Roberto Michilli
Fate il vostro gioco
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ISBN: 978
978-88
88-87433
87433-97
97-5
a Giuseppe e Cristina
Ma sa che è proprio una bella trappoletta quella che ha sulle
ginocchia? È un computer, vero? Come dice? Un lap-top
Zenith, ho capito. È grande come una macchina per scrivere
portatile e deve pesare all’incirca lo stesso. Quanto? Sei chili?
Eccezionale. Si porta in giro senza problemi, immagino. È
proprio un bell’oggetto. Non ne avevo mai visti così. Ho
avuto a che fare con uno di quei cosi, in passato, ma era il
1979,, quattordici anni fa, ed era molto diverso da questo. Io
1979
però l’ho distolta da quello che stava facendo. Mi scusi, la
prego, sono proprio un maleducato, ma vedere quel computer mi ha fatto ripensare a quando stavo davanti al mio, e
infilavo numeri su numeri dentro quella macchina vorace…
Quanto tempo mi ci è voluto! …No, non lo usavo per il mio
lavoro. Si trattava, come dire, di un progetto collaterale…
È una storia che mi piacerebbe raccontarle, ma vedo che lei
ha da fare, è da quando è entrato nello scompartimento che
smanetta su quella tastiera e non voglio farle perdere tempo.
Come dice? Non sta facendo niente di importante e lo ha
acceso solo per vincere la noia di un lungo viaggio in treno?
Be’, in questo caso…
Mi dica, ha mai giocato d’azzardo, lei? Probabilmente sì.
Almeno un pokerino tra amici l’avrà fatto; forse sarà anche
andato al casinò, qualche volta. Sono esperienze normali.
Per me, invece, è diverso. Il gioco d’azzardo ha segnato la
mia vita. Al tavolo verde mi sono mangiato un patrimonio,
come si diceva una volta; meglio: me ne sono mangiati due,
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perché dopo aver dilapidato il mio mi sono giocato anche
quasi tutto quello di mia moglie.
A un certo punto, però, ho smesso, anche se ormai era
tardi, troppo tardi per molte cose. E per uno strano capriccio
del caso, quello stesso gioco d’azzardo che m’aveva rovinato
mi ha poi permesso di sopravvivere. Sì, perché quando ho
smesso di giocare ho fatto il croupier nei casinò di mezzo
mondo, e in seguito ho anche ricoperto incarichi direttivi in
alcuni dei più importanti. Sono passato dall’altra parte della
barricata, come si suol dire, e per oltre trentacinque anni,
fino a pochi mesi fa, quando sono andato in pensione, è stato
il vizio degli altri a darmi di che vivere.
Mi sono chiesto spesso perché tanta gente ami l’azzardo.
Ho cominciato a chiedermelo, per la verità, solo quando ho
smesso di giocare e sono passato, come dire, sull’altra sponda,
a guardare gli altri che lo facevano. È stato solo allora, infatti,
che ho avuto il tempo e la voglia di farmi queste domande.
Eh sì, perché quando ci sei dentro, giochi e basta, non stai
lì ad analizzarti, a porti interrogativi. D’altra parte, se uno
è in grado di osservarsi, di tentare una riflessione su ciò che
sta facendo, è segno che il demone non lo tiene del tutto in
pugno, oppure che è in via di guarigione. No, quando la scimmia ce l’hai addosso, pensi solo a darle ciò che vuole, cerchi
solo di soddisfarla, quella bestia, e non ci riesci mai, peraltro,
perché se giochi stai male e se non giochi stai peggio. È una
droga come le altre, bisogna avere il coraggio di ammetterlo.
Come gli stupefacenti, il tabacco e l’alcool, l’azzardo crea
dipendenza: si ha bisogno di quell’emozione per continuare
a vivere. E così come le dosi delle droghe devono essere via
via aumentate perché l’assuefazione ne attenua gli effetti,
anche nel gioco si ha bisogno di rischiare sempre di più.
Come fa il tossicomane, anche il giocatore promette spesso
a se stesso e ai suoi cari – se ne ha – di staccarsi dal vizio.
