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LATO DELL’
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Nubi 3 – Ippoghigno side
Quelli che hanno fatto il lato Ippoghigno
di Nubi3
Quello che ha chiacchierato con Boris: Lorenzo Sartori.
Sartori Fumettista per vocazione, illustratore per professione:
campa disegnando per le riviste, l'editoria scolastica e narrativa, l'enigmistica, la musica.
Le sue opere giovanili sono state raccolte nell'antologia "Ogni matto ha la sua fissa" (Rasputin!libri, 1998). I suoi
fumetti sono ora pubblicati dai CANI (www.arfarf.it), gruppo di autori che fanno fumetto a dispetto del mercato.
Una lacrima sul viso, suo e di Giorgio Mascitelli (i CANI, 2005), vince al Comicon di Napoli il premio per la
migliore sceneggiatura.
Insegna fumetto alla Scuola d'Arte del Castello Sforzesco di Milano.
Nacque nel '65.
Quello che ha scritto Watchmen, ovvero il mondo salvato dai pensionati: Davide L. Malesi è uno di
cui non si sa niente. Ha scritto il romanzo Veramente difficile ripetere il medesimo stratagemma, uscito
nel 2007 per i tipi di ScrittoMisto, e cura il blog Licenziamento del poeta
(http://licenziamentodelpoeta.splinder.com)
Quello che ha scritto Di cosa scrivo quando scrivo, e perché scrivo quello che scrivo
scrivo:: Diego Cajelli
Cajelli nasce a Milano
nel 1971. Si dice che abbia visto un UFO nel 1978. Pare che si sia messo a scrivere, esordendo nel 1993. Da allora ha
scritto parecchio, firmando storie per Bonelli, Astorina, BD, Eura, Disney, questo e quell'altro. Adesso sta scrivendo
un romanzo. Si vanta di non aver mai vinto nessun premio e di aver conosciuto Jimmy il Fenomeno
Quella che ha scritto Perché non leggo i fumetti:
fumetti: Monica Poiccard nasce il 19 di agosto del 1984 a Neuilly sur
Seine. Ha vissuto a La Curuna, a Milano e adesso a Parigi. Si è laureata in fisica teorica. Per vivere fa la cassiera alla
Fnac, quella sul Boulevard Saint-Germain, e scrive dialoghi per i film porno. Ama le ostriche e il muscadet. Non
legge i fumetti. Ha un gabbiano tatuato sul quadricipite femorale destro.
Quello che ha scritto Spiegare per immagini:
immagini Claudio Nader.
Nader Bolognese, 25 anni. Si interessa di Cultura del
Fumetto e Teatro Contemporaneo.
Lavora come disegnatore, curatore di eventi ed è redattore di Flashfumetto.it, oltre ad "agitare"
le attività de "La Piccola Industria dei Contenuti - centro culturale" e gestire un blog in cui parla di
tutto questo e di altro ancora, all'indirizzo www.claudionader.com.
Quello che ha impaginato:
impaginato: Claudio Calia (Treviso, 1976) vive a Padova. Ha autoprodotto diverse opere tra cui I
Baccanti e My Own Private G8. Ha collaborato con Nonzi, Self Comics, Monstars e altri. Con Emiliano Rabuiti ha
curato le produzioni a fumetti di Radio Sherwood: Comix against Global War, Vite Precarie, Fortezza Europa
(Coniglio Editore, 2006) e Resistenze (Becco Giallo, 2007). Ha realizzato Porto Marghera, la legge non è uguale per
tutti (BeccoGiallo, 2007) e E’ primavera – Intervista a Antonio Negri (Becco Giallo, 2008).
Quello che non ha fatto un cazzo: Boris Battaglia.
Battaglia Ha quarant’anni, un cane e una cattiva reputazione. Ama la
boxe, i coltelli e il camminare. Beve, preferibilmente Loch Lomond invecchiato 21 anni, perché era il whisky
preferito del Capitano Haddok e perché ventun’anni è una splendida età. Fuma la pipa. Porta scarponi comodi.
Il fumetto e la pasta con i broccoli - chiacchierata in stile flipper tra Lorenzo Sartori e Boris Battaglia
Il fumetto e la pasta con i broccoli
chiacchierata in stile flipper
tra Lorenzo Sartori e Boris Battaglia
Boris: Ecco, pensavo… per Nubi 3, mettiamo da parte la mia originaria richiesta di una lectio brevis su Feininger,
potresti spiegarmi il perchè Boris dice cazzate e il fumetto è stato veramente popolare, forse il più popolare dei mezzi
di espressione.
Dai. Fammi due paginette. Scritte, mica disegnate. So già che declinerai gentilmente.
Me ne rifarò una ragione.
Lorenzo: Ti ringrazio per la tua insistenza, che è addirittura lusinghiera. Sì, penso che lo scriverò, alla mia maniera, e
fondamentalmente per sostenere che il problema che mi poni non lo trovo così rilevante. Devo solo trovare il tempo,
e anche recuperare un libro che ho in giro in prestito e che dice cose convincenti in maniera più chiara di come saprei
fare da me.
Spero presto comunque.
Boris: Grazie.
Nubi 3 – Ippoghigno side
Passa del tempo. Boris torna all’attacco.
Boris: Carissimo, il maestrinodellaminchia che amministra la parte avversa di nubi mi sollecita un primo schema del
nuovo numero. Ci stai sempre? Hai già qualcosa?
Non ti sei dimenticato, vero?
Io attendo.
Lorenzo: Argh! Non mi sono dimenticato. Non sono riuscito a rientrare in possesso
del libro che ti dicevo. Sono sopraffatto dalle consegne e dalle barbare pratiche natalizie. Dimmi quando si consegna
e ti dirò (di no, probabilmente).
Sii solidale per favore che ne ho tanto bisogno!
Boris: Che vuoi che ne sappia quando si consegna. Quando abbiamo (ho) voglia.
E' che quello là si è montato la testa e vuol fare a gara a chi ce l'ha più lungo (il lato di nubi).
Ma veniamo alle cose serie: qual è il libro?
Lorenzo: Il libro è quello sulla storia di Milano di John Foot, in cui ricordo (spero correttamente) una semplice e
concisa quanto convincente smentita dell'impostazione nostalgica di Pasolini sulla cultura popolare preboom, e che
era stata per me illuminante proprio perché anch'io per anni sono stato affascinato da tutta la sua concezione del
genocidio culturale.
Boris: Ma a me non interessa (intendiamoci: in questa sede, che la questione è di vitale importanza e sono subito
andato a leggermi le paginette che dici di John Foot e del suo Milano dopo il miracolo- Feltrinelli) sapere se Pasolini
avesse o meno ragione – oggi sono affascinato dall’indagine storica di Guido Crainz e più che di genocidio culturale
parlerei di lento stravolgimento antropologico del popolo italiano; ora quello che mi piacerebbe capire è se,
all’interno di questo stravolgimento, c’è stato un momento in cui il fumetto italiano è stato veramente popolare…
Lorenzo: Io non sono né uno storico né uno studioso di alcunché. Ti posso raccontare dei ricordi. Quando ero
bambino, fra gli anni sessanta e i settanta, tutti leggevano fumetti. Mio padre portava a casa una marea di fumetti, per
noi figli e per sé. Leggevamo gli stessi fumetti, e le edicole erano piene di fumetti e le case dei miei amici pure. E
pareva un territorio sconfinato perché nonostante tutti i fumetti che mi passavano per le mani ce n'erano sempre di
sconosciuti, di mai visti.
Può sembrare un'idealizzazione da bengodi detta ora a un incredulo come te, uno sproloquio nostalgico... Ci sono
ricordi che è difficile capire se non hai vissuto quei momenti... Ci pensavo qualche settimana fa. Ho visto Alì, il film
su Muhammad Alì il pugile, assieme a Cinzia che è più giovane e non riusciva a capire la grandezza e la popolarità del
personaggio, le pareva tutta un'esagerazione
cinematografica. Ma io, che nel suo periodo di
inattività forzata (di Alì) avevo fra i due e i cinque
anni, e non ero particolarmente appassionato né di
sport né tantomeno di telegiornali, io bambino di un
paese dell'hinterland milanese sapevo che Cassius
Clay aveva cambiato il suo nome in Muhammad Alì
per motivi religiosi, e sapevo che era stato punito per
aver rifiutato di
combattere in Vietnam.
Con questo non voglio dire "tu non c'eri quindi stai
zitto"... io la situazione me la ricordo così. E quando
la rivista per ragazzi più bella del mondo ha chiuso i
battenti (il Corriere dei Ragazzi, alla fine del 1976), l'ha fatto, mi dicono, perché vendeva solo 140mila
copie a settimana!!!
Il fumetto e la pasta con i broccoli - chiacchierata in stile flipper tra Lorenzo Sartori e Boris Battaglia
Boris: Ma io c'ero. E la situazione me la ricordo invece così.
Certo Cassius Clay era tra noi famoso quanto Sandokan, quello dello sceneggiato RAI, non quello dei libri di Salgari,
che ci guardavamo bene dal leggere. Infatti. Ricordo con quanto desiderio guardavo nelle edicole un giornalone, della
Cenisio mi sembra: Superman contro Cassius Clay. Era il 1978 e non avevo certo in tasca le millecinquecento lire che
costava: una cifra pazzesca, impopolare, al di là della mia immaginazione e delle mie possibilità di decenne. Avevo
scoperto i fumetti, quelli veri, un po' prima (novembre 1976) quando avevo rubato dai giornali che mio padre
comprava, credo in modo compulsivo… comprava tutto mio padre, non credo per interesse culturale o piacere di
lettura, no, per il piacere di comprare… la sua era la prima generazione che poteva comprare…, vabbè, gli rubai una
copia di Alterlinus su cui pubblicavano The Long Tomorrow.
Un pugno in faccia. Neanche me lo avesse tirato Cassius Clay. Scoprivo che il fumetto era qualcosa di più di quello
che avevo letto fino a quel momento, non frequentavo il Corriere dei Ragazzi, ma leggevo Uomo Ragno e Piccolo
Ranger. Scoprivo questa cosa bellissima e non avevo nessuno con cui condividerla… dove cazzo stava il tuo popolo
divoratore di fumetti?
