Zaccaria Enrico
Verucchia e il suo santuario
Modena, 1924
Al Molto Reverendo D. Bartolomeo Monzali Rettore di Verucchia
Nel 1888 a Verucchia voi per la prima volta celebravate fra immenso concorso di popolo esultante di doppia letizia, per
la Messa nuova e per la venticinquennale festività della Vergine fatta più solenne da un pellegrinaggio promosso da
quell’ardente cattolico che fu Pasquale Bononcini di Ranocchio; e a quelle feste e a quella letizia io pure partecipava.
Chi avrebbe detto che 33 anni dopo, voi, divenuto curato del luogo, m’avreste richiesto di stendere un cenno storico sulla Verucchia, un po’ più ampio e comprensivo di quello ormai esaurito pubblicato allora dal Bononcini che a voi lo dedicava? A una tale richiesta da voi fattami io per molti capi non poteva mettermi a stare sul niego; ed eccovi, qualunque
esso sia, il lavoruccio che n’è uscito1.
Montese, settembre 1922
Aff.mo D. E. Zaccaria
Capo I. Dell’origine del nome
Verucchia non è nome esclusivamente proprio d’un paesetto della montagna modenese: lo portano,
per quanto modificato da qualche variazione di forma, parecchi altri luoghi in Italia. In Romagna
presso Rimini c’è Verucchio reso immortale da un verso di Dante2; in Garfagnana abbiamo le Verrucole, rinomate anch’esse per vicende storiche di qualche importanza, e in altri punti di Toscana
non meno di tre altri luoghi chiamansi Verruca o Verrucole; finalmente in Piemonte, nei distretti di
Aosta Torino e Voghera, tre luoghi or detti Verrua, in passato chiamavansi essi pure Verruca. Ora
questo fatto della molteplicità dei luoghi ugualmente denominati riconduce necessariamente, come
sempre, a porre a base del nome topografico, un nome comune significativo di cosa, particolarità o
conformazione che caratterizzava quei luoghi e che contribuì pure a far applicare il nome comune
ad esse terre.
Quale fu dunque il nome comune nel caso presente? Verrucula diminutivo di Verruca; e qui noi
siamo risospinti ben indietro nei secoli, nel campo della filologia latina; siamo riportati nientemento
che all’età di Catone Maggiore vivente or fa più di 2000 anni.
Intanto premettiamo che il Repetti alla voce Verruca scrive: “Ben quattro cime di poggi in Toscana
conservano il nome di Verruca termine topografico per denotare un promontorio montuoso con figura conica. Le Verruche furon qualificate così da un termine usato già da Catone, Gellio e Cassiodoro. Le Verruche toscane sono: Verruca di Massa, di Monte Pisano, le Verrucole di Bosi di Fivizzano, le Verrucole di Garfagnana”.
Dunque secondo il Repetti i detti luoghi avrebbero tratto il loro nome dall’essere prominenze coniche; e sarebbe ad esse stato applicato il vocabolo verruca, porro, per una cotale somiglianza. Ma il
Repetti non può aver ragione in tutto; non può aver ragione quando afferma che i luoghi detti verruche dovessero essere di forma conica. E’ per altro indubitato che verruca come termine comune topografico è antichissimo.
Catone ha la frase verrucam montis che pare significhi l’altura o cima del monte; e quel che è più
singolare, Arnobio nel terzo secolo dell’era nostra ha verrucula unius collis “la cima di un colle”
con un diminutivo che dovea durare e riprodursi anche nel caso nostro.
1
La sopraggiunta morte del D. Monzali impedì per allora la pubblicazione, che si fa ora (1924) sotto gli auspici dei M.
R. sig. priore di Zocca Bruni D. Paolo, e del sig. Pagliani D. Carlo rettore di Verucchia. Tuttavia ci pare conveniente
lasciare la presente dedica al povero D. Monzali.
2
Inferno XXVII 46 “E il Mastin vecchio e il nuovo da Verrucchio”.
1
Dunque insin dai tempi antichi gl’Italici usavano verruca, verrucula in senso di “rilievo, sporgenza
d’un colle, d’un poggio”.
Ora poiché verruca in senso proprio significava “escrezione cutanea rugosa alla superficie e larga
alla base” (nel qual senso in italiano è usata dal Crescenzio che ha la frase “eradica le verruche”), ne
segue che il nome usato in senso topografico sin dal tempo di Catone, era una metafora. Ma era una
metafora di cattivo gusto e di cattivo genere anche in latino, tantoché Quintiliano la condanna esplicitamente scrivendo ferrea est verruca pro summo montis vertice, ferrea la metafora che usa verruca
per indicare la cima del monte. Ma nonostante la condanna di Quintiliano, la cattiva metafora non
fu abbandonata; e la verruca come termine topografico continuò; tant’è vero che Gellio e Nonio,
Arnobio e Cassiodoro d’assai posteriori a Quintiliano l’adoperano; il che lascia supporre una larga e
profonda penetrazione della cattiva metafora nell’uso popolare. E questa larga e profonda penetrazione del termine metaforico fra il popolo e la sua persistenza anche dopoché il latino si fu trasformato in italiano, è provata, oltreché dall’applicazione di esso termine a molti luoghi massime in Toscana, dall’esser esso durato a lungo, almeno in quest’ultimo paese, anche come nome comune. Ne
sono argomento parecchi passi del Targioni-Tozzetti scrivente sullo scorcio del secolo XVIII. Egli
scrive (Viaggi, 1. 149): “La verruca è un poggetto scosceso o prominenza scoscesa in un monte”, e
altrove (1. 17) “castello posto su di un alto scosceso poggetto o verruca”, e anche (1. 188) “una costa di dirupo dal poggio della quale si stacca una verruca di figura conica”, e infine (1. 378) “verruca o vedetta o punta di monte che sporta in fuori dal resto della giogaia”.
Tutte queste definizioni del Targioni ci lascian capire che se da una parte verruca come termine
comune al tempo dell’autore non era peranco scomparso del tutto, dall’altra il significato del termine oscillava ancora qualche poco con una certa indeterminatezza e imprecisione.
Era questo un effetto e una conseguenza naturale della poca giustezza con cui dapprincipio l’antico
termine latino fu applicato a denotare certe speciali configurazioni montuose; applicazione condannata da Quintiliano come metafora cattiva.
Difatti se verruca nella sua accezione originale, valeva “porro ossia escrescenza carnosa” e se il
porro è piuttosto tondeggiante e sferico, ne segue che, anche volendo applicare il termine a designare certe forme e figure di monte, non si sarebbe dovuto applicarlo che alle prominenze tondeggianti,
non mai a quelle a forma di cono. In quella vece solo a quest’ultime secondo il Repetti e anche a
queste secondo il Targioni il nome fu applicato.
Né c’è da stupirsene: dacché s’era commesso un primo errore iniziale di fare una cattiva metafora
applicando ai monti un termine designante un’escrescenza carnosa, era facile commetterne un secondo riferendo questo nome anche a cime coniche anziché a soli vertici fatti a cocuzzolo. Però è
evidente che nel caso di Verucchia l’applicazione fu assai giusta, giacché il monte di Verucchia è
più o meno tondeggiante, e niente affatto terminante in punta conica.
Ad ogni modo l’uso antichissimo di verruca come termine topografico, la svariata e molteplice applicazione di esso a luoghi determinati fatta in Italia e massime in Toscana nel cuore del medio-evo,
spiega come attorno al 1000 si potesse applicare un tal vocabolo a una certa località della montagna
modenese bella o no che fosse la metafora, più o meno giusta e attagliata che fosse l’applicazione
nel caso presente.
E basta dell’origine.
