Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 1 BANDITE! di PINO CASAMASSIMA Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 2 Giornalista e autore di una ventina di libri, alcuni dei quali tradotti all’estero, Pino Casamassima è opinionista del Quotidiano Nazionale (Il Giorno, Il Resto del Carlino, La Nazione). Oltre a collaborare con La Storia siamo noi, è consulente storico di una nota casa di produzione cine-video. Tra le sue numerose pubblicazioni, Il libro nero delle Brigate rosse (Newton&Compton), Premio Minturno 2008, Il sangue dei rossi: morire di politica negli anni Settanta (Cairo editore), Premio Luigi Di Rosa 2011, Gli irriducibili, storie di brigatisti mai pentiti (Laterza). © 2012 Pino Casamassima © 2012 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri Questo libro è rilasciato con licenza Creative Commons-Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia. Il testo integrale della licenza è disponibile all’indirizzo http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/. L’autore e l’editore inoltre riconoscono il principio della gratuità del prestito bibliotecario e sono contrari a norme o direttive che, monetizzando tale servizio, limitino l’accesso alla cultura. Dunque l’autore e l’editore rinunciano a riscuotere eventuali introiti derivanti dal prestito bibliotecario di quest’opera. Per maggiori informazioni, si consulti il sito «Non Pago di Leggere», campagna europea contro il prestito a pagamento in biblioteca <http://www.nopago.org/>. Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 3 A l’uscir de la porta ecco davanti gli si fa co’ suoi volsci cavalieri la vergine Camilla: e sí com’era non men gentil che valorosa e bella, tosto che l’incontrò con tutti i suoi dismontò da cavallo, e vèr lui disse: Turno, se degnamente uom forte ardisce, io mi rincoro, e ti prometto io sola di gire ai cavalier toscani incontro. Lascia me col mio stuolo assalir prima la troiana oste, e che primiera io tragga di questa pugna e de’ suoi rischi un saggio; e tu qui co’ pedoni a piè rimanti a guardia de la terra. Virgilio, Eneide, libro XI Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 4 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 5 INTRODUZIONI Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 6 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 7 QUANDO IL FUCILE È IN SPALLA ALLE DONNE Lasciando a Valentino Romano – esperto del fenomeno del brigantaggio femminile – il compito di parlarne di seguito, questa analisi si concentra sulle donne che parteciparono alla Resistenza che, senza di esse, sarebbe stata monca. Sulle Brigantesse riporto solo due passaggi del capitolo XII del libro Il Sangue del Sud di Giordano Bruno Guerri. Scrive il professor Guerri a pag. 165: «Per qualificarle, alcuni giornalisti sabaudi recuperano l’antico “druda”, dal gaelico, che indica l’amante disonesta, la femmina di malaffare; altri, attingendo dal vocabolario germanico, preferiscono chiamarle “ganze”. Cambia il nome, non il concetto». E più avanti, a pag. 169: «Se talora il brigante può rifarsi una vita e ricominciare da capo, alla donna non è concesso: bandita dalla società, vive emarginata, privata di affetti e amicizie, non può più nemmeno guadagnarsi da vivere. Alla donna che sceglie l’illegalità non si attribuiscono giustificazioni sociali, bensì tare culturali; non drammatici moventi individuali, ma turbe di una psicologia malata». «Senza le donne non ci sarebbe stata la Resistenza», aveva dichiarato Arrigo Boldrini, parlamentare del Pci che aveva partecipato alla lotta partigiana col nome di battaglia “Bulow”1. Eppure, la storiografia resistenziale è di 1. «Respingiamo l’interpretazione che considera la Guerra di Liberazione come una guerra civile per la conquista di centri di potere. La Lotta di Liberazione fu un movimento popolare di partigiani e partigiane sostenuto da una grande solidarietà popolare, con i militari delle tre Forze Armate, che hanno combattuto assieme per riconquistare la libertà per tutti: per chi c’era, per chi non c’era e anche per chi era contro, con una generosità non sempre conosciuta in altre epoche storiche. Questo è il grande dato storico, che va sottolineato anche per rendere omaggio a tutti i Caduti e a quanti della nostra generazione sono scomparsi, e che ci hanno lasciato un nobilissimo testamento che non può essere dimenticato». Arrigo Boldrini al Teatro Lirico di Milano il 24 giugno 1994 in occasione del 50º anniversario della costituzione del C.V.L (Corpo Volontari della Libertà). 7 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 8 BANDITE! fatto maschista, riconoscendo alle donne “il contributo prezioso” da esse dato, riservando all’uomo non la partecipazione alla Resistenza, ma l’identificazione stessa con essa. Le donne svolsero dunque un ruolo determinate durante la Resistenza, nella lotta per la liberazione dall’occupazione nazista. I ruoli ricoperti furono molteplici. Oltre a creare squadre di primo soccorso per aiutare i feriti e gli ammalati, si occuparono dell’identificazione dei cadaveri, dell’assistenza ai familiari dei deceduti, raccogliere medicinali e indumenti e cibo. Ma oltre alle mansioni più manuali come cucinare, lavare, cucire e assistere, le donne furono indispensabili nelle attività della collettività partigiana. Partecipavano infatti alle riunioni, apportando il loro contributo politico e organizzativo, non disprezzando all’occorrenza di cimentarsi nell’utilizzo delle armi. Particolarmente importante era il loro compito di comunicazione. Riuscivano a passare spesso indenni e senza problemi nei posti di blocco, e prendevano contatti con i militari, comunicando informazioni e strategie future. Nei posti di blocco spesso dichiaravano di doversi occupare dei malati o dei feriti, eludendo così il controllo dei tedeschi, che le lasciavano passare anche se addosso avevano «anche bombe a mano nascoste sotto il sedile» o «messaggi cuciti nel risvolto della gonna». Ma non sempre andava tutto bene e quando venivano scoperte erano sottoposte alle stesse angherie e torture riservate ai maschi, con l’aggiunta, spesso, delle violenze sessuali. Durante la Seconda Guerra Mondiale il compito delle donne si rivelò prezioso e insostituibile anche nelle attività produttive ed economiche. La chiamata alle armi tolse infatti molte braccia maschili all’agricoltura e all’industria, sostituendole con quelle femminili. I settori rico8 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 9 perti dalle donne furono soprattutto quelli della manifattura tessile e del settore alimentare; oltre a questi però le donne parteciparono attivamente anche nei pubblici impieghi, nei campi agricoli e nelle catene di montaggio, affrontando lavori che per la fatica e la forza fisica richiesta erano riservati esclusivamente agli uomini. La loro presenza all’interno di questi settori però, oltre ad apportare un intenso beneficio all’economia dell’intero Paese, si contraddistinse per lo spirito battagliero e di protesta sindacale a cui le donne diedero luogo all’interno delle fabbriche e nei campi agricoli. A quegli anni risalgono infatti slogan come «vogliamo vivere in pace», oppure «vogliamo pane, basta con gli speculatori» con cui manifestazioni organizzate delle donne infiammavano le piazze e le strade delle città italiane. Nelle campagne, invece, spesso mettevano a disposizione le loro case per la cura degli ammalati e dei feriti, e nascondere le persone che stavano fuggendo, mettendo spesso la propria vita a repentaglio. Importantissimi inoltre furono i compiti ricoperti dalle donne nella raccolta di fondi necessari alla cura delle persone e di chi maggiormente aveva bisogno, oltre all’attività da loro svolta di vera e propria propaganda politica. Oltre ad azioni di sola informazione, però, molte donne furono coinvolte anche in veri e propri sabotaggi delle forze militari tedesche e di occupazione di depositi alimentari. Altri furono i compiti delle donne all’interno delle organizzazioni partigiane. Oltre alle combattenti, che imbracciarono le armi a fianco dei loro colleghi uomini, e le donne che occuparono degli incarichi di rappresentanza istituzionale nelle piccole realtà geopolitiche in formazione nel corso della guerra di liberazione, uno dei compiti che le donne avevano era quello 9 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 10 BANDITE! della staffetta. Si trattava di ragazze dai 16 ai 18 anni che, armate soltanto di una bicicletta e di molto coraggio, facevano la spola tra una brigata e un’altra, ma anche tra una brigata e le loro famiglie, tenendo i collegamenti, portando notizie, talvolta accompagnando i resistenti o facendo da infermiere. Si trattava di un compito fondamentale senza il quale tutto sarebbe stato in una fase di stallo e le comunicazioni si sarebbero bloccate. La figura della donna appare dunque in quegli anni di fondamentale importanza, sia nelle attività produttive del Paese che all’interno del movimento partigiano che in una quotidianità segnata da disagi anche alimentari cui deve far fronte per prima proprio la donna, cercando di arrabattarsi con quel che offre il convento della tessera, con la quale si ha diritto mensilmente a un chilo di patate, un chilo di riso e di pasta, 100 grammi di fagioli, 200 di burro, 100 di grassi di maiale, 300 di sale, un decilitro d’olio. La razione del pane è di 150 grammi al giorno, quella di carne – indipendentemente dalla possibilità di acquistarla, molto remota per tante famiglie – 100 grammi. Il burro costa 28 lire al chilo, ma è praticamente introvabile e bisogna comprarlo al mercato nero e allora costa 150. Lo zucchero della tessera è a 11,20 lire, quello libero a 100. Una saponetta da bagno da 100 grammi deve durare due mesi. Un paio di scarpe di cuoio rigenerate, alla borsa nera, tocca le 2000 lire. Il caffè è sparito, sostituito dalla cicoria e dall’astragalo. A tavola si tiene spesso il paltò perché bisogna risparmiare sul riscaldamento. Si bevono grandi bicchieri d’acqua colorati di vino e anche nelle famiglie poco avvezze a praticare chiese ci si fa il segno della croce sperando in un domani migliore. La guerra è anche questo. Miserie con le quali sono soprattutto le 10 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 11 donne a doversi confrontare. Ma il secondo conflitto mondiale è anche un laboratorio di sentimenti e comportamenti contrastanti. Forse è particolarmente vero per l’Italia, dove il rovesciamento delle alleanze e la guerra civile investono tradizioni culturali, convinzioni politiche, fedi religiose, disegnando uno scenario che cambia radicalmente nel tempo e nello spazio. Il discorso riguarda gli uomini, che fra il ’43 e il ’45 danno vita a due eserciti, uno interamente, l’altro in parte volontario, e nello stesso tempo ai più grandi fenomeni di sbandamento e diserzione della storia italiana. Nel ’40, nessuna organizzazione femminile, cattolica o laica, prende posizione contro la guerra. L’8 settembre ’43, quando l’esercito si disfa e decine di migliaia di soldati si sbandano nel Paese occupato dai tedeschi, a soccorrerli, rivestendoli in borghese per sottrarli alla cattura e indirizzandoli sulla via del ritorno a casa, sono soprattutto donne: per lo più donne cosiddette “comuni”, che agiscono senza il sostegno di ideologie politiche in senso stretto, disarmate. Ci si aspetterebbe di vederle assistere in dolorosa rassegnazione alla cattura degli sbandati. Invece li contendono a un esercito strapotente, e non di rado con successo. «Pareva», scrive Luigi Meneghello, «che volessero coprirci con le sottane». Nella sua lezione sull’8 settembre riportata in Novecento Italiano della Laterza, il professor Claudio Pavone dice: I fascisti, dopo il 25 luglio, scomparvero, completamente indenni. Un operaio toscano, rievocando quei gironi, ha scritto di recente che c’era entusiasmo nella fabbrica, ovviamente, per quello che era successo, di tutti gli operai. E poi ha aggiunto: “ma c’era anche un fascista, povero uomo!”. Chiamare “povero uomo” un fascista, un po’ 11 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 12 BANDITE! bonariamente, è una cosa che poteva avvenire solo dopo il 25 luglio. Sarebbe semplicemente assurdo pensare che avrebbe potuto accadere dopo il 25 aprile, dopo la Liberazione del Nord: era diffusa l’idea che i fascisti, in fondo, se l’erano cavata a buon mercato dopo il 25 luglio, ma poi avevano voluto prendersi una rivincita in virtù della forza tedesca. Questa convinzione si era veramente iscritta nella coscienza non solo dei resistenti attivi, ma anche della massa generale di persone influenzate dalla situazione. Una parola d’ordine della Resistenza fu: non si può fare come il 25 luglio; cioè i fascisti questa volta non se la possono cavare bonariamente; si sono voluti vendicare, adesso ne subiscono le conseguenze. Ma se ci sono donne nella Resistenza, sul fronte opposto nascono le ausiliarie di Salò, un corpo militarizzato di volontarie che non portano armi. Agli inizi del ’45, quando il governo Bonomi pretende di rendere operativo il reclutamento degli uomini dai venti ai trent’anni nel nuovo esercito da affiancare agli alleati, ancora le donne insieme con gli studenti tornano in piazza contro la guerra. È la rivolta dei “non si parte”, che si estende in tutto il centro-sud con scontri a fuoco, morti e feriti. Nella città di Ragusa a prendere l’iniziativa è Maria Occhipinti, ventitré anni, incinta di cinque mesi, di idee comuniste, che il 5 gennaio si stende davanti a un camion carico di renitenti rastrellati, costringendo i carabinieri a rilasciarli. Sconterà per questo carcere e confino. Il senso comune dei contemporanei guarda senza stupore alle azioni di sostegno ai renitenti: cosa può fare una donna di più naturale che opporsi a chi le vuole portare via il marito, il figlio, e per estensione gli altri uomini? Cosa può importarle che l’esercito in questione sia fascista o antifascista? 12 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 13 Colpiscono maggiormente l’immaginario le partigiane e le ausiliarie, perché sono donne che si “snaturano” entrando negli spazi della politica e della guerra. Riprodurre nella ricerca gli orientamenti di allora identificando le “donne comuni” con la ripetitività e la condizione di vittima, e le partigiane e le ausiliarie con l’innovazione, il protagonismo, l’avventura, sarebbe una fatica inutile, oltre che una doppia ingiustizia. Peggio ancora ragionare in termini di “pacifiche” e “guerriere”, “impolitiche” e “politiche”. Nel campo d’azione sia delle donne “comuni”, sia delle partigiane e delle militanti dei Gruppi di difesa della donna, ci sono molti comportamenti tipici della resistenza civile, il concetto messo a punto dallo storico francese Jacques Semelin per indicare una pratica di lotta caratterizzata nei suoi soggetti (appunto i civili), nei suoi mezzi (non le armi, ma strumenti come il coraggio morale, la duttilità, la capacità di manipolare i rapporti, di cambiare le carte in tavola ai danni del nemico), nei suoi obiettivi. Questi possono essere tanto l’appoggio alla resistenza armata, quanto avere finalità autonome che esprimono il rifiuto in prima persona della società contro la pretesa nazista di dominio sulla sua vita e sulle sue strutture. È resistenza civile quando si sciopera o si manifesta per migliori condizioni materiali, per ostacolare lo sfruttamento delle risorse locali da parte degli occupanti, per testimoniare la propria identità nazionale; quando si agisce per isolare moralmente nazisti e collaborazionisti; quando si tenta di mantenere una certa indipendenza di gruppi sociali e istituzioni, di impedire la distruzione di beni essenziali, di contenere la violenza, magari offrendosi come intermediari; quando ci si fa carico di qualcu13 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 14 BANDITE! na delle innumerevoli vite messe a rischio dalla guerra. A distinguere queste e altre pratiche dalle strategie di emergenza messe in atto soprattutto dalle donne per far continuare la vita quotidiana, sono l’intenzione e la funzione antinazista, anche se fra le due aree di comportamenti possono esserci affinità e sovrapposizioni. A volte collettive, più spesso individuali, frutto ora di una tessitura minuziosa, ora di precipitazioni impreviste, le lotte sono per lo più non violente, ma non sempre: per l’Italia, ricordiamo gli assalti a magazzini viveri e a treni carichi di derrate o combustibili – “l’altra guerra” la definisce Miriam Mafai − e non da ultimo le violenze collettive, spesso amplificate nell’immaginario sociale, contro esponenti e favoreggiatori di Salò. Anche l’assenza di armi non è sempre una scelta, in certi casi è semplicemente impossibile procurarsele. Per molti protagonisti/e valgono ragioni politiche in senso stretto. Per moltissimi/e altri/e si tratta piuttosto di compassione verso chi è in pericolo, stanchezza della guerra, spirito di ribellione per il continuo peggioramento delle condizioni materiali; a volte di orgoglio nazionale o dignità del proprio mestiere. Ma nessuna di queste spinte basterebbe, senza un preventivo disconoscimento della legalità fascista e senza l’identificazione, per quanto embrionale e sotterranea, di una legittimità altra. È forse il principale punto di convergenza fra protagonisti/e così eterogenei che ad accomunarli è quasi solo la condizione di cittadini di uno stesso Paese. Ma è un punto forte: già negli scioperi del marzo ‘43, la scintilla era nata dal rifiuto della legalità vigente, che pretendeva di imporre l’unione sacra in nome della patria, e si fondava su un’altra idea di legittimità, secondo la quale è immo14 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 15 rale far pagare alle popolazioni prezzi così alti in termini di fame, freddo, fatica, rischio. Nella resistenza civile italiana, la mobilitazione dell’8 settembre spicca come un momento forte, esemplarmente pericoloso, con caratteristiche di massa ed esteso a tutto il territorio occupato. Alle sue radici, non tanto una pietà indifferenziata, quanto la disponibilità femminile nei confronti di un destinatario ben determinato, il giovane maschio vulnerabile che si rivolge, in quanto tale, alla donna come a una figura forte e protettrice: a una madre. Per questo parleremmo qui di maternage di massa come forma di resistenza civile insieme rafforzata e mediata dalla carica simbolica connessa alla figura femminile. Nei venti mesi successivi, si contano piccoli e grandi fallimenti, piccoli e grandi risultati. Si vanificano i piani nazisti, come quando le donne di Carrara resistono agli ordini di sfollamento totale emanati nel luglio ‘44 per garantire alle truppe tedesche una via di ritirata attraverso territori sgombri. Si strappano miglioramenti delle condizioni di vita. Si delegittimano le istituzioni di Salò. Si salvano persone, come fanno i contadini toscani che ospitano per mesi i prigionieri alleati evasi dai campi di concentramento italiani dopo l’armistizio. Si tratta nel suo insieme di un enorme lavoro di tutela e trasformazione dell’esistente, vite, rapporti, cose, che si contrappone sul piano sia materiale sia simbolico alla terra bruciata perseguita dagli occupanti, e che ha alti livelli di rischio, dalla denuncia alla deportazione e alla pena di morte per chi fornisca documenti falsi ai ricercati, dia aiuto a partigiani o, recita un decreto di Salò del 9 ottobre 1943, «dia rifugio a prigionieri e militari alleati o ne faciliti la fuga». Del resto, nell’ordine senza diritto impo15 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 16 BANDITE! sto dall’occupazione, basta un rifiuto occasionale di obbedienza a provocare conseguenze gravi. L’impegno nella resistenza civile può contare e costare quanto quello nella resistenza armata. Partiti, CLN e forze partigiane guardano con grande attenzione agli orientamenti popolari. È così in tutta Europa, dove già alla vigilia dell’occupazione cominciano a circolare testi che suggeriscono regole di condotta nei confronti dei tedeschi. In qualche caso sono opera di ignoti o di militanti isolati, in altri vengono da organizzazioni della resistenza. Nel dicembre 1943 un opuscolo del Partito d’azione chiede ai dipendenti pubblici rimasti in servizio di ostacolare con ogni mezzo il funzionamento dell’amministrazione fascista. Ma nelle rappresentazioni ufficiali e nell’immaginario d’epoca, resistente è chi ha combattuto in montagna, e nei giorni della liberazione ha sfilato nelle città incarnando anche visivamente l’irrompere del nuovo. In seconda istanza viene l’esponente dei partiti del CLN. Figure inermi e debolmente organizzate come i deportati e gli internati militari restano sullo sfondo, e i criteri per l’attribuzione delle qualifiche partigiane rispecchiano questa gerarchia. In Italia − stabilisce il decreto luogotenenziale del 21 agosto 1945 − è dichiarato partigiano chi ha portato le armi per almeno tre mesi in una formazione armata «regolarmente inquadrata nelle forze riconosciute e dipendenti dal Comando volontari della libertà», e ha preso parte ad almeno tre azioni di guerra o di sabotaggio. A chi è stato in carcere, al confino, in campo di concentramento, la qualifica viene riconosciuta solo se la prigionia ha oltrepassato i tre mesi; almeno sei sono necessari nel caso di servizio nelle strutture logistiche. A 16 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 17 chi, dall’esterno delle formazioni, abbia prestato aiuti particolarmente rilevanti viene attribuito in qualche regione il titolo di benemerito. Con questa consacrazione dell’iniziativa in armi e del legame politico − di partito, di gruppo, di organismo di massa − si sancisce una strettoia che penalizza molte forme di opposizione e moltissimi uomini e donne, comprese le partigiane, che in vari casi non sono state inserite negli organici, e le militanti dei Gruppi di Difesa della donna. Partigiana deportata a Ravensbrueck e coautrice di un libro di memoria e di analisi sulla prigionia femminile, Lidia Beccaria Rolfi ricorda l’atteggiamento con cui i compagni la accolgono al suo ritorno dal lager: «Quando tu tentavi di raccontare la tua avventura, tiravano sempre fuori l’atto eroico: “... però noi!”. I tedeschi li avevano ammazzati loro, i fascisti li avevano fatti fuori loro... e noi eravamo prigionieri...». Dove l’ironia prende di mira, insieme all’autocelebrazione, i valori celebrati: orgoglio militare, enfasi sulla morte, primato del combattente in armi. È una critica che va alle radici, e non è un caso che a farla sia una donna. Nella resistenza e nello Stato che ne nasce, la spinta al rinnovamento tocca aspetti decisivi dell’assetto politico e istituzionale. Ma resta saldo, sul piano simbolico se non a livello giuridico, uno dei fondamenti tradizionali della cittadinanza, che lega la sua pienezza al diritto/dovere di portare le armi, facendo degli inermi per necessità o per scelta figure minori, cittadini in seconda. È il modello consegnato alla modernità dalla Rivoluzione francese e dalle sue leve di massa, paradigma maschile e guerriero del rapporto individuo/Stato. All’attualizzazione di quel primato contribuisce un intar17 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 18 BANDITE! sio di modelli irriducibile a una posizione politica o di partito: dalla tradizione marxista di appoggio alle guerre di liberazione alla figura del ribelle risorgimentale, dalla memoria del combattente di Spagna al sogno del proletario armato come avanguardia del movimento patriottico. A imporlo e a farlo apparire naturale è la stessa realtà: quella di Resistenza è una guerra. Che la guerra non si combatta solo con le armi e che la politica non sia solo quella organizzata, è un’idea lontana dall’Italia di allora. Per le donne, si aggiunge il peso delle costruzioni simboliche sul femminile da cui, a dispetto dei suoi sogni di cambiamento, il movimento resistenziale non è affatto immune. Perdura l’ideologia dell’inconciliabilità fra donne e politica, in omaggio alla quale azioni simili hanno uno statuto diverso a seconda di chi le compie: di una donna che cucina per i partigiani, cura i feriti o segnala la presenza di tedeschi, si dice che dà un aiuto; dell’addetto alla sussistenza di una formazione, del cuoco, dell’infermiere, dell’informatore, si dice che sono partigiani. Lo stesso maternage dell’8 settembre, che salva fra l’altro la “materia prima” della resistenza armata, viene dato quasi per scontato: le donne avrebbero agito come madri e spose, ed è come madri e spose che si cerca di guadagnarle alla causa − e che nello stesso tempo se ne diffida per il loro “egoismo” familistico. Sebbene la guerra sottoponga il concetto di politica a tensioni fortissime, pochi fra i protagonisti sembrano capaci di vedere nelle pratiche delle donne qualcosa di diverso dal prolungamento dei ruoli di assistenza e di cura, espansi al di fuori del privato in deroga alla “naturale” divisione degli spazi. Che a singole esponenti politiche siano assegnati incarichi di rilievo in qualcuno dei 18 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 19 territori provvisoriamente liberati dai partigiani, è un segnale importante, ma coesiste con il fatto che in nessuna di queste zone viene riconosciuto alle donne il diritto di voto per l’elezione degli organismi di autogoverno. Perdura – ed è stupefacente se si pensa ai pericoli per i civili, alla fame, all’imprevedibilità del domani – l’assimilazione fra vita quotidiana e routine, con quel suo risvolto simmetrico che identifica emergenza e caduta peccaminosa nel lassismo. Se la Chiesa rimprovera alle donne di sfuggire la domesticità con il pretesto della guerra e di non saper più educare cristianamente le figlie, in una lettera della XL brigata Matteotti si arriva a invitare le compagne a impegnarsi per procurare quanto necessario alla formazione, «abbandonando la vita metodica e casalinga» (sic). Nonostante il coraggio con cui una parte della dirigenza partigiana stigmatizza i pregiudizi maschili, perdura anche l’ideologia dell’incompatibilità fra donne e armi, mentre in banda la divisione dei compiti si modella sulla gerarchia di genere. Per molte che combattono, poche accedono a ruoli politici o militari di rilievo, pochissime diventano comandanti o commissari politici. È così in tutta la Resistenza europea, ma nei paesi latini si arriva al grottesco: una donna italiana si vede attribuire la qualifica di soldato semplice proprio dal giovane partigiano che lei stessa aveva messo a capo di una formazione quando esercitava in via provvisoria il comando della piazza di Torino. Lo stereotipo forse più imbarazzante per la sensibilità dell’oggi è l’associazione tra femminilità e impurità, contaminazione, disordine sessuale, che nella Resistenza solo piccole minoranze si propongono di smontare. Men19 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 20 BANDITE! tre i rapporti di genere restano associati al privato, e il privato viene temuto come luogo del cedimento e della perdizione, si esaltano madri e sorelle putative, si guarda con diffidenza alla femminilità di ogni altra, comprese le partigiane. Un caso limite − rimasto isolato, ma inizialmente proposto a modello dal comando generale del Corpo volontari della libertà − è quello della piemontese XIX Brigata Garibaldi, dove le 38 donne del distaccamento femminile non solo lavorano di cucito al chiuso sotto il controllo di un’anziana, non solo sono diffidate dall’avere rapporti con i civili, ma vengono sottoposte a visita medica settimanale per evitare casi «di malattie più o meno contagiose». La partigiana ideale è la protagonista dell’Agnese va a morire2, il romanzo modello sulla resistenza femminile: informe, materna, in età non sospetta. Le altre, come è risaputo, inquietano. Giovani, uscite non episodicamente dal privato e mischiate ai maschi nelle formazioni, sfidano troppe costruzioni ideologiche, a partire da quella per cui donne e uomini devono avere spazi separati; e fanno a tal punto da catalizzatore del biasimo antipartigiano che, in ossequio alla mentalità diffusa, vengono non di rado messe ai margini a emergenza finita. Che il “racconto” della Resistenza come nuova epopea nazionale nasca su questa rimozione del femminile non ha mai occupato i pensieri degli storici. Eppure affrontare quel vuoto aiuterebbe a capire da dove veniamo, in particolare per quanto riguarda modelli e politiche di genere, su cui forse non esiste un rivelatore potente quanto il tempo della guerra. Basta pensare, per esempio, all’impegno di tanti dirigenti politici e militari 2. Dal romanzo di Renata Viganò, Giuliano Montaldo ha tratto un’omonima versione cinematografica. 20 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 21 italiani nell’evitare un’immagine promiscua della Resistenza. Per lo più, lo si è letto come un adeguamento all’arretratezza sociale e culturale del Paese e un residuo interno all’orizzonte nord-occidentale, come se l’Italia non fosse invece fortemente legata alla tradizione del bacino mediterraneo. Senza dimenticare lo scarto temporale e le differenze che ci separano dai Paesi della riva sud, sarebbe utile una riflessione centrata sia sulla pretesa delle religioni a regolamentare direttamente o indirettamente la vita delle donne e la morale privata, sia sul riconoscimento che le forze politiche sono costrette, avvezze, spesso interessate, a dare a quella intromissione. La riluttanza a far sfilare le partigiane nei cortei della liberazione come versione evoluta del velo? Sarebbe un’ironia, se si pensa che nella guerra appena conclusa a garantire la vita sono state donne visibili a livello di massa nella sfera pubblica come mai prima; ma darebbe un elemento in più per comprendere alcuni aspetti: innanzitutto l’enorme legittimazione accordata al materno in quei momenti e la sua poca resa in termini di libertà e visibilità femminili a emergenza finita. Questi orientamenti hanno modellato per decenni i modi e i tempi della ricerca, che, come in tutta Europa, ha quasi ignorato la Resistenza delle donne e le lotte non armate. Per quanto riguarda la prima, la sua marginalizzazione era evidentissima nel disinteresse per il nodo donne/politica. Un problema lungamente dibattuto a proposito degli scioperi del marzo 1943 − il rapporto fra organizzazione politica e concertazione informale − è stato del tutto trascurato per le donne. Le stesse divergenze fra partigiane, fra organizzazioni femminili e al loro interno, venivano eluse a favore di un’immagine di quieto unani21 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 22 BANDITE! mismo. Già a partire dagli anni Settanta alcune studiose denunciavano queste cecità; ma in quella fase, e per vario tempo ancora, nella comunità delle storiche dominava la diffidenza verso i binomi che accostano le donne agli eventi della cosiddetta grande storia (gli intrecci donne/guerra, donne/resistenza e così via), quasi fossero un cedimento alle sue gerarchie di rilevanze. Anche per questo la storiografia resistenziale poteva continuare indisturbata a “spiegare” l’opera delle donne in termini di rapida politicizzazione (senza però verificarla), o di naturale oblatività femminile e di umanitarismo (seducenti parole tuttofare che andrebbero a loro volta spiegate, perché quei sentimenti non scattano sempre, né per chiunque). In termini simili, e con la stessa distrazione, si guardava alle lotte senza armi. Pochissime le ricerche, assolutamente imparagonabili alla mole di studi sulla Resistenza armata e sui gruppi politici, e dovute quasi soltanto a esponenti e gruppi della nonviolenza. Lo scarto era ancora maggiore per la sistemazione storico-teorica. Sul nodo guerra di liberazione/guerra civile sono state scritte cose decisive e probabilmente definitive, su quello lotta armata/lotta non armata e sul modello di cittadinanza uscito dalla Resistenza si è pensato e detto poco. A tutt’oggi manca del tutto, per esempio, una riflessione su quanto, e se, abbiano influito su quel modello il carattere volontario dell’arruolamento, la struttura meno gerarchica delle formazioni militari, gli obiettivi di pace. Non in modo decisivo, a giudicare dall’indicatore rappresentato dal linguaggio, che continua a fare del caduto la personificazione eroica e virile del morto. Certo la nostra realtà è imparagonabile alle grandi mobilitazioni 22 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 23 popolari e istituzionali di altri Paesi, e sovradimensionarla avvalorerebbe il mito nazionale degli “italiani brava gente”. Per quanto riguarda l’aiuto agli ebrei, banco di prova della resistenza civile europea, non si hanno da noi prese di posizione ufficiali né da parte di personalità della cultura, né di istituzioni religiose e civili o di ordini professionali; dissociazione dalla politica razzista e sostegno concreto si realizzano in gran parte a livello individuale o nelle reti di rapporti di piccolo raggio. Quanto basta, però, a rifiutare lo stereotipo speculare di un popolo geneticamente afflitto da opportunismo e inclinazioni fascistoidi − la categoria di carattere nazionale è così volatile che la si può tirare in qualsiasi direzione. Comunque si valuti la dimensione quantitativa, non perdono la loro vitalità i significati che l’area dei comportamenti conflittuali inermi offre, e che né la cultura di sinistra né quella cattolica hanno colto e accolto. La prima li ha trattati quasi come una componente ambientale che aderisce, sabota o si astiene in una partita giocata tra fascisti e partigiani. La seconda ha puntato a valorizzare sia l’azione disarmata sia la pietas che si sforza di salvaguardare beni e persone, ma identificandole come espressioni della coscienza cristiana e forme proprie della partecipazione cattolica alla Resistenza; a volte rivendicandole in esclusiva. Quasi che atti e sentimenti simili non appartenessero anche all’esperienza del combattente, o non potessero avere altra matrice che quella religiosa. Si può dire, schematizzando, che questi orientamenti si sono riprodotti per decenni, con le due parti che rivendicavano l’una il primato della lotta armata nella guerra antifascista e nella fondazione democratica, l’altra quello della Resistenza senza armi. Restava così irrisolto il pro23 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 24 BANDITE! blema di una concettualizzazione della lotta civile che non ne facesse un puro complemento di quella armata, né un fenomeno indistinto buono a legittimare qualsiasi condotta, né il blasone dello schieramento cattolico; e nell’opinione pubblica si tramandava la vecchia e settaria divisione dei ruoli che assegna alle sinistre, in particolare ai comunisti, l’organizzazione e la violenza, ai cattolici la spontaneità e la pietas. Il risultato è che un intero universo di comportamenti rimaneva fuso e confuso nello scenario della guerra civile, mentre il senso comune storiografico recalcitrava di fronte alla prospettiva di riconoscergli il titolo di Resistenza. In qualche caso − per esempio i 600.000 militari internati in Germania che rifiutano di arruolarsi nell’esercito di Salò − si parlava di “Resistenza passiva”, un termine già in uso all’epoca, che per la cultura occidentale ha un segno negativo e che risulta davvero stonato. Come si fa a definire “passivo” un no opposto ai nazisti dall’interno di un campo di prigionia? Ecco perché il concetto di resistenza civile risulta prezioso. Individuare nella società un luogo di antagonismo anziché uno scenario, nei cittadini e nei gruppi sociali i protagonisti anziché le comparse, equivale a mettere in questione automatismi fra i più radicati: non solo la polarità fra un maschile associato alla guerra e un femminile associato alla pace, ma anche l’equiparazione fra comportamento attivo e presa delle armi, e l’identificazione altrettanto arbitraria della scelta non violenta con l’equidistanza dagli schieramenti. Se la resistenza civile può e spesso deve cercare la mediazione, lo fa a partire da una scelta di campo. Pensiamo dunque che meriti un posto a sé nel dibattito avviato in questi anni su “Zona 24 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 25 grigia” e attendismo. Un posto contiguo, perché spesso ne condivide il contesto sociale e una frazione di percorso, e nello stesso tempo lontanissimo, perché non ne è la faccia nascosta ma l’esatto contrario. Ci sembra che lo sia anche se si adottano letture nuove e sensibili degli atteggiamenti delle popolazioni, per esempio sottolineando la fatica di sopravvivere e la sofferenza comuni, o rifiutando di assimilare esitazioni e sentimenti di estraneità a una palude opportunista. Sono modi di rendere giustizia a chi, pur non facendosi parte attiva della lotta, può aver condiviso momenti di solidarietà o sforzi per limitare il peso dell’emergenza. Ma perché la resistenza civile abbia a sua volta giustizia, il primo passo è proprio distinguerla da questo sfondo. Chi protegge un perseguitato non si mette in posizione di attesa, non delega la salvezza dell’altro alla fine vittoriosa della guerra, un evento che potrebbe arrivare troppo tardi. Sceglie, si espone, e con il suo comportamento esemplifica il rapporto semplice e cruciale che esiste fra il tema della resistenza civile e quello della responsabilità individuale. Se si indica come sola forma di opposizione qualificata quella in armi, come solo antagonista decisivo il partigiano, si finisce implicitamente per legittimare chi ha scelto di non agire, e può giustificarlo invocando principi e infinite ragioni pratiche. È vero che non tutti possono sparare, lasciare la famiglia e la casa, vivere in clandestinità, reggere grandi fatiche. La lotta armata, soprattutto quella in montagna, chiede corpi giovani e sani. Molto cambia se si afferma l’idea di una resistenza diversa, praticabile in molti più luoghi e forme, accessibile a molti più soggetti, dalla madre di famiglia al prete al non25 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 26 BANDITE! violento, ma anche a chi ha un’età anziana, o è infermo, magari fisicamente inetto. «Fai come me» è un invito che il resistente civile può estendere molto al di là di quanto possa fare il partigiano in armi. Il problema della colpa diventa così meno tranquillamente eludibile, sia sul piano individuale sia su quello collettivo. Qualcosa può cambiare anche per quanto riguarda un altro crocevia storico e ideologico. Si discute da tempo sulle difficoltà della Resistenza a porsi come matrice dei sentimenti di appartenenza, sui modi di affrontare le fratture politiche che segnano l’identità nazionale. Ma esistono divisioni legate al genere sessuale, alle fasce di età, alle diverse tradizioni, alla geografia, a cominciare da quella che giustappone un Nord cuore della lotta armata, virilmente attivo, innovatore, a un Sud femminilmente passivo, cooptato in un riscatto cui sarebbe rimasto estraneo: problemi non solo italiani, visto che tutti gli Stati europei hanno preso a simbolo della rinascita postbellica la figura minoritaria del giovane maschio combattente. 26 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 27 BRIGANTESSE: TUTTA UN’ALTRA STORIA Nel febbraio del 1861, con la capitolazione di Gaeta, ultima roccaforte borbonica, il Regno delle Due Sicilie cessa, di fatto, di esistere. Francesco II, ultimo Re di Napoli, ripara a Roma, ospite dello Stato Pontificio. La precarietà dell’esilio, la solidarietà di numerose dinastie europee e le notizie − spesso ingigantite − delle difficoltà che il nuovo Stato italiano incontra per radicarsi nel territorio, lo spingono a coltivare la speranza di un sollecito ritorno sul trono. Dovunque, nei territori dell’ex regno − a Napoli, come nei centri minori − sorgono comitati segreti filoborbonici, con lo scopo dichiarato di sollevare le popolazioni contro i piemontesi. In tutto il Mezzogiorno si riaccendono improvvisamente i fuochi della ribellione contadina: fuochi che − a ben dire − hanno sempre infiammato il Meridione d’Italia; fuochi ora alimentati da uno sconquasso politico e sociale insostenibile. Il possesso e l’uso della terra hanno da sempre costituito un fattore scatenante di rivolte. Ma né le leggi eversive, né l’esproprio dei beni ecclesiastici hanno fatto conseguire la più antica aspirazione delle classi rurali: la proprietà della terra. Ed è terra ostile quella che i contadini lavorano per conto di altri, aristocratici e latifondisti. Spesso sottratta − zolla dopo zolla − ai boschi, alle macchie ed alle pietraie montane. In cambio i contadini ricevono un salario che consente appena di sopravvivere. Il mutamento di governo ha ingenerato speranze che ben presto si rivelano infondate. La terra cambia proprietario, ma i contadini ne sono sempre fuori, messi nell’impossibilità 27 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 28 BANDITE! pratica di acquistarla o riscattarla con i sofismi di una legge fatta da un parlamento di “galantuomini” per i “galantuomini”. Il destino dei contadini appare segnato: rassegnarsi o ribellarsi. L’esercito borbonico, che per molti giovani rappresentava l’unico sbocco occupazionale, è stato disciolto. Funzionari ex borbonici senza scrupoli, passati nella burocrazia del Regno d’Italia, hanno scientemente occultato il richiamo alle armi nel nuovo esercito italiano per favorire il disordine, così che una moltitudine di giovani si è ritrovata bollata con il marchio della diserzione, senza nemmeno venirne a conoscenza. Contadini senza terra e soldati senza esercito null’altro possono fare che darsi alla macchia. Nascono e proliferano, ingrossate anche da gruppi di evasi dai bagni penali borbonici, le bande dei briganti che sfruttano la conoscenza dei luoghi, l’ardimento e la sete di rivendicazione sociale per dare scacco all’esercito piemontese, un esercito straniero, che parla una lingua straniera, che applica leggi straniere, che obbedisce ad un re straniero e che dunque è un esercito di occupazione. La violenza esplode allora in tutta la sua virulenza: l’occasione è propizia anche per soddisfare la sete di vendetta troppo a lungo repressa nei confronti dei possidenti, dei “galantuomini” e del clero. Nelle Calabrie, nelle Puglie e, soprattutto, in Basilicata sono messi a fuoco e depredati interi paesi, massacrate le personalità più in vista e più odiate, sbaragliate le truppe piemontesi. L’esercito è impotente, percorre a casaccio le contrade più impervie, cade in imboscate, vede i suoi uomini falciati da un nemico invisibile, reagisce con violenza alla violenza in una spirale infinita di sangue. Il fenomeno del brigantaggio approda nel Parlamento che, 28 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 29 lungi dal preoccuparsi di tentare − con una saggia politica di riforme sociali − di rimuoverne le cause, sceglie la via della repressione, adottando una legislazione speciale, la legge Pica, che instaura il terrore nei territori occupati, la fucilazione sul campo, lo stupro delle donne dei ribelli. In questo contesto matura il dramma delle “brigantesse”, che è dramma della rottura dell’equilibrio familiare, dramma di madri senza più figli, di ragazze orfane dei genitori, di vedove: è dramma di donne disperate che, ribaltando un ruolo stereotipo di rassegnazione e sudditanza, si dimostrano capaci di affiancare con coraggio i propri uomini e partecipare attivamente alla rivolta contadina. È difficile attribuire una data di nascita al brigantaggio femminile, ma una prima significativa figura femminile di età moderna può essere individuata in Francesca La Gamba, nata a Palmi (RC) nel 1768 e attiva nel decennio di occupazione francese (1806-1816). Francesca, filandiera di professione, madre di tre figli, divenne capobanda, spinta da un’incontenibile sete di vendetta contro i francesi che l’avevano colpita negli affetti più cari. Rimasta vedova del primo marito, dal quale aveva avuto due figli, convolò in seconde nozze. Avvenente d’aspetto ed esuberante nel carattere, attirò le mire di un ufficiale francese che, invaghitosene, tentò − forte della sua posizione sociale − di sedurla. Respinto dalla fiera Francesca, il militare pensò di vendicarsi in maniera terribile. Nottetempo fece affiggere un falso manifesto di incitamento alla rivolta contro l’esercito francese di occupazione ed il mattino successivo fece arrestare i figli della donna, accusandoli di essere gli autori della bravata. Alle suppliche di Francesca, l’ufficiale fu irremovibile: 29 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 30 BANDITE! i giovani subirono un processo sommario e furono fucilati. Francesca, pazza di dolore, si unì ad una banda di briganti che operava nella zona, dismise gli abiti femminili ed indossò quelli dei briganti. In breve, fornì prove di ardimento tali da divenire il capo riconosciuto della banda stessa, seminando ovunque il terrore. I francesi si accanirono nella caccia della donna, fino a quando un loro drappello cadde in un’imboscata tesa da Francesca. Tra i soldati fatti prigionieri la sorte volle che ci fosse proprio l’ufficiale suo nemico. Con una coltellata Francesca gli strappò il cuore e lo divorò ancora palpitante. Nell’orrore di questa vicenda, pure caricata di colore dal mito, possono leggersi le ragioni che hanno spesso indotto tranquille popolane meridionali a trasformarsi in Erinni vendicatrici: la prevaricazione degli occupanti, il loro disprezzo per gli affetti feriti, l’irrefrenabile ansia di vendetta suscitata nei popoli conquistati. Crollato il mondo familiare intorno al quale si è costruita a fatica una pur misera esistenza, la vendetta femminile si dimostra ancor più feroce di quella maschile. Si tratta di fenomeni tuttavia limitati che fanno da contraltare a tanti episodi di rassegnazione e di pianto: costituiscono un’eccezione, insomma, non già la regola. Appare dunque azzardato il tentativo di attribuire autonomia assoluta al brigantaggio femminile preunitario. Forse sarebbe più corretto parlare di una “questione dentro la questione”. E questo non sminuisce il ruolo delle donne nella rivolta contadina. Anzi, lo amplia e agevola la comprensione dell’intera questione delle classi subalterne meridionali. È comprovata invece, nelle vicende rivoluzionarie della seconda metà dell’Ottocento, la presenza di un considerevole numero di donne nell’organizzazione bri30 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 