ORGANISMO UNITARIO DELL’AVVOCATURA ITALIANA
Ufficio stampa
Rassegna
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28 febbraio 2006
Responsabile :
Claudio Rao (tel. 06/32.21.805 – e-mail:[email protected])
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ORGANISMO UNITARIO DELL’AVVOCATURA ITALIANA
SOMMARIO
Pag. 3 PRIVACY: Trattamento dei dati investigativi: riparte il codice deontologico
(diritto e giustizia)
Pag. 4 PRIVACY: Autorità garante per la protezione dei dati personali
Newsletter 24 febbraio 2006 n. 271 – Notiziario settimanale (diritto e giustizia)
Pag. 6 CONGRESSO ANM: Magistrati compatti e non burocrati
(quotidiano dei professionisti)
Pag. 7 CONGRESSO ANM: Le correzioni di Castelli: "Modifiche sì... sostanziali no"
(diritto e giustizia)
Pag. 8 CONGRESSO ANM: Castelli alla Magistratura: la riforma è scritta male,
rifacciamola insieme (quotidiano dei professionisti)
Pag. 9 CONGRESSO ANM: Anm - Temi di discussione e proposte per la riforma
dell’ordinamento giudiziario (diritto e giustizia)
Pag.18 PROGRAMMI COALIZIONI: Riforma giustizia - Si può migliorare (italia oggi)
Pag.20 PROCESSO CIVILE: Il processo moltiplica i riti (il sole 24 ore)
Pag.22 PROCESSO CIVILE: Giudizi civili «alla carta» (il sole 24 ore)
Pag.23 PROCESSO CIVILE:L'eccezione è la regola -di Marcello Clarich (il sole 24 ore)
Pag.24 PROCESSO CIVILE: Come cambia il nuovo giudizio. Da domani
di Paolo Di Marzio – Magistrato (diritto e giustizia)
Pag.28 PROCESSO CIVILE: Per i Codici una riforma “strisciante” (il sole 24 ore)
Pag.29 DIRITTO DI FAMIGLIA: Tempi più rapidi per le separazioni (il sole 24 ore)
Pag.30 RC AUTO : Rc auto, il risarcimento gioca d’anticipo (il sole 24 ore)
Pag.31 RC AUTO : Procedure a confronto (il sole 24 ore)
Pag.32 RIFORMA PENALE : Nordio: «Poco coraggio sul diritto penale» (il sole 24 ore)
Pag.33 RIFORMA PENALE : Dalia:«Necessari i ritocchi alla procedura» (il sole 24 ore)
Pag.34 PUBBLICITA’: Nella Ue vince la pubblicità etica (il sole 24 ore)
Pag.35 PUBBLICITA’: Impegno per superare il «decoro ottocentesco» (il sole 24 ore)
Pag.36 PUBBLICITA’: Professionisti, pubblicità su misura (il sole 24 ore)
Pag.38 PUBBLICITA’: Gli strumenti per la visibilità (il sole 24 ore)
Pag.39 PUBBLICITA’: L'invalicabile confine dell’accaparramento (il sole 24 ore)
Pag.41 PUBBLICITA’:Attenzione alle censure su opuscoli, brochure e guide
(il sole 24 ore)
Pag.42 PROFESSIONI :Riforma accesso, Cds prende tempo (italia oggi)
Pag.43 PROFESSIONI :Professioni, una consulta in Lombardia (italia oggi)
Pag.44 ACCESSO:Istruzione decisa sulla riforma del tirocinio (il sole 24 ore)
Pag.45 ANTIRICICLAGGIO:Antiriciclaggio ampio (italia oggi)
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DIRITTO E GIUSTIZIA
Trattamento dei dati investigativi: riparte il codice deontologico
L’Autorità Garante per la protezione dei dati personali ha adottato un provvedimento con il quale viene
disposta la ripresa dei lavori preparatori per la stesura del codice di deontologia e di buona condotta per
il trattamento dei dati personali usati nel corso di indagini difensive o per far valere o difendere un
diritto in sede giudiziaria. La materia era stata già al centro dell’attenzione dell’Authority che, tra
l’altro, aveva emesso un provvedimento di autorizzazione nel gennaio 2002 (relativo al trattamento dei
dati sensibili da parte dei professionisti) e poi, l’anno scorso, aveva fornito al Cnf alcuni chiarimenti sui
principali adempimenti in materia di protezione dei dati personali nello svolgimento dell’attività
forense. Tuttavia i lavori – avviati nel 2000 - per la realizzazione di un codice deontologico accettabile
e condiviso dagli operatori del settore avevano subito uno “stop” in seguito al perfezionamento del
riordino della disciplina sulla protezione dei dati personali conclusosi con l’adozione del Codice della
privacy. Ora i lavori riprenderanno – ancora con la partecipazione di numerose associazioni di categoria
già coinvolte quali il Consiglio nazionale forense, l’Unione delle camere penali, l’Organismo unitario
dell’avvocatura e le associazioni rappresentative degli investigatori privati – e il primo impegno sarà
quello di verificare se le osservazioni redatte in passato siano ancora valide o da aggiornare in qualche
misura.
Nel “riaprire” i lavori (della circostanza dà notizia anche l’ultimo numero della Newsletter dell’Autorità
Garante, qui leggibile come documento correlato) l’Authority fissa anche i termini della rinnovata
consultazione: entro il 31 marzo i rappresentanti di categoria di avvocati e investigatori privati, e tutti i
soggetti pubblici e privati che hanno titolo per collaborare all’elaborazione del testo sono invitati a
darne comunicazione. Entro l’estate, è questa al momento la previsione temporale, si dovrebbe
concludere la redazione dello schema del codice deontologico e di buona condotta che,
successivamente, sarà sottoposto a consultazione pubblica prima dell’adozione. Nel testo, destinato a
disciplinare gli aspetti relativi nell’ambito delle investigazioni difensive (oltre agli istituti e ai principi
generali relativi al trattamento dei dati personali), una particolare attenzione sarà posta su alcuni profili
caratteristici dell'attività professionale di avvocati e investigatori quali l'informativa e il trattamento dei
dati personali tramite sistemi informatici, la conservazione di tali informazioni e la tutela dei diritti
connessi da parte dei rispettivi titolari, le modalità di comunicazione e diffusione di tali dati, la facoltà
infine di conferire incarichi a consulenti esterni nell’ambito di tali attività.
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Autorità garante per la protezione dei dati personali
Newsletter 24 febbraio 2006 n. 271 – Notiziario settimanale
- Investigazioni difensive: ripartono i lavori del codice
- Al via gli schemi di regolamento per Regioni e province autonome
- Altri organismi pubblici in regola con la privacy
Investigazioni difensive: ripartono i lavori del codice
Entro il 31 marzo osservazioni e suggerimenti
Riprendono i lavori preparatori del codice di deontologia e di buona condotta per il trattamento dei dati
personali utilizzati per svolgere investigazioni difensive o per far valere o difendere un diritto in sede
giudiziaria. Entro il 31 marzo i rappresentanti di categoria di avvocati e investigatori privati, i soggetti
pubblici e privati che hanno titolo a partecipare ai lavori sono invitati a darne comunicazione al Garante
anche al fine di verificare eventuali novità intervenute nelle categorie interessate rilevanti ai fini della
rappresentatività. Ed entro l’estate, nei programmi del Garante, dovrebbe ultimarsi la redazione dello
schema del codice da sottoporre a consultazione pubblica prima della sua adozione. Ai lavori
preparatori, avviati nel 2000 con la pubblicazione della iniziativa in Gazzetta ufficiale e per i quali si è
determinata una pausa a seguito dell’avvio del riordino della disciplina sulla protezione dei dati
personali culminato con l’adozione del Codice della privacy, hanno partecipato i rappresentanti di
numerose associazioni di categoria: Consiglio nazionale forense, Unione camere penali, Organismo
unitario avvocatura, associazioni rappresentative di investigatori privati. Da questi incontri sono emersi
elementi di riflessione che a parere dell’Autorità, possono rappresentare una utile base per la
prosecuzione dei dibattito. Nel codice che disciplinerà la materia delle investigazioni difensive oltre
agli istituti e ai principi generali relativi al trattamento dei dati personali, particolare attenzione sarà
posta su specifici aspetti dell’attività professionale di avvocati e investigatori quali l’informativa, il
trattamento dei dati personali tramite sistemi informatici, la loro conservazione, comunicazione e
diffusione, il conferimento di incarichi a consulenti esterni. Il provvedimento che dispone la riapertura
dei lavori sul codice deontologico sarà pubblicato nei prossimi giorni sulla Gazzetta ufficiale.
Al via gli schemi di regolamento per Regioni e province autonome
Il Garante ha espresso parere favorevole sullo schema tipo di regolamento per i trattamenti di dati
sensibili e giudiziari predisposto dalla Conferenza dei Presidenti dell’assemblea, dei consigli regionali e
delle province autonome. L’adozione di propri regolamenti, conformi allo schema tipo approvato e alle
indicazioni fornite dal Garante, permetterà alle regioni e alle province autonome di poter trattare
lecitamente informazioni delicate come l’etnia, le convinzioni religiose, l’appartenenza politica e
sindacale, la salute, la vita sessuale. A questo schema tipo potranno far riferimento le regioni e le
province autonome interessate per elaborare il proprio regolamento senza la necessità di ottenere
singolarmente un parere dell’Autorità. Parere invece necessario nel caso si apportino modifiche
sostanziali o si introducano operazioni non considerate nello schema approvato. Il Codice in materia di
protezione dei dati personali prevede che i soggetti pubblici per poter raccogliere, utilizzare, conservare
dati sensibili e giudiziari indispensabili per le loro attività istituzionali debbano adottare specifici
regolamenti con i quali vengono individuati e resi noti ai cittadini i dati che vengono trattati e per quali
scopi. I regolamenti contengono una serie di schede nelle quali sono riportate le finalità di rilevante
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interesse pubblico per trattare dati sensibili e giudiziari, la fonte normativa, i tipi di dati utilizzati, la
denominazione dei trattamenti.
Nell’approvare lo schema tipo di regolamento il Garante ha richiesto alcune integrazioni e ha stabilito,
tra l’altro, che regioni e province specifichino nel dettaglio normativa e finalità perseguite nelle
comunicazioni di dati attinenti al rapporto di lavoro del personale (così come devono individuare i casi
di comunicazioni a compagnie assicurative di dati sanitari di consiglieri e assessori regionali). Nello
schema vanno inoltre introdotte misure necessarie per verificare la liceità della eventuale diffusione di
dati sensibili, come l’adesione ad associazioni religiose, filosofiche, sindacali o politiche dei consiglieri
nell’ambito della verifica dell’elettorato passivo e dei requisiti per l’esercizio del mandato, ammessa
solo se indispensabile. Analoghe cautele vanno osservate per evitare la diffusione di dati sulla salute
attraverso la registrazione dei lavori del consiglio e la loro diffusione televisiva o on line.
Altri organismi pubblici in regola con la privacy
Prosegue il processo di adeguamento alle norme sulla privacy da parte delle amministrazioni pubbliche.
Il Garante ha dato il via libera agli schemi di regolamento per il trattamento dei dati sensibili e
giudiziari predisposti dalla Commissione di vigilanza sui fondi pensione, dal Centro nazionale per
l’informatica nella pubblica amministrazione, dall’Avvocatura dello Stato, dall’Ente nazionale per
l’aviazione civile, dall’Agenzia spaziale italiana e dall’Istituto nazionale di astrofisica. Con l’adozione
di un proprio regolamento, conforme al parere dell’Autorità, questi organismi potranno lecitamente
raccogliere, elaborare e utilizzare per le loro finalità istituzionali i dati relativi alla salute, all’etnia, alle
opinioni politiche, ai carichi pendenti. I regolamenti, che individuano e rendono noto ai cittadini quali
dati vengono usati e per quali fini, contengono l’indice dei trattamenti e una serie di schede articolate
nelle quali sono evidenziate le finalità di rilevante interesse pubblico per trattare i dati sensibili e
giudiziari, la denominazione del trattamento, la fonte normativa, i tipi di dati trattati e le operazioni
eseguibili.
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QUOTIDIANO DEI PROFESSIONISTI
Magistrati compatti e non burocrati
E’ la fotografia emersa al termine della tre giorni congressuale, organizzata dall’Associazione
Nazionale, che riunisce il 93% delle toghe italiane
Uniti, a dispetto del correntismo (da tutti i relatori additato come il vero male di cui soffre la categoria) e delle
divergenze ideologiche. È questa l’immagine della magistratura italiana emersa al termine della tre giorni
congressuale organizzata a Roma dal sindacato che riunisce oltre il 93% delle toghe, l’Associazione italiana
magistrati, sul tema «Efficienza della giustizia e difesa della Costituzione – magistrati e non burocrati per la
tutela dei diritti»). Un congresso (il ventottesimo dell’Anm) iniziato e terminato proprio nei giorni in cui tra
magistratura e politica si consumava l’ennesimo acerrimo scontro, nato dalle esternazioni del premier Berlusconi
sulle presunte responsabilità dei pubblici ministeri nella vicenda Antonveneta-Abn Amro. L’ennesima accusa a
cui le toghe hanno risposto (pur con qualche significativa deroga, come quella del primo presidente della
Cassazione Marvulli) con distacco, evitando di scendere sul terreno dello scontro. A Berlusconi che li attaccava i
magistrati hanno risposto dal palco del Teatro Capranica con relazioni puntuali sullo stato della Giustizia in Italia
e con dure reprimende su quanto questo Governo ha fatto negli ultimi cinque anni.«Non potrò mai perdonare chi
ha ridotto così la Giustizia», ha tuonato Antonio Patrono di Magistratura Indipendente (corrente di centrodestra).
Poco diversi sono stati gli altri interventi. Come quello di Juan Ignazio Patrone di Magistratura indipendente, che
ha puntato il dito contro la riforma dell’ordinamento giudiziario, sul banco degli imputati per tutto il week-end:
«La gerarchizzazione delle procure previstada questa controriforma è pericolosissima. La politica del ministro
della Giustizia in questi cinque anni è stata a dir poco scellerata». Il consigliere del Csm Manuele Smirne ha
definito la «Legge 150/2005 di riforma dell’ordinamento giudiziario una legge ad personam in quanto non
persegue un interesse generale ma una vendetta personale contro i magistrati. È una legge ad personam in quanto
è contra personas».Critiche (tante) a parte, le toghe hanno anche avanzato altrettante proposte concrete e
dettagliate, elaborate dall’Anm per tentare di risolvere (o quanto meno lenire) i mali di cui soffre il sistema
Giustizia in Italia. Primo fra tutti la durata eccessiva dei processi, in contrasto con la stessa costituzione. Giulio
Romano, consigliere Csm, ha sottolineato la necessità delle misure di prevenzione, del coordinamento con
l’avvocatura, del riconoscimento del divieto di abuso di giudizio, dell’informatizzazione degli uffici e dei
tribunali. Ma, sulla scia della recentissima riforma interna che ha di fatto introdotto le quote rosa nelle elezioni
della categoria, c’è anche stato chi, come Nello Rossi (Csm) ha sottolineato l’importanza delle donne magistrato
che, ha detto, «portano nella difficile arte del giudicare la loro sensibilità, razionalità e finezza». Della necessità
di una maggiore presenza femminile negli organismi di rappresentanza delle toghe ha parlato anche Fiorella
Pilato, consigliere di Corte d’Appello a Cagliari, tra le poche donne sul palco. E dopo le critiche le proposte sono
arrivate puntuali anche le richieste. Prima fra tutte quella dell’abrogazione della riforma dell’ordinamento
giudiziario e di tutti decreti attuativi, con conseguente ritorno in vigore, pro tempore, del vecchio ordinamento
fino ache il nuovo Governo non metta a punto una riforma più adeguata alle condizioni in cui versa il sistema
del ruolo costituzionale del magistrato.Poi la richiesta di uno stop al taglio dei fondi destinati alla Giustizia, che
sta di fatto paralizzando, da punto di vista operativo, gli uffici di mezza Italia. Infine sono arrivate le riflessioni
sui mali interni della magistratura,. Per Virginio Rognoni, la qualità del lavoro del Csm dipende anche dalla
qualità della magistratura associata. Da registrare la tavola rotonda di chiusura del congresso, tenutasi domenica,
a cui hanno partecipato i responsabili giustizia di tutti i principali partiti in prima linea il 9 aprile prossimo. Come
dire: la legislatura sta per finire, lavoriamo ad alleanze future, «qualunque governo ci sia» Marianna Aprile
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DIRITTO E GIUSTIZIA
Le correzioni di Castelli: "Modifiche sì... sostanziali no"
Mere strumentalizzazioni. Il ministro della Giustizia, Roberto Castelli ieri ha voluto precisare che quanto
riportato «sui maggiori quotidiani nazionali» circa una correzione della riforma dell’ordinamento giudiziario,
non corrispondeva al vero. Intervenuto sabato scorso al 28° Congresso nazionale dell’Associazione nazionale
magistrati, il Guardasigilli avrebbe affermato che la legge era stata scritta male e che necessitava di una
rivisitazione. Concetti peraltro ripresi domenica scorsa anche da esponenti della maggioranza come Giuseppe
Gargani ed Erminia Mazzoni, rispettivamente responsabile giustizia di Forza Italia e dell’Udc. Il Congresso si è
chiuso con un documento finale dell’Anm, approvato per acclamazione (leggibile tra i documenti correlati), con
il quale le toghe hanno chiesto l’abrogazione della legge 150/05 e non per ritornare alla legge del 1942, ma per
riformare l’ordinamento partendo però da un confronto serrato e serio con il Governo.
Ieri Castelli ha voluto precisare che nella sua riforma «non vi è nulla da cambiare nella sostanza, anche se sono
necessarie delle correzioni in corso d’opera, come per qualunque legge delega». «Leggo sui maggiori quotidiani
nazionali – ha detto il Guardasigilli – strumentalizzazioni delle parole che ho pronunciato al Congresso nazionale
dell’Anm»; quando parlava di riforma scritta male, ha continuato, si riferiva anche «al richiamo del presidente
Ciampi», che appunto nel suo messaggio di rinvio alle Camere “lamentava” una forma contorta e poco chiara
della legge (vedi tra gli arretrati del 17 dicembre 2004). «Era del tutto evidente – ha dichiarato Castelli – che mi
riferivo alla forma e non certamente alla sostanza». Quindi le correzioni da fare sarebbero solo formali e non
sostanziali e questo, secondo il ministro si capiva: «se i giornalisti presenti avessero avuto un minimo di onestà
avrebbero riportato anche la mia frase in cui dichiaravo che ciò era dovuto alla necessità di dover scrivere un
maxi-emendamento su cui porre la fiducia». «Non mi illudo – ha detto ancora Castelli – che questa mia
precisazione abbia alcun esito e sono consapevole che da oggi, sui giornali che appoggiano le tesi dell’Anm, ogni
qualvolta mi si voglia criticare appaia che io ho detto che la riforma è scritta male. Al pari, riemerge sempre la
frase che i penitenziari italiani sono hotel a cinque stelle, affermazioni che no ho mai proferito». Da un punto di
vista «meramente tecnico – ha concluso il Guardasigilli – ogni legge delega prevede i decreti legislativi di
scrittura e i decreti legislativi di correzione, questo accade sempre, ma per strumentalizzare, ogni pretesto è
buono».
Volendo seguire la tesi del Guardasigilli, bisognerebbe credere che tutti i giornalisti presenti abbiano frainteso le
sue parole. A parlare di «riforma scritta male», però, non sono stati solo giornali “faziosi”, perché ad esempio
anche «Il Giornale» (con Paolo ed Alessia Berlusconi come consiglieri di amministrazione) nell’edizione di
domenica 26 febbraio titolava con la stessa espressione.