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«Stavolta smetto sul serio!» Quante volte ho detto questa
frase! Quanti buoni propositi ho fatto mentre ero in preda
al rimorso o dopo una nottata più perfida delle altre. Quanti
solenni giuramenti! «È stata l’ultima volta! Non toccherò più
le carte! Lo giuro! Questa volta smetto! Non metterò mai
più piede in un casinò!» E per un po’, magari, mi riusciva
davvero di starne lontano, specie se l’ultima batosta era stata
brutta. Poi, però, piano piano, i miei propositi si facevano
sempre meno fermi. Cominciavo a pensare che in fondo poteva anche andarmi bene, non era detto che dovessi perdere
sempre, potevo anche rifarmi di tutto quello che avevo perso
sino allora, e in questo caso sì che sarebbe valsa la pena di
smettere. E finivo per ricascarci di nuovo. Spesso, nei primi
tempi di questi ritorni, capitava che vincessi qualcosa. Le
sembrerà paradossale, ma queste vincite finivano per rivelarsi
una vera sciagura. Mi inducevano infatti a credere che fosse
finalmente arrivato il mio momento. «Adesso mi rifaccio»
gongolavo. «Poche serate buone e mi rimetto in pari. Poi
smetterò per sempre». Pia illusione! Due, tre sere buone,
poi la fortuna girava e in poche ore lasciavo sul tavolo quel
poco che avevo recuperato e molto altro ancora. Ed eccomi
di nuovo nel gorgo: debiti, strozzini, sequestri.
Qualcuno ha detto che giocare d’azzardo è un modo per
comprare speranza a credito. Ci dev’essere del vero. Il mondo si regge sul credito e sul caso. Se ci riflette un attimo,
amico mio, si accorgerà che il caso ha una parte preponderante nelle nostre vite. La nostra stessa esistenza è determinata dall’incontro fortuito tra due minuscoli e fertili organismi, un incontro che può avvenire o meno. Una volta venuti al mondo, la vita sarà una ininterrotta corsa incontro alla
morte ma, anche qui, sarà il caso a determinare quando e
come essa ci sorprenderà. Dal momento in cui apriamo gli
occhi a quello in cui li chiuderemo per sempre, è tutto un
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rischiare. Nella nostra vita prenderemo migliaia di decisioni
piccole e grandi delle quali quasi mai saremo in grado di
prevedere tutte le conseguenze. Le prendiamo, e speriamo
che tutto vada per il meglio. Non c’è modo di evitare questa
soggezione al capriccio del caso. Per non correre il rischio
di ammalarsi, uno magari condurrà una vita morigerata, rinunciando alla buona tavola, al fumo, all’alcool e persino alle
donne; in più se ne starà tappato in casa per non rischiare
incidenti, e conserverà i suoi denari sotto una mattonella per
non correre il pericolo di essere derubato o di perderlo in
una qualche speculazione azzardata; ma anche così, ridotto
a vivere sotto una campana di vetro per limitare al massimo
il rischio, nessuno potrà garantirgli che non scivolerà un
giorno sul sapone nella vasca da bagno restandoci secco. E,
fatalmente, arriverà un nipote scavezzacollo che alzerà la
mattonella, arrafferà il conquibus e se lo scialacquerà con
una vagonata di donnine allegre, nuotando in fiumi di champagne, fumando avana a profusione e vivendo felice e beato
fino a cento anni. No, una certa dose di rischio è ineliminabile dalla nostra esperienza umana, una larga parte della
quale continuerà, a dispetto dei nostri sforzi per programmarla e pianificarla, a essere governata dal caso. E allora
accade che, ogni tanto, nascano individui i quali provano,
più di altri, piacere a osservare il capriccioso andamento di
certi eventi, e che, in una sorta di sfida con se stessi e col caso
che ne governa in così larga misura le vite, cerchino anche
di prevedere dove il mutevole orientarsi delle casualità spingerà un certo accadimento. Per rendere più saporosa questa
attesa, costoro proveranno a condirla col sale d’una scommessa; rischieranno, cioè, qualcosa di prezioso su uno dei
possibili eventi e attenderanno col fiato sospeso, mentre il
cuore batte forte e il sangue scorre più velocemente nelle
vene, che si determini la volontà del Caso Signore. A volte
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vinceranno; più spesso, invece, perderanno, ma avranno
comunque vissuto un’emozione, ed è quella, in fondo, che
cercano. Credo di parlare con cognizione di causa: dapprima
ho vissuto questa esperienza sulla mia stessa pelle – e ne
porto ancora le stimmate – poi, per tanti anni, mi sono visto
passare davanti migliaia e migliaia di poveri cristi, posseduti dallo stesso male che teneva prigioniero me un tempo.