31 gantesca. Chi può, infatti, legittimamente sostenere che in una banda di briganti, numerosa e perfettamente organizzata (come tante nel periodo che trattiamo), si potesse fare a meno della presenza delle donne per motivi logistici, di collegamento, di approvvigionamento e, perché no, anche per motivi affettivi? Occorre qui introdurre e operare − semmai − un’altra distinzione che dall’Ottocento ad oggi ha diviso e divide gli studiosi: la distinzione tra “la donna del brigante” e “la brigantessa”. Numerosi sono gli esempi di “donne del brigante”, più rari − ma non meno significativi − quelli di “brigantesse”. Gli uni e gli altri concorrono però in eguale misura a definire il ruolo della donna nelle classi rurali della seconda metà dell’Ottocento meridionale italiano e contribuiscono certamente all’affermazione del posto che la donna occupa nell’odierna società italiana. La “donna del brigante” è colei che ha dovuto o voluto seguire il proprio uomo (spesso marito, talora amante, raramente figlio) che si è dato alla macchia. Nel primo caso, quello della costrizione, il darsi alla macchia del proprio uomo l’ha confinata in una condizione ancora più disperata. Le è venuta meno ogni forma di sostentamento: l’opinione pubblica l’ha additata con disprezzo e l’ha isolata, spesso anche per timore di sospetti di connivenza. Non le è rimasto che il mendicio e il meretricio. Sola, senza mezzi, disprezzata dai borghesi benpensanti e dai popolani acquiescenti, controllata a vista dalle autorità governative, talvolta oggetto di attenzioni inconfessabili dei “galantuomini”, ha preferito alla fine seguire fino in fondo la scelta di vita del suo uomo. La “donna del brigante” è anche colei che viene rapita e sedotta dal bandito, ridotta in stato di schiavitù e costretta − contro il 31 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 32 BANDITE! suo volere − a seguirlo nelle sue azioni brigantesche. Spesso finisce però per innamorarsene, per quella condizione psicologica che oggi è classificata come “sindrome di Stoccolma”. È il caso, ad esempio − sempre nel periodo di occupazione francese − di una non meglio identificata Margherita. Il brigante Bizzarro, uomo violento e sanguinario, imperversava nelle Calabrie. Costui, nel corso di una delle sue crudeli scorribande, sterminò un’intera famiglia, trucidò un padre e ne rapì la figlia Margherita. Bizzarro sicuramente stuprò la donna, la rese sua schiava e la condusse con sé, in groppa al proprio cavallo, nelle imprese brigantesche alle quali dava continuamente vita. Ci si aspetterebbe che la donna fosse investita da rabbia, rancore e odio. Invece in Margherita, lentamente, l’odio verso Bizzarro si trasformò in ammirazione, il sentimento di vendetta fu sostituito dall’amore verso il boia della sua famiglia. Ne diventò la compagna e il braccio destro e lo accompagnò nelle sue scorrerie, gareggiando con lui in audacia e coraggio. Catturata in un’imboscata, non sopravvisse a lungo ai rigori della prigione che, come vedremo più avanti, non erano inferiori a quelli della latitanza. Per un beffardo gioco del destino una reazione opposta dimostrò invece − proprio nei confronti dello stesso Bizzarro − la donna che subentrò a Margherita nelle grazie del bandito: Niccolina Licciardi. Un giorno erano entrambi braccati dai piemontesi. Bizzarro, in un raptus di follia omicida, sfracellò contro le pareti di una caverna il neonato avuto dalla compagna, per la sola ragione che il pianto del bimbo rischiava di rivelarne la presenza agli inseguitori. Niccolina non versò neppure una lacrima. Con le mani scavò una fossa, vi seppellì il figlioletto e si pose a guardia della tomba − anche dor32 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 33 mendovi sopra − per evitare lo scempio da parte degli animali selvatici che infestavano la zona. Profittando poi del sonno di Bizzarro, gli sottrasse il fucile e gli fece saltare le cervella, sparandogli in un orecchio. Decapitato il bandito, ne avvolse la testa in un panno, si diresse a casa del governatore di Catanzaro e sul suo desco lanciò il macabro trofeo. Incassata la taglia, ritornò sui monti e di lei si perse ogni traccia. Alcune volte, ed è il caso della libera scelta, “la donna del brigante “ segue volontariamente l’uomo di cui è innamorata. Tale appare la vicenda di Maria Capitanio. La ragazza, nel 1865, a quindici anni si innamorò di Agostino Luongo, un operaio delle ferrovie. Maria continuò ad amarlo e a frequentarlo di nascosto anche quando questi si dette alla macchia. Lo seguì nella latitanza, consumò le “nozze rusticane” e partecipò per pochi giorni alle azioni delittuose della banda, fungendo da vivandiera e da carceriera di un ricco possidente, tenuto in ostaggio. Catturata dopo una decina di giorni, in uno scontro a fuoco, grazie ai denari del padre, fu prosciolta dall’accusa di brigantaggio, essendo riuscita a dimostrare − attraverso false testimonianze − di essere stata costretta con la forza a seguire il brigante Luongo. Rivelatrice di contraddizioni è la vicenda di Filomena Pennacchio, una tra le più note “brigantesse”. Figlia di un macellaio, nata in Irpinia nella provincia borbonica di Principato Ultra, fin dall’infanzia incrementò il povero bilancio familiare servendo come sguattera presso alcuni notabili del paese. Alcuni mesi dopo il primo incontro con Giuseppe Schiavone, famoso capobanda lucano, vendette per alcuni ducati il poco che aveva e lo seguì nella latitanza. La vita brigantesca la rese subito un’intrepida combattente, evidenziando le sue 33 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 34 BANDITE! inclinazioni sanguinarie. Con Schiavone partecipò a furti di bestiame e a sequestri di persona, trovando modo di meritarsi il rispetto e la simpatia di tutta la banda. Non si sottrasse nemmeno all’omicidio, avendo preso attiva parte all’eccidio di nove soldati del 45° Reggimento di Fanteria nel luglio del 1863 a Sferracavallo. Era altresì capace di slanci di generosità come è testimoniato dal soccorso che offrì ad alcune vittime della banda Schiavone e per aver cercato di salvare alcune vite. Di lei si disse anche, ma senza suffragio di prove, essere stata non solo l’amante di Schiavone ma anche di Carmine Crocco, il leggendario e riconosciuto capo di tutte le bande lucane e dei suoi luogotenenti Ninco Nanco e Donato Tortora. La presenza di più donne nella banda portava facilmente ad episodi di gelosia, dei quali si servì largamente l’esercito occupante per annientare il nemico. E fu proprio la gelosia di Rosa Giuliani, cui Filomena Pennacchio aveva sottratto i favori di Schiavone, a tradire quest’ultimo: la delazione della Giuliani consentì, infatti, l’arresto di Schiavone e di altri briganti che furono subito condannati a morte. Prima di morire, il feroce Schiavone volle rivedere ancora Filomena, gravida di un suo figlio. Fu un incontro tenerissimo tra la brigantessa regina di ferocia e il capobanda terrore delle valli dell’Ofanto che in ginocchio − chiedendole perdono − le baciava le mani, i piedi ed il ventre pregno. Filomena Pennacchio però non visse − come altre − nel ricordo del suo uomo. Preferì − allettata da una promessa di sconto della pena − tradire anch’essa e fece catturare con le sue rivelazioni un altro luogotenente di Crocco, Agostino Sacchitiello ed altre due famose “brigantesse”, Giuseppina Vitale e Maria Giovanna Tito. Condannata a venti anni di reclusione, la 34 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 35 Pennacchio godette di vari sconti di pena: dopo sette anni di detenzione tornò a casa ed anche per lei si aprirono le porte di una vita anonima. Nella storia della calabrese Maria Oliverio, detta “Ciccilla”, è sempre il sentimento della gelosia il detonatore che fa esplodere la determinazione criminale della “brigantessa”: Ciccilla era una bellissima ragazza dalle lunghe e nere chiome e dagli occhi corvini. Sposa di Pietro Monaco, un ex soldato borbonico ed ex garibaldino, datosi al brigantaggio dopo un omicidio, non lo aveva inizialmente seguito. Rimase nel proprio paese, accontentandosi di rari, furtivi momenti di intimità con il marito quando questi scendeva dai monti, fino a quando venne a sapere che Monaco aveva avuto una fugace relazione con la sorella. Ciccilla decise di vendicarsi. Invitò la sorella in casa e − nel cuore della notte − la trucidò con un pugnale, martoriandone il corpo con una trentina di colpi d’ascia. Subito dopo − a dorso di mulo − raggiunse la banda del marito, divenendone addirittura il capo di fatto. Il raccapriccio che accompagnò le sue gesta si diffuse in tutto il circondario. Perfino i suoi stessi briganti ne ebbero terrore e disprezzo. Usava, ad esempio, infierire sui cadaveri dei nemici uccisi, mutilandoli atrocemente con coltelli e rasoi che portava sempre con sé. Catturata dopo la morte del marito, fu disconosciuta dai suoi stessi familiari. Anche la madre rifiutò di visitarla in carcere. Il processo, che fu celebrato a Catanzaro con grande partecipazione di gente e che vide come testimoni a carico anche i parenti suoi e del marito, si concluse con la condanna a morte. Ed è uno dei rarissimi, se non l’unico, caso di sentenza capitale per una donna. La sentenza − contrariamente a quanto sostengono taluni frettolosi cronisti − non fu poi esegui35 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 36 BANDITE! ta ma tramutata nell’ergastolo, perché il governo italiano non aveva interesse a mostrarsi all’opinione pubblica internazionale come giustiziere di una donna. Storie brigantesche, come si vede di inaudita ferocia, ma anche storie di teneri sentimenti che le esasperazioni di una guerra civile non riescono a sopprimere del tutto. Accanto a donne che uccidono senza pietà e che spingono la loro ferocia − come affermano le cronache giornalistiche e giudiziarie dell’epoca − fino ad inzuppare del sangue delle loro vittime il pane che poi addentavano avidamente, vi sono donne che continuano a mandare messaggi d’amore ricamati su fazzoletti (Maria Suriani al “capitano Cannone”) o a ricamare per mesi l’immagine dell’amante (con tanto di fucile a trombone) su una tovaglietta, una delle quali ancora oggi viene conservata come cimelio. Nemmeno sfugge alla dura legge della guerriglia e della latitanza il bisogno di sentirsi pienamente donna, di essere madre. Sono molti gli esempi di briganti catturati in combattimenti che, ad un più attento esame, si rivelano “brigantesse” in stato di gravidanza. È difficile però sostenere che a indurle alla gravidanza sia solamente il calcolo previdente di una maggiore clemenza dei giudici in caso di arresto e la prospettiva di un trattamento carcerario più umano. È, semmai, più lecito pensare che le gravidanze siano la dimostrazione della necessità di chi si è dato alla macchia di ricostruirsi una vita normale, anche attraverso i sentimenti più naturali. Rosa Reginella, della banda di Agostino Sacchitiello viene catturata con il suo compagno a Bisaccia nel novembre 1864, dopo un accanito combattimento a cui non si sottrae, nonostante la gravidanza avanzata. Due mesi dopo, infatti, partorisce in carcere. Gravide al momento della cattura 36 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 37 sono anche Serafina Ciminelli − simile per aspetto e corporatura ad una bambina − compagna del capobanda Antonio Franco e la bella Generosa Cardamone, amante di Pietro Bianchi. Per le brigantesse catturate si aprono le vie del carcere. La legislazione dell’epoca non prevede condanne differenziate per i due sessi, ma l’orientamento dei giudici appare quello di comminare condanne più lievi alle donne, anche in considerazione del fatto che quasi mai è possibile processualmente accertare la volontarietà nella scelta di delinquere. Normalmente la pena inflitta si aggira sui quindici anni di carcere, spesso in parte condonati. Si tratta però di una condanna solo in apparenza più lieve. Infatti, le condizioni di vita all’interno dei vecchi bagni penali borbonici, trasformati in carceri del Regno d’Italia, sono pessime: il rancio è appena sufficiente a sopravvivere, le condizioni igienico-sanitarie sono impossibili. Costrette ad una vita di stenti, a continui spostamenti, a marce forzate, le “brigantesse” accusano − più dei loro uomini − il peso dei disagi fisici e quando vengono catturate mostrano i segni della debilitazione. La mancanza di igiene (per coprirsi spesso indossano gli abiti sporchi dei nemici uccisi in combattimento) produce infezioni, che poco o niente curate in carcere, le portano ad una morte prematura. È il caso, ad esempio, della Ciminelli che appena un anno dopo la cattura muore come recita l’arido atto di morte del comune di Potenza per “setticemia”, provocata da un’infiammazione del perineo. Il dramma delle donne del brigantaggio si consuma nell’indifferenza, quando non nel disprezzo, nel silenzio dell’opinione pubblica. Gli atti ufficiali dei Carabinieri Reali, quelli delle Prefetture, i fascicoli processuali le accomunano tutte ai loro uomini, non attri37 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 38 BANDITE! buendo mai alle donne del brigantaggio un ruolo di soggetto sociale autonomo. Le cronache giornalistiche e gli scrittori coevi le descrivono solo come manutengole, amanti, concubine, “ganze”, “drude”, donne di piacere dei briganti. Ciò ha impedito di prendere in considerazione il fenomeno e non ha consentito uno studio più approfondito sui risvolti sociali e politici della rivolta delle donne meridionali. Delle “brigantesse” restano oggi solamente le poche foto che la propaganda di regime ha voluto tramandare per una distorta lettura iconografica del brigantaggio. Così, accanto a “brigantesse” che si sono fatte ritrarre − armi in pugno − in abiti maschili, vi sono le foto ufficiali dopo la cattura e, talora, dopo la morte in una postura innaturale. Come i loro uomini, trucidati e frettolosamente rivestiti, legati ad un palo o ad una sedia, gli occhi rigidamente spalancati, con in mano i loro fucili e circondati dai loro giustizieri. Macabro trofeo di una guerra civile occultata. Emblematiche sono le foto che si conservano di Michelina Di Cesare, una delle pochissime “brigantesse” uccise in combattimento: alcune la ritraggono negli abiti tradizionali che ne esaltano la bellezza mediterranea. L’ultima, scattatale dopo la morte, mette in evidenza lo scempio fatto sul suo cadavere. Valentino Romano 38 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 39 PARTE PRIMA Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 40 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 41 LE BRIGANTESSE Dicette Garibaldi “ chesta terra è a vostra” e nuie c’ammo creduto e c’ammo fatte assai cchiù tuoste ma mò chi sa cumm’è, ce resta ‘o resto ‘e niente simmo briganti e guappe, sempre cchiù pezzienti3. Teresa De Sio, Sacco e Fuoco MICHELINA DI CESARE Se sul web si cercano informazioni su Caspoli, poche righe ci informano che si tratta di un paese di poco più di tremila abitanti della provincia di Caserta. Fra queste poche righe, si scopre che il paesello campano ha dato i natali a Michelina Di Cesare: non un premio Nobel ma – testuale – “famosa brigantessa post-unitaria”. Di questa “fama” si trova traccia in documenti civili o militari del nuovo Stato unitario, come testimonia una segnalazione del maggio del 1868, cioè tre mesi prima della sua morte, datata 30 agosto di quell’anno, quando la Di Cesare aveva 26 anni: «Il Sindaco del Municipio di Mignano, in Provincia di Terra di Lavoro certifica che la nominata Michelina Di Cesare del fu Domenicantonio del villaggio di Caspoli, ha sempre avuto una pessima condotta, tanto che fin dal 1863 scorazza (sic) le pubbliche vie e campagne coll’orde brigantesche. In fede ne rilascia il presente. Mignano 6 maggio 1868. Il sindaco Don FR. Salvatore». Il carattere ribelle della poverissima Michelina era emer3. Disse Garibaldi “questa è terra vostra” e noi ci abbiamo creduto e siamo diventate più dure, ma adesso, chissà com’è, ci resta il resto di niente. Siamo briganti e guappe, sempre più pezzenti. 41 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 42 BANDITE! so fin dall’infanzia, quando con suo fratello aveva compiuto diversi furti, finché a vent’anni – in quel 1861 che aveva salutato l’unità d’Italia – era andata in sposa a un cafone del luogo, tal Rocco Tanga, che però era morto l’anno dopo. Michelina era così precipitata nuovamente in un’indigenza senza scampo in un territorio segnato da una condizione economica che contemporaneamente all’unità d’Italia aveva visto nascere la “questione meridionale”, destinata a crescere e a prosperare in uno squilibrio economico fra Nord e Sud le cui responsabilità sono rintracciabili anche nell’atteggiamento della borghesia agricola meridionale, così tratteggiata dallo storico Francesco Barbagallo: «La classe borghese dei grandi e medi proprietari terrieri nasceva e si rafforzava al di fuori di un reale conflitto con la proprietà nobiliare, anzi aspirava ad imitarne i costumi e le abitudini, e mutuava dalla feudalità caratteri e forme del tradizionale sfruttamento della terra e dei contadini. L’appropriazione borghese della terra non comportava il superamento dei rapporti agrari e sociali più arretrati». La fresca unità nazionale non aveva portato nessun miglioramento a questa situazione, anzi, l’annessione piemontese – oltre a lasciare inalterati i rapporti di forza fra popolazione e proprietari terrieri – aveva introdotto la coscrizione obbligatoria (con dannosa sottrazione di forza lavoro alle famiglie) e nuove tasse. Una situazione esplosiva, presto sfociata nel fenomeno del brigantaggio in Basilicata, Molise, Abruzzo, Calabria, Campania, Puglia. Fra i tanti “briganti”, c’è pure Francesco Guerra, ex soldato borbonico, renitente alla leva sabauda, affiliato alla banda di Rafaniello, di cui prenderà il comando alla morte del capo. Quando Michelina lo conobbe, erano passati solo 42 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 43 pochi mesi dalla morte di suo marito, e presto diventò l’amante di Guerra e condivise con lui la clandestinità. Un’unione che, nonostante la situazione non proprio “normale”, fu sancita con un matrimonio celebrato nella chiesa del paese di Galluccio, anche se – date le circostanze – non fu redatto alcun certificato che possa provarlo. A testimoniare tuttavia l’unione «davanti agli uomini e davanti a Dio», ci sono le parole del brigante Domenico Compagnone. Quando era stato catturato, durante un interrogatorio datato 11 maggio 1865, il Compagnone aveva dichiarato che Michelina era moglie del Guerra. Ma non solo moglie. «La banda», aveva infatti confidato il brigante, «è composta in tutto da ventuno individui, comprese due donne che stanno assieme a Fuoco e Guerra, delle quali quella di Guerra è anch’essa armata di fucili a due colpi e di pistola. Della banda solo i capi sono armati di fucili a due colpi e di pistole, ad eccezione dei due capi suddetti che tengono i revolvers». La banda Guerra si era specializzata in una guerriglia mordi e fuggi, con Michelina che capeggiava un’azione mentre il suo uomo ne compiva un’altra. Il suo carisma era cresciuto enormemente quando aveva ideato un colpo sensazionale: «alcuni di noi», aveva spiegato, «si travestiranno da carabinieri e fingeranno di portare dei briganti appena catturati nella camera di sicurezza della stazione dei carabinieri di Galluccio. Una volta lì, disarmeremo i veri carabinieri, trafugheremo le armi, e assalteremo l’ufficio postale, poi svuoteremo le casse dei ricchi, casa per casa». Tresca esecranda Michelina partecipò attivamente a tutte le azioni della banda. Tale circostanza è indirettamente provata dagli 43 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 44 BANDITE! atti processuali rintracciabili in vari archivi di Stato, nei quali sono contenute alcune testimonianze che tracciano il profilo di questa donna diventata l’icona del brigantaggio postunitario e della reazione femminile all’unità d’Italia. Dichiara, ad esempio, il brigante Domenico Compagnone, detenuto nel carcere di Gaeta: «[…] Siam rimasti per un giorno nascosti in un campo di grano poco lontano dalla taverna Delle Torricelle, dal quale luogo Domenico Fuoco, Francesco Guerra, Michelina Guerra moglie di quest’ultimo, la quale sta colla banda vestita da uomo, e il fratello di questa per nome Domenico ci portarono nella taverna e colà mangiarono e bevettero[…]». L’episodio, conclusosi con l’uccisione di un caporale della guardia nazionale, dà la possibilità di provare la partecipazione diretta di Michelina alle azioni della banda. Nella testimonianza Michelina viene indicata come “moglie” del brigante Guerra. Ciò, se da un lato, conferma quanto scritto da alcuni autori circa un ipotetico matrimonio religioso celebrato nella chiesetta di Galluccio e non registrato, per altro verso fa riflettere sull’analisi del brigantaggio fatta da alcuni storici “filo piemontesi” che hanno sottaciuto tale circostanza, per poter assegnare alla brigantessa il ruolo di “druda”, cioè il ruolo passivo di donna del fuorilegge. Interessante è anche il riferimento alla presenza del fratello di Michelina: quel Domenico che tanta parte avrà nella fine della banda e della sorella, e che Compagnone descrive di «statura media, capelli neri, occhi simili, naso lungo, bocca snella», aggiungendo che Domenico Di Cesare «fa parte della banda da quattro anni»: ciò può servire a spiegare circostanze e tempi dell’incontro tra Michelina e Francesco Guerra. Il brigante Angiolo Cerullo, dal canto suo, precisa che: «[…] Miche44 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 45 lina Di Cesare di Caspoli ha un fratello brigante e un’altra sorella maritata in Caspoli, la quale dimora in una masseria in faccia alla ferrovia in contrada Casa Selva e la stessa somministra viveri ai briganti». Alla conferma nella banda del fratello di Michelina, viene aggiunta la novità di una sorella “brigantessa”. Un’indicazione che appare non attendibile e dovuta probabilmente alle scarse conoscenze del brigante, che potrebbe aver fatto confusione con l’altra donna della banda, Nicolina Iaconelli, amante di Domenico Fuoco. Accadeva spesso che le bande si unissero per compiere azioni particolarmente audaci, e ciò spinse il prefetto De Ferrari a rivolgersi in questo modo “alle autorità e comandanti guardia nazionale e carabinieri reali”: «PREFETTURA DI TERRA DI LAVORO TELEGRAMMA-CIRCOLARE. Spedito alle Autorità e Comandanti Guardia Nazionale e Carabinieri Reali della Provincia. Bande ladroni infami dirette dal territorio ancora soggetto Governo papale infestano nuovamente e coprono di misfatti nostra bella Provincia. Ma è tempo che tresca esecranda sia finita. Dove guardia Nazionale comprende nobile missione non possono sussistere malfattori campagna: Guardia Nazionale Terra Lavoro non sarà seconda a nessuna comprendere soddisfare sacri diritti più sacri doveri. Difenda suo territorio quella di ogni Comune; avvisi Autorità, forze, popolazione vicine di ogni imminente pericolo. Ai ladroni, ai loro fautori, ai manutengoli è delitto lasciare più scampo. Guerra implacabile e sterminio! Governo veglierà senza posa; sosterrà e premierà con larghezza sforzi generosi; punirà esemplarmente malvagi. Il presente sarà pubblicato in tutta la Provincia. Caserta, 1° maggio 1865 Il Prefetto, DE FERRARI». 45 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 46 BANDITE! Giuda d’un fratello Le scorribande della banda proseguirono fino a quando, nell’agosto del 1868, al generale Emilio Pallavicini furono assegnati pieni poteri militari. Il Pallavicini s’incontrò con i più importanti possidenti di Mignano, Galluccio e Roccamonfina, per convincerli a collaborare facendo terra bruciata alla banda, mentre minacciò il popolino di bruciare le abitazioni e di deportare tutti coloro che si fossero resi in qualsiasi modo complici dei briganti. Il ricatto sortì gli effetti sperati: un massaro di Mignano informò la guardia nazionale del suo paese della presenza della banda Guerra nei pressi della sua masseria, ai piedi del monte Morrone di Mignano; militi della G.N. e truppe del 27° Rgt. Fanteria partirono immediatamente alla volta della masseria. Al denaro assegnatogli per la missione, Pallavicini aveva chiesto un fondo cassa per “stimolare” delazioni, spiate e “pentimenti” (…). E fu proprio col denaro, non col fucile, che – dopo aver fermato sull’Aspromonte Garibaldi intenzionato a raggiungere Roma, e dopo aver debellato la potente banda del brigante Carmine Crocco – il Pallavicini sconfisse anche quella di Michelina. Alla delazione del fattore di Mignano, si unì la collaborazione di Domenico Di Cesare, che guidò i militi al nascondiglio di sua sorella. Sul retro di una foto dell’epoca, il fratello della Michelina è indicato come “Di Cesare spia!”. L’effetto sorpresa risultò vincente, come risulta dal rapporto redatto: «[…] Erano le 10 di sera, pioveva a dirotto ed un violentissimo temporale accompagnato da forte vento, da tuoni e da lampi, favoriva maggiormente l’operazione, permettendo ai soldati di potersi avvicinare inosservati al luogo sospetto; da qualche tempo si stavano perlustrando quei luoghi accidentati e malagevoli perché coperti da 46 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 47 strade infossate, burroni ed altri incagli naturali, già si perdeva la speranza di rinvenire i briganti, quando alla guida venne in mente di avvicinarsi a talune querce che egli sapeva alquanto incavate, ed entro le quali poteva benissimo nascondersi una persona. Fu buona la sua ispirazione, perché fatti pochi passi, e splendendo in quel momento un vivo lampo, scorse appoggiati ad una di quelle querce due briganti, che protetti un po’ dalla cavità dell’albero ed anche da un ombrello alla paesana che uno di loro reggeva, cercavano ripararsi dalla pioggia. Appena scortili, la guida li additò al Capitano Cazzaniga, che presso di lui veniva con qualche soldato appena; il bravo Capitano non frappone indugio, non cerca di far fuoco, ma sbarazzato anche del fucile che teneva, con un salto fu addosso a quei due ed afferratone uno pel collo, lo stramazza al suolo e con lui viene ad una lotta corpo a corpo, finche venne dato ad un soldato di appuntare il suo fucile contro il brigante e di renderlo cadavere. Pare che uno dei proiettili (giacché il fucile era stato caricato a pallettoni), passando attraverso il petto del brigante andasse a colpire nel dito pollice della mano sinistra del Capitano, che avvinghiatolo con entrambe le braccia, gli impediva qualunque tentativo di fuga. Quel brigante fu subito riconosciuto pel capobanda Francesco Guerra, ed il compagno che con lui s’intratteneva, appena visto l’attacco, tentò di fuggire; una fucilata sparatagli dietro dal medico di Battaglione Pitzorno lo feriva, ma non al punto di farlo cadere, che continuando invece la sua fuga, s’imbatteva poi in altri soldati per opera dei quali venne freddato. Esaminatone il corpo, fu riconosciuto per donna e quindi per Michelina Di Cesare druda del Guerra. Poco distante vari soldati con qualche Carabiniere s’in47 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 48 BANDITE! contravano con altri due briganti pure appoggiati ad un albero; attaccati risolutamente ne cadeva subito ucciso uno, che poi riconosciuto per Orsi Francesco di Letino; l’altro poté sfuggire, ma inseguito da vicino da un Carabiniere, s’ebbe una prima ferita, finche capitato negli agguati di altra pattuglia, cadde anch’egli colpito da due colpi di revolver sparatigli a brevissima distanza dal Sottotenente Ranieri. Anche questo brigante venne poi riconosciuto per Giacomo Ciccone, già capo di sanguinosissima banda ed ora unitosi al Guerra; fece uso delle sue armi quando si vide scoperto, e dotato di una forza erculea, oppose la più accanita resistenza tentando di aprirsi un varco frammezzo ai soldati. Altri tre briganti che stavano un po’ più lungi dai due gruppi menzionati, poterono al primo rumore salvarsi gettandosi nei burroni in quella località cosi frequenti. Due di costoro si sono già presentati, per cui si può con tutta certezza affermare che di tutta la banda Guerra, non n’e rimasto che uno solo [....]». Comando Generale delle Truppe per la Repressione del Brigantaggio nelle Provincie di Terra di Lavoro, Aquila, Molise e Benevento. Distruzione della Banda Guerra. Caserta 6 settembre 18684. Leggende e canzoni In Banditi, briganti, brigantesse nell’800, così Jacopo Gelli descrive la morte di Michelina: […] La banda accerchiata da reparti del 27° Fanteria e da Carabinieri sul Monte Morrone, al comando di quell’anima dannata della Michelina, tenne testa all’attacco e solo si disperse quando, colpito 4. In Brigantesse, di V. Romano, Controcorrente, Napoli 2007. 48 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 49 da una palla, penetratagli nel cervello dallo zigomo destro, il capobanda Guerra cadde riverso e, poco dopo, accanto al corpo suo e a quello del brigante Tulipano, a cui una fucilata aveva asportato metà della testa, cadde anche la Michelina. La rea donna aveva combattuto come una leonessa. Colpita al capo, la femmina morì digrignando i denti per la rabbia di essere stata vinta e non per l’orrore dei misfatti compiuti. Il giorno appresso i cadaveri dei briganti caduti e di Michelina vennero esposti nella piazza di Mignano, guardati da soldati armati. Si vuole che il generale Pallavicini, felice per il risultato ottenuto, alla loro vista avesse esclamato: “ecco i merli, li abbiamo presi”. I cadaveri dei briganti furono denudati ed esposti nella pubblica piazza a monito per chi volesse seguirne le gesta, e fotografati. Fra essi anche quello di Michelina, che aveva perduto ogni tratto della sua bellezza. L’uccisione della Di Cesare, e lo scempio che viene fatto del suo cadavere, la consegnano a un immaginario collettivo che ne fa presto un simbolo di rivolta. Rivolta doppia perché donna oltre che fuorilegge. Fioriscono così sulla sua figura episodi inventati di sana pianta e leggende inattendibili, fino a componimenti musicali, come la canzone scritta da Raimondo Rotondi, La morte re na bella ciuciara. Ra chélla futegrafia me uardava éssa, Michelina De Cesare la bregantéssa, fémmena bèlla, ‘ntista y ‘nnammurata che le cioce aglie piére y bène armata. Quanne fu ‘ntanne ce ne stévene tante re viécchie nuostre chiamate bregante che bregante ce fuonne chiamate ma, strigne strigne, èrene suldate 49 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 50 BANDITE! a chélla guèrra re ne mare tiémpe fa che cò vota se tèra ancora raccuntà. La fémmena nostra ch’èra Michelina se truvètte ‘mmiése a chéll’arruìna addó gli’ome sié, Guèrra chiamate la guèrra la féce y murètte suldate. A éssa, cumme vulètte brutta sorte, gli’attucchètte pure prejà la morte ‘mmane a chélla male pègge gènte venuta ra ciénte rove a fa neciénte. Sètt’anne re fuoche èrene passate sètt’anne re guèrra y scuppettate, muntagne, paura, fame y fridde a ste munne che se facéva stritte. Scurtava la via y le larie scurtava glie tiémpe a traviérse se regerava. Trènt’aûste millotteciéntesessantotte, na mala sèra ch’èra già quasce notte, cumme succère a ste munne triste Giuda n’ata vota se vennètte Criste. Caifa pazziètte na cica che Ponzie Pilate na povera fémmena murètte turturata. Quant’alla gènte, y loche ‘nse scappa, quann’è ‘ntanne, capa sèmpe Barabba. Glie juorne ruoppe, alla piazza ‘Mignane, quatte muorte ch’èrene state crestiane gli’ammucchianne allescì, pe mostra, una èra Michelina De Cesare nostra nuda ‘ntutte y accisa allescì malaménte sènz’abbrevogna re falla veré alla gènte. Ra ‘ntanne re tiémpe n’è passate ne mare, ma chélla fu la morte re na bèlla ciuciara. 50 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 51 FILOMENA PENNACCHIO Sono e mi chiamo Filomena Pennacchio del fu Giuseppe, di anni 20, nativa di San Sozio, circondario di S. Angelo dei Lombardi, domiciliata ed abitante in Santagata delle Puglie. Sono orfana di padre e di madre, e per guadagnarmi da vivere ero obbligata a lavorare la campagna. Mentre nello agosto del 1863 mi trovava a lavorare nella masseria Collamisso, di proprietà di Nicola Misso, in un giorno che più non ricordo, si presentò colà Schiavone colla sua banda. A quella vista mi nascosi impaurita sotto un mucchio di paglia; ma avvedutosene quel brigante venne a trarmi fuori dal mio nascondiglio e afferratomi per un braccio mi costrinse a montare in groppa al suo cavallo. Non valsero le preghiere e i pianti perché mi lasciasse libera, ma volle condurmi al bosco dopo aver percosso il padrone e il curatolo di quella masseria perché intercedevano per me. Giunta al bosco, il solo Schiavone si servì della mia persona e poscia mi disse che intendeva tenermi presso di lui per sua donna5. Le parole di Filomena rappresentano nella loro desolante crudezza una condizione, quella femminile, “mal destinata” in un Sud sconvolto da un nuovo tempo i cui contorni appaiono da subito ostici. Sconfitti i Borbone, i nuovi “padroni” del Regno di Napoli parlano anch’essi una lingua sconosciuta e, contrariamente a prima, gli uomini sono costretti a una lunga leva militare, privando le campagne delle loro forti e indispensabili braccia. Giuseppe Schiavone era appunto un contadino di S. Agata di Puglia che si rese renitente alla leva dandosi alla macchia nel 1862. Da lì a poco aveva costituito una banda con la quale aveva effettuato furti e sequestri di persona, oltre 5. ACS, TMS, b. 19, interrogatorio del 28 novembre 1864. 51 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 52 BANDITE! all’incendio di masserie di possidenti che non volevano pagare. Figlia del macellaio Giuseppe e di Vincenza Bucci, entrambi analfabeti, Filomena era nata a mezzogiorno del 6 novembre 1841 a S. Sossio Baronia. Angiolo De Witt, un ufficiale dell’esercito piemontese che tenne uno scrupoloso diario durante la sua partecipazione alla repressione del brigantaggio, descrive la Pennacchio «di carnagione olivastra, gli occhi scintillanti, la chioma nera e crespata, le ciglia folte, il naso aquilino, le labbra prominenti, il profilo greco». Ma alla bellezza, Filomena Pennacchio unisce un’indiscutibile intelligenza e furbizia, che la porta a modellare le sue testimonianze per ottenere maggiore indulgenza. Stando alle sue parole, l’incontro col brigante Schiavone è quasi il frutto di una angheria subita, ma le cose non stanno così: per questo bisogna fare un balzo indietro. Giovanissima, per riscattare una vita miserabile nella casa paterna, Filomena aveva sposato un impiegato civile della cancelleria del tribunale di Foggia6: un tipo gelosissimo e manesco, che la maltrattava quotidianamente. Un giorno, durante l’ennesima violenza, Filomena estrasse dai capelli lo spillone e lo conficcò nel collo del marito, facendolo soffocare nel suo sangue. Subito dopo, in preda al panico, fuggì nei boschi di Lucera, dove la trovò il brigante Giuseppe Caruso, la cui storia è altrettanto degna di essere perlomeno riassunta. Figlio di una nobile famiglia di Atella, Caruso era diventato guardiano campestre, ma una lite con un collega lo aveva trasformato in un assassino dopo un colpo di pistola. Datosi alla latitanza, era entrato in contatto con la banda Crocco, la più organizzata e temuta di tutta la 6. Secondo altre fonti il marito della Pennacchio era un ferroviere. 52 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 53 regione, diventando presto luogotenente del capo. Gli attriti sempre più frequenti con Crocco lo indussero al tradimento: consegnatosi ai carabinieri, determinò la cattura dell’intera banda. Attriti e tradimenti che avevano un nome preciso: Filomena. All’avvenenza della brigantessa non aveva infatti saputo resistere Carmine Crocco, che l’aveva infine sedotta. Giuseppe Schiavone è quindi solo il terzo brigante cui si unisce Filomena, il più mite e più umano della banda, a sua volta diventato capo dopo la cattura del Crocco. La sua fine e quella della stessa Pennacchio sono anch’esse conseguenza di un tradimento. Un tradimento per gelosia. L’ultimo bacio Alla fine dell’estate del 1864, braccati dai bersaglieri guidati dal traditore Caruso, Schiavone e la Pennacchio erano riusciti infine a trovare rifugio in una masseria di Bisaccia, presso alcuni notabili filoborbonici. Ma l’ex amante, Rosa Giuliani, venne a sapere da una donna di servizio di quella masseria che Schiavone e la sua nuova bella si sarebbero spostati nella notte del 26 novembre per raggiungere un’altra masseria a Menfi, quella di Posta Vassalli, dove sarebbero stati più al sicuro. I piemontesi organizzarono quindi la loro cattura. Ma la sorte dei due amanti sarà ben diversa e non per la loro diversità sessuale, visto che erano tristemente note le caratteristiche “maschili” della bella Filomena. Giuseppe Schiavone fu fucilato nella piazza di Menfi dopo aver ottenuto di poter dare un ultimo bacio alla sua amata Filomena. Vestita da uomo, schioppo in spalla, Filomena non era la donna del capo, ma essa stessa brigantessa capace di azioni cruente e feroci, tanto da meritarsi il rispetto di 53 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 54 BANDITE! tutta la banda per il suo coraggio e la sua capacità di distinguersi positivamente negli scontri coi piemontesi. Una fama che aveva avuto prologo in un’azione messa a segno quando aveva poco più di ventun anni: una spedizione punitiva in un podere di Migliano, presso Trevico, ai danni di Lucia Cataldo, rea di non aver consegnato a un emissario della banda denaro e gioielli intimati con tanto di biglietto firmato dalla stessa Pennacchio. Da questo momento le razzie della banda capeggiata da Filomena si susseguono, come testimoniano i tanti faldoni processuali che la riguarderanno a “fine carriera”. Oltre ad aver imparato a sparare, la bella brigantessa si lancia senza esitazione nel corpo a corpo, lottando all’arma bianca. Dopo la morte del suo uomo, Filomena doveva affrontare anch’essa la giustizia, che presentava anche a lei un conto pesantissimo, dopo che i giudici erano riusciti a individuare presso i vari tribunali ordinari i carichi pendenti della Pennacchio, di cui, i più rilevanti sono: a) Tribunale circondariale di Ariano: Crimine del 1863, associazione di malfattori in banda armata, ad oggetto di delinquere contro persone e proprietà; incendio volontario di una casa rurale addetta ad abitazione; uccisione di animali bovini col danno di £. 1.402,50 in danno di Vito Pennacchia a 3 febbraio 1863; crimine del 1863, associazione di malfattori in banda armata a fine di delinquere contro le persone e le proprietà di tre capretti ed un agnello del valore di £. 35 in danno di Domenico La Villa, Luigi Gallicchio; crimine del 1863, associazione di malfattori in banda armata per delinquere contro le persone e le proprietà ed uccisione di animale bovino del valore di £. 297 commessa da una banda brigantesca; crimine del 1864, estorsione violenta mancata con sequestro 54 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 55 di persona e minacce quasi di danno accompagnata da ribellione, con attacco e resistenza contro la forza pubblica che agiva per esecuzione degli ordini delle pubbliche autorità. b) Tribunale Circondariale di Potenza: Grassazione di una giumenta ed altro a danno di Saccone Michele; associazione a malfattori accompagnata da altri reati; omicidio mancato ed altro in persona di Longo Antonio; associazione di malfattori e omicidio volontario a danno di Martino Alessandro. c) Tribunale Circondariale di Avellino: brigantaggio con emissione di mandato di cattura. d) Tribunale Circondariale di Lucera: Grassazione violenta, mercé appropriazione di una valigia postale ed altro commessa in pregiudizio di Domenico Laticagno (?) di Bovino S. Nicola Palazzo di S. Agata nel dì 21 luglio 1863 in tenimento di S. Agata; omicidio volontario commesso per impulso di brutale malvagità con arma da fuoco, a 28 agosto 1863, in tenimento di S. Agata, in persona di Nicola Sannella; di uccisione di due muli del valore di circa £. 1.400 in pregiudizio del sig. Michele sacerdote Camillo di detto Comune; estorsione violenta con sequestro di persona lasciata libera dopo il riscatto di £. 2550, commessa in tenimento di S. Agata in pregiudizio di Rocco Sannella di detto Comune nel 20 aprile 18637. Queste elencate sono solo alcune delle imputazioni cui deve rispondere Filomena, che a quel punto, perduto anche l’amore di Schiavone, decise di collaborare con le autorità. Come primo “segno tangibile”, indicò il nascondiglio di Agostino Sacchitiello, diventato leader della banda dopo la morte Schiavone. Il brigante fu catturato il 18 dicembre 1864 dal Capo di Stato Maggiore del Comando 7. In Brigantesse, cit. 55 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 56 BANDITE! Generale delle Zone riunite, che così poi descriveva il fatto all’Avvocato Fiscale Militare del Tribunale di Guerra di Avellino: «In favore della Filomena Pennacchio mi è dovere far risultare che la medesima con le sue importanti rivelazioni ha assicurato nelle mani della Giustizia l’intiera comitiva Sacchitiello e le drude, che insieme a lui ricevevano ricovero in Bisaccia. Questi fatti costituiscono servizi positivi a pro della ricostruzione della sicurezza pubblica, quindi nutro fiducia che la Giustizia vorrà tenerne conto nel pronunciare una sentenza contro Filomena Pennacchio»8. Il 30 giugno 1865, Filomena Pennacchio, difesa dall’avvocato Tommaso Guerriero, che si era battuto strenuamente per la sua patrocinata con una requisitoria lunghissima che aveva attraversato tutta una vita fatta di miseria e violenza, fu condannata alla pena di 20 anni di lavori forzati. In Appello, nel luglio del 1870, la pena le fu ridotta a 9 anni. Il 6 marzo 1872 fu infine liberata e di lei non si seppe più nulla. MARIA OLIVERIO DETTA CICCILLA La chiamavano Ciccilla, ma all’anagrafe di Casole, quand’era nata in contrada Sciualla, il 30 agosto 1841, era stata registrata col nome di Maria. Maria Oliverio: la brigantessa delle brigantesse, tanto da interessare perfino Alexandre Dumas. La sua immagine ci arriva dalle fotografie scattate nel carcere di Montalto Uffugo nel 1864: vestita da uomo, col classico cappello a pan di zuc8. ACS, TMS, b. 19, f. 230 da Brigantesse, cit. 56 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 57 chero, il duebotte (doppietta), un revolver alla cintura e un braccio al collo, per una ferita. Ciccilla aveva sposato il brigante Pietro Monaco, soprannominato “Bruttacera”: un ex sergente borbonico che pare avesse partecipato alla cattura e all’uccisione di Carlo Pisacane e che avesse fatto parte degli attentatori di Ferdinando II. All’arrivo di Garibaldi, aveva seguito il generale per quelle terre promesse ai contadini. S’era distinto in combattimento, tanto da guadagnarsi le spalline di sottotenente durante l’assedio di Capua, nonostante di quell’episodio non si registrino particolari atti eroici da parte di nessuno dei contendenti. Nel pomeriggio del 1° novembre 1860 le artiglierie del V Corpo dell’esercito italiano cominciarono un fitto bombardamento sulla città, tanto che la popolazione chiese a Tommaso Cava de Gueva, capo di Stato maggiore dell’esercito borbonico, di cessare ogni resistenza. Comunque sia, l’avventura unitaria fu breve e deludente per il sottotenente Monaco, che si ritrovò presto disoccupato. Tornato a casa, il suo livore contro “i nuovi padroni del Sud” era aumentato e lui s’era prestato a scendere in un agone in cui le famiglie più potenti del territorio si contendevano il potere. Si ritrovò quindi presto in brutte storie di vendette e faide, finché uccise un possidente di Serrapedace, piccolo centro alle falde della Sila. Diventato un assassino, Pietro si dette alla macchia. Ma per i suoi trascorsi militari, il suo destino non poteva essere quello di un qualsiasi latitante: in breve tempo, Pietro Monaco divenne un brigante, aggregandosi prima alla banda di Domenico Strafaci, detto “Palma”, poi formandone una propria. La sua azione rivoltosa non ebbe tuttavia connotati politici: la sua banda non combatteva in nome dei 57 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 58 BANDITE! Borbone, ma contro baroni e possidenti che s’erano schierati con i nuovi governanti. Mentre Pietro – descritto da Michele Falcone, un sequestrato che ebbe modo di osservarlo da vicino per molto tempo, come «tarchiato nella persona, bruno di volto e di pelo, con occhi fieri e incavati che ispiravano diffidenza ed orrore» – combatteva una nuova guerra, Ciccilla se ne stava a casa, in paese, dove il marito rientrava quando poteva. La sua latitanza non era poi così drammatica, grazie a diversi manutengoli: possidenti borbonici disposti ad aiutarlo. In una di queste “licenze”, Ciccilla si accorse che fra suo marito e sua sorella c’era qualcosa di poco chiaro. Quando ne ebbe la certezza, uscì di casa, recuperò la scure dal capanno, entrò come una furia nella camera in cui dormiva sua sorella, e la fece a pezzi. Quarantotto colpi di scure che costrinsero suo marito Pietro a portarla con sé per evitare che Ciccilla finisse in galera. Quello stesso giorno, Maria si tolse la gonna per indossare i pantaloni e diventare la brigantessa: la tenuta da fuorilegge la vede indossare giubba coi rever decorati da monete usate come bottoni e calzoni di velluto, che in più occasioni la fecero scambiare per “un imberbe e biondo giovinetto”. Tutti coloro che ebbero a che fare con lei, non accennarono mai a una particolare ferocia, a una morbosa violenza del carattere, mentre del marito molti sottolinearono la spietatezza, compreso quel Michele Falcone il quale scrisse che Monaco «nella ferocia dell’indole ritraeva moltissimo Fra’ Diavolo, il fido amico di Carolina d’Asburgo». In poco tempo Pietro Monaco diventò noto e temuto e vide aumentare il suo prestigio quando, nel dicembre del 1862, il brigante Giuseppe Scrivano, prezzolato da un suo parente capo di una squadriglia, appartenente alla 58 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 59 potente famiglia dei Rosanova, tentò di ucciderlo. Scrivano − che poi, sempre facendo il doppio gioco, finì ucciso per sbaglio dai bersaglieri − gli sparò, ma lo ferì soltanto: un fallimento che servì ad accrescere il carisma del “brigante invulnerabile”, manco fosse Achille. Il Monaco non era l’eroe omerico, ma solo un fuorilegge che visse la sua ultima avventura quando decise di sequestrare alcuni membri di una ricca famiglia di Acri, i Falcone. Nel settembre del 1863 sequestrò i Falcone e il vescovo di Nicotera e Tropea, De Simone, e un canonico ospiti in quel momento della potente famiglia calabrese: i prelati furono poi rilasciati, mentre per il Monaco e i suoi sequestrati cominciava una sarabanda fra la Sila per sfuggire agli inseguitori sguinzagliati dai Falcone. La famiglia Falcone giocò su due tavoli: da una parte in modo duro con uomini in armi, dall’altra trattando economicamente. In più rate Monaco ricevette 16mila ducati, oltre ad armi e orologi d’oro, e avrebbe ricevuto anche di più se i sequestrati, approfittando di uno scontro a fuoco fra i briganti e gli inseguitori, non fossero riusciti a fuggire. I Falcone fecero anche circolare la voce che avrebbero pagato a peso d’oro la sua testa: Marrazzo, Celestino e De Marco, tre briganti della banda Monaco, si dissero pronti ad eliminare il loro capo se fosse stato procurato loro del veleno. Maldestramente non riuscirono però nell’intento, per l’incapacità di dosare la stricnina nell’acqua, così decisero di sparare al loro capo mentre stava dormendo. Nell’occasione colpirono anche Ciccilla, che rimase ferita a un braccio, e un altro uomo della banda, Giacomo Madeo, che invece morì: la testa di questo brigante fu portata ai Falcone, che la esposero nel punto in cui era avvenuto il sequestro. De Marco, Marrazzo e Celestino, oltre a esse59 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 60 BANDITE! re ricompensati per il loro tradimento, furono portati in trionfo, provocando però uno sdegno popolare che costrinse le autorità ad arrestarli e a processarli, seppur condannandoli poi a pene lievi. Nonostante la dolorosa ferita al braccio che le aveva procurato una frattura, Ciccilla bruciò personalmente il corpo del marito per evitare che finisse nelle mani dei soldati. «Alla morte di mio marito», dichiara Ciccilla in una sua deposizione, «rimasi con Antonio Monaco, cugino di mio marito; e mentre tentavamo di unirci alla banda Spinelli, incontratici con due briganti di Longobucco, per nome Pasquale Guagliardi e Ludovico Russo soprannominato Portella, ci unimmo con loro e fu intorno ai primi giorni di gennaio trapassato; indi ritornammo tutti e quattro in una grotta situata a circa metà del declivio di un colle al piede del quale scorre il fiume Nieto, ed al di sopra, sul dorso stesso del colle, sorge il bosco di Cacurri; ignoro se sia nel territorio di S. Giovanni in Fiore»9. Fu proprio questa resistenza – raccontata da lei stessa – a procurarle la fama. «Era bene un mese che noi dimoravamo in quella grotta, il cui ingresso era formato da un buco da chiudersi a nostro piacimento con qualche pietra, sicché nessuno potesse accorgersi di dimorare colà delle persone; quando l’ultimo giorno di Carnevale, in cui avevamo disposto di passarlo allegramente con cibi e vini, scorgemmo gente armata che credevamo una squadriglia essendo vestiti alla borghese. Guagliardi allora per primo scaricò il suo fucile, due volte contro quella squadriglia, che invece era la truppa travestita». Nel rapporto del capitano Dorna, comandante del 57° reggimento di 9. In Brigantesse, cit. 60 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 61 Linea, si legge che il rifugio dei briganti fu localizzato grazie a una delazione. «Era mezzogiorno in punto», vi si legge, «quando vi arrivammo, ed immantinente dopo, prese le precauzioni strategiche, lo assaltammo sostenendo un fuoco vivo e ben nutrito. Però quell’antro era così ben condizionato che opponeva a noi valevole resistenza e ci opponeva il pericolo di proiettili di briganti, quindi ci convenne guardare con diligenza il luogo assediato la intera passata notte, poiché appena presentato il giorno d’oggi, ripetendo gli assalti e finalmente praticando una breccia per penetrare nella caverna dal punto opposto all’entrata di essa e rotolandosi entro dei grossi macigni ebbimo la soddisfazione di vederla ancora quella canaglia a nostra discrezione e perciò ne venne fuori la celebre vedova di Pietro Monaco a nome Maria Oliverio di Casole […]». Colti di sorpresa, i briganti reagirono furiosamente, come testimonia Ciccilla. «Stavamo sdraiati, chi dormendo e chi vegliando, ci alzammo di un subito e ciascuno fece una scarica con la propria arma. Il Monaco subito alla sua prima scarica ricevette una palla che gli trapassò il corpo, onde dopo pochi minuti giaceva estinto al suolo. Dopo pochi minuti rimase ferito alla coscia destra il Pasquale Guagliardi, il quale nondimeno continuò a far fuoco sino alle ultime scariche dei miei compagni, anzi in ultimo era egli solo che sparava, ciò per ben le due ultime ore. Ignoro se pel fuoco da lui fatto sia rimasto ferito o ucciso qualcuno della forza; a circa metà del conflitto rimase ferito ad un braccio ed in una mano, per cui perdette il pollice della mano sinistra il Ludovico Russo detto Portella. Siccome la grotta era divisa in due parti, nell’una delle quali non si poteva entrare se non prima uscendo totalmente, così essendo 61 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 62 BANDITE! rimasti con tre o con quattro fucili e due revolver, nell’uno spargimento, ove io stessa giaceva, ed era quello a destra entrando, il Portella era solo nell’altro lato, munito di un solo revolver, col quale soltanto continuò a fare scariche, finché durante la notte, approfittando dell’oscurità, se ne è fuggito e può essere che si abbia portato seco il detto suo revolver, poiché non fu trovato quando ci siamo arresi». Arrestata insieme agli altri briganti, Ciccilla fu giudicata dal Tribunale Militare di Guerra per le Provincie di Calabria Ultra 2ª, in Catanzaro, che il 30 aprile 1864 la ritenne colpevole di diversi reati. 