A capire male non sono stati solo i giornalisti, perché ieri anche Francesco Nitto Palma, capogruppo di FI in
commissione Affari costituzionali a Montecitorio e relatore del provvedimento alla Camera ha ripreso la
questione “errori” volendo dare la sua versione dei fatti. «Prendo atto che il ministro della Giustizia, il presidente
della commissione Giustizia del Senato e il responsabile Giustizia di Forza Italia hanno affermato che la riforma
dell’ordinamento giudiziario necessita di correzioni in relazione ad errori che, a loro dire, sarebbero a me
attribuiti» ha affermato Nitto Palma. «Con tutto il rispetto possibile – ha continuato – e senza voler passare per
quei giapponesi che a distanza di decenni dalla fine della guerra vengono trovati nelle isole ancora intenti a
combattere il nemico americano, desidero precisare quanto segue: rispetto al testo provenuto dal Senato alla
Camera, sono state apportate due sole correzioni. In particolare si è provveduto a separare le funzioni di pubblico
ministero e di giudice dopo cinque anni dall’ingresso della carriera e si è eliminata la possibilità che la normale
progressione in carriera ed il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi avvenisse a seguito di concorso
per esami. Se questi sono errori – ha detto – li rivendico tutti. Mi dispiace solo di non aver avuto la forza di
impedire la previsione di accelerazione della carriera a seguito di concorso per esami, cosa che non condivido,
consapevole del fatto che il giudice deve essere persona saggia ed esperta più che un’enciclopedia».
Secondo l’ipotesi del Guardasigilli, allora, anche Nitto Palma andrebbe annoverato tra la lista dei “faziosi”. (p.a.)
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QUOTIDIANO DEI PROFESSIONISTI
Castelli alla Magistratura: la riforma è scritta male, rifacciamola insieme
Non poteva non fare almeno un salto il Ministro Castelli al 28simo Congresso dell’Anm a Roma. E così
sabato si è infilato nella tana del lupo, conscio che l’impresa non sarebbe stata facile. Ma i fatti devono
aver di gran lunga superato le sue previsioni. Platea dapprima fredda, poi visibilmente insofferente, infi
ne irritata quando il Guardasigilli tira fuori dalla tasca interna della giacca un’edizione tascabile della
Costituzione e inizia a declamarne all’uditorio alcuni articoli («Quelli che fanno comodo a me», ha
ironizzato dando voce a un pensiero che aveva già attraversato la sala). Il brusio sale quando Castelli
inizia a sciorinare le sue cinque proposte per un rapporto più sereno tra Ministro e Toghe: «Questa
potrebbe non essere l’ultima volta che ci guardiamo negli occhi, la partita è ancora aperta», ha esordito.
Quindi ha iniziato il suo elenco di condizioni per la pace armata magistratura-politica. «Primo: il
rispetto assoluto della Costituzione, di tutta la Costituzione, anche lì dove dice che il magistrato è
soggetto alla legge. La legge la fa il Parlamento ma ogni volta la magistratura grida
all’incostituzionalità». Secondo: il rispetto delle Istituzioni, «e il Ministro e il Parlamento sono
istituzioni. Terzo: «I magistrati lascino alla politica la faziosità e seguano il monito di Ciampi». Quarto,
la tolleranza verso le ispezioni disciplinari inviate dal Ministero: «Sono un diritto e un dovere del
Ministro. E poi io ne ho inviate meno dei miei predecessori, tra cui Fassino e Diliberto».
Infine, la cooperazione tra le istituzioni, con una sottile e velenosa precisazione da parte del Ministro:
«Vi ricordo che voi (l’Associazione nazionale magistrati, ndr) non siete un’istituzione; il Consiglio
superiore della magistratura è un’istituzione, e con il Csm c’è sempre stato un dialogo franco e un
fattivo rapporto di collaborazione. Non è stato facile, ma c’è stato rispetto reciproco e ringrazio
Rognoni per questo». I mugugni in sala si fanno più insistenti, e forse anche per questo Castelli proietta
il discorso nel futuro, proponendo alla magistratura una collaborazione per migliorare la legge di
riforma dell’Ordinamento giudiziario: «La 150/05 è una legge difficile e riconosco che nella forma è
scritta male… ma lasciatemi dire che l’ha scritta un magistrato». Incurante della gaffe e soprattutto
delle reazioni suscitate dall’uscita, lancia un’ancora: «La legge di riforma dell’ordinamento giudiziario
prevede la possibilità di emanare decreti correttivi. Facciamoli insieme». Troppo tardi, deve aver
pensato la platea, al cui dissenso ha dato voce un intervento, quello di Edmondo Bruti Liberati, a dir
poco al vetriolo, in seguito al quale il Ministro ha lasciato la sala indispettito.
M. A.
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Associazione nazionale magistrati
Temi di discussione e proposte per la riforma dell’ordinamento giudiziario
1. INTRODUZIONE
La riforma dell’Ordinamento giudiziario di recente approvata costituisce un passo indietro non solo sul piano della tutela
delle garanzie costituzionali a presidio della magistratura, ma anche sul piano dell’efficienza della giustizia in generale.
Essa, infatti, recupera una serie di soluzioni ordinamentale, specie in tema di valutazione della professionalità e
organizzazione degli uffici giudiziari, tratte direttamente da esperienze del passato che erano state superate dai tempi e
giustamente sostituite già da anni, coerentemente con quella che è stata l’evoluzione, naturale in una società civile e
democratica, del ruolo e della funzione della magistratura. Come se non bastasse, anche in settori quali il sistema
disciplinare e la formazione e aggiornamento dei magistrati, nei quali pure in astratto potevano essere adottate soluzioni
moderne ed appropriate, la riforma ha configurato sistemi spesso illogici e disfunzionali.
L’Associazione Nazionale Magistrati non ha mai negato l’opportunità di apportare anche significative modifiche
all’ordinamento giudiziario vigente, purchè nel segno dell’efficienza e del pieno rispetto dell’equilibrio fra poteri
istituzionali così come configurato dalla Costituzione. In quest’ottica di apertura sono state pensate innumerevoli proposte
alternative di modifica del sistema, delle quali il presente documento vuole essere una sintesi riepilogativa. Si affronteranno,
pertanto, nei paragrafi che seguono le principali tematiche oggi all’attenzione, privilegiando quando possibile l’aspetto
d’innovazione alternativa rispetto alla semplice critica della riforma.
2. ACCESSO IN MAGISTRATURA E SEPARAZIONE DELLE FUNZIONI
La riforma istituisce una sorta di concorso di II grado, consentendo l’accesso al concorso per uditore giudiziario solo a
coloro che, oltre ad avere conseguito la laurea in giurisprudenza a seguito di un corso di almeno quattro anni, hanno
conseguito alternativamente uno degli altri titoli indicati dalla legge (per l’elenco si rinvia all’articolo 2 della bozza di
decreto legislativo attuativo della legge 150/05).
I titoli presupposto per l’accesso al concorso sono svariati, eterogenei e non sempre qualificanti. Inoltre, tra di essi vi è il
diploma rilasciato dalle Scuole di Specializzazione per le Professioni Legali, che lungi dall’essere valorizzate e incentivate
diventano una delle tante precondizioni.
Le modalità di accesso in Magistratura non devono essere condizionate dall’esigenza pratico – organizzativa di limitare il
numero eccessivo di candidati al concorso per uditore giudiziario, ma devono tendere ad una reale selezione degli idonei,
offrendo un percorso magari arduo ma ragionevole.
Al contrario, il sistema previsto dalla legge 150/05 rappresenta soltanto una inutile dilazione dell’accesso attraverso una
irrazionale dilatazione dei tempi, che non sono mai inferiori a quattro/cinque anni dalla laurea alla nomina a uditore
giudiziario. A ciò si devono aggiungere due anni di uditorato per poi conseguire la prima sede assegnata d’ufficio e spesso
fuori sede se non addirittura lontana e disagiata.
In tal modo si finisce per attuare una sorta di “selezione per censo” o addirittura di selezione al contrario, poiché nel corso
del lungo iter per diventare uditore giudiziario le energie e le intelligenze migliori avranno trovato altre e più appetibili
opportunità; mentre “sopravvivrà” fino alla nomina a uditore giudiziario soltanto chi possiede una famiglia in grado di
sostenere economicamente per molti anni il candidato senza lavorare ovvero soltanto chi nel frattempo non ha trovato altre
opportunità.
Infine, già dalla disciplina dell’accesso in magistratura la riforma delinea i contenuti della vera e propria “separazione delle
carriere”, occultata sotto l’apparenza di mera accentuazione della separazione delle funzioni, poiché obbliga l’aspirante
magistrato a dichiarare subito quale funzione vorrebbe svolgere per prima. Il disegno viene poi completato dalla previsione
per cui è consentito un unico passaggio dal ruolo giudicante a quello inquirente o viceversa entro i primi tre anni di esercizio
effettivo delle funzioni giudiziarie, e quindi entro i primi cinque anni di carriera complessiva (due anni di uditorato e tre anni
di funzioni).
Proposte dell’ANM
L’esigenza sentita da molti di evitare l’ingresso in magistratura ad una età eccessivamente giovane non deve essere
disattesa; essa si fonda infatti sulla condivisibile osservazione secondo la quale un buon magistrato deve possedere una
solida preparazione tecnica, ma anche equilibrio, buon senso e personalità matura. Ma l’impianto di fondo dell’accesso in
magistratura deve essere razionalizzato, semplificato e in termini ragionevoli accelerato. Soprattutto, il tempo che decorre
dalla laurea alla nomina deve essere utilmente impiegato e deve fornire all’aspirante una preparazione e una professionalità
per un verso orientate all’esercizio delle funzioni giudiziarie, per altro verso spendibili anche in altre direzioni o professioni.
Si propone quindi, qualora non si ritenesse di mantenere l’attuale sistema “transitorio” che prevede l’obbligo di frequentare
le SSPL e di conseguire il relativo diploma, come unica precondizione al concorso per uditore giudiziario, che tornerebbe ad
essere di 1° grado,
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a) istituire una nuova funzione di “assistente del giudice” potenzialmente a tempo indeterminato (la soluzione sarebbe in
linea con l’agognato “ufficio del giudice”, pensato anche dall’attuale legislatore e poi stralciato dalla DDL di riforma
del’Ord. Giud.);
b) prevedere l’accesso a tale funzione per concorso nazionale rigoroso e selettivo e solo per laureati in giurisprudenza che
abbiano frequentato un corso universitario di almeno quattro anni;
c) prevedere un concorso di II grado per uditore giudiziario, a cui sarebbero ammessi soltanto i diplomati della SSPL e
alternativamente gli “assistenti del giudice”.
In ogni caso: anche nella prospettiva del concorso di II grado, i titoli presupposto dovrebbero essere limitati, qualificanti e
funzionali alla selezione di candidati idonei all’accesso in magistratrura.
È chiaro a questo punto che forme non razionali di preselezione (con particolare riferimento a quella informatica già
sperimentata) non saranno più necessarie; quanto all’esigenza di limitare il numero esorbitante dei candidati, che a parte i
profili organizzativi rischia di compromettere il buon esito della selezione, la stessa può essere assicurata mediante il bando
di due concorsi all’anno, eventualmente anche con la possibilità per ciascun candidato di iscriversi e partecipare ad uno solo
di essi. Anche se in realtà, attuando le ipotesi sopra descritte la limitazione dei candidati si realizza già automaticamente.
Infine è, ovviamente, da escludere il test psico-attitudinale previsto dalla riforma che, comunque si pensi possa essere
articolato, non è idoneo a fornire alcun risultato attendibile e rilevante per l’esercizio delle funzioni giudiziarie, così come è
stato dichiarato dai maggiori esperti del settore.
Per quanto riguarda la separazione delle funzioni, la stessa magistratura associata non si è mai dichiarata contraria a
limitazioni ragionevoli che, pur mantenendo l’unicità della carriera e non impedendo l’osmosi dall’una funzione all’altra,
consentano di evitare gli inconvenienti (soprattutto in termini di immagine) che oggi derivano dalla possibilità che un
magistrato passi da un giorno all’altro dal banco del Pm a quello del giudice, o viceversa, nella stessa sede giudiziaria. A tal
fine sarebbe sufficiente prevedere limitate forme di incompatibilità territoriale, che prevedano, ad esempio, normalmente la
necessità di cambiare circondario e talvolta anche distretto, in quest’ultimo caso soltanto qualora le funzioni di provenienza
riguardino competenze territoriali a livello distrettuale.
3. LA PROGRESSIONE DELLE FUNZIONI
Il nuovo sistema di progressione delle funzioni delineato dalla legge 150/05 e dal relativo decreto di attuazione prevede
sostanzialmente una sorta di “doppia corsia” di carriera: a) una corsia principale, larga e comoda, sostanzialmente non
dissimile dall’attuale progressione automatica senza demerito, nella quale i magistrati non mutano funzioni, non partecipano
a concorsi per esami con anticipazione di carriera e trattamento economico, non partecipano a concorsi a titoli per la
progressione in grado di appello, di conseguenza non possono accedere a incarichi semi- o direttivi, ma sono soggetti
soltanto a valutazioni di professionalità periodiche; b) una seconda corsia stretta, preferenziale o “veloce” si potrebbe dire,
nella quale (pochi) altri magistrati, su base volontaria, partecipano a concorsi a esami per anticipare la progressione (anche
economica) in grado di appello, partecipano comunque a concorsi a titoli per la progressione in appello, anche al fine
specifico di conseguire il titolo necessario per accedere a incarichi direttivi e semidirettivi, partecipano ai concorsi per il
grado di legittimità, anche per conseguire il titolo preferenziale per i direttivi.
In altre parole, si verrà a creare un ristretto gruppo di “magistrati in carriera” ed una larga fascia di “magistrati comuni”, nei
cui confronti l’ordinamento si preoccupa soltanto di valutare periodicamente la professionalità, secondo modalità non ben
precisate.
Complessivamente, il sistema così delineato “svaluta” le funzioni di primo grado, favorisce la corsa al secondo grado ed ai
direttivi incentivando i presunti “ migliori”, crea un gruppo di magistrati in carriera che viola nella sostanza l’uguaglianza di
tutti i magistrati, non assicura un adeguato strumento di miglioramento professionale della magistratura.
Proposte dell’ANM
Le proposte alternative dell’ANM devono muovere da alcuni punti fermi positivi:
a. l’abolizione delle qualifiche astratte dalla funzione svolta;
b. la progressione economica per scatti di anzianità (salvo le valutazioni di professionalità negative);
c. le valutazioni di professionalità periodiche ed obbligatorie (salvo le importanti precisazioni che seguiranno) con cadenza
adeguata;
Gli obiettivi da perseguire dovranno essere:
1. ristabilire la pari dignità tra le funzioni tramite:
a. l’ eliminazione degli incentivi a lasciare le funzioni per progredire in carriera;
b. il ripristino della possibilità di accesso agli incarichi semidirettivi e direttivi dalle funzioni di primo grado;
2. migliorare il sistema di valutazione di professionalità e collocarlo al centro della progressione in carriera:
a. individuando i più efficaci criteri di valutazione di professionalità ai fini della progressione in carriera;
b. introducendo severe valutazioni di professionalità periodiche e per tutti i magistrati;
c. stabilendo gli effetti della valutazione negativa sulla progressione in carriera ed economica;
3. mettere a fuoco i punti problematici della valutazione di professionalità, ovverosia:
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- il soggetto che opera la valutazione: deve essere necessariamente il CSM su parere del consiglio Giudiziario; il CG che
formula il parere deve essere nella composizione “larga” comprensiva dei rappresentanti degli Avvocati, che intervengono
su fatti o atti specifici del magistrato. Si può prevedere una Commissione esterna con funzioni consultive
- le fonti di conoscenza: è necessaria una pluralità di fonti sufficientemente ampia da fornire una rappresentazione obiettiva,
effettiva e garantita della professionalità reale del magistrato, nel rispetto del criterio di cui al punto seguente; e quindi:
a. provvedimenti a campione;
b. provvedimenti prodotti dal magistrato in valutazione;
c. relazione del capo dell’ufficio;
d. autorelazione del magistrato;
e. esiti processuali e comportamento generale del magistrato (organizzazione del proprio ufficio e del ruolo, puntualità
nell’adozione dei provvedimenti, gestione dell’arretrato, capacità di lavorare in gruppo o al contrario di autonomia
personale, etc.);
f. eventuali segnalazioni del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati su fatti specifici;
g. eventuale attività scientifica;
- i criteri di valutazione: privilegiare laboriosità, capacità organizzative, correttezza della forma e della sostanza delle
decisioni, comportamento personale, piuttosto che l’ampiezza e la ridondanza delle motivazioni o la risonanza pubblica dei
procedimenti. Volutamente nell’elenco che precede l’attività scientifica è collocata all’ultimo posto in un ideale ordine di
valori, non per svilire il prezioso contributo culturale fornito da molti magistrati, ma per ancorare la valutazione di
professionalità al momento dell’esercizio delle funzioni. Diversa valutazione potrà essere effettuata per l’accesso in
Cassazione e la valutazione dei magistrati della Corte di ultima istanza.
- gli effetti della valutazione negativa sulla carriera. E’ pensabile un blocco della anzianità fino alla valutazione successiva
(o per un termine inferiore) e della conseguente progressione economica. Per effetto del blocco chi viene valutato
negativamente una volta, per esempio al compimento del 13° anno dal DM di nomina non avrà alle spalle due valutazioni
positive che gli consentirebbero di progredire economicamente e di partecipare ai concorsi per titoli per il grado di appello.
Qualora si avessero due valutazioni negative consecutive, la conseguenza dovrebbe essere la dispensa dal servizio.
Il metodo di selezione per il conferimento delle funzioni di appello, di legittimità, direttive e semidirettive non può che
incentrarsi sul concorso per titoli, con esclusione di qualsiasi ipotesi di concorso per esami. Tale criterio risulterà più
efficace di adesso perché sarà stato preceduto da previe valutazioni di professionalità: immaginando una periodicità di
cinque anni potrà partecipare al concordo per l’appello chi avrà alle spalle due valutazioni di professionalità positive. Chi
avrà avuto valutazioni negative non sarà legittimato per effetto del blocco dell’anzianità.
Requisiti in generale:
- avere maturato un congruo numero di anni per le diverse funzioni a decorrere dal DM di nomina;
- avere superato positivamente le valutazioni di professionalità periodiche;
- avere esercitato effettivamente per almeno un certo numero di anni la funzione giudicante o requirente di primo grado
corrispondente;
- avere partecipato ad apposito corso presso la Scuola della magistratura con esito positivo;
- parere favorevole del CG allargato agli Avvocati;
Per il conferimento delle funzioni di legittimità è possibile pensare all’ausilio di una commissione consultiva mista
(magistrati, professori) per la valutazione dei titoli.
Il cambiamento di funzioni tabellari.
Un aspetto sempre trascurato consiste nel cambiamento semplicemente delle funzioni tabellare nel medesimo ufficio
giudiziario, che pure talvolta comporta un vero e proprio “cambiamento di mestiere”.
Si ripete spesso che nell’ambito del generale mestiere di magistrato vi sono diversi altri “mestieri” particolari, così
descrivendo la pluralità di funzioni tabellari a volte anche fortemente specializzate. Nel contempo, non è affatto scontato che
tutti sappiano fare tutto.
Tuttavia, il cambiamento delle funzioni, con o senza tramutamento di ufficio, è solo raramente assistito da un reale momento
di apprendimento e aggiornamento professionale (che non sia affidato semplicemente alla buona volontà dei singoli). Anche
i corsi di riconversione organizzati dalla Formazione del CSM sono insufficienti e spesso intempestivi; mentre riceve scarsa
applicazione la circolare del CSM che prevede e consente il graduale inserimento del magistrato nel nuovo ruolo ed ufficio
attraverso un periodo di “tirocinio”.
Evidentemente il mutamento di funzioni così attuato si traduce in un inevitabile ed incolpevole difetto di professionalità del
magistrato, che si verifica anche indipendentemente dal momento della progressione nelle funzioni.
Al fine quindi di assicurare un adeguato livello di professionalità e di pronta risposta alla domanda di giustizia, occorre
prevedere degli strumenti che favoriscano il corretto inserimento del magistrato nelle nuove funzioni tabellari; e quindi:
- prevedere l’obbligatoria frequenza di apposito corso di riconversione, ovviamente per funzioni eterogenee, con valutazione
finale;
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- prevedere per tutti e obbligatoriamente un periodo di “tirocinio” nelle nuove funzioni senza assegnazione di un ruolo;
- prevedere comunque un graduale inserimento nel ruolo e nei turni di servizio applicando il criterio dell’anzianità
nell’Ufficio “al contrario”, favorendo il magistrato neo arrivato.
4. TEMPORANEITA’ DELLE FUNZIONI E DEGLI INCARICHI, ANCHE DIRETTIVI
Uno dei limiti del governo autonomo della Magistratura è rappresentato dalla sostanziale incapacità di intervenire, e in tempi
ragionevoli, in situazioni personali e locali dove l’inadeguatezza del singolo o le incrostazioni di potere connesse al protrarsi
dell’esercizio delle medesime funzioni, anche direttive, abbia determinato conseguenze negative per la corretto ed efficiente
amministrazione della giustizia.
