. EVOLUZIONISMO E CREAZIONISMO re dell’evoluzionismo, il quale dice espressamente di attenersi alle posizioni conciliatrici di monsignor Frassinous. Qualche commentatore ha accolto quest’idea con indignazione. Va detto, tuttavia, che in Kircher essa ha un significato preciso: la moltiplicazione delle specie a partire da quelle create in limitato numero dal Creatore, dipende dalla mutabilità insita in loro e persino nella superficie del globo, superficie che si è modificata anch’essa a causa del Diluvio universale nel volgere del tempo. Se non si tratta di evoluzionismo in senso moderno, si tratta in ogni caso di una visione dinamica della natura dei viventi e della Terra stessa. Va infine notato che se Kircher ammette una variabilità intrinseca ai viventi, e la accetta persino per l’uomo, egli si indigna tuttavia e rifiuta come assurda la tesi di Isaac de la Peyrère (-), secondo il quale la Bibbia ammetterebbe l’esistenza di altri esseri umani prima di Adamo, i cosiddetti “preadamiti”. Qualche odierno sostenitore del creazionismo può obiettare che Kircher è stato un visionario isolato che non merita attenzione, e che in effetti non ne ha ricevuta molta. È invece vero che egli è stato a suo tempo un esperto naturalista e un personaggio autorevole, che ha insegnato a lungo nel Collegio Romano, dotandolo di un museo ancor oggi esistente. Va notato, inoltre, che questo Collegio è l’istituzione più importante tra le molte fondate dai gesuiti e che ospita l’Università Gregoriana. Del resto Kircher è ancor oggi tenuto in grande considerazione dai suoi confratelli. Veniamo ora ai negatori della generazione spontanea e ai sostenitori dell’origine di tutti gli animali da uova, tra i quali si distingue il grande microscopista fiammingo Jan Swammerdam. Questi, in base a osservazioni di altri autori, male interpretate, e in base ad alcune proprie osservazioni, credette di vedere ben formato entro ciascun uovo di rana, l’animale che da esso sarebbe uscito (Biblia naturae, Leyden -, postumi). Swammerdam era dotato di una bizzarra personalità, in quanto a una capacità di osservazione limpida e acuta univa un’immaginazione visionaria. Egli immaginò quindi che dentro all’animale che si sviluppava nell’uovo fossero contenute altre uova con dentro completamente formati gli individui della generazione successiva e così via, ma non all’infinito, poiché – come la filosofia insegna – entro un uovo di dimensioni finite non possono essere contenute infinite generazioni. Questa implicazione gli sembrò molto opportuna perché in buon accordo con la fine del mondo prevista nelle Sacre Scritture. Non solo, PIETRO OMODEO . Frontespizio del Miraculum Naturae di Jan Swammerdam (Londra ) FIGURA . EVOLUZIONISMO E CREAZIONISMO l’ipotesi appariva anche conforme al dogma del peccato originale: essendo tutti i futuri esseri umani presenti fin dall’inizio nelle ovaie di Eva essi erano stati contaminati tutti dal suo peccato. Swammerdam, pur essendo luterano convinto, non esitò a esporre il suo castello di idee scientifico-teologiche al cattolico Nicola Malebranche, abate oratoriano. Malebranche (-) era un entusiasta seguace della filosofia e della fisica di Cartesio, che a quel tempo erano sospettate di essere eretiche, e si era dato da fare per allontanare questo pericoloso sospetto o, se si vuole, per cristianizzare il cartesianesimo. Tra gli argomenti da lui portati a questo scopo ce n’era uno molto semplice, derivato dal dialogo che Cicerone aveva scritto per confutare le tesi di Epicuro. Nel dialogo, intitolato De natura deorum, l’oratore romano sostiene che la bellezza della Natura, l’equilibro che in essa si osserva e la perfezione delle creature che essa ospita, testimoniano le somme qualità delle divinità che ad essa presiedono e hanno tutto prodotto. Concludeva a sua volta Malebranche: se poi queste creature vengono intese, come vuole Cartesio, al modo di perfettissime macchine, ciò va a maggior gloria dell’Onnipotente che le ha create. Avendo simile posizione, Malebranche non esitò a incoraggiare Swammerdam, il quale, forte di questo consenso, espose in una sua opera, intitolata Miraculum Naturae (Leyden ), quello che si può considerare il manifesto del preformismo e della creazione in actu di tutti i viventi. Malebranche espose a sua volta quelle idee (ma quasi per inciso) nel suo libro intitolato Recherche de la vérité (Paris -). L’atto di nascita del creazionismo in actu, secondo cui in un fiat venne creata ogni cosa, corrisponde più o meno a quello che oggi è ritenuto il creazionismo “verace”; esso può quindi essere datato al , non al tempo di Mosè. Ho detto che non so in qual modo gli oppositori dell’evoluzionismo possano reagire di fronte a simile disinvoltura nell’interpretare le vicende della creazione. Ma non è difficile immaginare che, stringendosi nelle spalle, dicano: “discorsi da incompetenti che non ci riguardano”. Ma hanno torto. In effetti, se Mattioli, Agricola e Kircher si esprimono in un modo che oggi a qualcuno può sembrare troppo libero e disinvolto, ciò dipende dal fatto che allora la creazione non veniva messa in discussione da nessuno, ma che il creazionismo, che oggi qualcuno presenta come un dogma, non era stato inventato ancora. L’idea più correntemente accettata in proposito era quella medioevale, secondo la quale la Natura era stata delegata a proseguire il PIETRO OMODEO . Frontespizio della Recherche de la vérité di Nicola Malebranche, pubblicata a Parigi nel FIGURA . EVOLUZIONISMO E CREAZIONISMO miracolo della creazione. Dante stesso ne parla con convinzione. Ma questa concezione, che faceva della Natura un’entità chiave, e in certo modo divina, convinceva poco in tempo di controriforma, sia perché non documentata in alcun testo sacro, sia perché era troppo facile sostituire la Natura al Creatore stesso e quindi passare da un monoteismo a un panteismo. Torniamo all’idea lanciata da Swammerdam più per motivi religiosi che scientifici. L’idea della preformazione piacque comunque al microscopista Nicolaas Hartsoeker (-), che propose una modifica, che non nelle uova fossero state incluse tutte le generazioni a venire, bensì nella testa degli spermatozoi (). Il medico francese François De Plantade (-), venutone a conoscenza, escogitò prontamente una beffa, nella quale sono cascati in molti. Pubblicò infatti un opuscolo nel quale erano descritti e illustrati alcuni spermatozoi entro i quali si potevano scorgere i feti destinati a evolvere in adulti muniti di spermatozoi, in ciascuno dei quali era contenuto un altro feto. Fu Antonio Vallisneri (-) a lanciare il preformismo in modo più meditato, sviluppando gli spunti sopra citati. Ne era venuto a conoscenza attraverso il breve trattato di Swammerdam e forse anche per il tramite dell’opera di Malebranche propagandata dagli oratoriani e, se non mi sbaglio, anche dai giansenisti; e Vallisneri aveva una nascosta predilezione proprio per i giansenisti. L’autorevole medico e naturalista così si esprime nel trattato Istoria della generazione dell’uomo, e degli animali (, in Opere fisicomediche, Venezia , vol. II): Nell’ovaio di ogni e qualunque femmina stanno nascosti tutti i feti che di mano in mano vengono a salutare il giorno, per essere tutti stati creati in un colpo dall’onnipotente e sapientissima mano di Dio nella prima Madre: onde il nascere degli uomini, degli animali, e diremo ancor delle piante e di quanto è sopra la terra, non è che un manifestarsi di ciò che era involto, occultato e in un angustissimo spazio ristretto; a concepire la qual cosa, quantunque la nostra immaginazione si spaventi, la ragione però ci sforza di concederlo. Con Vallisneri la teoria dell’inscatolamento dei germi, inventata da Swammerdam e Malebranche, diventa il più completo e definitivo manifesto del creazionismo estremo, come si direbbe oggi. Sorprende molto che Vallisneri, studioso di grande valore e difensore rigoroso della razionalità in campo scientifico, e anche credente PIETRO OMODEO molto tiepido, abbia fatto proprio il modello della creazione una tantum. Questo suo comportamento ha però due giustificazioni. La prima è che per questa via egli si metteva al riparo dal ricorso alla Provvidenza nel campo naturalistico che, invocata di continuo nei sermoni e nei libri di edificazione e nelle conversazioni quotidiane, vanificava l’impegnativa ricerca di una risposta a tanti perché. Ad esempio, alle domande: di cosa si nutre la cicala priva di bocca e nel cui intestino non si trova che un po’ di liquido? È proprio possibile che si nutra di rugiada? A questa domanda, e ad altre dello stesso tipo, c’era sempre chi rispondeva: “la Provvidenza soccorre anche il più minuto insetto”. Come mai l’ape costruisce cellette perfettamente esagonali e di identiche dimensioni? Qui giungeva puntuale la risposta rinunciataria: “la Provvidenza ha disposto così”. La seconda giustificazione riguarda – allora come ora – la spinta, talvolta molto energica, a utilizzare i principi delle scienze esatte in tutti i campi della scienza. Il creazionismo soddisfaceva a due principi allora in auge: la divisibilità all’infinito della materia propugnata da Cartesio e il calcolo infinitesimale propugnato da Leibniz e Newton. Alcuni fatti che si trovano discussi in scritti medici e naturalistici che vanno dalla fine del Seicento a quasi metà del Settecento sono istruttivi in proposito e anche divertenti. Per opposti motivi i gesuiti erano duramente contrari al creazionismo in actu, che metteva da parte la Provvidenza sempre vigile e sollecita per ogni creatura grande e piccina. Ne dà prova, tra gli altri, padre Filippo Buonanni S.J. (-), laborioso naturalista che insegnava al Collegio Romano, il quale protesta contro quegli eretici che pretendono «quasi che delle sue creature faccia Egli [cioè Dio] come la serpe, che sgravata dal parto più non ci pensa», infatti «s’egli le produce, anche assiste loro e con regola di somma Provvidenza le governa». D’altronde i gesuiti non potevano essere d’accordo sul creazionismo e la fissità della specie, non solo per quanto aveva scritto Athanasius Kircher nell’Arca Noë, ma per la convinzione che la generazione spontanea di animali di ogni genere fosse una realtà indiscutibile. È quindi una grande sorpresa trovare che negli anni Quaranta del Settecento il preformismo viene accolto e propugnato da due ecclesiastici molto in vista. Uno era il canonico Benedetto Stay (-), gesuita dalmata, che ha scritto un lungo poema in esametri latini intitolato semplicemente Philosophia (Roma ). L’altro era nientemeno che il cardinale Melchior de Polignac (-), membro di . EVOLUZIONISMO E CREAZIONISMO una famiglia aristocratica molto in vista in Francia, amico di Malebranche e grande diplomatico. A lui la città di Roma è debitrice della splendida scalinata che da piazza di Spagna conduce alla chiesa di Trinità dei Monti. Il poema di Polignac, intitolato Antilucretius, cioè “contro Lucrezio” e anch’esso in esametri latini, era stato concepito prima di quello di Stay (che l’aveva sentito recitare e l’aveva preso a modello), ma era apparso solo nel poiché tanto il cardinale quanto il curatore designato per la pubblicazione dell’opera erano morti nel frattempo. Il titolo è molto significativo poiché rende chiaro che l’ipotesi ultracreazionista posta al centro del poema sta lì come contraltare all’evoluzionismo enunciato da Lucrezio nel grande poema d’ispirazione epicurea intitolato De rerum natura. Il totale degli esametri latini scritti dal cardinale de Polignac e dal canonico Stay ammonta a quasi venticinquemila. Gli autori conoscevano bene il latino e la metrica, ma venticinquemila versi sono tanti e nessuno dei due era disoccupato, soprattutto il cardinale de Polignac. Viene quindi da domandarsi: per quale motivo tanta erudita fatica? Le date di pubblicazione di varie opere rappresentano in questo caso una guida utile. La data della Philosophia è il , dell’Antilucretius il (siamo arrivati agli inizi dell’Illuminismo); il romanzo filosofico di De Maillet, nel quale si leggono le prime idee trasformiste, circolava manoscritto fin dal ; la Vénus physique di Maupertuis è del ; Giambattista Vico aveva affermato, già nel , che alla sua origine l’uomo non aveva vissuto nell’età dell’oro ma che aveva vissuto al modo delle fiere. Insomma, fin dai suoi primi passi l’Illuminismo si pone le grandi domande esistenziali: chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? E cerca le risposte a queste domande nelle scienze naturali. Intanto arrivano dall’Asia e dall’Africa le prime scimmie antropomorfe e sono in molti a chiedersi quale sia il loro posto nella natura, e a proporre la loro parentela con la nostra specie. Il creazionismo e il meccanicismo cartesiano elaborati da Malebranche sembrano fornire risposte alternative e meno blasfeme. Inoltre, verso la metà del Settecento, Linneo li applica alla zoologia e alla botanica, sostenendo la fissità delle specie, ma in forma meno rigida di quanto di solito si suppone. Sennonché le tesi dei preformisti non si accordano con quanto gli studiosi di embriologia stavano appurando. In particolare, Caspar Wolff (-) con la sua grande opera sull’embriologia epigenetica PIETRO OMODEO (Theoria generationis, ) manda in crisi le tesi dell’inscatolamento dei germi e altre critiche fanno tramontare del tutto il preformismo, che scompare di scena alla fine del Settecento. Quanto alla tesi che la perfezione delle creature testimoni la somma abilità del Creatore, essa dura più a lungo e farà parte del curricolo di studi teologici che Charles Darwin seguirà all’università di Cambridge negli anni -. Essa però non soddisfa quelli che continuano a chiedere e a chiedersi: chi siamo? Da dove veniamo? Non tutti i tentativi di risposta suonano blasfemi come quelli di Julien Offroy de La Mettrie (-), di Denis Diderot (-) e di De Lisle de Sales (-) (i due ultimi finiranno in carcere per l’audacia delle loro idee). Altri autori, come Carlo Linneo (Carl von Linné, -), cercano di conciliare il loro credo con fatti che non possono ignorare. Linneo, ad esempio, che ben conosceva le scimmie antropomorfe, nell’XI edizione del suo Systema Naturae () pone l’orang-utan nel genere Homo, assegnandogli il nome di Homo nocturnus. Diderot racconta maliziosamente che il cardinale de Polignac di fronte alla gabbia dell’orango, dopo averlo considerato con attenzione, avrebbe esclamato: “Parla che ti battezzo”. Lord Monboddo, scozzese, discute a sua volta in tutta serietà se questo scimmione possa essere un uomo selvatico che non ha ancora imparato a parlare. Monsignor Nicholas Patrick Wiseman (-), divenuto poi arcivescovo cattolico di Westminster e cardinale, nonché autore di uno dei migliori trattati di antropologia pubblicati nel primo Ottocento, ritorna alle posizioni di Kircher e così si esprime nel suo Discorso sui rapporti tra scienza e religione rivelata del : La potenza divina amava forse manifestarsi per sviluppi graduali, sollevandosi – per così dire – a passo a passo dall’inanimato all’organizzato, da ciò che è privo di sensibilità a ciò che agisce per istinto, dall’irrazionale all’umano. Che repugnanza c’è nel ritenere che dopo la prima creazione del primo grossolano abbozzo di questo mondo fino al momento in cui esso fu rivestito di tutti i suoi ornamenti e proporzionato ai bisogni e alle abitudini dell’uomo, la Provvidenza abbia voluto procedere con altrettanta gradualità, in modo che la vita avanzasse a poco a poco verso la perfezione, vuoi nelle sue facoltà interne, vuoi nelle sue strutture esterne? Il contenuto di questo brano, e in particolare il riferimento al progresso, diciamo così, neuropsicologico degli animali e dell’uomo, fan- . EVOLUZIONISMO E CREAZIONISMO no pensare a un influsso di Lamarck o di Cabanis sul pensiero di Wiseman. Comunque, simile apertura non è durata a lungo, poiché i gesuiti nella seconda metà dell’Ottocento si sono schierati con veemenza contro le idee trasformiste ed evoluzionistiche introdotte dal loro antico confratello. Anche lo stesso Wiseman recederà dalle sue posizioni conciliatrici. Con questo io concludo, e chiedo scusa di essere stato un po’ monotono e puntiglioso. Ma così dovevo fare per sbloccare una diatriba nata su un presupposto erroneo e per aprire, spero, una dialettica più proficua. David e il Neandertal. Gli stereotipi colti sulla preistoria di Antonio Brusa . Il successo didattico della preistoria Il punto di partenza di ogni ragionamento sulla didattica della preistoria – quasi obbligato, sia per il prestigio dell’autore, sia per la non eccessiva abbondanza della letteratura specifica – è costituito da un articolo di Peter Stone (), nel quale lo studioso metteva sinteticamente a punto le ragioni per le quali è importante studiare a scuola questa parte della storia dell’umanità. La preistoria, scriveva Stone, è un campo di straordinarie applicazioni didattiche. Si presta alla costruzione di laboratori, affascinante ricaduta scolastica e divulgativa dell’archeologia sperimentale. Permette di partire da documenti e scavi locali, per ricavarne conclusioni facilmente generalizzabili a tutto il genere umano. Sollecita la capacità, anche dei giovani studenti, di lanciarsi in ipotesi ardite ma al . Questo lavoro si basa su un’indagine rivolta a un corpus di manuali di storia, pubblicati negli ultimi venti anni: circa manuali europei (di paesi diversi) e una trentina di manuali africani, asiatici e americani (la differenza di numero deriva dal fatto che la ricerca è stata condotta presso il Georg Eckert Institut, e riflette la composizione della sua pur ricca biblioteca). Per creare una “profondità temporale”, con l’aiuto di Mario Iannone, di Historia Ludens, sono stati analizzati oltre manuali italiani, dalla fine dell’Ottocento a oggi; il fondo utilizzato è quello di Didattica della Storia, presso il Dipartimento di Scienze Storiche e Sociali dell’Università di Bari. Una ricognizione, seguita da un primo “catalogo degli stereotipi”, in Gadaleta (, pp. -). Alberto Salza (, pp. ss.) scrive di preistoria tenendo presente in controluce il complesso dei miti e degli stereotipi, dei quali si parla in questo lavoro, che, quindi, gli è largamente debitore. Ho trovato nella letteratura un solo saggio sulla preistoria nei manuali (Rúiz Zapatero, Álvarez-Sanchís, ), che mostra l’evoluzione della trattazione didattica in Spagna. Lo splendido e informato contributo di Stockzowski () dà conto dei manuali francesi e russi e fornisce un’analisi degli stereotipi prevalentemente antropologica. ANTONIO BRUSA tempo stesso verosimili. È un terreno dove si incrociano naturalmente molte discipline: e per questo motivo risulta di grande interesse per gli insegnanti, perennemente affamati di strumenti interdisciplinari. Per ultimo, la preistoria rappresenta la porzione infinitamente maggiore di storia dell’umanità. Per questo complesso di vantaggi, Stone si felicitava per l’ingresso di questa disciplina nel national curriculum inglese, e, implicitamente sollecitava, dalle pagine di “Teaching History”, anche i lettori di altri paesi a considerare attentamente i benefici didattici. In realtà, anche un rapido sguardo all’immensa produzione manualistica, che ha caratterizzato la vita delle scuole nel mondo occidentale, permette di cogliere la prodigiosa espansione della preistoria, negli ultimi decenni del secolo scorso. Nella prima parte del Novecento, infatti, a questo periodo venivano solitamente dedicate poche righe e frettolose, giusto per introdurre i discorsi più importanti, quelli sulla storia a partire da Sumer e soprattutto dalla Grecia. Nella seconda, invece, aumenta non solo la quantità di pagine, ma soprattutto la loro qualità: sia nella ricchezza delle informazioni, spesso aggiornate all’ultima scoperta, sia nella bellezza degli apparati iconografici (carte, disegni, foto, ricostruzioni). Il fatto strano è che tale crescita non è stata favorita da una pubblicistica di sostegno, storica o pedagogica. Al contrario, sembra quasi che la preistoria si sia autopromossa nelle scuole. Sicuramente hanno giocato un loro ruolo, in questo successo, il suo fascino, forse anche il pregiudizio che si tratti di un periodo più facile da studiare, e quindi particolarmente indicato nelle fasi iniziali del curricolo. Certamente ha avuto un peso la forte pressione dei media e della divulgazione in generale, campi nei quali la preistoria ha conosciuto uno sviluppo enorme. Ma, poiché a questo incremento – come si è appena detto – non ha corrisposto un parallelo interesse degli studiosi alla trattazione didatti- . Fra i pochi, in Italia, a sostenere con ostinazione la necessità del suo insegnamento è Biancofiore (, ). Nel corso degli anni Settanta-Ottanta, poi, lo studio della preistoria è oggetto sostenuto da alcune associazioni di insegnanti, come il CIDI e l’MCE, anche per un nascente interesse didattico per l’antropologia e le scienze umane (AA.VV., ; Marini, Borgognini, ). Come studio curricolare a pieno titolo cfr. Calvani (). Un convegno sul tema è Olivari (). . Almansa Sánchez () mostra l’assoluta predominanza dei media nella diffusione delle conoscenze archeologiche e preistoriche: di queste, oltre il % verrebbe dalla televisione. . D AV I D E I L N E A N D E RTA L . G L I S T E R E O T I P I C O LT I S U L L A P R E I S T O R I A ca e ai problemi della divulgazione, si è creata una situazione ambigua, caratterizzata dall’esplosione di conoscenze da una parte e dalla carenza di studi dall’altra. Credo che proprio queste siano le condizioni ideali per la crescita rigogliosa di stereotipi di ogni tipo. E forse presentendo ciò, la prima delle ragioni elencate da Stone, per promuovere lo studio scolastico della preistoria, fu la necessità di lottare contro gli stereotipi. Ma, a quel tempo, allo studioso sembrò sufficiente segnalare la questione con un’allusione a Raquel Welch, l’avvenente interprete di un celebre film degli anni Sessanta, Un milione di anni fa, nel quale gli uomini se la dovevano vedere con i dinosauri, per mettere sotto accusa l’anacronismo, il peccato mortale dello storico (lo sappiamo dai tempi di Lucien Febvre), e sottintendere il suo rimedio naturale: rimettere in ordine cronologico, al loro giusto posto, le conoscenze. . Il dinosauro è uno stereotipo colto Oggi, a distanza di tempo – come conferma, peraltro, la straordinaria produzione di Stone (Stone, Mackenzie, ; Stone, Molyneaux, ; Stone, Planel, ; Malone, Stone, Baxter, ) – dobbiamo riconoscere che l’espansione sociale delle conoscenze sulla preistoria è stata accompagnata da un analogo, impetuoso incremento di stereotipi. Il numero, la qualità e la pervasività di questi stereotipi ci consigliano di riconsiderarne natura e funzioni. Appare limitato valutarli come semplici “idee sbagliate”, testimoni, magari un po’ ridicoli, dell’ignoranza, del cattivo funzionamento della scuola o del malefico influsso della televisione. Essi sembrano il frutto di problemi, molto profondi, che riguardano i rapporti fra il sistema di produzione scientifico e la diffusione delle conoscenze. Propongono non più, soltanto, problemi di insegnamento, ma seri interrogativi sul modo stesso di produrre scienza, e ci costringono a tornare sulle domande, che la storica Régine Pernoud (, p. ) si poneva sul finire del secolo scorso: «Perché questo scarto fra scienza e sapere comune? Come e in quali circostanze questo fossato si è scavato?». Interrogativi resi più pressanti proprio . Don Chaffey, One Million Years BC, rifacimento inglese (Hammer Film, ) di un pasticcio hollywoodiano degli anni Quaranta, dall’identico titolo: un film largamente astorico, accusa Wikipedia, proprio perché mette insieme uomini e dinosauri. ANTONIO BRUSA dalla contraddittorietà di una situazione, che vede mescolati strettamente motivi di soddisfazione e di delusione. Per quanto la Pernoud si riferisse al suo Medioevo, il parallelo con la preistoria è ben motivato dalla considerazione che questi due periodi sembrano accomunati dall’identico destino, di essere le epoche storiche maggiormente afflitte da questo particolare virus conoscitivo. E che sia una comparazione fruttuosa, lo capiamo dal fatto che essa ci conferma in una prima congettura: questi stereotipi sono spesso di origine accademica. “Stereotipi colti”, vorremmo chiamarli, per distinguerli dagli “stereotipi quotidiani”, quelli generati, per lo più, dai problemi della nostra vita di tutti i giorni, come gli stereotipi che riguardano il genere, la generazione e i rapporti con gli altri (stranieri, diversi, emarginati, poveri) (Brusa, ). Questa semplice distinzione ha delle conseguenze di qualche interesse. Gli stereotipi quotidiani sono sicuramente quelli maggiormente studiati; hanno dato origine a una vasta letteratura e a un dibattito molto sentito sulle loro implicazioni didattiche (interamente a questa classe di stereotipi è legata la questione della “correttezza politica”). Essi ci appaiono come un’indebita intrusione, nel mondo della scienza, di atteggiamenti deprecabili del vivere quotidiano. Gli stereotipi colti, invece, manifestano un percorso inverso. Trovano una loro origine nel mondo scientifico, per quanto, a volte, la loro grande diffusione lascerebbe intendere il contrario (ma si deve ammettere che non si incontrano facilmente dinosauri o vassalli per le strade). Essi, perciò, testimoniano la pervasività della conoscenza scientifica, e proprio il loro aumento appare più come un effetto paradossale dell’enorme diffusione della scienza, che una sua regressione, di fronte alle esigenze deplorevoli della vita di ogni giorno. Inoltre, mentre gli stereotipi quotidiani richiedono, per il loro studio e la loro comprensione, un campo di discipline che va dalle scienze sociali alle psicologie e alle pedagogie, lo studio degli stereotipi colti obbliga in prima persona lo storico: qui si tratta esclusivamente di conoscenze storiche e del loro uso. Viene investito, in pieno, quel «triangolo fra resti del passato, archeologo e pubblico», che secon- . Arcuri, Cadinu (): una trattazione sintetica ed efficace degli stereotipi che qui si chiamano “quotidiani” e nel testo dei due psicologi sociali “stereotipi” tout court, dal momento che non viene presa in considerazione l’esistenza di “stereotipi colti”. Furnhan (, pp. ss.): stereotipi di genere, di generazione e interculturali nell’apprendimento della storia. . D AV I D E I L N E A N D E RTA L . G L I S T E R E O T I P I C O LT I S U L L A P R E I S T O R I A do Philippe Jockey (, p. ) identifica l’essenza dell’archeologia e, potremmo dire, della stessa storia. Non tutti gli stereotipi “colti” sembrano della stessa natura. Ve ne sono alcuni che svolgono un curioso ruolo di “vaccino”, e che vale la pena di segnalare, perché la loro funzione sembra quella di impedire ai loro portatori di preoccuparsi eccessivamente di aggiornare le proprie conoscenze. Ad esempio, nel campo degli studi sul Medioevo, ce ne sono due, diffusissimi: “il Medioevo è un periodo buio”; “il Medioevo è la storia dei papi e degli imperatori”. La maggior parte dei docenti (e anche dei manuali) li conosce e li cita come stereotipi, da evitare e da sostituire con conoscenze precise. Rassicurati dallo scampato pericolo, perciò, molti si ritengono vaccinati da tutti gli altri stereotipi. Invece, si sono vaccinati contro l’aggiornamento. Hanno abbassato, per così dire, le loro difese, con conseguenze disastrose, come dimostra lo sterminato elenco degli stereotipi, ricavabili dai manuali europei. Per l’appunto, “il dinosauro che attacca gli uomini” sembra lo “stereotipo vaccino” fondamentale della preistoria. È raro trovare un insegnante che non lo citi come conseguenza nefasta dei media (ovviamente della televisione, dei vari Jurassik Park e dei cartoni animati) e come dimostrazione della sua personale preoccupazione in un buon insegnamento. Ma il fatto è che, una volta messi al loro posto uomini e dinosauri, sembra che le dighe contro le conoscenze stereotipate collassino, e si venga sommersi da una quantità così ingente di conoscenze sbagliate sulla preistoria, che siamo costretti a un’opera di classificazione e di ordine: per evitare, infine, che tutto si esaurisca nella compilazione dell’ennesimo “sciocchezzaio”, corredato dalle lamentazioni sulla scuola (queste sì di una ritualità . Nel dialogo fittizio fra Jean Clottes e i nipoti, quella sui dinosauri è la prima domanda alla quale lo studioso deve rispondere (Clottes, , p. ); Gould (, p. ) attribuisce la “mania dei dinosauri” agli abusi del marketing, e osserva che il % degli adulti americani, al principio degli anni Novanta, era convinto della contemporaneità fra uomini e dinosauri. Per parte mia, rilevo che la copertina di un celeberrimo testo divulgativo scientifico presentava fin dagli anni Venti un dinosauro che, «appoggiando le zampe sopra una delle nostre case più alte, avrebbe potuto mangiare al balcone del quinto piano» (Flammarion, , p. ). A quasi un secolo di distanza, l’Enciclopedia dei ragazzi, distribuita in oltre . copie e presentata da Remo Bodei (in “Corriere della Sera”, agosto , p. ) come uno strumento per sconfiggere «il sapere da fast food», intitola il primo volume dedicato alla storia La preistoria e i dinosauri (Rizzoli-Corriere della Sera, Milano ). ANTONIO BRUSA stereotipata) e da un sarcasmo che pare inevitabile, ma il cui unico risultato è quello di esorcizzare il terrore dell’impotenza, di fronte a processi di socializzazione della cultura, considerati definitivamente indomabili. L’osservazione che non tutti gli stereotipi sono uguali, invece, ci aiuta a pensare una strategia scientifico-didattica, che non disperda le energie nella vana rincorsa alla produzione inesauribile di cliché, e ci permetta di concentrarle in alcuni punti nodali. A questo scopo, sembra utile isolare – oltre ai “vaccini”, di cui sopra – alcuni stereotipi che definirei “strutturali”, perché non si riferiscono a un oggetto in particolare, ma «intervengono come schemi di comprensione a disposizione per apprendere il mondo, schemi per leggere gli eventi, per ricostruirli e renderli intelligibili» (Grandière, , p. ). Questi costrutti conoscitivi appaiono diversi dagli “stereotipi fattuali”, che riguardano questo o quell’aspetto del passato, e appaiono originati da un difetto di conoscenze o da conoscenze non aggiornate (spesso anche poco accurate o imprecise). . Gli ominidi si evolvono in fila indiana Lo stereotipo “strutturale”, da cui conviene iniziare la nostra indagine, è sicuramente il più noto e diffuso: la linea evolutiva umana. Una sequenza di uomini in fila indiana, che, partendo dai più antichi, dai caratteri scimmieschi, giunge ai tipi moderni, simili a noi. Nella confezione di questo stereotipo convergono molti fattori: il sessocentrismo, perché si tratta, nella maggioranza dei casi, di individui maschi; lo stereotipo generazionale (sono spesso giovani e aitanti, per lo più armati di bastoni e, man mano che si evolvono, di . È bene sottolineare che questo lavoro è limitato alla ricerca e alla valutazione del fenomeno degli stereotipi e non si pone il compito di un bilancio complessivo dell’insegnamento della preistoria, né dà una valutazione della manualistica esaminata: della quale va detto, anzi, che spesso è di grande qualità. Peraltro, chi scrive è anche autore di manuali e, come tanti, vittima di disegnatori molto fantasiosi (cfr. Brusa, , dove si possono ammirare le pecore al tempo di Erectus, o i bambini neolitici che giocano con spade di legno). Sulla metodologia e i problemi di indagine sui manuali cfr. Bourdillon (); sugli apparati paratestuali e sul loro rapporto con il testo cfr. Brusa () e Jud, Kaenel (), una raccolta magnifica di immagini, scolastiche e divulgative, della preistoria, in ambiente svizzero e tedesco. . D AV I D E I L N E A N D E RTA L . G L I S T E R E O T I P I C O LT I S U L L A P R E I S T O R I A lance); un eurocentrismo implicito, dal momento che marciano da sinistra verso destra, sulla falsariga della scrittura occidentale, e dunque del progresso verso il futuro (secondo una visione euro-moderno-centrica della storia). Alcune di queste caratteristiche rendono questo stereotipo simile a quelli analizzati dalla pedagogia e dalle scienze sociali (la predominanza del maschio giovane, la violenza ecc.), ma altre riflessioni ci fanno certi che quest’immagine tradizionale non veicola soltanto dei pregiudizi del quotidiano, quanto piuttosto una visione complessa del passato. Su questa icona, infatti, si può fondare il racconto dello sviluppo progressivo che dai primi ominidi conduce all’uomo moderno. A sua volta, il racconto ci insegna un modello di sviluppo lineare e per tappe; un senso della storia, che procede da un passato di brutalità verso un mondo civile. L’evoluzione cladistica è, da qualche decennio, il paradigma della ricostruzione del passato più remoto della storia umana (per quanto con le note differenziazioni e i dibattiti più accesi). Per giunta, gli studiosi non fanno più riferimento, se non per combatterlo, al modello lineare. Nonostante ciò, la popolarità dell’icona lineare appare incontestabile. Fra i motivi di questo successo, vi è sicuramente il fatto che essa è di immediata comprensione, facilmente riproducibile e soprattutto (come abbiamo appena visto) è un modello ricco di significati, per quanto deprecabili. Il modello cladistico non è – al contrario – dotato di un’icona dalle qualità comparabili. Forse questi sono i motivi per i quali oggi troviamo la rappresentazione lineare ovunque, in moltissimi manuali (per quanto essi possano presentare un testo aggiornato) . Se si tiene conto, poi, di alcune varianti di questa icona (la serie dei crani, dei cervelli o degli scheletri), tutti posti in serie crescente, si riconosce che la diffusione della sequenza lineare ha i caratteri della pervasività. Alcune descrizioni verbali della sequenza in Striano, Striano (, p. ); Caramanica, Bartolomeo (, p. ); Colombo, Florio (, p. ). L’icona è abituale anche nella letteratura divulgativa e nella stampa: dalla scimmia al computer (in “Il Giornale”, maggio , p. ); o la versione ironica di Bucchi (in “la Repubblica”, novembre ). Dalla medusa all’uomo, invece, la copertina suggestiva di “Science et Vie”, , , pp. ss. (numero speciale: L’évolution a-t-elle un sens?); una rappresentazione essenziale e severa in AA.VV. (, p. ); I. Backouche, Les hommes de la préhistoire, Lito, Paris, s.d. (gioco didattico). Discute le illustrazioni “classiche” dell’evoluzione, come viziate dall’idea del progresso e della complessità crescente, Gould (, pp. -). . Di questa progressione, da sinistra a destra, se ne fa una sorta di razionalizzazione paleografica, nella quale la linea evolutiva è paragonata al “rotolo” classico, per cui «proseguendo a srotolare verso destra comparirebbero nuove forme di vita più complesse» (Ar- ANTONIO BRUSA . Evoluzione delle donne (da Batias-Rascalou, Casali, ) FIGURA e, non ci deve sorprendere, anche come logo di convegni scientifici, nei quali, naturalmente, ci si è lamentati abbondantemente della diffusione di idee preconcette sulla preistoria. Dal punto di vista didattico, poi, sembra che l’attenzione degli insegnanti (e degli studiosi di didattica) si sia specialmente concentrata sulla difficoltà, da parte dei giovani studenti, di immaginare correttamente tempi così lunghi, di milioni di anni; così come si è intervenuti sul sessocentrismo evidente dell’icona, sostituendo i maschi con le femmine (cfr. FIG. .). Si sono inventate, perciò, soluzioni sempre più affascinanti, divertenti, efficaci e politicamente boit, , p. ). Si deve notare, peraltro, che l’incipiente diffusione dell’icona multilineare sembra anch’essa legata all’idea di marcia verso il progresso, per quanto diviso in corsie, come in uno stadio di atletica, o in un’autostrada, in cui tutti rispettano il codice: un bell’esempio è l’immagine riportata in Dohui (, pp. -). Identico risultato in “Science et Vie”, , , pp. ss. (numero speciale: Qui a inventé l’homme?). Fra le proposte “alternative”, segnalo Giardina (, p. ), nel quale gli umani sono rappresentati in marcia sincronica, e trionfalmente virile, verso il lettore; ugualmente spavaldi gli umani raffigurati in una sorta di «foto di famiglia impossibile» (riportata a norma poco dopo da una sequenza lineare) in Cantarella et al. (, pp. e ). . Batias-Rascalou, Casali (): la sequenza è scimmia-ominide (Lucy?)