1) Brigantaggio, perché associatasi da oltre un anno alla banda armata in un numero maggiore di tre, condotta dal fu Pietro Monaco, suo marito, prendeva parte ai fatti criminosi da quella comitiva in gran numero consumati, finché il 10 febbraio ultimo venne arrestata. 2) Assassinio della propria germana Teresa Oliverio, avvenuto in Macchia (Spezzano Piccolo) nella notte del 27 maggio 1862. 3) Grassazione con omicidio in persona di Basile Vincenzo e Antonio Oliverio Chiodo, e mancato omicidio in persona di Alessandro Basile, commesso in territorio di S. Giovanni in Fiore il 4 ottobre 1862 da Maria Oliverio, Pietro Monaco e altri due ignoti. 4) Mancato assassinio a colpi di stile, con ferite, alcune delle quali portarono seco pericolo di vita e perenne debilitamento fisico in persona di Giovanni Porillo, commesso nella sera del 7 maggio 1863 in unione a suo marito ed altri, in territorio di Rose nella località detta Ponticello. 5) Ribellione armata mano alla forza pubblica in unione 62 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 63 ad altri tre, con omicidio in persona delli Spagnulini Giovanni, Angelini Francesco, soldati del 57° fanteria e di Cervino Michele, guardaboschi, reati avvenuti il 9 febbraio ultimo nella località detta bosco di Cuccaro (Santa Severina), fatto in seguito al quale venne arrestata il dì successivo. Accuse che le procurano la condanna «Alla pena di morte mediante la fucilazione alla schiena ed alle spese del giudizio». Sull’epilogo della storia di Ciccilla, le notizie discordano. Secondo un’annotazione manoscritta sul retro di una fotografia segnaletica, la sentenza fu eseguita, secondo un’altra fonte la pena fu commutata nei lavori forzati a vita, come testimonierebbe la firma di Vittorio Emanuele II in calce alla domanda in tal senso presentata dal ministro della Guerra. Secondo questa versione – che risulta la più accreditata – Maria Oliverio fu portata a espiare la pena nella famigerata prigione di Fenestrelle, in Piemonte, dove sarebbe morta una quindicina d’anni dopo, anche se altre testimonianze la vogliono libera dopo quello stesso periodo: un mistero rimasto tale sia per la sparizione dell’eventuale cadavere, sia di ogni traccia della Oliverio successivamente alla sua supposta liberazione. GIUSEPPINA VITALE Tre anni or sono fu tolto dai briganti a mio padre un suo cavallo nel bosco Frasca, e precisamente dalla banda Sacchitiello. Bramando di riavere il cavallo, che gli era caro, si rivolse alla madre di Sacchitiello, che abitava in Bisaccia, pregandola a volersi interessare presso il 63 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 64 BANDITE! di lei figlio, onde gli fosse restituito l’animale. Dopo alcuni giorni la detta donna disse a mio padre che aveva parlato col proprio figlio e che se voleva il cavallo andasse alla masseria di proprietà di certo Lucarelli denominata la Casina, poco distante dal paese, e che seco lui avesse condotto me pure, essendo intenzione di suo figlio di vedermi e parlarmi. Mio padre volle seguire il consiglio di quella donna, e una sera presami sottobraccio mi condusse in detta casina, ove già si trovava il Sacchitiello. Appena quest’ultimo mi vide disse a mio padre che si sentiva innamorato di me e che voleva farmi sua. Temendo mio padre che una negativa avesse potuto portar danno a lui e a me, accondiscese ai desideri di quel brigante. Dopo tale promessa, che ho dovuto anch’io confermare, fummo rimandati senza molestia e ce ne tornammo in paese col cavallo. Questa la testimonianza di Giuseppina Vitale, diventata brigantessa per amore di Agostino Sacchitiello, luogotenente della banda di Carmine Crocco, la più folta e temuta in assoluto di tutto il fenomeno del brigantaggio, e che di fatto fu venduta da suo padre per un cavallo. Giuseppina era nata il 29 maggio 1841 a Bisaccia, paesino in provincia di Avellino che con Calitri si trovava al confine con la provincia di Potenza: luoghi interessati dal ricco passato storico, che li aveva visti partecipare ai moti insurrezionali del ’20 e del ’48, mentre nel 1858 molti cittadini erano stati deferiti alle autorità per cospirazione. Tuttavia, Bisaccia accolse quasi passivamente il passaggio al Regno d’Italia, mentre la vicina Aquilonia si ribellò: il 21 ottobre 1860 l’adesione fu sancita con una votazione quasi plebiscitaria svoltasi nella piazza principale. L’opposizione al nuovo corso politico non tardò ad arrivare e a partire dal successivo mese di gennaio molti ex soldati borbonici abbandonarono le case e si rifugiarono nei boschi: fra essi, Agostino San64 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 65 tachiello, caporale dell’esercito borbonico che, richiamato alle armi, invece di presentarsi decise di darsi alla macchia. Lo seguirono suo fratello Vito e Francesco Gentile, commilitone del Santachiello. L’ex caporale borbonico radunò presto attorno a sé molti altri sbandati e renitenti, fino a comporre una banda che superò le cento unità, tanto da stringere rapporti con la banda Crocco, la più numerosa e organizzata. La nuova vita di Giuseppina Vitale fu quindi all’insegna del brigantaggio, con azioni cui spesso prese parte lei stessa, come quando il 5 settembre 1861 consegnò una lettera indirizzata al capitano della guardia nazionale di Vallata, Michele Netti, nella quale il Santachiello intimava la liberazione di alcuni briganti imprigionati. Tutte le azioni della banda erano compiute ai danni di possidenti locali, ma alle razzie alcune volte seguirono alcuni omicidi, come quello ai danni del corriere Ciccone Pallano di S. Angelo dei Lombardi, reo di essere latore di una lettera al comando militare del paese nella quale si davano istruzioni per la cattura di briganti della banda. Le confessioni L’attività della banda proseguì fino al 29 novembre 1864, quando Agostino Sacchitiello, suo fratello Vito, Francesco Gentile, Maria Giovanna da Ruvo e la stessa Giuseppina furono localizzati e arrestati in una stanza sotterranea di casa Rago, mentre nei piani superiori si svolgeva una festa da ballo cui partecipavano ufficiali di cavalleria e bersaglieri. Michele Rago, luogotenente della guardia nazionale, pur ricoprendo incarichi di prestigio sotto il nuovo Regno, faceva il doppio gioco. A smascherare il Rago come manutengolo era stata Filomena Pennacchio 65 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 66 BANDITE! in una delle sue tante delazioni dopo l’arresto. Ma anche Sacchitiello collaborò appena varcate le sbarre del carcere, facendo arrestare molti briganti della banda Collarulo, oltre a Teodoro Gioseffi, capo di una banda che spadroneggiava nel territorio di Melfi. L’arresto della banda non fu comunque episodio inatteso, visto che Sacchitiello, stretto ormai nella morsa delle truppe regolari, aveva deciso di arrendersi, come conferma la deposizione resa da Giuseppina il 1° marzo 1865. Un mese prima di entrare in casa Rago, Agostino Sacchitiello scrisse a Francesco Michele Stanco di Calitri annunciandogli che voleva presentarsi. Esso gli rispose che si presentasse pure, anzi, osservò che fu suo figlio in assenza del padre a rispondergli facendogli istanza onde mettesse ad effetto tale suo divisamento. Ed infatti un mese dopo entrammo in casa Rago per ciò eseguire ed ivi venimmo traditi e non potemmo più mettere ad effetto tale nostro disegno10. Queste apparenti contraddizioni si spiegano col fatto che i possidenti manutengoli dei briganti non avevano nessuna convenienza che questi si arrendessero spontaneamente, rivelando magari i loro nomi. La dimostrazione sta nell’episodio che riguarda il brigante Ninco Nanco che, dopo essersi arreso, quando era disarmato fu ucciso a bruciapelo con una schioppettata da un ufficiale della guardia nazionale al solo scopo di eliminare uno scomodo testimone per i possidenti locali che fino a quel momento l’avevano protetto. La successiva testimonianza di Giuseppina11 è illuminante perché conferma l’an10. In Brigantesse, cit. 11. Interrogatorio del 7 gennaio 1865. 66 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 67 dazzo disinvolto di molte delle famiglie più in vista del territorio, arrivate ad arricchirsi col bottino delle ruberie effettuate dai briganti poi imprigionati. Nel mese di novembre ultimo avendo intenzione tanto Agostino e Vito Sacchitiello che Francesco Gentile di presentarsi, fecero sapere questa loro intenzione al compare della dichiarante d. Michele Rago di Bisaccia, e si portarono presso il medesimo. Quando vi giunsero diedero al detto Rago ducati duecento a titolo di compenso per l’ospitalità che loro aspettava, ed altri ducati quattrocento consegnarono alla famiglia di lui, quale forma idonea tenersi da loro in deposito e somministrarsi a misura che bisognava quando si trovavano nel carcere. Il desiderio di arricchimento da parte della famiglia Rago – come del resto di tutte le altre manutengole dei briganti, unitamente al cinico calcolo – è resa ancora più evidente dalla testimonianza resa dalla Vitale nell’interrogatorio del 2 dicembre 1864. Era intenzione del Sacchitiello di presentasi coi suoi compagni e per fare ciò si rivolse a Michele Raho12 che è l’amico e il protettore di tutti i briganti. Sei o sette giorni prima del nostro arresto andammo ad alloggiare in casa del Raho, che ci accettò con soddisfazione e contento. L’Agostino Sacchitiello gli consegnò seicento ducati che possedeva, pregandolo a tenerli in deposito per somministrarglieli a poco a poco in carcere quando si sarebbe presentato. Ma il Raho, appena ebbe il denaro nelle mani, gli disse queste precise parole: “Oh compare Sacchitiello, perché ti vuoi presentare coi tuoi? Ho delle amicizie a Napoli e cercherò di salvarti, mentre se ti presenti sarai indub12. Rago. 67 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 68 BANDITE! biamente fucilato insieme agli altri”. Devo dire che i seicento ducati furono ritirati dalla Serafina Raho che tuttora tiene in sue mani: più sono rimasti presso della famiglia li seguenti oggetti: cioè, 4 camicie da donna, 5 da uomo, 3 sottocalzoni, un paio di calzoni da donna di mordiglione, 3 fazzoletti di seta, 2 paia di stivali, 2 materassi, 4 paia di calze di lana, 2 rotoli di cotone. Mi ero dimenticata di dire che il Laurisi di cui ho già parlato, tiene presso di sé una mia collana d’oro ed un involto contenente lingeria ed altri panni. Debbo dichiarare ancora che nel gennaio dell’anno passato un tal Vito Savino (Zarilli) di Calitri, massaro, venne al bosco a prendermi per incarico del Sacchitiello e mi condusse in sua casa ove mi sgravai13. Presso lo stesso lasciai un cilindro d’argento e tre piastre. Per le spese poi del mio parto ebbe dal Sacchitiello una forte somma di denaro di cui ignoro l’ammontare. Ora che mi sovviene, stetti anche ricoverata in casa di un certo Nicola Nigro, sarto in Monteverde, manutengolo famoso di briganti, ai quali provvede armi e munizioni. La sera della retata che porta agli arresti Sacchitiello e la Vitale, Michele Rago, all’oscuro della delazione fatta contro di lui da Filomena Pennacchio, collaborava col maggiore Galli, comandante del Reparto dei Cavalleggeri di Lucca di stanza in quella zona, che si trovava lì con lo scopo di catturare alcuni briganti coinvolti nel sequestro di un proprietario. I soldati avevano bloccato ogni via d’accesso al paese e tutto era pronto, quando, alle 22 circa, arrivava un dispaccio urgentissimo firmato dal generale Pallavicini, che ordinava l’immediato arresto del Rago e l’irruzione nella sua abitazione. Seppur sorpreso, visto il rango della persona contro la quale avrebbe dovuto agire, il maggiore Galli arrestò il Rago che, sulle prime 13. Partorii. 68 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 69 protestò energicamente dichiarandosi estraneo a ogni fatto criminoso, ma di fronte a contestazioni inconfutabili, fu costretto ad ammettere le sue responsabilità, indicando casa sua come rifugio di Agostino e Vito Sacchitiello, di Francesco Gentile e di Giuseppina Vitale. Aggiunse anche che l’ex druda del brigante Carmine Crocco, Maria Giovanna Tito, era nascosta in casa di suo zio Donato. Le confessioni di Giuseppina inguaiano anche altre personalità insospettabili. Uno dei manutengoli di briganti è il Canonico d. Andrea Vella di Monteverde, il quale due anni fa fece ricoverare in casa del suo parente Capobianco, Sindaco di Monteverde di quell’epoca e che ha un figlio per nome Raffaele, il capobrigante Carmine Crocco. Egualmente conosce che il medico d. Angelo Vella di Monteverde ha continuamente curati i briganti feriti nel bosco. Il 30 giugno 1865 Giuseppina Vitale fu condannata a venti anni di lavori forzati, ridotti poi a dieci il 22 aprile 1868. MADDALENA DE LELLIS, DETTA PADOVELLA «Padovella, padovè, addò vai padovè?» In un paese aggrappato su una montagna alta mille metri di miseria, un codazzo di bambini segue una vecchia curva su un bastone all’uscita di una chiesa. Quando la vecchia s’arrampica su un pendio, i bambini infilano un vicolo e raggiungono così i loro compari che stanno giocando con una palla di pezza, e che alla vista della vecchia gridano pure loro: «Padovella, padovè, addò vai padovè?». È domenica, e mentre i bambini giocano, i cafoni si ripo69 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 70 BANDITE! sano. Va bene tirare muli e caricare some e spezzarsi la schiena per sei giorni alla settimana da mane a sera, ma a un giorno, almeno un giorno senza fatica, «pure li cafùn c’han d’ritt». Gli altri giorni vanno nei campi o nelle botteghe o nelle officine o nelle stalle, e i figli, quelli piccoli, li lasciano a lei, la Padovella, che glieli tiene in una specie d’asilo alla buona. «Ci dai due uova, ‘na gallina, nù chilo de gran, zùccher e sale: a lei c’abbastano». Verdura e pomodori no, quelli li ricava lei stessa dal suo orticello, che insegna a coltivare anche a quei piccoli diavoli incapaci di stare fermi, ma pure affascinati da una zucchina che cresce. Oggi è festa anche per lei, per la “padovella”. Niente bambini. «Me farò ‘na frittata», pensa la vecchia ossuta, ma quando sta per spellare una cipolla una fitta la inchioda contro lo stipite della porta della cucina, cui si aggrappa per non cadere. Riesce in qualche modo a raggiungere il letto, si sdraia, chiude gli occhi. È la solita ferita, un dolore lontano che non l’ha abbandonata mai, che insieme porta sempre pure la faccia sua. La faccia dell’amore suo. Di Andrea. Anche lui perso nel tempo, quello del furore, di quando era una brigantessa. Don Achille L’8 agosto, quel giorno, era il suo compleanno. Maria Maddalena de Lellis era venuta al mondo 29 anni prima, l’8 agosto 1835, lì, a San Gregorio Matese, «quattro case e un forno», come diceva sempre don Egidio. Anche quel giorno Maddalena s’era alzata all’alba, e come tutte le mattine era andata a mungere quelle capre che facevano spavento, tanto erano magre. Poi aveva raccolto un po’ di legna per accendere il fuoco sotto la pentolaccia del 70 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 71 camino di quella casupola di via Elci, dove c’era pure sua madre Carolina, che peggiorava giorno per giorno con la vista. E suo figlio Angelantonio, di sette anni. Suo marito Giuseppe Mallardo, che di mestiere faceva il carbonaio, proprio quel 1864 era finito in carcere a Santa Maria Capua Vetere. “Connivenza col brigantaggio”. Un’accusa uguale a quella di tanti altri cafoni, che non riuscivano a capire quella legge spietata che gl’impediva di portarsi appresso un po’ di pane, quando andavano al lavoro nei campi. “Connivenza col brigantaggio”. Perché? Perché avevi condiviso un pezzo di pane con un paesano cresciuto insieme a te, nello stesso vicolo, magari parente, che in qualche maniera si era messo contro la legge e stava nascosto in montagna. La legge poi, a San Gregorio, era una sola: quella di don Achille del Giudice14. Sue le terre, sue le mandrie, sue pure le persone. E per quelle che non erano sue erano guai. Don Achille, il potere. Oltre che ricco e potente proprietario di terre e di bestie, don Achille era pure sindaco e consigliere provinciale a Caserta, mentre suo fratello stava a Torino a fare il deputato. Proprio grazie a suo fratello riusciva tutte le volte che voleva a far venire fin lì i soldati piemontesi per catturare i briganti, anche se per stare sicuro pagava pure una sua personale squadriglia d’uomini, che aveva il controllo assoluto del territorio. Maddalena, come la maggior 14. Con la caduta del regno borbonico, a S.Gregorio il potere viene esercitato da figure liberali che hanno il beneplacito di Garibaldi: nel 1861 Beniamino Caso viene eletto deputato al Parlamento di Torino, Gaetano Del Giudice diventa Governatore di Capitanata oltre che deputato; suo fratello Achille è invece Comandante della Guardia Nazionale di tutto il circondario e Consigliere Provinciale. Dalle cronache dell’epoca risulta che questo Achille Del Giudice avesse la mano pesante: quando i briganti venivano presi li faceva fucilare davanti al Municipio come esempio. Al brigante Panella aveva fatto tagliare la testa e poi l’aveva fatta esporre sulla finestra del suo studio come un trofeo, a monito per chi volesse mettersi contro di lui. Risulta pure che fra le sue distrazioni, i suoi divertimenti, oltre alla caccia, ci fossero le «belle femmine», le più belle del territorio, che lui si portava a letto in un feudale Jus primae noctis cui nessuno osava ribellarsi: come mille anni prima. 71 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 72 BANDITE! parte dei compaesani suoi, non ci capiva niente di quello che stava succedendo. È vero, non c’era più il re, Franceschiello era scappato, ma il re c’era sempre, solo che era un altro, uno straniero che non parlava napoletano come Franceschiello. Ma lì, a San Gregorio, non era cambiato niente. Don Achille comandava prima, e don Achille comandava adesso. Per lavorare, per mangiare, bisognava sempre piegare la testa a lui, come prima. Ma da quando Franceschiello se n’era andato, se n’erano andati pure tanti giovani che la testa non la volevano piegare più, trascinati da quella voce che diceva di darsi alla montagna per scatenare una guerra e far tornare il re di Napoli. Fra queste teste calde c’era pure lui, Andrea Santaniello. Ex soldato dell’esercito borbonico, era arrivato su quelle montagne l’anno prima da Civitavecchia come braccio destro di Cosimo Giordano15, ma nell’arco di breve tempo aveva messo in piedi una banda tutta sua, i cui uomini, pochi ma fidati, erano stati irreggimentati dal nuovo capobrigante con rigide regole militari, che prevedevano perfino una divisa. “Brutto di viso, ma alto, indossava la divisa con i galloni dorati e al gilet aveva appuntata, come una medaglia, una piastra di 12 carlini d’argento”16. Insomma, un uomo di fascino al quale Maddalena non 15. Il 26 agosto del 1864 a Selvapiana, a 10 Km. circa da Cusano, sono ritrovati i corpi di Pasquale Prece carbonaio di 45 anni e Domenico Ruscetti, bracciante di 52 anni di Piedimonte d’Alife. I due, incaricati dalla famiglia di don Nicola Coppola di portare ai briganti i 14.000 ducati di riscatto, avevano trattenuto per loro una parte della somma. Il cadavere del Ruscetti è orribilmente mutilato: naso ed orecchie recise, occhi cavati, budella al di fuori. Su di lui, spicca un cartello “Ecco la fine che fanno le spie”. L’omicidio porta la firma di Cosimo Giordano. Quest’ultimo, audace e intelligente, oltre che uno dei maggiori briganti del circondario di Cerreto, si travestiva per andare a trovare la sua amante e andava e tornava da Roma tutte le volte che voleva. Riparò a Marsiglia, ricomparve nell’80, nell’82 fu ipocritamente catturato. Condannato all’ergastolo, morì nell’87. (Da Il Brigantaggio nella Provincia di Benevento 1860-1880, De Martino, Benevento, 1975). 16. Da Archivio Centrale di Stato, Roma. Tribunali militari per il brigantaggio. Busta 66, fasc. 859. 72 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 73 aveva saputo resistere, innamorandosene perdutamente. Non un becero cafone ignorante come suo marito, che nel brigantaggio c’era finito solo perché sapeva menare le mani e per arraffare i soldi degli altri, ma un uomo animato da ideali politici, da sentimenti di fedeltà alla casa borbonica. L’aveva incantata con le sue parole, che spesso non capiva. Lo chiamavano brigante perché non riconosceva quei nuovi padroni, perché era rimasto fedele a Franceschiello, al re, l’unico Re di Napoli. Tuorn prest! Sono mesi ormai che Padovella è l’amante del brigante Santaniello, finché un pomeriggio di novembre, tornando a casa, a Maddalena scoppia la vita, quella che conosce, che l’accompagna da quando è nata. «Scappa Maddalè, vattene via! Te stanno a cercà li suldati!», le grida Filomena, l’amica sua sciancata; quando aveva manco nove anni un mulo l’aveva scalciata e per grazia ricevuta non c’aveva rimesso la vita. «E mò che faccio?». «Scappa Maddalè, scappa!». «Ma p’ché? Perché?». «Pè l’amore tuo, pè lu brigante tuo. Scappa Maddalè!». Un respiro, un respiro forte, di quelli che ti fanno apparire tutte le stelle della vita tua, ma pure scirocchi e temporali. Una lacrima buttata ‘ncuorp, ind’allanema, e poi un bacio, un bacio a quel bambino, suo figlio. «Tuorn prest, mamma torna presto. Statte accuort figlio mio». Poi, un abbraccio a quella vecchia semicieca, sua madre. Deve far forza per staccarle le mani dalle spalle, ché quella piange e non vuole lasciarla andar via sua figlia. S’aggrappa e piange e la tiene stretta, la soffoca con gli 73 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 74 BANDITE! artigli di ricordi che trasmette chissà come pure a lei, e a lei passano tutti in quel momento per gli occhi, pretendendo tutti la primogenitura, finché uno ha la meglio sugli altri, scivolando su una lacrima: un pomeriggio di sole nei campi tutti e tre, quando suo padre era una forza, sua madre bella, lei felice d’esserci. «Statte bona, ma’, tuorn prest». Poi scappa via, infila i monti al passo della disperazione, all’inseguimento d’una vita nuova: ché tanto, peggio di quella che ha non potrà essere di certo. Cammina per ore, da sola, fino al taglio di Letino, dove si nasconde il suo uomo. Che l’accoglie felice d’averla sempre con sé. «Nel bene e nel male», sentenzia sorridendo. Lei non risponde, chiude gli occhi, pensa a suo figlio. Pensa che adesso è un brigante anche lei. Una brigantessa. Anche lei ricercata dai piemontesi e dagli uomini di don Achille. Santaniello la presenta agli altri briganti, soffermandosi soprattutto con due di essi: Giovanni Civitillo detto “Senza paura”, uno che gira a cavallo tutto vestito di bianco, e Giovangiuseppe Campagna detto “il Rosso”, perché sul braccio porta sempre una fascia di seta rossa, anche se nessuno ne conosce ragione. Sono loro che pochi mesi prima hanno messo a segno a Piedimonte un clamoroso sequestro: quello del giudice Nicola Coppola, tenendo in scacco la forza pubblica, fino al successo finale, col sostanzioso riscatto ottenuto. La vita nuova Maddalena impara alla svelta “il mestiere” del brigante, perché ne va la vita stessa: camminare di nascosto, cancellare le impronte, evitare le mulattiere, non accendere il fuoco al calar del sole. Come tutti, anche lei ha un 74 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 75 soprannome: “Padovella”. Da allora sarà per sempre “Padovella”, la brigantessa “Padovella”. Ma d’inverno, da quelle parti, il freddo è ruvido come quelle montagne che sono la casa dei briganti. La banda di Santaniello si sposta sui monti sopra San Polito, dove più fitta è la rete di manutengoli. È uno di loro che una sera le dice che suo marito è morto. Giuseppe è morto agli inizi di febbraio. Un mese e mezzo fa. L’ha saputo da uno che stava in cella con lui a Capua Vetere. «Pace all’anima tua, Giusè». Andrea l’abbraccia, la stringe, le vede scendere una lacrima, e sa che non è per suo marito, ma per suo figlio, che Maddalena non vede da troppo tempo. «Domani lo vedrai», le dice guardandola negli occhi mentre le sposta quella ciocca ostinata di capelli che le vela troppo spesso gli occhi. Poi si stacca da lei e si apparta coi suoi uomini per predisporre tutto. Maddalena ha dimostrato di avere coraggio e lui l’ha ripagata con la fiducia, mettendola al corrente anche dei nomi di alcuni manutengoli, rimasti sconosciuti agli altri della banda. Praticamente, condivide con lei il comando, e nessuno degli uomini della banda se ne lamenta. Nemmeno quello spaccamontagne del “Rosso”, che un giorno aveva scommesso che sarebbe riuscito a far l’amore alla sera con la sua donna a Piedimonte. L’avevano sbeffeggiato, avevano riso sguaiatamente dicendogli che mai avrebbe potuto farla in barba non tanto ai piemontesi, quanto agli uomini di don Achille. Lui invece c’era riuscito e l’indomani aveva messo in saccoccia il frutto di quelle scommesse. Per incontrare la sua amante s’era travestito da donna ed era sceso in paese. Anche Maddalena era riuscita a scendere in paese, durante la notte, e aveva potuto riabbracciare suo 75 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 76 BANDITE! figlio. Tutto liscio, tutto liscio come l’olio. Ma bisogna sempre stare accorti, ché la vita ce la si può giocare in un battibaleno, come quella mattina, quando dal loro nascondiglio erano passati vicinissimi cinque uomini della guardia nazionale di San Polito. Stavano scortando un gruppo di donne che andavano a raccogliere legna in montagna. Significava restarsene lì per ore e ore, con la speranza di non essere beccati magari per una sciocchezza. E allora Santaniello aveva guardato Maddalena e lei aveva fatto segno di sì con la testa: era d’accordo. D’accordo ad attaccare invece che stare lì come topi ad aspettare. Così erano usciti veloci e senza sparare manco un colpo avevano disarmato quei cinque babbei, rispendendoli al paese in mutande, fra gli sberleffi delle donne che dovevano proteggere. Prima però avevano provveduto a svuotar loro le tasche. Pure un paio di scarpe nuove nuove avevano rimediato. Poi, come sempre, Santaniello aveva distribuito il bottino fra i suoi uomini, riservando il fucile più bello a lei, a Maddalena, che da quel momento, ufficialmente, non era più la donna del capo, ma capobanda pure lei. La brigantessa Padovella. Mariantonia È sabato santo. Giorni di festa pure per i briganti. Per questo Francescantonio Tartaglia, il più fidato dei manutengoli di Santaniello, invita a pranzo tutta la banda nella sua masseria, dove sua moglie Nicoletta fa pure il bucato ai briganti. Momenti spensierati, destinati però a un brusco ritorno alla realtà: la sera dopo, notte di Pasqua, a San Gregorio vengono infatti arrestati tutti i parenti di Maddalena. Sua madre Carolina, il fratello Arcangelo e la sorella Filomena col marito Michelangelo 76 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 77 Iameo vengono portati in carcere a Piedimonte. Tutti negano d’avere il benché minimo rapporto coi briganti, fino a rinnegare pure lei: «che c’entra più con noi?». Verranno rilasciati due mesi dopo. Maddalena li capisce. Hanno fatto bene a disconoscerla: così si sono salvati. La domenica successiva alla Pasqua, il 23 aprile, la banda Santaniello rapisce una giovane di Alife. Mentre fuggono con l’ostaggio, i briganti incontrano un venditore ambulante di tessuti. Maddalena ferma il suo cavallo a un metro dall’ambulante terrorizzato da quel moschetto puntato contro la sua faccia. «Maccatur ìne tien?», gli chiede Maddalena. «Quant ‘ne vuoi», risponde quello indicando la sua mercanzia. Maddalena prende quei fazzoletti bianchi coi fiorellini rosa e li dà alla ragazza, che da quando sono partiti non ha smesso un momento di piangere. Continua a piangere per tutta la prigionia, anche se viene trattata bene, e pur non avendo ottenuto il riscatto richiesto, viene rilasciata. A forzare la mano in senso favorevole alla ragazza era stata Maddalena, che poco tempo dopo era stata protagonista di un altro episodio. Una sera s’era incupita e il suo uomo non era riuscito a strapparle la ragione. Era uscita nel bosco, per stare da sola. Pensava a quella ragazza che conosceva. Mariantonia. Aveva pensato a lei, e una lacrima le era scappata. Era così tornata nella grotta dove Santaniello era seduto attorno al fuoco con tutti gli altri della banda. E senza prendere mai fiato, quasi in trance, con rabbia e con dolore aveva raccontato la storia di Mariantonia. Una delle tante storie di sopruso, violenza, ingiustizia, subite soprattutto dalle donne, donne come lei. Mariantonia era orfana di padre e campava accudendo le pecore che davano da mangiare a lei, suo fratello, sua madre. Era 77 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 78 BANDITE! bella, d’una bellezza indifferente alla miseria, che manco la fame era riuscita a oltraggiare. Una bellezza che non sfuggiva agli uomini, compreso don Salvatore, ricco proprietario terriero, che un giorno l’aveva sorpresa mentre tornava da una passeggiata col suo cavallo e l’aveva seguita fino alla sua casa, dove era entrato e l’aveva violentata selvaggiamente e ripetutamente. La violenza subita aveva provocato una forte emorragia e un’infezione aveva ucciso Mariantonia. «Voglio giustizia, voglio vendetta per Mariantonia», urlò alla fine del suo racconto la “Padovella”, senza accorgersi delle lacrime che le scendevano copiose fino a bagnarle la camicetta. Santaniello guardò i suoi uomini, che fino ad allora erano rimasti in assoluto silenzio. «Portatemelo qui», disse a denti stretti Santaniello senza distogliere lo sguardo da quella fiamma che aveva seguito per tutto il racconto della sua donna. Alcuni uomini della banda partirono subito per acchiappare quel maledetto, che poche ore dopo fu scaricato come un sacco davanti a Maddalena dal mulo sul quale era stato trasportato legato come un salame. L’avevano trovato nella taverna di zi’ Raffaele, mezzo ubriaco e al suo tirapiedi, che s’era messo in mezzo, era stata assestata una coltellata sufficiente per renderlo innocuo per tutto il mese successivo. «Diglielo tu perché si trova qui», disse Santaniello rivolgendosi alla sua donna. E Maddalena glielo disse con un solo nome: «Mariantonia». Capito il destino che l’attendeva, don Salvatore aveva pregato, scongiurato, promesso: tutto pur di avere salva la vita. «Te do tutt li dinar ca vuoi, ma nun m’accidere». Una nenia che fu zittita da Santaniello, che piegandosi verso quell’ammasso lamentoso, gli spiegò quale sarebbe stato il suo destino: «Domani mattina, prima ti castriamo, 78 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 79 poi ti sgozziamo come un maiale. Non lo faccio subito perché così hai tutta la notte per ricordare, pentirti di quello che hai fatto, e per pensare bene a quello che ti faremo». All’alba, don Salvatore ricevette tutto quanto promesso, con Maddalena a controllare che soffrisse il più possibile. Quando fu tutto finito, Santaniello infilò gli organi genitali di don Salvatore in uno straccio e li diede a un suo uomo: «Portali alla famiglia e digli di preparare i soldi per avere tutto il resto di questo maiale». Le imprese di Giordano A Piedimonte, una sera di fine maggio la banda Santaniello arriva alla masseria di un loro manutengolo per ritirare del pane: Giovanni “senza paura” bussa alla porta, ma dall’interno parte una fucilata che lo manca, ma ne seguono subito altre. A sparare sono i soldati nascosti lì dentro. I briganti riescono a fuggire coprendosi la ritirata con alcuni spari. Inoltre conoscono bene il territorio e si muovono agevolmente pure al buio, non come i soldati che alla fine rinunciano all’inseguimento dopo essere inciampati e rotolati più volte nella boscaglia. Anche questa volta è andata bene, ma questo episodio preoccupa parecchio Santaniello. Se fanno terra bruciata attorno a loro è finita. Se sono riusciti a convincere al tradimento quel manutengolo, di chi potranno fidarsi ciecamente d’ora in poi? Come faranno quindi a rifornirsi? Non possono certo vivere di bacche e qualche lepre. Il cerchio si sta stringendo. Le squadre pagate dai proprietari terrieri si sono gonfiate d’uomini anche per le taglie messe su tanti briganti. Alle squadre di don Achille se ne sono aggiunte altre che alla fine diventano molto pericolose, perché ormai in grado di monitorare tutto il territorio. La 79 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 80 BANDITE! drammaticità della situazione è testimoniata da quanto accade il 21 luglio: la banda sta prendendo il fresco sotto gli alberi, quando alcune voci si avvicinano sempre di più. Messi in allarme, gli uomini di Santaniello si preparano allo scontro, caricando le armi, ma quando sono pronti per far fuoco, dalla boscaglia salta fuori il faccione di Cosimo Giordano, il capo di tutti i briganti del matese. Alto e magro, con il viso scavato, Giordano ha due occhi neri, profondi, che quando ti guardano ti scavano. Un passo dietro di lui c’è il capobanda Antonio de Lellis, parente di Maddalena, con i suoi uomini. Giordano ha la baldanza del capo. Si muove facendo ampi gesti e portando spesso la mano destra sul manico del coltellaccio che tiene infilato in una fascia verde attorno alla pancia. Dice di essere venuto a bella posta da Roma per sequestrare sia don Achille del Giudice che don Enrico Sanillo. Dice che con quei due si possono fare parecchi quattrini, oltre a dimostrare chiaramente chi controlla davvero quel territorio. Altro che piemontesi, altro che don Achille e suo fratello! Alla fine del suo discorso, che ha ipnotizzato gli altri briganti, Giordano si rivolge a Santaniello chiedendogli la sua disponibilità. «Nemmanco per idea!», risponde rosso in volto Santaniello, «don Sanillo nun se tocca. Don Sanillo è benefattore nostro. C’ha aiutato tante volte». Giordano ribatte che sempre padrone rimane, e che pure lui c’ha un sacco di soldi. Santaniello non recede. Una parola tira l’altra e la discussione si accende; le mani sono pronte alle armi. Lo scontro è evitato per un soffio grazie a Maddalena, che blocca il braccio del suo uomo guardandolo dritto negli occhi. Uno sguardo che dice tutto. Che riassume in un lampo ciò che conta davvero. E ciò che conta è solo una cosa: chi ha il potere, i soldi, la 80 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 81 terra, ce li ha e chi no. Che pure se li ha aiutati, Sanillo l’avrà sicuramente fatto per un tornaconto suo. Forse per ingraziarsi una delle bande più importanti del matese, contando magari proprio in una sua protezione quando si fosse presentata l’occasione. E l’occasione era quella. Santaniello aveva intuito, aveva capito, e alla fine aveva accettato di appoggiare l’impresa di Giordano, che era quindi passato a spiegare che la prima azione avrebbe riguardato proprio Sanillo, che sarebbe stato rapito la sera seguente presso la bottega del Caffè di Nicola Riccitelli, che si trovava sulla consolare a San Polito, dove don Sanillo si recava ogni sera. Sabato sera, 22 luglio, c’è la luna nuova e dunque è buio pesto. Le bande riunite di Giordano e Santaniello sono appostate fuori dal paese; in tutto trentatré briganti armati fino ai denti. Verso mezzanotte un confidente di Giordano gli conferma la presenza di don Sanillo nel caffè Riccitelli. A questo punto la banda entra in paese; al passaggio dei briganti porte e finestre si chiudono precipitosamente. Un vecchio contadino, che sta fumando la pipa seduto sulla sedia fuori dal suo uscio, rientra appena li vede, mentre una donna che sta lavando dei panni alla fontana, raccoglie tutto in fretta e a grandi passi si dirige verso casa. Giordano, Santaniello, de Lellis, Arcieri e altri quattro si avviano al caffè camminando in mezzo alla via. Maddalena, nascosta con gli altri briganti su un terrapieno, riesce a seguirli nonostante il buio fino a qualche decina di metri dal caffè, poi scompaiono al suo sguardo. Passano minuti interminabili, poi degli spari. Fucilate e grida. Poi nuovamente il silenzio e nel buio Maddalena era riuscita finalmente a scorgere qualcosa, fino a vedere chiaramente “Il Rosso” che trascinava il sin81 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 82 BANDITE! daco Pietrosimone, seguito da Giordano che lo spingeva dandogli delle gran manate. Il sindaco piangeva gemendo e dicendo frasi incomprensibili. Oltre al sindaco, c’era anche un altro ostaggio. Giordano d’un tratto s’era fermato e, parandosi davanti al sindaco, gli aveva chiesto quanti soldi avrebbe pagato per il suo riscatto: Pietrosimone, terrorizzato, aveva risposto che più di cento scudi non poteva proprio. «Allora si ammazza», aveva suggerito Vincenzo Arcieri, e Giordano, voltandosi a Giuseppe, brigante di Cerreto, aveva ordinato di ucciderlo. Senza esitazione, questo aveva estratto uno stiletto e aveva colpito più volte il sindaco, che era stramazzato in un mare di sangue. Giordano non aveva nemmeno guardato, intento com’era a confabulare con Vincenzo Arcieri. I briganti avevano quindi raggiunto il resto della banda, e da quel momento erano fioriti i racconti sull’accaduto: «Come sono andate le cose?». I dubbi di Santaniello Una delle guardie di Sanillo fuori al caffè aveva gridato: «Alto là. Chi va là?»; e dal buio Giordano aveva risposto: «Pattuglia di carabinieri». Così, quando le guardie avevano abbassato lo schioppo per lo scongiurato allarme, i briganti li avevano colpiti fulmineamente coi loro coltelli parandosi poi a cerchio davanti alla porta del caffè. Poco dopo s’era aperta la porta del caffè e il sindaco in persona s’era affacciato sull’uscio per chiedere cosa stesse succedendo. Non aveva nemmeno finito di parlare che era stato acchiappato dal bavero e tirato fuori del tutto, mentre alcuni briganti entravano nel caffè sparando. Qualcuno aveva poi gridato che nella sparatoria era stato ucciso Sanillo. Intanto qualcuno era uscito dal caffè, 82 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 83 fra questi, lo stesso oste, che con una mano sanguinante implorava di non sparare più. Dentro c’erano altri due uomini feriti. Sanillo era per terra in una pozza di sangue. Al mattino seguente le strade sono deserte, solo cani e cicale. La gente è terrorizzata. A Piedimonte un massaro manda un suo garzone che consegna alle bande pane, prosciutti e dieci caraffe di vino. Gli uomini scendono poi fino al bosco di San Simeone. Giordano vuole fare subito un altro sequestro ad Alvignano. Ma tra lui e Santaniello nasce un nuovo litigio. Questi è risentito perché, contrariamente a quanto stabilito, Sanillo non era stato rapito, ma subito ucciso: «Sanillo non meritava di essere ucciso!», urla. «Non solo era un borbonico, ma era soprattutto un vero amico: quante volte abbiamo avuto munizioni, cibo! Pochi mesi fa ci ha mandato perfino dieci napoleoni d’oro». È ormai evidente che fra lui e Giordano non c’è possibilità d’intesa, così Giordano decide di andarsene verso Cerreto, con Antonio de Lellis e gli uomini a lui fedeli. Santaniello rimarrà in questa parte del matese, o dove diavolo gli pare. Santaniello sfoga la sua rabbia con Vincenzo Arcieri, che ha visto troppo in intimità con Giordano: lui continua a sentirsi un militare e come capitano della banda non può tollerare insubordinazioni. Ma il vecchio Arcieri incassa e gli garantisce quasi in lacrime la sua assoluta fedeltà. I dubbi, invece, non lasciano Santaniello. Non capisce perché Giordano è venuto fin là, apposta da Roma, per sequestrare uno dei finanziatori più sicuri del brigantaggio. Con tanti liberali, garibaldini e benestanti, perché prendersela proprio con il borbonico Sanillo? E poi c’è la dinamica dell’omicidio che non lo convince. Come pattuito, lui sparava basso, per non colpire mortalmente. Se tutti hanno sparato basso come lui, 83 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 84 BANDITE! perché proprio Sanillo s’è preso una palla in fronte? La cosa non quadra. Quando il portone s’è aperto nel caffè c’erano feriti, Sanillo già morto, e Melillo, amico di Arcieri e loro manutengolo, era uscito a mani alzate, come l’oste. No. Santaniello si convince che si voleva uccidere Sanillo. E poi perché sgozzare a sangue freddo quel povero sindaco, quando anche il più fesso dei briganti sa che un ostaggio morto non frutta denari? È come se si volesse creare confusione. Maddalena gli si siede a fianco e condivide i dubbi del suo uomo. Santaniello è stufo di quelle montagne, non si fida più di Arcieri, di questi quattro delinquenti cafoni che manco si ricordano di Re Francesco. Tagliamogli un orecchio Ormai il matese pullula di bande, di soldati e persino di quelle squadriglie private autorizzate dal governo: uomini comandati dal delegato di pubblica sicurezza, ma in realtà veri e propri cacciatori di taglie pagati da don Achille del Giudice. Così Santaniello finalmente decide di andarsene in luoghi più tranquilli. Arcieri, Campagna, Giovanni “senza paura” non lo vogliono seguire, e finalmente le loro strade si dividono. La cosa non dispiace a Santaniello, che con pochi fidati e Maddalena se ne va verso il beneventano: «Meglio pochi ma fidati». Oltrepassato il Taburno, Santaniello decide di fermarsi sui monti avellinesi della valle caudina. Anche quella è zona di briganti e con Maddalena si aggrega alla banda di Giuseppe Passariello, nella quale ci sono anche sue vecchie conoscenze, come Mascella e Pasquale Pulcinella. Mascella è un brigante feroce, determinato, che proprio 84 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 85 in quel momento sta gestendo il sequestro di sette persone. Francescantonio Guadagnino, di Talanico, è un ragazzo di nemmeno vent’anni, figlio di una ricca famiglia. Per il suo riscatto vengono chiesti 1000 ducati, ma la famiglia fa sapere che è una somma di cui non dispone. Per convincerla, il brigante Mascella taglia un orecchio al ragazzo, mandandolo alla famiglia con un biglietto: “Il primo pezzo”. Il ragazzo sarà rilasciato dopo due settimane e l’intero riscatto pagato. Maddalena necessita di abiti nuovi, così scende con Santaniello e altri briganti vicino a Nola, dove un certo Pietro dà loro da mangiare e tramite un sarto del paese gli vende abiti nuovi. Maschili, come vuole lei. Ma nel rientro, forse per una soffiata, vengono intercettati dalla forza pubblica tra Cicciano e Cancello: Maddalena si distingue per coraggio nel conflitto a fuoco che ne segue. Alla fine riescono a fuggire. Santaniello decide di lasciare quei monti diventati troppo pericolosi, per tornare nel più sicuro e conosciuto matese. Fa già freddo, e nelle lunghe ore di pioggia si raccontano gli avvenimenti accaduti in quei mesi. Storie di sangue, di banditi senza ideali, che a Santaniello non piacciono. Sabato 2 dicembre 1865 il brigante Pietro Di Cesare vuole scendere a Sant’Angelo per incontrare la moglie. Santaniello e Maddalena, forse per restare un po’ da soli, decidono di accompagnarlo. In contrada Petraro vengono accolti in una masseria dove restano a dormire. Il mattino seguente la proprietaria, tornata dalla messa, prepara le tagliatelle e due polli. Un vero pranzo domenicale è quello che ci vuole per rifarsi dei tanti pasti asciutti racimolati in montagna. Trascorrono così una giornata tranquilla, seduti sull’aia, a guardar da lontano le cime inne85 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 86 BANDITE! vate del matese. A sera Maddalena e Santaniello vanno a dormire tranquilli. Alle due di notte il latrare dei cani li allarma: scattati subito fuori, sentono i soldati che si avvicinano lungo la mulattiera. Decidono di scappare dividendosi in due direzioni: ma è luna piena stanotte, il buio non li protegge. Maddalena corre verso la masseria, sfiora il pozzo: c’è una siepe poco più avanti, e corre, corre. Venti metri, forse trenta, ma una fucilata lacera il silenzio della notte. Un solo colpo le trapassa la natica sinistra. Ancora qualche passo, poi crolla, riversa, la faccia nell’erba bagnata. I soldati la raggiungono contenti di averne preso uno, ma lei con scherno gli rinfaccia di essere stati capaci di sparare «solo ad una femmina». Così, a dispetto degli abiti maschili che indossa, rivela la sua identità. Ma è ferita, perde sangue, e Felice Stocchetti, il capo della guardia nazionale, la fa caricare su un carretto che la trasporta in caserma a Piedimonte, dove viene identificata. La ferita è grave, e di peso la trascinano nell’infermeria, dove viene spogliata e messa a letto. Una notte infernale: nel silenzio di quella stanzetta la febbre e il dolore agitano Maddalena, insieme all’ansia di non sapere che fine ha fatto Santaniello, né il destino che l’aspetta. Fine corsa Il lunedì mattina dalla piccola finestra della stanza entra il chiasso del mercato. Quando Maddalena apre gli occhi attorno al suo lettino i militari la sottopongono al primo, lungo interrogatorio. E lei parla, parla e descrive luoghi e persone, fa i nomi dei manutengoli e dei briganti, mentre la ferita e la febbre confondono le parole di quegli uomini, tre forestieri, che manco capiscono il suo dialetto. 