GLI ORECCHINI
Da quando era ancora piccola ragazzina, io avevo una certa affettuosa tenerezza tutta speciale per Graziella, l'unica figlia del Sig.
Perez, uno dei miei migliori e più vecchi amici.
Ero due anni più grande di lui, ma avevamo fatto gli studi liceali
insieme e tutti e due prendemmo moglie proprio nello stesso anno.
Io non ebbi alcun figlio, anzi rimasi vedovo non molto tempo dopo il
mio matrimonio. Lui però viveva felice con sua moglie, insieme alla loro adorabile Graziella, ma mai passò settimana che non ci fossimo
visti
Entrambi ci eravamo stabiliti a Parigi. Le nostre professioni si rassomigliavano molto, erano quasi consimili: pittore lui, romanziere io.
Avevamo fatto stampare in società un libricino, scritto da me ed illustrato da lui. Questo nostro opuscolo conteneva certi piccoli racconti
che piacquero molto a Graziella, la quale non era priva di una certa
cultura; anzi, di pittura e di letteratura se ne intendeva abbastanza.
Forse ciò mi portava a conversare volentieri con lei e a prestar
attenzione alle sue parole in misura maggiore di quella che un uomo
della mia età poteva usare con una creaturina del suo pari. Così passò
qualche anno, finché venne il momento in cui dovette andare sposa.
Sulle prime, Graziella tentennò alquanto, si mostrò un pò restia, pianse perfino, a farla breve, fece ciò che fa ogni ragazza in circostanze
simili. Il giovanotto però — il futuro sposo — l'amava sul serio, e fece tanto e tanto, che finì per renderla persuasa e convinta, si che Graziella cambiò completamente parere e non ebbero più fine i suoi sommessi cinguettii con Filippo.
Io mi compiacqui di questa piega che presero le cose, e per contribuire in qualche modo alla felicità di Graziella, decisi di regalarle
nel giorno delle sue nozze un paio di magnifici orecchini, montati ciascuno con una bellissima grossa pietra di zaffiro.
Aspettavo da un momento all'altro un'occasione per offrirglieli. All'antivigilia dello sposalizio nelle spaziose sale della casa paterna, davano
una festa da ballo. Vi andai con gli orecchini in tasca, alle venti. Chiamai in disparte Graziella, e nel dirle che avevo preparato una sorpresa,
glieli attaccai io stesso agli orecchi e la baciai sulla fronte.
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Graziella rimase alquanto perplessa, anzi notai che nel momento
che sfioravo le sue guance per attaccarglieli, rabbrividì come se ad un
tratto le fosse accaduto qualcosa di grave e di strano: però, immediatamente si era ricomposta. Mi disse ciò che mi doveva dire per ringraziarmi e se ne distaccò in tutta fretta.
La musica aveva incominciato a suonare e il ballo si faceva assai
animato. Graziella non mancò di prendervi parte al braccio del suo
promesso sposo. Però Iddio solo lo sa quello che ne seguì
Non passarono venti minuti, che Graziella cadde per terra svenuta.
La festa venne troncata e tutta la folla degli intervenuti si fece premura di accorrere e portarle soccorso. Quando rivenne e si alzò, la sua
mamma con una certa ansia, le domandò:
— « Che hai fatto dei tuoi orecchini, Graziella mia »?
Graziella si turbò. Portò instintivamente le mani agli orecchi, come
per accertarsi che effettivamente mancavano e con un fare stranissimo, disse:
— « Davvero! Non li ho più! Dove saranno?... »
Tutti si misero a cercare: Invano però. Si capisce che con un incidente simile, il ballo non riprese più e la festa andò a monte.
Gli invitati non osavano guardarsi in faccia. Era evidente che qualcuno aveva rubato gli orecchini e ciascuno temeva di essere sospettato.
Rubati, certamente gli orecchini; ma quando? Naturalmente nel
momento in cui Graziella svenne e la folla le venne dintorno. Era dunque fuori dubbio che gli orecchini erano spariti in seguito a furto.