-ragazza vestita e con un cesto di fiori (ma il testo è comunque un bell’esempio di letteratura divulgativa per l’infanzia). Dalla stampa domenicale svizzera, invece, l’immagine di una sequenza di ominidi, conchiusa da donne che progrediscono nude, sempre più moderne e slanciate (Roeder, , p. ). Tutto l’imbarazzo dell’illustratore, invece, nella copertina di Facchini (): c’è la sequenza maschile, ma non tutti portano le armi (Neandertal porta dei fiori: omaggio a un rinvenimento peraltro contestato), sono “disassati”, ma salgono tutti una scala evolutiva. . D AV I D E I L N E A N D E RTA L . G L I S T E R E O T I P I C O LT I S U L L A P R E I S T O R I A corrette: per insegnare meglio, dobbiamo concludere con qualche apprensione, un rapporto sbagliato fra passato remoto dell’umanità e presente. . Le ben radicate origini degli stereotipi È un’icona relativamente giovane, quella della sequenza evolutiva umana, perché è a partire dagli anni Ottanta che la troviamo come dominatrice incontrastata delle prime pagine dei manuali. Pur tuttavia, è riuscita a catalizzare intorno a sé una trama fitta di riferimenti (costituiti in larga misura da stereotipi fattuali, sedimentatisi lentamente nel corso del tempo), che la rendono, paradossalmente, assai appetibile dal punto di vista didattico. Essa appare all’insegnante un’immagine ricca e utile, dal momento che “trascina con sé” molte altre conoscenze. Al tempo stesso, il suo “sradicamento” diventa assai problematico, proprio perché – insieme con l’immagine lineare – occorrerebbe bonificare il terreno dalla grande quantità di immagini fattuali della preistoria. Questo grumo di conoscenze costituisce lo scenario, che anima e rende vivo il racconto dell’evoluzione. Lo riassumono Brigitte e Gilles Delluc (, p. ), due allievi di LeroiGourhan, con appassionata ironia: L’uomo dei tempi preistorici, un disgraziato coperto di stracci, sembra un barbone della notte dei tempi. È un bruto, una mezza scimmia, bellicoso, carnivoro e, senza alcun dubbio, cannibale. È una vittima sfortunata dei grandi animali, dal diplodoco fino all’orso delle caverne. Un sopravvissuto, una specie di manichino patchwork, assemblato da persone piene di immaginazione in un vecchio museo di etnografia. Questo infelice riesce a malapena a scampare, indossando eskimi fra i ghiacci, rifugiandosi nelle caverne e praticando la caccia. Per di più, si fa volentieri con funghi, più o meno allucinogeni, e con bevande sospette. La sua compagna è ugualmente ben assortita. Vestita di pelli sbrindellate, sommersa da una torma di bambini, è un’obesa, sempre incinta, quando non svolge la funzione di misteriosa e paffuta dea della fecondità. In questo racconto si riconoscono, uno per uno, i temi fondamentali, in cui è possibile organizzare gli stereotipi fattuali più diffusi nella manualistica (con l’esclusione dell’uso di allucinogeni, s’intende). C’è la vita preistorica, difficile e dura, con gli umani che si . D AV I D E I L N E A N D E RTA L . G L I S T E R E O T I P I C O LT I S U L L A P R E I S T O R I A . Eterno femminino per i finlandesi (da Leinen et al., ) FIGURA nili, dal Neolitico al mondo classico, in un manuale slovacco (Kovač, , p. ). La storia della rappresentazione del Neandertal è sintomatica, in questo contesto. Infatti, al principio, gli autori avevano a disposizione almeno un modello nobile e austero, il celebre Pensatore di Auguste Rodin: preferirono, quasi invariabilmente, rifarsi alle immagini di un illustratore ceco, František Kupka, più conformi all’idea di antenato scimmiesco e inintelligente. . Heinke (, pp. ss.). Hurel (, p. ) mostra una bella sequenza di ricostruzioni di Neandertal, a partire appunto dal primo modello, creato nel , sulla scorta di Auguste Rodin. “Il bovino Neandertal” è l’ironica didascalia alla celebre ricostruzione del Museo di Storia Naturale di Chicago (Spodek, , p. ). Non mancano, ovviamente, Neandertal simpatici, come Java, l’aiutante neandertaliano di Martin Mystère, nel cele- ANTONIO BRUSA In questo racconto, spesso le donne sono specializzate nella raccolta di vegetali e svolgono ruoli domestici (cura dei bambini, vestiti, cottura). Ma, turbati da questa comprimarietà, vi sono degli autori che assegnano loro dei compiti decisivi, come l’invenzione dell’agricoltura e poi, ancora, in una foga di correttezza politica, ante litteram e alquanto casereccia: «La terra sulla quale fu posto il fuoco si cosse, divenne dura come la pietra. E una mamma, più intelligente, mentre vegliava il fuoco, avrà notato quell’indurirsi, e avrà fabbricato il primo vaso di terracotta per conservarvi l’acqua e non raccoglierla più solo sul palmo della mano» (Paribeni, , p. ). Gli fa eco, a oltre sessant’anni di distanza, un testo moderno: «Esse inventarono un sistema per trasformare i chicchi in pane e trasferirono lo stesso sistema all’argilla: la raccolsero nei terreni umidi, la impastarono con acqua, le diedero la forma e la fecero cuocere in grandi forni all’aperto. Così inventarono la ceramica» (Baffi, Beni, , p. ). Un illustratore olandese, infine, combina insieme i diversi temi, della specializzazione e della violenza, in un destino di genere non propriamente felice. In un manuale tedesco contemporaneo (Askani, Wagener, , p. ), trovo una raffigurazione straordinariamente significativa: un umano (preistorico ma potrebbe essere un contemporaneo) colto in un atteggiamento di evidente ammirazione per le opere della civilizzazione occidentale (FIG. .). L’ascendenza colta di questa immagine è indubbia. Ce la dichiara uno dei più autorevoli storici del secolo scorso, Arnaldo Momigliano (, p. ): «I selvaggi infatti non sono altro che uomini i quali si sono fermati nello sviluppo a uno stadio corrispondente a quello che per i popoli civili è ormai preistorico. Potremmo dire un poco paradossalmente, ma con sostanziale ve- bre fumetto di Bonelli. «Una ricostruzione precisa è più un piacere per l’occhio che un aiuto alla riflessione», chiude un po’ sconsolato Rauscher (, p. ): e su questo punto cfr. anche Jockey (). . In un caso, ho trovato l’invenzione dell’allevamento attribuita alle donne (Caocci, , p. ), mentre la scoperta femminile del tessile è abbastanza tradizionale (Alberici, , p. ). . Le rappresentazioni delle caverne, citate sopra, presentano tutte le attività femminili richiamate nel testo. L’immagine olandese è da Hildingron, Schulp (, pp. ss.). I manuali di età nazista sono piuttosto accurati nel distinguere le attività domestiche femminili dalla caccia e dalla guerra maschili: Jenrich et al. (, p. ); Nickel (, p. ); Göbel (, p. ). Ho trovato pochi riferimenti, invece, a un mitico periodo matriarcale. Fra questi Brancati (, p. ) e AA.VV. (, p. ). Sugli stereotipi femminili cfr. Ángeles Querot (). . D AV I D E I L N E A N D E RTA L . G L I S T E R E O T I P I C O LT I S U L L A P R E I S T O R I A . Un primitivo secondo un manuale tedesco (da Askani, Wagener, ) FIGURA rità, che i selvaggi sono dei popoli preistorici viventi ai nostri giorni». E, forse proprio sulla scorta di questa convinzione di fondo, i “primitivi”, ampiamente utilizzati nella manualistica corrente, sono rappresentati volentieri mentre brandiscono armi e scudi. E, ovunque, troviamo la scena che combina emblematicamente ferinità remote e attuali: la caccia al pachiderma. . Più sfumato, uno storico contemporaneista del dopoguerra (Procacci, , p. ) avverte che si tratta di un’ipotesi, quella che «il modo di vita di queste popolazioni possa essere simile a quello degli uomini primitivi». In mezzo, alcune certezze: che gli uomini primitivi fossero inferiori ai barbari o alle classi diseredate moderne (Comani Mariani, , p. ); che vivessero in uno stato di inferiorità civile (Vanni, , p. ). Esempi di primitivi: Grassman (, p. ), che cade nell’infortunio dei Tasaday (abbastanza generalizzato); Walzik (, p. ); Péter (, p. ); Erkki Leimu et al. (, pp. s.); Hildingron, Schulp (, pp. -); Berents et al. (, p. ); Barti (, pp. -), che mette a confronto primitivi e neandertaliani. . Péter (, p. ): mammuth; Enikö (, p. ): immagine di Zdenek Burian (), artista ceco, ripresa da molti manuali di diverse nazioni, fra cui Galloy, Hoyt (, p. ); Catteuw (, p. ); Michailovskji (, p. : mammuth); Vigasin, Samoszvanceva (, pp. ss.); Kolpakov et al. (, p. : mammuth); AA.VV. (, p. : rinoceronte). Esempi italiani: Feliciani, Filippini (, p. ); Aromolo (s.d., p. ). Mentre Alberici () scrive di «animali strani, serpenti, orsi spaventosi ed elefanti», in Biagi et al. (, p. ) e Colombo, Florio (, p. ) il nemico è la tigre dai denti a sciabola; mentre il mammuth scompare, come tutti gli animali più grandi, perché sterminato dall’uomo in Di Tondo, Guadagni (, p. ). Da notare che Lars Grant-West, splendido disegnatore di “National Geographic” (aprile , pp. ss.), non si è lasciata scappare la lotta fra il piccolo florensis, appena scoperto, e l’elefante nano, con la stessa prontezza di “Scientific American”, , , , pp. - (Becoming human). Impossibile, a questo punto, non ricordare il sospetto di Alberto Salza (, p. ) nei confronti di quei «professori di preistoria che fanno impantanare i mammut». ANTONIO BRUSA Questa rapida scorsa di stereotipi “fattuali” ci avverte che disegni, ricostruzioni, a volte foto, si rincorrono, da nazione a nazione, superano barriere linguistiche, didattiche e politiche: hanno creato, nel corso di oltre un secolo di imprestiti e ricopiature – clonazioni, le chiama Stephen J. Gould –, una sorta di “corpus iconico internazionale”. Si è costituita, così, una biblioteca di immagini globale, poderosa e complessa, che convive intrecciandosi in modi sempre nuovi e diversi con conoscenze precise e aggiornate, della quale occorrerebbe una ricostruzione storica analitica, per mostrare i percorsi, individuare i capostipiti e le modalità di trasmissione: lo stesso Gould auspica uno studio che, sul modello della filologia classica, individui gli “stemmi” degli errori fondamentali (Gould, , p. ). In questo mondo violento, anche l’evoluzione avviene per passaggi traumatici. I deboli, i perdenti vengono eliminati e la storia consegna la vittoria al più forte. Non sorprende, perciò, che il concetto “strutturale” di estinzione sia interpretato come una sconfitta: ecco la sequenza infinita di immagini di Neandertal inevitabilmente tristi, forse presaghi della loro sicura fine (e questo nonostante l’indubbio successo di specie, che per quanto estinte, hanno popolato la terra per centinaia di migliaia di anni). In questa preistoria immaginata, c’è posto per uno solo al mondo. Anche questo è un risvolto, inquietante, . Una probabile fonte iconografica, largamente utilizzata dalla manualistica e dalla divulgazione è una pubblicazione di “Time”, edita in Italia come supplemento di “Epoca” (AA.VV., ), della quale riporta una truce sequenza mesolitica, con teste decapitate e fatte ballare sul tamburo. . E questo anche se il testo conosce la compresenza degli umani: «fino a poco tempo fa si credeva che l’evoluzione fosse stata un processo lineare. [...] In realtà ci furono circa specie umane, che lottarono per la sopravvivenza, fino a che una sola restò» (Rosa Leone, , p. ). «Nella sua espansione, Homo sapiens non esita a scontrarsi con gli altri gruppi, che in genere dispongono di una tecnologia più arretrata e a distruggerli, [...] viene a conflitto con l’uomo neandethalense (sic) e lo sottomette e lo distrugge» (AA.VV., , pp. -). Anche del florensis si rappresenta l’identica triste fine, nonostante la didascalia dichiari che non abbiamo nessuna testimonianza di incontri tra Homo florensis e sapiens (in “National Geographic”aprile , p. ). Il capitolo che qui si deve aprire, quello sulla “razza”, è talmente vasto che, come nel caso del creazionismo, sono costretto a tralasciarlo. Per quanto riguarda l’Italia, segnalo soltanto il fatto che nella prima metà del secolo scorso, le razze erano un dato acquisito e scontato (Momigliano, , p. ) e che man mano questa convinzione scema, diventa anche politicamente scorretta, ma non scompare del tutto: Striano, Striano (, p. ); Frugoni, Magretto (, p. ). Peraltro, Cipollari e Portera (, p. ) denunciano il perdurare del concetto di razza nei manuali delle elementari (insieme con il concetto di “primitivo”). . D AV I D E I L N E A N D E RTA L . G L I S T E R E O T I P I C O LT I S U L L A P R E I S T O R I A . L’uomo preistorico come Ercole, Conan o Tarzan per un manuale russo (da Vigasin, Samoszvanceva, ) FIGURA ANTONIO BRUSA del modello lineare di evoluzione. E, ancora una volta, l’intervento pedagogico sembra accrescere questa sensazione spiacevole (pur involontariamente). Ecco ad esempio come un’attività didattica innovativa suggerisce di trattare in classe la questione dell’incompatibilità genetica (data per scontata) fra sapiens moderno e Neandertal: «Scrivi una sceneggiatura per una fiction TV, nella quale un maschio neandertaliano si innamora perdutamente di una femmina di sapiens, ma entrambi sono tristi, perché hanno capito che non possono sposarsi, perché glielo impedisce il loro DNA» (Pahl, , p. ). . Le culture identitarie preferiscono il Neolitico Dalla preistoria ci si libera con la cultura: questa è una convinzione chiara, fin dai manuali più antichi. E, come si può immaginare, questo processo di liberazione è accompagnato da una vasta schiera di stereotipi fattuali: dall’invenzione dell’agricoltura e dell’allevamento, dal nomadismo che è visto sempre come un’alternativa precedente alla sedentarietà, alla divisione sociale del lavoro, alla tecnologia e all’organizzazione sociale, alle onnipresenti palafitte. Non ci soffermeremo su questi, per riservare la nostra attenzione all’indagine degli aspetti strutturali di questo passaggio, perché ci permettono di ritornare sulla questione iniziale, del successo della preistoria, cercando delle risposte più interne al mondo didattico e storiografico. Alcune domande, infatti, ce le pone la produzione manualistica africana. Il nutrito gruppo di manuali che ho analizzato, tutti degli ultimi decenni del secolo scorso, riserva alla preistoria la stessa sottovalutazione, che abbiamo notato nei manuali europei anteguerra: pochissime pagine (a volte un paio), e via verso la storia che conta, quella della civilizzazione. La sorpresa è ovvia: tutti ci aspetteremmo il contrario, dal momento che proprio in quegli anni si afferma (e non senza pro- . Costa d’Avorio (AA.VV., a, pp. ss.). Zimbabwe (Proctor, , p. : caccia, raccolta e rapidamente verso l’agricoltura, senza ominazione). Kenia (Sharman, , pp. ss.: sintesi rapidissima); Seibörgen et al. (, pp. -: parlano del mondo, del progresso, una pagina sull’ominazione e poi il popolo San); Lambrechts (, pp. -). Zaire (De Proover, , pp. -: dopo aver specificato che lo scopo della storia è quello di dare l’orgoglio dei propri antenati, passa a presentare i pigmei, i protobantu e i bantu). Botswana (Tlou, Campbell, , p. : poche pagine di preistoria, e poi si passa ai Khoi). Madagascar (Ralaimihoatra, , p. : i Vazimba, “primitivi” malgasci e poi la colonizzazione indiana). . D AV I D E I L N E A N D E RTA L . G L I S T E R E O T I P I C O LT I S U L L A P R E I S T O R I A blemi) l’origine africana dell’umanità. Ci attenderemmo, anzi, una qualche utilizzazione mitica dell’Eva africana, come peraltro è stato notato nel campo dell’uso pubblico della storia africana (Lainé, ). Invece, quel periodo viene bypassato proprio nei luoghi di elezione del processo di ominazione. Un convegno sulla riforma dei curricoli di storia, tenutosi nel fra studiosi provenienti dai paesi anglofoni africani, ci rivela la politica culturale sottesa a questa rimozione. In quell’occasione (Bude, ) numerosi interventi sottolinearono il forte collegamento da stabilire fra ambiente, cultura ed educazione e ne ricavarono la conseguenza che l’educazione non può che occuparsi della cultura ambientale, cioè della propria cultura tradizionale. A sostegno di questa scelta vennero chiamati in causa illustri antropologi, fra i quali Edmund Leach e Ralph Linton. Ma non si trattò di un trasferimento in periferia della contesa accademica occidentale fra antropologia e storia. Al contrario, in quegli interventi leggiamo che allora si produsse una sintesi potente fra culturalismo, da una parte, e identità nazionale, dall’altra. L’obiettivo del curricolo di storia, dice apertamente D. N. Sifune, delegato keniota, è di diffondere nella popolazione «patriottismo, lealtà, fiducia in sé, tolleranza, giustizia». Per il raggiungimento di queste virtù, le conoscenze sulla preistoria sono inutili. I manuali, denuncia Sifune (, pp. -), contengono «una massa indigesta di storia primordiale»; dovrebbero enfatizzare, invece, gli aspetti dell’ambiente e della comunità, dell’organizzazione etnica. «L’educazione coloniale – conclude il delegato ugandese – alienava gli studenti, piuttosto che aiutarli a integrarsi nel loro ambiente» (Olujot, , p. ). Lo studio scolastico della preistoria, dunque, è visto come un portato della cultura occidentale: e una riprova sorprendente di questa idea si trova in un manuale etiopico, nel quale la nostra sequenza lineare, lo stereotipo che abbiamo posto al centro della nostra indagine, è composta da uomini indubbiamente bianchi (AA.VV., , p. ) (FIG. .). . N. B. Katunzi (Tanzania) espone un concetto di cultura “essenzializzata”, considerata inseparabile dall’ambiente, e sostiene che la storia ha lo scopo di incrementare il nazionalismo (Bude, , pp. -). S. T. Bajah usa Leach e Linton per sostenere la necessità di insegnare la cultura tradizionale, in vista del raggiungimento dell’identità nazionale nigeriana (ivi, p. -). E. S. Olujot critica aspramente un manuale ugandese, che ha il torto di essere dedicato alla Word History, mentre il bambino deve «capire che i suoi parenti fanno parte dell’Uganda e che questa è legata politicamente e storicamente all’Africa e al resto del mondo» (ivi, p. ). . Le uniche trattazioni ampie della preistoria le ho trovate in manuali stampati in Francia per le scuole africane: AA.VV. (), con oltre venti pagine, nelle quali si mette in eviden- ANTONIO BRUSA . La sequenza etiopica evolve verso gli europei (da AA.VV., ) FIGURA Ma, poiché lo studio della storia è finalizzato al raggiungimento dell’identità nazionale, la preistoria trova vita stentata anche in altre scuole: in India, in Giappone o nel mondo arabo. Ogni volta, il libro scolastico non partirà dalla Rift Valley o da una savana africana: ma da Mohenjo Daro (Saradha Balakrishnan, , p. ; Bahrat, ), dalla Mesopotamia o dall’Egitto, o dalle steppe sconfinate dell’Asia centrale, a seconda della ricostruzione genealogica della propria nazione. In questo contesto, va al di là della notazione di colore il fatto che, per il Sud Africa, l’Eva africana non sia più l’ipotetica madre genetica dell’umanità, ma Sarah Baartman, la piccola Sarah, sfortunata donna Khoi-Khoi, esibita a Parigi come “Venere ottentotta”, alla fine dell’Ottocento, che – in occasione del ritorno in patria delle sue spoglie, restituite dal Musée de l’Homme – venne proclamata «la madre simza l’importanza dell’Asia nel processo di ominazione (il manuale è destinato alla scuola malgascia); AA.VV. (b, p. ), che sottolinea con forza l’importanza della preistoria africana. . Solo quattro pagine di preistoria con siti occidentali nei manuali giapponesi (AA.VV. a, b). Stesso atteggiamento nei manuali del mondo islamico che ho potuto sfogliare, ma che purtroppo non sono in grado di citare, che iniziano volentieri dalla Mesopotamia. Fakhroutdinov (, p. ) apre con un paragrafo sulla preistoria: si tratta ovviamente degli Sciti. . D AV I D E I L N E A N D E RTA L . G L I S T E R E O T I P I C O LT I S U L L A P R E I S T O R I A bolica di tutti i sudafricani». La riscrittura storica nazionalistica muove a partire dalle «testimonianze delle sofferenze», con l’esclusione quindi del passato più remoto (Triulzi, ). L’identificazione fra storia e civiltà permette, agli autori dei manuali, di riadattare il modello narrativo lineare al proprio popolo. Ma per riuscirvi, e presentare conseguentemente la nazione come il decantato delle civilizzazioni passate, essi devono rifarsi al portato profondo degli stereotipi fattuali, che abbiamo visto sopra, secondo il quale la preistoria è l’antitesi della storia, l’inumanità prima dell’umanità. In questo modo, l’azione combinata del culturalismo e dell’identitarismo ha ridato fiato a un modello storico didattico che, lentamente ma con sicurezza, stava cambiando nel secondo dopoguerra. Il confronto con la manualistica dell’Europa postcomunista, pericolosamente segnata dal nazionalismo, ci dà una conferma di questo processo, quando ci mostra la riscrittura in chiave patriottica della preistoria. In questa visione identitaria non è la “preistoria” che interessa, ma la “mia preistoria”. Tale prospettiva rende utilizzabile, anche nell’Europa occidentale, soprattutto la preistoria recente, il Neolitico, un periodo che si rivela assai duttile agli scopi formativi nazionali. Ecco i “lacustri”, precursori dell’operosità svizzera, o l’infinita saga dei celti, invocati come padri fondatori – storici e al tempo stesso mitici – di una buona quantità di Stati e gruppi politici europei, tutti . La storia africana inizia nel Medioevo, così, perentoriamente, nella peraltro accuratissima indagine storiografica di Calchi Novati, Valsecchi (). . Una discussione dell’afrocentrismo in Walzer (); un confronto fra modelli afrocentrici ed eurocentrici in Brusa, Cajani () (anche in www.storiairreer.it/materiali/ indice/StoriaMondiale.htm). In generale, sulla ripresa delle storie “autocentrate” cfr. Procacci (). Per la discussione fra identità, nazionalismo e archeologia cfr. Kohl () e i testi di P. Stone già citati. . Croazia: Ferček (, pp. e ) racconta della preistoria “austroungarica” e di quella croata, accostata a una Lucy improbabile; Moldavia: Şarov (, pp. e ) usa la preistoria per includere lo spazio romeno; Băjanaru () dedica una rapida doppia pagina al Paleolitico, per presentare poi gli indoeuropei; Macedonia: Sharif (, pp. ss.) solo preistoria macedone, corredata dalla foto di una gigantesca formazione naturale a forma di elefante (in mancanza di fossili…); Ungheria: Gyapay (): preistoria in Ungheria; Gyapay, Ritoòk (, p. ); Russia: Vigasin, Samoszvanceva (, p. ) apre la trattazione con una carta che mostra come il popolamento russo risalga a epoche preistoriche; Lituania: Kurlovičs, Tomašūns (): solo preistoria lituana, come in Kenins (, p. ). E non mancano i casi in cui la preistoria è assente: Polek, Wilcizyński (). Il recente “canone delle conoscenze storiche” olandese, rigorosamente etnocentrico, conferma l’esclusione del Paleolitico, a tutto vantaggio di un Neolitico europeo, megalitico e campaniforme: cfr. http://www.entoen.nu/default.aspx?lan=e. ANTONIO BRUSA bisognosi di assicurarsi della profondità temporale della loro identità. Figurano, in questa galleria di utili progenitori, anche i “popoli originari” italici – veneti, celti, piceni, japigi e via elencando – testimoni immaginari di identità regionali e locali, le patrie autentiche, soffocate dalla politica, unitaria e colonialista, di Roma. «Con l’inizio dell’agricoltura l’uomo può considerarsi civile, egli prende amore alla terra dove dimora stabilmente, ha già una Patria, che lo nutrisce, e che egli saprà difendere sino all’ultimo sangue contro altri uomini, gli stranieri, che tentassero rapirgliela» (Zanetti, , p. ): queste parole, di un manuale in uso nelle scuole professionali italiane poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, non sembrano riflettere convinzioni del tutto scomparse. . Una conclusione che invita a nuovi programmi Il confronto fra mondi scolastici diversi ci fornisce, a questo punto, ulteriori elementi per riconsiderare il nostro stereotipo fondamentale della sequenza evolutiva. Come abbiamo visto sopra, infatti, questo è viziato da numerosi e gravi difetti. Ma, allargando l’analisi anche ai manuali non europei, ne scopriamo un nuovo aspetto: comunque, questa icona veicola l’idea di un’umanità unita e solidale, e sottolinea che questa è il soggetto dell’evoluzione. E qui leggiamo la contraddizione di fondo. Per alcuni, l’icona postula una storia collettiva dell’umanità; per altri, solleva i dubbi che tale storia non sia del tutto condivisa, ma in realtà sia un’imposizione e che, conseguentemente, la “vera storia”, sia unicamente la propria. Se è così, è comprensibile che il successo dell’icona (per quanto essa sia stereotipata) proceda di pari passo con l’espansione delle conoscenze preistoriche. I manuali mostrano chiaramente che la preistoria, e soprattutto il Paleolitico, acquistano importanza man mano che il soggetto della loro narrazione tende ad essere l’umanità, mentre ne perdono proprio quando il soggetto torna ad essere la nazione. Quest’apertura al mondo ha certamente un aspetto spontaneo e di massa, . Kaeser () e anche Jud, Kaenel (, passim); Díaz Santana (), dove si critica il mito celtico, ma anche la susseguente opposta celtofobia; sulle carte e i miti fondatori cfr. Brusa (b). Per i manuali nazisti, che iniziano volentieri con la “preistoria dei popoli germanici”, cfr. i testi citati sopra. . D AV I D E I L N E A N D E RTA L . G L I S T E R E O T I P I C O LT I S U L L A P R E I S T O R I A nelle scuole occidentali, presso insegnanti, allievi e famiglie. Ma al tempo stesso ha una forte portata scientifica, perché, da una parte, spinge la storiografia occidentale a occuparsi con maggior cura di ciò che è accaduto nel resto del mondo; e, dall’altra, la invita a considerare uno “stereotipo strutturale” da abbattere quello secondo il quale “la preistoria non fa parte della storia”. La recente riforma della scuola italiana, e con essa l’insegnamento della preistoria, è tutta dentro questo conflitto. Infatti, proprio per dichiarate ragioni di identità (italiana ed europea) e di tradizione (giudaico-cristiana), la preistoria è stata estromessa dal ciclo di base e confinata nel limbo delle attività preparatorie, in prima e seconda primaria (bambini di cinque-sei anni), con una dizione sconcertante: «studio del passaggio dall’uomo preistorico all’uomo storico». Dunque, nella scuola italiana la preistoria non fa più parte della storia e, coerentemente, il programma ha eliminato qualsiasi accenno a una dimensione mondiale della storia. Il fatto che tale riforma abbia riscosso più di un consenso nell’accademia storica italiana ci dice che, come in Kenia o in India o nel mondo arabo, molti storici, in Italia, sono disposti a convivere con lo stereotipo colto della separazione fra storia e preistoria e a considerare quest’ultima come un elemento straniero e inutile, per quella “cultura originaria” che la scuola dovrebbe, a loro giudizio, tramandare. Bibliografia .. (), L’epopea dell’uomo. La grandiosa avventura dell’uomo per la conquista del mondo, Mondadori, Milano. .. (), Histoire des premiers hommes à l’Islam, Nathan Afrique, Paris. .. (a), Histoire de la Côte d’Ivoire, Cede, Abidjan. .. (b), Histoire, Institut Pédagogique Africain et Malgache, Vanves. .. (), Storia, Addis Abeba. .. (), Un problema a parte: la preistoria, in Le scienze umane nella scuola dell’obbligo, “Quaderni di cooperazione educativa”, , La Nuova Italia, Firenze, pp. -. .. (), L’uomo nell’evoluzione, British Museum-Editori Riuniti, Roma. .. (), Il tempo e la memoria, Einaudi Scuola, Torino. .. (a), Hitotsu Gakushusha (Storia per le superiori), Tokyo. . Su questo, sul dibattito e sul confronto fra i programmi di storia cfr. Brusa, Cajani (, pp. -). Cfr. ancora, in www.storiairreer.it, i contributi di L. Cajani e la rassegna precisa di L. Vanni. Per gli storici favorevoli alla riforma Moratti cfr. Vitolo (). ANTONIO BRUSA .. (b), Jikkio (Storia per le superiori), Tokyo. .. (), Noi e la storia, Archimede, Milano. . (), Cours d’histoire, , Gigord, Paris. . (), Albo di storia, Bemporad, Firenze. . (), La imagen popular de la arqueología en Madrid, in “Arqueoweb”, . . (), El papél asignado a las mujeres en los relatos sobre los orígenes humanos, in “Arqueoweb”, . . et al. (), Valore Storia, Paravia, Torino. ., . . (), Gli stereotipi, il Mulino, Bologna. . (s.d.), Corso di Storia, Conte, Napoli. ., . (), Anno , , Westerman, Braunschweig. . (), Passato e presente, Principato, Milano. ., . (), Il racconto della storia, Mondadori, Milano. . (), History, New Delhi. . et al. (), Istoria, Sigma, Bucuresti. . et al. (), Dejepis, Ministero della Scuola Slovacco, Bratislava. - ., . (), Mon premier dictionnaire de la Préhistoire, Infomedia Communication, Paris. . et al. (), Sfynx. Geschiedenis Voor de Basisvorming, Thieme, Utrecht. . et al. (), La vita e i giorni, , Bompiani, Milano. . (), Le civiltà preclassiche e classiche nella nostra scuola, in “Dialogos”, , pp. -. . (), Scienze umane e preistoria, in “Cultura e scuola”, , pp. -. . et al. (), Histoire, , Hachette, Paris. . (ed.) (), History and Social Studies. Methodologies of Textbook Analysis, Swets and Zeitlinger, Amsterdam-Lisse-Berwyn. . (), Tesi di storia generale per esami nella scuola secondaria, Petrini, Torino. . (), Fare storia, , La Nuova Italia, Firenze. . (a), Mondo in festa, Bruno Mondadori, Milano. . (b), Histoire-récit, histoire image: les déplacements de la rhétorique. Les cartes et les mythes fondateurs, in “Internationale Schulbuchforschung”, , pp. -. . (), Manuels à lire, manuels à travailler: l’évolution du rapport entre lecteur et manuel d’histoire en Italie (-). Analyse et perspectives, in “Internationale Schulbuchforschung”, , pp. -. . (), Un récueil des stéréotypes autour du Moyen Age, in “Le cartable de Clio”, , pp. -. ., . (), África y la historia mundial: las dificultades historiográficas y didácticas de una adecuada contextualización, in “Didáctica de las ciencias experimentales y sociales”, , pp. -. . (), Der Geschichtunterricht in der italienschen Primar- und Sekundarschule, in E. Erdmann et al. (hrsg.), Geschichtsunterricht international, Verlag Hahnsche Buchhandlung, Hannover. . D AV I D E I L N E A N D E RTA L . G L I S T E R E O T I P I C O LT I S U L L A P R E I S T O R I A . (ed.) (), Culture and Environment in Primary Education. The Demands of the Curriculum and the Practice in Schools in Sub-Saharian African, Zed, Bonn. ., . . (), Africa: la storia ritrovata. Dalle prime forme politiche alle indipendenze nazionali, Carocci, Roma. . (), La preistoria è storia, in “Riforma della Scuola”, , pp. -. . et al. (), La memoria dell’uomo, Einaudi Scuola, Torino. . (), La Storia, Mursia, Milano. ., . (), I passi dell’uomo, Loffredo, Napoli. . et al. (), Chronos, , De Nederlandsche Boekhandel, Antwerpen. . (), Storia italiana, Mondadori, Milano. ., . (), Cultura, culture, intercultura. Analisi in chiave interculturale dei libri di testo nella scuola elementare, IRRE Marche, Ancona. . (), La preistoria spiegata ai miei nipoti, Archinto, Milano. ., . (), Il cammino dell’uomo, De Agostini, Novara. . (), Storia antica con speciale riguardo ai costumi, alla cultura ed alle condizioni civili, Sansoni, Firenze. ., . (), La vie des hommes de la Préhistoire, Éditions Ouest-France, Rennes. . (), Histoire de notre pays, Bureau de l’enseignement catholique, Kinshasa. . et al. (), Dalla caverna all’astronave, De Agostini, Novara. . (), La cultura castreña y el proceso de creación de la identidad nacional Gallega, in “Arqueoweb”, . ., . (), La storia e i suoi problemi, Loescher, Torino. . (), Un dossier non classé. La nouvelle histoire des hommes disparus, in “Science et Vie”, , pp. -. . . (), História, , Editorial Stella, Buenos Aires. . . (), Histoire des hommes, des origines au XVème siècle, Département scolaire des éditions universitaires, Brussels. . (), Oskor, òkori civilizàciok, Mussai Könyik, Budapest. ., . (), Você é a História. Do Homem das Cavernas ao Homen das Máquinas, Editora ao livro técnico, Rio de Janeiro. . et al. (), Uuden Lukion. Historia, , Werner Söderström Osakeyhtrö, Parvo-Helisinki-Juva. . (), L’uomo. Origine ed evoluzione, Jaca Book-l’Unità, Nuova Iniziativa Editoriale, Roma. . (), History of the Tatars, Magarif, Kazan. ., . (), Manuale di storia, Cappelli, Bologna. . (), Poviest, , Skolska Kuijga, Zagreb. . (), Il mondo prima della creazione dell’uomo, Sonzogno, Milano. ANTONIO BRUSA ., . (), Un passato prossimo, Zanichelli, Bologna. . (), Young People’s Understanding of Politics and Economics, in M. Carretero, J. F. Voss (eds.), Cognitive and Instructional Processes in History and the Social Sciences, Lawrence Erlbaum, Hillsdale, pp. -. . . (), La didattica della preistoria, in A. Brusa (a cura di), Vivere la preistoria, “I viaggi di Erodoto”, , Bruno Mondadori, Milano, pp. -. ., . (), Préhistoire. Proche Orient, De Boeck-Wesmael, Brussells. . (), Le linee del tempo, Laterza, Roma-Bari. . (), Geschichtbuch für Mittelschulen, Dürrche Buchhandlung, Leipzig. . . (), Bravo Brontosauro, Feltrinelli, Milano (ed. or. Bully for Bronthosaurus. Reflections in Natural History, Norton & Company, New York-London ). . (), L’evoluzione della vita sulla terra, in G. Celli (a cura di), L’evoluzione, “Quaderni di Le Scienze”, , pp. -. . (), La notion de stéréotype, in M. Grandière, M. Molin (éds.), Le stéréotype, outil de régulations sociales, Presses Universitaires de Rennes, Rennes, pp. -. (hrsg.) (), Zeit Aufnahme, Westermann, Braunschweig. . (), Történelem Tankönyv, Comenius Kiadó, Budapest. ., . (), Geschichte, m Lehrbuchverlag, Budapest. . (), World Studies. The Ancient World, Prentice Hall, Needham-New Jersey. . (), Des brutes épaisses ou nos semblables? L’apparence physique des hommes de Néandertal, in E. B. Krause (éd.), Les hommes de Néandertal. La feu sous la glace. . ans d’histoire européenne, Errance, Paris, pp. -. . (hrsg.) (), Geschichte für Morgen, Hirschgraben Verlag, Frankfurt a.M. ., . (), Levende Geschiedenis, Meulendorf Educatief, Amsterdam. ., . (), Histoire, , Delagrave, Paris. . (), Geschichte Weltkunde, , Verlag Moritz Diesterweg, Frankfurt a.M. . (), Dessine moi un Néandertal, in Néandertal. Enquête sur une disparition, in “Les dossiers de la Recherche”, . . (), Noveau cours d’histoire, , Hachette, Paris. . (), Történelem, , Karina Kiadó, Budapest. . et al. (), Geschichte für Mittelschule, Heimann Schroeder-Verlag, Halle. . (), Du vestige exhumé au passé (re)produit. Archéologie, mission impossibile?, in J. L. Bonniol, M. Crivello (éds.), Façonner le passé. Représentations et cultures de l’histoire. XVI-XVIIIème siècle, PUP, Aix-en-Provence, pp. -. . D AV I D E I L N E A N D E RTA L . G L I S T E R E O T I P I C O LT I S U L L A P R E I S T O R I A ., . (éds.) (), Lebensbilder. Scènes de vie. Actes du colloque de Zoug (- mars ), Kantonales Museum für Urgeschichte Zug, Zug-Lausanne. . (), De la Gaule à la France, Hachette, Paris. .