Tra i miei amici ce n'era uno solo che leggeva fanaticamente l'Uomo Ragno, era lui a passarmelo, e poi basta. Non
c'erano fumetti tra il popolo che mi circondava e se c'erano a nessuno gliene fregava un cazzo. Perchè non trovavo
nessuno per organizzare un assalto all'edicola ed espropriare quel giornalone? Perchè invece trovavo alleati per mille
altre scorrerie?
E le tirature o i dati di vendita, contano relativamente.
Il Corriere dei Piccoli, nella sua epoca d'oro, vendeva più di 220.000 copie, e nessuno può dire che fosse un prodotto
popolare.
La cosa che dà da pensare è che raggiunse quelle cifre, nonostante la parte di popolazione cui si rivolgeva fosse meno
del 10% del totale degli italiani.
Quando muore il Corriere dei Ragazzi il tasso di alfabetizzazione degli Italiani sfiora l'85%.
Mi e ti richiedo, dove stava, anche solo in proporzione, il popolo?
Lorenzo: Boh, io ero uno del popolo e stavo lì, gli altri non so. Come ti dicevo ci stavano anche un sacco di amici
miei, sotto casa i ragazzini più scafati mettevano giù uno straccio e vendevano i loro fumetti usati, e per colpa di tutto
questo entusiasmo fumettofago io un sacco di carta comprata o posseduta da bambino non ce l'ho più, la raccolta di
Capitan America scambiata con le prime decine di Alan Ford, a sua volta scambiate coi Tarzan di Kubert della
Cenisio... fra i pochi che hanno resistito ed ho ancora ci sono i Corrieri dei Ragazzi, di cui ero troppo innamorato per
darli via.
Dici che il Corriere dei Piccoli vendeva 220 mila copie a settimana e non era popolare? Se il popolo se lo comprava (e
presumibilmente lo leggeva) come fai a dire che non era popolare? Ti fermo subito: non voglio che ci buttiamo in
una discussione sulla definizione di "popolare": mi pare che l'atto concreto di acquistare scientemente un prodotto da
parte di una fetta di pubblico tanto vasta da poter essere considerata popolo, sia più significativo di qualsiasi
disquisizione intellettuale (e calata dall'alto o da un lato).
La copertina di Superman contro Cassius Clay... sì, mi pare di averne un vago ricordo... bella merda che ti piaceva!!!
Boris: Io invece non lo so se ero uno del popolo. Amo crederlo, ma forse no. Comunque. Dici merda Superman
contro Cassius Clay. Boh. Era roba di Neal Adams, quello che disegnava gli X-MEN scritti da Roy Thomas. Che mi
facevano impazzire. L'omino bufo e Michel Vaillant invece mi facevano cagare, proprio. Credo poi che il troppo
affetto per quella testata ti giochi uno scherzo della memoria: nel 1976 Il Corriere dei Ragazzi non chiude i battenti, si
trasforma in CorrierBoy (questa sì una bella merda) perchè gli esperti di marketing del Corriere della Sera vogliono
seguire i tempi e il successo dei Monelli e dei Lanciostory. Un suicidio. Lento. Concluso nel 1984.
Il popolo, quello che io credo essere il popolo, non c'entra niente con questo. Dal punto di vista culturale, intendo.
Tutto questo riguarda i suoi consumi. I lettori che amavano la serialità pallosa delle edizioni Universo e poi Eura non
Nubi 3 – Ippoghigno side
avevano alcun interesse per una testata nuova. Nè gli antichi lettori del CdR provavano piacere nella serialità
industrializzata.
Questo esercizio di marketing fallito non è la dimostrazione che il popolo andava antropologicamente modificandosi?
La deriva dei suoi consumi culturali non è un segno della sua deriva culturale, fino all'estinzione?
Lorenzo: 1) Secondo me i bambini sono popolo. Sono dentro le cose, sono nel mondo, non pongono tanti filtri
ideologici fra loro e la realtà... e sono più facili a lasciarsi trascinare, nel bene e nel male. Io poi appartenevo a una
famiglia non intellettuale e non benestante.
2) Comunque su Adams scherzavo. Ognuno ha diritto ai suoi gusti! Io sono sempre e comunque per la biodiversità,
in generale e nel fumetto in particolare.
3) A proposito del CorrierBoy: nel natale del '76 i genitori o qualche parente ignaro ebbero la pensata di regalarmi
l'abbonamento al (defunto) Corriere dei Ragazzi per il 1977. Ho avuto l'opportunità di immalinconirmi per un anno
intero fra le pagine di una rivista che osava proporsi come l'evoluzione della mia. So di che parlo.
4) Questo esercizio di marketing fallito sarebbe la dimostrazione che il popolo andava antropologicamente
modificandosi: ripeto, io ero un undicenne del popolo e ho continuato a rimpiangere un prodotto culturale che non
c'era più. Forse quelli che andavano modificandosi antropologicamente erano i responsabili del marchètting!
Il fatto che di lì a non molto chiusero anche Intrepido e Monello, gli esemplari punti di riferimento a cui puntava
l'operazione CorrierBoy, forse ti dà ragione, ma il discorso è molto complesso, e non credo di avere gli strumenti per
ragionare su cose così grosse come i tempi che cambiano.
5) Sull’estinzione culturale: io sono d'accordo con te che i tempi sono cupi... e non mi permetto di fare dello spirito
sull'estinzione culturale del popolo perché stiamo rendendo il pianeta inabitabile e temo che siamo incamminati
addirittura verso l'estinzione materiale!
Però credo che sia importante avere anche uno sguardo positivo su quanto di buono c'è e si fa. Ti racconto una
storiella.
Ci sono due fratelli, due ragazzi. Uno fa grandi sogni, legge romanzi di avventure e fantastica di luoghi esotici e
selvaggi, di pericoli e imprese rocambolesche e viaggi straordinari. L'altro è terra terra, come si dice. Si diverte in
ambienti e con gente che il fratello considera banali, frequenta posti squallidi e grigi, privi di attrattive per il fratello
sognatore, così distanti da velieri e foreste vergini e donne misteriose... Eppure vive, mentre il fratello continua a
sognare sulle sue adorate pagine, disprezzando l'ordinario che lo circonda. Ora facciamo uno zoom indietro,
allarghiamo il campo e li vediamo passeggiare nella loro città natale, che è Bahia nella seconda metà dell'ottocento!
Io dico che per vivere davvero, essendo capaci di aderire a quel che c'è davvero e goderlo, occorre riuscire ad avere
(anche!) uno sguardo positivo e amorevole su ciò che ci circonda. È così facile trovare di che lagnarsi per le cose che
Il fumetto e la pasta con i broccoli - chiacchierata in stile flipper tra Lorenzo Sartori e Boris Battaglia
non vanno: perché non fare un piccolo sforzo di originalità e provare ad abbracciare le cose di cui sono fatte davvero
le nostre giornate? Sono convinto che è così che si combina qualcosa di buono, non solo distruggendo tutto a colpi di
machete critico!
Ma perdona la digressione... torniamo a noi.
Boris: Giusto. Torniamo a noi.
Lo ammetti tu stesso. Con quel giochetto retorico con cui prima mi dici.
stop, non impelaghiamoci nella ricerca di una definizione di "popolare";
poi me la dai... infatti dici: "mi pare che l'atto concreto di acquistare
scientemente un prodotto da parte di una fetta di pubblico tanto vasta da
poter essere considerata popolo, sia più significativo di qualsiasi
disquisizione intellettuale".
Scusa, non è come dire che per te popolare è ciò che è più diffusamente
apprezzato e acquistato?
E' una definizione che il vocabolario dà, vero, ma che io non condivido
assolutamente.
Lorenzo: Per uno che ci lavora invece è una cosa fondamentale.
Però guarda che sulla non-definizione di “popolare” non ho fatto un
giochetto retorico. Se tu mi proponi di fare assieme un'analisi chimica per decidere se la pasta coi broccoletti è
commestibile, io ti rispondo che non c'è bisogno, perché so che la mangio e mi piace. Sai, non essendo un chimico
farei un po' pena nell'azzardare un'analisi chimica.
Boris: Per sfottermi amichevolmente dici che il mio interrogarmi sul significato di popolare è una perdita di tempo,
in quanto, per esempio, non c'è bisogno di fare un'analisi chimica delle orecchiette con i broccoli per sapere che sono
commestibili. Ce lo dice l'esperienza.
Certo.
Però l'esperienza ti dice che i broccoli sono commestibili, non se e quanto sono tossici.
Il prezzemolo è commestibile ma è tossico. I funghi sono commestibili ma tossici.
L'alcol è commestibile ma tossico. Quindi?
In certi casi affidarsi all'esperienza, soprattutto in quelli in cui ancora è da fare, potrebbe rivelarsi dannoso. La critica
non è tirare a vanvera colpi di machete (anche se ogni tanto è divertente), è piuttosto un'amorevole indagine sulla
tossicità delle cose, un lento e faticoso lavoro per dividere il grano dal loglio, non tanto per preservare la vita, a quello
bastano le orecchiette con i broccoli, ma per renderla più saporita.
Lorenzo: Giuro che non era per sfotterti, era solo per esemplificare il mio punto di vista naif e pragmatico. D'altra
parte posso risponderti, che tutte le buonissime cose (e tante altre ancora) che mi elenchi come tossiche, si sapevano
tossiche già prima dell'avvento delle analisi chimiche, e questo non so se per l'esperienza popolare o per qualche
eredità somatico-culturale (argh!) di quando noi umani un po' più selvatici di come siamo ora
annusavamo/intuivamo il grado di bontà delle cose mangerecce... Fatto sta che le analisi sono venute dopo.
Sul fatto che la critica serva a rendere la vita più saporita...
Mmm...
Ti dico una cosa in particolare che mi aspetterei dai critici di fumetto, e anzi, la sto aspettando da molti anni.
Perché nessuno si decide a dire ad alta voce che quelle tre quattro puttanate in bianco e nero firmate da Andrea
Pazienza negli ultimi anni di vita non le ha né scritte né disegnate lui? Mi riferisco alle pallide imitazioni di Zanardi
che hanno per titolo Cuore di mamma, Cenerentola 1987, La logica del fast-food e quell'altra breve che parrebbe avere
per titolo solo la parola Prologo. D'accordo, lui le ha firmate, avrà avuto bisogno di soldi, fatti suoi.