Capo II. Prima comparsa
Quando avesse inizio il paese di Verucchia, non si potrebbe determinare con precisione: forse lungo
il secolo undicesimo quando appunto ebber origine quasi tutte quelle terre e paesi del Frignano che
poco appresso cominciarono ad affiorare nella storia della montagna. Tanto è vero che la Verucchia
poco dopo la metà del secolo undicesimo ha una certa importanza, di cui daremo le prove. Quanto
però si è al nome, storicamente esso non compare prima del 1170 quando ci presenta la forma di
Verucla, diminutivo latino già ricorrente in Arnobio e conservatosi in Toscana, in Garfagnana e da
2
ultimo in Romagna dove dié Verrucchio. Ricompare poi, sempre sotto la stessa forma nel 1173 e
1197; poi molte altre volte lungo il secolo XIII per le cause e nelle occasioni che vedremo.
Capo III. La famiglia da Verucchia
S’è accennato all’importanza a cui salì la Verucchia a mezzo il secolo XII. Questa importanza fu
tutta politica, e tale rimase per circa due secoli. Dopo d’allora l’importanza politica, relativa s’intende, andò perduta, e le sottentrò quella religiosa che dura tuttavia. Di questa seconda sola si occupò il Bononcini nel suo opuscolo3 accennato di sopra; ma noi per concomitanza e per pienezza di
trattazione ci vogliamo stendere un poco anche sulla prima.
Se non che la importanza politica della Verucchia si riduceva a quella d’una famiglia, cosa del resto
comune allora a pressoché tutti i paesi del Frignano.
Difatti la storia della montagna modenese nei duecento anni dal 1150 al 1350 (prima essa si può dire che non esista) è in sostanza la storia di un certo numero di famiglie che per lo più prendono il
nome dal luogo di loro origine o di loro residenza. Esse sono circa una quindicina: i da Montecuccolo, i Gualandelli, i da Gombola, i da Verucchia, i da Sassadella, i Malatigna, i da Marzo, i da Verica, i da Montegarullo, i da Serrazzone, i da Balugola, i Rastaldi, i Raffacane, i Corradi, i Serafinelli, i De’ Buoi, i Bau. Di queste solo tre sono della riva destra del Panaro: i Verucchia, Sassatella e
Malatigna. Di queste tre quella dei Verucchi è certamente la più notevole. Porta dunque il pregio
dirne qualche cosa, perché, ripetiamolo, su di essa s’incardina e s’impernia la storia politica della
Verucchia.
Ora questa famiglia dei da Verucchia comincia a manifestarsi proprio nel 1170 quando compare anche per la prima volta il nome di Verucchia, anzi quest’ultimo si manifesta appunto perché si manifesta la famiglia.
Nel marzo adunque del 1170 circa 25 cattani del Frignano stringono lega coi Montevegliesi. Principali fra essi sono: Guido e Rainuccino da Gombola, Alberto da Correggio, Gherardo da Montecuccolo, Ubaldo dalla Verucchia, Amedeo da Serravalle, Bernardo da Campiglio, Ugolino da Varana, i
Gualandelli e Ubertino da Balugola. Ubaldo dalla Verucchia compare anche tre anni dopo in circostanza non meno solenne. Il 22 luglio 1173 a Modena parecchi capi frignanesi giurano fedeltà a
quel Comune. Sono dieci o dodici, e il quarto fra essi è Ubaldo dalla Verucchia che viene subito
dopo Gherardo da Montecuccolo, Alberto fratello del Vescovo (anch’esso probabilmente un Montecuccoli) e Rainuccino da Gombola. Da questi due atti appare dunque evidente che uomo ragguardevole esser dovea questo Ubaldo se figura accanto ai primari signori del Frignano, quali quei di
Montecuccolo di Gombola e di Balugola; e se ne inferisce altresì che Verucchia, sede d’una famiglia tanto considerata, doveva essere non una misera villa come ora, ma un luogo assai più cospicuo; tant’è vero che aveva un forte, il che è indicato dal nome di Castellaro che resta a un edifizio a
certa distanza dalla chiesa.
Ubaldo adunque è il capostipite storicamente accertato della famiglia da Verucchia. Della qual famiglia però non è possibile stendere un albero compiuto che contenga e mostri la filiazione e le diramazioni; il che del resto non è poi per la storia un danno grave, giacché non novera membri che
siansi molto segnalati come avvenne di certi altri. Circa questa famiglia possiamo solo ricordare
certe date e certi atti in cui parecchi individui di essa figurano in certe vicende dei paesi di montagna lungo il corso del secolo XIII.
E prima di tutto è cosa notevole che l’anno 1197, quello della dedizione della Verucchia a Modena,
figurino nell’atto relativo abitanti della Verucchia e non i membri della famiglia che da essa pigliava il nome. Essi sono: Girardus consul. Tosettus. Bragerus. Villanus Girardi. Bernardus Borgavinus. Albertus. Bernardus Lumbardi. Iordano. Aldobrandus. Bosus et Demandatus.
Nessuno di questi nove o dieci individui pare appartenesse alla famiglia signoreggiante; il che è
strano, ma non è caso unico. Anche nel caso di altri paesi, per esempio Montecuccolo Balugola, ve3
Il Santuario della Madonna di Verucchia presso Zocca, Vignola, tip. Monti 1888, pp. 12.
3
diamo avvenire talvolta che nella dedizione figurano gli uomini soggetti e non i loro signori, benché
altre volte ci siano questi e quelli, e altre volte solo i signori.
Altrettanto s’avverò anche a Verucchia. Negli anni 1170 e 1173 abbiam visto comparire il solo Ubaldo ch’era certamente della famiglia dominante; nel 1197 questa ne è al tutto esclusa; in altri atti
successivi essa appare di nuovo e da sola.
Difatti nel 1205 abbiamo due solenni atti frignanesi in cui figurano proprio membri della famiglia
da Verucchia. Il 10 aprile 1205 dieci o undici capitani frignanesi s’obbligano in Modena a Salinguerra Podestà dei Modenesi di essergli puramente e semplicemente fedeli senza alcun limite di
condizioni. Eglino sono: Baruffaldo, Bartolomeo, Parisio, Radaldino, Giacomo e Ugolino di Grimaldo, Corrado Bau, Bernardino da Montecuccolo, Ugolino di Baruffaldo e Parisio del fu Ugolino
da Verucchia. Anche più notevole è il secondo atto con cui il 5 dicembre 1205 fu fatta una composizione o accordo fra il comune di Modena e i Frignanesi o Corvoli. Questi Frignanesi o Corvoli
nominati in tale atto sono i seguenti: Azzo da Frignano con fratelli e nipoti, Enrico Pigo fratelli e
nipoti, Baruffaldo, Parisio, Bartolomeo, Radaldino e fratel suo Sifredo, Bernardino da Montecuccolo coi nipoti figli di Grimaldo, Jacopo e Ugolino e Giovanni de’ Buoi, e quei di Verucchia Aldobrandino con figli e nipoti, Bartolomeo Torrisani e Corrado Bau. Qui bisogna aggiungere che verso
la metà dell’atto ricorre l’espressione singolare “ai detti Frignanesi ossia casa dei Corvoli”.
