodue
06 · lo stato che non c’è // Guido Cervetti
18 · battifuoco a bamako // Andrea Semplici // Enrico Minasso
38 · I tuareg non avevano alternativE // Vermondo Brugnatelli e Marco Pinzani
42 · un anno vissuto pericolosamente // Andrea Semplici
44 · nessun gatto a varanasi // Valentina Cabiale
54 · aspettando il maha kumbh mela // Paola Pedrini
56 · al sicuro come in mezzo all’erba // Elena Dacome
70 · ognuno di noi è più di uno // Bruno Tigano
80 · la matita di stalin // Fabio Belafatti
96 · città visibili // Valentina Cabiale
106 · l’uomo che voleva la luna // Mario Dondero e Andrea Semplici
110 · le acciaierie di taranto // Carlo Gubitosa e Sergio Leone
Fondatore: Marco Turini. Direttore responsabile: Andrea Semplici
Advertising, below the line, marketing non convenzionale, new media.
Qualsiasi siano le tue esigenze di comunicazione, Invasione Creativa
risponde con un approccio totalmente nuovo rispetto allo stile canonico
Redazione: Fabio Belafatti, Valentina Cabiale, Elena Cerretelli,
Lorenzo Bernini, Sara Lozzi, Sergio Leone, Yuri Materassi
Web designer: Allegra Adani. In copertina foto di Guido Cervetti
delle classiche agenzie.
Progetto grafico: Invasione Creativa
Lasciati conquistare da un nuovo modo di fare comunicazione.
© Erodoto108.it Registrata al Tribunale di Firenze Stampa Periodica al n.°5738 il 28/09/2009
Editoriale di Andrea Semplici
[4]
Erodoto108 è una piccola impresa
collettiva. Di poche persone. Dalle idee diverse, dalle storie diverse,
dall’anagrafe differente. La diversità,
siamo ostinati a crederlo, è ricchezza. Ma questo non sempre è vero.
Hanno incertezze, queste persone.
E io non voglio nasconderle. Non
avere chi ti paga uno stipendio è
una schiavitù. È, a volte, anche una
libertà. Perché posso scrivere un editoriale come questo. E raccontare
una storiella e un desiderio. Forse,
una volontà. Erodoto108 nasce dalla
cocciutaggine di alcune persone dai
buoni studi, lavori precari e una irrequietezza addosso. Il viaggio è metafora potente. Il viaggio emoziona
anche ai tempi di Internet. Il viaggio
permette di scrivere ogni cosa. Queste persone hanno interesse per la
scrittura, la fotografia, i video, il web,
la grafica… sono multimediali, insomma. Hanno anche la sventatezza di mischiarsi con chi è fermo in un
mondo analogico. È così che è nata,
attorno al tavolo di un bar, una rivista.
Il viaggio, a volte, offre incontri che
spiazzano. Che, se hai testa e cuore
puri, mettono in discussione.
Tre mesi fa, Erodoto108, il suo
primo numero, ha mollato gli ormeg-
gi, quasi per forza d’inerzia. Il suo
naviglio ci è piaciuto. Ed è piaciuto.
Pensavamo che ben pochi avrebbe seguito il suo viaggio e invece, in
molti, si sono affacciati per salutare
la sua avventura. Ne siamo rimasti
sorpresi, compiaciuti. E, in qualche
modo, prigionieri.
Questo ci ha costretti a pensare (e
a fare) un secondo numero. Discussioni infinite. Qualche sana baruffa,
scambi di mail, bicchieri di vino e
anche qualche tazza di tè per i più
tranquilli. Dubbi profondi sui soldi. A
volte ruga un pensiero: ‘Ma chi ce lo
fa fare’. Fin dove possiamo arrivare?
Dove vogliamo arrivare?
Alla fine, il nuovo Erodoto108,
il secondo numero, è questo che
vi presentiamo. È un giramondo. È
il viaggio che diventa tale, ma che
vorrebbe essere anche altro. E allora
ecco scrittrici che ci raccontano dei
loro deserti. Archeologhe che rimangono in silenzio di fronte al rogo dei
morti a Varanasi e sanno scriverne
con emozione. Fotografi capaci di far
sentire, perfino nel web, il clangore
dei battifuoco di Bamako. Insomma,
questo numero ha la confusione del
viaggio. Nessuno di questi collabo-
ratori potrà essere pagato. Non ne
facciamo merito. Solo vorremmo che
così non fosse. Benché in un mondo
giusto dovrebbero esserci scambi più
che soldi. Ma questo non è un mondo giusto. Anche questo vorremmo
raccontare. Per due numeri, in fondo,
ci siamo riusciti.
E adesso?
Tocca anche a voi. Il naviglio di
Erodoto108 ha bisogno di compagni
di viaggio. Che offrano vino e idee.
Che ci diano appigli per sopravvivere.
Che ci dicano: ma sì, navighiamo.
Ci sarà un terzo numero? Ne
vorremmo fare uno tematico. Difficile: questa volta vorrebbe dire
‘chiedere dei pezzi’. Non attenderli.
Vuol dire domandare a un autore:
‘Puoi scriverci questo? In compenso avrai solo una pacca sulle spalle’. Vorremmo parlare di cibo, nel
prossimo numero. O, forse, in quello dopo. Mica siamo così certi di
noi. Vorremmo introdurre rubriche.
Già accade nel blog. Sulle librerie,
sul cibo, sulla musica, sulle archeologie, sull’arte. Perfino sui cimiteri.
Purchè ognuno di questi luoghi sia
centro di relazioni più che di mercato. Di indulgenza, non di business.
Perché è l’uomo che viaggia, perché al centro di tutto c’è l’uomo.
Conoscete luoghi come questi? Indicateceli, scrivetene, fotografateli,
filmateli, disegnateli. Una mappa
del mondo in cui incontrarsi per chi
vuole incontrarsi. Anche questa è
una ragione del viaggio.
Vorremo costruire una vera redazione. Vorremmo avere più pagine, dare continuità al blog, avere
sottoscrittori, amici, tifosi. Vorremmo aprire noi stessi luoghi in cui
ritrovarci e ritrovarsi.
Fate conoscere questa rivista,
parlatene fra di voi, venite a trovarci
(per lo più abitiamo a Firenze, ma ci
spostiamo con infinito piacere se ci
date un letto e un buon piatto cucinato da voi). Violate le regole del web
e venite a toccarci. Fateci gli auguri.
Anzi, no. Brindate a Erodoto108.
Almeno ora che state per leggerlo.
[5]
Lo stato
che
non c’è
Viaggio nel Kurdistan turco,
tra guerra di strada, campi profughi
e disperazione.
Testo e foto di
Guido Cervetti
l Kurdistan è uno stato mancato. Un’aspirazione, una speranza incastrata tra Iraq, Iran,
Turchia, Siria e Armenia. Popolato da un’antichissima etnia di lingua iranica, copre un vasto
altopiano nella parte nord dell’antica Mesopotamia. La parte turca è da decenni insanguinata da un conflitto che oppone lo stato alle
milizie indipendentiste curde. É una guerra di
strada, di montagna e di informazione. Persino il numero esatto di curdi in Turchia varia a
seconda di chi lo calcola: venti-venticinque milioni per i curdi, dodici milioni secondo il governo turco. É una guerra
culturale: oggi, conoscere il curdo e specialmente le sue manifestazioni
letterarie può essere di per sé un reato. Il semplice possesso di libri di
grammatica e poesia in curdo sono stati in passato usati come prova
penale a carico di attivisti curdi. Questa non è la storia di un viaggio: è
una testimonianza, dovuta e necessaria, della tragedia curda.
[8]
Quella tra i curdi e l’esercito
turco è una guerra, non un gioco
di poliziotti e “terroristi” come vorrebbe fare credere Ankara. E qui
a Yuksekova, una delle roccaforti
del PKK, nel Kurdistan orientale,
la guerra si vede. L’accoglienza
non è delle migliori, e i presagi
c’erano tutti. La strada per arrivare è piena di check-point. Blindati
dell’esercito turco, soldati, mitra
spianati. Per strada, un’enorme
chiazza rossa, probabilmente
sangue. Dei ragazzini ci scambiano per chissà chi e ci accolgono a sassate. Un’ambulanza
corre a portare in ospedale un
parlamentare rimasto ferito negli
scontri della mattina. Questa non
è una guerra tra eserciti. É una
guerra tra popoli. Gli occhi che
ti guardano dai passamontagna
sono prima diffidenti, poi quando
capiscono chi sei diventano amichevoli: i curdi, come tutti i popoli vittime di ingiustizie, vogliono
che il mondo sappia. É come se
gli uomini e i ragazzi coi passamontagna ci abbracciassero con
lo sguardo. Ogni paio di occhi è
un popolo intero che ti guarda e
ti chiede “racconta, fai vedere,
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[ 10 ]
[ 11 ]
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fai sapere”. Solo
finché l’esercito
questo. E anche
non si ritira e arLa quotidianità delle
se i volti copercittà curde è fatta di vita riva l’ora dei balti, sai che quegli
li, le danze del
nei
caffè.
occhi sono gioNewruz, il capovani: ragazzi di
danno persiano,
quattordici, quindici anni. Sembra celebrato dai curdi ma non dai
mancare una generazione, quella turchi. Per quanto possa sembradei ventenni e dei trentenni. Mor- re assurdo, è questo il nodo del
ti, imprigionati o emigrati nelle contendere degli scontri di oggi.
grandi città.
Ovviamente i giorni prima del
Newroz sono quelli dei rastrellaDentro le case la gente vive come menti: l’esercito turco cerca di
meglio può. Fuori, però, ci si pre- arrestare preventivamente quelli
para per gli scontri: i bambini che considera i promotori delle
erigono barricate. Possono dei proteste e fin dalla mattina i bambambini essere terroristi? Può un bini iniziano a erigere barricate
intero popolo esserlo? Nel buio lungo le strade principali, mentre
delle case si tira il fiato, si aspet- nella città vecchia dove i blindata, ci si rifugia. Le donne della cit- ti non entrano si organizzano gli
tà raccomandano di bussare alle scontri. Qui anche un solo limoloro porte se si mettesse male e ne trovato in tasca durante una
avessimo bisogno di protezione. manifestazione comporta anni di
Siamo un bene prezioso, da sal- galera. L’età minima per essere
vaguardare: siamo quelli che pos- condannato come un adulto è
sono raccontare.
nove anni. Il bambino che ci guarUn uomo spinge il suo carret- da dalla finestra è un potenziale
to, seguito a ruota da un blindato criminale per lo stato turco.
turco. Sembra quasi impegnato a
fare la sua parte per intralciare il Azadiya welat, (“libertà della panemico. Attorno è guerra. L’aria tria”), è il solo giornale in lingua
inizia a farsi pesante: i lacrimoge- curda della Turchia. Pubblica con
ni intorbidiscono il cielo, l’odore tiratura di 10.000 copie in un amdella benzina ti entra nel naso. biente tutt’altro che favorevole
É quella usata per le molotov. e tenta faticosamente di tenere
Gli scontri durano tutto il giorno il prezzo il più basso possibile
[ 13 ]
[ 14 ]
[ 15 ]
abbattendo i costi di redazione.
Azadiya si occupa di cronaca e
politica del Kurdistan, politica internazionale, cultura ed arte. Due
volte a settimana pubblica un numero dedicato ai bambini. Non
è facile essere un giornalista di
Azadiya: la polizia turca sottopone lo staff del giornale a pressioni
costanti. Decine di autori sono in
carcere con condanne immotivate e sproporzionate. Nel 2010
Vedat Kursum, uno dei redattori
del giornale, è stato condannato
con la scusa delle leggi antiterrorismo ad una pena detentiva
di 166 anni e sei mesi. Molti suoi
colleghi vengono fatti sparire nel
nulla. Azadiya welat ha 70 giornalisti incarcerati e 25 tra morti e
fatti sparire.
[ 16 ]
In Turchia quasi ogni famiglia curda ha parenti in carcere, morti o
partiti per far parte della resistenza sulle montagne. I prigionieri
politici sono decine di migliaia
e spesso sono incarcerati per
condanne assurde, grazie all’uso
strumentale delle leggi antiterrorismo. Le case curde abbondano
di ritratti. Sono le foto, orgogliosamente mostrare, dei parenti in
carcere o uccisi. I sopravvissuti
le mostrano elencando il numero
di anni di galera che ogni per-
sona ritratta si sta facendo, o il
modo in cui sono stati ammazzati. Con un numero così alto
di uomini uccisi o prigionieri, la
guerra si sposta anche sul piano
demografico: le famiglie turche
diventano numerosissime, fare
figli diventa un modo per combattere lo stato turco.
La quotidianità delle città curde è fatta di vita nei caffè, stanze sature di fumo denso che nasconde il cartello “vietato fumare”.
