Politiche per le periferie dalla periferia delle politiche1 Giovanni Laino Dipartimento di Urbanistica, Università degli Studi di Napoli Federico II 081- 2538629 [email protected] 7HVWRSXEEOLFDWRLQ*RYHUQD)H6DFFRPDQL6DFXUDGL3HULIHULHWUD ULTXDOLILFD]LRQHHVYLOXSSRORFDOH8QFRQIURQWRVXOOHPHWRGRORJLHHVXOOHSUDWLFKHGL LQWHUYHQWRLQ,WDOLDHLQ(XURSD$OLQHD)LUHQ]H33 “Le grandi questioni della tarda modernità non si capiscono stando al centro, ma stando ai margini e nelle periferie, laddove una “nuda vita” sofferente preme alle frontiere di cartamoneta del dollaro, dell’euro, dello yen, sui confini, invisibili ma potenti, che si chiamano Schengen”. Aldo Bonomi, La comunità maledetta. Viaggio nella coscienza di luogo. 2002. Le politiche urbane fra innovazione amministrativa e istituzionalizzazione di pratiche nella scena nazionale Con una particolare attenzione che credo vada posta alle politiche sociali (lavoro, servizi, formazione, lotta alla povertà), come a quelle della sicurezza e a quelle culturali, le politiche urbane, che a mio avviso sono un insieme più ampio dei pur rilevanti e centrali programmi complessi, costituiscono il campo di sperimentazione – e ormai primo consolidamento – di strategie di riqualificazione che tentano di essere adeguate alle domande dei quartieri in crisi delle città europee. Un’analisi, anche solo superficiale, dei programmi complessi, insieme alle tante testimonianze che molti protagonisti possono dare, rivela quanto queste esperienze sono state caratterizzate dal portato dei fattori indicati prima. Molte iniziative, infatti, sono esattamente all’incrocio di politiche realizzate da nuovi amministratori, spesso in cooperazione con l’azione di agenzie non profit consolidate, che – anche utilizzando (o subendo) riforme amministrative, e montando in parallelo iniziative urbanistiche e politiche sociali, talvolta entro programmi europei - hanno realizzato politiche urbane talvolta più rilevanti per questo loro portato che per le concrete realizzazioni che hanno determinato. Condivido l’idea di altri colleghi secondo cui per la riqualificazione di tipo integrato (intesa come il fascio di iniziative variegate, articolate nel tempo, finalizzate al miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti e del complesso della popolazione che utilizza determinati territori), le politiche urbanistiche (tradizionali) – sempre essenziali e ben legittimate, insostituibili quando ben montate – non costituiscono lo strumento adeguato in contesti che per loro natura richiedono invece l’ideazione e il montaggio di politiche urbane. D’altra parte lo slogan “dalla politica urbanistica alle politiche urbane” è stato assunto anche da autorevoli dirigenti del Ministero dei Lavori Pubblici. Questo, oltre ad essere segno di una qualche ragione dimostrata da questo approccio è anche il segno che ci si trova nella fase – fisiologica quanto pericolosa – in cui una buona impostazione può degenerare in una visione retorica e propagandistica che rischia di svuotare il senso di un approccio che resta problematico e carico di incertezze. E’ evidente negli anni novanta una pluralizzazione del campo delle politiche urbane che – spesso timidamente - tracimano oltre le più consolidate iniziative urbanistiche sia per un qualche 1 Questo testo raccoglie anche parte delle considerazioni e dei paper presentati dall’autore in varie occasioni: nel convegno di Napoli della Associazione Italiana di Sociologia, del 27-29 Settembre 2001,con un intervento dal titolo “Politiche per le periferie dalla periferia delle politiche”, e in forma diversa nel paper presentato alla VI Conferenza Nazionale della Società Italiana degli Urbanisti , svolto a Napoli 24-25 gennaio 2002. condizionamento determinato da iniziative realizzate in altri paesi europei e/o proposti dall’Unione Europea come pratiche da imitare, sia per lo spazio conquistato da alcune pratiche di riqualificazione collocate fondamentalmente in ambiti economico sociali, entro una traccia che ha visto l’emersione e il consolidamento di gruppi ed organizzazioni del terzo settore. E’ iniziata una fase in cui è sembrato più legittima e accreditata un’impostazione tendenzialmente plurale, integrata, delle iniziative che avevano come finalità la riqualificazione dei quartieri. Visto che secondo molti ossarvatori in Europa la qualità della vita era fortemente associata alla qualità delle opportunità offerte dalle condizioni delle aree urbane o – detto in altro modo – il rischio di esclusione sociale aveva nei quartieri, spesso periferici, del disagio, un luogo privilegiato ove era necessario sollecitare, montare, batterie di opportunità che andassero ben oltre le risposte quantitative al fabbisogno abitativo, o quelle omologanti di trattamento amministrativo dei bisogni, ha raccolto consenso una impostazione più variegata e integrata degli interventi pubblici di riqualificazione. In molte città europee, alla fine degli anni ottanta era evidente che anche il lodevole superamento dei deficit di attrezzature pubbliche tipico di tanti quartieri delle periferie costituiva ormai una risposta insufficiente, inefficace perché inadeguata, facendo emergere nuove domande di dinamizzazione e accompagnamento sociale che spesso non risultano trattabili entro il setting dei programmi centrati sulla trasformazione fisica del territorio. La forza argomentativa di questa impostazione plurale e la crisi di altri approcci più tradizionalmente legati ai lavori pubblici, insieme al tentativo di produrre delle innovazioni che coinvolgessero i soggetti (e le risorse dei) privati, sia come investitori che come utilizzatori consapevoli e disponibili al consenso, ha comportato una produzione normativa fortemente intrecciata con (e/o fortemente interpretabile come) una istituzionalizzazione di quelle pratiche di sviluppo che, a cavallo fra gli anni ottanta e novanta, avevano prodotto realizzazioni fondate molto sul pionierismo e il volontarismo dei promotori. Il processo è stato composito per attori, iniziative pertinenti, materiali, questioni e dispositivi messi in gioco. Se la pianificazione strategica urbana è considerabile come “un modello di coordinamento multilaterale inter-organizzativo che oltre a gestire il network di attori, lo crea, lo fa sviluppare e tenta di mantenerlo” (Ciciotti, Florio e Perulli, 1997), dall’osservazione di molti dei programmi di riqualificazione di quartieri (generalmente periferici e/o in difficoltà) realizzati nel periodo di riferimento, si può constatare che in diversi casi (quelli in cui è stato massimizzato lo sforzo per pluralizzare e integrare gli interventi), è stato adottato un orientamento strategico per la pianificazione, anche senza adottare questo termine. Al di la della costruzione e adozione di un piano (considerato e dichiarato come) strategico, un orientamento strategico trova nell’attivazione di una qualche forma di agenzia di sviluppo locale un passaggio tanto frequente quanto necessario. Assumo qui una immagine vaga di agenzia, con la consapevolezza che un gruppo di tecnici che lavorano in una ONLUS nella Val Bormida è qualcosa di ben diverso dalla Agenzia per gli investimenti a Torino e in Piemonte2. Le politiche per le periferie negli ultimi anni. La concettualizzazione e il trattamento politico amministrativo che le periferie hanno avuto – dalle forze progressiste – negli ultimi trent’anni, dovrebbe essere oggetto di un’apposita indagine. E’ evidente che nelle città italiane, come in tanti altri casi europei, nei primi anni del 2000 ci si trova dinnanzi ad oltre il 60 per cento del patrimonio edilizio del paese.3 2 Nel testo Bellini N.