-. (), Les lacustres. Archéologie e mythe national, Presses polytechniques et universitaires romandes, Lausanne. . (), Latvias vēsture, Zvaigne ABC, Riga. . . (), Nationalism and Archaeology: on the Construction of Nations and the Reconstructions of the Remote Past, in “Annual Review of Anthropology”, , pp. -. . . et al. (), Istorija drevnego mira, Izdet, Dom “Stinfo”, Moskva. . (), Dejepis, Orbis Pictus Istropolitana, Bratislava. ., . (), Latvias vēsture Viduskulai, , Zvaigne ABC, Riga. . (), Eve Africaine? De l’origines des races au racisme de l’origine, in F. X. Fauvelle-Aymar, J. P. Chrétien, Cl.-H. Perrot (éds.), Afrocentrismes, Karthala, Paris, pp. -. . (), History, , New Syllabus, Goodwood. . (), Italia!, Mondadori, Milano. ., ., . (eds.) (), Education in Archaeology, in “Antiquity”, LXXIV, , pp. -. ., . (), L’antropologia nella scuola dell’obbligo, in “Insegnare”, luglio-agosto , pp. -. . (), Corso di storia, Carabba, Lanciano. . . (), Istorija drevnego mira, Russkoe Slovo, Moskva. . (), Sommario di storia delle civiltà antiche, La Nuova Italia, Firenze. . (), Popoli e civiltà del Mediterraneo, Palumbo, Palermo. . (), Storia, , La Nuova Italia, Firenze. . (), Volk und Führer, Moitz Diesterweg, Frankfurt a.M. . (a cura di) (), Alla ricerca delle nostre origini. L’unità dei saperi viene da lontano, CIDI di Genova, Genova. . (), in U. Bude (ed.), Culture and Environment in Primary Education. The Demands of the Curriculum and the Practice in Schools in Sub-Saharian African, Zed, Bonn, pp. -. . . (), Breaking Away from the Textbook. Creative Ways to Teach World History, I, The Scarecrow Press, Lanham (Maryland)-Oxford. . (a cura di) (), Il libro della IV classe elementare, Ministero della Istruzione, Roma. . (), Pour en finir avec le Moyen Age, Seuil, Paris. . (), Történelem, , Nemzeti Tantönyvkiadó, Budapest. ., ́ . (), Historia, Kraków. . (), Storia e civiltà, , Editori Riuniti, Roma. . (), Carte di identità. Revisionismi, nazionalismi e fondamentalismi nei manuali di storia, Carocci, Roma. ANTONIO BRUSA . (), People and Power, Academic Book Zimbabwe. . (), Histoire de Madagascar, Société Malgache, Tananarive. . (), Racconti di storia, Carabba, Lanciano. . (), Des machines pour remonter le temps, in “Science et Vie”, hors-serie, , pp. -. - ., . (), Storia orientale, greca e romana, Paravia, Torino. . (), Le civiltà antiche, Glaux, Napoli. . (), Storia dei tempi antichi, Barbera, Firenze. . . (), Forums verdenshistorie, , Forum, København. . (), Botschaften aus der Gegenwart: Die Darstellung von Geschlechterrollen auf Lebensbildern zur Urgeschichte, in P. Jud, G. Kaenel (éds.), Lebensbilder. Scènes de vie. Actes du colloque de Zoug (- mars ), Kantonales Museum für Urgeschichte Zug, Zug-Lausanne , pp. -. . (), La nuova storia, , Sansoni, Firenze. ., - . (), La prehistoria enseñada y los manuales escolares españoles, in “Complutum”, , pp. -. . (), Atlante delle popolazioni, UTET, Torino. . (), Storia orientale e greca, Bracali, Pistoia. ., . . (), Enseñanza de la arqueología y la prehistoria, Milenio, Lleida. . . et al. (), History and Civics, VI, I, S. Chand and Company, Rom Nagar, New Delhi. . . (), Istoria românilor, Cartdidactic, Chisinău. et al. (), Discovery History, , Centonze Publications, Cape Town. . (), Historia, Shkup. . (), Africa through the Ages. An Illustrated History, Evans Brother Limited, Nairobi. . . (), Curriculum Reform in Kenia: the Primary School and the Community, in Bude (, pp. -). ., . (), Le civiltà antiche, Perella, Roma. . (), World’s History, Pearson Education, New Jersey. . (), La préhistoire dans les manuels scolaires, ou notre mythe des origines, in “L’Homme”, , pp. -. . (), The Magnificent Seven: Reasons for Teaching Prehistory, in “Teaching History”, pp. -. ., . (), The Excluded Past. Archaeology in Education, Unwin Hyman, London. ., . (), The Presented Past, Routledge, London. ., . (), The Constructed Past: Experimental Archaeology, Tourism and Education, Routledge, London. ., . (), Strutture, Morano, Napoli. . ., . . (), Libro di storia, Le Monnier, Firenze. . D AV I D E I L N E A N D E RTA L . G L I S T E R E O T I P I C O LT I S U L L A P R E I S T O R I A ., . (), History of Botswana, Macmillan Botswana Publishing, Gaborone. . (), Uso pubblico della storia e riscrittura della nazione nell’Africa postcoloniale, in “Afriche e Orienti”, VIII, pp. -. . (), La storia esposta in tavole schematiche ad uso delle scuole medie, , Signorelli, Milano. . ., . (), Istorija, Russkoe Slovo, Moskva. . (), Non è di nuovo la solita storia, in “Società e Storia”, pp. -. . (), L’impossible retour, Karthala, Paris. . (), Der Mensch und Sein Welt, , Dummler, Bonn. . (), Storia e letture storiche, , Sandron, Bologna. . (), La storia e il suo racconto, , Bompiani, Milano. Evoluzione umana e ricerca di Carlo Peretto Il dibattito sull’evoluzione e il suo significato, per ovvi motivi sempre fortemente attuale, è l’oggetto del tema trattato in questo intervento, visto nella sua interazione col mondo della ricerca; lo scopo è quello di focalizzare l’attenzione sul come e sul perché siamo oggi nella condizione di proporre e riassumere idee e congetture estremamente definite quanto articolate sul nostro processo di ominazione. Credo, in particolare, che sia fondamentale far chiarezza sul reale significato del metodo di indagine che oggi noi definiamo con le parole “ricerca sperimentale”. Questa costituisce un percorso metodologico inalienabile, in grado di pervenire ai risultati dell’odierna conoscenza, non soltanto nei limiti dell’ambito prettamente tecnologico. Il confronto, e spesso la contrapposizione, tra “idea” e “materia” ha consentito solo in fasi molto recenti all’affrancamento laico della ricerca e dell’interpretazione dei risultati delle indagini scientifiche. È una storia non indolore che, tuttavia, vista nella sua dimensione moderna, ha portato a partire da metà Ottocento all’impostazione corretta della nostra storia evolutiva, sia dal punto di vista biologico che culturale. La quantità impressionante di documenti fossili, raccolti negli ultimi anni, costituisce una prova inequivocabile di questo evento. . La forte contrapposizione attuale Col XX secolo, la scienza sembra essere entrata in una fase critica. La conoscenza sperimentale pare non essere in grado di controllare i problemi sociali, economici ed ecologici; ciò porta a modificare la stessa concezione dell’uomo, del progresso e della ricerca. La nostra umanità può così essere percepita come una minaccia planetaria, CARLO PERETTO priva della capacità di autocontrollo nella prospettiva di un futuro migliore. È per questo motivo che l’attenzione dei mass media nei riguardi della scienza, e quindi della ricerca scientifica, non significa necessariamente adesione e condivisione delle scoperte, quanto piuttosto sospetto e critica. Per molti non si tratta di affermare i continui successi nello sviluppo delle conoscenze, quanto piuttosto di discuterne il significato, evidenziando le problematiche più propriamente di ordine morale, etico, religioso ecc. In particolare sono alcuni degli sviluppi delle indagini scientifiche a essere oggetto di attenzione, come ad esempio le ricerche sul DNA e sulle sue possibili manipolazioni, sollevando discussioni e contrapposizioni dure e forti. Clonazione, OGM, staminali sono soltanto alcune parole e sigle entrate nel gergo comune più per gli atteggiamenti conflittuali che hanno sollevato, che per gli eventuali risultati raggiunti e i possibili benefici terapeutici. Nel suo complesso, quindi, livelli integrati e distinti conducono a una percezione disarticolata e fuorviante della ricerca: . essa è spesso associata alle catastrofi ecologiche, interpretate quali diretta conseguenza dell’inquinamento oggi esistente sul nostro pianeta e ritenuto quasi inarrestabile, nonostante gli sforzi politici per una sua risoluzione (cfr. ad esempio il Protocollo di Kyoto); . al contempo, da più parti emerge la critica che essa è priva delle necessarie garanzie sugli effetti che nuove scoperte possono indurre sui singoli individui o su intere popolazioni e più in generale sull’ambiente naturale; . viene spesso rapportata a eventi che stravolgono l’organizzazione filosofica e “razionale” della realtà, con particolare riferimento alla posizione dell’uomo nell’ambito della natura, soprattutto nella sua prospettiva di evoluzione biologica, oltre che culturale; . è ricondotta, da molti in modo fuorviante, alla teoria della falsificazione di Popper, perché impossibilitata al raggiungimento di una verità assoluta non più discutibile. Quest’ultimo aspetto, valido nel suo pronunciamento di ordine generale, se non interpretato in modo corretto, potrebbe per molti riassumere in sé tutti e quattro i punti sopraesposti, ponendo la ricerca scientifica, soprattutto quella sperimentale, nelle condizioni di perdere significato e veridicità agli occhi del grande pubblico, in un atteggiamento che rimane comunque soltanto di ordine speculativo. L’impostazione di Popper evidenzia, al contrario, il procedere della ricerca scientifica e i successivi cambiamenti e posizionamenti delle varie . EVOLUZIONE UMANA E RICERCA teorie. Infatti, a un modello che giustifica la “realtà”, ne segue col tempo uno nuovo che legittima ulteriormente forme e caratteri dell’esistente, includendo ad esempio, in modo tuttavia mai esaustivo, l’origine e lo sviluppo dello stesso universo in sintonia con le leggi fisiche che ne giustificano la struttura, la formazione del sistema solare e del nostro pianeta, l’origine della vita e della biodiversità e la nostra stessa evoluzione nel corso degli ultimi milioni di anni. È evidente, quindi, che l’atteggiamento filosofico del significato e del procedere della ricerca scientifica non altera la sua centralità e il progressivo quanto inarrestabile sviluppo della conoscenza. . Il procedere della ricerca sperimentale Ogni teoria va definita e ridefinita di continuo con indagini sperimentali. In questo ambito soprattutto l’evoluzione dell’uomo, ad esempio, è rafforzata dall’incessante scoperta di fossili, dagli studi molecolari, dalle indagini cronologiche, dallo studio di quanto rimane delle attività materiali e spirituali degli antichi gruppi umani che vissero nella preistoria. Ciò significa, in primo luogo, che la ricerca si pone come obiettivo la risoluzione di problemi particolari, senza voler rispondere a interrogativi di ordine generale. Condividere un’ipotesi, più o meno ampia e articolata, significa indagare i fattori specifici riconducibili a un insieme più ampio, del quale il più delle volte non sono tuttavia noti i limiti. L’indagine scientifica cerca risposte a domande semplici: cos’è un atomo, un elettrone, una proteina, un cristallo... In questo modo l’acquisizione delle nuove informazioni, che si succedono nel corso del tempo, mina prima o poi il sistema generale teorico precedentemente elaborato, per riproporne uno nuovo più o meno differente, ma certamente più rispondente alle necessità di giustificazione delle nuove scoperte. L’ultima di queste rivoluzioni, per quanto riguarda la stessa struttura dell’universo, si deve ad Albert Einstein (-) che nella formula semplice quanto elegante E=mc riassume il senso di questa riorganizzazione dell’intero sistema di riferimento fisico. Per questo motivo la ricerca sperimentale è stata, ed è ancora oggi per nostra fortuna, un fattore di rottura nell’ambito del sistema sociale nel quale si colloca, sollevando spesso dubbi e contrasti anche acerrimi. Da questo punto di vista la ricerca si può definire un attore dis- CARLO PERETTO sacralizzante all’interno della nostra società moderna. Questa è una considerazione che vale anche per epoche passate, e soprattutto per il Cinquecento, periodo dal quale emerge prepotentemente una linea di analisi della realtà, seppur non indolore, che porta allo sviluppo moderno della nostra società, troppo spesso ricondotta soltanto a un aspetto di ordine tecnologico. . Ricerca sperimentale tra passato e presente Sono dell’avviso che la particolare condizione di rottura e quindi di riorganizzazione generale del sapere imposto dalla ricerca scientifica, spesso contrastato violentemente, abbia avuto momenti significativi anche nel mondo antico, senza tuttavia apportare veri stravolgimenti nelle condizioni del sapere generalizzato. In particolare vorrei ricordare in questo contesto la volontà di alcuni studiosi moderni di sottolineare l’importanza delle conoscenze scientifiche del mondo greco e romano, riproposte anche in un’ampia ed elegante mostra allestita presso il Museo archeologico nazionale di Napoli, dal titolo Eureka. In questo contesto si ripropone l’importanza delle scoperte in quelle lontane epoche, con particolare riferimento al mondo greco. L’esaltazione delle scoperte di quell’epoca è più che mai legittima, anche se dobbiamo porci la domanda del perché si è arrivati all’oblio di quelle conoscenze e del perché l’immobilità del pensiero ha pervaso i secoli successivi con una visione assoluta e univoca della realtà, quasi fino al XVI secolo (immobilità che per molti aspetti perdura tutt’oggi). La causa principale di tutto ciò risiede nella mancata affermazione della laicità della ricerca scientifica e del conseguente percorso conoscitivo. La sopravvalutazione della “razionalità” di ordine prettamente filosofico e la dipendenza da essa hanno relegato il tutto nell’ambito della “curiosità”, non significativa nella giustificazione dominante di un fine che potesse comprendere il tutto, in una visione unitaria e vincolante (teleologismo di Aristotele); un atteggiamento, quest’ultimo, che prevale in quel periodo come nei secoli successivi, lasciando e rafforzando ulteriormente una visione fissista e statica del mondo che ci circonda. D’altra parte la laicità nella consapevolezza della conoscenza è uno stato mentale del tutto particolare, facile da esprimere a parole, ma complesso nella sua concretezza. È come per gli antropologi annientare se stessi per comprendere gli altri, soprattutto quelli che mag- . EVOLUZIONE UMANA E RICERCA giormente si ritengono diversi, vivendo gli usi e i costumi di popoli differenti in un contesto sociale del tutto nuovo e imprevisto; comportarsi allo stesso modo facendo cose che non si sarebbe mai immaginato di fare e condividendo atteggiamenti sociali e morali inaspettati quanto imprevedibili. Oggi, rispetto al mondo antico, siamo in una situazione del tutto differente. Al contrario di quanto si pensava fino all’Ottocento, l’evoluzione dell’uomo è una realtà confermata e condivisa, anche se attorno a questa certezza si addensano in modo ricorrente continue polemiche e critiche. Sul tema delle origini dell’uomo si imposta infatti uno dei contrasti più forti tra caso e programma, evoluzione e fissismo, relativo e assoluto, passando dalla discussione dei fossili quali realtà morfologica a quella del loro più ampio significato in termini di interpretazione generale nel contesto della stessa natura. Questo fenomeno ha anche un lato particolarmente piacevole, mettendo in condizione gli studiosi della preistoria di confrontarsi non solo su aspetti di ordine tecnico e tipologico, ristretti a un ambito tecnicistico, ma anche e soprattutto sul tavolo della speculazione e del confronto razionale del significato dei materiali raccolti, in un dibattito di ordine non più solamente numerico, ma soprattutto filosofico. Questo atteggiamento rappresenta una novità, in quanto la discussione che si svolge in quelli che potremmo definire “piani alti della razionalità” non si giustifica, come un tempo, negando il dato scientifico e naturalistico, quanto piuttosto lo recepisce come argomentazione inalienabile e allo stesso tempo condizionante per l’interpretazione che può essere desunta a carattere generale. . Alle origini della ricerca sperimentale È bene ricordare, per far chiarezza sull’origine del nuovo atteggiamento sovradescritto, che il raccordo, o meglio il riconoscimento della stretta relazione tra scienze e filosofia, è il risultato di una storia relativamente recente, seppur talvolta con qualche errore di interpretazione e qualche sopravvalutazione. Esso trova la sua origine molto recentemente nella nostra evoluzione culturale, in quel metodo definito con l’aggettivo “sperimentale”, che rappresenta un’innovazione di grande portata a partire soltanto dal Cinquecento. È un periodo durante il quale troviamo un’ampia gamma di scienziati, tra cui si posso- CARLO PERETTO no ricordare, oltre a Galileo Galilei (-), Nicolò Copernico (-) e Giovanni Keplero (-). È questa una fase di grande attività conoscitiva e sperimentale, che investe ogni ambito del sapere. Chiunque osservi, ad esempio, i disegni di Leonardo da Vinci nota quanto sia dettagliata la descrizione anatomica, possibile soltanto grazie a numerose dissezioni non certo condivisibili e ammissibili a quel tempo. I nuovi approcci della conoscenza rappresentano comunque fattori di attrito con l’apparato dominante di quel tempo, tanto che in molti casi studiosi vari sono “purificati” col fuoco a causa delle loro idee diverse da quelle professate dall’apparato di controllo. È il caso di Lucilio Vannini, oppure di Giordano Bruno che, nato nel , nell’anno è arso sul rogo. D’altra parte lo stesso Galilei abiura per ben due volte. Anche le grandi scoperte geografiche aiutano in questa fase nel cambiamento di prospettiva nei riguardi dell’analisi della natura e delle sue differenti originalità. Da ogni parte arrivano in Europa cose nuove e curiose che stravolgono la nostra concezione del mondo limitato al solo ambito europeo. Nascono così grandi raccolte, i gabinetti delle curiosità, assieme alla necessità dello sviluppo della classificazione di piante e animali e comunque di tutto quanto rappresenti oggetto di interesse. I modi di interpretare e valutare la natura diventano entità inalienabili per una società in continuo sviluppo, tanto da consentire la nascita di grandissimi contenitori del sapere naturale, quali giardini botanici, musei naturalistici, paleontologici, geologici ecc. A tale proposito basti ricordare, per tutti, il Musée National d’Histoire Naturelle di Parigi, che si deve soprattutto al lavoro del naturalista francese Georges-Louis Leclerc de Buffon (-). In questo contesto la classificazione del mondo animale e vegetale viene risistemata da Carl von Linné (-) nel suo Systema Naturae a partire dal . Una conseguenza diretta di quest’enorme attività naturalistica è la percezione, o meglio l’impressione, che il grado di differenza tra gli esseri viventi, più o meno lontani tra loro, sottenda un’origine comune. Queste prime ipotesi vengono confermate, pur nella contrapposizione a questa idea di Georges Cuvier (-), anche dallo studio dei reperti paleontologici. Infatti l’analisi delle sequenza geologiche, contenenti un’infinità di fossili appartenenti a specie estinte, rafforza questo pensiero. Ad esso si oppone Cuvier, convinto fissista, che cerca nel- . EVOLUZIONE UMANA E RICERCA la “teoria delle rivoluzioni del globo”, poi sostenuta e sviluppata dai suoi allievi con la “teoria delle creazioni successive”, un’interpretazione statica dei fenomeni osservati. Tuttavia, per nostra fortuna, il tempo delle prime teorie evoluzionistiche è arrivato. E così la prima, impostata su basi scientifiche, si deve a Jean-Baptiste de Lamarck (-) con la pubblicazione nel della sua Philosophie zoologique. Secondo questo studioso è determinante il ruolo dell’ambiente quale elemento per lo sviluppo della diversità morfologica. L’organismo viene modificato e i cambiamenti sono ereditati di generazione in generazione. Una moltitudine di esempi sono riportati quale prova di questa ipotesi: la talpa che ha perso la vista in quanto vive sotto terra; le oche con le dita palmate perché vivono soprattutto in acqua; la giraffa dal collo lungo per mangiare anche le foglie dei rami più alti degli alberi ecc. Secondo Lamarck due leggi ne consentono la realizzazione: l’uso e il disuso degli organi; l’ereditarietà dei caratteri acquisiti. Forti critiche vennero immediatamente portate a sfavore della teoria di Lamarck, e in particolare il più acerrimo nemico fu proprio il paleontologo Cuvier. L’osservazione più negativa riguardava la constatazione che non è l’uso a fare insorgere l’organo, quanto piuttosto il contrario. Ad esempio come sarebbe potuta insorgere l’ala se il volo non era già comunque una prerogativa di qualche essere vivente? Oggi sappiamo che questa teoria, importante perché è la prima che cerca di spiegare in modo organico l’evoluzione, non è valida scientificamente. Oggi sappiamo che le caratteristiche acquisite dal fenotipo (ad esempio colore più scuro della pelle perché abbronzata, muscoli più forti a causa dell’intenso allenamento...) non sono ereditabili, cioè non passano al genotipo e quindi ai figli. Sappiamo che soltanto le mutazioni del genotipo comportano un cambiamento nelle generazioni successive e quindi soltanto queste sono ereditabili. Lo stesso nonno di Darwin, Erasmus, è un convinto evoluzionista: una certa aria di famiglia influenza il nipote che sarà ben più famoso. E arriviamo così alla teoria di una evoluzione per cause interne: Charles R. Darwin (-) sostiene e dimostra questa tesi in Origine delle specie, pubblicato nel (l’Origine dell’uomo risale al ). Sostiene che alla base dell’evoluzione vi è la variabilità individuale sulla quale lavora la selezione naturale. L’osservazione della natura aveva permesso a Darwin di sviluppare la sua grandissima intuizione, anche CARLO PERETTO se all’epoca non si sapeva nulla sull’esistenza e sulle proprietà del genoma. Dovrà passare ancora molto tempo, anche attraverso gli studi sull’ereditarietà dell’incompreso Gregor Mendel (-), prima che si arrivi a capire in modo sufficientemente articolato i meccanismi della variabilità genetica e delle modalità di trasmissione delle informazioni alle generazioni future. . Ricerca scientifica ed evoluzione dell’uomo Non è un caso quindi che la paleontologia umana, o meglio la capacità di ricostruire il nostro percorso evolutivo, inizia il suo lavoro conoscitivo a metà Ottocento, dapprima contrastata e poi via via nel tempo accettata, sviluppata e sostenuta dalla ricerca scientifica. Certo la visione dinamica della natura e della nostra storia evolutiva non è esente da critiche, provenienti sia dal mondo scientifico (costantemente alla ricerca di ulteriori conferme), sia da quello che propende per una visione decisamente dualistica, spesso ancorata a una contrapposizione netta tra fisica e metafisica, materia e mente, soggettivo e oggettivo, tecnicismo e coscienza. Al giorno d’oggi, aiutati tuttavia dai fossili, possiamo ripercorrere un cammino lungo milioni di anni, durante i quali il complesso processo, a cui è stato dato il nome di ominazione, ha portato alla ribalta la nostra specie, capace di modificare l’intero pianeta. Il processo evolutivo è stato lungo, con una capacità molto elevata di risoluzione degli ostacoli e dei pericoli ogni volta differenti che la natura di certo non ci ha risparmiato. Forse per questo motivo l’uomo è un essere del tutto originale, avendo fatto confluire in quella che chiamiamo cultura tutta una serie di modi di fare, atteggiamenti e interventi che derivano dalla biologia, ma che gli hanno consentito di attenuare, se non talvolta evitare completamente, quella che Darwin chiama selezione naturale. La cultura, che come sappiamo ha la possibilità di modificare l’ambiente, diventa in questo modo un elemento di protezione, consentendo all’uomo di svincolarsi dalla selezione naturale e di poter vivere in ogni dove. La cultura, in sostanza, consente di evitare qualsiasi specializzazione di tipo ambientale e offre la possibilità di vivere in qualsivoglia habitat naturale. L’uomo è in grado di costruire contesti anche del tutto artificiali che gli permettono di vivere in si- . EVOLUZIONE UMANA E RICERCA tuazioni inimmaginabili fino a poco tempo fa, quali lo spazio o la superficie di altri corpi celesti. . Evoluzione e cultura Sorprende il fatto che lo sviluppo delle capacità adattative ad ambienti differenti abbia portato ad una situazione del tutto nuova, conosciuta col termine di autoconsapevolezza, limitandoci per ora in questo contesto rispetto all’ambito ben più ampio e complesso della coscienza. La consapevolezza di ciò che esiste o che è esistito sta alla base della capacità di poter indagare e di poter ricostruire la propria storia. Forse questa è la vera differenza con le altre specie animali: siamo i soli a disegnare, fin nei più minimi dettagli, la galleria degli antenati. Ci ritroviamo nella condizione di poter percepire e definire la relazione spazio-tempo, individuando le cause e i fattori che l’hanno condizionata e modellata di continuo. È una proprietà del tutto nuova che, riprendendo le parole di Boncinelli, potremmo definire emergente. Una capacità che ci consente di raccontare la nostra storia, l’ominazione, con la definizione dei suoi passaggi strategici, dalla stazione eretta, ai primi strumenti, dall’acquisizione dei grandi spazi aperti della savana fino alla diffusione sull’intero pianeta, attraverso il recupero di tutte quelle testimonianze che giustificano il racconto fin nelle sue parti più complesse. Potremmo anche riconciliarci, nel racconto di questa lunga storia, con una certa visione dualistica, ponendo l’accento sul rapporto biologia-cultura, consapevoli comunque che i due ambiti non sono e non si potranno mai disgiungere, quanto piuttosto influenzare vicendevolmente in una perenne osmosi senza vincoli temporali del prima e del dopo. In questo ambito la memoria individuale delle conoscenze culturali si sovrappone e si integra allo stesso tempo con quella naturale (memoria di specie), direttamente riconducibile al patrimonio genetico e a quanto da esso derivato in termini biologici. Siamo infatti oggi consapevoli che solo quest’ultimo ha la possibilità di perpetuare di generazione in generazione una quantità altissima di informazioni in modo del tutto autonomo, al contrario di quanto avviene per quelle culturali che devono ogni volta essere apprese nuovamente dagli individui di tutte le generazioni che si succedono nel tempo. CARLO PERETTO . Una considerazione finale Si potrebbe pensare che siamo quindi meno originali di quanto il nostro antropocentrismo possa immaginare. Siamo infatti l’oggetto di un’evoluzione sostanzialmente regolata da cause interne, rispetto alla quale abbiamo messo in atto un’ampia gamma di strategie, soprattutto dovute alle conoscenze scientifiche e culturali, in grado di attenuare gli effetti della selezione naturale. È evidente, tuttavia, che questa consapevolezza erode la garanzia di stabilità e di sicurezza che normalmente desideriamo e verso la quale esprimiamo, in modo più o meno inconscio, un forte desiderio di appropriazione. L’evoluzione, quindi, sancisce l’idea che l’esistenza, la nostra, deve essere assunta come una sorta di osmosi con la mutevolezza delle cose, invitandoci ad accettare razionalmente il rapporto con l’imprevedibile. A mio avviso proprio in quest’ultima affermazione si ritrova l’astio che molti hanno nei riguardi della conoscenza scientifica. Con questo rifiuto si perviene a un’interpretazione fuorviante del significato stesso della nostra vita, che per assunto deve essere assolutamente dissociata da possibili disequilibri. Il rigetto storico dell’evoluzionismo è quindi favorito da un atteggiamento rivolto alla normalizzazione della vita quotidiana, pertanto finalizzata al mantenimento delle garanzie di ordine culturale, economico e sociale, con la certezza assoluta che nulla possa cambiare in futuro. Tutto questo sta anche alla base dell’atteggiamento filosofico del fissismo e della nascita dell’assoluto comportamentale. . Un’ultima riflessione In conclusione, sono dell’avviso che non vi sono dubbi nell’affermare che a partire dalla fine del Quattrocento si siano affermate quelle innovazioni concettuali e metodologiche che hanno trasformato la pratica conoscitiva dando vita alla scienza moderna. La possibilità di discutere di ogni cosa e di non avere riferimenti assoluti in termini di conoscenza, facoltà peraltro acquisita non senza contrapposizioni e condanne, ha consentito, nel corso degli ultimi secoli, di sostituire al principio di autorità quello di tolleranza per diri- . EVOLUZIONE UMANA E RICERCA mere le controversie come stile di discussione tra gli uomini. Si può sostenere, allora, che questo è un modo di fare verso il quale il contributo dei naturalisti è stato determinante. Bibliografia Si elencano alcune pubblicazioni a carattere generale che possono aiutare ad approfondire gli aspetti trattati nella relazione. . (), Il cervello, la mente e l’anima. Le straordinarie scoperte sull’intelligenza umana, Mondadori, Milano. . (), Les origines de l’homme en Europe et en Asie: atlas des sites du paléolithique inférieur, Errance, Paris. . (), Se un leone parlasse. L’intelligenza animale e l’evoluzione della coscienza, Baldini & Castoldi, Milano. . (), L’âge d’or de l’humanité, chroniques du Paléolithique, Odile Jacob, Paris. . (), Linguaggio e problemi della conoscenza, il Mulino, Bologna. . (), Ominoidi, Ominidi, Uomini, Jaca Book, Milano. . (), Evoluzione umana e cultura, La Scuola, Brescia. . (), Gli umani prima dell’umanità: una prospettiva evolutiva, Editori Riuniti, Roma. - . (), Il gesto e la parola, Einaudi, Torino. . (), La mente, istruzioni per l’uso, Rizzoli, Milano. . (), L’istinto del linguaggio, Mondadori, Milano. . . (), Conoscenza oggettiva, Armando, Roma. . (), La mia filosofia, a cura di M. Baldini, Armando, Roma. . (), Lo scopo della scienza, a cura di