Ora se si scrivesse la storia del Frignano, ci sarebbero parecchie domande da fare circa questi due
atti e massime circa il secondo. A ragion d’esempio: perché i Frignanesi son chiamati anche Corvoli, anzi la casa dei Corvoli? perché nell’atto del 1156 non figurano nel numero dei Corvoli i Montecuccoli, quando v’è chi dice che il nome di Corvoli sarebbe derivato da Corvo o Corvolo un antenato dei Montecuccoli ch’era al seguito di Matilde nel 1108? perché i Frignanesi del 10 aprile 1205
non sono tutti i medesimi e nello stesso numero di quelli del 5 dicembre, e perché i primi non son
detti Corvoli, laddove son detti tali i secondi, parecchi tra i quali entrano anche nel primo atto? chi è
quell’Azzo da Frignano che figura come primo nel secondo atto? perché mai, se è un Montecuccoli
come vuole il Tiraboschi, non è chiamato da Montecuccolo come è chiamato Bernardino, e come
mai Bernardino è sempre detto da Montecuccolo e non da Frignano? e questo Azzo da Frignano del
1205 è quello stesso Azzo di Frignano che nel 1243 col fratello Raineri di Bonacorso fu squartato
dai Bolognesi nella loro piazza per aver ad essi tolta la rocca di Roffeno? Queste e simili quistioncelle ci sarebbero da fare che non sarebbero inutili; ma noi facciamo la storia di Verucchia e della
casa da Verucchia, e a questo dobbiamo attenerci. Rispetto alla quale e rispetto alla parte ch’essa
rappresenta in questi due atti, noteremo intanto che qui i da Verucchia non solo vi figurano e son
detti Frignanesi, ma son fatti appartenere ai Corvoli anzi alla casa dei Corvoli, qualunque sia la interpretazione che dare si voglia qui al termine casa. Ora anche se intendasi casa per semplice consorzio come vuolsi da taluno, resta ad ogni modo dimostrata la stretta unione che avevano questi da
Verucchia coi Montecuccoli, dappoiché ambe le famiglie compaiono nei quattro atti del 1170, 1173,
e nei due del 1205, e vedremo ancora che compaiono in altri posteriori.
Degno di rilievo è pure che laddove nell’atto del 10 aprile dei Verucchia figura Parisi del fu Ugolino, in quello del 5 dicembre compare Aldobrandino con figli e nipoti senza che sia indicato se i nipoti siano figli di figli o di fratelli. Duole anche che non si possa capire in che relazione di parentela
tutti costoro fossero con quell’Ubaldo da Verucchia che fioriva 35 anni prima. Resta solo accertato
che la Verucchia faceva parte del Frignano, e che questo non restringevasi a Sestola, Fanano e Montese, come voglion certuni, poiché qui avevan per centro Montecuccolo e Renno. Resta pure accertato che i Verucchia erano una famiglia assai numerosa; il che apparirà anche più chiaramente da
quello che stiamo per dire a proposito di alcuni atti del 1276 e anni successivi.
Tra il 1205 e il 1276 e poco appresso troviamo parecchi atti notevoli pel nostro intento.
Il 12 giugno del 76 i tre fratelli Ugolino, Gosbergo e Ubaldo figli del fu Bonifazio da Verucchia,
Bartolomeo, Gaetano e Serafinello del fu Parisio da Verucchia, Cazzaguerra di Bastardo di Parisio
Verucchia, Bonaparte di Bastardo di Serafinello da Verucchia fecero istituirono e ordinarono Matteo da Montecuccolo e Albertone da Monterastello a Sindaci procuratori e messaggeri a stare e
comparire per ciascun d’essi dinanzi al Podestà, al capitano e ai 24 difensori del comune di Modena
4
per fare patto e accordo e a promettere sottomissione e obbedienza di essi da Verucchia al comune
suddetto.
Quest’atto, che è il più solenne in cui figurano i Verucchiesi da soli, fu steso nella chiesa di Montespecchio dal notaio Terzone di Montespecchio, presenti tre testimoni pur essi di quella parrocchia.
Un tale atto merita per più capi qualche commento. Anzitutto è notevole il numero d’individui della
famiglia da Verucchia ivi figuranti che non sono meno di dieci. Ma contuttociò poco o niun lume se
ne trae per determinare la filiazione di essi rispetto agl’individui visti all’anno 1205.
Ma come mai nel 1276 poteva esserci bisogno che la Verucchia si sottoponesse al comune di Modena, se c’era già stata la sottomissione del 1197? Non si sa; del resto questo s’avverò anche rispetto a quasi tutti i paesi della montagna: solo si può aggiungere che nel 1197 la sottomissione l’aveva
fatta il popolo della Verucchia, laddove nel 1276 chi si sottomette è la famiglia da Verucchia, la
quale per omaggio al comune di Modena, promette anche di far pace con Odolino da Montalbano
con cui era in guerra. Piuttosto può parere strano che l’atto fosse rogato nella chiesa di Montespecchio, e che fossero eletti a mandatarii Matteo da Montecuccolo e Albertone da Monterastello. La
scelta di Montespecchio fu verosimilmente dovuta a l’essersi i Verucchiesi valsi dell’opera del notaio Terzone di quel luogo. Quanto poi ai due mandatarii, una volta che i Verucchia non volevano
fare da sé, si comprende agevolmente come scegliessero Matteo da Montecuccolo, giacché questi
oltre all’essere allora capo dei Montecuccoli godeva grande autorità, ed era uomo principalissimo
nella montagna tantoché figura in numerosissimi atti dell’Archivio di Modena4; ma non si spiega
perché eleggessero anche Albertone da Monterastello, il quale, nonostante la sonorità del nome, è
uomo al tutto oscuro e che compare solo in questo atto. Del resto vedremo anche in appresso altri
rapporti tra i Verucchiesi e Matteo da Montecuccolo. Per intanto diremo che il 12 gennaio 1278 Gosbergo figlio del fu Bonifazio da Verucchia ricevette da Guglielmo di Gualando da Sassatella la dote di Agnese sorella di Guglielmo e moglie di detto Gosbergo, e l’atto fu steso a Verica da Bonifazio da Marzo. Ma assai più notevole è l’atto seguente del 23 dicembre 1280. Esso è lunghissimo e
noi lo riassumeremo. Matteo del fu Bonacorso da Montecuccolo per sé e suo fratello Corsino con
Prinzivalino da Serrazzone e nipote con Raineri del fu Guglielmo da Renno, Dino di Guicciardino
da Renno, Ubaldo Gosbergo e Ugolino del fu Bonifazio da Verucchia, Rainero e Serafinello del fu
Parisio da Verucchia per sé e per Bonifazio del fu detto Parisio da Verucchia, Andrea del fu Bernardo da Monzone, da una parte; dall’altra Bazzalerio del fu Radaldino da Montegarullo, Parisello
del fu Iacopo Serafinello, Manfredino del fu Giovanni Rastaldi, Rodolfo del fu Rainuccino Gualandelli per sé e altri Gualandelli, Grimaldo e Guglielmo Grimaldi per sé e altri Grimaldi, Enrico Corradi e Guido del fu Bonifazio da Marzo, fanno fine ritrattazione e remissione di tutte le offese e di
tutti i torti passati fra le due parti e i seguaci di essi, e fermano patto concordia e pace.
Questo lungo atto fatto a Modena è importantissimo specialmente per una folla di particolari relativi
a cose passate tra i due fratelli Matteo e Corsino da Montecuccolo e altri signori frignanesi. Ma pel
caso nostro è importante perché ci rivela una volta di più la stretta relazione fra i Verucchia e i
Montecuccoli e fa vedere che i Verucchiesi erano anch’essi ghibellini al pari dei secondi, e che per
favorir quelli si mescolavano nei contrasti degli abitanti d’oltre fiume.
L’atto del 1280 è l’ultimo, per quanto si sa, ove figurino i da Verucchia; ma forse qualche altro posteriore salterebbe fuori se tutta si conoscesse la serie degli atti pubblici frignanesi esistenti
all’Archivio Comunale di Modena, alla cui pubblicazione attende il dottor Paolo Vicini. Nei sei atti
da noi visti, del 1170, 1173, 1205, 10 aprile e 15 dicembre, 1276 e 1280 (quello del 78 è di carattere
privato) sono menzionati dai 15 ai 20 individui di quella famiglia dei quali però nessuno è personaggio molto segnalato. Solo se ne può inferire che la famiglia aveva un certo prestigio, e che era in
4
Intorno a Matteo da Montecuccolo si potrebbe fare una buona dissertazione, attesa la grande importanza ch’egli ebbe;
e ciò sarebbe di giovamento anche per chiarire bene la genealogia e la storia dei Montecuccoli tanto confusa e intralciata in quei tempi. Era nipote di Bernardino, figlio di Bonacorso, nipote di Guidinello I, fratello del secondo e padre di
Guidinello III il Grande. Da lui derivò pure il famoso Lanzellotto; viceversa non da lui ma dal fratello suo Corsino provennero, Gaspare, Cesare, Bersanino, Enea, i Laderchi, Girolamo, Ernesto e Raimondo. Egli produsse i Polinago e gli
Erri.