( a cura di, 2000) vi è una breve rassegna delle agenzie di sviluppo centrate attorno al marketing territoriale. 3 “Una gran parte di noi vive in periferia. Una recente ricerca del Cresme, commissionata dal Ministero dei Lavori Pubblici, stima che il 65 per cento della popolazione (quasi 36 milioni di persone) abiti nella periferia costruita tra gli anni cinquanta e settanta, nella quale si troverebbe il 63 per cento del patrimonio di edilizia del paese. Se a questi dati aggiungiamo le nuove periferie degli anni ottanta e novanta, i risultati sono impressionanti. Solo il 15 per cento della 2 Secondo un’opinione diffusa e ripresa da Saccomanni nella scheda introduttiva del convegno4, gli interventi per le periferie evidenziano un’evoluzione delle politiche urbane: l’accento si sarebbe spostato dal tema della riqualificazione urbana a quella della promozione dello sviluppo locale, dalle azioni a carattere settoriale all’integrazione di azioni multisettoriali Molti programmi indicherebbero il passaggio, da forme di azioni orientate al progetto a forme orientate al processo, alla costruzione ed all’accompagnamento dell’azione collettiva di una molteplicità di attori, con l’assunzione di una prospettiva non dirigistica. Un nuovo approccio secondo cui accompagnare non vuol dire tanto guidare, quanto favorire, rendere possibile, accrescere le possibilità generative autonome dei processi. Questo sarebbe provato dall’attivazione di una serie di servizi socio educativi, culturali, per l’ enabling e l’empowerment delle popolazioni locali. Considerando in rassegna le centinaia di iniziative che anche in molte città italiane hanno concretizzato un insieme di progetti, interni spesso ai programmi complessi, ai programmi integrati, si può constatare effettivamente l’apparizione sulla scena - e la concreta realizzazione in diversi lodevoli casi - di un approccio realmente pluridimensionale, tendenzialmente integrato, con grande cura del processo ed attenzione all’efficacia, alla sostenibilità sociale. A guardar bene però credo che si possa dire che questo mutamento in realtà è molto più vero per l’ottica degli analisti, degli studiosi o nelle dichiarazioni degli amministratori, mentre nei (o almeno in molti dei) programmi realmente approvati e realizzati persiste una prevalenza schiacciante della logica e delle modalità di implementazione dei lavori pubblici, di tipo edilizio e urbanistico. In alcuni casi qualche aspirante urbanista integrale si è esercitato – anche per stare al passo con i tempi e attrarre risorse ottenibili anche grazie a determinate promesse di adozione di un approccio eco-socio-sostenibile e partecipato – in progetti articolati e variegati con una quota di azioni immateriali sul versante economico sociale. In altri casi più virtuosi, sono stati avviati nuovi dispositivi con il coinvolgimento di attori locali che hanno arricchito la progettazione dei programmi o almeno la loro realizzazione, dando vita a sportelli di vario tipo, incentivazione delle piccole imprese locali, servizi per l’impiego e/o per l’occupabilità, luoghi dell’incontro per la generazione e diffusione di opportunità, mobilitazione di giovani per l’ascolto e l’animazione – o la costituzione - dei soggetti locali. Siamo però ancora ben lontani dall’assunzione di un approccio effettivamente rinnovato, emancipato dal dominio e dalla centralità della trasformazione fisica, edilizia degli spazi intesa come motore e determinante primaria della riqualificazione delle opportunità di vita, processo di capacitazione di una comunità locale. A tal proposito occorre essere tanto critici quanto laici: anche in diverse città europee, il trattamento di quartieri periferici connotati da grave disagio urbano, pur essendo emblema della transizione fra le diverse concezioni della riqualificazione urbana (p.e. Bijlmermeer ad Amsterdam) spesso vede gli investimenti e gli impegni per azioni di animazione socio economica, culturale e formativa relegati non solo in azioni finanziate con quote di bilancio irrisorie rispetto a quelle per i cantieri edilizi, ma complessivamente intese come “attività di accompagnamento”, che possono essere popolazione vivrebbe nel centro delle piccole o grandi città italiane. Gli altri, qualsiasi sia l’idea che hanno della periferia, ci vivono.” Bianchetti (2002). I dati sono tratti dalla ricerca dal titolo Scenari e strategie di intervento per la riqualificazione delle periferie in Italia, promossa dalla Direzione generale delle aree urbane e dell’edilizia residenziale del Ministero dei Lavori Pubblici è stata condotta dal Cresme. Percentuale delle abitazioni localizzate nelle zone periferiche sul totale, in 14 comuni considerati aree metropolitane. Stima Cresme su dati Istat. Cagliari 86,0 Messina 69,3 Venezia Bari 81,2 Bologna 68,1 Trieste Roma 80,6 Torino 67,8 Genova Palermo 78,0 Milano 66,2 Firenze Catania 74,9 Napoli 65,5 Fonte Bianchetti (2002) 64,8 60,7 55,6 54,2 4 Introduzione al seminario Internazionale “Periferie tra riqualificazione e sviluppo locale. Un confronto sulle metodologie e sulle pratiche di intervento in Italia e in Europa”. Torino 15 Giugno 2001 di Silvia Saccomanni 3 intese anche solo come iniziative finalizzate e giustificate per ingentilire gli abitanti, ridurre e contenere gli impatti e i conflitti, dare qualche segnale della volontà politica di trattare la domanda sociale. Anche in molti quartieri di città del centro Europa, seguendo una direzione che mostra il passaggio da un approccio tutto fisico ad uno di tipo pluridimensionale, sono state provate diverse politiche, orientate prima da tentativi riformatori, (centrati comunque su interventi architettonici), passando per un maggior investimento in programmi sociali, arrivando poi ad una impostazione che – pur continuando ad offrire i nuovi servizi socio educativi per l’inclusione sociale - ha inteso come inevitabile gli abbattimenti delle stecche o delle torri residenziali, riconfermando la teoria che non solo una determinata associazione fra tipo edilizio e tipologia sociale era fonte di disagio, ma che in alcuni casi il tipo edilizio in se risultava essere, almeno in quel contesto storico sociale, del tutto inadeguato. Le periferie napoletane Secondo i dati del censimento generale della popolazione del 2001 la periferia napoletana ospita circa il 70% della popolazione cittadina che – rispetto a quella che abita nel centro urbano – è più giovane, con famiglie mediamente più numerose e povere In diversi ambiti disciplinari, con vari approcci, per una migliore analisi dei fenomeni si propone l’esistenza di un modello sud-europeo, della disoccupazione5, dell’immigrazione, ect. Considerando la diversità delle grandi città europee rispetto a quelle nord americane, si può forse indagare in merito all’utilità di considerare l’esistenza di periferie tipiche delle città mediterranee, diverse – meno ordinatamente segregate, separate, meno omogenee dal punto di vista etnico e sociale - di quelle delle città del centro e nord Europa. I primi