86 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 87 Chissà quante cose dette non vengono neppure verbalizzate, o travisate per proteggere il vero burattinaio delle vicende politiche locali: Achille del Giudice. Eccola qui la sanguinaria brigantessa del matese, che a stento traccia un segno di croce sul verbale d’interrogatorio. Una brigantessa, ma soprattutto una donna innamorata, che ha provato a fuggire da una misera vita di stenti, appresso ad un uomo che sapeva comandare e che aveva visto il mare. È tutto finito. Sola, dolorante, avvilita ripensa a quell’anno, così pericolosamente vissuto da brigantessa. Ripensa al suo Andrea, che non vedrà mai più. Ripensa alle cose che ha visto e che manco pensava esistessero. Due giorni dopo i medici che la visitano verbalizzano la presenza di una ferita d’arma da fuoco «pericolosa di vita, ed ove ci fosse frattura delle ossa, pure di debilitamento permanente dell’arto». Ma subito dopo Maddalena viene sottoposta ad un nuovo interrogatorio. E poi altri, e altri ancora nei giorni seguenti. Intanto i soldati che l’avevano catturata intascano una taglia di mille ducati. Lei resta lì, chiusa nel carcere, a combattere contro quella ferita che la lascerà zoppa per tutta la vita. Dopo oltre due anni viene trasferita nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dov’era stato rinchiuso suo marito, uscendone con i piedi davanti. Ha 32 anni quando entra per la prima volta in un’aula di tribunale. Nel maggio 1868 la corte d’Appello di Napoli la riconosce colpevole di concorso nella strage di San Polito. Nella gabbia degli imputati lei ascolta la sentenza: condanna ai lavori forzati a vita. Ma ci sono altri processi a suo carico. Altri interrogatori, deposizioni, trasferimenti da un carcere all’altro. Giacinto Bosco, il giovane avvocato che le è stato assegnato d’ufficio, prende a cuore la sua vicenda e ricorre in 87 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 88 BANDITE! Appello, riuscendo a ottenere una riduzione di pena a 25 anni di lavori forzati, interdizione legale e dai pubblici uffici, oltre a 10 anni di sorveglianza speciale della pubblica sicurezza dopo la conclusione della pena: eventualità remotissima, visto che Maddalena, come qualsiasi altra persona, non avrebbe mai potuto sopravvivere a 25 anni di lavori forzati in quelle galere putride, umide, schifose. Bosco ricorre così in Cassazione, che rinvia la causa alla corte d’Assise straordinaria di Santa Maria Capua Vetere, dove finalmente si conclude la vicenda giudiziaria di Maddalena, che nel gennaio 1872 viene trasferita alla casa circondariale di Aversa. A 36 anni la brigantessa Maddalena de Lellis scompare dalla faccia del mondo. Nessuno sa più nulla di lei. Dal suo avvocato si riesce a sapere che sconta la pena nel penitenziario della Giudecca a Venezia, dove viene redenta dal patriarca Sarto, futuro papa Pio X. Poi, un bel giorno di fine secolo, Maddalena era improvvisamente tornata a San Gregorio, dove “la padovella” aveva tenuto quello strano asilo infantile a dimostrazione che quel paese l’aveva riaccettata, aveva riabilitato un proprio membro, accogliendo nuovamente quella sua figlia che era stata spinta al brigantaggio dalla miseria e dall’amore per un uomo. Sarebbe morta di morte naturale il 7 marzo 1908. 88 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 89 PARTE SECONDA Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 90 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 91 LE PARTIGIANE Non abbiamo fatto la guerra noi. Noi abbiamo fatto le donne. Abbiamo fatto solo le donne. Carla Leali, donna della Valsabbia LA RESISTENZA DELLE DONNE Trentacinquemila le partigiane, inquadrate nelle formazioni combattenti; 20.000 le patriote, con funzioni di supporto; 70.000 in tutto le donne organizzate nei Gruppi di difesa; 16 le medaglie d’oro, 17 quelle d’argento; 512 le commissarie di guerra; 683 le donne fucilate o cadute in combattimento; 1750 le donne ferite; 4633 le donne arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti; 1890 le deportate in Germania. Sono questi i numeri della Resistenza al femminile17, una realtà poco conosciuta e studiata. Durante la guerra, le donne non solo si erano fatte carico delle responsabilità sociali tradizionalmente maschili, sostituendo l’uomo nel lavoro e nel mantenimento della famiglia, ma avevano anche scelto di schierarsi e combattere, nelle diverse forme possibili, la lotta resistenziale, ribaltando la consueta divisione dei ruoli maschile e femminile. Nei libri di storia si accenna appena alla partecipazione delle donne alla Resistenza, sebbene il loro apporto si fosse rivelato determinante ai fini di una mag17. Dati dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. 91 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 92 BANDITE! gior efficacia dell’organizzazione delle formazioni partigiane, entrando a far parte di diritto nella storia della Liberazione nazionale: le donne si occupavano della stampa e propaganda del pensiero d’opposizione al nazifascismo, attaccando manifesti o facendo volantinaggio, curando collegamenti, informazioni, trasportando e raccogliendo documenti, armi, munizioni, esplosivi, viveri, scarpe o attivando assistenza in ospedale, preparando documenti falsi, rifugi e sistemazioni per i partigiani. Risulta evidente che un aiuto di questo tipo, considerato dalle stesse protagoniste come “naturale”, trova difficoltà ad essere formulato storicamente in modo ufficiale. Infatti i dati numerici sopra riportati non sono completamente attendibili, poiché la maggior parte di essi si ricava da riconoscimenti ufficiali e “premiazioni” assegnate a guerra conclusa sulla base di criteri militari, in cui la maggioranza non rientrava o non si riconosceva. Di fatto veniva riconosciuto partigiano chi aveva portato le armi per almeno tre mesi in una formazione armata regolarmente riconosciuta dal Comando Volontari della Libertà ed aveva compiuto almeno tre azioni di sabotaggio o di guerra. Ma l’azione femminile, oltre alla direzione dettata dalla necessità di dare assistenza ai partigiani, attraverso molteplici attività materiali, si orientava anche politicamente: numerosissime donne, di ogni estrazione sociale, operaie, studentesse, casalinghe, insegnanti, in città, così come in campagna, organizzarono veri e propri corsi di preparazione politica e tecnica, di specializzazione per l’assistenza sanitaria, per la stampa dei giornali e dei fogli del Comitato di Liberazione Nazionale. La Seconda Guerra Mondiale ha permesso alle donne, in un certo senso, di emergere dall’anonimato e le ha tra92 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 93 sformate in soggetti storici finalmente riconoscibili, nell’esperienza non solo di sostegno e solidarietà offerta all’azione partigiana; ma di azione vera e propria, con tanto d’armi in pugno. L’antifascismo fu, per le donne, una scelta difficile, ma libera da costrizioni esterne: non fu dettata dal timore di rastrellamenti messi in atto in seguito ai bandi, o dallo stato di evasione che fece confluire nelle bande partigiane migliaia di giovani. In più quelle che partecipavano attivamente non erano né fanatiche, né guerrafondaie, ma donne normali. La Resistenza per queste donne significò anche impugnare un moschetto, ma soprattutto conquistare la cittadinanza politica. Il desiderio di liberarsi dai tedeschi si intrecciava con quello di conquistare la parità con l’uomo: ciò esprime il fatto che allora la donna acquistò la consapevolezza del proprio valore e delle proprie capacità, derivante dalla rottura del sistema di controllo sociale causata dalla guerra. Si trattò di una guerra nella guerra, della battaglia per la loro emancipazione dopo una millenaria subordinazione. La motivazione politica portò ad un risultato importantissimo: la richiesta di un riconoscimento di un ruolo pubblico nel nuovo sistema democratico, fino ad allora negato alla donna da una società prevalentemente maschilista. L’attività delle partigiane è stata sottoposta in sede storica a varie letture: Anna Bravo18 ha evidenziato come il contenuto dell’appello che la società lancia alle donne nei momenti di sconvolgimenti profondi, come le guerre, facendo leva sul sacrificio di sé per la salvezza collettiva 18. Docente di Storia sociale all’Università di Torino e storica delle donne. 93 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 94 BANDITE! in nome della maternità come valore sociale, riconduce l’azione femminile all’interno del naturale orizzonte di valori istintuali che non può tradursi nel riconoscimento di una pratica politica. La scelta resistenziale delle donne ha rappresentato, in contrapposizione ai modelli femminili proposti dal regime fascista, la ricerca di libertà personali sollecitata dalla società di massa e, in parte, soddisfatta dalla difesa armata e paritaria della patria, simbolo nella tradizione politica occidentale dell’accesso alla cittadinanza. La Resistenza, comunque, ha rappresentato una nuova importante tappa del percorso emancipativo delle donne, determinando per esse un universo simbolico di riferimento nuovo, sancito formalmente dal decreto sull’estensione del diritto di voto del 1° febbraio 1945. Le hanno chiamate donne della “resistenza taciuta”, come s’intitola uno storico saggio su dodici vite partigiane19. In effetti pochi le conoscono per ciò che erano: autentiche leader, politiche e morali. Combattevano, venivano arrestate, a volte picchiate o violentate senza parlare o tradire. Facevano politica senza separarla dalla vita (molto tempo prima dello slogan “il privato è pubblico”). I valori e i caratteri del mondo femminile, sviluppatisi durante la millenaria soggezione e in risposta a questa, diedero, anche alla nostra Resistenza, una ricchezza che non avrebbe raggiunto altrimenti. Fra questi caratteri, risaltano la spontaneità, il rifiuto del calcolo, il senso di giustizia, la capacità appassionata di amare e di soffrire, il 19. Si tratta di un libro curato da Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, che riunisce le testimonianze di dodici donne partigiane piemontesi: Nelia Benissone, Lucia Canova, Albina Caviglione, Anna Cinanni, Teresa Cirio, Tersilla Fenoglio, Lidia Fontana, Rita Martini, Elsa Oliva, Rosanna Rolando, Maria Rovano e Maria Rustichelli. 94 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 95 rispetto della verità dei fatti e dei sentimenti («avevamo paura», hanno ammesso alcune, candidamente), la generosità comunicativa, la modestia, la pietà. Davvero una Resistenza sofferta e taciuta. Sono decine di migliaia le donne che hanno combattuto il nazifascismo affrontando arresti, violenze e deportazioni. Che sono uscite di casa per entrare nella Resistenza. Che vi hanno fatto ritorno, spesso dimenticate, a guerra finita. Esse non si affiancarono ai loro compagni soltanto con il ruolo di cura attribuito loro dalla memorialistica e dalla storiografia ufficiale, né si può più dire che esse stavano ai margini della lotta di liberazione, perché esse ne furono protagoniste. L’importanza delle donne nella vita quotidiana e sociale nel borgo aumentò durante la guerra: non solo fecero fronte ad un aggravamento delle già misere condizioni di vita, ma si assunsero l’incarico di manifestare con modi “estroversi”, come le proteste di piazza, il dissenso contro il regime. Simbolo del nuovo protagonismo femminile è il famosissimo “sciopero del pane” del 16 ottobre del 1941. La protesta scoppiò per la riduzione della razione pro capite di pane, nonostante le rassicurazioni dello stesso Mussolini. Le donne assaltarono un furgoncino della Barilla, formarono un corteo numeroso e agguerrito che, al grido di «Pane! Pane!», riempì le strade cittadine e impegnò le autorità fasciste per tutta la giornata. I documenti ufficiali hanno ridimensionato la partecipazione di massa a questa protesta e, soprattutto, la sua portata politica. Con questa “chiassata” le donne, casalinghe e operaie, non operarono solo sul fronte delle rivendicazioni materiali, ma espressero tutta la rabbia e il dissenso popolare contro il regime, la guerra e le restrizioni da essa impo95 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 96 BANDITE! ste. Questa manifestazione di massa è, quindi, da considerare l’atto di ingresso delle donne nel movimento antifascista e preludio del salto di qualità del loro ruolo all’interno del movimento clandestino. Salto di qualità dovuto anche alla graduale maturazione di una coscienza politica che fra le donne possedeva solo chi lavorava in fabbrica a causa delle attività sindacali e di propaganda antifascista che lì erano svolte. Nel momento in cui decidevano di essere contro il fascismo, esse erano obbligate non solo a schierarsi politicamente, ma anche a rompere oggettivamente con la separatezza della propria tradizionale domesticità per proiettarsi sulla scena pubblica. A quel punto non era possibile più alcuna ingenuità, alcuna mancanza di consapevolezza. Si accorgevano di essere doppiamente diverse rispetto al resto della società, aggiungendo al senso di solitudine, che le avvicinava ai loro compagni di fede, la percezione vivissima di essere isolate anche, e soprattutto, nei confronti delle altre donne. Dovevano negare il modello seduttivo di tanti stereotipi al femminile e questo poteva risultare piuttosto facile. Difficile, molto più difficile, era spezzare i condizionamenti e i legami familiari quando questi si ponevano come barriere ardue da scavalcare. In questo caso la scelta poteva assumere una dimensione totalizzante, fino ad azzerare del tutto la propria realtà privata. Erano pochi i casi in cui il rapporto con la famiglia assumeva toni così radicalmente conflittuali e anzi, nella memoria delle militanti, la cultura familiare veniva costantemente rivissuta come moralità, come un ambito al cui interno la scelta antifascista appariva in un certo senso predestinata. Sempre, invece, la frequentazione con gli ideali e i progetti politici dell’antifascismo produ96 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 97 ceva nella loro vita intima contraddizioni laceranti, la sensazione di essere considerate “bestie rare“ per le quali la trasgressione del modello femminile tradizionale comportava l’attivazione quasi automatica di meccanismi di difesa e di autoisolamento. Per intraprendere quel cammino bisognava essere assolutamente convinte della propria forza interiore, assecondando quelle scintille di diversità che facevano di ogni antifascista una donna che si distingueva dalla altre, anche solo per una infinitesima porzione di comportamenti, atteggiamenti, letture, abitudini culturali, modi di vestire, di truccarsi, di vivere il rapporto con i propri figli, con i genitori, di interpretare l’amore, di gestirsi la propria sessualità. Erano tutti rivoli di una “diversità” che confluivano in un tipo ideale dell’antifascismo al femminile, che smarriva i contorni di un’esperienza assoluta da testimoniare, di un modello etico-politico che diventava una realtà totalizzante, per assumere la configurazione tumultuosa e incandescente di un universo fatto di scelte individuali, casualità, contraddizioni personali, lasciando affiorare una molteplicità di percorsi difficilmente riconducibili ad una uniformità segnata dalle grandi sintesi politiche e ideologiche. Giovani popolane appartenenti ai ceti operai, poco o per nulla politicizzate, residenti nei borghi popolari furono le donne che scelsero di aderire alla Resistenza. Chiamate dalla storia a combattere in un mondo in sfacelo, queste donne si esposero senza esitare a tutti i rischi della guerra partigiana. Nella massima parte non vollero imbracciare le armi, questo simbolo di prepotere maschilista, prendendo parte a pieno titolo alla Resistenza civile. Indipendentemente dai mezzi usati nella lotta, si distinsero dagli uomini per i modi e la qualità della loro 97 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 98 BANDITE! partecipazione. I valori e i caratteri del mondo femminile, sviluppatisi durante la millenaria soggezione e in risposta a questa, diedero, anche alla nostra Resistenza, una ricchezza che non avrebbe raggiunto altrimenti. Fra questi caratteri, risaltano la spontaneità, il rifiuto del calcolo, il senso di giustizia, la capacità appassionata di amare e di soffrire, il rispetto della verità dei fatti e dei sentimenti, la generosità comunicativa, la modestia, la pietà. Davvero una Resistenza sofferta e taciuta. Fin dall’immediato dopoguerra, opposizione e resistenza al nazifascismo sono state identificate con la lotta armata, minimizzando l’opera senza armi, considerandola come contributo alla prima, cioè come una forma laterale di azione. Questa svalutazione della Resistenza civile penalizzò soprattutto il riconoscimento dell’azione femminile che fu prevalentemente senza armi e subì la stessa feroce repressione della lotta armata. Solo il ruolo della staffetta venne celebrato, riconoscendone la pericolosità e l’importanza. L’attività di Resistenza civile delle donne non si esauriva, però, con la figura dell’eroica staffetta. Esse si resero d’aiuto in modi diversissimi, a volte specificatamente femminili come il vestire e aiutare i militari sbandati affinché sfuggissero alla cattura dei tedeschi (il cosiddetto maternage) e la cura dei feriti, o attraverso la propaganda antifascista, il sabotaggio in fabbrica della produzione destinata alla guerra nazifascista, o la raccolta di viveri e denaro, o spontanea od organizzata dal Soccorso Rosso, per le famiglie in difficoltà dei militanti. L’Agnese del libro della Viganò non è giovane, non è bella, non è istruita né particolarmente intelligente, non ha desiderio di uscire dal suo piccolo cosmo contadino, ma, 98 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 99 di fronte alla cieca violenza della Storia, compie un atto irreparabile cha la scaraventa, quasi suo malgrado, in una vita completamente diversa. L’Agnese partigiana sa comportarsi con coraggio e responsabilità, ma, soprattutto, riversa sui suoi giovanissimi compagni, tutto il suo amore riservato e costante, tanto da divenire per tutti “mamma Agnese”: un modello di umanità, forte e sommessa insieme. Per tante donne, come per l’Agnese, la Resistenza fu l’occasione di una complessiva “promozione” umana, sociale e politica. Le comuni condizioni di pericolo, i rischi corsi insieme, quella specie di fratellanza, che si stabilisce quando si impugnano le stesse armi, riuscirono ad infrangere molti stereotipi ideologici e culturali. Agnese, per i partigiani, è comunque sempre una “mamma”; il suo bisogno di avere il consenso del capo ricorda la gratitudine con cui accoglieva le tenerezze del marito. Quando la giovane partigiana, che da poco aveva raggiunto la banda, chiede di regolarizzare la sua posizione e di sposare il compagno, il trinomio classico “madre, moglie, figlia” si ritrova intatto con la sua carica di subalternità, anche all’interno di un mondo ricco di fermenti innovatori come quello partigiano. Agnese non è solo un personaggio letterario, è un simbolo di qualcosa di più grande e di più importante che tanto meglio traspare nel testo quanto più essa si annulla come personaggio, per virtù come semplicità, abnegazione. Essa combatte con i partigiani appartenenti a formazioni fortemente politicizzate, ma i suoi moventi non sono politici. Abbracciare la causa della lotta partigiana in tutta la sua interezza non è cosa semplice. Agnese è un’immagine collettiva, è uno e molti, è soggetto e oggetto del sacrificio; un personaggio assai reale sot99 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 100 BANDITE! to certi punti di vista, ma poi disumano per la sua grandezza, la sua capacità, spinta fino all’assoluto di annullarsi nei fatti e nelle vicende; la morte fisica con cui si conclude il libro non è altro che l’ormai necessaria distruzione di quanto resta di Agnese, quella spoglia «stranamente piccola, un mucchio di stracci neri sulla neve». Il personaggio ha già annullato se stesso per seguire una lotta, una causa; la lotta per la libertà, contro il nazifascismo. Il ruolo della donna nella Resistenza non è mai stato studiato con sufficiente serietà: è sempre stata considerata come conseguenza dell’uomo della Resistenza, quando invece molte donne fecero questa scelta radicale da sole, senza essere in qualche modo influenzate dalla scelta dei mariti o dei figli. Anche il loro ruolo nella famiglia cambiò molto: la donna della Resistenza era lavoratrice e autonoma. Figlie, spose o madri in una o più di queste vesti, le donne si trovarono unite ai “loro uomini” per combattere le loro battaglie in nome di un’ideale di libertà e per un futuro di pace scevro da odi e rancori. In altre parole, prevale un doppio registro per interpretare l’azione delle donne partigiane, cioè la specificità femminile da un lato, grazie alla quale la donna ha qualcosa in più e di diverso da portare alla lotta e alla politica, la parità dall’altro, che si traduce nella rivendicazione di un’uguaglianza di diritti nella nuova democrazia, che poi ha caratterizzato l’entrata sulla scena pubblica delle donne nel secondo dopoguerra. La partecipazione alle lotte partigiane spinse le donne a essere protagoniste, ad assumersi responsabilità storiche dirette, ad uscire dai moduli di un dovere solo domestico, anche se il punto di riferimento di tale uscita restava la famiglia. Oltre a questi, l’esperienza resistenziale com100 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 101 portò anche altri elementi di novità: l’influenza sul carattere dell’appello al coraggio fisico e alla resistenza psichica, l’obbligo di prendere rapidamente, magari da sole, decisioni drammatiche, lo sviluppo di capacità di controllo e di operatività in campi ignoti, l’ampliarsi del sentimento di solidarietà e il divenire prassi attiva di una conoscenza collettiva di classe. La lotta partigiana vide le donne nei Gap (Gruppi d’azione partigiana), nelle Sap (Squadre d’azione partigiana) e in montagna, nell’organizzazione di scioperi e agitazioni esclusivamente femminili (si pensi alle grandi manifestazioni seguite a Torino alla morte delle sorelle Arduino) nelle carceri, sotto la tortura (e seppero non parlare!), nella diffusione della stampa clandestina (le messaggere erano quelle che, mimetizzandosi e mettendo a repentaglio le loro vite, hanno superato le linee tedesche per stabilire un contatto con i compagni d’arme. Simbolo della loro opera è una comune borsa della spesa, nella quale nascondevano, sotto pomodori e peperoni, le informazioni cifrate dei partigiani), nelle pericolosissime missioni di collegamento. Non solo come “mamme” dei partigiani, o vivandiere, o infermiere di ribelli affamati o feriti (le infermiere erano distinguibili per una piccola fascia bianca bordata di rosso sul braccio. Le loro mani erano arrossate dal sangue dei fratelli di battaglia, che poi avevano accolto e curato nei fienili e nelle cantine), anche se furono pure questo, e quando tutto ciò poteva significare l’arresto, l’incendio della casa, la fucilazione. Le donne furono le saldissime maglie della rete, rischiando spesso più degli uomini perché, se catturate, il nemico riservava loro violenze carnali, che, in genere, ai maschi non toccavano. 101 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 102 BANDITE! Nel ridimensionamento, anzi nella polverizzazione che “il vento del Sud” portò ai valori sociali della Resistenza in nome della continuità dello Stato, le donne partigiane furono doppiamente tradite: dalle forze politiche tradizionali e, in molti casi, più dolorosamente, dagli stessi compagni di lotta. In fondo anche per molti uomini di sinistra le partigiane combattenti avevano trasgredito la vocazione domestica. Quindi essi preferivano pensare che le donne avessero agito più per amor loro che per autonoma scelta politica. Alla fine della lotta armata, la stragrande maggioranza delle donne non si fece avanti per ritirare medaglie e riconoscimenti. Molte, vedendo come avvenivano le assegnazioni, si astennero deliberatamente dal chiederle per non confondersi con i partigiani del 26 aprile. Anche per questo, le statistiche che indicano la partecipazione femminile alla Resistenza sono così poco attendibili. Però, quando sfilavano i drappelli delle donne partigiane, esse avanzavano orgogliose e impavide e si poteva scorgere sul loro volto, reso quasi duro dalla severa vita di montagna, la bellezza animata dal sorriso della vittoria. Quelle che sul corpo portavano le tracce della battaglia, suscitavano emozione e silenzio tra le due ali di folla: dall’inferno del piombo fascista erano uscite indenni e sembrava che le loro narici odorassero ancora della polvere da sparo. Esse sentivano, come tutti gli oppressi, che non combattevano solo contro il fascismo, ma anche, e soprattutto, contro la disuguaglianza e l’ingiustizia. Ogni azione gappista risultava sofferta non solo fisicamente, ma anche psicologicamente, perché accompagnata dalla considerazione, da un lato, della ineluttabilità di quello che si era fatto e, nel contempo, 102 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 103 dall’orrore che si provava per essere stata causa della morte di esseri umani, sia pur nemici. A ciò si aggiungeva il dilemma di fondo che, probabilmente, ha attanagliato tutte le donne partigiane: ossia il conflitto tra la necessità di sopprimere vite umane da parte di chi, per natura, la vita la crea e il tentativo di giustificare, a sé stessa prima che agli altri, questo gesto contro natura. Il che è un dilemma, appunto, tutto femminile, che rappresenta probabilmente l’aspetto più travagliato e sublime di come le donne hanno saputo motivarsi in questo periodo drammatico ed esaltante che fu la Resistenza e, per certi aspetti, dà alla loro partecipazione alla Lotta di Liberazione una valenza più intimamente sofferta rispetto alla partecipazione maschile. Beppe Fenoglio, ne Il partigiano Johnny, descrive così il suo incontro con le partigiane: «Praticavano il libero amore, ma erano giovani donne, nella loro esatta stagione d’amore coincidente con una stagione di morte, amavano uomini e l’amore fu molto spesso il penultimo gesto della loro destinata esistenza. Si resero utili, combatterono, fuggirono per la loro vita, conobbero strazi e orrori e terrori sopportando quanto gli uomini». L’esperienza resistenziale accomunò, in nome della Liberazione della propria Patria dagli occupanti nazifascisti, donne di varia matrice politica, che per semplificazione d’indagine, raggrupperemo in donne di sinistra, comprendendo militanti del Pci, del Psi, del Pri e della sinistra cristiana, e donne cattoliche. Le basi di entrambi i gruppi vanno a ritrovarsi nell’associazionismo, con l’Udi (Unione donne italiane di sinistra), e la Gioventù Femminile di Azione Cattolica e del Centro Italiano Femminile, che contribuirono alla forma103 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 104 BANDITE! zione della cultura popolare femminile, rompendo il tradizionale circuito fra casa e chiesa, per proporre forme di militanza, di iniziativa, costituendo di fatto uno dei grandi fattori di socializzazione femminile. In più, introdussero un fattore di unificazione culturale e di costume fra le donne del Nord del Paese, che in maggior numero avevano preso parte alla Liberazione, e quelle del Sud, per le quali il Movimento Cattolico fu, forse, l’unica occasione di mobilità autonoma. Una nota partigiana cattolica fu Tina Anselmi, nata a Castelfranco Veneto nel 1927, insegnante, che decise da che parte schierarsi quando, giovanissima, vide un gruppo di giovani partigiani portati al martirio dai fascisti. Dopo l’8 settembre, in seguito alla firma dell’armistizio, i tedeschi conclusero che noi avevamo tradito l’alleanza ed allora si sviluppò con più ferocia e determinazione la loro rappresaglia. Noi vedevamo passare per i nostri paesi i carri bestiame pieni di giovani dei nostri paesi rastrellati, portati in prigione e poi impiccati o fucilati nei viali. Facevo l’ultimo anno delle superiori, eravamo una quarantina di ragazze, quando ci portarono ad assistere all’impiccagione di un certo numero di ragazzi, c’erano anche dei nostri amici e c’era anche il fratello della mia compagna di banco. A parte il trauma che ciascuna di noi subì, fu subito naturale interrogarsi sulla liceità di quello che stava accadendo. La dottrina fascista diceva, nel primo articolo, che lo Stato è fonte di eticità, niente è sopra lo Stato, niente è contro lo Stato, niente è al di là dello Stato; dunque questo articolo giustificava quello che avveniva e le rappresaglie che erano consumate. Naturalmente nacquero tra di noi discussioni molto violente: chi era per la non liceità da parte dello Stato di impiccare persone innocenti del reato per cui venivano condannate e c’erano quelli che dicevano che lo Stato lo poteva fare questo ed era lecito che l’avesse fatto. Da 104 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 105 queste domande derivarono delle risposte che andavano sostanzialmente ad affermare che anche se si era in guerra gli ostaggi erano innocenti e non potevano essere uccisi; da ciò venne come conseguenza il fatto che se uno Stato governa con questi metodi, è uno Stato che non si può accettare. Ecco, io ho incontrato la politica così. Quando sono tornata a casa dopo avere visto le impiccagioni dei ragazzi, sapendo che quello che avevamo visto si sarebbe chiaramente ripetuto, la prima scelta che ho fatto è stata di dire: uno Stato che legittima queste uccisioni non è uno Stato che si può accettare, occorre impegnarsi per abbatterlo e per abbatterlo occorre perdere la guerra, combattere per la pace, perché dopo la pace si possa realizzare una società dove eccidi, uccisioni e barbarie non siano più ammessi. Ricordo sempre un treno, uno dei tanti treni che passava sempre per la stazione del mio paese con tutti i carri piombati, dentro c’erano ragazzi che gridavano, avevano bisogno di acqua, avevano bisogno di cibo, facevano passare per le fessure dei carri bestiame biglietti con gli indirizzi delle loro famiglie perché li avvisassimo. Divenne così staffetta della brigata autonoma “G.Battisti” (erano svincolate da qualsiasi collegamento con i partiti politici ed avevano l’obiettivo di liberare la zona occupata dove agivano) e del Comando regionale del Corpo volontari della libertà. Nel 1944 si iscrisse alla DC e partecipò attivamente alla vita del suo partito, non dimenticando mai le ragioni profonde della sua scelta antifascista. Con l’occupazione nazista dell’Europa, furono centinaia le partigiane jugoslave, francesi e italiane a cadere sul campo di battaglia, armi in pugno. Oppure fucilate, come Lina Bandiera e Ines Bedeschi. O Irma Marchiani, messa al muro vicino a Modena, dopo l’evasione dalla prigione tedesca. E ancora: Gina Borellini ferita in battaglia nell’aprile del ‘45, ed Ancilla Marighetto, uccisa in com105 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 106 BANDITE! battimento a soli 18 anni sui monti di Trento. Poco distante, nel veronese, nel 1944 cadde in battaglia Rita Rosani, fondatrice, a Verona, del battaglione partigiano “Aquila”. Paola Del Din fu, invece, l’unica donna a lanciarsi con il paracadute nell’ambito di una missione sulle montagne di Belluno. PARTIGIANE VS AUSILIARIE Nonostante le tante conquiste fatte, la storia delle donne non è finita, ed è al contrario alimentata da continui sviluppi, considerando peraltro l’indubbio arretramento da esse subito nell’ultimo ventennio, che le ha viste oggetto di un riposizionamento in ruoli subalterni in tutti i campi: a cominciare dalla pubblicità, la cui estetica è tornata a servirsi del corpo delle donne in un’apoteotica mercificazione che ha nell’antico e primordiale richiamo sessuale l’elemento centrale. Come non fosse passato nulla sotto i ponti del femminismo. Come se la Storia avesse giocato lo scherzetto di farle rimbalzare indietro in nome di un modernismo malinteso, che passa anche attraverso l’intervento (chirurgico, quindi violento) sul proprio corpo per (com)piacere a un mondo oltremodo “maschio”. Il Novecento e questo inizio di nuovo millennio non hanno quindi affatto il compito di ratificare una qualsiasi fine della storia delle donne. La cui storia che, se si vuole, si può far ripartire da quell’800 caratterizzato da grandi cambiamenti in tutti i campi, anche per lo svolgersi di una rivoluzione industriale capace di scardinare ruoli millenari di uomini e donne. Alcuni storici fanno invece partire questo riscatto epocale dalla Rivoluzione france106 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 107 se, insieme a quella americana, in cui sono rintracciabili molti momenti che hanno come protagoniste le donne: un ruolo inedito che genera una rivoluzione nella Rivoluzione attraverso la quale le donne diventano soggetto autonomo. Da qui parte Louis de Bonald – teorico del principio monarchico – per attaccare i rivoluzionari, la cui (grave) colpa è quella di avere irrimediabilmente minato la “società secondo natura”. Società millenariamente fondata sui due architravi della famiglia rappresentati da quello della donna come “soggetto” e dell’uomo come “potere”, intendendo per “soggetto” l’opposto di quel che si può pensare: cioè l’as-soggetta-mento in cui l’uomo “deve mantenere” la donna. Con la Rivoluzione francese questo assetto è stato modificato dall’uomo che ha ceduto alla donna una parte considerevole del suo potere. Per de Bonald – per il quale anche l’emancipazione femminile è spiegata come causa delle azioni dell’uomo – non solo i rivoluzionari, ma anche la classe dominante ha le sue colpe: in un devastante processo di “femminilizzazione del potere” anch’esso ha ceduto le redini del comando, dando l’abbrivio a una sovversione compiutasi come atto finale di un processo rivoluzionario segnato dalla “femminilizzazione sociale”. In realtà, con buona pace del focoso de Bonald, il cui odio per la Rivoluzione francese non fu secondo a nessuno, la condizione della donna muta semplicemente perché in quel momento, e per la prima volta nella storia, viene messo in discussione il ruolo “storico” cui la donna era stata secolarmente blindata. Per meglio dire, con la Rivoluzione francese la civiltà occidentale scopre che le donne possono avere un posto nella struttura dello Stato. Un’evoluzione lunga, tormentata e spesso – come abbia107 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 108 BANDITE! mo visto – caratterizzata da avanzamenti e arretramenti. Ritornando al tema centrale delle donne in armi, dopo avere registrato l’importanza della Rivoluzione francese quale irrinunciabile punto di partenza, constatiamo come sia l’800 il secolo delle donne. È al suo interno che la loro vita cambia, con una rivoluzione in cui ciò che si modifica è la prospettiva di vita: la donna si trasforma da essere passivo in essere attivo e quindi capace di partecipare alla vita politica. Un processo non breve perché per molto tempo la stragrande maggioranza delle vite delle donne sarà scandita da una quotidianità stabilita da registri maschili. Tuttavia, il seme è impiantato e darà i suoi frutti. Lentamente, ma inesorabilmente, la potenza diventerà atto. Formidabile lievito per la crescita della donna all’interno della società è la Rivoluzione industriale. A dimostrazione della lentezza del cambiamento, la presa d’atto che per tutto il secolo in questione la donna che lavora non potrà disporre del suo salario, consegnandolo interamente nelle mani del padre, del marito, del fratello nel caso. L’autonomia nella gestione economica sarà raggiunta solo nel XX secolo, quando il lavoro femminile sarà uno dei più potenti grimaldelli per aprire le porte dell’emancipazione. Un altro importante passaggio è quello della democrazia parlamentare e del suo sviluppo, anche se all’inizio l’affermazione di questa forma di governo sembra escludere le donne dalla vita pubblica, salvo poi permettere loro di realizzare quella partecipazione che mai avevano avuto prima. Possiamo quindi affermare che sono sostanzialmente tre i capisaldi attorno ai quali le donne hanno costruito la loro modernità, intorno a cui si sono sviluppati i concetti pregnanti e importanti, gli episodi simbolici e rilevanti dell’emancipazione femminile: la 108 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 109 Rivoluzione francese, la Rivoluzione industriale e l’affermazione della Democrazia parlamentare. È evidente che questo piccolo escursus è funzionale al tema che ci preme: la collocazione della donna in armi nella Storia e nella sua storia. Per iniziare possiamo servirci, a titolo esemplificativo, di un ulteriore argomento guida: la storia del movimento d’avanguardia delle Suffragette inglesi che, capeggiate da Emmeline Pankhurst, avevano fra gli obiettivi anche il diritto di voto. Le scatenate del Suffrage Party usarono ogni mezzo per portare avanti la loro battaglia. Nel 1907 marciarono verso la sede del Parlamento e si incatenarono in Downing Street, residenza storica del Primo Ministro. Molte furono accusate di vandalismo e imprigionate, mentre altre che facevano lo sciopero della fame furono coattamente costrette a nutrirsi. Nel 1913 una militante si suicidò per protesta, buttandosi sotto la carrozza del re. La guida teorica delle Suffragette va assegnata al filosofo John Stuart Mill che nel suo saggio, The subjection of woman (La servitù delle donne), approva l’operato dei movimenti femministi, riconducendo la condizione di sottomissione della donna alla primitiva legge del più forte. Nel 1918, le donne inglesi si videro riconosciuto il diritto di voto: una conquista datata 1946 per le donne italiane e 1970 per le svizzere, mentre in quello stesso periodo anche i governi di Austria, Cecoslovacchia, Danimarca, Germania, Irlanda, Olanda, Norvegia, Polonia, Russia, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti allargarono il suffragio alle donne. Tutti però preceduti dalla Nuova Zelanda che fu in assoluto il primo Paese a conferire questo diritto nel 1893. Quel 2 giugno 1946, che vedeva le donne italiane partecipare per la prima volta a una consultazione elettorale 109 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 110 BANDITE! col primo referendum della storia d’Italia, rappresentava anche un topico momento di passaggio per un Paese che cercava di lasciarsi alle spalle tanto la guerra quanto il ventennio fascista, seppure attraverso un’opera di ricostruzione materiale e istituzionale faticosa. La politica schiudeva pian piano le sue porte al mondo femminile, mentre giungeva a conclusione una duplice esperienza che aveva visto protagoniste le donne e le armi. Si può anticipare come chiave di lettura di questi episodi tra loro contrapposti la voglia di agire e di partecipare delle protagoniste, che anticipavano di quasi sessant’anni l’ingresso in armi delle loro nipoti. La storia delle Ausiliarie della Repubblica Sociale Italiana e delle loro nemiche Partigiane mostrerà quanto pur nella diversità e contrapposizione che le animava, queste donne siano state indubbiamente accomunate dalla smania di essere “Protagoniste di storia e tragedia”. Con la sigla SAF, Servizio Ausiliario Femminile, venne istituito, con Decreto ministeriale il 18 aprile 1944, un inedito corpo femminile alle dirette dipendenze del duce. Pochi mesi prima, il 23 luglio 1943, il fascismo si era sgretolato dando inizio ad un radicale cambiamento istituzionale, ma anche all’uscita dell’Italia dalla guerra. Il nuovo governo provvisorio, guidato dal generale Badoglio, avrebbe infatti stipulato l’armistizio con gli alleati e lo avrebbe reso pubblico l’8 settembre. Pochi giorni dopo, Mussolini, liberato dai tedeschi, tornava a scuotere l’Italia con la fondazione della Repubblica Sociale Italiana con sede a Salò, sul lago di Garda. L’iniziativa mussoliniana di creare un corpo femminile riscosse un successo rilevante se si pensa che le adesioni superarono le 6000 unità. Una delle spiegazioni tentate è quella che dando 110 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 111 alle donne la possibilità di arruolarsi, Mussolini riconosceva loro il diritto di entrare nella storia. Le armi quindi come fattore di emancipazione. Spesso appena adolescenti, le Ausiliarie vedevano nel duce la personificazione di quel Totem ideologico coltivato in famiglia e che le aveva nutrite con idee precise relativamente ai ruoli di padre, madre, figli, figlie dell’era fascista. Era questa una sorta di rinnovata codificazione con la quale si tentava di far passare sotto nuovo significato un vecchio stato di cose, prima fortemente criticato e osteggiato dalle donne. All’interno del fascismo invece un vecchio status che ancora relegava sostanzialmente le donne nell’ambito domestico, venendo astutamente pubblicizzato come congeniale alla crescita di una società fascista sana e forte, dava l’impressione alle donne di avere acquisito un protagonismo inedito e rivoluzionario. Questo progetto astuto fu recepito dalle future ausiliarie come riconoscimento di emancipazione e abbracciarono la causa con passione. Il mito di Mussolini e della sua personalità, crollato dopo il 23 luglio, ritrovava con queste ausiliarie il viatico per una ripresa. Una di loro, Carla Saglietti di 17 anni racconta: «Avevo bisogno di agire, di buttarmi nell’azione. Mi dicevo: “Ehi Carletta, gli americani salgono sempre di più, ora sono sulla linea gotica, un giorno te li troverai davanti senza aver fatto niente per il tuo Benito Mussolini tradito da un re di merda”. Ero proprio una ragazzina fascista. Cos’altro avrei potuto essere? Ero stata impastata di quella fede. Mio padre, mia madre, tutti fascisti. Gente in gamba i miei genitori»20. Questa citazio20. In Le donne nel regime fascista. Il fascismo ha emancipato le donne? di V. de Grazia, Marsilio, Venezia 1993. 