E’ sostanzialmente questa la ragione dell’ormai datata richiesta di temporaneità degli uffici direttivi (in tal senso vi è già un
primo intervento dell’ANM ancora nel 1958!) e delle circolari del CSM che impongono il mutamento di incarichi o funzioni
trascorsi i dieci anni.
Nell’uno e nell’altro caso si è finito con l’estendere a tutti una regola, confidando che in questo modo i casi problematici
ricevessero comunque anch’essi una risposta, che non arrivava per le vie ordinarie del governo autonomo. L’origine della
disciplina, però, si riverbera negli inconvenienti che essa determina nella sua generalizzata applicazione. Da un lato, per
‘liberarsi’ del capo non capace si impone il mutamento anche del capo che al meglio svolge il proprio compito. Dall’altro,
nei singoli uffici, a fronte dell’esigenza di una sempre maggiore specializzazione, non solo tra i due grandi settori del civile
e del penale ma vieppiù all’interno di essi, si impone il mutamento di funzioni al di fuori di ogni tentativo di conservazione e
valorizzazione delle specializzazioni acquisite.
Il nuovo Ordinamento giudiziario prevede innanzitutto, come regola generale per tutti i magistrati, che non si possa rimanere
in servizio nello stesso ufficio e con il medesimo incarico (di primo e secondo grado) per più di dieci anni, con facoltà di
proroga di non oltre due anni (e con accorgimenti volti ad evitare nell’ultimo periodo di permanenza disservizi per il
successivo mutamento).
La normativa transitoria prevede la retroattività della misura, sicchè il periodo già trascorso rientra nel computo dei dieci
anni; per coloro invece che già da oltre dieci anni svolgono la funzione o l’incarico è prevista la proroga per un ulteriore
biennio.
Per gli incarichi di merito direttivi e per quelli semidirettivi requirenti i termini sono rispettivamente di quattro anni,
rinnovabili a richiesta per altri due, e di sei. Per i semidirettivi giudicanti la regola è quella ordinaria della decennalità.
La normativa transitoria prevede ulteriori quattro anni per gli incarichi di merito direttivi e semidirettivi requirenti allo stato
in atto, mentre per i semidirettivi di merito la norma transitoria è quella generale per i ‘decennali’.
Il problema caratterizzante la temporaneità degli incarichi direttivi (e semidirettivi) è quello di conciliare l’efficienza del
servizio con l’opportunità di un mutamento periodico certo, che eviti appunto le incrostazioni proprie dell’esercizio protratto
di un potere invasivo come quello della funzione giudiziaria. Sotto il primo profilo potrebbe ritenersi che il periodo di
quattro anni sia troppo contenuto per consentire un compiuto servizio direttivo, presentando il rischio di mutamenti
significativi troppo ravvicinati e contrari al principio di buona organizzazione ed efficienza: apparirebbe così opportuno
l’innalzamento ad almeno cinque o sei anni, prorogabili eventualmente per altri due solo in esito alla positiva valutazione, da
parte del CSM, dell’attività direttiva svolta. Per contro non è agevolmente comprensibile la diversa disciplina tra
semidirettivi giudicanti e requirenti: tutto ciò che può dirsi a spiegazione della previsione di un periodo di soli sei anni per il
semidirettivo requirente, infatti, potrebbe certamente essere esteso al semidirettivo giudicante. Ciò specialmente in un
contesto in cui l’ordinamento riconosce specifiche responsabilità organizzative anche ai semidirettivi giudicanti.
Appare anche opportuno osservare che la problematica della temporaneità degli incarichi direttivi e semidirettivi dovrebbe
però trovare una generale rivisitazione, anche culturale, alla luce di due innovazioni introdotte dall’Ordinamento sulla durata
della ‘carriera’ del magistrato.
Questa si caratterizza ora per un ingresso ben più ritardato e per una conclusione sostanzialmente anticipata.
Da un lato, l’impossibilità di accedere al concorso per l’ingresso in magistratura subito dopo la sola laurea implica, per ciò
solo, un allungamento dell’età dei nuovi magistrati di almeno tre anni rispetto all’attuale, tenuto conto dell’allungamento del
corso universitario (3+2) e del necessario periodo di attività di studio o lavorativa successivo (dai due anni della scuola delle
professioni legali ai più per le altre alternative disciplinate, per inciso alcune francamente prive di razionale connessione alla
pretesa di una previa significativa esperienza professionale propedeutica).
Dall’altro, il limite dei sessantasei anni per il conferimento degli incarichi direttivi di merito (ma non per i semidirettivi)
rende verosimile l’aumento dei pensionamenti anticipati rispetto all’età propria (i settanta anni). Se si tiene conto
dell’anzianità di servizio necessaria per accedere agli incarichi semidirettivi e direttivi (che richiedono quantomeno il
passaggio per la funzione di appello), si può ragionevolmente concludere che, in realtà, il periodo di possibile copertura di
un incarico semidirettivo e direttivo si riduca alla fascia di età (non professionale) di cinquantadue – sessantasei anni. Sia
chiaro: sarà compito dell’ANM battersi, anche per le vie giurisdizionali amministrative e, se possibile, di legittimità
costituzionale, per abrogare la carriera piramidale, con la conseguente possibilità, nel rispetto del principio costituzionale
della pari dignità dei magistrati, di accedere alle funzioni semidirettive e direttive anche dal primo grado; tuttavia il dato
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della contrazione del periodo utile a svolgere funzioni direttive e semidirettive si impone come realtà di fatto che richiede
qualche riflessione sulla concreta disciplina della loro temporaneità, anche in una tale auspicabile evenienza.
Da ultimo, la tematica della temporaneità degli uffici direttivi ha visto concordia nella richiesta, ma distinzioni anche
significative nell’applicazione effettiva. La questione è, ovviamente, quella della destinazione del direttivo o semidirettivo
che giunga alla conclusione del periodo massimo possibile di esercizio della funzione.
Due le soluzioni in proposito prospettate nel dibattito precedente il nuovo Ordinamento: il ‘rientro’ nella funzione di
provenienza, anche nello stesso ufficio, a significare una piena ed effettiva pari dignità delle diverse funzioni; il passaggio
da una funzione semidirettiva o direttiva ad altra, quale esito dell’avvenuto ingresso in una sorta di ‘status’ di magistratodirigente.
Il nuovo Ordinamento prevede nel decreto legislativo delegato (articolo 45.2) che il direttivo di merito possa concorrere per
altri posti, se di uguale grado in circondario diverso, se di grado ‘superiore’ in distretto diverso con esclusione di quello
competente ex articolo 11 c.p.p. (con l’espressa parificazione, a questi fini, delle funzioni di primo grado e di primo grado
elevato). Nel caso di omessa domanda, o di sua reiezione, torna alle funzioni non direttive da ultimo esercitate nella sede di
originaria provenienza o in altra sede (in ogni caso senza alcuna indennità per il trasferimento).
La disciplina transitoria per direttivi giudicanti e requirenti prevede (si noti, allo scadere degli ulteriori quattro anni loro
concessi, apparentemente pure se sono in corso le procedure per le domande nel frattempo eventualmente presentate)
l’eventuale assegnazione allo stesso ufficio in cui hanno svolto la funzione direttiva anche in soprannumero, da riassorbire
con le successive vacanze.
Per i semidirettivi giudicanti non vi è disciplina espressa: a loro si applica quella decennale di ogni magistrato (normativa
carente perché allo stato non prevede cosa e come debba succedere se l’interessato non si attiva spontaneamente).
Il pregresso esercizio di funzioni direttive o semidirettive (e stupisce che le norme non esplicitino la previa necessaria
valutazione positiva di tale esercizio) costituisce titolo preferenziale per il conferimento di funzioni semidirettive e direttive
(articolo 43.5 e 44.4).
Tale ultimo rilievo evidenzia il rischio che si imponga la ‘caccia’ allo ‘status’ di ‘magistrato-capo’, dando privilegio agli
aspetti formali (l’incarico come fatto in sè) rispetto a quelli sostanziali (le concrete modalità di esercizio dell’incarico). Sotto
questo aspetto, la disciplina appare del tutto carente laddove evita accuratamente di indicare inequivoci parametri per la
valutazione dell’esercizio pregresso delle funzioni semidirettive o direttive, valutazione che comunque non potrà che essere
propria del CSM.
5. SCUOLA DELLA MAGISTRATURA
La riforma dell’ordinamento giudiziario prevede l’istituzione della scuola superiore della magistratura con nuove norme in
tema di tirocinio e formazione degli uditori giudiziari nonché nuove norme in tema di aggiornamento professionale e
formazione dei magistrati (v. articoli 1 comma 1 lettera b) e 2 comma 2 legge 150/05).
Occorre premettere che l’attività di aggiornamento e formazione professionale, attualmente svolta dal C.S.M., ha prodotto
risultati che appaiono di certo perfettibili ma indubbiamente costituiscono un significativo modello di partenza per il
miglioramento del sistema, che va però reso più efficace e potenziato.
I limiti maggiori dell’attuale modello di aggiornamento e formazione possono individuarsi prevalentemente nella mancanza
di un corpo docente stabile e nelle limitate possibilità di partecipazione ai corsi, come noto notevolmente insufficiente
rispetto alle richieste dei magistrati medesimi.
L’istituzione della Scuola della Magistratura va, dunque, vista con favore nella misura in cui potrà costituire l’occasione per
potenziare e migliorare la formazione degli uditori e l’aggiornamento dell’intera categoria, nella consapevolezza che il
sistema giudiziario sarà maggiormente efficiente solo se potrà fare affidamento su magistrati professionalmente validi ed
aggiornati sin dalla prima fase del processo.
Quanto ai compiti della scuola, tuttavia, non va dimenticato che ai sensi dell’articolo 105 della Costituzione, a garanzia
dell’autonomia ed indipendenza della magistratura, spettano al C.S.M. le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le
promozioni ed i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati.
Proposte dell’ANM
Va ribadito che conformemente alle previsioni costituzionali, la istituenda “Scuola superiore della magistratura” non dovrà
avere alcun compito di valutazione del magistrato che è affidato dalla costituzione al C.S.M..
Del resto, la commistione tra formazione – aggiornamento e valutazione professionale è stata unanimemente ritenuta anche
didatticamente inopportuna, in quanto preclude un sereno scambio di esperienze professionali e segue una logica formativa
del tutto superata, partendo dal presupposto che il rapporto tra docente e magistrato debba essere quello di un mero travaso
di conoscenze e non già quello più efficace di uno scambio dialettico finalizzato alla costruzione dialogica della conoscenze.
In definitiva, la scuola la stessa dovrà occuparsi esclusivamente dell’attività di formazione, indirizzata agli uditori, e di
aggiornamento, rivolta all’intera categoria.
La formazione andrà realizzata, nel corso dell’uditorato, attraverso corsi più intensi e di maggiore durata; l’aggiornamento
richiederà, invece, lezioni più brevi e modelli più agili, rispondenti alle reali esigenze di aggiornamento del magistrato.
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Quanto alla scelta dei docenti della scuola non vi è dubbio che la componente prevalente vada individuata nell’ambito della
magistratura medesima (con nomina da parte dell’organo di autogoverno), in quanto la scuola dovrà soddisfare innanzitutto
gli aspetti pratici dell’esercizio della funzione giurisdizionale, che potranno ovviamente essere analizzati nella maniera più
adeguata proprio dagli appartenenti alla categoria.
Appare, tuttavia, indispensabile garantire l’effettivo pluralismo culturale delle lezioni, a sua volta necessario ad un corretto
esercizio della funzione giurisdizionale; in tal senso va visto con favore il reclutamento di docenti anche nell’ambito delle
categorie degli avvocati di comprovata esperienza e sensibilità giuridica e di professori universitari. Non ha, invece, alcun
significato didattico e va, pertanto, evitata la introduzione nella scuola di componenti di diritto e tantomeno di loro delegati.
Non è compito dell’A.n.m. dettagliare anche i criteri di scelta dei componenti, ma va detto che tutti i criteri appariranno
validi purchè finalizzati a conseguire l’obiettivo di creare un corpo docente stabile e preparato, consapevole della delicatezza
del ruolo svolto che mai dovrà essere quello di ottenere l’omologazione della scelte della categoria (concetto ben diverso
dalla funzione nomofilattica propria della Cassazione), ma quello molto più proficuo ed impegnativo di contribuire ad
arricchire costantemente sia le capacità tecniche che la sensibilità del magistrato.
Non vi è dubbio, tuttavia, che l’individuazione dei docenti e la programmazione didattica andranno riservate
prevalentemente ai magistrati ed al C.s.m. .
Si auspica, inoltre, che la partecipazione ai corsi di formazione e di aggiornamento sia resa obbligatoria e ciò non solo in
occasione di periodici avanzamenti in carriera o del cambio di funzioni, in quanto il cittadino si attende un magistrato
preparato ed aggiornato sin dal primo grado di giudizio.
La formazione, in altri termini, non va vista come premessa per lo sviluppo della carriera ma come autonomo valore,
indispensabile alla tutela della professionalità di tutti imagistrati.
I corsi di aggiornamento dovranno essere seguiti con una cadenza di certo molto più ravvicinata rispetto alle attuali
previsioni della riforma (uno ogni cinque anni), ed avere una durata contenuta, onde evitare dei costi prevedibilmente non
sostenibili e rendere possibile il migliore contemperamento della frequenza ai corsi con lo svolgimento delle ordinarie
funzioni giudiziarie.
Va, infine, ribadita, l’estrema importanza di garantire ai partecipanti un confronto tra le diverse realtà territoriali nazionali (e
non solo), onde va esclusa la possibilità di una rigida ripartizione territoriale delle sedi, che impedirebbe tale utile scambio
formativo (si pensi alle esperienze maturate nell’ambito del contrasto alla criminalità organizzata), e probabilmente farebbe
anche lievitare i costi di gestione delle diverse strutture.
6. CONSIGLI GIUDIZIARI E CONSIGLIO DIRETTIVO DELLA CASSAZIONE
Se spetta sicuramente al solo CSM, in ossequio all’articolo 105 Cost., il compito e potere di esprimere giudizi e valutazioni
sulla iniziale e permanente professionalità ed idoneità di ogni magistrato all’espletamento delle funzioni giudiziarie, nei
diversi tempi e modi in cui ciò può verificarsi durante la carriera, solamente un efficace, attento ed autorevole lavoro dei
consigli giudiziari è in grado di consentire che quelle valutazioni siano fondate su dati reali ed effettivamente significativi
anziché su prassi stereotipate.
L’autogoverno risponde al disegno costituzionale solo se coniuga l’autonomia rispetto ai controlli ‘esterni’ con l’efficacia ed
adeguatezza dell’autocontrollo. Altrimenti esplodono le contraddizioni ed i limiti del corporativismo, e viene messa in
pericolo la condivisione dei cittadini sul valore stesso dell’autonomia ed indipendenza della Magistratura. Infatti, solo se la
Magistratura italiana è e diviene capace di selezionare,ad esempio, dirigenti degli uffici giudiziari capaci ed adeguati al
ruolo e di assicurare che tutti i magistrati siano effettivamente idonei alle singole funzioni cui sono destinati, può e deve
pretendersi che la valutazione e la selezione dei magistrati avvenga con il metodo del governo autonomo. I principi
costituzionali non possono vivere di mera astrattezza, devono impregnare la realtà vissuta.
L’inadeguatezza attuale dell’autogoverno, che a volte si risolve in mera autotutela della corporazione o si adagia su prassi di
degenerazione correntizia -confondendo il valore del pluralismo culturale con la logica delle appartenenze-, trova ragione
anche nella carenza del sistema conoscitivo per la non sufficiente efficacia delle fonti informative. Si vive il paradosso per
cui mentre negli uffici giudiziari per lo più tutti (magistrati, ma anche soggetti esterni alla magistratura pure essi coinvolti
necessariamente nell’esercizio della giurisdizione: avvocati, personale amministrativo) sanno delle concrete qualità
lavorative e professionali del singolo magistrato, e degli stessi semidirettivi e direttivi, troppo spesso tale conoscenza si
‘perde’ nel momento della concretizzazione del momento ‘formale’ della valutazione.
La recente circolare del CSM sui provvedimenti a campione costituisce un significativo tentativo di sottrarsi a pareri
stereotipi e pertanto inutili. Essa indica la via per giungere ad una valutazione efficace (la verifica ‘sul campo’, del
‘mestiere’), pur essendo misura intrinsecamente limitata e parziale, quindi non esaustiva. Sono i Consigli giudiziari gli
organi in grado di acquisire e trasmettere le conoscenze utili per una valutazione corretta e fedele da parte del CSM.
La riforma approvata non soddisfa l’esigenza di un Consiglio giudiziario autorevole ed efficace momento di autogoverno
decentrato.
Va considerato positivamente il contributo conoscitivo richiesto all’Avvocatura locale (del resto già auspicato, ancorché su
fatti specifici, dalla stessa ANM nel documento 30 settembre 2004 presentato ai gruppi parlamentari), perché si tratta di
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apporto ‘esterno’ proveniente da soggetto certamente potenzialmente in grado di fornire utili e reali elementi conoscitivi per
la valutazione spettante al CSM. L’esperienza verificherà se l’Avvocatura saprà assolvere il delicato ruolo che è chiamata a
svolgere nell’ambito della valutazione del magistrato senza cedere alla tentazione di strumentalizzarlo per fini diversi da
quello istituzionale. Certamente al singolo magistrato dovrà essere comunque riconosciuto il diritto di interloquire sui
contributi conoscitivi ‘esterni’.
E tuttavia il coinvolgimento dell’Avvocatura avviene in modo farraginoso, con previsioni in parte insensate (la valutazione
del consiglio forense distrettuale anche quando il magistrato non abbia alcun rapporto lavorativo con quell’ordine), in parte
ambigue (non si comprende il contenuto dei poteri deliberativi del presidente del consiglio dell’ordine del foro sede del
distretto, membro di diritto ma avvocato, e in presenza di specifici limiti al potere di deliberazione della rappresentanza
dell’Avvocatura), senza alcuna previsione di invece doverose ipotesi di possibile astensione.
La previsione della partecipazione dell’Accademia, che avrebbe potuto contribuire all’attività di preselezione e
prevalutazione scientifica del lavoro del magistrato, invece diviene un mero artificio istituzionale, essendole attribuito il
concorso nelle deliberazioni in materia tabellare e nella vigilanza sull’andamento degli uffici giudiziari, materie la cui
pertinenza alla competenza scientifica rimane ignota.
La previsione di componenti designati dal Consiglio regionale, anch’essi ‘competenti’ in materia tabellare e sull’andamento
degli uffici giudiziari, poteva essere un’innovazione non priva di possibili utili prospettive: basti pensare alla possibilità di
coinvolgere l’ente regionale nella risoluzione dei problemi dovuti alla carenza cronica di mezzi e risorse, anche di personale,
che lo Stato centrale non riesce a provvedere adeguatamente. Ma anche in questo caso la soluzione della Riforma è carente e
approssimativa: è grave che nulla si dica della professionalità e competenza che dovrebbe caratterizzare i componenti eletti
(vi è solo il dato negativo della non appartenenza al Consiglio regionale), con il rischio concreto che l’incarico venga
considerato null’altro che l’ennesima occasione per attribuire un gettone di presenza a ‘personale del sottogoverno’, quando
non la possibilità di ingerenza ‘politica’ nel governo locale della Magistratura.
Di particolare gravità è la previsione di un sistema elettorale maggioritario che ripresenta in sede locale i difetti del sistema
elettorale attualmente previsto per il CSM. Quei difetti risultano oltretutto esaltati dalla limitata base territoriale e dal
concreto rischio che l’attività propedeutica all’efficace autogoverno del CSM venga disancorata dalla partecipazione
consapevole ed equilibrata che solo un’effettiva rappresentatività, anche culturale ed ideale, può fornire. Indispensabile
appare pertanto l’introduzione di un sistema elettorale proporzionale, unico idoneo ad assicurare la diretta ed efficace
rappresentatività del Consiglio giudiziario.
L’insufficiente rispetto del rapporto tra componenti togati e componenti esterni (per i distretti con meno di 350 magistrati) e,
quanto ai primi, tra i requirenti ed i giudicanti, aggrava la carenza di rappresentatività.