dati del censimento del 2001 indicano un’interessante trasformazione degli usi delle diverse parti della città. In realtà non solo il centro urbano e la prima corona dei quartieri consolidati del ceto medio di Fuorigrotta nell’area occidentale e della collina borghese, si sono “svuotati” – rispetto ad una costipazione che vedeva in questi quartieri livelli da primato degli indici di densità abitativa e territoriale – ma è cambiata la composizione sociale delle tipologie familiari in parallelo ad un diffuso e costante riuso (talvolta sfrenato) delle tipologie edilizie, con una diffusissima frantumazione delle unità immobiliari. Nel centro urbano, comunque esteso – diversamente da molte altre città europee – esistono ampie zone antiche quanto diffusamente degradate, con fenomeni di povertà ed esclusione sociale anche acuta. In genere, però, la nuova frontiera dell’esclusione sembra localizzata in alcune parti dei quartieri periferici ove la qualità della vita è veramente di basso livello, manca qualsiasi fattore di centralità, le attività economiche sono quasi inesistenti e le reti di protezione sociale primaria sono fragili e comunque dotate di ben poche risorse. Schematicamente la periferia consolidata della città si può rappresentare secondo alcune determinati generali che ne hanno prodotto l’attuale configurazione. - la localizzazione delle industrie che ha interessato i quartieri sulla costa occidentale (Bagnoli) ed orientale (S. Giovanni, Barra, Ponticelli), attraendo poi edilizia pubblica – di media qualità che è stata assegnata a gruppi sociali che hanno poi avuto negli ultimi trenta anni dello scorso millennio opportunità di promozione sociale. A tali costruzioni si sono affiancate dagli anni sessanta brani di edilizia privata di qualità medio bassa, quasi sempre entro un disegno disordinato che non ha mai curato gli spazi pubblici e le attrezzature comuni; - la politica localizzativa dei condomini di edilizia pubblica di prima generazione, ha prodotto nei quartieri di prima fascia (divenuti poi del tutto prossimi al centro funzionale della città) ben dotati e serviti, variegati, insediamenti di taglia medio piccola (soprattutto di buona qualità sia architettonica che edilizia) che sono diventati sede di un ceto che nessuno identifica come a rischio di esclusione, né collocato in un contesto socio abitativo degradato. Non a caso molta parte di questo patrimonio è passato in proprietà agli ex-inquilini. 5 Pugliese E. Rebeggiani E.(1999) p.150. 4 - - - Il trattamento amministrativo e di massa della domanda di abitazioni, dalla fine degli anni sessanta, ha prodotto in gran parte della periferia Nord e in ampie zone dei quartieri orientali, la localizzazione dei grossi insediamenti di edilizia pubblica, concentrando spesso le precondizioni del disagio che hanno poi messo profonde radici (la 167 di Scampia e Ponticelli). Con gli spostamenti avuti a seguito del sisma del 1980, prima, migliaia di famiglie si sono spostate provvisoriamente – con occupazioni abusive di alloggi pubblici non completati o con l’utilizzazione provvisoria di prefabbricati pesanti, smantellati alla fine degli anni ottanta dovendo lasciare le case inagibili del centro storico, poi, con la costruzione di nuovi quartieri per il piano dei 20.000 alloggi, le famiglie sono state localizzate nelle zone della periferia e dell’interland, sono state consolidate le dinamiche di svuotamento relativo del centro (che era ampiamente congestionato). Dalla metà degli anni Ottanta si è avuto poi anche un processo di parcellizzazione del patrimonio edilizio che – come dovrebbe risultare dai dati dell’ultimo censimento – si è intrecciato con un processo sommerso di cambiamenti di destinazioni d’uso (e/o di destinatari ) delle case del centro urbano. Sempre dalla fine degli anni Sessanta, nell’area occidentale interna (soprattutto il quartiere di Pianura) si è consolidata un ampia quota di edilizia residenziale abusiva che ancora oggi deve essere trattata dalle procedure del condono e sfugge alla tassazione dell’ICI. Pur escludendo quindi le ampie zone del centro urbano, talvolta molto prossime al centro geometrico, altre volte alquanto segregate ma comunque diffusamente degradate e costituite da edilizia abitativa prevalentemente utilizzata da ceti popolari, a Napoli, anche a seguito delle dinamiche indicate, esistono diverse periferie. La descrizione più ricorrente e generale fa riferimento all’aggregazione geografica di tre aree: - l’area occidentale, al di la della collina di Posillipo, che dalla costa flegrea, aggrega la massima parte dei quartieri Bagnoli, Soccavo e Pianura; - l’area orientale, interessata da anni da un diffuso processo di dismissione di contenitori industriali, che in alcune zone è formata da aree di edilizia privata o – più spesso – di edilizia pubblica, che costruita intorno a vecchi casali, presenta delle centralità e un livello minimo di dotazione di servizi e di riconoscibilità urbana. Accanto a queste aree vi sono poi quelle costituite da torri e stecche dell’edilizia pubblica di massa, con un forte grado di anomia, esasperata specializzazione funzionale, in cui le reti primarie della popolazione sono esili e comunque deboli per la scarsità di opportunità che possono socializzare; - l’area Nord, che a partire dalle aree intorno al bosco di Capodimonte, è costituita da qualche piccolo antico borgo circondato da decine di quartieri di edilizia pubblica, anche recenti, che verso il confine del comune, arrivano a costituire il più ampio insediamento realizzato dalla fine degli anni sessanta, per cui nel 1985 è stato costituito il nuovo quartiere di Scampia, noto per l’abbattimento degli edifici a forma di vela che assimila l’area a diversi altri quartieri di edilizia pubblica che in Europa hanno avuto anche interventi di abbattimento di edifici recenti. La pluralità – periferie – non è data solo dalla disposizione geografica. Tali coordinate hanno significato rispetto alle relazioni fra tipo di edilizia e insediamenti produttivi, distanza dal centro urbano e prossimità con impianti di vecchi casali agricoli. La pluralità è data anche da altre dimensioni: l’epoca e l’ampiezza dell’insediamento, il grado di varietà di destinazioni d’uso e di tipologie sociali di residenti, la concentrazione di edilizia abusiva, la strutturazione intorno (o la prossimità a) vie di comunicazione - su ferro o su gomma - che si irradiano dal centro del capoluogo ai centri della provincia. Questo insieme di dimensioni strutturanti hanno dato vita ad un pachwork urbano, ben consolidato, entro cui si collocano insule socio geografiche diverse. Occorre ancora un lavoro di indagine che coniughi elaborazione di dati socio demografici con il rilievo diretto – o attraverso testimonianze di attori radicati – in merito a fenomeni comunque velati dai dati comparabili per l’insieme delle zone. Per ora può aiutare una rappresentazione che, 5 scontando la parzialità del punto di vista e l’ignoranza di diversi fenomeni esterni dal quadro visivo degli osservatori – individua alcune parti (tipi) di periferia; - I borghi centrali abitati soprattutto dal sottoproletariato marginale Nel centro urbano e nella prima periferia esistono ancora ampie zone di disagio socio abitativo che in alcuni casi costituiscono enclavi perimetrabili mentre in altri