111 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 112 BANDITE! ne esprime bene sia la voglia di sentirsi protagonista di questa, ma anche delle altre Ausiliarie, sia la venerazione che esse provavano nei confronti di Mussolini. Oltretutto, la storia di questa giovane donna si caratterizza per l’interesse, la curiosità e i numerosi elementi di carattere romanzesco che contiene. Fa parte cioè di quelle vicende che raccontate adesso hanno un sapore quasi irreale da romanzo d’avventura, da film di spionaggio, anche se poi hanno un fondamento storico molto serio. Carla Saglietti faceva parte delle “Volpi Argentate”. Quest’ultimo, tra i reparti nei quali le ausiliarie venivano inserite − la Decima Mas, le Brigate Nere e la Muti − era il servizio speciale di guastatori, sabotatori e assaltatori. Il loro nome, “Volpi Argentate”, era una copertura. Sul citofono della loro sede di via Ravizza a Milano c’era un’insegna su cui si leggeva: Dott. De Santis − Allevamento di volpi argentate. L’appartamento era di proprietà del colonnello De Santis (di cui il vero nome era Tommaso David), che dirigeva questo servizio speciale, ma che in passato aveva fatto parte dell’intelligence delle forze armate di re Vittorio Emanuele III. In viale Monza, sempre a Milano, era ubicato invece il centro di addestramento affidato a graduati tedeschi dei quali il comandante era Kurt Krupp. Uno dei compiti delle “Volpi Argentate” era quello d’individuare l’entità e le caratteristiche delle forze alleate, specie per quanto riguardava mezzi motorizzati e corazzati. Alle Ausiliarie venivano inoltre affidate vere operazioni di sabotaggio. Molti uomini e donne di questo corpo furono, alla fine della guerra, fucilati o condannati a morte. Le “Volpi Argentate” e gli altri reparti dove trovavano impiego le Ausiliarie obbedivano ad un regolamento ferreo. Il rispetto della disciplina era considerato fondamen112 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 113 tale e Piera Gatteschi Fondelli, a cui era stato affidato il comando col grado di “generale” delle 6000 donne, aveva personalmente elaborato un regolamento comportamentale simile a quello che osservano le suore di clausura. Era proibito fumare e portare il rossetto, sia quando si era in divisa sia quando non la si portava, era inoltre d’obbligo quel “voi” che Mussolini aveva imposto in luogo del “lei”. Il comportamento di una Ausiliaria doveva essere semplice, ma austero come del resto le divise grigio-verdi che tutte erano obbligate a portare. In questa nuova esperienza che le vedeva protagoniste della storia, non più solo appannaggio dell’uomo, le giovani ragazze non soffrivano la sottomissione ad un regolamento rigido cui la vita militare le obbligava. Tutte testimoniano che l’onore dato dall’appartenenza al corpo era in grado di cancellare ogni difficoltà. Giovanna Deiana, Ausiliaria della Repubblica Sociale, era cieca dall’età di 14 anni a causa di un bombardamento, ma questo limite non la fermò. Racconta così il momento in cui si arruolò. Avere accanto a me Mussolini e non poterlo vedere. Sentire la dolcezza delle sue mani sulle guancie ed essere condannata al buio. Mi faceva un effetto straordinario e terribile a un tempo. Gli avevo appena detto: “Voglio arruolarmi, Duce. Non potete rifiutarmelo”. Come accade a tutti i ciechi, la mia sensibilità colse la sua commozione. E restai impalata nell’attesa di una sua risposta. Mussolini mi riempiva la vita. Era un sentimento che provavo fin da quando ero bambina. Mussolini e le sue gesta mi apparivano come una fiaba che poi si era incarnata, sul finire degli anni Trenta, in un uomo di governo dai poteri straordinari. Le adunate e le manifestazioni alle quali avevo partecipato, le sequenze dei documenti in cui Mussolini era protagonista mi esaltavano. L’Italia gli doveva la propria rinascita. Il Duce in 113 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 114 BANDITE! sella al suo cavallo, il Duce che miete il grano, il Duce che s’impone sulla scena internazionale, il Duce che annuncia dal balcone di Palazzo Venezia le conquiste africane... Ero ancora una bambina, eppure tutto ciò si era impresso nel mio animo. E la memoria rivedeva quelle scene quando fui condannata alla cecità21. Il forte coinvolgimento emotivo che traspare con tutta evidenza da questa dichiarazione, ma che del resto accomuna tutte le Ausiliarie, è evidente anche nella sofferenza che una di loro, Anna Fabrini, racconta di avere provato di fronte al cadavere di Benito Mussolini, esposto in Piazza Loreto a Milano il 29 aprile 1945. Piazzale Loreto è il mio giorno dell’orrore. Ancora oggi gli occhi della memoria debbono avvicinarsi con cautela a quelle immagini. Come nella risacca, i dettagli più nitidi sono respinti da una barriera psicologica, poi si ripresentano con più forza. Soffro, mi sento soffocare dalla rabbia e dall’impotenza, come se mi reincarnassi nell’Anna Fabrini di allora. Ecco che torna il vortice delle sensazioni: il clamore della folla, i fiati che sapevano di caffellatte, di vino e di rancido, la ferocia delle donne, le loro ascelle che puzzavano di sudore. E poi… E poi, purtroppo, il lezzo che veniva da un corpo che avevo adorato come quello di Dio sceso in terra. E che il Signore mi perdoni. Un Dio onesto che non intascava neanche un soldo per sé. Un Dio che dava benessere e faceva provare la fierezza di essere italiani. Riscattò le donne che non erano più rintanate in cucina a lavare i pannolini dei bambini, a preparare la pastasciutta, a lavare piatti sporchi22. Sicuramente si fa fatica a non catalogare come surreali queste dichiarazioni, ma per onestà intellettuale bisogna 21. Id. 22. Id. 114 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 115 contestualizzarle, ricordando che se da un lato queste donne furono rapite dal fascismo e dal suo duce, dall’altra furono le prime in Italia ad essere inquadrate in un corpo militare che le affrancava da quel ruolo tipicamente femminile che avevano sempre avuto. In altre parole esse mettevano in pratica quella voglia di emancipazione che già prima di loro intere generazioni di molti Paesi del mondo avevano richiesto e in alcuni casi, del resto limitati, ottenuto. Il fenomeno delle Ausiliarie della Repubblica Sociale ha sicuramente una sua dignità storica, nonostante richieda un notevole sforzo per comprenderlo, soprattutto se si conosce la storia della “generalessa” Piera Gatteschi Fondelli. Nobildonna severissima ed elegantissima, era stata tra le fondatrici dei fasci femminili nel 1921 e aveva partecipato alla marcia su Roma. Nel suo testamento politico si legge: La mia vita non è stata facile, ma comunque dedicata tutta idealmente alla patria, al fascismo nel quale ho creduto fermamente per la sua alta concezione di vita, fatta di giustizia sociale e di onestà. Andare verso il popolo. […] Ho vissuto il periodo più bello della nostra Patria. Il ventennio di Mussolini. Ebbi l’onore della Sua fiducia e credo di aver fatto fino in fondo il mio dovere nel ricoprire gli alti incarichi che mi furono affidati, servendo l’Italia con onestà e fervore23. Mutatis mutandis, la stessa dedizione alla causa ha caratterizzato altre donne: le partigiane. Si può abbastanza semplicemente affermare che gli ideali in cui ausiliarie e antifasciste credevano erano opposti gli uni agli altri, così come si può dire che diverso era il modo in cui 23. Id. 115 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 116 BANDITE! prendevano parte alla storia. Ma sicuramente ciò che le accomuna – nonostante appaia perlomeno strano affermare che partigiane e ausiliarie possano condividere qualcosa – è l’essere state protagoniste, padrone di se stesse e delle loro scelte, prese consapevolmente all’interno di una società che cambiava e si apriva ad una loro attiva partecipazione. Anche le partigiane furono inquadrate nei reparti armati. In merito alla loro attività sappiamo tanto e sappiamo che non si limitò all’azione, ma che fu invece fondamentale per tutto quel lavoro di aiuto, logistica e organizzazione. Carla Capponi, medaglia d’oro al valor militare, racconta con queste parole i primi minuti che seguirono la fatidica liberazione di Roma. Ci raggiunsero Giacomo Pellegrini, Scoccimarro, Alicata, Emanuele Rocco appena uscito dal carcere di Regina Coeli e nei giorni seguenti Pintor con il volto tumefatto dalle torture subite dalla banda Koch ed altri, tirammo la prima copia de l’Unità libera e stampammo i primi striscioni di saluto agli Alleati […] Me ne tornavo con il fucile in spalla, il pennello e la colla in mano quando sul portone vedo arrivare le tre sorelle Mafai, Miriam, Simona e la piccola Giuliana. Ci abbracciammo ridendo, singhiozzando, senza lacrime ché tutta la pena di quei mesi ci strozzava alla gola. Era il 4 giugno 194424. Concludiamo con la vicenda di Vanda, che, come risulta dai documenti, «è deceduta ad Auschwitz il 31-10-1944 per camera a gas. Venne catturata il 13-12-1943 dalle brigate nere, deportata in Germania e ivi soppressa». La sua storia è testimoniata da un suo compagno di prigionia 24. In Con cuore di Donna, di Anna Capponi, Il Saggiatore, Milano 2009. 116 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 117 che per un certo tempo vide, giorno dopo giorno, la forza di questa donna capace di morire con la ferma dignità che solo le grandi idee possono dare. Vanda Maestro, fin dal 25 luglio 1943 a contatto con elementi del Partito d’Azione, si trovava nel dicembre di quell’anno in Val d’Aosta, aggregata ad un gruppo partigiano allora in formazione, con incarichi vari (contatti col fondo valle, distribuzione della stampa, occasionali missioni esplorative sui movimenti dei presidii tedeschi e fascisti). Aveva 24 anni; da poco tempo aveva conseguito la laurea. Chi la vide allora, su per quei sentieri già sepolti sotto la neve, non ne può dimenticare il viso minuto e gentile, segnato dallo sforzo fisico e da una più profonda tensione: poiché per lei, come per i migliori di quel tempo e di quella condizione, la scelta non era stata facile, né gioiosa, né priva di problemi. Orfana precocemente della madre, Vanda era dominata, e spesso sopraffatta, da una sensibilità estremamente sottile, che le concedeva di leggere i più riposti pensieri di chi la circondava. La sua mente era sincera e diritta, ed ignorava, o disdegnava, tutti quegli artifizi, quelle nebbie, quelle volute dimenticanze ed illusioni con le quali ci si difende alla meglio dalle offese del mondo. Perciò nessuno era più di lei esposto alla sofferenza, e per la sofferenza aveva una capacità quasi illimitata. Si percepiva in lei un fondo di dolore continuo, cosciente ed accettato, e fortemente taciuto, e questo le conquistava, da parte di tutti, un immediato rispetto. Non era una donna naturalmente forte: temeva la morte, e più ancora della morte temeva la sofferenza fisica. La forza che in quei giorni dimostrava si era maturata a poco a poco, era il frutto di un proposito rinnovato momento per momento. Ma la sua esperienza partigiana fu breve. Il 13 dicembre si trovò sorpresa da un rastrellamento diretto alla cattura di una più importante banda che operava in una valle contigua. Fu arrestata, condotta ad Aosta, interrogata a lungo. Rispose abilmente, in modo che nulla di concreto le poté veni117 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 118 BANDITE! re contestato circa la sua attività; ma, in quanto ebrea, inviata a Fossoli, e di qui al Lager dal nome ormai tristemente famoso: al campo femminile di Birchenau-Auschwitz. Qui, per questa piccola donna mite, leale e generosa, doveva compiersi con orribile lentezza, mese per mese, il più spaventoso dei destini che un uomo, in un parossismo di odio, potrebbe concepire ed augurare al peggiore dei propri nemici. Chi da Birchenau è tornato, ci ha raccontato di Vanda, fin dai primi giorni prostrata dalla fatica, dagli stenti, e da quella sua terribile chiaroveggenza che le imponeva di rifiutare i pietosi inganni a cui così volentieri si cede davanti al danno supremo. Ci ha descritto la sua povera testa spogliata dei capelli, le sue membra presto disfatte dalla malattia e dalla fame, tutte le tappe del nefando processo di schiacciamento, di spegnimento, che in Lager preludeva alla morte corporale. E tutto, o quasi tutto, sappiamo della sua fine: il suo nome pronunciato fra quelli delle condannate, la sua discesa dalla cuccetta dell’infermeria, il suo avviarsi (in piena lucidità) verso la camera a gas ed il forno di cremazione. I NUMERI DELLE PARTIGIANE I primi corrieri e informatori partigiani furono le donne. Inizialmente portavano assieme agli aiuti in viveri e indumenti le notizie da casa e le informazioni sui movimenti del nemico. Ben presto questo lavoro spontaneo diventò organizzato, ed ogni distaccamento si creò le proprie staffette, che si specializzarono nel fare la spola tra i centri abitati e i comandi delle unità partigiane. Le staffette costituirono un ingranaggio importante della complessa macchina dell’esercito partigiano. Senza i collegamenti assicurati dalle staffette, le direttive sarebbero rimaste lettera morta, gli aiuti, gli ordini, le informazioni non 118 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 119 sarebbero arrivati nelle diverse zone. Delicato, duro, pericoloso era il loro lavoro; anche quando non attraversavano le linee durante il combattimento, sotto il fuoco del nemico, dovevano con materiale pericoloso, talvolta ingombrante, salire per le ripide pendici dei monti, attraversare torrenti, percorrere centinaia di chilometri in bicicletta o in camion, spesso a piedi, spesso sotto la pioggia e l’infuriare del vento. Pigiata in un treno, serrata tra le assi sconnesse di un carro bestiame, la staffetta trascorreva lunghe ore, costretta sovente a passare la notte nelle stazioni o in aperta campagna sfidando i pericoli dei bombardamenti e del tedesco in agguato. Spesso dovevano precedere i fascisti che salivano, per avvertire in tempo i “ribelli”, e talvolta restavano coinvolte nel rastrellamento. Dopo i combattimenti non sempre i partigiani in ritirata potevano trascinarsi dietro i colpiti gravemente. Se c’era un ferito da nascondere rimaneva la staffetta a vegliarlo, a prestargli le cure necessarie, a cercargli il medico, a organizzare il suo ricovero in clinica. Non di rado, dopo la battaglia, la staffetta restava sul posto nel paese occupato, per conoscere le mosse del nemico e far pervenire le informazioni ai comandi partigiani. Durante le marce di trasferimento erano all’avanguardia: quando l’unità partigiana arrivava in prossimità di un centro abitato, la staffetta per prima entrava in paese per sincerarsi se vi fossero forze nemiche e quante, se fosse possibile o meno alla colonna partigiana proseguire. Durante le soste di pernottamento e di riposo le staffette andavano nell’abitato in cerca di viveri, di medicinali e di ciò che occorreva. Infaticabili, sempre in moto, notte e giorno, per stabilire un collegamento, ricercare informazioni, portare un ordine, trasmettere una direttiva; spes119 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 120 BANDITE! so nella piccola busta che la staffetta nascondeva vi era la salvezza, la vita o la morte di centinaia di uomini. Numerose staffette caddero in combattimento o nell’adempimento delle loro pericolose missioni. È certo comunque che gli uomini non erano molto disposti a concedere alle donne riconoscimenti, cariche e poteri. In un documento del Comando della I Divisione Garibaldi “Piemonte” del 16 settembre 1944, riguardante le direttive per la costituzione di organismi popolari, si legge, per esempio: «nei limiti delle possibilità e sempre che vi siano i requisiti adatti, un elemento femminile può essere ammesso a far parte di detto organismo». Ma si può cogliere un altro movente di tale atteggiamento: chiamate dalla storia degli uomini a combattere in prima persona in un mondo in sfacelo, le donne agirono per risolvere i problemi di tutti, non per fare carriera e ottenere posizioni di comando, come è fondamentale movente, a volte magari involontario e inconscio, dell’attività maschile. Esse, pur tenute fuori a lungo dalla storia, si esposero senza esitare ai rischi della guerra partigiana, ma nella massima parte non vollero impugnare le armi, questo simbolo di prepotere maschilista. Del resto, indipendentemente dai mezzi usati nella lotta, si distinsero dagli uomini soprattutto per i modi e la qualità della loro partecipazione. I valori e i caratteri del mondo femminile, sviluppatisi durante la millenaria soggezione e in risposta a questa, diedero alla Resistenza una ricchezza e una completezza che non avrebbe altrimenti raggiunto. Esse sentivano, come tutti gli oppressi, che non combattevano solo contro il fascismo, ma anche e soprattutto contro la disuguaglianza e l’ingiustizia: tuttavia raramente trovarono compagni che parlassero loro 120 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 121 della specifica oppressione femminile. Anche i quadri più preparati erano ligi ai dettami della Terza Internazionale che nel suo III Congresso, pur richiedendo un’intensa attività organizzativa tra le masse femminili, aveva negato l’esistenza di una “particolare questione femminile”. Nei suoi ultimi documenti la stessa Terza Internazionale aveva rimandato tale questione alla presa del potere socialista, additando come modello la donna sovietica, sottoposta in pratica al duplice lavoro, in casa e in fabbrica. Erano gli stessi uomini che nei gelidi anni Trenta videro allontanare la Kollontaj25, censurare la Zetkin26 (e non polemizzare con lei, come invece aveva fatto Lenin), esaltare lo stakhanovismo. Le donne che presero parte alla Resistenza erano in prevalenza giovani: il 67 per cento circa aveva meno di trent’anni (più del 23 per cento non era ancora maggiorenne: fra queste alcune erano giovanissime, quasi bambine: avevano quattordici, quindici anni; il 43 per cento ragazze che avevano dai ventuno ai trent’anni). In numero decisamente inferiore coloro che avevano dai trentuno ai quarant’anni: circa il 17,5 per cento; ancor meno le donne che avevano più di quarant’anni: circa il 14 per cento, la maggior parte aveva dai diciassette ai venticinque anni (il 54,8 per cento dell’intero campione); l’unico dato che si discosta leggermente è quello relativo alla partecipazione nella fascia di età compresa fra i diciassette e i venticinque anni: nella zona operativa “Biellese”, corrispon25. Aleksandra Michajlovna Kollontaj è stata la prima donna della storia a rivestire l’incarico di ministro e di ambasciatrice. Grazie alle sue battaglie le donne russe ottennero il diritto di voto, ad essere elette, al divorzio e all’assistenza sanitaria in caso di aborto. 26. Clara Zetkin, di formazione marxista, scrisse La questione femminile e la lotta al revisionismo. Dopo la militanza nel Partito Socialdemocratico tedesco aderì alla Lega Spartachista, futuro Partito comunista, che lei rappresentò al Reichstag durante la Repubblica di Weimar. 121 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 122 BANDITE! de a circa il 55 per cento, mentre nell’intera regione è inferiore, seppure di poco. Da questa prima analisi emerge comunque un dato significativo: la Resistenza fu, innanzitutto, la risposta di una generazione. Per quanto riguarda la partecipazione maschile alla lotta di liberazione non si può dimenticare che fu, quasi per tutti, la risposta ad una situazione che obbligava ad una scelta. Dopo la creazione della Repubblica di Salò, per le generazioni più giovani, erano solo tre le scelte possibili: o imboscarsi, o entrare a far parte dell’esercito repubblicano, oppure entrare nelle file della Resistenza. Per quanto riguarda la partecipazione femminile, i termini della questione cambiano completamente: le donne non si trovarono di fronte alla necessità di dover scegliere, eppure molte operarono una scelta ben precisa. Perché? Che cosa le spinse alla ribellione? Conoscere la loro età chiarisce molte cose, ma non è sufficiente per rispondere alla domanda. Un elemento in più, per tentare una prima risposta, è dato dall’analisi della professione. È da tenere presente però che non si possiedono i dati dell’intero campione, ma soltanto di circa il 44 per cento dello stesso. Da questo campione risulta che il 43,3 per cento delle donne che parteciparono alla Resistenza erano operaie, il 15,9 per cento appartenevano al terziario (impiegate, insegnanti, medici e infermiere), il 13,2 per cento erano casalinghe, il 14,1 per cento erano artigiane (in particolare sarte) e solo il 4 per cento contadine. Il dato più rilevante è il primo, cioè la forte presenza di operaie. 122 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 123 NON DIMENTICARE IL MALE Ne Il Sentiero dei nidi di ragno Italo Calvino scrive: Allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo oltre venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi. «Tutti siamo abbastanza forti da sopportare il male altrui», dice causticamente Francois de La Rochefoucauld. Ma è davvero “caustica” questa sua affermazione o la “banalità del male”, come già aveva concluso la Hannah nel suo omonimo libro sul processo Eichmann, riverbera interrogativi ancora più inquietanti? Potremmo traslare l’affermazione di Dostoevskij, «Se Dio non esiste, tutto è possibile», in un più “moderno” «Dopo Auschwitz, tutto è possibile»? In un suo saggio27, Susan Neiman ritorna sugli antichi passi delle “responsabilità di Dio”, citando la Teodicea di Leibniz: la lunga risposta alla considerazione di Bayle, che voleva la Storia come «sequenza di crimini e sventure del genere umano», con Dio, di 27. Guasto è il mondo, Laterza, Bari 2011. 123 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 124 BANDITE! conseguenza, come il più grande criminale della Storia. «Dio», risponde Leibniz alla bestemmia di Bayle, «deve prendersi cura degli struzzi e delle antilopi, così come degli esseri umani». Quella umana – ricorda il lipsiano – è una presunzione che viene stigmatizzata già nella Bibbia, con l’episodio di Giobbe. Per Hegel, il Dio di Leibniz è come un venditore che al mercato offre quel che ha di disponibile nel suo paniere: non dovremmo quindi lamentarci se il prodotto non è perfetto (cioè contempla il male), ma gioire di ricevere “il meglio possibile”. Il male si allontana anche grazie alla conoscenza: per Kant, re David non avrebbe mai potuto adorare il Creatore come possiamo noi, poiché sapeva troppo poco delle meraviglie della Creazione, nonostante essa sia destinata a restare fuori dalla nostra portata razionale, tanto da doverci affidare alla fede. In definitiva, il male non esiste perché “quanto esiste è bene”. Conclusione che fa sbottare Rousseau: «negare l’esistenza del male è un mezzo molto comodo per scusare l’autore del male. Gli Stoici, in altri tempi, si sono resi ridicoli con meno». Il pericolo, avverte Rousseau – prima del quale o non esisteva il problema del male o non c’era risposta ad esso – è il quietismo: se il male è solo apparente e ogni cosa è il meglio che potrebbe essere, è inutile dannarsi. Da sempre, il male minaccia la ragione umana, spesso perdendola, perché mette in dubbio la possibilità che la stessa vita abbia un senso e scardinando ogni interpretazione del mondo. Alla base del suo trionfo, sta l’umiltà con cui il male agisce. Il bene è una categoria superiore, elitaria, non praticabile dalla massa, ma solo da «dodicimila persone per ogni generazione», come avverte il Grande Inquisitore di Dostoevskij: «consegnando la fede ad un atto di libertà, 124 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 125 Cristo ha proposto agli uomini un compito del tutto superiore alle loro forze». Gli uomini, ammonisce il vecchio prelato, non sono fatti per la libertà, perché non ne sono all’altezza. Concetti osteggiati da Primo Levi: «Ogni essere umano», ribatte ne I sommersi e i salvati, «possiede una riserva di forza la cui misura gli è sconosciuta: può essere grande, piccola o nulla, e solo l’avversità estrema dà modo di valutarla». Ricorrendo ancora alla drammatica metafora di Auschwitz, nel suo saggio L’umiltà del male, Franco Cassano avverte che «non possiamo abbassare la guardia di fronte al male» e, soprattutto «non dobbiamo dimenticare». ONDINA PETEANI, LA PRIMA STAFFETTA D’ITALIA Non aveva ancora 19 anni Ondina quando fu catturata da una pattuglia tedesca quell’11 febbraio 1944 a Vermigliano, preso Ronchi dei Legionari, e rinchiusa nel comando delle SS di piazza Oberdan a Trieste, per poi essere trasferita nel carcere di Coroneo. Un mese dopo la fecero salire su un carro bestiame, destinazione Auschwitz: da lì, sarebbe stata mandata a Rawensbruck e infine a Berlino. Durante la marcia forzata che avrebbe dovuto riportarla a Rawensbruck, riuscì a fuggire e a raggiungere – attraversando Cecoslovacchia, Ungheria e Jugoslavia – Trieste il 12 luglio 1945. «Tre mesi incredibili per attraversare 1300 chilometri in un’Europa in ginocchio, senza più ponti, strade e ferrovie interrotte. Quando ho abbracciato mamma, papà e il cane che mi è saltato addosso per farmi le feste riconoscendomi, ho capito di essere tornata libera». 125 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 126 BANDITE! Nata il 26 aprile 1925 a Trieste, nel 1942 Ondina era andata a lavorare come operaia nel cantiere di Monfalcone, dove impara a usare il “tornio a revolver” e dove cresce politicamente. Da una parte i colleghi di lavoro e dall’altra un gruppo di studenti che frequentavo a Ronchi, attraverso chiacchierate e discussioni, cominciai ad interessarmi di problemi sociali e politici. Sia alcuni operai del cantiere, sia alcuni studenti, militavano già allora nelle file clandestine dell’antifascismo e quasi tutti erano comunisti ed io mi sentii progressivamente attratta da questi compagni ed infine cominciai a capire quanto eravamo incasermati. Allora in queste terre – soprattutto sul Carso – vi erano già operanti alcuni gruppi partigiani sloveni e parecchi ragazzi di queste località si aggregarono a queste formazioni. I loro familiari dicevano di non saperne niente, che i loro ragazzi erano stati rapiti (ovviamente per cercar di evitare le rappresaglie fasciste nei loro confronti). Da parte nostra, eravamo entusiasti e dicevamo a chi ci raccontava queste cose di dar loro anche il nostro indirizzo per farci “rapire”28. Un “rapimento” che di fatto significa andare in montagna a combattere insieme con le forze partigiane costituite dall’unione fra il Partito Comunista Italiano e l’Osvoboldinla Fronta, il Fronte di liberazione sloveno. L’invasione italo-tedesca della Jugoslavia ha sconvolto la geografia di confine, con la Slovenia divenuta una nuova provincia e la Croazia un regno satellite affidato ad Aimone d’Aosta, 28. Sia questa testimonianza di Ondina Peteani, sia le successive sono conservate presso l’Associazione Nazionale ex Deportati Politici nei campi nazisti di Milano, mentre la ricostruzione della sua vita è tratta dal portale Lager.it. Nel 2008, l’Istituto Regionale di Storia del Movimento di Liberazione del Friuli Venezia Giulia ha pubblicato un libro di Anna di Giannantonio dal titolo È bello vivere liberi. All’indomani della scomparsa di Ondina Peteani, suo figlio Gianni ha costituito un Comitato per onorarla come prima staffetta partigiana d’Italia. 126 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 127 che ha modificato il suo nome in un più slavo Tomislav II. Nel marzo del 1943 il sodalizio fra comunisti italiani e sloveni produce il Distaccamento Garibaldi, il primo distaccamento partigiano italiano: avvenimenti che diventano l’occasione per Ondina per realizzare il “sogno” di essere “rapita”. Si legge nei suoi appunti: «1943, maggio-giugno: si fa vivo sul terreno un gruppo di cinque partigiani. Dicono che nel Collio era impossibile il mantenimento in zona. Il Davilla, giunto a sapere, li accusa di diserzione dai ranghi partigiani sloveni». I cinque partigiani sono i primi appartenenti alla resistenza armata che vede Ondina: fino ad allora, aveva solo saputo di compagni saliti in montagna. A guidarli, c’è Mario Karis, un comunista condannato a dodici anni dal Tribunale Speciale fascista, che aveva raggiunto un’unità di partigiani sloveni che operava nella zona del Collio: la “Briski-Beneski Odred”. L’intenzione di Karis era quella di raggruppare gli italiani che operavano nelle unità slovene e con il permesso del comandante della “Briski-Beneski Odred” si era incontrato con il responsabile del Partito Comunista Italiano di Udine Mario Lizzero. Superate alcune incomprensioni, si dette vita al distaccamento denominato “Garibaldi”, sotto il comando di Karis, che per l’immediato avrebbe dovuto organizzare i partigiani italiani che combattevano nelle unità slovene. Una realtà, quella della “Garibaldi”, dal valore più politico che militare, stabilitasi inizialmente a Clap, per poi spostarsi a Ronchi dei Legionari per sfuggire ai rastrellamenti. Con la nuova situazione creatasi con l’arrivo della “Garibaldi”, Vincenzo Marcon, responsabile di zona del Pci, decise di prendere contatto con il gruppo che si era accampato in un bosco vicino a Monfalcone, e incaricata di fare da staffetta fu Ondina, 127 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 128 BANDITE! nome di battaglia, “Natalia”. Così Giovanni Fiori ricorda l’episodio. Dopo qualche giorno venne la compagna Ondina Peteani, “Natalia”, prima staffetta del movimento partigiano italiano, ci informava che il funzionario del Partito Comunista Italiano della zona Trieste-Monfalcone, certo “Davilla” (il suo vero nome, credo, Marcon Vincenzo) non trovava giustificazione della nostra presenza e ci considerava dei disertori. Da notare che ognuno di noi, come ogni volta, aveva una lettera e che il Karis le consegnò ai compagni del Partito Comunista di Udine. Quindi la compagna “Natalia”, dopo aver pernottato con noi nel bosco ripartì per Monfalcone. Alla fine, il desiderio di Ondina era stato esaudito: era stata finalmente “rapita”. La compagna Natalia Mario Karis e Darko Pezza facevano la spola in bicicletta da Trieste a Monfalcone, mentre Ondina si occupava di portare cibo e notizie nell’appartamento di via Seismit Doda. Il 26 giugno del ’43 Karis e Pezza, di ritorno da Monfalcone, s’imbatterono in un posto di blocco, da cui riuscirono a sfuggire dopo un conflitto a fuoco. La sera successiva, Ondina, che non sapeva nulla dell’accaduto, arrivò come al solito nell’appartamento. Così Giovanni Fiori rievoca l’accaduto. La sera del 27 giugno venne la compagna “Natalia” come altre volte per il consueto scambio di informazioni e per portarci da mangiare. La compagna “Natalia”, il Karis e io dormivamo in una stanza, in un’altra adiacente alla nostra il Dettori dormiva da solo, mentre in cucina dell’altro appartamento dormiva il Pecic [Darko Pezza] anche 128 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 129 lui da solo. Il mattino successivo (28 giugno 1943), alle ore cinque circa, trovammo la casa circondata da carabinieri e da squadristi fascisti. Un momento prima il Karis era uscito per fare i bisogni corporali ma tutto ad un tratto sento la voce del Karis che grida: “Aiuto, siamo circondati” e nel medesimo istante entrava nella stanza occupata da me e dalla compagna “Natalia”. Il mio primo pensiero [fu] quello di saltare dalla finestra (da notare che l’appartamento si trovava al primo piano) ma vidi che il Karis mi rincorreva, pensai alla sua posizione politica e gli lasciai il passo, poi feci per seguirlo ma un carabiniere mi puntava la pistola gridando “Fermo, mani in alto o sparo”. In camera rimasi io e la compagna “Natalia”, mi venne l’idea di far fuggire la compagna magari col sacrificio della mia vita. Finsi un mal di ventre e mi misi in atto di fare i bisogni corporali e dissi alla compagna “Natalia” di passare nella camera adiacente alla nostra [...] lei mi ascoltò malgrado il carabiniere voleva opporsi. Il carabiniere messosi alla porta della stanza da me occupata poteva benissimo controllare tutti e due [...] un momento vidi che il carabiniere aveva l’attenzione verso la compagna, feci un volo, ma in un attimo due squadristi e il carabiniere − che aveva sparato due colpi di pistola e poi mi aveva seguito nel volo − erano sopra di me e mi legarono per bene e poi mi condussero a piedi in caserma. Dopo un breve interrogatorio potei sapere che il Pecic [Darko Pezza], il Dettori feriti ed io eravamo [stati] arrestati mentre la “Natalia” ed il Karis erano fuggiti29. Mentre i carabinieri legavano Fiori, Ondina riuscì a sgaiattolare fuori dall’appartamento: il suo obiettivo primario è quello di raggiungere Monfalcone per avvertire dell’accaduto Vinicio Fontanot, che però nel frattempo è 29. Memoria di Giovanni Fiori, “Cvetko”, del 20 agosto 1976 consegnata all’ex comandante dei Gap dell’Isonzo e Basso Friuli, Vinicio Fontanot, “Petronio”. 129 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 130 BANDITE! fuggito in montagna. Mentre a fine giugno in uno scontro a fuoco muore la compagna Alma Vivoda, “Natalia” viene arrestata il 2 luglio e portata nel carcere dei Gesuiti, dove subisce un primo interrogatorio. La sua posizione è gravissima per le soffiate arrivate alla polizia politica che la indicano come elemento molto attivo all’interno delle formazioni partigiane combattenti. La sua salvezza arriva con l’8 settembre, quando, dopo l’armistizio, il carcere – che oltre a lei rinchiude tanti altri prigionieri politici – viene assaltato. Dopo la creazione della Rsi, la nuova condizione di Ondina sarà quindi quella di evasa: restare a Trieste diventa pericolosissimo. «Da parte del comando partigiano», scrive nei suoi appunti Ondina, «viene impartito l’ordine a “Petronio” di scendere a Ronchi per reclutare nuovi compagni e poco dopo si forma la prima brigata partigiana italiana che assume provvisoriamente il nome di Brigata Triestina, col compito di operare nella parte più avanzata del Carso, sopra Monfalcone, fino a Gorizia». Il 10 settembre, Ondina si unisce agli operai che, su decisione del Comitato d’Azione del cantiere di Monfalcone, raggiungono Villa Montevecchio, dove si trova il centro di smistamento incaricato di inquadrarli in un’unità partigiana. Lungo il tragitto, gli operai attaccano il presidio dell’aeroporto di Ronchi, mettendo in fuga un corpo di guardia tedesco. Giunti a destinazione, diventano la Brigata Proletaria: il loro compito è quello di resistere su una linea che va da Merna a Valvocciano per interrompere i rifornimenti via terra destinati ai tedeschi che combattono nei Balcani. Il 12 settembre i tedeschi sferrano un attacco poderoso, che alla fine lascia sul campo i cadaveri di 256 operai di Monfalcone e 192 di Ronchi. Ondina scrive nel suo diario che solo pochi – fra 130 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 131 cui lei – riescono a salvarsi. Dopo questo eccidio, la partigiana “Natalia” passa fra le fila del Battaglione Triestino d’Assalto, dove il suo primo incarico è quello di seguire le tracce dell’infiltrato “Blecchi”, che con le sue soffiate ha provocato sia l’arresto che la morte di diversi partigiani. La spia viene scovata nel pomeriggio del 29 gennaio 1944 a Vermegliano e Tommasin e Settomini, i due partigiani incaricati della sua eliminazione, lo intercettano e, senza scendere dalle biciclette sulle quali si trovavano, gli scaricano addosso le loro pistole, dileguandosi subito dopo. Ma il Blecchi non è morto: una specie di corazza che indossa gli ha salvato la vita. Ondina viene a sapere che è stato portato all’ospedale di Monfalcone e che un capitano medico tedesco lo ha operato. Un nuovo commando raggiunge nella notte del 2 febbraio la camera d’ospedale in cui si trova Blecchi accudito da sua madre, che muore anch’essa colpita dalla gragnuola di colpi che vengono esplosi. Il Battaglione Triestino L’operazione contro Blecchi e un’altra contro l’aeroporto di Monfalcone fanno crescere la fama del Battaglione Triestino. Dopo l’eliminazione della spia, Ondina è risalita in montagna per ragioni di sicurezza, una precauzione che non sarebbe bastata: «Dopo una settimana di permanenza lassù, decisi di scendere con la pattuglia per provvedermi di alcuni capi di vestiario invernali e incontrare un sostenitore con cui avevo appuntamento e che mi avrebbe portato medicinali e denaro raccolti, anche qualche arma. La notte dell’11 febbraio 1944, mentre tornavo al mio battaglione, venni catturata da un pattuglione di tedeschi in perlustrazione e venni portata al comando delle SS in piazza Oberdan a Trieste». Mentre Ondina si 131 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 132 BANDITE! trovava in carcere, le azioni della Resistenza continuavano in tutta la provincia di Trieste, con i nazisti che reagivano ferocemente con rappresaglie e rastrellamenti. Il 27 marzo vennero impiccati quattro partigiani del Battaglione Triestino: Sergio Cebroni, Giorgio De Rosa, Remigio Visini e Livio Stocchi, mentre il successivo 3 aprile vennero impiccati 72 ostaggi per rappresaglia ad un attentato compiuto dalla Resistenza a Opicina. Cinquantasei partigiani furono impiccati il 29 aprile dopo l’uccisione di cinque tedeschi avvenuta in via Ghega a Trieste. Tutte le vittime furono prelevate dal carcere del “Coroneo”, come ricorda nella sua testimonianza Ferruccio Derenzini. Da giorni giacevamo in un tetro sotterraneo delle carceri del Coroneo a Trieste: “la cella della morte”. Era “la riserva” di ostaggi a immediata disposizione del comando tedesco della piazza per le rappresaglie agli attentati e sabotaggi dei gruppi di azione partigiana. In quella cella, stipatissimi, eravamo circa in cento tra italiani e sloveni; rastrellati, quest’ultimi, nei paesi a nord di Trieste. C’era con loro anche un giovane prete che a suon di campane aveva dato il segnale della scorreria tedesca. Noi provenivamo dalle carceri di Fiume. Era l’aprile del 1944. Una notte le SS spalancarono la porta della cella e chiamarono uno dopo l’altro cinquanta compagni. Uno di questi che tardava a presentarsi, perché non aveva ancora calzato gli stivali, si sentì gridare in faccia: “Dove vai tu, gli stivali non servono”. Capimmo e ammutolimmo. Il prete si appartò in un angolo della cella per raccogliersi in preghiera. Li rivedemmo tutti cinquanta, assieme a cinque giovani donne, cinque partigiane, appesi con il filo di ferro alle ringhiere delle scale di un palazzo. Per un feroce eccesso di zelo il comandante della piazza aveva fatto trucidare anche le cinque partigiane come sovrapprezzo “alla regola” dei dieci per uno; sebbene i tedeschi uccisi da una bomba dei G.A.P. − in Via Ghega a Trieste − 132 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 133 fossero cinque. Rivedemmo penzolanti quei compagni mentre le SS ci scortavano allo scalo ferroviario per deportarci a Dachau. L’11 maggio furono prelevati e impiccati altri 11 detenuti: in una delle volte successive poteva essere prelevata anche Ondina. Alla fine di maggio ero nell’elenco di quelle che dovevano essere deportate. Non sembri strano se dico che ne fui contenta, ma durante la mia detenzione erano accaduti parecchi fatti preoccupanti: il peggiore era stato il prelievo di alcune detenute e la loro impiccagione per rappresaglia in via Ghega. Anche l’interprete mi sussurrò che lì stavano accadendo “brutte cose” e che era meglio così per me. Della famigerata Risiera ancora non si sapeva quasi niente, si diceva solo che era un centro di raccolta per la deportazione soprattutto di ebrei. Ma qualcuno sapeva già qualcosa, l’interprete ad esempio: “Vada via contenta”, mi disse, “qui stanno accadendo davvero cose molto brutte” poi aggiunse: “meglio via, lontano di qui che in Risiera”. Il 31 maggio [1944], all’alba partimmo dalla stazione di Trieste, non dal solito binario (la gente non doveva vedere queste cose!) ma sul binario dei silos da dove partivano i treni merci. Difatti, da quel momento tali eravamo considerati: stavano partendo circa duecento pezzi e pezzi ci calcolarono da quel momento, ma noi non lo sapevamo ancora, per cui credemmo di partire in 200 persone di cui 40 donne. Il Lager Si partì dunque il 31 maggio all’alba nei vagoni bestiame. Il convoglio era scortato da carabinieri e da tedeschi. Il comandante doveva aver ancora qualche parvenza di umanità, perché alla prima fermata oltre confine ci permise di tenere i vagoni con le porte in fessura; almeno si respirava un po’. Talvolta si arrivava persino a scambiare qualche parola con gli uomini (se la fermata era di notte, cosicché 133 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 134 BANDITE! nessuno ci avrebbe visto e messo nei guai gli scortatori). In una stazione (credo Monaco) i vagoni con gli uomini vennero staccati (e inviati a Dachau) e noi proseguimmo alla volta di Auschwitz. Al quinto giorno di viaggio, vennero a chiudere i vagoni e a sigillarli: si stava arrivando nella zona dei lager, controllata dalle SS. Se durante il viaggio eravamo state abbastanza allegre (specie noi più giovani) e chiacchierone, in quel momento diventammo serie e cominciammo a parlarci sottovoce: davanti a noi avevamo intravisto una desolata pianura sotto un cielo piatto, appestata da un odore che noi attribuimmo alla bruciatura di immondizie (!). Mentre il convoglio avanzava lentamente, cominciammo a vedere i primi lager, arrampicandoci fino agli alti finestrini del vagone. Durante il viaggio avevamo intravisto prigionieri al lavoro sulle ferrovie ed erano vestiti con la tipica “zebra” e vedendo nel campo vestiti variopinti, pensammo che ci avrebbero lasciati i nostri. Per giunta (era domenica pomeriggio) sentimmo un’orchestrina che suonava e la cosa ci rallegrò alquanto: “Ragazze, si potrà anche ballare”. Il nostro ottimismo crollò ben presto. Appena arrivate alla stazione ci fecero scendere ed in un primo tempo ci dissero di lasciare tutto nei vagoni, poi − visto che non eravamo ebree − ci permisero di riprenderci la nostra roba. Sapemmo successivamente che l’avrebbero catalogata e riposta, mentre per gli ebrei veniva subito requisito tutto. Poco prima era arrivato un treno di ebrei ungheresi e sulla panchina erano rimasti gli ultimi: i vecchi e i non autosufficienti. C’era lì un camion e questi venivano presi per le braccia e per le gambe e gettati sul camion tra grida di dolore e orribili tonfi. Quello che ci raggelò fu il vedere che questo tremendo compito era affidato a dei prigionieri. Ci inquadrarono in fila per cinque ed io mi sentivo un po’ strana: avevo la sensazione che non ero io quella cui stavano accadendo quelle cose, mi pareva di viverle dall’esterno. È una cosa difficile da comprendere e spiegare. Ci misero in fila per cinque e ci condussero attraverso un intricato dedalo di stradine. Ai lati c’erano montagnole di stampelle, di occhiali, di gio134 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 135 cattoli ben divisi secondo il senso dell’ordine teutonico. Poi, arrivate in una baracca, ci ordinarono di spogliarci ed il nostro pudore di farlo davanti ai soldati fu ben presto vinto dalle violente bastonate che cominciarono a volare. Ci distribuirono dei vestiti provvisori. A me toccò un pastrano da uomo con una grande stella gialla e, mettendo le mani in tasca, trovai una pipa con un borsellino di tabacco. Mi sentii rabbrividire pur non conoscendo ancora la sorte del proprietario di quel cappotto. Fummo costrette a lasciare lì la nostra roba. Ci tolsero (a chi l’aveva) ogni monile: orologi, catenine e anche le fedi nuziali delle maritate. Altro attraversamento di posti strani, che ora, vuoi per la distanza nel tempo, vuoi per la sensazione di incubo che ci pervadeva, non sono in condizioni di descrivere. Ci introdussero in una baracca che sulla soglia aveva una vaschetta piena di liquido disinfettante o disinfestante, nella quale bisognava mettere i piedi prima di entrare. Ora mi suona così ironico quel procedimento, come quello di raderci tutti i peli e di rapare quelle che avevano qualche lendine di pidocchi, quando poi nel campo imperversavano il tifo, la dissenteria, le cimici e i pidocchi! Ci fecero fare la doccia calda ma brevissima tanto che molte di noi uscirono con i capelli ancora pieni di sapone e così rimasero tutto il giorno perché di acqua, fredda o calda che sia, neanche a parlarne. Poi, sempre nude, ci fecero attendere per delle ore, finalmente poi arrivarono i vestiti. Erano vecchie vesti usate passate all’autoclave senza lavarle, un paio di mutandoni a righine (almeno quelli erano nuovi) e un capo di biancheria che era a volte una sottoveste, a volte una camicia da notte, a volte una maglia (anche queste vecchie e usate). Infine un paio di scarpe (sempre vecchie) o zoccoli. Poi in un’altra baracca per la “timbratura”, cioè il tatuaggio del numero e la consegna dello stesso numero che dovevamo cucire sulla manica del vestito, assieme al triangolo, rosso per noi “politiche”. Il tutto con brevissime spiegazioni date in lingua tedesca o polacca (quando la spiegazione non era solamente uno spintone): se non capivi, dovevi comunque arrangiarti. Durante 135 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 136 BANDITE! le ore di attesa, alcune prigioniere che erano già da tempo nel lager, riuscirono a parlarci brevemente dalle finestre e a chiederci notizie della nostra città e della situazione in generale. Da loro apprendemmo, in quei rapidi colloqui, l’abc della sopravvivenza: imparare rapidamente il numero in lingua tedesca e polacca; obbedire rapidamente agli ordini, per non essere violentemente pestate; non bere assolutamente l’acqua del campo perché non era potabile, cioè infetta; infine dell’esistenza dei crematori, del loro funzionamento, di cui era proibito parlarne: dovevamo fingere di non sapere niente. Incominciammo la giornata lavorativa subito. Ci portarono in una parte del lager dove c’era una strada agli inizi di costruzione. Alle più giovani e alte affidarono delle mazze per rompere la pietra, le altre dovevano spalare il terreno e portare le pietre da rompere. La kapò che ci prese in consegna era una tedesca e dal triangolo rosso capimmo che era una prigioniera politica. E da lei ci sentimmo sempre gridare forse degli insulti ma non bastonò mai nessuna di noi, cosa che fece invece una sua aiutante, con particolare accanimento, ma lei non interveniva mai in questi casi. Dico questo per far capire che chi voleva sopravvivere là dentro doveva indurirsi l’animo e non intervenire mai in favore dei prigionieri. Eppure Monika (così si chiamava) aveva mantenuto