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perpetua e buona relazione coi Montecuccoli, la primaria tra le famiglie frignanesi. E di questa importanza e di questo prestigio è indizio e prova l’entrare essa nel catalogo delle famiglie nobili di
Modena e suo contado nel 1306. Le parole del catalogo ove di ciò si fa cenno dateci dal Vedriani
sono: omnes illi de domo illorum de Verucca. La dicitura “tutti quelli della casa di quei da Verucchia” lascia capire che la famiglia era pur sempre numerosa. Ad ogni modo questa è l’ultima volta
che si menziona come ancor esistente quella famiglia che poco appresso dovette estinguersi del tutto, se pure non avvenne a lei quello che a non poche altre famiglie segnalate della montagna, che, di
potenti e ragguardevoli che eran prima, per divisioni e altre cause, s’impoverirono, s’indebolirono e
caddero nell’oscurità senza perciò spegnersi del tutto. Nel caso presente, a ragion d’esempio, non
può escludersi assolutamente che dai da Verucchia siano discese parecchie famiglie Verucchi abitanti nei contorni, massime a Montetortore.
Capo IV. Verucchia dal trecento in poi
Estintasi, come dicemmo, nel corso del 300 la famiglia che da essa pigliava il nome, la Verucchia
perde ogni importanza politica. Di essa fin qui s’era parlato più volte solo per gli atti della famiglia;
se d’ora innanzi se ne parlerà, se avrà qualche nome almeno in montagna, ciò sarà per una causa assai diversa che si vedrà in appresso. Fino allora la Verucchia doveva essere stata centro e capoluogo
di un qual che si fosse aggruppamento o distretto amministrativo e politico; ora essa passa in seconda linea e divien parte della comunità del vicino Montequestiolo con cui si fonderà e di cui seguirà
le vicende, aggregata sempre alla podesteria di Montetortore.
Questo Montequestiolo è mentovato per la prima volta nel 1390 quando fu preso dai Bolognesi; poi
nel 1398 in cui è annoverato tra i feudi di Lancellotto Montecuccoli che però lo dovette tenere per
poco5.
Nel 1404 era di nuovo tornato all’Estense Nicolò III. Nel 1450 colle altre comunità della podesteria
radunate a Montetortore proclamava suo Signore il marchese Borso succeduto al fratel suo Leonello; né altro guari se ne sa pel secolo XV.
Più abbondante messe di notizie hannosi nel cinquecento. Nel 1532 sotto il 13 agosto troviamo datata da Montequestiolo una notevole lettera con cui i firmatari Podetto Menzani, Bontadino da Samoggia, Mino da Samone, Marcone e Berto da Semelano, Cristoforo da Montalto, Zanmaria Cavallero da Montequestiolo ringraziano Lamia governatore di Sestola dell’essersi egli interposto presso
il duca Alfonso I per ottenere ad essi il perdono dopo il bando che due mesi prima Ercole Pio governatore di Modena avea pronunciato contro Podetto e seguaci. Poi lo pregano instantemente, dandogli carta bianca, che egli conchiuda l’affare e ottenga una pace definitiva. E veramente la lettera
sortì l’effetto desiderato, giacché, forse per buoni uffizi del Lamia, il Duca rimise nella sua grazia
Podetto anzi lo fe’ cavaliere e ne fu poi servito fedelmente. A ogni modo la lettera rivela l’abilità di
Podetto, che essendo il principale e forse l’unico colpevole aveva saputo tirare dalla sua altri sei
uomini primari di quel paese e farli apparire anch’essi coinvolti e cointeressati nella sua causa, per
impetrare più facilmente la clemenza sovrana. Strano è che la lettera sia scritta a Montequestiolo:
ma forse i sette firmatari avevano scelta quello perché era per essi luogo centrale.
Ma se il fatto del 32 fu per Montequestiolo onorevole e lieto, tristissime furono all’incontro le vicende ivi seguite nel 36 a causa di quei ribaldi e prepotenti dei Tanari di Gaggio che stendevano sin
qui la loro lunga mano. Il 1° d’agosto quei di Villa d’Aiano grandi fautori dei Tanari con banditi to5
Sarebbe curioso indagare e scoprire come e perché Lancellotto nel 1390 possedesse Montequestiolo, Missano e Castellino. M’è venuto il dubbio che ciò fosse seguito per effetto di eredità derivante da matrimonii tra i Montecuccoli e
donne delle famiglie Sassadella e Verucchia spentesi poco prima. La cosa non sarebbe senza precedenti né pei luoghi né
per le famiglie. Sin dal 1214 e anche prima Bonacorso da Frignano (Montecuccoli) aveva per moglie una Mambilla
Sassadella: e ne vennero i due figli Azzo da Frignano e Raineri squartati in piazza nel 1243 dai Bolognesi a cui avevan
tolto Roffeno, e che molti beni possedevano a Semelano. Peccato che non sia possibile verificar la cosa pel caso presente. Né Lancellotto né suo padre il cav. Corsino avevano per mogli donne delle famiglie da Verucchia e Sassadella. Poteva per altro esser tale la moglie d’Alberguccio padre di Corsino, attesa la stretta relazione dei Verucchia con Matteo
padre d’Alberguccio.
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schi in numero di 60 assaltano Montequestiolo e tentano d’ammazzare G. Maria Cavallero (il medesimo senza dubbio che era firmatario della lettera del 32) capo di parte duchesca; e non potendo aver lui, ammazzano Giovanni di Nando insieme altri e una giovinetta figlia di Guidotto senza contare i feriti.
Montequestiolo è pur mentovato nel 37. Quando il 2 marzo nella rocca di Semese si trattò una tregua tra i Frignanesi da una parte e Vanino di Felice e Castagnino di Pietro Tanari dall’altra, fra i
primi, oltre ai Montecuccoli di Semese Montecuccolo e Montese, Bonetto Magnani e altri capi
d’oltre fiume, c’erano pure Simone il Rosso e Pattarino dei Menzani di Montetortore, Bartolomeo di
Semelano e Cristoforo di Montalto a nome di quei di Missano Montequestiolo, Samone e di tutta la
podesteria di Montetortore. Costoro tutti eleggevano D. Ercole Montecuccoli figlio naturale del fu
conte Frignano e rettore di Montecuccolo, quale loro rappresentante nel trattare coi Tanari.
Al famoso scontro delle Sassane del 24 febbraio 1538 che fiaccò per sempre i Tanari colla uccisione
di Vanino e Castagnino e colla fuga d’Antonello, quei di Montequestiolo non sono espressamente
nominati; ma è certo che v’intervennero, perché tutta la podesteria vi partecipò. Vi si segnalarono
Montetortore, Montalto e Missano; anzi Tomaso Fontana di Montetortore fu quegli che con una
picca scavalcò e infilzò Vanino e lo fe’ stramazzare, dopo di che Frignanello da Salto strappavagli il
cuore per friggerlo poi a Salto in casa di Simone S. Agata. Anche quei di Montalto si pigliarono
un’aspra vendetta d’uno dei prigionieri delle Sassane. Lo chiusero in una botte e questa rotolarono
giù pel balzo sovrastante al rio di Rosola.