Ora, un critico di fumetto dovrebbe capirci qualcosa di disegno, o no? Come si fa a non vedere che in quelle storie
Nubi 3 – Ippoghigno side
non solo le sue doti di disegnatore subiscono un improvviso tracollo, ma il suo stesso gusto e il suo stile si
imbarstardiscono pesantemente? E le trame? Rimasticature e varianti meccaniche delle stesse trovate delle storie
precedenti, riproposizioni dei personaggi che dire intrappolati in un cliché è francamente dir troppo: prima vivi
quanto un sonoro schiaffo sul muso e imprendibili e pulsanti, in quelle storie i tre diventano manichini.
Perché nessuno lo dice? Perché quando faccio leggere Pazienza ai miei allievi devo essere io a metterli in guardia, e
spiegare che quelle storie le ha scritte e disegnate la moglie e lui al massimo ha dato una mano svogliata?
Per scrupolo mi sono riletto le storie in questione. Le avevo lette una sola volta, poco prima o poco dopo la morte di
Pazienza. Le ricordavo benissimo, ohibò. E corrispondono alla descrizione appena fatta: sono un tentativo di
serializzare il trio Zanardi-Colasanti-Petrilli, fatto con una mano che al confronto con l’originale non può che
sfigurare da tutti i punti di vista.
Però scopro alcuni dettagli che oggi mi fanno tenerezza per l’amore che comunque tradiscono per i personaggi e per
le storie di Pazienza. E allora il livore che mi ha sempre colto nei confronti della Comandini (al solo pensiero di
queste storie: lei non la conosco) scompare. Non sto a giudicare nessuno. Non so niente dei loro affari privati (e non
m’interssano): forse lei era un’avida sfruttatrice del marchio rappresentato dalla firma di suo marito e si è inventata un
modo per ottimizzare i proventi… o forse lui si sparava in vena tutti i soldi che entravano in casa e lei ha dovuto
inventarsi qualcosa per pagare il mutuo… Più tutti i mille altri scenari possibili… Che non ci riguardano.
Il compito che per qualsiasi motivo si è accollata era un’impresa persa in partenza, non solo per lei ma per chiunque,
e ora a chi altri spetta, se non ai critici, di fare chiarezza e di dire le cose come stanno?
E quando l’editore o il curatore dell’Edizione sedicente Critica di Zanardi (Baldini Castoldi Dalai) non ritiene di
effettuare una supervisione critica (appunto) sulla colorazione appositamente realizzata dalla stessa Comandini, non è
forse compito dei i critici scandalizzarsi pubblicamente per l’apposizione delle linee cinetiche alla spranga del finale di
Giorno? Un’operazione fatta con leggerezza sbalorditiva, che ammazza non solo la drammaticità della vignetta ma il
Il fumetto e la pasta con i broccoli - chiacchierata in stile flipper tra Lorenzo Sartori e Boris Battaglia
suo stesso senso... Ti pare che se l’autore avesse voluto metterci le linee cinetiche non l’avrebbe fatto da sé? Fra l’altro
sono state messe dalla parte sbagliata: per come leggo io l’immagine, la spranga sta per calare da destra verso sinistra.
Boris: Dai! Sappiamo benissimo che non esiste, in Italia e forse da nessuna parte, la figura del critico al quale ti stai
appellando. Ed è meglio così, in fondo, perchè quelle poche volte che sembra materializzarsi, penso a gente come
Boschi o Raffaelli, è sempre vestito con quel velluto di ipocrisia collettiva di cui parla Berselli nei Venerati
Maestri. Persino quelli che lo fanno in modo volontario il critico, penso ai bollettini bonelliani tipo Fumo di China,
non sono capaci di liberarsi dal vincolo a quel canone "artistico" prestabilito dettato dall'omertà. Poi ci sono quelli
come ME e Spari.
Ma.
Io per esempio non mi sento un critico. Non credo di esserlo. Non ho riconoscimenti ufficiali che lo attestino, non
ho pubblicato libri e non parlo in pubblico. E ci capisco un cazzo di disegno.
Leggo.
Le mie esperienze passate e gli strumenti che ho messo insieme negli anni mi fanno trarre idee da quello che leggo.
Allora ne parlo dove ho spazio.
Immagino sia lo stesso per te. No? Quella che stai abbozzando sugli ultimi lavori firmati da Pazienza non è una cosa
simile a un'analisi chimica? Lo fai con i tuoi strumenti: la conoscenza e la padronanza del disegno e di come
funzionano, quando funzionano, le storie a fumetti.
Allora? Perchè non dovresti essere tu a dirle quelle cose che stai dicendo? Ne hai le competenze quindi ne hai il
diritto.
Poi ovvio, c'è il fatto che autori come Pratt, Pazienza, Magnus non si possono toccare. Forse perchè il fumetto è così
poco considerato nel mondo della cultura che se gli ridimensioni anche quei suoi tre o quattro mitici personaggi,
resta senza niente.
Mi hai dato un'idea.
Sarebbe bello se nei prossimi numeri di Nubi si desse la stura a un serio lavoro di risistemazione critica di alcuni
"grandi".
Lorenzo: Le tue esperienze passate e gli strumenti che hai messo insieme negli anni ti fanno trarre idee da quello che
leggi. Allora ne parli dove hai spazio … e immagini che sia lo stesso per me.
Nubi 3 – Ippoghigno side
Invece no. Non mi interessa parlare in pubblico delle idee o riflessioni che mi suscitano le opere, anche se qualche
volta mi capita di farlo perché le uniche analisi che mi viene da fare e che possono appena appena considerarsi tali
sono quelle che riguardano il mestiere, e sono analisi mosse dalla curiosità e dalla passione del collega. Come un
musicista (suppongo) che ascolta e cerca di capire come faccia un suo collega a tirare fuori certe note particolari dal
suo strumento...
Tu invece sei critico (e se non ti convince la parola puoi trovarne un'altra) proprio perché hai questa spinta, questa
voglia di condividere le tue riflessioni e confrontarti con altri e dibattere, e fare teoria in qualche modo. La mia è solo
pratica.
E credo che sia importante questa distinzione, in un sottomondo dove già si fa troppa fatica a distanziare l'opera del
critico dal complimento dell'amico.
Dopo se vuoi questo paragone dell'analisi chimica e della pastasciutta possiamo anche mollarlo lì che magari annoia il
lettore, ma a proposito di Pazienza l'immagine continua a non essere quella delle provette in laboratorio, bensì di una
tavolata in cui mi viene da sputar fuori un boccone di qualche cibo adulterato, più che tossico. Sentito nel palato!
Boris: La metafora della pastasciutta mi piace un sacco. E me
ne sbatte se annoia il lettore.
Il punto è il tuo palato.
Il tuo palato, se sputa il boccone adulterato è per due motivi:
1) non stai morendo di fame e, dato che i fumetti di Pazienza
come di chiunque altro sono un lusso impopolare e se ne può
fare a meno tranquillamente vivendo una vita bella e pregna
comunque, puoi permetterti di non far finta di niente e
mandar giù per riempire lo stomaco.
2) il tuo palato è educato. Lo hai costruito negli anni, con lo
studio, con il mestiere (come lo chiami), con la prassi.
Masticare per te non è solo necessità, è un atto complesso che
richiama in gioco ogni volta quello che sei diventato. Quando
sputi un cibo schifoso compi un atto critico.
Se sei a una tavolata, devi decidere se farlo o meno. Perchè farlo in un luogo pubblico comporta assunzione di
responsabilità e il dovere di dare spiegazioni.
Questa è, a mio avviso la critica.
Nessuno ti ci può obbligare.
Ma quando tu sputi quel boccone in pubblico diventi un critico. Fattene una ragione. Smettila con la falsa modestia.
Di fumetto ne sai e ne puoi dire meglio di tutti noi.
Spiegami semmai perchè non vuoi farlo.
Lorenzo:
Lorenzo: 1) Pazienza lusso impopolare? quindi cultura popolare è solo quando si fa la semina e come si conserva
sotto sale? E se me lo dicevi prima non iniziavo neanche a discutere, l'unica cosa che so di quelle lì è quando i vegetali
sono di stagione.
Comunque se non è stato popolare Pazienza allora è popolare solo quello che passa in tivù in prima serata. Non sono
mica d'accordo.
2) Ok ho il palato fino, lo ammetto! Vedo nei disegni di fumetto più cose di quanto voi mortali. Ma le storie no, le
storie sono un patrimonio comune dell'umanità. Se ora mi metto a raccontarti la barzelletta del fantasma grovierone,
lo capisci subito che è una modesta variante al rialzo di una barzelletta che hai già sentito, no?
2 bis) Hai ragione, ho sputato in tavola, pubblicamente, perché nessun altro si decide a farlo. Avendo già spiegato il
perché, me ne assumo la responsabilità. In fede il sottoscritto addì.
2 ter) Non accusarmi di fare il falso modesto! Quando dico che non sono un intellettuale ma un pratico, che non
sono tanto bravo a teorizzare ed astrarre, non lo faccio sentendomi inferiore. Non ho quel tipo di intelligenza lì, ne
ho un'altra e non mi fa problema.
Il fumetto e la pasta con i broccoli - chiacchierata in stile flipper tra Lorenzo Sartori e Boris Battaglia
Boris: Mi hai frainteso. Non ho mai pensato, né sostenuto in alcun luogo, che
l’unica cultura popolare sia quella del folklore culinario. Pazienza a mio avviso, e
posso sbagliarmi, non è una lettura popolare, perché non ha caratteri di
universalità. Al di fuori di quel decennio in cui il suo genio ha spopolato la sua
opera ha bisogno, con poche eccezioni, di note a piè di pagina.
Ma. Torniamo a noi. Sono graniticamente gramsciano. Non riesco a scindere la
cultura e le intelligenze in prassi e teoria. Ogni prassi ha dietro una teoria (che
può essere sbagliata o meno), ad ogni teoria deve conseguire una prassi. Quindi
ogni uomo è un intellettuale.
Quando tu mi dici, no, io non sono un intellettuale perché faccio le cose, a me
sembra un modo di autodifesa per non dovere spiegare perché fai quelle cose e
in quel modo li. Mi sembra un modo difensivo, comune a tanti autori, di
trincerarsi dietro la propria opera, quasi che loro non ci avessero messo intenzionalità alcuna.