quel tanto di umanità per sfogarsi urlandoci parolacce (forse lo faceva per farsi sentire dagli altri kapò che era cattiva) ma aveva cura che le prigioniere del suo “komando” ricevessero il “Zulage”, cioè un supplemento settimanale di cibo per il lavoro pesante, che consisteva in un pezzo di pane e salame al giovedì. A mezzogiorno distribuivano il pranzo che consisteva in una ciotola di zuppa e dopo mezz’ora si tornava al lavoro. Per i primi giorni, dovemmo sorbirla senza posate. Dopo sapemmo che bisognava “organizzarci”. Ecco un termine usato molto là dentro: quello che non avevi dovevi “organizzarlo”, che poteva dire comprarlo con il tuo pranzo o con un pezzo di pane, oppure, se riuscivi, potevi anche rubarlo, perciò quando riuscivi ad averlo, te lo portavi addosso, ben legato anche a 136 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 137 dormire. E legata alla cintura dovevi tenere la tua ciotola, altrimenti addio tè al mattino e zuppa a mezzogiorno. Nel lager c’era di tutto, dovevi comprarlo: sapone, potevi avere un vestito migliore, pettine. Spazzolino da denti era troppo lussuoso. Potevi comprare forbicine, aghi, fazzoletti ed un sacco di altre cose, ma allora saresti morta di fame, oppure bisognava cercare di rubare. Comunque, tornando alla giornata in lager, alle cinque di sera si finiva il lavoro e poi in fila alla baracca per l’ulteriore appello, quasi sempre più lungo del mattino. Era esasperante, affrante com’eravamo dal durissimo lavoro della giornata ed affamate, dover stare qualche ora ferme sull’attenti e guai a parlare, altrimenti schiaffoni e calci. Finalmente anche questo finiva e poi c’era la cena: un pane (quella specie di mattone tedesco) e circa 20 grammi di margarina o di salame. Il pane era diviso in quattro parti (più avanti il pane sarà per sei e verso la fine, per otto). Alla sera si riusciva ad avere qualche momento libero. Si andava nelle altre baracche a cercare qualche connazionale, si cercava di lavarsi un po’ con quell’acqua color ruggine, dato che al mattino bisognava far presto per l’appello. La domenica pomeriggio era di riposo, se non venivano a beccarti per qualche lavoro extra che naturalmente non potevi rifiutare di fare. Ho avuto la sventura di conoscere il “Revier” o infermeria. Vi sono stata accompagnata perché febbricitante (avevo 40°). C’era una specie di accettazione e dentro c’era − fra le altre − una dottoressa polacca che parlava italiano. Mi chiese se conoscevo il motivo della febbre, se provenivo da zone malariche, se avevo diarrea e alle mie risposte negative optò per una febbre di tipo reumatico (la più probabile, dato che Auschwitz era stata costruita in una zona paludosa e quando pioveva, non era un modo di dire lo sprofondare nel fango fino alle ginocchia). Sul momento non c’era posto, ma aspettai poco perché appena morta una ricoverata mi dissero di occupare quel letto (ovviamente senza cambiare materasso e di lenzuola neanche parlarne). Riuscii almeno a girare il materasso, mi diedero una polverina 137 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 138 BANDITE! (un antipiretico?) e lì fui lasciata fino all’indomani. Quando vennero le infermiere per misurarmi la febbre approfittai di un loro momento di distrazione, per vedere e, visto che avevo 38°, scossi il termometro fino a 36°. Dissi che ero sfebbrata e che potevo tornare al lavoro. Ero terrorizzata all’idea di trascorrere ancora una notte in quell’allucinante girone infernale, tra urla e lamenti, che avevano poco di umano, ormai. E poi avevo paura di rimanere perché avevo sentito che spesso e volentieri lì dentro si effettuavano vari esperimenti. (...) Ben presto dovemmo abituarci a tutto e cercare solamente di sopravvivere. Da parte mia continuavo ad avere quella sensazione che non ero io a subire quella vita e mi continuavo a vedere dall’esterno. Difatti non soffrivo, né inorridivo di quello che mano a mano venivo a vedere e a sapere; l’orrore è venuto dopo, quando ormai ero a casa. Ricordo che un giorno fui prelevata per andare a trainare la botte che trasportava le fognature del “Revier”. Bisognava andare a vuotarla sopra i letamai, sistemati lontano dal campo. Là vidi un gruppo di prigionieri che doveva spargere il letame sopra quello che avevamo portato. Dal numero sul vestito capii che erano ebrei italiani. Anche se ormai la loro età era indefinibile, si capiva ancora che erano giovani ed io, fingendo di raccattare il letame, mi avvicinai e chiesi, stando bassa, a quello che mi era più vicino se erano italiani e da quanto tempo erano là. Lui alzò la testa e guardò dalla mia parte, ma non me, il suo sguardo andò oltre e non mi rispose. Dio, quella faccia! Era ormai in fase terminale e dopo, quando ci allontanammo, mi voltai e vidi che li stavano bastonando e loro continuavano a muoversi come spinti dalla forza d’inerzia e non sentivano più neanche le bastonate. Non fui più destinata a quel lavoro, ma sono certa che se fossi tornata dopo pochi giorni, avrei trovato degli altri su quel letamaio. Poi le infami selezioni. Mettevano in fila quelle da esaminare e il medico (non sempre era un dottore, a volte anche un semplice SS) con un cenno le ridistribuiva in due file ed era chiaro quale era la fila 138 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 139 da eliminare! Le donne destinate a quelle file non si davano a smaniare o a disperarsi. Quasi tutte vi andavano come inebetite, in silenzio e quel silenzio era più tremendo di qualunque pianto. Gli aguzzini avevano raggiunto il loro scopo: era bestiame da macello, vi andava senza protestare. Talvolta alla sera c’era il “Lagersperrer”, cioè l’ordine di ritiro nelle baracche. Lo facevano quando avevano da eliminare le occupanti di una intera baracca e noi non dovevamo vedere quelle donne attraversare il campo ed uscire dalla parte dei crematori. Alla notte avevi il riverbero sulle finestre delle enormi fiammate che si sprigionavano dai camini. Così fu eliminato un intero campo di zingari. In una notte furono uccisi centinaia di nomadi. Di questi si parla pochissimo e ciò mi indigna, c’è del razzismo nel fatto di ignorare che anche queste popolazioni sono state perseguitate e che fanno parte dell’olocausto. (...) Dopo poche settimane dal nostro arrivo cominciò a farsi sentire in modo cronico la fame fino al punto che eri già disposta a prenderti qualche bastonatura per arrivare a ripulire i mastelli della zuppa. C’erano già i segni di indebolimento nelle compagne che erano meno forti; cercavamo di sostenerci, infondendoci la certezza che ormai i tedeschi erano prossimi a cedere e che tutto sarebbe finito ben presto, ci esortavamo perciò a tener duro ancora per poco, altrimenti c’era il pericolo di ridursi a larve come ne vedevamo in giro: non avevano un etto di carne addosso, camminavano lentamente e parlavano con una vocina appena udibile, con le gambe rigate dai loro escrementi che ormai non potevano trattenere. Forse mi ripeterò, ma anche qui quando nell’autunno corse la voce che ci avrebbero trasferite in un altro campo, ne fui contenta: peggio di così era impossibile! Purtroppo non tutte partirono con noi e di loro non ebbi più notizie. Per il viaggio ci distribuirono i vestiti a zebra, ben puliti e caldi (c’era rischio che per strada qualcuno ci vedesse) che ci fecero regolarmente restituire all’arrivo a Rawensbruck. Da qualche indiscrezione sapemmo che stavano lentamente evacuando il campo di Auschwitz perché il fronte sovietico 139 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 140 BANDITE! stava avanzando e questo ci rese anche ottimiste. Uscendo dalla stazione, mi voltai e vidi l’infame portone con la scritta “Arbeit macht frei”. Bene, mi dissi, forse ora ce la faremo. A metà aprile del 1945 durante una marcia forzata di cinque giorni, Ondina riuscì a fuggire. Dopo aver percorso 1300 chilometri riuscirà a rientrare in Italia a luglio. Vivere liberi Il martirio socio-culturale imposto dal regime fascista durante tutti i vent’anni di dittatura accentuò in noi giovani l’irrefrenabile bisogno di Libertà. La negazione di una Cultura Libera e Democratica e l’imposizione di una ferrea censura indusse schiere di giovani ad acuire la curiosità e l’interesse in direzione di una sostanziale sete di Sapere. L’aver imbavagliato la Libertà di Conoscenza si tradusse infatti in uno degli stimoli contrapposti più intensi per la creazione spontanea dei primi gruppi di dibattito, di contrasto e poi d’azione, contro un Governo reo fra l’altro dell’applicazione delle aberranti Leggi Razziali del 1938, tese nell’apocalittico progetto comune al Reich Hitleriano della Germania Nazista. Così ci schierammo. Decidemmo da che parte stare. Oltre ad un ideale forte e coeso anche il versante emotivo ebbe un ruolo inconsapevolmente determinante. Eravamo straordinariamente felici. Un rigoglioso altruismo ci univa e ci rafforzava nella consapevolezza ben più matura della nostra giovane età, portandoci con convinta determinazione alla soglia di scelte di sacrificio troppo spesso fra la Vita e la Morte. Fronte operaio, povero di mezzi ma ricco di un entusiasmo vincente, puro ed orgoglioso. Nessuna di noi, come nessuno dei nostri giovani temerari compagni di Lotta poteva immaginare quale livello di scontro fossimo prossimi ad affrontare. Assolutamente inimmaginabile fu l’orrore in cui milioni di bambini, donne, anziani e uomini sarebbero stati trascinati dalla degenerazione della Ragione partorita dalla lucida follia della Soluzione Finale che trova oggi in 140 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 141 Auschwitz il terrificante simbolo di un passato che ha profondamente segnato e mutato il corso della Storia. Resistere fu il verbo che ci permise di affrontare un nemico forte della più organizzata e potente macchina bellica mai concepita. E mentre Wermacht ed SS, in sanguinaria collaborazione con il fascismo locale sbranavano villaggi interi, trucidando, torturando, impiccando civili innocenti, le nostre piccole formazioni erano divenute Brigate, Battaglioni. Quasi dei reggimenti con giovani e giovanissimi animati da un unico ideale: Libertà. Queste formazioni perlopiù di giovani, affamati, con equipaggiamenti raffazzonati, il più delle volte guadagnati a caro prezzo sul campo, spesso con stracci al posto delle calzature e zero esperienza di tattica di guerriglia, imposero altresì la nuova realtà anche nello scacchiere dell’Italia nord-orientale. I primi significativi risultati quali il sabotaggio dei velivoli all’aeroporto e l’eroica Battaglia di Gorizia a cui ebbi l’onore di partecipare, rafforzarono nelle nostre genti la speranza e talvolta la convinzione di poter sconfiggere il nemico e riguadagnare l’agognata Libertà. Sul terreno il consenso verso di noi crebbe ed anche se pesantemente ostacolato da delazioni (risultato di un capillare apparato spionistico installato e diffuso dal nemico propriamente per sconfiggerci) le nostre Brigate crebbero, aumentando di unità, spiegamento di mezzi e potenza di fuoco. La Lotta Partigiana crebbe d’intensità e le iniziali nostre numerose, rocambolesche fughe lasciarono spazio a precisi e tattici assalti ai quali il nemico dovette soltanto arrendersi. Personalmente non vissi la gioia della Liberazione. Mi trovavo in quei giorni, assieme ad una babele di relitti umani, a più di mille chilometri di distanza, in ciò che rimaneva dell’Europa messa a ferro e fuoco. Ero sopravvissuta ad Auschwitz e Ravensbruck. Ma irrimediabilmente provata nel fisico e brutalizzata nella mente. Né più né meno di tutti i reduci da quell’orrore d’inferno. Spesso mi chiedo come personalmente ne sia uscita viva. La ragione puntualmente mi porta l’unica risposta possibile: 141 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 142 BANDITE! Resistenza! Resistenza contro l’aggressore nazifascista, resistenza in cantiere e in fabbrica, resistenza di casa in casa, resistenza mentre le pallottole fischiavano sopra la testa, resistenza sotto interrogatorio, resistenza in carcere, resistenza davanti ai miei aguzzini al comando SS di Piazza Oberdan a Trieste dove venni segregata, resistenza mentre mi si tatuava il numero 81672 sul braccio, resistenza contro la perdita di dignità e l’annientamento di umanità, resistenza contro una fame demoniaca, resistenza al latrare di cani aizzatici contro, resistenza al sottile desiderio di lanciarsi contro il filo spinato ad alta tensione per farla finita, resistenza contro le bastonate e le frustate inferte dai nostri carnefici, resistenza contro uomini fregiati dalla svastica che di umano non avevano ormai nulla, resistenza per resistere ad Auschwitz stesso. Contro ogni forma di razzismo, contro qualsiasi discriminazione e prevaricazione razziale, sociale, culturale e religiosa. «È bello vivere liberi»: sono le ultime parole di Ondina Peteani, prima staffetta partigiana d’Italia, deportata ad Auschwitz n. 81672, morta a Trieste il 3 gennaio 2003. UN QUADERNO A RIGHE Un quaderno a righe, con una barca a vela sulla copertina rigida, un bel quaderno, uno di quelli che ti danno soddisfazione a tenerli in mano, a sfogliarlo, ma soprattutto a scriverci. Come aveva fatto trent’anni fa e passa il professor Aldo Gamba di Vobarno, che dopo aver scritto le sue memorie, aveva fatto girare quel quaderno fra i suoi ex compagni di lotte e poi l’aveva ripreso, come uno scrigno pieno di ricordi, custodendolo in un cassetto, finché l’avevo incontrato e aveva deciso di affidarlo a me: 142 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 143 «Che vuoi», mi aveva detto dandomi del tu, non per confidenza ma per il mezzo secolo che ci separava, «ci si dimentica di tutto, e questi sono anni veloci, perciò ho scritto tutto. Se lo tengo io resta lì ad ammuffire, tu studi questi fatti, queste storie, tienilo tu». Quando l’avevo incontrato – come anche altri partigiani – gli avevo spiegato che stavo preparando un esame di storia contemporanea all’Università e l’argomento scelto dal professor Catalano era proprio l’avvento del fascismo in Italia, un argomento che potevo sviluppare con molte testimonianze nel mio territorio, dove appunto era stata insediata la Repubblica sociale. Un argomento che mi appassionava, anche per la mia militanza politica nella nuova sinistra, come si diceva all’epoca. Lessi quel quaderno d’un fiato: ore e ore passate a ripercorrere quelle storie con grafie spesso malferme, parole che proprio non ne volevano sapere di svelarsi nella loro vera essenza, costringendomi a rimediare col “senso”. Ricordi scritti in momenti diversi, come denunciavano quei tratti di penne diverse, come diversi erano gli stati d’animo che le tradivano. Come diverse erano le storie. Testimonianza di Aldina Ogni guerra sia maledetta, come maledetti siano quelli che per il loro interesse le provocano, le dichiarano senza nessun rimorso del sangue di poveri ragazzi mandati al macello, senza rimorso del pianto di mamme, di spose, di figli, di sorelle e fratelli. Quando nacqui ero già orfana di guerra, la guerra ‘15-‘18. La mia è stata un’infanzia triste, triste perché oltre la guerra c’era la miseria e con la miseria la fame. Poi arrivò anche il fascismo e noi lo abbiamo combattuto per essere liberi. In famiglia eravamo in quattro: la mia mamma, una sorella e un fratello, entrambi più giovani di me. Mia madre non ce la faceva 143 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 144 BANDITE! a sfamarci, così accettò la corte di un uomo e lo sposò, ma era un socialista, così noi passammo da essere orfani di guerra a figli di un sovversivo socialista. La miseria era tanta e mio fratello morì praticamente di stenti. Quello stesso anno nacque Valentina, la mia nuova sorellina. Il mio secondo padre era buono, mi voleva bene, ma restò con noi poco tempo, perché ai fascisti di Vobarno, a cominciare dal podestà Vittorio Pavoni, non andava a genio un socialista attivo come lui, che invece di piegare la testa, osava addirittura sfidarli apertamente. Così una sera gli tesero un’imboscata e in dieci lo massacrarono di botte, lasciandolo mezzo morto in mezzo alla strada. Soccorso da alcuni suoi compagni, fu aiutato a rimettersi un po’ in sesto prima di poter scappare definitivamente da Vobarno e raggiungere la Francia, dove però morì in seguito al pestaggio. Ma non bastava rendere una donna ancora vedova. Noi eravamo figli di un sovversivo, appestati. Mia madre ci spronava al perdono, ma io non volevo perdonare, volevo combattere, così, pur essendo una ragazza, cominciai a frequentare i compagni del mio patrigno, sviluppando presto anch’io l’idea socialista, come fecero anche altre ragazze, qualcuna la conoscevo. All’inizio del 1938 mi sono sposata e a fine anno è nata mia figlia. Avevo 20 anni. Mio marito non avrebbe dovuto fare il militare perché aveva una famiglia da mantenere, ma nonostante ciò, venne chiamato alla leva, anche perché il podestà Pavoni aveva dichiarato che non aveva fatto il paramilitare fascista. Così fu costretto a partire e presto si ritrovò in guerra, in Albania, Grecia. Non tornò mai più: disperso in Jugoslavia. Poi arrivò l’8 settembre e fu un casino. Non c’erano più capi, né ordini, ognuno cercava rimedio nella fuga. Mussolini aveva fondato la Repubblica di Salò proprio qui, dalle nostre parti, così ci ritrovammo i nazisti che scorrazzavano sulle nostre strade e allora iniziò la nostra guerra contro di lui e i nazisti. Dovevamo mandarli via, dovevamo sconfiggerli, anche se non sapevamo come. Il primo conflitto a fuoco cui partecipai fu al passo Crocedomini. Venivamo da Breno, dove eravamo andati per un sabo144 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 145 taggio e per tornare avevamo scelto quella strada più lunga e impervia ma più sicura. Arrivati però al passo ci trovammo la strada sbarrata da un distaccamento di difesa antiaerea. Ne seguì lo scontro, al termine del quale i fascisti se la dettero a gambe. La lotta del mio gruppo si concentrò in Valsabbia e a Vobarno si svolgevano le riunioni clandestine. Il nostro odio contro i nazifascisti nasceva soprattutto dalla loro rapina della nostra gioventù. Volevamo schiacciarli per tornare finalmente a vivere. Mi trovavo sul monte Spino quando il mio compagno d’infanzia Rino Federici, che abitava con me in via Prandini a Vobarno, mi chiese di partecipare a una riunione coi suoi compagni. Ma pur condividendo l’obiettivo comune di schiacciare i fascisti, non ci trovammo sul resto a livello politico. Federici fu poi deportato. Intanto era arrivato il 1944 e io passai a un’altra formazione. La prima riunione cui partecipai si svolse a Vobarno, e in quell’occasione nacque il CNL della Valsabbia, oltre a un foglio clandestino: Il Ribelle, che veniva stampato di nascosto nella tipografia in cui lavorava il compagno Tonini e che era di proprietà del Podavini, fascista della prima ora e della malora. Di notte, li affiggevamo sui muri delle postazioni fasciste di Vobarno e Salò. Io e altre compagne lo diffondevamo con le biciclette. Nelle riunioni si decidevano le azioni (tagliare i fili del telefono che collegavano Vobarno con Salò, nonostante le sentinelle messe a guardia, che noi regolarmente sopraffavamo disarmandoli e prendendoci le armi), reclutare nuovi giovani e formare gruppi d’azione. Un’altra riunione si svolse a Roè Volciano, nell’orto della chiesa parrocchiale, nascosti sotto le vigne. C’erano anche Elsa Pelizzari (“Gloria”) e Maria Boschi (“Stella”), sorella di Ippolito Boschi (“Ferro”) destinato a morire in un’azione disperata, che racconterà lei stessa. Quando tutto finì fu come se avessi perso all’improvviso quella pietra che mi si era piazzata nello stomaco quando Mussolini aveva piazzato qui le sue camicie nere. 145 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 146 BANDITE! Emi Io ed Emi passammo quasi un mese nella vecchia baita di montagna. Emi era una piacevole compagnia, sempre allegro e sereno, l’animo mite e dolce, ma per Natale decidemmo di tornare al Comando perché volevamo festeggiare insieme agli altri. Fu il Natale più strano al quale avessi mai partecipato: niente cappone con le lenticchie, niente presepe o messa di mezzanotte, niente regali da scambiarsi, niente vischio e addobbi natalizi. Semplicemente Damiano lesse una poesia di Natale che era apparsa sul Ribelle, recitammo qualche Gloria seduti in cerchio e cantammo qualche vecchia canzone degli alpini. Tuttavia l’atmosfera calda che ci riuniva intorno al fuoco, noi, una decina di partigiani stanchi e provati dalle fatiche dell’inverno, fu una delle più belle di tutta la mia vita. In quel momento ripensai a Tita, a quanto gli sarebbe piaciuto partecipare a quella festa natalizia per raccontare una delle sue storie, per fumare una sigaretta o per cantare la canzone del Piave. Invece Tita non poteva più fare nessuna di queste cose, perché una dannata scarica di mitra l’aveva messo a tacere per sempre. Non avrei mai più rivisto il suo ciuffo ribelle mentre scalava le montagne, il suo sorriso allegro mentre fischiettava all’ombra. Perché la guerra strappa la vita dal cuore dei migliori? Verso la fine di gennaio cominciarono a ritornare al Comando anche altri partigiani della brigata, stanchi di nascondersi da un nemico invisibile come fossero braccati. Giunsero da noi dei prigionieri slavi che erano fuggiti dai fascisti, in cerca di aiuto. Solo uno parlava un poco di inglese, perciò Damiano cercò di farsi capire a gesti. Non erano i primi prigionieri che cercavano aiuto tra i partigiani, quindi sapevamo esattamente cosa fare: c’erano dei ragazzi che si occupavano di far attraversare il confine ai fuggiaschi, in questo caso attraverso l’Istria, mentre altri cercavano di tenere a bada i tedeschi. Quando li vidi partire, accompagnati da tre dei nostri, mi chiesi se quei poveri ragazzotti slavi dall’aria sperduta sarebbero mai riusciti a riabbracciare le loro famiglie. Io, Emi e gli altri ci occupammo inve146 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 147 ce dei fascisti: ci appostammo in un boschetto poco prima di Odeno, in attesa. Ormai non era la prima volta che partecipavo ad un’azione di guerriglia, ma come al solito ero leggermente agitata. La sparatoria andò a buon fine e riuscimmo a cacciare i fascisti, ferendone parecchi. Ma tra di noi c’era qualcosa che non andava. Mancava qualcuno all’appello. “Emi!”, strillai quando mi accorsi che non era più con noi. Lo cercammo dappertutto, disperati. Avevo il terrore di ritrovare il suo cadavere insanguinato nascosto da qualche roccia. “L’hanno perso, l’hanno preso!”, singhiozzai tra le lacrime. Non poteva essere, non il mio Emi. Mi accasciai a terra e cominciai a piangere. Il mio cuore era gonfio di dolore, non potevo più sopportare altro orrore, altre morti. Arrivò Damiano a cercare di consolarmi, mi prese in braccio, mi baciò sulla fronte e sui capelli, ma io non smisi di piangere. Mi riportò in braccio al Comando e mi depositò sulla panca di legno. “Damiano, dobbiamo cercarlo. Erano in pochi, potremmo liberarlo”, singhiozzavo. Damiano organizzò una piccola squadra di ricerca, ma sapeva benissimo che non saremmo riusciti a trovarlo. Lo pregai di mandarmi con la squadra, ma mi negò il permesso perché temeva che avrei potuto fare qualche follia in preda alla disperazione. “Lo troveremo, vedrai, e lo libereremo”, mi ripeteva, ma sapevo che stava mentendo. La squadra tornò al calar della sera a mani vuote: l’avevano cercato per tutta la valle, ma probabilmente era stato portato a Idro. L’avevano preso, lo stavano torturando per strappargli le informazioni. Vedevo il suo viso sereno e dolce di chi sa perdonare, sporco di sangue e tumefatto; quel sorriso da fanciullo, che non gli lasciava le labbra nonostante le percosse, rendeva furiosi i fascisti: avrebbero preferito che urlasse o che li insultasse, invece lui sorrideva. Sapevo che aveva dei documenti nel sacco da montagna sufficienti a incriminarlo. E il suo diario che con tanta cura compilava durante le veglie alpine, rivelava solo il suo animo mite e fiero del ribelle per amore. Ma i fascisti l’avrebbero insultato per quello, l’avrebbero 147 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 148 BANDITE! schernito per la sua professione di maestro e l’avrebbero picchiato ancora per levargli dalle labbra quel sorriso dolce a forza di pugni. Le ricerche ripresero qualche giorno dopo, quando un contadino confermò che Emi era stato portato a Idro, ma che adesso i fascisti erano tornati sulle montagne con il loro prigioniero. Damiano mi concesse di partecipare alle ricerche, ma decise di venire con me. Era passato da qualche ora il mezzogiorno quando arrivammo a Belprato. Lì, lungo il sentiero poco fuori dall’abitato, scorgemmo una figura inginocchiata. Qualcuno cercò di chiamarla, ma la figura non si mosse. Un vago senso di orrore si impadronì lentamente di me. Gli corsi incontro, sapevo chi era. La neve non ancora sciolta era macchiata di rosso intorno all’uomo inginocchiato, quasi in atteggiamento di preghiera. Gli avevano sparato alla schiena: i fascisti erano stati così codardi che non avevano avuto il coraggio di fucilarlo a viso aperto, di vedere il suo sorriso da fanciullo mentre lo stavano per uccidere. Mi inginocchiai al suo fianco e presi il suo volto freddo nella morte tra le mie mani. “Emi...”, sussurrai tra le lacrime. Damiano mi prese per le spalle e mi sollevò da terra, mentre gli altri ragazzi costruivano una barella improvvisata per trasportare il corpo senza vita del mio amico. Ero scossa dai singhiozzi, volevo liberarmi per accarezzare il volto rigido di Emi, ma mio marito mi stringeva a sé. Nel sistemargli la giacca trovarono un piccolo libro di carta dal titolo L’imitazione di Cristo, intriso del suo sangue. Era una vista che non potevo sopportare. Mi girai verso Damiano e tuffai il volto nel suo maglione, bagnandolo di lacrime amare. “Dobbiamo lasciare un ricordo di Emi Rinaldini, valido partigiano e caro amico, nel luogo dove è morto”, propose Damiano. Si avvicinò ad un albero ed, estratto il coltello, si preparò a scrivere una piccola frase per conservare la memoria del giovane maestro. “Cosa vuoi che scriva?”, mi sussurrò all’orecchio. Per un attimo fui sopraffatta dalla commozione, per quel compito che mi era stato affidato. “Tu eri la sua migliore amica, tocca a te scegliere cosa scrivere”, mi incoraggiò Damiano, baciandomi i capelli. 148 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 149 “Scrivi: qui uccisero Emi, un angelo della terra”. Passò tutto il mese di febbraio e pian piano i ragazzi della brigata tornarono al Comando. Il freddo era ancora intenso, ma nessuno più sopportava quell’indolente inattività. Fu verso la fine di marzo che accadde un fatto che aveva dell’incredibile. In un’azione di guerriglia era stato catturato Renato, un ragazzo della brigata, con quattordici ferite e un braccio spezzato: era destinato alla fucilazione. Furono i suoi amici Diego e Niko a organizzare un piano per liberarlo, nonostante l’impresa suonasse impossibile: Renato era degente all’ospedale di Salò. “Ce la faremo! Silenziosi e veloci”, ripeteva Diego, mentre studiava il piano d’azione. Con loro partirono anche altri tre, Dino, l’Alpino e il Ferro, con la benedizione di Damiano. “Torneremo vincitori, colonnello Giotto, e al diavolo i fascisti!”. Tutta la brigata restò in febbrile attesa per qualche giorno. Era un’impresa impossibile, si sarebbero fatti ammazzare tutti. E invece tornarono, in cinque come erano partiti. Fu Diego a raccontare l’accaduto: “Erano le due di notte, c’era tutto buio. Siamo entrati da una porta secondaria di cui avevamo già l’impronta per la chiave e Ferro s’è messo un camice bianco per sembrare un infermiere. C’erano due fascisti di guardia e li abbiamo colti di sorpresa; abbiamo staccato i fili del telefono, l’Alpino è rimasto in portineria a fare il palo. Noi altri su a liberare Renato; Ferro era rimasto ferito nella sparatoria, ma lui è forte, se ne frega del dolore. E poi c’erano due piantoni nella stanza di Renato, era tutto buio... abbiamo sparato a caso. L’arma di Ferro si era inceppata, Dino è stato ferito, abbiamo spaccato tutto in quella stanzetta. Credevamo di aver sparato anche a Renato, invece era miracolosamente incolume. L’ho preso in braccio e siamo scappati dall’ospedale, ma Ferro era messo molto male. Ci hanno accolto le donne, hanno curato i feriti. Renato e Dino ce l’hanno fatta. Ferro, no”. L’impresa di Salò passò di bocca in bocca, di brigata in brigata e diede maggiore forza a tutti i ribelli bresciani. Se cinque della “Perlasca” erano riusciti a penetrare nel cuore di Salò 149 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 150 BANDITE! e salvare un loro compagno di lotta, c’era ancora speranza di vittoria. I fascisti erano deboli, stavano crollando. Non avevamo combattuto per niente, non eravamo morti per niente. Anche Ferro, il cui vero nome era Ippolito Boschi, aveva dato la vita per la libertà. Un altro giovane senza più futuro che sarebbe rimasto vivo solo nella memoria di quanti come me l’avevano conosciuto. Chi, tra le generazioni a venire, si sarebbe mai ricordato del giovane Ferro o del dolce Emi? Avrebbero dato per scontato la libertà di cui godevano, dimenticandosi di quanti loro coetanei erano morti per concedergliela? Con l’arrivo della primavera, ricominciarono le attività di guerriglia. Sam ci lesse un articolo del Ribelle del 25 marzo che ci invitava a ritrovare il coraggio: «La parola d’ordine è lavorare, ricostruire, anche con mezzi d’occasione, senza aspettare sempre l’imboccata del Governo, che ha mezzi e possibilità limitatissimi. Ma al di sopra di ogni altra ricostruzione occorre far rinascere nel cuore degli italiani l’amore, la stima, il rispetto reciproco. È necessario colpire con severità i responsabili delle rovine della Patria, ma non si deve trasformare l’opera della giustizia in una trama di vendette, né tanto meno in un assalto ai posti di privilegio. E occorre abituarsi, riabituarsi a vedere in ogni italiano un fratello». Quanta ragione in quelle parole, ma quanto era difficile metterle in atto! Io odiavo i fascisti perché mi avevano strappato gli amici più cari, ma per quanto ci provassi, non riuscivo a volerli morti, non riuscivo a pensare di ucciderli. Invece tanti altri avrebbero voluto sterminarli, vedere il loro sangue scorrere lento sotto di loro. Volevano vendetta e io non potevo biasimarli. Per più di un anno il suolo della Patria aveva visto cadere i suoi figli in una violenta guerra civile, in cui ogni morto assomigliava a tuo fratello. E se un giorno quell’orrore fosse finito, saremmo riusciti a superare l’odio? Avremmo potuto lavorare fianco a fianco ad un ex fascista per ricostruire l’Italia o il bisogno di vendetta ci avrebbe resi ciechi e insensibili? Per quanto ancora avremmo insanguinato la bella Patria, divisi da una vecchia 150 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 151 fede diversa, separati in faide e brigate, assetati di giustizia vendicatrice? Con l’avanzare della primavera, ricominciarono le missioni speciali che venivano paracadutate dagli alleati per le brigate. Un giorno, nel gruppo dei ribelli, capitò a Serle un tale che si faceva chiamare Franco. Damiano mandò subito Sam, che avevamo soprannominato Mercurio, il messaggero degli dei, a collaborare con questo tipo strano, infagottato in abiti da montanaro. Non si lasciava sfuggire nemmeno un particolare che potesse identificarlo, ma Sam ci disse che aveva un viso troppo onesto per essere una spia. Damiano non sembrava troppo soddisfatto della spiegazione, ma non potevamo far altro che fidarci, perché avevamo disperato bisogno di rifornimenti. I giorni passarono e finalmente avvenne un lancio. I fuochi si accesero e, al chiarore lunare, il cielo si punteggiò di fiocchi bianchi che andavano man mano allargandosi. I ragazzi della brigata si precipitarono verso i paracadutisti per raccogliere munizioni e rifornimenti. Franco era raggiante. Fu Sam a scoprire la vera identità del personaggio misterioso che aveva organizzato il lancio: Franco in realtà si chiamava don Guido ed era il parroco di un paesino del Parmense. Era dal ‘43 che collaborava con gli americani per organizzare le brigate italiane. Io e Sam ridemmo di gusto, quando scoprimmo che Franco era un italiano come noi, perché ci eravamo convinti che fosse un americano avendolo visto entrare in chiesa a Castello di Serle per cantare i salmi a squarciagola, la domenica delle Palme, meravigliando tutti i buoni montanari. DONNE BRESCIANE RACCONTANO Il Carcere Sono state diverse le donne che hanno subito il carcere: un’esperienza oltremodo vissuta in modo kafkiano da 151 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 152 BANDITE! persone abituate a relazionarsi coi soli familiari e con pochi conoscenti. Nel carcere le donne incontrano altre donne, condividendone le preoccupazioni soprattutto per chi è rimasto “fuori”. Delfina C’era una vecchia di Casino Boario, così perbenino, così carina, pettinata com’era, con le sue pianelline, quelle ciabattine con la suola di legno. “Come mai è qui?”, le chiedo. “Io ho due figli”, dice, “che sono prigionieri degli inglesi. Un giorno arriva un giovanotto alto alto, non capisco quel che dice. Però dai segni che faceva ho capito che aveva fame. Ho pensato: io do da mangiare a questo giovane e qualche mamma darà da mangiare ai miei figli dove si trovano loro e gli ho dato da mangiare. Sono tutti figli di qualcuno. Poi lui è andato, sono venute le guardie e hanno arrestato mio marito perché avevamo dato aiuto a un nemico. Allora lì hanno messo mio marito e l’han tenuto per molto tempo, però io ho continuato ad andare in caserma a dire che mio marito non c’entrava niente, perché era a far legna in montagna, ero io che avevo dato questo aiuto. E allora loro mi hanno detto: ‘Ma non avevate visto in Comune che c’era scritto che non bisognava dare aiuto agli sbandati, che se si vedevano bisognava avvertire i carabinieri?’. Io ci vedo mica tanto. Me lo fanno vedere, ma è così in alto che io non avrei mai potuto leggere quello che c’era scritto. E poi che ne sapevo io di quello che c’era scritto in Comune? Io sto in campagna, io non sapevo niente di tutto questo. Io gli ho solo dato da mangiare. Che colpa è questa? Ho due figli che sono prigionieri e chi gli dà da mangiare ai miei figli? Allora mi hanno presa e mi hanno portata in caserma, uno mi ha dato una coperta perché faceva freddo, ma un altro gli ha detto: ‘Ma sei matto? Se noi la trattiamo bene, dopo ci puniscono perché abbiamo trattato bene una che è denunziata’. Hanno continuato a discutere, io mi sono tenuta la coperta. Poi sono stata trasferita in carcere”. Era preoccupata per 152 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 153 cosa dire quando l’avrebbero interrogata. Noi le abbiamo detto di raccontare le cose come le aveva raccontate a noi, per filo e per segno. Quando è rientrata dopo essere stata interrogata, le abbiamo chiesto come era andata e lei ha detto: “Uno mi ha chiesto com’era e come non era e io ho detto come ho detto a voi, che ho dato da mangiare a uno così e così”. “E lui cosa ha detto?”. “Ha messo la testa sul tavolo e si è messo a singhiozzare”. Camilla Andavo quattro volte al giorno in carcere, a portare da mangiare, ogni giorno e quindi quattro volte al giorno voleva dire non tutte le quattro volte, però quasi sempre, portar fuori lettere, quindi con possibilità di perquisizioni […] forse dopo è stata montata la cosa, magari si trasportavano… io avevo due grandissime sporte, normalmente ci stavano dentro i pasti per il carcere e delle volte su tutto questo pan biscotto – perché non era facile da trovare… adesso pan biscotto è come dire… invece noi dovevamo andare a prendere la farina che era nascosta dai frati cappuccini… sotto gli altari. Ecco, lì si andava verso le sei, la sera, quando d’inverno c’era già scuro e si portava a casa. Da lì ci voleva il fornaio che ce lo facesse, ed era un fornaio che si chiamava Braga e stava lì, vicino a me, in fianco alla chiesa di sant’Afra, quella crollata. E quello era sempre gentile, perché a qualsiasi ora gli chiedevo un quintale di pane, lui me lo dava, me lo faceva. A volte, a questa routine, si uniscono episodi straordinari, come accade nel gennaio 1945, quando un gruppo di detenuti di passaggio da Brescia per essere deportato in Germania è tenuto per molte ore, fino a tarda sera, nel cortile del carcere in mezzo alla neve e senza cibo. Camilla si apposta all’esterno del carcere con un carretto carico di cibo e pacchetti che consegna ai deportati 153 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 154 BANDITE! mentre vengono fatti uscire dal cortile e caricati sui camion. Una cosa impressionante: li lasciavano sulla neve, li hanno lasciati sulla neve dalla mattina alle sette fino alle nove di sera. Una cosa impressionante. Uno ha avuto un attacco epilettico. Io e Cesare la notte siamo stati lì. C’era la catasta di legna tra i due muri, adesso ci hanno fatto una porta tremenda, e tra i due muri c’era una catasta di legna per il riscaldamento. Là, niente, erano al freddo e al gelo. Non c’era niente. Le carceri di adesso sono un grand hotel a confronto a quel che erano allora. E dietro a questa catasta avevamo messo un carretto con tutti questi sacchetti pronti, che era stato il vescovo a volerlo, di pan biscotto che man mano che uscivano, riuscivamo a darglieli, nonostante che coi fari ogni tanto i tedeschi si vede che qualcosa avevano subodorato, ma non ci han pescato. Non ci han voluto vedere, non ci han visto, non si saprà mai, comunque siamo riusciti a darlo. Segnali convenzionali Per segnalare l’arrivo di squadracce fasciste o di tedeschi o il via libera, vengono usati messaggi convenzionali quali il richiamo di animali o esposizioni e gesti convenuti quali ad esempio le lenzuola stese in un prato o il richiamo delle galline o delle capre. Ogni pastore, nel momento in cui si trovava nei pascoli più alti diventava una vedetta capace di individuare a fondo valle movimenti sospetti e segnalarli tempestivamente. Maria Ci ho detto [ai partigiani della brigata Margheriti]: “Guardate che domani c’è il rastrellamento e quando passano io vi farò il segnale, vi stendo una lenzuola…”. Perché star là si vedeva la mia casa. 154 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 155 Abbiamo steso due lenzuola là nel punto che ci han segnalato. E parola d’ordine era chiamare le galline. È venuto un tedesco […] dice: “Cosa fa?”. Faccio “Chiamo le galline», “Ma dove sono le galline?” e mi fa “Co, co, co”. “’Ndo éle? Nel bosch!”30. Maddalena Si urlava, si andava su un monte più alto insomma, dove potevano sentire di più l’eco; e allora si cominciava a chiamare: “Vecia, vecia, vecia” e si chiamavano le capre e le capre era un segno che i partigiani dovevano nascondersi e non avvicinarsi al paese […]. E poi c’era un vecchietto così simpatico […] allora quando si metteva a chiamare le capre forte forte, c’era da partire, andare ad avvisare di nascondersi e di tenersi ben nascosti. Staffette e Partigiane Per molte donne l’attività antifascista nasce da un’ingiustizia subita oppure scatta in seguito a situazioni particolarmente dolorose, come la perdita di un familiare, poi però si sviluppa su percorsi inediti, soprattutto per donne appartenenti a una cultura contadina altamente autoreferenziale anche nell’agire. Il termine staffetta è molto riduttivo perché di fatto ha categorizzato donne – per meglio dire ragazze quasi mai d’età superiore ai vent’anni – che non solo hanno portato messaggi nascosti ovunque, ma trasportato anche armi, quando non le hanno imbracciate. Agape Con Aldo, Sandro, Beppe e un quarto che non ricordo, con le nostre biciclette andiamo al poligono di tiro. Lì c’è il custode, Boccacci – che 30. Dove sono? Nel bosco! 155 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 156 BANDITE! poi è stato fucilato, poveretto, con tutta la sua famiglia – e gli spieghiamo che vogliamo i caricatori del 91 per i partigiani. Ognuno di noi riempie le valigie che ha di caricatori. Un peso tremendo. Le mie due valigie non si chiudevano. Gli altri tre intanto partono. Io mi soffermo un po’ perché eravamo amici con il custode – ero sempre al tiro a segno a fare le gare – e lue l dis: “Ah chèla valigia chè la tè miga; spèta, ciapòm amò èn spac”31. E mi mette un altro spago. “Pesano troppo, non riesco a caricarle”. Nel frattempo arriva una brigata di fascisti che prendono posizione nel cortile del poligono. E poi arriva anche una macchina di quelle scoperte, una Volkswagen con su degli ufficiali tedeschi. Che faccio adesso? Ero già sulla porta con le valigie e le stavo mettendo sulla bicicletta. Non potevo scappare, che potevo fare? Dovevo tenere le valigie una dietro e l’altra appoggiata sul manubrio. Salgo, ondeggio e volo. Le valigie finiscono a terra ma non si aprono. Io faccio un volo tremendo. Questi ragazzi che erano tutti sistemati nel poligono con i loro mitra m’hanno vista e hanno cominciato a ridere. Ridevano anche i tedeschi. Io mi sono rialzata, ho recuperato le valigie e sono uscita a piedi con la bicicletta. Elsa Mi hanno detto che dovevamo cambiare nome per la nuova attività, dimenticare tutto: amici, compagni, attività che avevo svolto dal luglio del ’43 fino al febbraio del ’44. Presso la sede dell’amministrazione del partito comunista di Brescia, mi è stato presentato un compagno che veniva da Milano come ispettore della Delegazione regionale Lombardia, con il quale avrei iniziato la nuova attività. Attività militare, non più politica. Di conseguenza era necessario che io abbandonassi la famiglia, dire loro anche il falso, che non mi avrebbero più vista. Da quel momento per tutti i compagni, quelli che incontravo ho assunto il nome di Piera, perché fin da bambina mi piaceva il nome di 31. E lui dice: “Quella valigia non tiene. Aspetta che prendiamo un altro spago”. 156 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 157 Piera. E da quel momento ho cominciato ad andare in montagna. A Gazzane c’era una ragazza che si chiamava Gloria. Era tanto carina, ma è morta giovanissima. Quando è stato il momento di scegliere un nome di battaglia mi sono ricordata quella compaesana. Mi piaceva il nome di Gloria, le volevo bene e l’avevo vista fin da piccolina: avrà avuto sette, otto anni, non so. I documenti li nascondevo in una cassetta di latta che tenevo nel pollaio. Però un giorno mentre tornavo con del formaggio e del granturco mi sono trovata nel cortile di casa quattro repubblichini. Dicevano che dovevano perlustrare le case e stavano per entrare nel pollaio. Ho mollato il frumento e le galline sono uscite tutte a beccare con le piume che volavano da tutte le parti. Provengo da una famiglia di vecchie tradizioni socialiste. L’inno dei lavoratori lo si cantava a ogni primo maggio, come un rito, ma con gioia, piacere. Per me affiancare mio fratello nelle azioni contro il regime fascista è stata sempre una cosa naturale. Con quello che facevano i repubblichini poi, si diventava antifascisti per forza. Venivano sulle valli a fare i rastrellamenti e non era raro che dessero fuoco a qualche cascina che secondo loro poteva diventare un rifugio per i partigiani, non gliene importava niente di chi fosse quella cascina, la bruciavano e basta. Prima di partecipare a vere e proprie azioni, ho fatto solo la staffetta. Scucivo l’orlo di una gonna o di un soprabito e infilavo il messaggio, che poi recuperavo scucendolo. Ma non portavo solo messaggi, facevamo tutto quello che poteva danneggiare tedeschi e repubblichini, come manomettere la segnaletica stradale, così che i tedeschi si perdevano, non conoscendo i posti. Poi arrivavano i repubblichini e mettevano tutto a posto, ma intanto il danno era fatto. Una mattina trovammo sui muri i manifesti del comando tedesco che ordinava i renitenti alla leva di presentarsi. Noi sotto scrivemmo “vieni, c’è una strada nel bosco”: le parole di una canzone molto in voga in quel periodo ma che poi non sentii più alla radio. Un’altra volta mi trovavo nella stalla di Iole, a Sabbio, quando entrò una pattuglia di tedeschi per prendere del latte. Mentre erano lì, arrivò il fratello di Iole, che 157 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 158 BANDITE! entrò nella stalla come se non ci fossero quelli, quindi, tranquillamente. Io mi accorsi che sotto il cappotto aveva un’arma lunga, così gli corsi incontro come fosse stato il mio ragazzo e lo spinsi fuori, dove lui nascose subito l’arma dentro il fieno. Nonostante questi tempi tristi riuscivamo anche a ridere. Una volta uno dei nostri disse che avremmo vinto di sicuro perché don Angelo aveva chiesto aiuto al Signore, un altro ribatté che probabilmente anche qualche prete tedesco aveva chiesto la stessa cosa per i suoi, allora quello gli rispose sarcastico: “Ma perché, secondo te Dio parla tedesco?”