M. Baldini, Armando, Roma. . (), Scimmie cacciatrici, il regime carnivoro all’origine del comportamento umano, Longanesi, Milano. . (), Umani, in “Le Scienze”, , pp. -. Parte seconda Fossili, molecole, genealogie La fenotipia ossea nella ricostruzione dell’evoluzione umana di Francesco Mallegni . Premessa I dati paleoantropologici confermano che i primi stadi dell’evoluzione umana sono iniziati in Africa subsahariana e precisamente nell’ampia fascia che partendo dall’Etiopia riguarda tutta l’Africa sudorientale; essa ebbe il suo inizio con la separazione del ramo “preumano” da quello della antropomorfe. Ma come è possibile dare indicazioni così precise, anche se è ancora opportuno ammantarle di un alone di dubbio? Quello che ritroviamo è costituito da frammenti di osso e non altro, resti di antichi cadaveri distrutti dall’azione dei mangiatori di carogne (le sepolture saranno una conquista tardivissima da parte dell’uomo, databili, all’inizio, a . anni da oggi) o dall’azione degli elementi (sole, pioggia, vento, acidità del terreno ecc.). Ma sono questi frammenti che permettono ai paleoantropologi di individuare i caratteri che documentano il modo in cui le creature di cui costituirono l’apparato scheletrico riuscirono a relazionarsi all’ambiente; si tratta infatti dell’unico apparato anatomico che può essere indagato. . I preominidi e le più antiche forme di ominide All’inizio la differenziazione dai pongidi, la famiglia i cui componenti sono geneticamente e strutturalmente più vicini all’uomo, è lenta. Il primo reperto da cui parte questa differenziazione potrebbe essere il Sahelanthropus tchadensis; esso fu rinvenuto nel Ciad, quindi piuttosto lontano dalla zona precedentemente definita ed è databile grosso modo fra i - milioni di anni fa (Brunet et al., ). Da alcuni è considerato un pongide femmina (gorilla). Solo un’altra serie di reperti de- FRANCESCO MALLEGNI nominati Orroin tugenensis (colline Tugen in Kenia), leggermente più recenti ( milioni di anni fa) e rinvenuti in una formazione geologica detta di Lukeino (Senut et al., ) dà più garanzie di questo distacco; i resti da cui sono rappresentati (anche resti di femore) dimostrerebbero infatti un inizio di conquista della stazione eretta e della deambulazione bipede; queste sono prerogative che distinguono l’uomo dai pongidi, i primati più a lui simili, come detto in precedenza. Altri reperti ossei, ancora più recenti (databili tra i , e i , milioni di anni fa), sono stati rinvenuti ad Aramis in Etiopia (Haile-Selassié, ) e definiti come Ardipithecus ramidus; sono rappresentati da denti, da mandibole, da una base del cranio e da frammenti di omero. È necessario sottolineare che il foramen magnum nell’occipite è spostato più in avanti di quello degli scimpanzé, ciò indicherebbe una predisposizione alla locomozione bipede. Tuttavia, i caratteri dell’omero e dei denti sono ancora molto simili a quelli dei pongidi e particolarmente a quelli dello scimpanzé. Ancora però non si parla di australopiteci, il genere le cui molte specie vivranno più o meno contemporaneamente fino a lambire i , milioni di anni da oggi e anche oltre (cfr. in seguito il genere Paranthropus). A partire da circa milioni di anni i fossili attribuibili alle linee ominidi si fanno più abbondanti; i caratteri “umani” (del bipedalismo, soprattutto) sono più definiti e allora i paleoantropologi coniano la definizione di genere Australopithecus (nell’accezione del termine iniziale, scimmie dell’Africa australe, dato loro dai primi studiosi di questo antico materiale) ai resti del primo essere datato fra , e , milioni di anni fa (Leakey et al., , ), e come la specie anamensis; i suoi resti sono stati rinvenuti negli anni Novanta del secolo scorso. Molti denti, parti di mascellare, di mandibola e ossa dell’arto superiore costituiscono il suo record fossile. Anamensis (FIG. .) possiede caratteri più “umani” di Ardipithecus: la sua dentatura è meno primitiva e l’omero è abbastanza simile a quello umano; anche le tibie suggeriscono il possesso completo del bipedalismo (Leakey et al., ). Altri resti, animali e vegetali, indicano un ambiente relativamente umido e forestato; è opinione corrente che il progressivo inaridimento della parte sudorientale dell’Africa, scenario naturale delle prime “manifestazioni umane”, sia stato accompagnato da foreste galleria intorno ai corsi d’acqua; ciò avrebbe permesso la sopravvivenza di queste forme preumane, le loro escursioni in ambienti aperti (da qui l’inizio del bipedalismo), la possibilità della conquista di territori anche molto lon- . L A F E N O T I P I A O S S E A N E L L A R I C O S T R U Z I O N E D E L L’ E V O L U Z I O N E U M A N A . Una serie di reperti attribuibili ad Australopithecus anamensis, tra i quali (in alto a sinistra) la mandibola olotipo della specie FIGURA tani dalle zone in cui questi ebbero origine. Seguono ad anamensis altri reperti morfologicamente ancor meglio definibili; il loro nome di specie è ancora più noto (anche ai mass media) e il loro record fossile ne ha permesso una conoscenza ancora migliore rispetto a quello delle forme precedenti: ci riferiamo ad Australopithecus afarensis. I resti fossili provengono dall’Etiopia, dal Kenia e dalla Tanzania e sono stati datati fra e milioni di anni fa. Il famoso scheletro parziale AL - chiamato “Lucy” e altri resti, rinvenuti in Hadar (Etiopia) e a Laetoli (Tanzania) (ossa e impronte di piedi) negli anni Settanta dello scorso secolo (Johanson et al., ), già avevano indicato che lo sviluppo del cranio, dei denti e dell’apparato locomotorio poterono aver avuto sviluppi cronologicamente anche molto differenziati. In effetti questa specie ha mantenuto alcuni caratteri dentari e cranici tipici dei pongidi con canini grandi e molto dimorfici, faccia prognata e volume encefalico piccolo – - cc. Gli attuali scimpanzé hanno una capacità cranica di cc e i gorilla di cc. Gli arti superiori mantengono in afarensis alcuni caratteri arcaici, più vicini a quelli dei pongidi, particolarmente la lunghezza rispetto a quella degli inferiori e l’anatomia della mano; si tratta di caratteri probabilmente collegati con l’abilità residua di attività arboricola. Gli arti inferiori sono decisamente strutturati al bipedalismo, nonostante alcuni caratteri arcaici quali le falangi allungate. Si pensa che la specie afarensis po- FRANCESCO MALLEGNI trebbe essere suddivisa in due o più specie per via di una considerevole variabilità dimensionale (McHenry, ), con probabili maschi grandi e femmine di piccolo formato, quindi a grande dimorfismo sessuale. In caso affermativo afarensis potrebbe essere l’ultimo antenato diretto di tutti i successivi ominidi e la sua definizione sistematica dovrebbe cambiare in Preanthropus africanus (Strait et al., ). Leggermente più recente di afarensis, si rinviene nella regione del El Ghazal di Bahr, vicino a Toro Koro nel Ciad (Brunet et al., ), un mandibola datata a -, milioni di anni fa, in base a resti di fauna. Il reperto viene definito Australopithecus bahrelghazali. Il rinvenimento dimostra la presenza inequivocabile di ominidi pliocenici in Africa nordoccidentale e inoltre la loro distribuzione larga e una diffusione abbastanza precoce. Dobbiamo allora tenere conto delle famose foreste galleria che potevano costituire possibili transiti in regioni anche lontane dalla zona di origine seguendo corsi d’acqua importanti (vedi in questo caso il Nilo) con la rete degli affluenti, a meno che non si debba ammettere siano esistiti più punti di insorgenza di questo genere. Certamente tutte queste specie non si possono accettare se non ammettendo un’insorgenza a cespuglio (Wood, a, b) con tanti rami destinati a estinguersi nel tempo, tranne uno che porterà a Homo, specie sopravvivente sapiens. Facciamo un esempio banale e non del tutto rispondente: un cespuglio di rose con tanti polloni sviluppatisi da un unico ceppo ma che vanno a costituire varie entità. Oltre che le tre specie attribuite al genere Australopithecus, dobbiamo includere una nuova forma che non soltanto viene definita come nuova specie, ma persino un nuovo genere, Kenyanthropus platyops (Leakey et al., ), cioè “l’uomo dalla faccia piatta del Kenia”. Esso viene da una stratificazione datata a ,-, milioni di anni fa. La relativa morfologia è differente dagli altri ominidi (gli altri australopiteci mostrano un forte prognatismo). Inoltre, Kenyanthropus mostra una capacità cranica ridotta. Quindi i ritrovamenti delle varie ossa indicherebbero come parecchie forme di ominidi arcaici avrebbero potuto coesistere in Africa fra e milioni di anni fa. Da circa milioni di anni nella famiglia degli ominidi almeno due linee evolutive coesistono: in entrambi a poco a poco si va delineando uno sviluppo progressivo dei caratteri cranio-facciali sempre meglio distinguibili da quelli dei pongidi: facce meno prognate e denti anteriori molto ridotti. Tuttavia la prima tendenza evolutiva ha dovuto sviluppare un potente apparato masticatorio, particolarmente nei denti giugali (riscon- . L A F E N O T I P I A O S S E A N E L L A R I C O S T R U Z I O N E D E L L’ E V O L U Z I O N E U M A N A trabili anche nelle grandi dimensioni delle strutture ossee). La seconda tendenza, al contrario, ha determinato la riduzione della dentatura laterale e delle strutture ossee relative; a questi aggiustamenti è seguito uno sviluppo cerebrale progressivamente più capace (encefalizzazione) e una quasi sicura alimentazione a base anche di proteine animali. La più antica forma conosciuta con un apparato dentario che utilizza prevalentemente i denti giugali compare a circa ,-, milioni di anni fa in Africa orientale e australe (in Etiopia, nel Kenia e forse nel Malawi orientale) e viene definita come robustus. Un cranio completo, il cosiddetto “cranio nero”, a causa del colore degli strati di fossilizzazione in cui è stato raccolto e che lo hanno tinto, detto poi, con il nuovo appellativo di genere, Paranthropus, specie aethiopicus, è stato trovato in Kenia: la sua sigla è KNM-WT .. Può essersi sviluppato da afarensis ed essere capostipite, nella relativa morfologia craniofacciale, delle forme che hanno sviluppato ancora di più il loro apparato masticatorio. In particolare Paranthropus mostra una capacità cranica ridotta ( cc), insieme a una cresta sagittale sulla volta, l’elemento tipico di questo gruppo, e un facciale sviluppato, quale morfologia anatomica “robusta”. Questa primitività è quasi da antropoide. Le forme di Paranthropus, rappresentate da un buon numero di fossili, datati fra più di milioni a più o meno un milione di anni, sono da attribuire a due varietà della stessa specie, anche se sono molto simili: boisei, orientale (FIG. .), e robustus del Sud Africa. La loro capacità cranica è di circa cc (Tobias, ). . Il calvario OH , denominato Paranthropus boisei FIGURA FRANCESCO MALLEGNI Il Paranthropus aethiopicus potrebbe essere l’antenato diretto di P. boisei, il robustus, data la sua posizione geografica (Sud Africa), potrebbe essere considerato dunque una variante geografica del boisei, data anche la sua antichità maggiore. Tutte e tre sono forme che possiamo supporre specializzate nel consumo delle fibre vegetali e coriacee (architettura masticatoria potente, faccia grande e piana, poco prognata; archi zigomatici forti, denti laterali enormi, denti anteriori ridotti, cresta sagittale sulla volta cranica per inserzioni dei muscoli masticatori potenti; grande e forte mandibola). Per tutto ciò questi ominidi non possono essere associati all’altro genere più o meno coevo (Australopithecus) che era certamente onnivoro. Un po’ prima di un milione di anni i parantropi, nelle due forme, scompaiono senza lasciare discendenza; questo loro perdurare, quando da tempo sono in circolazione i rappresentanti del genere Homo e si sono estinte le australopitecine, può essere spiegato con la mancanza di competizione tra i due generi (Homo e Paranthropus), impegnati, almeno l’ultimo, a sfruttare risorse alimentari meno variegate. Anche in Sud Africa sono presenti australopiteci della specie africanus dopo i milioni di anni da oggi: essi datano prima del P. robustus e sono rappresentati dai resti cranici del famoso “bambino di Taung”. Ulteriori resti, datati a -, milioni di anni fa sono stati rinvenuti a Sterkfontein e a Makapansgat; grazie a questi è possibile ricostruirne la morfologia e l’anatomia: dentatura giugale un po’ meno sviluppata e struttura facciale meno forte, quindi abbastanza differente dagli altri A. arcaici e dai P. robusti; per questo A. africanus è stato chiamato “gracile”. Al giorno d’oggi i rapporti filogenetici di africanus non sono del tutto chiari; le sue strutture anatomiche sono molto simili a quelle dei pongidi: alcune ossa craniche, le proporzioni fra gli arti superiori e inferiori sono simili a quelli dei pongidi tanto da pensare a un’abilità alla vita arboricola (l’arto superiore è molto forte per l’arrampicamento) oltre al bipedalismo (Clarke, ). Non c’è contrasto quindi con la morfologia di afarensis, che non mostra un simile sviluppo negli arti superiori (McHenry, Berger, ). Un altro fossile è stato trovato in Etiopia e viene datato fra e milioni di anni fa; trovato in Bouri (Etiopia) è un cranio parziale recentemente attribuito a una nuova specie, Australopithecus ghari (Asfaw et al., ). Il gahri può rappresentare un buon collegamento fra l’afarensis e Homo (anche se la capacità cranica è ridotta – sui cc – i denti, nonostante le grandi dimensioni, . L A F E N O T I P I A O S S E A N E L L A R I C O S T R U Z I O N E D E L L’ E V O L U Z I O N E U M A N A hanno una morfologia più vicina a quella di Homo, così come le proporzioni fra l’omero e il femore). Tuttavia, le proporzioni fra l’omero e le ossa dell’avambraccio sono simili a quelle dei pongidi. . L’origine del genere Homo Quasi in contemporanea ai parantropi si colloca l’origine del genere Homo; essa dovrebbe essere collegato a una fluttuazione climatica fredda, seguita da inaridimento e dalla riduzione delle risorse alimentari. Si forma un nuovo taxa, datato fra , e , milioni da oggi, e va sotto la definizione di Homo habilis, che è quindi da considerare il primo rappresentante di questo nuovo genere. I suoi resti sono stati trovati in parecchi luoghi dall’Africa orientale, quale Olduway (Tanzania), in Kenia, in Etiopia e in Malawi e forse in Sud Africa. Inizialmente tutti i resti non parantropini e non assegnabili ad africanus sono stati ipotizzati appartenere ad habilis. Tuttavia, la comunità scientifica solo recentemente ha accettato l’istituzione di questa specie (Tobias, a). Alcuni studiosi hanno contestato il valore di questa istituzione (Leakey et al., ); si pensava che habilis potesse essere un congenere di australopithecus africanus o “gracile” (Wood, Collard, ). Le differenze con africanus non sono molte, ma sono sufficienti da includere habilis nel genere Homo. Semmai la sua eterogeneità lo fa considerare come appartenente a due distinte specie: habilis e rudolfensis (Wood, b). Entrambi mostrano una capacità cranica maggiore rispetto a quella delle australopitecine e denti giugali più piccoli, con un diametro mesio-distale importante. I resti cranici presentano maggiore sviluppo delle regioni frontale e parietale, l’occipitale è più arrotondato e la base meno pneumatizzata; i denti hanno dimensioni più piccole e i giugali indicherebbero un loro utilizzo rispetto a quello delle australopitecine (FIG. .). Per la prima volta si ha la quasi certezza della produzione di strumenti litici, attività rapportabile esclusivamente al genere Homo. Homo habilis e rudolfensis differirebbero per alcune morfologie importanti; habilis ha una capacità cranica media di cc; la faccia è molto prognata e abbastanza convessa; il toro sopraorbitale è incipiente; lo scheletro postcraniale ha proporzioni che si avvicinano a quelle di africanus (arto superiore più forte e relativamente più lungo di quello inferiore, adatto per una vita semiarboricola). Il rudolfensis FRANCESCO MALLEGNI . Il calvario KNM-ER , denominato Homo habilis FIGURA . Il calvario KNM-R , denominato Homo rudolfensis FIGURA . L A F E N O T I P I A O S S E A N E L L A R I C O S T R U Z I O N E D E L L’ E V O L U Z I O N E U M A N A riori fossili più recenti, Swanscombe (Inghilterra), Atapuerca (Sima de los Huesos in Spagna) e Steinheim (Germania), datati a circa . anni fa, mostrano un numero maggiore di caratteri di progressione (incipiente cranio sferoidale, inizio di faccia in estensione, allineamento dei denti anteriori, toro sopraorbitario quasi unico, inizio dello spazio retromolare ecc.). Si tratta di esemplari morfologicamente vicini ai futuri neandertaliani, per cui sarebbe logico chiamarli neandertaliani antesignani. I neandertaliani precoci che seguono, adattati alle pressioni selettive della glaciazione del Riss, hanno tratto probabilmente vantaggio dal miglioramento climatico avvenuto fra e . anni da oggi per colonizzare zone prima non disponibili per la presenza delle barriere geografiche (distese glaciali continentali). Alcuni gruppi si sono spinti fino in Medio Oriente, dove hanno sviluppato una morfologia particolare. Con la glaciazione ulteriore del Würm, l’Europa è di nuovo divenuta relativamente isolata. Le popolazioni neandertaliane, unico gruppo umano in Europa fino a . anni fa, popolano i territori europei specializzandosi nelle cacce e nell’alimentazione di tipo carnivoro. I caratteri morfologici sono: contorno cranico rotondeggiante (visto dal dietro), faccia ad estensione, ponte nasale alto, toro sopraorbitario continuo, occipite a “chignon” caratterizzato dal solco sopriniaco, grande capacità cranica (media . cc), spazio retromolare e terzo molare visibile quando la mandibola è vista di lato. L’areale di diffusione non oltrepassa a oriente l’Uzbekistan e non penetra a sud nell’Africa. In quest’ultimo continente, la tendenza evolutiva indicata dalla documentazione fossile pleistocenica sembra condurre alla comparsa delle prime popolazioni con morfologia moderna. Queste forme africane possono essere denominate rhodesiensis e, iniziando forse meno di . anni fa, cominciano a mostrare una morfologia differente e più moderna, già presente in cepranensis. Esse sono: il cranio di Kabwe (Zambia, precedentemente Rhodesia), di Bodo in Etiopia, di Saldanha in Sud Africa, di Ndutu in Tanzania, di Salé a Rabat (Marocco). La loro capacità cranica è notevole (fra . e . cc), l’altezza cranica è aumentata e l’espansione nella larghezza delle ossa parietali è sensibile, l’occipitale è arrotondato. La morfologia di questi fossili africani pleistocenici è tuttavia chiaramente distinguibile da quella dei fossili europei coevi (già decisamente avviati verso la morfologia neandertaliana) così come da quella delle forme asiatiche di erectus. FRANCESCO MALLEGNI . Homo sapiens È sempre in Sud Africa che compaiono le prime forme decisamente moderne. I tratti morfologici che appaiono e che si conservano praticamente inalterati fino ai nostri giorni sono i seguenti: cranio a volta alta e piuttosto breve; osso frontale con andamento verticale o subverticale; parietali espansi, squama occipitale generalmente arrotondata e sprovvista di un toro evidente, capacità cranica variabile (. e . cc), faccia piuttosto appiattita e recessa rispetto alla porzione più avanzata del neurocranio, fossa canina evidente, regione sopraorbitaria priva di toro continuo e comunque con certi tratti più sviluppati negli individui di sesso maschile, con arcate sopraorbitarie in forma di due archi (con tuberosità sopraorbitaria e arco sopraccigliare separati da un’incisura sopraorbitaria), mandibola con mento ben ossificato e priva di spazio retromolare. Le principali autoapomorfie di sapiens sono globularità del neurocranio e retrazione della faccia (Lieberman et al., ). Valori di indice di globularità maggiori di , e valori di indice di ritrazione facciale minori di , discriminerebbero l’uomo anatomicamente moderno dalle forme umane arcaiche. La recentissima scoperta avvenuta ad Herto (Middle Awash, Etiopia) di resti umani sufficientemente completi e dall’anatomia pressoché moderna ma con alcune somiglianze con fossili africani più antichi (datati radiometricamente con convincente attendibilità a . anni fa) (White et al., ; Clark et al., ), sembra dare sempre più forza all’ipotesi di un’origine africana della nostra specie; con questi reperti si possono associare i fossili di Florisbad, Laetoli (Ngaloba, LH ), Guomde (KNM-ER e ) Omo Kibish II, Dares-Soltan e Jebel Irhound. A questi si aggiungono reperti ancora morfologicamente più definiti verso il sapiens e sono: Omo Kibish I, Klaises Rivers Mouth e Border Cave (circa . BP). L’affresco che si può tracciare, dall’analisi dei fossili africani, è quindi abbastanza chiaro nel delineare l’esistenza di una continuità regionale africana della linea evolutiva che ha visto la definizione dell’anatomia della nostra specie, ma lascia ancora molti punti interrogativi sui legami tassonomici che legano fossili dall’aspetto polimorfo che ritroviamo in Africa (ma anche in Medio Oriente) fra circa e anni da oggi. I fossili di Herto, in particolare, forniscono prova dell’esistenza di un . L A F E N O T I P I A O S S E A N E L L A R I C O S T R U Z I O N E D E L L’ E V O L U Z I O N E U M A N A rappresentante della nostra specie dalle caratteristiche anatomiche moderne in un periodo cronologico compatibile con le stime possibili in base ai dati genetico-molecolari (Cann, ) ma non chiariscono la tassonomia e i legami filogenetici fra molti rappresentanti del gruppo polimorfico di fossili ascrivibile al Pleistocene medio e superiore africano. In particolare non possono chiarire se le diverse caratterizzazioni morfologiche siano dovute solo alla diversa cronologia o a meccanismi evolutivi differenziati in diverse aree geografiche o a una combinazione di queste due. A partire da . anni fa si assiste alla diaspora di sapiens dall’Africa e allora abbiamo i due siti di Skhul e di Qafzeh, in Medio Oriente, che dimostrano il loro arrivo (Stringer, , ; Stringer, Trinkaus, ; Trinkaus, , , ; Vandermeersch, ). Questi reperti sembrano essere i precursori diretti (protocromagnoniani) dei gruppi umani che invasero l’Europa circa . anni fa. Anche il resto del mondo in diversi periodi fu raggiunto da Homo sapiens: in Cina (siti di Liujiang, di Laishui, di Zhou-kou-dian Upper Cave); in Indonesia (siti di Wadjak) (Storm, ) a iniziare da . anni fa; così pure in Australia (Lake Mungo e Talgai ecc.) con datazioni il primo a ±. anni fa (Thorne et al., ) e il secondo a circa . anni (Brown, ). In America a partire da circa . anni fa. Bibliografia . . et al. (), Australopithecus Garhi: a New Species of Early Hominid from Ethiopia, in “Science”, , pp. -. . . et al. (), A Hominid from the Lower Pleistocene of Atapuerca, Spain: Possible Ancestor to Neandertals and Modern Humans, in “Science”, , pp. -. . (), Coobool Creek. Terra Australis, , Department of Prehistory, Research School of Pacific Studies, Australian National University, Canberra. . et al. (), The First Australopithecine , km West of the Rift Valley (Chad), in “Nature”, , pp. -. . (), Australopithecus bahrelgazhali, une nouvelle espece d’hominidé ancien de la region de Koro Toro (Tchad), in “Compte Rendu de l’Académie de Science”, , pp. -. . (), Genetic Clues to Dispersal in Human Populations: Retracing the Past from the Present, in “Science”, , pp. -. . . et al. (), Stratigraphic, Chronological and Behavioural Contexts of Pleistocene Homo Sapiens from Middle Awash, Ethiopia, in “Nature”, , pp. -. FRANCESCO MALLEGNI . . (), Developmental Stability and Fitness. The Evidence is not Quite so Clear, in “The American Naturalist”, , , pp. -. . et al. (), Découverte d’un nouvel hominidé à Dmanissi (Transcaucasie, Géorgie), in “C. R. Palevol”, , pp. -. - . (), Late Miocene Hominids from the Middle Awash, Ethiopia, in “Nature”, , pp. -. . et al. (), Morphology of the Pliocene Partial Hominid Skeleton (AL -) from the Hadar Formation, Ethiopia, in “American Journal of Physical Anthropology”, , pp. -. . . et al. (), New Four-Million-Year-Old Hominid Species from Kanapoi and Allia Bay, Kenya, in “Nature”, , pp. -. . (), New Specimens and Confirmation of an Early Age for Australopithecus Anamensis, in “Nature”, , pp. -. . (), New Hominid Genus from Eastern Africa Shows Diverse Middle Pliocene Lineages, in “Nature”, , pp. -. . ., . ., . (), The Evolution and Development of Cranial Form in Homo Sapiens, in “Proceedings of National Academy of Science”, , pp. -. . et al. (), Homo Cepranensis Sp. Nov. and the Evolution of African-European Middle Pleistocene Hominids, in “C. R. Palevol”, , pp. -. . . (), Body Size and Proportions in Early Hominids, in “American Journal of Physical Anthropology”, , pp. -. . ., . . (), Body Proportions in Australopithecus Afarensis and A. Africanus and the Origin of the Genus Homo, in “J. Hum. Evol.”, , pp. -. . . (), The Evolution of Homo Erectus, Comparative Anatomical Studies of an Extinct Human Species, Cambridge University Press, Cambridge. . et al. (), First Hominid from the Miocene (Lukeino Formation, Kenya), C. R. Académie des Sciences, Paris, pp. -. . (), The Evolutionary Significance of the Wajak Skulls, in “Scripta Geologica”, , pp. -. . ., . ., . . (), A Reappraisal of Early Hominid Phylogeny, in “Journal of Human Evolution”, , pp. -. . . (), The Origin of Early Modern Humans: a Comparison of the European and non-European Evidence, in C. B. Stringer, P. Mellars (eds.), The Human Revolution, Princeton University Press, Princeton, pp. -. . (), Reconstructing Recent Human Evolution, in “Philosophical Transactions: Biological Sciences”, CCCXXXVII, , pp. -. . ., . (), The Shanidar Neanderthal Crania, in C. B. Stringer (ed.), Aspects of Human Evolution, Taylor and Francis, London, pp. -. . . et al. (), Age of the Earliest Known Hominids in Java, Indonesia, in “Science”, , pp. -. . L A F E N O T I P I A O S S E A N E L L A R I C O S T R U Z I O N E D E L L’ E V O L U Z I O N E U M A N A . (), Latest Homo Erectus of Java: Potential Contemporaneity with Homo Sapiens in Southeast Asia, in “Science”, , pp. -. . . et al. (), Australia’s Oldest Human Remains: Age of the Lake Mungo Skeleton, in “Journal of Human Evolution”, , pp. -. . . (a), Hominid Variability, Cladistic Analysis and the Place of Australopithecus Africanus, in G. Giacobini (ed.), Hominidae. Proceedings of the nd International Congress of Human Palaeontology, Jaca Book, Milano, pp. -. . (b), The Status of Homo Habilis in and Some Outstanding Problems, in G. Giacobini (ed.), Hominidae. Proceedings of the nd International Congress of Human Palaeontology, Jaca Book, Milano, pp. -. . (), The Cranio-Cerebral Interface in Early Hominids. Cerebral Impressions, Cranial Thickening, Paleoneurobiology, and a New Hypothesis of Enchephalisation, in R. S. Corruccini, R. L. Chiocon (eds.), Integrative Paths to the Past, Paleoanthropological Advances in Honour of F. Clark Howell, Englewood Cliffs, Prentice Hall, pp. -. . (), The Shanidar Neandertals, Academic Press, New York. . (), Western Asia, in F. H. Smith, F. Spencer (eds.), The Origins of Modern Humans, Liss, New York, pp. -. . (), Morphological Contrasts between the Near Eastern Qafzeh-Skhul and Late Archaic Human Samples: Grounds for a Behavioral Difference?, in T. Akazawa, K. Aoki, T. Kimura (eds.), The Evolution and Dispersal of Modern Humans in Asia, Hokusen-Sha Pub. Co., Tokyo, pp. -. . (), Les hommes fossiles de Qafzeh (Israel), CNRS, Paris. . . et al. (), Pleistocene Homo Sapiens from Middle Awash, Ethiopia, in “Nature”, , pp. -. . . (), Paleoanthropology, McGraw-Hill, New York. . (a), Origin and Evolution of the Genus Homo, in “Nature”, , pp. -. . (b), Early Hominid Species and Speciation, in “Journal of Human Evolution”, , pp. -. ., . (), The Human Genus, in “Science”, , pp. -. DNA ed evoluzione umana di Gianfranco Biondi e Olga Rickards . La nascita dell’antropologia molecolare L’espressione “antropologia molecolare” è nata da un’invenzione di Emile Zuckerkandl, il quale la usò per la prima volta nell’estate del al convegno su La classificazione e l’evoluzione dell’uomo, organizzato da Sherwood Washburn a Burg Wartenstein in Austria presso il Centro conferenze europeo della Fondazione Wenner-Gren per la Ricerca Antropologica (Washburn, ). Alla riunione, Zuckerkandl sostenne l’idea che le molecole fossero in grado di fornire informazioni utili sulla filogenesi esattamente come i fossili (Lewin, ), ma lo scetticismo prevalse tra gli studiosi e solo Theodosius Dobzhansky si schierò a favore dell’importanza che le molecole avrebbero assunto negli studi evolutivi (Biondi, Rickards, ). La biologia sistematica ha finito poi per accettare il nuovo approccio, cioè lo studio molecolare dell’evoluzione, dato che questo si è dimostrato estremamente utile per comprendere le relazioni evolutive tra le specie; e in antropologia ha permesso di risolvere alcuni problemi cruciali della nostra evoluzione: in particolare, le separazioni all’interno delle scimmie antropomorfe, compresa quella che ci ha diviso dagli scimpanzé, e l’origine dell’uomo moderno e i suoi rapporti filogenetici con l’uomo di Neandertal. Ma l’antropologia molecolare è andata anche oltre a ciò, perché ha definito dei modelli evolutivi che hanno permesso di chiarire i rapporti tra i cambiamenti genetici e quelli anatomici. Non sempre, infatti, il confronto tra i soli complessi morfologici è in grado di individuare completamente le relazioni evolutive che legano le specie. E un esempio illuminante di ciò è rappresentato dai rapporti filogenetici tra l’uomo e lo scimpanzé: nel comportamento e nell’anatomia assai diversi, ma geneticamente molto simili (Biondi, Rickards, , , ; Biondi, Martini, Rickards, Rotilio, ). GIANFRANCO BIONDI, OLGA RICKARDS L’invenzione più straordinaria dello studio molecolare dell’evoluzione è certamente quella dell’“orologio molecolare” elaborata nel da Linus Pauling ed Emile Zuckerkandl, i quali avevano osservato che quanto più le specie erano simili tanto più lo erano le loro proteine e di conseguenza le loro somiglianze genetiche. Era noto che le specie figlie di un medesimo progenitore avessero all’inizio della loro storia forme identiche di una certa molecola, in quanto copie di essa, e che da quel momento in poi le mutazioni inducessero cambiamenti differenziali capaci di andarsi a sommare e che la variabilità osservata fosse direttamente proporzionale al tempo trascorso dal momento della divergenza. In pratica, il ritmo delle mutazioni – indipendente dall’ambiente in cui vivono gli organismi – scandisce la velocità alla quale si differenziano geneticamente i gruppi. Il problema quindi consisteva nel riuscire a stabilire la velocità della divaricazione e ciò fu possibile mutuando dalla paleontologia le date delle separazioni tra le specie e dall’analisi genetica la quantità delle variazioni. A partire da questi dati è stato poi possibile calcolare il ritmo dell’accumulo dei cambiamenti rapportandoli al tempo impiegato per realizzarsi. Grazie allo studio di una proteina, l’emoglobina, Pauling e Zuckerkandl sono approdati a un’idea che ha rivoluzionato il modo di indagare la storia dell’evoluzione organica (Biondi, Rickards, ). . La filogenesi delle scimmie antropomorfe Il DNA è entrato nella ricerca antropologica all’inizio degli anni Ottanta del XX secolo e grazie a Charles Sibley e John Ahlquist, due ricercatori interessati al problema della divergenza gorilla-scimpanzéuomo. In particolare, la questione da chiarire riguardava proprio le modalità attraverso cui la loro separazione si era realizzata: ovvero, se era avvenuta nello stesso momento o in momenti diversi. Nel primo caso, infatti, da un tronco comune si sarebbero originate contemporaneamente le tre linee evolutive, mentre nel secondo, gli eventi si sarebbero succeduti nel tempo. Sibley e Ahlquist hanno risolto il caso ricorrendo alla tecnica dell’ibridazione del DNA, che permette di valutare il grado di somiglianza totale dei genomi. Il DNA di due specie viene posto in una provetta alla quale si fornisce l’energia, per esempio calore, necessaria per rompere i legami chimici che tengono uniti i due filamenti di ogni molecola e poi, una volta . DNA ED EVOLUZIONE UMANA che si sia ottenuta una miscela di singoli filamenti dei due DNA, si toglie via via energia in modo che si possano ricomporre molecole a doppio filamento. Nel corso di questo processo si verranno a formare delle molecole ibride, in cui i due filamenti appartengono alle due specie. Successivamente si misura quanta energia si deve fornire al sistema per rompere le catene ibride, sapendo che quanto più sono simili le specie, cioè quanto maggiore è il numero di basi condivise, tanto meglio i filamenti ibridi si appaieranno e tanto più forti risulteranno i legami tra essi. Il lavoro di Sibley e Ahlquist è consistito nel misurare il calore necessario per rompere le molecole ibride di DNA delle coppie uomoscimpanzé, uomo-gorilla e scimpanzé-gorilla. E in tal modo valutare le differenze genetiche tra le specie, che poi sono state convertite nei tempi delle separazioni evolutive grazie all’orologio molecolare. Fino a quel momento, la maggior parte degli antropologi era convinta che la linea evolutiva umana si fosse separata molto anticamente dal tronco scimpanzé-gorilla, addirittura oltre milioni di anni fa, e che queste specie fossero tra loro geneticamente più simili di quanto ciascuna di esse non lo fosse con l’umanità. Ma l’esito dell’esperimento dei ricercatori ha sovvertito il pensiero comune. Intanto, la divergenza