L’approssimazione e superficialità dell’approccio legislativo si manifesta anche:
- nella previsione di un Vicepresidente ‘laico’, l’individuazione delle cui competenze è semplicemente ignorata, quando
invece la permanente efficacia dell’articolo 108 Ord. giud. attribuisce al presidente vicario ogni sostituzione del presidente
della Corte d’appello;
- nella mancata previsione di una normativa che disciplini le concrete incombenze elettorali per la nomina dei componenti
togati;
- nella mancata previsione di termini tassativi per la nomina dei componenti ‘laici’, con la specificazione delle conseguenze
di una loro eventuale inosservanza, sicchè potrà darsi che la mancata tempestiva nomina ad esempio dei componenti di
nomina regionale impedisca l’attivazione dei nuovi consigli, determinando la proroga -a regime- di quelli precedenti solo
per ragioni di inerzia;
- nel mancato coordinamento tra le competenze di vigilanza spettanti ai Capi di Corte ed al Consiglio giudiziario di cui i
Capi di Corte sono anche componenti di diritto;
- nella mancata previsione di un supplente per il rappresentante dei giudici di pace, con la possibile impossibilità di regolare
funzionamento del Consiglio per suoi occasionali e contingenti impedimenti, nella materia riservata;
- nella mancata disciplina del ruolo dei componenti supplenti, finora -quanto ai togati- lasciata alle singole prassi locali.
Non sorprende allora che il legislatore delegato abbia ignorato uno dei problemi che sempre più è stato invece evidenziato
come nodale: la riduzione del lavoro giurisdizionale ordinario, quando non addirittura il fuori ruolo, per i componenti togati.
Da sempre infatti, ma ancor più ora con l’attribuzione ai Consigli giudiziari anche di materie in precedenza attribuite in sede
centrale al CSM, si evidenzia che solo consentendo ai componenti togati di dedicarsi, anche a tempo pieno, allo svolgimento
delle attività conoscitive necessarie per acquisire gli elementi di fatto (disponibili nei vari uffici giudiziari) indispensabili per
le valutazioni di competenza è possibile avere Consigli giudiziari efficienti e affidabili. La scelta tra un sistema
caratterizzato solo dal passaggio di carte ed uno in grado di assolvere efficacemente i compiti delicati attribuiti ai Consigli
giudiziari passa attraverso il mettere, o meno, i componenti togati nelle condizioni oggettive e soggettive per poter lavorare
come tutti auspicano.
Il Consiglio direttivo della Corte di cassazione costituisce lo sviluppo formale, mediante la creazione di un nuovo organo
istituzionale interno alla Corte, del Gruppo consultivo creato in sede di auto-organizzazione.
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La composizione ripete la struttura prevista per i Consigli giudiziari. La previsione normativa risulta inadeguata sui punti
dell’eccessiva sovrarappresentanza attribuita ai magistrati con funzioni direttive di legittimità, della mancata previsione
dell’elettorato passivo ai magistrati del massimario, della mancata precisazione delle competenze del componente di diritto
presidente del CNF (rispetto alla competenza, per il componente avvocato, limitata alle tabelle ed all’andamento degli uffici)
e del Vicepresidente ‘laico’.
7. L’ORGANIZZAZIONE DELL’UFFICIO DEL PM
Il tema dell’organizzazione dell’ufficio del Pm è particolarmente delicato e necessita di soluzioni attente a rispettare tutti i
canoni costituzionali rilevanti, in particolare in materia di indipendenza interna dei singoli magistrati. La complessità nasce
principalmente, sul piano dei principi costituzionali, dal disposto dell’articolo 107/4° comma della Costituzione, che,
anziché ripetere la formula del secondo comma dell’articolo 101 per la quale “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”,
prevede per il Pm che egli goda delle “garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario”. Che
tale previsione sia riferibile al tema dell’indipendenza interna non è dubitabile, giacchè la copertura costituzionale sul
diverso fronte dell’indipendenza esterna è invece assoluta e assicurata dall’articolo 104/1° comma che, accomunando tutti
gli appartenenti all’ordine giudiziario, prevede che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni
altro potere”. Da ciò discende la legittimità di un’organizzazione degli uffici di procura che affidi al dirigente compiti più
pregnanti rispetto a quelli dei dirigenti degli uffici giudicanti, purchè tale posizione di sovraordinazione funzionale non
risulti tanto accentuata da contrastare con il principio di pari dignità di tutte le funzioni desumibile dall’articolo 107/3°
comma.
Come si vede il quadro costituzionale di riferimento è alquanto complesso, ma, a merito del ruolo di governo autonomo
esercitato dal C.S.M. in questa materia, che era risultato trainante anche per il legislatore, nel corso degli anni e per via di
approssimazioni successive si era arrivati a definire un sistema logico e coerente con tutti i principi sottostanti. La vigente
circolare del C.S.M. in materia di rapporti tra dirigente e sostituti procuratori, infatti, aveva in ultimo delineato un corretto
metodo dialettico che prevedeva, in caso di dissenso nella trattazione di un affare e di conseguente revoca della
designazione, un’assunzione di responsabilità motivata del dirigente con la possibilità di osservazioni del sostituto e la
sottoposizione finale delle ragioni di entrambi al C.S.M. per le sue determinazioni. Anche in materia di criteri di
assegnazione degli affari la soluzione finale, delineata direttamente dall’articolo 7ter, ultimo comma, dell’ordinamento
giudiziario, conciliava in modo efficace le diverse esigenze prevedendo un sistema organizzativo basato prioritariamente sui
gruppi di lavoro per materie omogenee. Ma soprattutto risultava sempre rispettato il principio immanente a tutti gli altri,
direttamente derivante dalla dignità propria di ogni funzione giudiziaria, per cui a nessun magistrato, fosse anche l’ultimo
arrivato, poteva essere imposto un obbligo di facere coattivo, indipendente dalla sue convinzioni.
Tutto ciò è stato travolto dalla riforma dell’ordinamento giudiziario che, con talune previsioni ancor più incidenti sul piano
concreto dell’affermazione di principio iniziale con cui il procuratore della Repubblica è qualificato come “titolare
esclusivo” delle funzioni del Pm, ha modificato in modo significativo il livello di indipendenza interna dei magistrati
inquirenti e requirenti. Particolare rilievo, in tale ottica, assume ad esempio il sistema di risoluzione dei contrasti tra
procuratore e sostituti sfociati nella revoca della delega, al quale la previsione di trasmissione degli atti al procuratore
generale presso la Corte di cassazione (titolare dell’azione disciplinare) attribuisce un significato inquietante e
oggettivamente penalizzante soprattutto per il magistrato in posizione sottoordinata. Anche la previsione di criteri di
carattere generale che il dirigente è chiamato a dettare in ordine, ad esempio, all’impiego della polizia giudiziaria si presta,
se non mediata nella sua applicazione pratica da senso di responsabilità ed intelligenza, a produrre effetti negativi. Ma è
soprattutto grave in relazione al quadro costituzionale sopra delineato il potere del dirigente di imporre di fatto ai sostituti
veri e propri obblighi di facere (assai più limitativi dell’indipendenza interna e meno accettabili della possibilità di revoca
motivata della delega in caso di contrasto) mediante la previsione di criteri specifici da seguire nella trattazione di specifici
procedimenti, che quindi obbligano il sostituto a determinarsi nella conduzione delle indagini anche al di là e contro le sue
convinzioni di merito e di opportunità.
Proposte dell’ANM
Da quanto detto emerge con evidenza che le proposte dell’ANM, in questa materia, non possono che prevedere un deciso
ritorno al passato, al sistema oggi vigente, eventualmente corretto in qualche dettaglio (ad esempio con una migliore
precisazione delle ragioni che giustifichino la revoca della designazione in caso di contrasto, nonché dei criteri di
assegnazione degli affari, che sarebbe opportuno definire per legge), ma pur sempre tale da garantire innanzitutto che a
nessun sostituto possa essere imposto alcun obbligo di facere contro la propria volontà e le proprie convinzioni, e che
comunque la dialettica tra dirigente e sostituti rimanga sempre a livello di dibattito funzionale in vista della migliore
efficienza possibile, e non sia mai inquinata da autoritarismi e minacce incombenti di sanzioni e responsabilità improprie.
8. IL SISTEMA DISCIPLINARE
La responsabilità disciplinare dei magistrati è stata completamente rivoluzionata dalla riforma dell’ordinamento giudiziario,
sia sul piano sostanziale che per quanto riguarda il sistema procedimentale, in termini tali che non possono essere in larga
misura condivisi.
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Se è pur vero che il punto di partenza della riforma, sul piano sostanziale, è incentrato sulla tipizzazione dell’illecito,
obiettivamente condivisibile, è però anche vero che la realizzazione concreta appare per troppi aspetti criticabile. In
particolare essa è affetta da una grave incongruenza tra la tipizzazione (che significa specificazione) perseguita e
l’indeterminatezza (che è esattamente il contrario della specificazione) che connota invece numerose fattispecie. Ciò è
soprattutto evidente in talune ipotesi di illeciti disciplinari fuori dall’esercizio delle funzioni; a titolo esemplificativo basti
ricordare le ipotesi di uso strumentale della qualità idoneo a turbare l’esercizio di funzioni costituzionalmente previste
ovvero di pubblica manifestazione di consenso o dissenso in ordine a un procedimento in corso che, così come delineate,
lasciano spazio a qualsiasi ipotesi interpretativa concreta. Discutibile, nell’ottica anzidetta, è comunque anche la soluzione di
prevedere norme di chiusura, sia per gli illeciti commessi nell’esercizio che per quelli commessi fuori dall’esercizio delle
funzioni, così indeterminate (“ogni altra violazione dei doveri di….”) che contrastano già in linea di principio con il metodo
della tipizzazione.
Gli inconvenienti dell’indeterminatezza di numerose fattispecie sono amplificati, sul piano concreto, dalla previsione
dell’obbligatorietà dell’azione disciplinare prevista per il procuratore generale presso la Corte di Cassazione, poiché
dall’equivocità delle formulazioni normative ricordate è plausibile ritenere che potrà derivare, da parte del soggetto a ciò
obbligato, un esercizio dell’azione particolarmente diffuso, con il conseguente sconcerto e disagio all’interno dell’ordine
giudiziario.
Sul piano del procedimento la riforma si segnala negativamente innanzitutto per la mancata previsione di un termine di
prescrizione dell’illecito disciplinare, che consentirà di perseguire i magistrati anche a distanza di anni, o addirittura di
decenni, dal fatto.
Irrazionale, in senso paradossalmente opposto, è anche la disciplina dei termini di decadenza dell’azione nelle varie fasi (un
anno dall’esercizio dell’azione per il rinvio a giudizio e un altro anno per la sentenza), così ridotti da risultare del tutto
incompatibili con il presumibile nuovo maggior carico di lavoro che incomberà sia sul procuratore generale che sulla
sezione disciplinare del C.S.M. dall’applicazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione riferita alle nuove fattispecie
tipicizzate.
Difficilmente compatibile con i principi del giusto processo di cui all’articolo 111 della Costituzione è la disciplina della
formazione e dell’utilizzazione delle prove nel dibattimento dinanzi alla sezione disciplinare (che sembra possa leggere e
utilizzare di tutto, da qualsiasi parte provenga, senza tener conto dei principi in tema di contraddittorio).
Davvero singolare, infine, è il ruolo attribuito al Ministro della Giustizia che, oltre che titolare dell’azione disciplinare (per
lui solo facoltativa), acquista una serie di facoltà procedimentale tali da fargli assumere di volta il volta la posizione di un
secondo Pm ovvero, sotto altro aspetto, di controllore e supervisore dell’attività che in tale veste eserciti il procuratore
generale della Cassazione.
Proposte dell’ANM
Ciò premesso, appare necessario che l’ANM formuli richiesta di modifiche sostanziali alla disciplina appena ricordata che si
muovano nelle seguenti direzioni:
- prevedano una tipizzazione effettiva sotto tutti i profili, che eviti genericità e indeterminatezze nelle concrete formulazioni
normative e che, soprattutto in materia di illeciti disciplinari fuori dell’esercizio delle funzioni, risulti rispettosa sotto ogni
aspetto del delicato equilibrio tra eventuali limitazioni derivanti dal particolare ruolo rivestito da chi svolga funzioni
giudiziarie e l’insopprimibile esercizio dei diritti fondamentali di libertà riconosciuti dalla Costituzione ai magistrati come a
tutti gli altri cittadini;
- prevedano la semplice facoltatività dell’azione disciplinare anche per il procuratore generale presso la Corte di Cassazione,
o al massimo gli impongano l’obbligatorietà dell’azione soltanto per gli illeciti commessi nell’esercizio delle funzioni, più
strettamente legati all’attività tecnica del magistrato e, quindi, più facilmente percepibili dall’autorità giudiziaria preposta;
- prevedano un termine di prescrizione anche per l’illecito disciplinare, al fine di sottrarre i magistrati al rischio di azioni
esercitate a distanza di troppo tempo dai fatti, e termini di decadenza dell’azione invece congrui e compatibili con l’esigenza
che i procedimenti disciplinari avviati pervengano a soluzioni nel merito e non all’estinzione per ragioni procedurali;
- prevedano criteri di formazione e utilizzazione della prova ispirati al principio del contraddittorio, e quindi compatibili con
la perdurante natura giurisdizionale del processo disciplinare nei confronti dei magistrati;
- prevedano che al Ministro della giustizia sia sottratto ogni ruolo diverso dall’esercizio dell’azione, non essendo egli
portatore di alcun interesse diverso da quello pubblico già curato dal procuratore generale della Corte di Cassazione
nell’esercizio delle funzioni di Pm.
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ITALIA OGGI
Mazzoni (Udc): non si torna indietro
Riforma giustizia - Si può migliorare
La Casa delle libertà è pronta a ´migliorare' la riforma Castelli sulla giustizia, preservandone l'intero
impianto. Con il provvedimento che a inizio legislatura disporrà la separazione delle carriere e
sempreché alle elezioni politiche vinca il Polo, si potrebbe intervenire sull'accesso, sulle verifiche di
professionalità e magari anche su una migliore definizione delle fattispecie disciplinari. Ma solo per
´aggiustare' dettagli, non certo per tornare indietro, perché la richiesta dei magistrati addirittura di
abrogarla è anacronistica e ingiustificata. Se una sospensione dell'efficacia dovesse esserci, sarebbe solo
funzionale a questi interventi di ritocco e sempreché dai magistrati arrivi la disponibilità a ´un effettivo
dialogo'. Dopo il 28° congresso dei magistrati che si è chiuso domenica, segnato da polemiche accese
ma anche da un confronto con tutte le forze politiche sul futuro della contestata riforma
dell'ordinamento giudiziario, ad articolare la posizione della Casa delle libertà è la responsabile
giustizia dell'Udc Erminia Mazzoni, che era sembrata la più possibilista a un cambio di rotta sul
provvedimento avendo fatto balenare l'ipotesi di sospensione della legge. Invece la Cdl si ritrova tutta
sulla stessa linea, come ribadito ieri dallo stesso guardasigilli Roberto Castelli che obiettando alla
interpretazione di una sua ´apertura' su una legge ´scritta male' è stato tranchant: ´Ribadisco che, a mio
parere, nella riforma dell'ordinamento giudiziario non vi è nulla da cambiare nella sostanza, anche se
sono necessarie correzioni in corso d'opera, come per qualunque legge delega'.
Domanda. L'Udc proporrà la sospensione della legge?
Risposta. Innanzitutto di azzeramento non si parla proprio. Abbiamo dato la disponibilità a valutare
eventuali profili di miglioramento a una condizione...
D. Cioè?
R. Che ci sia lo sforzo congiunto a migliorare il clima e che i magistrati siano disponibili a un vero
dialogo.
D. In verità l'Anm ha detto di essere stata sempre disponibile e di aver avanzato proposte alternative...
R. Le proposte dell'Anm sono poco coraggiose e innovative. Quando parlo di vero dialogo intendo la
disponibilità a trovare una sintesi tra le diverse posizioni, non proporre la propria come unica.
D. Quali sono i margini di miglioramento?
R. Per esempio sull'accesso. La preoccupazione riguarda la possibile scopertura di posti in una delle
due funzioni. Se le carriere saranno separate troveremo il modo di risolvere questa questione.
D. Altri temi?
R. La verifica di professionalità. Potrebbe essere organizzata con una tempistica diversa e marcando di
più l'aspetto dell'attività giudiziaria svolta in concreto per tarare il giudizio.
D. Quando pensate di farlo?
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R. Ritengo che una buona occasione potrebbe essere il provvedimento con cui si realizzerà la
separazione delle carriere.
D. Con riforma costituzionale e doppio Csm?
R. Sì per la prima. Per il resto, non pensiamo a due Csm. Comunque escluso qualsiasi assoggettamento
al potere pubblico.
D. Certo, non sono interventi sostanziosi. Eppure i magistrati sostengono l'incostituzionalità d'impianto
della riforma.
R. Lo escludo. Considerati anche i passaggi istituzionali che l'hanno riguardata (è stata rimandata alle
camere dal capo dello stato, ndr). Non è una leggina di cui si può chiedere l'abrogazione. L'abbiamo
discussa tre anni e l'abbiamo anche emendata andando incontro alle richieste delle toghe. (riproduzione
riservata) C.Morelli
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IL SOLE 24 ORE
Il processo moltiplica i riti
A mercoledì rischio-caos nelle aule dei tribunali
Ci vorrà una bussola per aggirarsi fra riti ,riciclati e nati da una normativa fatta di abrogazioni,
modifiche, e modifiche delle modifiche, che sta per piombare, da mercoledì 10 marzo o giù di lì,
sull'impianto già sgangherato del processo civile.
I «tasselli» di una riforma. Non bastavano le modifiche introdotte dalla legge 80/2005 di conversione
al DI competitività (n. 35), sono arrivate le ulteriori integrazioni della legge 263/05: e così poteva
sembrare che tutto fosse pronto per il varo del nuovo processo civile. Nient'affatto, è giunto il Dlgs
40/2006 sul procedimento per Cassazione, che innova anche regole sull'appello, e poi la nuova
normativa sugli infortuni stradali (atto Senato 3337) la quale bizzarramente introduce il rito del lavoro
per danni da morte o lesioni. Infine,per chiudere il ginepraio normativo sta per approdare sulla
Gazzetta Ufficiale la nuova disciplina delle esecuzioni (atto Senato 3752), che stravolge le regole
venute alla luce meno di un anno fa con il DI competitività.
Se si pensa che a tutto ciò quasi in sordina si affianca il rito societario, sembra proprio che ad avvocati,
giudici e cancellieri non basterà la bussola, occorrerà il "radar" per imbroccare la strada giusta.
Innovazioni al banco di prova. Negli uffici giudiziari si attende il 10 marzo senza allarmismi, le
"toghe" e i legali dovranno"digerire"le innovazioni sul terreno dell'interpretazione. E ci vorrà del
tempo. «Per il rito ordinario - precisa il presidente del Tribunale di Torino, Mario Barbuto –
apprezziamo la concentrazione della prima udienza, con il ristabilimento dell'obbligo di conciliazione».
Di certo ci sarà da lavorare sulle cause di famiglia. «Non è chiaro - precisa Barbuto – ad esempio a chi
dovranno essere notificate le memorie integrative se uno dei coniugi non è assistito da un legale».
Apprezzate anche le possibilità offerte di invio delle notifiche a mezzo fax e posta elettronica, già
previste peraltro nel societario. «La trasmissione via fax – conferma il presidente del Tribunale di
Genova, Antonino Dimundo - è molto diffusa, anche se manca il regolamento». La mail, però, resta
ancora un sogno: l'assenza della disciplina applicativa sulla firma digitale e il recente avvio della
sperimentazione del processo telematico, ne condizionano l'utilizzo».
A ogni causa il suo rito. Non è un "paradosso", ma la moltiplicazione delle regole processuali è ormai
un problema. Si contano a memona otto tipi di procedimenti: ordinario, del lavoro, delle locazioni,
societario, fallimentare, famiglia: tributario e quello relativo alle sanzioni amministrative. A
denunciarlo, nella cerimonia di apertura dell'anno giudiziario dei legali italiani svolta a Roma la
settimana scorsa - è stato il presidente del Cnf, Guido Alpa. «La pluralità di riti – scrive Alpa –
costituisce un aggravio per l'organizzazione della difesa, dovendo di volta in volta individuare il rito
applicabile e attrezzarsi per condurre la causa in modo differenziato». Senza contare, poi, che il giudice
è costretto a utilizzare nella stessa controversia differenti regole processuali.