. Fu proprio don Angelo Bianchi che, alla vigilia di Natale del 1943, al lume di candela per l’oscuramento, radunò nella chiesetta di Gazzane il gruppo delle Fiamme Verdi di Roè Volciano cui appartenevo, per fare il giuramento di “Fedeltà o morte”. Il mio nome di battaglia fu quello di Gloria. La prima azione cui partecipai fu la sottrazione di armi ai guardiani tedeschi della polveriera di Tormini. Nella primavera del 1944, Enzo, del CLN di Brescia, mi pregò di lasciare l’impiego per dedicarmi a tempo pieno nel gruppo di Roè. Per il lavoro di staffetta, mi avrebbe corrisposto uno stipendio integrativo, che però poi arrivò solo per i primi mesi, perché poi vennero a mancare i fondi. Così, al rischio si unì, qualche volta, anche la fame. Si rinforzò così il collegamento fra Brescia e la Valsabbia. Fui dotata di una macchina per scrivere con la quale battevo gli ordini del comitato di Brescia, che ritiravo a Rezzato, alle spalle del cimitero, dove mi incontravo con Carla, che me li portava. Ne facevo diverse copie, battendo a macchina di notte, e di prima mattina erano così pronte per essere consegnate: compito che svolgevo con la mia bicicletta. Nell’ottobre successivo, Carlo, della 122ª Brigata Garibaldi, mi affidò incarichi anche per il suo gruppo di stanza a Gardoncello. Compito che svolgeva anche Stella. Essendo impiegata al Sindacato di Salò avevo libero accesso agli uffici della G.N.R. attigui al mio, e guadagnandomi la fiducia dei responsabili, avere informazioni utili ma soprattutto tessere fasciste e lasciapassare tedeschi. Materiale che divenne il mio salvacondotto quando dovevo compiere 158 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 159 azioni nella zona B, cioè quella di Gargnano, dove si trovava la residenza del duce. Salvarono la vita a me e a Stella anche in quel triste giorno che seguì il massacro di Provaglio. Dopo una notte insonne per il dolore, la rabbia, la paura, in casa di Stella facemmo una frugale colazione e poi partimmo per il cimitero di Provaglio, ma fummo fermate da una pattuglia di Brigate nere, che ci chiesero dove stessimo andando a quell’ora del mattino e chi fossimo. Mostrai i documenti cercando di nascondere la rabbia e l’odio che provavo verso di loro. Minuti che mi parvero ore. Temevo anche una reazione di Stella. Ma per fortuna tutto filò lisco e potemmo così riprendere la strada verso il posto che ci avevano indicato i compagni. I ragazzi della Matteotti erano stati buttati in una fossa comune, e noi, con alcol e cotone, dopo averli riesumati, li pulimmo, in modo che poi potessero essere ricomposti durante la notte nelle casse costruite a Valle con inciso il loro nome, in modo che, finita la guerra, si potessero identificare. Prima che quel marzo maledetto finisse compimmo un’altra azione a Brescia, dove io, Stella, la Maresi e sua madre recuperammo delle armi: pistole, dinamite e bombe a mano che infilammo in due valigette che avevamo portato. Salite sul tram della Breda, ci confondemmo con le operaie che si recavano al lavoro. Il cuore batteva a mille. I miei famosi documenti non ci avrebbero certamente salvate se ci avessero trovate con quella Santa Barbara. Ci spaventammo a morte quando un caccia americano mitragliò il tram. Se avessero colpito le nostre valigie saremmo saltati tutti per aria. Quei caccia erano la nostra ossessione quando svolgevamo il lavoro di staffette. Temevamo sempre di essere colpite, ma contemporaneamente ci permettevano di superare indenni tanti posti di blocco, perché quando apparivano nel cielo, i repubblichini e i tedeschi abbandonavano in fretta e furia le loro postazioni. Una volta, stavo tornando da Rivoltella, con due bombe a mano legate sotto la sella e una pistola infilata nelle mutande, oltre ad alcuni documenti che avevo infilato nel reggiseno. La pistola s’era però spostata e mi dava parecchio fastidio, impedendomi di pedalare 159 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 160 BANDITE! agevolmente, costringendomi ad assumere posture innaturali: di ciò si accorse un tedesco di un posto di blocco che si trovava all’ingresso di Desenzano. Aveva già alzato il braccio per farmi fermare, quando un rumore alle spalle divenne presto assordante, e prima che apparisse il caccia americano, arrivò la sua sventagliata che colpì alcuni tedeschi, mettendo in fuga gli altri, fra cui alcuni repubblichini. Quella volta vidi quel caccia come un santo protettore che arrivava direttamente dal cielo per salvarmi. Avvicinandosi la primavera del 1945, i nazifascisti capirono che per loro era finita, ma proprio per questo tutto divenne più pericoloso, per la rabbia dei repubblichini e la ferocia dei tedeschi. I nostri ragazzi sui monti avevano sempre più bisogno di armi per dare il colpo finale a quei maledetti, e per noi donne, procurarle in mezzo alle squadre della morte Ettore Muti, ha significato avere tanto coraggio, ma anche tanta sofferenza. Se i nostri uomini in montagna sopravvivevano al freddo e agli stenti mangiando polenta e neve, noi donne rischiavamo la vita tutti i giorni per portare loro armi, viveri e messaggi. Di farina non se ne trovava, e nemmeno di sale. C’era il pane integrale, che sembrava fatto non con la crusca ma con la sabbia da tanto poi era duro e pesante. Una mattina mi sono svegliata col profumo del pane appena sfornato, ma non un pane di crusca o di segale o di orzo e neppure di farina di castagne, ma di grano, di grano! Ma avevo sognato e Stella mi guardò come fossi una matta. Sono state in tante fra noi che sono finite nelle mani dei nazifascisti e ricordare il loro destino mi procura troppo dolore. Per me la guerra finì in un giorno d’aprile. Una colonna tedesca motorizzata proveniente da Salò s’era accampata al crocevia di Tormini, presidiando con una mitragliatrice il passaggio verso la Valsabbia, dove si trovava la maggior parte dei partigiani. Dopo un rapido consulto, i comandanti, constatata l’impossibilità di eliminare quella postazione tedesca a causa di quella mitragliatrice che avrebbe falciato come mosche anche decine di partigiani allo scoperto, decisero di bleffare, mandando me come staffetta di un messaggio preciso: bleffando sulla consi160 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 161 stenza effettiva delle proprie forze, i partigiani mi avevano detto di chiedere la resa incondizionata in cambio del lasciapassare per tutti i componenti della colonna. La risposta delle SS fu una spaventosa sventagliata di mitragliatrice in direzione della Valsabbia. Poi però, credendo comunque che quel che avevo detto corrispondeva al vero, decisero di smontare la mitragliatrice ed avviarsi verso Verona. Con le mani legate fui fatta salire sull’ultimo mezzo della colonna a fianco di un tedesco di una certa età. Dentro di me morivo di paura, non riuscendo a vedere nulla di buono nel mio futuro. A distanza di tanti anni, sono convinta che se posso raccontare questi fatti lo devo a quel militare dell’esercito tedesco, che probabilmente vide in me la sua figlia sedicenne, la mia stessa età. Parlava un po’ l’italiano e mi raccontò della sua famiglia, che gli mancava, poi, quando il camion che precedeva il nostro scomparve al di là di una lunga curva, quel tedesco frenò e, aperta la portiera, mi fece scendere. Sparii all’orizzonte in un battibaleno, correndo a perdifiato nei prati di Cunettone, lontana dalla strada, verso Salò. Due giorni dopo seppi che quella colonna era tornata sui suoi passi e finché non fu sopraffatta a Nozza, lasciò parecchi morti alle sue spalle, compresa una mia zia a Collio di Vobarno. Non mi sono mai sentita un’eroina. Credo che le donne non si sentano eroine. L’uomo è più portato a sentirsi un eroe e credo che molti partigiani abbiano vissuto la loro esperienza sentendosi degli eroi. Credo che questa sia una cosa molto maschile e lo dico con tutto il rispetto per quei tanti ragazzi che sono morti. Alla fine di un conflitto a fuoco col suo gruppo, Renato Mombelli delle Fiamme Verdi di Roè Volciano era stato catturato gravemente ferito e trasportato all’ospedale di Salò, dove era piantonato. Mio fratello Ippolito, nome di battaglia “Ferro”, era entrato di notte con altri compagni, ma da solo aveva raggiunto la stanza occupata da Renato e da due militi fascisti, sparando e uccidendo subito uno di essi, ma restando a sua volta colpito a morte dall’altro. Nel frattempo erano 161 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 162 BANDITE! arrivati gli altri compagni, che avevano eliminato il milite, portando via a spalle sia mio fratello sia Mombelli, che sopravviverà riuscendo a diventare vecchio come me. Il cadavere di Ippolito fu nascosto fino al 25 aprile, quando fu celebrato il suo funerale con tanta gente accorsa per dargli l’ultimo saluto. Posso dire di aver partecipato alla lotta di Ippolito col suo stesso ardore, con la stessa forza. Non c’era niente che distingueva me da lui, se non che lui era un maschio e io una femmina. Dicevano che ero coraggiosa, ma a me sembrava di fare tutto in modo naturale. Come m’era parso naturale pulire quei poveri resti dei partigiani massacrati a Provaglio, e ancora più naturale farlo con mio fratello. Facevo parte anch’io del gruppo che aveva scelto la località di Madonna della neve come base, nella zona di Prandaglio, Pompegnino. I partigiani che lo componevano erano uomini e ragazzi coraggiosi, determinati: Domenico Signori, Arnaldo Bellini, Orlando Damioli, Ermes Signori, Stefano Fantinelli, Giacomo Dusi. I viveri ci venivano assicurati dalla popolazione, parroco compreso. Il CVL di Vobarno continuava intanto nell’opera di reclutamento e aveva formato il Gruppo Gap nell’acciaieria Falk, dove si moltiplicavano gli atti di sabotaggio alle linee di produzione bellica, con gli operai che raccoglievano anche viveri e vestiari che poi davano a noi staffette. Una compagna della Falk un giorno mi aveva informato che alcuni a Vobarno stavano mangiando da giorni cioccolato e fumando sigarette americane. Lo dico subito al mio comandante, che si informa a sua volta e scopre che c’è anche una radiotrasmittente che sarebbe stata lanciata dagli americani e recuperata da qualcuno, che poi ha diviso i viveri con tante famiglie. S’era quindi deciso di scendere in paese di notte e di passare famiglia per famiglia chiedendo della ricetrasmittente. Partecipo anche io alle ricerche, ma alla fine tutti negano d’averla e facciamo un buco nell’acqua. Poi una nostra compagna che lavora a servizio presso la moglie di un gerarca fascista in una villa di Salò, ci dice che la signora porta sempre con sé in una borsa dei documenti compromettenti con nomi di antifascisti. Il nostro coman162 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 163 dante decide di recuperarli. Iniziamo a studiare le abitudini della signora, seguendola nel tragitto che fa da casa all’ufficio e viceversa. Per diverse volte l’ho seguita io personalmente. Alla fine entrò in azione un gruppo di sei persone, c’ero anche io. La signora strillò come un’aquila quando il Bianchi, detto “Mazza” le strappò la borsa di mano. Ma da lì a poco i fascisti avrebbero avuto una netta rivincita decimando la 7a Brigata Matteotti sul monte Besume, a Provaglio. Non conoscevano la zona e avevano anche poche munizioni. La loro presenza fu segnalata da una spiata. Circondati dalle camicie nere, si difesero, ma furono presto sopraffatti. Domenico Signori, per non finire in mano nemica, ferito, preferì suicidarsi gettandosi in un dirupo. Gli altri nove compagni furono portati prima a Idro, poi a Casto. Seviziati fino allo spasimo per ottenere informazioni sulle postazioni dei loro compagni, non parlarono. Riportati a Cesane di Provaglio camminando a piedi nudi nella neve, vennero costretti a scavare una fossa comune nella quale poi finirono i loro corpi dopo la fucilazione. Ines Ho scelto il nome di Bruna perché mi era morto un fratello che si chiamava Bruno. Sono diventata Bruna per tutti, anche per i miei. Gina Beh, con quel che succedeva, con quel che facevano i repubblichini si diventava antifascisti per forza. Perché venivano su a fare i rastrellamenti – e a me han bruciato anche una cascina. Va bè, non sapevano che era nostra, però una cascina era quasi una casa. Quando facevano i rastrellamenti han bruciato anche quella, indipendentemente che non lo sapevano neanche che fosse mia. E allora per forza si diventava tutti antifascisti là nei paesini specialmente, perché chi ha aiutato i partigiani sono stati quelli dei paesi: noi donne e uomini indipendentemente. Dopo se c’era qualche spia, beh pur163 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 164 BANDITE! troppo c’erano; nei paesi anche nei paesi c’erano, ma se no hanno aiutato tutti. Donne e uomini, li hanno aiutati tutti. Maria Antonietta Quando don Carlo32 mi ha chiamato a casa sua per dirmi se facevo la staffetta, se facevo un lavoro, io credevo un lavoro manuale, per guadagnare. E invece mi presenta questo signor Ragnoli33. Dice: “Dovresti fare questo lavoro, andare a portare messaggi. E come faresti, per esempio, a nascondere un messaggio?”. Io gli ho detto: “Eh, scucirei un pezzettino del soprabito, infilerei il messaggio e poi lo tornerei a cucire”. Allora lui mi dice: “È una cosa un po’…”, insomma, non era tanto convinto, “però può andare”. L’inizio è stato l’8 settembre del ’43, proprio il giorno dell’armistizio, che stavo facendo i fiori alla Madonna lì all’altare e, siccome ero molto vicina a don Carlo, lui è venuto giù – sono arrivate su dieci-dodici persone, erano prigionieri, in casa, e non sapeva dove mandarli – è venuto giù e mi ha detto: “Io avrei una commissione da farti fare, ma non bisogna parlare perché altrimenti ci uccidono: io e te e tutti i nostri…”. E io ho detto: “Cosa c’è da fare?”. Avevo diciotto anni. Severina Una volta monsignor Fossati mi ha chiesto: “Perché fai questo?”. Ho detto: “Perché forse, siccome sono una ragazza, una donna giovane che dimostra due-tre anni meno della sua età, così non molto appariscente posso passare inosservata e arrivare dove non potrebbero gli uomini, dove non potrebbero arrivare persone conosciute. E poi perché sono convinta che quel che faccio sia giusto. Però lo facevo sempre con grande apprensione. 32. Carlo Comensoli, parroco di Cividate Camuno, cappellano della divisione Fiamme Verdi “Tito Speri”. Fu incarcerato dal 27 marzo 1945 alla Liberazione. 33. Romolo Ragnoli, comandante della divisine Fiamme Verdi “Tito Speri”. 164 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 165 Rita A raccontare la storia di Rita è la sua amica Rina. Rita era nata nel 1922. Ancora adolescente aveva conosciuto il regime attraverso le umiliazioni della persecuzione antisemita. Subito dopo l’8 settembre, messi in salvo i genitori a Portogruaro, aveva deciso di entrare nella Resistenza, prendendo contatto con il colonnello Umberto Ricca, che era il rappresentante militare presso il CLN di Verona; ai primi del ’44 Rita lo raggiunge in quella città stabilendo e mantenendo contatti con altri gruppi partigiani. Ma nel mese di maggio, l’intero CLN cade nelle mani dei fascisti, il gruppo di Ricca, sfuggito alla cattura, costituisce la formazione armata dell’Aquila: Rita, unica donna, divide con i compagni disagi e pericoli. Il mattino del 17 settembre 1944 la formazione, composta da una quindicina di partigiani, fu circondata. Rita, calmissima, prese un moschetto e rispose al fuoco degli attaccanti. A un partigiano che le chiese di ripararsi, rispose: “Non dire sciocchezze”, e continuò a sparare. Il comandante allorché si avvide che erano rimasti senza munizioni, ordinò la ritirata. Alla sommità del pendio Rita, colpita alle spalle, cadde. Non morì all’istante: un vile sottotenente repubblichino la assassinò con un colpo di pistola alla testa. Questa la breve storia di Rita. Riposa ora nel cimiero israelitico di Verona e alla sua memoria fu conferita la medaglia d’oro al valor militare. Prendersi cura Sono le donne a prendersi cura dei malati, dei feriti, spesso rischiando molto perché si trattava di partigiani e nel caso fossero state scoperte avrebbero subito la stessa sorte. Maria Una volta mi hanno portato un ferito con un buco così nella schiena. Era sabato mattina e mi hanno promesso che sarebbero tornati saba165 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 166 BANDITE! to notte a riprenderselo. Sabato notte però non sono venuti. In camera, su, avevo questo ferito; giù di sotto, avevo i fascisti. Poi sono rimasta bloccata perché è venuta la neve: quindici giorni e quindici notti senza uscire da quella baita. L’ho curato, tanto è vero che quando ho chiamato il medico su per mia mamma – cioè la scusa era la mamma – mi dice: “Guarda che non arriva alle sei, a stasera non arriva quest’uomo”. Non l’ha neanche toccato. Io gli faccio: “Mi lasci qui la borsa, a me”. E con la pinza, un po’ alla volta, l’ho curato. Aveva nella ferita il cinturone di cuoio, le mutande di lana perché faceva freddo. Delirava dalla febbre. E la sera, dopo, quando sono venuti, lui mi fa: “Non lasciarmi, vieni, vieni a stare con me”. Io pensavo: lo porto su, poi ritorno. Invece non sono potuta tornare. Quindici giorni e quindici notti in un buco, si può dire, un buco. Sì, li facevo i pensieri, perché di giorno non uscivo mai, mai. Avevo paura. Poi c’era la neve. Mi portavano dei medicinali, delle punture. Io alla fine l’ho guarito. L’ho guarito, sono riuscita a guarirlo! Claudia Con la fine dell’inverno del ’44 gli scontri fra partigiani e tedeschi si facevano più frequenti, il che portò ad una nuova divisione ospedaliera: invece di chirurgia e medicina si ebbe medicina e chirurgia per i tedeschi e i fascisti e medicina e chirurgia per partigiani e civili. Intanto il numero delle infermiere era vistosamente calato. Si lavorava fra sempre maggiori difficoltà pratiche anche per scarsità di materiale di medicazione e altro. Per esempio, dopo il 25 aprile si scoprì che in ortopedia il gesso mancava perché era stato usato dall’allora direttore dell’ospedale per la sua casa di Firenze. [La mattina del 25 aprile 1945] Sono andata regolarmente in ospedale dove ho trovato il caos: il direttore era sparito da almeno due giorni, alcuni soldati e ufficiali erano scappati. I meridionali convalescenti in medicina si preparavano a raggiungere con ogni mezzo le loro case. In compenso, le ambulanze arrivavano a ritmo serrato e 166 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 167 cariche di feriti negli ultimi scontri. Perciò il mio ricordo personale di quel giorno insperatamente bello per la fine di cinque anni di guerra rimase mescolato a quello di tante persone fisicamente sofferenti e di un’atmosfera di paura e di odio che si poteva quasi toccare. La guerra è finita La gioia per la fine della guerra e la riconquista della libertà si unisce spesso al dolore per le persone care perse: un sentimento misto che emerge da molti racconti. Maddalena È finita la guerra, è finita la guerra: possono tornare in paese, possono scendere dai monti. E io sono partita, sono andata in cima a quei monti per avvertirli. Ma lo sapevano già, perché le voci sono corse alla svelta e tutti sapevano che la guerra era finita e potevano tornare giù. I partigiani sono scesi dalle montagne, i miei fratelli sono scesi tutti e sono andati a Vestone – e sono andata anch’io a Vestone a vederli scappare tutti ‘sti poveri diavoli – rincrescevano anche loro a vederli scappare. I nostri erano contenti e loro erano malcontenti. E i nostri hanno fatto festa, chi andava in bicicletta, chi cantava. Abbiamo fatto certe feste qui in paese. Abbiamo perfin fatto la polenta taragna tutti assieme e abbiamo cantato tutta notte. C’erano i partigiani, c’erano i nostri del paese e noi ragazze. Avevamo fatto i biscotti, avevamo fatto una gran bella cena e siamo stati su tutta notte a cantare. Era bello vedere tutta la nostra gente libera senza più preoccupazioni. C’era la preoccupazione delle cascine su in montagna che erano state bruciate, che i mandriani non potevano più accudire le mucche, ma poi piano piano le hanno rifatte, le hanno rifatte le cascine. Cantavamo tutte canzoni della montagna. Abbiamo cantato anche quella lì: “Nella dolce Valle Sabbia/la banda azzurra s’è accampata/canta il ribelle innamora167 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 168 BANDITE! to/e la canzone al vento va./O mia bella magacina34/che il ribelle hai tanto amato/noi godrem la primavera/noi godrem la libertà”. Non me la ricordo tutta. Dopo però cantavamo “Ma il ribelle ci ha lasciato/e mai più ritornerà”. Alla fine abbiamo cantato così perché non tutti sono tornati da Brescia. Dovevano camminare a piedi per venirci a trovare. Io non mi sono mai innamorata di nessuno. Rosa Siamo rimasti qui perché aspettavamo papà. E sentiamo suonare la torre. Abbiamo detto “È finita, è finita”. Non ce l’aspettavamo, non ce l’aspettavamo così presto. La mia mamma è rimasta in casa, ma io sono scesa, ho visto arrivare una macchina. Ci abbracciavamo tutti, gente che non si conosceva. Ci abbracciavamo tutti. “È finita! È finita!”. Una cosa bellissima. A un certo punto vedo una macchina arrivare, scende uno che non conosco, mi abbraccia: “È finita! La guerra è finita!”. E poi arriva mio papà. Lo abbraccio forte: “Papà è finita!”. Continuavamo a dire “È finita!” perché era bello ripeterselo. Era la fine di un incubo. Diaregina La fine della guerra. Siamo venuti al Colle col papà. Sé cridìa mìa che l’éres finìda, perché tutti ci venivano incontro. I Garibaldini e le Fiamme verdi ci facevano festa, ma mé ga cridìe mìa perché vulìa mìa vardàrl. Dicevo: “Adesso mi mettono un’altra volta in prigione”. Quando siamo venuti fuori dal carcere, da Canton Mombello, dalle finestre buttavano giù roba; tante delle mie compagne i è nàde, vero, a prender la ròba che i botàa zò. Mè no, so gnìda dala me sorela che l’ira a Bressa, a lavàm e cambiàm. In prigione avevo preso i pidocchi e vulìe mìa portài so, anche sé sèere ‘ma poarìna, perché non avevamo più niente35. 34. Ragazza. 35. Non si credeva che sarebbe finita […] ma io non ci credevo […] sono andate a prendere la roba che buttavano giù. Io no, sono andata da mia sorella che era a Brescia a lavarmi e cambiarmi […] e non volevo portarli su, anche se ero una poveretta. 168 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 169 Afra Avevano portato in carcere ragazzini di sedici, diciassette anni che erano nella Brigata Nera. Io andavo a portargli le patate, mi facevano pena. I compagni partigiani urlavano, ma a me facevano pena. Erano ragazzini. Maria Sotto casa mia s’è fermato un camion e c’era su un tenentino tedesco che stava morendo. Mia madre ha fatto il caffè e glielo ha portato. Di fronte alla morte, di fronte al male non c’è odio che tenga, perché se si ha un ideale è giusto averlo, però non si deve infierire su un morto o su un ferito. E mia madre mi ricordo che era andata a portarci il caffè. E tanti che fino al giorno prima erano stati con i fascisti e con i tedeschi han detto: “Ah sèt nàda a portàga èl cafè. Ma làssa ch’èl crèepe!”36. Ma è un essere umano. Quando è indifeso è sempre un essere umano. Quando uno si sa difendere, s’arrangia, ma quando uno non si sa difendere, se si può fare qualcosa si deve fare. Elsa I tedeschi erano in ritirata. Al crocicchio dei Tormini c’erano di loro con una mitragliatrice. Dei disperati. Bisognava che qualcuno andasse a dirgli che se lasciavano quella postazione e se ne andavano nessuno gli avrebbe fatto niente. Allora mi feci avanti io e dissi che sarei andata io, che se fosse andato un uomo c’era pericolo che la cosa finisse male. Così ci sono andata. Mi hanno tenuto ore a interrogarmi. Botte non mancavano. Poi mi hanno fatto salire su un loro camion e io ero seduta a fianco a un signore anziano, bianco di capelli. Io comincio a dire che non ho più il papà, che sono sola, che mi hanno obbligata. Lui mi fa capire che ha una figlia più o meno della mia età. Insomma, non so se è stato che l’ho impietosito oppu36. Ah, sei andata a portargli il caffè? Ma lascia che crepi. 169 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 170 BANDITE! re veramente era un papà sofferente e stufo anche lui della guerra, quando il penultimo camion ha fatto la curva – che lui praticamente non l’ha visto più – mi ha aperto la portiera e mi ha detto: “Raus Komm!”. Sò partìda… sò arrìada a Roè en dèn balèno37. Ho avuto una figlia che ha fatto atletica leggera. Ha preso sicuramente da me! UNA STORIA DI UOMINI E DONNE È passato tanto tempo. Anche Salò, che aveva raccolto l’uovo del serpente di una improbabile Repubblica neofascista, sbiadisce nel ricordo di un tempo feroce. Più generazioni si sono succedute, con le ultime che passano inconsapevolmente per i luoghi che ospitarono i vari ministeri di un regime agonizzante, e per questo ancor più feroce. Passano per via Signori, a Tormini, frazione di Roè Volciano, senza sapere chi mai fosse quel signore. Così come per via Boschi a Barghem senza conoscere la storia di “Ferro”, nome di battaglia di Ippolito Boschi. Nomi che s’intrecciano, tessendo anche storie di donne. Per questo val la pena narrarla senza distinzione di sesso, perché appartengono a quella Resistenza che in queste zone si ritrovò a combattere con un doppio nemico: il vicino di casa e “il barbaro”. Quel 20 marzo di una mattina che più che alla prossima primavera apparteneva a un inverno troppo lungo, Maria non sapeva che stava per entrare a far parte di diritto di quella Storia che sarebbe stata così dolorosamente spiegata da Elsa Morante pochi anni dopo. Partita da Sabbio Chiese, pedalata dopo pedalata era arrivata fino a Tormini, dove s’era fermata a riprendere fiato 37. Sono partita e sono arrivata a Roè in un baleno. 170 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 171 prima di lanciarsi lungo la discesa che l’avrebbe portata a Salò dove, in casa dell’amico Angio, il partigiano Diego, l’aspettava suo fratello Ippolito. Maria spiegò che dopo la tragedia di Provaglio s’era rifugiata a Vobarno. Poi ricordò quell’episodio che le scarnificava la mente. Si trovava a casa, quando aveva sentito un trambusto crescente ed era uscita per vedere cosa stesse accadendo. «Hanno preso i ribelli, hanno preso i banditi!». Una processione di uomini procedeva lentamente fra la gente incuriosita. Uomini, ragazzi con gli occhi smarriti, i vestiti laceri, i volti tumefatti erano spintonati da un gruppo di guardie repubblichine. Fra essi, Maria aveva riconosciuto Alfredo Poli, un ragazzo di Barghe amico di suo fratello, che aveva accennato a un saluto. Nel centro della piazza, i fascisti ordinarono vino per loro e acqua e aceto per i banditi. Poi arrivò un camion che raccolse tutti, prendendo la direzione di Vestone. Cominciarono presto a circolare notizie su quella cattura: uno dei partigiani era morto durante il combattimento e il suo corpo era stato trasportato nel cimitero di Provaglio, presso la frazione Livrio. Maria corse subito a casa per raccontare quei fatti poi partì per Provaglio con l’amica Bianca: voleva assicurarsi che suo fratello non fosse coinvolto in quella faccenda. Raggiunsero quindi il cimitero di Livrio dove la pietà popolare aveva composto la salma del partigiano che pur di non cadere nelle mani dei fascisti s’era gettato da una rupe. Il foro di un proiettile alla tempia dimostrava il colpo che gli era stato successivamente sparato. Davanti a quello strazio, le donne di Livrio raccontarono a Maria e alla sua amica quello che era successo. I partigiani erano arrivati a Provaglio il 28 febbraio provenienti dalle montagne sopra Gavardo, monte 171 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 172 BANDITE! Magno e monte Gnere; giovani della zona di Gavardo, Villanuova, Prandaglio, ma anche di altri paesi: tutti appartenenti alla 7ª Brigata Matteotti. Avevano preso a spostarsi con una certa frequenza per evitare i sempre più assidui rastrellamenti della GNR. Si erano quindi spostati nella frazione Arveaco di Provaglio, un gruppo di case sotto il monte Besume, dove trovarono rifugio in un fienile in una buona posizione logistica, anche per un’eventuale fuga improvvisa. Tre giorni dopo, però, Alfredo Poli, staffetta delle Fiamme Verdi, li avvisò dell’imminenza di un rastrellamento della GNR. Mentre si analizzava la situazione per identificare un’altra postazione, si intensificarono le precauzioni, raddoppiando le guardie. La notte trascorse tranquilla e verso le 5 una sentinella scese verso Arveaco per prendere un po’ di latte, ma fu intercettato dai fascisti, che prima che riuscisse a nascondersi dietro una siepe, riuscirono a ferirlo a una gamba. Poi, portandoselo dietro come prigioniero, si indirizzarono sicuri verso il rifugio dei partigiani, come se sapessero perfettamente dove si nascondevano. I colpi sparati contro la sentinella avevano intanto allertato il gruppo, e una sentinella avvertì che la strada che portava a Treviso bresciano era sgombra: avrebbero potuto fuggire da lì, ma non fecero in tempo, perché i fascisti erano già lì. Iniziò così un conflitto a fuoco che terminò con l’esaurimento delle munizioni da parte dei partigiani, che furono quindi sopraffatti. Legati con le mani dietro la schiena, tranne due cui fu ordinato di trasportare la barella del compagno ferito, scesero a Barghe, fino alla fermata davanti all’albergo Braga. Il resto, Maria lo sapeva. Con l’amica Bianca tornò quindi a casa, dove con la famiglia concordò che avrebbe portato dei generi di conforto a quei poveretti. La 172 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 173 mattina del 5 marzo, prima di partire per questa missione, Maria andò come al solito a recuperare il latte per sua madre, ma sulla strada incrociò un ragazzo che pareva disperato e che continuava a ripetere ossessivamente la stessa frase: «Li hanno ammazzati tutti, li hanno ammazzati tutti!». «Dove?», chiese Maria. «A Cesane, nel campo della Gilda, li hanno massacrati stanotte». Maria inforcò subito la bicicletta e corse a perdifiato verso Provaglio. Arrivò stremata e guardandosi attorno si accorse del sangue che lordava il terreno. Seppe così che l’eccidio era avvenuto verso le tre di notte. Nel silenzio più irreale s’erano uditi i suoni di quella carneficina. Voci agitate, urla e ordini secchi avevano soverchiato i lamenti e le richieste di grazia. Poi crepitii, raffiche, colpi singoli. Quando tutto fu finito, passò ancora del tempo prima che timidamente dalle case uscisse qualcuno. Davanti ai loro occhi stavano nove corpi straziati e alcuni in posizioni innaturali. Sangue ovunque. Tutti presentavano il colpo di grazia esploso a distanza ravvicinata, come dimostravano le bruciature sulle tempie. Quei poveri resti furono raccolti, lavati, composti e quindi trasportati nella chiesa parrocchiale, l’antica pieve di Cedessano. Un lavoro svolto dalle donne e qualche anziano, perché gli uomini e i giovani del paese erano soldati o alla macchia. Nella chiesa il parroco ordinò che i corpi fossero tutti deposti in una stanza angusta. Troppo piccola per tutti. Fu in quel luogo indecoroso che Maria li vide. Quando arrivò, si stava celebrando la messa, entrò e vi partecipò, poi seguì il parroco in sagrestia, dove gli chiese di poter vedere i morti. Quello non le rispose nemmeno, limitandosi a un cenno scocciato con la testa, come a indicare di andare dove si trovavano. I cadaveri erano disposti in senso trasversale 173 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 174 BANDITE! l’uno rispetto all’altro, ammassati. Maria riconobbe Alfredo Poli e cominciò da lui. Con un fazzoletto li pulì tutti, servendosi di una bacinella d’acqua, che cambiò infinite volte. Quando finì, lavò per l’ultima volta il fazzoletto e lo ripose in tasca come una reliquia. Quel che poi è in effetti diventato. Maria tornò sconvolta a casa, dove la raggiunsero due sue amiche, Elsa e Maresi: insieme decisero che l’indomani avrebbero portato dei teli per comporre le salme, ma quando arrivarono, scoprirono che quei poveri resti erano già stati buttati nella fossa comune da loro stessi scavata. Un ricordo che non ammetteva altri argomenti, altre parole. Ippolito e Angio si guardarono e senza aprire bocca concordarono per “dopo”. L’indomani, Angio, il partigiano Diego, si avvicinò a Maria e le chiese se se la sentiva di svolgere un compito: un compagno, Renato, era stato catturato ferito dopo un conflitto a fuoco e trasportato all’ospedale di Salò, dov’era piantonato in attesa di essere fucilato: l’esecuzione era prevista per il 23. Tre giorni dopo. Lei doveva avvicinare il primario della chirurgia e chiedergli di dichiararlo ancora intrasportabile, in modo che loro potessero organizzare la sua liberazione. Maria fece come le era stato detto, aggiungendoci del suo. Quando il chirurgo aveva mostrato contrarietà per quel falso che gli si chiedeva, Maria lo convinse con poche parole: «Fossi in lei, dottore, farei così. Ne va della sua pelle». Renato rimase così nel suo letto, piantonato da due sgherri della GNR. Messa a punto l’azione, Ippolito (nome di battaglia “Ferro”), Angio e altri due compagni raggiunsero l’ospedale di Salò, dove Ferro, con un camice sotto il quale nascondeva un mitra, raggiunse la stanza del prigioniero. Fu un attimo. La guardia intercettò l’arma 174 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 175 sotto il camice e sparò; Ferro rispose al fuoco, uccidendo il fascista. Ma anche Ferro era stato colpito mortalmente. I compagni riuscirono a trasportare sia lui sia Renato a casa di Angio. Nella sparatoria era rimasto seriamente ferito anche Dino. Ferro morì poco dopo. I suoi funerali si svolsero a Salò solo l’8 maggio, dopo la Liberazione. Maria aveva saputo della sua morte solo pochi giorni prima: le era stato sempre detto che suo fratello aveva dovuto nascondersi dopo l’azione all’ospedale. L’ALTRA GUERRA RICORDI DI DONNE DEL SUD Maria, che nel 1945 aveva 17 anni e viveva a Palermo Durante la guerra mangiavo farina di fave, con cui si faceva anche la pasta, pane nero fatto con farina di segale. Quello che si mangiava si procurava al mercato nero. I luoghi di ritrovo erano i sotterranei, le grotte di Monte Pellegrino, tuttora esistenti, chiamate le grotte dei condannati. Mussolini, quando dichiarò guerra, fece costruire a Palermo dei ricoveri fatti di cemento. Quando c’erano i bombardamenti passavamo giornate intere e notti intere nei ricoveri. Fortunatamente a Palermo non ci furono gravi conseguenze della guerra. Quando arrivarono gli americani (e l’Italia decise di allearsi con loro), decisero di bombardare Palermo tutti i lunedì alle 9 di mattina, con lo scopo di distruggere tutto il materiale tedesco. Gli americani avvisavano la popolazione sulla loro intenzione di bombardare, lanciando dagli aerei dei volantini. Io non ho sentito parlare di episodi di maltrattamenti nei confronti delle donne, perché spesso erano le madri, che mandavano le figlie dagli americani, per bisogno e in cambio ricevevano soldi e soprattutto cibo. 175 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 176 BANDITE! Rosina Franco, che nel 1945 aveva 16 anni e viveva a Placanica (Rc) Della guerra ricordo il rumore assordante degli aerei nemici, la vita quotidiana trascorreva comunque nella normalità, anche se con qualche tensione e molta stanchezza, perché la notte era disturbata dal passaggio di questi velivoli, che sovrastavano i tetti delle nostre case. Per quanto riguarda il mangiare, avevamo ciò che si poteva cuocere in casa come il pane e la pasta, e il rimanente, come tutti, lo si aveva mediante una tessera. Il luogo di ritrovo, invece, era l’istituto delle suore, dove si festeggiavano il Natale e la Pasqua e dove ci riparavamo durante i bombardamenti. Quando eravamo nel rifugio, le notizie ci arrivavano dalla radio e alle volte riuscivamo ad avere il giornale. Degli stranieri ho due ricordi molto diversi: dei tedeschi ricordo il funerale di uno di loro, il feretro era seguito da molti soldati e alla fine della cerimonia, uno dei generali ha preso dieci persone a caso, tra la gente che era presente, e li ha giustiziati davanti a tutti. Gli americani, invece, li aspettavamo con molta paura, perché tutto sommato erano degli stranieri; mia madre, infatti, aveva pensato di nascondermi in una stanza dove tenevamo la legna e far murare la porta; poi un giorno, mentre eravamo in campagna, abbiamo sentito il suono delle campane della Chiesa che annunciavano la pace. Nel mio paese non ho mai sentito parlare di episodi di maltrattamenti nei confronti delle donne, ma ricordo di aver assistito ad un episodio nel quale alcune donne hanno perso un braccio mentre salivano e scendevano in continuazione da un treno in movimento, dove vendevano sigarette di contrabbando. Uno degli ultimi ricordi che ho di quella spaventosa guerra risale all’inverno del 1943, quando mia madre ha ospitato una famiglia di ebrei che era arrivata dalle montagne in cerca di un riparo; sono stata io a trovarli, erano entrati nel portone posteriore e quando mi hanno visto sono scoppiati in lacrime e mi hanno pregato di portarli con me su in casa, dove mia madre li ha nascosti e curati fino alla fine della guerra. 176 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 177 Giuseppina Ricci, che nel 1945 aveva 19 anni e viveva a Cuffiano (Bn) La mia giornata iniziava alle 7 di mattina per andare a lavorare nei campi di mio padre. Alle 2 e mezza smettevo di lavorare per mangiare, e quello che mangiavo erano semplici legumi ricavati dal lavoro giornaliero. La giornata finiva alle 9 di sera, quando faceva buio, per andare a mangiare, e anche questa volta erano verdure e legumi e se andava bene anche un po’ di buon pane fatto in casa con la farina di grano. Quando veniva la notte eravamo costretti a barricarci in casa con le finestre chiuse e le luci spente, perché se passavano gli aeroplani tedeschi ci potevano bombardare. Il rifugio era soltanto la casa, perché a Benevento c’era poca guerra e infatti la notte bastava spegnere le luci e chiudere le finestre. A Cuffiano specialmente c’era anche la corrente elettrica, e quindi si poteva ascoltare la radio che però alle volte per non far spaventare gli ascoltatori non diceva la verità, modificando le notizie, e quindi io e le mie sorelle la chiamavamo “la bugiarda”. Quando, e se facevamo festa, la facevamo per Natale, Pasqua, e Capodanno, ritrovandosi o tutti a casa nostra, o tutti a casa dei parenti più stretti e vicini a casa, perché a quei tempi non si poteva andare tanto in giro. Siccome mio papà aveva un’attività di sali e tabacchi, quando passavano i soldati tedeschi gli regalava le sigarette, e fu per questo motivo che un giorno dopo esserci nascoste in soffitta non ci fecero niente. Degli americani non mi ricordo niente, li vidi solo una volta da lontano che passavano a piedi lungo il campo. Di maltrattamenti nei confronti delle donne non ne ho visti nessuno, perché stavamo in campagna e non succedeva mai niente. Nel mio paese nessuno ha dato aiuto a qualche persona in difficoltà, perché come ho già detto di guerra ce n’era poca, ma siccome erano tutti uniti quando qualcuno aveva bisogno ci aiutavamo a vicenda. 177 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 178 BANDITE! Geraldina Robertazzi, che nel 1945 aveva 17 anni e viveva a Salerno Quando è scoppiata la Seconda Guerra Mondiale avevo più o meno 14 anni; a quell’età come adesso penso che la guerra sia la cosa più brutta che esista al mondo; infatti mi ricordo che avevo moltissima paura per me e per la mia famiglia perché sia di giorno che di notte non facevamo altro che scappare. Mentre scappavamo ho conosciuto una ragazza figlia di un dottore, di nome Bianca, che diventò pazza perché subì violenze dai tedeschi. Poi a metà della guerra i bombardamenti aumentarono e io e la mia famiglia fummo costretti a nasconderci nelle trincee che avevano costruito mio fratello maggiore e mio padre. In questi posti noi stavamo sempre zitti per paura che i tedeschi ci sentissero, infatti non ci hanno mai cacciato “di casa” per nostra fortuna. Di solito mangiavamo pane e formaggio e quando non potevamo uscire pane ammuffito. Alcune persone di domenica andavano a Messa, io poche volte. I luoghi di ritrovo erano la Casa del Fascio e la Chiesa. I bombardamenti erano molto frequenti di notte. La guerra nel mio paese iniziò un pomeriggio con dei bombardamenti terribili. Rina Mattesini, che nel 1945 aveva 8 anni Un giorno avevo la febbre a 39 e in casa nostra arrivarono i tedeschi che ci mandarono via. A volte i tedeschi venivano in casa nostra e ci prendevano tutto. Alcune persone si nascondevano nel letame. Un giorno mio padre stava rischiando di essere ucciso perché teneva due prigionieri americani. Un giorno vidi due mie amiche e il loro padre attraversare la frontiera e una bomba li prese in pieno e chiaramente morirono. Stavamo in casa ma appena suonava l’allarme correvamo al riparo. Si mangiava soprattutto pane. Un giorno accadde che della benzina era caduta nella farina. Dalla fame mangiammo anche il pane con la benzina. Le notizie relative alla guerra le ho sapute grazie a mio fratello perché aveva acquistato una radio illegale chiamata galena. Era pericoloso stare molto ad ascoltarla perché sarebbero 178 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 179 potuti essere rintracciati e se poi ti sorprendevano i tedeschi come facevi? Della guerra mi ricordo tante cose, per esempio ho vestito, lavato e portato in una cappella nove persone morte, e alcuni di questi non avevano neanche la testa. Ci rifugiavamo nei campi, nelle fogne, insomma dappertutto perché sentivamo fucilare e questi spari provenivano dagli scontri dei Partigiani contro i tedeschi. I tedeschi si ribellarono e diedero fuoco alle case e uccisero i Partigiani; nove ne uccisero il 20 di giugno e il 29 giugno ne uccisero altri dieci. Le giornate le trascorrevamo a rifugiarci, avendo solo un pezzo di pane, un etto e mezzo, e una volta i tedeschi me lo presero tutto e mi presero anche la frutta e la polenta. Il mangiare me lo procuravo male perché non potevo uscire di casa che c’erano i tedeschi che sparavano e molte volte pativo anche la fame. Durante la guerra non facevo mai festa, ma prima di essa facevamo feste, andavamo alla processione, in chiesa, ma non grandi cose perché c’era un po’ di miseria. Ci ritrovavamo a casa mia, a casa delle mie amiche, della mia nonna, ad un circolo dove si ballava e si facevano le feste. Durante i bombardamenti ci rifugiavamo dentro delle grotte, correvamo e camminavamo molto per trovare un nascondiglio sicuro, ci nascondevamo nei campi di granoturco, nelle cantine, nei fondi, insomma in un posto più vicino a noi perché se i tedeschi ci trovavano ci uccidevano. I tedeschi si erano appartati perfino nel cimitero e noi li incontrammo perché c’era il trasporto dei 19 morti, 17 tedeschi e 2 italiani, che erano stati messi tutti in un’unica bara trascinati da un carro da buoi. Le notizie non le avevamo da nessuno perché la posta non funzionava e ci portava qualche lettera il console americano o tedesco. Dei tedeschi non mi ricordo cose particolari, erano gente come noi, non avevano niente da mangiare e mi chiedevano la polenta, il pane e la frutta; degli americani non mi ricordo niente perché non sapevo distinguere la lingua americana da quella tedesca, per me parlavano tutti nello stesso modo. Dei Partigiani non mi ricordo niente di particolare e poi li conoscevo perché erano del mio paese. 179 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 180 BANDITE! Ho sentito parlare di maltrattamenti nei confronti delle donne. Per esempio chi non obbediva ai tedeschi veniva fucilato sul posto come una donna mi cadde ai piedi con un neonato in braccio oppure le rinchiudevano in una chiesa e dopo non le rivedevamo più. Ho aiutato e dato ospitalità ai tedeschi perché mi dispiaceva, erano gente come noi, anche se dopo mi cacciarono di casa, guardavano tutte le mie cose, guardavano nei miei cassetti, buttavano tutte le cose che trovavano in terra, guardarono perfino nel mio corredo di nozze ma non riuscii a capire che cosa cercassero o volessero e potei ritornare a casa solo quando i tedeschi se ne andarono. P.D. che nel 1945 aveva 18 anni e viveva in Sicilia Quando è scoppiata la guerra io avevo circa 17 anni e su di essa mi ricordo moltissime cose: i bombardamenti, che venivano effettuati nei paesi vicini, i rifugi che noi dovevamo costruire per ripararci dalle bombe che venivano precedute dalle sirene, mano a mano che il fronte si ritirava ed i tedeschi che venivano a dormire nelle nostre abitazioni, così noi dovevamo andare in altre case, mentre i nostri genitori restavano nel frantoio per vigilare durante la notte. Della guerra in particolare mi ricordo un giorno, quando i tedeschi minacciarono di ucciderci se non trovavamo 100 chili di pane in due ore per mandare al fronte. Le giornate le passavo pelando patate, facendo pane al forno e cercando altri alimenti da mandare al fronte che ogni giorno esigeva cibo in abbondanza, tutto questo perché nel paese avevamo le cucine. Durante la guerra non sono mai stata sfollata, andavo a dormire la sera in altre famiglie e si rientrava la mattina per fare i servizi ai tedeschi. Di solito si mangiava tutte le cose che avanzavano ai tedeschi perché le prime cose le prendevano loro: uova, carne, farina, ecc. Noi si mangiava poco anche per la paura e il panico, perché ogni giorno si temeva di essere uccisi per una ragione qualsiasi, comunque il nostro sostentamento veniva dai nostri campi. Non facevamo mai feste, soltanto nei giorni più tranquilli ci si 180 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 181 riuniva con altre famiglie e insieme si parlava e pregava. I nostri luoghi di ritrovo erano sempre gli stessi: la chiesa e la piazza; lì giocavamo, scherzavamo e si raccontavano barzellette. Quando c’erano i bombardamenti mi rifugiavo dove capitava, per esempio se eravamo nei campi correvamo nei fognoni. In quel periodo le notizie ci giungevano tramite i pochi che tornavano al paese con il giornale, dato che i partigiani avevano tagliato i fili della corrente e quindi non potevamo ascoltare la radio. Degli americani ricordo che quando arrivarono fu festa grande perché era come uscire da un incubo. Dei Partigiani ricordo poco, perché non vivevamo vicini a loro, sentivamo dire che scendevano dalla montagna, tagliavano i fili della corrente e risalivano nei loro rifugi; non ne ho mai conosciuto nessuno. Non ho mai avuto occasione di aiutare persone in difficoltà, a volte davamo a persone più povere di noi alcune cose per mangiare come farina, uova ed anche il cioccolato che ci veniva regalato dai soldati tedeschi che stavano nella nostra casa. Non abbiamo mai ospitato nessuno anche perché la nostra casa era occupata dai tedeschi. Testimonianza anonima di una siciliana Mi ricordo che durante la guerra nel cielo luccicavano le bombe e io e i miei familiari ci rifugiavamo nei rifugi mentre passavano i tedeschi. Un giorno non potendo rifugiarmi perché avevo una gamba malata, successe una cosa che a me sembrò particolare, infatti i tedeschi entrarono in casa mia, ma contrariamente a quello che pensavo, non mi fecero nulla limitandosi a farmi dei gesti parlando in tedesco. Durante la guerra le nostre giornate erano molto movimentate e imprevedibili, infatti succedeva che dovevamo nasconderci più di una volta nei rifugi perché passavano i tedeschi nelle loro perlustrazioni. I nostri pasti erano consumati molto velocemente e nei momenti più tranquilli andavamo a rifornirci degli alimenti nei rifugi. Per quello che mi riguarda non avevo mai dei momenti di festa. I nostri luoghi di lavoro erano principalmente i campi dove raccoglie181 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 182 BANDITE! vamo i prodotti che riuscivamo a coltivare. Quando iniziavano i bombardamenti lasciavamo i luoghi di lavoro o le case scappando verso il bosco dove c’erano i rifugi. Le poche notizie che ci arrivavano venivano principalmente dai vicini. Dei tedeschi ricordo che facevano razzia dei nostri animali e disturbavano le giovani donne, quindi avevamo ancora più rabbia nei loro confronti, mentre gli americani erano accettati dalla comunità perché erano i nostri salvatori. I partigiani si nascondevano nei boschi cercando di eliminare i tedeschi, ma tuttavia, spesso, venivano catturati e impiccati. Nei confronti delle donne i nemici erano quasi sempre molto duri infatti, queste venivano violentate o maltrattate, mentre nei confronti degli uomini adottavano dei sistemi ancora più duri; venivano obbligati a scavare delle fosse nelle quali poi sarebbero stati gettati loro stessi. Per fortuna, a me personalmente, non sono mai capitati episodi di maltrattamenti fisici, ma solo verbali. Mi ricordo che in casa mia, abbiamo ospitato una persona che era inseguita dai tedeschi. Gli abbiamo dato dei vestiti puliti e da mangiare. Un’altra volta ospitammo due uomini arrivati a cavallo i quali ci raccontarono di essere fuggiti dai tedeschi perché questi li avevano catturati e poi costretti a combattere a loro fianco. 