Giovanni Servodio
CONSIDERAZIONI
sulla
Istruzione Universae Ecclesiae
Inter Multiplices Una Vox
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Torino 2011 - Pro manuscripto
Considerazioni
sulla
Istruzione Universae Ecclesiae
Premessa
In questi ultimi mesi si è discusso tanto sul tenore dell’Istruzione per l’applicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum, che la Pontificia Commissione Ecclesia Dei avrebbe dovuto emanare già da tempo. In realtà le
indiscrezioni, anche contrastanti, c’erano già state fin dal 2008, ma il continuo
viaggiare della bozza tra un dicastero e l’altro ha sempre impedito di andare
oltre la semplice illazione.
Con la pubblicazione di questa Istruzione, Universae Ecclesiae, vengono azzerate tutte le congetture e si comprende bene, dal testo stesso, che bisognava
attendere lo scadere dei tre anni e l’esame delle deduzioni dei Vescovi, per
definire un testo che dovrebbe valere per molti anni a venire.
La lettura del testo rivela subito una curiosità, forse di per sé indicativa della
mens della Commissione che l’ha emanato e del Santo Padre che l’approvato.
Il documento, reso pubblico il 13 maggio 2011, porta la data del 30 aprile,
“memoria di San Pio V”.
La scelta di questa data fa pensare che il richiamo a San Pio V per un’Istruzione del genere non può essere casuale. È verosimile che si sia voluto sottolineare il rapporto stretto esistente tra la S. Messa tradizionale o di San Pio
V, il Motu Proprio Summorum Pontificum e la presente Istruzione applicativa
di quest’ultimo. Questo denota una cura particolare della Commissione, unita
però alla sottolineatura che il calendario di riferimento dev’essere quello moderno e non quello tradizionale: in effetti in quest’ultimo la memoria del santo
Pontefice cade il 5 maggio.
Di per sé la cosa ha una sua logica, visto che il Motu Proprio intende sottolineare la extraordinarietà dell’uso della liturgia tradizionale, ma una logica
che conferma certi aspetti controversi del documento, di cui parleremo più
avanti.
Uno sguardo in generale
Come era prevedibile, il documento non apporta quasi niente di veramente
nuovo, così che possiamo confermare tutte le considerazioni da noi espresse
a suo tempo sul Motu Proprio, semmai si può dire che nel complesso sono
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sabile per la celebrazione, si introduce una precisazione a doppio taglio. La
celebrazione del Triduo potrà essere ripetuta, una volta col rito moderno e
un’altra col rito tradizionale, ma dal momento che tutto questo è affidato alla
discrezione del parroco o del Vescovo, nulla impedisce che la cosa diventi
praticamente impossibile.
Riti degli Ordini Religiosi (34)
È permesso l’uso dei libri liturgici propri degli Ordini religiosi in vigore nel
1962.
Pontificale e Rituale Romano (35)
Il punto 31 riserva l’uso del Pontificale agli Istituti Ecclesia Dei e a quelli
assimilabili, tale uso esclusivo viene qui ribadito, mentre si permette l’uso del
Rituale e del Cerimoniale dei Vescovi. In pratica i Vescovi potranno celebrare
la S. Messa tradizionale col Cerimoniale antico, ma non potranno compiere
con esso uno dei più importanti atti loro propri: il conferimento dell’Ordine.
Sembra logico dedurne che siano stati proprio i Vescovi a pretendere e ad ottenere l’uso esclusivo del Pontificale moderno, e si comprende la loro pretesa
se si considera che diversamente in una stessa Diocesi vi sarebbero stati due
tipi di ordinati, quasi a fissare due categorie di sacerdoti. La cosa fa un po’ sorridere, perché è come se loro stessi temessero che gli ordinati col Pontificale
tradizionale potessero essere considerati, e potessero considerarsi, ordinati di
serie A, rispetto ai più “ordinari” ordinati di serie B, a conferma che in cuor
loro il Pontificale tradizionale ha qualcosa in più rispetto a quello moderno.
In qualche modo si tratta della riprova che persiste la consapevolezza che la
liturgia tradizionale abbia un valore superiore a quella riformata, nonostante
si continui a ripetere che si equivalgano e che costituiscano due “forme” della
stessa lex orandi.
Con questo si conferma il convincimento che abbiamo espresso prima a più
riprese: che l’uso della liturgia tradizionale viene pensato come un requisito
da circoscrivere il più possibile: tra i laici, solo a quelli che ne fanno richiesta,
tra i chierici, solo a quelli che hanno già deciso o decideranno di vivere ai
margini della vita ecclesiale e comunque lontani dalle parrocchie e dalla cura
ordinaria delle anime.
Giovanni Servodio
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sacerdoti ordinati da questi Istituti non possono accedere alla cura delle anime
nelle parrocchie, tranne i casi eccezionali stabiliti da qualche Vescovo. Quanti
aspiranti seminaristi rimarranno tali?
Ora, se questo ragionamento lo si applica a tutto l’impianto del Motu Proprio,
diventa evidente che il Santo Padre non ha inteso e non intende ripristinare
l’uso della liturgia tradizionale, come primo passo per il recupero anche della
dottrina e della catechesi. Egli ha inteso ripristinare l’uso della sola S. Messa, nell’ottica, dichiarata, di giungere al “reciproco arricchimento” delle due
“forme” in vista della “riforma della riforma”. Arricchimento che, in termini
pratici, significa solo incremento del nuovo rito della Messa con elementi della S. Messa tradizionale… e successiva abolizione di quest’ultima.
Nessuna illusione, dunque, circa possibili recuperi di altra natura. Il Concilio
e il post Concilio non si toccano, solo dove è necessario si mettono a punto,
usando qualcosa del vecchio, che sarà pure un “tesoro prezioso”, ma proprio
per questo è destinato a finire in uno scaffale in formalina.
Breviario Romano (32)
Si ribadisce quanto disposto dall’art. 9 del Motu Proprio, ma stranamente si
aggiunge un chiarimento che sinceramente fa sorridere. «Esso va recitato integralmente e in lingua latina».
Domanda: perché si potrebbe recitare diversamente?