Invece sono convinto dell’intenzionalità dell’autore e che da questa consegua il dovere dell’autore di sottoporsi non al
giudizio assiologico, quanto al dibattito ontologico e teorico.
Insomma, Lorenzo caro, se la critica a fumetti è ridotta quello che è, mi sembra sia buona responsabilità anche degli
autori.
Lorenzo: Ma infatti! Anche il buco dell’ozono è colpa nostra!
E… ehm, il giudizio assiologico cusa l’è? fa male? posso venire a stomaco pieno?
Sulla gramscianuosità ti rispondo con un’immagine: hai presente quelle seratine intellettuali dove gli uomini
intellettuali intellettualizzano dopo cena e pontificano per astrazioni ardite? Sì che ce l’hai presenti, dai! Be’, per
l’esperienza che ne ho io, in quelle serate lì nove mogli su dieci si annoiano mortalmente. Perché il gusto della
vertigine dell’astrazione è molto più comune fra i maschi che fra le femmine. Ci sono poi un sacco di donne che
invece apprezzano certe disquisizioni, così come io posso presentarti un bello stuolo di uomini totalmente refrattari a
ciò. Con questo non voglio dire che noialtri “refrattari” c’abbiamo solo la prassi e il pensiero lo lasciamo tutto a voi…
In questa conversazione forse avrei dovuto parlare di scarsa propensione all’”astrazione” e non alla “teoria”: ho usato
le parole un po’ a vanvera, e tu hai i tuoi motivi per rintuzzarmi. Però se ci mettiamo belli comodi e usiamo
l’accezione comune (anche se un po’ impropria) della parola e della figura dell’”intellettuale”, inteso come uno di
quei signori delle seratine di cui poc’anzi, concedimi di non esserlo, e anche di ritrovarmi in bella compagnia. Cioè
ho un modo di esprimere il mio pensiero che riesce meglio con strumenti altri dalla speculazione salottiera o
conferenziaca.
Dici che molti autori si trincerano “dietro la propria opera, quasi che loro non ci avessero messo intenzionalità
alcuna”. Primo: hanno il diritto di farlo senza essere accusati di brutte cose. Secondo: io sono convinto che tutte le
buone opere lo sono perché il loro farle ha superato le intenzioni dell’autore, che sono solo la spinta iniziale. E più
ampio è il divario fra l’intenzione di partenza e la complessità che risulta alla fine, più l’opera è buona. È dunque così
importante che l’autore venga a discorrere sulle sue intenzioni? E chi lo dice che su quello-che-è-venuto-fuori-in-più
sappia parlare meglio l’autore che un avveduto, accorato lettore? E se per l’autore quella fosse una zona proibita? una
realtà che a descriverla con le parole e con la logica si dissolve fra le mani?
…
Pazienza non popolare perché non universale = dialetto di foggia non popolare perché i cuneesi hanno bisogno delle
note a piè di pagina = orecchiette con la cima di rapa non popolari perché al direttore del tg5 e ai suoi compari non
piace l’aglio!
Buon appetito a tutti.
Nubi 3 – Ippoghigno side
Watchmen,
ovvero il mondo salvato dai pensionati
di Davide L. Malesi
Watchmen, ovvero il mondo salvato dai pensionati – Davide L. Malesi
Cominciamo dal suo (apparente) contrario. La tragedia.
Come le persone avvedute sanno, o dovrebbero sapere, nel film Old
Boy di Park Chan-Wook a un certo punto vediamo una scena che ci
fa capire, definitivamente, che quella davanti ai nostri occhi è una
tragedia (non a caso, il regista/autore ha detto e ripetuto che il punto
di partenza della Trilogia della Vendetta, di cui Old Boy fa parte, è
Sofocle). Il protagonista del film, Daesu, è stato catturato e segregato
da qualcuno (non si sa chi) in un appartamento pressoché sigillato,
dal quale non c’è via d’uscita. Il segregatore, chiunque sia, provvede
che a Daesu non manchi il cibo per il corpo (le provviste e l’acqua) e
quello per l’anima (la televisione). Ma da lì il malcapitato Daesu non
può uscire. Ora, noi di Daesu sappiamo che è un burlone, capace di
scherzi un po’ pesanti; e tuttavia (fino ad ora) egli non ci sembra
dopotutto meritare un castigo così crudele e meticoloso nella sua
organizzazione. Lo stesso Daesu, in effetti, non riesce a immaginarsi
chi possa avergli fatto uno scherzo di questo genere. Così, dopo
qualche giorno di segregazione si decide: prende carta e penna (che gli
son state lasciate a disposizione) e si mette a buttar giù la lista di quelli
che potrebbero odiarlo tanto da infliggergli una punizione come
quella che sta subendo. Daesu crede, da principio, che la lista sarà
molto corta: non possono esser molti quelli animati da un tale
risentimento verso di lui. E tuttavia Daesu scrive, e scrive, e scrive: e la lista si allunga, e man mano che il nostro
eroe mette giù nomi gliene vengono in mente altri, e così riempie fogli su fogli. Alla fine la lista è talmente lunga
che Daesu decide di abbandonarla, perché non riuscirà a completarla mai. Sono in molti, si vede, quelli che lo
odiano. Sicché egli conclude sconsolatamente: “Credevo di essere un uomo mediocre. E invece, ho molto peccato”.
Le tragedie, si sa, partono da un distacco: quello che serve al personaggio centrale per maturare il dolore
insanabile di cui la tragedia, per svolgersi, ha bisogno. Il distacco è tra la realtà, tra le cose come sono, e la maniera in
cui il personaggio se le immagina: e così Edipo ignora che dietro la sua ascesa al trono vi sia lo scenario grottesco che
noi sappiamo; ed Ecuba non sospetta che gli Achei - dopo aver devastato Troia - siano tanto crudeli da esigere anche
in sacrificio la sua figlia vergine. E noi stessi, infatti, agghiacciamo di fronte al tragico: proprio perché certi episodi
serbano un nucleo insondabile, dunque ci sembrano mostruosi e immensi: forieri di, o scatenati da, un dolore
sterminato; da un male aldilà del nostro linguaggio. La tragedia è tragica perché non si spiega mai del tutto: di qui il
suo carattere sacro (il divino, senza dogmi, che divino sarebbe?), visionario, allucinato. Per contro, il melodramma è
invece genere squisitamente borghese: serba l’intensità degli eventi propri del tragico – lutti, disgrazie, vendette -, ma
senza il nucleo di mistero che la tragedia esige. Per i bravi borghesi che affollavano i palchi del teatro musicale nella
sua epoca d’oro (che coincide col trionfo della classe borghese in Europa) non potevano esserci fatti inspiegabili e
inconoscibili: erano innamorati, i borghesi, della scienza e dell’esplorazione delle frontiere; della nascente antropologia
e dell’economia che girava a mille. Sentivano così forte il bisogno di spiegar tutto da cadere in tranelli che a noi
sembrano ovvii, nella fretta di far tornare i conti di questo o quel problema (si vedano le idee di Lombroso sulla
criminalità; o quelle di Decker sulla funzione economica dell’individuo). E se per tutto (pensano, i bravi borghesi) c’è
spiegazione, se non c’è orrido evento che non abbia una soluzione pronta o comunque approntabile, il melodramma –
che racconta storie piene di lutti e vendette e infamie e dispiaceri e spesso senza lieto fine, dunque teoricamente
tragiche –: ecco, il melodramma distanzia quelle storie, le anestetizza, le doma. Consente di fruirle senza evocarne la
prossimità. E perciò: le colloca nel passato remoto (Aida) o più recente (Rigoletto); o le mette in scena con protagonisti
infimi, proletari (La bohème); oppure le allontana geograficamente (la Butterfly). Insomma: il melodramma ci dice che
se il fatto intrinsecamente tragico esiste, ebbene: esso non esiste qui, ora, nelle case dei bravi e onesti borghesi. E se pure
questo fatto intrinsecamente tragico esiste, ebbene, ancora: non serba mai crismi di mistero, di inspiegabilità. Il sacro, e
la sua innata mostruosità, sono assenti. D’altronde, nel mondo borghese tutto ciò che è bello è anche squisitamente
modesto, è – per così dire, perlomeno nelle intenzioni – a misura d’uomo. Mi viene ora in mente la canzone Night
Nubi 3 – Ippoghigno side
watch dei King Crimson, il cui testo evoca e descrive la Ronda di notte del pittore Rembrandt: ebbene, a un certo
punto Night watch va dritto al cuore del desiderio borghese, elencandone alcuni punti cardine:
They make their entrance one by one
Defenders of that way of life
The redbrick home, the bourgeoisie
Guitar lessons for the wife
“Una casa di mattoni rossi, lezioni di chitarra per la moglie”. Le voglie borghesi esigono la sobrietà (cfr. Max
Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo). Nemmeno il desiderio, da sempre nucleo di tutti i misteri, ha
più diritto a un margine di segretezza: anch’esso deve perdere ogni connotato eroico, farsi domestico e tangibile. I
sentimenti borghesi pretendono di essere il più possibile rassicuranti; privi di un cuore di tenebra che aspetta, in
agguato.
Coerentemente con questa impostazione, nel melodramma – che nasce per compiacere il gusto borghese -, tutto è
vistosamente esibito e spiegato e delimitato con evidenti paletti; finanche le emozioni dei personaggi sono vistose e
addirittura enunciate a piena voce (ecco, Radamès che proclama Io son disonorato!). Insomma: da una parte nel
melodramma i borghesi non compaiono, o compaiono in contesti così esotici da non inquietare (Pinkerton); e
dall’altra, le emozioni che il melodramma mette in scena sono perfettamente su misura per la classe borghese che il
melodramma vuole intrattenere. Con ciò, se oggi il melodramma non vive più nel teatro musicale (nel senso che
non produce opere nuove e degne, in quell’ambito lì) esso invece prospera altrove: al cinema, nei fumetti, in
televisione. E vorrei ora entrare in argomento affermando, visto che qui è di fumetti che si discute, la natura
melodrammatica di Watchmen di Alan Moore e Dave Gibbons: natura che (qui è l’equilibrismo di Alan Moore,
autore dei testi) è assecondata fino a un certo punto, eppoi stravolta: punto di origine di quella che di Watchmen è
la qualità prima, ovvero la forza eversiva.