I disoccupati curdi, tantissimi in
questa terra di disperata mancanza di opportunità, affollano i
caffè dove ammazzano il tempo
fumando, giocando a carte o bevendo tè di contrabbando. Sono,
questi, luoghi dove le donne non
sono benvenute (o forse non vorrebbero neppure metterci piede).
Gli anziani ci passano il tempo a
parlare della loro vita a chi passa
di qui. Intere esistenze raccontata
dai segni profondi delle mani.
Siamo in viaggio verso Van.
Qui, alle 13.41 del 23 ottobre
2011, un violento terremoto
squarciò la regione uccidendo
604 persone e ferendone 4.152.
Le forti nevicate rendono ancora
più dissestate le strade devastate dal sisma. Cinque mesi dopo
il terremoto, poco sembra essere
cambiato.
Van, 300.000 abitanti, è uno dei
cuori economici del Kurdistan.
Ad oggi, è stracolmo di container
dove vive parte della popolazione. Questi “villaggi” sono sottoposti a controlli strettissimi per
decidere chi può entrare e chi no.
Il governo non vuole che gli sfollati parlino della loro situazione.
Il filo spinato che circonda tutti i
villaggi-container rende l’immagine ancora più angosciante: campi ricoperti di neve e fango, vestiti
appesi al filo spinato, squallore.
A pochi mesi dal sisma, i palazzi restano decadenti. Tetti scoperchiati, case abbandonate. Ovunque,
campi profughi. Tende dell’ONU,
tende improvvisate, di ogni tipo,
dappertutto. La sensazione è che
non ci sia la volontà di ricostruire.
La Turchia ha inizialmente rifiutato
ogni aiuto offertole da altri stati,
salvo poi fare marcia indietro rendendosi conto delle gravi inadempienze nei giorni immediatamente
seguenti al sisma. Parlando con
la gente, sembra che l’intenzione
di Ankara sia proprio quella di non
ricostruire per obbligare i curdi ad
emigrare nelle città turche e lasciarsi assimilare. Perdere sé stessi,
dopo avere perso le proprie case.
Più che un campo per terremotati, quello di Van ricorda un
campo di segregazione. Sono
gli sguardi della gente a dirlo.
E quando si chiede perché gli
sfollati vivono recintati dentro
al filo spinato, si rimane basiti a
sentirsi dire che “è per la loro sicurezza, per evitare che gli estranei possano entrare”.
[ 17 ]
Guido Cervetti 33 anni è un fotogrtafo freelance, ha studiato fotografia all’istituto Marangoni di Firenze, specializzandosi in zone di conflitto all’istituto IEFC di Barcelona
e in fotogiornalismo con un workshop presso l’agenzia Contrasto a Roma. Racconta
principalmente di scontri sociali e zone di conflitto.
Testo di Andrea Semplici
Foto di Enrico Minasso
evo cancellare ogni
lettura. Ogni cosa
che penso di sapere.
Questo non è il luogo adatto, nessuna
parola è capace di
far immaginare o di
raccontare un mercato africano. Se solo
potessi, vorrei essere
invisibile: accucciarmi
in un angolo, sotto una bancarella, fra le donne dalle grandi veste
e non essere visto. Vorrei avere il privilegio di guardare l’umanità in
movimento, di ammirare lo spettacolo di uomini e donne che recitano su un palcoscenico di terra rossa e di polvere volante pronta a
diventare fango alla prima pioggia. Qui, a Bamako, capitale del Mali,
grande città di commerci, vorrei poter guardare, da dietro lo spiraglio
di un sipario, un mondo che, ogni giorno, ci prova a vivere. Che se
debrouille, che ‘se la sbroglia’ direbbe il ragazzo dai muscoli come
nodi d’ebano che mi passa davanti lanciandomi addosso uno sguardo d’orgoglio e di fatica.
[ 20 ]
Ha in testa un carico di frammenti
di auto. Pezzi portiera, mezzo parafango in bilico incerto, qualche
coprimozzo di camion. Non so
come faccia a trasportare quella
discarica di ferro in equilibrio sulla
testa. Il sudore annega il suo viso,
gli occhi sono più tesi dei suoi muscoli. Il passo è svelto, come quello
di un felino della savana nella tensione della caccia. Niente di così
nobile, in realtà: il ragazzo sarà
uno dei galoppini di un mercante di
rottami e avrà appena finito il giro
di meccanici che rivendono i resti di macchine accartocciate. Ma
viene comunque voglia di seguirlo. Per vedere dove sta andando,
dove è diretto. Per conoscere chi
si comprerà quel metallo contorto.
Mi muovo dal mio inutile nascondiglio anche perché la speranza di
non essere visto è davvero vana.
La mia pelle bianca è come un
[ 22 ]
semaforo acceso nella notte, ogni
sguardo di chi scorre per questo
vicolo polveroso è rivolto verso di
me. Inevitabile: sono venuto nel
brulichio incomprensibile del mercato Medina, nord estremo della
capitale del Mali, solo perché sulla Lonely Planet avevo letto che
pochi turisti si spingono fino sotto
questa collina di terra riarsa. Diceva la guida: ‘Il mercato è usato
dagli abitanti locali’. Una buona ragione per essere qui. Il più grande dei geografi italiani,
Eugenio Turri, ha scritto: ‘Il mercato è bello, è la vita, è lo spettacolo
delle ragazze, delle cose che si
amano, in un’atmosfera di spensieratezza’. Abbiamo davvero occhi bianchi sull’Africa: il mercato
di Bamako è un caos, un ingorgo
di persone, di polli che volano sulle teste delle donne, di macchina
da cucire che sibilano in continuazione, di contrattazioni che sono
recite grandiose per chi ha tempo
di fermarsi ad ascoltarle. Il mercato di Bamako contraddice chi sostiene che l’Africa sia lentezza: qui
si va di fretta, le donne hanno passi veloci, gli uomini sembrano marionette mosse dalla frenesia di un
burattinaio che vuole finire il prima
possibile il proprio lavoro. Perfino
i bambini slittano sotto le gambe
[ 23 ]
dei passanti come se sapessero
benissimo dove andare. Posso
dire che Bamako è una lentezza
veloce? Inseguire il ragazzo dei
rottami in testa non è stato facile:
lui sembrava dribblare, con l’abilità di un motociclista ubriaco, ogni
ostacolo. Il suo parafango non ha
urtato nessuno, non si è infilato
nella nuca di nessuna donna, non ha
Periferia della
sgangherato nesperiferia, quartiere
suna
bancarella.
Come
se
il ragazzo
di un quartiere
seguisse, scarti impiù grande.
provvisi compresi,
una sua pista preferenziale, una corsia che lo lascia
immune dai disastri che ciascuno
di noi avrebbe provocato. Mulinelli di polvere rossa si alzano negli
spiazzi liberi di gente: quando la
folla si dirada il vento solleva questi tornadi in miniatura e li manda
a sbattere contro muri sbrecciati
o torrentelli di fogne imputridite.
Oppure, dopo averli fatti volare
[ 24 ]
come giostre, li fa afflosciare dopo
pochi metri di ebbrezza. Mi hanno sempre raccontato che questi
spiritelli di sabbia e cartacce sono
le anime degli antenati che si ostinano a volere vivere come se non
fossero mai morti. Non danno fastidio, non chiedono nulla. Semplicemente vogliono che non sia-
no dimenticati e anche loro, nelle
ore del mercato, cercano di dare
un’occhiata a mercanzie che non
potranno comprare.
Ma lo spiazzo percorso dagli
spiritelli di sabbia è come un confine che io non riesco ad avvertire.
Ho alle spalle una piccola corte di
bambini e di venditori ambulanti e
mi accorgo che le loro insistenze
diventano meno pressanti, meno
urgenti. Alcuni appaiono indecisi. Rallentano. Si controllano l’un
con l’altro. Un bambino mi molla
la mano che fino ad allora aveva
stretto con forza e fa un’improvvisa
retromarcia. L’ultimo dei venditori,
un nero altissimo che offriva bibite colorate in sacchetti di plastica,
ha un gesto di saluto: il gioco della
contrattazione è finito e se ne torna
indietro. Anch’io ho un momento
di incertezza, non capisco la loro
indecisione. Una nuvola corre veloce sopra la collina di Kolu, periferia di Bamako. Stanno cambiando
anche le grida degli ambulanti, si
azzittisce perfino il cicaleccio delle
matrone sedute a vendere pesce
del Niger essiccato. Mutano gli
odori: diventa rarefatta e lontana
l’aria che sa di frutta matura e cuoio appena bagnato che ti ha inseguito per i vicoli del mercato. Ora il
vento porta con sè un sottofondo
di brace e pelle bruciata. Se tu fossi
[ 25 ]
dalle parti dell’Etna, diresti che è un
odore di lava che scorre e arrostisce gli alberelli che incontra nel suo
cammino. E poi i rumori: niente più
il brulichio delle chiacchiere e dei
passi rapidi di uomini e donne, ma
è come se qualcuno si sia messo a
suonare rozzi tamburi di metallo, a
percuotere gong artigianali di ottone scadente per avvertirti che stai
per entrare in un mondo a parte.
Sei ancora in tempo a voltare le
spalle e ad andartene altrove.
[ 26 ]
Periferia della periferia, quartiere
di un quartiere più grande, mercato dentro il mercato. Ma messo ai
margini, lontano, quasi ignorato. Il
ragazzo dei rottami ha trovato altri
fratelli: qui si incontrano decine di
altri uomini vigorosi che trasportano metalli e scarti ferrosi come
se fossero gioielli preziosi. Tutti, a
passo di marcia, stanno varcando
la frontiera del ferro e del fuoco,
stanno entrando fra le baracche
dei fabbri, dei forgerons, dei ma-
nipolatori delle fiamme. Anche noi
stiamo entrando nel cuore fragoroso della siderurgia africana.
Il ragazzo dei rottami si scarica
dalla testa parafanghi e lastre metalliche. Non è un gesto disattento
o stanco. In realtà ha già compiuto
una selezione del suo carico. Ai nostri occhi l’antro in cui ha depositato il parafango è un ammasso di
ferraglie arrugginite. Ma ogni collina ferrosa ha un suo significato. Ci
sono i vecchi che, con gli occhi,
osservano il lavoro dei ragazzi. Non
dicono una parola, ma organizzano
i mucchi di ferro. Queste non sono
miniere, qui non vi è bisogno dello
stregone che indica dove scavare,
ma bisogna pur saper scegliere il
pezzo di metallo per poter ottenere l’utensile che vogliamo plasmare. Anche questa è una maestria:
non è da tutti trasformare un parafango in un colapasta, in decine
di colapasta. Qual è il ferro migliore
per farlo? Questa è un’industria e
[ 27 ]
[ 28 ]
non c’è tempo da perdere: la prima sgargianti. Le donne sono poche:
separazione dei metalli aiuta i fab- venditrici di mais o di zuppe che
bri a compiere la scelta più giusta sfamano le legioni dei fabbri. Loro
senza perdere tempo. Il ragazzo indossano abiti slabbrati, maglietincassa pochi spiccioli di Cefa per te strappate e lerce della fatica di
il suo lavoro e riparte
mille giorni, i pantaalla caccia dei rottaloni che sono una
Tutti, a passo
mi di Bamako. Ogni
sola macchia bruna.
di
marcia,
dialogo,ogni trattaI ragazzi dei mantici
stanno varcando
tiva qui è silenziosa
sono a torso nudo.
perché le labbra si
la frontiera del
aprirebbero
inutilForgerons o maeferro e del fuoco.
mente: il fragore dei
stri del fuoco. Non
martelli sugli incuoccorre saperne di
dini, degli sfrigolii dell’acqua sul Africa o di lontano passato per
fuoco, dei mazzuoli lucidi come il comprendere che i fabbri sono una
marmo che picchiano sui metalli da casta. A volte maledetta:perché
plasmare è più forte dello sferra- ha che fare con la magia e la fuglio di un treno in corsa o del de- ria del fuoco. A volte benedetta:
collo di un boeing con i motori im- chi prepara le vanghe, le zappe, gli
ballati. Le mani straniere si toccano utensili per la cucina? Chi forgia le
le orecchie per capire se qualcosa spade? Casta sottomessa o casta
non funziona. Qui bisogna urlare orgogliosa? In Mali raccontano che
per farci sentire. Ma il fracasso non il primo uomo inviato dagli dei sulla
è un rumore indistinto: il coro dei Terra sia stato un fabbro, un uomomartelli ha un suo ritmo, ci vorreb- artigiano, coraggioso al punto da
be un musicista per esserne certi, poter controllare il fuoco e trasforma qui, a Medina, è come se un’or- mare la materia. Capace di estrarre
chestra diffusa stesse suonando il ferro dalla roccia e di fabbricare
una sinfonia atonale, una musica gli attrezzi necessari a lavorare la
colta che solo i forgerons di Ba- terra. Nei miti africani sulle origini,
mako conoscono. Fra le fucine e i il fabbro compare quasi sempre fra
forni della Medina scompaiono an- i capostipiti di un popolo. La sua
che i colori dell’Africa. Niente rossi figura sociale è unica nelle tradizioo gialli. Perfino il cielo, velato dal ni di un continente: i forgerons non
fumo, è meno azzurro. Niente abiti lavorano la terra, non chinano la
[ 29 ]
[ 30 ]
schiena nei campi, sono i guardiani
del fuoco, una casta specializzata.
