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di PINO CASAMASSIMA
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Giornalista e autore di una ventina di libri, alcuni dei quali tradotti
all’estero, Pino Casamassima è opinionista del Quotidiano Nazionale
(Il Giorno, Il Resto del Carlino, La Nazione). Oltre a collaborare con La
Storia siamo noi, è consulente storico di una nota casa di produzione
cine-video. Tra le sue numerose pubblicazioni, Il libro nero delle
Brigate rosse (Newton&Compton), Premio Minturno 2008, Il sangue
dei rossi: morire di politica negli anni Settanta (Cairo editore), Premio
Luigi Di Rosa 2011, Gli irriducibili, storie di brigatisti mai pentiti
(Laterza).
© 2012 Pino Casamassima
© 2012 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri
Questo libro è rilasciato con licenza Creative Commons-Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia. Il testo integrale della licenza è disponibile all’indirizzo http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/.
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A l’uscir de la porta ecco davanti
gli si fa co’ suoi volsci cavalieri
la vergine Camilla: e sí com’era
non men gentil che valorosa e bella,
tosto che l’incontrò con tutti i suoi
dismontò da cavallo, e vèr lui disse:
Turno, se degnamente uom forte ardisce,
io mi rincoro, e ti prometto io sola
di gire ai cavalier toscani incontro.
Lascia me col mio stuolo assalir prima
la troiana oste, e che primiera io tragga
di questa pugna e de’ suoi rischi un saggio;
e tu qui co’ pedoni a piè rimanti
a guardia de la terra.
Virgilio, Eneide, libro XI
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INTRODUZIONI
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QUANDO IL FUCILE È IN SPALLA ALLE DONNE
Lasciando a Valentino Romano – esperto del fenomeno del
brigantaggio femminile – il compito di parlarne di seguito,
questa analisi si concentra sulle donne che parteciparono
alla Resistenza che, senza di esse, sarebbe stata monca.
Sulle Brigantesse riporto solo due passaggi del capitolo XII
del libro Il Sangue del Sud di Giordano Bruno Guerri.
Scrive il professor Guerri a pag. 165: «Per qualificarle, alcuni giornalisti sabaudi recuperano l’antico “druda”, dal gaelico, che indica l’amante disonesta, la femmina di malaffare; altri, attingendo dal vocabolario germanico, preferiscono chiamarle “ganze”. Cambia il nome, non il concetto». E
più avanti, a pag. 169: «Se talora il brigante può rifarsi una
vita e ricominciare da capo, alla donna non è concesso:
bandita dalla società, vive emarginata, privata di affetti e
amicizie, non può più nemmeno guadagnarsi da vivere. Alla
donna che sceglie l’illegalità non si attribuiscono giustificazioni sociali, bensì tare culturali; non drammatici moventi
individuali, ma turbe di una psicologia malata».
«Senza le donne non ci sarebbe stata la Resistenza», aveva dichiarato Arrigo Boldrini, parlamentare del Pci che
aveva partecipato alla lotta partigiana col nome di battaglia “Bulow”1. Eppure, la storiografia resistenziale è di
1. «Respingiamo l’interpretazione che considera la Guerra di Liberazione come una guerra civile per la conquista di centri di potere. La Lotta di Liberazione fu un movimento popolare di partigiani e partigiane sostenuto
da una grande solidarietà popolare, con i militari delle tre Forze Armate, che hanno combattuto assieme per
riconquistare la libertà per tutti: per chi c’era, per chi non c’era e anche per chi era contro, con una generosità non sempre conosciuta in altre epoche storiche. Questo è il grande dato storico, che va sottolineato anche
per rendere omaggio a tutti i Caduti e a quanti della nostra generazione sono scomparsi, e che ci hanno lasciato un nobilissimo testamento che non può essere dimenticato». Arrigo Boldrini al Teatro Lirico di Milano il 24
giugno 1994 in occasione del 50º anniversario della costituzione del C.V.L (Corpo Volontari della Libertà).
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fatto maschista, riconoscendo alle donne “il contributo
prezioso” da esse dato, riservando all’uomo non la partecipazione alla Resistenza, ma l’identificazione stessa con
essa. Le donne svolsero dunque un ruolo determinate
durante la Resistenza, nella lotta per la liberazione dall’occupazione nazista. I ruoli ricoperti furono molteplici.
Oltre a creare squadre di primo soccorso per aiutare i
feriti e gli ammalati, si occuparono dell’identificazione
dei cadaveri, dell’assistenza ai familiari dei deceduti, raccogliere medicinali e indumenti e cibo. Ma oltre alle mansioni più manuali come cucinare, lavare, cucire e assistere, le donne furono indispensabili nelle attività della collettività partigiana. Partecipavano infatti alle riunioni,
apportando il loro contributo politico e organizzativo,
non disprezzando all’occorrenza di cimentarsi nell’utilizzo delle armi. Particolarmente importante era il loro
compito di comunicazione. Riuscivano a passare spesso
indenni e senza problemi nei posti di blocco, e prendevano contatti con i militari, comunicando informazioni e
strategie future. Nei posti di blocco spesso dichiaravano
di doversi occupare dei malati o dei feriti, eludendo così
il controllo dei tedeschi, che le lasciavano passare anche
se addosso avevano «anche bombe a mano nascoste sotto il sedile» o «messaggi cuciti nel risvolto della gonna».
Ma non sempre andava tutto bene e quando venivano
scoperte erano sottoposte alle stesse angherie e torture
riservate ai maschi, con l’aggiunta, spesso, delle violenze
sessuali. Durante la Seconda Guerra Mondiale il compito
delle donne si rivelò prezioso e insostituibile anche nelle
attività produttive ed economiche. La chiamata alle armi
tolse infatti molte braccia maschili all’agricoltura e all’industria, sostituendole con quelle femminili. I settori rico8
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perti dalle donne furono soprattutto quelli della manifattura tessile e del settore alimentare; oltre a questi però
le donne parteciparono attivamente anche nei pubblici
impieghi, nei campi agricoli e nelle catene di montaggio,
affrontando lavori che per la fatica e la forza fisica richiesta erano riservati esclusivamente agli uomini. La loro
presenza all’interno di questi settori però, oltre ad apportare un intenso beneficio all’economia dell’intero Paese,
si contraddistinse per lo spirito battagliero e di protesta
sindacale a cui le donne diedero luogo all’interno delle
fabbriche e nei campi agricoli. A quegli anni risalgono
infatti slogan come «vogliamo vivere in pace», oppure
«vogliamo pane, basta con gli speculatori» con cui manifestazioni organizzate delle donne infiammavano le piazze e le strade delle città italiane. Nelle campagne, invece,
spesso mettevano a disposizione le loro case per la cura
degli ammalati e dei feriti, e nascondere le persone che
stavano fuggendo, mettendo spesso la propria vita a
repentaglio. Importantissimi inoltre furono i compiti
ricoperti dalle donne nella raccolta di fondi necessari alla
cura delle persone e di chi maggiormente aveva bisogno,
oltre all’attività da loro svolta di vera e propria propaganda politica. Oltre ad azioni di sola informazione, però,
molte donne furono coinvolte anche in veri e propri
sabotaggi delle forze militari tedesche e di occupazione
di depositi alimentari. Altri furono i compiti delle donne
all’interno delle organizzazioni partigiane. Oltre alle combattenti, che imbracciarono le armi a fianco dei loro colleghi uomini, e le donne che occuparono degli incarichi
di rappresentanza istituzionale nelle piccole realtà geopolitiche in formazione nel corso della guerra di liberazione, uno dei compiti che le donne avevano era quello
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della staffetta. Si trattava di ragazze dai 16 ai 18 anni che,
armate soltanto di una bicicletta e di molto coraggio,
facevano la spola tra una brigata e un’altra, ma anche tra
una brigata e le loro famiglie, tenendo i collegamenti,
portando notizie, talvolta accompagnando i resistenti o
facendo da infermiere. Si trattava di un compito fondamentale senza il quale tutto sarebbe stato in una fase di
stallo e le comunicazioni si sarebbero bloccate. La figura
della donna appare dunque in quegli anni di fondamentale importanza, sia nelle attività produttive del Paese
che all’interno del movimento partigiano che in una quotidianità segnata da disagi anche alimentari cui deve far
fronte per prima proprio la donna, cercando di arrabattarsi con quel che offre il convento della tessera, con la
quale si ha diritto mensilmente a un chilo di patate, un
chilo di riso e di pasta, 100 grammi di fagioli, 200 di burro, 100 di grassi di maiale, 300 di sale, un decilitro d’olio.
La razione del pane è di 150 grammi al giorno, quella di
carne – indipendentemente dalla possibilità di acquistarla, molto remota per tante famiglie – 100 grammi. Il burro costa 28 lire al chilo, ma è praticamente introvabile e
bisogna comprarlo al mercato nero e allora costa 150. Lo
zucchero della tessera è a 11,20 lire, quello libero a 100.
Una saponetta da bagno da 100 grammi deve durare due
mesi. Un paio di scarpe di cuoio rigenerate, alla borsa
nera, tocca le 2000 lire. Il caffè è sparito, sostituito dalla
cicoria e dall’astragalo. A tavola si tiene spesso il paltò
perché bisogna risparmiare sul riscaldamento. Si bevono
grandi bicchieri d’acqua colorati di vino e anche nelle
famiglie poco avvezze a praticare chiese ci si fa il segno
della croce sperando in un domani migliore. La guerra è
anche questo. Miserie con le quali sono soprattutto le
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donne a doversi confrontare. Ma il secondo conflitto
mondiale è anche un laboratorio di sentimenti e comportamenti contrastanti. Forse è particolarmente vero per
l’Italia, dove il rovesciamento delle alleanze e la guerra
civile investono tradizioni culturali, convinzioni politiche,
fedi religiose, disegnando uno scenario che cambia radicalmente nel tempo e nello spazio. Il discorso riguarda gli
uomini, che fra il ’43 e il ’45 danno vita a due eserciti, uno
interamente, l’altro in parte volontario, e nello stesso
tempo ai più grandi fenomeni di sbandamento e diserzione della storia italiana.
Nel ’40, nessuna organizzazione femminile, cattolica o
laica, prende posizione contro la guerra. L’8 settembre
’43, quando l’esercito si disfa e decine di migliaia di soldati si sbandano nel Paese occupato dai tedeschi, a soccorrerli, rivestendoli in borghese per sottrarli alla cattura e indirizzandoli sulla via del ritorno a casa, sono
soprattutto donne: per lo più donne cosiddette “comuni”, che agiscono senza il sostegno di ideologie politiche
in senso stretto, disarmate. Ci si aspetterebbe di vederle
assistere in dolorosa rassegnazione alla cattura degli
sbandati. Invece li contendono a un esercito strapotente,
e non di rado con successo. «Pareva», scrive Luigi Meneghello, «che volessero coprirci con le sottane». Nella sua
lezione sull’8 settembre riportata in Novecento Italiano
della Laterza, il professor Claudio Pavone dice:
I fascisti, dopo il 25 luglio, scomparvero, completamente indenni. Un
operaio toscano, rievocando quei gironi, ha scritto di recente che
c’era entusiasmo nella fabbrica, ovviamente, per quello che era successo, di tutti gli operai. E poi ha aggiunto: “ma c’era anche un fascista, povero uomo!”. Chiamare “povero uomo” un fascista, un po’
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bonariamente, è una cosa che poteva avvenire solo dopo il 25 luglio.
Sarebbe semplicemente assurdo pensare che avrebbe potuto accadere dopo il 25 aprile, dopo la Liberazione del Nord: era diffusa l’idea
che i fascisti, in fondo, se l’erano cavata a buon mercato dopo il 25
luglio, ma poi avevano voluto prendersi una rivincita in virtù della
forza tedesca. Questa convinzione si era veramente iscritta nella
coscienza non solo dei resistenti attivi, ma anche della massa generale di persone influenzate dalla situazione. Una parola d’ordine della Resistenza fu: non si può fare come il 25 luglio; cioè i fascisti questa volta non se la possono cavare bonariamente; si sono voluti vendicare, adesso ne subiscono le conseguenze.
Ma se ci sono donne nella Resistenza, sul fronte opposto
nascono le ausiliarie di Salò, un corpo militarizzato di
volontarie che non portano armi.
Agli inizi del ’45, quando il governo Bonomi pretende di
rendere operativo il reclutamento degli uomini dai venti
ai trent’anni nel nuovo esercito da affiancare agli alleati,
ancora le donne insieme con gli studenti tornano in piazza contro la guerra. È la rivolta dei “non si parte”, che si
estende in tutto il centro-sud con scontri a fuoco, morti
e feriti. Nella città di Ragusa a prendere l’iniziativa è
Maria Occhipinti, ventitré anni, incinta di cinque mesi, di
idee comuniste, che il 5 gennaio si stende davanti a un
camion carico di renitenti rastrellati, costringendo i carabinieri a rilasciarli. Sconterà per questo carcere e confino. Il senso comune dei contemporanei guarda senza
stupore alle azioni di sostegno ai renitenti: cosa può fare
una donna di più naturale che opporsi a chi le vuole portare via il marito, il figlio, e per estensione gli altri uomini? Cosa può importarle che l’esercito in questione sia
fascista o antifascista?
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Colpiscono maggiormente l’immaginario le partigiane e
le ausiliarie, perché sono donne che si “snaturano”
entrando negli spazi della politica e della guerra. Riprodurre nella ricerca gli orientamenti di allora identificando le “donne comuni” con la ripetitività e la condizione di
vittima, e le partigiane e le ausiliarie con l’innovazione, il
protagonismo, l’avventura, sarebbe una fatica inutile,
oltre che una doppia ingiustizia. Peggio ancora ragionare
in termini di “pacifiche” e “guerriere”, “impolitiche” e
“politiche”.
Nel campo d’azione sia delle donne “comuni”, sia delle
partigiane e delle militanti dei Gruppi di difesa della donna, ci sono molti comportamenti tipici della resistenza
civile, il concetto messo a punto dallo storico francese
Jacques Semelin per indicare una pratica di lotta caratterizzata nei suoi soggetti (appunto i civili), nei suoi mezzi (non le armi, ma strumenti come il coraggio morale, la
duttilità, la capacità di manipolare i rapporti, di cambiare le carte in tavola ai danni del nemico), nei suoi obiettivi. Questi possono essere tanto l’appoggio alla resistenza armata, quanto avere finalità autonome che esprimono il rifiuto in prima persona della società contro la pretesa nazista di dominio sulla sua vita e sulle sue strutture. È resistenza civile quando si sciopera o si manifesta
per migliori condizioni materiali, per ostacolare lo sfruttamento delle risorse locali da parte degli occupanti, per
testimoniare la propria identità nazionale; quando si agisce per isolare moralmente nazisti e collaborazionisti;
quando si tenta di mantenere una certa indipendenza di
gruppi sociali e istituzioni, di impedire la distruzione di
beni essenziali, di contenere la violenza, magari offrendosi come intermediari; quando ci si fa carico di qualcu13
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na delle innumerevoli vite messe a rischio dalla guerra. A
distinguere queste e altre pratiche dalle strategie di
emergenza messe in atto soprattutto dalle donne per far
continuare la vita quotidiana, sono l’intenzione e la funzione antinazista, anche se fra le due aree di comportamenti possono esserci affinità e sovrapposizioni.
A volte collettive, più spesso individuali, frutto ora di una
tessitura minuziosa, ora di precipitazioni impreviste, le
lotte sono per lo più non violente, ma non sempre: per
l’Italia, ricordiamo gli assalti a magazzini viveri e a treni
carichi di derrate o combustibili – “l’altra guerra” la definisce Miriam Mafai − e non da ultimo le violenze collettive, spesso amplificate nell’immaginario sociale, contro
esponenti e favoreggiatori di Salò. Anche l’assenza di
armi non è sempre una scelta, in certi casi è semplicemente impossibile procurarsele.
Per molti protagonisti/e valgono ragioni politiche in senso stretto. Per moltissimi/e altri/e si tratta piuttosto di
compassione verso chi è in pericolo, stanchezza della
guerra, spirito di ribellione per il continuo peggioramento delle condizioni materiali; a volte di orgoglio nazionale o dignità del proprio mestiere. Ma nessuna di queste
spinte basterebbe, senza un preventivo disconoscimento
della legalità fascista e senza l’identificazione, per quanto embrionale e sotterranea, di una legittimità altra.
È forse il principale punto di convergenza fra protagonisti/e così eterogenei che ad accomunarli è quasi solo la
condizione di cittadini di uno stesso Paese. Ma è un punto forte: già negli scioperi del marzo ‘43, la scintilla era
nata dal rifiuto della legalità vigente, che pretendeva di
imporre l’unione sacra in nome della patria, e si fondava
su un’altra idea di legittimità, secondo la quale è immo14
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rale far pagare alle popolazioni prezzi così alti in termini
di fame, freddo, fatica, rischio.
Nella resistenza civile italiana, la mobilitazione dell’8 settembre spicca come un momento forte, esemplarmente
pericoloso, con caratteristiche di massa ed esteso a tutto il territorio occupato. Alle sue radici, non tanto una
pietà indifferenziata, quanto la disponibilità femminile
nei confronti di un destinatario ben determinato, il giovane maschio vulnerabile che si rivolge, in quanto tale, alla
donna come a una figura forte e protettrice: a una madre.
Per questo parleremmo qui di maternage di massa come
forma di resistenza civile insieme rafforzata e mediata
dalla carica simbolica connessa alla figura femminile.
Nei venti mesi successivi, si contano piccoli e grandi fallimenti, piccoli e grandi risultati. Si vanificano i piani
nazisti, come quando le donne di Carrara resistono agli
ordini di sfollamento totale emanati nel luglio ‘44 per
garantire alle truppe tedesche una via di ritirata attraverso territori sgombri. Si strappano miglioramenti delle
condizioni di vita. Si delegittimano le istituzioni di Salò.
Si salvano persone, come fanno i contadini toscani che
ospitano per mesi i prigionieri alleati evasi dai campi di
concentramento italiani dopo l’armistizio.
Si tratta nel suo insieme di un enorme lavoro di tutela e
trasformazione dell’esistente, vite, rapporti, cose, che si
contrappone sul piano sia materiale sia simbolico alla terra bruciata perseguita dagli occupanti, e che ha alti livelli di rischio, dalla denuncia alla deportazione e alla pena
di morte per chi fornisca documenti falsi ai ricercati, dia
aiuto a partigiani o, recita un decreto di Salò del 9 ottobre 1943, «dia rifugio a prigionieri e militari alleati o ne
faciliti la fuga». Del resto, nell’ordine senza diritto impo15
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sto dall’occupazione, basta un rifiuto occasionale di
obbedienza a provocare conseguenze gravi. L’impegno
nella resistenza civile può contare e costare quanto quello nella resistenza armata.
Partiti, CLN e forze partigiane guardano con grande
attenzione agli orientamenti popolari. È così in tutta
Europa, dove già alla vigilia dell’occupazione cominciano
a circolare testi che suggeriscono regole di condotta nei
confronti dei tedeschi. In qualche caso sono opera di
ignoti o di militanti isolati, in altri vengono da organizzazioni della resistenza. Nel dicembre 1943 un opuscolo del
Partito d’azione chiede ai dipendenti pubblici rimasti in
servizio di ostacolare con ogni mezzo il funzionamento
dell’amministrazione fascista.
Ma nelle rappresentazioni ufficiali e nell’immaginario
d’epoca, resistente è chi ha combattuto in montagna, e
nei giorni della liberazione ha sfilato nelle città incarnando anche visivamente l’irrompere del nuovo. In seconda
istanza viene l’esponente dei partiti del CLN. Figure inermi e debolmente organizzate come i deportati e gli internati militari restano sullo sfondo, e i criteri per l’attribuzione delle qualifiche partigiane rispecchiano questa
gerarchia. In Italia − stabilisce il decreto luogotenenziale
del 21 agosto 1945 − è dichiarato partigiano chi ha portato le armi per almeno tre mesi in una formazione armata «regolarmente inquadrata nelle forze riconosciute e
dipendenti dal Comando volontari della libertà», e ha
preso parte ad almeno tre azioni di guerra o di sabotaggio. A chi è stato in carcere, al confino, in campo di concentramento, la qualifica viene riconosciuta solo se la
prigionia ha oltrepassato i tre mesi; almeno sei sono
necessari nel caso di servizio nelle strutture logistiche. A
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chi, dall’esterno delle formazioni, abbia prestato aiuti
particolarmente rilevanti viene attribuito in qualche
regione il titolo di benemerito. Con questa consacrazione
dell’iniziativa in armi e del legame politico − di partito, di
gruppo, di organismo di massa − si sancisce una strettoia che penalizza molte forme di opposizione e moltissimi
uomini e donne, comprese le partigiane, che in vari casi
non sono state inserite negli organici, e le militanti dei
Gruppi di Difesa della donna.
Partigiana deportata a Ravensbrueck e coautrice di un
libro di memoria e di analisi sulla prigionia femminile,
Lidia Beccaria Rolfi ricorda l’atteggiamento con cui i
compagni la accolgono al suo ritorno dal lager: «Quando
tu tentavi di raccontare la tua avventura, tiravano sempre fuori l’atto eroico: “... però noi!”. I tedeschi li avevano
ammazzati loro, i fascisti li avevano fatti fuori loro... e noi
eravamo prigionieri...». Dove l’ironia prende di mira,
insieme all’autocelebrazione, i valori celebrati: orgoglio
militare, enfasi sulla morte, primato del combattente in
armi.
È una critica che va alle radici, e non è un caso che a farla sia una donna. Nella resistenza e nello Stato che ne
nasce, la spinta al rinnovamento tocca aspetti decisivi
dell’assetto politico e istituzionale. Ma resta saldo, sul
piano simbolico se non a livello giuridico, uno dei fondamenti tradizionali della cittadinanza, che lega la sua pienezza al diritto/dovere di portare le armi, facendo degli
inermi per necessità o per scelta figure minori, cittadini
in seconda. È il modello consegnato alla modernità dalla
Rivoluzione francese e dalle sue leve di massa, paradigma maschile e guerriero del rapporto individuo/Stato.
All’attualizzazione di quel primato contribuisce un intar17
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sio di modelli irriducibile a una posizione politica o di
partito: dalla tradizione marxista di appoggio alle guerre
di liberazione alla figura del ribelle risorgimentale, dalla
memoria del combattente di Spagna al sogno del proletario armato come avanguardia del movimento patriottico.
A imporlo e a farlo apparire naturale è la stessa realtà:
quella di Resistenza è una guerra. Che la guerra non si
combatta solo con le armi e che la politica non sia solo
quella organizzata, è un’idea lontana dall’Italia di allora.
Per le donne, si aggiunge il peso delle costruzioni simboliche sul femminile da cui, a dispetto dei suoi sogni di
cambiamento, il movimento resistenziale non è affatto
immune. Perdura l’ideologia dell’inconciliabilità fra donne e politica, in omaggio alla quale azioni simili hanno
uno statuto diverso a seconda di chi le compie: di una
donna che cucina per i partigiani, cura i feriti o segnala
la presenza di tedeschi, si dice che dà un aiuto; dell’addetto alla sussistenza di una formazione, del cuoco, dell’infermiere, dell’informatore, si dice che sono partigiani.
Lo stesso maternage dell’8 settembre, che salva fra l’altro la “materia prima” della resistenza armata, viene dato
quasi per scontato: le donne avrebbero agito come madri
e spose, ed è come madri e spose che si cerca di guadagnarle alla causa − e che nello stesso tempo se ne diffida
per il loro “egoismo” familistico.
Sebbene la guerra sottoponga il concetto di politica a
tensioni fortissime, pochi fra i protagonisti sembrano
capaci di vedere nelle pratiche delle donne qualcosa di
diverso dal prolungamento dei ruoli di assistenza e di
cura, espansi al di fuori del privato in deroga alla “naturale” divisione degli spazi. Che a singole esponenti politiche siano assegnati incarichi di rilievo in qualcuno dei
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territori provvisoriamente liberati dai partigiani, è un
segnale importante, ma coesiste con il fatto che in nessuna di queste zone viene riconosciuto alle donne il diritto
di voto per l’elezione degli organismi di autogoverno.
Perdura – ed è stupefacente se si pensa ai pericoli per i
civili, alla fame, all’imprevedibilità del domani – l’assimilazione fra vita quotidiana e routine, con quel suo risvolto simmetrico che identifica emergenza e caduta peccaminosa nel lassismo. Se la Chiesa rimprovera alle donne
di sfuggire la domesticità con il pretesto della guerra e di
non saper più educare cristianamente le figlie, in una lettera della XL brigata Matteotti si arriva a invitare le compagne a impegnarsi per procurare quanto necessario alla
formazione, «abbandonando la vita metodica e casalinga» (sic).
Nonostante il coraggio con cui una parte della dirigenza
partigiana stigmatizza i pregiudizi maschili, perdura
anche l’ideologia dell’incompatibilità fra donne e armi,
mentre in banda la divisione dei compiti si modella sulla
gerarchia di genere. Per molte che combattono, poche
accedono a ruoli politici o militari di rilievo, pochissime
diventano comandanti o commissari politici. È così in
tutta la Resistenza europea, ma nei paesi latini si arriva
al grottesco: una donna italiana si vede attribuire la qualifica di soldato semplice proprio dal giovane partigiano
che lei stessa aveva messo a capo di una formazione
quando esercitava in via provvisoria il comando della
piazza di Torino.
Lo stereotipo forse più imbarazzante per la sensibilità
dell’oggi è l’associazione tra femminilità e impurità, contaminazione, disordine sessuale, che nella Resistenza
solo piccole minoranze si propongono di smontare. Men19
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tre i rapporti di genere restano associati al privato, e il
privato viene temuto come luogo del cedimento e della
perdizione, si esaltano madri e sorelle putative, si guarda
con diffidenza alla femminilità di ogni altra, comprese le
partigiane. Un caso limite − rimasto isolato, ma inizialmente proposto a modello dal comando generale del Corpo volontari della libertà − è quello della piemontese XIX
Brigata Garibaldi, dove le 38 donne del distaccamento
femminile non solo lavorano di cucito al chiuso sotto il
controllo di un’anziana, non solo sono diffidate dall’avere
rapporti con i civili, ma vengono sottoposte a visita medica settimanale per evitare casi «di malattie più o meno
contagiose». La partigiana ideale è la protagonista dell’Agnese va a morire2, il romanzo modello sulla resistenza femminile: informe, materna, in età non sospetta.
Le altre, come è risaputo, inquietano. Giovani, uscite non
episodicamente dal privato e mischiate ai maschi nelle
formazioni, sfidano troppe costruzioni ideologiche, a partire da quella per cui donne e uomini devono avere spazi
separati; e fanno a tal punto da catalizzatore del biasimo
antipartigiano che, in ossequio alla mentalità diffusa,
vengono non di rado messe ai margini a emergenza finita. Che il “racconto” della Resistenza come nuova epopea
nazionale nasca su questa rimozione del femminile non
ha mai occupato i pensieri degli storici.
Eppure affrontare quel vuoto aiuterebbe a capire da dove
veniamo, in particolare per quanto riguarda modelli e
politiche di genere, su cui forse non esiste un rivelatore
potente quanto il tempo della guerra. Basta pensare, per
esempio, all’impegno di tanti dirigenti politici e militari
2. Dal romanzo di Renata Viganò, Giuliano Montaldo ha tratto un’omonima versione cinematografica.
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italiani nell’evitare un’immagine promiscua della Resistenza. Per lo più, lo si è letto come un adeguamento
all’arretratezza sociale e culturale del Paese e un residuo
interno all’orizzonte nord-occidentale, come se l’Italia
non fosse invece fortemente legata alla tradizione del
bacino mediterraneo. Senza dimenticare lo scarto temporale e le differenze che ci separano dai Paesi della riva
sud, sarebbe utile una riflessione centrata sia sulla pretesa delle religioni a regolamentare direttamente o indirettamente la vita delle donne e la morale privata, sia sul
riconoscimento che le forze politiche sono costrette,
avvezze, spesso interessate, a dare a quella intromissione.
La riluttanza a far sfilare le partigiane nei cortei della
liberazione come versione evoluta del velo? Sarebbe
un’ironia, se si pensa che nella guerra appena conclusa a
garantire la vita sono state donne visibili a livello di massa nella sfera pubblica come mai prima; ma darebbe un
elemento in più per comprendere alcuni aspetti: innanzitutto l’enorme legittimazione accordata al materno in
quei momenti e la sua poca resa in termini di libertà e
visibilità femminili a emergenza finita. Questi orientamenti hanno modellato per decenni i modi e i tempi della ricerca, che, come in tutta Europa, ha quasi ignorato
la Resistenza delle donne e le lotte non armate.
Per quanto riguarda la prima, la sua marginalizzazione
era evidentissima nel disinteresse per il nodo donne/politica. Un problema lungamente dibattuto a proposito
degli scioperi del marzo 1943 − il rapporto fra organizzazione politica e concertazione informale − è stato del tutto trascurato per le donne. Le stesse divergenze fra partigiane, fra organizzazioni femminili e al loro interno,
venivano eluse a favore di un’immagine di quieto unani21
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mismo. Già a partire dagli anni Settanta alcune studiose
denunciavano queste cecità; ma in quella fase, e per
vario tempo ancora, nella comunità delle storiche dominava la diffidenza verso i binomi che accostano le donne
agli eventi della cosiddetta grande storia (gli intrecci
donne/guerra, donne/resistenza e così via), quasi fossero
un cedimento alle sue gerarchie di rilevanze. Anche per
questo la storiografia resistenziale poteva continuare
indisturbata a “spiegare” l’opera delle donne in termini di
rapida politicizzazione (senza però verificarla), o di naturale oblatività femminile e di umanitarismo (seducenti
parole tuttofare che andrebbero a loro volta spiegate,
perché quei sentimenti non scattano sempre, né per
chiunque).
In termini simili, e con la stessa distrazione, si guardava
alle lotte senza armi. Pochissime le ricerche, assolutamente imparagonabili alla mole di studi sulla Resistenza
armata e sui gruppi politici, e dovute quasi soltanto a
esponenti e gruppi della nonviolenza.
Lo scarto era ancora maggiore per la sistemazione storico-teorica. Sul nodo guerra di liberazione/guerra civile
sono state scritte cose decisive e probabilmente definitive, su quello lotta armata/lotta non armata e sul modello
di cittadinanza uscito dalla Resistenza si è pensato e detto poco. A tutt’oggi manca del tutto, per esempio, una
riflessione su quanto, e se, abbiano influito su quel modello il carattere volontario dell’arruolamento, la struttura
meno gerarchica delle formazioni militari, gli obiettivi di
pace. Non in modo decisivo, a giudicare dall’indicatore
rappresentato dal linguaggio, che continua a fare del
caduto la personificazione eroica e virile del morto. Certo
la nostra realtà è imparagonabile alle grandi mobilitazioni
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popolari e istituzionali di altri Paesi, e sovradimensionarla avvalorerebbe il mito nazionale degli “italiani brava
gente”. Per quanto riguarda l’aiuto agli ebrei, banco di
prova della resistenza civile europea, non si hanno da noi
prese di posizione ufficiali né da parte di personalità della cultura, né di istituzioni religiose e civili o di ordini professionali; dissociazione dalla politica razzista e sostegno
concreto si realizzano in gran parte a livello individuale o
nelle reti di rapporti di piccolo raggio. Quanto basta, però,
a rifiutare lo stereotipo speculare di un popolo geneticamente afflitto da opportunismo e inclinazioni fascistoidi −
la categoria di carattere nazionale è così volatile che la si
può tirare in qualsiasi direzione.
Comunque si valuti la dimensione quantitativa, non perdono la loro vitalità i significati che l’area dei comportamenti conflittuali inermi offre, e che né la cultura di sinistra né quella cattolica hanno colto e accolto. La prima li
ha trattati quasi come una componente ambientale che
aderisce, sabota o si astiene in una partita giocata tra
fascisti e partigiani. La seconda ha puntato a valorizzare
sia l’azione disarmata sia la pietas che si sforza di salvaguardare beni e persone, ma identificandole come
espressioni della coscienza cristiana e forme proprie della partecipazione cattolica alla Resistenza; a volte rivendicandole in esclusiva. Quasi che atti e sentimenti simili
non appartenessero anche all’esperienza del combattente, o non potessero avere altra matrice che quella religiosa. Si può dire, schematizzando, che questi orientamenti
si sono riprodotti per decenni, con le due parti che rivendicavano l’una il primato della lotta armata nella guerra
antifascista e nella fondazione democratica, l’altra quello
della Resistenza senza armi. Restava così irrisolto il pro23
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blema di una concettualizzazione della lotta civile che
non ne facesse un puro complemento di quella armata,
né un fenomeno indistinto buono a legittimare qualsiasi
condotta, né il blasone dello schieramento cattolico; e
nell’opinione pubblica si tramandava la vecchia e settaria
divisione dei ruoli che assegna alle sinistre, in particolare ai comunisti, l’organizzazione e la violenza, ai cattolici
la spontaneità e la pietas. Il risultato è che un intero universo di comportamenti rimaneva fuso e confuso nello
scenario della guerra civile, mentre il senso comune storiografico recalcitrava di fronte alla prospettiva di riconoscergli il titolo di Resistenza. In qualche caso − per
esempio i 600.000 militari internati in Germania che
rifiutano di arruolarsi nell’esercito di Salò − si parlava di
“Resistenza passiva”, un termine già in uso all’epoca, che
per la cultura occidentale ha un segno negativo e che
risulta davvero stonato. Come si fa a definire “passivo”
un no opposto ai nazisti dall’interno di un campo di prigionia?
Ecco perché il concetto di resistenza civile risulta prezioso. Individuare nella società un luogo di antagonismo
anziché uno scenario, nei cittadini e nei gruppi sociali i
protagonisti anziché le comparse, equivale a mettere in
questione automatismi fra i più radicati: non solo la polarità fra un maschile associato alla guerra e un femminile
associato alla pace, ma anche l’equiparazione fra comportamento attivo e presa delle armi, e l’identificazione
altrettanto arbitraria della scelta non violenta con l’equidistanza dagli schieramenti. Se la resistenza civile può
e spesso deve cercare la mediazione, lo fa a partire da
una scelta di campo. Pensiamo dunque che meriti un
posto a sé nel dibattito avviato in questi anni su “Zona
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grigia” e attendismo. Un posto contiguo, perché spesso
ne condivide il contesto sociale e una frazione di percorso, e nello stesso tempo lontanissimo, perché non ne è la
faccia nascosta ma l’esatto contrario. Ci sembra che lo sia
anche se si adottano letture nuove e sensibili degli atteggiamenti delle popolazioni, per esempio sottolineando la
fatica di sopravvivere e la sofferenza comuni, o rifiutando di assimilare esitazioni e sentimenti di estraneità a
una palude opportunista. Sono modi di rendere giustizia
a chi, pur non facendosi parte attiva della lotta, può aver
condiviso momenti di solidarietà o sforzi per limitare il
peso dell’emergenza.
Ma perché la resistenza civile abbia a sua volta giustizia, il primo passo è proprio distinguerla da questo sfondo. Chi protegge un perseguitato non si mette in posizione di attesa, non delega la salvezza dell’altro alla fine vittoriosa della guerra, un evento che potrebbe arrivare
troppo tardi. Sceglie, si espone, e con il suo comportamento esemplifica il rapporto semplice e cruciale che
esiste fra il tema della resistenza civile e quello della
responsabilità individuale. Se si indica come sola forma
di opposizione qualificata quella in armi, come solo antagonista decisivo il partigiano, si finisce implicitamente
per legittimare chi ha scelto di non agire, e può giustificarlo invocando principi e infinite ragioni pratiche. È
vero che non tutti possono sparare, lasciare la famiglia e
la casa, vivere in clandestinità, reggere grandi fatiche. La
lotta armata, soprattutto quella in montagna, chiede corpi giovani e sani.
Molto cambia se si afferma l’idea di una resistenza diversa, praticabile in molti più luoghi e forme, accessibile a
molti più soggetti, dalla madre di famiglia al prete al non25
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violento, ma anche a chi ha un’età anziana, o è infermo,
magari fisicamente inetto. «Fai come me» è un invito che
il resistente civile può estendere molto al di là di quanto
possa fare il partigiano in armi. Il problema della colpa
diventa così meno tranquillamente eludibile, sia sul piano individuale sia su quello collettivo.
Qualcosa può cambiare anche per quanto riguarda un
altro crocevia storico e ideologico. Si discute da tempo
sulle difficoltà della Resistenza a porsi come matrice dei
sentimenti di appartenenza, sui modi di affrontare le
fratture politiche che segnano l’identità nazionale. Ma
esistono divisioni legate al genere sessuale, alle fasce di
età, alle diverse tradizioni, alla geografia, a cominciare da
quella che giustappone un Nord cuore della lotta armata,
virilmente attivo, innovatore, a un Sud femminilmente
passivo, cooptato in un riscatto cui sarebbe rimasto
estraneo: problemi non solo italiani, visto che tutti gli
Stati europei hanno preso a simbolo della rinascita
postbellica la figura minoritaria del giovane maschio
combattente.
26
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BRIGANTESSE: TUTTA UN’ALTRA STORIA
Nel febbraio del 1861, con la capitolazione di Gaeta, ultima roccaforte borbonica, il Regno delle Due Sicilie cessa, di fatto, di esistere. Francesco II, ultimo Re di Napoli, ripara a Roma, ospite dello Stato Pontificio. La precarietà dell’esilio, la solidarietà di numerose dinastie europee e le notizie − spesso ingigantite − delle difficoltà che
il nuovo Stato italiano incontra per radicarsi nel territorio, lo spingono a coltivare la speranza di un sollecito
ritorno sul trono. Dovunque, nei territori dell’ex regno −
a Napoli, come nei centri minori − sorgono comitati
segreti filoborbonici, con lo scopo dichiarato di sollevare
le popolazioni contro i piemontesi. In tutto il Mezzogiorno si riaccendono improvvisamente i fuochi della ribellione contadina: fuochi che − a ben dire − hanno sempre
infiammato il Meridione d’Italia; fuochi ora alimentati da
uno sconquasso politico e sociale insostenibile. Il possesso e l’uso della terra hanno da sempre costituito un fattore scatenante di rivolte. Ma né le leggi eversive, né
l’esproprio dei beni ecclesiastici hanno fatto conseguire
la più antica aspirazione delle classi rurali: la proprietà
della terra. Ed è terra ostile quella che i contadini lavorano per conto di altri, aristocratici e latifondisti. Spesso
sottratta − zolla dopo zolla − ai boschi, alle macchie ed
alle pietraie montane. In cambio i contadini ricevono un
salario che consente appena di sopravvivere. Il mutamento di governo ha ingenerato speranze che ben presto
si rivelano infondate. La terra cambia proprietario, ma i
contadini ne sono sempre fuori, messi nell’impossibilità
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BANDITE!
pratica di acquistarla o riscattarla con i sofismi di una
legge fatta da un parlamento di “galantuomini” per i
“galantuomini”. Il destino dei contadini appare segnato:
rassegnarsi o ribellarsi. L’esercito borbonico, che per
molti giovani rappresentava l’unico sbocco occupazionale, è stato disciolto. Funzionari ex borbonici senza scrupoli, passati nella burocrazia del Regno d’Italia, hanno
scientemente occultato il richiamo alle armi nel nuovo
esercito italiano per favorire il disordine, così che una
moltitudine di giovani si è ritrovata bollata con il marchio
della diserzione, senza nemmeno venirne a conoscenza.
Contadini senza terra e soldati senza esercito null’altro
possono fare che darsi alla macchia. Nascono e proliferano, ingrossate anche da gruppi di evasi dai bagni penali
borbonici, le bande dei briganti che sfruttano la conoscenza dei luoghi, l’ardimento e la sete di rivendicazione
sociale per dare scacco all’esercito piemontese, un esercito straniero, che parla una lingua straniera, che applica
leggi straniere, che obbedisce ad un re straniero e che
dunque è un esercito di occupazione. La violenza esplode allora in tutta la sua virulenza: l’occasione è propizia
anche per soddisfare la sete di vendetta troppo a lungo
repressa nei confronti dei possidenti, dei “galantuomini”
e del clero.
Nelle Calabrie, nelle Puglie e, soprattutto, in Basilicata
sono messi a fuoco e depredati interi paesi, massacrate
le personalità più in vista e più odiate, sbaragliate le truppe piemontesi. L’esercito è impotente, percorre a casaccio le contrade più impervie, cade in imboscate, vede i
suoi uomini falciati da un nemico invisibile, reagisce con
violenza alla violenza in una spirale infinita di sangue. Il
fenomeno del brigantaggio approda nel Parlamento che,
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lungi dal preoccuparsi di tentare − con una saggia politica di riforme sociali − di rimuoverne le cause, sceglie la
via della repressione, adottando una legislazione speciale, la legge Pica, che instaura il terrore nei territori occupati, la fucilazione sul campo, lo stupro delle donne dei
ribelli.
In questo contesto matura il dramma delle “brigantesse”,
che è dramma della rottura dell’equilibrio familiare,
dramma di madri senza più figli, di ragazze orfane dei
genitori, di vedove: è dramma di donne disperate che,
ribaltando un ruolo stereotipo di rassegnazione e sudditanza, si dimostrano capaci di affiancare con coraggio i
propri uomini e partecipare attivamente alla rivolta contadina. È difficile attribuire una data di nascita al brigantaggio femminile, ma una prima significativa figura femminile di età moderna può essere individuata in Francesca La Gamba, nata a Palmi (RC) nel 1768 e attiva nel
decennio di occupazione francese (1806-1816). Francesca, filandiera di professione, madre di tre figli, divenne
capobanda, spinta da un’incontenibile sete di vendetta
contro i francesi che l’avevano colpita negli affetti più
cari. Rimasta vedova del primo marito, dal quale aveva
avuto due figli, convolò in seconde nozze. Avvenente
d’aspetto ed esuberante nel carattere, attirò le mire di un
ufficiale francese che, invaghitosene, tentò − forte della
sua posizione sociale − di sedurla. Respinto dalla fiera
Francesca, il militare pensò di vendicarsi in maniera terribile. Nottetempo fece affiggere un falso manifesto di
incitamento alla rivolta contro l’esercito francese di
occupazione ed il mattino successivo fece arrestare i figli
della donna, accusandoli di essere gli autori della bravata. Alle suppliche di Francesca, l’ufficiale fu irremovibile:
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BANDITE!
i giovani subirono un processo sommario e furono fucilati. Francesca, pazza di dolore, si unì ad una banda di briganti che operava nella zona, dismise gli abiti femminili
ed indossò quelli dei briganti. In breve, fornì prove di
ardimento tali da divenire il capo riconosciuto della banda stessa, seminando ovunque il terrore. I francesi si
accanirono nella caccia della donna, fino a quando un
loro drappello cadde in un’imboscata tesa da Francesca.
Tra i soldati fatti prigionieri la sorte volle che ci fosse
proprio l’ufficiale suo nemico. Con una coltellata Francesca gli strappò il cuore e lo divorò ancora palpitante. Nell’orrore di questa vicenda, pure caricata di colore dal
mito, possono leggersi le ragioni che hanno spesso indotto tranquille popolane meridionali a trasformarsi in Erinni vendicatrici: la prevaricazione degli occupanti, il loro
disprezzo per gli affetti feriti, l’irrefrenabile ansia di vendetta suscitata nei popoli conquistati.
Crollato il mondo familiare intorno al quale si è costruita
a fatica una pur misera esistenza, la vendetta femminile
si dimostra ancor più feroce di quella maschile. Si tratta
di fenomeni tuttavia limitati che fanno da contraltare a
tanti episodi di rassegnazione e di pianto: costituiscono
un’eccezione, insomma, non già la regola. Appare dunque azzardato il tentativo di attribuire autonomia assoluta al brigantaggio femminile preunitario. Forse sarebbe
più corretto parlare di una “questione dentro la questione”. E questo non sminuisce il ruolo delle donne nella
rivolta contadina. Anzi, lo amplia e agevola la comprensione dell’intera questione delle classi subalterne meridionali. È comprovata invece, nelle vicende rivoluzionarie della seconda metà dell’Ottocento, la presenza di un
considerevole numero di donne nell’organizzazione bri30
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gantesca. Chi può, infatti, legittimamente sostenere che
in una banda di briganti, numerosa e perfettamente organizzata (come tante nel periodo che trattiamo), si potesse fare a meno della presenza delle donne per motivi
logistici, di collegamento, di approvvigionamento e, perché no, anche per motivi affettivi? Occorre qui introdurre e operare − semmai − un’altra distinzione che dall’Ottocento ad oggi ha diviso e divide gli studiosi: la distinzione tra “la donna del brigante” e “la brigantessa”. Numerosi sono gli esempi di “donne del brigante”, più rari − ma
non meno significativi − quelli di “brigantesse”. Gli uni e
gli altri concorrono però in eguale misura a definire il
ruolo della donna nelle classi rurali della seconda metà
dell’Ottocento meridionale italiano e contribuiscono certamente all’affermazione del posto che la donna occupa
nell’odierna società italiana.
La “donna del brigante” è colei che ha dovuto o voluto
seguire il proprio uomo (spesso marito, talora amante,
raramente figlio) che si è dato alla macchia. Nel primo
caso, quello della costrizione, il darsi alla macchia del
proprio uomo l’ha confinata in una condizione ancora più
disperata. Le è venuta meno ogni forma di sostentamento: l’opinione pubblica l’ha additata con disprezzo e l’ha
isolata, spesso anche per timore di sospetti di connivenza. Non le è rimasto che il mendicio e il meretricio. Sola,
senza mezzi, disprezzata dai borghesi benpensanti e dai
popolani acquiescenti, controllata a vista dalle autorità
governative, talvolta oggetto di attenzioni inconfessabili
dei “galantuomini”, ha preferito alla fine seguire fino in
fondo la scelta di vita del suo uomo. La “donna del brigante” è anche colei che viene rapita e sedotta dal bandito, ridotta in stato di schiavitù e costretta − contro il
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suo volere − a seguirlo nelle sue azioni brigantesche.