Stavano lì, cogli occhi lucidi e il cuore in gola, in attesa di
vedere dove sarebbe andata a fermarsi quella maledetta
pallina ronzante o che il croupier girasse la carta dalla quale
poteva dipendere la loro rovina. Mi facevano pena. Provavo
una grande compassione per quella massa di perdenti di cui
mi sentivo parte. Avrei voluto che vincessero tutti, che vincessero sempre. Ero un traditore, in un certo senso: nella
lotta che ogni sera si rinnovava fra il casinò, che pure mi dava
da vivere, e i giocatori, mi ritrovavo a fare il tifo per questi
ultimi, e in particolare per quelli più sfortunati, quelli su cui
la sorte sembrava accanirsi con particolare crudeltà. Forse
mi ci riconoscevo, in quei poveri disgraziati. Se appena appena avessi potuto, avrei fatto fermare la pallina sul numero
che il poveretto di turno stava aspettando. Invece, dal mio
posto di servitore della bestia ruotante, quasi sempre mi
toccava assistere a un’altra sconfitta: la pallina bianca saltellava irridente da una casella all’altra e infine andava a posarsi dove l’aveva indirizzata il suo signore, quel Caso che regna
con sovrana indifferenza sulla sorte di noi tutti. Quanto mi
sarebbe piaciuto batterlo, almeno una volta; quanto avrei
voluto vendicarmi di questa capricciosa divinità, dominarla,
indirizzarla, asservirla. Possibile che non ci fosse un modo
per farlo? Che non si potesse, per esempio, escogitare un
sistema sicuro per vincere su quel maledetto tavolo della
roulette al quale m’ero ritrovato ad appendere la mia vita
intera, da giocatore prima e da schiavo asservito dopo? Sen11
tivo che fra me e quel diabolico meccanismo ruotante esisteva una sorta di cordone ombelicale che non m’era mai riuscito di tagliare, e m’aveva sconfitto due volte, quella ruota
della sventura: rovinandomi prima e prendendomi poi al suo
servizio, come un domestico di cui si ha bisogno per i lavori
umili e sporchi. Più passava il tempo e più mi accorgevo di
odiarla, e l’odiavo soprattutto perché non riuscivo a non
subirne il fascino. Anche da croupier e poi da ispettore e
infine da dirigente, quando sentivo il rumore della pallina
che saltellava mi accorgevo di trattenere il fiato per un momento, in attesa di vedere dove quella dannata avrebbe deciso di fermarsi. Come sarebbe stato bello poterle dire:
«Adesso, brutta figlia di puttana, tu vai su quel numero lì!»
Credo sia il sogno segreto di ogni giocatore. Io, però, cominciai a perdermici sempre più spesso, in quel sogno. In qualche modo, quell’idea di battere la roulette doveva essermi
entrata in testa, perché prese a farmi compagnia nelle interminabili nottate passate a fare da servente alla ruota, a tenerle bordone in quello spietato gioco al massacro che esercitava ogni sera sulla pelle di tanti sventurati. Forse, a farmici
pensare, contribuiva il fatto che ogni giorno avevo modo di
osservare all’opera qualcuno di quei giocatori che noi chiamavamo “i sistemisti”. Sono quegli illusi che ritengono
d’averlo già scoperto, questo sistema infallibile per sbancare
il casinò, e che vengono lì per sere e sere di seguito tentando
di metterlo in atto. Li descrive da par suo Dostoevskij nel
Giocatore:: «Essi stanno a sedere davanti a foglietti scomparGiocatore
titi in colonnine, segnano i colpi, contano, deducono le
probabilità, fanno calcoli, infine puntano… e perdono esattamente come noi, semplici mortali, che giochiamo senza
calcoli». Il sistemista è comunque un tipo di giocatore che
ogni casa da gioco accoglie sempre a braccia aperte: è gente
innocua, e se anche ogni tanto uno di loro imbrocca una sera
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fortunata, non sarà certo quella a mandare in rovina il banco. Questo, alla lunga, vincerà sempre, amico mio, e per