tra l’uomo e le antropomorfe africane non superava i - milioni di anni fa e, inoltre, l’uomo e lo scimpanzé risultarono geneticamente più affini di quanto ciascuno di loro lo fosse con il gorilla. Il percorso evolutivo dei tre parenti, quindi, doveva essere stato del tutto diverso da quello immaginato e precisamente il gorilla si era distaccato per primo, mentre uomo e scimpanzé avevano proseguito ancora insieme prima di arrivare alla loro successiva divisione. Nel corso degli anni successivi, l’enorme sviluppo delle biotecnologie ha permesso di stimare in modo decisamente più accurato i tempi delle separazioni evolutive all’interno delle scimmie antropomorfe. I primi a staccarsi dal tronco comune sono stati i gibboni e i siamanghi circa milioni di anni fa, poi si è staccato l’orango circa milioni di anni fa, poi il gorilla circa milioni di anni fa e infine, circa milioni di anni fa, si sono separati i due parenti più prossimi: l’uomo e lo scimpanzé. Assai più recentemente, circa milioni di anni fa, lo scimpanzé ha subito una divergenza evolutiva interna che ha portato alla nascita delle due specie tuttora viventi: lo scimpanzé comune (il Pan troglodytes) e lo scimpanzé pigmeo o bonobo (il Pan paniscus). E quest’ultima specie è la più vicina a noi, non solo dal punto di vista gene- GIANFRANCO BIONDI, OLGA RICKARDS tico, ma anche per quanto riguarda le abitudini comportamentali (Goodman, ; Goodman et al., ; Patterson et al., ). Il lavoro di Sibley e Ahlquist ha permesso di risolvere uno dei casi più controversi della storia dell’antropologia: la posizione tassonomica del ramapiteco, un primate miocenico vissuto tra e milioni di anni fa in oriente, dall’area indo-pakistana alla Turchia. Le sue prime testimonianze furono rinvenute nel in un sito fossilifero dei monti Siwalik, nell’India settentrionale, da Edward Lewis e per lungo tempo si era ritenuto che il ramapiteco fosse un antenato diretto dell’uomo, in quanto sembrava presentare una morfologia dell’arcata dentaria simile alla nostra, cioè parabolica e non ad U come nelle antropomorfe, ma la datazione molecolare lo ha allontanato dalla nostra filogenesi. E studi anatomo-morfologici più approfonditi ne hanno fatto un antenato dell’orango. Le supposte somiglianze con la linea evolutiva umana, infatti, erano dovute solo a un’errata ricostruzione della sua mandibola a partire dai frammenti fossili rinvenuti negli scavi archeologici. . L’origine dell’uomo moderno Fino agli anni Ottanta del secolo scorso, la nascita della nostra specie è stata spiegata dai paleoantropologi mediante due modelli. Quello “multiregionale” rifiutava la possibilità di ricondurre l’origine dell’umanità moderna a un unico luogo e sosteneva, per contro, che in ogni continente del Vecchio mondo i rappresentanti più antichi del genere Homo si fossero evoluti indipendentemente in noi sapiens (Thorne, Wolpoff, ). La prima formulazione di questo modello è stata suggerita nel da Franz Weidenreich ed è poi stata ripresa da Milford Wolpoff e Alan Thorne, che ne sono divenuti i paladini moderni (Thorne, Wolpoff, ; Wolpoff, ). L’ammissione che ogni forma locale di uomini pre-sapiens si fosse differenziata in sapiens nel corso di oltre due milioni di anni equivaleva ad accreditare l’idea che l’umanità attuale fosse composta da specie diverse. Ma ciò non era assolutamente compatibile con il fatto, riconosciuto unanimemente dagli studiosi, che tutti noi costituiamo invece una sola specie e così i multiregionalisti hanno introdotto nel modello una nuova variabile: un flusso continuo di geni tra le popolazioni dei diversi continenti che avrebbe dovuto garantire un’evoluzione convergente verso la specie unitaria. Si deve notare, tuttavia, che la quantità di ibridazione neces- . DNA ED EVOLUZIONE UMANA saria allo scopo era però troppo alta rispetto a ciò che si poteva ricavare dalle numerose simulazione demo-ecologiche del passato effettuate in molti laboratori sparsi un po’ ovunque nel mondo. Wolpoff e Thorne ritenevano che la serie di ominini fossili orientali avesse conservato una precisa continuità anatomica, i cui caratteri distintivi si sarebbero formati proprio al momento in cui la regione fu colonizzata dall’Homo erectus, circa milioni di anni fa (Ciochon, Larick, ; Balter, Gibbons, ). Quegli antichi uomini rinvenuti nei siti archeologici di Giava possedevano ossa craniche assai spesse e arcate sopraorbitarie e denti molto voluminosi. Insomma, una costituzione corporea massiccia che si sarebbe mantenuta inalterata fino al momento della comparsa degli uomini moderni. Anche l’Australia, la cui colonizzazione risale a . anni fa, poteva essere inserita nella continuità morfologica dell’area indonesiana, perché i suoi fossili sembravano mostrare la gamma dei caratteri propri dei giavanesi, per quanto con alcuni tratti innovativi. E lo stesso si poteva dire per l’Asia settentrionale, sebbene la coerenza tra antico e moderno fosse stata garantita da un diverso aggregato di caratteri, ma con ciò fornendo, sempre secondo Wolpoff e Thorne, un ulteriore sostegno al modello multiregionale. Nei reperti cinesi, difatti, sarebbe stato possibile evidenziare una gracilità complessiva delle ossa, un appiattimento della faccia divenuta più piccola, un arrotondamento della fronte e una riduzione dello sviluppo dei denti. Le antiche popolazioni della Cina e dell’Indonesia, quindi, avrebbero mostrato l’intera gamma di variabilità che oggi riscontriamo tra le popolazioni che vanno dal nord dell’Asia all’Australia. Quelle che erano considerate le prove inconfutabili della continuità morfologica rilevata nelle due regioni asiatiche sembravano definitive, e in più David Frayer si era venuto convincendo che fosse possibile rintracciare la continuità anche in Europa, dove molti caratteri neandertaliani sarebbero passati immutati nei sapiens europei. La comunità dei paleoantropologi interpreta oggi in tutt’altro modo i tratti morfologici portati a sostegno del modello multiregionale. Molte delle fattezze considerate peculiari della continuità asiatica, infatti, non testimonierebbero altro che il percorso evolutivo condiviso dai rappresentanti più arcaici del nostro genere: saremmo cioè in presenza solo di caratteri antichi che si sono mantenuti inalterati. Il disegno evolutivo continuista non è riuscito a superare l’esame della verifica sperimentale e si può concludere che le prove morfologiche non sostengono affatto quel modello della nostra origine (Lahr, Foley, ). GIANFRANCO BIONDI, OLGA RICKARDS Il modello alternativo, denominato “fuori dall’Africa”, è stato proposto nel da Christopher Stringer e Paul Andrews. Per i due studiosi, noi eravamo nati in Africa intorno a . anni fa e la transizione dalle forme arcaiche a quelle attuali aveva avuto luogo solo in quel continente e come conseguenza di una speciazione puntiforme. Ecco allora che, essendo i sapiens una specie distinta, non sarebbe stato possibile alcun incrocio con le linee più antiche di Homo che ancora sopravvivevano nel Vecchio mondo. Gli uomini at. Sopra: modello dell’evoluzione multiregionale, secondo il quale i caratteri dell’uomo attuale nei vari continenti sarebbero stati ereditati dagli uomini più antichi che vissero in ognuno di essi. La nostra unità genetica deriverebbe dall’elevato flusso genico tra i vari gruppi. Sotto: modello dell’origine africana recente (out of Africa), secondo il quale le specie antiche di Homo in Asia, Australia ed Europa furono soppiantate dagli uomini moderni immigrati dall’Africa (da Biondi, Rickards, ). FIGURA . DNA ED EVOLUZIONE UMANA tuali, insomma, dopo essere migrati dall’Africa verso l’Asia e l’Europa avrebbero finito per sostituire completamente le forme locali preesistenti, tra cui i neandertaliani che vivevano in Europa, in Medio Oriente e nella parte più occidentale delle terre asiatiche. Neppure l’idea dell’evoluzione monocentrica, però, era originale e recente, essendo stata proposta già nel da William Howells con il nome di modello “dell’Arca di Noè”. . Il DNA mitocondriale Il DNA più utilizzato negli studi sull’evoluzione umana è stato quello mitocondriale. Si tratta del DNA presente nei mitocondri del plasma cellulare ed è costituito da una molecola a doppia elica, circolare e chiusa, lunga solo . bp (coppie di basi); e contiene appena geni con poche sequenze non codificanti. L’mtDNA (DNA mitocondriale) è presente in ogni cellula in un numero di copie che va da centinaia a migliaia e ciò implica che, a differenza di quanto avviene con i geni nucleari di cui si hanno solo due copie, c’è una notevole probabilità di trovare qualche molecola di mtDNA intatta anche in campioni di tessuto fortemente degradato. L’mtDNA è ereditato per via materna, senza ricombinazione, ed evolve quindi solo per accumulo di mutazioni nel corso del tempo. Inoltre, l’mtDNA evolve in media da a volte più velocemente dei geni del DNA nucleare di funzione comparabile e può essere considerato, pertanto, un orologio molecolare con un battito accelerato. Queste due caratteristiche lo rendono lo strumento ideale per studiare le relazioni antenato-discendente nelle popolazioni umane, che si sono diversificate evolutivamente in tempi assai recenti, senza l’interferenza di quel fenomeno che interviene con le ricostruzioni basate sui geni nucleari: cioè, il rimescolamento a ogni generazione dei patrimoni genetici maschile e femminile. . Nel DNA la soluzione del problema A metà degli anni Ottanta, sempre dello scorso secolo, si sono inseriti nella disputa tra multiregionalisti e sostenitori del modello “fuori dall’Africa” gli antropologi molecolari Rebecca Cann, Mark Sto- GIANFRANCO BIONDI, OLGA RICKARDS neking e Allan Wilson. Il problema che dovevano risolvere riguardava le parentele che era possibile ricostruire tra le diverse popolazioni attuali di Homo sapiens a partire dalla loro variabilità genetica. Gli antropologi molecolari potevano contare, in quegli anni, sul notevole progresso tecnico che si era verificato nelle biotecnologie e che aveva reso possibile l’analisi diretta del DNA, sebbene con procedimenti ancora laboriosi. Alla base di quell’esame c’era stata la scoperta di una particolare classe di enzimi, le endonucleasi di restrizione, che hanno la capacità di riconoscere alcune cortissime sequenze di basi e di tagliare in loro corrispondenza la doppia elica. Per ricostruire il percorso genealogico della nostra specie, gli studiosi hanno analizzato nel il DNA mitocondriale di soggetti provenienti da ogni continente con enzimi di restrizione e hanno ottenuto linee mitocondriali diverse (Cann, Stoneking, Wilson, ). E dal momento che il DNA mitocondriale è di esclusiva origine materna, l’albero filogenetico disegnato con le diverse linee non rappresentava altro che l’evoluzione dell’umanità al femminile. Il dendrogramma si suddivideva in due rami principali: uno composto solo da alcuni tipi mitocondriali africani e l’altro da tutti i rimanenti, riuniti in più gruppi, o cluster, che comprendevano anche gli africani non considerati prima. La topologia dell’albero metteva in evidenza che l’antenata dell’uomo moderno era africana e che i suoi discendenti, cioè le linee mitocondriali africane finite nei cluster non africani, avevano poi conquistato il resto del mondo e dato origine alle popolazioni locali. Lo studio aveva anche messo in evidenza che durante il processo di espansione l’uomo moderno non si era incrociato con nessuna popolazione autoctona, ovvero con nessun gruppo di uomini che prima dei sapiens aveva lasciato l’Africa per migrare nel resto del Vecchio mondo. Altrimenti, il contributo di questi ultimi al patrimonio genetico dei sapiens si sarebbe manifestato in forma di tipi mitocondriali più antichi e pertanto più divergenti, e in tal modo l’albero avrebbe presentato delle diramazioni che si staccavano prima di quella africana. In definitiva, una topologia del tutto diversa, non più con due ma con una serie di percorsi principali, nella quale i rami supplementari avrebbero costituito la testimonianza delle mutazioni che gli uomini arcaici avevano tramandato a quelli moderni. I pre-sapiens, infatti, si erano evoluti alcune centinaia di migliaia di anni prima e avevano avuto molto tempo per accumulare mutazioni che avrebbero aumentato . DNA ED EVOLUZIONE UMANA la variabilità genetica di noi moderni, se ci fosse stato incrocio. L’età dell’antenata comune di tutta l’umanità attuale fu stimata tenendo conto che l’orologio molecolare batteva con una velocità media pari a un accumulo di mutazioni del -% per milione di anni. E quel ticchettio, applicato alle differenze genetiche osservate, indicò .. anni fa. Grazie alla scoperta della reazione della polimerizzazione a catena o PCR, alla fine di quegli anni Ottanta è stato poi possibile determinare direttamente la sequenza in basi del DNA. Finalmente si poteva leggere l’informazione biologica contenuta nella successione delle quattro molecole che spiegano la vita e il gruppo di Wilson ha ripetuto l’esperimento utilizzando la nuova tecnologia. E senza sorpresa, i risultati sono stati convalidati. In particolare è stata analizzata la regione di controllo “D-loop” del DNA mitocondriale, che è ipervariabile e quindi è la più idonea per datare eventi evolutivi vicini nel tempo. In essa le mutazioni si accumulano a un tasso pari all’% per milione di anni e così la quantità di variabilità trovata nella nostra specie, circa il %, ha indicato ancora una volta che l’antenaFIGURA . Rappresentazione schematica dell’albero filogenetico costruito da Rebecca Cann e dai suoi colleghi dell’Università di Berkeley a partire dai dati del DNA mitocondriale. Le relazioni evolutive tra i diversi tipi mitocondriali testimoniano la nostra origine recente e africana e confutano l’ipotesi multiregionale (da Biondi, Rickards, ) GIANFRANCO BIONDI, OLGA RICKARDS ta era vissuta tra . e . anni fa (Vigilant et al., ). La giovanissima età dei sapiens, la loro origine africana e la successiva sostituzione in tutto il Vecchio mondo delle specie più antiche di uomini è stata convalidata in seguito anche dagli studi sul DNA nucleare, compreso quello del cromosoma Y che racconta l’evoluzione al maschile. E finalmente è stato possibile concludere che il multiregionalismo non ha retto alle prove sperimentali fornite dall’antropologia molecolare. . Non discendiamo dai neandertaliani Il modello multiregionale prevedeva una trasformazione graduale dell’umanità – a partire dalle prime forme di Homo che erano migrate fuori dall’Africa circa milioni di anni fa – verificatasi durante tutto il Pleistocene in ogni continente del Vecchio mondo. In Africa, l’uomo attuale si sarebbe evoluto direttamente dall’Homo ergaster; in Asia, dall’Homo erectus; e in Europa, dall’Homo heidelbergensis e dall’Homo neanderthalensis. Questa ipotesi, come abbiamo visto, è stata falsificata da Rebecca Cann, Mark Stoneking e Allan Wilson, che hanno dimostrato inequivocabilmente come la nostra origine fosse recente e africana. Tuttavia, i loro esperimenti non sono stati giudicati dirimenti per escludere che i sapiens si fossero incrociati con gli uomini di Neandertal una volta giunti in Europa e quindi che noi e loro non fossimo altro che due sottospecie della stessa specie: Homo sapiens neanderthalensis e Homo sapiens sapiens. L’unico modo per far luce sulla questione era legato all’analisi del DNA di quegli antichi ominini: una possibilità che ormai era presente nel bagaglio tecnico degli antropologi molecolari. La storia del DNA antico (aDNA) ha avuto inizio in Cina nel , quando alcuni studiosi sono riusciti a recuperare dei frammenti di acido nucleico da una mummia di . anni. Successivamente, verso la fine di quel decennio, Erika Hagelberg e Satoshi Horai hanno amplificato con la PCR dei tratti di DNA estratto da ossa antiche e a quel punto si erano coagulate le condizioni per affrontare la domanda antropologica relativa al nostro rapporto genetico con l’uomo di Neandertal. Il DNA di elezione usato nelle analisi sui fossili è quello mitocondriale, perché è semplice da studiare – trasmettendosi per via materna e quindi senza ricombinazione – ed è presente in ogni . DNA ED EVOLUZIONE UMANA cellula in migliaia di copie. E quest’ultima caratteristica è di estrema importanza, in quanto dopo la morte di un individuo e con il passare del tempo il suo DNA tende a degradarsi, cioè a rompersi in piccoli frammenti, ed è evidente allora che se ce ne sono più copie aumenta la probabilità di trovare alcuni tratti sufficientemente lunghi per essere studiati. L’unico svantaggio insito nell’mtDNA, se così si può dire, riguarda il fatto che ci permette di ricostruire l’evoluzione solo lungo la via materna (Rickards, ; Rickards, Martínez Labarga, , ). A partire dalla fine degli anni Novanta dello scorso secolo, Svante Pääbo e poi altri ricercatori hanno studiato alcune sequenze di mtDNA di diversi reperti neandertaliani, compreso quello famoso rinvenuto nella Valle di Neander vicino Düsseldorf nel e che ha dato il nome alla specie. I risultati di tutti gli esperimenti sono stati concordanti e hanno dimostrato che quella forma è estranea alla nostra specie (Biondi, Rickards, ). La variabilità genetica dei neandertaliani, infatti, si posiziona completamente al di fuori di quella dell’umanità moderna. L’ulteriore conferma dell’estraneità dell’uomo di Neandertal rispetto a noi è venuta dagli studi effettuati sui resti dei sapiens antichi, che hanno indicato come non ci sia alcun salto genetico tra loro e noi; mentre la loro differenziazione genetica rispetto ai neandertaliani è della stessa grandezza di quella già segnalata per l’umanità attuale (ibid.; Tarsi et al., ). L’uomo moderno, possiamo concludere, né discende dai neandertaliani né si è incrociato con essi: noi siamo Homo sapiens e loro sono stati Homo neanderthalensis, una specie che si è estinta poco meno di . anni fa senza lasciare prole. I neandertaliani, insomma, sono stati un ramo secco dell’evoluzione. Relativamente alla questione neandertaliana, una notizia davvero interessante è stata riportata sul numero di “Nature” del maggio . Il gruppo di Svante Pääbo, infatti, ha comunicato al convegno su Biology of Genomes, tenutosi presso il Cold Spring Harbor Laboratory di New York, di aver sequenziato circa un milione di coppie di basi del DNA nucleare estratto dal reperto neandertaliano rinvenuto nella Grotta di Vindija, in Croazia. Quello appena compiuto è il primo passo del “Progetto genoma neandertaliano”, che Pääbo ha iniziato nel e che consentirà in un futuro non troppo lontano di poter confrontare i nostri geni con quelli dell’ominino estinto e di far luce così su tempi e modi dell’origine di malattie e tratti anatomo-morfologici peculiari. GIANFRANCO BIONDI, OLGA RICKARDS . Il popolamento del mondo Le indicazioni molecolari sulla migrazione della nostra specie dall’Africa verso gli altri continenti ci portano indietro fino a circa .-. anni fa e individuano nel Corno d’Africa il punto di partenza. La rotta seguita dai nostri antenati in cammino verso l’Oriente è stata tracciata lungo le coste dell’Arabia, dell’Iran, del Pakistan e dell’India, e poi ancora oltre fino alle isole del Pacifico. In Australia e in Nuova Guinea, i primi sapiens sono giunti circa . anni fa, mentre la colonizzazione del Pacifico non va oltre i . anni fa e quella della Nuova Zelanda risale a solo anni fa. Anche la prima colonizzazione dell’Europa è recente, risalendo a circa . anni fa, ma è solo con la fine dell’ultima glaciazione (quella di Würm), e quindi attorno a . anni fa, che la nostra espansione ha raggiunto anche le terre più settentrionali. Di particolare interesse, per l’Europa, è stata la migrazione dal Medio Oriente di popoli neolitici (una fase culturale compresa tra . e . anni fa), che hanno portato nel nostro continente le pratiche agricole. L’ultima grande area geografica ad essere popolata dall’uomo è stata l’America, dove l’Homo sapiens – e prima di lui nessun’altra specie vi era mai giunta – è arrivato dalla Siberia attraverso lo stretto di Bering, verosimilmente lungo una rotta costiera e in un periodo compreso tra . e . anni fa. . Il popolamento antico dell’Italia L’analisi del DNA delle antiche popolazioni italiane ha messo in evidenza una notevole somiglianza tra le sequenze paleolitiche e quelle neolitiche, il che lascia supporre una continuità genetica nei popoli del nostro paese, sostenuta anche dall’analisi scheletrica. Il significato di tale continuità è particolarmente suggestivo, perché dimostrerebbe come nelle prime fasi del processo di neolitizzazione la componente arcaica della popolazione italiana fosse decisamente cospicua se non addirittura intatta: la transizione neolitica, quindi, si sarebbe innestata sulle vecchie tradizioni in modo da cambiare gli aspetti culturali antichi, ma almeno all’inizio non quelli biologici. Inoltre, ulteriori studi condotti su reperti più recenti, che coprono l’arco temporale che va . DNA ED EVOLUZIONE UMANA dal Bronzo antico al Rinascimento, hanno permesso di inquadrare la popolazione italiana nel contesto genetico europeo e mediterraneo. In particolare è risultata notevole l’influenza genetica dei popoli del Mediterraneo orientale e del Medio Oriente sulle genti stanziate nelle regioni meridionali della penisola, in armonia con la descritta continuità dei rapporti culturali e commerciali che si sono instaurati tra le due aree geografiche fin dall’età del Bronzo (Tarsi et al., ). . Le antropomorfe africane nel genere Homo Le varie stime della somiglianza genetica uomo-scimpanzé concordano su valori decisamente elevati, e quella del gruppo di Morris Goodman del ha fissato tale affinità a un valore compreso tra ,% se consideriamo le variazioni sinonime – quelle in cui una base di una tripletta è rimpiazzata da un’altra che però fa riconoscere il medesimo amminoacido – e ,% se invece si considerano quelle non-sinonime – che determinano le sostituzioni amminoacidiche nelle proteine. Tanta “uguaglianza” genetica – confermata pure dal confronto tra il nostro genoma e quello dello scimpanzé, di cui abbiamo attualmente la sequenza completa (The Chimpanzee Sequencing and Analysis Consortium, ) – ha suggerito a Goodman non solo di ridurre lo spazio tassonomico tra l’uomo e l’antropomorfa africana, ma anche di accoglierla nel nostro stesso genere Homo, che così si troverebbe a essere costituito, oltre che dalla specie Homo sapiens, anche da altre due specie: Homo troglodytes, o scimpanzé comune, e Homo paniscus, o scimpanzé pigmeo o bonobo. Il riordino della tassonomia di alcune scimmie antropomorfe, Goodman lo aveva già anticipato in due occasioni nel . Prima al Dual Congress tenutosi in Sud Africa e successivamente sulla rivista “Molecular Phylogenetics and Evolution”, dove aveva asserito: «Pan e Homo sono gruppi fratelli per i quali è stato stimato che l’ultimo antenato comune risalga a milioni di anni fa. Così per il principio dell’equivalenza con altri cladi di primati della stessa età, Pan e Homo dovrebbero essere trattati come sottogeneri di Homo». E la stessa convinzione era stata espressa anche da Jared Diamond nel nel libro Il terzo scimpanzé. Decisamente oltre si è spinta invece Elizabeth Watson, che sempre al Dual Congress aveva suggerito di includere in Homo anche il gorilla. Per la Watson, infatti, nel nostro genere dovreb- GIANFRANCO BIONDI, OLGA RICKARDS bero trovare posto entrambe le antropomorfe africane, con i nomi Homo gorilla per il gorilla e Homo niger per gli scimpanzé. La studiosa ha riunito gli scimpanzé in un’unica specie e non l’ha denominata troglodytes, bensì niger, dato che il primo nome era già stato usato per un orango nel da Christianus Emmanuel Hoppius. Nel rapporto uomo-scimpanzé, il preconcetto ideologico è tradizionalmente prevalso sui risultati scientifici, e ciò per almeno quattro secoli, dato che già nel Seicento era evidente quanto fosse straordinaria la somiglianza organica dell’antropomorfa africana con noi. Eppure, per riuscire a inserire con successo la relazione biologica tra l’uomo e lo scimpanzé nella giusta collocazione naturalistica è stato necessario attendere la fine del Ventesimo secolo, e Morris Goodman. E si può notare come tale relazione ricalchi quella suggerita da Carlo Linneo nel Settecento. Infatti, per il padre della biologia moderna, come risulta da una lettera indirizzata nel a Johann Georg Gmelin, l’uomo avrebbe potuto essere chiamato scimmia o, al contrario, la scimmia avrebbe potuto essere chiamata uomo, ma lui non ha ritenuto saggio giungere a tanto e nel suo Systema Naturae del si è limitato, si fa per dire, a inserire tutti nello stesso ordine. Una prudenza non eccessiva, quella di Linneo, se si pensa che in quell’epoca il potere degli ecclesiastici era immenso, e immensa era anche la loro fascinazione per il fuoco. Tuttavia, oltre alla nostra, Linneo si è preso la libertà di inserire nel genere Homo anche un’altra ben strana specie: l’Homo nocturnus, che altri non era se non l’orango. Una volta che allo scimpanzé – e forse anche al gorilla – sarà riconosciuta la propria dimora nel genere Homo sarà giocoforza cambiare nome a tutta la prima parte della serie dei nostri antenati. La successione fossile della sottofamiglia degli ominini entrerà al completo in Homo e tutte le forme che attualmente compongono il cespuglio della nostra evoluzione e che sono estranee a quel genere – e che ora costituiscono i generi Orrorin, Ardipithecus, Kenyanthropus, Australopithecus e Paranthropus – si ridurranno al rango tassonomico di semplici specie. Di seguito si riporta la tassonomia classica della sottofamiglia degli ominini (in parentesi l’eta della specie e la nuova denominazione). – Genere Orrorin: Orrorin tugenensis ( ma, Homo tugenensis); – genere Ardipithecus: Ardipithecus kadabba (, ma, Homo kadabba), Ardipithecus ramidus (, ma, Homo ramidus); . DNA ED EVOLUZIONE UMANA . Albero filogenetico degli ominini (in milioni di anni) FIGURA H. sapiens H. cepranensis A. bahrellghazali K. platyops Ar. kadabba Ar. ramidus A. afarensis H. habilis A. garhi H. rudolfensis H. georgicus O. tugenensis H. neanderthalensis H. antecessor H. heidelbergensis H. ergaster A. anamensis H. floresiensis H. erectus A. africanus P. boisei P. aethiopicus P. robustus – genere Australopithecus: Australopithecus anamensis (-, ma, Homo anamensis), Australopithecus afarensis (- ma, Homo afarensis), Australopithecus africanus (-, ma, Homo africanus), Australopithecus bahrelghazali (,- ma, Homo bahrelghazali), Australopithecus garhi (, ma, Homo garhi); – genere Kenyanthropus: Kenyanthropus platyops (, ma, Homo platyops); – genere Paranthropus: Paranthropus aethiopicus (, ma, Homo aethiopicus), Paranthropus boisei (,-, ma, Homo boisei), Paranthropus robustus (- ma, Homo robustus); – genere Homo: Homo rudolfensis (,-, ma), Homo habilis (,-, ma), Homo ergaster (,-, ma), Homo georgicus (, ma), Homo erectus (,-, ma), Homo floresiensis (. anni), Homo antecessor (. anni), Homo cepranensis (. anni), Homo heidelbergensis (.-. anni), Homo neanderthalensis (.-. anni), Homo sapiens (da . anni). Bibliografia ., . (), A Glimpse of Humans’ First Journey out of Africa, in “Science”, , pp. -. ., ., ., . (), In carne e ossa. DNA, cibo e culture dell’uomo preistorico, Laterza, Roma-Bari. ., . (), I sentieri dell’evoluzione, Cuen, Napoli. GIANFRANCO BIONDI, OLGA RICKARDS . (), Uomini per caso, Editori Riuniti, Roma. . (), Il codice darwin, Codice, Torino. . ., ., . . (), Mitochondrial DNA and Human Evolution, in “Nature”, , pp. -. ., . (), Early Homo Erectus Tools in China, in “Archaeology”, , pp. -. . (), Neanderthal DNA Yields to Genome Foray, in “Nature”, , pp. -. . (), The Third Chimpanzee. The Evolution and Future of the Human Animal, Harper Perennial (trad. it. Il terzo scimpanzé, Bollati Boringhieri, Torino ). . (), Epilogue. A Personal Account of the Origins of a New Paradigm, in “Molecular Phylogenetics and Evolution”, , pp. -. . et al. (), Toward a Phylogenetic Classification of Primates Based on DNA Evidence Complemented by Fossil Evidence, in “Molecular Phylogenetics and Evolution”, , pp. -. . . (), Explaining Modern Man: Evolutionists vs Migrationists, in “Journal of Human Evolution”, , pp. -. . ., . (), Multiple Dispersals and Modern Human Origins, in “Evolutionary Anthropology”, , pp. -. . (), La naissance de l’anthropologie moléculaire, in “La Recherche”, XXII, , pp. -. . et al. (), Genetic Evidence for Complex Speciation of Humans and Chimpanzees, in “Nature”, , pp. -. . (), Il DNA mitocondriale nello studio delle popolazioni antiche, in F. Rollo (a cura di), Il DNA nello studio dei resti umani antichi: principi, metodi, applicazioni, Medical Books, Palermo, pp. -. ., . (), Il DNA antico nella ricerca antropologica, in “Rivista di Scienze Preistoriche”, XLIX, pp. -. . (), Il DNA antico racconta, in G. Castellana (a cura di), La Sicilia nel II millennio a.C., Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta, pp. -. . ., . (), Genetics and Fossils Evidence for the Origin of the Modern Humans, in “Science”, , pp. -. . et al. (), Ricostruzione della storia genetica per via materna delle comunità paleolitiche dei Balzi Rossi, delle Arene Candide e del Romito, e di quelle neolitiche ed eneolitiche di Samari e di Fontenoce di Recanati, in F. Martini (a cura di), La cultura del morire, Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze, pp. -. (), Initial Sequence of the Chimpanzee Genome and Comparison with the Human Genome, in “Nature”, , pp. -. . ., . . (), Regional Continuity in Australian Pleistocene Hominid Evolution, in “American Journal of Physical Anthropology”, , pp. -. . DNA ED EVOLUZIONE UMANA . (), Un’evoluzione multiregionale, in “Le Scienze”, , pp. -. . et al. (), African Populations and the Evolution of Human Mitochondrial DNA, in “Science”, , pp. -. . . (ed.) (), Classification and Human Evolution, Methuen & Co. Limited, London (I ed. nella serie Viking Fund Publications in Anthropology, , Wenner-Gren Foundation for Anthropological Research, New York ). . (), Apes, Giants, and Man, University of Chicago Press, Chicago. . ., ., ., . ., . (), The Role of Natural Selection in Shaping ,% Identity between Humans and Chimpanzees at non-Synonymous DNA Sites: Implications for Enlarging the Genus Homo, in “Proceedings of the National Academy of Sciences”, , pp. -. . . (), Multiregional Evolution. The Fossil Alternative to Eden, in P. Mellars, C. B. Stringer (eds.), The Human Revolution: Behavioural and Biological Perspectives on the Origins of Modern Humans, Edinburgh University Press, Edinburgh, pp. -. Lettere degli antenati. Antropologia, genealogia, genetica di Pier Giorgio Solinas . Re e radici Qualche tempo fa, sulle pagine della rivista elettronica di “National Geographic”, è apparsa la notizia d’una scoperta, fatta da un gruppo di biologi del Trinity College di Dublino, ripresa dalla rivista statunitense di genetica “American Journal of Human Genetics”, la più importante, credo, in questo campo. La scoperta era annunciata con un titolo suggestivo: Millions of Men May Be Descended From Irish King. Milioni di uomini potrebbero essere discendenti d’un antico re irlandese, un re leggendario che sarebbe vissuto . anni fa, che avrebbe fondato una dinastia e nello stesso tempo popolato con la sua progenie il paese. Questo re antenato – si chiamava Niall – è considerato un po’ come l’eroe fondatore della nazione; fu capace di opporsi ostinatamente e abilmente ai conquistatori romani, e riuscì a mettere le basi di uno Stato irlandese, se non di una specie di impero. Non tutti gli storici sono convinti che alla leggenda corrispondano dei fatti veri, così come l’epopea li tramanda, anzi, sembra che alcuni dubitino perfino che questo re sia davvero esistito. I biologi del Trinity College, al contrario, ne sono persuasi. Anzi, pensano di averne dimostrato la verità storica frugando nell’archivio biologico ch’egli avrebbe lasciato dietro di sé: l’eredità genetica trasmessa generazione dopo generazione nei cromosomi dei suoi dodici figli (così dice la leggenda: Niall non solo era un conquistatore, era un vigoroso fecondatore), e poi ai nipoti, ai pronipoti, lungo quindici secoli, vale a dire, più o meno, cinquanta o sessanta generazioni (Moore et al., ). La quantità di persone che oggi risulterebbero discendenti da questo straordinario progenitore è spettacolare, qualcosa come due o tre milioni di individui, una parte consistente dell’intera popolazione irlandese. PIER GIORGIO SOLINAS Un altro re, anzi un imperatore, Gengis Khan, è stato chiamato in causa come prolifico generatore di numerosa stirpe, su una scala molto maggiore. Anche in questo caso, le prove della discendenza di milioni di uomini dall’antenato-sovrano sono principalmente biologiche, nient’altro che i messaggi genetici trasmessi attraverso un’immensa genealogia che si propaga, dal capostipite imperiale, vissuto nel XIII secolo, fino alla sua “progenie” attuale (Zerjal et al., ). Non diversamente da quel che accade nel caso dell’“egemonia gaelica”, anche qui il lignaggio diventa popolo, benché su una scala geografica e demografica molto maggiore. La durata, in termini di generazioni e di anni non è molto diversa (sette o otto secoli), ma lo spazio appare enormemente dilatato rispetto al caso irlandese. Un intero continente: qualcosa come diecimila chilometri di larghezza e altrettanti di lunghezza, definiscono il teatro biologico e demografico d’una storia genetica d’ampiezza inusitata. In questo teatro, in effetti, il grande e il piccolo si congiungono. Ogni singolo individuo custodisce in ognuna delle sue cellule, l’eredità dei caratteri