182 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 183 SEBBEN CHE SIAMO DONNE Sebben che siamo donne/paura non abbiamo/abbiam delle belle buone lingue/e ben ci difendiamo... cantavano le mondine nelle risaie ai primi del Novecento, esercitando il diritto del canto libero/liberatorio. Almeno quello: “libero” perché non-dipendente, “liberatorio” perché alienante la condizione di sudditanza. Sudditanza dal maschio (padre, marito: prima; padrone: poi). Quasi una canzone-manifesto ripresa nei decenni successivi da donne impegnate su fronti diversi. Quasi una colonna sonora per accompagnare la lunga marcia del riscatto femminile/femminista in una società maschile/maschilista che ha sempre avuto nella diversità cromosomica il sinonimo del fare, del comando, del potere: col beneplacito delle stesse donne (mamme: prima; mogli: poi) blindate in una condizione storicamente loro assegnata – e da loro assunta come “naturale”. “Naturale” come un “diritto naturale”. “Naturale” come un “dovere naturale”. Per questo – nella lunga marcia – è stato (è) necessario il camuffamento della propria essenza. Fino alla sua alienazione. In questa lunga marcia, le donne hanno dovuto spesso assumere ruoli “maschi” (controvoglia perché implicante l’abiura della femminilità) per bisogno: nelle fabbriche come nelle campagne. Ma anche nello scontro duro, quello in armi. Ed è il bisogno a fare di Maddalena de Santis una brigantessa. Il bisogno a fare di Clementina Rovati una partigiana. Il bisogno a fare di Margherita Cagol una brigatista. Bisogni che possiamo quasi esteticamente catalogare esternamente nelle loro diversità, ma che nelle loro intimità 183 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 184 BANDITE! rispondono a precise (e storicamente peculiari) esigenze. Il bisogno delle brigantesse matura dalla rottura dell’equilibrio familiare: è dal dramma di madri senza più figli, di spose senza più mariti, di figlie senza più genitori che quelle donne del Sud imbracciano lo schioppo. Che muovono parimenti il mestolo e il fucile. Donne tutte meridionali, ovviamente, come tutto meridionale fu il fenomeno iniziato all’indomani dell’unificazione del Regno d’Italia e del conseguente esilio di Franceschiello: re Francesco II di Borbone. Donne disperate perché ai loro padri, mariti, morosi, fratelli hanno fatto indossare una divisa sconosciuta, strappandoli dalle campagne, cioè dalla produzione: dal “fare” il pane. Donne senza più futuro che finiscono così – quasi incoscientemente, nel senso di senza-averne-coscienza – col ribaltare il loro ruolo sclerotizzato in una rassegnata sudditanza, portandolo verso la palingenesi di un riscatto sociale di cui – quasi sempre incoscientemente – sente il bisogno ancor prima che quello economico. È così che nasce la brigantessa. Non la donna del brigante, la druda del brigante (neologismo ottocentesco coniato sulla parola francese brigant = delinquente), ma brigantessa essa stessa. Capobanda capace di organizzare, comandare, uccidere. Un ruolo quindi “maschile”, seppur primitivamente generato sempre da un bisogno: quello di vendicare l’arresto o l’uccisione del proprio uomo. O quello di prenderne le veci perché percepite dagli altri briganti come “naturale” continuità nel comando. Brigantesse che assumono quindi la leadership di bande armate già esistenti e formate dal proprio uomo (che non c’è più), e che dimostrano vieppiù di muoversi con la stessa disinvoltura, la medesima tecnica, superando in alcuni casi il maschio in ferocia. 184 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 185 Donne diverse, le cui esistenze/vicende percepiamo tuttora come eccentriche, perché la nostra resta una società centralizzata attorno a un assetto – se non maschilista, maschile. E che alla donna assegna altri ruoli: più “rosei” rispetto alla brutalità di un moschetto. Alcuni hanno sostenuto che una donna è ancora più determinata quando sceglie di dare la morte, perché rinnega la sua natura: quella di darla la vita, non di toglierla. Può essere vero: delle tante storie nelle quali mi sono imbattuto, posso solo dire che non ho trovato sostanziali differenze fra percorsi maschili e femminili, se non in quelle che marcherebbero diversità anche in altri ambiti. Certo, rimane il fatto che una donna che spara, che uccide, impressiona di più, ma solo perché non siamo culturalmente attrezzati per accettare l’idea che una donna possa, nel bene e nel male, fare tutto ciò che, nel bene e nel male, fa un uomo. Anche andare in montagna quindi e, fra stenti, freddo, fame, pidocchi, imbracciare un fucile e sparare. Come fecero le donne che salirono sui monti del Nord per combattere i nazifascisti della Repubblica di Salò: non solo staffette, cioè latrici di messaggi (seppure in molte hanno perso la vita per questo servizio postale clandestino), ma vere e proprie soldatesse, con tanto di fucile in spalla. Donne mosse dal bisogno di ricomporre realtà sconvolte da una violenza che stava ammazzando la storia. E allora, così come erano passate dai campi alle fabbriche, erano parimenti passate dal focolare (domestico) ai focolai (della guerriglia). Prevalentemente al Nord – se si esclude l’eccentricità romana e quella ancor più particolare delle nappiste napoletane – si sviluppa il fenomeno del terrorismo di stampo femminile nei tragici anni di piombo sulla base di 185 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 186 BANDITE! altri bisogni: primo fra tutti, quello (seppur delirante nella sua escatologica ricerca della città del sole), del comunismo. Anche in questo caso, i ruoli maschili sono assunti dalla donna per vestire un abito inedito nella sua storia: più che un abito, una divisa per combattere una battaglia in cui i ruoli sono mescolati in una finalmente avvenuta parificazione dei sessi. Brigantesse, partigiane, terroriste: una rasoiata a quel ruolo che storicamente aveva blindato le donne in una domesticità rassicurante, perché rispondente ad altri bisogni. Rassicuranti erano perfino le botte (“naturali”) inflitte prima dai padri e dai fratelli, poi dai mariti. (In una puntata di Mario Soldati nel suo strepitoso “Viaggio in Italia” della fine degli anni Sessanta, alla richiesta di Soldati su come immagina il suo futuro, la sventurata risponde: «Voglio sposarmi, avere figli, e un marito che quando me lo merito mi dà due schiaffi»). Rassicuranti erano state tutte le società preindustrali che contemplavano come “naturale” lo stupro. Stupri consumati in regge e fienili, sotto baldacchini dorati e sopra pagliericci impidocchiati. Stupri “contenuti” in luoghi perimetrati a livello sociale ed economico. E tutti sapevano, ma nessuno diceva. Perché nulla c’era da dire; perché la “normalità” non fa chiacchiera. Una violenza che tuttavia non prevedeva la morte. L’annientamento dell’oggetto dello stupro (il corpo della donna) debutta nel momento in cui il perimetro s’estende. Un’estensione che coincide con lo sviluppo della società industriale, quando gli uomini e le donne si spostano in massa (e non si conoscono) dalla campagna alla città. Per questo, lo stupro “diventa” qualcosa di nuovo, assumendo le forme di un meticciato stupro/violenza inedito fino a quel momento. Alla violenza dello stupro si 186 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 187 aggiunge la violenza di una persona che può arrivare a uccidere un’altra persona, perché non la conosce: non è né sua moglie, né sua figlia, né sua nipote (né suo nipote o suo figlio). Il mondo contadino ha sempre contemplato all’interno del suo sistema parentale/paraparentale/amicale/ “la normalità dello stupro”. Laddove per normalità s’intende il rapporto perverso ma consueto e accettato dalla comunità fra chi esercita un potere sessuale (il padre, il fratello, il padrone) e chi quel potere lo subisce. In “Novecento” di Bertolucci, c’è una scena emblematica in questo senso: il vecchio patriarca ottuagenario si fa masturbare nella stalla da una giovanissima contadina. È “normale”. Nello stesso film, Attila, il nefando fascista, uccide un ragazzino dopo averlo stuprato. Per secoli, anzi, per millenni la Storia s’è scritta con le storie di uomini che «hanno fatto», e quelle di donne che quei fatti li «hanno subiti». Al massimo condivisi. Fino – come detto – alla rivoluzione industriale, quando lo stupro è uscito dalle campagne e s’è vestito di nuova violenza, generando però il seme (potenza) della ribellione, che s’è insinuato nella/e donna/e facendo germogliare la pianta (atto) della categoria. Ed è fiorito un nuovo assoluto. È nato così il bisogno del femminismo. L’unico nuovo eccentrico della Storia, per il dispiacere di Walter Benjamin («Quando si è davanti a un avvenimento che si considera nuovo, l’unico modo per capirlo è trovare un suo analogo precedente»), così tornato recentemente di moda suo malgrado. Un nuovo che, dopo i primi, timidi passi neonati, s’è dovuto confrontare coi giganti – le ideologie – d’un secolo tanto breve quanto – comunque e più che mai – bisognoso del fare maschile. Più che mai perché l’azzeramento della civiltà contadina ha giusti187 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 188 BANDITE! ziato la figura matriarcale, solida architrave di una società che proprio sulla femminilità della famiglia fondava le basi di un’esistenza secolarmente collaudata, tramandata e impermeabile a ogni genere di mutamento. È con questo nuovo che la Storia muore. Con la donna che, costretta da una nuova società ad uscire dal “dentro” conosciuto e rassicurante, non trova però “fuori” un ruolo, perché già occupato dall’uomo. Un uomo che proprio grazie alla sua posizione di superiorità che gli deriva prima dalla forza (privata), poi dalla ragione (società), potrà usare su di lei violenza (insieme con lo stupro). Potrà cioè anche ucciderla dopo averla stuprata. Anche se siamo ormai tristemente (colpevolmente) assuefatti al periodico riepilogo di sciagure e crudeltà d’ogni genere perpetrate sulle donne, non riusciamo (per fortuna) a restare indifferenti nei confronti di una drammatica constatazione: che la maggiore consapevolezza che si ha oggi del rapporto tra i sessi, anziché cauterizzare le ferite di un dominio (maschile) incontrastato e millenario, le ha addirittura riaperte ed estese. Paradossalmente, la diminuita conflittualità – come confronto di idee e desideri – è stata la levatrice di un nuovo tempo segnato da una scena politica in cui è scomparsa ogni manifestazione di un femminismo producente qualcosa (perché ormai priva di qualsiasi bisogno di riscatto: cioè, perché crede di essere priva di qualsiasi bisogno di riscatto) col risultato di precipitare in una guerra fra sessi. Non resta quindi che registrare la storicizzazione (passata) dell’unico vero nuovo: quello rappresentato dal cambiamento che – grazie a più bisogni – le donne hanno operato nelle loro vite (ruoli) con una rivoluzione lenta ma inesorabile, perché scandita quotidianamente, 188 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 189 rubando terreno ed erodendo spazi alla distrazione maschile, fino a minare la rigida impalcatura – altrettanto maschile – del lavoro. (Mai del potere). Ma tutto ciò – come detto – è passato, trascorso. Il presente (delle donne) è segnato dalla perduta capacità di interrogarsi (e organizzarsi) su un percorso (trasformazione) che non doveva essere solo riscatto da una marginalità sessuale, ma acquisizione (anche con la forza, la violenza) di una cittadinanza piena e consapevolmente politica. L’idea ambiziosa e rivoluzionaria − rivoluzionaria davvero perché ormai priva di qualsiasi bisogno − di una “liberazione” capace di estirpare al medesimo tempo la malapianta dell’obbedienza (sociale) e della sudditanza (economica) ha abdicato in favore di un processo emancipativo surrettizio, che alla prima occasione ha svenduto perfino diritti/ruoli/immagini di sé strappati coi denti e col sangue: col corpo della donna che è tornato così a troneggiare come prodotto fra i prodotti sull’altare dei bisogni maschili. Il bel mostro del corpo femminile è ora imbellettato di una schiavitù radiosa, di un’alienazione attiva spacciata per libertà sul libero mercato. Un mostro di donna parabolizzato con l’esportazione di un modello femminile che rappresenta quell’Occidente tutto luccicante di tivù da raggiungere con qualsiasi mezzo e a qualsiasi costo. La sconfitta del movimento femminista sta tutta qui: nel non aver voluto condividere un percorso comune con chi (uomini e donne) immaginava (progettava) un mondo diverso con bisogni comuni. Una delle tante sconfitte ha pure una data – paradossalmente, quella di una vittoria: la vittoria del Movimento femminista su Lotta continua. Erano i primi giorni di 189 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 190 BANDITE! novembre del 1976 quando si consumò la spaccatura (fratricida?) fra l’organizzazione di Sofri e le femministe sulla base di una resa dei conti non più procrastinabile. Era successo che i crescenti attriti avevano avuto la tracimazione del famoso vaso colmo nel dicembre dell’anno precedente, quando, a un importante e numericamente folto corteo per la legalizzazione dell’aborto, Lotta continua aveva partecipato con un proprio striscione dietro il quale erano stati stipati – come sempre e indistintamente – uomini e donne. Ma quando queste, le femminucce, avevano cercato di staccarsi per rivendicare una propria autonomia (con diversi bisogni), erano state caricate dal servizio d’ordine di Lc – notoriamente prodigo di mazzate. Lotta continua fu attaccata violentemente – e non senza vili tornaconti – dalla quasi totalità dell’area della nuova sinistra. Infine, tutti sapevano che qualcosa di drammatico sarebbe successo. E così fu. Ma sarebbe mistificatorio assegnare a quell’episodio da “Sfida all’Ok Corral” una valenza superiore a quella che oggettivamente ha. Il movimento femminista, cresciuto negli anni Settanta, aveva già partorito quella autonomia prima avanzata timidamente, poi rivendicata con sempre maggiore vigore. A caratterizzare il congresso di Rimini di Lc è la componente del movimento femminista che più di altre evidenzia bisogni maschili attraverso forme maschili (violente). Quella che travolge l’organizzazione, di fatto, non riconoscendosi più in un progetto comune (perché, paradossalmente, tacciato di essere troppo “maschile”). Per la prima volta le donne – in un luogo, se non del, certamente di un potere, quale quello di un congresso politico – esercitano bisogni e ruoli maschili, sconfiggendo la controparte. Perché identifico in quella vittoria una 190 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 191 delle sconfitte più clamorose del movimento femminista? Ma perché la storia successiva sta lì a dimostrarlo! Dimostra cioè che nel momento in cui la donna ha creduto di aver ormai soddisfatto tutti i suoi bisogni, s’è trovata nel precipizio dell’antistoria. Prova ne sia che, piegato, fortemente ridimensionato, il movimento femminista ha finito con l’assumere forme similcaricaturali, diventando di fatto l’utile idiota di un sistema che riassegna alla donna un più rassicurante – etico ed estetico – ruolo funzionale al “papi” di turno. GERARCHIE Nei centri urbani gli uomini diventavano capofamiglia con il matrimonio, che comportavano l’alloggio in una casa indipendente, non come nelle campagne, dove questo ruolo veniva mantenuto dal patriarca fino alla sua morte: poteva accadere che alcuni figli non raggiungessero mai lo status di capofamiglia. La donna diventava capofamiglia sono in assenza di un uomo in grado di assumerne il ruolo: ad esempio, nel caso di morte del marito quando i figli erano ancora piccoli. La gerarchia all’interno della famiglia era formalizzata anche con un lessico che prevedeva l’uso del voi e del tu: mogli e figli davano del voi al capofamiglia, che a sua volta si rivolgeva loro col tu. L’ora del pasto scandiva un’altra differenziazione di ruoli, con le donne (moglie e figlie) che servivano gli uomini (marito, figli) a tavola. Nel Monferrato si diceva che la donna ideale dovesse avere «gambe di lepre, ventre di formica e schiena d’asino». In molte zone mezzadrili non soltanto i genitori, ma anche il proprieta191 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 192 BANDITE! rio del podere decideva chi potesse sposarsi e quando, a seconda delle esigenze dell’attività agricola. Fidanzamento e corteggiamento dovevano rispondere a rigide prescrizioni, con i manuali di etichetta che stabilivano le regole del corteggiamento per la borghesia, quelle dei poveri erano invece definite consuetudini. Di norma, le spose contadine si trasferivano in casa della famiglia del marito. Di frequente il matrimonio significava passare da uno stato di subordinazione a un altro, quello della famiglia del marito in cui a tiranneggiarla sarebbe stata sua suocera. Francesca (nata nel 1903 in una famiglia contadina) ricordava che il giorno in cui morì la nonna paterna sua madre disse: «Chi vuole venire dentro a piangere venga: a me ha già fatto piangere anche troppo. Se voi volete, potete dire il rosario. Io no»38. Le donne che restavano nubili vivevano in una perenne condizione di fallimento. Il termine “zitella”39 – che nel passato aveva indicato le donne non ancora sposate – assume sempre più spesso una valenza negativa. Per le donne vivere una condizione di solitudine significava accettare un’inferiorità giuridica ed economica. Agli inizi del Novecento le donne che si trovavano effettivamente in solitudine erano il cinque per cento. Tuttavia, il censimento del 1901 registra che il 47,7 per cento delle donne ultracinquantenni è nubile o vedova. Fuori dal contado il lavoro della donna si sviluppa su diverse attività, tra cui le principali sono la sarta, la cameriera, l’ostetrica, la balia, mentre le donne in fabbrica, sempre per quel censimento, sono 38. Marzio Barbagli, Sotto lo stesso tetto, Il Mulino, Bologna 1984. 39. In Puglia la parola Zita indica fidanzata, Zit è invece il fidanzato. Ziti, gli sposi. Zitella, termine estesosi dalle Puglie e dalla Sicilia indica una condizione di inferiorità rispetto alla Zita, in quanto, contrariamente ad essa, non è promessa sposa di nessuno. 192 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 193 1.246.529. Nelle libere professioni la presenza femminile era irrisoria e le più avversate erano le donne che intendevano praticare l’avvocatura. La professione medica incontrava minori ostilità dal mondo maschile se però circoscritta alla ginecologia e alla pediatria. Nel 1911, su un totale di 23.361 medici, soltanto 83 erano donne40. Altra attività lavorativa “femminile” accettata dalla società dell’epoca era quella dell’insegnamento, limitato però alla scuola primaria, giacché, Teresa Labriola – figlia del filosofo Antonio – fu interrotta nella sua prima lezione universitaria di Filosofia del Diritto dagli schiamazzi degli studenti. Diversa, come riportato nei suoi “Ricordi di una maestra”41, l’esperienza di Carolina Gasparini, che cominciò a lavorare sulle montagne dell’Appennino nel 1919, constatando che la scuola assegnatale «consisteva in una stanzetta ricavata restringendo una stalla. Della stalla conservava il pavimento di battuto tale e quale […] Sotto una finestra la concimaia, che ci mandava i suoi effluvi e le sue mosche […] Materiale? Sussidi? Cancelleria? Assolutamente nulla». Il primo problema di queste maestre era rappresentato dalle frequenti assenze di alunni chiamati al lavoro nei campi subito dopo l’alba, col risultato che all’orario stabilito per l’inizio delle lezioni o erano ancora impegnati con foraggio o con le bestie o erano capaci di addormentarsi in qualsiasi posto. Accadeva così che le maestre svolgessero all’aperto le loro lezioni, in modo che i bambini incaricati di altri lavori potessero almeno ascoltare. Una presenza, quella della maestra nei campi o nelle stalle, accettata di buon grado 40. In “Donne e professioni” di Michela De Giorgio in Storia d’Italia, Annali 10. I professionisti, Einaudi, Torino 1996. 41. In Scuola italiana moderna, 1987. 193 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 194 BANDITE! dalla comunità rurale che le riconosceva un ruolo di preminenza, omologabile a quella del “dottore”, del prete, del farmacista. Provenienti sempre da luoghi lontani, queste “maestrine” dovevano fare anche molta attenzione alla loro moralità, indossando di norma abiti castigati e scuri che non inducessero a cattivi pensieri. È sintomatica la triste vicenda di Itala Donati, suicidatasi a ventitré anni dopo essere stata falsamente indicata come amante del sindaco42. Se nel corso dei primi due decenni del Novecento, anche grazie a una presenza crescente nel mondo del lavoro in generale e della fabbrica in particolare, la donna conquista “spazi sociali”, divincolandosi da ruoli di sudditanza, l’avvento del fascismo le fa compiere un balzo indietro. Esaltando un mondo “virile” assegna alla donna ruoli funzionali al nuovo regime, destinandola essenzialmente alla produzione di figli destinati a vestire le uniformi per le grandi imprese militari che aspettano il folgorante futuro fascista. «La guerra sta all’uomo come la maternità sta alla donna» è lo slogan coerente di un regime il cui capo ritiene che «le donne sono un passatempo, affascinante, quando un uomo ha tempo da perdere, ma non dovrebbero mai essere prese sul serio». Sotto il regime fascista questa marginalità della donna cedette il passo a un nuovo corso quando agli inizi degli anni Trenta la propaganda diffuse sempre più l’immagine delle donne fasciste quasi ipnotizzate dalle glorie del regime e dalla figura del duce. Se si esclude la “zona grigia”, quella che inglobava sia uomini che donne all’interno della comunità clandestina, le attività furono presto divise da compiti specifici assegnati a uomini e donne. 42. La sua vicenda è narrata da Elena Gianini Belotti nella biografia romanzata Prima della quiete: storia di Itala Donati, Rizzoli, Milano 2003. 194 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 195 Molte antifasciste comuniste, per esempio, svolgevano lavoro di assistenza nell’ambito del Soccorso rosso, prestando aiuto ai prigionieri politici e alle loro famiglie. L’ex operaia tessile Teresa Noce (nome di battaglia “Stella”) in esilio a Parigi, dal 1926 effettuò numerose missioni clandestine in Italia. Le donne erano corrieri particolarmente idonei perché avevano meno probabilità degli uomini di destare sospetti, anche se viaggiare da sole comportava altri problemi, come ricordava Dina Ermini, che introduceva clandestinamente in Italia copie de “l’Unità” nascondendole in una cappelliera con il doppio fondo: «Per noi compagne c’era l’aggravante che bisognava riuscire a distinguere l’apparente interessamento di un questurino da quello di un pappagallo; quante volte abbiamo sinceramente desiderato di essere vecchie e brutte»43. Tuttavia furono in molte a cadere nelle mani dell’Ovra, l’Organizzazione per la vigilanza e la repressione dell’antifascismo. I casi di 748 donne furono deferiti al Tribunale speciale per la difesa dello Stato, altri furono esaminati dai tribunali ordinari. In totale furono circa 500 le donne condannate per reati politici durante il Ventennio. Nelle loro carcerazioni le donne erano spesso sorvegliate dalle suore, che in alcune occasioni si mostrarono più zelanti del personale carcerario maschile. L’Italia entrò in guerra il 10 giugno 1940 e come era avvenuto per il primo conflitto mondiale, anche questa volta le donne furono smistate sui posti di lavoro lasciati vacanti dagli uomini partiti per il fronte, con contratti temporanei «per la durata». Secondo uno studio condotto su ventidue imprese di Bologna addette alla produzione bellica, tra dicembre 1940 e marzo 1942 la forza lavoro femminile 43. Patrizia Gabrielli, Fenicotteri in volo, Carocci, Roma 1999. 195 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 196 BANDITE! crebbe del 96 per cento e in quello stesso periodo le donne assunte in fabbrica, per la prima volta furono autorizzate ad aspirare alla posizione – fino ad allora solo maschile – di “operai qualificati”. Un’emancipazione che passa anche attraverso la Resistenza, spesso presentata non solo come spartiacque tra fascismo e democrazia ma anche come preludio di una nuova era conquistata per tutte le donne del dopoguerra dalle donne partigiane. Secondo alcune stime, le donne attive nella Resistenza sarebbero state due milioni. Nonostante ciò, gran parte della prima storiografia resistenziale descrisse una lotta partigiana dai connotati esclusivamente maschili. «Dopo la guerra è stata una pena trovare un lavoro. Sembrava quasi che dovessimo vergognarci d’aver partecipato alla Resistenza. Così capitava di dover nascondere quel che s’era fatto. Era meglio far finta di essere donne normali»44. Se fra i tanti fenomeni che si consumano nel dopoguerra c’è anche quello del consueto salto sul carro dei vincitori, sul fronte delle donne la situazione è contraria. La partecipazione alla lotta antifascista è vista, nel migliore dei casi, come un’eccentricità. Uno dei peggiori è ben descritto dalle parole di Tersilia Fenoglio, nome di battaglia “Trottolina”. Alla sfilata non ho partecipato: ero fuori, ad applaudire. Ho visto passare il mio comandante, poi ho visto Mauri, poi tutti i distaccamenti di Mauri con le donne che avevano insieme. Loro sì che c’erano. Mamma mia, per fortuna non ero andata anch’io! La gente diceva che erano delle puttane. E i compagni hanno fatto bene a non farci sfilare: hanno avuto ragione45. 44. Testimonianza resa all’autore da Elsa Pellizzari. 45. Testimonianzadi Tersilia Fenoglio Oppedisano in Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 196 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 197 L’eroismo, dall’Iliade in avanti, è territorio esclusivamente maschile, come maschile è la morte. Un uomo muore, una donna viene uccisa. Sulla pira su cui brucia il corpo dell’amico Patroclo, Achille sacrifica anche due dei suoi cani, quattro cavalli, dodici prigionieri troiani e la sua schiava preferita. Aida invece sceglie di condividere col suo Radames l’inumazione da viva, segno di devozione assoluta. La celebrazione dell’eroe non può quindi essere contaminata dalla presenza femminile, che quindi “sfila” a margine perdendo ogni connotazione “attiva”, per diventare la donna dell’eroe o, peggio, la sua “puttana”. In effetti, l’idea “maschia” disinvoltamente espressa da Mussolini nei confronti della funzione delle donne («passatempo») riflette, seppur più rozzamente, un pensiero maschista che assegna alle donne, ben che vada, ruoli comunque funzionali all’uomo, riconoscendone l’autonomia solo per quelle prerogative esclusivamente femminili (il parto, l’allevamento dei figli, dall’allattamento in su, la cura della casa, la cucina, la confezione o la sistemazione degli abiti, il lavaggio, lo stiraggio, la pulizia dei pavimenti, dei vetri, delle porte, la soddisfazione sessuale del marito quando richiesta). Bisognerà attendere una nuova generazione di storici per restituire alle donne il maltolto nelle loro azioni “maschili”. Si scoprirà così che ci furono anche bande armate capeggiate da donne, come quella di Novella Albertazzi (nome di battaglia Wanda), una pellicciaia bolognese che costituì una banda di trecento membri di cui ottanta donne. La questione delle motivazioni che spinsero tante donne a partecipare attivamente alla lotta antifascista è stata affrontata più volte e da più angolazioni, arrivando nella maggior parte dei casi alle stesse conclusioni, e cioè che le ragioni politiche furono importanti per alcune donne, ma 197 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 198 BANDITE! per altre lo stimolo ad agire non fu in primo luogo politico, ma di altra natura: umanitario o pacifista o di repulsione per la guerra o per convinzioni religiose o per ragioni familiari o di altri vincoli di affetto o di desiderio di scacciare lo straniero o anche il desiderio di emancipazione individuale e perfino lo spirito d’avventura. Tuttavia nelle testimonianze di molte partigiane il sentimento materno tende ad emergere come motivo fondamentale della partecipazione. Un elemento che se riflette l’immaginario cattolico, era altresì l’immagine femminile più forte alla quale le donne potessero attingere e, di fatto, l’unica modalità socialmente consentita di essere più forti degli uomini. Più forti anche nelle situazioni estreme quali quelle dello stupro. Un numero rilevante di donne e ragazze subì l’orrore della vergogna della violenza sessuale, anche se è stato scritto poco su questo argomento a causa delle difficoltà insite nella ricerca storiografica in materia. Rosanna Rolando (Alba rossa), operaia alla Manifattura dei tabacchi fu seviziata durante l’interrogatorio cui la sottoposero i repubblichini in seguito al suo arresto nel gennaio del 1945. Poi è venuto il momento più tremendo. Una sera entrano in quattro. Erano ubriachi fradici. Mi afferrano; due mi spogliano e due mi tengono ferma di traverso sul letto, e mi fanno ogni sorta di violenza (tanto che quando c’è stato il mio processo nel dopoguerra, arrivati a questo punto il presidente ha ordinato che si facesse a porte chiuse). Erano talmente ubriachi che non han potuto rovinarmi. È durato un’ora. Quando sono andati via, ho preso un bicchiere di cristallo che era nella stanza e l’ho rotto. Volevo tagliarmi le vene. Non ce la facevo più, non capivo più niente, ero disperata46. 46. Testimonianza di Rosanna Rolando in Bruzzone e Farina, La Resistenza taciuta, cit. 198 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 199 Quello dello stupro fu tuttavia un’infamia di cui si macchiarono anche “i liberatori”: «La liberazione io non l’ho mai festeggiata», testimoniò una donna a Gabriella Gribaudi per il suo libro Guerra totale, «perché sono ricordi che non posso scordà. […] Che liberazione era quella?»47. Una delle migliaia di donne di varie città a sud di Roma che nel 1944, subito dopo la battaglia di Cassino, fu stuprata dai “Goumiers”, le truppe irregolari nordafricane inquadrate nelle formazioni francesi. Secondo Gribaudi, alcuni soldati francesi consideravano gli italiani un popolo conquistato, non una popolazione che stavano “liberando” e ritenevano che un trattamento brutale fosse legittimo. Alcuni comandanti francesi fecero quindi pochissimo per tenere sotto controllo le loro truppe. Atrocità che divennero tema del romanzo La Ciociara di Moravia, poi trasposto in un film di Vittorio De Sica che valse l’Oscar a Sofia Loren. Tuttavia, come ha osservato Gribaudi, per la loro suggestione emotiva queste versioni romanzesche tendevano a offuscare una realtà fatta di brutalità feroci e gratuite. Difficile accertare le dimensioni del fenomeno, anche per la ritrosia delle donne stesse a denunciare la violenza per vergogna. Secondo alcune fonti, nella sola zona di Cassino e Sora furono stuprate oltre sessantamila donne e il 20 per cento di esse fu contagiato da malattie veneree. Feroce fu anche la vendetta di alcune donne nei confronti di collaborazioniste o ausiliare fasciste o donne che avevano avuto relazioni con militari tedeschi: tutte sottoposte a giustizia sommaria. A molte venne rasato il capo e fu impressa sulla fronte la M di Mussolini con il catrame, oppure fu loro appeso un 47. Gabriella Gribaudi, Guerra totale. Tra bombe alleate e violenze naziste. Napoli e il fronte meridionale 1940-1944, Bollati Borighieri, Torino 2005. 199 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 200 BANDITE! cartello al collo e costrette a sfilare per strada fra gli sputi, le spinte, gli schiaffi e i calci della gente inferocita, che compiendo violenza sulla sciagurata di turno, restituiva parte della violenza subita da una moglie, una madre, una figlia. Dopo la guerra, per le donne la “normalizzazione” passava anche dalla perdita del posto di lavoro per “riconsegnarlo” al legittimo proprietario: un uomo. Tuttavia, anche per le donne nulla sarebbe stato come prima, a cominciare dalla partecipazione al voto: un diritto acquisito dalle donne italiane venticinque anni prima di quelle svizzere. 200 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 201 BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE PRIMA PARTE ALBONICO A., La mobilitazione legittimista contro il Regno d’Italia: La Spagna e il brigantaggio meridionale postunitario, Milano, 1979 CROCCO C., Memorie, la mia vita da brigante a cura di Valentino Romano, Bari, 1998 CINGARI G., Brigantaggio, proprietari e contadini nel Sud (1799/1900), Reggio Calabria, 1976 CONTE C., Il brigantaggio ad Atella, notizie e documenti. Venosa, 1984 D’ANDREA G., La Basilicata nel Risorgimento. 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MAIORINO T., Storia e leggende di briganti e brigantesse, Casale Monferrato, 1997 MARTUCCI R., Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia liberale (1861-1865), Bologna, 1980 MENNONA M., Il brigantaggio post-unitario e Muro Lucano, in “Basilicata. Rassegna di politica e cronache meridionali”, Matera, XXV, n.2, 1983 MERLINO F. S., Politica e magistratura dal 1860 ad oggi in Italia. Milano, 1974 MISASI N., Cronache del Brigantaggio, Napoli, 1893 NIGRO R., Basilicata, brigantaggio e libertà – Alcuni miti di Tommaso Pedio, in “Cronache di Potenza”, 23 ottobre 1980 NOVIELLO F., Il brigantaggio lucano e alcuni frammenti di poesia popolare, Roma, 1975 PALESTINA C., Il brigantaggio in immagini in “Quaderni Conoscere il Vulture”, Rionero 1985 PEDIO T., Intendenti e prefetti a Potenza (1803-1943), Venosa, 1977 PENNACCHIA G., L’Italia dei briganti, Roma, 1998 PIETRAFESA F. 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Di grande utilità ho trovato anche Terroni, di Pino Aprile, e Il sangue del Sud di Giordano Bruno Guerri. La seconda parte, quella delle Partigiane, ha una genesi datata fine anni Settanta. All’epoca, un amico che per questo voglio ringraziare pubblicamente, Corrado Corradini, su mia richiesta, mi mise in contatto con un ex partigiano: il professor Aldo Gamba, vice presidente dell’Anpi della Valsabbia. Che mi diede un quaderno di memorie: quello le cui memorie sono qui riportate. Prezioso è stato anche il libro La libertà pagata di Gianbattista Guerra, così come le memorie di Angio Zane (comandante Diego), le Edizioni dell’Ufficio Storico dell’Associazione Fiamme Verdi, gli studi approfonditi svolti sull’argomento da Rolando Anni, vera “istituzione” della memoria storica della Resistenza bresciana, le pubblicazioni dell’Assessorato alla Cultura di Brescia contenenti gli interventi di Delfina Lusiardi, Gianni Sciola, Maria Rosa Zamboni, l’Archivio storico della Resistenza Bresciana, al quale ho potuto accedere grazie al professor Mario Taccolini e alla professoressa Inge Botteri: particolarmente utili mi sono stati gli Annali riguardanti “Il diario originale e inedito di Carlo Comensoli”, “I mattinali della Questura repubblicana di Brescia: attività ribelli”, i “Discorsi di una guerra civile”. Un particolare ringraziamento va a Elsa Pel205 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 206 BANDITE! lizzari e Maria Boschi, infaticabili testimoni itineranti di una memoria altrimenti spesso sfuocata, che oltre ad aprirmi la loro casa mi hanno aperto lo scrigno dei loro ricordi più preziosi. 206 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 207 INDICE DEI NOMI Aimone d’Aosta (Tomislav II), 126, 127 Albertazzi, Novella (Wanda), 197 Angelini, Francesco, 63 Anselmi, Tina, 104 Arcieri, Vincenzo, 81, 82, 83, 84 Bucci, Vincenza, 52 Badoglio Pietro, 110 Bandiera Lina, 105 Barbagallo, Francesco, 42 Basile, Alessandro, 62 Basile, Vincenzo, 62 Beccaria Rolfi, Lidia, 17 Bedeschi, Ines, 105 Bellini, Arnaldo, 162 Benissone, Nelia, 94 Benjamin, Walter, 187 Bertolucci Bernardo, 187 Bianchi, don Angelo, 158 Bianchi, Pietro (Mazza), 37, 163 Boldrini, Arrigo (Bulow), 7 Borellini, Gina, 105 Boschi, Ippolito (Ferro), 145, 150, 170 Boschi, Maria (Stella), 145, 206 Bosco, Giacinto, 87, 88 Bravo, Anna, 93 Bruzzone, Anna Maria, 94, 196 Bucci, Giuseppe, 52 Cagol, Margherita, 183 Calvino, Italo, 123 Campagna, Giovangiuseppe (il Rosso), 74, 78 Canova, Lucia, 94 Capitanio, Maria, 33 Capponi, Carla, 116 Cardamone, Generosa, 37 Carolina d’Asburgo, 57 Caruso, Giuseppe, 52, 53 Caso, Beniamino, 71 Cassano, Franco, 125 Cataldo, Lucia, 54 Cava de Gueva, Tommaso, 57 Caviglione, Albina, 94 Cebroni, Sergio, 132 Cerullo, Angiolo, 44 Cervino, Michele, 63 Ciccone, Giacomo, 48 Ciminelli, Serafina, 37 Cinanni, Anna, 94 Cirio, Teresa, 94 Civitillo, Giovanni (Senza paura), 74 Comensoli, Carlo, 164, 205 Compagnone, Domenico, 43, 44 Coppola, Nicola, 72, 74 207 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 208 BANDITE! Crocco, Carmine, 34, 46, 52, 53, 64, 65, 69, 201, 202 Damioli, Orlando, 162 da Ruvo, Maria Giovanna, 65 David, Tommaso (De Santis), 112 de Bonald, Louis, 107 de La Rochefoucauld, François, 123 de Lellis, Antonio, 80, 81, 83 de Santis, Maddalena, 183 De Lellis, Maddalena (Padovella), 70, 88 De Rosa, Giorgio, 132 De Witt, Angiolo, 52 Deiana, Giovanna, 113 Del Din, Paola, 106 Del Giudice, Achille, 71 Del Giudice, Gaetano, 71 Derenzini, Ferruccio, 132 De Sica Vittorio, 199 Di Cesare, Domenico, 44, 46 Di Cesare, Michelina, 38, 41, 45, 47, 49 Di Cesare, Pietro, 85 di Giannantonio, Anna, 126 Donati, Itala, 194 Dostoevskij Fedor, 123, 124 Dumas, Alexandre, 56 Dusi, Giacomo, 162 Eichman Adolf, 123 Ermini, Dina, 195 Fabrini, Anna, 114 Falcone, Michele, 58 Fantinelli, Stefano, 162 Farina, Rachele, 94, 196, 198 Federici, Rino, 145 Fenoglio, Beppe, 103 Fenoglio, Tersilia (Trottolina), 94, 196 Fiori, Giovanni (Cvetko), 128, 129 Fontana, Lidia, 94 Fontanot, Vinicio (Petronio), 129 Fra’ Diavolo, 58 Francesco II (Franceschiello), 27, 184 Franco, Antonio, 37 Franco, Rosina, 176 Fuoco, Domenico, 44, 45 Gallicchio, Luigi, 54 Gamba, Aldo, 142, 205 Garibaldi Giuseppe, 41, 46, 57, 71 Gasparini, Carolina, 193 Gatteschi Fondelli, Piera, 113, 115 Gelli, Jacopo, 48 Gentile, Francesco, 65, 67, 69 Gentile, Vito, 65 Giordano, Cosimo, 72, 79, 80, 81, 82, 83 Gioseffi, Teodoro, 66 Giuliani, Rosa, 34, 53 Gribaudi, Gabriella, 199 Guadagnino, Francescantonio, 85 208 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 209 Guagliardi, Gagliardi, Pasquale, 60, 61 Guerra, Francesco, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 49 Guerra, Michelina, 44 Guerri, Giordano Bruno, 7, 205 Guerriero, Tommaso, 56 Hegel Friedrich, 124 Iaconelli, Nicolina, 45 Iameo, Michelangelo, 77 Kant Immanuel, 124 Karis, Mario, 127, 128, 129 Kollontaj, Aleksandra Michajlovna, 121 Krupp, Kurt, 112 Labriola, Teresa, 193 La Gamba, Francesca, 29 Laticagno, Domenico, 55 La Villa, Domenico, 54 Leibniz Wilhelm, 123, 124 Lenin Vladimir Ilic Ul’janov, 121 Levi, Primo, 125 Licciardi, Niccolina, 32 Lizzero, Mario, 127 Longo, Antonio, 55 Loren, Sofia, 199 Lucarelli, Carlo, 64 Luongo, Agostino, 33 Madeo, Giacomo, 59 Maestro, Vanda, 117 Mafai, Giuliana, 116 Mafai, Miriam, 14, 116 Mafai, Simona, 116 Mallardo, Giuseppe, 71 Marchiani, Irma, 105 Marcon, Vincenzo (Davilla), 127, 128 Marighetto, Ancilla, 105 Marrazzo Giuseppe, 59 Martini, Rita, 94 Martino, Alessandro, 55 Mattesini, Rina, 178 Meneghello, Luigi, 11 Michele, sacerdote Camillo, 55 Mill, John Stuart, 109 Mombelli, Renato, 161, 162 Monaco, Antonio, 60 Monaco, Pietro (Bruttacera), 35, 37, 58, 59, 61, 62, 134 Montaldo, Giuliano, 20 Morante, Elsa, 170 Moravia Alberto (Pincherle), 199 Mussolini, Benito, 95, 110, 111, 112, 113, 114, 115, 144, 145, 175, 197, 199 Muti, Ettore, 112, 160 Neiman, Susan, 123 Netti, Michele, 65 Nigro, Nicola, 68 Ninco, Nanco, 34, 66 209 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 210 BANDITE! Noce, Teresa (Stella), 195 Pulcinella, Pasquale, 84 Occhipinti, Maria, 12 Oliva, Elsa, 94 Oliverio, Maria (Ciccilla), 35, 56, 61, 62, 63 Oliverio, Teresa, 62 Oliverio Chiodo, Antonio, 62 Orsi, Francesco, 48 Ragnoli Romolo, 164 Rago, Michele, 65, 66, 67, 68 Raho, Michele, 67 Raho, Serafina, 68 Reginella, Rosa, 36 Ricca, Umberto, 165 Ricci, Giuseppina, 177 Riccitelli, Nicola, 81 Rinaldini, Emi, 148 Robertazzi, Geraldina, 178 Rocco, Emanuele, 116 Rolando, Rosanna (Alba rossa), 94, 198 Romano, Valentino, 7, 38, 48, 201, 205 Rosani, Rita, 106 Rotondi, Raimondo, 49 Rousseau Jean Jacques, 124 Rovano, Maria, 94 Rovati, Clementina, 183 Ruscetti, Domenico, 72 Russo, Ludovico (Portella), 60, 61 Rustichelli, Maria, 94 Pallano, Ciccone, 65 Pallavicini, Emilio, 46, 49, 68 Panella Pasquale, 71 Pankhurst, Emmeline, 109 Passariello, Giuseppe, 84 Pavone, Claudio, 11 Pavoni, Vittorio, 144 Pelizzari, Elsa (Gloria), 145 Pellegrini, Giacomo, 116 Pennacchia, Vito, 54 Pennacchio, Filomena, 33, 34, 35, 51, 52, 53, 54, 56, 65, 68 Peteani, Gianni, 126 Peteani, Ondina (Natalia), 126, 128, 142 Pezza, Darko (Pecic), 128, 129 Pintor Luigi, 116 Pio X, 88 Pisacane, Carlo, 57 Poli, Alfredo, 171, 172, 174 Porillo, Giovanni, 62 Prece, Pasquale, 72 Sacchitiello, Agostino, 34, 36, 55, 56, 63, 64, 65, 66, 67, 68, 69 Sacchitiello, Vito, 67, 69 Saccone, Michele, 55 Saglietti, Carla, 111, 112 Sanillo, Enrico, 80, 81, 82, 83, 84 210 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 211 Sannella, Nicola, 55 Sannella, Rocco, 55 Santaniello, Andrea, 72, 73, 74, 75, 76, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 84, 85, 86 Savino, Vito (Zarilli), 68 Schiavone, Giuseppe, 33, 34, 51, 52, 53, 55 Scrivano, Giuseppe, 58, 59 Semelin, Jacques, 13 Signori, Domenico, 162, 163 Signori, Ermes, 162 Soldati, Mario, 186 Spagnulini, Giovanni, 63 Stanco, Francesco Michele, 66 Stocchetti, Felice, 86 Stocchi, Livio, 132 Strafaci, Domenico (Palma), 57 Suriani, Maria, 36 Tartaglia, Francescantonio, 76 Tito, Maria Giovanna, 34, 69 Tortora, Donato, 34 Vella, Andrea, 69 Viganò, Renata, 28, 98 Visini, Remigio, 132 Vitale, Giuseppina, 34, 64, 65, 67, 68, 69 Vittorio Emanuele II, 63 Vittorio Emanuele III, 112 Vivoda, Alma, 130 Zetkin, Clara, 121 211 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 212 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 213 INDICE INTRODUZIONI.......................................................................................... 5 Quando il fucile è in spalla alle donne................................................. 7 Brigantesse: tutta un’altra storia ....................................................... 27 PARTE PRIMA ......................................................................................... Le brigantesse....................................................................................... Michelina Di Cesare............................................................................... Filomena Pennacchio............................................................................. Maria Oliverio detta Ciccilla................................................................. Giuseppina Vitale................................................................................... Maddalena De Lellis, detta Padovella ................................................ 39 41 41 51 56 63 69 PARTE SECONDA .................................................................................... 89 Le partigiane.......................................................................................... 91 La resistenza delle donne ..................................................................... 91 Partigiane vs ausiliarie....................................................................... 106 I numeri delle partigiane .................................................................... 118 Non dimenticare il male...................................................................... 123 Ondina Peteani, la prima staffetta d’Italia ..................................... 125 Un quaderno a righe............................................................................ 142 Donne bresciane raccontano.............................................................. 151 Una storia di uomini e donne............................................................. 170 L’altra guerra – Ricordi di donne del sud ........................................ 175 Sebben che siamo donne.................................................................. 183 Gerarchie............................................................................................... 191 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 214 Bibliografia essenziale ...................................................................... 201 Ringraziamenti .................................................................................... 205 Indice dei nomi ................................................................................... 207 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 215 Bandite 2_8_2012:Layout 1 02/08/12 14.43 Pagina 216 BANDITE! di PINO CASAMASSIMA Progetto grafico ANYONE! Impaginazione ROBERTA ROSSI © 2012 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri Casella postale 97 – 01100 Viterbo fax 0761.352751 e-mail: [email protected] ISBN 978-88-6222-301-0 Finito di stampare nel mese di luglio 2012 presso la tipografia IACOBELLI srl via Catania 8 – 00040 Pavona (Roma)