La storia di Watchmen la conoscono tutti, perciò non mi dilungo oltre l’essenziale. In un’America immersa nella
guerra fredda che più fredda non si può – è il 1985 -, “il newyorkese Edward Blake muore cadendo dal 23° piano
di un palazzo. Il sopralluogo preliminare di due detective della polizia non conduce ad alcuna soluzione definitiva,
ma porta a due ipotesi: la prima è che Blake possa essere stato assassinato dai russi comunisti a causa della sua
vicinanza al governo degli Stati Uniti, la seconda è che potrebbe essersi suicidato in un raptus di follia, vedendo la
propria vita, sempre condotta "all'insegna dell'azione", perdere pian piano di significato a causa della superiorità
statunitense nella corsa agli armamenti.
“Propendendo maggiormente per l'ipotesi dell'omicidio, i due detective non riescono tuttavia a spiegarsi chi
possa essere riuscito a sopraffare e a scaraventare dalla finestra un uomo dall'eccellente forma fisica come Blake. In
ogni caso, concludono di tenere segreta la storia del possibile omicidio per evitare di attirare l'attenzione
dell'ultimo "avventuriero in costume" ancora in azione, il vigilante dalla pessima reputazione Rorschach.
“Sfortunatamente per loro, Rorschach viene comunque a sapere della cosa e, cominciando ad investigare,
presto scopre che Blake era in realtà un suo conoscente: l'eroe mascherato chiamato Il Comico, uno dei due
avventurieri in costume che avevano accettato la protezione del governo dopo il Decreto Keene del 1977 (tale
decreto dichiarava esplicitamente illegale la professione di eroi in maschera rendendo a tutti gli effetti Rorschach
un fuorilegge).
“Rorschach allora comincia a farsi l'idea che la morte di Blake sia parte di un complotto più grande finalizzato
all'eliminazione degli eroi in costume e per questo decide di mettere in guardia gli altri ex-avventurieri suoi
conoscenti: Jon Osterman alias Dottor Manhattan (l'altro eroe protetto dal governo e fulcro della superiorità
nucleare statunitense), la compagna di questi Laurel Jane "Laurie" Juspeczyk (la seconda Spettro di Seta), il suo expartner Daniel Dreiberg (il secondo Gufo Notturno) e Adrian Veidt (Ozymandias) da tutti considerato l'uomo più
intelligente del mondo e capo di un impero commerciale da lui creato dal nulla dopo essersi ritirato dalla vita
avventurosa nel 1975”.1
1
Il virgolettato viene dalla pagina di Wikipedia dedicata a Watchmen.
Watchmen, ovvero il mondo salvato dai pensionati – Davide L. Malesi
Nubi 3 – Ippoghigno side
Si noti come, in Watchmen, sia – in apparenza - del tutto assente il distacco di cui parlavamo a proposito della
tragedia, e che la tragedia esige. Il personaggio ch’è il motore della vicenda, Rorschach (l’indagine parte dai suoi
sospetti) si dimostra clamorosamente sopra le righe dall’inizio alla fine della storia: è sporco, lacero, si nutre di
schifezze in scatola, puzza (i riferimenti al suo odore sono assai frequenti); però si arrampica sui tetti come un
gatto, mena come un fabbro, è il terrore dei delinquenti che castiga duramente a mani nude. Non solo: si esprime
in un linguaggio denso di riferimenti apocalittici e presagi di sventura, e gli altri supereroi (anzi, ex supereroi: visto
che l’unico ancora “in servizio”, morto il Comico, è il Dottor Manhattan)2 lo vedono come uno sfigato: peggio,
come una specie di iettatore. Ugualmente, il defunto Comico (altro personaggio di cui veniamo a conoscere la
storia attraverso sequenze analettiche: flashback, come si usa dire) è ridicolo nel suo costume patriottardo (parodia
di quello di Capitan America?) eppure non perde occasione di mettercisi in mostra; a ogni più sospinto si dà il suo
bel daffare in spacconate varie (si ricordi la scena in cui appicca il fuoco alla carta geografica, alla riunione dei
Minutemen) e spesso i suoi comportamenti sono violenti e antisociali a dir poco (l’episodio della violenza sessuale è
emblematico). Entrambi, sia Rorshach che il Comico, sono profondamente immersi nella loro paranoia: nessun
distacco arriva a distoglierli, a separarli dalla loro visione del mondo. Addirittura, Rorschach muore – alla fine della
storia - per via della sua incapacità di accettare la dimensione del tragico: dopo aver assistito all’indicibile, rifiuta
l’idea ch’esso debba restare nel contesto dell’indicibile, e vuole dirlo: vuole darne testimonianza. Ma non si può,
non si deve, dare testimonianza dell’indicibile: il mondo non capirebbe.
Dunque il tragico, l’indicibile, è presente in Watchmen: anche se i personaggi della storia sono, come
impostazione, melodrammatici. Eppure, come vedremo, anche l’impostazione dei personaggi viene stravolta, e la
storia è architettata in modo da consentire l’irruzione del tragico. Si potrebbe dire, allora: che Watchmen è un
melodramma la cui sovrastruttura viene, da un certo momento in poi, fatta a pezzi dall’arrivo del tragico sulla
scena. E non farà male, qui, esaminare punto per punto l’impostazione melodrammatica di Watchmen, nei suoi
aspetti principali: dopodiché, dare un’occhiata agli strumenti per mezzo dei quali il tragico devasta questa
impostazione, lasciando terra bruciata e cenere (come solo il tragico sa fare).
1.
I personaggi da melodramma hanno una emotività esplosa (o implosa), comunque esagerata: fin troppo
esibita (il Rodolfo di “Questa è Mimì gaia fioraia”), oppure fin troppo compressa (Don Giovanni, che resta un
enigma per gran parte del tempo). Stesso principio segue Watchmen: dove abbiamo molti esempi della prima
classe di comportamenti (la sfuriata di Laurie quando Rorschach si presenta al centro di ricerca militare; la
vietnamita incinta, colma d'ira, che taglia la faccia del Comico; la scenata di gelosia di Janey alla riunione dei
Crimebusters; la volgarità esibita, sfacciata della madre di Rorschach....). Quanto alla seconda classe di
atteggiamenti, ne abbiamo tre esempi clamorosi: la compassata impassibilità di Adrian Veidt/Ozymandias,
l'inumano distacco del Dottor Manhattan, la quieta e ben organizzata follia di Rorschach. Tutto l'intreccio si regge
sull'interagire di queste emotività lacerate o sigillate all'estremo; per questo le trame da melodramma hanno un
andamento sovente isterico (il che accade, val la pena notarlo, anche nei serial tv relationship-oriented, che del
melodramma hanno ereditato lo scettro e, in larga misura, il pubblico).
2.
I personaggi da melodramma, se positivi, sono in genere squallidi e miseri, emarginati e perdenti: basti
pensare a Rodolfo e alla sua congerie di sfigati, a Tosca... Watchmen aderisce perfettamente al cliché: abbiamo a che
fare con supereroi pensionati, malinconici, nel caso di Rorschach perfino ricercati... Quelli che sono ancora in
servizio sono depressi (Laurie), o isolati dall'umanità (il Dottor Manhattan).
3.
Qui si produce la prima contraddizione, che è necessaria (senza contraddizioni, senza strappi tra
percezione e realtà, si è visto che il tragico non può irrompere in scena). I personaggi da melodramma sono sfigati,
abbiamo detto: ma i supereroi hanno bisogno, anche, di essere rassicuranti. Il supereroe è, per eccellenza, un
soggetto che offre al lettore appigli morali e psicologici, che interviene a pacificare i sussulti di un mondo devastato
2
Anche Laurie è sul libro paga del governo USA, ma (come ammette lei stessa) il suo ruolo non è più quello di
lottare contro il crimine: bensì di tenere Jon, il Dottor Manhattan, buono e tranquillo (in qualità di sua fidanzata).
Watchmen, ovvero il mondo salvato dai pensionati – Davide L. Malesi
dal crimine o dalla guerra: un personaggio ideale per un racconto di intrattenimento (e di edificazione morale)
borghese. L‘esempio classico è quello dei supereroi DC Comics (e, in misura minore, di quelli Marvel): Superman,
dotato di poteri immensi, è immensamente altruista; l’Uomo Ragno, che ha attraversato una fase di trasformazione
traumatica, ha un superiore senso morale (“Grandi poteri equivalgono a grandi responsabilità”). Più un supereoe
possiede doti sovrumane, e più l’autore provvede a dotarlo di una psicologia che, rispetto alle sue doti, rassicuri il
lettore (e infatti i supereroi più “destabilizzanti”, vedi Batman, sono quelli che hanno i poteri più deboli o non ne
hanno affatto). Ma in Watchmen – dove i superpoteri sono appannaggio del Dottor Manhattan e basta -, l’effetto
di rassicurazione è ottenuto bilanciando volontà e difetti. I supereroi sono persone con una intelligenza superiore e
enormi mezzi economici (Veidt), oppure hanno a disposizione una tecnologia insolita e molto avanzata (Dreiberg);
o, ancora, hanno competenze militari da commando (il Comico). Per bilanciare queste doti, pur notevoli, è
sufficiente renderli caratterialmente fragili, con debolezze e tic e dettagli che li identificano con la middle class da
cui provengono (il passato di figlio dell’orologiaio del Dottor Manhattan; gli spessi occhiali e gli studi da ingegnere
di Dan Dreiberg, la casa di riposo-bomboniera della signora Jupiter...). Solo Rorschach, il più deviato (e, infatti,
sempre in controtendenza rispetto agli altri: è lui il deforme, il Rigoletto di turno, qui) denuncia un passato
proletario, da esponente di quella classe sociale che negli USA si chiama white trash, “spazzatura bianca”. Non
hanno, questi supereroi, le origini eterodosse degli X-Men né gli atteggiamenti controversi, politicamente
scorretti di un Dark Knight milleriano (salvo, beh, il Comico e ancora Rorschach: dei quali però vediamo anche le
profonde incrinature, quando il Comico nel Vietnam rimprovera il Dottor Manhattan di non aver fatto nulla per
salvare la donna incinta che lui ha ucciso; e quando Rorschach stesso racconta di come Kovacs “si trasformò”,
psicologicamente, nel personaggio che è diventato). Insomma, gli eroi di Watchmen hanno dei buoni numeri,
qualche arma bizzarra e qualche veicolo speciale, e talora una o due rotelle fuori posto; ma, per quel che rimane,
sono gente normale: sono come noi. Lo stesso Dottor Manhattan, con i suoi enomi poteri, va in crisi profonda
quando Laurie lo abbandona: una dèbacle sentimentale che, per il mondo politicamente travagliato di Watchmen,
rappresenta l’inizio della fine.