Combinazione vuole che nel medesimo inverno in cui avvenivano
le nozze della signorina, si verificò un furto di due dipinti nella casa
del mio amico Perez, e fu impossibile di scoprire il ladro. Ciascuno
dunque suppose che lo scherzo continuava e che il ladro, forse per odio
personale che nutrisse contro il mio amico, forse per semplice speculazione, comparì al momento opportuno e sgraffignò gli orecchini.
Chi avrebbe fatto a tempo, in una simile sala, in mezzo a tanti
convenuti, prima staccare i gancetti, poi levare, l'uno dopo l'altro, gli
orecchini dagli orecchi di Graziella? Vero è che Graziella svenne, e nel
rimescolio e nel turbamento che provocò lo svenimento, non era escluso
che qualcosa potesse accadere. Ma anche se così fosse, si stenta a concepire l'audacia di colui che in momento simile, immaginò possibile un
furto, e riuscì per giunta a perpetrarlo.
Comunque, io mi rammaricavo che quella buona figliola non avesse
potuto godere il mio regalo, un regalo che a me pure era caro e prezioso,
perché gli zaffiri appartenevano alla buona anima di mia moglie, e Graziella era a conoscenza di questo fatto.
Cosa si poteva fare? Gli orecchini avevano ormai preso il volo. Ad
ogni modo però, dovevo pur donare qualcosa a Graziella.
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Potevo lasciar così senza il meno ricordo la figlia del mio amico
migliore?
Impossibile. Pensai dunque di acquistare un servizio da tè di quegli
inglesi che hanno la forma di piccoli tavolini a vassoio di porcellana, rotondo e staccabile. Il tavolino si può mettere in un angolo del salotto, si
porta intorno il vassoio e si offre una tazzetta alle signore od ai signori
che vengono a far visita.
Quando Graziella lo ricevé — glielo mandai l'indomani, di buon'ora,
prima di mezzogiorno — mi scrisse subito una lettera tutta grazia, affezione e calore, per dirmi che la mia bontà era oltre ogni dire grande,
che non si meritava tanti riguardi e che il servizio avrebbe avuto tutte
le sue cure e che l'avrebbe sempre, costantemente, tenuto nel suo salottino per contemplarlo.
Degli orecchini, in questa sua lettera, non faceva cenno alcuno, perché, verosimilmente, non voleva recarmi dispiacere, né essa stessa dispiacersi, parlando di una cosa che fece una così infelice e deplorevole
fine. Ed io dissi fra me e me che era ormai tempo di non pensare più a
questo fatto, tanto più che mi pareva improbabile, ma assai improbabile, che gli orecchini si potessero ritrovare mai più. Ma quand'anche si
fossero ritrovati, pure sarebbe stato spiacevole, perché bisognerebbe
immaginare la vergogna che poteva ricadere su tutti noi, venendo a scoprirsi ad un tratto un ladro in seno ad un trattenimento così scelto ed
importante. Sarebbe stato spiacevole anche per la povera Graziella, che
io dovessi ad ogni occasione rammentarle un avvenimento, del quale, in
fondo in fondo, si sarebbe potuto dire che era lei la colpevole. In fin dei
conti poi, spiacevole anche per me lo stare incessantemente a rimpiangere da meschino spilorcio le pietre preziose involte. Taciamo dunque.
E per l'appunto mi capitò di vedere Graziella di sfuggita l'indomani,
cioè durante il giorno in cui doveva avvenire lo sposalizio.
Non ci scambiammo neanche una parola. Lo stesso giorno dello sposalizio, la sera, partì con suo marito e così rimasi quieto e tranquillo. Doveva allontanarsi per un mese circa.
Qualche quindici giorni dopo il suo ritorno, l'andai a vedere.