Per quanto riguarda la lingua latina è evidente la riserva mentale che fa dire,
al paragrafo b) del punto 20, che ogni sacerdote che vuole celebrare secondo
il rito tradizionale deve conoscere il latino. La riserva mentale è di tipo snobistico: se si vuole la liturgia tradizionale si deve dimostrare di conoscere il
latino: discorso più volte fatto da diversi Vescovi, non solo ai sacerdoti, ma
anche ai fedeli, e a cui ha accennato lo stesso Benedetto XVI nella sua lettera
ai Vescovi.
Per quanto riguarda la recita “per intero” è chiarissimo il richiamo alla cattiva
abitudine dei preti moderni di accorciare la recita del Breviario moderno, abitudine che evidentemente la Commissione conosce molto bene.
Triduo sacro (33)
Questa è una precisazione importante che fa giustizia di quanto stabilito
all’art. 2 del Motu Proprio, era infatti incomprensibile che i fedeli potessero
usare la liturgia tradizionale tutti i giorni tranne il Triduo. Resta però la limitazione per i sacerdoti che celebrano “senza popolo”, visto che questo punto
33 parla solo dei fedeli, mentre per il sacerdote, che è ovviamente indispen-
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presenti restrizioni e aperture che sembrano compensarsi, per la natura necessariamente compromissoria di questi documenti, dati i tempi. Lo stesso
accadde col Motu Proprio. Insieme però si trovano alcuni punti che hanno un
carattere restrittivo sorprendente e per certi aspetti pericoloso: li vedremo nel
corso di queste considerazioni.
La prima cosa che si nota è che dopo tre anni di applicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum, la questione della universalità dell’uso della liturgia tradizionale rimane irrisolta.
Nell’introduzione al documento viene ribadito che l’uso della liturgia tradizionale è legato, in primis, al fatto che si tratta di un “tesoro prezioso da
conservare”, e questa conservazione viene affidata ai fedeli che intendono
praticare tale liturgia. Nella logica dell’universalità della Chiesa è evidente
che il permanere di questa visione parziale, un po’ sentimentale e un po’ personalistica, costituisce una grossa lacuna.
Chi pensava che con questa Istruzione si sarebbero fatti dei passi avanti è
rimasto deluso, anche se un po’ delusi sono ugualmente rimasti coloro che
speravano che l’Istruzione comportasse chissà quali restrizioni. In realtà era
difficile che si verificasse un qualche cambiamento importante, viste le intenzioni che il Santo Padre ha voluto esprimere in molte occasioni su questo e su
altri argomenti connessi. In effetti, l’idea direttrice è di non mettere minimamente in dubbio quanto si è consolidato in questi anni a partire dal Concilio,
pur avendo in vista quelli che il Papa ritiene essere i necessari correttivi. Il che
comporta inevitabilmente che l’uso della liturgia tradizionale deve rimanere
un elemento di contorno legato a particolari circostanze e a personali sensibilità, senza alcun rapporto con l’universalità della liturgia cattolica romana,
che si conferma essere ritenuta altro dalla liturgia tradizionale.
L’Introduzione (1-8)
Notiamo subito che al n° 2 si ricorda che «Con tale Motu Proprio il Sommo
Pontefice Benedetto XVI ha promulgato una legge universale per la Chiesa».
È evidente che tale sottolineatura è rivolta a tutti coloro che hanno osteggiato
in tutti i modi il Motu Proprio e la sua applicazione, Vescovi in testa.
Si richiamano poi alcuni dati storici precedenti il Motu Proprio, ricordando
(n° 4) un elemento rimasto sempre poco chiaro nel suo vero significato: il
Missale Romanum «ha ricevuto nuovi aggiornamenti lungo il corso dei tempi
fino al Beato Papa Giovanni XXIII». Cosa certamente vera, ma che lascia imprecisato il senso di tali cambiamenti, anche se dalla stessa formulazione della frase si può pensare che fino a Giovanni XXIII si sia trattato di “aggiornamenti” secondari. Solo per il Messale di Paolo VI, infatti, si parla di “nuovo”,
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suggerendo quindi l’idea che esso rappresenti non più un “aggiornamento”,
ma una mutazione, di cui peraltro anche qui non si lascia intendere la portata.
Quando poi al n° 7 viene riportato un passo della Lettera di accompagnamento al Motu Proprio, si finisce col ribadire uno degli elementi controversi
del Motu Proprio stesso: «Ciò che per le generazioni anteriori era sacro,
anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del
tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso». Questa frase esprime un
concetto sacrosanto, appunto, ma è in contraddizione con quanto detto appena
prima: «Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Messale Romano. Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna
rottura».
Ora, se il Messale moderno, chiamato “forma ordinaria”, rappresenta una
crescita e un progresso rispetto al Messale tradizionale, chiamato “forma extraordinaria”, logica vuole che quest’ultimo scompaia in quanto assorbito dal
primo, tanto più che quest’ultimo non sarebbe in contraddizione con l’altro.
È quello che fece in effetti Paolo VI. Solo che qui si dice che quello tradizionale, per il suo essere sacro e grande, non può essere né “proibito del tutto”
né “giudicato dannoso”. Ma è evidente che tale sacralità e grandezza non può
che essere presente anche nel nuovo Messale, tale che l’antico sarà pure sacro
e grande, ma a questo punto è inutile. Che senso ha quindi fare un Motu Proprio per permetterne ancora l’uso?
L’unica cosa logica che si può pensare è che i due Messali, pur volendoli considerare l’uno sviluppo dell’altro, sono talmente diversi da costringere a farli
coesistere. E se il Messale tradizionale è sacro e grande, allora è ben possibile
ritenere che il nuovo non lo sia, con tutte le conseguenze del caso. Se invece quest’ultimo lo fosse, ma al tempo stesso si riscontrasse la sua diversità
rispetto al primo, ne deriverebbe che lo stesso concetto di “sacro e grande”
sarebbe applicabile a due cose diverse.
Trattandosi però di due Messali, cioè del libro fondamentale della liturgia
romana della Chiesa cattolica, il tutto non è più sostenibile. C’è un’evidente
contraddizione.
Tale contraddizione è lievemente mascherata da quanto è stato più volte dichiarato negli ultimi 10 anni e che qui viene ribadito al punto 6: «Per il suo
uso venerabile e antico, la forma extraordinaria deve essere conservata con
il debito onore».
Ci si chiede: perché?