Le mogli dei fabbri, spesso, sono le
mammane delle escissioni delle ragazzine. I contadini provvedono al
cibo per la famiglia del fabbro: sanno bene che gli attrezzi per coltivare la terra dipendono dall’abilità di
quell’artigiano capace di cambiare
la materia. Spesso, nelle savane
del Mali, il primo atto di nascita di
un villaggio è proprio la costruzione
della forgia e della casa del fabbro.
Eppure i forgeron sono guardati
con timore, come eredi di poteri
sovrannaturali, come stregoni troppo potenti. Ma anche esiliati, quasi
diseredati, sicuramente malvisti:
i loro quartieri sono ai margini dei
villaggi e dei mercati. Una ragazza
peul, in Mali, non potrà mai sposare un fabbro senza infrangere severi tabù familiari. Destino triste per
il figlio di un fabbro: avete mai visto
come sono belle le donne peul?
Artigiano o stregone, dunque.
Manipolatore del ferro o anche di
forze sovrannaturali? Mi guardo attorno nel caos di Medina, siedo accanto a un uomo che picchia con
forza su una piccolissima verga di
metallo, vedo un ragazzo che, come
un forsennato, agita un mantice di
pelle di capra. I carboni si ravvivavano fino a diventare incandescenti.
Il fabbro fa scivolare il pezzo di ferro
sulle braci ardenti. È la ‘carburazione’ del metallo: bisogna pur donare
al ferro quelle qualità (durata, elasticità, resistenza alle torsioni, agli
attriti, ai colpi e alla corrisioni) che
renderanno perfetto un utensile. È
davvero uno stregone questo uomo
dagli occhi intrisi di polvere di ferro e
dal sudore che cola per ogni rivolo
della sua fronte? Strano e ambiguo
destino, quello dei fabbri: il dubbio
che questi uomini (mai visto donne
lavorare con il fuoco e il ferro) fossero dei maghi (a volte benigni, ma,
a volte, anche maligni) ha sempre
perseguitato i forgeron. Non solo in
Africa Occidentale, ma quasi ovunque nel mondo. E nell’antichità: le
tecniche di ‘riduzione del minerale’
(era ed è impossibile raggiungere,
con i mantici la temperature di fusione del ferro a 1536 gradi) erano
le sole impiegate almeno fino al XV°
secolo. Chi era capace di strappare alle viscere della terra un metallo grezzo e impuro e, utilizzando il
fuoco, riusciva a trasformarlo, finiva
per essere sospettato di complicità
con forze al di là dell’umano. Ferro
e fuoco, due elementi che esprimono forza. In molti villaggi del Sahel
se un fulmine colpisce un uomo, si
manda a chiamare il fabbro, prima
del guaritore. Solo lui, custode dei
segreti di ogni energia, può salvare
il malcapitato.
[ 31 ]
[ 32 ]
Quanti di questi ragazzi che smartellano nel quartiere di Medina conoscono l’antropologia dei fabbri?
Quanti conoscono il loro potere o
la loro fama rurale? I ragazzini che
pompano nei mantici sanno di essere gli assistenti di mille stregoni?
L’Africa dei villaggi si è spostata in
città. In cerca di lavoro. E i mestieri,
anche nella baraondica Bamako,
cambiano. Come cambia la vita
degli africani.
Anni fa a Mopti, altra città sfolgorante del Mali, mi sono trovato
nel triangolo di un mercato fluviale
dove l’attività dei fabbri è davvero
specializzata: trasformano lattine
per piselli o molle arrugginite in lunghissimi chiodi con i quali saldare
le chiglie delle imbarcazioni del fiume Niger.
Anche qui l’assistente del fabbro era un bambino sudato che
si affannava attorno a un mantice
costruito con pelle di capra. Era un
lavoro di muscoli pompare aria sui
carboni ardenti. La temperatura del
fuoco, affinché il ferro dolce diventi
malleabile, non deve mai scendere sotto gli 800 gradi. Provate a
mantenere, per ore e ore, ritmo e
forza nelle braccia mentre fate funzionare un mantice. Sono tornato
in quel posto. Erano passati anni.
Non potrei giurarlo, ma il bambino
era diventato fabbro, aveva tagli
ovunque e una pesante cicatrice
su una guancia. Non mi rivolse un
solo sguardo: era troppo attento
al suo lavoro. Nel suo gabbiotto in
riva al Niger era al lavoro un altro
ragazzino. Non spremeva la sua
adolescenza attorno a un mantice,
ma pedalava una bicicletta tenuta
fissa da due tiranti: energia dei piedi per azionare una grande ventola.
Una fatica minore, una ‘modernità’.
Sono ‘moderni’ anche i fabbri di
Bamako? Il rumore si infittisce,
dal caos delle fucine vedo uscire
paioli, pentole, coltelli, lastre, forchette. Vedo depositi di manufatti
aumentare fino a diventare magazzini imponenti di oggetti di ogni
tipi. Qui alla Medina si vive già in
una dimensione ‘industriale’ degli utensili. Queste sono officine
professionalizzate. Mi dicono che
una buona parte della produzione
di questa fabbrica diffusa è destinata al ‘mercato internazionale’: la
rivedremo sui treni per il Senegal o
sulle grandi barche per Timbuctu,
vedremo contrabbandi di zuppiere
verso il Burkina-Faso o il Ghana. Mi
chiedo di nuovo: ‘Cosa lega i fabbri
della Medina ai racconti e ai saggi
di antropologia sui forgerons delle Afriche occidentali?’. A volte,
nella notte dei villaggi della savana, risuonano i colpi dei martelli
[ 33 ]
[ 34 ]
sull’incudine. Noi stranieri ci sve- Cerchiamo, vogliamo souvenir, giogliamo con addosso qualche timo- ielli in metallo (che l’abile venditore
re. Ci rassicurano:
del negozio in alberi fabbri lavorano con
go ci spaccia per
Qui
il
mondo
il buio più completo,
argento), pendagli,
è in bianco e nero. piccoli soprammobili.
temono che qualcuno possa carpire i
Il fabbro-stregone lo
loro segreti. Mi guarsa e allora gioca con
do di nuovo attorno: le tettoie del la sua tradizione, chiede consigli,
quartiere dei fabbri fanno filtrare guarda, osserva, va per tentativi:
pulviscoli di luce. Qui il mondo è in reinvesta il suo mestiere e rifornisce,
bianco e nero: il sole è accecante con bravura, la bancarella per turisti
quando può rimbalzare sulla polvere; che staziona sulle sponde del Niger,
il nero, al riparo di un tetto di lamie- passaggio obbligato des blancs.
ra, è oscurità totale fino a quando gli
occhi non si abituano all’ombra. Le È lunga la strada per tornare verso
fornaci sono lampi di fiamme in cui l’albergo. Mezza Bamako da attrai fabbri sorreggono, con pinze lun- versare. A sera è tempo di muoverghissime, pezzi di metallo. Il lavoro si. I fabbri sembrano non conoscere
dei fabbri è fatica, occhi arrossati tempo. La produzione non si ferdal fumo e pelle lucente di sudore. ma. Arrivano i mercanti, i trasportaC’è il cuore dell’Africa, qui. Non il tori, le donne con nuovo cibo per la
suo mistero. C’è il lavoro immenso notte. Mi servirà a casa questo rodi un continente che ci prova, ogni maiolo di stagno che mi sono comgiorno, a sopravvivere, qui alla Me- prato per due centesimi di euro?
dina di Bamako. Non ci sono segreti Incontro lo stesso ragazzo che mi
insvelabili. Le città africane hanno aveva, inconsapevolmente,guidato
bisogno di oggetti in ferro: ringhie- verso il cuore nascosto della Mere, manufatti per l’edilizia, cancelli, dina. Questa volta ha una cassa di
supporti metallici, serrature, cardini. molle sulla testa. Spero che anche
Il fabbro, erede di un passato vena- la sua giornata sia a fine. Spero
to di esoterismo, si piega ai nuovi che per i fabbri vi sia riposo dopo
bisogni. Il fuoco non è più un sim- un giorno accanto alla forgia. Arribolo, ma uno strumento di un me- vo all’albergo, terra di bianchi e di
stiere durissimo. Ci siamo anche noi stranieri. L’Africa cala nuovamente il
in questo mercato: bianchi e turisti. suo sipario su un mondo che ci ha
[ 35 ]
lasciato intravedere. Nostalgia immediata, ma negata. Africa invisibile
per chi passa in fretta per Bamako.
Nella sala da pranzo dell’albergo la
guida (bianca) di un gruppo di turisti parla, con passione, dei fabbri
africani e della loro magia. Ha letto
bene i libri, sa cosa sta dicendo. I
turisti fanno finta di seguire il racconto. Alla fine appare il mercante
del negozio all’ingresso dell’hotel:
offre i suoi oggetti in ferro. Rivedo i
ragazzi che fanno andare i mantici.
Fermo, come nello scatto di una fo-
tografia, il gesto dell’uomo che solleva il martello. E allora appoggio,
senza una parola e senza sapere
perchè, il romaiolo di stagno fra le
statuette del negoziante.
Se davvero volete lanciare uno
sguardo sull’Africa, andate sotto
la collina di Kolu, oltre l’ippodromo di Bamako, a Nord del centro
della città. Fatevi guidare dai rumori e dall’aria infuocata. Varcate
il confine fra i mercati: l’Africa, a
volte, è generosa per chi ha occhi
per guardare. Andrea Semplici.
Dancalia.
[ 36 ]
Enrico Minasso, classe 1961. È un professionista che si occupa principalmente di
fotografia pubblicitaria, architettura, ritratto, cerimonia e reportage industriale e antropologico. Costantemente impegnato nella ricerca attraverso l’utilizzo meno convenzionale dei materiali fotografici tra cui la tecnica del foro stenopeico. Tra le sue pubblicazioni vanno ricordati i libri fotografici “Luoghi d’ombra”, “Le fucine di Bamako”, “La
valle di Sella”, “Le meraviglie in scatola”. enricominasso.it
Andrea Semplici. Giornalista e fotografo (che smarrisce quasi ogni foto che scatta).
I suoi ultimi libri sono ‘Gli anfibi slacciati di Ernesto Guevara’ e ‘L’isola lontana dal
mare’. Infine: ‘Dancalia, camminando sul fondo di un mare scomparso’. Tutti e tre
editi da Terre di Mezzo.
Camminando sul fondo
di un mare scomparso.
(Terre di Mezzo)
I tuareg
non
avevano
alternative
Colloquio con Vermondo Brugnatelli
A cura di Marco Pinzani // Associazione Transafrica
Foto di Andrea Semplici
Vermondo Brugnatelli è uno dei più attenti studiosi del mondo
berbero. La guerra in Mali, l’attacco dell’esercito francese alle
bande islamiste nel Nord del Mali, lacerano la sua anima. Da
anni, Brugnatelli cerca di far conoscere in Italia e in Europa la
storia del popolo tuareg.
Hanno sbagliato i tuareg
a lanciare l’offensiva del
gennaio 2012?
Con il senno di poi, alcuni sostengono che quel sollevamento
armato sia stato un errore. Non è
così. Non avevano alcuna alternativa. La situazione nel Nord del
paese stava disgregandosi, non
poteva che peggiorare. I tuareg,
un anno fa, hanno solo inciso un
bubbone che già stava marcendo. Hanno cercato in tutti i modi
un dialogo con Bamako, con il
governo del Mali. Avevano più
volte avvertito della presenza di
bande islamiste che stavano insediandosi nei loro territori. Volevano aiuto per farle sloggiare. E
invece Bamako ha risposto con
il silenzio, con la complicità con
i narcotrafficanti e peggio con arresti di esponenti dei movimenti
tuareg. No, lo scorso anno non vi
erano alternative.
[ 40 ]
Come è stata possibile
la disattenzione della
comunità internazionale
di fronte al pericolo islamista?
‘Non è certo la prima volta che la
comunità internazionale è sorda e
cieca. Il colonialismo non è finito
con la stagione delle indipendenze africane. Ci siamo illusi che bastasse creare a tavolino degli stati
per garantire la stabilità dell’Africa. Quei confini statuali erano e
sono ingiusti. E gran parte dei governi africani sono stati oppressivi, tribali, in mano a gruppi militari.
Il malessere del Mali è cominciato
subito dopo la sua indipendenza.