Spesso finisce però per innamorarsene, per quella condizione psicologica che oggi è classificata come “sindrome
di Stoccolma”. È il caso, ad esempio − sempre nel periodo di occupazione francese − di una non meglio identificata Margherita. Il brigante Bizzarro, uomo violento e
sanguinario, imperversava nelle Calabrie. Costui, nel corso di una delle sue crudeli scorribande, sterminò un’intera famiglia, trucidò un padre e ne rapì la figlia Margherita. Bizzarro sicuramente stuprò la donna, la rese sua
schiava e la condusse con sé, in groppa al proprio cavallo, nelle imprese brigantesche alle quali dava continuamente vita. Ci si aspetterebbe che la donna fosse investita da rabbia, rancore e odio. Invece in Margherita, lentamente, l’odio verso Bizzarro si trasformò in ammirazione,
il sentimento di vendetta fu sostituito dall’amore verso il
boia della sua famiglia. Ne diventò la compagna e il braccio destro e lo accompagnò nelle sue scorrerie, gareggiando con lui in audacia e coraggio. Catturata in un’imboscata, non sopravvisse a lungo ai rigori della prigione
che, come vedremo più avanti, non erano inferiori a quelli della latitanza. Per un beffardo gioco del destino una
reazione opposta dimostrò invece − proprio nei confronti dello stesso Bizzarro − la donna che subentrò a Margherita nelle grazie del bandito: Niccolina Licciardi. Un
giorno erano entrambi braccati dai piemontesi. Bizzarro,
in un raptus di follia omicida, sfracellò contro le pareti di
una caverna il neonato avuto dalla compagna, per la sola
ragione che il pianto del bimbo rischiava di rivelarne la
presenza agli inseguitori. Niccolina non versò neppure
una lacrima. Con le mani scavò una fossa, vi seppellì il
figlioletto e si pose a guardia della tomba − anche dor32
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mendovi sopra − per evitare lo scempio da parte degli
animali selvatici che infestavano la zona. Profittando poi
del sonno di Bizzarro, gli sottrasse il fucile e gli fece saltare le cervella, sparandogli in un orecchio. Decapitato il
bandito, ne avvolse la testa in un panno, si diresse a casa
del governatore di Catanzaro e sul suo desco lanciò il
macabro trofeo. Incassata la taglia, ritornò sui monti e di
lei si perse ogni traccia. Alcune volte, ed è il caso della
libera scelta, “la donna del brigante “ segue volontariamente l’uomo di cui è innamorata.
Tale appare la vicenda di Maria Capitanio. La ragazza, nel
1865, a quindici anni si innamorò di Agostino Luongo, un
operaio delle ferrovie. Maria continuò ad amarlo e a frequentarlo di nascosto anche quando questi si dette alla
macchia. Lo seguì nella latitanza, consumò le “nozze
rusticane” e partecipò per pochi giorni alle azioni delittuose della banda, fungendo da vivandiera e da carceriera di un ricco possidente, tenuto in ostaggio. Catturata
dopo una decina di giorni, in uno scontro a fuoco, grazie
ai denari del padre, fu prosciolta dall’accusa di brigantaggio, essendo riuscita a dimostrare − attraverso false testimonianze − di essere stata costretta con la forza a seguire il brigante Luongo. Rivelatrice di contraddizioni è la
vicenda di Filomena Pennacchio, una tra le più note “brigantesse”. Figlia di un macellaio, nata in Irpinia nella provincia borbonica di Principato Ultra, fin dall’infanzia
incrementò il povero bilancio familiare servendo come
sguattera presso alcuni notabili del paese. Alcuni mesi
dopo il primo incontro con Giuseppe Schiavone, famoso
capobanda lucano, vendette per alcuni ducati il poco che
aveva e lo seguì nella latitanza. La vita brigantesca la rese
subito un’intrepida combattente, evidenziando le sue
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inclinazioni sanguinarie. Con Schiavone partecipò a furti
di bestiame e a sequestri di persona, trovando modo di
meritarsi il rispetto e la simpatia di tutta la banda. Non si
sottrasse nemmeno all’omicidio, avendo preso attiva parte all’eccidio di nove soldati del 45° Reggimento di Fanteria nel luglio del 1863 a Sferracavallo. Era altresì capace di slanci di generosità come è testimoniato dal soccorso che offrì ad alcune vittime della banda Schiavone e
per aver cercato di salvare alcune vite. Di lei si disse
anche, ma senza suffragio di prove, essere stata non solo
l’amante di Schiavone ma anche di Carmine Crocco, il
leggendario e riconosciuto capo di tutte le bande lucane
e dei suoi luogotenenti Ninco Nanco e Donato Tortora.
La presenza di più donne nella banda portava facilmente
ad episodi di gelosia, dei quali si servì largamente l’esercito occupante per annientare il nemico. E fu proprio la
gelosia di Rosa Giuliani, cui Filomena Pennacchio aveva
sottratto i favori di Schiavone, a tradire quest’ultimo: la
delazione della Giuliani consentì, infatti, l’arresto di
Schiavone e di altri briganti che furono subito condannati a morte. Prima di morire, il feroce Schiavone volle rivedere ancora Filomena, gravida di un suo figlio. Fu un
incontro tenerissimo tra la brigantessa regina di ferocia e
il capobanda terrore delle valli dell’Ofanto che in ginocchio − chiedendole perdono − le baciava le mani, i piedi
ed il ventre pregno. Filomena Pennacchio però non visse
− come altre − nel ricordo del suo uomo. Preferì − allettata da una promessa di sconto della pena − tradire
anch’essa e fece catturare con le sue rivelazioni un altro
luogotenente di Crocco, Agostino Sacchitiello ed altre
due famose “brigantesse”, Giuseppina Vitale e Maria Giovanna Tito. Condannata a venti anni di reclusione, la
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Pennacchio godette di vari sconti di pena: dopo sette
anni di detenzione tornò a casa ed anche per lei si aprirono le porte di una vita anonima. Nella storia della calabrese Maria Oliverio, detta “Ciccilla”, è sempre il sentimento della gelosia il detonatore che fa esplodere la
determinazione criminale della “brigantessa”: Ciccilla era
una bellissima ragazza dalle lunghe e nere chiome e dagli
occhi corvini. Sposa di Pietro Monaco, un ex soldato borbonico ed ex garibaldino, datosi al brigantaggio dopo un
omicidio, non lo aveva inizialmente seguito. Rimase nel
proprio paese, accontentandosi di rari, furtivi momenti
di intimità con il marito quando questi scendeva dai
monti, fino a quando venne a sapere che Monaco aveva
avuto una fugace relazione con la sorella. Ciccilla decise
di vendicarsi. Invitò la sorella in casa e − nel cuore della
notte − la trucidò con un pugnale, martoriandone il corpo con una trentina di colpi d’ascia. Subito dopo − a dorso di mulo − raggiunse la banda del marito, divenendone
addirittura il capo di fatto. Il raccapriccio che accompagnò le sue gesta si diffuse in tutto il circondario. Perfino
i suoi stessi briganti ne ebbero terrore e disprezzo. Usava, ad esempio, infierire sui cadaveri dei nemici uccisi,
mutilandoli atrocemente con coltelli e rasoi che portava
sempre con sé. Catturata dopo la morte del marito, fu
disconosciuta dai suoi stessi familiari. Anche la madre
rifiutò di visitarla in carcere. Il processo, che fu celebrato a Catanzaro con grande partecipazione di gente e che
vide come testimoni a carico anche i parenti suoi e del
marito, si concluse con la condanna a morte. Ed è uno
dei rarissimi, se non l’unico, caso di sentenza capitale per
una donna. La sentenza − contrariamente a quanto
sostengono taluni frettolosi cronisti − non fu poi esegui35
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BANDITE!
ta ma tramutata nell’ergastolo, perché il governo italiano
non aveva interesse a mostrarsi all’opinione pubblica
internazionale come giustiziere di una donna. Storie brigantesche, come si vede di inaudita ferocia, ma anche
storie di teneri sentimenti che le esasperazioni di una
guerra civile non riescono a sopprimere del tutto. Accanto a donne che uccidono senza pietà e che spingono la
loro ferocia − come affermano le cronache giornalistiche
e giudiziarie dell’epoca − fino ad inzuppare del sangue
delle loro vittime il pane che poi addentavano avidamente, vi sono donne che continuano a mandare messaggi
d’amore ricamati su fazzoletti (Maria Suriani al “capitano
Cannone”) o a ricamare per mesi l’immagine dell’amante
(con tanto di fucile a trombone) su una tovaglietta, una
delle quali ancora oggi viene conservata come cimelio.
Nemmeno sfugge alla dura legge della guerriglia e della
latitanza il bisogno di sentirsi pienamente donna, di essere madre. Sono molti gli esempi di briganti catturati in
combattimenti che, ad un più attento esame, si rivelano
“brigantesse” in stato di gravidanza. È difficile però
sostenere che a indurle alla gravidanza sia solamente il
calcolo previdente di una maggiore clemenza dei giudici
in caso di arresto e la prospettiva di un trattamento carcerario più umano. È, semmai, più lecito pensare che le
gravidanze siano la dimostrazione della necessità di chi si
è dato alla macchia di ricostruirsi una vita normale,
anche attraverso i sentimenti più naturali. Rosa Reginella, della banda di Agostino Sacchitiello viene catturata
con il suo compagno a Bisaccia nel novembre 1864, dopo
un accanito combattimento a cui non si sottrae, nonostante la gravidanza avanzata. Due mesi dopo, infatti,
partorisce in carcere. Gravide al momento della cattura
36
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sono anche Serafina Ciminelli − simile per aspetto e corporatura ad una bambina − compagna del capobanda
Antonio Franco e la bella Generosa Cardamone, amante
di Pietro Bianchi. Per le brigantesse catturate si aprono
le vie del carcere. La legislazione dell’epoca non prevede
condanne differenziate per i due sessi, ma l’orientamento dei giudici appare quello di comminare condanne più
lievi alle donne, anche in considerazione del fatto che
quasi mai è possibile processualmente accertare la
volontarietà nella scelta di delinquere. Normalmente la
pena inflitta si aggira sui quindici anni di carcere, spesso
in parte condonati. Si tratta però di una condanna solo in
apparenza più lieve. Infatti, le condizioni di vita all’interno dei vecchi bagni penali borbonici, trasformati in carceri del Regno d’Italia, sono pessime: il rancio è appena
sufficiente a sopravvivere, le condizioni igienico-sanitarie sono impossibili. Costrette ad una vita di stenti, a continui spostamenti, a marce forzate, le “brigantesse” accusano − più dei loro uomini − il peso dei disagi fisici e
quando vengono catturate mostrano i segni della debilitazione. La mancanza di igiene (per coprirsi spesso
indossano gli abiti sporchi dei nemici uccisi in combattimento) produce infezioni, che poco o niente curate in
carcere, le portano ad una morte prematura. È il caso, ad
esempio, della Ciminelli che appena un anno dopo la cattura muore come recita l’arido atto di morte del comune
di Potenza per “setticemia”, provocata da un’infiammazione del perineo. Il dramma delle donne del brigantaggio si consuma nell’indifferenza, quando non nel disprezzo, nel silenzio dell’opinione pubblica. Gli atti ufficiali dei
Carabinieri Reali, quelli delle Prefetture, i fascicoli processuali le accomunano tutte ai loro uomini, non attri37
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BANDITE!
buendo mai alle donne del brigantaggio un ruolo di soggetto sociale autonomo. Le cronache giornalistiche e gli
scrittori coevi le descrivono solo come manutengole,
amanti, concubine, “ganze”, “drude”, donne di piacere
dei briganti. Ciò ha impedito di prendere in considerazione il fenomeno e non ha consentito uno studio più approfondito sui risvolti sociali e politici della rivolta delle donne meridionali. Delle “brigantesse” restano oggi solamente le poche foto che la propaganda di regime ha voluto
tramandare per una distorta lettura iconografica del brigantaggio. Così, accanto a “brigantesse” che si sono fatte
ritrarre − armi in pugno − in abiti maschili, vi sono le foto
ufficiali dopo la cattura e, talora, dopo la morte in una
postura innaturale.
Come i loro uomini, trucidati e frettolosamente rivestiti,
legati ad un palo o ad una sedia, gli occhi rigidamente
spalancati, con in mano i loro fucili e circondati dai loro
giustizieri. Macabro trofeo di una guerra civile occultata.
Emblematiche sono le foto che si conservano di Michelina Di Cesare, una delle pochissime “brigantesse” uccise
in combattimento: alcune la ritraggono negli abiti tradizionali che ne esaltano la bellezza mediterranea. L’ultima,
scattatale dopo la morte, mette in evidenza lo scempio
fatto sul suo cadavere.
Valentino Romano
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PARTE PRIMA
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LE BRIGANTESSE
Dicette Garibaldi “ chesta terra è a vostra”
e nuie c’ammo creduto e c’ammo fatte assai cchiù tuoste
ma mò chi sa cumm’è, ce resta ‘o resto ‘e niente
simmo briganti e guappe, sempre cchiù pezzienti3.
Teresa De Sio, Sacco e Fuoco
MICHELINA DI CESARE
Se sul web si cercano informazioni su Caspoli, poche
righe ci informano che si tratta di un paese di poco più di
tremila abitanti della provincia di Caserta. Fra queste
poche righe, si scopre che il paesello campano ha dato i
natali a Michelina Di Cesare: non un premio Nobel ma –
testuale – “famosa brigantessa post-unitaria”. Di questa
“fama” si trova traccia in documenti civili o militari del
nuovo Stato unitario, come testimonia una segnalazione
del maggio del 1868, cioè tre mesi prima della sua morte, datata 30 agosto di quell’anno, quando la Di Cesare
aveva 26 anni: «Il Sindaco del Municipio di Mignano, in
Provincia di Terra di Lavoro certifica che la nominata
Michelina Di Cesare del fu Domenicantonio del villaggio
di Caspoli, ha sempre avuto una pessima condotta, tanto
che fin dal 1863 scorazza (sic) le pubbliche vie e campagne coll’orde brigantesche. In fede ne rilascia il presente.
Mignano 6 maggio 1868. Il sindaco Don FR. Salvatore».
Il carattere ribelle della poverissima Michelina era emer3. Disse Garibaldi “questa è terra vostra” e noi ci abbiamo creduto e siamo diventate più dure, ma adesso, chissà com’è, ci resta il resto di niente. Siamo briganti e guappe, sempre più pezzenti.
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BANDITE!
so fin dall’infanzia, quando con suo fratello aveva compiuto diversi furti, finché a vent’anni – in quel 1861 che
aveva salutato l’unità d’Italia – era andata in sposa a un
cafone del luogo, tal Rocco Tanga, che però era morto
l’anno dopo. Michelina era così precipitata nuovamente
in un’indigenza senza scampo in un territorio segnato da
una condizione economica che contemporaneamente
all’unità d’Italia aveva visto nascere la “questione meridionale”, destinata a crescere e a prosperare in uno squilibrio economico fra Nord e Sud le cui responsabilità
sono rintracciabili anche nell’atteggiamento della borghesia agricola meridionale, così tratteggiata dallo storico Francesco Barbagallo: «La classe borghese dei grandi
e medi proprietari terrieri nasceva e si rafforzava al di
fuori di un reale conflitto con la proprietà nobiliare, anzi
aspirava ad imitarne i costumi e le abitudini, e mutuava
dalla feudalità caratteri e forme del tradizionale sfruttamento della terra e dei contadini. L’appropriazione borghese della terra non comportava il superamento dei
rapporti agrari e sociali più arretrati».
La fresca unità nazionale non aveva portato nessun miglioramento a questa situazione, anzi, l’annessione piemontese – oltre a lasciare inalterati i rapporti di forza fra popolazione e proprietari terrieri – aveva introdotto la coscrizione obbligatoria (con dannosa sottrazione di forza lavoro
alle famiglie) e nuove tasse. Una situazione esplosiva, presto sfociata nel fenomeno del brigantaggio in Basilicata,
Molise, Abruzzo, Calabria, Campania, Puglia.
Fra i tanti “briganti”, c’è pure Francesco Guerra, ex soldato borbonico, renitente alla leva sabauda, affiliato alla banda di Rafaniello, di cui prenderà il comando alla morte del
capo. Quando Michelina lo conobbe, erano passati solo
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pochi mesi dalla morte di suo marito, e presto diventò
l’amante di Guerra e condivise con lui la clandestinità.
Un’unione che, nonostante la situazione non proprio “normale”, fu sancita con un matrimonio celebrato nella chiesa del paese di Galluccio, anche se – date le circostanze –
non fu redatto alcun certificato che possa provarlo. A
testimoniare tuttavia l’unione «davanti agli uomini e
davanti a Dio», ci sono le parole del brigante Domenico
Compagnone. Quando era stato catturato, durante un
interrogatorio datato 11 maggio 1865, il Compagnone aveva dichiarato che Michelina era moglie del Guerra. Ma non
solo moglie. «La banda», aveva infatti confidato il brigante, «è composta in tutto da ventuno individui, comprese
due donne che stanno assieme a Fuoco e Guerra, delle
quali quella di Guerra è anch’essa armata di fucili a due
colpi e di pistola. Della banda solo i capi sono armati di
fucili a due colpi e di pistole, ad eccezione dei due capi
suddetti che tengono i revolvers».
La banda Guerra si era specializzata in una guerriglia mordi e fuggi, con Michelina che capeggiava un’azione mentre
il suo uomo ne compiva un’altra. Il suo carisma era cresciuto enormemente quando aveva ideato un colpo sensazionale: «alcuni di noi», aveva spiegato, «si travestiranno
da carabinieri e fingeranno di portare dei briganti appena
catturati nella camera di sicurezza della stazione dei carabinieri di Galluccio. Una volta lì, disarmeremo i veri carabinieri, trafugheremo le armi, e assalteremo l’ufficio postale, poi svuoteremo le casse dei ricchi, casa per casa».
Tresca esecranda
Michelina partecipò attivamente a tutte le azioni della
banda. Tale circostanza è indirettamente provata dagli
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BANDITE!
atti processuali rintracciabili in vari archivi di Stato, nei
quali sono contenute alcune testimonianze che tracciano
il profilo di questa donna diventata l’icona del brigantaggio postunitario e della reazione femminile all’unità d’Italia. Dichiara, ad esempio, il brigante Domenico Compagnone, detenuto nel carcere di Gaeta: «[…] Siam rimasti
per un giorno nascosti in un campo di grano poco lontano dalla taverna Delle Torricelle, dal quale luogo Domenico Fuoco, Francesco Guerra, Michelina Guerra moglie
di quest’ultimo, la quale sta colla banda vestita da uomo,
e il fratello di questa per nome Domenico ci portarono
nella taverna e colà mangiarono e bevettero[…]». L’episodio, conclusosi con l’uccisione di un caporale della
guardia nazionale, dà la possibilità di provare la partecipazione diretta di Michelina alle azioni della banda. Nella testimonianza Michelina viene indicata come “moglie”
del brigante Guerra. Ciò, se da un lato, conferma quanto
scritto da alcuni autori circa un ipotetico matrimonio
religioso celebrato nella chiesetta di Galluccio e non registrato, per altro verso fa riflettere sull’analisi del brigantaggio fatta da alcuni storici “filo piemontesi” che hanno
sottaciuto tale circostanza, per poter assegnare alla brigantessa il ruolo di “druda”, cioè il ruolo passivo di donna del fuorilegge. Interessante è anche il riferimento alla
presenza del fratello di Michelina: quel Domenico che
tanta parte avrà nella fine della banda e della sorella, e
che Compagnone descrive di «statura media, capelli neri,
occhi simili, naso lungo, bocca snella», aggiungendo che
Domenico Di Cesare «fa parte della banda da quattro
anni»: ciò può servire a spiegare circostanze e tempi dell’incontro tra Michelina e Francesco Guerra. Il brigante
Angiolo Cerullo, dal canto suo, precisa che: «[…] Miche44
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lina Di Cesare di Caspoli ha un fratello brigante e un’altra sorella maritata in Caspoli, la quale dimora in una
masseria in faccia alla ferrovia in contrada Casa Selva e
la stessa somministra viveri ai briganti». Alla conferma
nella banda del fratello di Michelina, viene aggiunta la
novità di una sorella “brigantessa”. Un’indicazione che
appare non attendibile e dovuta probabilmente alle scarse conoscenze del brigante, che potrebbe aver fatto confusione con l’altra donna della banda, Nicolina Iaconelli,
amante di Domenico Fuoco.
Accadeva spesso che le bande si unissero per compiere
azioni particolarmente audaci, e ciò spinse il prefetto De
Ferrari a rivolgersi in questo modo “alle autorità e
comandanti guardia nazionale e carabinieri reali”: «PREFETTURA DI TERRA DI LAVORO TELEGRAMMA-CIRCOLARE. Spedito alle Autorità e Comandanti Guardia
Nazionale e Carabinieri Reali della Provincia. Bande
ladroni infami dirette dal territorio ancora soggetto
Governo papale infestano nuovamente e coprono di
misfatti nostra bella Provincia. Ma è tempo che tresca
esecranda sia finita. Dove guardia Nazionale comprende
nobile missione non possono sussistere malfattori campagna: Guardia Nazionale Terra Lavoro non sarà seconda
a nessuna comprendere soddisfare sacri diritti più sacri
doveri. Difenda suo territorio quella di ogni Comune;
avvisi Autorità, forze, popolazione vicine di ogni imminente pericolo. Ai ladroni, ai loro fautori, ai manutengoli
è delitto lasciare più scampo. Guerra implacabile e sterminio! Governo veglierà senza posa; sosterrà e premierà
con larghezza sforzi generosi; punirà esemplarmente
malvagi. Il presente sarà pubblicato in tutta la Provincia.
Caserta, 1° maggio 1865 Il Prefetto, DE FERRARI».
45
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BANDITE!
Giuda d’un fratello
Le scorribande della banda proseguirono fino a quando,
nell’agosto del 1868, al generale Emilio Pallavicini furono
assegnati pieni poteri militari. Il Pallavicini s’incontrò con
i più importanti possidenti di Mignano, Galluccio e Roccamonfina, per convincerli a collaborare facendo terra
bruciata alla banda, mentre minacciò il popolino di bruciare le abitazioni e di deportare tutti coloro che si fossero resi in qualsiasi modo complici dei briganti. Il ricatto
sortì gli effetti sperati: un massaro di Mignano informò la
guardia nazionale del suo paese della presenza della banda Guerra nei pressi della sua masseria, ai piedi del monte Morrone di Mignano; militi della G.N. e truppe del 27°
Rgt. Fanteria partirono immediatamente alla volta della
masseria. Al denaro assegnatogli per la missione, Pallavicini aveva chiesto un fondo cassa per “stimolare” delazioni, spiate e “pentimenti” (…). E fu proprio col denaro,
non col fucile, che – dopo aver fermato sull’Aspromonte
Garibaldi intenzionato a raggiungere Roma, e dopo aver
debellato la potente banda del brigante Carmine Crocco
– il Pallavicini sconfisse anche quella di Michelina. Alla
delazione del fattore di Mignano, si unì la collaborazione
di Domenico Di Cesare, che guidò i militi al nascondiglio
di sua sorella. Sul retro di una foto dell’epoca, il fratello
della Michelina è indicato come “Di Cesare spia!”. L’effetto sorpresa risultò vincente, come risulta dal rapporto
redatto: «[…] Erano le 10 di sera, pioveva a dirotto ed un
violentissimo temporale accompagnato da forte vento,
da tuoni e da lampi, favoriva maggiormente l’operazione,
permettendo ai soldati di potersi avvicinare inosservati al
luogo sospetto; da qualche tempo si stavano perlustrando quei luoghi accidentati e malagevoli perché coperti da
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strade infossate, burroni ed altri incagli naturali, già si
perdeva la speranza di rinvenire i briganti, quando alla
guida venne in mente di avvicinarsi a talune querce che
egli sapeva alquanto incavate, ed entro le quali poteva
benissimo nascondersi una persona. Fu buona la sua ispirazione, perché fatti pochi passi, e splendendo in quel
momento un vivo lampo, scorse appoggiati ad una di
quelle querce due briganti, che protetti un po’ dalla cavità dell’albero ed anche da un ombrello alla paesana che
uno di loro reggeva, cercavano ripararsi dalla pioggia.
Appena scortili, la guida li additò al Capitano Cazzaniga,
che presso di lui veniva con qualche soldato appena; il
bravo Capitano non frappone indugio, non cerca di far
fuoco, ma sbarazzato anche del fucile che teneva, con un
salto fu addosso a quei due ed afferratone uno pel collo,
lo stramazza al suolo e con lui viene ad una lotta corpo a
corpo, finche venne dato ad un soldato di appuntare il
suo fucile contro il brigante e di renderlo cadavere. Pare
che uno dei proiettili (giacché il fucile era stato caricato
a pallettoni), passando attraverso il petto del brigante
andasse a colpire nel dito pollice della mano sinistra del
Capitano, che avvinghiatolo con entrambe le braccia, gli
impediva qualunque tentativo di fuga. Quel brigante fu
subito riconosciuto pel capobanda Francesco Guerra, ed
il compagno che con lui s’intratteneva, appena visto l’attacco, tentò di fuggire; una fucilata sparatagli dietro dal
medico di Battaglione Pitzorno lo feriva, ma non al punto di farlo cadere, che continuando invece la sua fuga,
s’imbatteva poi in altri soldati per opera dei quali venne
freddato. Esaminatone il corpo, fu riconosciuto per donna e quindi per Michelina Di Cesare druda del Guerra.
Poco distante vari soldati con qualche Carabiniere s’in47
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BANDITE!
contravano con altri due briganti pure appoggiati ad un
albero; attaccati risolutamente ne cadeva subito ucciso
uno, che poi riconosciuto per Orsi Francesco di Letino;
l’altro poté sfuggire, ma inseguito da vicino da un Carabiniere, s’ebbe una prima ferita, finche capitato negli
agguati di altra pattuglia, cadde anch’egli colpito da due
colpi di revolver sparatigli a brevissima distanza dal Sottotenente Ranieri. Anche questo brigante venne poi riconosciuto per Giacomo Ciccone, già capo di sanguinosissima banda ed ora unitosi al Guerra; fece uso delle sue
armi quando si vide scoperto, e dotato di una forza erculea, oppose la più accanita resistenza tentando di aprirsi
un varco frammezzo ai soldati. Altri tre briganti che stavano un po’ più lungi dai due gruppi menzionati, poterono al primo rumore salvarsi gettandosi nei burroni in
quella località cosi frequenti. Due di costoro si sono già
presentati, per cui si può con tutta certezza affermare
che di tutta la banda Guerra, non n’e rimasto che uno
solo [....]». Comando Generale delle Truppe per la
Repressione del Brigantaggio nelle Provincie di Terra di
Lavoro, Aquila, Molise e Benevento. Distruzione della
Banda Guerra. Caserta 6 settembre 18684.
Leggende e canzoni
In Banditi, briganti, brigantesse nell’800, così Jacopo
Gelli descrive la morte di Michelina:
[…] La banda accerchiata da reparti del 27° Fanteria e da Carabinieri sul Monte Morrone, al comando di quell’anima dannata della
Michelina, tenne testa all’attacco e solo si disperse quando, colpito
4. In Brigantesse, di V. Romano, Controcorrente, Napoli 2007.
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da una palla, penetratagli nel cervello dallo zigomo destro, il capobanda Guerra cadde riverso e, poco dopo, accanto al corpo suo e a
quello del brigante Tulipano, a cui una fucilata aveva asportato metà
della testa, cadde anche la Michelina. La rea donna aveva combattuto come una leonessa. Colpita al capo, la femmina morì digrignando i denti per la rabbia di essere stata vinta e non per l’orrore dei
misfatti compiuti. Il giorno appresso i cadaveri dei briganti caduti e
di Michelina vennero esposti nella piazza di Mignano, guardati da
soldati armati. Si vuole che il generale Pallavicini, felice per il risultato ottenuto, alla loro vista avesse esclamato: “ecco i merli, li abbiamo presi”.
I cadaveri dei briganti furono denudati ed esposti nella
pubblica piazza a monito per chi volesse seguirne le gesta,
e fotografati. Fra essi anche quello di Michelina, che aveva perduto ogni tratto della sua bellezza. L’uccisione della Di Cesare, e lo scempio che viene fatto del suo cadavere, la consegnano a un immaginario collettivo che ne fa
presto un simbolo di rivolta. Rivolta doppia perché donna
oltre che fuorilegge. Fioriscono così sulla sua figura episodi inventati di sana pianta e leggende inattendibili, fino
a componimenti musicali, come la canzone scritta da Raimondo Rotondi, La morte re na bella ciuciara.
Ra chélla futegrafia me uardava éssa,
Michelina De Cesare la bregantéssa,
fémmena bèlla, ‘ntista y ‘nnammurata
che le cioce aglie piére y bène armata.
Quanne fu ‘ntanne ce ne stévene tante
re viécchie nuostre chiamate bregante
che bregante ce fuonne chiamate
ma, strigne strigne, èrene suldate
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BANDITE!
a chélla guèrra re ne mare tiémpe fa
che cò vota se tèra ancora raccuntà.
La fémmena nostra ch’èra Michelina
se truvètte ‘mmiése a chéll’arruìna
addó gli’ome sié, Guèrra chiamate
la guèrra la féce y murètte suldate.
A éssa, cumme vulètte brutta sorte,
gli’attucchètte pure prejà la morte
‘mmane a chélla male pègge gènte
venuta ra ciénte rove a fa neciénte.
Sètt’anne re fuoche èrene passate
sètt’anne re guèrra y scuppettate,
muntagne, paura, fame y fridde
a ste munne che se facéva stritte.
Scurtava la via y le larie scurtava
glie tiémpe a traviérse se regerava.
Trènt’aûste millotteciéntesessantotte,
na mala sèra ch’èra già quasce notte,
cumme succère a ste munne triste
Giuda n’ata vota se vennètte Criste.
Caifa pazziètte na cica che Ponzie Pilate
na povera fémmena murètte turturata.
Quant’alla gènte, y loche ‘nse scappa,
quann’è ‘ntanne, capa sèmpe Barabba.
Glie juorne ruoppe, alla piazza ‘Mignane,
quatte muorte ch’èrene state crestiane
gli’ammucchianne allescì, pe mostra,
una èra Michelina De Cesare nostra
nuda ‘ntutte y accisa allescì malaménte
sènz’abbrevogna re falla veré alla gènte.
Ra ‘ntanne re tiémpe n’è passate ne mare,
ma chélla fu la morte re na bèlla ciuciara.
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FILOMENA PENNACCHIO
Sono e mi chiamo Filomena Pennacchio del fu Giuseppe, di anni 20,
nativa di San Sozio, circondario di S. Angelo dei Lombardi, domiciliata ed abitante in Santagata delle Puglie. Sono orfana di padre e di
madre, e per guadagnarmi da vivere ero obbligata a lavorare la campagna. Mentre nello agosto del 1863 mi trovava a lavorare nella masseria Collamisso, di proprietà di Nicola Misso, in un giorno che più
non ricordo, si presentò colà Schiavone colla sua banda. A quella
vista mi nascosi impaurita sotto un mucchio di paglia; ma avvedutosene quel brigante venne a trarmi fuori dal mio nascondiglio e afferratomi per un braccio mi costrinse a montare in groppa al suo cavallo. Non valsero le preghiere e i pianti perché mi lasciasse libera, ma
volle condurmi al bosco dopo aver percosso il padrone e il curatolo di
quella masseria perché intercedevano per me. Giunta al bosco, il solo
Schiavone si servì della mia persona e poscia mi disse che intendeva tenermi presso di lui per sua donna5.
Le parole di Filomena rappresentano nella loro desolante crudezza una condizione, quella femminile, “mal destinata” in un Sud sconvolto da un nuovo tempo i cui contorni appaiono da subito ostici. Sconfitti i Borbone, i nuovi “padroni” del Regno di Napoli parlano anch’essi una
lingua sconosciuta e, contrariamente a prima, gli uomini
sono costretti a una lunga leva militare, privando le campagne delle loro forti e indispensabili braccia. Giuseppe
Schiavone era appunto un contadino di S. Agata di Puglia
che si rese renitente alla leva dandosi alla macchia nel
1862. Da lì a poco aveva costituito una banda con la quale aveva effettuato furti e sequestri di persona, oltre
5. ACS, TMS, b. 19, interrogatorio del 28 novembre 1864.
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BANDITE!
all’incendio di masserie di possidenti che non volevano
pagare. Figlia del macellaio Giuseppe e di Vincenza Bucci, entrambi analfabeti, Filomena era nata a mezzogiorno
del 6 novembre 1841 a S. Sossio Baronia. Angiolo De
Witt, un ufficiale dell’esercito piemontese che tenne uno
scrupoloso diario durante la sua partecipazione alla
repressione del brigantaggio, descrive la Pennacchio «di
carnagione olivastra, gli occhi scintillanti, la chioma nera
e crespata, le ciglia folte, il naso aquilino, le labbra prominenti, il profilo greco». Ma alla bellezza, Filomena Pennacchio unisce un’indiscutibile intelligenza e furbizia,
che la porta a modellare le sue testimonianze per ottenere maggiore indulgenza. Stando alle sue parole, l’incontro col brigante Schiavone è quasi il frutto di una angheria subita, ma le cose non stanno così: per questo bisogna
fare un balzo indietro. Giovanissima, per riscattare una
vita miserabile nella casa paterna, Filomena aveva sposato un impiegato civile della cancelleria del tribunale di
Foggia6: un tipo gelosissimo e manesco, che la maltrattava quotidianamente. Un giorno, durante l’ennesima violenza, Filomena estrasse dai capelli lo spillone e lo conficcò nel collo del marito, facendolo soffocare nel suo
sangue. Subito dopo, in preda al panico, fuggì nei boschi
di Lucera, dove la trovò il brigante Giuseppe Caruso, la
cui storia è altrettanto degna di essere perlomeno riassunta. Figlio di una nobile famiglia di Atella, Caruso era
diventato guardiano campestre, ma una lite con un collega lo aveva trasformato in un assassino dopo un colpo di
pistola. Datosi alla latitanza, era entrato in contatto con
la banda Crocco, la più organizzata e temuta di tutta la
6. Secondo altre fonti il marito della Pennacchio era un ferroviere.
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regione, diventando presto luogotenente del capo. Gli
attriti sempre più frequenti con Crocco lo indussero al
tradimento: consegnatosi ai carabinieri, determinò la
cattura dell’intera banda. Attriti e tradimenti che avevano un nome preciso: Filomena. All’avvenenza della brigantessa non aveva infatti saputo resistere Carmine
Crocco, che l’aveva infine sedotta. Giuseppe Schiavone è
quindi solo il terzo brigante cui si unisce Filomena, il più
mite e più umano della banda, a sua volta diventato capo
dopo la cattura del Crocco. La sua fine e quella della
stessa Pennacchio sono anch’esse conseguenza di un tradimento. Un tradimento per gelosia.
L’ultimo bacio
Alla fine dell’estate del 1864, braccati dai bersaglieri guidati dal traditore Caruso, Schiavone e la Pennacchio erano riusciti infine a trovare rifugio in una masseria di
Bisaccia, presso alcuni notabili filoborbonici. Ma l’ex
amante, Rosa Giuliani, venne a sapere da una donna di
servizio di quella masseria che Schiavone e la sua nuova
bella si sarebbero spostati nella notte del 26 novembre
per raggiungere un’altra masseria a Menfi, quella di
Posta Vassalli, dove sarebbero stati più al sicuro. I piemontesi organizzarono quindi la loro cattura. Ma la sorte
dei due amanti sarà ben diversa e non per la loro diversità sessuale, visto che erano tristemente note le caratteristiche “maschili” della bella Filomena. Giuseppe Schiavone fu fucilato nella piazza di Menfi dopo aver ottenuto
di poter dare un ultimo bacio alla sua amata Filomena.
Vestita da uomo, schioppo in spalla, Filomena non era la
donna del capo, ma essa stessa brigantessa capace di
azioni cruente e feroci, tanto da meritarsi il rispetto di
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BANDITE!
tutta la banda per il suo coraggio e la sua capacità di
distinguersi positivamente negli scontri coi piemontesi.
Una fama che aveva avuto prologo in un’azione messa a
segno quando aveva poco più di ventun anni: una spedizione punitiva in un podere di Migliano, presso Trevico,
ai danni di Lucia Cataldo, rea di non aver consegnato a
un emissario della banda denaro e gioielli intimati con
tanto di biglietto firmato dalla stessa Pennacchio. Da
questo momento le razzie della banda capeggiata da
Filomena si susseguono, come testimoniano i tanti faldoni processuali che la riguarderanno a “fine carriera”.
Oltre ad aver imparato a sparare, la bella brigantessa si
lancia senza esitazione nel corpo a corpo, lottando all’arma bianca. Dopo la morte del suo uomo, Filomena doveva affrontare anch’essa la giustizia, che presentava
anche a lei un conto pesantissimo, dopo che i giudici
erano riusciti a individuare presso i vari tribunali ordinari i carichi pendenti della Pennacchio, di cui, i più rilevanti sono:
a) Tribunale circondariale di Ariano:
Crimine del 1863, associazione di malfattori in banda armata, ad
oggetto di delinquere contro persone e proprietà; incendio volontario
di una casa rurale addetta ad abitazione; uccisione di animali bovini col danno di £. 1.402,50 in danno di Vito Pennacchia a 3 febbraio
1863; crimine del 1863, associazione di malfattori in banda armata
a fine di delinquere contro le persone e le proprietà di tre capretti ed
un agnello del valore di £. 35 in danno di Domenico La Villa, Luigi
Gallicchio; crimine del 1863, associazione di malfattori in banda
armata per delinquere contro le persone e le proprietà ed uccisione di
animale bovino del valore di £. 297 commessa da una banda brigantesca; crimine del 1864, estorsione violenta mancata con sequestro
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di persona e minacce quasi di danno accompagnata da ribellione,
con attacco e resistenza contro la forza pubblica che agiva per esecuzione degli ordini delle pubbliche autorità.
b) Tribunale Circondariale di Potenza:
Grassazione di una giumenta ed altro a danno di Saccone Michele;
associazione a malfattori accompagnata da altri reati; omicidio
mancato ed altro in persona di Longo Antonio; associazione di malfattori e omicidio volontario a danno di Martino Alessandro.
c) Tribunale Circondariale di Avellino:
brigantaggio con emissione di mandato di cattura.
d) Tribunale Circondariale di Lucera:
Grassazione violenta, mercé appropriazione di una valigia postale ed
altro commessa in pregiudizio di Domenico Laticagno (?) di Bovino S.
Nicola Palazzo di S. Agata nel dì 21 luglio 1863 in tenimento di S.
Agata; omicidio volontario commesso per impulso di brutale malvagità con arma da fuoco, a 28 agosto 1863, in tenimento di S. Agata,
in persona di Nicola Sannella; di uccisione di due muli del valore di
circa £. 1.400 in pregiudizio del sig. Michele sacerdote Camillo di
detto Comune; estorsione violenta con sequestro di persona lasciata
libera dopo il riscatto di £. 2550, commessa in tenimento di S. Agata in pregiudizio di Rocco Sannella di detto Comune nel 20 aprile
18637.
Queste elencate sono solo alcune delle imputazioni cui
deve rispondere Filomena, che a quel punto, perduto
anche l’amore di Schiavone, decise di collaborare con le
autorità. Come primo “segno tangibile”, indicò il nascondiglio di Agostino Sacchitiello, diventato leader della banda dopo la morte Schiavone. Il brigante fu catturato il 18
dicembre 1864 dal Capo di Stato Maggiore del Comando
7. In Brigantesse, cit.
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BANDITE!
Generale delle Zone riunite, che così poi descriveva il fatto all’Avvocato Fiscale Militare del Tribunale di Guerra di
Avellino: «In favore della Filomena Pennacchio mi è dovere far risultare che la medesima con le sue importanti
rivelazioni ha assicurato nelle mani della Giustizia l’intiera comitiva Sacchitiello e le drude, che insieme a lui ricevevano ricovero in Bisaccia. Questi fatti costituiscono servizi positivi a pro della ricostruzione della sicurezza pubblica, quindi nutro fiducia che la Giustizia vorrà tenerne
conto nel pronunciare una sentenza contro Filomena
Pennacchio»8.
Il 30 giugno 1865, Filomena Pennacchio, difesa dall’avvocato Tommaso Guerriero, che si era battuto strenuamente per la sua patrocinata con una requisitoria lunghissima che aveva attraversato tutta una vita fatta di miseria
e violenza, fu condannata alla pena di 20 anni di lavori
forzati. In Appello, nel luglio del 1870, la pena le fu ridotta a 9 anni. Il 6 marzo 1872 fu infine liberata e di lei non
si seppe più nulla.
MARIA OLIVERIO DETTA CICCILLA
La chiamavano Ciccilla, ma all’anagrafe di Casole,
quand’era nata in contrada Sciualla, il 30 agosto 1841,
era stata registrata col nome di Maria. Maria Oliverio: la
brigantessa delle brigantesse, tanto da interessare perfino Alexandre Dumas. La sua immagine ci arriva dalle
fotografie scattate nel carcere di Montalto Uffugo nel
1864: vestita da uomo, col classico cappello a pan di zuc8. ACS, TMS, b. 19, f. 230 da Brigantesse, cit.
56
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chero, il duebotte (doppietta), un revolver alla cintura e
un braccio al collo, per una ferita.
Ciccilla aveva sposato il brigante Pietro Monaco, soprannominato “Bruttacera”: un ex sergente borbonico che
pare avesse partecipato alla cattura e all’uccisione di
Carlo Pisacane e che avesse fatto parte degli attentatori
di Ferdinando II. All’arrivo di Garibaldi, aveva seguito il
generale per quelle terre promesse ai contadini. S’era
distinto in combattimento, tanto da guadagnarsi le spalline di sottotenente durante l’assedio di Capua, nonostante di quell’episodio non si registrino particolari atti
eroici da parte di nessuno dei contendenti. Nel pomeriggio del 1° novembre 1860 le artiglierie del V Corpo dell’esercito italiano cominciarono un fitto bombardamento
sulla città, tanto che la popolazione chiese a Tommaso
Cava de Gueva, capo di Stato maggiore dell’esercito borbonico, di cessare ogni resistenza. Comunque sia, l’avventura unitaria fu breve e deludente per il sottotenente
Monaco, che si ritrovò presto disoccupato. Tornato a
casa, il suo livore contro “i nuovi padroni del Sud” era
aumentato e lui s’era prestato a scendere in un agone in
cui le famiglie più potenti del territorio si contendevano
il potere. Si ritrovò quindi presto in brutte storie di vendette e faide, finché uccise un possidente di Serrapedace, piccolo centro alle falde della Sila. Diventato un
assassino, Pietro si dette alla macchia. Ma per i suoi trascorsi militari, il suo destino non poteva essere quello di
un qualsiasi latitante: in breve tempo, Pietro Monaco
divenne un brigante, aggregandosi prima alla banda di
Domenico Strafaci, detto “Palma”, poi formandone una
propria. La sua azione rivoltosa non ebbe tuttavia connotati politici: la sua banda non combatteva in nome dei
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BANDITE!
Borbone, ma contro baroni e possidenti che s’erano
schierati con i nuovi governanti. Mentre Pietro – descritto da Michele Falcone, un sequestrato che ebbe modo di
osservarlo da vicino per molto tempo, come «tarchiato
nella persona, bruno di volto e di pelo, con occhi fieri e
incavati che ispiravano diffidenza ed orrore» – combatteva una nuova guerra, Ciccilla se ne stava a casa, in paese, dove il marito rientrava quando poteva. La sua latitanza non era poi così drammatica, grazie a diversi
manutengoli: possidenti borbonici disposti ad aiutarlo. In
una di queste “licenze”, Ciccilla si accorse che fra suo
marito e sua sorella c’era qualcosa di poco chiaro. Quando ne ebbe la certezza, uscì di casa, recuperò la scure dal
capanno, entrò come una furia nella camera in cui dormiva sua sorella, e la fece a pezzi. Quarantotto colpi di scure che costrinsero suo marito Pietro a portarla con sé per
evitare che Ciccilla finisse in galera. Quello stesso giorno,
Maria si tolse la gonna per indossare i pantaloni e diventare la brigantessa: la tenuta da fuorilegge la vede indossare giubba coi rever decorati da monete usate come
bottoni e calzoni di velluto, che in più occasioni la fecero
scambiare per “un imberbe e biondo giovinetto”. Tutti
coloro che ebbero a che fare con lei, non accennarono
mai a una particolare ferocia, a una morbosa violenza del
carattere, mentre del marito molti sottolinearono la spietatezza, compreso quel Michele Falcone il quale scrisse
che Monaco «nella ferocia dell’indole ritraeva moltissimo
Fra’ Diavolo, il fido amico di Carolina d’Asburgo». In poco
tempo Pietro Monaco diventò noto e temuto e vide
aumentare il suo prestigio quando, nel dicembre del
1862, il brigante Giuseppe Scrivano, prezzolato da un suo
parente capo di una squadriglia, appartenente alla
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potente famiglia dei Rosanova, tentò di ucciderlo. Scrivano − che poi, sempre facendo il doppio gioco, finì ucciso
per sbaglio dai bersaglieri − gli sparò, ma lo ferì soltanto:
un fallimento che servì ad accrescere il carisma del “brigante invulnerabile”, manco fosse Achille. Il Monaco non
era l’eroe omerico, ma solo un fuorilegge che visse la sua
ultima avventura quando decise di sequestrare alcuni
membri di una ricca famiglia di Acri, i Falcone. Nel settembre del 1863 sequestrò i Falcone e il vescovo di Nicotera e Tropea, De Simone, e un canonico ospiti in quel
momento della potente famiglia calabrese: i prelati furono poi rilasciati, mentre per il Monaco e i suoi sequestrati cominciava una sarabanda fra la Sila per sfuggire agli
inseguitori sguinzagliati dai Falcone. La famiglia Falcone
giocò su due tavoli: da una parte in modo duro con uomini in armi, dall’altra trattando economicamente. In più
rate Monaco ricevette 16mila ducati, oltre ad armi e orologi d’oro, e avrebbe ricevuto anche di più se i sequestrati, approfittando di uno scontro a fuoco fra i briganti e gli
inseguitori, non fossero riusciti a fuggire. I Falcone fecero anche circolare la voce che avrebbero pagato a peso
d’oro la sua testa: Marrazzo, Celestino e De Marco, tre
briganti della banda Monaco, si dissero pronti ad eliminare il loro capo se fosse stato procurato loro del veleno.
Maldestramente non riuscirono però nell’intento, per
l’incapacità di dosare la stricnina nell’acqua, così decisero di sparare al loro capo mentre stava dormendo. Nell’occasione colpirono anche Ciccilla, che rimase ferita a
un braccio, e un altro uomo della banda, Giacomo Madeo,
che invece morì: la testa di questo brigante fu portata ai
Falcone, che la esposero nel punto in cui era avvenuto il
sequestro. De Marco, Marrazzo e Celestino, oltre a esse59
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BANDITE!
re ricompensati per il loro tradimento, furono portati in
trionfo, provocando però uno sdegno popolare che
costrinse le autorità ad arrestarli e a processarli, seppur
condannandoli poi a pene lievi. Nonostante la dolorosa
ferita al braccio che le aveva procurato una frattura, Ciccilla bruciò personalmente il corpo del marito per evitare
che finisse nelle mani dei soldati.