Non ha senso mantenere qualcosa di venerabile e antico solo per questo, si
tratterebbe di mero estetismo, una venerabilità da museo, che solo la mentalità moderna trova apprezzabile. Soprattutto trattandosi di “cose di Dio”, una
cosa “venerabile e antica” è da tenere in onore, non per questa sua qualità
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chierici di usare il Breviario tradizionale, era quindi logico che di fronte a questa lacuna l’Istruzione desse delle indicazioni, tenuto conto dell’esperienza di
questi quattro anni e della crescita di richieste di diversi seminaristi.
Le indicazioni ci sono (punti 30 e 31), ma escludono l’uso del Pontificale nelle
Diocesi, il che significa che in pratica escludono la possibilità che i fedeli che
“venerano” la liturgia tradizionale, una volta diventati seminaristi possano beneficiare completamente dell’uso di essa. Questo è permesso solo agli Istituti
Ecclesia Dei e a quelli assimilabili. Per di più, anche per questi Istituti si introduce la limitazione dell’incardinazione possibile solo per i diaconi, a norma
del nuovo Codice di Diritto Canonico, escludendo così la valenza canonica
della tonsura, degli ordini minori e del suddiaconato.
Salta all’occhio una palese contraddizione. Per questi Istituti si ribadisce l’uso
dei libri liturgici tradizionali, ma aggiornati in base al nuovo Codice di Diritto
Canonico. Ora, il punto 28 di questa Istruzione dice che «in forza del suo
carattere di legge speciale, nell’ambito suo proprio, il Motu Proprio Summorum Pontificum, deroga a quei provvedimenti legislativi, inerenti ai sacri Riti,
emanati dal 1962 in poi ed incompatibili con le rubriche dei libri liturgici in
vigore nel 1962».
Qualcuno dovrà pur spiegare cosa significhino le espressioni “sacri Riti”, “libri liturgici”, “provvedimenti legislativi”, perché se l’italiano non è un’opinione è evidente che qui si parla o si parlerebbe di libri liturgici, tutti, da
usare derogando dal nuovo Codice di Diritto Canonico. Perché quindi queste
precisazioni dei punti 30 e 31?
Questa contraddizione, però, è una chiarificazione implicita, poiché essa sancisce che il Motu Proprio non intende ripristinare, sia pure in parte, l’uso dei
libri liturgici tradizionali, ma solo l’uso del Messale, confermando che nulla
dev’essere cambiato dell’impianto uscito dal Concilio.
Ci rendiamo perfettamente conto che l’espressione “uso dei libri liturgici”
non potrebbe comportare lo stravolgimento dell’ordinamento attuale della
Chiesa, ma invitiamo a riflettere sulle implicazioni di questo aspetto, alla luce
di questa Istruzione.
Se un fedele tradizionale vuole entrare in seminario dovrà sottostare alla nuova normativa e, soprattutto, all’intero impianto moderno, dall’istruzione alla
liturgia. Le uniche cose che gli sono permesse sono l’uso del Breviario e possibilmente l’apprendimento della celebrazione della S. Messa tradizionale,
sempre che questo sia possibile per volontà dei Superiori e del Vescovo.
Diversamente non può fare altro che rivolgersi ad un Istituto Ecclesia Dei, sottostando alla difficile situazione esistente di fatto: a) questi Istituti non sono in
grado di assicurare l’accesso in seminario a tutti i fedeli che ne fanno richiesta
e che sono idonei – in Italia, per esempio, non esiste un solo seminario – b) i
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In caso di penuria di sacerdoti idonei, gli Ordinari potranno ricorrere agli
Istituti Ecclesia Dei, sia per celebrare sia per istruire.
Il punto 23 ribadisce poi che ogni sacerdote può celebrare liberamente (senza
il popolo) senza bisogno di alcun permesso del Vescovo. Perché questa ripetizione, quando la disposizione, chiaramente espressa, era proprio il punto
di partenza dello stesso Motu Proprio? Evidentemente perché in questi quattro anni i Vescovi hanno attuato ogni tipo di dissuasione, di pressione e di
minaccia nei confronti dei loro preti, ma allora, perché non si è provveduto
a stabilire una qualche limitazione all’abuso dei Vescovi, magari invitando
formalmente gli interessati a ricorrere alla Commissione oppure ad una Congregazione?
La disciplina liturgica ed ecclesiastica (24-28)
Cinque punti in cui si ribadisce che i libri liturgici del 1962 devono essere
seguiti fedelmente, ma si aggiunge, fin d’ora, che il Messale, “dovrà” essere
cambiato, cominciando con l’aggiunta di nuovi Santi e di nuovi prefazi, come
stabilirà la Commissione.
Intendiamoci, questa questione non solleva alcuna perplessità, nel metodo,
poiché ci sembra logico che si possa aggiornare il Santorale o si possa aggiungere qualche prefazio, è nel merito che bisognerà vedere quali Santi verranno
introdotti e quali espunti o declassati, tenuto anche conto del fatto che le canonizzazioni di questi ultimi 30 anni hanno superato tutte le precedenti. Lo
stesso dicasi per i prefazi.
Cresima e Ordine sacro (29-31)
Questi tre articoli confermano l’impianto del Motu Proprio per quanto riguarda la distinzione tra uso del Messale e uso degli altri libri liturgici. A suo
tempo facemmo notare come uno dei difetti del Motu Proprio fosse il mancato
riconoscimento del “diritto” dei fedeli di poter fruire dell’intera liturgia tradizionale. L’art. 9 del Motu Proprio si esprimeva in maniera concessiva ed eccezionale riguardo al Battesimo, al Matrimonio, alla Confessione e all’Estrema
Unzione, rimettendo tutto alla totale discrezione del parroco. L’Istruzione,
ancorché qua e là parli di “libri liturgici”, non parla di questi Sacramenti,
ragion per cui si deve ritenere che continui a valere la totale discrezione del
parroco. Lo stesso dicasi per la Cresima, rimessa alla discrezione del Vescovo.
Ma l’Istruzione fa delle precisazioni che rivelano la mens della Commissione
e del Santo Padre.
Nel Motu Proprio non si parlava dell’Ordine sacro, l’art. 9 dava facoltà ai
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esteriore, ma per ciò che essa è intrinsecamente: per il suo valore liturgico
e dottrinale, che non conosce né tempo né luogo, poiché è perenne come la
Chiesa stessa. Dunque, non qualcosa da conservare, in modo più o meno onorevole, ma una cosa da praticare fino alla Parusia.