I tuareg avrebbero accettato perfino di rimanere sotto la Francia
pur di non essere governati da
Bamako. Hanno subito mezzo
secolo di angherie e sofferenze.
Vi erano alternative
all’intervento francese?
No, credo che anche
Parigi, al punto in cui erano arrivate le cose, non avesse altra
alternativa che l’intervento militare. Gli islamisti stavano marciando verso Sud, avevano varcato le frontiere dell’Azawad.
Loro non erano interessati alla
causa tuareg.
Volevano imporre la sharia
a tutto il paese. Volevano creare uno stato islamista. L’esercito maliano non sarebbe riuscito
a fermarli. Ma la Francia ha una
colpa: non ha tenuto conto che
i loro migliori alleati avrebbero
potuto essere proprio i tuareg.
Conoscono il loro deserto e vogliono solo cacciare dal loro paese narcotrafficanti e fanatici religiosi. Non si poteva ignorarli.
Cosa accadrà ora?
Cosa accadrà nei
prossimi mesi’
Se vi fosse la saggezza di integrare le forze tuareg nelle truppe,
francesi e africane, che combattono gli islamisti, io credo che
potrebbe essere possibile liberare i deserti dell’Azawad dagli
islamisti. Rimane, però, il pasticcio iniziale: i confini del Mali non
hanno senso, basta guardarli, dovrebbero avere il coraggio di sfatare il tabù dell’intoccabilità delle
frontiere coloniali e della integrità
statale del Mali. Bisogna riconoscere diritti ai tuareg a un proprio
territorio. Senza una partecipa-
zione dei tuareg a questa sfida
contro l’islamismo, non vi sono
molte speranze. I giovani tuareg
sono ostili al fanatismo religioso,
ma vedono la Francia come expotenza coloniale e certamente
non vorrebbero eserciti stranieri
nei loro territori.
Se non verrà riconosciuto un
ruolo ai tuareg si va dritti verso
una situazione afghana: forze
straniere in una terra ostile. Questo è un conflitto che rischia di
incancrenirsi. Ed è un dramma,
il Mali e i deserti del Nord sono
un paese splendido. Rischiano di
diventare il santuario di un’altra
guerra infinita.
[ 41 ]
Vermondo Brugnatelli, 60 anni, milanese è linguista all’università di Milano-Bicocca. Direttore del Centro Studi Camito-Semitici e presidente dell’Associazione Culturale Berbera.
Si occupa soprattutto di lingua e letteratura berbera. Il suo ultimo libro è un diario saggio
sulla rivoluzione libica: “Libia Inedita” (ed. L’asino d’oro).
Marco Pinzani vive e lavora a Firenze. Tanti viaggi in Africa Occidentale. Tra i fondatori
dell’Associazione di volontariato Transafrica che da oltre vent’anni realizza attività di sostegno per le popolazioni del nord del Mali.
un anno
vissuto
pericolosamente
di Andrea Semplici
I confini coloniali del Mali sono assurdi. La sua
geografia politica assomiglia a una clessidra rovesciata. Nel 1960, anno dell’indipendenza maliana, si sono voluto tenere assieme i tuareg del
Nord con i popoli neri del Sud. Per oltre mezzo
secolo i tuareg sono stati perseguitati, è stata
negata la loro identità, sono stati condannati alla
miseria. Per quattro volte, fra il 1962 e il 2006,
hanno imbracciato le armi in una disperata ribellione. Un anno fa, è cominciata l’ultima battaglia.
Per i tuareg, i territori del Nord del Mali sono l’Azawad. In lingua tamasheq, azawagh significa
‘regione di pascoli’
[ 42 ]
Gennaio 2012. Scoppia la quinta rivolta tuareg in mezzo secolo. Nel Nord del Mali arrivano le armi
degli arsenali libici. I tuareg colgono l’occasione di riaccendere la ribellione del deserto. L’esercito
maliano abbandona il Sahara.
Marzo 2012. Colpo di stato a Bamako. Estromesso il premier Amadou Toumani Traorè. È un giovane capitano, Amadou Sanogo, ad assumere il potere in Mali. L’esercito è allo sbando.
Aprile 2012. Offensiva tuareg al Nord del paese. Il Movimento di Liberazione dell’Azawad (Mnla)
e gruppi islamisti conquistano le tre città del deserto, Timbuctu, Gao e Kidal. L’Mnla dichiara
l’indipendenza dell’Azawad.
Giugno 2012. Guerra civile nel deserto. Gli islamisti (i gruppi al Qaeda, Mujao, Ansar Dine) si sbarazzano dei tuareg‘laici’ e impongono, con la violenza, la sharia nell’Azawad.
Dicembre 2012. Dimissioni del primo ministro maliano. Risoluzione dell’Onu che autorizza un
intervento armato in Azawad per fermare il terrorismo.
7 gennaio 2013. Interrotti i negoziati fra Unione Africana, Mali e islamisti. Offensiva di al- Qaeda e
Ansar Dine verso il Sud del paese.
10 gennaio 2013. Aerei francesi attaccano i gruppi islamisti. La Francia lancia il contrattacco per
la riconquista del Nord del Mali. È l’operation Sérval. In due settimane, i soldati francesi e lo sgangherato esercito maliano riprendono Timbuctu, Gao e Kidal.
I giornalisti sono tenuti lontani dal fronte. Gli abitanti delle tre città accolgono festosamente i soldati
di Parigi. Vendette dei soldati maliani verso i tuareg. Gli islamisti si rifugiano ai confini fra Mali e
Niger. Molti risalgono fino in Libia.
[ 43 ]
Nessun
gatto
a
Varanasi
Testo e foto di
Valentina Cabiale
ei pressi del Mansarowar
ghat un uomo mi si è avvicinato e ha fatto con
me un pezzo di strada.
Con i capelli quasi tutti
grigi e ricci, una camicia bianca e un borsello
di pelle, camminava con
passetti rapidi nella notte, più avanti di me di
qualche passo, senza
guardarmi, ponendo ogni tanto qualche domanda. Gli ho mentito, dicendo che avevo un fidanzato in Italia; volevo scrollarmi di dosso un possibile
corteggiatore. Ma mi sbagliavo. Mi ha detto: non sposarti mai, si sposano
già tanti in India. Poi, sui gradini davanti al palazzo rosso dove nel 1781 il
raja Chait Singh fu arrestato dagli inglesi, si è seduto a guardare il fiume,
la striscia nera orizzontale e vuota sull’altra sponda. I ghat, le alte gradinate che precipitano nella Ganga (in hindi il Gange è femminile), sono di
una bellezza devastante, irreale, ricoperti da uno strato di polvere che
tutto uniforma; come se fossero lì da sempre, non costruiti da qualcuno
ma esistenti sin da quando qualcosa esiste.
[ 46 ]
Cammini e ti viene voglia di non porti più nessuna domanda, di andare
avanti continuando a inciampare nei
fili degli aquiloni, la mente diventata
inutilizzabile (potessimo pensare con
i piedi, con una mano).
Vista da una barca sul Gange, la
passeggiata sui ghat è una linea
orizzontale, linee verticali quelle delle gradinate che discendono al fiume e dei palazzi che si innalzano,
un linguaggio non casuale, un lungo
mantra che si snoda lungo l’acqua.
L’alfabeto hindi ricorda la disposizione dei grappoli sui filari delle vigne.
Oppure: una linea orizzontale, in alto,
dalla quale discende a cascata tutto il
possibile e immaginabile, la confusione, il groviglio sistemato in verticale,
appeso come un filo a piombo incerto su dove sia la gravità.
Poi vedi l’immondizia lungo le
strade, la gente che a bordo strada
vive, si lava, mangia, vende, gioca;
[ 47 ]
il traffico spropositato e spericolato, i clacson che non danno tregua.
C’è chi si ferma qua, e non metterà
mai più piede in India o lo farà soltanto per trovare conferma di vivere
una vita migliore. Ma con un po’ di
pazienza tutto può essere ribaltato,
la sporcizia è insignificante, la povertà quasi indecifrabile: se, per magia
o consapevolezza, i parametri culturali e sociali attraverso i quali filtriamo
ogni cosa si dissolvono, il discrimine
tra ricco e povero, tra triste e felice,
bello e brutto, si sposterà, scapperà
via. Non saprai più dov’è e imparerai
a buttare una buccia di banana per
terra senza sentirti in colpa.
[ 48 ]
Non so perché si pensa che si vada
in India a fare un viaggio “spirituale”.
Quello che lì si vede è disperatamente materiale. Forse solo un’esistenza
spaventosamente nuda costringe,
chi non fugge né impazzisce né si
adatta, a fare un salto, entrare in una
materia non conosciuta. Ho immaginato, camminando lungo la Ganga,
che soltanto l’aderenza alla materia,
alla terra, all’asfalto e, nello stesso
tempo, una suprema indifferenza alla
realtà, possano essere una via per
l’autenticità: spirituale è la carcassa di
vacca che galleggia tonda e rilevata
sulla superficie dell’acqua, è l’immondizia a bordo strada dove scavano i
cani, sono i rivoli delle fogne, le scim-
mie che mangiano le corone di fiori
arancioni offerte nei templi. Tutto il
resto (fumare a gambe incrociate sui
gradini, entrare in un ashram con abito appositamente confezionato e testa rasata) rischia di esaurirsi in pura
esteriorità - gusci vuoti sulle gradinate,
i sadhu allineati come soprammobili.
Le condizioni di vita terribili o essenziali (dipende dai punti di vista) attenuano
Nessuno vuole
il distacco e le diffevivere sull’altra riva
renze tra vita e morte.
La vita ha un aspetto
dove, secondo
molto più crudo della
la tradizione, chi
non-vita, non è, come
muore rinascerà
da noi, pulita e lucidata come una stazione
scimmia.
della metropolitana.
Morire a Varanasi
significa morire davanti a tutti. Le pire
funebri del Manikarnika ghat sono
accese giorno e notte, triangoli di
fuoco rossi e tremanti a pochi metri
dall’acqua. Il rito è quasi esclusivamente di competenza maschile, in
[ 49 ]
particolare spetta ai figli maschi riconoscibili per una fascia bianca, colore
del lutto, intorno al capo. Il cadavere
viene portato su una lettiga a bordo
fiume, immerso nell’acqua per purificazione, poi adagiato sulla catasta
di legna, cosparso di polvere di sandalo e di ghi, un burro vegetale usato
come combustibile. Altri pezzi di le-
Everybody think
of changing humanity
And nobody think
of changing himself
(scritto col gesso sulla lavagna nera di una scuola a Varanasi, all’aperto)
[ 50 ]
gno vengono appoggiati sul corpo e
la pira accesa. Brucia per ore, a volte
per un giorno intero. Ci sono sensazioni ineliminabili, basta provarle una
volta in una vita.
Non è l’odore - la carne umana
che brucia non è diversa da quella
degli altri animali che normalmente
grigliamo. Non è il fumo che bruciava
gli occhi quasi facendomi un favore,
perché mi permetteva di piangere un
po’ e allentare il groppo in gola che
mi vergognavo di avere perché loro,
gli indiani, i figli che accendevano il
fuoco sotto il cadavere della propria
madre, non li ho visti piangere. Non
sono il fumo e l’odore. È il calore che
non potrò dimenticare, aderiva alla
pelle, denso e costante, calore di uomini e donne che stavano bruciando,
ed è il senso di riconoscenza che ho
provato: grazie a chi è morto e ora è
diventato combustibile che mi scalda.
Quello che rimane del corpo, in
genere le ossa del bacino per le donne e quelle dello sterno per gli uomini,
viene gettato nel Gange, assieme ai
corpi, legati a una pietra, di chi non
viene cremato per tradizione (bambini, donne incinte, lebbrosi, santoni). Il
fiume riceve e assorbe tutto, sorprendentemente senza restituire odori di
nessun tipo, forse grazie all’incenso
continuamente bruciato nelle puja
che ogni giorno vengono celebrate,
al calare del sole, lungo il fiume, for-
se perché la città è soprannaturale.
Ram nam satya et (il dio è verità), recitano gli uomini che trasportano le
lettighe con il cadavere avvolto in un
telo di seta giallo oro e rosso, giù per i
vicoli di Godalia che portano al Manikarnika ghat. Camminano veloci, con
una tale inesorabilità, senza esitazioni, un ritmo serrato come quello del
mantra che recitano. Per chi abita a
Varanasi probabilmente non è nulla;
per me ogni corteo funebre era una
sospensione, un’interruzione di vita e
di giudizio, uno spazio bianco tra una
porzione di quotidiano e un’altra: non
sono abituata a considerare la morte
come un dato (così!) acquisito.