trasmessa lungo i secoli; una specie di storia incarnata nella singola persona. Al tempo stesso, è la storia che congiunge in una specie di parentela invisibile, ma profonda, milioni di uomini. Non importa che siano o appaiano etnicamente differenti: azeri, uzbeki, han (l’etnia oggi prevalente in Cina), oppure coreani, o anche giapponesi. Quel che la traccia biogenetica assicura è che tutti condividono dei tratti distintivi, che tutti incarnano in qualche modo l’identità-archetipo del lontano progenitore, fondatore di imperi e generatore di popoli. Discuteremo fra poco come e fino a che punto i biologi molecolari accertano questo tipo di discendenza condivisa e, soprattutto, quale sia il vero significato che le si può attribuire. Prima, però, è il caso di fare qualche altro esempio, stavolta su terreni meno empirici, diciamo simbolici. Faremo una digressione, molto indietro nel tempo, un tempo, per dir così, “delle origini”. Il più avo di tutti, il più sacro e il più ricco di progenie, evidentemente, è Adamo. Simbolo mitico della fecondità fondatrice, riflesso del potere creatore, Adamo incarna la figura del progenitore primario, il padre comune al quale, risalendo passo passo nella catena degli ascendenti, alla fine tutte le genealogie si ricongiungono. Libera da impegni di fede o da vincoli creazionisti, anche la scienza finisce per imbattersi in questo personaggio, magari sotto mentite spoglie. La trasfigurazione più importante è . L E T T E R E D E G L I A N T E N AT I . A N T R O P O L O G I A , G E N E A L O G I A , G E N E T I C A quella che ricorre, negli studi di biologia evolutiva, nell’acronimo di MRCA (most recent common ancestor, l’antenato comune più recente). Naturalmente, al posto di Adamo c’è semplicemente un vertice di coalescenza, una figura del tutto ipotetica (più spesso c’è una “Eva”, o qualcosa del genere). In ogni caso, un nome convenzionale che si usa per evocare, appunto, la figura d’un fondatore superinclusivo, il progenitore di tutti i progenitori. Il paradosso di Adamo, o del suo corrispondente scientifico, consiste nel possedere al tempo stesso la qualità di “primo”, ossia più lontano, e ultimo, ossia più recente: è il più lontano fra i most recent antenati del genere umano. D’altra parte, la sua peculiare natura di progenitore necessario, di nodo genealogico che la stessa catena generativa porta alla luce quando si percorre nella sua interezza, fa sì ch’egli sia, per dir così, unico e plurimo. Scendendo nella ramificazione di gruppi e sottogruppi, i fondatori di sottoprogeniture si moltiplicano, replicano la missione del primo. Padri, generatori e virtuali antenati aspirano a una sorta di dominio nella genealogia dell’intero genere umano. Una fertilità patriarcale che ha la virtù di propagarsi, ignorando, se non censurando, la fecondità materna. Un’iconografia ingenua, non meno che enigmatica, accompagna questi motivi nel corso dei secoli, nutrendosi di simbologie bibliche, cristiane, di allegorie vegetali e di metafore corporee (“tronco”, “radici”, “rami”, ma anche “testa”, “braccia”). Nella FIG. . è riprodotta una delle tante immagini (un’incisione in un libro di preghiere del Trecento) del motivo della verga di Jesse, o Albero di Jesse. In questa versione è raffigurato l’albero genealogico di Davide, da cui nasce Maria, madre di Gesù, a partire da un antenato lontano, Jesse, appunto, che compare qui come un gran vecchio adagiato alla base del grande albero della sua discendenza. Ciò che vorrei far notare qui non è tanto l’espansione della discendenza – che, anzi, viene contenuta entro la logica selettiva d’una stirpe ristretta: è una sorta di dinastia – quanto l’immagine, direi quasi un concetto reso materiale, fisicamente consistente, di corpo che diventa albero, di capostipite che si fa progenie. Come si vede, il tronco della stirpe è una propaggine del corpo del fondatore, verrebbe quasi da dire che, radicato com’è nell’inguine, o nei lombi, dell’avo, raffigurato in posizione semisdraiata, alla stregua d’un soggetto di natività, voglia suggerire l’idea d’una generazione perenne, da seme maschile, PIER GIORGIO SOLINAS . L’Albero di Jesse, da un libro d’ore del sec. XIV, Ed. R. , Bibl. Riccardiana, Firenze FIGURA lungo una catena di successori in cui il progenitore si perpetua moltiplicando le sue filiazioni consecutive. Se vi fossero dubbi sul significato, diciamo, viscerale del concetto di continuità riproduttiva tra il corpo del fondatore e la sua emanazione vitale nell’albero dei discendenti si potranno consultare innumerevoli altre raffigurazioni, in cui, con minori ambiguità, ciò che fu denominato virga Iesse, che si fa tronco e poi si ramifica, affonda le sue radici, semplicemente, nell’inguine della figura ancestrale primaria . Lo schema iconografico non riguarda solo le genealogie propriamente intese. Christiane Klapisch-Zuber, nel suo L’ombre des ancêtres (Klapisch-Zuber, ), riproduce la figura dell’Albero domenicano (Bale o Strasburgo) del , nel quale il corpo disteso del fondatore (san Domenico) figura come sorgente d’una estesa discendenza spirituale. Dalla veste aperta sull’addome sorge il tronco che si dirama nei molti rami secondari dell’ordine religioso. L’autrice riconduce questa imagine al motivo della virga Iesse, una reminiscenza ripresa dalla tradizione biblica e trasformata in raffigurazione ricorrente: il germoglio vegetale dal corpo del capostipite. . L E T T E R E D E G L I A N T E N AT I . A N T R O P O L O G I A , G E N E A L O G I A , G E N E T I C A (cfr. in Manna, , una quantità di esempi, fino a quello, per noi forse più leggibile, del dipinto di Matteo da Gualdo del , nel quale l’antenato sdraiato è Adamo e l’albero si erge letteralmente dal sesso). Che cosa si ricava da questo simbolo di identità corporea alberoprogenitore? Innanzi tutto, ripeto, il fatto che la vita acquista, per opera della metafora vegetale, il carattere d’una permanenza, sempre presente e, in un certo senso, senza morte. I fondatori e i successori fanno parte dello stesso albero, un albero che vive dalle radici alle foglie. Quest’albero è sì una mappa del tempo, nel senso che i successori e i predecessori sono messi in fila, secondo un ordine coerente di precedenza, ma è anche la carta sinottica d’uno svolgimento che mantiene i padri e i figli in una specie di eterna simultaneità o, quanto meno, di coevità. In secondo luogo, la generazione unilineare, se non unisessuata. Le espressioni che ho usato finora, “fertilità patriarcale”, “capostipite che si fa progenie”, possono aiutare solo a introdurre, imperfettamente, un motivo simbolico e insieme formale, sul quale dovremo concentrare un po’ la nostra attenzione. Di che si tratta? Dire che l’albero mitico censura la discendenza in linea femminile può essere un modo per rappresentare la questione: non ci sono madri, non c’è Eva e non vi sono neppure le madri intermedie. Ma, fino a che punto? Si può immaginare sul serio che, dietro queste immagini, ci sia una concezione della discendenza che cancella la maternità? Che si pensasse la storia del genere umano come un’arborescenza in cui gli uomini nascono da uomini? Basti, per ora, porre la questione: è già molto. Sarebbe difficile dimostrare che, sì, in fin dei conti gli uomini del Medioevo pensavano che quella che contava fosse la paternità (che fosse il padre a portare l’identità, la vera forma del figlio) o, magari, che pur sapendo benissimo come stavano le cose cercavano semplicemente di appropriarsi “ideologicamente” del potere di progenitura, oscurando il ruolo della fecondità femminile. . D’altra parte, quella della maternità non è la sola censura che il paradigma virga Iesse si porta dietro. Di fatto, tacitamente, scarta anche tutte le paternità concorrenti che, di norma, compongono un ordinario albero di ascendenza. I discendenti di ogni piccolo o grande Adamo che s’incontra nelle genealogie della tradizione occidentale tracciano catene di successione a un solo posto, che non lascia spazio alle altre linee: dei quattro bisnonni che, di norma, dovrebbero essere annoverati (FFF, FMF, MFF, MMF) tre vengono omessi. La selezione, a questo livello, sacrifica i tre quarti delle linee ancestrali convergenti. PIER GIORGIO SOLINAS Quel che più ci interessa è il fatto che, in definitiva, non solo sia stato possibile costruire un’immagine selettiva della parentela, coerente ed efficiente, ma che questa abbia potuto conservarsi fino a oggi come paradigma dominante nella coscienza genealogica comune. . Parentele elettroniche, comunità biologiche Facciamo di nuovo un gran salto, di nuovo ai nostri giorni. Lasciamo le origini e il Medio Evo e veniamo alle pratiche della parentela moderna, anzi, ultramoderna: la parentela elettronica, le genealogie in rete e i siti web di famiglie e di cognome. È uno degli hobby più popolari del nostro tempo: storie di famiglia in formato elettronico, reti informatizzate che restituiscono network estesissimi di consanguineità sconosciute, frutto di pazienti lavori d’archivio e di scambi d’informazioni fra gruppi, a distanza. La novità più recente è che ormai tutto questo si abbina a meticolosi programmi di test genetici: la parentela elettronica si corrobora con un metodico lavoro di screening sul DNA di famiglia. Per capire un po’ meglio di che cosa si tratta è bene cominciare con qualche esempio. L’esempio che sceglierò (Parker Family DNA Project. Descendents of Robert Parker) è solo uno fra i tanti, centinaia o migliaia, che affollano oggi il paesaggio della passione genealogica, soprattutto nel Nord America, in Gran Bretagna e in Europa in genere. Il progetto Parker, come tutti quelli che sono compresi nell’archivio Family Tree (Solinas, ), consiste nel determinare l’identità genetica della famiglia e stabilirne l’estensione. In sostanza, si tratta di affiancare alla carta genealogica una carta genetica: estrarre il testo del DNA Parker nelle sue estensioni di lignaggio e nelle sue ramificazioni di sublignaggi. Anche qui c’è un Adamo, un piccolo Adamo ancestrale che è al tempo stesso il punto zero della sequenza (l’elenco sommario dei discendenti, ordinati lungo una scala di nove generazioni, viene fornito in una pagina introduttiva del sito web) e l’archetipo dell’identità condivisa. Anche qui la discendenza ammessa è esclusivamente maschile: i campioni genetici inclusi nell’archivio provengono necessariamente da donatori Parker maschi. L’antenato alfa ha un nome, è noto. Si chiama Robert Parker, nato intorno al in Inghilterra, a Plymouth. Padre di sei figli, fondatore della vasta progenie che si propaga in terra . L E T T E R E D E G L I A N T E N AT I . A N T R O P O L O G I A , G E N E A L O G I A , G E N E T I C A d’emigrazione lungo i tre secoli della storia americana, il Parker numero uno (PO ) figura fin dalle prime battute del progetto come la fonte d’una comune appartenenza biologica. Ognuno dei discendenti maschi custodisce nella propria persona la memoria biomolecolare dell’antenato, anzi, in qualche modo è la replica. I curatori del programma lo specificano espressamente: «Ogni maschio con cognome Parker, in questo diagramma ha un cromosoma Y che è la copia del cromosoma Y di Robert Parker. Questo passaggio di codice genetico da padre a figlio è la chiave dell’uso del DNA Y per la ricerca genealogica. Qualunque individuo maschio di cognome Parker, in questa carta, avrà un DNA coincidente con il campione PO ». A proposito del cromosoma Y bisogna subito specificare due cose, due elementi cruciali nella storia, e ancor più nell’antropologia che stiamo cercando di illuminare. Il cromosoma Y, come si sa, è, insieme a quello X, il cromosoma responsabile della determinazione biologica del sesso d’ogni individuo. È il ° nel genoma umano, si trasmette solo in linea maschile: per eccellenza è l’unico elemento dell’eredità genetica a trasmissione patrilineare. Come il cognome, che appunto passa da padre a figlio, a nipote e pronipote maschi, questa parte del DNA umano si presta più di ogni altra a identificare dei lignaggi, su lunghe durate, su catene di decine di generazioni. È una parte alquanto irregolare dell’architettura genomica, qualcosa che sta fra l’inutile, il marginale e il deviante. Il cromosoma Y, in effetti, pare che serva a poco: «un minuscolo e pressoché inattivo mozzicone di ripensamento genetico», dice Matt Ridley (). Una parte di scrittura del DNA che non codifica, se ne sta per conto suo e non si ricombina. In un saggio molto citato oggi (Jobling, Tyler-Smith, ), un testo che si occupa proprio dell’importanza che questo minuscolo mozzicone genetico riveste come marcatore evolutivo, il cromosoma Y viene paragonato spiritosamente a una specie di delinquente giovanile: pieno di cianfrusaglie, povero di qualcosa di utile, riluttante a socializzare con il prossimo, e con un’irrimediabile tendenza a degenerare. Proprio perché non-ricombinante, proprio perché sex-specifico (a trasmissione maschile), il polimorfismo dei marcatori nella sequenza nucleotidica del cromosoma Y si presta come nessun altro a differenziare linee multigenerazionali di identità. Le mutazioni che si producono in un qualunque anello della catena generativa si trasmettono alla generazione successiva, poi a quelle seguenti, così da caratterizzare con precisione la linea – l’aplotipo – i cui membri ereditano PIER GIORGIO SOLINAS quella mutazione. Ovviamente, quanto più numerosi saranno i marcatori prescelti per testare l’appartenenza o meno di un certo individuo al gruppo aplotipico, tanto più alto risulterà il grado di definizione dell’identità genetica di gruppo. In parole più semplici, l’insieme dei contrassegni genetici adoperati per verificare la presenza o l’assenza di un certo complesso di caratteri distintivi, fornirà la base misurabile dell’identità, una specie di denominatore biomolecolare che dovrebbe coincidere con il campo del cognome: il contrassegno genetico del lignaggio. Torniamo ora ai nostri Parker, il caso da “grande fratello”, la famiglia in vetrina che spiamo nel suo lavoro di ricostruzione della comune identità genealogico-genetica. Ora la vetrina sembra illuminarsi più nitidamente, e forse più drammaticamente. Quel che i promotori del progetto-cognome stanno facendo è un gioco, forse. Forse un gran gioco di società che produce sempre nuovi partner: riconoscersi, ampliare la conoscenza verso parentele ignorate (quanti altri Parker ignoti non potrebbero contenere affinità biogenetiche che rivelerebbero una parentela fino a quel punto sconosciuta?). O forse è una cosa ancora più seria, ossia provare a mettere a disposizione un pezzo del proprio sé (alla fin dei conti, un campione biologico consegnato al laboratorio per essere sequenziato) in modo tale che se ne possano estrarre, scientificamente, i caratteri d’una identità profonda: la più profonda, la più vera delle identità? In effetti, questa specie di gioco è tutt’altro che un passatempo. C’è un responsabile, che spesso fa anche da presidente d’una parallela associazione di famiglia, e che persegue per anni la sua paziente raccolta di campioni da immettere nella banca dati dell’aplotipo-cognome. La compagnia di riferimento somministra un formulario per la raccolta dei campioni e comunica le regole da seguire; prima fra tutte, la selezione per sesso: il database non conterrà che campioni Y, cioè maschili. Il successo del progetto dipende ovviamente dalla ricchezza dei dati: dalla completezza dei marcatori, dall’ampiezza del . I test su campioni del DNA mitocondriale, che si trasmette esclusivamente in linea femminile, sono possibili e praticati (le agenzie e i laboratori offrono nel loro campionario di servizi anche questi). Ma il tipo di dati, e soprattutto di classificazioni, è del tutto differente: i “matriclan” o i “lignaggi” matrilineari che si delineano, sprovvisti di cognome, definiscono più che delle genealogie al femminile, dei grandi gruppi demografici, su scale temporali molto maggiori. . L E T T E R E D E G L I A N T E N AT I . A N T R O P O L O G I A , G E N E A L O G I A , G E N E T I C A campione e dal grado di precisione dei test. Man mano che il numero dei record aumenta, che i dati vengono interpretati e che le tabelle dei risultati vengono riunite, il mosaico si definisce con finezza di dettagli. Al momento, per esempio – gennaio –, i Parker partecipanti al progetto, ossia uomini di cognome Parker che aderiscono al programma di test, che quindi hanno inviato i loro campioni (un modesto prelievo fatto con uno spazzolino all’interno della bocca, costo: dollari per marcatori, per marcatori, per ) sono più di ottanta ( adesioni, campioni ricevuti, analizzati). I risultati vengono pubblicati regolarmente via via che il laboratorio li emette, così che, possiamo dire, la tabella dei profili, individuo per individuo, ciascuno corredato della stringa completa dei suoi o DYS – diciamo, per brevità, un po’ grossolanamente, loci – risulta consultabile nella sua estensione. In sostanza, la banca dati del cognome-lignaggio Parker consiste in un tabulato di una settantina di record (ogni record è un individuo, un donatore) per i o marcatori previsti dal protocollo del progetto. Chi si aspettasse rivelazioni dai risultati di laboratorio e, ancor più, dalla loro raccolta in uno schedario comparativo, resterebbe deluso. La serie dei valori che gli utenti si ritrovano tra le mani non parla di alcun “carattere” ereditario riconoscibile. Dice semplicemente quante volte si ripete in un certo locus una certa sequenza basica, alla quale, il più delle volte, gli analisti del laboratorio non associano alcun tratto fisico identificabile. A che serve, allora? E perché gli attori principali, le persone cui quelle cellule-campione appartengono, ci si appassionano tanto? È una domanda che mi sono posto molte volte, e non posso dire di aver trovato una risposta. Non credo che i motivi dichiarati (nei programmi e nei commenti che accompagnano i risultati) bastino a illuminarci. Nondimeno, seguendo più attentamente le forme di costruzione del discorso biogenealogico qualche elemento interessante può venire in chiaro. . Alla ricerca di congiunzioni Sappiamo già una cosa, di non poco conto. Sappiamo che gli attori conoscono già una certa versione del copione nel quale sono chiamati a recitare: la genealogia scritta o ricostruita dagli archivi. Hanno nomi, PIER GIORGIO SOLINAS date, filiazioni, rami, segmenti e generazioni. Tutto questo si ritrova, almeno nel progetto “cognome Parker”, nero su bianco, alla portata di tutti i partecipanti. Il capostipite è vissuto quattro secoli fa, ha avuto due mogli, sei figli, di cui si conoscono i nomi. Tre di loro hanno dato origine a loro volta a linee di filiazione secondaria e poi, alle generazioni successive, ad altre linee. In tutto, si contano un centinaio di discendenti portatori di cognome, distribuiti su nove generazioni. Che cosa c’è da scoprire di più? I propositi, tutto sommato piuttosto modesti, che i programmicognome dichiarano nelle loro premesse, non dicono abbastanza: verificare quanto risulti confermata una certa ascendenza, ricordata o presunta, cercare di capire se le varianti dei cognomi (poniamo, Parkeer, Parkar, Palkar) possono essere collegate al cognome focale ecc. Un po’ di malizia investigativa potrà servire ad andar oltre la prudenza di facciata (una prudenza “scientifica” che gli utenti apprendono dalla sobrietà delle agenzie di supporto per i database e per i test). . In realtà, le cose sono un po’ meno semplici. Qui, nel caso Parker come in molti altri, più che di una genealogia si deve parlare di una serie o di un grappolo di genealogie. Attraverso le adesioni raccolte per cognome, i partecipanti, non necessariamente imparentati fra loro, da diverse parti del paese, o da fuori, portano, oltre che il loro campione d’identità genetica, la loro memoria di pedigree: alberi costruiti per fonti scritte, ricostruzioni, liste o diagrammi che si presentano come altrettante linee, virtualmente indipendenti. Il protocollo di registrazione, e quindi l’agenzia che organizza tutto questo convergere di progetti cognome, Family Tree DNA, tratta ciascuna di queste singole raccolte come linee, o lignaggi in partenza distinti, e dunque indipendenti. Nel nostro esempio vi sono una decina di “lignaggi” di questa fatta, tutti (parliamo di nuovo di genealogie scritte) intestati a un antenato-cespite. Altra cosa risulta essere la classificazione genotipica. Di norma, questa si basa unicamente sulla distanza genetica: maggiore il numero di discordanze nei DYS o nei STR, maggiore la distanza; minore il numero di sostituzioni, maggiore la probabilità che i soggetti appartengano effettivamente a una discendenza comune (ossia, a un lignaggio). I Parker trattano queste classi di somiglianza come “gruppi”. Se vi sono concordanze molto ricorrenti, il profilo condiviso viene considerato come aplotipo modale del gruppo (una sorta di anticamera al riconoscimento come lignaggio) e, quando sia possibile, collegato alla linea ancestrale identificata per record scritti nell’altra via. . Tra le numerose agenzie e società che gestiscono questi servizi, quelle più importanti Family Tree DNA, Oxford Ancestors, Ybase: Genealogy by Numbers, DNA Heritage (con mappa interattiva per aplogruppi e albero filogenetico, globale), Geneanet, sono collegate con laboratori di genetica, universitari o no, presso i quali vengono eseguiti i test. La Chiesa dei mormoni (Church of Jesus Christ of Latter-Day Saints), nella storica sede di Salt Lake City, con il suo immenso archivio genealogico informatizzato e il suo complesso di servizi della Sorenson Molecular Genealogic Foundation, rappresenta tuttora l’istituzione più potente. Si possono già leggere articoli e interventi sul fenomeno montante: ad esempio Shriver, Kittles () e, più antropologico, Nash (). . L E T T E R E D E G L I A N T E N AT I . A N T R O P O L O G I A , G E N E A L O G I A , G E N E T I C A Innanzi tutto, il vocabolario. Formule esplicite, come “aplotipo di famiglia” o “core haplotype” d’un cognome (fin dal programma pioniere condotto da Bryan Sykes, che giunse, una decina d’anni fa, a rilevare l’aplotipo Sykes, “Sykes core haplotype”), sono d’uso comune. Espressioni ancora più ad effetto, come “firma genetica” o “impronta digitale genetica”, suggeriscono una connessione diretta fra cognome e codice biomolecolare. Più misurate, le definizioni come “tipo modale” o “tipo ancestrale” (di lignaggio) o, ancor più discretamente, “aplotipo centrale” si limitano a indicare modelli di frequenza statistica saliente, tale da autorizzare una correlazione significativa tra portatori e collezione di tratti. Il senso indiretto di questi messaggi, in ogni caso, è quello d’una speranza, o di un’attesa: che alla fine del percorso venga fuori una specie di autenticazione biologica, la scoperta di legami dimenticati e di convergenze iscritte nel testo biochimico più intimo della propria identità corporea. L’archetipo, il modello allelico che prende forma intorno a criteri di maggiore convergenza (e tipicità) è un ideale pazientemente perseguito. Riuscire a raccogliere in una rete di stretta vicinanza biologica gli indici di convergenza fra individui donatori significa dare alla confluenza in un comune antenato un’evidenza molto più forte di quella che può dare la semplice traccia anagrafica. Le prove sono a portata di mano; sono nelle nostre cellule, nei loro recessi fondamentali: i prodotti viventi della storia genealogica ne sono i documenti attivi e attuali. L’immagine stessa dell’albero, o di quello che un tempo era l’albero, muta sensibilmente: la FIG. . visualizza il network di distanza genetica fra i membri d’un certo gruppo di soggetti portatori di cognome. Qui il cognome è Graves (con qualche variante: Greaves ed altri). Il campione è piuttosto numeroso: oltre duecento record al novembre , ramificati in una quantità di siti, negli Stati Uniti, in Canada, in Inghilterra, in Germania. Come si vede, il grafico non raffigura un vero e proprio albero di discendenza, ma una mappa reticolare di maggiore o minore distanza genetica. In sostanza, i cerchi rappresentano, in proporzione alla maggiore o minore grandezza, la frequenza d’un certo insieme di marcatori condivisi (ad esempio il pallino n. . è portatore d’un tipo più frequente), mentre la lunghezza delle linee che connettono i nodi indica il numero di mutazioni che differenziano l’uno dall’altro. Non si tratta qui di rintracciare i legami parentali, anello per anello, lungo la PIER GIORGIO SOLINAS . Network filogenetico dei Graves, elaborato con il software Phylogenetic Network Analysis, accessibile in rete (http://www.fluxus-engineering.com) FIGURA catena figlio, padre, nonno ecc. La catena parentale, nei suoi dettagli, resta in ombra. Nondimeno, la rete di connessione genotipica autorizza a ipotizzare la confluenza, o meglio la coalescenza, a una certa profondità storica, in un capostipite. Che si tratti del più recente antenato comune (diciamo PRAC, traducendo l’acronimo inglese MRCA), o di quello più lontano (molto più raramente: un antenato lontano fonde, o confonde, i diversi lignaggi), intorno alla figura del progenitorefondatore prende forma quella sorta di formula della distinzione di lignaggio: una specie di araldica aplotipica. . Tuttavia, la banca dati del sito e il prospetto d’insieme dei risultati dei test (www.gravesfa.org/DNA_test_results.html) consentono in questo caso di raggiungere, con una connessione diretta, le carte genealogiche (una colonna di antenati, codificati in sigla, su cui si può cliccare per aprire la pagina relativa a questo o quel donatore-record). Un sito molto ben organizzato dal punto di vista informatico: la banca dati delle genealogie per mappa e carte è puntualmente collegata a quella dei record aplotipi. . L E T T E R E D E G L I A N T E N AT I . A N T R O P O L O G I A , G E N E A L O G I A , G E N E T I C A L’antenato eponimo, si comprende bene, deve essere in questo senso scoperto, o riscoperto. Il suo profilo storico, attestato per via di deboli informazioni tramandate nella memoria d’archivio, potrà essere sostanziato di evidenze fisiche incontrovertibili. Sta a noi portarlo alla luce, e riscattare così dall’incertezza l’identità del suo titolare. Sembra una specie di evocazione dall’aldilà, ma c’è ben poco di magico in questa evocazione. I genea-genetisti, in effetti, non lavorano sul passato: non vanno a riesumare le ossa dei progenitori per ottenere campioni di DNA da sequenziare, e neppure si interessano di segni indiretti, magari di analogie o contaminazioni fra reperti. I loro reperti sono vivi, e le parentele che essi sperano di scoprire riguardano individui tra loro coevi e presenti. Certo, il bello dell’impresa consiste anche nel trovare delle datazioni probabili: quante generazioni fa dovrebbe esser vissuto il progenitore ignoto da cui proviene quel particolare tratto distintivo che condividiamo? La distanza fra i discendenti attuali e il nodo di coalescenza, in effetti, si può calcolare in base a criteri interni alle regole biologiche di frequenza delle mutazioni. Ma il valore della scoperta, ripeto, riguarda i vivi. È un po’ come potenziare le relazioni attuali attribuendo loro una durata, un capitale di profondità storica. Quando i Graves di Baltimora e i Greaves di Minneapolis, che fino ad ora non si conoscevano neppure, scoprono attraverso la banca dati che i loro DNA condividono un tratto ancestrale che rende plausibile la loro comune discendenza da un lontano antenato sconosciuto, quel che prende forma non è solo un vago sentimento di cuginanza (“to’, siamo parenti!”). C’è qualche cosa di più o, almeno, qualche cosa di diverso. Una lignaggio elettronico, e genomico, acquista consistenza, una specie di creazione computazionale o biochimica che, curiosamente, veste i panni arcaici d’una nomenclatura tribale: “lignaggi”, appunto, o magari “clan”, se non addirittura “patrilignaggi”. Non di rado l’antenato fondatore, colonizzatore e capo di stirpe, diventa simbolo e nome di associazioni che promuovono la sua parentela postuma. L’associazione dei discendenti di Edmund Rice (), per esempio, inalbera proprio il nome del primo progenitore . Edmund Rice, si dà notizia nelle schede informative che corredano i dati genealogici, emigrò in America nel , si stabilì a Sudbury, nel Massachusetts, mise su una numerosissima famiglia e divenne presto il più grosso proprietario della zona. I suoi discendenti diretti, fino ai great great grandchildren, contano circa millequattrocento persone. PIER GIORGIO SOLINAS americano come titolo di riconoscimento condiviso. Il nome anagrafico, non più semplicemente individuale, assume il valore d’un titolo collettivo. A questo, ossia al nome e all’identità storica accertata, si aggiunge (meglio, si sovrappone) il profilo genetico che si ricostruisce in laboratorio sulla collezione dei test dei discendenti attuali. Cari cugini – annuncia trionfalmente il presidente dell’associazione – abbiamo ora stabilito l’aplotipo di Edmund Rice, ovvero il marcatore genetico. Il nostro aplotipo è una collezione di numeri unici di pezzi del cromosoma Y-DNA, ottenuto sotto specifiche condizioni. Questa piccolissima porzione di DNA è passata attraverso le generazioni da padre a figlio, e così via. Anche se, certo, non abbiamo fatto realmente nessun test sul DNA di Edmund, siamo sicuri di conoscere ora come fosse il suo cromosoma Y. Quindi, in teoria quel che dobbiamo fare è di testare qualsiasi maschio che pensi di poter essere connesso. Nessuna traccia scritturale, atto di matrimonio, certificato di nascita, o ricordo tramandato nella tradizione di famiglia, potrà eguagliare questa certificazione intrinseca, impressa nei caratteri cifrati della vita stessa. Il ricordo impersonale incorporato nella scrittura biomolecolare è una carta più resistente di qualunque altra carta scritta con l’inchiostro: è la scrittura-impronta, è la cifra della distinzione originaria. . La parte sommersa dell’albero Fermiamoci per un momento. Abbiamo seguito finora, quasi esclusivamente, le piste ancestrali che seguono i principi della logica agnatica. Il cromosoma Y, trasmesso esclusivamente da padre in figlio, esclude completamente le discendenze in linea femminile. La regola biologica, per quanto unilaterale possa sembrare, non può essere messa in discussione dalle preferenze degli utenti, e nemmeno dalle speranze degli scienziati. I lignaggi a discendenza patrilineare, dunque, hanno un’incontestabile ragione costitutiva. I cognomi, etichette che si mantengono lungo le generazioni solo in forza di regole sociali, o giuridiche, scorrono esattamente lungo le stesse catene di trasmissione che seguono l’eredità genetica degli aplotipi Y. Sappiamo bene, peraltro, che il modello agnatico, patrilineare, non è l’unico che la genetica sia capace di praticare. Anzi. L’eredità in linea femminile è perfettamente rintracciabile, lungo la linea della successione dei marcatori mitocondriali che, appunto, si trasmettono esclu- . L E T T E R E D E G L I A N T E N AT I . A N T R O P O L O G I A , G E N E A L O G I A , G E N E T I C A sivamente di madre in figlia. È possibile dunque, almeno in teoria, definire degli aplotipi mitocondriali, e dunque, in qualche senso, dei “lignaggi materni”. Malgrado la diversa frequenza nella comparsa di mutazioni significative, e dunque la maggiore scala temporale sulla quale si definiscono questi “matrilignaggi”, in effetti molti sforzi sono stati fatti per delineare una geografia aplotipica per le grandi discendenze genomiche in linea materna. Nondimeno, la classificazione per grandi gruppi cladistici, così come, anzi soprattutto, le genealogie di gruppi familiari nell’ordine dei secoli e delle poche generazioni, prediligono ormai decisamente l’altro registro, quello del cromosoma Y. I matriclan non trasmettono cognomi, dunque il test mitocondriale è inutilizzabile per gli scopi dei programmi-cognome. Per questo motivo le agenzie di raccolta e analisi dei campioni prescrivono ai clienti potenziali una condizione tassativa: il donatore deve essere maschio. Se una donna vuole partecipare può farlo solo attraverso un consanguineo maschio, un fratello, o magari suo padre. Non ho molti commenti da fare su questo punto, almeno per ora. Ma mi piace cogliere l’occasione per parlare d’un certo modo, un modo antropologicamente molto particolare, di usare la classificazione mitocondriale, e di accostarla a quella, rigorosamente androcentrica, di cui abbiamo parlato nei paragrafi precedenti. Lo farò con un esempio indiano. Da anni faccio ricerca in India, in una parte dell’India, il Bengala, di radicata e profonda cultura brahmanica, sebbene il mio interesse si concentri soprattutto su culture non hindu. Ebbene, anche qui arriva la suggestione, seducente e solenne allo stesso tempo, della genealogia genetica. Ho trovato pochi casi, per la verità, ma quelli che ho trovato sono tanto più significativi se si pensa alle dimensioni delle comunità genealogiche di riferimento, e alla straordinaria e sofisticata cultura del calcolo genealogico che in questo paese è documentata da tempi immemorabili e, soprattutto, sociologicamente attiva tutt’oggi. I Chitpavan sono una grande comunità castale di brahmani (qualcosa come mezzo milione di persone); brahmani, ossia appartenenti alla casta di vertice nella gradazione classica della gerarchia hindu. È una comunità per modo di dire: famiglie Chitpavan si trovano in una quantità di città e villaggi del subcontinente, e all’estero, a partire dall’area di Konkan. L’itinerario di immigrazione che i cultori delle genealogie e dei cognomi (in questo