Vi arrivai di buon ora, alle due del pomeriggio prima che incominciassero le visite. Il servizio da tè era al suo posto, come me lo aveva promesso. Dovetti però fare anticamera durante parecchi minuti, perché, a
ciò che pare, Graziella non era pronta a ricevermi. Notai che ad ogni
modo ritardava assai a comparire e pensavo che per ricevere un
vecchio come me, non c'era poi bisogno di mettersi proprio in ghingheri.
Finalmente, Graziella comparì. La sua espressione non saprei descriverla. Vi dissi che sono romanziere, e non soltanto nei miei romanzi, ma
anche nella vita pratica.
Cioè a dire: tal quale io analizzo i miei personaggi finti — gli esseri della mia fantasia —, così anche scruto l'animo dei personaggi veri, di
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quelli che vivono ed agiscono effettivamente, e tutto ciò con una logica
prestabilita. A questo sono portato dalla mia professione e vi sono anche portato per inclinazione naturale.
In quel momento, senza volerlo, non potei trattenermi, e volli leggere nell'intimo di Graziella.
Strano a dirsi! Non appena mi fu vicina, immediatamente dopo che
mi porse la mano, abbassò i suoi occhi. Allora io esaminai attentamente
la sua strana espressione. Graziella mi parve aver l'aria di uno che avesse commesso un fallo e che fosse conscio di aver commesso una cosa riprovevole. Mi stupii ancor di più, quando ad un tratto, la sentii dirmi,
invece di darmi il buon giorno:
— « Non può aver idea del dolore che mi presi!... »
Dopo sei settimane dacchè era accaduto il fatto, certo no c'era affatto bisogno che Graziella mi parlasse degli orecchini, quando né nella
sua lettera né durante il giorno delle sue nozze, in cui ci vedemmo, non
me ne disse neanche un ette a tale proposito. Quel ch'è fatto è fatto. Tanto più che con la presenza del servizio da tè nel salottino, ogni altra discussione era fuori luogo.
Certo, anche il padre non aveva mancato, durante e dopo la sera da
ballo, di farmi sapere mille e mille volte che s'era preso un grande dispiacere anche lui per la sparizione degli orecchini.
Il fare però di Graziella era tutto differente da quello di suo padre,
quando mi espresse questo suo rammarico. Quel: — « Non può aver idea
del dolore che mi presi », non significava esattamente che gliene dolesse;
non dimostrava affatto una gran pena. Dimostrava invece un certo che
di pentimento e pareva che tutta quella sua piccola frase significasse nell'assieme questo: « Come mi pento di essermi fatta rubare gli orecchini! »,
frase che non avrebbe potuto avere significato alcuno.
Può darsi anche che mi fossi ingannato; può darsi che mi fossi lasciato trascinare dalla mia fantasia, facendo tutte queste congetture, non
risposi niente a Graziella e così cambiammo discorso. L'osservavo sempre
però, e vedevo che, finchè durò la mia visita, chinava spesso la testa e
schivava di fissarmi negli occhi; capivo che qualcosa doveva tenerla inquieta, che, a farla breve, le mancava quella franchezza e quell'ardire che
ha sempre un ragazzo quando si trova di fronte ad un vecchio amico del
proprio padre.
Quando qualche mese più tardi mi accorsi che Graziella aveva ripreso la sua abituale franchezza e mi si comportava con la solita sua ingenua semplicità e grazia, me ne compiacqui assai.
Un bel giorno, invitai marito e moglie a pranzo, non escludendo,
s'intende, i genitori di Graziella.
Vennero a pranzo anche certi giovani che si occupavano di letteratura, scrivendo, con me, qualche romanzo; giovani che io proteggevo in
certo qual modo, da superiore d'età ch'ero a loro.
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Il crocchio era dunque più che ristretto ed intimo. Cerimonia non
vi fu alcuna. Dopo cena, tutti quanti, signore e signori, passammo nel
mio studio, dove si fumò delle sigarette e qualche buon sigaro e si continuò la conversazione.
Graziella, che nella sala da pranzo prendeva parte alla conversazione con molto garbo e brio, stava adesso seduta al fianco di suo marito,
zitta, tutta incantata e felice. Solo di quando in quando, senza che nessuno se ne accorgesse, stringeva amorosamente e furtivamente la mano
di suo marito.