Se questa funzione la assolve il Messale moderno, il Messale tradizionale è
inutile, se invece si sente il bisogno di mantenere il Messale tradizionale è
perché il moderno non è idoneo alla bisogna.
Queste considerazioni, da noi espresse dal nostro punto di vista, vengono
richiamate, da un altro punto di vista, al n° 8, ai punti a), b) e c).
Qui infatti è detto che il Messale tradizionale è “un tesoro prezioso da conservare”. Il che significa che è un pezzo da museo che non va dimenticato e
che dev’essere tenuto sempre lustro e in bella vista, a memoria degli antichi
splendori. E neanche si può pensare che definendolo così lo si voglia assimilare ad una reliquia, poiché in questo caso se ne dovrebbe raccomandare la
“venerazione”, non la semplice conservazione.
Questo pezzo da museo, però, non è tale per certi fedeli cattolici che invece
lo ritengono vivo e vitale, quindi si reputa opportuno «garantire e assicurare
realmente a quanti lo domandano» il suo uso.
Perché?
Dal resto della frase (punto b) sembrerebbe che il motivo sia il “bene dei fedeli”, bene non meglio precisato. C’è da supporre che si tratti del bene supremo
dei fedeli, la “salus animarum”, perché qualsiasi altro bene non giustificherebbe l’uso di una liturgia che non è più quella usata ordinariamente dalla
Chiesa, si tratterebbe di una mera preferenza personale, del tutto ingiustificata
in materia. Ma se si dà facoltà a questi fedeli di usare il Messale tradizionale
per il bene della loro anima, è evidente che si ritiene inadatto a questo scopo il
Messale moderno, chiamato “forma ordinaria”. Il che è davvero singolare per
la Chiesa. E non può non trattarsi di questo, poiché diversamente si dovrebbe
constatare che la Chiesa darebbe facoltà ai fedeli di usare la liturgia che più
loro aggrada, anzi stimolerebbe i fedeli a richiedere una diversa liturgia per
quante sono le sensibilità e i gusti dei vari gruppi. Insomma, non sarebbe più
la Chiesa a decidere qual è la liturgia più idonea per la salus animarum, ma i
fedeli stessi, così che, seguendo questo filo logico, è plausibile supporre che
in avvenire la Chiesa potrebbe ammettere tante “forme” della stessa liturgia
romana, tutte ugualmente e inspiegabilmente riconducibili allo stesso principio della lex orandi lex credendi, richiamato anche qui.
D’altronde, è innegabile che per certi aspetti questo si verifica già in seno
alla Chiesa, sia dal punto di vista della pratica liturgica sia in relazione alle
autorizzazioni rilasciate dalla Santa Sede o dalle Conferenze episcopali - per
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tutte valga l’esempio dell’approvazione definitiva degli Statuti dei Neocatecumenali.
In questa ottica occorre considerare quello che sembrerebbe essere l’obiettivo
ultimo del Papa: la cosiddetta “riforma della riforma”. Se è questo lo scopo
ultimo della rimessa in auge della liturgia tradizionale si è costretti a chiedersi
quale possa essere la sua sorte futura sulla base di quanto affermato nel Motu
Proprio e ribadito in questa Istruzione.
Quale che sarà questa “riforma della riforma”, logica vuole che assolva ad
un compito primario: ripristinare nella Chiesa una sola “forma” liturgica, ma
questo significa mettere a punto un nuovo Messale che comprenda elementi di
quello tradizionale e di quello moderno. A questo punto si delineano due sole
possibilità: o il nuovo Messale della “riforma della riforma” verrà affiancato
a quelli esistenti, costituendo una terza “forma” (che si potrebbe chiamare
superordinaria), o verrà imposto come frutto dell’ulteriore crescita e sviluppo. Nel primo caso si confermerebbe quanto abbiamo appena accennato, nel
secondo caso si porrebbe un problema di non poco conto.
Se il Messale tradizionale è necessario che oggi venga mantenuto perché “sacro e grande”, dovrà continuare ad essere mantenuto anche con la “riforma
della riforma”, tale che quest’ultima si imporrebbe solo per il nuovo Messale,
a significare che esso è inidoneo a costituire la liturgia romana. Com’è dunque
possibile che oggi lo si continui a considerare la “forma ordinaria”? Fino alla
“riforma della riforma” i fedeli avranno usufruito di uno strumento inidoneo
per veicolare la Grazia… che ne è delle anime dei fedeli cattolici vissuti in
questo periodo di vacanza (50, 60, 70 anni?).
Ma la “riforma della riforma”, in quanto “crescita e progresso”, potrebbe invece richiedere la logica scomparsa del Messale tradizionale, assestando un
colpo mortale a tutte le giustificazioni odierne circa la necessità del Motu
Proprio. Non ci sarebbe più bisogno di conservare questo tesoro prezioso,
facendo riflettere sulla serietà delle affermazioni attuali.
A tutto questo occorre aggiungere qualche considerazione sul terzo obiettivo
del Motu proprio, qui indicato al punto c).
Quando si dice che questo Motu Proprio intende «favorire la riconciliazione
in seno alla Chiesa», si afferma, forse senza volerlo, una cosa gravissima,
poiché si sancisce che intorno all’uso di questo o di quel Messale è nata la
discordia in seno alla Chiesa. Che tipo di discordia?
La prima cosa che viene in mente è proprio quanto affermato dal Papa nella
Lettera ai Vescovi «Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per
noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito
o, addirittura, giudicato dannoso». Si potrebbe pensare che questa affermazione faccia riferimento alla ormai famosa “ermeneutica della rottura”, se non
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unificato in un unico consorzio umano dove ognuno crede al dio che vuole o
anche a nessun dio.
Questo è quello che si chiede in pratica, perché diversamente… niente liturgia
tradizionale!
Tutto questo è paradossale, ma è anche estremamente ridicolo, poiché la condizione imposta dall’Istruzione è passibile di un’altra lettura.