«Alla morte di mio marito», dichiara Ciccilla in una sua
deposizione, «rimasi con Antonio Monaco, cugino di mio
marito; e mentre tentavamo di unirci alla banda Spinelli,
incontratici con due briganti di Longobucco, per nome
Pasquale Guagliardi e Ludovico Russo soprannominato
Portella, ci unimmo con loro e fu intorno ai primi giorni
di gennaio trapassato; indi ritornammo tutti e quattro in
una grotta situata a circa metà del declivio di un colle al
piede del quale scorre il fiume Nieto, ed al di sopra, sul
dorso stesso del colle, sorge il bosco di Cacurri; ignoro se
sia nel territorio di S. Giovanni in Fiore»9. Fu proprio
questa resistenza – raccontata da lei stessa – a procurarle la fama. «Era bene un mese che noi dimoravamo in
quella grotta, il cui ingresso era formato da un buco da
chiudersi a nostro piacimento con qualche pietra, sicché
nessuno potesse accorgersi di dimorare colà delle persone; quando l’ultimo giorno di Carnevale, in cui avevamo
disposto di passarlo allegramente con cibi e vini, scorgemmo gente armata che credevamo una squadriglia
essendo vestiti alla borghese. Guagliardi allora per primo
scaricò il suo fucile, due volte contro quella squadriglia,
che invece era la truppa travestita». Nel rapporto del
capitano Dorna, comandante del 57° reggimento di
9. In Brigantesse, cit.
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Linea, si legge che il rifugio dei briganti fu localizzato
grazie a una delazione. «Era mezzogiorno in punto», vi si
legge, «quando vi arrivammo, ed immantinente dopo,
prese le precauzioni strategiche, lo assaltammo sostenendo un fuoco vivo e ben nutrito. Però quell’antro era
così ben condizionato che opponeva a noi valevole resistenza e ci opponeva il pericolo di proiettili di briganti,
quindi ci convenne guardare con diligenza il luogo assediato la intera passata notte, poiché appena presentato il
giorno d’oggi, ripetendo gli assalti e finalmente praticando una breccia per penetrare nella caverna dal punto
opposto all’entrata di essa e rotolandosi entro dei grossi
macigni ebbimo la soddisfazione di vederla ancora quella canaglia a nostra discrezione e perciò ne venne fuori la
celebre vedova di Pietro Monaco a nome Maria Oliverio
di Casole […]». Colti di sorpresa, i briganti reagirono
furiosamente, come testimonia Ciccilla. «Stavamo sdraiati, chi dormendo e chi vegliando, ci alzammo di un subito e ciascuno fece una scarica con la propria arma. Il
Monaco subito alla sua prima scarica ricevette una palla
che gli trapassò il corpo, onde dopo pochi minuti giaceva
estinto al suolo. Dopo pochi minuti rimase ferito alla
coscia destra il Pasquale Guagliardi, il quale nondimeno
continuò a far fuoco sino alle ultime scariche dei miei
compagni, anzi in ultimo era egli solo che sparava, ciò
per ben le due ultime ore. Ignoro se pel fuoco da lui fatto sia rimasto ferito o ucciso qualcuno della forza; a circa metà del conflitto rimase ferito ad un braccio ed in
una mano, per cui perdette il pollice della mano sinistra
il Ludovico Russo detto Portella. Siccome la grotta era
divisa in due parti, nell’una delle quali non si poteva
entrare se non prima uscendo totalmente, così essendo
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BANDITE!
rimasti con tre o con quattro fucili e due revolver, nell’uno spargimento, ove io stessa giaceva, ed era quello a
destra entrando, il Portella era solo nell’altro lato, munito di un solo revolver, col quale soltanto continuò a fare
scariche, finché durante la notte, approfittando dell’oscurità, se ne è fuggito e può essere che si abbia portato seco il detto suo revolver, poiché non fu trovato
quando ci siamo arresi».
Arrestata insieme agli altri briganti, Ciccilla fu giudicata
dal Tribunale Militare di Guerra per le Provincie di Calabria Ultra 2ª, in Catanzaro, che il 30 aprile 1864 la ritenne colpevole di diversi reati.
1) Brigantaggio, perché associatasi da oltre un anno alla
banda armata in un numero maggiore di tre, condotta
dal fu Pietro Monaco, suo marito, prendeva parte ai
fatti criminosi da quella comitiva in gran numero consumati, finché il 10 febbraio ultimo venne arrestata.
2) Assassinio della propria germana Teresa Oliverio,
avvenuto in Macchia (Spezzano Piccolo) nella notte
del 27 maggio 1862.
3) Grassazione con omicidio in persona di Basile Vincenzo e Antonio Oliverio Chiodo, e mancato omicidio in
persona di Alessandro Basile, commesso in territorio
di S. Giovanni in Fiore il 4 ottobre 1862 da Maria Oliverio, Pietro Monaco e altri due ignoti.
4) Mancato assassinio a colpi di stile, con ferite, alcune
delle quali portarono seco pericolo di vita e perenne
debilitamento fisico in persona di Giovanni Porillo,
commesso nella sera del 7 maggio 1863 in unione a
suo marito ed altri, in territorio di Rose nella località
detta Ponticello.
5) Ribellione armata mano alla forza pubblica in unione
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ad altri tre, con omicidio in persona delli Spagnulini
Giovanni, Angelini Francesco, soldati del 57° fanteria
e di Cervino Michele, guardaboschi, reati avvenuti il 9
febbraio ultimo nella località detta bosco di Cuccaro
(Santa Severina), fatto in seguito al quale venne arrestata il dì successivo.
Accuse che le procurano la condanna «Alla pena di morte mediante la fucilazione alla schiena ed alle spese del
giudizio». Sull’epilogo della storia di Ciccilla, le notizie
discordano. Secondo un’annotazione manoscritta sul
retro di una fotografia segnaletica, la sentenza fu eseguita, secondo un’altra fonte la pena fu commutata nei lavori forzati a vita, come testimonierebbe la firma di Vittorio
Emanuele II in calce alla domanda in tal senso presentata dal ministro della Guerra. Secondo questa versione –
che risulta la più accreditata – Maria Oliverio fu portata
a espiare la pena nella famigerata prigione di Fenestrelle, in Piemonte, dove sarebbe morta una quindicina d’anni dopo, anche se altre testimonianze la vogliono libera
dopo quello stesso periodo: un mistero rimasto tale sia
per la sparizione dell’eventuale cadavere, sia di ogni traccia della Oliverio successivamente alla sua supposta liberazione.
GIUSEPPINA VITALE
Tre anni or sono fu tolto dai briganti a mio padre un suo cavallo nel
bosco Frasca, e precisamente dalla banda Sacchitiello. Bramando di
riavere il cavallo, che gli era caro, si rivolse alla madre di Sacchitiello, che abitava in Bisaccia, pregandola a volersi interessare presso il
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di lei figlio, onde gli fosse restituito l’animale. Dopo alcuni giorni la
detta donna disse a mio padre che aveva parlato col proprio figlio e
che se voleva il cavallo andasse alla masseria di proprietà di certo
Lucarelli denominata la Casina, poco distante dal paese, e che seco
lui avesse condotto me pure, essendo intenzione di suo figlio di
vedermi e parlarmi. Mio padre volle seguire il consiglio di quella donna, e una sera presami sottobraccio mi condusse in detta casina, ove
già si trovava il Sacchitiello. Appena quest’ultimo mi vide disse a mio
padre che si sentiva innamorato di me e che voleva farmi sua.
Temendo mio padre che una negativa avesse potuto portar danno a
lui e a me, accondiscese ai desideri di quel brigante. Dopo tale promessa, che ho dovuto anch’io confermare, fummo rimandati senza
molestia e ce ne tornammo in paese col cavallo.
Questa la testimonianza di Giuseppina Vitale, diventata
brigantessa per amore di Agostino Sacchitiello, luogotenente della banda di Carmine Crocco, la più folta e temuta in assoluto di tutto il fenomeno del brigantaggio, e che
di fatto fu venduta da suo padre per un cavallo. Giuseppina era nata il 29 maggio 1841 a Bisaccia, paesino in provincia di Avellino che con Calitri si trovava al confine con la
provincia di Potenza: luoghi interessati dal ricco passato
storico, che li aveva visti partecipare ai moti insurrezionali del ’20 e del ’48, mentre nel 1858 molti cittadini erano
stati deferiti alle autorità per cospirazione. Tuttavia, Bisaccia accolse quasi passivamente il passaggio al Regno d’Italia, mentre la vicina Aquilonia si ribellò: il 21 ottobre 1860
l’adesione fu sancita con una votazione quasi plebiscitaria
svoltasi nella piazza principale. L’opposizione al nuovo corso politico non tardò ad arrivare e a partire dal successivo
mese di gennaio molti ex soldati borbonici abbandonarono
le case e si rifugiarono nei boschi: fra essi, Agostino San64
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tachiello, caporale dell’esercito borbonico che, richiamato
alle armi, invece di presentarsi decise di darsi alla macchia. Lo seguirono suo fratello Vito e Francesco Gentile,
commilitone del Santachiello. L’ex caporale borbonico
radunò presto attorno a sé molti altri sbandati e renitenti,
fino a comporre una banda che superò le cento unità, tanto da stringere rapporti con la banda Crocco, la più numerosa e organizzata.
La nuova vita di Giuseppina Vitale fu quindi all’insegna
del brigantaggio, con azioni cui spesso prese parte lei
stessa, come quando il 5 settembre 1861 consegnò una
lettera indirizzata al capitano della guardia nazionale di
Vallata, Michele Netti, nella quale il Santachiello intimava la liberazione di alcuni briganti imprigionati. Tutte le
azioni della banda erano compiute ai danni di possidenti
locali, ma alle razzie alcune volte seguirono alcuni omicidi, come quello ai danni del corriere Ciccone Pallano di
S. Angelo dei Lombardi, reo di essere latore di una lettera al comando militare del paese nella quale si davano
istruzioni per la cattura di briganti della banda.
Le confessioni
L’attività della banda proseguì fino al 29 novembre 1864,
quando Agostino Sacchitiello, suo fratello Vito, Francesco Gentile, Maria Giovanna da Ruvo e la stessa Giuseppina furono localizzati e arrestati in una stanza sotterranea di casa Rago, mentre nei piani superiori si svolgeva
una festa da ballo cui partecipavano ufficiali di cavalleria
e bersaglieri. Michele Rago, luogotenente della guardia
nazionale, pur ricoprendo incarichi di prestigio sotto il
nuovo Regno, faceva il doppio gioco. A smascherare il
Rago come manutengolo era stata Filomena Pennacchio
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BANDITE!
in una delle sue tante delazioni dopo l’arresto. Ma anche
Sacchitiello collaborò appena varcate le sbarre del carcere, facendo arrestare molti briganti della banda Collarulo, oltre a Teodoro Gioseffi, capo di una banda che spadroneggiava nel territorio di Melfi. L’arresto della banda
non fu comunque episodio inatteso, visto che Sacchitiello, stretto ormai nella morsa delle truppe regolari, aveva
deciso di arrendersi, come conferma la deposizione resa
da Giuseppina il 1° marzo 1865.
Un mese prima di entrare in casa Rago, Agostino Sacchitiello scrisse
a Francesco Michele Stanco di Calitri annunciandogli che voleva presentarsi. Esso gli rispose che si presentasse pure, anzi, osservò che
fu suo figlio in assenza del padre a rispondergli facendogli istanza
onde mettesse ad effetto tale suo divisamento. Ed infatti un mese
dopo entrammo in casa Rago per ciò eseguire ed ivi venimmo traditi
e non potemmo più mettere ad effetto tale nostro disegno10.
Queste apparenti contraddizioni si spiegano col fatto che
i possidenti manutengoli dei briganti non avevano nessuna convenienza che questi si arrendessero spontaneamente, rivelando magari i loro nomi. La dimostrazione
sta nell’episodio che riguarda il brigante Ninco Nanco
che, dopo essersi arreso, quando era disarmato fu ucciso
a bruciapelo con una schioppettata da un ufficiale della
guardia nazionale al solo scopo di eliminare uno scomodo testimone per i possidenti locali che fino a quel
momento l’avevano protetto. La successiva testimonianza di Giuseppina11 è illuminante perché conferma l’an10. In Brigantesse, cit.
11. Interrogatorio del 7 gennaio 1865.
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dazzo disinvolto di molte delle famiglie più in vista del
territorio, arrivate ad arricchirsi col bottino delle ruberie
effettuate dai briganti poi imprigionati.
Nel mese di novembre ultimo avendo intenzione tanto Agostino e Vito
Sacchitiello che Francesco Gentile di presentarsi, fecero sapere questa loro intenzione al compare della dichiarante d. Michele Rago di
Bisaccia, e si portarono presso il medesimo. Quando vi giunsero diedero al detto Rago ducati duecento a titolo di compenso per l’ospitalità che loro aspettava, ed altri ducati quattrocento consegnarono
alla famiglia di lui, quale forma idonea tenersi da loro in deposito e
somministrarsi a misura che bisognava quando si trovavano nel carcere.
Il desiderio di arricchimento da parte della famiglia Rago
– come del resto di tutte le altre manutengole dei briganti, unitamente al cinico calcolo – è resa ancora più evidente dalla testimonianza resa dalla Vitale nell’interrogatorio del 2 dicembre 1864.
Era intenzione del Sacchitiello di presentasi coi suoi compagni e per
fare ciò si rivolse a Michele Raho12 che è l’amico e il protettore di tutti i briganti. Sei o sette giorni prima del nostro arresto andammo ad
alloggiare in casa del Raho, che ci accettò con soddisfazione e contento. L’Agostino Sacchitiello gli consegnò seicento ducati che possedeva, pregandolo a tenerli in deposito per somministrarglieli a poco
a poco in carcere quando si sarebbe presentato. Ma il Raho, appena
ebbe il denaro nelle mani, gli disse queste precise parole: “Oh compare Sacchitiello, perché ti vuoi presentare coi tuoi? Ho delle amicizie a Napoli e cercherò di salvarti, mentre se ti presenti sarai indub12. Rago.
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biamente fucilato insieme agli altri”. Devo dire che i seicento ducati
furono ritirati dalla Serafina Raho che tuttora tiene in sue mani: più
sono rimasti presso della famiglia li seguenti oggetti: cioè, 4 camicie
da donna, 5 da uomo, 3 sottocalzoni, un paio di calzoni da donna di
mordiglione, 3 fazzoletti di seta, 2 paia di stivali, 2 materassi, 4 paia
di calze di lana, 2 rotoli di cotone. Mi ero dimenticata di dire che il
Laurisi di cui ho già parlato, tiene presso di sé una mia collana d’oro
ed un involto contenente lingeria ed altri panni. Debbo dichiarare
ancora che nel gennaio dell’anno passato un tal Vito Savino (Zarilli)
di Calitri, massaro, venne al bosco a prendermi per incarico del Sacchitiello e mi condusse in sua casa ove mi sgravai13. Presso lo stesso lasciai un cilindro d’argento e tre piastre. Per le spese poi del mio
parto ebbe dal Sacchitiello una forte somma di denaro di cui ignoro
l’ammontare. Ora che mi sovviene, stetti anche ricoverata in casa di
un certo Nicola Nigro, sarto in Monteverde, manutengolo famoso di
briganti, ai quali provvede armi e munizioni.
La sera della retata che porta agli arresti Sacchitiello e la
Vitale, Michele Rago, all’oscuro della delazione fatta contro di lui da Filomena Pennacchio, collaborava col maggiore Galli, comandante del Reparto dei Cavalleggeri di
Lucca di stanza in quella zona, che si trovava lì con lo
scopo di catturare alcuni briganti coinvolti nel sequestro
di un proprietario. I soldati avevano bloccato ogni via
d’accesso al paese e tutto era pronto, quando, alle 22 circa, arrivava un dispaccio urgentissimo firmato dal generale Pallavicini, che ordinava l’immediato arresto del
Rago e l’irruzione nella sua abitazione. Seppur sorpreso,
visto il rango della persona contro la quale avrebbe dovuto agire, il maggiore Galli arrestò il Rago che, sulle prime
13. Partorii.
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protestò energicamente dichiarandosi estraneo a ogni
fatto criminoso, ma di fronte a contestazioni inconfutabili, fu costretto ad ammettere le sue responsabilità, indicando casa sua come rifugio di Agostino e Vito Sacchitiello, di Francesco Gentile e di Giuseppina Vitale.
Aggiunse anche che l’ex druda del brigante Carmine
Crocco, Maria Giovanna Tito, era nascosta in casa di suo
zio Donato. Le confessioni di Giuseppina inguaiano
anche altre personalità insospettabili.
Uno dei manutengoli di briganti è il Canonico d. Andrea Vella di Monteverde, il quale due anni fa fece ricoverare in casa del suo parente
Capobianco, Sindaco di Monteverde di quell’epoca e che ha un figlio
per nome Raffaele, il capobrigante Carmine Crocco. Egualmente
conosce che il medico d. Angelo Vella di Monteverde ha continuamente curati i briganti feriti nel bosco.
Il 30 giugno 1865 Giuseppina Vitale fu condannata a venti anni di lavori forzati, ridotti poi a dieci il 22 aprile 1868.
MADDALENA DE LELLIS, DETTA PADOVELLA
«Padovella, padovè, addò vai padovè?»
In un paese aggrappato su una montagna alta mille metri
di miseria, un codazzo di bambini segue una vecchia curva su un bastone all’uscita di una chiesa. Quando la vecchia s’arrampica su un pendio, i bambini infilano un vicolo e raggiungono così i loro compari che stanno giocando
con una palla di pezza, e che alla vista della vecchia gridano pure loro: «Padovella, padovè, addò vai padovè?».
È domenica, e mentre i bambini giocano, i cafoni si ripo69
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sano. Va bene tirare muli e caricare some e spezzarsi la
schiena per sei giorni alla settimana da mane a sera, ma
a un giorno, almeno un giorno senza fatica, «pure li
cafùn c’han d’ritt». Gli altri giorni vanno nei campi o
nelle botteghe o nelle officine o nelle stalle, e i figli, quelli piccoli, li lasciano a lei, la Padovella, che glieli tiene in
una specie d’asilo alla buona. «Ci dai due uova, ‘na gallina, nù chilo de gran, zùccher e sale: a lei c’abbastano». Verdura e pomodori no, quelli li ricava lei stessa dal
suo orticello, che insegna a coltivare anche a quei piccoli diavoli incapaci di stare fermi, ma pure affascinati da
una zucchina che cresce. Oggi è festa anche per lei, per
la “padovella”. Niente bambini.
«Me farò ‘na frittata», pensa la vecchia ossuta, ma quando sta per spellare una cipolla una fitta la inchioda contro lo stipite della porta della cucina, cui si aggrappa per
non cadere. Riesce in qualche modo a raggiungere il letto, si sdraia, chiude gli occhi. È la solita ferita, un dolore
lontano che non l’ha abbandonata mai, che insieme porta sempre pure la faccia sua. La faccia dell’amore suo. Di
Andrea. Anche lui perso nel tempo, quello del furore, di
quando era una brigantessa.
Don Achille
L’8 agosto, quel giorno, era il suo compleanno. Maria
Maddalena de Lellis era venuta al mondo 29 anni prima,
l’8 agosto 1835, lì, a San Gregorio Matese, «quattro case
e un forno», come diceva sempre don Egidio. Anche quel
giorno Maddalena s’era alzata all’alba, e come tutte le
mattine era andata a mungere quelle capre che facevano
spavento, tanto erano magre. Poi aveva raccolto un po’ di
legna per accendere il fuoco sotto la pentolaccia del
70
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camino di quella casupola di via Elci, dove c’era pure sua
madre Carolina, che peggiorava giorno per giorno con la
vista. E suo figlio Angelantonio, di sette anni. Suo marito
Giuseppe Mallardo, che di mestiere faceva il carbonaio,
proprio quel 1864 era finito in carcere a Santa Maria
Capua Vetere. “Connivenza col brigantaggio”. Un’accusa
uguale a quella di tanti altri cafoni, che non riuscivano a
capire quella legge spietata che gl’impediva di portarsi
appresso un po’ di pane, quando andavano al lavoro nei
campi. “Connivenza col brigantaggio”. Perché? Perché
avevi condiviso un pezzo di pane con un paesano cresciuto insieme a te, nello stesso vicolo, magari parente, che
in qualche maniera si era messo contro la legge e stava
nascosto in montagna. La legge poi, a San Gregorio, era
una sola: quella di don Achille del Giudice14. Sue le terre, sue le mandrie, sue pure le persone. E per quelle che
non erano sue erano guai. Don Achille, il potere. Oltre
che ricco e potente proprietario di terre e di bestie, don
Achille era pure sindaco e consigliere provinciale a
Caserta, mentre suo fratello stava a Torino a fare il deputato. Proprio grazie a suo fratello riusciva tutte le volte
che voleva a far venire fin lì i soldati piemontesi per catturare i briganti, anche se per stare sicuro pagava pure
una sua personale squadriglia d’uomini, che aveva il controllo assoluto del territorio. Maddalena, come la maggior
14. Con la caduta del regno borbonico, a S.Gregorio il potere viene esercitato da figure liberali che hanno
il beneplacito di Garibaldi: nel 1861 Beniamino Caso viene eletto deputato al Parlamento di Torino, Gaetano Del Giudice diventa Governatore di Capitanata oltre che deputato; suo fratello Achille è invece
Comandante della Guardia Nazionale di tutto il circondario e Consigliere Provinciale. Dalle cronache dell’epoca risulta che questo Achille Del Giudice avesse la mano pesante: quando i briganti venivano presi li
faceva fucilare davanti al Municipio come esempio. Al brigante Panella aveva fatto tagliare la testa e poi
l’aveva fatta esporre sulla finestra del suo studio come un trofeo, a monito per chi volesse mettersi contro di lui. Risulta pure che fra le sue distrazioni, i suoi divertimenti, oltre alla caccia, ci fossero le «belle
femmine», le più belle del territorio, che lui si portava a letto in un feudale Jus primae noctis cui nessuno osava ribellarsi: come mille anni prima.
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parte dei compaesani suoi, non ci capiva niente di quello
che stava succedendo. È vero, non c’era più il re, Franceschiello era scappato, ma il re c’era sempre, solo che
era un altro, uno straniero che non parlava napoletano
come Franceschiello. Ma lì, a San Gregorio, non era cambiato niente. Don Achille comandava prima, e don Achille comandava adesso. Per lavorare, per mangiare, bisognava sempre piegare la testa a lui, come prima. Ma da
quando Franceschiello se n’era andato, se n’erano andati pure tanti giovani che la testa non la volevano piegare
più, trascinati da quella voce che diceva di darsi alla
montagna per scatenare una guerra e far tornare il re di
Napoli.
Fra queste teste calde c’era pure lui, Andrea Santaniello.
Ex soldato dell’esercito borbonico, era arrivato su quelle
montagne l’anno prima da Civitavecchia come braccio
destro di Cosimo Giordano15, ma nell’arco di breve tempo aveva messo in piedi una banda tutta sua, i cui uomini, pochi ma fidati, erano stati irreggimentati dal nuovo
capobrigante con rigide regole militari, che prevedevano
perfino una divisa. “Brutto di viso, ma alto, indossava la
divisa con i galloni dorati e al gilet aveva appuntata,
come una medaglia, una piastra di 12 carlini d’argento”16.
Insomma, un uomo di fascino al quale Maddalena non
15. Il 26 agosto del 1864 a Selvapiana, a 10 Km. circa da Cusano, sono ritrovati i corpi di Pasquale Prece carbonaio di 45 anni e Domenico Ruscetti, bracciante di 52 anni di Piedimonte d’Alife. I due, incaricati dalla famiglia di don Nicola Coppola di portare ai briganti i 14.000 ducati di riscatto, avevano trattenuto per loro una parte della somma. Il cadavere del Ruscetti è orribilmente mutilato: naso ed orecchie
recise, occhi cavati, budella al di fuori. Su di lui, spicca un cartello “Ecco la fine che fanno le spie”. L’omicidio porta la firma di Cosimo Giordano. Quest’ultimo, audace e intelligente, oltre che uno dei maggiori
briganti del circondario di Cerreto, si travestiva per andare a trovare la sua amante e andava e tornava
da Roma tutte le volte che voleva. Riparò a Marsiglia, ricomparve nell’80, nell’82 fu ipocritamente catturato. Condannato all’ergastolo, morì nell’87. (Da Il Brigantaggio nella Provincia di Benevento 1860-1880,
De Martino, Benevento, 1975).
16. Da Archivio Centrale di Stato, Roma. Tribunali militari per il brigantaggio. Busta 66, fasc. 859.
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aveva saputo resistere, innamorandosene perdutamente.
Non un becero cafone ignorante come suo marito, che
nel brigantaggio c’era finito solo perché sapeva menare
le mani e per arraffare i soldi degli altri, ma un uomo animato da ideali politici, da sentimenti di fedeltà alla casa
borbonica. L’aveva incantata con le sue parole, che spesso non capiva. Lo chiamavano brigante perché non riconosceva quei nuovi padroni, perché era rimasto fedele a
Franceschiello, al re, l’unico Re di Napoli.
Tuorn prest!
Sono mesi ormai che Padovella è l’amante del brigante
Santaniello, finché un pomeriggio di novembre, tornando
a casa, a Maddalena scoppia la vita, quella che conosce,
che l’accompagna da quando è nata. «Scappa Maddalè,
vattene via! Te stanno a cercà li suldati!», le grida Filomena, l’amica sua sciancata; quando aveva manco nove anni
un mulo l’aveva scalciata e per grazia ricevuta non c’aveva rimesso la vita.
«E mò che faccio?».
«Scappa Maddalè, scappa!».
«Ma p’ché? Perché?».
«Pè l’amore tuo, pè lu brigante tuo. Scappa Maddalè!».
Un respiro, un respiro forte, di quelli che ti fanno apparire tutte le stelle della vita tua, ma pure scirocchi e temporali. Una lacrima buttata ‘ncuorp, ind’allanema, e poi
un bacio, un bacio a quel bambino, suo figlio. «Tuorn
prest, mamma torna presto. Statte accuort figlio mio».
Poi, un abbraccio a quella vecchia semicieca, sua madre.
Deve far forza per staccarle le mani dalle spalle, ché
quella piange e non vuole lasciarla andar via sua figlia.
S’aggrappa e piange e la tiene stretta, la soffoca con gli
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artigli di ricordi che trasmette chissà come pure a lei, e a
lei passano tutti in quel momento per gli occhi, pretendendo tutti la primogenitura, finché uno ha la meglio
sugli altri, scivolando su una lacrima: un pomeriggio di
sole nei campi tutti e tre, quando suo padre era una forza, sua madre bella, lei felice d’esserci.
«Statte bona, ma’, tuorn prest».
Poi scappa via, infila i monti al passo della disperazione,
all’inseguimento d’una vita nuova: ché tanto, peggio di
quella che ha non potrà essere di certo. Cammina per
ore, da sola, fino al taglio di Letino, dove si nasconde il
suo uomo. Che l’accoglie felice d’averla sempre con sé.
«Nel bene e nel male», sentenzia sorridendo. Lei non
risponde, chiude gli occhi, pensa a suo figlio. Pensa che
adesso è un brigante anche lei. Una brigantessa. Anche
lei ricercata dai piemontesi e dagli uomini di don Achille.
Santaniello la presenta agli altri briganti, soffermandosi
soprattutto con due di essi: Giovanni Civitillo detto “Senza paura”, uno che gira a cavallo tutto vestito di bianco,
e Giovangiuseppe Campagna detto “il Rosso”, perché sul
braccio porta sempre una fascia di seta rossa, anche se
nessuno ne conosce ragione. Sono loro che pochi mesi
prima hanno messo a segno a Piedimonte un clamoroso
sequestro: quello del giudice Nicola Coppola, tenendo in
scacco la forza pubblica, fino al successo finale, col
sostanzioso riscatto ottenuto.
La vita nuova
Maddalena impara alla svelta “il mestiere” del brigante,
perché ne va la vita stessa: camminare di nascosto, cancellare le impronte, evitare le mulattiere, non accendere
il fuoco al calar del sole. Come tutti, anche lei ha un
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soprannome: “Padovella”. Da allora sarà per sempre
“Padovella”, la brigantessa “Padovella”.
Ma d’inverno, da quelle parti, il freddo è ruvido come
quelle montagne che sono la casa dei briganti. La banda
di Santaniello si sposta sui monti sopra San Polito, dove
più fitta è la rete di manutengoli. È uno di loro che una
sera le dice che suo marito è morto. Giuseppe è morto
agli inizi di febbraio. Un mese e mezzo fa. L’ha saputo da
uno che stava in cella con lui a Capua Vetere.
«Pace all’anima tua, Giusè».
Andrea l’abbraccia, la stringe, le vede scendere una lacrima, e sa che non è per suo marito, ma per suo figlio, che
Maddalena non vede da troppo tempo. «Domani lo
vedrai», le dice guardandola negli occhi mentre le sposta
quella ciocca ostinata di capelli che le vela troppo spesso gli occhi. Poi si stacca da lei e si apparta coi suoi uomini per predisporre tutto. Maddalena ha dimostrato di
avere coraggio e lui l’ha ripagata con la fiducia, mettendola al corrente anche dei nomi di alcuni manutengoli,
rimasti sconosciuti agli altri della banda. Praticamente,
condivide con lei il comando, e nessuno degli uomini della banda se ne lamenta. Nemmeno quello spaccamontagne del “Rosso”, che un giorno aveva scommesso che
sarebbe riuscito a far l’amore alla sera con la sua donna
a Piedimonte. L’avevano sbeffeggiato, avevano riso sguaiatamente dicendogli che mai avrebbe potuto farla in
barba non tanto ai piemontesi, quanto agli uomini di don
Achille. Lui invece c’era riuscito e l’indomani aveva messo in saccoccia il frutto di quelle scommesse. Per incontrare la sua amante s’era travestito da donna ed era sceso in paese. Anche Maddalena era riuscita a scendere in
paese, durante la notte, e aveva potuto riabbracciare suo
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figlio. Tutto liscio, tutto liscio come l’olio. Ma bisogna
sempre stare accorti, ché la vita ce la si può giocare in un
battibaleno, come quella mattina, quando dal loro
nascondiglio erano passati vicinissimi cinque uomini della guardia nazionale di San Polito. Stavano scortando un
gruppo di donne che andavano a raccogliere legna in
montagna. Significava restarsene lì per ore e ore, con la
speranza di non essere beccati magari per una sciocchezza. E allora Santaniello aveva guardato Maddalena e lei
aveva fatto segno di sì con la testa: era d’accordo. D’accordo ad attaccare invece che stare lì come topi ad
aspettare. Così erano usciti veloci e senza sparare manco un colpo avevano disarmato quei cinque babbei,
rispendendoli al paese in mutande, fra gli sberleffi delle
donne che dovevano proteggere. Prima però avevano
provveduto a svuotar loro le tasche. Pure un paio di scarpe nuove nuove avevano rimediato. Poi, come sempre,
Santaniello aveva distribuito il bottino fra i suoi uomini,
riservando il fucile più bello a lei, a Maddalena, che da
quel momento, ufficialmente, non era più la donna del
capo, ma capobanda pure lei. La brigantessa Padovella.
Mariantonia
È sabato santo. Giorni di festa pure per i briganti. Per
questo Francescantonio Tartaglia, il più fidato dei manutengoli di Santaniello, invita a pranzo tutta la banda nella sua masseria, dove sua moglie Nicoletta fa pure il
bucato ai briganti. Momenti spensierati, destinati però a
un brusco ritorno alla realtà: la sera dopo, notte di
Pasqua, a San Gregorio vengono infatti arrestati tutti i
parenti di Maddalena. Sua madre Carolina, il fratello
Arcangelo e la sorella Filomena col marito Michelangelo
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Iameo vengono portati in carcere a Piedimonte. Tutti
negano d’avere il benché minimo rapporto coi briganti,
fino a rinnegare pure lei: «che c’entra più con noi?». Verranno rilasciati due mesi dopo. Maddalena li capisce.
Hanno fatto bene a disconoscerla: così si sono salvati.
La domenica successiva alla Pasqua, il 23 aprile, la banda Santaniello rapisce una giovane di Alife. Mentre fuggono con l’ostaggio, i briganti incontrano un venditore
ambulante di tessuti. Maddalena ferma il suo cavallo a un
metro dall’ambulante terrorizzato da quel moschetto
puntato contro la sua faccia. «Maccatur ìne tien?», gli
chiede Maddalena. «Quant ‘ne vuoi», risponde quello
indicando la sua mercanzia. Maddalena prende quei fazzoletti bianchi coi fiorellini rosa e li dà alla ragazza, che
da quando sono partiti non ha smesso un momento di
piangere. Continua a piangere per tutta la prigionia,
anche se viene trattata bene, e pur non avendo ottenuto
il riscatto richiesto, viene rilasciata. A forzare la mano in
senso favorevole alla ragazza era stata Maddalena, che
poco tempo dopo era stata protagonista di un altro episodio. Una sera s’era incupita e il suo uomo non era riuscito a strapparle la ragione. Era uscita nel bosco, per
stare da sola. Pensava a quella ragazza che conosceva.
Mariantonia. Aveva pensato a lei, e una lacrima le era
scappata. Era così tornata nella grotta dove Santaniello
era seduto attorno al fuoco con tutti gli altri della banda.
E senza prendere mai fiato, quasi in trance, con rabbia e
con dolore aveva raccontato la storia di Mariantonia. Una
delle tante storie di sopruso, violenza, ingiustizia, subite
soprattutto dalle donne, donne come lei. Mariantonia era
orfana di padre e campava accudendo le pecore che
davano da mangiare a lei, suo fratello, sua madre. Era
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bella, d’una bellezza indifferente alla miseria, che manco
la fame era riuscita a oltraggiare. Una bellezza che non
sfuggiva agli uomini, compreso don Salvatore, ricco proprietario terriero, che un giorno l’aveva sorpresa mentre
tornava da una passeggiata col suo cavallo e l’aveva
seguita fino alla sua casa, dove era entrato e l’aveva violentata selvaggiamente e ripetutamente. La violenza
subita aveva provocato una forte emorragia e un’infezione aveva ucciso Mariantonia. «Voglio giustizia, voglio
vendetta per Mariantonia», urlò alla fine del suo racconto la “Padovella”, senza accorgersi delle lacrime che le
scendevano copiose fino a bagnarle la camicetta. Santaniello guardò i suoi uomini, che fino ad allora erano rimasti in assoluto silenzio. «Portatemelo qui», disse a denti
stretti Santaniello senza distogliere lo sguardo da quella
fiamma che aveva seguito per tutto il racconto della sua
donna. Alcuni uomini della banda partirono subito per
acchiappare quel maledetto, che poche ore dopo fu scaricato come un sacco davanti a Maddalena dal mulo sul
quale era stato trasportato legato come un salame. L’avevano trovato nella taverna di zi’ Raffaele, mezzo ubriaco
e al suo tirapiedi, che s’era messo in mezzo, era stata
assestata una coltellata sufficiente per renderlo innocuo
per tutto il mese successivo. «Diglielo tu perché si trova
qui», disse Santaniello rivolgendosi alla sua donna. E
Maddalena glielo disse con un solo nome: «Mariantonia».
Capito il destino che l’attendeva, don Salvatore aveva
pregato, scongiurato, promesso: tutto pur di avere salva
la vita. «Te do tutt li dinar ca vuoi, ma nun m’accidere».
Una nenia che fu zittita da Santaniello, che piegandosi
verso quell’ammasso lamentoso, gli spiegò quale sarebbe
stato il suo destino: «Domani mattina, prima ti castriamo,
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poi ti sgozziamo come un maiale. Non lo faccio subito
perché così hai tutta la notte per ricordare, pentirti di
quello che hai fatto, e per pensare bene a quello che ti
faremo». All’alba, don Salvatore ricevette tutto quanto
promesso, con Maddalena a controllare che soffrisse il
più possibile. Quando fu tutto finito, Santaniello infilò gli
organi genitali di don Salvatore in uno straccio e li diede
a un suo uomo: «Portali alla famiglia e digli di preparare
i soldi per avere tutto il resto di questo maiale».
Le imprese di Giordano
A Piedimonte, una sera di fine maggio la banda Santaniello arriva alla masseria di un loro manutengolo per ritirare del pane: Giovanni “senza paura” bussa alla porta,
ma dall’interno parte una fucilata che lo manca, ma ne
seguono subito altre. A sparare sono i soldati nascosti lì
dentro. I briganti riescono a fuggire coprendosi la ritirata con alcuni spari. Inoltre conoscono bene il territorio e
si muovono agevolmente pure al buio, non come i soldati che alla fine rinunciano all’inseguimento dopo essere
inciampati e rotolati più volte nella boscaglia. Anche questa volta è andata bene, ma questo episodio preoccupa
parecchio Santaniello. Se fanno terra bruciata attorno a
loro è finita. Se sono riusciti a convincere al tradimento
quel manutengolo, di chi potranno fidarsi ciecamente
d’ora in poi? Come faranno quindi a rifornirsi? Non possono certo vivere di bacche e qualche lepre. Il cerchio si
sta stringendo. Le squadre pagate dai proprietari terrieri
si sono gonfiate d’uomini anche per le taglie messe su
tanti briganti. Alle squadre di don Achille se ne sono
aggiunte altre che alla fine diventano molto pericolose,
perché ormai in grado di monitorare tutto il territorio. La
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drammaticità della situazione è testimoniata da quanto
accade il 21 luglio: la banda sta prendendo il fresco sotto
gli alberi, quando alcune voci si avvicinano sempre di più.
Messi in allarme, gli uomini di Santaniello si preparano
allo scontro, caricando le armi, ma quando sono pronti
per far fuoco, dalla boscaglia salta fuori il faccione di
Cosimo Giordano, il capo di tutti i briganti del matese.
Alto e magro, con il viso scavato, Giordano ha due occhi
neri, profondi, che quando ti guardano ti scavano. Un
passo dietro di lui c’è il capobanda Antonio de Lellis,
parente di Maddalena, con i suoi uomini. Giordano ha la
baldanza del capo. Si muove facendo ampi gesti e portando spesso la mano destra sul manico del coltellaccio che
tiene infilato in una fascia verde attorno alla pancia. Dice
di essere venuto a bella posta da Roma per sequestrare
sia don Achille del Giudice che don Enrico Sanillo. Dice
che con quei due si possono fare parecchi quattrini, oltre
a dimostrare chiaramente chi controlla davvero quel territorio. Altro che piemontesi, altro che don Achille e suo
fratello! Alla fine del suo discorso, che ha ipnotizzato gli
altri briganti, Giordano si rivolge a Santaniello chiedendogli la sua disponibilità. «Nemmanco per idea!», risponde rosso in volto Santaniello, «don Sanillo nun se tocca.
Don Sanillo è benefattore nostro. C’ha aiutato tante volte». Giordano ribatte che sempre padrone rimane, e che
pure lui c’ha un sacco di soldi. Santaniello non recede.
Una parola tira l’altra e la discussione si accende; le mani
sono pronte alle armi. Lo scontro è evitato per un soffio
grazie a Maddalena, che blocca il braccio del suo uomo
guardandolo dritto negli occhi. Uno sguardo che dice tutto. Che riassume in un lampo ciò che conta davvero. E
ciò che conta è solo una cosa: chi ha il potere, i soldi, la
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terra, ce li ha e chi no. Che pure se li ha aiutati, Sanillo
l’avrà sicuramente fatto per un tornaconto suo. Forse per
ingraziarsi una delle bande più importanti del matese,
contando magari proprio in una sua protezione quando si
fosse presentata l’occasione. E l’occasione era quella.
Santaniello aveva intuito, aveva capito, e alla fine aveva
accettato di appoggiare l’impresa di Giordano, che era
quindi passato a spiegare che la prima azione avrebbe
riguardato proprio Sanillo, che sarebbe stato rapito la
sera seguente presso la bottega del Caffè di Nicola Riccitelli, che si trovava sulla consolare a San Polito, dove don
Sanillo si recava ogni sera.
Sabato sera, 22 luglio, c’è la luna nuova e dunque è buio
pesto. Le bande riunite di Giordano e Santaniello sono
appostate fuori dal paese; in tutto trentatré briganti
armati fino ai denti. Verso mezzanotte un confidente di
Giordano gli conferma la presenza di don Sanillo nel caffè Riccitelli. A questo punto la banda entra in paese; al
passaggio dei briganti porte e finestre si chiudono precipitosamente. Un vecchio contadino, che sta fumando la
pipa seduto sulla sedia fuori dal suo uscio, rientra appena li vede, mentre una donna che sta lavando dei panni
alla fontana, raccoglie tutto in fretta e a grandi passi si
dirige verso casa. Giordano, Santaniello, de Lellis, Arcieri e altri quattro si avviano al caffè camminando in mezzo alla via. Maddalena, nascosta con gli altri briganti su
un terrapieno, riesce a seguirli nonostante il buio fino a
qualche decina di metri dal caffè, poi scompaiono al suo
sguardo. Passano minuti interminabili, poi degli spari.
Fucilate e grida. Poi nuovamente il silenzio e nel buio
Maddalena era riuscita finalmente a scorgere qualcosa,
fino a vedere chiaramente “Il Rosso” che trascinava il sin81
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daco Pietrosimone, seguito da Giordano che lo spingeva
dandogli delle gran manate. Il sindaco piangeva gemendo e dicendo frasi incomprensibili. Oltre al sindaco, c’era
anche un altro ostaggio. Giordano d’un tratto s’era fermato e, parandosi davanti al sindaco, gli aveva chiesto
quanti soldi avrebbe pagato per il suo riscatto: Pietrosimone, terrorizzato, aveva risposto che più di cento scudi
non poteva proprio. «Allora si ammazza», aveva suggerito Vincenzo Arcieri, e Giordano, voltandosi a Giuseppe,
brigante di Cerreto, aveva ordinato di ucciderlo. Senza
esitazione, questo aveva estratto uno stiletto e aveva colpito più volte il sindaco, che era stramazzato in un mare
di sangue. Giordano non aveva nemmeno guardato,
intento com’era a confabulare con Vincenzo Arcieri. I briganti avevano quindi raggiunto il resto della banda, e da
quel momento erano fioriti i racconti sull’accaduto:
«Come sono andate le cose?».
I dubbi di Santaniello
Una delle guardie di Sanillo fuori al caffè aveva gridato:
«Alto là. Chi va là?»; e dal buio Giordano aveva risposto:
«Pattuglia di carabinieri». Così, quando le guardie avevano abbassato lo schioppo per lo scongiurato allarme, i
briganti li avevano colpiti fulmineamente coi loro coltelli
parandosi poi a cerchio davanti alla porta del caffè. Poco
dopo s’era aperta la porta del caffè e il sindaco in persona s’era affacciato sull’uscio per chiedere cosa stesse
succedendo. Non aveva nemmeno finito di parlare che
era stato acchiappato dal bavero e tirato fuori del tutto,
mentre alcuni briganti entravano nel caffè sparando.
Qualcuno aveva poi gridato che nella sparatoria era stato ucciso Sanillo. Intanto qualcuno era uscito dal caffè,
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fra questi, lo stesso oste, che con una mano sanguinante
implorava di non sparare più. Dentro c’erano altri due
uomini feriti. Sanillo era per terra in una pozza di sangue.
Al mattino seguente le strade sono deserte, solo cani e
cicale. La gente è terrorizzata. A Piedimonte un massaro
manda un suo garzone che consegna alle bande pane,
prosciutti e dieci caraffe di vino. Gli uomini scendono poi
fino al bosco di San Simeone. Giordano vuole fare subito
un altro sequestro ad Alvignano. Ma tra lui e Santaniello
nasce un nuovo litigio. Questi è risentito perché, contrariamente a quanto stabilito, Sanillo non era stato rapito,
ma subito ucciso: «Sanillo non meritava di essere ucciso!», urla. «Non solo era un borbonico, ma era soprattutto un vero amico: quante volte abbiamo avuto munizioni,
cibo! Pochi mesi fa ci ha mandato perfino dieci napoleoni d’oro». È ormai evidente che fra lui e Giordano non c’è
possibilità d’intesa, così Giordano decide di andarsene
verso Cerreto, con Antonio de Lellis e gli uomini a lui
fedeli. Santaniello rimarrà in questa parte del matese, o
dove diavolo gli pare. Santaniello sfoga la sua rabbia con
Vincenzo Arcieri, che ha visto troppo in intimità con
Giordano: lui continua a sentirsi un militare e come capitano della banda non può tollerare insubordinazioni. Ma
il vecchio Arcieri incassa e gli garantisce quasi in lacrime
la sua assoluta fedeltà. I dubbi, invece, non lasciano Santaniello. Non capisce perché Giordano è venuto fin là,
apposta da Roma, per sequestrare uno dei finanziatori
più sicuri del brigantaggio. Con tanti liberali, garibaldini
e benestanti, perché prendersela proprio con il borbonico Sanillo? E poi c’è la dinamica dell’omicidio che non lo
convince. Come pattuito, lui sparava basso, per non colpire mortalmente. Se tutti hanno sparato basso come lui,
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perché proprio Sanillo s’è preso una palla in fronte? La
cosa non quadra. Quando il portone s’è aperto nel caffè
c’erano feriti, Sanillo già morto, e Melillo, amico di Arcieri e loro manutengolo, era uscito a mani alzate, come
l’oste. No. Santaniello si convince che si voleva uccidere
Sanillo. E poi perché sgozzare a sangue freddo quel
povero sindaco, quando anche il più fesso dei briganti sa
che un ostaggio morto non frutta denari? È come se si
volesse creare confusione.
Maddalena gli si siede a fianco e condivide i dubbi del suo
uomo. Santaniello è stufo di quelle montagne, non si fida
più di Arcieri, di questi quattro delinquenti cafoni che
manco si ricordano di Re Francesco.
Tagliamogli un orecchio
Ormai il matese pullula di bande, di soldati e persino di
quelle squadriglie private autorizzate dal governo: uomini comandati dal delegato di pubblica sicurezza, ma in
realtà veri e propri cacciatori di taglie pagati da don
Achille del Giudice.
Così Santaniello finalmente decide di andarsene in luoghi
più tranquilli. Arcieri, Campagna, Giovanni “senza paura”
non lo vogliono seguire, e finalmente le loro strade si
dividono. La cosa non dispiace a Santaniello, che con
pochi fidati e Maddalena se ne va verso il beneventano:
«Meglio pochi ma fidati».
Oltrepassato il Taburno, Santaniello decide di fermarsi
sui monti avellinesi della valle caudina. Anche quella è
zona di briganti e con Maddalena si aggrega alla banda di
Giuseppe Passariello, nella quale ci sono anche sue vecchie conoscenze, come Mascella e Pasquale Pulcinella.