Le novità più salienti. Sono tante, a cominciare dall'eliminazione del binomio udienza di
comparizione-udienza di trattazione, con conseguente risveglio dell'obbligo del convenuto di
presentazione in comparsa di risposta anche delle eccezioni processuali e di merito non rilevabili
d'ufficio. Obbligo che, con la connessa decadenza, aveva fatto gridare allo scandalo oltre dieci anni fa,
ai primi vagiti del "nuovo rito". La comparizione personale delle parti diviene così un optional, da
disporre esclusivamente su richiesta congiunta o d'ufficio dal giudice,presumibilmente soltanto allorché
ci sia qualche speranza di sistemazione della vertenza, e in particolare per gli avvocati, tante sono le
varianti da tenere presenti.
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Il sabato, poi, è equiparato a un giorno festivo se un termine scade in quella data, e di ciò va tenuto
conto nell'indicare la data dell'udienza nell' atto di citazione.
Ridisegnati i provvedimenti resi alla prima udienza per la prosecuzione del giudizio, adesso accorpata
di comparizione e di trattazione: su richiesta il giudice in primo luogo fissa un termine di 30 giorni per
il deposito di memorie limitate alle sole precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e
delle conclusioni già proposte. In secondo luogo un termine di ulteriori trenta giorni per replicare alle
domande ed eccezioni nuove, o modificate dall'altra parte, per proporre le eccezioni che sono
conseguenza delle domande e delle eccezioni e per l'indicazione dei mezzi di prova e produzioni
documentali, e infine un termine di ulteriori venti giorni per le sole indicazioni.
Rivoluzione nel processo in cassazione. Due grosse novità: obblighi di maggior precisione
nell'indicazione dei motivi e ampliamento della ricorribilità, estesa alla falsa applicazione dei contratti e
accordi collettivi nazionali di lavoro e all'omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un
fatto controverso decisivo per il giudizio.
Novità non soltanto per gli operatori, ma anche per il cittadino, che normalmente si difende da sé
nell'opposizione a ordinanza-ingiunzione: la decisione adottata diviene appellabile, e non più ricorribile
per cassazione, il che faciliterà assai anche sotto il profilo dei costi; così pure appellabile sarà la
sentenza del giudice di pace pronunciata secondo equità, ma il gravame è ristretto alla violazione delle
norme sul procedimento, costituzionali o comunitarie, o dei principi regolatori della materia.
E, sempre per limitarsi a parlare del comune cittadino, tempi duri se non si presenta a deporre, senza
giustificazione, quando 'venga citato come testimone: in luogo delle ridicole sanzioni attuali andrà
incontro a una pena pecuniaria da 100 a 1.000 euro.
CARMINE DE PASCALE
EUGENIO SACCHETTINI
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IL SOLE 24 ORE
GIUSTIZIA/ Da domani in vigore la miniriforma - Possibile la scelta del rito societario
Giudizi civili «alla carta»
Il nuovo processo civile debutta domani nei tribunali di tutta Italia. Sarà un avvio lento, però, perché
per misurare gli effetti della riforma bisognerà ancora attendere alcune settimane.
Le cause in corso, infatti, continueranno a essere esaminate con le vecchie regole, mentre le novità si
applicheranno solo a quelle introdotte a partire da domani. Una buona parte delle modifiche, poi, tocca
gli atti introduttivi del giudizio, e cioè l'atto di citazione e la comparsa di risposta.
Quindi, la percezione del cambiamento non sarà immediata in udienza.Di sicuro, però, se anche la
"grande" riforma del Codice, delineata a inizio legislatura dal progetto di legge delega licenziata dalla
commissione Vaccarella, è rimasta solo sulla carta, da domani lo svolgimento dei procedimenti civili
sarà destinato a cambiare. Anche perché al pacchetto di novità sul fronte del processo di cognizione si
aggiunge un denso intervento sul giudizio in Cassazione, a partire dal ricorso, e sull'arbitrato, ma anche
un assetto inedito per la disciplina delle esecuzioni, tradizionale "ventre molle" di un sistema che non
riesce a dare forza esecutiva alle pronunce dei giudici, sia mobiliari sia immobiliari.Tutte misure in
larga parte approvate nell'ultimo anno di legislatura, alcune anche negli ultimi mesi, e che testimoniano
di una, sia pur tradiva, attenzione del legislatore alla giustizia civile dopo che le polemiche su quella
penale hanno costellato tutta la legislatura (non a caso aperta con lo scontro sul falso in bilancio e
chiusa con quello sull'inappellabilità delle assoluzioni).L'obiettivo della miniriforma, che già doveva
entrare in vigore a settembre, poi a gennaio, e adesso finalmente ai nastri di partenza, è anche quello di
provare a dare un taglio alla durata dei processi. Ancora gli ultimi dati segnalano, a fronte di qualche
timido segnale di risveglio, uno stock di arretrato notevole (oltre i tre milioni di cause nei tribunali) e
una durata incompatibile con quella prevista dalla stessa Costituzione. Tra i cambiamenti più
significativi, quello che vede il convenuto chiamato a confrontarsi con nuove incombenze e termini di
decadenza e l'introduzione di una sorta di processo" alla carta". Le parti potranno, infatti, scegliere il
rito che intendono vedere applicato: l'alternativa è tra quello ordinario e quello societario che è stato
introdotto da un paio d'anni a questa parte, anche se le valutazioni sui risultati segnalano alcune
difficoltà applicative. Naturalmente, per l'applicazione del rito commerciale bisognerà che tutte le parti
siano d'accordo. Sarà poi il convenuto a essere chiamato in causa per prestare maggiore attenzione agli
obblighi processuali (si veda anche il grafico a fianco), che dovranno essere rispettati nella sua
comparsa di risposta. A partire dalla necessità di indicarvi tutte le eccezioni processuali e di merito che
non sono rilevabili d'ufficio. Così, andranno indicate da subito le difese e i mezzi di prova che intende
utilizzare; ma il convenuto dovrà anche dichiarare se intende chiamare in giudizio un terzo e formulare
le sue conclusioni. Se aumenteranno gli obblighi, aumenta anche il tempo a disposizione, visto che la
riforma fissa a 90 giorni il periodo a disposizione per la formulazione della comparsa: un allungamento
che per il legislatore si è rivelato opportuno per non comprimere il diritto di difesa. Quanto alle
udienze, si procede a una semplificazione,almeno nella fase introduttiva: viene, infatti, soppressolo
sdoppiamento, da molti criticato, fra udienza di comparizione e prima udienza di trattazione.
Il processo potrebbe così entrare subito nel vivo, cancellando un rinvio, di solito lungo alcuni mesi, che
di fatto non aveva più molte ragioni di esistere. In un'unica udienza il giudice verificherà così la
regolarità del contraddittorio e indicherà le questioni rilevabili d'ufficio. Solo su richiesta potrà
concedere alle parti termini per precisare le domande e le conclusioni già proposte.GIOVANNI NEGRI
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L'eccezione è la regola
di Marcello Clarich
«Aaa novello Giustiniano cercasi».
La revisione e la codificazione delle leggi vigenti è stato un obiettivo dei grandi riformatori, dall' imperatore
bizantino, appunto, fino a Napoleone che partecipò in prima persona alla stesura del code civil del 1804. Nel
2001, all'inizio di questa legislatura, il ministro della Giustizia, Roberto Castelli, annunciò alla Camera dei
deputati la riscrittura dei quattro Codici fondamentali (civile, penale, di procedura civile e di procedura penale),
di cui tre di data anteriore alla Costituzione e che riflettono, almeno in parte, ideologie e modelli economici e
sociali ormai superati. A questo scopo vennero istituite due commissioni presiedute, una da Carlo Nordio, per il
codice penale, l'altra da Romano Vaccarella, per il codice di procedura civile, alle quali si è aggiunta, in seguito,
quella affidata ad Andrea Antonio Dalia, per mettere mano alla procedura penale. Già allo scadere della
precedente legislatura, il Centro-sinistra aveva predisposto un progetto di codice penale redatto da una
commissione presieduta da Carlo Federico Grosso.Questi tentativi di riordino non hanno avuto successo, anche
perché metter mano ai principi di base racchiusi nei codici richiede chiarezza di visione, volontà politica capacità
tecniche non comuni.Inoltre, in un Paese come il nostro nel quale il Parlamento legifera a getto continuo e alla
spicciolata, vuoi per far fronte alle emergenze continue (terrorismo internazionale,finanziari eccetera), vuoi per
recepire il profluvio di direttive comunitarie, resta poco tempo per concepire progetti di ampio respiro.Si pensi,
da ultimo, alla Legge comunitaria 2005 varata all'inizio di febbraio, che impegnerà i ministeri in una vera e
propria corsa al recepimento di norme comunitarie. È comunque più facile, e forse elettoralmente più pagante,
modificare, com' è accaduto pochi giorni fa, un articolo del Codice penale sulla legittima difesa. Difficile è
invece ripensare a fondo, per esempio, la teoria dell'illecito penale inserendo, come proponeva il progetto
Nordio, il principio di offensività del reato, secondo il quale la sola violazione formale della norma non comporta
la punibilità.I vecchi codici hanno subito però in questi anni innumerevoli aggiustamenti. L'elenco dei
provvedimenti legislativi che hanno modificato e integrato i codici è lungo: diritto societario, esecuzioni
immobiliari, pedopornografia, legittimo sospetto, inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, eccetera. Il
risultato è che, alla lunga, gli innesti sfigurano l'albero.In aggiunta allo stravolgimento dei codici, da anni è in
atto anche quella che viene definita come la fuga dai codici. Interi filoni di discipline speciali si sono sviluppati
in parallelo e in modo non coordinato con il corpo di base. Più si introducono regimi derogatori, eccezioni ed
eccezioni delle eccezioni, più perdono forza i principi generali di diritto comune.Qualche successo si registra
invece sul versante del riordino di discipline amministrative di settore. Fin dai tempi delle cosiddette leggi
Bassanini del 1997, con uno sforzo che è proseguito in questa legislatura, hanno raggiunto il traguardo della
«Gazzetta Ufficiale» numerosi Testi unici o codici: espropriazioni, edilizia, privacy, telecomunicazioni,
consumatori, eccetera. Proprio in questi giorni è stato varato il Codice dell'ambiente. Anche quello degli appalti
pubblici, che recepisce anche le direttive comunitarie più recenti, sembra ormai in dirittura d'arrivo. Inoltre, la
legge di semplificazione2005 (246/2005) avvia un riordino della legislazione che dovrebbe culminare con
l'abrogazione di tutte le norme obsolete. Estende anche l'applicazione di strumenti di better regulation come
l'analisi e la verifica di impatto della regolazione (Air e Vir) volti a contenere norme che impongono
adempimenti troppo pesanti ai cittadini e alle imprese e che mettono in affanno le stesse amministrazioni
chiamate ad applicarle.
Tutto bene dunque? In realtà, tutti questi sforzi rischiano di essere inutili. Persiste infatti l'attivismo di molti
parlamentari che hanno sempre pronte leggine ed emendamenti che scompaginano ciò che è stato appena
riordinato. Ma, per erigere qualche argine bisognerebbe, infatti, metter mano ai regolamenti parlamentari e forse
anche alla Costituzione.
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DIRITTO E GIUSTIZIA
Come cambia il nuovo giudizio. Da domani
Entrano in vigore domani, 1° marzo, le novità stabilite dalla legge 80/2005 (cd. legge sulla Competitività) in materia di
Arbitrato e processo in Cassazione. Di seguito proponiamo un contributo che fa il punto sul processo in Cassazione, mentre
per quanto riguarda l'arbitrato si rimanda all'edizione on line del 14 gennaio 2006.
di Paolo Di Marzio - Magistrato
La commissione ministeriale presieduta da Romano Vaccarella, oggi giudice costituzionale, era stata incaricata nel 2002 di
redigere una ipotesi di legge delega per la riforma della procedura civile. La commissione aveva esaurito il suo lavoro nel
volgere di pochi mesi esitando un progetto (più o meno condivisibile, ma comunque) completo ed organico. Sebbene
l'articolato fosse stato alfine approvato dal Consiglio dei Ministri nell'ottobre del 2003, lo stesso ha finito per essere
smembrato in più parti, e solo alcune sono divenute legge. I principi ispiratori della riforma ipotizzata per il processo civile
sembrano allo stato più chiaramente leggibili nel c.d. rito societario (D.Lgs. n. 5/2005), che non nella disciplina del rito
ordinario, pur riformata in più parti.
La legge 80/2005 ha poi attribuito, recependo i principi e criteri direttivi indicati dalla commissione Vaccarella in materia, la
delega al Governo perché provvedesse alla riforma del giudizio di cassazione e della disciplina dell'arbitrato, prevedendo
pure che la bozza di D.Lgs. dovesse essere sottoposta, ai sensi dell'articolo 93 Ord. giud. (Rd 12/1941), al parere
dell'Assemblea generale della Suprema Corte. L'Assemblea ha effettivamente espresso il proprio parere il 21.7.2005 ed ha
reso osservazioni soltanto in merito alla riforma del giudizio di cassazione, omettendo di pronunciarsi circa la riforma
dell'arbitrato (sulla nuova disciplina dell'arbitrato, cfr. P. Di Marzio, D&G, n. 3/2006, p. 109).
La nuova disciplina del giudizio di cassazione è stata quindi dettata dal D.Lgs. 2.2.2006, n. 40, pubblicato sulla Gazz. Uff.
15.2.2006, n. 38. Il provvedimento è troppo complesso ed articolato perché sia possibile analizzarlo in poche pagine, tuttavia
pare comunque opportuno proporre qualche riflessione a prima lettura per valutare se gli obiettivi che il legislatore si era
prefisso siano stati raggiunti, in quale misura e con quali inconvenienti. La legge delega indicava espressamente (articolo 1,
co. 2, legge 80/2005) che occorreva assicurare piena attuazione al principio di cui all'articolo 65 Ord. giud. (Rd 12/1941),
secondo cui alla Suprema Corte compete la funzione nomofilattica, che consiste nell'assicurare la esatta osservanza e
l'uniforme applicazione della legge (per inciso, la parola nomofilachìa, espressione cara a Piero Calamandrei, ancora non
trova spazio nei dizionari della lingua italiana). La riforma si propone pure, come emerge dalla relazione al D.Lgs. (leggibile
sul sito internet del Ministero della giustizia), di ridurre il carico di lavoro della Suprema Corte.
IL POTENZIAMENTO DELLA FUNZIONE NOMOFILATTICA DELLA SUPREMA CORTE.
L'originaria norma dello schema di D. Lgs. (articolo 8, che rif. l'articolo 374 Cpc), dettava al co. 3, «Il principio di diritto
enunciato dalle sezioni unite vincola le sezioni semplici. Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio,
rimette alle sezioni unite, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso». Il testo definitivo omette ora il primo periodo.
La soppressione recepisce una osservazione dell'Assemblea della Cassazione che, nel suo ricordato parere, aveva suggerito
di evitare la «previsione espressa di un vincolo giuridico delle sezioni semplici ai principi enunciati dalle sezioni unite
(vincolo che pone anche dubbi di compatibilità con il principio costituzionale della soggezione del giudice soltanto alla
legge)». Si osservi che già la delega (articolo 1, co. 3, lett. (a, legge 80/2005) prevedeva espressamente il vincolo delle
sezioni semplici al precedente delle sezioni unite. Nella pratica, però, pur nella nuova formulazione della norma che evita la
previsione espressa del vincolo, non sembra cambi molto. L'effetto rimane lo stesso, le sezioni semplici non potranno
decidere in difformità rispetto ad un principio di diritto enunciato dalle SS.UU., ed il vincolo al precedente, pertanto, rimane,
così come il dubbio di costituzionalità suggerito proprio dalla Suprema Corte.
Poco comprensibile risulta, pertanto, l'affermazione del Primo Presidente della Corte di Cassazione (contenuta nel discorso
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per l'inaugurazione dell'anno giudiziario, leggibile, ad es., sul sito internet del Ministero della giustizia) secondo cui la
riforma è «apprezzabile … nella parte in cui impone al collegio dissenziente prima di adottare una decisione definitiva che si
ponga in contrasto con le Sezioni Unite, di illustrare, con apposita ordinanza, i motivi del dissenso, perché in tal modo si
contribuisce all'evoluzione della giurisprudenza senza pregiudicare la certezza del diritto»; le cose, infatti, sembra che stiano
in modo diverso. Non è che la sezione semplice, prima di decidere definitivamente, deve illustrare i motivi del dissenso, la
verità sembra essere che la sezione semplice, se dissente, non può più decidere, definitivamente o non definitivamente, ma
deve limitarsi a rimettere alle SS.UU. con ordinanza motivata. Il Primo Presidente della Corte ha pure condivisibilmente
sottolineato che «la funzione nomofilattica non compete solo alle Sezioni Unite, ma a tutti i collegi della giurisdizione di
legittimità». Rimane soltanto da vedere come i collegi diversi dalle sezioni unite potranno esercitarla, visto che non possono
più decidere in autonomia, in quanto se dissentono da un precedente delle SS.UU. non possono definire il giudizio, ma
devono rimettere la decisione a queste ultime. Sarà poi il prossimo futuro che ci dirà se il nuovo sistema funzionerà, perché
non si è previsto alcun rimedio per l'ipotesi che le sezioni semplici, semmai perché non conoscono l'orientamento espresso
dalle SS.UU. in un recentissimo precedente, decidono in difformità, senza provvedere alla rimessione.
Può immaginarsi, inoltre, lo sviluppo di elevati confronti sulla coincidenza o meno del “problema” di diritto sottoposto
all'esame della sezione semplice rispetto a quello deciso dalle SS.UU.; i giuristi italiani sono bravi, non c'è dubbio, nello
spaccare i capelli in quattro, in otto …
LA RIDUZIONE DEL CARICO DI LAVORO DELLA CASSAZIONE SENZA RIFORME.
La Cassazione italiana è certamente oppressa da un numero esagerato di processi da esaminare, numerosi dei quali di
modesta rilevanza, e la qualità delle decisioni adottate tende, progressivamente ma inesorabilmente, a diminuire. Molte le
ragioni dello stato di fatto, tra cui le competenze attratte dalla stessa Suprema Corte in materia di ricorso ex articolo 111
Cost., e le nuove competenze attribuite al giudice di legittimità anche in tempi piuttosto recenti, ad esempio in materia di
contenzioso tributario e di impugnazione delle decisioni del giudice di pace pronunciate secondo equità.
Sono diverse le strade percorribili per ridurre il carico di lavoro della Suprema Corte ma, se si intende continuare ad
assicurare al processo civile italiano, certamente troppo lungo, di continuare (almeno) ad essere uno dei giudizi più garantiti
al mondo, la soluzione del problema non è semplice. Una prima strada può essere percorsa dalla stessa Cassazione,
impegnandosi ad interpretare in senso rigoroso il proprio compito di giudice della legittimità, evitando di estendere i limiti
della propria competenza a decidere del fatto e pertanto limitandosi a pronunciare sul diritto. Questa opzione, a parte che
non sono affatto rare le ipotesi in cui la Cassazione è giudice (anche) del fatto, comporterebbe l'ampliarsi delle pronunce di
inammissibilità ma, altro lato della medaglia, limiterebbe la possibilità del giudice di ultima istanza di proporsi quale
autorità giudiziaria chiamata ad assicurare la giustizia, oltre che la corretta applicazione delle norme di diritto. Merita di
essere ricordato che sull'ingresso dei Tribunali è ancora scritto “Palazzo di giustizia”, mica palestra per esercitazioni in
materia di diritto. Sull'ingresso della Corte Suprema non è ancora scritto niente, vedremo.
LA RIDUZIONE DEL CARICO DI LAVORO DELLA CASSAZIONE MEDIANTE RIFORME LEGISLATIVE.