4.
Nel melodramma, è convenzione che ai personaggi dotati di un background fascinoso o traumatico (ma
le due cose, in genere, coincidono) sia offerto uno spazio “monologante” ove narrare il fulcro della propria storia, la
propria versione dei fatti, la propria verità. Lo stesso accade in Watchmen, ove sia Rorschach che il Dottor
Manhattan hanno uno spazio assai ampio dedicato al disvelamento dei loro fantasmi: Rorschach nell'incontro con
il dottor Malcom Long, il Dottor Manhattan nel Capitolo IX (“La tenebra del mero esistere”). Questi spazi
servono a evidenziare traumi o esperienze che confermino la statura dei personaggi, il loro essere larger than life:
pur nella loro misura, lo abbiamo visto, di individui modesti e sconfitti (ancora la contraddizione netta: tra la
Nubi 3 – Ippoghigno side
“statura” dei supereroi come personaggi pubblici e la loro fallace dimensione umana, che in Watchmen fa
esplodere la dimensione tragica man mano che la storia si sviluppa).
5.
Non c'è preoccupazione, in chi narra una vicenda melodrammatica, per le ingenuità del plot: le cose e le
persone sono sempre a portata di mano quando servono, i progetti possono venir messi in atto con scarsa o nulla
preparazione, le coincidenze (sfavorevoli o favorevoli, a seconda dei bisogni della trama) sono date per scontate.
Così accade anche in Watchmen: basti vedere la facilità con cui Rorschach e Dan Dreiberg riescono a ottenere
informazioni dalla malavita nel Capitolo X, o la leggerezza con cui Dan e Laurie pianificano l'evasione di
Rorschach dal penitenziario (evasione, peraltro, coronata da successo).
6.
Nel plot del melodramma, i protagonisti in genere soccombono alle avversità. Questo accade anche in
Watchmen: il piano del “cattivo” non viene sventato, ma riesce: ciò che i personaggi devono fare (così come il resto
del mondo), è imparare a convivere con le conseguenze.
Si noti come, però, le valenze melodrammatiche di ciascuno dei sei punti elencati vengono, in Watchmen,
rovesciate per ottenere il desiderato (e inatteso) effetto tragico: anche e soprattutto nei punti ove l’impostazione
melodrammatica sarebbe più coerente (uno, cinque, sei) rispetto quelli dove, già in superficie, è già leggibile il
principio di contraddizione proprio delle tragedie (due, tre, quattro).
Al punto 1), è interessante notare
uno sviluppo inatteso dovuto a
Watchmen. L’emotività esplosa (o
implosa) dei personaggi è lo
strumento attraverso il quale il
melodramma si serve abitualmente
per giustificare psicologie
superficiali, capaci di azioni
esagerate e colpi di testa. In
Watchmen, invece, la dimensione
caricaturale della psicologia dei
personaggi viene, nel corso della
vicenda, riassorbita: ciascuno di
essi è segnato da profondi traumi
che veniamo a scoprire, ed è
consapevole dei propri scompensi
(si veda il momento in cui Laurie e
Dan, usciti a cena, chiacchierano e
scherzano sulla terrazza
ironizzando sugli aspetti ridicoli
del mestiere di supereroe (il caso di
Capitan Massacro...). I personaggi
di Watchmen sanno, intimamente,
che il fatto di ergersi a paladini
della società, unitamente ai traumi preesistenti, li ha devastati psicologicamente: si tratta di una verità che hanno
accantonato, ma non rimosso. Si può leggere Watchmen anche come un percorso ove ciascun personaggio si
riappropria della propria angoscia e del proprio dolore, facendone tesoro (si veda la scena in cui Dan ammette con
Laurie, dopo aver fatto l’amore con lei, che il costume ha reso l’esperienza più bella ed eccitante). Questo percorso
è tragico, per tutti (dovranno accettare, alla fine della storia, il fallimento dell’estremo tentativo di “salvare il
Watchmen, ovvero il mondo salvato dai pensionati – Davide L. Malesi
mondo” dalla cospirazione in atto: insomma, dovranno accettare l’inutilità del loro ruolo di supereroi dinanzi alla
prova suprema). Ma ciò è anche, per coloro che avranno il fiato di superare la tragedia, vivificante e liberatorio.
Il punto 5), poi, risulta un egregio
mascheramento di un processo
intimamente tragico: è vero che i
personaggi hanno tutto a portata di
mano e apparentemente riescono a
compiere imprese notevoli (la liberazione
di Rorschach su tutte), ma – a parte il
fatto che tali imprese non varranno a
sventare il complotto ch’è il fulcro del
plot – essi invece falliscono
clamorosamente nelle cose più
importanti per loro, falliscono in ciò a cui
tengono veramente: la signora Jupiter non
riuscirà mai a dire a sua figlia chi è il suo
vero padre; Jon non riuscirà a recuperare
il rapporto con Laurie; Ozymandias,
smanioso di ottenere l’approvazione del
Dottor Manhattan alla fine della storia,
avrà invece risposte gelide e scarsamente
decifrabili, che sottolineano la distanza
tra il Dottor Manhattan (che è ormai un
dio: si veda il suo proposito di creare la
vita) e Ozymandias che, per quanto
intelligente, è un uomo e basta.
Il punto 6), infine, è quello ove si
produce il rovesciamento più clamoroso,
ove Watchmen getta la maschera (è il caso
di dirlo!) e disvela il suo potenziale
tragico ed eversivo3: questa storia usa
l'impianto della narrazione borghese per
eccellenza (il melodramma), per
smascherare il fallimento della civiltà
borghese per eccellenza (quella
statunitense) nell'impedire l'escalation
militare tra USA e URSS, il grave
inasprimento delle relazioni internazionali, la crisi economica, l'aumento della criminalità. Watchmen ci racconta
un mondo ove gli Stati Uniti hanno vinto la guerra in Vietnam: il conflitto che, nella realtà che conosciamo,
rappresenta un grave nodo psicologico irrisolto, sia per i singoli individui, che per la società nel suo insieme, che
per l'establishment. Ma la vittoria non ha reso gli USA più forti: anzi, ne ha accentuato la dipendenza da un singolo
individuo (il Dottor Manhattan) che diventa il cardine della loro superiorità strategica. Neppure gli USA di Frank
3
Si faccia, per contrapposizione, riferimento alla prima stagione della serie tv Heroes: essa, diversamente da
Watchmen, non produce alcun rovesciamento dell’impianto melodrammatico (tra l’altro, la prima stagione di
Heroes ha una trama per molti aspetti simile a quella di Watchmen). Tuttavia in Heroes i supereroi riescono a
sventare la minaccia, ed è proprio l’ultimo episodio della stagione (“Come fermare un uomo che esplode”) in cui
i supereroi di Heroes, sia pure frustrati e problematici, confermano la propria natura di baluardi del genere
umano (che Heroes mette in discussione, ma non sconfessa come fa invece Watchmen).
Nubi 3 – Ippoghigno side
Miller ai tempi della crisi di Maltilla erano stati così subordinati al potere di Superman. Tant'è che quando il
Dottor Manhattan se ne va, il castello di carte crolla e la crisi internazionale esplode. Si rovesciano le prospettive: il
supereroe non è più il difensore del mondo borghese, il suo più possente baluardo: ma il suo tallone d'Achille.
Di più: vediamo che il destino dei supereroi non è quello di sventare il complotto universale (del quale essi non
riescono a impedire il compimento), ma quello di andare avanti con le proprie vite, dopo, in una società
trasformata. Solo superando lo scoglio della tragedia, facendo passi che sembravano impossibili da compiere
(Laurie dirà a sua madre di aver scoperto l’identità di suo padre4), possono neutralizzarne gli aspetti indecifrabili
che ne identificano la natura devastatrice. Sì, ci sarà sempre qualcosa che i nostri eroi non capiranno, qualche
compromesso che dovrà essere accettato (il lettore rammenti l’accordo finale di non svelare il complotto, dopo che
esso ha avuto luogo: accordo non accettato da Rorschach, che infatti muore). Un qualcosa di indicibile ci sarà
sempre: se no, il tragico non potrebbe esistere. Ma l’indicibile, per quanto non esplorabile né svelabile, può ancora
essere accantonato e superato: bisogna saper scegliere, andare avanti, seguire la propria coscienza.
Che, Watchmen ci lascia intendere, è il compito di ciascuno di noi, anche (e soprattutto) di chi non indossa una
maschera e un costume e non si pone come obiettivo di combattere la criminalità: la decisione più estrema, più
risolutiva (come ci rivela l'ultimissima vignetta) può spettare in ogni istante, a chiunque. Non ci sono, per noi,
baluardi che tengano: la responsabilità del mondo in cui viviamo è nostra, e non ci è dato nasconderci dietro ai
superpoteri di nessuno.
4
Si noti che ciò avviene solamente dopo l’accettazione del fallimento e della catastrofe, non prima, e rappresenta
(da parte di Laurie) un superamento di quanto al punto 5 (“[i supereroi] falliscono clamorosamente nelle cose più
importanti per loro, falliscono in ciò a cui tengono veramente”).
Di cosa scrivo quando scrivo, e perché scrivo quello che scrivo - Diego Cajelli
Di cosa scrivo quando scrivo,
e perché scrivo quello che scrivo
di Diego Cajelli
Un giorno, Boris Battaglia si manifesta piacevolmente nella mia mail chiedendomi di partecipare al suo lato di Nubi.
Ne sono onorato.
Mi propone un argomento interessante, di cui parlerò tra poco, e lo introduce con un concetto che ci tengo a citare
esattamente:
“Poi arriva un momento, fine anni ottanta?, in cui arrivano sceneggiatori come te e Recchioni, che non si vergognano di
fare fumetto, anzi ci riflettono sopra e ne cercano una presa popolare.
Però è tardi. Il popolo non c'è più.”
Ecco, in tre righe è riuscito a distillare quella sensazione che spesso punzecchia fastidiosamente i miei pensieri
notturni.