Tra il 1570 e il 76 Montequestiolo ebbe nuovamente a soffrire per le stesse cause del 36, vale a dire
per l’incursioni dei Bolognesi confinanti. Nel 36 erano stati i Tanari gl’infestatori e i tormentatori
dei poveri montanari modenesi; nel 70 e anni seguenti fu Gregorio dalla Villa non meno triste e
formidabile dei Tanari. Gregorio dalla Villa che i Modenesi consideravano come un capo di briganti
e i Bolognesi come capo di parte; Gregorio dalla Villa che dal 66 al 69 di sua iniziativa avea quasi
sempre condotto i Bolognesi negli assalti di Monteforte e paesi contigui, Gregorio, dico, nel luglio
1570 fu dal reggimento di Bologna dichiarato capitano della montagna e insediato a Samoggia, castello fra Tolè e Montetortore, donde per mezzo de’ suoi segugi e cagnotti prese a infestare e a tormentare in mille guise i paesi della podesteria di Montetortore, niuno escluso; più Montecorone e
Montombraro. Questi seguaci e satelliti di Gregorio dalla Villa nelle continue scorrerie che facevano nei detti paesi commisero infinite e atroci uccisioni numerate tutte in lettera che il 22 maggio
1576 G. B. Bottoni commissario di Montese scrisse al conte Girolamo Montecuccoli suo padrone
pregandolo a insistere presso il Duca perché ponesse un riparo alle prepotenze e atrocità di Gregorio
e de’ suoi Bolognesi. Tra le infami uccisioni commesse da costoro il Bottoni rammenta quella di
Mengo dalla Guiana, su quello di Montequestiolo; di Nanno di Ghino da Montequestiolo in detto
luogo, e quella di Tonello di Montequestiolo in detto luogo. E di Montequestiolo pare fosse anche
quel Filippo dalla Guiana che qualche anno prima era stato ucciso a Monteforte sempre dai cagnotti
di Gregorio dalla Villa6.
Anche un’altra volta i seguaci di costui ebbero a fare con questi paesi, e fu quando poco appresso
uno stuolo di uomini di Villa d’Aiano uniti con alquanti malviventi modenesi si diedero a infestare
Montalbano. Contro di essi il Podestà di Montetortore chiese aiuto di rinforzi al conte Girolamo
Montecuccoli che gl’inviò circa 200 uomini di Montese condotti da suo nipote Desiderio. Coteste
milizie ducali assalirono una casa posta nei boschi tra Montalbano e Montequestiolo dove quei facinorosi si erano rifugiati e trincerati. Furono presi tutti e distribuiti nelle prigioni di Montese, Guiglia, Modena e Ferrara. Era fra essi anche un fratello di Gregorio dalla Villa, di cui si valse Girolamo per proporre a costui, colla mediazione di Domenico Ottonelli di Fanano cugino di Gregorio,
una tregua anzi una pacificazione. Ma l’astuto Gregorio rifiutò.
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Gregorio dalla Villa, benché soggetto triste, è tuttavia una figura importante per la storia della montagna bolognese e
modenese. Ne ho parlato nella mia dissertazione sui Menzani di Montetortore ms. nell’Estense, e più espressamente
nell’altra dissertazione “Gregorio dalla Villa” anch’essa ms. nell’Estense. Strano che sia pressoché ignoto agli storici e
cronisti bolognesi, salvo il Gozzadini.
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Verso il 1630 seguì un fatto che dié, almeno per un momento, un po’ di rinomanza alla Verucchia
già da un pezzo messa in obblio per Montequestiolo. Il Duca dalla podesteria di Montetortore stralciò Montalbano per darla in feudo a un Barbieri-Fontana. Quei di Montetortore sdegnati per questa
loro menomazione, istituirono un mercato alla Verucchia che doveva essere frequentato da tutta la
podesteria per danneggiare e distruggere quello di Zocca che cominciava a fiorire. Se la cosa avesse
seguitato, forse la Verucchia avrebbe acquistato quello sviluppo e quella importanza che poi acquistò Zocca. Ma il mercato fu ben presto soppresso, ed ecco come. Nel 1635 Montetortore fu infeudato a Francesco Montecuccoli marchese di Guiglia e conte di Ranocchio, il quale nel 37 ottenne anche Montalbano che fu riunito di nuovo alla podesteria di Montetortore. Quest’ultima mediante tale
riunione non aveva più motivo alcuno di sdegno e molto meno di gelosia per Zocca e Montalbano; e
perciò s’affrettò a insistere presso il marchese perché fosse abolito il mercato di Verucchia durato
appena cinque o sei anni; il che fu fatto7.
Morto poi nel 1645 il fortunato8 marchese Francesco, i suoi feudi andarono divisi fra quattro de’
suoi figli: al primogenito G. Battista toccò il marchesato di Guiglia e il maggiorasco, a Sebastiano
quello di Montetortore, a Giustiniano la contea di Ranocchio, a Felice quella d’Albinea. Senonché,
ucciso nel 1663 il march. Sebastiano a Spilamberto dai Rangoni, Montetortore fu assegnato al fratello Felice, il quale nel 1671, per la morte di Giustiniano, s’ebbe anche Ranocchio-S. Martino culla
del ramo.
Nulla di notevole ci offre la storia di Montetortore e quindi di Montequestiolo sotto il governo dei
Montecuccoli, salvo le persistenti lotte di quei di Villa d’Aiano contro quei di Montalto e Semelano,
e salvo la presenza su Montetortore nel 1643 di milizie ducali condotte dal gen. Raimondo Montecuccoli, quarto cugino intimissimo del march. Francesco, che fece alto qualche tempo a Montevento, donde scrisse anche lettere prima di marciare contro Vergato. Si può però notare che appunto in
questo tempo comincia a diventare famoso il santuario di Verucchia, come vedrassi più oltre.
Ma nel 1685 il march. Felice, testa alquanto scervellata, perdette Montetortore, che ricuperò nel
1689 per perderlo di nuovo nel 95 e per sempre a causa delle sue scappate. Ho detto per sempre,
poiché vani riuscirono i tentativi di lui e di suo nipote Raimondo di Guiglia per riaverlo entrante il
secolo XVIII.
Nel 1702 Montetortore fu unito a Montese e amministrato da un podestà unico residente in
quest’ultimo luogo; e così fu sino al 1719. Allora ne fu staccato; ma nel 37 vi fu di nuovo riunito fino al 1756. Poscia fino al 96 fece di nuovo da sé stesso, e durante il dominio repubblicano e napoleonico cogli altri paesi a destra del Panaro fu parte del dipartimento del Reno. Nella nuova distrettuazione fatta dal Governo Estense nel 1815, Montetortore con Rosola e quindi anche con Montequestiolo e Verucchia formò parte del comune di Montese, il quale perdette questo paese nel 1859
quando il dittatore Farini fondò il nuovo comune di Zocca alle spese di quei di Montese e di Guiglia.
Tali, sotto brevità, le vicende di Montequestiolo e Verucchia in sino ai dì nostri.
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Per verità il Giacobazzi a pagina 117 della sua storia ms. di Montese narra un po’ diversamente l’affare del mercato di
Verucchia. La podesteria aveva istituito il mercato non a Verucchia, ma dopo avere esitato fra Berzo e Via Cava, l’aveva messo a Berzo, donde venne trasportato a Cerreto. Fu il marchese Francesco che ordinò si trasferisse il mercato da
Cerreto alla Verucchia, fatta legge che uno di ciascuna famiglia di tutta la podesteria dovesse settimanalmente intervenirvi sotto pena di 80 soldi.