Mascella è un brigante feroce, determinato, che proprio
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in quel momento sta gestendo il sequestro di sette persone. Francescantonio Guadagnino, di Talanico, è un
ragazzo di nemmeno vent’anni, figlio di una ricca famiglia. Per il suo riscatto vengono chiesti 1000 ducati, ma
la famiglia fa sapere che è una somma di cui non dispone. Per convincerla, il brigante Mascella taglia un orecchio al ragazzo, mandandolo alla famiglia con un biglietto: “Il primo pezzo”. Il ragazzo sarà rilasciato dopo due
settimane e l’intero riscatto pagato.
Maddalena necessita di abiti nuovi, così scende con Santaniello e altri briganti vicino a Nola, dove un certo Pietro dà loro da mangiare e tramite un sarto del paese gli
vende abiti nuovi. Maschili, come vuole lei. Ma nel rientro, forse per una soffiata, vengono intercettati dalla forza pubblica tra Cicciano e Cancello: Maddalena si distingue per coraggio nel conflitto a fuoco che ne segue. Alla
fine riescono a fuggire. Santaniello decide di lasciare
quei monti diventati troppo pericolosi, per tornare nel
più sicuro e conosciuto matese. Fa già freddo, e nelle
lunghe ore di pioggia si raccontano gli avvenimenti accaduti in quei mesi. Storie di sangue, di banditi senza ideali, che a Santaniello non piacciono.
Sabato 2 dicembre 1865 il brigante Pietro Di Cesare vuole scendere a Sant’Angelo per incontrare la moglie. Santaniello e Maddalena, forse per restare un po’ da soli,
decidono di accompagnarlo. In contrada Petraro vengono accolti in una masseria dove restano a dormire. Il mattino seguente la proprietaria, tornata dalla messa, prepara le tagliatelle e due polli. Un vero pranzo domenicale è
quello che ci vuole per rifarsi dei tanti pasti asciutti racimolati in montagna. Trascorrono così una giornata tranquilla, seduti sull’aia, a guardar da lontano le cime inne85
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vate del matese. A sera Maddalena e Santaniello vanno a
dormire tranquilli. Alle due di notte il latrare dei cani li
allarma: scattati subito fuori, sentono i soldati che si avvicinano lungo la mulattiera. Decidono di scappare dividendosi in due direzioni: ma è luna piena stanotte, il buio
non li protegge. Maddalena corre verso la masseria, sfiora il pozzo: c’è una siepe poco più avanti, e corre, corre.
Venti metri, forse trenta, ma una fucilata lacera il silenzio della notte. Un solo colpo le trapassa la natica sinistra. Ancora qualche passo, poi crolla, riversa, la faccia
nell’erba bagnata. I soldati la raggiungono contenti di
averne preso uno, ma lei con scherno gli rinfaccia di
essere stati capaci di sparare «solo ad una femmina».
Così, a dispetto degli abiti maschili che indossa, rivela la
sua identità. Ma è ferita, perde sangue, e Felice Stocchetti, il capo della guardia nazionale, la fa caricare su un
carretto che la trasporta in caserma a Piedimonte, dove
viene identificata. La ferita è grave, e di peso la trascinano nell’infermeria, dove viene spogliata e messa a letto.
Una notte infernale: nel silenzio di quella stanzetta la
febbre e il dolore agitano Maddalena, insieme all’ansia di
non sapere che fine ha fatto Santaniello, né il destino che
l’aspetta.
Fine corsa
Il lunedì mattina dalla piccola finestra della stanza entra
il chiasso del mercato. Quando Maddalena apre gli occhi
attorno al suo lettino i militari la sottopongono al primo,
lungo interrogatorio. E lei parla, parla e descrive luoghi e
persone, fa i nomi dei manutengoli e dei briganti, mentre
la ferita e la febbre confondono le parole di quegli uomini, tre forestieri, che manco capiscono il suo dialetto.
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Chissà quante cose dette non vengono neppure verbalizzate, o travisate per proteggere il vero burattinaio delle
vicende politiche locali: Achille del Giudice. Eccola qui la
sanguinaria brigantessa del matese, che a stento traccia
un segno di croce sul verbale d’interrogatorio. Una brigantessa, ma soprattutto una donna innamorata, che ha
provato a fuggire da una misera vita di stenti, appresso
ad un uomo che sapeva comandare e che aveva visto il
mare. È tutto finito. Sola, dolorante, avvilita ripensa a
quell’anno, così pericolosamente vissuto da brigantessa.
Ripensa al suo Andrea, che non vedrà mai più. Ripensa
alle cose che ha visto e che manco pensava esistessero.
Due giorni dopo i medici che la visitano verbalizzano la
presenza di una ferita d’arma da fuoco «pericolosa di
vita, ed ove ci fosse frattura delle ossa, pure di debilitamento permanente dell’arto». Ma subito dopo Maddalena
viene sottoposta ad un nuovo interrogatorio. E poi altri,
e altri ancora nei giorni seguenti. Intanto i soldati che
l’avevano catturata intascano una taglia di mille ducati.
Lei resta lì, chiusa nel carcere, a combattere contro quella ferita che la lascerà zoppa per tutta la vita. Dopo oltre
due anni viene trasferita nel carcere di Santa Maria
Capua Vetere, dov’era stato rinchiuso suo marito, uscendone con i piedi davanti. Ha 32 anni quando entra per la
prima volta in un’aula di tribunale. Nel maggio 1868 la
corte d’Appello di Napoli la riconosce colpevole di concorso nella strage di San Polito. Nella gabbia degli imputati lei ascolta la sentenza: condanna ai lavori forzati a
vita. Ma ci sono altri processi a suo carico. Altri interrogatori, deposizioni, trasferimenti da un carcere all’altro.
Giacinto Bosco, il giovane avvocato che le è stato assegnato d’ufficio, prende a cuore la sua vicenda e ricorre in
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Appello, riuscendo a ottenere una riduzione di pena a 25
anni di lavori forzati, interdizione legale e dai pubblici
uffici, oltre a 10 anni di sorveglianza speciale della pubblica sicurezza dopo la conclusione della pena: eventualità remotissima, visto che Maddalena, come qualsiasi
altra persona, non avrebbe mai potuto sopravvivere a 25
anni di lavori forzati in quelle galere putride, umide, schifose. Bosco ricorre così in Cassazione, che rinvia la causa alla corte d’Assise straordinaria di Santa Maria Capua
Vetere, dove finalmente si conclude la vicenda giudiziaria di Maddalena, che nel gennaio 1872 viene trasferita
alla casa circondariale di Aversa. A 36 anni la brigantessa Maddalena de Lellis scompare dalla faccia del mondo.
Nessuno sa più nulla di lei. Dal suo avvocato si riesce a
sapere che sconta la pena nel penitenziario della Giudecca a Venezia, dove viene redenta dal patriarca Sarto,
futuro papa Pio X.
Poi, un bel giorno di fine secolo, Maddalena era improvvisamente tornata a San Gregorio, dove “la padovella”
aveva tenuto quello strano asilo infantile a dimostrazione
che quel paese l’aveva riaccettata, aveva riabilitato un
proprio membro, accogliendo nuovamente quella sua
figlia che era stata spinta al brigantaggio dalla miseria e
dall’amore per un uomo. Sarebbe morta di morte naturale il 7 marzo 1908.
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PARTE SECONDA
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LE PARTIGIANE
Non abbiamo fatto la guerra noi.
Noi abbiamo fatto le donne.
Abbiamo fatto solo le donne.
Carla Leali, donna della Valsabbia
LA RESISTENZA DELLE DONNE
Trentacinquemila le partigiane, inquadrate nelle formazioni combattenti; 20.000 le patriote, con funzioni di supporto; 70.000 in tutto le donne organizzate nei Gruppi di
difesa; 16 le medaglie d’oro, 17 quelle d’argento; 512 le
commissarie di guerra; 683 le donne fucilate o cadute in
combattimento; 1750 le donne ferite; 4633 le donne arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti; 1890
le deportate in Germania. Sono questi i numeri della
Resistenza al femminile17, una realtà poco conosciuta e
studiata.
Durante la guerra, le donne non solo si erano fatte carico delle responsabilità sociali tradizionalmente maschili,
sostituendo l’uomo nel lavoro e nel mantenimento della
famiglia, ma avevano anche scelto di schierarsi e combattere, nelle diverse forme possibili, la lotta resistenziale,
ribaltando la consueta divisione dei ruoli maschile e femminile. Nei libri di storia si accenna appena alla partecipazione delle donne alla Resistenza, sebbene il loro
apporto si fosse rivelato determinante ai fini di una mag17. Dati dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia.
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gior efficacia dell’organizzazione delle formazioni partigiane, entrando a far parte di diritto nella storia della
Liberazione nazionale: le donne si occupavano della
stampa e propaganda del pensiero d’opposizione al nazifascismo, attaccando manifesti o facendo volantinaggio,
curando collegamenti, informazioni, trasportando e raccogliendo documenti, armi, munizioni, esplosivi, viveri,
scarpe o attivando assistenza in ospedale, preparando
documenti falsi, rifugi e sistemazioni per i partigiani.
Risulta evidente che un aiuto di questo tipo, considerato
dalle stesse protagoniste come “naturale”, trova difficoltà ad essere formulato storicamente in modo ufficiale.
Infatti i dati numerici sopra riportati non sono completamente attendibili, poiché la maggior parte di essi si ricava da riconoscimenti ufficiali e “premiazioni” assegnate a
guerra conclusa sulla base di criteri militari, in cui la
maggioranza non rientrava o non si riconosceva. Di fatto
veniva riconosciuto partigiano chi aveva portato le armi
per almeno tre mesi in una formazione armata regolarmente riconosciuta dal Comando Volontari della
Libertà ed aveva compiuto almeno tre azioni di sabotaggio o di guerra. Ma l’azione femminile, oltre alla direzione dettata dalla necessità di dare assistenza ai partigiani,
attraverso molteplici attività materiali, si orientava anche
politicamente: numerosissime donne, di ogni estrazione
sociale, operaie, studentesse, casalinghe, insegnanti, in
città, così come in campagna, organizzarono veri e propri
corsi di preparazione politica e tecnica, di specializzazione per l’assistenza sanitaria, per la stampa dei giornali e
dei fogli del Comitato di Liberazione Nazionale.
La Seconda Guerra Mondiale ha permesso alle donne, in
un certo senso, di emergere dall’anonimato e le ha tra92
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sformate in soggetti storici finalmente riconoscibili, nell’esperienza non solo di sostegno e solidarietà offerta
all’azione partigiana; ma di azione vera e propria, con
tanto d’armi in pugno. L’antifascismo fu, per le donne,
una scelta difficile, ma libera da costrizioni esterne: non
fu dettata dal timore di rastrellamenti messi in atto in
seguito ai bandi, o dallo stato di evasione che fece confluire nelle bande partigiane migliaia di giovani. In più
quelle che partecipavano attivamente non erano né fanatiche, né guerrafondaie, ma donne normali. La Resistenza per queste donne significò anche impugnare un
moschetto, ma soprattutto conquistare la cittadinanza
politica.
Il desiderio di liberarsi dai tedeschi si intrecciava con
quello di conquistare la parità con l’uomo: ciò esprime il
fatto che allora la donna acquistò la consapevolezza del
proprio valore e delle proprie capacità, derivante dalla
rottura del sistema di controllo sociale causata dalla
guerra. Si trattò di una guerra nella guerra, della battaglia per la loro emancipazione dopo una millenaria subordinazione. La motivazione politica portò ad un risultato
importantissimo: la richiesta di un riconoscimento di un
ruolo pubblico nel nuovo sistema democratico, fino ad
allora negato alla donna da una società prevalentemente
maschilista.
L’attività delle partigiane è stata sottoposta in sede storica a varie letture: Anna Bravo18 ha evidenziato come il
contenuto dell’appello che la società lancia alle donne
nei momenti di sconvolgimenti profondi, come le guerre,
facendo leva sul sacrificio di sé per la salvezza collettiva
18. Docente di Storia sociale all’Università di Torino e storica delle donne.
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in nome della maternità come valore sociale, riconduce
l’azione femminile all’interno del naturale orizzonte di
valori istintuali che non può tradursi nel riconoscimento
di una pratica politica.
La scelta resistenziale delle donne ha rappresentato, in
contrapposizione ai modelli femminili proposti dal regime
fascista, la ricerca di libertà personali sollecitata dalla
società di massa e, in parte, soddisfatta dalla difesa armata e paritaria della patria, simbolo nella tradizione politica
occidentale dell’accesso alla cittadinanza. La Resistenza,
comunque, ha rappresentato una nuova importante tappa del percorso emancipativo delle donne, determinando
per esse un universo simbolico di riferimento nuovo, sancito formalmente dal decreto sull’estensione del diritto di
voto del 1° febbraio 1945. Le hanno chiamate donne della “resistenza taciuta”, come s’intitola uno storico saggio
su dodici vite partigiane19. In effetti pochi le conoscono
per ciò che erano: autentiche leader, politiche e morali.
Combattevano, venivano arrestate, a volte picchiate o violentate senza parlare o tradire.
Facevano politica senza separarla dalla vita (molto tempo prima dello slogan “il privato è pubblico”). I valori e i
caratteri del mondo femminile, sviluppatisi durante la
millenaria soggezione e in risposta a questa, diedero,
anche alla nostra Resistenza, una ricchezza che non
avrebbe raggiunto altrimenti. Fra questi caratteri, risaltano la spontaneità, il rifiuto del calcolo, il senso di giustizia, la capacità appassionata di amare e di soffrire, il
19. Si tratta di un libro curato da Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, che riunisce le testimonianze di
dodici donne partigiane piemontesi: Nelia Benissone, Lucia Canova, Albina Caviglione, Anna Cinanni,
Teresa Cirio, Tersilla Fenoglio, Lidia Fontana, Rita Martini, Elsa Oliva, Rosanna Rolando, Maria Rovano e
Maria Rustichelli.
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rispetto della verità dei fatti e dei sentimenti («avevamo
paura», hanno ammesso alcune, candidamente), la generosità comunicativa, la modestia, la pietà. Davvero una
Resistenza sofferta e taciuta. Sono decine di migliaia le
donne che hanno combattuto il nazifascismo affrontando
arresti, violenze e deportazioni. Che sono uscite di casa
per entrare nella Resistenza. Che vi hanno fatto ritorno,
spesso dimenticate, a guerra finita. Esse non si affiancarono ai loro compagni soltanto con il ruolo di cura attribuito loro dalla memorialistica e dalla storiografia ufficiale, né si può più dire che esse stavano ai margini della lotta di liberazione, perché esse ne furono protagoniste.
L’importanza delle donne nella vita quotidiana e sociale
nel borgo aumentò durante la guerra: non solo fecero
fronte ad un aggravamento delle già misere condizioni di
vita, ma si assunsero l’incarico di manifestare con modi
“estroversi”, come le proteste di piazza, il dissenso contro il regime.
Simbolo del nuovo protagonismo femminile è il famosissimo “sciopero del pane” del 16 ottobre del 1941. La protesta scoppiò per la riduzione della razione pro capite di
pane, nonostante le rassicurazioni dello stesso Mussolini.
Le donne assaltarono un furgoncino della Barilla, formarono un corteo numeroso e agguerrito che, al grido di
«Pane! Pane!», riempì le strade cittadine e impegnò le
autorità fasciste per tutta la giornata. I documenti ufficiali hanno ridimensionato la partecipazione di massa a
questa protesta e, soprattutto, la sua portata politica.
Con questa “chiassata” le donne, casalinghe e operaie,
non operarono solo sul fronte delle rivendicazioni materiali, ma espressero tutta la rabbia e il dissenso popolare
contro il regime, la guerra e le restrizioni da essa impo95
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ste. Questa manifestazione di massa è, quindi, da considerare l’atto di ingresso delle donne nel movimento antifascista e preludio del salto di qualità del loro ruolo all’interno del movimento clandestino. Salto di qualità dovuto
anche alla graduale maturazione di una coscienza politica che fra le donne possedeva solo chi lavorava in fabbrica a causa delle attività sindacali e di propaganda antifascista che lì erano svolte. Nel momento in cui decidevano di essere contro il fascismo, esse erano obbligate non
solo a schierarsi politicamente, ma anche a rompere
oggettivamente con la separatezza della propria tradizionale domesticità per proiettarsi sulla scena pubblica. A
quel punto non era possibile più alcuna ingenuità, alcuna
mancanza di consapevolezza. Si accorgevano di essere
doppiamente diverse rispetto al resto della società,
aggiungendo al senso di solitudine, che le avvicinava ai
loro compagni di fede, la percezione vivissima di essere
isolate anche, e soprattutto, nei confronti delle altre donne. Dovevano negare il modello seduttivo di tanti stereotipi al femminile e questo poteva risultare piuttosto facile. Difficile, molto più difficile, era spezzare i condizionamenti e i legami familiari quando questi si ponevano
come barriere ardue da scavalcare. In questo caso la
scelta poteva assumere una dimensione totalizzante, fino
ad azzerare del tutto la propria realtà privata.
Erano pochi i casi in cui il rapporto con la famiglia assumeva toni così radicalmente conflittuali e anzi, nella
memoria delle militanti, la cultura familiare veniva
costantemente rivissuta come moralità, come un ambito
al cui interno la scelta antifascista appariva in un certo
senso predestinata. Sempre, invece, la frequentazione
con gli ideali e i progetti politici dell’antifascismo produ96
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ceva nella loro vita intima contraddizioni laceranti, la
sensazione di essere considerate “bestie rare“ per le quali la trasgressione del modello femminile tradizionale
comportava l’attivazione quasi automatica di meccanismi
di difesa e di autoisolamento. Per intraprendere quel
cammino bisognava essere assolutamente convinte della
propria forza interiore, assecondando quelle scintille di
diversità che facevano di ogni antifascista una donna che
si distingueva dalla altre, anche solo per una infinitesima
porzione di comportamenti, atteggiamenti, letture, abitudini culturali, modi di vestire, di truccarsi, di vivere il
rapporto con i propri figli, con i genitori, di interpretare
l’amore, di gestirsi la propria sessualità. Erano tutti rivoli di una “diversità” che confluivano in un tipo ideale dell’antifascismo al femminile, che smarriva i contorni di
un’esperienza assoluta da testimoniare, di un modello
etico-politico che diventava una realtà totalizzante, per
assumere la configurazione tumultuosa e incandescente
di un universo fatto di scelte individuali, casualità, contraddizioni personali, lasciando affiorare una molteplicità di percorsi difficilmente riconducibili ad una uniformità segnata dalle grandi sintesi politiche e ideologiche.
Giovani popolane appartenenti ai ceti operai, poco o per
nulla politicizzate, residenti nei borghi popolari furono le
donne che scelsero di aderire alla Resistenza.
Chiamate dalla storia a combattere in un mondo in sfacelo, queste donne si esposero senza esitare a tutti i rischi
della guerra partigiana. Nella massima parte non vollero
imbracciare le armi, questo simbolo di prepotere maschilista, prendendo parte a pieno titolo alla Resistenza civile. Indipendentemente dai mezzi usati nella lotta, si
distinsero dagli uomini per i modi e la qualità della loro
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partecipazione. I valori e i caratteri del mondo femminile, sviluppatisi durante la millenaria soggezione e in
risposta a questa, diedero, anche alla nostra Resistenza,
una ricchezza che non avrebbe raggiunto altrimenti. Fra
questi caratteri, risaltano la spontaneità, il rifiuto del calcolo, il senso di giustizia, la capacità appassionata di
amare e di soffrire, il rispetto della verità dei fatti e dei
sentimenti, la generosità comunicativa, la modestia, la
pietà. Davvero una Resistenza sofferta e taciuta. Fin dall’immediato dopoguerra, opposizione e resistenza al nazifascismo sono state identificate con la lotta armata, minimizzando l’opera senza armi, considerandola come contributo alla prima, cioè come una forma laterale di azione. Questa svalutazione della Resistenza civile penalizzò
soprattutto il riconoscimento dell’azione femminile che
fu prevalentemente senza armi e subì la stessa feroce
repressione della lotta armata.
Solo il ruolo della staffetta venne celebrato, riconoscendone la pericolosità e l’importanza. L’attività di Resistenza civile delle donne non si esauriva, però, con la figura
dell’eroica staffetta. Esse si resero d’aiuto in modi diversissimi, a volte specificatamente femminili come il vestire e aiutare i militari sbandati affinché sfuggissero alla
cattura dei tedeschi (il cosiddetto maternage) e la cura
dei feriti, o attraverso la propaganda antifascista, il sabotaggio in fabbrica della produzione destinata alla guerra
nazifascista, o la raccolta di viveri e denaro, o spontanea
od organizzata dal Soccorso Rosso, per le famiglie in difficoltà dei militanti.
L’Agnese del libro della Viganò non è giovane, non è bella, non è istruita né particolarmente intelligente, non ha
desiderio di uscire dal suo piccolo cosmo contadino, ma,
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di fronte alla cieca violenza della Storia, compie un atto
irreparabile cha la scaraventa, quasi suo malgrado, in una
vita completamente diversa. L’Agnese partigiana sa comportarsi con coraggio e responsabilità, ma, soprattutto,
riversa sui suoi giovanissimi compagni, tutto il suo amore riservato e costante, tanto da divenire per tutti “mamma Agnese”: un modello di umanità, forte e sommessa
insieme. Per tante donne, come per l’Agnese, la Resistenza fu l’occasione di una complessiva “promozione”
umana, sociale e politica. Le comuni condizioni di pericolo, i rischi corsi insieme, quella specie di fratellanza, che
si stabilisce quando si impugnano le stesse armi, riuscirono ad infrangere molti stereotipi ideologici e culturali.
Agnese, per i partigiani, è comunque sempre una “mamma”; il suo bisogno di avere il consenso del capo ricorda
la gratitudine con cui accoglieva le tenerezze del marito.
Quando la giovane partigiana, che da poco aveva raggiunto la banda, chiede di regolarizzare la sua posizione
e di sposare il compagno, il trinomio classico “madre,
moglie, figlia” si ritrova intatto con la sua carica di subalternità, anche all’interno di un mondo ricco di fermenti
innovatori come quello partigiano. Agnese non è solo un
personaggio letterario, è un simbolo di qualcosa di più
grande e di più importante che tanto meglio traspare nel
testo quanto più essa si annulla come personaggio, per
virtù come semplicità, abnegazione. Essa combatte con i
partigiani appartenenti a formazioni fortemente politicizzate, ma i suoi moventi non sono politici. Abbracciare la
causa della lotta partigiana in tutta la sua interezza non
è cosa semplice.
Agnese è un’immagine collettiva, è uno e molti, è soggetto e oggetto del sacrificio; un personaggio assai reale sot99
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to certi punti di vista, ma poi disumano per la sua grandezza, la sua capacità, spinta fino all’assoluto di annullarsi nei fatti e nelle vicende; la morte fisica con cui si conclude il libro non è altro che l’ormai necessaria distruzione di quanto resta di Agnese, quella spoglia «stranamente piccola, un mucchio di stracci neri sulla neve».
Il personaggio ha già annullato se stesso per seguire una
lotta, una causa; la lotta per la libertà, contro il nazifascismo. Il ruolo della donna nella Resistenza non è mai stato studiato con sufficiente serietà: è sempre stata considerata come conseguenza dell’uomo della Resistenza,
quando invece molte donne fecero questa scelta radicale da sole, senza essere in qualche modo influenzate dalla scelta dei mariti o dei figli. Anche il loro ruolo nella
famiglia cambiò molto: la donna della Resistenza era
lavoratrice e autonoma. Figlie, spose o madri in una o più
di queste vesti, le donne si trovarono unite ai “loro uomini” per combattere le loro battaglie in nome di un’ideale
di libertà e per un futuro di pace scevro da odi e rancori.
In altre parole, prevale un doppio registro per interpretare l’azione delle donne partigiane, cioè la specificità
femminile da un lato, grazie alla quale la donna ha qualcosa in più e di diverso da portare alla lotta e alla politica, la parità dall’altro, che si traduce nella rivendicazione
di un’uguaglianza di diritti nella nuova democrazia, che
poi ha caratterizzato l’entrata sulla scena pubblica delle
donne nel secondo dopoguerra.
La partecipazione alle lotte partigiane spinse le donne a
essere protagoniste, ad assumersi responsabilità storiche
dirette, ad uscire dai moduli di un dovere solo domestico, anche se il punto di riferimento di tale uscita restava
la famiglia. Oltre a questi, l’esperienza resistenziale com100
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portò anche altri elementi di novità: l’influenza sul carattere dell’appello al coraggio fisico e alla resistenza psichica, l’obbligo di prendere rapidamente, magari da sole,
decisioni drammatiche, lo sviluppo di capacità di controllo e di operatività in campi ignoti, l’ampliarsi del sentimento di solidarietà e il divenire prassi attiva di una
conoscenza collettiva di classe.
La lotta partigiana vide le donne nei Gap (Gruppi
d’azione partigiana), nelle Sap (Squadre d’azione
partigiana) e in montagna, nell’organizzazione di scioperi e agitazioni esclusivamente femminili (si pensi alle
grandi manifestazioni seguite a Torino alla morte delle
sorelle Arduino) nelle carceri, sotto la tortura (e seppero non parlare!), nella diffusione della stampa clandestina (le messaggere erano quelle che, mimetizzandosi e
mettendo a repentaglio le loro vite, hanno superato le
linee tedesche per stabilire un contatto con i compagni
d’arme. Simbolo della loro opera è una comune borsa
della spesa, nella quale nascondevano, sotto pomodori e
peperoni, le informazioni cifrate dei partigiani), nelle
pericolosissime missioni di collegamento. Non solo come
“mamme” dei partigiani, o vivandiere, o infermiere di
ribelli affamati o feriti (le infermiere erano distinguibili
per una piccola fascia bianca bordata di rosso sul braccio. Le loro mani erano arrossate dal sangue dei fratelli di
battaglia, che poi avevano accolto e curato nei fienili e
nelle cantine), anche se furono pure questo, e quando
tutto ciò poteva significare l’arresto, l’incendio della
casa, la fucilazione. Le donne furono le saldissime maglie
della rete, rischiando spesso più degli uomini perché, se
catturate, il nemico riservava loro violenze carnali, che,
in genere, ai maschi non toccavano.
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Nel ridimensionamento, anzi nella polverizzazione che
“il vento del Sud” portò ai valori sociali della Resistenza in nome della continuità dello Stato, le donne partigiane furono doppiamente tradite: dalle forze politiche
tradizionali e, in molti casi, più dolorosamente, dagli
stessi compagni di lotta. In fondo anche per molti uomini di sinistra le partigiane combattenti avevano trasgredito la vocazione domestica. Quindi essi preferivano
pensare che le donne avessero agito più per amor loro
che per autonoma scelta politica. Alla fine della lotta
armata, la stragrande maggioranza delle donne non si
fece avanti per ritirare medaglie e riconoscimenti. Molte, vedendo come avvenivano le assegnazioni, si astennero deliberatamente dal chiederle per non confondersi con i partigiani del 26 aprile. Anche per questo, le
statistiche che indicano la partecipazione femminile
alla Resistenza sono così poco attendibili. Però, quando
sfilavano i drappelli delle donne partigiane, esse avanzavano orgogliose e impavide e si poteva scorgere sul
loro volto, reso quasi duro dalla severa vita di montagna, la bellezza animata dal sorriso della vittoria. Quelle che sul corpo portavano le tracce della battaglia,
suscitavano emozione e silenzio tra le due ali di folla:
dall’inferno del piombo fascista erano uscite indenni e
sembrava che le loro narici odorassero ancora della polvere da sparo. Esse sentivano, come tutti gli oppressi,
che non combattevano solo contro il fascismo, ma
anche, e soprattutto, contro la disuguaglianza e l’ingiustizia. Ogni azione gappista risultava sofferta non solo
fisicamente, ma anche psicologicamente, perché
accompagnata dalla considerazione, da un lato, della
ineluttabilità di quello che si era fatto e, nel contempo,
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dall’orrore che si provava per essere stata causa della
morte di esseri umani, sia pur nemici.
A ciò si aggiungeva il dilemma di fondo che, probabilmente, ha attanagliato tutte le donne partigiane: ossia il
conflitto tra la necessità di sopprimere vite umane da
parte di chi, per natura, la vita la crea e il tentativo di giustificare, a sé stessa prima che agli altri, questo gesto
contro natura. Il che è un dilemma, appunto, tutto femminile, che rappresenta probabilmente l’aspetto più travagliato e sublime di come le donne hanno saputo motivarsi in questo periodo drammatico ed esaltante che fu la
Resistenza e, per certi aspetti, dà alla loro partecipazione alla Lotta di Liberazione una valenza più intimamente
sofferta rispetto alla partecipazione maschile. Beppe
Fenoglio, ne Il partigiano Johnny, descrive così il suo
incontro con le partigiane: «Praticavano il libero amore,
ma erano giovani donne, nella loro esatta stagione d’amore coincidente con una stagione di morte, amavano
uomini e l’amore fu molto spesso il penultimo gesto della loro destinata esistenza. Si resero utili, combatterono,
fuggirono per la loro vita, conobbero strazi e orrori e terrori sopportando quanto gli uomini». L’esperienza resistenziale accomunò, in nome della Liberazione della propria Patria dagli occupanti nazifascisti, donne di varia
matrice politica, che per semplificazione d’indagine, raggrupperemo in donne di sinistra, comprendendo militanti del Pci, del Psi, del Pri e della sinistra cristiana, e donne cattoliche.
Le basi di entrambi i gruppi vanno a ritrovarsi nell’associazionismo, con l’Udi (Unione donne italiane di sinistra), e la Gioventù Femminile di Azione Cattolica e del
Centro Italiano Femminile, che contribuirono alla forma103
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zione della cultura popolare femminile, rompendo il tradizionale circuito fra casa e chiesa, per proporre forme di
militanza, di iniziativa, costituendo di fatto uno dei grandi fattori di socializzazione femminile. In più, introdussero un fattore di unificazione culturale e di costume fra le
donne del Nord del Paese, che in maggior numero avevano preso parte alla Liberazione, e quelle del Sud, per le
quali il Movimento Cattolico fu, forse, l’unica occasione
di mobilità autonoma. Una nota partigiana cattolica fu
Tina Anselmi, nata a Castelfranco Veneto nel 1927, insegnante, che decise da che parte schierarsi quando, giovanissima, vide un gruppo di giovani partigiani portati al
martirio dai fascisti.
Dopo l’8 settembre, in seguito alla firma dell’armistizio, i tedeschi
conclusero che noi avevamo tradito l’alleanza ed allora si sviluppò
con più ferocia e determinazione la loro rappresaglia. Noi vedevamo
passare per i nostri paesi i carri bestiame pieni di giovani dei nostri
paesi rastrellati, portati in prigione e poi impiccati o fucilati nei viali. Facevo l’ultimo anno delle superiori, eravamo una quarantina di
ragazze, quando ci portarono ad assistere all’impiccagione di un certo numero di ragazzi, c’erano anche dei nostri amici e c’era anche il
fratello della mia compagna di banco. A parte il trauma che ciascuna di noi subì, fu subito naturale interrogarsi sulla liceità di quello
che stava accadendo. La dottrina fascista diceva, nel primo articolo,
che lo Stato è fonte di eticità, niente è sopra lo Stato, niente è contro
lo Stato, niente è al di là dello Stato; dunque questo articolo giustificava quello che avveniva e le rappresaglie che erano consumate.
Naturalmente nacquero tra di noi discussioni molto violente: chi era
per la non liceità da parte dello Stato di impiccare persone innocenti
del reato per cui venivano condannate e c’erano quelli che dicevano
che lo Stato lo poteva fare questo ed era lecito che l’avesse fatto. Da
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queste domande derivarono delle risposte che andavano sostanzialmente ad affermare che anche se si era in guerra gli ostaggi erano
innocenti e non potevano essere uccisi; da ciò venne come conseguenza il fatto che se uno Stato governa con questi metodi, è uno
Stato che non si può accettare. Ecco, io ho incontrato la politica così.
Quando sono tornata a casa dopo avere visto le impiccagioni dei
ragazzi, sapendo che quello che avevamo visto si sarebbe chiaramente ripetuto, la prima scelta che ho fatto è stata di dire: uno Stato che legittima queste uccisioni non è uno Stato che si può accettare, occorre impegnarsi per abbatterlo e per abbatterlo occorre perdere la guerra, combattere per la pace, perché dopo la pace si possa
realizzare una società dove eccidi, uccisioni e barbarie non siano più
ammessi. Ricordo sempre un treno, uno dei tanti treni che passava
sempre per la stazione del mio paese con tutti i carri piombati, dentro c’erano ragazzi che gridavano, avevano bisogno di acqua, avevano bisogno di cibo, facevano passare per le fessure dei carri bestiame biglietti con gli indirizzi delle loro famiglie perché li avvisassimo.
Divenne così staffetta della brigata autonoma “G.Battisti”
(erano svincolate da qualsiasi collegamento con i partiti
politici ed avevano l’obiettivo di liberare la zona occupata dove agivano) e del Comando regionale del Corpo
volontari della libertà. Nel 1944 si iscrisse alla DC e partecipò attivamente alla vita del suo partito, non dimenticando mai le ragioni profonde della sua scelta antifascista. Con l’occupazione nazista dell’Europa, furono centinaia le partigiane jugoslave, francesi e italiane a cadere
sul campo di battaglia, armi in pugno. Oppure fucilate,
come Lina Bandiera e Ines Bedeschi. O Irma Marchiani,
messa al muro vicino a Modena, dopo l’evasione dalla prigione tedesca. E ancora: Gina Borellini ferita in battaglia
nell’aprile del ‘45, ed Ancilla Marighetto, uccisa in com105
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BANDITE!
battimento a soli 18 anni sui monti di Trento. Poco
distante, nel veronese, nel 1944 cadde in battaglia Rita
Rosani, fondatrice, a Verona, del battaglione partigiano
“Aquila”. Paola Del Din fu, invece, l’unica donna a lanciarsi con il paracadute nell’ambito di una missione sulle
montagne di Belluno.
PARTIGIANE VS AUSILIARIE
Nonostante le tante conquiste fatte, la storia delle donne
non è finita, ed è al contrario alimentata da continui sviluppi, considerando peraltro l’indubbio arretramento da
esse subito nell’ultimo ventennio, che le ha viste oggetto
di un riposizionamento in ruoli subalterni in tutti i campi: a cominciare dalla pubblicità, la cui estetica è tornata
a servirsi del corpo delle donne in un’apoteotica mercificazione che ha nell’antico e primordiale richiamo sessuale l’elemento centrale. Come non fosse passato nulla sotto i ponti del femminismo. Come se la Storia avesse giocato lo scherzetto di farle rimbalzare indietro in nome di
un modernismo malinteso, che passa anche attraverso
l’intervento (chirurgico, quindi violento) sul proprio corpo per (com)piacere a un mondo oltremodo “maschio”.
Il Novecento e questo inizio di nuovo millennio non hanno quindi affatto il compito di ratificare una qualsiasi fine
della storia delle donne. La cui storia che, se si vuole, si
può far ripartire da quell’800 caratterizzato da grandi
cambiamenti in tutti i campi, anche per lo svolgersi di
una rivoluzione industriale capace di scardinare ruoli
millenari di uomini e donne. Alcuni storici fanno invece
partire questo riscatto epocale dalla Rivoluzione france106
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se, insieme a quella americana, in cui sono rintracciabili
molti momenti che hanno come protagoniste le donne:
un ruolo inedito che genera una rivoluzione nella Rivoluzione attraverso la quale le donne diventano soggetto
autonomo. Da qui parte Louis de Bonald – teorico del
principio monarchico – per attaccare i rivoluzionari, la
cui (grave) colpa è quella di avere irrimediabilmente
minato la “società secondo natura”. Società millenariamente fondata sui due architravi della famiglia rappresentati da quello della donna come “soggetto” e dell’uomo come “potere”, intendendo per “soggetto” l’opposto
di quel che si può pensare: cioè l’as-soggetta-mento in
cui l’uomo “deve mantenere” la donna. Con la Rivoluzione francese questo assetto è stato modificato dall’uomo
che ha ceduto alla donna una parte considerevole del suo
potere. Per de Bonald – per il quale anche l’emancipazione femminile è spiegata come causa delle azioni dell’uomo – non solo i rivoluzionari, ma anche la classe dominante ha le sue colpe: in un devastante processo di “femminilizzazione del potere” anch’esso ha ceduto le redini
del comando, dando l’abbrivio a una sovversione compiutasi come atto finale di un processo rivoluzionario segnato dalla “femminilizzazione sociale”.
In realtà, con buona pace del focoso de Bonald, il cui odio
per la Rivoluzione francese non fu secondo a nessuno, la
condizione della donna muta semplicemente perché in
quel momento, e per la prima volta nella storia, viene
messo in discussione il ruolo “storico” cui la donna era
stata secolarmente blindata. Per meglio dire, con la Rivoluzione francese la civiltà occidentale scopre che le donne possono avere un posto nella struttura dello Stato.
Un’evoluzione lunga, tormentata e spesso – come abbia107
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mo visto – caratterizzata da avanzamenti e arretramenti.
Ritornando al tema centrale delle donne in armi, dopo
avere registrato l’importanza della Rivoluzione francese
quale irrinunciabile punto di partenza, constatiamo come
sia l’800 il secolo delle donne. È al suo interno che la loro
vita cambia, con una rivoluzione in cui ciò che si modifica
è la prospettiva di vita: la donna si trasforma da essere
passivo in essere attivo e quindi capace di partecipare alla
vita politica. Un processo non breve perché per molto
tempo la stragrande maggioranza delle vite delle donne
sarà scandita da una quotidianità stabilita da registri
maschili. Tuttavia, il seme è impiantato e darà i suoi frutti. Lentamente, ma inesorabilmente, la potenza diventerà
atto. Formidabile lievito per la crescita della donna all’interno della società è la Rivoluzione industriale. A dimostrazione della lentezza del cambiamento, la presa d’atto
che per tutto il secolo in questione la donna che lavora
non potrà disporre del suo salario, consegnandolo interamente nelle mani del padre, del marito, del fratello nel
caso. L’autonomia nella gestione economica sarà raggiunta solo nel XX secolo, quando il lavoro femminile sarà uno
dei più potenti grimaldelli per aprire le porte dell’emancipazione. Un altro importante passaggio è quello della
democrazia parlamentare e del suo sviluppo, anche se
all’inizio l’affermazione di questa forma di governo sembra escludere le donne dalla vita pubblica, salvo poi permettere loro di realizzare quella partecipazione che mai
avevano avuto prima. Possiamo quindi affermare che
sono sostanzialmente tre i capisaldi attorno ai quali le
donne hanno costruito la loro modernità, intorno a cui si
sono sviluppati i concetti pregnanti e importanti, gli episodi simbolici e rilevanti dell’emancipazione femminile: la
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Rivoluzione francese, la Rivoluzione industriale e l’affermazione della Democrazia parlamentare. È evidente che
questo piccolo escursus è funzionale al tema che ci preme: la collocazione della donna in armi nella Storia e nella sua storia. Per iniziare possiamo servirci, a titolo esemplificativo, di un ulteriore argomento guida: la storia del
movimento d’avanguardia delle Suffragette inglesi che,
capeggiate da Emmeline Pankhurst, avevano fra gli obiettivi anche il diritto di voto. Le scatenate del Suffrage Party usarono ogni mezzo per portare avanti la loro battaglia.
Nel 1907 marciarono verso la sede del Parlamento e si
incatenarono in Downing Street, residenza storica del
Primo Ministro. Molte furono accusate di vandalismo e
imprigionate, mentre altre che facevano lo sciopero della
fame furono coattamente costrette a nutrirsi. Nel 1913
una militante si suicidò per protesta, buttandosi sotto la
carrozza del re. La guida teorica delle Suffragette va assegnata al filosofo John Stuart Mill che nel suo saggio, The
subjection of woman (La servitù delle donne), approva
l’operato dei movimenti femministi, riconducendo la condizione di sottomissione della donna alla primitiva legge
del più forte. Nel 1918, le donne inglesi si videro riconosciuto il diritto di voto: una conquista datata 1946 per le
donne italiane e 1970 per le svizzere, mentre in quello
stesso periodo anche i governi di Austria, Cecoslovacchia,
Danimarca, Germania, Irlanda, Olanda, Norvegia, Polonia,
Russia, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti allargarono il
suffragio alle donne. Tutti però preceduti dalla Nuova
Zelanda che fu in assoluto il primo Paese a conferire questo diritto nel 1893.
Quel 2 giugno 1946, che vedeva le donne italiane partecipare per la prima volta a una consultazione elettorale
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BANDITE!
col primo referendum della storia d’Italia, rappresentava
anche un topico momento di passaggio per un Paese che
cercava di lasciarsi alle spalle tanto la guerra quanto il
ventennio fascista, seppure attraverso un’opera di ricostruzione materiale e istituzionale faticosa. La politica
schiudeva pian piano le sue porte al mondo femminile,
mentre giungeva a conclusione una duplice esperienza
che aveva visto protagoniste le donne e le armi. Si può
anticipare come chiave di lettura di questi episodi tra
loro contrapposti la voglia di agire e di partecipare delle
protagoniste, che anticipavano di quasi sessant’anni l’ingresso in armi delle loro nipoti.
La storia delle Ausiliarie della Repubblica Sociale Italiana e delle loro nemiche Partigiane mostrerà quanto pur
nella diversità e contrapposizione che le animava, queste
donne siano state indubbiamente accomunate dalla smania di essere “Protagoniste di storia e tragedia”.
Con la sigla SAF, Servizio Ausiliario Femminile, venne
istituito, con Decreto ministeriale il 18 aprile 1944, un
inedito corpo femminile alle dirette dipendenze del duce.
Pochi mesi prima, il 23 luglio 1943, il fascismo si era sgretolato dando inizio ad un radicale cambiamento istituzionale, ma anche all’uscita dell’Italia dalla guerra. Il nuovo
governo provvisorio, guidato dal generale Badoglio,
avrebbe infatti stipulato l’armistizio con gli alleati e lo
avrebbe reso pubblico l’8 settembre. Pochi giorni dopo,
Mussolini, liberato dai tedeschi, tornava a scuotere l’Italia con la fondazione della Repubblica Sociale Italiana
con sede a Salò, sul lago di Garda. L’iniziativa mussoliniana di creare un corpo femminile riscosse un successo
rilevante se si pensa che le adesioni superarono le 6000
unità. Una delle spiegazioni tentate è quella che dando
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alle donne la possibilità di arruolarsi, Mussolini riconosceva loro il diritto di entrare nella storia. Le armi quindi
come fattore di emancipazione. Spesso appena adolescenti, le Ausiliarie vedevano nel duce la personificazione di quel Totem ideologico coltivato in famiglia e che le
aveva nutrite con idee precise relativamente ai ruoli di
padre, madre, figli, figlie dell’era fascista. Era questa una
sorta di rinnovata codificazione con la quale si tentava di
far passare sotto nuovo significato un vecchio stato di
cose, prima fortemente criticato e osteggiato dalle donne. All’interno del fascismo invece un vecchio status che
ancora relegava sostanzialmente le donne nell’ambito
domestico, venendo astutamente pubblicizzato come
congeniale alla crescita di una società fascista sana e forte, dava l’impressione alle donne di avere acquisito un
protagonismo inedito e rivoluzionario. Questo progetto
astuto fu recepito dalle future ausiliarie come riconoscimento di emancipazione e abbracciarono la causa con
passione. Il mito di Mussolini e della sua personalità,
crollato dopo il 23 luglio, ritrovava con queste ausiliarie
il viatico per una ripresa. Una di loro, Carla Saglietti di 17
anni racconta: «Avevo bisogno di agire, di buttarmi nell’azione. Mi dicevo: “Ehi Carletta, gli americani salgono
sempre di più, ora sono sulla linea gotica, un giorno te li
troverai davanti senza aver fatto niente per il tuo Benito
Mussolini tradito da un re di merda”. Ero proprio una
ragazzina fascista. Cos’altro avrei potuto essere? Ero stata impastata di quella fede. Mio padre, mia madre, tutti
fascisti. Gente in gamba i miei genitori»20. Questa citazio20. In Le donne nel regime fascista. Il fascismo ha emancipato le donne? di V. de Grazia, Marsilio, Venezia 1993.
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BANDITE!
ne esprime bene sia la voglia di sentirsi protagonista di
questa, ma anche delle altre Ausiliarie, sia la venerazione
che esse provavano nei confronti di Mussolini. Oltretutto,
la storia di questa giovane donna si caratterizza per l’interesse, la curiosità e i numerosi elementi di carattere
romanzesco che contiene. Fa parte cioè di quelle vicende
che raccontate adesso hanno un sapore quasi irreale da
romanzo d’avventura, da film di spionaggio, anche se poi
hanno un fondamento storico molto serio. Carla Saglietti
faceva parte delle “Volpi Argentate”. Quest’ultimo, tra i
reparti nei quali le ausiliarie venivano inserite − la Decima Mas, le Brigate Nere e la Muti − era il servizio speciale di guastatori, sabotatori e assaltatori. Il loro nome,
“Volpi Argentate”, era una copertura. Sul citofono della
loro sede di via Ravizza a Milano c’era un’insegna su cui
si leggeva: Dott. De Santis − Allevamento di volpi argentate. L’appartamento era di proprietà del colonnello De
Santis (di cui il vero nome era Tommaso David), che dirigeva questo servizio speciale, ma che in passato aveva
fatto parte dell’intelligence delle forze armate di re Vittorio Emanuele III. In viale Monza, sempre a Milano, era
ubicato invece il centro di addestramento affidato a graduati tedeschi dei quali il comandante era Kurt Krupp.
Uno dei compiti delle “Volpi Argentate” era quello d’individuare l’entità e le caratteristiche delle forze alleate,
specie per quanto riguardava mezzi motorizzati e corazzati. Alle Ausiliarie venivano inoltre affidate vere operazioni di sabotaggio. Molti uomini e donne di questo corpo
furono, alla fine della guerra, fucilati o condannati a morte. Le “Volpi Argentate” e gli altri reparti dove trovavano
impiego le Ausiliarie obbedivano ad un regolamento ferreo. Il rispetto della disciplina era considerato fondamen112
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tale e Piera Gatteschi Fondelli, a cui era stato affidato il
comando col grado di “generale” delle 6000 donne, aveva
personalmente elaborato un regolamento comportamentale simile a quello che osservano le suore di clausura.
Era proibito fumare e portare il rossetto, sia quando si
era in divisa sia quando non la si portava, era inoltre d’obbligo quel “voi” che Mussolini aveva imposto in luogo del
“lei”. Il comportamento di una Ausiliaria doveva essere
semplice, ma austero come del resto le divise grigio-verdi che tutte erano obbligate a portare. In questa nuova
esperienza che le vedeva protagoniste della storia, non
più solo appannaggio dell’uomo, le giovani ragazze non
soffrivano la sottomissione ad un regolamento rigido cui
la vita militare le obbligava. Tutte testimoniano che l’onore dato dall’appartenenza al corpo era in grado di cancellare ogni difficoltà. Giovanna Deiana, Ausiliaria della
Repubblica Sociale, era cieca dall’età di 14 anni a causa di
un bombardamento, ma questo limite non la fermò. Racconta così il momento in cui si arruolò.