Così, con la nonchalance che spesso accompagna il pensiero nobile, identifica, mette in luce, definisce i confini e le
motivazioni del più grande dei miei demoni.
Ovvero quel retrogusto amaro, quel corrucciarsi dell’animo, e quel generale fastidio alle parti basse che ogni tanto mi
fa sentire come uno che fa gol in uno stadio vuoto.
Il popolo non c’è più.
Questa assenza, quando si fa sentire in modo marcatissimo, mi da l’impressione di sbattermi come un pazzo per fare
una cosa di cui non frega più un cazzo a nessuno.
Poi, bastano i commenti positivi dei miei lettori, (lettori e non fan, io non ho fan, non sono Tiziano Ferro) per
ringalluzzirmi e farmi dire: Va bene, vai avanti a fare quello che fai.
Ma che cosa faccio?
Boris dice che scrivo fumetti, riflettendoci sopra, pensando al media e non pensando di voler far altro facendo invece
fumetti. Mi chiede se sono d’accordo e quali sono i percorsi intellettuali che mi hanno portato a questa “piccola
rivoluzione” (tra virgolette, in quanto parole sue, prese dalla mail di cui sopra)
Bene.
Stupirò ogni critico, archivieremo secoli di saggi, di analisi sulle opere e tonnellate di metatesti.
Siamo su Nubi e dirò la verità. La mia verità chiaramente, quella di un autore.
Ebbene… Parrà strano ma quando scrivo una storia io penso alla storia e basta.
Non ci sono dei lucidi passaggi intellettuali o concettuali che guidano le mie scelte narrative, probabilmente ci sono,
ma sono interiorizzati e gestiti unicamente a livello inconscio.
Forse è questa la differenza sostanziale tra un autore e un critico.
Nubi 3 – Ippoghigno side
Quando scrivo, io penso a quello che sto scrivendo e non al perché, all’aspetto storico, al percorso culturale che mi ha
portato fino a lì, o a quello che c’è stato prima e quello che ci sarà dopo.
Quello, secondo me, lo deve fare Boris, lo devono fare i suoi compari, e devono farlo dopo.
Se io mi mettessi a scrivere lucidamente un fumetto pensandolo come un veicolo, come un mezzo per dimostrare che
io, a differenza di Altri, scrivo fumetti perchè voglio fare fumetti e non cinema o televisione, sarebbe il modo
sbagliato per dimostrare che sono un autore con le strapalle.
E’ il racconto che deve dimostrare la grandezza delle mie gonadi, non quello che c’è attorno, non quello che volevo
dire in realtà, non quello che voglio o vorrei dimostrare.
Se è vero che sono un piccolo rivoluzionario, è anche vero che si sale sulle barricate mossi da quel tipo di ideale che
non ti fa percepire lucidamente la pericolosità di quel gesto.
Giocarsi la pelle, la propria pelle, non è frutto di un percorso razionale, non è una scelta, è un imposizione delle
proprie istanze psichiche.
Per cui, secondo me, vale anche il discorso contrario.
Non è detto che chi scrive fumetti volendo fare cinema, o ambendo alla televisione, lo faccia coscientemente.
Mi si chiede quali rischi corre e quali prospettive ha uno che come me, scrive fumetti volendo far fumetti, in un
momento in cui è tardi, il popolo non c’è più.
Siamo su Nubi, ho detto che sarò sincero e lo sarò fino in fondo.
Se il popolo non c’è più, non c’è più in senso assoluto. Il popolo è formato da un sacco di persone, lettori,
appassionati, critici, giornalisti, altri autori, ragionieri e rivoluzionari.
Io non corro dei rischi veri e propri facendo ciò che faccio.
Non posso considerare un rischio l’aver aspettato dieci anni prima che qualche critico si accorgesse che Pulp Stories è
“carino”.
Mi è andata bene, ci sono registi di film di genere, quei registi a cui come modus operandi, come lavoro sul media,
come confronto io e altri siamo spesso paragonati, che di anni, per un “carino”, ne hanno aspettati trenta.
Così come non valuto rischioso il fatto che il mio numero di Nick Raider, sia stata una funambolica azione di gioco
con conseguente gol. A stadio vuoto.
E’ solo la conseguenza di un’assenza.
Il rischio, quello vero, quello che accetto di correre, ora che il popolo non c’è più, è che si notino unicamente i
metatesti e non i testi. Che si illuminino le alogene sul ciò che voleva dire l’autore, e non su ciò che ha detto in realtà.
E che la critica, assente assieme al popolo, perché del popolo fa parte, faccia sentire chi fa i fumetti con la gioia di fare
fumetti, come uno che fa una cosa di cui non frega più un cazzo a nessuno.
Spiegare per immagini – Claudio Nader
Spiegare per immagini
di Claudio Nader
Lo si sa. Non esiste solo il racconto. La narrazione.
In ogni media o linguaggio, che dir si voglia. Esistono anche i lavori di stampo tecnico, documentaristico o di
approfondimento, che a volte godono anche di notevole successo.
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Il cinema è stato usato per raccontare storie ma anche per tracciare linee d’indagine in fatti variegati. Non solo. In
molti casi ciò che chiamiamo cinema viene applicato alla realizzazione di video di approfondimento che spiegano
come usare armi di guerra, come preparare una ricetta o come usare carrelli di magazzino (muletti, transpallet, ecc..) e
come tonificare a livello ginnico i nostri corpi.
La letteratura non è dissimile e, nonostante, ci abbia regalato alcuni tra i più autorevoli documenti di cultura di tutti i
tempi sotto forma di romanzi e poesie, non si limita a questo. Fioriscono ogni giorno libri e manuali che comunicano
i saperi più disparati, dalle tecniche di irrigazione dei propri terreni ai segreti di software complicati, fino ai testi di
legge o le guide di viaggio.
In ambito fumettistico, oltre alle narrative varie, si trovano le pagine con le “pieghe” degli origami, le istruzioni su
come indossare giubbotti di salvataggio, manuali sul fare fumetto o studiarlo fino a documentari vari. Svariati autori
lavorano in svariati ambiti.
Da una parte ci sono, quindi, gli autori. Dall’altra parte ci sono le opere, fatte dagli autori. Non finisce qui, però.
Esiste anche una terza parte, che è là dove sta il lettore.
Ora, io sono un lettore (in parte anche autore, per niente opera) e nel lontano 2005 ho acquistato una cassettiera,
all’Ikea.
Avete presente la facilità con cui si montano gli acquisti IKEA? Ovviamente, chiunque non abbia nessun tipo di
dimestichezza con i meccanismi dell’oggettistica e dell’arredamento può riuscire a montare a casa propria la roba
acquistata con facilità impensabile (poi, magari, non la smonti più perché si sbriciola… ma non è questo il punto).
Il punto è il libretto d’istruzioni. Ora, a mio avviso alcuni libretti d’istruzioni sono scintillanti fumetti. Fumetti perché
attraverso un linguaggio grafico comunicano informazioni, senza esaurirsi in una singola immagine (come un quadro,
una foto, …).
Poi esistono fumetti brutti e fumetti belli, sia in ambito narrativo che in ambito tecnico.
Nella maggior parte degli aerei di questo mondo non troverete istruzioni per il “salvataggio” realizzate in maniera
chiara, dettagliata, inequivocabile come invece dovrebbe essere (visto che è in gioco la vita umana), troverete
fumettini dozzinali, mal disegnati e mal concepiti che al massimo vi intratterranno, per lo sforzo di decodifica, in
alternativa agli orribili giornali pubblicitari che troverete nel retro del sedile davanti a voi.
Questo è vero. Ma è vero anche che se comprate un mobile all’Ikea avete la possibilità di imbattervi in un buon
lavoro, che vi spieghi con esattezza e precisione (in qualunque paese viviate) come rendere operativo il vostro
acquisto. Magari potrebbe essere anche piacevole alla vista, a seconda dei casi e dei gusti. O magari no. Tanti di
quegli “albetti” non sono poi “scintillanti”, ma esistono delle eccezioni.
Io sono un lettore, dicevo all’inizio, e in quanto lettore sono stato felice di aver letto un fumetto “tecnico”, o
funzionale, che ha soddisfatto i miei occhi, le mie capacità di lettura e il mio bisogno di avere in casa una cassettiera.
È fatto, più o meno, così:
All'inizio dell'albo schemi precisi e tecnici mostrano gli strumenti come martelli e cacciaviti che saranno utilizzati e
spiegano nel dettaglio il contenuto della confezione, per tipologie e numeri di esemplari:
Spiegare per immagini – Claudio Nader
Il tutto si svolge attraverso sequenze di unità simili a quelle che chiamiamo vignette nel fumetto "tradizionale".
Proviamo a leggerne un paio, che non sono le prime dell'albo.
La prima che leggiamo adesso è questa, la numero 10:
Già qui vediamo la varietà del linguaggio e del suo utilizzo. Ogni azione ha il suo "motivo grafico" e tutto si
caratterizza attraverso uno svolgimento inequivocabile e oggettivo, che non permette interpretazioni diversificate.
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Sono 3 momenti:
.il primo (in alto a sinistra) mostra il corpo della cassettiera già assemblata nelle 9 vignette precedenti alla quale si
aggiunge il fondo, grigio (e il grigio denota anche un cambio di materiale fisico dell'oggetto). La cosa interessante,
qui, è, oltre alla freccia che segnala movimento e direzione da seguire per il montaggio, vedere che il piano grigio è
piegato. La piega ci fa capire contemporaneamente che non si tratta di un piano rigido e che va incastrato piegato e
solo poi aperto.
.il secondo momento merita la sua "partitura visiva" dedicata. E' raccontato attraverso piccole vignette circolari
perché spiega un passaggio delicato e necessita di una sorta di zoom visivo che isoli la parte interessata.
Le nostre amiche frecce ci spiegano, dapprima, che il piano grigio va fatto slittare attraverso le guide del "corpo della
cassettiera" e poi va fatto coincidere in un incastro tale da creare l'immobilità del tutto, di renderlo "sicuro". Lì le
frecce quasi mimano le nostre dita che potrebbero andare avanti e indietro per "saggiare" la fissità raggiunta e passare
poi al terzo particolare.