casi sono incistate da comparti edilizi con varietà di usi e diffusa presenza di ceti medi. Negli ultimi anni, alcune di queste zone non sono occupate solo dai componenti dei nuclei sottoproletari locali ma anche da diversi gruppi di immigrati che, variamenti organizzati, trovano un primo approdo in ambienti malsani e sovraffollati, spesso localizzati ai piani terra (ex depositi, bassi prima utilizzati dalle prostitute o da anziani abitanti deceduti); il visitatore non si dovrà meravigliare trovando nelle stesse zone gruppi di isolati di buona qualità oggetto e scena di processi contenuti di gentrification, realizzati senza il ricorso alla ristrutturazione urbanistica e senza una massiccia sostituzione sociale degli abitanti e dei precedenti usi. - Le palazzine per le famiglie operaie e/o del ceto medio costruite prima degli anni sessanta Nella seconda periferia, ancora prossima al centro (15 minuti di autobus dal centro aulico), si trovano insediamenti più consistenti che in alcuni casi sono interpretabili come quartieri della classe operaia che frequentemente ha avuto con la seconda generazione una promozione sociale; in alcuni casi si tratta di quartieri storici, chiaramente identificabili (p.e. il rione Luzzatti verso Poggioreale, alcuni rioni nei pressi dello stadio di Fuorigrotta); - I settori urbani con identità più deboli Sia nella prima che nella seconda corona che circonda il centro urbano ottocentesco, si trovano, separati da confini non sempre netti o con segni urbani evidenti, zone degradate poco estese ove è piuttosto concentrato il disagio socio abitativo, espresso anche dal degrado di fabbricati e condomini, oltre che da forte carenza di sistemi di opportunità, servizi, agenti e vettori di capacitazione6 socio culturale. Esistono poi ampi settori di edilizia civile di media qualità (piccoli parchi, condomini plurifamiliari) che dagli anni sessanta hanno costipato le aree libere (spazi liberi, orti urbani) che sono obiettivamente in condizioni periferiche, almeno per alcune dimensioni, senza però produrre – o ospitare – condizioni di disagio, essendo abitate prevalentemente dal basso ceto medio. Queste aree sono complessivamente periferiche per l’immaginario collettivo, oltre che per la dotazione di servizi e sistemi di opportunità, ma nessuno ritiene che esprimano un fabbisogno di politiche, significativo o rilevante; - I quartieri estesi di edilizia pubblica Sono evidenti poi gli insediamenti più consistenti dei palazzi di edilizia pubblica con prevalenza di nuclei poco garantiti se non a rischio di povertà. Entro questi insediamenti (i più noti sono a Soccavo, Barra, Ponticelli e nei quartieri della periferia Nord, ma spesso hanno nomi legati alla loro fondazione, come rioni, p.e. Traiano, Amicizia, Incis, Don Guanella) vi sono però anche i parchi di ediliza sovvenzionata, distinti dal resto anche per l’estetica dei fabbricati e, più spesso, l’installazione di recinzioni e sistemi di controllo. - I mostri urbani Nelle aree prossime agli insediamenti di ediliza pubblica periferica vi sono poi alcune enclavi di particolare concentrazione del disagio, (campi rom, bipiani, masserie, vecchi e nuovi fondaci, grossi edifici divenuti emblema del disagio come le Vele di Scampia e Taverna del Ferro a S. Giovanni). Si tratta di blocchi di costruzioni che arrivano ad avere una notorietà sia per l’intrattabilità della domanda sociale che esprimono che per lo stigma che li caratterizza esprimendo una fase del circolo vizioso di cui sono oggetto: concentrazione di disagio – incollocabilità – intrattabilità – cronicizzazione – concentrazione, che lascia intravedere soluzioni solo con l’abbattimento degli insediamenti e una qualche forma di dispersione della popolazione presente in queste aree. - Gli insediamenti di edilizia abusiva. 6 Il riferimento è all’approccio di A. Sen sulla rilevanza delle “capacità” , condiviso e ripreso da molti sociologi ed economisti. 6 L’abusivismo individuale, di piccola taglia, a Napoli come in molte città del mezzogiorno, è stato molto diffuso. In alcune zone periferiche però con l’iniziativa sostanzialmente abusiva é stato costruito un patrimonio abitativo di centinaia di migliaia di vani, con intere lottizzazioni che ormai costituiscono ampia parte del tessuto del quartiere Pianura, che ha avuto una tracimazione nel comune confinante di Quarto che – come per gran parte delle zone limitrofe, può essere considerato un’estensione della terza periferia napoletana. Questo campionario di situazioni socio territoriali, non è ben individuabile con l’indicazione dei quartieri amministrativi e neanche sempre con i nomi che diverse zone conservano nella toponomastica cittadina. Si tratta sempre di zone rintracciabili se si assume una scala di osservazione abbastanza dettagliata, di cui però i confini fisici sono discontinui. Anche nelle periferie Napoli è una città molto compatta e densamente abitata e spesso queste zone risultano mescolate. Non di rado un quartiere è l’aggregazione di più zone di questo tipo, anche se alcune sue componenti sono meno note e poco considerate dalle rappresentazioni comuni come da quelle dei mezzi di informazione. Un’analisi rivolta alla costruzione di processi di riqualificazione di tipo integrato non può essere fatta quindi senza considerare la scala minuta per cui - spesso – il confine geografico non è indicato dai limiti amministrativi di un quartiere. Spesso gli antichi nomi dei diversi rioni, che non a caso hanno confini labili, indicano una riconoscibilità obiettiva, ma in diversi casi, negli ultimi decenni, si sono costituite aree territoriali di cui non è sempre evidente il perimetro fisico. Vi è poi ancora un’altra possibilità, non secondaria. Come è stato scritto, la categoria quartiere può essere intesa anche come territorio in divenire, con confini variabili, esito di un’azione progettuale che aggrega una rete di attori (Tosi, 2002). Dall’analisi delle politiche come dall’osservazione dei processi reali, nell’ultimo decennio alcune zone, collocate vicino o lontano dal centro politico amministrativo o dagli assi ad alta intensità di attività terziarie (soprattutto commerciali) sono state scena e oggetto di diverse iniziative di riqualificazione socio territoriale, promozione dell’immagine locale, attivazione di nuovi servizi per la popolazione e/o le attività. Si potrebbero considerare come periferiche le altre zone che, avendo un basso livello di agio, con una mediocre rete di opportunità, risultano coinvolte in un processo di impoverimento e degrado che produce già da tempo un disagio socio abitativo per coloro che vi abitano, senza riuscire a diventare oggetto di interventi di recupero e/o di sviluppo. In questa rappresentazione non sono stati citati i nuovi insediamenti di edilizia pubblica, collocati nei territori dei comuni confinanti o comunque esterni al Comune di Napoli che furono realizzati con il programma straordinario di Governo a seguito del Sisma che colpì anche l’area napoletana nel 1980.7 Alcuni di questi quartieri, che quasi sempre ospitano cittadini napoletani che operano comunque in città, dal punto di vista socio ambientale costituiscono la nuova frontiera dell’esclusione sociale declinata – come altre periferie europee più “moderne” – come segregazione, distanza dalla città, uniformità sociale