Avere accanto a me Mussolini e non poterlo vedere. Sentire la dolcezza delle sue mani sulle guancie ed essere condannata al buio. Mi
faceva un effetto straordinario e terribile a un tempo. Gli avevo appena detto: “Voglio arruolarmi, Duce. Non potete rifiutarmelo”. Come
accade a tutti i ciechi, la mia sensibilità colse la sua commozione. E
restai impalata nell’attesa di una sua risposta. Mussolini mi riempiva la vita. Era un sentimento che provavo fin da quando ero bambina. Mussolini e le sue gesta mi apparivano come una fiaba che poi si
era incarnata, sul finire degli anni Trenta, in un uomo di governo dai
poteri straordinari. Le adunate e le manifestazioni alle quali avevo
partecipato, le sequenze dei documenti in cui Mussolini era protagonista mi esaltavano. L’Italia gli doveva la propria rinascita. Il Duce in
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sella al suo cavallo, il Duce che miete il grano, il Duce che s’impone
sulla scena internazionale, il Duce che annuncia dal balcone di
Palazzo Venezia le conquiste africane... Ero ancora una bambina,
eppure tutto ciò si era impresso nel mio animo. E la memoria rivedeva quelle scene quando fui condannata alla cecità21.
Il forte coinvolgimento emotivo che traspare con tutta
evidenza da questa dichiarazione, ma che del resto accomuna tutte le Ausiliarie, è evidente anche nella sofferenza che una di loro, Anna Fabrini, racconta di avere provato di fronte al cadavere di Benito Mussolini, esposto in
Piazza Loreto a Milano il 29 aprile 1945.
Piazzale Loreto è il mio giorno dell’orrore. Ancora oggi gli occhi della
memoria debbono avvicinarsi con cautela a quelle immagini. Come
nella risacca, i dettagli più nitidi sono respinti da una barriera psicologica, poi si ripresentano con più forza. Soffro, mi sento soffocare
dalla rabbia e dall’impotenza, come se mi reincarnassi nell’Anna
Fabrini di allora. Ecco che torna il vortice delle sensazioni: il clamore
della folla, i fiati che sapevano di caffellatte, di vino e di rancido, la
ferocia delle donne, le loro ascelle che puzzavano di sudore. E poi…
E poi, purtroppo, il lezzo che veniva da un corpo che avevo adorato
come quello di Dio sceso in terra. E che il Signore mi perdoni. Un Dio
onesto che non intascava neanche un soldo per sé. Un Dio che dava
benessere e faceva provare la fierezza di essere italiani. Riscattò le
donne che non erano più rintanate in cucina a lavare i pannolini dei
bambini, a preparare la pastasciutta, a lavare piatti sporchi22.
Sicuramente si fa fatica a non catalogare come surreali
queste dichiarazioni, ma per onestà intellettuale bisogna
21. Id.
22. Id.
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contestualizzarle, ricordando che se da un lato queste
donne furono rapite dal fascismo e dal suo duce, dall’altra furono le prime in Italia ad essere inquadrate in un
corpo militare che le affrancava da quel ruolo tipicamente femminile che avevano sempre avuto. In altre parole
esse mettevano in pratica quella voglia di emancipazione
che già prima di loro intere generazioni di molti Paesi del
mondo avevano richiesto e in alcuni casi, del resto limitati, ottenuto. Il fenomeno delle Ausiliarie della Repubblica Sociale ha sicuramente una sua dignità storica,
nonostante richieda un notevole sforzo per comprenderlo, soprattutto se si conosce la storia della “generalessa”
Piera Gatteschi Fondelli. Nobildonna severissima ed elegantissima, era stata tra le fondatrici dei fasci femminili
nel 1921 e aveva partecipato alla marcia su Roma. Nel
suo testamento politico si legge:
La mia vita non è stata facile, ma comunque dedicata tutta idealmente alla patria, al fascismo nel quale ho creduto fermamente per la sua
alta concezione di vita, fatta di giustizia sociale e di onestà. Andare
verso il popolo. […] Ho vissuto il periodo più bello della nostra Patria.
Il ventennio di Mussolini. Ebbi l’onore della Sua fiducia e credo di aver
fatto fino in fondo il mio dovere nel ricoprire gli alti incarichi che mi
furono affidati, servendo l’Italia con onestà e fervore23.
Mutatis mutandis, la stessa dedizione alla causa ha
caratterizzato altre donne: le partigiane. Si può abbastanza semplicemente affermare che gli ideali in cui ausiliarie e antifasciste credevano erano opposti gli uni agli
altri, così come si può dire che diverso era il modo in cui
23. Id.
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prendevano parte alla storia. Ma sicuramente ciò che le
accomuna – nonostante appaia perlomeno strano affermare che partigiane e ausiliarie possano condividere
qualcosa – è l’essere state protagoniste, padrone di se
stesse e delle loro scelte, prese consapevolmente all’interno di una società che cambiava e si apriva ad una loro
attiva partecipazione. Anche le partigiane furono inquadrate nei reparti armati. In merito alla loro attività sappiamo tanto e sappiamo che non si limitò all’azione, ma
che fu invece fondamentale per tutto quel lavoro di aiuto, logistica e organizzazione. Carla Capponi, medaglia
d’oro al valor militare, racconta con queste parole i primi
minuti che seguirono la fatidica liberazione di Roma.
Ci raggiunsero Giacomo Pellegrini, Scoccimarro, Alicata, Emanuele Rocco appena uscito dal carcere di Regina Coeli e nei giorni seguenti Pintor con il volto tumefatto dalle torture subite dalla banda Koch ed altri, tirammo la prima copia de l’Unità libera
e stampammo i primi striscioni di saluto agli Alleati […] Me ne
tornavo con il fucile in spalla, il pennello e la colla in mano quando sul portone vedo arrivare le tre sorelle Mafai, Miriam, Simona
e la piccola Giuliana. Ci abbracciammo ridendo, singhiozzando,
senza lacrime ché tutta la pena di quei mesi ci strozzava alla
gola. Era il 4 giugno 194424.
Concludiamo con la vicenda di Vanda, che, come risulta
dai documenti, «è deceduta ad Auschwitz il 31-10-1944
per camera a gas. Venne catturata il 13-12-1943 dalle brigate nere, deportata in Germania e ivi soppressa». La sua
storia è testimoniata da un suo compagno di prigionia
24. In Con cuore di Donna, di Anna Capponi, Il Saggiatore, Milano 2009.
116
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che per un certo tempo vide, giorno dopo giorno, la forza di questa donna capace di morire con la ferma dignità
che solo le grandi idee possono dare.
Vanda Maestro, fin dal 25 luglio 1943 a contatto con elementi del
Partito d’Azione, si trovava nel dicembre di quell’anno in Val d’Aosta,
aggregata ad un gruppo partigiano allora in formazione, con incarichi vari (contatti col fondo valle, distribuzione della stampa, occasionali missioni esplorative sui movimenti dei presidii tedeschi e fascisti). Aveva 24 anni; da poco tempo aveva conseguito la laurea. Chi la
vide allora, su per quei sentieri già sepolti sotto la neve, non ne può
dimenticare il viso minuto e gentile, segnato dallo sforzo fisico e da
una più profonda tensione: poiché per lei, come per i migliori di quel
tempo e di quella condizione, la scelta non era stata facile, né gioiosa, né priva di problemi. Orfana precocemente della madre, Vanda
era dominata, e spesso sopraffatta, da una sensibilità estremamente sottile, che le concedeva di leggere i più riposti pensieri di chi la
circondava. La sua mente era sincera e diritta, ed ignorava, o disdegnava, tutti quegli artifizi, quelle nebbie, quelle volute dimenticanze
ed illusioni con le quali ci si difende alla meglio dalle offese del mondo. Perciò nessuno era più di lei esposto alla sofferenza, e per la sofferenza aveva una capacità quasi illimitata. Si percepiva in lei un
fondo di dolore continuo, cosciente ed accettato, e fortemente taciuto, e questo le conquistava, da parte di tutti, un immediato rispetto.
Non era una donna naturalmente forte: temeva la morte, e più ancora della morte temeva la sofferenza fisica. La forza che in quei giorni dimostrava si era maturata a poco a poco, era il frutto di un proposito rinnovato momento per momento. Ma la sua esperienza partigiana fu breve. Il 13 dicembre si trovò sorpresa da un rastrellamento diretto alla cattura di una più importante banda che operava in
una valle contigua. Fu arrestata, condotta ad Aosta, interrogata a
lungo. Rispose abilmente, in modo che nulla di concreto le poté veni117
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BANDITE!
re contestato circa la sua attività; ma, in quanto ebrea, inviata a Fossoli, e di qui al Lager dal nome ormai tristemente famoso: al campo
femminile di Birchenau-Auschwitz.
Qui, per questa piccola donna mite, leale e generosa, doveva compiersi con orribile lentezza, mese per mese, il più spaventoso dei destini
che un uomo, in un parossismo di odio, potrebbe concepire ed augurare al peggiore dei propri nemici. Chi da Birchenau è tornato, ci ha
raccontato di Vanda, fin dai primi giorni prostrata dalla fatica, dagli
stenti, e da quella sua terribile chiaroveggenza che le imponeva di
rifiutare i pietosi inganni a cui così volentieri si cede davanti al danno supremo. Ci ha descritto la sua povera testa spogliata dei capelli,
le sue membra presto disfatte dalla malattia e dalla fame, tutte le
tappe del nefando processo di schiacciamento, di spegnimento, che in
Lager preludeva alla morte corporale. E tutto, o quasi tutto, sappiamo
della sua fine: il suo nome pronunciato fra quelli delle condannate, la
sua discesa dalla cuccetta dell’infermeria, il suo avviarsi (in piena
lucidità) verso la camera a gas ed il forno di cremazione.
I NUMERI DELLE PARTIGIANE
I primi corrieri e informatori partigiani furono le donne.
Inizialmente portavano assieme agli aiuti in viveri e indumenti le notizie da casa e le informazioni sui movimenti
del nemico. Ben presto questo lavoro spontaneo diventò
organizzato, ed ogni distaccamento si creò le proprie
staffette, che si specializzarono nel fare la spola tra i centri abitati e i comandi delle unità partigiane. Le staffette
costituirono un ingranaggio importante della complessa
macchina dell’esercito partigiano. Senza i collegamenti
assicurati dalle staffette, le direttive sarebbero rimaste
lettera morta, gli aiuti, gli ordini, le informazioni non
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sarebbero arrivati nelle diverse zone. Delicato, duro,
pericoloso era il loro lavoro; anche quando non attraversavano le linee durante il combattimento, sotto il fuoco
del nemico, dovevano con materiale pericoloso, talvolta
ingombrante, salire per le ripide pendici dei monti, attraversare torrenti, percorrere centinaia di chilometri in
bicicletta o in camion, spesso a piedi, spesso sotto la
pioggia e l’infuriare del vento. Pigiata in un treno, serrata tra le assi sconnesse di un carro bestiame, la staffetta
trascorreva lunghe ore, costretta sovente a passare la
notte nelle stazioni o in aperta campagna sfidando i pericoli dei bombardamenti e del tedesco in agguato.
Spesso dovevano precedere i fascisti che salivano, per
avvertire in tempo i “ribelli”, e talvolta restavano coinvolte
nel rastrellamento. Dopo i combattimenti non sempre i
partigiani in ritirata potevano trascinarsi dietro i colpiti
gravemente. Se c’era un ferito da nascondere rimaneva la
staffetta a vegliarlo, a prestargli le cure necessarie, a cercargli il medico, a organizzare il suo ricovero in clinica.
Non di rado, dopo la battaglia, la staffetta restava sul posto
nel paese occupato, per conoscere le mosse del nemico e
far pervenire le informazioni ai comandi partigiani. Durante le marce di trasferimento erano all’avanguardia: quando
l’unità partigiana arrivava in prossimità di un centro abitato, la staffetta per prima entrava in paese per sincerarsi se
vi fossero forze nemiche e quante, se fosse possibile o
meno alla colonna partigiana proseguire.
Durante le soste di pernottamento e di riposo le staffette andavano nell’abitato in cerca di viveri, di medicinali e
di ciò che occorreva. Infaticabili, sempre in moto, notte e
giorno, per stabilire un collegamento, ricercare informazioni, portare un ordine, trasmettere una direttiva; spes119
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so nella piccola busta che la staffetta nascondeva vi era
la salvezza, la vita o la morte di centinaia di uomini.
Numerose staffette caddero in combattimento o nell’adempimento delle loro pericolose missioni.
È certo comunque che gli uomini non erano molto disposti a concedere alle donne riconoscimenti, cariche e poteri. In un documento del Comando della I Divisione Garibaldi “Piemonte” del 16 settembre 1944, riguardante le direttive per la costituzione di organismi popolari, si legge, per
esempio: «nei limiti delle possibilità e sempre che vi siano
i requisiti adatti, un elemento femminile può essere
ammesso a far parte di detto organismo».
Ma si può cogliere un altro movente di tale atteggiamento: chiamate dalla storia degli uomini a combattere in prima persona in un mondo in sfacelo, le donne agirono per
risolvere i problemi di tutti, non per fare carriera e ottenere posizioni di comando, come è fondamentale movente, a volte magari involontario e inconscio, dell’attività
maschile. Esse, pur tenute fuori a lungo dalla storia, si
esposero senza esitare ai rischi della guerra partigiana,
ma nella massima parte non vollero impugnare le armi,
questo simbolo di prepotere maschilista.
Del resto, indipendentemente dai mezzi usati nella lotta,
si distinsero dagli uomini soprattutto per i modi e la qualità della loro partecipazione. I valori e i caratteri del
mondo femminile, sviluppatisi durante la millenaria soggezione e in risposta a questa, diedero alla Resistenza
una ricchezza e una completezza che non avrebbe altrimenti raggiunto. Esse sentivano, come tutti gli oppressi,
che non combattevano solo contro il fascismo, ma anche
e soprattutto contro la disuguaglianza e l’ingiustizia: tuttavia raramente trovarono compagni che parlassero loro
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della specifica oppressione femminile. Anche i quadri più
preparati erano ligi ai dettami della Terza Internazionale
che nel suo III Congresso, pur richiedendo un’intensa
attività organizzativa tra le masse femminili, aveva negato l’esistenza di una “particolare questione femminile”.
Nei suoi ultimi documenti la stessa Terza Internazionale
aveva rimandato tale questione alla presa del potere
socialista, additando come modello la donna sovietica,
sottoposta in pratica al duplice lavoro, in casa e in fabbrica. Erano gli stessi uomini che nei gelidi anni Trenta
videro allontanare la Kollontaj25, censurare la Zetkin26 (e
non polemizzare con lei, come invece aveva fatto Lenin),
esaltare lo stakhanovismo.
Le donne che presero parte alla Resistenza erano in prevalenza giovani: il 67 per cento circa aveva meno di trent’anni (più del 23 per cento non era ancora maggiorenne:
fra queste alcune erano giovanissime, quasi bambine:
avevano quattordici, quindici anni; il 43 per cento ragazze che avevano dai ventuno ai trent’anni). In numero
decisamente inferiore coloro che avevano dai trentuno ai
quarant’anni: circa il 17,5 per cento; ancor meno le donne che avevano più di quarant’anni: circa il 14 per cento,
la maggior parte aveva dai diciassette ai venticinque anni
(il 54,8 per cento dell’intero campione); l’unico dato che
si discosta leggermente è quello relativo alla partecipazione nella fascia di età compresa fra i diciassette e i venticinque anni: nella zona operativa “Biellese”, corrispon25. Aleksandra Michajlovna Kollontaj è stata la prima donna della storia a rivestire l’incarico di ministro
e di ambasciatrice. Grazie alle sue battaglie le donne russe ottennero il diritto di voto, ad essere elette, al
divorzio e all’assistenza sanitaria in caso di aborto.
26. Clara Zetkin, di formazione marxista, scrisse La questione femminile e la lotta al revisionismo. Dopo
la militanza nel Partito Socialdemocratico tedesco aderì alla Lega Spartachista, futuro Partito comunista,
che lei rappresentò al Reichstag durante la Repubblica di Weimar.
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de a circa il 55 per cento, mentre nell’intera regione è
inferiore, seppure di poco. Da questa prima analisi
emerge comunque un dato significativo: la Resistenza
fu, innanzitutto, la risposta di una generazione. Per
quanto riguarda la partecipazione maschile alla lotta di
liberazione non si può dimenticare che fu, quasi per tutti, la risposta ad una situazione che obbligava ad una
scelta. Dopo la creazione della Repubblica di Salò, per
le generazioni più giovani, erano solo tre le scelte possibili: o imboscarsi, o entrare a far parte dell’esercito
repubblicano, oppure entrare nelle file della Resistenza. Per quanto riguarda la partecipazione femminile, i
termini della questione cambiano completamente: le
donne non si trovarono di fronte alla necessità di dover
scegliere, eppure molte operarono una scelta ben precisa. Perché? Che cosa le spinse alla ribellione? Conoscere la loro età chiarisce molte cose, ma non è sufficiente per rispondere alla domanda. Un elemento in
più, per tentare una prima risposta, è dato dall’analisi
della professione. È da tenere presente però che non si
possiedono i dati dell’intero campione, ma soltanto di
circa il 44 per cento dello stesso. Da questo campione
risulta che il 43,3 per cento delle donne che parteciparono alla Resistenza erano operaie, il 15,9 per cento
appartenevano al terziario (impiegate, insegnanti,
medici e infermiere), il 13,2 per cento erano casalinghe,
il 14,1 per cento erano artigiane (in particolare sarte) e
solo il 4 per cento contadine. Il dato più rilevante è il
primo, cioè la forte presenza di operaie.
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NON DIMENTICARE IL MALE
Ne Il Sentiero dei nidi di ragno Italo Calvino scrive:
Allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del
riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto,
nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va
perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli,
a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa
non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno
storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel
furore e quell’odio, finché dopo oltre venti o cento o mille anni si
tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi.
«Tutti siamo abbastanza forti da sopportare il male
altrui», dice causticamente Francois de La Rochefoucauld. Ma è davvero “caustica” questa sua affermazione o
la “banalità del male”, come già aveva concluso la Hannah nel suo omonimo libro sul processo Eichmann, riverbera interrogativi ancora più inquietanti? Potremmo traslare l’affermazione di Dostoevskij, «Se Dio non esiste,
tutto è possibile», in un più “moderno” «Dopo Auschwitz,
tutto è possibile»? In un suo saggio27, Susan Neiman
ritorna sugli antichi passi delle “responsabilità di Dio”,
citando la Teodicea di Leibniz: la lunga risposta alla considerazione di Bayle, che voleva la Storia come «sequenza di crimini e sventure del genere umano», con Dio, di
27. Guasto è il mondo, Laterza, Bari 2011.
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conseguenza, come il più grande criminale della Storia.
«Dio», risponde Leibniz alla bestemmia di Bayle, «deve
prendersi cura degli struzzi e delle antilopi, così come
degli esseri umani». Quella umana – ricorda il lipsiano –
è una presunzione che viene stigmatizzata già nella Bibbia, con l’episodio di Giobbe. Per Hegel, il Dio di Leibniz
è come un venditore che al mercato offre quel che ha di
disponibile nel suo paniere: non dovremmo quindi
lamentarci se il prodotto non è perfetto (cioè contempla
il male), ma gioire di ricevere “il meglio possibile”. Il male
si allontana anche grazie alla conoscenza: per Kant, re
David non avrebbe mai potuto adorare il Creatore come
possiamo noi, poiché sapeva troppo poco delle meraviglie della Creazione, nonostante essa sia destinata a
restare fuori dalla nostra portata razionale, tanto da
doverci affidare alla fede. In definitiva, il male non esiste
perché “quanto esiste è bene”. Conclusione che fa sbottare Rousseau: «negare l’esistenza del male è un mezzo
molto comodo per scusare l’autore del male. Gli Stoici, in
altri tempi, si sono resi ridicoli con meno». Il pericolo,
avverte Rousseau – prima del quale o non esisteva il problema del male o non c’era risposta ad esso – è il quietismo: se il male è solo apparente e ogni cosa è il meglio
che potrebbe essere, è inutile dannarsi. Da sempre, il
male minaccia la ragione umana, spesso perdendola, perché mette in dubbio la possibilità che la stessa vita abbia
un senso e scardinando ogni interpretazione del mondo.
Alla base del suo trionfo, sta l’umiltà con cui il male agisce. Il bene è una categoria superiore, elitaria, non praticabile dalla massa, ma solo da «dodicimila persone per
ogni generazione», come avverte il Grande Inquisitore di
Dostoevskij: «consegnando la fede ad un atto di libertà,
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Cristo ha proposto agli uomini un compito del tutto superiore alle loro forze». Gli uomini, ammonisce il vecchio
prelato, non sono fatti per la libertà, perché non ne sono
all’altezza. Concetti osteggiati da Primo Levi: «Ogni essere umano», ribatte ne I sommersi e i salvati, «possiede
una riserva di forza la cui misura gli è sconosciuta: può
essere grande, piccola o nulla, e solo l’avversità estrema
dà modo di valutarla». Ricorrendo ancora alla drammatica metafora di Auschwitz, nel suo saggio L’umiltà del
male, Franco Cassano avverte che «non possiamo abbassare la guardia di fronte al male» e, soprattutto «non
dobbiamo dimenticare».
ONDINA PETEANI, LA PRIMA STAFFETTA D’ITALIA
Non aveva ancora 19 anni Ondina quando fu catturata da
una pattuglia tedesca quell’11 febbraio 1944 a Vermigliano, preso Ronchi dei Legionari, e rinchiusa nel comando
delle SS di piazza Oberdan a Trieste, per poi essere trasferita nel carcere di Coroneo. Un mese dopo la fecero
salire su un carro bestiame, destinazione Auschwitz: da
lì, sarebbe stata mandata a Rawensbruck e infine a Berlino. Durante la marcia forzata che avrebbe dovuto riportarla a Rawensbruck, riuscì a fuggire e a raggiungere –
attraversando Cecoslovacchia, Ungheria e Jugoslavia –
Trieste il 12 luglio 1945. «Tre mesi incredibili per attraversare 1300 chilometri in un’Europa in ginocchio, senza
più ponti, strade e ferrovie interrotte. Quando ho abbracciato mamma, papà e il cane che mi è saltato addosso per
farmi le feste riconoscendomi, ho capito di essere tornata libera».
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Nata il 26 aprile 1925 a Trieste, nel 1942 Ondina era
andata a lavorare come operaia nel cantiere di Monfalcone, dove impara a usare il “tornio a revolver” e dove cresce politicamente.
Da una parte i colleghi di lavoro e dall’altra un gruppo di studenti che
frequentavo a Ronchi, attraverso chiacchierate e discussioni, cominciai ad interessarmi di problemi sociali e politici. Sia alcuni operai
del cantiere, sia alcuni studenti, militavano già allora nelle file clandestine dell’antifascismo e quasi tutti erano comunisti ed io mi sentii progressivamente attratta da questi compagni ed infine cominciai
a capire quanto eravamo incasermati. Allora in queste terre – soprattutto sul Carso – vi erano già operanti alcuni gruppi partigiani sloveni e parecchi ragazzi di queste località si aggregarono a queste formazioni. I loro familiari dicevano di non saperne niente, che i loro
ragazzi erano stati rapiti (ovviamente per cercar di evitare le rappresaglie fasciste nei loro confronti). Da parte nostra, eravamo entusiasti e dicevamo a chi ci raccontava queste cose di dar loro anche il
nostro indirizzo per farci “rapire”28.
Un “rapimento” che di fatto significa andare in montagna
a combattere insieme con le forze partigiane costituite
dall’unione fra il Partito Comunista Italiano e l’Osvoboldinla Fronta, il Fronte di liberazione sloveno. L’invasione
italo-tedesca della Jugoslavia ha sconvolto la geografia di
confine, con la Slovenia divenuta una nuova provincia e
la Croazia un regno satellite affidato ad Aimone d’Aosta,
28. Sia questa testimonianza di Ondina Peteani, sia le successive sono conservate presso l’Associazione
Nazionale ex Deportati Politici nei campi nazisti di Milano, mentre la ricostruzione della sua vita è tratta
dal portale Lager.it. Nel 2008, l’Istituto Regionale di Storia del Movimento di Liberazione del Friuli Venezia
Giulia ha pubblicato un libro di Anna di Giannantonio dal titolo È bello vivere liberi. All’indomani della
scomparsa di Ondina Peteani, suo figlio Gianni ha costituito un Comitato per onorarla come prima staffetta partigiana d’Italia.
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che ha modificato il suo nome in un più slavo Tomislav II.
Nel marzo del 1943 il sodalizio fra comunisti italiani e sloveni produce il Distaccamento Garibaldi, il primo distaccamento partigiano italiano: avvenimenti che diventano
l’occasione per Ondina per realizzare il “sogno” di essere
“rapita”. Si legge nei suoi appunti: «1943, maggio-giugno:
si fa vivo sul terreno un gruppo di cinque partigiani.
Dicono che nel Collio era impossibile il mantenimento in
zona. Il Davilla, giunto a sapere, li accusa di diserzione
dai ranghi partigiani sloveni». I cinque partigiani sono i
primi appartenenti alla resistenza armata che vede Ondina: fino ad allora, aveva solo saputo di compagni saliti in
montagna. A guidarli, c’è Mario Karis, un comunista condannato a dodici anni dal Tribunale Speciale fascista, che
aveva raggiunto un’unità di partigiani sloveni che operava nella zona del Collio: la “Briski-Beneski Odred”. L’intenzione di Karis era quella di raggruppare gli italiani che
operavano nelle unità slovene e con il permesso del
comandante della “Briski-Beneski Odred” si era incontrato con il responsabile del Partito Comunista Italiano di
Udine Mario Lizzero. Superate alcune incomprensioni, si
dette vita al distaccamento denominato “Garibaldi”, sotto il comando di Karis, che per l’immediato avrebbe
dovuto organizzare i partigiani italiani che combattevano
nelle unità slovene. Una realtà, quella della “Garibaldi”,
dal valore più politico che militare, stabilitasi inizialmente a Clap, per poi spostarsi a Ronchi dei Legionari per
sfuggire ai rastrellamenti. Con la nuova situazione creatasi con l’arrivo della “Garibaldi”, Vincenzo Marcon,
responsabile di zona del Pci, decise di prendere contatto
con il gruppo che si era accampato in un bosco vicino a
Monfalcone, e incaricata di fare da staffetta fu Ondina,
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nome di battaglia, “Natalia”. Così Giovanni Fiori ricorda
l’episodio.
Dopo qualche giorno venne la compagna Ondina Peteani, “Natalia”,
prima staffetta del movimento partigiano italiano, ci informava che
il funzionario del Partito Comunista Italiano della zona Trieste-Monfalcone, certo “Davilla” (il suo vero nome, credo, Marcon Vincenzo)
non trovava giustificazione della nostra presenza e ci considerava dei
disertori. Da notare che ognuno di noi, come ogni volta, aveva una
lettera e che il Karis le consegnò ai compagni del Partito Comunista
di Udine. Quindi la compagna “Natalia”, dopo aver pernottato con noi
nel bosco ripartì per Monfalcone.
Alla fine, il desiderio di Ondina era stato esaudito: era
stata finalmente “rapita”.
La compagna Natalia
Mario Karis e Darko Pezza facevano la spola in bicicletta
da Trieste a Monfalcone, mentre Ondina si occupava di
portare cibo e notizie nell’appartamento di via Seismit
Doda. Il 26 giugno del ’43 Karis e Pezza, di ritorno da
Monfalcone, s’imbatterono in un posto di blocco, da cui
riuscirono a sfuggire dopo un conflitto a fuoco. La sera
successiva, Ondina, che non sapeva nulla dell’accaduto,
arrivò come al solito nell’appartamento. Così Giovanni
Fiori rievoca l’accaduto.
La sera del 27 giugno venne la compagna “Natalia” come altre volte
per il consueto scambio di informazioni e per portarci da mangiare.
La compagna “Natalia”, il Karis e io dormivamo in una stanza, in
un’altra adiacente alla nostra il Dettori dormiva da solo, mentre in
cucina dell’altro appartamento dormiva il Pecic [Darko Pezza] anche
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lui da solo. Il mattino successivo (28 giugno 1943), alle ore cinque
circa, trovammo la casa circondata da carabinieri e da squadristi
fascisti. Un momento prima il Karis era uscito per fare i bisogni corporali ma tutto ad un tratto sento la voce del Karis che grida: “Aiuto,
siamo circondati” e nel medesimo istante entrava nella stanza occupata da me e dalla compagna “Natalia”. Il mio primo pensiero [fu]
quello di saltare dalla finestra (da notare che l’appartamento si trovava al primo piano) ma vidi che il Karis mi rincorreva, pensai alla
sua posizione politica e gli lasciai il passo, poi feci per seguirlo ma
un carabiniere mi puntava la pistola gridando “Fermo, mani in alto o
sparo”. In camera rimasi io e la compagna “Natalia”, mi venne l’idea
di far fuggire la compagna magari col sacrificio della mia vita. Finsi
un mal di ventre e mi misi in atto di fare i bisogni corporali e dissi
alla compagna “Natalia” di passare nella camera adiacente alla
nostra [...] lei mi ascoltò malgrado il carabiniere voleva opporsi. Il
carabiniere messosi alla porta della stanza da me occupata poteva
benissimo controllare tutti e due [...] un momento vidi che il carabiniere aveva l’attenzione verso la compagna, feci un volo, ma in un
attimo due squadristi e il carabiniere − che aveva sparato due colpi
di pistola e poi mi aveva seguito nel volo − erano sopra di me e mi
legarono per bene e poi mi condussero a piedi in caserma. Dopo un
breve interrogatorio potei sapere che il Pecic [Darko Pezza], il Dettori
feriti ed io eravamo [stati] arrestati mentre la “Natalia” ed il Karis
erano fuggiti29.
Mentre i carabinieri legavano Fiori, Ondina riuscì a sgaiattolare fuori dall’appartamento: il suo obiettivo primario è quello di raggiungere Monfalcone per avvertire dell’accaduto Vinicio Fontanot, che però nel frattempo è
29. Memoria di Giovanni Fiori, “Cvetko”, del 20 agosto 1976 consegnata all’ex comandante dei Gap dell’Isonzo e Basso Friuli, Vinicio Fontanot, “Petronio”.
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fuggito in montagna. Mentre a fine giugno in uno scontro
a fuoco muore la compagna Alma Vivoda, “Natalia” viene
arrestata il 2 luglio e portata nel carcere dei Gesuiti, dove
subisce un primo interrogatorio. La sua posizione è gravissima per le soffiate arrivate alla polizia politica che la
indicano come elemento molto attivo all’interno delle
formazioni partigiane combattenti. La sua salvezza arriva
con l’8 settembre, quando, dopo l’armistizio, il carcere –
che oltre a lei rinchiude tanti altri prigionieri politici –
viene assaltato. Dopo la creazione della Rsi, la nuova
condizione di Ondina sarà quindi quella di evasa: restare
a Trieste diventa pericolosissimo. «Da parte del comando partigiano», scrive nei suoi appunti Ondina, «viene
impartito l’ordine a “Petronio” di scendere a Ronchi per
reclutare nuovi compagni e poco dopo si forma la prima
brigata partigiana italiana che assume provvisoriamente
il nome di Brigata Triestina, col compito di operare nella
parte più avanzata del Carso, sopra Monfalcone, fino a
Gorizia». Il 10 settembre, Ondina si unisce agli operai
che, su decisione del Comitato d’Azione del cantiere di
Monfalcone, raggiungono Villa Montevecchio, dove si
trova il centro di smistamento incaricato di inquadrarli in
un’unità partigiana. Lungo il tragitto, gli operai attaccano
il presidio dell’aeroporto di Ronchi, mettendo in fuga un
corpo di guardia tedesco. Giunti a destinazione, diventano la Brigata Proletaria: il loro compito è quello di resistere su una linea che va da Merna a Valvocciano per
interrompere i rifornimenti via terra destinati ai tedeschi
che combattono nei Balcani. Il 12 settembre i tedeschi
sferrano un attacco poderoso, che alla fine lascia sul
campo i cadaveri di 256 operai di Monfalcone e 192 di
Ronchi. Ondina scrive nel suo diario che solo pochi – fra
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cui lei – riescono a salvarsi. Dopo questo eccidio, la partigiana “Natalia” passa fra le fila del Battaglione Triestino
d’Assalto, dove il suo primo incarico è quello di seguire le
tracce dell’infiltrato “Blecchi”, che con le sue soffiate ha
provocato sia l’arresto che la morte di diversi partigiani.
La spia viene scovata nel pomeriggio del 29 gennaio 1944
a Vermegliano e Tommasin e Settomini, i due partigiani
incaricati della sua eliminazione, lo intercettano e, senza
scendere dalle biciclette sulle quali si trovavano, gli scaricano addosso le loro pistole, dileguandosi subito dopo. Ma
il Blecchi non è morto: una specie di corazza che indossa
gli ha salvato la vita. Ondina viene a sapere che è stato portato all’ospedale di Monfalcone e che un capitano medico
tedesco lo ha operato. Un nuovo commando raggiunge
nella notte del 2 febbraio la camera d’ospedale in cui si trova Blecchi accudito da sua madre, che muore anch’essa
colpita dalla gragnuola di colpi che vengono esplosi.
Il Battaglione Triestino
L’operazione contro Blecchi e un’altra contro l’aeroporto
di Monfalcone fanno crescere la fama del Battaglione
Triestino. Dopo l’eliminazione della spia, Ondina è risalita in montagna per ragioni di sicurezza, una precauzione
che non sarebbe bastata: «Dopo una settimana di permanenza lassù, decisi di scendere con la pattuglia per provvedermi di alcuni capi di vestiario invernali e incontrare
un sostenitore con cui avevo appuntamento e che mi
avrebbe portato medicinali e denaro raccolti, anche qualche arma. La notte dell’11 febbraio 1944, mentre tornavo
al mio battaglione, venni catturata da un pattuglione di
tedeschi in perlustrazione e venni portata al comando
delle SS in piazza Oberdan a Trieste». Mentre Ondina si
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trovava in carcere, le azioni della Resistenza continuavano in tutta la provincia di Trieste, con i nazisti che reagivano ferocemente con rappresaglie e rastrellamenti. Il 27
marzo vennero impiccati quattro partigiani del Battaglione Triestino: Sergio Cebroni, Giorgio De Rosa, Remigio
Visini e Livio Stocchi, mentre il successivo 3 aprile vennero impiccati 72 ostaggi per rappresaglia ad un attentato compiuto dalla Resistenza a Opicina. Cinquantasei
partigiani furono impiccati il 29 aprile dopo l’uccisione di
cinque tedeschi avvenuta in via Ghega a Trieste. Tutte le
vittime furono prelevate dal carcere del “Coroneo”, come
ricorda nella sua testimonianza Ferruccio Derenzini.
Da giorni giacevamo in un tetro sotterraneo delle carceri del Coroneo
a Trieste: “la cella della morte”. Era “la riserva” di ostaggi a immediata disposizione del comando tedesco della piazza per le rappresaglie agli attentati e sabotaggi dei gruppi di azione partigiana. In
quella cella, stipatissimi, eravamo circa in cento tra italiani e sloveni; rastrellati, quest’ultimi, nei paesi a nord di Trieste. C’era con loro
anche un giovane prete che a suon di campane aveva dato il segnale della scorreria tedesca. Noi provenivamo dalle carceri di Fiume. Era
l’aprile del 1944. Una notte le SS spalancarono la porta della cella e
chiamarono uno dopo l’altro cinquanta compagni. Uno di questi che
tardava a presentarsi, perché non aveva ancora calzato gli stivali, si
sentì gridare in faccia: “Dove vai tu, gli stivali non servono”. Capimmo e ammutolimmo. Il prete si appartò in un angolo della cella per
raccogliersi in preghiera. Li rivedemmo tutti cinquanta, assieme a
cinque giovani donne, cinque partigiane, appesi con il filo di ferro
alle ringhiere delle scale di un palazzo. Per un feroce eccesso di zelo
il comandante della piazza aveva fatto trucidare anche le cinque partigiane come sovrapprezzo “alla regola” dei dieci per uno; sebbene i
tedeschi uccisi da una bomba dei G.A.P. − in Via Ghega a Trieste −
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fossero cinque. Rivedemmo penzolanti quei compagni mentre le SS ci
scortavano allo scalo ferroviario per deportarci a Dachau.
L’11 maggio furono prelevati e impiccati altri 11 detenuti: in una delle volte successive poteva essere prelevata
anche Ondina.
Alla fine di maggio ero nell’elenco di quelle che dovevano essere
deportate. Non sembri strano se dico che ne fui contenta, ma durante
la mia detenzione erano accaduti parecchi fatti preoccupanti: il peggiore era stato il prelievo di alcune detenute e la loro impiccagione per
rappresaglia in via Ghega. Anche l’interprete mi sussurrò che lì stavano accadendo “brutte cose” e che era meglio così per me. Della famigerata Risiera ancora non si sapeva quasi niente, si diceva solo che
era un centro di raccolta per la deportazione soprattutto di ebrei. Ma
qualcuno sapeva già qualcosa, l’interprete ad esempio: “Vada via
contenta”, mi disse, “qui stanno accadendo davvero cose molto brutte” poi aggiunse: “meglio via, lontano di qui che in Risiera”. Il 31
maggio [1944], all’alba partimmo dalla stazione di Trieste, non dal
solito binario (la gente non doveva vedere queste cose!) ma sul binario dei silos da dove partivano i treni merci. Difatti, da quel momento
tali eravamo considerati: stavano partendo circa duecento pezzi e pezzi ci calcolarono da quel momento, ma noi non lo sapevamo ancora,
per cui credemmo di partire in 200 persone di cui 40 donne.
Il Lager
Si partì dunque il 31 maggio all’alba nei vagoni bestiame. Il convoglio era scortato da carabinieri e da tedeschi. Il comandante doveva
aver ancora qualche parvenza di umanità, perché alla prima fermata oltre confine ci permise di tenere i vagoni con le porte in fessura;
almeno si respirava un po’. Talvolta si arrivava persino a scambiare
qualche parola con gli uomini (se la fermata era di notte, cosicché
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nessuno ci avrebbe visto e messo nei guai gli scortatori). In una stazione (credo Monaco) i vagoni con gli uomini vennero staccati (e
inviati a Dachau) e noi proseguimmo alla volta di Auschwitz. Al quinto giorno di viaggio, vennero a chiudere i vagoni e a sigillarli: si stava arrivando nella zona dei lager, controllata dalle SS. Se durante il
viaggio eravamo state abbastanza allegre (specie noi più giovani) e
chiacchierone, in quel momento diventammo serie e cominciammo a
parlarci sottovoce: davanti a noi avevamo intravisto una desolata
pianura sotto un cielo piatto, appestata da un odore che noi attribuimmo alla bruciatura di immondizie (!). Mentre il convoglio avanzava lentamente, cominciammo a vedere i primi lager, arrampicandoci fino agli alti finestrini del vagone. Durante il viaggio avevamo
intravisto prigionieri al lavoro sulle ferrovie ed erano vestiti con la
tipica “zebra” e vedendo nel campo vestiti variopinti, pensammo che
ci avrebbero lasciati i nostri. Per giunta (era domenica pomeriggio)
sentimmo un’orchestrina che suonava e la cosa ci rallegrò alquanto:
“Ragazze, si potrà anche ballare”. Il nostro ottimismo crollò ben presto. Appena arrivate alla stazione ci fecero scendere ed in un primo
tempo ci dissero di lasciare tutto nei vagoni, poi − visto che non eravamo ebree − ci permisero di riprenderci la nostra roba. Sapemmo
successivamente che l’avrebbero catalogata e riposta, mentre per gli
ebrei veniva subito requisito tutto. Poco prima era arrivato un treno
di ebrei ungheresi e sulla panchina erano rimasti gli ultimi: i vecchi
e i non autosufficienti. C’era lì un camion e questi venivano presi per
le braccia e per le gambe e gettati sul camion tra grida di dolore e
orribili tonfi. Quello che ci raggelò fu il vedere che questo tremendo
compito era affidato a dei prigionieri. Ci inquadrarono in fila per cinque ed io mi sentivo un po’ strana: avevo la sensazione che non ero
io quella cui stavano accadendo quelle cose, mi pareva di viverle dall’esterno. È una cosa difficile da comprendere e spiegare. Ci misero
in fila per cinque e ci condussero attraverso un intricato dedalo di
stradine. Ai lati c’erano montagnole di stampelle, di occhiali, di gio134
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cattoli ben divisi secondo il senso dell’ordine teutonico. Poi, arrivate
in una baracca, ci ordinarono di spogliarci ed il nostro pudore di farlo davanti ai soldati fu ben presto vinto dalle violente bastonate che
cominciarono a volare. Ci distribuirono dei vestiti provvisori. A me
toccò un pastrano da uomo con una grande stella gialla e, mettendo
le mani in tasca, trovai una pipa con un borsellino di tabacco. Mi
sentii rabbrividire pur non conoscendo ancora la sorte del proprietario di quel cappotto. Fummo costrette a lasciare lì la nostra roba. Ci
tolsero (a chi l’aveva) ogni monile: orologi, catenine e anche le fedi
nuziali delle maritate. Altro attraversamento di posti strani, che ora,
vuoi per la distanza nel tempo, vuoi per la sensazione di incubo che
ci pervadeva, non sono in condizioni di descrivere. Ci introdussero in
una baracca che sulla soglia aveva una vaschetta piena di liquido
disinfettante o disinfestante, nella quale bisognava mettere i piedi
prima di entrare. Ora mi suona così ironico quel procedimento, come
quello di raderci tutti i peli e di rapare quelle che avevano qualche
lendine di pidocchi, quando poi nel campo imperversavano il tifo, la
dissenteria, le cimici e i pidocchi! Ci fecero fare la doccia calda ma
brevissima tanto che molte di noi uscirono con i capelli ancora pieni
di sapone e così rimasero tutto il giorno perché di acqua, fredda o
calda che sia, neanche a parlarne. Poi, sempre nude, ci fecero attendere per delle ore, finalmente poi arrivarono i vestiti. Erano vecchie
vesti usate passate all’autoclave senza lavarle, un paio di mutandoni a righine (almeno quelli erano nuovi) e un capo di biancheria che
era a volte una sottoveste, a volte una camicia da notte, a volte una
maglia (anche queste vecchie e usate). Infine un paio di scarpe
(sempre vecchie) o zoccoli. Poi in un’altra baracca per la “timbratura”, cioè il tatuaggio del numero e la consegna dello stesso numero
che dovevamo cucire sulla manica del vestito, assieme al triangolo,
rosso per noi “politiche”. Il tutto con brevissime spiegazioni date in
lingua tedesca o polacca (quando la spiegazione non era solamente
uno spintone): se non capivi, dovevi comunque arrangiarti. Durante
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BANDITE!
le ore di attesa, alcune prigioniere che erano già da tempo nel lager,
riuscirono a parlarci brevemente dalle finestre e a chiederci notizie
della nostra città e della situazione in generale. Da loro apprendemmo, in quei rapidi colloqui, l’abc della sopravvivenza: imparare rapidamente il numero in lingua tedesca e polacca; obbedire rapidamente agli ordini, per non essere violentemente pestate; non bere assolutamente l’acqua del campo perché non era potabile, cioè infetta; infine dell’esistenza dei crematori, del loro funzionamento, di cui era
proibito parlarne: dovevamo fingere di non sapere niente. Incominciammo la giornata lavorativa subito. Ci portarono in una parte del
lager dove c’era una strada agli inizi di costruzione. Alle più giovani
e alte affidarono delle mazze per rompere la pietra, le altre dovevano
spalare il terreno e portare le pietre da rompere. La kapò che ci prese in consegna era una tedesca e dal triangolo rosso capimmo che
era una prigioniera politica. E da lei ci sentimmo sempre gridare forse degli insulti ma non bastonò mai nessuna di noi, cosa che fece
invece una sua aiutante, con particolare accanimento, ma lei non
interveniva mai in questi casi. Dico questo per far capire che chi voleva sopravvivere là dentro doveva indurirsi l’animo e non intervenire
mai in favore dei prigionieri. Eppure Monika (così si chiamava) aveva mantenuto quel tanto di umanità per sfogarsi urlandoci parolacce (forse lo faceva per farsi sentire dagli altri kapò che era cattiva)
ma aveva cura che le prigioniere del suo “komando” ricevessero il
“Zulage”, cioè un supplemento settimanale di cibo per il lavoro
pesante, che consisteva in un pezzo di pane e salame al giovedì. A
mezzogiorno distribuivano il pranzo che consisteva in una ciotola di
zuppa e dopo mezz’ora si tornava al lavoro. Per i primi giorni, dovemmo sorbirla senza posate. Dopo sapemmo che bisognava “organizzarci”. Ecco un termine usato molto là dentro: quello che non avevi dovevi “organizzarlo”, che poteva dire comprarlo con il tuo pranzo o con
un pezzo di pane, oppure, se riuscivi, potevi anche rubarlo, perciò
quando riuscivi ad averlo, te lo portavi addosso, ben legato anche a
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dormire. E legata alla cintura dovevi tenere la tua ciotola, altrimenti
addio tè al mattino e zuppa a mezzogiorno. Nel lager c’era di tutto,
dovevi comprarlo: sapone, potevi avere un vestito migliore, pettine.
Spazzolino da denti era troppo lussuoso. Potevi comprare forbicine,
aghi, fazzoletti ed un sacco di altre cose, ma allora saresti morta di
fame, oppure bisognava cercare di rubare. Comunque, tornando alla
giornata in lager, alle cinque di sera si finiva il lavoro e poi in fila alla
baracca per l’ulteriore appello, quasi sempre più lungo del mattino.
Era esasperante, affrante com’eravamo dal durissimo lavoro della
giornata ed affamate, dover stare qualche ora ferme sull’attenti e
guai a parlare, altrimenti schiaffoni e calci. Finalmente anche questo finiva e poi c’era la cena: un pane (quella specie di mattone tedesco) e circa 20 grammi di margarina o di salame. Il pane era diviso
in quattro parti (più avanti il pane sarà per sei e verso la fine, per
otto). Alla sera si riusciva ad avere qualche momento libero. Si andava nelle altre baracche a cercare qualche connazionale, si cercava di
lavarsi un po’ con quell’acqua color ruggine, dato che al mattino
bisognava far presto per l’appello. La domenica pomeriggio era di
riposo, se non venivano a beccarti per qualche lavoro extra che naturalmente non potevi rifiutare di fare.