Dava l'impressione che agli altri badasse appen'appena, nè faceva
caso di ciò che le succedeva d'intorno.
I miei giovani colleghi di cui parlai poc'anzi, colta l'occasione che
ci trovavamo nel mio studio dove si trovavano pure tutti i miei libri,
cominciarono, certo obbedendo alla loro indole buona ma fors'anche
per un pò d'interessamento, a lodare le mie opere.
Specialmente uno di questi si sarebbe detto che fosse stato preso
da una vera e propria mania di lodarmi. Andava pazzo per il mio raro,
quasi unico talento, come diceva lui. S'era messo nel mezzo della stanza e perorava con tanto calore a favore di tutta la mia produzione letteraria, che il suo entusiasmo cominciò a conquistare tutti, sicché tutti finirono per innalzare ai sette cieli la mia persona ed i miei romanzi.
« Oh! Si! Son belli, ma proprio belli! E sono anche così veri che
par proprio che raccontino cose viste e vissute ».
Questa era una voce nuova, che risuonava quella sera in quella
stanza per la prima volta e di repente. Mi voltai e rimasi stupefatto e
perplesso: era la voce di Graziella! Mai fino a quel momento, che io
ricordi, aveva parlato con tanto ardore dei miei romanzi. Pensai che dovevo dirle qualche cosa in risposta, perché pareva che incominciasse
a vergognarsi che non poté trattenersi e si fece sfuggire di bocca degli
elogi così calorosi.
L'avvicino e le fo:
— « Dal momento che ti piacciono tanto i miei libri, voglio sperare
che dalla tua piccola biblioteca non ne manchi alcuno. Se no.... »
« Certo, certo li ho tutti, per serie completa... Almeno credo...
Grazie... »
— Be'; comunque sia, vieni a dare qui un'occhiata, piccina mia,
che, se per caso te ne mancasse qualcuno, avrei molto piacere a regalartelo ».
Nel mio studio c'era anche la mia biblioteca. In una scansia stava la serie completa di tutte le mie opere.
La pregai di leggere e dirmi. Anzi, ne lessi io stesso i titoli, cominciando da quelli che per i primi mi capitarono sott'occhio. Senza
esitare neanche per un momento, mi rispose che aveva tutto. Arrivai
al quarto:
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— « LILLY ». Ce l'hai la LILLY?
« La LILLY?... ». Si! No, no, mi sbagliavo. Ma si che ce l'ho, credo,
almeno... Oppure, forse no... Già, già. No, non ce l'ho.
A questo punto Graziella si fece tutta rossa, si turbò e tacque.
— Non importa, le dissi, io ti faccio tenere la serie intera, con una
piccola dedica su ogni copia, e quelli che hai, li regali alle tue amiche;
gli altri, se credi te li trattieni.
Così feci l'indomani. Nel pacco ci misi anche la « LILLY ». Però
avrei scommesso che non soltanto Graziella aveva la « LILLY », ma
che l'aveva anche letta e straletta. In seguito però al diniego di Graziella, mi nacque nella mente un sospetto così: strano e così forte, che non
mi potevo prendere il coraggio di chiarire a me stesso.
Dovevo prima accertarmi di una cosa e non potevo farlo. Come
mai potevo andare a frugare nella biblioteca particolare di Graziella?
dal momento che questa biblioteca non si trovava nel suo salotto?
Ma dato anche che vi fosse, dopo quella sera niente di strano che Graziella, per non comparire bugiarda, avesse nascosto la « LILLY ».
Pensai però, così, all'improviso, di accertarmi di un'altra cosa che
aveva l'aria di non aver nessuna relazione con la « LILLY », mentre,
effettivamente, ne aveva molta.
Stavo passeggiando tutto turbato nella mia stanza, quando, di colpo, esclamai:
— so, so dove stanno gli orecchini!