Se essa è rivolta ai fedeli che chiedono l’uso della liturgia tradizionale, è
evidente che esclude tutti quelli che non la chiedono, compresi coloro che
“venerano” questa liturgia, ma non ne chiedono l’uso. Tutti costoro sono lasciati liberi di essere «contrari alla validità o legittimità della Santa Messa o
dei Sacramenti celebrati nella forma ordinaria e/o al Romano Pontefice come
Pastore Supremo della Chiesa universale». Essi non sono sottoposti ad alcuna
condizione, possono essere contrari, dissentire, disconoscere, essi rimangono
esemplari fedeli sudditi di Santa Romana Chiesa, sottomessi al Romano Pontefice. E sarebbe vano richiamarsi al Codice di Diritto Canonico, poiché non
v’è un documento della Santa Sede in cui si faccia un discorso simile nei confronti dei fedeli, dei preti, dei Vescovi e dei Cardinali che nel mondo intero
non seguono le direttive della Santa Sede, dissentono dalle decisioni del Papa
e scrivono, parlano e predicano perfino contro il Vangelo, gli articoli di Fede,
la transustanziazione e la Resurrezione.
Siamo davvero al ridicolo, se non fosse che è questa la realtà oggettiva della
Chiesa odierna.
Chissà se tanti amici tradizionali si rendono conto di questo pericoloso andamento della politica del Papa.
Andiamo oltre.
Il sacerdote idoneo (20-23)
Tre punti, sufficientemente semplici. Non essere canonicamente impediti, conoscere le basi del latino, aver celebrato col Messale tradizionale, ovviamente
anche se solo in privato. Ciò che solleva qualche perplessità è proprio questa
elencazione: i sacerdoti che si offrono per la celebrazione della liturgia tradizionale o chiedono di celebrarla, saranno sottoposti a verifica? E da chi?
Avendo coscienza dello stato della preparazione dei preti odierni, l’Istruzione
chiede agli Ordinari di “offrire” al clero la possibilità di prepararsi per celebrare con i libri liturgici tradizionali, estendendo l’invito anche per i seminari,
per i quali però si dice che l’Ordinario “dovrà provvedere”, imponendogli
dunque un obbligo, ma sempre che “le esigenze pastorali lo suggeriscono”,
togliendo quindi l’obbligo appena imposto.
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ipotesi, per evidenziare l’enormità della condizione esposta nell’Istruzione e
per far emergere il suo vero motivo.
Fermo rimanendo il fatto che per un cattolico è semplicemente inconcepibile
che si possa mettere in dubbio la validità o la legittimità del Romano Pontefice, occorre tenere presente che da qualche anno è invalsa l’abitudine di
difendere ed esaltare il Papa ad ogni costo, anche quando si sentisse il bisogno
di criticare certe sue decisioni o posizioni. Il Papa va difeso comunque, sia ad
extra sia ad intra, non importa cosa dica o faccia, perché pare che ubi Petrus,
ibi Ecclesia, debba coniugarsi indipendentemente dallo stato della Chiesa,
della Santa Religione, della Fede stessa. Ciò che dice e fa il Papa è pari al
Vangelo, anche quando si ha la netta sensazione che contrasti il Vangelo. Questo fideismo papista si è accentuato soprattutto in ambito tradizionale, dove
molti si vanno sempre più convincendo che difendere la Tradizione significhi
innanzi tutto difendere il Papa, sostenendolo in tutte le sue iniziative, in tutti i
suoi discorsi, in tutte le sue dichiarazioni. Magari con qualche mugugno, ma
avendo cura di non darlo a vedere.
È in questa ottica che l’Istruzione specifica e amplifica la vecchia condizione
imposta da Giovanni Paolo II nella Quattuor abhinc annos, e lo fa riferendosi
esattamente ai fedeli che “venerano” la liturgia tradizionale, quasi come dire:
se siete veramente fedeli alla Tradizione dovete essere manifestamente sottomessi al Papa. Un ragionamento che sicuramente ha fatto gioire i Vescovi,
ansiosi di dimostrare che i fedeli tradizionali rifiutano la liturgia moderna, il
Concilio e il Papa, cioè la Chiesa stessa.
Una sorta di ricatto intellettuale, messo in essere allo scopo di costringere i
fedeli tradizionali ad accettare la logica della intangibilità del Concilio e delle
sue riforme, la logica del progresso del magistero, la logica dell’aggiornamento continuo della pastorale, il tutto per amore della S. Messa. E questo ricatto
viene attuato avendo in vista degli obiettivi precisi: i fedeli, se vogliono fruire
della liturgia tradizionale, devono sostenere e difendere il Papa quando difende ed esalta il Concilio, quando dichiara che ognuno è libero di professare la
religione che vuole e perfino di cambiare religione, quando invita gli eretici
protestanti a collaborare con i dicasteri vaticani, quando apre un dialogo fraterno e paritario con gli Ebrei, quando si industria per stabilire rapporti fraterni con i musulmani, quando istituisce tavoli di incontro dialogante con tutte
le false religioni, quando invita ogni specie di religione e di pseudo religione
a pregare ad Assisi, quando incarica un cardinale espressamente nominato ad
aprire un dialogo stabile, formale e pubblico con gli atei e con i nemici della
Chiesa cattolica, quando fa tutto questo allo scopo di giungere ad un reciproco arricchimento, quando fa tutto questo per perseguire quella che è ormai
diventata la nuova legge della Chiesa: la pace nel mondo, auspicabilmente
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fosse che la pubblicazione della Costituzione Apostolica Missale Romanum
del 3 aprile 1969 con la quale “viene promulgato il Messale Romano rinnovato per ordine del Concilio Ecumenico Vaticano II” non è opera di un
ermeneuta sia pure autorevole, ma del Papa Palo VI.
Ora, né nel Motu Proprio né in questa Istruzione si trova un minimo cenno al
fatto che Paolo VI abbia indebitamente causato la discordia nella Chiesa, né
tampoco si trova il minimo richiamo al fatto che quel Papa commise un grave
errore e un clamoroso abuso. Semmai si potrà far notare, come facciamo noi,
che la colpevole responsabilità di Paolo VI sia semplicemente sottintesa. Ma
questo aprirebbe un altro problema: se fu erronea la promulgazione del nuovo
Messale, com’è possibile che esso venga ancora considerato la “forma ordinaria” della liturgia romana?
C’è qualcosa che non va!