Ho avuto la sventura di conoscere il “Revier” o infermeria. Vi sono
stata accompagnata perché febbricitante (avevo 40°). C’era una
specie di accettazione e dentro c’era − fra le altre − una dottoressa
polacca che parlava italiano. Mi chiese se conoscevo il motivo della
febbre, se provenivo da zone malariche, se avevo diarrea e alle mie
risposte negative optò per una febbre di tipo reumatico (la più probabile, dato che Auschwitz era stata costruita in una zona paludosa e
quando pioveva, non era un modo di dire lo sprofondare nel fango fino
alle ginocchia). Sul momento non c’era posto, ma aspettai poco perché appena morta una ricoverata mi dissero di occupare quel letto
(ovviamente senza cambiare materasso e di lenzuola neanche parlarne). Riuscii almeno a girare il materasso, mi diedero una polverina
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BANDITE!
(un antipiretico?) e lì fui lasciata fino all’indomani. Quando vennero
le infermiere per misurarmi la febbre approfittai di un loro momento
di distrazione, per vedere e, visto che avevo 38°, scossi il termometro fino a 36°. Dissi che ero sfebbrata e che potevo tornare al lavoro.
Ero terrorizzata all’idea di trascorrere ancora una notte in quell’allucinante girone infernale, tra urla e lamenti, che avevano poco di
umano, ormai. E poi avevo paura di rimanere perché avevo sentito
che spesso e volentieri lì dentro si effettuavano vari esperimenti. (...)
Ben presto dovemmo abituarci a tutto e cercare solamente di sopravvivere. Da parte mia continuavo ad avere quella sensazione che non
ero io a subire quella vita e mi continuavo a vedere dall’esterno.
Difatti non soffrivo, né inorridivo di quello che mano a mano venivo a
vedere e a sapere; l’orrore è venuto dopo, quando ormai ero a casa.
Ricordo che un giorno fui prelevata per andare a trainare la botte che
trasportava le fognature del “Revier”. Bisognava andare a vuotarla
sopra i letamai, sistemati lontano dal campo. Là vidi un gruppo di
prigionieri che doveva spargere il letame sopra quello che avevamo
portato. Dal numero sul vestito capii che erano ebrei italiani. Anche
se ormai la loro età era indefinibile, si capiva ancora che erano giovani ed io, fingendo di raccattare il letame, mi avvicinai e chiesi,
stando bassa, a quello che mi era più vicino se erano italiani e da
quanto tempo erano là. Lui alzò la testa e guardò dalla mia parte, ma
non me, il suo sguardo andò oltre e non mi rispose. Dio, quella faccia! Era ormai in fase terminale e dopo, quando ci allontanammo, mi
voltai e vidi che li stavano bastonando e loro continuavano a muoversi come spinti dalla forza d’inerzia e non sentivano più neanche le
bastonate. Non fui più destinata a quel lavoro, ma sono certa che se
fossi tornata dopo pochi giorni, avrei trovato degli altri su quel letamaio.
Poi le infami selezioni. Mettevano in fila quelle da esaminare e il
medico (non sempre era un dottore, a volte anche un semplice SS)
con un cenno le ridistribuiva in due file ed era chiaro quale era la fila
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da eliminare! Le donne destinate a quelle file non si davano a smaniare o a disperarsi. Quasi tutte vi andavano come inebetite, in silenzio e quel silenzio era più tremendo di qualunque pianto. Gli aguzzini avevano raggiunto il loro scopo: era bestiame da macello, vi andava senza protestare. Talvolta alla sera c’era il “Lagersperrer”, cioè
l’ordine di ritiro nelle baracche. Lo facevano quando avevano da eliminare le occupanti di una intera baracca e noi non dovevamo vedere quelle donne attraversare il campo ed uscire dalla parte dei crematori. Alla notte avevi il riverbero sulle finestre delle enormi fiammate che si sprigionavano dai camini. Così fu eliminato un intero
campo di zingari. In una notte furono uccisi centinaia di nomadi. Di
questi si parla pochissimo e ciò mi indigna, c’è del razzismo nel fatto di ignorare che anche queste popolazioni sono state perseguitate
e che fanno parte dell’olocausto. (...) Dopo poche settimane dal
nostro arrivo cominciò a farsi sentire in modo cronico la fame fino al
punto che eri già disposta a prenderti qualche bastonatura per arrivare a ripulire i mastelli della zuppa. C’erano già i segni di indebolimento nelle compagne che erano meno forti; cercavamo di sostenerci, infondendoci la certezza che ormai i tedeschi erano prossimi a
cedere e che tutto sarebbe finito ben presto, ci esortavamo perciò a
tener duro ancora per poco, altrimenti c’era il pericolo di ridursi a larve come ne vedevamo in giro: non avevano un etto di carne addosso,
camminavano lentamente e parlavano con una vocina appena udibile, con le gambe rigate dai loro escrementi che ormai non potevano
trattenere. Forse mi ripeterò, ma anche qui quando nell’autunno corse la voce che ci avrebbero trasferite in un altro campo, ne fui contenta: peggio di così era impossibile! Purtroppo non tutte partirono
con noi e di loro non ebbi più notizie. Per il viaggio ci distribuirono i
vestiti a zebra, ben puliti e caldi (c’era rischio che per strada qualcuno ci vedesse) che ci fecero regolarmente restituire all’arrivo a
Rawensbruck. Da qualche indiscrezione sapemmo che stavano lentamente evacuando il campo di Auschwitz perché il fronte sovietico
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BANDITE!
stava avanzando e questo ci rese anche ottimiste. Uscendo dalla stazione, mi voltai e vidi l’infame portone con la scritta “Arbeit macht
frei”. Bene, mi dissi, forse ora ce la faremo.
A metà aprile del 1945 durante una marcia forzata di cinque giorni, Ondina riuscì a fuggire. Dopo aver percorso
1300 chilometri riuscirà a rientrare in Italia a luglio.
Vivere liberi
Il martirio socio-culturale imposto dal regime fascista durante tutti i
vent’anni di dittatura accentuò in noi giovani l’irrefrenabile bisogno di
Libertà. La negazione di una Cultura Libera e Democratica e l’imposizione di una ferrea censura indusse schiere di giovani ad acuire la
curiosità e l’interesse in direzione di una sostanziale sete di Sapere.
L’aver imbavagliato la Libertà di Conoscenza si tradusse infatti in uno
degli stimoli contrapposti più intensi per la creazione spontanea dei
primi gruppi di dibattito, di contrasto e poi d’azione, contro un Governo reo fra l’altro dell’applicazione delle aberranti Leggi Razziali del
1938, tese nell’apocalittico progetto comune al Reich Hitleriano della
Germania Nazista. Così ci schierammo. Decidemmo da che parte stare. Oltre ad un ideale forte e coeso anche il versante emotivo ebbe un
ruolo inconsapevolmente determinante. Eravamo straordinariamente
felici. Un rigoglioso altruismo ci univa e ci rafforzava nella consapevolezza ben più matura della nostra giovane età, portandoci con convinta determinazione alla soglia di scelte di sacrificio troppo spesso
fra la Vita e la Morte. Fronte operaio, povero di mezzi ma ricco di un
entusiasmo vincente, puro ed orgoglioso. Nessuna di noi, come nessuno dei nostri giovani temerari compagni di Lotta poteva immaginare
quale livello di scontro fossimo prossimi ad affrontare. Assolutamente inimmaginabile fu l’orrore in cui milioni di bambini, donne, anziani
e uomini sarebbero stati trascinati dalla degenerazione della Ragione
partorita dalla lucida follia della Soluzione Finale che trova oggi in
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Auschwitz il terrificante simbolo di un passato che ha profondamente
segnato e mutato il corso della Storia.
Resistere fu il verbo che ci permise di affrontare un nemico forte della più organizzata e potente macchina bellica mai concepita. E mentre Wermacht ed SS, in sanguinaria collaborazione con il fascismo
locale sbranavano villaggi interi, trucidando, torturando, impiccando
civili innocenti, le nostre piccole formazioni erano divenute Brigate,
Battaglioni. Quasi dei reggimenti con giovani e giovanissimi animati da un unico ideale: Libertà. Queste formazioni perlopiù di giovani,
affamati, con equipaggiamenti raffazzonati, il più delle volte guadagnati a caro prezzo sul campo, spesso con stracci al posto delle calzature e zero esperienza di tattica di guerriglia, imposero altresì la
nuova realtà anche nello scacchiere dell’Italia nord-orientale. I primi
significativi risultati quali il sabotaggio dei velivoli all’aeroporto e
l’eroica Battaglia di Gorizia a cui ebbi l’onore di partecipare, rafforzarono nelle nostre genti la speranza e talvolta la convinzione di poter
sconfiggere il nemico e riguadagnare l’agognata Libertà. Sul terreno
il consenso verso di noi crebbe ed anche se pesantemente ostacolato da delazioni (risultato di un capillare apparato spionistico installato e diffuso dal nemico propriamente per sconfiggerci) le nostre
Brigate crebbero, aumentando di unità, spiegamento di mezzi e
potenza di fuoco.
La Lotta Partigiana crebbe d’intensità e le iniziali nostre numerose,
rocambolesche fughe lasciarono spazio a precisi e tattici assalti ai
quali il nemico dovette soltanto arrendersi. Personalmente non vissi
la gioia della Liberazione. Mi trovavo in quei giorni, assieme ad una
babele di relitti umani, a più di mille chilometri di distanza, in ciò che
rimaneva dell’Europa messa a ferro e fuoco. Ero sopravvissuta ad
Auschwitz e Ravensbruck. Ma irrimediabilmente provata nel fisico e
brutalizzata nella mente. Né più né meno di tutti i reduci da quell’orrore d’inferno. Spesso mi chiedo come personalmente ne sia uscita
viva. La ragione puntualmente mi porta l’unica risposta possibile:
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BANDITE!
Resistenza! Resistenza contro l’aggressore nazifascista, resistenza
in cantiere e in fabbrica, resistenza di casa in casa, resistenza mentre le pallottole fischiavano sopra la testa, resistenza sotto interrogatorio, resistenza in carcere, resistenza davanti ai miei aguzzini al
comando SS di Piazza Oberdan a Trieste dove venni segregata, resistenza mentre mi si tatuava il numero 81672 sul braccio, resistenza
contro la perdita di dignità e l’annientamento di umanità, resistenza
contro una fame demoniaca, resistenza al latrare di cani aizzatici
contro, resistenza al sottile desiderio di lanciarsi contro il filo spinato ad alta tensione per farla finita, resistenza contro le bastonate e le
frustate inferte dai nostri carnefici, resistenza contro uomini fregiati
dalla svastica che di umano non avevano ormai nulla, resistenza per
resistere ad Auschwitz stesso. Contro ogni forma di razzismo, contro
qualsiasi discriminazione e prevaricazione razziale, sociale, culturale e religiosa.
«È bello vivere liberi»: sono le ultime parole di Ondina
Peteani, prima staffetta partigiana d’Italia, deportata ad
Auschwitz n. 81672, morta a Trieste il 3 gennaio 2003.
UN QUADERNO A RIGHE
Un quaderno a righe, con una barca a vela sulla copertina rigida, un bel quaderno, uno di quelli che ti danno
soddisfazione a tenerli in mano, a sfogliarlo, ma soprattutto a scriverci. Come aveva fatto trent’anni fa e passa il
professor Aldo Gamba di Vobarno, che dopo aver scritto
le sue memorie, aveva fatto girare quel quaderno fra i
suoi ex compagni di lotte e poi l’aveva ripreso, come uno
scrigno pieno di ricordi, custodendolo in un cassetto, finché l’avevo incontrato e aveva deciso di affidarlo a me:
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«Che vuoi», mi aveva detto dandomi del tu, non per confidenza ma per il mezzo secolo che ci separava, «ci si
dimentica di tutto, e questi sono anni veloci, perciò ho
scritto tutto. Se lo tengo io resta lì ad ammuffire, tu studi questi fatti, queste storie, tienilo tu». Quando l’avevo
incontrato – come anche altri partigiani – gli avevo spiegato che stavo preparando un esame di storia contemporanea all’Università e l’argomento scelto dal professor
Catalano era proprio l’avvento del fascismo in Italia, un
argomento che potevo sviluppare con molte testimonianze nel mio territorio, dove appunto era stata insediata la
Repubblica sociale. Un argomento che mi appassionava,
anche per la mia militanza politica nella nuova sinistra,
come si diceva all’epoca. Lessi quel quaderno d’un fiato:
ore e ore passate a ripercorrere quelle storie con grafie
spesso malferme, parole che proprio non ne volevano
sapere di svelarsi nella loro vera essenza, costringendomi a rimediare col “senso”. Ricordi scritti in momenti
diversi, come denunciavano quei tratti di penne diverse,
come diversi erano gli stati d’animo che le tradivano.
Come diverse erano le storie.
Testimonianza di Aldina
Ogni guerra sia maledetta, come maledetti siano quelli che per il loro
interesse le provocano, le dichiarano senza nessun rimorso del sangue di poveri ragazzi mandati al macello, senza rimorso del pianto di
mamme, di spose, di figli, di sorelle e fratelli. Quando nacqui ero già
orfana di guerra, la guerra ‘15-‘18. La mia è stata un’infanzia triste,
triste perché oltre la guerra c’era la miseria e con la miseria la fame.
Poi arrivò anche il fascismo e noi lo abbiamo combattuto per essere
liberi. In famiglia eravamo in quattro: la mia mamma, una sorella e
un fratello, entrambi più giovani di me. Mia madre non ce la faceva
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BANDITE!
a sfamarci, così accettò la corte di un uomo e lo sposò, ma era un
socialista, così noi passammo da essere orfani di guerra a figli di un
sovversivo socialista. La miseria era tanta e mio fratello morì praticamente di stenti. Quello stesso anno nacque Valentina, la mia nuova sorellina. Il mio secondo padre era buono, mi voleva bene, ma
restò con noi poco tempo, perché ai fascisti di Vobarno, a cominciare
dal podestà Vittorio Pavoni, non andava a genio un socialista attivo
come lui, che invece di piegare la testa, osava addirittura sfidarli
apertamente. Così una sera gli tesero un’imboscata e in dieci lo massacrarono di botte, lasciandolo mezzo morto in mezzo alla strada.
Soccorso da alcuni suoi compagni, fu aiutato a rimettersi un po’ in
sesto prima di poter scappare definitivamente da Vobarno e raggiungere la Francia, dove però morì in seguito al pestaggio. Ma non
bastava rendere una donna ancora vedova. Noi eravamo figli di un
sovversivo, appestati. Mia madre ci spronava al perdono, ma io non
volevo perdonare, volevo combattere, così, pur essendo una ragazza,
cominciai a frequentare i compagni del mio patrigno, sviluppando
presto anch’io l’idea socialista, come fecero anche altre ragazze,
qualcuna la conoscevo. All’inizio del 1938 mi sono sposata e a fine
anno è nata mia figlia. Avevo 20 anni. Mio marito non avrebbe dovuto fare il militare perché aveva una famiglia da mantenere, ma nonostante ciò, venne chiamato alla leva, anche perché il podestà Pavoni
aveva dichiarato che non aveva fatto il paramilitare fascista. Così fu
costretto a partire e presto si ritrovò in guerra, in Albania, Grecia. Non
tornò mai più: disperso in Jugoslavia. Poi arrivò l’8 settembre e fu un
casino. Non c’erano più capi, né ordini, ognuno cercava rimedio nella fuga. Mussolini aveva fondato la Repubblica di Salò proprio qui,
dalle nostre parti, così ci ritrovammo i nazisti che scorrazzavano sulle nostre strade e allora iniziò la nostra guerra contro di lui e i nazisti. Dovevamo mandarli via, dovevamo sconfiggerli, anche se non
sapevamo come. Il primo conflitto a fuoco cui partecipai fu al passo
Crocedomini. Venivamo da Breno, dove eravamo andati per un sabo144
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taggio e per tornare avevamo scelto quella strada più lunga e impervia ma più sicura. Arrivati però al passo ci trovammo la strada sbarrata da un distaccamento di difesa antiaerea. Ne seguì lo scontro, al
termine del quale i fascisti se la dettero a gambe. La lotta del mio
gruppo si concentrò in Valsabbia e a Vobarno si svolgevano le riunioni clandestine. Il nostro odio contro i nazifascisti nasceva soprattutto dalla loro rapina della nostra gioventù. Volevamo schiacciarli per
tornare finalmente a vivere. Mi trovavo sul monte Spino quando il mio
compagno d’infanzia Rino Federici, che abitava con me in via Prandini a Vobarno, mi chiese di partecipare a una riunione coi suoi compagni. Ma pur condividendo l’obiettivo comune di schiacciare i fascisti, non ci trovammo sul resto a livello politico. Federici fu poi deportato. Intanto era arrivato il 1944 e io passai a un’altra formazione. La
prima riunione cui partecipai si svolse a Vobarno, e in quell’occasione nacque il CNL della Valsabbia, oltre a un foglio clandestino: Il
Ribelle, che veniva stampato di nascosto nella tipografia in cui lavorava il compagno Tonini e che era di proprietà del Podavini, fascista
della prima ora e della malora. Di notte, li affiggevamo sui muri delle postazioni fasciste di Vobarno e Salò. Io e altre compagne lo diffondevamo con le biciclette. Nelle riunioni si decidevano le azioni
(tagliare i fili del telefono che collegavano Vobarno con Salò, nonostante le sentinelle messe a guardia, che noi regolarmente sopraffavamo disarmandoli e prendendoci le armi), reclutare nuovi giovani e
formare gruppi d’azione. Un’altra riunione si svolse a Roè Volciano,
nell’orto della chiesa parrocchiale, nascosti sotto le vigne. C’erano
anche Elsa Pelizzari (“Gloria”) e Maria Boschi (“Stella”), sorella di
Ippolito Boschi (“Ferro”) destinato a morire in un’azione disperata,
che racconterà lei stessa. Quando tutto finì fu come se avessi perso
all’improvviso quella pietra che mi si era piazzata nello stomaco
quando Mussolini aveva piazzato qui le sue camicie nere.
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BANDITE!
Emi
Io ed Emi passammo quasi un mese nella vecchia baita di montagna.
Emi era una piacevole compagnia, sempre allegro e sereno, l’animo
mite e dolce, ma per Natale decidemmo di tornare al Comando perché volevamo festeggiare insieme agli altri. Fu il Natale più strano al
quale avessi mai partecipato: niente cappone con le lenticchie, niente presepe o messa di mezzanotte, niente regali da scambiarsi, niente vischio e addobbi natalizi. Semplicemente Damiano lesse una poesia di Natale che era apparsa sul Ribelle, recitammo qualche Gloria
seduti in cerchio e cantammo qualche vecchia canzone degli alpini.
Tuttavia l’atmosfera calda che ci riuniva intorno al fuoco, noi, una
decina di partigiani stanchi e provati dalle fatiche dell’inverno, fu
una delle più belle di tutta la mia vita. In quel momento ripensai a
Tita, a quanto gli sarebbe piaciuto partecipare a quella festa natalizia per raccontare una delle sue storie, per fumare una sigaretta o per
cantare la canzone del Piave. Invece Tita non poteva più fare nessuna di queste cose, perché una dannata scarica di mitra l’aveva messo a tacere per sempre. Non avrei mai più rivisto il suo ciuffo ribelle
mentre scalava le montagne, il suo sorriso allegro mentre fischiettava all’ombra. Perché la guerra strappa la vita dal cuore dei migliori?
Verso la fine di gennaio cominciarono a ritornare al Comando anche
altri partigiani della brigata, stanchi di nascondersi da un nemico
invisibile come fossero braccati. Giunsero da noi dei prigionieri slavi
che erano fuggiti dai fascisti, in cerca di aiuto. Solo uno parlava un
poco di inglese, perciò Damiano cercò di farsi capire a gesti. Non erano i primi prigionieri che cercavano aiuto tra i partigiani, quindi
sapevamo esattamente cosa fare: c’erano dei ragazzi che si occupavano di far attraversare il confine ai fuggiaschi, in questo caso attraverso l’Istria, mentre altri cercavano di tenere a bada i tedeschi.
Quando li vidi partire, accompagnati da tre dei nostri, mi chiesi se
quei poveri ragazzotti slavi dall’aria sperduta sarebbero mai riusciti
a riabbracciare le loro famiglie. Io, Emi e gli altri ci occupammo inve146
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ce dei fascisti: ci appostammo in un boschetto poco prima di Odeno,
in attesa. Ormai non era la prima volta che partecipavo ad un’azione
di guerriglia, ma come al solito ero leggermente agitata. La sparatoria andò a buon fine e riuscimmo a cacciare i fascisti, ferendone
parecchi. Ma tra di noi c’era qualcosa che non andava. Mancava
qualcuno all’appello. “Emi!”, strillai quando mi accorsi che non era
più con noi. Lo cercammo dappertutto, disperati. Avevo il terrore di
ritrovare il suo cadavere insanguinato nascosto da qualche roccia.
“L’hanno perso, l’hanno preso!”, singhiozzai tra le lacrime. Non poteva essere, non il mio Emi. Mi accasciai a terra e cominciai a piangere. Il mio cuore era gonfio di dolore, non potevo più sopportare altro
orrore, altre morti. Arrivò Damiano a cercare di consolarmi, mi prese
in braccio, mi baciò sulla fronte e sui capelli, ma io non smisi di piangere. Mi riportò in braccio al Comando e mi depositò sulla panca di
legno. “Damiano, dobbiamo cercarlo. Erano in pochi, potremmo liberarlo”, singhiozzavo. Damiano organizzò una piccola squadra di ricerca, ma sapeva benissimo che non saremmo riusciti a trovarlo. Lo pregai di mandarmi con la squadra, ma mi negò il permesso perché
temeva che avrei potuto fare qualche follia in preda alla disperazione. “Lo troveremo, vedrai, e lo libereremo”, mi ripeteva, ma sapevo
che stava mentendo. La squadra tornò al calar della sera a mani vuote: l’avevano cercato per tutta la valle, ma probabilmente era stato
portato a Idro.
L’avevano preso, lo stavano torturando per strappargli le informazioni. Vedevo il suo viso sereno e dolce di chi sa perdonare, sporco di
sangue e tumefatto; quel sorriso da fanciullo, che non gli lasciava le
labbra nonostante le percosse, rendeva furiosi i fascisti: avrebbero
preferito che urlasse o che li insultasse, invece lui sorrideva. Sapevo
che aveva dei documenti nel sacco da montagna sufficienti a incriminarlo. E il suo diario che con tanta cura compilava durante le
veglie alpine, rivelava solo il suo animo mite e fiero del ribelle per
amore. Ma i fascisti l’avrebbero insultato per quello, l’avrebbero
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BANDITE!
schernito per la sua professione di maestro e l’avrebbero picchiato
ancora per levargli dalle labbra quel sorriso dolce a forza di pugni.
Le ricerche ripresero qualche giorno dopo, quando un contadino confermò che Emi era stato portato a Idro, ma che adesso i fascisti erano tornati sulle montagne con il loro prigioniero. Damiano mi concesse di partecipare alle ricerche, ma decise di venire con me. Era passato da qualche ora il mezzogiorno quando arrivammo a Belprato. Lì,
lungo il sentiero poco fuori dall’abitato, scorgemmo una figura inginocchiata. Qualcuno cercò di chiamarla, ma la figura non si mosse.
Un vago senso di orrore si impadronì lentamente di me. Gli corsi
incontro, sapevo chi era. La neve non ancora sciolta era macchiata di
rosso intorno all’uomo inginocchiato, quasi in atteggiamento di preghiera. Gli avevano sparato alla schiena: i fascisti erano stati così
codardi che non avevano avuto il coraggio di fucilarlo a viso aperto,
di vedere il suo sorriso da fanciullo mentre lo stavano per uccidere.
Mi inginocchiai al suo fianco e presi il suo volto freddo nella morte tra
le mie mani. “Emi...”, sussurrai tra le lacrime. Damiano mi prese per
le spalle e mi sollevò da terra, mentre gli altri ragazzi costruivano una
barella improvvisata per trasportare il corpo senza vita del mio amico. Ero scossa dai singhiozzi, volevo liberarmi per accarezzare il volto rigido di Emi, ma mio marito mi stringeva a sé. Nel sistemargli la
giacca trovarono un piccolo libro di carta dal titolo L’imitazione di
Cristo, intriso del suo sangue. Era una vista che non potevo sopportare. Mi girai verso Damiano e tuffai il volto nel suo maglione,
bagnandolo di lacrime amare. “Dobbiamo lasciare un ricordo di Emi
Rinaldini, valido partigiano e caro amico, nel luogo dove è morto”,
propose Damiano. Si avvicinò ad un albero ed, estratto il coltello, si
preparò a scrivere una piccola frase per conservare la memoria del
giovane maestro. “Cosa vuoi che scriva?”, mi sussurrò all’orecchio.
Per un attimo fui sopraffatta dalla commozione, per quel compito che
mi era stato affidato. “Tu eri la sua migliore amica, tocca a te scegliere cosa scrivere”, mi incoraggiò Damiano, baciandomi i capelli.
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“Scrivi: qui uccisero Emi, un angelo della terra”. Passò tutto il mese
di febbraio e pian piano i ragazzi della brigata tornarono al Comando. Il freddo era ancora intenso, ma nessuno più sopportava quell’indolente inattività. Fu verso la fine di marzo che accadde un fatto che aveva dell’incredibile. In un’azione di guerriglia era stato
catturato Renato, un ragazzo della brigata, con quattordici ferite e
un braccio spezzato: era destinato alla fucilazione. Furono i suoi
amici Diego e Niko a organizzare un piano per liberarlo, nonostante
l’impresa suonasse impossibile: Renato era degente all’ospedale di
Salò. “Ce la faremo! Silenziosi e veloci”, ripeteva Diego, mentre
studiava il piano d’azione. Con loro partirono anche altri tre, Dino,
l’Alpino e il Ferro, con la benedizione di Damiano. “Torneremo vincitori, colonnello Giotto, e al diavolo i fascisti!”. Tutta la brigata restò
in febbrile attesa per qualche giorno. Era un’impresa impossibile,
si sarebbero fatti ammazzare tutti. E invece tornarono, in cinque
come erano partiti. Fu Diego a raccontare l’accaduto: “Erano le due
di notte, c’era tutto buio. Siamo entrati da una porta secondaria di
cui avevamo già l’impronta per la chiave e Ferro s’è messo un camice bianco per sembrare un infermiere. C’erano due fascisti di guardia e li abbiamo colti di sorpresa; abbiamo staccato i fili del telefono, l’Alpino è rimasto in portineria a fare il palo. Noi altri su a
liberare Renato; Ferro era rimasto ferito nella sparatoria, ma lui è
forte, se ne frega del dolore. E poi c’erano due piantoni nella stanza di Renato, era tutto buio... abbiamo sparato a caso. L’arma di
Ferro si era inceppata, Dino è stato ferito, abbiamo spaccato tutto
in quella stanzetta. Credevamo di aver sparato anche a Renato,
invece era miracolosamente incolume. L’ho preso in braccio e siamo scappati dall’ospedale, ma Ferro era messo molto male. Ci hanno accolto le donne, hanno curato i feriti. Renato e Dino ce l’hanno
fatta. Ferro, no”. L’impresa di Salò passò di bocca in bocca, di brigata in brigata e diede maggiore forza a tutti i ribelli bresciani. Se
cinque della “Perlasca” erano riusciti a penetrare nel cuore di Salò
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BANDITE!
e salvare un loro compagno di lotta, c’era ancora speranza di vittoria. I fascisti erano deboli, stavano crollando. Non avevamo combattuto per niente, non eravamo morti per niente. Anche Ferro, il cui
vero nome era Ippolito Boschi, aveva dato la vita per la libertà. Un
altro giovane senza più futuro che sarebbe rimasto vivo solo nella
memoria di quanti come me l’avevano conosciuto. Chi, tra le generazioni a venire, si sarebbe mai ricordato del giovane Ferro o del
dolce Emi? Avrebbero dato per scontato la libertà di cui godevano,
dimenticandosi di quanti loro coetanei erano morti per concedergliela? Con l’arrivo della primavera, ricominciarono le attività di
guerriglia. Sam ci lesse un articolo del Ribelle del 25 marzo che ci
invitava a ritrovare il coraggio: «La parola d’ordine è lavorare, ricostruire, anche con mezzi d’occasione, senza aspettare sempre l’imboccata del Governo, che ha mezzi e possibilità limitatissimi. Ma al
di sopra di ogni altra ricostruzione occorre far rinascere nel cuore
degli italiani l’amore, la stima, il rispetto reciproco. È necessario
colpire con severità i responsabili delle rovine della Patria, ma non
si deve trasformare l’opera della giustizia in una trama di vendette, né tanto meno in un assalto ai posti di privilegio. E occorre abituarsi, riabituarsi a vedere in ogni italiano un fratello». Quanta
ragione in quelle parole, ma quanto era difficile metterle in atto! Io
odiavo i fascisti perché mi avevano strappato gli amici più cari, ma
per quanto ci provassi, non riuscivo a volerli morti, non riuscivo a
pensare di ucciderli. Invece tanti altri avrebbero voluto sterminarli,
vedere il loro sangue scorrere lento sotto di loro. Volevano vendetta
e io non potevo biasimarli. Per più di un anno il suolo della Patria
aveva visto cadere i suoi figli in una violenta guerra civile, in cui
ogni morto assomigliava a tuo fratello. E se un giorno quell’orrore
fosse finito, saremmo riusciti a superare l’odio? Avremmo potuto
lavorare fianco a fianco ad un ex fascista per ricostruire l’Italia o il
bisogno di vendetta ci avrebbe resi ciechi e insensibili? Per quanto
ancora avremmo insanguinato la bella Patria, divisi da una vecchia
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fede diversa, separati in faide e brigate, assetati di giustizia vendicatrice? Con l’avanzare della primavera, ricominciarono le missioni speciali che venivano paracadutate dagli alleati per le brigate. Un giorno, nel gruppo dei ribelli, capitò a Serle un tale che si
faceva chiamare Franco. Damiano mandò subito Sam, che avevamo
soprannominato Mercurio, il messaggero degli dei, a collaborare
con questo tipo strano, infagottato in abiti da montanaro. Non si
lasciava sfuggire nemmeno un particolare che potesse identificarlo, ma Sam ci disse che aveva un viso troppo onesto per essere una
spia. Damiano non sembrava troppo soddisfatto della spiegazione,
ma non potevamo far altro che fidarci, perché avevamo disperato
bisogno di rifornimenti. I giorni passarono e finalmente avvenne un
lancio. I fuochi si accesero e, al chiarore lunare, il cielo si punteggiò di fiocchi bianchi che andavano man mano allargandosi. I
ragazzi della brigata si precipitarono verso i paracadutisti per raccogliere munizioni e rifornimenti. Franco era raggiante. Fu Sam a
scoprire la vera identità del personaggio misterioso che aveva organizzato il lancio: Franco in realtà si chiamava don Guido ed era il
parroco di un paesino del Parmense. Era dal ‘43 che collaborava
con gli americani per organizzare le brigate italiane. Io e Sam
ridemmo di gusto, quando scoprimmo che Franco era un italiano
come noi, perché ci eravamo convinti che fosse un americano avendolo visto entrare in chiesa a Castello di Serle per cantare i salmi a
squarciagola, la domenica delle Palme, meravigliando tutti i buoni
montanari.
DONNE BRESCIANE RACCONTANO
Il Carcere
Sono state diverse le donne che hanno subito il carcere:
un’esperienza oltremodo vissuta in modo kafkiano da
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BANDITE!
persone abituate a relazionarsi coi soli familiari e con
pochi conoscenti. Nel carcere le donne incontrano altre
donne, condividendone le preoccupazioni soprattutto
per chi è rimasto “fuori”.
Delfina
C’era una vecchia di Casino Boario, così perbenino, così carina, pettinata com’era, con le sue pianelline, quelle ciabattine con la suola
di legno. “Come mai è qui?”, le chiedo. “Io ho due figli”, dice, “che
sono prigionieri degli inglesi. Un giorno arriva un giovanotto alto alto,
non capisco quel che dice. Però dai segni che faceva ho capito che
aveva fame. Ho pensato: io do da mangiare a questo giovane e qualche mamma darà da mangiare ai miei figli dove si trovano loro e gli
ho dato da mangiare. Sono tutti figli di qualcuno. Poi lui è andato,
sono venute le guardie e hanno arrestato mio marito perché avevamo
dato aiuto a un nemico. Allora lì hanno messo mio marito e l’han
tenuto per molto tempo, però io ho continuato ad andare in caserma
a dire che mio marito non c’entrava niente, perché era a far legna in
montagna, ero io che avevo dato questo aiuto. E allora loro mi hanno
detto: ‘Ma non avevate visto in Comune che c’era scritto che non
bisognava dare aiuto agli sbandati, che se si vedevano bisognava
avvertire i carabinieri?’. Io ci vedo mica tanto. Me lo fanno vedere, ma
è così in alto che io non avrei mai potuto leggere quello che c’era
scritto. E poi che ne sapevo io di quello che c’era scritto in Comune?
Io sto in campagna, io non sapevo niente di tutto questo. Io gli ho solo
dato da mangiare. Che colpa è questa? Ho due figli che sono prigionieri e chi gli dà da mangiare ai miei figli? Allora mi hanno presa e
mi hanno portata in caserma, uno mi ha dato una coperta perché
faceva freddo, ma un altro gli ha detto: ‘Ma sei matto? Se noi la trattiamo bene, dopo ci puniscono perché abbiamo trattato bene una che
è denunziata’. Hanno continuato a discutere, io mi sono tenuta la
coperta. Poi sono stata trasferita in carcere”. Era preoccupata per
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cosa dire quando l’avrebbero interrogata. Noi le abbiamo detto di raccontare le cose come le aveva raccontate a noi, per filo e per segno.
Quando è rientrata dopo essere stata interrogata, le abbiamo chiesto
come era andata e lei ha detto: “Uno mi ha chiesto com’era e come
non era e io ho detto come ho detto a voi, che ho dato da mangiare a
uno così e così”. “E lui cosa ha detto?”. “Ha messo la testa sul tavolo e si è messo a singhiozzare”.
Camilla
Andavo quattro volte al giorno in carcere, a portare da mangiare,
ogni giorno e quindi quattro volte al giorno voleva dire non tutte le
quattro volte, però quasi sempre, portar fuori lettere, quindi con
possibilità di perquisizioni […] forse dopo è stata montata la cosa,
magari si trasportavano… io avevo due grandissime sporte, normalmente ci stavano dentro i pasti per il carcere e delle volte su
tutto questo pan biscotto – perché non era facile da trovare…
adesso pan biscotto è come dire… invece noi dovevamo andare a
prendere la farina che era nascosta dai frati cappuccini… sotto gli
altari. Ecco, lì si andava verso le sei, la sera, quando d’inverno
c’era già scuro e si portava a casa. Da lì ci voleva il fornaio che ce
lo facesse, ed era un fornaio che si chiamava Braga e stava lì, vicino a me, in fianco alla chiesa di sant’Afra, quella crollata. E quello era sempre gentile, perché a qualsiasi ora gli chiedevo un quintale di pane, lui me lo dava, me lo faceva.
A volte, a questa routine, si uniscono episodi straordinari, come accade nel gennaio 1945, quando un gruppo
di detenuti di passaggio da Brescia per essere deportato in Germania è tenuto per molte ore, fino a tarda sera,
nel cortile del carcere in mezzo alla neve e senza cibo.
Camilla si apposta all’esterno del carcere con un carretto carico di cibo e pacchetti che consegna ai deportati
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BANDITE!
mentre vengono fatti uscire dal cortile e caricati sui
camion.
Una cosa impressionante: li lasciavano sulla neve, li hanno lasciati
sulla neve dalla mattina alle sette fino alle nove di sera. Una cosa
impressionante. Uno ha avuto un attacco epilettico. Io e Cesare la
notte siamo stati lì. C’era la catasta di legna tra i due muri, adesso
ci hanno fatto una porta tremenda, e tra i due muri c’era una catasta di legna per il riscaldamento. Là, niente, erano al freddo e al gelo.
Non c’era niente. Le carceri di adesso sono un grand hotel a confronto a quel che erano allora. E dietro a questa catasta avevamo messo
un carretto con tutti questi sacchetti pronti, che era stato il vescovo
a volerlo, di pan biscotto che man mano che uscivano, riuscivamo a
darglieli, nonostante che coi fari ogni tanto i tedeschi si vede che
qualcosa avevano subodorato, ma non ci han pescato. Non ci han
voluto vedere, non ci han visto, non si saprà mai, comunque siamo
riusciti a darlo.
Segnali convenzionali
Per segnalare l’arrivo di squadracce fasciste o di tedeschi
o il via libera, vengono usati messaggi convenzionali quali il richiamo di animali o esposizioni e gesti convenuti
quali ad esempio le lenzuola stese in un prato o il richiamo delle galline o delle capre. Ogni pastore, nel momento in cui si trovava nei pascoli più alti diventava una
vedetta capace di individuare a fondo valle movimenti
sospetti e segnalarli tempestivamente.
Maria
Ci ho detto [ai partigiani della brigata Margheriti]: “Guardate che
domani c’è il rastrellamento e quando passano io vi farò il segnale,
vi stendo una lenzuola…”. Perché star là si vedeva la mia casa.
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Abbiamo steso due lenzuola là nel punto che ci han segnalato. E
parola d’ordine era chiamare le galline. È venuto un tedesco […]
dice: “Cosa fa?”. Faccio “Chiamo le galline», “Ma dove sono le galline?” e mi fa “Co, co, co”. “’Ndo éle? Nel bosch!”30.
Maddalena
Si urlava, si andava su un monte più alto insomma, dove potevano
sentire di più l’eco; e allora si cominciava a chiamare: “Vecia, vecia,
vecia” e si chiamavano le capre e le capre era un segno che i partigiani dovevano nascondersi e non avvicinarsi al paese […]. E poi
c’era un vecchietto così simpatico […] allora quando si metteva a
chiamare le capre forte forte, c’era da partire, andare ad avvisare di
nascondersi e di tenersi ben nascosti.
Staffette e Partigiane
Per molte donne l’attività antifascista nasce da un’ingiustizia subita oppure scatta in seguito a situazioni particolarmente dolorose, come la perdita di un familiare, poi
però si sviluppa su percorsi inediti, soprattutto per donne appartenenti a una cultura contadina altamente autoreferenziale anche nell’agire. Il termine staffetta è molto
riduttivo perché di fatto ha categorizzato donne – per
meglio dire ragazze quasi mai d’età superiore ai vent’anni – che non solo hanno portato messaggi nascosti ovunque, ma trasportato anche armi, quando non le hanno
imbracciate.
Agape
Con Aldo, Sandro, Beppe e un quarto che non ricordo, con le nostre
biciclette andiamo al poligono di tiro. Lì c’è il custode, Boccacci – che
30. Dove sono? Nel bosco!
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BANDITE!
poi è stato fucilato, poveretto, con tutta la sua famiglia – e gli spieghiamo che vogliamo i caricatori del 91 per i partigiani. Ognuno di
noi riempie le valigie che ha di caricatori. Un peso tremendo. Le mie
due valigie non si chiudevano. Gli altri tre intanto partono. Io mi soffermo un po’ perché eravamo amici con il custode – ero sempre al tiro
a segno a fare le gare – e lue l dis: “Ah chèla valigia chè la tè
miga; spèta, ciapòm amò èn spac”31. E mi mette un altro spago.
“Pesano troppo, non riesco a caricarle”. Nel frattempo arriva una brigata di fascisti che prendono posizione nel cortile del poligono. E poi
arriva anche una macchina di quelle scoperte, una Volkswagen con
su degli ufficiali tedeschi. Che faccio adesso? Ero già sulla porta con
le valigie e le stavo mettendo sulla bicicletta. Non potevo scappare,
che potevo fare? Dovevo tenere le valigie una dietro e l’altra appoggiata sul manubrio. Salgo, ondeggio e volo. Le valigie finiscono a terra ma non si aprono. Io faccio un volo tremendo. Questi ragazzi che
erano tutti sistemati nel poligono con i loro mitra m’hanno vista e
hanno cominciato a ridere. Ridevano anche i tedeschi. Io mi sono rialzata, ho recuperato le valigie e sono uscita a piedi con la bicicletta.
Elsa
Mi hanno detto che dovevamo cambiare nome per la nuova attività,
dimenticare tutto: amici, compagni, attività che avevo svolto dal
luglio del ’43 fino al febbraio del ’44. Presso la sede dell’amministrazione del partito comunista di Brescia, mi è stato presentato un compagno che veniva da Milano come ispettore della Delegazione regionale Lombardia, con il quale avrei iniziato la nuova attività. Attività militare, non più politica. Di conseguenza era necessario che io abbandonassi la famiglia, dire loro anche il falso, che non mi avrebbero più
vista. Da quel momento per tutti i compagni, quelli che incontravo ho
assunto il nome di Piera, perché fin da bambina mi piaceva il nome di
31. E lui dice: “Quella valigia non tiene. Aspetta che prendiamo un altro spago”.
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Piera. E da quel momento ho cominciato ad andare in montagna. A
Gazzane c’era una ragazza che si chiamava Gloria. Era tanto carina,
ma è morta giovanissima. Quando è stato il momento di scegliere un
nome di battaglia mi sono ricordata quella compaesana. Mi piaceva il
nome di Gloria, le volevo bene e l’avevo vista fin da piccolina: avrà
avuto sette, otto anni, non so. I documenti li nascondevo in una cassetta di latta che tenevo nel pollaio. Però un giorno mentre tornavo con
del formaggio e del granturco mi sono trovata nel cortile di casa quattro repubblichini. Dicevano che dovevano perlustrare le case e stavano per entrare nel pollaio. Ho mollato il frumento e le galline sono uscite tutte a beccare con le piume che volavano da tutte le parti. Provengo da una famiglia di vecchie tradizioni socialiste. L’inno dei lavoratori lo si cantava a ogni primo maggio, come un rito, ma con gioia,
piacere. Per me affiancare mio fratello nelle azioni contro il regime
fascista è stata sempre una cosa naturale. Con quello che facevano i
repubblichini poi, si diventava antifascisti per forza. Venivano sulle
valli a fare i rastrellamenti e non era raro che dessero fuoco a qualche
cascina che secondo loro poteva diventare un rifugio per i partigiani,
non gliene importava niente di chi fosse quella cascina, la bruciavano e basta. Prima di partecipare a vere e proprie azioni, ho fatto solo
la staffetta. Scucivo l’orlo di una gonna o di un soprabito e infilavo il
messaggio, che poi recuperavo scucendolo. Ma non portavo solo messaggi, facevamo tutto quello che poteva danneggiare tedeschi e
repubblichini, come manomettere la segnaletica stradale, così che i
tedeschi si perdevano, non conoscendo i posti. Poi arrivavano i repubblichini e mettevano tutto a posto, ma intanto il danno era fatto. Una
mattina trovammo sui muri i manifesti del comando tedesco che ordinava i renitenti alla leva di presentarsi. Noi sotto scrivemmo “vieni,
c’è una strada nel bosco”: le parole di una canzone molto in voga in
quel periodo ma che poi non sentii più alla radio. Un’altra volta mi trovavo nella stalla di Iole, a Sabbio, quando entrò una pattuglia di tedeschi per prendere del latte. Mentre erano lì, arrivò il fratello di Iole, che
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BANDITE!
entrò nella stalla come se non ci fossero quelli, quindi, tranquillamente. Io mi accorsi che sotto il cappotto aveva un’arma lunga, così gli
corsi incontro come fosse stato il mio ragazzo e lo spinsi fuori, dove lui
nascose subito l’arma dentro il fieno. Nonostante questi tempi tristi
riuscivamo anche a ridere. Una volta uno dei nostri disse che avremmo vinto di sicuro perché don Angelo aveva chiesto aiuto al Signore,
un altro ribatté che probabilmente anche qualche prete tedesco aveva chiesto la stessa cosa per i suoi, allora quello gli rispose sarcastico: “Ma perché, secondo te Dio parla tedesco?”. Fu proprio don Angelo Bianchi che, alla vigilia di Natale del 1943, al lume di candela per
l’oscuramento, radunò nella chiesetta di Gazzane il gruppo delle
Fiamme Verdi di Roè Volciano cui appartenevo, per fare il giuramento
di “Fedeltà o morte”. Il mio nome di battaglia fu quello di Gloria. La
prima azione cui partecipai fu la sottrazione di armi ai guardiani tedeschi della polveriera di Tormini. Nella primavera del 1944, Enzo, del
CLN di Brescia, mi pregò di lasciare l’impiego per dedicarmi a tempo
pieno nel gruppo di Roè. Per il lavoro di staffetta, mi avrebbe corrisposto uno stipendio integrativo, che però poi arrivò solo per i primi mesi,
perché poi vennero a mancare i fondi. Così, al rischio si unì, qualche
volta, anche la fame. Si rinforzò così il collegamento fra Brescia e la
Valsabbia. Fui dotata di una macchina per scrivere con la quale battevo gli ordini del comitato di Brescia, che ritiravo a Rezzato, alle spalle del cimitero, dove mi incontravo con Carla, che me li portava. Ne
facevo diverse copie, battendo a macchina di notte, e di prima mattina erano così pronte per essere consegnate: compito che svolgevo con
la mia bicicletta. Nell’ottobre successivo, Carlo, della 122ª Brigata
Garibaldi, mi affidò incarichi anche per il suo gruppo di stanza a Gardoncello. Compito che svolgeva anche Stella. Essendo impiegata al
Sindacato di Salò avevo libero accesso agli uffici della G.N.R. attigui
al mio, e guadagnandomi la fiducia dei responsabili, avere informazioni utili ma soprattutto tessere fasciste e lasciapassare tedeschi.
Materiale che divenne il mio salvacondotto quando dovevo compiere
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azioni nella zona B, cioè quella di Gargnano, dove si trovava la residenza del duce. Salvarono la vita a me e a Stella anche in quel triste
giorno che seguì il massacro di Provaglio. Dopo una notte insonne per
il dolore, la rabbia, la paura, in casa di Stella facemmo una frugale
colazione e poi partimmo per il cimitero di Provaglio, ma fummo fermate da una pattuglia di Brigate nere, che ci chiesero dove stessimo
andando a quell’ora del mattino e chi fossimo. Mostrai i documenti
cercando di nascondere la rabbia e l’odio che provavo verso di loro.