dei non garantiti esposti a forte rischio sociale. Spesso da queste lottizzazioni dormitorio, per raggiungere il comune capoluogo occorre utilizzare due o tre mezzi pubblici, impiegando più di 60 minuti di percorrenza (che per una città compatta come Napoli sono molti, considerando che non sono dovuti alle inerzie del traffico automobilistico della conurbazione). Nel pachwork urbano di queste diverse periferie, alternate a zone di residenza più civile, abitate da ceti medi, in brani di città che hanno un maggior grado di varietà funzionale, si evidenziano l’area di Scampia e di Ponticelli in quanto rioni di edilizia pubblica, ad alta concentrazione demografica, scarsa varietà sociale e carenza di servizi, strade commerciali, attività produttive di piccola e media taglia. L’altra concentrazione periferica, meno monofunzionale dei due predetti quartieri è quella di Pianura, costituita da milioni di metri cubi di edilizia abusiva, abitata da ceto medio e popolare. Le politiche per le periferie a Napoli 7 Cfr. Laino(1985) in ASUR N. 54 7 Secondo una ricostruzione sommaria degli atteggiamenti assunti dalle forze (e dai partiti) progressiste rispetto alle periferie, i principali passaggi sono partiti dalla concezione delle periferie come sede di residenza operaia e quindi bacino storico della forza elettorale del PCI, fucina di militanza e valori democratici, cui si poteva associare un minor radicamento fra le popolazioni del centro urbano con una storica diffidenza reciproca fra forze del movimento operaio e proletariato marginale. Con il Piano delle Periferie adottato dalla Giunta del Sindaco Valenzi (fine anni settanta) si pensò ad un recupero – con ampio ricorso alla Legge 167 – dei centri storici degli ex casali periferici. Questo piano diventò poi il principale riferimento per la parte di recupero edilizio che il Programma Straordinario di Governo realizzerà nelle periferie di Napoli. Gli anni Ottanta, con un’alternanza al governo comunale fra giunte coalizionali di sinistra (prima) e centro sinistra dopo –sempre sotto la cappa del potere di alcuni esponenti politici di grande rilievo nazionale (Pomicino, Gava e Scotti per la DC, De Lorenzo per il PLI, Di Donato per il PSI), sono quelli in cui in molte zone periferiche vengono realizzati i lavori del dopo terremoto, con la saturazione dello spazio utilizzabile per nuove costruzioni. La crescita della popolazione infatti, in questi anni riguarda soprattutto i comuni confinanti che ospitano la tracimazione demografico edile, che determina il boom edilizio di interi comuni, soprattutto a Nord del capoluogo. Nella prima fase delle Giunte Bassolino, per le periferie sono stati aperti alcuni parchi, realizzati con i fondi della ricostruzione della L.219/81 ma realizzati e consegnati con forte ritardo, solo grazie al forte impegno della giunta guidata dal nuovo sindaco. Dopo tali iniziative, affiancate ad alcuni tentativi di animare le principali periferie simbolo con attività culturali (spettacoli, concerti d’estate), la condizione di degrado e le difficoltà di qualità della vita – soprattutto nelle periferie della zona nord – sono state occasioni di indignazione e protesta civile, legate anche a episodi di cronaca8. Nelle diverse giunte guidate da Bassolino sino a quelle condotte da Marone9 e dalla Iervolino vi è una varietà di stili di politiche urbane, talvolta evidente. - - La pianificazione ordinaria, espressione della cultura dell’urbanistica democratica italiana, tendenzialmente centralistica, tradizionale, poco sensibile all’approccio strategico e negoziale, prioritariamente mobilitata alla costruzione ed approvazione formale delle varianti al Piano Regolatore Generale, affiancato dal Piano dei trasporti e delle stazioni, che ha avuto nel Piano Regolatore sociale (del 1999), un figlio minore concepito – almeno per alcuni tratti sostanzialmente nella stessa logica. La riqualificazione civile della città centrale. Il recupero - con arredizzazione e pedonalizzazione - di ampie parti di alcune strade e piazze centrali di grande prestigio, l’apertura dei cantieri per la nuova linea della metropolitana che negli ultimi anni produce poi la riqualificazione dei siti scelti per le nuove stazioni, l’abbattimento di sopraelevate che avevano recentemente devastato parti urbane di grande rilievo, la dotazione di un nuovo parco macchine e la riorganizzazione di diverse linee del trasporto pubblico urbano su gomma, l’ampliamento del corpo dei vigili urbani, una gestione più innovativa e propositiva di alcuni grandi attrattori culturali con l’estensione dell’iniziativa turistico culturale del maggio dei monumenti (sia per tutto il mese che nei periodi di natale e pasqua), l’apertura di alcuni piccoli e grandi parchi urbani, sono state tutte iniziative interne ad un processo di recupero e ricostruzione di una dignità civile della città, dei suoi usi e di alcuni servizi essenziali per cui si sono impegnate soprattutto le prime giunte Bassolino che hanno ottenuto unanime consenso e riconoscimento 8 Cfr. Lepore . (2002) Napoli è stata una città ove la nuova fase dei sindaci eletti direttamente ha avuto una declinazione particolare, vivace con tratti di particolare sperimentalità: ad un cenrto punto il sindaco è stato chiamato a fare contemporaneamente il ministro del lavoro. Poi, non ritenendo opportuno dimettersi per partecipare alle elezioni regionali, nominato presidente della Regione Campania, ha lasciato il posto al vicesindaco Marone che è stato l’unico Sindaco non eletto della nuova fase. 9 8 - - per questi risultati, che hanno consentito a Napoli di recuperare molti gradi di dignità e decoro rispetto a tante altre grandi città italiane ed europee. La pianificazione per occasioni, programmi e progetti, localmente e temporalmente limitati, spesso slegati dalle previsioni più generali, seguite da uffici e responsabili politici diversi, che talvolta non hanno condiviso neanche le informazioni. In questo gruppo possono essere considerati tutti i piani riferiti a specifiche zone (a parte l’area di bagnoli trattata con una specifica variante – fondamentalmente interna al primo stile): il contratto di quartiere per Barra, (quello predisposto per Scampia verrà poi inglobato nello specifico Programma di riqualificazione), i Pru (per Soccavo, Ponticelli e Rione S. Alfonso), altri interventi di riqualificazione, anche per gli stessi quartieri, i progetti speciali, cofinanziati con fondi straordinari dell’Unione Europea o del Ministero del Bilancio per il centrso storico (Urban), per Scampia e per Pianura. L’effervescenza progettuale delle politiche sociali. Riferendosi ad iniziative già avviate con fondi comunali o legittimando e rilanciando attività avviate dalle associazioni e dalle organizzazioni del terzo settore, (finanziate con le risorse della Legge 216/91), nel campo delle politiche sociali, nella seconda metà degli anni novanta si realizza un’effervescenza progettuale che, soprattutto grazie al Piano comunale per l’Infanzia e l’adolescenza da elaborare per legge (N. 285/97), dal 1997 con la disponibilità di specifiche risorse nazionali, con la sperimentazione del reddito minimo di inserimento10 e – ancor più – con il nuovo piano degli interventi e dei sevizi socio sanitari (previsto dalla nuova riforma dei servizi, L.328/00), consente la realizzazione, in