Se invece dobbiamo tenere per corretta la promulgazione del nuovo Messale,
questa frase non ha alcun senso, poiché è logico e inevitabile che la promulgazione del nuovo Messale, soprattutto per le sue caratteristiche ampiamente innovative, comportasse la proibizione dell’uso del vecchio. Questo non toglie
nulla alla sacralità e alla grandezza di quest’ultimo, ma lo colloca al rango di
reperto da museo, rendendo ingiustificato il Motu Proprio.
D’altronde, si potrebbe invece pensare che la discordia da superare con la “riconciliazione” qui indicata, non dev’essere fatta risalire alla promulgazione
del Messale moderno, bensì alla posizione assunta da quei fedeli, chierici e
laici, che non hanno accettato la nuova liturgia, ragion per cui il Motu Proprio
intenderebbe sanare una ferita apertasi nella Chiesa per colpa di un gruppo di
irriducibili resistenti. Resistenti ad una legittima decisione del Papa e quindi
della Chiesa.
Ma anche così c’è qualcosa che non va!
Non è ammissibile che il rifiuto di una decisione del Papa, soprattutto in materia così grave, possa costituire un fattore legittimo, fino al punto da richiedere l’emanazione di un Motu Proprio che sancisca espressamente il bisogno
di “garantire e assicurare realmente” a questi resistenti l’esercizio del loro
diritto di rifiutare la decisione del Papa. Né si può pensare che questa macroscopica stortura canonica e teologica, possa essere raddrizzata dal richiamo
alla necessità che questi resistenti sono legittimati a resistere solo a condizione che accettino la legittimità del Messale moderno. Si tratterebbe ancora di
una impossibilità, poiché non si può stabilire la legittimità della resistenza a
condizione che i resistenti accettino ciò che non vogliono accettare e che è la
ragion d’essere della loro resistenza. La contraddizione è così palese che in
alcun modo è possibile risolverla o camuffarla.
Vi è una sola via d’uscita: che i sostenitori della liturgia tradizionale devono
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essere considerati, ed essi stessi devono considerarsi, degli esteti a cui si riconosce la possibilità di coltivare la loro passione, fermo restando che la liturgia
ordinaria della Chiesa è quella che a loro non piace, ma che per ubbidienza
devono riconoscere come l’unica liturgia ordinaria.
È del tutto evidente che, in questo caso, il richiamo alla riconciliazione in seno
alla Chiesa è un semplice modo di dire che, mentre non significa niente, vuole
gettare fumo negli occhi cercando di accontentare tutti senza scontentare nessuno. Cosa invero molto politica… e molto poco cattolica.
Compiti della Pontificia Commissione Ecclesia Dei (9-11)
Questi tre punti completano in qualche modo quanto stabilito dal Motu Proprio. L’osservanza e l’applicazione del Motu Proprio sottostanno alla vigilanza della Commissione, che a questo scopo è stata già accorpata alla Congregazione per la Dottrina della Fede.
Questa decisione solleva invero qualche perplessità circa il legittimo rapporto
che può esserci tra l’applicazione del Mou Proprio e la competenza della Congregazione, poiché il dicastero più idoneo a svolgere questa funzione sarebbe
la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. L’unica
giustificazione per questa anomalia è che il Papa abbia inteso porre tutta la
materia sotto la sua più immediata sorveglianza, tenuto conto che la Congregazione per la Dottrina della Fede, nonostante lo sconvolgimento della Curia
operato da Paolo VI e da Giovanni Paolo II, tende oggi a riprendere l’antica
connotazione che fu del Sant’Uffizio: la Congregazione del Papa.
In questa ottica, la Commissione diventa un tribunale d’appello a cui si può
ricorrere avverso le decisioni degli Ordinari che “sembrino” contrari al Motu
Proprio. Lasciamo ai canonisti il compito di addentrarsi nella intricata questione delle decisioni che “sembrano” e notiamo che, in ultima analisi, la decisione spetta al Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, così che si può
ritenere che la competenza della Commissione si limiti in fondo alla pratica
del semplice buon senso. Il che, pur con questi limiti, è un passo avanti rispetto alla situazione degli ultimi quattro anni.
Tra le competenze della Commissione si precisa (n° 11) che rientrano quelle
relative alla cura di nuove edizioni dei libri liturgici della liturgia tradizionale.
La cosa è singolare per due motivi.
Il primo è che ancora una volta si vuole confermare la “straordinarietà” di
questa liturgia e dello stesso Motu Proprio che ha inteso regolarne l’uso. La
competenza in materia liturgica, infatti, è ordinariamente della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, ma evidentemente la
liturgia tradizionale ha poco a che vedere con la liturgia della Chiesa.
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Quindi è stata “reintrodotta” questa condizione per permettere ai Vescovi di
segnare a fuoco tutti coloro che chiedono la celebrazione tradizionale, che
notoriamente loro non condividono. Permettendo, tra l’altro, che qualunque
ricorso alla Commissione Ecclesia Dei possa essere dichiarato irricevibile per
questo vizio che i Vescovi si premureranno di evidenziare.
Sembra incredibile, ma quello che il Motu Proprio pareva aver superato, eccolo nuovamente in auge: ogni Vescovo potrà indicare uno o più fedeli come
non meritevoli di poter usufruire del Motu Proprio perché amici di chi, secondo gli stessi Vescovi, è contrario alla validità o legittimità della liturgia
tradizionale. 1984-2011, 27 anni trascorsi invano.
Facciamo un esempio, per essere pratici e chiari: se un fedele fa notare al
parroco o al Vescovo che la liturgia moderna a cui assiste nella sua parrocchia
o nella parrocchia vicina è scomposta o impropria o respingente o perfino
scandalosa, da quel giorno il fedele verrà segnato sul libro nero dei reprobi.
Se poi si venisse a sapere che questo fedele si è espresso favorevolmente nei
confronti della liturgia tradizionale celebrata in una cappella, per esempio,
della Fraternità San Pietro o dell’Istituto del Buon Pastore, dove ha anche
ascoltato una omelia di cui ha apprezzato i contenuti, da quel giorno il fedele
verrà considerato un reietto e non verrà scomunicato solo per opportunità
pastorale… cioè per evitare che diventi un esempio da imitare.
È chiaro che esageriamo, ma è parimenti chiaro che questa è la mens dell’Istruzione.
Sono passati 33 anni dalla morte di Paolo VI, ma sembra che certa mentalità
discriminatoria sia dura a morire, nonostante tutte le aggiornate ermeneutiche
di questo mondo.