Loro non si vergognano di mori-
re. Noi siamo impreparati e inadatti a
tanta limpidezza, visibilità, evidenza
della morte. Sarà per questo che i
turisti si aggirano spaesati e frettolosi
quelli in gruppo, spesso mano nella
mano per non perdersi e rischiare
di non ritrovare la guida o se stessi, mentre quelli solitari o in coppia
ostentano una spavalderia che assomiglia a paura. E sotto alla superficie
un senso di inadeguatezza, di fragilità, un’incapacità – tutta occidentale –
di affrontare e vivere le cose per quelle che sono.
Ti aspetteresti dei gatti, che riescono a sopravvivere con eleganza e
non-chalance in ogni condizione. Invece mancano quasi del tutto, forse
[ 51 ]
[ 52 ]
disertano un luogo dove non sono gli
unici ad avere sette vite. Per quanto
inizi a farsi strada l’idea che la vita di
un uomo sia unica e non ripetibile, la
credenza nella reincarnazione è molto radicata in India, e lo è tanto a Varanasi da aver sinora impedito la lottizzazione e costruzione sulla sponda
del fiume opposta a quella della città
storica: nessuno vuole vivere sull’altra riva dove, secondo la tradizione,
chi muore rinascerà scimmia. Così
l’altra sponda della Ganga è una striscia chiara di deserto che contrasta
drammaticamente con l’accumulo
di strade, pietre, persone, mercanzie
e colori della città. Mi piace pensare
che le due immagini siano in realtà
speculari, che sia un modo per dire
che il tutto è uguale al niente, che la
città colorata e rumorosa non è così
differente dalla città invisibile e silente,
che le gradinate verticalissime e non
umane assomigliano al vuoto.
Why are you looking so sad? mi
ha chiesto l’ultima sera una bambina mentre assistevo affascinata, per
l’ennesima volta, alla puja aarti. Non
ero triste, mi stavo ponendo delle
domande paradossali, ad esempio
come dev’essere innamorarsi di un
pandit, oppure se, prendendo una
barca e andando sul lato deserto del
fiume, non vi comparirà improvvisamente una città con gli alti palazzi
che furono dei maharaja, e guardando sull’altra riva non si vedrà soltanto
una spessa linea bianca, punteggiata
dal nero di qualche bufala.
Quando la puja è finita ho passeggiato lungo il fiume fino al Manikarnika
ghat e oltre, nella luce giallo-grigia
opaca e calda della sera, incrociando qualche silhouette nera sottile e
discreta. Un gatto tigrato magrissimo è sgusciato su un gradino alto
del Lal ghat, nella direzione opposta
alla mia. Ho pensato allora che fosse
bene che tornassi indietro anch’io, e
lasciassi l’ultima parte dei ghat per
il prossimo viaggio, quando arriverò
fino al termine delle gradinate dove
dicono ci siano le scimmie, incauti umani che sono andati al di là del
Gange e non hanno più fatto ritorno.
Valentina Cabiale, archeologa, 31 anni. Laureata in Lettere all’ombra dei murazzi del Po
torinese, specializzata in archeologia medievale sulle spallette dell’Arno fiorentino: ha bisogno di fiumi nelle città in cui studia, ma non ha mai fatto un buco nell’acqua. Ha scavato se non dal Manzanarre al Reno, da Chieri a Samarcanda, senza perdere la grazia che la
contraddistingue. Nella sua valigia, sempre pronta per nuovi viaggi, trovano posto vestiti
comodi, reflex e libri in parti variabili.
[ 53 ]
filosofici, rappresentazioni sacre, in
cui tutti i pellegrini si bagnano insieme nelle acque dei fiumi sacri per
celebrare l’universalità della vita
spirituale. Fedeli e pellegrini giungono da ogni parte per partecipare
a questa celebrazione e si riuniscono per un bagno nelle sacre acque
del divino fiume Gange in quanto si
ritiene che il bagno purifichi e “lavi
via” i peccati e il male passato nella
vita dell’individuo.
Aspettando
il Maha
Kumbh Mela
di Paola Pedrini
[ 54 ]
Il più affollato raduno religioso
dell’umanità è il Maha Kumbh Mela.
Mela sta per “festa” e la parola
kumbha significa “vaso”, “contenitore” “brocca”, e si riferisce al contenitore del nettare divino dell’immortalità “amrita” dal quale, durante
la contesa tra dei e demoni, caddero delle gocce sul pianeta Terra. Il
Kumbha inteso come vaso simboleggia l’utero, la forza generatrice,
identificata con le dee madri. Nella
mitologia indiana diversi personaggi
sono nati da un vaso, considerato il
ricettacolo di ogni forma di vita.
In questa occasione gli induisti
dimenticano le caste a cui appartengono, gli stati di provenienza
o il loro status sociale. I pellegrini
vengono al Kumbh Mela pieni di
questa grande devozione, e in un
numero così schiacciante, che la
mente vacilla. Sembra un oceano
di esseri umani. Il Kumbh Mela è
quindi un pellegrinaggio hindu di
massa che si celebra in quattro
luoghi principali: Prayag o Allahabad, Haridwar, Ujjain e Nashik.
La Maha Kumbh Mela (“Grande”
Kumbh Mela) si celebra ad Allahabad ogni 12 anni e dopo 12
cicli - e di conseguenza dopo 144
anni - si celebra il Purna Kumbh
Mela (“completa” Kumbh Mela).
All’ultimo Maha Kumbh Mela del
2001, parteciparono circa 60 milioni di persone, rendendo il rito il più
grande raduno mai svolto nel mondo. Questo festival religioso vede
riunirsi milioni di pellegrini, sadhu,
e religiosi induisti di ogni gruppo.
Lo scopo di questo incontro è
squisitamente ecumenico: si tratta
di 40 giorni di incontri, di musica
devozionale, di mantra, di dibattiti
Eserciti di asceti e pellegrini, appartenenti a oltre 8000 gruppi e istituzioni religiose, si mescolano spalla
a spalla, tra il clamore di cembali,
corni, conchiglie, invocazioni e preghiere, soprattutto nei momenti più
cruciali del bagno rituale.
È il governo indiano che organizza questo grandioso festival, costruendo circa 170 km. di passerelle
sulla sabbia con piastre metalliche,
altrettanti chilometri di tubazioni di
acqua potabile e cavi elettrici, nove
ponti e altre strutture e fornendo
1070 ettari di terra per centinaia di
migliaia di pandal (grandi tende per
incontri spirituali), templi (e altoparlanti!), tende da abitazione normali
o di lusso, bagni, cucine, centri di
pronto soccorso, mercati interni
e così via. Il tutto viene rimosso al
termine del festival. Giorno e notte
si tengono rappresentazioni sacre e
recitazioni delle scritture e delle avventure dei vari avatara divini, canti
e cerimonie rituali ai quali tutti possono partecipare liberamente.
Così, con il bagno nel fiume sacro, i peccati del passato vengono lavati via e l’anima raggiunge la
Moksha, la liberazione dal ciclo di
nascita e morte. Questo bagno nel
fiume offre la purezza, la ricchezza e
fertilità, e lava via i peccati di coloro
che si bagnano in esso.
Paola Pedrini. Giornalista, scrittrice e instancabile viaggiatrice, si dedica negli ultimi anni alla
scoperta dell’Asia prima che la grande passione per l’India la porti a visitare cinque volte quel
paese che ti entra nell’anima per non uscirne mai più. Con la casa editrice Polaris ha pubblicato
“La mia India, pensieri in viaggio” (2011) e “Gli angeli di Calcutta, sguardi sulla città e sul volontariato” (2012). Dopo diverse esperienze di volontariato in Italia e all’estero decide di frequentare un corso professionale per Operatore Socio Sanitario per lavorare e scrivere per il sociale.
AL
SICURO
COME
IN
MEZZO
ALL’ERBA
Testo e foto di
Elena Dacome
chad, zona di Dourbali a
sud-est di Ndjamena. Inizio autunno. In lontananza:
bianchissime, curve e larghe come lire si assottigliano
all’apice appuntito e nero.
Così galleggiano sulla vegetazione centinaia di corna
di zebù. Da lontano si annunciano fremendo nell’aria
caldissima del mezzo mattino. Il vago tremolio diventa una massa
di innumerevoli zebù, un flusso ininterrotto di bovini affiancati da capre, asini, uomini e donne in transumanza. Molti animali sono scarichi e in gruppo, altri portano sottili rami curvi e calebasse impilate
l’una dentro l’altra. Su alcuni siedono le donne con i figli più piccoli;
altri bimbi si dividono lo spazio con agnellini di pochi giorni bianchi
come neve. Gli uomini sono a piedi o a cavallo. Tutte le masserizie
sono legate sugli animali e navigano tra i basti e il cielo come prive
di peso. Il passo regolare della mandria produce un fruscio di erba
calpestata. Gli steli freschi si spezzano sotto il peso degli zoccoli e
l’umido si spande sulla terra: sottofondo continuo per questo inesausto avanzare. Così si muovono i Pheul Woodabe quando cercano
un nuovo pascolo: un esodo di genti nomadi e corna ondeggianti.
Più noti come Bororo, i pastori
nomadizzano in tutto il Sahel dal
Burkina al Tchad. Vivono durante l’anno in piccoli gruppi sparsi.
Solo disperdendosi possono sperare di trovare minime risorse per
la sopravvivenza dei loro animali.
Stare insieme vorrebbe dire esercitare sul territorio arido una pressione che porterebbe in breve
all’esaurimento di tutte le risorse.
Solo in settembre, alla fine della
stagione delle piogge, possono
ritrovarsi e condurre i loro spettacolari armenti su terreni verdeggianti e ricchi di sale, prezioso
per la loro salute. Questa circostanza vede le genti celebrare feste, danze e canti. Gli uomini si
truccano vistosamente e danza-
[ 59 ]
no esibendo la loro straordinaria
bellezza per alcuni giorni di seguito. Individuare i pascoli su cui si
radunano i pastori in settembre,
non è cosa facile. Si pongono domande, si cercano notizie utili per
mettersi sulle loro tracce e trovare
gli accampamenti. All’arrivo è uso
presentarsi al capo
del clan Woodabe
Si vive nell’erba,
detto Ardo. In quesull’erba, dell’erba. ste zone ci sono i
sudo-sokai, i giptu
e gli iakauà. L’Ardo rappresenta gli interessi del
gruppo e li difende nei rapporti
col mondo esterno. È consuetudine che gli esponenti di uno
stesso lignaggio, i quali si riconoscono in un antenato comune,
siano legati tra loro da vincoli di
solidarietà. Se il mondo è un reticolo di pericoli, di angoli acuti, di
spine e trabocchetti, l’unico posto in cui forse trovare pace è in
mezzo all’erba, tra gli alberi. Così
i Woodabe descrivono lo stare in
[ 60 ]
mezzo a loro, genti distratte nei
confronti della religione e poco
inclini ad assecondare interessi
politici di qualunque colore. Lo
straniero è al sicuro presso i loro
campi come in un pascolo, nella
brousse. Si vive nell’erba, sull’erba, dell’erba. Grazie ad essa, infatti, gli zebù producono il latte,
kossa, base dell’alimentazione.
Bianchissimi: gli uomini sfregano
i denti con pezzetti minuti di corteccia e risciacquano. Inizia così,
nel primo pomeriggio, la preparazione al trucco. I denti abbagliano e la regolarità delle arcate
offre una superficie su cui la luce
si infrange e rimbalza. I Woodabe
vivono nel culto della bellezza. Si
dice addirittura che allevino zebù,
nagghe, perché grazie alle loro
corna imponenti sono più eleganti di altri bovini. Sono gli uomini i
veri interpreti di questo culto che
si esprime in massimo grado durante le feste dell’autunno. Nei
giorni in cui il clan si coagula e
condivide il pascolo con altri clan,
svolte le mansioni necessarie per
la cura degli animali, gli uomini
dedicano tutto il tempo a truccarsi e danzare. Li osservo per ore
mentre muniti dei loro inseparabili
specchietti, darògal, lentamente
si preparano. La fronte è rasata
fin quasi a metà cranio e i capelli
corvini separati in trecce. Le disfano. Spalmano i capelli con
crema di legno di sandalo e olio
d’oliva per nutrirli e renderli lucidi
e nuovamente intrecciarli. La pelle
del viso viene ricoperta con cura
certosina di ocra rossa o gialla a
seconda degli accordi presi tra gli
uomini e il tipo di danza. L’ocra,
[ 61 ]
nakkara, polverizzata normalmente con una lametta sulla suola di una ciabatta, è spalmata con
cura sul volto con un dito e fissata con del nébban, una specie di
burro. Con l’aiuto di un bastoncino di paglia rivestito in punta di
un batuffolo di cotone si procede
poi a tracciare minuziosamente il
disegno sul volto: da ciuffi di lana
colorata ciascuno spezza con i
denti un microscopico frammento
di filo e poi lo appiccica sulla pelle
del viso creando disegni di puntini
colorati. Altri tempestano il volto
con cerchietti bianchi o brevi linee di latte cagliato disegnati con
estrema accuratezza perché il se-
[ 62 ]
gno sia quanto più preciso possibile. Infine tocca valorizzare gli
occhi col nero di antimonio e le
labbra che parimenti si tingono di
nero utilizzando carbone di legna
o più spesso polvere, nociva, di
vecchie pile. Dopo ogni mossa,
spostando leggermente il viso da
un lato e dall’altro ciascuno controlla l’insieme nello specchietto
perché la simmetria sia rispettata
e il tratto nitido. Passano ore. Gesti e movenze femminili si sovrappongono a corpi scuri e virili. Sulle
braci dei fornetti la teiera borbotta tutto il tempo e ci si interrompe
solo per mescere e sorbire il thé.