caso i Dixit) rintracciano, attraverso il Kashmir, il Punjab, giunge fino al Maharastra. I cognomi sono moltissimi, e qui PIER GIORGIO SOLINAS i cognomi corrispondono a vere sezioni strutturate sul tipo del lignaggio, dette gotra. Manohar, Dixit, Ranade, Kane e una quantità di denominatori di gotra, possono considerarsi come nomi d’eccellenza nell’albo ideale delle caste. Come si sa, la tutela dell’identità di casta è affidata a una rigorosa norma di endogamia che non ammette incroci matrimoniali con partner d’altre caste. In sostanza, i membri d’un lignaggio di casta o sottocasta brahmanica devono evitare qualunque unione che non sia con un uomo o una donna della stessa casta o sottocasta. Solo così la purezza e l’appartenenza si trasmettono senza degradarsi. L’identità di casta e di famiglia, dunque, si presenta, ancor oggi, con le credenziali illustri d’una integrità di appartenenza alla quale, ora, la genetica fornisce un supporto supplementare potentissimo. Ebbene, la carta aplotipica, che i Dixit si preoccupano di procurarsi attraverso Family Tree DNA, fornisce il profilo genetico del gotra, del lignaggio. La genealogia Y-DNA e quella registrata nella memoria di famiglia – affidata ai libri di genealogisti specialisti (Kulwrutants) – si combinano. Anche in questo caso, dunque, l’ipotesi di una derivazione comune guida il piano dell’impresa, ma su una scala incomparabilmente maggiore: «Determinare la linea di base dei marcatori del cromosoma Y per tutti i sessanta cognomi Chitpavan, e quindi confrontarli, per stabilire quali di questi cognomi si sono evoluti in altri cognomi oggi correnti. Sarebbe interessante, insomma, vedere se si sono introdotte nuove linee di discendenza paterna, e se queste hanno portato agli attuali cognomi». Quattrocento cognomi, centinaia di migliaia di persone: il network genealogico di riferimento si avvicina alle dimensioni di un universo demografico. E però, è un universo conchiuso nei suoi confini di identità di rango, di status e di endogamia. E di sembianza: i Chitpavan sono generalmente più chiari di pelle, hanno i capelli più fini, gli occhi più chiari: sono più vicini al tipo fisico europeo che indiano. Sono generosi, riflessivi, altruisti, tenaci, ingegnosi… Le identità di famiglia, di cognome, di gotra, di casta si incapsulano l’una nell’altra trovando conferme entro raggi concentrici di inglobamento. Il mito, la memoria mitica della genealogia, che qui è ricca e solida, dialogano con l’ispezione genotipica: possono i test e i risultati del sequenziamento confermare la tradizione? «Sarebbe allettante vedere se tutti convergono nelle sole linee paterne che la nostra mitologia rivendica. Se disponessimo di una quantità abbastanza consistente di dati da diversi cromosomi Y Chitpavan, questo ci aiuterebbe a stabilire la . L E T T E R E D E G L I A N T E N AT I . A N T R O P O L O G I A , G E N E A L O G I A , G E N E T I C A loro comune discendenza da un unico antenato maschio nel passato, così da poter suffragare le affermazioni dei “Kulwrutanatas”». Fin qui restiamo ancora entro il circuito Y, sia pure su dimensioni così larghe da non poter essere comparate alle grandezze dei cognomi in Occidente. I Chitpavan in realtà hanno preso a cuore, prima di quello paterno, il loro DNA materno, il corredo genetico delle madri Chitpavan. Si può dire anzi che attribuiscano all’eredità in linea materna un ruolo più basilare: unificante e primordiale al tempo stesso. La derivazione comune da un’Eva minore (una delle ipotetiche “sette sorelle” che Brian Sykes ha popolarizzato nelle sue ricerche) serve a orientare in una specie di vaga geografia delle origini la sorgente femminile dell’identità Chitpavan: un luogo indeterminato, tra il Mar Nero e il Medio Oriente, forse vicino all’altipiano anatolico, o alla Siria, all’Irak. Orizzonte oscuro, perché le linee di fecondità materna, i gotra delle spose, la loro appartenenza di casta, si dimenticano rapidamente; per millenaria costumanza la sposa che entra nella casa maritale cede la sua appartenenza paterna di lignaggio e assume quella dello sposo: letteralmente diventa parte del nuovo gotra di accoglienza. A noi questo interessa, e interessa in una prospettiva che consente un preciso accostamento tra genetica, gerarchia di casta e gerarchia di genere. Comparare scientificamente, entro la stessa popolazione e la stessa società, le “evidenze genetiche” relative alla storia biologica dei gruppi, in parallelo per via Y-DNA e per via mtDNA: è quel che importanti studi hanno cominciato a realizzare, in primo luogo quello di Michael Bamshad et al. (), pubblicato pochi anni fa, e che ha fatto sensazione. Quel che emerge da questo lavoro è al tempo stesso audace e inquietante, poiché, appunto, giunge a documentare, sulla base di una campionatura statistica e con un severo protocollo di rilevazione genetica, che la distribuzione gerarchica dei gruppi castali corrisponde a una precisa gradazione di identità biologica. Le caste più alte, in primo luogo i brahmani, «hanno una più alta affinità con (i tipi) europei che con quelli asiatici»: «Complessivamente – scrivono gli autori della ricerca – tutti i dati mostrano un trend, per le caste alte, verso una maggiore somiglianza con gli europei, mentre le caste basse sono molto più simili agli asiatici». Per i cultori dell’identità Chitpavan, non occorre dire, questi risultati suonano molto graditi: la costituzione genetica del “noi” si fonde con quella sociale e mitica; la casta porta nel suo patrimonio collettivo di comunione biologica un valore distintivo innato. PIER GIORGIO SOLINAS L’interesse della ricerca di Bamshad (ma tra i firmatari vanno ricordati Michael Hammer e Lynn B. Jorde), infatti, non è solo d’ordine genetico o statistico, o demografico, è anche, e marcatamente, storico. La distinzione brahmanica che l’impresa di laboratorio trova così nitida nelle sue evidenze empiriche si congiunge con la tradizione letteraria, vedica e scritturale in genere, che stabilisce una polarità fondamentale, nel popolamento dell’India, fra immigrati-conquistatori, arya, da una parte, e autoctoni-dasyu (“dravidici”), dall’altra. La storia dell’arianizzazione del subcontinente è lunga diversi millenni, su più piani: linguistico e di scambio demografico, oltre che politico e religioso. La gerarchia castale ne è lo specchio: le caste alte non sono altro che le eredi dell’élite arya straniera, mentre le caste inferiori e i fuori casta conservano la base antica del popolamento preariano. Questo, almeno, è lo schema, al tempo stesso tradizionale, mitico, teologico e storico (e poi etnico e linguistico) che Bamshad prende dalle teorie ch’egli ritiene più accreditate. Gli invasori ariani, indoeuropei si stabiliscono come dominatori sulle popolazioni protoasiatiche. Un’immigrazione che si prolunga per millenni, e che si protrae fin quasi all’età moderna. La geografia biologica del popolamento attuale, così come la divergenza aplotipica che si delinea sulla scala di status, la gerarchia di casta, rivelano tali corrispondenze, tali regolarità, da far comparire sulla scena della storia dell’India una dimensione completamente nuova, quella della sua puntuale testabilità biologica. Le distanze genetiche fra alte e basse caste nel mtDNA mostrano che la divergenza rispetto ai modelli genotipici asiatici si accresce fra i Kshatriya, rispetto ai Shudra e ai fuori casta, ed è ancora maggiore quando si passa ai brahmani. In particolare, «tra le caste alte, la distanza genetica fra bramini ed europei (,) è minore di quella fra Kshatriya ed Europei (,) o tra Vaysya ed europei (,)». In breve, i dati relativi al polimorfismo nel cromosoma Y dimostrano che il popolamento dell’India deriva da una mescolanza indoeuropea («Y-Chromosome variation confirms Indo-European admixture»). Il modo in cui questa admixture europea-asiatica si delinea nell’incrocio tra i dati genotipici da una parte e quelli linguistici e archeologici dall’altra si inserisce profondamente non solo nella logica della gerarchia di status, ma anche in quella della gerarchia tra sessi. Poiché, infatti, la distribuzione del fondo genotipico mitocondriale “asiatico” è molto più estesa di quella dell’aplotipo Y “euro- . L E T T E R E D E G L I A N T E N AT I . A N T R O P O L O G I A , G E N E A L O G I A , G E N E T I C A peo”, e quest’ultimo risulta più regolarmente conforme a una gradazione castale (crescente verso l’alto, decrescente verso il basso), si può ricavare l’immagine, d’insieme, d’una base materna più marcatamente indiana e asiatica, e un vertice patrilineare, Y-aplotipico decisamente affine a modelli europei: «La spiegazione più plausibile per questi risultati, e quella più conforme con i dati archeologici, è che gli indiani Hindu contemporanei sono di origine proto-asiatica con mescolanza ovest-euroasiatica». La mistura demografica dispone gli uomini e le donne su un asse di rango biologico asimmetrico: La mescolanza con i maschi euroasiatici era maggiore che con le femmine euroasiatiche. Di qui la maggiore affinità con i cromosomi Y europei. […] Questa spiegazione concorda sia con l’ipotesi per cui una proporzione più alta di euroasiatici siano diventati membri delle caste superiori, allorché la gerarchia delle caste era ai suoi esordi, sia con l’ipotesi alternativa, quella secondo la quale la stratificazione sociale precede l’incursione euro-asiatica, così che gli euroasiatici tendevano ad inserirsi nelle posizioni più alte. Gli invasori, o immigrati europei, o euro-asiatici, entrano nello spazio sudasiatico, spazio fisico, spazio demografico, spazio genetico; portano i propri geni e li diffondono nella popolazione locale: uomini che conquistano e si riproducono attraverso la parte femminile delle genti sottomesse. Per un verso, gli uomini, i maschi arya conquistatori e poi dominatori (nucleo delle caste elevate nella società hindu) trasmettono agli autoctoni la loro impronta genetica, per via maschile; per un altro verso la ricevono dai loro partner inferiori: le donne sono portatrici dell’impronta locale che tende, inversamente, a risalire nella linea di rango. La mobilità sociale, pur entro un regime di severa restrizione endogamica (di casta), si apre la via appunto attraverso la risalita ipergamica delle donne di casta inferiore (il matrimonio anuloma, con quel tanto di unioni miste tra inferiori e superiori, tra famiglie di status lievemente diseguale). Bamshad introduce insomma, non so con quanta consapevolezza antropologica, un elemento d’ordine squisitamente sociale nel cuore del suo rilevamento biogenetico: «La frequenza degli aplotipi euro-asiatici nella fondazione delle caste medie e alte può risultare sottostimata a causa della mobilità sociale verso l’alto di donne di bassa casta. Queste donne, presumibilmente, erano in condizione di introdurre aplotipi mtDNA proto-asiatici nelle caste medie ed alte». PIER GIORGIO SOLINAS . Scienza, hobby, mito? La parte finale di questo mio contributo tocca il problema del valore cognitivo della genealogia genetica e del suo uso sociale. Di che tipo di conoscenza si tratta, in definitiva? Una specie di genetica per i profani? Qualcosa che promette di svelare i segreti biologici dell’origine dei cognomi, o di raggiungere lungo la pista cromosomica il piccolo Adamo di famiglia nel quale sta racchiusa la formula biogenetica della futura discendenza? In questa letteratura elettronica amatoriale, in effetti, Adamo riappare, qua e là: se non altro come nome simbolico. Talora figura come superantenato, come una specie di “noi” primordiale personificato; altre volte distribuito in tante incarnazioni distinte, al limite come partner ancestrali di singoli iscritti al database. In molti casi il titolare di record, ossia il singolo iscritto al programma cognome, si trova fornito di una specie di doppia identità: una al presente, la sua attuale, e una al passato o, piuttosto, ad un presente che non si è disfatto del passato: quello del suo progenitore-archetipo genetico del quale può dirsi replicante. Entrambi partecipano alla stessa linea vitale di coalescenza. Per quanto retorica e indiretta possa apparire, questa sorta di coscienza supplementare lascia intravedere un sapere, una rappresentazione parentale, largamente inedita. Di quale tipo di sapere si tratta, in realtà? . Ad esempio, la piccola epopea genealogica che i promotori del programma Beatty, sempre negli Stati Uniti, riassumono nella scheda di presentazione del loro sito, raccoglie lignaggi, molti dei quali datati al XVI secolo. I “lignaggi”, sparsi fra l’Irlanda, l’America, il Giappone, l’Australia, di cognome Beatty e simili, appartengono – torna la domanda cruciale – allo stesso ceppo genealogico? («Did this surname derive from a common ancestor or from among totally unrelated individuals? - years ago?»). I test incoraggiano la congettura; rivelano coalescenze tra linee, fino a un primo e più consistente gruppo, il Gruppo A, che «ha un antenato comune, chiamato Adamo, che visse probabilmente in Scozia prima del ». . La forma ricorrente di ordinamento dei tabulati (Y-DNA Results) è più o meno questa: la prima colonna, o le prime due colonne, riportano il kit number (il numero di identificazione del campione organico soggetto di test: un numero, o un ID number, corrisponde a un individuo); accanto, l’antenato di riferimento, quando è noto per cartas, e la sua datazione. Per esempio, nel caso Ball (Ball Surname Y Chromosome DNA Study): # (kit number), si collega ad un William Ball, Virginia (nome dell’antenato noto, del cui aplogruppo è portatore il soggetto #), circa (data approssimativa dell’antenato), di seguito vengono poi le caselle dei loci, DYS, e dei relativi valori di frequenza. . L E T T E R E D E G L I A N T E N AT I . A N T R O P O L O G I A , G E N E A L O G I A , G E N E T I C A Sarebbe troppo superficiale liquidare la questione con un’alzata di spalle, come si trattasse d’un sapere divulgativo in cui la scienza è materia imbastardita del senso comune, d’una passione di moda, d’una tendenza newagista insieme stravagante e pignola. Credo proprio che, non solo etnograficamente, ma anche in termini di episteme e di produzione simbolica, la faccenda sia molto più seria. L’incontro fra la scienza e la gente comune, fra i laboratori (o le agenzie che se ne servono per gestire i database) e gli utenti-donatori va ben oltre la gerarchia ordinaria che distanzia i competenti dai profani. In realtà, i cultori dilettanti di genealogia, soprattutto quando sono anche fornitori (paganti) di campioni biologici d’identità personale, si trovano nella condizione ambivalente di committenti e di oggetto di studio. Committenti o clienti che si sottopongono a un esame di verità, essi sono in pari tempo l’oggetto del responso. Per un verso, intraprendono questo singolare processo di reductio (in un certo senso, recedendo dalla propria individualità, subiscono un trattamento dividualizzante), per costituirsi come fili d’un reticolo astratto che, quasi, oltrepassa la singolarità contingente delle singole esistenze. Per un altro verso, invece, si fanno costruttori d’una mito-antropologia che genera mondi simbolici prima sconosciuti, mondi di parentalità potenziata, mondi che pretendono di espandersi verso il passato e che chiedono alla prova biochimica di fornire linguaggio e garanzia di esattezza. Gli scienziati, palesemente interessati alla riuscita dell’impresa, per i propri fini (espandere i loro database, disporre d’una varietà di casi e opportunità comparative), finiscono tuttavia per diventare partecipi di questa sorta di trascendimento comune. I gruppi, i lignaggi, i cognomi, gli “alberi” (tutti riconvertiti in aplotipi e aplogruppi) si caricano di identità stratiformi: etniche, preistoriche, storiche, ma anche, per dir così, “tecnologiche”, scientificamente integrate nelle strategie di sapere e di autorialità delle équipe di laboratorio. Bibliografia . et al. (), Genetic Evidence on the Origins of Indian Caste Populations, in “Genome Research”, XI, , pp. -. . (), Family Trees and their Affinities: the Visual Imperative of the Genealogical Diagram, in “Journal of the Royal Anthropological Institute”, , n.s., pp. -. . (), Chitpavanism. A Tribute to Kokanastha Brahmin Culture, Encyclopedia Maharashtrica, Dixit Publishers, Pune. PIER GIORGIO SOLINAS . ., - . (), The Humany Chromosome: an Evolutionary Marker Comes of Age, in “Nature Reviews”, , pp. -. - . (), L’ombre des ancêtres. Essai sur l’imaginaire médiéval de la parenté, Fayard, Paris. . (), L’“Albero di Jesse” nel medioevo italiano. Problemi di iconografia, Banca Dati Nuovo Rinascimento, Firenze. . . et al. (), A Y-Chromosome Signature of Hegemony in Gaelic Ireland, in “American Journal of Human Genetics”, , pp. -. . (), “Recreational Genetics”, Race and Relatedness, in “L’Observatoire de la génétique” (IRCM, Centre de bioéthique, Archives), . . (), Genoma. L’autobiografia di una specie in ventitré capitoli, Instar Libri, Torino (ed. or. Genome. The Autobiography of a Species in Chapters, Fourth Estate, London ). . ., . . (), Genetic Ancestry and the Search for Personalized Genetic Histories, in “Nature Reviews”, , pp. -. . . (), Io è un aplotipo. Geneaologia e genetica via web, comunicazione presentata al convegno Le maschere della persona: identità e alterità di un essere sociale (Siena, - ottobre ). . et al. (), The Genetic Legacy of the Mongols, in “American Journal of Human Genetic”, , pp. -. Parte terza La trasmissione di un sapere scientifico Comunicare e interpretare la preistoria nei musei di Michele Lanzinger Questa riflessione intende limitarsi a offrire alcuni spunti sugli stili di comunicazione e sulle modalità di interpretazione per i musei di indirizzo preistorico. Il breve contributo non rendiconta delle diverse modalità di interpretazione museologica adottate in Italia e all’estero nel campo della preistoria, indagine ancora mancante e quanto mai opportuna, né, sempre nel settore della preistoria, propone alcun commentario sulle buone pratiche di azione interpretativa già in uso presso numerosi musei. Un primo e fondamentale ragionamento, a monte di ogni ulteriore considerazione, riguarda l’attenzione che dovrebbe essere prestata ai diversi elementi che compongono il ciclo di vita del patrimonio culturale oggetto della valorizzazione museale. Il reperimento e lo studio del bene, la sua tutela e conservazione e, infine, attraverso i procedimenti della museologia e della museografia, la mediazione culturale, sono elementi fondamentali per descrivere e per permettere di comprendere, nella sua interezza di bene culturale, il senso del patrimonio oggetto di valorizzazione. Si ritiene che tutti questi elementi dovrebbero essere resi pubblicamente percepibili mediante gli apparati e le azioni di mediazione culturale del museo. Solo così, per mezzo della comprensione di tutte queste fasi, possono costituire oggetto di apprezzamento le ragioni del fare ricerca, l’obbligo etico di tutelare e conservare il patrimonio culturale, infine e ovviamente, e non necessariamente per ultimo, la specifica informazione culturale circa il patrimonio esposto. Visto da una prospettiva esterna al procedimento interpretativo e alla dimensione specifica delle scienze preistoriche, questa impostazione tende a mettere in rapporto il successo in termini di partecipazione dei visitatori/utenti del museo con il consenso sociale e politico sugli investimenti (economici, di marketing territoriale, di investi- MICHELE LANZINGER . Archeologia imitativa: l’esperienza del visitatore si confonde con l’esperienza dell’antenato preistorico (replica sperimentale di macinatura dei cereali presso il Museo delle palafitte del Lago di Ledro) FIGURA mento sulle risorse umane…) a favore delle azioni di conservazione e tutela. Così, il rapporto tra le istanze relative alla conservazione dei “beni” e quelle relative alla valorizzazione e promozione delle “attività” culturali possono trovare un virtuoso equilibrio, raccogliere consenso e sostenere, nel tempo, l’intera traiettoria di significato e di azione del museo. Ciò premesso, con “comunicare e interpretare la preistoria” si prende atto dell’ingresso anche nel lessico italiano di termini neolatini diffusamente adottati nella museologia di tradizione anglosassone (communication e interpretation), i quali, almeno per il contesto di cui si parla, nel caso del primo esaltano la dimensione del mettere in comune e della partecipazione, nel caso del secondo quello di tradurre in termini valevoli sul piano conoscitivo e pratico i concetti riferibili ai materiali e ai contesti museali. Termini ideologicamente distanti da quelli di: “divulgare”, “illustrare”, “educare”, “insegnare”, “trasmettere”, i quali tendono a prefigurare un’azione unilineare di trasmissione dei saperi da un soggetto emettitore a un sog- . C O M U N I C A R E E I N T E R P R E TA R E L A P R E I S T O R I A N E I M U S E I getto ricevente, per lo più passivo. Quello che, sempre adottando un anglicismo, è noto come “approccio top-down”, ovvero, nel fare riferimento al dibattito interno al movimento della Science & Society, del deficit model . In termini di museo questo approccio ha conseguenze significative. La centralità culturale si sposta dall’oggetto esposto all’esperienza di visita e, come ovvia conseguenza, l’attenzione si concentra sulla conoscenza delle aspettative del visitatore. Esse assumono sempre maggiore rilevanza perché saranno queste, infatti, le diverse tipologie di visitatore e le sue aspettative, a orientare gli stili di comunicazione e di interpretazione del museo. Tra le diverse categorie di visitatori, la meno interessante è quella di chi, per via della sue conoscenze pregresse, è assolutamente indifferente agli strumenti di interpretazione. Si tratta di casi veramente rari, soprattutto se si pensa a quanto ampia può essere la mappa di rimandi e di riferimenti messa in campo da una progettazione museale di qualità. Più soventemente il visitatore non dispone di apparati di conoscenza pregressa bastevoli per interpretare autonomamente un’esposizione museale. È per questo motivo che la museologia da tempo ha adottato tecniche via via più sofisticate per sostenere degli apparati di interpretazione che, per simmetria, dovrebbero corrispondere a pari interesse da parte del soggetto in visita museale. Nel proseguire in questa analisi semplificata dei possibili diversi visitatori, assume un ruolo forse non tanto diverso il “visitatore-cliente” catturato al museo nell’ambito di un’azione di marketing territoriale. In questo caso, all’intenzione di massimizzare la frequentazione del museo, anche a fini turistici e commerciali, corrisponde un atteggiamento non alieno dal desiderio di svago e intrattenimento. Infine, quasi a comprendere questi e quelli, si mette in evidenza la categoria degli studenti delle diverse età i quali, per via di arrivi voluti o coatti, sono soggetti importanti per qualsiasi politica di sviluppo museale. Tutte queste diverse categorie di utilizzatori condividono lo stesso fattore discriminante nel confronto dell’esperienza di visita del museo: esse decidono quando, dove, cosa e come apprendere sulla base dei loro personali interessi. Infatti, se l’apprendimento può essere visto co. A tal proposito cfr. P. Greco, Il modello Venezia, http://icws.sissa.it/conferences/cs. introduzione.pdf. MICHELE LANZINGER . Ricostruzione di un villaggio palafitticolo: la scenografia più adatta alla simulazione della preistoria a scopo didattico e divulgativo (Museo delle palafitte del Lago di Ledro) FIGURA me l’acquisizione di informazioni, prima che esso avvenga (l’apprendimento), il soggetto destinatario dell’azione di apprendimento (il visitatore) deve esprimere interesse nel confronto di quest’ultima. L’interesse pertanto permea tutti i tentativi e precede l’apprendimento, il quale, per questi motivi, può essere definito come «il processo di ricordare cosa ti ha interessato» (L. Beck, T. Cable, Interpretation for the st Century, Sagamore Publishing, Champaign, IL, ). Ciò è vero, o forse ancora più vero, per la categoria degli studenti. Essi raramente hanno un ruolo nella decisione di visitare o meno un museo e come conseguenza, se non sono interessati, semplicemente non interagiscono e non accendono la luce del loro personale interesse. In queste condizioni la visita diventa qualcosa di altro, indifferente al messaggio culturale che il museo desidera trasmettere. Per via di queste premesse, si può affermare che l’atto di ricevere informazioni è una questione profonda e personale, anche perché la conoscenza e le esperienze che progressivamente acquisiamo costruiscono, di fatto, quello che noi siamo. Come a dire che “io sono quello che ricordo”. Ecco perché quando l’esperienza viaggia all’incontrario dei propri convincimenti, come nel caso degli studenti forzati a un’e- . C O M U N I C A R E E I N T E R P R E TA R E L A P R E I S T O R I A N E I M U S E I sperienza culturale non voluta (“non ritenuta interessante”), non solo non vi sarà alcun apprendimento, ma l’esperienza stessa si concluderà con un rafforzamento di negatività e del rifiuto che inevitabilmente andrà a contaminare altre future esperienze consimili. Anche per evitare simili situazioni, non si dice nulla di nuovo nel ricordare che per far scoccare la scintilla dell’interesse, l’azione di mediazione culturale deve porre in relazione il soggetto dell’interpretazione con l’esperienza di vita delle persone che compongono il pubblico. Come è noto la gente apprende integrando e immagazzinando le informazioni nel contesto delle loro passate esperienze. Ciò ha a che fare con la teoria delle mappe cognitive ed è una precondizione ben nota a chi si occupi di età evolutiva, di pedagogia e di teoria dell’insegnamento. Mettere in rapporto il messaggio con la conoscenza e le esperienze del pubblico è dunque un “contratto” tra il museo e il visitatore che, nel corso della visita, oltre ad acquisire nuove informazioni, opera un autonomo rinforzo di quelle pregresse e immagazzinate nella propria memoria individuale. Per questo motivo la comunicazione non è più da considerarsi un processo lineare trasmettitore-ricevitore ma emerge un nuovo paradigma per il quale la “costruzione del significato” (meaning-making) è vista come un processo di negoziazione tra le parti. Invece che trasmessa l’informazione è creata. Poiché, come si è visto, gli individui nel ricevere una nuova informazione sagomano il significato di essa sulla base delle storie e delle passate conoscenze ed esperienze, per il progettista della comunicazione museale è fondamentale conoscere l’uditorio, suddividerlo in segmenti omogenei per determinate caratteristiche (età, genere, formazione e grado di cultura…), e quindi disporre di messaggi teoricamente validi per ciascuno dei livelli di conoscenze pregresse (di cultura) dei possibili utilizzatori del museo. Segnalata l’esigenza di conoscere bene il visitatore, va precisato che il proposito dell’interpretazione va ben oltre la sola fornitura di informazioni. Essa deve rivelare qualcosa per noi stessi e deve esserci un buon bilanciamento tra l’importanza della dimensione cognitiva e quella dell’emozione e dell’apprendimento-divertimento. Naturalmente l’interpretazione include l’informazione. Infatti, se non c’è informazione, il programma di comunicazione è, al massi. Di ciò non ci si occuperà nel presente scritto. MICHELE LANZINGER mo, un programma di intrattenimento. Come a dire, «l’informazione è il materiale grezzo, l’interpretazione quello rifinito» (ibid.). Riferendosi ora alle esposizioni museali di interesse preistorico, ma anche alle esposizioni archeologiche, esse canonicamente traducono in spazio museale il processo di ricerca che, per il tramite dei reperti in esposizione, ha contribuito alla definizione di un determinato segmento di disciplina scientifica. Si hanno così disposizioni seriali di oggetti in sequenze cronostratigrafiche, insiemi di reperti omogenei per tipologia o luogo di reperimento, disegni interpretativi o diorami. In fin dei conti produciamo definizioni, così come la matematica produce formule. Viceversa, la presentazione interpretativa di un museo dovrebbe essere progettata come una storia che informa, intrattiene e illumina! Anche in questo caso la storia dovrebbe relazionarsi in qualche modo con la personalità e l’esperienza del visitatore-spettatore. Nella semiologia dell’esposizione, negli apparati scritti, nelle azioni di “didattica museale” e nelle azioni interpretative, nella messa in scena, nelle azioni di archeologia imitativa, la conoscenza andrebbe trattata in modo immaginativo e dovrebbero essere presenti almeno questi aspetti: esempi, cause ed effetto, analogie, esagerazioni nella scala del tempo e dello spazio, similitudini, metafore, aneddoti, citazioni, humour, ripeFIGURA . Un altro esempio di archeologia imitativa: costruzione e uso di giavellotti presso il Museo delle palafitte del Lago di Ledro . C O M U N I C A R E E I N T E R P R E TA R E L A P R E I S T O R I A N E I M U S E I tizioni, eventi contemporanei di paragone (ibid.). Si tratta dunque di trovare la formula che permetta di andare oltre la serialità degli oggetti esposti e di introdurre apparati o promuovere azioni che facilitino l’affermarsi di questa inusitata forma di dialogo tra museo e il suo pubblico. Sia esso un dialogo mediato dagli apparati informativi, sia il contatto con le risorse umane impiegate nelle sale, sia infine un’azione educativa specificatamente organizzata. Tutto ciò, con l’obiettivo di interpretare (nel senso di tradurre) i saperi che gli oggetti esposti, in quanto tali, non sono in grado di comunicare ai diversi pubblici. Non solo storie tuttavia. La sperimentazione e la manipolazione è un ulteriore passaggio obbligato verso la costruzione del dialogo tra il museo, i suoi reperti, i suoi visitatori. Se il percorso della ricerca passa attraverso la falsificazione delle prove, un buon modo di falsificare è quello di prendere in mano gli oggetti, osservarli e riprodurli sperimentalmente. Peraltro, se ciò è vero da un punto di vista pratico, lo è anche da un punto di vista epistemologico. Di nuovo, richiamando le condizioni di base della comunicazione museale, l’obiettivo di coinvolgere il visitatore nell’esperienza di visita al museo è sicuramente fa. La didattica dell’archeologia può avvenire in un contesto ludico e partecipato (esempi di attività svolte nel Museo delle palafitte del Lago di Ledro) FIGURA . I N S E G N A R E L’ E V O L U Z I O N E D E L L’ U O M O N E L L A S C U O L A S U P E R I O R E - . (), Tristi tropici, Il Saggiatore, Milano (ed. or. Tristes Tropiques, Librairie Plon, Paris ). . (), L’animale irrazionale, Mondadori, Milano. . (), La nascita del tempo, Bompiani, Milano. . (), Il cammino dell’uomo, Garzanti, Milano (ed. or. Becoming Human: Evolution and Human Uniqueness, Harvest, s.l., ). La preistoria a scuola? Coniughiamola al presente di Tomaso Di Fraia Per ragioni di trasparenza nei confronti dei lettori, devo anzitutto indicare il mio profilo scientifico-professionale, piuttosto anomalo: docente nei licei e al tempo stesso impegnato nella ricerca a livello universitario nel campo dell’archeologia preistorica. Tale combinazione, con anni di insegnamento della storia nel biennio del liceo scientifico, da una parte mi ha permesso di capire le reali esigenze della scuola, dall’altra mi ha fornito l’opportunità di verificare se, come e a quali costi sia possibile collegare ricerca e insegnamento, per giunta in un settore sempre trascurato nella tradizione didattica della nostra scuola, cioè l’insegnamento della storia nella scuola media superiore e in particolare nel biennio iniziale (Di Fraia, ). Sulla base di tali premesse spero di poter evitare derive filosofiche più o meno astratte, anche se qualche riflessione teorica sarà inevitabile. La preistoria non è, o meglio – realisticamente – non dovrebbe essere un campo riservato a pochi iniziati, né una semplice miniera di strane curiosità, e soprattutto – questo è il senso del titolo di questo contributo – non è un ambito lontano dai nostri interessi, dal nostro modo di concepire la vita, dai nostri problemi reali, dico di noi che viviamo nel XXI secolo. Per evidenziare tali potenzialità nello studio della preistoria, vorrei proporre, schematicamente, alcuni possibili argomenti per percorsi didattici, che hanno tra l’altro il vantaggio (ma purtroppo, date le condizioni della nostra scuola, può trattarsi oggettivamente di uno svantaggio!) di essere necessariamente interdisciplinari (Di Fraia, ). Tuttavia, voglio subito aggiungere che tali proposte di riflessione e di approfondimento possono essere estese anche al di fuori della scuola, a tutte le persone interessate a una divulgazione scientifica seria e anche a un dibattito culturale costruito su solide fondamenta. TOMASO DI FRAIA Prima di presentare tali tematiche vorrei però sottolineare un punto che ritengo cruciale. La preistoria costituisce un terreno e un osservatorio privilegiato per capire che, come in tutto il mondo biologico l’unica cosa certa e “stabile” è, paradossalmente, il mutamento, così anche nella lunga storia dell’uomo tutto è processuale, comprese le nostre caratteristiche biologiche. Bisogna quindi abbandonare il pregiudizio, o comunque l’idea ingenua e assai diffusa, secondo cui esiste un dinamismo della natura nel suo complesso, ma l’uomo in quanto tale ne sarebbe sostanzialmente esente, come se l’ultimo gradino evolutivo occupato (cioè lo status di Homo sapiens) fosse una sorta di assoluto, raggiunto una volta per tutte, senza preoccuparsi di capire fino in fondo come e perché l’uomo vi è arrivato e quindi nemmeno se sia stato o sia ancora suscettibile di ulteriori trasformazioni. In realtà non esiste biologicamente una “natura umana”, data una volta per tutte; proprio studiando la preistoria e lavorando quindi su tempi molto lunghi (decine di migliaia di anni, se ci limitiamo a Homo sapiens) possiamo infatti capire che: . siamo il prodotto di una lunghissima serie di mutazioni, trasformazioni, modificazioni, adattamenti; la storia del genere Homo, e prima ancora quella degli australopiteci, è fatta di molteplici forme (cioè specie) di più o meno lunga durata, con periodi in cui più specie sono esistite contemporaneamente e forse sono convissute, o si sono combattute, in uno stesso ambiente; . quello che a noi appare assolutamente definito e stabile (compresa la “natura umana”) corrisponde a una fase tutto sommato breve dell’evoluzione del genere Homo; . anche nella nostra specie alcune caratteristiche biologiche si sono evolute nel tempo. Passo ora a proporre tre temi di indagine e di riflessione. . L’identità etnica, ovvero perché non possiamo non dirci meticci I processi fondamentali attraverso cui si è definita l’identità etnica dei diversi gruppi umani sono riassumibili in tre grandi fasi fondamentali. . L’origine della nostra specie è oggi considerata unica dalla stragrande maggioranza degli studiosi, se si eccettuano pochi “multire- . LA PREISTORIA A SCUOLA? CONIUGHIAMOLA AL PRESENTE gionalisti”, attestati su posizioni ormai a mio parere indifendibili (ma su questo punto cfr. i contributi specifici in questo volume). Si riconosce cioè un’unica linea di ascendenza per Homo sapiens, ricostruita dapprima attraverso il DNA mitocondriale (per risalire alla madre originaria, la cosiddetta “Eva africana”, secondo l’abusata e banalizzata espressione mediatica) e successivamente confermata anche dagli studi sul cromosoma Y, relativo alla linea maschile. . In seguito alla diffusione della nostra specie in ambienti diversi, attraverso processi di deriva genetica e adattamento per mutazione/selezione si è verificata una progressiva differenziazione, che si è poi stabilizzata e cristallizzata quando ogni gruppo ha trovato la propria nicchia ecologico-culturale (dal Paleolitico al Neolitico). . A partire soprattutto dall’età dei metalli (almeno dal a.C.), si è verificato un crescente rimescolamento etnico, grazie soprattutto alla maggiore mobilità. A proposito della mobilità umana – un fenomeno che ha già oggi, e ancor più avrà in futuro, effetti sconvolgenti sull’assetto mondiale –, sul piano della ricostruzione storica, dopo il tramonto delle vecchie teorie diffusionistiche, che pretendevano di spiegare meccanicamente lo sviluppo e la complessità di molti processi culturali nei termini di un presunto migrazionismo, resta comunque aperto il problema di individuare, laddove è possibile, gli spostamenti dei gruppi umani e di valutarne l’entità in termini geografici e popolazionistici e la portata in termini culturali. Jehanne Féblot-Augustins (), dopo aver raccolto una grande massa di dati, ha potuto concludere che mentre nella parte più antica del Paleolitico (circa ..