Questo punto, però, aggiunge un elemento che neanche Paolo VI si era permesso di concepire. Il reato di lesa maestà.
I fedeli di cui si tratta non «devono in alcun modo sostenere o appartenere a
gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità… [del] Romano
Pontefice come Pastore Supremo della Chiesa universale».
Si tratta chiaramente di una colossale forzatura e di un espediente molto più
pericoloso della vecchia mentalità discriminatoria e vessatoria.
Subito bisogna dire che, come per la liturgia moderna, non esiste nessun gruppo che metta in dubbio la validità o la legittimità del Pontefice. Ciò a cui si riferirebbe l’Istruzione è semplicemente inesistente… tranne che non si volesse
sostenere che dopo quattro anni di applicazione del Motu Proprio qualcuno, a
Roma, illuminato chissà da che, si sarebbe accorto della terribile incombente
pericolosità dei cosiddetti “sedevacantisti”, tanto da sentire l’impellente bisogno di premunirsi contro costoro (senza peraltro nominarli), ormai ritenuti
pervadere tutto il mondo tradizionale e tutta la Chiesa. La formuliamo, questa
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ponevano condizioni limitative legate alle intenzioni dei fedeli o alle loro
frequentazioni materiali o intellettuali. Ma ciò che era uscito dalla porta del
Motu Proprio eccolo rientrare dalla finestra di questa Istruzione.
I fedeli che “venerano” la liturgia tradizionale non «devono in alcun modo
sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o
legittimità della Santa Messa o dei Sacramenti celebrati nella forma ordinaria
e/o al Romano Pontefice come Pastore Supremo della Chiesa universale».
Ci sembra opportuno ricordare qui la condizione simile presente nel famoso
“indulto” del 1984 (Quattuor abhinc annos), poi richiamato dal Motu Proprio
Ecclesia Dei (Art. 6 e nota 9): «a) Con ogni chiarezza deve constare anche
pubblicamente che questi sacerdoti ed i rispettivi fedeli in nessun modo condividano le posizioni di coloro che mettono in dubbio la legittimità e l’esattezza dottrinale del Messale Romano promulgato dal Papa Paolo VI nel 1970».
Se si confrontano le due condizioni, si constata che la condizione posta da
questa Istruzione è più specifica, più restrittiva e più esigente della precedente. La cosa non è solo sorprendente, ma perfino pericolosa per le sue implicazioni.
La condizione del 1984 aveva in vista la posizione critica dei fedeli a riguardo del nuovo Messale, cosa che la Santa Sede riteneva inammissibile poiché il nuovo Messale doveva ritenersi totalmente esente da critiche in quanto
espressione della volontà del Sommo Pontefice.
Cos’ha in vista la condizione attuale?
Sembrerebbe la stessa cosa, ma ci sono delle distinzioni importanti.
La prima distinzione è che oggi i fedeli possono condividere qualsiasi posizione, ma possono farlo senza “sostenere o appartenere a gruppi”, e questo
sembra essere coerente con il Motu Proprio, poiché è la sua stessa natura che
comporta la critica alla liturgia moderna. Non si comprenderebbe infatti come
questi fedeli possano “venerare” la liturgia tradizionale senza considerare
quella nuova inidonea e perfino pericolosa. Tranne che, ancora una volta, non
si volesse sostenere che a tali fedeli si permette l’uso della liturgia tradizionale
solo sulla base della loro piacevolezza, perfino spinta fino alla venerazione.
Qui invece l’inciampo sta nel loro voler giungere fino a condividere o appartenere a gruppi contrari. Ma quali sarebbero questi gruppi?
Fino a prova contraria non esiste alcun gruppo che si manifesta contrario “alla
validità o legittimità” della liturgia moderna, ed è notorio che perfino la Fraternità San Pio X non ne mette in dubbio la validità. Semmai si potrà dire che
vengono avanzate riserve, e da più parti, circa la necessaria efficacia della
liturgia moderna in vista della salvezza delle anime, tali che si parla di equivocità e di pericolosità di questa liturgia. Ma questo aspetto non viene preso
in considerazione dall’Istruzione… quindi?
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Il secondo motivo è che questo punto 11 solleva un interrogativo di una rilevanza straordinaria. Prima ancora che l’uso della liturgia tradizionale trovi
la sua definitiva regolamentazione, ci si preoccupa di precisare che essa è
destinata a subire delle variazioni, in tutti i suoi aspetti, per mano, non di una
commissione di liturgisti, canonisti e teologi appositamente designata per la
bisogna, ma di una Commissione speciale che non si comprende bene come
farebbe a curare seriamente l’edizione di nuovi libri liturgici che comporterebbero il cambiamento di quel “tesoro prezioso” fin qui ribadito come intangibile.
Questo punto molto discutibile adombra la volontà di muoversi verso la cosiddetta “riforma della riforma”, trasformando la liturgia di Paolo VI, e contemporaneamente la liturgia tradizionale, in modo tale da giungere gradatamente
alla ambivalenza delle due “forme”, tale da richiederne la cancellazione e la
sostituzione con una nuova liturgia che le compendii entrambe.
Non è esagerato ritenere che in queste condizioni la liturgia tradizionale dovrà subire tutte le trasformazioni richieste sia dalle istanze che portarono alla
liturgia moderna, sia dalle nuove istanze che vanno continuamente sorgendo
in termini di “crescita e progresso”, che è risaputo oggi si muovono con un
ritmo accelerato e con lo scopo di instaurare una nuova concezione del sacro
che risponda alle esigenze dell’uomo più che alle esigenze di Dio.
Norme specifiche (12)
Competenza dei Vescovi diocesani (13-14)
Questi due punti ricordano da un lato la responsabilità dell’Ordinario in materia liturgica e dall’altro assegnano al Vescovo il compito di garantire l’applicazione del Motu Proprio in accordo con la mens del Sommo Pontefice,
ripetendo che in caso di controversia o dubbio fondato interverrà il giudizio
della Commissione.
Nulla è detto, anche larvatamente, in riferimento alla notissima e plateale
opposizione dei Vescovi. Sarà pure una questione di prudenza, ma certo è che
innanzi tutto è questione di collegialità, per cui il Papa propone e i Vescovi
dispongono, in coerente applicazione dei principi introdotti dal Vaticano II.