almeno tre ottimi motivi: perché paga un po’ meno di quel
che dovrebbe secondo le probabilità, perché ha il vantaggio
dello zero, e perché limita l’importo delle puntate. Quasi
senza accorgermene, comunque, mi ritrovai a interessarmi
di tutti i tentativi che in passato erano stati fatti per cercare
questo sistema perfetto. Per la verità, ne sapevo già abbastanza in merito: ero stato intrigato dall’argomento quando
ancora giocavo, e poi, in tutti gli anni che avevo passato al
servizio della ruota, avevo avuto il tempo per diventare un
esperto in materia, come può immaginare. Ma questa nuova
fiammata d’interesse aveva un tono diverso dalle precedenti: stavolta non solo presi a fare ricerche in modo sistematico – raccoglievo materiale, leggevo libri, ascoltavo i racconti e i pareri dei colleghi – ma mi accorgevo soprattutto che
era mutata la prospettiva in cui inquadravo gli argomenti, il
mio approccio a quelle cose. Da giocatore leggevo o ascoltavo con avidità l’esposizione di qualunque balordaggine,
pronto a sperimentarla subito nella speranza di aver finalmente trovato la scorciatoia per battere la scalogna; da addetto ai lavori le consideravo soltanto curiosità dalle quali
mi sentivo attratto perché riguardavano da vicino la mia
professione. Adesso, invece, mi ritrovavo a studiare e analizzare in modo approfondito tutti gli inghippi inventati e
messi in atto fino a quel momento, per quanto assurdi e
astrusi potessero sembrare, con la stessa cura che mette
nello studio delle carte e delle rotte chi si accinge a compiere un lungo viaggio per mare. In realtà non avevo ancora
deciso di partire, ma mi comportavo come uno che da tempo desiderasse visitare un paese lontano, e in attesa di realizzare il suo sogno intanto legge guide, guarda fotografie,
consulta cataloghi di viaggi. Tutto ciò che parla della sua
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passione segreta lo intriga, e allo stesso modo dell’aspirante
viaggiatore io mi perdevo in libri, opuscoli, racconti che
parlavano di gioco d’azzardo o esponevano in dettaglio
qualcuno di quei mirabolanti marchingegni che avrebbero
dovuto assicurare la fortuna a chi avesse avuto la costanza di
applicarli. E con la stessa cura che i ricercatori di ogni disciplina mettono nello studio dei precedenti, considerandoli
imprescindibile base di partenza per i progressi futuri, così
passavo il tempo a fare valutazioni comparative dei vari arzigogoli, a cercare i pro e i contro di ciascuno, a scoprirne i
punti deboli, a indagare sui motivi del loro fallimento. Questo per me era un punto assodato: nessuno di quei sistemi in
realtà funzionava davvero, tutti avevano fallito, o almeno
erano falliti tutti quelli di cui si aveva conoscenza. Forse
qualcuno era davvero riuscito a scoprirlo, in passato, un sistema che funzionasse sul serio, ma se l’aveva fatto, doveva
essere stato talmente bravo che nessuno se ne era accorto.
Ma ne dubitavo. I casinò hanno buona memoria, ottime
orecchie e occhi ancora migliori. C’erano stati, sì, negli anni
casi di grosse vincite, anche ripetute per più sere, eventi
leggendari di cui si conservava memoria a distanza di decenni, ma di ciascuno di questi che non fosse dovuto al capriccio
della fortuna erano sempre state individuate le cause, e
l’evento era servito a perfezionare quei controlli che i casinò
mettono in atto con ogni possibile scrupolo. Di ogni sconfitta subita da giocatori intraprendenti o disonesti, le case da
gioco hanno infatti sempre saputo far tesoro per il futuro,
adeguando continuamente le loro misure di sicurezza. Il
Sistema, quello con l’iniziale maiuscola, era pertanto ancora
da scoprire, e io, anche se ancora non me ne rendevo conto,
m’ero messo a cercarlo.