convenzione fra il Comune e le organizzazioni non profit, di una batteria di interventi che – entro una logica di piano - iniziano ad avere un’incidenza per il sistema di opportunità delle popolazioni delle periferie, anche se coinvolgono solo migliaia di persone, entro cantieri sociali localmente circoscritti. Questa arena ampia e variegata ha visto anche la ricorrente emersione di problematiche che sono risultate complessivamente intrattabili – restando quindi irrisolte – anche per amministratori competenti e motivati: - trattamento dell’ampia mole di pratiche di condono, per cui per molti anni si ripropone la “piaga” di un gettito non incassabile per la non chiusura delle pratiche di condono; - il difficile trattamento del fabbisogno di riqualificazione delle reti dei sottoservizi e della manutenzione di ampie parti del sottosuolo il cui stato determina frequenti crolli e uno stato cronico del manto stradale di quasi tutte le arterie di scorrimento della città; - il disagio socio abitativo di alcuni nuclei – soprattutto periferici – che non sono stati intercettati in maniera significativa ed efficace da nessuna iniziativa, riproponendo il rischio di una polarizzazione sociale fra zone complessivamente interne ad un sistema di garanzie e di servizi o comunque coinvolte in politiche di recupero rispetto ad aree molto esposte all’abbandono e al rischio di cronicizzazione del disagio. La compresenza di questi stili ha consentito un’utile flessibilità al Sindaco che ha mostrato di saper impegnare le risorse dell’amministrazione nella cura di obiettivi di medio e lungo termine, dando conto della necessaria visibilità e puntualità di realizzazione obiettivamente utili, quasi sempre concentrate nel centro urbano. La dimensione simbolica di molte di queste iniziative, che d’altra parte è diventata di grande rilievo in tutti i contesti delle grandi città europee, ha giocato un ruolo importante che andrà in futuro meglio indagato. Questi stili sono stati interpretati da alcuni assessori, con una regia (talvolta forte altre volte lasca, non raramente ondivaga) da parte del Sindaco, ed hanno visto la mobilitazione intensa, sempre stressata, di alti funzionari e interi gruppi di dirigenti che negli ultimi dieci anni hanno visto crescere sensibilmente l’agenda dei lavori di cui erano responsabili. 10 Grazie al Decreto Legislativo N.237 del 1998, Napoli è uno dei 39 Comuni individuati per lasperimentazione del reddito minimo di inserimento, che, fra il 1999 e il 2002 ha consentito l’erogazione di una sorta di assegno di povertà ad oltre 4000 nuclei residenti nel comune. 9 La vicenda più nota, su cui forse è stato maggiore l’impegno da parte del primo stile, è stata la trasformazione della zona periferica di Bagnoli, che si profila come cantiere aperto per decenni, posta di conflitti fra esponenti del governo nazionale –che hanno un ruolo guida a livello locale – e responsabili della Regione e del Comune. Con la prima giunta Iervolino –2001 – anche il Comune di Napoli ha un assessorato alle periferie, che, avvia la propria attività con la costituzione di un servizio che – d’altra parte – non aggrega a se le diverse iniziative che la Municipalità comunque già ha in cantiere e che restano di competenza di diversi assessorati. Si è trattato più di un segnale finalizzato a testimoniare un interesse per la questione delle periferie per cui erano state sollevate critiche e lamentele, anche da parte di settori sociali interni alla coalizione di centro sinistra, più che della cosciente articolazione di una strategia di promozione di tipo integrato di iniziative per la riqualificazione di tante diverse realtà della città. Nel capoluogo, negli ultimi anni novanta poi sono state montate e realizzate quattro iniziative di tipo straordinario, che hanno chiesto ed ottenuto un consistente cofinanziamento di fondi europei e/o nazionali. Una è stata realizzata per due zone del centro urbano, mentre le altre sono riferite a due ampie aree della prima periferia. Con il Pic Urban sono stati realizzati progetti nelle aree dei Quartieri Spagnoli e del Rione Sanità, considerate enclavi di forte degrado del centro urbano. Nel primo gruppo dei Progetti Pilota Urbani Napoli ha ottenuto di poter realizzare due piazze telematiche, una delle quali è in corso di realizzazione a Scampia. Con il Programma Operativo di sviluppo socioeconomico e di riqualificazione ambientale di Pianura 1994/1999 il Comune ha ottenuto il cofinanziamento di un pacchetto di progetti per una zona ampiamente trasformata dall’abusivismo edilizio di interi condomini di edilizia residenziale per il ceto medio e basso, mentre per la zona centrale di Scampia, è stato elaborato un altro particolare programma di riqualificazione. Mentre il PPU e il programma Pianura – al di là delle scadenze - sono in corso di realizzazione, e quello per Scampia alla fine del 2001 è quasi al 40% della spesa, il Pc Urban è praticamente concluso11. La Commissione Europea propone di utilizzare indicatori di valutazione certamente discutibili, quali il grado di attuazione e il livello di spesa effettivamente realizzata rispetto alle originarie previsioni dei programmi. Per una valutazione più completa ed obiettiva, evidentemente a questi criteri è necessario affiancarne altri (p.e. le forme di apertura del processo decisionale e il grado di coinvolgimento degli attori locali nelle diverse possibili forme; la costituzione di nuove forme di aggregazione e sollecitazione di risorse locali e nessi fra diversi ambiti della società; l’apprendimento reso possibile per gli addetti e per le amministrazioni, il cumulo di conoscenze reso possibile dalle esperienze, l’apertura di ambiti ove è stato possibile fare emergere le domande sociali come pure i conflitti che hanno permesso a diverse istanze della società di esprimersi, ect.). D’altra parte, gli indicatori della Commissione hanno un senso e – pur in mancanza di dati definitivi e della necessità futura di rendere comparabili dati riferiti a programmi realizzati in periodi in parte diversi - si può dire già oggi che il Pic Urban realizzato a Napoli ha ottenuto un grado di realizzazioni e di spesa obiettivamente superiore a quello degli altri programmi. Anche il programma Vele di Scampia sembra avere una performance di spesa abbastanza buona anche se, va detto, che si tratta del programma meno integrato fra quelli presi in considerazione, mentre il PPU napoletano è in grave ritardo e i livelli di realizzazione e spesa del programma per Pianura sono piuttosto ridotti, rispetto agli impegni iniziali. Complessivamente, anche se con Urban sono state realizzate azioni economico sociali molto rilevanti12 negli altri casi l’approccio di tipo integrato è stato solo enunciato e demandato a qualche sottomisura di tipo economico, di piccole dimensioni, per nulla radicata e/o connessa con le altre azioni. Complessivamente gli urbanisti e i pianificatori sociali, impegnati nei diversi uffici della municipalità, hanno ancora forti remore –oltre che una visione semplicistica – rispetto all’associazione fra grado di apertura del processo decisionale, ascolto delle diverse posizioni e efficacia delle iniziative. 