Minuti che mi parvero ore. Temevo anche una reazione di Stella. Ma
per fortuna tutto filò lisco e potemmo così riprendere la strada verso il
posto che ci avevano indicato i compagni. I ragazzi della Matteotti
erano stati buttati in una fossa comune, e noi, con alcol e cotone, dopo
averli riesumati, li pulimmo, in modo che poi potessero essere ricomposti durante la notte nelle casse costruite a Valle con inciso il loro
nome, in modo che, finita la guerra, si potessero identificare. Prima
che quel marzo maledetto finisse compimmo un’altra azione a Brescia, dove io, Stella, la Maresi e sua madre recuperammo delle armi:
pistole, dinamite e bombe a mano che infilammo in due valigette che
avevamo portato. Salite sul tram della Breda, ci confondemmo con le
operaie che si recavano al lavoro. Il cuore batteva a mille. I miei famosi documenti non ci avrebbero certamente salvate se ci avessero trovate con quella Santa Barbara. Ci spaventammo a morte quando un
caccia americano mitragliò il tram. Se avessero colpito le nostre valigie saremmo saltati tutti per aria. Quei caccia erano la nostra ossessione quando svolgevamo il lavoro di staffette. Temevamo sempre di
essere colpite, ma contemporaneamente ci permettevano di superare
indenni tanti posti di blocco, perché quando apparivano nel cielo, i
repubblichini e i tedeschi abbandonavano in fretta e furia le loro
postazioni. Una volta, stavo tornando da Rivoltella, con due bombe a
mano legate sotto la sella e una pistola infilata nelle mutande, oltre
ad alcuni documenti che avevo infilato nel reggiseno. La pistola s’era
però spostata e mi dava parecchio fastidio, impedendomi di pedalare
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BANDITE!
agevolmente, costringendomi ad assumere posture innaturali: di ciò si
accorse un tedesco di un posto di blocco che si trovava all’ingresso di
Desenzano. Aveva già alzato il braccio per farmi fermare, quando un
rumore alle spalle divenne presto assordante, e prima che apparisse
il caccia americano, arrivò la sua sventagliata che colpì alcuni tedeschi, mettendo in fuga gli altri, fra cui alcuni repubblichini. Quella
volta vidi quel caccia come un santo protettore che arrivava direttamente dal cielo per salvarmi. Avvicinandosi la primavera del 1945, i
nazifascisti capirono che per loro era finita, ma proprio per questo tutto divenne più pericoloso, per la rabbia dei repubblichini e la ferocia
dei tedeschi. I nostri ragazzi sui monti avevano sempre più bisogno di
armi per dare il colpo finale a quei maledetti, e per noi donne, procurarle in mezzo alle squadre della morte Ettore Muti, ha significato avere tanto coraggio, ma anche tanta sofferenza. Se i nostri uomini in
montagna sopravvivevano al freddo e agli stenti mangiando polenta e
neve, noi donne rischiavamo la vita tutti i giorni per portare loro armi,
viveri e messaggi. Di farina non se ne trovava, e nemmeno di sale.
C’era il pane integrale, che sembrava fatto non con la crusca ma con
la sabbia da tanto poi era duro e pesante. Una mattina mi sono svegliata col profumo del pane appena sfornato, ma non un pane di crusca o di segale o di orzo e neppure di farina di castagne, ma di grano,
di grano! Ma avevo sognato e Stella mi guardò come fossi una matta.
Sono state in tante fra noi che sono finite nelle mani dei nazifascisti
e ricordare il loro destino mi procura troppo dolore. Per me la guerra
finì in un giorno d’aprile. Una colonna tedesca motorizzata proveniente da Salò s’era accampata al crocevia di Tormini, presidiando con
una mitragliatrice il passaggio verso la Valsabbia, dove si trovava la
maggior parte dei partigiani. Dopo un rapido consulto, i comandanti,
constatata l’impossibilità di eliminare quella postazione tedesca a
causa di quella mitragliatrice che avrebbe falciato come mosche
anche decine di partigiani allo scoperto, decisero di bleffare, mandando me come staffetta di un messaggio preciso: bleffando sulla consi160
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stenza effettiva delle proprie forze, i partigiani mi avevano detto di
chiedere la resa incondizionata in cambio del lasciapassare per tutti
i componenti della colonna. La risposta delle SS fu una spaventosa
sventagliata di mitragliatrice in direzione della Valsabbia. Poi però,
credendo comunque che quel che avevo detto corrispondeva al vero,
decisero di smontare la mitragliatrice ed avviarsi verso Verona. Con le
mani legate fui fatta salire sull’ultimo mezzo della colonna a fianco di
un tedesco di una certa età. Dentro di me morivo di paura, non riuscendo a vedere nulla di buono nel mio futuro. A distanza di tanti anni,
sono convinta che se posso raccontare questi fatti lo devo a quel militare dell’esercito tedesco, che probabilmente vide in me la sua figlia
sedicenne, la mia stessa età. Parlava un po’ l’italiano e mi raccontò
della sua famiglia, che gli mancava, poi, quando il camion che precedeva il nostro scomparve al di là di una lunga curva, quel tedesco frenò e, aperta la portiera, mi fece scendere. Sparii all’orizzonte in un
battibaleno, correndo a perdifiato nei prati di Cunettone, lontana dalla strada, verso Salò. Due giorni dopo seppi che quella colonna era tornata sui suoi passi e finché non fu sopraffatta a Nozza, lasciò parecchi morti alle sue spalle, compresa una mia zia a Collio di Vobarno.
Non mi sono mai sentita un’eroina. Credo che le donne non si sentano
eroine. L’uomo è più portato a sentirsi un eroe e credo che molti partigiani abbiano vissuto la loro esperienza sentendosi degli eroi. Credo
che questa sia una cosa molto maschile e lo dico con tutto il rispetto
per quei tanti ragazzi che sono morti.
Alla fine di un conflitto a fuoco col suo gruppo, Renato Mombelli delle
Fiamme Verdi di Roè Volciano era stato catturato gravemente ferito e
trasportato all’ospedale di Salò, dove era piantonato. Mio fratello
Ippolito, nome di battaglia “Ferro”, era entrato di notte con altri compagni, ma da solo aveva raggiunto la stanza occupata da Renato e da
due militi fascisti, sparando e uccidendo subito uno di essi, ma
restando a sua volta colpito a morte dall’altro. Nel frattempo erano
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arrivati gli altri compagni, che avevano eliminato il milite, portando
via a spalle sia mio fratello sia Mombelli, che sopravviverà riuscendo
a diventare vecchio come me. Il cadavere di Ippolito fu nascosto fino
al 25 aprile, quando fu celebrato il suo funerale con tanta gente
accorsa per dargli l’ultimo saluto. Posso dire di aver partecipato alla
lotta di Ippolito col suo stesso ardore, con la stessa forza. Non c’era
niente che distingueva me da lui, se non che lui era un maschio e io
una femmina. Dicevano che ero coraggiosa, ma a me sembrava di fare
tutto in modo naturale. Come m’era parso naturale pulire quei poveri
resti dei partigiani massacrati a Provaglio, e ancora più naturale farlo con mio fratello. Facevo parte anch’io del gruppo che aveva scelto
la località di Madonna della neve come base, nella zona di Prandaglio,
Pompegnino. I partigiani che lo componevano erano uomini e ragazzi
coraggiosi, determinati: Domenico Signori, Arnaldo Bellini, Orlando
Damioli, Ermes Signori, Stefano Fantinelli, Giacomo Dusi. I viveri ci
venivano assicurati dalla popolazione, parroco compreso. Il CVL di
Vobarno continuava intanto nell’opera di reclutamento e aveva formato il Gruppo Gap nell’acciaieria Falk, dove si moltiplicavano gli atti di
sabotaggio alle linee di produzione bellica, con gli operai che raccoglievano anche viveri e vestiari che poi davano a noi staffette. Una
compagna della Falk un giorno mi aveva informato che alcuni a
Vobarno stavano mangiando da giorni cioccolato e fumando sigarette
americane. Lo dico subito al mio comandante, che si informa a sua
volta e scopre che c’è anche una radiotrasmittente che sarebbe stata
lanciata dagli americani e recuperata da qualcuno, che poi ha diviso
i viveri con tante famiglie. S’era quindi deciso di scendere in paese di
notte e di passare famiglia per famiglia chiedendo della ricetrasmittente. Partecipo anche io alle ricerche, ma alla fine tutti negano
d’averla e facciamo un buco nell’acqua. Poi una nostra compagna che
lavora a servizio presso la moglie di un gerarca fascista in una villa
di Salò, ci dice che la signora porta sempre con sé in una borsa dei
documenti compromettenti con nomi di antifascisti. Il nostro coman162
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dante decide di recuperarli. Iniziamo a studiare le abitudini della
signora, seguendola nel tragitto che fa da casa all’ufficio e viceversa.
Per diverse volte l’ho seguita io personalmente. Alla fine entrò in azione un gruppo di sei persone, c’ero anche io. La signora strillò come
un’aquila quando il Bianchi, detto “Mazza” le strappò la borsa di
mano. Ma da lì a poco i fascisti avrebbero avuto una netta rivincita
decimando la 7a Brigata Matteotti sul monte Besume, a Provaglio. Non
conoscevano la zona e avevano anche poche munizioni. La loro presenza fu segnalata da una spiata. Circondati dalle camicie nere, si
difesero, ma furono presto sopraffatti. Domenico Signori, per non finire in mano nemica, ferito, preferì suicidarsi gettandosi in un dirupo.
Gli altri nove compagni furono portati prima a Idro, poi a Casto. Seviziati fino allo spasimo per ottenere informazioni sulle postazioni dei
loro compagni, non parlarono. Riportati a Cesane di Provaglio camminando a piedi nudi nella neve, vennero costretti a scavare una fossa
comune nella quale poi finirono i loro corpi dopo la fucilazione.
Ines
Ho scelto il nome di Bruna perché mi era morto un fratello che si chiamava Bruno. Sono diventata Bruna per tutti, anche per i miei.
Gina
Beh, con quel che succedeva, con quel che facevano i repubblichini
si diventava antifascisti per forza. Perché venivano su a fare i
rastrellamenti – e a me han bruciato anche una cascina. Va bè, non
sapevano che era nostra, però una cascina era quasi una casa.
Quando facevano i rastrellamenti han bruciato anche quella, indipendentemente che non lo sapevano neanche che fosse mia. E allora
per forza si diventava tutti antifascisti là nei paesini specialmente,
perché chi ha aiutato i partigiani sono stati quelli dei paesi: noi donne e uomini indipendentemente. Dopo se c’era qualche spia, beh pur163
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troppo c’erano; nei paesi anche nei paesi c’erano, ma se no hanno
aiutato tutti. Donne e uomini, li hanno aiutati tutti.
Maria Antonietta
Quando don Carlo32 mi ha chiamato a casa sua per dirmi se facevo
la staffetta, se facevo un lavoro, io credevo un lavoro manuale, per
guadagnare. E invece mi presenta questo signor Ragnoli33. Dice:
“Dovresti fare questo lavoro, andare a portare messaggi. E come
faresti, per esempio, a nascondere un messaggio?”. Io gli ho detto:
“Eh, scucirei un pezzettino del soprabito, infilerei il messaggio e poi
lo tornerei a cucire”. Allora lui mi dice: “È una cosa un po’…”,
insomma, non era tanto convinto, “però può andare”. L’inizio è stato
l’8 settembre del ’43, proprio il giorno dell’armistizio, che stavo
facendo i fiori alla Madonna lì all’altare e, siccome ero molto vicina
a don Carlo, lui è venuto giù – sono arrivate su dieci-dodici persone,
erano prigionieri, in casa, e non sapeva dove mandarli – è venuto giù
e mi ha detto: “Io avrei una commissione da farti fare, ma non bisogna parlare perché altrimenti ci uccidono: io e te e tutti i nostri…”.
E io ho detto: “Cosa c’è da fare?”. Avevo diciotto anni.
Severina
Una volta monsignor Fossati mi ha chiesto: “Perché fai questo?”. Ho
detto: “Perché forse, siccome sono una ragazza, una donna giovane
che dimostra due-tre anni meno della sua età, così non molto appariscente posso passare inosservata e arrivare dove non potrebbero gli
uomini, dove non potrebbero arrivare persone conosciute. E poi perché sono convinta che quel che faccio sia giusto. Però lo facevo sempre con grande apprensione.
32. Carlo Comensoli, parroco di Cividate Camuno, cappellano della divisione Fiamme Verdi “Tito Speri”.
Fu incarcerato dal 27 marzo 1945 alla Liberazione.
33. Romolo Ragnoli, comandante della divisine Fiamme Verdi “Tito Speri”.
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Rita
A raccontare la storia di Rita è la sua amica Rina.
Rita era nata nel 1922. Ancora adolescente aveva conosciuto il regime attraverso le umiliazioni della persecuzione antisemita. Subito
dopo l’8 settembre, messi in salvo i genitori a Portogruaro, aveva
deciso di entrare nella Resistenza, prendendo contatto con il colonnello Umberto Ricca, che era il rappresentante militare presso il CLN
di Verona; ai primi del ’44 Rita lo raggiunge in quella città stabilendo e mantenendo contatti con altri gruppi partigiani. Ma nel mese di
maggio, l’intero CLN cade nelle mani dei fascisti, il gruppo di Ricca,
sfuggito alla cattura, costituisce la formazione armata dell’Aquila:
Rita, unica donna, divide con i compagni disagi e pericoli. Il mattino
del 17 settembre 1944 la formazione, composta da una quindicina di
partigiani, fu circondata. Rita, calmissima, prese un moschetto e
rispose al fuoco degli attaccanti. A un partigiano che le chiese di
ripararsi, rispose: “Non dire sciocchezze”, e continuò a sparare. Il
comandante allorché si avvide che erano rimasti senza munizioni,
ordinò la ritirata. Alla sommità del pendio Rita, colpita alle spalle,
cadde. Non morì all’istante: un vile sottotenente repubblichino la
assassinò con un colpo di pistola alla testa. Questa la breve storia di
Rita. Riposa ora nel cimiero israelitico di Verona e alla sua memoria
fu conferita la medaglia d’oro al valor militare.
Prendersi cura
Sono le donne a prendersi cura dei malati, dei feriti, spesso
rischiando molto perché si trattava di partigiani e nel caso
fossero state scoperte avrebbero subito la stessa sorte.
Maria
Una volta mi hanno portato un ferito con un buco così nella schiena.
Era sabato mattina e mi hanno promesso che sarebbero tornati saba165
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to notte a riprenderselo. Sabato notte però non sono venuti. In camera, su, avevo questo ferito; giù di sotto, avevo i fascisti. Poi sono
rimasta bloccata perché è venuta la neve: quindici giorni e quindici
notti senza uscire da quella baita. L’ho curato, tanto è vero che quando ho chiamato il medico su per mia mamma – cioè la scusa era la
mamma – mi dice: “Guarda che non arriva alle sei, a stasera non
arriva quest’uomo”. Non l’ha neanche toccato. Io gli faccio: “Mi lasci
qui la borsa, a me”. E con la pinza, un po’ alla volta, l’ho curato. Aveva nella ferita il cinturone di cuoio, le mutande di lana perché faceva freddo. Delirava dalla febbre. E la sera, dopo, quando sono venuti, lui mi fa: “Non lasciarmi, vieni, vieni a stare con me”. Io pensavo:
lo porto su, poi ritorno. Invece non sono potuta tornare. Quindici giorni e quindici notti in un buco, si può dire, un buco. Sì, li facevo i pensieri, perché di giorno non uscivo mai, mai. Avevo paura. Poi c’era la
neve. Mi portavano dei medicinali, delle punture. Io alla fine l’ho guarito. L’ho guarito, sono riuscita a guarirlo!
Claudia
Con la fine dell’inverno del ’44 gli scontri fra partigiani e tedeschi
si facevano più frequenti, il che portò ad una nuova divisione ospedaliera: invece di chirurgia e medicina si ebbe medicina e chirurgia
per i tedeschi e i fascisti e medicina e chirurgia per partigiani e
civili. Intanto il numero delle infermiere era vistosamente calato. Si
lavorava fra sempre maggiori difficoltà pratiche anche per scarsità di materiale di medicazione e altro. Per esempio, dopo il 25 aprile si scoprì che in ortopedia il gesso mancava perché era stato usato dall’allora direttore dell’ospedale per la sua casa di Firenze. [La
mattina del 25 aprile 1945] Sono andata regolarmente in ospedale
dove ho trovato il caos: il direttore era sparito da almeno due giorni, alcuni soldati e ufficiali erano scappati. I meridionali convalescenti in medicina si preparavano a raggiungere con ogni mezzo le
loro case. In compenso, le ambulanze arrivavano a ritmo serrato e
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cariche di feriti negli ultimi scontri. Perciò il mio ricordo personale
di quel giorno insperatamente bello per la fine di cinque anni di
guerra rimase mescolato a quello di tante persone fisicamente sofferenti e di un’atmosfera di paura e di odio che si poteva quasi toccare.
La guerra è finita
La gioia per la fine della guerra e la riconquista della
libertà si unisce spesso al dolore per le persone care perse: un sentimento misto che emerge da molti racconti.
Maddalena
È finita la guerra, è finita la guerra: possono tornare in paese, possono scendere dai monti. E io sono partita, sono andata in cima a
quei monti per avvertirli. Ma lo sapevano già, perché le voci sono
corse alla svelta e tutti sapevano che la guerra era finita e potevano tornare giù. I partigiani sono scesi dalle montagne, i miei fratelli sono scesi tutti e sono andati a Vestone – e sono andata anch’io
a Vestone a vederli scappare tutti ‘sti poveri diavoli – rincrescevano anche loro a vederli scappare. I nostri erano contenti e loro erano malcontenti. E i nostri hanno fatto festa, chi andava in bicicletta, chi cantava. Abbiamo fatto certe feste qui in paese. Abbiamo
perfin fatto la polenta taragna tutti assieme e abbiamo cantato tutta notte. C’erano i partigiani, c’erano i nostri del paese e noi ragazze. Avevamo fatto i biscotti, avevamo fatto una gran bella cena e
siamo stati su tutta notte a cantare. Era bello vedere tutta la nostra
gente libera senza più preoccupazioni. C’era la preoccupazione delle cascine su in montagna che erano state bruciate, che i mandriani non potevano più accudire le mucche, ma poi piano piano le hanno rifatte, le hanno rifatte le cascine. Cantavamo tutte canzoni della montagna. Abbiamo cantato anche quella lì: “Nella dolce Valle
Sabbia/la banda azzurra s’è accampata/canta il ribelle innamora167
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to/e la canzone al vento va./O mia bella magacina34/che il ribelle
hai tanto amato/noi godrem la primavera/noi godrem la libertà”.
Non me la ricordo tutta. Dopo però cantavamo “Ma il ribelle ci ha
lasciato/e mai più ritornerà”. Alla fine abbiamo cantato così perché
non tutti sono tornati da Brescia. Dovevano camminare a piedi per
venirci a trovare. Io non mi sono mai innamorata di nessuno.
Rosa
Siamo rimasti qui perché aspettavamo papà. E sentiamo suonare la
torre. Abbiamo detto “È finita, è finita”. Non ce l’aspettavamo, non ce
l’aspettavamo così presto. La mia mamma è rimasta in casa, ma io
sono scesa, ho visto arrivare una macchina. Ci abbracciavamo tutti,
gente che non si conosceva. Ci abbracciavamo tutti. “È finita! È finita!”. Una cosa bellissima. A un certo punto vedo una macchina arrivare, scende uno che non conosco, mi abbraccia: “È finita! La guerra è finita!”. E poi arriva mio papà. Lo abbraccio forte: “Papà è finita!”. Continuavamo a dire “È finita!” perché era bello ripeterselo. Era
la fine di un incubo.
Diaregina
La fine della guerra. Siamo venuti al Colle col papà. Sé cridìa mìa che
l’éres finìda, perché tutti ci venivano incontro. I Garibaldini e le Fiamme verdi ci facevano festa, ma mé ga cridìe mìa perché vulìa mìa vardàrl. Dicevo: “Adesso mi mettono un’altra volta in prigione”. Quando
siamo venuti fuori dal carcere, da Canton Mombello, dalle finestre buttavano giù roba; tante delle mie compagne i è nàde, vero, a prender la
ròba che i botàa zò. Mè no, so gnìda dala me sorela che l’ira a Bressa,
a lavàm e cambiàm. In prigione avevo preso i pidocchi e vulìe mìa portài so, anche sé sèere ‘ma poarìna, perché non avevamo più niente35.
34. Ragazza.
35. Non si credeva che sarebbe finita […] ma io non ci credevo […] sono andate a prendere la roba che
buttavano giù. Io no, sono andata da mia sorella che era a Brescia a lavarmi e cambiarmi […] e non volevo portarli su, anche se ero una poveretta.
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Afra
Avevano portato in carcere ragazzini di sedici, diciassette anni
che erano nella Brigata Nera. Io andavo a portargli le patate, mi
facevano pena. I compagni partigiani urlavano, ma a me facevano pena. Erano ragazzini.
Maria
Sotto casa mia s’è fermato un camion e c’era su un tenentino tedesco che stava morendo. Mia madre ha fatto il caffè e glielo ha portato. Di fronte alla morte, di fronte al male non c’è odio che tenga, perché se si ha un ideale è giusto averlo, però non si deve infierire su un
morto o su un ferito. E mia madre mi ricordo che era andata a portarci il caffè. E tanti che fino al giorno prima erano stati con i fascisti e
con i tedeschi han detto: “Ah sèt nàda a portàga èl cafè. Ma làssa
ch’èl crèepe!”36. Ma è un essere umano. Quando è indifeso è sempre
un essere umano. Quando uno si sa difendere, s’arrangia, ma quando uno non si sa difendere, se si può fare qualcosa si deve fare.
Elsa
I tedeschi erano in ritirata. Al crocicchio dei Tormini c’erano di loro
con una mitragliatrice. Dei disperati. Bisognava che qualcuno
andasse a dirgli che se lasciavano quella postazione e se ne andavano nessuno gli avrebbe fatto niente. Allora mi feci avanti io e dissi
che sarei andata io, che se fosse andato un uomo c’era pericolo che
la cosa finisse male. Così ci sono andata. Mi hanno tenuto ore a
interrogarmi. Botte non mancavano. Poi mi hanno fatto salire su un
loro camion e io ero seduta a fianco a un signore anziano, bianco di
capelli. Io comincio a dire che non ho più il papà, che sono sola, che
mi hanno obbligata. Lui mi fa capire che ha una figlia più o meno
della mia età. Insomma, non so se è stato che l’ho impietosito oppu36. Ah, sei andata a portargli il caffè? Ma lascia che crepi.
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re veramente era un papà sofferente e stufo anche lui della guerra,
quando il penultimo camion ha fatto la curva – che lui praticamente
non l’ha visto più – mi ha aperto la portiera e mi ha detto: “Raus
Komm!”. Sò partìda… sò arrìada a Roè en dèn balèno37. Ho avuto
una figlia che ha fatto atletica leggera. Ha preso sicuramente da me!
UNA STORIA DI UOMINI E DONNE
È passato tanto tempo. Anche Salò, che aveva raccolto
l’uovo del serpente di una improbabile Repubblica neofascista, sbiadisce nel ricordo di un tempo feroce. Più generazioni si sono succedute, con le ultime che passano
inconsapevolmente per i luoghi che ospitarono i vari ministeri di un regime agonizzante, e per questo ancor più
feroce. Passano per via Signori, a Tormini, frazione di Roè
Volciano, senza sapere chi mai fosse quel signore. Così
come per via Boschi a Barghem senza conoscere la storia
di “Ferro”, nome di battaglia di Ippolito Boschi. Nomi che
s’intrecciano, tessendo anche storie di donne. Per questo
val la pena narrarla senza distinzione di sesso, perché
appartengono a quella Resistenza che in queste zone si
ritrovò a combattere con un doppio nemico: il vicino di
casa e “il barbaro”. Quel 20 marzo di una mattina che più
che alla prossima primavera apparteneva a un inverno
troppo lungo, Maria non sapeva che stava per entrare a
far parte di diritto di quella Storia che sarebbe stata così
dolorosamente spiegata da Elsa Morante pochi anni dopo.
Partita da Sabbio Chiese, pedalata dopo pedalata era arrivata fino a Tormini, dove s’era fermata a riprendere fiato
37. Sono partita e sono arrivata a Roè in un baleno.
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prima di lanciarsi lungo la discesa che l’avrebbe portata a
Salò dove, in casa dell’amico Angio, il partigiano Diego,
l’aspettava suo fratello Ippolito. Maria spiegò che dopo la
tragedia di Provaglio s’era rifugiata a Vobarno. Poi ricordò quell’episodio che le scarnificava la mente.
Si trovava a casa, quando aveva sentito un trambusto
crescente ed era uscita per vedere cosa stesse accadendo. «Hanno preso i ribelli, hanno preso i banditi!». Una
processione di uomini procedeva lentamente fra la gente
incuriosita. Uomini, ragazzi con gli occhi smarriti, i vestiti laceri, i volti tumefatti erano spintonati da un gruppo
di guardie repubblichine. Fra essi, Maria aveva riconosciuto Alfredo Poli, un ragazzo di Barghe amico di suo
fratello, che aveva accennato a un saluto. Nel centro della piazza, i fascisti ordinarono vino per loro e acqua e
aceto per i banditi. Poi arrivò un camion che raccolse tutti, prendendo la direzione di Vestone. Cominciarono presto a circolare notizie su quella cattura: uno dei partigiani era morto durante il combattimento e il suo corpo era
stato trasportato nel cimitero di Provaglio, presso la frazione Livrio. Maria corse subito a casa per raccontare
quei fatti poi partì per Provaglio con l’amica Bianca: voleva assicurarsi che suo fratello non fosse coinvolto in
quella faccenda. Raggiunsero quindi il cimitero di Livrio
dove la pietà popolare aveva composto la salma del partigiano che pur di non cadere nelle mani dei fascisti s’era
gettato da una rupe. Il foro di un proiettile alla tempia
dimostrava il colpo che gli era stato successivamente
sparato. Davanti a quello strazio, le donne di Livrio raccontarono a Maria e alla sua amica quello che era successo. I partigiani erano arrivati a Provaglio il 28 febbraio
provenienti dalle montagne sopra Gavardo, monte
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Magno e monte Gnere; giovani della zona di Gavardo, Villanuova, Prandaglio, ma anche di altri paesi: tutti appartenenti alla 7ª Brigata Matteotti. Avevano preso a spostarsi con una certa frequenza per evitare i sempre più
assidui rastrellamenti della GNR. Si erano quindi spostati nella frazione Arveaco di Provaglio, un gruppo di case
sotto il monte Besume, dove trovarono rifugio in un fienile in una buona posizione logistica, anche per un’eventuale fuga improvvisa. Tre giorni dopo, però, Alfredo
Poli, staffetta delle Fiamme Verdi, li avvisò dell’imminenza di un rastrellamento della GNR. Mentre si analizzava
la situazione per identificare un’altra postazione, si
intensificarono le precauzioni, raddoppiando le guardie.
La notte trascorse tranquilla e verso le 5 una sentinella
scese verso Arveaco per prendere un po’ di latte, ma fu
intercettato dai fascisti, che prima che riuscisse a nascondersi dietro una siepe, riuscirono a ferirlo a una gamba.
Poi, portandoselo dietro come prigioniero, si indirizzarono sicuri verso il rifugio dei partigiani, come se sapessero
perfettamente dove si nascondevano. I colpi sparati contro la sentinella avevano intanto allertato il gruppo, e una
sentinella avvertì che la strada che portava a Treviso bresciano era sgombra: avrebbero potuto fuggire da lì, ma
non fecero in tempo, perché i fascisti erano già lì. Iniziò
così un conflitto a fuoco che terminò con l’esaurimento
delle munizioni da parte dei partigiani, che furono quindi
sopraffatti. Legati con le mani dietro la schiena, tranne
due cui fu ordinato di trasportare la barella del compagno
ferito, scesero a Barghe, fino alla fermata davanti all’albergo Braga. Il resto, Maria lo sapeva. Con l’amica Bianca
tornò quindi a casa, dove con la famiglia concordò che
avrebbe portato dei generi di conforto a quei poveretti. La
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mattina del 5 marzo, prima di partire per questa missione, Maria andò come al solito a recuperare il latte per sua
madre, ma sulla strada incrociò un ragazzo che pareva
disperato e che continuava a ripetere ossessivamente la
stessa frase: «Li hanno ammazzati tutti, li hanno ammazzati tutti!». «Dove?», chiese Maria. «A Cesane, nel campo
della Gilda, li hanno massacrati stanotte». Maria inforcò
subito la bicicletta e corse a perdifiato verso Provaglio.
Arrivò stremata e guardandosi attorno si accorse del sangue che lordava il terreno. Seppe così che l’eccidio era
avvenuto verso le tre di notte. Nel silenzio più irreale
s’erano uditi i suoni di quella carneficina. Voci agitate,
urla e ordini secchi avevano soverchiato i lamenti e le
richieste di grazia. Poi crepitii, raffiche, colpi singoli.
Quando tutto fu finito, passò ancora del tempo prima che
timidamente dalle case uscisse qualcuno. Davanti ai loro
occhi stavano nove corpi straziati e alcuni in posizioni
innaturali. Sangue ovunque. Tutti presentavano il colpo di
grazia esploso a distanza ravvicinata, come dimostravano
le bruciature sulle tempie. Quei poveri resti furono raccolti, lavati, composti e quindi trasportati nella chiesa
parrocchiale, l’antica pieve di Cedessano. Un lavoro svolto dalle donne e qualche anziano, perché gli uomini e i
giovani del paese erano soldati o alla macchia. Nella chiesa il parroco ordinò che i corpi fossero tutti deposti in una
stanza angusta. Troppo piccola per tutti. Fu in quel luogo
indecoroso che Maria li vide. Quando arrivò, si stava celebrando la messa, entrò e vi partecipò, poi seguì il parroco
in sagrestia, dove gli chiese di poter vedere i morti. Quello non le rispose nemmeno, limitandosi a un cenno scocciato con la testa, come a indicare di andare dove si trovavano. I cadaveri erano disposti in senso trasversale
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l’uno rispetto all’altro, ammassati. Maria riconobbe Alfredo Poli e cominciò da lui. Con un fazzoletto li pulì tutti,
servendosi di una bacinella d’acqua, che cambiò infinite
volte. Quando finì, lavò per l’ultima volta il fazzoletto e lo
ripose in tasca come una reliquia. Quel che poi è in effetti diventato. Maria tornò sconvolta a casa, dove la raggiunsero due sue amiche, Elsa e Maresi: insieme decisero
che l’indomani avrebbero portato dei teli per comporre le
salme, ma quando arrivarono, scoprirono che quei poveri
resti erano già stati buttati nella fossa comune da loro
stessi scavata.
Un ricordo che non ammetteva altri argomenti, altre
parole. Ippolito e Angio si guardarono e senza aprire bocca concordarono per “dopo”. L’indomani, Angio, il partigiano Diego, si avvicinò a Maria e le chiese se se la sentiva di svolgere un compito: un compagno, Renato, era stato catturato ferito dopo un conflitto a fuoco e trasportato
all’ospedale di Salò, dov’era piantonato in attesa di essere
fucilato: l’esecuzione era prevista per il 23. Tre giorni
dopo. Lei doveva avvicinare il primario della chirurgia e
chiedergli di dichiararlo ancora intrasportabile, in modo
che loro potessero organizzare la sua liberazione. Maria
fece come le era stato detto, aggiungendoci del suo.
Quando il chirurgo aveva mostrato contrarietà per quel
falso che gli si chiedeva, Maria lo convinse con poche
parole: «Fossi in lei, dottore, farei così. Ne va della sua
pelle». Renato rimase così nel suo letto, piantonato da
due sgherri della GNR. Messa a punto l’azione, Ippolito
(nome di battaglia “Ferro”), Angio e altri due compagni
raggiunsero l’ospedale di Salò, dove Ferro, con un camice
sotto il quale nascondeva un mitra, raggiunse la stanza
del prigioniero. Fu un attimo. La guardia intercettò l’arma
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sotto il camice e sparò; Ferro rispose al fuoco, uccidendo
il fascista. Ma anche Ferro era stato colpito mortalmente.
I compagni riuscirono a trasportare sia lui sia Renato a
casa di Angio. Nella sparatoria era rimasto seriamente
ferito anche Dino. Ferro morì poco dopo. I suoi funerali si
svolsero a Salò solo l’8 maggio, dopo la Liberazione. Maria
aveva saputo della sua morte solo pochi giorni prima: le
era stato sempre detto che suo fratello aveva dovuto
nascondersi dopo l’azione all’ospedale.
L’ALTRA GUERRA
RICORDI DI DONNE DEL SUD
Maria, che nel 1945 aveva 17 anni e viveva a Palermo
Durante la guerra mangiavo farina di fave, con cui si faceva anche
la pasta, pane nero fatto con farina di segale. Quello che si mangiava si procurava al mercato nero. I luoghi di ritrovo erano i sotterranei,
le grotte di Monte Pellegrino, tuttora esistenti, chiamate le grotte dei
condannati. Mussolini, quando dichiarò guerra, fece costruire a
Palermo dei ricoveri fatti di cemento. Quando c’erano i bombardamenti passavamo giornate intere e notti intere nei ricoveri. Fortunatamente a Palermo non ci furono gravi conseguenze della guerra.
Quando arrivarono gli americani (e l’Italia decise di allearsi con loro),
decisero di bombardare Palermo tutti i lunedì alle 9 di mattina, con
lo scopo di distruggere tutto il materiale tedesco. Gli americani avvisavano la popolazione sulla loro intenzione di bombardare, lanciando
dagli aerei dei volantini.
Io non ho sentito parlare di episodi di maltrattamenti nei confronti delle donne, perché spesso erano le madri, che mandavano le figlie dagli
americani, per bisogno e in cambio ricevevano soldi e soprattutto cibo.
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BANDITE!
Rosina Franco, che nel 1945 aveva 16 anni
e viveva a Placanica (Rc)
Della guerra ricordo il rumore assordante degli aerei nemici, la vita
quotidiana trascorreva comunque nella normalità, anche se con
qualche tensione e molta stanchezza, perché la notte era disturbata
dal passaggio di questi velivoli, che sovrastavano i tetti delle nostre
case. Per quanto riguarda il mangiare, avevamo ciò che si poteva
cuocere in casa come il pane e la pasta, e il rimanente, come tutti, lo
si aveva mediante una tessera. Il luogo di ritrovo, invece, era l’istituto delle suore, dove si festeggiavano il Natale e la Pasqua e dove ci
riparavamo durante i bombardamenti.
Quando eravamo nel rifugio, le notizie ci arrivavano dalla radio e alle
volte riuscivamo ad avere il giornale. Degli stranieri ho due ricordi molto diversi: dei tedeschi ricordo il funerale di uno di loro, il feretro era
seguito da molti soldati e alla fine della cerimonia, uno dei generali ha
preso dieci persone a caso, tra la gente che era presente, e li ha giustiziati davanti a tutti. Gli americani, invece, li aspettavamo con molta paura, perché tutto sommato erano degli stranieri; mia madre, infatti, aveva pensato di nascondermi in una stanza dove tenevamo la
legna e far murare la porta; poi un giorno, mentre eravamo in campagna, abbiamo sentito il suono delle campane della Chiesa che annunciavano la pace. Nel mio paese non ho mai sentito parlare di episodi di
maltrattamenti nei confronti delle donne, ma ricordo di aver assistito
ad un episodio nel quale alcune donne hanno perso un braccio mentre
salivano e scendevano in continuazione da un treno in movimento,
dove vendevano sigarette di contrabbando. Uno degli ultimi ricordi che
ho di quella spaventosa guerra risale all’inverno del 1943, quando mia
madre ha ospitato una famiglia di ebrei che era arrivata dalle montagne in cerca di un riparo; sono stata io a trovarli, erano entrati nel portone posteriore e quando mi hanno visto sono scoppiati in lacrime e mi
hanno pregato di portarli con me su in casa, dove mia madre li ha
nascosti e curati fino alla fine della guerra.
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Giuseppina Ricci, che nel 1945 aveva 19 anni
e viveva a Cuffiano (Bn)
La mia giornata iniziava alle 7 di mattina per andare a lavorare nei
campi di mio padre. Alle 2 e mezza smettevo di lavorare per mangiare, e quello che mangiavo erano semplici legumi ricavati dal lavoro
giornaliero. La giornata finiva alle 9 di sera, quando faceva buio, per
andare a mangiare, e anche questa volta erano verdure e legumi e se
andava bene anche un po’ di buon pane fatto in casa con la farina di
grano. Quando veniva la notte eravamo costretti a barricarci in casa
con le finestre chiuse e le luci spente, perché se passavano gli aeroplani tedeschi ci potevano bombardare. Il rifugio era soltanto la casa,
perché a Benevento c’era poca guerra e infatti la notte bastava spegnere le luci e chiudere le finestre. A Cuffiano specialmente c’era
anche la corrente elettrica, e quindi si poteva ascoltare la radio che
però alle volte per non far spaventare gli ascoltatori non diceva la verità, modificando le notizie, e quindi io e le mie sorelle la chiamavamo
“la bugiarda”. Quando, e se facevamo festa, la facevamo per Natale,
Pasqua, e Capodanno, ritrovandosi o tutti a casa nostra, o tutti a casa
dei parenti più stretti e vicini a casa, perché a quei tempi non si poteva andare tanto in giro. Siccome mio papà aveva un’attività di sali e
tabacchi, quando passavano i soldati tedeschi gli regalava le sigarette, e fu per questo motivo che un giorno dopo esserci nascoste in soffitta non ci fecero niente. Degli americani non mi ricordo niente, li vidi
solo una volta da lontano che passavano a piedi lungo il campo. Di
maltrattamenti nei confronti delle donne non ne ho visti nessuno, perché stavamo in campagna e non succedeva mai niente. Nel mio paese nessuno ha dato aiuto a qualche persona in difficoltà, perché come
ho già detto di guerra ce n’era poca, ma siccome erano tutti uniti
quando qualcuno aveva bisogno ci aiutavamo a vicenda.
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BANDITE!
Geraldina Robertazzi, che nel 1945 aveva 17 anni
e viveva a Salerno
Quando è scoppiata la Seconda Guerra Mondiale avevo più o meno 14
anni; a quell’età come adesso penso che la guerra sia la cosa più brutta che esista al mondo; infatti mi ricordo che avevo moltissima paura
per me e per la mia famiglia perché sia di giorno che di notte non facevamo altro che scappare. Mentre scappavamo ho conosciuto una
ragazza figlia di un dottore, di nome Bianca, che diventò pazza perché
subì violenze dai tedeschi. Poi a metà della guerra i bombardamenti
aumentarono e io e la mia famiglia fummo costretti a nasconderci nelle trincee che avevano costruito mio fratello maggiore e mio padre. In
questi posti noi stavamo sempre zitti per paura che i tedeschi ci sentissero, infatti non ci hanno mai cacciato “di casa” per nostra fortuna.
Di solito mangiavamo pane e formaggio e quando non potevamo uscire pane ammuffito. Alcune persone di domenica andavano a Messa, io
poche volte. I luoghi di ritrovo erano la Casa del Fascio e la Chiesa. I
bombardamenti erano molto frequenti di notte. La guerra nel mio paese iniziò un pomeriggio con dei bombardamenti terribili.
Rina Mattesini, che nel 1945 aveva 8 anni
Un giorno avevo la febbre a 39 e in casa nostra arrivarono i tedeschi
che ci mandarono via. A volte i tedeschi venivano in casa nostra e ci
prendevano tutto. Alcune persone si nascondevano nel letame. Un
giorno mio padre stava rischiando di essere ucciso perché teneva due
prigionieri americani. Un giorno vidi due mie amiche e il loro padre
attraversare la frontiera e una bomba li prese in pieno e chiaramente morirono. Stavamo in casa ma appena suonava l’allarme correvamo al riparo. Si mangiava soprattutto pane. Un giorno accadde che
della benzina era caduta nella farina. Dalla fame mangiammo anche
il pane con la benzina. Le notizie relative alla guerra le ho sapute grazie a mio fratello perché aveva acquistato una radio illegale chiamata galena. Era pericoloso stare molto ad ascoltarla perché sarebbero
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potuti essere rintracciati e se poi ti sorprendevano i tedeschi come
facevi? Della guerra mi ricordo tante cose, per esempio ho vestito,
lavato e portato in una cappella nove persone morte, e alcuni di questi non avevano neanche la testa. Ci rifugiavamo nei campi, nelle
fogne, insomma dappertutto perché sentivamo fucilare e questi spari provenivano dagli scontri dei Partigiani contro i tedeschi. I tedeschi
si ribellarono e diedero fuoco alle case e uccisero i Partigiani; nove ne
uccisero il 20 di giugno e il 29 giugno ne uccisero altri dieci. Le giornate le trascorrevamo a rifugiarci, avendo solo un pezzo di pane, un
etto e mezzo, e una volta i tedeschi me lo presero tutto e mi presero
anche la frutta e la polenta. Il mangiare me lo procuravo male perché
non potevo uscire di casa che c’erano i tedeschi che sparavano e molte volte pativo anche la fame. Durante la guerra non facevo mai
festa, ma prima di essa facevamo feste, andavamo alla processione,
in chiesa, ma non grandi cose perché c’era un po’ di miseria. Ci ritrovavamo a casa mia, a casa delle mie amiche, della mia nonna, ad un
circolo dove si ballava e si facevano le feste. Durante i bombardamenti ci rifugiavamo dentro delle grotte, correvamo e camminavamo
molto per trovare un nascondiglio sicuro, ci nascondevamo nei campi di granoturco, nelle cantine, nei fondi, insomma in un posto più
vicino a noi perché se i tedeschi ci trovavano ci uccidevano. I tedeschi si erano appartati perfino nel cimitero e noi li incontrammo perché c’era il trasporto dei 19 morti, 17 tedeschi e 2 italiani, che erano
stati messi tutti in un’unica bara trascinati da un carro da buoi. Le
notizie non le avevamo da nessuno perché la posta non funzionava e
ci portava qualche lettera il console americano o tedesco. Dei tedeschi non mi ricordo cose particolari, erano gente come noi, non avevano niente da mangiare e mi chiedevano la polenta, il pane e la frutta; degli americani non mi ricordo niente perché non sapevo distinguere la lingua americana da quella tedesca, per me parlavano tutti
nello stesso modo. Dei Partigiani non mi ricordo niente di particolare
e poi li conoscevo perché erano del mio paese.
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BANDITE!
Ho sentito parlare di maltrattamenti nei confronti delle donne. Per
esempio chi non obbediva ai tedeschi veniva fucilato sul posto come
una donna mi cadde ai piedi con un neonato in braccio oppure le rinchiudevano in una chiesa e dopo non le rivedevamo più. Ho aiutato e
dato ospitalità ai tedeschi perché mi dispiaceva, erano gente come
noi, anche se dopo mi cacciarono di casa, guardavano tutte le mie
cose, guardavano nei miei cassetti, buttavano tutte le cose che trovavano in terra, guardarono perfino nel mio corredo di nozze ma non
riuscii a capire che cosa cercassero o volessero e potei ritornare a
casa solo quando i tedeschi se ne andarono.
P.D. che nel 1945 aveva 18 anni e viveva in Sicilia
Quando è scoppiata la guerra io avevo circa 17 anni e su di essa mi
ricordo moltissime cose: i bombardamenti, che venivano effettuati
nei paesi vicini, i rifugi che noi dovevamo costruire per ripararci dalle bombe che venivano precedute dalle sirene, mano a mano che il
fronte si ritirava ed i tedeschi che venivano a dormire nelle nostre
abitazioni, così noi dovevamo andare in altre case, mentre i nostri
genitori restavano nel frantoio per vigilare durante la notte. Della
guerra in particolare mi ricordo un giorno, quando i tedeschi minacciarono di ucciderci se non trovavamo 100 chili di pane in due ore per
mandare al fronte. Le giornate le passavo pelando patate, facendo
pane al forno e cercando altri alimenti da mandare al fronte che ogni
giorno esigeva cibo in abbondanza, tutto questo perché nel paese
avevamo le cucine. Durante la guerra non sono mai stata sfollata,
andavo a dormire la sera in altre famiglie e si rientrava la mattina
per fare i servizi ai tedeschi. Di solito si mangiava tutte le cose che
avanzavano ai tedeschi perché le prime cose le prendevano loro:
uova, carne, farina, ecc. Noi si mangiava poco anche per la paura e
il panico, perché ogni giorno si temeva di essere uccisi per una ragione qualsiasi, comunque il nostro sostentamento veniva dai nostri
campi. Non facevamo mai feste, soltanto nei giorni più tranquilli ci si
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riuniva con altre famiglie e insieme si parlava e pregava. I nostri luoghi di ritrovo erano sempre gli stessi: la chiesa e la piazza; lì giocavamo, scherzavamo e si raccontavano barzellette. Quando c’erano i
bombardamenti mi rifugiavo dove capitava, per esempio se eravamo
nei campi correvamo nei fognoni. In quel periodo le notizie ci giungevano tramite i pochi che tornavano al paese con il giornale, dato che
i partigiani avevano tagliato i fili della corrente e quindi non potevamo ascoltare la radio. Degli americani ricordo che quando arrivarono
fu festa grande perché era come uscire da un incubo. Dei Partigiani
ricordo poco, perché non vivevamo vicini a loro, sentivamo dire che
scendevano dalla montagna, tagliavano i fili della corrente e risalivano nei loro rifugi; non ne ho mai conosciuto nessuno. Non ho mai
avuto occasione di aiutare persone in difficoltà, a volte davamo a
persone più povere di noi alcune cose per mangiare come farina, uova
ed anche il cioccolato che ci veniva regalato dai soldati tedeschi che
stavano nella nostra casa. Non abbiamo mai ospitato nessuno anche
perché la nostra casa era occupata dai tedeschi.