I fedeli (15-19)
L’Istruzione intitola questa parte coetus fidelium, essa comprende diverse disposizioni riguardanti più soggetti interessati all’uso della liturgia tradizionale.
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Il punto 15 precisa e amplia il significato di “gruppo di fedeli” indicato
nell’art. 5 del Motu Proprio. Si tratta indubbiamente di un chiarimento necessario che definisce il senso dell’espressione “gruppo di fedeli” sulla base
dell’esperienza di questi quattro anni. In questo caso è stato apportato un importante miglioramento alla generica definizione contenuta nel Motu Proprio,
procurando nel contempo diverse nuove questioni.
Per gruppo di fedeli esistente stabilmente (stabiliter exsistens) si deve intendere l’insieme di “alcune” persone riunite “in ragione della loro venerazione”
per la liturgia tradizionale. Per la prima volta viene usato il termine “venerazione”, che, essendo riferito ai fedeli, sta a significare che questa liturgia,
dalla Chiesa “considerata tesoro prezioso da conservare”, può essere oggetto
di venerazione da parte di certi fedeli. Una sottile precisazione che conferma
il concetto di “liturgia per pochi”, ai quali si dà facoltà di praticarla.
Il termine “alcune” finirà per suscitare nuove cavillose discussioni, ma sembra evidente che in questo caso può essere valido solo il richiamo alle parole
del Signore: «Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in
mezzo a loro» (Mt. 18, 20). Un significativo passo avanti, rafforzato dal fatto
che i fedeli in questione possono appartenere a parrocchie o diocesi differenti.
Tuttavia è indicato uno strano vincolo. Quando si dice dei fedeli “che a tal
fine si riuniscano in una determinata chiesa parrocchiale o in un oratorio o
cappella”, non si comprende esattamente cosa si intenda. Sembrerebbe che si
debba dimostrare che questi fedeli abbiano ricevuto preventiva accoglienza,
in quanto “veneratori” della liturgia tradizionale, in una chiesa parrocchiale,
oratorio o cappella, il che è quanto meno strano, poiché una cosa del genere
non è praticabile. Se un tale gruppo di fedeli, per questa sua specifica qualità,
ha ricevuto accoglienza in uno di questi luoghi, si dovrebbe ritenere automatico l’uso della liturgia tradizionale, così da potersi considerare inutile il
richiamo all’art. 5 del Motu Proprio. Tanto più che questa “riunione” di fedeli
appartenenti anche a Diocesi diverse è cosa talmente impropria che solo un
motivo importantissimo potrebbe giustificarla. Si potrebbe forse aggiungere
che, dal momento che non si precisa l’esatta natura dell’oratorio o della cappella, si potrà anche trattare di un luogo privato, ma in questo caso la precisazione è pressoché inutile.
Comunque, aldilà di queste sottili questioni, che abbiamo richiamato solo
sulla base dell’esperienza circa il modus operandi di tanti parroci e Vescovi,
questa precisazione del punto 15 risolve egregiamente tante controversie innescate da questi ultimi.
Il punto 16 sembra essere più perentorio sulla disponibilità che devono dimostrare i responsabili nell’accogliere delle celebrazioni occasionali nelle loro
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chiese parrocchiali o oratori, fermo restando che l’avverbio “occasionalmente” continuerà a creare problemi di interpretazione soprattutto se i responsabili interporranno le esigenze di programmazione delle celebrazioni liturgiche.
Tanto più se si considera quanto stabilito al paragrafo 1 del punto 17, secondo
cui il tutto dovrà sottostare alla “prudenza” dei responsabili, che dovranno
lasciarsi “guidare da zelo pastorale e spirito di generosa accoglienza”. Solo
che in questo caso la prudenza è quasi certo che significherà “discrezione”,
soprattutto per coloro che non sono d’accordo con l’uso della liturgia tradizionale; né può considerarsi un correttivo il richiamo allo zelo pastorale e allo
spirito di generosa accoglienza, poiché è proprio in forza di tale zelo che tanti
preti si rifiutano di accogliere le celebrazioni tradizionali.
Il paragrafo 2 dello stesso punto 17, esprime poi una curiosa precisazione.
Il punto 16 parla di “un sacerdote” che si presenta “con alcune persone”,
cioè con un numero minimo, il paragrafo 2 del punto 17 distingue tra “alcune persone” e “gruppi numericamente meno consistenti”, che in questo caso
dovranno rivolgersi all’Ordinario. Salta all’occhio che la sequenza dal punto
16 al punto 18 è un po’ sconnessa. Ognuno di questi punti a chi si riferisce?
Inspiegabilmente sembrerebbe che i parroci o i rettori dovranno limitarsi a
tenere conto di gruppi consistenti, sia per le celebrazioni occasionali, sia per
quelle regolari, quando invece si tratterà di gruppi meno consistenti occorrerà
rivolgersi all’Ordinario. Logica vorrebbe che fosse esattamente al contrario,
non solo, ma che significa gruppo consistente? Qui si passa da “alcune persone” a “gruppi”, per poi distinguere tra gruppi consistenti e gruppi esigui.
Inevitabile il pasticcio interpretativo che ne deriverà, tale che in definitiva si
continuerà a verificare che ognuno dei responsabili scaricherà sull’altro l’onere della decisione, favorendo quanto accaduto fino ad ora e cioè che prima
ancora di scaricarsi la responsabilità si metteranno d’accordo per dire di no,
facendo finta di non poter decidere.
Al punto 18, si nota una precisazione un po’ capziosa, da leggere insieme alla
precisazione del punto 19: la questione dell’idoneità del sacerdote. Vedremo
più avanti cosa intende l’Istruzione per “sacerdote idoneo”, qui ci limitiamo a
porre la domanda: un sacerdote che porta in pellegrinaggio i suoi fedeli quale
qualifica potrebbe avere se non quella di idoneo?
E veniamo al punto 19, che introduce inaspettatamente una polemica che si
pensava fosse stata superata dal Motu Proprio.
L’articolo 1 del Motu Proprio stabiliva che “Le condizioni per l’uso di questo
Messale stabilite dai documenti anteriori “Quattuor abhinc annos” e “Ecclesia Dei”, vengono sostituite come segue”. In quello che seguiva non si
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