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Il march. Francesco di Guiglia del fu Enea conte di Semese del fu Francesco seniore conte di Ranocchio del fu Cesare
iuniore conte di S. Martino del fu Bersanino conte di Montese del fu Cesare seniore conte di Montecuccolo, fu veramente fortunato sia nel riguardo politico sia nell’economico. Politicamente suo bisnonno Cesare iuniore, morto nel
1574, possedeva il piccol feudo di Ranocchio-S. Martino cui da ultimo aggiunse metà di Semese, l’altra metà venendo
poi aggiunta nel 88 dal figlio di lui Francesco seniore per la morte dello zio Girolamo. Enea padre del marchese aveva
solo Semese. Questi nel 1630 permutò Semese con Guiglia tanto più importante, cui poi aggiunse Ciano, Montetortore,
Montalbano e nel 34 Ranocchio ereditato dallo zio Orazio; sicché il suo feudo stendevasi, salvo poche isole tra cui Rosola, da Marano a Zagaglia oltre Montespecchio. Economicamente, l’avo e il bisavo avevano non soverchi beni a Ranocchio, S. Martino e dintorni e alcuni a Ferrara. Ma suo padre Enea guadagnò molto mercé il valore e la vita avventurosa, e comprò possessi a Semese, Verica e Sassoguidano e più a Novi e nel carpigiano. Sicché il figlio si trovò padrone
di ampio e vistoso patrimonio ch’egli accrebbe mediante le sue nozze colla Sigismonda Laderchi.
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E qui a compimento di trattazione s’aggiungono i nomi d’alcuni individui di Montequestiolo segnalatisi negli ultimi secoli. Sono quattro o cinque e tutti della famiglia Tozzi-Fontana. Il primo è un
dottore Luca vissuto dal 1638 al 1717 autore dell’opera Medicinæ Pars Prior, Venezia 1717. Viene
poi un P. Paolo giureconsulto in Verona, lettore in Bologna nel 1685 e avv. consultore in Roma.
Terzo M. Antonio avv. fiscale ch’ebbe due figli assai rinomati. L’uno fu G. Battista giureconsulto,
podestà di Montese e Montetortore nel 1755-56, che fe’ aprire la via del Crescione lungo il pauroso
torrente Gea per accorciare e agevolare le communicazioni fra Montese e Montetortore passando
per Villa d’Aiano; e morì poi governatore di Carpi l’anno appresso. L’altro fu Abbondio Tozzi,
guerriero a Camposanto, guardia del Corpo di S. M. Cattolica, poi morto al servizio dell’Infante di
Parma.
Capo V. La chiesa di Verucchia
Fra quelli che scrivendo hanno toccato della chiesa di Verucchia, nessuno ha detto così bene, circa
la sua origine, quanto il Giacobazzi che, a p. 133-34, scrive “Non è assai chiara l’origine della fondazione della chiesa”. Giustissimo. Difatti mentre il Tiraboschi dice ch’essa fu fondata del 1483, il
Bononcini scrive che ciò seguì nel 1433 per opera dei confinanti comuni di Missano e Montequestiolo, ai quali ed all’arciprete di Missano ne fu conceduto il patronato. Orbene la prima delle due
date si prova essere falsa dal fatto che nel famoso catalogo compilato pochi anni prima (tra il 1464 e
1473), la chiesa suddetta è già data come esistente e soggetta alla Pieve di Missano. La data poi del
1433 non sappiamo donde il Bononcini l’abbia desunta. A ogni modo anche essa non regge, ed è
falsissima. Tuttavia ambo queste date contengono forse qualche punto di verità in quanto si riferiscono ad un rifacimento od a un ristauro della chiesa di Verucchia, non mai però all’edificazione
prima che risale a tempi di molto anteriori.
E questa sua maggiore antichità resterebbe dimostrata, quand’anche mancassero altri argomenti, da
ragioni congetturali d’analogia e di verosimiglianza. Dal momento che fin dal 1170 esisteva Verucchia come terra di certa importanza e sede di una famiglia delle più ragguardevoli e primarie del
Frignano, egli è ovvio e logico supporre che quella famiglia e quella gente in tempi di tanta fede e
religione avessero consacrato qualche edificio pel culto, attesa anche la distanza loro dalle chiese
primarie di Muzzano (Rosola), Missano, Montalbano, Semelano e Montetortore; né è ragionevole
immaginare che tardassero a far questo solo nel sec. XV. Basterebbe questo argomento di pura analogia a farci credere che un oratorio, una chiesa embrionale almeno, esistesse a Verucchia assai
prima delle due date sopra indicate.
Orbene questa nostra congettura è ormai non pure avvalorata, ma storicamente e matematicamente
accertata, da un prezioso e inoppugnabile documento.
S’era fin qui fatto gran caso del catalogo delle chiese modenesi compilato attorno il 1470 e detto
senz’altro il catalogo del sec. XV, riguardato come il non plus ultra dei documenti concernenti le
condizioni ecclesiastiche del Frignano nel tardo medio evo. Ora quel documento è stato sorpassato e
oscurato da un altro d’ugual genere e natura ma molto più prezioso, come quello che ci riporta
senz’altro al 1291, e ci mette sott’occhio la distribuzione e disposizione topografica-gerarchica della
diocesi modenese e in particolare della nostra montagna sulla fine del sec. XIII.
Questo catalogo delle chiese e cappelle modenesi del 1291 fu scoperto in Vaticano e pubblicato nel
1901 dal Vanni che con ciò venne a portare un contributo notabilissimo alla storia frignanese sia ecclesiastica che civile.
Ora in questo documento figurano tutte le plebane colle rispettive cappelle dipendenti (pare che allora non ci fossero ancora le parrocchie od almeno il nome); e a proposito della pieve di Missano
egli ci mostra che ad essa erano soggette le cappelle di Samone, Sassadella, Montalbano, Fogliano e
Veruda. Di Samone e Montalbano non occorre dir nulla, ché tutti le conoscono: solo convien notare
che l’ultimo allora dipendeva da Missano, laddove ora è soggetto a Semelano. La cappella di Sassa-
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della sorgeva sul monte della Riva ov’era un fortilizio sede della famosa famiglia di Sassadella, sparita poi tragicamente a Montalbano9.
Dove fosse la cappella di Foliano non si sa: forse in Missano basso. Quanto alla Veruda, essa non è
e non può essere che la Verucchia, benché non sappiasi il perché della strana terminazione data qui
al nome, ma che vedremo essergli stata data anche un’altra volta più tardi. Per concomitanza e
compiutezza di trattazione, aggiungeremo che il detto documento o catalogo dice poi che dalla pieve di Semelano dipendono le cappelle di S. Leonardo di Muzzano (Rosola), S. Giorgio di Montalto,
S. Geminiano di Montetortore, S. Nicolò di Aiano (Villa) e Santa Maria di Aiano (Castello). Tale è
lo specchio che il catalogo ci dà delle chiese e cappelle dipendenti allora dalle pievi di Missano e
Semelano. E qui vogliamo riportare del catalogo del sec. XV (1464-1473) la parte che corrisponde
alla suesposta del catalogo del sec. XIII.
Adunque il catalogo del sec. XV perciò che appartiene alle chiese della pieve di Missano ripete, si
può dire, ciò che detto n’avea il catalogo del 1291 sia nella sostanza sia nella forma, salvoché rispetto alle cappelle di Sassadella, Foliano e Veruda vi sono apposte a lato note (posteriori però
d’assai) di cui avremo ad occuparci in appresso. Ma quanto alle chiese e cappelle della pieve di Semelano, vi sono alcune varianti notabili; perché vi figura la cappella di Cianello ignota al catalogo
antecedente, e vi figura la chiesa di Sassomolare che nel primo mancava.
Quanto a Cianello, si crede fosse un oratorio sorgente su quel di Muzzano o Rosola.