Testimonianza anonima di una siciliana
Mi ricordo che durante la guerra nel cielo luccicavano le bombe e io
e i miei familiari ci rifugiavamo nei rifugi mentre passavano i tedeschi. Un giorno non potendo rifugiarmi perché avevo una gamba
malata, successe una cosa che a me sembrò particolare, infatti i
tedeschi entrarono in casa mia, ma contrariamente a quello che pensavo, non mi fecero nulla limitandosi a farmi dei gesti parlando in
tedesco. Durante la guerra le nostre giornate erano molto movimentate e imprevedibili, infatti succedeva che dovevamo nasconderci più
di una volta nei rifugi perché passavano i tedeschi nelle loro perlustrazioni. I nostri pasti erano consumati molto velocemente e nei
momenti più tranquilli andavamo a rifornirci degli alimenti nei rifugi. Per quello che mi riguarda non avevo mai dei momenti di festa. I
nostri luoghi di lavoro erano principalmente i campi dove raccoglie181
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BANDITE!
vamo i prodotti che riuscivamo a coltivare. Quando iniziavano i bombardamenti lasciavamo i luoghi di lavoro o le case scappando verso
il bosco dove c’erano i rifugi. Le poche notizie che ci arrivavano venivano principalmente dai vicini. Dei tedeschi ricordo che facevano razzia dei nostri animali e disturbavano le giovani donne, quindi avevamo ancora più rabbia nei loro confronti, mentre gli americani erano
accettati dalla comunità perché erano i nostri salvatori. I partigiani
si nascondevano nei boschi cercando di eliminare i tedeschi, ma tuttavia, spesso, venivano catturati e impiccati. Nei confronti delle donne i nemici erano quasi sempre molto duri infatti, queste venivano
violentate o maltrattate, mentre nei confronti degli uomini adottavano dei sistemi ancora più duri; venivano obbligati a scavare delle fosse nelle quali poi sarebbero stati gettati loro stessi. Per fortuna, a me
personalmente, non sono mai capitati episodi di maltrattamenti fisici, ma solo verbali. Mi ricordo che in casa mia, abbiamo ospitato una
persona che era inseguita dai tedeschi. Gli abbiamo dato dei vestiti
puliti e da mangiare. Un’altra volta ospitammo due uomini arrivati a
cavallo i quali ci raccontarono di essere fuggiti dai tedeschi perché
questi li avevano catturati e poi costretti a combattere a loro fianco.
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SEBBEN CHE SIAMO DONNE
Sebben che siamo donne/paura non abbiamo/abbiam
delle belle buone lingue/e ben ci difendiamo... cantavano le mondine nelle risaie ai primi del Novecento, esercitando il diritto del canto libero/liberatorio. Almeno
quello: “libero” perché non-dipendente, “liberatorio”
perché alienante la condizione di sudditanza. Sudditanza
dal maschio (padre, marito: prima; padrone: poi).
Quasi una canzone-manifesto ripresa nei decenni successivi da donne impegnate su fronti diversi.
Quasi una colonna sonora per accompagnare la lunga
marcia del riscatto femminile/femminista in una società
maschile/maschilista che ha sempre avuto nella diversità cromosomica il sinonimo del fare, del comando, del
potere: col beneplacito delle stesse donne (mamme: prima; mogli: poi) blindate in una condizione storicamente
loro assegnata – e da loro assunta come “naturale”.
“Naturale” come un “diritto naturale”. “Naturale” come
un “dovere naturale”. Per questo – nella lunga marcia – è
stato (è) necessario il camuffamento della propria essenza. Fino alla sua alienazione. In questa lunga marcia, le
donne hanno dovuto spesso assumere ruoli “maschi”
(controvoglia perché implicante l’abiura della femminilità) per bisogno: nelle fabbriche come nelle campagne.
Ma anche nello scontro duro, quello in armi. Ed è il bisogno a fare di Maddalena de Santis una brigantessa. Il
bisogno a fare di Clementina Rovati una partigiana. Il
bisogno a fare di Margherita Cagol una brigatista. Bisogni che possiamo quasi esteticamente catalogare esternamente nelle loro diversità, ma che nelle loro intimità
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BANDITE!
rispondono a precise (e storicamente peculiari) esigenze.
Il bisogno delle brigantesse matura dalla rottura dell’equilibrio familiare: è dal dramma di madri senza più
figli, di spose senza più mariti, di figlie senza più genitori
che quelle donne del Sud imbracciano lo schioppo. Che
muovono parimenti il mestolo e il fucile. Donne tutte
meridionali, ovviamente, come tutto meridionale fu il
fenomeno iniziato all’indomani dell’unificazione del
Regno d’Italia e del conseguente esilio di Franceschiello: re Francesco II di Borbone. Donne disperate perché ai
loro padri, mariti, morosi, fratelli hanno fatto indossare
una divisa sconosciuta, strappandoli dalle campagne,
cioè dalla produzione: dal “fare” il pane. Donne senza più
futuro che finiscono così – quasi incoscientemente, nel
senso di senza-averne-coscienza – col ribaltare il loro
ruolo sclerotizzato in una rassegnata sudditanza, portandolo verso la palingenesi di un riscatto sociale di cui –
quasi sempre incoscientemente – sente il bisogno ancor
prima che quello economico. È così che nasce la brigantessa. Non la donna del brigante, la druda del brigante
(neologismo ottocentesco coniato sulla parola francese
brigant = delinquente), ma brigantessa essa stessa.
Capobanda capace di organizzare, comandare, uccidere.
Un ruolo quindi “maschile”, seppur primitivamente generato sempre da un bisogno: quello di vendicare l’arresto
o l’uccisione del proprio uomo. O quello di prenderne le
veci perché percepite dagli altri briganti come “naturale”
continuità nel comando. Brigantesse che assumono quindi la leadership di bande armate già esistenti e formate
dal proprio uomo (che non c’è più), e che dimostrano
vieppiù di muoversi con la stessa disinvoltura, la medesima tecnica, superando in alcuni casi il maschio in ferocia.
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Donne diverse, le cui esistenze/vicende percepiamo tuttora come eccentriche, perché la nostra resta una società centralizzata attorno a un assetto – se non maschilista,
maschile. E che alla donna assegna altri ruoli: più “rosei”
rispetto alla brutalità di un moschetto. Alcuni hanno
sostenuto che una donna è ancora più determinata quando sceglie di dare la morte, perché rinnega la sua natura:
quella di darla la vita, non di toglierla. Può essere vero:
delle tante storie nelle quali mi sono imbattuto, posso
solo dire che non ho trovato sostanziali differenze fra
percorsi maschili e femminili, se non in quelle che marcherebbero diversità anche in altri ambiti. Certo, rimane
il fatto che una donna che spara, che uccide, impressiona di più, ma solo perché non siamo culturalmente
attrezzati per accettare l’idea che una donna possa, nel
bene e nel male, fare tutto ciò che, nel bene e nel male,
fa un uomo. Anche andare in montagna quindi e, fra
stenti, freddo, fame, pidocchi, imbracciare un fucile e
sparare. Come fecero le donne che salirono sui monti del
Nord per combattere i nazifascisti della Repubblica di
Salò: non solo staffette, cioè latrici di messaggi (seppure
in molte hanno perso la vita per questo servizio postale
clandestino), ma vere e proprie soldatesse, con tanto di
fucile in spalla. Donne mosse dal bisogno di ricomporre
realtà sconvolte da una violenza che stava ammazzando
la storia. E allora, così come erano passate dai campi alle
fabbriche, erano parimenti passate dal focolare (domestico) ai focolai (della guerriglia).
Prevalentemente al Nord – se si esclude l’eccentricità
romana e quella ancor più particolare delle nappiste
napoletane – si sviluppa il fenomeno del terrorismo di
stampo femminile nei tragici anni di piombo sulla base di
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BANDITE!
altri bisogni: primo fra tutti, quello (seppur delirante
nella sua escatologica ricerca della città del sole), del
comunismo. Anche in questo caso, i ruoli maschili sono
assunti dalla donna per vestire un abito inedito nella sua
storia: più che un abito, una divisa per combattere una
battaglia in cui i ruoli sono mescolati in una finalmente
avvenuta parificazione dei sessi.
Brigantesse, partigiane, terroriste: una rasoiata a quel
ruolo che storicamente aveva blindato le donne in una
domesticità rassicurante, perché rispondente ad altri
bisogni. Rassicuranti erano perfino le botte (“naturali”)
inflitte prima dai padri e dai fratelli, poi dai mariti. (In una
puntata di Mario Soldati nel suo strepitoso “Viaggio in Italia” della fine degli anni Sessanta, alla richiesta di Soldati
su come immagina il suo futuro, la sventurata risponde:
«Voglio sposarmi, avere figli, e un marito che quando me
lo merito mi dà due schiaffi»). Rassicuranti erano state
tutte le società preindustrali che contemplavano come
“naturale” lo stupro. Stupri consumati in regge e fienili,
sotto baldacchini dorati e sopra pagliericci impidocchiati.
Stupri “contenuti” in luoghi perimetrati a livello sociale ed
economico. E tutti sapevano, ma nessuno diceva. Perché
nulla c’era da dire; perché la “normalità” non fa chiacchiera. Una violenza che tuttavia non prevedeva la morte.
L’annientamento dell’oggetto dello stupro (il corpo della
donna) debutta nel momento in cui il perimetro s’estende. Un’estensione che coincide con lo sviluppo della
società industriale, quando gli uomini e le donne si spostano in massa (e non si conoscono) dalla campagna alla
città. Per questo, lo stupro “diventa” qualcosa di nuovo,
assumendo le forme di un meticciato stupro/violenza inedito fino a quel momento. Alla violenza dello stupro si
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aggiunge la violenza di una persona che può arrivare a
uccidere un’altra persona, perché non la conosce: non è
né sua moglie, né sua figlia, né sua nipote (né suo nipote
o suo figlio). Il mondo contadino ha sempre contemplato
all’interno del suo sistema parentale/paraparentale/amicale/ “la normalità dello stupro”. Laddove per normalità
s’intende il rapporto perverso ma consueto e accettato
dalla comunità fra chi esercita un potere sessuale (il
padre, il fratello, il padrone) e chi quel potere lo subisce.
In “Novecento” di Bertolucci, c’è una scena emblematica
in questo senso: il vecchio patriarca ottuagenario si fa
masturbare nella stalla da una giovanissima contadina. È
“normale”. Nello stesso film, Attila, il nefando fascista,
uccide un ragazzino dopo averlo stuprato.
Per secoli, anzi, per millenni la Storia s’è scritta con le storie di uomini che «hanno fatto», e quelle di donne che
quei fatti li «hanno subiti». Al massimo condivisi. Fino –
come detto – alla rivoluzione industriale, quando lo stupro è uscito dalle campagne e s’è vestito di nuova violenza, generando però il seme (potenza) della ribellione, che
s’è insinuato nella/e donna/e facendo germogliare la pianta (atto) della categoria. Ed è fiorito un nuovo assoluto.
È nato così il bisogno del femminismo. L’unico nuovo
eccentrico della Storia, per il dispiacere di Walter Benjamin («Quando si è davanti a un avvenimento che si considera nuovo, l’unico modo per capirlo è trovare un suo
analogo precedente»), così tornato recentemente di
moda suo malgrado. Un nuovo che, dopo i primi, timidi
passi neonati, s’è dovuto confrontare coi giganti – le
ideologie – d’un secolo tanto breve quanto – comunque e
più che mai – bisognoso del fare maschile. Più che mai
perché l’azzeramento della civiltà contadina ha giusti187
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BANDITE!
ziato la figura matriarcale, solida architrave di una società che proprio sulla femminilità della famiglia fondava
le basi di un’esistenza secolarmente collaudata, tramandata e impermeabile a ogni genere di mutamento. È con
questo nuovo che la Storia muore. Con la donna che,
costretta da una nuova società ad uscire dal “dentro”
conosciuto e rassicurante, non trova però “fuori” un ruolo, perché già occupato dall’uomo. Un uomo che proprio
grazie alla sua posizione di superiorità che gli deriva prima dalla forza (privata), poi dalla ragione (società),
potrà usare su di lei violenza (insieme con lo stupro).
Potrà cioè anche ucciderla dopo averla stuprata.
Anche se siamo ormai tristemente (colpevolmente)
assuefatti al periodico riepilogo di sciagure e crudeltà
d’ogni genere perpetrate sulle donne, non riusciamo (per
fortuna) a restare indifferenti nei confronti di una drammatica constatazione: che la maggiore consapevolezza
che si ha oggi del rapporto tra i sessi, anziché cauterizzare le ferite di un dominio (maschile) incontrastato e millenario, le ha addirittura riaperte ed estese. Paradossalmente, la diminuita conflittualità – come confronto di
idee e desideri – è stata la levatrice di un nuovo tempo
segnato da una scena politica in cui è scomparsa ogni
manifestazione di un femminismo producente qualcosa
(perché ormai priva di qualsiasi bisogno di riscatto: cioè,
perché crede di essere priva di qualsiasi bisogno di
riscatto) col risultato di precipitare in una guerra fra sessi. Non resta quindi che registrare la storicizzazione
(passata) dell’unico vero nuovo: quello rappresentato
dal cambiamento che – grazie a più bisogni – le donne
hanno operato nelle loro vite (ruoli) con una rivoluzione
lenta ma inesorabile, perché scandita quotidianamente,
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rubando terreno ed erodendo spazi alla distrazione
maschile, fino a minare la rigida impalcatura – altrettanto maschile – del lavoro. (Mai del potere). Ma tutto ciò –
come detto – è passato, trascorso. Il presente (delle donne) è segnato dalla perduta capacità di interrogarsi (e
organizzarsi) su un percorso (trasformazione) che non
doveva essere solo riscatto da una marginalità sessuale,
ma acquisizione (anche con la forza, la violenza) di una
cittadinanza piena e consapevolmente politica. L’idea
ambiziosa e rivoluzionaria − rivoluzionaria davvero perché ormai priva di qualsiasi bisogno − di una “liberazione” capace di estirpare al medesimo tempo la malapianta dell’obbedienza (sociale) e della sudditanza (economica) ha abdicato in favore di un processo emancipativo
surrettizio, che alla prima occasione ha svenduto perfino
diritti/ruoli/immagini di sé strappati coi denti e col sangue: col corpo della donna che è tornato così a troneggiare come prodotto fra i prodotti sull’altare dei bisogni
maschili. Il bel mostro del corpo femminile è ora imbellettato di una schiavitù radiosa, di un’alienazione attiva
spacciata per libertà sul libero mercato. Un mostro di
donna parabolizzato con l’esportazione di un modello
femminile che rappresenta quell’Occidente tutto luccicante di tivù da raggiungere con qualsiasi mezzo e a qualsiasi costo.
La sconfitta del movimento femminista sta tutta qui: nel
non aver voluto condividere un percorso comune con chi
(uomini e donne) immaginava (progettava) un mondo
diverso con bisogni comuni.
Una delle tante sconfitte ha pure una data – paradossalmente, quella di una vittoria: la vittoria del Movimento
femminista su Lotta continua. Erano i primi giorni di
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BANDITE!
novembre del 1976 quando si consumò la spaccatura
(fratricida?) fra l’organizzazione di Sofri e le femministe
sulla base di una resa dei conti non più procrastinabile.
Era successo che i crescenti attriti avevano avuto la tracimazione del famoso vaso colmo nel dicembre dell’anno
precedente, quando, a un importante e numericamente
folto corteo per la legalizzazione dell’aborto, Lotta continua aveva partecipato con un proprio striscione dietro il
quale erano stati stipati – come sempre e indistintamente – uomini e donne. Ma quando queste, le femminucce,
avevano cercato di staccarsi per rivendicare una propria
autonomia (con diversi bisogni), erano state caricate dal
servizio d’ordine di Lc – notoriamente prodigo di mazzate. Lotta continua fu attaccata violentemente – e non
senza vili tornaconti – dalla quasi totalità dell’area della
nuova sinistra. Infine, tutti sapevano che qualcosa di
drammatico sarebbe successo. E così fu. Ma sarebbe
mistificatorio assegnare a quell’episodio da “Sfida all’Ok
Corral” una valenza superiore a quella che oggettivamente ha. Il movimento femminista, cresciuto negli anni Settanta, aveva già partorito quella autonomia prima avanzata timidamente, poi rivendicata con sempre maggiore
vigore. A caratterizzare il congresso di Rimini di Lc è la
componente del movimento femminista che più di altre
evidenzia bisogni maschili attraverso forme maschili
(violente). Quella che travolge l’organizzazione, di fatto,
non riconoscendosi più in un progetto comune (perché,
paradossalmente, tacciato di essere troppo “maschile”).
Per la prima volta le donne – in un luogo, se non del, certamente di un potere, quale quello di un congresso politico – esercitano bisogni e ruoli maschili, sconfiggendo
la controparte. Perché identifico in quella vittoria una
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delle sconfitte più clamorose del movimento femminista?
Ma perché la storia successiva sta lì a dimostrarlo! Dimostra cioè che nel momento in cui la donna ha creduto di
aver ormai soddisfatto tutti i suoi bisogni, s’è trovata nel
precipizio dell’antistoria. Prova ne sia che, piegato, fortemente ridimensionato, il movimento femminista ha finito
con l’assumere forme similcaricaturali, diventando di fatto l’utile idiota di un sistema che riassegna alla donna un
più rassicurante – etico ed estetico – ruolo funzionale al
“papi” di turno.
GERARCHIE
Nei centri urbani gli uomini diventavano capofamiglia
con il matrimonio, che comportavano l’alloggio in una
casa indipendente, non come nelle campagne, dove questo ruolo veniva mantenuto dal patriarca fino alla sua
morte: poteva accadere che alcuni figli non raggiungessero mai lo status di capofamiglia. La donna diventava
capofamiglia sono in assenza di un uomo in grado di
assumerne il ruolo: ad esempio, nel caso di morte del
marito quando i figli erano ancora piccoli. La gerarchia
all’interno della famiglia era formalizzata anche con un
lessico che prevedeva l’uso del voi e del tu: mogli e figli
davano del voi al capofamiglia, che a sua volta si rivolgeva loro col tu. L’ora del pasto scandiva un’altra differenziazione di ruoli, con le donne (moglie e figlie) che servivano gli uomini (marito, figli) a tavola. Nel Monferrato si
diceva che la donna ideale dovesse avere «gambe di
lepre, ventre di formica e schiena d’asino». In molte zone
mezzadrili non soltanto i genitori, ma anche il proprieta191
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rio del podere decideva chi potesse sposarsi e quando, a
seconda delle esigenze dell’attività agricola. Fidanzamento e corteggiamento dovevano rispondere a rigide
prescrizioni, con i manuali di etichetta che stabilivano le
regole del corteggiamento per la borghesia, quelle dei
poveri erano invece definite consuetudini. Di norma, le
spose contadine si trasferivano in casa della famiglia del
marito. Di frequente il matrimonio significava passare da
uno stato di subordinazione a un altro, quello della famiglia del marito in cui a tiranneggiarla sarebbe stata sua
suocera. Francesca (nata nel 1903 in una famiglia contadina) ricordava che il giorno in cui morì la nonna paterna sua madre disse: «Chi vuole venire dentro a piangere
venga: a me ha già fatto piangere anche troppo. Se voi
volete, potete dire il rosario. Io no»38. Le donne che
restavano nubili vivevano in una perenne condizione di
fallimento. Il termine “zitella”39 – che nel passato aveva
indicato le donne non ancora sposate – assume sempre
più spesso una valenza negativa. Per le donne vivere una
condizione di solitudine significava accettare un’inferiorità giuridica ed economica. Agli inizi del Novecento le
donne che si trovavano effettivamente in solitudine erano il cinque per cento. Tuttavia, il censimento del 1901
registra che il 47,7 per cento delle donne ultracinquantenni è nubile o vedova. Fuori dal contado il lavoro della
donna si sviluppa su diverse attività, tra cui le principali
sono la sarta, la cameriera, l’ostetrica, la balia, mentre le
donne in fabbrica, sempre per quel censimento, sono
38. Marzio Barbagli, Sotto lo stesso tetto, Il Mulino, Bologna 1984.
39. In Puglia la parola Zita indica fidanzata, Zit è invece il fidanzato. Ziti, gli sposi. Zitella, termine estesosi dalle Puglie e dalla Sicilia indica una condizione di inferiorità rispetto alla Zita, in quanto, contrariamente ad essa, non è promessa sposa di nessuno.
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1.246.529. Nelle libere professioni la presenza femminile
era irrisoria e le più avversate erano le donne che intendevano praticare l’avvocatura. La professione medica
incontrava minori ostilità dal mondo maschile se però
circoscritta alla ginecologia e alla pediatria. Nel 1911, su
un totale di 23.361 medici, soltanto 83 erano donne40.
Altra attività lavorativa “femminile” accettata dalla società dell’epoca era quella dell’insegnamento, limitato però
alla scuola primaria, giacché, Teresa Labriola – figlia del
filosofo Antonio – fu interrotta nella sua prima lezione
universitaria di Filosofia del Diritto dagli schiamazzi degli
studenti. Diversa, come riportato nei suoi “Ricordi di una
maestra”41, l’esperienza di Carolina Gasparini, che
cominciò a lavorare sulle montagne dell’Appennino nel
1919, constatando che la scuola assegnatale «consisteva
in una stanzetta ricavata restringendo una stalla. Della
stalla conservava il pavimento di battuto tale e quale […]
Sotto una finestra la concimaia, che ci mandava i suoi
effluvi e le sue mosche […] Materiale? Sussidi? Cancelleria? Assolutamente nulla». Il primo problema di queste
maestre era rappresentato dalle frequenti assenze di
alunni chiamati al lavoro nei campi subito dopo l’alba, col
risultato che all’orario stabilito per l’inizio delle lezioni o
erano ancora impegnati con foraggio o con le bestie o
erano capaci di addormentarsi in qualsiasi posto. Accadeva così che le maestre svolgessero all’aperto le loro
lezioni, in modo che i bambini incaricati di altri lavori
potessero almeno ascoltare. Una presenza, quella della
maestra nei campi o nelle stalle, accettata di buon grado
40. In “Donne e professioni” di Michela De Giorgio in Storia d’Italia, Annali 10. I professionisti, Einaudi,
Torino 1996.
41. In Scuola italiana moderna, 1987.
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dalla comunità rurale che le riconosceva un ruolo di preminenza, omologabile a quella del “dottore”, del prete,
del farmacista. Provenienti sempre da luoghi lontani,
queste “maestrine” dovevano fare anche molta attenzione alla loro moralità, indossando di norma abiti castigati
e scuri che non inducessero a cattivi pensieri. È sintomatica la triste vicenda di Itala Donati, suicidatasi a ventitré
anni dopo essere stata falsamente indicata come amante
del sindaco42. Se nel corso dei primi due decenni del
Novecento, anche grazie a una presenza crescente nel
mondo del lavoro in generale e della fabbrica in particolare, la donna conquista “spazi sociali”, divincolandosi da
ruoli di sudditanza, l’avvento del fascismo le fa compiere
un balzo indietro. Esaltando un mondo “virile” assegna
alla donna ruoli funzionali al nuovo regime, destinandola
essenzialmente alla produzione di figli destinati a vestire
le uniformi per le grandi imprese militari che aspettano il
folgorante futuro fascista. «La guerra sta all’uomo come
la maternità sta alla donna» è lo slogan coerente di un
regime il cui capo ritiene che «le donne sono un passatempo, affascinante, quando un uomo ha tempo da perdere, ma non dovrebbero mai essere prese sul serio».
Sotto il regime fascista questa marginalità della donna
cedette il passo a un nuovo corso quando agli inizi degli
anni Trenta la propaganda diffuse sempre più l’immagine
delle donne fasciste quasi ipnotizzate dalle glorie del
regime e dalla figura del duce. Se si esclude la “zona grigia”, quella che inglobava sia uomini che donne all’interno della comunità clandestina, le attività furono presto
divise da compiti specifici assegnati a uomini e donne.
42. La sua vicenda è narrata da Elena Gianini Belotti nella biografia romanzata Prima della quiete: storia di Itala Donati, Rizzoli, Milano 2003.
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Molte antifasciste comuniste, per esempio, svolgevano
lavoro di assistenza nell’ambito del Soccorso rosso, prestando aiuto ai prigionieri politici e alle loro famiglie. L’ex
operaia tessile Teresa Noce (nome di battaglia “Stella”) in
esilio a Parigi, dal 1926 effettuò numerose missioni clandestine in Italia. Le donne erano corrieri particolarmente idonei perché avevano meno probabilità degli uomini di destare sospetti, anche se viaggiare da sole comportava altri problemi, come ricordava Dina Ermini, che introduceva clandestinamente in Italia copie de “l’Unità” nascondendole in
una cappelliera con il doppio fondo: «Per noi compagne
c’era l’aggravante che bisognava riuscire a distinguere l’apparente interessamento di un questurino da quello di un
pappagallo; quante volte abbiamo sinceramente desiderato
di essere vecchie e brutte»43. Tuttavia furono in molte a
cadere nelle mani dell’Ovra, l’Organizzazione per la vigilanza e la repressione dell’antifascismo. I casi di 748 donne
furono deferiti al Tribunale speciale per la difesa dello Stato, altri furono esaminati dai tribunali ordinari. In totale
furono circa 500 le donne condannate per reati politici
durante il Ventennio. Nelle loro carcerazioni le donne erano spesso sorvegliate dalle suore, che in alcune occasioni si
mostrarono più zelanti del personale carcerario maschile.
L’Italia entrò in guerra il 10 giugno 1940 e come era avvenuto per il primo conflitto mondiale, anche questa volta le
donne furono smistate sui posti di lavoro lasciati vacanti
dagli uomini partiti per il fronte, con contratti temporanei
«per la durata». Secondo uno studio condotto su ventidue
imprese di Bologna addette alla produzione bellica, tra
dicembre 1940 e marzo 1942 la forza lavoro femminile
43. Patrizia Gabrielli, Fenicotteri in volo, Carocci, Roma 1999.
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crebbe del 96 per cento e in quello stesso periodo le donne assunte in fabbrica, per la prima volta furono autorizzate ad aspirare alla posizione – fino ad allora solo maschile
– di “operai qualificati”. Un’emancipazione che passa
anche attraverso la Resistenza, spesso presentata non solo
come spartiacque tra fascismo e democrazia ma anche
come preludio di una nuova era conquistata per tutte le
donne del dopoguerra dalle donne partigiane. Secondo
alcune stime, le donne attive nella Resistenza sarebbero
state due milioni. Nonostante ciò, gran parte della prima
storiografia resistenziale descrisse una lotta partigiana dai
connotati esclusivamente maschili. «Dopo la guerra è stata una pena trovare un lavoro. Sembrava quasi che dovessimo vergognarci d’aver partecipato alla Resistenza. Così
capitava di dover nascondere quel che s’era fatto. Era
meglio far finta di essere donne normali»44. Se fra i tanti
fenomeni che si consumano nel dopoguerra c’è anche
quello del consueto salto sul carro dei vincitori, sul fronte
delle donne la situazione è contraria. La partecipazione
alla lotta antifascista è vista, nel migliore dei casi, come
un’eccentricità. Uno dei peggiori è ben descritto dalle
parole di Tersilia Fenoglio, nome di battaglia “Trottolina”.
Alla sfilata non ho partecipato: ero fuori, ad applaudire. Ho visto passare il mio comandante, poi ho visto Mauri, poi tutti i distaccamenti
di Mauri con le donne che avevano insieme. Loro sì che c’erano. Mamma mia, per fortuna non ero andata anch’io! La gente diceva che erano delle puttane. E i compagni hanno fatto bene a non farci sfilare:
hanno avuto ragione45.
44. Testimonianza resa all’autore da Elsa Pellizzari.
45. Testimonianzadi Tersilia Fenoglio Oppedisano in Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
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L’eroismo, dall’Iliade in avanti, è territorio esclusivamente
maschile, come maschile è la morte. Un uomo muore, una
donna viene uccisa. Sulla pira su cui brucia il corpo dell’amico Patroclo, Achille sacrifica anche due dei suoi cani,
quattro cavalli, dodici prigionieri troiani e la sua schiava
preferita. Aida invece sceglie di condividere col suo Radames l’inumazione da viva, segno di devozione assoluta. La
celebrazione dell’eroe non può quindi essere contaminata
dalla presenza femminile, che quindi “sfila” a margine perdendo ogni connotazione “attiva”, per diventare la donna
dell’eroe o, peggio, la sua “puttana”. In effetti, l’idea
“maschia” disinvoltamente espressa da Mussolini nei confronti della funzione delle donne («passatempo») riflette,
seppur più rozzamente, un pensiero maschista che assegna alle donne, ben che vada, ruoli comunque funzionali
all’uomo, riconoscendone l’autonomia solo per quelle prerogative esclusivamente femminili (il parto, l’allevamento
dei figli, dall’allattamento in su, la cura della casa, la cucina, la confezione o la sistemazione degli abiti, il lavaggio,
lo stiraggio, la pulizia dei pavimenti, dei vetri, delle porte,
la soddisfazione sessuale del marito quando richiesta).
Bisognerà attendere una nuova generazione di storici per
restituire alle donne il maltolto nelle loro azioni “maschili”.
Si scoprirà così che ci furono anche bande armate capeggiate da donne, come quella di Novella Albertazzi (nome
di battaglia Wanda), una pellicciaia bolognese che costituì
una banda di trecento membri di cui ottanta donne. La
questione delle motivazioni che spinsero tante donne a
partecipare attivamente alla lotta antifascista è stata
affrontata più volte e da più angolazioni, arrivando nella
maggior parte dei casi alle stesse conclusioni, e cioè che le
ragioni politiche furono importanti per alcune donne, ma
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per altre lo stimolo ad agire non fu in primo luogo politico,
ma di altra natura: umanitario o pacifista o di repulsione
per la guerra o per convinzioni religiose o per ragioni familiari o di altri vincoli di affetto o di desiderio di scacciare lo
straniero o anche il desiderio di emancipazione individuale e perfino lo spirito d’avventura. Tuttavia nelle testimonianze di molte partigiane il sentimento materno tende ad
emergere come motivo fondamentale della partecipazione. Un elemento che se riflette l’immaginario cattolico, era
altresì l’immagine femminile più forte alla quale le donne
potessero attingere e, di fatto, l’unica modalità socialmente consentita di essere più forti degli uomini. Più forti
anche nelle situazioni estreme quali quelle dello stupro.
Un numero rilevante di donne e ragazze subì l’orrore della vergogna della violenza sessuale, anche se è stato scritto poco su questo argomento a causa delle difficoltà insite
nella ricerca storiografica in materia. Rosanna Rolando
(Alba rossa), operaia alla Manifattura dei tabacchi fu seviziata durante l’interrogatorio cui la sottoposero i repubblichini in seguito al suo arresto nel gennaio del 1945.
Poi è venuto il momento più tremendo. Una sera entrano in quattro.
Erano ubriachi fradici. Mi afferrano; due mi spogliano e due mi tengono ferma di traverso sul letto, e mi fanno ogni sorta di violenza
(tanto che quando c’è stato il mio processo nel dopoguerra, arrivati a
questo punto il presidente ha ordinato che si facesse a porte chiuse).
Erano talmente ubriachi che non han potuto rovinarmi. È durato
un’ora. Quando sono andati via, ho preso un bicchiere di cristallo che
era nella stanza e l’ho rotto. Volevo tagliarmi le vene. Non ce la facevo più, non capivo più niente, ero disperata46.
46. Testimonianza di Rosanna Rolando in Bruzzone e Farina, La Resistenza taciuta, cit.
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Quello dello stupro fu tuttavia un’infamia di cui si macchiarono anche “i liberatori”: «La liberazione io non l’ho
mai festeggiata», testimoniò una donna a Gabriella Gribaudi per il suo libro Guerra totale, «perché sono ricordi che non posso scordà. […] Che liberazione era quella?»47. Una delle migliaia di donne di varie città a sud di
Roma che nel 1944, subito dopo la battaglia di Cassino,
fu stuprata dai “Goumiers”, le truppe irregolari nordafricane inquadrate nelle formazioni francesi. Secondo Gribaudi, alcuni soldati francesi consideravano gli italiani un
popolo conquistato, non una popolazione che stavano
“liberando” e ritenevano che un trattamento brutale fosse legittimo. Alcuni comandanti francesi fecero quindi
pochissimo per tenere sotto controllo le loro truppe.
Atrocità che divennero tema del romanzo La Ciociara di
Moravia, poi trasposto in un film di Vittorio De Sica che
valse l’Oscar a Sofia Loren. Tuttavia, come ha osservato
Gribaudi, per la loro suggestione emotiva queste versioni romanzesche tendevano a offuscare una realtà fatta di
brutalità feroci e gratuite. Difficile accertare le dimensioni del fenomeno, anche per la ritrosia delle donne stesse
a denunciare la violenza per vergogna. Secondo alcune
fonti, nella sola zona di Cassino e Sora furono stuprate
oltre sessantamila donne e il 20 per cento di esse fu contagiato da malattie veneree. Feroce fu anche la vendetta
di alcune donne nei confronti di collaborazioniste o ausiliare fasciste o donne che avevano avuto relazioni con
militari tedeschi: tutte sottoposte a giustizia sommaria. A
molte venne rasato il capo e fu impressa sulla fronte la M
di Mussolini con il catrame, oppure fu loro appeso un
47. Gabriella Gribaudi, Guerra totale. Tra bombe alleate e violenze naziste. Napoli e il fronte meridionale
1940-1944, Bollati Borighieri, Torino 2005.
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cartello al collo e costrette a sfilare per strada fra gli sputi, le spinte, gli schiaffi e i calci della gente inferocita, che
compiendo violenza sulla sciagurata di turno, restituiva
parte della violenza subita da una moglie, una madre,
una figlia. Dopo la guerra, per le donne la “normalizzazione” passava anche dalla perdita del posto di lavoro per
“riconsegnarlo” al legittimo proprietario: un uomo. Tuttavia, anche per le donne nulla sarebbe stato come prima, a cominciare dalla partecipazione al voto: un diritto
acquisito dalle donne italiane venticinque anni prima di
quelle svizzere.
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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
PRIMA PARTE
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204
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Ringraziamenti
Il mio lavoro di scavo storico nell’universo della lotta in armi,
mi ha “naturalmente” portato a raccogliere le storie di donne armate. “Bandite”: sia per chi le ha combattute negli anni
dell’unificazione d’Italia, sia per chi se le è trovate contro
negli anni della Repubblica sociale. Per quanto riguarda la
prima parte, quella delle Brigantesse, un ringraziamento
doveroso, oltre che sentito, va a Valentino Romano, uno
degli studiosi più attenti del fenomeno del brigantaggio e
probabilmente il più autorevole sul fronte femminile: il suo
Brigantesse è testo fondamentale per chiunque voglia accostarsi all’argomento. Di grande utilità ho trovato anche Terroni, di Pino Aprile, e Il sangue del Sud di Giordano Bruno
Guerri. La seconda parte, quella delle Partigiane, ha una
genesi datata fine anni Settanta. All’epoca, un amico che per
questo voglio ringraziare pubblicamente, Corrado Corradini,
su mia richiesta, mi mise in contatto con un ex partigiano: il
professor Aldo Gamba, vice presidente dell’Anpi della Valsabbia. Che mi diede un quaderno di memorie: quello le cui
memorie sono qui riportate. Prezioso è stato anche il libro
La libertà pagata di Gianbattista Guerra, così come le
memorie di Angio Zane (comandante Diego), le Edizioni
dell’Ufficio Storico dell’Associazione Fiamme Verdi, gli studi
approfonditi svolti sull’argomento da Rolando Anni, vera
“istituzione” della memoria storica della Resistenza bresciana, le pubblicazioni dell’Assessorato alla Cultura di Brescia
contenenti gli interventi di Delfina Lusiardi, Gianni Sciola,
Maria Rosa Zamboni, l’Archivio storico della Resistenza Bresciana, al quale ho potuto accedere grazie al professor Mario
Taccolini e alla professoressa Inge Botteri: particolarmente
utili mi sono stati gli Annali riguardanti “Il diario originale e
inedito di Carlo Comensoli”, “I mattinali della Questura
repubblicana di Brescia: attività ribelli”, i “Discorsi di una
guerra civile”. Un particolare ringraziamento va a Elsa Pel205
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BANDITE!
lizzari e Maria Boschi, infaticabili testimoni itineranti di una
memoria altrimenti spesso sfuocata, che oltre ad aprirmi la
loro casa mi hanno aperto lo scrigno dei loro ricordi più preziosi.
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INDICE DEI NOMI
Aimone d’Aosta (Tomislav II), 126,
127
Albertazzi, Novella (Wanda), 197
Angelini, Francesco, 63
Anselmi, Tina, 104
Arcieri, Vincenzo, 81, 82, 83, 84
Bucci, Vincenza, 52
Badoglio Pietro, 110
Bandiera Lina, 105
Barbagallo, Francesco, 42
Basile, Alessandro, 62
Basile, Vincenzo, 62
Beccaria Rolfi, Lidia, 17
Bedeschi, Ines, 105
Bellini, Arnaldo, 162
Benissone, Nelia, 94
Benjamin, Walter, 187
Bertolucci Bernardo, 187
Bianchi, don Angelo, 158
Bianchi, Pietro (Mazza), 37, 163
Boldrini, Arrigo (Bulow), 7
Borellini, Gina, 105
Boschi, Ippolito (Ferro), 145, 150, 170
Boschi, Maria (Stella), 145, 206
Bosco, Giacinto, 87, 88
Bravo, Anna, 93
Bruzzone, Anna Maria, 94, 196
Bucci, Giuseppe, 52
Cagol, Margherita, 183
Calvino, Italo, 123
Campagna, Giovangiuseppe (il Rosso), 74, 78
Canova, Lucia, 94
Capitanio, Maria, 33
Capponi, Carla, 116
Cardamone, Generosa, 37
Carolina d’Asburgo, 57
Caruso, Giuseppe, 52, 53
Caso, Beniamino, 71
Cassano, Franco, 125
Cataldo, Lucia, 54
Cava de Gueva, Tommaso, 57
Caviglione, Albina, 94
Cebroni, Sergio, 132
Cerullo, Angiolo, 44
Cervino, Michele, 63
Ciccone, Giacomo, 48
Ciminelli, Serafina, 37
Cinanni, Anna, 94
Cirio, Teresa, 94
Civitillo, Giovanni (Senza paura), 74
Comensoli, Carlo, 164, 205
Compagnone, Domenico, 43, 44
Coppola, Nicola, 72, 74
207
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BANDITE!
Crocco, Carmine, 34, 46, 52, 53, 64,
65, 69, 201, 202
Damioli, Orlando, 162
da Ruvo, Maria Giovanna, 65
David, Tommaso (De Santis), 112
de Bonald, Louis, 107
de La Rochefoucauld, François, 123
de Lellis, Antonio, 80, 81, 83
de Santis, Maddalena, 183
De Lellis, Maddalena (Padovella),
70, 88
De Rosa, Giorgio, 132
De Witt, Angiolo, 52
Deiana, Giovanna, 113
Del Din, Paola, 106
Del Giudice, Achille, 71
Del Giudice, Gaetano, 71
Derenzini, Ferruccio, 132
De Sica Vittorio, 199
Di Cesare, Domenico, 44, 46
Di Cesare, Michelina, 38, 41, 45, 47,
49
Di Cesare, Pietro, 85
di Giannantonio, Anna, 126
Donati, Itala, 194
Dostoevskij Fedor, 123, 124
Dumas, Alexandre, 56
Dusi, Giacomo, 162
Eichman Adolf, 123
Ermini, Dina, 195
Fabrini, Anna, 114
Falcone, Michele, 58
Fantinelli, Stefano, 162
Farina, Rachele, 94, 196, 198
Federici, Rino, 145
Fenoglio, Beppe, 103
Fenoglio, Tersilia (Trottolina), 94,
196
Fiori, Giovanni (Cvetko), 128, 129
Fontana, Lidia, 94
Fontanot, Vinicio (Petronio), 129
Fra’ Diavolo, 58
Francesco II (Franceschiello), 27,
184
Franco, Antonio, 37
Franco, Rosina, 176
Fuoco, Domenico, 44, 45
Gallicchio, Luigi, 54
Gamba, Aldo, 142, 205
Garibaldi Giuseppe, 41, 46, 57, 71
Gasparini, Carolina, 193
Gatteschi Fondelli, Piera, 113, 115
Gelli, Jacopo, 48
Gentile, Francesco, 65, 67, 69
Gentile, Vito, 65
Giordano, Cosimo, 72, 79, 80, 81,
82, 83
Gioseffi, Teodoro, 66
Giuliani, Rosa, 34, 53
Gribaudi, Gabriella, 199
Guadagnino, Francescantonio, 85
208
Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 209
Guagliardi, Gagliardi, Pasquale, 60,
61
Guerra, Francesco, 42, 43, 44, 45,
46, 47, 48, 49
Guerra, Michelina, 44
Guerri, Giordano Bruno, 7, 205
Guerriero, Tommaso, 56
Hegel Friedrich, 124
Iaconelli, Nicolina, 45
Iameo, Michelangelo, 77
Kant Immanuel, 124
Karis, Mario, 127, 128, 129
Kollontaj, Aleksandra Michajlovna,
121
Krupp, Kurt, 112
Labriola, Teresa, 193
La Gamba, Francesca, 29
Laticagno, Domenico, 55
La Villa, Domenico, 54
Leibniz Wilhelm, 123, 124
Lenin Vladimir Ilic Ul’janov, 121
Levi, Primo, 125
Licciardi, Niccolina, 32
Lizzero, Mario, 127
Longo, Antonio, 55
Loren, Sofia, 199
Lucarelli, Carlo, 64
Luongo, Agostino, 33
Madeo, Giacomo, 59
Maestro, Vanda, 117
Mafai, Giuliana, 116
Mafai, Miriam, 14, 116
Mafai, Simona, 116
Mallardo, Giuseppe, 71
Marchiani, Irma, 105
Marcon, Vincenzo (Davilla), 127, 128
Marighetto, Ancilla, 105
Marrazzo Giuseppe, 59
Martini, Rita, 94
Martino, Alessandro, 55
Mattesini, Rina, 178
Meneghello, Luigi, 11
Michele, sacerdote Camillo, 55
Mill, John Stuart, 109
Mombelli, Renato, 161, 162
Monaco, Antonio, 60
Monaco, Pietro (Bruttacera), 35, 37,
58, 59, 61, 62, 134
Montaldo, Giuliano, 20
Morante, Elsa, 170
Moravia Alberto (Pincherle), 199
Mussolini, Benito, 95, 110, 111, 112,
113, 114, 115, 144, 145, 175, 197,
199
Muti, Ettore, 112, 160
Neiman, Susan, 123
Netti, Michele, 65
Nigro, Nicola, 68
Ninco, Nanco, 34, 66
209
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BANDITE!
Noce, Teresa (Stella), 195
Pulcinella, Pasquale, 84
Occhipinti, Maria, 12
Oliva, Elsa, 94
Oliverio, Maria (Ciccilla), 35, 56, 61,
62, 63
Oliverio, Teresa, 62
Oliverio Chiodo, Antonio, 62
Orsi, Francesco, 48
Ragnoli Romolo, 164
Rago, Michele, 65, 66, 67, 68
Raho, Michele, 67
Raho, Serafina, 68
Reginella, Rosa, 36
Ricca, Umberto, 165
Ricci, Giuseppina, 177
Riccitelli, Nicola, 81
Rinaldini, Emi, 148
Robertazzi, Geraldina, 178
Rocco, Emanuele, 116
Rolando, Rosanna (Alba rossa), 94,
198
Romano, Valentino, 7, 38, 48, 201,
205
Rosani, Rita, 106
Rotondi, Raimondo, 49
Rousseau Jean Jacques, 124
Rovano, Maria, 94
Rovati, Clementina, 183
Ruscetti, Domenico, 72
Russo, Ludovico (Portella), 60, 61
Rustichelli, Maria, 94
Pallano, Ciccone, 65
Pallavicini, Emilio, 46, 49, 68
Panella Pasquale, 71
Pankhurst, Emmeline, 109
Passariello, Giuseppe, 84
Pavone, Claudio, 11
Pavoni, Vittorio, 144
Pelizzari, Elsa (Gloria), 145
Pellegrini, Giacomo, 116
Pennacchia, Vito, 54
Pennacchio, Filomena, 33, 34, 35,
51, 52, 53, 54, 56, 65, 68
Peteani, Gianni, 126
Peteani, Ondina (Natalia), 126, 128,
142
Pezza, Darko (Pecic), 128, 129
Pintor Luigi, 116
Pio X, 88
Pisacane, Carlo, 57
Poli, Alfredo, 171, 172, 174
Porillo, Giovanni, 62
Prece, Pasquale, 72
Sacchitiello, Agostino, 34, 36, 55,
56, 63, 64, 65, 66, 67, 68, 69
Sacchitiello, Vito, 67, 69
Saccone, Michele, 55
Saglietti, Carla, 111, 112
Sanillo, Enrico, 80, 81, 82, 83, 84
210
Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 211
Sannella, Nicola, 55
Sannella, Rocco, 55
Santaniello, Andrea, 72, 73, 74, 75,
76, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 84,
85, 86
Savino, Vito (Zarilli), 68
Schiavone, Giuseppe, 33, 34, 51, 52,
53, 55
Scrivano, Giuseppe, 58, 59
Semelin, Jacques, 13
Signori, Domenico, 162, 163
Signori, Ermes, 162
Soldati, Mario, 186
Spagnulini, Giovanni, 63
Stanco, Francesco Michele, 66
Stocchetti, Felice, 86
Stocchi, Livio, 132
Strafaci, Domenico (Palma), 57
Suriani, Maria, 36
Tartaglia, Francescantonio, 76
Tito, Maria Giovanna, 34, 69
Tortora, Donato, 34
Vella, Andrea, 69
Viganò, Renata, 28, 98
Visini, Remigio, 132
Vitale, Giuseppina, 34, 64, 65, 67,
68, 69
Vittorio Emanuele II, 63
Vittorio Emanuele III, 112
Vivoda, Alma, 130
Zetkin, Clara, 121
211
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INDICE
INTRODUZIONI.......................................................................................... 5
Quando il fucile è in spalla alle donne................................................. 7
Brigantesse: tutta un’altra storia ....................................................... 27
PARTE PRIMA .........................................................................................
Le brigantesse.......................................................................................
Michelina Di Cesare...............................................................................
Filomena Pennacchio.............................................................................
Maria Oliverio detta Ciccilla.................................................................
Giuseppina Vitale...................................................................................
Maddalena De Lellis, detta Padovella ................................................
39
41
41
51
56
63
69
PARTE SECONDA .................................................................................... 89
Le partigiane.......................................................................................... 91
La resistenza delle donne ..................................................................... 91
Partigiane vs ausiliarie....................................................................... 106
I numeri delle partigiane .................................................................... 118
Non dimenticare il male...................................................................... 123
Ondina Peteani, la prima staffetta d’Italia ..................................... 125
Un quaderno a righe............................................................................ 142
Donne bresciane raccontano.............................................................. 151
Una storia di uomini e donne............................................................. 170
L’altra guerra – Ricordi di donne del sud ........................................ 175
Sebben che siamo donne.................................................................. 183
Gerarchie............................................................................................... 191
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Bibliografia essenziale ...................................................................... 201
Ringraziamenti .................................................................................... 205
Indice dei nomi ................................................................................... 207
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BANDITE!
di PINO CASAMASSIMA
Progetto grafico ANYONE!
Impaginazione ROBERTA ROSSI
© 2012 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri
Casella postale 97 – 01100 Viterbo
fax 0761.352751
e-mail: [email protected]
ISBN 978-88-6222-301-0
Finito di stampare nel mese di luglio 2012
presso la tipografia IACOBELLI srl via Catania 8 – 00040 Pavona (Roma)
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