Le finalità deflattive del numero dei ricorsi possono essere perseguite anche mediante modifiche normative, come il D.Lgs.
n. 40/2006, le quali possono in primo luogo modificare la legge processuale in modo da ridurre i ricorsi proponibili al
giudice di legittimità. La modalità più semplice consiste nell'aumentare il filtro dell'appello, incrementando i casi in cui una
decisione di primo grado non è suscettibile di ricorso immediato per cassazione. L'esperienza insegna, infatti, che dopo due
gradi di giudizio di merito le parti, che hanno dovuto sopportarne gli oneri e le lungaggini, spesso rinunziano ad affrontare il
giudizio di legittimità. Il D.Lgs. n. 40/2006 persegue l'obiettivo prevedendo (articolo 1, che mod. l'articolo 339 Cpc) la
appellabilità delle sentenze pronunciate dal giudice di pace secondo equità, oltre che per la violazione delle norme sul
procedimento, «per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia», quindi sol
quando le decisioni in questione siano affette da vizi di particolare gravità. La norma non pare impeccabile per più motivi.
Innanzitutto la legge delega nulla prevedeva al riguardo, e rischia perciò di porsi un problema di eccesso di delega. Inoltre,
sembra che alle norme derivanti da patti internazionali cui l'Italia abbia aderito debba riconoscersi dignità pari alle analoghe
disposizioni comunitarie, ed avrebbe potuto allora ritenersi opportuno ricomprenderle, quando abbiano contenuto precettivo,
tra quelle che non possono essere “violate” dalla pronuncia secondo equità, come aveva del resto suggerito l'Assemblea
generale della Cassazione nel suo parere del 21.7.2005. Inoltre, la norma pare suggerire una equiparazione indiscriminata tra
le norme comunitarie e le norme costituzionali, il che sembra in contrasto con principi consolidati in materia di gerarchia
delle fonti normative. Ancora, quali siano i “principi regolatori della materia” rimane tutto da definire, e non sembra da
escludersi che proprio lo sforzo di individuarli possa alimentare un ulteriore contenzioso. In ogni caso, anche se tutti i dubbi
appena espressi potessero essere superati e la disposizione dovesse raggiungere il suo scopo, comportando la riduzione del
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numero dei ricorsi in Cassazione per contestare vizi delle decisioni pronunciate dal giudice di pace secondo equità, il
beneficio in termini di riduzione del carico di lavoro complessivo della Suprema Corte dovrebbe risultare modesto, visto che
i ricorsi al giudice di legittimità avverso tali decisioni ammontano a circa il 2% del carico totale di lavoro della Cassazione.
Si tenga pure conto che il numero delle decisioni secondo equità le quali possono essere pronunciate dai giudici di pace è
stato comunque già ridotto prevedendosi che i giudici onorari debbano decidere (non più secondo equità ma) secondo diritto
anche le cause il cui valore non eccede millecento euro, quando esse siano «derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti
conclusi secondo le modalità di cui all'articolo 1342 del codice civile» (articolo 313, co. II, Cpc, come mod. dall'articolo 1,
Dl 18/2003, conv. dalla legge 63/2003), cioè mediante moduli o formulari. Inoltre, la Consulta, con sent. 6.7.2004 n. 206, ha
dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 313 Cpc nella parte in cui non prevedeva che il giudice di pace, nel
decidere secondo equità, dovesse comunque osservare «i principi informatori della materia». Sorge ora, quindi, l'ulteriore
problema di distinguere i principi “regolatori” della materia da quelli “informatori” della stessa, e sarà un bel discutere. A
questo punto sarebbe stato forse meglio essere più audaci, eliminando semplicemente le decisioni secondo equità (se non
richieste dalle parti), come pure si era ipotizzato nel corso dei lavori della commissione Vaccarella. Se non altro sarebbe
stata assicurata una maggiore tutela degli utenti della giustizia.
A fronte della modesta riduzione del carico di lavoro che potrà derivare alla Suprema Corte dall' esaminata norma di cui all'
art. 1, D.Lgs. n. 40/2006, l' art. 2 delle stesso provvedimento normativo, riformando l' art. 360 Cpc, prevede ora il sindacato
diretto del giudice di legittimità quando sia contestata la “violazione o falsa applicazione di norme … dei contratti e accordi
collettivi nazionali di lavoro”, sull' esempio di quanto già previsto in materia di contratti del pubblico impiego. Per quanto
pure l' art. 26 del D.Lgs. elimini un ulteriore caso di ricorribilità diretta in cassazione prevedendo, di fatto, l' appellabilità
delle decisioni avverso l' opposizione alle ordinanze ingiunzione, sembra nondimeno potersi prevedere che, operando un
bilanciamento tra gli effetti delle nuove norme che comporteranno una diminuzione dei ricorsi proposti in Cassazione e di
quelle che prevedono l' estensione del suo sindacato su ulteriori controversie, categorie di disposizioni delle quali si è
cercato di indicare gli esempi probabilmente più significativi, alla fine il numero di ricorsi proposti innanzi alla Suprema
Corte tenderà ad aumentare.
Il carico di lavoro della Suprema Corte, però, potrebbe ugualmente ridursi per effetto della riforma introdotta dal D.Lgs. n.
40/2006, non tanto in riferimento al profilo quantitativo, quanto piuttosto con riguardo a quello, per così dire, qualitativo.
La delega (articolo 1, co. 3, lett. a), legge 80/2005) prevedeva che la Corte dovesse «enunciare il principio di diritto, sia in
caso di accoglimento, sia in caso di rigetto dell'impugnazione e con riferimento a tutti i motivi della decisione». Avrebbe
dovuto discenderne la fine del c.d. assorbimento dei motivi, che è quella tecnica decisionale in base alla quale un giudice,
quando ritenga fondata l'impugnazione in relazione ad uno dei motivi di contestazione fatti valere, pronuncia la decisione
consequenziale, evitando di pronunciarsi sugli ulteriori capi di impugnazione, da ritenersi assorbiti. Quindi se il ricorso fosse
stato articolato mediante l'indicazione di dieci motivi, il principio di diritto avrebbe dovuto essere indicato in relazione ad
ognuno, qualunque fosse la natura della contestazione fatta valere (vizio di giurisdizione o di competenza, violazione di
norme di diritto, etc.).
Nonostante quanto si legge nella relazione al D.Lgs., il legislatore delegato ha invece previsto che il principio di diritto sarà
indicato dalla Suprema Corte (articolo 12, co. 1, D.Lgs.) solo se vi è contestazione per «violazione o falsa applicazione di
norme di diritto» (articolo 360, n. 3, Cpc); oppure se il giudice di legittimità lo ritiene necessario perché «decidendo su altri
motivi del ricorso, risolve una questione di diritto di particolare importanza». Il D.Lgs. sembra evidenziare in materia un
difetto di coordinamento tra le sue disposizioni. Infatti, esso impone comunque alla parte che propone l'impugnazione di
indicare il quesito di diritto (articolo 6, co. 1, D.Lgs.) il quale permetta alla Corte di enunciare il principio di diritto, oltre che
nell'ipotesi di cui all'articolo 360, n. 3, Cpc, anche in relazione alle ipotesi di cui ai nn. 1 (difetto di giurisdizione), n. 2 (vizio
di competenza), e n. 4 (nullità della sentenza o del procedimento), tralasciando per brevità la più complessa ipotesi di cui al
n. 5. A questo punto rimane dubbio perché il difensore sia onerato dell'obbligo di formulare in tutti questi casi, a pena di
inammissibilità del ricorso si badi bene, il quesito di diritto, se poi la Corte in sede di decisione non è tenuta ad enunciare il
principio di diritto corrispondente. La delega diceva cose diverse, richiedendo l'enunciazione del principio di diritto in
relazione a ciascun motivo di impugnazione, ed appariva allora coerente onerare la parte di proporre lo speculare quesito di
diritto in ordine a ciascun motivo di impugnazione. Ora, a parte il rischio che siano sollevate questioni di costituzionalità per
vizio di eccesso di delega, anche l'obiettivo di una maggiore certezza del diritto, e pertanto del completo esercizio della
funzione nomofilattica della Cassazione, rischia di rimanere, almeno in parte, vanificato. Sta di fatto che le pronunce di
inammissibilità dovrebbero aumentare ed il lavoro della Suprema Corte potrebbe perciò semplificarsi.
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LA NUOVA DISCIPLINA DELLE SPESE DEL GIUDIZIO E LA RIDUZIONE DEI RICORSI.
La riduzione dei ricorsi per cassazione potrebbe discendere anche dal nuovo regime delle spese del giudizio di legittimità.
La norma (articolo 14 D.Lgs., che sost. l'articolo 388 Cpc) prevede ora che la “Corte condanna”, quindi è obbligata a farlo,
non si tratta di una facoltà, «la parte soccombente al pagamento a favore della controparte, di una somma, equitativamente
determinata, non superiore al doppio dei massimi tariffari, se ritiene che essa ha proposto il ricorso o vi ha resistito anche
solo con colpa grave». L'Assemblea della Cassazione suggeriva di imporre pure un pagamento in favore della cassa delle
ammende, ma la proposta non è stata accolta. La norma definitiva sembra comunque equilibrata e non meritevole di censure,
poiché si muove nella tradizione della responsabilità per lite temeraria, anche se in questo caso si prescinde totalmente da
ogni danno che possa essere stato subito dalla controparte, e l'istituto può scoraggiare impugnazioni pretestuose (già
sconsigliate dall'esecutività delle sentenze di primo grado), sanzionando l'abuso dello strumento processuale del ricorso per
cassazione.
Il problema, piuttosto, è che l'ordinamento giuridico italiano non è più unitario, neppure in materia processuale, ed i
procedimenti cui si applicano riti diversi dall'ordinario cominciano ad essere tanti. Nell'ipotesi di applicazione del c.d. rito
societario, ad esempio, si è previsto (articolo 16, co. 2, D.Lgs. n. 5/2003) che la parte pur “formalmente vittoriosa” possa
vedersi addossare, anche per intero si badi, le spese processuali, quando abbia “rifiutato ragionevoli proposte conciliative”.
Ora, che si impongano oneri aggiuntivi alla parte soccombente la quale ha proposto domande giudiziarie con dolo o colpa
grave può anche star bene, ma che oneri i quali giungono fino al pagamento di tutte le spese del giudizio possano essere fatti
gravare sulla parte vittoriosa pare improprio, e suscita perplessità anche in ordine alla legittimità costituzionale della
previsione. Per non dire che la norma è tutta da interpretare, perché toccherà poi alla giurisprudenza chiarire che significa
parte “formalmente” vittoriosa (qual è la valenza semantica dell'avverbio ?), ed in base a quali parametri debba valutarsi la
“ragionevolezza” delle proposte conciliative (transattive ?) che, se rifiutate dalla parte vittoriosa, possono comportarne
l'assoggettamento a sanzione. Con buona pace di tutti coloro che si lamentano dell'impegno della giurisprudenza nella
creazione di norme di diritto, supplenza resa necessaria dalle scelte operate dallo stesso legislatore.
IL NUOVO RICORSO NELL'INTERESSE DELLA LEGGE.
Merita infine di essere segnalato che la riforma propone rilevanti novità in materia di c.d. ricorso nell'interesse della legge.
Ai sensi dell'articolo 363 Cpc, il procuratore generale presso la Cassazione poteva chiedere, senza effetto tra i litiganti, che
una sentenza fosse cassata nell'interesse della legge, qualora le parti fossero decadute dalla possibilità di proporre il ricorso
di legittimità, o avessero rinunziato ad introdurlo. La riformulazione della norma disposta dall'articolo 4, D.Lgs. n. 40/2006,
ha innanzitutto meglio chiarito le finalità dell'istituto, specificando che è nel potere del procuratore generale chiedere che «la
corte enunci nell'interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi». Inoltre ha
esteso l'applicabilità del ricorso, prevedendo che lo stesso possa essere proposto anche se «il provvedimento non è ricorribile
per cassazione e non è altrimenti impugnabile». Apprezzabili miglioramenti. Ma la vera novità si trova al co. 3, ove si è
previsto che «il principio di diritto può essere pronunciato dalla Corte anche d'ufficio, quando il ricorso proposto dalle parti
è dichiarato inammissibile, se la Corte ritiene che la questione decisa è di particolare importanza», fermo restando che pure
in questo caso la pronuncia della Cassazione non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito. Merita di essere
sottolineato che in quest'ultimo caso la Corte Suprema può enunciare il principio di diritto a prescindere da qualsiasi
iniziativa delle parti private o del procuratore generale. Il nuovo istituto, sulla carta, può effettivamente consentire alla Corte
di pronunciarsi sulle questioni di maggior rilevanza, orientando la giurisprudenza ed esercitando la propria funzione
nomofilattica, indipendentemente dai vizi da cui possono essere affetti gli atti di parte che hanno sottoposto la questione al
suo esame. L'istituto, se la Suprema Corte ne farà davvero uso, è certamente interessante, anche se potrà creare qualche
grattacapo ai professionisti del foro. È facile ipotizzare, infatti, che la parte il cui ricorso sia stato dichiarato inammissibile,
ma apprende poi che avrebbe avuto ragione per effetto di una decisione della Cassazione di cui non può avvalersi, potrebbe
non rimanere soddisfatta della prestazione fornitale dal suo avvocato.
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IL SOLE 24 ORE
Giustizia/Il bilancio delle modifiche
Per i Codici una riforma “strisciante”
Progetti organici solo su società e rito civile
Resistono.. Eccome resistono. I quattro codici, seppure un po’ consunti, sono ancora lì. Scricchiolano, ma restano
in piedi, e portano dignitosamente il peso dei loro anni.Il più "fresco.", quello sulla procedura penale, si avvia
verso il ventesimo compleanno. Gli altri - penale, civile e procedura civile, - hanno abbondantemente superato la
sessantina. Ritocchi, anche corposi, li hanno. vissuti. E, infatti,i segni del tempo. si vedono tutti, infarciti come
sono.di bis e ter in ogni riga tracce indelebili dei Costumi che si aggiornano e dei mille colpi subiti dentro e fuori
il Parlamento.
Eppure uno scossone la legislatura che sta chiudendo i battenti ha provato a darlo. Tre commissioni ministeriali
al lavoro per dare un nuovo volto ai codici penali, sostanziale e procedurale, e a quello civile (proprio.all'inizio
della legislatura), anche se i progetti elaborati non hanno poi trovato sbocco alle Camere. Messi, dunque, da parte
i propositi di riforme strutturali, l' attenzione si sposta sull' attività legislativa ordinaria. Che qualche frutto, senza
dubbio, ha portato. Poche, però, le riforme organiche, che riguardano solo il diritto societario e il processo
civile.La prima è figlia di una delega che ha prodotto a sua volta due decreti legislativi che hanno rivoluzionato
la materia, sia dal punto di vista sostanziale (Dlgs' 6/2003), sia dal punto. di vista delle norme procedurali (Dlgs
5/2003). E, per certi versi, quel nugolo.di provvedimenti che segneranno il processo civile a partire dal 10
marzo., ha preso le mosse proprio dagli strumenti procedurali previsti per le controversie societarie.Per
comprendere l'impatto.della riforma del diritto societario sul codice civile è sufficiente vedere le dimensioni
dell'intervento: dei 764 articoli che, secondo i calcoli del Sole 24Ore, costituiscono l'universo di quelli
complessivamente modificati nel corso della legislatura, ben 345 dipendono dal decreto legislativo. 6/2003 e da
altri due provvedimenti che lo hanno completato.
Dunque, la metà circa degli interventi effettuati sui quattro codici in cinque anni è stata consumata per
ammodernare i rapporti societari. La riforma del processo civile, tra sostituzioni e aggiustamenti, ha invece
interessato "solo." 79 articoli, ai quali vanno aggiunti quelli ritoccati dal Dlgs 40/2006 che ha riscritto. La
disciplina dell' arbitrato e del processo di Cassazione. I Codici hanno poi dovuto tenere il passo delle emergenze
affiorate negli ultimi anni. C'è stata l'ondata di terrorismo internazionale che ha segnato pesantemente l'avvio
della legislatura e che ha indotto il legislatore a inserire nuove voci di reato nel codice penale. Ma gli esempi
sono molti:dall'inasprimento delle pene contro la tratta di persone alla riduzione in schiavitù, solo per citarne
alcuni. Evidenti, poi, sono i segni sul codice penale dei Costumi che cambiano e dei compositi tempi che
viviamo. Un nuovo titolo punisce i delitti contro il sentimento per gli animali, mentre all'inizio di quest' anno è
entrato in vigore il progetto che introduce il reato di infibulazione. E attendiamo da un momento all'altro la
pubblicazione in Gazzetta della legge che depotenzia, dal punto di vista penale, il vilipendio alla bandiera
italiana. Anche il codice civile sembra però adeguarsi. Specialmente con l'addio dell'affidamento esclusivo della
prole a uno dei coniugi in caso di separazione personale. Non va dimenticata la ex Cirielli in materia di
prescrizione dei reati che si appresta a determinare i suo effetti sui processi pendenti e sulla pretesa punitiva dello
Stato. E guardando infine nelle pieghe delle correzioni apportate al monumento dei quattro codici va segnalata,
con la recente legge sulla pedopornografia,l'irriducibile fantasia del legislatore che, dopo i ter e i quater, è
arrivata perfino ai "sottoparagrafi" identificati con un punto per combattere la pornografia virtuale. Spetta infatti
all'articolo 600-quater.1 il compito di punire la diffusione di fotomontaggi scabrosi.
ANDREA MARIA CANDIDI a.candidi@ilsole24ore
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IL SOLE 24 ORE
Tempi più rapidi per le separazioni
La riforma della procedura civile, in vigore da dopodomani 10 marzo, modifica anche le nonne sui procedimenti
di separazione e divorzio, introducendo nuove regole volte ad abbreviare i tempi del processo. Il risultato è una
normativa più precisa e completa, che dopo un primo necessario rodaggio sarà sicuramente apprezzata sia dagli
operatori sia dagli utenti. La prima novità riguarda la competenza, in quanto i ricorsi di separazione e divorzio si
proporranno di fronte al tribunale dell'ultima residenza comune dei coniugi, oppure, in mancanza, secondo la
vecchia regola del tribunale del luogo di residenza del convenuto.
Ricorso e memoria integrativa. Le domande di separazione e divorzio si propongono con un ricorso che deve
contenere 1'1ndicazionedei fatti che il ricorrente pone a fondamento delle proprie domande. A seguito della
riforma, il ricorso costituisce un atto sommario, cui fa seguito una memoria integrativa da depositare di fronte al
giudice istruttore. Questa novità permetterà la preparazione dell'atto introduttivo in tempi più rapidi, in quanto la
difesa più completa sarà quella svolta nella successiva fase di fronte al giudice istruttore. In questa prima fase il
ricorrente potrà quindi limitarsi a depositare la dichiarazione dei redditi, mentre solo con la memoria integrativa
dovrà indicare le prove di cui intende avvalersi.
All'udienza con Unico. Il presidente del tribunale,entro cinque giorni dal deposito del ricorso, fissa con decreto
l'udienza di comparizione dei coniugi, che deve tenersi entro 90 giorni dal deposito del ricorso. Anche questa è
una novità, volta a contenere l'avvio della fase sommaria del giudizio entro un termine
ragionevole. Il convenuto ha la possibilità di depositare una memoria difensiva, ma può anche limitarsi a
partecipare all' udienza con l'assistenza del proprio difensore, rinviando le sue difese alla memoria di costituzione
di fronte al giudice istruttore. Il convenuto deve comunque presentarsi con l'ultima dichiarazione dei
redditi.All'udienza presidenziale, alla quale i coniugi partecipano insieme ai rispettivi difensori, il presidente
tenta la conciliazione della causa e se questa non riesce assume con ordinanza i provvedimenti provvisori
nell'interesse dei coniugi ed eventualmente anche dei figli. L'ordinanza è adesso impugnabile immediatamente di
fronte alla Corte d'appello, con un reclamo da depositarsi entro il termine di dieci giorni.
I nuovi tempi. Con la medesima ordinanza il presidente nomina il giudice istruttore e fissa la comparizione dei
coniugi di fronte a questi. Tra la data dell'ordinanza presidenziale e quella dell'udienza davanti al giudice
istruttore devono trascorrere 45 giorni, se entrambi i coniugi sono comparsi di fronte al presidente. Se, invece, il
convenuto non è comparso, posto che l'ordinanza gli deve essere notificata, i 45 giorni decorrono dalla notifica, e
se il luogo della notifica si trova all' estero, il termine sale a 75 giorni. Si tratta anche in questo caso di una
novità,. in quanto la precedente normativa non fissava alcun termine di fissazione dell'udienza di fronte al
giudice istruttore, il che permetteva ai magistrati di rinviare anche di molti mesi l'inizio della fase ordinaria del
processo.