Di Sassomolare poi dice il Gherardacci che la sua chiesa fu edificata dai Bolognesi verso il 1320, e
ciò ad effetto d’impedire che quei di Sassomolare tolto poco prima ai Modenesi, non avessero bisogno di accorrere e di ricorrere alla chiesa di Montese sottoposta al dominio di Guidinello III Montecuccoli che dei Bolognesi era aspro nemico. Ora se questo è vero, cioè che la chiesa di Sassomolare
fosse edificata solo verso il 1320, resta con ciò spiegato com’essa figurar non potesse nel catalogo
del 1291. In tal caso rimane però sempre a chiarire come avvenisse che i Bolognesi consentissero
che una chiesa da loro fondata venisse aggregata alla diocesi modenese a cui restò poi unita insieme
con Villa e Castel d’Aiano fino al 1821. Ma torniamo alla storia di Verucchia che, come di già s’è
detto, anche nel catalogo del sec. XV, è chiamata Veruda. Dunque Verucchia aveva chiesa non solo
nel sec. XV, ma già nel 1291 e forse anche prima assai. Dunque tanto l’asserzione del Tiraboschi
che parla del 1483 come anno di fondazione di detta chiesa, quanto quella del Bononcini che parla
del 1433, sono insussistenti. Esisteva dunque la chiesa di Verucchia già sin dal sec. XIII e forse
prima; e se nel 1433, 1483 si parla della costruzione di essa, s’ha senza dubbio da intendere di ristauri, rifacimenti, ampliamenti ma non mai fondazione. Di ampliamenti, dissi; e questi dovettero
senza dubbio quando che fosse avvenire, come ne si fa chiaro pel fatto seguente.
Nel 1552, e l’accenna anche il Bononcini, il vescovo Egidio Foscherari nella sua visita pastorale,
anziché a Montalbano, tenne la Cresima nella chiesa di Verucchia, perch’essa si prestava meglio per
la sua ampiezza: doveva dunque essere assai vasta. Un venti anni dopo, nel 1572, il popolo di Montalbano volle vi fosse celebrata messa tutte le domeniche per comodo della popolazione della parte
più alta della parrocchia; il che mostra ch’essa era ancor parte della parrocchia di Montalbano, e che
la chiesa aveva già una certa importanza. Il passaggio ad un’altra parrocchia dovette avvenire non
molto di poi, e forse nella circostanza che segue.
Verso quel tempo scomparve l’antica chiesa di Muzzano: sta di fatto che nel 1577 vicino al castello
della Rosa sorgeva già un’altra chiesa che fu detta di Rosola, di cui fu posto il fonte battesimale in
quell’anno, come porta una iscrizione appostavi; e perché questa chiesa veniva ad essere in postura
più vicina a Verucchia della precedente, pare che allora Verucchia venisse sottoposta a Rosola;
giacché quando Verucchia divenne poi Santuario, figura come dipendente da Rosola.
Da ultimo è qui il luogo di accennare alle note apposte al catalogo del 1470, siccome è stato promesso. Colà dunque ove si parla delle cappelle dipendenti da Missano, di fianco a quelle di Sassa9
Nell’Archivio parrocchiale di Missano è accennato a un rogito esistente presso una famiglia del luogo (e se ne fa il
nome), nel quale è detto che il trucidamento doloso e brigantesco fatto dei Sassadella a Montalbano avvenne regnanti
papa Clemente VII e il duca Alfonso I. I due sovrani essendo morti nel 1534, e Clemente settimo essendo stato eletto
nel 1524, se ne inferisce che la strage fu compiuta tra il 1524 e il 1534.
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della e di Foliano, è apposto in nota corruit castrum; e accanto a quella di Veruda semplicemente
corruit, ruinò.
Da un complesso di circostanze esterne ed interne, il Vanni arguisce che quelle note appartengono
al seicento; e noi dal canto nostro ci arrischiamo a soggiungere ch’esse devono essere della prima
metà del seicento. Dunque nella prima metà del seicento la chiesa di Verucchia era ruinata. Tutto
questo servirà a chiarire meglio quello che stiamo per dire del Santuario.
Capo VI. Il Santuario di Verucchia
Fin qui si è sempre discorso della chiesa di Verucchia e non del Santuario; e ciò a ragion veduta. Il
Bononcini parla sempre della chiesa di Verucchia come se fosse stata Santuario già nel 1552. Ma è
un errore; la chiesa e il santuario di Verucchia sono due cose ben distinte. La chiesa più o meno
grande, in condizioni più o meno buone, esisteva fin dal secolo XII e forse anche prima. Il Santuario
intendiamo dimostrare che non data se non dal secolo XVII, e precisamente dalla seconda metà di
esso. E a sostegno di questa nostra asserzione abbiamo tutta una serie di argomenti forti.
Ma prima di tutto vuolsi qui riportare un passo molto istruttivo del Giacobazzi che a pagina 133-34
scrive: “Intanto (an. 1689) fu ristaurata la chiesa della Madonna detta della Verucchia, nella quale
poi vennero eretti due altari laterali: uno nel 1692 dedicato all’arcangelo S. Michele dalla famiglia
dei Sansoni, e l’altro nel 1693 alla B. V. del Rosario. Non è assai chiara l’epoca della fondazione di
questa chiesa. E’ fama che avesse anticamente origine da una apparizione di N. Signora ad una fanciulla che ivi guardava una greggiuola di pecore. D’altra apparizione di questa Vergine fatta
all’Antonia di Bartolomeo Virgili di Rosola, fassi menzione in un libro di memorie a carte 18. 19
serbato nell’Archivio della Pieve di Semelano, ove dicesi avere la Vergine medesima mostrato a
detta donna il voler suo d’essere trasportata processionalmente alla chiesa della Rosola previo un
general digiuno nel primo seguente sabato, comandandole di ciò palesare al curato allora di Verucchia D. Angelo M. Sansoni; e si allega un processo per ciò compilato dal Rettore di Villa d’Aiano,
D. Luca Bertacchi nel sec. XVII. Ma ciò che siasi di queste comparse, certe sono le grazie quivi da
Dio dispensate ad intercessione di Maria; e grande è la divozione e la frequenza del popolo che accorre a questo Santurario ove risiede un cappellano del parroco di Rosola che assiste la sezione di
Montequestiolo”.
Ora queste parole del Giacobazzi scritte intorno al 1840, ci permettono di fare alcuni rilievi e di fissare alcuni capisaldi nel riguardo della storia sia della chiesa sia del santuario della Verucchia.
Questi sono: 1°. Dunque nel 1689 si fece un ristauro della chiesa della Madonna della Verucchia
che molto verosimilmente non era solo un rifacimento ma anche un ampliamento, come pare doversi inferire da ciò che segue. 2°. Dunque nel 1692 e nel 93 si fanno i due primi altari laterali, quello
di S. Michele e quello del Rosario; e il primo fu fatto dalla famiglia Sansoni. Da ciò deducesi che
per l’avanti degli altari ce n’era uno solo, il Maggiore; forse perché prima era un locale ristretto. Ma
questo come si concilia coll’asserzione o meglio col fatto che nel 1552 la chiesa era vasta più che
quella di Montalbano, tanto che il Vescovo la preferì per tenervi la cresima? Secondo me, a questo
modo. Verso il 1600 o poco di poi la chiesa antica ruinò, donde il corruit messo in nota marginale
nel seicento al catalogo del sec. XV a cui sopra si è accennato. Poi, probabilmente verso il 1638, la
chiesa fu riedificata con dimensioni e proporzioni piuttosto piccole; donde il bisogno sentito nel
1689 di rifacimento, di ampliamento e di altari aggiunti: al che doveva dare impulso il fatto dell’essere la chiesa da poco divenuta Santuario. Ecco, a mio avviso, il modo di conciliare le due cose. 3°.