Il terzo particolare introduce l'elemento nuovo del martello, sempre in veste di
simbolo, come ci era già stato mostrato all'inizio dell'albo, tra gli strumenti necessari al
montaggio affianco alle tipologie di viti e altro. Il "simbolino" del martello viene
quindi ripreso e introdotto ora che serve un martello per infilare 1 piccolo chiodino. La
linea che dal chiodino arriva al grigio ci mostra che il punto in cui va infilato è proprio
quell’angolo della cassettiera che ormai noi ben conosciamo.
.E qui si arriva al terzo momento, attraverso un passaggio temporale che mostra dove
l'ultimo chiodino va infilato. Ora, sembra una cavolata, ma è solo il fatto che venga infilato nell'angolo opposto a
quello che conosciamo che ci fa capire che negli altri angoli sono già stati infilati gli altri.
Questo è un passaggio temporale da virtuoso del linguaggio. Cose di questo tipo Eisner le faceva per raccontare
storie.
Spiegare per immagini – Claudio Nader
Già poche vignette dopo questo tipo di passaggio viene dato per scontato, presupponendo che la persona che sta
montando il mobile sia ormai più esperta. Nella vignetta qui sopra viene semplicemente mostrato il tipo di vite da
usare, facendo riferimento al sempre dogmatico schema iniziale. Ci viene anche detto che ne vanno usate 4 e le
tecniche precedentemente mostrate sottolineano in un colpo solo i luoghi in cui bisogna avvitare.
Al di là del fatto che a me piace molto anche graficamente, sfogliare queste pagine cosi pulite e chiare è come leggere
della ligne claire applicata ad un disegno tecnico, che poi è quello che sempre accade in ogni progetto architettonico o
di bricolage o di manualistica in genere (anche nelle pagine per la composizione degli origami).
Al di là di questo, dicevo, credo sia curioso vedere gli strumenti grafici usati per spiegare. Anche in questo esempio
riconosciamo cose già viste:
A partire dall'accostamento delle partiture in cerchi piccoli in poi. Qui, poi, è molto importante vedere il momento
in cui il cacciavite si infila e deve girare per avvitare uno di quei 4 elementi perché la freccia che ci spiega
contemporaneamente in che direzione e di quanti gradi bisogna ruotare fa uso anche di una piccola tacchettina
orizzontale che è idealmente il termine della sua rotazione e che ci mostra chiaramente che il cacciavite deve ruotare
di 180° (se non si fosse capito guardando i simboli + e -).
Nubi 3 – Ippoghigno side
Questa qua sopra, invece, è l'ultima "vignetta" e mostra un assemblaggio doppio e speculare per il funzionamento del
cassetto, sempre allo stesso modo (perché poi, una volta dichiarate le tecniche, quest'albo non è che si spinge molto
più in là..) e si arriva al termine mostrando l'inserimento dell'ultimo cassetto (in basso a destra) utilizzando ancora
l'espediente del tempo che scorre e che sottintende la ripetitività dell'operazione nei cerchi piccoli estesa a tutti i
cassetti.
La chiusura di quell'ultimo cassetto, infine, va a richiudere il cerchio logico avviato dalla copertina che già ci mostrava
la fine raggiunta, ovvero la cassettiera montata (che è il motivo per cui io ho speso quei soldi per comprarla).
Ora, una puntualizzazione, che so che qualcuno non sarà d’accordo con quanto detto finora.
E' ovvio che questa roba non è accostabile alle opere fumettistiche in genere, in termini estetico-poetico-narrativi;
questa roba rimane, però, per me, un esempio fortissimo e ottimamente realizzato di quello a cui le logiche di cui fa
uso il fumetto possono essere applicate, oltre alle finalità letterarie e narrative.
Spiegare per immagini – Claudio Nader
Non sto cercando di mostrare un nuovo autore del fumetto contemporaneo, sto spiegando la mia esperienza di
lettore. È Chiaro?
Questo non vuol dire che ogni volta che vado nel bagno di un bar o apro un uovo kinder o vedo in qualche altro
luogo dei fogli con delle istruzioni per immagini io creda di trovarmi di fronte ad una grande cosa. La maggior parte
di quelle cose non brilla per capacità comunicativa, ma questa, di contro, si. Del resto il caro Will Eisner lavorava
anche in questo senso, attraverso opuscoli informativi di vario tipo, ma anche Guy Delisle, oggi, in Pyongyang spiega
questioni tecniche attraverso il fumetto o ancora, in maniera discorsiva, lo fa anche Etienne Davodeau in Rurale!
A me, quest’opera, ha affascinato da subito e il fatto che quest'albo sia ormai da 2 anni, in costina, insieme agli altri
libri della mia libreria (tra fumetti, monografie d'artisti, graphic novel, libri di design, scritti d'autore e riviste varie..)
vorrà dire qualche cosa.
A voi capire cosa..
Perché non leggo fumetti – Monica Piccard
Perché non leggo i fumetti
di Monica Poiccard
Boris, cuginetto carissimo,
mi chiedi di raccontarti una cosa che non so.
Giuro.
Non so proprio dirti se tra noi giovani leggere fumetti è una cosa diffusa. Perché è questo che intendi vero, quando
mi chiedi se i fumetti rientrano tra i divertimenti più popolari della mia generazione? Tra l’altro, cosa intendi per
giovane? Io non mi sento così giovane.
Lo dici tu.
Nubi 3 – Ippoghigno side
Perché, mi hai spiegato, invidi il mio avere (circa) vent’anni. Ma sono tutte balle le tue, ci stai bene tu nel tuo avere la
stessa età del Maggio (lo ripeti sempre con –credimi-fastidioso compiacimento) e dispensare quella che reputi
saggezza, ma che –perdonami, parlo apertamente perché ti voglio bene- è solo accumulata supponenza. Con quell’aria
che assumi quando lo dici… che credi, sospetto, di essere Ligabue mentre canta “Ho messo via”.
Comunque.
Vuoi la verità? Te la do.
A me e a tutti i miei amici (tanti) dei fumetti non ce ne frega niente. Sì, qualcuno di noi legge quelle robette
giapponesi che è divertente far scorrere all’incontrario, qualcun altro si spancia di risate leggendo Rat-Man, uno –il
più sfigato- legge Tex, uno, l’intellettuale di turno, legge quelle cose che allegano ogni tanto a un quotidiano… come
le chiamate? romanzi grafici, giusto?...
Il punto, cuginetto, è che, per come la vedo io leggere serve principalmente a due cose.
Imparare/informarsi e passare il tempo. La prima, per quello che riguarda i fumetti la escluderei. Certo, non ho
grandi conoscenze al riguardo, ma dal punto di vista didattico mi vengono in mente solo cose di disarmante banalità
e di sconfinata bruttezza tipo la storia d’Italia a fumetti di Enzo Biagi. Riguardo all’informazione, invece ti dirò,
cuginetto, che tra due reporter come Joe Sacco e Kapuscinski, se proprio devo leggere un reportage giornalistico,
scelgo per stimolo e intelligenza e migliori traduzioni, il secondo.
Ecco.
Resta giusto il passare il tempo.
Platone, sì quello lì che detesti tanto, nel Fedro includeva un sacco di cose nella sua lista dei paidiai. Giochi da
bambini. Scemi. Non ci metteva i fumetti. Ovvio. Non c’erano. Ma se scorri la lista ammetterai che se ci fossero stati
ce li avrebbe inclusi. E secondo me avrebbe fatto benissimo. Con l’aggravante che la lettura dei fumetti è un gioco per
bambini scemi che giocano sempre da soli. Passare il tempo leggendo fumetti devi proprio farlo da solo. Non voglio
dirti che la solitudine mi spaventi, ma l’andarsela a cercare per un po’ di divertimento mi sembra demente.
Certo, non lo nego. Ed è probabilmente per questo che non lo facciamo o lo facciamo poco: anche leggere un
romanzo lo fai da sola. Però scusa, se leggi un romanzo, lo puoi sempre prestare, parlarne, immaginartelo e
descriverlo. Perché non c’è niente di più libero e sfuggente delle parole, possono significare cose così diverse che
anche a parlare la stessa lingua alle volte facciamo fatica a capirci. Il fumetto anche in questo senso è avvilente. Non
solo ti vuole solo, ma ti vuole anche prigioniero di immagini già fatte. Ti chiude pure la libertà della fantasia. E non
venirmi a dire che la libertà dei fumetti sta in mezzo alle vignette, perché quelle sono solo seghe tue, cuginetto caro.
Tu, la tua generazione forse – ma anche lì credo siate pochi e neppure troppo buoni – ,hai interesse per i fumetti
perché ti danno quello stesso godimento che ti davano da bambino. Vedi che tutto si tiene! Questa cosa si chiama
nostalgia.
La mia generazione, di questo ne sono convintissima, non sa cosa sia la nostalgia. Non possiamo permettercela.
Perché non abbiamo passato (i nostri nonni, cioè i vostri genitori, non hanno più competenze –cioè storia- da
trasmetterci) e, probabilmente, a meno di ribaltare dalle fondamenta questo mondo, non abbiamo futuro.
Che dici, sono apocalittica?
Io non penso. Ma sai com’è. Non ho studiato sociologia.
Poi lo sappiamo tutti che, come diceva il tuo adorato Herzen (me l’hai fatto leggere tu, ricordo bene vero?), uno
scopo lontano è sempre un imbroglio.
Però come ti accennavo prima, qualche fumetto noi “giovani” lo leggiamo comunque, solo che non ci mettiamo
quella tua passione nostalgica, lo facciamo così come ci accendiamo le sigarette. Per noia. Mai per amore.
Già, ecco una cosa popolare. Quella sì. L’amore. No, non quello harmony. Spaccami le ossa e non darmi tenerezza,
come cantava Nada! Mica l’agape, quella non ci interessa. No, non parlo del sentimento… per quello non c’è tempo,
parlo dell’amore quello da farsi. Sai, da quello che mi dici di quando i vent’anni ce li avevi tu, mi sa che allora
leggevate i fumetti perché non scopavate mai. O quasi. Neanche questo so se è una cosa generazionale, o se eri te e i
tuoi compari fumettari che eravate particolarmente negati e imbranati.
Cosa posso dirti ancora.
Il sesso quello si che è popolare. Mica i fumetti di Baldazzini.
Con buona pace del dottor Wertham: non siamo più innocenti da tempo e ci vuol altro per sedurci.
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Il numero 3_Boris_side