11 Nel convegno svolto a Londra nel Giugno 2002 il presidente della Regione Campania, Antonio Bassolino, ha indicato il Programma Urban di Napoli come esperienza di successo fra le politiche realizzate a Napoli insieme a quelle con cui le stazioni della nuova metropolitana sono state arredate con installazioni artistiche. 12 Cfr. Laino(1999) e Lepore (2002) 10 Questioni ricorrenti e promesse di efficacia delle politiche Negli anni novanta, grazie a diversi programmi europei, nazionali e locali, in centinaia di città europee sono state avviate e realizzate politiche di riqualificazione, spesso centrate su quartieri in condizioni di grave disagio. Mentre nelle città del sud del mediterraneo queste zone sono collocate spesso nei centri storici delle città, nel centro e nord Europa spesso i quartieri in crisi sono localizzati nelle periferie. Tutte queste iniziative hanno prodotto un patrimonio di esperienze che va ancora meglio indagato. Rinviando ad altro testo13 l’esposizione di quelle che possono essere considerate le condizioni di efficacia più credibili per le politiche di riqualificazione, promosse entro una prospettiva di sviluppo locale, socialmente radicato ed orientato, riprendo in questa sede solo alcuni tratti di tale riflessione. Dove: territori fertilizzati e aree tristi rispetto alle condizioni d’efficacia delle iniziative. Occupandosi di proposte di riqualificazione territoriale, in generale mi sembra necessario distinguere due condizioni: contesti molto deboli, che hanno bisogno di una prima fertilizzazione, diversi dai territori che – pur sopportando gravi problemi – hanno già internalizzato esperienze di crescita del contesto locale. Pur considerando superata la concettualizzazione dello sviluppo per stadi, (Rist,1997), credo plausibile considerare come auto evidente la differenziazione fra territori “tristi” che sono in condizioni che richiedono innanzitutto una prima campagna di promozione, valorizzazione delle risorse locali, anche con un significativo intervento di risorse esogene, diversamente da altri territori “fertilizzati”, che possono contare su un quantum di risorse di vario genere, “ecologie localizzate” (Rullani,1998), e che quindi – complessivamente - sono già nelle condizioni di attrarre, ed utilizzare, molto meglio altre risorse esterne. Si tratta di cercare di rispondere ad una domanda: quali sono le condizioni che – se presenti e/o esaudite in un certo momento in un determinato territorio – consentono di prevedere credibilmente un buon grado di efficacia delle iniziative di riqualificazione, proposte nella prospettiva dello sviluppo locale? La necessità di un’impostazione istruttoria delle politiche L’osservazione e l’esperienza suggeriscono che proprio le questioni della riqualificazione urbana, per la loro natura (pluriattoriale, pluridimensionale, articolate negli anni e nelle fonti di finanziamento) richiedono un trattamento prudente, con la consapevolezza che occorre mettere in campo una conoscenza non tutta disponibile (già ben fondata e adeguata ) ma – almeno in parte da costruire nel corso dell’azione. La divaricazione ricorrente fra la necessità (che soprattutto gli amministratori locali hanno) di trovare e rendere visibili risposte di governo, esigenza (politica) di un trattamento immediato delle questioni e l’inefficacia (pratica) di iniziative tanto tempestive quanto poco fattibili e/o sostenibili è affrontabile, con buoni esiti, anche immediati, ricorrendo ad una modalità onerosa ma più produttiva di organizzazione del lavoro e delle risorse.14 Per questo sembra necessaria ed essenziale 13 Laino (2001) in Franz G. (a cura di, 2001) Nei primi mesi di Gennaio la stampa locale napoletana ha riportato le dichiarazioni del Vice Sindaco, Assessore all’urbanistica, (e professore ordinario della disciplina) in merito ad una onesta autocritica riferita all’approsimazione con cui l’amministrazione ha trattato le opportunità del project financing, prendendo atto che diversi bandi – anche della Regione Campania – che hanno tentato di concretizzare l’uso di tale nuovo strumento, sono rimasti fondamentalmente bloccati e poco fattibili.In realtà credo che si tratti di una questione più ampia: la preminenza e il successo dello stile decisionistico di alcuni amministratori, ha dato molto spazio a politiche ideate e montate a partire da suggestioni, inventiva, senso della tempestività e intuito di pochi tecnici e politici locali, solleticati anche da una certa concorrenzialità fra città e amministrazioni. L’impostazione più attenta alla fattibilità ed alla fondatezza tecnica delle proposte è tornata in ombra, sia per la sua poca spendibilità nelle arene delle politiche pubbliche sia per una sorta di disincanto postmoderno che coinvolge molti operatori – anche competenti – che (senza dichiararlo pubblicamente, non senza una qualche ragione) ritengono inutilizzabile la militanza degli esperti. 14 11 una impostazione fondamentalmente istruttoria del montaggio delle politiche urbane, almeno per quelle di tipo complesso come la riqualificazione delle periferie o la riutilizzazione degli exqualcosa di cui, con la dismissione di fabbriche, manicomi, caserme, gasometri, le periferie di tante nostre città sono affollate. Assumendo il concetto di istruttoria non nel senso restrittivo della ricognizione normativa burocratica delle condizioni amministrative che connotano un contesto in cui si intende intervenire ma come costruzione, montaggio, di un contesto e un telaio conoscitivo per individuare, connettere, operazionalizzare, relazioni e conoscenze per costituire scenari credibili e “valutabili” anche nel corso dell’attuazione parziale di realizzazioni condivise e/o reversibili15. Una costruzione che – a partire dalla scelta di alcune invarianti generali, di orientamento, in merito a poche diverse finalità alternative - dovrebbe tentare di ipotizzare diversi gradi e livelli di pluralizzazione del processo, in merito a : - tipi e modalità di costruzione e messa in opera della conoscenza (quali analisi, fatte con quali competenze, da chi, per produrre cosa ?); - grado, forme e metodi di possibile apertura dei processi decisionali, nelle diverse fasi di ideazione e implementazione delle politiche; - modi, forme e tecniche di valutazione adottabili. Le diverse scelte che possono essere fatte in merito ai differenti gradi di pluralizzazione dei tre ambiti sopraindicati potranno produrre processi ben diversi per grado di complessità, costi, articolazione temporale e – soprattutto – approccio di riferimento ai modelli di sviluppo. Le iniziative per riutilizzare i tanti ex-qualcosa di cui le città italiane sono piene, come i programmi avviati per trattare il disagio ambientale e sociale di brani di città in crisi sono ancora molto spesso impostate secondo l’inventiva, la contingenza, l’occasionalità che cura più l’andamento dell’opinione espressa attraverso i mezzi di informazione che non da una particolare attenzione alle precondizioni, alla fattibilità, alle diverse possibili definizioni dei problemi. Per motivi non banali che afferiscono anche al ruolo giocato da alcune professionalità di grande livello, cui viene comunque demandata una capacità di sintesi e rappresentazione collettiva, molti programmi di riqualificazione vengono concentrati intorno alle soluzioni spaziali affidate ad architetti o urbanisti integrali, che in diversi casi propongono anche belle soluzioni che, in ogni caso, mettono in secondo