Il Giacobazzi dà come incerta ed oscura la fondazione primiera della chiesa; e noi abbiam visto
ch’egli ha più che ragione. La fondazione primitiva si perde nell’oscurità dei tempi anteriori al secolo XIV e forse ai secoli XIII e XII; forse si confonde colla edificazione del castello di Verucchia esistente già nel 1170; poiché s’è già visto che le date del 1433 e 1483 di cui parlano il Bononcini e il
Tiraboschi si riferiscono a ristauri e rifacimenti; come ristauri e rifacimenti sono questi toccati or
ora del secolo XVII. 4°. Il Giacobazzi fa distinzione tra due apparizioni della Madonna della Verucchia. L’una è antichissima e pare riferirsi alla edificazione prima della chiesa, e ad essa accenna for11
se la tradizione volgare che chiama la Madonna di Verucchia, la Madonna dello Spino. L’altra apparizione poi è assai più recente, e con contorni cronologici, storici e personali ben determinati e
precisi. Infatti vi si parla della persona a cui la Madonna sarebbe apparsa, Antonia Virgili di Bartolomeo; vi si dice che questi era di Rosola, vi si fa menzione di chi era allora curato di Verucchia, D.
Angelo Maria Sansoni; e inoltre vi si parla d’un processo ecclesiastico che, certamente per ordine
superiore, condusse D. Luca Bertacchi rettore di Villa d’Aiano; e si aggiunge che gli atti di quel
processo compilato dal Bertacchi si conservano nell’Archivio di Semelano.
Ora egli è chiaro che qualora si potesse determinare il tempo in cui il Sansoni fu curato della Verucchia e il Bertacchi rettore di Villa d’Aiano, resterebbe determinato quasi matematicamente anche il
tempo di questa seconda apparizione. Siccome ai tempi che il Giacobazzi scriveva (verso il 1840)
gli atti del processo serbavansi ancora nell’Archivio di Semelano, credetti utile consultarli, perché
gli è evidente che molto lume se ne sarebbe potuto avere circa tutta questa faccenda e su molti particolari. Ma nonostante tutte le ricerche da me fatte e da me fatte fare in quell’archivio, gli atti del
processo non si sono potuti trovare. Mi sono dunque dovuto, mio malgrado, contentare di appurare
solo quando vivevano il Sansoni curato di Verucchia10 e il Bertacchi rettore di Villa.
Ora poiché dagli atti della Curia risulta che il Sansoni viveva attorno il 1670 e il Bertacchi fu rettore
di Villa dal 1666 al 1716, ci pare che la seconda apparizione sia da collocarsi presso a poco verso il
1660.
Ed allora si comprende come per questa rinnovata apparizione dovesse egli riaccendersi e divampare smisuratamente l’entusiasmo divoto nei fedeli. E dall’insieme e dal complesso di tutte queste circostanze accennate dal Giacobazzi risulta ancora che la seconda comparsa, oltre all’accrescere e
raddoppiare la divozione fra i popoli, dovette anche destare molto rumore; tanto è vero che ne fu
steso processo canonico, e il tutto contribuì a fare della Madonna di Verucchia un Santuario. Di qui
i ristauri del 1689 e i due nuovi altari del 1692-93. E tutto questo mi fa credere che appunto per effetto della nuova apparizione e rumore ch’essa destò e per effetto della crescente divozione la chiesa di Verucchia diventò un vero e proprio Santuario, laddove prima era soltanto una chiesicciuola
che serviva solo ai bisogni spirituali delle popolazioni di quei contorni. E c’è dell’altro.
La festa più solenne del solito che celebrasi ogni 25 anni, sembra accennare all’anno 1638 come
punto di partenza; giacché quella del 1913, l’ultima celebrata, era l’undecima. Pare adunque che nel
1638, per qualche favore speciale ottenuto, si cominciasse a solennizzarla con maggior pompa. Resta a vedere se non fosse il 1638 l’anno del trasporto dell’immagine ingiunto alla Virgili.
Anche la constituzione dei beneficii esistenti in Verucchia è molto significativa. Il primo è quello
detto di S. Antonio che puossi in qualche modo chiamare parrocchiale, istituito il 27 settembre 1648
con rogito G. B. Castelli, di collazione dell’Ordinario. Il secondo è il benefizio Sansoni istituito il
21 nov. 1669 a rogito Giovanni Marani. Terzo quello di S. Francesco fondato il 24 nov. 1685 con
rogito Giuseppe Bianchi. Poi quello della Natività di fondazione ignota. Anche la fondazione di
questi benefizii è molto significativa, dissi. Difatti sono fondazioni della seconda metà del seicento.
Il che accenna a un grande ardor di fede e di devozione destatosi in quei paesi e in quei tempi per
l’apparizione da poco seguita.
Anche le tavolette votive sono un indice prezioso. Il Bononcini scrive che da esse si può arguire
l’antichità della divozione: senonché quelle ch’egli passa in rassegna non sono al caso. D’una sola
senza data egli dice ch’è molto antica: il che può essere e non essere. Delle altre alcune sono piuttosto recenti risalendo esse all’ultimo settecento; le restanti sono del sec. XIX.
Qui è anche da toccare dei quattro altari secondari.
Il Giacobazzi scrive che nel 1692 e 93 furon fatti gli altari di S. Michele e del Rosario che stanno a
sinistra di chi entra per la porta maggiore, e presentano le iscrizioni Michael Archangele veni in a10
Circa questo Sansoni, forse della famiglia stessa che poco appresso, 1692, fe’ fare l’altare di S. Michele, sarebbe il
caso d’indagare se questi Sansoni abbiano che fare con quel Sassone o Sansone, che è detto bolognese ma ch’era forse
nativo di Montetortore, il quale nel 1532-33 a capo d’alcune milizie fornite da un Pepoli tentò assalire Montetortore per
darlo ai Bolognesi; ma ne fu respinto da Podetto Menzani e dal giovane Alfonso Montecuccoli, come rilevasi da lettere
di Girolamo fratello di quest’ultimo scritte nell’anno 1580.
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diutorium populo Dei e Recipe Rosarium meum. In hoc signo vinces. Degli altri due altari a destra il
primo per chi entra è dedicato a San Carlo Borromeo colla scritta Elegit eum Dominus sacerdotem
sibi; e l’altro a S. Antonio da Padova coll’iscrizione Gloriosus Deus in sanctis suis. Questa dicitura
pare accennare non a un santo solo, ma a più; e difatti nel quadro oltre a S. Antonio da Padova, figurano S. Lucia e S. Agata che hanno in mezzo S. Antonio Abate. Onde si può dire che il secondo è
dedicato ai due santi Antonii. E veramente il 17 gennaio la famiglia Marchi festeggia S. Antonio
Abate, mantiene la cera a questo altare e ha fatto fare a sue spese una statua di S. Antonio di Padova
che è posta davanti all’Imagine di S. Antonio Abate.
Ne piacerebbe da ultimo riportar qui la serie dei curati o rettori di Verucchia dal sec. XVI in poi;
giacché il pretenderla pei tempi anteriori sarebbe assurdo, non potendosi essa avere neppure per le
proprie e vere parrocchie.
Ma purtroppo fino al 1838 se ne sa ben poco. Qua e là saltuariamente troviamo: un Don Bedinis
verso il 1550, un Don Sansoni verso il 1680, un Don G. B. Ghibellini verso il 1790. Dal 1838 abbiamo la serie compiuta: Don Pedroni fino al 1867, Don Corsini dal 67 al 70, Don Gherardi dal 70
al 1905: poi Don Masotti, Don Monzali e al presente Don Carlo Pagliani, al quale facciamo fervidi
augurii di longevità e di prosperità per il bene e per il lustro della Verucchia.
I Montecuccoli di Montese - Percorso storico
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E. Zaccaria: Verucchia e il suo santuario