Ed in verità se gli orechini fossero là dove supponevo, si affacciava la
probabilità che il mio sospetto risultasse fondato. Ad ogni modo, mi si
era formata la certezza che gli orecchini dovessero trovarsi nella casa
del mio amico Perez, nella sala da ballo, in vicinanza del luogo dove
Graziella cadde svenuta.
Andai da Perez in un momento in cui egli mancava e dissi al cameriere che l'avrei atteso nel suo studio, cosa che avevo l'abitudine di
fare qualche volta. Da una porta di questo studio si passava ad un piccolo giardino d'inverno che conduceva, dopo pochi passi, giusto nella
sala da ballo. Qui, nel bel mezzo, c'era una vasca dalla quale emergevano delle rocce artificiali e nel cui fondo c'era un po' di sabbia. Dalle
rocce venivan giù delle piccole cascatelle d'acqua.
Mi chinai, raspai un po', cercai dappertutto, e non passò gran che
di tempo, che mi vennero fra le mani gli orecchini.
Naturale! Così richiedeva la logica della psicologia. Dato che Graziella asseriva di non possedere la « LILLY » quando, giusto le mie
congetture, l'aveva effettivamente, così doveva essere accaduto al ballo, quando Graziella faceva l'angosciata e diceva di non possedere più
gli orecchini, e invece sapeva perfettamente dove li aveva messi a giacere. Vi ricordate come protestò? — « Non li ho più, non li ho più ».
In tutti e due i casi, Graziella aveva mostrato lo stesso turbamento.
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In tutt'e due le volte, dunque, qualcosa ci doveva essere sotto. E questo qualcosa è che Graziella da sola aveva gettato gli orecchini nella
vasca, da sola li aveva nascosti sotto la sabbia e, se preferite, li rubò
anche da sola.
Per quale motivo però poteva averli gettati nella vasca? Con quale
scopo poteva averli rubati?
Mi riesce un pò difficile a svelarvelo, perché sono coinvolto anch'io
nella faccenda. Ma il sentimento che portò Graziella a una tale azione,
era così puro, così squisito ed anche così fanciullesco, che senza alcun
ritegno posso esporvelo.
E' stata la « LILLY » che mi condusse a conoscere il segreto. La
« LILLY » è più un racconto che un romanzo, anzi è un piccolo innocente romanzo nel quale un bel giorno mi passò per la testa di studiare
nel suo intimo una fanciulla che, come alle volte accade, s'innamora
— dato che questo sentimento si possa chiamare amore — di un uomo
più di lei avanzato negli anni, tal e quale come i bambini, i ragazzini,
che dicono che sposeranno la propria bambinaia che li tiene a trastullare, perché alla loro età e nel loro circolo ristrettissimo la bambinaia
par loro come l'essere più rimarchevole, più importante e più perfetto
che ci sia. Così anche le ragazze: alle volte, un uomo di cinquanta, cinquantacinque anni che potrebbe essere un amico di loro padre, agli
occhi loro ha qualche cosa di superiore, qualcosa di ammaliante, che
le avvinghia e le trascina.
Nel mio caso, avranno certamente contribuito parecchio i miei romanzi, avrà aiutato anche la « LILLY ».
Graziella, nel leggermi, doveva immaginarmi chi sa quale essere
eccelso ed unico.
Ma, il più delle volte, succede anche il contrario; cioè a dire: se
qualcuno ha trent'anni e una ragazza ne ha 16 o 17 appena, l'uomo passa immediatamente per vecchio. Però, i miei capelli grigi, pare che Graziella non li vedesse neanche e mi considerava invece tal quale apparivo dai miei libri.
Poverina! Chi mai poté leggere nell'intimo dell'animo suo per dirci poi quali segreti desideri e speranze si avrà raccontato, quali palpiti avrà sentito, quali piani forse, perché certamente Graziella
doveva celare con grande timore nei ripostigli più reconditi della sua
mente (facendo grandi sforzi per soffocarlo, per la vergogna che le faceva sentire), quello che essa prendeva per amore — un amore che non
potrebbe esistere, perché fuori legge!