Nere, sono tutte le vesti che indossano gli uomini nella danza.
Spiccano solo il trucco, le collane
e le spade ricoperte di perline che
alcuni portano a tracolla. I pastori, belli come dei, si dispongono fianco a fianco, spalla contro
spalla per le danze in linea, yaké.
Cantano una nenia in cui la voce
sale e scende all’interno dell’ottava rispettando intervalli simili.
Camminano a piccolissimi passi
in avanti e indietro. Uno di loro
con brevi cenni dirige l’avanza-
re o il retrocedere mantenendo
compatta la fila. La danza è elementare perché nello yaké conta
l’esibizione della bellezza di ciascuno: digrignano i denti, fanno
smorfie, emettono strani suoni
gutturali, fanno tremare le labbra,
strabuzzano gli occhi secondo
una sequenza precisa e sembrano uccelli impegnati in un corteggiamento. Al tramonto la luce
dorata insiste per dieci minuti sublimi sui loro gioielli, sulle pupille,
sulle dentature, sui volti allucinati
[ 63 ]
e surreali. Ad un gesto impreciso per me la linea si chiude in un
tondo. Nella danza in cerchio,
dossa, si valorizza il canto poiché
i danzatori stanno di schiena e la
loro bellezza s’intuisce da dietro.
È l’imbrunire: un larghissimo cerchio di una trentina di uomini gira
per via di microscopici passi che
lo fanno sembrare il meccanismo
di un ingranaggio gigante. Sono
tutti vestiti con lunghe camicie
nere che arrivano quasi ai piedi:
i loro bacini oscillano all’unisono
in su e in giù dentro le tuniche
mossi dalle ginocchia che impercettibilmente seguono i passi.
Le ossa lunghe sostengono cor-
[ 64 ]
pi esili; le vesti larghe seguono il
movimento, quelle strette in vita
si appoggiano sulle forme. Il ritmo del battito delle mani, a tempo singolo e doppio, delle voci,
dei piedi anima il cerchio in modo
crescente; i passi piccoli ma
energici spinti contro il terreno lo
fanno vibrare. La terra diffonde
l’energia dei muscoli. Danzano,
instancabili, cantano, senza pause. Mestre il cerchio gira lento
ma inesorabile si colgono metà
schiene e metà volti; la polvere
sale dal cerchio come fumo mentre ad ovest striature arancioni
liquefanno l’orizzonte. La danza
diventa polvere e questa, risalen-
do dai piedi, avvolge i danzatori
odorosi di burro e indugia su di
loro. Il tramonto infuocato, la terra che trema, il ritmo della danza.
In cielo appare uno spicchio di
luna allo zenit e sembra il perno
intono a cui il cerchio gira. Nel
buio della notte i canti continuano e rimbalzano nella brousse.
La dote. Alcune donne arrivate
col nuovo gruppo sono indaffarate nella costruzione della loro casa-cucina, un’impalcatura di pali
su cui esporranno la loro dote:
zucche svuotate e incise magistralmente, pentolame di smalto,
vassoi decorati con specchietti,
ceste ricamate con fettucce di
plastica bianca e qualche intarsio colorato. La dote e ciò che la
sorregge si dice worso ed intorno
ad essa gravita tutta la vita della
famiglia. Si girano al mio saluto
e accennano una risposta. Resto immobile vicino al cespuglio
basso vicino al quale mi pare di
poter restare senza dare troppo
[ 65 ]
[ 66 ]
disturbo. Una di
coperte, tessuti.
loro porta un paOsservo il corpo
Danzano,
reo nero stretto
instancabili, cantano, della prima, la pelin vita. Accenna
le dello stesso cosenza
pause.
a coprirsi portanlore del tabacco.
do il telo più in su
La schiena è attrama dopo qualche istante lo lascia versata da un cordino nero cui è
scendere. È magrissima. La vita appeso un talismano nascosto: È
è stretta come un tronco giova- come se quel filo nero fosse un
ne; la schiena e le braccia nel sottile nervo scoperto, un disemovimento rivelano fasci di mu- gno sulla pelle. Bevo l’acqua più
scoli. Sul cespuglio vicino a me è volte. Saprò solo il giorno dopo
poggiato un telo leggero, di quelli che si chiama Mariama. Mi allonche poi dovranno essere siste- tano per un po’ e quando torno
mati sulla struttura di legno. Ve- le donne sono intente alla mundendo che non mi muovo di lì, la gitura: gli schizzi finiscono dritti
donna si avvicina con una stuoia. e sottili come fili nella calebassa
La sistema alla base della pianta, allarga il tessuto che sta so- Riflessi di alluminio. La schiena
pra e mi fa cenno di sedermi. Mi nuda, arcuata e magra di una
sistemo all’ombra. Si allontana. giovane donna si veste di riflessi
Tra le vettovaglie sparse a terra, metallici mentr’ ella, accucciata
cerca e trova una piccola ciottola su un seggiolino di legno, mundi alluminio. La sciacqua, ci versa ge all’imbrunire. Il sole è sotto le
dell’acqua, vi posa sopra un co- nubi. Una luce grigio- argentea si
privivande di paglia e me la porge. spande sulle cucine poste a sePosso restare qui all’ombra a lun- micerchio su un terreno leggergo e dissetarmi. Una bimba con mente mosso e ricoperto d’erba
la zappa ripulisce un rettangolo di e bassi cespugli, in prossimità di
terreno su cui un’altra donna ini- uno stagno necessario all’abbezia a piantare pali percuotendoli verata. A quest’ora l’accampacol fondo dell’ultimo che pian- mento brulica di animali al ritorno
terà. Legni alti e bassi a forcella dal pascolo. Gli zebù raggrupne sorreggono altri trasversali e pati ovunque in piccole mandrie
lacci tengono uniti gli uni agli altri. stanno fermi davanti ai fuochi.
Su tutto stendono grosse stuoie, L’odore della legna arsa li tiene
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[ 68 ]
vicini, le fiamme li rassicurano. Ovunque le
donne, molte a seno nudo, procedono alla
mungitura e sono indaffarate a montare le
frasche per i letti e seguono le pentole sul
fuoco. Ovunque gli uomini stanno seduti a
terra sulle stuoie, intenti al trucco per le danze notturne. Il campo è vastissimo e in fermento: il fumo, l’odore delle braci, i bagliori
delle fiamme, i muggiti degli animali…sembra un’enorme fiera d’altri tempi. La polvere
ammorbidisce i contorni e su tutto oscillano
centinaia di corna austere e imponenti. Una
donna torna dalla mungitura con una calebassa piena di latte tra le mani. Ha un pareo
nero stretto in vita e un telo scuro gira distratto sul capo. Una collana composta da decine di gri-gri di cuoio nero e lucido, come la
sue pelle, gira intorno al suo collo, si stringe
in mezzo ai seni e si riapre sopra lo stomaco in un’ampia goccia. Si ferma davanti alla
sua dote e poggia il latte. Poi all’improvviso,
messa in allarme da una voce torna di corsa
verso gli armenti in un luogo che non so saltellando tra uno zebù e l’altro a piedi nudi e
la intravedo balza tra le corna come se fossero queste a passarsi il suo corpo leggero
e nero. Sembra una creatura senza peso: un
tratto di penna a forma di donna, di seni e di
talismani appare e scompare tra le alte corna. Si direbbe una scena in bianco e nero.
Elena Dak, veneziana, è scrittrice e viaggiatrice. Dal '97
lavora come guida per Kel12. Laureata in antropologia.
È tra le poche donne al mondo ad aver attraversato il
Tenerè al seguito di una carovana del sale. Ha scritto "La
carovana del sale" e Sana'a e la notte edito da Alpine
Studio. Il suo sito, elenadak.it.
[ 69 ]
ognuno
di noi E’ più
di uno
Testo e foto di
Bruno Tigano
gnuno di noi è più di uno, è molti, è una prolissità di se stesso. (“Il
libro dell’inquietudine” Fernando
Pessoa). Da questa frase e dalla
passione per il suo autore e i suoi
infiniti eteronimi nasce il mio personale viaggio a Lisbona. Il libro
dell’inquietudine, rispecchia quella
forza misteriosa che spinge ciascuno di noi a intraprendere un
viaggio. Quel desiderio mai domo di incamminarsi per terre lontane,
per sedare quella voce interiore che ci spinge a prendere uno zaino e
andare. Un viaggio in quella terra, patria del grande viaggiatore immobile, che con la sua capacità d’astrazione è stato in grado di conoscere il mondo senza mai muoversi dalla sua amata Lisbona. Un viaggio
attraverso i luoghi e le strade della capitale lusitana alla ricerca del
fantasma dell’autore ancora presente in ogni angolo della città.
[ 72 ]
Ho portato fino a queste lontane terre i sapori e gli odori di Lisbona
affinché tu, estraendo il sughero di questo contenitore privo di valore, ti
possa perdere nei sapori ed effluvi di Augusta e del suo immenso fiume
che abbraccia l’oceano. All’interno è contenuta la terra su cui i miei
piedi hanno camminato, l’acqua che ha lavato le mie membra stanche
e piccoli tesori che il mare mi ha donato e che adesso ripongo e affido
alle tue pregiate mani, unitamente a un messaggio del fantasma che io
stesso ho conosciuto: “ogni cosa che è stata nostra, anche se soltanto
per la casualità della convivenza o della vista, perché è stata nostra
diventa noi”. Lisbona é nelle tue mani mio venerato amico, attraverso
questa bottiglia potrai coglierne il sapore e l’odore e finalmente Lisbona diverrà tua per sempre.
Facciamo del nostro fallimento una vittoria.
Bruno Tigano vive in Umbria, ma è nato a Palmi (RC) nel 1979. Di mestiere fa l’avvocato.
Appassionato di viaggi, fotografia e letteratura. Ha viaggiato dal Sud America all’Australia,
dall’Egitto all’India. È convinto che il viaggio sia un antidoto contro i pregiudizi e le intolleranze.
Il viaggio aiuta le persone a sentirsi libere.
Quanto era umano il rumore metallico dei tram! Che allegro paesaggio la semplice pioggia sulla strada resuscitata dall’abbisso! Oh, Lisbona mio focolare!
[ 73 ]
[ 74 ]
[ 75 ]
Quando i bimbi giocano
e li odo giocare qualcosa
nella mia anima
comincia a rallegrarsi.
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[ 78 ]
[ 79 ]
Quanta inerzia e falsità, quanto abbandono vi siano in questa Rua dos
Douradores che per me è tutta la vita
la matita
di
stalin
Testo e foto di
Fabio Belafatti
e si dovessero elencare i singoli
oggetti che più hanno danneggiato l’umanità, tra questi ce ne sarebbe sicuramente uno all’apparenza inoffensivo: una matita. La
matita di Stalin. Questa è la storia
di una regione messa in ginocchio
da quella matita: la valle di Farg’ona. Il cuore dell’Asia Centrale si
chiama Farg’ona. È la zona più
fertile di un’area altrimenti arida. Per secoli è stata granaio d’imperi,
regni, khanati, per poi diventare, sotto i bolscevichi, granaio dell’Asia
Centrale Sovietica. Un granaio nei cui confini Stalin e i suoi compari
dell’Ufficio Nazionalità dell’URSS misero una trappola. L’immensa valle
di Farg’ona non aveva mai conosciuto confini moderni. Stalin e i suoi
presero una matita, e costruirono muri di grafite dove non ce n’erano.
Divisero la valle tra le Repubbliche Socialiste Sovietiche di Uzbekistan,
Tagikistan e Kirghizistan. In un gioco d’incastri, definizioni, limiti, Stalin
e la sua matita spaccarono il Farg’ona mettendo un confine o un’alta
catena montuosa a separare le capitali delle repubbliche dal loro polmone economico.
[ 82 ]
Sparpagliarono poi i popoli a cavallo dei confini, cosicché una manciata di kirghisi finisse in Uzbekistan, un po’ di uzbeki in Tagikistan
e molti uzbeki in Kirghizistan.