Il presidente, infine, con la predetta ordinanza assegna un termine al ricorrente per il deposito di una memoria
integrativa che costituisce il principale atto difensivo del ricorrente, e deve contenere, in particolare, i fatti e gli
elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni; l'indicazione specifica dei
mezzi di prova dei quali l'attore intende valersi e in particolare dei documenti che offre in comunicazione. Lo
stesso vale per il convenuto, il quale, per espressa disposizione di legge, si costituisce in giudizio entro un
termine fissato dal presidente.
La memoria di costituzione. Con questa il convenuto: propone tutte le sue difese; prende posizione sui fatti
posti dall'attore a fondamento della domanda; indica i mezzi di prova. di cui intende valersi e i documenti che
offre in comunicazione; e formula le proprie conclusioni.Entro il termine di costituzione il convenuto, a pena di
decadenza, deve tra l'altro proporre le eventuali domande convenzionali (si tratta delle domande che il convenuto
rivolge nei confronti del ricorrente). Per il resto, valgono le nonne sull'ordinario giudizio di cognizione, peraltro a
sua volta modificato dalla riforma della procedura civile. ANDREA GRAGNANI
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IL SOLE 24 ORE
Circolazione stradale
Rc auto, il risarcimento gioca d’anticipo
Arrivano nuove regole sulla procedura delle cause di risarcimento dei danni da sinistri stradali che
abbiano causato alla vittima lesioni personali (mortali o meno). La legge contenente «Disposizioni
urgenti in materia di conseguenze derivanti da incidenti stradali», approvata in via definitiva dal Senato
il 9 febbraio, è ancora in attesa della pubblicazione sulla «Gazzetta Ufficiale», e contiene alcuni aspetti
particolari e innovativi.
Cambia il rito processuale. L'articolo 3 del provvedimento, innanzitutto, dispone che nelle cause di
risarcimento danni da incidenti istradali per morte o lesioni, il rito processuale da applicare è quello
utilizzato per le cause di diritto del lavoro. Una novità di non poco conto che, come si vede dallo
schema, introduce differenze di rilievo rispetto rito ordinario. Per di più, l'applicazione della procedura
del rito del lavoro alle cause di risarcimento da sinistri stradali avviene nell'imminenza della
introduzione del nuovo processo civile che pure entrerà in vigore mercoledì 10marzo.
Una riforma, quest'ultima, orientata proprio l’accelerazione delle procedure di introduzione delle
domande e delle difese e di acquisizione degli elementi istruttori.
Difficile quindi comprendere la necessità di associare una parte del contenzioso da sinistri stradali a un
rito speciale che fa della celerità la caratteristica principale proprio quando entra in vigore una riforma
orientata verso la stessa ratio.
Gli uffici giudiziari. Giudici di pace e tribunali dovranno affrontare non poche problematiche
organizzative e dovranno essere in grado di recepire (fin dallo smistamento del contenzioso e dalla
predisposizione del fascicolo di causa) due distinti procedimenti legati alla stesa tematica (causa
petendi: il contenzioso da sinistri stradali) ma distinti nel loro contenuto (petitum: danni personali
piuttosto che materiali) .Ci si trova di fronte, di fatto, a un'irrazionale diversificazione del rito. Le cause
di risarcimento da sinistro stradale con danni solo materiali dovranno essere gestite con rito ordinario;
quelle della stessa natura ma per le quali venga richiesto il risarcimento di 'lesioni o dell'evento morte
vedranno applicato il rito del lavoro; infine ogni altra causa di risarcimento del danno per qualunque
altra ipotesi di fatto illecito (sia che abbia determinato un danno materiale che alla persona) verrà
introdotta e gestita nuovamente con il rito processuale ordinario.Un'altra importante novità per le cause
da risarcimento del danno da incidente stradale è prevista dall'articolo 5 del testo approvato al Senato.
La norma introduce una sorta di provvedimento anticipatorio della sentenza nei casi in cui il giudice
istruttore si renda conto, in corso di causa, che gli elementi istruttori emersi e presentati dai danneggiati
siano tali da determinare già gravi elementi di responsabilità a carico del convenuto, ordinando allo
stesso, e al suo assicuratore, di versare immediatamente alla vittima, che ne abbia fatto istanza, una
provvisionale di un importo variabile tra il 30 e il 50% della presumibile entità del risarcimento che
sarà liquidato in sentenza.
Pro e contro. La norma solleverà problemi interpretativi perché è introdotta nel contesto di un
provvedimento (l'articolo 24 della legge n. 990/69) espressamente abrogato e sostituito dall' articolo
147 del Dlgs 209/2005 (Il Codice delle assicurazioni private, in vigore dal 10 gennaio di quest' anno),
ma certamente presenta aspetti innovativi e importanti se si pensa che in precedenza l'ordinanza di
provvisionale in corso di causa era prevista solo in caso di stato di bisogno della vittima o degli aventi
diritto, non sempre presente e soprattutto non sempre facile da provare in giudizio. FILIPPO MARTINI
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Nordio: «Poco coraggio sul diritto penale»
Le leggi di sistema forse non pagano in termini di ritorno
elettorale. È questa la spiegazione che Carlo Nordio, presidente della commissione ministeriale per la
riforma del Codice penale, si è data per l'inerzia che, anche in questa legislatura, ha impedito
l'approvazione di un progetto di riforma complessiva che, per una volta, era pronto per tempo sia nella
parte generale sia in quella speciale.
Dottor Nordio, non è riduttivo pensare che l'impasse sia dovuto solo a ragioni di opportunità?
Non credo. Il nostro progetto è stato generalmente apprezzato dagli operatori e alla redazione hanno
partecipato avvocati e magistrati. Penso piuttosto che interventi di ampio respiro e impegnativi come la
riscrittura di un Codice non siano paganti dal punto di vista elettorale. La nostra legislazione penale è
molto più dettata dall'urgenza del momento che dall' ambizione di modifiche strutturali.
Nel merito, una riduzione del perimetro della rilevanza penale è considerata da più parti ormai
ineludibile: come vi eravate orientati al riguardo?
Avevamo individuato in un disegno di legge specifico una serie di condotte che potevano essere
tranquillamente considerate non più meritevoli di un intervento penale, ma anche di questo progetto
non se n'è fatto nulla. Nel Codice, poi, avevamo pensato di abbandonare per sempre tutte le
contravvenzioni per concentrare la risposta penale solo sui comportamenti veramente pericolosi per il
nostro modello sociale.
Aprendo per una volta,al futuro, qual è il lascito della vostra attività alla prossima legislatura?
Penso che, oltre alla depenalizzazione, l'accento debba essere posto sul sistema delle scriminanti che
viene riscritto completamente e, soprattutto, sul regime sanzionatorio, Per esempio, su quest'ultimo
aspetto, avevamo pensato di eliminare tutte le pene pecuniarie e di affidare al giudice della cognizione
una serie di attività che, invece, oggi sono di competenza di quello dell'esecuzione. Ma in generale il
meccanismo delle pene puntava a dare alla sanzione penale una maggiore serietà e concretezza: una
volta inflitta, infatti, la pena deve essere scontata, per questo, avevamo abolito le attenuanti generiche.
E dal punto di vista della criminalità economica che, nel tempo, si è rivelata un'emergenza anche per
la credibilità nazionale?
Ricordo solo due novità: una sistematica e una specifica. Innanzitutto avevamo pensato a una
risistemazione complessiva dei reati sotto un medesimo titolo. Ma, per quanto riguarda il falso in
bilancio, è chiaro che, avendo deciso la soppressione delle contravvenzioni, ci sarebbe stato un ritorno
alla classificazione come delitto della fattispecie che oggi è prevista solo come contravvenzione.
GIOVANNI NEGRI
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Dalia: «Necessari i ritocchi alla procedura»
Una procedura penale più rapida, in grado di mettere veramente accusa e difesa su piano di parità, in
linea con i principi del «giusto processo», anche per durata. Ma anche per questa legislatura non se ne è
fatto nulla. La commissione presieduta dal professor Andrea Antonio Dalia, ha concluso i lavori, ma il
progetto non è mai stato presentato in Parlamento.
Salvate il progetto Dalia: professore, quali sono gli aspetti della proposta di riforma che meritano, più
di altri, di fare da bussola per un futuro intervento organico, indipendentemente dalla maggioranza che
sarà chiamata ad attuarlo?
Avevamo innanzitutto individuato una serie di passaggi processuali che potevano essere semplificati
per accelerare il corso del procedimento. Un esempio per tutti: l'avviso di chiusura delle indagini che è
seguito a breve dalla richiesta di rinvio a giudizio. Una dispersione di energie processuali che non
risponde a esigenze di garanzia. Ma anche il meccanismo delle notifiche dovrebbe essere rivisto in
profondità. Fondamentale però mi sembra la necessità del recupero del valore della giurisdizione.
Anche per eliminare le troppe situazioni paradossali, come quella di avere una Corte d'assise
competente per i reati di maggior gravità che può essere sostituita da un giudice monocratico nel rito
abbreviato. Senza tenere conto poi di tutti i casi in cui, di fatto, le parti, imputato o pubblica accusa,
possono arrivare a scegliere il giudice.
E sul versante dei riti alternativi, decisivi per restituire velocità al procedimento penale?
Avevamo pensato di intervenire in profondità. Per il patteggiamento, la nostra proposta era di renderlo
possibile sino al termine del dibattimento, aumentando anche i limiti di pena fino a venti anni.
E quanto al regime delle impugnazioni dopo la legge sull'inappellabilità delle sentenze di assoluzione?
Si tratta di un principio che condivido e che, anzi, è stato tratto dal nostro modello di Codice. Tenga
presente che il diritto al doppio grado di merito non è previsto neppure dalla Costituzione. In sede di
convenzioni internazionali, poi, è ribadito il diritto a un riesame nel merito delle condanne. Ma solo
delle condanne. Lo stesso ampliamento dei motivi di ricorso in Cassazione non mi sembra certo
scandaloso Se c'è stato travisamento di una prova da parte del giudice, si tratta di una violazione grave
che va riparata.
Il "vostro" Codice si occupava anche delle indagini difensive?
Certo. Per potenziarle. Penso sia importante mettere nelle mani degli avvocati strumenti in grado di
dare più efficacia al diritto di difesa. In particolare, avevamo previsto che sia possibile l'acquisizione di
atti da pare dei legali anche nei confronti dei privati e non solo della pubblica amministrazione. Ma, in
generale, abbiamo conservato la filosofia del Codice del 1988, eliminando anomalie come quella che
sia il Pm curare l'esecuzione delle sentenze.
G.NE
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ALBI E MERCATO/ Il Parlamento di Strasburgo ha frenato la deregulation proposta dalla
Commissione
Nella Ue vince la pubblicità etica
Ordini e Associazioni elaboreranno codici di condotta con paletti deontologici per i messaggi
promozionali
Da un lato la Commissione europea riconosce che la pubblicità dei servizi professionali è uno
strumento indispensabile per la concorrenza, Dall'altro lato, però, l'Unione europea arretra nello
sfondamento delle barriere poste dagli Stati alla pubblicità dei professionisti. E dunque - si veda
l'inchiesta sul Sole 24 Ore di ieri - i professionisti utilizzano gli strumenti pubblicitari con cautela.
Sul piano europeo l'ultimo stop alla liberalizzazione è arrivato dal Parlamento di Strasburgo che ha
bocciato le aperture della Commissione, smantellando l'intero impianto della proposta di direttiva
Bolkestein sui servizi nel mercato interno. Se l'Esecutivo, nel progetto presentato il 25 febbraio 2004,
aveva messo nero su bianco la necessità di sopprimere «i divieti totali delle comunicazioni commerciali
per le professioni regolamentate» e aveva stabilito l'applicazione del principio del Paese d'origine non
solo per l'accesso alle attività professionali, ma anche per le regole in materia di pubblicità, il
Parlamento europeo ha fatto marcia indietro. Nella risoluzione approvata il 16 febbraio scorso, ha
cancellato ogni richiamo all'eliminazione dei vincoli in materia di pubblicità e ha richiesto agli Stati,
d'intesa con la Commissione, l'adozione di codici di condotta, elaborati da Ordini e associazioni
professionali, che includano «nonne per le comunicazioni commerciali relative alle professioni
regolamentate ». In ogni caso, però, questi codici dovranno essere compatibili «con le norme di
deontologia professionale giuridicamente vincolanti negli Stati membri». L'eliminazione poi del
principio del Paese d'origine, lascerà, salvo cambiamenti durante la procedura di codecisione, ampia
libertà agli Stati. Questo malgrado la Commissione, nella relazione sui servizi professionali del 9
febbraio 2004, aggiornata il 5 settembre scorso, abbia evidenziato «l' asimmetria di informazioni tra
professionisti e consumatori di servizi», con una difficoltà per gli utenti di valutare le prestazioni in
anticipo e ,con un aumento delle tariffe dei servizi professionali «senza alcun effetto sulla qualità». La
Corte di giustizia non si è occupata direttamente dell'utilizzo della pubblicità nelle professioni.
Ha però chiarito che uno Stato membro, anche se nel proprio Paese è vietata la pubblicità di alcune
attività, non può impedirla se le attività sono impartite in altri Paesi Ue {sentenza 11 luglio 2002, causa
C-294/OO). Nelle direttive settoriali, la Ue ha lasciato spazio agli Stati. In quella riguardante la libera
prestazione dei servizi da parte degli avvocati (77/249 del 22 marzo 1977)non ha dettato una specifica
disciplina, rimandando, per tutte le attività di rappresentanza e difesa, alle condizioni dello Stato
ospitante con l'obbligo di adempiere alle regole professionali di quello di provenienza. Che è
competente per le altre attività, inclusa la pubblicità, nel rispetto delle nonne di quello ospitante. Solo
con l'adozione della direttiva 2000/31 dell'8 giugno 2000 sugli aspetti giuridici dei servizi della società
dell'informazione, in particolare il commercio elettronico,nel mercato interno è stato riconosciuto in
modo espresso il diritto dei professionisti all'utilizzo della pubblicità telematica. Con l'obiettivo di
eliminare gli ostacoli allo sviluppo dei servizi transnazionali forniti dalle professioni su Internet,
l'articolo stabilisc che gli Stati devono consentire «l'impiego di comunicazioni commerciali (.. ) da chi
esercita una professione regolamentata nel rispetto delle regole professionali relative, in particolare,
all'indipendenza, alla dignità, all'onore della professione, al segreto professionale e alla lealtà verso
clienti e colleghi». Un via libera recepito nel nostro ordinamento con il decreto legislativo del 9 aprile
2003, n. 70, che ammette questo tipo di pubblicità a condizione che vengano rispettate le regole di
deontologia professionale. M. Castellaneta
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Impegno per superare il «decoro ottocentesco»
di MARIA CARLA DE CESARI
Nella pubblicità esiste un confine grossolano - quello tra la diffusione di informazioni e l'inganno - su
cui, c'è da giurarci, ci si ritrova come alleata l'Antitrust. Per spiegarci: se in una farmacia si espone un
cartello che spaccia un farmaco antivirale per vaccino contro l'influenza aviaria (o si alimenta
l'equivoco in un pubblico ansioso di avere certezze e barriere contro l'eventuale malattia), occorre
prevedere meccanismi per interrompere, senza ritardi, il messaggio scorretto o ambiguo e per
sanzionare il colpevole.
Nessuno può infatti disconoscere la differenza, enorme, tra l'informazione professionale (relativa alla
salute, nell'esempio) e quella commerciale. Se un detersivo lava meno bianco di quanto non lasci
sperare lo spot, poco male, si rimedierà all'alone con l'acquisto di un altro prodotto.
Diverso è il caso di beni collegati ai servizi professionali, la salute e la difesa in primo luogo, ma anche
altri ambiti meno sensibili come la consulenza legale o tributaria. In questi settori, un'informazione
ingannevole incide sulla sfera personale, in moda più o meno profondo.
Tuttavia, proprio perché i prodotti professionali non possono essere esposti come barattoli sugli scaffali
del supermercato, non si può liquidare la variabile-pubblicità come un capriccio di liberisti impenitenti.
Tentare di colmare il gap tra professionista e cliente è un'esigenza reale, tanto più importante quanto
meno è "protetto" il cliente.
Un 'impresa, se ha bisogno di un avvocato per dirimere una questione legale, sarà indirizzata nella
scelta dalla cerchia dei collaboratori abituali. Chiederà, per esempio, consiglio al commercialista con
cui ha familiarità per le problematiche fiscali, attingendo alla sua rete di conoscenze professionali,
acquisite attraverso collaborazioni, partecipazioni a convegni, frequentazione del tribunale
eccetera. Beninteso, in questo modo la scelta del professionista rientra tra gli atti fiduciari. Ma per
l'anonimo signor Rossi fare appello a questa rete può risultare più difficile e avventuroso, nonostante
non si possa escludere l'indirizzamento di conoscenti, agenzie di servizi eccetera.
In questi anni, le professioni si sono sforzate di uscire dal "decoro ottocentesco". Un impegno, tuttavia,
non risolutivo visto che la discussione è ancora concentrata sulle definizioni possibili nel biglietto da
visita.
Inutile nascondersi che questo è solo uno dei canali per far incontrare professionista e cliente: occorre
avere il coraggio di riconoscerlo e mettere a disposizione del pubblico quante più informazioni
possibili. A guadagnarci, con l'aiuto della (buona)pubblicità, saranno in due, professionista e cliente.
Che c’è di male?
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Studi e comunicazione/I vincoli delle categorie
Professionisti, pubblicità su misura
Sempre più le prestazioni si misurano con la concorrenza
E’ un feeling destinato a irrobustirsi quello tra i professionisti e la pubblicità.
Una liaison dangereuse che, tra incitamenti convinti (quelli dell' Antitrust europea e italiana) e
resistenze sempre vive (che si rispecchiano in norme deontologiche congelate in rigorosi divieti fino al
1999 e oggi sottoposte a un lento processo di revisione)non potrà che giungere a esiti positivi.
Del resto, per i professionisti (in particolare quelli di fascia medio-alta) la concorrenza nel mercato dei
servizi è ormai un dato di fatto e, per quanto non si possano equiparare a merci, anche le prestazioni
intellettuali sono in competizione nella ricerca di visibilità e di potenziali clienti.
Al di là delle regole, dunque, è la pratica quotidiana che sta spingendo avvocati,esperti contabili,
ingegneri,architetti,medici, ecc., a sfidarsi e ad affinare la tecnica comunicativa per valorizzare i propri
"prodotti".
Dal 1999 - quando i dottori commercialisti --- hanno inaugurato la "liberalizzazione" della reclame alle più recenti modifiche ai codici deontologici messe a punto da avvocati e architetti, si sta assistendo
a un impercettibile smottamento del confine oltre il quale gli spot non hanno diritto di cittadinanza:il
decoro professionale. Nessun Consiglio nazionale o locale abbandonerà, infatti, la trincea
della"comunicazione istituzionale".
A nessun professionista, in altre parole, si permetterà di avventurarsi nel campo minato della pubblicità
comparativa, dell'elogio di sé e della comunicazione "commerciale". Questo è un punto irrinunciabile e
giustamente difeso. La distinzione tra quello che può considerarsi pubblicità informativa e ciò che
trascende nel mero «consiglio per l'acquisto» tuttavia è quanto mai friabile. Anche il comune senso del
pudore pubblicitario è soggetto ai cambiamenti di costume. Ma in concreto cosa possono fare, oggi, i
professionisti?
Architetti. In base alle nuove norme varate. dal Consiglio nazionale, la pubblicità volta a informare il
pubblico, descrivendo la propria organizzazione ed esperienza professionale, è ammessa con qualunque
mezzo a condizione che non si scada in forme di pubblicità laudativa. E invece vietato offrire tariffe,
prezzi e tempistiche per le prestazioni.
Ingegneri. Il Codice deontologico del 1988 non prevede norme precise sulla pubblicità: la modifica è
ancora allo studio. Di conseguenza l'unica linea di demarcazione certa è rappresentata dal fatto che la
promozione dell'attività professionale non deve tradursi in forme di autoesaltazione.
Sullo sfondo resta l'annosa querelle tra i singoli professionisti tenuti al rispetto del Codice etico, e le
società di ingegneria, escluse dall'Albo, non vincolate alla deontologia e quindi libere di farsi
pubblicità.