Cominciavo dunque a capire a poco a poco la ragione per cui Graziella non volle tenere appesi ai suoi orecchi gli orecchini che le regalai.
Il servizio da tè, l'aveva accettato ben volentieri, con piacere, senza farsi passare per la mente di commettere una cosa fuori luogo. Tutt'altro.
Lo mise invece nel suo salotto, per averlo sempre sott'occhi. Non le
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era importuno. E infatti, quel tavolino con le sue tazze tutt'intorno, era
bensì mio, proveniva da me, ma nello stesso tempo era anche una cosa
estranea: non era una cosa che si avrebbe dovuto indossare; era, al
contrario, da poggiarsi in un cantuccio, e lasciarvelo. Con una parola
non toccava le carni di chi lo possedesse, non si sentiva quasi attaccato alla propria pelle.
Ed in verità, ammirai il sentimento femminile che con tanta finezza ed in maniera così netta, distingue un dono dall'altro.
Ricordatevi anche che io stesso, con le mie mani le infilai negli orecchi gli orecchini. Vi dissi che in quel momento Graziella s'era fatta
rossa, turbandosi: avrà pensato che dal momento che stava per andare
sposa, dal momento che amava Filippo e Filippo le contracambiava,
era suo dovere dimenticare chiunque altro. Fors'anche le parve infedeltà, quasi un tradire suo marito, specialmente in una serata come quella
— l'antivigilia delle sue nozze — aver occupati i suoi orecchi da qualche cosa che non era stata il suo futuro sposo a dargliela. Quegli orecchini, si direbbe che le bruciassero la pelle e il suo cuore. Si fece dunque coraggio, si avvicinò alla vasca, ve li gettò e li ricoperse di sabbia
perché nessuno li vedesse, ma poi non poté reggere, si turbò; ed è perciò che svenne, pensando che non aveva più gli orecchini.
Così interpretavo fra me e me la faccenda; in ogni modo però, dovevo accertarmene.
Dovevo trovare una maniera di accertarmi senza che Graziella comprendesse che io ebbi dei sospetti.
Andai a farle visita in uno dei giorni in cui riceveva. Vi andai però
tardi, perché ci fosse già della gente — fra le quattro e le quattro e
mezza — nel momento in cui si servirà il tè.
Graziella stava vicino al servizio da tè e preparava le tazze. Io cominciai a conversare con gli intervenuti e, col fare di uno che parli di
cose indifferenti, ma in un tono che ognuno, ed ognuna, potesse sentirmi, pronunciai la seguente piccola frase, che si capisce, era perfettamente connessa al filo del discorso:
— Certamente! Alle volte capita anche questo: che una cosa che
piace, una cosa a cui si può porre un grande affetto, viene l'inatteso
momento che ci costringe di preferire a separarcene, di gettarla nell'acqua, per esempio, gusto perché la si ama.
Nello stesso monk2nto, proprio nello stesso momento, non appena
ebbi il tempo di finire la mia piccola frase, Graziella, che teneva in mano una tazza, la lasciò cadere a terra.
Mi alzai. Più precisamente, balzai su. Per cambiare discorso la pregai di darmi la tazza rotta, allegando che di simili se ne fabbricano solo in Inghilterra, ed era necessario che ne mandassi un pezzo che potesse servire come modello e campione per la fabbricazione di un'altra,
si che il servizio tornasse completo.
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Me la diede. L'avvolsi in un po' di carta e me ne andai. Uno dei
pezzi lo mandai in Inghilterra, come avevo detto a Graziella.
Gli altri li conservai e dentro questa porcellana ormai frantumata,
misi i miei due zaffiri, per averli come simbolo e ricordo del più puro,
del casto e forse anche del più vero amore che mi venne dato d'incontrare nella mia vita.
GIOVANNI PSICHARI
(traduzione di Giacomo Disikirikis)
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