Finché c’era l’URSS, nessun
problema: i confini erano solo tratti di matita, il paese unito, i popoli
legati dalla “solidarietà internazionale”. Quando vent’anni fa tutto cadde a pezzi, però, scattò la
trappola: i confini divennero muri
di filo spinato e le catene montuose non potevano più essere aggirate passando dalle repubbliche
vicine. Il Farg’ona ne uscì malconcio, isolato, catapultato in una decadenza economica mai vista.
Parto da Dushanbe, la capitale tagika, un sabato di giugno. La mia
destinazione è Khujand, la capitale economica del paese, nella valle di Farg’ona. La matita di Stalin
[ 83 ]
[ 84 ]
aveva decapitato il Tagikistan in modo
che il suo cuore politico e quello economico fossero separati da due immani
catene montuose alte anche cinquemila
metri, con passi oltre i tremilacinquecento, perennemente chiusi in inverno ed insidiosissimi d’estate: una follia di cui sperimenterò presto i risultati.
Alla partenza, un imam benedice la nostra jeep. La cosa mi inquieta, ma i miei
compagni di viaggio sembrano tranquilli.
Con me viaggiano un ragazzetto appollaiato dietro tra enormi pacchi di giornali ingialliti, un professore dell’università di Khujand
e alcuni personaggi poco loquaci che vogliono solo andarsene a casa. La strada, in
rifacimento grazie a massicci investimenti
cinesi, serpeggia tra rocce a strapiombo e
montagne spettacolari per decine di chilometri. Qua e là, villaggi di una povertà
sconvolgente, dove i soli segni di modernità sono i cartelli di propaganda.
Viaggiamo a lungo prima di raggiungere
il tratto di strada non ancora risistemato.
La strada s’impenna, l’asfalto scompare e
l’autista deve guidare sul bordo estremo
della carreggiata per evitare i massi da sopra. Centinaia di metri sotto di noi, carcasse d’auto e camion giustificano all’istante le
benedizioni dell’imam. Il professore mi vede
pallidino e mi domanda sghignazzando se
ho paura, salvo poi smettere di sfottere più
[ 85 ]
[ 86 ]
ci avviciniamo al pasforse falsi. La gente
so. Alcuni viaggiatori
Khujand è la città passeggia sotto viali
mormorano preghiealberati e sogna una
più nostalgica
re. L’auto viaggia
prosperità perduta, o
dell’Asia
Centrale
così all’esterno che
una che non arriverà
a guardar fuori semforse mai.
bra siamo sospesi nel nulla. Inizio
Resto a Khujand qualche giora pregare anch’io, riscoprendo una no, alloggiato in un albergo mezzo
religiosità che credevo perduta. Le abbandonato dalla facciata rivesticarcasse delle auto si fanno sem- ta di quei pannelli di plastica dorata
pre più piccole a fondovalle. Ci che in Asia Centrale piacciono tanmettiamo un tempo interminabile to. A gestire il posto è la donna più
a valicare il passo e quando ci riu- grassa che si possa immaginare. Il
sciamo, iniziando la discesa verso ristorante serve solo pessime salKhujand, è come se tirassimo il fia- sicce fritte nel grasso, il che spiega
to tutti insieme.
l’impressionante tonnellaggio della
padrona. I cessi cadono a pezzi,
Khujand è la città più nostalgica manca acqua calda e i letti sono
dell’Asia Centrale: molti la chiama- tavoli coperti di lenzuola polverono ancora “Leninobod”, col nome se, probabilmente ricchissime di
dato dai bolscevichi a questo anti- forme di vita. Tutto emana un’aria
chissimo pezzo di civiltà. Appolla- di decadenza, di torpore povero e
iata sul Sir Darya, sfoggia ancora sudicio. Da fuori arrivano la musiun mastodontico Lenin d’alluminio ca di una festa di matrimonio e lo
e innumerevoli mosaici sovietici. schiamazzare di una folla di invitati.
Isolata dal sud del paese, Khujand
vive di vita propria: controlla gran La mattina della partenza trovo un
parte dell’economia tagika e cam- taxi collettivo che mi porti al conpa ancora d’inerzia dell’agricoltura fine con l’Uzbekistan. Viaggiamo
un tempo prospera del Farg’ona tra rigogliose coltivazioni, con sulla
sovietico. Pian piano, però, i tempi sinistra l’enorme lago turchese del
cambiano: la statua di Lenin è de- Kayrakkum e, sulla destra, brandelli
stinata alla demolizione, Viale Lenin del confine kirghiso, nient’altro che
è un succedersi di negozi di tec- un fosso. Al di là ci sono piccoli casinologia scadente, paccottiglia ci- nò dove qualche tagiko va a bruciarsi
nese e vestiti sportivi forse originali, i risparmi, dato che qui il gioco d’az-
[ 87 ]
zardo è vietato. La mia destinazione
è un valico di frontiera perso nella
pianura, sulla strada per Qo’qon,
centro spirituale della regione. La
valle di Farg’ona è importante per
l’Islam centroasiatico:
molti giovani locali
La matita di
si rifugiano in forme
Stalin scardinò
più o meno estreme
di religione per trodalle fondamenta
vare
consolazione
l’economia locale.
dalla mancanza di
opportunità economiche. La matita di Stalin scardinò
dalle fondamenta l’economia locale, quando i confini divennero reali.
Il risultato sono tensioni che bollono
sotto la superficie della società, rabbia repressa, paura e, come presto
apprendo, paranoia.
Ai doganieri tagiki sto simpatico
perché parlo la loro lingua, ho passato vari mesi nel loro bellissimo
paese e conosco un paio di funzionari ministeriali importanti. Mi
salutano tra sorrisi ed inviti a tor[ 88 ]
nare. Dall’altra parte del confine
però sono solo: in Uzbekistan non
ho agganci ufficiali, non parlo la
lingua e, soprattutto, vengo dal Tagikistan, un paese temuto, un nemico non dichiarato: la parte est è
terra di militanti islamisti e ai servizi
di sicurezza uzbeki la cosa piace
pochissimo. Ai doganieri, ancora
meno. Quando mi perquisiscono il
bagaglio e trovano libri stampati in
alfabeto arabo, chiamano i superiori. Viene tutto requisito e mi ordinano di sedermi in disparte. Aspetto per un’ora stravaccato all’ombra
di un gelso. Un soldato mi guarda
con aria strafottente, appoggiato
al suo AK-47. Ha l’aria di chi la sa
lunga. Sorrido e mi risponde con
un cenno della testa, un po’ di sfida. Suscita un’antipatia istantanea.
Passa un’altra ora. Il caldo induce al torpore e favorisce l’attesa,
ma dopo un po’ mi annoio. Entro
nell’ufficio delle guardie per capire
cosa succede. Salta fuori l’impensabile: il mio libro in “arabo”, che in
realtà è una grammatica di persiano, è stato scambiato per un testo
di propaganda islamista. Scoppierei a ridere se non fossi circondato
da militari paranoici. L’attesa si prospetta lunga: in questa regione c’è
chi s’è fatto ammazzare per la religione. Non posso cavarmela con
sorrisi, mazzette e strette di mano.
Dopo un po’ arriva da Qo’qon un
anziano linguista: deve appurare
che il libro sia effettivamente una
grammatica persiana e non il manuale del giovane jihadista. Mi infligge un esame improvvisato di
persiano in uno stanzino sudicio,
fetido di sudore. Suggerirei di met-
terci all’aperto sotto il gelso ma non
mi sembra il caso. Seduto sulle
brande scassate delle guardie, gli
leggo il testo per dimostrargli che è
innocuo. Non basta: il linguista se
ne va, passano altre ore e arriva un
funzionario di qualche servizio di sicurezza. Inizia a farmi domande e a
prendere minuziosamente nota su
cos’ho fatto in Tagikistan, chi ho incontrato, dove sono stato, perché,
e poi ancora, hai mai avuto contatti
con i terroristi (!), sei mai stato nelle
zone sotto il controllo degli islamisti, nella valle di Rasht o al confine
con l’Afghanistan? Il tizio ha l’aria
simpatica e biascica battutine in inglese, ma mi sta pur sempre schedando, e la cosa non fa ridere.
E così io, aspirante terrorista, trafficherei testi proibiti attraverso una
frontiera ufficiale, quando potrei
trafugare in Uzbekistan un’intera
biblioteca islamista dalle migliaia
di chilometri sguarniti di confine.
Dopo sette ore, innumerevoli domande e raffiche di telefonate a
chissà quale ufficio in chissà quale
ministero, mi lasciano finalmente
passare. Forse a convincerli è stato il santino che ho mostrato per
fingermi cattolico. Devo ricordare
di ringraziare mia nonna per questo. Ad ogni modo, ho l’obbligo di
starmene a Farg’ona, capoluogo
dell’omonima regione, e visitare le
città vicine solo per brevi puntate
quotidiane. Incredibilmente, nessuno mi ha perquisito la seconda
borsa. Peccato, ci avrebbero trovato opuscoli di propaganda antiuzbeka scritti da politici tagiki, e lì sì
che sarebbe stato divertente. Sarà
per la prossima volta, ora me ne
vado. Sono le sette di sera, un tizio
mi offre un passaggio e mi verrebbe voglia d’abbracciarlo. Due ore
dopo sono a Qo’qon.
Qo’qon è una città-cantiere: per
comprare la lealtà della popolazione, il governo ne sta costruendo
interi quartieri. L’aria è resa quasi
irrespirabile dalla polvere e dal caldo, fatico a godermi le moschee e
i grandi palazzi dei khan e cerco
rifugio altrove. Scopro un museo
dimenticato, dedicato al primo
drammaturgo comunista uzbeko.
Trasuda decomposizione: fuori,
fontane e decorazioni sovietiche
perdono pezzi. Dentro, macchie
di umidità rovinano i manoscritti.
Le custodi sembrano ignorare lo
stato d’abbandono dell’edificio.
Deluso, forse rattristato, mi addentro nella città vecchia.
Un’atmosfera di pace rimpiazza progressivamente l’aria di decadenza. Le vie sono strette, sterrate o mal asfaltate. In un cortile,
[ 89 ]
[ 90 ]
degli uomini chiacchierano bevendo tè. Il guardiano della vicina moschea mi invita a visitare il cimitero
dei khan. Appena scopre che sono
italiano, va in estasi. Mi spiega, mescolando con disinvoltura russo, tagiko e uzbeko, che adora l’Italia di
Bearzot, Rossi e Tardelli e si mette
persino a mimare tra le tombe (con
tanto di urla di giubilo) i leggendari
goal che consegnarono all’Italia il
mondiale dell’82. Sono senza parole. Attorno a noi, i visitatori del cimitero osservano perplessi. Quando si
mette a spiegarmi la genialità delle
formazioni di Arrigo Sacchi usando
una decorazione geometrica della
moschea a mo’ di lavagna, scoppiamo a ridere insieme.
Nel cuore dei vecchi quartieri, la
polvere se ne resta fuori. Altre moschee, altre case da tè. In una, poverissima e spoglia, una decina di
anziani si rilassano e mi invitano a
mangiare qualcosa. Hanno solo
pane, pomodori e cipolle, ma il sapore degli ortaggi è celestiale. Resto
lì un paio d’ore a godermi l’ospitalità
e la frescura in perfetta pace, meditando su quanto sarebbe splendida
questa regione se non fosse povera, isolata, trascurata.
Il giorno dopo raggiungo Farg’ona,
capoluogo della valle. È definita “la
città più russa dell’Uzbekistan”, ma
la popolazione è soprattutto uzbeka. I russi se ne andarono vent’anni fa, cacciati dalla decadenza
della regione e, a volte, dall’ostilità dei locali. L’improvvisa povertà
che colpì Farg’ona compattò le
etnie l’una contro l’altra per un tozzo di pane. Una guerra tra poveri.
Più ad est, nelle città kirghise del
Farg’ona, questa guerra ha mietuto centinaia di vittime. Qui si vede
però una città in lento risveglio, gioiosamente rilassata in un giorno di
festa. Famigliole affollano un parco
con giostre e banchetti di zucchero filato, mentre decine di poliziotti
sorvegliano tutti. Forse le forze di
sicurezza vedono islamisti barbuti
nascosti anche dietro ai bambini
coi loro gelati.
A Farg’ona rincontro un amico
conosciuto mesi prima a Tashkent.
Gli chiedo come va il suo buon lavoro al Turkuaz, il più prestigioso
centro commerciale della capitale.
Brutta gaffe: il lavoro non c’è più.