Geometri. Dal giugno 2005 i geometri hanno licenza per creare siti Internet al fine di illustrare
curriculum e proprie opere di particolare pregio architettonico. Sono possibili anche brochure
"logistiche", relative all'ubicazione, organizzazione ed eventuali specializzazioni dello studio. E’
auspicata la partecipazione a trasmissioni in tv e radio.
Notai. Non esistono paletti agli strumenti - a partire dal Web - che il notaio può utilizzare per farsi
pubblicità: tutto (o quasi) è ammesso, purché si tratti di spot informativi, pensati nell' interesse della
collettività e non in quello del professionista all'accaparramento della clientela. Il notaio può anche
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indicare i tempi medi per svolgere gli adempimenti, fare consulenza online (a patto che sappia chi è il
suo cliente) e partecipare o collaborare a trasmissioni radiotelevisive e giornalistiche.
Psicologi. Con l'approvazione delle linee guida sulle prestazioni psicologiche via Internet è stata
riconosciuta agli psicologi la facoltà di fare ricorso al Web non solo per rendere noti nomee recapiti,
titoli di studio e specializzazioni, ma anche per specificare l'area di intervento e il setting (terapia
individuale,di gruppo, familiare). Via Internet, si può dare consulenza, ma non portare avanti una
terapia. Sono incoraggiate,inoltre,la partecipazione a trasmissioni radiotelevisive e l'apertura ai mezzi di
comunicazione di massa.
Medici. Il Codice deontologico (in corso di aggiornamento) risale al 1998 e l'uso della Rete non è
contemplato. Nei fatti, i medici non possono avere un sito internet.
Mentre le pur ammesse partecipazioni a trasmissioni radiotelevisive - come gli interventi sulla carta
stampata - non devono risolversi in un autopromozione.
Avvocati. La pubblicità informativa via Web è ammessa, ma il sito deve essere inserito nel dominio
dell'avvocato. Sono vietate invece le inserzioni commerciali con banner o pop-up. Nel nuovo Codice
deontologico, approvato a fine gennaio, non trova più spazio la possibilità di offrire consulenza online,
incompatibile con la trasparenza e la certezza del diritto. Con il consenso dell'Ordine, l'avvocato può
tenere rubriche fisse o intervenire sugli organi di stampa o a trasmissioni radiotelevisive.
Dottori commercialisti e ragionieri. Non esistono specifiche preclusioni in materia di pubblicità.
Tutti gli strumenti (a partire da quelli telematici) sono ritenuti idonei, purché l'informazione non sia
enfatica, laudativa o denigratoria e sfugga ai criteri visivi e simbolici propri della pubblicità
commerciale.
Consulenti del lavoro. Nessun mezzo di promozione è bandito se rivolto alla corretta informazione del
titolo professionale, dell'eventuale specializzazione nonché dell'ubicazione dello studio. Quindi, è
esclusa solo la vituperata pubblicità comparativa.
MARCO BELLINAZZO
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Gli strumenti per la visibilità
Cosa possono e cosa non possono fare i professionisti attraverso Internet,nei rapporti con i media
ovvero utilizzando gli strumenti tradizionali
Internet. La pubblicità via Web è ammessa per fornire informazioni sull'attività professionale. Vietate
le inserzioni commerciali con banner o pop-up. Dubbi sulla consulenza online
Media. Con il consenso dell'Ordine, si può tenere rubriche fisse e partecipare oppure intervenire sugli
organi di stampa o a trasmissioni radiotelevisive
Eventi.Sono consentite la partecipazione e la sponsorizzare di convegni e seminari attinenti alla
professione forense. Non la sponsorizzazione di mostre o eventi culturali in genere
Strumenti tradizionali. Su carta da lettera e biglietti da visita possono essere indicate non
più di tre materie di attività prevalente. È ammessa solo la diffusione mirata di brochure
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I limiti/le indicazioni degli Albi e della Cassazione
L'invalicabile confine dell’accaparramento
Le libere professioni affrontano problemi di concorrenza e mercato, utilizzando orientamenti comuni
in tema di pubblicità e "accaparramento": i pareri degli Ordini (in particolare degli avvocati e notai) e le
pronunce dei giudici (competenti in sede di ricorso) pongono alcuni punti fermi.
L' «accaparramento». L'accaparramento di clientela è l'utilizzo di determinate situazioni come veicolo
di clienti. Mentre si è ritenuto possibile un rapporto tra un istituto di assistenza dei lavoratori e un
legale, con il patto di percepire solo i compensi liquidati dal giudice in caso di vittoria (Cassazione,
sezione lavoro n. 911112005),è invece ritenuto accaparramento illecito la frequente prestazione di
servizi professionali a onorario zero, e quindi per mero rapporto di amicizia (Cassazione, sentenza n.
14227/2004). Nel caso esaminato, le prestazioni gratuite erano state effettuate a favore di soggetti che
operavano nel settore immobiliare, al fine di accaparrarsi successivi rapporti professionali con altri
utenti. Si parla ancora di accaparramento vietato nel caso di un legale collegato a una società
commerciale attraverso la quale gestisca attività stragiudiziale di recupero crediti dichiarandosi in grado
di curare liti prezzi preventivati (Cnf, 189/2002). Accaparramento è quella relativa all'utilizzo dei locali
e del personale di precedenti professionisti, andati in pensione: queste circostanze possono essere
sintomo di illecito accaparramento di clienti che facevano capo allo studio del predecessore (Tribunale
di Trapani, 2 dicembre 2002), poiché servirsi esclusivamente della pregressa struttura organizzativa di
altro professionista può alterare la concorrenza (Cassazione, 17202/2002). Diverso e più aggiornato è
l'orientamento del Fisco sulla possibilità di dare continuità a strutture professionali. Di recente è stato
ritenuto possibile che il professionista detragga le spese conseguenti all'acquisto di un marchio di un
noto studio, che goda di ottima e consolidata reputazione. In tal modo, il professionista fruisce "del
buon nome" dello studio cedente operando come sua filiale o studio associato o collegato.
L'agenzia delle Entrate con risoluzione 16 febbraio 2006 n. 30 afferma che questo contratto è simile alla
cessione di un marchio e il relativo costo può essere portato integralmente in deduzione nel periodo di
imposta in cui è sostenuto.
Il cedente, invece pagherà sull'incasso l'imposta sui redditi come provento diverso, e l'intera operazione
è soggetta a Iva.
Un'originale ipotesi di accaparramento è quella attuata da un legale il quale si è rivolto ad alcuni
Comuni facendo presente che una recente sentenza aveva riconosciuto ad alcuni dipendenti diritti
economici, chiedendo contestualmente l'elenco nominativo (con indirizzi) del personale potenzialmente
interessato. La Cassazione (sezioni unite 566/2000) ha evidenziato che questa richiesta aveva il chiaro
intento di procurarsi gli elementi necessari per potersi rivolgere a potenziali clienti e ha bollato
l'iniziativa come illecita.
I «procacciatori». Vi sono poi intermediari non professionali che possono alterare la qualità della
prestazione professionale. Vero e proprio illecito utilizzo di procacciatori è quello del professionista
che offre somme di denaro nonché consulenza gratuita a un'agenzia immobiliare per ottenere incarichi
professionali (Cassazione, sentenza n. 12883/1991). Altrettanto illecito è stato ritenuto il
comportamento del professionista che ospiti nel suo studio gratuitamente la sede di un'associazione di
consumatori,fornendo a tale associazione pareri scritti su questione di carattere legale (Cnf, 8 marzo
2001 n. 39).
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Secondo i codici deontologici il professionista dovrebbe quindi attrarre il cliente in modo trasparente,
senza sollecitazioni che superino la corretta informazione.
Situazioni di confine, in tema di pubblicità sono, da ultimo, quelle dei consulenti del lavoro, cui è
consentita pubblicità in quanto questi professionisti commerciali che hanno libero accesso ai canali
pubblicitari.
La carta intestata. Ma anche in uno strumento tipico come la carta intestata può trasformarsi in un
veicolo illecito di visibilità. Non si possono utilizzare, perciò, diciture e attribuirsi competenze tali da
costituire pubblicità suggestiva: non si può utilizzare la dicitura «consulente per appartenenti alle Forze
armate e di Polizia»; nonché «consulente rappresentante di zona e componente del consiglio direttivo
dell'associazione Roma proprietà edilizia» (Cnf, 23 novembre 2000, n. 176) né riportare diciture tipo
«centro studi doganali – valutari ed amministrativi» (Cnf, 28 dicembre 1992 n. 122).
Neanche è lecito affermare in uno stampato di tenore autoelogiativo la collaborazione di altri
professionisti «di fama nazionale» (Cnf, 23 aprile 1991 n. 56). Né è possibile inserire sulla carta
intestata una dicitura che si riferisca più ad attività commerciale che professionale, quale il recupero
crediti con una società collegata.
Non si può nemmeno riportare il titolo di «Giudice onorario del Tribunale di...»: pur essendo questa
una qualità della persona, essa non attiene all'attività professionale di avvocato, esercitata e trasmessa
attraverso la carta intestata (Sezioni unite, sentenza 13 gennaio 2006 n. 486).
Casi limite di pubblicità da evitare, infine, sono quelli della diffusione di notizie false circa i presunti
incarichi professionali ricevuti da personaggi famosi (Cnf, 20 settembre 2000 n. 89) o, all'opposto,
l'esaltazione di qualità non strettamente professionali, come nel caso di una professionista che, in un
articolo su una rivista, faceva pubblicità a prodotti di bellezza, associando le qualità dell'avvocato con
la bontà degli stessi prodotti (Cnf, 16 ottobre 2000, n. 112).
GUGLIELMO SAPORITO
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IL SOLE 24 ORE
Attenzione alle censure su opuscoli, brochure e guide
Anche gli strumenti tradizionali di pubblicità possono essere rischiosi per i professionisti.
E il caso del marketing diretto, attuato diffondendo a tappeto opuscoli. Se ne è reso conto l'avvocato
che aveva comunicato con questo sistema l'entrata in vigore di nuove regole imposte dalla Ue sulla
pubblicità professionale. Norme che - a dire. del professionista - consentivano una gestione della
professione legale simile all'impresa di servizi, con concorrenza a costi accessibili.
Nell'opuscolo "incriminato" vi erano anche tariffe, indicate esponendo compensi fissi per specifiche e
astratte prestazioni. L'iniziativa ha causato al professionista una censura, in quanto la tariffa impone di
tenere conto della complessità e durata dell'incarico, senza possibilità di tariffe forfettarie e fisse a
prestazione-tipo (una lettera, una citazione, una denuncia).
Inoltre, non è apparso decoroso offrire servizi legali come merci, a prezzo fisso "per pezzo".
La questione è stata decisa dalle Sezioni unite civili con sentenza 6213/2005: è stata soprattutto la
dimensione quantitativa ed enfatica a essere censurata, non potendosi inondare di opuscoli tutti i
cittadini di un Comune di medie dimensioni.
Altro luogo di scontro sono stati gli elenchi telefonici o simili (<<Pagine Utili»): mentre è consentito
l'inserimento del nome dell'avvocato e dell'indirizzo dello studio legale con cornicetta nera e caratteri
grafici in stile grassetto (Cnf, 29 aprile 2003, n. 78), più complesso è il problema delle iniziative di
alcuni periodici che segnalano i migliori professionisti o i casi di eccellenza. Non sono consentite infatti
brochure magnificanti l'attività svolta dal proprio studio (Cnf, 5 marzo 2001, n. 32). Per cui, se non vi è
l'impulso da parte del professionista né sono riportati dati enfatici, non c'è violazione deontologica. Sul
punto, così ,si è ritenuta corretta la partecipazione a una trasmissione televisiva (<<Affari di famiglia»)
in qualità di esperto legale, trattando di problemi inerenti le separazioni e i divorzi (Cnf 14 maggio
2003 n. 88). GU.S.
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ITALIA OGGI
Consiglio di stato in adunanza generale
Riforma accesso, Cds prende tempo
Il Consiglio di stato vuol vederci chiaro sulla riforma dell'accesso agli ordini professionali e relativi
esami di stato. Vista la portata del provvedimento, che interessa diverse categorie, la prima sezione Atti
normativi di palazzo Spada, ieri, ha deciso di ´rimettere' già da oggi lo schema di regolamento all'esame
del Cds in adunanza generale. Dopo una prima bocciatura di fatto (si veda ItaliaOggi del 24 gennaio),
per esprimere il parere si è preferito convocare tutti i magistrati delle sezioni giurisdizionali e
consultive.
A fine gennaio, infatti, l'organo consultivo aveva sospeso il parere e posto dei paletti precisi al
ministero dell'istruzione. L'innalzamento del titolo di studio dei consulenti del lavoro, spiegavano per
esempio, non può essere fatto con un dpr. Con la modifica del Titolo V della Costituzione nel 2001
(competenza legislativa concorrente fra stato e regioni in materia di professioni), per intervenire sulla
materia occorre utilizzare una legge ordinaria.
Il Cds, invece, ammetteva le modifiche per quelle professioni già disciplinate dal dpr 328/01 (accesso
alle professioni tecniche).
Ai magistrati il Miur ha inviato, oltre che il testo rivisto, anche una sorta di memoria difensiva che
ItaliaOggi è in grado di anticipare. Con riferimento alla potestà regolamentare dello stato in materia di
professioni (primo aspetto), il ministero dell'Istruzione fa notare che ´dal combinato disposto degli artt.
33, quinto comma, e 117, terzo e sesto comma, della Costituzione, discende la competenza legislativa
esclusiva dello stato in materia di esami di stato per l'abilitazione alle professioni, e la connessa potestà
regolamentare'. Per quanto riguarda la collocazione della disciplina dei titoli di studio richiesti per
l'ammissione all'esame di stato (secondo aspetto), poi, si fa osservare che a seguito dell'entrata in vigore
dal decreto ministeriale n. 509/99, successivamente modificato dal dm 270/2004, ´i titoli di studio ed il
relativo valore legale sono individuati non più per legge, ma sulla base di provvedimenti ministeriali di
natura regolamentare e non regolamentare'. E ancora: ´La flessibilità dei percorsi formativi, assicurata
da atti normativi di rango sublegislativo, si propone di garantire l'adeguamento continuo dei percorsi
universitari al mutare delle esigenze formative derivanti dal mondo del lavoro e, in particolare, da
quello delle professioni'.
Nella sua memoria l'ufficio del sottosegretario Maria Grazia Siliquini, che si è occupato del
provvedimento sin dall'inizio, cita a suo favore anche l'entrata in vigore il decreto legislativo La Loggia
di ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni (confini fra stato e regioni sulla
legislazione concorrente). E in particolare si cita il comma 4 dell'articolo 1 che ´riconosce la
competenza esclusiva statale, limitatamente alle professioni intellettuali, riguardo alla disciplina degli
esami di stato, e relativi titoli, compreso il tirocinio, [...] richiesti per l'esercizio professionale, facendo
chiaramente riferimento a tutti i requisiti previsti dall'ordinamento per l'accesso all'esame di Stato,
inclusi, in primis, i titoli di studio, che rappresentano un specificazione della più ampia categoria dei
titoli'. Con riferimento all'ambito della potestà regolamentare (terzo aspetto), infine, si sottolinea che ´la
legge 4 del 1999 attribuisce la potestà regolamentare su tutte le professioni per il cui esercizio la
normativa vigente già prevede l'obbligo del superamento dell'esame di stato'. (riproduzione riservata)
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ITALIA OGGI
Professioni, una consulta in Lombardia
Il 14 febbraio la regione Lombardia ha approvato il regolamento attuativo della legge istitutiva della
Consulta delle professioni lombarde. Che ora dovrà essere approvato definitivamente dal consiglio
regionale. La legge istitutiva è un provvedimento della passata legislatura approvata il 14 aprile 2004,
dopo circa tre anni, grazie all'unificazione di tre proposte di legge. Tra gli artefici di quell'importante
passaggio possiamo ricordare il relatore della legge Paolo Danuvola, il presidente del Consiglio
regionale Attilio Fontana e il presidente di commissione Pietro Macconi. Mancava il regolamento
attuativo che come detto ha passato i lavori di commissione e sembra essere pronto al definitivo
approdo in aula regionale. Un prezioso lavoro di ascolto delle realtà associative rappresentate dal Colap
è stato svolto dal relatore del provvedimento Gianluca Rinaldin e dal consigliere Carlo Spreafico che ha
avuto modo di ascoltare e raccogliere le proposte dell'Ancot Lombarda.
Licenziare questo regolamento potrà permettere il definitivo varo della Consulta che per il mondo
professionale sarà occasione per affrontare ed approfondire temi di rilevanza regionale.
Massimo Maggiaschi
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IL SOLE 24 ORE
Istruzione decisa sulla riforma del tirocinio
Toccherà al Consiglio di Stato, in adunanza plenaria, pronunciarsi sullo schema di Dpr proposto dal
ministero dell'Istruzione.
Il provvedimento modifica la disciplina di accesso all'esame di Stato, introducendo l'obbligatorietà del
tirocinio in molte professioni e prevedendo, per altre (consulenti del lavoro e giornalisti), la laurea
come requisito. Il ministero ha riaffermato che la disciplina dell' esame di Stato (requisiti di
ammissione, prove d'esame e svolgimento delle stesse) rientra nella competenza esclusiva dello Stato,
in base al comma 5 dell'articolo 33 della Costituzione e dell'articolo l, comma 4, del decreto legislativo
La Loggia sui principi fondamentali in materia di professioni. Il Consiglio di Stato (sezione consultiva,
adunanza del 23 gennaio), però, ha posto in dubbio che quella dei titoli di studio per 1'acccesso
all'esame di Stato - anche alla luce del decreto legislativo La Loggia (dove non vengono citati
espressamente) - sia materia esclusiva dello Stato. «Mentre l'Amministrazione ritiene che anche tale
profilo sia senz'altro ricompreso nella materia esame di Stato, la Sezione ritiene che tale conclusione sia
tutt'altro che scontata, posto che la definizione dei suddetti titoli di studio trascende tale materia
attenendo, prima ancora e essenzialmente, alla individuazione dei principi fondamentali che regolano
l'accesso alle professioni nel rispetto del criterio della più ampia possibile libertà e in stretta
connessione con la definizione dei contenuti essenziali delle singole attività professionali». Dunque, lo
Stato dovrebbe intervenire con legge.
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ITALIA OGGI
L'economia risponde alle richieste di Ancot, Lapet, Ancit, Int
Antiriciclaggio ampio
I tributaristi legittimati a segnalare
Antiriciclaggio con i tributaristi. Le quattro associazioni di professionisti (Ancot, Lapet, Ancit e Int)
possono dormire sonni tranquilli. E cominciare a pensare ai nuovi adempimenti previsti dal decreto
legislativo di riferimento, il dlgs 56/2004 recante attuazione della direttiva 2001/97CE in materia di
prevenzione dell'uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi da attività illecite. Il
ministero dell'economia e delle finanze guidato da Giulio Tremonti ha chiarito a ItaliaOggi che
l'esclusione dei consulenti tributari non iscritti in albi dal regolamento attuativo è un puro errore
formale. Quest'ultimo provvedimento era stato preparato prima che la normativa fosse estesa anche ai
tributaristi. La dimenticanza non pregiudica, però, la possibilità di fare all'Ufficio italiano cambi le
segnalazioni sulle operazioni sospette. Tale interpretazione trova fondamento nel fatto che la norma
primaria (articolo 2, comma 1, lettera S-bis del dlgs 56/2004) estende gli obblighi anche ai consulenti
tributari, mentre il regolamento non fa altro che attuare il decreto.
A ogni modo, per evitare dubbi ai diretti interessati, il ministero dell'economia ´farà una nota con cui
sarà chiarita l'applicabilità delle nuove disposizioni ai tributaristi e alle altre professioni che non
dovessero essere state menzionate esplicitamente'. La presa di posizione di via XX Settembre non fa
altro che ricalcare l'orientamento già espresso da FiscoOggi, la rivista telematica dell'Agenzia delle
entrate (si veda ItaliaOggi del 23 febbraio). A sollevare la questione erano stati a metà febbraio i diretti
interessati. I quali, leggendo il provvedimento, avevano notato la mancata esplicita menzione dei
tributaristi. Così, Arvedo Marinelli dell'Ancot, Roberto Falcone della Lapet, Riccardo Alemanno
dell'Int e Luigi Pessina dell'Ancit avevano preso carta e penna e scritto a Giulio Tremonti per chiedere
l'integrazione del regolamento prima della sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. (riproduzione
riservata) I.Marino
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28 - Ordine degli Avvocati di Trani