Dapprincipio consideravo questa mia passione solo uno
stimolante esercizio intellettuale. Deve sapere che mi sono
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sempre interessato di enigmistica, e forse per questo mi
sentivo così attratto da quell’argomento. Almanaccare su
una cosa del genere era pure un modo per passare il tempo
e sfuggire alla noia. Dopo qualche mese, però, mi accorsi
che mi ci dedicavo con una continuità e un impegno eccessivi per un semplice svago. In realtà cominciavo a prendere
l’idea sul serio, anche se non volevo ancora ammetterlo con
me stesso. Credo sia superfluo precisare che quando parlo di
“sistemi”, non intendo riferirmi a quei trucchi dozzinali che
spesso si vedono messi in atto in qualche film di quart’ordine, del tipo aghi che spuntano a comando sui rossi o sui
neri per cacciare la pallina su un numero dell’altro colore,
o elettromagneti installati sotto alcuni numeri per attirare la
pallina, all’interno della quale era stato in precedenza sistemato un nucleo d’acciaio. No, niente trucchi, niente tasselli
manovrati da un pedale per frenare la roulette o gambe del
tavolo adattabili a comando per inclinare la ruota e favorire
il banco. Forse nelle bische malfamate qualcosa del genere
viene messo in atto anche al giorno d’oggi, ma nei grandi
casinò no di certo. Questi non hanno alcun bisogno di
trucchi, per vincere. Hanno già a favore qualcosa di molto
più efficace, caro amico: le leggi della probabilità. No, no:
i casinò hanno tutto l’interesse a garantire trasparenza e
serietà. Ci pensano i grandi numeri, a giocare in loro favore:
i grandi numeri, lo zero, qualche limatina alle percentuali
che sarebbe corretto pagare al verificarsi dei singoli eventi
e alcune regolette imposte alla clientela, come quella, molto
opportuna per la casa e di cui le ho già parlato, che fissa un
limite massimo alle puntate. Per assicurare il gioco pulito, i
casinò di gran nome hanno perfezionato negli anni una serie
impressionante di controlli. Pensi che ogni giorno, prima
che il gioco abbia inizio, si verifica l’equilibrio delle ruote
con la livella e si pesano finanche le palline, per assicurarsi
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che siano regolari. Non c’è più spazio, quindi, per imbrogli
in stile Far West. No, i sistemi sono un’altra cosa. Con essi
ci si propone di limitare i vantaggi del banco e di sfruttare
a proprio favore le probabilità. Quasi sempre sono soltanto
illusioni, ma chi si mette a cercare un sistema efficace certo
non fa nulla di illecito. È uno che sfida la sorte, con la sua
intelligenza e il suo denaro, in modo pulito, senza trucchi,
sfruttando soltanto informazioni che sono, o potrebbero
essere, di dominio pubblico. D’accordo, un dipendente del
casinò non dovrebbe farlo, ne convengo: non è sportivo, non
sta bene, ma non dimentichi che sotto il mio smoking da
croupier, da ispettore o da dirigente si nascondeva ancora il
giocatore che le aveva buscate per anni da quella ruotaccia
infame e si sentiva solidale con quanti ogni sera venivano a
sacrificare davanti a quella divinità crudele. Forse non era
sportivo, ma io avevo un bruciante desiderio di farle sputare
sangue, a quella ruota, di vendicare la mia vita rovinata, e
con la mia quella di tanti altri che aspettando quella pallina
s’erano giocati l’esistenza loro e quella delle loro famiglie.
Ma torniamo a noi, mi sembra ridicolo cercare motivazioni
per quello che ho fatto: l’ho fatto, il perché riguarda me e
basta, a lei è giusto che racconti soltanto gli avvenimenti,
senza coinvolgerla in valutazioni etiche.
Come le dicevo, le mie ricerche sui “sistemi” furono un
eccellente diversivo contro la noia. La mia vita, infatti, era
monotona e triste. Da quando ero tornato a Venezia, vivevo
nella parte meno disastrata di una vecchia casa di proprietà
della mia famiglia. Era l’unica cosa rimastami di quello che
un tempo era stato il mio cospicuo patrimonio.
Mi rendo conto che forse è necessario dirle qualcosa di più
sul mio passato. Le cause delle nostre azioni spesso affondano
le radici lontano nel tempo; le spinte arrivano da eventi che
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