Qualche mese prima, l’affarista turco proprietario del Turkuaz deve
avere fatto imbestialire il presidente
Islam Karimov: immediatamente,
furgoni pieni di poliziotti delle forze
speciali sono piombati sul centro
comerciale, hanno cacciato via i
clienti, sequestrato tutto e informato i commessi che era tempo
di aggiornare il curriculum. Tutti a
[ 91 ]
[ 92 ]
casa. Il concetto
di uzbeki furono
di “precarietà del
assassinati per
Andijon è una città
lavoro” mi si prestrada da bandi spettri.
senta in una luce
de di criminali
tutta nuova.
kirghisi inferociti
Qualche giorno dopo sono ad contro un nuovo governo. Quello
Andijon, vera meta del mio viag- di Andijon, Osh e Jalalabad è un
gio. La città più orientale dell’Uz- triangolo di memorie lugubri, è il
bekistan, la più famosa, la più cuore del problema, il frutto marintegralista, quella messa in gi- cio di questi confini.
nocchio più di tutte dal declino
della valle. Andijon è una città di Non potevo perdermi Anijon, sospettri. Sono quelli delle vittime prattutto dopo che i miei amici
del massacro che avvenne anni doganieri-filologi me l’avevano
fa a seguito di una manifestazione semi-vietata. Ci trovo delle grosse
popolare. Gli eventi sono sigillati sorprese: mi aspettavo un luogo
nella censura più ermetica; si sa cupo, decadente. Scendo dal bus
solo che il 13 maggio 2005 le for- e sono catapultato in un’altra cittàze di sicurezza aprirono il fuoco cantiere. Qo’qon impallidisce: qui
su una manifestazione indetta per il governo sta costruendo trecenchiedere la liberazione di alcuni tocinquantamila metri quadrati di
imprenditori locali molto religiosi. nuovi edifici. Le vie che portano a
Morirono centinaia o forse addirit- piazza Babur, luogo del massacro,
tura migliaia di persone. Altre mi- sono state allargate, sicuramente
gliaia fuggirono in preda al terrore. per render più agevole il percorso
A milioni in ogni angolo del paese ai soldati in caso di sommossa.
capirono la lezione e, da allora,
tutto tace. Dei tanti che fuggiro- Ora sono lunghe strade a sei corno, molti andarono nel vicinissimo sie, troppo grandi per il numero di
Kirghizistan, ad Osh e Jalalabad, macchine che vi circola. Ovunque,
città etnicamente uzbeke separa- nuovi edifici: casette a tre piani,
te dalle loro sorelle dalla matita di un ibrido di edilizia popolare e Far
Stalin. Città di spettri anche quel- West, spesso foderate di pannelli
le: già negli anni novanta vi scop- verniciati. È come un film con John
piarono massacri etnici, e poi an- Wayne, ma di plastica. Il governo
cora nel 2010, quando centinaia spera di comprare la fiducia della
[ 93 ]
gente con qualche decina di negozi e ristoranti e un posto di lavoro
temporaneo nell’edilizia.
Le vie brulicano di giovani e di
operai edili, tutti indaffarati. Mi chiedo quante delle persone che incrocio abbiano avuto parenti ammazzati nel massacro e quanti dei loro
cari siano sepolti nelle fosse comuni
sulle colline brulle che s’intravedono dietro a questo set di plastica.
Quanti perdoneranno il governo in
cambio di un po’ di prosperità?
[ 94 ]
La città vecchia è più simile all’Andijon
vista nelle foto filtrate dopo il massacro. Un aggrovigliarsi di vie polverose
dove piccoli spiazzi si aprono qua e
là a mostrare una vecchia moschea,
una madrasa, una sala da tè. L’atmosfera è placida, la gente amichevole e cordiale. I bambini e gli anziani
vogliono farsi fotografare, si mettono in posa come fosse la cosa più
importante del mondo, senza sorridere, come facevano i nostri nonni.
Per un attimo mi sembra di essere
in un posto normale. Passo oltre un
vivace bazar, il consueto ammasso
di venditori di angurie, spezie e cellulari cinesi, e all’improvviso mi trovo
su piazza Babur. Non me lo aspetta-
vo ed è impressionate. Una distesa
lastricata completamente deserta,
nel cuore della città. Sembra che la
gente la eviti di proposito, ma forse è solo suggestione. Scatto delle
foto, quasi di nascosto, e mi defilo. Mi resta un senso di ansia addosso mentre rientro a Farg’ona su
una marshrutka scalcagnata come i
suoi passeggeri.
Andarsene dal Farg’ona richiede
qualche ora di macchina lungo
una strada di montagna appena costruita coi soldi dei cinesi.
A Pechino fa comodo per poter meglio trasportare prodotti in
Uzbekistan mentre per gli uzbeki
è un’efficiente soluzione al problema dell’isolamento dell’area.
Prima la strada era pietosa e i
collegamenti difficili. Anche questo era un risultato della matita di
Stalin che si prese cura di separare Tashkent dal Farg’ona con un
paio di bei confini ed una catena
montuosa in mezzo al percorso.
Ora i soldi cinesi scavalcano gli
ostacoli. Che sia questo in fondo
il destino del Farg’ona, cancellare
i confini tracciati da un totalitarismo con i soldi di un altro?
Fabio Belafatti, 26 anni, è un esperto di Asia Centrale. Specializzatosi all’Università di Londra in politica del Medio Oriente e Asia Centrale, collabora con vari siti internet di informazione italiani dove pubblica articoli e approfondimenti sulla politica della "Via della Seta".
[ 95 ]
città
visibili
Non è semplicemente un libro senza eguali – è un’ossessione.
Da Le città invisibili di Italo Calvino viaggiatori e sedentari possono trarre,
e di fatto traggono, ispirazione continua. Come nel bellissimo articolo
Aleppo città invisibile di Amal Hanano (“Internazionale” n. 980, 21/27 Dicembre 2012), che ci spiega come la guerra possa rendere invisibile una
città, la frantuma in pezzetti che occupano sì più spazio nelle strade ma
i nostri occhi non possono più riconoscerla, ci siamo dentro e non la vediamo, come a Bauci.
In occasione dei quarant’anni dalla pubblicazione di Le città invisibili l’
“Associazione Culturale 47 rosso” ha presentato a novembre 2012 nel
complesso delle Ex-Murate di Firenze la mostra “Le visibili città invisibili.
Un omaggio a Italo Calvino”, un tributo artistico a Calvino articolato in
più direzioni, comprendente trenta illustrazioni originali, venticinque brani
musicali inediti e una dozzina di installazioni che, visivamente o musicalmente, hanno rappresentano ciascuna delle cinquantacinque città.
Le opere presentate raffigurano e interpretano in maniera personale ed
originale le città, in uno sforzo di trasferire in immagine, in suono, in una
forma, qualcosa di cui non abbiamo esperienza tangibile.
[ 96 ]
Testo di
Valentina Cabiale
Le illustrazioni, realizzate da Sara Vettori e Gabriele Genini, sono state eseguite con tecniche incisorie calcografiche e xilografiche, a tiratura
limitata e numerata. Ne vengono qui presentate quattro, corredate da
un estratto del testo. La mostra sarà replicata a maggio 2013 a Sesto
Fiorentino (La soffitta - Spazio delle Arti, Piazza Rapisardi 6 Colonnata).
[ 97 ]
* ZAIRA //
Sara Vettori
(linoleografia 300 x 200 mm)
… la città non dice il suo passato,
lo contiene come le linee d’una mano,
scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie
delle finestre, negli scorrimano delle
scale, nelle antenne dei parafulmini,
nelle aste delle bandiere,
ogni segmento rigato a sua volta
di graffi, seghettature, intagli, svirgole.
[ 98 ]
[ 99 ]
* BAUCI //
Gabriele Genini
(linoleografia 300 x 200 mm)
Dopo aver marciato sette giorni
attraverso boscaglie, che va a Bauci
non riesce a vederla ed è arrivato.
I sottili trampoli che s’alzano dal suolo
a gran distanza l’uno dall’altro
e si perdono sopra le nubi
sostengono la città.
[ 100 ]
[ 101 ]
* ARMILLA //
Sara Vettori
(linoleografia 300 x 200 mm)
Fatto sta che non ha muri, né soffitti,
né pavimenti: non ha nulla che la faccia
sembrare una città, eccetto le tubature
dell’acqua, che salgono verticali
dove dovrebbero esserci le case
e si diramano dove dovrebbero esserci i piani:
una foresta di tubi che finiscono in rubinetti,
docce, sifoni, troppopieni.
[ 102 ]
[ 103 ]
* EUTROPIA //
Sara Vettori
(linoleografia 300 x 200 mm)
Entrato nel territorio che ha Eutropia
per capitale, il viaggiatore vede non una città
ma molte, di eguale grandezza
e non dissimili tra loro, sparse per un vasto
e ondulato altopiano.
Eutropia non è una ma tutte queste città
insieme; una sola è abitata, le altre vuote;
e questo si fa a turno. Vi dirò ora come.
[ 104 ]
[ 105 ]
una fot [o] una storia
[ 106 ]
una fot [o] una storia
l’uomo che voleva
la luna
Testo di Andrea Semplici
su una foto di Mario Dondero
[ 108 ]
L’ultimo atto della festa. Il momento del coraggio dopo i giorni della
baldoria e della fatica. Leonardo,
massaro e uomo dei boschi, afferra, a mani nude, il tronco privo di
corteccia dell’albero e sale. Sale
verso la luna che è apparsa nel
cielo di Accettura, là nelle Dolomiti
della Lucania. La luna guida l’uomo nella sua scalata. L’albero, alto
quaranta metri, è figlio di un matrimonio: un grande cerro, il Maggio,
della foresta di Montepiano, che,
nel giorno della Pentecoste, è andato sposo alla Cima, un dolce
agrifoglio dei boschi di GallipoliCognato. Leonardo raggiungerà le
fronde della Cima, sfiorerà la luna
e, orgoglioso, si alzerà in piedi sul
ramo più alto. Lassù gli arriveranno gli applausi e gli evviva della
folla del paese.
Il Maggio di Accettura è uno straordinario rito arboreo che si svolge nei
boschi delle Dolomiti Lucane. Il matrimonio degli alberi viene celebrato,
con cerimonie infinite, nei giorni attorno alla Pentecoste. Quest’anno
sarà fra il 18 e il 21 di maggio.
La foto della pagina precedente è stata
scattata nel 1993 da Mario Dondero, uno
dei grandi fotografi del ‘900 italiano. Origini genovesi, nato nel 1928 a Milano, protagonista della leggendaria stagione del
‘bar Jamaica’, centro del mondo artistico
italiano negli anni ’50. Ha lavorato per l’Unità e per Epoca, per Le Monde e per l’Espresso. A 85 anni (li compirà il 6 maggio)
continua a viaggiare, con le sue vecchie
Nikon e Leica analogiche, e a raccontare
per immagini l’Italia e il mondo. La foto di
Leonardo è un suo dono per Erodoto108.
Leonardo Cafarella non scala più il Maggio,
ma ancor oggi è fra i grandi protagonisti
della festa di Accettura.
le acciaierie
di taranto
Testo di Carlo Gubitosa
Illustrazione di Sergio Leone
[ 110 ]
Tra le tante memorie della mia infanzia, ricordo quel cielo rosso e terribile. “Stanno lavorando all’Italsider”,
mi spiegavano, e io da bambino mi
chiedevo quale fosse il potere in
grado di far cambiare colore al cielo. Oggi qualcuno sta cercando di
far cambiare di nuovo colore a quel
cielo, riportandolo al suo stato naturale, ma stavolta non è piu’ il potere
dell’industria, ma quello dei cittadini
ad essere entrato in azione. “Qui ci
sono livelli di corruzione superiore
a quelli di Tangentopoli” mi dicono i miei amici ambientalisti che mi
fanno notare come le vicende giudiziarie nate attorno all’inquinamento
dell’Ilva ormai non riguardano piu’ il
solo livello manageriale, ma anche il
livello politico e perfino la chiesa locale. Ma Tangentopoli è scoppiata
nel cuore della “Milano da bere”, e
la nostra “Ambientopoli” si è svolta per decenni nell’ombra, dietro le
quinte, quasi che Taranto fosse in
un altro paese. E quei ventimila che
hanno marciato lo scorso dicembre
nel silenzio dei media hanno voluto ricordare soprattutto questo:
anche noi tarantini siamo italiani.
Carlo Gubitosa, ‘Ingegnere delle telecomunicazioni, giornalista freelance e saggista, nel
2003 è caposervizio della sede milanese dell’agenzia ‘Redattore Sociale’. È direttore di
“Mamma!” (www.mamma.am) la prima rivista italiana di giornalismo a fumetti.
Sergio Leone è nato nel 1979 a Caltagirone e si laurea in architettura a Firenze. Ad oggi
è assistente alla didattica presso la Facoltà di Architettura di Firenze. Nel 2012 espone la
sua prima personale di fumetti e illustrazioni al Glue Alternative Concept Space di Firenze.
Rimettiamo a posto la cultura.
IdeaMuseo si occupa della ricerca, la progettazione e la realizzazione delle migliori soluzioni
per il vostro spazio espositivo. Aiutiamo i musei a livello locale e nazionale a realizzare nuove
idee e progetti che possano incrementare le visite ed a sostenere le proprie iniziative.
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