piano il trattamento dello spazio sociale. La necessità di mobilitare strutture qualificate e specificamente dedicate alla riqualificazione ed allo sviluppo locale. Se si condivide l’opportunità di dare ampio spazio – culturale oltre che professionale – ad una impostazione che ricorre ampiamente alla modalità di costruzione istruttoria di conoscenze, scenari e decisioni - per programmi di riqualificazione che si propongano di essere integrati, sostenibili emergono argomenti fondati per concordare sulla necessità e sull’opportunità di mettere a lavoro strutture tipo laboratori, piccole agenzie locali di sviluppo16 da mobilitare per l’ideazione e l’attuazione di questo tipo di programmi. L’analisi di diversi dispositivi interpretabili come agenzie locali di sviluppo può offrire materiali e buoni argomenti per riproporre l’opportunità di adottare una razionalità di tipo contingente. Ovviamente, non si può avere equidistanza da modelli organizzativi che possono avere culture di fondo e finalità anche opposte. E’ evidente però che l’efficacia degli strumenti è direttamente legata alla loro adeguatezza al contesto, al mandato che i responsabili politici intendono dare ad un determinato dispositivo. 15 Nel paper presentato alla coferenza della SIU di Napoli il 23 Gennaio 2002, Marco Cremaschi scrive che “E’ interessante che la forma del piano strategico assuma sempre più riferimenti apparentemente lontani (l’indagine, l’inchiesta giudiziaria, l’agenda concordata): si tratta di forme aperte che producono le informazioni che consentono la verifica e la maturazione delle decisioni, che rimandano nuovamente all’inevitabile intreccio tra dimensione strategica e operativa”. Per un diverso uso del concetto di istruttoria urbanistica cfr. Andriello (a cura di 1992). 16 Il premettere “locale” a “sviluppo” indica un pregiudizio sfavorevole verso altri modelli di agenzie che promettono di produrre sviluppo senza un particolare ancoraggio in contesti e reti locali. 12 Per la riqualificazione che individua il quartiere come principale ambito di intervento, nella consapevolezza che le politiche devono assumere una considerazione a “geometria variabile” dei confini (non solo geografici) di un territorio, credo che molte esperienze offrano buoni argomenti per ritenere come più adeguato un modello di agenzia che abbia come attributi fondamentali: la piccola dimensione, il radicamento territoriale, con un pull di attivisti ben capaci di connessioni (intra ed extra). Un dispositivo capace di attivare competenze per intervenire sullo spazio fisico come su quello economico sociale, concentrato sulla valorizzazione del capitale sociale, capace di darsi tempo per costruire processi non improvvisati, molto attento alla fattibilità. Pur assumendo l’idea che non esistono modelli riproducibili e/o appropriati in qualunque contesto, immagino dispositivi capaci di funzionare realmente secondo una logica sperimentale, molto attenti alla cura dell’interazione, con forte propensione al progetto, ma consapevoli che spesso occorre lavorare per ipotizzare in modo fondato scenari ed orizzonti di senso, montare buone impalcature per mobilitare (costruire, curare, far crescere) sezioni di società locale, sollecitare iniziative cercando sempre di ampliare il protagonismo sociale, la possibilità di ri-dare speranza (Bonomi, 2002). Molti protagonisti e studiosi del modello italiano di stato sociale negli ultimi quindici anni, partendo da una critica dell’impostazione omologante e amministrativistica delle politiche, associano l’efficacia – e l’equità – delle iniziative ad un approccio selettivo, attento alle differenze ed alle specificità, nel quale l’universalismo dei diritti sia coniugato alla pertinenza ed all’adeguatezza locale delle azioni e degli interventi. Un’impostazione delle politiche finalizzata a costituire e/o accrescere le “capacità”, le condizioni di abilitazione17. Si sollecitano quindi attività di enabling , empowerment (aumentare l’accessibilità, mettere in condizioni di, mobilitare, dare strumenti ) per la valorizzazione delle risorse endogene (delle persone, dei gruppi, delle reti, dei luoghi). Tale impostazione non viene contrapposta alla necessità di disporre anche di risorse esogene per fertilizzare e irrorare di opportunità i contesti locali. Secondo questa impostazione quindi le modalità innovative sono da riferire all’orientamento che devono avere i dispositivi per far tesoro delle risorse esterne ribadendo che queste sono comunque necessarie per l’avvio di circoli virtuosi di emancipazione e sviluppo, ma che possono essere sprecate se il loro investimento non viene orientato alla costituzione (e/o allo sviluppo e al consolidamento) di capacità delle persone e dei contesti a crescere ed emanciparsi, sviluppando beni comuni, legame e protagonismo sociale, costituzione di istituzioni. Le politiche dovrebbero essere ideate, indirizzate, attuate cercando di promuovere l’empowerment e le capabilities locali nel quadro di progetti endogeni centrati sulla mobilitazione sociale delle reti, delle risorse locali – sia pubbliche che private – tenendo sempre presente che locale è qualcosa di tanto concreto e situato (nel tempo oltre che nello spazio) quanto prodotto di interazione e costruzione sociale, in continua trasformazione. Rischiando un’ impostazione molto tendenziosa, con l’attenuante di riferirmi soprattutto a esperienze dirette e testimonianze, credo che la massima parte di esperienze che siano in tale prospettiva e che diano – pur con limiti e insuccessi – spunti e materiali per un reale approfondimento delle diverse questioni, siano fra quelle realizzate fra l’inizio e la fine degli anni novanta, fondamentalmente alla periferia delle politiche. Non potendo fare una rassegna, ricostruibile a partire da testi ben documentti,18come pure dalle diverse rubriche di soggetti attuatori di programmi europei pertinenti, restando centrato sulla testimonianza19, mi riferisco all’esperienza del cantiere per la riqualificazione sociale integrata 17 Il riferimento più evidente è al contributo di Amartya Sen Clementi Perego (1990), Bellini (2000), Calvaresi(1999). 19 Nella prima metà degli anni ottanta ho iniziato ad avere contatto con gli amici che a Les Flamands, nella periferia Nord di Marsiglia, fondarono una delle prime Regie di Quartiere. Da allora, seguendo sempre il coorinamento francese e portando avanti l’esperienza ai quartieri Spagnoli di Napoli ritenuta in qualche modo assimilabile, sono diventato vicepresidente dell’Associazione Europea delle Regie di Quartiere che è stata costituita nel 1993. 18 13 (C.Ri.S.I., che è stato il modello di intervento elaborato e proposto dall’Associazione Quartieri Spagnoli negli anni Novanta)20 o alla più diffusa esperienza delle Regie di Quartiere – circa 150 in tutta Europa con oltre un centinaio in Francia – emblematica per il fatto di essere nata – per le periferie - alla periferia delle politiche21. 20 Nota Laino (1995) in cui viene presentato sommariamente l’esperienza dei progetti C.Ri.S.I. realizzati ai Quartieri Spagnoli di Napoli fra il 1993 e il 1999. 21 Una breve scheda sulle Regie di quartiere è stata pubblicata in J.L. Laville, L. Gardin (1999). Cfr. anche AA.VV. (1994), 14 Riferimenti bibliografici AA.VV. 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