-.. anni fa) la distanza massima nella circolazione delle materie prime non superava i - km, tra .. e . anni tale distanza raggiunge i km, cambiando anche le modalità e l’entità dello sfruttamento delle risorse coinvolte. Con il Paleolitico superiore (circa .-. anni fa), infine, si ha una buona percentuale di casi di trasporto di materie prime intorno ai km, molti casi oltre i km, mentre si registrano percorsi fra e km e uno eccezionale di km. Ciò evidentemente dimostra una notevole capacità di realizzare scambi a lunga o lunghissima distanza, ma a rigore niente ci dice sull’ampiezza dei tragitti effettivamente percorsi da uno stesso individuo o gruppo umano e tanto meno sull’eventualità che determinati gruppi si trasferissero definitivamente da un luogo a un altro. TOMASO DI FRAIA Dapprima lo studio dei gruppi sanguigni e più recentemente quello del DNA antico e moderno ci hanno fornito indicazioni relative ai rapporti parentelari e a vari aspetti demografici, delineando gli scenari degli spostamenti umani su vasta scala e su tempi lunghi o lunghissimi. Oggi tuttavia è possibile un livello di analisi molto più fine, laddove ricorrano alcune condizioni favorevoli. Recentemente infatti è stato elaborato un metodo, basato su microanalisi dei tessuti scheletrici, per stabilire se singoli individui siano nati e abbiano trascorso l’infanzia o parte di essa in una determinata regione, e successivamente si siano trasferiti altrove. Tali metodiche sono state avviate in Germania e negli USA già nella seconda metà degli anni Ottanta e poi applicate significativamente nella seconda metà degli anni Novanta; non mi risulta, salvo errore, che in Italia siano stati condotti e pubblicati studi del genere. Si tratta in particolare delle analisi delle presenze percentuali nelle ossa di bario (BA) e stronzio (SR) e degli isotopi stabili di quest’ultimo. La base biologica del metodo è costituita dal processo per cui nello smalto dei denti, subito dopo la loro eruzione, restano fissati il bario e lo stronzio assunti con la dieta durante l’infanzia, mentre nelle altre ossa il rapporto bario-calcio e stronzio-calcio si modifica ininterrottamente fino alla morte. Poiché nei diversi ambienti naturali (ad esempio terreni granitici rispetto ad altri ricchi di carbonati) bario e stronzio sono presenti in misura molto più differenziata rispetto a quella che potrebbe essere fornita all’organismo umano da diverse diete nello stesso territorio, differenze marcate tra le quantità di tali elementi presenti nei due diversi tipi di ossa indicano che un individuo ha trascorso la prima infanzia in una certa zona e l’ultimo periodo della propria vita in un’altra. Tale metodo, applicato tra l’altro in Germania agli inumati del vaso campaniforme di una serie di necropoli della Baviera (Price, Grupe, Schröter, ), ha dato i seguenti risultati: – la percentuale degli immigrati nel sud della Baviera oscilla tra il , e il ,%; – tra gli immigrati, la percentuale delle donne è un po’ più alta di quella dei maschi (% contro il %); – è stato stimato che alcuni individui, per spostarsi dalla zona in cui avevano trascorso l’infanzia a quella dove morirono, dovettero percorrere almeno km; – la direzione prevalente degli spostamenti è da NE a SO, cioè da terreni granitici a sedimenti calcarei e a loess; . LA PREISTORIA A SCUOLA? CONIUGHIAMOLA AL PRESENTE – nelle necropoli più antiche la percentuale degli immigrati varia dal al %, in quelle più recenti dal al %. La mobilità accertata riguarda dunque una percentuale variabile da circa / alla metà della popolazione dei vari siti; ciò potrebbe indicare che una parte della popolazione si spostava in situazioni di crisi (per esempio eccessivo incremento demografico nella comunità di origine) e/o per qualche sorta di specializzazione che comportasse la necessità di effettuare spesso trasferimenti anche molto lunghi. Bisogna inoltre cercare di chiarire in che misura tali trasferimenti si possano considerare definitivi o comunque prevedessero una permanenza prolungata, cioè se la percentuale di immigrati va considerata come un gruppo che a un certo punto si è unito alla comunità presunta sedentaria e con questa ha convissuto per un periodo abbastanza lungo; oppure se gli individui nati altrove fossero presenti per periodi relativamente brevi. Poiché il tempo minimo necessario perché si depositino nelle ossa elementi in tracce in proporzioni diverse da quelle accumulate precedentemente è alquanto lungo, bisogna presupporre una presenza abbastanza prolungata e non un semplice soggiorno di settimane o di pochi mesi; del resto l’inclusione degli immigrati in un’unica necropoli è indicativa di una riconosciuta appartenenza alla comunità, anche se non si possono escludere in assoluto forme di riconoscimento “etnico”, in senso lato, pur al di fuori del radicamento in un particolare territorio (vedi i moderni rom). Tuttavia si pongono ancora altri problemi. Anzitutto l’assimilazione nelle ossa di sostanze corrispondenti a quelle del territorio delle singole necropoli potrebbe essere avvenuta attraverso vari soggiorni (anche brevi) in siti diversi di una stessa regione geopedologicamente caratterizzata. È evidente che tale criterio può essere applicato anche alla comunità presunta sedentaria: infatti gli individui che mostrano una sostanziale corrispondenza tra la dieta della prima infanzia e quella dell’ultimo periodo di vita potrebbero comunque essersi spostati, nel corso della loro esistenza, nell’ambito di un territorio geologicamente omogeneo; e in tal caso il nomadismo o altre forme di mobilità sarebbero sottostimate. Naturalmente tale eventualità deve essere presa in considerazione, a fortiori, per quella parte di popolazione che risulta immigrata. Il fatto che gli studi da me consultati non registrino, salvo errore, casi di individui con percentuali di stronzio corrispondenti per l’infanzia e per il momento della morte e contemporaneamente diversi da quel- TOMASO DI FRAIA li caratteristici degli individui vissuti per un tempo abbastanza lungo nel territorio in cui è ubicata la sepoltura, sembra indicare comunque che gli stanziamenti nei luoghi raggiunti dopo i trasferimenti non dovevano essere brevi. In definitiva, per le popolazioni del vaso campaniforme, potrebbe configurarsi uno scenario in cui la mobilità di un numero consistente (anche percentualmente) di persone si sarebbe realizzata, nel corso delle singole esistenze, sia attraverso spostamenti geografici ragguardevoli (nell’ordine anche di centinaia di chilometri), sia attraverso dislocazioni più limitate, magari nell’ambito di territori geologicamente omogenei. Naturalmente il problema più importante, per la ricostruzione dei processi storici, è costituito dalle ragioni e dalle modalità di tali fenomeni migratori, e forse in parte nomadici, e dalle conseguenze culturali su scala europea. A questo punto, vediamo di tratteggiare i probabili scenari in modo cronologicamente e culturalmente articolato. a) Per tutto il Paleolitico e il Mesolitico (..- a.C.) la popolazione mondiale sarebbe rimasta scarsa e molto sparpagliata; alcune stime indicano che la popolazione mondiale potrebbe essere stata di .-. individui prima dell’espansione di Homo sapiens verso l’Europa, raggiungendo forse i - milioni durante il Paleolitico e il Mesolitico (Cavalli-Sforza, Menozzi, Piazza, , p. ). b) Dal Neolitico (circa a.C.) la popolazione complessiva aumenta, ma le comunità, il cui numero è ora maggiore, sono pur sempre piccole in termini assoluti (varie decine o al massimo qualche centinaio di individui, tranne rare eccezioni), spesso esogamiche, tanto più quando rischiano l’estinzione per crisi economiche, epidemie ecc. c) L’archeologia ci mostra che fino all’età del Bronzo (III millennio a.C.) la durata degli abitati è stata relativamente breve e quindi attraverso successivi spostamenti ci sono state notevoli possibilità di mescolamento demografico, assorbimento ecc. d) Gli scambi matrimoniali devono aver costituito un fattore frequente e importante nei processi di ibridazione, sia in senso biologico che culturale, come è documentato anche dall’etnografia. e) Con l’età dei Metalli (IV-I millennio a.C.) i processi di mobilità si accentuano (ricerche di metalli e altre materie prime particolari, aumento delle ricchezze accumulate, conflittualità, sistemi di tra- . LA PREISTORIA A SCUOLA? CONIUGHIAMOLA AL PRESENTE sporto più efficienti grazie all’invenzione della ruota e più tardi all’utilizzazione del cavallo ecc.). f) Probabilmente con l’età del Ferro (primi secoli del I millennio a.C.) con i fenomeni di sinecismo e di protourbanesimo le diverse unità etniche tendono a divenire molto più compatte, tenaci e durature nel tempo. g) Tuttavia si verificano anche nell’età del Ferro vari processi di espansione (vedi i Celti), anche nella forma di “microemigrazioni” (vedi il caso di M. Bibele, in Emilia, dove una comunità etrusca è coadiuvata da gruppi armati Celti), di osmosi fra popolazioni limitrofe (vedi Latini/Italici/Etruschi) e quelli più macroscopici di colonizzazione (in Italia: Greci e Fenici, ma anche Etruschi). h) I Romani, come è noto, realizzarono molti progetti di colonizzazione, ma probabilmente senza che da ciò, tutto sommato, derivassero grandi fenomeni di flussi genici. i) Dopo una serie di spostamenti di gruppi umani, ben organizzati ma pur sempre minoritari (invasioni barbariche ed espansione mussulmana), il Medioevo conosce una lunga fase sostanzialmente stabile. Invece con l’età moderna si aprono nuovi processi di colonizzazione e ibridazione, specialmente nel continente americano. l) Infine con l’industrializzazione, la crescita demografica della popolazione europea, l’aumento e il perfezionamento dei mezzi di trasporto e comunicazione, le nuove necessità economico-sociali portano a rilevanti esodi interni ed esterni. Per gli ultimi - anni per molti di noi è sufficiente fare riferimento alla propria situazione personale: se guardiamo ai nostri ascendenti, in tre o quattro generazioni spesso si sono verificate forti commistioni tra individui di diverse regioni italiane, se non addirittura apporti da altri paesi. . Il rapporto uomo-cibo, ovvero perché non possiamo non dirci onnivori Per quanto concerne la dieta onnivora, ovviamente il cuore del problema (biologico, filosofico e morale) riguarda la possibilità, o la liceità, o la necessità di cibarsi di carne e prodotti animali. Quando si parla di onnivori e in particolare di carnivori non si deve pensare soltanto a predatori o, nel caso dell’uomo preistorico, a cacciatori di medi o grossi erbivori, ma alla capacità di sfruttare tutte le nicchie TOMASO DI FRAIA faunistiche: dai molluschi, agli insetti, ai piccoli uccelli e pesci, a tutti i prodotti animali che possono fornire cibo (ad esempio uova, larve, miele ecc.). Ciò che colpisce in molte posizioni animaliste o vegetarianiste è anzitutto un preoccupante deficit di cultura storica, intesa in senso lato. Infatti, strapazzando un altro famoso aforisma, dopo quello sfruttato nel titolo del paragrafo, si potrebbe dire che “l’uomo è ciò che è perché mangia ciò che mangia” o, meglio, “perché nella sua storia evolutiva ha mangiato ciò che ha mangiato”. Ho l’impressione che, sul piano antropologico-filosofico, la posizione dei vegetariani integrali rifletta il pregiudizio di tipo fissista già illustrato sopra, per cui le cose in natura sarebbero date una (sola) volta per tutte; il concetto cioè di “naturalità” come elemento assoluto e primario, che guiderebbe ogni realtà successiva. Ciò è vero, ma solo in una certa misura, cioè nel senso che l’elemento primario non cessa di esistere e di interagire, ma lo fa in contesti sempre nuovi e con esiti dialettici, che via via possono arrivare a modificarne la natura originaria. In realtà la naturalità per molti è un mito o un feticcio che sembra poter esonerare dalla fatica e dalle difficoltà della ricerca razionale e della problematicità delle scelte etiche: secondo tale impostazione, una volta stabilito ciò che è naturale e ciò che non lo è, tutte le decisioni e i comportamenti ne dovrebbero discendere quasi automaticamente. Purtroppo tale pregiudizio o semplificazione si insinua anche in ambienti e in persone insospettabili. È sintomatico, ad esempio, che nemmeno una personalità come Umberto Veronesi, impegnata tra l’altro nella missione di diffondere la scienza e il metodo scientifico (dirige una fondazione che mira a questo scopo), sfugga a tale sorte. Infatti mi è capitato di sentire Veronesi sostenere le seguenti tesi (cito a memoria): “I primati sono quasi tutti vegetariani; gli scimpanzé, con un DNA simile al nostro per il %, lo sono. Mangiare carne non risponde al nostro istinto fondamentale, alla nostra natura”. In queste affermazioni vi sono due passaggi indebiti, perché: . la nostra natura, come abbiamo visto, non è un dato acquisito una volta per tutte; . e comunque non può essere identificata sulla base di una comparazione superficiale. Ora, una percentuale come quella ricordata da Veronesi di per sé non dimostra nulla, per quanto concerne il punto chiave della questione: infatti proprio in quel % di differenza si situa il risultato del salto evolutivo, dovuto sicu- . LA PREISTORIA A SCUOLA? CONIUGHIAMOLA AL PRESENTE ramente anche alla dieta onnivora. Occorre dunque evitare qualunque accostamento con le scimmie antropomorfe attuali basato su un’ontologia astratta e soprattutto astorica. Questa a mio avviso è una significativa spia proprio della carenza di una cultura storica e ancor più di un approccio metodologico storicamente corretto ai problemi scientifici in vari campi. a) Ma quali sono i dati dell’evoluzione del genere Homo riguardanti il regime alimentare? Senza nessuna pretesa di sistematicità, dobbiamo prendere in considerazione almeno i seguenti punti. Gli australopiteci erano essenzialmente vegetariani; il loro apparato dentario, notevolmente robusto e morfologicamente idoneo alla triturazione di vegetali, anche coriacei, sembra aver costituito la loro risposta a un ambiente in cui erano prevalenti o facilmente reperibili tali risorse alimentari. Inoltre, se si confronta il bacino di Lucy (l’Australopithecus afarensis meglio conservato) con quello del “ragazzo di Turkana” (Homo habilis), si vede che il bacino del primo è molto più ampio, evidentemente per contenere una notevole massa di tessuti intestinali, a loro volta necessari per digerire grandi quantità di vegetali. b) I primi rappresentanti del genere Homo avevano un volto assai più piccolo, mandibola e denti meno massicci, ed erano privi di cresta sagittale (presente invece negli australopiteci, specialmente nel robustus, per ancorare i potenti muscoli masticatori), benché complessivamente avessero una corporatura più grande. c) Il funzionamento del cervello nell’uomo assorbe una parte notevole (circa -%) dell’apporto energetico complessivo, mentre tale valore scende all’-% negli altri primati, e al -% negli altri animali. Anche se lo sviluppo del cervello nel genere Homo può aver avuto più concause, una dieta ricca di sostanze particolarmente nutritive deve averne costituito una condizione essenziale. La riduzione di volume dell’apparato intestinale, resa possibile da una più alta percentuale di cibi molto nutrienti, può a sua volta aver favorito la destinazione al cervello di una parte più consistente del metabolismo complessivo. Una controprova indiretta è costituita dal fatto che i primati col cervello più grande si nutrono di alimenti più ricchi. In sostanza, tutto induce a ritenere che si sia prodotto un circolo virtuoso: «Dopo la fase iniziale di accrescimento cerebrale, la dieta e l’aumento dimensionale del cervello probabilmente agiro- TOMASO DI FRAIA no in maniera sinergica: un cervello più grande produceva un comportamento sociale più complesso, che portava a cambiamenti nelle tattiche di procacciamento del cibo e a un’alimentazione migliore, le quali a loro volta favorivano l’ulteriore evoluzione cerebrale» (Leonard, ). In questo quadro l’opzione vegetariana odierna oggettivamente va contro la nostra costituzione biologica. Sarebbe importante che i vegetariani fossero consapevoli che il loro comportamento tende a invertire un trend che è cominciato oltre tre milioni di anni fa e che è proseguito anche dopo l’affermazione della specie sapiens. In altre parole, mentre gli australopiteci e poi gli ominidi hanno cercato di ampliare la gamma delle risorse alimentari, includendovi anche gli animali, e così facendo hanno favorito un certo tipo di evoluzione, oggi il vegetariano fa l’operazione esattamente opposta, rinunciando a qualcosa per cui il nostro organismo ha impiegato tantissimo tempo ad adattarsi. Infatti, sia pure in modi molto differenziati, in ragione delle diverse risorse ambientali, tutte le popolazioni umane studiate dagli etnologi mostrano una dieta comprensiva di cibi sia vegetali che animali. È giusto dunque essere conservatori riguardo al cibo, perché questo significa sfruttare al meglio tutto il progresso adattativo realizzato dai nostri antenati in molte migliaia di anni attraverso una serie di importanti innovazioni: dall’apporto carneo, alla cottura dei cibi, al consumo del latte in età adulta. In questo caso infatti, paradossalmente, essere conservatori corrisponde al massimo di innovazioni, mentre le pretese innovazioni dei vegetarianisti sono dei tentativi oggettivamente regressivi, di cui, oltre alla debolezza teorica, bisogna sottolineare la difficoltà e i pericoli insiti nella loro attuazione. Infatti, poiché le trasformazioni e gli adattamenti biologici si sono assestati attraverso una lunghissima selezione specifica e intraspecifica, non sappiamo quale potrebbe essere l’esito, specialmente a lunga scadenza, dell’adozione di un vegetarianesimo integrale. Anche in questo caso deve valere il principio di precauzione, tanto più che negli ultimi venti anni alcuni studiosi hanno collegato una serie di malattie odierne (obesità, ipertensione, coronaropatie, diabete) anche all’allontanamento dalla dieta e dallo stile di vita dei cacciatori, raccoglitori e agricoltori preistorici: una dieta onnivora e un adeguato consumo energetico. Un caso particolare è quello dell’assunzione del latte nella dieta degli adulti; ovviamente gli individui in possesso della lattasi (l’enzi- . LA PREISTORIA A SCUOLA? CONIUGHIAMOLA AL PRESENTE ma, presente nei lattanti, in grado di scindere il lattosio e di permetterne quindi la digestione) ne possono usufruire, gli altri no. In questo caso, a differenza di molti altri aspetti dell’alimentazione, c’è quindi un vincolo fortissimo, costituito dall’impossibilità organica di digerire il latte, così come succede, a una certa percentuale di persone, per le bevande alcoliche. In altre parole, mentre chi tollera l’alcol o il latte può decidere se assumerli o meno, chi non li tollera non dispone di questa opzione. Affermare, come fanno alcuni vegetariani, che assumere latte da adulti è sbagliato e biologicamente pericoloso è quindi un’inaccettabile generalizzazione, o addirittura una posizione dogmatica, se si sostiene che l’unico modo corretto (“secondo natura”) di assumere latte è quello del lattante. E comunque la persistenza della lattasi negli adulti non è un dato primigenio, bensì il risultato di un processo originato da una serie di mutazioni genetiche che nel corso del tempo si sono affermate tanto da caratterizzare un’alta percentuale delle popolazioni attuali. Anche le posizioni etiche dei vegetarianisti, pur essendo animate da intenzioni per certi versi lodevoli, mi sembrano estremamente deboli sul piano scientifico e logico. Francamente non capisco come si possa affermare, come fa Peter Singer (), che l’uccisione degli animali è una forma di sfruttamento inaccettabile, addirittura paragonabile alla schiavitù umana dei tempi andati. Come si concilia, infatti, l’affermazione secondo cui non è lecito uccidere gli animali per cibarsene con il fatto che gli animali carnivori e quelli onnivori uccidono per tale scopo? Paradossalmente, se si negasse all’uomo tale possibilità, da una parte gli si negherebbe un diritto riconosciuto a tutti gli animali onnivori, dall’altra gli si attribuirebbe implicitamente una superiorità morale, reintroducendo dalla finestra ciò che si pretende di cacciare dalla porta, giacché è proprio Singer a rigettare l’idea, tradizionalmente cristiana, di un’assoluta superiorità dell’uomo rispetto agli altri animali. Secondo l’impostazione animalista, l’uomo risulterebbe l’unico essere vivente che, consapevole della sofferenza delle sue potenziali vittime, si asterrebbe meritoriamente dal cibarsi di carne. Si potrebbe magari sostenere che la superiorità dell’uomo si realizza proprio in questa scelta (di rinuncia); e tuttavia resterebbe una contraddizione cruciale tra questa opzione umana e il fatto che, per raggiungere tale consapevolezza, i nostri lontani antenati abbiano dovuto uccidere altri animali per cibarsene, fino a fare della dieta onnivora un dato costitutivo della loro stessa fisiologia. TOMASO DI FRAIA In definitiva, potremmo dire che anche nella dieta, come per altri aspetti fisiologici, siamo vincolati in una certa misura dal nostro passato evolutivo. Così, ad esempio, anche se teoricamente è ipotizzabile uno stile di vita che riduca l’apporto energetico e parallelamente il lavoro fisico, quest’ultimo non potrà scendere sotto una certa soglia, pena una serie di problemi sanitari (Leonard, , p. ). . Il rapporto uomo-risorse e le scelte politiche, ovvero perché anche la preistoria è sempre storia contemporanea. Il caso delle terremare. Il vocabolo “terramara” in dialetto emiliano sta per “terra marna”, cioè terra grassa, e in particolare serviva a indicare nell’Ottocento quel terreno estratto da piccoli rialzi o tumuli (alti dai ai metri) presenti in varie località della pianura padana e costituiti da depositi antropici preistorici formatisi nel corso dell’età del Bronzo media e recente (XVII-XII secolo a.C.). Per estensione il termine è passato a indicare proprio i rispettivi abitati preistorici. Si tratta di: Villaggi generalmente quadrangolari, circondati da un argine e da un fossato; le dimensioni, durante le prime fasi del Bronzo medio, di norma non sono superiori ai due ettari. Tale evidenza sembra interpretabile come il risultato di una colonizzazione della pianura da parte di comunità che sono in grado di sfruttare i suoli pesanti e argillosi grazie all’uso dell’aratro a trazione animale come pure di edificare abitati complessi con tecniche costruttive elaborate e con cognizioni di ingegneria idraulica tali da rendere possibile la realizzazione di fossati, terrapieni e bonifiche con palificazioni. [...] Per quanto riguarda l’organizzazione interna degli abitati, [le ricerche hanno] evidenziato l’esistenza [...] di un’organizzazione intensa e pianificata dello spazio (Cardarelli, , pp. -). I diversi approcci adottati nel corso del tempo rispetto allo studio delle terremare offrono casi esemplari di derive ideologiche, in cui ciò che emerge con forza è appunto la volontà di piegare l’oggetto di studio alle esigenze ideologiche e addirittura alla lotta politica vera e propria (Peroni, ; Tarantini, ). Così Luigi Pigorini verso la fine dell’Ottocento, soprattutto sulla base dell’organizzazione degli abitati terramaricoli secondo un preciso reticolo ortogonale, ritenne . LA PREISTORIA A SCUOLA? CONIUGHIAMOLA AL PRESENTE che le terremare fossero la prefigurazione del castrum romano e i terramaricoli gli antenati dei Latini e della civiltà romana. Al contrario Giovanni Patroni arrivò nel a sostenere che i terramaricoli [...] si erano assoggettati al più rigido e feroce comunismo, livellatore implacabile anzi cancellatore dello individuo e della famiglia. [...] Gli anziani e i più forti dovevano riunirsi in un specie di Soviet che disponeva tirannicamente delle forze e del lavoro dei singoli. [...] Non esistevano né mariti né mogli né padri né figli riconosciuti come tali. [...] Il culto dell’individualità e della proprietà, di cui non si trova né potrebbe trovarsi esempio nelle terremare, è veramente cosa romana e perché romana, mediterranea. Non saprei se in tali affermazioni sia più grave l’abdicazione al rigore scientifico o il delirio ideologico, ma probabilmente la seconda cosa ha prodotto la prima. Quali erano le basi delle società terramaricole e quali furono le ragioni della loro prosperità? Sinteticamente possiamo indicare i seguenti punti: . bonifiche del territorio e attenta gestione delle acque, realizzate anche attraverso forme di coordinamento territoriale; . struttura razionale degli abitati, che raggiungono spesso dimensioni ragguardevoli (fino a ettari), denotando un notevole livello di coesione sociale e collaborazione (Peroni, ); . sviluppo particolare del settore primario (in cui svolge un ruolo importante l’allevamento bovino), delle produzioni specializzate e degli scambi, a livelli molto avanzati; per quest’ultimo aspetto sono altamente significativi i ritrovamenti di pesi da bilancia (Cardarelli, Pacciarelli, Pallante, ); . crescita demografica (fino a un totale di circa . persone), moltiplicarsi degli insediamenti, prosperità complessiva inedita. Nonostante questo quadro, o probabilmente in buona misura in conseguenza di esso, le terremare conoscono una rapida crisi, che, verso il a.C. e forse nell’arco di non più di una generazione, portò alla loro scomparsa, con una probabile diaspora degli abitanti. Gli archeologi hanno cercato di individuare le cause di tale crollo e sono arrivati a escludere eventi naturali catastrofici (come potrebbero essere forti oscillazioni climatiche, alluvioni o al contrario fasi di grave siccità); tutt’al più è stata colta una tendenza a un graduale deterioramento climatico, che comunque di per sé non avrebbe potuto avere un effetto scatenante. Pertanto hanno rivolto l’attenzione ai seguenti fattori: TOMASO DI FRAIA . conflittualità interna (competizione per l’accesso alle risorse probabilmente decrescenti) e forse anche esterna (come suggerirebbero l’ampliamento e il rafforzamento di argini e terrapieni nell’ultima fase di vita di alcuni abitati), in un periodo di profondi sommovimenti in varie aree del Mediterraneo; . coordinamento territoriale insufficiente, al contrario degli “imperi idraulici”, sorti in Mesopotamia e in Egitto proprio in funzione di una gestione delle risorse idriche su ampia scala e con il coinvolgimento cooperativo di molti gruppi umani. A questo proposito mi piace citare, mutatis mutandis, una battuta fulminante messa da Italo Calvino sulla bocca del personaggio narrante del Barone rampante, un giudizio impietoso dei ritardi e delle difficoltà dell’Italia: «Viviamo in un paese dove si verificano sempre le cause e non gli effetti». Nel caso delle terremare sarebbe mancata insomma la capacità politica di gestire la crisi o, una volta avvenuta, di riorganizzare le comunità su nuove basi; . rapporto troppo predatorio con la natura (in particolare la deforestazione, attestata dagli spettri pollinici), fenomeno di cui gli stessi terramaricoli sembrano aver preso coscienza e percepito le prime conseguenze, come sembra attestare il ridotto (forzato o intenzionale?) consumo di legname nell’ultima fase di vita di alcuni insediamenti. Insomma, sarebbe mancato ai terramaricoli quel senso del limite, la cui assenza molti secoli dopo segnerà la fine delle comunità umane sull’isola di Pasqua. In conclusione, è fin troppo evidente che le terremare sono un ottimo esempio di intreccio tra fattori ambientali e sociopolitici nella crisi di un intero sistema. Tutto ciò non ci dice niente sulle sfide che dobbiamo affrontare oggi a livello locale e a livello planetario? Chissà se riusciremo a capire che anche la Terra, per quanto concerne la finitezza delle risorse e l’interdipendenza dei diversi sistemi, in fondo non è altro che una grande isola di Pasqua o un insieme di abitati terramaricoli! Bibliografia . (), Le età dei metalli dell’Italia settentrionale, in A. Guidi, M. Piperno (a cura di), Italia preistorica, Laterza, Roma-Bari, pp. -. ., ., . (), Pesi e bilance dell’età del bronzo italiana, in C. Corti, N. Giordani (a cura di), Pondera. Pesi e misure nell’antichità, Libra , Modena, pp. -. . LA PREISTORIA A SCUOLA? CONIUGHIAMOLA AL PRESENTE - . ., ., . (), Storia e geografia dei geni umani, Adelphi, Milano (ed. or. The History and Geography of Human Genes, Princeton University Press, Princeton ). . (), Le scienze archeologiche nell’insegnamento della storia nella secondaria superiore, in “Insegnare”, -, pp. -. . (), Archeologia, Linguistica e Scienze naturali: dalla ricerca all’insegnamento, in AA.VV., Evoluzione tra ricerca e didattica (Scuola estiva ANISN), “Le scienze naturali nella scuola”, numero speciale, pp. -. - . (), La circulation des matières premières au paléolithique, ERAUL, Liège. . . (), Cibo per pensare, in “Le scienze”, , pp. -. . (), Preistoria e protostoria. La vicenda degli studi in Italia, in AA.VV., Le vie della preistoria, manifestolibri, Roma, pp. -. . (), Le terramare nel quadro dell’età del bronzo europea, in M. Bernabò Brea, A. Cardarelli, M. Cremaschi (a cura di), Le Terramare. La più antica civiltà padana, Electa, Martellago, pp. -. . ., ., . (), Migration in the Bell Beaker Period of Central Europe, in “Antiquity”, , pp. -. . (), Animal Liberation, New York Review/Random House. . (), Appunti sui rapporti tra archeologia preistorica e fascismo, in “Origini”, XXIV, pp. -. Gli autori Francesco Frati, Dipartimento di Biologia evolutiva, Università di Siena Pietro Omodeo, Dipartimento di Biologia evolutiva, Università di Siena Antonio Brusa, Dipartimento di Scienze storiche e sociali, Università di Bari Carlo Peretto, Dipartimento di Biologia ed Evoluzione, Università degli Studi di Ferrara Francesco Mallegni, Dipartimento di Biologia, Università di Pisa Gianfranco Biondi, Dipartimento di Scienze ambientali, Università dell’Aquila Olga Rickards, Dipartimento di Biologia, Università di Roma Tor Vergata Pier Giorgio Solinas, Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali, Università di Siena Michele Lanzinger, Museo tridentino di Scienze naturali, Trento Cinzia Dal Maso, giornalista, scrive per “la Repubblica” e “Il Sole- Ore” Brunella Danesi, Associazione nazionale insegnanti di Scienze naturali Tomaso Di Fraia, Dipartimento di Scienze archeologiche, Università di Pisa